Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
INDICE.
Pag.
Cesare Lombroso La delinquenza nella Rivoluzione francese 1
Angelo Mosso Mesmer e il magnetismo 57
Anton Giulio Barrili Napoleone 97
Vittorio Fiorini I francesi in Italia (1796-1815) 129
Guido Pompilj La Repubblica partenopea 193
Francesco S. Nitti La trasformazione sociale 265
E. Melchior de Vogüé Il Regno d'Etruria 301
Ferdinando Martini Donne, salotti e costumi 337
Ernesto Masi Vincenzo Monti (1754-1828) 365
Giuseppe Chiarini Ugo Foscolo (1778-1827) 405
Giovanni Pascoli Giacomo Leopardi (1798-1837) 445
Adolfo Venturi Antonio Canova (1757-1822) e l'arte de' suoi tempi 485
Enrico Panzacchi La musica 509
LA DELINQUENZA NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
CONFERENZA DI Cesare Lombroso.
I. Rivoluzione e Misoneismo.
Quella che si suole chiamare Rivoluzione dell'89, non fu che una grande rivolta e un grande delitto politico che servì ad aumentare una triste serie di comuni delitti; per cui chi vuol trattare dei suoi elementi criminosi dovrebbe rifarne tutta la storia; il che nè è mio cómpito, nè sarebbe possibile in poche pagine.
Lasciando dunque agli storici l'esposizione dei tristi fatti, quella che sarebbe detta in lingua giuridica la requisitoria penale, facciamone noi che siamo solo poveri alienisti la diagnosi e la psicologia patologica.
Ho detto che quella fu una rivolta ed un delitto politico, e mi occorre prima di ogni altra cosa darvene la ragione, e perciò partire dall'esporvi in che consista, ai miei occhi, dopo gli studi non brevi che feci in proposito, il delitto politico.[1]
Il delitto politico ha la sua base nel ribrezzo naturale nell'uomo per ogni novazione, sia essa politica, religiosa o artistica, talmentechè, ogni progresso diventa un fatto antisociale, quindi un delitto, quando urta troppo profondamente gli istinti conservatori delle masse.
Questi istinti sono tanto più tenaci e più radicati, quanto meno la razza è progredita.
Misoneismo. — Un fanciullo a cui si affaccia la prima volta un oggetto nuovo, dà in ismanie e tenta fuggire, e ciò solo per paura del nuovo: perciò voi lo vedete farsi perfino feroce se lo cambiate di stanza, ed impaurirsi ad ogni mobile nuovo; se ne osservarono di quelli che volevano vedere sempre la stessa pittura e riudire la solita novella con gli stessi termini. Guai a mutarli!
Varigny racconta come un fanciulletto di due anni, cui egli era carissimo, s'allontanò da lui con orrore quando dovè per un reuma infagottarsi una gamba nell'ovatta; il bimbo lo guardava sospettoso e poi gettava urli frenetici; ed anche dopo che egli guarì cercava evitarlo e gridava se gli si avvicinava un po' troppo; solo passati parecchi mesi, in presenza di un terzo, acconsentì ad ascoltarlo, ed a dargli la mano. Era evidentemente l'effetto del ribrezzo pel nuovo.
Quest'odio per il nuovo, che si osserva nei fanciulli, si nota a maggior ragione nei popoli selvaggi, la cui debolezza psichica fa sì che una volta assimilate alcune sensazioni, impediscano l'assimilazione di altre, massime se la differenza sia viva, e non vi sia un passaggio, una sfumatura che le colleghi; così nelle lingue primitive elefante è bue con i denti; nella chinese i cavalli sono cani grandi; nel sanscritto per esprimere stalla di cavalli si dice stalla di buoi di cavalli; e per un paio di cavalli un paio di buoi di cavalli.
Mancando i punti di passaggio, la percezione si associa a tale fatica da produrre un vero dolore, che alle volte si traduce in orrore. Succede allora nell'uomo normale quanto riscontrai in una mia alienata, che non poteva recarsi, nemmeno accompagnata, in una regione dove non fosse stata prima, perchè l'orrore e la confusione che la prendevano allora erano tali da indurla al suicidio.
Le menti deboli, o indebolite, o primitive, si mostrano dunque maggiormente esposte alla repulsione contro il nuovo: ben inteso che delle piccole innovazioni, come sarebbero la moda per la donna, il mutamento del tatuaggio da elittico in circolare per il selvaggio, i balocchi per il bambino, non solo non hanno orrore, ma anzi vivissimo desiderio, perchè vellicano, senza irritarli o addolorarli, i centri nervosi che hanno pur bisogno di qualche mutamento.
Ma quando l'innovazione sia troppo radicale allora non è solo il selvaggio ed il bimbo che ne sentano orrore; la gran maggioranza degli uomini, per i quali il misoneismo è legge di natura, ne prova ribrezzo, e ciò per il dolore che produce il dover far subire al proprio cervello dei passaggi più rapidi che non siano alla sua portata; essendo naturali nell'uomo volgare, come in tutti gli animali, l'inerzia e la ripetizione dei moti già eseguiti, proprii od atavistici. Ed a questo proposito scrive egregiamente il Max Nordau:
“Sono dispostissimo a credere che le tribù dei selvaggi spariscano di fronte alla civiltà irrompente, solo perchè il cambiamento immenso di tutte le condizioni le costringe a ricevere troppi concetti nuovi ed impone alla loro mente troppo nuove funzioni.„ — Questa, che parve una esagerazione, fu meglio spiegata ed illustrata dal Beard, il quale notò che, fino a che non sono a contatto della civiltà, i selvaggi hanno una resistenza straordinaria ai veleni, ai traumi, alla sifilide, all'alcool stesso e quindi vanno soggetti ad una minore mortalità.
Misoneismo nella religione. — Altrettanto dicasi della religione, delle lettere, delle arti: dove vediamo trionfare il misoneismo. Per molto tempo nell'Oceania, nell'India e fra noi, per quanto vi si opponessero i sentimenti di pietà, l'abbondante alimentazione e leggi severissime, si mantennero il cannibalismo, l'assassinio sacro e la carneficina dei prigionieri, di cui un triste avanzo, Spencer lo dimostra, è la circoncisione ebrea, che, notisi, dovrebbe, ritualmente, essere eseguita con quei coltelli di pietra che contrassegnano l'epoca preistorica, — l'epoca della pietra.
Anche in piena rivoluzione permase il feticcio; alla morte di Marat, Brochet fece stampare migliaia di copie di una giaculatoria che portava il ritornello: Cuor di Marat, proteggici.
Nella valle di Ceresole si usa da quegli abitanti appendere agli alberi certi sacchetti coi prodotti del suolo, il che è un avanzo dell'antico culto dei numi delle foreste.
Alla loro volta certe virtù attribuite ai santi riproducono quelle dei feticci e degli Dei pagani: contro la sterilità si invoca Sant'Andrea di Betsaida, contro l'epilessia San Giovanni, contro il mal di capo San Dionigi, Santa Lucia contro il male degli occhi, ecc.
In Russia i vecchi dèi degli Slavi sono adorati sotto nomi diversi dal Mugik (contadino); Vodianj è l'antico Dio delle acque, Domovoï il genio della casa, San Blasi è l'antico nume pagano Vlas, o Volos Dio degli armenti; in molti siti si usa far benedire il campo dal prete per esorcizzarlo dal mago; per molti Dio è un gran mago. Il Giove slavo Peroum, il Dio della folgore, risalì sugli altari sotto la figura di Sant'Elia.
In Francia, nella provincia di Saône e Loire, si trovano tuttora traccie dei Druidi nei cosidetti Bianchi, con regole religiose che ricordano l'antichissimo rito.
E che dire della superstizione del venerdì, così universale e che risale ai tempi prima del Cristianesimo? A Parigi, dove gli omnibus trasportano in media 317.000 uomini al giorno, al venerdì si nota una differenza in meno di circa 27.000 persone.
La conservazione fedele di religioni antichissime è anche essa una prova del misoneismo: si vide per esempio il Bramanismo, quasi preistorico, combattuto senza frutto da Mongoli, Persiani, Tartari, Mussulmani ed Europei; ed anche quando sorse a riformatore Budda, questi non ebbe mai per sè le masse, a cui pro si agitava; tanto che, per diffondersi, la sua religione dovette emigrare dall'India in Cina, al Tibet, a Ceylan, benchè non fosse in fondo che un Bramanismo depurato. Altrettanto avvenne dell'Ebraismo: il Cristianesimo nacque in Giudea da Ebrei, ma non ne trascinò la maggioranza che si disperse per tutto il mondo, serbandosi sempre immutabile nelle sue antiche superstizioni.
Misoneismo nella scienza. — Nel campo scientifico la storia di tutte le persecuzioni contro i geni inventori o riformatori basterebbe a provare l'influenza terribile del misoneismo, tanto più intollerante e fanatico quanto più ignorante; e basti citare i nomi di Colombo, di Galileo, di Salomone di Caus, primo inventore del vapore, mandato a Bicêtre da Richelieu.
Gli è per questo che non vi è scoperta moderna (fotografia, elettricità, vapore, gas illuminante, ecc.), grande o piccola, che non sia stata riscoperta non solo, ma più volte ed in più epoche e sempre a danno dell'inventore suo e restata intanto, al più, per molto tempo allo stato di giocattolo fanciullesco.
Nel 1760 quando il Governo Spagnuolo propose di pulire le vie di Madrid, un'indignazione generale, fino nelle alte classi, l'accolse. Il Governo si appellò ai medici, che dissero pericolosa l'esperienza di cui era impossibile calcolare i danni: le stesse cattive esalazioni rendendo più greve l'aria, le toglievano, secondo il loro parere, qualunque proprietà malsana!!
Nel 1787 non si credeva alla circolazione del sangue; si vietava all'Università di Salamanca d'insegnare le scoperte di Newton, perchè non si accordavano con la religione; mancavasi d'una biblioteca perfino in Madrid; i bastimenti erano così guasti che non potevano sopportare il fuoco dei propri cannoni.
Essendosi riconosciuto che le miniere di mercurio di Almadeira non rendevano, perchè i minatori lavoravano perpendicolarmente invece di seguire la vena, fu ordinato di cambiare sistema, ma essi rifiutarono, sicchè si dovettero far venire dei Tedeschi e degli Irlandesi ed allora si ebbero buoni risultati.
Pietro Verri lamentava che Giuseppe II e il Governo Austriaco avessero posti i numeri sulle case e illuminate le vie di Milano.
Il Cinese, scrive Jamesel, guarda sempre indietro, mai davanti a sè; per lui ogni cosa buona ci viene dagli antichi, ciò che è nuovo non può essere che triste, e se per caso un'invenzione nuova ha proprio del merito, certo dev'essere così antica, che se ne perdettero le tradizioni.
Ebbene noi ridiamo dei Cinesi, ma infine facciamo altrettanto; da noi mentre la Chiesa si può dire il baluardo officiale contro ogni novità nel mondo morale e negli usi, le Accademie sono lo strumento officiale contro il genio e contro ogni novazione scientifica o letteraria; e quindi mentre non si trova una scoperta che ne abbia avuto impulso o favore, molte ne furono combattute fieramente e con successo, perchè esse hanno nella lotta per alleato il sentimento pubblico delle plebi e dei governi, che sono in gran parte composti di plebe.
Ma come io ho già dimostrato nell' Uomo di genio, non solo gli accademici, che sono, per lo più, dei meschini eruditi, ma gli scienziati di genio a lor volta sono i più atroci persecutori ed oppositori del nuovo: portando una enorme energia nel rifiutare le nuove scoperte degli altri, sia perchè la saturazione, direi, del loro cervello non permette loro altra soprasaturazione, sia perchè avendo acquistato una specie di sensibilità specifica per le proprie idee, restano insensibilizzati per quelle degli altri.
Così lo Schopenhauer, che pure fu uno dei più grandi ribelli in filosofia, non ebbe che parole di pietà e di sprezzo per i rivoluzionari politici; sentiva, in questo, così vivamente, che legò tutta la sua vistosa fortuna a favore di coloro che nel 1848 avevano contribuito a reprimere colle armi i nobili conati rivoluzionari.
Altrettanto si dica della vita pubblica. Malgrado l'opposizione dei pensatori, i popoli sono sempre inclini alle battaglie quasi ad una festa: ed il bilancio improduttivo della Guerra è, senza contrasto, sempre accetto da tutti, in confronto a quello della Pubblica Istruzione e dell'Agricoltura, il cui incremento ci renderebbe, pure, più ricchi e più forti e quindi più sicuri.
Nella vita politica noi latini giuriamo per un uomo, per Cavour, per Mazzini; in piena rivoluzione, ogni partito ha un uomo su cui giura. Basta che un Governo od un partito abbia dominato, sia pure per breve tempo, perchè lasci dietro sè dei partigiani convinti, direi quasi congeniti, anche quando a loro sia succeduto un partito, od un Governo infinitamente migliore: ne sono un esempio quei fedelissimi seguaci che lavorano per il ristabilimento di Governi che furono detti la negazione di Dio, come in Italia i Borbonici e i Papisti, i Carlisti in Ispagna, i Legittimisti in Francia, ecc.
Altrettanto si dica delle caste che abbiano avuto una supremazia per un dato tempo; anzi le caste stesse, secondo il Lacaze, rispondono alla tendenza nostra alla immobilità e perciò è impossibile sradicarle. L'Indiano teme più d'ogni altra cosa la perdita della sua casta: ora egli può perderla, se Bramino, col mangiar carne, anche contro voglia o per forza; col far un viaggio in Europa; col consumare un alimento preparato da seguaci di altra religione o casta, col coabitare con donne straniere o di classe inferiore.
Il Garofalo, in un prezioso opuscolo, ha fatto osservare che l'aristocratico ha lasciato fra noi tale un'istintiva devozione, che negli stessi suffragi politici a base democratica, esso è con costanza preferito a persone non solo eguali ma superiori per merito. Ed anche coloro, come gli antropologhi ed i psichiatri, che sanno quanto la nobiltà, almeno fra i latini, presenti più spesso il fianco alla degenerazione e quindi ad una vera inferiorità fisiologica sui borghesi, per l'ozio, per i matrimoni consanguinei, ecc., si sorprendono attratti verso loro, non di raro, da illogici istinti di ossequio, analoghi a quelli del valligiano remoto che saluta umilemente ogni cittadino che incontra; e sono — gli uni quanto gli altri — ultimi vestigi, ereditari, delle antiche schiavitù feudali. Il dominio teocratico, è da un pezzo passato dai nostri costumi, almeno in apparenza; ma provatevi ad agitare una questione in cui sottomano e di lontano anche entri la punta teocratica, il divorzio, per esempio, come tempo fa la soppressione dei frati o solo del loro vestiario, e vedrete che opposizione si solleva, ben inteso sotto i termini più diversi, più liberali, della libertà individuale, del rispetto alla donna, della protezione dei figli, ecc.
Abbiamo oggidì, si dice, la libertà, la giustizia per tutti; ma in fondo i privilegi non fecero che cambiare da una all'altra casta; non sono più i sacerdoti ed i nobili, ma pochi avvocati politicanti che predominano ed al cui vantaggio lavorano tutti — senza o quasi senza compenso — gli onesti ed i disonesti.
Insomma il passato è così incarnato nelle nostre viscere, che anche i più riluttanti ne sentono attrazione potente; così possiamo essere miscredenti finchè si vuole, eppure dalle moine del prete qualche ora del giorno ci sentiamo colpiti ed attratti; possiamo essere egualitari, ma, come abbiamo accennato, sentiamo una venerazione per gli eredi dei nostri baroni; altri ha bel credere all'inutilità di alcune leggi, ma chi le difende trova subito il plauso di mille, solo perchè esse hanno esistito. E se la civiltà si fa strada non di rado, è perchè trova nei mutamenti di clima, di razza, o nell'insorgere dei genii o dei pazzi, circostanze tali che finiscono per sommare tanti piccoli movimenti in modo da farne col secolo un grande.[2]
Misoneismo nelle pene. Contro l'uso. — Ecco perchè nelle legislazioni primitive vediamo le mancanze contro l'uso costituire il massimo delitto, la massima immoralità: ed un breve esame condurrà a veder in ciò l'origine di quasi tutte le leggi che vennero poi a tutelare lo Stato contro i ribelli all'ordine politico esistente, od a punire gli attentati rivolti contro i capi del Governo, discendenti dai sacerdoti, dai capi tribù primitivi, che nell'idea misoneistica, quali custodi dell'uso, venivano considerati come sacri e perciò, mentre godevano piena impunità, segnalavano ogni offesa contro sè stessi come delitto.
Il codice di Manù (libro I, art. 108-9) così si esprime quanto alla violazione dell'uso:
“Il costume immemorabile è la principale legge approvata dalla rivelazione; in conseguenza chi desidera il bene dell'anima sua deve conformarsi con perseveranza al costume immemorabile. Perciò i Muni, conoscendo che la legge si appoggia a consuetudini immemorabili, su queste fondarono ogni austerità.„
Così il supplizio dell'olio bollente era destinato al Sudra tanto audace da dare un consiglio ai Bramini relativamente al loro dovere e si giudicava un atto di rivolta quando cessava di approvare ciecamente l'attitudine di coloro che sono i maestri, i padri di tutta la creazione. (Manù, VIII, 272). — Come vedemmo, era a sua volta delitto per il Bramino, non solo l'andare all'estero, ma il coabitare con uno straniero, o farsi da questo preparare i cibi.
Gli Egiziani spinsero l'amore dell'immobilità al punto di fissare con leggi immutabili la pittura, la scultura, i canti e la danza ed a giudicare come empi coloro che tentassero mutarli: persino il disprezzo dei rimedi suggeriti dai libri sacri era sacrilegio: il medico che vi contravvenisse poteva in caso di insuccesso essere condannato a morte.
Nella Cina non si fece diversamente per lunghi secoli: ed è noto quanto anche ora quel paese si dimostri restìo al progresso europeo: nel 1840 un padrone di nave, avendo messo un'áncora all'europea, il Governo fece distruggere la barca e punire il barcaiuolo.
Nei codici della dinastia Hia, ricordati da Confucio, si trovano dei curiosi esempi di misoneismo: vi si leggeva, per esempio: “chi alterando le parole corrompe le leggi — chi disordina i titoli e muta le regole — chi professa false dottrine per disordinare il Governo: pena di morte. Chi compone musica licenziosa — chi forma abiti strani — chi fabbrica meccanismi artificiosi o arnesi straordinari per commuovere la mente del principe: pena di morte.„
In tutte le città greche il sacrilegio e quindi la mancanza agli usi e alle credenze più assurde, era essenzialmente un delitto politico.
Per i Daiacchi era delitto intaccare i tronchi degli alberi con dei tagli a V come gli Europei: non si dovea colpirli che perpendicolarmente all'asse.
Nella antica Russia, scrive Stepniak, il concilio ecumenico condannava l'introduzione di una nuova foggia di pettinatura, di un nuovo piatto, come un reato: nel 1563 la prima stamperia vi fu chiusa come opera diabolica.
Da noi è ancora vivo il ricordo come fossero considerati delitti di Stato i tentativi di mutare i costumi più semplici; come i cessati Governi dispotici perseguitassero quali proprii nemici non solo i veri ribelli, ma perfino i portatori di baffi e un tempo gli avversari della coda.
II. Rivoluzioni e Rivolte.
Fondamento del delitto politico. — Ora, se per tutto quanto abbiamo visto, il progresso organico ed umano non ha luogo che lentamente e per attriti potenti, provocati dalle circostanze esterne ed interne, e se l'uomo e la società umana sono conservatori istintivamente, è forza concludere che i conati al progresso, che si estrinsecano con mezzi troppo bruschi e violenti, non sono fisiologici: che se costituiscono qualche volta una necessità per una minoranza oppressa, in linea giuridica, sono un fatto antisociale e quindi un delitto.
Ed un delitto spesso inutile: perchè essi destano una reazione in senso misoneistico, che basandosi solidamente sulla natura umana, ha una portata maggiore dell'azione anteriore. Ogni progresso per essere adottato deve essere lentissimo, altrimenti è un dannoso ed inutile sforzo.
Coloro che vogliono imporre una novazione politica, senza tradizioni, senza necessità, intaccano il misoneismo e destano così la reazione negli animi aborrenti dal nuovo, con che giustificano l'applicazione della legge punitiva.
Rivoluzioni, ecc. — E qui si pare la distinzione tra le rivoluzioni propriamente dette che sono effetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco più rapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente storico, — e le rivolte o sedizioni, le quali sarebbero un'incubazione precipitosa, artificiale — a temperatura esagerata — di embrioni tratti perciò a certa morte.
La rivoluzione è l'espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, di sistema scientifico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi resultati politici, ecc., essa li cambia col minimo degli attriti e col massimo del successo, per cui le sommosse e le sedizioni che provoca, se pure ne sono una parte necessaria, sono appena avvertite e svampano appena comparse: è la rottura del guscio del pulcino maturo.
Uno dei suoi caratteri distintivi, dunque, è il successo, che può raggiungersi presto o tardi, secondo che sia più maturo o no l'embrione e secondo che sieno i popoli e i tempi adatti alla evoluzione.
Un altro carattere è il suo moto lento e graduato, altra ragione questa del successo, perchè allora è tollerato e subìto senza scosse; malgrado, non di rado, una certa violenza vi appaia necessaria contro i partigiani del vecchio che si trovano sempre, per quanto grandi siano le ragioni del nuovo: e ciò sempre per l'universalità del misoneismo e della legge di inerzia.
Le rivoluzioni sono più o meno diffuse, generali e seguite da tutto un paese; le sommosse sono sempre parziali, opera di un gruppo limitato di caste o d'individui; alle prime non prendono parte quasi mai i ceti elevati, ben inteso quando essi non sieno presi di mira dagli altri per livellarsi con loro.
Le sedizioni rispondono a cause poco importanti, non di rado locali o personali, spesso in rapporto all'imitazione, all'alcool, al clima, e durano di una vita tanto più corta, quanto più vivace. Come non mirano ad altri ideali, così non raggiungono uno scopo o lo raggiungono contrario al benessere generale e sono frequenti in popoli meno progrediti: esempi il Messico, San Domingo, le piccole repubbliche medioevali, e or non è molto, quelle dell'America meridionale; come nei ceti meno colti e nel sesso più debole — e assai più vi partecipano i criminali che gli onesti.
Le rivoluzioni invece appaiono sempre di raro, mai nei popoli poco progrediti, e sempre per cause assai gravi o per alti ideali; vi prendono parte più gli uomini appassionati, cioè i rei per passione od i genii che i criminali.
Così è che se le ribellioni cessano colla morte dei capi, le rivoluzioni ne hanno spesso, invece, incremento (Cristo): e benchè gli inizii ne siano il più delle volte poco favorevoli, finiscono quasi sempre per trionfare, all'inverso delle rivolte, vincitrici invece solo sul principio.
Questo succede anche quando si tratti di popoli deboli opposti a forti, come in Grecia, nei Paesi Bassi, a Milano nel 1848, e nell'impresa dei Mille. Che se sulle prime tali rivoluzioni sembrano fallire, esse danno luogo a un lento lavorìo che finisce col farle trionfare: così il partito popolano di Roma represso da Silla, trionfò con Cesare; a Firenze, i Ciompi, sconfitti, finirono col prevalere coi Medici; nei tempi moderni i moti rivoluzionari del '48 e '49 dell'Ungheria e dell'Italia, debellati crudelmente dapprima, le condussero alla conquista della indipendenza politica.
Ma se il terreno non sia preparato e sia troppa la distanza fra il precursore e la massa del pubblico, la sua voce resta inascoltata e non si ha allora che una sedizione, l'aborto della rivoluzione, la convulsione piuttosto che il moto normale, e quindi, come quella, è prova di malattia e di indebolimento. E ben l'esprime Dante parlando della sediziosa Firenze:
“Quante volte del tempo che rimembre
Legge, moneta, e uffici, e costume
Hai tu mutato e rinnovato membre.
E se ben ti ricorda, e vedi lume,
Vedrai te somigliante a quella inferma
Che non può trovar posa in sulle piume,
Ma con dar volta suo dolore scherma.„
Purgatorio, Canto VI.
Ecco perchè vedremo le sedizioni più numerose nei paesi caldi od in quelli a grandi altezze, dove la minor pressione atmosferica provoca l'anoxiemia, mentre si vedono le rivoluzioni esser più frequenti nelle regioni del freddo temperato che del caldo: esempio gli Ebrei progrediti quasi in Arî passando dal caldo al freddo temperato, mentre degli Arî purissimi, come i Vandali, passando dal freddo al caldissimo dell'Africa, subirono un regresso.
Ecco perchè infine vi hanno paesi in cui mai avvennero vere rivoluzioni, in cui la religione restò bramina e feticcia, ed il Governo individuale e dispotico, anche nelle così dette repubbliche; mentre le sedizioni sono assai rare nell'Inghilterra, nell'America del Nord, in Germania, dove avvennero invece grandi rivoluzioni.
III. Rivoluzione nell'89.
Dopo queste premesse è facile comprendere perchè io opini che quella dell'89 fu una rivolta più che una rivoluzione. Certo la Francia aveva avuti ed avea momenti infelicissimi. Le carestie così ripetute e continuate che affermasi nel 1715 un terzo della plebe sia morta letteralmente di fame, e nel 1725 in Normandia si viveva dell'erba dei campi (Taine, pag. 431); e ai tempi di Fleury il paesano nascondeva il poco pane e il poco vino, per paura delle tasse, sicuro d'essere perduto se poteva credersi che egli non morisse di fame; e Massillon dice che i negri delle colonie soffrivano meno dei francesi plebei che si gettavano famelici sugli avanzi dei pranzi degli ufficiali.
La causa del maggior malessere era che tutto gravava sul popolo e i minimi proprietari, in ragione di 54 e perfino di 71 di tasse per 100 di rendita.
E giustamente nota Taine, che quando un uomo è misero si irrita, ma che quando è misero e proprietario, si irrita ancor più. Si può rassegnarsi all'indigenza, non allo spoglio.
E con tante perdite nessun compenso. La borghesia e il popolo minuto non erano calcolati, come non esistessero nello Stato. La nobiltà, il clero che pur contavano tutto, a lor volta avevano ogni attività paralizzata dall'accentramento monarchico, cosicchè non avevano nemmeno la potestà e i mezzi di proteggere il popolo che a loro un secolo prima affidandosi, aveva imparato, per gratitudine, ad amarli. La nobiltà, dice Taine, era uno stato maggiore in vacanza intorno ad un generale che invece di comandare teneva un salon. Il suo merito consisteva unicamente nell'etichetta di corte; i suoi privilegi non erano che quelli della prepotenza, non ultima delle cause della fame essendo, per esempio, i suoi diritti di caccia, per cui intere lande restavan deserte, e per cui se anche coltivate venivano invase dalle predilette fiere, che era delitto respingere colle armi.
Il monarca, dopo aver accentrato tutto, anche avesse voluto, non poteva provvedere ai mali, di cui del resto poco curavasi; la Francia era un suo dominio; se anche lo dissipava non era che roba sua; se faceva una guerra era per proprio puntiglio o per suo interesse; lo sperpero toccava il fantastico: la cameriera della regina spendeva 30.000 lire in candele; il capitano di caccia 20.000 lire in colombi. Vi erano a corte 295 ufficiali di bocca (noi li chiameremo cuochi), 75 cappellani, 48 medici e farmacisti, 45 lettori. Ogni principe aveva analoga corte speciale. L'alto clero che si trattava come i principi, non aveva altra missione che la persecuzione e l'arricchirsi; ancora nel 1716 i protestanti erano mandati in galera se si radunavano e i pastori appiccati.
Ma questi malanni che davvero avrebbero giustificato qualunque reazione, cominciavano a medicarsi radicalmente pel consenso stesso di quelli che più ne aveano colpa.
In grazia degli Enciclopedisti che avevano reso l'amor della libertà, una moda, un delirio epidemico, i nobili che accoglievano i letterati come loro superiori, a Berry avevano dichiarato doversi le imposte ripartire fra tutte le classi; avevano rinunciato spontanei a quasi tutti i privilegi. Nel '79 avevano perfino abbandonato le mode costose, e vestivano come i borghesi. Il re aveva soppresso le corvées, istituita la libera circolazione dei grani, reso lo stato civile ai protestanti, data libertà di stampa, nell'84 aveva soccorso con 3 milioni del proprio gli affamati. Alla Bastiglia nell'89 non vi erano più che sette individui di cui uno idiota. E chi di noi non ha sentito Il Tartufo e il Matrimonio di Figaro senza meravigliarsi che queste commedie fossero non solo tollerate, ma recitate davanti alla corte, al clero e a quella nobiltà, che criticavano così atrocemente? Noi crediamo di essere un popolo libero; ma mettiamoci la mano sul petto, confessiamo sinceramente: in quale città nostra si permetterebbe una commedia in cui ai magistrati pubblicamente si dicesse “senza il tocco e la toga noi non valiamo più niente„ e ai nobili “ tutto ci è permesso, perchè abbiamo fatta la fatica di nascere „. Credo non andar errato nel supporre che si troverebbero non pochi magistrati pronti a condannarne gli autori per diffamazione, grazie alla famosa o meglio infame legge Zanardelli, o per eccitamento all'odio contro le classi sociali, e cittadini pronti se ei già non fossero da secoli morti, a mandarli per qualche mese a domicilio coatto. Libertà latina!
Ora le riforme esagerate dell'89, improvvisate colle stragi e in mezzo alle stragi, dalla prepotenza di pochi, provocando una naturale reazione, per la stessa loro eccessività, impedirono quella evoluzione lenta e feconda che si andava manifestando in tutte le classi.
Un centinaio di sconosciuti installati al municipio con un colpo di mano notturno rovesciano uno dei poteri dello Stato, soggiogano l'altro; sostenuti da 8 o 9 mila fanatici pervertono il corso della giustizia, impongono all'assemblea i loro capricci, che diventano leggi. Si appropriano dei tesori, a pagamento dei loro delitti. Per poter rimanere al Governo non hanno che la minaccia e l'audacia.
Chiudono tutte le porte, chiudono Parigi come in una grande trappola. Arrestano 3000 persone, giovani, vecchi, malati, e quando l'assemblea lor s'oppone risolvono il grande macello del settembre, e Marat che sarebbe il Drumont d'allora più la pazzia, e meno la disonestà, diventa il loro dittatore supremo.
La stessa dichiarazione dei Diritti dell'Uomo che parve e fu veramente la più bella delle manifestazioni di quell'epoca fu contraddetta nei giorni stessi in cui si emanava e da coloro che la dettavano. Mentre proclamavano che nessuno sarebbe stato condannato senza una sentenza di tribunale, essi lasciavano scannare, anzi colle proprie mani scannavano, centinaia di detenuti, auspice e complice lo stesso ministro della giustizia Danton. Mentre proclaman la libertà del pensiero, fanno ghigliottinare, auspice Robespierre, chi ricusava di adorare il loro Ente supremo. Mentre predicavano il rispetto per l'indipendenza dei popoli, avvertono il Bonaparte che sfrutti pure il Milanese, offa per l'Austria.[3]
E nella provincia Narbonne affamava Tolone; Roussillan rifiutava di soccorrere la Linguadoca; Tolone, e più tardi Marsiglia e Lione, si ribellavano; a Montauban i cattolici facevano strage dei protestanti e viceversa. Nè ritrovarono la pristina forza ed unità, finchè non caddero in braccio a quella dittatura militare che anche quando si copre di gloria nei campi di battaglia è il peggiore di tutti i governi, e non può convenire che a un popolo ed a un'epoca barbara. Ciò basta a dimostrarvi che l'89 fu un grave delitto politico, poichè senza migliorare le sorti della nazione, anzi peggiorandole, le fece soffrire dei parossismi così dolorosi e feroci; e per poco non ne mise l'esistenza in pericolo.
IV. Il delitto comune nell'89. — Capi criminali.
E insieme ad un delitto politico fu l'89 una serie di delitti: e molti infatti dei suoi capi erano dei volgari malfattori a cui la politica forniva il pretesto ed i mezzi per associarsi nel male.
E qui non saprei più dove cominciare per darne le prove. In un mese solo, nel luglio '89, in una sola provincia 36 castelli furono saccheggiati e abbruciati; e si vide, per esempio, il De Barras, un onesto ed anzi democratico castellano, tagliato a pezzi davanti alla moglie gravida che ne morì; D'Ambli trascinato nudo nel suo villaggio, messo in un letamaio, strappate le ciglia e i capelli, agonizzare mentre gli si danza d'attorno.
Avignone era divenuto un nido di briganti. I contrabbandieri delle dogane francesi, i giuocatori di professione, evasi dalle prigioni di Tolone, pochi capi giacobini, cacciato il legato pontificio, accaparransi i capi della guardia nazionale, occupano il municipio. Ammazzano il loro primo generale Patrix e lo sostituiscono con Jourdan detto il Taglia teste, perchè dicesi aveva poco prima tagliato la testa a due guardie reali. Si fa un corpo di 5 o 6 mila uomini che chiamano mandrins, ma era, dice Taine, far vergogna a Mandrin. Alcune bande ammazzano, violano, estorcono denari a tutti. Al sindaco di Sarrians che offre le chiavi saccheggiano e incendiano la casa; tagliano in due un fanciullo di cinque anni, ne ammazzano la madre e ne mutilano una sorella; recidono le orecchie a un curato e gliele fissano sulla fronte a guisa di coccarda, poi lo scannano e danzano intorno. Quando tutti stanchi si sollevano contro loro, essi rinnovano i massacri; scannano 60 persone inerti, gettandole nella glacière, e 100 altre nei canali.
Per tutte le lunghe ore delle fucilate, scrive Taine,[4] l'istinto omicida s'è risvegliato, e il desiderio di uccidere, trasformato in idea fissa, si è sparso lontano, nella folla che non ha ancora agito. Il suo clamore solo basta per persuaderla, per eccitarla; quando uno batte, tutti vogliono battere. — Quelli che non avevano armi, scriveva un ufficiale, mi lanciavano delle pietre contro, le donne strizzavano i denti e mi minacciavano coi pugni. Giunsi infine fra i gridi generali che mi volevano appiccato, fino a qualche centinaio di passi dall'Hôtel de Ville, quando mi si portò dinanzi una testa alla cima di una picca, che mi fecero vedere dicendomi che era quella di M. Delaunay il governatore. Questi uscendo aveva avuto un colpo di spada nella spalla destra. Arrivato in via Sant'Antonio, tutto il mondo gli strappava i capelli e gli dava dei colpi. Sotto l'arca di San Giovanni, era già coperto di ferite, intorno a lui gli uni dicevano “Bisogna accopparlo, bisogna attaccarlo alla coda di un cavallo, bisogna abbruciarlo„ ed allora disperato e desiderando di abbreviare il supplizio grida “datemi la morte„, e dibattendosi dà un calcio nel ventre a uno di quelli che lo tenevano. Nel momento stesso è passato da parte a parte dalle baionette, strascinato nei fossi mentre si grida intorno al suo cadavere: “È una carogna, un mostro che ci ha traditi.„ —
La nazione vuol il suo capo per mostrarlo al pubblico e prega l'uomo che ha ricevuto il calcio di troncarlo; costui, un vagabondo, cuoco di professione, che era andato alla Bastiglia per sola curiosità, crede che quella che domandan tutti debba esser un'azione patriottica: gli vien prestata una sciabola e colpisce il nudo collo; ma siccome lo stromento mal affilato non taglia, tira fuori di tasca un coltellino a manico nero e in qualità di cuoco che sa lavorare nelle carni, pone termine all'orribile operazione; poi mettendo quella testa su un forcone a tre punte e accompagnato da duecento persone armate senza contar il popolo, si mette in istrada e in via Saint-Honoré fa attaccare alla testa due iscrizioni per indicar bene a chi appartenesse. Ma il loro buon umore cresce. Dopo aver sfilato nel Palais Royal il corteggio arriva sul Pont Neuf davanti alla statua di Enrico IV; si fa inclinar tre volte quella povera testa gridando “saluta il tuo padrone„. È lo scherzo finale di cui si trova uno spizzico in ogni trionfo, dove sotto il carnefice trapela il monello
Ma coloro finiscono per non accontentarsi più della strage; e volere prolungare la morte; non colpiscono più le vittime colla punta, ma col piatto delle spade e le tagliuzzano; e quando non hanno più carcerati politici ammazzano i delinquenti comuni, ahi! fino degli innocenti minorenni.
Quando non ebbero più aristocratici nè nemici politici da scannare, i Settembristi scannarono dei ladri comuni e quando non ebbero nemmeno più questi giunsero a freddare i poveri ammalati di Bicêtre e della Salpetrière; violando prima, e dopo uccise, delle prostitute e, orribile a dirsi, delle impuberi orfanelle che giacevano nei dormitoi, e quando il ferro, il foco non bastava giunsero agli annegamenti in massa ed alla mitraglia.[5]
A Caen arrestano quindici povere donne ortodosse, le attaccano al cannone, le trascinano qua e là, solo perchè avevano sentito messa da preti non giuranti.
A Lione (1791) il giorno di Pasqua una banda armata di staffili si slancia sulle donne che sortono dalla messa, le spoglia, le batte, così che una giovine ne muore.
Ogni reggimento ha un comitato di soldati, che giudicano e battono gli ufficiali; alcuni saccheggiano la cassa del reggimento, a Nancy saccheggiano l'arsenale, a Brest s'ammutinano contro l'ammiraglio. Ottanta comunardi si impongono a tutte un paese per punire i malevoli, bastonano il primo venuto, che, dicono, se non faceva il male, certo lo pensava, e se ne fan pagare il disturbo.... della bastonatura. Vendemmiano una vigna di una povera vedova, minacciandola se li denunciasse, e quando questa se ne lagna, se ne fan pagare essi cinquanta lire di danni; e mentre battono i mariti, ne violano le mogli.
Quando la folla è ridotta in questo stato e non le basta più uccidere, ma vuole che la morte sia accompagnata dai più atroci supplizi e dagli scherni più orrendi, quando l'istinto sanguinario giunge a tal punto di frenesia, non tardano a risvegliarsi insieme a questo anche gli istinti libidinosi. Crudeltà e lascivia allora si appaiano, e l'una aumenta il vigore dell'altra. Come il degenerato che funesta la poesia dell'amplesso amoroso coi tormenti e col sangue, la folla accresce la turpitudine dell'assassinio colle offese contro il pudore, e questa oscena follia di libidine e di sangue trova talvolta nel cannibalismo l'ultimo grado del parossismo.
Tutti i mostri che strisciavano incatenati nel più profondo del cuore, escono allora insieme dalla umana caverna; non soltanto gli istinti dell'odio coi loro artigli, ma anche gli istinti osceni; nella infelice Madame Lamballe, uccisa troppo presto, i carnefici libidinosi non possono oltraggiar che un cadavere; ma per la Desrues, essi ritrovano la macabra immaginazione di Nerone. Di qui al cannibalismo la distanza è breve, e qualcuno la supera. All'Abbazia, un antico soldato di nome Damiens, pianta il coltello nel fianco dell'aiutante maggiore Laleu, introduce la mano nella ferita, strappa il cuore e lo porta alle labbra come per divorarlo. “ Le sang — dice un testimonio oculare — dégouttait de sa bouche et lui faisait une sorte de moustache „ (Taine).
A Guillin mangiano arrostito a tavola il braccio dopo averlo straziato.
“Erano vendette simili a quelle d'un re Orientale che colle proprie mani subitaneamente vendichi la maestà offesa e non conosca altra pena che la morte. Peggio anzi di tali re, perchè essi non possono essere dappertutto, nè sempre sono furiosi„ (Taine).
Ma fermiamoci in questa orribile serqua, in cui nessuno dei più gravi delitti, dall'incendio al furto, all'assassinio, allo stupro, pare sia mancato.
V. Cause dell'insorgere violento della criminalità.
Tentiamo di spiegare come essi sorsero.
Le cause per cui il delitto politico si confuse col comune in modo così esplosivo e feroce furono:
I. Dapprima le carestie ripetute, che aggiungendosi alle tasse enormi sugli ultimi strati popolari avevano rese le condizioni di questi insopportabili, e provocato perfino un'enorme mortalità.
II. La seconda causa è che l'autorità e le caste oppresse avevano per una serie di strane ragioni perduta ogni abitudine e voglia di resistenza.
I borghesi indeboliti dall'abito della tranquillità, divisi dagli interessi, credevano sfuggir la tempesta restando quatti, e intanto lasciavano tutti i gradi della guardia nazionale ai giacobini e diventavan lor gregge; per cui minoranze audaci imponevano a maggioranze armate.
III. Terza causa fu il fondersi della criminalità comune colla politica.
I prodromi della rivoluzione francese sono segnalati da stormi di vagabondi, di ladri, di assassini; Mercier ne calcola un'armata di oltre 10.000 che man mano si restringe intorno alla capitale e vi penetra, e quando l'opera del Terrore comincia, presiede all'esecuzione in massa, come poi alle fucilate di Tolone, agli annegamenti di Nantes, mentre i Comitati rivoluzionari erano, come ben li definisce il Meissenet, delle vere associazioni organizzate, per commettere impunemente ogni genere di assassinî, rapina e brigantaggio.
I centri donde partirono le rivoluzioni, erano veri centri criminali, come Avignone, dove il contrabbando e il banditismo si era già dato la mano sotto la protezione del debole governo papale.
Nelle campagne, banditi vestiti in uniforme arrestavano i vecchi terrieri e li svaligiavano, mentre de' gendarmi o non ve n'erano o erano intimiditi.
I paesani finivano di arrestare e svaligiare tutti i forestieri sotto pretesto che fossero accaparratori.
A Parigi, nelle terribili giornate del 1793, questi criminali furono l'anima di tutti i misfatti.
Stormi immensi di vagabondi, stranieri alla città di Parigi, circa 40.000 secondo Taine, percorrevano i diversi quartieri, e si ingrossavano di numero coll'aggiungersi agli operai che uscivano dalle fabbriche.
Si erano impossessati qua e là di ogni sorta di armi, e gettavano dei gridi di rivolta; gli abitanti fuggivano all'avvicinarsi di questi gruppi, tutte le case chiudevansi, e ovunque dove si incontravano queste orde le vie si facevano deserte.
Entravano nelle case e negli uffici pubblici, e rubavano quanto poteva esser portato via, il resto devastavano spesso appiccandovi il fuoco.
Una prova ne abbiamo nello studio antropologico dei così detti capi di costoro. A dir vero la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone. I così detti suoi capi erano ciarloni e ciarlatani, che vendevano al minuto la loro effimera influenza sulla povera plebe, la lor maschera di Eolo. Ora, una gran parte di costoro, quando non erano dei retori, erano dei puri delinquenti, e basta vederne la prova nell'immagine loro. Jourdan, Carrier e Marat, che riproducono in tutta la sua orridezza il tipo del delinquente nato, Legende,[6] un beccaio feroce, fino nell'Assemblea conserva i gesti del mestiere; Roussignol, antico soldato, poi carnefice, dopo aver presieduto ai massacri della Forge, si improvvisa generale. Manuel, il sindaco procuratore, aveva rubato in un deposito e falsificata la corrispondenza privata di Mirabeau. Varret aveva menato una vita così infame, che sua madre ne morì di dolore. Westermann era ladro e truffatore, come Pinie era ladro, Huguenin concussionario, Hebert borseggiatore, Henriot, prima servo di uno che lo cacciò per furto, poi guardia di una fattoria di dove fu cacciato per altri furti, infine capo di battaglione e carnefice in una delle carneficine di Settembre. Joussand, uno dei capi in Tolone, si firmava “ Le pendeur de la ville „...
Una prova sociologica dell'indole puramente criminale di costoro è che sfuggivano ogni lavoro, tanto che la Comune non trovava operai per i lavori necessari a Montmartre e non trovava cittadini per far la guardia alle assemblee o ai depositi.
Ora è noto che il ribrezzo del lavoro è uno dei caratteri dei criminali.[7]
Nè mancavano i pazzi; l'orda rivoluzionaria ne avea loro aperte le porte; ed essi ebbero campo di sfogare il loro delirio sulle piazze e nelle vie, percorsero Parigi portando ovunque scompiglio e terrore.
“Il figlio d'una pazza — narra il Tebaldi — che soleva alternare il soggiorno fra il manicomio e la prigione, fu uno degli attori più spietati nelle perquisizioni, negli eccidi, negli incendi.„ È più celebre fra tutti la Lambertine Théroigne, che guidò la folla all'assalto del cancello degli Invalidi e alla presa della Bastille, e finì alla Salpetrière ( Ragione e Pazzia, 1850 ).
A Lione, comanda Salix, un delirante mistico, omicida, che finisce a lasciar il comando in mano a prostitute, che eleggono commissarie femmine occupate tutto il giorno a saccheggiare i magazzini.
Ma il tipo che fuse in sè i caratteri del pazzo e del criminale, era Marat. Marat era di origine italo-sardo e svizzero, nato da una buona famiglia. Marat, come bene ci descrive Taine, era alto cinque piedi, aveva una testa enorme, in sproporzione col corpo, assimetrica, la fronte sfuggente, l'occhio obliquo, gli zigomi voluminosi; lo sguardo torbido e irrequieto; il gesto rapido e a scatti; il volto in contrazione perpetua; i capelli neri e untuosi, sempre arruffati; nel camminare saltellava.
Fin dall'infanzia manifestò una presunzione senza confini. Lo confessa apertamente egli stesso nel suo Journal de la République Française scrivendo:
“A cinque anni io avrei voluto essere maestro di scuola, a quindici professore, autore a diciotto, genio a venti. Fino dalla mia più tenera età io era divorato dall'amore della gloria, passione che cangiò di oggetto ogni tanto, ma non mi ha mai lasciato.„
Prima che scoppiasse la rivoluzione, cercò, ma indarno, di levar grido come scienziato.
A Edimburgo, dove faceva il maestro d'inglese, nel 1774 stampò il suo primo lavoro: The Chains of Slavery ( Le catene della schiavitù ), che tradusse poi da per sè in francese nel 1792 e che i suoi biografi giudicano un povero lavoro politico.
L'anno dopo pubblica un trattato in tre volumi: Sull'influenza dell'anima sul corpo, ecc., giudicato un miscuglio di letture indigeste, di nomi cacciati all'azzardo, di ipotesi gratuite ove le dottrine del secolo XVII-XVIII si accoppiavano senza dar luogo ad altro che a vuote frasi.
La sproporzione del suo ingegno colla straordinaria vanità, la sovraeccitazione continua, la copia dei suoi scritti, tutto caratterizzava il suo delirio ambizioso, cui come nel paranoico andò man mano associandosi il persecutorio, che gli faceva vedere invidiosi e nemici dapertutto. Medicastro, mal retribuito, di corte, nel passaggio dalla vita di studi all'azione, dal disprezzo a un poter sconfinato, da mattoide diventa monomane ed omicida. Sfoga dapprima il delirio sterilmente nel suo giornale, ma finisce per trovare eco nel popolo appunto per la sua assurdità. Eran sempre gli stessi articoli, le stesse frasi vuote e bestiali, eran dapprima 600, poi 100.000, poi 250.000 teste che egli (pretendendo applicare le teorie di Rousseau) chiamava al popolo, offrendosene, triste a dirsi, per giustiziere sommario. La sua immaginazione è avida di supplizi. Gli occorrono incendi, assassinî. Incita alle azioni atroci. “Marchiate gli aristocratici col ferro caldo, tagliate loro il pollice, troncate la lingua.„
“Non era questo il grido dell'appassionato, nota bene il Michelet (v. I), di un genio che veda ben tracciata la sua strada„, ma il grido feroce di un delirante epilettico.
E la sua ferocia era così evidentemente patologica che Bordier, il suo medico, leggeva il suo giornale, e quando questo era troppo sanguinario lo salassava, tanto reputava quegli impulsi omicidi effetto di un morbo.
“Ciarlatano, dice il Michelet, ingannatore e profeta da trivio, credente nelle proprie bugie, doveva gridare al miracolo almeno una volta al giorno.„
E questo era il letterato e certamente il più disinteressato di tutti. Figuriamoci gli altri.
Ubbriacatura. — Ad aumentare la ferocia dei veri delinquenti e l'irritazione di tutti si aggiunga, oltre all'ubbriacatura morale che dà il numero stesso, l'ubbriacatura fisica, il vino bevuto a profusione.
Monastier ubbriaco faceva ghigliottinare Lassalle, e al domani non si ricordava più dell'ordine dato.
I Commissari della Vandea vuotavano in tre mesi 1974 bottiglie e contavano nel loro seno Rossignol, un operaio orefice, divenuto generale in capo, tutta la vita dedito alle crapule, e Vacheron, che violava donne e fanciulli e faceva fucilare chi si opponeva alle sue libidini accese dall'alcool.
Ad Avignone un farmacista, fratello di uno dei capi masnada, ebbe l'orribile idea di intossicare con sostanze venefiche, probabilmente stramonio, i pacifici cittadini che divenivano così subitamente sanguinari.
Non ci meravigli questa strana influenza nelle rivolte dei criminali e dei pazzi ad un tempo.
Io ho a lungo dimostrato e più volte nelle mie opere, che mentre tutti gli uomini amano, odiano il nuovo, solo i matti, i mattoidi e i criminali nati hanno per questo una speciale attrazione.
Il criminale è, sopratutto per la sua natura impulsiva e per odio delle istituzioni che lo colpirono o che lo inceppano, un ribelle politico perpetuo, latente, che trova nelle sommosse il modo di sfogar doppiamente le sue passioni, e di vederle, per la prima volta, approvate anco dal pubblico. Ed è certo che costoro vedono, forse ispirati dalla passione, i difetti dei governi che ci reggono, meglio e più giustamente che non faccia la media degli onesti.
Gli è che in costoro l'anomalia organica prepara il terreno al minore misoneismo, ch'è il carattere normale dell'uomo onesto.
VI. L'azione della folla.
Ma malgrado il coobarsi di tutte queste cause, sarebbe assurdo il pretendere che ad esse solo si debbano le feroci rivolte dell'89.
La causa più forte di tutte, quella che gli alienisti soli, insieme a Ferri e a Sighele hanno avvertita in questi ultimi tempi, è quel virus terribile che nasce dalla folla.
È un'osservazione che io feci fin dal '76[8] solo osservando le riunioni di persone onorate, come i colleghi e gli studenti, che dalla riunione di questi invece di aversi la somma si aveva la sottrazione delle loro virtù.
Chi ha studiato l'uomo, o meglio ancora sè stesso, in mezzo ai gruppi sociali, di qualunque genere siano, avrà osservato come esso sovente si trasforma, e da onesto e pudico che egli era e che è tutt'ora da solo e tra le pareti domestiche, si fa licenzioso, e fino immorale.
Quanti radunati in un club ed in un'assemblea, per quanto assennata, non hanno lasciato, senza ribrezzo, insultare l'amico ed il maestro? E quanti non hanno gettato vilmente la pietra contro colui, che poco prima avrebbero sostenuto col massimo ardore! Un passo più in là, e voi vedrete l'uomo più onesto rubare per parere buon compagnone, giuntare al giuoco il novizio, o gettarsi nella più immonda libidine.
Questa tendenza si fa maggiore quanto più i gruppi si fanno popolosi, dai cinque o sei scolari di campagna, alle migliaia d'operai di una fabbrica (ed ecco perchè i distretti manifatturieri danno più delinquenti degli agricoli), fino all'enorme massa d'uomini che la più lieve causa raggomitola nelle vie di Napoli e Parigi ed il cui grido si trasforma in una sentenza di morte. Una prova quasi diretta ce ne forniscono i gerghi, che abbiamo veduto assumere organismi sempre più tenaci e complicati, quanto più dalle associazioni innocenti e poco popolate si procede alle più fitte e criminose, e che anche nelle prime accennano pure ad una specie d'ostilità o di congiura verso gli estranei.
Gli istinti primitivi del furto, dell'omicidio, delle libidini, ecc., che esistono appena in embrione in ciascun individuo fino che vive isolato, massime se temperato dall'educazione, si ingigantiscono, tutto ad un tratto, al contatto degli altri.
Una prova se n'ebbe in molti che andati nella folla repugnanti, o solo curiosi, o anche per impedirne le stragi, finirono per parteciparvi.
Così un certo Groppin, spedito dalle sue sezioni per salvar dai Settembristi due prigionieri, finì invece di sedere vicino al Maillard e con lui condannare a porte chiuse per 60 ore di seguito quei poveri carcerati.
Un commesso di negozio, uscito nella via per curiosità, uccise di sua mano 20 preti e dopo poco tempo ne moriva d'orrore e di rimorso.
E molti dei più feroci rivoluzionari divennero pacifici impiegati sotto Napoleone, come ben nota il Lebon; prova che non erano sanguinari.
Ma se il fermento criminale epidemico spiega l'irruenza e la ferocia di molti eventi, non può spiegare come essi abbiano potuto durare tanto tempo.
È giusto, nota Taine, che un uomo come Marat sbraiti: “Arrostate ministri, segretari, metteteli ai ferri. Il re non ha diritto di desinare quando voi mancate di pane. Domandate che con un contributo si dia il benessere agli indigenti; se vi si rifiuta, dividetevi le terre di quei scellerati, fate cadere le teste dei ministri, dei sindaci, dei generali, dei deputati.„ Che un tal matto dica questo non è strano, nè è strano che una plebe affamata, fanatizzata, pratichi questa teoria; ma che vi siano degli uomini di Stato, dei legislatori, che vedono per tre anni la sua mala esperienza e che abbiano sempre continuato ad adottarla come un dogma di fede; che giunti al termine, e vedendo che invece di un tempio trovavano un macello di cui essi erano il greggie e il beccaio, seguitassero a credervi, questo parrebbe inesplicabile. Ma la spiegazione vi è: giustamente diceva in questo luogo stesso, un forte pensatore italiano, il Bonfadini, una rivoluzione non può durare senza un'idea.
Ora un'idea sussisteva e aveva conquistato si può dire tutti gli animi. Quella della sovranità popolare.
VII. Influenza di Rousseau.
I germi della prima idea erano nati dietro alle prime scoperte dei grandi scienziati di quel secolo di Newton, Spallanzani, Reaumur, che tutti o scettici o panteisti o deisti, tendevano ad atterrare l'ortodossia religiosa e politica; se non che quelle idee in gran parte giuste, si guastarono attraversando le menti pervertite dal classicismo, pronubo alle tristi nozze, un delinquente e pazzo di genio, il Rousseau.
Costui a vicenda cieco e veggente, poeta malato, in luogo dei fatti vedea i propri sogni, prendeva per atti i suoi propositi, e per propositi le sue velleità.
Sognatore e selvaggio, dominato dalle idee di persecuzione e dall'ambizione, si foggia gli uomini sul proprio stampo. “L'uomo è buono, l'ambiente lo guasta, tornate alla natura.„ E perciò egli invece di punire il malvagio, “puniva il gendarme che deve contenerlo„. La proprietà, secondo lui, è ingiusta, il ricco diceva al povero: vi do il permesso di servirmi ma in compenso dovete darmi tutto quello che vi resta. La società dunque è basata su un contratto iniquo, il popolo è il sovrano, il governo invece in realtà ne è men che il commesso.
Chi leggeva queste strane sentenze non ricordava che chi le dettava era un lipemaniaco, già ladro, già apostata, già cerretano, che aveva percorse tutte le gamme della scienza, e del vizio, che ritiratosi, come un selvaggio nei boschi, credeva di esser perseguitato dalla folla e che poteva ben dir col Tasso che così spesso citava:
Sempre fuggendo avrò me sempre appresso.
E qui le prove sovrabbondano[9].
“Io ho (scrive egli stesso nelle sue Confessioni), passioni ardentissime; mentre queste mi agitano, non conosco più riguardi, non amore; non vedo che l'oggetto; tutto ciò dura un istante, e l'instante che segue mi accascia, mi prostra.
“Dominato dai sensi, egli continua, non seppi resistervi mai; il piacere più piccolo, ma presente agli occhi, mi seduce più che tutte le gioie del paradiso.„ Infatti per il gusto di una cena fratesca (del padre Pontierre) si faceva apostata; per un lieve ribrezzo abbandonava crudelmente un amico epilettico sulla via.
Nè le passioni soltanto erano in lui morbose e violenti, ma l'intelletto pur anco era nella sua compage e fino dai primi anni guasto ed alterato, e ne siano prova queste confessioni:
“La mia immaginazione non è mai montata sull'allegro come quando sto male davvero. La mia testa non sa abbellire le cose veramente piacevoli che m'accadono, ma sì bene le immaginarie. Se voglio dipingere bene la primavera bisogna che sia d'inverno.„
“V'hanno tempi in cui sono sì poco simile a me stesso, che mi si prenderebbe per uomo di carattere affatto opposto. Prendetemi nella calma: sono l'indolenza, e la timidità stessa, e non so esprimere nulla dei miei pensieri; se io invece mi passiono, subito trovo ciò che ho da dire; le idee circolano imbarazzate, lentamente, sordamente, e non si presentano mai che dopo l'occasione. I piani più bizzarri ( Confess., I, 129) più matti e fanciulleschi mi seducono, mi piaciono, mi paiono verosimili.„ Difatti a 18 anni si mette con un altro amico in viaggio con una fontanella di bronzo, e crede di poter vivere ed arricchire facendola vedere ai contadini.
E così quest'infelice percorre la serie di quasi tutte le arti, dalle più nobili alle più vili, da quelle dell'apostata a denaro, a quelle dell'oriolaio, del cerretano, del maestro di musica, del pittore, dell'incisore, del servo e del segretario diplomatico in erba, e nella letteratura e nelle scienze si abbarbica alla medicina, alla musica, alla botanica, alla teologia, alla pedagogia. L'abuso del lavoro intellettuale, tanto più dannoso in un pensatore in cui le idee svolgevansi lente ed imbarazzate, e lo stimolo sempre crescente dell'ambizione, a poco a poco trasformano l'ipocondriaco in melancolico e per ultimo in maniaco.
“Le mie agitazioni, scrive egli, le mie ire mi commossero, sì che durai in delirio dieci anni e non sono calmo che ora!„ Calmo!? Quando il morbo incronichito non gli lasciava omai distinguere più, nemmeno per brevi lampi, la parte reale dei dolori dalla immaginaria!
E infatti ei si ritira dal gran mondo, in cui anche prima s'era trovato a disagio, e fugge nella solitudine; ma anche nella campagna il mondo della città lo perseguita; i vapori dell'amor proprio, i tumulti del mondo appannano la freschezza della natura. Ha un bel rivolgersi nei boschi; la folla ve lo segue e persegue.
Più tardi crede che la Prussia, l'Inghilterra, la Francia, i re, le donne, i preti, gli uomini irritati da alcune frasi contenute nelle sue opere, gli abbiano mosso contro una terribile guerra, cogli effetti od apparenze della quale egli spiega il malessere interno che prova.
“Nel raffinamento della loro crudeltà, i suoi nemici hanno dimenticato una cosa sola: di graduargli i dolori, onde potesse tutti a sorso a sorso provarli.„ ( Rêverie, p. 371).
Nella sua dimora a Londra, la sua melancolia si trasforma in un vero accesso maniaco. S'immagina che Choiseul lo facesse cercare per arrestarlo; lascia i denari ed i bauli all'albergo e fugge alla spiaggia pagando gli albergatori con pezzi di cucchiai d'argento; trova i venti contrari alla navigazione, e crede anche ciò un effetto del gran complotto; irritatissimo arringa dall'alto d'un colle, in cattivo inglese, la folla di Warton che lo ascolta, stupefatta, ed egli crede commossa.
Ma, ritornato in Francia, non trova ancora calmati i suoi nemici invisibili che lo spiano e interpretano male ogni suo atto. Se legge un giornale “essi dicono ch'egli cospira„; se fiuta una rosa, certo sospettano che studi qualche veleno contro di essi. Di tutto gli vien fatto colpa. Per poter meglio spiarlo, essi collocano alla sua porta un rivenditore di quadri, e fanno che la porta di casa non si possa socchiudere; niuno entra in sua casa che prima non sia stato sobillato contro lui. Essi corrompono contro di lui il caffettiere, il parrucchiere, l'oste, ecc.; il lucidatore di scarpe non ha lucido quando egli lo desidera; il pontoniere della Senna non ha barche quando egli vuol traghettare.
Egli chiede di esser messo in prigione, e.... fin ciò gli vien rifiutato. Per poter poi torgli l'unica arma, la stampa, arrestano un libraio, “ch'ei non conosce„ e lo mettono alla Bastiglia.
L'uso di bruciare un pagliaccio di carta a mezza quaresima era abolito. Lo ristabiliscono certo per desiderio di bruciarlo in effige. Difatti le vesti che gli posero addosso s'assomigliavano alle sue!! ( Dialogues, 11).
Per diffondere questa sua difesa, da vero delirante ch'egli era, cominciò a distribuirne una bozza a tutti i passeggeri delle strade che alla faccia non paressero ispirati dai nemici suoi (sic); a tutti i francesi era indirizzato lo scritto, amanti della giustizia. Cosa singolare, malgrado e forse per l'intitolazione, non si trovò alcuno che accettasse con piacere lo scritto, anzi molti lo rifiutarono. Non potendo più oramai fidarsi di altro nume sulla terra, egli si indirizza a Dio, in una lettera assai tenera e famigliare; e, notate il concetto maniaco, per fargliela meglio pervenire ed assicurarsi così della sua protezione, pone la lettera ed il manoscritto dei Dialogues, sotto l'altare di Nostra Donna di Parigi.
Nè vi mancò quel delirio megalomane, che si alterna col persecutivo: “sfida il genere umano a mostrare un essere migliore di lui„, le sue Confessioni sono un'opera unica, ecc.
Ed egli fa della sua maniaca selvatichezza, il tipo ideale dell'uomo, e crede che ogni produzione naturale, dolce al palato od alla vista, possa essere innocua, cosicchè, l'arsenico, secondo lui, non sarebbe dannoso. La sua vita è un complesso di contraddizioni: preferisce i campi ed abita in via Platonière; scrive un trattato di educazione e mette i suoi, o quasi suoi, figli all'ospedale; giudica con sagace scetticismo le religioni, e getta un sasso contro un albero per indovinar l'avvenire e giudicar della propria salute, e scrivendo a Dio, pone le sue lettere sugli altari delle chiese, quasi che Dio vi avesse sua esclusiva dimora.
Ora, è la dottrina di questo pazzo che è diventata una bibbia; e i gravi danni che da essa vennero furono aggravati dalla passione della parola che ha un'azione in Francia più ancor che nelle altre razze latine, e, come ben nota il Taine, dalla influenza classica, che fa preferire alle teorie giuste, le frasi ben dette, la forma alla sostanza, e non s'imbeve solo dalla forma, anzi, più che della forma (che almeno potrebbe tradursi in qualche capolavoro estetico) di un'adorazione feticcia di quella, e tanto più inesatta, tanto più sterile e cieca, quanto maggiore fu il tempo che inutilmente vi si consumava; da ciò il disprezzare per una parola sbagliata, una persona, una teoria; da ciò lo immaginare gli uomini tutti foggiati ad un conio, senza badare alle varietà nascenti dal clima, dalle classi, dal sesso, dall'età; da ciò il non poter cogliere la importanza delle leggi storiche, le quali appunto mostrano nulla svolgersi di sicuro e di utile se non per lentissime evoluzioni.
Conforme allo spirito classico, la politica si trattava da lui astrattamente, isolando un dato semplice accessibile all'occhio e generalizzandolo.
Non han bisogno dopo ciò i suoi seguaci di studiare per far leggi. La volontà del popolo basta, e un po' di Contratto sociale. Nè v'era commesso di negozio che avendo letto il contratto sociale non si credesse capace di fare una costituzione. “Siamo noi (dicevano i Giacobini) che siamo i monarchi legittimi.„ Grégoire giunge a dire: “Potremmo, volendo, cambiar la religione ai Francesi, ma non lo faremo„, e lo fecero invece; e in nome della rivoluzione, cambiarono perfino i nomi dei giorni e dei mesi. E non uno solo ripeteva: Perano venticinque milioni di Francesi, ma resti la repubblica una e indivisibile!
Era una scolastica di pedanti, declamata con enfasi da energumeni, e quel che è peggio messa in pratica colla più bestiale violenza (Taine).
E qui ci pare un altro lato dannoso dell'educazione classica, quell'adorazione della violenza che fu il punto di partenza di tutti i ribelli, da Cola da Rienzi fino a Robespierre.
“..... Tutta l'educazione classica, scrive Guglielmo Ferrero ( Riforma sociale, 1894), che altro è se non una glorificazione continuata della violenza, in tutte le sue forme? che comincia dalla apoteosi degli assassinii commessi da Codro o da Aristogitone, per arrivare ai regicidi di Bruto. E tutta la storia del medio evo e tutta la storia moderna, e la storia stessa del nostro risorgimento, come la insegnano oggi, quasi dovunque, che altro è se non la glorificazione, fatta da un punto di vista speciale, di atti brutali e violenti? Non ha forse potuto un poeta, che tutti considerano come il rappresentante morale dell'Italia nuova, scrivere tra gli applausi generali:
“Ferro e vino voglio io....
..........
Il ferro per uccidere i tiranni,
Il vin per celebrarne il funeral?„
“In questo punto, tanto il vizio è profondo, tutti i partiti sono d'accordo: i clericali grideranno urrah alla pugnalata di Ravaillac; i conservatori alle fucilazioni in massa dei comunardi del 1871; i repubblicani alle bombe di Orsini; ma tutti sono d'un pensiero, nel celebrare la santità della violenza, quando torna utile ad essi. Il nuovo eroe di questi ultimi anni del secolo non è nè un grande scienziato, nè un grande artista, ma Napoleone I.
“Chi può meravigliarsi, dopo ciò, se in una società così satura di violenza, la violenza scoppia fuori di tempo in tempo, da ogni parte, in lampi e tempeste? Non si può impunemente dichiarare santa la violenza, con il sottinteso che essa debba essere applicata solo in un modo determinato; presto o tardi arriva chi trasporta il Vangelo della forza da un credo politico ad un altro.„
E siccome dalla violenza al delitto il passo è breve, e siccome la passione politica trascina anche il senso morale e fa dimenticare, e noi ne abbiamo prove non poche, il ribrezzo del crimine anche agli onesti, così accadeva che anche la maggioranza di questi pur di veder trionfare le nuove bandiere politiche tolleravano di vederle in mano ai malvagi.
E non s'accorgevano che non soffrivano essi soltanto, ma anche il loro principio, perchè nulla di buono esciva dal delitto. E perfino di quel grande criminale di genio che fu Napoleone non restò al suo paese che l'odio e il sospiro di tutti i popoli.
S'aggiunga a spiegare la strana dedizione dei molti onesti ai pochi malvagi (poichè i Giacobini non oltrepassavano i 6000 in Parigi, e nelle piccole città non erano più di 14 o 15), che costoro erano una banda organizzata, contro una folla inerme, inorganica. E in uno Stato, chi ha la testa ha il corpo; grazie a quella strana acquiescenza che ci fa inclini a credere ad occhi chiusi, ad idolatrare, quanto emana dall'alto. Per cui quando uno è al governo, nelle miserabili nostre razze latine, per malvagio e ignorante che sia, trova mille che credono e che giurano sulla sua saviezza e onestà.
E anche qui ripetesi in un'altra direzione, quell'errore che emana dall'uomo quando la ignoranza e la ignavia di ciascuno è moltiplicata dal fatto dell'appartenere a una folla, si chiami pur questa Senato, Parlamento od Accademia, e peggio.... una plebe.
Migliaia e forse milioni di persone, nell'animo loro, avran dubitato della bontà, della saviezza dei governi Giacobini come ora della saviezza dell'impresa africana; ma, radunatisi insieme, ogni dubbio loro svaniva, sembrava fino una colpa che si scontava con nuove e più vigliacche dedizioni e idolatrie, e quello che è più strano con una più calda e fanatica convinzione di esser nel vero, salvo a dissiparsi alla loro completa rovina.
Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta.
NOTE:
1. Lombroso e Laschi. Il delitto politico e la rivoluzione. Torino, Bocca, 1890
2. Vedi il mio Uomo di genio, 6.ª ediz., parte IV.
3. Bonfadini, Mezzo secolo di patriottismo, 1888.
4. Les origines de la France Contemporaine, II, pag. 302.
5. Michelet, Hist. de la Revolut. Tom. 3, pag. 413.
6. Vedi il mio Delitto politico, Tomo III.
7. Vedi Uomo delinquente, vol. I, cap. III, 1893.
8. Uomo delinquente, 2.ª ediz., pag. 278-79.
9. Lombroso, L'uomo di genio, 1897, 6.ª edizione.
MESMER E IL MAGNETISMO
CONFERENZA DI Angelo Mosso.
I.
Su Mesmer e sul magnetismo animale si scrissero tanti libri che se ne farebbe una biblioteca. La libreria di Washington, che serve ai medici militari, conteneva, nel 1887, venti giornali tra vivi e morti, e duecento dieci tra libri e memorie che discorrono esclusivamente del magnetismo animale.[10] Ciò s'intende senza tener calcolo delle riviste di medicina, di filosofia e di letteratura e tanto meno dei giornali quotidiani dove gli articoli su Mesmer sono così strabocchevoli che sarà difficile dare l'inventario anche solo dei migliori.[11] Dieci anni or sono, quando venne in Italia il celebre magnetizzatore Donato, feci io pure qualche studio su tale argomento e scrissi due articoli nella Nuova Antologia.[12]
Invitato da questa onorevole Società Fiorentina di pubbliche letture, a parlare dinanzi a voi su Mesmer e il magnetismo animale, cercai nei periodici italiani del secolo scorso, ed alcuni amici benevoli intrapresero altre indagini negli Archivi di Torino, di Firenze e di Venezia. Non avendo trovato documenti abbastanza importanti per fare una conferenza sul magnetismo nella vita italiana durante la rivoluzione e l'impero, rifiutai l'invito fattomi.
Mesmer fu come una meteora che sorse e scomparve rapidamente poco prima che scoppiasse la più grande tempesta che ricordi la storia moderna. L'anarchia, la rivoluzione e la conquista dell'Italia per parte dei francesi, seguirono con tale prontezza che la dottrina di Mesmer non ebbe tempo di metter radice fra noi. Un dottore di Torino, certo Giraud, cercava a quel tempo di farsi strada col magnetismo, ma il pubblico aveva tutt'altro da pensare.[13]
E però mi scusai di non poter accettare; ma era per me un onore così grande l'entrare a far parte di questo ciclo giustamente rinomato di conferenzieri: era per me una fortuna così inaspettata di ritornare a Firenze dove ho passato due anni come studente, che ho finito col cedere alle cortesi insistenze. Mi affidai alla vostra benevolenza e pensai che mi avreste compatito sapendo che sciolgo un voto di gratitudine verso questa città nella quale è cominciata la mia carriera di fisiologo e dove mi sorridono sempre tante felici ricordanze della giovinezza.
Mesmer fu un mistico. — In questo momento nel quale per cause eguali a quelle del secolo scorso, va riaccendendosi il misticismo, non sarà inutile studiare la vita di questo medico che tentò fondare una nuova filosofia della Natura, che mise in evidenza alcuni fenomeni singolari che può presentare il sistema nervoso, e dimostrò colle sue esperienze quanto sia instabile l'equilibrio della ragione umana e quanto sia cieca la credulità del pubblico.
Pochi anni di storia dell'ipnotismo alla fine del secolo scorso bastano per far comprendere la natura del magnetismo animale. Ricucirò insieme i documenti che ho raccolti intorno al breve periodo che passa tra il 1774 e il 1784, e vi aggiungerò pochissimo del mio.
II.
La tendenza di Mesmer al misticismo apparve evidente fino dal suo primo scritto, nella sua dissertazione di laurea trattando dell'influenza che i pianeti esercitano sul corpo umano.[14]
Nel 1774 Mesmer curava a Vienna una signorina di ventinove anni, per nome Esterlina. Una fanciulla isterica che soffriva di convulsioni, con dolori, delirii e sincope.
A quel tempo era a Vienna un gesuita, il padre Hell, professore di astronomia, il quale credeva, come altri avevano creduto prima di lui, che la calamita esercitasse una influenza sull'organismo umano. Le prime osservazioni intorno a questo argomento, tanto dibattuto ancora oggi, le troviamo nelle opere del medico e filosofo Cardano, uno degli umanisti e delle menti più vaste della Rinascenza. Cardano nel libro settimo del suo trattato De subtilitate, al paragrafo Magnes, racconta di alcuni esperimenti fatti da un empirico a Milano il quale per mezzo della calamita rendeva insensibile il braccio. Cardano provò sopra sè stesso e vide che poteva piantare nella pelle un ago magnetizzato senza sentire alcuna molestia. Sappiamo però che Cardano era un neuropatico, il quale poteva ipnotizzarsi da sè medesimo quando voleva. Nel libro decimottavo del medesimo trattato, Cardano scrisse tali cose intorno alla potenza dei sogni e alla telepatia da metterci in dubbio sulla attendibilità delle sue esperienze intorno ad un'azione qualsiasi della calamita. Egli però intravide le applicazioni che potevano farsi della calamita contro il dolore e disse “se questo è vero, quale guadagno se ne potrà fare?„ ma le sue speranze non si verificarono. L'ultimo lavoro su questo argomento[15] fu scritto da uno dei più celebri fisiologi della Germania, l'Hermann. Nel titolo il professore di Königsberg si fa la domanda: “Ha il campo magnetico delle azioni fisiologiche dirette?„ e la risposta che risulta da tutte le esperienze diligentemente raccolte, è negativa.
Mesmer racconta che si fece prestare delle calamite dal padre Hell.[16] Applicati tre di questi ferri calamitati l'uno sul petto e due sulle gambe della damigella Esterlina, questa disse che sentiva delle correnti dolorose, come di una materia sottile che scorresse sotto la pelle, e dopo vari giri questa corrente si dirigeva verso la parte inferiore del corpo, di dove uscitane scomparivano gli accessi e per parecchie ore essa poteva riposare tranquilla. Dopo qualche giorno Mesmer comunicò questi risultati al padre Hell. Mesmer soggiunge che il padre Hell, abusando della sua celebrità nell'astronomia, pubblicò subito nei giornali la scoperta attribuendola a sè.
Il padre Hell ed il Baldinger[17] scrissero parecchie memorie sull'azione che il magnete esercita sopra alcune malattie. Mesmer combattè questi scritti dicendo che il magnetismo animale era cosa diversa dal fluido magnetico della calamita, e che in tale distinzione stava l'importanza della scoperta sua.
Per far capire meglio le idee di Mesmer, racconterò le esperienze da lui fatte col celebre medico e fisiologo Ingenhousze.[18]
Ecco una delle esperienze fatte insieme a Mesmer sulla damigella Esterlina.[19] L'ammalata dopo un accesso di convulsioni era caduta in sincope. Ingenhousze si avvicinò al letto mentre Mesmer se ne allontanò: poi questi gli disse di toccare l'ammalata; Ingenhousze lo fece, ed essa non si mosse. Mesmer allora disse ad Ingenhousze di avvicinarsi a lui, lo toccò e gli strinse le mani per comunicargli il magnetismo. Dopo, essendosi Ingenhousze diretto un'altra volta verso l'ammalata ed avendola toccata, si manifestò in essa un forte accesso di convulsioni.
Si ripetè l'esperienza, e sempre nelle parti che Ingenhousze toccava si produceva dopo il contatto un forte movimento che prima non c'era.
Mesmer propose una seconda esperienza. Magnetizzò una tazza di porcellana scelta da Ingenhousze tra sei che erano nella stanza. Fatte applicare queste sei tazze sulla mano della malata, quando giunse quella che egli aveva toccata, essa fece un movimento dando segno di dolore.
Questa fanciulla isterica non aveva neppure bisogno che un corpo magnetizzato la toccasse. Mettendosi Mesmer alla distanza di otto passi e puntando verso di lei le dita, producevasi egualmente l'insulto delle convulsioni.
Quest'ultima esperienza è la sola importante di quelle che ho qui ricordato. Molti credono ancora oggi all'esistenza di un fluido magnetico col quale una persona può magnetizzarne un'altra. Questo fluido non esiste. Per convincersene basta ricordare che alcuni, come Cardano, riescono a magnetizzarsi da soli guardando un oggetto luminoso o pensando semplicemente al sonno ipnotico.
Pochi giorni dopo Ingenhousze disse agli amici che tutto era una farsa ed una soperchieria ridicola e combinata.
Mesmer si rivolse alla Facoltà medica di Vienna, perchè nominasse una commissione: ma la signorina Esterlina aveva preso marito, le convulsioni erano scomparse e non volle più sentir parlare di Mesmer.
III.
Nel febbraio del 1778 Mesmer arrivò a Parigi. Quale sia l'ambiente nel quale ora vedremo aggirarsi la figura di Mesmer, quale il fondo del quadro che presentava allora la città di Parigi, non sono io che possa dire. Le pagine immortali del Taine nelle Origines de la France contemporaine hanno rappresentato quella società nelle sue metamorfosi, quando passò dallo stato feudale alla vita moderna con delle convulsioni che parvero mortali e dalle quali si è risvegliata più forte.
Mesmer aprì subito a Creteil una casa di salute. Quando uno arriva a Parigi dalla strada di Lione vede a destra Creteil guardando verso la Marna. È in una di queste case che Mesmer aveva raccolto i suoi primi malati quando due mesi dopo il suo arrivo invitò l'Accademia di Medicina a prendere conoscenza del suo nuovo metodo di cura. Non accennerò le lotte che Mesmer sostenne a Parigi coll'Accademia di Medicina e colla Facoltà medica:[20] racconterò solo come cominciarono le sue peripezie.
Tutti i Commissari si erano riuniti ed erano pronti a partire in carrozza per andare a Creteil quando fu loro rimessa una lettera la quale diceva “che i malati del signor Mesmer avevano ricevuto qualche giorno prima la visita di un gran principe e che ciò aveva fatto in essi un grande effetto; che la visita dei Commissari faceva temere un altro sconvolgimento, che i malati erano tutte persone di condizione e non potevano essere trattati come la feccia del popolo. Mesmer sperava volesse la Società reale di medicina rimandare la sua visita fino a che non vi fosse un miglioramento.„[21]
Questa lettera era accompagnata dai certificati di quattro persone guarite, e Mesmer soggiungeva che questi documenti tenevano luogo della visita progettata.
Malgrado il dissenso che subito scoppiò tra Mesmer ed i medici di Parigi, la clientela del medico tedesco diveniva ogni giorno più numerosa. Mesmer prima si stabilì all'Hôtel Bouret sulla piazza Vendôme e poi trasportò la sua clinica all'Hôtel Bullion vicino alla Borsa.
IV.
La società parigina era preparata per il trionfo di Mesmer, l'ambiente era elettrizzato, bastava una piccola scintilla perchè il magnetismo si propagasse in tutta la Francia.
Mesmer era un uomo alto della persona, molto elegante e di aspetto piacevole. Alcuni gli hanno rimproverato la mancanza di spirito e di talento letterario. Certo le cose che scrisse sono di gran lunga inferiori per lo stile alle semplici lettere di alcune donne che scrivevano senza la preoccupazione che altri avrebbe visto stampate le loro lettere: quelle lettere intime sfuggite dalla penna, e delle quali noi ammiriamo ancora oggi la perfezione nell'arte del comporre di quei tempi.
La fortuna sua Mesmer la deve al misticismo, all'aspirazione verso le cose occulte, che ha tormentato in ogni tempo l'umanità.
Mesmer paragonava con enfasi la sua scoperta a quella del telescopio e del microscopio e diceva che il magnetismo apriva un nuovo mondo allo sguardo.
L'umiltà non è stata una delle virtù di Mesmer. Sentite il suo stile:
“La maggior parte delle proprietà della materia organizzata, quali la coesione, l'elettricità, la gravità, il fuoco, la luce, l'elasticità, l'irritabilità animale, che sino ad ora erano considerate come qualità occulte, saranno spiegate coi miei principii, e sarà messo in evidenza il loro meccanismo.
“Mi vanto di aver gettato una nuova luce sulla teoria dei sensi e dell'istinto.
