VERONICA CYBO
L’Editore intende valersi dei diritti accordatigli dalla Legge del 22 maggio 1840 sulla Proprietà Letteraria. SCRITTI DI F.-D. GUERRAZZI.
VERONICA CYBO, LA SERPICINA, — I NUOVI TARTUFI. racconti. PENSIERI. — DISCORSI. ILLUSTRAZIONI. — TRADUZIONI I BIANCHI E I NERI. dramma.
FIRENZE. FELICE LE MONNIER. — 1847.
A GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI.
Rovistando tra i miei fogli, i quali troppo più spesso che non faceva di bisogno patirono disoneste invasioni, io ho trovato la espressione dei sentimenti che mi animavano verso di te, inclito amico, allora quando, volgono adesso venti e più anni, io adolescente imprimeva la prima orma nello arduo arringo delle lettere umane. Opera quasi di fato mi parve la conservazione di cotesto scritto; onde io voglio senza punto mutarlo od emendarlo revocartelo alla memoria:
Tu che forti opre in secol guasto imprendi,
E i vivi marmi del nostro Agnol guati
E senti, — e lo eternale dei dannati
Pianto di rabbia e di dolore intendi;[1]
Tu che possa natura all’uomo apprendi
Sotto l’italo cielo incontro ai fati,
Quanto sia premio un riso amico ai vati,
Gentilissimo Spirito, comprendi.
Pur me anelante delle amate fronde
Non lusingare, e di’, se il merto: «Falle,
Volgi, o figlio, la prua da queste sponde.» —
Duca mio dolce, pel dirotto calle
Mi odi, e cortese al domandar risponde:
«Debbo salire o rimanermi a valle?»
Tu dunque conosci quanto sia antico il mio culto per te; e coll’andare del tempo egli crebbe meritamente, però che tu sii la migliore coscienza di questa nostra patria italiana.
Tu fra rovine d’imperii, e di stati amplissimi, e diversissimi, fra impeti di passioni scomposte, e cieche ire, e più cieche ambizioni, e turpi libidini di potere, e proteiformi ipocrisie, e codardi disertamenti, non curato schiamazzo o paura, hai portato alto la tua fede come un vessillo trionfale nel giorno della battaglia; sicchè chiunque ti tenne dietro senza smarrire la via giunse a fine generoso.
Vergognando pertanto che per mesi taccia l’alto tuo nome in fronte dei miei scritti, riparo alla colpa diuturna intitolandoti queste povere cose. Avrei desiderato poterti offrire opera più degna di te; ma a non indugiare mi persuadono gli anni declinanti, e la paura che la pratica lunga d’ignobile mestiere non insalvatichisca affatto il mio ingegno. Abbiti in voto i brani di un’anima redenti dalle bassezze del Foro, come in Arcadia i Pastori solevano consacrare a Pale le reliquie dello agnello salvale dalle fauci del lupo!
Nel salutarti la migliore coscienza di questa nostra patria italiana, io per necessità ho inteso darti ancora la lode del maggiore senno italiano; conciossiachè io creda fermamente essere l’alta intelligenza uno spirito fecondato dalla fiamma del cuore; e quando il cuore diventa un tempio della Divinità, di rado avviene che le Muse sue compagne dal giorno della creazione non iscendano ad albergarvi con essa.
Tu poi accogli con lieta fronte queste parole, perchè liberamente favellate a libero uomo: e la lode, quantunque profferita da labbra terrestri, ove sincera, affermano i poeti che giunge gradita anche alle orecchie degl’Immortali.
Tuo amico F.-D. GUERRAZZI
Giugno 1847.
PREFAZIONE.
Non fu la carità del natio loco quella che m’indusse a raccogliere queste foglie morte innestandovene alcune fresche, per allontanarne per quanto fosse possibile l’aria di funerale. Meglio sarebbe stato consacrarle a Vulcano!... Però considerando come la Italia sia tanto dalle sue antiche glorie scaduta, che spenti ormai o prossimi a spegnersi i suoi famosi scrittori, abbia bisogno annoverare uomini, quale io mi sono, tra i suoi fregi letterari, e così ostentare vetri per gemme, e orpello per oro, non volli che altri mi togliesse subietto di speculazione mio malgrado. Non credo avere fatto meglio che altri: ma finalmente il male che ci viene da noi stessi ci offende meno, imperciocchè siamo convinti di non averlo fatto a posta e con animo intento alla ingiuria. Ciò premesso, discorrerò brevemente delle diverse operette che compongono questo volume.
Alla Veronica Cybo, Duchessa di San Giuliano, quando prima venne alla luce in Toscana, usarono onesti modi e liete accoglienze;[2] poco dopo essendosi provata a presentarsi sotto altra veste,[3] le fecero il viso dell’uomo di arme, ond’ella, che è per sua natura sdegnosa e fiera molto, esulò dalla patria; e datasi a girare pel mondo, trovò ospitale accoglienza.... figuratevi dove? — A Vienna! Ma però la costrinsero a pagare caro prezzo la ricevuta ospitalità, perchè ebbe a porre giù i suoi panni italiani, e vestirsi alla tedesca.[4] Così abbigliata osò affacciarsi di nuovo alla Italia: le fecero festa nella capitale della Lombardia, e presero a tradurla in italiano. Era già stampata questa traduzione e pronta a comparire in pubblico, quando un Lombardo che si occupa talora delle cose di questa divisa dal mondo e ultima Toscana, avvertì il libraio che la Veronica Cybo era nata e scritta in Italia. Se fosse nata, non dirò francese o inglese, ma chinese o tartara, gl’Italiani lo avrebbero per avventura saputo; ma noi chiusi dai medesimi monti e dai medesimi mari, noi parlanti una stessa favella, siamo così gli uni agli altri famigliari, che Pisa ignora quello si fa a Lucca. I signori Tendler e Schaefer, editori domiciliati a Vienna e a Milano, in buon tempo avvisati, si disposero rendere alla Duchessa i suoi panni italiani: però sembra che a mala voglia vi si piegassero, perchè la Duchessa nella loro edizione offre una favella che non è tedesca nè italiana, comecchè partecipi di ambedue, a modo di que’ dannati che si tramutano nello Inferno del Dante:
Nè l’un nè l’altro già parea quel ch’era:
Come procede innanzi dall’ardore
Per lo papiro suso un color bruno,
Che non è nero ancora, e ’l bianco muore.
(XXV, 63-66.)
Adesso poi, dopo non meritato esilio, la Duchessa torna esultando ai luoghi del suo nascimento, e tutta commossa sospira questi versi dolcissimi:
Bella Italia, amate sponde,
Pur vi torno a riveder;
Trema in petto, e si confonde
L’alma oppressa dal piacer.
E come accade a ogni uomo, e più a ogni donna aspettata a qualche convegno, che per le scale si aggiusta i veli, e con le dita dà una giravolta ai bei cincinni di oro, — o vogli di ebano, — così ella ha curato correggere locuzioni e frasi per comparire tutta in punto e bene azzimata alla festa.
La Serpicina ricorda amarezza più acerba: non il bando del libro, ma sì dello scrittore. Certo non fu esilio nel Ponto, nè potevano i luoghi ispirarmi i Tristi; nonostante il cuore dell’uomo non si strappa dal seno della famiglia e da ogni cosa più caramente diletta senza che soffra; egli si abbarbica con fibre tanto sottili e dilicate, che male si può traslocare altrove senza vestigio di lagrime e di sangue! E non conto nulla le guaste fortune, i negozi perduti, e i danni appena riparabili. Pensando poi come mi avvenisse questo per avere pagato un debito di lode che la mia città teneva verso un suo figlio riuscito prestantissimo Capitano,[5] mi prese supremo fastidio della terra ingrata, ed aveva deliberato ripararmi in Inghilterra; ma nel luogo del mio esilio, per ordinario freddo e pieno di neve, in cotesto anno spirarono dolcissimi aliti, onde io sovente ebbi a ringraziare Dio che mitigava il vento allo agnello tosato; anzi giù nella valle, ove possiede una terra la duchessa Di Altemps, sul finire di febbraio nacquero rose, sicchè i cari ospiti, la vigilia della mia partenza dal paese, mi convitarono e nella salvietta mi fecero trovare con somma mia maraviglia una rosa rubiconda e odorifera; e mentre io la guardava fisso, uno degli astanti, consapevole del mio disegno di abbandonare la patria, così mi favellava:
E tu poeta, lascerai la terra
Delle rose nudrice a mezzo il verno?
E veramente non per virtù di fiori, imperciocchè sapessi come anticamente a Sibari soffocassero con le rose per estremo supplizio, ma nel pensiero che male avrei potuto trovare altrove tanto affetto e tanto gentile modo per esprimerlo, deposto giù ogni rancore dall’animo, mutai consiglio, e statuiva vivere e morire nella patria; e tu, o terra che cuopri le ossa di mio padre e di tutti quelli che ho amato, avrai anche le mie; e finchè vivo ogni mia facoltà pel tuo bene, e morente l’ultimo sospiro, perchè molto mi sei cara per le gioie che mi desti, — ma a mille doppi più assai pei dolori che mi costi. —
Da cotesto giorno pensando sopra la sentenza del Tintore, mi è venuto fatto confrontarla con quella che diceva il conte Piero Noferi: — Quando si hanno i colombi in colombaia bisogna sapere schiacciare loro il capo, — e con l’altra di Luca di Maso Albizzi: — Chi spicca lo impiccato, lo spiccato impicca lui,[6] — ambedue dirette a Monsignore Silvio da Cortona per indurlo a incrudelire contro i cittadini di Firenze che nel 1527 si erano resi a patto; e mi parvero scellerate queste due massime, non giusta quella del Tintore, perchè mettere le mani nel sangue dell’uomo non mi capacitava potesse costituire mai diritto legittimo dell’uomo: finalmente dopo molto meditarvi sopra, ho dovuto dare ragione al Tintore: — Dei serpenti, quando capitano sotto il calcagno, è carità schiacciare la testa.
Dei Nuovi Tartufi non dico parola: i tempi hanno reso il racconto più opportuno di quello che non avrei mai sperato, — o piuttosto temuto. Vedo una gente la quale a modo dei sacerdoti di Cibele saltando insanisce, fino a strapparsi le forze della virilità. Origène si castrava propter regna cœlorum; questi si castrano per andare a tenere compagnia a Piero Soderini nel Limbo. L’avventura degli antichi Abderitani i quali, narra Luciano, stettero ebbri tre giorni interi, ha cessato comparire favola, poichè la ubbriachezza di un popolo può durare, e i nuovi esperimenti lo mostrano, ancora degli anni. Intanto tra queste tenebre ove è mestieri procedere a tastoni io vo gridando le parole di Cristo: — Guardatevi dai falsi profeti: — voi li riconoscerete dai frutti loro. — Colgonsi uve dagli spini o fichi dai triboli? — Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, noi abbiamo profetizzato in tuo nome, ed in tuo nome cacciato demoni, e fatto in tuo nome molte potenti operazioni: ma io allora protesterò loro: — io non vi conobbi giammai: dipartitevi da me, voi tutti operatori d’iniquità.
E intendami chi vuol, che m’intendo io, come scrive Messere Francesco Petrarca.
I Discorsi in parte sono estratti dallo Indicatore Livornese, povero foglio morto di male di gocciola, o, come adesso si dice, di apoplessia fulminante. Cotesto povero foglio pareva avesse più debiti della lepre, e gli fu forza soccombere. Se quelli che disfanno sapessero quanto sia agevole rovinare, e quanto arduo costruire, prima di cancellare una cosa ci guarderebbero due volte. Lo Indicatore Livornese avrebbe creato una opinione tra gente che non ne possiede veruna; avrebbe somministrato adito per farsi conoscere ai giovani ingegni che poi andarono dispersi; li avrebbe con la emulazione fecondati; avrebbe messo ognuno al suo posto disfacendo vecchie reputazioni così di capacità come d’integrità salite sopra un trono di mozziconi di lumencristi o di diplomi accademici; avrebbe studiato le ragioni del commercio, sviluppato teorie di pubblica economia, diminuito e forse anche estinto (se pure è possibile mai!) il regno dei pedanti; avrebbe promosso il pubblico insegnamento lasciato per somma sventura in balía di uomini per la più parte ignorantissimi, o tali che balenano su l’orlo estremo della ragione come funambuli sul canapo senza contrappeso... Insomma avrebbe fatto del bene. — Certamente il foglio non procede senza peccati, ed ebbe le sue colpe; ma elle erano cose da perdonarsi, considerando che lo governavano giovani procaci, baldanzosi, e inesperti del mondo; ma non fu bel modo certo quello di correggere figliuoli forse un po’ inquieti col dare loro di una mazza sul capo, e distenderli morti.
Della utilità del povero foglio mi giovi referire questo soltanto, che, dopo lo scritto intorno le Sepolture di Santo Jacopo le disoneste associazioni cessarono; e che dopo lo scritto intorno ai Merini, i Toscani avvertiti si volsero a questo genere d’industria, e con quale e quanta efficacia lo dica l’Opera recentemente pubblicata sopra le nostre Maremme dal Dottore Antonio Salvagnoli.[7]
E se lo Indicatore Livornese viveva, forse non sarebbero state non che consumate, immaginate le tante insidie alle fortune private all’ombra di bugiarde speculazioni, per cui oggi i capitali inorriditi rifuggono dal concorrere a promuovere le utili imprese; no, il credito nostro non sarebbe andato disperso, non perdute le forze per cui le Consorterie operano monumenti colossali, nè si sarebbero svaligiati i capitalisti sopra i progetti di strade a vapore col mezzo delle azioni e promesse di azioni, come altra volta grassavansi i viaggiatori sopra le pubbliche vie con pistole e tromboni; — no, non avrebbero neanche osato far capolino tali che appartengono alla cittadinanza degli onesti come i panarecci alla mano, o le stincature alle gambe, o..............; lutto della città, e vergogna perfino a coloro che non affatto buoni ebbero la incautela di abbassarsi alpunto di accoglierli compagni.
Le Illustrazioni soltanto mi offrono materia di piacevole ricordo. Egregi Artisti, tra i quali a causa di onore devo nominare il Professore Perfetti, Bonaini livornese e Chiossone, dettero opera a incidere i quadri della I. e R. Accademia delle Belle Arti di Firenze: essi a proprie spese condussero la impresa a quel punto in cui oggi con ammirazione universale si vede. — Degna ed egregia gente! Eglino nel concetto di fare cosa che tornasse onorata alla patria si messero in cammino come Abramo, e confidando in Dio e nel proprio coraggio esclamarono col Patriarca: Deus providebit! — Io non ho potuto giovarvi come avrei desiderato, o egregi Artisti; non fu per mancanza di buon volere ma di potere, e prendo qui occasione di ringraziarvi solennemente perchè richiamandomi ai dilettissimi studi delle opere dei nostri divini maestri, mi forniste occasione per distrarmi alquanto dalle cure moleste, e di srugginirmi un po’ il cervello. La vostra impresa, opera d’intelligenza e di amore, merita premio di lode e di guadagno; e come già conseguiste la prima larghissima, così non può mancarvi il secondo, se gl’Italiani non hanno tanto smarrito il bene dello intelletto da preferire per ornamento delle loro stanze a questa preziosa effigie delle arti italiane i molti aborti delle litografie francesi.
Le Traduzioni e Volgarizzamenti di poesie liriche sono come fiori di ghirlanda disfatta, o piuttosto non intrecciata. Divisava un giorno, e non ne ho per anche deposto il pensiero, adoperandovi ancora, come vi adoperai, l’aiuto di amici, raccogliere le principali liriche di tutti i popoli del mondo antichi e moderni, allo scopo di mostrare che le passioni umane si manifestarono sempre a un di presso nella medesima forma: così tra la serventese provenzale di Sere Blacasso e la canzone slava di Eiuduco moribondo, tra l’Ode di Omero ai Vasai e l’Ode di Schiller detta La Campana, la Fidanzata di Corinto del Goethe e il racconto della fidanzata di Corinto di Flegone, apparisce quasi una fratellanza; e lasciando dei sentimenti, le immagini, le metafore suonano quasi le stesse; o Vitalis, comunque non uscito da Stoccolma e da Upsala, descrive i prodigi dell’Oriente come i poeti Arabi e i Persiani. Dalle quali considerazioni io proponeva trarre una conseguenza, che il poeta è sacro ingegno sublimato da Dio, cittadino del mondo e spirito universale, che sotto il mantello che lo cuopre, secondo affermava il Canning, più spesso che non si crede troviamo il capitano, il legislatore e il rigeneratore di popoli.
Questo disegno mi è venuto meno per virtù delle solite incursioni e del relativo saccheggio dei saccomanni, cagnotti, berrovieri e simile altra geldra di buona e cappata gente. Mi dicono, che chiedendo potrei redimere le spoglie innocentissime; ma io preferisco ch’esse si rimangano onorato trofeo colà dove stanno appese. Mi sta fitta in mente la risposta che dava Vittorio Alfieri a coloro che lo consigliavano di supplicare il Generale Miollis affinchè gli venissero restituiti i libri rapitigli in Francia.
I Bianchi e i Neri furono il secondo passo tentato sopra l’arduo cammino. Persuadendolo gli amici, feci rappresentare cotesto Dramma qui nella mia città, fra mezzo ai miei concittadini, nella fiducia che avrebbero accolto con benevolenza il giovanetto che schivo dei sollazzi della sua età vegliava le notti per rendere so stesso con la sua patria onorati. Horresco referens! — Ebbe plauso uguale a quello che fecero i demoni alla orazione di Satana giù nello Inferno quando egli referì la caduta dell’uomo, quantunque i miei concittadini non fossero tramutati in serpenti.
