LA VITA ITALIANA DURANTE LA Rivoluzione francese e l'Impero
Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
LA TRASFORMAZIONE SOCIALE
CONFERENZA DI Francesco S. Nitti. Dal 1789, quando scoppiò la rivoluzione francese, al 1814, quando, nel giorno d'ognissanti, si riunì a Vienna il congresso che credette di aver restaurato il diritto divino dei re, non scorsero che venticinque anni. Ma la vita di quei venticinque anni fu così intensa e così turbinosa; ma gli avvenimenti che si seguirono e si incalzarono furono tanti e sì vari, ma l'influenza di Francia su tutta Europa fu sì grande, che quel quarto di secolo appare, anche a chi meglio l'abbia penetrato, come uno dei periodi più interessanti e complessi della storia umana. Or tentare solamente di riassumere in una conferenza quale sia stata la vita d'Italia, durante quei venticinque anni, e quale la trasformazione sociale determinata dai fatti e dalle idee nuove, mi pare un tentativo così vano e una sì vana impresa, che io non avrei osato di parlare a voi, se non mi fossi lusingato e non mi lusingassi tuttavia, di poter fare, uscendo dal vecchio alveo delle ricerche, un tentativo di interpetrazione e di esplicazione di quei fatti, che finora sono stati, mi pare, troppo considerati sotto l'aspetto esteriore della politica e della narrazione, troppo poco nel loro contenuto essenziale.
Perchè la rivoluzione francese operò profondamente in Italia e nondimeno le scosse che vi produsse non furono sì brusche e sì rudi come in Francia? perchè la trasformazione sociale, che in Francia non potè compiersi se non a traverso tanto fiume di sangue, parve si compiesse in Italia più agevolmente, e non trovò grandi ostacoli e non ebbe ad abbattere dighe poderose? perchè invece solo a Napoli l'urto fu più vivo e la scossa più rude?
La rivoluzione francese è contrassegnata da due grandi fatti: l'abolizione della feudalità e il sorgere della borghesia, come classe di governo. In Italia, tranne forse a Napoli e in Sicilia, la feudalità era se non morta, morente, e la borghesia già in parte padrona del potere politico. La rivoluzione, che ci venne di Francia, non dovette quindi urtarsi contro ostacoli tenaci, nè spezzarli per vincere: ma precipitò un movimento, che già v'era e trasfuse energie e speranze, che non erano forse ancor sorte.
Tutte le istituzioni del passato, quando noi le consideriamo al di fuori delle nostre credenze politiche e delle nostre credenze religiose e le studiamo nel tempo che furono, ci appaiono non solo prive di quelle colpe che si attribuiscono loro d'ordinario, ma necessarie: necessarie perchè furono e durarono. La schiavitù stessa, che offende tanto la nostra sensibilità e che ci appare iniqua, non solo fu ai suoi tempi necessaria, ma benefica, perchè permise alla umanità di svilupparsi e di progredire. Il fatto che non uno solo di quei pensatori dell'antichità, che pure tentarono i misteri della natura ed elevarono la mente alle cime sublimi della speculazione filosofica pensarono di abolirla, è la prova evidente che essa non poteva essere abolita. Lo schiavo era una necessità della produzione, dato il modo come essa si svolgeva, e a lui stesso, che fu qualche volta uno di que' mirabili artisti, i quali trasfusero nel marmo o nel bronzo le più nobili visioni dello spirito e la cui opera sublime è ancora per noi anonima, a lui stesso non venne forse in mente giammai la idea della liberazione.
La feudalità, che ora ripugna alla nostra mente, e che noi quasi non comprendiamo come sia tanto lungamente potuta durare, non fu solo necessaria nelle sue origini, ma anche benefica. Essa sorse quando, a popolazione relativamente scarsa, corrispondevano grandi difficoltà di comunicazione e di trasporto e i vincoli erano rilassati e la sicurezza mancava.
La Francia che al IX secolo, nel vigore della feudalità non ebbe più di 5 milioni di abitanti, e che ai tempi di Carlo Magno, malgrado la poetica iperbole della Chanson de Roland non ne avea forse una diecina, ne aveva già oltre ventiquattro alla vigilia della rivoluzione francese. E insieme alla popolazione erano cresciute le comunicazioni, si erano sviluppati i traffici: era quindi sorta dal commercio e dagli scambi una classe intermedia, cui buona parte di tutto il reddito nazionale affluiva.
Tutto ciò in Francia, come nei paesi di civiltà occidentale, era avvenuto lentamente, senza brusche scosse. V'è in tutti i grandi movimenti umani qualche cosa di fatale e d'inconscio. Il feudatario che, ignaro del dimani, per accrescere il suo reddito, avea portato il grano dei suoi vassalli in città e lo avea venduto, e avea, per aumentare la sua entrata, create comunicazioni fra la campagna e il borgo, non avea forse nemmeno avvertito che la creazione di una classe sorta dal traffico e il conseguente aumento della popolazione, doveano formare la rovina di coloro stessi che li aveano determinati. La monarchia francese, man mano che la feudalità s'indeboliva, e che perdeva lo scopo per cui era nata, diventava invece più potente. E l'aristocrazia, che non voleva farsi assorbire e non sapeva, si trovava impoverita dal crescere in numero e in ricchezza del terzo stato.
Or man mano che una classe, la quale ha il governo e ha avuta la ricchezza si sente venir meno le forze, diventa sempre più intollerante e intollerabile. I nobili di campagna di Francia, che dal nome del più piccolo e del più insistente degli uccelli da preda, erano chiamati nel secolo XVIII hobereaux, sono la prova di ciò. Ed è per questo che la rivoluzione francese del 1789, fatta quasi esclusivamente da una classe che avea in parte la ricchezza e voleva il governo, fu come un uragano, che dovette vincere di un tratto la resistenza lunga e tenace.
