La vita italiana nel Cinquecento.
LA VITA ITALIANA NEL CINQUECENTO
Conferenze tenute a Firenze nel 1893
DA
G. Carducci, E. Panzacchi, E. Nencioni, G. Mazzoni, E. Masi, L. Alberto Ferrai, I. Del Lungo, A. Jéhan De Johannis, C. Paoli, G. Rondoni, T. Salvini, John Addington Symonds, A. Biaggi.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897
SECONDA EDIZIONE.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
INDICE
FRANCESCO I e CARLO V
DI
L. A. FERRAI.
I.
Signore e signori.
Non mai spettacolo più imponente vide l'umanità. Dileguavansi appena dalla Germania, dalla Francia, dall'Inghilterra le ultime nebbie del Medio-Evo, e gagliardi di lor giovinezza salutavano i popoli il sole rinascente d'Italia. Le monarchie armate, equilibrantisi sui varii ordini delle nazioni, sembravano associare gli interessi dinastici al trionfo di un nuovo principio di diritto maturatosi nelle scuole. Conformemente alle varietà di stirpe, di linguaggio, di condizioni storiche si erano venuti aggruppando i popoli, e formavano delle unità politiche forti e compatte. Sotto la protezione dei re, che assecondavano i meravigliosi e rapidi progressi della risorta civiltà, le borghesie, già schiacciate sotto il peso dell'oppressione feudale, perfezionavano gli ordinamenti politici e la legislazione degli Stati; spogliavansi dei rozzi costumi di un tempo, vedevano rispecchiato nelle corti già ricche di gentilezze spirituali, e di agiatezze domestiche, un ideale di vita migliore.
Una profonda rivoluzione intellettuale e morale poneva l'Italia alla testa del mondo civile. Per l'umanesimo noi avevamo riacquistata coscienza del nostro passato, ci eravamo di nuovo fatti signori di un patrimonio perduto o disperso; e ravvivate per esso le forze dell'intelletto, avevamo riguadagnato il senso reale della vita, trasformati i metodi della scienza, restituito il mondo all'uomo. La varietà dei nostri ordinamenti politici, il possesso già da tempo rivendicato della sapienza giuridica di Roma ci aveva addestrati, meglio e prima d'ogni altro popolo, nell'arte della diplomazia e della politica, il genio artistico nazionale si era ritemprato e perfezionato nell'imitazione del bello classico. Le ricchezze accumulate nelle nostre laboriose città rendevano possibili le solenni manifestazioni dell'arte, ne assicuravano le nuove vittorie nelle corti signorili italiane, ove con l'ingentilirsi del costume, delle abitudini, della lingua preannunciavasi la vita moderna.
Eppure quel secolo così fecondo di pensiero e d'azione, in cui lo spirito d'avventura congiunto alla stimolatrice curiosità della scienza rivelava di là dall'Oceano un continente inesplorato, in cui la stampa prestavasi al mutuo e rapido scambio della cultura, e abolivasi il privilegio nei campi di battaglia come nelle istituzioni politiche e nella scienza, il fatto politico, che incentra tanto febbrile moto di vita, e ci offre pur l'orditura di tanta parte della storia moderna, presenta tutti i caratteri di un dramma medioevale. Ne sono protagonisti i due principi più potenti del Cinquecento, Francesco I di Valois, Carlo V d'Absburgo. Rivivono in Francesco I le tradizioni cavalleresche della Francia cristiana; soldato e poeta alla fede degli avi, al culto della donna, al sentimento dell'onore sacrificherà troppo spesso gli interessi della dinastia e della Francia. Ridestasi in Carlo V, che ha fatta sua la patria del Cattolicismo e dell'Inquisizione con le melanconie ascetiche del Medio-Evo, l'ideale politico del passato. Un faro luminoso è la mèta inafferrabile del suo destino. Dagli espedienti volgari della politica quotidiana quel sogno lo distrae e lo conforta: restaurare la monarchia universale a difesa della fede e della Chiesa cattolica. Alle attonite moltitudini il prigioniero di Pavia, che dalla tetra torre di Pizzighettone invia alla madre Luisa di Savoia il famoso messaggio, e versi caldi d'amore alla donna de' suoi pensieri, sembra un cavaliere d'antiche leggende. Il sacco di Roma rievoca la lontana memoria di Alarico e de' Visigoti; la guerra di sterminio contro Firenze provoca su Carlo V le imprecazioni e le ingiurie, che già colpirono il capa del Barbarossa, e quando l'eco di quegli improperii lentamente si spegne nell'Italia lacera e sanguinante, la plebe affamata di Napoli acclamerà il principe poc'anzi maledetto, dopo l'impresa di Tunisi, novello Cesare trionfatore.
Ma in pieno Rinascimento le antiche e sistematiche forme che aveano per tanta parte sterilizzata la vita politica del Medio-Evo, nel tempo stesso in cui la Scolastica avvolgeva di metafisica nube il pensiero, non rifiorirono di fatto che nella fantasia artistica di un popolo assetato di ideali, geloso delle tradizioni classiche e del suo passato. Chi vorrà creder sincero Romolo Amaseo inneggiante a Bologna, innanzi alla maestà di Carlo V, al rinnovamento dell'Impero romano, e alla restaurazione della lingua latina! Chi vorrà scorgere nel poema dell'Ariosto, che rielabora nel nostro volgare le leggende del cielo di Carlo Magno un segreto intendimento politico, o cercarne seriamente il motivo storico nella rinnovata potenza cesarea di Carlo V! Non domandiamo ai poeti, e ai retori delle scuole un aiuto soverchio per apprendere il vero.
II.
Francesco I saliva il trono l'anno stesso (1515) in cui Carlo di Gand, appena quattordicenne, assunse il governo dei Paesi Bassi. Vigente la legge salica, inalienabili i feudi della corona, allo spirito di conquista animavasi la nazione francese, cui Luigi XII lasciava in retaggio prosperità economica, unità di leggi, e promesse di vittorie riparatrici. Come allora sottrarsi alla protezione e all'alleanza del nuovo Re. Incerta la successione per Carlo all'avo materno Ferdinando il Cattolico, debole e distratto dalle resistenze degli Ungheresi e dei Boemi Massimiliano imperatore, già alleati di Francia gli Inglesi e i Veneziani, vassallo della Francia egli stesso. In qual modo schermirsi dalla politica provocatrice del nuovo Re? Tristi ricordi per Carlo V le prime prove tentate nelle gare diplomatiche di quegli anni! Eppure debbonsi cercare in esse le cagioni prime del suo odio implacabile contro la Francia ed il Re. Claudia, la figlia di Luigi XII che gli aveano promessa sin dalla culla, era divenuta regina di Francia, recando in dote a Francesco I due delle più ricche provincie già appartenute ai beni ereditari di casa d'Absburgo. Per guadagnare la mano di Renata, la sorella di lei, gli si crearono tali impacci che il matrimonio non potè più effettuarsi. Erede, come arciduca della Germania orientale, sovrano dei Paesi Bassi e dell'antico ducato della Borgogna, presunto successore della Castiglia e dell'Aragona, di Napoli, e di Sicilia, il possessore di così vasti territorii sentivasi offeso dall'alterigia del Re; nè i ministri fiamminghi si stancavano mai di dipingergli i Valois come nemici acerrimi, e spogliatori della sua casa. Quale tormento per lui i primi e fortunati successi di Francesco I! Le irrisorie proposte di pace al re cattolico, all'imperatore Massimiliano, agli Svizzeri aveano preannunziata prossima la guerra pel ricupero del Milanese. Celebratesi le nozze di Giuliano de' Medici con Filiberta d'Orleans, Francesco I avea saputo così abilmente tenere a bada Leone X, il quale in favor di Giuliano vagheggiava il possesso feudale del regno di Napoli, che tutta Europa dovè persuadersi di una imminente aggressione francese. E la guerra scoppiò fulminea, e fu tra le più brillanti che mai si combattessero nei piani lombardi. La vittoria di Melegnano assicurò ai Francesi il possesso del ducato Sforzesco; il colloquio di Viterbo e l'incontro di Leone X col vincitore a Bologna tranquillarono a patti ben gravi il pontefice: la cessione ai Francesi di Parma e Piacenza. Che se più tardi la defezione di Enrico VIII, e i nuovi intrighi papali per formare uno Stato, dopo la morte di Giuliano, a Lorenzo de' Medici, e per raffermare la supremazia politica del papato in Italia, crearono seri imbarazzi al dominatore di Lombardia, nè i successi militari di Massimiliano, nè l'interposizione dell'arciduca Carlo nelle trattative di pace valsero a porre un freno alle ambizioni francesi. Nella pace di Noyon del 1516 gli interessi della Francia trionfarono completamente. Carlo vi ottenne assicurata, per la mediazione del re d'Inghilterra, la successione al trono di Spagna, ma le clausole restrittive nell'esercizio della sovranità in Navarra, l'obbligo impostogli di riconoscere i diritti di Francesco I non solo sul ducato di Milano, ma sul regno di Napoli, la ingiunzione a Massimiliano imperatore di restituire Verona alla repubblica veneta, tradirono, a giudizio di Massimiliano stesso, con gli interessi degli Absburgo i diritti della Germania e dell'Impero. L'oratore inglese scriveva di quei giorni al celebre ministro Wolsey: “Se non poniamo riparo alla baldanza francese noi vedremo risorgere in Francesco I un nuovo Alessandro.„ Onerosi da vero quei patti se per poco consideriamo che tutti gli sforzi posteriormente tentati, con le conferenze di Cambray a fine di ricomporre in via diplomatica il turbato equilibrio fra gli Stati italiani, fallirono completamente. Di un più grave e generale disequilibrio era stata inoltre cagione la morte di Ferdinando il Cattolico, avvenuta fin dal gennaio del 1516, e la successione a lui di un giovane straniero e inesperto, chiamato al governo di una nazione non ancor doma dell'assolutismo monarchico, turbava i sonni del vecchio imperatore. Ci sembrarono tuttavia ingiuste le gravi accuse che egli scagliava, dopo la stipulazione di quel trattato contro Guglielmo di Croy signore di Chévres, l'aio di Carlo V, rimproverandolo d'essersi lasciato aggirare a Noyon da Arturo Gouffier il devoto maestro del re di Francia. Se bene in difetto di prove noi crediamo che il principe di Castiglia si dimostrasse verso il suo educatore e ministro assai meno severo.
Stringevanlo a lui forti legami di affetto e di riconoscenza. Deserta delle materne carezze l'infanzia, quando Carlo V uscì dalle cure diligenti di Margherita d'Austria sua zia, e di Margherita di York, la vedova di Carlo l'Ardito, avea trovato nel signore di Chévres un protettore e un amico. Sotto la guida di lui, Carlo V, dotato di un senso naturale singolarissimo, d'una penetrante finezza di spirito, d'una rara energia intellettuale e morale, si era per la prima volta affacciato alla vita. Gli era debitore insomma di quella scienza che non si trova nei libri, e che è perciò più preziosa e più rara. Riflessivo e prudente nel giudicare, cauto e risoluto nell'operare, egli dovea in gran parte ai consigli del suo precettore l'acquisto di quella precoce dignità principesca, che tutti i biografi gli riconoscono. Ma ben più nell'arte di vivere che nella scienza avea fatto il giovine principe meravigliosi progressi. Adriano d'Utrecht, il dotto teologo di Lovanio, che fu poi Adriano VI, non seppe trasfondere in lui alcun amore alle lettere antiche. La pietà del severo fiammingo favorì certo le naturali tendenze ascetiche dell'allievo, non lo rese però gran fatto sensibile alle grandi vittorie dell'arte, che compironsi all'età sua, nè destò in lui eccessivo entusiasmo per il classicismo risorto. Più che il greco e il latino amò Carlo V le lingue viventi; tra le scienze: la matematica, la geografia, e più che tutto si compiacque di conoscere a fondo la storia. Predilesse tra gli antichi scrittori Tucidide, che gli fu noto in una traduzione francese. Gli divennero poi indivisibili compagni de' viaggi, delle imprese di guerra, e conforto prezioso nelle ore delle incertezze e degli scoramenti, due libri: la vita di Luigi XI del Commines, il Principe di Niccolò Machiavelli. Non tra le astratte meditazioni, o nel sepolcrale silenzio di una biblioteca monastica, erasi dunque formato lo spirito di Carlo V, in contatto immediato con la realtà viva del mondo parve quasi ch'egli compisse in Fiandra il noviziato della sua esperienza politica; ma non dal paese nativo di certo egli ritrasse le linee marcate della sua fisionomia morale. All'ambiente storico più vasto, che più tardi lo accolse spettava compiere l'educazione politica e religiosa di Carlo V, e quell'ambiente fu la Spagna, meraviglioso teatro ancora di drammi sanguinosi, e di cavalleresche leggende, la patria di Ximenes, di Torquemada, di Consalvo di Cordova. Strano contrasto! Mentre tutte le nazioni si erano ringiovanite, o ringiovanivano, per una serie di profonde rivoluzioni intellettuali, la Scolastica, la Riforma, il Rinascimento; la Spagna rimaneva indifferente a questo progressivo moto d'Idee. Intrepida amazzone teneva ancora in pugno le armi a difesa dell'altare e del trono, e tra una battaglia e l'altra cantava le proprie vittorie. Le dispute di Abelardo, le dottrine di Ruggero Bacone, la filosofia di S. Tommaso non la commuovono; essa si attiene alla fede tradizionale, s'invanisce e s'inebria di racconti fantastici e storici, burlevoli e pastorali. Non per la Spagna faticheranno i grammatici e i commentatori dell'Umanesimo; essa possiede una lingua bella e sonante, e delle sue romanze si appaga. Prima che lo spirito della Rinascenza conquisti e soggioghi la sua letteratura, all'ideale irrealizzabile del passato presterà ancora le armi, le ricchezze, l'energia che le è propria. Resistente e nemica d'ogni innovazione politica e religiosa, raddoppierà la guardia della sua Inquisizione, diverrà più servile, più devota, a misura che le altre nazioni si emanciperanno; resterà finalmente la nazione superstite del Medio-Evo. Ma tanta forza di resistenza e di reazione gelosa di fronte ai grandi rivolgimenti politici e intellettuali dell'Europa civile, non mosse dalla volontà e dalle profonde convinzioni di un principe. Lo spirito spagnuolo, di cui Ferdinando il Cattolico era stato un esatto interprete, informò il carattere, l'intelletto, la volontà di Carlo di Gand; non impose già egli i proprii ideali a quel popolo. Il conquistatore fortunato di tante stirpi fu alla sua volta soggiogato e vinto, e prima ancora che la sua stella brillasse di sanguigna luce sui campi di Pavia e di Mühlberg, la nazione che lo avea acclamato re, diffidando di lui e della sua schiatta, gli inspirava i suoi proprii entusiasmi, lo rendeva schiavo dei suoi pregiudizii, ravvivava in lui l'ideale di Carlo Magno.
Fatidica da vero l' impresa, che nel celebre torneo di Valladolid del febbraio 1517 assumeva appena diciassettenne il giovane Carlo! Sulla gualdrappa del suo cavallo leggevano i Castigliani, ammirando tanta ricchezza d'oro e di gemme, un motto significato in una sola parola: nondum. Con essa egli forse intese manifestare la sicura coscienza della grandezza avvenire; e due anni appresso, quando appena avea fatta esperienza delle arti dispotiche lasciategli in retaggio dall'avo materno, venne a morte Massimiliano imperatore (12 gennaio 1519).
III.
Indicibile a quell'annunzio l'agitazione e il fermento di tutta Europa. La Germania sembrava ad un tempo un mercato aperto agli stranieri d'ogni nazione, un campo di guerra alla vigilia della battaglia. Dovunque una gara affannosa di promesse e di offerte da gentiluomini che si spacciavano per potenti, e di mercenarii millantatori. Traversavano del continuo il territorio dell'Impero i corrieri di Spagna e di Francia, recanti dispacci alle corti dei grandi elettori, s'incrociavano ad ogni ora gli agenti diplomatici dei due monarchi con le brillanti scorte degli uomini d'arme, dei carriaggi e dei servi. Ritiratosi dal concorso Enrico VIII il defensor fidei, dolorosamente convinto che Leone X giuocava a doppia partita, e incoraggiava le pratiche del re di Francia, questi, vivente ancora l'Imperatore, con larghe profferte di denaro, con promesse di titoli, e laute pensioni s'era guadagnato il voto di quattro elettori. Un ardito gentiluomo, Francesco di Sickingen, fattosi in quei tempi di disordine pubblico, e di sanguinose guerre private, il giustiziere, come dice bene il De Leva, di gran parte della Germania, prometteva al re straniero l'appoggio delle sue armi. Dal romito castello di Ebernburg, dove l'audace venturiero, allievo di Reuchlin, si compiaceva tra una mischia e l'altra di accendere tra gli amici di Wittenberg dispute teologiche e letterarie, venivano del continuo i messi di Francia, e vi ritornavano carichi d'oro. Ma il vecchio Imperatore vigilava quei passi. Nel convegno d'Absburgo rannodava in segreto le fila de' suoi partigiani con un sacrificio di mezzo milione di fiorini. Più tardi persuase il Sickingen a mancar di fede a Francesco I, e a impugnar la spada contro il duca Ulrico del Würtemberg per assicurare col trionfo della lega Sveva, l'elezione di suo nipote. Non l'appoggio incondizionato del papa, che avversava le pretese del re spagnuolo onde avvantaggiare gli interessi Medicei, e per impedire che un re di Napoli, violando la bolla di Clemente IV, salisse all'Impero, non la fede mantenutagli all'ultima ora da Gian Federico duca di Sassonia e dall'arcivescovo di Treveri, garantivano a sufficienza l'elezione di Francesco I. Nè gran fatto giovò alla sua causa l'orazione efficace, persuasiva, solenne, che nella dieta raccoltasi a Francoforte il 18 giugno 1519 pronunziò in suo favore il dotto arcivescovo, sperando dissipare la forte impressione che le brevi parole pronunziatevi dall'elettore di Magonza aveano lasciato su gli animi dei convenuti. “Se noi dovessimo interpretare alla lettera la bolla d'oro, così l'arcivescovo di Treveri, dovremmo escludere come stranieri e Carlo e Francesco. Voi affermate che è titolo sufficiente di capacità all'elezione per il primo il possesso di molte provincie dell'antico Impero, quasichè il re di Francia non sia signore legittimo del regno di Arles, e del ducato lombardo. Ma eleggendo Carlo voi lo sforzerete a ritoglier Milano ai Francesi, e incoraggerete gli Osmani a invadere l'Ungheria. Quando invece s'imponesse a Francesco I l'impegno di non tentare l'acquisto del reame di Napoli e di non violare le frontiere della Fiandra, egli si troverebbe necessariamente obbligato a impugnare le armi contro i Turchi per la difesa della Germania, divenuta per lui la sentinella avanzata del proprio regno.„ Nè l'arcivescovo di Treveri si ritenne, accennando al riconosciuto valore, e alla saggezza politica del re di Francia, e contrapponendola alla giovinezza inesperta di Carlo, di eccitare ancora una volta il geloso sentimento nazionale tedesco, col pauroso sospetto sulla orgogliosa durezza degli Spagnuoli. Se non che questi argomenti, e la proposta che poteva sembrare più saggia, che cioè esclusi i due rivali, la scelta cadesse su di un principe tedesco, non trovarono favore nell'assemblea. Prevalente la lega sveva, compra dall'oro spagnuolo e fiammingo la maggioranza degli elettori, già segretamente proclive Leone X a non intralciare i disegni di Carlo, se eletto, la vittoria così a lungo contrastata, e comprata a così caro prezzo, finalmente gli arrise. N'ebbe notizia Francesco I a Poissy il 3 luglio 1519, e seppe far buon viso a cattiva fortuna. Dicesi anzi che si compiacesse dello smacco patito come di un evitato pericolo, di cui non avesse misurato abbastanza la gravità e la minaccia.
Ma l'elezione di Carlo V all'Impero recava con sè gravissime conseguenze. Turbata la proporzione di forze tra i due rivali, aprivasi di nuovo l'Italia a teatro di guerra, e ne sarebbe stata ancora Milano la preda agognata. Le condizioni imposte a Carlo V dagli elettori, egli avrebbe potuto impunemente violarle perchè mancavano di ogni efficacia coattiva. Distratti i due principi da ambiziosi ed esterni disegni, avrebbero tentato subito d'accrescere il completo assoggettamento dei loro regni ereditarii, soffocando Carlo gli ultimi aneliti della indipendenza politica della Spagna, tenendo in freno Francesco I gli ardori ribelli dell'antica feudalità. Per più di vent'anni la disputata egemonia dell'Europa, derivante dal possesso d'Italia, terrà lontano Carlo V dalla Germania, e le nuove dottrine religiose, incoraggiando le ribellioni dei principati laici feudali, vi troveranno libero il campo ad una espansione feconda. Francesco I ne diverrà per mire politiche l'interessato difensore, provocherà gli Osmani contro l'Impero, arresterà ancora per qualche tempo il trionfo delle armi e delle idee spagnuole, allontanerà la minaccia della reazione politica e religiosa.
Vano sarebbe fantasticare se la elezione del re di Francia avrebbe serbato un miglior destino all'Europa. Più tosto domanderemo a noi stessi se il persistente concetto della monarchia universale cristiana, sopravvivente in contrasto al diritto pubblico della Germania, giustifichi a sufficienza il nuovo e strano spettacolo di una corona così accanitamente disputata fra i due più potenti principi del Cinquecento. Non orgoglio di monarca, non fervore di fede cattolica destavano nel successore di Clodoveo e di Carlo Magno così forte ambizione. Noi dobbiamo scorgerne i fondamenti in quella generale corrente di simpatia, che era stata ausiliaria efficace delle sue prime fortune. Il secolo dell'Umanità e della Rinascenza parve quasi che a lui, interprete degno del suo stesso spirito, volesse affidata la fase della civiltà nuova. Superiorità morale incontrastata, animo aperto ad ogni senso di modernità, ad ogni forma di bellezza classica, i contemporanei ammiravano Francesco I restauratore della dignità nazionale, e benefattore illuminato di un popolo, che trasformando i suoi rozzi costumi, riformando le leggi, educandosi all'arte, perfezionando i metodi della scienza, traeva dalla conquista i vantaggi più duraturi. Già fin d'allora brillava di vivissima luce la corte di Francesco I, e vi trovavano protezione efficace i dotti d'ogni paese. I più coraggiosi preparatori della Riforma, gli umanisti teologizzanti, che circondavano a Wittenberg Martino Lutero, o ne interpretarono il pensiero nelle tumultuose diete imperiali, serbavano per la maggior parte grato ricordo delle scuole francesi, dell'amicizia di quei dotti, della liberalità di quel Re. Gioachino d'Hohenzollern margravio del Brandeburgo, nel compromesso da lui firmato il 17 agosto 1517 a favore di Francesco I, dichiarava che ad impegnare il suo voto per lui lo inducevano sopra tutto la fama, e l' umanità di quel principe, omai nota a tutto il mondo. Omaggio doveroso da vero di un tedesco, già disposto a svincolare la sua coscienza dal dogma cattolico, verso l'amico e il protettore di Erasmo, verso il principe che più tardi fece della Francia un asilo sicuro all'arte e alla libertà italiana.
IV.
Nell'antico castello dei conti Angoulême presso Amboise erasi compiuta l'educazione di Francesco I, e di sua sorella Margherita, che fu poi regina di Navarra. Luisa di Savoia figlia del conte Filippo di Bresse, rimasta vedova giovanissima del conte Carlo di Valois Angoulême, visse lunghi anni coi figli in quel volontario ritiro. Ivi crebbe, vivo ritratto dell'uomo ch'ella avea appassionatamente amato, Francesco I, robusto della persona, pronto d'intelletto, e per indole naturale inclinato ad ogni opera buona e generosa. Qualche anno fa leggevasi ancora in una delle sale di quel castello il motto: Libris et liberis, fattovi dipingere da Luisa negli anni del suo dolore, e quel motto compendia il sacrificio spontaneo di una giovinezza sfiorita senza rimpianto. Dalla libreria d'Amboise sono pervenuti alla Nazionale di Parigi moltissimi codici fatti copiare da Luisa di Savoia per l'istruzione dei figli, e contengono le opere minori del Petrarca e del Boccaccio, l' Epistole di Ovidio tradotte da Ottaviano, di Saint-Gelais, un esemplare della Divina Commedia, e moltissimi romanzi cavallereschi. Nata in Italia, e cresciuta in una corte, dove già era penetrato l'alito del Rinascimento, Luisa volle impartita ai figli un'educazione schiettamente classica. Un dotto abate, Francesco di Rochefort, erudì ne' primi elementi della lingua latina e greca i due giovinetti, mentre la madre chiamava Arturo Guffier signore di Boissy a precettore e a governatore di Francesco. In possesso di una ricca cultura classica i due giovani acquistarono ben presto il più fino gusto letterario ed artistico; più tardi i continui rapporti coi nostri grandi maestri, coi letterati italiani, rifugiatisi alla corte di Francia, perfezionarono la accurata educazione impartita loro dalla madre e dai precettori. Così la affettuosa sorella del Re che i poeti aulici di quell'età chiamarono la Margherite des Margherites, fu in grado di dettare, a imitazione del Boccaccio, l' Héptaméron, e i varii poemetti gentili che le danno fama; e Francesco I anche in mezzo ai disagi delle guerre, e alle preoccupazioni della politica, trovò il tempo e la voglia di sottomettere il suo pensiero al giogo della misura e della rima, emulando le glorie del Jamet e di Clemente Marot. Noi non potremo qui dare un quadro completo della vita di Francesco I negli anni ne' quali Luisa di Savoia, trepidando per il suo avvenire, ma pure intravedendo il destino che gli era serbato, procurò ch'egli acquistasse esatta coscienza del proprio grado e de' suoi futuri doveri. Troppo nota è del resto la storia dei suoi trascorsi giovanili, della sua veemente passione per madama di Chateaubriand, delle sue debolezze per mademoiselle d'Héilly, più tardi duchessa d'Étampes, per non riconoscere che non a torto i contemporanei gli rimproverarono di aver troppo spesso trasgrediti i consigli prudenti della madre, e più tardi sacrificato ai suoi capricci, alle sue passioni, con gli interessi della dinastia la dignità della Francia. Ma certo nei tratti salienti della sua figura morale, ne' suoi entusiasmi per l'arte, nel suo amore per il lusso e per il fasto, nelle sue virtù e nei suoi vizi rimangono così al vivo scolpiti i caratteri stessi di quella società spirituale, che prima che altrove in Italia preannunziò il rinnovamento della vita sociale, ch'egli acquista maggior diritto di Carlo V alla simpatia nostra, se anche pe' molteplici errori, per le funeste titubanze di una politica sleale ed egoistica, per l'abbandono ingiustificato e colpevole, in cui lasciò una gloriosa repubblica moribonda, noi cademmo vittime degli Spagnuoli.
V.
La rivalità tra Francesco I e Carlo d'Absburgo è determinata infatti da un così complicato intreccio di tendenze morali, e di materiali interessi, che non era dato sempre nemmeno ai due antagonisti misurarne le conseguenze. Grave errore sarebbe imputare solo alle cupidigie loro l'asservimento d'Italia, e non riconoscere che noi stessi fummo artefici sconsigliati della nostra fortuna. Di quanto non si sarebbe, ad esempio, ritardato l'urto formidabile, di cui noi soli dovevamo pagare le spese, se i principi e le repubbliche italiane abbandonando la politica sospettosa e fedifraga seguita fino allora, avessero secondati gli sforzi generosi di Enrico VIII e del Wolsey per formare un'alleanza universale tra gli Stati cristiani! Se non che mentre nei campi dei drappi d'oro il Re inglese induceva a miti consigli Francesco I, e minacciava di abbandonarlo se avesse presa l'offensiva della guerra per far rispettare il trattato di Noyon, il Wolsey stesso si lasciava adescare dall'oro austriaco, e Leone X, che più avrebbe dovuto incoraggiare la diplomazia inglese, raggirava tutti con arti tenebrose, e per un fine non sempre evidente ai suoi stessi negoziatori. La difesa della politica imperialista di papa Leone è stata tentata di recente con dottrina pari all'ingegno; ma quante volte non si ammantano di ingannevoli idealità, i documenti ufficiali della diplomazia! Giulio de' Medici ebbe un bel difendere dopo la morte di papa Leone innanzi a Francesco Guicciardini quella complicata tela di raggiri e di frodi, quasichè il pontefice avesse mirato alla salute della penisola. Se egli trattò segretamente con Carlo V, e provocò di nuovo la guerra, dopo aver ampliato, con turpitudini d'ogni maniera, gli Stati della Chiesa, e minacciato il duca di Ferrara, non la preoccupazione del moto religioso in Germania, o le minaccie osmane ve lo aveano indotto, ma la insoddisfatta brama di Parma e Piacenza. La guerra iniziatasi con prosperi successi per la Francia, nei Paesi Bassi, e ai confini di Spagna riuscì a tutto vantaggio degli eserciti confederati imperiale e pontificio. Gli Spagnuoli toglievano Milano al Lautrec il 19 novembre 1521, e pochi giorni appresso ricondotto dalle armi straniere Francesco II Sforza sul ducato paterno, Carlo V pagava al pontefice il prezzo dell'alleanza. Leone X non fece a tempo a misurare la fallacia delle sue previsioni. Sul sepolcro illacrimato che il primo dicembre gli si dischiuse fioccarono gli epigrammi, sghignazzò Pasquino durante il conclave, e i clienti arricchiti dalla Curia romana, durante il lungo tripudio carnevalesco del papato Mediceo, perdettero gravi somme accettando favolose scommesse sul nome di Giulio de' Medici, che non raccolse i suffragi. L'eletto fu Adriano d'Utrecht, il precettore di Carlo V. Alle tanto temute influenze francesi si sostituivano le più caute e pazienti della cancelleria spagnuola, e l'Imperatore rallegravasi di quella scelta, come di una vittoria sua propria. Ma quale eredità non avea lasciata al successore Leone X! Il severo fiammingo, che la ripudiò con disdegno, apparve alla Roma rediviva dei Cesari come un fantasma pauroso e grottesco. Sparve dal Vaticano lo sciame dei parassiti e dei cortigiani, sospesero le abbozzate pitture gli scolari di Raffaello; e il solitario pontefice in odio al popolo per la sua avarizia, ingannato e deriso da cardinali beffeggiatori, logorò la vita infelice, proseguendo un ideale irrealizzabile di restaurazione morale, politica e religiosa. La fioca voce di Adriano VI morente, era soffocata dal fragore delle armi proprio allora che la guerra si riaccendeva più aspra che mai in Sciampagna e in Piccardia, e la vittoria della Bicocca (dell'aprile del 1522) avea già assicurato il possesso di Milano ad un principe ligio ai voleri di Carlo V. Con nuovi e insperati successi questi raccoglieva il frutto delle due leghe conchiuse coi Veneziani, col papa e con gli Stati minori d'Italia. Respinta nel 1523 l'invasione del general Bonnivet, sgombrata ancora una volta la Lombardia dai Francesi, perchè non avrebbe egli dato ascolto alle sollecitazioni del duca Carlo di Borbone, il ribelle feudatario di Francia, che lo stimolava a penetrare in Provenza, a congiungere le forze tedesche alle spagnuole, a marciare direttamente su Lione per strappare dal capo del suo avversario la mal difesa corona? Se non che la spedizione della Provenza del 1524 non fu più avventurata delle successive. Il duca faceva affidamento sul concorso de' suoi partigiani, e l'odio così gli accendeva la fantasia da non scorgere che ribelli nei popoli devoti e affezionati alla casa di Valois. Onde gravissimi dissapori tra lui e il marchese di Pescara, che sotto le mura di Marsiglia, mirabilmente difesa dalla flotta francese capitanata da Andrea Doria, vedeva dolorosamente svigorirsi l'esercito dell'Impero. Durava ancora l'assedio quando giunse al campo notizia che il re di Francia ritentava in persona l'impresa d'Italia. “Chi vuol cenare all'inferno, esclamò il marchese di Pescara, torni pure all'assalto, ma chi vuol salvare a Cesare la Lombardia farà bene a seguirmi.„ Il progetto della rivincita torturava da lungo tempo l'animo di Francesco I; il tradimento infame del duca Carlo di Borbone non fece che ritardarne l'esecuzione. Le serie obbiezioni del La Tremouille non valevano meglio delle preghiere e delle lacrime di Luisa di Savoia per distogliere il re dall'affrettata deliberazione. Il 12 agosto del 1524 nel castello di Gien sulla Loira egli affidava la reggenza del Regno alla madre, e prendeva commiato dalla regina Claudia, dalla sorella, dalle dame della sua corte. Pochi giorni appresso muoveva da Avignone per la Liguria, inseguendo gli Imperiali, che aveano levato a precipizio l'assedio di Marsiglia, e il 20 ottobre passava il Ticino. Milano, spopolata dalla peste, priva d'armi e di denaro, per consiglio di Girolamo Morone gli apriva le porte il 24, e sulla fine del mese il maggior contingente dell'esercito vittorioso, per improvvido suggerimento del Bonnivet, concentravasi sotto le mura dell'infausta Pavia. Chi avrebbe mai preveduto, dopo una così rapida restaurazione delle sorti francesi, la catastrofe del 24 febbraio 1525, la morte sul campo del Bonnivet, del La Palisse, del La Tremouille, la rovina di tanta parte della feudalità francese, l'umiliazione e la prigionia del re? Non ne indagheremo le molteplici cause; ma certo l'immane disastro colpì come fulmine, e disarmò i principi italiani delle speranze fin allora nutrite di rialzare la parte francese per salvar la penisola dalla minacciata soggezione spagnuola. Nel vecchio e pur inevitabile errore di associare alla fortuna di un re straniero le sorti d'Italia ricadevano ben presto il pontefice, i Fiorentini, Venezia. La tela delle simulazioni e degli inganni con tanto accorgimento tramata da Leone X ai danni della Francia, si ritesseva ora a rovescio, e con minore risolutezza ed energia dal nuovo pontefice Clemente VII. Nemici a lui i Colonnesi, fedeli a Cesare, insofferenti del giogo mediceo i Fiorentini, Clemente VII acquetava quelli dandosi a credere legato ancora a Carlo V dai vecchi patti, appagava questi con false promesse di liberali riforme nel reggimento politico di Firenze, che illudevano i nostri politici, non avvezzi più a limitare l'acuto sguardo entro la ristretta cerchia degli interessi cittadini, ma preoccupati della salute d'Italia. Resistere a Carlo V significava inoltre per il pontefice non impegnare la Chiesa romana in riforme dogmatiche e disciplinari, che ne offendessero le tradizioni, ne minacciassero gli antichi diritti, spogliassero il papato del principato terreno. Gravi preoccupazioni politiche ispirate talvolta ad una idealità di principî, che lasciavano fredde e indifferenti le moltitudini, persuadevano la repubblica veneta a secondare il nuovo indirizzo della politica pontificia. Riconquistato faticosamente il dominio di terraferma, usurpatole dai collegati di Cambray, Venezia acquistava ogni giorno più la coscienza della sua italianità. Estranea per lunghi secoli alle dolorose vicende della penisola, essa offriva all'ammirazione della scienza politica l'organismo meraviglioso della sua costituzione interna proprio allora che dai Principati e dalle sopravvissute repubbliche, impotenti a risolvere il problema politico, le derivarono i benefizi della progredita cultura, e i doni preziosi dell'arte rinnovellata. Se non che i generosi sforzi della Repubblica non impedirono che da funeste titubanze, e da diffidenze reciproche non rimanesse impacciata l'opera nostra. La congiura del Morone incautamente condotta, riuscì a tutt'altro fine da quello che se n'era sperato: accrebbe la impotenza personale di Francesco Sforza, svelò il putridume di corrotte coscienze, rese più che mai sospettosa la vigilanza degli Spagnuoli. Dopo il trattato di Madrid, che immobilizzava le forze francesi, e più che mai turbava il già spostato equilibrio, l'Italia sentì più grave il peso dell'oppressione, e accedendo alla lega di Cognac e alla politica inglese, sembrò con un ultimo sforzo risollevarsi dal letto del suo dolore. L'idea generosa di una riscossa ispira la prosa ufficiale del Wolsey, infonde nuovo calore alle lettere diplomatiche del Datario Ghiberti, conforta di pietose illusioni lo spirito travagliato di Niccolò Machiavelli. Ma la Niobe delle nazioni non fece che esporre a nuove e mortali ferite il corpo già flagellato. Piombaronci addosso le coorti indisciplinate del Borbone, i fanatici lanzi del Frunsberg corsero le terre desolate ed arse, traversarono le città spopolate le genti fameliche del Lautrech. Invano il pontefice abbandonato dai Fiorentini, maledetto a Venezia, mancando agli impegni, sconfessava l'opera propria, e implorava misericordia dai nemici furenti. Ministri dell'ira celeste i Tedeschi compivano, col sacco di Roma, il vaticinio di Ulrico di Hutten, detronizzavano il papa, restituivano i diritti su Roma all'Impero, spegnevano la podestà temporale del sacerdozio, preannunciavano al germanesimo sulla risorta civiltà latina una nuova vittoria. Condannò Erasmo, che pur l'avea preparata con l' Elogio della Follia, la rovina di Roma. Ne consacrarono in noiose elegie il funesto ricordo i poeti latineggianti cresciuti alla scuola del Sadoleto e del Bembo. Anticipazione violenta di una legge fatale, il significato storico di quell'orgia di sangue, rimase per gran parte ignoto ai contemporanei, a Carlo V stesso, che non avea voluto impedirla. Sorpreso anch'egli dall'immane disastro, che scompigliava le sue previsioni, ne rendeva responsabile il suo avversario, violatore del trattato di Madrid, ne cercava le cause nella subdola politica inglese, nelle sfrenatezze delle plebi e degli eserciti, nella cupidigia insaziabile del papato. Ma come dissimularsi che il tremendo castigo non fosse commisurato alle colpe di papa Clemente! Come non riconoscere che per punirlo egli si era fatto complice dello spirito ribelle della nazione germanica, e che a lui solo come capo del mondo cristiano, ed erede di Carlo Magno, spettava invece reprimerlo e soffocarlo per salvare l'unità della fede? Gli amari rimproveri che il re di Francia, quasi assumendo di fronte a lui la tutela del mondo cristiano, gli scagliava contro, crucciavano il suo animo esacerbato. Più grave si faceva per Carlo l'imbarazzo di uscir con onore da una situazione pericolosa, più temeva il rischio di dover scendere a patti coi Luterani, di non trarre dall'alleanza imposta al Pontefice proporzionati vantaggi, più sentiva ridestarsi in petto formidabile l'odio contro il rivale che non appena libero dalla prigione, mancando alla fede data, lo avea di nuovo trascinato alla guerra. Il linguaggio di Carlo V verso l'avversario, che forte dell'alleanza di Enrico VIII proponeva condizioni di pace inaccettabili, passava oramai i limiti della convenienza, colmava ogni misura. E così proprio allora che la grande lotta sembrava perdere ogni carattere personale e rappresentare un urto formidabile di principî politici e di tradizioni opposte, i due rivali pensavano di deciderla in campo chiuso, e con le armi alla mano. Il sovrano della più cavalleresca delle nazioni sfidava il re cattolico a singolare tenzone, ed il duello avrebbe offerto un episodio di più al tragico dramma se Carlo V avesse saputo moderare le ingiurie, dopo la sfida.
VI.