“Ho la certezza che gli stati che fanno più paura, come la pazzia, l'epilessia e la maggior parte delle convulsioni, sono il più spesso gli effetti funesti dell'ignoranza dei fenomeni dei quali parlo, e dell'impotenza dei mezzi impiegati dalla medicina per curarli: che quasi tutte queste malattie non sono altro che delle crisi sconosciute e degenerate: che in fine vi sono poche circostanze dove non si possa prevenirle e guarirle.„[22]
Il magnetismo animale fu da Mesmer applicato quasi esclusivamente alla cura delle malattie nervose. Perchè? Ecco come Bailly, che fu uno dei più celebri oppositori del Mesmer, rispose già nel secolo scorso a tale domanda.
“Si vede che gli uomini affetti apparentemente dalla medesima malattia, guariscono seguendo regimi affatto contrari, prendendo rimedi interamente diversi. La natura è dunque abbastanza forte per mantenere la vita malgrado un regime cattivo e può trionfare del male e del rimedio. Se l'organismo ha questa potenza di resistere ai rimedi, a più forte ragione esso ha il potere di agire senza di essi. L'esperienza della efficacia dei rimedi ha dunque sempre qualche incertezza. Quando si tratta del magnetismo vi è una incertezza di più, quella della sua esistenza.„
V.
La scienza non aveva fatto mai dei progressi tanto rapidi quanto a quel tempo. Basta ricordare Lavoisier, Laplace, Lagrange, Berthollet, Buffon, Hauy, e molti altri che aprirono delle vie nuove e feconde nello studio della Natura. Ma il pubblico era stanco e come stizzito per il trionfo dello spirito scientifico che aveva invaso la società.
Negli strati inferiori, nella maggioranza del popolo francese si preparava lentamente una reazione contro la scienza, contro l'indirizzo matematico e positivo che erasi dato alla filosofia cominciando da La Mettrie e Voltaire arrivando agli enciclopedisti Diderot e D'Alembert. Fu la ribellione della folla contro la scienza che diede a Mesmer la sua forza.
Mesmer aveva anche l'ascendente di essere straniero. Ora forse non gioverebbe più; ma a quell'epoca in Francia fu un elemento di successo per i fautori di Mesmer, il poter ribellarsi ai medici di Parigi. Si era stufi di vederli andare in giro con quei loro abiti lugubri, bisognava dar loro una lezione, perchè non avevano mai capito nulla, e doveva finalmente venire di lontano un medico per far conoscere un mezzo universale di guarire e di preservare gli uomini. La medicina di Mesmer era una cosa popolare, che tutti capivano, e questa fu un'altra ragione del suo successo.
Vi è una sola malattia, diceva il taumaturgo, e questa prende forme ed aspetti molteplici. Vi è un solo rimedio, e questo è il magnetismo animale.
Il magnetismo animale fu come una valvola che si aprì, e per la quale ebbe sfogo la tensione lungamente compressa di quella parte della società che in ogni tempo si mantiene impermeabile ai progressi della scienza.
VI.
Il famoso baquet di Mesmer era una tinozza come lo dice il nome, ossia un mastello alto poco più di mezzo metro fatto di legno di quercia. Nel fondo vi erano dei buchi che comunicavano con una cassa sottostante, come se la tinozza avesse un doppio fondo. Da questi buchi uscivano delle spranghe di ferro piegate ad angolo retto in modo che potevano girare.
I malati si mettevano attorno a questo mastello in parecchi ordini, e ciascuno teneva la spranga di ferro rivolta verso la parte malata. Una corda era tirata intorno al corpo degli astanti per riunirli. Qualche volta si faceva una seconda catena colle braccia e per stringersi meglio si stendevano le mani l'uno all'altro afferrandosi reciprocamente il pollice e l'indice.
Un pianoforte messo in un angolo della sala suonava, e spesso accompagnava il canto di una voce melodiosa.
Mesmer aveva parecchi medici che lo aiutavano, perchè quando la sala era affollata non bastava da solo.
Questi, dice la cronaca, erano scelti da Mesmer tra i più giovani e i più belli dei suoi discepoli. Gli ammalati erano già disposti in circolo intorno al baquet, quando cominciava la seduta di magnetismo. Mesmer si presentava nella sala vestito di seta color lilla. I medici tenevano in mano una bacchetta di ferro, e toccavano gli ammalati sulla faccia dietro la testa e sulla parte malata. Facevano dei cenni e talora palpavano colle dita. La cosa più importante, diceva Mesmer, era di saper dirigere bene i poli magnetici; senza di ciò non potevasi ottenere alcun effetto.
Quando l'azione della bacchetta di ferro e il contatto colle dita e i passi magnetici non bastavano, si aggiungeva l'effetto psichico di uno sguardo intenso, e colle mani si premeva dolcemente l'addome. Se questo non bastava a provocare una crisi, Mesmer prendeva un contegno assai più intimo ed energico. Si sedeva davanti alla malata e stringeva le gambe e i ginocchi della paziente tra le sue gambe e le sue ginocchia, le applicava le mani sul basso ventre e quanto più era possibile nella direzione dell'ovaia, e scorreva palpando sulle parti più sensibili del corpo, mentre gli occhi ardentemente fissi in quelli della malata andavano avvicinandosi fino a che le bocche quasi si toccavano.
VII.
Intorno alla cronaca scandalosa del magnetismo animale vi sarebbe molto da dire. Si stampò anche un poema, la Mesmeriade, che per quante ricerche io n'abbia fatte non mi è stato possibile di leggere.
Nel libro del Morand[23] è stampata la relazione secreta fatta al Re Luigi XVI sui pericoli che correvano i buoni costumi per la pratica del magnetismo. Non tutte le donne che andavano a farsi magnetizzare erano malate. Ma non posso fermarmi su tale argomento.
Mesmer aveva saputo far venir di moda la sensibilità. Il magnetismo era un mezzo per conoscere chi era più sensibile e la società elegante si compiaceva di queste esperienze.
In un libro stampato alla macchia col titolo Choix des mémoires secrets pour servir à l'Histoire de la République des Lettres, depuis l'année 1762 jusque et y compris 1785, ho trovato il seguente aneddoto del 27 aprile 1784.
“Cela devient un spectacle. Derniérement Mde. la princesse de Lamballe, avec une dame de la suite, est allée chez le docteur Mesmer, comme il magnétisoit. Il n'y avait pas moyen de refuser une princesse, et malgrè la parole donnée par ce médecin aux malades, S. A. les a vus entourant le baquet mysterieux, et s'y livrant à toutes les simagrées qu'il leur fait faire. Les femmes surtout ont été très-scandalisées d'une semblable curiosité; car ce sont elles qui éprouvent les plus singulières convulsions, tenant beaucoup des extases du plaisir: aussi sont-elles les plus ardentes à prôner le mesmérisme.„[24]
La principessa di Lamballe aveva voluto farsi magnetizzare e Mesmer non essendo riuscito si era sparsa la voce tra il popolo che il sangue reale resisteva al magnetismo.[25]
Povera principessa Lamballe! essa era nata nella Casa di Savoja Carignano e nel settembre del 1792 cadde vittima nelle mani dei sans-culottes. Taine nella Conquête Jacobine ci fa conoscere la figura triste di quel Petit-Mamain che l'uccise.[26] Era il figlio di un albergatore e passeggiava con una scimitarra al fianco e due pistole alla cintola al Palais Royal, accompagnato da altri pessimi soggetti della stessa risma. Questi scellerati invece di nascondersi si facevano vedere e si vantavano dei loro delitti.
Un testimonio oculare ha raccolto queste sue parole: C'est moi, qui ai éventré la Lamballe et qui lui ai arraché le cœur.... Tout mon regret est que le massacre ait été si court, mais il recommencera.
VIII.
La stella di Mesmer, giacchè egli credeva alla influenza degli astri, toccò il suo apogeo col 1784 che fu un anno memorabile per molti avvenimenti. In quest'anno fu visto sollevarsi per la prima volta un pallone aereostatico nel campo di Marte. L'Accademia delle scienze aveva dato incarico a Montgolfier di preparare un pallone di seta che ricoperto d'una vernice impermeabile fu riempito di idrogeno ed era alto più d'una casa.
Pilâtre de Rosier e il Marchese d'Orland fecero la prima ascensione libera nell'aria.
Nei salotti e nei giornali non si parlava d'altro che dei palloni aereostatici e del magnetismo. Mesmer a quel tempo aveva cominciato a magnetizzare anche gli alberi. I malati accorrevano a questi alberi ai quali si erano attaccate delle corde e vi passavano delle ore cadendo in convulsioni e dando di sè triste spettacolo sui boulevards e nei giardini.[27]
Ecco la strofa di una satira contro Calonne controllore generale delle finanze che fu di una prodigalità pazza nel distribuire delle pensioni ai cortigiani di Luigi XVI.
Qu'on aime tant qu'on voudra
Les ballons et l'opera;
Qu'on parle de politique,
De fluide magnétique
Sans s'intéresser à rien:
C'est bien
C'est bien.
On n'est pas Français pour rien:
Mais moi qui bonnement raisonne;
J'aime Calonne
J'aime Calonne.[28]
Un altro tesoriere di Francia, Michel Fournier, pubblicò una relazione sulla guarigione della sua nipote firmata dagli ufficiali del municipio, da tre chirurghi e da un medico, dai canonici e dal Vescovo. Gli attestati comprovanti l'efficacia del magnetismo animale nella cura delle malattie si pubblicavano a volumi interi e me ne sono passati parecchi fra le mani.[29] Cito solo questo che fu scritto da un ministro delle finanze ed ha per epigrafe un distico latino. È la nipote di Fournier che rivolge a Mesmer queste parole.
“Fanciulla, cieca, trascinando il passo, domando a te, Mesmer, la parola, i piedi, gli occhi. Ecco: cammino, vedo e parlo.„
Infans, cœca, trahens, gressum te Mesmer, posco
Verba pedes oculos. Ambulo, cerno, loquor.
IX.
Le cose erano a questo punto quando il Re si decise a nominare una commissione. Questa era costituita da quattro medici della Facoltà di Parigi, ai quali, in seguito a loro richiesta, vennero aggiunti dal Re cinque altri membri dell'Accademia reale delle scienze, col mandato di fargli un rapporto intorno al magnetismo animale.
Di questa commissione facevano parte Franklin, Lavoisier, Bailly. Essi parlarono del magnetismo da quei grandi scienziati che erano. Nominati il 12 marzo del 1784, nel mese di agosto del medesimo anno il celebre astronomo e letterato Bailly aveva già presentato al Re la relazione approvata dai suoi colleghi. È un opuscolo di 74 pagine che rimase memorabile fra quanti scritti siansi mai pubblicati sull'ipnotismo.
La questione venne esaminata sotto tutti gli aspetti, cioè dal lato fisico, fisiologico, medico e morale.
La Commissione recatasi nell'Istituto del signor Deslon, allievo del Mesmer, trovò alcuni malati calmi e tranquilli, mentre altri erano agitati e in preda alle convulsioni. Quando stando intorno al baquet uno cominciava ad essere preso dalle convulsioni, anche gli altri ne soffrivano poco dopo.
Ogni tanto qualcuno gridava ed agitavasi con dei moti precipitati ed involontari delle estremità. Molti si lamentavano di uno stringimento alla gola, di vampe, di sensazione di caldo o di freddo. I malati stavano legati in cerchio attorno al baquet, fino a che scoppiava la crisi. Dopo, erano lasciati liberi. Quelli che per simpatia sentivansi più attratti si precipitavano nelle braccia l'uno dell'altro, nello stato di una esaltazione morbosa, piangendo e ridendo convulsi. E tutti erano soggetti alla volontà del magnetizzatore che con un cenno li separava o li faceva abbracciare.
Quando i fenomeni diventavano troppo gravi e tali che il magnetizzatore non poteva più dominarli, vi era una sala imbottita con dei materassi in terra e alle pareti, la così detta Salle des crises.
I membri della Commissione si erano fatto preparare un baquet dal signor Deslon e stettero per delle ore davanti alle spranghe di ferro senza provare alcun effetto. Per scrupolo vollero tenere le sedute anche tre giorni di seguito, due ore e mezzo ogni giorno, ma nessuno sentì un qualche fenomeno che potesse attribuirsi al magnetismo.
X.
Parecchie riunioni furono tenute dalla Commissione in casa di Franklin a Passy, dove venivano condotti gli ammalati quando Franklin non stava bene.
Beniamino Franklin mandato in Francia come ambasciatore della repubblica degli Stati Uniti, era diventato una delle figure più caratteristiche di Parigi. Per breve tempo fu lui che dette il tono della moda.
Quando i signori ed i gentiluomini cominciarono a smettere gli abiti di seta e di velluto coi ricami e i vestiti gallonati, coi tacchi rossi e lo spadino, vennero di moda i vestiti di panno grosso, le scarpe spesso ed il bastono nodoso. Questo figurino si chiamava col nome di Franklin.[30] Il celebre scopritore del parafulmine, che a coloro che gli domandavano notizie della rivoluzione in America, ripeteva bonariamente: ça ira ça ira, fece venir popolare questo motto che fu poi il ritornello terribile e come l' alleluja del sangue all'epoca della rivoluzione.[31]
Il pubblico parigino metteva un po' in canzonatura la mania di popolarità del celebre scienziato e uomo politico americano. Lo vediamo nella seguente strofa, che cantavasi nel 1783 sull'aria Changez-moi cette tête. Nella stessa canzone è tirato in ballo Mesmer e il suo collega Deslon.[32]
Nestor de l'Amérique,
Prise la voix publique
Du monde politique
Et du monde savant:
Mais dédaigne l'hommage
Dont le peuple volage,
Sans respect pour ton âge,
Tennuie à chaque instant.
Conserve bien ta tête,
Ta vénérable tête;
Conserve bien ta tête.
Mais sans la montrer tant.
Un tudesque empirique,
Au bout d'un doigt magique,
Fait naître la colique
Ou la chasse à l'instant.
Son Don Quichotte assure
Que la mort en murmure
Et cite mainte cure,
Dont il est seul garant:
Changez-moi ces deux têtes,
Ces magnétiques têtes.
Changez-moi ces deux têtes,
Têtes de charlatan.
XI.
La parte più memorabile della relazione presentata al re Luigi XVI sul magnetismo, è quella nella quale venne confermata la potenza che un uomo può esercitare sugli altri, senza l'intermediario immediato e dimostrato di alcun agente fisico: e si stabilì che i gesti ed i segni i più semplici producono qualche volta degli effetti potenti sulle persone dotate di una grande eccitabilità nervosa. Un altro fatto importante messo in evidenza dalla Commissione, fu che le esperienze fatte col magnetismo sulle persone isolate, quando queste riuscivano, non davano mai una intensità di fenomeni così imponente come essi videro nella sala affollata quando molte persone stavano intorno al baquet aspettando che scoppiasse la crisi.
Permettete che io riferisca un passo di questo documento impareggiabile per la storia dell'ipnotismo.
“Attorno al baquet sta la folla degli ammalati. Le sensazioni sono comunicate e rese continuamente l'uno all'altro: i nervi alla lunga si affaticano con questo esercizio, si irritano; e la donna più sensibile dà per la prima il segnale. Allora le corde tese da per tutto al medesimo grado ed all'unisono si rispondono, e si moltiplicano le crisi: esse si rinforzano mutuamente, esse divengono violenti. Nel medesimo tempo gli uomini che sono testimoni di queste emozioni le subiscono essi stessi e le provano in proporzione della loro sensibilità nervosa, e quelli nei quali questa sensibilità è più grande e più mobile cadono in una vera crisi.
“Questa grande sensibilità è in parte naturale e in parte acquisita, e tanto negli uomini quanto nelle donne diviene abitudine. Provate una o più volte queste sensazioni, non si ha a fare più che svegliarne la ricordanza, e rimontare l'imaginazione al medesimo grado, per operare i medesimi effetti. E questo riesce sempre facile mettendo il soggetto nelle medesime circostanze. Allora non vi è più bisogno di curare l'ammalato in pubblico, basta far dei gesti colle dita, o toccare gli ipocondrii, o mettere la bacchetta dinanzi alla faccia; questi segni sono conosciuti.
“E neppure è necessario di impiegarli, basta che gli ammalati cogli occhi chiusi credano che questi segni si fanno sopra di loro, perchè si persuadano che sono magnetizzati; le idee si destano, le sensazioni si riproducono, l'imaginazione impiegando i mezzi soliti, e percorrendo le medesime vie, fa comparire i medesimi fenomeni.„
Oggi, dopo che è passato più di un secolo, non sapremmo dire nulla di meglio.
XII.
Il dottore Deslon riconobbe davanti alla Commissione in casa di Franklin che l'imaginazione aveva la più grande parte negli effetti del magnetismo, e disse che questo nuovo agente forse non era altro che l'imaginazione stessa, la potenza della quale era altrettanto grande, quanto ora poco conosciuta. Deslon in un suo scritto disse: “Se la medicina dell'imaginazione è la miglioro, perchè non dobbiamo servircene?„[33]
La conclusione del rapporto fatto dalla Commissione al Re Luigi XVI fu questa:
“Toccamenti, imaginazione, imitazione, tali sono le cause vere degli effetti attribuiti a questo agente nuovo sotto il nome di magnetismo animale.
“Ma si deve credere che l'imaginazione sia la principale di queste tre cause del magnetismo. La pressione e i toccamenti servono di preparazione; è per i toccamenti che i nervi cominciano ad essere eccitati, l'imitazione comunica e diffonde le impressioni. Ma la imaginazione è quella potenza attiva e terribile che opera i grandi effetti che osserviamo. Questi effetti sorprendono tutto il mondo, mentre la causa loro rimane oscura ed occulta.„
Nessuno dei medici moderni saprebbe esprimere un giudizio sull'ipnotismo con maggior chiarezza e verità.
Invece della parola imaginazione si adopera adesso la parola suggestione, ma in fondo la cosa rimane la stessa. Anche oggi come allora sono le donne isteriche e gli uomini nervosi che presentano con maggiore facilità i fenomeni dell'ipnotismo, con effetti più intensi e più meravigliosi.
Dopo Mesmer il magnetismo trovò qualche applicazione nella medicina, perchè fu provato che per mezzo della imaginazione l'uomo può cadere in uno stato di sonno morboso chiamato ipnotismo nel quale è meno sensibile al dolore. Ma in che modo diminuisca la sensibilità nell'ipnotismo e come si estrinsechi la suggestione non si è ancora venuti in chiaro. Nè dobbiamo maravigliarcene troppo perchè anche del sonno naturale si ignora il meccanismo, e stiamo raccogliendo le prime pietre che serviranno a gettare le fondamenta per una fisiologia del sonno che forse si scriverà nel secolo venturo.
Oggi non vi è più chi cerchi la causa del sonno naturale fuori delle cause comuni alla vita: ma dei fenomeni più rari e più complessi che formano l'ipnotismo si cerca tuttora, e si cercherà sempre dai profani alla scienza, una causa fuori del naturale. Fino a che durerà l'ignoranza e il misticismo, dureranno pure le scienze occulte. Anche questo era già scritto nella relazione presentata al Re Luigi XXI:
L'homme saisit, quitte, reprend l'erreur qui le flatte. Il est des erreurs qui seront éternellement chers à l'humanité.
Questa relazione stampata in ventimila esemplari, fu mandata dal Governo in tutte le città della Francia.
Ma il pubblico non aveva capito il fondo scientifico della quistione, quella parte della fisiologia e della patologia del sistema nervoso; essa manterrà immortale il nome di Mesmer.
E nelle strade di Parigi si continuò a cantare la canzone sull'aria di Grégoire.[34]
Que le charlatan Mesmer,
Avec un autre frater,
Guérisse mainte femelle;
Qu'il en tourne la cervelle,
En les tâtant ne sais où,
C'est fou,
Très-fou,
Et je n'y crois pas du tout;
Mais je pense qu'il magnétise
Par la sottise.
XIII.
Questo po' di schizzo non riproduce il vero se non vi do mio malgrado qualche pennellata un po' più scura.
Il magnetismo è scienza e filosofia ed è pure danaro. Il lato suo per così dire industriale è stato anzi quello che ha prevalso, perchè fino dal principio il magnetismo animale fu inventato collo scopo pratico di curare e guarire le malattie. Due sono i segni caratteristici della lotta che Mesmer sostenne a Vienna e Parigi.
Il primo è il disprezzo che egli affettatamente ostentava contro la scienza ufficiale.
Il secondo, la tendenza sua a sostituire le esperienze con delle dichiarazioni fatte dagli ammalati e dai medici per provare l'esistenza del magnetismo animale.
Non direi tutta la verità se tacessi che Mesmer era un po' ciarlatano.
La paura che egli aveva degli uomini di scienza fu tale che Mesmer rifiutò un'offerta cospicua fattagli da Maurepas in nome del Re. Luigi XVI offrì a Mesmer nientemeno che una pensione vitalizia di 20.000 lire l'anno, e 10.000 lire per l'alloggio, purchè tre uomini di scienza scelti dal Re potessero assistere alle sue esperienze. Mesmer rifiutò.[35] Più tardi se ne pentì e chiese umilmente come ricompensa nazionale un grande castello nei dintorni di Parigi con tutto il territorio che vi era attorno. Avutone un rifiuto disse che abbandonava la Francia al flagello dei suoi mali e si recò ai bagni di Spa. Avendo saputo che il suo discepolo Deslon continuava le cure col magnetismo ritornò in fretta a Parigi. I suoi ammiratori festeggiarono con entusiasmo il ritorno del Maestro, e costituirono la Società dell'Armonia che aveva per scopo di sviluppare e diffondere la dottrina del magnetismo. Per far parte della Società dell'Armonia si dovevano pagare cento luigi. Ciò malgrado si trovarono subito trecento membri che regalarono a Mesmer 400.000 lire nette e lo proclamarono benefattore dell'umanità.[36]
Gli ammiratori di Mesmer erano talmente entusiasti del magnetismo che passavano alle vie di fatto contro coloro che lo negavano. Il celebre chimico Berthollet raccontò che alcuni i quali sostenevano Mesmer tentarono di strangolarlo in un angolo sotto i portici del Palais Royal, perchè gli era scappato detto innocentemente di avere assistito alle scene del magnetismo e che a lui parevano poco dimostrative.[37]
Mesmer faceva dei contratti coi suoi allievi per insegnare loro il magnetismo. Oltre i 300 membri della Società dell'Armonia, molti erano già andati prima a Parigi da molte città della Francia e anche dall'Italia.
Il dottor Grand-Champ di Lione pubblicò il suo diploma di adepte o allievo di Mesmer.
L'articolo 1.º di questa convenzione diceva:
Il sottoscritto non potrà fare alcun allievo, nè trasmettere direttamente o indirettamente a chiunque possa essere, nè tutte, nè la minima parte delle cognizioni relative sotto qualunque siasi punto di vista alla scoperta del magnetismo animale, senza il permesso segnato da Mesmer.
Art. 3.º — Non potrà senza il suo consenso espresso per iscritto fare delle cure in pubblico o raccogliere degli ammalati per curarli in comune col metodo del magnetismo, ma sarà a lui solo permesso di vedere e trattare privatamente dei malati in modo isolato.
Nella Società dell'Armonia non tardò a manifestarsi il malumore contro Mesmer, perchè egli teneva a bada i Soci, e non insegnava loro il segreto. Un motto celebre di Doppet che corse in un baleno per la bocca di tutti i parigini gettò il ridicolo sulla Società dell'Armonia e questa in breve si sfasciò. Ecco il tratto di spirito che ferì Mesmer in modo irreparabile: Ceux qui savent le secret en doutent plus que ceux qui l'ignorent.
XIV.
Il 14 luglio 1789 cadde la Bastiglia e con essa finì pure la moda del magnetismo animale. Bailly, il celebre relatore contro Mesmer, che era già deputato di Parigi, fu improvvisamente nominato Maire di questa città.
Fu lui che andato a pregare il re Luigi XVI di farsi vedere a Parigi nel portargli le chiavi della città, pronunciò davanti al trono il motto celebre “che il popolo aveva riconquistato il suo re„.
Dopo due anni di sindacato,[38] dopo che l'assemblea nazionale aveva deciso che il busto di Bailly fosse messo nella sala delle adunanze, chiamato a deporre come testimonio nel processo che si faceva alla regina Maria Antonietta, Bailly comprese subito che un uragano si addensava sopra il suo capo. Avrebbe potuto fuggire e scampar il grave pericolo, ma non volle.
Quando gli domandarono se conosceva l'accusata: oh sì che la conosco, rispose umilmente; e salutò con rispetto la regina. Dopo, protestò contro le accuse e le imputazioni odiose fatte contro di lei. In quell'istante cessò di essere testimonio agli occhi del tribunale e lo si trattò come un accusato.
La colpa che gli attribuivano era di aver aiutato la fuga della famiglia reale da Parigi.
Bailly che fu prima l'idolo del popolo, abbandonato da tutti, fu con voto unanime condannato alla decapitazione.
Era presente a questo processo come testimonio quel Coffinal tristamente famoso che un anno dopo condannava a morte Lavoisier, il creatore della chimica moderna, pronunciando contro di lui, che era innocente, e senza aspettare che potesse difendersi, le parole terribili: La république n'a pas besoin de savans.[39]
Mai non erasi veduta una folla tanto feroce e così abbietta quanto e come quella che aveva nelle mani il potere della Francia. Beugnot racconta che quando Bailly, il venerabile sindaco di Parigi, fu consegnato alla Conciergierie nelle mani dei gendarmi, questi se lo sballottavano l'uno all'altro dicendo: ecco Bailly, — prendilo il tuo Bailly, — e ridevano come cannibali e gli davano dogli spintoni quasi a farlo cadere perchè il grande filosofo si conservava pacato.
La ghigliottina fu alzata su di un mucchio di immondizie. A mezzogiorno del 12 novembre 1793 Bailly salito sul carro fatale, fu condotto al Campo di Marte. Mentre aspettava che si mettesse in ordine la ghigliottina, un insolente gli disse per scherno: Tu trembles, Bailly. — Mon ami, j'ai froid, rispose con dolcezza la vittima, e furono le sue ultime parole.
La tradizione racconta che Mesmer incontrò per l'ultima volta Bailly sul carro che lo conduceva al Campo di Marte. Aveva le mani legate dietro la schiena e la plebe di Parigi lo insultava per la strada. Mesmer ebbe il coraggio di levarsi il cappello e di salutarlo rispettosamente.
Salutiamo anche noi la memoria di Mesmer. Il suo nome sarà ricordato sempre fino a che vi saranno dei neuropatici, degli isterici, delle persone nelle quali ad un cenno può venire sospesa la volontà e la coscienza, benchè abbiano l'aspetto di essere sane.
Se è vero come credono molti che va lentamente accumulandosi nella nostra razza la degenerazione del sistema nervoso — il nome di Mesmer sarà più venerato nei secoli futuri.
L'alcoolismo, l'abuso degli eccitanti, il desiderio di sensazioni sempre più forti, lo strapazzo del cervello, la trascuranza della educazione fisica, preparano colla eredità patologica nuove generazioni, nelle quali sarà maggiore il numero di quelli che passano facilmente dalla veglia in uno stato di sonnambulismo improvviso.
Ma questi saranno sempre una minoranza minima, e nel suo complesso la nostra razza diventerà più savia e più robusta.
Se la lotta per l'esistenza sarà più accanita, se saranno più disastrosi gli effetti dell'esaurimento e più micidiali lo battaglie del pensiero, si accrescerà la falange dei meno atti, dei neurastenici, dei degenerati, di quelli che cadranno sopraffatti dalla fatica, esaltati dalla debolezza, come i soldati che un grande esercito lascia indietro nelle marcie forzato sulla strada trionfale della vittoria.
Per questi, e per tutti gli altri che non avranno coltura, Mesmer rimarrà un idolo od un taumaturgo.
NOTE:
10. J. Billings, Index-Catalogue of the Library of the Surgeon-General's Office. Washington, 1887.
11. Vedi Index to periodical Literature by W. T. Poole. Boston, 1882, e i volumi successivi.
12. A. Mosso, Fisiologia e patologia dell'Ipnotismo. Nuova Antologia, giugno e luglio 1886.
13. Lettre de M.r Giraud docteur en Médecine de la Faculté de Turin, à M.r le comte N. N. à Crémone. — Turin, 8 décembre 1784.
14. Mesmer, De planetarium influxu, 1766.
15. L. Hermann, Hat das magnetische Feld directe physiologische Wirkungen? Archiv. f. d. g. Physiologie, 1888. 43º vol., pag. 217.
16. Mesmer, Mémoire sur la découverte du magnétisme animal, pag. 18.
17. Baldinger, Narratio historica de magnetis viribus ad morbos sanandos. Göttingen, 1778.
18. Ingen-housz, come scrivono altri, è quello stesso autore del quale si trova il nome nei trattati di fisica dove si parla della conducibilità del calore.
19. Mesmer, Mémoire, pag. 23.
20. Lettres de M. Mesmer à M. Vicq-d'Azir et à Messieurs les Auteurs du Journal de Paris. A Bruxelles, 1784.
21. Extrait du Journal de Paris. Vendredi, 27 août 1784.
22. Mémoire de T. A. Mesmer sur ses découvertes. Paris, chez Tuchs, Maison Cluny. An VII. La prima edizione di questo libro fu stampata nel 1778.
23. Morand, Le magnétisme animal, pag. 45. Paris, 1895.
24. Opera citata, pag. 218.
25. Dictionnaire Encyclopédique des sciences médicales. Articolo di Dechambre: Mesmerisme. Tome VII. pag. 156.
26. Taine, La conquête Jacobine. Tome II, pag. 406.
27. Représentez-vous la place d'un village. Au milieu est un orme, au pied duquel coule une fontaine de l'eau la plus limpide: arbre antique, immense mais très-vigoureux encore, et verdoyant; arbre respecté par les anciens du lieu, qui, les jours de fête, s'y rassemblent le matin, pour raisonner sur leurs moissons, et surtout sur la vendange prochaine; arbre chéri par les jeunes gens qui s'y donnent des rendez-vous les soir, pour y former des danses rustiques. Cet arbre magnétisé de temps immémorial par l'amour du plaisir, l'est à présent par l'amour de l'humanité. Messieurs de Puysegur lui ont imprimé une vertu salutaire, active, pénétrante: ses émanations se distribuent au moyen de cordes, dont le corps et les branches sont entourés, qui en appendent dans toute la circonférence, et se prolongent à volonté. Ou a établi autour de l'arbre mystérieux plusieurs bancs circulaires en pierre, sur lesquels sont assis tous les malades, qui tous enlacent de la corde les parties souffrantes de leur corps. Alors l'opération commence, tout le monde formant la chaîne, et se tenant par le pouce. Le fluide magnétique circule dans ces instants avec plus de liberté on en ressent plus ou moins d'impression. — Lettres de M. Clocquet (Soissons, le 13 juin 1784).
Détail des cures opérées à Buzancy par le Magnétisme animal.
Altre cure furono pubblicate dal Marchese de Tissart de Rouvre. — Cure opérées à Beaubourg par le moyen d'un arbre magnétisé.
28. Opera citata, pag. 270.
29. Nouvelles cures opérées par le magnétisme animal. Compte rendu à M. Mesmer, de l'état des malades admis au traitement gratuit par lui établi, par Monsieur Giraud, Docteur-Médecin de la Faculté de Turin. — Recueil des pièces les plus intéressantes sur le magnétisme animal. MDCCLXXXIV.
30. Taine, I. 212.
31. Ed. et Jul. de Goncourt, Histoire de la société française pendant la révolution, pag. 58.
32. Ibidem, pag. 137.
33. Deslon, Observations sur le magnétisme animal, pagina 46 e 47.
34. Choix des Mémoires secrets pour servir à l'Histoire de la République des Lettres depuis l'année 1762 jusque 1785, pag. 265.
35. F. Arago, Notices biographiques. œuvres complètes. Tome II, Bailly, pag. 291.
36. Lettre de M. le Marquis de Puysegur, membre de la Société de l'Harmonie, à M. Bergasse, 24 juin 1784, Paris.
37. Arago, Opera citata, pag. 290.
38. Morand, Le magnétisme animal. Paris, 1889, pag. 40.
39. E. Grimaux, La mort de Lavoisier. Revue des deux Mondes, 15 février 1887, pag. 884.
NAPOLEONE
CONFERENZA DI Anton Giulio Barrili.
I.
La notte dopo il 12 aprile del 1796, un giovane comandante d'esercito, passata la Bormida con una vanguardia di ottomila Francesi, veniva ragionando in certa sua forma tra imperiosa e familiare con uno di quei valligiani, tolto poc'anzi per guida fino alla gola di Plodio. Tra l'altro ch'egli disse, queste parole rimasero scolpite nella mente dell'ascoltatore, preso di molta ammirazione e già disposto a gran fede: “Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li impiegherò.„ Parlava facilmente italiano, il generale francese, perchè era nato italiano di terra e di stirpe; parlava volentieri italiano in quell'ora, perchè, girate appena le Alpi sul primo nodo dell'Appennino, amava trarne il buon augurio con suoi fratelli di sangue, sperati amici e cooperatori di vittoria. Diceva ancora di non esser venuto a guerreggiare i popoli, ma i re, nemici dei popoli; non l'Italia schiava, ma l'Austria, tiranna in casa altrui, secondo il mal uso degli stranieri, sempre calati sulla bella penisola, come in campo aperto alle loro contese di primato europeo.
Duecentomila poltroni da impiegare! A non vederci altro che tanti infingardi, contenti dell'ozio a cui si sentivano condannati, i poltroni d'Italia erano certamente di più. Ma egli, giunto tra noi a capo di trentaseimila combattenti, egli che più tardi, nel colmo della potenza sua, non doveva averne più di cinquecentomila, nè mai, di tal numero, oltre i due terzi raccolti sotto la mano, poteva bene restringersi allora in quei modesti confini, e non chiedere all'Italia, sua madre, più di duecentomila soldati. Era già molto, e per il tempo e per l'uomo. Ancora egli non aveva fatto altro che vincere, dodici ore innanzi, sulle alture di Montenotte; e Montenotte non doveva essere una giornata decisiva se non dopo i felici combattimenti di Dego e di Millesimo. Pure, sceso da quelle vette onde non era spazzato intieramente il nemico, e dal ponte di Càrcare conducendo all'ostacolo di Cosseria la divisione Augereau, egli si sentiva già tutto compreso del suo alto destino. Un colpo di fortuna lo aveva innalzato a Tolone; un altro gli aveva fruttato il favore del Direttorio, per le nozze con la vedova Beauharnais, amica della Tallien, la bella onnipotente del giorno. Il caso è uno stupendo artefice di eventi; ma a patto che dove passa l'occasione, sua frettolosa figliuola, si trovi in agguato chi sappia afferrarla pel ciuffo. E molti aspettano, che non la vedranno passare; alcuni l'acciuffano, che non sapranno tenerla. Audaci, ma senza il valore che giustifichi l'audacia: e meglio per essi che non fossero usciti dalla oscurità; tanto è vergogna aver tentato e non vinto.
Non così egli, venuto alla sua ora in quell'esercito d'Italia che da quattro anni facendo pochi fatti romoreggiava sempre intorno ai confini. A Nizza, trovò laceri e scalzi, senza cavalli, senza vettovaglie, trentaseimila Francesi; nè egli portava più che duemila luigi con sè. Averne quattro per testa, fu gala a giovani generali, ch'egli doveva far poi marescialli, principi e duchi, caricandoli d'oro, di feudi, perfin di corone. Ai soldati nulla; ma prometteva un paradiso terrestre, disteso sotto i loro occhi nella gran valle del Po, passando, già s'intendeva, sui ventiduemila piemontesi del Colli e sui trentaseimila Austriaci del Beaulieu. L'obbedirono; e passarono ancora sui sessantamila del Wurmser, poscia sui sessantamila dell'Alvinzy, vincendo dal Tanaro al Tagliamento, dissipando tutte le resistenze, suscitando repubbliche, abbattendo principati, o ricevendoli in alleanza, che era principio di soggezione. A questo vincitore, che non in tre mesi, come aveva promesso nel partir da Parigi, ma in due era giunto a Milano, e in dieci aveva cacciata l'Austria dalla penisola italiana, mandando alla Repubblica francese il primo tributo ch'ella avesse ancor ricevuto di milioni e d'opere d'arte; a questo vincitore, costretto a perder gente in ogni vittoria, non si spedivano aiuti se non di poche migliaia d'uomini, non si consentiva il chiesto collegamento dell'esercito del Reno: ond'egli, a non arrisicare il guadagnato, e tuttavia con audaci mosse sulle Alpi Noriche minacciando di correr su Vienna, costrinse il nemico ai patti preliminari di Leoben; e il 17 ottobre 1797, a Campoformio, con larghezza inaudita, all'Austria vinta in quindici giornate campali e in più di sessanta fazioni minori, cedeva lo Stato Veneto, dai confini della Dalmazia alla linea dell'Adige. Il 9 dicembre era a Parigi, per rientrare nella vita privata. Già troppo grande, e troppo fortunato, lo mandarono presto in Egitto, per colpir l'Inghilterra sulla via delle Indie, o piuttosto per disfarsi di lui. Fu sorte che non gli lesinassero gente, nè sussidii navali. Ebbe quarantamila combattenti, tredici vascelli di linea, a cui potè unirne due veneti da sessantaquattro cannoni, sei fregate pur venete, e otto francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti, con diecimila marinai. Così, mentre la Francia rimasta senza di lui si disponeva a perdere quanto aveva per lui guadagnato di qua dalle Alpi, egli andava a vincere, come Cesare, in Egitto, e con la molteplice operosità del velocissimo ingegno ordinava quella famosa spedizione scientifica, onde ancora il suo nome è collegato al rifiorire degli studi orientali. Se l'armata del Brueys vinceva ad Aboukir, com'egli alle Piramidi e al monte Tabor, qual mutamento nel mondo! Segno che l'occasione era passata anche laggiù, lungo le foci del Nilo; e l'ammiraglio non ebbe, come il generale, la virtù di afferrarla.
Perduto il buon punto sul mare, tornava inutile, o quasi, proseguir l'impresa per terra. Risoluto il ritorno dopo le tristi nuove del continente (e fu altra fortuna che l'ammiraglio nemico gli mandasse, quasi a scherno, i pubblici fogli), trafugatosi per prodigio alla crociera inglese, giunto inaspettato a Parigi, fatto il colpo del 18 brumale contro l'Assemblea dei Cinquecento, non più servitore ma arbitro e console, lascia ai due colleghi del triumvirato il governo, e con arditezza di concepimento non altrimenti superata che dalla celerità dell'atto, si difila dalle Alpi a capo di sessantamila combattenti, piomba su Milano, si volge su Marengo, e in un colpo fulmineo restaura le sorti della guerra. A quel colpo l'Italia inferiore, come la superiore, si costituisce tutta in repubbliche. Troppe, e fu errore, ond'egli pure partecipò; scusabile, nondimeno, poichè non era stabilmente il padrone. Quando lo fu, come primo console, poi come imperatore, non vide opportuno nè maturo il consiglio di uno Stato solo dalle Alpi alla Sicilia; aspettava un'altra occasione, la preparava: frattanto l'Italia dava a lui ben più di duecentomila spoltroniti, per le sue guerre d'Austria, di Germania e di Russia. E questa Italia mostrò di sentire tutta la grandezza dell'eroe, che in Francia non aveva destato estri di poeti inneggianti, nè meditazioni di cospiranti intelletti. Il Genio del Cristianesimo e il Concordato con Roma furono due opere affini; ma i loro autori non s'intesero, e il visconte di Chateaubriand, ingegno e stile mirabilmente adatto a magnificare, rimase malcontento, si trasse in disparte. Quanto alla signora di Stael, la dotta Corinna non diede altro all'Impero se non un libro avverso, l' Allemagne, glorificazione del genio d'un popolo nemico. Ed egli, che amava i vasti concepimenti dell'epica, vedendo già un altro Omero in quello smilzo Ossian del Macpherson, rimpolpato e rimpannucciato dall'arte del Cesarotti, egli che amava i forti contrasti della tragedia e volentieri avrebbe fatto principe dell'Impero il Corneille, se l'autore del Cinna si fosse degnato di nascere un secolo e mezzo più tardi, non ebbe un grande artista della parola che celebrasse le sue grandi imprese e i suoi vasti disegni. Il suo prosatore Fontanes tesseva discorsi accademicamente laudatorii, ma gli guastava i concetti universitarii, per vantarsene poscia ai ritornati Borboni. Più fortunato di qua dalle Alpi, ebbe dal Monti il Prometeo e il Bardo della Selva Nera, classiche e romantiche costruzioni di un ingegno poderoso, ma non condotte a termine; e forse avrebbe meritato assai più di rimanere in tronco la senile Pronea tra le stanche mani del traduttore e ricreatore di Ossian. Abbondavano, è vero, da noi le cantate cortigiane; ma non fu di cortigiano il panegirico di Pietro Giordani, o fu di tale che intese nel potentissimo uomo l'altissimo spirito, e perchè lo intese, e come lo intese, non dubitò di esaltarlo. Ugo Foscolo volle e non volle; sentiva il grand'uomo, ma ricordava Campoformio: e chi, riconducendosi col pensiero a quel tempo e ai giudizi d'allora, vorrebbe dargliene biasimo? Serviva intanto colla spada; restò in forse colla penna; ad ogni modo, irrigidendo davanti al re dei re i nervi della sua prosa, solo assai tardi uscì nelle mal celate ostilità dell' Ajace. Taccio dei minori, che il favore del trono accomunava allora, ed anche preponeva ai maggiori, come il Paradisi e il Lamberti. Se gl'ingegni italiani non fecero di più, pensiamo che si dolevano non avesse fatto anch'egli di più per la fortuna d'Italia, dond'era così lietamente incominciata la sua.
II.
Poteva? Non così presto, certamente, come avrebbe voluto. Gli fu mestieri crescere in autorità, ed anche volgersi ad altro, legato egli stesso al carro della sua grandezza; uomo e simbolo ad un tempo, uomo nella personale ambizione, simbolo della rivoluzione in lui espressa e non del tutto soffocata sotto l'ermellino imperiale; costretto a seguire il destino, che lo lasciò vincer molto, senza concedergli interamente i frutti e gli arbitrii della vittoria. Così un ghiacciaio si avanza, prepotente nel suo volume, e con apparenza di onnipotente nella enormità del suo peso; ma stanno sott'esso le spine montuose e le insenature profonde che governano inavvertite i suoi moti. Pensate ancora ch'ebbe triste la vita, nella miseria del cominciare, nella difficoltà del giungere, nella necessità di vincer sempre, non riposando mai la fortuna; tra tanti sforzi d'ingegno e di volontà solo avendo un istante degno di sè, sulle rive del Niemen, in quella mirabil visione di potenza universale, ahimè spartita con un interlocutore non capace d'intenderla. Per tutto l'altro, infelice; infelice nelle prime nozze, quantunque abbia voluto concedere a sè come altrui l'illusione del contrario; infelice nelle nuove, e più nella facilità con che gli fu consentito di scioglier le antiche; infelice nella famiglia, tutta ambizioni ed appetiti insaziabili; infelice nei cooperatori, colmi di benefizi ed ingrati, onde la più felice sua nomina parrà ancora quella che non fece, di Pietro Corneille principe dell'Impero. E questa figura, epica nel colmo della potenza, divien tragica nell'eccesso della sventura. È un Prometeo, che non avrà rapita alla vôlta del cielo, ma bene ha potuto assicurare agli uomini la scintilla delle libertà civili; un Prometeo a cui non è mancata la rupe, Sant'Elena, nè l'avvoltoio, Hudson Lowe. Tale l'ha inteso il popolo, che raro s'inganna; il popolo, che ingrandisce qualche volta le immagini, ma solo per renderle a sè stesso più chiare. Così crebbe nelle fantasie popolari l'immagine di Carlomagno; il quale fu tanto grande per ciò ch'egli fece, più grande per ciò che disegnava di fare, grandissimo poi per il sogno che aveva ardito sognare. E non paia fuor di luogo il paragone, se tra due imperi quasi mondiali, eretti appena e sfasciati, si è aggruppata come intorno a due poli magnetici tutta la poesia della leggenda europea. Men fortunato Napoleone, apparso in tempi di luce così meridiana, che la leggenda, amica delle brume, non poteva più fiorire ed espandersi; e a lui s'imputarono tutte le cose che non aveva potute, come se non le avesse volute; laddove a Carlomagno non si fe' colpa di ciò che il suo impero aveva di caduco e il suo disegno di errato. È storia che vinti in tante guerre i Sassoni, gli Avari, i Turingi, gli Slavi, i Danesi e i Longobardi, padrone di tanta parte del mondo conosciuto, senz'altro competitore di gloria che il lontano signore di Bagdad, tremasse di sgomento al veder giungere una scorreria di pirati Normanni alle rive della Gallia Narbonese. Pianse, il potente imperatore; e ne aveva ben d'onde, per l'opera sua minacciata. I padroni del mare hanno sempre fatto piangere i signori della terra.
Ma perchè nella compiuta maestà dell'edifizio si mostra la crepa? Forse ha errato l'artefice, e nell'error suo sta la ragione della caduta? O non c'è piuttosto una forza superiore agli uomini ed alle loro faticose costruzioni? Di rado la vogliamo riconoscere, procedendo con cieca logica nelle nostre deduzioni sistematiche. Ma quando ci siamo spinti troppo innanzi, intravvediamo qualche volta il pauroso abisso, e in quell'abisso un disegno più largo, che comprende i nostri e li confonde, una volontà più grande, tanto più grande quanto più oscura, che soverchia la nostra e l'annienta. Nè giova essere stati al posto del sole, e nella sua dignità. Anch'egli, l'astro maggiore, centro del nostro sistema planetario, che ci fa palpitar d'amore e tremare di reverenza, obbedisce ad una forza più lontana, attratto, come un povero pianeta, nelle vicissitudini ignorate di un sistema più vasto. E allora s'intende, confusamente s'intende quel che tanto dispiace alla nostra superbia, quello che tanto volentieri si dimentica dalla nostra iattanza.
Pure, mai nato di donna fu più grande e in tal condizione di smisurata potenza. Alessandro, forse, Annibale e Cesare, furono più eccelsi capitani di lui, sulla cui strategia, sulla cui tattica, cercando in che veramente consistessero, e se obbedissero a costanti principii, si disputa ancora. Ma di quei tre, il primo nacque padrone, gli altri due cominciarono legittimi adoperatori di forze patrie. Non così l'uomo che tornava all'ozio impotente della vita privata dopo la più avventurosa delle sue guerre, e doveva chiedere il segreto della fortuna ai rischi del 18 brumale. Console e imperatore, ebbe ingegno e volontà di far tutto, nella guerra e nella pace; e tutto han cominciato da allora a negargli, con critica minuta, arcigna, implacabile, l'ingegno militare e il valor personale, il cuore ed il senno, la magnanimità, la prudenza. Le passioni, accese lui vivo, erano scusabili ancora; meno s'intendono, lui morto, divampanti nei posteri. Onestissimi giudici ne han fatto un mostro, tale da infamare non solamente sè stesso, ma il quarto di secolo che lo ha tollerato acclamandolo. Altri che in lui videro il pazzo, hanno perfino giudicata la sua mano di scritto, osservando la follìa dilagante nelle variazioni e nei mancamenti progressivi di quella firma, ch'egli era costretto a vergare sempre più frettoloso, diecine da prima, poi centinaia di volte in un giorno. E questi ha conquistata la sua fama negandogli il genio delle armi; e quegli ha saputo scusare la mostruosità del fenomeno umano ritrovandoci benignamente un caso di atavismo, una riapparizione fatale di venturieri italiani. Un grande! esclama ironico un altro; sì, perchè l'ha strombazzato tale dall'alto di dieci volumi un piccolo uomo. Ma ecco, il piccolo uomo è morto; e durano e si vanno moltiplicando gli studiosi di quella grandezza; duravano, mezzo ignorati, e tornano in luce i primi saggi del severo ingegno precoce, onde amorosi indagatori hanno ricavata la genesi degli eccelsi pensieri; nè manca d'altra parte, come per dare risalto a quella luce, l'ombra del Direttorio, uscita dal suo sepolcro, o dal limbo dei bambini, con le memorie del Barras, per contendergli invano i primi lauri di Tolone. Quella grandezza cresce, di mezzo agli stessi tentativi che si fanno per atterrarla. Se è una macchia, come pare a qualche coscienza sonnambula, l'Europa, lady Macbeth novella, è impossente a cancellar quella macchia; le acque istesse dell'Oceano l'hanno fatta più vivida. Lui spento appena, si chiese: “fu vera gloria?„ Ai posteri furono anche lasciati gli elementi del giudizio, scolpiti in istrofe immortali. E i posteri possono risponder oggi, a tanta distanza da quel giorno, giudicando la lontana figura dallo spazio ch'ella occupa ancora. Quella figura campeggia immane, anche agli occhi del popolo che le fu più severo. Quanto a noi Italiani, cui già più volte han rimandato il nostro “Buonaparte„, saremmo felici di tenerlo, come un grand'uomo di più; il che in una galleria di duemilaseicento anni e di centoquattro generazioni non guasta. Se pensiamo al bene ed al male che ha fatto, tirando le somme e facendo le proporzioni, volgeremmo al panegirico. Con lui e per lui le idee giovani non perirono più; “uscite dalla tribuna francese, cementate dal sangue delle battaglie, decorate dai lauri della vittoria, salutate dalle acclamazioni dei popoli, sancite da trattati e alleanze di principi, rese familiari agli orecchi come alle labbra dei re„ non potevano più dare indietro; checchè facesse la reazione, imperversando da capo trent'anni, dovevano essere la fede, la religione, la coscienza dei popoli. Quest'êra memorabile si collegò alla persona di lui; ed egli poteva ne' suoi ultimi giorni vantarsene. È giusto il vanto? domandano i più miti. Non fu egli inconsapevole autore di tanta fortuna, alla maniera degli antichi re, cui le storie del vecchio stile usavano ascrivere tutti gli eventi occorsi nei loro anni di regno? Anche questo si è tentato di provare, dicendo: l'Europa andava da un pezzo incontro alle novità; onde, nello stesso modo che le idee liberali potevano far cammino senza le violenze della rivoluzione francese, avrebbero anche potuto trionfare senza le ambizioni del Bonaparte. Ma quasi a sfatare in anticipazione il comodo ragionamento, esse andavano a naufragio con quelle istesse violenze, e parvero sepolte con le ambizioni di lui sotto il salice di Longwood. Aggiungete non potersi escludere dal problema storico il personaggio che ne è il dato principale e quasi tutto lo riempie. Noi non possiamo giurare che, messo fuori quel dato, sarebbero andate egualmente le cose; possiamo creder piuttosto che avrebbero preso un altro indirizzo, muovendo ad un altro e non più riparabil naufragio. Lui assente dall'Europa, non si riperdeva forse nel Novantanove il conquistato del Novantasette? Lui sparito dalla scena del mondo, non fu la Santa Alleanza? e non ne durarono gli effetti in Europa, quantunque in Francia la rivoluzione, forzatamente attenuata, scoppiasse ancora due volte, nel Trenta e nel Quarantotto? Diciamo dunque, per comporre la lite, e senza sicurezza di dir tutto il vero, che la filosofia del Settecento avrebbe temperato il dispotismo senza distruggerlo, e tenuto l'individuo, la famiglia, la società, in quelle povere condizioni, in quelle disgraziate relazioni di cui sentivano la noia innanzi la promulgazione del codice Napoleonico. La gran rivoluzione francese, per contro, avrebbe instaurati in casa propria e per sempre i diritti dell'uomo? o non sarebbe caduta piuttosto sotto i colpi della coalizione europea? Notate che, spenti i Girondini, ella non aveva più un contrappeso salutare; ucciso il re, la regina, l'erede, i nobili a migliaia, uomini e donne, aveva offeso l'umanità, non riuscendo a conservarsi tra le viziose debolezze del Direttorio, se non per le gelosie, le discordie, le inerzie dei potentati d'Europa.
Comparve allora l'ingegno sovrano. Fu un audace, sicuramente; ma l'audace poteva essere un soldataccio, e fu un legislatore, quasi un profeta armato, per dirlo nel maraviglioso stile di messer Nicolò. Ah, perchè non si trattenne egli al titolo e all'ufficio di console, il guerriero legista? Ce ne dorremmo, sì, ma pensando ancora che egli, console a tempo, e non solo, accompagnato e contenuto da mediocri, non avrebbe fatto nulla. Console unico, a vita, sarebbe stato con altro nome un imperatore. Ma forse la modestia del titolo poteva esser buon freno all'orgoglio; e la dignità sua poteva contentarsene, come al tempo loro se ne contentavano le civiche virtù di Valerio Publicola e di Quinzio Cincinnato. Ma non erriamo noi, rievocando quei nomi? e non trasformiamo un pochino nella nostra immaginazione gli uomini che li hanno portati? Erano uomini semplici, in semplici età; possidenti agricoltori, amavano i loro quattro jugeri di terra; si sarebbe fatto poco cammino con tali consoli e dittatori, che volevano essere ogni sera di ritorno al focolare domestico. Felici gli Stati che possono contentarsi di tali uomini e commetter loro le proprie sorti. Ma se ne sarebbe contentata la Francia moderna? Non se ne contentò l'istessa Roma antica, che con altri uomini e più vaste ambizioni domò Cartagine, aperse al suo pensiero, alle sue leggi, la Spagna, la Grecia, la Siria, l'Egitto, le Gallie e le terre settentrionali dall'Istro alla Mosa. E si fosse pur contentata la Francia; sarebbe stata quieta l'Europa monarchica, l'Europa dispotica, con sotto gli occhi uno stato senza re? Non gliene avrebbero imposto uno, da Coblenza o da Vienna, da Londra o da Pietroburgo, per cessare il mal esempio, tanto più pericoloso quanto era più nuovo? Dunque?... Dunque, storicamente fatale il despota della libertà, che fu il rinnovatore della carta e del diritto d'Europa, il turbatore di tutta la vecchia compagine d'interessi, di privilegi e di pregiudizi, tessuta al finire del Medio Evo per danno universale. Che se, infrenatagli l'ambizione, quell'uomo portò la pena del troppo che aveva voluto essere, noi non dovremo credere per ciò che senza quella sua ambizione si sarebbe ottenuto il meglio. Bene il mondo credette di respirare, quando egli cadde; e prime respiraron le madri. Bellaque matribus detestata: è verissimo. Ma come respirassimo noi Italiani, stimandoci tanto felici di quella caduta, lo seppe il più manifestamente felice di tutti, Federigo Confalonieri, sepolto quindici anni nelle segrete dello Spielberg, e non trattone fuori se non per languire undici anni ancora, fantasma di sè stesso, condannato a morire esule sconsolato dalla terra dei padri.
III.
Tutto bene, adunque? No, non ho detto questo, non voglio dir questo. Non si rimescola il mondo, senza commettere errori; e non tutti i giorni della sua vita terrena quella grande anima ebbe presente la misura prescritta alle umane ambizioni. Il colosso aveva il piede di creta; ma era un colosso, e solo poichè fu caduto, prosteso a terra, i pigmei poterono dalla lunghezza misurata argomentarne l'altezza. È anche giustizia il riconoscere com'egli fosse trascinato di continuo alla guerra, e dalla guerra continua istigato alle crescenti ambizioni. N'è un cenno evidente in ciò ch'egli scriveva al ministro di Francia a Londra, poichè l'Inghilterra ebbe rotta la pace d'Amiens, che fu il mal seme della gente Europea: “l'Inghilterra mi obbligherà a conquistare l'Europa. Il primo Console non ha che trentatrè anni, e non ha distrutto ancor altro che stati di second'ordine; chi sa quanto tempo gli occorrerà per risuscitare l'impero d'Occidente?„ Eccovi Carlomagno, col suo tentativo di rinnovare la potenza d'Augusto: e franca la spesa di vedere in che differissero le due forme del tentativo, come si diportassero rispetto a quella Roma ch'era stata capo dell'Impero, e che Costantino aveva, se non donata, lasciata prendere al Papa, secondo la curiosa espressione di Giuseppe De Maistre. Carlomagno v'andò a cinger corona: era un credente; al tempo suo non si discuteva il diritto temporale dei Papi, non bene uscito netto dalle pretensioni di Bisanzio: se ne tornò, bastandogli d'essere stato il salvatore dei Papi, contro Longobardi e Greci, in vario grado scismatici. Napoleone certamente sognò un'altra cosa, poichè in materia di religione pensava altrimenti. L'autore del Concordato, il restauratore del culto cattolico in Francia, non era un ateo, ma si ricusava tuttavia alla dogmatica del Cattolicismo; in quella sua specie d'incredulità razionale vedeva anzi un benefizio pei popoli, una guarentigia di tolleranza per tutte le sètte, non essendo egli dominato da alcuna. E l'uomo che a Sant'Elena leggeva nel Vangelo il discorso della Montagna, confessandosi “rapito dalla purezza, dalla sublimità, dalla bellezza di quella morale„, dopo aver detto: “tutto proclama l'esistenza d'un Dio„, soggiungeva ancora: “ma tutte le religioni sono evidentemente figliuole degli uomini„. E nondimeno, giunto al consolato, s'affrettava a ristabilire quella dei padri, che era per lui “l'appoggio della sana morale, dei veri principii, dei buoni costumi„. Un altro argomento gli soccorreva, in materia di religioni: “L'inquietudine degli uomini è tale, che lor bisogna il vago, il maraviglioso, offerto da esse„. E qualcuno avendo osato dirgli che sarebbe potuto finire devoto, “no, rispondeva, e me ne duole, perchè sarebbe un grande conforto.... Il sentimento religioso è così consolante, che il possederlo è un benefizio celeste. Di quale aiuto non mi sarebbe egli qui? Che potere avrebbero più uomini e cose su me, se, accettando da Dio i miei rovesci, i miei dolori, ne attendessi ricompensa in una vita futura?„
Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero, intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente, attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso pensiero gli suggeriva di chiamarlo “re di Roma„, quasi complemento a quel titolo di “re d'Italia„ ch'egli stesso riteneva da cinque anni, dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità, di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio 1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria “primo teatro delle sue vittorie„ era annessa all'Impero, col Piemonte, con Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi mutamenti, a tutta prima indispensabili, come la cessione del Veneto all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli stesso nelle Memorie, dettate al maresciallo Bertrand. “Dacchè la prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.„
Il “quasi intiera„ apparisce sacrifizio ad interessi politici, o concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati, con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del “re di Roma„ fa intender meglio l'abbozzo della politica sua. Che forse pensò egli un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma, per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero medievale non aveva fatto mica un mal sogno!
IV.
E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: “Non crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.„
Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni in tal forma: “L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva sostenuta una gran parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella famiglia e tra le sue alleate: sta bene, è cosa fatta tra noi, è una delle nostre casate. Più tardi, quando si trattò della mia incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola considerazione d'amor proprio nazionale: “dopo tutto è una famiglia italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo così vendicati dei Galli...„ Dubito che ciò sia stato detto o pensato in Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della toilette pour la postérité.
Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate di maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non recidendole tutte d'un colpo. Ma quello era un semidio, e il tempo dei semidei è passato; Napoleone fu costretto a colpirle una dopo l'altra, e rinascevano tutte. A noi sia debito ricordare com'egli ci lasciasse il benefizio inenarrabile d'uno stimolo virile all'inerzia lunga e pericolosa, d'un mutamento profondo nella nostra compagine politica, onde furon troncate le radici alle vecchie antipatie regionali, onde un lievito possente a nuove e non più frenabili sollevazioni del sentimento patrio. “Ci sono in Italia duecentomila poltroni: ma io li impiegherò.„ E furono assai più di quel numero i valorosi che trasse d'Italia a tante guerre; la sua famosa ritirata, non dal nemico vinto, ma da un inverno invincibile, fu coperta dai nostri soldati.
Morian per le Rutene
Squallide piagge, ahi d'altra morte degni
Gl'Itali prodi....
e sia pure, come il Leopardi cantò; ma ancora ne rimasero tanti da fare tre rivoluzioni sulla terra nostra, da esser maestri alla generazione che l'ha composta in un regno. Ond'io posso applicare a noi ciò ch'egli diceva per tutti: “Qual gioventù lascio io dopo di me! Ed è opera mia. Essa mi vendicherà abbastanza, con tutto quello che saprà volere. Veduta l'opera, converrà bene render giustizia all'artefice.„ Il quale, non lo dimentichiamo, fu colpito dal fato nella pienezza degli anni virili. Dapprima confinato all'Elba, fra le tre culle della sua gente, San Miniato, Sarzana ed Aiaccio, tacque, sperando sempre di fare; poi quasi fuori del mondo, sopra uno scoglio dell'Oceano, come un eroe antico, disperando di fare, ha detto il segreto dell'anima sua, epico nell'opera, tragico nella contemplazione che ne ha fatta, rivivendola intiera. E si assiste a quella evocazione, come alla recita di un dramma, con tutte le ansie dell'affetto commosso, con tutti i dubbi della mente turbata, sapendo la catastrofe, e pure desiderando, quasi sperando il miracolo ch'ella riesca diversa. E là non più un uomo; è tutto un simbolo; il simbolo della nuova Europa che sorge, combatte e cade, lasciando ferito a morte il nemico. Dopo di lui, è bene l'Europa contemporanea; il passato può dar guizzi di serpe troncato; son guizzi d'agonia, mentre tutte le cose vitali rinascono; la patria nostra, ad esempio.... Ma io non farò un inno, qui. So bene che tutto non è andato secondo le sapienti preparazioni e le giuste speranze dei migliori; che i pericoli non son tutti stornati da noi, se ancora ne durano in noi; che bisogna pensare, provvedere, meritare con forza e con senno una grande fortuna. Sia dunque l'inno riserbato alla Italia futura, se la dovremo davvero a noi stessi, savia, operosa, concorde, soprattutto concorde; e Dante e il Machiavello, grandi anime fiorentine, l'assistano.
V.
È a Milano, nell'atrio di Brera, un Napoleone di bronzo, colossale; non lui, veramente, ma il suo genio, come l'ha ideato Antonio Canova. Vedendolo, senza quegli indumenti ond'è caratteristica l'immagine dell'Imperatore, intendo la verità profonda di ciò che l'artista di Possagno diceva spesso e volentieri intorno alla significazione del nudo nell'arte. Così, fatto genio, Napoleone è il capolavoro del Canova. Altri lodi Ebe, e Psiche e le Grazie abbracciate; altri si compiaccia di Paolina giacente, o ammiri papa Rezzonico orante tra i suoi leoni pensosi. Nell'atrio di Brera penso io, davanti al colosso. Foggiato per andare all'aperto, con la vittoria alata nel cavo della mano, egli muove allo stretto, là dentro, e si pensa che in men di due passi avrà finito il suo corso. Perchè là dentro? All'aperto non lo vollero i potenti, che approfittavano della sventura sua; e fu ancora lodevol pudore che lo lasciassero intatto, come fu buon consiglio negli ultimi successori concederlo alla ammirazione sminuita dei tempi nuovi confinato in quel chiuso, che è pur sempre un tempio della scienza e dell'arte. E va, senza muoversi dal suo piedestallo di granito, fremente nella sua grandezza, che ha ancora ed avrà sempre alcun che di segreto. E più torreggia allo stretto, e più sembra che cammini, mentre a noi par di comprendere tutto ciò ch'egli non fu, avendo la potenza di essere, e intorno a lui, irta di ostacoli, serrandosi la congiura del mondo.
Veduto quello, muovo a cercarne il riscontro, in un altro cortile, di là dal Naviglio, ove si raccoglievano i Senatori di quello che Ugo Foscolo chiamò “il bello italo regno„. Non più un genio, là dentro, ma un uomo, un cavaliere salutante; in atto di muoversi anch'egli, caracollando, e anch'egli rinchiuso! Ragioni d'ordine vario han fatti prigionieri i due bronzi, non volendoli in piazza; dove infine, piacendo meno alle moltitudini, riuscirebbero meno eloquenti. Lampi di genio inconsapevole; ne siano perdonate (quasi direi benedette) le cause, per il gaudio estetico che destano in noi. Vedo quell'altro, e penso.... penso una grande giornata e un indimenticabil servizio. Quel cavaliere che saluta, levandosi sul cavallo di mezzo al fogliame d'una aiuola fiorita, un po' sfinge nella immobilità dello sguardo, ma gentiluomo nel sorriso e nel gesto cortese, si associa nel mio pensiero al rifiorimento di una leggenda di gloria che Roma ha cantata nei secoli. E rammentando quante ombre circondino certe figure storiche, sento anche meglio la solenne grandezza onde sono privilegiate. Nell'atrio del Senato vedo la continuazione ideale dell'atrio di Brera. Solferino procede da Sant'Elena; il discendente degli antichi condottieri italiani (piace a me pure di chiamarlo così) è stato il liberatore della patria schiava, per aver dato il primo crollo, e come vigoroso! alle mura istesse del suo carcere quindici volte secolare; onde il mio panegirico, se parrà tale, è sentenza di storia. Infine, odio la storia che non illumina i fatti con luce viva d'amore.
I FRANCESI IN ITALIA (1796-1815)
CONFERENZA DI Vittorio Fiorini. Signore, signori.
Saranno cento anni compiuti fra pochi giorni.
Il 27 di questo medesimo mese di marzo, il cittadino generale Bonaparte, prendendo il comando di quell'esercito d'Italia che per tre anni continui aveva tentato indarno di rompere la cerchia delle Alpi occidentali, a' suoi soldati “mal nutriti e quasi ignudi„ additava, novello Annibale — e ne aveva l'età ed il precoce genio guerresco — “le fertili pianure, le ricche provincie, le grandi città della penisola„ e prometteva che laggiù li avrebbe tratti a trovarvi “onore, gloria, ricchezze„.
Da quel giorno si apre uno strano e tumultuoso periodo della vita italiana, e si chiude soltanto quando, dopo un'epica lotta, a due riprese rinnovata, il Bonaparte — non più semplice generale ma Cesare — fu ridotto all'impotenza: e ci vollero, per trascinarlo nella rovina dell'immane edificio eretto dall'imperiosa volontà di lui, “l'inestinguibil odio„ che per ogni dove la sua fortuna ed il prepotere avevano acceso, e le forze dell'Europa intiera coalizzate contro lui solo: e parve che soltanto l'onda sterminata del grande Oceano avesse potenza di costringere tanta energia nell'inerzia.
Dal 1796 al 1815 son diciannove anni soltanto — neppure la quinta parte di un secolo — ma sono anni che valgono da soli quanto un secolo di storia: tanto è il moltiplicarsi degli avvenimenti, il succedersi incessante di uomini, di istituzioni, di Stati, l'irrompere affollato e precipitoso ed il cozzare vigoroso di idee nuove e vecchie, del paradosso temerario coi suggerimenti del prudente buon senso, dell'audacia con la paura: e tanto feconda di conseguenze sembra questa età ed irti di difficoltà i problemi che presenta allo storico, il quale voglia darne sicuro giudizio e determinarne gli effetti. È un dramma che si interpone bruscamente, quasi ciclone turbinoso, fra la calma di due età di lunga pace: quella che tien dietro alle guerre di successione ed alla Pace di Aquisgrana, e che quietamente operosa lavora ad una graduale trasformazione della società a beneficio e per opera del principato assoluto: e quella che dopo il tumulto violento delle guerre napoleoniche ed il non meno violento equilibrio imposto dalle paci di Vienna e di Parigi, sembra adagiarsi paurosa e fiacca per stanchezza ed esaurimento sotto l'occhio vigile e sospettoso della polizia austriaca e dell'assolutismo. Dramma che è compiuto in sè e che per atti e peripezie diverse si svolge parallelo allo svolgersi della vita e della gloria del grande Capitano, il quale lo ha iniziato e ne rimane sino all'ultimo il protagonista. Anche il dramma italiano prende le mosse dal proclamare in nome della libertà e dell'eguaglianza la distruzione di tutte le forme monarchiche ed aristocratiche della vita politica e sociale, poi passo passo ritorna sulle vie del passato e riconduce la società, per una gerarchia d'uomini nuovi e di nomi vecchi, entro la cerchia senza uscita di una monarchia assoluta che si drappeggia nei ricordi di Augusto e di Carlo Magno. Allora la catastrofe precipita: e come nei drammi del buon tempo antico precipita con soddisfazione generale. Tolto di mezzo il personaggio perturbatore che aveva annodato l'intreccio e ne teneva le fila, ogni equivoco si dissipa, cessano i contrasti, uomini e cose tornano al loro posto e la vita, momentaneamente deviata dal suo corso, sembra ritrovare il suo letto.
Ma è proprio l'antico letto? e la vita va ancora dello stesso passo? Si tratta davvero di un episodio improvviso, passeggiero e che resta isolato o ha esso radici nel passato e rami fruttiferi nell'avvenire? E quali son questi e dove erano quelle? Quanta parte di quella coscienza nazionale che ha dato le forze all'Italia nuova e la volontà di costituirsi una ed indipendente, dobbiamo rintracciare e riconoscere in questa età breve ma piena di passione e di vita e nella quale per la prima volta il popolo italiano sembra scuotere il sonno di lunghi secoli d'inerzia per acquistare coscienza di sè? E sopratutto quanta parte di questi avvenimenti non sono che riflesso della volontà di Napoleone e per quanto invece si riflettono nella vita e nella gloria di lui? Poichè se vi è nella storia personaggio del quale riesca difficile determinare la linea di reciproca influenza che l'individuo ed i tempi esercitano l'uno sull'altro, questi è Napoleone.
Affrontare siffatti ed altri non meno complessi problemi, che mi si affacciano alla mente, costringere in un solo quadro tutte le figure e tutte le scene di questa età non sarebbe possibile nel breve spazio di tempo che la pazienza degli uditori suole concedere ad una conferenza e sarebbe, d'altra parte, impresa superiore alle mie forze. Poichè alle egregie persone che compongono il Comitato di queste pubbliche letture, è piaciuto mescolare il mio nome oscuro con quelli d'uomini che meritamente già illumina la fama, conviene che lor signori ne portino le conseguenze: a me — lo confesso — è mancato il coraggio di respingere l'onore di parlar dinanzi a così eletta riunione e nella città che una troppo breve dimora nei miei anni di studio ha reso carissima al mio cuore. Nè hanno valso a trattenermi — ed ora me ne vergogno e me ne pento — la certezza di trovar qui, chiamati dalla squisita cortesia dell'animo loro, alcuni de' miei più venerati maestri ed il timore di dovere affrontare il giudizio di chi ha per sempre legato il proprio nome alla storia di questi tempi: voi intendete che io parlo di Augusto Franchetti, il quale, primo fra noi, di questa difficile età ha rivelato l'anima e ne ha narrati gli avvenimenti con larghezza nuova di vedute e di ricerche e con toscana eleganza di forma.
Perchè più lieve sia il danno vostro e minore il pericolo mio, io voglio che il mio ufficio si restringa a disegnare la cornice di questa età o, se più vi piace, a presentarvi il rude canovaccio su cui potrete collocare le figure e le scene che collo svolgersi di questa serie di letture vi passeranno sotto gli occhi.
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Quel che dall'Alpi ora discende
D'armi e d'armati inondator torrente
Ceppi a noi reca o libertà ci rende?
Così, “chiaroveggente testimone de' tempi„ domandava in un sonetto Lazzaro Papi, che più tardi della Rivoluzione francese narrò con rara temperanza di giudizio i Commentari. — Reca libertà — già da un pezzo e anticipatamente (appena conquistata la Savoia) aveva risposto per bocca del cittadino Grégoire la nazione francese. — Libertà per tutti i popoli come a fratelli, guerra e morte a tutti i governi come a nemici! E la Convenzione Nazionale, consacrando queste parole del vescovo costituzionale nelle solenni forme di un decreto, aveva promesso “aiuto e fratellanza a tutte le genti che la libertà volessero ricuperare„. Nè da quel dì la promessa era stata ripetuta poche volte; e la repubblica batava era sorta a mostrare come la repubblica francese cominciasse a mantenerla.
Ma questa Libertà che il Presidente della Convenzione già rappresentava “assisa sul Monte Bianco in atto di stendere, sovrana del mondo, le mani trionfali alle nazioni di tutto l'universo risorte a nuova vita al suono della sua voce„, gli Italiani la guardavano con diffidenza, perchè la vedevano venire armata di baionette e di cannoni, perchè temevano che dietro di lei irrompesse anche fra noi, intonando il Ça ira, la turba degli scamiciati energumeni che avevano fatte le loro prove nelle vie di Parigi e nelle sale della Convenzione e dell' Hôtel de la Ville.
Poichè nella maggioranza del popolo italiano la rivoluzione aveva sopratutto destato un senso di orrore e di terrore: gli italiani erano stati colpiti dal suo carattere di irreligiosità, dalla frenesia di ribellione contro tutto e contro tutti che pareva avesse invaso la popolazione francese e dal sempre insaziato bisogno di distruzione che traeva i cittadini furibondi alla strage ed alla rovina di tutte le istituzioni divine ed umane. A chi è avvezzo a scivolare senza scosse lungo la china della vita, adagiandosi pigro e felice nel beato benessere che procura la tranquillità uniforme di uno spirito rassegnato alla nullità della propria sorte e la persuasione che non avrà bisogno neppure di alzare un dito per giungere pari pari fino in fondo, anche la più piccola novità dà ombra e fa paura. Tale era la condizione degli animi nelle moltitudini italiane. L'abitudine ininterrotta di piegare il capo remissivo dinanzi al principio d'autorità, da chiunque o comunque fosse rappresentato, e di lasciarsi guidare, sempre rassegnati, dalla volontà altrui, avevano fiaccato nei più ogni forza di iniziativa, distrutto ogni istinto di azione diretta a mutare in meglio le condizioni della società.
Dio — e per lui migliaia di preti, di frati e di monache forti di dogmi immutabili e di non meno immutabili superstizioni o privilegi — il monarca — e per lui una folla di padroni, tutti armati di leggi e di spade, dal vicerè, dal governatore, dal nobile all'ultimo bravaccio di soldato — avevano in custodia la società per consenso di generazioni e generazioni: e della loro vigilanza, fosse pur prepotente e molesta, le moltitudini non sapevano più fare a meno. Certo vi erano sofferenze, abusi, miserie, dolori, ingiustizie: ma anche il male e la miseria hanno le loro risorse e creano abitudini cui il lungo tempo affeziona, sicchè alla fine spiace lasciarle. Del resto, in tanto volger d'anni, ciascuno aveva trovato — bene o male — il modo di fare il proprio comodo: perchè dunque mutare? perchè rompere, con novità e per desiderio di un meglio incerto, la quiete monotona ma tranquilla di una vita senza cure?
Perciò quando il soffio di idee più liberali e più umanitarie, movendo dalla Francia, aveva commosso tutta l'Europa ed era passato, attraversando anche la nostra penisola, sopra la morta gora di questo popolo beato del suo sonno, i più alti, nobili e colti intelletti avevano bensì aspirato a larghi polmoni questa nuova aura vivificatrice, e d'un tratto v'erano fatti con ardore febbrile e con instancabile attività propugnatori con gli scritti ed esecutori con leggi e decreti di un movimento sociale più conforme al genio dei tempi ed ai bisogni della universalità del popolo; ma nulla aveva potuto scuotere la gran massa, per inerzia sua conservatrice, della popolazione italiana: nè la penna eloquente o la parola persuasiva dei più profondi pensatori, nè il consenso della parte più eletta della borghesia, della nobiltà e del clero; e neppure la volontà risoluta e spesso generosa fino al sacrificio di principi e di ministri.
Indifferente, dapprima essa lasciò fare: poi, quando l'urto fra i diritti laici della società civile ed i privilegi ecclesiastici pose di nuovo a fronte Chiesa e Stato, diventò alle riforme apertamente ostile. Le popolazioni — specialmente quelle delle campagne, fra le quali più radicate e meno razionali sono le consuetudini religiose ed ascoltatissima sempre fu la parola de' parroci — non esitarono a persuadersi che tutte queste novità erano malvagio suggerimento del demonio, che ereticali erano le dottrine che venivan d'oltralpe e pieno di pericoli l'accettarle.
Non pareva che appunto per dar ragione ai loro timori venissero i terribili procedimenti della rivoluzione di Francia? E sembrò che a questa opinione non il volgo soltanto, ma anche le classi sociali più colte e gli stessi più caldi propugnatori delle riforme si lasciassero condurre.
Stormi di preti francesi venivano ogni giorno fra noi fuggendo l'imposto giuramento e si annidavano nelle maggiori città d'Italia prima di raccogliere il volo — quasi tutti — nel seno della Chiesa di Roma: principi di sangue, nobili di razza, fedeli servitori del re portavano fra noi, emigrando, il loro terrore ed i loro propositi di vendetta. Attraverso i racconti pieni di odio di questi fuggenti, nelle narrazioni esagerate delle Gazzette, dei Monitori, dei Mercuri del tempo e ingrossando poi di bocca in bocca, giungevano alle plebi maravigliate, penetravano entro le pareti tranquille ove patriarcalmente le famiglie borghesi, ogni sera, da anni ed anni si raccoglievano a giuocare a tarocchi, o nei salotti dove Clori, tra una tazza di caffè ed un minuetto, ascoltava sorridendo dietro il ventaglio i complimenti arcadici della sua corte amorosa, notizie che riempivano di sgomento, di stupore e di sdegno: la Bastiglia era presa; il re era fuggito, preso, arrestato, processato, poi morto cristianamente sul patibolo; i preti assassinati a centinaia; le prigioni invase da una folla di sgozzatori. E tutto questo in nome della libertà: oh libertà odiosa!
Chiuder un Re in prigion senza perchè,
Toglier la Religione e la Pietà,
Far tanto un Regno intero uscir di sè
Che ne scanni metà l'altra metà:
Di florido che fu, guari non è,
Ridurlo al verde, alla mendicità,
Senza pan, senza onore, senza fè,
Da far orrore alla posterità;
Spogliare uccider dove mette il piè,
Abusar d'ogni eccesso, d'ogni età
Turbare i Regni, assassinare i Re;
La Libertà francese ecco che fa.
Ah tenga, o Roma, il Ciel lungi da te
Quest'empia e detestabil libertà.
Questo sonetto e molti altri che allora corsero di mano in mano, manoscritti e stampati, e i numerosi opuscoli che in quegli anni sfornarono, a migliaia di copie, le officine tipografiche di Foligno e di Roma stanno a mostrare quanta ripugnanza per le riforme e per la rivoluzione di Francia era nella generalità del popolo italiano. Certo non mancarono neppure fra noi teste esaltate — giovani specialmente — che si lasciarono guadagnare dall'audacia delle nuove dottrine e dalle persuasioni degli emissari francesi i quali volontari o mandati percorrevano l'Italia. Qua e là furono affissi alle mura anonimi inviti al popolo per chiamarlo a libertà; vi furon tumulti; nella nobiltà e nella borghesia non mancarono i malcontenti che in segreto speravano e nei colloqui fidati manifestavano la speranza di una prossima mutazione di cose: v'è traccia di club organizzati, di cospirazioni pronte a scoppiare. Emanuele de Deo ed una nobile schiera di giovani a Napoli ed a Palermo, Luigi Zamboni e Giambattista de Rolandis a Bologna pagarono con la vita il loro entusiasmo per le cose di Francia: altri ebber carcere o cercaron salvezza nell'esilio. Ma sono casi isolati: la gran massa del popolo non risponde agli inviti, non comprende questo entusiasmo per ciò che le desta orrore, assiste indifferente al castigo di chi dice di morire per la libertà di essa. Quando il popolo si muove è soltanto per manifestare odio violento contro i francesi: gode delle loro sconfitte, li insulta e li deride ne' suoi versi, corre anche al sangue: basti ricordare per tutti il nome dell'infelice Basville.
Del resto, finchè il Bonaparte non ebbe con le sue vittorie portata la rivoluzione fra noi e rotto l'incantesimo, non v'era alcuno in Italia, nè principe nè popolo, che non fosse certo della vittoria finale delle armi dell'Europa coalizzate. Dio ci prova: Dio alla fine deve vincere! si era sempre affermato: ma col Bonaparte era venuto per tutti il momento di dubitare e di domandarsi, come faceva il Papi, che cosa stava per accadere.