Expecting
Their universal shout, and high applause
To fill his ear: when, contrary, he hears
On all sides, from innumerable tongues,
A dismal universal hiss, the sound
Of public scorn.
( Milton, I. 10.)
No: i miei concittadini rimasero uomini! L’orgoglio di autore non fu ferito, o se ferito, presto sanato mercè gli egregi scritti di Elia Benza sopra cotesto Dramma; ma mi scese invincibile dentro al cuore la repugnanza di commettere opere di arte alla brutalità di malevoli o stolti, come gl’Imperatori Romani esponevano i condannati alle fiere. Forse più che ad altro io mi sentiva chiamato pel Teatro; così ne fui distolto per sempre. A me parve in cotesta sera il Teatro Carlo-Lodovico il Pandemonio descritto dal Milton nell’avventura riferita poco anzi: «Terribile fu il fragore del fischio nella sala stipata da mostri di molti capi e di molte code; scorpioni, aspidi, anfesibene crudeli, ceraste armate di corna, idre, elopi funesti, e dispadi: no, tanto sciame di rettili non cuoprì la terra cruenta del sangue della Gorgone o la Isola di Ofiusa.»
E ponendo da parte lo scherzo, non farà maraviglia se io partecipassi il sentimento di Gualtiero Scott, il quale supplicato di combattere con l’autorità del suo nome e la potenza della parola, la Riforma proposta da Lord Grey, sentendosi accolto nella Camera dei Comuni come Satano dai demoni, avvertì sorridendo il membro di Parlamento che gli sedeva accanto: «Bene avvisai astenermi dal Teatro, perchè mi accorgo che le mie orecchie non avrebbero potuto assuefarsi a cotesta musica.»
Qui cesso, che parmi avere oltre il giusto favellato delle cose mie: però non inutilmente; avvegnachè i giovani scrittori vedano come il mio cammino sopra il sentiero delle lettere umane sia stato uguale a quello di Cristo sul Golgota. Non moto, non passo che io non abbia segnato con una goccia di sudore e di sangue: spesso caddi sotto la croce, ma mi rilevai da me stesso, e tornai a portarla, e la porto senza soccorso di Cireneo. Io non auguro ai giovani scrittori lunghe sventure, ma prego Dio che li guardi dai facili trionfi. Le sventure sono le midolle di lione con le quali la fiera divina[8] nudriva l’alunno Achille; e il carcere
Affinando il pensier ne fa una lima.
Di questo la giovane generazione degli scrittori che ci terrà dietro vada convinta, che i fiori provati alle rugiade di acqua forte non temono inclemenza di rigido cielo, nè lusinga di perfido sole: crescono, e si spandono per virtù propria.
Il dolore formava parte principalissima di educazione presso gli Spartani. L’arco di Ulisse non si tende da braccia di eunuchi.
F.-D. Guerrazzi.
VERONICA CYBO,
DUCHESSA DI S. GIULIANO.
RACCONTO STORICO.
AL CAVALIERE NICCOLÒ PUCCINI.
Nel carnevale passato certo gentiluomo pagò mille lire una parrucca da mettere in capo al suo cocchiere onde apparisse mirabile in corso! — Pochi anni avanti, Vitalis, giovane genio svedese, moriva di fame all’ospedale di Upsala! — E questo, già come sapete, è il secolo superior fine della Intelligenza e della Carità.
Conoscendo che Voi, non estimandovi migliore dei nostri padri, nel pensiero di suscitarne la memoria col mezzo delle Belle Arti avevate deciso commettere dieci quadri a Pittori di antica fama, e a Pittori che dovevano formarsene una nuova, vi raccomandai il giovane pittore Enrico Pollastrini, mio concittadino.
A questa mia raccomandazione rispondeste: avere commesso immediatamente un quadro, che doveva rappresentare la Morte del duca Alessandro, al mentovato giovane, aprendogli così il campo ad onorare la sua Patria, se stesso, ed anche Voi, che lo avete protetto, — ov’egli faccia, come spero, opera egregia.
Io desiderava pertanto manifestarvi pubblicamente la mia gratitudine per questo fatto; e, come vedete, colgo la prima occasione che mi viene offerta, intitolando a Voi questo Racconto.
Accettatelo com’io ve lo mando, cioè non come dimostrazione d’ingegno, ma come testimonianza di animo grato.
E questa mi sembra una Dedica che io possa fare, e Voi accogliere, senza che ne dobbiamo arrossire ambedue. Addio.
Vostro affezionatissimo amico, F. DOM. GUERRAZZI.
VERONICA CYBO.
I.
L’autunno è la più mesta stagione dell’anno; — il vespro è l’ora più mesta del giorno: — in quella stagione, in quell’ora, il Sole si avvicina alla sua tomba magnifico a vedersi come il figlio primogenito del Creatore. — Sul mezzogiorno egli tenne raccolti tutti i suoi raggi per vibrarli veementi a suscitare la natura; ma verso sera la vita è sparsa, la virtù diffusa, ed egli adesso si compiace a versare tutto il suo lume per l’emisfero che lo circonda. E la volta dei cieli, abbandonato il manto azzurro, s’indora della luce divina, in quella guisa che il secolo assorbe l’emanazioni della grande anima che lo ha dominato.
Simile alla Fenice, che si apparecchia il rogo di cinamomo e di mirra, il Sole adorna con mirabile pompa il suo sepolcro. Porpora, oro, e colori di gemme preziose, e le tinte svariate della conca marina ove cresce la perla, lo accompagnano nel tramonto. — L’Oceano aspetta fremendo l’immenso ospite. — Tutta la natura si agita, mossa da incomprensibile sgomento, e si affatica a fare testimonianza di vita nel punto stesso in cui sta per abbandonarla il suo principale motore. I pensieri dell’uomo si volgono agli assenti, o ai defunti. Il bronzo medesimo percuote l’aria con tale una voce, che sembra lamento. — Il gran Pane sta per morire.
Ma il gran Pane muore la morte di chi sa di risorgere. — Creature di un giorno, volgetevi ad Oriente, e lo vedrete in breve ora apparire trionfale e glorioso! Chi sa quanta copia di voi, foglie animate, sarà caduta per sempre dall’albero della vita nella breve sua assenza dal nostro emisfero!
E quando siete cadute, creature d’un giorno, o come è triste il vostro sepolcro dentro la terra! Gli affetti dei vostri più cari superstiti s’inaridiscono prima dei fiori sparsi sopra la vostra bara.... Il lenzuolo funerario vi contiene intere. Fuorchè la rugiada del cielo, desiderate invano altre lacrime. — Qualche volta la scienza dell’antiquario conosce la vostra tomba. — di rado la pietà dei discendenti. — Che aspettate voi oltre il sepolcro? L’oblio è il retaggio, — il fango l’origliere, — il verme il compagno dei morti. Ah! Dio, ricevi nelle tue braccia misericordiose le anime derelitte di coloro che abbandonano la vita.
II.
Se i dolci sorrisi e i molli baci, e tutte le più care soavità dell’amore conteneva in sè il cinto di Venere, come poetando ci narra Omero divino, veramente può dirsi che i colli di Firenze la circondino leggiadri come la cintura di Citerea. Deh! che non è tutta Toscana il mondo! esclamava quell’austero intelletto di Vittorio Alfieri scendendo dall’Apparita, e la contemplazione di così stupenda bellezza valeva a spianargli una ruga sopra la fronte, — un’altra sul cuore. — Adesso tutti gli Dei disertarono questa terra, che è delizia del Sole: squallidi fati ci avanzano; rimanemmo soli. E nondimeno in partendo i Numi la riguardarono con amore, e vi scossero sopra le fimbrie delle clamidi quasi per benedirla, sicchè l’aria intorno conserva un senso di ambrosia e di armonia, che verun tristo vento ha potuto dileguare fin qui. Pei boschi degli allori e pei mirteti tu sentirai sibilare lenemente le ultime vibrazioni delle antiche arpe famose. La morte ha chiuso i labbri degl’incliti nostri personaggi, e non pertanto per gli atrii, pei fôri, lungo le mille colonne delle navate dei templi risuona ancora l’eco delle estreme loro parole. — Come sul volto di Laura, la morte par bella su questa terra bellissima...![9]
III.
È una molto terribile storia quella che adesso io racconto, e che ha principio nella villa Salviati, posta sopra uno dei bei colli che circondano Firenze, ond’è che non invito a leggerla se non chi ne ha voglia. — Correva il vespero del primo di novembre 1637, regnando in Toscana Ferdinando II di gloriosa, immortale, paterna memoria, come fu inciso su l’epitaffio composto dal poeta di corte. Una fata si sarebbe scelta per dimora cotesta villa; quel benedetto ingegno di messere Lodovico avrebbe saputo appena immaginarla più bella. Ma io non istarò a descrivertela, amico lettore, però che da quando mi accorsi come gli uscieri, e simili persone onorandissime deputate a commettere gravamenti, descrivessero mobili e vesti, quanto Scott o Balzac, io meco stesso divisassi lasciare intera alle prefate onorandissime persone la gloria degl’inventarii.
Solo dirò come in certa camera si vedesse un letto con baldacchino e tende di damasco a rappe azzurre sopra un fondo giallo, ornato all’intorno di cornici e d’intagli sottilmente lavorati e dorati.
Dormiva su quel letto un fanciullo di forme leggiadre, di capelli neri ricciuti; palpebre lunghissime di seta; nelle guance florido, co’ labbri accesi: — simile al putto dell’ Ego dormio, sed cor meum vigilat, dipinto dal Bronzino.
Con la piccola mano andava ad ora ad ora cacciando via una zanzara, che più ostinata tornava a vellicargli le labbra e il naso: — ed egli torceva quelle, e questo aggrinzava indispettito; chè il molesto solletico formava il più profondo dolore che mai avesse sofferto nella breve sua vita quel fanciullino.
Dormiva un sonno a fiore d’occhi, conciossiachè a seconda del vento giungesse a sturbarlo uno schiamazzo di risa e di voci gioiose, come quando, il decoro dei commensali vinto dal vino, la esultanza del banchetto scorre rubiconda e loquace, talora a rallegrare, — qualche volta a insanguinare le mense.
Ed infatti il cavaliere Iacopo Salviati, duca di San Giuliano, aveva convitato i nobili suoi amici a sontuoso banchetto.
Quantunque, durante il pranzo, egli fosse sovente comparso preoccupato, aveva nondimeno soddisfatto a tutte le parti che a compito gentiluomo si addicono. Nè in bella cortesia di maniere gli era punto rimasta inferiore la spettabile dama Veronica Cybo dei principi di Massa, sua consorte, la quale, comecchè dotata di spiriti alteri, e fiera più che per avventura a delicata femmina non convenga, sapeva nulladimeno temperarsi all’uopo, e sostenere egregiamente il decoro della nobile casata.
I Salviati erano in quel tempo, siccome furono sempre, principalissimi di Firenze, e strettamente congiunti alla casa dei Medici. Vero è bene che i Salviati avevano qualche volta insidiato la vita dei Medici, e i Medici avevano per altra parte qualche volta mandato i nobili loro parenti a dare dei calci al rovaio, come avvenne nella famosa congiura de’ Pazzi, nella quale essi non aborrirono impiccare alle finestre di Palazzo Vecchio messere Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, e cardinale di Santa Madre Chiesa; ma ciò non guastava punto la parentela, nè la buona amicizia tra loro. E’ pare che a quei giorni il filo dei coltelli non tagliasse i parentadi, e il capestro avesse virtù di ristringerli. Nella epoca poi della presente storia, il signore Iacopo occupava in corte cariche di conto, e poco dopo, il granduca Ferdinando scelse a suo ministro il marchese Vincenzo Salviati, nel quale ripose altissima confidenza.
Durante il convito, il signor duca si studiava fuggire gli sguardi della duchessa, quanto questa all’opposto poneva cura a riscontrare i suoi; e quando inevitabilmente s’incrociavano, ti sarebbero apparsi ferri taglienti. — Se la virtù favolosa degli occhi del basilisco fosse stata concessa a quelli degli uomini, quante creature umane, pensate voi che rimarrebbero adesso ad abitare la terra?
Giunse alfine il momento in cui ab antiquo corre nei banchetti il costume di propinare a vicenda alla salute dei commensali. Il duca non trovando maniera onesta di farne a meno, colto all’improvviso il destro, prende precipitoso un bicchiere, ed accennando alla duchessa, esclama:
“Madonna Veronica, io bevo alle vostre contentezze!”
La duchessa levandosi come vipera calpestata, con labbra tremanti si reca a sua posta nella mano un bicchiere, e gli risponde:
“Sì!... a quelle che voi mi date, signore Iacopo, da un pezzo in qua....”
E di pallida, diventò per tutta la faccia vermiglia. Su l’orlo estremo dell’occhio le spuntò una lacrima, sopra i labbri un sospiro, che però nel punto stesso vennero — quella inaridita — questo compresso da ineffabile senso di rabbia.
Alcuni dei convitati che notarono quegli atti, non sapendo di quale feroce procella fossero segni, sentirono intenerirsi, e susurrarono sommessi, che nè più bella, avventurosa e amorevole coppia di coniugi a memoria di uomini si era mai vista in Firenze.
Si levano le mense; la comitiva si sparge pei giardini. Al duca, che di un cenno ne aveva dato segreto comando, conduce davanti un superbo cavallo turco il valletto fedele. Recatesi in mano le redini con garbo pieno di leggiadria, il signore Iacopo si valga ai circostanti, e dice loro: aspettarlo l’eccellentissimo e serenissimo granduca; avergli promesso di vegghiare in corte; impedirgli il rispetto, non consentirgli l’affezione, che svisceratissima portava a così benigno signore, mancare al convegno; rimanessero: tutti quei diletti, che la sua povera casa poteva offrire maggiori, a loro talento pigliassero; forse sarebbe tornato a notte inoltrata; raccomandarli intanto a madonna Veronica, la quale, come quella che era la stessa cortesia, non aveva mestieri di lusinga per mantenersi ciò che fu e sarebbe stata sempre, il più bello ornamento delle case Cybo e Salviata.
E senza attendere risposta, — quantunque si udissero risuonare dintorno: — padrone, — ella si accomodi, — è di dovere, — e simili altre frasi profferite senza pregiudizio di biasimare a voce bassa quello che si loda a voce alta, — e senza attendere risposta, gravata la mano sinistra su la criniera, di un salto balza in sella, spinge di gran carriera il cavallo. Venuto in parte ove non temeva più gli sguardi o la voce della duchessa, si volge, e vede come tutti i suoi convitati tenessero in lui intenta la faccia, onde è che compiacendo alla lusinga della vanità, nonostante la voglia che pure avea grande di recarsi a Firenze, arresta di repente il cavallo, e quello sta come di bronzo fuso; poi fatto arco della coda e del collo, volteggia ora a destra, ora a sinistra, o si slancia disteso al salto della barriera, e aggruppa le gambe ad altre figure, insomma esercita tutte quelle destrezze che buon cavallo sa fare col buon cavaliere. Gli spettatori ammirati se ne congratulavano con la duchessa. Le donne poi non rifinivano di levare a cielo il prestante cavaliere, e quelle lodi erano come tante coltellate al cuore della povera moglie, che pure avea occhi per conoscere tanta vaghezza, e mente per pregiarla, e anima per amarla svisceratamente, e a chiara prova vedeva come oggimai fosse per lei perduta senza rimedio. Il duca, avvolto da un nuvolo di polvere, disparve.
IV.
Si apre con impeto la porta della camera ove dorme il fanciullino, e imperversando vi si lancia dentro la duchessa. Non badando o curando se altri la nota, ella si precipita verso il balcone, e quivi, i gomiti appoggiati al davanzale, il volto declinato fra le mani, si pone a considerare il duca, che galoppando si allontanava. Chi mai dirà l’inferno di quell’anima esacerbata? Pestava i piedi, singhiozzava, fremeva, intere ciocche di capelli si strappava, e tremava, tremava come persona presa dal ribrezzo della febbre, e:
“Iacopo mio,” — fra i singulti diceva “non ci andare... Iacopo, torna indietro... Iacopo, salvami dalla tentazione del demonio: in questo mio cuore o tu, o Lucifero. Se mai ti offesi, se in cosa alcuna ti spiacqui, Iacopo, io ne domando perdono prima a Dio, poi a te. — Da ora in seguito mi vuoi più mansueta... mi sforzerò... lo sarò... — non ti dirò parole amare, — ma torna addietro... — Ahimè! sempre più si allontana. — Volgiti, duca, per amore dei tuoi morti, che sono domani, non lacerare il cuore di una donna, della povera tua moglie, della madre dei tuoi figliuoli. — Oh dolore! appena lo scorgo. — Pace, Salviati, — e mutata attitudine, ambe le braccia stendeva fuori del balcone; — pace; io scenderò, se vuoi, dal grado di sposa, ti servirò da fantesca; se vuoi, ritirami l’amore tuo, non amarmi; — anche questo concedo; non mi amare più: ma non preferirmi altra donna. — O Cristo! è scomparso... e fra un’ora... fra pochi istanti sarà nelle braccia di altra donna! — O Cristo!”