Del famoso cartello diede lettura Giovanni Robertet nella solenne adunanza del 18 marzo 1528, in cui il Re, assiso sul trono, e circondato dai principi del sangue, dai gentiluomini della corte, dai cardinali, e dai grandi signori del Regno, riceveva in visita di congedo Nicola Perrenot signore di Granvelle, l'ambasciatore di Carlo V. In quella veemente scrittura rimproveravasi l'imperatore di aver rifiutate sdegnosamente le proposte di pace, e giustificavasi il deliberato proposito di continuare la guerra, ricordando con vivaci espressioni le rapine d'Italia, il saccheggio di Roma, la invasione della Germania. “Se ritenere i miei figli ostaggi a Madrid, aggiungeva Francesco I, esigere, prima ancora che mi sieno restituiti, ch'io abbandoni i miei alleati, aver fatto prigioniero il Pontefice, vicario di Dio su la terra, aver offesa la religione, lasciata aperta la Germania ai Turchi, tollerato il trionfo dell'eresia, se tutto ciò, dico, non basta, io non so più quali ingiurie e quali ragioni potranno mai provocarmi, offendermi nel sentimento di padre, richiamarmi ai doveri di Re Cristianissimo.... E poichè voi mi accusate di aver commessa azione disdicevole a un gentiluomo, che abbia sacro l'onore, noi vi rispondiamo che mentite per la gola, e mentirete ogni volta che oserete ripeterlo. Siamo deliberati a difenderlo sino all'estremo di nostra vita. Non una parola ingiuriosa di più.... assicurateci il campo, noi vi porteremo le armi. Quando si viene al cimento doveroso è il silenzio.„ Ma il silenzio, com'è noto, fu rotto dalle nuove ingiurie di un cartello di risposta, di cui fu latore alla corte di Francia l'araldo spagnuolo Bourgogne. Francesco I, che al suo avversario chiedeva la sicurtà del campo, e non altro, non volle lasciarsi offendere impunemente una seconda volta, licenziò dalla corte l'araldo, nè più lo ammise alla sua presenza. Il De Leva non crede che l'Imperatore abbia mai preso sul serio la sfida, onde è probabile che ricambiando il cartello, e rincarando la dose delle provocazioni, intendesse di togliere all'avversario ogni pretesto di nuova querela. Su la strana vertenza si fecero infiniti commenti; si accusava in Spagna Francesco I d'aver evitata la prova con sotterfugi disonorevoli, rimproverava la nobiltà francese l'Imperatore di aver violato pensatamente le consuetudini cavalleresche per trarsi d'impaccio. Ma come non vedere che entrambi preferivano che il duello continuasse a combattersi tra le nazioni, e ne fosse ancora la Lombardia il campo fatto sicuro dalle cime nevose delle Alpi?
VII.
Se non che la fortuna delle armi non proteggeva la Francia. Armeggiava ancora intorno a Milano il Saint-Pol, diradavansi ogni giorno più pel contagio le file dell'esercito del Lautrec, e gli alleati che avrebbero dovuto coadiuvare quegli sforzi, mancando agli impegni, correvano dietro ai loro interessi. Andrea Doria abbandonava la parte francese; i duchi di Ferrara e di Milano, nel timore di perdere lo Stato, si umiliavano a Carlo V; Venezia, che per i suoi possedimenti di Puglia sospettava ragionevolmente e Francia e Spagna, schermivasi dagli obblighi assunti, e per mantenere Cervia e Ravenna ritolte alla Chiesa, alienavasi il Papa; questi, sacrificando tutta Italia agli interessi temporali della Chiesa, e alla grandezza di casa sua, s'accostava segretamente all'Impero. La pace che Francesco I avea poco innanzi rifiutata con superbo disdegno bisognava ora accettarla a durissime condizioni. Ne fu principale negoziatrice a Cambray di fronte alla scaltra zia di Carlo V Luisa di Savoia, madre del Re, e sul suo capo piovvero improperii d'ogni maniera. Un sonetto audacemente satirico si diffuse, durante il convegno da Venezia, per tutta Europa, e nelle nostre corti, facendo eco ad un popolo moribondo, cantarono in rima i buffoni la vigliaccheria del Re, di sua madre, dei ministri regi. Eppure l'ultimo e solenne atto diplomatico, cui partecipò Luisa di Savoia, se bene foriero di nuove calamità alla penisola, trovò un difensore in un fiorentino e repubblicano per giunta, Baldassare Carducci. L'oratore della Repubblica, ricostituitasi nel 1527 durante la prigionia del Pontefice, giustificava innanzi alla Signoria la debolezza del Re affermando che si era lasciato indurre a firmare l'umiliante trattato per soddisfare alle lacrime di sua madre. Luisa di Savoia avea voluto salvi dagli insulti degli Spagnuoli i proprii nipoti; nè sono mai vili le lacrime di una donna in difesa del proprio sangue! Quanto più vile di quelle lacrime il sentimento di vendetta che contro la patria animava in quei giorni Clemente VII! Non la gelosa difesa del mondo cristiano, non la salute d'Italia, ma l'odio contro Firenze lo conduceva a Bologna incontro all'Imperatore, dopo aver stipulato con lui il segreto trattato di Barcellona, nell'ottobre del 1529; e in quei mesi di feste clamorose e di tripudii carnevaleschi, circondato dalle giovini speranze della sua casa, egli ne vagheggiava la grandezza futura sulle rovine fumanti della debellata Repubblica. Il vero significato dell'accordo e dell'incoronazione di Bologna sfuggiva infatti ai più forti intelletti di quell'età, e ben pochi sospettavano nella eroica resistenza di Firenze alle armi coalizzate della Chiesa e dell'Impero il trionfo di un'idea santa. Sino dall'aprile del 1529 Claudio Tolomei avea dato alle stampe la sua ampollosa orazione sulla pace; poco appresso inneggerà all'Oranges con la nota e turpe canzone; altri sognerà la restaurazione dell'Impero; Girolamo Casio, il rimatore cortigiano agli stipendii dei Medici, dei Bentivoglio, dei Gonzaga, diffonderà sonetti in lode dei potenti, in biasimo dei morituri. Non mai così profondo e insanabile apparve il dissidio morale della società italiana come in quel solenne momento. Le gentilezze cortigiane di quell'età si erano date convegno a Bologna a ricuoprire del loro splendore le turpitudini della politica. Tutta la fazione oligarchica fiorentina e la clientela di casa Medici tripudiava nella monumentale città, proprio alla vigilia della catastrofe di Firenze. Le forze molteplici, che più efficacemente concorsero alla rovina delle libertà democratiche del Medio-Evo, si erano venute per gran parte educando nelle corti signorili e nei principati. Nella stessa Firenze, dove pure il privilegio politico di una democrazia faziosa e tirannica, più a lungo prevalse, con la rapida trasformazione del costume e delle idee politiche del passato, col progresso dell'arte, con l'abbandono della fede, ogni giorno più grave si era manifestata la disparità degli ideali e degli interessi tra le alte classi sociali ed il popolo. Qui più evidente che altrove il contrasto doloroso tra una vita politica, impacciata tra le vecchie forme di uno Stato ristretto, insofferente d'ogni eguaglianza civile, ed un moto progressivo di idee feconde. Qui l'ampliarsi del concetto di libertà e di patria, qui il sorgere dell'arte di Stato, e di una scienza politica sperimentale, qui la prima ed eccezionale intelligenza delle leggi che regolano la pubblica economia.
Lungi da me il pensiero sacrilego di attenuare l'alto valore morale di quell'audace resistenza, dalle cui gloriose memorie attinsero i padri nostri gli esempi del sacrificio, e trassero la ispirazione della nuova fede; ma certo il memorando assedio non ci apparisce soltanto come una legittima difesa della libertà immolata alle cupidigie di un Papa vendicativo, e alle voglie tiranniche di un Imperatore protervo, ma ci si presenta pure come un'inconscia reazione popolare al rinnovamento civile che pure in mezzo alla spaventosa depravazione delle coscienze, maturavasi nel pensiero italiano. L'illusione nostra fu di credere, che divenuto fra noi impopolare Francesco I, se ne facesse interprete un principe straniero, cattolico, e spagnuolo per giunta. Mentre si ribadivano in ogni parte d'Italia, dopo la caduta di Firenze, le catene della servitù, noi cacciavamo dalla mente come importuno il sospetto che noi potessimo più liberarcene. Si hanno infinite prove dell'inganno, in cui caddero i migliori intelletti sulla avvenuta restaurazione degli Sforza a Milano, sul titolo di duca concesso al marchese Gonzaga, sulla costituzione promessa da Carlo V di uno Stato nuovo ed indipendente nel centro della penisola, a favore di Alessandro de' Medici. Tra i fautori di lui non ritroviamo solo i beneficati clienti della sua casa, o i Palleschi d'antica fede, ma altresì quei Fiorentini “grandi„, che offesi e ripudiati dal popolo, traevano dalle prevalenti dottrine politiche la persuasione che la indipendenza dello Stato non potesse oramai garantirsi che con la costituzione di un Principato.
Ed ecco innanzi alla maestà di Carlo V, reduce nel dicembre del 1535 dall'impresa di Tunisi, osare in Napoli l'apologia del nuovo governo mediceo Francesco Guicciardini, illuso ancora di restaurare l'opera propria guastatagli da cortigiani corrotti e da un principe inesperto e libertino; ed eccolo nel corteo dell'Imperatore già acclamato dalle plebi di Napoli e di Roma, il primo maggio del 1535, entrare anch'egli solennemente nell'asservita città. Nelle vie decorate dai suntuosi apparati di Giorgio Vasari, di Baccio d'Agnolo, di Rodolfo Ghirlandaio s'assiepa anche qui il popolo plaudente e oblioso delle ingiurie recenti. Non Firenze sola, ma l'Italia tutta s'acqueta in un vano ideale di pace politica e religiosa, che prepara la servile soggezione alla Spagna, e la schiavitù del pensiero. Quando la lotta sta per riaccendersi tra Carlo V e Francesco I, in séguito alla morte dell'ultimo Sforza, noi sembriamo quasi spettatori indifferenti al nuovo atto del dramma, che sta per svolgersi. Se gli esuli fiorentini, genovesi, napoletani, per riguadagnare la patria, ridestano nel re di Francia le sopite ambizioni, come non va assottigliandosi il numero degli epigoni, e non rimane isolata ed incerta l'opera loro! — Carlo V non peccava d'orgoglio se alla vigilia di riprender le armi, nell'estate del 1536, prorompeva in feroci invettive contro l'avversario, ed esortava Paolo Giovio a temperare l'aurea penna, a perpetuo ricordo delle sue gesta. Non l'errore infatti di invadere una seconda volta la Provenza, non la perdita irreparabile di Antonio de Leva, durante quella disastrosa campagna, non i brillanti successi dei mercenari di Guido Rangone, e delle schiere dei fuorusciti in Piemonte bastavano a scuotere la sua potenza in Italia. Fallite ai Francesi le speranze di sottrarre Genova alla signoria di Andrea Doria, sgominati e distrutti da Cosimo de' Medici gli esuli fiorentini nella giornata di Montemurlo, se si eccettua Venezia, gli altri Stati italiani gli erano generosi di obbedienza e di aiuto. Non per così poco avrebbe l'Imperatore investito, come pur tante volte promise, un principe d'Orleans del ducato Lombardo!
Se non che la politica francese tendeva a prendere un indirizzo più audace e risoluto. Per un calcolo di opportunismo Francesco I ostentava a riguardo dei Riformati quell'illuminato spirito di tolleranza, di cui non sempre godettero i benefizi i suoi sudditi, e segretamente stimolava i Turchi ad offendere il litorale del regno di Napoli. E perchè non avrebbe egli, nell'impotenza di rannodare le mal fide alleanze con gli Stati italiani, stimolato lo spirito di conquista di Solimano II, e incoraggiata di consigli e di soccorsi la lega Smalcaldica! — La riforma germanica, abilmente sfruttata per tenere in freno il papato, diveniva oramai uno strumento pericoloso per Carlo V. Sin dal 1529 nella dieta di Augusta i Protestanti aveano osato affermare, per bocca del Melanctone, le loro credenze. Necessitato a valersi delle forze riformate contro i nemici di Cristo, pentivasi amaramente delle passate tergiversazioni, e faceva sua la sentenza: che in materia di religione non c'è parola che tenga. La vittoria di Cappel de' Cattolici su gli Zwingliani finì per persuaderlo che solo col ferro e col fuoco si sanano le cancrene dell'anima. Giovavagli tuttavia esperire per qualche tempo ancora le vie pacifiche, e perciò rimaneva fermo nel pensiero di un concilio universale, che spauriva il pontefice, e non lo mostrava apertamente avverso alla riforma germanica. La convocazione infatti di un concilio turbava i sonni dell'incerto pontefice. Estremamente geloso del prestigio del papato, e degli interessi temporali della Curia, Clemente VII, mentre si dava a credere zelantissimo di una riforma disciplinare, impacciava di fatto le pratiche di Carlo V, e negli ultimi anni della sua vita infelice si riaccostava alla Francia con le ambiziose nozze di sua nipote col duca d'Orleans. — A battere la stessa via ma con più vigilante scaltrezza inducevano Paolo III Farnese, successore di Clemente, più alti ideali. Divenuta inconcepibile e assurda la ricomposizione dell'unità della fede, da che la Riforma, come torrente impetuoso, dilagava ovunque, e minacciava la Francia e l'Italia, come non avrebbe egli preferito affidare l'opera della restaurazione del cattolicismo a Francesco I, fedele ancora all'alleanza inglese, più tosto che a Carlo V, che signore di tanta parte del mondo e oppressore d'Italia, risognava la monarchia universale di Cristo! Pensava egli in tal modo a tutelar meglio coi presunti diritti del Papato le ambizioni del figlio, e dei nipoti, e se queste non lo avessero trascinato a scambiare i mezzi pei fini di una politica delittuosa, l'idra funesta della reazione avrebbe forse tardato a intristire il mondo. — Solenne momento per Paolo III la riconciliazione a Nizza dell'Imperatore col Re; i due instancabili avversari deponevano simultaneamente le armi, e quella effimera pace, consacrata dalle benedizioni sacerdotali, sembrò una nuova tregua di Dio. Per debellare Gand attraversava Carlo V la Francia, e alla proverbiale lealtà di Francesco I affidava nelle delizie di Fontainebleau e di Amiens, la sua persona e il suo onore. Chi avrebbe mai sospettato, dopo quel compromesso, che dovea ridonar per dieci anni la pace all'Europa, così prossima la ripresa delle ostilità, così impetuosa ed audace l'ultima aggressione de' Francesi in Piemonte! Ma nè dalla scienza del duca di Henghien, vincitore a Ceresole, nè dall'eroismo di Piero Strozzi, nè tanto meno dalla congiunzione dei gigli d'oro con la mezzaluna nelle acque di Nizza provennero gli unici vantaggi territoriali che il trattato di Crepy assicurava alla Francia. Alleatosi ancora una volta all'Impero il re d'Inghilterra Enrico VIII, in lite col Papato per il negato divorzio, con Francesco I per le faccende scozzesi, la nazione rispose con nobile slancio all'appello regio, e con la ostinata difesa della Piccardia e della Sciampagna invasa dagli Imperiali e dagli Inglesi, salvava la monarchia. — Come in ogni modo doloroso per il cuore del Re l'epilogo di una lotta, durata più di venti anni! La forte e bellicosa nazione, che sembrava destinata a tener lungi dalla classica terra i profanatori superbi, abbandonava il mondo cristiano alla mercede di un principe oltrepotente, che fatto più sicuro del papato romano, alle tradizioni dinastiche, allo spirito d'intolleranza, alle paure della coscienza sacrificherà le conquiste della civiltà, guadagnate a prezzo di sangue.
VIII.
Prima e più largamente che altrove dall'Italia, che n'era stata la culla, se ne diffuse la luce alla corte di Francesco I. Che se il soffio della reazione, negli ultimi anni del regno di lui, preannunciò il turbine delle guerre civili, quale trionfo non ottenne in Francia sotto gli auspici del Re, lo spirito della Rinascenza! Giovanni Battista Strozzi, che passò l'inverno del 1537, a Parigi, e frequentò le sale del Louvre, quando ancora decoravano esternamente il severo palazzo, nell'imitazione dell'arte nostra, Giovanni Goujon e Paolo Ponce, scriveva a Filippo Strozzi: “Io mi trovo presentemente alla corte, dove non si fa altro che giostre, balli, banchetti e maschere, e pare il vivere d'Ottaviano.„ Fra le dame che la abbellivano: Caterina de' Medici, le amanti del re e del Delfino, la figlia del re, vigilava, pur sempre come angelo tutelare, Margherita di Navarra. Alle sue rare virtù, al suo virgineo candore, alla sua ricca cultura rendevano omaggio con eleganti epigrammi il Marot, il Ronsard, l'Alamanni, lo scettico Rabelais. Margherita, che si piaceva d'intrattenere le dame con la lettura dell'Amadigi, o del Boccaccio, quante volte non la interruppe per la Divina Commedia e per la Bibbia! Rivaleggiava con lei nel commentar Dante Gabriele Cesano, lei vide spesso col séguito delle sue damigelle nel laboratorio del Petit-Nêsle Benvenuto Cellini, corrispondevano con lei, animati dal suo stesso fervore religioso, Erasmo, Marc'Antonio Flaminio, Olimpia Morato. — E quel re bellissimo dall'occhio vivo e penetrante, che pur tanto amava le caccie, i balli, la compagnia con le amabili dame, che viaggiava con un traino di 10,000 cavalli, e vestiva sontuosamente, divideva i gusti e le inclinazioni della sorella. Il Rosso fiorentino e il Primaticcio gli decoravano il castello di Fontainebleau, il Cellini lo entusiasmava colle sue mirabili fusioni in argento, e metteva a cimento coi suoi capricci sovrani d'artista la sua pazienza, lui circondavano gli esuli fiorentini, che dalle nostre corti e da Venezia, ricevitrice d'ogni miseria, teatro meraviglioso del mondo, recavano in Francia le novità della moda, le raffinatezze della vita, le meraviglie dell'arte. — Contro le intemperanze dei teologi della Sorbona, che finirono per forzare la mano al Re contro gli eretici, battagliavano gli umanisti, amici di Erasmo, di Ulrico di Hutten, di Reuclin, e per opera del più attivo tra essi sorgeva in Parigi una università nuova: il Collegio di Francia. Gli studii severi del Budeo, del Dolet, dello Stefano non escludevano le creazioni geniali e grottesche del Rabelais. Egli che avea temprato ed educato in Italia, in mezzo ad una società più colta e più scettica della francese, il sentimento dell'arte, ne tentava proprio allora la felice caricatura. Raffigurasse o no Francesco I in Gargantua, la satira rabelesiana non si arresta certo alla canzonatura del re e della corte. Ricco teatro pe' tempi suoi di figure grottesche, il più burlevole e pazzo poema d'ogni letteratura, preannuncia sotto il velo allegorico le grandi riforme dell'avvenire.
IX.
Quanto diversa da quella di Francesco I, cui faceva capo così ricca fioritura d'arte geniale, la corte di Carlo VI! All'accesa fantasia d'uno dei più potenti coloritori dell'età nostra, essa riapparve nel giorno memorando, in cui la popolazione d'Anversa accolse festante l'Imperatore. Ma in quel quadro magistrale, che è tutta una festa di colori e di forme, Hans Makart non commemora Carlo V, ma scioglie un inno di gloria alle grazie femminili, all'eleganza del costume fiammingo! Per cogliere in qualche modo il carattere della corte imperiale non saprei immaginarmela che il giorno funesto, in cui il vincitore di Mühlberg, tristo e affranto dalla podagra, per sottrarsi alle insidie dell'elettor di Sassonia, lasciò improvvisamente Innsbruck, e traversata in lettiga, tra i rigori del verno, la Germania ribelle, raggiunse faticosamente le Fiandre. Nello scompigliato disordine di quella fuga precipitosa, noi possiamo raffigurarci quasi compendiate le trepidazioni, le ansie, i sospetti, che tormentarono, per lunghi anni, i ministri regi, i grandi prelati, i gentiluomini spagnuoli del séguito di Carlo V, nei disagiati viaggi ch'egli intraprese senza riposo da un capo all'altro del vasto Impero, per raffermare spesso una sovranità, che rafforzata oggi s'infiacchiva domani, e a cui le vittorie non giovavano meglio delle sconfitte. Tribù zingaresca di soldati feroci, di cortigiani servili, di frati fanatici, la corte di Carlo V finì per sdegnare le agiatezze della vita galante, il divino sorriso dell'arte. In essa si rispecchiò mirabilmente lo spirito d'una nazione, che alla gloria delle armi e al trionfo della fede sacrificava allora ogni altro ideale. E quale la corte tale il Principe. Di statura mediocre, pallido in volto, occhi insignificanti, naso aquilino, la sporgenza della mandibola inferiore e la prolissità del mento aggiungevano ai tratti della sua fisionomia una naturale severità. Di complessione robusta e fortificata da continui esercizi, Carlo V amava le armi, e i cimenti delle battaglie. Melanconico d'indole, modesto nei modi, e nelle vesti, parlava poco, e lentamente. Profondamente religioso, più tosto avaro che liberale, nemico d'ogni voluttà e d'ogni fasto, disamabile, talvolta vendicativo, egli ci apparisce quasi l'antitesi vivente dell'emulo suo. — Così la gigantesca lotta, combattutasi tra i due principi, potè sembrare ai contemporanei e a loro medesimi originata e nutrita in gran parte da odio personale, da rivalità dinastiche, da insaziata brama di gloria. Stipulato il trattato di Crepy, Carlo V fors'anche s'illuse d'aver finalmente in pugno la sospirata vittoria; ma i due campioni scesero, secondo noi, nel sepolcro nè vincitori nè vinti. La scomparsa dalla scena politica di Francesco I non impedì alla Francia di proteggere ancora i Principi protestanti della Germania, di coltivare in segreto l'alleanza coi Turchi; la soggezione miseranda d'Italia non disarmò i successori di Paolo III di quei sottili artifizi, coi quali fino allora aveano moderato la politica dell'Impero. Quante volte Carlo V, nella solitudine di San Giusto, non dovè ripensare alla fallacia delle previsioni umane, e se è vero ch'egli raramente ingannavasi nel pronosticare l'avvenire, come afferma Marino Cavalli, come tristi e sconsolati gli ultimi giorni della sua vita! Non l'alleanza col Pontefice, non il concilio di Trento, non l'umiliazione della Francia, non i roghi fumanti in tanta parte de' suoi dominii, non la rovina politica dell'Italia varranno a restaurare un passato senza ritorno, e tanto meno a fermare il corso del pensiero umano. — I vinti di Mühlberg, minacciosi ad Augusta, trionferanno a Münster in Westfalia, e prima che da per tutto si udrà dalla Francia, che lo spirito spagnuolo avea pure abbandonato al demone della tirannide religiosa, una voce di pace, promettitrice di libertà. Certo a Carlo V, non fu negato di assicurare per lunghi anni alla casa d'Absburgo e alla Spagna l'egemonia politica sull'Europa, non gli fu tolto di iniziare la restaurazione dell'edificio crollante del Cattolicismo; ma non era questo soltanto, signore e signori, il sogno luminoso della sua giovinezza.
LA RIFORMA IN ITALIA
DI
ERNESTO MASI.
Nel marzo del 1536 due giovani Francesi, partendo da Basilea, sotto finto nome e travestiti in modo da non dare nell'occhio e da non destare sospetti, attraversavano le Alpi al passo fra Coira e Chiavenna e pei territori della Repubblica di Venezia fra l'Alpi ed il Po s'avviavano a Ferrara.
I loro nomi veri erano Luigi du Tillet e Giovanni Calvino.
Questi aveva allora allora pubblicato a Basilea il suo libro, divenuto poi famosissimo, della Instituzione Cristiana e senza indugio s'era in compagnia del Du Tillet allontanato da quella città.
La ragione di questo viaggio del celebre riformatore c'è data da Teodoro di Beza, il suo biografo, quegli che Calvino chiamava la perla dei suoi amici, il compagno indivisibile degli ultimi anni della sua esistenza, l'uomo fra le cui braccia Calvino morì, e c'è data con poche parole e per verità poco chiare. Dice in sostanza, che, pubblicato il suo libro, Calvino desiderò visitare la Duchessa di Ferrara, di cui tutti vantavano allora la somma pietà, e salutare alla sfuggita l'Italia. Venne, confermò, per quanto potè in quella fretta, la Duchessa ne' suoi buoni propositi e se n'andò. Nelle confidenze, che faceva al Beza, Calvino soleva anzi dire: “ in Italia non ho fatto altro che entrare ed uscire! „
Tuttociò può parer strano, sebbene sia in realtà semplicissimo, e forse nessuno n'avrebbe fatto caso, se non si trattasse d'un gran nome, come quello di Calvino, perchè tutti possiamo trovare in noi stessi il ricordo di qualche viaggio sconclusionato, senza che altri si metta a fantasticare e a crearci sopra un romanzo.
Ma poichè si trattava di Calvino, questo suo viaggio in Italia divenne a poco a poco il soggetto di mille lucubrazioni le più diverse ed opposte, in forza delle quali ora si complicò e s'ingigantì fino alle proporzioni d'un grande avvenimento storico, ora s'impicciolì e si restrinse a segno da dover all'ultimo domandarsi: “è venuto in realtà Calvino in Italia? o non se l'è mai neppure sognato?„
Perocchè la critica recò grandi benefici (chi potrebbe dubitarne?), ma è pur vero che se su certe questioni storiche piglia l'aire, non si suole fermare a mezzo e ricostruisce o scrolla tutto con una facilità talmente sbalorditiva, che incrociar le braccia e mettersi meditabondi a sedere fra le due corna del dilemma d'Amleto: essere o non essere, pare ed è alle volte la conclusione più scientifica e sempre poi l'atteggiamento più degno di chi niente niente la pretenda a scienziato.
Su questo viaggio di Calvino in Italia, il quale per lungo tempo non ebbe altra testimonianza nota che quella del Beza, abbiamo quindi una prima versione, la versione ricostruttrice, e s'incomincia dal farlo venire non nel marzo del 1536, bensì nell'autunno del 1535 per aver più larghezza di tempo disponibile, in cui collocare un maggior numero d'avvenimenti. In Ferrara era aspettato a gloria dalla Duchessa Renata di Valois, moglie di Ercole II d'Este, dalle dame e dai cavalieri Francesi, che l'aveano seguita di Francia fin dal 28 e che tutti più o meno erano intinti di Luteranesimo, di cui aveano portato i germi dalla corte di Margherita di Navarra, la protettrice dei primi riformatori Francesi ed insieme la protettrice, l'amica, l'inspiratrice della giovinezza di Renata, innanzi che essa venisse sposa in Ferrara del bello ed elegante figliuolo di Lucrezia Borgia.
E a far capitare Calvino nell'autunno del '35 s'ha ancora un altro vantaggio, cioè che il Duca Ercole era in quel momento assente per visitare Paolo III a Roma e Carlo V a Napoli, il che mostrava chiaro che Calvino avea voluto appunto approfittare dell'assenza del Duca per non imbattersi a prima giunta in lui, che di Francesi a corte, e per di più sospetti d'eresia, doveva ormai averne abbastanza, se, per suo gusto, non n'aveva già di troppo.
Tornato il Duca nei primi del 1536, Calvino gli fu presentato come un innocuo letterato qualunque, nè egli, che tenea già in corte il poeta Clemente Marot, scappato anch'esso di Francia, e tutti i dotti e umanisti, che componevano l'abituale società della cultissima Duchessa, avea di che meravigliarsi del nuovo venuto. Se non che questi non era uomo da starsene e da non fare la parte sua ad ogni costo. Catechizzò quindi non solo la Duchessa, ma molti altri della corte, predicando da prima in segreto, poi quasi in pubblico nella cappella e nella sala dell'Aurora, dipinta da Tiziano nel Castello degli Este, e lo stesso Tiziano era fra gli ascoltanti e fece anzi il ritratto del riformatore.
In un subito, che è, che non è? il Duca si risovviene d'essere buon cattolico e vassallo del Papa e fa arrestare Calvino. Ciò tronca in fiore (alcuni dicono) i suoi disegni, che non si limitavano a Ferrara e alla Duchessa Renata, ma miravano ben più in largo e più in alto.
Comunque, mentre per ordine dell'Inquisizione Calvino era condotto prigioniero da Ferrara a Bologna, alcuni armati assalgono i suoi custodi e lo liberano. “Onde fosse venuto il colpo, — scrive nient'altri che il Muratori, — ognuno facilmente l'immaginò„ cioè da Renata.
Uscito da quel mal passo, Calvino fugge, traverso Modena, Reggio, Scandiano, e per Parma e Piacenza giunge in Piemonte. Ritenta la sua predicazione a Cuneo, a Saluzzo, ma è preso a sassate. Lo accolgono invece i Valdesi a braccia aperte nelle loro valli. Ma esso ed il suo Du Tillet, risalendo ad Ivrea il corso della Dora, se ne vanno in Aosta per rivalicare le Alpi, trovano tutta la valle agitata da questioni religiose, si gettano in mezzo a quei trambusti per farne loro pro, un Vescovo Gazzino ed un Maresciallo Conte di Chaland, zelantissimi, eccitano contro i due eretici il popolo, che li caccia a furia, sicchè sentendosi quasi alle reni la spada del Conte di Chaland, Calvino e il suo compagno, per uno stretto passo delle Alpi, a tutti ignoto, fra i ghiacci e le nevi, riescono a stento a salvarsi.
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E non crediate, signore, che manchino le prove anche a tutta questa parte Valdostana della grande leggenda sul viaggio di Calvino, perchè a sostegno di essa stanno nient'altro che una colonna commemorativa su una piazza d'Aosta, un monogramma, che credo ancora si vegga impresso sugli usci di parecchie case della città, l'usanza in Val d'Aosta di suonar mezzogiorno a undici ore per significare la sollecitudine dei fedeli Valdostani a liberarsi dall'eresia, i ruderi di una bicocca, dove si vuole che Calvino abbia abitato, e finalmente uno stretto passaggio delle Alpi, per dove sarebbe scampato, ed a cui è rimasto il nome di finestra di Calvino.
Or bene, di tutto quanto io v'ho narrato, e che dai più gravi scrittori era tenuto per pura storia fino a pochi anni fa, non esiste quasi più niente. La critica ha disfatto nella massima parte la poetica leggenda; la gran scena di Ferrara, così ricca di contrasti drammatici, di personaggi importanti e di sorprese romanzesche è ridotta una vera miseria; la pittoresca catastrofe alpina è scomparsa del tutto; la colonna, il monogramma, le campane, che suonano mezzogiorno a undici ore, la bicocca di Bibiano, la spada del Conte di Chaland, la finestra di Calvino, sono come gli attrezzi e gli scenari smessi d'una commedia finita; non sono più altro, vale a dire, che i materiali della leggenda, quale s'è formata dopo, sovrapponendo, come suole, un nome famoso a ruderi di monumenti e di ricordi, dei quali s'era smarrito con l'andare del tempo il nome vero e la primitiva significazione.
Dopo la versione, che chiamai ricostruttrice, la versione demolitrice trascorse tant'oltre, che seriamente s! dubitò, ripeto, se il viaggio di Calvino in Italia era mai avvenuto, o se era invece da mettere insieme alle tante apparizioni e predicazioni attribuite anche a Lutero, il quale fu bensì in Roma nel 1511, quand'era ancora un oscuro frate Agostiniano, ma che, quando s'era già apertamente ribellato, si pretese pure, senza alcun fondamento, che avesse tentato il suo apostolato a Como, a Menaggio, nella Valtellina e nei Grigioni.
Negar tutto però in cospetto alla precisa affermazione del Beza era troppo, e di fatto oggi nessuno contesta più che realmente Calvino sia venuto in Italia. Dopo tanti anfanamenti e travagli per fare e disfare, s'è anzi ritornati nè più nè meno alla versione del Beza, e non dirò, per non tediarvi di troppe minuzie, qual via si tenne per ritornarvi; dirò soltanto che la sua testimonianza non è più sola, che fra altre prove ed indizi, una lettera di Giovan Sinapio, medico di corte di Renata, scritta da Ferrara a Calvino il 1.º settembre 1539, dice espressamente d'averlo visto in Ferrara e dice di più, quasi in aria di amichevole rimprovero: “quando, anni sono, foste qui, faceste di tutto perchè io non indovinassi con qual uomo avevo da fare„; il che dimostra altresì che contegno tenne Calvino in Ferrara, al tutto contrario cioè a quello attribuitogli dalla leggenda. Calvino dunque è venuto in Italia tra il marzo e l'aprile del 1536, è rimasto pochi giorni quasi nascosto nella Corte di Ferrara, e se n'è andato molto probabilmente per la stessa strada, da cui era venuto. Tutto il resto è leggenda, anzi favola. Ma io ho voluto narrarvelo, perchè codesto viaggio di Calvino in Italia e le fasi diverse delle ricerche critiche intorno ad esso, rappresentano, secondo me, come in iscorcio, tutto il destino, sto per dire, della storia della Riforma in Italia nel secolo XVI. Si ondeggia cioè tra un perpetuo sì e no, fra l'ingrossare a disegno fatti di poca importanza o toglierla ad altri che, quando pure non siano che dissensi, tentativi, manifestazioni timide, incompiute, individuali, ne hanno, in così delicata materia, una grandissima, almeno per chi non crede che la storia stia tutta in battaglie, conquiste, invasioni e mutazioni di governi, per chi pensa invece che la più difficile, ma la più importante ricerca sia quella soprattutto dei fatti della coscienza umana, dei quali la storia è il grande deposito, che interrogare questa coscienza con diligenza di analisi sia una delle più utili attività della critica, che far tacere finalmente più che si può le proprie passioni e i proprii preconcetti, affinchè quella coscienza umana possa rispondere in ispirito e verità, sia la meno arbitraria, forse la sola, ancora possibile, filosofia della storia.
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Ora fra i fatti della coscienza umana, ve n'ha forse che superino d'importanza quelli che s'attengono al sentimento religioso? Eppure, da un lato v'ha chi considera inutile o per lo meno imprudente ogni trattazione di questo genere, perchè in tali argomenti ogni passo fuori del solco più comunemente battuto gli par materia da teologi e non da storici, quasichè l'uomo nel tempo e le vicende della sua vita interiore ed esteriore non siano anche in tal caso l'oggetto della ricerca storica, e v'ha d'altro lato chi non se n'occupa, perchè gli ideali religiosi e le loro manifestazioni nella storia gli sembrano non avere colla politica, in cui consiste per essi tutta la storia, alcuna relazione.
Valgano ad esempio i nostri grandi storici del Cinquecento. È grazia, se accennano a Lutero ed al moto Tedesco, che pure distaccò per sempre dalla dominazione spirituale di Roma più d'un terzo d'Europa. Per essi il Papa è sempre e prima di tutto un principe Italiano. Che se scandagliate più a dentro l'animo, per esempio, del Guicciardini, vi risponderà: “il grado, che ho avuto con più Pontefici, m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la grandezza loro e, se non fosse questo rispetto, avrei amato Martino Lutero, quanto me medesimo„. Se interrogate il Machiavelli vi risponderà: “abbiamo con la Chiesa e coi preti noi Italiani questo primo obbligo d'essere diventati senza religione e cattivi„; deplorabile obbligo, ma, poichè la realtà è tale, bisognerà rassegnarsi a far della storia e della politica senza tener conto della religione che non entra nel computo.
S'intende quindi che coloro, i quali si fanno bruciar vivi per amore di dottrine Luterane sono tenuti per lo meno per pazzi, e niente esprime meglio il sentimento degli statisti Italiani del Cinquecento di quel che facciano le lettere di Cosimo I intercedente da Pio V la grazia dell'eretico Carnesecchi. A consegnarlo Cosimo non avea esitato un istante. Si trattava d'un amico; in quel momento era anzi suo commensale; ma ragion di Stato va sopra a tutto. “Servii da bargello„ dice schiettamente da sè; ma col Papa c'era di mezzo nient'altro che la questione di precedenza fra il Duca di Toscana e quello di Ferrara e il titolo di Granduca. È giusto dire però che Cosimo fece quanto potè per salvare il Carnesecchi e che la severità del Papa gli parve eccessiva verso di uno che, a suo giudizio, non peccava che di leggerezza, di vanità e di pedanteria. Ad ogni modo, e checchè sia della condotta di Cosimo verso il Carnesecchi, definir l' eretico un pedante, come fa Cosimo, e come già prima di lui avea fatto nel 1542 il cardinal Guidiccioni nelle sue lettere ai Lucchesi, è così caratteristicamente Italiano e Cinquecentista, che nulla più. La storia della Riforma non ebbe miglior fortuna più tardi. Se si tolgano gli storici del Concilio di Trento, pochi ne scrissero, stranieri i più, sempre nell'interesse di una polemica ora Cattolica ora Protestante, quasi mai con criteri puramente storici ed obbiettivi, quasi mai indagando se v'è un nesso fra quel qualunque contraccolpo, che ebbe in Italia la Riforma Tedesca, e la storia politica e quella del pensiero e della vita morale del popolo Italiano. Dei consensi più o meno palesi nessuno parla e molti si stizziscono anche oggi che se ne parli come d'una curiosità indiscreta. Le rovine, le fughe, gli esilii, le prigionie, i supplizi, gli esodi di tanta gente sono pietose novelle, ma delle quali si può anche tacere o dire come l'Ariosto:
Lasciate questo canto, che senz'esso
Può star l'istoria e non sarà men chiara.
Eppure, guardate, signore! Consideriamo la Riforma, o, come più giustamente l'ha chiamata il Ricotti, la Rivoluzione Protestante del secolo XVI nelle sue linee più larghe. Essa riempie tutto il secolo! La rivalità fra la Casa d'Austria e la Francia, l'insurrezione dei Paesi Bassi, le guerre civili di Francia, l'innalzamento dell'Inghilterra, la decadenza della Spagna, la servitù dell'Italia, la grandezza nuova della Germania, lo spirito animatore della cultura moderna, tutti i fatti capitali della storia del Cinquecento sono in strettissima relazione con essa. Consideriamola ora in relazione all'Italia soltanto. L'Italia è la culla del Rinascimento, cioè del maggiore coefficiente della Riforma; l'Italia è la sede del Papato, cioè della grande istituzione che dalle nuove dottrine è più minacciata; è in Italia soprattutto che il Papato trova la forza d'arrestare, se non di vincere, la rivoluzione Protestante, opponendole il Concilio di Trento, il dispotismo monarchico, il Sant'Uffizio, la Compagnia di Gesù, tutto un sistema gigantesco di reazione, che s'impossessa per secoli della scienza, delle lettere, dei costumi, delle scuole, delle anime, dei corpi, che domina per secoli tutta quanta la vita pubblica e privata con una energia, una perseveranza, una intensità, un'unità d'intenti e di mezzi, anche oggi meravigliosa e pur troppo inimitabile; l'Italia finalmente partecipa essa pure, poco o molto che sia, al moto Protestante.
O non intender nulla adunque del Cinquecento Italiano (e capisco bene che molti ci si rassegnano senza grande sacrificio) o collocare al posto che le spetta anche in Italia la storia della Riforma.
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La lotta contro il potere temporale dei Papi era antica in Italia, come sapete; più antica ancora quella contro il potere spirituale, e le deviazioni dogmatiche, che appariscono nelle scuole filosofiche del Medio Evo, sono numerosissime.
Prevale però il concetto, che la Chiesa Cattolica cerchi e trovi in sè medesima la volontà e la forza del proprio rinnovamento.