In Italia, invece, il passaggio dalla fase feudale alla fase nuova non fu forse contrassegnata da nessun periodo di violenza. La feudalità in Italia si poteva dire già fiaccata nella sua essenza, quando la rivoluzione le diede in Francia il tracollo: da noi, tranne forse nel Mezzogiorno, il sistema feudale non era che quasi del tutto alla mercè dei sovrani.
È a dubitare che la feudalità abbia mai avuto in Italia radici salde: ad ogni modo al XIV secolo era istituzione già morta. Quei nobili di Venezia, che vivevano di scambio, di nobili non avevano che il nome; quei signori fiorentini, che non disdegnavano le cure del commercio e scendevano nei fondaci a contrattare, appartenevano già di fatto a una classe diversa da quella cui erano ascritti. Forse l'alto grado di densità della popolazione non permise mai, fin dal secolo XIV, che una vera feudalità vi fosse e potesse durare.
Solo a Napoli e in Sicilia, la minor densità di popolazione, determinata in parte da necessità storiche, in parte più grande ancora da vera necessità geografica, e quindi gli scarsi commerci e il debole sviluppo degli scambi, permisero che la feudalità durasse più a lungo e fosse più salda. Il bisogno di sicurezza e di protezione, che induceva anche i liberi ad asservirsi, durò nel Mezzogiorno molto più a lungo che altrove. La feudalità inoltre vi era stata trapiantata dai Normanni in tutta la sua potenza e in tutto il suo vigore e, perchè si potesse scuoterla, bisognava un più lungo cammino ed era necessaria una più rude scossa. Forse appunto per queste cause la rivoluzione francese destò a Napoli i moti del 1799; ed è senza dubbio perciò che in Sicilia, dove la presenza dei Borboni non le permise di agire, si risentono tuttavia i danni di una istituzione, che ancora nelle consuetudini e nella coscienza, se non nella legge, qualche volta permane.
La feudalità, quando in Francia era ancora salda, o almeno si ostinava a resistere, in Italia era dunque quasi generalmente fiaccata. I 1023 patrizi di Venezia, che nel 1780, secondo l'anagrafe, partecipavano al governo, erano troppi per formare un'aristocrazia. Quando non speculavano essi medesimi, poichè le virtù antiche aveano perdute, quando non consumavano le ricchezze dei padri, le quali erano sparite, ricercavano attivamente impieghi e sinecure. Negli Stati Romani il governo della Chiesa avea snaturata l'indole del feudo fin da parecchi secoli prima: la ricchezza era ammassata in poche mani, ma la feudalità non avea più nulla dell'antica rigidezza. Il consolidarsi della monarchia e le leggi del 1720 le avevano dato già il tracollo nei dominî del re di Sardegna. In Lombardia il dominio austriaco e più ancora le tradizioni di libertà, che nemmeno la Spagna era riescita a soffocare, avevano agito anche più rapidamente. In Toscana non l'opera soltanto dei principi, ma la stessa costituzione del paese, ove a una popolazione sparsa corrisponde e corrispondeva già allora una produzione agraria abbondante, impedivano che la feudalità potesse durare.
Solo a Napoli e in Sicilia, nonostante la lunga lotta con la monarchia, la feudalità durava ancora, benchè impoverita di forze e resa quindi più avida e più prepotente.
Come sarebbe potuta finire?
Le cause che l'avevano fatta nascere, in parte almeno, vigevano ancora: la classe media, la quale sorgeva meno col traffico che dagli affittuari e dai curiali, era, per la sua origine stessa, incerta e timida. Gli affittuari, spesso infidi, arricchivano forse sui padroni: ma non pensavano a prenderne il posto. I curiali, disposti sempre a difender tutto — la qual cosa è sempre nella natura del curiale — non avevano che desiderio di nobilitarsi e speranza di arricchire.
Carlo III di Borbone lottò tenacemente contro i nobili e contro la Chiesa e la feudalità cercò di vincere e la potenza ecclesiastica di frenare. Ma come poteva del tutto? La mancanza di un attivo traffico interno impediva il formarsi di una classe intermedia ricca e forte. Fino a quando Carlo venne a Napoli non esistevano nel regno quasi affatto strade carreggiabili: vi era quella da Napoli a Roma e forse in parte quella da Napoli a Foggia. Carlo ne incominciò parecchie, ma quasi del tutto a beneficio delle cacce del re. Non forse deliciae principis felicitas populi?
Nel regno di Napoli, nel 1734, sopra 2265 città e luoghi abitati, 2226 eran feudali e 59 appena demaniali, cioè soggetti più da vicino alla legislazione del principe. Ancora nel 1786, cioè tre anni prima che la rivoluzione francese scoppiasse, regnando a Napoli Ferdinando I, malgrado la rude lotta che i Borboni avevano mossa alla feudalità e l'aiuto concesso alle città perchè si riscattassero, vi erano tuttavia 1881 città e luoghi abitati feudali.
In Sicilia i baroni erano ancora più potenti e più audaci: possedevano, dopo la rivoluzione francese, il cui nembo procelloso non era riescito a soverchiarli, oltre la metà dell'isola, e in tutta la Sicilia buona parte delle più vessatorie consuetudini baronali regnavano come nel passato.
I Borboni di Napoli, quale che sia il giudizio che si possa dare di essi, avevano cercato d'infrenare i baroni, conscii forse, almeno per vago istinto, che la forma feudale sarebbe venuta a sfasciarsi; e che come era una limitazione pericolosa del potere regale, immobilizzava le forme della produzione e non consentiva che i nuovi bisogni di una popolazione cresciuta, venissero soddisfatti.