Ebbra di furore, abbandonato il balcone, passeggia la stanza, ad ora ad ora esclamando:
“Fieri esempi — ricordanze disperate — eterno lutto! — gli strapperemo il cuore, e glielo batteremo su le guance. — Non è forse traditore? Sì certo, e della stirpe dei traditori. — O piuttosto trucidarli ambedue negli osceni abbracciamenti. — O piuttosto...” — e qui la voce le si affiochiva — “mi trovasse qui spenta nel letto, e accanto a me il suo figliuolo anche esso spento;” — e si accostava al figliuolino.
Ma il fanciullo erasi desto, e postosi a sedere sopra il letto, con gli sguardi alacri, che sogliono dopo il sonno avere i bambini, e un ridere dolce di paradiso, tese le mani alla duchessa, — la chiamava:
“Mamma mia!”
E Veronica Cybo si gettava prona con la faccia sul letto, e abbracciava come delirante il figliuolo, lo inondava di lacrime, lo stringeva, lo baciava, e gli domandava perdono, talchè il fantolino diceva:
“Mamma, mi fai tanto male...”
Ed ella:
“Lasciati fare, — tu fai tanto bene a me...”
Si quietava quella piena di affetto, e dopo un lungo pensare la duchessa così riprese a dire:
“Ma che cosa ha mai questa Caterina, che valga a Strapparmi il cuore di mio marito? Nata di plebe, ella non può intendere i nostri sensi gentili; — me la dicono educata nel fango... e deve essere così! — Ma forse no, che m’ingannano... — Sì, sì, — certo, quello che di lei maggiormente talenta il duca, saranno le sconce lascivie, lo inverecondo abbandono, i gesti provocanti; solita infamia di cotali femmine! — Ah! perchè la bellezza, che dovrebbe formare esclusivo retaggio degli angioli, fu data in sorte a così sozze creature? — Ma ella è poi così bella costei? — Vediamo! — La marchesa Cecilia me ne ha procurato il ritratto: povera amica! — Quante grazie le debbo! — Vediamo...”
Accosta in fretta una tavola presso al balcone per avere più lume, e sopra la tavola assesta uno specchio. Si asside, si compone il velo e i capelli, rende mansueta la faccia, e si prova a chiamare su le labbra la serenità del sorriso; quindi si leva dal seno una miniatura con eccellenza di arte condotta, e con tale una espressione la riguarda, che favella umana non saprebbe referire.
Cotesto ritratto rappresentava una giovane donna decorosa per copia di biondi capelli, per dolcezza degli occhi azzurri soave; candida nella fronte, e tanto pura, che l’Angiolo stesso della innocenza avrebbe potuto benedirla con un bacio. Dalla intera sembianza spirava tale e siffatto senso di pudore, che ti prendeva vaghezza di adorarla piuttostochè di amarla, siccome avviene a cui riguarda con profondo sentimento dell’arte le immagini di Raffaello.
Il terrore aveva sconvolto l’anima della povera duchessa, — e con l’anima, la faccia: sentiva la sconfitta, non si attentava contemplarsi nuovamente nello specchio; — ma ve la trassero i fati, — e si specchiò.
Colei tanto florida sembianza; — ella già volta ad appassirsi!...
“Ma anch’io fui fresca come un fiore, — quando prima vergine innamorata mi abbandonai fra le tue braccia! Chi avvizzì le mie labbra se non che tu bevendovi a sorsi lunghi avidamente il piacere? — Chi altri che tu m’inaridiva le guance con l’ardore dei tuoi baci? — Se il mio sguardo divenne languido, sposo mio, non fu perchè nel mio seno ti riprodussi, e ti feci lieto di figli? — Il cuore di una donna, di una moglie, in mano al marito è forse la farfalla nelle dita del tristo fanciullo, che le strappa ora un’ala, ora un’altra, e poi lacerata la calpesta ridendo?”
Colei così placida di pace beata; — ella poi torbida, di ciglia truci, e minaccevole sempre!
“Ma anch’io una volta fui festosa, tutta moto, tutta canto, come un uccello di primavera. Chi mi avventò nel cuore l’aspide della gelosia? Chi convertiva la mia anima in un nido di vipere? Oh! se la speranza di potermelo stringere al seno dilettissimo amante mi arridesse; se la sua carezza mi blandisse, forse non tornerebbe il sorriso al mio pallido volto? Questa mia fronte sgombra dai delirii di sangue non tornerebbe pacata? — Prova almeno, Salviati, prova, e poi dannami ai miei infelici destini.”
Colei, se giunge, supera appena il diciottesimo anno; — ella oltrepassa il suo ventesimosesto...[10]
Di quanto ella avanza il suo ventesimosesto anno? — Non osa dirlo nemmeno a se stessa. Questa età la spaventa come un ammasso più terribile assai del capo di Medusa, di cui le frazioni le compariscono atroci, sibilanti, velenose, quanto le serpi che compongono le chiome di quel teschio infernale. — Ogni altra sua angoscia di natura più psicologica potè essere da lei meditata e discorsa, ma le cifre constituenti il numero dei suoi anni, simili al mane techel fares del convito di Baldassarre, le impiombano il sangue, le comprimono il pensiero, la vista si perde fra mille scintille di fuoco, un tintinnio molesto le martella le orecchie.
Dalla mano languida sfugge il ritratto, — i labbri si agitano senza parole, — sviene.
“Mamma mia, come ti fai brutta!” esclama il fanciullo.
“Brutta!” — urlò la duchessa. — “Anche tu godi a contristarmi? — Iniqui tutti, e maligni! Cecilia stessa nel procurarmi con tanto studio il ritratto, chi sa non lo abbia fatto a bella posta per umiliarmi? — Che dico forse? certamente è così! Ed io ringraziava la perfida amica!... Iniqui tutti! Ma tu, vipera riscaldata nel mio seno, non devi unirti co’ derisori del tuo sangue. — Se adesso sono brutta, non lo era prima di generarti... sai? — Il travaglio di portarti nove mesi in questo mio fianco, — i dolori ch’ebbi a soffrire nel metterti al mondo, mi hanno ridotta così, sciagurato! — Anche tu mordi le poppe che ti hanno porto il latte, figlio di traditore, e nipote di traditori. — Maledetto il giorno in che ti concepiva! — Va, — dopo una vita di stenti ti attenda una morte d’infamia!... possa una moglie infedele renderti con usura quello che tuo padre fa sopportare a me! — L’ultimo oggetto che ti percuota la vista sia — l’abbracciarsi, — l’ultimo suono che ti giunga all’orecchio sia — il lagnarsi degli adulteri, che di troppo si prolunghi la tua agonia. — Prendi, tristo fanciullo! — prendi, ribaldo! piangi anche tu...”
Alla procella delle parole e dei colpi, che lo percossero per la faccia e sul capo, il bambino rimase come trasognato; — poi proruppe in pianto senza freno: il singulto così profondo gli stringe la gola, che pareva volesse strangolarlo: — faceva proprio pietà!
In mezzo alle tempeste più feroci dell’anima il pianto del figlio si fa sempre sentire alle viscere di una madre. Donna Veronica risensò all’improvviso, trattenne a mezzo un colpo che stava per discendere sopra il figlio, e mutatone direzione, se lo dette di gran forza nella fronte urlando forsennata:
“Faccio orrore a me stessa!”
Alle furie che già la dominavano, aggiunse la colpa che l’aveva tratta a incrudelire contro il suo sangue, il dolore del figlio, e la paura di averne meritato l’odio implacabile. Tremende visioni le si aggiravano vorticose per la mente. Il demonio la sferzava co’ suoi più velenosi flagelli. Fra tanti modi di vendetta uno le piacque, e fu il peggio: — lo scelse, — lo ripose nell’anima come un tesoro, e con l’indice della destra si comprimendo la fronte là dove si dividono le ciglia, con voce roca profferì questa parola:
“Ho deciso!”
In quella notte Giomo Pelliccia, cagnotto di casa Cybo, soprannominato Margutte, armato fino ai denti, per ordine della signora duchessa montato sopra poderoso cavallo si pose in viaggio per a Massa.
V.
Presso la chiesa di Santo Ambrogio, sul terminare di Via dei Pilastri, occorre una casa che fu già di Giustino Canacci, mercante fiorentino. — Qui nella sera del primo novembre 1637 una giovane donna (quella dessa della quale abbiamo veduto il ritratto nelle mani della signora Veronica) si stava soletta seduta davanti una tavola in una sala vasta e fredda, accanto alla porta di una camera. Al primo aspetto pareva intieramente assorta nell’opera che aveva fra mano, senonchè esaminando come ora l’ago si arrestasse a mezzo punto, ora volasse con direzione diversa affatto a quella che avrebbe dovuto tenere, e l’affannoso anelito del seno, e il sudore cui ella sovente per tutto il volto e sul collo si asciugava, e il repentino sollevare della testa, e a chiusi occhi agitarla a destra e a sinistra, sicchè i bei ricci biondi continuavano ad oscillare anche dopo il quietarsi del capo, a guisa di catenelle di oro pendenti da un lampadario; chiunque, dico, comecchè dotato di mediocre levatura, avrebbe potuto con giuramento affermare: — in quel cuore non abita la pace!
Una voce belante, che muoveva dall’interno della stanza presso la quale stava seduta la bella Caterina, si fece sentire dicendo:
“Caterina, mi fa male sentirti sola in cotesta diacciaia; — perchè non vieni di qua in camera, chè staresti a migliore agio? Questo anno il freddo ci è caduto addosso più presto del solito, e più pungente...”
“Giustino mio, non vi date pena per me. Il lume vi recherebbe fastidio, e il rumore del lavoro vi guasterebbe il sonno. Riposate, — procurate chiudere gli occhi almeno stanotte.”
“Non importa; tanto del pane della vita i tre quarti io me li sono mangiati. — Per uomo della età mia ogni minuto è tempo di morire. — Prendersi pensiero di me egli è come seminare grano in Gonfolina. — Vieni... vieni, levati da quel freddo costà.”
“Se alcuna cosa vi abbisognasse, Giustino, parlate; — sto qui per servirvi: ove poi lo diciate a mio riguardo, gran mercè; — lasciatemi stare... io sudo...”
“Sta pure, figliuola mia! Ah! benedetta la gioventù...”
La giovane donna s’ingegna ad alitare più basso. Sovente accosta l’orecchio alla porta, spiando se il vecchio dorma, e poi alza la faccia a consultare l’orologio a pendolo appeso alla parete dirimpetto a lei, e pare che non senza brivido ella veda avvicinarsi la lancetta ad un’ora fatale. Quinci rimuove lo sguardo, e pieno di ansietà lo fissa sopra la porta che dà adito alle scale, e così continua in quel moto, che vorrei dire triangolare.
L’amore affina i sensi, e questo è provato. La Caterina ha udito un suono: il suo cuore non s’ingannerà. Chiunque altro non lo avrebbe sentito, — ma io lo ripeto — la donna innamorata davvero sembra quasi divina nelle sue sensazioni. — Sorge, — e come quegli uccelli che in andando si aiutano coll’ale, ella tocca appena il pavimento indirizzandosi alla porta della casa.
Nè desiderio punto minore stringeva certamente lo aspettato, conciossiachè all’aprirsi dell’uscio egli si trovasse in pronto di svilupparsi dal tabarro, e tendere le braccia alla Caterina, ove la povera donna innamorata lasciò cadersi vinta dalla grande forza di amore.
Godete! — Nato fra speranze, desiderii, e paure, nudrito di amplessi e di baci, sempre è l’amore seguitato dal fastidio, spesso dal pentimento, qualche volta dal rimorso. Godete! — All’amore vostro terrà dietro il castigo; ma nessuno potrà togliervi questi momenti. Potenza umana o divina tenterebbero invano far sì, che essi non sieno stati. Nella miseria, che vi circonderà come una notte senza stelle, la memoria di quei momenti vi sarà un fuoco di Santo Elmo. No, rammentarci del tempo felice nella miseria non è dolore. La gioia, frettolosa pellegrina dell’anima, le lascia in partendo la memoria, e questa di anno in anno si diffonde tanto più cara quanto più si discosta dal suo principio, in quella guisa medesima che nella superficie delle acque percosse tanto più si dilatano le ruote quanto meglio si allontanano dal punto della commozione. — La memoria è quasi un eco del piacere, che forse non tace neanche dentro al sepolcro. Dalla coltre dell’etico, dalla prigione del condannato, la memoria alata trascorre su i campi aperti, e si mesce co’ raggi matutini del sole, o si riposa su i calici aperti dei fiori, assorbendone il profumo, o beve la lacrima pianta dalla madre quando benedisse suo figlio, o si diffonde su i labbri della donna amata inebbriandosi di sorriso, o le cadendo sul seno gode a sentirsi balzellare dal palpito di un cuore al quale ella pure rimase estremo, — arcano, — e consacrato conforto. — Finchè l’anima conserva la memoria delle cose a lei più caramente dilette, l’Angiolo della speranza la ricopre con le amorose sue ali.
Quando ebbe posa quello ardente affetto, e fu concesso agli amanti l’ufficio della parola, la Caterina favellò prima dicendo:
“Iacopo, vieni qua, — riposati. — Santa Vergine, come sei bagnato!” — E qui l’amorosa gli toglieva il mantello. “O che si è guasto il tempo?”
“Si apparecchia una notte d’inferno.”
“Già... dev’essere; — la burrasca dei morti.”
E il giovane crollando il capo, e ridendo, si pose a sedere sopra un lettuccio, e recatasi su le ginocchia la Caterina, che cingendogli di un braccio il collo prese a comporgli i lunghi capelli, continuava il colloquio interrogando:
“O che cosa hanno che fare i morti con la burrasca?”
“Che cosa vi abbiano a fare io per me non saprei; ma egli è certo che nella notte dei morti succede sempre la burrasca. Io mi ricordo avere udito da sante donne raccontare, come la misericordia di Dio conceda durante questa notte che i defunti, lasciate le antiche sepolture, tornino a visitare i luoghi donde si sono dipartiti: e quelli che furono buoni si valgono della grazia per visitare i loro diletti, e prevenirli della lieta o rea fortuna, o con qualche sapiente consiglio ammonirli; i tristi poi si spargono per l’aria e s’impadroniscono del fulmine, del tuono e dell’uragano: — allora o si rovesciano sul mare, e la mattina tu vedi sopra la sponda una vedova e un cadavere, — o percorrono la terra, e presa la forma di perfidi fuochi folleggiano davanti al pellegrino smarrito, e lo spingono giù nel dirupo, ove non pochi monticelli di terra sormontati da croci accennano i sepolcri dei poveri precipitati.
“Speriamo,” continuando a sorridere, interruppe il giovane, “speriamo che a noi risparmieranno la visita; ed io che li so dabbene e discreti molto, ho fede che si accorgeranno come anche un morto sarebbe di troppo fra noi. Noi ci bastiamo soli... n’è vero, Caterina? Ora di’, Caterina, dacchè non ci vedemmo hai tu sempre pensato a me?”
“E tu a me, Ciapo?”
“Io sì... in fede di cav... del cavaliere San Giorgio; — ma e tu?”
“Io no; — ho pensato, e lungamente, ad altrui!”
“Ed osi dirmelo? Così presto dunque tu cotanto pudica le altre femmine imiti? E non aborrisci...?”
Mentre in questo modo favella, si toglie dal collo il braccio della Caterina, e lo respinge indispettito. — La Caterina, mesta ridendo, ritorna placidamente ad abbracciarlo, e dice:
“Ho pensato all’anima di mia madre...!”
“Perchè hai pensato a tua madre?”
“Ma dimmi piuttosto tu perchè non hai pensato alla tua? Non sono tutti i morti domani? — Guai a chi non può pensare a sua madre! O ciò avviene per colpa sua, ed è un tristo; o per colpa di lei, ed egli è uno sventurato.”
“Dunque l’amavi molto questa tua madre...?” si affretta ad interrompere il giovane, a cui forse l’osservazione della Caterina suscitava la memoria di una colpa, — o di un dolore.
“Se l’amavo! Eppure non tanto quanto ella si meritava! — Misericordia! che lampo!” esclama improvvisamente la Caterina facendosi il segno della salute; — “ah! che spavento! È stata una saetta...”
“Per poco non ha rotto tutte le vetrate!”
“Questo non può succedere, perchè la domenica delle Palme vi posi con le mie mani l’ulivo benedetto; — ha battuto vicino però: — forse nel campanile di Santo Ambrogio. — Ciapo, di grazia, va a chiudere le imposte... fa piano, sai... bada di non lo svegliare;.... ho paura...”
Il giovane si leva, e cauto va ad appagare il desiderio della donna.
“Caterina!” — suona all’improvviso la voce belante del vecchio Giustino, — “hai avuto paura?”
“Oh che sono nata ieri? — Oh che non ho sentito altri tuoni in questo mondo?”
“Va, tu sei una valorosa fanciulla! Ma, Dio mio, ove sarà mai quel tristo di Baccio? Egli è uno sciagurato, ma pure mio sangue.”
“E dove volete che sia, se non all’osteria del Giardino?[11] — E poi, ha tanto orrore dell’acqua, che in qualche luogo e’ si sarà riparato di certo.” — E tutto questo ella diceva con voce che s’ingegnava rendere festosa, ed ostentando una contentezza che veniva smentita dal pallore del suo volto.
Ciapo si ricondusse pianamente al fianco della donna amata, e stettero per lunga ora in silenzio.