Al secolo XVI, il dissidio profondo, che esisteva fra il Cattolicismo e lo spirito del Rinascimento, quel dissidio, contro le minaccie del quale aveva inutilmente tuonato l'eloquenza del Savonarola, quel dissidio, che i Papi avevano creduto di togliere, promovendo essi per primi, proteggendo essi per primi la nuova cultura da Niccolò V a Leone X, quel dissidio si palesò tutto ad un tratto e colse il Papato nel momento peggiore, quando cioè più per forza degli eventi, che per volontà sua, era senza più divenuto uno dei tanti signorotti Italiani e mirava a difendersi o ad allargarsi colle arti e le violenze comuni a tutti gli altri.
È strano sentire ora il Creigthon, uno scrittore Protestante, sostenere la tesi opposta e dire che se la crisi fosse sopravvenuta, quando il Papato era politicamente insignificante, esso non avrebbe potuto resistere e si sarebbe forse ridotto un Vescovato Italiano. Per me non lo credo. Non credo che possa aver giovato al Papato una serie di Papi, come quella che, salvo poche eccezioni, va da Innocenzo VIII e dal Borgia a Clemente VII e a Giulio III. Ciò accrebbe, invelenì il dissidio sempre più, scrollò sempre più dalle fondamenta la moralità pubblica e privata, separò sempre più la politica dalla morale e dalla religione, tanto che, svanito fra le fiamme d'un rogo il tentativo eroico del Savonarola, corsa e ricorsa l'Italia dagli stranieri, fra tanto abbassamento e contaminazione di tutto, il patriottismo disperato del Machiavelli gridava in quell'agonia: “poichè il Dio invocato dal Savonarola non viene, facciamo senza di lui, ma la patria si salvi!„ Tutto il Machiavelli è qui, ma neppur esso potè per allora salvare l'Italia.
Allorchè scoppiò in Germania la rivoluzione Protestante, le anime, che in Italia se ne sentirono subito agitate e commosse, furono quindi appunto le più atterrite e sgomente di questo abisso, che sempre più s'allargava fra la vita e la fede, fra la civiltà del Rinascimento e l'antico sentimento religioso. Le vediamo riunirsi subito in Roma nell'Oratorio del Divino Amore, più tardi in Venezia a San Giorgio Maggiore, in Napoli presso Giovanni Valdes, in Treviso presso Gregorio Cortese, Luigi Priuli, Marco Antonio Flaminio, in Padova presso Pietro Bembo, il quale s'associa a queste riunioni più forse per evitare i possibili eccessi d'una reazione seccante e meticolosa, che per vero spirito religioso; altra notevole varietà d'uno stato d'animo, che è di carattere puramente Italiano. Poco prima, poco dopo, in questa o quella città d'Italia tali riunioni raccolgono uomini, donne, ecclesiastici, letterati, il fiore dell'intelligenza e del patriottismo Italiano, scampato in parte alle guerre del Milanese e di Napoli, al sacco di Roma, alla caduta della repubblica di Firenze.
La questione, che le agita tutte, è quella della giustificazione per la sola fede, formola, che è bensì, come sapete, il fondamento della protesta Luterana, ma di cui allora era perfettamente lecito discutere, perchè antica nella dottrina ortodossa e non ancora definita, come lo fu poi nel Concilio di Trento. Tale questione (senza che io entri ora in sottigliezze teologiche, che non converrebbero nè a voi, nè a me) è naturale che primeggiasse e accendesse gli animi, perchè col dar prevalenza ai meriti della sola fede e della redenzione di Cristo, coll'ammettere cioè che la fede da sè sola basta all'eterna salute, sentivano d'opporsi a tutta quella corruzione della Chiesa, per cui la religione pareva ridotta a sole forme esteriori, la fede a zelo di persecuzione, l'assoluzione delle colpe alla confessione o a comprate indulgenze, e tutto il destino dell'anima umana pareva abbandonato all'arbitrio d'un sacerdozio non meno corrotto del laicato ed unico intermediario fra Dio e l'uomo.
Da questi prodromi scaturiscono tre tendenze diverse, nelle quali è compresa intiera la storia della Riforma in Italia. La prima, che segue irresistibilmente l'impulso ricevuto dalla rivoluzione Luterana Tedesca, e non solo si associa ad essa, ma spesso, com'è dell'indole Italiana, la oltrepassa; la seconda, che senza separarsi mai del tutto dal Cattolicismo prosegue fino all'ultimo la generosa utopia d'una conciliazione e termina in una piena sconfitta; la terza, che dà mano a rinvigorire, a risanare in parte, a stringere gli ordini della Chiesa, ne accresce terribilmente la forza militante e trionfa col Sant'Uffizio, l'Inquisizione, i Gesuiti ed il Concilio di Trento.
La prima di queste tendenze, quella che si associa alla ribellione Protestante, è, se si considera in sè stessa, la più curiosa e pietosa, ma se si considera ne' suoi effetti, certamente la meno importante; ed è naturale che sia così in una società, com'è l'Italiana del Cinquecento, la quale o è in gran parte indifferente e non presta fondamento a nessun vero e largo movimento religioso, o ha già percorso collo sviluppo della sua cultura, pagana d'inspirazione e novatrice di desiderio, tutti i gradi di questo indifferentismo sino, direbbe il De Leva, “alla negazione della persona morale consacrata dal Vangelo„, e neppur la formola Luterana le può più bastare.
La seconda tendenza, quella che anela ad una conciliazione, raccoglie una delle più schiette tradizioni Italiane, e fra i disinganni, gli abbandoni, i dolorosi isolamenti, ci rivela le agitazioni e il segreto d'una parte fra i più elevati e incorrotti spiriti del nostro Cinquecento, fra i quali basta che io vi ricordi Vittoria Colonna e il cardinal Gaspare Contarini.
La terza tendenza, quella che organizza la resistenza ad ogni costo, è troppo vasta nelle cause, nei fatti e nelle conseguenze da poterne discorrere affrettatamente insieme all'altre due.
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Alla formola Luterana, adoperata a significare la necessità di correggere le degenerazioni del dogma e i disordini della Curia Romana e della gerarchia ecclesiastica, anche prescindendo da quelle riunioni, alle quali ho accennato, si potrebbero indicare molti riscontri in Italia subito dopo Lutero ed anche molto prima di lui. Ma sarebbe inutile per noi e soverchia una tale ricerca. Del resto queste anticipazioni dottrinali non mancano mai, ma contan poco. Ogni rivoluzione è di chi la fa e al momento di farla. La ribellione di Lutero ha date certe e stiamo a queste: l'Ognissanti del 1517, quando Lutero oppone le 95 tesi alla Bolla delle Indulgenze, che è il prologo del gran dramma, il 10 dicembre 1520, quando Lutero brucia dinanzi alle porte della cattedrale di Vittenberga e fra una folla di popolo entusiasta la Bolla di Leone X, che lo ha condannato.
Nei due anni o poco più, che intercedono fra queste due date, e dopo poi sempre più, la propaganda coi libri, colle corrispondenze, colle dispute pubbliche, cogli emissari, colle predicazioni è attivissima e larghissima in Germania e nella Svizzera, dove Ulrico Zuinglio, forse qualche mese prima di Lutero, aveva iniziato un movimento analogo al suo e in certe parti più radicale.
Ben presto se ne ripercossero gli echi in Italia, nel Veneto da prima, e poi altrove.
Se non che, intendiamoci, non si tratta di nulla di simile a ciò che accade in Germania o nella Svizzera. Leggendo il libro inglese del Maccrie sulla storia della Riforma in Italia, che è anche oggi il solo, il quale abbia trattato ex-professo e in modo compiuto questo argomento, e vedendo il moto riformista ripercuotersi così rapido e così determinato quasi in ogni città d'Italia, vien fatto di chiedersi: o come dunque l'Italia non è divenuta tutta Protestante? Ma quel libro, ricchissimo di notizie, è nel suo insieme e organicamente sbagliato.
In Italia si sparge subito e largamente una curiosità, un'agitazione, una febbre, che invade specialmente le classi più alte e più culte, gli ecclesiastici, i claustrali, i letterati, i filosofi, e, poichè la questione tocca così da vicino quanto v'ha di più intimo nel cuore umano, le donne, quelle specialmente di animo più elevato e che hanno più approfittato dell'alta educazione femminile del Cinquecento. Ma tutto questo fervore, che diviene anche un poco una moda, non oltrepassa certi limiti. Tutta questa gente, che disputa così accanitamente della giustificazione per la sola fede, che si abbandona con tanta delizia interiore e con tanta ingenuità d'intenzioni al dolce sogno d'una Chiesa e d'una società rinnovata col ristaurarvi e purificarvi il sentimento religioso e cristiano, non pensa, non sospetta neppure di rasentare l'eresia, e molto meno di ribellarsi, o di mettere comunque a repentaglio l'unità della fede. Per questo, nella prima fase, nel primo riecheggiare in Italia del moto Protestante Tedesco, i consensi sembrano così rapidi, così larghi, così numerosi. Ma innanzi tutto questa agitazione si ferma in alto; non discende che pochissimo dalle classi superiori alle inferiori; non acquista mai o quasi mai carattere schiettamente popolare; ed in secondo luogo quando la Chiesa dominante si rende conto essa stessa, ha essa stessa coscienza del grave pericolo che la minaccia, i più indietreggiano, pochi si risolvono di varcare il limite estremo, il moto s'impicciolisce, diviene sempre più isolato, individuale, e scompare.
Le conseguenze morali (diciamolo) sono disastrose, perchè manca alla Chiesa dominante, come le è mancata sempre, l'intelligenza delle cagioni profonde, per le quali più d'un terzo d'Europa s'era distaccato da lei; perchè tutta impigliata ad armeggiare colle esagerazioni sofistiche, che Lutero, negli impeti della lotta, deduceva da' suoi stessi principii, e che Calvino esagerò sempre più, la forza vera di quei principii, le loro conseguenze vere le sfuggono; perchè non intende e non sente che l'importanza del moto Protestante non sta già nella fede senza le opere, nella negazione del libero arbitrio, nell'ammettere la predestinazione; il solo concetto ragionevole per gli stessi credenti essendo anzi quello che Dio giudichi gli uomini non per quanto avranno creduto, ma per quanto avranno operato; perchè, non intendendo e non sentendo questo, la Chiesa dominante mira quindi, più che a riguadagnare il terreno perduto, a salvare quello che le rimane, e lo fa, e le riesce, ma più esagerando alla sua volta il principio d'autorità contro il principio del libero esame, che rinnovando intieramente sè stessa.
Ad ogni modo, è verissimo, la sua resistenza è enorme e meravigliosa. Ma non è quella, che le chiedevano i più veggenti, i più moderati, i più pii fra i suoi amici contemporanei alla rivoluzione Luterana; non è quella, a cui accennò essa stessa per un momento, quando sotto Paolo III l'azione del cardinal Gaspare Contarini, capo dalla parte conciliatrice, prevaleva nel Sacro Collegio, e quando nel 1536 era eletto un Consiglio per la correzione della Chiesa, in cui col nome del Contarini, vediamo quelli del Caraffa, del Fregoso, del Sadoleto, del Giberti, del Polo, del Cortese, del Badia, dell'Aleandro, non tutti d'una mente, ma certo i più autorevoli e virtuosi uomini, che avesse allora la Chiesa; non è quella, che questi uomini le proponevano con una relazione, che poco dopo, sotto Paolo IV, diveniva essa stessa un documento addirittura ereticale, e invece di essere adottata dalla Chiesa si pubblicava con un preambolo e le chiose di Lutero.
Da un giorno all'altro il programma del Contarini è abbandonato, ed (è giusto dirlo) non per intiera colpa del Papato, ma molto ancora delle generali condizioni politiche europee e dell'ormai trionfante preponderanza Spagnuola; gli uomini, che hanno caldeggiato il programma del Contarini, finiscono nella disgrazia e nell'abbandono, alcuni anzi, come il Morone, processati e carcerati; la resistenza ad oltranza e le persecuzioni incominciano e allora va cessando altresì quella larga e numerosa agitazione, che la protesta Luterana avea da prima suscitata in Italia; il moto si isola qua e là; diviene frammentario, disgregato, individuale; ha martiri, non capi e seguaci; si mostra qui in un convento, là in una corte, altrove in un'accademia, in un gruppo di famiglie; non ha seguito, non contrasti vigorosi, non consensi efficaci; tra gli stessi ribelli veri, i più forti oltrepassano subito le precise dottrine Luterane e Calviniste, in molti altri si rinnova il caso delle antiche lotte politiche dei nostri rabbiosi Comuni. Come cioè s'ebbero allora i Ghibellini per forza, così si hanno ora gli eretici per forza. Molti non domanderebbero di meglio che fermarsi a mezza via, ma le persecuzioni del Sant'Uffizio, istituito nel 1542, il fanatismo degli Inquisitori, i sospetti dei Principi, l'intolleranza spietata, che vede eretici dappertutto, che spia e commenta ogni atto, ogni gesto, ogni parola, un segno d'allegrezza, una smorfia di malumore, il terrore, che non dà quartiere e non conosce misericordia, gli spinge, gli incalza, gli costringe all'aperta ribellione.
Voi vedete, signore, che quantità di ardui problemi e delicatissimi contiene questa storia della Riforma in Italia. C'è un modo di spicciarsi di tutti con franca disinvoltura, collocarsi al punto di vista protestante e propagandista del Maccrie, o a quello del Sant'Uffizio e degli Inquisitori dell'eretica pravità. La prospettiva è allora una sola e invariabile; poco monta chi sgarra più e chi meno, son tutti eretici di tre cotte e o col Maccrie s'incoronano di gloria o col Sant'Uffizio e gli Inquisitori (e diciamolo pure col Cantù, nonostante tutte le sue contraddizioni) si decreta a tutti quanti rogo e anatema. Ma questa non è storia!
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Ogni volta che ho pensato al moto filosofico e religioso in Italia nel Cinquecento, m'è sempre ricorso spontaneo alla mente il confronto con quello dell'emancipazione civile d'Italia nei tempi nostri. Nell'uno o nell'altro gli stessi velami, le stesse esitanze, le stesse clandestinità di consensi, gli stessi eccessi, le stesse diversità e gradazioni di tendenze, di apparecchi, di tentativi, di silenzi longanimi e di audaci rivolte. Il confronto non si potrebbe continuare senza dare in falso. Ma io non voglio dir altro se non che l'elemento morale nella storia è altrettanto necessario quanto il positivo, e che se lo studio dei fatti si sottomette ad un preconcetto, che vi tiranneggi il cervello, o si scompagna dallo studio psicologico, si perde ogni speranza di cogliere a distanza di tempo e riprodurre meno imperfettamente la realtà piena delle umane vicende. Tanto più nella storia d'un qualsiasi moto religioso, tanto più in una storia, come quella della Riforma in Italia.
Quando la ribellione è affermata coll'apostasia, il caso è più facile, benchè non sempre così semplice, come a prima vista parrebbe. Quando invece l'affermazione recisa dell'apostasia manca, le tendenze diverse che notai già scaturire dai primi echi Italiani della Riforma Tedesca non sempre sono distinte; più spesso ci troviamo a fronte di gente, che rivela solo una piccola parte dei proprii pensieri, che afferma, che nega, si disdice, si contraddice, nè sempre è dato cogliere intiero il segreto di quelle anime e distinguerle, a comodo nostro, nelle esatte categorie della storia. Dove, per esempio, gli indizi apparvero più deboli o contradditorii, gli scrittori Cattolici più zelanti se ne valsero per gridare alla calunnia, e scagionare senz'altro i più grandi nomi da questa, secondo essi, nota d'infamia, e non pensarono che quanto più alto era il grado, l'autorità, la fama, tanto più era naturale che il segreto fosse gelosamente custodito. Niuno potrà mai in tal caso pretendere di definire esattamente la misura di una ribellione o di un assentimento, che si svolgevano nella coscienza e poco o nulla si palesavano al di fuori con aperte professioni o con atti di proselitismo, i quali costavano libertà, vita, onori, fama, fortuna, e vi sbalzavano addirittura fuori del consorzio sociale, quando pure non laceravano vincoli ed affetti più intimi. Eppure la storia della Riforma in Italia non va considerata soltanto nelle precise e formali adesioni alle dottrine Luterane e Calviniste, bensì deve cogliersi ovunque si manifesta in anime religiose uno di quei dissensi o una di quelle indiscipline, a cui la Riforma era certamente pretesto od occasione. Tenendo conto di tutto questo si può soltanto presumere di approssimarsi almeno alla verità.
Accennai al Veneto, come a una delle prime regioni Italiane, che in qualche modo risentirono il contraccolpo della Rivoluzione Tedesca e m'interruppi per delineare quelli che, secondo me, sono i caratteri generali e speciali di tale contraccolpo e del moto che in Italia gli tenne dietro. Raccontare ora partitamente i casi dei personaggi più notevoli che quasi in ogni città d'Italia si mostrano seguaci delle nuove idee e quando giunge l'ora della persecuzione o della repressione violenta, o si sottomettono o pagano coll'esilio o colla vita il fio della loro ribellione, non potrei senza eccedere di troppo i limiti di tempo, che mi sono concessi. Del resto quei casi si susseguono e si rassomigliano: lo spionaggio, la denunzia, la fuga, oppure il carcere, un processo, in cui le torture morali di una lotta corpo a corpo colla capziosa casuistica dei giudici eguagliano quasi il tormento delle torture fisiche, alle quali l'inquisito è sottoposto, e infine il supplizio, ora orribilmente misterioso e segreto, ora pomposamente teatrale e solenne, quello a Venezia, dove l'eretico scompare nottetempo nelle acque della muta e nera laguna, questo a Roma, dove fra una processione di monsignori, di soldati in arme e di frati salmeggianti l'eretico sale il rogo a Ponte Sant'Angelo o in Campo de' Fiori. A questi lagrimevoli ricordi si collegano i nomi (per non dire che dei più celebri) di Pier Carnesecchi, di Aonio Paleario, di Fanino da Faenza, di Bartolomeo Fonzio, di Baldo Lupetino, di Giovanni Mollio, e di tanti altri, che sarebbe lungo enumerare. Preterendo adunque di necessità le ribellioni e i sagrifici individuali, accenniamo piuttosto dove il consenso alle nuove dottrine religiose fa gruppo, raccoglie aderenze più calde e più numerose, s'intreccia a vicende di storia politica, e nel dissolversi ci indica personaggi importanti, che poi seguono diverse tendenze di pensiero e di vita.
Notevolissimo a tale riguardo il gruppo, che verso il 1535 attornia a Napoli lo Spagnuolo Giovanni Valdes. Nella sua casa a Chiaia e in vista di Posilippo, o sull'incantevole isola d'Ischia nella villa della Colonna si radunavano il Vermigli, l'Ochino, il Carnesecchi, il Flamminio, il Caracciolo ed altri letterati, teologi e cavalieri, e con essi parecchie gentildonne Italiane e Spagnuole, fra le quali brillavano come stelle Vittoria Colonna, l'inconsolabile vedova del Marchese di Pescara, e Giulia Gonzaga Duchessa di Trajetto, vedova di Vespasiano Colonna, quel prodigio di sempre virginale bellezza (checchè ne dicono le Pasquinate del tempo) che il corsaro Ariadeno Barbarossa tentò sorprendere nel suo castello di Fondi e rapirla per farne dono al Sultano.
È gran segno del tempo il fervore di quelle riunioni e s'intende bene come tutto quell'ambiente di bellezza, di poesia e di religiosi entusiasmi, su quel paesaggio unico al mondo, rimanesse un lungo e soave ricordo per tutti quegli amici del Valdes, e le loro lettere di molti anni dopo, quando il turbine della reazione gli avea sperperati, rimpiangessero amaramente la memoria del Valdes, morto nel 1540, e i bei giorni di quell'intima comunanza di pensieri, di affetti, di aspirazioni. E due soprattutto sono le circostanze notevoli della congrega del Valdes, l'una che per la prima volta vi apparisce il libro famoso del Beneficio di Cristo, che fu pei dissidenti e Protestanti Italiani del secolo XVI quello che l' Instituzione Cristiana di Calvino fu per i Francesi e per gli Svizzeri; libro tenuto qualche tempo per innocuo e che poi sarà delitto capitale aver letto, averlo posseduto o prestato ad un amico; l'altra il vario e sempre tristo destino, che aspettava tutti i componenti di quella congrega. Di quelli soltanto, che ho nominati, Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga finiscono volontariamente relegate in un monastero; Pietro Martire Vermigli in esilio a Zurigo; Bernardino Ochino in Moravia, dopo aver errato per mezz'Europa e sorpassata di molto col suo pensiero la Riforma Protestante; Pier Carnesecchi a Roma sul rogo; Marcantonio Flamminio in sospettata oscurità, ma più indietreggiando che avanzando; Galeazzo Caracciolo a Ginevra, Calvinista schietto; il che dimostra come dalla riunione del Valdes escano quanti aspetti diversi prese il moto protestante in Italia, quello di chi rimane entro il circolo della dottrina Cattolica, ma non vi trova più nè la tranquilla fede nè la posizione di prima; quello di chi si spaventa a mezza strada e indietreggia; quello di chi si associa del tutto al moto Protestante e per esso dà la vita o si sottopone alla perpetua miseria dell'esilio; e quello di chi neppur trova posa nella dottrina Protestante e finisce anatemizzato del pari dalla Roma del Papa e dalla Ginevra di Calvino.
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Come già dissi, forza di vero e largo consenso popolare la Riforma non trovò mai in Italia. Per questo appunto ci sentiamo tratti ad osservare con più sollecita cura i punti, dove una certa espansione, sia pur momentanea e con fattezze diverse, ci fu, o parve esserci.
Nell'Istria ad esempio, e per opera specialmente d'un uomo, Pier Paolo Vergerio, Vescovo di Capodistria, che è uno dei tipi più complicati ed anche oggi più difficilmente giudicabili, che abbia avuto la storia della Riforma in Italia; grande ingegno, vastissimo sapere, e nel tempo stesso la più strana mescolanza di bene e di male, di tenebra e di luce. C'è in lui del santo e dell'avventuriere, dell'apostolo e dell'imbroglione, del fanatico e dell'astuto; ma se poi si considera ch'egli non avea che da starsene o, date le prime mosse e visto che gli attiravano guai, non avea che da fermarsi, per continuare in quell'auge di fortuna, che lo avea portato subito in cima della scala, e invece tentò, ritentò più volte e corse di deliberato proposito alla propria ruina, bisogna dire che un gran fondo di sincerità, di buona fede e di schietto entusiasmo fosse nell'animo del Vergerio. Certi aspetti del suo carattere vanno dunque forse attribuiti alla mobilità, alla foga, alla superlatività del suo spirito, per cui nella polemica religiosa del suo tempo reca la temerità, l'improntitudine e insieme le male arti dei peggiori politicanti e giornalisti odierni e pare anzi un loro predecessore. Dal 1533 sino a dopo la dieta di Worms del 1540 fu in Germania negoziatore pel Papa e per la Francia di compromessi religiosi e politici coi Protestanti, si abboccò con Lutero e narrò il colloquio in una lettera mirabilmente efficace e caratteristica del 1535. In essa è ancora avverso a Lutero, ma non consentendogli l'acuto ingegno quel dispregio ignorante, che non fa caso di nulla nella Riforma Tedesca, nè di uomini nè di idee, perchè giudica tutto farina del diavolo, accadde al Vergerio, diplomatico Pontificio, di finir persuaso di molta parte delle nuove dottrine. Tornato alla sua diocesi applicò savie riforme e, aiutato dal fratello, Vescovo di Pola, le proseguì arditamente; ed in ciò fare non gli pareva se non di compiere il suo dovere di Vescovo. Processato due volte, respinto dal Concilio di Trento, la persecuzione, l'esilio ne fecero un eretico per forza, ma il moto da lui destato nell'Istria (caso unico in Italia) trovò gran seguito e favore nel popolo e perdurò quasi trent'anni. Quanto a lui, ad ogni passo poneva la meta più innanzi e dopo una vita agitata, errabonda, travagliatissima, finì a Tubinga nel 1565 rimanendo incerto anche oggi, se puramente aderì alla Riforma, se la sorpassò, o se presunse farsi centro ed autore d'un nuovo moto, che da lui solo pigliasse forma e sostanza.
Meno persistente, meno larga, ma pure con un certo carattere di popolarità, che manca altrove, è l'agitazione religiosa di Modena, cominciata fra il 1537 e 38. Poco dopo, come apparisce dal compendio dei processi del Sant'Uffizio di Roma, pubblicato dal Corvisieri, Modena era già una città diffamata per eretica. Intorno all'anno 1540, Alessandro Tassoni il vecchio, cronista Modenese, narra che non solo uomini dotti, indotti e d'ogni condizione aderivano alla Riforma, ma persino le donne ne disputavano, citando a dritto e a traverso Santi Padri e Dottori, che non conoscevano neppur di vista. Quest'entusiasmo, com'è naturale, era cominciato più in alto, in una specie d'accademia, come il volgo la chiamò, che s'adunava in casa dei Grillenzoni, e della quale il personaggio più importante era Lodovico Castelvetro. La casa del Grillenzoni era un interno patriarcale, sette fratelli, dei quali cinque ammogliati e quarantacinque o cinquanta tra figliuoli e nipoti e, se le si univano amici e maestri, una vera falange, che talvolta stava a chiacchiera nella spezieria dei Grillenzoni, e quando si muoveva per andarsene pareva, dice un altro cronista, un branco di stornelli che si disperdesse. Si occupavano di studi umanistici, ma Modena è città arguta, beffarda; i chiacchiericci di spezieria eccitano i begli spiriti delle piccole città; sicchè i cosidetti accademici ebbero buon giuoco nel pubblico a burlare e a interrompere anche in chiesa i predicatori più triviali, esaltando invece il Ricci, l'Ochino, dotti ed eloquentissimi, ma già sospetti di deviazioni dalla pura dottrina ortodossa. Roma e l'Inquisizione si destarono; s'interposero i soliti pacieri, il Morone, Vescovo di Modena, il Contarini, il Sadoleto; fecero firmare agli Accademici una professione di fede e tutto per il momento parve quietato. Ma una burla fatta a Pellegrino degli Erri nella spezieria Grillenzoni risuscitò la tempesta, perchè a vendicarsene costui denunciò per eretici e per lettori e divulgatori di libri ereticali i suoi amici, contro i quali escirono tosto bandi fierissimi. L'Accademia si ecclissò; più degli altri rimase in vista come sospetto Lodovico Castelvetro, forse perchè il più autorevole per ingegno, per studi e per le tendenze della sua ipercritica letteraria, la quale tirò addosso a lui i guai peggiori.
Nel 1553 criticò acerbamente la canzone di Annibal Caro in lode dei Farnese e dei Reali di Francia, che comincia coi noti versi:
Venite all'ombra de' gran gigli d'oro,
Care muse, devote a miei giacinti.
Annibal Caro, cortigiano felice, col vento in poppa, colmo di prebende e d'onori, se l'ebbe a male. Ne seguì una delle più atroci baruffe letterarie che si ricordino, finita col denunziare il Castelvetro, prima come eretico, poi come eretico insieme e come assassino. Qui i fiori letterari del Caro, delizia dei buongustai, coprono una trama d'iniquità, di cui il Castelvetro fu vittima, perchè dall'accusa d'assassinio riescì a purgarsi, non da quella d'eresia. Citato a Roma, v'andò; durante il processo, fuggì: stette molti anni fra Chiavenna, Ginevra, Lione e Vienna; nel 1570 tornò a Chiavenna, ove l'anno dopo morì fra le braccia del suo amico e protettore, Rodolfo Salis, il quale sulla tomba dell'esule scrisse queste significanti parole: morto libero, liberamente riposa in libera terra. Pure siamo alle solite di doverci chiedere: fu veramente eretico e quanto lo fu il Castelvetro? Difficile rispondere fra lo zelo degli accusatori e quello degli apologisti. Le apparenze, le vicende della sua vita rafforzano il sospetto, ma manifestazioni precise mancano. Però quasi tre secoli dopo, nel 1823, in una villa prossima a Modena, stata già del Castelvetro, fu scoperto un ripostiglio murato, e abbattutolo si trovò pieno di carte manoscritte e di libri di Lutero, di Calvino e di altri eretici. Le carte furono consegnate a un dabben prete, che, saputele del condannato Castelvetro, le abbruciò; i libri passarono alla Biblioteca Estense e dalle date dei medesimi si rilevò, che il nascondimento risaliva al tempo delle persecuzioni sofferte dal Castelvetro.
Questa voce d'oltre tomba, che esce fioca dopo circa tre secoli dai ruderi della sua vecchia casa, lo accusa dunque, ma, grazie all'imbecillità del pretino incendiario, neppur essa dice tutto; ci lascia solamente congiungere il nome di Castelvetro al piccolo movimento ereticale Modenese, e bisogna contentarsi di questo.
Più aperto, più determinato nelle sue conseguenze è quello invece che contemporaneamente manifestasi a Lucca. Anche qui v'è un nome, che accentra e personifica il moto, Pietro Martire Vermigli, Fiorentino, che già vedemmo a Napoli nella congrega del Valdes. A metà del 1541 fu fatto Priore di San Frediano e avea intorno a sè uomini imbevuti anch'essi delle stesse dottrine, il Martinengo, Bresciano (che fu poi primo Pastore della Chiesa Riformata Italiana in Ginevra), il Tremellio, Ferrarese, lo Zanchi, Bergamasco, il Lazise, Veronese, ai quali s'aggiunse poco dopo Celio Secondo Curione, il più celebre dei Protestanti Piemontesi. Mezz'Italia è qui rappresentata e il Vermigli fonda una scuola, in apparenza pei novizi del suo ordine, in realtà una Scuola Protestante, che accolse altresì le più cospicue persone di Lucca. L'Inquisizione era sull'intesa e vigilava, ma tutto andò quieto, anche quando Paolo III e Carlo V s'abboccarono in Lucca. Un aneddoto curioso è che l'Imperatore fu svegliato una notte da gridi di dolore. Chiesta la cagione, gli è risposto che una gentildonna, dimorante vicino al palazzo, aveva partorito un bambino, che Carlo V per cortesia volle tener esso al battesimo, celebrando il rito Paolo III in persona. Questo bambino fu poi il padre di Giovanni Diodati, il celebre volgarizzatore della Bibbia. Se la paternità spirituale avesse gli effetti, che la scienza attribuisce alla paternità naturale, si direbbe che qui la legge dell'atavismo agisce al rovescio. Più sicura invece si mostra in Michele Burlamacchi, figlio del celebre patriotta e cospiratore Lucchese, perchè troviamo Michele Burlamacchi fra i Protestanti più caldi, ed in lui la ribellione religiosa si direbbe la continuazione e lo svolgimento della ribellione politica paterna. Fatto sta che quando l'Inquisizione ebbe costretto il Vermigli a fuggire e nella sua propaganda gli sottentrò Aonio Paleario, bruciato poi a Roma nel 1565, i rigori aumentarono a segno, che s'ebbe una prima emigrazione di più di venti cospicue famiglie Lucchesi nel 1555 e una seconda nel 1567, la quale comprese anche Michele Burlamacchi con la sua vezzosa donna, Clara Calandrini, il suocero Giuliano Calandrini con l'altra figlia Laura e il marito di lei, Pompeo Diodati, nonchè il fratello e gli altri figli di Giuliano. Giunsero in Francia durante la seconda guerra civile fra Cattolici e Ugonotti, e costretti a seguire le fortune dell'esercito del Principe di Condè, sarebbero periti fra gli stenti e i disagi, tanto più che Clara Burlamacchi e Laura Diodati erano incinte ambedue, se, saputili Italiani e proscritti per causa di religione, non gli accoglieva nel suo castello di Montargis, Renata d'Este, quella Duchessa di Ferrara, presso cui vedemmo già Calvino nel 1536 e che ora dopo la morte del marito, era tornata in Francia fin dal 1560 e vivea solitaria a Montargis, professando apertamente il Protestantismo.
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Renata è una delle più singolari figure della storia della Riforma in Italia, e i fatti, che le si riferiscono, uno dei più singolari episodi di questa storia. Per opera di lei, figlia di Luigi XII, re di Francia, e venuta sposa nel 1528 ad Ercole II d'Este, la Riforma penetra in una delle più illustri corti Italiane del Cinquecento e la tiene per più di vent'anni agitata così nelle intimità domestiche, come al difuori e per indiretto nelle sue relazioni politiche col Papa e cogli altri Stati Europei. Era il periodo, in cui si dibatteva il problema, se la preponderanza nel sistema politico Europeo dovesse appartenere alla Spagna o alla Francia, ed il principal campo di tale contesa, ormai risoluta in favore della Spagna, era sempre l'Italia. Quindi la difficoltà pei suoi principati minori di reggersi in bilico alla meglio fra i due litiganti, nè già coll'illusione proverbiale d'essere fra i due il terzo che gode, ma appena appena colla speranza di non farsi divorare per primo. A tal fine i pericoli della politica e della guerra erano già troppi senza aggiungerne altri di peggior natura, senza accogliere cioè dottrine nuove di religione, sulle conseguenze politiche delle quali i pensieri dei potentati maggiori non erano forse ancora ben fermi. Tanto più apparisce quindi straordinario l'ardimento di Renata, la quale nel piccolo Ducato di Ferrara, feudo del Papa, osa vagheggiare e tentare due programmi del pari pericolosissimi, una politica risolutamente Francese e la riforma religiosa. Nell'atmosfera morale del Cinquecento, questa donna, che, salvo qualche ora di debolezza nei più penosi contrasti dei suoi affetti, si mantiene fedele tutta la vita a quei due ideali, e quando l'ideale politico le sfugge, perchè la morte del marito la priva del trono, innalza l'ideale religioso sino al concetto tutto moderno della tolleranza civile, e tornata in Francia allo scoppiare delle guerre di religione, rimprovera ai Cattolici le loro crudeltà e agli Ugonotti le loro vendette, questa donna, dico, è senz'alcun dubbio una delle più grandi e nobili figure del suo tempo. Ne sparlino pure scrittori rabbiosi e intolleranti dai contemporanei fino al Cantù. Ci contenteremo che l'abbiano lodata non col solito gergo cortigianesco, ma quasi con senso di misteriosa riverenza l'Ariosto ed il Tasso. Mi duole non aver tempo a narrare i suoi casi, oggetto anche oggi di ricerche e di studi (fra i quali ricordo ad onore quelli del Fontana) e per affrettarmi al fine torno agli esuli Lucchesi, da Renata ospitati, durante la seconda guerra civile di Francia, nel suo castello di Montargis. Vi rimasero fino alla pace di Longjumeau e in questo tempo Clara Burlamacchi mise alla luce una figlia, a cui la Duchessa fu matrina e diede il suo nome, e che ci ha lasciato alcune Memorie delle vicende sue e de' suoi genitori. Da Montargis ripararono a Sédan, da Sédan a Parigi ove nel 1572 si trovarono alla strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo. Anche in quella notte li salvò forse la protezione di Renata, che era in Parigi, perchè trovarono scampo nel palazzo del Duca di Guisa, gran nemico dei Protestanti, ma genero di Renata. Si rifugiarono di nuovo a Sédan, quindi nel 1579 a Muret, ove Clara Burlamacchi morì. Finalmente, ricominciata la guerra, Michele Burlamacchi stabilì di condursi nel 1585 a Ginevra, il già antico rifugio degli Italiani perseguitati per causa di religione ed il solo luogo oramai, dove, allorchè la reazione ebbe domata in Italia ogni velleità di novatori ed ogni resistenza, il solo luogo, dove, si può dire, va a concentrarsi o a terminare (se si eccettuano le valli Valdesi) la storia della Riforma in Italia.
L'arrivo dei Burlamacchi a Ginevra fu una festa pegli esuli Italiani, i quali si recarono tutti uniti ad incontrarli fuori della città. V'erano di Lucchesi i Balbani, i Diodati, i Calandrini, i Turettini. L'anno appresso Renata Burlamacchi sposò Cesare Balbani. Nel 1621, dopo aver pianto la morte di dieci figli perdette il marito, col quale avea vissuto trentacinque anni. Renata Burlamacchi dovea ormai avere un'età più che sinodale, ma nell'austero costume della Repubblica Calvinista le vedove non erano tollerate, perchè sta scritto (lo dirò in latino) in viduis laboriosa castitas. Renata dunque obbedì al precetto di S. Paolo: io voglio che le vedove si rimaritino, e sposò in seconde nozze Teodoro Agrippa d'Aubignè, il poeta, il soldato, il diplomatico dei tempi eroici della Riforma. V'erano a Ginevra altri cinque fratelli di Renata e questi e gli altri esuli Lucchesi furono lo stipite di molte e molte fra le più illustri famiglie Ginevrine; ma sono quelli che poterono adattare l'antico spirito del Rinascimento Italiano alle rigidità delle dottrine Calviniste. Altri invece dei più famosi riformisti Italiani, l'Ochino, i due Socini, l'Alciati, il Vermigli, il Vergerio, preferirono ramingare pel mondo ad un dispotismo peggiore di quello che aveano lasciato in Italia e che andava dritto alle stesse conseguenze, alle quali giungeva Pio V. C'è di più. In Italia v'ha non solo chi aderisce al Protestantismo e chi lo sorpassa, ma trovano aderenti e seguaci anche tutte le sette, tutte le variazioni, per adoprare la parola del Bossuet, nelle quali il Protestantismo si divise in forza del suo più largo e fecondo principio (questo il Bossuet non lo dice) il libero esame, il quale fondava la libertà di coscienza, come la Rivoluzione Francese fondò l' uguaglianza civile.
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Contuttociò la Riforma in Italia non attecchì. Se considerate le condizioni politiche e morali dell'Italia d'allora, non vi occorrerà cercare altre spiegazioni di questo fatto. Sull'indifferentismo dei più un moto religioso non si propaga; trova per eccezione aderenti, trova chi lo sorpassa, trova chi vorrebbe conciliare il nuovo col vecchio, ma non riattaccandosi a nessun avanzo di antiche e tradizionali fazioni politiche Italiane, contrariando anzi del pari Guelfi e Ghibellini, nel momento stesso che Papato ed Impero si ridanno la mano, è naturale che tra questi due colossi si dibatta penosamente con sforzi parziali e individuali, ma finisca per rimanere schiacciato.
Sopravvissero la colonia italiana di Ginevra, e nelle Valli Alpine del Chisone, del Pellice, di San Martino e Luserna, fra il Moncenisio e il Monviso, il piccolo popolo dei Valdesi. La loro storia è assai più antica della Riforma Protestante, ma nel secolo XVI essi l'accettarono e a traverso mille vicende resistettero e perdurarono. V'ha un'armonia tacita e profonda fra certi luoghi e la gente che v'è nata e cresciuta. Nelle valli Valdesi la natura si mostra in tutti i suoi aspetti dal più ridente al più melanconico, dalla vegetazione più ricca e più gaia ai larici, ai licheni, ai muschi; dal mite spettacolo della pianura e del colle all'orrido e solenne dell'Alpe solitaria e coperta di nevi eterne. Tale armonia anche quel piccolo popolo la rivela nella semplicità de' suoi costumi, nel vivere parco e laborioso e in pari tempo nella sua storia, la quale dimostra con che impeto, con che tenacità disperata, quando la sua fede fu minacciata, diè di piglio alle armi, riparò sulle cime de' suoi monti e di là sfidò impavidamente la potenza e la moltitudine de' suoi nemici.
È proprio l'opposto di quanto accadde tra le ricchezze e i monumenti, fra gli splendori e la complicata civiltà delle maggiori città Italiane.
Qui non occorsero eserciti a domare ribellioni, che non vi furono. Un tribunale di frati, un carcere, un rogo bastarono a far tacere per sempre ogni voce fuori di chiave.