La rivoluzione ebbe in Francia così violenta forma e fu così brusca e rude, perchè mentre la classe intermedia si era già del tutto formata, la feudalità, basandosi sulle consuetudini antiche, malgrado le invasioni del potere regale, regnava tuttavia potentissima.
In Italia il feudo era in gran parte della penisola già morto, se non nella legge, nella realtà. La rivoluzione francese si ripercuotè dunque più fortemente là dove, come a Napoli, la forma feudale durava più tenace.
La popolazione del reame di Napoli dal secolo XI era grandemente cresciuta. E viceversa l'economia agraria, a causa del feudo, che imponeva limiti alla trasformazione, era poco o nulla mutata. Una forma nuova, la quale aprisse nuove vie alla produzione e assicurasse il governo a quelle classi che già avevano o cominciavano ad avere la ricchezza, s'imponeva come una necessità.
È perciò che, in tutto il secolo passato, noi vediamo il principato quasi dovunque in lotta aperta con la feudalità. A Napoli, Carlo III e Ferdinando IV restringono la giurisdizione dei baroni, limitano la proprietà ecclesiastica, aiutano le università a riscattarsi.
Ed è perciò che noi assistiamo a questo fatto strano. Mentre in Francia l'aristocrazia è quasi del tutto avversa alla rivoluzione, in Italia, dove il potere regale ha più infrenato il feudo, l'aristocrazia partecipa spesso ai moti rivoluzionari. La rivoluzione napoletana del 1799, che è stata forse la pagina più bella della storia di Napoli, è fatta da una parte da fittuari e censuatari desiderosi di riscattarsi e da curiali, cioè da componenti la classe media, tormentata dal bisogno del potere, e dall'altra dagli stessi nobili, i quali erano scontenti del potere regale.
Quando in Francia scoppiò la rivoluzione del 1789 l'impressione di tutta Europa fu immensa. La presa della Bastiglia fu salutata da tutti gli spiriti eletti, quasi dentro la carcere politica di Parigi ognuno avesse qualche cosa della sua anima, che sentiva il bisogno di liberarsi.
Noi abbiamo forse esagerato un po' troppo il risveglio intellettuale e morale d'Italia nel secolo scorso. Abbiamo detto troppo: — se la spinta ci venne di Francia, in Italia eravamo già più innanzi e i nostri grandi pensatori, come Ortes, Filangieri, Genovesi, Beccaria e i nostri grandi letterati, come Alfieri e Parini, avevano già preceduta la rivoluzione.
Tutto ciò non è vero. L'Italia era un paese in cui ogni audacia intellettuale si perdeva nello scetticismo delle classi più colte; dove, se pur non mancava qualche ardito pensatore, le classi di governo e quelle che aspiravano a succeder loro non osavano.
I Principi del secolo passato appaiono in Italia assai spesso più audaci e più liberali dei loro popoli. Leopoldo II di Toscana, Giuseppe II d'Austria, Carlo III e perfino Ferdinando IV di Napoli, vanno molto più in là di ciò che non osino chiedere i loro sudditi. Qualche volta anzi essi seminano malcontento, appunto per la loro violenza riformatrice, come accadde a Napoli, e sopra tutto in Sicilia, dove il vicerè Domenico Caracciolo osò, con audacia giacobina, attaccare le basi stesse del sistema feudale.
Giuseppe II d'Austria diede alla Lombardia leggi eccellenti: fiaccò la potenza feudale, accordò che tutti i cittadini fossero eguali dinanzi alla legge, riordinò le amministrazioni locali, protesse come più era possibile i contadini, creò opere pie dovunque, sviluppò la cultura superiore: era l'assolutismo illuminato, che precorreva i tempi. Tutto ciò non fu fatto per opera di pensatori, ma contro di essi. Quando gli ufizi pubblici furono aperti a tutti, lo stesso Pietro Verri se ne dolse. Il filosofo osava rimproverare l'imperatore di ammettere ufficiali non nobili nell'esercito, “perchè — egli diceva — il sentimento di onore è educato fra i patrizi, ma non fra gli altri.„
Quando nel 1776 Maria Teresa avea voluto abolire la tortura e gradualmente anche la pena capitale, le persone più illuminate di Lombardia si erano opposte. Il Senato, su relazione di Gabriele Verri, avea detto contro l'imperatrice, che la gravità dei crimini e l'urgenza di procurarsi indizi usum torturæ necessarium reddunt.
Pietro Verri, il quale pare anche adesso uomo superiore al suo tempo, non faceva che seguire e da lontano le riforme che venivano di fuori: applaudiva quando erano imposte, ma non dissimulava il proprio dispiacere quando gli sembravano troppo audaci.
Lo stesso Cesare Beccaria, il cui spirito era veramente francese, e che s'era, com'egli medesimo confessa, formato su Montesquieu e su Helvetius, pareva anch'egli non precorrere, ma seguire a malincuore le riforme che venivano dall'alto. Membro e relatore di una giunta nominata da Giuseppe II per l'abolizione della pena di morte, egli credeva indispensabile mantenerla in caso di regicidio e di cospirazione contro lo Stato. E anche in questi due casi, quasi nello stesso tempo, l'aboliva per spontanea iniziativa, un principe di sangue austriaco, Leopoldo di Toscana.
Gli stessi statisti, filosofi ed economisti, che la nostra compiacente vanità ha esaltati, non aveano quasi alcuna delle grandi audacie di pensiero degli scrittori di Francia: non facevano che uno sforzo continuo per adattare il vecchio al nuovo, per seguire ciò che loro era quasi sempre imposto da una volontà superiore.
Venezia, che le Memorie di Casanova e le storie recenti ci dipingono alla fine del secolo passato come un luogo di depravazione e di godimenti, non ci presenta alla vigilia della rivoluzione francese un solo pensatore elevato, non uno solo presago dei tempi nuovi.