Continua la tempesta. Di tempo in tempo un rovinío di grandine colpisce in pieno dentro le finestre minacciando mandarle a soqquadro.
La Caterina riprende:
«Se l’amavo! se meritava amore! Povera madre mia! Senti, Ciapo!... Fatti più in qua, ed ascoltami bene. — Mio padre fu mercante nell’arte di Por Santa Maria.[12] Felice un tempo ebbe amici; poi cominciò a declinare, ed io mi ricordo, tuttochè bambinella mi fossi, udirlo sovente rammaricarsi non già del suo, ma del pubblico male. La Toscana, diceva, non essere per risorgere più mai: Olandesi ed Inglesi occupare il commercio della Spagna e del Portogallo; le manifatture loro rendere inutili le nostre; empirsi Livorno di gente nuova, per esercitare un commercio che toglieva ai Toscani; provvedimenti fallaci e instabili impoverire il popolo; tutti volere dissimulare il danno, siccome al primo apparire della peste, ma si manifesterebbe ad un tratto l’abisso del male, e senza rimedio[13]: e come disse accadde. — Fallito, infelice, gli vennero meno gli amici: — la bocca (perchè del cuore non può parlarsi) dei curiali fu muta pel mercante improvvidamente onesto. Egli moriva sotto il peso dell’angoscia, e della infamia... La madre mia, senza aiuto nel mondo, restrinse il vivere, si accomodò in una soffitta qui sopra, assunse abito conveniente alla durezza del tempo, e così potè per qualche mese schermirsi dalla estrema miseria. Se parola alcuna le sfuggiva di rammarico o di desiderio (povera madre!), era per me. La domenica, nel vedere dal finestrino giù nella via, donne e donzelle recarsi a messa in Santo Ambrogio ornate di belle vesti sfoggiate e di pendagli di oro, guardava me costretta a rimanermi in casa per mancanza di panni, e sospirava.... poi mi era attorno, mi acconciava i capelli, e quando a suo senno mi aveva lisciata e composta, recandosi in mano i miei ricci, con orgoglio materno esclamava: — Di così fatti fregi non vende mica il merciaio... — Così soffrendo ogni disagio giungemmo al maggio del 1630, in cui la peste, devastata la Lombardia, si sparse per la Toscana dalla parte di Bologna, e con la peste la fame. Pensa tu qual fosse vita la nostra! Tra le percosse, ella... la madre mia, — e le maledizioni; — per la persona malconcia, e nel volto; — urtando urtata, morsa mordendo, le riusciva procurarsi qualche alimento dalle canove aperte dal granduca a sollievo del popolo. — Certo giorno io l’aspettai invano; ella non venne fino a sera. Poco nudrita il giorno innanzi, io sentiva lo strazio della fame, sicchè udito appena il rumore dei suoi passi mi feci a capo di scala gridando: Madre mia, muoio di fame! — Ed ecco, ch’ella estenuata dalla inedia si sforza salire le scale due scalini per volta, arriva palpitante, e gittato un tozzo di pane sopra la tavola si abbandona sul letto. Io, come mi consiglia la fame, non bado a lei, finchè divorato il tozzo intero, non mi sentendo sazia le domando se altro ne avesse portato. La povera madre proruppe in pianto; ed io, che mi accorsi della mia durezza, piansi lacrime di pentimento. Si fece buio: la buona anima di mia madre volle che mi coricassi, e mi confortò raccomandarmi al Signore, assicurandomi che migliore ventura mi aspettava domani. — Mi coricai, supplicando Gesù e la Madonna si degnassero guardarci con misericordia. — Mia madre accese una lampada, e si pose a filare, ma le labbra aride non avevano umore per bagnare il filo, le dita deboli non sostenevano la fatica; spesso sbadiglia convulsa, non le regge la testa. Allo improvviso il lume accenna spegnersi; ella si reca a stento all’armario, e preso l’orciuolo fa atto di rovesciarlo dentro la lucerna... l’orciuolo era vuoto! — tornò a sedere, fissò gli occhi nella fiammella moribonda, e prese a dire:
— In questa guisa si morrà domani la mia Caterina: io non ne posso più: non mi sono sdigiunata tutt’oggi; con i miei piedi di casa non uscirò più; il mondo è pieno di Ruth, ma i Bootz si trovano soltanto nel Testamento vecchio. — Devono essere pur grandi i miei peccati, Dio mio, dacchè mentre la vostra misericordia alimenta il passero sul letto, veste il giglio della valle, mitiga il freddo all’agnello tosato, consente poi che ci travagli tanta miseria! — Si spense il lume, e poco dopo rovesciando dalla seggiola percosse svenuta sul pavimento! — Balzo di letto, e brancolando la rinvengo diaccia come un cadavere. Mal sapendo quello che io mi faccia, coperta della sola camicia prorompo fuori di casa gridando: — è morta! — Nessuno si mosse: vi fu anzi chi temendo non fosse morta di peste turò perfino il foro delle serrature della porta di casa. — Giustino solo aperse l’uscio alle mie strida, e tolta una lucerna venne a vedere mia madre. — Buon Giustino! la rilevò con le sue braccia da terra senza paura di peste, la pose sul letto, la ristorò, ci sovvenne... — Gesù e Maria! (prorompe la Caterina forte stringendosi alla vita dello amato, e nascondendo la faccia nel seno di lui) — ma che i fulmini hanno tolto di mira questa casa?”
“Su via, paurosa; rammentati dei versi del signor Tasso, che leggemmo ieri:
Pera il mondo e rovini; a me non cale
Se non di quel che più piace e diletta;
Che se terra sarò.... terra anche fui...”
“Rammentati piuttosto di una preghiera,” replicò Caterina, ponendogli la mano sopra la bocca, “e ingegnati recitarla devotamente.”
Segue nuovo silenzio, rotto soltanto dal monotono scrosciare della pioggia.
“E se ora,” preoccupata da profonda idea, dopo uno spazio ben lungo di tempo, riprese la Caterina, — “e se ora mi si presentasse davanti l’anima della madre mia, che fino all’anno passato con voti ardentissimi invocavo, e a sedersi su la sponda del letto, e a trattenersi in geniali colloqui, e a non mi lasciare supplicavo... se ora mi si presentasse davanti, ove celerei la mia faccia svergognata....?”
“Caterina! qui sul mio cuore...”
“Così pratichi gl’insegnamenti di tua madre? In questo conto tieni i miei ricordi? la fama incontaminata, che unico retaggio ricevesti dai tuoi, in questo modo conservi? questa è la riconoscenza pel povero vecchio che ti ha raccolto nella sua famiglia, che non ti potendo chiamare figliuola volle darti il nome di sposa? Egli ti salvò la vita, tu lo paghi col disonore. E credi che Dio tolleri simili misfatti? E pensi che il delitto sia per apportarti contentezza? No; ogni germe produce il suo frutto: alla tua colpa si aspetta il rimorso in questa vita, l’inferno nell’altra. — O madre mia!”
“Caterina, perchè tormentarti così? Non crearti fantasmi per averne spavento. Tu vai esagerando il benefizio di questo tuo vecchio. — Che cosa ha egli fatto, che tutti i vecchi avari non facciano? Si è impadronito di un tesoro; e nè lo gode, nè, astioso, vorrebbe che altri se lo godesse. Per un poco di pane pretende egli dunque il sagrifizio della tua così florida giovanezza? Sta a vedere, che anche morto stenderà dal sepolcro una mano scarna, e intenderà tenerti sempre per sua. Ti lascerà forse da vivere, ma a patto che tu ti mantenga sterile e sola; — a patto che tu stia nel mondo com’egli sta nella fossa...”
“Tu se’ bel parlatore, Ciapo mio; ma vedi, qui dentro, Dio ha posto un tal senso che resiste ad ogni fallace argomento. — Morire di sete, — implorare la tazza della carità, — ottenerla, — e contaminarla... oh! ella è cosa piena di abominazione...”
“Amiamoci, Caterina,” stringendosela nelle braccia il giovane appassionato favellava, siccome quello che conosceva essere l’amplesso irresistibile argomento in amore, “amiamoci con tutte le potenze dell’anima. Il paradiso è albergo delle anime innamorate...”
“Sì, ma di quelle che intesero il diritto amore: le altre vanno senza fine sbattute dalla procella giù nell’inferno...”
“Dov’è l’inferno?...”
Un terribile fragore rompe le parole del giovane. Le finestre si spalancano. I frantumi dei vetri mandano suoni sparsi, acuti e prolungati, finchè il vento, dopo averli percossi in mille guise e in mille oggetti, li trasporta lungi di là. I telai scassinati vanno in pezzi battendo sul pavimento e pei muri. Un turbine di grandine inonda la stanza. Mobili, lume, ogni cosa sossopra; e poco dopo, dai fianchi del cielo orribilmente squarciati, un tuono che scuote dai fondamenti la casa, e una fiamma di fuoco che allaga la stanza.
Per le ossa dei due amanti scorre un gelo di orrore: forte l’uno l’altra abbracciando, — mentre volgono attorno lo sguardo atterrito, — ecco si presenta uno spettro avvolto per entro un lenzuolo, co’ capelli bianchi scarmigliati, che agita, — agita la destra levata in atto di maledizione.
Dopo un istante, tenebre.
Ma per quel buio, accompagnata dal rombo del tuono si ascolta una voce, e al punto stesso un oggetto coglie la Caterina in mezzo della fronte. — La voce diceva:
“Caterina, perchè hai tu contaminato i miei capelli bianchi? — A che mai tanta fretta? Se tu aspettavi un poco, ti saresti serbata innocente, ed io morivo in pace. — Adesso scendo nel sepolcro disperato, ma senza amarezza contro di te. — Prendi il mio testamento: io ti lascio donna di te, e delle cose mie. Possa perdonarti Dio, com’io con tutte le viscere dell’anima mia ti perdono. — E tu, che ho conosciuto soltanto per la disperazione che versi in questa ultima ora su l’anima mia, — che ho veduto al chiarore del fulmine, — se l’amerai sempre di amore, — se me la renderai contenta... va... io mi parto dal mondo perdonando anche a te...”
Indi a poco, rumore di orme vacillanti, come dì uomo che tentenna per cadere, — e di caduta.
Comecchè i due amanti non avessero membro che per paura non tremasse, pure trovarono il coraggio di accorrere nella stanza delle fantesche: tolsero le lucerne, e tornarono accompagnati dai famigli a vedere quello che fosse avvenuto. Allo affacciarsi nella sala, il vento spegne nuovamente tutti i lumi; tornarono da capo per essi, e questa volta più cauti, adoperando i debiti riguardi li mantennero accesi.
Raccolsero il misero Canacci disteso sul pavimento, e lo riposero a letto.
Ciapo, accostandogli il lume al volto, vide uscirgli dalle narici una spuma sanguigna, — la bocca torta, — il colore pavonazzo, — gli occhi fissi, invetrati,
Ciapo sentì raccapricciarsi di nuovo ribrezzo, e male sostenendone la vista si trasse in disparte mormorando:
“Egli... ha bisogno del prete che gli raccomandi l’anima...”
La Caterina pareva presa da catalessia. Come Niobe mutata in pietra, immobile accanto al letto non piangeva, non parlava; neanche il seno le palpitava: la forza tremenda dell’incubo la dominava intera.
Senza tabarro, senza cappello, Ciapo vola alla chiesa di Santo Ambrogio pel prete; e il prete col Viatico, l’Olio santo, e la lanterna, gli tenne dietro correndo.
Il curato alza l’estremo lembo della coltre, accosta il rovescio della mano ai piedi del giacente, e li sentendo gelati sporge in fuori il labbro inferiore con tale un garbo, che poteva tradursi così: — questo è un negozio finito.
Allora vestì il roccetto, e si adattò la stola, dispose tutti i suoi arnesi, e prima dì cominciare gli uffici del suo ministero prese la lanterna, lo guardò bene nel volto, e vide come travagliasse il giacente quel moto convulso che attenua la gola, e scompone i muscoli del mento e dei labbri: — segno certissimo dell’agonia.
“Gli è il male di gocciola,” disse volgendosi ai circostanti, “ma di quello pretto davvero.” — E poi curvatosi verso l’orecchio destro del moribondo: — “Signor Giustino,” prese a gridare con voce piena, “o signor Giustino, la mi sente? la mi riconosce? la mi stringa la mano se mi ravvisa... via! — E’ non v’è tempo da perdere...”
E gli amministrò la estrema Unzione.
Finite le preghiere in latino, riprese il curato a gridargli all’orecchio in italiano:
“Gesù, Giuseppe e Maria, vi raccomando l’anima mia; — ma lo dica, signor Giustino, lo dica di cuore.”
E Giustino mandò dalle fauci un suono roco, e spirò.
“Povero signor Giustino... è passato.”
La Caterina sempre pallida, e immobile.
Ciapo appoggiato ad una delle colonne del letto, tutto chiuso nei suoi pensieri, non dava ascolto.
VI.
Bartolommeo Canacci, figlio della prima moglie del defunto Giustino, aveva in quella sera fatto le sue solite prove alla osteria: si era inebriato, aveva giuocato e perduto, e alla fine, venuto a contesa co’ compagni, era successa una molto fiera baruffa, dove rovesciati i lumi, mandate sottosopra tavole e panche, infranti boccali e bicchieri, si erano dati in quel buio busse da indemoniati, per cui chi ne aveva riportata la testa rotta, chi la faccia pesta; e chi più chi meno, comparivano tutti malconci.
La stanchezza, e l’oste, che cacciatosi in mezzo allo sbaraglio con un bastone di sorbo picchiava per amore di pace a due mani sopra di tutti, aveva diviso, ed anche fino ad un certo punto rimesso d’accordo i combattenti, i quali ripresero a bere, e a giuocare, senonchè Bartolommeo essendo rimasto privo di danaro, e nessuno volendoglielo accomodare in prestanza sul giuoco, si consigliò andarsene a casa.
Giunto alla porta di strada, la trova aperta; le stanze terrene buie; ascende le scale, — solitudine, e silenzio; entra in sala, e vede, o piuttosto sente le finestre aperte, e l’acqua a suo bello agio allagare la stanza. Non sa cosa immaginare, sta come smemorato; quando allo improvviso un urto irresistibile con moto retroverso lo balestra a battere contro la opposta parete le spalle e la testa. Mentre si tasta la nuca per riscontrare se vi fosse avvenuta rottura, ode una voce, che in questo modo lo interroga:
“Che diamine! Oh che non ci vedete?...”
“È possibile, — perchè sono al buio; — e voi?”
“Ah! siete voi, Baccio?” — riprese il curato di Santo Ambrogio; ch’egli era appunto desso, e nell’uscire in fretta aveva investito il Canacci: — “sempre in volta... sempre ubbriaco... è tempo di mutar vita... di mettersi su l’uomo...”
“Con vostra reverenza parlando, io sento che mi riuscirebbe più facile mettermi sopra la bestia...”
“Tacete là... e pentitevi una volta... Non sapete dove vanno i beoni?” “Oh per questo lo so quanto voi... — e’ vanno dove ci ha vino buono.”
“All’inferno vanno, ov’è il fuoco penace, sciagurato che siete! Andate di là a pregare per l’anima di vostro padre, ch’è morto.”
“Come può essere questo, se oggi l’ho lasciato vivo?”
Il curato andò pei suoi uffici. Baccio camminando a sghembo, incrocicchiando le gambe, — a sdruccioloni, a balzelloni, senza però mai cadere, come tutto giorno vediamo avvenire agli ubbriachi, trova l’uscio della camera paterna, ed entra dentro.
— Ella era pure la sconcia sembianza quella di Bartolommeo Canacci! un non so che di abietto e di codardo ne formava il carattere principale; comecchè non esistesse ancora la scienza di Lavater, tu gli potevi leggere espressa nel volto la vocazione a tutti quei delitti che compongono la svariala famiglia delle truffe: orbo di un occhio; grigio l’altro, e stupidamente maligno: la testa verso la fronte compressa a modo di tutti gli animali della famiglia dei gatti; il naso immane prolungato a grifo di porco; gran parte del viso trivialmente pelosa a guisa di orangoutang, sicchè spesso solevano dirgli motteggiando — la parte meno trista del suo viso essere quella che non si vedeva: insomma cotesta sua sembianza presentava una enciclopedia di bestie carnivore, non senza una dose copiosissima di parte asinina. Usava per temperare così esosa bruttezza vestire bei panni di fogge eleganti; ma ciò era nulla: come il villano strigliando la rozza s’ingegna a farla apparire bella in fiera, e non vi riesce, così quei panni, che, usando una espressione del Berni diretta a Pietro Aretino,[14] gli piangevano addosso furfantati, per la ricercatezza loro facevano venire in mente ai conoscenti, più spesso di quello che in modo diverso non sarebbe avvenuto, come meglio gli sarebbero tornati alla persona abiti di colore troppo diverso, ma più vivace, più armonizzanti al corpo e all’anima di lui, e molto più meritati.
“Vecchio, buona sera! Costà fuori mi hanno detto che voi siete morto; questa cosa è vera? — Io non ci credo, se non la sento proprio da voi...”
E si accostava al letto sbirciando con l’occhio sano.
“Recipe due penne di gallo, e bruciagliele sotto al naso; — seu digli che il fattore è venute da Brozzi, e gli porta danaro, e vedrai come il vecchio sbuca dal letto.”
“Baccio,” disse una delle fantesche che in ginocchioni recitavano il rosario, “vostro padre è passato; ebbe Olio santo, e tutto... pregate per lui!”