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Fu un bene? fu un male? È l'ultimo problema, che nasce spontaneo dalla storia, di cui ho cercato disegnarvi appena i lineamenti principali, ma ormai l'ora è passata ed io non posso che proporlo e dirvi: “pensateci, se vi piace, signore!„ Non curarsi affatto di tali problemi è vecchia abitudine Italiana, prodotta anch'essa in origine dal doppio e contradditorio impulso del Rinascimento critico e razionalista e della grande e opprimente reazione Cattolica del secolo XVI; ma non direi che tale abitudine sia per l'Italia un titolo e un segno di morale e filosofica superiorità. A giudicare da certi effetti mi parebbe quasi il contrario. Ad ogni modo, ripeto, se vi piace e non v'affatica di troppo, pensateci su!
L'ASSEDIO DI FIRENZE[1]
DI
ISIDORO DEL LUNGO.
I.
Signore e Signori,
La storia della democrazia fiorentina è fin dai primi periodi storia di fazioni e di gare, alle quali sovrappone le sue virtù benefiche e conservatrici il sentimento della grandezza del Comune; l'amore, il culto, per la “nobil patria„ della quale i Fiorentini, appartengano ad una o ad altra fazione, sono tutti a un modo orgogliosi e fieri. Guelfi e Ghibellini presto passano: rimane nello Stato la tradizione Guelfa, perchè la più consentanea al reggimento popolare: ma in quanto Guelfi ha voluto dir Chiesa, e Ghibellini Impero, Firenze ha conservata intatta e immota la pietra angolare dello stato suo, Popolo e Libertà. Bonifazio VIII ci ha spuntate sopra le armi della frode e della violenza teocratica; Arrigo VII c'intoppa nel suo passaggio italico, e le armi imperiali cingono d'inutile assedio le mura della città, che riman chiusa a Cesare e al suo Poeta. Alle ambizioni ecclesiastiche Firenze tributa cauto ossequio e, occorrendo, fiorini; ma libertà, no: alle violenze, risponde con la Guerra degli Otto Santi. I Cesari venturieri possono alleggerirle l'erario; ma nel palagio del Popolo l'aquila non annida. Fu forse vendetta di questa sconfitta imparziale, in cui Firenze repubblicana avvolse entrambi la Chiesa e l'Impero, che per l'alleanza appunto di queste due grandi forze dominatrici invitte del mondo medievale, la libertà di Firenze rimanesse schiacciata. Ma che per ischiacciarla non ci volesse meno di quell'alleanza, e che fosse alleanza funesta universalmente alla libertà umana; e che il saccheggio di Roma papale, perpetrato dagli scherani dell'Impero, precedesse, e quasi preludesse, alla caduta della nostra Repubblica, come apparecchio mostruoso d'una catastrofe scellerata: questa è gloria, quale solo accompagna la rovina di quelle grandezze il cui ricordo rimane nella storia della civiltà augusto e venerando; nè su pagina più luminosa e più tragica potevano scriversi gli ultimi fasti della libertà fiorentina.
Tali, da quelle origini, per quello svolgimento, a quella caduta, sono i pensieri che dinanzi a Firenze assediata e designata vittima nobilissima dei bastardi di casa Medici, si suscitano nell'animo di noi, che in condizioni di tempo del tutto diverse, toccate come gli Eneadi dopo tanti casi e vicissitudini le spiagge della terra santa d'Italia, consideriamo quei fatti e quelli uomini, de' quali il suono e quasi lo spirito aleggia tutto intorno alla cara nostra città. Ma fra il 1512 e il 1527, fra la restaurazione de' Medici per le armi di Chiesa e Spagna insanguinate nel Sacco di Prato, del quale si fa colpevole Giovanni de' Medici che poi sarà papa Leone; e la ultima loro cacciata, dopo il Sacco di Roma nel quale è vittima delle armi spagnuole il secondo papa mediceo Clemente VII, fra il 12 e il 27, che è l'ultimo periodo di signoria non ancor principesca della famiglia fatale; Firenze non ripensava quelle origini, non avvisava lo svolgimento, non presentiva la catastrofe. Aveva, in quei quindici anni, sentito soffocar la Repubblica, sopravvissuta, nel Gonfalonierato a vita, al rogo generoso di frate Girolamo; aveva sperimentate di nuovo, con Lorenzo duca d'Urbino, con Giulio cardinale, le arti eleganti della supremazia civile Medicea: aveva veduto, l'opera del magnifico Lorenzo, di appoggiar la grandezza della Casa al braccio della Chiesa, coronarsi il più splendidamente possibile, mediante que' due triregni; sul capo di Leone, e sul capo, sebbene non legittimo, di Clemente. E quando questi, fin allora cardinal Giulio, assunto all'altezza suprema del Pontificato, avea lasciato in Firenze, quasi sua longa manus e simulacro di Medici alla cittadinanza, due altri illegittimi, Ippolito e Alessandro, sotto la tutela d'un Cardinal da Cortona. Firenze, abbagliata da quell'apoteosi papale di Casa Medici, aveva quasi dissimulato a sè stessa la meschinità e l'indecenza di questo giovanile duumvirato di spurii, che, sotto i non dissimili auspicii di Sua Beatitudine, raccoglieva la splendida eredità di Cosimo pater patriae e del magnifico Lorenzo. Del resto, Giulio de' Medici, lasciando, nel divenir papa Clemente VII, la supremazia dinastica cittadina, non l'avrebbe mai, in quello stremarsi del maggior ramo Mediceo, consegnata ad alcuno dell'altra diramazione (destinata fra pochi anni al ducato e granducato), la quale aveva con quel ramo vecchi dissidii, e che sola ormai era, ne' maschi, stirpe di Medici legittima; non si sarebbe mai, Giulio, rivolto a quei Medici là, sebbene proprio un d'essi, e appunto in quelli anni, empisse del suo nome l'Italia: Giovanni, il prode condottiero delle Bande Nere. E così assettata, com'egli credeva, Firenze, il novello Papa si gettava e presto si perdeva, nelle ambagi della politica Europea: avverso a Spagna dapprima; poi, avvenuto il rovescio dei Francesi nella battaglia di Pavia e l'imprigionamento del Re, si affretta a mercanteggiare (e l'oro fiorentino pagava) col novello e già potentissimo imperatore Carlo V la ponderosa sua protezione; l'anno appresso, a fidanza di Francesco che si è spacciato dal carcere e dai patti, si fa auspicatore d'una Lega (Santa, al solito) di Francia, Venezia, Chiesa, Firenze, contro gli Spagnoli; e finalmente, lungo il tramite di queste ingloriose e insipienti altalene, rimane assediato, poi prigione, in Castel Sant'Angelo, mentre la povera Roma va a sacco, e le armi del Sacro Impero che pur da Roma s'intitola; vi rinnovano le gesta selvagge dei Barbari sotto il cui urto millecinquant'anni prima l'Impero è caduto: e il successore di Carlo Magno adempie le giustizie di Dio sul Papato mondano, che coi restaurati Cesari ha menata per sette secoli una tresca, interrotta da rare e sopraffatte virtù.
II.
E già quando questo a' primi di maggio dell'anno 1527 seguiva, lo Stato de Medici in Firenze era scosso, e inchinava rapidamente a rovina. I due eserciti: quel della Lega, guidato da Francesco Maria della Rovere restituito duca d'Urbino, e quello di Spagna, col duca Carlo di Borbone alla testa, traditore egli e Filippo di Châlons principe d'Orange del loro re; dalla devastata Lombardia, quello sulle péste di questo, tenevano, quel della Lega, il Mugello, e il Borbone il Valdarno dalla parte d'Arezzo, dispostissimo a rovesciare su Firenze le orde di que' suoi ladroni. La cittadinanza, così pericolante, balenava: la gioventù chiedeva armi, che voleva dir libertà: il papa, denari: non era possibile durare lungamente a quel modo. Un primo tumulto insorto nella città il 26 d'aprile, toltone occasione dall'essere i giovinetti Medici usciti fuori per abboccarsi coi capitani della Lega, scopriva gli umori de' Fiorentini, che subito, per prima cosa, in Palazzo Vecchio tramutato quasi in arnese da guerra, deliberavano il bando della famiglia fatale. Impediva a tale deliberazione l'effetto lo essere quel giorno stesso rientrati in città i giovinetti, portando seco lo spauracchio di tirarsi dietro, pronto da amico a diventare nemico, l'esercito della Lega. Ma dopo che, fermato quel bollore, l'esercito ebbe proseguito verso Roma, senz'alcun pro nè allora nè poi, la sua strada, perchè il Borbone, dinanzandolo con ispedita mossa, precipitò le cose; quando l'11 maggio la nuova del sacco atroce di Roma giunse a Firenze, portata da un parente de' Medici e loro consorte ed emulo nelle civili ambizioni, Filippo Strozzi; tentatasi dai Medicei un'ultima resistenza, mediante la proposta di Consigli più o meno larghi, pe' quali, pur rimanendo i Medici, si rintegrasse la partecipazione de' cittadini alla vita pubblica quasi ne' termini del governo popolare savonaroliano; agitandosi tuttavia più torbido e cupo il risentimento non meno degli ottimati che del popolo; il dì 17, Ippolito e Alessandro col loro Cortona sgombravano dal palagio di Via Larga e dalla città. Firenze tornava ad essere di sè medesima, e guardava in faccia gli eventi.
Padrona di sè, ma non degli svariati umori che serpeggiavano nel corpo della cittadinanza irrequieto e mal disposto a unità di voleri e di stato: alla quale veramente gli amatori di libertà non si acconciarono che dinanzi all'estremo pericolo, e quando, perdute le occasioni e le maniere di appoggiare il proprio buon diritto ad un saldo patteggiamento con qualche generale interesse od ambizione assicurati dalla forza, altro non rimase se non morire per quella libertà e con essa. Del resto, la libertà fiorentina conteneva in sè fatalmente i germi della propria dissoluzione: nè era possibile che il Comune, persistito così medievalmente democratico in Firenze anche Medicea, conservasse forze vitali, dopo l'evoluzione che il Rinascimento avea maturata, in Italia e fuori, degli ordinamenti civili a formare lo Stato nel moderno senso politico della parola. Sopravvissero al Medioevo le repubbliche più o men gagliardamente aristocratiche, per le affinità maggiori che questo loro carattere aveva col concentramento delle forze informativo del nuovo ente Stato: e la più longeva, e di gloriosa vecchiezza, salvo l'aver poi dovuto estinguersi decrepita, fu quella dove il corpo aristocratico, saldata da secoli col terrore la propria compagine, era quasi pervenuto alla concentrazione di un reggimento oligarchico, senza di questo le pericolose emulazioni: Venezia. Ma Firenze bisognava morisse. Forse, se si fosse trovato fra lo stato popolare e l'assorbente supremazia civile dei Medici un giusto mezzo, che assicurasse ad un tempo la libertà e sodisfacesse e limitasse la loro ambizione, poteva, forse questa città, che era ormai e per più rispetti tanta cosa nella vita d'Italia, continuarvi le sue funzioni, rimanendo repubblica: bensì repubblica, per così dire, in accomandita; quale appunto può dirsi che se la fosse ridotta il magnifico Lorenzo. Ma l'arte, o meglio il genio, di un tale sistema di governo non si trasmette per eredità: e bisognava altresì che le Alpi, al che pure Lorenzo aveva badato, rimanessero chiuse alla cupidigia straniera. Il governo popolare, adunque, fin da quando sulla rovina de' Medici l'avea rintegrato il Savonarola, era di per sè una ragione di debolezza alla città nelle sue relazioni politiche esteriori: massime ora che si trattava, non pur di vivere, ma difender la vita; e che il contrasto coi Medici non era più una mena interna cittadinesca, ma scoperta guerra nella italiana palestra dischiusa alle armi di Francia e di Spagna; non più un covare, essi i Medici, e ravvolgere per coperte vie, le ambizioni liberticide; ma alla luce del sole drappellarle sugli stendardi della Chiesa, che è divenuta cosa loro: portarle innanzi sulla punta, oggi delle labarde di Spagna, domani, se meglio torna, delle lance francesi, sempre contro una città dattorno alla quale il proprio congegno politico, in sè stesso pericoloso e ora poi antiquato e disadatto, crea solitudine o diffidenza o avversione.
Questo noi oggi teorizziamo e lumeggiamo comodamente a distanza di tre secoli e mezzo: questo, per l'occhio vigilante de' suoi ambasciatori, vedeva in atto l'austera Venezia, al cui Serenissimo Principe scrivevano da Firenze quei clarissimi che — in una repubblica popolare come la fiorentina signoreggiava la plebe, la quale attendendo alle arti meccaniche, non può sapere il modo del vero governo; e che, tra per cosiffatta meccanicità e per le dissensioni intestine, la era una repubblica che aveva sempre avuto bisogno d'esser retta da altri —: ma questo stesso, e le difficoltà che ne emergevano a governare, sentiva altresì, come per istinto, una delle fazioni che si contrastavano il reggimento della recuperata libertà; quella fazione appunto, che nella persona di Niccolò Capponi fu assunta al governo. Niccolò era degli Ottimati, cioè di quella parte, propaggine dell'antico Popolo grasso, la quale, anche amando la libertà, non procedeva scevra da ambizioni personali. A quella parte, in cotesta riforma di governo, si erano accostati i molti ne' quali tale amore di moderata libertà, la libertà ormai tradizionale a Firenze, si conciliava con l'affezione ai Medici patroni, e con la disposizione a riaverli cittadini principali senza tirannide. V'erano poi i Piagnoni, memori seguaci del Frate e in lui credenti, e avversari ai Medici, ma che la severità del costume e il vivo sentimento religioso segregava dagli Arrabbiati o Adirati, già contradittori delle santimonie fratesche e perciò più o meno Medicei, ma ora finiti in fazione, essi e i Libertini (i quali erano più che altro giovani e persone meglio di fatti che di parole), feroce contro il nome Mediceo, e ostile al Capponi e a quella sua maggioranza cauta e riguardosa dell'avvenire e non aliena dal patteggiare per la conservazione della libertà.
Il Capponi, fatto e poi confermato gonfaloniere a lungo termine dopo cacciati i Medici, fu il primo de' tre cittadini, nelle cui mani, l'uno dopo l'altro, l'insegna della Giustizia, rizzata fra il popolo da Giano della Bella nel 1293, sventolasse per gli ultimi anni dal 1527 al 1530 sopra libera cittadinanza. E se i due gonfalonierati successivi, di Francesco Carducci e di Raffaello Girolami, segnano il periodo eroico della resistenza e lo suggellano col loro sangue, ha la sua triste grandezza anche la magistratura di quel figliuolo di Pier Capponi. Il quale non facendosi illusioni sulle condizioni di Firenze e d'Italia, tenta valersi della fiducia che la cittadinanza ripone nell'integrità sua, per equilibrare nel governo quelli umori discordi: va bilanciando, tra Francia e Spagna, i partiti più favorevoli alla salvezza della città; dalla prudenza sua attirato verso la Spagna (come fu pure, ma felicemente, il magnanimo Andrea Doria), dalle simpatie popolari e guelfe del Comune sospinto a cercare la Francia: di Clemente stesso, che ravversa le sgominate fila della sua bieca politica papale, non rifugge dall'accogliere e ascoltare, anche con pericolo di morte e d'infamia, segrete ambasciate, le quali, chi sa?, potrebbero anche distornare i pericoli del buttarsi Firenze sia a Spagna sia a Francia, caso mai riuscisse con patti accettevoli, e non lesivi della libertà, farsi amico il Pontefice; ma sopratutto gl'incombe sull'anima lo sgomento angoscioso della impotenza della Repubblica, non a combattere sibbene a vincere, e del non saper egli o evitare il combattimento, o procacciare alla sua Firenze condizioni di buona guerra. E intanto, lui gonfaloniere, la gioventù si arma, e i retori fiorentini nelle chiese de' quattro quartieri arringano per la prima volta gl'inscritti nella “nuova milizia„ cittadina, esaltando i “civili ordini fortificati coi militari„; mescolando le sentenze Aristoteliche, dai libri della Politica, con gli esempi delle romane virtù e con le memorie del libero Comune da Giano alle violenze del 1512; e nella difesa della libertà fiorentina rappresentando una difesa della libertà e dell'onore di tutta Italia, dell'Italia “pigra„ (esclama un d'essi) ed “ingrata„; e sulle armi cittadine evocando l'augusta imagine della patria, e la benedizione invocando di Cristo re. Perocchè la Repubblica, solita pur troppo, ne' grandi cimenti, a dover costringere la morbosa espansione della sua libertà mediante il correttivo d'un patronato principesco, ha questa volta cercato il suo patrono fuor de' principi della terra malfidi e venali; e sulla fronte di Palazzo Vecchio, il re di tremenda maestà Cristo ha impresso il raggiante suo stemma; e dal popolo che occupa in armi la piazza dove la curia dei Borgia ha dato ad ardere il Savonarola, dalla cittadinanza che siede legislatrice nella Sala del grande Consiglio restituita agl'intendimenti di lui, si leva il superstite canto di trionfo del Martire e Profeta:
Viva ne' nostri cor, viva, o Fiorenza,
Viva Cristo il tuo re.
Ma fuori del cerchio che sempre più dappresso chiude e stringe Firenze isolata, fra le cui mura già serpeggia, come in altre parti della povera Italia, la pestilenza che quelle masse d'armi e di luridume trascorrenti e le stragi campali e lo strazio delle plebi affamate portavano seco, fuori di cotesto cerchio che presto sarà di ferro, le cose d'Italia s'avvolgono in nuove complicanze, sempre più minacciose alla vittima destinata. Clemente VII, sottrattosi fin dal dicembre del 27, fuggiasco o lasciato fuggire, alla prigionia di Castel Sant'Angelo, si ravvicina al Cesare saccheggiatore; e il trattato di Barcellona (giugno 29, il giorno di San Pietro) ferma le basi della nuova amicizia; e la suggellano, sinistramente per Firenze, le nozze che si patteggiano fra una bastarda di Carlo V e Alessandro de' Medici figliuolo, come fosse, del Papa. Da un altro lato la pace, così detta delle Dame (Margherita d'Austria per Carlo V, e Luisa di Savoia per Francesco I), ricongiunge a Cambrai (agosto del 29) i due emuli, segnando, col disonore del re cavaliere, l'abbandono de' suoi amici e alleati, primi i Fiorentini, che egli séguita, per maggior vergogna, ad affidare di vane e bugiarde speranze. E intanto le armi Spagnuole e quelle Francesi o della Lega, dove conserva tuttavia soldatesche proprie Firenze, hanno in Lombardia e nelle Puglie e intorno a Napoli continuato con varia vicenda la desolazione d'Italia, terminando col raffermarsi su di essa la prevalenza, che ormai sarà secolare, dello sconcio giogo spagnuolo. Spagnuola, ma però indipendente, da oligarchica pacificandosi in aristocrazia, si è fatta, pel grande animo del Doria, Genova; mentre l'altra gloriosa marinara d'Italia, trent'anni dopo la Lega di Cambrai, dopo retto all'urto di tutta Europa collegata a' suoi danni dalla ferocia di papa Giulio, si ritrae intatta con l'arme al piede nel vecchio territorio di San Marco, e ammaina nell'Arsenale le vele che aspettano i superbi venti della giornata di Lepanto.
Ed ecco, da' due estremi della penisola così bene assettata a non essere ormai più di sè stessa, Filiberto d'Orange, sesto dei trentotto Vicerè spagnuoli ai quali è condannata Napoli, sale con Ferrante Gonzaga verso Toscana; e di Lombardia, le masnade di Antonio de Leyva si apparecchiano a scendere l'Appennino; mentre l'Imperatore a piccole e caute giornate, costeggiando Spagna e Francia, approda a Genova, e prosegue verso Piacenza, e il Papa, già restituitosi da Viterbo in Roma, muove verso la Romagna per aspettarlo in Bologna. E colà convengono nel novembre del 29 Imperatore e Pontefice, per la pacificazione (così annunziano) e l'assetto d'Italia: che vuol dire, aggiunzione della corona di Napoli alla corona imperiale; patteggiamento di ambizioni ecclesiastiche con gli Estensi e con Venezia; transazioni per le signorie di Milano, d'Urbino, di Mantova; composizione con Genova, Savoia, Lucca, Siena; conseguente cancellazione di quella che seguitava ad aver nome di Lega, sebbene già da tempo non fosse più cosa: e sola, abbandonata all'ira cesarea e all'impazienza conquistatrice di Carlo, segno ormai sicuro all'odio filiale di papa Clemente, profferta alle brutali cupidigie delle soldatesche, disconosciuta da tutti, tradita dal Re Cristianissimo, sola e disperata di salvezza, sul suo capo accogliendo il fato della libertà italiana che muore, rimane Firenze. I suoi ambasciatori a Cesare, non ascoltati in Genova, respinti in Piacenza, riportano indietro le sorti non deprecabili della città; e nel ritorno, un d'essi, il Capponi già gonfaloniere, si ammala in Garfagnana, e vi muore; muore esclamando: “Dove abbiamo noi condotto questa misera patria!„
III.
Ve l'avevan condotta, non tanto forse gli errori dei cittadini suoi, quanto, come abbiamo visto, necessità di tempi e degli ordinamenti statuali. Ma errori avevan pure, meno forse di altri l'onesto e avvisato Capponi!, da rimproverare i Fiorentini a sè stessi: nè tutti li scusa quella difficoltà di pronti e risoluti partiti, in che li metteva la loro democrazia, per ciò appunto dispregiata dai togati Veneziani. Essi avrebber dovuto, subito dopo liberatisi dai Medici, disimpacciarsi altresì dalle pastoie e dalle ambiguità della Lega; ritirare da que' suoi pressochè disutili e ingloriosi scorazzamenti verso Roma e Napoli le gagliarde milizie che Firenze ci aveva, le Bande Nere, forti del nome e della disciplina del loro fiorentino condottiero Giovanni de' Medici; preparar subito la difesa del dominio, pur troppo malfido perchè servile da Pisa ad Arezzo e Cortona; continuare alacremente l'afforzamento strategico della città, incominciato dallo stesso Giulio de' Medici per opera del Sangallo; e in tale condizione ed assetto, fortificato dall'innato amore della libertà, ottenere che Firenze fosse un valore politico guerresco e morale, guarentito poi da' bei fiorin d'oro de' suoi mercatanti: un valore, che Venezia, gli Este, i Della Rovere, il Doria, e quanto di meglio disposto era nella penisola, potessero debitamente apprezzare, rispetto al loro stesso interesse: un valore che Spagna e Francia dovessero bilanciare ne' loro maneggi col Papa, fiorentino e Medici, e perciò nemico. A tutto questo furono incuranti o insufficienti i Fiorentini: così che di essi non rimase valor vivo e operante, se non l'amore della libertà, che li fece eroi, ma solamente per una gloriosa caduta.
Se nella critica storica fosse lecito avventurare divinazioni di possibili conseguenze da fatti i quali si suppongano accadere diversamente da quello che in realtà sono accaduti, vorrei farvi pensare: la morte, fra il 1526 e il 27, rapiva alla gloria d'Italia una spada valente, Giovanni de' Medici; un poderoso intelletto, il Machiavelli; ambedue fiorentini: — vorrei che immaginassimo, Niccolò Machiavelli, nel luogo del probo e dotto messer Donato Giannotti, essere, in servigio di Firenze pericolante, il segretario dei Dieci di Libertà, e portare a quell'ufficio il genio dello statista, la fedeltà passiva dell'instrumento di governo, l'animo donde usciva l'invocazione al Principe liberatore d'Italia: immaginassimo Giovanni de' Medici, rampollo dei malveduti da papa Clemente, spendere alla difesa di Firenze assediata quella sua prodezza guerriera, che fece scolpire sul marmo “esser egli morto, più che per suo proprio, per fato d'Italia„: — e una superba visione mi pare sorgerebbe dinanzi ai nostri occhi: Italia nostra, che vince la seconda grande vittoria repubblicana, dopo la veneta contro i congiurati di Cambrai, la seconda vittoria repubblicana contro le forze della tirannide dinastica, che calava oscura e pesante sulla libertà delle nazioni.
Ahimè, ben diversa è la realtà dei fatti consegnati alla storia! L'avanzarsi di Filiberto d'Orange, per la Toscana, dopo fermata in Roma l'impresa col Papa (il 12 agosto 1529,) fu un agevole abbattimento di non preparate e mal ordinate resistenze. Patteggiata, dopo breve sebben vigoroso contrasto, Perugia con Malatesta Baglioni (il sinistro nome di quest'uomo, già fin dall'aprile condotto agli stipendi de' Fiorentini, ci si fa troppo presto dinanzi), il principe s'impossessa di Cortona, luogo quasi inespugnabile che i soldati difendono bravamente ma i terrazzani tradiscono; prende Castiglione Aretino e lo saccheggia; Arezzo gli è abbandonata, esultante come di liberazione propria, dal Commissario fiorentino, il quale si ritira perchè si crede che Firenze voglia raccogliere intorno a sè stessa la sua difesa: e l'Orange, assicuratosi anche del Casentino, entra nel Valdarno di sopra, e dal campo di Montevarchi, il 23 settembre, scrive all'Imperatore: “Non mi rimane più dunque a prendere se non Firenze, di che prego Dio voglia darmi felice esito.„
Firenze intanto, di Consiglio in Consiglio, di Pratica in Pratica, bada pure a confidare nel suo buon diritto, e accordatasi finalmente seco stessa a mandarne, ne' suoi ambasciatori: ne manda con facoltà, prima limitate, poi più larghe, via via che l'acqua è più o meno presso alla gola; e anche allora i Consigli discutono di questo più e del meno: ne manda al Principe, fino al campo sotto Cortona, che lo seguono, di tenda in tenda, nel suo venire innanzi sino a Figline: ne manda, dopo fallita l'opera di quelli messi ai fianchi di Carlo V da Genova a Piacenza, e perchè l'Imperatore ha detto che al Papa si rivolgano, ne manda al Papa: al Papa in Roma, al Papa in Romagna, dopo ch'e' si è mosso verso Bologna incontro all'Imperatore. E il Papa, in Roma, all'oratore concittadino, un Portinari, che gli rammenta la patria comune, e i sensi d'umanità, e la condizione di Vicario di Cristo, risponde: — averci colpa Firenze; lui essere tanto buon cittadino quanto qualunque altro. Perchè non si mossero prima? Si presenta ora l'ambasciatore di Firenze con piena balìa di trattare; ma salva la libertà e il governo a popolo. Che ci può egli? Egli, dopo il trattato di Barcellona, è legato con Cesare. (E Cesare, avete sentito, li aveva rimandati che s'intendessero col Papa). Egli ora vuol salvo l'onor suo. Confidino in lui: della libertà e del modo di governo si potrà discorrere. Farà premure al D'Orange, che soprattenga le soldatesche. — E questi sensi confermava con lettera amorevole alla Signoria. Ma in Cesena, ad altra ambasciata fiorentina di quattro, in sul punto d'essere egli con l'Imperatore a Bologna, — Si tratta dell'onor mio! — risponde bruscamente — voglio che i Fiorentini si rimettano in me senza patti nè condizioni. Mostrerò poi io a tutto il mondo che son fiorentino ancor io, e che amo la patria mia. — La patria! Come potevano gli ambasciatori raccogliere tal nome da quelle labbra? Si ritraevano scorati. Ma pur troppo rimaneva un di loro, e il più valente: Francesco Vettori; ingegno di statista, amicissimo e confidente del Machiavelli. Francesco Vettori, “da ambasciator fiorentino, si rimase consigliere del Papa„; così scrive il Varchi: e quando, nella pagina accanto, egli stesso accenna a Francesco Guicciardini, che la “grandissima intelligenza ne' governi degli Stati„, in quelle strette della Repubblica la quale egli aveva pure servito, distorna, malcontento di non soddisfatte ambizioni, dalle cose presenti e la rivolge al passato, e ritiratosi in villa scrive la Storia; riserbandosi a' nuovi tempi ch'e' si fa certi della ristorazione Mediceo, noi, su codesta linea del Varchi, onestissimo narratore, rimpiangiamo quella maledizione di sorti italiane, che incatenava a rancori privati, a ignobili gelosie, a cupidigie non confessabili, le virtù vive del pensiero e del braccio nostri, e ci lasciava montar sul collo la brutale furibonda forza straniera; quel furore sopravvissuto di barbarie nordica, che la grande anima latina di Francesco Petrarca aveva già da due secoli rampognato all'Italia essere “peccato nostro e cosa contro natura„, “vincesse d'intelletto„ i figliuoli di Roma.
E che Carlo V, il Cesare de' nostri statisti e de' nostri principi e de' poeti cortigiani di quella splendida età, fosse, in pieno secolo XVI, un legittimo discendente degli Unni e de' Vandali, e degnissimo d'aver collegato il suo nome al sacrilego sacco di Roma, sentite a prova parole di lui: “Strigliate bene„ scriveva appunto l'anno del Sacco, al suo Vicerè di Napoli “strigliatemeli bene cotesti Italiani: chè se non sono bene strigliati e ridotti sulle cigne, non c'è da ripromettersene nulla di buono. Bisogna, del cuoio d'Italia, farsene striscio ai fianchi.... E non mi dimenticate i Fiorentini: a quelli là, ci vuole un castigo che se ne ricordino per un pezzo; e anche se se la cavano così, sarà sempre a buon mercato.„ Secondo la qual prosa imperiale, che io vi traduco fedelmente perchè il più trivialmente che posso, Firenze non avrebbe avuto il suo avere, che a sradicarla dalle fondamenta e far divenire un fatto le leggendarie rovine di Totila. Sul capo di questo Cesare consacrava il Pontefice in Bologna le corone del Regno d'Italia e dell'Impero di Roma.
IV.
La difesa della città, preparata sin dalla primavera di quell'anno 29, non potrebbe avere cominciamento più glorioso: vi è segnato il nome di Michelangelo Buonarroti. Il por mano alle operazioni di guerra, mentre pure pendono que' negoziati d'ambasciatori che continueranno anche troppo, non potrebbe avere dimostrazione più magnanima: il 29 di settembre, avvicinandosi l'esercito imperiale, per impedire che, riparato dai borghi e dalle ville suburbane, si avvicini troppo alle mura, si delibera di distruggere borghi e ville: e la deliberazione è senza indugio eseguita, guidando spesso i padroni medesimi l'abbattimento e la desolazione de' propri possessi. Così rispondeva la città “di mercanti„ ai motteggi di papa Clemente, che la si sarebbe arresa per non disertare le sue botteghe dentro e vedersi guastare fuori i suoi belli “orticini„: nè a quella distruzione mancarono Careggi ed altre superbe ville de' Medici, ed altresì de' Salviati e di altri Medicei. L'ambasciatore veneziano Carlo Cappello, il quale stava per la Serenissima in Firenze consigliatore (non altro però che consigliatore) di resistenza, scriveva a' suoi Signori: “Unitamente fu deliberato, più presto che devenire alla volontà del Pontefice, non solamente sostener la ruina del contado e la iattura delle facoltà, ma eziandio ponervi la propria vita, offerendo ognuno volontariamente quella quantità di denari che comportano le forze sue.„ E nei Consigli sonavano parole di tal sorta; parole autentiche, non di romanzieri e nemmeno di storici, ma dagli atti originali di quelle adunanze: “Gustata la libertà, è da posporsi a lei ogni cosa umana.„ Alla proposta “se si ha a rimetterci nella discrezione del Papa, o vero difenderci„, i Gonfalonieri delle Compagnie sono risoluti “difendersi, e mettere la roba e figliuoli, e non si dare a discrezione di chi non ha mai avuto fede alcuna„. E ancora: “confidare in Dio, consigliarsi, aver fiducia nelle forze proprie e nella causa giusta, ma non cedere, perchè chi scende un gradino della scala la scende tutta.„ E alla Maestà di Cesare deliberavano che gli ambasciatori già mandati presso il Papa “facessero intendere, quanto la città nostra sia bene disposta verso quella, e quanto noi siamo desiderosi di essere suoi fedeli servitori e buoni figliuoli di Santa Chiesa: e perciò non dovrebbe, per satisfare alle ingiuste voglie di chi desidera ridurci sotto la sua tirannide, perseguitarci con sì crudele guerra, guastando e rovinando tutto il paese nostro, con la uccisione e vituperio di infiniti uomini e donne; cosa non solo aliena da sua Maestà Cesarea, ma ancora da ogni scellerato principe. Mostrarle la ingiustizia della causa, il disonore che ne risulta alla sua Corona, il danno che ne séguita non solo a noi, ma a tutta la Cristianità, avendo sulle spalle il nemico universale de' cristiani, con sì potente esercito, e dovendosi quelle forze voltare contra lui.„ Cioè contro il Turco, le cui armi, guidate da Solimano, devastata prima e poi fattasi vassalla l'Ungheria, sovrastavano minacciose alle mura di Vienna; mentre la Santità di Clemente spingeva le armi del Sacro Impero contro le mura di Firenze e la libertà d'Italia.
Ritorno alla lettera dell'orator veneto: “Questa mattina, nel Consiglio degli Ottanta, hanno deliberato di non tardar più, e che dimani si rovinino e si abbrucino tutti li borghi di questa città, non avendo rispetto a molti bellissimi palazzi e luoghi religiosi.„ A proposito de' quali, è sempre grande e bella ricordanza, che pervenuta quella magnanima distruzione al monastero di San Salvi, e propriamente al refettorio, dinanzi al cenacolo mirabile di Andrea del Sarto, a un tratto tutti quanti erano, cittadini e contadini e soldati, “tutti quanti„, racconta il Varchi, “quasi fossero cadute loro le braccia e la lingua, si fermarono e tacquero, nè vollero andare più oltre con la rovina.„ Episodio di guerra, condegno ad una città che alle sue fortificazioni avea saputo preporre, senza uscire dal novero de' suoi cittadini, il divino Michelangiolo; e con parole degne d'essere risapute ne' secoli: “Li magnifici signori Dieci, desiderando che la munizione e fortificazione della nostra città..., giudicata non solo utile ma necessaria a resistere agli imminenti pericoli che si veggono ogni giorno, non solo a noi ma a tutta Italia, per le frequenti inondazioni de' Barbari, soprastare; e veduto tale e così importante impresa non si poter al desiderato fine e alla debita perfezione conducere senza l'ordine e indirizzo d'alcuno eccellente architettore, che e' concetti suoi alti secondo la disciplina di quella arte, come peritissimo uomo sappia, e come amorevole verso questa patria voglia, mettere in opera;.... giudicarono, dove abondano e' propri e domestici tesori, esser cosa superflua delli esterni andar cercando. Pertanto, considerata la virtù e disciplina di Michelagnolo di Lodovico Buonarroti nostro cittadino, e sapendo quanto egli sia eccellente nella architettura, oltre alle altre sue singolarissime virtù et arti liberali, in modo che per universale consenso delli uomini non trova oggi superiori; et appresso, come per amore e affezione verso la patria è pari a qualunque altro buono e amorevole cittadino; ricordandosi della fatica per lui durata e diligenzia usata nella sopradetta opera sino a questo dì gratis e amorevolmente; e volendo per lo avvenire per li sopradetti effetti servirsi dell'industria e opera sua;.... detto Michelagnolo condussono in generale governatore e procuratore costituto sopra alla detta fabrica e fortificazione delle mura, e qualunque altra spezie di fortificazione e munizione della città di Firenze.„
Michelangiolo (è cosa ormai nota, e vessata d'accuse e di difese) non restò sempre fermo al suo posto: nè solamente perchè fu dalla Repubblica inviato a Pisa e in altri luoghi del dominio per sopravvedere all'afforzamento, e a Ferrara, dove quel duca, che avevano sperato di avere Capitano generale delle milizie, gli mostrasse le fortificazioni della sua città, per le quali era celebratissimo; ma proprio perchè (noi dobbiamo a tale uomo tutta intera la verità) proprio perchè Michelangiolo Buonarroti volle lasciare Firenze mentre era assediata, trafugarsi a Venezia, uscire d'Italia. E la Repubblica, che in quel decreto nobilissimo avea esaltato il genio e la fede cittadina di lui, dovè imbrancarlo, col bando di ribelle, fra i Medicei che disertavan la patria. Ma non questa sola è la verità dei fatti; sì anche quest'altra. A spingere come avrebbe voluto il lavorìo di fortificazione di San Miniato al Monte, egli incontra ripugnanze ed ostacoli durante il tempo che si trascinano, fra le incertezze e le fallaci speranze tutto il gonfalonierato del Capponi, e ne' tentativi diplomatici i primi mesi di quello del Carducci. Egli diffida, forse prima d'ogni altro, di Malatesta Baglioni capitano generale: e vede l'inconsulto starsene, dinanzi a tale e tanto pericolo, del Carducci stesso e degli altri, anzi quella diffidenza gli è dal Carducci rimproverata. Allora Michelangiolo chiede più volte, sgomento, la sua licenza, e non l'ha; e vuole a ogni modo andar via, andarsene in Francia: ma l'amore della patria sua lo trattiene, ed è “resoluto„ (sia lui che vi ripeta ciò che da Venezia scriveva agli amici) “resoluto, senza paura nessuna, di vedere el fine della guerra. Ma martedì mattina, a dì ventuno di settembre, venne uno fuora della porta a San Niccolò dov'io ero a' bastioni, e nell'orecchio mi disse, che e' non era da star più, a voler campar la vita; e venne meco a casa, e quivi desinò, e condussimi cavalcature; e non mi lasciò mai che e' mi cavò di Firenze, mostrandomi che ciò fussi el mio bene. O Dio o 'l diavolo, quello che sia stato, io non lo so.„ E o Dio o il diavolo che fosse, e chiunque si fosse (che non si è potuto trovare) quel tale che lo trascinò in mal punto a commettere ciò che mai non avrebbe dovuto, non potremmo che condannarlo, s'egli avesse persistito, come in quella lettera persisteva, nel voler varcare le Alpi, e lasciar Firenze a consumare, poichè così era destino, la sua lenta e dolorosa agonia. Ma lo sconsigliato impeto che lo ha travolto, sbollisce d'un tratto: in quel fiero animo e pronto a' subitanei trasporti e alle commozioni affettive, rientra il sentimento del dovere e dell'onore; all'artista sdegnoso prevale il cittadino amorevole verso la patria: e non è passato un mese dalla sua fuga, che egli già chiede, e lo chiede (avvertite) proprio mentre le masnade imperiali calano dalle colline a circondare Firenze, chiede di tornare a' bastioni; e sapendo di avere errato, domanda ai magistrati della sua patria, egli, Michelangiolo, “misericordia„, e promette che “giusta el posser suo, non mancherà alla sua città„. E alla città sua, desiderato, ritorna, ed in essa rimane, e per essa combatte sino all'ultimo giorno: e quando Firenze cade, Michelangiolo si sottrae, fra i vinti e i perseguitati, alle vendette della scellerata vittoria; finchè l'oscurità del suo rifugio non sarà traversata dalla luce, che dovunque egli stia, lo circonda e lo irraggia. Ma nell'anima del grande artista rimangono, dopo la rovina della patria, le tenebre: e ne son figura il Pensiero triste e la Notte, che egli scolpisce sulle tombe Medicee, e li fa nel verso scabro e potente rimpiangere “il danno e la vergogna„ della servitù.
V.