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E dal canto suo, con quali intendimenti il Bonaparte poneva il piede in questa penisola donde, non più di dieci generazioni innanzi, erano usciti gli avi suoi che ai tempi del “popolo vecchio„ avevano seduto nei Consigli del Comune di Firenze e poi avevano partecipato alle gloriose e dolorose vicende della parte ghibellina di Toscana? In lui, che ora scende facile promettitore di libertà e rigido partigiano di democratica eguaglianza e che fra pochi anni tornerà restauratore dell'impero, parla ancora qualche voce del sangue antico memore dei tempi, nella lor rude semplicità felici, del viver riposato che Dante rimpianse per il Comune fiorentino, o fermentano ancora l'odio tenace e le speranze sempre rinnovate dei ghibellini, cui alimentavano il triste esilio e la grandiosa visione dell'aquila imperiale trionfante?
Non ignorava il Bonaparte queste vicende: i manoscritti laurenziani che per le cure del nostro Biagi e del signor Masson hanno di recente rivelato un Napoleone ancora sconosciuto, mostrano che nello studio quasi esclusivo della storia, leggendo, analizzando, riassumendo instancabile le opere di numerosi scrittori, si è venuta formando tra il 1786 e il 1792 la mente politica di lui, quale più tardi si rivela sul campo dell'azione. E fra gli appunti allora raccolti piace vedere un estratto di quella parte del secondo libro delle Istorie del Machiavelli dove è narrato dell'origine del Comune di Firenze e delle prime contese fiorentine fra guelfi e ghibellini fino all'ultima cacciata di questi.
Ma non quei lontani ricordi domestici, nè questi più recenti studi, ai quali si direbbe che talvolta, sia pur inconsciamente, obbedisca il genio di quel grande, parlavano alla mente di lui quando ai suoi soldati mostrava come campo di conquista l'Italia. Nè ritornando alla patria degli avi suoi, lo occupava il proposito, che più tardi, quando la mente ammaestrata dall'esperienza ritornava “ai dì che furono„, volle far credere essere stato il fine ultimo delle sue azioni politiche in Italia: e cioè di rinnovarne le glorie antiche e di prepararle quell'avvenire che nei pentimenti dell'esilio divinava non lontano e per il quale tutti i popoli della penisola, per comunanza di linguaggio, di costumanze, di letteratura formanti una sola nazione, dovevano riunirsi sotto un solo governo il cui capo si sarebbe insediato in Roma.
Egli cercava gloria: gloria per sè come mezzo di farsi valere e di imporsi a quanti allora in Francia primeggiavano e governavano. Per quale via avrebbe raggiunta la gloria che cercava, quale forma avrebbe assunto il primato che voleva conquistare, ei non vedeva allora, nè lo poteva: ma già in sè aveva la fede sicura, incrollabile di essere il più forte. Si vantò il Barras di averlo egli tratto fuor della volgare schiera degli innumerevoli ambiziosi che la rivoluzione aveva fatti salire a galla, e di averlo portato sulla grande scena politica col chiamarlo, il 13 vendemmiatore, a spazzare a colpi di cannone per la morente Convenzione le vie di Parigi: credeva il potente Direttore che soltanto al favore di lui dovesse esser grato il Bonaparte del comando dell'esercito d'Italia, ed ai suoi amichevoli uffici della mano da molti ambita della elegante e bellissima creola che era stata moglie del generale Beauharnais. E col Barras lo credevano tutti: non però il Bonaparte. Egli era convinto di non dover nulla a nessuno, tutto a sè stesso.
Giuseppina Beauharnais aveva piegato riluttante, come una capinera sotto l'occhio del falco, al fascino inesplicabile fatto d'amore e di spavento che lo sguardo dominatore del giovine côrso già esercitava tutto intorno a sè. Lo confessa ella stessa, aprendo l'animo ad un'intima amica, pochi giorni prima di consentire alle nozze fatali, le quali ebbero luogo la vigilia della partenza del Bonaparte per l'Italia. E soggiunge: “Barras mi assicura che farà ottenere al generale il comando supremo della nostra armata d'Italia, se lo sposerò. Allorchè ieri il Bonaparte mi parlò di questa preferenza, che, quantunque non sia ancora accordata, fa di già mormorare i suoi compagni d'arme, mi disse: — Credete che io abbia bisogno di protettori per far carriera? Un giorno essi si reputeranno felici se io consentirò a favorirli. Tengo la mia spada al fianco e col suo aiuto andrò lontano. — Cosa dite di questa certezza del successo? Non dimostra una fiducia nata da un immenso orgoglio? Un generale di brigata che vorrebbe atteggiarsi a fautore dei capi del governo! Non so come avvenga — continua Giuseppina — ma talvolta quella fiducia ridicola mi affascina al punto da farmi credere possibile tutto ciò che quest'uomo così strano abbia fissato di ottenere. E chi tenendo calcolo della sua immaginazione vivace può prevedere ciò che egli farà?„
Ciò che egli avrebbe fatto e qual uomo straordinario egli fosse, cominciò per la prima volta a rivelarlo alla Francia ammirata e all'Europa stupita ed intimidita questa sua spedizione d'Italia: e forse allora soltanto anche il Bonaparte cominciò a leggere più chiaro in quell'avvenire di grandezza che finora aveva sentito confusamente come suo.
Non era ancora finito il secondo anno della sua presenza in Italia e già in uno di quei momenti di intima espansione cui, nei rari intervalli che la guerra gli concedeva, amava di abbandonarsi nella splendida villa di Mombello, domandava ad uno de' suoi famigliari: “Che direste, o Villetard, se io mi facessi re di Francia?„ Di Francia non d'Italia; chè soltanto nella giovanile energia della nuova Francia, ei lo vedeva, gli sarebbe stato possibile di trovare le forze per salire tanto alto: l'Italia poteva essere il gradino, non il trono.
Ma io m'avvedo che mi accade ciò che pur era da prevedere come inevitabile: la figura di Napoleone è tanta parte degli avvenimenti di questa età che mi trae ad invadere il campo altrui: torniamo ai Francesi ed all'Italia.
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Incominciò nel mese di aprile con impeto meraviglioso questa memoranda spedizione: la rapidità de' suoi avvenimenti — farò mie le parole di Alessandro Verri — ne rende breve il racconto. I Francesi col ferro, senza artiglierie, guadando fiumi, correndo veloci benchè scalzi, senza tende e vettovaglie, per quindici giorni continui sconfissero due eserciti, il piemontese e l'austriaco, e li separarono. Inseguirono il primo e al re di Sardegna, omai non più sicuro nella sua stessa reggia di Torino, dettarono i patti di Cherasco: poi gloriosi e sicuri alle spalle si volsero prontamente contro gli Austriaci, li sorpresero con la rapidità dei movimenti inaspettati, li batterono e li costrinsero ad indietreggiare, finchè ebbero dinanzi la fortezza di Mantova: era tutto ciò che alla fine di maggio restava della dominazione austriaca in Italia!
La Corte di Savoia per bocca del suo ministro degli affari esteri, aveva ammonito l'Austria: “Se i Francesi abbattono il Piemonte, l'Italia è perduta anche per la Corte di Vienna.„ E così fu. Posto che ebbero i Francesi il piede in Lombardia, nè cinque formidabili eserciti, nè i migliori generali dell'Austria, il Wurmser, l'Alvinzi, l'Arciduca Carlo, valsero a cacciarneli, o a fermarne la marcia vittoriosa su Vienna, e ad impedire che, fatto centro della Lombardia, dirigessero punte audaci tutt'all'intorno a dettar leggi alla penisola intiera, occupando città col solo presentarsi, traendo i popoli a sè con lo specchietto della libertà, facendo con lo spauracchio della guerra fuggire o scendere a patti i sovrani e tremare i governi.
Così, s'erano appena i Francesi affacciati all'Emilia, che già il Duca di Parma era prostrato ai loro piedi ed offriva milioni, quadri, buoi, viveri, foraggi, purchè non entrassero nella sua capitale. Buon per lui, allora e finchè visse, che la pace conclusa da poco fra la Repubblica francese ed i Borboni di Spagna, alla cui famiglia egli apparteneva, stendesse la sua ala protettrice anche sopra il suo capo: sicchè egli dovette, è vero, fondere i vasellami d'argento della sua mensa e privarsi del mirabile San Gerolamo, che il pennello del Correggio aveva dipinto; ma non ebbe il dolore di esser costretto a fare delle sue care campane, cannoni; potè salvare tutte le madonnine e le statuette de' santi che ornavano i suoi altarini di Fontevivo e Fontanellato e continuare, così fino all'ultimo respiro, nel prediletto esercizio di suonar le campane e di fare il sagrestano.
Ercole III, duca di Modena, non aveva trattati di parenti che lo proteggessero: lo minacciavano invece la sua condizione di feudatario dell'impero e di parente stretto dell'imperatore e ciò che, dati i tempi, era più pericoloso, la fama generalmente diffusa dei molti milioni che la parsimonia sua e dei suoi predecessori aveva accumulati nelle casse estensi. Perciò, appena ebbe notizia della presenza dei Francesi nel vicino ducato di Parma, con un bel manifesto annunciò ai suoi sudditi che dopo aver ponderata sulle bilancie della Prudenza la presente critica situazione e richiamato ad uno ad uno i suoi doveri di Principe, s'era persuaso che il meglio era.... mettere in sicuro a Venezia la sua Serenissima Persona, come in simile circostanza aveva fatto il Serenissimo Avo suo. Le tradizioni di famiglia erano rispettate, non c'è che dire: chi si trovò nelle peste fu la Reggenza cui egli, fuggendo, aveva lasciato la tutela degli Stati suoi, con la raccomandazione in caso di bisogno, di indirizzarsi per qualunque possibile assistenza all'Arciduca Ferdinando d'Austria governatore di Lombardia e Serenissimo suo Genero. Bene indirizzati davvero! Due giorni dopo il Serenissimo Genero aveva notizia che i Francesi stavano passando il Po e, prese in mano le medesime bilancie della Prudenza che erano nel guardaroba di famiglia, s'era, come lo suocero, persuaso che nel rumores fuge stava riposta una antica ma grande verità; sicchè s'era allontanato più che di corsa, portando seco il più ed il meglio che, nella fretta dello scappare, potè raccogliere. La Reggenza modenese rimasta a far fronte da sola alle difficoltà, scese a patti e comprò dai Francesi, a suon di milioni, la promessa che sarebbe stata rispettata la integrità dello Stato. Nel fatto ottenne questo bel risultato: che appena tre mesi dopo — quando però già quasi tutti i milioni promessi erano nelle casse del Direttorio — Reggio, segretamente istigata dai Francesi, insorgeva e si sottraeva al governo estense ed i Francesi, col pretesto che il Duca per avarizia indugiava a pagare, occupavano Modena e tutto il resto dello Stato.
“Non basta la fortuna per comandare un esercito, ci vuole anche audacia ed orgoglio!„ aveva detto il Bonaparte al marchese Costa di Beauregard quando questi era andato al campo francese per trattare a nome del suo re i patti di Cherasco. Nè audacia, nè orgoglio facevano, per vero, difetto e al generalissimo francese ed ai soldati suoi: ne avevano anche di troppo per la viltà sommessa dei principi italiani. Ferdinando di Borbone, il Re Lazzarone, che finchè i Francesi erano lontani aveva da solo fatto rumore per dieci e votate le tasche de' sudditi suoi per mettere insieme un esercito di 60.000 uomini, non appena i Francesi furono in Lombardia, aveva supplicato una tregua e l'aveva ottenuta. Pio VI, il pontefice, contro i rivoluzionari, nemici della religione di Cristo ed usurpatori dei dominii della Chiesa in Francia, aveva fino allora lanciato condanne e scomuniche: ma alla notizia che i Francesi si avvicinavano ai confini delle Legazioni, aveva fatto tappezzare le vie delle città e dei borghi, le porte delle chiese e gli alberi della Romagna di bandi nei quali raccomandava ai sudditi suoi d'accogliere i Francesi, se fosser venuti, come ottimi amici suoi, e vietava persino il suono delle campane nel timore che i Francesi ne prendessero sospetto o pretesto di guerra. Sicchè bastarono ai Francesi pochi battaglioni ed una passeggiata militare per prender possesso delle legazioni di Bologna e di Ferrara: e fin d'allora essi avrebbero potuto occupare anche il resto dei dominii papali, se il Bonaparte, per aver le mani libere contro l'Austria, non avesse preferito scendere ad accordi e contentarsi di quel che aveva preso, di alcuni milioni e di una prima scelta fra i tesori d'arte raccolti in Roma. E mentre parte de' suoi stringeva d'assedio Mantova ed altri occupavano le Legazioni, alcune poche centinaia di soldati francesi occupavano Massa e Carrara in nome della Repubblica, poi come se gli Stati del Granduca di Toscana fossero territorio francese, un corpo francese li attraversava e si stabiliva a Livorno per organizzarvi una spedizione contro la Corsica, ed il Bonaparte in persona si presentava solo alle porte di Firenze e sedeva da pari a pari alla mensa del Granduca.
Nè i monarchi soltanto il Bonaparte trattava da padrone: la potente repubblica di Venezia, quelle di Genova e di Lucca vedevano occupate con varii pretesti le loro terre, istigati i sudditi loro a ribellione e, a scanso di peggior sorte, dovevano umiliarsi e poi metter mano alle borse e cavarne denari. La sola repubblica di San Marino fu rispettata allora e sempre: era così piccolo il suo territorio e così povera la popolazione raccolta da secoli sul monte Titano, che il Bonaparte poteva concedersi il lusso di inchinarsi rispettoso alla remota antichità repubblicana di essa ed anche di regalarle due cannoni: erano affidati a mani sicure.
Alla fine del 1796, in men di nove mesi, tutta l'Italia aveva piegato dinanzi alla fortuna, all'audacia ed all'orgoglio del generale francese: unica speranza dei nemici di Francia era Mantova, che ancor resisteva. Cadde ai primi dell'anno seguente e gli effetti della sua caduta ebbe a sentirli non l'Austria soltanto, ma anche il pontefice.
S'era illuso Pio VI nella fiducia che nuove forze mandate dall'Austria in soccorso di Mantova avrebber potuto finalmente aver ragione del Bonaparte, ed in tale illusione s'era troppo apertamente scoperto nemico de' Francesi. Ora che l'illusione era svanita, ei si trovava esposto solo alle vendette del Direttorio. Volle far viso forte a mala fortuna. Alle milizie papali aveva dato un capo l'Austria, il general Colli: attesero a pie' fermo sul Senio presso Faenza l'arrivo de' Francesi. È vero che i cannoni papali furono caricati a fagiuoli? Fu detto e creduto. Certo si è che, dopo le prime fucilate, i papalini, quando videro i Francesi disporsi a guadare il fiume, voltaron le spalle e corsero, corsero, corsero per duecento milia e solo ad Ancona raccolsero il fiato. Fuga rimasta celebrata nella tradizione di poltroneria di cui, fra il popolo, han sempre goduto le milizie papali: e che suggerì al Leopardi, cantando le battaglie delle rane coi topi, i noti versi ne' quali l'affannoso fuggire dell'“oste papale„
Cui precedeva in fervide, volanti
Rote il Colli, gridando: Avanti! Avanti!
è descritto colla più schietta comicità.
Questa impresa costò al Papato la Romagna, nuovi milioni, altri quadri ed altre statue: sarebbe costata di più se il Bonaparte, prevedendo vicino l'ultimo e supremo duello col maggior capitano dell'Austria l'Arciduca Carlo, non avesse spontaneamente fatte insperate aperture di pace.
Anche l'Arciduca Carlo fu vinto ed il Bonaparte dettò davanti a Vienna i preliminari di Leoben seguiti poi dalla pace di Campoformio, che costò alla repubblica di Venezia la libertà. Per compiacere alle prepotenze francesi l'antica repubblica s'era umiliata, s'era spogliata della toga e dell'ermellino, aveva sostituito col democratico berretto frigio l'aristocratico berretto ducale e aveva bruciato il libro d'oro; compiacente, l'antico Leone aveva voltato pagina e sull'ex-Vangelo la sua zampa additava i diritti dell'uomo e del cittadino: ma ora che i neo-patrioti danzavano festosi attorno all'albero della libertà, inneggiando alla redenzione che il sangue delle Pasque veronesi ed il danaro di Pantalone avevano pagato, il Bonaparte faceva mercato di loro e del loro territorio coll'Austria. Mai tradimento sembrò più perfido e fu più vituperato: le parole commosse di Jacopo Ortis vengono sulle labbra. “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, se pure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere la nostra sciagura e la nostra infamia.... Non accuso la ragion di Stato che vende come branchi di pecore le nazioni; così fu sempre e così sarà: piango la patria mia che mi fu tolta e il modo ancor m'offende!„
Quando l'Austria ebbe deposte le armi, ai principi italiani venne a mancare ogni speranza, ai Francesi ogni riguardo. E fu un subito fiorire di democrazia ed un crollare di troni da un capo all'altro d'Italia, che continuò anche quando il Bonaparte, lasciata l'Italia, andò a raccogliere a Parigi, negli applausi e nella ammirazione popolare, il cercato compenso della sua fortunata impresa, ed a conquistare nell'Egitto nuovi allori e nuova popolarità. Già la repubblica genovese v'era sbattezzata: sfuggendo dalle mani patrizie dei discendenti dei Doria, dei Grimaldi, degli Spinola, la Superba era caduta in quelle imbrattate di triaca dello speziale Morando ed aveva insieme con le vesti democratiche, creduto di poter assumere i petulanti atteggiamenti della democrazia francese di fronte alla vicina monarchia sabauda. Povero e santo re Carlo Emanuele IV! Come poteva la devota semplicità dell'animo suo, fatto piuttosto per obbedire e soffrire entro un monastero che per comandare e lottare su di un trono, far fronte alle provocazioni, alle insidie, ai raggiri entro cui d'ogni parte i Francesi l'avvolgevano, in casa e fuori, pur di metter le mani sui dominii di lui e farne un dipartimento francese? Contro le perfidie degli uomini egli volgeva gli occhi al Cuore di Gesù e pregava: e intanto con la dignitosa e paziente rassegnazione di un martire, si lasciava toglier di dosso a brano a brano ciò che gli dava aspetto di monarca: gli restava ancora la corona, depose anche quella, poi povero — chè non volle portar seco nè i gioielli della corona nè il danaro che aveva nelle sue stanze — prese la via dell'esilio. Degli aviti dominii non gli restava che la fedele e povera Sardegna: l'offrì a Pio VI, l'ottantenne vicario di Cristo, che i Francesi avevano strappato al Vaticano e tratto prigioniero nella Certosa di Firenze.
L'uccisione del temerario generale Duphot era stata l'occasione cercata per togliere al pontefice ciò che dei dominii della Chiesa gli era rimasto e la libertà, e per proclamare dall'alto del Campidoglio risorta la Roma dei Bruti, dei Catoni e degli Scipioni.
Vindice della Cristianità colpita nel capo della Chiesa osò presentarsi Ferdinando di Napoli: gli davano forza gli energici incitamenti del Nelson e più la certezza che gli Inglesi fossero pronti a fargli spalla.
Con soldati infiniti
Si mosse da' suoi liti
Verso Roma bravando
Il re don Ferdinando,
E in pochissimi dì
Venne, vide e fuggì.
E con tanta paura fuggì da non tenersi sicuro finchè fra i Francesi che l'inseguivano, e sè, la sua Corte, i suoi tesori, non ebbe interposto il mar di Sicilia. Sorse allora — fiore di pura bellezza — in quel terreno mal preparato, dove una plebe oziosa e corrotta imputridiva al sole e dinanzi al mare nell'ignoranza e nella superstizione, la Repubblica Partenopea. Lo coltivarono pochi eletti ingegni che lo studio dell'antica filosofia aveva rinvigorito e nobilitato: e s'illusero — e ne pagarono poi il fio con la vita — che l'esempio della virtù operosa avesse forza di trascinare i lazzaroni, e che l'aiuto e la protezione dei Francesi potessero essere disinteressati e sinceri.
Caduto il regno di Napoli, venne la volta della Toscana. Lucca repubblica dovette per forza democratizzarsi e far il viso allegro. Al Granduca Ferdinando non bastò l'aver spinto la longanime arrendevolezza fino ad annunciare ai suoi sudditi che avrebbe considerato come una prova di fedeltà e di affetto per lui le buone accoglienze che essi avrebbero fatte ai Francesi i quali venivano, ed ei lo sapeva, ad occupare le sue città. Quando questi ebber posto piede in Firenze, gli intimarono di partire entro 24 ore, ed egli se ne andò.
Così l'onda della rivoluzione aveva percorsa tutta la penisola e tutta l'aveva sovvertita. Restavano in piedi degli Stati che i Francesi vi avevano trovati, due soli e parevan esservi rimasti a derisione del passato: la repubblica di San Marino ed il piccolo Stato del bigotto campanaro di Parma.
*
Nè soltanto mutati erano gli ordinamenti politici ed ai principati antichi sostituite repubbliche nuove: pareva che anche nel popolo italiano mutata si fosse d'un tratto la disposizione degli animi. Gran maestri ed insuperati furono — e sono sempre — i Francesi nell'arte difficile di mettere in iscena commedie e pur troppo anche tragedie politiche, con tutto l'apparato e la montatura che occorre perchè esse producano l'effetto voluto!
Sono scesi fra una popolazione che fino allora li aveva guardati con orrore e con terrore, nemica del chiasso, aborrente dal disordine e riposata nell'ozio, nelle inutili cure della galanteria e della piccola vita di tutti i giorni: con violenza, l'hanno strappata alla sua quiete, al suo ozio, ai suoi pettegolezzi graditi, al suo passato vuoto di passioni: eppure della loro violenza non hanno raccolto frutto di odio! Si direbbe anzi che la popolazione italiana altro non aspettasse che la loro venuta: tanta esaltazione e così rumoroso entusiasmo accompagna i Francesi ad ogni passo che muovono e così irrefrenabile sembra invader tutti un bisogno febbrile di muoversi, di agitarsi, di scrivere, di parlare, di urlare contro tutto quel passato che fino a ieri era venerato e temuto.
Sulla scena della storia italiana non si incontravano di solito prima che pochi nomi: quelli dei primi e dei sommi: il resto taceva o faceva il coro: ora è una folla di artisti che si affaccia: e tutti vogliono farsi sentire, tutti hanno la loro parte da recitare, la loro idea da lanciare e sopratutto il loro posto da prendere sul proscenio. Un vero bosco di variopinti e imbandierati alberi della libertà, una gaia fioritura di coccarde tricolorate ricopre d'un tratto tutta la penisola: e intorno a ciascun albero, nelle piazze delle città, nei sagrati dei borghi e delle ville, infuria la danza e s'alzano tonanti gli inni patriottici e le grida di evviva urlati da uomini e da donne d'ogni condizione ed età: nobili e popolani, preti, frati, soldati, dame e prostitute, tutti incoccardati, si danno la mano in fratellevole comunanza e girano e sgambettano attorno al nuovo emblema della rivoluzione che i Francesi hanno inventato:
Ecco l'arbor trionfale
A cui scritto intorno sta
In carattere immortale
Eguaglianza e Libertà.
A Milano un cappuccino si taglia la lunga barba e l'appende con la grigia tonaca, trofeo della sua abiura, all'albero della libertà: ed il Padre Appiani, sessagenario, professore di teologia, invaso da subito furore, dà spettacolo grottesco ed inverecondo di sè ballando in Duomo la Carmagnola. A Venezia fu vista una dama ballare con un frate, e caduti, rialzarsi e continuare la spigliata Carmagnola: esempio di virtù cittadina che fu pomposamente celebrato nel Monitore Veneto del tempo e al quale avevano dato occasione le prime nozze celebrate sotto il simbolico albero da un giovane e da una donzella veneziani, che v'andarono accompagnati da una bandiera col motto Fecondità democratica. È dolce l'aver figli che devono godere la libertà, diceva, in simile circostanza, la scritta d'un'altra bandiera. Ed appunto per favorire la moltiplicazione di questa figliolanza fortunata, Felice Lattuada, milanese, propugnava il divorzio, e Giambattista Giovio — più radicale — proponeva addirittura di ammazzare tutti i padri e tutte le madri nobili: così sarebbe stato possibile educare subito democraticamente i figliuoli.
Non si direbbe che una pazzia abbia invaso il popolo italiano? Un opuscolo del tempo è intitolato Milano all'ospedale dei pazzi; ma Milano non è sola: tutte le città grandi e piccole, dove i Francesi han posto il piede, sono in preda all'esaltazione. La rivoluzione francese non spaventa più: anzi se ne celebrano come avvenimenti patriottici e come trionfi dell'umanità democratica i più sanguinosi anniversarii: a Milano, con gran pompa fu festeggiato il dì anniversario che Luigi XVI ebbe tronca la testa sul patibolo; si gridò Morte agli aristocratici, e si portarono in giro e si affissero cartelloni con le scritte: Il fulmine colga tutti i re in un fascio! Il pugnale di Bruto possa spaventare gli schiavi di Cesare e gli imitatori di Antonio!
Non vi spaventi — o signore — tanta ferocia di linguaggio: non prendete sul serio le minaccie di questi improvvisati demagoghi che hanno la bocca sempre piena di pugnali, di corda e di ghigliottina, quasi fossero altrettanti Marat. A sentirli si direbbe che d'altro non si pascono che del sangue di aristocratici, di preti e di tiranni; che il loro ideale è battere sul tamburo la pelle di un papa con gli stinchi di un re. Non v'è più Dio o religione per loro: di Cristo si lavano la bocca o lo tollerano solo in quanto la democrazia gli permette d'essere considerato come primo autore del sanculottismo: i santi li hanno aboliti: le vie, le piazze, le porte ribattezzate: in teatro applaudono frenetici alle volgari scempiaggini di uno spettacolo che rappresenta turpi amorazzi e subdoli intrighi della Corte romana e vanno in visibilio quando da ultimo il papa, fatto cambio del triregno con un berretto frigio e offerto il braccio ad una madre badessa, dà il segnale di una specie di cancan cui tutti, sulla scena, partecipano, cardinali, monsignori, preti, frati, monache, soldati. C'è chi — novella Erodiade — offre su per i giornali la mano di sposa a chi le porterà sopra un bacile la testa del papa: ed è una giovanetta ventenne, figlia di un chimico di vaglia. C'è chi ha osservato che il ferro della ghigliottina, troncata la testa, s'imprime troppo profondamente nel ceppo sottoposto sicchè si deve penar molto a levarnelo. È un inconveniente che nuoce alla eleganza ed alla rapidità della patriottica operazione: bisogna toglierlo; e propone di mettere sotto il collo del paziente un pezzo di sughero. Non lo direste un boia consumato nell'esercizio delle sue funzioni? o almeno un dilettante appassionato di ghigliottina il quale studia i perfezionamenti dello strumento che ama, perchè funzioni regolarmente? Niente affatto: è Antonio Ranza, un semplice imbrattacarte il quale inonda di libri, di discorsi, di opuscoli, di proclami incendiari la penisola: un vecchietto sparuto che all'ombra di una lunga zazzera e d'un largo cappellaccio cova e sogna, senza tregua, cospirazioni e rivoluzioni: ma che non ha mai, che io sappia, intinte le mani nel sangue di alcuno. La sua passione la sfoga organizzando banchetti fraterni, piantando alberi della libertà, facendo concioni alla folla, denunziando colpe di anticivismo e di bigotteria, ma sopratutto scrivendo, scrivendo e scrivendo. Vede rosso.... sulla carta e quando parla: e come lui, di questi patrioti, dei quali dice il Foscolo che “morte e sangue gridavano, feroci di mente mostrandosi, prodi in parole e ad ogni impresa impotenti„ ce ne sono molti, e sono quelli che hanno fatto tutto il rumore.
Così è anche di tutto questo movimento che la venuta dei Francesi ha provocato in Italia. In Francia, dove è uscita spontanea dalle intime condizioni del paese, la rivoluzione si fa sul serio: da noi, dove la violenza delle armi l'ha portata dal di fuori, la rivoluzione si rappresenta, e come attori di commedie, noi cerchiamo di farci il minor male che si può: perciò là son fatti e sangue, qui son parole e rettorica. In Francia le teste regie si tagliano per davvero: noi le tronchiamo o le cambiamo alle statue e di un Filippo II facciamo un Giunio Bruto, di Francesco d'Este una Libertà, di un Gregorio XIII un San Petronio. In Francia i nobili e i preti si imprigionano, si mandano a morte e i loro beni sono confiscati e venduti: da noi aristocratici ed ecclesiastici sono coperti, è vero, di contumelie e minacciati ogni volta che un patriota apre la bocca, ma alla fine dei conti ci contentiamo di atterrarne gli stemmi e di costringerli a chiamarsi cittadini, a portar la coccarda ed a giurare fedeltà.... alla Repubblica francese. Si grida all'eguaglianza, ma si raccomanda anche ai nobili di non licenziare i loro servitori e di non smettere le carrozze perchè non si deve privare di lavoro e di guadagno il popolo. Il decreto che dichiara la patria in pericolo fa balzare l'un dopo l'altro dal suolo di Francia quattordici eserciti che corrono ai confini e salvano la patria: da noi su tutti i toni si parla di civismo, di amor di patria, di doveri patriottici, si esalta con parole reboanti l'acquisto fatto dei diritti del cittadino e sopratutto di quello di portare le armi: ma quando si trattò di armare davvero i cittadini e si volle a tal fine istituire la Guardia Nazionale, non bastò neppure l'assicurazione che non sarebbero condotti a combattere fuori della città, per indurre i cittadini ad inscrivervisi numerosi. E di chi furono in gran parte composte le prime milizie della libertà italiana, la legione lombarda, la cispadana, la polacca, se non dei medesimi mercenarii che già servivano l'Austria, il Duca di Modena ed il Papa e che la democrazia vituperava col nome di sgherri della tirannide? Del resto, qual prova più evidente di quanto fosse fittizio e superficiale il movimento rivoluzionario italiano, che il veder le popolazioni esultare per la libertà ricuperata e compiacersi de' suoi benefici nell'atto appunto che erano tratte a subire la peggiore delle tirannie, quella della violenza e dell'arbitrio militaresco?
Poichè le città italiane — salvo poche eccezioni dovute a ragioni locali — non si sollevano contro gli antichi governi, non cacciano i loro principi: quando con la fuga o con la sommessione questi han ceduto alle arti od alle armi dei Francesi e queste ultime sono vicine, allora soltanto l'entusiasmo per la libertà scoppia e si manifesta con tutti i suoi eccessi. E non v'ha dubbio che, se i primi a dar la mossa son coloro che per segrete intelligenze o per spontanea esaltazione o tendenza nell'animo oppure per interesse o per speranza di nuova fortuna o di vendetta o anche di riparare ad un passato non bello, già erano disposti ad accogliere a braccia aperte i Francesi; se altri non pochi son tratti a seguire quei primi dall'irresistibile fascino che esercita sul volgo e sui deboli l'esempio, nella maggior parte della popolazione il desiderio improvviso di libertà non è che l'effetto — pare un paradosso — della servilità dell'animo. L'abitudine, per l'azione continuata di secoli compenetrata nella natura italiana, di accogliere col viso sorridente i padroni venuti dal di fuori, di piegare con ossequiosa obbedienza il capo dinanzi a chi, legittimamente o no, ha in sua mano la forza materiale, di adularlo, di compiacere premurosi ad ogni desiderio suo, trae la massa del volgo a secondare — benchè non siano le consuete che mostravano gli altri padroni — anche le voglie dei Francesi, i quali del resto prepotenti sono come e più degli altri.
Ai Francesi piacciono gli applausi, vogliono che si balli, che si canti, che si stia allegri, che si dica che essi sono fratelli e son liberatori, desiderano che si imiti la loro rivoluzione, e gli Italiani
“liberi no, ma in altro modo schiavi„
si rompono compiacenti le mani per applaudirli, ballan con furore, cantano a squarciagola, si proclamano ai quattro venti i fratelli più grati e più felici della liberazione ottenuta, e come istrioni — usiamo l'espressione del Foscolo — si studiano di scimiotteggiare e di esagerare l'andatura alla brava ed il sistema democratico dei loro padroni.
*
Sull'acquiescenza servile di questo volgo incurioso ed inerme che l'ignoranza, la paura e la superstizione hanno abbrutito, il Bonaparte era ben certo di poter far calcolo: le minaccie di feroci rappresaglie, seguite dai sanguinosi esempi di Binasco, di Pavia e di Lugo, furono più che sufficienti a mettere un freno alle velleità di resistenza, cui qua e là — specie nelle campagne — parve dapprima che esso, per i consigli e le istigazioni altrui, volesse cedere. Ciò però non bastava al Bonaparte: egli voleva formare — come scrisse al Direttorio — l'opinione pubblica, donner la tournure à l'esprit, per modo da renderlo favorevole alla rivoluzione che portava in Italia. Per ciò egli cercò subito e di proposito di attirare a sè le classi più alte e più colte. La conquista degli animi fu metodica, come metodico e quasi uniforme era stato, ne' più minuti particolari, il procedimento che egli ed i generali francesi avevano adoperato fin dal principio nell'occupare le città e gli Stati italiani.
Il Bonaparte sa di essere venuto in mezzo ad un popolo conservatore per indole e religioso per fede e per abitudine: perciò s'adopra prima di tutto a rassicurarlo che nè la religione nè la proprietà saranno toccate. Lascia che gli ardenti, che gli ingenui, che coloro i quali, nulla avendo da temere o da perdere per sè, son sempre pronti a ficcarsi in prima fila, diano la stura a tutto il repertorio della rettorica democratica; lascia che costoro — rassicurati e fatti audaci dalla presenza delle armi francesi — si abbandonino a manifestazioni esagerate del loro patriottismo di fresca data e dei loro nuovi principii, ma esteriormente soltanto e in quanto tali manifestazioni possono essere buon lievito a gonfiare l'ardore delle masse e stimolo a chi ha bisogno d'essere spronato per muoversi. Ma quando vorrebbero e potrebbero scendere all'azione cui egli sembrava li avesse spinti, li contiene e li frena, perchè nè il sentimento religioso dei più ne riceva ombra od offesa, nè le classi più alte e più agiate abbiano ragione di temere pericoli per sè o per le cose loro. Agli uomini del medio ceto composto, fra noi, di avvocati, di letterati, di medici, di artisti, di commercianti, molti de' quali son già disposti dalla loro educazione ad accogliere le dottrine che da un pezzo la filosofia francese ha messe di moda, il Bonaparte apre le braccia e fa credere d'esser venuto per scuotere il giogo che li opprime e che per verità ad essi era parso molto leggiero: ne solletica la vanità o l'ambizione: offrendo impieghi ed onori fa brillare ai loro sguardi ideali di grandezza e di libertà. Ma per accoglier costoro non respinge da sè il clero e la nobiltà: chè quello è autorevole e questa non suscita odii ardenti, come in Francia, ed ha molte aderenze: clero e nobiltà dal canto loro, per abitudine e per educazione, sono concilianti e quasi senza resistenza si prestano, parte per paura del peggio, parte per speranza del meglio, a secondarlo.
Quanti nobili e quanti prelati, fatti cittadini, non accompagnarono poi nelle fortunose vicende della sua vita il giovane côrso del quale vedevano allora spuntare l'aurora! E come pronto ed acuto fu l'occhio di lui a penetrare nel cuore e nella mente di quanti lo avvicinavano e a discernere, fra la folla degli adulatori che gli faceva calca intorno, gli uomini, fino allora ignoti a sè stessi, che per le qualità dell'ingegno e dell'animo eran degni ch'ei facesse calcolo sopra di loro; e come seppe senza esitare stendere ad essi la mano per innalzarli e metterli al suo fianco! Alla folla il trastullo delle pompe e delle forme, l'ebbrezza delle esagerazioni: questi pochi, tratti nell'intimità e nella fiducia sua, educava e provava alla vita pubblica, rendeva devoti e legava a sè, aprendo alle loro menti nuovi orizzonti e facendo ad essi balenare lontane speranze per la lor patria, forse allora sincere.
Intanto ben diversa e dolorosa era la realtà che il Bonaparte poteva loro offrire. Questa Italia che egli sentiva essere sua personale conquista e per la quale vedeva disegnarsi e andava vagheggiando ideali che pochi anni dopo l'egoismo suo, prevalendo, troncò, la sapeva riserbata, nei reconditi disegni del Direttorio e dalle necessità politiche della Francia, a pagare le spese della pace con l'Austria dopo che avesse pagate alla Francia quelle della guerra. Ei doveva perciò sfruttarla, dissanguarla, cavarne tutto il succo vitale per provvedere ai bisogni dell'esercito, alimentare la sua impresa, e non offrire all'Austria che un limone spremuto. E doveva in pari tempo impedirle di acquistare tale saldezza di ordinamenti, così larga unione delle sue parti e così libera autonomia di esistenza che potessero poi esser d'ostacolo al mercato per cui la conquista era fatta. Onde la instabilità degli effimeri stati democratici che all'ombra delle sue vittorie o col conforto di molte promesse, lasciò sorgere nella penisola.
Piccole repubbliche che si pavoneggiavano nei nomi gloriosi dell'antichità classica, ma che funzionavano sopra una copia, ridotta per comodo dei Francesi e per illusione degli Italiani, della costituzione dell'anno V; che menavano vanto e discutevano con calore e a grandi frasi dell'esercizio della libertà cui eran chiamati, che evocavano ad ogni momento le ombre di Bruto, degli Scipioni e magari di Camillo ed erano poi allo sbaraglio del primo caporale Gallo che volesse essere insolente. Generali, commissari, agenti ordinatori, requisitori straordinari ed ordinari, civili e militari venuti di Francia, tutti comandavano, tutti insolentivano con prepotenza, tutti credevano di avere il diritto di prendere per un orecchio e trattar da padroni questi uomini liberi. E, come tutti comandavano, così tutti intascavano. Parevano uccelli di rapina calati su di un campo di battaglia: non erano mai sazii: tutto faceva per loro: oro, argento, viveri, quadri, oggetti d'arte, persino i pegni del Monte di Pietà! Nel nome del Direttorio la spogliazione si eseguiva in grande con la garanzia di trattati e di compromessi e per mezzo di dotti e non dotti ufficialmente investiti nella missione di far scelta — in lingua più povera si direbbe rubare — del meglio che trovassero nelle gallerie, nei musei e nelle casse pubbliche. Ma alla spogliazione ufficiale s'aggiungeva la privata. Chiedendo a titolo di dono i più riguardosi, gli altri mettendo gli artigli impudentemente — la parola è del Bonaparte — su quel che loro piaceva, ciascuno cercava di non tornare a mani vuote al di là delle Alpi. E non era giusto che gli Italiani pagassero il beneficio della libertà che i Francesi — bontà loro — avevano portato? i Romani nella Grecia non avevano fatto lo stesso? Ma Mummio, erano gli Italiani che lo ricordavano: i Francesi parlavano invece di Catone e continuavano a frugare nelle tasche dei loro nuovi fratelli. — “Cappello in testa e mani nelle tasche!„ — consigliava in quei giorni di democrazia invadente il Parini ad un campagnolo che per timidità o per abito di cortesia non sapeva stare dinanzi ai magistrati col capo scoperto. Il Parini, al quale il Monti nella Mascheroniana pone in bocca:
il dolor della meschina
Di cotal nuova libertà vestita
Che libertà nomossi e fu rapina.
Serva la vide, ohimè, serva schernita.
Oh l'Italia pagò cara questa libertà! e s'avvide da ultimo di non stringere che un pugno di mosche. Quando il Bonaparte lasciò la penisola e a questa venne meno con esso anche il freno che fino allora aveva contenuto la più sfacciata ruberia ed impedito il trionfo della demagogia piazzaiuola, già della libertà erano stanchi anche coloro che più sinceramente le erano mossi incontro. I più abili ed i più onesti, dopo avere indarno tentato di reagire contro tanta rovina delle loro speranze e dei loro ideali, dopo aver cercato inutilmente di arrestare l'onda invadente nella vita pubblica degli elementi più torbidi e più violenti che il cieco favor popolare e il non disinteressato favore dei generali e commissari francesi sospingevano innanzi, s'erano ritirati in disparte. Il contrastare degli avidi, il rubare dei disonesti, le piccole prepotenze dei cittadini che avevano il governo di nome e le grandi dei Francesi che lo esercitavano di fatto, la confusione delle attribuzioni, gli odii, le calunnie, la intemperanza del linguaggio avevano, in tre anni, gettato l'Italia nello stato della più completa anarchia.
*
Allora appunto, nel 1799, cominciò la reazione antifrancese: ma, come la rivoluzione, anch'essa venne fra noi dal di fuori.
Quasi ad un tempo fu trionfante alle due estremità della penisola.
Dalle Alpi calò in Lombardia il maresciallo Suwaroff, il terribile tartaro che aveva massacrati gli ultimi eroi della libertà polacca, e guidava Austriaci e Russi: piombò in Calabria dalla Sicilia il cardinale Fabrizio Ruffo e lo seguiva un'orda disordinata di borbonici, di briganti, di preti, di frati e di contadini che lungo il cammino diventò folla. Un medesimo odio contro la rivoluzione guidava l'uno e l'altro, il fanatico maresciallo scismatico, l'accorto principe della Chiesa romana: pronti erano entrambi a qualunque eccesso pur di far trionfare Cristo ed il diritto divino dei re.
Nuovo Attila, il Suwaroff, e come lui terribile nella bruttezza ripugnante del volto e della piccola persona, si gittava furibondo in mezzo alla mischia cogli occhi iniettati di sangue, e tenendosi ritto su di un selvaggio cavallo della steppa, correva seminudo sotto una bianca e lunga camicia tartara, donde pendevano decorazioni e reliquie, fra le file de' suoi incitando alla strage, dandone l'esempio: i suoi urli erano di belva inferocita, le pose e i gesti teatrali: quando s'incontrava in una croce o in una immagine sacra scendeva da cavallo, si gettava bocconi e colla testa beluina nella polvere baciava il suolo.
Il Ruffo, maestoso nella eleganza signorile della porpora cardinalizia, incedeva sereno in mezzo alle turbe furibonde e fanatiche de' suoi nuovi crociati. Dalla sua bocca di miele uscivano parole che suonavano pace e perdono cristiano, ma che sulle turbe le quali lo ascoltavano col cuore invasato di sacro odio producevano l'effetto di staffilate: gli sciagurati che s'eran fatti nemici della religione e del re e che conveniva richiamare, per salvezza delle anime loro e per tranquillità e sicurezza degli altri, alla fede di cristiani e di sudditi, ei li additava con la punta della spada: con la croce benediceva le schiere che tornavano dalle stragi sanguinose: di tratto in tratto fermava i suoi ad una chiesa ed intonava il Tedeum al Dio della vittoria.
Una lunga traccia di incendi, di stupri, di saccheggi, di rapine, di lascivie per cui il Suwaroff menava vanto e gli brillavano gli occhi di gioia e il Ruffo mostrava di vergognarsi e dolersi, segnava il passaggio in Lombardia e nel Regno delle milizie oltremontane e nostrane della Santa Fede: e dietro la traccia, e per allargarla, accorrevano, come iene attratte dall'odore della preda e del sangue, sempre nuove turbe di insorgenti e più feroci, fiutando se vi eran superstiti alle prime stragi, cercando se trovavano avanzi delle prime rapine, insaziabili per timore che le vittime venissero loro a mancare.
Col successo il contagio si diffonde dalle estremità nel centro d'Italia. Un selvaggio furore sembra invadere le tranquille e gentili popolazioni della Toscana, dell'Umbria e delle Marche: cadono gli alberi della libertà e sorgono per ogni dove le croci; cessano lo squillar delle trombe e il rullar dei tamburi; fra un lento e continuo suonar di campane, echeggiano da ogni parte grida selvaggie di Morte ai Giacobini, Viva Maria! Moltitudini sterminate di contadini armati di picche, di falci, di fucili si muovono quasi in processione militare dai loro borghi, si organizzano in bande, improvvisano capi. Centro dell'armata della fede è in Toscana, Arezzo: generalessa una donna, Alessandra Mari da Montevarchi che, novella Giovanna d'Arco, portando un'imagine della Vergine, precede a cavallo la turba aretina e la conduce delirante d'odio e di fede, fra il canto delle sante litanie, alla caccia dei Francesi, dei giacobini, degli ebrei, di tutti i nemici della fede.
D'onde in ogni parte di questa Italia, che ieri pareva delirare d'entusiasmo per i Francesi, d'amore per la libertà, sono sbucate d'improvviso tante masse cristiane e così numerosi sanfedisti? Dove si tenevano finora nascosti, e come tanto odio non visto covava? E dove sono ora i molti che smaniosi di godere e di esercitare i diritti del cittadino facevano ressa attorno ai pubblici uffici? i non mai sazi di libertà? gli energumeni, i declamatori delle tribune, dei giornali, delle piazze che parevan non trovar sufficienti parole per affermare e ripetere il loro risoluto proposito di sacrificare la vita piuttosto che la libertà acquistata?
Non si vedono più: si direbbe che una voragine li ha inghiottiti tutti. È bastato che l'esercito francese vinto dagli Austro-Russi in campali giornate, investito ed incalzato in ogni parte dalle bande degli insorgenti, fosse costretto a sottrarre alle libere repubbliche italiane il suo appoggio, perchè queste, come castello di carta al primo soffio, crollassero. Per i loro ideali di libertà e di ordinato viver civile, per l'esistenza di quello Stato che con fede di compiere cosa santa avevano fondato pochi mesi prima, lottarono da eroi fino all'ultimo gli uomini della Repubblica Partenopea, soli: ma non erano che un pugno di forti e la reazione li soffocò col numero nel sangue. Abbandonarono invece il campo, vergognosamente inerti, tutti gli altri nelle altre parti d'Italia. I più compromessi fautori della libertà seguirono l'esercito francese nella ritirata: quelli che credettero di rimanere sul patrio suolo e che non poterono ottenere d'esser dimenticati o anche di far accogliere i loro servigi dai nuovi vincitori, furono o massacrati nel primo momento dal furor delle turbe o carcerati o esiliati o tratti a morte più tardi, quando cominciò per mezzo di persecuzioni e di processi la più misurata, ma non meno feroce e sanguinaria, epurazione a freddo dei sospetti di civismo. Alle stragi di Mario succedono le proscrizioni di Silla.
A spiegare tanta e così subitanea mutazione non basta dire che le violenze e le ruberie dei Francesi, che l'anarchia dei governi da loro istituiti avevano ingenerato odio a sazietà siffatta che gli Italiani avrebbero accolto come liberatore anche il turco: conviene ammettere, come io dicevo da principio, che al soffio delle idee francesi la superficie soltanto della vita italiana si era mossa: che era spuma e non onda quella che s'era sollevata. La natura italiana, nonostante l'apparente consenso generale, non era stata toccata profondamente nel suo organismo dalle novità francesi: un accesso violento di febbre che la paura ed il contatto coi Francesi avevano provocato, l'aveva turbata momentaneamente: passata la paura, cessato il contatto, le tendenze naturali, sentendosi di nuovo libere di sè, avevano ripreso il sopravvento ed avevano per reazione ecceduto nel volere dalla vita italiana espellere ciò che l'importazione straniera vi aveva introdotto.
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Altri stranieri avevano dominato nei secoli precedenti l'Italia; ma nessuno, prima dei Francesi, aveva voluto d'un tratto e per forza innestare la propria vita, le proprie idee, le proprie ispirazioni nella vita italiana: ciò che delle costumanze e del pensiero spagnuolo era rimasto fra noi, era stato assorbito per lento e spontaneo infiltramento nel volgere di molti anni. Del resto, che la violenta imposizione dei principii della rivoluzione francese non solo si sia esercitata sopra un terreno che in nessun modo era disposto ad accoglierla, ma che sia venuta ad interrompere bruscamente il naturale svolgimento della vita italiana, quando appunto cominciava a rinnovarsi da sè, lo mostra il fatto che neppure il vivere più composto e ordinato di altri quindici anni della dominazione francese restaurata fra noi nel primo anno del secolo, hanno potuto radicarli. Certo per legge di adattamento essi poterono in quegli anni guadagnar terreno e lasciarono traccia di sè in molti che si erano trovati in condizione di vederne e di gustarne i benefici: ma la grande massa del popolo italiano fu lieta che la reazione del 1815 — più fortunata e più durevole di quella del 1799 — rimettesse le cose come erano prima che i Francesi ponessero il piede in Italia, e s'adagiò soddisfatta nel suo nuovo sonno, dal quale soltanto la lenta e graduale preparazione di mezzo secolo potè destarla e metterla in condizione di poter guardare con occhio sicuro il sole della libertà.
Un uomo avrebbe potuto anticipare l'aurora di questo sole: Napoleone Bonaparte se egli, quando fu padrone di sè e non doveva render conto ad alcuno, come prima al Direttorio, dell'opera sua, avesse voluto essere italiano soltanto e si fosse proposto di riprender le fila della tradizione italiana là dove l'orrore per la rivoluzione francese, poi le armi di Francia le avevano spezzate. Ma quando calò per la seconda volta nella penisola per metter fine alla reazione che da tredici mesi vi imperversava, e d'un sol salto, colla battaglia di Marengo, fu in sella e di nuovo ebbe in mano il freno di lei ch'era “fatta indomita e selvaggia„ egli non era più il giovane generale invaso dalla voglia d'afferrare per i capelli la gloria e la fortuna dovunque le avesse trovate. Gloria e fortuna le aveva già raggiunte e le teneva strette nel ferreo pugno. Era il primo console, il vero signore della Francia: se in altri tempi egli aveva potuto accarezzare la possibilità di congiungere la propria fortuna alle sorti d'Italia e di far servire gli interessi e le aspirazioni di questa alle sue personali mire d'ambizione e di dominio, ora che il 18 brumaio aveva trasformato i suoi più alti sogni in una realtà e trascinata la Francia ai suoi piedi, l'egoismo suo s'era immedesimato del tutto con questa. Non vedeva più che la Francia nell'Europa, e solo sè nella Francia: tutto nel mondo, l'Italia per la prima, la più cara delle sue conquiste, doveva servire alla gloria, alla grandezza, agli interessi della Francia perchè queste erano la gloria, la grandezza, l'interesse di lui.
L'uomo della rivoluzione era finito col secolo ch'era morto. Colui che con Marengo aveva aperto il secolo nuovo, dalla rivoluzione, attraverso la quale era salito, aveva cominciato a staccarsi: non ne aveva più bisogno, anzi la temeva e voleva per ciò all'opera distruggitrice e disgregatrice del popolo far succedere quella ricostruttrice ed ordinatrice dell'uomo di Stato. Disgraziatamente l'uomo di Stato non era meno rivoluzionario del popolo: le forme della ricostruzione furono diverse perchè personali, ma il metodo finì coll'essere lo stesso: la prepotenza, l'arbitrio, la violenza, il capriccio, la collera, la passione.
Al popolo italiano s'annunciò uomo d'ordine nelle prime parole che gli diresse dopo la vittoria: “Il popolo francese viene per la seconda volta a spezzare le vostre catene. Quando il vostro territorio sarà compiutamente sgombro dal nemico, la repubblica sarà riorganizzata sulle basi immutabili della religione, dell' eguaglianza e del buon ordine.„ Dell'antica formula rivoluzionaria restava la sola eguaglianza: ciò che anche di questa restava, poteron scorgere subito i Milanesi quando, dopo la vittoria di Marengo, videro il Bonaparte andare in Duomo per assistere al Tedeum sotto il baldacchino che soleva essere preparato per i soli sovrani, circondato da uno stato maggiore tutto oro e ricami, preceduto e seguito dalle guardie consolari, con isfoggio di divise, di livree, di velluti, di pennacchi e di ornamenti che ricordavano le pompe spagnolesche del tempo antico. Cominciava il Bonaparte ad avvezzare gli occhi dei liberi cittadini, prima di trasformarli in sudditi, alla teatralità dello spettacolo della sua grandezza: non è lontano il tempo che tutto il mondo sarà in livrea per far cornice e contrasto al suo grigio cappotto.
L'Italia non ebbe per il momento che ordinamenti provvisori: altre cure chiamavano altrove lui che da solo voleva sostenere il carico della reazione dell'Europa intiera. Soltanto allorchè ebbe costretto tutte le orgogliose monarchie dell'antica Europa a stringere la mano vittoriosa con cui offriva loro la pace, pensò ad ordinare più stabilmente la nostra penisola. Era tempo: la verace e saggia libertà che si era attesa da lui non era venuta; le corruzioni, i disordini, le prepotenze degli amministratori e delle amministrazioni provvisorie, le spogliazioni, le requisizioni, le rapine, naturali conseguenze della guerra, si erano rinnovate, come dal primo triennio della dominazione francese ed avevano di nuovo resa odiosa la libertà.
V'era in Italia una popolazione che il Bonaparte prediligeva fra tutte: quella che dalle Alpi per le pianure lombarda, emiliana e romagnola si stende al di qua ed al di là del Po fino all'Esino. In mezzo ad essa, nel 1796, aveva vissuto i suoi giorni migliori, quelli delle prime glorie, che son sempre le più care, e gli pareva che là battesse il vero cuore della nazione italiana: certo di là gli eran venuti gli uomini che meglio fra noi lo avevano compreso e secondato e che ancora lo circondavano. Per ciò, dopo Campoformio e contro le istruzioni del Direttorio, le aveva permesso di formare col nome di repubblica Cisalpina una forte unità di Stato, ed alla nuova repubblica aveva dedicato cure e lasciato intravvedere alti destini e più larga unità.
Se il Bonaparte non volle mai dell'Italia tutta
le disciolte
Membra legarle in un sol nodo e stretto,
lasciò però, che anche dopo il suo ritorno nella penisola questa unità cisalpina risorgesse e rimanesse, della intiera nazione italiana, quasi il simbolo, in attesa — ei lasciava creder di prometterle — che tempi migliori le permettessero di esserne il nucleo. Ma intanto volle esserne egli il padrone e la guida. Conclusa la pace generale, ne chiamò a consulta i rappresentanti perchè studiassero un nuovo ordinamento di repubblica rispondente ai bisogni della lor nazione ed alla volontà sua; li chiamò a Lione, in terra straniera, davanti ai suoi ministri francesi ed a sè stesso e della lor nuova repubblica volle che lo eleggessero presidente.
Che importava? Ma con la nuova repubblica, che fu detta italiana, usciva finalmente e per la prima volta dopo tanti secoli di storia assumeva valore politico questo nome significativo di ideali e di speranze che già erano nell'intimo pensiero o almeno nel sentimento di molti; ma della nuova repubblica il Bonaparte affidava le redini, come a vice presidente, al Melzi, l'italiano per integrità di carattere, per altezza d'ingegno, per nobiltà di propositi più rispettato, l'uomo che dell'avvenire d'Italia ebbe forse la più chiara visione e la più sicura coscienza. Le circostanze e la volontà del Bonaparte non permisero che quel nome d' italiana assumesse più largo e più vero significato: chè delle altre parti d'Italia già pervenute in mano di lui o che vi pervennero poi, preferì o formare dipartimenti francesi o mantenerle isolate o aggrupparle artificiosamente fra loro, anzichè allargare i confini della repubblica italiana. Ma le speranze che nel Melzi erano state concepite, cominciarono a divenir realtà: egli purgò la repubblica dalla corruzione, restaurò il senso morale e la giustizia, ed iniziò con mano tranquilla, con larghezza di vedute e con audacia temperata dal senso pratico ch'egli aveva della vita, un'opera lenta di ricostruzione sociale e politica, la quale poteva assicurare allo Stato lunga vita e sicura. Parve un'êra nuova di prosperità e di benessere che s'aprisse: pur troppo non fu lunga nè libera di difficoltà e di ostacoli. I maggiori di questi venivano di Francia. Il Bonaparte aveva detto alla Consulta di Lione: “Voi avete bisogno di leggi generali e di costumi generali. Non avete eserciti, bensì avete gli elementi per crearli.„ E la repubblica italiana ebbe per opera del Melzi savie leggi generali, e pose le basi di quell'esercito che doveva essere la miglior scuola della nazione italiana e che restò la visione gloriosa e più di frequente evocata dai forti italiani, quando tornò per loro il tempo dell'inerzia.
Anche quello che il Bonaparte aveva chiamato il costume, cioè il carattere ed il sentimento nazionale, si era proposto e si studiò il Melzi di formare: aveva accettato di essere l'uomo del Bonaparte rispetto alla nazione italiana e voleva essere — ei diceva — anche l'uomo della nazione rispetto al Bonaparte; ma perchè potesse raggiungere così nobile intento conveniva che cessasse l'asservimento alla Francia. Il contatto coi Francesi era troppo continuo, perchè non fosse cagione di spiacevoli contrasti: la dipendenza dalla Francia troppo diretta e troppo presente perchè gli interessi di questa non avessero a prevalere su quelli che avrebbe imposto la nazionalità della serva e più bisognosa sorella. E invece che diminuire l'asservimento diventava ogni giorno più duro, e più ferrea e più imperiosa si faceva sentire la volontà di Napoleone. Prima erano consigli e raccomandazioni al Melzi: diventarono poi ordini e ingiunzioni fatte — nonostante l'affetto e la grande stima che il Bonaparte nutriva per il patrizio milanese — con quel tono secco di militaresca villania che al Talleyrand faceva dire col suo fine sorriso: — “Peccato che un uomo di tanto ingegno sia tanto male educato!„ Il Melzi era costretto quasi sempre a piegare il capo: non vi si rassegnava però che riluttante e dopo di avere con coraggio, che era già di pochi e che presto non sarebbe stato di nessuno, tentato di persuadere e di resistere.
Di mano in mano che il Bonaparte si avvicinava alla corona imperiale, tanto più invadente, accentratrice si faceva la personalità sua: ogni azione altrui dalla sua restava soffocata e distrutta: una volontà sola, una sola vita vi doveva essere in Europa, la sua.
Il Bonaparte fu chiamato il primo dei controrivoluzionari: e per vero egli aveva creduto di fermar l'opera della rivoluzione rimettendo la società sopra le basi donde la rivoluzione l'aveva spostata: l'ordine e la religione. L'operosa ricostruzione interna del consolato, la pace generale con l'Europa, il Concordato col papa parevano nel 1801 voler mantenere la promessa. Ora il Cesarismo lo aveva ricondotto di nuovo là dove la rivoluzione con la violenza era giunta. Non la Francia soltanto, ma l'Europa intera turbata; principi e popoli in istato di continua instabilità ed in pericolo di sovvertimento ad un sol cenno di lui; il Pontefice, come ai tempi della rivoluzione, strappato alla sua sede e trascinato in Francia e le coscienze religiose turbate.
Seguirlo in questa fase ultima della sua vita politica non tocca a me nell'ordine di queste letture; è giunto il momento in cui la individualità del Bonaparte ha talmente assorbito la vita di tutta l'Europa da formare con essa una sola ed indivisibile cosa. Napoleone è già il Giove terreno che fulmina, che riceve gli incensi, che si sente al difuori e al disopra del genere umano.
E torrenti di luce il sol diffuse
Napoleone Dio, Napoleone!
Rispondeva la terra, e il ciel si chiuse.
Miseri mortali costretti a vivere fuor delle loro condizioni normali, ad obbedire senza discutere, ad ammirare sempre; sempre in attesa di qualche colpo di scena che d'un tratto muti le loro sorti; sempre nel timore che un segno di penna annulli la loro esistenza, che li privi delle sostanze, che strappi i lor figli alla casa paterna e li balzi qua e là per tutta l'Europa. Mai la ragion di Stato aveva annientato tanto l'individuo! Nulla aveva più valore nella vita dell'uomo privato, nè in quella dei popoli. Che importa alla storia sapere quali principi Napoleone abbia posto sui troni o quali ne abbia balzati? restano ombre prive di corpo, nomi vani, quando attraverso ad essi non si vada a cercare il sole che li illumina e li vivifica. Che importa sapere come Napoleone abbia riunito all'impero francese l'uno dopo l'altro il Piemonte, poi Genova con la Liguria, poi Parma, Piacenza, Lucca, poi la Toscana, dopo averne fatto un effimero regno d'Etruria, e da ultimo Roma? Quali destini serbava all'eterna città quando, attingendo ancora una volta alla forza della sua tradizione gloriosa, faceva di essa la seconda metropoli dell'impero, poi del figlio lungamente desiderato, un re di Roma? Ne voleva far centro della nuova nazione italiana? Chi può seguirlo attraverso il fantasmagorico mutare e rimutare della sua volontà, e cogliere in mezzo il barattare continuo di troni e provincie, quale sia l'ultima mira dell'azione sua?
Il bel nome italico rimaneva al regno, in cui la repubblica italiana s'era trasformata: ma il Melzi non v'era più a governarla. Al suo posto Napoleone aveva posto un giovanetto francese, il figliastro suo Eugenio: e francesi, come Eugenio, tratti dalla famiglia di Giove furono pure Giuseppe e Gioacchino Murat che successivamente Napoleone fe' passare sul trono abbandonato da Ferdinando di Borbone. Continua nel regno italico, s'inizia nel regno di Napoli il rinnovamento legislativo, economico e militare del paese; e possono, ne' primi momenti del fasto teatrale delle nuove Corti e della gloria militare cui sono chiamate a partecipare, restare abbagliate le popolazioni italiane. Ma la realtà finisce coll'imporsi: al fasto principesco, alla gloria militare erano sacrificati gli interessi del popolo; per la grandezza dell'impero di Francia prosciugate le risorse pubbliche, seminate di lutti le case dei cittadini. Resistere alla volontà di chi disponeva della loro sorte non osavano i principi, era impotente il popolo: ond'è che gli Italiani ricaddero di nuovo in quello stato di inerzia passiva che già altra volta era succeduto alla momentanea effervescenza che l'amore per la libertà pareva avesse destato fra noi: di nuovo nel segreto del cuore covarono gli Italiani l'odio contro gli stranieri oppressori. Ma l'odio questa volta era più intenso perchè più lunga era stata l'educazione politica, più sicuri erano divenuti i criteri per distinguere il bene dal male, l'apparenza dalla realtà: ed il contrasto stesso che nella repubblica e nel regno italico gli Italiani avevano avuto sotto gli occhi, dei benefici che da savi ordinamenti liberi avrebbero potuto ritrarre coi mali che per l'assoggettamento a Francia nel fatto ne ritraevano, acuiva l'odio ed il dolore.
Il Franchetti in una delle sue migliori monografie su questi tempi ha dimostrato che l'odio sorto fra noi dalle sofferenze, dalle prepotenze, dalle delusioni subite durante la dominazione francese fu il fuoco sacro che ha acceso il sentimento patrio italiano, prima dell'89 vivo soltanto nella comunanza del linguaggio, della coltura e delle tradizioni storiche. Un medesimo odio e una comune miseria hanno fatto cercare la medesima salvezza; così la coscienza unitaria della nazione italiana fu formata. Dal male nasce più spesso che in altro nido il bene: e basterebbe ciò perchè a questa età tumultuosa noi dovessimo rivolgere grati lo sguardo, quando anche non le dovessimo d'averci richiamato alla milizia e dato l'esempio dei primi larghi ordinamenti legislativi che rimasero poi fermi nella nostra tradizione.
La coscienza nazionale italiana portava però ancora con sè il segno del peccato d'origine: era nata dall'odio e non poteva per anco aver altro carattere che distruttivo; non sentiva allora altra necessità all'infuori che quella di togliersi di dosso chi la soffocava, e per il momento non vedeva e non cercava come le sarebbe stato poi concesso nel fatto di costruire l'unità della patria.
Per ciò il popolo italiano assistè plaudendo al crollo della fortuna napoleonica, dove non diè mano esso stesso a quella rovina: per ciò respinse con repugnanza le offerte di indipendenza che la voce francese del vanitoso Gioacchino Murat gli vantò da Rimini e respinse anche quelle di Eugenio di Beauharnais, che pur era degno di miglior sorte. Ma poichè l'odio solo l'avea mosso e non avea pronta e chiara davanti agli occhi la vera soluzione del suo avvenire, dopo esser corso dietro alle speranze — e fu errore scontato collo Spielberg — di una restaurazione liberale ed autonoma sotto gli auspici dell'Austria, finì col cadere nella servitù e passare da una ad un'altra dominazione straniera, la quale gli tolse anche quelle speranze di libertà e quelle illusioni di gloria che la dominazione francese gli concedeva.
Eppure, se fra tanto tumulto di passioni l'Italia avesse prestato attento orecchio, avrebbe inteso una voce che dalle pagine ora dimenticate di un tenue opuscolo, dirigendo un Appello ad Alessandro imperatore autocrate di tutte le Russie sul destino d'Italia, additava con mano sicura donde la salvezza futura sarebbe venuta. “Offrasi — diceva la voce dell'anonimo solitario — offrasi a questa nazione l'indipendenza, l'unione e la scelta di un governo.... Gli occhi d'ogni italiano, nel di cui petto arde il sacro amor di patria e a cui l'onore nazionale è caro, rivolti sono da gran tempo sopra quello che tutto appella a far nostro capo e sovrano. Restaci ancora un principe legittimo e degno di esserlo, la di cui famiglia tutto ha nelle vene il più puro sangue italiano. Un principe nato fra noi, fra noi allevato, che noi tutti conosciamo e che conosce noi tutti. Egli ha i nostri costumi e le inclinazioni nostre, le nostre abitudini. L'illustre casa di Savoia è italiana e gli avi suoi sono dell'Italia la gloria e l'orgoglio. Che i monarchi alleati, che Vostra Maestà la richiamino al proprio antico dominio non solo, ma che a regnare s'inviti su tutti gli Italiani che desideran divenirne sudditi. Si presenti il Re di Sardegna agli Italiani tutti come il centro della loro unione e gli Italiani tutti accetteranno con viva gioia e trasporto il magnanimo dono e benediranno la mano donatrice: correre tosto scorgerebbonsi da ogni lato dell'afflitta Italia giovani ardenti a salutare l'augusto, il nazional sovrano e ad offrirgli le braccia ed il sangue loro.„
La voce del solitario italico che con occhio così limpido vedeva la futura missione rendentrice di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II e preannunziava i plebisciti dell'Italia nuova, cadde allora nel silenzio. Altro odio doveva nascere da altre e più dure ed umilianti sofferenze; dolorosi sacrifici di sangue e di ideali dovevano essere imposti dalle esperienze fallite cercando per vie diverse la patria, prima che la coscienza nazionale italiana fosse compiuta e che non più soltanto dalle elucubrazioni politiche dei pensatori ma dalla educazione generale del popolo si invocasse e si imponesse la redenzione del nostro paese.
LA REPUBBLICA PARTENOPEA
CONFERENZA DI Guido Pompilj. Signore e Signori,
La rivoluzione francese, attraverso dieci anni di ruinose vicende, alternanti tra efferata anarchia e gloriosi eroismi, andò a finire, come tutte le rivoluzioni, che mai potranno essere istituzioni permanenti, in balia di un dittatore vittorioso e imperioso.
Ma la nuova bandiera, sempre grondante sangue, o che facesse il giro del patibolo, o che dal Manzanare al Reno volasse trionfale per la terra, o che precedesse fatidica Carnot o che seguisse vindice Napoleone, ai popoli (perocchè ai re, e non a loro, secondo la sentenza di Danton, annunziava la guerra) doveva, con aperto contrasto, simboleggiare la libertà, la fraternità, l'eguaglianza.
Questi erano i principî della filosofia o, come nel gergo di allora chiamavasi, della filantropia, predicata poi autentica genitrice di un commovimento sopra ogni altro di qualunque tempo procelloso e memorabile. Moto che, impetuosamente scoppiando, parve inopinato e impreparato, mentre era lentamente cresciuto e rimasto latente per tutto un secolo, che Carlyle chiamò paralitico, ma fu il secolo delle idee e della gestazione della democrazia. Moto che non poteva essere così subitaneo e accidentale se, cominciato allora, non è ancora finito; se non solo nelle istituzioni e nel pensiero se ne ritrovano tuttavia le reliquie non incenerite e la scintilla non spenta, ma si agitano altresì intorno ad esso giudizi e sentimenti così pugnacemente contrari, come, non i figli della rivoluzione, ma fossimo quasi i suoi contemporanei; e se celebrandone cento anni dopo, tra un misto di orgoglio e di rimpianto, di riconoscenza e di ribrezzo, di baldanza e di sconforto, il gran parentale, sentiamo la verità della superba profezia di Barère, a cui sul campo di Valmy faceva eco il sommo Goethe, che da quel giorno ricominciava la storia del mondo.
“En fait d'histoire il vaut mieux continuer que recommencer„, dice Taine, ma questa volta ciò che si andava disfacendo in un corrompimento senile era tutto un organismo civile e politico, il quale non poteva più reggersi senza correggersi, doveva o trasformarsi dalle viscere o sprofondare.
E sebbene alcuni scrittori timidi e pacifici, fra gli altri il nostro Manzoni, sostengano che quel rivolgimento, mosso e alimentato da uno spirito riformatore, avrebbe non solo potuto, ma dovuto, non tralignare in rivoluzionario per incarnare veramente la pienezza del suo ideale, pure non può disconoscersi la profonda avvertenza dell'acutissimo Tocqueville, che, intrecciato com'era quell'organismo con quasi tutte le leggi politiche e religiose di Europa, abbarbicati come erano ad esso, quale edera serpeggiante a tronco annoso e tarlato, con infinite ramificazioni, pensieri, sentimenti, costumi, interessi, solo un colpo violento e reciso poteva schiantarlo ed abbatterlo.
Era una febbre di crescenza, era un fato della storia, a cui non manca certo lo spirito inventivo, che ha le sue vie e le sue mire arcane non soggette ai riposati calcoli sulla lavagna, e come è giustiziera e ultrice infallibile, così è mirabile e inesausta creatrice.
Quando si raccolsero gli Stati Generali il giorno per sempre memorabile del 5 maggio 1789, a cui doveva fare amaro riscontro un altro 5 maggio, nessuno forse di quei mille deputati dei tre ordini voleva la rivoluzione; nessuno dei Cahiers (che, come disse Mounier, chiedevano distruggere gli abusi e non rovesciare un trono) l'invocava; nessuno la presagiva almeno così vicina e terribile. Chi avesse in quei giorni annunziato il Terrore o predetto Napoleone, sarebbe passato per un burlone o un mentecatto.
Ma la rivoluzione era nell'aria, e il turbine scoppiò in fulmini e tuoni e pioggia di sangue, mettendo a soqquadro l'Europa, conquassando una società secolare. Ammonimento a chi non sa preparare a tempo i parafulmini! a chi vaneggia che simili procelle mandino sempre innanzi araldi visibili per dar agio agli ignavi di aprir gli occhi o di mettersi in salvo! Il centenario della rivoluzione era bene di celebrarlo, ma piuttosto che a panegirici sperticati o sterili invettive, a paragoni parlanti e a fruttuose meditazioni.
Non si tratta di architettare demolizioni simmetriche e di sana pianta; ma di capire e sentire, per dir così, i tempi; meditare coi pensatori e palpitare col popolo; accompagnare, affrontando e regolando le trasformazioni, il cammino lacrimoso e pur luminoso del genere umano.
Ma perchè la rivoluzione era nell'aria e perchè divampò da ogni parte?
Essa fu il mare ove andarono a confondersi, come rivi e torrenti, tutte le rivoluzioni passate; e le cause che la suscitarono furono quelle che, più o meno, sogliono istigarle tutte: cioè il dissidio fra le dottrine, gl'istituti, i privilegi, i costumi, avanzi di un'epoca volta alla sera, e il pensiero nuovo, i bisogni, le aspirazioni, i conati, preludio a un'altra che albeggia. E in pari tempo il conflitto dei particolari interessi tenacemente difesi da ciascuna classe, che non sa chiedere il temperamento armonico negli angustiosi trapassi allo spirito di sacrifizio; che non sa gittare a tempo una parte del carico per ritrovare il salutare equilibrio, e salvarsi, all'ingrossar dei marosi, col senso storico per bussola e l'amore umano per vela.
Ma forse nessuna filosofia, come questa della rivoluzione, fu talmente fertile e anche, spesso, talmente vacua e fallace.
Raramente a indagar le cause di un avvenimento fu messo tanto ingegno reso cieco da tanta passione, o tanto studio armato di sì forte pazienza e avvalorato da sì erudita e sottile critica.
Dai contemporanei ambasciatori veneti e Vincenzo Coco, passando per Thiers, Carlyle, Michelet, Quinet, Manzoni, a Gervinus, Sorel, Sybel e Taine, c'è da scegliere e da stordirsi.
Ma, perciò appunto, oramai chi sappia spogliarsi, o anche meglio non siasi mai vestito, di passioni che sono la ruggine di ogni sincerità, e molto più di quella della storia, ha guide bastevolmente sicure per penetrare l'oracolo di questa.
Una massima intanto possiamo stabilire, conforme in tutto al principio, che ogni evento storico, specialmente se è di quelli destinati a rimescolare il mondo moderno, è cosa infinitamente complessa, e tale da non ammettere che se ne alambicchi colla storta qualche causa ideologicamente una e semplice: la massima, cioè, che fu errore, dimenticando molti altri moventi politici, attribuire quasi intieramente a Rousseau e agli enciclopedisti il merito o la colpa tanto della comparsa della rivoluzione in Francia quanto della sua diffusione e azione al di fuori.
Filosofia, scienza, letteratura, sono certo un gran fomite di rinnovamento, e gli scrittori che divinano insieme ed eccitano gl'impulsi popolari, che Manzoni chiamava le anime della folla, sono mirabile strumento di apostolato. Ma i rivolgimenti hanno sempre in fondo natura sociale e politica, appunto perchè sono fatti dal popolo, che non è spinto se non dai bisogni e dai sentimenti. Le idee, come non pagano dazio, così, per essere troppo alte, a guisa delle stelle, e troppo fredde a guisa del sole d'inverno, non abbagliano e non infiammano.
La rivoluzione ebbe il suo focolare spontaneo in Francia, perchè, nazione composta da secoli a bronzea unità di stato che ne avea fatto la grandezza e la preponderanza, i nodi politici dovevano ivi prima che altrove arrivare al pettine; perchè l'indole della sua gente la fa proclive alle novità e irrompente ai partiti estremi; e perchè la sua lingua universale era il naturale strumento a quella specie di civiltà comune che s'era andata formando, a quella comune patria intellettuale, come l'ha chiamata il Tocqueville, che aveva abolito tutti i vetusti confini, facendo talora nemici i concittadini e fratelli gli stranieri; una patria fatta apposta per collocarvi a dimora l'uomo di natura rievocato da Gian Giacomo Rousseau, l'uomo astratto che nessuno ha mai conosciuto e a cui poi, per una delle tante contradizioni che sono l'ironica vendetta delle cose, doveva darsi per antonomasia il nome di cittadino.
Ma i germi sotterranei della rivoluzione, tanto nel campo filosofico quanto nel campo politico, andavansi maturando, più o meno vivamente e rapidamente, in ogni parte d'Europa, onde mentre quel novello accomunamento degli spiriti creava in Germania con Lessing, Schiller e Goethe la nuova letteratura, apriva alla Russia la finestra sull'occidente, risvegliava in Italia il pensiero speculativo e virile affratellando i popoli in una maniera di pensare europea, secondo la dissero Pietro Verri e Madame De Staël; i principi e i ministri, molti dei quali allora dimostrarono una avvedutezza profetica, qualche volta inascoltata, come accadde al Bogino in Piemonte, entravano con nobile gara nella via delle riforme.
Al che contribuiva un diffuso istinto di aspirazioni sociali, un moto sentimentale che integrava l'intellettuale, quando vent'anni prima di Robespierre tout le monde aimait tout le monde, perocchè mai risveglio più terribile fu precorso da sonno più dolce e sogni più soavi. E anche questo derivava dalla scuola di Rousseau che alla fede nella potenza della ragione dell'uomo accoppiava quella nella bontà della sua natura; onde alle svenevolezze della nuova Eloisa facevano eco i madrigali e l'egloghe del Trianon, e in una società di cortigiani e di favorite, di cipria e di minuetti, veniva di moda l'idillio, e la filosofia, come dissi, si struggeva in filantropia.
Ma la storia che su questa terra, chiamata da Dante
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
non è nè l'una cosa nè l'altra, a tale arcadia politica dava, col suo fato ironico, per epilogo proprio il Terrore, quando l'idillio di Andrea Chenier era troncato a mezzo dalla scure che, recidendo una testa, insanguinava un alloro.
La filosofia non basta a cambiare le condizioni sociali che, con tutta quella comunanza intellettuale, rimanevano differenti; come i cittadini veri e non nominali (non quelli variopinti che il tedesco Anacarsi Clootz, oratore del genere umano, menò al cospetto dell'assemblea) rimasero cittadini, e ciascuno della loro patria e del loro clima, coll'indole della propria razza, colle tradizioni della propria storia, colle necessità del proprio governo. Onde diversi furono così gli stimoli e i fini dei rivolgimenti dei vari popoli, come gli affetti e i propositi suscitati in essi dal grande incendio francese.
Diversi furono in America, dove pure la dichiarazione dei diritti dell'uomo precorse di 13 anni il giuramento della Pallacorda. Diversi furono in Inghilterra, tuttochè fosse la patria non solo della famosa filosofia volgarizzata in Francia di seconda mano, ma eziandio di quel governo libero e rappresentativo che s'invocava ad esempio; e dalla quale pertanto sarebbe parso ragionevole, a stregua di filosofia, attendere aiuto e favore, mentre invece da Pitt a Burke, da Nelson a Wellington ivi si trovarono i più arrabbiati nemici, coloro che dettero l'alto là, e riuscirono a fiaccare una forza che per un momento era parsa indomabile. Diversi infine furono, come noi dobbiamo vedere, a Napoli nel '99, sebbene di laggiù Tanucci desse la mano a Necker, Galiani a Voltaire, Filangeri e Giannone a Montesquieu e a D'Alembert.
Ma se non poteva farsi a meno di accennare in iscorcio le ragioni della distinzione tra quello che fu la rivoluzione in Francia, e quello che poteva essere nei varî luoghi dove, non già scoppiò, ma venne portata, certo è che intanto di fuori uscì, e, rotte le dighe, effetti universali ne ebbe, dovuti appunto e alla parentela delle dottrine, e alla analogia qua e là delle condizioni civili, morali e politiche, e forse più di tutto ai suoi stessi nemici.
Perocchè la sua azione europea, e specialmente italiana, fu determinata, più che dalle speranze e le simpatie degli oppressi, dai timori e dalle viltà degli oppressori, i quali, collo sfidarla, la cambiarono di guerra civile in guerra nazionale, e, in luogo di abbassarla, l'ingrandirono. E, assai più che i libri e i bandi altisonanti, strumento per essa di apostolato, come compresero i Girondini, erano le armi, che, sempre per una delle notate contradizioni, mentre dicevansi imbrandite per quella civiltà cosmopolita, furono rese invitte e onnipotenti dall'amor passionato della patria e dal sentimento della sua salvezza e grandezza; furono sacrate alle più prodigiose vittorie dalle più stolte e folli provocazioni.
Finchè, quando le parti della salvezza e della provocazione vennero invertite, s'invertì anche il successo. Ma intanto i popoli dei due campi avversi avevano una cosa nuova imparato: a combattere, non per i re, ma per le patrie. E questo, il sentimento nazionale di un solo riscatto e d'una incoercibile indipendenza, fu forse il più prezioso e più incontroverso retaggio della rivoluzione, al quale non sarebbe bastata, come all'eguaglianza civile e alla libertà politica, la evoluzione pacifica e riformatrice.
L'Italia perciò non ha da lamentare, ma da benedire quei tempi fortunosi. L'Italia che sapea le tempeste fin dalle sue gloriose repubbliche, che dava nel rinascimento al mondo la cultura moderna, che avea nelle tradizioni domestiche la signoria universale dell'Impero e della Chiesa, ma, per non essersi mai potuta comporre a salda unità, era stata costretta
A servir sempre o vincitrice o vinta.
Ludibrio a ogni voglia rea degli stranieri, bersaglio alle ambizioni dei loro potentati, arena perpetua ai conflitti dei loro eserciti, teatro agli abusi e alla corruzione più sfacciata dei loro proconsoli, mercato aperto alle più svergognate cupidigie dei loro diplomatici, se c'era contrada che avesse sovra tutte patito le oppressioni e le angherie di ogni fatta, sofferto della burbanza e della tracotanza dei privilegiati, preda lacerata, spogliata, conculcata, mentre più che qualunque altra doveva sentir fremere, pur soffocata e dormente in fondo all'anima, l'ansia e l'agonia della libertà, questa certo era la patria di Dandolo, di Ferruccio, di Micca.