“Se il vecchio è morto, non lo ha strozzato la balia: — vedete, io che pure ho i miei anni, l’ho conosciuto sempre più vecchio di me; a fine di conto ha campato anche troppo.”
“Domine aiutaci!” gridarono le fantesche facendosi delle mani croce sul petto...”senti come bestemmia il rinnegato!”
“Streghe! se non tacete, io vi mando a far lume all’anima del morto, o su o giù, dove le torna comodo di andare; — sicchè è meglio che me n’esca di casa. E poi il dolore mi affoga: torno all’osteria a divagarmi, e per vedere se io mi potessi rifare. — Voi, intanto che io prendo qualche soldo, tenetelo sodo, — che non mi abbia a resuscitare.”
Apre lo stipo, fruga le cassette, le rovescia, rovista in ogni canto, sbircia da per tutto, e non trova danaro: di tempo in tempo si percuote la fronte esclamando:
“Oh dove sono iti? Oh dove li ha messi?”
Ad un tratto fissa su Ciapo lo sguardo maligno, poi lo volge allo stipo, poi lo ritorna su Ciapo, e così più volte continuando, dimostra quale specie di relazione immaginasse fra lo stipo vuoto e quel giovane. — Col moto del corpo accenna la voglia di afferrarlo, ma lo trattiene la paura; sta fra la cupidigia perplesso e la viltà. Vedendo poi come Ciapo non gli badasse, ed egli potesse ghermirlo a tradimento di dietro, vinse la cupidigia. — Nel modo stesso che per le foreste del Paraguay l’iaguaro traditore, acquattato tra i folti rami di un albero, sorprende lo improvvido bisonte, si precipita improvviso al collo del giovane. — Ciapo trasalì, balzò con impeto indietro, e guatando con sospetto afferra il pugnale. Nel moto violento rimase in mano a Baccio un lembo della casacca di Ciapo, che apertasi da cima a fondo lasciò vedere un giustacore di velluto cremisino a stelle d’oro, ov’era ricamata in rilievo la gran croce di San Stefano, con altre insegne della sua dignità. — Baccio rimase a bocca aperta stralunando l’unico occhio da spiritato. — La memoria confusa per la nebbia della ebbrezza riassunse la sua lucidità, e ricordò le sembianze del personaggio oltraggiato. Compreso di terrore, egli cadde con ambedue le ginocchia; composte sul petto le braccia in croce, e declinato il capo come persona che aspetti il colpo di grazia, esclama con voce tremebonda:
“Eccellentissimo signor duca di San Giuliano, abbia misericordia di me, per quanto amore porta alla clarissima principessa Veronica sua consorte.”
Il duca ripose il pugnale, e trasse fuori una borsa, e con tale un impeto, che parve furore, gliela lanciò contro dicendo imperiosamente:
“Va, — prendi, — e giuoca, — purchè tu mi ti levi davanti gli occhi, e subito.”
La borsa lo aveva colto nel petto non senza grave dolore; ma pensando Bartolommeo come la gravità della percossa stesse in relazione della gravità della borsa, con una mano si fregò la parte offesa, coll’altra si aiutò a riporsi in piedi, e quanto più poteva curvandosi, imitando co’ moti i quadrupedi, fra i quali sarebbe stato pur meglio lo avesse collocato la natura, si allontanava dicendo:
“Gran mercè, signor duca. In casa del suo umilissimo e obbedientissimo servitore, ella è padrone di tutto; — e se posso servire, disponga: — già io sono uomo di manica larga; — mi accomodo facilmente; — e quando Vossignoria mi dirà: Baccio, chiudete un occhio, io, come vede, le presento il vantaggio di chiuderli tutti e due.”
Mentre queste cose avvenivano, e queste parole si favellavano, si levò uno strido:
“Me misera! sono stata tradita!”
Quando il duca si volse per guardare Caterina, la vide distesa a terra, rigida e bianca come una statua di marmo rovesciata dal suo piedestallo.
VII.
Poco innanzi l’alba del secondo giorno di novembre, un debolissimo colpo fu bussato alla porta della villa Salviati. Il fedele valletto, che aveva vegliato tutta la notte oregliando a quella porta, lo intese, e aperse subito, augurando sommesso il buon giorno al suo signore. Questi però non rispose: appoggiato il suo al braccio del servo, prese a salire le scale.
Il valletto a cagione del buio non poteva guardarlo in volto: gli toccò la mano, e la senti bagnata di freddo sudore. Salirono pianamente, e senza dire un fiato penetrarono nella sala, ove da una parte metteva capo il quartiere del duca, e dall’altra quello della duchessa.
All’improvviso si apre fragorosa la porta delle stanze del duca, e quinci esce la duchessa con un doppiere acceso nella destra: era pallida come morta; gli occhi aveva lucidi di fuoco febbrile; vestita di abito nero, co’ capelli sciolti giù per le spalle: pareva lady Macbeth[15] sonnambula pel rimorso de’ commessi delitti: traversò la sala, e andando verso il suo appartamento disse con voci rotte e sinistre:
“Ben venga il signor nostro a darci quelle contentezze che il nostro cuore desidera!”
Il duca levò la faccia. La visione era sparita.
VIII.
La vigilia di Natale del 1637, verso le ore dieci di notte fu aperta con molta precauzione la impannata della osteria del Giardino...
Ella era pure magnifica cosa l’aspetto della osteria del Giardino in quella benedetta serata! — Sei od otto tavole imbandite con tovaglie bianchissime, arnesi lucidi, bicchieri scintillanti, e fiaschi con la stoppa in cima, a guisa del pennacchio bianco che portava Enrico IV su l’elmo quando disse ai suoi cavalieri: — Contemplatelo fisso; voi lo vedrete sempre nella via dell’onore.[16]
Arrogi, un fuoco da casa del diavolo, — attizzato però allo scopo innocente di arrostire capponcelli e pippioni, che parevano si struggessero proprio da giubbilo di sapersi riservati a così fausti destini; imperciocchè sia destino dei pippioni, capponcelli e simili concludere la vita loro infilati e arrostiti siccome insegna la esperienza, — la quale, secondo che ne avverte Aristotele, è maestra suprema delle cose.
Ma gli attori mancavano al dramma. In quel momento essi stavano in chiesa, ove con molta devozione attendevano alle cose dell’anima. — Omnia tempus habent: vi è tempo di piangere, e vi è tempo di ridere; vi è tempo di digiunare, e tempo di mangiare: — e questo si trova scritto nell’Ecclesiaste.
E poi (voi lo sapete), qualsivoglia solennità religiosa o civile domestica o politica, si conclude sempre col mangiare. Vi nasce un figlio, e convitate a mangiare; — morite, ed ha luogo il banchetto funebre; — togliete moglie (veramente il condurre donna andava innanzi al morire, ma ormai è scritto, e non vo’ cancellare), e ricorre il pranzo nuziale. La mensa e la tomba riuniscono tutte le opinioni. A mensa convengono come a centro comune tutti i raggi delle umane voglie. Mirabeau e Danton, dopo le sedute dell’Assemblea Legislativa e della Convenzione, colà si riposavano; — colà, dopo le ambagi del congresso di Vienna, Metternich e Talleyrand convenivano; — colà non raggiri, non dissimulazioni, non discordie, non astii: mangiavano tutti, e mangiavano di buona fede. — A mensa sarebbero stati d’accordo Fra Paolo Sarpi e il cardinale Pallavicino; il cardinale Bellarmino e Martino Lutero, a cui, per quello che si legge, Enrico duca di Brunswick dopo la Dieta di Vormazia mandò in regalo un gran boccale pieno di birra per beverselo a pranzo! — Cicalava mai tanto quel Martino Lutero![17]
Dalla impannata sbuca una testa coperta con un cappello di forma conica a larghe falde. Una falda — ciglio, occhio, e gran parte della guancia celava; l’altra appena mezza fronte cuopriva, senonchè una piuma nera calando giù attraversava la faccia, — quasi un frego tirato in prevenzione sul pudore, ove mai si fosse avventurato a comparire colà.
Perlustrato dello sguardo lo interno della osteria, gli occorse in un canto Bartolommeo Canacci, il quale con un mazzo di carte fra le mani stava giuocando da sè alla bassetta. Allora comparve la intera persona dell’affacciato alla impannata: — quasi gigante, avvolto fino al mento in larghissimo mantello, s’incammina alla volta del Canacci, e gli giunge accanto in quella ch’egli esclamava:
“Ahi! sorte ladra: io mi butterei via, — mi sbattezzerei: — ora che giuoco da me non perdo mai...”
L’incognito lascia con tutto il peso del corpo cadersi sopra la panca, e forte battendo con la mano aperta sopra la tavola, grida:
“Oste! — Vino...”
Baccio dette un balzo tale, che per poco non cadde riverso: carte, stoviglie, e gli altri arnesi saltarono all’aria; l’oste solo sprofondato nei misteri dell’arte non si mosse dal camino, e persuaso ch’e’ fosse un povero avventore, senza piegar collo nè mutar costa, rispose:
“Da quanto? da due soldi il boccale?”
“Senza fede! — serba il tuo aceto per la settimana santa, sozzo can rinnegato, e a me porta del vino, — e del meglio; — hai capito?”
“I’ ci ho del Chianti, del Pomino, dell’Artimino, del Carmignano, e del vin Santo,” riprese l’oste diplomatico tutto di un fiato, fingendo non avere inteso del discorso dello incognito tutte quelle parti che non gli tornavano, “dell’aleatico poi da resuscitare un morto...”
“Del meglio, ciarliero, — e basta.”
L’oste recò un bicchiere, e un fiasco panciuto e vermiglio che sembrava un senatore.
“Ch’è questo? Un bicchiere solo? Il gentiluomo per avventura non beve?” interroga lo incognito additando il Canacci.
Bartolommeo con certe sue smorfie si schermiva da quella gentilezza profferta a modo d’insolenza, dicendo:
“Troppa grazia è la vostra, padrone mio riverito... — in verità io non vorrei...”
“Eh via!” interruppe l’oste, che trovava il suo conto a cotesto invito; “accettate: — quando le proferte si partono dal cuore non si vogliono rifiutare. — Non vedete che faccia di Cesare ha questo gentiluomo? — E se menasse vino, voi vi berreste anche l’Arno.”
“Vattene, oste, al camino, e bada allo arrosto. — Gentiluomo!” riprese l’incognito dopo aver bevuto il primo bicchiere di vino, “dal colore dei vostri panni mi accorgo che la sventura vi ha visitato.”
“In pochi giorni ho sepolto il testatore; ma qui non istà il maggiore male: in pochi giorni ho sepolto ancora la eredità... Questa sconsacrata bassetta mi ha portato via in meno di una settimana meglio di mille ducati...”
“Eh! ma i mezzi non mancano per poterli rifare; — a casa — Bevete!”
“Grazie! — E come? Finchè la matrigna dura, ella è donna e madonna di tutto. — Dei contanti finchè ne ho trovati ne ho presi... ma ora?”
“Oh che il duca di San Giuliano sta sul tirato?”
“I’ penso che abbiano tolto con meno fatica i denti a Santa Apollonia, di quello che ci vuole per cavare di sotto al duca un fiorino. E poi la Caterina fa la superba...”
“Lascia le anguille per gli storioni, eh?”
“No, in fe’ di Dio! la non è donna da questo. — Ma torniamo a noi. Sapreste voi, gentiluomo, indicarmi una medicina contro il male del debito?”
“Senti, Baccio, tu non mi conosci; ma io posso, e voglio aiutarti: io ti sono amico, e intendo liberarti da tanti guai...”
“Davvero?”
“Davvero.”
— E qui cominciò tra loro un colloquio a voce bassa, nel quale lo incognito parve, dai gesti che faceva, proponesse al Canacci qualche cosa di enorme, perchè questi accennava risoluto di no; ma lo incognito sempre addosso con parole ardenti ed atti concitati; e il Canacci cominciava a balenare, poi pareva si accomodasse: alla fine, piuttosto per non mostrare troppo facile sconfitta, che per opporre resistenza vera, osservò:
“Ma il paretaio del Nemi?”
“Coteste reti prendono le lodole, non le aquile: le leggi sono tela da ragnateli; le mosche rimangono, i bovi le rompono...”
“Se l’essere bue bastasse, io mi terrei fatato meglio di Orlando; ma, e quelle quattro schiappe?”
“E’ ti saranno rese quattro volte tanto...”
“Sì eh? nel paese dei Baschi o di Bengodi, ove le montagne sono di formaggio parmigiano?”
“No; su quel di Massa, con vigne ed oliveti, che fanno olive grosse come castagne...”
“Anche uno scrupolo! — Cacciarla così ex abrupto nell’altro mondo, come un pallon grosso in guadagnata...!”
“Diavolo! faremo le cose da cristiani; le daremo tempo d’acconciare bravamente, a modo e a verso, le cose dell’anima. Parola di Margutte! Ma ormai è tempo che tu venga a parlare da te stesso con Madonna.”
“Oste! — págati...”
E gettò uno scudo d’oro di Massa su la tavola, che l’oste prese divotamente con due dita, avendosele prima ben forbite al grembiule, e contandogli il resto parlava:
“Colendissimo padrone mio! Ora che ella ha saggiato del mio buon vino, non mi faccia torto. — La ci degni della sua persona: troverà gentiluomini piacevoli, e da pari suo. — Questo è uno scudo d’oro di Massa, n’è vero? Ecco qua le armi — Cybo, Medici e Malaspina; — glielo baratterò meglio che in zecca.” — Ed avvertendo come lo incognito non gli badasse, aggiungeva: — “Di grazia, illustrissimo, la badi qui, che dal gran fuoco l’ho le traveggole; e per cosa al mondo i’ non le vorrei affibbiare moneta scadente, — molto più che adesso sono spariti quei bei pavoli barile del duca Alessandro di eterna memoria:[18] — crazie, che le paiono scaglie di muggine... — Tre giuli ella spende, e sette dieci: — ogni cosa muta in questo mondo: — guardi! e sei, sedici: — tutto peggiora: — e mezzo, sedici e mezzo, che a tanto le ragguaglio il suo scudo.” — E così favellando s’ingegnava a divertire l’attenzione dello straniero, vuotandosi intanto le tasche di quante crazie rotte e monete tosate vi aveva raccolto da anni a questa parte.
Margutte, stesa la mano su quel mucchio di moneta disperata, sogghignando rispose:
“Oste, molto maggiore Santo che non se’ tu ha detto — Quello che fu sarà, — ed io ci credo. Vedi. — Una volta certo oste, come te, mi barattò uno scudo d’oro di Massa lire undici, e queste lire me le rese in moneta che scapitava d’un quarto. Tu hai cominciato come il tuo collega a cambiarmi lo scudo per undici lire, mentre in zecca danno bene undici lire, ma di oro, le quali con l’aggio del sette per cento fanno undici lire, soldi sedici e denari sei, in moneta di argento.[19] — Adesso vediamo la tua moneta...”
“L’avverta ch’i’ ho le traveggole... io l’ho tenuto avvertito.”
“Senza fede! Ve’, che ferriera! — Apprendi, oste, che allorquando il tuo diavolo nasceva, il mio andava ritto alla panca. — To’, — ed impara...” E stretto nel pugno il mucchio glielo gittò nel viso, aggiungendo: — “questa è la mancia!”
E si alzò conducendo seco il Canacci.
L’oste trasognato lo accompagnava fino all’uscio col berretto in mano, non sapendo dire altro, che:
“Illustrissimo, si persuada... — le traveggole....” E quando si fu bene assicurato che era lontano, asciugandosi la fronte mormorò:
“A casa del diavolo! — che già deve essere casa sua.”
Da quella sera in poi non fu più veduto il Canacci.
IX.
L’ultimo dell’anno 1637 la nebbia ingombrò così grave e insistente le vie di Firenze, che dalla densità in fuori pareva la cenere di Pompei. Poco si distinse il giorno dalla notte, e verso le ore ventitrè d’Italia già era buio fitto. Allora certe sinistre figure imbacuccate nei tabarri presero a scorrere la via dei Pilastri, borgo a Pinti ed altre strade vicine. Alcuni di questi scherani portavano sotto al ferraiuolo la lanterna, e quando passava qualche borghese alla spicciolata, gli erano addosso e gli mettevano la lanterna alla faccia per bene riconoscerlo. — Se il povero borghese rimanesse senza fiato non è da raccontare. — Votandosi a tutti i suoi Santi, egli allungava le gambe, conciossiachè la città andasse da stragi quotidiane funestata. Di rado passava notte, che la campana della Misericordia non risvegliasse e atterrisse i cittadini, i quali però, recitata una breve orazione per l’ammazzato, davano una giravolta per il letto, e nuovamente si addormentavano. Le leggi tacevano: le case magnatizie salariavano ostensibilmente sicari, bravi e scherani, di cui lo ufficio consisteva nel distribuire di buone pugnalate alla bruna su lo svoltare del canto a coloro che avevano incorso la disgrazia del nobile padrone che li nudriva. — Io dirò cosa incredibile, e vera: Ferdinando II, non che altri, manteneva bravi ai suoi stipendi, e tra gli altri quel sì famoso Tiberio Squilletti, comunemente chiamato Fra Diavolo, ed anche Fra Paolo, perchè apostata dall’Ordine di San Francesco; il quale all’ultimo si fece ribelle, ruppe le strade, invase, uccidendo e predando, la stessa Firenze, e finalmente preso, consumò la vita nelle carceri del Bargello.[20]
Alle dieci ore di notte, una carrozza senza stemmi tirata da due poderosi cavalli giunse in borgo a Pinti, e si fermò sul canto dei Pilastri, accostandosi al muro quanto meglio poteva. Subito dopo una persona larvata con maschera di velluto affacciò il capo allo sportello, e trasse da certo arnese di argento un fischio acuto. Si sentirono passi accelerati, ed un grande uomo incamuffato giunse affannoso alla carrozza.