“Apareja brocados, senõra Florentia, que venemos a mercarlos a medida de pica„: Prepara broccati, signora Fiorenza, chè noi venghiamo a comperarli a misura di picca. — Così, brandendo le armi, gridavano le masnade spagnole il 12 ottobre 1529, quando superata l'altura di San Donato in Collina si affacciarono dall'Apparita al maraviglioso spettacolo che offre da quello sbocco la nostra città. Sulla destra dal lato d'oriente, la catena di monti che discende ripida dalla Vallombrosa in Val di Sieve, e poi dolcemente continuandosi, lungo la striscia d'argento dell'Arno, da Rignano e Nipozzano per Settignano e Maiano, in fiorenti colline, risale verso il giogo di Fiesole etrusca, a tramontana della città: disopra al quale il boscoso Mugello si attesta con l'appennino pistoiese nereggiante in massa lontana, protratta di là da Lucca sino alle cime vaporose dell'alpi apuane. Da occidente, la distesa del Valdarno inferiore che pianeggia a perdita d'occhio verso Pisa e il mare, costeggiata verso mezzodì dai colli fertili e incastellati del Chianti che nascondono Siena. Nel centro dell'anfiteatro, adagiata sopr'ambedue le sponde del fiume che i suoi quattro ponti superbamente cavalcano, in mezzo a una festa di verde per entro al quale spiccano le popolose borgate, i grossi paesi, le ville superbe, casette sparse, monasteri, casolari, castelli; adornata dai tesori de' suoi commerci e del suo ingegno; cinta dalle grosse mura merlate, donde levano la fronte guernita le sue undici porte e si protendono minacciosi i bastioni; torreggiante d'ognintorno di palagi e di chiese, e dal cuore suo dritti verso il cielo i miracoli d'Arnolfo di Giotto e del Brunellesco: si distendeva sotto i bramosi sguardi delle soldatesche di Cesare, splendida di sole e di libertà, la Firenze del popolo.
Tutto l'oltrarno (la parte donde s'avanzavano di proprio cammino i nemici, e nella quale le colline immediatamente sovrastanti davano ad essi il maggior vantaggio sulla città) era stato apparecchiato a fronteggiare l'assedio. Dal colle di San Miniato, capo della difesa, circondato tutto di grossi bastioni, calavano le fortificazioni esterne, a modo d'argine, verso levante da un lato, dall'altro verso ponente, facendo con ambedue le diseguali braccia termine all'Arno, il quale era come la corda sottesa di questo grand'arco da porta San Niccolò, per le altre di San Miniato, San Giorgio, Romana, a quella di San Frediano. Il quartiere del Capitan generale era su' Renai nelle case dei Serristori. E di rimpetto alle difese de' Fiorentini Filiberto d'Orange, posto il suo quartiere sulle colline d'Arcetri, avea parimente distese le proprie forze, dalla sua dritta, occupando, sotto i diversi colonnelli, il poggio del Gallo, Giramonte e Giramontino, Gamberaia, Santa Margherita a Montici, e discendendo fino a Rusciano nel pian di Ripoli sull'Arno; e quello era il campo degl'Italiani; donde le artiglierie fulminavano il campanile di San Miniato, e Michelangiolo l'avea fasciato di balle di lana: a sinistra, dal poggio de' Baroncelli o Imperiale per San Gaggio e le Campora fin a Marignolle e Bellosguardo, e più oltre distaccandosi verso Montoliveto fin a toccare Scandicci, era l'accampamento degli Spagnuoli e de' Tedeschi. Rimase non circondata la città di qua d'Arno, dalla porta alla Croce insino a quella del Prato, tanto che seguitarono i Fiorentini ad uscire verso Fiesole anche per diporto (anche a caccia, racconta il Varchi), poco o nulla disturbati da qualche brigata di nemici che si avventurava a guadare il fiume: finchè rassicurato l'Imperatore de' pericoli che avean sovrastato dal Turco, scesero per l'appennino bolognese, invocate e pagate dal Papa, le soldatesche soprattenute sin allora in Lombardia; e prima che l'anno 29 spirasse, un campo di Tedeschi trincerato, posto a San Donato in Polverosa, e l'attendamento delli Spagnuoli alla Badia di Fiesole e lungo le colline adiacenti ebbero finito di accerchiare Firenze; e poco dipoi un ponte di barche congiunse a ponente dalla città, i due eserciti, rimanendo però il forte della guerra sulla riva sinistra del fiume.
Per tal modo le forze degli assediatori salirono, a mano a mano, fino a trentamila uomini tra gente a piede e a cavallo. Firenze di mercenarii aveva poco più che diecimila dentro alle mura; un cinquemila nel dominio. Di milizia cittadina, istituita con scarsa fiducia (la fiducia si riponeva tutta ne' mercenarii; e non tanto, doloroso a dirsi! negli italiani, quanto nei lanzi e negli svizzeri), appena quattromila da principio: ma quando la istituzione fu veduta procedere vigorosamente, come aveva auspicato Niccolò Machiavelli, e la gioventù raccolta sotto i sedici gonfaloni, quattro per quartiere, assidua agli esercizi di guerra, indefessa la notte al servizio de' bastioni, pronta ad ogni cenno di pericolo; quando alla retorica delle dicerie con che si arringavano nelle chiese que' cittadini armati, si accompagnarono ne' Consigli, dove si parlava la lingua de' fatti, provvisioni gagliarde che dicevano “esser venuto il tempo che la milizia abbia a sanare o dar la morte alla città„; “esser tempo che ognuno mostri la virtù sua„, “si séguiti ad armare il popolo, a ciò che i nemici veggano che si vuole prima morire tutti che abbandonare la città„, allora la milizia cittadina salì dapprima a cinquemila, e via sempre più allargandosi la inscrizione ne' ruoli quanto più incalzavano i bisogni della difesa, giunse a toccare i diecimila, nè diminuì se non quando la decimarono onoratamente i disagi o le armi degli inimici.
Del dominio fiorentino, tutto quello che pel Valdarno di sopra l'esercito dell'Orange aveva trascorso, era, come vedemmo, perduto. Nei possessi di Romagna e in Mugello, commissari e castellani valenti tenevan alta tuttavia qua e colà la bandiera di Firenze; ma il paese, attraversato dalle masnade che scendevano di Lombardia, corso e rubato dai partigiani, era pressochè perduto esso pure, con grave danno e pericolo alla città anche per le provvigioni da bocca. Pistoia, l'antica tana delle sanguinose discordie, rinfocolati gli odii fra parte Cancelliere, fedele a Firenze, e la Panciatica avversa, dalle mani di commissari inetti veniva, essa e Prato, in poter de' Medicei, o, come dicevano, si riduceva a devozione del Papa. Rimaneva in fede e signoria di Firenze il Valdarno inferiore sino a Pisa, e il sottostante paese fino a Volterra: ma anche da cotesto lato presto si perdeva il passo importante della Lastra a Signa, e dal campo assediante parecchi colonnelli erano discesi per la Valdelsa assicurandosi fortilizi e terre, sino a Poggibonsi e a Colle; mentre emissari a nome del Papa, ammaestrati da un buon maestro di tradimenti, il cancelliere Morone, svolgevano, come venisse lor fatto, le popolazioni. E queste mosse del nemico erano appoggiate con piena fidanza al territorio di Siena, la quale soccorreva d'artiglieria e di guastatori, e di provvigioni d'ogni sorta, l'oste imperiale contro l'odiata Firenze. E, pure dal senese, si avanzava verso il confine, mirando a Volterra, la compagnia di Fabrizio Maramaldo, ladroneggiando e come uomini di ventura: ma doveva dal valore di quell'ignobile condottiero essere eccitata e quasi ventilata a risplendere, la virtù d'un mercatante fiorentino. Il Ferruccio, che le supreme necessità della patria e il santo amore della libertà trasformeranno in eroe.
VI.
Le forze della Repubblica erano nelle mani del Capitano generale: chi questo Capitano si fosse, lo sa pur troppo la storia. Se l'assedio avesse trovato già radicata e accreditata la milizia cittadina, e i suoi ordinamenti allargati a tanta parte della gioventù del dominio, quanto fosse possibile in quell'assetto politico tuttavia medievale, pel quale lo Stato, anzi la nazione, si rinchiudeva dentro le mura della città; od anche solamente, se nei concetti del Machiavelli sull'armamento cittadino, che mediante cotesta milizia si attuavano, avesse più vigorosamente alitato quel senso di libertà, che vegliò sempre nell'animo di lui, ma che egli non ebbe la virtù di serbare intatto alle intuite idealità lontane, anzichè ripiegarlo alle contingenze, quali che si fossero, de' fatti, e alle qualità degli uomini, chiunque questi si fossero e checchè operassero, purchè operassero con mano gagliarda e sagace; se insomma l'esercito d'uno Stato, e d'uno Stato costituito da una cittadinanza devota da secoli alla libertà, avesse potuto, l'esercito di cotesto Stato, assumere negli anni di grazia 1529-30, il concetto non d'una forza solamente, ma d'una forza morale; la Repubblica fiorentina avrebbe risparmiato alla storia la vergogna del capitanato di Malatesta Baglioni. E che anche dalle botteghe de' suoi mercanti potessero uscire capitani, cosicchè il capitano fosse altresì, e innanzi tutto, un cittadino che per la città sua combattesse, lo avea mostrato, pur troppo in odiosa guerra come quella di Pisa, Antonio Giacomini; ed era per darne documento, anche per la santità della causa nobilissimo, Francesco Ferrucci.
Par certo, che, nello scegliere i conducitori della guerra imminente, Firenze volgesse l'occhio a tali, che avessero più o men forti ragioni domestiche e personali e politiche di inimicare o almeno contrastare nelle sue ambizioni principesche il Pontefice: nè poteva vederne di meglio disposti che quei signorotti o tirannelli o principi delle città che la Chiesa era, via via, venuta affermando sue, e n'avea composto il proprio Stato, ed aveva le relazioni fra l'autorità propria e quelle tirannidi o supremazie civili regolato con transazioni diverse, ma sempre in mezzo a fieri e sanguinosi contrasti, massime dopo che la gesta del dominio temporale, bandita con auspicii degni del Valentino, si era continuata alle mani guerriere di Giulio II e per le arti diplomatiche di Leone X.
Con tale intendimento si era da Ferrara chiamato Capitano generale un Estense; e sotto la sua dipendenza, Governatore generale delle genti a piede e a cavallo un Baglioni da Perugia. Ma su Malatesta Baglioni si fece maggiore assegnamento per più rispetti: perchè condottiero provato, e di famiglia di condottieri (che voleva bensì dire, anche con tutte le brutture di quella sorta di gente): poi, perchè il padre suo Giampaolo era stato fatto morire a tradimento da un Papa e Medici, Leone X; e Orazio, il fratello di Malatesta, aveva per la Repubblica capitanato bravamente le Bande Nere nell'esercito della Lega; e ora un altro Baglioni, Sforza, cugino ed emulo di Malatesta, e fuoruscito, appoggiava al favore del Papa le proprie ambizioni: e soprattutto, perchè Perugia, posta in sulla via dell'esercito assalitore, poteva offerire efficace resistenza all'avanzarsi di questo, e tener discosta da Firenze la guerra; anzi avrebbe anche potuto la guerra stessa trasportarsi addirittura su quel confine tosco-umbro, guernito di città nostre forti e munite, come Cortona, Castiglione, Arezzo, Montepulciano, e colaggiù per l'Umbria in fazioni fortunate disperdersi.
Può affermarsi che così la pensasse, e lealissimamente perchè secondo l'interesse suo, il Baglioni; e così nell'aprile del 29, quando, a Michelangiolo si affidava la fortificazione delle mura, accettasse il comando: così la pensasse, del resto, solamente rispetto alla possibilità delle cose; perchè allora le armi, che già si cominciavano a muovere dal vicereame di Napoli, non si sapeva verso dove si sarebbero scaricate; nè l'impresa di Firenze era deliberata, e non ancora stretti i patti di Barcellona. Tantochè esso Baglioni, ricevute le profferte dei Fiorentini, incominciava, come suddito della Chiesa, dal chiedere a papa Clemente la licenza di accettarle; mentre ai Fiorentini chiedeva che la sua elezione fosse altresì ratificata dal re di Francia. Quando poi il possibile diventò fatto, e la minacciata dalle armi imperiali fu proprio Firenze, Malatesta pregò e insistette per essere gagliardamente soccorso a muover contro gli assalitori in quelle prime lor mosse, e innanzi che ingrossassero, e mentre l'esercito dell'Orange non arrivava a ottomila uomini. Fu grave errore della Repubblica rimandare, al solito, di Consiglio in Consiglio, di Pratica in Pratica, l'esecuzione di questo che pur sembrava a tutti utile e ragionevol partito: e ne avvenne, che quando in giugno, sovrastando l'Orange a Perugia, espugnata da lui Spello, Malatesta aveva avuto a più riprese il soccorso fiorentino di circa tremila fanti, egli reputò ormai più vantaggioso al proprio interesse accettare i patti onorevoli che gli si facevano da parte del Papa: consegnasse la città, promettendoglisi non vi sarebbe rimesso Sforza Baglioni; e ne uscisse liberamente con le genti sue, portandole seco alla difesa di Firenze. Per tal modo Firenze, dopo avere alla elezione del suo condottiero fatto concorrere come motivo la condizione di suddito indocile e malsicuro al Pontefice, veniva ora ad averlo, patteggiato in certo modo col Pontefice medesimo, contro il quale egli si accingeva a difender Firenze: e da questo punto incomincia quel che, prima di equivoco, poi di anormale, e alla perfine di vituperosamente sleale, ebbero i portamenti di cotesto uomo, per le cui mani doveva finire strangolata la libertà fiorentina.
“Diletto figlio, salute e apostolica benedizione. Godiamo della tua desiderata resipiscenza, ratifichiamo la tua capitolazione col principe d'Orange e con gli agenti nostri, confermiamo i privilegi della casa tua de' Baglioni: ti assolviamo e liberiamo da qualsivoglia pregiudizio, così della presente ribellione, come di delitti quali si fossero, anche di lesa maestà, omicidii, rapine, per quanto gravi ed enormi, da te o da altri per tuo mandato commessi. Dato in Roma, a San Pietro, sotto l'anello del Pescatore, il dì 13 settembre 1529, del nostro Pontificato anno sesto.„ Con questo benservito papale, da un lato, e con la elezione di Governator generale delle armi della Repubblica nostra, dall'altro, veniva Malatesta Baglioni a Firenze.
Trova in Arezzo il commissario fiorentino Antonfrancesco degli Albizzi, e con lui delibera (errore capitale) di abbandonarla e ritirarsi pel Valdarno. È in Firenze; e fa la “lista delle genti e provvisioni che bisognano alla città; e„ (sentite la sua parola) “far venire quei bovi di che è stato ragionato, e far provvisione di vettovaglie, di carne e di strami più che possibil sia, e mandar fuori le bocche inutili; e soprattutto, che si abbiano munizioni per l'artiglieria, cioè polvere e palle, e tutte queste cose si domandano a Vostre Eccelse Signorie: le quali facendosi, prometto sicuramente difender la città dal nemico esercito, e non esser mai per mancare del mio debito e della mia fede, e spender la propria vita in servigio di essa città e di Vostre Eccelse Signorie.„
“Difendere la città dal nemico esercito„, voleva anche dire solamente preservarla dal sacco, che dopo l'esempio di Roma, e con l'appetito di sè che in quei ladroni metteva la grassa Firenze, e con le recenti prove che strada facendo avean dato su Spello e Castiglione Aretino, si credeva da tutti avrebbe accompagnata l'espugnazione. Anche Michelangiolo, in quel suo iroso e trasognato abbandono della patria, avea stimato “impossibile che Firenze non andasse a sacco„; e il crepacuore febbrile, di che, appunto incontrando il grande fuggiasco, era morto per via Niccolò Capponi, era stato dopo avergli sentito dire questa atroce parola, “il sacco„. Preservare Firenze dal saccheggio, per consegnarla intatta all'Imperatore. Il quale, dal canto suo, stretto dalle altre universali occorrenze politiche, e dalla penuria di denari, e dalle sollecitazioni incessanti di Clemente, raccomandava all'Orange, che in un modo o in un altro si venisse a pronto fine dell'impresa; e meglio (scriveva ad esso Imperatore la zia Margherita d'Austria, governatrice per lui e fida consigliera) “meglio, per mio piccolo avviso ( pour mon petit advis ), se si finisse accordandosi coi Fiorentini, senza usar loro forza, ma cavandone qualche discreta non però disonesta somma di denari, e non avendo poi troppo riguardo„ (brava e buona duchessa!) “alle passioni vendicative del Papa, che dovrà prendre raison en paiement.„ E lo stesso D'Orange si mostrava impensierito del come si finirebbe, fra l'accanimento mediceo del Pontefice che esigeva i patti sanciti a Barcellona, e la fermezza dei Fiorentini di non arrendersi se non salva la libertà: perchè (scriveva il principe all'Imperatore), o Firenze non si prende; e vegga egli, e vegga anche il Papa, che scorno per le armi di Cesare! “o s'io la prendo, ella andrà a sacco; il che sarà male per ambedue loro, poichè sarà la distruzione di una delle migliori città d'Italia, e luogo nativo del Papa; e senza pro, perchè il denaro, che farebbe comodo all'Imperatore, andrà sperperato fra la soldataglia, la quale non per questo cesserà di tirare le sue paghe.„ In questi conteggi che si facevano sul capo della misera Firenze, il Baglioni veniva a portare una nuova coefficienza: ed era la disposizione alla quale i suoi interessi perugini, testè accomodati così bene col Papa, dovevano inclinarlo, di non precipitare le cose dei Fiorentini verso quella guerra a oltranza, così di difesa come d'attacco, che egli stesso, sulle prime mosse, aveva, ma senza effetto, consigliata e voluta fare per sè e per loro; e che, dopo non averla potuta attuare per sè, gli era oggimai espediente non attuare, e procurare non fosse attuata, nemmeno nella città delle cui armi assumeva il governo. Come i Fiorentini non videro ciò? Altro che le colonne del porfido, per le quali il Poeta avea proverbiato “vecchia fama nel mondo li chiama orbi!„ Bisogna dire che l'ultim'ora di Firenze e della libertà fosse segnata ne' decreti di Dio, e che allo strazio d'Italia, il quale era incominciato col secolo, non dovesse mancare, per prima vittima, la città nella quale, con la lingua divina, con le arti, con gli ordinamenti della più popolare fra le sue repubbliche, l'Italia aveva, nel cospetto del mondo rinascente, affermata per la seconda volta sè stessa!
VII.
Degli undici mesi che durò l'assedio, in que' due memorabili anni 1529 e 1530, l'inverno, sino all'aprile, è occupato da fazioni di varia importanza e fortuna degli assedianti e degli assediati, senza troppo mutare le respettive condizioni: dall'aprile all'agosto, la storia dell'assedio è la epopea guerriera di Francesco Ferrucci, la quale si conchiude con la morte di lui e morte della Repubblica.
Il mantenersi, durante l'inverno, immutate quelle condizioni, era necessaria conseguenza dell'equilibrio in che si trovavano le due osti nemiche: forti di mura e di soldatesche e di cuore gli assediati; forti gli assedianti, di posizioni (poichè Malatesta ve li avea lasciati accomodare e distendere a tutto lor agio), e di armi, e del nome di Cesare e di Chiesa, il quale proiettava pur troppo l'ombra sua anche dentro alla città; sul Baglioni, nel modo, che abbiamo veduto; e sopra una parte altresì, fosse pur la minore, della cittadinanza deliberante. Il cominciamento delle ostilità somiglia a una prova cavalleresca di duellanti cortesi: nè col Principe personalmente Firenze cessò mai da dimostrazioni di cortesia, accompagnate spesso da splendidi donativi. Acquartieratosi l'Orange, e postosi in guardia, Malatesta si presenta da San Miniato, e fa sonare le trombe, e manda fuori un trombetto, come invitando a battaglia. Nessuno del campo esce dalle trincee. La città scarica le artiglierie, e dà nei tamburi. Succedono, ne' giorni appresso, scaramuccie: in una sortita i Fiorentini bruciano parecchie case occupate dal nemico. Poi una fazione notturna del Principe, che tenta di scalare le mura, ed è respinto. Poi la così detta “incamiciata„, pure notturna, delle milizie cittadine, guidate dal prode Stefano Colonna, che escono addosso al campo girandogli dietro nascostamente da Rusciano e da Santa Margherita a Montici, nel punto stesso che un altro assalto gli si fa incontro dalla città: il campo va all'aria: accorre l'Orange, rinfrancando gli ordini e la resistenza: Malatesta, dalla città, dà nelle trombe: gli assalitori si ritirano, guardando in faccia il nemico, protetti dalle artiglierie.
E di là da Firenze, mentre la città finisce d'essere circondata, si combatte l'altra guerra, forse la più importante perchè più netta, per la conservazione di quella parte del dominio non perduta, e la sicurezza dei valichi; certo la più bella, perchè guerreggiata dal Ferruccio, commissario prima a Prato ma con le mani legate alla superior volontà d'un inetto presuntuoso, e Prato si perde; poi a Empoli: e qui comincerà la gloria di lui.
Termina intanto il gonfalonierato di Francesco Carducci, l'uomo della resistenza e della guerra, ma non saputosi, come poteva e doveva, destreggiare in quella sempre, anche nella comunanza del pericolo, discordevole cittadinanza: e gli succede, con l'entrare del nuovo anno, Raffaello Girolami, amatore di libertà, più destro, ma per ciò stesso assai men diritto e gagliardo. Ed è lui che si trova a consegnare a Malatesta Baglioni, il quale ha chiesto e ottenuto il grado supremo del comando non accettato da Ercole d'Este, consegnargli il bastone di Capitan generale, e con esso dargli in pugno le redini della guerra. Era il 26 gennaio; una scura e malinconica giornata: pioveva. La milizia cittadina tutta sulla piazza; i soldati a' bastioni: la Signoria, i Dieci, gli altri magistrati, sulla ringhiera a piè del Palazzo; Marzocco, il Leon fiorentino, ha in capo la corona d'oro delle grandi solennità. Il novello capitano della Repubblica, brutto e contraffatto, nonostante la sua bravura soldatesca, e malconcio omicciuolo, suntuosamente vestito e sulla berretta di velluto un'impresa sfolgorante il cui motto è libertas, scendeva da cavallo, e dinanzi al gonfaloniere, riceveva, inginocchione, uno stendardo quadrato ricamato a gigli, un elmetto d'argento smaltato pure a gigli, “e questo scettro„ (proseguiva il gonfaloniere, quale è fatto parlare dal Varchi) “questo scettro d'abeto così rozzo e impulito com'egli è, in segno, secondo il nostro costume antico, della superiorità e maggioranza tua sopra tutte le genti, munizioni e fortezze nostre; ricordandoti che in queste insegne, quali tu vedi, è riposta, insieme con la salute o rovina nostra, la fama o l'infamia tua sempiterna.„ Ma il Baglioni aveva già scelto.
L'equilibrio materiale delle forze armate si sarebbe potuto sperare che avesse effetto sulle condizioni diplomatiche, e le volgesse alla meglio; invece queste andarono sempre peggiorando pei Fiorentini. Il re di Francia, nel quale hanno follemente continuato a sperare, li abbandona affatto a sè stessi. I Veneziani fermano saldamente con Carlo e con Clemente la pace, e la riparativa politica d'astensione. In Genova è presso Andrea Doria e di suo proprio moto si adopera, fedele alla patria, nobile e geniale agente, Luigi Alamanni il poeta: ma il Doria ha consigliato a tempo i partiti dell'uomo forte e savio; quelli, co' quali egli ha assicurato la sua Genova; non ascoltato, la generosa follia di Firenze gli è venuta ora in fastidio. Alfonso duca di Ferrara, dopo non aver voluto, anche perchè diffidente di quel Malatesta, che il figlio suo Ercole accetti d'essere il Capitan generale de' Fiorentini, finisce col mandare agli assediatori quelle artiglierie che avea mostrate amichevolmente sulle sue fortezze a Michelangiolo. E il Papa, a un'ultima ambasceria che, prima di lasciare Bologna, riceve dai Fiorentini, infelice ambasceria, favorita, come ogni altro temperamento e andamento di mezzo, da Malatesta, e accolta in corte e in città poco meno che con ischerno, risponde, il Papa, rovesciandosi contro il popolo che gli ha mandati, dopo avergli distrutto, a lui e a' suoi, le splendide ville, e minacciato di spianare il palazzo e farne piazza con nome d'infamia, e messe le mani sui beni e tesori ecclesiastici, e lui stesso vituperato in ogni maniera, sino a impiccarlo in effigie. E poco appresso, tornati l'Imperatore in Germania e il Papa in Roma, il Papa, a un vescovo francese, che dopo essere stato in Firenze, e ammirata la difesa magnanima, gli parla alto e severo di questa scellerata guerra contro figliuoli suoi in Cristo e di patria terrena fratelli, e “Veda Vostra Santità,„ gli dice “veda, La supplico siccome cristiano e prete e vescovo, lo sfrenamento da Voi legittimato di quelle feroci soldatesche al mal fare, e cotesto vostro abuso del ministero sacerdotale a mondane ambizioni„, risponde il Papa, turbato, “Oh non fosse Firenze stata mai al mondo!„ Tremenda parola: dice degnamente un moderno istorico. Ed io aggiungo: Terribile cosa, che sulla bocca del Papa, così imbragatosi nelle cupidigie di principe, quella sola potesse oggimai essere (ed era un'imprecazione!) la parola nella quale l'amor della patria gli si rifacesse vivo dalla rimorsa coscienza!
VIII.
Ma contro i fati che incombono alla moritura Repubblica, legittimo e degno figliuolo di lei, uscito da quel popolo di lavoratori che l'han fatta grande nel mondo, soldato della patria e della libertà, si leva Francesco Ferruccio. Quando nella storia delle umane colpe e sventure, di mezzo al male fatto o sofferto, fra i dolorosi contrasti di chi piange e di chi fa piangere, s'innalzano, da questa polvere del mondo sozza e cruenta, le figure luminose dei pochi che in quel contrasto hanno eletta la parte migliore, che hanno sposata con amplesso potente e puro alcuna delle grandi idealità dell'anima immortale, la carità, la scienza, la fede, la libertà umana, la patria; e a codesta sposa del cuor generoso si sono devoti e per lei hanno combattuto, e per lei sono caduti trionfatori; allora sentiamo che quelle sante idealità, librate nell'alto, sono state qualche volta, quaggiù basso, il reale; allora racquistiamo la fiducia nel bene, e la virtù di operarlo; allora la storia non è più solamente la maestra, sì anco la poesia, della vita. È di questi il Ferruccio.
Cominciato, come mercante ch'egli era, dall'esser pagatore delle Bande Nere che Firenze aveva nella Lega alla guerra di Napoli, uomo dirotto all'operare e intinto anche nel men bello di quella tramescolata vita del Cinquecento, fatto soldato dalle contingenze di quell'ufficio, e da naturale inclinazione, e dal vagheggiar la guerra nelle antiche storie che leggeva in volgare, si era trovato in Valdichiana e a Perugia mentre si avanzava il nemico, e da Perugia era venuto con Malatesta, che ancor egli aveva in grande concetto; ma sempre, e allora e poi a Prato, in condizione subordinata e con piccola o nessuna balìa di agire, sinchè la Repubblica lo ebbe messo a Empoli, nel cuore del dominio che solo le era rimasto, commissario in quella terra munitissima e chiave del Valdarno pisano e dirimpetto ai pericoli, da un lato, di Siena nemica, dall'altro di Pistoia e Prato rivoltate. Ciò nell'inverno: ed era subito stata opera sua il racquisto di San Miniato al Tedesco, sanguinoso sugli Spagnuoli che l'avean preso e sui terrazzani che avevano favoreggiato; e lo avere, in campo aperto, con strage, spazzati dal paese quelli scorridori e ribellatori delle terre della Repubblica. Ma quando di queste terre, una, troppo importante, Volterra, si dette al Papa, rimanendo ai Fiorentini la ròcca, ma nella città afforzandosi gagliardamente i ribelli, allora il Ferruccio, chiesto e avuto da Firenze un rinforzo, si spicca rapido e inaspettato da Empoli, dopo averla lasciata sicurissima; è a Volterra, penetra con le sue genti nella fortezza, da quella si getta sulla città, la riguadagna ferocemente alla Repubblica, schiaccia non che domare la cittadinanza colpevole; poi afforzatosi a sua volta, sostiene gli assalti, prima del Maramaldo venuto da Siena, poi di lui stesso e del Marchese del Vasto soprarrivato da Empoli (caduta intanto, pur troppo, per vilissimo tradimento, in mano ai Cesarei), e ributta ambedue gli assalitori con furibonda resistenza di armi, sassi, olio bollente; resistenza, che ferito e con la febbre addosso, egli séguita a comandare e spingere sino all'ultimo, facendosi portare a braccia, sopr'una seggiola, finchè il nemico è costretto, non pure a ritirarsi ma a levare per disperato l'assedio. A Fabrizio Maramaldo inasprivano la sconfitta i trattamenti usatigli siccome a venturiero fuor delle leggi di guerra (ed egli affettava dispregio di capitano pel Ferruccio mercatante); gliela inaspriva lo scherno, solito allora negli assedi, della gatta esposta sulle mura:
Su, su, su, chi vòl la gatta
Venga innanzi dal bastione;
che questa volta diceva
Chi vòle il gattuccio
Venga avanti al Ferruccio;
mentre co' miau della bestia era salutato il nome di Maramau. E il Maramaldo se ne ricordò a Gavinana.
L'esempio del Ferruccio fece contro Malatesta, che di nessuna occasione mostrava sapersi o volersi valere per aver vantaggio sul nemico, nascere prima impazienze, poi malumori e sospetti nel popolo. Cominciavano a scarseggiare le vettovaglie, e cresceva, pe' disagi e il serpeggiare del morbo, la mortalità: ma anche nel campo Cesareo la difficoltà delle paghe e la pestilenza stremavano o disordinavan le file. Con questo di diverso bensì: che fra gli assedianti s'insinuava in pari tempo la stracchezza e la malavoglia; e le forche che sorgevano accanto al quartiere del Principe in Pian di Giullari avevano occasione a influire le loro salutari efficacie: nei cittadini invece cresceva, col pericolo, la fermezza dei propositi generosa e feroce. Avea scritto il Ferruccio: “Alla guerra non ne nasce; nè bisogna per questo sbigottirsi: chè quando i tre quarti di noi morissimo per non tornare in servitù, il quarto che resterà sarà tanto glorioso, che il resto sarà bene speso„: nè il linguaggio delle cifre e della mercatura fu mai nobilitato ad altezza maggiore. E al cuore di quel magnanimo il cuore della cittadinanza aveva sin da principio risposto con questi altri sentimenti e parole, che stanno, prezioso testamento della libertà, negli atti della Repubblica o nelle lettere dell'Ambasciator Veneto: “Piuttosto tagliar a pezzi anche li padri propri, che voler consentire a condizione alcuna indegna del viver libero.... Non dubitiamo di cosa alcuna, e siam parati e disposti a difendere la nostra libertà; confidando che la Divina Giustizia, la quale non ha rispetto alle grandezze umane, sia per aiutare ad ogni modo la causa nostra ragionevole.... Ci porremo le robe e la vita.... Difenderemo questa città, finchè potremo sostenere in piedi li corpi nostri.... Abbandonati dagli amici, e massime da quelli„ (dicevano all'Ambasciatore della Serenissima; nè fu quella la sola volta che gli rammentassero la libertà repubblicana e l'Italia) “da quelli ai quali più si conviene conservare il viver libero, non saremo però abbandonati dalla grazia di Nostro Signore Iddio, come quelli che giustissimamente difendiamo dalla rapina e dalla tirannide le facoltà nostre, l'onore, la vita, la libertà....: e sempre con maggior costanza ci confermiamo in volere, ovvero conseguir la libertà, ovvero portarci di sorta, che se la perdiamo, speso e consumato tutto l'aver nostro, non sopravviva qui alcuno, e solamente si dica: Qui fu Firenze.„ Così fiduciosa nel proprio diritto e nella giustizia di Dio la repubblica metteva le mani sui beni ecclesiastici in Firenze ed in Pisa, e su quelli dei ribelli, sugli ori delle chiese fino a quelli del caro antico nido di San Giovanni: e con essi, e co' gioielli d'una mitra donata al Capitolo di Santa Maria del Fiore da papa Leone, e con gli altri di che le donne si spogliavano volonterose, si batteva moneta, col Giglio di Firenze da un lato e la Passione di Cristo dall'altro. Era sospeso, in certe ore, il suono delle campane; e come già di quelle, da chiesa a chiesa, così ora quelle valenti donne riconoscevano un ben diverso scampanìo: il trarre delle artiglierie da quel bastione o da questo. Si denunziava, mediante quella che chiamavano tamburazione, papa Chimenti (nome di dileggio) e i cardinali fiorentini ch'erano con lui a Bologna, come cittadini rei di Stato. I frati di San Marco bandivano dal pulpito la difesa della patria; promovevano pubbliche preci, processioni, ostensioni di reliquie e d'imagini tradizionalmente venerate; ricordavano le promesse e le profezie del Savonarola. “Non abbiate paura; perchè Dio è per noi, e sono qui molte migliaia di angeli.... Dio e la Vergine hanno deliberato di reggere e governare questa città.... Italia sarà nelle tribolazioni, e tu, Firenze, comincierai a fiorire: quando le spade voleranno per l'Italia, e tu fiorirai.„ E il popolo traeva dalla chiesa ai bastioni, sicuro che con lui era, contro il Papa e l'Imperatore, la forza di Dio, e scriveva su pe' canti, a grandi lettere, col carbone o col gesso: “Poveri e liberi!„ Eroica plebe, che affamata, ammorbata, deserta d'ogni umano soccorso, leva gli occhi in alto, e afferma col sangue la patria: a Firenze nel 1530; a Venezia nel 1849: e suggella con due difese popolari la storia delle due Repubbliche, sulle cui bandiere, per terra e per mare, il nome d'Italia fu gloria della civiltà.
E in mezzo a tutto questo fervore di guerra; piena la città di soldatesche; tanta parte di cittadinanza vigilante in armi, e accorrendo alla difesa delle mura persino i vecchi e i fanciulli; col terrore di esecuzioni capitali che su cittadini trovati in difetto scendevano rapide e inesorabili; con l'atroce pericolo, nella penuria estrema delle vettovaglie, che si dovessero da un giorno all'altro, metter fuori le bocche inutili, cioè abbandonare al vitupero de' nemici le donne, i fanciulli, i poveri vecchi; si conservavano tuttavia le forme e le consuetudini della vita cittadina: continuavano i traffici, i luoghi pubblici si frequentavano, si ufiziavano le chiese, sedevano i magistrati; le private differenze e dissensioni si rimandavano a “dopo che ci saremo levati costoro da dosso„: si contrattavano compre e vendite, anche di possessioni occupate dai nemici; e la villa dei Guicciardini in Arcetri, dove alloggiava il Principe, messa all'incanto, trovava compratore, nè più nè meno che presso i Romani il terreno dov'era accampato Annibale. Si solennizzava il San Giovanni, salvochè si convertivano in dimostrazioni d'umiliazione a Dio le gazzarre e magnificenze annuali. Si faceva sulla piazza di Santa Croce il giuoco del Calcio, proprio a portata dell'artiglieria nemica, che non mancava da trarvi sopra, ma senza che però il giuoco cessasse. E a cosiffatte dimostrazioni di sicurezza e di baldanza appartiene la sfida di Lodovico Martelli a Giovanni Bandini, uno de' Fiorentini, non pure ribelli ma rinnegati, che stavano pe' Medici contro la patria nel campo nemico: nella quale sfida al ribatter l'onore offeso delle milizie cittadine si mescolavano gelosie di non degno amore; e ne seguiva un doppio duello del Martelli col Bandini, e di Dante da Castiglione con Bertino Aldobrandi, che, dato campo franco dal Principe, si combattè con solennità sfarzosa, in sua presenza, sul piazzale del Poggio, morendone il Martelli da una parte e l'Aldobrandi dall'altra. Ma l'altro duello a morte tra Medici e libertà, rimaneva sulle spade de' due eserciti, sinistramente sospeso dal mal genio d'un uomo che la Repubblica aveva ormai fatto diventare più forte di sè medesima.
IX.
“Mostrano quei di fuori„ scriveva l'Orator Veneto “di voler venire all'assalto: il quale non solamente da questi non si teme, ma si desidera sopra modo, insieme con la battaglia, come certissima salute di questa città.„ Ma di battaglia non concesse mai il Baglioni (e il Colonna si rimetteva) altro che le apparenze, in parziali sortite, le quali se dimostrarono il valore de' cittadini, e de' soldati, e de' capi altresì, non escluso il Capo supremo che ormai, o si stesse o facesse, tradiva, lasciarono inalterata cotesta condizione di cose, senza che la città si levasse d'addosso, con l'assedio, la minacciata rovina della sua libertà. Allegava Malatesta (il quale intanto menava pratiche col Papa e con l'Orange), essere lui responsabile della salvezza della città, e non volere arrisicarla per improntitudini di giovani: quasi che Firenze gli si fosse costituita in curatela, e col bastone del comando sulle armi gli avesse altresì delegato ch'e' sentisse e pensasse e volesse per lei. E il più iniquo di tale condizione di cose si fu, che quando essa finalmente ingenerò, come troppo prima avrebbe dovuto, sospetti di tradimento, cotesti sospetti erano soffocati, il meglio si potesse, dalla Signoria, pel timore che, risapendoli il Baglione, egli e la gente sua voltassero le armi contro la città che gli giaceva ormai nelle mani. La più coraggiosa parola dei magistrati al Capitano traditore, fu di ammonirlo ch'e' non ricevesse più ambasciate dal Papa, e “voltasse l'animo alla gloria„. Ma il Petrarca aveva già ammonito che questo non era sentimento da mercenarii:
vederete come
Tien caro altrui chi tien sè così vile.
Ed invero, nessuna più dolorosa nè più vituperosa dimostrazione dettero mai di ciò che veramente esse erano, coteste venderecce milizie, le quali in quella meravigliosa canzone, che rimase come l'elegia perpetua della libertà nazionale, il Poeta aveva denunziate all'Italia:
In cor venale, amor cercate e fede:
Qual più gente possiede
Colui è più da' suoi nemici avvolto.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Se dalle proprie mani
Questo n'avviene, or chi fia che ne scampi?
Scampo unico e supremo tutti sentivano essere il Ferruccio: i cittadini con angosciosa speranza, con bieco terrore Malatesta, con isgomento i nemici. E il Ferruccio si mosse.
Sostituitigli Commissari valenti in Volterra, egli, poichè il Valdarno da Empoli a Signa, e la Valdelsa, erano ormai terra di nemici, fece capo a Pisa (ci arrivò il 18 luglio), col disegno d'ingrossarsi colà, e poi volgersi a Pistoia, per riprenderla, se si potesse, a ogni modo, secondo le contingenze, minacciare il campo Cesareo, ovvero da' monti, per Val di Bisenzio, riuscir sotto Fiesole, donde, sforzato il passo, entrare in Firenze; le cui forze intanto avrebber secondato il disegno, spiando e cogliendo il punto di gettarsi sul nemico, distratto verso il nuovo assalto esteriore. È da taluni attribuito al Ferruccio un altro disegno: voltarsi a Roma, con quale animo verso papa Medici è agevole a pensarsi, e così svolgere dall'assedio l'Orange, ovvero chiudere al campo assediante i varchi della Valdichiana e dell'Umbria per le provvigioni; mentre altri moti diversivi si tentassero in Pistoia e in Romagna, e si colorissero le speranze che da Genova il fedele Alamanni dava di là e, con più illusione, dalla Francia. Ma il disegno che fu attuato, rapido e violento, è troppo più verosimile fosse il solo che arridesse al Ferruccio. Se non che troppa parte di questo doveva esser coadiuvata dal di dentro della tradita città; e la febbre che inchiodò in Pisa per una diecina di giorni l'eroe dell'impresa, dette malauguratamente il tempo a' nemici di prepararsi. I Commissari di Pisa, dal letto del valoroso che si consumava del suo non potere, scrivevano ai Dieci della guerra: “Dio, per sua misericordia, non ci darà tale impedimento.„ E fra l'1 e il 2 di agosto, scrive egli “dal paese di Pescia„: “Io mi trovo in sul fatto, e guarito, Dio grazia„; e che procede come per paese nemico, e che il Maramaldo lanciatogli a' fianchi è sul Pistoiese, e “se li nimici faranno sperienza di noi, allora faremo vedere chi noi siamo„. Quel giorno stesso batteva, con la solita ferocia, in San Marcello la parte Panciatica, e s'incamminava a Gavinana, verso dove per parti diverse erano rivolti i nemici.