E la sua debolezza e divisione da un lato, le sue condizioni politiche e sociali dall'altro, facevano sì che sovr'essa principalmente si riversasse il nembo di Francia, e in essa trovasse il terreno più propizio quel seme celeste e fecondo che vi cadde, mescolato alla grandine fosca e sterminatrice.
E, poichè in questi geniali e gentili ritrovi, geniali e gentili come tutto ciò che è fiorentino, dovevasi quest'anno dare una corsa alla vita italiana nel secolo XVIII, che sarà in eterno chiamato il gran secolo della rivoluzione, mi parve che sarebbe mancata qualche cosa, se non si fosse toccato affatto dell'eco e del contraccolpo che ebbe in Italia, di quei sollevamenti che ne uscirono e furono, come a dire, il proemio delle tante rivoluzioni che finalmente, attraverso una iliade di sciagure e un poema di olocausti e di ardimenti, ci hanno ridato una patria.
Anche da noi ribollì tutto, e quasi da per tutto, i popoli, per molti dei quali la repubblica era o un vanto avito, o un rimpianto mesto, o un'invidia acerba, poterono levarsi il gusto di vederla risorta, ribattezzata alla francese, per qualche giorno.
Le repubblichette di allora, effimere, ebbero la vita fuggevole di chi non nasce vitale; durarono tutte pochi mesi, mesi peraltro pieni di eventi e di passioni, di scelleraggini abbominande e di virtù sublimi, memorie sacre che ancora parlano all'animo dei cittadini.
E a narrarne qualcuna il più chiaramente e compiutamente possibile, anche a costo di abusare della pazienza di un così eletto uditorio al quale chiedo indulgenza, tutto portava a prescegliere quella che ebbe i casi più infelici e più rei, che, unica, dette prova di virtù civile e di morale grandezza, quella sprigionata laggiù a piè di un vulcano, nel paradiso dove fiorisce l'arancio, e dove allora, inaffiata dal sangue dei generosi, germogliò una palma immortale.
Episodio insieme lugubre e radioso, dove la storia s'intreccia al romanzo, il dramma epico sospira nella tragedia piena di lacrime e insieme di ammaestramenti solenni e di conforto virile a noi, che, in un'ora infausta e triste, sentiamo più che mai il bisogno di richiedere al vaticinio cruento dei padri nostri, alla lezione dei loro errori e all'esempio delle loro sventure, qualche anelito di concordia e di sacrifizio, qualche palpito di carità della patria, qualche raggio del morente ideale.
Se, per le idee e la conquista intellettuale, la rivoluzione poteva dirsi, al pari che in Francia, nata negli animi di lunga mano anche in Italia; per i fatti, da noi non prese piede se non nel terzo periodo. Quando, cioè, scaturito dalle lotte interne, ultimo e triste portato, il trionfo dei giacobini, salito sul palco il re, proclamata dalla convenzione la repubblica, questa, mentre colla diplomazia e ogni maniera di propaganda cercava di adescare popoli e governi, colle armi provocate prima a difesa, e cogli eserciti resi invincibili dal genio allora sorgente di Bonaparte, andava incarnando la missione quasi ideale attribuitasi con un solenne decreto, che alla sua volta era provocazione e sfida a tutti i governi, dove ingiungevasi ai generali francesi di proteggere i popoli che insorgessero e i cittadini che per la causa repubblicana patissero; la missione, dicevo, che sarebbe stata magnanima se non avesse covato nessun pensiero egemonico, sublime se in tutto sincera, ma in ogni modo storicamente impossibile, di comporre una sola famiglia umana sotto l'egida della libertà.
Belli propositi generati dalla filosofia del secolo, da quello spirito di democrazia cosmopolita per il quale Bourget crede che l'Europa morrà, e destinati a seminare molte illusioni. Ma forse allora, negli albori, la rivoluzione illudeva sè medesima, mentre poco di poi, trascinata, al pari dei monarchi, dalla sete di dominio e di conquista, dall'amor patrio e dallo stesso fanatismo, doveva cercare qualche utile materiale, qualche accrescimento di potenza dai suoi trionfi, che finirono ad imporre una nuova dominazione, non sempre più giusta nè meno spogliatrice. Onde Alfieri che aveva detto di voler per la libertà spiemontizzarsi e disvassallarsi, salutava il giorno della restaurazione in Toscana come il giorno della purificazione.
La rivoluzione non poteva essere subito compresa, misurata nella sua importanza; se tutti dovevano esserne stupiti o sgomenti, per l'inopinata audacia e violenza, pochi erano tali in alto e in basso da impensierirsene e da sperarne sul serio. In fondo, non ci si credeva. Non si credeva dai re che non potesse venir domata o sopita in casa sua, molto meno che dovesse entrare a forza in casa loro; non si sperava dai popoli di scuotere il giogo, o si temeva di cambiarlo e non altro.
Era l'alterius spectare labores dalla riva tranquilla; era uno spettacolo nuovo e gigantesco da seguire da lontano con curiosità mista, sia pure, a voti trepidi o ansie inquiete, ma da non considerarsi se non un elemento di più nei calcoli, nei disegni, e nei consigli della diplomazia europea, a cui se ne accrescevano le cupidigie, le contese, e le insidie reciproche. A scuoter l'abbandono venne il fatto più atroce e più colpevole di quella storia epicamente miseranda, il supplizio di Luigi XVI e lo scatenarsi della belva umana, che pure ai confini sapeva ruggire la sfida leonina di un popolo che si leva alla conquista dell'avvenire.
Mai forse come in quei giorni la reazione potè addurre tanto a propria scusa il significato del proprio nome divenuto più tardi giustamente esecrato e obbrobrioso, quando le vendette cieche e furibonde, le persecuzioni spietate, il delirio di stragi, la sete di sangue innocente, mostrarono che quella belva è anche più feroce e più insana quando trovasi ai piedi o sopra di un trono.
Fino allora perfino le due sovrane che, dalla neve perpetua alla perpetua primavera, fra tanta diversità d'intelletto e di facoltà mostrarono tanta somiglianza di passioni, e finirono ad annegare le altre libidini in quella del sangue, Caterina II di Russia e Maria Carolina di Napoli liberaleggiavano, bruciavano incenso alla gaia filosofia del secolo, e stettero a un pelo di entrare in quella setta dei franchi muratori che in quel torno aveva fini alti e nobili di virtù, di fratellanza e di emancipazione.
Fino allora si seguitava a scherzare col fuoco, come ci aveva scherzato Luigi XVI inviando perfino agli antipodi i propri ufficiali a propugnare la ribellione dei sudditi americani contro al proprio re, e imparare i benefizi e le lotte gloriose della libertà. Seguitavano i principi nello zelo delle riforme, pericoloso dacchè non pensavano a riformare sè stessi; generoso solo in apparenza, dacchè il più delle volte non disinteressato e leale. Quelle riforme, come fu bene avvertito dal Balbo e da altri, erano in gran parte egoistiche, liberali solo dell'altrui, perchè consistevano nel prendere e non nel dare, nell'abolire quei privilegi che sminuivano l'onnipotente accentramento regio, mantenendo, se non accrescendo, gli altri.
Dalla convenzione e dal terrore, da Hoche e Bonaparte in poi, non si pensò più ad altro. Salvo la repubblica di San Marino che poteva rimanere, e rimase, indifferente, ben sapendo i cardinali Alberoni non nascere ogni giorno, l'Europa fu tutta divisa in due campi: o colla rivoluzione o contro di essa; e attorno ad essa si consumarono tutto le energie indomite, tutti gli istinti generosi, tutte le passioni selvagge, tutto lo sforzo di vita del secolo morente.
All'imperatore Giuseppe II che, durante il dilatarsi della rivoluzione, guardava da un'altra parte, seguitando a imbastire con Caterina II un audace disegno di smembramento della Turchia, era succeduto Leopoldo, fratello insieme dell'infelice Maria Antonietta e di Maria Carolina, passato a Vienna dalla Toscana, dove aveva fatto scuola immortale di benefico esempio a qualunque principato assoluto, e dove, per le larghe riforme compiute in ogni ramo della pubblica cosa, salvo che trascurò, e fu errore, la milizia stanziale, la sua memoria ancora dura cinta di ammirazione e di gratitudine.
Egli, anche sul trono imperiale, non cambiò natura, tanto che la sorella di Napoli, già fremente contro le nuovità, diceva di lui a scherno che, se non fosse imperatore, sarebbe Barnave.
Ma, perchè la filosofia è una cosa e la politica un'altra, pur destreggiandosi a evitare la guerra che gli riuscì di lasciare solo in eredità a suo figlio, dovette mettersi contro alla fiumana straripante, e strinse colla Prussia il primo nucleo di lega antifrancese col famoso patto di Pilnitz, dove si consumò lo smembramento della Polonia, l'Italia del Nord, e il cui testo alla sua morte, per prova che in lui la sottigliezza politica non aveva smorzato la immedicabile scostumatezza, gran malattia di famiglia (che forse non fu del tutto estranea ai casi di Francia, e in ogni modo ebbe tanta parte nelle traversie di Napoli), fu ritrovato in un cassetto fra rose secche e lettere d'amore.
La lega di Pilnitz, a poco a poco fece valanga; e, vedendo oramai coalizzarsi contro di sè tutte le monarchie, nelle quali alla noncuranza era sottentrato l'odio e lo spavento, la Francia, a cui, come all'antica Roma, era divenuta necessaria la guerra, dovè risolversi a mutarla di difensiva in offensiva e conquistatrice.
E la conquista fu rapida e tremenda; e, come al solito per fato antico, ebbe per primo campo l'Italia, e fu opera di un predestinato italiano.
Tutto ciò che ha fatto il giro del mondo, ha preso le mosse dall'Italia. E oltre che questa era l'agone naturale della lite secolare coll'Austria a cui aveano dato mano i più grandi ingegni che vanti la Francia: Richelieu, Mazzarino, Condé, Turenna, Villars; e le sue coste e le sue isole erano il nido naturale dell'egemonia del Mediterraneo, pegno di una contesa eterna che si perde alla memoria nella notte del passato e si dilegua alla previsione in quella dell'avvenire; oltre che quivi si colpivano, se non al cuore, nelle membra forse più valide e gelose, le potenze rivali che, o per dominio diretto, o per patto di famiglia, o per vincolo di protezione, tenevano soggetti la maggior parte degli stati italiani; oltre che, abbandonato oramai dalla repubblica il disegno di democratizzazione universale possibile solo in un momento d'entusiasmo, ed entrata oramai in lei l'avidità della conquista, non v'era più bella e più grassa preda, onde dagli agenti segreti di Robespierre e dai rappresentanti diplomatici fioccavano le proposte per quella che, con abile eufemismo, chiamavano la liberazione dell'Italia; oltre tuttociò, dico, il fomite più vivo di avversione dei governi e di favore nei popoli era qua. Di qua, da Torino e da Napoli, senza contare il Papa, era partita la prima e più provocante opposizione.
Lo stato della coscienza politica nazionale, le condizioni dei popoli e dei governi italiani durante la rivoluzione, esaminò e ritrasse in una serie di studi dotti e magistrali un vostro valoroso concittadino, Augusto Franchetti. E possono compendiarsi così: che gli uni e gli altri mancavano delle due grandi virtù, sapienza civile e valore soldatesco; erano fiacchi, insufficienti. E nei popoli era un dissidio tra la mente dei pensatori, i cui voti s'ispiravano alla filosofia ardita e dolce del secolo XVIII, e il sentimento delle moltitudini e delle plebi avvilite e inselvatichite dalla lunga oppressione, snervate dalla pace torbida, incallite oramai e rassegnate supinamente al giogo e agli abusi. Sicchè, per concorde testimonianza, i governi della penisola non avevano da temere una rivoluzione spontanea e popolare come in Francia, e la rivoluzione se la portarono in casa essi per l'inettezza dei capi, per la mancanza di un barlume di amor patrio e di unione nazionale, per le loro insidie e cupidigie, per gli sperperi e l'inettitudine dei ministri e dei capitani, pei pessimi ordinamenti militari.
Onde nessuno degli stati italiani osò dichiarar la guerra esso per primo. Lo stesso Piemonte dovè temporeggiare e tergiversare. Venezia, già emula e arbitra dei più potenti e regina dei mari, immemore della passata grandezza, fatta molle e imbelle e maestra all'Europa di perpetuo carnevale, oramai ombra di sè medesima, ondeggiò fra la neutralità armata e la neutralità disarmata, prostrandosi in una politica infelice, di cui doveva raccogliere l'infelice guiderdone a Campoformio. Toscana, Genova, Lucca, Modena, Parma, pure inchinevoli a rimaner neutrali, dovevano, per la loro impotenza, subire gli ordini alteri e minacciosi dell'Inghilterra. E il Papa, più debole di tutti e più di tutti naturalmente ostile all'andazzo francese, era incapace a frenare quegli ammutinamenti di plebe fanatica e sobillata, dove perì Hugon (di cognome e non Ugo di nome) De Basseville, debitore presso noi di celebrità a quel Vincenzo Monti, che si presumè più tardi, con diverso umore e metro, che a quei tempi cambiò più spesso della camicia, di aggiungere fama anche a Napoleone, non accorgendosi e non curando di sminuirla e offuscarla a sè medesimo.
Solo Napoli, entrato oramai con foga nella politica contraria ai suoi interessi, i quali avrebbe potuto invece, approfittando con lealtà degli avvenimenti, migliorare, e alla sua quiete, che avrebbe potuto mantenere non turbata, dichiarò per primo a cuor leggero e spavaldamente la guerra. E contro ai francesi inviò quel famigerato esercito o armento capitanato dall'austriaco Mack, che lo destinava, mi si passi lo scherzo, a tutti gli smacchi, e, spulezzato via da Championnet, dietro al re che, senz'essere Achille, era piè veloce e fuggiva come vento, attrasse la conquista anche nel mezzogiorno.
E coll'entrata di Championnet a Napoli, che il re aveva codardamente abbandonata in faccia alla invasione straniera da lui con temeraria follia provocata, fuggendo di nuovo in furia sui vascelli di Nelson, carichi degli ori, dei gioielli, dei capolavori dei musei, di 73 milioni di ducati munti al suo popolo, si aprì laggiù un'êra delle più incredibili e commoventi vicende, da far sentire, più che forse altre mai, quanto sia erroneo l'andare a cercare emozioni e avventure nei romanzi, quando tutte sono comprese nel romanzo per eccellenza che è la storia.
Tanto vero che Alessandro Dumas nel 1860, venuto a Napoli al seguito di Garibaldi, fece di quella storia, credendo di colorirla, un cattivo romanzo. Ma i nomi di Re Nasone, di Carolina, di Acton, di Lord Hamilton, di Emma Liona, di Nelson, di Speciale, di Guidobaldi, di Fra Diavolo, di Pronio, di Rodio, di Sciarpa, di Mammone, del cardinale Ruffo, del prete Toscani, di Mario Pagano, di Domenico Cirillo, di Manthoné, dell'ammiraglio Caracciolo, del conte di Ruvo, di Eleonora Fonseca-Pimentel, della duchessa San Felice, sono rimasti nella storia, e molti anche nella leggenda popolare, come ricordo di un'epoca straordinariamente avventurosa e sventurata, con un'impronta di grandezza mostruosa o misteriosa nel male e nel bene.
Un'êra che, sebbene consolata anche da esempi di aurea lealtà e di virtù antica, è piena peraltro di tradimenti nefandi, di dolori e supplizi ineffabili, che avranno sedici anni dopo il ferale epilogo giù al Pizzo, nel cuore venale e vipereo di Barbarà e Trentacapilli, nel cuore generoso e ambizioso di Gioachino Murat, rotto, sul fior degli anni, dal piombo borbonico.
Questo, o un altro di quei portentosi generali napoleonici, che cavalcavano superbi e impavidi al fuoco alla testa della vittoria, Michelet chiamò con frase michelangiolesca: Un grand drapeau vivant.
Come si potrebbe invertire la frase per quel re Ferdinando fuggiasco di professione, che scappa sempre, scappa da Roma, scappa e riscapperà da Napoli, sfumerà da per tutto dove fischiano le palle e sventola una fulminata bandiera?
Fosse stato almeno soldato, poichè re di fatto non era lui, ma sua moglie, cui Napoleone, ripetendo un detto di Mirabeau a proposito della sorella Maria Antonietta, chiamò l'unico uomo della corte di Napoli. Invero tra le due figlie di Maria Teresa, come tra i due loro mariti, correvano parecchie somiglianze, e tanto l'imperiosa inframmettenza delle une quanto la debolezza frolla degli altri ebbero non ultima parte nei casi funesti che contristarono i rispettivi regni.
Bensì tra le somiglianze v'erano molte differenze a vantaggio della coppia francese, se non altro quella che dà l'aureola sacra della sventura. E mentre Maria Antonietta scontò le colpe sul patibolo, l'altra, vera e principal causa degli errori e dei pericoli dello Stato, della infelicità della sua casa e del suo popolo, attraverso le fughe fatte a tempo e più caute di quella di Varennes, attraverso gli spergiuri sfrontati e le persecuzioni tiberiane, seppe morir vecchia presso Vienna sopra una poltrona dove la trovarono spenta, colla bocca contorta e gli occhi sbarrati, come se per la prima volta leggessero nel libro del rimorso. E Ferdinando, dal gran dolore che ne provò, poco più di un mese dopo si sposava la principessa di Partanna, che gli aveva consolato l'asilo della Conca d'oro.
Ma la politica di Maria Carolina ebbe a strumenti e suggeritori, complici e indettatori nel tempo stesso, stante la potenza che, per cagioni varie, alcune delle quali non confessabili, esercitarono sull'animo suo, tre personaggi, tutti e tre inglesi, due dei quali in ciò trovarono la loro non invidiabile celebrità, e l'altro appannò la sua, la più fulgida e bella di tutte, perchè eroicamente acquistata a prezzo della vita e in servizio della patria.
Essi furono Acton, Nelson ed Emma Liona divenuta Lady Hamilton, che fu la vera anima dannata della regina, e anche dopo morta non le ha reso un buon servizio. Perocchè si è appunto il carteggio tra loro, conservato nel Museo britannico, che ha distrutto i tentativi di apologia e riabilitazione fatti nel passato da varii scrittori borbonici e più recentemente dall'Ulloa e dal Barone di Helfert, dei cui libri del resto fece ragione da par suo un mio amico, pieno d'ingegno operoso, che ha cercato il ricovero tranquillo agli studi, il secessum scribentis qui a Firenze, voglio dire Giovanni Boglietti.
E poichè di questi personaggi che, colla politica sbagliata, fecero nascere infelicemente una repubblica infelice, e, colla politica insensata e feroce, le dettero modo di divenire gloriosa cadendo, e fatidico esempio alla succedente generazione, è impossibile non tratteggiare in succinto l'indole e la figura, non ho bisogno di dire che in un discorso viene meno la prova dei giudizi e la critica dei documenti. S'intende quelli essere improntati a questi che abbondano e, vagliati a dovere fra attestazioni spesso discordi e partigiane, danno la verità serena e imparziale, che oramai c'è facile di professare. Imperocchè abbiamo almeno dalla libertà ricevuto questo precetto e questo benefizio, di dovere e potere essere imparziali anche con quelli che tentarono strozzarla sul nascere col capestro del manigoldo.
E, insieme ai caratteri dei personaggi, non è possibile non toccare, anche di sfuggita, gli eventi politici che precorsero la repubblica, e che ne coloriscono il significato intimo e i destini.
Coi trattati di Utrekt, di Rastadt, di Vienna e di Acquisgrana, che chiusero il cinquantenne periodo delle guerre di successione, venne meno dopo circa due secoli e mezzo, al nord e al sud la dominazione spagnola; al nord sottentrò l'austriaca, al sud la borbonica.
Carlo Borbone aveva conquistato il trono, non per patti o contratti, ma per vittorie, dovute al valore del suo esercito e dell'eccellente capo, il Duca di Castropignano. I napoletani, dopo secoli di servitù straniera, per la prima volta avevano sparso il sangue per un re che loro promise dinastia domestica, indipendenza dello Stato, conservazione dei privilegi, giustizia, prosperità.
E la promessa fu abbastanza mantenuta. Nei venticinque anni del suo regno lo Stato che più progredì fu appunto il napoletano, cui apparecchiò civiltà nuova il marchese Tanucci casentinese di Stia, venuto al seguito di Carlo dalla Toscana, che aveva dato a Napoli anche Bartolomeo Interi, primo fondatore dell'insegnamento dell'economia pubblica.
Tanucci diventato primo ministro, mentre negli otto lustri di pace fiorivano gl'ingegni, volti così agli studi severi, come alle savie e moderate riforme, secondò queste, salvo che ebbe il torto anch'egli di trascurare la milizia stanziale giusta il suo aforisma: principoni, soldati e cannoni; principini, ville e casini. Ma più che altro mirò a consolidare il potere regio infrenando gli altri due rivali: il feudalismo e la teocrazia. E qui fu la sua gloria e di re Carlo, che gli prestò le orecchie, e di Giannone, Genovesi, Filangeri, Pagano che l'ispirarono e lo sostennero colla potenza dell'ingegno e il vigore degli argomenti e della dottrina.
Una profonda mutazione era incominciata nell'opinione pubblica dal dì che Pietro Giannone diè alla luce la storia civile del regno di Napoli che, se gli ha valso la lode eterna dai posteri, gli tirò addosso allora al solito la furia del popolo aizzato, il rischio della vita, e l'esilio.
Ma, abbandonando la patria, vi lasciava il germe fecondo che doveva fruttificare.
Nello stesso tempo l'abbate Genovesi, uno dei pochi che vagheggiassero l'unione italiana, svegliava le aspirazioni democratiche e precorreva gli enciclopedisti. E Filangeri e Pagano compivano l'opera; il primo celebrando l'antichità ed esaltando le gesta di Grecia e di Roma, e il secondo traendone argomento a pennelleggiare i benefizi e i diritti della libertà politica e personale. Onde anche quivi, colle diversità storiche e nazionali, si andava elaborando la coscienza giacobina delle classi colte mercè i due ingredienti, così argutamente scrutati dal Taine, il progresso scientifico e lo spirito classico.
E intanto i figli della plebe, che gli Spagnuoli avevano, con viva immagine, chiamato loz Lazzaros, i lazzaroni, perchè allampanati e digiuni come lazzari quatriduani, languivano sempre più nella superstizione paziente e nella inedia selvatica. Erano materia da anarchia regia e non da jacquerie come in Francia, erano semenzaio di Fra Diavoli e non di Desmoulins.
Mancando un vero e proprio ceto medio, lo rappresentavano i curiali che, nella depressione dei nobili, acquistavano ingerenza e potenza lamentata dal Colletta e dal Balbo, e, mentre in Francia come suole s'impadronivano delle assemblee colle frasi, qui almeno si gittarono a operare, e seppero morire.
Ma l'analogia con la Francia ricominciava in una cosa che fu sempre cagione precipua e irresistibile delle rivoluzioni (e lo ricordino bene certi odierni spensierati saccomanni del bilancio), voglio dire le condizioni della finanza, la penuria del pubblico erario.
Della quale pur comuni erano le intime cause nella cattiva amministrazione e negli sperperi della Corte.
Carlo I abbellì molto il regno, creando quei monumenti che, se ancora splendono come ricordo di fasto e munificenza per le arti, salvo quelli caduti tra le unghie al Demanio come la Favorita e la reggia di Portici, pure potevano anch'essi dirsi, secondo un famoso epigramma, opere di qualche splendido Segato, essendo sangue di poveri pietrificato.
Mentre le provincie lontane rimanevano senza strade, e poche di queste erano per il pubblico, se ne facevano magnifiche attorno a Napoli per le caccie del re, che al tempo di Ferdinando divennero caccie alle forosette più che ai fagiani o ai cinghiali.
In mezzo a tali condizioni diveniva maggiorenne e assumeva lo scettro Ferdinando che allora si intitolò IV, e nel 1814 in Sicilia III, e nel 1816 quando, spergiurando, lacerò la costituzione, I, sicchè i Napoletani ebbero a dire che, andando di quel passo, tra poco avrebbero avuto sul trono Ferdinando Zero.
Rimasto a nove anni senza genitori passati in Spagna, confidato a una reggenza e all'aio principe di San Nicandro, si mostrava fisicamente e moralmente proprio il contrario di quello che fu più tardi: gracile e cagionevole, mentre poi divenne un toro; bonario e mantenitore della parola, mentre appresso fu barbaro e spergiuro per eccellenza, inaugurando quei metodi, pei quali fino al '60 rimasero tristamente celebri i Borboni di Napoli.
All'uno e all'altro effetto deve aver condotto l'educazione che uccise l'anima a pro' del corpo, ai cui faticosi e piacevoli esercizi fu tutto dedicato. La mente non affatto chiusa e sonnolenta, ma non dirozzata nè coltivata, gli faceva schivare i libri pei quali ebbe sempre un santo orrore, e fuggire la compagnia degli uomini di scienza e di governo, mentre il gusto smanioso dei giuochi allegri e dei ludi e l'impeto di passioni non ingentilite e non imbrigliate, lo traevano a quella di giovani di gusti bassi e di abitudini prave.
Compagno assiduo gli era un fratello di latte, Gennaro Ribelli, futuro bandito della Sila bruzia; da cui apprese a spennare piccioni vivi, e a bastonare il germano primogenito dichiarato, alla partenza del padre, ebete e impotente a regnare.
Grossolano e sensuale, non conobbe gentilezza di affetti nè di costumi. Essenzialmente, fu volgare; proprio la negazione del re in tutto: non soldato, non gentiluomo. Un vero tipo di lazzarone nato per isbaglio e cresciuto nella reggia di Federico II e di Manfredi. Un altro dei re di quei tempi, rampollo alquanto degenere di quella gran stirpe sabauda nell'aspetto e nel contegno de' cui figli, gentiluomini e galantuomini di razza, si è sempre invece sentito il re, Ernesto Masi chiamò parrucca coronata. Questi fu una coppola coronata; il suo diadema, un berretto da cuoco.
Il quale infatti si poneva in testa nel campo di Portici facendo da oste, da pescivendolo, e da pagliaccio tra lazzari e soldati di nome come lui, che perciò lo amavano e lo beffeggiavano insieme; andando in visibilio a far di sua mano frittelle, le zeppole, come diceva, gravide di alici e caciocavallo. Quelle della cucina furono le sole batterie al cui fuoco rimanesse intrepido; e quei cacicavalli gli erano così fissi nella mente e nel cuore (ossia.... non parliamo di cuore!) che gli servirono più tardi, per la loro forma ben nota, a una similitudine, a cui forse non sarebbe arrivato Falaride o Nerone, quando annunziava alla moglie le infami impiccagioni dei patriotti delle isole flegree con questo motto anche più infame: oggi si sono fatti molti cacicavalli!
E a questo triviale e fatuo Sardanapalo, che arrivò ad avere un istante una fantasia di riformatore socialista, nella quale pure anche il Sardanapalo entrava per qualche cosa, fondando la famosa colonia di San Leucio di trenta famiglie di setaiuole cantata dai poeti adulanti e discussa sul serio dagli economisti, fu data in moglie una donna superba e scaltra, sexu fœmina, ingenio vir, un raggio di bellezza dalle chiome bionde, dalla gola di cigno, dagli occhi sfavillanti, dalla sembianza greca o fiamminga.
Maria Carolina aveva ricevuto dalla madre Maria Teresa, per la quale gli Ungheresi tuonarono il famoso giuramento: moriamur pro rege nostro Maria Theresia, insieme a fermezza di propositi e ingegno perspicace, le passioni smodate d'intrigo politico e di esclusiva dominazione. E, oltre a ciò, l'esempio di annullare l'autorità del marito, l'imperatore Francesco pur teneramente amato da lei sposa e madre esemplare, ma ridotto a proletario nel vero senso della parola, perchè le dette sedici figlie, per far qualche cosa d'altro, a fabbricante di panni che vendeva perfino agli eserciti nemici.
Qual meraviglia che Ferdinando divenisse un automa docile e obbediente nelle braccia di una Circe che aveva per dominarlo la duplice magìa della grazia e dell'astuzia, il duplice impero dell'ingegno e della beltà?
Inoltre, operosissima, mentre il marito non scriveva neppure la firma degli atti ufficiali pei quali adoperava una stampiglia, essa fu uno scriba instancabile, e buon per lei che avesse scritto meno, che allora meno e meglio si sarebbe scritto e si scriverebbe di lei. La volontà ebbe dura, l'indole virile, nello stesso tempo che divampava nelle più bollenti e femminili passioni. Ma queste non erano gentili e generose. Si è detto che le passioni hanno ali e non piedi: o strisciano o volano. Lo sue strisciavano! Non erano di quelle che, anche stimolate dai sensi, rapiscono in un oblio soave, addolciscono e incelano l'anima. Questa ella aveva arida; aveva il cervello anche qui dentro! Onde la religione, delle cui pratiche fu osservantissima, prese in lei la forma della superstizione spigolistra; e l'ordine e la tradizione, della pedanteria. Ministri del re dovevano essere i favoriti della regina, ma i suoi disegni dovevano essere i favoriti dei favoriti, pena la disgrazia. E se uno di essi seppe mantenersi a galla, fu perchè con lui il giuoco era da pirata a marinaro.
Quanto ai costumi, si sa che le gettarono in faccia e sopra la lapide tutti gli obbrobri. Napoleone in un famoso proclama, molto imperiale ma poco cavalleresco, la bollò col nome di Fredegonda. Michelet e cento altri le dettero peggior nome, la chiamarono Messalina. E questo è troppo, perchè nessun Giovenale ha potuto narrarla ebbra, sfidando lo scandalo, di brutale lussuria.
Ma è certo che, quando lo stesso Sir Paget, inviato dell'alleata Inghilterra, in un rapporto al governo, la dice donna piena di vizi innumerevoli, e quando parlano tanti irrefutabili fatti e documenti, non si può dipingere come immune da ogni labe. Ma, dato l'esempio quasi generale delle corti di quel secolo che, se fu il secolo delle idee, fu anche il secolo della corruzione e della licenza; la natura fragile e sensibilissima; l'educazione falsa; e sopratutto il sangue viziato della famiglia, tanto che anche l'imperatore Leopoldo, il grande riformatore toscano, morì in due anni di stravizi, rimpetto ai quali erano nulla quelli di Luigi XV e del Parc-au-cerfs, si sarebbe potuta perdonare, e, in ogni modo, dovuta rispettare e risparmiare la donna, se le sue incomposte passioni non avessero inquinata la politica italiana e precipitate le sorti di un popolo sventurato.
Sulle quali invece le donne, appunto per pravi istinti, ebbero tanta e sì sciagurata parte!
Cherchez la femme è, checchè si dica, un gran canone di critica storica e politica. E perciò le donne elevate, pietose, che, invece di avere il cervello qui, abbiano il cuore quassù, sono la più sicura malleveria di bontà per gli uomini e il più prezioso e celeste dono per i popoli.
Ma quella torbida regina almeno non era volgare come suo marito, del quale parlò sempre con affetto e rispetto che, anche come marito, non meritava. E anzi pur l'apparenza dello scandalo e del libertinaggio l'offendeva. Salda e costante negli affetti di madre, ai figli e alle figlie diede un'educazione rigorosamente pura ed onesta.
Da principio erasi anche mostrata giudiziosa, caritatevole, umana, e, come dissi, liberaleggiante. Sorella di sovrani riformatori e filosofi, mostrava di caldeggiare il progresso, di proteggere le scienze e le arti. Onde, mentre Nicolini declamava versi alla sua corte, le dedicavano incenso e poesie quel Luigi Serio che doveva morire in difesa della repubblica al ponte della Maddalena, e quell'Eleonora Fonseca che per la stessa causa doveva pendere dalla forca ignominiosa. Ciò che scavò un abisso fra lei e il suo popolo, che ne fece una tigre sotto l'aspetto di bianca colomba, fu il terrore di Francia e lo scempio della famiglia reale. E questo, in parte, attenua le sue colpe.
Una donna nervosa, a cui l'applicazione al lavoro, la foga degli intrighi e dei piaceri avevano turbata la mente e scossa la salute, che, amantissima della famiglia, sente caduto sotto la mannaia il capo diletto della propria sorella, e perfino straziato un innocente fanciullo; una regina superba, che vede insultati e trascinati al macello i monarchi, merita qualche scusa se concepisce orrore e odio atroce per la rivolta e i suoi complici. Ma non è scusabile che quell'odio sia cieco e ferino, che a sfogare la vendetta adopri il tradimento, quando altri sovrani seppero almeno nella reazione mantener la fede e astenersi dal sangue.
E, in ogni modo, gli errori della sua politica cominciarono prima. Cominciò prima la sostituzione dell'influenza austriaca a quella spagnola, e de' legami artificiali di famiglia a quelli veri e storici degl'interessi dello Stato. Cominciò prima l'abdicazione, nel ritorno da Vienna ove ordì un triplice matrimonio di tre suoi figli con tre figli del fratello imperatore, l'abdicazione ai piedi del Papa della politica del Tanucci che, per sua opera, a malgrado i lunghi e intemerati servigi, era stato levato di seggio, e che ebbe il solo torto, comune ad altri strenui ministri anche recenti, di mostrarsi da principio querulo e scontento della disgrazia. I grandi uomini, quantunque dicano di no, devono trovare molto gusto al potere, se il perderlo li fa dimentichi della propria grandezza in faccia alla storia! Cominciò prima infine il suo favore per il cavaliere Acton, un bell'uomo e una brutta anima, ignobile per private ingordigie e frenetica ambizione, che a poco a poco, da lei spalleggiato, da ministro della marina divenne ministro della guerra, maresciallo di campo, senza avere, come il sovrano, mai visto il fuoco sul campo, e infine una specie di gran cancelliere onnipotente.
Egli era nato a Besançon di famiglia oriunda inglese, ma stabilita in Olanda. Dalla Francia, dove aveva preso servizio nella marina, per dissapori rimasti sempre misteriosi, passò in quella ducale toscana e servì vittoriosamente Carlo III, nel purgare il Mediterraneo dai corsari d'Algeri.
Per questa fama nel '77 fu chiamato a riordinare la marina napoletana, la quale, sebbene il regno fosse bagnato da tre mari, era in condizioni miserevoli. Operoso e avido, vi fece buone riforme con grandi sprechi. Ma, sottile e volonteroso, entrò pian piano nelle grazie della regina, apprezzandone i vezzi, agevolandone col denaro del suo dicastero le prodigalità, e sopratutto secondandone la politica austriaca.
Vero è che questa, come bene osservò uno scrittore che tutto quel periodo ha studiato con grande amore, il Conforti, nel ventennio precedente al 1790, quando l'Austria era riuscita a farsi la Francia alleata e poco meno che soggetta, e la Spagna ridotta impotente, era quasi imposta dalle circostanze. Bisognava solleticare l'Austria per sfuggire alle sue mire sull'Italia.
Le quali peraltro non scemarono per questo, tanto che l'Austria, mostrando di temere più che la rivoluzione francese l'unione italiana, impedì, anche dopo l'arresto di quei monarchi, l'ardito disegno di vigile confederazione a difesa che il Napione aveva suggerito al re di Sardegna, e che fu ripreso, contro alle solite tergiversazioni della decrepita Venezia, dall'Acton, unico atto politicamente elevato della sua dittatura.
La Francia se ne insospettì temendo che Napoli volesse uscire dalla neutralità; che non fu mai sincera, fu una commedia rappresentata per interesse, paura, e impotenza, ma mordendo il freno e aspettando l'occasione. “Neutrales de nom et jamais de sentiment,„ scriveva la regina. La perfidia e la doppiezza furono allora e poi la politica tanto riprovevole quanto vile e stolta di quella corte.
Agli utopisti di tutto il mondo, come Carlo Botta, che era dei loro, chiamava quelli che aspettavano dalla Francia la nuova êra di libertà, apparteneva la parte più dotta e migliore di Napoli, dove nel 700, come in genere in ogni tempo, erasi raccolto, da Vico a Pagano, il fiore dei pensatori, l'avanguardia del progresso intellettuale italiano.
Onde il governo cominciò a sospettare e dimostrarsi cupo e vigile, qualche volta in modo ridicolo, come quando, alcuni giovani nobili facendo le corse dei cavalli da Chiaia ai Bagnoli, Giovanni Acton, che non era un Pindaro, li fece ammonire, perchè, diceva egli, imitavano le corse olimpiche!
Fu istituito un magistrato di polizia con a capo, col nome antico di reggente della Vicaria, Luigi Medici dei principi di Ottaiano, anch'egli oriundo per famiglia di Toscana e discendente da quel Bernardetto dei Medici cugino di Cosimo e di Giulio. Era giovane ardito, scaltro, ambizioso, di maniere attraenti, di bella persona, e perciò assai gradito alla regina, e perciò anche sacrato a sventura, quando l'Acton, che non pativa rivali, ordì più tardi contro lui una iniqua calunnia di tradimento, che lo perdè.
Il reggente, col qual nome il Medici passò nella storia di quel tempo, esercitava anche la polizia politica, ma in seconda riga e sotto l'ingerenza minuta dell'Acton, che pendeva dai cenni della regina; la quale inaugurò l'età dell'oro della spia, di cui diceva essere a torto il nome infame, mentre essa l'inalzò a ordigno precipuo di governo e colonna dello Stato. Le sue dame di palazzo, i suoi amici tutti dovevano essere delatori per lei, e quindi fu giusto compenso se un governo alleato le mise la spia in casa. Questo fu l'inglese che, quando il ministro Pitt levò il vessillo di una generale coalizione contro la Francia, seppe attrarre e annodare indissolubilmente la Corte di Napoli nelle spire della sua politica.
Tale politica potea parere assurda fatta da una nazione libera contro un'altra che levava la bandiera della libertà, per imitare appunto, diceva, le sue istituzioni. Balbo anzi assegna alla rivoluzione francese questo significato, di ripristinamento delle istituzioni rappresentative. Perciò che abbiamo detto da principio, questo suo troppo angusto concetto non può accettarsi, ma comunque l'Inghilterra sapeva che le teoriche astratte senza contenuto storico e le forme parlamentari senza le relative istituzioni civili sono proprio la negazione della libertà inglese, come ne sarebbe stata la negazione una politica non consentanea agli interessi nazionali e nelle colonie e nel Mediterraneo.
Alla regina e ad Acton non parve vero veder partecipato da una sì grande potenza il loro odio, e inoltre, a renderli proni strumenti della politica inglese, ebbero gran parte due personaggi che l'avranno grandissima sullo scioglimento finale del dramma, l'ambasciatore inglese Sir Guglielmo Hamilton e sua moglie.
Egli era un ricco signore d'antica stirpe scozzese e fratello di latte del re Giorgio IV. Artista e studioso, epicureo e dotto, (due cose che non fanno a pugni, tutt'altro!) contemplava la bellezza morta negli ipogei, di fresco risuscitati al sole, di Pompei e di Ercolano, e non era insensibile a quella viva e palpitante. A Napoli, ove rimase 26 anni, ora assai stimato e ben voluto. Ebbe gran dispiacere quando seppe che un suo nipote, Carlo Grewille del Foreign-Office, discendente del gran Warwick le faiseur de rois, aveva dato fondo al patrimonio paterno per una donna di malaffare, Emma Lyon, nata da poveri lavoratori di campagna, poi a volta a volta bambinaia, cameriera, donna di servizio in una taverna, modella, che aveva già rovinato alcuni altri e che egli aveva ricevuto dalle braccia del ciarlatano dottor Graham. Questo Cagliostro inglese, che si diceva inventore della Megalantropogenesia ossia dell'arte di procreare grandi uomini, faceva conferenze magiche al teatro Adelfo di Londra sulla salute e sulla bellezza, valendosi a dimostrazione viva e parlante di Emma, con un metodo che Frine sperimentò buono e valevole anche coi giudici dell'antica Grecia.
Grewille voleva sposarla, e lo zio si opponeva per orgoglio di razza e sentimento di onore, finchè, quando l'ebbe veduta, ne fu talmente arso e soggiogato, che pensò bene di sposarla per sè, pagando in cambio al nipote i debiti, che non erano pochi. E così, a prezzo di un vergognoso mercato, nell'autunno del 1791 Emma Liona, di appena trent'anni, divenne moglie dell'ambasciatore che ne aveva 68. Lady Hamilton, non ricevuta dalla corte di Londra, potè farsi presentare a quella di Napoli per interposizione di Pitt che ne fece la propria spia, una spia di cartello, per la quale potè perfino avere le lettere originali del re di Spagna al fratello Ferdinando contro l'imperatore, onde nacque il bombardamento di Cadice e la battaglia del Capo San Vincenzo. In breve tra lei e la regina si strinse una estrema confidente intimità, che la fe' divenire il più abile e sicuro strumento di influenza e comunicazione tra la corte e l'ambasciatore prima, tra la corte e l'ammiraglio Nelson poi.
Questi approdò a Napoli la prima volta nel settembre del '93, poco dopo pattuita l'alleanza coll'Inghilterra, a recar notizia della presa di Tolone, e a chiedere, per tenerla, pronto rinforzo di soldati napoletani. Non era ancora ammiraglio ma semplice capitano della nave Agamennone; aveva uno splendido stato di servizio attestato da un occhio perduto e da molte cicatrici; e nutriva per la Francia un odio punico ereditato, egli diceva, dalla madre. Giovane di 35 anni, marito ad una creola vedova con un figlio, piccolo, smilzo, dall'aria di un ragazzo goffo, giallo di febbre coloniale, ma tempra indomita, squisitamente sensibile, occhi ardenti, cuore avvampante ai due amori che scaldano tutte le anime grandi: la donna e la gloria. Ospite di Lord Hamilton fu subito preso di Emma, ammaliante ognuno, non solo per la divina figura che il primo colorista del tempo, il pittore Romney, diceva “la cosa più bella uscita dalle mani della natura,„ e la celebre pittrice Brun “figura staccata dal sarcofago del Belvedere,„ ma non meno per il tono della voce soave nel canto, per le maniere eleganti e seducenti che le aveva procurato a forza di lunga educazione e di grandi spese il povero Grewille. Il fascino della nuova Cleopatra, della sirena del golfo, il cui incanto era stato tante volte messo all'incanto, non abbandonerà più il dominatore dei mari, e per lei sarà l'ultima parola del suo testamento, dove la raccomanderà come sacro legato all'Inghilterra; per lei l'ultimo pensiero sulla tolda della nave vittoriosa a Trafalgar!
Ma ora il dovere lo chiamava altrove, al Capo San Vincenzo, a Teneriffa dove perderà il braccio destro, e infine a dar la caccia pel disputato Mediterraneo a Bonaparte. E intanto la Francia, che non avrebbe avuto nè volontà nè interesse di attaccare Napoli, stanca dalle mene e finzioni di una corte che non sapeva nè far la guerra nè vender la pace, inviava il naviglio del Truguet a imporre la rottura delle relazioni coll'Inghilterra e la neutralità. Tutto fu promesso in fretta e furia per viltà, e i rappresentanti francesi Mackau e Latouche colsero l'occasione dello sbarco per accontarsi col partito liberale che cominciava arditamente a organizzarsi e manifestarsi.
Quel partito, il cui vessillo onorato era tenuto in alto da Mario Pagano, si faceva adulto specialmente per l'esosa persecuzione, e cominciava a pensare alla rivoluzione e alla repubblica, senza badare all'abbrutimento in cui giaceva il popolo. Nei clubs e nell'accademia dei Filomati, che raccoglievano il fiore dei patriotti, come allora presero a chiamarsi, per la prima volta si palesarono fra gli altri Eleonora Fonseca Pimentel, e Ettore Carafa conte di Ruvo. La massoneria lavorava segretamente. Nel '700 si ebbe un ricorso dello spirito di misticismo, e fu il secolo dei Weishaupt, dei Mesmer, dei Cagliostro, degli Svedemborg. Così nei primi anni surse in Inghilterra la massoneria e di là penetrò in Francia, Germania, Italia. Parecchi sovrani vi appartennero. Il governo napoletano da principio la sbandì, ma poi nelle lotte con Roma ne affievolì la persecuzione. Da ultimo ne avea rinverdito il culto un abbate (oggi parrebbe impossibile!), l'abbate Jerocades che fu in pari tempo una specie di Metastasio, di poeta cesareo, poichè la regina, iniziata ai misteri massonici per trarne profitto, l'invitò a corte. Ma più tardi lo mandò a gemere nelle segrete dei Granili, dove lo trovò lo storico Colletta.
Avvenuta la morte di Luigi XVI, fu risoluta apertamente all'estero la guerra e all'interno il terrore regio colla terribile classificazione di fedeli e di reprobi, e colla creazione d'una nefanda e sanguinosa giunta di Stato. E per la prima volta si mormorarono a spavento e ribrezzo i nomi di Castelcicala, di Vanni, di Guidobaldi, di Giaquinto, e a orrore e pietà quello di un povero pazzo attanagliato, Tommaso Amato, e di tre innocenti, colpevoli solo di speranze e d'opinioni, Vincenzo Giuliani, Vincenzo Vitaliani, Emanuele Dedeo, la cui memoria non morrà sopra quella terra che uno di essi baciò prima di salire il patibolo.
Dal giorno dello sfratto dato al Mackau e della rottura colla Francia cominciò un periodo che sempre più confermò la cecità e la brutalità della corte. Mentre pur la milizia faceva buona prova di sè a Tolone, dove per la prima volta si rivelò Bonaparte, che indi a poco doveva rendere in eterno memorabile l'anno 1796 per i suoi incomparabili prodigi; mentre la marina teneva alta la bandiera della patria allato alla flotta inglese principalmente per virtù di quel Caracciolo che tra non molto doveva pendere dall'albero di una delle proprie navi, vittima augusta; e mentre più onore di tutti si faceva la diplomazia napoletana specialmente per opera del principe di Belmonte e del marchese di Gallo, ministro a Vienna, che dette tali prove di sagacia e abilità da meritargli un posto cospicuo nella storia invidiata degli ambasciatori italiani. A prova della sua sapienza civile, che pareggiava l'abilità diplomatica, valga questo aneddoto. Quando ebbe letto l'elenco dei prigionieri per cospirazione, ridendone, disse al Re: “se sono giacobini, mandateli a viaggiare in Francia, torneranno realisti.„
Se l'avessero ascoltato, i suoi avvertimenti avrebbero dato sicurezza al regno in mezzo a quell'imperversare di eventi. Ma il governo era sordo, fremeva sempre la guerra pur giocando, secondo le occasioni e le necessità, d'astuzia e di malafede, e pur avendo colla pace del '96 ripromesso la neutralità. Abbandonò perfino l'Austria dopo le disfatte di Wurmser, e tradì il Papa che dovè subire il trattato di Tolentino.
Questi si era affidato all'Austria e a Napoli, ma l'una voleva Ferrara, l'altro qualche cos'altro; e così i due governi che dal 1792 al 1796 s'erano intitolati i difensori della Santa Sede, non miravano che alle proprie ambizioni e ai propri interessi. Non è da tutti e non era certo da loro combattere per un'idea o una bandiera!
Avvenuto il fatto di Basseville a Roma, da un lato il popolo napoletano faceva un manifesto di fedeltà al re e di guerra ai francesi (strano all'indomani di pace e di fermata neutralità), e dall'altro Mackau, ministro di Francia a Napoli, proponeva al re una spedizione contro lo Stato romano da compensarsi con parte del territorio pontificio.
E invero doveva sorridere alla repubblica di debellare il trono papale colle armi di un borbone, e trascinare la sorella di Maria Antonietta e suocera dell'imperatore d'Austria in una alleanza colla Francia.
E il re, se avesse potuto prendere parte alle spoglie del Papa, si sarebbe accomodato anche alla spedizione, ma i maneggi dell'ambasciatore Giuseppe Bonaparte e l'uccisione del generale Duphot precipitarono gli eventi, e poco dopo Berthier proclamò in Campidoglio la Repubblica romana. Tanto poco occorse a distruggere un vecchio governo teocratico tra l'indifferenza generale, che era forse il maggior sintomo della rivoluzione compiutasi negli animi!
Questa repubblica alle porte del regno e la presa di Malta inasprirono all'ultimo grado la regina che a sua volta, in offesa della neutralità, concesse a Lady Hamilton di far rifornire a Siracusa i vascelli di Nelson, rendendo così possibile la strepitosa vittoria di Abukir.
La corte ne andò in visibilio, richiamò a sè con tutti i lenocini di Emma il trionfatore. Questi, ringraziando Lady Hamilton di aver messo a sua disposizione la fonte d'Aretusa, le aveva scritto di voler tornare o coronato d'alloro o coperto di cipresso. O l'alloro o il cipresso, in questo dilemma è il segreto non solo dei trionfi militari, ma di ogni vittoria morale. Ora esitava; un chiaroveggente presentimento lo tratteneva; ma le parole della sirena furono tali che non seppe resistere, e il vincitore d'Abukir venne a Napoli a essere vinto da una donna, la quale del prode
Che tronca fe' la trionfata nave
Del maggior pino e si scavò la bara
fece un carnefice erotico, sempre senza paura, ma non più senza macchia.
Quando la regina fu oramai sicura di avere incatenato Nelson al suo carro, credè giunta l'occasione, gettò la maschera, e fece partire il ministro di Francia, il regicida Garat, stringendo alleanza anche colla Russia, e volendo assolutamente la guerra, che fu decisa in un consiglio da cui venne escluso il marchese di Gallo che seguitava nella sua politica onesta, seria e accorta, e leggeva nel futuro.
Il 24 novembre 1798 Mack si mosse alla testa di un esercito raccogliticcio dove eransi arruolati anche i forzati, e obbligato Championnet, che comandava Roma, per la sproporzione delle forze a momentaneamente ritirarsi, Ferdinando v'entrò suscitando da una parte e dall'altra vendette e rappresaglie feroci. Pare che la presenza di quel re plebeo bastasse a eccitare dovunque la plebe. Del resto anche quella che aveva lasciato dietro a Napoli, sobbillata in ogni modo, sempre più ribolliva contro i patriotti, che a loro volta s'invelenivano e s'accendevano di speranza all'udire a mano a mano il sorgere delle repubbliche Cispadana, Cisalpina, Ligure, Romana, all'udire i miracoli di Bonaparte e l'appressarsi delle armi, che oramai per loro erano davvero, non in senso filosofico, ma in senso politico e materiale, liberatrici.
Le province giacenti in preda al brigantaggio; la miseria e la penuria dovunque resa più acerba dalle continue imposizioni a scopo di guerra e dallo sfrontato sfarzo della corte, arrivato al colmo nelle feste pel matrimonio dell'erede del trono con un vago giglio del nord, che doveva in breve tra le procelle di quegli anni infelici sfiorire laggiù all'ombra dei palmizi palermitani; tutti i posti lucrosi accaparrati da avventurieri d'oltre alpe senza fede e senza ingegno; il merito nazionale disprezzato sempre, spesso perseguitato. E quando era rimandato il sotto ufficiale istruttore Augerau più tardi maresciallo di Francia, si metteva a capo dell'esercito Mack, il Mack del tradimento di Dumourier e della capitolazione d'Ulma, uno di quei secentisti della guerra, come il Balbo li chiama, condannati a perder sempre dinanzi alla nuova tattica scoperta dal genio di Bonaparte, e attuata dal cuore dei suoi generali e soldati.
E il Mack perdè, e dopo quella campagna che fece ridere tutta l'Europa, perchè il re di Napoli in poco più di un mese trovò modo di conquistare un nuovo regno e di riperderlo aggiungendovi il suo, i Francesi non incontrarono più alcun ostacolo al dominio pieno della penisola.
Appena due settimane erano trascorse da che Carlo Emanuele IV aveva abbandonato la reggia di Torino per la Sardegna, quando Ferdinando IV sul Vanguard, nave ammiraglia di Nelson, morso durante la traversata tempestosissima d'invidia per Caracciolo che lo scortava con grande bravura, fuggiva da Napoli per la Sicilia perdendo nel viaggio il figlio terzogenito. Pari ambedue i sovrani nella sventura e nell'inettitudine, ma troppo diversi di tempra morale.
Così, per singolar congiuntura, i due maggiori principi d'Italia, cacciati quasi contemporaneamente dai loro stati di terraferma per l'invasione delle armi francesi e delle teoriche democratiche, trovavano rifugio sicuro nelle due isole che sole avevano serbato le ultime reliquie delle assemblee politiche medioevali.
I Siciliani, malgrado avessero gravi ragioni di malumore contro il governo napoletano violatore delle vetuste franchigie, quando videro nel loro seno il re affranto e la regina piangente, si commossero, e riebbero le franchigie che la viltà allora ridiede e l'impenitente e ingrata perfidia tornò più tardi a violare.
Ferdinando a Palermo tornò subito alla vita allegra a malgrado il proclama da lui lanciato come freccia del parto, che aveva bandito un nuovo genere di anarchia, forse laggiù solo possibile e solo colle condizioni di quel regno spiegabile, al cui appello si sollevavano le bande degli Abruzzi cominciando una lotta feroce contro gli invasori, lotta che durerà per tutto il tempo della repubblica con spaventevoli esempi da una parte e dall'altra, che dal sacco di Isernia a quello di Andria e di Altamura gelano l'anima di raccapriccio.
Il brigantaggio politico è un sistema borbonico inventato allora e che ha costato sangue fino ai tempi nostri.
Alle gesta inaudite delle bande nelle province, rispondeva il sollevamento dei lazzaroni dentro la città, onde la venuta dei Francesi oramai era desiderata da tutti i buoni, non per il concetto giacobino o repubblicano ma per salvezza dallo sbrigliato furore della plebe. E malgrado che i patriotti si fossero impadroniti di Sant'Elmo, d'onde fuggì il vicario generale Pignatelli, Championnet dovè lottare corpo a corpo in due giornate terribili, dove essi e i soldati si comportarono da eroi.
Questo prova maggiormente quanto fosse stolta, non necessaria, e codarda la fuga del re, che fu davvero il primo inconscio repubblicano, perchè, come dice Coco, fece egli nascere la libertà quando meno si sperava.
Il 23 gennaio 1799, un decreto reso a nome della Repubblica francese dichiarava lo Stato di Napoli eretto in repubblica indipendente chiamata Partenopea, come un manifesto di Championnet prometteva chiamare l'esercito armata di Napoli, e altre cose che i fatti posteriori crudelmente smentirono. Intanto una taglia da lui messa per spese di guerra fu il primo segno del malumore, stillato in mezzo alle feste e attorno l'albero della libertà! Mario Pagano dal governo provvisorio ebbe ufficio di fare la costituzione, non arrivata, come nelle altre brevi repubbliche d'allora, ad essere attuata, altro essendo scrivere una costituzione come un bel componimento, altro fondare sul serio e durevolmente un nuovo ordine politico. Vincenzo Monti gonfiò per la repubblica Partenopea l'inno “chi è quel vile che vinto s'invola?„ musicato da Paisiello. Eleonora Fonseca Pimentel, letterata, poetessa, e con attitudini di giornalista nel senso moderno della parola, fondò il Monitore, il primo giornale che abbia avuto Napoli, rimasto anche oggi curioso e precipuo documento di quei tempi travagliati. Uscì la prima volta il 2 febbraio e l'ultima il 13 giugno quando cadeva la sorte dell'infelice repubblica che, inaugurata con tali auspici, ebbe nobili propositi, brevi vicende, e, dopo aspra lotta, fine eroica e fatidica.
Il passaggio dal governo dispotico al governo libero fu l'opera di un giorno, e i governi non s'improvvisano; onde, malgrado il nuovo entusiasmo ufficiale, le moltitudini rimanevano incredule e diffidenti. I 25 cittadini scelti avvedutamente da Championnet a governare, erano, per intelletto e virtù, il fiore della nazione. Ma imbevuti delle massime delle repubbliche antiche non avevano pratica di affari nè sentimento della realtà moderna.
Innamorati del loro ideale, credevano in buona fede di poterlo trasfondere colle belle parole e la bontà dei propositi nel popolo abbrutito, e fondare una specie di repubblica platonica in mezzo ai selvaggi.
Ma inchiniamoci riverenti innanzi a questo partito degli arcadi, perchè fu anche il partito dei morti!
Carlo Colletta nel 1863 pubblicò la raccolta degli atti ufficiali della repubblica datati col nuovo calendario francese, compiuta recentemente dal Conforti, e quivi appare l'opera legislativa e amministrativa del Direttorio napoletano, improntata certo a sollecitudine del pubblico bene, a larghi concetti di riforme che vissero e morirono sulla carta.
Le province rimasero sorde agli emissari del governo provvisorio, sicchè la repubblica potè dirsi ristretta alla sola capitale mentre, per opera principalmente del clero e della plebe, di fuori imperversava per ogni dove la controrivoluzione al grido di guerra ai nobili e ai ricchi, nei quali soli la regina vedeva i giacobini. Una strana guerra sociale dei poveri contro i signori in nome del re e della fede!
La santa fede fu oramai il segnacolo in vessillo e il nome del partito regio che, calunniando d'ateismo la repubblica, accaparrò a sè la gran forza delle credenze popolari e del fanatismo religioso.
Da ciò si scorge quale peculiare indole, ben diversa da quella di Francia, avesse quivi la improvvisata e importata repubblica, sogno di poeti idealisti virtuosi contro uno sterminato numero di pervertiti. E il pervertimento venuto a galla nudo, come suole in quei sobbollimenti, sorpassa e sgomenta qualunque immaginazione.
Nelle Puglie l'insurrezione (parola che, invece che alla rivoluzione, qui si addice al suo contrario) ebbe per capi quattro traditori corsi, De Cesare, Boccheciampe, Corbara, Colonna, che, per meglio trascinare la gente, si finsero uno principe ereditario e gli altri aiutanti e cortigiani; e l'episodio è un gustoso romanzetto, a cui prese parte anche una sorella della regina di Francia che passava per Sicilia. La Terra di Lavoro era occupata da Michele Pezza detto Fra Diavolo, un brigante feroce, le cui avventure strane, dal convento alla selva e al campo di battaglia, furono al solito alterate nel romanzo di Dumas e nel dramma di Scribe.
Vera belva era il mugnaio Gaetano Mammone che beveva il sangue delle vittime in un cranio, mentre negli Abruzzi gli altri due capi banda Pronio e marchese Rodio, antropofagi, ne mangiavano la carne.
E a tali mostri re Ferdinando scriveva: mio generale, mio colonnello e mio amico!
A domarli la repubblica, dopo un sonoro proclama naturalmente rimasto inascoltato, spedì, ma invano, generali ed armati. Sopra la Puglia marciarono i legionari di Ettore Carafa conte di Ruvo che con altrettanta crudeltà (perchè parve un'epoca di rinascimento della barbarie!) fe' dare un sacco spietato alla propria patria Andria, e ridurre il proprio feudo coll'incendio un mucchio di cenere.
Tale gesta naturalmente ha dato luogo e tuttavia dà ai giudizi più disparati, chi esaltando nel conte di Ruvo un uomo di Plutarco, un Bruto novello, chi vedendo in lui una furia da libidine e da preda, il Fra Diavolo e il Mammone della repubblica.
La critica ha stabilito oramai che egli non fu nè l'una cosa nè l'altra, che fu un repubblicano fanatico e un soldato d'istinti generosi ma fieri, che trascese per domare un'accanita resistenza.
E mentre nelle province ferveva la spietata guerra civile, il Direttorio aveva da guardarsi in città dalle cospirazioni messe in luce dall'episodio non meno drammatico della San Felice e dei Baccher. Questi erano d'origine svizzera, banchieri accaniti sanfedisti, ed erano entrati in una congiura d'intesa colla squadra britannica per la quale dovevano contrassegnarsi le case da colpire dando ai fedeli una carta di riconoscimento. Uno di essi, innamorato della duchessa San Felice, la fe' consapevole della congiura che essa a sua volta rivelò a un repubblicano che a lei stava più sul cuore, e questi la fe' palese al governo, producendo la prigionia dei Baccher.
Ogni episodio, può dirsi, di quella breve epoca ha dato luogo a studi, libri, polemiche infinite. Figuriamoci questo! Dumas, della San Felice, semplice comparsa nel gran dramma, fa l'eroina principale della rivoluzione napoletana; mentre invece, tutto considerato, può dirsi che la sua memoria non andrebbe scevra da ogni macchia, se non l'avesse lavata il sangue che anche da lei volle uno spietato carnefice del suo sesso.
E intanto la Francia, in luogo di aiutare la repubblica sua creatura, mandava a spogliarla meglio l'intendente Faipoult. Championnet, che era insieme uomo onesto e generale e statista avveduto, mentre stracciava i decreti che rendevano la libertà un'arpia, proponeva una spedizione contro la Sicilia per colpire al cuore la monarchia e troncarne le mene. Per tutta risposta, il Direttorio di Parigi, il cui ministro degli affari esteri, si badi bene, chiamavasi Talleyrand, gli ordinò di cedere il comando a Macdonald. E poco dopo, la Francia, declinando alquanto le sue fortune in Europa, si ritirava del tutto, aggiungendo nel proclama di congedo la spudorata ironia, che i popoli liberi non devono aver bisogno dell'appoggio delle armi straniere!
Partiti i Francesi, la repubblica fu davvero indipendente, ed i suoi capi non si smarrirono, fecero appello alla concordia generale, mitigarono i pesi, composero alla meglio un esercito di difesa, affidandone il comando al generale Gabriele Manthoné.
Ma intanto ben diverso e strano esercito la regina aveva da Palermo spedito alla riconquista di Napoli, capitanato, in qualità di Vicario generale del regno, da un cardinale vestito di porpora, che aveva per colonnelli quei feroci capi banda che a lui si rannodavano da ogni parte. Chi avesse detto che, poco più di mezzo secolo dopo, quelle medesime spiaggie Calabre avrebbero veduto ugualmente sbarcare da Palermo un ben altro fatato capitano, vestito anch'egli di rosso, ugualmente volto alla conquista di Napoli, ma seguìto dal fiore della gioventù italiana dietro al vessillo tricolore, in nome del più leale dei re, del primo re d'Italia, che dovea passar per sempre la spugna sui vizi e gli spergiuri borbonici?
Il cardinale Ruffo, a cui l'Acton aveva fatto affidare la scabrosissima impresa per la solita rivalità, credendo di perderlo, era invece carattere indomito e animo pronto, un misto anch'egli di male e di bene. E se a Napoli fu forse l'unico dei borbonici che fece prova di mitezza e di lealtà, la sua marcia per arrivarvi è bruttata da indelebili macchie di sangue. Checchè anche qui abbiano voluto commentare i critici e gli apologisti, le stragi e i saccheggi di Cotrone, di Tito, di Altamura, specialmente per un cardinale, gridano vendetta al cospetto di Dio.
Vero è che questo non c'entrava, perchè dopo la carneficina, Ruffo assolveva i peccati, e tirava innanzi.
In mare l'ammiraglio Caracciolo, che mal corrisposto a Palermo dal re, e avutane volontaria licenza, s'era forzatamente ascritto al servizio della repubblica, cercava di guardarla il meglio possibile. Ma mentre Suwarow, il famoso generale dello tzar Paolo I, dava a Nelson, obliatosi nelle lascivie di Palermo, la famosa staffilata: Palermo non è Citera; questi, per provare al burbero russo di non aver bisogno di lui, aveva fatto prendere le isole di Ischia e di Procida dal capitano Toubrig; feroce anch'egli (perchè la ferocia dovè aleggiare forse in quell'anno nell'aria imbalsamata!) e a cui poi la regina avea mandato per degno strumento il giudice Speciale che scrisse, nelle isole Flegree, la prima pagina del santo martirologio.
Ma intanto, superati col ferro e fuoco tutti gli ostacoli, il cardinale arrivava, e risolveva di dar l'assalto alla città il giorno del suo patrono Sant'Antonio, il 13 giugno.
Giornata gloriosa! La resa al ponte della Maddalena fu illustrata dal celebre episodio di Vigliena, tanto anch'esso discusso, ma, per la critica specialmente del Turiello e del Pometti, chiarito ormai abbastanza, dove un prete, Toscani, imitando le gesta eroiche di Micca, fece sì che 300 calabresi si seppellissero, sotto le rovine, piuttosto che arrendersi.
Anche i cattolici si dividevano in due campi, e tra il cardinale Zurlo arcivescovo di Napoli ed il cardinale Ruffo vi fu uno scambio di scomuniche. E mentre la spada della Francia avrebbe potuto e dovuto far traboccar la bilancia, l'ultimo avanzo dei Francesi rimasto, il Mejean comandante di Sant'Elmo, si vendè proditoriamente al nemico. Altro fatto in mille modi controverso, ma dai documenti posto fuori di discussione.
Il cardinale, divenuto a un tratto mite, o per umanità o per scaltrezza, credendo doversi rifondare il trono stabilmente sulla clemenza e sul perdono, propose egli per primo una onorevole capitolazione. I repubblicani, che consideravano la loro causa come perduta, salvo Manthoné, entrarono in trattative che approdarono alla resa dei castelli Nuovo e dell'Uovo, pattuita onorevolmente la salvezza delle vite e delle sostanze dei repubblicani. Tali patti furono sottoscritti da tutti i rappresentanti stranieri, compreso il comandante inglese.
Ma la regina, dal suo covo di Palermo, spiava e vegliava. Le trattative del cardinale Ruffo la misero fuori di sè e mulinò subito d'impedirle o rinnegarle. La politica di Maria Carolina domina in tutte le fasi di quest'epoca: prima contro Tanucci, poi contro Gallo, ora contro Ruffo. Essa pensava la monarchia francese essere caduta per debolezza; non voleva pattuire ma debellare, non perdono ma vendetta; i repubblicani seppelliti colla repubblica.
Nelson assunse sopra di sè l'impresa e corse a Napoli avendo a bordo la sua trista egeria Lady Hamilton, a cui la regina avea dato le segrete istruzioni spietate per i ribelli.
All'alba del 24 giugno la flotta di Nelson apparve all'altezza di Capri. Il cardinale che era al ponte della Maddalena offrì ai patriotti, chiusa oramai la via di mare, di scampare dalla parte di terra. Essi stettero fermi al loro posto, fedeli alla parola data, confidenti nella parola ricevuta. Esempio eroico! Il modo comodo e tutelare dello spergiuro e della fuga non era il loro! Basterebbe questa eterna lezione di confronto che, a repentaglio della vita, ponevano ai posteri, per render non inutile ai destini d'Italia quell'êra breve e sciagurata.
E se in quei sei mesi saranno stati platonici, ora furono plutarchiani, se avranno commesso errori, non commisero colpe, salvo forse la fucilazione (colpa perchè crudeltà inutile) dei Baccher fatta a Castelnuovo al momento che le ore della Repubblica erano contate.
Furono vane tutte le preghiere, le ragioni, le ammonizioni del cardinale Ruffo, i cui colloqui con Nelson vennero da Lady Hamilton, che serviva da interprete, e li falsava ai suoi fini, bruscamente troncati. L'eroe di Abukir si era smarrito sventuratamente a Citera! Solo accettò di mandare alla regina la capitolazione. La risposta, che non si fece attendere, diretta a Lady Hamilton, riboccante di frasi affettuose e carezzevoli per lei e per Nelson e di fremiti da sciacallo per i miseri e ingenui repubblicani, fa ribrezzo e raccapriccio. Era accompagnata da una copia di decreto del re che cassava la capitolazione, istituiva una Giunta di Stato che condannasse a morte i capi del moto, i subalterni alla prigione e all'esilio, tutti alla confisca dei beni. La procedura doveva essere segreta e rapida; ristabilita la tortura; soppressa la difesa; accettati come testimoni le spie. Le istruzioni erano di condannare a morte chiunque avesse accettato la repubblica od opinato per lei. Il che significava far morire almeno 40 mila napoletani! La regina vi aggiunse la sua lista di proscrizione impinguata de' suoi nemici personali, e per la Giunta di Stato, in luogo di uomini proposti con accorgimento e probità dal Ruffo, e che si dichiararono pel rispetto della pace convenuta, impose i suoi tutti siciliani scelti fra coloro che avevano fatto miglior prova di lasciva crudeltà come Speciale, o d'imperturbabile ferocia come Damiani e Guidobaldi. E non dimenticò il carnefice, che per ironia si chiamava Paradiso!
Qui naturalmente tra gli storici e i polemisti la disputa delle dispute; la violazione della capitolazione ebbe luogo per ordine della regina e del re o per spontanea volontà di Nelson? Storcendo i racconti e stiracchiando le date si è da Ulloa, dallo Helfert e da altri, tentato fare invalere questa seconda opinione. Ma i documenti del museo britannico, il carteggio della regina con Emma che, ripeto, è nefando, e pare impossibile sia corso fra due donne, ha tolto ogni dubbio su questo punto. E, in ogni modo, bisognava sempre considerare due cose: prima, Nelson non era padrone della sua volontà e del suo animo, altrimenti la voce dell'onore e l'immagine della patria e della posterità gli avrebbero impedito di sputar sangue così sopra la sua gloria! Sicchè, anche quando l'azione sua fosse parsa spontanea, in fondo sarebbe stata sempre d'altri, di quella orribile coppia femminile che gl'infondeva l'inconscia suggestione.
In secondo luogo, mentre il cardinale Ruffo, il riconquistatore del regno, cadde in disgrazia solo per la capitolazione e i consigli, Nelson fu creato Duca di Bronte con 75 mila ducati annui trasmissibili agli eredi, che per altro nè egli nè gli eredi videro mai.
Vuol dire che egli avrebbe potuto non secondare e secondò, non obbedire e obbedì, superando nell'obbedienza la slealtà e l'inumanità del comando.
Ai martiri delle isole Flegree andò per primo a far compagnia il vecchio ammiraglio Caracciolo penzolante dall'albero della Minerva, spettacolo a Lady Hamilton che girava attorno in una lancia, e poi gettato in mare.
In breve seguirono tutti. La storia della Giunta di Stato è rimasta oscura perchè tutti quei processi vennero più tardi distrutti per ordine del re che pare cominciasse a sentire, non la paura del cielo, non il rimorso della coscienza, ma il timore della storia.
Alla gran vendetta, di cui la regina mostra nelle sue lettere un'ansietà quasi delirante, il re, chiamato da Nelson, che voleva colla sua presenza dividere almeno l'obbrobrio, venne ad assistere da vicino; mentre Maria Carolina, che si sapeva odiata come unica cagione della politica funesta che aveva condotto il regno a tali estremi e tali miserie, rimase a Palermo. Dove il re stesso non tardò a raggiungerla per la nostalgia della vita allegra che non potea fare a bordo, e per uno spavento che gli successe. Un giorno, stando in coperta, scorse una figura umana quasi dritta sull'onde, come fantasma galleggiante venire al suo vascello, e riconobbe l'ammiraglio Caracciolo. “Che vuole questo morto?„ esclamò con voce fremente nella strozza rabbrividendo di sgomento e di orrore. Uno degli astanti rispose, “credo che chieda sepoltura cristiana„ “L'avrà!„ E così al povero Caracciolo, gittato in mare con 250 libbre di peso ai piedi, e che aveva implorato a Nelson sepoltura nelle viscere del suolo natale, la rivendicarono le forze della natura, creatrici di questo aneddoto pietoso che pare un racconto di fate, mentre testimoni oculari lo propagarono, documenti sicuri l'hanno confermato.
A malgrado la distruzione dei processi, l'ecatombe, dove fu reciso il fiore dell'intelligenza e della virtù napoletana, venne ricostruita per documenti amorosamente ricercati da molti e specialmente dal D'Ayala e da ultimo, perfino negli archivi della confraternita dei Bianchi della giustizia, dal mio caro amico e collega Giustino Fortunato.
L'elenco di quei traditi, primi martiri del risorgimento italiano, che la libertà per cui combatterono onorarono anche in morte; non ribelli, perchè il re era fuggito; non vinti, perchè guarentiti dalla capitolazione e dalla pace, comprende novantanove nomi per i capi, migliaia essendo stati gli assassinati nelle prigioni e nei forti senz'ombra di processo. Diciotto principi o duchi; due dame, Eleonora Fonseca Pimentel, e Luigia Molines San Felice, a cui il dubbio della gestazione non risparmiò, anzi rese più dolorosa, la morte procrastinata per lungo tempo in mezzo a traversie e sevizie inaudite; quindici ricchi possidenti; quattordici generali; tre vescovi; undici preti; undici avvocati; otto letterati e professori; due magistrati; due studenti; un notaio. Morirono tutti intrepidamente; e il mondo conosce l'eroismo antico degli ultimi momenti di Manthoné, di Velasco, del conte di Ruvo, di Domenico Cirillo, di Mario Pagano.
Colla repubblica erano seppelliti anche i repubblicani; e delle loro sostanze si premiarono con pensioni, titoli, gradi di maresciallo e di barone i Toubridg, i De Cesare, gli Sciarpa, i Panedigrano, i Fra Diavoli!
Ma l'espiazione, specialmente per la nefasta Hamilton, doveva venir presto! Tornata in Inghilterra con Nelson, che le chiese e ne ebbe (felice degnazione) licenza di rispondere all'appello della patria, per la quale morì a Trafalgar, annientando la potenza navale della Francia; diseredata nel testamento da Lord Hamilton; respinta dall'Inghilterra come legato troppo vergognoso del testamento di Nelson; destituita di soccorsi invano implorati perfino da quella ingrata regina, che pur le aveva scritto di dovere a lei il ricupero del regno, e di cui, dopo amicizia sì intima, si vendicò con infami libelli; attraversò varie scandalose vicende, in tutto simili a quelle del principio della sua carriera; morì all'Havre, arrabbiata e miserabile, da tanti maledetta, e da nessuno compianta.
Nè la restaurazione de' vecchi governi fu per allora meno effimera delle repubbliche cadute. La spada di Napoleone imperatore in breve ne fece giustizia.
Ferdinando e Maria Carolina, riprendendo le loro ignobili fughe, videro sul loro trono assisi i re parvenus, l'ultimo dei quali ebbe almeno per un istante l'epica e generosa ambizione dell'unità d'Italia.
Quei moti del 1799, che in apparenza non fruttarono nulla se non ribadimento di catene, in effetto apparecchiarono i più fortunati eventi a una nazione stata sempre infelice, ridestando quelle virtù che, spesso, come certe piante, nascono solo sulle ruine.
Da quel giorno cominciò a comunicarsi, osò venire in luce il sospiro dell'indipendenza e dell'unità, palpito segreto di tutta la nostra storia, dono divino che sarebbe meglio apprezzato dagli Italiani se un poco più la leggessero e la studiassero. Da quel giorno si fece comune il sentimento e bisogno di libertà, di cui oggi, per merito di quegli eroi, godiamo, e pur troppo talora, per colpa nostra, abusiamo.
L'età plutonica e scettica, poichè il mondo, come disse Carlyle, ha cessato di essere spirituale e s'è fatto meccanico, nelle logomachie degli ignoranti erigentisi a giudici dei pochi che si sanno ancora affinare nel crogiuolo del pensiero, nelle batrocomiomachie dei rettili gorgoglianti nel pantano dell'indecenza, del ricatto gioviale (gioviale nel doppio senso, perchè fu Paolo Giovio a dire che aveva una penna d'oro per chi lo pagava, e per gli altri una di ferro), smarrisce lo spirito della storia divenuto, secondo la frase di Goethe, l'esprit de ces messieurs.
Eppure l'unità, la libertà hanno tanto costato ai padri nostri che, come i Napoletani del 1799, morirono sorridendo, perchè, affacciati alla visione della seconda vita, divinarono che il loro esempio sarebbe stato eterna fiaccola ai buoni, eterna remora ai tristi, eterna malleveria di grandezza alla patria.
Sarebbero invece morti piangendo, se avessero potuto credere che, un secolo dopo, Italiani, all'Italia fatta libera, una e indipendente, rimprovererebbero l'ambizione di parer grande!
Ma ella deve essere grande! Qualche cosa dobbiamo pur restituire a coloro che per lei e per noi s'immolarono. Avendo la patria in cima di ogni nostro pensiero, per essa lavorando con tenace perseveranza, e con candida e cavalleresca lealtà combattendo, potremo riscattarci da una nuova servitù morale che ci travaglia; e creare la vera repubblica, la repubblica degli animi onesti, liberi e sinceri, dove verranno ad abitare con noi, recandoci ammonimento di memorie meste, conforto di speranze liete, coloro che l'ideale consociato della libertà e della virtù suggellarono col sangue proprio, e non d'altrui, nel nome santo d'Italia.
LA TRASFORMAZIONE SOCIALE
CONFERENZA DI Francesco S. Nitti. Dal 1789, quando scoppiò la rivoluzione francese, al 1814, quando, nel giorno d'ognissanti, si riunì a Vienna il congresso che credette di aver restaurato il diritto divino dei re, non scorsero che venticinque anni. Ma la vita di quei venticinque anni fu così intensa e così turbinosa; ma gli avvenimenti che si seguirono e si incalzarono furono tanti e sì vari, ma l'influenza di Francia su tutta Europa fu sì grande, che quel quarto di secolo appare, anche a chi meglio l'abbia penetrato, come uno dei periodi più interessanti e complessi della storia umana. Or tentare solamente di riassumere in una conferenza quale sia stata la vita d'Italia, durante quei venticinque anni, e quale la trasformazione sociale determinata dai fatti e dalle idee nuove, mi pare un tentativo così vano e una sì vana impresa, che io non avrei osato di parlare a voi, se non mi fossi lusingato e non mi lusingassi tuttavia, di poter fare, uscendo dal vecchio alveo delle ricerche, un tentativo di interpetrazione e di esplicazione di quei fatti, che finora sono stati, mi pare, troppo considerati sotto l'aspetto esteriore della politica e della narrazione, troppo poco nel loro contenuto essenziale.
Perchè la rivoluzione francese operò profondamente in Italia e nondimeno le scosse che vi produsse non furono sì brusche e sì rudi come in Francia? perchè la trasformazione sociale, che in Francia non potè compiersi se non a traverso tanto fiume di sangue, parve si compiesse in Italia più agevolmente, e non trovò grandi ostacoli e non ebbe ad abbattere dighe poderose? perchè invece solo a Napoli l'urto fu più vivo e la scossa più rude?
La rivoluzione francese è contrassegnata da due grandi fatti: l'abolizione della feudalità e il sorgere della borghesia, come classe di governo. In Italia, tranne forse a Napoli e in Sicilia, la feudalità era se non morta, morente, e la borghesia già in parte padrona del potere politico. La rivoluzione, che ci venne di Francia, non dovette quindi urtarsi contro ostacoli tenaci, nè spezzarli per vincere: ma precipitò un movimento, che già v'era e trasfuse energie e speranze, che non erano forse ancor sorte.
Tutte le istituzioni del passato, quando noi le consideriamo al di fuori delle nostre credenze politiche e delle nostre credenze religiose e le studiamo nel tempo che furono, ci appaiono non solo prive di quelle colpe che si attribuiscono loro d'ordinario, ma necessarie: necessarie perchè furono e durarono. La schiavitù stessa, che offende tanto la nostra sensibilità e che ci appare iniqua, non solo fu ai suoi tempi necessaria, ma benefica, perchè permise alla umanità di svilupparsi e di progredire. Il fatto che non uno solo di quei pensatori dell'antichità, che pure tentarono i misteri della natura ed elevarono la mente alle cime sublimi della speculazione filosofica pensarono di abolirla, è la prova evidente che essa non poteva essere abolita. Lo schiavo era una necessità della produzione, dato il modo come essa si svolgeva, e a lui stesso, che fu qualche volta uno di que' mirabili artisti, i quali trasfusero nel marmo o nel bronzo le più nobili visioni dello spirito e la cui opera sublime è ancora per noi anonima, a lui stesso non venne forse in mente giammai la idea della liberazione.
La feudalità, che ora ripugna alla nostra mente, e che noi quasi non comprendiamo come sia tanto lungamente potuta durare, non fu solo necessaria nelle sue origini, ma anche benefica. Essa sorse quando, a popolazione relativamente scarsa, corrispondevano grandi difficoltà di comunicazione e di trasporto e i vincoli erano rilassati e la sicurezza mancava.
La Francia che al IX secolo, nel vigore della feudalità non ebbe più di 5 milioni di abitanti, e che ai tempi di Carlo Magno, malgrado la poetica iperbole della Chanson de Roland non ne avea forse una diecina, ne aveva già oltre ventiquattro alla vigilia della rivoluzione francese. E insieme alla popolazione erano cresciute le comunicazioni, si erano sviluppati i traffici: era quindi sorta dal commercio e dagli scambi una classe intermedia, cui buona parte di tutto il reddito nazionale affluiva.