“A che ne siamo, Margutte?”
“Bisogna aspettare... l’amico è in casa.”
“Da molto?”
“Di prima sera...”
“Ah!” La maschera tratto un sospiro profondo tornò a gittarsi dentro la carrozza.
I fischi si succedevano con frequenza, e l’uomo pronto sempre correva, e la persona sempre lo molestava con domande impazienti, ond’egli spesso mormorava tra i labbri:
“Al diavolo la indemoniata!”
Poco prima di mezzanotte il duca di San Giuliano uscì di casa Canacci. Volle la Caterina accompagnarlo quella sera in fondo alla scala; e su la porta di strada si ricambiarono i nostri amanti l’ultimo bacio. — In verità lo poterono fare senza scandalo, perchè non ci si vedeva. Il duca ratto ratto rasentando il muro arriva in fondo alla via dei Pilastri, e svoltando in borgo a Pinti urta col petto dentro la carrozza quivi fermata. Proruppe in tale una esclamazione, ch’io non la voglio dire: fu per gridare, per chiamare lume, e fare il diavolo, e peggio; ma poi consigliandosi meglio reputò prudente ritirarsi di quieto:
“Scenda se vuole.”
“Eccomi...”
“Mi porga la mano. — Santa Vergine, come trema!”
“Vieni, e vedrai se tremo.”
“Fuori anche tu...”
E quasi portato a braccia scese un altro individuo, coperto anch’esso di maschera, ma vacillante per paura, o per vino. Appena posto il piede a terra susurrò:
“ In manus tuas... “
Bussano a casa Canacci: — nessuno risponde: — bussano più forte: — traverso il foro si vede comparire un filo di luce, e poco dopo si ascolta una voce:
“Chi batte?”
“Aprite: — sono io.”
“Ah! siete voi, Baccio? — Da sette giorni noi non vi vediamo: — bel modo invero! Madonna Caterina vi ha fatto cercare per mare e per terra.”
Intanto la porta si schiude. — Di una spinta la fantesca cade stesa per terra; appena apre la bocca per raccomandare l’anima a Dio, che la imbavagliolano duramente, — senza pietà.
X.
La Caterina se ne sta giacente sopra un lettuccio, con la faccia rivolta al cielo. La tengono assorta una folla di pensieri e d’immagini rotte, incoerenti, festose e increscevoli, giubbilanti e feroci, siccome avviene a coloro che per abuso di oppio o di betel istupidiscono.[21] — Bene era quella la sua florida sembianza; quella la fronte liscissima, di alabastro, ma da pochi giorni su quella fronte appariva un segno indelebile, e ve lo aveva lasciato il dolore, che l’anima e la fronte dell’uomo solca con istrumenti di fuoco. — Misera! Quanto può tentare creatura per liberarsi dalla ossessione era stato adoperato da lei. Aveva chiamato l’ira della vanità delusa, l’offesa del sofferto inganno, la religione, il rimorso: — nessuna cosa era stata obbliata; non le materne ammonizioni, la benevolenza del coniuge, e nè perfino il pensiero della duchessa infelice consorte, — madre sconsolata. — Tutti questi argomenti raccolti come una schiera ordinata furono opposti alla passione; e l’amore, sgomento dall’improvviso assalto, ridiveniva umile; in sembianza di povero derelitto implorava per carità di vivere di memorie, di nudrirsi di sospiri e di lacrime.
Tal quale — l’Amore, che fanciullino mézzo di pioggia, assiderato dal freddo, domanda ricovero ad Anacreonte: — imperciocchè i Greci i concetti loro suolessero vestire con piacevoli immagini. La filosofia diceva alla poesia: rendimi amabile. La religione alla scoltura: fammi visibile, senza ch’io perda della mia divinità. Ed ecco Anacreonte traeva una freccia dalla faretra di Amore, e incideva le sue canzoni; e Fidia, raccolto oro ed avorio, effigiava ai mortali Giove olimpico. — Felici i Greci!
Di lì a poco l’Amore ingrossava la voce, e prendeva a discutere. Nessuno pensi che i più celebrati sofisti abbiano mai saputo adunare tanta copia d’ingannevoli argomenti, quanti egli ne immaginava e adduceva. Dove quei discorsi si fossero potuti tradurre, avrebbero disgradato Cicerone e Demostene. Cresciuto in forza, l’Amore di sofista diventava atleta: non ragionava, combatteva, e stretti gli avversari nelle potenti braccia, li soffocava. Poi fatto gigante come il Nettuno di Virgilio, che col — Quos ego[22] — comprime i venti imperversati, egli domina col cenno, e regna sull’anima onnipotente tiranno.
Ma l’anima e il cuore ov’era accaduta quella fiera battaglia, ne portavano impresse le tracce che Dio solo può cancellare, versandovi sopra la misericordia dell’obblio.
Nè io già volli difendere la Caterina: — no; — ma soltanto riferire il motivo pel quale non le avrei gettato la prima pietra, e nè la seconda.
La persona dalla maschera di velluto nero fu sopra alla Caterina con brama di falco: la contemplò fissa, ed immobile; poi cava ad un tratto un largo pugnale, e la feriva, se Margutte non l’avesse tenuta dicendo:
“No, — diamole spazio per riconciliarsi con Dio.” — E posta una mano sopra la spalla di Caterina, la scosse leggermente, continuando: “Fate la pace con Dio, perchè i momenti della vostra vita sono contati...”
Balzò in piedi Caterina, fregandosi gli occhi, aprendoli, e richiudendoli con mirabile celerità, temendo di allucinazione; ma Giomo con voce orribilmente pacata replicava:
“Avete sentito? — vi avanzano a vivere cinque minuti...”
“Finiamo!” la maschera nera prorompeva smaniando, e divincolandosi fra le mani di Margutte: “finiamo! — Allo inferno!”
“No; — le dia tempo a recitare l’atto di contrizione. — Se a lei riesce andare in paradiso, Vossignoria si assicura di non incontrarla nell’altro mondo.”
“Ma, e perchè volete uccidermi, signori? Io non vi conosco...”
“Conosciamo voi...”
“Signori, se volete le mie masserizie, le mie gioie, tutto quanto è in casa, prendetelo, non ne farò querela, non ne darò parte al Bargello, ve lo giuro per la morte del nostro Redentore...”
“Noi non siamo ladri: e rammentatevi che due dei cinque minuti sono passati.”
“Ma perchè macchiarvi le mani nel sangue di una misera donna che non vi conosce, e che voi non conoscete? — Non avete madre? — non moglie? — non figli? — Non credete voi in Dio?”
“Pensate voi ad aggiustare i vostri conti con Dio: ai nostri penseremo noi, e soprattutto rammentatevi, — tre dei cinque minuti essere già passati...”
“Ma io non sono preparata... ma io non posso morire... non sono mica inferma io! Mi sento piena di vita; io ho bisogno di vivere...”
“E bisogna morire!”
“Morire, eh! È una parola morire; ma non immaginate voi il dolore e il terrore di simile morte? — Consumata la vita, cadute tutte le illusioni che la fanno bella, riconciliati con Dio, confortati da un santo sacerdote, distrutti dalla malattia, accettiamo la morte come una necessità.... Ma io sento la primavera della mia vita... ho bagnato appena le labbra di esistenza... i fiori della mia ghirlanda sono tutti freschi; — io credo in Dio, — credo alla felicità, credo all’amore, e riamata amo... E voi mi volete uccidere? — Io sono contenta, — intendete? — contenta... e voi mi volete uccidere? — In che vi offesi?”
“In che mi hai offeso?” grida la persona dalla maschera di velluto, staccandosela furiosamente dal volto: “io sono donna Veronica Cybo, moglie del duca di San Giuliano. Ora puoi tu domandare se mi hai offesa? Abbassa gli occhi, svergognata, e non ardire fissarmeli in faccia. — Io era la madre del povero; — io soccorrendo alle tapine donzelle le salvava dal disonore: — ora caccio via, imprecando, il mendico; nell’altrui obbrobrio mi delizio; esulto nei dolori disperati, e quanto posso gl’inasprisco: — e chi altri n’è colpa, se non che tu? — Placidi furono una volta i miei pensieri, i sonni tranquilli; ora sul mio capezzale trovo la insonnia e il delitto; delirii di sangue sconvolgono il mio torbido cervello: — e di cui la colpa, se non di te? — Aveva un amante, e non l’ho più, — un consorte dilettissimo, e non l’ho più;... per te ho tutto perduto in questo mondo; — per te perderò la salute dell’anima mia; — per te ho percosso, fino a fargli grondare sangue, quello che per nove mesi portai nel mio fianco, — che per diciotto con questo seno allattai, — il mio unico; — il mio dolce figliuolo: — e mi domandi se mi hai offeso? — E perchè sei felice di tutta la mia miseria... tu vuoi vivere? — Tu devi morire, sciagurata, e per le mie mani, e subito...”
All’aspetto di quella feroce, il freddo del coltello passò l’anima della Caterina. Diventò in viso del colore di morte, e concependo per istinto, come ogni scongiuro a lei rivolto sarebbe tornato invano, si prostrò abbracciando disperatamente le ginocchia di Giomo, esclamando:
“Salvami pel sangue di Gesù crocifisso! — Salvami! — Anche alle condannate a morte per orribili misfatti... parricidii... ed altri che fanno fremere la natura, si concede spazio di vivere... quando... quando...” — e qui con ambedue le mani si copriva la faccia diventata di fuoco, — “quando sono incinte.... ed io ancora.... di lui... ho una creatura... qui... nel mio fianco... ed io non lo sapevo ad altra donna consorte... Pietà... perdono... la mia finalmente è colpa di amore...”
Piangeva la desolata, e le ginocchia a Margutte in maniera così compassionevole abbracciava, che lo stesso Margutte sentì la prima volta una agitazione di stomaco, — non voglio dire di cuore. — Ond’è, che piegatosi all’orecchio della duchessa mormorava:
“Essendo gravida...”
“Tanto più muoia...”
“Presto, salviamoci!” irrompendo nella stanza esclama un uomo intabarrato: “la Corte si avvicina: l’ho incontrata qui dagli Angioli, e vengo a gambe per darvene avviso.”
“La Corte!” ripete Margutte; e volgendosi al sopravvenuto lascia il braccio della duchessa.
La duchessa trovandosi la mano libera, abbassa lo sguardo, e vede il bel seno palpitante e bianco della genuflessa: — accompagnandolo col peso della persona, cieca di rabbia, vibra un colpo, che ferì la Caterina su la fossetta della gola, e penetrando il coltello nel tronco, le toglie la favella per sempre.
Si alzò come molla che scatti; tese la infelice le mani, si provò a parlare, — ma la gola non aveva più voce, sebbene singulti, e ad ogni singulto prorompeva gorgogliando un fonte di sangue dalla immane ferita.
Margutte, quando vide quel miserando spettacolo, ne sentì — a modo suo — pietà; cavò il coltello, e disse:
“Ormai meglio è finirla!”
E le passò il cuore!
Caterina traballa un istante, come donna presa dal vino; due o tre passi indietreggia, e stramazzando cade sopra Bartolommeo, che da capo a piedi ricuopre di sangue.
Bartolommeo, come Giuda, aveva venduto a donna Veronica cotest’anima, e come Giuda codardo gli mancano sotto le gambe, vacilla anch’egli, e trabocca svenuto sul cadavere della Caterina, sicchè male si distingue la tradita dal traditore.
Di lui non curano i sicari: smorzati i lumi si pongono in salvo.
Se non che Giomo udendo rovistare qualcheduno, si ferma con sospetto, e severamente comanda:
“Fuori!”
E la duchessa, poichè era ella che tardava, risponde:
“Aspetta un poco, che vengo...”
“Aspetta...? — E la Corte?”
“Lasciala venire...”
“E se ci trova, e impicca...”
“A te la corda, villano... — Io sono duchessa...”
“Sta bene. — Ma venite dunque, od io me ne vado... che cosa diavolo fate costà...?”
“Eccomi.”
“Che cosa diavolo avete fatto?”
“Silenzio! — Andiamo.”
XI.
Il capo dell’anno gala in Corte.
Nè dalla sola Firenze, ma da tutte le città del granducato, baroni, cavalieri e personaggi di grandissimo conto accorrevano per augurare a Ferdinando II fausto l’anno incipiente, con una serie di altri felicissimi, per la felicità dei sudditi felicissimi, e per la prosperità degli Stati prosperosissimi. E Ferdinando II, che conosceva come quei voti si dipartissero proprio dal cuore, è fama che per tenerezza piangesse, e a rimanersi quanto più lungamente poteva in hac lacrymarum valle si rassegnasse.
Fatti, ed accettati gli auspicii, andavano a messa, ove il concerto dei più valorosi suonatori e cantanti, che in cotesto tempo fiorissero, apriva agli assistenti le gioie del Paradiso.
Quindi di nuovo colloquii e favellii nelle sale granducali: finalmente, come era per noi avvertito di sopra, un desinare magnifico.
Baroni e cavalieri quanto meglio potevano s’ingegnavano comparire in Corte con vesti oltre ogni credere sfarzose; conciossiachè, sebbene i tempi quel lusso smodato consentissero, il principe ancora lo promuoveva pensando sovvenire in qualche maniera le industrie cittadine.
Iacopo Salviati, di persona egregiamente formato, di sembianza piacevole, di ogni bene di fortuna largamente provvisto, onoratissimo in Corte, per eccellenza di gusto celebrato e come modello additato, pensate un poco se in quella assemblea del fiore della nobiltà volesse rimanere agli altri inferiore, e a se stesso!
Appena aperti gli occhi, temendo avere tardato, si precipita giù dal letto suonando a furia pei servi.
E questi accorrono vestiti a festa tutti giulivi, esclamando in coro:
“Illustrissimo signor duca, buon capo di anno.”
“Grazie! e a voi pure altrettanto. — Maggiordomo, questo anno darete mancia doppia a tutti. — Mi sento felice!”
“Viva il magnifico messer Iacopo.”
“Basta: andate; mantenetevi buoni e leali come foste fin qui. — Valentino, adesso a noi: tu mi devi far bello stamani... io vo’ oscurare tutti in Corte. — Vediamo! — I maestri hanno riportato le robe?”
“Illustrissimo sì. Ecco: il piumaio le ha recato il cappello...”
“Bene. — Abbassa un poco la piuma, e fa di mettervi in mezzo la mia bella rosetta di brillanti. — Il doratore?”
“Anch’egli ha mandato gli usatti.”
“Questi usatti di cuoio dorato a mordente devono fare bellissima figura, in ispecie poi con questi speroni di oro brunito.”
“Il gioielliere dice avere vegliato tutta la notte per fornire la veste, e le si raccomanda pei garzoni: — veda un po’ se abbia incontrato il suo genio.”
E gli spiegava la veste davanti. — Chi mai potrebbe ai giorni nostri immaginare la sterminata ricchezza di cotesta veste? Ella era composta di broccato di oro, ricamata in rilievo a fiori, e in mezzo ad ogni fiore l’artefice industre aveva collocato una perla; intorno al collarino e alla estremità delle maniche ricorrevano due fila di diamanti; in petto, composta di brillanti e di rubini, appariva la croce di Santo Stefano papa e martire. — Insomma e’ bisognava abbassare gli occhi dinanzi a tanto splendore.
“Bellissima!” quasi tolto fuori di sè dall’allegrezza esclamava il cavaliere: “darai ai garzoni quattro ducati perchè se li godano per amore mio. — Lo speziale ha egli mandato l’acqua nanfa, e l’unguento di ambra grigia?”[23]
“Illustrissimo sì, ed ha mandato ancora i guanti profumati di bucchero...”
“Porgi qua, Valentino. — Sentiamo! — Poteva essere più forte questo bucchero, ma passerà.”[24]
Mesciuta larga copia di acqua nanfa, il duca più e più volte se ne asperse le membra. Terminato il lavacro, ed asciugatosi diligentemente con finissimi ed odorosi pannolini, si pose a sedere chiamando:
“Valentino, adesso sta a te: acconciami i capelli...”
Correva in quei tempi lo strano costume di portare voluminose parrucche con i ricci pendenti, di cui due lembi a modo di stola pendevano lungo il petto, ed un altro a suo bell’agio folleggiava dietro le spalle. Il duca Salviati bene assentiva al costume, senonchè ornato di copiosa capelliera repugnava deturparsi sotto una immane parrucca composta di capelli di morto; portava pertanto i bellissimi suoi, ed era in lui mirabile pregio quello che in altri compariva schifosa sconcezza.
Il valletto col pettine di avorio, col calamistro scaldato scompartiva e arricciava i capelli, ma tanto grande agitava la impazienza il Salviati, che ad ogni tratto movendosi faceva sì che il valletto ora gli toccasse col calamistro la pelle, ora col pettine gliela graffiasse. — Certo non era sua la colpa; ma il valletto, come colui che da lungo tempo era uso a servire, sapeva i padroni non avere mai torto; ond’è che ogni qualvolta il duca co’ suoi moti lo impediva, dicesse:
“Domando umilmente perdono...”