Ne' Consigli intanto, e fin da quando egli si era mosso da Volterra, prevalevano i partiti del furor disperato: si desse a Malatesta la licenza ch'egli minacciava, infintamente, di volere: e al primo opportuno avviso dal Ferruccio, serrar le botteghe, armarsi, primo e alla testa del popolo il Gonfaloniere, “mantenere il giuramento fatto a Dio quando lo eleggemmo re di Firenze„, combattere e vincere; e se così non avvenisse, “quelli che resteranno alla custodia delle porte e dei ripari, abbiano con le mani loro, subito, a uccidere le donne e i figliuoli, por fuoco alle case, o poi uscire all'istessa fortuna degli altri, acciocchè distrutta la città non ne resti se non la memoria, ed un esempio immortale a coloro che nati liberi, liberi voglion morire.„ E il 2 di agosto, mentre il Ferruccio scriveva quella che fu la sua ultima lettera, il Gonfaloniere riferiva che alle sollecitazioni rinnovate presso il Baglioni e il Colonna, di dare addosso al campo, questi avevano nuovamente rifiutato, sebbene si sapesse che la notte innanzi il principe d'Orange, guadato Arno con buon nerbo di gente scelta, era uscito a incontrare il Ferruccio, lasciando in sua vece don Ferrante Gonzaga; il quale veramente si aspettava d'ora in ora essere assalito. Il Baglione, mutata stanza, si era di su' Renai ridotto presso Boboli ne' quartieri delle sue soldatesche più strettamente fidate; mentre, doloroso a dirsi, nelle file della milizia cittadina, avvezza al maestrato del valente Colonna, s'insinuava col sentimento della deferenza a lui, la sfiducia verso la condannata causa della libertà.
Il 3 d'agosto, entravano nel villaggio di Gavinana, a dieci miglia da Pistoia, quasi ad un tempo, dai lati opposti, il Ferruccio e l'Orange: il Vitelli soprarrivava ad assalire la retroguardia de' nostri: il Maramaldo, sforzata di fianco la terra, calava loro addosso nel centro della battaglia. Cadeva fra la sua cavalleria, che il Ferruccio avea sbaragliata, l'Orange per due colpi d'archibugio: ma il piccolo esercito repubblicano, preso di fianco dai Lanzi freschi del Maramaldo, era ormai disfatto e quasi distrutto. Il Ferruccio, voltosi a Giampaolo Orsini che con lui sin da Pisa partecipava valorosamente al comando, stringendosi loro intorno i nemici e confortandoli si arrendessero, disse, conservateci autentiche da uno de' suoi come se le ascoltassimo dalla propria bocca di lui, queste parole: “Vogliamci arrendere sì tristamente? Io voglio morire.„ E di nuovo (prosegue la ricordanza dell'armigero) “e di nuovo si mise innanzi il primo, com'era stato sempre„.
Fu trovato fra i cadaveri degl'imperiali con la spada in mano, lacero di ferite, ma vivo ancora. Fatti prigioni egli e l'Orsini (pure ferito, ma che sopravvisse e si riscattò), il Maramaldo, che aveva dato bando gli fosse il Ferruccio consegnato o vivo o morto, avutolo fra le mani, “Tu sei or qui, che mi volevi appiccare?„ gli disse, e gli ricordò Volterra, e tornò a rinfacciargli, sciagurato, la condizione sua di mercante, cioè di cittadino glorioso, egli vilissimo servitore armato di chi lo pagava, o saccomanno de' paesi infelici che trascorreva. “Effetti della guerra!„ rispose il Ferruccio; e disarmato da quelli scherani, “Fabrizio, tu darai a un morto!„ gettò sulla faccia al Maramaldo; e ricevè nella gola il pugnale. “Era ragione„ scrive un altro di quei mercanti fiorentini, Filippo Sassetti, “era ragione, che il maggiore uomo che nella guerra avesse la Repubblica, avesse per sepoltura il monte Appennino„. Con lui, fra quelle montagne che non esse sole dividevano la penisola, avea sepoltura la libertà italiana: e quando dopo tre secoli spirarono le aure della risurrezione, la bandiera tricolore, innanzi di sventolare sui campi lombardi alla prima guerra d'indipendenza, si era inchinata in Gavinana su quella polvere sacra.
La disfatta del Ferruccio consegnava Firenze a' nemici, mani e piedi legata. La signoria stette sino all'ultimo coi più arditi e i più fermi; rinnovando altresì i quattro cittadini Commissari della milizia, e chiamandovi il Carducci e altri simili a lui, in luogo di corrotti o accecati da Malatesta. Questi allora strinse col Gonzaga e con Baccio Valori, fiorentino, Commissario del Papa nel campo Cesareo, le pratiche sempre mantenute; secondo le quali propose alla città si accordasse, promettendole, anche tornando i Medici, libertà. Rispose la Signoria, ufficio di lui e debito essere il combattere non il negoziare: uscisse in campo, o rassegnasse il comando. Allora Malatesta Baglioni, forte ormai non più solamente di soldati ma di cittadini che fra lui e la patria (di lui più infami) sceglievano lui, rifiutò di rendere il bastone del comando, ferì di pugnale uno de' due commissari che gliene avevan recata l'intimazione, con partito de' Dieci di guerra (incredibile oggi a dirsi!) onorevolissimo, e voltò le artiglierie contro la città.
Il 9 agosto si deponevano le armi; il 12 “nel felicissimo campo Cesareo„ si sottoscrivevano i Capitoli della resa: ne' quali (difesa estrema, almen dell'onore) la città si rendeva non ai Medici nè al Papa, ma a Cesare che era fatto arbitro di ordinare e stabilire entro quattro mesi la forma del governo, “intendendosi sempre che sia conservata la libertà.„ Non era finito l'anno, e Firenze aveva suo signore Alessandro de' Medici: i due ultimi gonfalonieri della Repubblica erano, il Carducci con altri decapitato, il Girolami gettato in prigione perpetua con pronto sopraggiunger di morte: altre condanne, di scure e d'esilio, assicuravano la città divenuta ducale. Malatesta Baglioni, prima di partirsi a bandiere spiegate da Firenze ch'egli aveva secondo le sue promesse salvata, onorato di privilegi dai novelli Signori e dal Pontefice, mandava a questo in dono un frate, Benedetto Tiezzi di Foiano, uno de' predicatori che avevano durante l'assedio rinfocolati gli spiriti religiosi del Savonarola. E al teologo pio e dottissimo il profferirsi a Clemente, che, lasciate le cure e le passioni civili, combatterebbe con l'autorità de' Libri Santi l'eresia luterana, non impetrò grazia della atroce morte, per la quale in una segreta di Castel Sant'Angelo finì consunto di fame.
X.
L'assedio di Firenze è nella storia d'Italia come lo sfavillare estremo d'una fiaccola (la virtù d'intelletto e di braccio de' nostri Comuni), che soffocata si estingue. La caduta della Repubblica fiorentina segna l'aggravarsi della tirannide, domestica e straniera, sotto la quale la nazione italiana prostrata espierà le sue colpe, e ne parrà come morta. Ma le nazioni non muoiono: e anche ne' trionfi della forza che le ha schiacciate, Dio matura la rinnovazione de' loro destini. È una vittoria spagnuola, ventisett'anni appena da quella caduta, una vittoria d'armi imperiali, che a San Quintino, sotto la spada poderosa d'Emanuel Filiberto, affranca da quei ladronecci stranieri di Spagna e di Francia un angolo predestinato di terra italiana, il Piemonte. E quando, di lì a tre secoli, da quel lembo di patria moverà l'impresa della liberazione e dell'unità d'Italia, Firenze avrà già consegnati fiduciosa all'invocato avvenire i tesori delle sue grandi memorie. L'Assedio di Firenze sarà una delle bandiere prime ad essere agitate nel nome della libertà italiana. Un patriotta, che nell'anima di poeta, burrascosa come il suo mar di Livorno, accoglie il fremito delle nostre antiche democrazie, farà di quell'Assedio un libro, non potendo combattere una battaglia. Un gentiluomo del vecchio Piemonte, pittore e romanziere, statista e galantuomo, cavaliere d'Italia e ministro del Re, ritrarrà su quel fondo di storia italiana, e renderà popolari, le figurazioni ideali della virtù cittadina. E un poeta eroe (due delle maggiori grandezze della umana personalità) un poeta eroe, che reca il tributo del generoso sangue napoletano alla difesa di Venezia; Poerio, le cui ossa deposte nell'isoletta di San Michele “con affetto di sorelle„, come le gentildonne veneziane vi scrissero sopra, furono una delle anticipate consacrazioni della nostra unità,
dalle vette ghiacciate
dell'Alpi, al monte onde Sicilia fuma;
Alessandro Poerio canterà la gesta del Ferruccio, auspicando la nuova Italia:
Questa ed altre frementi ombre placate
fian, quando raggi, come sol che sale,
non più la fiorentina
l'itala libertate.
Oggi le colline che furono desolate da quella guerra, lussureggiano di oliveti e di vigne, si ammantano a festa nelle soavi primavere fiorentine: e dove scalpitarono i cavalli di Lamagna e di Spagna, e si piantarono le artiglierie anche di città sorelle, la vaporiera trasvola di vetta in vetta, lungo le bellezze che natura ed arte hanno accolto nella sottoposta convalle, e porta seco la letizia delle paesane brigate, l'ammirazione degli ospiti benaccetti. Nel seno verde della florida pendice, Pitti e Boboli sono la reggia del Re d'Italia, il giardino della nostra graziosa e diletta Sovrana. Ma, degnamente vicino a tal reggia, San Miniato, col suo vecchio campanile mitragliato gloriosamente, torreggia tuttora: ed ivi presso, il genio di Michelangiolo, nelle forme gigantesche, eternamente splendide di gioventù e di forza, del biblico liberatore, domina ancora e protegge la sua Firenze.
Sulle condizioni della Economia Politica nel Cinquecento E LA SCOPERTA D'AMERICA
DI
ARTURO JÈHAN DE JOHANNIS.
Signore e Signori,
Un moderno scrittore, esprimendo del resto una convinzione che è molto diffusa, ha detto che la economia politica non è altro che letteratura noiosa; temo che oggi per mia colpa avrete una nuova conferma di quel giudizio. Concedetemi però di sperare che non lascierete venir meno la vostra pazienza.
Il secolo XVI è, specialmente da alcuni economisti, considerato per l'Italia come un periodo di decadenza; ed in tal giudizio, forse eccessivamente sintetico, si può concordare, quando lo si restringa dicendo: che in esso cominciano i sintomi di una decadenza. E veramente non si può ammettere che quello stato di prosperità economica e di splendore dell'arte, nella letteratura, negli studi, frutto di un lavoro intenso di quattro secoli, abbia potuto deperire in una diecina d'anni, nè per il solo fatto delle dominazioni straniere, che nel XVI secolo si allargarono in Italia, nè per le lente modificazioni che subì il commercio.
Genova, Ferrara, Urbino, Firenze, Venezia, Mantova, Roma, fra le altre molte città avevano raggiunto un grado così alto di agiatezza, che dovevano necessariamente resistere a lungo contro le cause esterne che si sono rivolte a loro danno. La affermazione pertanto che le scoperte marittime dei Portoghesi, degli Spagnuoli e degli Olandesi avessero senz'altro mutata repentinamente la condizione economica della penisola, va confinata tra le leggende che hanno soltanto l'ombra della verità; come pure va rigettato l'altro concetto che la dominazione spagnuola, per la importazione di costumi, di abitudini e di tendenze molto differenti dalle italiane fosse causa unica del decadimento economico.
Non nego certamente che le novità geografiche e le mutazioni politiche non abbiano sensibilmente contribuito alla diminuzione della prosperità italiana, ma ritengo sia più facile dimostrare e provare che le stesse condizioni economiche, nelle quali si trovava l'Italia al principio del Cinquecento, avevano intrinsecamente il germe del decadimento, e che gli avvenimenti geografici e politici, a cui ho fatto cenno, non furono in gran parte se non la causa occasionale del decrescere della fortuna pubblica e privata.
Starei per dire che tutto ciò che è logico è anche fatale; e nei fatti individuali come nei fatti delle grandi collettività — gli stati e le nazioni — meno eccezioni rarissime che formano poi l'oggetto della generale meraviglia — lo svolgimento dei fatti economici segue un indirizzo che mi pare conseguenza quasi inevitabile di alcuni caratteri della natura umana. Al faticoso accumularsi delle ricchezze con una cura parsimoniosa che pare fino avarizia, segue quasi sempre in generazioni successive prima l'uso intelligente ma largo delle ricchezze stesse, poi il fasto vano e smodato, lo sperpero, e finalmente la soggezione economica. E questo quasi generale procedimento, che riscontriamo tanto spesso nelle famiglie, si incontra anche nella vita delle nazioni.
Atene e Roma ne sarebbero splendidi esempi.
Qualche cosa di simile ci presenta l'Italia nei secoli che corrono dal mille al milleseicento. Il primo periodo è tutto di lavoro attivo ed intelligente il quale è conseguenza di due fatti principali: gli enormi guadagni che le città marittime della penisola conseguono col trasporto dei crociati e coi traffici che massimamente si svolgono coll'Oriente; l'incremento delle industrie favorito da una specie di libertà della produzione acquistata dai comuni.
Infatti dal mille al milletrecento circa quella parte dei fatti economici pur troppo ristretta, che gli storici hanno illustrata, ci mostra l'Italia invasa da una febbre salutare di lavoro, fino al punto che alla aristocrazia della spada che dagli alti castelli dominava ancora la campagna, si contrappose a poco a poco un'altra aristocrazia che a Venezia, a Genova, a Firenze, in Lombardia, in Piemonte, dapertutto, diventa potente e prepotente, l'aristocrazia sorta dai commerci e dalle industrie.
E qui per dimostrare questo solo punto della ricchezza commerciale dell'Italia nell'epoca che precede il 1400, non mancherebbe certo il soccorso della storia che del resto è a tutti nota. Chi non conosce gli 80 banchi fiorentini sparsi nell'Italia e le succursali aperte in tutto il mondo? chi non ha letto che i Pazzi, i Capponi, i Buondelmonti, i Medici, i Corsini, i Peruzzi, i Rucellai sono banchieri, fabbricanti, importatori ed esportatori di lane, di panno, di sete? Ed è per estendere questo commercio che Firenze acquista per centomila fiorini d'oro il porto di Livorno ed a spese dello Stato costruisce due flotte una che esercita il commercio coll'occidente, l'altra coll'oriente. E la lana greggia si importa dalla Spagna, dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Fiandra, si tramuta in tessuti che prendono la via del levante; dal levante e dalla Sicilia si importa la seta greggia per farne velluti, broccati ed ogni genere di finissimi lavori che si vendono poi a tutta Europa; e dalla Francia venivano i tessuti che si tingevano a Firenze e davano vita all'arte dei Calimala.
E Venezia, prima col modesto mercato del sale poi cogli scambi di prodotti diversi tra l'Asia e l'Europa che nell'Egitto avevano lo scalo, più tardi coi grandi guadagni che il trasporto dei crociati e l'approvvigionamento di tanta gente, la quale non soltanto dall'ascetico sentimento di liberare il sepolcro di Cristo, ma, come lamenta un principe contemporaneo, è mossa dall' amor auri et argenti et pulcherrimarum fœminarum voluptas, Venezia accresce la propria fortuna. Ricordo a tale proposito un solo fatto che vale per tanti altri analoghi. Col trattato di alleanza stipulato dai Veneziani per il trasporto della quarta crociata, il doge di Venezia si obbligava di imbarcare e condurre in Oriente 4500 fanti, altrettanti cavalli, 9000 corazzieri, e 20,000 pedoni, e di mantenerli con razioni stabilite di pane, legumi, vino ed acqua per tutto il viaggio; il prezzo convenuto era di 85,000 marchi d'argento di buona lega e peso di Colonia. Ma quando arrivati a Venezia i capitani non hanno il danaro, il doge si rifiuta di trasportarli; e quando i crociati spogliandosi di ogni cosa all'infuori delle armi e dei cavalli e portando alla zecca del Doge per farne valori begli e ricchi vasellami d'oro e d'argento ne traggono 35,000 degli 85,000 marchi, i Veneziani li accettano, purchè i crociati li aiutino a prender Zara, sperando però che Iddio per mezzo di comuni conquiste dia ai crociati il modo di pagare gli altri 50,000 marchi. Nè valsero le proteste del Papa, e le resistenze degli stessi crociati che non volevano combattere il Re d'Ungheria esso pure crociato; l'interesse prevalse ad ogni considerazione, Venezia ebbe Zara prima, Costantinopoli poi, e soltanto più tardi mosse senza successo coi crociati a liberare il santo sepolcro.
Calcolano alcuni che cinque o forse sei milioni d'uomini si recassero in Terra Santa nel tempo delle crociate; è difficile stabilire una cifra attendibile, ma è certo che il movimento delle persone, dei cavalli e dei viveri necessari a mantener tanta gente che si imbarcava a Venezia, a Genova, a Bari, a Marsiglia, deve essere stato enorme. Ed intorno a questa moltitudine di cui facevano parte imperatori, re, capitani, guerrieri, famigli, matrone, sacerdoti, avventurieri ed avventuriere, pellegrini e pellegrine, che a centinaia, a migliaia, quando a drappelli ordinati in armate, quando in turbe disordinate intraprendevano il santo viaggio, stava quello sciame di trafficanti di tutti i generi che vive e guadagna sui più urgenti bisogni altrui. Oggi si avrebbero appaltatori, impresari, aste, forniture, frodi, corruzioni, allora i nomi erano diversi, ma non diverse erano le cose.
A questi fattori notevolissimi di lusso per quasi tutte le città marittime italiane, si aggiunga per Venezia la straordinaria attività del suo governo, della sua politica e dei suoi cittadini che resero quella Repubblica il paese commercialmente più ricco del mondo. Essa tiene sul mare 3000 navi mercantili, 45 galere, 25,000 uomini. E basterebbe ricordare la relazione del doge Mocenigo al Senato nel 1421 per comprendere quale fosse la importanza del traffico di quel tempo. Per il Po e per i canali che avevano diramazioni in Lombardia e fino a Tortona ed a Novara i Veneziani mandavano 20,000 quintali di filo, 50,000 di cotone, 40,000 di lana catalana, ed altrettanti di lana francese, 250,000 ducati di stoffe di seta ed oro, 3000 carichi di pepe, 400 pacchi di cannella, 2000 quintali di zenzero, 25,000 ducati di zucchero, 30,000 di sostanze tintorie, 250,000 di sapone, e 30,000 di schiavi. Venezia comperava dagli stessi luoghi 90,000 pezze di panno e riceveva a saldo più di un milione e mezzo di zecchini. E senza riferire maggiori particolari accennerò che quella relazione riassume in 10 milioni di zecchini il complesso del commercio di Venezia, corrispondenti a 110 milioni delle nostre lire, quindi, al valor odierno, a circa mezzo miliardo di traffico; tutta l'Italia oggi non arriva a due miliardi di commercio internazionale.
L'interesse del danaro era in molti punti d'Europa in quel tempo anche del 20 per cento; e se questo era il saggio del profitto che la produzione ed i commerci tanto sviluppati in Italia, ritraevano, si può spiegare agevolmente come in breve tempo le città della penisola mirassero alle grandi concezioni dell'arte, della intelligenza, degli studi. Vi spiegate subito perchè appunto in quell'epoca che chiamiamo Rinascimento si adornassero le città italiane di quei monumenti che formano oggidì la maggiore e più ammirata testimonianza della ricchezza pubblica e privata. Se si raccolgono colle date rispettive in un elenco i grandi edifizi innalzati nel XII, XIII e XIV secolo, si costituisce quasi il riassunto di una guida per tutto ciò che di più altamente artistico oggi ancora in Italia si ammiri. Nè certamente occorre che qui dinnanzi a voi ricordi la gloriosa serie che da Santa Maria del Fiore al Duomo di Monreale, dalla sala della Ragione di Padova al Duomo di Orvieto, dal Palazzo di Belfiore di Ferrara al Duomo di Milano, alla Certosa di Pavia, a San Petronio di Bologna contiene tante manifestazioni di raffinata intelligenza; nè debbo ricordare le opere grandiose quali il ponte sul Ticino, i canali del Veneto, le arginature e deviazioni dei fiumi, ecc., ecc.
Ed è la conquistata agiatezza che dà modo agli studi di svolgersi e di accrescere la coltura; sono le corti dei principi ed i governi degli stati liberi, sono le scuole delle arti e le stesse popolazioni che incoraggiano il rinascimento intellettuale ed onorano i grandi scrittori ed artisti e vanno a gara per disputarseli e vogliono godere della voluttà del pensiero. Egli è che, se mi è permessa una riflessione aridamente economica, il lusso intellettuale viene dopo la diffusione della ricchezza; non si troverà l'arte, lo studio, la poesia, la scienza in quei popoli presso i quali lo scarso profitto del lavoro permette appena la soddisfazione dei materiali bisogni. Nei popoli l'apprezzamento delle più alte manifestazioni del pensiero è quasi sempre incompatibile coll'angustia economica. Nell'epoca a cui accenno le repubbliche decretavano ad esempio che si costruisse il più bel tempio del mondo in attestazione della potenza e della ricchezza della nazione; oggi si farebbe un'asta, con un capitolato d'oneri, col ribasso del vigesimo, ed il Consiglio comunale discuterebbe sulle dimensioni delle arcate e si approverebbero a maggioranza le regole d'arte. E davanti allo splendore antico, in mezzo al quale viviamo, ci lamentiamo della insufficienza contemporanea, e non notiamo abbastanza che deriva dalla scarsezza dei mezzi.
Ma se mai alcuna prova occorresse a questa sconfortante riflessione si ponga mente che il risorgimento economico dell'Italia ed il conseguente rinascimento artistico e letterario, si verifica in tutta la penisola, non ostante la grande varietà degli ordinamenti politici e sociali; tanto a Venezia dove dominava una oligarchia tirannica, quanto a Firenze dove talvolta la turba, che oggi si direbbe scamiciata, afferrò il potere. La storia con numerosi esempi, troppo spesso dimenticati, mostra la impotenza dei governi a creare o a distruggere la ricchezza; nella maggior parte dei casi sono le stesse condizioni economiche quelle che generano un inevitabile decadimento, ed i Governi, fiacchi o corruttori o corrotti, sono essi stessi il prodotto e non la causa di quelle condizioni. Perciò nel tempo di cui parlo vediamo a poco a poco manifestarsi i sintomi di due mali che saranno lenta ma determinante causa del decadimento: da una parte il lusso smodato che si esplica nel godimento dei risparmi accumulati; dall'altra il timore della attività altrui il quale si manifesta colle proibizioni economiche.
Anche qui sono obbligato a brevi cenni.
Già alla fine del 1400 cominciano le leggi suntuarie: non è più il tempo nel quale i Fiorentini vendevano agli stranieri i fini panni delle loro fabbriche, mentre si vestivano di stoffe grossolane. A poco a poco Firenze divenne il centro del lusso, delle belle arti e del buon gusto; la facilità stessa con cui il danaro si guadagnava e da ogni parte affluiva, eccitava alle spese ed alla prodigalità, ed il lusso dell'abbigliamento delle donne fiorentine, già lamentato da Dante, non ebbe più limiti. L'anno scorso un simpatico e dotto conferenziere vi ricordò molte leggi contro il lusso promulgate a Firenze ed in pari tempo ve ne dimostrò la inefficacia; non altrimenti avveniva a Venezia. Trovo un decreto con cui per limitare le spese eccessive “de pasti a colazion de nozze et compagnie„ la repubblica proibisce i confetti pieni di liquori “cioè quelli che se chiamano senza corpo„ e proibisce di illuminare il banchetto con “più di sei torze del peso di lire 6 l'una„; ed alle donne proibisce “de portar al colo più de un filo de tondini d'oro schietti che non eceda el prezio de 25 ducati od una cadenela d'oro schietta la qual no ecceda el valor de ducati 100„; e proibisce pure di portare “maneghe et petorali tessuti d'arzento over d'oro„; di un valore maggiore di venti ducati in tutto; ed ordina che “le maneghe a comedo„ sieno fatte in modo da non richiedere più “de un terzo de brazo de seda„. Ed anche la coda richiama l'attenzione della Repubblica la quale proibisce che “alcuna dona over putta de questa città possino portar alcuna veste la qual habbia più de una quarta de coda, sotto pena de perder la vesta e de pagar 25 ducati per una e cadauna volta„.
Prescrizioni severe ci paiono oggi ma altrettanto inutili. Era il lusso una conseguenza inevitabile dell'accumulazione della ricchezza, od era un prodotto di cause particolari, di ordinamenti civili, di forme di governo, di rilassatezza di costumi?
Se si riflette che gli stessi inconvenienti si lamentavano e gli stessi inutili rimedi si tentavano a Venezia, a Milano, a Mantova, a Genova, a Firenze, a Roma dove pure tanto diverse erano le condizioni politiche e dove i Governi avevano caratteri tanto differenti, è da credersi che il lusso smodato, che non si limitava al vestire delle donne, ma si manifestava nel giuoco, nelle feste pubbliche, nei funerali, nei viaggi con seguiti numerosi, non fosse che un prodotto, inferiore se si vuole, ma egualmente intrinseco di quelle stesse cause, che avevano dati i templi sontuosi, le fabbriche pubbliche ricche di marmi, i palazzi splendidi di ornamenti. Dall'arte pura si passava grado a grado a quella esuberanza di decorazione nell'ornamento che troverà più tardi nel barocchismo la sua sgraziata apoteosi.
Ma ho detto dianzi che assieme al lusso un altro germe roditore della ricchezza pubblica e privata si manifestava nelle città italiane: il timore della attività altrui. Finchè a tenere il commercio e l'industria nel maggiore splendore erano sopratutto e quasi unicamente le maggiori città italiane Firenze, Genova, Milano, Venezia, la libertà della produzione era dai comuni quasi generalmente accettata e fatta rispettare; si può anzi dire che sopratutto sulla libertà del lavoro sorgessero e si consolidassero queste nuove collettività italiane. Le diverse costituzioni o statuti, come allora si chiamavano, che ci rimangono, o che più furono dagli storici studiati, più che mirare ad un ordinamento politico, tendevano ad assicurare alla cittadinanza, dopo la giustizia, franchigie economiche, finanziarie, fiscali. Il giuramento del capitano per mantenere le consuetudini di Genova è tutto un riassunto di diritto civile sulle servitù reali e personali: i Pisani avevano principalmente chiesto ed ottenuto il riconoscimento e l'osservanza delle costitutiones quas habent de mari; e Messina e Lucca e tante altre città fondano il nuovo diritto di libertà sulle esenzioni doganali, sul diritto di coniar moneta, sulla libertà di tagliare nelle foreste regie per il naviglio, sulle imposizioni fiscali, sui livelli, sulle prescrizioni, ecc., ecc.
Ma quando la attività industriale e commerciale si diffonde e si estende, allora sorgono le invidie, le rivalità, e incomincia il protezionismo con quelle forme violente che caratterizzano tutti i rapporti di quell'epoca tra città e città. È infatti poco prima del 1500 che si estendono dovunque le dogane, specie di fondaci dove dovevansi introdurre tutte le merci che venivano di fuori e che erano custodite da un Massaio di dogana, nè più nè meno dei nostri magazzini generali e dei nostri porti franchi; ed è nella stessa epoca che i decreti che applicano i dazi cominciano a parlare non soltanto di necessità dell'erario, ma della importanza di proteggere le arti e gli operai della città.
Nel monito del Sercambi ai Guinigi di Lucca trovo già che lamentando la decadenza dell'arte della seta “la quale era quella che riempiva Lucca di denari„, esprime il consiglio che non se ne permetta la importazione, colla sentenza: “almeno quello che per noi far si può per altri non si faccia.„ E poi voleva che i vini forestieri non si ammettessero in Lucca e nel contado “se non con grossa e smisurata gabella„ giustificando la sua proposta coi soliti sofismi, che i vini forestieri essendo migliori allettavano di più, mentre quelli del paese si gettavano, rovinando così l'economia dei poderi. E da questi particolari suggerimenti passando a più grandioso concetto, il Sercambi formula una completa teoria protezionista. Trova triste la condizione delle arti e crede che migliorerebbero se il contado comperasse soltanto in Lucca quello di cui abbisogna; allora ogni cittadino Lucchese guadagnerebbe e si aprirebbero fondachi sperando di vendere al contado; vorrebbe a tale scopo che fosse sequestrata ogni merce che “si conduce nel contado et non sia tratta di Lucca„; fa eccezione per alcuni commestibili e per il legname contentandosi che siano tassati nella entrata e nella uscita. E conclude:
“Tutte quelle mercanzie che di Lucca si cavassero si possino portare per tutto il contado senza pagare cosa alcuna, e di questo avrà il comune due gabelle, l'una in nell'entrare, l'altra in nell'uscire, et il guadagno rimarrà in Lucca.„
Non altrimenti parlano oggi per il protezionismo rifiorente, tanti illustri uomini di Stato italiani e stranieri, ed è cosa che fa disperare del progresso economico.
E le corporazioni d'arti e mestieri, nelle città, dove erano rimaste, colla potenza che avevano acquistata in quei tempi, non ebbero piccola parte nel creare e nell'incrudire degli impedimenti verso la produzione forestiera, dappoichè estesero ai produttori delle altre città, mano a mano che si svilupparono le industrie, quelle stesse idee grette e tiranniche colle quali per gelosie interne governavano l'esercizio della industria. Anche intorno alle corporazioni un illustre scrittore vi ha intrattenuto nell'anno passato e nulla potrei aggiungere a quello che egli vi ha dottamente esposto.
Se non che, il lusso da una parte, le proibizioni ai commerci dall'altra, portarono ben presto come fatale conseguenza un considerevole aumento delle spese pubbliche e private. Anche qui i caratteri della natura umana furono in azione più che mai violenta. Col lusso dei cittadini i governi, fossero essi a libero reggimento od a monarchia, cominciarono a gareggiare; ed allora il fasto non ebbe più freno. Ricordate il viaggio del duca Galeazzo Maria Sforza da Milano a Firenze? I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli facevano corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d'oro e d'argento; ciascuno di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati; tutti gli stipendiati ducali erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri avevano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta ornata d'argento. Cinquanta corazzieri, con selle di drappo d'oro e staffe dorate: cento uomini d'arme, ciascuno con tale magnificenza come se fosse un capitano; cinquecento soldati scelti a piedi: cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati: cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi drappi d'oro e d'argento; duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio dei cortigiani. Cinquecento paia di cani da caccia, e sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale è il racconto di un cronista contemporaneo.
Del resto basta pensare allo splendore delle pubbliche feste che si davano a Mantova, a Venezia, a Roma per ogni circostanza e per ogni pretesto, come le caccie di Leone X, e si comprenderà facilmente quali enormi spese pubbliche fossero necessarie, anche senza por mente che col fasto e col lusso la corruzione pubblica, il peculato e lo sperpero delle entrate andavano compagni.
Perciò le città italiane, che nei secoli durante i quali avevano lottato per ottenere la libertà avevano dovuto anche sostener guerre per reggersi, per rivaleggiare nella potenza, per costituirsi e per allargare il loro dominio, nei tempi immediatamente precedenti al cinquecento, che furono se non pacifici certo meno fecondi di contese, portarono le pubbliche gravezze al di là di ogni equa misura. Siamo soliti ora di lagnarci per il peso delle molteplici tasse ed imposte che ci aggravano, ed assistiamo sgomenti e meravigliati ai faticosi studi dei Governi e dei Parlamenti diretti a trovare nuova materia imponibile. Ci pare che mai l'arte della finanza abbia potuto essere tanto raffinata. Sono però costretto a far notare che la fantasia dei finanzieri del decimoquinto e decimosesto secolo aveva già mietuto tutto il campo fiscale non lasciando ai moderni, nemmeno la consolazione della spigolatura. Riassumo più brevemente che mi sia possibile:
imposta fondiaria sui terreni, che arrivava anche al 10 per cento della rendita depurata;
imposta sui fabbricati; o un tanto per casa qualunque essa fosse, o in proporzione alla lunghezza della facciata o del numero delle finestre, o in ragione del 10 per cento della pigione;
tassa di fuocatico, o di testatico, che colpiva più specialmente quelli del contado;
tassa sul sale obbligatoria; perchè si costringeva ogni cittadino a comperare ogni anno una certa quantità di sale dai magazzini dello Stato;
tassa sugli schiavi e sui contadini;
tassa sul bestiame bovino, ovino, caprino ed equino;
tassa sulle industrie (oggi si direbbe di licenza), comprese quelle turpi;
tassa sui notai, attuari e magistrati;
ritenuta sugli stipendi di tutti i pubblici ufficiali;
dazi su tutto ciò che veniva portato in città e quindi anche sul pane, sulla farina, sul vino, sull'olio;
tasse sui pesi e sulle misure;
tasse sull'imbottato, sul macinato, sul panificio;
tasse sulle alienazioni degli immobili, dei mobili; sulle contrattazioni, sulle pigioni, sui fitti, sulle successioni, sugli atti civili, sulle affrancazioni degli schiavi, sugli atti giudiziali, sulle tutele, sulle registrazioni pubbliche, tasse sul lusso, e perfine sui morti.
E poi pedaggi sulle strade e sui ponti, diritti di approdo, di ancoraggio, di scarico, di dogana.
Soltanto da Mantova a Pavia per il Po le mercanzie pagavano quindici dazi!
Auguriamoci in verità che i nostri Ministri delle finanze non istudino i documenti di quell'epoca; temo che troverebbero nuovi tormenti.
Ma il tempo ne sospinge e non mi è permesso se non di riassumere il concetto che avrei desiderato svolgere più a lungo. La prosperità delle città italiane che nei primi secoli dopo il mille aveva resistito a tante guerre, cominciò lentamente a declinare quando germogliarono e troppo rigogliosamente fruttificarono i tre fattori di ogni decadimento economico:
- i dazi protettori;
- il lusso smodato;
- le soverchie gravezze.
················
Appunto negli albori non certo fausti del XVI secolo, che portava in sè tali germi di decadenza, si maturarono fatti i quali per la loro stessa natura accelerarono la caduta economica dei più deboli e non lasciarono ai forti se non la tenacia della conservazione e della resistenza.
Parlare ad un tempo delle conseguenze della politica dell'epoca, dello spostamento del commercio coll'India, della scoperta dell'America, della dominazione spagnuola e del suo regime proibitivo, dell'eccesso del fiscalismo generato dalla altezza dei balzelli, del sistema coloniale italiano, e delle condizioni economiche delle diverse città, sarebbe troppo arduo ufficio. Accennerò ad alcuno dei più interessanti argomenti, e tra i primi a quello che è di maggiore importanza per l'Italia, cioè la scoperta della via marittima che conduceva all'India per il Capo di Buona Speranza.
È noto che Vasco di Gama, dopo i tentativi di Enrico il Navigatore e di Bartolomeo Diaz, girando l'Africa era arrivato presso lo stretto di Bab-el-Mandeb e poi nell'India, il paese, come allora lo si chiamava, delle spezierie; ed alla fine del decimoquinto secolo, nel 20 maggio 1498, dopo dieci mesi di traversata, Vasco di Gama con tre navi portoghesi gettava l'áncora dinanzi a Calicut; l'ardito navigatore che già conosceva l'Oriente e sopratutto il commercio proprio di quelle regioni, ritornando dall'India a Lisbona potè facilmente infiammare l'animo del suo re Emanuele, perchè si intraprendessero regolari spedizioni, affine di ricevere le spezierie, gli aromi e le pietre preziose che avrebbero potuto arrivare a Lisbona molto più a buon mercato che non a Venezia, la quale doveva trarle dall'Egitto di seconda e terza mano. Il navigatore ed il re maturarono il disegno politico-economico, ardito rispetto a quel tempo, di fare Lisbona l'emporio di approvvigionamenti di tutta l'Europa, specie occidentale, per i ricercati prodotti dell'India. Nè l'impresa era senza pericoli, poichè il Portogallo non aveva nè forza marittima nè ricchezza, e si trattava di disputare il mercato commerciale alla più potente repubblica del mondo di allora, a Venezia. Ma Vasco di Gama nel re Emanuele trovò un uomo capace di concepire, di sostenere e di attuare l'audace disegno, non fosse altro per la prospettiva dei vantaggi pecuniari che prometteva. La prima spedizione ufficiale, composta di tredici navi, protetta dagli auspici e dagli aiuti dello Stato, partì da Lisbona il 9 marzo 1500.
Questo avvenimento formò per lungo tempo il tema politico-economico di discussione si direbbe ora dei circoli Europei, i quali si appassionarono alla lotta che ben presto, più o meno apertamente, sorse tra Venezia ed il Portogallo, l'una per parare le conseguenze della nuova scoperta, l'altra per trarne il maggiore profitto.
Le cronache ed i documenti dell'epoca sono abbondanti di notizie in proposito, e ci mostrano che le distanze allora enormi, la differente civiltà, il più lento procedere degli avvenimenti non impedivano che simili fatti suscitassero parlari, partiti, previsioni, ipotesi, diffidenze, illusioni non dissimili da quelli che sorgono oggi in analoghe questioni.
Venezia aveva di fatto il monopolio del commercio dei prodotti orientali; stretta con trattati e con tributi al Sultano d'Egitto, al quale essa pagava, oltre le gabelle, un canone annuo, e col quale aveva stipulato di comperare ogni anno un minimo di mercanzie, Venezia mandava nella stagione propizia (la Muda ) la sua flotta commerciale, che si divideva in tre frazioni: la maggiore approdava ad Alessandria, un'altra a Bayrut, la terza composta di due o tre galere, costeggiava la Barbaria arrivando sino a Tunisi. Nelle città principali dell'Egitto, della Siria e della Tripolitania i Veneziani tenevano magazzini sempre provvisti di merci europee e di merci asiatiche, ed un grande vascello magazzino rimaneva quasi sempre in uno od altro dei porti egiziani; negozianti veneziani stavano tutto l'anno in Egitto, nella Siria, nella Barbaria a rappresentare le case commerciali, ed apparecchiare le contrattazioni prossime, a sorvegliare l'esecuzione di quelle convenute. Rame, olio e stoffe, specchi, vetrerie, cristalli onde Venezia andava famosa, erano i principali prodotti che si vendevano all'Egitto; pepe, indaco, incenso, gomma lacca, cannella, rabarbaro, zucchero, zafferano, pietre preziose, si comperavano dagli Egiziani che erano in diretta corrispondenza coll'India. Alcuni scrittori calcolano che il traffico dei Veneziani coll'Egitto oltrepassasse il milione di ducati per ogni anno; altri lo limitarono a seicentomila ducati, dei quali la metà erano mercanzie europee vendute agli Egiziani, e l'altra metà oro ed argento che si consegnava in cambio di mercanzie orientali.