Tutto ciò in Francia, come nei paesi di civiltà occidentale, era avvenuto lentamente, senza brusche scosse. V'è in tutti i grandi movimenti umani qualche cosa di fatale e d'inconscio. Il feudatario che, ignaro del dimani, per accrescere il suo reddito, avea portato il grano dei suoi vassalli in città e lo avea venduto, e avea, per aumentare la sua entrata, create comunicazioni fra la campagna e il borgo, non avea forse nemmeno avvertito che la creazione di una classe sorta dal traffico e il conseguente aumento della popolazione, doveano formare la rovina di coloro stessi che li aveano determinati. La monarchia francese, man mano che la feudalità s'indeboliva, e che perdeva lo scopo per cui era nata, diventava invece più potente. E l'aristocrazia, che non voleva farsi assorbire e non sapeva, si trovava impoverita dal crescere in numero e in ricchezza del terzo stato.
Or man mano che una classe, la quale ha il governo e ha avuta la ricchezza si sente venir meno le forze, diventa sempre più intollerante e intollerabile. I nobili di campagna di Francia, che dal nome del più piccolo e del più insistente degli uccelli da preda, erano chiamati nel secolo XVIII hobereaux, sono la prova di ciò. Ed è per questo che la rivoluzione francese del 1789, fatta quasi esclusivamente da una classe che avea in parte la ricchezza e voleva il governo, fu come un uragano, che dovette vincere di un tratto la resistenza lunga e tenace.
In Italia, invece, il passaggio dalla fase feudale alla fase nuova non fu forse contrassegnata da nessun periodo di violenza. La feudalità in Italia si poteva dire già fiaccata nella sua essenza, quando la rivoluzione le diede in Francia il tracollo: da noi, tranne forse nel Mezzogiorno, il sistema feudale non era che quasi del tutto alla mercè dei sovrani.
È a dubitare che la feudalità abbia mai avuto in Italia radici salde: ad ogni modo al XIV secolo era istituzione già morta. Quei nobili di Venezia, che vivevano di scambio, di nobili non avevano che il nome; quei signori fiorentini, che non disdegnavano le cure del commercio e scendevano nei fondaci a contrattare, appartenevano già di fatto a una classe diversa da quella cui erano ascritti. Forse l'alto grado di densità della popolazione non permise mai, fin dal secolo XIV, che una vera feudalità vi fosse e potesse durare.
Solo a Napoli e in Sicilia, la minor densità di popolazione, determinata in parte da necessità storiche, in parte più grande ancora da vera necessità geografica, e quindi gli scarsi commerci e il debole sviluppo degli scambi, permisero che la feudalità durasse più a lungo e fosse più salda. Il bisogno di sicurezza e di protezione, che induceva anche i liberi ad asservirsi, durò nel Mezzogiorno molto più a lungo che altrove. La feudalità inoltre vi era stata trapiantata dai Normanni in tutta la sua potenza e in tutto il suo vigore e, perchè si potesse scuoterla, bisognava un più lungo cammino ed era necessaria una più rude scossa. Forse appunto per queste cause la rivoluzione francese destò a Napoli i moti del 1799; ed è senza dubbio perciò che in Sicilia, dove la presenza dei Borboni non le permise di agire, si risentono tuttavia i danni di una istituzione, che ancora nelle consuetudini e nella coscienza, se non nella legge, qualche volta permane.
La feudalità, quando in Francia era ancora salda, o almeno si ostinava a resistere, in Italia era dunque quasi generalmente fiaccata. I 1023 patrizi di Venezia, che nel 1780, secondo l'anagrafe, partecipavano al governo, erano troppi per formare un'aristocrazia. Quando non speculavano essi medesimi, poichè le virtù antiche aveano perdute, quando non consumavano le ricchezze dei padri, le quali erano sparite, ricercavano attivamente impieghi e sinecure. Negli Stati Romani il governo della Chiesa avea snaturata l'indole del feudo fin da parecchi secoli prima: la ricchezza era ammassata in poche mani, ma la feudalità non avea più nulla dell'antica rigidezza. Il consolidarsi della monarchia e le leggi del 1720 le avevano dato già il tracollo nei dominî del re di Sardegna. In Lombardia il dominio austriaco e più ancora le tradizioni di libertà, che nemmeno la Spagna era riescita a soffocare, avevano agito anche più rapidamente. In Toscana non l'opera soltanto dei principi, ma la stessa costituzione del paese, ove a una popolazione sparsa corrisponde e corrispondeva già allora una produzione agraria abbondante, impedivano che la feudalità potesse durare.
Solo a Napoli e in Sicilia, nonostante la lunga lotta con la monarchia, la feudalità durava ancora, benchè impoverita di forze e resa quindi più avida e più prepotente.
Come sarebbe potuta finire?
Le cause che l'avevano fatta nascere, in parte almeno, vigevano ancora: la classe media, la quale sorgeva meno col traffico che dagli affittuari e dai curiali, era, per la sua origine stessa, incerta e timida. Gli affittuari, spesso infidi, arricchivano forse sui padroni: ma non pensavano a prenderne il posto. I curiali, disposti sempre a difender tutto — la qual cosa è sempre nella natura del curiale — non avevano che desiderio di nobilitarsi e speranza di arricchire.
Carlo III di Borbone lottò tenacemente contro i nobili e contro la Chiesa e la feudalità cercò di vincere e la potenza ecclesiastica di frenare. Ma come poteva del tutto? La mancanza di un attivo traffico interno impediva il formarsi di una classe intermedia ricca e forte. Fino a quando Carlo venne a Napoli non esistevano nel regno quasi affatto strade carreggiabili: vi era quella da Napoli a Roma e forse in parte quella da Napoli a Foggia. Carlo ne incominciò parecchie, ma quasi del tutto a beneficio delle cacce del re. Non forse deliciae principis felicitas populi?
Nel regno di Napoli, nel 1734, sopra 2265 città e luoghi abitati, 2226 eran feudali e 59 appena demaniali, cioè soggetti più da vicino alla legislazione del principe. Ancora nel 1786, cioè tre anni prima che la rivoluzione francese scoppiasse, regnando a Napoli Ferdinando I, malgrado la rude lotta che i Borboni avevano mossa alla feudalità e l'aiuto concesso alle città perchè si riscattassero, vi erano tuttavia 1881 città e luoghi abitati feudali.
In Sicilia i baroni erano ancora più potenti e più audaci: possedevano, dopo la rivoluzione francese, il cui nembo procelloso non era riescito a soverchiarli, oltre la metà dell'isola, e in tutta la Sicilia buona parte delle più vessatorie consuetudini baronali regnavano come nel passato.
I Borboni di Napoli, quale che sia il giudizio che si possa dare di essi, avevano cercato d'infrenare i baroni, conscii forse, almeno per vago istinto, che la forma feudale sarebbe venuta a sfasciarsi; e che come era una limitazione pericolosa del potere regale, immobilizzava le forme della produzione e non consentiva che i nuovi bisogni di una popolazione cresciuta, venissero soddisfatti.
La rivoluzione ebbe in Francia così violenta forma e fu così brusca e rude, perchè mentre la classe intermedia si era già del tutto formata, la feudalità, basandosi sulle consuetudini antiche, malgrado le invasioni del potere regale, regnava tuttavia potentissima.
In Italia il feudo era in gran parte della penisola già morto, se non nella legge, nella realtà. La rivoluzione francese si ripercuotè dunque più fortemente là dove, come a Napoli, la forma feudale durava più tenace.
La popolazione del reame di Napoli dal secolo XI era grandemente cresciuta. E viceversa l'economia agraria, a causa del feudo, che imponeva limiti alla trasformazione, era poco o nulla mutata. Una forma nuova, la quale aprisse nuove vie alla produzione e assicurasse il governo a quelle classi che già avevano o cominciavano ad avere la ricchezza, s'imponeva come una necessità.
È perciò che, in tutto il secolo passato, noi vediamo il principato quasi dovunque in lotta aperta con la feudalità. A Napoli, Carlo III e Ferdinando IV restringono la giurisdizione dei baroni, limitano la proprietà ecclesiastica, aiutano le università a riscattarsi.
Ed è perciò che noi assistiamo a questo fatto strano. Mentre in Francia l'aristocrazia è quasi del tutto avversa alla rivoluzione, in Italia, dove il potere regale ha più infrenato il feudo, l'aristocrazia partecipa spesso ai moti rivoluzionari. La rivoluzione napoletana del 1799, che è stata forse la pagina più bella della storia di Napoli, è fatta da una parte da fittuari e censuatari desiderosi di riscattarsi e da curiali, cioè da componenti la classe media, tormentata dal bisogno del potere, e dall'altra dagli stessi nobili, i quali erano scontenti del potere regale.
Quando in Francia scoppiò la rivoluzione del 1789 l'impressione di tutta Europa fu immensa. La presa della Bastiglia fu salutata da tutti gli spiriti eletti, quasi dentro la carcere politica di Parigi ognuno avesse qualche cosa della sua anima, che sentiva il bisogno di liberarsi.
Noi abbiamo forse esagerato un po' troppo il risveglio intellettuale e morale d'Italia nel secolo scorso. Abbiamo detto troppo: — se la spinta ci venne di Francia, in Italia eravamo già più innanzi e i nostri grandi pensatori, come Ortes, Filangieri, Genovesi, Beccaria e i nostri grandi letterati, come Alfieri e Parini, avevano già preceduta la rivoluzione.
Tutto ciò non è vero. L'Italia era un paese in cui ogni audacia intellettuale si perdeva nello scetticismo delle classi più colte; dove, se pur non mancava qualche ardito pensatore, le classi di governo e quelle che aspiravano a succeder loro non osavano.
I Principi del secolo passato appaiono in Italia assai spesso più audaci e più liberali dei loro popoli. Leopoldo II di Toscana, Giuseppe II d'Austria, Carlo III e perfino Ferdinando IV di Napoli, vanno molto più in là di ciò che non osino chiedere i loro sudditi. Qualche volta anzi essi seminano malcontento, appunto per la loro violenza riformatrice, come accadde a Napoli, e sopra tutto in Sicilia, dove il vicerè Domenico Caracciolo osò, con audacia giacobina, attaccare le basi stesse del sistema feudale.
Giuseppe II d'Austria diede alla Lombardia leggi eccellenti: fiaccò la potenza feudale, accordò che tutti i cittadini fossero eguali dinanzi alla legge, riordinò le amministrazioni locali, protesse come più era possibile i contadini, creò opere pie dovunque, sviluppò la cultura superiore: era l'assolutismo illuminato, che precorreva i tempi. Tutto ciò non fu fatto per opera di pensatori, ma contro di essi. Quando gli ufizi pubblici furono aperti a tutti, lo stesso Pietro Verri se ne dolse. Il filosofo osava rimproverare l'imperatore di ammettere ufficiali non nobili nell'esercito, “perchè — egli diceva — il sentimento di onore è educato fra i patrizi, ma non fra gli altri.„
Quando nel 1776 Maria Teresa avea voluto abolire la tortura e gradualmente anche la pena capitale, le persone più illuminate di Lombardia si erano opposte. Il Senato, su relazione di Gabriele Verri, avea detto contro l'imperatrice, che la gravità dei crimini e l'urgenza di procurarsi indizi usum torturæ necessarium reddunt.
Pietro Verri, il quale pare anche adesso uomo superiore al suo tempo, non faceva che seguire e da lontano le riforme che venivano di fuori: applaudiva quando erano imposte, ma non dissimulava il proprio dispiacere quando gli sembravano troppo audaci.
Lo stesso Cesare Beccaria, il cui spirito era veramente francese, e che s'era, com'egli medesimo confessa, formato su Montesquieu e su Helvetius, pareva anch'egli non precorrere, ma seguire a malincuore le riforme che venivano dall'alto. Membro e relatore di una giunta nominata da Giuseppe II per l'abolizione della pena di morte, egli credeva indispensabile mantenerla in caso di regicidio e di cospirazione contro lo Stato. E anche in questi due casi, quasi nello stesso tempo, l'aboliva per spontanea iniziativa, un principe di sangue austriaco, Leopoldo di Toscana.
Gli stessi statisti, filosofi ed economisti, che la nostra compiacente vanità ha esaltati, non aveano quasi alcuna delle grandi audacie di pensiero degli scrittori di Francia: non facevano che uno sforzo continuo per adattare il vecchio al nuovo, per seguire ciò che loro era quasi sempre imposto da una volontà superiore.
Venezia, che le Memorie di Casanova e le storie recenti ci dipingono alla fine del secolo passato come un luogo di depravazione e di godimenti, non ci presenta alla vigilia della rivoluzione francese un solo pensatore elevato, non uno solo presago dei tempi nuovi.
Carlo Goldoni e Carlo Gozzi sono realmente seguaci del vecchio regime: se il primo diventa senza volerlo, forse anche senza saperlo, un riformatore è perchè egli porta sul teatro i fatti della vita reale e i fatti non hanno mai la facile compiacenza delle opinioni.
Quell'oscuro Giammaria Ortes, tanto esaltato negli ultimi tempi, sopra tutto da chi non lo ha mai letto, quell'oscuro monaco, che sembra profondo sempre perchè sempre oscuro, dopo aver forse intravvisto quella che fu più tardi la teorica malthusiana, non sa proporre che di difendere i beni di manomorta e i fedecommessi a famiglie, a chiese e a luoghi pii: al terribile problema, che nella quiete solenne del suo triste monastero gli si affaccia alla mente, non vuol dare altra soluzione se non quella di aumentare la zuppa dei conventi. E quando, nella sua famosa relazione, il cavaliere Andrea Tron, che fu sì veggente nello scoprire i mali della repubblica e sì cieco da non scoprire quelli di casa sua, constata il decadere della forma antica, non sa indicare alcun rimedio: indicarne forse gli par vano.
La mente che vede non osa. Accade qualche volta che, come in Toscana, l'opera dei principi riformatori è appoggiata da uomini di chiara mente, come quel vescovo Scipione dei Ricci, che parve uomo di altri tempi e fu anima di profeta e di apostolo: ma non è che eccezione solitaria. In generale si assiste a questo fatto singolare, che mentre i nuovi bisogni della classe che sorge si affermano, nessuno osa interpetrarli. Le riforme vengono dall'alto e la massa le accetta quasi a malincuore.
Napoli, che ebbe nel secolo passato alcuni fra i pensatori più potenti d'Italia, trovò anch'essa uomini che li precedettero. Lasciamo stare Vico: egli, che morì quasi mezzo secolo prima che la rivoluzione francese scoppiasse, non fu uomo del suo tempo. Vico, il quale creò non una ma parecchie scienze, e che bene a ragione parlò di scienza nuova, non ebbe fra i suoi contemporanei quasi alcuna importanza. Trascinò vita miserabile fra gente di cui non riescì a vincere la indifferenza e fu modesto uomo e rassegnato alla crudeltà del destino.
Ma Giannone, ma Galiani, ma Genovesi, ma lo stesso Mario Pagano, che furono fra gli spiriti più illuminati del tempo loro, alla vigilia della rivoluzione francese quasi non prevedevano la trasformazione che si andava compiendo.
Giannone fu veramente figura grande di novatore: ma la lotta contro la prepotenza ecclesiastica lo assorbì tutto.
Galiani era troppo scettico e troppo sottile per aver fede in qualche cosa.
Nel 1764 scriveva a Tanucci: “.... forse alla lunga è meglio avere un parlamento alla francese che non averlo, ma nei principî di un regno, un poco di dispotismo non è male, altrimenti la creazione è più tardiva.„ Questo abate grazioso e gaudente, il quale non predicò che l'obbedienza passiva al re, in pratica non gli chiese che benefizi. Le follie dei sovrani trovavano in lui il complice spiritoso: l'economista non aveva una sola parola di sdegno, non una d'indignazione. Quando l'arciduchessa Maria Carolina, che di sua madre ebbe la passione violenta del maschio, ma non la intelligenza temeraria, per venir sposa a Ferdinando IV, ordina 120 vestiti di gran lusso e spende milioni, il compiacente abate osserva soltanto: “ quidquid delirant reges, ma è danaro che vien qui.„
Figura meno nota, ma più alta quella di Antonio Genovesi. Il timido abate, che osò insegnare in italiano, in quella università di Napoli, dove l'ignoranza si esprimeva pomposamente in latino, avea più slancio e maggiore sincerità dell'avventuriero Galiani. Pure quest'uomo, che vagheggiava una forma costituzionale e una Italia comune madre nostra, unica e libera, nel suo libro Diceosina o filosofia del giusto e dell'onesto, non rifiutava di ammettere la necessità di una mezza servitù popolare.
Genovesi non propugna se non quelle istituzioni le quali sembrano più adatte allo sviluppo e alla costituzione di una classe media: libera circolazione e divisibilità della proprietà, libertà e sicurezza di commercio, libertà di lavoro. Fra coloro che non producono reddito materiale o immediato, eppure, come egli dice, giovano alla società, non esita a mettere coloro che vivono di reddito. Nel popolo egli non avea fiducia alcuna: anzi lo volea lontano dalle pubbliche faccende. Più che un riformatore egli è il ponte di passaggio fra il vecchio e il nuovo: egli è l'innovazione che non si stacca dalla tradizione. Vuole che la riforma venga dall'alto piuttosto che dal basso: — quivi non vede che l'ignoranza e il male.
Ma che pensare di Mario Pagano, il quale quando già la rivoluzione francese era scoppiata e si preparava nelle coscienze la rivoluzione napoletana del 1799, quando già si era alla vigilia di quei fatti per cui egli dovea lasciare miseramente la vita, difendeva il feudo e ne additava le ragioni di necessità?
Filangieri che moriva appena a 36 anni, pochi mesi prima della presa della Bastiglia, Filangieri nobile, e pur aperto a tutte le idee democratiche, appare quasi come il solo che abbia osato. Ed egli era uomo di governo e, come tanti altri uomini di governo, attendeva la riforma dall'alto; e non avea tutti i torti di attenderla, poichè l'opera dei principi era parsa ed era, almeno in Italia, più audace di quella dei filosofi.
Anche fra i letterati di ogni parte della penisola mancava quella fede riformatrice, che contraddistingue le grandi opere della letteratura francese del secolo XVIII. Tranne forse Parini, buono e grande, dalla cui anima la passione plebea trabocca e nei cui scritti s'insinua sempre la filosofia di Rousseau, tutti gli altri non vedono e non osano. Lo stesso Alfieri, che fu gigante, non vede che secondo i greci e secondo i romani. Il suo tiranno era una creazione fuori della realtà: e la sua repubblica non avea nulla a che fare con i bisogni del tempo. Per la rivoluzione francese egli, classico e sdegnoso, non ha che parole di antipatia e di avversione.
Se qualche anima alfieriana insorge contro il tiranno immaginario, i tiranni d'Italia, sopra tutto quelli stranieri, erano, bisogna pur confessarlo, più avidi di novità e più desiderosi di riforme che non i popoli stessi. Mentre nulla pareva li stimolasse, non spinti dai dotti, non costretti dalle masse, essi adottavano, quasi per spontaneo impulso, quelle riforme, le quali, non operate in Francia, a causa della potenza della feudalità, dovevano dare sì violento carattere alla rivoluzione del 1789. Limitazione della proprietà ecclesiastica, soppressione dei privilegi fiscali, riconoscimento della giustizia come funzione di Stato e non come diritto dei baroni, restrizioni della giurisdizione feudale: tutto fu operato per volontà dei principi.
Così accade questo fatto singolare che, sopra tutto a Napoli, i nobili, dolenti della restrizione alla loro potenza, inclinano alla rivoluzione e, quando questa avviene ed è il riconoscimento della esistenza del terzo stato, vi partecipano largamente. Gli uomini della rivoluzione napoletana del 1799 sono nella maggior parte o nobili ed ecclesiastici, o curiali. Nelle province l'eco della rivoluzione di Napoli è più larga fra i fittuari e i censuatari desiderosi di affrancarsi.
Quando scoppiò la rivoluzione di Francia, i nobili, il clero, la borghesia e il popolo l'accolsero in Italia molto diversamente. Quest'ultimo non vi partecipò quasi affatto: troppo ignorante era e troppo depresso per lottare per conto proprio. Ma quando dovè seguire i liberali, o quelli che facevano la causa del principe, fu piuttosto per il principe. E non era solo ignoranza: ma era anche un istinto per cui avvertiva che i mutamenti i quali sopravvenivano non erano in suo favore.
Gli abitanti del feudo, laico o ecclesiastico, principalmente quelli di quest'ultimo, avevano ciò che oggi non hanno: il diritto all'esistenza era garentito loro dagli usi civici, i quali se impedivano al feudo di trasformarsi, davano al popolo quel minimo necessario a una esistenza sia pure inferiore.
L'aristocrazia, il clero e la borghesia, rappresentanti interessi diversi, accolgono la rivoluzione con sospetto, come accade quando avviene un gran rivolgimento, di qualunque natura esso sia. Se non che di queste tre classi nessuna era contenta: la terza perchè aspirava al potere e voleva parteciparvi molto più largamente, le altre due perchè, nei mutati ordini e nella soverchiante potenza del principe, avevano vista la loro diminuzione.
L'aristocrazia era in condizioni da non poter durare a lungo come unica classe di governo. Non occupandosi più solamente di guerra era andata perdendo a poco a poco l'antica gagliardia: a Venezia pitoccava ufizi e spogliava il continente, a Roma si manteneva chiusa all'ombra del dominio papale; in Piemonte, già fiaccata dalle leggi del 1720, era però ancora ignorante e guerriera; a Napoli e in Sicilia, diminuita dal principe ma non domata, cercava di rialzarsi.
Un amabile scetticismo regnava un po' dovunque: i rapporti sociali erano rilassati. La fedeltà coniugale, sopra tutto a Venezia e in Lombardia, noi la vediamo fra gli aristocratici considerata come una virtù borghese che disqualifica coloro che la praticano. Non era raro il caso che dame eleganti e gentiluomini di famiglie nobilissime conversassero di Voltaire e di Rousseau e, perfino nei parlatoi dei conventi, la filosofia francese s'insinuava insieme ai discorsi del giorno. Come adesso le dame eleganti fra un peccato e l'altro parlano di Tolstoi, parlavano allora di Rousseau. E fra le dottrine di questi due filosofi, che tendono a tornare, per sfiducia nella civiltà, allo stato di natura, e fra le cause che in due società decadenti le hanno prodotte, vi è più grande affinità di quel che non sembri da prima. Come più la lotta del potere regale tende a diminuire la nobiltà, tanto più noi la vediamo aprirsi alle idee nuove e accoglierle e incoraggiarle.
Straordinariamente ricco il clero e quasi egualmente ignorante. Tutte le avversioni dei principi erano riescite forse a infrenarlo, non certo a diminuirne la potenza.
Nel 1768, secondo statistiche accurate, nello stato di Venezia, che avea appena 2.655.484 abitanti, vi erano, oltre quelli di rito greco, 45.773 ecclesiastici, che avevano un reddito di 4.274.460 ducati. Ricca non meno e non meno corrotta, ma più ignorante forse, la classe ecclesiastica esercitava in Piemonte un potere immenso. In Toscana Rucellai potè già dire che vi erano tre ecclesiastici almeno per ogni 100 abitanti: ciò che è sicuro è che anche dopo la rivoluzione francese, la settima parte del reddito annuale di tutto il paese era assorbita dai monasteri e dal clero secolare. Nello stato romano il clero era tutto e possedeva gran parte del territorio. Più mostruoso ancora l'accrescimento della proprietà ecclesiastica del Regno di Napoli, il cui reddito vediamo salire a circa 12 milioni di ducati nel continente e ad almeno 7 od 8 in Sicilia. Tanta ricchezza e potenza e il non esser costretti a lottare, il non dover quindi esercitare alcuna delle facoltà superiori dello spirito, avevano reso gli ecclesiastici, fatte poche eccezioni, avidi e corrotti.
Or fra l'aristocrazia, decadente e scettica, e il clero, corrotto dalla sua stessa potenza, s'era insinuata la borghesia. Per molti secoli le si era impedito ogni sviluppo, vietandole il traffico e gravandola di tributi: le esenzioni tributarie della proprietà feudale ed ecclesiastica non erano determinate se non dal bisogno d'impedire lo sviluppo del terzo stato. Ma della lotta fra il principato e il feudo si avvantaggiava appunto la classe borghese, la quale nel secolo passato, prima che in Francia, era in Italia già potente.
La borghesia cittadina a Napoli era composta di persone, che mentre rappresentavano interessi diversi da quelli dell'aristocrazia erano indotte a difendere non solo gli usi, ma gli abusi feudali. Per cinque secoli si può dire che la storia dei curiali di Napoli è in gran parte la storia del Regno. Formavano una classe così numerosa, così tumultuosa, così potente, da imporre persino in alcune circostanze allo stesso principe. Il numero enorme delle prammatiche rendeva ogni dissidio interminabile: l'intelligenza meridionale, così naturalmente adatta al cavillo, faceva il resto. Nelle sale di Castel Capuano si pigiavano allora come oggi migliaia di forensi: vi erano anche allora fra essi i molto ricchi e i molto poveri, ma gli uni e gli altri molto si agitavano. Qualunque interesse difendevano, ed erano tanto più numerosi, quanto più si trattava d'interessi di gente ricca. Colletta, che li chiama peste del reame di Napoli, nota però come dai curiali sia nata la classe media. Questo ceto, che fu veramente pestifero e le cui conseguenze dannose sulla intelligenza meridionale si risentono ancora oggi, questo ceto fu, come dice il Winspeare “il baluardo dell'antico sistema di giurisprudenza e di amministrazione„. Pure se tanto male produsse, con le sue continue agitazioni, col trovare sempre le ragioni per cui il diritto è dalla parte di chi è in alto, un grande benefizio ne venne. Quando fra il principe e i baroni s'ingaggiò, da prima silenziosa, poscia quasi manifesta e aperta la lotta, i curiali che nelle prammatiche aveano trovato le ragioni per cui il feudo possedeva quei diritti che non avea mai avuti, seppero anche trovare quelle per cui gli si negarono perfino quei diritti che in realtà aveva. Il principe forse non avrebbe tanto potuto senza l'aiuto dei curiali. Come il brulichìo e la fermentazione producono la vita, così dall'agitarsi di tante dispute dovea venire il fermento delle coscienze, che produsse il risveglio e la vita. La vita non è quasi sempre che un fenomeno di putrefazione e di dissolvimento: e la corrotta classe curialesca diede con il fermento impulso potente al risveglio intellettuale. A furia di discutere sulla natura dei diritti feudali, sulla validità dei contratti stabiliti sotto il regime della violenza, sulla imprescrittibilità di alcuni diritti si finì col discutere anche ciò che prima pareva non discutibile. Furono queste dispute infatti, le quali fecero germogliare l'idea della eguaglianza civile e aiutarono maggiormente la trasformazione.
Se non che, appunto per questa composizione della classe media, essa non avea nè rapidi slanci, nè grandi audacie: qualche volta, anche quando parlava di riforme, era presa dagli scrupoli curialeschi, e vi si dimostrava meno adatta di quei principi contro cui lottava in segreto o in palese.
Composta degli elementi più vari, la classe media italiana della fine del secolo passato vivea meno del traffico, che della curia e della Chiesa: strano impasto di cadetti, di ecclesiastici scontenti e di avvocati dai facili entusiasmi, non poteva concepire le rudi affermazioni del terzo stato di Francia.
La rivoluzione napoletana del 1799, che è la più bella pagina della storia di Napoli, poichè si vide — da gran tempo forse per la prima volta — che gl'italiani non aveano disappresa l'arte di saper morire, la stessa rivoluzione napoletana ebbe un singolare carattere: poichè, lungi dall'essere l'affermazione esplicita del terzo stato, essa risultava come fatta in gran parte di quegli interessi che il principe avea offesi.
Fra i novantanove martiri, dal 29 giugno 1799 all'11 settembre del 1800 (schiera grandiosa che si apre con l'ammiraglio Caracciolo e si chiude con Luisa Molines Sanfelice), tre ceti prevalgono su tutti gli altri: i nobili, gli ecclesiastici e i curiali. Mentre nelle province sono i fittuari e i censuatari che si ribellano nel desiderio della loro affermazione economica, nelle città, dove la lotta ferve più intensa, sono coloro i cui interessi erano stati più offesi, i quali si coalizzano con coloro che desiderano prevalere.
Dei 99 giustiziati di Napoli, 14 erano nobili, 15 ecclesiastici e ben 20 appartenevano alla classe curiale. Carlo III e più Ferdinando IV, per opera del suo intelligente ministro, aveano colpito al cuore la nobiltà e infrenata la potenza della Chiesa. E come leggi più stabili eran venute e più larghi ordinamenti, la classe curiale era quella che più ne soffriva, come ne soffrivano nobili ed ecclesiastici. L'anno stesso che scoppiava la rivoluzione di Francia, Ferdinando IV avea fondato, per bizzarria e per desiderio di cose nuove, la colonia semicomunistica di San Leucio, e prima della rivoluzione non avea manifestata e non avea forse nessuna di quelle infami violenze, che contraddistinsero, dopo la rivoluzione, la sua feroce timidità e tramandarono il nome suo infamato.
Quando il terzo stato si vuole affermare esso non è, almeno nel Mezzogiorno, rappresentato che da una frazione, quella che più abusa della ideologia giuridica. E gli altri due stati superiori tendono a far causa comune con esso, almeno nelle frazioni più scontentate dalla violenza riformatrice dei principi.
Fra i 14 giustiziati di Napoli appartenenti a classi aristocratiche erano rappresentate le più grandi famiglie: Gennaro Serra, principe di Aliano; Ettore Carafa, conte di Ruvo; Filippo de Marini, marchese di Genzano; Giuseppe Riario Sforza, marchese di Corleto; Francesco Federici, marchese di Petrastornina; Ferdinando Pignatelli, principe di Strongoli; e Mario Pignatelli e altri, che aveano nobiltà di censi e di nome. Alcuni di essi erano a dirittura fanciulli: non avevano che ventun anno appena De Marini e Riario Sforza; venticinque ne avea Gennaro Serra; ventisei Mario Pignatelli.
Ben 15 erano ecclesiastici e fra essi ve n'erano di vita illuminata e di mente alta, come il padre De Meo dei Crociferi; don Francesco Conforti, don Vincenzo Troisi, don Giuseppe Guardati e don Eusebio Scotti, professori all'università e Severo Caputo e Ignazio Falconieri e Michele Granata e Nicola Pacifico e tanti altri ecclesiastici, anch'essi insegnanti e di vita esemplare.
Ma il maggior numero era di avvocati e appartenenti alla classe curiale, fra cui notevoli Francesco Mario Pagano e Nicolò Carlomagno e Vincenzo Russo, che avea a ventinove anni già scritto quei Pensieri politici, ricchi di errori e di acume, e Giorgio Pigliacelli e altri, cui le vittorie forensi aprivano via larga e sicura.
Fu questa varia composizione, che tolse al movimento la sua unità. In Francia il terzo Stato, cominciò col proclamare la propria esistenza, poi appena potè abolì la feudalità e soppresse tutti i vincoli che gl'impedivano di svilupparsi. La rivoluzione napoletana non osò e non volle.
La rivoluzione napoletana non poteva osare. E il sistema feudale fu abolito nel regno di Napoli da un principe venuto di Francia da conquistatore, da Giuseppe Bonaparte nel 1806. Caso veramente singolare, che rivela come il malcontento ecclesiastico e aristocratico contro la violenza riformatrice dei principi, abbia determinato l'unione degli elementi più diversi in un'avversione comune: non certo per uno scopo comune.
Ciò che la rivoluzione di Francia portò all'Italia fu un contributo di idee nuove non solamente, ma sopra tutto quella violenza giacobina, che anche nei suoi eccessi e nei suoi errori, dovea infondere vita nuova a un paese ove ciò che mancava era appunto l'energia. Si era troppo attaccati alla tradizione, troppo devoti al passato. Si credeva che il meglio che si potesse fare fosse di tornare all'antico.
Il caso del senato di Lucca, che sedeva a permanenza anche la notte, per decidere se si dovesse o pur no pensionare un sergente, rappresenta molto più di quel che non si creda la vita d'Italia di quel tempo.
Or lo spettacolo di un paese che rompe di un tratto con ogni tradizione del passato fu come una trasfusione di energia.
Verri avea qualche anno prima della rivoluzione dubitato che ufficiali non nobili potessero essere uomini di valore e di onore. Ecco invece la rivoluzione francese mostrare violentemente che, quando un uomo ha coscienza della sua forza, più viene dal basso e più mira in alto. I più grandi generali della rivoluzione e dell'impero sono figliuoli di contadini e di operai, nati fra gli umili e vissuti, si può dire, nella più completa oscurità fino al giorno del trionfo e della gloria. Kleber, Augereau, Soul erano nati da contadini e l'ultimo era semplice soldato; Jourdan faceva il merciaio; Hoche veniva dagli strati più umili; Massèna, figliuolo di un mercante di vino, faceva il mozzo prima della rivoluzione; Marceau era sergente; Lannes era apprendista tintore; Bernardotte era sergente maggiore; Murat era figliuolo di albergatore e seminarista; Gouvion Saint-Cyr insegnava disegno; Lefebvre, figliuolo di mugnaio, era sergente; Ney era clerc de notaire.... Tutti o quasi i grandi generali della rivoluzione venivano dal basso, dagli strati inferiori. L'aristocrazia francese non avea prodotti in tanti secoli di dominazione che un Condé; la democrazia rivoluzionaria diede almeno venti generali vincitori.
Tutto ciò veniva a uccidere lo spirito di tradizione e dovea, in un paese come l'Italia, rovesciare di un tratto le basi della vecchia società. Questo popolo d'Italia, che non sentiva ancora nè bisogno di unità, nè dignità di nazione, dovea cominciare a risentirli sotto la tirannide democratica.
Era parso per secoli che prudenza di legislatori e arte di sapienti fossero non già di guardare avanti, ma di ritornare all'antico. La rivoluzione scuoteva tutto ciò. Noi ridiamo, vedendo che, nelle leggi francesi emanate in Italia, si sia agito con tanta leggerezza, da confondere i fiumi coi monti e da prendere i monti per città. Ma quella stessa frettolosità e quella stessa violenza trasformatrice agirono come una trasfusione di sangue.
Quegli eserciti rivoluzionari, i quali predicando eguaglianza e libertà scendevano a spogliarci, mentre con le loro dottrine mettevano il lievito nella vecchia civiltà italica, con le loro azioni contribuivano a inasprire gli animi e a ridestare la sopita coscienza nazionale.
Gl'italiani, vedendo principi abbattuti da un giorno all'altro e sovrani da un giorno all'altro creati, cominciavano ad aprire gli occhi e ad acquistar fede in sè stessi e a credere che la servitù non fosse eterna. Quei francesi, i quali pur derubando il paese lo covrivano di strade e lo disseminavano di scuole, ridestavano le dormienti energie e accendevano la fede nell'avvenire.
L'Italia non avea forse mai avuto vere guerre religiose e la vicinanza estrema del papato avea uccise quelle idealità per cui rivi di sangue venivano fuori d'Italia versati. L'arte di saper morire, più difficile di quella di saper vivere, non era che di qualche solitario pensatore e di qualche solitario apostolo.
Invece la rivoluzione dà, forse per la prima volta, il vero disprezzo della vita. La cultura e la intelligenza, che parevan privilegio di curiali servili e di timidi maestri, ingrossano le liste dei giustiziati e servono a creare una schiera di martiri e a far spuntare dalla terra insanguinata il rosso fiore della vendetta. I Borboni giunsero a Napoli riformatori e audaci e la rivoluzione in alcuna parte precorsero. Ma i moti del 1799 diedero ad essi, timidi e quindi crudeli, il bisogno della repressione violenta. Fu da questa repressione violenta che l'amore della libertà e la tradizione del martirio nacquero e prosperarono.
L'esempio di Francia dava assai spesso ai martiri nostri non solo la indifferenza della morte, ma anche quella tragica grandezza, che si trova solo nelle grandi crisi dei popoli. Quei nobili, quei sacerdoti, quei curiali di Napoli che salivano il patibolo, aveano tutti dinanzi agli occhi l'esempio dei martiri francesi e morivano come essi e parlavano allo stesso modo, il medesimo linguaggio, ricco di iperboli e di grandezza.
La lugubre lista, che comincia — secondo le parole del Fortunato — con una vendetta privata di Nelson, il quale fa impiccare sulla gloriosa Minerva l'ammiraglio Caracciolo, e finisce con una vendetta personale di Ferdinando IV, che fa impiccare Luisa Molines Sanfelice, non ha forse nè un traditore, nè un vile.
Quella Eleonora Fonseca Pimentel, che fu forse la prima donna che in Napoli abbia fatto un giornale, la quale prima di avviarsi al patibolo, prende serenamente il caffè e dice presaga e grande: forsan et haec olim meminisse juvabit; quel duca di Galugnano, che non vuole difese, e, al momento di morire, incita il tardo carnefice, dicendo che non ha tempo da perdere; quel conte di Ruvo, che svillaneggiato dal giudice, rompe in ingiurie e muore come un eroe antico, volendo giacer supino per vedere il ferro che i vili temono; quel generale Gabriele Manthoné, che invece di difendersi, si gloria di ciò che ha fatto per la repubblica; quel giovinetto marchese di Genzano, il quale muore con tanta nobile serenità, che la plebaglia regalista, per una sola volta almeno, non osa gridare viva il re; quel Felice Mastrangelo, il quale si vanta anche sul patibolo di morire libero; quel Mario Pagano, che, avvocato insigne, crede inutile ogni difesa, perchè la vita, sotto la tirannide, gli sarebbe odiosa; tutta quella schiera gloriosa dà per la prima volta, in terra d'Italia, l'esempio del martirio, serenamente atteso e nobilmente affrontato.
Sono i 99 giustiziati del 1799, la cui storia, raccolta amorosamente da Francesco Lomonaco, scritta con sobrietà antica da Vincenzo Coco, idealizzata da Pietro Colletta, determinano più che ogni altra cosa la rovina di casa Borbone a Napoli e sono, per tutta l'Italia, come il lievito sanguinoso della riscossa futura.
La stessa impresa napoleonica, che passa come un nembo procelloso e schianta le vecchie tradizioni, non fa che destare la coscienza nazionale in quelle genti che l'avean forse perduta.
La storia d'Italia dal 1789 al 1814, la trasformazione sociale che in questo periodo venne a compiersi, non sono argomento di una conferenza. Troppe cose mutarono, troppe istituzioni nuove sorsero e troppe sparirono. La vita di quei venticinque anni fu più intensa di quella di qualche secolo. Le classi sociali non erano in Italia così nettamente divise come in Francia, perchè la trasformazione era già avvenuta: fu per questo che i moti italiani non ebbero l'irrompere vertiginoso della rivoluzione di Francia. Qualche volta i sovrani contro cui s'insorgeva aveano socialmente idee più larghe e più riformatrici di coloro che insorgevano, e gl'interessi offesi che si ribellavano contro di essi rappresentavano appunto quegli interessi contro cui il terzo stato lottava.
La società nostra, così com'è, è sorta in quel periodo di tempo, quando la proprietà individuale si affermò in tutta la sua potenza e la forma antica decadde.
Non vi fu nella trasformazione qualche cosa che la classe vincitrice volle con soverchio egoismo ottenere? L'abolizione di tutti quei diritti, che garentivano il minimo di esistenza alle masse e attutivano gli urti più dolorosi fu veramente un benefizio? Lo spirito individualistico e atomico, che s'infiltrò nelle classi dirigenti e che parve distruggere ogni opera collettiva, fu veramente un bene? Noi non oseremmo dire e non vorremmo.
Ogni reazione tende per sua natura a eccedere. E noi invochiamo oggi, più nuove e più larghe, molte di quelle forme che abbiamo disfatte e invochiamo quella solidarietà, che il giacobinismo individualista volle sradicare. L'immenso fiume della umanità anche questa volta rimonta, e noi, che non ne sappiamo le origini lontane e che non ne vediamo nè forse ne vedremo giammai la più lontana foce, siamo trascinati dalla corrente, per vie che, buone o false, sono sempre necessarie.
IL REGNO D'ETRURIA
CONFERENZA DI E. Melchior de Vogüé.
Questa conferenza fu tenuta in francese; essa fu tradotta in italiano da Guido Biagi.
Signore e Signori,
Alla Società di pubbliche letture, chiamandomi a Firenze, piacque concedermi di parlarvi della vostra storia nella mia lingua nativa. Mi scuserò con essa e con voi; e quasi avrei intenzione di scusarmi con coteste nobili figure di Luca Giordano, avvezze ad ascoltare l'idioma che Paul Louis Courier, ellenista di gusto così squisito e sicuro, affermava “la più bella delle lingue viventi„. Ma un forestiero mal volentieri si arrischia a balbettare la purissima lingua italiana a un'eletta di ascoltatori toscani.
Eppure, a Firenze io non mi sento del tutto straniero; e ci torno per pagare un tributo a quei luoghi che furono i primi educatori del mio intelletto. Consentite che io mi lasci vincere dai personali ricordi: perchè dinanzi a ognuna di queste pietre eleganti, così sature di bellezza e di storica maestà, io ritrovo le impressioni lontane che la vita non potè cancellare.
Uscito di collegio, m'avevano condannato a studiar legge in una delle nostre città di provincia: scappai, piantai lì le Pandette e le Istituzioni, e spiccato il primo volo di viaggiatore venni a posarmi in Firenze, dove passai sei mesi nello studio dei vostri monumenti, delle vostre arti e della storia vostra. Cotesta iniziazione fu per me una vera ebbrezza: scopersi il mondo della bellezza all'aurora della vita; e qui cominciai a scrivere, ma fortunatamente per i miei contemporanei e per me, ho perduto i miei scritti fiorentini: erano una tragedia in versi sul conte Ugolino che divorava i figliuoli per conservar loro il padre. Avendola perduta, ho qualche volta l'illusione di credere che fosse stupenda.
L'amore alla storia, alla storia viva, drammatica, scritta su tutte le vostre mura, s'impadronì di me a Firenze, e mi distolse da quella poesia da collegio. Già fin d'allora, leggendo Dino Compagni e i vostri altri antichi cronisti, mi trovai dinanzi ad uno dei problemi insolubili che s'impongono allo spirito umano: come si spiega l'eterna contradizione che esiste fra le cupezze, le follie, le crudeltà di cui parlano i libri, e le cose sorridenti, meditative, pacifiche che qui parlano agli occhi? Ecco un luogo d'elezione, dove la natura e gli uomini hanno cooperato per creare di nuovo quell'armonico capolavoro che dopo Atene non s'era più visto. Fra le linee di questi orizzonti felici, che così bene si accordano, sembra che l'uomo si sia strappato di dentro la ragione e la grazia. Firenze si mostra nel cielo dell'intelligenza e dell'arte, sotto la sua luce dorata, come la vediamo in questa stagione dell'anno, fra la nebbia rosea e bianca dei mandorli e dei peschi che fanno una cintura di fiori alle sue cupole, a' suoi campanili; è il giardino in cui tutti i fiori del genio umano sbocciarono, con un'esatta disciplina d'eleganza prestabilita, di saviezza tranquilla, e come in virtù d'una fraterna premeditazione della terra e dell'uomo per avverare finalmente il gran sogno di tutti noi, cioè una vita perfettamente bella nel riposo d'una perfetta felicità.
Ma non è che un miraggio! Consultate la storia: qui, come ad Atene, essa ci mostra nel giardino incantato e perpetuamente devastato, una sanguinosa arena in cui gli uomini si lacerano fra loro, un campo di battaglia in cui le nazioni si accapigliarono furiose nel corso dei secoli, con le loro concupiscenze, accese dalle tentazioni di questa perfetta bellezza.
Oggi, come quando leggevo Dino Compagni, ho spogliato alcune pagine della storia fiorentina, ma di tempi a noi più vicini; e ci ho ritrovato quel doloroso problema, ci ho ritrovato l'uomo che si accanisce a recare il turbamento e il disordine ne' luoghi in cui sembrava splendere una divina potenza pacificatrice. Vi parlerò liberissimamente di coteste cose passate, di quel confuso marame d'istinti, d'interessi e di idee che, al principio del nostro secolo, l'onda rivoluzionaria francese rovesciò sulle terre d'Italia. E mi ricorderò che qui, con tante altre lezioni, mi fu data la norma per giudicare della storia. È nella Galleria degli Ufizi una tavola d'un ignoto quattrocentista: una Madonna col Bambino, pittura di pregio mediocre, opera incerta di alcun povero scolaro di Giotto. Pure, ho sempre sul mio scrittoio la fotografia di quel quadro. Sotto cotesta Vergine, che fu certamente affissa in qualche pretorio d'un palazzo di giustizia, una mano indica allo spettatore ed al giudice l'iscrizione in grandi lettere gotiche: “ Odi l'altra parte. „
Odi l'altra parte! la Madonna degli Ufizi ci porge così la prima regola dei nostri giudizi nella vita, nella storia, in quella scienza embrionale ed oscura, che noi chiamiamo, mentre è ancora in fieri, politica, e che un giorno sarà storia pur essa.
La vostra Società di letture ebbe la felice ispirazione di assegnare al corso di ciascun anno un periodo di storia. Vi hanno già parlato in addietro del Medio Evo e del Rinascimento; vi narreranno in questa serie la vita italiana durante le tempeste della Rivoluzione e dell'Impero. In questo ciclo ho scelto un episodio minuscolo, la breve esistenza del Regno d'Etruria. Ma prima di raccontarvelo, permettetemi di fare alcune riflessioni sulla legge misteriosa che trascina i nostri due paesi entro una medesima orbita.
Anche se differiscono i tempi, il fondo dell'uomo rimane invariabilmente il medesimo. Di questo permanenti rassomiglianze è facile persuadersi paragonando i sanguinosi conflitti nei quali le nostre razze si accapigliarono, così nel Rinascimento come durante la Rivoluzione. Più ci medito e più scopro un'identità fondamentale fra il movimento che rovesciò in Italia le milizie di Carlo VIII, di Luigi XI, e di Francesco I e quello che vi ricondusse le soldatesche del Championnet, dello Schérer, del Bonaparte. La stessa operazione di segreta alchimia si riproduce nello stesso crogiuolo. È un parto laborioso, che si compie, secondo l'eterna e dura legge della riproduzione, in mezzo al sangue e agli spasimi.
È nota a voi tutti una teorica che, se non il cuore, appaga l'intelligenza: quella dello Schopenhauer sull'amore. Secondo lo spietato filosofo, due esseri che si amano cedono all'inganno della natura; inconscienti e ingannati, non fanno che obbedire alla volontà d'un terzo essere, il quale si serve di loro per conseguire i suoi fini, e arrivare alla vita. La spiegazione dello Schopenhauer, se è vera, potrebbe adattarsi egualmente a ciò che è il rovescio dell'amore, all'odio: vale per la guerra delle razze come per la guerra dei sessi. Quando due nazioni si scannano, con l'illusione di soddisfare a cupidigie individuali e immediate, esse preparano inconsciamente una nuova forma di civiltà che vuol nascere dal loro conflitto. Questa legge si manifesta in tutte le epoche della storia; e segnatamente nei violenti contatti fra i popoli al di là e al di qua delle Alpi. Mentre gli uomini bagnan di sangue e si contendono le feconde valli fra le Alpi e l'Adriatico, una divinità serena ed ironica contempla le loro lotte, dalla vetta di quelle Alpi dove le nuvole la nascondono agli sguardi dei mortali: impassibile e indifferente alla diversità di razza, di patria e d'interessi, essa rappresenta il genio della storia. Non dice come il Bonaparte a' suoi soldati: “In coteste fertili pianure troverete il pane e le scarpe che vi mancano!„ Ma grida: “Andate, operate, poveri esecutori de' miei disegni: ho bisogno della vostra ignoranza e delle vostre atrocità per conseguire i miei fini; andate e in coteste pianure risvegliate lo spirito della vita, la scintilla che vi ripose l'antica Roma: ne ho bisogno per illuminare l'immagine de' tempi avvenire, che nascerà e prenderà forma e figura sulle rovine da voi lasciate.„ E alla sua voce il miracolo si compie. I soldatacci brutali ed entusiasti, cupidi ed ubriachi, che si sparsero per l'Italia dietro Gastone di Foix e il La Trémouille, ricondussero in Francia, nel riflusso d'una controinvasione, Leonardo, Benvenuto, il Primaticcio, parecchi letterati, e dotti ed ellenisti: il Rinascimento sbocciò, lo spirito de' tempi moderni aleggiò sul carnaio ove caddero gli estremi lottatori dell'età feudale. Parimente, quando i volontari della Rivoluzione piombarono in Italia, spinti dagli stessi principii, attirati dallo stesso miraggio, essi non s'accorsero che preparavano la formazione d'una novella Europa, e che, vagheggiando il loro sogno, aiutavano l'effettuazione dell'antico sogno italiano, cioè la resurrezione d'una patria comune.
Il mio amico Alberto Sorel ha messo in evidenza l'idea madre, ormai accettata da tutti gli storici, che deve regolare i nostri giudizi quanto all'opera della Rivoluzione e dell'Impero oltre le frontiere francesi. Gli uomini del 1789 e i loro violenti continuatori avevano un ideale nobile, generoso, ma chimerico quanto mai; i primi volevano largire al mondo e gli altri imporgli per forza cotesto ideale di libertà, d'uguaglianza, d'emancipazione umana nella fusione di tutti i popoli fratelli. Ma la sementa che i soldati della Rivoluzione e dell'Impero portarono nei loro zaini cambiò natura — per dir così — nelle terre straniere dove fu sparsa: l'idea di libertà astratta vi germogliò e fruttificò sotto altra forma, con l'idea dell'indipendenza nazionale, e con il risveglio dello spirito particolare a ciascun gruppo etnico; e così la Rivoluzione che credeva di unificare l'Europa preparò, in fatto, la ricostituzione delle nazionalità che dalla voce di quella furon richiamate alla coscienza dell'esser loro. Gli ultimi avanzi dell'Epopea, testimoni di cotesto infrenabile movimento delle nazionalità, non poterono riaversi dallo stupore: rimasero come la gallina che si avvede di aver covato le uova d'un'anatra. Quindi malintesi infiniti: e quel che il Sorel comprende oggi così chiaramente, non fu mai capito da uno storico come il Thiers.
Nell'ora dei primi contatti tra la Francia rivoluzionaria e l'Italia, quest'Italia degli antichi governi aveva sentito aleggiare uno spirito precursore: le sorde speranze, affiochite da secoli, ritrovavano la voce. Il Muratori insegnava di nuovo agl'Italiani le loro origini: Pietro Verri e l'Alfieri con il fuoco della poesia tenevano accesa la fucina dove si preparavano le sorti della patria italiana; e quando il Vico con i suoi occhi veggenti perlustrava la storia, ne' grandi orizzonti dove chiamava a raccolta l'umanità, altro non vedeva che l'Italia rigenerata. Nel 1789 il conte Napione parlava già come un precursore del Cavour: e anche fuori della penisola, si presentiva cotesta futura possibilità. La grande Caterina scriveva col suo spirito perspicace: “L'Italia attende e spera.„ E cotesta intuizione politica coincideva col primo risveglio del Romanticismo, uscito dall'anima di Gian Giacomo Rousseau: e la terra della bellezza classica doveva per prima profittare di questo nuovo modo di considerare il mondo. Già lo Chénier esclamava in una delle sue elegie:
Belle encore, l'Italie attire l'univers.
Mossi dal fascino della fata misteriosa, venivano a lei i viaggiatori, pieni d'una sacra ebbrezza che i loro precursori non conoscevano ancora. Paragonate i sentimenti dello Chateaubriand, di madama di Staël, del Lamartine, simili al Goethe che faceva datar dalla sua venuta in Italia la sua seconda nascita, paragonateli alla curiosità puramente classica del presidente De Brosses e degli altri viaggiatori del XVII e del XVIII secolo. Un mondo s'è rivelato: non soltanto ai poeti, ai maestri delle intelligenze, ma ai semplici, ai soldati trascinati dalle guerre. Lo Championnet si reca in pellegrinaggio alla tomba di Virgilio. Udite questo passo del d'Hauteroche, giovane ufficiale della Rivoluzione: “Avevo diciott'anni, le spalline di sottotenente nuove fiammanti, un gran pennacchio bianco, il più grande che avessi potuto trovare.... Partii per Lione. Mia madre pianse, la mia sorellina pianse; io, io per me ridevo e piangevo insieme, ero tanto contento di partire per l'Italia!„ Un altro, il chirurgo aiutante-maggiore Lamare, diciottenne anch'esso, previene la chiamata e parte per Napoli “con un bisturì nell'astuccio, un microscopio nel sacco, e, con in tasca l'Eneide.„
Questi pellegrini armati ebber da prima liete accoglienze nel paese che tanto li attraeva. Tranne nel Piemonte, fedele e devoto alla vecchia Casa di Savoja, c'era poca affezione per le dinastie nomadi che i Francesi spodestavano. I patriotti italiani videro di buon occhio questo aiuto rivoluzionario, che li liberava dai loro padroni stranieri e che per essi trasformavasi in un'aurora dell'indipendenza e della libertà italiana. Il Monti, Ugo Foscolo, composero odi alla gloria di “Bonaparte liberatore„. Ma il disinganno fu rapido. I filosofici liberatori, divenuti alla lor volta padroni stranieri nei paesi che avean liberato, si fecero ben presto odiare dai sudditi. Le tentazioni e le necessità della conquista alterarono l'idea originale della Rivoluzione: in Bonaparte conquistatore, e già prima di lui nello Schérer e nel Championnet, l'Italia disingannata malediceva di nuovo i successori, gl'imitatori di Carlo VIII e di Luigi XI.
Le memorie del generale Thiébault, pubblicate recentemente, mostrano per qual naturale cammino la guerra difensiva diventò guerra di conquista e per quale logica metamorfosi l'entusiasmo dei liberatori si cambiò in spirito d'invasione e di rapina e quello dei liberati in odio contro i nuovi oppressori. Si rabbrividisce a leggere le scene di carneficina e di devastazione che l'inconsciente Thiébault descrive allegramente, quando racconta l'occupazione di Napoli e delle Calabrie. Ma più ancora di questi sanguinosi eccessi, la rapacità dei vincitori esasperò gl'Italiani. Li spogliavano dei tesori d'arte, nei quali la coscienza nazionale vedeva con ragione i veri emblemi della patria smembrata, le più salde garanzie del diritto che essa aveva a pretendere un destino pari all'altezza del suo genio. Paul-Louis Courier testimone dell'esodo di questi dèi lari, già lo rimpiangeva nelle sue eloquenti lamentazioni: “Tutto quel che apparteneva ai Certosini, a Villa Albani, ai Farnese, agli Onesti, al Museo Clementino, al Campidoglio, è portato via, saccheggiato, perduto o venduto. Gl'Inglesi ne hanno avuto una gran parte, e alcuni commissari francesi, sospettati di aver fatto cotesti traffici, son qui arrestati; ma la cosa non avrà seguito. Una squadra di soldati, entrati nella Biblioteca Vaticana, ha fra le altre rarità distrutto il famoso Terenzio del Bembo, per prender le poche dorature onde il manoscritto era ornato. La Venere di Villa Borghese è stata ferita in una mano da qualche discendente di Diomede, e l'Ermafrodito, immane nefas!, ha un piede rotto.„[40]
In Toscana, come a Roma e a Napoli, il triennio, gli anni di guerra civile e straniera corsi tra il 1798 e il 1801, fu un'êra dolorosa di disordini, di esazioni, di miseria per il popolo. Francesi, Napoletani, Austro-Russi e insorti paesani opprimevano ugualmente i poveri abitanti estenuati. Mai fu meglio appropriato il grido del poeta:
Ahi, serva Italia di dolore ostello,
Nave senza nocchiero in gran tempesta!
Le vittorie del Primo Console, nell'anno 1800, restituirono l'ordine se non l'indipendenza e la libertà. L'anno dipoi la Toscana riaveva un regolare assetto sotto il nome di Regno d'Etruria. Questa la prima, in ordine di tempo, delle sovranità effimere che Napoleone doveva far sorgere su tutta la superficie d'Europa, per mettervi e rimettervi come altrettante sentinelle i principi della sua famiglia. Sembra che il futuro distributore di tante corone abbia voluto farsi la mano, per questo grandioso palléggio, a Firenze. Per tale rispetto, l'esperienza etrusca merita d'esser dallo storico presa in considerazione; ed oggi ci è ben nota, mercè dei lavori eruditi di Pierfilippo Covoni, e del libro compilato sui documenti dei nostri archivi diplomatici da Paul Marmottan.
Il granduca Ferdinando III fin dal marzo 1799 aveva abbandonato Firenze, per ordine del generale Gauthier comandante il corpo francese d'occupazione. Ma il principe lorenese non fu definitivamente spodestato che dopo la conclusione del trattato di Lunéville, per il quale i diritti di lui furono trasmessi ai Borboni di Parma. Il trattato, quanto all'assetto dell'Italia, ebbe compimento con una convenzione conclusa ad Aranjuez, il 21 marzo 1801, fra Luciano Bonaparte e il principe della Pace. Ai termini del concordato, l'antico granducato di Toscana, eretto in Regno d'Etruria, passava al giovane infante Luigi di Parma, cugino e genero del Re di Spagna. Una stipulazione espressa determinava che il nuovo re e la sua sposa traverserebbero Parigi prima d'entrare nei loro Stati. L'immaginazione del primo console erasi infiammata all'idea di mostrare alla Francia repubblicana il primo re creato da lui, e di accompagnare sulla Piazza della Rivoluzione, con un corteggio di regicidi e con un cerimoniale abolito, un nipote di Luigi XIV, un discendente di Luigi XVI.
Don Luigi aveva ventott'anni, l'infante Maria Luisa venti. Erano ombre leggiere, come tant'altre che svolazzarono al principio del secolo, ne' rami meridionali della Casa di Borbone: deboli rampolli del gran tronco, estenuati da troppo sole, da troppo potere, da troppe passioni. Nella galleria degli Ufizi è il ritratto di Don Luigi: un esile fantasma, elegante, col suo abito verde e co' suoi calzoni scarlatti, con un viso pallido e il naso caratteristico della famiglia; i capelli d'un biondo pallido son intrecciati in una catenella racchiusa entro una borsa di seta nera. La testa di lui si piega sotto il peso del Toson d'oro: quella povera testa non doveva a lungo resistere sotto il pondo d'una corona cascatale sopra.
Maria Luisa non era bella: piccola, pienotta, colorita, trasparivale una cert'aria di maestà nella fisonomia e tutto il fuoco della Spagna negli occhi neri. Avea uno spirito perfettamente incolto, ma abbastanza sciolto, che pure mostravasi sommesso ai preti, i quali dirigevano la sua devozione puerile.
Don Luigi avea dato segno di una certa curiosità e di qualche attitudine per le scienze naturali. Con lo Chaptal teneva corrispondenza intorno a questioni di chimica industriale. Lo scienziato nel 1792 avea ricevuto dal suo allievo una lettera, che egli ci ha conservato nei suoi Souvenirs e che non è di un principe imbecille. “La vostra Rivoluzione, mio caro amico, ci ha insegnato che il mestiere di re non vale più nulla: figuratevi quello d'erede presuntivo. Dopo averci ben riflettuto, mi son deciso a conquistare la mia indipendenza, e credo potervi riuscire mettendo su delle fabbriche in Ispagna dove mancano. Ma non posso riuscirvi che mediante il vostro aiuto. Venite a trovarmi e lavoreremo insieme. Mio suocero ci darà aiuti di denaro e di protezione. Quando avremo fatto fortuna, andremo a vivere in qualche posto dove possiamo trovar riposo, se pure esiste ancora su questa terra.„
Il Bonaparte stava per dargli la fortuna e un breve riposo. Gl'Infanti lasciarono la Spagna l'11 di maggio 1801. Viaggiarono sotto i nomi di conte e di contessa di Livorno. Questa la sola precauzione che prendesse il Primo console per attenuare lo scandalo d'un ricevimento apertamente reale. Suo fratello Luigi aspettava le vetture alla Bidassoa, alla testa del suo reggimento di dragoni: il generale Bessières andò incontro ai sovrani a Mont de Marsan e li scortò fino a Parigi. Furon ospitati nel palazzo del signor d'Azara, ambasciatore di Spagna: Cambacérès e Lebrun andarono a far loro la prima visita. Subito dopo, i sovrani d'Etruria presero posto in una vettura tirata da muli, secondo la moda spagnuola, e si recarono alla Malmaison, dal Primo Console, che circondato da' suoi generali li attendeva sul peristilio. Don Luigi, timido e imbarazzato, si fermò come interdetto dinanzi al vincitore di Marengo: non potè proferir parola e si gettò con effusione tra le braccia del suo creatore. Bonaparte lo rialzò con bontà, rivolse qualche complimento alla regina, che, con maggior presenza di spirito del marito, rispose con parole cortesi le quali tolsero Don Luigi dall'imbarazzo. Giuseppina s'impadronì di Maria Luisa e la colmò di regali, di acconciature ch'essa avea scelte dalle sue modiste; e grazie all'inesauribile argomento della moda fu presto rotto il ghiaccio fra le due donne, che durante il soggiorno della coppia reale a Parigi furon viste intime e loquaci come vecchie amiche.
Ma fra i due uomini non avvenne il medesimo. Don Luigi non poteva vincere la soggezione che provava dinanzi al Bonaparte. Quando gli affari richiamavano il Primo Console nel suo gabinetto, il giovane re se la svignava scappando nel salone degli aiutanti di campo, dove ritrovava la sua disinvoltura e il suo vero carattere. Superbo di possedere una bella voce baritonale, cantava il Tantum ergo o il Magnificat a quegli antichi volontari della Repubblica che cantavan con lui. Poi li faceva mettere in fila per saltare sulle loro spalle e far le capriole sul tappeto. Questa puerilità serviva a puntino ai disegni del Bonaparte. Dopo la partenza degl'infanti, dinanzi a' generali ne prendeva occasione per dire: “Avete visto che cosa sono cotesti principi della Casa di Borbone, cotesti eredi di Carlo V e di Luigi XIV? È possibile che gente fatta così risponda alle necessità del nostro secolo?„
Pure il Console usò a' suoi ospiti ogni maggior riguardo, e moltiplicò i divertimenti: partite di piacere, balli, ricevimenti magnifici alle Tuileries, presso i ministri, parate della guardia consolare al Carrousel, spettacoli all'Opera, al Teatro francese. Alla zecca si coniò in presenza dei sovrani la medaglia di prammatica Rex Etruriae. Essi assisterono alla seduta dell'Istituto e ascoltarono dotte comunicazioni dello Chaptal, del Cuvier, del Laplace. Presero con loro doni preziosi di Sèvres e dei Gobelins. Maria Luisa, consigliata da Giuseppina, usciva fuori in gran gala e per risparmiarsi la fatica di cambiare abbigliamento, la Spagnola si vestiva fin dalle sette di mattina con lo strascico di corte e portava il diadema senza più levarlo fino a quando andava a riposare.
Il mobilissimo popolo parigino accoglieva con grande entusiasmo il primo Console e il re, su quella stessa piazza dove, ott'anni prima, aveva ghigliottinato il loro buon zio Luigi XVI, come doveva chiamarlo più tardi Napoleone. I manifesti attaccati alle cantonate avevano preparato la pubblica opinione: si diceva che quella memorabile visita era al mondo pegno di pace, e dell'universale concordia che i negoziatori d'Amiens eran sul punto di restaurare. E poi, in cotesta folla, ogni granatiere che aveva traversato scalzo l'Italia poteva dire ai vicini: Cotesto re e cotesta regina li ho fatti io! — L'entusiasmo fu tale che sorpassò i desiderî del Bonaparte, onde il Gabinetto del Primo Console mandò ai prefetti istruzioni segrete per temperare lo zelo delle popolazioni lungo il tragitto che avrebbero percorso i Reali. Il 30 giugno, gl'infanti presero commiato dal Bonaparte e da Giuseppina, e affermarono la loro eterna riconoscenza in un ultimo abbraccio a così grandi amici.
Presero la via dell'Italia scortati da uno squadrone di ussari comandati dal Grouchy. Il generale Clarke, che a Firenze doveva essere il loro tutore, li accompagnava. Dovunque gli stessi segni di rispetto, le stesse ovazioni. Il Murat li attendeva in Toscana, poichè l'eroe piumato riempiva allora con la sua petulanza e magnificenza teatrale queste sale del palazzo Riccardi. Egli diresse l'insediamento di re Luigi a Palazzo Vecchio, e, lasciatolo lì sotto la sorveglianza del Clarke, ripartì per Milano.
Ci voleva un altro ingegno, assai maggiore a quello di questo principe debole ed infermiccio, per rafforzare un trono malfermo in quella Toscana rovinata, lacerata dalle fazioni, occupata dai soldati stranieri, indifferente al sovrano che il caso le imponeva. Le difficoltà gravissime del nuovo regno ci sono rivelate dai carteggi del Clarke e del Tassoni, l'accorto inviato della Repubblica Cisalpina, dalle lettere lamentevoli del re Luigi al Primo Console. Fin dal primo giorno, l'infante si trova alle prese con le difficoltà finanziarie che sempre aumenteranno. Come ricordo del fausto avvenimento, è costretto ad imporre ai sudditi una contribuzione di 300.000 franchi per far fronte alle spese del corpo francese d'occupazione, giacchè 6000 uomini eran di guarnigione a Livorno, donde sorvegliavano gl'Inglesi padroni dell'isola d'Elba. Invano Don Luigi supplica il suo “carissimo amico„, il Primo Console, di scemare le sue pretese; non può nemmeno ottenere dal Bonaparte la restituzione della Venere dei Medici, che allora appunto peregrinava da Livorno a Napoli e da Napoli a Parigi; non potè neanche ottenere quel “più regolare arrotondamento de' suoi Stati„, che il giovane sovrano molto ingenuamente chiedeva in cambio della bella divinità.
Senza tener conto della pubblica miseria, la Corte spagnola si lasciò andare al fasto e allo sperpero. Non si pensava che al piacere. Il re avea preso come primo ministro il vecchio Mozzi “astronomo calato dall'osservatorio al gabinetto„, dice un diplomatico forestiero. Cotesto cortigiano de' vecchi tempi sembra uno dei personaggi dipinti dallo Stendhal nella Chartreuse de Parme. Pure il Mozzi era un galantuomo che non mancava nè d'esperienza nè di finezza; ma fu ben presto sostituito da un intrigante della peggiore specie, il Salvatico che alla Corte degl'infanti diventò ciò che era presso i loro parenti di Madrid il famoso principe della Pace. Cotesto Godoi in sessantaquattresimo aveva tutti i vizi del suo modello. Per le sue mani passavano le grazie, e il denaro del Tesoro andava a' suoi compagni di dissolutezza. Da un solo particolare si può giudicare del fasto che si permetteva cotesta Corte indebitata: intorno alla coppia reale erano centoquindici gentiluomini di Camera e settantacinque dame d'onore. Il Salvatico accarezzava le manie puerili di Don Luigi e la passione per il piacere, che nella regina Maria Luisa andava unita ad un superstizioso bigottismo. La mattina diceva il rosario con i Sovrani; la sera metteva su a Poggio a Cajano alcune recite nelle quali l'infante faceva ammirare la sua bella voce. Che autorità poteva conservare un principe che cantava nel Barbiere la parte di Basilio, mentre il favorito gli rispondeva in quella di Figaro? E cotesto principe era insidiato dal male implacabile che dà un così tragico aspetto ai nipoti di Luigi XIV, consumati sotto il cielo di Spagna dagli eccessi del senso.
Dopo pochi mesi di regno, il disgraziato Don Luigi non era più che un'ombra demente. I rapporti del Clarke e del Tassoni segnalano giorno per giorno il declinare della sua salute, gli accessi furiosi d'epilessia, la cui frequenza è attribuita “alle troppo frequenti prove d'amore che il re dava alla regina„. Ben presto i ministri cominciarono a parlare della sua pazzia, senza riguardi. Questo Amleto frenetico scappava dalla tavola a cui il Murat lo invitava, si chiudeva a forza in camera, e ne usciva poi in veste da camera, con la sciabola in pugno, per esterminare i traditori che la sua immaginazione vedeva da per tutto e non senza ragione! Mancò poco che così non ammazzasse il vecchio Mozzi e il Salvatico. Dovettero legarlo nel letto con lacci di seta. Il 27 maggio 1803 un'ultima crisi epilettica lo spense a trent'anni, dopo un biennio di regno. Come parecchi de' suoi congiunti, aridi rampolli d'una razza esaurita, don Luigi aveva appena appena attraversato la scena del mondo. Nel risveglio di giovani forze che fremevano all'aurora del nostro secolo, coteste fisonomie smarrite e invecchiate sembrano gli ultimi fantasmi d'un mondo che scompare.
Lo seppellirono — ma per poco, come vedremo — nella Cappella dei Medici. Per una di quelle ironie a cui la storia è avvezza, cotest'anima d'augello spaurito, vagabonda così nella morte come nella vita, andò per un momento a posarsi fra le grandi figure di marmo e di bronzo, sotto il Pensieroso, alla grave ombra della Notte. La miseria dell'erario, scrive il Clarke, era tale che “per il funerale del re non c'era di che pagare i ceri; e dalla cereria non vollero darli a credenza: non c'erano che dodici ceri in un angolo del palco sul quale fu esposto, scoperto, il corpo del principe sventurato„. — E il ministro soggiunge: “Gli animi son vicini alla disperazione: le imposte sono così gravi che i sudditi toscani pagano più di quelli della Gran Bretagna: la regina reggente è abbattuta e scoraggita.„
Maria Luisa diventava difatti reggente d'Etruria, in nome del figlio Carlo Luigi ancora in culla. Il vero reggente era il Salvatico. Rinchiusa nelle sue pratiche devote, viaggiando di monastero in monastero con un codazzo di monache, la Spagnola non faceva nulla per affezionarsi i Toscani. Alla morte dell'Alfieri offese i loro sentimenti: e gli amici del poeta ottennero a gran fatica il servizio religioso che il clero gli voleva rifiutare. Nel dicembre 1804, l'ambasciatore di Spagna Labrador fu dai parenti di Maria Luisa incaricato di ottenere a qualunque patto l'allontanamento dell'infausto Salvatico. Il Labrador si recò dalla regina e per tre ore le fu intorno: essa finì per cedere con mala grazia. Cotesta rivoluzione di palazzo fece gran rumore in Firenze. Il favorito non lasciava mai la sovrana, ed entrava da lei a qualunque ora: doveva accompagnarla il giorno appresso a una partita di caccia; ma grande fu lo stupore, e generale il sollievo, quando seppesi ch'era stato destituito durante la notte e condotto con una vettura di posta in una delle residenze suburbane. E la Reggente dovè alla meglio ricomporsi per comparire nel circolo di corte.
D'allora in poi e durante i tre anni che seguirono, la storia della reggenza d'Etruria non ci presenta che l'agonia d'un potere che si dissolveva prima ancora di aver governato. Gl'imbarazzi finanziari ogni giorno crescevano, nonostante gli sforzi e l'abilità del banchiere Eynard: nel 1805 il generale Verdier metteva il sequestro sulle rendite della città e del porto di Livorno per pagare le spese del corpo di occupazione. Come i soldati stranieri, così gl'impiegati toscani si pagavano da loro, e l'amministrazione era dall'alto in basso incancrenita dalla più sfacciata corruzione. Da principio la reggente aveva cercato appoggio e soccorso presso il suo protettore, il Bonaparte; ma il Bonaparte era diventato Napoleone; e il nuovo imperatore aveva altre cure, altri pensieri per altri Stati più importanti di quello dove il Primo Console aveva fatto il primo saggio d'una monarchia vassalla. Per un momento pensò di maritare Maria Luisa al fratello Luciano, che rifiutò. Di poi lasciò libero il campo agl'intrighi della sorella, l'Elisa Baciocchi; giacchè la principessa di Lucca e di Piombino anelava di succedere alla sua debole vicina; e insidiare occultamente Maria Luisa, rovinarla agli occhi dell'imperatore, prendere il suo posto a Firenze, era il disegno politico dell'ambiziosa Elisa.
La guerra di Spagna sonò a morto per il regno d'Etruria; e Maria Luisa sballottata tra Ferdinando suo padre e Napoleone suo protettore, oscillante fra il partito francese e quello spagnuolo, era destinata fatalmente ad esser travolta nella disgrazia de' suoi parenti.
Elisa trovò un alleato nel successore del Clarke, il residente francese D'Aubusson de la Feuillade, gentiluomo di vecchia razza, d'ingegno vivo e aperto a tutte le idee moderne, che si dava in Firenze un gran da fare. Abitava il palazzo Feroni, in Via dei Serragli, si teneva in gran lusso e dava sontuosissime feste. Partiti gli ospiti, il ministro prendeva in mano la penna e dirigeva al Talleyrand delle relazioni vivaci e argutissime, nelle quali diceva corna della società che avea ricevuto. “Il presente governo (dicembre 1806), è composto di quattro ministri, tutti vecchissimi, debolissimi, indolentissimi. Il vecchio Mozzi è rimbecillito dall'età. La regina gli mandò l'altro giorno l'ordine di dare 300 zecchini a un corriere che andava in Spagna: ma egli non ha mai saputo perchè quel corriere ci andasse. La regina non ha fiducia in lui, perchè non ha più che qualche lucido intervallo. Il Cercignani, vecchio come Erode, debolissimo, decrepitissimo, sciocchissimo, nemicissimo dei Francesi, chiedeva non è molto a coloro che sollecitavano la sua protezione, se educassero i figli nel santo timor di Dio e nell'odio contro i Francesi. Il Martini, ministro da un anno, non è fanatico; ma questa è la sola sua buona qualità. È lungo, lento, peso e vecchissimo. Pure ha grandissime pretensioni: ha per intercalare ch'egli ha per governare più talento dello stesso imperatore.... Il quarto ministro Mugnai è ancora vecchissimo e sordissimo.... Fo quanto posso per scuotere coteste vecchie zucche e far loro aprire gli occhi semichiusi dagli anni; ma non ci riesco.„ Nel giugno del 1807 il D'Aubusson tornava all'assalto e ritoccava così il quadro poco lieto: “ministri che non stanno in piedi per le ingiurie del tempo e per la mancanza di fiducia della loro sovrana, o imbecilli e inveleniti contro di noi, tutti con la paura di perder l'impiego; subalterni che valgon quanto loro e anch'essi impauriti, deboli come i superiori in ogni cosa.
Una regina che per giudizio e istruzione ha sei anni, che non si rammenta da un giorno all'altro delle cose, ostinata e dispotica come si suole essere a cotesta età, raggirata da un confessore fanatico e da sottoposti intriganti i quali vogliono arricchire e dominare e non sanno nulla prevedere: ecco il vero quadro della Corte.„
Pretendevano le male lingue che il D'Aubusson fosse molto addentro nel favore della Sovrana, da lui dipinta con colori così poco lusinghieri. È difficile crederlo, perchè lo vediamo prendere a cuore gl'interessi d'Elisa Baciocchi e con la principessa di Lucca cospirare alla rovina della Spagnola. La più gran censura che si faceva al governo etrusco, continuamente rappresentata al Talleyrand e all'Imperatore, era la complicità sua con gl'Inglesi che stavano in crociera dinanzi a Livorno, le agevolezze concedute alle loro merci per rompere il blocco continentale. L'Elisa e il D'Aubusson sapevano che l'Imperatore su questo punto era specialmente irritabile. Sembra di fatti che le risoluzioni di lui fossero precipitate per il pensiero di difendere più energicamente il suo sistema di blocco sulle coste d'Etruria. Tutti aspettavano e reclamavano in Toscana il cambiamento d'un ordine di cose intollerabile, giacchè non c'era più nulla da sperare da una regina e da un governo screditati, odiati da tutte le classi della popolazione, incapaci di porre riparo all'anarchia amministrativa e alla rovina economica del paese. Napoleone non aveva che da fare un cenno per distruggere a Firenze il fragile edifizio da lui innalzatovi: e cotesto cenno fece nell'ottobre del 1807, ma non fu come Elisa desiderava. Frustrando le speranze della sorella, l'Imperatore decise l'annessione pura e semplice della Toscana al Regno francese in Italia. La principessa di Lucca doveva ancora aspettare due anni quel granducato da essa tanto bramato, che le fu concesso soltanto nel 1809.
Stipulava il trattato di Fontainebleau che la reggente e il piccolo re d'Etruria, spodestati dei loro dominii, ricevessero compensi nel Portogallo: Maria Luisa non li ebbe mai. Napoleone, di fronte a lei, procedè con la sua solita brutalità sbrigativa. Disse al generale Reille: “Reille, avete consegnato nel 1801 al re d'Etruria le chiavi di Firenze: andate a farvele restituire.„ Il generale entrò nella città, nel dicembre 1807, con un corpo di 10.000 uomini. Il D'Aubusson aveva notificato alla sventurata Regina il colpo che le era preparato: il 10 dicembre, essa firmò piangendo il proclama che scioglieva i Toscani dai loro giuramenti di fedeltà. E da quel paese, dove non aveva potuto radicarsi, la videro fuggire come un'ombra leggiera, circondata da altre ombre, nella generale indifferenza. Tragica dipartita, quadro parlante di tutto il sistema napoleonico, di quei perpetui sgomberi di sovrani, insediati, cambiati, richiamati come sentinelle di fazione: attendati per alcuni giorni in quelle capitali donde il capriccio di Lui, morti o vivi, li richiamava. Maria Luisa fece esumare il corpo dello sposo, e una carrozza che precedeva la sua portò il feretro di Don Luigi, custodito da quattro cappellani: un'altra carrozza portava la culla di suo figlio. All'inizio del viaggio, il convoglio di scorta era ragguardevole: ma a Cafaggiolo incontrò la principessa Elisa, che aspettava i cavalli di posta requisiti dalla sua rivale: le due donne non si videro. La scorta diminuì rapidamente, intorno alla regina errante che partiva senza un soldo: arrivato alla frontiera di Francia, il corteggio erasi ridotto al morto, al bambino e a quattro donne spagnole rimaste fedeli alla loro padrona. A Milano, essa aveva avuto un abboccamento con l'Imperatore: ma abituato alle disgrazie cagionate dalla sua politica, quella di Maria Luisa non lo commosse più di tante altre.
L'Infante raggiunse i suoi parenti e seppellì lo sposo ad Aranjuez, dove “il cadavere del Re arrivato a buon porto, fu ritrovato conservatissimo„ ( Gazzetta Universale di Firenze ). Poco dopo Maria Luisa accompagnò la famiglia nell'esilio di Valençay. Il Talleyrand che aveva offerto nel 1801 alla regina d'Etruria una magnifica festa nella sua dimora di Neuilly, le offerse ora una prigione nel suo castello di Valençay. Nei Souvenirs di Madame Cavaignac, che incontrò per caso il triste convoglio, trovo un quadro poco lieto di questo miserie reali: “Fu appunto a Saint-Jean de Maurienne, credo, che trovai la famiglia reale di Spagna, mentre recavasi non so dove. Io non ebbi cavalli: tutti erano ritenuti per essa. C'erano il re, la regina, gl'infanti, la regina d'Etruria, suo figlio, il principe della Pace. Tutte figure oltremodo strane e grottesche. Se non avessi visto i corrieri con la livrea dell'Imperatore, avrei preso tutte quelle carrozzate per altrettanti ciarlatani ambulanti, venditori d'orvietano o giocolieri. Non ho mai visto nulla di simile: eran divisi gli uomini dalle donne, comprese le tre Maestà. Mi meravigliai di veder la giovane regina quasi brutta quanto la madre.„ — Uscita da Valençay, Maria Luisa dimorò alcun tempo a Nizza; poi fu mandata a Roma e chiusa nel convento di San Domenico e Sisto, donde il Murat la trasse fuori nel 1814. — Inviata a Lucca dal Congresso di Vienna, vi morì nel 1824. L'infante Carlo Luigi ricuperò i dominii ereditari di Parma nel 1847; abdicò nel 1849 in favore di suo figlio Carlo III assassinato il 27 marzo 1854.