E il duca, per quel giorno di sangue dolcissimo, o si mordeva il labbro, o percuoteva del piede la terra, ma senza ira ammoniva:
“Un’altra volta badaci: — non è nulla, fa presto.”
“Illustrissimo signor duca, madonna la duchessa le augura buon capo di anno, e le manda il canestro delle biancherie.”
“A tempo veniste; — le direte da parte mia, che gran mercè; — e ci rivedremo a Corte.”
Il valletto s’inchina, e depone sopra una tavola il canestro.
Nobile arnese di casa Salviata, e per giudicio degl’intendenti universale attribuito al Cellino, era quel canestro, composto di filo di argento, lavorato sottilmente a trafori, con bei mascheroncini e cascate di frutti, fiori e nicchi di mare con singolare vaghezza intrecciati a nastri, fronde e spighe, che facevano maraviglia a vedersi, tanto bene imitavano il vero.
Le biancherie poi formavano principalissima parte del vestire di allora. Oltre alla camicia di rara finezza, usavano portare collari immensi, e manichetti di trina. Non si crederebbero gli enormi prezzi coi quali questi fragili lavori si acquistavano, e per altra parte (ove i pittori, in specie fiamminghi, co’ pennelli loro non ce ne avessero conservata memoria) non si crederebbero gli eletti magisteri co’ quali venivano stupendamente condotti. Le Fiandre in siffatto commercio inestimabile quantità di moneta adunavano, e sebbene fino da quei tempi altri popoli avessero incominciato ad attendere a simili industrie, pure nè allora nè poi, i Fiamminghi furono mai da nessuno superati.
Però le tele e le trine dalla duchessa inviate al nobile consorte non venivano di Fiandra, sibbene di Svizzera. — L’eminentissimo cardinale Odoardo Cybo essendo Nunzio Apostolico presso la Repubblica Elvetica, fu presentato di un magnifico camice di tela; ma il buon prelato, schivo di cose mondane, ne aveva fatto dono alla duchessa Veronica sua sorella, e questa ad ogni costo volle che ridotto in collari e in manichetti adornasse il dilettissimo consorte.
Ed è anche bene avvertire, come le donne in quei tempi, quantunque di alto lignaggio, non aborrissero prendere cura delle biancherie; sicchè quello di mandare il canestro al marito co’ panni da festa non era costume particolare alla principessa Veronica, sibbene generale comune a tutte le madri di famiglia.
Il signore Iacopo nel guardare quelle biancherie, che giorni più lieti del suo amore per la duchessa gli rammentavano, e forse anche dei suoi falli lo riprendevano, non potè fare a meno di esclamare sospirando:
“Povera Veronica! Eppure mi ama... anch’ella...”
“Illustrissimo, è lesto.”
“Vediamo! — Tirami innanzi questo riccio; — così; — bene. Raccogli questi capelli dietro l’orecchio. — Adesso con garbo tienmi fermi i capelli, che non mi si arruffino mentre passo la camicia.”
Sempre tenendo gli occhi fissi nello specchio, il duca allunga la mano al canestro, ove con diligenza remossi i primi e più sottili pannilini, la insinua per trovare la camicia: mentre si adopra in simile ricerca, ecco gli s’impigliano le dita in certa materia molle, che sembra al tatto seta greggia: maravigliando si volge, e vede appunto una ciocca di fili finissimi e biondi, come di seta.
Una stretta di ferro gli comprime il cuore: libera impetuoso la testa dalle mani del servo, per modo che l’acconciatura laboriosa dei capelli va in un istante perduta; si curva palpitante, da un lato getta e dall’altro i vari capi della biancheria, e gli si presenta in fondo del canestro...
Ohimè! La testa recisa di Caterina...
Dopo nove ore di terribili convulsioni Iacopo Salviati aperse gli occhi, gli girò immemore attorno, e vide i servi costernati affaticarsi a tenerlo fermo nel letto. — Richiuse gli occhi, corrugò forte la fronte per raccogliere le idee, e al rammentarsi dell’atrocissimo caso, balza di un gran salto sopra la spada, e gittatone via il fodero irrompe tempestando nelle stanze della duchessa.
Madonna Veronica, scortata da otto bravi e da Margutte, si era posta in salvo riparandosi a Massa presso suo padre, l’illustrissimo[25] signore Carlo I.
La città e la corte rimasero lungamente atterrite non solo pel delitto, che pure era in sè atroce, quanto per le circostanze di cui aveva saputo circondarlo la immanissima donna.
La tela di ragno della Giustizia prese mosche. — Di tanti colpevoli, ad uno solo le riuscì mettere le mani addosso, e fu Bartolommeo Canacci, trovato il giorno di capo d’anno giacente sopra il tronco infelice della matrigna Caterina. Vinto da immenso spavento alla sola vista degli strumenti della tortura, rivelò subito tutti i più secreti particolari del delitto, esponendosi in questo modo per amore delle braccia a certissimo pericolo di perdere la testa. E di vero, poco dopo su la porta del Bargello lo decapitarono. Quando il carnefice, afferrata pei capelli la infame testa, la mostrò alla plebe, questa la salutò con urli, fischi, e con avventarle contra di ogni maniera immondezze.
Il signore Iacopo prese a viaggiare per lontani paesi; ricercò straniere nazioni: ma la lama tagliava il fodero: egli portava la morte nell’anima. La natura, gli uomini, gli vennero in fastidio, e se stesso; alla fine si ridusse a morire a casa. Quando scese di carrozza, i suoi più familiari amici e servitori durarono pena a riconoscere in uno scheletro livido, piegato a mezzo, con gli occhi pesti, male su le gambe reggentesi, quel così splendido cavaliere Salviati, orgoglio ed amore della Corte Toscana.
Quotidiane e compassionevoli supplicazioni della duchessa; istanze caldissime del principe Carlo, dei cardinali Alderano e Odoardo, di Ricciarda Gonzaga, di Maria dei Pichi della Mirandola, e degli altri fratelli e sorelle di lei; le mediazioni di principi italiani, e per fino l’autorità del Sommo Pontefice Innocenzio XI, non valsero a rimuovere il duca dal fiero proponimento di non mai più rivedere, nè perdonare la moglie. — Di lì a poco scese pieno di amarezza nel sepolcro dei suoi padri.
Cinquantaquattro anni dopo il triste caso da noi raccontato, una femmina decrepita, vestita a lutto, col volto intieramente nascosto entro un cappuccio di seta nera, appoggiandosi sul braccio di un uomo del pari vestito di nero, ugualmente estenuato dagli anni, appena la campana annunziava l’ Ave Maria del giorno si recava a stento nella chiesa di San Francesco della città di Massa, e quivi prostratasi davanti l’altare maggiore dimorava fino all’ora dell’ Angelus. Tornava a vespero, nè quinci si toglieva finchè l’Ostiario con molta reverenza le si accostando non le annunziava che la chiesa stava per chiudersi.
Certo giorno non venne, — perchè nella sala del palazzo dei principi Cybo il suo corpo diventato cadavere, sopra un letto magnifico era esposto alla contemplazione dei popoli accorrenti.
I popoli l’ebbero in concetto di santa; la quale opinione sempre più si confermò, quando videro consumato il marmo del pavimento dove da cinquantaquattro anni soleva mettersi in ginocchioni a piangere il commesso peccato, e si sparse la fama delle sue penitenze, e fu mostrato un doloroso cilizio, che le poterono rimuovere dai fianchi soltanto il giorno della sua morte.
Per la qual cosa, quando la sera con nobile e ricca accompagnatura di chierci e di gentiluomini, con immensa quantità di lumi, fu trasportata nelle tombe dei suoi maggiori nella cappella sotterranea dei principi Cybo Malaspina, costruita nella chiesa di San Francesco dal marchese Alberico Cybo, beato si teneva colui che giungesse a baciarle un lembo delle vesti, o a toccarla con medaglie, brevi e corone.
Quando il coperchio di marmo fu calato sopra la sua arca funeraria, — quando i canti si allontanarono e i lumi scomparvero, — il centenario compagno della duchessa Veronica si mosse vacillando da un angolo del sotterraneo, guardò con sospetto dintorno, e appoggiò quindi la fronte di contro al marmo del monumento. Molte furono le ore in ch’egli stette assorto da profonda meditazione: la campana dell’orologio battendo mezza notte lo trasse da cotesto stato; si scosse, e levate piangendo ambe le mani verso il cielo, esclamò:
“Anima di Veronica Cybo, se il vostro pentimento vi ha ottenuto grazia di salire al cielo, pregate Dio, — oh! pregatelo che voglia perdonare anche a me, che vi fui compagno nell’atroce misfatto.”
Cotesto uomo era Margutte.
APPENDICE.
Questo atrocissimo fatto, con pienezza di particolari che nulla lasciano a desiderare, ho trovato scritto nella Cronaca delle Cose Fiorentine pubblicata per opera dell’egregio signore conte Carlo Morbio, diligentissimo ricercatore di Memorie patrie. Io lo referisco qui in Appendice perchè si conosca che perfino la gravidanza della infelice Caterina non fu immaginata, ma pur troppo vera. È certo che in varie circostanze il mio Racconto differisce dalla Cronaca del conte Morbio; ma io leggendo e confrontando varie carte ho tolto quello che mi parve più verosimile.
«Fu non ha molto in Firenze un gentiluomo della famiglia Canacci, detto Giustino, di sì poco senno, che quantunque della sua moglie già morta gli fussero restati due figliuoli grandi, e che egli si trovasse d’età di circa settant’anni, si risolse non di meno di passare alle seconde nozze, accompagnandosi con una giovanetta, benchè inferiore alla di lui condizione (essendo ella nata d’un tintore che teneva la sua origine da uno de’ castelli del Casentino), dotata però di non ordinarie bellezze, la quale aveva nome Caterina. L’età del marito, le tenui entrate d’esso, e le altre sue odiose qualità, essendo egli uno dei brutti, svenevoli e men puliti uomini che fussero all’ora in Firenze, diedero animo a molti di vagheggiarla, onde non mancorno instigatori, nè sollecitatori alla Caterina, la quale, ancorchè palesemente menasse una vita assai modesta, dopo non molto tempo cedendo agli assalti, condiscese a compiacere alcuno dell’amor suo. Tra quelli che segretamente s’internavano nella sua grazia et amicizia furono due giovani Fiorentini che ancor vivono, cioè Lorenzo di Iacopo Serselli, e Vincenzio di Matteo Carlini, il quale con l’età mutato abito e costumi si ritrova al presente spedalingo et amministratore dello spedale di Bonifazio di Firenze. Erano questi due giovani assai familiari del sig. Iacopo Salviati, duca di San Giuliano, il primo personaggio (trattone il principe del sangue e della casa serenissima de’ Medici) che per chiarezza di sangue, per ricchezza, e per altre sue riguardevoli qualità fusse allora, o sia ancora nella nostra città, e tale in somma, che pochi anni prima s’era congiunto in matrimonio con donna Veronica, legittima figliuola di don Carlo Cybo, principe di Massa di Carrara. Era questa signora dotata di mediocre bellezza, et oltre a ciò cotanto altera e superba, che, o per natural ritrosia, o per altra cagione, non voleva coricarsi con il marito, o sì vero a suo talento, e quando a lei piaceva, e, come noi usiamo di dire, a punti di luna. Questo strano modo necessitò il sig. duca, ancora assai giovane, a procacciarsi talora qualche piacere amoroso fuori di casa; al che veniva bene spesso aiutato dal capitano Cosimo de’ Pazzi, detto per sopranome il semplice, e da alcun altro suo famigliare, che di quando in quando segretamente s’introducevano nel suo palazzo, e gli conducevano alcuna femmina con cui egli si sollazzava; ma in ultimo, ammesso dalli sopradetti due giovani suoi famigliari alla pratica della Caterina, bene spesso si ritrovava con lei, servendosi (per non dar sospetto alla moglie) di pretesto e di scusa, per albergare fuori di casa, di frequentare una delle compagnie notturne, che in Firenze comunemente son dette buche, intitolata in Sant’Antonio, che s’aduna in Pinti; dalla quale bene spesso uscendo a qualche ora di notte, se n’andava a casa della Caterina, che molto non era lontana, cioè in via de’ Pilastri vicino alla piazza di Sant’Ambrogio, a mano destra, andando verso la detta piazza.
»Ma non potè egli continuar questa pratica, quantunque cautamente e con segretezza si governasse, che la duchessa (che tra l’altre sue virtù haveva anco in superlativo grado quella della gelosia) non ne venisse in cognizione, e non se ne tenesse gravemente offesa. È fama (il che io non ardisco affermare per vero), che entrando una mattina la duchessa in San Pietro Maggiore ove per avventura si ritrovava ancora la Caterina, da lei di vista molto ben conosciuta, quasi paresse semplicemente et a caso, postasele con destrezza a canto, le accennasse in poche, ma pesanti parole, che non ardisse mai più di dar pratica al duca suo marito, minacciandola, se seguitasse, di fiera vendetta; a cui rispondendo la Caterina forse con più baldanza et ardire di quello comportava la sua condizione, accese vie più lo sdegno di quella signora, accelerando per questa via la sua sovrastante rovina. Onde ingolfandosi più che mai il duca nell’amorosa pratica di costei, e dispostasi la duchessa di troncargliene il filo, è fama che da principio tentasse di farla avvelenare; ma ciò non riuscitole, e volendo pure del torto che le pareva di avere farne una segnalata vendetta, venne ad eseguirla con tanta crudeltà e barbarie, che ben veramente potrei dire essere stata fatta alla genovese; et il modo fu questo. Procurò ella (per quanto in quel tempo si disse, e pare verisimile), per mezzo di qualche suo confidente et intimo servitore, d’avere a se segretamente Bartolomeo e Francesco fratelli, e figliuoli di Giustino Canacci, giovani di 24 in 25 anni, i quali se non abitavano, almeno frequentavano assai la casa della matrigna; con i quali avendo lungo discorso, è verisimile che rappresentasse loro la licenziosa vita di essa, e l’ignominia che perciò faceva a loro et alla posterità, et insieme l’obbligo che havevano come persone ben nate di liberarsene, e levarsi costei dinanzi, promettendo loro, quando si risolvessero, a dar loro ogni assistenza nell’esecuzione, et assicurandoli ancora d’una gagliarda protezione, con la quale li haverebbe tratti d’ogni pericolo in cui per tal impresa fussero potuti incorrere. E perchè erano poveri giovani, promise loro un continuo sovvenimento ne’ loro bisogni.
»Non è ben certo, appresso di me, se questo discorso della duchessa fusse fatto ad ambedue i giovani, o solamente a Bartolomeo ch’era il maggiore, e che, come mostro l’esito della cosa, si ritrovò presente a quanto di poi successe, e rigorosamente pagonne il fio; ma comunque s’andasse il fatto del discorso, o ad ambedue o ad un solo, egli è pur verisimile, e si credette, e si disse pur anco in quel tempo, che sul principio tal proposta parve loro molto strana, e che tentassero con destrezza di liberarsene; ma che replicate più volte l’istanze, e l’offerte accompagnate su l’ultimo (secondo si disse) dalle minacce, condescese almeno Bartolomeo a dar mano, o almeno ad esser mezzano et instrumento che in casa della matrigna fossero introdotte quelle persone che alla duchessa piaceva per effettuare in apparenza la loro, ma in sostanza la di lei vendetta. È stato concetto d’alcuno, che uno dei principali motivi che disponesse Bartolomeo Canacci a cooperare alla morte della matrigna, fosse la repulsa havuta da lei, ricercata dell’amor suo; il che sì come per altri esempj e casi seguiti et accaduti assolutamente non niego, ma in parte dubito non possa anco essere, perchè non pare verisimile che, passati tra di loro questi disgusti, fosse il detto Bartolomeo di poi ammesso con tanta facilità a praticar la casa della matrigna, e se ne sarebbe in quel tempo favellato lungamente, il che non mi sovviene che seguisse; ma comunque s’andasse il fatto, fermato con Bartolomeo e Francesco questo punto, fece la duchessa segretamente venire da Massa tre o quattro assassini, o sicarj come chiamare si vogliono, il che per mezzo del principe suo padre o di alcuno de’ suoi fratelli fu a lei molto ben facile, i quali condotti alla spicciolata, per non essere osservati nè dar sospetto, furno da lei fatti trattenere tanto che si maturasse il tempo, e si aprisse la congiuntura d’effettuare il suo fiero proponimento, al quale fu data esecuzione la notte del 31 dicembre 1638, se non m’inganna la memoria, secondo che si disse, in questo modo. Intorno alle ore tre di notte, Bartolomeo Canacci, et i sicarj addietro scritti, picchiò l’uscio della casa della madrigna, e gli altri se ne stavono in disparte dall’altra banda della strada per non essere osservati, aiutati e favoriti dall’oscurità della notte. Così Bartolomeo picchiato alla porta della casa, gli fu risposto da una fanciulla dalla finestra; e domandato chi era, e rispondendo egli “amici,” e riconosciuto alla voce, gli fu subito tirata la corda; onde aperta la porta, et entrato dentro, e dietro a lui quei manigoldi, salirno con tanta furia le scale, che Lorenzo Serselli e Vincenzo Carlini, (che allora erono ivi a trattenersi con la Caterina, e che dallo strepito, dubitando alcuno d’alcuna cosa, s’erono già levati in piedi) furno a pena a tempo quando quella gente con arme nuda alla mano cominciorno a comparire su la scala, e fuggendosene su per un’altra scala per la quale si saliva alla parte superiore della casa, come ben pratichi scapparsene su per le tetta, per entrare in altra casa contigua, e così dall’imminente pericolo salvare la propria vita.