Saputosi a Venezia della scoperta dei Portoghesi e dei primi viaggi intrapresi da quegli audaci navigatori, cominciò il lavorio per impedire il decadimento del commercio coll'Egitto e la perdita di così importante monopolio. Mentre però gli agenti diplomatici e consolari che la Repubblica teneva in Portogallo od in Ispagna informavano il Governo dei successi ottenuti da Vasco di Gama e dal re Emanuele, e mentre alcuni cittadini, tra cui un esperto negoziante, Girolamo Priuli, comprendevano tutta la importanza di tali fatti, la massa dei Veneziani aveva così profonda nell'anima la tradizione della incontrastata supremazia marittima della Repubblica, che si rideva dei tentativi che si facevano a Lisbona e si compiaceva di predirne l'insuccesso; — o si diceva che il viaggio intorno all'Africa era così lungo che il trasporto delle spezierie sarebbe riuscito più costoso per quella via che per l'Egitto; — o si dipingeva la impotenza finanziaria del Portogallo di fronte alle difficoltà di un'impresa che sarebbe stata temeraria perfino per la regina dell'Adriatico; — o ancora si credeva che il sultano d'Egitto avrebbe impedito ai Portoghesi di trafficar coll'India, affine di conservare a sè il commercio asiatico-europeo. Non mancarono infine coloro che, più ridicoli, negavano la possibilità di giungere all'India girando l'Africa e giudicavano fanatici, sognatori, pessimisti coloro che prestavano fede alle notizie venute dal Portogallo.
Ma i fatti ben presto diventarono troppo evidenti; i sultani dell'India, dapprima diffidenti verso i Portoghesi, cominciarono a trattare con essi, ed il primo effetto ne fu una sensibile diminuzione del traffico tra l'India e l'Egitto e quindi tra l'Egitto e Venezia. Conseguentemente rincararono le spezierie delle quali l'Europa aveva bisogno; il pepe nel 1502 aumentò di prezzo circa del 40 per cento, e questo stesso aumento guastò maggiormente i primi esperimenti commerciali dei Portoghesi.
Datano da allora una serie di atti, ora arditi ora prudenti, della Repubblica Veneta per parare i danni. Prima sono ambascierie spedite in Egitto per dipingere a quel sultano Kausouh el Ghouri tutto il danno che avrebbe potuto risentire il suo regno se il commercio colle Indie prendesse la via del Capo: e Benedetto Sanudo, Peldi Francesco, Alvise Sequendino nel 1505 e 1506 sono inviati ad Alessandria ed al Cairo ed istigano il sultano d'Egitto ad allestire flotte per combattere nell'India le navi portoghesi, e per costringere i sultani indiani a non vendere che a negozianti dell'Egitto le loro merci preziose. Dal canto suo il sultano Kausouh manda in Europa un suo legato, un monaco francescano chiamato Maurus che si reca dal Pontefice per significargli necessaria la sua intromissione contro i Portoghesi, affinchè il sultano d'Egitto, irritato pel danno che gli veniva dalle spedizioni in India, non si vendicasse distruggendo i luoghi santi di Palestina. Ma il re Emanuele seppe colla energia della sua politica sventare tutti i piani e le mene immaginati contro il Portogallo, e nello stesso tempo colla vigorosa azione seppe accrescere il traffico così felicemente iniziato.
Ma i Veneziani non ristettero dai tentativi: prima mandarono a trattare collo stesso re di Portogallo per stabilire un accordo commerciale. Per conservare la continuazione dell'approvvigionamento di tutta l'Europa dei prodotti orientali i Veneziani offrirono di comperare a Lisbona anzichè in Egitto le spezierie, domandarono in cambio l'esclusivo diritto del traffico; e non essendo riusciti, per mezzo del console veneziano a Damasco, Pietro Zeno, tentarono di accordarsi colla Persia per il trasporto delle merci indiane. Sventuratamente la guerra contro la lega di Cambrai paralizzò la attività della Repubblica e ne pose in forse per un momento la esistenza: ma appena Venezia fu informata che l'Ambasciatore del re di Francia, Andrea le Roy, era arrivato al Cairo colla missione di cercare di sostituire in Egitto la influenza francese a quella veneziana, la quale era dipinta al sultano come ormai finita, la Repubblica compiè uno di quegli atti di sommo accorgimento politico che hanno resi così celebri i suoi uomini di Stato. Una flotta mercantile numerosa quanto altra mai, venne radunata nei porti delle isole del Mediterraneo occidentale, e ad un tratto approdò ai diversi porti dell'Egitto riprendendo su larga scala il traffico fino allora quasi sospeso per le gravi vicende della guerra. Il risveglio improvviso e le prove di quella meravigliosa potenza produssero l'effetto desiderato; il sultano d'Egitto, che per le pratiche iniziate dai Veneziani colla Persia, era diventato ostile, si riconciliò repentinamente e consentì di riprendere la discussione dei trattati commerciali.
Domenico Previsoni venne allora destinato a condurre a termine i negoziati per far comprendere al sultano la necessità di riportare il commercio per l'antica via ribassando le gabelle affine di vincere la concorrenza dei Portoghesi; la stessa Repubblica col decreto del 3 maggio 1514 esonerò dalle imposte i mercanti che portavano il pepe dall'Egitto e dalla Siria. Ma tutto fu inutile, la logica economica ebbe il suo corso; il pepe — giacchè i documenti di quel tempo quasi esclusivamente di questa piccante droga si occupano — costava a Lisbona il 20 per cento meno che a Venezia. E Lisbona divenne allora l'emporio del traffico indiano-europeo.
Ho ricordato lungamente — forse troppo — questi avvenimenti, perchè parmi opportuno sottoporre alla vostra riflessione una questione economica.
Fu veramente la scoperta del Capo di Buona Speranza una rovina per Venezia? — Parmi che l'economista, fondandosi anche un poco sulla statistica, debba dare un giudizio meno assoluto di quello che hanno dato gli storici.
Che la scoperta del Capo di Buona Speranza abbia danneggiato Venezia in quanto rese commercialmente forti il Portogallo prima, l'Olanda e l'Inghilterra poi, nessun dubbio; — che danno sia venuto alla Repubblica dal fatto che le regioni orientali, dove Venezia aveva colonie, possessi, stabilimenti, traffici, sieno diminuite di importanza col diminuire del commercio indo-egiziano; questo pure è certo. Ma che la scoperta possa avere portato un effetto immediato sulla ricchezza veneziana, e che essa possa, come fa uno scrittore moderno, dirsi una catastrofe, non lo credo veramente. Già basterebbe il fatto che la Repubblica Veneta seppe sopravvivere a tale catastrofe per altri tre secoli per comprendere la inesattezza della espressione; ma se poi si riflette che proprio quando la scoperta del Capo di Buona Speranza cominciava a dare i suoi risultati, la Repubblica intraprendeva la guerra contro la lega di Cambrai, dalla quale sembrava dover rimanere schiacciata e sulla quale invece in breve volger d'anni prendeva quella meravigliosa riscossa, che fu sancita dagli stati Europei nella pace di Cambresis, non si può in verità concludere che Venezia rimanesse ad un tratto fiaccata dalla scoperta del Capo africano. Il sultano d'Egitto fin dal 1502 si lagnava che i Veneziani avessero diminuito il loro traffico, ed ho notato che, nei tempi più prosperi, si faceva salire ad un milione di ducati il costo delle spezierie che Venezia comperava in Egitto; è egli presumibile che la perdita di un commercio anche di un milione di ducati potesse sconvolgere e rovinare la ricchezza dei Veneziani, quando il loro commercio totale si valutava a 10 milioni di zecchini, cioè 80 milioni di ducati circa?
Egli è che molte volte nella storia le leggende prendono il posto della verità e vi si assidono inamovibili. Esempi di simili giudizi erronei ne abbiamo anche al tempo nostro. Chi non ricorda che fu predetta la immediata catastrofe del commercio inglese per il taglio dell'Istmo di Suez? E Venezia non sognò nel 1869 il ritorno immediato dell'antico splendore per la riapertura della via dell'Oriente, per mezzo di quel canale di cui sino dal 1502 i Veneziani avevano pensato la escavazione?
Ma i popoli si muovono lenti; ed è solo la nostra fantasia che correndo sbrigliata, legge negli eventi quello che essi non dicono, e prevede quello che è soltanto desiderio.
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Se non che lo stato delle cose che ho cercato di tratteggiare — il lusso, la gravezza delle imposte, la protezione della produzione di una contro l'altra città, e per giunta la perturbazione commerciale — erano condizioni così opposte a quelle di un'epoca precedente in cui i cittadini, sebbene intesi al commercio, non cessavano di addestrarsi nell'armi per acquistare la libertà, che non può fare meraviglia se nel XVI secolo l'Italia non fosse pronta a combattere per difendere la libertà così faticosamente ottenuta.
Mentre i Veneziani lottavano senza successo per conservare il loro traffico coll'Oriente, in altre parti d'Italia la dominazione spagnuola e la rivalità tra Carlo V e Francesco I portavano nuovi elementi di decadenza economica. Nè parlo soltanto di danni e perturbazioni derivanti dalle devastazioni degli eserciti indisciplinati e talvolta feroci; nè delle esigenze degli Spagnuoli che dappertutto aumentavano le gravezze; nè dei crescenti bisogni dell'uno e dell'altro sovrano per condurre imprese guerresche; mi riporto invece ad un vero e proprio mutamento di indirizzo economico.
Le città italiane avevano nei secoli precedenti conquistati i mercati di quasi tutto il mondo, sia colle industrie manifatturiere, sia col meraviglioso ordinamento bancario. Ma avevano anche trovati imitatori nell'una e nell'altra attività; specie la Francia settentrionale, le Fiandre e le città anseatiche, o per spontaneo impulso o per fortunata imitazione, avevano avuto esse pure molte industrie, delle quali prima soltanto l'Italia aveva il privilegio, ed a poco a poco arrivarono, migliorando e perfezionando, ad esercitare una vera e propria concorrenza ai prodotti italiani. Gli stessi congegni bancari, in Olanda, nella Germania, nel Portogallo e nella Spagna avevano avuto arditi e sagaci imitatori.
La dominazione spagnuola con a capo un imperatore di nascita fiammingo, non poteva che tornare dannosa all'Italia anche sotto l'aspetto economico. Non mi arrischierò certamente di affermare che il regno di Carlo V segni un ritorno al feudalismo e rappresenti per l'Italia un regresso di molti secoli; è questione molto complessa che gli storici a suo tempo vi esporranno; ma dal lato economico il giudizio è già stato manifestato. Uno scrittore della storia dell'Economia politica dice: “Il regno di Carlo V è stato contrario sopratutto al progresso della economia politica nel senso che ha distolto violentemente l'Europa dalle vie normali della produzione per precipitarla nei rischi della guerra e nel vecchio sistema di sfruttamento proprio della feudalità. Tutte le false dottrine e tutti i funesti pregiudizi economici che oggi dobbiamo combattere derivano dal suo sistema di governo continuato e peggiorato dal suo esecrabile successore.„ — Per quanto tale giudizio del Blanqui possa sembrare eccessivo nella sua concisa severità, e quindi per ciò stesso sospetto di esagerazione, pur troppo i fatti stanno, almeno in parte, a confermarlo. I produttori italiani in breve tempo videro la potenza dello Stato che si costituiva più o meno saldamente in tanta parte della penisola e dell'Europa, rivolta a danno della produzione nazionale ed a profitto di quella straniera. Già il concetto della bilancia del commercio, nel senso che lo Stato dovesse regolare il movimento delle merci, fu applicato in tutta la sua violenza a danno dell'Italia; — tassata la materia prima all'entrata, i prodotti manufatti all'uscita, proibito il commercio dei grani, i monopoli imperiali per uno od altro ramo di produzione sorretti da privilegi larghissimi, schiacciavano ogni iniziativa privata; la aristocrazia dell'industria e del commercio si sentì presto sopraffatta da quella della spada che rendeva nuovi servigi al trono; la plebe, che nei secoli precedenti aveva operato in Italia tanti miracoli gloriosi di attività, di forza, di splendide manifestazioni, fu considerata dai Francesi e dagli Spagnuoli che si disputarono il predominio della penisola, come fatalmente destinata alla soggezione, ed incapace di aspirare al governo di sè stessa. — E partendo da tali erronei principî che, se non formulati nella teoria, erano però violentemente esercitati nella pratica, il regno di Carlo V trovò in alcuni punti d'Italia terreno adatto abbastanza perchè quegli errori germogliassero rigogliosamente. Un principe che aveva a propria disposizione le ricchezze, dalla fama centuplicate, dell'America la quale appena allora si cominciava a sfruttare, che, tutto infiammato dal pensiero del diritto divino o di una missione provvidenziale, aggiungeva alla smodata violenza degli atti un contegno tra il mistico ed il fatalista, un principe infine che conduceva seco o mandava innanzi uno stuolo di personaggi spagnuoli tutti ripieni di personale alterigia, resa più grave dalle pompe esterne del portamento, dalle complicazioni delle cerimonie, dal fasto sconfinato, doveva trovare nelle città italiane, dove già abbiamo visto che molti cittadini tendevano a godere nel lusso le ricchezze accumulate dagli avi, non solamente imitatori, ma esageratori. E così fu. Sunt bona mixta malis certamente nella figura e negli atti di Carlo V, ma per l'Italia e per la sua economia pubblica i mali molto e molto superarono il bene. In Italia dove la potestà civile aveva per lo più saputo frenare la prevalenza delle autorità ecclesiastiche, doveva essere funesto il predominio di un monarca che intendeva di farsi campione della Chiesa contro la Riforma religiosa al fine di ottenere dalla Chiesa stessa il maggior vantaggio, specie se si pensa che la dominazione spagnuola non estese soltanto il potere dell'inquisizione, ma lasciò moltiplicare i monasteri ed accrescere le loro proprietà immobiliari, con gran danno della agricoltura e dell'ordinamento della proprietà stessa.
Voi sapete infatti che cessata sino dal trecento e quattrocento la servitù della gleba ed affievolitosi il feudalismo politico, la libera proprietà fondiaria andava sempre più determinandosi e costituendosi, e l' allodio, cioè la terra libera da vincoli feudali, che in tempi precedenti sembrava una eccezione, cominciava a divenire la regola.
L'agricoltura infatti sotto i comuni, o per miglioramenti giuridici ottenuti, o per maggiore facilità di smerciare i prodotti, era salita in onore così che occupava cospicuo posto nella pubblica economia. Ricorderò il catasto che già avevano i Veneziani, che se non era esclusivamente un registro di terreni, e se rappresentava piuttosto il censo degli ebrei e dei Romani, cioè “il libro nel quale erano descritti i beni immobili e mobili e qualsivoglia ricchezza e provento dei cittadini colla stima del loro valore e coi nomi dei possessori per metterli a gravezza„, — conteneva già la misurazione delle singole proprietà, la loro descrizione ed il loro estimo; ricorderò l'estimo dei Fiorentini riformato nel 1427 su proposta di Rinaldo degli Albizi che dall'esempio di Venezia aveva tratto le regole e l'esperienza; — ricorderò infine che dopo queste due maggiori città alcune altre o costituirono o perfezionarono il loro catasto, non solo nei riguardi fiscali, ma, ciò che più importa notare, per rendere più facili le negoziazioni della proprietà immobiliare, segnatamente quella rustica. E qui vorrei che il tempo mi permettesse di annoverare soltanto le forme che la imposta fondiaria assunse in quell'epoca; mentre Venezia aveva senz'altro la decima, Firenze cominciò a stabilire prima il valsente, che era la aliquota sul censo mobiliare ed immobiliare, ma poi lo contornò di cinquine, di novine, di ventine, di settine, di aggravi, di piacente, di dispiacente, di arbitri, di accatti, di scale oneste, nomi questi molto singolari a sentirsi, ma che corrispondono a quei famosi decimi di guerra che aggravano tante nostre imposte e tasse anche in tempo di pace.
All'ordinamento, almeno tecnico se non fiscale, che si dava in Italia alla proprietà fondiaria col catasto e coll'estimo nocque senza dubbio la dominazione spagnuola che fece rivivere tanti privilegi di principi, che allargò le concessioni agli ozi non sempre onesti dei conventi, che contribuì così in una parola a diminuire la potenzialità della terra.
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Ma di un altro grave fatto è accusato il regno di Carlo V, quello della falsificazione delle monete, non perchè a quel tempo si debba attribuire la malefica invenzione, ma perchè Carlo V ha largamente usato di tale espediente, stretto dai bisogni del suo erario troppo spesso esausto per le guerre.
Si suol dire che nel medio evo i principi falsificassero le monete, ed è questa una credenza abbastanza generale; ma mi par opera di giustizia scagionare, almeno per molti casi, quel tempo da una accusa che va circondata da opportune spiegazioni. I principi solevano in molti luoghi percepire una tassa che si chiamava di signoraggio sulla coniazione delle monete, e più spesso anzichè riscuoterla — come si fa oggidì — dal cittadino a cui si consegnavano le monete, si riscuoteva dirò così sulle monete stesse trattenendo nella zecca una porzione più o meno grande del metallo prezioso, di cui così le monete rimanevamo depauperate. Fino a che la tassa di signoraggio si limitò all'uno od all'uno e mezzo per cento, il mercato se ne risentiva assai poco, ma quando, crescendo i bisogni dei principi per le continue guerre e per il lusso delle corti, la tassa fu portata a grande altezza, allora le monete messe in circolazione divennero sensibilmente depauperate di metallo prezioso. Da ciò l'idea nei sovrani di allora di ritirare dalla circolazione quelle che non erano state assoggettate a tale tassa per diminuire la quantità di metallo che contenevano. Era dare ad un provvedimento fiscale un effetto retroattivo, come si fa oggidì con certe leggi di catenaccio, colle quali si colpisce anche merci già importate e già entrate nei magazzini. Il disordine che veniva recato nel commercio e nelle contrattazioni per la esistenza di queste monete più o meno depauperate di metallo fino, è facile ad immaginarsi. Molti però non sanno spiegarsi come in quel periodo non si comprendesse che diminuendo la quantità del metallo, cioè accrescendo la tassa, si diminuiva il valore della moneta. Forse la spiegazione della illusione di quei tempi potrebbero darla coloro che sostennero e sostengono ai nostri giorni che il dazio sul grano nella misura del venti per cento del valore non ne aumenta il prezzo. Egli è che pur troppo il fisco ha voluto sempre rimaner celibe per quanto tutti gli offrano due spose: la scienza e la esperienza.
Del resto nei primi tempi i principi erano in tanta buona fede nel commettere queste alterazioni delle monete, che le zecche mettevano un segno a quelle che erano state adulterate; più tardi si trova qualche ordinanza che raccomanda agli ufficiali delle zecche di mettere il segno alle monete calanti in modo meno facile a vedersi; e poi si vieta assolutamente di mettere qualunque segno, ed è noto il decreto, francese che ordina al direttore della zecca: “abbiate caro come il vostro onore, che i cambisti non conoscano la lega sotto pena di essere chiamato traditore„.
Anche su questo delicatissimo argomento che forniva all'Imperatore un mezzo così facile per riparare le angustie del suo erario, Venezia e Firenze opposero al disordine monetario il solo ostacolo che la economia politica suggerisce: la lealtà; — lo zecchino ed il fiorino d'oro ebbero corso in tutto il mondo e diventarono la moneta universale, perchè se ne seppe conservare la sincerità.
E tanto più grave era nel XVI secolo la questione delle monete in quanto verso la prima metà si cominciò a sentire la influenza che la scoperta d'America portava sui prezzi. Consentitemi una breve considerazione su tale argomenti dei prezzi. Avrete tante volte udito ripetere che i traffici cresciuti molto più della quantità dei metalli preziosi durante i secoli XI al XVI avevano resa proporzionalmente scarsa e quindi cara la moneta; bastava quindi una piccola quantità di moneta per comperare molte cose, si aveva cioè uno straordinario buon mercato. E si aggiunge che nel secolo XVI avendo la scoperta d'America reso abbondanti l'oro e l'argento, essi diminuirono di valore, e quindi i prezzi di tutte le cose aumentarono, perchè occorreva maggior quantità di monete per comperare i prodotti.
Esaminiamone rapidamente i fatti.
È ben vero che l'America venne scoperta nel 1492, ma passò più di mezzo secolo prima che fosse abbastanza estesamente conosciuta. È noto che sino al 1521 il Messico — che diede tanto argento — non fu conquistato; che solo nel 1521 fu scoperto lo stretto detto di Magellano; che solo nel 1535 si conobbe la California; che appena nel 1540 Giacomo Cartier fondò una colonia dove è ora Montréal, mentre il De Soto scopriva le foci del Mississipì, e che molte parti infine del nuovo continente non furono scoperte se non nel secolo XVII. Se pertanto giustamente si segna la data gloriosa del primo sbarco di Cristoforo Colombo, bisogna riportarsi ad un'età molto più tarda per trovarne gli effetti economici i quali furono naturalmente molteplici, nè mi è possibile nemmeno annoverarli. Ho detto dianzi che i prezzi per la grande scarsezza della moneta erano molto bassi e davano la illusione di un grande buon mercato; a Firenze il grano valeva 5 soldi lo staio e 10 quello di Valdichiana e di Cortona; i capponi e le oche grasse una lira l'uno; i pollastri 10 soldi il paio; il barile di vino L. 1,20, il Chianti L. 1,80 il barile; un prete — dice una cronaca — viveva decentemente con 25 lire l'anno; — con 20 lire l'anno si pagava un operaio; si intende lire di 86 centesimi dei nostri!
La scoperta d'America portò una perturbazione a questi prezzi facendoli crescere dapertutto, perchè l'oro e l'argento diventarono più abbondanti; ma l'aumento dei prezzi non fu improvviso, si svolse lentamente tanto nel tempo quanto nello spazio. Dapprima se ne risentirono il Portogallo e la Spagna, poi l'Inghilterra, perchè l'oro e l'argento portato in Europa durante la prima metà del XVI secolo non fu che quello che gli Spagnuoli portarono via agli indigeni dai loro templi, dalle loro case, e — sapete già quanta crudeltà in quel tempo gli Europei esercitassero verso gli Americani — dagli stessi ornamenti femminili. Humboldt calcola che dalla scoperta dell'America al 1545 non si importasse in Europa che un valore tra oro e argento di 15 a 16 milioni delle nostre lire. Somma certamente importante per quei tempi, ma per i nostri insignificante, se si pensa che l'America dà oggidì circa 250 milioni d'oro, e circa 565 d'argento; in totale oltre 800 milioni l'anno.
È per questo che i prezzi delle cose nella prima metà del 1500 ebbero un aumento relativamente limitato; ma quando nel 1545 per mezzo del peruviano Diego Hualca vennero scoperte le famose miniere del Potosi, la ripercussione sui prezzi fu notevole. La scoperta di quelle miniere che divennero subito le più ricche del mondo e la invenzione di nuovi e meno costosi sistemi per estrarre l'argento, riversarono all'Europa una enorme quantità di metallo bianco; la produzione annua, che pagava la Gabella al re di Spagna, era di 200000 chilogrammi e si calcola che altrettanto metallo uscisse di contrabbando. Non posso trattenermi sui particolari di tale argomento molto interessante, ma ricordo soltanto il movimento dei prezzi del grano che si possono ritenere equivalenti a quelli del pane.
Un ettolitro di grano costava nel 1500 cinque lire d'argento; nel 1520 aumentava a 10 lire, il doppio; nel 1550 era arrivato circa a 35 lire, cioè sei volte di più. Ma ecco subito la influenza del Potosi; nel 1560 un ettolitro di grano vai già 60 lire, nel 1570 ne vale 75 e nel 1590 80 lire. In poco più di ottant'anni il pane costava quindi sedici volte di più. Immaginiamo se i vecchi parlando ai nepoti avevano argomento di ripetere a sazietà: a' nostri tempi, e se dovevano scrollare il capo di fronte a così colossali perturbazioni!
Considerate, ve ne prego, quale enorme sconvolgimento doveva produrre un simile aumento dei prezzi; coloro che potevano facilmente rivalersene sugli altri, evitavano bene o male le conseguenze di un disordine così grave; ma coloro che, o avevano una somma fissa di denaro, o riscuotevano una rendita od uno stipendio, quale scossa non debbono aver subita se in trenta, quaranta o cinquant'anni, il denaro che riscuotevano non serviva che ad acquistare il terzo, il quarto, il quinto, il decimo delle cose che prima si acquistavano!
Ai giorni nostri non possiamo figurarci uno spostamento così grande ed intenso di valori; e già oggi che speculiamo sulle minime differenze e che abbiamo costituite le industrie più importanti non sui grandi guadagni, ma sui piccoli e molteplici, oggi, di fronte ai ribassi di prezzo che notiamo per molte merci, stiamo discutendo, senza esser riusciti ancora a risolvere definitivamente la questione, se sia il prezzo della moneta che aumenta o quello dei prodotti che scema. Nessuna meraviglia quindi se i più strani propositi uscissero dalle discussioni di quel tempo, e se dalla cattedra e dal pulpito il rialzo dei prezzi desse argomento di discorsi in favore delle depauperate fortune. Se non che questa grande perturbazione che più violentemente si fece sentire dopo la metà del secolo XVI era già stata preceduta da quella specie di adulterazione legale delle monete a cui prima ho accennato e che, creando prezzi diversi delle cose secondo che erano pagate in moneta buona, mediocre o cattiva, lasciava meno discernere il fenomeno generale dell'aumento dei prezzi. E questa doppia causa di disordine nelle ordinarie contrattazioni: la molteplicità delle monete con diverso valore intrinseco, ed il continuo deprezzamento del metallo di cui le monete erano più o meno riccamente composte, dà argomento alle più importanti discussioni scientifiche che ci abbia lasciato il 1500.
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Il tempo corre veloce e certamente la vostra benevola pazienza ormai è esaurita e non posso soffermarmi sui cultori dei vari rami della scienza economica. Ricordo solo alcuni nomi: Gaspero Scaruffi, Bernardo Davanzati, Tomaso Beninsegni, G. B. Lupo Geminiano, Lodovico Carbone, il Padre Serafino Razzi, il teologo bresciano Lelio Zecchi, Filippo Sassetti fiorentino, Giovanni Dall'Olmo veneziano, e Giovanni Botero e Paolo Paruta. E in capo a tutti per tempo, per acutezza di osservazioni, per larghezza di idee vorrei mi fosse permesso di tratteggiare Machiavelli economista che, nel principio del XVI secolo, aveva nelle varie sue opere, come bene osserva il Knies, sparsi concetti importantissimi sopra le principali questioni economiche, che anche oggidì tengono perplessi gli studiosi.
Ma se il tempo non mi permette di intrattenermi su tali soggetti, che pur darebbero modo di mostrare come in Italia allora si studiassero problemi che le altre nazioni soltanto alcuni secoli più tardi osarono affrontare, mi sia concesso di chiudere questa conferenza portando un esempio dell'ordinamento civile ed amministrativo a cui erano arrivate alcune città italiane. Trattasi a dir vero di un argomento di statistica, ma questo studio era sino agli ultimi tempi così legato alla economia, che presumo di non uscir dal tema.
Riteniamo come una grande conquista dell'età moderna la istituzione dei registri di Stato civile che tengono conto ordinatamente delle nascite, dei matrimoni e delle morti; e pare ai più che questo moderno istituto sia un perfezionamento della analoga istituzione ecclesiastica ordinata sulla metà del XVI secolo dal Concilio di Trento ed applicata più o meno lentamente dal clero sulla fine del secolo stesso e nella prima metà di quello seguente.
Ora mi piace ricordare che a Mantova esisteva già un registro di Stato civile, almeno per i morti, sino dal XV secolo. Ho trovato io stesso un decreto del 1504 che nomina il Superiore delle bollette, come si chiamava il Capo di quell'ufficio e si dice nel decreto stesso “che sino dall'antico ad ora fu ed è sempre pubblica istituzione di curare di descrivere e di fare descrivere per mezzo di notaio in un apposito libro il nome, il cognome ed il giorno di ciascun morto in detta nostra città, e senza della sua licenza nessun cadavere possa essere seppellito, e se alcuna questione possa sorgere intorno alla morte di alcuno, è consuetudine che detto libro prodotto in giudizio faccia fede sino a prova contraria per qualunque giudice„.
Il più antico registro che è conservato nell'Archivio Gonzaga di Mantova risale al 1498 e non è il primo; quindi più di mezzo secolo avanti che il Concilio di Trento ordinasse i registri parrocchiali e molti secoli prima che si istituissero i registri di Stato civile, essi esistevano a Mantova; erano bollati in ciascuna pagina, le annotazioni e correzioni si facevano per ministero di notaro, nell'ultima pagina si stendeva il verbale di chiusura del registro.
Ho fatto lo spoglio di quaranta circa di quei registri, che comprendono i morti di tutto un secolo. Che preziosa miniera di osservazioni statistiche ed economiche!
La distribuzione dei morti per sesso, per età, le malattie, la distribuzione delle professioni, offrirebbero argomento di studio per i costumi e le abitudini di quella città allora fiorente. E siccome gli impiegati di quel tempo abbondavano nelle notizie, quei registri rappresentano anche una parte ora triste, ora scandalosa, ora curiosa della cronaca della città. Leggendola e studiandola si trova però una strana uniformità colla vita odierna; le stesse passioni che portano alle stesse conseguenze, gli stessi accidenti ed incidenti della vita, l'omicidio, il suicidio, la morte casuale, la abnegazione di chi perisce per salvare altri, l'incuria dei genitori, la storditezza dei domestici, gli infortuni del lavoro, il cane che morde nell'estate, lo scaldino che brucia nell'inverno; i cavalli che calpestano, i veicoli che investono, il ghiaccio che si rompe sotto i piedi degli imprudenti, i mariti che si vendicano, le ragazze che muoiono per amore, insomma si troverebbero in quei libri funebri i fatterelli che leggiamo nei giornali moderni.
Le cronache di Mantova di quel tempo non raccontano peraltro che quelle signore avessero l'abnegazione di assistere ad una conferenza di economia politica; tanto maggiore quindi è per le presenti la mia ammirazione e la mia riconoscenza.
SIENA NEL SECOLO XVI
DI
GIUSEPPE RONDONI.
I.
Carneade, chi era costui? Ecco la domanda, gentili signore, egregi signori, che vi sarete fatta di certo, vedendo annunziato il mio nome nuovo ed oscuro fra tanti nomi chiari ed ammirati. Eppure, solo per un'ora, povero Carneade solitario, vorrei l'arte di resuscitare le cose morte, eppoi ripiombare nell'umile, faticosa operosità della scuola, dalla quale forse avrei fatto meglio a non uscir mai! Vorrei almeno quella che il Bourget chiama fantasia della storia, per evocare vivi e parlanti i grandi quadri della guerra, irradiati dalla luce dell'eroismo e del sacrificio, e i quadri del Beccafumi e del Sodoma sfolgoranti di quella del genio (due luci che non hanno tramonto); far rivivere qui, dinanzi a Voi, la eroica fanciulla, la quale col corsaletto e l'alabarda va a montar la guardia pel fratello impedito; farvi sentire il fremito dell'assalto; il rombo delle artiglierie; i rintocchi della Campana del Mangia, voce di quella Siena, di quella madre che adunava i figli a difenderla nel supremo cimento, e che fino all'ultimo gettava un arcano terrore nell'animo dei nemici; ma, ahimè! temo mi avvenga come all'insolente animale, che per imitare e compiere gli affreschi di un insigne pittore, salito burbanzoso sul palco, ed afferrati colori e pennelli, guastava e disfaceva tutto spietatamente. Oh se il volere fosse sempre potere! Non mi resta dunque che affidarmi alla vostra cortesia, mentre vi trasporto senz'altro nella vecchia Siena, colle sue torri agili e brune, l'una presso l'altra, come guerrieri chiusi nelle armi, e pronti a battaglia.
Ecco Fontebranda colla porta in fondo ad una valle chiusa e pittoresca, e l'erto poggio sul quale torreggia San Domenico, non sai bene se convento o fortezza, coi ricordi della Santa, della quale “la mirabil vita, meglio in gloria del ciel si canterebbe„, e de' sudici bisogni spagnuoli, pieni di cupidigia e di peccati, che al cenno di un triste figuro recano lassù le armi rapite ai cittadini traditi ed oppressi. In quei memori luoghi un'alba estiva del 1487 (per carità non vi spaventate se prendo le mosse un po' troppo dall'alto) scalava le mura Pandolfo Petrucci, introducendo segretamente i suoi partigiani, mentre la città era ancora immersa nel sonno. Indi correvano alla piazza del Campo, che ha viste tante stragi, tante feste e tanti pali, e Siena, destandosi ad un'altra delle tante sue rivoluzioni, acclamava Pandolfo a signore. Apparteneva a nobile, ma povera e numerosa famiglia della fazione de' Nove; aveva sofferti i dolori dell'esilio; ma ora diveniva ricchissimo, e gustava la vendetta, il piacere degli Dei.
La sua effigie è quella dei tiranni del risorgimento; ampia la fronte; oscure, ma non arcigne la ciglia; sguardo fisso e calmo che mentre non esprime nulla, par tutto discernere, labbra voluttuose, eppure compresse con risolutezza più che virile. Quanto all'intelletto il Machiavelli lo stimò prudentissimo, ponendolo in quella classe di cervelli che intendono ciò che altri dimostra. Ora volpe ed ora leone, stimava le cose obbedire alla forza, e Antonio da Venafro, dal segretario fiorentino proclamato “il caffo degli uomini„, era “il cuor suo„, o piuttosto il suo Mefistofele. Ebbe infatti del mefistofelico, ed un giorno al papa che gli chiedeva come facesse a tenere a segno i cervelli bizzarri de' Senesi, rispose franco: “colle bugie, Padre Santo.„ Il Petrucci, arbitro di una Balìa e capo degli stipendiari, soleva convenire in una bottega di piazza insieme con quelli della sua fazione, che poi lo accompagnavano, camminando dietro a lui, a rispettosa distanza. Formavano una specie di società segreta, giurando di esporre l'un per l'altro la vita e la roba, ed il suo governo fu il frutto delle improntitudini democratiche, e della politica de' Nove, dei quali Pandolfo fu il più ambizioso, il più astuto ed il più fortunato. Era in fondo un piccolo Borgia, colle attenuanti dell'ambiente e dell'indole toscana e senese; e se il Pecci lo ammirò per aver saputo (cosa invero mirabile) tener quieti i concittadini, il Tizio contemporaneo scrisse “ch'ei turbava le cose umane e divine, e lo chiamò tiranno colle mani tinte di sangue fraterno„. È vero ch'egli amò e protesse gli studi e le arti belle, e ne fa fede il suo palazzo colle campanelle ed i bracciali del Cozzarelli, un de' sorrisi più cari dell'arte senese, ma nessuno vorrà assolverlo della uccisione di Nicolò Borghesi suo suocero, e perdonargli le immani crudeltà di persone precipitate ne' trabocchetti o sepolte vive nelle razzaie od ossari, e fra gli altri il caso di un infelice spinto a tradimento nel carnaio dell'ospedale, dove se ne udirono per alcuni giorni i lamenti sempre più fiochi, che poi si spensero. Godè il favore della Francia che lo preservò dall'estrema ruina, quando il Valentino, che ambiva Siena, obbligò i Senesi ad allontanarlo; avaro, prestò ad usura al Comune, e ne ottenne terre e castella; invecchiando si tuffò nei più grossolani piaceri, e la figlia di un fabbro, la bella Caterina di Salicotto, tenne ambo le chiavi del suo gelido cuore. Il popolo soleva chiamarla “spada a due mani„, e di lei si cantava: “questa spada, o giovani, cautamente stringete; per questa vivono gli uomini, per questa periscono.„
Pandolfo non riuscì a fondare la dinastia; i suoi figli ed i parenti con molti de' suoi difetti non ebbero alcuno de' suoi pregi. Si succedono, s'incalzano l'un l'altro a breve intervallo, come percossi da un'arcana maledizione.
“La man degli avi seminò l'ingiustizia,
I figli l'hanno coltivata col sangue,
E omai la terra altra messe non dà.„
Il cardinale Alfonso fu strangolato in Castel Sant'Angelo da un moro, per ordine di Leone X; Borghese era un giovinastro dissoluto, e fu cacciato dal cugino Raffaello, cui il sentimento popolare inflisse una terribile condanna. Quando il suo cadavere era portato a seppellire in San Domenico facea “uno stranissimo tempo„, talchè parea che “fusse aperta la bocca dell'Inferno„; ma più terribile era la furia de' ragazzi che urlavano che si buttasse alla Vetrice, e cioè al luogo delle carogne. “I frati tutti si fuggiro„ (scrisse un cronista), e dovè accorrere il bargello, rimanendo sola la bara in mezzo ai birri. Mentre il giovinetto Fabio sognava il dolce sogno di amore colla bionda e delicata Massaini, si ordiva una congiura, alla quale aderiva il di lei fratello, ed al grido di libertà era per sempre cacciata la rea e sventurata famiglia, mentre alcuno proponeva per ispengerne affatto la memoria d'incrudelire perfino contro i sepolcri. “Prima morir che libertà vi manchi„, scriveva allora un oscuro poeta, mentre Mario Bandini, che ha tratti che ricordano il Mirabeau e gli eroi della Gironda, facea giurare duecento compagni di essere in perpetuo nemici di chiunque avesse tentato di rinnuovare la tirannide. I Petrucci più non risorsero, ma i Nove scamparono al naufragio, e riuscirono ad imporre un de' loro, Alessandro Bichi, e forse il migliore di tutti loro. Effimero trionfo! Il Bichi cadde crivellato dai pugnali degli emuli che insistentemente, quasi voluttuosamente, lacerarono le aperte sue piaghe, spirando infine, sia detto a sua gloria, col perdono sulle labbra, come aveva incominciato. Un rimpasto de' Monti a vantaggio de' Popolari coronava il nuovo, fragile edificio.
II.