Così disparve, dopo sei anni d'esistenza, il regno d'Etruria fondato per un capriccio del Bonaparte. Come tante altre, l'effimera dinastia spagnola passò fra le pietre forti dei vostri palazzi fiorentini, senza radicarsi nei cuori. Data in balìa a cotesti passeggeri padroni, prima dalla volontà di Napoleone e poi dai calcoli della Santa Alleanza, l'Italia li guardava alternarsi e passare: essa si raccoglieva e preparava la propria indipendenza. Di quell'Italia silenziosa, concentrata nell'attesa de' propri destini, un Michelet avrebbe voluto scorgere l'imagine simbolica nel David di Donatello: quel David di marmo che ammiravo ieri al Bargello, quel giovane erede presuntivo, così altero e disdegnoso, la cui bocca fiorisce in un misterioso sorriso, mentre calpesta la testa di Golia. Eppure è Golia che ha rivelato a cotesto giovane la sua forza e i suoi destini: non sarà re senz'aver lottato contro il gigante. L'invasione rivoluzionaria, da principio acclamata perchè abbatteva i vostri secolari tiranni, fu alla sua volta opprimente e sanguinosa: la dominazione napoleonica fu conculcatrice, abusiva, perchè la fantasia arbitraria del Grande disconobbe il diritto dei popoli a governarsi liberamente. Ma cotesta ultima prova era necessaria per scuotere e staccare l'Italia dall'antico regime, per risvegliare il sentimento nazionale che doveva ben presto trovare la sua forma e tradurre in una realtà politica il vecchio sogno dell'Alighieri. Quindi non malediciamo a questi un po' crudeli preparatori dell'idea patriottica.
Tali sanguinosi conflitti di razze e d'ambizioni hanno avuto la loro utilità nella storia; ma avremmo fatto ben vano studio di essa, se non ci avessimo imparato a risparmiare in avvenire tante lacrime e tanto sangue, a compiere più semplicemente e più umanamente le nostre opere d'incivilimento e di trasformazione. Converrebbe disperare della ragione e del progresso, se l'inevitabile concorrenza dei popoli non trovasse ormai più pacifiche forme: fra noi segnatamente, Italiani e Francesi, fra le due nazioni sorelle che si laceraron fra loro le tante volte, e che si aiutarono anche scambievolmente senza potere scindere il loro ideale. Possiamo almeno riconoscere in avvenire una sol forma di rivalità e di lotta; e cotesta io me l'auguro ardente, accanita: la lotta sui campi di battaglia dello spirito, dell'arte, della letteratura, la lotta dell'umanesimo dove noi svolgeremo a gara, in diverso modo, gli elementi comuni che hanno formato la nostra anima di latini.
Ho parlato un giorno, a proposito dei vostri scrittori, del rinascimento latino. Ho detto come fossimo rimasti colpiti in Francia dalla recrudescenza del movimento letterario italiano. Noi altri stranieri, siam forse meglio di voi disposti a misurare la crescente influenza di cotesto movimento, e la diffusione continua al difuori delle opere che i vostri poeti e romanzieri impongono all'attenzione dell'Europa. Vedo qui dinanzi a me un di quei romanzieri che hanno trovato da noi tanta fortuna; e invito Gabriele d'Annunzio a darmi ragione con nuovi lavori. Ma non voglio insistere sopra un soggetto che saprebbe di adulazione in bocca d'un ospite vostro, e che è invece l'espressione d'un meditato convincimento. Dirò soltanto che auguro a' miei figliuoli di trovare negli scaffali della mia biblioteca ciò che ho trovato in quella di mio nonno e letto con passione all'età loro: alcune grandi opere italiane, di quelle che illuminano e consolano la vita. Quelli ch'io leggeva erano i poeti classici dei vostri antenati: Dante e Petrarca, l'Ariosto e il Tasso. Tocca a voi, miei cari colleghi italiani, di scrivere i bei libri che saranno un giorno letti dai nostri ragazzi francesi.
E, conchiudendo, ardisco dire — a costo di tirarmi addosso le folgori di quella terribile potenza ch'è la stampa, — mandateci molti libri e pochi giornali, almeno di quei giornali che non illuminano gli spiriti ma soltanto vi accendono le malvagie passioni. Da voi e da noi, coteste nocive effemeridi hanno spesso tradito i veri sentimenti dei cuori. Quando, in alcuna gazzetta di Francia, leggerete cose spiacevoli per l'Italia, quando noi in un foglio italiano troviamo cose spiacevoli per la Francia, ricordiamoci entrambi il savio consiglio della Madonna degli Ufizi; prima di formarci un'opinione, mettiamo in pratica il motto preservatore di possibili errori, che la mano della Giustizia ci addita a piè di quel quadro: Odi l'altra parte! E così giudicheremo meglio, senza malintesi, senza odio, come convien giudicare di tutte le cose tra Italiani e Francesi, fraternamente.
NOTA:
40. Lettres de Rome, 1799.
DONNE, SALOTTI E COSTUMI
CONFERENZA DI Ferdinando Martini. Una sera del maggio 1810, Alfonso di Lamartine, appena diciannovenne, in una diligenza sconquassata e seduto accanto al cocchiere, entrava per la porta San Gallo in Firenze. Poco innanzi, sua madre assestando la camera di lui aveva trovato una rosa appassita, delicatamente avvolta in un pezzo di mussolina, e dei versi:
Ah! repose à jamais dans ce sein qui t'abrite
Rose, qui mourus sous ses pas,
Et compte sur ce cœur combien de fois palpite
Un rêve qui ne mourra pas!
Un sogno che non morrà! Esperta che a' sogni di quella specie, in quell'età vaticinati immortali, è quasi sempre, invece, micidiale il mutamento di clima, la signora di Lamartine mandò sogno e figliuolo a viaggiare per l'Italia; il figliuolo si fece più sano e robusto che mai, il sogno lo uccisero le prime acute brezze dell'Alpi; ora per gli orti fiorenti sulle estreme pendici dell'Appennino, inutilmente le rose sporgevano di là dalle siepi le corolle fragranti: nello approssimarsi alla città di Dante e di Michelangelo il giovinetto poeta non cercava col guardo, non vedeva più che gli allori. Andava fresco della lettura dei grandissimi fra' nostri scrittori, nella città che era già per lui la città degli incanti e delle memorie; vi andava con fantasia accesa così, che nel tragitto dalla porta San Gallo alla locanda di Parione ove lo condusse il suo automedonte, si figurò scorgere fontane zampillanti che non ci sono mai state; e perchè tra le fandonie di non so qual libro di viaggi aveva imparata anche questa: che i soffitti delle case a Firenze si costruiscono con legno di cedro, gli parve olezzassero del profumo dei cedri tutte quante le strade.
Que' miraggi vanirono; ma innanzi agli occhi stupefatti, sfolgorarono in splendori sempre più fulgidi le luci della storia e dell'arte. Il Lamartine era partito dalla Francia con molte e ragguardevoli commendatizie; dopo brevi ore di soggiorno a Firenze, deliberato a vivere co' morti soltanto, s'era proposto di non recapitarne veruna. Se non che, letto sul sepolcro dell'Alfieri innanzi al quale, secondo egli scrive, sentì sorgere nell'anima il primo desiderio di fama; sul sepolcro dell'Alfieri letto il nome della contessa d'Albany, pensò che aveva una lettera anche per lei: quella, quella sola e subito lo punse una impaziente bramosia di consegnarla. E uscì da Santa Croce, già smanioso di conoscere la donna che l'Alfieri aveva fatta compagna della propria vita e quasi partecipe della propria gloria; di penetrare in quel salotto, celebre oltre i confini d'Italia, in cui certo sbocciavano le più argute originalità del pensiero fra le più briose eleganze della parola.
Ahimè! donna e salotto gli preparavano un disinganno per uno.
La contessa aveva allora cinquantotto anni; che nulla nell'aspetto di lei ricordasse, per dirla col Lamartine, la regina d'un cuore s'intende; ma egli soggiunge: e neanche la regina di un impero; parole che, pur velando il rammarico di solennità, esprimono intorno alla d'Albany il pensiero medesimo del Chateaubriand, cui ella parve “volgare nel portamento e nella fisonomia„; del duca di Broglie che la giudicò une veritable commère, e del Capponi che la disse “di forme massiccia, d'animo materialotta, vestita come una lavandaia„. Il salotto lasciamo che il Lamartine lo descriva da sè: “Dopo pranzo entrammo nella stanza di conversazione, ove intorno alla contessa s'adunava seralmente una schiera di uomini illustri o nati a Firenze o a Firenze venuti dalle diverse regioni d'Italia. Ascoltavo con curioso raccoglimento i nomi loro, via via che il servitore andava annunziandoli: nomi di famiglie che le storie mi avevano insegnato a conoscere, nomi di professori e di letterati ancor nuovi per me. A mano a mano che costoro entravano, andavano a sedersi in semicerchio, intorno ad un tavolino carico di volumi accatastativi sopra, e dietro al quale se ne stava la contessa mezza sdraiata sopra un canapè.„
Già quel tavolino, quella catasta di libri, quel semicerchio dicono abbastanza; ma il Lamartine dice ancor più. Egli, disposto a veder tutto bello, tenta in sulle prime dissimulare e dissimularsi la delusione che gli toccò: ripensando gli scrittori e gli artisti ch'egli udì ricordare in quel convegno, presso alla camera ove l'Alfieri era morto (a cominciare dal Rinascimento e giù giù fino al Parini ed al Monti) esce in un inno al genio italiano “pianta la quale vegeta, come i rovi del Colosseo, più che ne' solchi, vivace fra le ruine„. Ma quando siamo allo stringere, quando egli vuole schiettamente confessare agli altri ed a sè le proprie impressioni, allora gli viene importunamente spontanea sotto la penna, la più titubante parola del vocabolario: il però. Però, a ben considerare, di che si discorse quella sera, in quella stanza, da que' gentiluomini, da que' professori, da que' letterati? Di un argomento unico, quasi proposto alla gara di erudizioni ingegnose e vane per giunta; delle ragioni, cioè, di preminenza letteraria o artistica che l'una città d'Italia poteva vantare in paragone delle rivali. Dissertazioni, non conversazioni; gelidi colloqui di defunti, non dialoghi attraenti di vivi. Che salotti? Oramai egli non si perita più di chiamare le cose col vero nome: quella non era altro che un'accademia. Ugo Foscolo non dà diverso giudizio: in quel crocchio, egli scrive, io mi sto muto e freddo come la sedia che opprimo.
Ben diverse dalle riunioni nella casa del Lungarno a Firenze, le riunioni nel palazzo di Via Montparnasse a Parigi, dove la contessa abitò dal 1788 al 1791; e alle quali intervenivano, per tacer d'altri moltissimi, e il Mercy d'Argenteau, e il Montmorin, e il Necker e Giuseppina Beauharnais e gli Stael moglie e marito, e i Boufflers madre e figlio, e il Cherubini radioso pe' felici successi della sua Lodoiska e il Beaumarchais prossimo a dar l'ultima mano alla sua Madre colpevole; della quale, compiuta che sia, offrirà le primizie alla D'Albany e agli amici di lei. Ma Parigi era Parigi; e se il Lamartine si figurò di trovare a Firenze nel 1810 un salotto, il quale rivaleggiasse coi francesi del secolo innanzi e ond'egli forse aveva udito a casa narrar meraviglie, fu il suo errore tale, che soli valgono a scusarlo la recente dimora e gli anticipati entusiasmi.
Io non parlo, badiamo, de' salotti parigini nei quali si lavorava a scavalcare o a tenere in sella un ministro, e la conversazione era, più che altro, una scusa: di quelli, per citare due soli ad esempio e non dei più celebri, della marchesa di Lambert sotto la reggenza e della duchessa di Grammont durante il regno di Luigi XV. In Francia il Molière, versificando una sentenza di Giovanni V duca di Bretagna, affermò che una donna ne sa abbastanza quando è capace di distinguere una giacchetta da un paio di calzoni; e lasciò intendere che una delle poche occupazioni dicevoli alla più bella metà del genere umano era appunto il cucire o rammendare calzoni e giacchette. Ma le francesi degli alti ceti a tanta esiguità di nozioni, a tanta placidità di uffici non si rassegnarono mai; e così prima come dopo gli ammonimenti del gran comico, ambirono a governare lo Stato, e quando governare non potevano, si adoperarono a sconvolgerlo; e invece di filare, com'egli avrebbe desiderato, dettero del filo a torcere ai ministri e ai luogotenenti generali della polizia. “Beati voialtri spagnuoli„, diceva il Mazarino a don Luiz de Haro, intanto che insieme imbastivano la pace de' Pirenei. “Beati voialtri spagnuoli. In Spagna le donne si contentano d'essere galanti o devote, obbediscono all'amante o al confessore; da noi pretendono di spoliticare e si arrogano di comandare anche al Re.„ E se il Mazarino credè che debellata la Fronda, la Chevreuse sottomessa, la Longueville esule in Olanda sarebbero stati alle donne in Francia esempi di efficacia durevole, ognun sa di quanto ei s'ingannasse. Il secolo seguente vide, nato da poco, la Maintenon spaventare la devozione di Luigi XIV e ottenere più dura la persecuzione de' giansenisti; e lei morta appena, per cinquant'anni segnatamente, dal 1720 al 1770, dal giorno cioè in cui l'abate Dubois entrò nella diocesi di Cambrai a riposare il corpo logoro dagli stravizi sulla cattedra onorata dal Fénélon, sino al giorno in cui il duca di Choiseul andò confinato nel castello di Chanteloup; trionfi e catastrofi di ministri e di cortigiani furono opere femminili. Le donne, nota il Montesquieu, formano una vera repubblica, uno Stato nello Stato, i cui cittadini operosissimi si aiutano di servizi reciproci; e chi dimorando a Versailles, o a Parigi, o in provincia mira affaccendarsi ministri, magistrati, prelati e non conosce le donne che li sospingono, è da paragonarsi a chi vegga agire una macchina, senza sapere per quali congegni si muova. È una donna, M. me de Tencin, quella che suggerisce ad un'altra donna, la Chateauroux, il più felice pensiero del nuovo regno, la presenza del re alla guerra di Fiandra; è una donna, la Pompadour, quella che conduce la Francia all'alleanza austriaca e alla guerra dei sette anni; più tardi la Tallien preparerà Termidoro, e dopo Termidoro la Stael impedirà la ristorazione della monarchia. Salvo brevi intervalli, in Francia nel secolo passato, come altri avvertì, la donna è la sommità onde tutto discende, il modello su cui tutto si foggia, la sorgente onde sgorgano rapide fortune e sciagure improvvise. Essa dispone del danaro pubblico e del sangue de' soldati, regola la politica estera, l'interna, la militare; scrive note diplomatiche, fa sottoscrivere lettere d'imprigionamento, invia piani di guerra a' quartieri generali e si serve de' finti nèi rimasti sulla toilette per indicare le posizioni dei reggimenti: essa è, in breve, il principio che governa, la volontà che dirige, la voce che comanda.
Diverse, troppo diverse le nostre dalle condizioni della Francia in quel tempo: e perciò non fu in Italia salotto, che avesse pur l'ombra dell'importanza politica cui parecchi de' Francesi pervennero. Ma neppure salotti di più geniale natura potevano nel secolo scorso non che fiorire attecchire in Italia, da pareggiare quelli che furono scuola e norma della colta, arguta, disinvolta garbatezza francese; dei quali sir Nathaniel Wraxall scriveva che vi si era perfezionata la più utile e gradevole delle arti, l'arte del conversare: e il Talleyrand che chi non aveva frequentato que' ritrovi non conosceva il più dolce de' godimenti dello spirito: salotti ove chiedevano in grazia d'essere accolti gli ambasciatori subito dopo la presentazione a Versailles, i sovrani appena giunti a Parigi.
In Italia, al fiorire, anzi al sorgere di ritrovi altrettali troppi impedimenti si opposero: il generale costume, quando non la scarsità la qualità della coltura, finalmente e principalmente le donne.
Perchè è tempo di ben determinare il significato delle parole: quando si dice salotto si sottintende padrona di casa: dov'essa manchi, voi potete sì adunare in una stanza quanti uomini vi piaccia spiritosi insieme e eruditi (se pur la combinazione è possibile) e piacevoli e originali conversatori e novellatori: e quello sarà un circolo, un consesso, un areopago, un Olimpo, ma un salotto no. In Italia le padrone di casa mancarono; onde pochi i salotti e tali che il Lamartine li definì tutti quanti, allorchè, ricordando la D'Albany e gli ospiti suoi scrisse: non salotto, accademia.
Prima della rivoluzione la borghesia ha poca voce in capitolo: quali i costumi, la coltura delle signore italiane, quali le occupazioni loro? Se con la guida de' carteggi e dei libri di Memorie che ci rimangono di quel tempo, si percorra la penisola in lungo ed in largo, dal più al meno le occupazioni loro son le medesime dappertutto: giuoco, teatri, pettegolezzi, cicisbei.... o peggio. A Napoli più teatro, più pettegolezzi che altrove, meno giuoco e pochissimi cicisbei. Ma non c'è da rallegrarsene: poco limbo, più inferno. Io non riferirò qui ciò che delle signore napoletane scrisse il Berenger, incaricato di Francia a Napoli nel 1770: lascerò che una donna, una saggia donna, la signora di Saussure racconti lei aneddoti, che danno di que' costumi una chiarissima idea. Un giorno la signora di Saussure va in casa della principessa di Belmonte a veder passare una processione; tornatane scrive: “Spettacolo più nuovo assai era il contegno delle signore che mi erano accanto su quella terrazza, e ch'io trovavo ogni giorno ora in una casa ora in un'altra. Quando riconoscevano nella processione un dei loro amanti — “Ah!„ gridavano — “ecco il tuo innamorato! Ecco, il mio! Ah! come è bello! Gioia mia, che Dio ti benedica!„ e un ammiccare continuo dalla strada alla terrazza, dalla terrazza alla strada, e grida e saluti e scoppi di risa.„ — Nè la scostumatezza, cinica così da parere inconsapevole, si fermava alla porta del palazzo reale. La principessa di Pietra Perzia diceva alla Regina: “Io voglio un amante e Vostra Maestà me lo ha da scegliere lei stessa,„ e l'altra: “Va bene, va bene figlia mia, ve lo sceglierò io.„
C'era, come ognun vede, poco posto per i salotti: occupavano troppo spazio le alcove. E se un'artista, la Vigée-Lebrun, fuggendo la compagnia di donne che l'Hamilton qualifica, senza ambagi, ignoranti, vorrà a Napoli frequentare chi non parli di mode, d'amore e di scandali, le sarà giocoforza bussare alla porta di altri forestieri: o della contessa Scawronska, moglie del ministro di Russia o del principe di Rohan ambasciatore dell'ordine di Malta, o di lady Orford, o della bellissima duchessa di Fleury, peccatrice emula delle napoletane, ma peccatrice fantasticante e passionata, romantica prima del romanticismo; nella consuetudine del conversare squisito addestrata così nel proprio salotto alle scherme dialogiche, da rintuzzare con arguzia signorile una triviale impertinenza di Napoleone. Rifugiatasi in Italia durante il Terrore, ella tornò ne' primi anni dell'impero in Francia, dove le sue avventure (altrettante sventure) eran note; e imbattutasi un giorno in Napoleone, questi così la interrogò a bruciapelo:
— “Aimez vous toujours les hommes?„
E la duchessa: — “Oui, Sire, quand ils sont polis.„
A Roma, molte le case aperte, come suol dirsi, a giorno fisso: de' Barberini, de' Cesarini, de' Patrizi, degli Altieri, de' Borghese, de' Santacroce, de' Rezzonico, de' Bolognetti. Livree fiammanti, rinfreschi sontuosi, statue stupende in ogni angolo, quadri stupendi per ogni parete. Ma accanto a una statua greca un tavolino di tresette, sotto a una Vergine di Raffaello un tavolino di tarocchi o di minchiate o di faraone, perchè si giuoca sfrenatamente a ogni sorta di giuochi. Fra un tavolino e l'altro, ingombro di abati intraprendenti, fra una partita e l'altra chiacchiere e maldicenze. Se qualche forestiero vi capita capace di increspare quella gora con aliti intellettuali, nessuno gli bada, così almeno afferma il Reumont, cominciando dai padroni di casa. Di quando in quando un po' di musica, piuttosto in omaggio alla moda che per ricreazione degli animi o pascolo alle inclinazioni. Delle donne, molte tagliate sul modello della bella Giuliana Falconieri principessa di Santacroce cara a Papa Pio VI, la quale dicono provvedesse largamente alla posterità senza presumere d'andarvi: ma vi andò pur troppo, avendo per compagno il Cardinale De Bernis e per istoriografo il Casanova. Altre foggiate a immagine della contessa Braschi, che si scusava di mancare a non so quale convegno, descrivendo per filo e per segno il piede malato del proprio cavaliere servente: e, forse a dimostrare che la lunga consuetudine con Vincenzo Monti, segretario di suo marito, non era stata per lei senza frutto di eleganze epistolari, chiudeva il biglietto così: L'amica scorta non potendo calzarsi il piede io non verrò. Altre finalmente sprovviste d'ogni elementare cultura come la marchesa Lepri, che discorrendo del Saul d'Alfieri diceva: bello, sì: peccato che sia troppo triste.
Giuoco, libertinaggio, cicisbeismo, preziosità, ignoranza; queste essendo le occupazioni, queste le consuetudini delle signore romane, non è a meravigliare se Roma non ebbe ritrovi colti e geniali, quali a Parigi quelli che presero nome dalla Geoffrin, dalla Du Deffand, dalla D'Houdetot, dalla Lespinasse; Roma a cui pur l'Europa mandava in pellegrinaggio i più illustri de' suoi scrittori, de' suoi artisti, de' suoi filosofi, de' suoi poeti. V'erano, sì, due salotti che si distinguevano dagli altri: l'uno della Maria Pizzelli dotta nel greco, nel latino, nelle matematiche ed egregia verseggiatrice: egregia, affermano i biografi, ed io lo ripeto sulla fede loro: i versi della Pizzelli non li ho letti, e non prendo neanche impegno di leggerli. Ma al solito, un'accademia; non vi si conversava: chiunque vi capitasse, vi sciorinava una propria canzone, un'ode, un sonetto, e gli altri applaudivano, aspettando di sciorinare e preparandosi ad essere applauditi a lor volta. L'Alfieri leggendovi la Virginia purificò l'aria ammorbata dalla pioggia continua de' madrigali di un abate Cunich, che insegnava alla Pizzelli il greco: lingua difficile, lezioni lunghe e frequenti.... il maestro finì con l'innamorarsi della discepola; dicono, inutilmente. L'altro salotto, quello di Donna Margherita Boccapadule, nata dei Marchesi Gentili; ritrovo gradevole secondo parecchie testimonianze, ma dove convenivano uomini di troppo differenti animi ed abitudini; letterati, scapati, forestieri d'ogni genere e qualità, sicchè spesso la conversazione avviata da Alessandro Verri, cui la marchesa piaceva, era tratta in sentieri più ameni dagli scapati che piacevano a lei.
A Firenze costumi più castigati; ma i signori serbano il meglio delle loro entrate e delle loro energie per i faticosi ozi della villeggiatura; i Corsini, i Riccardi, i Pucci, i Gerini, i Martelli, i Rinuccini, i Gherardesca, passano la primavera in casini suburbani, l'autunno nelle magnifiche ville del Valdarno o del Mugello; e quando soggiornano in città vi menano vita molto monotona. “In carrozza il giorno fino alla Porta Romana, trattenendosi alquanto sulla piazza vicina, poi sulla piazza del Duomo innanzi al Caffè del Bottegone a prendervi rinfreschi e aspettare l'ora del teatro.„ Così usavano nel 1770 quando fu a Firenze il Lalande: usanze non molto diverse da quelle che vi trovò la Stael nel 1805, e che ella descrive nella Corinna così “Si va tutti i giorni nelle ore pomeridiane a passeggiare Lungarno e s'impiega la sera a raccontare che ci siamo stati.„ Inoltre, a' tempi del Lalande i signori fiorentini avevano la fissazione d'imitare le mode e le costumanze inglesi: sicchè quando non c'era teatro, gli uomini la sera se ne andavano da una parte, le donne da un'altra: quelli al Caffè o al Casino de' nobili, queste sole, o a crocchio con altre donne, o a quattr'occhi, occhi sonacchiosi, col cavaliere servente. Poche le veglie, segnalata quella della Marchesa Niccolini in Via de' Servi; dove a saziare la sete intellettuale degli ospiti bastava qualche sciarada o qualche sonetto a rime obbligate; e, saziata che fosse, si giuocava accanitamente come a Roma, come a Torino nonostante i severi decreti del re, come a Milano dove Pietro Verri, sebbene assiduo nella casa della coltissima e argutissima Marchesa Paola Castiglioni, diceva essere oramai divenuto impossibile il conversare. Salotti che arieggino ai francesi bisognerà dunque cercarli altrove: in casa della Isabella Teotochi Albrizzi a Venezia, della Silvia Curtoni Verza a Verona, della Cornelia Martinetti a Bologna; simili, ma d'importanza molto minore quelli, anche a Venezia, della Giustina Michiel, a Bergamo della Paolina Suardi Grismondi, la Lesbia del Mascheroni.
De' salotti francesi molti ci serbarono le cronache, che il Feuillet de Conches potò poi compendiare e colorire in istoria; questi italiani men fortunati, o forse fortunatissimi, non ebbero finora storico alcuno. Bisogna dunque ingegnarsi d'indovinare: agli amici che tesserono gli elogi di quelle signore, a' poeti che le cantarono c'è naturalmente da credere fino ad un certo punto. Chi prestasse fede al Bettinelli, al Montanari, al Pindemonte in ispecie, che designò ciascuna di esse con un epiteto particolare e chiamò saggia l'Albrizzi e (speriamo con maggior verità) gentile la Verza, amabile la Grismondi, dovrebbe persuadersi che esse furono perfette d'intelletto, d'animo e di contegno: e i salotti dei quali, per usare appunto le frasi de' panegiristi e de' poeti, “ tennero lo scettro „ altrettanti o templi care alle Muse, come scrive il Montanari, o grotte magiche, come vuole il Bettinelli, o gabinetti d'Armida, come piace chiamarli al Vannetti. Io scelgo grotte, perchè non voglio nè mancare di rispetto ai templi, nè offendere Armida: e voglio pur dire che ogni volta io m'accosto a quei penetrali, sento uscirne puzzo di vanità e tanfo di pedanteria.
Splendide le sale dell'Albrizzi, dove (canta il Montanari):
Undici nazïoni in una sera.
La Cinese tra lor . . . .
. . . . . . . . concordi
Offerivano incensi ad Isabella:
illustri gli ospiti, e basti dire che Ippolito Pindemonte, durante le sue dimore invernali in Venezia, non lasciò scorrer sera che non vi andasse per qualche ora; basti ricordare che o più presto o più tardi vi passarono tra' forestieri il Denon, il Maisonfort, la Lebrun, il Byron, la Stael, il Chateaubriand; fra gli italiani il Cesarotti, il Cicognara, il Botta, il Monti, il Rasori, il Carrer, il Foscolo: il quale, capitatovi giovinetto e persuaso dall'esperienza della celeste Temira, che aveva diciotto anni più di lui, vi si indugiò ad ascoltare le prime lezioni di filosofia della vita. Ma lasciamo i colloqui intimi; e lasciamo anche le serate di gala, nelle quali l'italiano o il francese o l'inglese famoso sono mostrati alla folla come insegna e richiamo: veniamo a' convegni usuali, composti, pacati; chè allora si intende quale sia il salotto: non così finchè undici persone di undici paesi diversi, compreso un chinese, stanno lì a offrire incensi alla padrona di casa.
Il Malamani scavò nel Museo Civico di Venezia certo scritto di Lorenzo Paron, specie di processo verbale di una di quelle adunanze; ma nel pubblicarlo, quasi a malincuore, soggiunse che per quel documento pioveva sulla conversazione dell'Albrizzi un raggio pallido e strano. Io posso riepilogare, non riferire lo scritto del Paron; avverto soltanto che, invece di un raggio pallido, pare a me che esso mandi luce vivissima. Da principio, dialoghi insulsi inframezzati di barzellette grassocce; a un certo punto la signora, senz'appiglio alcuno, senza che se ne sappia il perchè, esce fuori a domandare se vi sieno commentari oltre quelli di Cesare: — “Uhm! no.„ — “No? e allora, — ribatto, — come va che Plutarco che consultavo stamattina parla di commentari, ecc., ecc.?„
E io me li figuro que' dotti tutti o più o meno innamorati. “Ah! che donna! che divino intelletto! Consulta Plutarco di mattinata!„ — Ognun d'essi a farle colpo sfodererà la propria dottrina; e si palleggiarono difatti, narra il Paron, Demostene, Livio, Seneca, Platone. Vi ricordate le parole del Lamartine? Dialoghi di defunti: dissertazioni non conversazioni. Il Denina del rimanente e in argomento di lode, lo dice schietto del salotto della Verza a Verona: una vera accademia di belle lettere: e il Montanari dichiarando, soggiunge: “nè quella che aveva fondato in Milano un secolo prima Teresa Visconti, e di cui parla il Tiraboschi nella storia della nostra letteratura, era stata men benemerita.„
Dunque accademie; e diciamo pure benemerite, sebbene non si vegga quali fossero le vantate benemerenze, ma salotti no. Non già che non possa parlarsi in un salotto, e non si parlasse forse anche a Parigi, di Platone o di Seneca; ma qui se ne parlava soltanto per far pompa di un'erudizione che era fine a sè stessa. Tutte quelle donne, alle quali il bravo Girolamo Pompei aveva insegnato il greco, non potevano stare se non rammentavano a tutti ogni momento che lo sapevano. Non un pensiero originale mai, non mai un'arguta sentenza, di cui dovrebbe trovarsi ne' carteggi o nelle Memorie la traccia. La maggior parte de' frequentatori di que' salotti era quello che era: nè poteva aspettarsi che dalla testa di Mario Pieri, dell'abate Franceschinis o di Clementino Vannetti uscisse ciò che usciva dalla testa del D'Alembert, del Grimm, del Diderot; ma lo stuolo eletto c'era anche qui. Se non che, in Francia la D'Houdetot, la Geoffrin paiono avere a regola e guida la risposta di Curzio Dentato a' Sanniti: “Io fo poco conto dell'oro: molto di signoreggiare su coloro che lo posseggono„; così ad esse piuttosto che l'ostentare il proprio ingegno e la propria coltura premeva incitare l'ingegno, sfruttare la coltura altrui, e vi si adoperano con tatto meraviglioso. Non pretendono insegnare, osservano e imparano, mutando a poco a poco la istintiva chiaroveggenza in sagacia incomparabile. Vous avez été charmant aujourd'hui, diceva una volta la Geoffrin a Bernardin de Saint-Pierre dopo aver lungamente conversato con lui: e l'altro: Je ne suis qu'un instrument dont vous avez ben joué. L'Albrizzi, la Verza, invece, primeggiano nei loro salotti: e composto intorno a sè un uditorio, fanno cattedra del canapè. La conversazione perciò a casa loro cammina sulla traccia segnata dal loro ingegno mediocre, dalla loro coltura grave ed angusta. La Geoffrin, la D'Houdetot pensano agli altri: battono selce con selce, per isprigionare scintille onde poi si accendano e propaghino nuove luci a irraggiare la Francia; la Verza, l'Albrizzi pensano a sè; vogliono andare a' posteri e, perchè sentono che non han forza a tanto viaggio, cercano chi le accompagni e sorregga. C'è, sì, anche a Parigi, una donna che non si rassegna nel proprio salotto alla parte modesta di ascoltatrice attenta o di incitatrice opportuna, e disputa e giudica e impone: la Du Deffand: ma quale donna! l'acume e lo spirito fatti persona. Le sue lettere, documento prezioso alla storia politica, sociale, morale della Francia d'allora, sono capolavori di naturalezza, di grazia, di malizia, di profondità. Paragonate, i suoi Portraits con i Ritratti della Verza e dell'Albrizzi: quelli potrebbe averli fatti il Saint-Simon, questi, a dire il vero, non vorrei averli fatti nemmeno io.
Ancora: io non vi do quelle donne francesi per stinchi di santo, ma la civetteria era bandita da' loro salotti: ne' salotti invece della Verza, dell'Albrizzi, della Martinetti è uno spasimare continuo e un continuo provocare gli spasimi. Spasima il Monti per l'Albrizzi:
Chiudi, o misero cor, chiudi la porta:
Non mostrar tue ferite alla superba,
Chè in quel bel seno la pietade è morta.
Spasima (o si sfoga quasi con le parole medesime) il Costa per la Martinetti:
Atti soavi, altere voglie oneste,
Senno e virtude non mai pigra o stanca.
Fuor che un po' di pietà nulla le manca.
E spasima il Giordani, ma egli si sfoga con parole troppo più acerbe.
Io non mi ricordo nemmeno più se i sospiri sieno piacevoli nei colloqui in due; certo è che in tre sono insopportabili; peggio fra dieci o dodici. Nulla di più antipatico che i languori portati a processione, nulla che geli più la conversazione della presenza d'un innamorato infelice. Il salotto della Recamier, che rammenta quello della Martinetti, guasto appunto dalla coorte degli spasimanti inascoltati, per cagion loro appare agli occhi nostri meno attraente di quelli che lo precederono.
Ve la ricordate la Recamier? Due generazioni di uomini illustri le si prostrarono innanzi adoranti; fu tenuta per la più bella donna di quel tempo, che pur mirò la Tallien, la Santacroce, Giorgina Spencer e la duchessa di Devonshire. Luciano Bonaparte smaniò, Augusto Kotzebue sofferse, Matteo di Montmorency pianse, Beniamino Constant impazzi quasi per lei: a lei il Ballanche e il Chateaubriand volsero morendo gli occhi amorosi.
Statua maravigliosa che nessun Pigmalione valse a smuovere dal suo piedistallo, si serbò pura della purezza del marmo, fatto apposta per sfidare gl'incendi. Sotto il Consolato, quando ella entrava ne' diciotto anni, già eran celebri i ritrovi nella sua casa in Via del Montebianco, o nella sua villa a Clichy: là fremevano del sollecito oblìo i letterati della rivoluzione, il Lemontey, il Legouvé, il Dupaty: là gemevano sulle sorti della Francia i vecchi cortigiani di Luigi XV, il De Guignes, il Narbonne, il Lamoignon: là bramosi di fortuna e di gloria, ineggiavano alla Francia nuova il Massena, il Bernadotte, il Beauharnais: là il Fouché dimostrava la utilità del regicidio al principe Pignatelli che non lo stava a sentire, intenti gli occhi malinconici nei grandi occhi azzurri della padrona di casa. In mezzo a loro la divina Giulietta, sempre vestita di bianco, con un fisciù rosso alla creola, solo ornamento de' capelli ondati, abbondanti. Nimium pulchritudini nocet ornamentum; i troppi ornamenti nuociono alla bellezza, le aveva insegnato il Bouilly, con le parole di Apulejo. Cortese con le donne, con gli uomini affabile, salutava e questo e quello con vocativi diversi e tutti innocenti: mon ami al Chateaubriand, mon camarade al Bouilly, mon petit frère al Dupaty: e così ogni sera fino all'ora dello svenimento. Perchè pur troppo nessuno a questo mondo è perfetto e la Recamier aveva anch'essa il suo mancamento e si sveniva tutte le sere alle undici in punto. Bisognava portarla di peso sul letto: riavutasi, gli ospiti le sfilavano innanzi inteneriti, rapiti: e il cortinaggio, scrive il Lamartine che pur crede simulati gli svenimenti, il cortinaggio scendeva a separare le ineffabili grazie dai desideri ineffabili.
Della Martinetti, Ernesto Masi, il quale pare di lei innamorato tanto quanto il Costa e il Giordani medesimo, scrive: l'adorazione sottomessa e rassegnata fu il sentimento di cui ella più si compiacque. Sarà: io non voglio avvelenare di dubbiezze o sospetti l'animo dell'indulgente biografo: soltanto poichè ho detto che il salotto della Martinetti per la folla degli adoratori si assomigliava a quello della Recamier, debbo aggiungere che la Recamier se s'inebriava degli incensi, non aizzava i turiferari. Per la Martinetti, vedutala a Bologna, il Foscolo prese di primo acchito una delle solite ubriacature, e andatosene a Firenze perseguitava la bella Cornelia con lettere bollenti. Ella rispose, grave, che smettesse: si sentiva (son parole sue) soavemente sicura del proprio cuore, perciò l'insistere fatica buttata; egli malazzato avesse cura di sè, badasse a curarsi e non s'ostinasse in quelle fantasie. Brava! e benedetta la sincerità! Se non che il Foscolo, replicando, le scrive: “avrò cura di me: qui la prima lezione diceva abbi cura di te, l'avete mutata; ho poi trascorsa tutta la vostra terza facciata ed ho trovato sotto la correzione del voi molte traccie del tu „. Via, qui non c'è indulgenza che tenga: quando una donna scrive ad un uomo ha da esser decisa sul pronome da adoperare; quando una lettera non esprime chiaro il pensiero si strappa; quando una parola si cancella, si cancella per modo che non appaia; quando si mettono gl'innamorati alla porta, non si lascia la porta socchiusa. Ma erano, su per giù, tutte così quelle signore: mezze donne e mezze uomini; degli uomini avevano tutte le ambizioni, delle donne tutte le debolezze; tutti i pregi fisici del loro sesso, molti difetti morali dell'un sesso e dell'altro.
Così, sebbene materiale di letteratura, sebbene sempre attorniate da una cerchia di letterati, passarono, senza esercitare alcuna influenza sopra la letteratura del tempo loro, senza lasciare un libro, una pagina, un motto che a quel tempo sopravvivesse. Noi, infermi di curiosità, ci affatichiamo oggi a rintracciare per gli archivi e le biblioteche le orme loro, ci affacciamo in ispirito a que' salotti, riponiamo al loro posto i medaglioni, gli specchi, gli stucchi, le stoffe, delle quali c'è noto perfino il colore; ma al primo sussurrare delle voci, ci assale un senso di stanchezza e di noia. Aria! Aria! Apriamo le finestre: entrino nei salotti ammuffiti nuove correnti di sentimenti e di idee. Ecco, quanto sentiva di rossetto e di cipria, quanto sapeva di goffa imitazione francese, è spazzato: la Verza, la Grismondi, l'Albrizzi, la Martinetti, si dileguarono come fantasmi; i pastelli di Rosalba Carriera presero la via del museo. Eccolo il salotto italiano. Potete voi entrare a scaldarlo con la fiamma degli animosi presagi, o Teresa Confalonieri, o Costanza Arconati, o Cristina di Belgioioso!
VINCENZO MONTI (1754-1828)
CONFERENZA DI Ernesto Masi. Per discorrere di Vincenzo Monti mi par necessario prendere le mosse da alcuni fatti e da alcune considerazioni di ordine generale.
La letteratura italiana, non dirò moderna (perchè a costruir questa stiamo affaticandoci ancora, sempre un po' a tastoni, come in tutto il resto) ma dirò, la letteratura italiana contemporanea procede dal Parini e dall'Alfieri.
Sono due novatori il Parini e l'Alfieri? E chi lo sarebbe, se non lo sono essi, che si crearono di nuovo l'inspirazione, la materia, lo stile, persino il pubblico, a cui rivolgersi?
Ma l'uno e l'altro sono altresì essenzialmente classici, e generatori di quel neoclassicismo nazionale, in cui consiste tutta la letteratura nostra, che vien dietro a loro e sino al Manzoni. Questa considerazione ne richiama un'altra, che rientra nella prima, slargandola, ed è che in tutta la letteratura italiana contemporanea v'ha due fatti di suprema importanza, da una parte il Manzoni (non dico il romanticismo del Manzoni, ma il Manzoni), dall'altra la tradizione classica, che permane, rammodernandosi bensì, ma sempre costante, e non come reminiscenza di scuola, d'accademia o di biblioteca, ma come forma viva, vivissima, e va dal Parini e dall'Alfieri al Monti, al Leopardi, al Giordani, al Botta, al Colletta, al Niccolini e sino al Carducci.
O io m'inganno, o questa è la nota fondamentale della nostra letteratura dal 1750 a tutt'oggi, nota caratteristica e tutta sua. Nelle letterature straniere contemporanee, dopo breve contrasto, tutto è assorbito dalla corrente nuova, romantica o moderna, ed ora realista, positivista, simbolista, estetica o decadente, che vogliate chiamarla, sicchè non trovate un poeta o un prosatore di gran levatura, che non le si abbandoni intieramente. In Italia invece ogni regione ha il suo cenacolo letterario od artistico, più o meno sensibile via via alle esigenze dei tempi, che mutano, e che più o meno consente ad esse o, come spesso accade, se ne infatua e le esagera, ma la tradizione classica resiste e mai cede il campo del tutto. È un bene, è un male? Il problema si può porre, ma non credo si possa ancora risolvere. Questo in quanto alla storia letteraria.
Quanto alle relazioni di essa colla storia civile e politica, l'austera moralità del Parini riformista mira a rinnovare l'individuo in Italia; la passionata idealità dell'Alfieri rivoluzionario mira a rinnovare il cittadino; l'una e l'altra coll'individuo e col cittadino rinnovati a rifare un popolo e ridargli una coscienza nazionale.
Ridargli? Ma l'avea esso mai avuta? È dubbio, signore, se una vera coscienza nazionale sia mai esistita in Italia, prima che incominci colla Rivoluzione francese quella che chiamasi storia contemporanea. È dubbio, se a crearla sarebbe bastato il cosmopolitismo vago della letteratura filosofica francese del secolo XVIII, che pure avea varcato le Alpi prima di Napoleone Bonaparte e si sovrapponeva, come ha acutamente notato Augusto Franchetti, al concetto medievale e dantesco della monarchia, per cui l'Italia non poteva disgiungersi dall'Impero, e quindi al moto intellettuale del Rinascimento, che avea esso pure un carattere d'universalità e cronologicamente poi era connesso con la fine dell'indipendenza italiana.
Certo è che in Italia i primi segni del farsi o rifarsi una coscienza nazionale si hanno subito tra quel tumulto, tra quelle angoscie, tra quelle incertezze dell'invasione francese, guidata dal Bonaparte nel 1796.
Lazzaro Papi, il futuro storico e giudice severo della Rivoluzione francese, chiude un suo sonetto così:
Tu che dell'avvenir nel grembo oscuro
Spinger sai l'occhio dell'acuta mente
E ciò che è dubbio altrui, vedi sicuro,
Dimmi: quel che dall'Alpi ora discende
D'armi e d'armati inondator torrente,
Ceppi a noi reca, o libertà ci rende?
Non avevano invece dubbi di sorta quei cittadini, che, quattro mesi appena dopo l'invasione ed invocando i ricordi della Lega Lombarda contro Barbarossa, fondavano già in Reggio d'Emilia la Federazione Cispadana, da cui come dai parlamenti della Cisalpina e dalla Costituente di Lione esce per la prima volta dopo tanti secoli uno stato di nome italiano, il quale, se non altro, a traverso le vicende seguenti della Repubblica e del Regno, rinnova lo spirito militare e civile del popolo, ed è la prima mossa della nostra rivoluzione.
Ma se Lazzaro Papi sta in forse, se i cittadini della Cispadana, della Cisalpina e dei Comizi di Lione (quel medio ceto, rialzato dalla moralità del Parini e dall'idealità dell'Alfieri) si abbandonano all'impulso ricevuto con cieca fede, molti altri invece, gli stessi Parini ed Alfieri, danno indietro; le plebi di Lugo, d'Arezzo, di Siena, di Roma, di Verona, di Napoli, di Calabria, del Piemonte, risentono invece, come dice il Carducci, un vero “accesso medievale di ire guelfe e ghibelline contro i nemici della Chiesa e dell'Impero„; e chi esprime da cima a fondo tutti questi contrasti, e strappi e trapassi dolorosi, eppure fecondi, e le prime speranze, le prime avversioni, i pentimenti subitanei, le confidenze illimitate, poi i ciechi entusiasmi della gloria militare, la fede estrema nell'uomo che la rappresenta, e finalmente le disperazioni, i terrori, le viltà, che tengono dietro all'immane ruina di tanta grandezza, chi esprime, dico, da cima a fondo tutto ciò nei versi più splendidi, che si fossero sentiti da secoli, è Vincenzo Monti.
Sotto l'aspetto di tale espressione potente, immediata, soggettiva e oggettiva ad un tempo dei fatti contemporanei, non saprei dire che cosa importi di più, se la sua vita o la sua poesia, ond'è, che, comunque si giudichi il carattere del Monti, m'è sempre sembrata sommamente baggèa quella critica, che lo ha dipinto come non altro che un vacuo e felice accozzatore di frasi sonore ed ha voluto a forza applicare a lui il famoso
Sdegno il verso che suona e che non crea
di Ugo Foscolo (detto a proposito delle statue del Canova e non già della poesia del Monti), falsa e sciocchissima applicazione, la quale, se fatta al Monti, significa una confusione completa d'ogni criterio d'arte e di storia e un rinunziar di proposito a intender nulla della nostra storia letteraria.
Ma critica e politica hanno sempre in Italia proceduto a un dipresso così. V'ha i beniamini della fortuna, ai quali si perdona tutto e pei quali la gente arguta e disinvolta ha sempre in pronto una qualche spiegazione, e v'ha le vittime, alle quali non si perdona nulla, neppur l'ingegno, se l'hanno, e per le quali nessuno si dà briga neppur di cercare una spiegazione, che non sia un obbrobrio di più, e di tali vittime è il Monti.
Voi vedete quindi la difficoltà grande, che s'incontra a parlar di lui, senza inciampare nell'apologia o nella diatriba, come hanno fatto del resto quasi tutti quelli, che poco o molto hanno scritto del Monti fino al Carducci, il quale, dando all'Italia la più compiuta e meglio ordinata edizione delle sue poesie, la richiamò, se non altro, circa trent'anni sono, all'ammirazione del poeta, “i cui versi, dice il Carducci, corsero il bello italo regno, abbaglianti d'empito e di splendore, come gli squadroni di cavalleria del re Murat„ e promettendo un ampio studio sul Monti, che poi purtroppo non ha fatto, soggiungeva queste memorande parole: “Nella storia letteraria del gran secolo, che corse per l'Italia dal 1750 al 1850, quando sarà scritta con serenità oggettiva e senza preoccupazioni di parte, Vincenzo Monti riprenderà il luogo che gli spetta, come a principe dell'arte d'un'intiera e ingegnosissima generazione, come a prosecutore ed allargatore dell'antica tradizione italiana, come a ravvivatore del sentimento classico nella sua migliore espressione.„
Difficile dir meglio e più vero di così. Ma come soggetto di conferenza il Monti ci si presenta di necessità non quale è, e dev'essere, come soggetto di studio esclusivamente letterario. Sotto quest'ultimo aspetto la sua massima importanza deriva dallo svolgimento del neoclassicismo del Parini e dell'Alfieri, ch'egli perfeziona, varia, adatta con inarrivabile potenza e facilità ed ammoderna sempre più col realismo storico e colle intonazioni preromantiche, che già si sentono in lui e fanno già presentire altri trapassi ed altre novità future e imminenti dell'arte. Ma come soggetto di conferenza, dico, l'uomo, la vita, le relazioni della sua poesia col suo tempo sembrano avere importanza o attrazione anche maggiore, se chi ne parla sapesse e potesse dir tutto di quei diversi e opposti ambienti e momenti letterari, morali, civili e politici, a traverso i quali toccò al Monti di passare, seguendo gli impulsi della sua indole nativa, violenta come ogni indole debole, e debole come ogni indole violenta, con scatti improvvisi e cascaggini non meno improvvise ancor esse, con alternative continue di abnegazione e di egoismo, di audacie e di paure, di collere e di intenerimenti, di generosità e di bassezze, per le quali ora domina le circostanze, ora è dominato da esse, ed a vicenda ora le circostanze del tempo ci spiegano la sua vita, ora la sua vita è documento, che meglio d'ogni altro spiega e caratterizza le circostanze del suo tempo.
Che bel tema di psicologia storica, e come opportuno anche oggi!
Ma vorrebb'essere nelle mani del Sainte-Beuve, del Taine o di Carlo Hillebrand! In quella vece non l'hanno trattato in pieno (il grand'emporio Montiano di Leone Vicchi sta da sè e poi si ferma al 1799) non l'hanno trattato in pieno, che il Cantù e Achille Monti, un pronipote del poeta: il primo con tutta quella salmeria di pregiudizi e di rancori romantici, ultracattolici e politici, che si strascinava sempre dietro, e con cui rimestava la farragine di notizie grandi e piccine, che avea sempre a sua disposizione su ogni argomento, il secondo con sì sviscerata idolatria di quella sua gloria gentilizia, che quantunque fosse (me ne ricordo per averlo conosciuto a Roma) la più mite, buona e serena natura di vecchio classicista e liberale alla Romana, che si potesse immaginare, una volta messo su questo terreno, montava su tutte le furie; sul Cantù e su ogni avversario o tiepido ammiratore del Monti menava giù botte da orbi, e di Vincenzo Monti difendeva tutto, assolveva tutto, persino quello, di cui il poeta stesso s'era con tanta fretta e sovrabbondanza di contrizione accusato da sè.
Voi lo vedete, signore; non s'era così sulla strada d'uno studio psicologico condotto con serenità oggettiva e con buon metodo d'osservazione e di critica; nè ora ho di certo alcuna pretensione di percorrerla io quella strada sul fragile veicolo, sul traballante velocipede d'una conferenza. Mi contenterei di non esserne fuori del tutto.
Leggendo le poesie del Monti si può temere di non veder giusto sotto l'impero d'una specie di seduzione estetica e perciò appunto vi dico: “oltre alle sue poesie, leggete il suo epistolario.„ Se c'è uomo, di cui l'epistolario privato dica di più ed a cui l'epistolario privato nuoccia di più, quest'uomo è il Monti di certo. Ma se c'è uomo altresì, verso il quale, più lo si conosce da vicino, e più si senta il dovere di non giudicarlo da pochi tratti e staccati, bensì nell'insieme e bilanciando il bene ed il male con quella mesta carità e misericordia, a cui danno pure qualche diritto il genio, il lavoro, la sfortuna, la gloria, questo è pure il Monti di certo.
Apologisti e detrattori con lui hanno torto del pari. Le sue mancanze di carattere dispiacciono e sono antipatiche. Tanto più dispiacciono, quanto più s'ama la concordanza d'una forte virtù con l'ingegno grande e la sapienza. Ma è innegabile altresì quella fondamentale bontà dell'animo del Monti, su cui il Giordani, da psicologo acuto, anzichè da rétore, ha poggiato tutta la difesa che ha fatta di lui, quella fondamentale bontà, che pur congiunta a impressionabilità quasi morbose, a maggior vivezza che profondità di sentimento, alla mobilità della fantasia, alla muliebrità dell'indole “tanto più notabile in corpo quasi d'atleta e nella poetica baldanza dell'ingegno„ fu, direbbe il Taine, la faculté maîtresse del suo spirito, e lo preservò sempre, in mezzo a tutti i suoi errori, dal divenire un briccone, come lo furono invece quasi tutti i suoi più accaniti avversari, i quali tuttavia in tante particolarità non d'ingegno, ma di carattere, somigliano a lui.
Per uno studio, come il nostro, bisognerebbe dunque tener sempre riuniti, potendo, sullo stesso piano del quadro, l'uomo, il tempo, il poeta, più importanti assai, tutti insieme, della pura tecnica letteraria dell'arte sua, più importanti assai dei colpi d'ala e dei voli della sua lirica, della continua eleganza della sua frase poetica, della profusione della sua vena, di quella sua potenza di dir tutto con una precisione e insieme con una facilità e un'armonia insuperabili, di quegli scoppi e di quei crescendo quasi di sinfonia rossiniana, che si incontrano ne' suoi versi, e infine di quella sua mirabile e organica struttura d'artista sovrano, che, pur alterando forse qua e là la semplicità divinamente classica di Omero, ha permesso a un poeta, che sta fra l'Arcadia del secolo XVIII ed il romanticismo del secolo XIX, ha permesso a lui, che poco o nulla sapeva di greco, d'essere l'interprete più felice di quel patriarca della poesia umana.
La Roma del 1778, in cui a ventiquattr'anni si rotolò per cercar fortuna Vincenzo Monti dalle native paludi delle Alfonsine presso Fusignano e dalle erbose solitudini di Ferrara, era ancora quella che videro il Mengs, il Winckelmann, il Gœthe, “i tre giganti dell'estetica tedesca, applicata alla pittura, all'antiquaria e alla poesia.„
Regnava Papa Braschi (Pio VI), un nobiluccio di provincia, a cui gli ordini d'elezione, sempre democratici, della Chiesa avevano dischiusa la via del trono, forse appunto perchè fra i vari candidati possibili era il più oscuro. Poco versato in lettere umane e divine, era un dilettante di belle arti e ahimè! anche di politica e di finanze. Ahimè, dico, sapendo noi quel che costa tal sorta di dilettanti! — Non era bigotto. — L'avventuriere Gorani sparla de' suoi costumi, ma lo calunnia di certo. Era unicamente vano e fastoso; vano della sua bellezza e della sua eleganza, fastoso nell'aggiunger l'aquila di Casa d'Austria e i gigli di Francia al suo stemma, nel metter mano a grandi opere pubbliche e nell'arricchire e illustrar la sua casa, rappresentata in Roma dal nipote Luigi Braschi Onesti, un bestione, a cui diè in moglie una graziosissima ragazza romana, con un par d'occhi neri, cerchiati e fulminei, un corpo di Venere canoviana, Costanza Falconieri, e di tutti e due fece i maggiori e più splendidi personaggi della corte e del regno.
Così, e proteggendo un po' di lettere e d'arti, Pio VI potea figurarsi di rinnovare Pericle, Augusto e Leon X, e lasciarselo dire dai suoi poeti, i giornalisti d'allora; ma già i tempi mutavano; novità minacciose di scoperte scientifiche e di dottrine filosofiche solcavano l'aria; il laicato, in persona dei principi riformisti, batteva già in breccia le vecchie pretensioni di supremazia civile della Chiesa Cattolica; i giurisdizionalisti precorrevano già i rivoluzionari di pochi anni dopo, e dovette accorgersene lo stesso Pio VI, quando per calmare le furie novatrici dell'Imperatore Giuseppe II pellegrinò a Vienna nel 1782, senz'altro risultamento notevole che di far morire di raffreddore il vecchio Metastasio, affacciatosi a una finestra per vederlo passare, e peggio ancora, quando dopo il 1789 incominciarono le prime agitazioni della Rivoluzione Francese.
Che cos'era il Monti in questi primi anni del suo soggiorno in Roma? Nelle apparenze un bel giovine, con titolo d'abate (gli abati erano i lions di Roma) con molto ingegno e pochissimi quattrini, un Pastor Arcade, che avea sempre in pronto un sonetto per ogni lietezza o sventura, specie dei pezzi grossi, e dopo le illustri nozze Braschi-Falconieri, da lui celebrate con un canto di stupenda fattura, la Bellezza dell'Universo, rimeritato coll'impiego di segretario del Duca Luigi Braschi, il magnifico nipote del Papa.
Vi figurate, signore, quello che avranno pensato i buoni villici delle Alfonsine e i solitari condiscepoli di Ferrara d'un così promettente esordio di fortuna? E quando poi lo avranno saputo Bussolante del Papa e Segretario degli Avvocati Concistoriali? Per lo meno si saranno aspettati di vederlo da un'ora all'altra Cardinale!
E certo, dato l'ambiente della Roma d'allora e colla forza d'ingegno di Vincenzo Monti, aver voce in Arcadia, aver un piede in corte, un altro nelle anticamere di Casa Braschi, sarebbe come nella Roma d'adesso aver.... Ma non divaghiamo!... Le apparenze erano belle; la sostanza poco o niente, e l'aspettata fortuna pel Monti non venne mai.
Due cose l'attraversarono sempre, ora ed in avvenire, l'invidia degli emuli, che non gli diede mai tregua e contro la quale egli non ebbe mai nè la dignità della noncuranza e del disprezzo, nè la giusta misura della risposta; e l'indipendente superiorità, l'indocilità critica, starei per dire, della sua mente, che non gli consentì mai l'intiera sommissione, l'intiera dedizione di sè e la rinuncia incondizionata ad ogni discussione e ad ogni ribellione, quali bisognano agli uomini, che non hanno altra regola di vita che la propria fortuna.
Sta in ciò il bene ed il male del Monti, e colla subitaneità delle sue impressioni, de' suoi entusiasmi, de' suoi sdegni, delle sue audacie inconsiderate e de' suoi sgomenti quasi puerili, sta in ciò per gran parte il segreto delle sue mutazioni e dell'apparente leggerezza delle sue convinzioni, donde s'è formata per lui la leggenda dell' abate, del cittadino e del cavaliere, quasi a significare le sue calcolate e successive voltate di casacca, da clericale in Roma a repubblicano nella Cisalpina e a cortigiano di Napoleone e poi della Ristaurazione.
In quella vece chi guardi bene e consideri spassionatamente la sua vita e la sua poesia, vedrà che per disgrazia sua egli è in disaccordo con tutte le vicende storiche, a traverso le quali gli è toccato passare. Nella Roma di Pio VI, prima di sentirsi rivoluzionario come l'Alfieri, egli s'è sentito riformista e filosofo, come il Parini, il Verri, il Beccaria, il Filangeri; poi ha idoleggiato, come tutti i giovani del suo tempo, nelle agitazioni sotterranee delle Logge Massoniche i primi e più puri ideali della Rivoluzione Francese, che parvero, ed erano, l'aurora della libertà sorgente sul vecchio mondo; poi ha inorridito degli eccessi del Terrore e ha dato indietro, e finalmente ha sperato la liberazione d'Italia dalle armi francesi ed è passato da Roma papale a Milano repubblicana. Qui, tra le violenze degli invasori e le scapestrerie stupide, ladre ed anarchiche dei neogiacobini italiani, il Monti, per organica dirittura di mente, si trova ad essere un liberale moderato: disgraziatissima disposizione di spirito in certi momenti politici, per la quale non si fa paura a nessuno e non vi vuole nè Dio nè il diavolo. Or bene, in chi fissar l'animo e gli occhi fra tutto quel pandemonio? Qual'è la forza unica, che sembra poter dominare e dar sesto ed ordine a quel caos? Napoleone! Ed il Monti, come il Melzi, come l'Aldini, come tutti i ragionevoli e gli onesti, si volge a lui. Ma Napoleone alla sua volta s'ubbriaca di potenza e di gloria e strascina l'Italia dietro il carro della sua sfrenata ambizione, ed ecco il Monti non disposto a seguirlo. “Costui fa cose (così scriv'egli al Lampredi) da raffreddare un vulcano. Precipiterà sè e noi, quanti siamo a lui devoti. Una sola buona cosa ha fatto, l'organizzazione di questo regno: ma poi come tratta noi Italiani? Si rende nemici tutti i re d'Europa, che alla fine trionferanno. E noi cadremo con lui.„ Che ne dite? Il conte di Cavour, buon'anima, non potrebbe preveder meglio e ragionar più dritto di questo poeta!
E forsechè fu egli solo, il Monti, nell'immane catastrofe Europea dell'impero napoleonico, fu egli solo, il Monti, a confidare nei benefici della pace e nella moderazione degli alleati liberatori? No, signore! Era un'intiera generazione, che, sentendosi soccombere fra tante speranze deluse e gli strazi di vent'anni di guerre incessanti, acclamava fra le accumulate ruine alla pace ed a chi pareva portarla e con parole ingannatrici la prometteva.
Fu un errore, fu una colpa di tutti, ed al Monti, che canta il Ritorno d'Astrea, certamente preferisco il Foscolo, che va in esilio, ma non dimentichiamo che fra quegli acclamanti era persino Federico Confalonieri, il glorioso martire del '21. Il Confalonieri scontò la sua illusione giovanile collo Spielberg; il Monti, vecchio e malato, coll'abbandono e la povertà. Non è lo stesso, ma è pur qualche cosa, e sarebbe anche di più, s'egli non se ne fosse lagnato, nella stessa guisa che sarebbe più bello l'esiglio del Foscolo, se avesse pagato i suoi debiti o saputo contrastare colla fame, come Giuseppe Mazzini. Ma io non v'ho detto che il Monti fosse un eroe; v'ho detto che oltre ad essere un gran poeta, era un uomo buono, migliore di certo di tutti i suoi avversari e detrattori, e questa (piaccia o non piaccia a tutti i Cantù vivi e morti) è la verità.
E poeta grande è pur anco per chi ha il senso vero dell'arte e la intende e ne giudica con criteri d'arte e di storia e non colle preferenze del giorno per giorno e dei gusti, che cambiano e rivengono, come le fogge del vestire.
Non lo cercate in quei primi vaneggiamenti d'amori giovanili, sfogati all'italiana in sonetti ed anacreontiche, nè in quei temi da seminario e da sagrestia, ch'erano d'obbligo nell'Arcadia di Roma, anticamera del Vaticano, nè in quei profluvi di lodi, di auguri e di pronostici strampalati, ai quali non potea ricusarsi l'abate novellino, andato a Roma per far carriera, il segretario del duca Braschi e il bussolante di Sua Santità.
Cercatelo bensì dove un gran soggetto lo inspira, come nella Bellezza dell'Universo, o una convinzione sincera lo esalta, come quando celebra i trionfi della ragione e della scienza nell' ode a Montgolfier, o quando la passione lo trasporta, come nei versi sciolti a Sigismondo Chigi, nei Pensieri d'Amore e nelle Elegie, o quando la straordinarietà e la grandezza dei fatti contemporanei lo solleva alla concezione dantesca della Bassvilliana. Qui è il vero Monti, il Monti fantasista e coloritore insuperabile e pel suo tempo originalissimo, e con quella sua eloquenza, agilità e musicalità di verso, che prorompe a guisa di torrente e si prova e riesce a dir tutto, con una genialità, una vaghezza, una varietà, una potenza di forme, che prima di lui non hanno riscontro se non in Dante ed in Ariosto.
E se volete persuadervi di che cosa è capace come artista, vedetelo quando si rituffa in piena mitologia, come nella Musugonia e nella Feroniade (che il semi-romantico Zanella nella sua Storia non gli può perdonare) e non solo v'apparirà tutto il massimo svolgimento, ch'egli seppe dare al neoclassicismo, dominante dal Parini e dall'Alfieri sino al Manzoni, ma assisterete al prodigio d'un arte, continuata e approfondita poi sempre più dal Foscolo e dal Leopardi, d'un arte, dico, che galvanizza cadaveri, e con sentimento moderno rimanifesta la giovinezza immortale del genio greco e romano e lo fa rivivere in pieno tra la fine del secolo XVIII e il principio del secolo presente.
Sotto tale aspetto il Monti fu paragonato giustamente al Canova, ma la Roma di Pio VI, che perdonerà allo scultore la bellezza pagana delle sue Dee e Semidee e persino la procace nudità di Paolina Bonaparte, sorgente in sembianza di Venere molto terrena dal piccolo sofà-empire di Villa Borghese, la Roma di Pio VI, dove si lascia morir di veleno o di crepacuore lo Spedalieri, perchè ha osata una timida conciliazione fra il dogma e il Contratto Sociale del Rousseau, non perdonerà al poeta d'avere, ripigliando la tesi degli Enciclopedisti, ricongiunto il suo pensiero a quello del Parini, dell'Alfieri e di tutti i contemporanei riformisti, Lombardi e Napoletani, d'aver intuonato, lì, appiè della cattedra infallibile di San Pietro, il peana trionfale della ragione e della scienza con quei versi:
Umano ardir, pacifica
Filosofia sicura,
Qual forza mai, qual limite
Il tuo poter misura?
e, celebratene le continue vittorie, d'aver concluso con vaticinio superbo, che sa d'eresia:
Che più ti resta? Infrangere
Anche alla morte il telo
E della vita il nèttare
Libar con Giove in cielo.
La Roma di Pio VI non perdonerà al Monti queste audacie, e se poscia se ne impaura egli stesso, se vacilla, se piega ai terrori, che inspira un governo di preti implacabili, alle lusinghe, che la fortuna non gli mantenne mai, ai dolci errori, cui possono trascinare un giovine caldo di cuore, di sensi e di fantasia l'opulenta bellezza e il lampo dello sguardo, tra devoto e profano, delle donne Romane, e più inebbriante d'ogni altro quello, che lanciò sul poeta Costanza Braschi, ripeterò che il Monti non è un Catone, ma ripeterò altresì che non è meno gran poeta per questo, e poeta grande appunto, perchè somiglia al suo tempo, ed il tempo a lui.
Quando, a guisa di onde incalzantisi le une sulle altre, incominciarono a ripercuotersi anche in Italia gli echi della Rivoluzione Francese, gli animi pro o contro s'agitarono profondamente, ed in Roma assai più contro che pro.
S'immagini ora l'ambiente di Roma, allorchè fu tutta piena d'emigrati francesi, fra i quali le zie del Re, ospitate dal cardinale De Bernis, il destituito ambasciatore di Francia, e mentre a Parigi si bruciava il Papa in effigie per rappresaglia al bruciamento in Roma dei libri massonici del Cagliostro.
L'avversione alle novità francesi andava crescendo in Roma ogni giorno. Le più strane novelle correvano e trovavano fede, ora del Re scampato e già rifugiato in Germania, ora degli alleati entrati trionfanti in Parigi, ed il popolo, se vedea allora passare il vecchio De Bernis, gli staccava i cavalli dal carrozzone e lo tirava a braccia, poi si precipitava a prosternarsi appiè di santi e madonne, che stillavano sangue, stralunavano gli occhi, e versavano lagrime, come persone vive.
Peggio fu, quando si riseppero le sanguinose scene della Rivoluzione, la ghigliottina in permanenza, il Re con la famiglia in carcere, la Repubblica proclamata, i Giacobini prevalenti con la Convenzione, e quando nel novembre del 1792 si vide capitare in Roma Niccola Giuseppe Hugou de Bassville, segretario della Legazione francese di Napoli, quel medesimo, che poi pel poema del Monti restò noto al mondo col nome più poetico di Ugo Bassville, e che prima fu spedito quasi di nascosto per tastar terreno, poi s'atteggiò a diplomatico, e d'intesa con pochi amici e colle Logge Massoniche accese, insieme ad un La Flotte, ufficial di marina pure francese, una briga internazionale per surrogare sul palazzo del Consolato e dell'Accademia di Francia all'antico stemma Borbonico quello della Repubblica.
Il Papa resistette, lo sdegno universale divampò, e provocato con iattanza francese dal Bassville e dal La Flotte finì il 13 gennaio 1793 nell'assassinio, a furor di popolo, del Bassville.
Si disse allora e si ripetè poi, che il governo ci avesse mano, ma non è provato, e le circostanze di fatto, diligentemente vagliate dal Vicchi, sembrano anzi escludere tale complicità.
Comunque, la reazione popolare giunse a tale, che ad imbrigliarla bisognò tutto il vigore e la sollecitudine, che prima adopravansi solo contro i sospettati aderenti della Rivoluzione, fra i quali era certamente anche il Monti, framassone, amico al Bassville, e che avea lasciate in mano di lui carte compromettenti.
Seguirono in Francia la decapitazione del re e della regina, il Terrore, le stragi, la guerra universale, e a tali eccessi anche i più caldi in Italia ristettero e ripugnarono. Così pure accadde al Monti, che oltre a trescare in cospirazioni avea già dovuto a questo tempo cercar di deviare la maldicenza e l'invidia, suscitate dalla sua gloria e dal misterioso romanzo dei suoi amori colla duchessa Braschi, mercè un matrimonio improvviso con Teresa Pickler, bellissima giovinetta romana, tutta gloriosa d'aver conquistato il cuore dell'acclamato autore dell' Aristodemo e del Galeotto Manfredi e certo ignara di servire da parafulmine alle sue politiche e galanti marachelle. Ma che bel parafulmine era allora Teresa Pickler! Ed il Monti se ne innamorò per davvero, e forse la duchessa Braschi avrà detto fra sè: “troppa grazia!„
Fra tali intimi e segreti contrasti di terrori personali, di passioni colpevoli, di affetti legittimi, di illusioni e disinganni patriottici è nata la Bassvilliana, il vero poema storico della controrivoluzione italiana.
Esso è troppo noto da doverne a lungo parlare.
Anche oggi (e vi è corso sopra più d'un secolo) esso è uno dei capolavori più popolari della poesia italiana. Ma vedete destino di persecuzione, signore! Quando alla lunga scemò d'interesse e venne a noia l'eterna inquisizione sulla versatilità politica del Monti, ad un'altra croce fu messo, la ricerca di tutte le sue imitazioni e assimilazioni come poeta, specie dalle letterature straniere. E si comincia dalla Bellezza dell'Universo, di cui il meglio sarebbe levato dal Milton, dai sonetti sulla Morte di Giuda, nei quali il Monti avrebbe accattato dal Klopstock persino l'immagine della Divina Giustizia, che pigliò pel collo il traditore
E lo piombò sdegnosa in Acheronte.
(dimando io, se c'è bisogno di farsi imprestar questa roba!) e via di questo passo, il Monti non avrebbe mai fatto altro che un cibreo d'imitazioni felici, belle, armoniose, ma composto a un dipresso, come lo speziale, pigliando da tutti i barattoli, compone le ricette del medico.
L'idea madre della stessa Bassvilliana (che non è il meglio di certo di quel poema) si vuole tolta dal Klopstock. E ammettiamo pure che la Messiade sia il modello della Bassvilliana. Che cosa significa ciò? La macchina poetica, su cui adattare un soggetto particolare e contemporaneo, qual'è la morte del Bassville, un soggetto cioè, la piena realtà del quale è presente e a tutti nota, non ha la stessa importanza, che in una vasta creazione epica, com'è la Messiade, in cui deve rispecchiarsi qualche punto prominente della storia del genere umano, qualche punto vecchissimo di data, con pochi o molti fatti, la verità dei quali si perde o svanisce nel vago della tradizione e della leggenda e quindi lascia al poeta ogni libertà d'immaginare e di ricomporre.
V'ha qui uno stadio di premeditazione e di lunga gestazione organica, che non ha rapporto coll'improvvisazione, coll'estemporaneità d'una poesia d'occasione, com'è in sostanza la Bassvilliana del Monti.
D'altra parte qual è il poeta, anche fra i sommi, che nella scelta della sua macchina poetica non abbia attinto da quel fondo comune, che l'arte, la storia, gli ingegni colti e la fantasia popolare vengono tutti insieme accumulando e che in ogni tempo appresta, si direbbe, lo stampo, in cui il poeta getta le bellezze originali del proprio estro e dell'arte propria? A questa legge, benchè di tanto scemata di forza, di quanta n'ha acquistata nel tempo moderno l'individualità dell'ingegno, a questa legge s'è conformato anche il Monti.
V'ha anche al suo tempo col ravvivato studio di Dante, colla sazietà degli ideali arcadici, colla voga del preromanticismo fantastico del falso Ossian e sepolcrale del Gray e del Young un materiale poetico molto diffuso e forme molto comuni, nelle quali tutti incappano: il Bertola, Alessandro Verri, il Varano, non meno dell'Alfieri, del Monti e del Foscolo, e da qui procede in parte il meraviglioso anche delle più consuete macchine poetiche del Monti, quella sua quasi continua evocazione spiritica, quella sua folla di ombre, quel suo collocarsi fra cielo e terra, fra la morte e il misterioso al di là, quando non preferisce inforcare il vecchio Pegasèo e sparire in pieno olimpo mitologico.
Per ora gli toccherà fra poco di sparire soltanto da Roma. L'enfasi e le invettive della Bassvilliana contro gli eccessi della Rivoluzione francese non bastarono a smorzare i sospetti del Governo Pontificio. Ed ecco il Monti, il poeta di Bassville, che la notte del 3 marzo 1797 fugge nascostamente da Roma nella carrozza d'un aiutante di campo del generale Bonaparte, venutovi apportatore del trattato di Tolentino, e piomba prima a Bologna, indi a Milano in mezzo a tutto il bailamme delle repubbliche improvvisate dai Francesi.
Quando la Bassvilliana fu ideata e composta, essa rispondeva al sentimento più diffuso e comune allora in Italia. Ma gli avvenimenti successivi dal '93 al '97, l'anno in cui il Monti fuggì da Roma, lasciando interrotta la Bassvilliana, siccome interruppe sempre tutte le sue creazioni maggiori (altro segno grandemente caratteristico e dei tempi e di lui), ma gli avvenimenti successivi, dico, aveano mutata la faccia delle cose; aveano dato tutt'altro corso ai pensieri e alle speranze dei molti, che pur ripugnando agli eccessi, favorivano in cuore i principii della Rivoluzione francese; e il Monti, con quel bel senso di prudenza e di opportunità, che avea sortito da natura, e il Monti giù, a precipizio, per questa china, senza pensare un momento, se vi coglierà allori o legnate, se vi troverà in fondo un Campidoglio o una Rupe Tarpea. Ma egli nella sua testa dovea a un dipresso ragionare così: “non sono stati ben accolti nella Cispadana e nella Cisalpina tanti altri profughi di Roma? non vi sono il Gianni, il Lattanzi, stati ben più di me servili alla Curia Romana e per di più canaglie di tre cotte e tanto inferiori a me d'ingegno e di gloria? E il Cicognara, che ieri recitava in Arcadia il necrologio di Luigi XVI, non è ora Presidente del Comitato di difesa nella Cispadana? e il Salfi, che fino a ieri ha piaggiato i Borboni di Napoli, non è ora a Milano il giornalista più temuto e il portavoce del giacobinismo più puro? perchè dunque dovrebbero pigliarsela solo con me, non reo che d'aver detto in versi magnifici quello, che quasi tutti gli Italiani migliori pensavano e sentivano, allorchè composi la Bassvilliana?„
Ah, signore, era un gran furbo quel buon Monti e val proprio la pena d'esser uomo di genio per conoscere così bene il mondo, gli uomini, la vita, e ragionare a questo modo, dimenticando per di più che quei Gianni, quei Lattanzi erano suoi nemici giurati, da lui in Roma mille volte aizzati, scorbacchiati, flagellati, e che ora non avrebbero mancato di ripagarlo a misura di carbone! Ma non basta. Il Monti è anche più imbecille di così. Salta il fosso del tutto, anzi va a ruzzoloni al di là dell'altra sponda, e in un'ignobile lettera al Salfi sconfessa la Bassvilliana e nelle nuove sue cantiche: il Fanatismo, la Superstizione, il Pericolo e nell'inno per l'anniversario della decapitazione di Luigi XVI, traveste addirittura la nobile Musa della Bassvilliana in scapigliata e discinta tricoteuse de la guillotine; sfoghi sinceri forse, per quanto eccessivi, di sentimenti dovuti celare e comprimere troppo a lungo, ma che ad ogni modo sono la più brutta e dissennata pagina della vita del Monti.
Ne pagò il fio, non dubitate! E quantunque egli appartenesse in realtà alla parte più onesta, più saggia, più nobilmente liberale della Cisalpina, e forse anzi appunto per questo, non ebbe mai tregua nè mercè e più d'una volta parla in certe sue lettere disperate della tentazione di farsi saltare in aria le cervella.
La Cisalpina, già agonizzante (mentre il Bonaparte era in Egitto) per le violenze, le corruzioni, i ladronecci, le frenesie d'ogni guisa, sprofondò del tutto sotto la vittoriosa reazione Austro-Russa, ed il Monti esulò in Francia, fino a che la vittoria di Marengo non gli consentì d'intuonare lo splendido inno del ritorno e della redenzione sua e dell'Italia:
Bell'Italia, amate sponde,
Pur vi torno a riveder!
Trema in petto e si confonde
L'alma oppressa dal piacer.
Egli ricupera la patria e sè stesso e nella Mascheroniana vendica sublimemente la patria e sè stesso. “Molti, diceva, ne rimarranno scottati, ma è giunto il tempo di un'onorata vendetta e perdio me la voglio prendere, per istruzione della mia patria, lacerata da tanti birbanti.„ Sentitelo come descrive il leggiadro vivere della Cisalpina con quella potenza tremenda d'invettiva, per cui la poesia si eleva a storica e umana ad un tempo, è specchio cioè del presente e vaticinio e ammonimento solenne per altri tempi, che con quel presente avessero mai, per caso, qualche rassomiglianza:
Altri stolti, altri vili, altri perversi,
Tiranni molti, cittadini pochi
E i pochi o muti, o insidïati, o spersi.
Inique leggi e per crearle rochi
Sulla tribuna i gorgozzuli e in giro
La discordia co' mantici e co' fochi,
E l'orgoglio con lei, l'odio, il deliro,
L'ignoranza, l'error, mentre alla sbarra
Sta del popolo il pianto ed il sospiro.
Tal s'allaccia in senato la zimarra,
Che d'elleboro ha d'uopo e d'esorcismo;
Tal vi tuona, che il callo ha della marra;
Tal vi trama, che tutto è parossismo
Di delfica mania, vate più destro
La calunnia a filar che il sillogismo;
Vile! tal altro del rubar maestro
A Caton si pareggia e monta i rostri
Scappato al remo e al tiberin capestro.
Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri
Parlar virtude e sè dir Bruto e Gracco
Genuzi essendo, Saturnini e mostri.
Colmo era insomma de' delitti il sacco;
In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,
E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.
. . . . . . . . . . . . . . .
Dal calzato allo scalzo le fortune
Migrar fur viste e libertà divenne
Merce di ladri e furia di tribune.
V'eran leggi; il gran patto era solenne,
Ma fu calpesto....
Vôta il popol per fame avea la vena;
E il viver suo vedea fuso e distrutto
De' suoi pieni tiranni in una cena.
Squallido, macro il buon soldato e brutto
Di polve, di sudor, di cicatrici,
Chiedea plorando di suo sangue il frutto:
Ma l'inghiottono l'arche voratrici
Di onnipossenti....
. . . . . . . . . . . . . . . .
Sai come s'arrabatta esta genìa,
Che ambizïosa, obbliqua entra e penètra
E fora e s'apre ai primi onor la via.
Il poeta, signore, ha sfogato il suo nobile sdegno e si calma, perchè è da sperare che questa tregenda d'infamie sia finita. Sia finita? Oh sì! Quando finirà l'uomo!
E un altro entusiasmo ora trascina il Monti. Ma chi glielo inspira? Napoleone! E chi vuole accusare il Monti pei suoi poemi napoleonici, il Prometeo, il Bardo, la Spada di Federico e la Palingenesi politica, rientri in sè o si guardi attorno e dica se spesso non ha visto gente più spassionata e di più astuto cervello del Monti scalmanarsi per personaggi centomila volte minori! Fossero pure falsi miraggi gli splendori del vice-regno napoleonico, ma certo è che fra quei miraggi la nostra coscienza politica ed un partito nazionale si venivano formando. Si vorrà forse dire che ciò non apparisce nei versi del Monti? Lo dirà chi non gli ha letti, perchè mai il nome sacro d'Italia suonò più alto che nei versi e nelle prose di lui e ad ogni occasione, anche quando allo stesso dominatore francese quel nome cominciava a dar ombra. Nella prolusione alle sue lezioni universitarie di Pavia nel 1803 (prolusione, che si direbbe lo schema del futuro libro del Primato di Vincenzo Gioberti) parlò sì alto e sì libero anche contro i Francesi, che la censura non ne permise la stampa, se non mutilata e mutata.
Riunitosi nel 1815 il Congresso di Vienna, che spartì i popoli come branchi di pecore, il Monti trovò ancora accenti nobili e degni, ma poco dopo cantò per l'Imperatore d'Austria il Ritorno d'Astrea, e questa è senza dubbio, al pari della lettera al Salfi, una delle sue mancanze di carattere più ripugnanti. Non c'è scusa che tenga a tale viltà, ma non mi par giusto, ripeto, in mezzo ad un moto così grande di reazione Europea qual'è quello del '15, e mentre in Italia il regno napoleonico cadeva senza rimpianti e peggio fra vendette nefande e applausi, non di sola plebaglia prezzolata, agli alleati liberatori, non mi par giusto, dico, imprecar solo al Monti, quasi rappresentasse egli solo tanto stolta rapidità d'ingratitudine, d'obblìo e di nuove speranze.