Carlo Goldoni e Carlo Gozzi sono realmente seguaci del vecchio regime: se il primo diventa senza volerlo, forse anche senza saperlo, un riformatore è perchè egli porta sul teatro i fatti della vita reale e i fatti non hanno mai la facile compiacenza delle opinioni.
Quell'oscuro Giammaria Ortes, tanto esaltato negli ultimi tempi, sopra tutto da chi non lo ha mai letto, quell'oscuro monaco, che sembra profondo sempre perchè sempre oscuro, dopo aver forse intravvisto quella che fu più tardi la teorica malthusiana, non sa proporre che di difendere i beni di manomorta e i fedecommessi a famiglie, a chiese e a luoghi pii: al terribile problema, che nella quiete solenne del suo triste monastero gli si affaccia alla mente, non vuol dare altra soluzione se non quella di aumentare la zuppa dei conventi. E quando, nella sua famosa relazione, il cavaliere Andrea Tron, che fu sì veggente nello scoprire i mali della repubblica e sì cieco da non scoprire quelli di casa sua, constata il decadere della forma antica, non sa indicare alcun rimedio: indicarne forse gli par vano.
La mente che vede non osa. Accade qualche volta che, come in Toscana, l'opera dei principi riformatori è appoggiata da uomini di chiara mente, come quel vescovo Scipione dei Ricci, che parve uomo di altri tempi e fu anima di profeta e di apostolo: ma non è che eccezione solitaria. In generale si assiste a questo fatto singolare, che mentre i nuovi bisogni della classe che sorge si affermano, nessuno osa interpetrarli. Le riforme vengono dall'alto e la massa le accetta quasi a malincuore.
Napoli, che ebbe nel secolo passato alcuni fra i pensatori più potenti d'Italia, trovò anch'essa uomini che li precedettero. Lasciamo stare Vico: egli, che morì quasi mezzo secolo prima che la rivoluzione francese scoppiasse, non fu uomo del suo tempo. Vico, il quale creò non una ma parecchie scienze, e che bene a ragione parlò di scienza nuova, non ebbe fra i suoi contemporanei quasi alcuna importanza. Trascinò vita miserabile fra gente di cui non riescì a vincere la indifferenza e fu modesto uomo e rassegnato alla crudeltà del destino.
Ma Giannone, ma Galiani, ma Genovesi, ma lo stesso Mario Pagano, che furono fra gli spiriti più illuminati del tempo loro, alla vigilia della rivoluzione francese quasi non prevedevano la trasformazione che si andava compiendo.
Giannone fu veramente figura grande di novatore: ma la lotta contro la prepotenza ecclesiastica lo assorbì tutto.
Galiani era troppo scettico e troppo sottile per aver fede in qualche cosa.
Nel 1764 scriveva a Tanucci: “.... forse alla lunga è meglio avere un parlamento alla francese che non averlo, ma nei principî di un regno, un poco di dispotismo non è male, altrimenti la creazione è più tardiva.„ Questo abate grazioso e gaudente, il quale non predicò che l'obbedienza passiva al re, in pratica non gli chiese che benefizi. Le follie dei sovrani trovavano in lui il complice spiritoso: l'economista non aveva una sola parola di sdegno, non una d'indignazione. Quando l'arciduchessa Maria Carolina, che di sua madre ebbe la passione violenta del maschio, ma non la intelligenza temeraria, per venir sposa a Ferdinando IV, ordina 120 vestiti di gran lusso e spende milioni, il compiacente abate osserva soltanto: “ quidquid delirant reges, ma è danaro che vien qui.„
Figura meno nota, ma più alta quella di Antonio Genovesi. Il timido abate, che osò insegnare in italiano, in quella università di Napoli, dove l'ignoranza si esprimeva pomposamente in latino, avea più slancio e maggiore sincerità dell'avventuriero Galiani. Pure quest'uomo, che vagheggiava una forma costituzionale e una Italia comune madre nostra, unica e libera, nel suo libro Diceosina o filosofia del giusto e dell'onesto, non rifiutava di ammettere la necessità di una mezza servitù popolare.
Genovesi non propugna se non quelle istituzioni le quali sembrano più adatte allo sviluppo e alla costituzione di una classe media: libera circolazione e divisibilità della proprietà, libertà e sicurezza di commercio, libertà di lavoro. Fra coloro che non producono reddito materiale o immediato, eppure, come egli dice, giovano alla società, non esita a mettere coloro che vivono di reddito. Nel popolo egli non avea fiducia alcuna: anzi lo volea lontano dalle pubbliche faccende. Più che un riformatore egli è il ponte di passaggio fra il vecchio e il nuovo: egli è l'innovazione che non si stacca dalla tradizione. Vuole che la riforma venga dall'alto piuttosto che dal basso: — quivi non vede che l'ignoranza e il male.
Ma che pensare di Mario Pagano, il quale quando già la rivoluzione francese era scoppiata e si preparava nelle coscienze la rivoluzione napoletana del 1799, quando già si era alla vigilia di quei fatti per cui egli dovea lasciare miseramente la vita, difendeva il feudo e ne additava le ragioni di necessità?
Filangieri che moriva appena a 36 anni, pochi mesi prima della presa della Bastiglia, Filangieri nobile, e pur aperto a tutte le idee democratiche, appare quasi come il solo che abbia osato. Ed egli era uomo di governo e, come tanti altri uomini di governo, attendeva la riforma dall'alto; e non avea tutti i torti di attenderla, poichè l'opera dei principi era parsa ed era, almeno in Italia, più audace di quella dei filosofi.