»Fu la povera Caterina da quelli spietati et esecrandi ministri della barbara crudeltà della duchessa miseramente trucidata, insieme con la sua fante, forse perchè ella non potesse dar notizia del fatto e palesare gli esecutori; togliendo in un medesimo tempo la vita a lei et ad un’innocente creatura, che poco prima haveva nelle sue viscere concepita la Caterina, essendo ella quando gli fu tolta la vita gravida di tre mesi; dopo di che, squartati i corpi delle misere donne, in pezzi furno tacitamente cavati di quella casa, e con l’aiuto d’una carrozza, che su il fatto o poco dopo si fermò avanti alla porta di quella, furono portati via, e parte gettati in un pozzo che ancora si vede all’entrare di via Pentolini, dove ella fa cantonata su la piazza di Sant’Ambrogio, e parte in Arno, dove il giorno appresso furno trovati e riconosciuti, eccetto però la testa dell’infelice Caterina, che da alcuno di quelli esecrandi carnefici fu portata alla duchessa per accertarla dell’esecuzione, o pure per essergli stato così ordinato da lei, per dar compimento a questa tragedia, nel modo che appresso si sentirà. Furno questi particolari in parte veduti dal Carlini e dal Serselli, i quali prestamente usciti di casa, nella quale per lo scampo s’erono ricoverati, picchiando ad un’altra casa quasi di rimpetto a quella di Caterina (dove abitava una famosa ruffiana loro conoscente, che ancor vive, benchè in età assai grave, e chiamasi la zia Nannina, zia della Margherita, della Brenca, e della Bettina, tre delle più celebri cortigiane de’ nostri tempi, dette le cicce ), fu loro tostamente aperto, onde saliti in sala poterno da una finestra socchiusa, senz’esser veduti, vedere e sentire buona parte de’ casi da me addietro descritti, per mezzo de’ quali s’è poi avuta piena notizia. Era solita la duchessa di mandare la domenica mattina et altri giorni festivi in camera del suo marito, per una sua damigella, entro un bacile d’argento i collari et i manichini con altre cose simili, che egli costumava di mutare e rinnuovare in quei giorni; ma in quello, che fu il primo gennaio, solenne tra i cristiani, per celebrarsi la memoria della circoncisione del nostro Signore Gesù Cristo, e per essere secondo il rito di santa Chiesa romana primo dell’anno, fu il presente molto diverso; perchè la signora duchessa, presa la testa della povera Caterina, che, così morta, conservava gran parte di quella bellezza ch’era stala cagione della sua morte, e postala nel bacile, e copertala con un drappo usato, fu dalla solita damigella (non consapevole di quello che le sue mani portavano) mandata in camera del duca, e posta nel solito luogo. Levatosi egli dal letto, et alzato il drappo per adornarsi de’ consueti abbigliamenti, pensi qui ciascuno qual orrore l’arrecasse la novità di quello spettacolo, all’inaspettata e miserabil vista di quell’oggetto tanto da lui teneramente amato! quali fussero le doglianze, l’esclamazioni, i lamenti mandati fino al cielo, e quale in somma il dolore, l’angoscia, e le lagrime che sopra l’amata testa della sua adorata donna egli sparse, il che non è mio pensiero descrivere, potendo molto meglio ciascuno da per se immaginarlo, che niuno con la lingua o con la penna descriverlo. E molto ben consapevole del fine che in quell’azione potesse havere avuto la moglie, acciò ella nol conseguisse, s’alienò talmente dall’amore di quella, che per lungo tempo non volse trovarsi ov’ella fusse; e quando ell’era in Firenze (che di rado è seguito) se n’andava in una delle ville, o a Roma, dove ha la maggior parte de’ suoi beni; e quando ell’andava in alcuno de’ predetti luoghi, se ne tornava a Firenze; onde è fama, o almeno opinione d’alcuno, che mai dopo tal fatto egli sia stato con essa, o carnalmente seco giaciutosi; nè osta a questa opinione la figliuolanza del duca, poichè i figliuoli che di presente si ritrova gli haveva tutti acquistati avanti la morte della Caterina.
»Ma tornando al racconto della nostra lagrimevole istoria, venuta il giorno appresso la giustizia in cognizione di tal eccesso, e ritrovati e riconosciuti i corpi delle misere donne, furno prontamente carcerati Giustino Canacci, Bartolomeo e Francesco suoi figliuoli, et un altro suo fratello di cui non mi sovviene il nome; e quando seguì il fatto era in una villa con la sua moglie, una figliuola fanciulla, un’altra maritata ad un Luigi Tedaldi, et il detto Luigi suo marito. Contro quelli scellerati che havevano manipolata così atroce scelleratezza, o perchè la Corte non avesse così presto notizia di quelle persone, o pure perchè ben presto si salvassero fuori dello Stato, o per qualunque altro accidente, non si seppe che fusse fatta alcuna inquisizione; nè meno contro a chi haveva dato loro ordine, essendo pur troppo vero quello che si dice comunemente, che ai poveri tocca a mantener la giustizia, e che le leggi sono quelle tele di ragni che pigliano le mosche e gli altri piccoli animaluzzi, e dagli altri maggiori son lacerate e rotte. Dunque i suddetti carcerati, cioè Giustino, le figliuole, il genero, et il figliuol maggiore, e la sua moglie, chi prima e chi poi, furno, dopo qualche tempo, come non colpevoli liberati, ma Bartolomeo e Francesco ritenuti, e rigorosamente torturati; de’ quali Francesco, o perchè veramente fusse innocente, e non si fusse trovato a tal fatto, o pure perchè dotato di più prudenza e di miglior fortuna, come si disse, non confessò mai, ei fu non molto tempo dopo ancor egli liberato; ma Bartolomeo havendo, secondo fu fama o vera o falsa che egli fusse, intervenuto a tanto eccesso, fu, a dì 27 novembre di detto anno, decapitato su la porta del Bargello la mattina assai di buon’ora, et il cadavere suo, dopo essere stato buona pezza del giorno esposto alla pubblica vista, fu alla sera al tardi sepolto nella sepoltura de’ suoi antenati, posta dentro all’antica porta principale della chiesa di San Biagio.
»Poco applauso ebbe questa esecuzione della giustizia, restando molto scandalizzati gli uomini da bene che fusse punito di pena capitale il meno colpevole, il quale, come addietro si disse, era stato tirato per i capelli in quell’intrigo, et il quale per essere giovanetto e debole di forze e di spirito (e che per tale era riconosciuto), fu forse per forza di tormenti fatto dire più di quello poteva: e che la duchessa, delinquente ordinatrice e direttrice di tanto eccesso, non avesse altro gastigo che quello le arrecò la propria conscienza e la propria vergogna, che forse è stata cagione che poco o mai, dopo tal accidente, l’abbiamo veduta in Firenze. La serenissima madama Cristina di Lorena, avola del Gran Duca Ferdinando secondo, allora et ancora dominante (principe di grande spirito, e di buona e santa vita, e molto zelante della giustizia), mossa forse dall’atrocità di tanto eccesso ebbe concetto di far ritenere la duchessa, la quale seguito il fatto per levarsi dalla vista del popolo s’era ritirata nella sua villa di San Cerbone in val d’Arno, ma avvisata a tempo del pericolo, partendosene ben presto si trasferì a Roma, e la giustizia senza far contro di lei altra dimostrazione le diede l’esilio, dal quale ancora non molto dopo fu liberata.
»Cotal fine ebbe la barbara inumanità della duchessa Veronica Cybo, moglie del duca Iacopo Salviati; la quale non per odio o malignità alcuna, ma per ammaestramento de’ posteri, è stata da me sinceramente descritta con tutte quelle particolarità che dopo lo spazio di circa venti anni ho potuto rinvenire; il che ho fatto tanto più volentieri, quanto che in quel tempo si disse che la giustizia (se tal nome ella merita) per alleggerire i più grandi et aggravare i più deboli, e così gettare (come si dice) un poco di polvere negli occhi al popolaccio, haveva fabbricato due processi, uno veritiero et un altro composto; che il veritiero rimase occulto, et il composto fu pubblicato. Faccia adunque, chi legge questi miei Ricordi, capitale a suo pro della lettura di essi, et abbia a mente, che siccome tutti i proverbi sono approvati, nel descritto caso notabilmente s’è notificato, et assieme verificato, quello che giornalmente si sente dire, che chi pratica con gran maestri è sempre l’ultimo a tavola, e il primo a’ capestri.
»È fama che la duchessa, non sazia affatto di tanto spargimento di sangue, più che mai inviperita contro il duca suo marito, contro il capitano Cosimo de’ Pazzi e contro Vincenzio Carlini, supposti da lei ministri de’ suoi amori, havesse concetto di far avvelenar quello, et uccidere questi, et egli ne vivesse lungo tempo in gran sospetto, e con estrema cura e diligenza s’assicurò d’ogni mal incontro; e gli altri due, cioè il Pazzi et il Carlini, avvertiti dal duca della cattiva intenzione della duchessa sua moglie verso di loro, il primo, come uomo accorto e pro’ della sua persona, stette molto tempo guardingo, camminando per la città armato; e l’altro, cioè il Carlini, presa l’occasione del signor Ottavio Pucci, al presente ministro di camera dell’altezza eminentissima del signor cardinale Giovanni Carlo di Toscana, che di quel tempo partì di Firenze per viaggiare, e da lui preso in sua compagnia, scorrendo la Francia, la Spagna e l’Alemagna et Inghilterra, stette qualche anno fuori di Firenze.»
NOTE:
1. Discorso intorno al Sublime di Michelangiolo.2. Pag. X. — Nella Viola del Pensiero: Livorno 1839.3. Pag. Ivi. — Edizione del Vannini: Livorno 1839.4. Pag. Ivi. — Tradotta in tedesco sopra la Rivista Viennese, senza nome di Autore.5. Pag. XII. — Elogio di Cosimo Del Fante.6. Pag. XIII. — Varchi, Storie, lib. 2.7. Pag. XV. — «Per ora le maggiori cure sono state rivolte alla razza pecorina, ed essa le ricompensa largamente; sicchè l’esempio dei più solleciti mandriani stimola gli altri, e le lane son più fini ed abbondanti. Questo rapido perfezionamento si deve all’intelligente munificenza dell’ottimo Leopoldo Secondo: il quale fino dall’anno 1837 fece trasportare, dalle sue signorie di Boemia alla sua privata tenuta della Badiola, un gregge di 230 pecore merine legittime, belle per forme e ricche di finissimo vello. Questo gregge fu destinato a produrre i padri per gl’incrociamenti colle pecore nostrali, e così migliorare le vecchie razze. Quindi i maschi tutti di questo gregge sono stati e donati e venduti per padri alle diverse masserie della Maremma; in specie alla numerosa masseria dell’altra Reale Tenuta dell’Alberese. La riproduzione è stata grande, grande il progresso.
»Già si vedono molte migliaia di pecore meticce di lana perfezionata; già da queste meticce, accoppiate sempre con merine legittime, sono nate pecore che per la loro forma e per la finezza della lana si confondono colle merine legittime; e le vincono in questo, che sono perfettamente acclimatate, e non risentono quindi il minimo danno dall’esser munte e dallo stanziar continuo all’aria aperta in qualunque stagione dell’anno. Così noi possiamo dire che indigena assolutamente è omai questa preziosa razza di pecore, mentre con i ripetuti incrociamenti dei merini con l’antica razza maremmana, se n’è formata una ch’io chiamerai Merina Toscana.
»Intanto che sì gran vantaggio otteneva la razza antica, la stessa razza merina venuta di Boemia era perfezionata. Volendo conservare la legittimità delle merine boeme, per aver sempre montoni di puro sangue da destinarsi agl’incrociamenti, fu saggio consiglio di scegliere ogni anno nel gregge della Badiola gli agnelli e le agnelle di più belle forme, e di vello più fine e più folto, per sostituire nei greggi antichi le morte e le scartate, o per crescersi di numero.
»Con questo sistema, per cinque anni rigorosamente praticato, il gregge della Badiola, numeroso di circa 500 pecore, è giunto ad una bellezza di forme, e ad una perfezione di lana insuperabile.
»Di sì bel resultato dette conferma evidentissima il confronto che si è potuto fare di questo con altro gregge di 150 pecore merine, arrivate dalle stesse signorie di Boemia negli ultimi giorni del novembre 1812. Alcuni pastori di queste merine, che condussero pure le altre nel 1837, hanno dichiarato trovarle molto perfezionate nella finezza della lana e nella bellezza. Le merine boeme hanno sulle cosce e sul collo la lana meno fine; quelle nate alla Badiola sono per tutte le parti del loro corpo di lana uguale in finezza e foltezza.
»Nè debbo tacere che la pastorizia Toscana va debitrice di progressi sì rapidi e di utilità sì grandi al sig. Giovanni Giuggioli, Amministratore Generale dei Reali privati Possessi maremmani di S. A. I. e Reale il Granduca, che di questi (mirabilmente secondando le intenzioni del Munificentissimo Principe) va facendo un modello di possibile e veramente utile miglioramento agrario per la Maremma.»
Memorie economico-statistiche sulle Maremme Toscane. Firenze 1810.
8. Pag. XX. — Parini, Educazione.9. Pag. 7. — Non posso astenermi (che mi parrebbe ingratitudine) di confessare come parecchie frasi di questo periodo sieno reminiscenze di un Canto di Francesco Pacchiani; Francesco Pacchiani, natura privilegiatissima che Dio si compiacque ornare dei tesori della più alta intelligenza. In lui era materia da mostrarsi al mondo in un punto Dante e Galileo, e il Pacchiani durante tutta la vita si affaticò a disperdere i doni di Dio. I tempi e i costumi lo guastarono; provò la sventura, ma tardi, e come conseguenza di vita scomposta, non già come persecuzione di animo gagliardo o d’intelletto svegliato. Poco ci avanza di lui, e tra le altre cose il Canto in cui leggiamo le seguenti terzine: Come aureo industre verme esce di spoglia,
Lucida spoglia ov’ei si fece alato,
Dell’infinito valicò la soglia.
Dalle candide penne ventilato
Spirò dal cinto d’Iri il ciel di Flora
D’ambrosia e d’armonia senso beato.
Pe i medicei laureti udissi allora
Uscir dalle famose arpe commosse
Il suon che gl’immortali anco innamora;
E dall’onda dei numeri percosse
Che destò il ventilar dell’ala bianca,
Detter mie corde, che la man non mosse,
Il suono che dal tempo i nomi affranca,
E l’inno che raccolsi nella mente
Incominciai come persona franca.
10 . Pag. 14. — Veronica Cybo nacque nel 1611. — Vedi Viani, Memorie di casa Cybo . 11 . Pag. 21. — Osteria a quei tempi in via dei Pilastri. Vedi Cicalata di Bastiano de’ Rossi . Prose fiorentine, p. 3, v. 2. 12 . Pag. 22. — L’arte della Seta. 13 . Pag. ivi . — Vedi Galluzzi, Storia , lib. VI, cap. 8, ediz. di Livorno, tom. VI, p. 26. 14 . Pag. 30. — Poesie di Francesco Berni , Sonetto 18. 15 . Pag. 34. — Shakspeare, Macbeth . Atto V, Sc. I. 16 . Pag. ivi . — Alla battaglia d’Ivry Enrico IV disse queste parole: Ralliez-vous à mon panache blanc: vous le verrez toujours au chemin de l’honneur et de la gloire. 17 . Pag. 35. — Vedi Revue des Deux Mondes , 1835. — Article Luther , par Mignet. 18 . Pag. 39. — Furono coniati dal Cellini, e detti così perchè erano la gabella del Barile del vino. Vita di B. Cellini . 19 . Pag. ivi. — Viani, op. cit., p. 227, v. 37. 20 . Pag. 41. — Lastri, Osservatore fiorentino , tomo V, p. 101. 21 . Pag. 42. — Vedi sopra la Revue Britannique , un articolo intorno ai mangiatori di oppio. 22 . Pag. 43. — Æneid. , I. 23 . Pag. 50. — Grandissimo era in quei tempi l’amor de’ profumi. Il conte Lorenzo Magalotti nelle Lettere 8 e 9 delle scientifiche, riporta, tra le altre notizie, che due cuscinetti di odori giungevano al prezzo di 400 pezze d’oro. 24 . Pag. ivi. — Buccheri erano vasi di pietra odorosa; i preziosi venivano da Quito, Chily, Guadalakara: i preziosissimi da Natan. Questo odore fu ricercato con fanatismo: somigliava a quello che nella state tramanda la terra riarsa dal sole quando è bagnata. — Questa terra mangiavano perfino ridotta in pastiglie. Oggi l’odore del bucchero è cosa ingrata. In questo modo odori, sapori, opinioni ec. vanno mutando col tempo. 25 . Pag. 53. — Ferdinando II imperatore, con diploma del 7 febbraio 1625, concesse il titolo d’ illustrissimo a Carlo I, principe di Massa, per sè e suoi eredi legittimi nello stato. — Viani, op. cit., p. 44. — Si narra come i popoli esultanti per così sperticato benefizio ricevessero l’ordine d’illuminare spontaneamente le finestre per tre sere di seguito.