Ben presto esso e gli altri dovettero ricredersi, e quanto al Monti in particolare, esso nel consacrare, alcuni anni dopo, al marchese Trivulzio uno de' suoi ultimi canti chiudeva così:
.... E s'ei dimanda
Come del viver mio si volga il corso,
Di' che ad umil ruscello egli è simìle,
Su le cui rive impetuosa e dura
I fior più cari la tempesta uccise.
Di quel po' che avea raggranellato, durante il regno italico, avea salvato appena qualche briccica. A sentir certuni, si direbbe essersi esso, nei nove anni, che quel regno durò, tuffato sino alla gola in tutte le voluttà sardanapaliche, che aveano ammollito e corrotto i proconsoli e i marescialli napoleonici, legittimi precursori di quelli, che nei disastri francesi del 1870 si consolavano dicendo: “ c'est égal! nous nous sommes bien amusés! „ In quella vece che cos'era stato il Monti in realtà? Un segretario senza segreti, un consulente non consultato, un professore senza cattedra, uno storiografo senza storia, un poeta Cesareo con un Cesare troppo affaccendato da badare a' poeti.
Contuttociò, dopo la Restaurazione, la carriera, anche letteraria, del Monti, si può considerare come finita, perchè poetò per piccole occasioni o in difesa della vecchia arte sua, come nell'elegantissimo sermone sulla Mitologia, o s'abbaruffò coi Cruscanti su quell'eterna questione della lingua, che gli Italiani, come se non avessero niente altro di meglio da fare, rinnovano quasi ad ogni età della loro storia. Ma nè a compire i poemi interrotti potea pensare, nè a tentarne di nuovi, e tutt'al più si deliziò, coll'incontentabilità del vecchio artista, d'andar sempre accarezzando e perfezionando le linee della Feroniade, il solo poema, che trascinò dalla gioventù fino ai suoi ultimi anni, senza compir mai neppur questo.
Bisogna dire però che la grande nomea del suo ingegno e la popolarità della sua gloria poetica non fossero stato punto oscurate presso i contemporanei dalle sue metamorfosi politiche, delle quali menarono tanto scalpore critici e biografi posteriori, se il romanticismo lombardo, che era la forma letteraria del liberalismo nascente e dell'opposizione alla letteratura officiale, gli profferiva di diriger esso il Conciliatore, il famoso giornale-programma dell'arte nuova nel 1818; se due giovani, caldissimi d'amor patrio, come Silvio Pellico ed il Berchet, lo stimolavano ad entrar con essi nella setta dei Carbonari; se il Leopardi ed il Manzoni cercavano la sua approvazione ed il suo appoggio; se finalmente la Polizia Austriaca l'avea in sospetto e facea sorvegliare la sua corrispondenza col conte Giulio Perticari, suo genero, anch'esso in voce d'aderente alle cospirazioni marchigiane e romagnole.
Ma ormai il povero Monti non era più che l'ombra di sè stesso. Ogni speranza, ogni dolcezza, ogni gloria si concentravano per lui nella moglie e nella figlia Costanza, sposata nel '12 al Perticari, e per le cui nozze i poeti d'Italia incomodarono tutti i vecchi Dei dell'Olimpo.
La moglie però, Teresa Pickler, bellezza giunonica, e che il Cantù chiama ironicamente fior di virtù, nelle acerbe polemiche letterarie e politiche, combattute dal Monti, non fu risparmiata, e forse non era senza torti, se è vero che non fu del tutto insensibile alle marziali eleganze degli ufficiali francesi; se è vero che fu l'eroina della prima redazione dell' Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, e che l'avarizia e l'avidità di lei furono cagione di più d'una delle debolezze politiche di Vincenzo Monti.
Comunque (e questo è l'importante) esso l'amò sempre tenerissimamente e la immortalò in quei versi soavissimi:
.... La stella
Del viver mio s'appressa
Al suo tramonto: ma sperar ti giovi
Che tutto io non morrò: pensa che un nome
Non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno
Fra le italiche donne
Ti fia bel vanto il dire: “io fui l'amore
Del cantor di Bassville,
Del cantor che di care itale note
Vestì l'ira d'Achille.„
I disseppellitori implacabili di carte vecchie, i quali al primo brano di lettera un po' calda, in cui s'imbattono, d'una donna celebre ad un uomo celebre altrettanto, s'esaltano subito d'aver messa la mano su grandi arcani d'amori proibiti (sono i piccoli carnevali dei topi d'archivio e di biblioteca) fantasticarono, fra gli strappi del Monti alla fedeltà coniugale, anche di suoi amori colla baronessa di Staël, da lui conosciuta in Italia nel 1805; ma per poco che si conosca dell'indole e delle abitudini epistolari della famosa autrice di Corinna, si vedrà che non trattasi se non di frasi e della passione consueta di quell'illustre donna di trarsi dietro aggiogati al suo carro trionfale tutti i più notevoli uomini del suo tempo e d'aver dato a tutti inspirazioni, consigli, conforti; specie di mecenatismo femmineo, civettuolo ed inconcludente, che di rado poi valica ne' suoi benefici certi confini.
Basti questo aneddoto. Il Monti e la Staël si scambiarono un giorno il dono d'un libro. Nel giorno stesso il Monti capita in visita dalla contessa Cicognara e ve lo depone, dicendo che sarebbe tornato a riprenderlo. Di lì a poco eccoti la Staël, che, dicendo lo stesso, vi depone il suo; ma tutti e due quei libri rimasero alla contessa Cicognara, e nè la Staël, nè il Monti si ricordarono mai più di ridomandarglieli.
Ben più della moglie del Monti è notevole figura di donna la sua figlia Costanza, che fu veramente il suo idolo. Era ingegnosa assai e un vero miracolo di bellezza, e con questi pregi ereditò anche il destino del padre d'essere fatta segno a molti amori di certo, ma anche ad odii feroci, perocchè alle colpe della mediocrità, che non dà ombra, s'usa misericordia, non a splendori d'ingegno e di bellezza, dai quali troppa gente si sente offuscata. Restò vedova nel 22 e fu accusata persino d'avere avvelenato il marito. Era una calunnia infame, ma fu creduta, e dovettero scolparnela solennemente i suoi amici e vendicarnela il padre ne' suoi ultimi versi.
Il Monti morì nel '28, Costanza nel '40; e di tutte queste vicende del poeta, che ne' suoi versi, nella sua vita e in quella pure della sua famiglia rispecchiò più caratteristicamente d'ogni altro le vicende del suo tempo, il Niccolini faceva, non volendo, l'epilogo in una lettera al Maffei con queste parole: “in breve tempo il Monti, la sua moglie, la sua figlia sono spariti: pochi ne parlano, e i più di questi ne dicono male. Oh vanagloria delle umane grandezze!„
UGO FOSCOLO (1778-1827)
CONFERENZA DI Giuseppe Chiarini. Signore, Signori,
Fatemi grazia, cioè lasciate ch'io faccia grazia a voi, del preambolo, ed entri senz'altro in materia.
Ugo Foscolo canta nel Carme alle Grazie:
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
Sacri al tripudio di Diana e al coro;
Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto! A lei versan tesori
L'angliche navi, a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lieo. Rosea salute
Spirano l'aure, dal felice arancio
Tutte odorate, e dai fiorenti cedri.
Chi scrisse questi versi era nato poeta, avea nelle vene il sangue della greca poesia. L'isola natale che così sonante gli rifioriva nel verso eraglisi trasmutata dal vero in questa splendida visione, per la lettura degli antichi poeti. Il paganesimo, che nella maggior parte degli scrittori contemporanei d'Ugo si componeva di reminiscenze di scuola e di precetti accademici, era in lui un sentimento così vivo e profondo, che egli allorchè, parlando dei suoi colli materni, diceva: “Ivi fanciullo — La Deità di Venere adorai„, diceva una cosa essenzialmente vera; tanto vera, che gli effetti di quella soverchia adorazione lo tormentarono per tutta la vita.
L'isola di Zante, dove egli non vedeva che riso azzurro di cieli, selve d'ulivi e vigneti, dove non sentiva che profumo d'aranci e di cedri, e nei boschi il tumulto e lo strepito delle caccie di Diana, quell'isola di Zante era ai tempi suoi poco più che un nido di selvaggi e di briganti.
Ugo stesso quando, mortogli nel 1788 il padre, si condusse con la madre e il rimanente della famiglia a Venezia, era (e rimase sempre) un po' selvaggio anche lui. Qualche anno innanzi, a Spalatro, dove suo padre era stato ufficiale sanitario dal 1784 in poi, avea fatto la scuola di Umanità. Dove e come proseguisse gli studi a Venezia, s'ignora; ma che quivi la giovinezza sua fosse tutta negli studi, lo mostrano i ricordi ch'egli stesso ne lasciò fra le sue carte, e i versi che compose fra i quattordici e i diciannove anni, dal 1792 al '97.
Da quei ricordi e da quei versi balza fuori, piena di ardore, la figura del greco giovinetto, assetato di gloria, smanioso di farsi conoscere, di far parlare di sè. E Venezia era campo propizio a quelle giovanili ambizioni.
Quando egli arrivò là con la madre, la famiglia era così povera, che andò ad abitare in una delle contrade più sudicie della città, e non si cibava d'altro che di pane e riso.
“La casa, o per dir meglio catapecchia, scrive Mario Pieri, ove si alluogò, era sì miserabile che nelle finestre non avea vetri, ma bensì le impannate. Quel giovane per altro (è sempre il Pieri che parla) ben lontano dal lasciarsi avvilire a quella intollerabile povertà, scherzava, potrebbesi dire, con essa, e sfidavala, e quasi se ne compiaceva, superbo del proprio talento, e consolato dalla speranza di gloria che i suoi studi gli promettevano.„
“Rossi capelli e ricciuti, ampia fronte, occhi piccoli e affossati ma scintillanti, brutte e irregolari fattezze, color pallido, fisionomia più di scimmia che d'uomo; curvo alquanto, comecchè bene aiutante della persona; andatura sollecita, parlare scilinguato ma pieno di fuoco; mettea meraviglia il vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere più graziose e da tutta la gente.„
Il Pieri scrive ciò riferendosi al 1797, nel quale anno conobbe appunto il Foscolo, ch'era già divenuto famoso, che avea già composto l'ode Bonaparte liberatore, che avea già dato al teatro la sua tragedia, Il Tieste, accolta da applausi incredibili e recitata ben dieci sere, affinchè tutti i 150.000 abitanti della laguna potessero sentirla.
Com'è che il giovine greco avea penato così poco a conquistarsi la fama?
Al gusto e al giudizio nostro tutto il fardello delle sue poesie giovanili, fino all' ode e alla tragedia inclusive, pesa ben poco; dirò di più, in quei primi versi non c'è affatto la promessa del poeta che pochi anni dopo dovea scrivere alcuni sonetti e le due odi famose. Ma certo noi giudichiamo le poesie giovanili del Foscolo con criteri molto diversi da quelli dei suoi contemporanei, e non abbiamo sotto gli occhi il poeta giovinetto che con la sua singolarità e la sua stessa povertà attirava sopra di sè l'attenzione, destava l'interesse del pubblico.
Al ritratto di lui lasciatoci dal Pieri aggiungiamo qualche pennellata presa alla tavolozza di altri scrittori contemporanei. Odoardo Samueli, che aveva sentito il Foscolo recitare un canto di Dante, scrive di lui:
Quand'io ti vidi rabbuffati i crini
Con rauca voce e fiammeggianti sguardi
Cantar in suon feroce i sacri ond'ardi
Del tuo padre Alighier carmi divini;
··············
Cingi, o Italia, gridai, le fulve chiome
Del non tuo figlio col natio tuo serto;
E ne scolpisci ne' tuoi fasti il nome.
Queste fulve chiome nei versi di un altro scrittore contemporaneo diventano ignite; e lo scrittore vede il nome del poeta con le chiome ignite galleggiare, lucente, altero, su l'addensata notte dei secoli,
Quasi cometa per nemboso piano.
Si capisce a questi indizi lo stupore che il giovane Jonio avea destato, fino dal suo primo apparire, nel pubblico veneziano. E quello stupore, che non si produce mai durevolmente senza forti qualità dell'ingegno, ci spiega il rapido sorgere della sua fama, alla quale, come dissi, le condizioni di Venezia si porgevano favorevoli.
*
Mentre l'Europa tremava sbigottita sotto il peso degli avvenimenti della rivoluzione francese, che le intimavano giunta l'ora del rinnovarsi, Venezia si divertiva. In una società come quella, in cui il principale scopo della vita era godersi la vita, inutile dire che la libertà dei costumi toccava la licenza. E in una società cosiffatta inutile dire che il regno apparteneva alle belle donne.
Fra le più belle (e bellissima possiamo giudicarla veramente, più che dagli attestati dei suoi adoratori, dal ritratto che di lei rimane, opera di una pittrice insigne) era Isabella Teotochi Marin; la quale, con poco piacere del marito, che pure pizzicava di letterato e di poeta, avea fatto della sua casa il ritrovo di tutti gli uomini più o meno illustri che dimoravano o capitavano a Venezia: notevoli fra i più noti il Cesarotti, il Bettinelli, il Pindemonte, il Bertola. Quando e come vi fosse introdotto il giovine Foscolo non saprei dire; ma è facile intendere ch'egli dovea sentirsi quasi istintivamente attirato verso quella società letterata, e che quella società letterata doveva essere molto curiosa di conoscerlo e desiderosa di attirarlo: alla padrona di casa sopra tutti, greca anche lei, dovea sorridere l'idea di prendere sotto la sua protezione ed allevare con le briciole del suo affetto il greco poeta.
Ugo dovette fare la conoscenza dell'Isabella fra il 1794 e il '96, quando essa, già divisa dal marito, stava per ottenere, o avea ottenuto il divorzio.
Vi figurate, o signore, o signori, questo brutto e ardente giovinetto di pelo rosso, ostentante con aria di superiorità il suo logoro e rattoppato soprabito verde, entrare ardito nelle aristocratiche sale, dove la greca bellezza esponevasi all'ammirazione dei suoi adoratori? E la greca bellezza accoglierlo con un sorriso pieno di grazia, che fece, io credo, balzare con violenza nuova il cuore del selvaggio isolano? A lui che fin da fanciullo adorava Venere nei materni suoi colli, dovette sembrar di vedere la Dea in persona, salvo che un po' più vestita. — E che cosa pensate voi, che avvenisse per questo incontro? — Io penso che il poeta s'innamorò senz'altro della bella signora; nè mi fa ostacolo ch'egli avesse diciassette o diciotto anni, e lei trentaquattro o trentacinque.
Amori di questo genere sono comunissimi nei poeti; ed anche nei non poeti. Nè la signora, io penso, per quanto vicina a passare a seconde nozze col nobile uomo Giuseppe Albrizzi, si adontò dell'amorosa offerta che il giovine poeta le fece del suo cuore.
Se questo ch'io penso è vero, la saggia Isabella sarebbe probabilmente la Laura cantata dal poeta nelle Rimembranze, e fors'anche la celeste Temira del romanzo autobiografico. Comunque sia di ciò, in questo amore del poeta per Laura è indubbiamente il germe primo del Jacopo Ortis.
Venezia, ho detto, si divertiva; ma, fra mezzo al tripudio dei giuochi, delle mascherate e dei balli, l'eco delle magiche parole liberté, égalité, fraternité, con le quali la Francia rivoluzionaria avea chiamato alla riscossa i popoli, e il suono delle vittoriose armi francesi, avevano anche a Venezia smosso qualche cosa. Anche in Venezia, come nelle altre parti d'Italia, era venuto sorgendo un partito democratico, e s'era formato un comitato rivoluzionario, in corrispondenza coi repubblicani di fuori. Ugo fece parte dell'uno, e forse anche dell'altro, spiegando nell'opera di agitatore politico tutto l'impeto della sua ardente giovinezza e della sua bollente natura; onde, sospettato e perseguitato dal Governo, dovè nell'aprile del 1797 abbandonare Venezia. Riparò nella Cispadana, e si arruolò cacciatore volontario in uno squadrone che si andava formando a Bologna.
Di lì a poco (12 maggio 1797) il Governo di Venezia cadde ignominiosamente abdicando. Gli successe un Governo provvisorio democratico; ed Ugo, appena avutane notizia, si affrettò a tornare. Furono, per lui, e per gli altri come lui amanti sinceri della libertà, giorni pieni d'illusioni; ma giorni soltanto. Si fecero feste e luminarie, si fecero sciocchezze e pazzie per celebrare la rigenerazione della patria; si piantò nella piazza di San Marco (6 giugno) l'albero della libertà; e intorno ad esso ballarono, cantando il canto della democrazia, vecchi, donne, fanciulli, sacerdoti, magistrati. Il Foscolo ebbe un ufficio presso il Governo provvisorio, e pubblicò la sua ode Bonaparte liberatore.
Intanto Bonaparte liberatore stava cedendo Venezia agli Austriaci.
Inutile dire lo scoppio d'indignazione dei liberali sinceri alla dolorosa notizia.
Nell'animo d'Ugo essa fece una ferita immedicabile. Quando stavano per entrare i nuovi padroni, egli capì che quella di Venezia non era più aria per lui, e scappò a Milano, dove nei primi del 1798 diresse il Monitore italiano (giornale ch'ebbe pochi mesi di vita), e vi pubblicò alcuni frammenti sullo stato d'Italia, i quali poi ricomparvero nell' Ortis.
L'anno appresso (1799), Ugo, ristampando l'ode, vi premetteva la famosa lettera dedicatoria, con la quale, invitando il conquistatore a tornare in Italia, gli diceva, fra le altre cose: “tu sei in dovere di soccorrerci, non solo perchè partecipi del sangue italiano, e la rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di quel trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni e scemò dignità al tuo nome.„
Un giovinotto di ventun anni, povero e quasi sconosciuto fuori del veneto, che cercava un impiego dal Governo della repubblica cisalpina, parlare così al conquistatore francese, che era il fondatore di quella repubblica, che stava per toccare l'apogeo della sua fortuna e della sua gloria, fu certo ardimento non piccolo. In questo contrasto fra il bisogno che lo costringeva a importunare di domande i potenti e la fierezza della sua natura che lo induceva a rimproverar loro arditamente le loro colpe e i loro vizi, sta una parte notevole della vita e del carattere del Foscolo.
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Io vi ho abbozzato, o signori, la giovinezza di quella vita; ora dobbiamo vedere l'uomo, e nell'uomo considerare tre persone, il soldato, il poeta, l'uomo propriamente detto.
Del soldato ci sbrigheremo brevemente; basterà ch'io vi legga il suo stato di servizio, uno stato di servizio veramente onorevole.
Lo tolgo da un rapporto del Ministro della guerra al Vice Presidente della Repubblica cisalpina, che porta la data del 30 ottobre 1802. “Dalle carte presentate, dice il rapporto, risulta che il Foscolo fu cacciatore a cavallo fino dall'anno 1797, e che ebbe un brevetto onorario di tenente dalla Giunta di difesa generale Cispadana; che combattè valorosamente a Cento, e fu ferito; che a Forte Urbano fu prigioniero; che combattè alla Trebbia e a Genova, dove per attestati, e per testimonianza del generale Massena (che lo nomina nel suo rapporto stampato), ebbe gran parte nella importante vittoria, dei due fratelli, e che fu nuovamente ferito; che fece le campagne della Romagna e della Toscana, e che ha sempre dimostrato negli stati maggiori dove ha servito per tre anni consecutivi tutto il coraggio ed i lumi che caratterizzano un uffiziale. La sua nomina di Capitano aggiunto ha origine da un ordine del generale in capo Massena, che a Genova lo impiegò a richiesta dell'aiutante generale Fantuzzi.„
Nei cinque anni dei quali parla il rapporto (1798-1802), è la parte più considerevole della vita militare del Foscolo. Dopo il 1802, egli non si trovò più a nessun fatto d'armi. Dalla primavera del 1804 ai primi di marzo del 1806 appartenne alla Divisione italiana mandata in Francia al Campo di Saint-Omer; poi tornò a Milano, dove rimase a disposizione del Ministero della guerra.
E qui, si può dire, finisce la vita militare del Foscolo; nella quale se non andò più avanti del grado di capitano, se anzi questo grado gli fu sempre contestato, e se non dimostrò le migliori attitudini come ufficiale amministrativo, dimostrò però ampiamente di possedere ciò che più importa nel soldato, il coraggio e il valore.
Ma cessando nel fatto dalla milizia, il Foscolo ne conservò gli stipendi e la divisa, che di tratto in tratto indossava in qualche importante occasione. Cotesti stipendi gli furono sempre pagati dal governo, perchè potesse attendere ai suoi lavori letterari. E pure le sue lettere di cotesto tempo ai superiori e agli amici son piene di lamenti perchè non era abbastanza pagato.
La spiegazione di questi lamenti sta in ciò che narra di lui Mario Pieri. Il Pieri che, come sappiamo, avea conosciuto il Foscolo a Venezia povero in canna e superbo della sua povertà, narra che, rivedendolo qualche anno dopo a Milano, lo trovò tutto attillato e pulito, che abitava un ricco quartiere, che si faceva abbigliare da capo a piedi dal suo servitore, che frequentava le mense dei grandi, e veniva predicando i comodi della vita. Accostandosi alle mense dei grandi, Ugo ne contrasse la malattia del voler parere grande, pur seguitando di tratto in tratto a protestarsi povero; le quali proteste, chi guardi bene addentro, erano anch'esse un effetto della sua megalomania; funesto morbo, che gli guastò il carattere e gli contristò miseramente la vita.
Divenendo la capitale della repubblica cisalpina, Milano si era d'un tratto trasformata come per incanto. Alla inerzia e al torpore degli anni precedenti era succeduta una meravigliosa esuberanza di vita: da tutte le parti d'Italia, quanto v'era d'uomini ingegnosi, arditi, operosi, intraprendenti, accorreva a Milano.
La medaglia aveva, s'intende, il suo rovescio. Insieme agli uomini di valore ed onesti erano accorsi d'ogni parte gl'intriganti, i quali cercano sempre trar profitto da ogni mutazione di governo: l'antica rilassatezza del costume non trovava certo nel nuovo ordine di cose un freno salutare; tutt'altro.
Ugo, nella sua duplice qualità di soldato e di poeta, avea subito trovata a Milano buona accoglienza fra i militari e fra i letterati. D'uomini illustri nelle lettere e nelle scienze c'erano già, quando egli arrivò, o giunsero poco dopo, il Monti, il Paradisi, Giovanni Pindemonte, il Giordani, il Gioia, il Rasori e parecchi altri.
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Una delle prime amicizie che Ugo contrasse fu quella del Monti, una delle prime cose che fece fu innamorarsi della moglie di lui. Non era nuovo agli amori. Avea già avuto a Venezia i primi ammaestramenti dalla celeste Temira. “Cogli i favori delle belle donne, come i fiori delle stagioni, essa gli avea detto; ma bada, non innamorarti„: e lui avea subito cercato di mettere in pratica il primo precetto. Quanto al secondo, preso letteralmente, esso non era di attuazione possibile per un uomo che già stava tramutandosi in Jacopo Ortis. Tanto non era possibile, che la vita del Foscolo nelle sue relazioni col sesso gentile fu da indi in poi un continuo succedersi, anzi intrecciarsi, d'amori, per modo che prima che maturasse l'uno era spuntato già l'altro; nè era vietato ai morti amori di rinascere, nè ai viventi di fare a pugni o accomodarsi alla meglio l'uno accanto all'altro dentro il cuore del poeta.
Se nell'amore per la Monti il Foscolo trovasse corrispondenza, non si può nè affermare nè negare. Il Pecchio lo crede, io non lo credo. Comunque, Ugo lasciò scritto che si voleva ammazzare per lei, e lei raccontò al Pieri che veramente egli tentò d'ammazzarsi: ma per fortuna non ne fu nulla; e così potè invece cercare conforto in un amore nuovo, nell'amore della giovine Isabella Roncioni, che conobbe passando da Firenze nelle sue escursioni militari, e che ahimè era già fidanzata ad un marchese Bartolomei, al quale poi andò sposa.
Che cosa fosse il Foscolo innamorato, chi in Firenze conobbe il Niccolini, può averlo saputo da lui. Chi non lo conobbe può leggere ciò che ne dice il Pecchio, che torna lo stesso. “Egli era, dice il Pecchio, un oggetto per alcuni di terrore, per altri di riso.... diveniva mutolo, accigliato, cupo, guardando con pupille sbarrate, immote, come quelle d'un frenetico; e se rompeva quella terribile taciturnità, non era che per brontolare alcune sentenze sul suicidio, o per ripetere le cento volte a guisa d'un rosario alcuni versi allusivi al suo stato.„
Un amatore così fatto sembrerebbe dover fare paura alle belle signore: invece, almeno a quel tempo, pare di no. Tanto che della perduta Isabella potè ben presto consolarsi a Milano nell'amore della contessa Fagnani Arese, una superba bellezza, alla quale piacque aggiungere nella lunga lista dei suoi trionfi quello sul singolare poeta.
Ed egli allora (nel 1802) era veramente divenuto poeta, non solo singolare, ma grande. Singolare piuttosto è, cioè può parere, che egli diventasse gran poeta in quei cinque anni, che furono i più tumultuosi della sua vita, e i meno acconci agli studi; nè solamente poeta, ma anche prosatore. Egli andava correndo su e giù per l'Italia, da Milano a Bologna, da Bologna a Modena, da Modena a Lugo, a Firenze, a Pistoia, incaricato di commissioni militari, incaricato di dare la caccia ai briganti; e intanto dall'ingegno suo sbocciavano quei tre sonetti d'amore che il Carducci disse “mirabili di novità, di purità, di movimento, vera lirica dell'affetto superiore ed intenso trasformato ed idealizzato nel fantasma„. E intanto componeva l'ode alla Pallavicini, che se nella combinazione dei versi rammenta il Parini, lo supera nella eccellenza della esecuzione, e l'altra all'amica risanata, le cui ultime strofe sono di una purezza antica quale fino allora non s'era veduta nella nostra poesia. E intanto veniva elaborando le Ultime lettere di Jacopo Ortis, e scriveva l' Orazione a Bonaparte pel congresso di Lione.
I tre sonetti sono scritti per la Roncioni, nel 1799. L'amore per la Roncioni fu pure quello che fissò nell'ultima sua forma il romanzo. Il primo germe di esso furono, come dissi, le lettere a Laura; le quali, dopo l'amore per la Monti, si trasformarono ed allargarono nella vera storia di due amanti infelici, cominciata a stampare dall'autore a Bologna nel 1798, finita e pubblicata dal Sassoli, e dal Foscolo rifiutata.
Ma non si può pensare senza disgusto che all'ultima elaborazione dell' Ortis partecipasse l'amore per la bella Signora milanese, che il poeta celebrò nell'ode all'amica risanata.
Così quattro amori e quattro donne contribuirono alla formazione del famoso romanzo, che fece versare tante lacrime a tante innocenti fanciulle, che fece girare la debole testa a tante giovani spose, che fece, come il Werther in Germania, venir di moda il suicidio; che fu, lasciatemi dire, la catena del forzato che Ugo si trascinò dietro per tutta la vita. Meditando il suo romanzo, egli si era immedesimato siffattamente col protagonista, che di fronte alle molte donne che incontrò nel suo breve cammino non seppe recitare mai altra parte che quella di Jacopo Ortis, salvo, s'intende, il suicidio. Ma in quel libro malsano il poeta si rivelò prosatore nuovo, originale, efficace; meglio che nella Orazione pei Comizi di Lione, dove non seppe, o non volle, liberarsi dell'antico paludamento.
Egli non aveva allora che ventiquattro anni,
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La rimanente sua vita può dividersi in due grandi atti, separati, o meglio legati insieme, da un breve intermezzo. L'atto primo comprende il tempo della piena espansione di tutte le forze intellettuali ed affettive del poeta, alle quali una sola cosa mancò, il freno di una forte volontà che contenendole sapesse guidarle a mèta sicura. È il tempo dei Sepolcri e delle Grazie, dell' Aiace e della Ricciarda, della traduzione d'Omero e delle lezioni d'eloquenza a Pavia; il tempo degli amori per la Giovio, per la Bignami e per la Battaglia, a cui servono come di contorno gli amori in Francia, gli amori con la saggia Isabella e la Marzia, e gli amori bolognesi e fiorentini con la Martinetti, con la Magiotti e con altre donne.
L'intermezzo comprende la breve dimora del poeta in Isvizzera (1815-1816).
Nell'atto secondo è la catastrofe, cioè la vita dell'esule a Londra, dal 1816 alla morte, avvenuta nel 1827. Sono gli anni nei quali il poeta è morto alla poesia, e la poesia è morta al poeta, gli anni dei faticosi lavori d'erudizione e di critica, gli anni dei progetti di imprese letterarie, sempre falliti e sempre rinnovati; sono gli anni della vita galante nella gran società di Londra, gli anni dell'amore per la Russell, gli anni delle spese pazze e della miseria.
Tutto l'uomo è nel giovane. Questa sentenza del Giordani, verissima per molti scrittori, vera per tutti, per nessuno è di una verità così lampante come per il Foscolo. Perciò io mi sono trattenuto a parlare della giovinezza di lui forse più che non paiano comportare i limiti di una conferenza.
Quel sentimento, tutto pagano, di ammirazione e adorazione della bellezza plastica femminile, misto ad una tetra malinconia, che avea bisogno di alimentarsi nella infelicità dell'amore e nelle sciagure della patria; quel sentimento e quella malinconia, che nella vita del Foscolo giovine produssero gli amori per la Roncioni e per l'Arese, e nell'arte le due odi, alcuni sonetti e l' Jacopo Ortis; quel sentimento e quella malinconia governano tutta la posteriore vita dell'uomo e dello scrittore.
Tornato di Francia, dove pure avea fatto un po' l'Jacopo Ortis con una signora inglese ed una signorina francese, Ugo andò per alcuni mesi a Venezia, a rivedere la madre che adorava, e a riprendere gli amori suoi con l'Albrizzi. Là ebbe, io credo, la prima idea del carme I sepolcri. Lo scrisse poi tornato a Milano, e lo stampò a Brescia nell'aprile dell'anno appresso (1807). Non che gli mancasse a Milano il sorriso animatore delle Muse, cioè delle belle signore (ce ne aveva a bizzeffe); ma andando a Brescia, e trattenendovisi a lungo per la edizione delle opere del Montecuccoli, egli s'incontrò in una nuova Musa, Marzia Martinengo Cesaresco (le Muse erano per lui molte più delle nove che registra la Mitologia), e si affezionò ad essa; e sotto la protezione dell'amore di essa diede alla luce il Carme, che fu e rimase la più alta espressione del suo ingegno poetico e del suo caldo patriottismo.
Intendiamoci, la signora non ebbe alcun merito nel merito di questa poesia, che germogliò nella mente del poeta per tutt'altro influsso che di bellezze femminili, e ne balzò fuori d'un tratto intera e perfetta. Anzi, le bellezze femminili, troppo idoleggiate dal poeta, furono forse cagione che questo mirabile carme rimanesse unico nella produzione poetica dell'autore.
Egli intorno a quel tempo avea meditati e abbozzati, e in parte scritti, altri carmi; non meno di sei.
Si vede dai titoli, ed è confermato da ciò che il poeta scriveva in quel tempo agli amici suoi, che negli argomenti e nella materia dei carmi c'era assai varietà; ma nessuno di quei carmi ebbe compimento; e gli squarci che l'autore ne compose andarono poi tutti a finire in un carme solo, che fu come il testamento poetico di lui. È questo il carme Alle Grazie, nel quale il poeta intendeva fin da principio idoleggiare tutte le idee metafisiche sul bello.
Glie ne venne il pensiero dal gruppo delle Grazie scolpito dal Canova; ne scrisse forse qualche primo frammento sul lago di Como quando conobbe la famiglia Giovio e s'innamorò della Cecchina, una seconda edizione dell'amore per la Roncioni; se non che questa volta il poeta avea lasciato due pezzi del suo cuore a Milano, uno in potere della Lucietta Battaglia, l'altro di Maddalena Bignami. Non so se della prima di queste due donne, che fu amata furiosamente dal poeta, ci sia qualche accenno o allusione nel Carme, come una volta sospettai; ma la Bignami rappresenta in esso una delle figure principali. Le altre due donne, che con lei formano il perno intorno al quale si aggira il poema, sono la famosa Cornelia Martinetti, che Ugo corteggiò nel suo passaggio da Bologna per Firenze, nel 1812, e la bella Eleonora Nencini, antica sua conoscenza, ch'era stata la confidente de' giovanili amori di lui per la Roncioni.
A Firenze il poeta, grande ammiratore, e nei suoi primi lavori poetici imitatore dell'Alfieri, si fece assiduo alle conversazioni della contessa d'Albany, dove conveniva il fiore delle bellezze fiorentine, la Rondoni e la Nencini comprese; e qui incantato dalla grazia, dallo spirito, e diciamo anche dalla civetteria delle più belle fra quelle signore (i poeti in ispecie sono molto facili a bever grosso in questa materia e a prendere per grazia e per ingenuità la civetteria), incantato dalla eleganza della città, inebriato dall'aria balsamica dei suoi colli, non respirando, non sognando che grazia ed eleganza, s'innamorò, s'infatuò talmente del suo carme Alle Grazie, ch'esso a poco a poco assorbì ogni suo pensiero poetico, e venne prendendo proporzioni così larghe, che d'un inno com'era in principio, diventò nell'ultimo disegno, un poema, diviso in tre inni, e ciascun inno in tre parti.
Il numero tre pei poeti, è contagioso. Tre le Grazie, tre gl'inni e tre le sacerdotesse delle Grazie.
Tre vaghissime donne a cui le trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
Così comincia l'Inno secondo.
L'ara è a Bellosguardo, dove il poeta dimora, e dove scrive il suo carme. Le sacerdotesse sono le tre belle signore che sopra ho nominate, ciascuna delle quali ha suoi speciali attributi nel culto che il poeta rende alle amabili Deità.
La Nencini, abile suonatrice d'arpa, rappresenta la grazia simboleggiata negli effetti della musica; la Martinetti, piena di spirito e cultissima, la grazia della fantasia espressa nell'amabilità della parola; la Bignami, gentile danzatrice, la grazia apparente al guardo dall'eleganza delle forme nei moti del ballo.
La descrizione della suonatrice d'arpa è uno dei più bei pezzi del Carme, anzi della moderna poesia, denso di pensieri, abbagliante d'immagini, affascinante di suoni come una sinfonia rossiniana. Sentite:
Già del piè delle dita e dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note
Che pingon come l'armonia diè moto
Agli astri, all'onda eterea e alla natante
Terra per l'oceàno, e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla fortuna agitatrice e al tempo,
Sì che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d'armonia divina
E innalzino le menti oltre la terra.
Come quando più gajo euro provòca
Su l'alba il queto Lario, e a quel sussurro
Canta il nocchiero, e allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Su le gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorel con la sua piva;
Per entro i colli rintronano i corni
Terror del cavriol, mentre in cadenza
Di Lecco il malleo domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
Pende le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell'arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
*
Io fui forse troppo severo con le Grazie e con le belle signore quando una volta, a proposito degli amori del Foscolo, scrissi che natura lo avea creato alla grande poesia di cui son saggio i Sepolcri, e ch'egli, per piacere alle amanti, volle essere il poeta delle Grazie. Fui troppo severo, forse ingiusto; ma spero parere non immeritevole di perdono anche agli occhi vostri, o gentili signore che mi ascoltate.
Certo la bellezza è nel mondo una benedizione di Dio, e la bellezza femminile è una delle più gentili parvenze che rallegrino la vita dell'uomo: nessuna bella cosa è più bella di un bel volto di donna irradiato dalla bontà e dall'ingegno. Parlano all'anima un linguaggio misterioso, eccitano nel cuore ineffabili godimenti gli infiniti aspetti della natura animata ed inanimata, il sorgere del sole, un cielo stellato, il canto degli uccelli, lo stormir delle frondi, il profumo dei fiori, il fremito della primavera; ma un giovine innamorato ritrova tutti quei godimenti ed altri maggiori nella contemplazione di due begli occhi di donna. La gioventù non è però tutta la vita; nè può tutta la gioventù vivere della sola contemplazione della bellezza. L'uomo non appartiene a sè solo, appartiene alla grande famiglia umana, e la grande famiglia umana ha, oltre quello della bellezza, altri e più alti ideali che debbono guidarla e sorreggerla nel cammino interminato dell'umano perfezionamento. Egli è perciò, o signore, o signori, ch'io, rammentando gli effetti prodotti in me dalla lettura del carme I sepolcri, lo preferisco alle Grazie, e mi dolgo che il troppo amore di queste distogliesse il poeta dagli altri carmi.
L'ingegno poetico del Foscolo fu essenzialmente lirico; direi quasi, esclusivamente. Il poeta scrisse anche satire, ed, oltre il Tieste, che ho già nominato, altre due tragedie, l' Ajace e la Ricciarda: ma così nelle satire, come nelle tragedie, ciò che v'ha di meglio sono squarci di poesia narrativa e descrittiva appartenenti al genere delle Grazie e dei Sepolcri.
L' Aiace rappresentato con grande aspettazione a Milano nel 1811, finì fra le risate del pubblico. Occasione alle risate furono, voi lo sapete, i Salamini (sudditi di Ajace); ma la cagione vera, che la tragedia era mortalmente noiosa: la gente non va al teatro per sentir recitare qualche migliaio di versi, siano pur belli. E non c'è bisogno per ciò nè di palco scenico nè d'attori. Il dolore del poeta per l'insuccesso dovette esser grande. Chi pensò a compensarnelo furono i suoi nemici, ch'erano molti, e tristi e sciocchissimi.
Egli avea sempre tenuto verso Napoleone ed il suo governo in Italia, così al tempo della Repubblica cisalpina come del regno Italico, il libero e fiero contegno assunto fino dal 1799 con la lettera dedicatoria dell'ode Bonaparte liberatore. Nell'orazione pei comizi di Lione, più che tessere le lodi dell'Imperatore, avea fatto un'aspra e violenta censura dei mali che per opera del suo governo travagliavano la patria. Quando, nominato professore a Pavia, stava preparando l'orazione inaugurale, fu pregato d'introdurvi qualche parola di lode dell'Imperatore, com'era d'uso; ma egli rispose, no; e no fu. Notisi che lo stipendio di professore, di cui tutti i suoi predecessori si erano contentati, parendo a lui troppo piccolo, avea chiesto ed ottenuto che gli si conservasse metà del soldo militare. Egli era così, e si conservò sempre eguale; chiedeva quasi in tuono di comando, e riserbandosi piena la sua libertà di giudizio e di parola. Ma quanto più i governanti gli si dimostravano benevoli per la stima che facevano del suo ingegno, tanto cresceva l'ira dei suoi nemici contro di lui.
È noto l'epigramma che dopo la recita della tragedia corse per Milano:
Per porre in scena il furibondo Ajace,
Il fiero Atride e l'italo fallace,
Gran fatica Ugo Foscolo non fe':
Copiò sè stesso e si divise in tre.
Questo fu niente: i nemici del poeta andarono spargendo che l' Ajace era una satira dell'Imperatore Napoleone. Non si poteva inventare bugia più sciocca: ma non c'è bugia, tanto sciocca, che a forza di gridare non si riesca a farla credere una verità. Così accadde; la polizia dovè occuparsene, e il poeta dovè esulare dal regno. Egli, che con una parola avrebbe potuto giustificarsi, preferì fare la vittima, poichè così la tragedia acquistava un'importanza politica, che lo compensava dell'insuccesso nel teatro. L'esilio, che gli fu condito di tutte le dolcezze possibili, diventò una specie di viaggio trionfale alla volta di Firenze, dov'egli, già noto e famoso, arrivò più famoso e festeggiato che mai. Un po' di persecuzione, o vera o apparente, aggiunge sempre qualche raggio all'aureola di un uomo illustre.
La povera Quirina Magiotti, la sola donna forse che lo amò veramente, che lo soccorse generosamente (e che non ebbe un solo verso dal poeta delle Grazie, poichè i poeti sono spesso ingrati), la povera Quirina si sentì tremar tutta la prima volta che lo vide, arrivato di fresco, passare per ponte vecchio; tanta era la fama che avea preceduto il suo arrivo. E quanto dovette soffrire la povera signora quando tornato Ugo a Milano, dove lo richiamarono, non tanto gli avvenimenti politici, e la recita della Ricciarda, quanto il suo furioso amore per la Battaglia, trovò in alcuni frammenti di lettere di lui la conferma dei tradimenti d'amore, che pur troppo avea sospettati. Ciò non pertanto la brava donna rimase amica al poeta, amica affezionata fino alla morte, fin dopo la morte. Ciò fu per lui la Provvidenza.
Tornato a Milano, il Foscolo rivestì la divisa militare, come aiutante del generale Fontanelli. Ma gli avvenimenti precipitavano: caduto Napoleone e con lui il regno Italico, Ugo dovè scegliere fra mettersi a servizio dei nuovi padroni, o andarsene. Ebbe qualche momento d'esitazione, entrò anche in trattative per la fondazione di un giornale in servizio del nuovo Governo: finalmente vinsero i suoi istinti migliori, e fuggì nascostamente in Isvizzera, con piccol bagaglio, con pochi denari, senza saper nemmeno lui troppo bene che cosa avrebbe fatto, e come avrebbe vissuto. Quando fu a corto di denari, si rammentò della sua buona amica di Firenze, e lei fu tutta felice di aiutarlo. Ma anche fra i ghiacci e le nevi di Hottingen il vecchio peccatore ebbe una quantità di avventure stranissime, e s'impigliò nelle reti di un brutto romanzo d'amore, che gli fece commettere quello ch'ei chiamò il secondo delitto della sua vita: e alla povera Quirina toccò di sentirne la confessione. Finalmente, raccapezzati, con l'aiuto del fratello Giulio, un po' di denari, mosse alla volta dell'Inghilterra, e l'11 settembre del 1816 arrivò a Londra.
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La vecchia Britannia, superba di avere abbattuto Napoleone, ammirò ed onorò nel Foscolo, non solo l'autore dell' Ortis e dei Sepolcri, ma l'uomo che dinanzi al colosso di Francia, a cui tutti s'inchinavano, avea sempre tenuto alta la testa. Egli fu subito accolto nella migliore società di Londra. La vita che condusse là fino dai primi tempi fu, come quella che avea condotta a Milano, la vita del gran signore, salvo che costavagli molto più cara. Le centinaia di lire che gli dava a Firenze e gli mandava in Isvizzera la buona Magiotti sarebbero state una goccia d'acqua in un bicchiere vuoto; e d'altronde a Firenze e in Lombardia correvano novelle ch'e' fosse arricchito, perchè le persone andate a visitarlo lo avean trovato in un alloggio signorile, con tutte le mostre dell'agiatezza: di che egli scusavasi nelle lettere agli amici d'Italia, dicendo che l'usanza del paese e la necessità di guadagnare lo costringevano a quel lusso apparente, che nascondeva una miseria reale. Se non la scusa, la miseria era vera pur troppo.
Nel 1818 si ritirò in campagna, per economia, diceva lui, e per poter lavorare con più quiete; ma seguitò a tenere il quartiere che aveva affittato in città, spese alcune migliaia di lire per arredare la villa, e mise cavallo e carrozza, per potere andare e venire tutte le volte che gli occorresse. Vi raccomando questa razza d'economia.
Perchè non lo diremo? — Fu proprio l'economia intesa e praticata a questo modo che trasse in rovina il povero Foscolo, al quale non mancò nè anche a Londra l'aiuto largo, generoso e costante degli ammiratori e degli amici.
Una delle famiglie con le quali fino dal 1818 avea stretto più intima relazione era la famiglia Russell. Ugo andava spesso a pranzo da loro, andava in compagnia loro e d'amici comuni a partite di piacere, a feste e conversazioni, mandava e portava loro libri da leggere, e leggeva con le due figlie maggiori, Caterina e Carolina, le poesie del Petrarca. Come con la famiglia Russell, usava familiarmente con altre; ed uno dei suoi piaceri preferiti era spiegare alle signore e alle signorine le più astruse teorie d'amore.
Quella lettura del Petrarca fatta con le due Russell, una delle quali, la Carolina, bellissima e piena di spirito, si porgeva acconcia alle dissertazioni care al poeta, ma anche era, per un uomo come lui, tutto che avesse i suoi quarant'anni suonati, cosa molto pericolosa. Il padre delle ragazze ne lo aveva avvertito, ma invano. Accadde quel che doveva accadere, che cioè il poeta s'innamorò; e benchè la ragazza gli dicesse chiaro e tondo che un poeta di quarant'anni e povero non poteva sperare da lei nient'altro che stima e amicizia, non ci fu verso; seguitò per oltre un anno e mezzo a proseguirla delle sue furie amorose. Tant'è, non sapeva capacitarsi che un uomo come lui, al quale nessuna donna avea detto di no, dovesse trovare proprio a Londra la fenice del genere. Fece e scrisse una quantità di pazzie; minacciò di ammazzarsi; ma il buon senso, la fermezza e la calma della fanciulla finirono, dopo una serie di lezioni abbastanza dure, col richiamarlo alla ragione.
Non tutto il male viene per nuocere.
Dalla lettura del Petrarca fatta in casa Russell, nacquero i Saggi sul Petrarca, cioè la migliore opera che Ugo scrivesse a Londra, quella che lo rivelò sotto un aspetto nuovo, l'aspetto del critico. Chi pensi alle condizioni di tempo e di luogo nelle quali il Foscolo scrisse questi saggi, e i discorsi sul testo di Dante e del Boccaccio, non può non restare meravigliato, non dico della dottrina, ma dell'intuito felice col quale egli vide molte cose, che il progresso degli studi critici dovea poi dimostrar vere. E chi pensi alle condizioni domestiche e di salute nelle quali egli dovè attendere a questi ed altri lavori, la sua meraviglia si cambierà in istupore. Il Foscolo, dissi, era nato poeta. Strappato dalle necessità della vita alla poesia, e costretto a scrivere della prosa pe' librai e pei giornalisti, applicò la potente visione poetica allo studio delle opere altrui, e divenne critico nuovo e potente; lasciatemi dire, l'instauratore della critica nella nostra letteratura.
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Un giorno si presentò a lui una vecchia dama in compagnia di una giovinetta, e gli disse: Ecco, signore, questa è vostra figlia; io, sua nonna, la affido a voi, e vi affido insieme la piccola dote che ho potuto assegnarle.
La giovinetta, che poteva avere sedici o diciassette anni, era frutto dell'amore che il poeta, come accennai, ebbe con una signora inglese nel tempo che militò in Francia. Ugo accolse con lieto animo la figlia, e pensò a mettere in luogo sicuro la dote. Così non ci avesse pensato! Gli venne l'idea di fabbricare, di fabbricarsi la casa, che doveva essere l'asilo della sua vecchiezza, e, morto lui, il patrimonio della figlia: ne fece il disegno da sè, e da sè attese a mobiliarla e adornarla con l'eleganza di un artista.
Come andasse non so, il fatto è che prima ancora che la casa fosse finita, si trovò in tali angustie, che dovè ricorrere per aiuto agli amici; e Lady Dacre, una donna d'alto animo e d'ingegno, che gli voleva bene e lo ammirava, promosse una sottoscrizione per un corso di letture, che gli accrebbero riputazione e gli fruttarono circa un migliaio di sterline. Si figurò di potere con queste accomodare tutte le sue faccende e rimanere un signore. Ciò accadeva nel 3 marzo del 1823. Ai primi del 1824 alcuni creditori lanciarono contro di lui un mandato d'arresto; ed egli, per sottrarsi alle loro persecuzioni, dovè abbandonare di nascosto la propria casa, e andare errando dall'uno all'altro dei più poveri quartieri della città.
Le fatiche e i dispiaceri gli avevano rovinato la salute. Non visse più che quattro anni non interi; e furono quattro anni di patimenti inauditi, materiali e morali. Più d'una volta, mal reggendosi in piedi, dovè andare attorno vendendo qualcuno dei suoi libri, per potersi sfamare. Tanto sentiva di non essere più lui, che nascose il proprio nome sotto quello della figlia.
Se furono grandi i suoi errori, fu anche grande l'espiazione; e sopportata eroicamente.
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Quella che ho tentato di adombrarvi non è certamente, o signore, o signori, la vita di un uomo savio, nel significato che si dà usualmente a questa parola; ma se è bene che la grande maggioranza della società sia di uomini savi, non è male che di tratto in tratto sorga fra essi qualche pazzo, chiamiamolo pure così, cioè no, diamogli il suo vero nome, qualche eroe, qualche poeta, capace di scrivere dei versi come quelli dei Sepolcri; versi che una volta letti vi si conficcano nella memoria e diventano parte dei vostri pensieri, che vi ricercano le intime fibre, che vi trasportano in un mondo ignoto, che vi fanno maggiori e migliori di voi stessi, risvegliando le più nobili energie che dormivano nascoste nell'intimo dell'essere vostro.
Che importa che il Foscolo avesse come uomo delle debolezze? Quando noi le abbiamo sapute, i suoi Sepolcri non rimangono egualmente belli, non rimangono la prima voce più altamente e liricamente patriottica dell'Italia moderna? È solo speciosa quella trita sentenza che pel cameriere non ci sono eroi. Sapete perchè il cameriere non vede l'eroe? Non già perchè l'eroe non ci sia, ma perchè il cameriere è un cameriere.
La critica moderna, che scruta le vite de' grandi uomini, ci abbassa pur troppo spesse volte a quell'umile ufficio. Facciamone onorevole ammenda, lasciando la parola al poeta.
Io lo so bene, i versi che vi leggerò voi li avete letti chi sa quante volte; forse, anzi senza forse, li sapete a memoria; ma la bella poesia è come la bella musica, quanto più si risente tanto più piace. Ad ogni modo io non saprei trovare scongiuro migliore per farmi perdonare da voi la noia di questa conferenza.
A egregie cose il forte animo accendono
L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che temprando lo scettro a' regnatori
Gli allôr ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l'arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a' celesti, e di chi vide
Sotto l'etereo padiglion rotarsi
Più mondi, e il sole irradiarli immoto,
Onde all'Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento;
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe' lavacri
Che da' tuoi gioghi a te versa Appennino!
Lieta dell'aer tuo veste la luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti; e le convalli
Popolate di case e d'oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi.
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco;
E tu i cari parenti e l'idïoma
Desti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma,
D'un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere celeste.
Ma più beata che in un tempio accolte
Serbi l'itale glorie, uniche forse,
Da che le mal vietate Alpi e l'alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t'invadeano, ed are,
E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Questi versi, composti novant'anni fa infiammarono di santo sdegno i cuori di quelli uomini gloriosi (ora ahimè, tutti scomparsi) che ci crearono la patria. La santa ombra del poeta ci assista, ed ispiri a quelli che restano le virtù necessarie per conservarla.
GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)
CONFERENZA DI Giovanni Pascoli. Signore e Signori,
I.
Era un sabato, il più bel giorno dei sette: e io uscito “in sul calar del sole„ dalla porta di Monte Morello mi recava al colle detto Monte Tabor. Sono ora pochi giorni: della primavera tuttavia irresoluta avevo visto già dal mattino, venendo dal Porto alla città di Recanati, inalberare la terra due insegne tra il pallore degli ulivi; una candida, una rosea, d'un mandorlo e d'un pesco. E nelle prode e per i greppi vedevo ora le margherite richiudere per la notturna vigilia i petali sfumati di carmino che candidi erano apparsi nel giorno (spose biancovestite che si tingono di rossore allo sbocciare della stella); mentre io adorava le orme del Poeta, lasciandomi alle spalle la “piazzuola„ piena del “lieto romore„ dei fanciulli e avviandomi all'“ermo colle„ donde egli aveva sentito nell'anima gl'“interminati spazi„ e i “sovrumani silenzi„. Il colle non è più quello, essendo stato in parte tagliato per dar luogo a una strada nuova, e piantato e ripulito e pettinato per diventare un giardino pubblico, il Pincio; ma “ermo„ era anche quella sera di sabato. E si udivano bensì grida di fanciulli, felici della festa del domani; ma di qua e là, di lontano; e velavano appena la taciturnità del tramonto. Tornava un contadino con la vanga sulla spalla, dando la faccia rugosa ai bagliori del sole. Tornava una vecchierella con sul capo un piccolo fascio di stecchi. Un'altra le si fermava di contro. Stettero, nereggiando tra uno scintillìo diverso e continuo, parlando tra uno scampanìo fioco di voci remote. Parlavano a lungo: tentennavano la testa. Il “buon tempo„ pareva non lo avessero conosciuto mai.
II.
“Donzellette„ non vidi venire dalla campagna col loro fascio d'erba. Non ancora la lupinella insanguina i campi. Avrei voluto vedere il loro mazzolino, se era proprio “di rose e di viole„. Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d'una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potuto vedere. A questa, viole di Marzo, a quella, rose di Maggio, sì poteva; ma di aver già vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il Poeta non doveva qui ricordarsi. Perchè il Poeta qui rappresenta a noi cose vedute e udite in un giorno, anzi in un'ora; e bene le rappresenta, come non solevano i poeti italiani del suo tempo e dei tempi addietro. E come queste, così altre; e in ciò è la sua virtù principale e, aggiungerei se non fosse ozioso e noioso a proposito di poesia parlar di gloria, la principale sua gloria. Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose: un certo etere che si trova in questa più, in quella meno, in alcune sì, in altre no. Il poeta solo lo conosce, ma tutti gli uomini, poi che egli significò, lo riconoscono. Egli presenta la visione di cosa posta sotto gli occhi di tutti e che nessuno vedeva. Erano forse distratti gli occhi, o forse la cosa non poteva essere resa visibile che dall'arte del poeta. Il quale percepisce, forse, non so quali raggi X che illuminano a lui solo le parvenze velate e le essenze celate. Ora il Leopardi (io pensavo fermandomi a guardare i monti di Macerata, sui quali si contorcevano alcune nuvole in fiamma, come dolorando), il Leopardi questo “mazzolin di rose e di viole„, non lo vide quella sera; vide sì un mazzolino di fiori, ma non ci ha detto quali; e sarebbe stato bene farcelo sapere, e dire con ciò più precisamente che col cenno del fascio dell'erba quale stagione era quella dell'anno. No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perchè io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia così nuova, il poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune alla poesia italiana anteriore a lui: l'errore dell'indeterminatezza, per la quale, a modo d'esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello d'uccelli. Errore d'indeterminatezza che si alterna con l'altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo), tutti gli uccelli a usignuolo. Ma non erano usignuoli quelli che io sentivo tra gli uliveti della valle sottoposta; sebbene d'usignuolo sembrassero tre o quattro note punteggiate che promettevano, a ogni momento e sempre invano, il prorompere e il frangersi della melodia: preludio eterno. Quelle note d'usignuolo mal riuscito erano di cingallegre; e io le udivo a quando a quando dare in quegli striduli sbuffi d'ira o timore, che sembrano piccoli nitriti chiusi in gola d'uccello; le udivo, ora qua ora là, strisciare a lungo la loro limina mordace su un ferruzzo duro duro.
III.
Quante volte si sarà soffermato il Leopardi ad ascoltare queste risse vespertine, risse sull'ora di scegliere il miglior posto per attendervi, con una zampina su, l'aurora! Egli amava “le più liete creature del mondo„, il filosofo solitario. Puro nell'elogio che ne scrisse, non riuscì a infondere la poesia che sentiva in quello che egli chiama loro “riso„, in quella vispezza e mobilità per la quale egli li assomiglia a fanciulli. Ciò che ne dice, è troppo generico, lasciando che non è tutto esatto. Per quanto l'assunto del filosofo dovesse in quell'elogio contrastare al sentire del poeta, tuttavia noi vi desideriamo il particolare perchè sia e legittima l'induzione del filosofo e viva l'esposizione del poeta. Ma non un nome di specie: tutti uccelli, tutti canterini. Nè molta varietà è, a questo proposito, nelle poesie: in una canta al mattino “la rondinella vigile„ e la sera il “flebile usignol„; e il “musico augel„ in un'altra canta il rinascente anno e lamenta le sue antiche sventure “nell'alto ozio de' campi„; e in un'altra è “il canto de' colorati augelli„ insieme col murmure de' faggi; e via dicendo. Ora da questi e simili esempi si potrebbe inferire (io pensava) che il Leopardi non fosse quel poeta che tutti dicono, o perchè non colse quel particolare nel quale è, per così dire, come in una cellula speciale, l'effluvio poetico delle cose, o non lo colse per primo. Ma il nuovo e il vivo abbonda. E così mi rivolgeva nella mente, come un uomo pio sussurra un'orazione per scacciare un brutto pensiero, i tanti luoghi coi quali il poeta della mia giovinezza, della giovinezza di tutti, destava in me i palpiti nuovi nel riconoscere le vecchie cose. Ripensavo le sue notti. Ecco una notte tormentata dalla tempesta: a un tratto non più lampi, non più tuoni, non più vento: buio e silenzio. Un'altra: una notte buia: la luna sorge dal mare e illumina un campo di battaglia tutto ancora vibrante del fracasso del giorno: gli uccelli dormono, e appena rosseggerà il tetto della capanna, gorgheggeranno come al solito. Un'altra ancora: una notte illuminata: la luna tramonta, spariscono le mille ombre “e una oscurità la valle e il monte imbruna„, e il carrettiere saluta con un melanconico stornello l'ultimo raggio. Oh! i canti e i rumori notturni! il fanciullo che non può dormire e sente un canto “per li sentieri Lontanando morire a poco a poco„ o, mentre sospira il mattino, sente, portato dal vento, il suono dell'ora! Nessuno in Italia, prima e dopo il Leopardi, rappresentò così bene l'estasi d'una notte estiva: allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, sussurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva: e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne e le tranquille
Opre dei servi.
E nessuno meglio sentì la poesia d'un risvegliarsi in campagna al picchierellare sui vetri della pioggia mattutina; e nessuno meglio espresse il riprendere della vita dopo un temporale: lo schiamazzar di galline, il grido dell'erbaiuolo, che s'era messo al coperto, il rumoroso spalancarsi delle finestre, che erano state chiuse, e in ultimo il tintinnìo dei sonagli e lo stridere delle ruote d'un viaggiatore che riprende il suo viaggio; e nessuno dirà meglio mai la sensazione d'un canto di donna, udito di notte, in una passeggiata, dentro una casa serrata, a cui ci si soffermò per caso; o di giorno, nel maggio odoroso, misto al cadenzato rumore delle calcole e del pettine. Un grande poeta, o cingallegre che fate sentire lo stridìo assiduo delle vostre piccole lime, in questo dolce sabato sera! un grande poeta, sebbene egli forse non distinguesse i vostri squilli dallo spincionare del fringuello, a cui assomigliano! Così pensavo, e venne il suono delle ore dalla torre del borgo, e io pensai all'altra torre, la torre antica del Passero solitario. Era proprio alle mie spalle. La primavera brillava nell'aria, sebbene non esultasse ancora per li campi: qualche belato, qualche muggito si udiva: dei passerotti saltabeccavano sul tetto della chiesa di Sant'Agostino, che ora è una prigione; le cingallegre stridevano sempre. Il Passero solitario però non faceva più il nido nella torre, di cui fu abbattuta la “vetta„: mi dissero che più tardi ne avrei sentito i sospiri d'un gufo. Più tardi: ora il sole dirimpetto, facendo lustrare e avvampare tutti i vetri delle case,
tra lontani monti
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
IV.
Il sole non si dileguava così presto dietro il Sanvicino: esso colorava qua in rosa tenue, là in rosa carico, qua in oro, là in violetto le nuvole che parevano essere convenute per assistere alla sua discesa. A un volger d'occhio, quella si scolorava in ardesia, questa trascolorava in porpora. E non mi pareva che il sole dicesse cadendo quelle tristi parole. Già con me erano di troppo: ma mi ricordo che quando ero, non un poeta giovane, ma un giovane proprio, il sole al tramonto mi diceva sempre, come dirà anche oggi ai giovani lettori del Leopardi:
Che la beata gioventù vien meno.
Il Passero solitario dicono che sia concezione, so non lavoro, della prima giovinezza del Poeta: dell'anno 19 che fu a lui il più ricco di ispirazioni. Fu concepito, in vero, quando il poeta non curava più
sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
quando non era più quel fanciullo giocondo, di cui egli stesso narra:
In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza.
Giacomo godè il suo Sabato, “giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno„. La sua fanciullezza passò, come raccontava il suo fratello Carlo, tra giuochi e capriole e studi; ma passò in un collegio. Carlo lodava suo padre “d'averli tenuti presso di sè„; ma certo questi li tenne più da rettore che da padre. Monaldo credeva d'avere ricevuto una instituzione molto imperfetta. “L'ottimo Torres„ egli dice “fu l'assassino degli studi miei, ed io non sono riuscito un uomo dotto, perchè egli non seppe studiare il suo allievo e perchè il suo metodo di ammaestrare era cattivo decisamente„. Ora sin dall'età di anni quattordici egli aveva detto fra sè che avendo figli non avrebbe permesso ad alcuno lo straziarli tanto barbaramente. Come tenne il suo proponimento? In una cosa intanto: nel non mandare in monastero la figlia Paolina, come vi era stata mandata la sua sorella, con la quale e col fratello vivo aveva trascorso i suoi primi anni. Egli sofferse molto di quell'allontanamento e non volle dare a Giacomo e a Carlo il dolore che aveva provato esso. Poi: avrà certo raccomandato ai precettori che forniva ai suoi figli di non essere così pedanti da esigere da essi la recitazione a memoria di “libri intieri senza il più piccolo errore„. Ma i precettori volle che fossero preti: don Giuseppe Torres per primo (il suo maestro “di una severità intollerabile„), poi don Sebastiano Sanchini. Egli diede inoltre ai figli un pedagogo, che sempre li accompagnasse, “un pedante vermiglio, grasso, florido„, don Vincenzo Diotallevi, buon bevitore. Quelli erano i maestri o professori, questo il prefetto; il rettore, s'intende, era Monaldo. I giuochi dei ragazzi erano quali si fanno anche oggidì nei collegi un poco all'antica; quali mi ricordo d'aver fatti anch'io nel collegio dei buoni Scolopi, ai quali sono grato dal profondo del cuore: battaglie romane. Intanto che Napoleone (Monaldo nel 1797 avrebbe potuto vederlo. “Passò velocemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi, perchè quantunque stessi sul suo passaggio nel palazzo comunale, non volli affacciarmi alla finestra, giudicando non doversi a quel tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo„) intanto che Napoleone combatteva ad Austerlitz o a Jena, i piccoli Leopardi ed i piccoli cugini Antici, battagliavano a Canne o a Zama, nel grande salone, al chiarore delle nevi, o nel giardino; e Giacomo mostrava, sotto il nome o di Scipione o di Annibale, quell'ardore guerresco, che si adempiè poi nel 18 coi celebri versi:
L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Sanno di collegio le passeggiate fatte sempre insieme e sempre col prefetto o pedagogo, sa di collegio la burla fatta al buon prete, che Giacomo descrisse nella poesiola “la Dimenticanza„; sa di collegio quel porsi nomi finti (Giacomo era Cleone; Carlo, Lucio; Paolina, Eurilla). Si narra persino del romanzo letto di nascosto.... Nè mancavano gli esami e le premiazioni. “Noi tre„ racconta Carlo, “fratelli più grandi, Giacomo, io e la Paolina, davamo talvolta in casa saggi quasi pubblici de' nostri studi„. E da questa vita di soggezione continua e di regolarità uniforme, veniva quel bisogno delle fole e delle novelle, che Giacomo raccontava e Carlo ascoltava a lungo; e derivò presto quell'opposizione di pensieri col loro padre, che nei collegi è solita tra alunni e superiori. Giacomo “l'onorare i genitori non intendeva esserne schiavo„. Ciò nei tempi in cui si confessava, poichè “ne fu dichiarato empio dal prete„. Il noto dissidio tra padre e figlio, che ha diviso gli studiosi del Leopardi in due fazioni, quella dei Monaldiani e quella dei Giacomiani, nacque, o almeno fu reso facile o possibile, da questo fatto: che Giacomo, come i suoi fratelli, vide da fanciullo nel padre più il superiore che il genitore; e ciò attenua la colpa sì di Monaldo, se è di Monaldo, perchè egli operava a fin di bene, sì di Giacomo, se è di Giacomo, perchè egli non credeva di fare tanto male. Col tempo, Carlo lodò suo padre e della severa educazione e dell'istruzione “forse migliore di quella dei collegi„, come lodiamo noi ora quel buon rettore di cui da ragazzi dicevamo tanto male. Certo noi ameremmo o amiamo i nostri figliuoli in modo diverso; ma non si può dire che Monaldo non li amasse a modo suo. Oh! egli avrebbe fatto meglio, dico io non ostante le lodi di Carlo, a metterli a dirittura in un collegio vero e fuori di casa. Nella tristezza della solitudine, che si fa in esso così fiera nella celletta dopo il chiasso del giorno e il brusìo della sera, si sarebbero essi con tutta l'anima rivolti alla famiglia lontana. Io ricordo che strette al cuore sentivo quando mi giungeva, la notte, nella veglia non consolata, “il suon dell'ore„. Era la voce della città straniera; non del borgo natìo. E io pensavo a babbo e mamma. E Giacomo non poteva nemmeno fuggendo dal padre, correre al seno della madre. Essa, tutta occupata nel restaurare il patrimonio Leopardi, non accarezzava i figli che con lo sguardo. Se era così dolce, come so io d'un'altra, come sanno tutti, o quasi, di una, poteva bastare. Ma....
V.
Nell' instituzione di Monaldo era sopratutto un vizio che egli con meraviglia s'intenderebbe rimproverare. Egli coltivò troppo in Giacomo il desiderio della gloria. È un'ambizione questa che si suole chiamare nobile; in verità non può esservi ambizione nobile, se nobile vuol dire buona. Ma lasciamo lì: io non voglio, nè so, nè devo fare il moralista: certo mi piacerebbe che l'uomo facesse bene, senza aver sempre di mira un altro, di cui far meglio; e che specialmente nell'arte e in particolare nella poesia, la quale non è nessun merito far bene, perchè non si può far male; o si fa o non si fa; l'artista e il poeta si contentasse di piacere a sè senza cercare di piacere a tutti i costi agli altri e più d'altri. Lasciamo, ripeto: io voglio soltanto dire che questo smodato desiderio di gloria fu cagione d'infelicità a Giacomo Leopardi. Che smodato fosse in Giacomo ancor fanciullo, dice Carlo: “Mostrò fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libertà ardentissimo„. Notiamo quell'amore di libertà, figlio non fratello di quello di gloria, come è chiaro a chi legge il secondo de' Pensieri: “Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima età....„ E più giù “la potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù ne' figliuoli, che per essere domestica, è più stringente e più sensibile della civile„. E che Giacomo adattasse al caso suo, o piuttosto ne derivasse, questo principio generale, non può esser dubbio a chi ripensi le sue parole: “Io non vedrò mai cielo nè terra, che non sia Recanatese, prima di quell'accidente, che la natura comanda ch'io tema e che oltracciò secondo la natura avverrà nel tempo della mia vecchiezza: dico la morte di mio padre„. Nel tempo della vecchiezza! nel quale, come egli osserva nel Pensiero citato, l'uomo “non prova stimolo.... e se ne provasse, non avrebbe più impeto, nè forza, nè tempo sufficienti ad azioni grandi„. Tuttavia osserviamo che egli conclude come sia utilità inestimabile trovarsi innanzi nella giovanezza una guida esperta ed amorosa, sebbene aggiunga che ne deriva “una sorta di nullità e della giovinezza e generalmente della vita„. Ebbene che cosa poteva da ragazzo temer più che tale nullità, chi nel 17 affermava: “Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria; io voglio alzarmi, farmi grande ed eterno coll'ingegno e collo studio„; e nel 19: “Voglio piuttosto essere infelice che piccolo„? Questo voto, povero Giacomo, si adempiè. Ora come in lui, ancora fanciullo, fu coltivato il funesto desiderio, che dissi? Già il padre era stato da fanciullo (e continuò sempre a essere) animato dal medesimo sentimento. Egli dice di sè, tra molte altre note che se ne potrebbero riferire: “È singolare però che io nutrivo brama ardentissima di sapere, e che allettato pochissimo dai trattenimenti puerili leggevo sempre, e più ostinatamente, quelle cose che meno intendevo, per avere la gloria di averle intese„. E poi: “Mi sono rassegnato a vivere e morire senza essere dotto, quantunque di esserlo avessi nudrita cupidissima voglia„. E la cupidissima voglia si trasfuse in Giacomo che “dai 13 anni ai 17„ scrisse da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite; come dice egli stesso aggiungendo: “la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato„; e in altro luogo afferma d'essersi rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo, e si sa che studiava sino a tardissima notte, ginocchioni avanti il tavolino per poter scrivere fino all'ultimo guizzo del lume morente. Eppure, a differenza del padre, da fanciullo era allettato dai trattenimenti puerili: dal che si deve dedurre, che del disperatissimo studio suggerito dallo smoderato desiderio di gloria, fosse, almeno in parte, causa l'educazione stessa che riceveva dal padre. Il quale nel 1801, per dirne una, aveva eretto in casa sua una accademia poetica; che vi durò tre o quattro anni e poi perì, quando non ebbe più la sua “casa paterna„. Perchè Monaldo l'aveva eretta? Perchè “queste accademie sono un piccolo teatro in cui si può fare una qualche pompa di ingegno comodamente e senza bisogno di grandi capitali scientifici, eccitano alcun principio di emulazione, accendono qualche desiderio di gloria, impongono l'amore per lo studio o per lo meno la necessità di simularlo....„
A quelle accademie erano poi succeduti i saggi quasi pubblici dei figliuoli con presso a poco il medesimo intendimento. E Monaldo mostrava certo il suo compiacimento per la splendida riuscita del suo primogenito più che non lasciasse vedere la sua pena nell'accorgersi come, per usare le parole della contessa Teia-Leopardi, “il gracile corpo del figlio si sconciasse e alterasse pel faticoso e continuo maneggio di enormi in-folio e dei pesanti volumi della Poliglotta e dei SS. Padri„. La medesima afferma che il conte Monaldo accarezzò grandemente questa tendenza del figlio. È vero che in altro luogo ricorda che il conte Monaldo stesso animava i figli a quegli esercizi che giudicava molto atti a svilupparne le membra. Nel che peraltro è da osservare che si tratta dei giuochi romani e che con essi, sempre secondo la contessa Teia, il conte Monaldo voleva fomentare il gusto delle cose elevate, delle gesta e delle rappresentazioni eroiche. Io non intendo biasimare questo padre; ma certo egli stesso sarebbe stato più felice dell'amore dei figli, se ne avesse coltivato più le tendenze umane che quelle eroiche, e li avesse voluti più affettuosi che gloriosi. È vero che non avremmo avuto forse un Giacomo Leopardi, ma egli non sarebbe stato così infelice. Ma è vero ancora che Giacomo comprendeva di poter scegliere tra l'infelicità e la grandezza, e che scelse l'infelicità.
VI.
Del resto la sua fanciullezza fu felice. Il più dolce e il più bello della sua poesia sta nel rimpianto di quello stato soave, di quella stagion lieta. Stato soave, stagion lieta, se crediamo a lui che tante volte e in tante forme lo dice. Ma si può avere qualche ragionevole dubbio che fosse così. Grato occorre, dice egli stesso, Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri! La qual sentenza, dell'Idillio XIV, parve al poeta troppo lata negli ultimi anni della sua vita: onde la limitò aggiungendo:
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso.
Certamente accade in noi questo inganno continuo, che altri spiegherà, ma che tutti, credo, possono avere sperimentato: che pensiamo sempre che la felicità sia avanti noi, nell'avvenire; e proviamo sempre che è dietro noi, nel passato. Ciò in un andare di vita comune, senza scosse soverchie. Questa illusione era anche del Leopardi, poichè grato gli era il rimembrare il passato, ancorchè tristo. E più doveva ubbidirle a proposito della sua fanciullezza di piccolo trionfatore nei giuochi romani, di vincitore nei primi studi, in quanto che egli non ebbe, si può dire, che fanciullezza. La sua fanciullezza appassì, come un fiore insidiato da un baco segreto, senza nè esser colto nè legare. Anche l'aspetto era, non si sapeva se di fanciullo o di vecchio: di giovane, non fu mai. Nè si sa, se di vecchio o di fanciullo fossero più certi suoi gusti, certe sue ripugnanze, certe sue golosità, certe sue ritrosie. Anche i suoi amori somigliano a quei grandi tuffi di sangue, che ognuno ha provato da ragazzo, quando il genio della specie dorme ancora o ha appena un occhiolino aperto. Non ebbe giovinezza, dunque, e il ricordo della sua prima età addolcì o amareggiò, non so bene, quasi per intero, la sua vita di poeta e di pensatore, come di tale, che, studiando sempre sè stesso e dalla sua esperienza e qualche volta dalla sua immaginazione prendendo gli argomenti de' suoi giudizi, allargava sino alla storia del genere umano e dei popoli la conclusione che egli aveva preso intorno a sè stesso.
Nè solo è vero quello che un nobilissimo pensatore scrisse di lui, che “il ricordare trascorsi, il rimpiangere perduti (i primi anni) fu l'unica sorgente della sua poesia„ ma altresì che della sua politica e della sua filosofia bisogna cercare la fonte in questo suo tempo migliore. Parrà strano a chi crede, come credono quasi tutti, a un mutamento radicale avvenuto nelle idee e nei sentimenti del Leopardi dopo il 17. Ma io penso che nella sua vita accadesse invece come un cataclisma intimo, che la spezzò in due. Tra le due parti è un baratro; ma le due parti sono della stessa formazione. Quando avvenisse questo discidio, non si può dire a puntino: ci fu forse una lenta corrosione, piuttosto che un improvviso schianto; ma avvenne. Negli ultimi anni della sua vita egli derideva quel generale austriaco-papalino che si portò così bene alla battaglia di Faenza: i papalini fuggirono, e li
... precedeva in fervide sonanti
Rote il Colli gridando: Avanti avanti.
Ebbene, più che dalla voce popolare, egli dovè udire, fanciullo, questo motto in casa dal padre; che nella sua autobiografia ne riferisce altri, da quell'uomo mordace che era: “Il giorno 2 di febbraio del 1797, alla mattina, i Francesi attaccarono.... Ben presto.... l'inimico si accinse a guadare il fiume; e vistosi dai popolani (papalini?) che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi: “Addio„ si gridò nel campo “si salvi chi può„ e tutti fuggirono por duecento miglia„. E più giù racconta che i cannoni vennero caricati con fagioli, aggiungendo “questa mitraglia figurò nella guerra fra il Papa e la Francia„. Nella villetta di Posilipo in cui il poeta scriveva la Ginestra, sonò forse una sera la stessa risata che trent'anni prima aveva fatto eco, nel palazzo di Recanati, al racconto di Monaldo. E ci sono in vero molte differenze tra l'autore dei Paralipomeni e quello dei Dialoghetti sulle materie correnti? Il figlio scherniva, il padre malediceva: per le male barbe Giacomo invocava il barbiere, Monaldo il boia: ma infine i loro sentimenti s'incontravano, sebbene non paresse nè agli altri nè a loro stessi.
Giacomo amava la patria italiana. Egli scrive al Giordani: “mia patria è l'Italia: per la quale ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano„. Ma aggiunge “perchè alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche„. È un amore dunque letterario, quale poteva averlo da bambino, sebbene aspirasse allora più a erudizione che a letteratura. Ma avesse il suo amore ardente avuto altre origini o fini, Giacomo non potrebbe con ciò essere chiamato “patriota„ come intenderemmo noi ora. Bene lo credettero a' suoi tempi: “Quando Giacomo (dice Carlo) stampò le prime canzoni, i Carbonari pensarono che le scrivesse per loro, o fosse uno dei loro. Nostro padre si pelò per la paura„. Eppure Giacomo scrisse quelle canzoni con lo stesso animo con cui tre o quattro anni prima aveva con un suo discorso plaudito alla caduta dell'oppressore e maledetto il tentativo di re Murat. E se ne accorsero poi i liberali e i carbonari, e presero in sinistro la sua canzone sul monumento di Dante: al che egli risponde “che non la scrisse per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perchè non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, metteva in iscena altri attori, come per pretesto e figura„. Che non potendo parlare di Austriaci, egli parlasse di Francesi, e adombrasse col nome di questi, che avevano, per esempio, degli itali ingegni
Tratte l'opre divine a miseranda
Schiavitude oltre l'Alpi,
quelli che, cogli altri alleati, erano stati autori di ricondurle in patria; e potesse sperare che ad altri che a Francesi, si attribuisse, per esempio,
la nefanda
Voce di libertà che ne schernìa
Tra il suon delle catene e de' flagelli,
a me non pare verosimile. Del resto, io non altro voglio indurre da questi fatti, se non che de' sentimenti suoi di prima del 14, è traccia ben distinta e nel 18, nel qual anno scriveva le due canzoni, e negli ultimi anni della sua vita, nei quali dettava i Paralipomeni. In politica, in somma, sentì presso a poco sempre a un modo. I sentimenti che apprendeva in casa, e certo ebbe da giovinetto sino almeno il 15, restarono in lui quasi immutati.
VII.
E in religione? Egli era da fanciullo veramente pio: pativa anche di scrupoli e giocava all'altarino con la sua sorella. Recitava nella Congregazione de' Nobili, nella chiesa di San Vito i suoi sacri discorsi, abbozzava inni cristiani. Come tetri questi inni! Al Redentore egli diceva: “Tu hai provato questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro....„ A Maria: “È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo: siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siamo piccoli, e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie!„ Oh! certo il piccolo Giacomo leggeva un libretto, uno forse de' molti della sua madre severa, così severa che appena appena sfiorava il suo visetto sparuto con la mano offrendola a un bacio; uno di quei libri, nei quali ella segnava le morti de' suoi. Vi leggeva la terribile massima dell'Ecclesiaste: Vanità delle vanità ed ogni cosa vanità! Ma in quei primi anni egli che abbozzava l'inno al Redentore (dice Gesù: dall'ora del mio nascimento infino alla morte mia sulla croce mai non fui senza dolore) doveva confortarsi con l'aggiunta, che trovava nel libretto: fuorchè l'amar Dio e servire a lui solo. E amava e serviva. Ma in tanto s'imprimeva sempre più nella tenera mente disposta alla mestizia e alla devozione: “Rammenta che l'occhio non si sazia per vedere, nè l'orecchio riempiesi per ascoltare„. Ruzzava e trionfava nel giardino paterno; e non importava che Carlo facesse l'ufficio di schiavo ammonitore; egli poteva leggere nel libretto: “Non esaltarti per gagliardia o per beltà di corpo, la quale per piccola malattia si guasta e si disforma„. Ardeva del desiderio di gloria: leggeva: “Dove sono.... quei maestri.... di loro, si tace„. In verità a me par di vedere nel lugubre libretto la traccia, o volete l'embrione, di tante poesie e prose del nostro Poeta. “La natura è scaltra e trae a sè molti, allaccia e inganna e sempre ha sè stessa per fine„. Indifferente di noi fa il Leopardi la natura:
Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura. “La natura fatica per proprio agio„ commenterebbe il monaco pensoso. Altra considerazione: “povero ed esule in terra nemica dove incontro guerra ogni dì e grandissime sciagure....„ Non pensava ad essa Giacomo non più devoto, non più pio, Giacomo negli ultimi tempi della vita quando nella Ginestra stima gli uomini tra sè confederati contro l' Inimico? Non ricordava, sia pure inconsciamente, il modo cristiano di figurarsi la morte, come un soave abbandono del capo stanco sul petto del divino Redentore, quando diceva:
Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto
Sul tuo vergineo seno?
Vero che non è più il seno di Gesù. Il Leopardi ha trasformato Gesù nella Morte, adornandola delle bianche vesti che indossava la donna che comparve a Socrate e gli disse:
A Ftia zollosa puoi arrivare nel terzo giorno.
Non ricordava egli l'umile preghiera “Percuotimi gli omeri e il collo„, l'umile confessione “Non son degno se non di essere flagellato e punito„, quando diceva, ribelle ai pensieri che alitavano dalla lontana fanciullezza,
La man che flagellando si colora
Del mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente,
Ogni vana speranza....? Vana anche quella speranza, vano anche quel conforto! Egli aveva cancellato la seconda parte di quella prima affermazione, e restava, nuda terribile, la sentenza di Salomone:
Vanità delle vanità e tutto vanità.