Anche fra i letterati di ogni parte della penisola mancava quella fede riformatrice, che contraddistingue le grandi opere della letteratura francese del secolo XVIII. Tranne forse Parini, buono e grande, dalla cui anima la passione plebea trabocca e nei cui scritti s'insinua sempre la filosofia di Rousseau, tutti gli altri non vedono e non osano. Lo stesso Alfieri, che fu gigante, non vede che secondo i greci e secondo i romani. Il suo tiranno era una creazione fuori della realtà: e la sua repubblica non avea nulla a che fare con i bisogni del tempo. Per la rivoluzione francese egli, classico e sdegnoso, non ha che parole di antipatia e di avversione.
Se qualche anima alfieriana insorge contro il tiranno immaginario, i tiranni d'Italia, sopra tutto quelli stranieri, erano, bisogna pur confessarlo, più avidi di novità e più desiderosi di riforme che non i popoli stessi. Mentre nulla pareva li stimolasse, non spinti dai dotti, non costretti dalle masse, essi adottavano, quasi per spontaneo impulso, quelle riforme, le quali, non operate in Francia, a causa della potenza della feudalità, dovevano dare sì violento carattere alla rivoluzione del 1789. Limitazione della proprietà ecclesiastica, soppressione dei privilegi fiscali, riconoscimento della giustizia come funzione di Stato e non come diritto dei baroni, restrizioni della giurisdizione feudale: tutto fu operato per volontà dei principi.
Così accade questo fatto singolare che, sopra tutto a Napoli, i nobili, dolenti della restrizione alla loro potenza, inclinano alla rivoluzione e, quando questa avviene ed è il riconoscimento della esistenza del terzo stato, vi partecipano largamente. Gli uomini della rivoluzione napoletana del 1799 sono nella maggior parte o nobili ed ecclesiastici, o curiali. Nelle province l'eco della rivoluzione di Napoli è più larga fra i fittuari e i censuatari desiderosi di affrancarsi.
Quando scoppiò la rivoluzione di Francia, i nobili, il clero, la borghesia e il popolo l'accolsero in Italia molto diversamente. Quest'ultimo non vi partecipò quasi affatto: troppo ignorante era e troppo depresso per lottare per conto proprio. Ma quando dovè seguire i liberali, o quelli che facevano la causa del principe, fu piuttosto per il principe. E non era solo ignoranza: ma era anche un istinto per cui avvertiva che i mutamenti i quali sopravvenivano non erano in suo favore.
Gli abitanti del feudo, laico o ecclesiastico, principalmente quelli di quest'ultimo, avevano ciò che oggi non hanno: il diritto all'esistenza era garentito loro dagli usi civici, i quali se impedivano al feudo di trasformarsi, davano al popolo quel minimo necessario a una esistenza sia pure inferiore.
L'aristocrazia, il clero e la borghesia, rappresentanti interessi diversi, accolgono la rivoluzione con sospetto, come accade quando avviene un gran rivolgimento, di qualunque natura esso sia. Se non che di queste tre classi nessuna era contenta: la terza perchè aspirava al potere e voleva parteciparvi molto più largamente, le altre due perchè, nei mutati ordini e nella soverchiante potenza del principe, avevano vista la loro diminuzione.
L'aristocrazia era in condizioni da non poter durare a lungo come unica classe di governo. Non occupandosi più solamente di guerra era andata perdendo a poco a poco l'antica gagliardia: a Venezia pitoccava ufizi e spogliava il continente, a Roma si manteneva chiusa all'ombra del dominio papale; in Piemonte, già fiaccata dalle leggi del 1720, era però ancora ignorante e guerriera; a Napoli e in Sicilia, diminuita dal principe ma non domata, cercava di rialzarsi.
Un amabile scetticismo regnava un po' dovunque: i rapporti sociali erano rilassati. La fedeltà coniugale, sopra tutto a Venezia e in Lombardia, noi la vediamo fra gli aristocratici considerata come una virtù borghese che disqualifica coloro che la praticano. Non era raro il caso che dame eleganti e gentiluomini di famiglie nobilissime conversassero di Voltaire e di Rousseau e, perfino nei parlatoi dei conventi, la filosofia francese s'insinuava insieme ai discorsi del giorno. Come adesso le dame eleganti fra un peccato e l'altro parlano di Tolstoi, parlavano allora di Rousseau. E fra le dottrine di questi due filosofi, che tendono a tornare, per sfiducia nella civiltà, allo stato di natura, e fra le cause che in due società decadenti le hanno prodotte, vi è più grande affinità di quel che non sembri da prima. Come più la lotta del potere regale tende a diminuire la nobiltà, tanto più noi la vediamo aprirsi alle idee nuove e accoglierle e incoraggiarle.
Straordinariamente ricco il clero e quasi egualmente ignorante. Tutte le avversioni dei principi erano riescite forse a infrenarlo, non certo a diminuirne la potenza.
Nel 1768, secondo statistiche accurate, nello stato di Venezia, che avea appena 2.655.484 abitanti, vi erano, oltre quelli di rito greco, 45.773 ecclesiastici, che avevano un reddito di 4.274.460 ducati. Ricca non meno e non meno corrotta, ma più ignorante forse, la classe ecclesiastica esercitava in Piemonte un potere immenso. In Toscana Rucellai potè già dire che vi erano tre ecclesiastici almeno per ogni 100 abitanti: ciò che è sicuro è che anche dopo la rivoluzione francese, la settima parte del reddito annuale di tutto il paese era assorbita dai monasteri e dal clero secolare. Nello stato romano il clero era tutto e possedeva gran parte del territorio. Più mostruoso ancora l'accrescimento della proprietà ecclesiastica del Regno di Napoli, il cui reddito vediamo salire a circa 12 milioni di ducati nel continente e ad almeno 7 od 8 in Sicilia. Tanta ricchezza e potenza e il non esser costretti a lottare, il non dover quindi esercitare alcuna delle facoltà superiori dello spirito, avevano reso gli ecclesiastici, fatte poche eccezioni, avidi e corrotti.
Or fra l'aristocrazia, decadente e scettica, e il clero, corrotto dalla sua stessa potenza, s'era insinuata la borghesia. Per molti secoli le si era impedito ogni sviluppo, vietandole il traffico e gravandola di tributi: le esenzioni tributarie della proprietà feudale ed ecclesiastica non erano determinate se non dal bisogno d'impedire lo sviluppo del terzo stato. Ma della lotta fra il principato e il feudo si avvantaggiava appunto la classe borghese, la quale nel secolo passato, prima che in Francia, era in Italia già potente.
La borghesia cittadina a Napoli era composta di persone, che mentre rappresentavano interessi diversi da quelli dell'aristocrazia erano indotte a difendere non solo gli usi, ma gli abusi feudali. Per cinque secoli si può dire che la storia dei curiali di Napoli è in gran parte la storia del Regno. Formavano una classe così numerosa, così tumultuosa, così potente, da imporre persino in alcune circostanze allo stesso principe. Il numero enorme delle prammatiche rendeva ogni dissidio interminabile: l'intelligenza meridionale, così naturalmente adatta al cavillo, faceva il resto. Nelle sale di Castel Capuano si pigiavano allora come oggi migliaia di forensi: vi erano anche allora fra essi i molto ricchi e i molto poveri, ma gli uni e gli altri molto si agitavano. Qualunque interesse difendevano, ed erano tanto più numerosi, quanto più si trattava d'interessi di gente ricca. Colletta, che li chiama peste del reame di Napoli, nota però come dai curiali sia nata la classe media. Questo ceto, che fu veramente pestifero e le cui conseguenze dannose sulla intelligenza meridionale si risentono ancora oggi, questo ceto fu, come dice il Winspeare “il baluardo dell'antico sistema di giurisprudenza e di amministrazione„. Pure se tanto male produsse, con le sue continue agitazioni, col trovare sempre le ragioni per cui il diritto è dalla parte di chi è in alto, un grande benefizio ne venne. Quando fra il principe e i baroni s'ingaggiò, da prima silenziosa, poscia quasi manifesta e aperta la lotta, i curiali che nelle prammatiche aveano trovato le ragioni per cui il feudo possedeva quei diritti che non avea mai avuti, seppero anche trovare quelle per cui gli si negarono perfino quei diritti che in realtà aveva. Il principe forse non avrebbe tanto potuto senza l'aiuto dei curiali. Come il brulichìo e la fermentazione producono la vita, così dall'agitarsi di tante dispute dovea venire il fermento delle coscienze, che produsse il risveglio e la vita. La vita non è quasi sempre che un fenomeno di putrefazione e di dissolvimento: e la corrotta classe curialesca diede con il fermento impulso potente al risveglio intellettuale. A furia di discutere sulla natura dei diritti feudali, sulla validità dei contratti stabiliti sotto il regime della violenza, sulla imprescrittibilità di alcuni diritti si finì col discutere anche ciò che prima pareva non discutibile. Furono queste dispute infatti, le quali fecero germogliare l'idea della eguaglianza civile e aiutarono maggiormente la trasformazione.
Se non che, appunto per questa composizione della classe media, essa non avea nè rapidi slanci, nè grandi audacie: qualche volta, anche quando parlava di riforme, era presa dagli scrupoli curialeschi, e vi si dimostrava meno adatta di quei principi contro cui lottava in segreto o in palese.
Composta degli elementi più vari, la classe media italiana della fine del secolo passato vivea meno del traffico, che della curia e della Chiesa: strano impasto di cadetti, di ecclesiastici scontenti e di avvocati dai facili entusiasmi, non poteva concepire le rudi affermazioni del terzo stato di Francia.
La rivoluzione napoletana del 1799, che è la più bella pagina della storia di Napoli, poichè si vide — da gran tempo forse per la prima volta — che gl'italiani non aveano disappresa l'arte di saper morire, la stessa rivoluzione napoletana ebbe un singolare carattere: poichè, lungi dall'essere l'affermazione esplicita del terzo stato, essa risultava come fatta in gran parte di quegli interessi che il principe avea offesi.
Fra i novantanove martiri, dal 29 giugno 1799 all'11 settembre del 1800 (schiera grandiosa che si apre con l'ammiraglio Caracciolo e si chiude con Luisa Molines Sanfelice), tre ceti prevalgono su tutti gli altri: i nobili, gli ecclesiastici e i curiali. Mentre nelle province sono i fittuari e i censuatari che si ribellano nel desiderio della loro affermazione economica, nelle città, dove la lotta ferve più intensa, sono coloro i cui interessi erano stati più offesi, i quali si coalizzano con coloro che desiderano prevalere.
Dei 99 giustiziati di Napoli, 14 erano nobili, 15 ecclesiastici e ben 20 appartenevano alla classe curiale. Carlo III e più Ferdinando IV, per opera del suo intelligente ministro, aveano colpito al cuore la nobiltà e infrenata la potenza della Chiesa. E come leggi più stabili eran venute e più larghi ordinamenti, la classe curiale era quella che più ne soffriva, come ne soffrivano nobili ed ecclesiastici. L'anno stesso che scoppiava la rivoluzione di Francia, Ferdinando IV avea fondato, per bizzarria e per desiderio di cose nuove, la colonia semicomunistica di San Leucio, e prima della rivoluzione non avea manifestata e non avea forse nessuna di quelle infami violenze, che contraddistinsero, dopo la rivoluzione, la sua feroce timidità e tramandarono il nome suo infamato.