Non paia strano che il Leopardi attingesse da libri cristiani o religiosi la sua sconsolata filosofia. Lo osservò il Gioberti: “quando lo scrittore deplora la nullità d'ogni bene creato in particolare,
E l'infinita vanità del tutto,
non fa se non ripetere le divine parole dell'Ecclesiaste e dell'Imitazione„. E, non so se dietro lui, la Teia scriveva: — Quale è il pensiero dominante negli scoraggiamenti, nei disgusti del figliuol di Monaldo? L'infinita vanità del tutto. E non è questo il mesto gemito di Salomone già da tanti secoli? Vanitas vanitatum. — Egli tutta la sua vita impiegò in commentare, ampliare, provare ciò che quei libri affermavano seccamente e solennemente. Ma ne aveva tolto già una paroletta di tre lettere, senza la quale quei libri divenivano vangeli di dolore: Dio.
VIII.
Dal cristianesimo egli certo prese un suo paragone che riassume il suo concetto della vita umana:
Vecchierel bianco, infermo
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle
·············
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge....
Non è questo il cristiano, che a imitazione del divino maestro, deve prendere la croce, cadendo sott'essa, risorgendo sempre con essa? “Dalla tua mano ricevetti la croce, la porterò e la porterò sino alla morte, così come m'imponesti„. Quella del vecchierello non è una croce, ma un fascio. Il poeta dissimula, il poeta sdegna l'immagine vera, che certo gli si era affacciata alla mente, ma è quella. Il Petrarca ha dato qualche colore e non altro: chè il fanciullo antico si è ridestato nel giovane trentenne e ha parlato col suo linguaggio d'allora. Solo in fine, invece della gloria e della felicità ultima, è un
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando il tutto oblia.
Un altro paragone è in lui che compendia la sua filosofia. Il paragone del letto. Ognuno ricorda sì questo del Leopardi, sì l'altro del Manzoni; i quali furono ingegnosamente paragonati tra loro da un terzo valentuomo. Il Manzoni e il Leopardi si assomigliano molto in quello in cui differiscono: sono due convertiti; ma l'uno a rovescio dell'altro. Il loro piccolo sunto di filosofia, sembra ritratto e ricorretto di su un modello comune. Che non è di Dante, di Dante proprio, nè del Petrarca, nè d'altri; sebbene vi si trovi. È del cardinale Melchiorre di Polignac nel suo poema postumo Anti-Lucretius. Il poema fu tradotto due volte in versi italiani; e tutte e due le traduzioni, una col testo a fronte, si trovano nella biblioteca dei conti Leopardi. Il paragone del cardinale Arcade è questo: “Come un malato si avvoltola nel letto con le membra inferme, ora adagiandosi sul lato sinistro, ora sul destro: E non giova: di che alza gli occhi, resupino: E non trova il sonno e sempre lo cerca; ciò che prima gli piaceva, poi lo tormenta e tortura; E non guarisce il suo male e nemmeno ne inganna la noia„. Si vede che dai tre versi di Dante “simigliante a quella inferma Che non può trovar posa in sulle piume Ma con dar volta suo dolore scherma„ si sono svolti alcuni particolari, che poi si ritrovano nel Manzoni e nel Leopardi. Dice, per esempio il Polignac “quod illi Primum in deliciis fuerat„; dice il Manzoni “e si figura che ci si deve star benone„. Dice il Polignac: “Ceu lectum peragrat.... In latus alternis laevum dextrumque recumbens: Nec iuvat.... Nusquam inventa quies; semper quaesita;„ e il Leopardi “comincia a rivolgersi sull'uno e sull'altro fianco.... sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno.... senza essersi mai riposato, si leva„. Ma si può opporre che tutto era già in Dante o prima di lui in Giobbe, e che non c'è bisogno di credere che il Leopardi e il Manzoni vedessero il Polignac. Or bene: nella prefazione dell' Anti-Lucretius, si racconta che il Cardinale, malato a morte, non trovando pace nel suo letto di dolore, si ricordò di quei suoi versi “nei quali paragona l'anima che ammalata e agitata dalla passione delle cose terrene non trova mai pace, a un corpo infermo„. Si ricordò di quei versi e ripetè quel suo pensiero in alcuni altri versi bellissimi, cui gli astanti, nel loro dolore, dimenticarono tutti, fuori di uno; Quaesivit strato requiem ingemuitque negata; verso imitato dal Virgiliano: Quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta. Questo racconto è tale, che i due nostri grandi scrittori doveva fermare, invogliare e commuovere. Il Polignac morendo applicava, in certo modo, il suo paragone non più all'anima insaziata dell'epicureo, ma alla vita umana. E la reminiscenza di Virgilio colpì particolarmente il Leopardi. Si direbbe che, sulla fine della lugubre comparazione, egli lasciasse il Polignac per Virgilio. Non c'è in lui quel gemito che chiude così tristamente la lotta; ma l'uomo, per lui, muore, come Elissa, quando vede la luce: la luce, ossia la morte. “Venuta l'ora, senza essersi mai riposato, si leva„. Qual ora? l'ora del mattino, poichè ha durato a rivolgersi, “sempre sperando (spem elusam, ha il Polignac) tutta la notte„. Con l'aurora la morte, disse il mantis a Leonida. Ma possiamo noi esser certi che il Leopardi conoscesse quel poema? Certo egli l'aveva nella biblioteca; e si può supporre facilmente che egli ammiratore di Lucrezio (che negli Errori popolari è citato spessissimo) dovesse sin da fanciullo, quando la mente è di cera, leggere l'Anti-Lucrezio. Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il contravveleno. Ma questo, si può dire, lasciò nella sua anima più traccie di quello. Egli ricavò bensì dal poeta Romano la descrizione dei primi momenti della vita dell'uomo, quando “La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato„; ma quanto più ha ricavato dal poeta franco-gallo! “Che ha a far teco la Natura? Matrigna certo, non madre la dirai, e in vano la chiamerai, molto gemendo„. Non aveva egli da queste parole appreso, fin da fanciullo forse, a maledire la Natura? Non discendono da queste parole i suoi rimproveri, tante volte poi ripetuti e in tante forme, a quella che “de' mortali È madre in parto ed in voler matrigna?„ “O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?„ In questo libretto, forse, egli apprese a disprezzare la felicità umana: “Appena le hai ottenute, le prendi a noia, cercando sempre in cose nuove ciò stesso che ti deluse quando lo provasti, e ti lasciò avido o desideroso di meglio„. In questo libretto, forse egli apprese il presentimento di quel vano pentirsi, di quel volgersi indietro, quando la vecchiezza abbia inaridito le fonti del piacere, e siano “le pene Sempre maggiori e non più dato il bene„. Trovava egli infatti qua e là nel savio e pio libro: “Ti staranno avanti gli occhi le gioie della vita trascorse e ti trafiggeranno il memore cuore, come saette.... Reo di lesa voluttà quegli che a sè fiero nemico si astenne dall'amore e dal vino, seguendo più gravi consigli„. E il Leopardi scrisse:
A me se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Nel libro declamatorio e, diciamolo, pedantesco egli notò forse prima che in Giovanni le lugubri parole: “Tu segui, invece della luce, dolci tenebre. Già, ti piacciono; la morte ti piace!„ Potrei fare altre citazioni; potrebbe, chi volesse, trovare altri raffronti, sfuggiti a me. S'intende che il Pastore errante dell'Asia e il Gallo silvestre cantano con ben altra dolcezza e altezza! Ma qualche loro lugubre nota risonò nell'anima del poeta dalla lettura, destinata forse dal padre a premunirlo o guarirlo. Sono, per esempio, al bel principio del libro V alcuni versi, che dovettero fermarsi nella mente del giovinetto lettore, per poi più tardi ridestarsi e riecheggiare: “non sei simile a quelli cui, dopo aver fatti dolci sogni, è in uggia veder la luce del giorno quando.... l'Aurora.... li sveglia mal loro grado e dissipa le ombre soavi. Chè l'errore piace più e sogliono sospirare trovando la luce, per la quale ritornano le noie del Vero„. Pensate come comincia il suo cantico il Gallo silvestre: “Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra e partonsene le imagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero„.
Dunque il cardinale di Polignac è un ispiratore del Leopardi? In vero questi vuol dimostrare, nel primo libro e altrove, che la felicità umana è nulla e falsa senza e fuori di Dio. E le argomentazioni sue s'impressero nel fanciullo credente. Poi Dio gli tramontò dall'anima.... e allora, “all'apparir del vero„ la Speranza cadde e mostrava a lui “La fredda morte ed una tomba ignuda„, ignuda, senza la felicità infinita ma postuma, che sola è, se è.
Mentre il Manzoni, sulla fine del suo Romanzo, tirava “un po' cogli argani„ una morale nuova dal vecchio paragone, di cui non poteva disconoscere la giustezza, e concludeva: “E per questo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene, e così si finirebbe a star meglio„.
Queste cose io ripensavo aggirandomi per i luoghi dove Giacomo Leopardi soffrì più che non visse, e meditò che la vita è dolore. Il sole era veramente dileguato, gli uccelli si erano taciuti, pace avevano infine le nuvole, i monti di Macerata spiccavano appena nell'azzurro, la valle del Potenza era bruna e silenziosa. Appena appena gli ulivi facevano sentire qualche brivido secco e un cipresso nereggiava sul colle dell'“Infinito„. E io imaginai il Poeta, ancora giovinetto, seduto ancora dietro la siepe: un fanciullo macilento, dal viso pallido e senile, coi capelli neri e gli occhi azzurri. Erano i primi anni del secolo, e a me pareva che quel fanciullo che si rifiutava di guardare così bello e lontano accavallamento di monti, la valle e il fiume, e si faceva riparo d'una siepe di sterpi per veder più lungi, in una lontananza senza fine, rappresentasse la coscienza umana di quei primi anni. Un soffio di vento che muove appena le foglie è la voce del presente, della vita. Che è essa rispetto all'infinito silenzio? Un canto d'artigiano che passa, ecco il suono dei popoli antichi, ecco il grido degli avi famosi:
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Così meditava dopo il grande fragorìo della rivoluzione e dell'impero, il giovinetto smunto, dal viso senile, in questo borgo solitario. Egli era ben disilluso degli sforzi umani per raggiungere l'inafferrabile felicità, e non credeva nel progresso, non credeva nella scienza. Altri, presi dal medesimo sconforto, nei medesimi tempi, si volgevano a Dio, egli non credeva nemmeno a Dio. E tutta la vita egli rivolse all'Ignoto interrogazioni le quali sapeva dover restare senza risposta.
E ora del secolo siamo alla fine. Il fanciullo senile è ancora là, sente stormire le foglie e naufraga nel mare dell'Infinito. O siede, in forma di pastore, su un sasso della prateria, guardando la luna (appunto la luna falcata si mostrava su Monte Lupone) e chiedendo:
Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Sì: la coscienza umana chiede ancora al fine del secolo, quello che chiedeva al principio. Dobbiamo credere che ciò sia un sintomo di malattia o degenerazione? O dobbiamo credere che sia naturale del pastore in tal modo affannarsi, come della sua greggia il posare? Non so: certo io rammento che qualunque sia la risposta che noi ci sentiremo dare, ella ci consiglia il bene. Chè il fare bene non è solo la conclusione ultima della filosofia cristiana del Manzoni, ma anche di quella sconsolata del Leopardi. Poichè questi dopo avere mostrata la vanità del tutto, a parte a parte, della gloria, della libertà, del progresso, della vita, ha la visione dell'umanità futura, stretta insieme e ordinata, “negli alterni perigli e nelle angoscie della guerra comune„.
Il poeta del dolore conclude adunque, non troppo diversamente dal poeta della speranza, così: Noi stiamo tutti male: aiutiamoci dunque tra noi infelici, difendiamoci, amiamoci.
Non diversa la conclusione, come non dissimili le premesse. Perchè? Elle furono poste, ripeto, da tutti e due in quei primi anni del secolo, durante e dopo quel tanto “affaticare„, che parve non fosse giovato a nulla. Parve, ripeto, al Leopardi nella sua fanciullezza, e seguitò a parer dopo, perchè in lui la fanciullezza fu tutta la vita. Nè per altra ragione io ho trattato del divino poeta nel periodo storico nel quale cade il gemmare, non il fruttare nè il fiorire suo. Era appena cessata l'epopea Napoleonica, e il Leopardi, già formato, usciva a dire: Infelici! infelici! O mesta voce di fanciullo, ineffabilmente mesta, sebbene si volgesse allora a Gesù! La dolce fede divina, già non gl'impediva di credere all'immedicabile infelicità umana; come il mancare poi di essa fede, non gl'impedì di credere al grande ma unico e non solito, ahimè, nè facile conforto: all'amore!
ANTONIO CANOVA (1757-1822) E L'ARTE DE' SUOI TEMPI
CONFERENZA DI Adolfo Venturi. L'arte italiana, verso la metà del secolo XVI, era stata vinta dall'antichità classica; e la sua natura male traspariva sotto il peso delle corazze e degli elmi, il viluppo delle clamidi e dei pepli. Non parlava più nell'idioma di Dante, non diceva nella lingua del popolo; perchè dai fòri, dai templi, dalle terme una folla di statue era uscita come una fuga di bianche ombre a inaridire il suolo toccato dai loro calzari. La tradizione cristiana e le forme neo-latine cessarono; e l'imitazione dell'antico determinò un'arte tutta a formule grammaticali, entro cui più non era l'anima illuminata dalla fede, lo spirito della vita nuova. Passarono il nuovo Achille chiomato, coi muscoli gonfi, la testa incassata nell'elmo; Ercole poderoso e Bacco ubbriaco, ma tutti quegli eroi, quei Semidei e quegli Dei rivissero in una cerchia angusta, senz'aria. Il popolo li aveva dimenticati, elaborando le immagini della Vergine, del Cristo e dei Santi; e l'umanesimo che li aveva scavati, non s'era accorto di dare alla luce mummie, non corpi vivi.
La maschera antica rimase confitta sulla faccia dell'arte lungo il secolo XVII, benchè i barocchi ne torcessero in un ghigno le labbra, e la sciupassero ognor più nelle loro gazzarre carnevalesche. La maschera apparve tra i blocchi di marmo, i dirupi di macigno e i torrenti di bronzo; e intanto nelle magnifiche pompe, ne' meravigliosi apparati da festa, nell'aggrovigliarsi di giganti, nel ritorcersi de' colonnati dei curvi edifici, non v'era rifugio per l'anima in cerca di pace e di affetti. Giunto il secolo XVIII, l'arte si immiserisce, si gingilla, prende gaie proporzioni minori, si attorciglia com'edera, si volve a mo' di chiocciola, si rompe in ischegge, esce in isprizzi, si riversa nelle cascatelle d'Arcadia. E le figure umane perdono le ossa, e si sprigionano con le chiome al vento, e le braccia in atteggiamento sgangherato o convulso, da enormi cappe di marmo, o tra roccie e nuvoli. Allora fu che l'antichità classica attrasse di nuovo, come sirena a' suoi amplessi, l'artista moderno. Benedetto XIV dal trono bandiva la crociata per il classicismo; e Winckelmann suonava a raccolta intorno ai simulacri greco-romani. Tutta l'arte ricadde nell'imitazione! Quando, verso la metà del secolo XVI, era avvenuto lo stesso fenomeno del sopraccaricarsi dell'antico sul nuovo, l'arte, già arrivata al massimo grado di sviluppo e prossima a ingrandire e a gonfiare, pareva continuare le forme precedenti, pure impregnandosi delle forme romane imperiali; ma nel secolo XVIII l'antico entra bruscamente in mezzo alla folla de' cicisbei. L'allegria era finita, il chiasso e le monellerie dovevano cessare, perchè s'avanzava con grave cipiglio, severo, altezzoso il vecchio tiranno. Proprio allora che l'arte, senza idealità, si volgeva alla vita sociale, rifacendone le smorfie, ripetendone gli scrosci di risa, riflettendone la caricatura, ma pure trovando un tesoro di osservazioni e di verità tra le mani di Watteau, dei Longhi e di Chodowjecki, di Leon Ghezzi, di Hogarth e Goya, sopraggiunsero l'erudizione, la filosofia, la scienza ad arrestare l'arte che dalla natura traeva nuove forze e fiori di bellezza. Il grave Mengs richiamò in onore i principî dei Carracci; e Winckelmann col suo entusiasmo ideale per la bellezza antica, stringeva tutti in ammirazione innanzi alla civiltà che a Pompei, ad Ercolano risorgeva come fenice dalle ceneri.
Allora fu che il Canova (nato l'anno 1757), moveva i primi passi nell'arte, e meditava sui gessi cavati da opere d'arte greca e romana nella galleria Farsetti a Venezia; e sentiva come lo studio del nudo fosse per la scultura la rigenerazione. Il giovinetto però, come un uomo del Medioevo, a cui la bellezza ignuda era causa di terrore e di scrupolo, opera dello spirito del male, scrive sotto l'Euridice studiata dal vero: memento mori! La mano di una Furia esce dalle vampe che si innalzano ai piedi della figura, e le afferra la destra per trarla nel Tartaro. Così l'arte voleva spiegare ciò che un antico non aveva d'uopo, e svelava l'allegoria, senz'accorgersi che, tolto il velo, doveva ricorrere, come nel Medioevo, ai cartellini, ai nastri con le scritte, ai segni ideografici, ai simboli. L'imitazione dell'antico non poteva farsi senza commenti e dilucidazioni, perchè il pubblico, non avvinto dalla tradizione alla classica civiltà tanto differente dalla sua, non la capiva più. Vero è che il Canova fu aiutato dal senso vivissimo della realtà, dalla sincera natura di veneto, nel tradurre, e specialmente in giovinezza, i soggetti mitologici; e se nel suo primo lavoro dell'Orfeo e Euridice, compiuto a sedici anni, traspaiono la titubanza e l'inesperienza dell'adolescente, nel successivo gruppo d'Icaro e Dedalo è una vivezza naturalistica tutta nuova. Dedalo sta per annodare un'ala al figlio giovinetto, ad Icaro, e gli raccomanda con paterno amore di tenersi lontano dai vapori delle onde e dal sole cocente, e lo fissa ansioso in volto; ed egli abbassa gli occhi, quasi per nascondere il desiderio di sollevarsi a volo audace. Tuttavia anche qui il Canova volle indicare con diligenza il modo di allacciatura dell'ala, le corde, gli strumenti fabbrili, tutto il meccanismo dell'operazione di Dedalo. Sempre così tra i moderni, quando l'arte esprime idee de' tempi lontani dalla nostra vita materiale, intellettuale e sociale, e, nonostante tutti quei particolari a schiarimento della rappresentazione e i richiami simbolici, non riesce a raccontare ai molti, e ai retori parla, e coi retori vive. Mentre nel Rinascimento, dopo la grande diffusione della cultura classica per opera degli Umanisti, era possibile innanzi alle forme ricavate dall'antico che arte e pubblico si intendessero, nella seconda metà del secolo XVIII non era possibile più; perciò l'arte andava perdendo il suffragio popolare, e si rivolgeva ai pochi che vivevano nelle biblioteche. E come smarriva il suo fine, perdeva pure il suo fondamento e il punto d'appoggio nell'architettura. Quei gruppi, quelle statue, che si reggono artificialmente, fuori dalle nicchie e dagli intercolonnî, dagli edificî e dalle piazze, sembrano mancare di tetto, di parenti, di patria. Quando l'arte era il frutto spontaneo della civiltà italiana, serviva sempre agli usi della vita, al decoro della casa, del palazzo signorile, della chiesa e del comune, e aveva la sua destinazione pratica, coordinata ad altre cose belle e grandi. Sul limitare del secolo nostro invece ogni arte vive a sè, senza il suo sfondo naturale, separata da ciò che l'attornia, nell'astrazione. La formula dell'arte per l'arte, formula di collettori egoisti e di spiriti gretti e sterili, già si determina, e spezza l'armoniosa unità delle arti. In quel tempo di disgregamento nelle forme e di sfacelo negli ideali, il Canova si afferrò all'antico, come ad àncora di salvezza, illuso come gli altri del suo tempo, anzi più d'ogni altro, che si potesse ridare la vita ad una salma. Per raggiungere il suo scopo di sollevare a dignità l'arte, egli agognava di recarsi a Roma, e vi si recò infatti a ventidue anni. Alla sua immaginazione di artista, le rovine di Roma, opera di giganti, gli archi sotto cui passavano nelle quadrighe i trionfatori, i colossi che sembrano come atlanti sollevare la terra, esercitarono un influsso potente, un imperio, come e più che sugli altri artisti di ogni età. Il Canova rimaneva lungamente innanzi ai Dioscuri del Quirinale, forte animatissima riproduzione romana di un gruppo greco, e all'Apollo del Belvedere, buona copia d'un bronzo antico, che Winckelmann additava, come esemplare solenne della bellezza classica. Quelle traduzioni e copie, e le altre di opere greche eseguite in Roma, dopo l'ultimo secolo della Repubblica, non potevano fornire un vero saggio della idealità e del purissimo sentimento della bellezza greca, perchè erano come studiate pagine di prosa traducenti un canto immortale. E quelle pagine erano anche guaste, e cioè i restauri avevano falsato il carattere di quei marmi, e la tarda levigazione ne aveva sfiorata la modellatura. Da quelle statue dei Dioscuri e dell'Apollo era possibile ricavare de' canoni, come fece il Canova, e non penetrare nell'intimità, nel carattere della forma, nell'anima dell'arte greca, e discoprire il diapason più perfetto della bellezza. Le copie, anche fedeli ed antiche, mancano del sentimento dell'opera originale, ne rendono le proporzioni, non tutto lo spirito del suo creatore, non il vivo tocco della sua mano, non la diretta e pronta osservazione della natura e della vita. Oltracciò nella copia traluce sempre il carattere dell'esecutore, e si manifestano le abitudini della sua mano e le predilezioni del suo gusto. Nelle copie romane di opere greche la fattura è meno sottile, il costume più pomposo, la ricerca del particolare più insistente. E quante idealità dovettero venir meno nelle copie, quanti segni che sembrarono insignificanti, ed erano invece i segni delle aspirazioni di un popolo! Chi direbbe, ad esempio, che l'artista il quale dia alla Vergine neri e non biondi i capelli, distrugge l'idealità bionda della bellezza muliebre nel mondo classico; la idealità della bellezza di Afrodite, bionda come il fulgore dell'aurora rappresentata dalla dea? Non si tratta di sottigliezze, no! Un'opera d'arte non si rifà, non si traduce, senza scemarne l'essenza e farne svanire il profumo. D'altronde innanzi al Canova erano principalmente copie romane, le libere patetiche figure della decadenza ellenica, e quelle dell'epoca alessandrina in cui la grandiosità della forma muscolare, la complessa ingegnosità della composizione, la violenza della espressione, non avrebbero dovuto servire di modello alle generazioni nuove. Tutta l'arte del Cinquecento stette attonita innanzi al gruppo rodiese del Laocoonte, lo copiò, ne fece suo sangue; e la Decadenza si affrettò. E l'arte che stava innanzi ai Dioscuri e all'Apollo del Belvedere nella seconda metà del secolo XVIII doveva preferire i Caracci al Mantegna, le opere dell'inoltrato Rinascimento alle più gentili creazioni, alle più ingenue e candide forme del secolo decimoquinto. Innanzi ai Dioscuri ed all'Apollo, il Canova disconosceva i suoi Veneziani, che, a suo dire, avrebbero pensato e composto meglio se fossero stati a Roma, quasi che Gian Bellino e Giorgione, Tiziano e Paolo non giungessero nella forma alle maggiori altezze, e quasi che, col guardare all'antico, Pietro Lombardo, nella scultura, avesse guadagnato di cavalleresca eleganza nel rappresentare i zentilomeni della Serenissima e Alessandro Vittoria di energia nel rendere i veneziani lupi di mare. Ma il Canova aveva detto a sè medesimo che conveniva vedere “la natura con l'occhio dell'antico„, mentre non era possibile veder bene a traverso quella lente d'ingrandimento e per soprappiù impura. A persuaderlo tuttavia di guardare a quel modo concorse Gavino Hamilton di Scozia, a cui il Canova, che lo incontrò a Roma, portò affetto e stima come a Mentore suo. Eppure quando si vedono nel museo della Villa Borghese le pitture di Gavino Hamilton vaporose, violacee, false, non si riesce a comprendere quale strana aberrazione di idee e di gusto fosse a Roma nell'anno di grazia 1780. Forse la mano dell'Hamilton non era docile al pensiero, e questo era assai più libero e giusto di quella, a giudicare dall'opera Schola picturæ italicæ, ove l'Hamilton raccolse, benchè con criteri eclettici, molti capilavori dell'arte italiana. Avesse o no l'Hamilton un influsso sullo spirito del Canova, egli è certo che, nonostante le regole che si imponeva e gli esempi anche non buoni sotto gli occhi suoi, e mentre l'arte del suo tempo pareva distruggere i corpi, il Canova d'un tratto, come per incanto, diede alle sue figure un'apparenza logica e ritmica; una forma, non più a strappi e a spezzature, ma svolgentesi, disegnantesi nello spazio in una linea continua. Così nel monumento di papa Clemente XIV ai Santi Apostoli in Roma; il quale quantunque ispirato ai mausolei de' pontefici in San Pietro, in ispecial modo a quello di Alessandro VIII, ha una linea che gira naturalmente, nobilmente dall'alto della piramide del monumento giù per le cornici dell'urna e i corpi della Temperanza e della Mansuetudine. La Temperanza si china in atto di abbandono sulla tomba papale, immagine del dolore che il Canova figurò sulle sue stele sepolcrali, segno della malinconia dell'anima sua. Il dolore della terra circonda le tombe e i mausolei da lui scolpiti, non la speranza del cielo. La Mansuetudine stessa con le mani incrocicchiate e china la testa, medita sul triste destino, che tolse dalla terra il pontefice venerato. Sempre nei monumenti sepolcrali ed onorarî del Canova, sembra che il fato persegua il mortale, e non gli dia che eredità di dolori e di lagrime. La immagine della Pietà, sculta dal Canova, è quella di una madre addolorata, con le braccia cadenti, tutta avvolta nel velo; in un'altra statua della Mansuetudine si vede una giovane meditabonda, accasciata, quasi orba di affetti. In un gruppo Venere si strugge di dolore appoggiata alla spalla di Adone; il genio funebre della tomba di papa Rezzonico esala l'anima dagli occhi; passano, in un bassorilievo, in lugubre ammanto Ecuba e le venerande donne di Troia; in un gruppo Amore si abbandona sull'omero di Psiche tristemente; e nella tomba dell'Alfieri piange l'Italia, in forma di Cibele, madre dei numi; si recano lagrimanti al mausoleo di Cristina d'Austria arciduchessa, le Vestali e le Età; portansi i drappi ai volti o le mani alla fronte le fanciulle allegoriche dei monumenti di Volpato, di Falier, del conte di Souze, del principe di Orange, della contessa d'Haro, dei Mellerio, del conte Tadini, ecc. Mai sulle tombe aleggia la speranza; il dolore copre di funebre manto i freddi marmi, e circonda la salma dei defunti: dolore pacato però, blanda costernazione, lagrime tranquille, melanconia diffusa nel marmo. Non roteano alle fanciulle gli occhi per ispasimo sotto le palpebre, come ne' monumenti sepolcrali dei barocchi; ma nelle tonde loro orbite cadono le ombre di lutto dalle sopracciglia. Clemente XIV è in cattedra, stende il braccio e la mano protettrice sui fedeli. Similmente, in molti mausolei papali del quattrocento in poi, il pontefice appare anche nei sepolcri, fastoso come se fosse portato sulla cattedra in trionfo, in pontificali paludamenti, con la tiara, e in atto di benedire l'orbe cattolico; ma il Canova, a cui l'idea del fasto, dell'impero parve non propria in un mausoleo, si attenne nel monumento di papa Rezzonico al tipo di quello che si vede in San Pietro di Alessandro VII, raffigurato in ginocchio come innanzi a un altare o alla maestà dell'Eterno. Ed ecco il capolavoro del Canova, Papa Rezzonico che mormora con tremule labbra la preghiera, tutt'assorto in Dio, mentre due leoni posano nel basso, custodi della tomba sacra: l'uno con gli occhi spalancati sembra mandare dalle aperte fauci un ruggito, l'altro china la testa e chiude nelle grotte degli occhi le pupille di fuoco. Il Genio antico con le ali di cigno tiene la face riversa; e la Religione, con la croce nella destra s'avanza, e poggia la sinistra sul coperchio dell'urna. Qui pienamente si manifesta la forza del Canova nella figura del Papa e nei due leoni, mentre nel Genio funebre e nella Religione fu schiavo delle convenzioni del tempo. La Religione sembra una fantasima dalla smisurata fronte traforata da spilloni, col manto che come un baldacchino la ricopre e con la veste pesante come un materasso e la sottoveste per giunta. Quanto lontana l'allegoria dalla Religione che il Canova vide nel quadro di Tiziano al palazzo ducale in Venezia, giovane, ardente, con le auree chiome sparse, nel fulgore della luce! La sua è invece sopraccarica di simboli, reca una scritta sulla benda che le traversa la fronte, un'altra sulla cintura, i raggi sul capo come la figura del Sole nel medioevo, la croce come una Sant'Elena. Anche negli antichi monumenti vi furono figure allegoriche, pazientemente elaboratesi nei secoli, come le Arti liberali e le Virtù; ma i loro simboli erano nel comune linguaggio, e non erano d'impaccio all'artista nel rendere l'espressione delle figure, mentre l'allegoria nuova non dall'intimità del sentimento, ma dall'apparenza traeva il valore, la ragione d'essere, epperò rimaneva un logogrifo scolpito. In altro modo si allontanano dall'arte moderna il genio funebre con la face riversa, la Speranza e la Carità in veste romana, a bassorilievo nell'urna di Papa Rezzonico: esse appartengono a un mondo immaginario, lontano da quello ove il Papa rivolge il pensiero al cielo, e sono fuor di posto in quel luogo sacro alla fede.
Questi errori si dimenticano, quando si guardi Clemente XIII nel raccoglimento della preghiera, nell'augusta solennità pontificale e nella semplicità dell'anima pia, e quando si scorga lo studio posto dal Canova nell'opera. Vi è l'accuratezza straordinaria dell'artefice che rende il lustro piviale di broccato, le pieghe fitte del camice, il manto serico del genio e le sue ali leggiere di cigno, la criniera arruffata del re della foresta e i suoi unghioni lucenti e il pelo del corpo e le narici umide e fumose. Gli scalpelli, i trapani, le gradine gareggiano nel rendere al vero le superfici dolci o scabre, opache o lucenti; e nel tempo in cui la scultura pareva rendere i corpi di bambagia o di porcellana, il Canova, col variare dei mezzi tecnici e degli effetti, secondo la natura e la scorza e il carattere delle cose, segna il principio di un'êra nuova.
Ma il connubio dell'antico col nuovo, al limitare del secolo XIX, era fantasia di eruditi, non una pratica ricerca. Il genio funebre del mausoleo di Papa Rezzonico riapparirà nei monumenti Mellerio, Stuart e in altri; la Carità e la Speranza scolpite in bassorilievo sull'urna papale, ingrandiranno e sul lectus, sulla sella, sul bisellium classici diverranno i prototipi delle canoviane rappresentazioni; ma il nuovo sparirà sempre più. La mescolanza ineguale dell'antico col nuovo, che forma la figura della Religione, finirà col predominio dell'antico in un tutto più finito e più equilibrato, ma anche più materiale e più gelido.
Il mutarsi delle condizioni sociali e dei costumi favorì il predominio. I nomi degli eroi di Plutarco erano sulle labbra dei cittadini; Bruto riviveva nella rettorica repubblicana; le dame vestivano archeologicamente con le vesti alla Diana, le tuniche alla Minerva, i veli alla Vestale. Chaussard poteva descrivere l'Olimpo pagano disceso al parco di Bagatelle, seguire i passi di Ebe, cadere in ginocchio innanzi a Venere, adorare le Grazie, ammirare Giunone, sfogliare le rose di Flora. L'arte romana e l'arte greca erano di moda dovunque, trionfavano col David in Francia, nel 1783 al Salon, col quadro degli Orazi, nel 1789 coi quadri di Bruto e di Paride con Elena; si affermavano con lo scultore Julien, autore della Galatea e del Gladiatore morente, e con Moitte, Roland e Chaudet. Il David ed il Canova, capi riconosciuti del movimento artistico, non vedono altro che gli eroi e gli Dei del mondo antico, e non trattano soggetti cristiani. Uno solo di questi piacque invero al Canova, che più volte lo ripetè, la Maddalena penitente, ma perchè si prestava allo studio del nudo che il Cristianesimo in genere voleva bandito. Nel panteon della storia il David come il Canova scelsero le figure e le gesta dei Grandi da scolpire: Luigi David talora per adombrare in esse gli uomini l'opera della Rivoluzione francese, Antonio Canova per ricordare i canti di Omero o per onorare la virtù. I bassorilievi rappresentanti la morte di Priamo, Socrate che prende congedo da' suoi, Socrate che beve la cicuta, Telemaco che ritorna ad Itaca, ed altri, si compongono di figure tutte tagliate di profilo e rigide; nelle statue invece Canova talora ricorda la grazia vaporosa, la dolcezza molle dei decadenti del secolo XVIII in quella specie di abbandono, di stanchezza, di floscezza del marmo levigato. La sensualità sua si esprime, più che in altra opera, nell'Amore e Psiche, gruppo composto nel 1787. Amore solleva Psiche nelle braccia, con una mano le regge il seno e con l'altra carezzosamente la testa, la quale indietro si riversa, e volgesi con occhi d'amore, con mormorii e baci a Cupido, mentre gli stende le braccia intorno al capo a mo' di ghirlanda. Cupido avvicina le labbra alle labbra di Psiche, e sospende il volo come farfalla sul calice d'un fiore.
Come si vede, il corpo nell'opera del Canova si disgombra dal carico delle vesti e dalla soma dei drappi, secondo le teoriche del Mengs che il nudo fosse il linguaggio proprio della scultura. Tanto parve naturale quell'abbandono d'ogni spoglia nel marmo che al Denon, il quale accusava lo scultore di aver effigiato nudo Napoleone, rispose Ennio Quirino Visconti che il nudo meglio risveglia l'idea dell'eternità, non essendo mutabile come il vestimento, e che sotto la forma angolare delle nostre vesti il nudo non può indicarsi, come già si indicò sotto le pieghe del pallio greco e della toga romana. Il nudo esce tornito, liscio, accarezzato dalle mani del Canova, non sodo, senza vene ed arterie sotto l'epidermide, e non libero come ne' tempi antichi, ma con la pudica cura d'involarsi agli sguardi, tanto che la Venere di Canova della galleria Pitti potrebbe sembrare Susanna che voglia nascondersi agli occhi dei Vecchioni.
L'alabastrina trasparenza dei corpi si assoggetta ai canoni del Winckelmann nel profilo con la linea diritta della fronte e del naso, nella fronte brevis di Marziale o tenuis di Orazio, nei capelli ad arco concorrenti a formare l'ovale del volto, nelle ciglia sottili e nel mento di rotondità graziosa. La fronte doveva essere uguale alla lunghezza del naso e all'altro tratto, dalla estremità del naso al limite del mento; e così via tutto il corpo umano era stretto nelle formule, e intanto il carattere sotto quell'algebra del bello sparisce.
Beatrice ritratta dal Canova sembra un'imperatrice velata. Laura ed Eleonora nei busti che le raffigurano potrebbero sembrare merveilleuses del Direttorio, come Calliope, Erato, Elena, Corinna, pure scolpite in busto dal Canova, e come quelle teste ideali di donna che egli inviò in dono al conte Sommariva, al Quatremère de Quincy, al duca di Wellington e ad altri, tutte con un'acconciatura del capo studiatissima, tale che la Albrizzi lodava l'opera particolare del maestro nel condurre in marmo la chioma d'una sua figlia ideale, appunto perchè l'aveva dedicata alla Francia nella quale è sì ingegnoso lo studio del calamistro. Ma niuna si distingue per alcun tratto fisionomico o iconografico, per una particolare impronta o per espressione nelle orbite ovali. Sono teste muliebri, alla romana o alla greca, con le guance ammorbidite e i piani del volto tondeggianti e lisci, con riccioli sulla fronte e le treccie ben pettinate e annodate; ma non respirano e stanno in un'atmosfera fredda senza lampi di pensiero.
Il Canova nello scolpire ritratti dal vero, nello studio delle fisonomie tanto varie e mobili, avrebbe richiamata la forza naturalistica della sua tempra veneziana; ma egli rifuggì dal ritratto. “Si ricusò per quanto potè, così scrive Antonio d'Este suo discepolo, di fare ritratti, e se ne modellò o scolpì fu mosso sempre dall'affezione o da gravi motivi.„ Come uno scultore degli Augusti, egli diede a' suoi personaggi l'aspetto eroico o divino, chè i Romani avevano ridotta la Divinità, così altamente ideale con Fidia, a prendere l'aspetto dei mortali. E quindi Ferdinando I prese nell'opera del Canova le vestimenta di Marte, l'elmo laureato, la corazza e il paludamento; Giorgio Washington, “l'amico del genere umano,„ sembrò Cesare intento a scrivere i suoi commentarii; l'imperatrice Maria Luigia divenne l'immagine della Concordia diademata, con lungo scettro nella destra e una patera nella sinistra; Leopoldina Esterhazy si atteggiò come una Musa sul Parnaso, Paolina Borghese in guisa di Venere vincitrice, Maria Elisa, principessa di Lucca, come la Musa Polinnia; Letizia Bonaparte ricordò Agrippina, e Napoleone I parve Cesare Augusto con asta nella destra e il globo sormontato dalla Vittoria alata.
Due grandi specie formano, all'infuori de' ritratti e de' monumenti sepolcrali, le opere del Canova: le une erano una reminiscenza di Arcadia, e rappresentano immagini già preferite nell'adornamento di salotti, di alcove e di giardini, e quindi Danzatrici, Grazie, Veneri, Endimioni; le altre, grandi esercitazioni accademiche, ricercano la forza dei Dioscuri del Quirinale, e sono le figure tragiche dell'Ercole che scaglia Lica, Perseo, Ettore, Aiace, Damosseno e Grengante, Teseo vincitore del Centauro. Le due specie di opere esprimono le due tendenze dell'arte al principio del secolo XIX, l'una si ispira alla molle grazia dei barocchi; l'altra alla forza guerresca che per le vittorie napoleoniche balenava sulla terra. Ma le une e le altre opere non avevano sale di terme o di palazzi imperiali da adornare, nè teatri e circhi e fori ove campeggiare, nè aria, come al tempo antico, nei cortili e porticati e bagni della casa. Era tutta un'arte che doveva finire nei musei, perchè al di fuori lo spazio doveva essere conteso dalla popolazione in aumento e spinta innanzi in fretta, sempre più in fretta, dai bisogni della vita, dell'industria, de' commerci e dalla commozione economica che scuote sempre più forte la società moderna. E quando come a Monaco di Baviera, si trovò per caso strano, un re, Luigi I, che con animo romano trasformò la città sua, i suoi edifici, le statue dello Schwanthaler all'antica si posero in contrasto con le selve d'abeti del luogo, con le tradizioni dell'arte locale tutta irta di punte, le necessità e i sentimenti della vita moderna. L'arte non è buona che quando nasce nei luoghi che adorna. L'arte antica è un albero fossile che non può più dar fiori, non rallegrare di sua ombra gli uomini; e cercare innesti a quell'albero fu vano tentativo, perchè le linfe vivificanti non vi scorrono più per entro da secoli.
Invano si tentò di costruire nuovi archi di trionfo e basiliche e teatri di forma romana, come la Madeleine, la Bourse, l'arco di trionfo del Carrousel: mancò la opulenza, e più il senso romano dell'imperio. Le parti degli edifici corrisposero forse per misure, calcoli, segni di compasso e di squadra all'antico; ma il tutto risultò meccanico, materiale, scialbo, freddo. Tutto l'ornato girò in volute alla romana; ma non ebbe colore, e cadde in forme identiche, calligrafiche, mancanti di sentimento architettonico. E la pittura decorativa dell'Appiani a Milano tentò richiamare in vita le grottesche delle terme romane e delle case di Pompei; ma rimase pedantesca e senza significato nella sua convenzionale eleganza. Tutta quell'arte doveva passare come una cometa che abbia impedito di vedere il sole e di scaldarsi al sole; e lasciò lunghi strascichi in una produzione artistica che mai la più misera, della prima metà del secolo, tutta di manichini in vestiarii di latta e di cartone. A chi guardi quell'arte tagliata nel legno o fusa nello stagno, vedrà anche estollersi di lontano il Canova pieno di slancio per la bellezza antica, lo vedrà meditare nei musei di Roma, patrocinarne i diritti innanzi a Napoleone che li aveva impoveriti, cercare il riscatto delle opere d'arte tolte dalla patria. Nel disfacimento dell'arte, la grande anima sperò nell'antico, ed iniziò uno dei tanti ritorni verso le civiltà passate che dal secolo XVI in poi sembrano fatali, ineluttabili. Di quando in quando nel nostro mare le onde s'innalzano, e corrono impetuose alle antiche rive, ove non sono più nè le Sirene, nè i Tritoni, nè le Nereidi, nè i velli d'oro; e quelle onde s'acquetano e tacciono in una morta gora. È fatale, e così sarà, fino a che l'arte avrà strumenti logori e mezzi insufficienti e incerti ideali; l'arte classica apparirà coi suoi esemplari eterni in un'aureola di luce. Primo tra i suoi contemporanei il Canova vide quella luce, e ne fu abbagliato. Quando alla fine del 1815, lo scultore, riscattati a Parigi i tesori d'Italia, visitò Londra, e si vide innanzi i marmi del Partenone, le trionfali feste Panatenaiche di Fidia e della sua scuola, ove l'ideale avvolge la realtà e la bacia, il Canova sospirò come se avesse veduto sulla scala del bello, più in alto, più in alto l'arte. Come Giacobbe, egli vide quella scala diritta al cielo. Tardi, esclamò, troppo tardi! quando ebbe la visione olimpica. Ma non tardi mai, perchè il sacrificio della sua vita doveva sollevare a maggiori idealità l'arte; e a' suoi sforzi due generazioni già unirono i loro; e il secolo che sta per finire guarda all'antesignano, che lo ha iniziato gloriosamente. Il venerato patriarca non vide la terra promessa, ma altri nell'avvenire da lui generato vedrà per la scala, da lui intravveduta come in un sogno tra le nebbie di Londra, salire, salire al sommo il genio dei tempi nuovi.
LA MUSICA
CONFERENZA DI Enrico Panzacchi.
Conferenza tratta dal resoconto stenografico
Signori e Signore,
Quando le idee agitatrici degli enciclopedisti e dei filantropi s'erano diffuse in Italia, ed unite alle idee dei nostri pensatori e ai decreti e alle velleità riformiste dei nostri principi generarono desideri ed inquietudine di novità, massimamente nelle classi colte, quali erano le condizioni della musica in Italia? E quali erano, quando i primi battaglioni francesi passarono le Alpi intuonando la Marsigliese? E quali erano durante il primo Regno italico, imperando Napoleone?
A questo domande bisogna dare una risposta qui; se no il quadro delle Conferenze di quest'anno rimarrebbe incompleto, non ignorando nessuno di voi quanta parte della vita e della cultura italiana fosse, massime in questo tempo, la musica. E la direzione benemerita delle Conferenze volle dare l'incarico a me di riempire questo vuoto, a me semplice dilettante di musica, con tutte le deficienze e tutti i difetti (salvo, se Dio vuole, la presunzione) che vanno annessi a questo così giustamente diffamato vocabolo!
I.
Questa volta dunque, o Signore, io vi parlerò di musica. Ma di musica, ha detto un gran poeta, Enrico Heine, bisognerebbe sempre parlare accompagnando le parole con canti e suoni, ossia suggellando coll'esempio le massime e supplendo a tutto ciò che ha di vago e di infedele la parola, massime trattandosi d'una materia invisibile e facilmente sfuggevole alla percezione immediata della memoria, come la musica. Le difficoltà, all'atto pratico, sono grandi. Gli esempi, voi dite.... Eh lo so; quando si parla d'un poeta torna molto efficace qualche sua strofa opportunamente intercalata; alle volte anzi un solo verso giova meglio ad imprimere nella mente dell'uditorio certi caratteri della sua poesia che un lungo discorso di critico e di conferenziere. Ma in materia di musica, come sapete, la difficoltà sta nell'esecuzione, tanto maggiore poi trattandosi di quella musica là e degli elementi esecutivi tanto perfetti di cui disponevano a quel tempo; voglio dire il canto e la voce umana.
A che pro, per esempio, fare eseguir qui l'aria della Nina pazza per amore: Se il mio ben ritornerà, A veder la mesta amica, quella famosa aria che produceva così profonda commozione nell'animo dei nostri bisnonni e delle nostre bisnonne e che una sera a Napoli nel San Carlo indusse il pubblico a gridare dai palchi e dalla platea: — Sì, povera Nina, il tuo bene ritornerà e tu sarai consolata! — come fare, dico, a eseguire quest'aria senza qualche cosa che per lo meno si avvicinasse alla voce ed al canto meraviglioso della Coltellini “onore di Firenze e d'Italia„ come la chiamavano i poeti del tempo? Quella voce, quel canto a cui pensava coll'animo innamorato il Paisiello componendo la sua Nina, precisamente come un compositore dei nostri giorni pensa al numero ed alla qualità dei suoi istrumenti orchestrali componendo un' ouverture od un intermezzo sinfonico? — A che prò fare eseguire qui la famosa aria nei Capuleti e Montecchi dello Zingarelli Ombra adorata aspettami senza la voce e l'arte insuperabili, dicono tutte le testimonianze del tempo, del sopranista Crescentini, che per un momento fece entrare l'entusiasmo della musica perfino nell'anima refrattaria di Napoleone primo? — E a che prò tentare di darvi con esempi vocali un'idea dello stile nuovo e magniloquente che Rossini inaugurò coll' Elisabetta, composta precisamente nell'anno 1815, senza la voce prepotente ed il trillo argentino e la virtuosità fulminea della signora Colbrand?
Meglio dunque ch'io lasci da parte gli esempi esecutivi; meglio che io mi limiti, o Signore, a sforzarmi di tracciare un piccolo quadro dei costumi musicali e ad accennare le vicende principali della musica teatrale di questo tempo, movendo, alla meglio, i vostri ricordi e la vostra fantasia. Ed essa forse, la vostra fantasia, farà meglio il miracolo, evocando questo bel mondo sepolto che è così vicino a noi e pare già tanto lontano! Poichè tutti noi in fondo all'animo nostro serbiamo della musica dei nostri vecchi una specie di ricordo platonico, una specie di eco addormentata, cerchiamo alla meglio di ravvivare con le parole quel ricordo, di risvegliare quelli echi addormentati.
Il secolo XVIII, voi sapete, fu chiamato per eccellenza il secolo della musica. Questo potè dirsi massimamente per l'Italia, anche perchè in questo tempo nessun'arte grafica e rappresentativa produceva fra noi opere che potessero ragionevolmente gareggiare coi prodotti della nostra musica. Quale quadro religioso, per mo' d'esempio, è stato dipinto nel secolo passato che possa, anche lontanamente, per valore estetico, compararsi ad un salmo di Benedetto Marcello? Quale produzione letteraria ebbe mai la pienezza e la universalità di successo mondiale delle opere di Piccinni, di Sacchini, di Paisiello, di Cimarosa? La parte poi che ebbe l'Italia nel movimento musicale del secolo passato fu addirittura grandissima, enorme; rappresenta un primato che nessuno pensava nemmeno a discutere; rappresenta influssi universali dei quali oggi non possiamo formarci che una pallida idea. Chi diceva musica nel secolo passato diceva musica italiana. “Italiam! Italiam!„ metteva in testa alla sua polemica musicale il Marmontel per la famosa gara tra i gluchisti e i piccinisti, un secolo prima che Alfredo de Musset formulasse lo stesso concetto con versi rimasti popolari.
.... Harmonie! Harmonie!
Langue que pour l'amour inventa le génie!
Qui nous vins d'Italie, et qui lui vins des cieux!
Tutti al mondo erano convinti che quel fiume di melodia che circolava per l'Europa, commovendola e deliziandola, aveva le sue origini in Italia; e tutti dovevano venir qui a tuffarvi lo spirito, a prendervi come un salutare lavacro. Intanto non c'erano nè piccole nè grandi corti, nè cappelle, nè teatri fuori d'Italia che non avessero maestri, cantanti o suonatori italiani; nè c'era promettente maestro fuori d'Italia il quale non sentisse il bisogno di passare le Alpi, di stare parecchi anni nella penisola, di attingere alle scuole ed ai maestri di Napoli, di Bologna, di Roma, di Venezia, raccogliendo tesori di sapere e di ispirazione che andava poi a svolgere tornando in patria.
Altri tempi, o Signore! Adesso invece sono i nostri maestri che vanno tutti, se non coi piedi, certo collo spirito in Germania e in Francia e là sentono il bisogno di attingere i criterii e i procedimenti dell'arte! Vi ha però una differenza. Nel secolo passato i buoni maestri tedeschi venivano in Italia, pagavano il loro grande tributo alla maniera italiana, ma da codesta didattica, da codesta specie di ginnastica, ritraevano una forza propria con la quale giungevano poi a belle creazioni originali; e dopo l' Idomeneo nasceva il Don Giovanni; e dopo il Trionfo di Clelia nasceva l' Alceste. Questi scolari della musica italiana insomma si chiamarono Hendel, Hasse, Glück, Mozart, Haydn; e si chiamarono dopo Niccolai e Mayerbeer, Nidermayer; mentre da trent'anni a questa parte, (sarà una disgraziata combinazione!) non abbiamo ancor visto nessuno dei giovani peregrinanti nelle regioni dell'avvenire tornare in Italia così musicalmente forte da piantare orme profonde, durevoli e gloriose.
II.
L'Italia nel secolo scorso conseguiva e manteneva questo grande primato perchè essa in sostanza dava alla musica tutti i suoi elementi più geniali e più vitali. Cominciamo dalla lingua. Era convincimento universale formulato poi in parole entusiaste da Gian Giacomo Rousseau nella prefazione al suo Dizionario, che la nostra lingua, così felicemente contemperata di vocali e di consonanti, colle cadenze delle parole nelle quali la voce può a piacimento indugiare ed espandersi, fosse non solo la lingua più acconcia alla musica ma la lingua esclusiva della musica. Il Rousseau arrivò a dire che non sapeva immaginare ottima musica se non modulata sopra parole italiane, anzi sopra versi di Pietro Metastasio!
L'Italia dava alla musica di tutta Europa i maestri, i metodi, la melodia, il bel canto, i cantanti. Fermiamoci un poco ad esaminare il fenomeno della grande feracità del suolo d'Italia nel produrre esecutori perfetti. L'idea che di qua dalle Alpi solamente la natura formasse le ugole perfettamente idonee al bel canto, è stata ormai sfatata dalla fisiologia e dalla esperienza. La sola legge che spiega davvero questo fenomeno è la solita costante e universale di ogni produzione; la legge della richiesta.
Guardate il nostro secolo. Nella musica del secolo decimonono è venuto acquistando invece sempre maggior prevalenza l'elemento polifonico orchestrale. Esso infatti cominciò colla prima delle nove sinfonie di Beethoven, la quale fu precisamente composta nel 1800. Ogni decade di questo secolo segna un incremento continuato dell'elemento polifonico orchestrale, il quale va aumentando in tal misura, tanto nelle opere teatrali che nella musica extra teatrale, che noi non potremmo scompagnare più i due elementi. Ditemi voi che cosa diventerebbe il Crepuscolo degli Dei di Wagner separato dall'elemento polifonico che tutto lo avvolge, lo compenetra e lo commenta?... Invece nel secolo passato la musica, massimamente teatrale (ed è di questa che io intendo solo di occuparmi) quasi tutta consisteva nella ricerca di affetti mirabilmente significanti per mezzo della voce umana. Facendo ora riscontro all'esempio citato di Wagner e del Crepuscolo degli Dei, io dico che se voi sopprimete l'orchestrale alla “ Serva padrona „ o al “ Matrimonio segreto „, di certo voi toglierete qualche particolare grazioso; toglierete anche un substrato armonico, di tanto in tanto assai piacevole. Ma la sostanza dell'opera, ma il dialogo musicale permane in tutta la sua integrità, e diciamo pure anche in tutta la sua efficacia; o con una ben piccola differenza.
III.
Similmente, o Signore, per spiegare il grande trionfo delle voci, bisogna riferirsi alla legge della richiesta. Più si è andato svolgendo nel nostro secolo la sollecitudine per l'incremento orchestrale, più vedemmo crescere lo spirito d'invenzione e lo studio intorno agli strumenti. Ecco che al violoncello e al contrabasso è stata aumentata la quarta corda, ecco che quasi tutti gli strumenti si sono migliorati nei registri, nell'estensione, nell'agilità, nella dolcezza, nel timbro vario della voce; ecco che molti anche se ne sono inventati di sana pianta; anzi le invenzioni si moltiplicarono in modo che ad un Congresso musicale tenutosi in America due anni fa, fu emesso un voto per infrenare piuttosto che incoraggiare tutta quella smania produttrice e inventrice. Nel secolo passato un somigliante fenomeno si avverava in Italia rispetto alla voce umana e rispetto al bel canto.
Qui era la gran base; e qui naturalmente nasceva la gran gara. I maestri del secolo passato prendevano in mano la voce umana, permettetemi la similitudine, come gli orafi fiorentini prendevano in mano i gioielli preziosi; e la brunivano e lavoravano in tutti i modi fino a renderla opera perfetta e impeccabile; la sfaccettavano in tutti i sensi come un brillante meraviglioso di cui si volevano rendere tutti i lumi e tutti i riflessi. L'insegnamento del bel canto, nel secolo passato tendeva insomma a dare alla voce tutta quanta la sua immaginabile virtuosità nell'estensione, nella solidità, nel timbro, nell'agilità, nei passaggi, nei tempi rubati — quei preziosi tempi rubati con cui l'esperta malìa del cantante si compiaceva come a tormentare la misura del canto, creando nell'animo degli ascoltatori una specie di deliziosa perplessità, la quale si convertiva poi in una squisita dilettazione, quando, verso la cadenza, il tempo rientrava nella sua musicale normalità.
Tutto questo formava un grande insieme di teorie e di pratiche magistrali, elaboratissime, delle quali non abbiamo adesso un'idea. Adesso i nostri giovani apprendisti della musica esecutiva studiano in media un anno e mezzo, poi si lanciano sulla scena ad eseguire promiscuamente il Barbiere di Siviglia, il Trovatore, il Lohengrin. Allora la sollecitudine didattica dei maestri si proponeva di spremere tutto quanto era nelle viscere, per così dire, della voce umana, traendola fino agli ultimi limiti della natura.... Anzi non si contentarono! E quando arrivarono a quegli ultimi limiti essi non dubitarono di violarli crudelmente, sacrilegamente, creando i sopranisti. Se è vero ciò che hanno detto alcuni storici che molte delle crudeltà di Nerone furono procurate da certa sua effervescenza estetica e da una cupidità artistica non contenuta nei confini del naturale, bisognerà anche rassegnarsi a credere che i nostri padri furono veramente dei neroniani.... Indarno qualche delicato spirito protestava; indarno l'austero Parini tuonava con la celebre ode: “Oh misero mortale — Ove cerchi il diletto? — Ei tra le placid'ale — Di natura ha ricetto. — Là con avida brama — Sussurrando ti chiama. — Aborro in su la scena — Un canoro elefante — Che si trascina appena — Su le adipose piante. — E manda per gran foce — Di bocca un fil di voce.„
Ma la verità, è, o Signore, che questo “fil di voce„ era così squisitamente educato e adoperato, che creava tutto un ordine di sensazioni musicali sconosciute a noi e delle quali i nostri vecchi erano amantissimi. E pare veramente che la loro arte fosse sotto ogni aspetto meravigliosa e in armonia coll'indole e con gli intendimenti alla musica teatrale di quell'epoca. Il medioevo aveva fabbricati i nani pel diletto delle corti; nel secolo decimosettimo e decimottavo l'Italia creò e divulgò i sopranisti pei diletti dei teatri e delle sacre cappelle, principiando da quelle del papa.
La scuola poi e la disciplina con cui erano educati questi singolari strumenti umani hanno qualche cosa di mirabile, quasi di leggendario. Esisteva in Bologna, al principio del secolo passato, un celebre maestro, il Pistocchi, la cui scuola era considerata come una fucina perfetta di sopranisti. Egli obbligava i suoi giovani a studiare per sette anni di seguito il solfeggio; e si comprende che da questa palestra così pazientemente prolungata uscissero cantori perfetti come il Bernacchi. A Napoli, il Porpora era pure maestro consideratissimo e certo non meno del Pistocchi esigente e rigoroso. Raccontano che dava agli alunni una pagina di solfeggio, una specie di epitome del bel canto in cui erano accolti i casi più difficili nell'uso della voce, tutti i passi, i salti, le emissioni, le malizie, gli inganni per indurre nel pubblico meravigliosi e inaspettati effetti di canto. Allievo della scuola di Porpora fu il famoso Farinello, colui che divenne poi quasi l'arbitro della Spagna e onnipotente a corte quando a lui solo riuscì con tre o quattro ariette a blandire la noia profonda e giudicata incurabile di Filippo V.
Raccontano che il Farinello, essendo scolaro del Porpora, da quattro anni tutti i giorni andava ripetendo i passi, le scale, i gorgheggi di quella tal pagina. Un giorno impazientito, si permise di chiedere al Porpora per quanto tempo ancora ne avrebbe avuto. Il maestro rispose asciutto: ancora per tre anni!... E la risposta non dovette essere molto confortante.
Ma è altrettanto certo che da questa eroica elaborazione e da questo magistero, perseveranti fino alla crudeltà, uscivano cantanti dei quali le cronache del tempo dicono cose assolutamente sbalorditive. Il Bernacchi e il Farinello divennero col tempo rivali e una volta s'incontrarono a Bologna verso la metà del secolo. Il pubblico li attendeva in un duetto del maestro Hasse, detto il Sassone, dove ognuno dei due doveva fare l'ultima prova del proprio talento. Raccontano che in mezzo ad una trepida aspettazione, ad un silenzio profondo i due campioni prima espressero il puro tema melodico su cui cadeva la gara. Il Farinello più giovane stupì il pubblico con variazioni audacissime; e il Bernacchi, di rimando, sulle prime tenne validamente testa all'avversario; ma poi, crescendo sempre le difficoltà inaspettate e le ardue bizzarrie del canto farinelliano, il Bernacchi ebbe una astuzia da vecchio lottatore. Ad un tratto abbandonò il sistema delle variazioni e dei trilli e ripresentò al pubblico il bel tema melodico in tutta la sua primitiva purezza e semplicità. L'entusiasmo del pubblico, a quell'effetto inatteso, non ebbe più confini. Fu domandato il bis e il Bernacchi lo concesse; ma quando fu per riprendere la sua frase, sentì nell'orchestra una certa inquietudine, una certa titubanza. Si volse a guardare; e si avvide che anche i suonatori, anche il direttore d'orchestra piangevano....
Emozioni e delizie delle quali sarebbe difficile farsi ora una idea, o Signore; emozioni e delizie che trovano forse una parte di spiegazione nella stemperata sensibilità allora di moda; ma fatta ogni tara possibile, rimane sempre certo che, dietro a tutto quel delirio di pubblico, doveva esservi un'arte, nel suo genere, sorprendente e perfetta.
Ho nominato più sopra il Crescentini. Una sera del 1806 a Parigi egli cantava al Teatro Imperiale quella sua arietta “Ombra adorata aspettami„. Chi sa quante volte l'avevano intesa! Poichè è da notare che questi famosissimi sopranisti, una volta che avevano condotte all'ultimo pulimento quattro o cinque arie, poco d'altro si curavano e con esse passeggiavano trionfanti l'Europa. Era tale il favore del pubblico per la preziosità dell'arte loro che non avevan bisogno di abbondare in quantità; bastava la qualità squisita. Ebbene, Crescentini quella sera suscitò tanto entusiasmo a Parigi che perfino l'anima fredda, alla musica almeno, di Napoleone I, se ne commosse; e seguendo un movimento improvviso mandò al sopranista nientemeno che la croce della Corona di ferro.... Fu uno scandalo; e si levò una tal gara di mormorazioni che Napoleone se ne impensierì. E se ne deve esser tanto impensierito che perfino nel Memoriale di Sant'Elena ricorda il fatto. — Io ho disposto (dice l'imperatore) di scettri e di corone, ho disposto d'interi popoli senza che i miei ci trovassero da ridire. È bastato che io mandassi una povera croce di cavaliere al sopranista Crescentini per sollevare quasi una rivoluzione.... — Anche si narra che una sera in un salone parigino molto celebre di quel tempo le mormorazioni scoppiavano e s'accaloravano d'ogni parte. — Una vera indegnità!... Come mai l'Imperatore ha potuto conferire ad un miserabile cantante la onorificenza che egli fondò a premiare i valorosi in campo, i feriti per la patria? — Per fortuna la bella Grazzini, famosa cantante, ebbe un motto felice, che mise un po' di calma. — Finalmente anche il povero Crescentini era un ferito.... nel campo dell'arte! —
Ma il trionfo per me più significante di questa arte dei sopranisti, mi pare quello conseguito dal Velluti a Londra nel 1826. Vedete come ci avviciniamo alla nostra epoca. Il Velluti aveva cantato nell' Aureliano in Palmira di Rossini; era stato l'ultimo suo trionfo e volle andare a ripeterlo a Londra. Si credeva in Inghilterra che quella infelice anomalia non esistesse più nel mondo, e fu uno stupore ingrato, un unanime scontento quando si seppe che c'erano anche dei soprani. Parve che la rigida coscienza anglosassone si volesse ribellare per davvero. Il povero Velluti fu accolto con segni poco lieti, la prima sera dell'esecuzione. Volti arcigni e glaciale silenzio.... Ma poi, malgrado tutti quei propositi di resistenza e d'austerità, il Velluti finì per conquidere il pubblico inglese in modo che lo portarono in trionfo a casa con musica e fiaccole!
IV.
Dopo aver detto dei cantanti, parliamo un poco anche della musica di quel tempo.
Il periodo va dall'ultimo ventennio circa del secolo XVIII, ai primi tredici o quindici anni del presente; ma è necessario distinguerlo in due parti. Negli ultimi anni del secolo passato raggiunge il suo apice e tramonta la grande scuola della nostra musica teatrale. Musica melodica per eccellenza, musica di bel canto. Essa dovrà molto essere ricordata e invocata da noi italiani. S'invocheranno i ricordi, ma sarà difficile ripetere la grazia, la soavità, la purezza di quella melodia tutta nostra che fece l'ultima sua prova sotto l'ispirazione di quei nostri maestri. In quel ventennio la grande scuola è vista tutta quanta tramontare e scomparire. Già è morto Sacchini, che Glück aveva chiamato il più perfetto tipo del compositore da teatro in Italia. Nel 1780 muore Niccolò Piccinni, che fu a Parigi il forte competitore dello stesso Glück, opponendosi validamente per molti anni all'autore dell' Alceste, dell' Orfeo e dell' Ifigenia in Tauride e suscitando una passione così profonda da dividere la Corte, la città, i maestri, i dilettanti, la Francia intera. Fu una gara indescrivibile. Beniamino Franklin, che si trovò in Francia a quell'epoca, scriveva che di tante stranezze di cui era stato spettatore nel mondo nessuna superava questa di tutto un popolo che, per il primato di due musici scordava ogni cosa: la questione delle Colonie, la finanza in rovina, la voragine rivoluzionaria che mandava muggiti da tutte le parti e che minacciava d'ingoiare un giorno o l'altro tutta quella corte, tutta quella folla di guadenti. Il Piccinni, ancor che vinto nel giudizio dei più, onorò altamente l'Italia e l'arte nostra, e nobilitò la sua sconfitta con una incomparabile generosità di cuore. L'autore della Didone, della Ifigenia in Tauride e di tante opere insigni, che avevano fatto più d'una volta vacillare e piegare il suo tremendo avversario, morì mandando un inno generoso alla grandezza di Cristoforo Glück e proponendo al Direttorio in Francia che si istituisse un concerto ogni anno a celebrare la memoria del suo fortunato rivale. Erano pure morti sulla fine del secolo i due Guglielmi, il Jomelli, il Buranello. Vive ancora il buon Paisiello, ma per tutte le lotte e le aspre gare sopportate in Francia e in Napoli, trascinerà poi la sua vita fino al 1816, senza aggiungere nulla alla sua gloria di compositore. Finalmente nel 1802 anche Domenico Cimarosa muore, dicono alcuni vittima del rigido clima di Russia ove era andato a deliziare le orecchie di Catterina Seconda; alcuni invece dicono per le persecuzioni politiche a cui andò soggetto, avendo egli parteggiato coi ribelli a Napoli ed essendo per questo oggetto delle vendette del cardinal Ruffo. Vi è stato anzi qualcuno che non ha dubitato di attribuire la morte di Domenico Cimarosa al veleno fattogli propinare dalla regina Carolina di Napoli per punirlo d'aver messo in musica l'inno della Rivoluzione partenopea, cantato dinanzi al palazzo reale, e insistente sul ritornello metastasiano:
Non sogno questa volta,
Non sogno libertà!
Il fatto è che il Cimarosa è l'ultimo grande compositore del secolo passato e con lui si chiuse quella celebratissima scuola napoletana. La grazia della melodia, la purezza dell'armonia hanno in lui il più degno e più completo rappresentante. La genialità italica si svolge negli estri cimarosiani con tutte le sue forme più seducenti. Egli, senza tanti sistemi e senza tanta metafisica, conduce a perfezione l'opera comica, alla stessa guisa che Glück aveva condotto a perfezione il dramma musicale tragico. Con lui “il gaio napoletano„ come lo chiamavano in quel tempo per tutta Europa, la vecchia opera italiana dà un ultimo ed invidiabile fulgore di tramonto. Nel 1792 fu eseguito a Vienna il suo capolavoro, vale a dire il Matrimonio segreto. L'opera deliziò gli spettatori e in maniera particolare l'imperatore Leopoldo; e la delizia fu tale e tanta che, finita l'opera, si provò la voglia di risentirla tutta quanta. Detto fatto; l'imperatore fa ammannire una buona cena ai cantanti e ai suonatori e dopo un paio d'ore il Matrimonio segreto viene tutto quanto bissato ed ascoltato con sempre crescente diletto dal pubblico viennese. Anche qui permettetemi, o Signore, di esclamare: altri tempi! Credete voi probabile un fenomeno somigliante con gli spartiti del tempo nostro?...
Tanta seduzione sul pubblico derivò da un complesso di ragioni che qui sarebbe fuor di luogo il discorrere; ma specialmente per l'intimo carattere affettivo di quella musica. Essa era come una fioritura leggiera, elegante, spontanea. La musica del secolo passato, e specialmente la musica italiana, si compiaceva e si contentava di accarezzare, per così dire, l'epidermide dell'anima, senza entrare nelle sue più oscure profondità. Era come un vento odoroso e temperato di primavera che increspa un lago senza sconvolgerlo, senza turbarlo. La tonica si svolgeva sempre nei suoi modi normali; e l'eccezione era veramente eccezione; ossia una cosa rara sapientemente governata dal gusto. Dopo abbiamo avuto una sempre crescente rivoluzione estetica insieme e fisiologica. Ciò che era eccezione e singolarità (per esempio quelle famose settime diminuite, che dovevano sempre “annunziare la sventura„ per dirla con la frase del nostro caro Ferravilla) oggi è diventato una normalità e quasi un riposo dell'orecchio nostro. Tutto questo mordente, tutto questo complicato, agitato, febbrile, tanto nello spirito che nella fattura, non toccava la serena arte dei nostri vecchi. Non era entrato ancora nella musica la psicopatia. Che Dio ci aiuti per l'avvenire! Ma certo è che in questo siamo andati ormai tanto avanti che bisognerà poi in qualche guisa temperare e semplificare, se non vorremo che fra le tante afflizioni dello spirito umano debba un giorno o l'altro annoverarsi anche la musica.
Sollicitæ iucunda oblivia vitæ, è il motto che si leggeva nello stemma delle vecchie Accademie musicali. Quando i nostri vecchi musici e i nostri vecchi cantanti avevano raggiunto questo scopo, pareva ad essi di non avere composto e cantato inutilmente. Io non discuto se avessero ragione; ma questo era il loro grande segreto.
V.
Discesi nel sepolcro i più insigni esecutori e compositori del secolo passato, tramontata quella fecondissima scuola napoletana che aveva avuto il dominio non solo nella penisola, ma in tutto il mondo, noi vediamo, o Signore, svolgersi un periodo da 10 a 15 anni, musicalmente bigio, freddo; in una parola mediocre. Non mancano la dottrina, l'ingegno, il gusto; manca, pare, il genio. Sorgono il Morlacchi, Simone Meyer, il Paër, il Generali, qualche altro; brava gente, uomini di molto valore ma che non si levano alle grandi altezze dei maestri precedenti. Due gloriosi maestri ha sempre l'Italia, o Signore; ma vivono e s'inspirano fuori d'Italia. Sono Cherubini e Spontini. Cherubini che nella musica teatrale si mette, per purezza armonica e per freschezza di melodie, vicino a Mozart; e nella musica sacra non trema di fronte al grandissimo Beethoven. Lo Spontini, come il Cherubini, esce presto d'Italia dove la fortuna poco gli sorride; e va a Parigi e diventa il maestro preferito da Napoleone I, col favore espresso del quale riesce a rompere tutte le ostilità degli emuli e dei cortigiani e fa eseguire nel 1810, con tutti gli onori e il prestigio d'una rappresentazione di corte, la sua famosa opera La Vestale, nella quale è tanta vena melodica, passione drammatica, tanta romanità di carattere; nella quale par di sentire la grandiosità dell'impero napoleonico. Un gran pregio dello Spontini è di avere meglio dei suoi predecessori, forse meglio dello stesso Glück, intuito il profondo consenso psicologico che può istituirsi nel dramma tra poesia e musica. Di ciò gli rese giustizia e testimonianza Riccardo Wagner nella sua celebre lettera a Francesco Villot, dicendo che egli riconosce nello Spontini uno dei suoi legittimi predecessori.
Ciò che mancava all'Italia musicale in questo periodo era una forte energia creativa, senza della quale non è possibile vera rivoluzione d'arte. Nella musica nostra si sente un'aura che viene d'oltre monte; ci accorgiamo che c'è stato Glück, Mozart, Haydn e che dai nostri si vuol, per quanto è possibile, fondere le nuove ricchezze straniere col grande patrimonio musicale italiano. È un proposito ottimo ma non basta per la grandezza dell'arte; e ne segue, in sostanza, un periodo d'incertezze e di titubazioni, che sarebbe finito in una morta gora, se invece non fosse stato un passaggio, una preparazione; se invece colui che era aspettato non fosse venuto.
E colui che era aspettato, colui che aprì realmente in Italia e per l'opera italiana i tempi nuovi, voi sapete, fu Gioacchino Rossini, il quale appunto cominciò a fare le sue prime armi nei primi del nostro secolo (1808) traendo a sè l'attenzione del pubblico bolognese e d'altri col Pianto dell'Armonia. Poi venne Demetrio e Polibio, una breve opera o piuttosto una cantata in cui il giovanissimo maestro mise una passione, una forza di sentimento e un felice ardire di novità che costrinse tutti gli animi a volgersi verso di lui. Par veramente che una fresca fontana di nuove melodie sgorghi dall'animo giovanile del felice maestro e che si espanda e dilaghi con forza irresistibile.
Gioacchino Rossini si afferma, e nel suo rapidissimo successo pare che avvolga in un circolo giocondo di rinnovamento tutta la società italiana, la quale apre tutto l'animo suo al soffio della nuova arte. — Vi è un uomo, diceva a quel tempo lo Stendhal, del quale si parla ormai più che di Napoleone in Italia, del quale si parlerà prestissimo a Parigi, a Pietroburgo forse anche a Calcutta. E questo uomo non ha che 18 anni e non è che un compositore di musica! — Ma in questo compositore di musica si concentravano milioni di anime, e la sua voce balda e giovanile pareva la voce dell'avvenire e della speranza. Gli uomini erano stanchi di soffrire. Era passata nell'aria la tormenta della rivoluzione francese; c'era stato Napoleone I, con le sue ambizioni crudeli e le sue guerre terribili. Troppo sangue s'era versato, troppo si era tremato e pianto!... Le povere anime umane, abbattute come canne sotto la bufera, volevano rialzarsi. La vita doveva avere ancora delle gioie, la civiltà doveva avere ancora dei trionfi. E questa voce che gridava — avanti! — questa voce dell'avvenire che tutti aspettavano parve, per un momento, che fosse modulata nella musica del giovane Rossini, ne' suoi crescendo annunziatori, nelle sue squillanti fanfare, nell'ampio modulo de' suoi motivi, nella insolita forza delle sue armonie, nella concitazione veemente dei suoi ritmi nuovi....
E Rossini capì. Non era uomo di grandi nè di troppo severi studi; ma aveva la genialità spontanea e feconda che la natura consente rare volte ad un artista e che sempre s'accompagna a una fedele percezione del bisogno predominante nel proprio tempo. Capì che la musica stava per subire, come ogni arte moderna, un forte impulso verso la popolarità e il genio nazionale; ma capì ancora che bisognava contemperare e fondere le grandi migliorie della tecnica con le tendenze connaturate e con le tradizioni della musica italiana. Era una specie di fil di rasoio la linea sulla quale egli si metteva a camminare; ma condotto dalla sua indole felice, Rossini camminò e arrivò alla mèta. Infatti guardate: nel 1817, interrogato Leopoldo Cicognari, il giovane maestro si mostra un po' diffidente di tutto quel sopraccarico di armonie, di tutto quell'incremento strumentale che veniva dalla Germania e dice: qui bisogna mettere un argine. Pareva dunque un conservatore. Ma d'altra parte egli era chiamato “il tedeschino„ per la grande assiduità con cui nella biblioteca di Bologna aveva studiato e trascritto in partitura le sinfonie dell'Haydn e del Mozart, le primizie forse del Beethoven ed altri documenti del genio strumentale germanico. Dunque egli univa quella felice bilateralità d'istinti e di tendenze che gli consentiva d'essere il grande, il nuovo compositore d'Italia: che apriva la via ai maestri e all'opera futura.
Per questa via il giovane maestro procedette non fermandosi mai, ma andando avanti un po' alla spensierata, un po' all'italiana, come dicono i suoi biografi stranieri, molto fidando specialmente nella baldanza de' suoi felici ideali e nella seducente giovialità dell'indole sua. Ma andò sempre avanti: dal Tancredi al Barbiere di Siviglia, dall' Otello al Mosè, al Guglielmo Tell, che il Fetis non dubitò di chiamare “l'opera delle opere„ ed ha ragione perchè in questo spartito egli seppe raccogliere sapientemente ed efficacemente tutte le migliorie conquistate alla nuova musica pel teatro, di là e di qua delle Alpi.
Rossini fu dunque riformatore nel miglior significato della parola; ma volle esserlo alla sua maniera, ossia bonariamente, senza violenze, senza sussiego. Stancatosi presto di tutte quelle virtuosità, e di tutti quei gorgheggi che i grandi cantanti dell'epoca sua profondevano nelle arie delle opere, che fece egli? Non sentenzia, non tuona; invece comincia col rabbonire questi difficili ed esigenti esecutori dicendo loro: — volete delle scale cromatiche? volete delle cadenze sospese? dei trilli, dei ricami d'ogni genere? Li avrete, ma ve li voglio fare io. — E questa era già una prima legge e una prima misura. La vecchia musica scuoteva dal capo la cipria. La virtuosità aveva un vizio mortale: quello di fare della bravura esecutiva quasi il fine supremo della musica. Doveva morire; e Rossini gli dà con grazia il colpo mortale.
Per questa strada egli continuò senza ostentazione di smanie riformiste, ma sempre riformando. Arrivato a un certo punto, sapete che gli accadde? Che molti de' suoi vecchi ammiratori lo abbandonarono e cominciarono a mormorare di lui. Se leggete per esempio quella, non molto esatta, ma briosissima vita di Rossini che dettò lo Stendhal, sentirete con vostra non mediocre sorpresa che la Semiramide, per esempio, è già qualificata fra le opere pensate e scritte in stile tedesco!... E quando lo stesso Stendhal uscì dall'Opéra di Parigi dopo la prima rappresentazione del Guglielmo Tell, lo sentirono dare in escandescenze ed imprecazioni, dicendo che gli avevan guastato il suo Rossini, tuffandolo nelle nebbie della musica teutonica e facendone un seguace di Carlo Maria Weber. È sempre la medesima storia, che si ripete e si ripeterà nel mondo dell'Arte.
Bisogna poi non dimenticarsi, o Signore, che Rossini fu anche mirabilmente assecondato dai cantanti. I cantanti non erano più i sopranisti, se Dio vuole, ma continuavano le grandi e squisite tradizioni. Non si chiamavano Velluti, Crescentini, Bernacchi, Farinello o Guadagni; ma si chiamavano la Pasta, la Malenotti, il Nazzarri, il Tachinardi, il Donzelli. Splendono sopratutto due astri felicissimi in questo firmamento; il Rubini e la Malibran.
VI.
E così fu posta la gran tesi musicale moderna, che si potrà svolgere in vario senso, che si potrà risolvere in diversi modi. Ma tutte le volte che saremo nel campo delle vere passioni umane, significate nel melodramma, io dico che bisognerà sempre risolverla tenendo in grandissimo conto la melodia e la voce umana. Bisognerà, pena la morte, o Signore, la quale può colpire un melodramma anche sotto forma di imbalsamazioni trionfali.... ma è sempre la morte, ossia l'esiglio dal palcoscenico.
Riccardo Wagner ha detto che la voce umana è il più bello e il più nobile degli strumenti; e a me pare una frase inesatta. Abbiamo differenza, in qualche guisa, assoluta e categorica. Fra lo strumento e colui che l'adopra c'è una sostanziale distinzione. Il flautista adopera il suo flauto, poi lo ripone in un cassetto; e per quanto egli, suonandolo, abbia lavorato con tutto il trasporto dell'anima, qualcosa sarà andato sempre perduto in quell'intervallo che è fra lo strumento e colui che l'adopra. Invece nella intimità della voce del cantante collo spirito che la muove, in questa profonda e sacra intimità, risiede un'efficacia e una magìa che nessun istrumento, di metallo o di legno, a corda o a fiato, arriverà mai ad uguagliare.
La poesia, ha detto ancora Riccardo Wagner, getta il seme nei solchi, la musica lo feconda. E questa è similitudine di grande verità, o Signore. Ma quand'è che la musica raggiunge i suoi effetti più meravigliosi?... Difficile questione. Ma se ognuno di voi consulti i suoi ricordi come io consulto i miei, spogliandosi d'ogni preconcetto e d'ogni ipocrisia artistica, risponderà che i più deliziosi, i più sublimi momenti musicali passarono nell'anima nostra quando la musica si unì e si fuse liricamente e drammaticamente alla parola poetica; momenti che nessuna polifonia orchestrale, per quanto ispirata e sapiente, potrà mai raggiungere.
A questo parere mostrò di inclinare lo stesso Beethoven quando ebbe, per così dire, percorso tutto il suo immenso ciclo, quando ebbe toccato il termine della sua epopea sinfonica. Arrivato alla Nona Sinfonia in cui aveva cercato di gettare tutte le forze della natura, tutte le voci della vita, tutto lo slancio, tutto l'anelito della passione, s'accorse che qualche cosa ancora gli rimaneva a dire; e questo qualche cosa, nessuno strumento lavorato dalle mani dell'uomo glielo poteva dare. Allora domandò a Federico Schiller il canto “Alla Gioia„ e su quel canto profuse le ultime ricchezze della sua grande anima musicale, chiudendo, come il pellegrino giunto sul vertice della mistica Montagna, con un fuoco meraviglioso che empì tutto l'emisfero. Presagio insieme e simbolo che le ultime altezze della musica saranno raggiunte quando essa, disposandosi novellamente al verbo umano, gli porterà in dono, cresciuti di tutti i progressi dell'arte, i suoi accordi e le sue modulazioni.