Quando il terzo stato si vuole affermare esso non è, almeno nel Mezzogiorno, rappresentato che da una frazione, quella che più abusa della ideologia giuridica. E gli altri due stati superiori tendono a far causa comune con esso, almeno nelle frazioni più scontentate dalla violenza riformatrice dei principi.
Fra i 14 giustiziati di Napoli appartenenti a classi aristocratiche erano rappresentate le più grandi famiglie: Gennaro Serra, principe di Aliano; Ettore Carafa, conte di Ruvo; Filippo de Marini, marchese di Genzano; Giuseppe Riario Sforza, marchese di Corleto; Francesco Federici, marchese di Petrastornina; Ferdinando Pignatelli, principe di Strongoli; e Mario Pignatelli e altri, che aveano nobiltà di censi e di nome. Alcuni di essi erano a dirittura fanciulli: non avevano che ventun anno appena De Marini e Riario Sforza; venticinque ne avea Gennaro Serra; ventisei Mario Pignatelli.
Ben 15 erano ecclesiastici e fra essi ve n'erano di vita illuminata e di mente alta, come il padre De Meo dei Crociferi; don Francesco Conforti, don Vincenzo Troisi, don Giuseppe Guardati e don Eusebio Scotti, professori all'università e Severo Caputo e Ignazio Falconieri e Michele Granata e Nicola Pacifico e tanti altri ecclesiastici, anch'essi insegnanti e di vita esemplare.
Ma il maggior numero era di avvocati e appartenenti alla classe curiale, fra cui notevoli Francesco Mario Pagano e Nicolò Carlomagno e Vincenzo Russo, che avea a ventinove anni già scritto quei Pensieri politici, ricchi di errori e di acume, e Giorgio Pigliacelli e altri, cui le vittorie forensi aprivano via larga e sicura.
Fu questa varia composizione, che tolse al movimento la sua unità. In Francia il terzo Stato, cominciò col proclamare la propria esistenza, poi appena potè abolì la feudalità e soppresse tutti i vincoli che gl'impedivano di svilupparsi. La rivoluzione napoletana non osò e non volle.
La rivoluzione napoletana non poteva osare. E il sistema feudale fu abolito nel regno di Napoli da un principe venuto di Francia da conquistatore, da Giuseppe Bonaparte nel 1806. Caso veramente singolare, che rivela come il malcontento ecclesiastico e aristocratico contro la violenza riformatrice dei principi, abbia determinato l'unione degli elementi più diversi in un'avversione comune: non certo per uno scopo comune.
Ciò che la rivoluzione di Francia portò all'Italia fu un contributo di idee nuove non solamente, ma sopra tutto quella violenza giacobina, che anche nei suoi eccessi e nei suoi errori, dovea infondere vita nuova a un paese ove ciò che mancava era appunto l'energia. Si era troppo attaccati alla tradizione, troppo devoti al passato. Si credeva che il meglio che si potesse fare fosse di tornare all'antico.
Il caso del senato di Lucca, che sedeva a permanenza anche la notte, per decidere se si dovesse o pur no pensionare un sergente, rappresenta molto più di quel che non si creda la vita d'Italia di quel tempo.
Or lo spettacolo di un paese che rompe di un tratto con ogni tradizione del passato fu come una trasfusione di energia.
Verri avea qualche anno prima della rivoluzione dubitato che ufficiali non nobili potessero essere uomini di valore e di onore. Ecco invece la rivoluzione francese mostrare violentemente che, quando un uomo ha coscienza della sua forza, più viene dal basso e più mira in alto. I più grandi generali della rivoluzione e dell'impero sono figliuoli di contadini e di operai, nati fra gli umili e vissuti, si può dire, nella più completa oscurità fino al giorno del trionfo e della gloria. Kleber, Augereau, Soul erano nati da contadini e l'ultimo era semplice soldato; Jourdan faceva il merciaio; Hoche veniva dagli strati più umili; Massèna, figliuolo di un mercante di vino, faceva il mozzo prima della rivoluzione; Marceau era sergente; Lannes era apprendista tintore; Bernardotte era sergente maggiore; Murat era figliuolo di albergatore e seminarista; Gouvion Saint-Cyr insegnava disegno; Lefebvre, figliuolo di mugnaio, era sergente; Ney era clerc de notaire.... Tutti o quasi i grandi generali della rivoluzione venivano dal basso, dagli strati inferiori. L'aristocrazia francese non avea prodotti in tanti secoli di dominazione che un Condé; la democrazia rivoluzionaria diede almeno venti generali vincitori.
Tutto ciò veniva a uccidere lo spirito di tradizione e dovea, in un paese come l'Italia, rovesciare di un tratto le basi della vecchia società. Questo popolo d'Italia, che non sentiva ancora nè bisogno di unità, nè dignità di nazione, dovea cominciare a risentirli sotto la tirannide democratica.
Era parso per secoli che prudenza di legislatori e arte di sapienti fossero non già di guardare avanti, ma di ritornare all'antico. La rivoluzione scuoteva tutto ciò. Noi ridiamo, vedendo che, nelle leggi francesi emanate in Italia, si sia agito con tanta leggerezza, da confondere i fiumi coi monti e da prendere i monti per città. Ma quella stessa frettolosità e quella stessa violenza trasformatrice agirono come una trasfusione di sangue.
Quegli eserciti rivoluzionari, i quali predicando eguaglianza e libertà scendevano a spogliarci, mentre con le loro dottrine mettevano il lievito nella vecchia civiltà italica, con le loro azioni contribuivano a inasprire gli animi e a ridestare la sopita coscienza nazionale.
Gl'italiani, vedendo principi abbattuti da un giorno all'altro e sovrani da un giorno all'altro creati, cominciavano ad aprire gli occhi e ad acquistar fede in sè stessi e a credere che la servitù non fosse eterna. Quei francesi, i quali pur derubando il paese lo covrivano di strade e lo disseminavano di scuole, ridestavano le dormienti energie e accendevano la fede nell'avvenire.
L'Italia non avea forse mai avuto vere guerre religiose e la vicinanza estrema del papato avea uccise quelle idealità per cui rivi di sangue venivano fuori d'Italia versati. L'arte di saper morire, più difficile di quella di saper vivere, non era che di qualche solitario pensatore e di qualche solitario apostolo.
Invece la rivoluzione dà, forse per la prima volta, il vero disprezzo della vita. La cultura e la intelligenza, che parevan privilegio di curiali servili e di timidi maestri, ingrossano le liste dei giustiziati e servono a creare una schiera di martiri e a far spuntare dalla terra insanguinata il rosso fiore della vendetta. I Borboni giunsero a Napoli riformatori e audaci e la rivoluzione in alcuna parte precorsero. Ma i moti del 1799 diedero ad essi, timidi e quindi crudeli, il bisogno della repressione violenta. Fu da questa repressione violenta che l'amore della libertà e la tradizione del martirio nacquero e prosperarono.
L'esempio di Francia dava assai spesso ai martiri nostri non solo la indifferenza della morte, ma anche quella tragica grandezza, che si trova solo nelle grandi crisi dei popoli. Quei nobili, quei sacerdoti, quei curiali di Napoli che salivano il patibolo, aveano tutti dinanzi agli occhi l'esempio dei martiri francesi e morivano come essi e parlavano allo stesso modo, il medesimo linguaggio, ricco di iperboli e di grandezza.
La lugubre lista, che comincia — secondo le parole del Fortunato — con una vendetta privata di Nelson, il quale fa impiccare sulla gloriosa Minerva l'ammiraglio Caracciolo, e finisce con una vendetta personale di Ferdinando IV, che fa impiccare Luisa Molines Sanfelice, non ha forse nè un traditore, nè un vile.
Quella Eleonora Fonseca Pimentel, che fu forse la prima donna che in Napoli abbia fatto un giornale, la quale prima di avviarsi al patibolo, prende serenamente il caffè e dice presaga e grande: forsan et haec olim meminisse juvabit; quel duca di Galugnano, che non vuole difese, e, al momento di morire, incita il tardo carnefice, dicendo che non ha tempo da perdere; quel conte di Ruvo, che svillaneggiato dal giudice, rompe in ingiurie e muore come un eroe antico, volendo giacer supino per vedere il ferro che i vili temono; quel generale Gabriele Manthoné, che invece di difendersi, si gloria di ciò che ha fatto per la repubblica; quel giovinetto marchese di Genzano, il quale muore con tanta nobile serenità, che la plebaglia regalista, per una sola volta almeno, non osa gridare viva il re; quel Felice Mastrangelo, il quale si vanta anche sul patibolo di morire libero; quel Mario Pagano, che, avvocato insigne, crede inutile ogni difesa, perchè la vita, sotto la tirannide, gli sarebbe odiosa; tutta quella schiera gloriosa dà per la prima volta, in terra d'Italia, l'esempio del martirio, serenamente atteso e nobilmente affrontato.
Sono i 99 giustiziati del 1799, la cui storia, raccolta amorosamente da Francesco Lomonaco, scritta con sobrietà antica da Vincenzo Coco, idealizzata da Pietro Colletta, determinano più che ogni altra cosa la rovina di casa Borbone a Napoli e sono, per tutta l'Italia, come il lievito sanguinoso della riscossa futura.
La stessa impresa napoleonica, che passa come un nembo procelloso e schianta le vecchie tradizioni, non fa che destare la coscienza nazionale in quelle genti che l'avean forse perduta.
La storia d'Italia dal 1789 al 1814, la trasformazione sociale che in questo periodo venne a compiersi, non sono argomento di una conferenza. Troppe cose mutarono, troppe istituzioni nuove sorsero e troppe sparirono. La vita di quei venticinque anni fu più intensa di quella di qualche secolo. Le classi sociali non erano in Italia così nettamente divise come in Francia, perchè la trasformazione era già avvenuta: fu per questo che i moti italiani non ebbero l'irrompere vertiginoso della rivoluzione di Francia. Qualche volta i sovrani contro cui s'insorgeva aveano socialmente idee più larghe e più riformatrici di coloro che insorgevano, e gl'interessi offesi che si ribellavano contro di essi rappresentavano appunto quegli interessi contro cui il terzo stato lottava.
La società nostra, così com'è, è sorta in quel periodo di tempo, quando la proprietà individuale si affermò in tutta la sua potenza e la forma antica decadde.
Non vi fu nella trasformazione qualche cosa che la classe vincitrice volle con soverchio egoismo ottenere? L'abolizione di tutti quei diritti, che garentivano il minimo di esistenza alle masse e attutivano gli urti più dolorosi fu veramente un benefizio? Lo spirito individualistico e atomico, che s'infiltrò nelle classi dirigenti e che parve distruggere ogni opera collettiva, fu veramente un bene? Noi non oseremmo dire e non vorremmo.
Ogni reazione tende per sua natura a eccedere. E noi invochiamo oggi, più nuove e più larghe, molte di quelle forme che abbiamo disfatte e invochiamo quella solidarietà, che il giacobinismo individualista volle sradicare. L'immenso fiume della umanità anche questa volta rimonta, e noi, che non ne sappiamo le origini lontane e che non ne vediamo nè forse ne vedremo giammai la più lontana foce, siamo trascinati dalla corrente, per vie che, buone o false, sono sempre necessarie.