Ho pronunziata la gran parola, ch'è il filo di Arianna nel fosco labirinto delle senesi discordie. I Monti sono i vari ceti, ordini e gruppi della cittadinanza, che, prevalendo una data forma di governo, avevano ottenuti o perduti via via i supremi magistrati o vi aspiravano, dai nobili ai più poveri popolari della costa di Porta Ovile. Ogni ceto formò setta, ed anzi più sette, che si dividono e suddividono all'indefinito, tentando le più svariate combinazioni, e scomponendosi e ricomponendosi senza tregua fra disaccordi sempre più gravi e molteplici. La serie delle contese, dei tumulti, delle riforme dei Monti dei Gentiluomini, dei Nove o borghesia grassa, dei Dodici, dei Riformatori e del Popolo sono come un mare sempre in burrasca, un turbine che dà il capogiro, l'insegna di Dante “che girando correva tanto ratta, che d'ogni posa mi pareva indegna„; con buona pace della gravità istorica, sono come un immenso arcolaio che gira e rigira sempre con una matassa viepiù arruffata tanto da provocare il sorriso, se non lasciasse dietro a sè una traccia sempre più larga e più lunga di sangue. Alcune volte fu proposto di formare un Monte solo; ma parve un attentato alla vita della repubblica, della quale i Monti erano le membra, gli organi più vitali. Ciascuno di essi formava anzi una piccola repubblica, ma sempre ostinata, indomabile, o democratica, o aristocratica, o moderata, o radicale, talchè Siena era un aggregato, o, come scrisse il Varchi, un guazzabuglio di repubbliche. Immaginate quale dovea essere l'affetto e l'orgoglio che nutriva pel suo Monte il senese del buon tempo antico, vedendo come anche oggi la tradizione delle contrade resti viva e indistruttibile in quel popolo, e come si manifesti in occasione del palio, ne' baci al cavallo vincitore che n'è il simbolo e la gloria; l'immagini chi ha veduto, come me, un buon prete in mezzo alla piazza saltare di giubilo, e gittare in aria il tricorno, quando l'anima popolare di Siena si effonde in un immenso fremito misto d'imprecazioni e di evviva che sale assai più in alto dell'agile torre, e disturba le rondini dai rapidi voli. Si effonde su dalla piazza ove curvi sui ronzini trasformati ad un tratto, e per quell'unica circostanza, in ardenti corsieri, volano i fantini nerbandosi di santa ragione, nerbandosi e cadendo, prima uno eppoi due, tre; mentre gli altri, come se nulla fosse, continuano la corsa sfrenata, e il pubblico li segue, intento alle bestie, con un palpito sempre più accelerato, dimentico dei caduti, finchè un urlo, un applauso, un colpo di mortaletto, e tutto è finito; cioè, no, poichè anzi incomincia la scena più originale; i deliri della contrada vincitrice, i commenti fragorosi, i pugni entusiasti; ne buscano i vinti, ed anche un po' i vincitori, sopratutti l'eroe della giornata, il fantino trionfatore, malmenato da baci e carezze peggiori de' pugni, pel troppo bene. Talora un Monte ne figliava un altro; la sola democrazia senese, una delle più audaci, offre una serie, una moltitudine di gradazioni e di associazioni, dai comodi bottegai ai discendenti dei facchini della compagnia del Bruco, che vollero dipinto come stemma il leone sulle nere casipole; dai Bigi ai Biribatti ed ai Bardotti. Non vi fu accozzaglia di persone che non si trasformasse subito in congrega, in fazione, o almeno in accademia. Di accademie nel secolo XVI su quarantadue che fiorivano in Toscana, ventitrè appartennero a Siena, i Rossi, gl'Intronati, la Corte de' Ferraioli, gli Sborrati, e chi più ne ha più ne metta. E con tante congreghe mai un po' di vera concordia: il che starebbe a dimostrare ch'essa è in ragione inversa del numero delle associazioni, dei comitati, dei fasci più o meno sfasciati; ma per tali dimostrazioni, c'è proprio bisogno di ricorrere alla vecchia Siena? Comunque, quivi bastava un ammasso di terra preparata per un torneo, il cader delle vetrate abbattute dal vento per far saltar fuori gli armati a combattere, e i ragazzi alla pari degli adulti, e con loro le donne, giovani, vecchie e bambine; e non erano pugni e legnate; ma colpi di punta e di taglio, e un lampeggiare terribile di stocchi, di alabarde, di partigiane, di scuri e di pugnali; urli come di fiere, e rantoli di agonizzanti.
Eppure nessun altro Comune ha dipinti nel suo palagio tanti esempi ed allegorie veramente grandiose del buon governo! Nella sala de la Pace (v'era una sala di questo nome, come di tanto in tanto fra una rivoluzione e l'altra si celebrava la messa della pace), avete un poema didascalico sul reggimento politico creato dal Lorenzetti, a tratti di pennello; un bel vecchio maestoso, ch'è appunto il buon governo; le virtù; una gran bilancia, e i cittadini a due a due che reggono un lungo cordone, ch'è quello della concordia, tutti umili e quieti “come i frati minor vanno per via„. In altra sala splendono le immagini dei Savi antichi, Camillo, Curio Dentato, Scipione, Aristotele, Cicerone. Ironiche pitture! Affidati alle mute pareti quei bei propositi, il contrario i Senesi scolpivano nei cuori. Esaltavano la pace, e praticavano la guerra!
Nel secolo XVI, scossa da convulsioni sempre più frequenti ed implacabili, andava Siena incontro alla morte, eppure allora forse più che in altro tempo gl'ingegni e le arti belle vi sorridevano, come i fiori in un bel giardino di primavera. Il Pinturicchio, quell'infelice mingherlino, dall'ingegno sovrano, che solea chiamare la pittura “arte peregrina e da concorrere colla poetica„, faceva esultare di vita immortale le pareti della libreria Piccolomini nel Duomo, co' dipinti ne' quali palpita tutta la giovinezza del rinascimento, e che sono l'apoteosi dell'eleganza e del colorito. Un'onda perenne di armonia virgiliana, un'onda di sole rende perpetuamente giovani quelle figure, quell'oro, quell'azzurro, quel verde, le arie di quelle teste, gli alberi, gli orizzonti fuggevoli, paesi e città, i corteggi sfolgoranti, l'imperatore che muove incontro alla giovine sposa. Domenico Beccafumi, coi lavori di commesso, rendeva il pavimento della cattedrale degno degli angioli, tanto che il nostro piede si perita quasi di sfiorarlo. Antonio Bazzi, il Sodoma, fermava sulla tela, nello svenimento di Santa Caterina, una visione di Paradiso, che, veduta una volta, rimane in fondo al cuore, quasi melodia che “intendere non può chi non la prova„, un'eco di quei concenti che i Santi della leggenda udivano nell'eremo selvaggio, sulle cime de' monti, fra i silenzi dell'alta notte scintillante di stelle; trasformava il solitario convento di Montoliveto in una reggia dell'arte. Il Peruzzi, che nell'arguta geniale fisionomia offre, come nelle opere, l'armonia stupenda del galantuomo col valentuomo, co' suoi edifici “non murati ma veramente nati„, colle sue prospettive leggiadre, e i fregi delle facciate, e le figure che paiono luce di sorriso su di un volto onesto e gentile, cooperava a trasformare la sua città in un solo monumento, ove il bello rifulge nell'altero palagio e nella casa dell'artigiano, negli stalli di un coro e negli angoli oscuri di un trivio; in una finestra solinga occulta sotto un'umida grondaia, in un fondo oscuro di bottega, sulle bare delle confraternite, sui registri e tra le cifre de' buoni trisavoli della burocrazia e della finanza, e infine nella grazia colla quale le contadine si acconciano il cappellone di paglia. Come la città, tal'è la campagna ove quelle pittoresche figure s'incontrano, e che ricorda i paesaggi della scuola umbra, e del Sodoma; le descrizioni del Poliziano e dello Ariosto; quella poesia della natura che il Risorgimento ne trasmise così fresca e salubre, e che i moderni colorirono di così intima e soave mestizia. Agostino Chigi, il gran mercante, era intanto un gran mecenate, degno di Roma e di Raffaello, che ornava per lui la Farnesina delle immortali bellezze di Galatea, dinanzi alla quale ogni fervido cuore, come Pigmalione alla statua, grida spontaneo: vivi, palpita ed ama.
III.
Tornando dal cielo in terra, l'amministrazione della repubblica era allora confusa ed imbrogliata tanto quanto erano armoniose e pure le creazioni dell'arte. Ristretta ai Reggenti, alla fazione vincitrice, veniva esercitata da un Senato o Consiglio della General Campana, da un Consiglio del Popolo e da un Concistoro, formato da nove Priori e dal Capitano del Popolo. Le urgenti necessità ed i pericoli avevane poi dato origine ad una Balia, dapprima temporanea ed in seguito ordinaria e permanente; varia per numero e per durata, e nella quale si riflettono via via le vicende dell'instabile governo, come le nuvole di un cielo burrascoso in un limpido specchio d'acqua.
Indi mutamenti continui nella direzione degli affari, insieme col danno di gente che amministrava senza esperienza sufficiente della cosa pubblica. Indi Siena veniva governata (è il Commines che parla) “plus follement que ville d'Italie„; mentre il Malavolti, un senese, bruscamente dichiara che “le novità vi si facevano, non ad altro fine che per robbare il pubblico ed il privato„ e su questo robbare il pubblico insistono altri storici e cronisti cittadini; tanto è vero che nulla è nuovo sotto il sole! Bandi di Siena per chi sì e per chi nò, ripetè fino ai dì nostri il proverbio; il contado era sfruttato o negletto; la reputazione della repubblica scossa, compromessa tanto all'estero quanto all'interno. Giovanni di Giorgio, pittore e architetto sulle fortificazioni (e si era alla vigilia della guerra) scriveva ai signori: “Ho servito a ingegnere, a solecitatore, a guastatore tale che so' invecchiato, e mi risolvo a dire che tanto vale dire ingegniere quanto furfante.... questo fumo senza arosto non fa per me, perchè quando mi sento dire signore ingegniere, e mi guardo in borsa e non v'è uno quatrino....„ e basti la citazione quanto al trattamento degl'ingegneri militari della repubblica.
La prima conseguenza di una simile condizione di cose fu di eccitare l'allarme, la vigilanza e la cupidigia de' potenti vicini e lontani, ed anche degli impotenti. La vaga Siena ebbe proci innumerevoli; il Valentino, il papa, l'impero, il re di Francia, e più assiduo ed accorto di tutti il duca Cosimo. Chi l'ambiva, come il duca, per estendere ed assicurare il principato; chi per afforzarsi nel centro della penisola, dominando la strada fra Roma e Firenze, e occupando la Maremma co' suoi lidi fortificati; chi per meglio tener quieta e soggetta l'Italia. A colorire tali ambizioni i fuorusciti erano il mezzo più naturale e diretto, e Clemente VII lo tentava aiutando coi suoi fiorentini i Nove; ma qual disinganno! Come ai giorni di Montaperti, il popolo senese, quasi fiume ingrossato che rompe gli argini e dilaga, dalle porte e dalle mura precipita a innondare il campo nemico; ne inchioda i cannoni, ne rovescia le tende, lo rompe, lo fuga, lo insegue. Scrisse il Vettori che la battaglia di Camollia del 1526 gli parve un fatto straordinario, se non portentoso, tanto da ricordare gli esempi della Bibbia; ora ne resta un vivo ricordo in un dipinto nella chiesa di San Martino, coi particolari del costume cercati indarno nelle istorie e nei documenti ufficiali; la porta coi suoi fortilizi, gli accampamenti; gruppi, squadre di soldati, di popolani, cannoni dalle forme svariate, bizzarre, baracche, bandiere, e perfino le baldracche che accompagnavano l'esercito, seminude, impaurite. Del resto l'imprudenza dei Fiorentini e degli alleati non meritava loro di meglio, nè ebbero tutti i torti i Senesi cantando de' generali sconfitti:
Quel conton di Pitigliano,
Mangiafichi, bufalaio;
Si armò prima col tribbiano,
E poi fece un grand'abbaio.
Quel ventron dell'Anguillara
Si fuggì come un poltrone.
In una città ghibellina ed imperiale per antica tradizione, Carlo V acquistava naturalmente un predominio, ch'era in sostanza una poca larvata signoria. Dava consigli ed inviava oratori a riformare, a condividere co' magistrati il governo, a comandare presidii spagnuoli. Siena era altera del suo Cesare, come del suo più forte e leale paladino: si disse che i Senesi fin nel ventre della madre avevano il nome di Cesare in bocca. Quando l'impassibile Carlo la visitava, ed entrato in quei confini ebbe detto, nel discingere le armi: “siamo in casa nostra (vedete che non faceva complimenti!) vada ognuno come più gli aggrada„, i Senesi lo accolsero con vero fanatismo. Si videro giovinetti della più cospicua nobiltà abbracciare e baciare le gambe del suo cavallo: ed egli intanto visitava premuroso le fortificazioni e le mura. Gli agenti imperiali tiravano a far gl'interessi propri e del padrone; e le fazioni pur troppo ne aiutavano l'opera distruggitrice; i Nove sopratutto, esasperati dai contrasti e dalle sventure. Quel Monte aveva dato a Siena un governo prospero e glorioso; ma degenerato poi in un'oligarchia stretta e gelosa, ed avendo fatto capo ad una famiglia di tiranni, eccitava oramai contro di sè tutti gli altri, Riformatori, Gentiluomini e popolo. Ebbero i Nove le qualità e i difetti degli antichi ceti privilegiati, che per le antiche proprie benemerenze, e coll'insistere nel potere orgogliosamente, non soffrono gli altrui meriti nuovi, nè si adattano a cedere, anche quando è prudenza, sapienza, dovere, carità. Volevano ad ogni costo il predominio, magari sacrificando la patria agli Spagnuoli. Nè i popolari andavano senza deplorevoli eccessi. Fra loro era sorta una turba licenziosa, i Bardotti, una specie di sanculotti (le rivoluzioni come gli uomini che le fanno si somigliano un po' tutte) che avevano formata congiura contro ai nobili ed ai cittadini. Levavano per insegna una scudo tramezzato di bianco e di verde, andavano a squadre la notte, e commettevano ogni sorta d'insolenze, pretendendo i maestrati. Erano macellai, sarti, falegnami, nè tutti d'infima condizione, ed in una città d'ingegni vivissimi, dove la cultura era diffusa nel popolo tanto che l'altra congrega popolare dei Rozzi si adunava a commentare Dante e il Petrarca, e a scriver commedie in prosa ed in versi, non è a stupire che i Bardotti si adunassero a leggere Livio, Vegezio e il Machiavelli, addestrandosi alle armi con finti abbattimenti. Faziosi, irrequieti, protervi forse dai governanti vennero esagerati i loro torti. A buon conto si obbligavano alle pratiche religiose, a soccorrere i compagni poveri ed infermi, a pregare pei loro morti ed accompagnarli al sepolcro. Furono violentemente soppressi, non osando essi resistere, poichè Mario Bandini, il grande agitatore, li sconfessava, gridando loro in collera di tornare a bottega. Chiesero perdono ai Signori, consegnarono la bandiera e vi tornarono. È fra di loro uno dei più bisbetici cervelli nella schiera bizzarra degli artisti, Girolamo Del Pacchia o Pacchiarotti, soprannominato fra i Rozzi il Dondolone. Durante la persecuzione dei compagni egli corse a nascondersi nientemeno che in una sepoltura, dove rimase celato alcuni giorni, uscendone poi tutto pallido, contraffatto e coperto di vermi; uno spaurito insomma che faceva paura (tutto dire!) più di quella che non sentisse.
IV.
Di tutti i ministri cesarei i più savi furono il cardinal Granvela e lo Sfrondato, ed i peggiori Don Giovanni De Luna e Don Diego di Mendoza, i quali, credendo venuto il momento di fare coi Senesi a fidanza, li trattarono coi modi più imprudenti e burbanzosi, e, l'ultimo sopratutto, come se comandasse non ad una cittadinanza che aveva saputo innalzarsi un così bel Duomo e un sì fiero ed elegante Palagio; ma ad una turba di servi della gleba o di lanzichenecchi. Feriti nel più vivo dell'animo, nell'amore e nel decoro della città natale, dinanzi alla giustizia villana, immeritata, brutale, quei discordi offrono lo spettacolo commovente di una concordia sublime; hanno un palpito ed un fremito solo, e dopo la prima cacciata o meglio licenziamento di Don Giovanni co' suoi e coi Nove, quasi energico avviso a non ridurli agli estremi, proruppero nell'altra di Don Diego:
Arcimarrano
Nemico a tutta Italia, al cielo e al mondo;
Pensando farsi in Siena a Dio secondo,
Fu privo de' favor che aveva in mano.
Che Don Diego Urtado di Mendoza avesse proprio il “viso arcegno di un moro bianco coll'occhio porcino; cera proprio di furbo e di assassino„ (come scrisse il Mangia al Riccio pittore), io non so; ma che fosse un furbo di quelli che talora si mostrano goffamente malaccorti, e dei quali il Manzoni ci porge il ritratto nel notaio che vuol portare in carcere il povero Renzo, vel dice la storia. In Siena aveva incominciati, ma non compiuti gli studi legali; aveva fatto il frate; pizzicava di poesia; aveva scritto storie e romanzi, ottenute protezioni e favori, e la carica di oratore di Sua Maestà Cesarea in Roma. Accolto a gloria dai Senesi, comincia dal raffazzonare il governo a modo suo, imponendosi a tutto ed a tutti. Vuoi perfino che si mandi un oratore a Cesare con carta bianca, e i Senesi lascian fare ed obbediscono. Chiama in Siena bisogni, i quali portano via i ferraioli dalle spalle ai viandanti, scassano le botteghe, rubano per le case, impongono taglie, percuotendo coloro che si fossero provati a resistere; ed affinchè quei marrani meglio attendessero al comodo proprio, il degno governatore ordinava il disarmo dei cittadini, che pazientavano ancora, e obbedivano a ritroso. Appena osava lamentarsi la musa popolare dei Rozzi:
La ricolta del vino è trista stata,
E l'uva sì non m'ha mezze le tina:
Che gli Spagnuoli me l'han tutta scarpata.
Essi: “avean fatto tanto„
Che Siena era ridotta all'olio santo.
Molti si ritraevano per le ville; alcuni pel dolore si ammalavano; Tommaso Politi era decapitato; quand'ecco, come fulmine, la nuova che l'imperatore ha deciso di edificare sul colle di Siena, nel cuore del giardino delicato, una fortezza. Doveva sorgere sul poggio di San Prospero, dove ora è il passeggio della Lizza; ma si vociferava perfino che sarebbesi costruita sulle ruine della cattedrale. La città abitualmente sì gaia, par colpita da un pubblico flagello; si chiudono i traffici e le botteghe; ma i Senesi pazientano ancora, fidando nelle suppliche, nelle ambascerie e nella Madonna loro protettrice. Si eleggono commissioni, s'inviano oratori; ma Cesare rispondeva: “Così voglio, così comando, contro ogni ragione sta il voler mio; e se non bastano le torri (già Don Diego ne faceva abbattere alcune) si rovinino i palazzi, purchè il castello si faccia.„ Gli premeva assicurarsi di Siena, posizione importantissima nelle guerre colla Francia; farne un valido presidio spagnuolo; quel che fu più tardi lo Stato dei Presidi; ed era irremovibile. Orlando Malavolti, lo storico, gli presentava un memoriale firmato da 1032 cittadini di tutti gli ordini. Speravano, vi si legge, che Cesare vorrà considerare che nei “fondamenti del castello ha da star sepolta in eterno la reputazione, l'onore e la gloria del nostro nome, e colla libertà ogni altro nostro bene„; lo scongiuravano, chiamandolo “idolo nostro„, e l'idolo replicava che il castello aveva appunto per fine la libertà e la giustizia. Dipoi agli ultimi oratori che gli s'inginocchiarono dinanzi con abito lugubre e con lacrime, egli in collera rispose: non volere che i tristi, turbando quella città, gli mettessero gli stati suoi d'Italia in pericolo, e additò senz'altro la porta. Anche il papa avea detto che se non bastava un castello, se ne fabbricassero due, e Don Diego spergiurava ch'era per farlo a dispetto degli uomini e di Dio.
Pareva non restasse altra speranza che il cielo, ed infatti si offrirono solennemente le chiavi della città sull'altare della Vergine, e i battuti andavano attorno, dandosi la disciplina; ma anche il cielo era sordo, e “bisogna ingoiare (è un senese che parla) questo treppiede rovente„. Qui rimanendo il pubblico Consiglio “come insensati e fuor di sè„ sorge una voce inspirata, eloquente, l'abate Lelio Tolomei, ad esortare, confortare, ammonire: il suo discorso è una gran fiamma che vien dal cuore e riscalda ed accende gli altri cuori: “le rovine (egli grida) son nate dall'intender la città a monti ed a fazioni; abbiamo empiuto de' nostri cittadini tutte le città d'Italia; abbiamo imbrattate di sangue tutte le strade della città; non più tanti monti e monticelli; uno è il monte dei cittadini; non più Siene; è una Siena; una è la città della Vergine.... La cittadella ci porrà a discrezione della roba, della vita, dell'onore di ogni minimo soldato.... vada tutta la città intiera ai piedi dell'imperatore per tor questa ruina, o morire in qualunque altro modo onoratamente ad arbitrio suo; ma non consenta mai a queste forche così vituperose; si vestano a bruno la signoria, i maestrati, non suonino più le trombe e le campane del palazzo; non si facciano più banchetti, feste, nozze finchè non si tolga tanta ruina.„
Così messer Lelio, ingegno alto e coltissimo di cospicua famiglia, mentre un povero e rozzo contadino, il pazzo di Cristo, Brandano da Petroio, che il popolino toscano non ha ancora dimenticato, a modo suo esprimeva identici sensi. Egli fu l'ultimo lamento del popolano del medio evo, co' suoi terrori e le sue celesti speranze; e la prima protesta del povero moderno, che sdegna mendicare, tratta i ricchi ed i potenti, come eguali, e spesso minaccia. Avea grandeggiato popolarmente poetico e terribile come una profezia del Savonarola, nella Roma del Risorgimento, offrendo al papa ed ai cardinali stinchi di morto; eppoi, gittato nel Tevere, n'era riapparso come vindice spettro della coscienza, tutto fango e presagi. Era stato peccatore e bestemmiatore, come il Santo Davide di Montelabro, ma quanto diverso per sincerità e fervore di sentimenti dal barrocciaio maligno e corrotto che a' nostri giorni sfruttò i poveri contadini con mascherate ridicole terminate in modo sì tragico! Era andato di luogo in luogo, intimando: “fate penitenza che la morte viene„, e, pieno di amore sviscerato per la sua cara città, fu visto un giorno sui baluardi della nascente fortezza gridare a un capitano che sollecitava col bastone i lavoranti: “fate quanto volete, che non vedrete questa cittadella finita„. Il capitano vuol farlo tacere a furia di bastonate, ed egli sempre più forte: “levati di qui, scellerato, e non tribolare questi poveri uomini.... non vedrai finita questa cittadella per cui tanto ti affatichi„. Straziato con ogni sorta di torture, insisteva nel rispondere: “di aver parlato per ordine di Dio„. Chiuso nella fortezza di Piombino, fugge e torna a Siena, riappare sui lavori della fortezza, e intuona a Don Diego: “Don Diego, se tu ci tradisci, ti rinnego; Don Diego, questa tua tela l'hai ordita male; ti mancherà il ripieno, e non la finirai„. Una volta il romito si pose in seno due buone pietre vive, deliberato di darle in testa allo Spagnuolo, lassù in mezzo alla sua fortezza, ed ai suoi guerrieri. Fallì il colpo, scambiando pel duce supremo un ufficiale col saio rosso; catturato ed interrogato rispose: che voleva dare a Don Diego, “perchè non voglio facci la fortezza ai miei cittadini, che non la meritano„. Il Mendoza, colpito da superstizioso terrore, osservava ch'egli era un pazzo o un profeta; se pazzo, alle sue parole non si può prestar fede, e se profeta, di necessità seguirebbe tutto quello che avesse detto, ancora che si ammazzasse. Si contentava pertanto di farlo bandire dalla città. Il pazzo di Cristo è una protesta gagliarda e spontanea del popolo calpestato e tradito dalle fazioni, dai principi e dagli stranieri; è una figura che ricorda i pazzi che grandeggiano talora più sapienti dei savi fra il cozzo delle passioni di un dramma dello Shakespeare, di uno di quei drammi simili ad aurore boreali vaste, terribili, che illuminano ad un tratto i più foschi e misteriosi orizzonti del passato, e gli abissi più imperscrutabili e le tenebre anche più nere del nostro povero e fragile cuore.
V.
In Roma un senese, pur di umile stirpe, il Benedetti, soprannominato Giramondo, eccitava i Francesi a soccorrere la sua infelice città; due congiure si ordivano, e le fila se ne propagavano in Siena e pel suo territorio. Enea Piccolomini ed altri animosi colle bande della montagna eran pronti. Gli Spagnuoli insospettiti ordinano ai cittadini di rimaner chiusi in casa per lunghe ore; cercano di munire il castello; pongono dappertutto vedette. Ed ecco una di queste a gridare dalla torre del Mangia: “Molta gente è arrivata a Porta Nuova!„ Erano i liberatori; dai tetti e dalle torri i poveri Senesi tendevano loro le braccia. Vi fu un momento di ansietà, d'incertezza inesprimibile. In quel lungo e fervido tramonto d'estate tutti i cuori battevano impetuosamente. Ad un tratto è abbruciata una porta; i liberatori sono entrati; un grido si propaga: Francia, Francia; vittoria, vittoria, libertà! Tutte le finestre, calando le grandi ombre notturne, come d'incanto appaiono illuminate “a tal che per tutta la città si andava come se fosse levato il sole„. Gli Spagnuoli in silenzio si schierano nel Campo, presso la fonte; ma già sono assaliti da ogni parte con quell'impeto del quale solo un popolo oppresso ha il terribile segreto; ricacciati via via per le strade tortuose ed anguste, molti balenano e cadono, mentre dai rossi palagi, che a' riflessi delle fiaccole paiono anch'essi ardere di sdegno, dai gotici balconi, dagli alti tetti sporgenti vien giù ogni sorta di proiettili; è una tempesta più formidabile di quelle dell'Oceano; un'ira di Dio; l'aria è piena di grida, di lamenti; il selciato, le case rosseggiano di larghe chiazze di sangue. È sempre deplorevole una zuffa, orrida sempre la strage; ma le battaglie contro lo straniero insolente ed oppressore hanno una poesia, un'armonia che scuote e rapisce come i versi più belli di Omero e di Dante; come gli Ugonotti del Meyerbeer ed il Guglielmo Tell del Rossini.
Pur troppo i frutti principali di tanto valore andarono alla Francia, misera condizione dei deboli che non escono dalle mani di un prepotente se non per cadere in quelle di un altro, che li protegge o li abbandona secondo il proprio tornaconto. Comunque, ebbero quei cittadini la soddisfazione suprema di buttar giù la fortezza; magistrati, preti, nobili e plebei, e, come là dicono, citti e citte con picconi, martelli e pali di ferro, come se ciascuno andasse a nozze, con quell'unanime entusiasmo del quale essi soli son capaci, la spianarono sì bene che nello spazio d'un'ora ne fu guasta tanta “che non ne saria murata in quattro mesi„.
VI.
La splendida epopea che allora i Senesi scrissero col sangue non deve farmi dimenticare la vostra gentile sopportazione, e che al fianco del prolisso narratore si pianta la più insoffribile compagna del mondo, la noia, musa dispettosa, implacabile. Sprono adunque il mio ronzinante, e divoro la via. Carlo V manda il Toledo e Don Garzia ad invadere il territorio della repubblica; ma la piccola Montalcino che, perduta fra le balze ed i poggi, ricorda sempre, col profilo severo, quasi terribile, della sua torre oscura quelle storie d'indomito valore, vide l'oste imperiale ritirarsi schernita dai suoi spaldi. Il duca Cosimo, cervello coperto ed uno de' più saggi mondani (scrisse il Montluc) che sia stato ai nostri tempi, rimaneva in disparte ad osservare il giuoco, per cogliere il momento, nel quale il più destro de' litiganti, gode dei travagli degli altri due. Prima ebbe ricorso alle insidie tentando le congiure col Salvi, capitano del popolo e coi Vignali, che furono mandati al patibolo; poi, gittata la maschera a proprie spese, rischio e pericolo, otteneva dall'impero l'accollo della guerra, incominciandola per sorpresa e quasi a tradimento, mentre i Senesi festeggiavano il carnevale, e Brandano ritornato gridava per le vie: “Cardinale, Cardinale (alludeva al Cardinale d'Este, governatore inetto ed incurante); tu ci rechi poco sale; Siena, Siena, verrà il medico, e ti guarirà dal farnetico.„ Il medico era appunto Gian Giacomo de' Medici, marchese di Marignano, dal Brantôme salutato “il più gran capitano di tutti quelli del suo tempo„, e n'era invece il più feroce. Cominciò la carriera con un omicidio proditorio, e padrone del castello di Mus sul lago di Como, aveva fatto il masnadiero, tanto che i Lombardi lo chiamavano assassino di strada. L'imperatore sospettò ch'ei prolungasse apposta l'assedio di Siena per continuare più a lungo nella sua carica; soffriva di gotta, ed allora si faceva portare in barella pel campo.
Piero Strozzi, comandante supremo delle forze del re di Francia, eppoi maresciallo dopo la presa di Foiano, fuoruscito e nemico di Cosimo, che cercò fino all'ultimo di farlo uccidere magàri a tradimento, era un bell'uomo, colto e studioso tanto che avea, dicono, tradotti in greco i Commentari di Cesare; ma troppo si compiaceva di praticare ciò che andava leggendo nelle istorie. Aveva libreria ed armeria cospicue, e perfino una sala cogli attrezzi per difendere ed espugnare le fortezze. “Più furioso che dolce„ (così il Brantôme) è tutto nell'epigramma che scrisse sulla parete della prigione di Cosimo:
Qui Piero Strozzi a mattana suonò
Perchè volevan che dicesse sì,
Ed egli sempre rispondeva no.
Amava ridere, dire il bel motto sopratutto col Brusquet “ch'era (segue il Brantôme) il primo uomo per la buffoneria in corte di Francia„. Riferisce poi non poche di queste burle, a dir vero, molto appannate ed insolenti, e chiama, scherzi a parte, lo Strozzi più abile ad assalire e difender castelli che a combattere in aperta campagna; più abile ad obbedire sotto un gran generale che ad esser generale lui stesso. Forse mirò più agli interessi della Francia ed ai propri che a quelli dei Senesi, ch'erano per lui un mezzo come un altro per offendere il duca abborrito, sebbene scrivesse al Brissac, in uno slancio di entusiasmo, che accorresse in suo aiuto, quando anche, per rendergli la pariglia, “dovesse andare a servirlo qualche mese da semplice soldato con la picca e l'archibugio in ispalla„. Dopo la caduta di Siena, abbandonando la Toscana per mare, stette lungo tempo muto, fissandone le coste; indi ai suoi ricordò le sue imprese, Pompeo a Farsaglia, Bruto a Filippi, accusò l'altrui poca virtù, la viltà altrui; guardò il cielo. Eran rimorsi? Erano legittimi sdegni?
I veri eroi dell'assedio, tacendo de' veterani delle bande nere, di Sampiero da Bastelica, tragica figura riserbata sempre ai più tragici eventi, e de' valorosi mercenari tedeschi, che non aveano altro difetto se non un appetito formidabile, talchè bisognò cavarli dalla città perchè consumavano più loro di tutti gli altri; i veri eroi furono il popolo e Messer Biagio di Montluc, già pieno di collera e di bizzarria (ce lo confessa lui stesso), talchè in Siena non si volea mandare perchè sarebbe stato fuoco contro fuoco; ma che invece si dimostrò tanto prode quanto prudente. Scrisse di aver lasciata la sua collera in Guascogna, e ch'era di quelli che non hanno in corpo retrobottega. Il fuoco contro fuoco si unì quindi in una fiamma d'insuperabile eroismo. Bravo tanto, che il Murat e il Ney lo avrebbero abbracciato come un babbo glorioso; eloquente, vivace, amava la gloria, le belle donne e il vin greco, ma sopratutto e prima di tutto il proprio dovere. Buono di cuore, del prediletto vin greco che, mentre era ammalato e quasi in fin di vita gli fu regalato da un cardinale, faceva larga parte alle Senesi incinte, contento di beversene ogni mattina un bicchierino, religiosamente, come si prende l'ipocrasso. Caricando di maledizioni quelli che mettono nell'impegno le genti dabbene, eppoi le piantano là, uscì di Siena coi patti ch'ei volle, e dopo avere assicurata la vita a' ribelli di Cosimo. Preferì che i Senesi capitolassero per lui, anzichè lui pe' Senesi. I Capitani spagnuoli correvano ad abbracciargli le gambe; in Roma la gente correva ad ammirarlo sulle porte ed alle finestre, ed egli sentivasi allora vieppiù confortato ad acquistare onore, e, senza un quattrino, com'egli si esprime, sentiva di essere il più ricco signore della Francia.
VII.
In questa guerra, che fu la più atroce e l'ultima che desolasse la Toscana, e della quale la Maremma serba ancora le squallide vestigia ed i paurosi ricordi, si erano ravvivati ed accumulati il furore e gli odii fra i due comuni rivali, Siena e Firenze, che dalle nebbie del più folto medio evo erano durati e cresciuti via via, funestando di ruine e di sangue le campagne irrigate dall'Arno, dall'Elsa e dall'Arbia fatale. Con questa guerra il nuovo principato accentratore dava la battaglia suprema al Comune mediovale, che lanciava l'ultima protesta, l'ultimo grido delle sue più fiere passioni, e de' suoi più ardenti entusiasmi; da un lembo glorioso della Toscana si alzavano una speranza, un lungo anelito d'indipendenza contro l'incombente predominio spagnuolo, il peggiore di tutti nella povera Italia! Questa guerra fu l'ultimo tempestoso tramonto dello splendido giorno de' Comuni toscani che formano, nonostante i loro terribili contrasti, una delle più belle armonie della storia. Anzi la nostra storia, la nostra civiltà è così ricca e varia perchè risulta da più civiltà, perchè ogni nostro principale comune ebbe una sua propria fisonomia, un suo proprio e completo organismo, un suo peculiare e completo incivilimento, lettere, arti, politica, costumi, legislazione e perfino superstizioni e pregiudizi propri, quasi alla pari di uno de' più grandi stati e delle più importanti nazioni. Siena fu tra i Comuni ch'ebbero fisonomia più spiccata, singolare, risentita; vita più completa, originale, tenace. Solamente le repubbliche di Lucca, di Genova, di Venezia e di San Marino durarono più a lungo. Fu tra i Comuni che formarono un elemento essenziale, un'aspirazione, un palpito vigoroso dell'animo e della vita d'Italia. Ebbero i Comuni, ebbe Siena gravissime colpe; peccato supremo la discordia; ma qual fu nel medio evo il feudo, il regno, l'impero, il duca, margravio o barone che non odiò, non uccise, non funestò terre e vassalli col diritto del pugno, colle gare e le ribellioni implacabili? Ma qual è il regno, il ducato ch'ebbe operosità e commerci più floridi, sorriso così divino di arti e di studi, provvedimenti legislativi ed economici molto più liberali e più saggi? La partigianeria, o Signori, non è sempre vizio peculiare delle nostre repubbliche; mentre la cultura e la potenza economica e commerciale fu loro gloria peculiarissima. Non compresero la vera libertà? ma i principi forse la intesero? e chi la intese allora degnamente? Per quanto cieca e partigiana, quella libertà segnava ad ogni modo un progresso; mentre il principato co' suoi livelli e colla sua disciplina, preparando indirettamente la unione, pure non di rado illanguidì, sfibrò i caratteri, e ne tarpò sì bene le ali che dalla Toscana del Ferrucci e dei Senesi dell'assedio si degenera a quella di Cosimo III, di Gian Gastone, dei Ruspandi e di Stenterello! Non è preferibile il Mediterraneo volubile, capriccioso, colle sue brezze riparatrici, colle sue libecciate furibonde, che lo solcano di striscie candide e frementi di spuma, ad un lago, al padule di Bientina e di Massaciuccoli, calmo, uniforme, colla sua quiete sonnolenta ed i suoi pesanti vapori? Torno alla tetra e grande poesia dell'assedio che sembra velare anche oggi di fosca malinconia le antiche mura di Siena, le sue vie, la sua torre comunale che sfida impavida il tempo e i terremoti, come già sfidava le ingiurie nemiche.
VIII.
Fin da principio fu guerra spietata. Il duca ordinava che le reda de' Senesi a balia nel ducato fossero tenuti prigionieri ad istanzia sua; verso il fine dell'impresa per dieci miglia intorno a Siena non si trovava più erba, nè paglia, nè grano, nè abitanti; al campo, che pure orribilmente soffriva, i viveri doveano esser portati da Firenze; da questa città fino a Siena, ed a Montalcino non vi era niente sulla terra per dar da mangiare ai cavalli. Fin da principio i soldati, meno feroci dei capitani, protestavano di voler far tra loro a buona guerra, eppoi non vollero consegnare i fuorusciti fiorentini fatti prigionieri, per non aiutare il bargello, talchè la crudeltà si sfogò tutta sui villani. Fu eretto un infame e scellerato tribunale dove si teneva un registro de' villani colti la prima volta con qualche vettovaglia; se incappavano la seconda erano subito appiccati, pagandoli due scudi l'uno a chi li acciuffasse. Ne furono appesi oltre a 1500 ad alberi infecondi appositamente risparmiati, orrendi trofei, quasi maledizione degli uomini, su quella campagna benedetta da Dio. Il Marignano poi condannava alle forche i terrazzani che aspettassero per arrendersi il primo colpo di cannone.
In più volte furono cacciate dalla città le bocche inutili; erano donne del popolo con un bambino al petto ed uno per mano, col fagotto de' poveri cenci sul capo; erano trovatelli dell'ospedale dai 6 ai 10 anni entro a barelle, a cestarelle, o giovinetti dai 10 ai 15 anni, piangenti, a piedi, con una canna in mano. Ahimè! Appena usciti sono rincalciati indietro, colle mani e gli orecchi tagliati, e i più piccini rimanevano “semivivi a diacere per terra con strida e lamenti che avrebbero fatto piangere un Nerone; ed io (esclama il Sozzini) avrei pagati 25 scudi a non li aver visti; per tre giorni non poteva mangiare nè bere che pro mi facesse„. Il rettore dell'ospedale, un Venturi, andò a trovare lo Strozzi, e con lacrime generose di pietà e di sdegno, disse “a buona ciera„ che non volea cavarne più, piantò l'ufficio, e si tappò in casa senza più ricevere alcuno. Di quelle povere bocche inutili, beate quelle ch'esalavano subito l'ultimo fiato! Non poche ne rimasero a pascer l'erba a guisa di selvaggi animali, fra le mura e i bastioni, quasi fra taglienti forbici (così il Bargagli, novelliere, ch'ebbe il coraggio mostruosamente rettorico di far novellare le sue gentildonne fra quegli spettacoli) finchè spiravano ed erano lasciate insepolte, talchè si videro cani tornare a Siena cogli stinchi e i teschi scarniti, ed una madre estinta col bambino ancor vivo all'esausta, fredda, lacerata mammella. Ho taciute le vergogne: basti che un ragazzo, afferrato il pugnale di uno spagnuolo, lo cacciava nel seno alla sorella bellissima. Eppure quali esempi di fede e di abnegazione in quei poveri, in quei contadini!
A Torrita una vecchia di 75 anni cadeva in mano dei Tedeschi; più per burla che per altro volevano che gridasse: duca, duca; ed essa negava, e gridava: lupa, lupa. I Tedeschi cominciano a montare in collera, ella sempre: lupa. Spogliata nuda, condotta ad una porta del castello è minacciata di crocifissione; ma non fu possibile indurla ad altro che a dire: lupa, lupa. “Con quattro buoni e grossi aguti (son parole d'un contemporaneo) conficcarono a braccia ed a gambe aperte la vecchia su quella porta, e mai non volle dir altra parola che lupa. Con una sbarra di legno le sbarrarono la bocca; ma ben si vedea dalle dimostrazioni del viso e degli occhi, che tuttavia dicea: lupa, lupa.„ Siena, come i grandi ideali, ebbe adunque i suoi martiri!
I gentiluomini davano e ricevevano esempi che i Greci ed i Romani stessi non dettero. È nota l'apostrofe del Montluc alle Senesi, che posseggono così squisito quel supremo ornamento della bellezza, il segreto dell'eterno femminile, la grazia, la eleganza soave, carezzevole delle forme, dello sguardo e del sorriso. Eppure quanta forza in quei petti delicati! “Alcuni gentiluomini (così il bravo generale) mi additarono un gran numero di gentildonne con delle ceste piene di terra sul capo. Non sarà mai, dame senesi, che io non renda immortale il vostro nome fino a che il libro del Montluc vivrà, perchè in verità siete degne di lode immortale quanto mai donne al mondo. Al principio della bella risoluzione che questo popolo fece di difendere la sua libertà, tutte le donne della città si divisero in tre schiere: la prima era condotta dalla signora Forteguerra, vestita di violetto, e tutte quelle che la seguivano adottarono lo stesso colore, con un guarnello corto a guisa di ninfe; la seconda da una Piccolomini, e vestiva d'incarnato; la terza da Livia Fausti, con abiti bianchi e concordi insegne.„ Erano tremila, nobili e borghesi, con vaghi motti ed imprese, ed andavano attorno collo instancabile vigore del quale la donna è capace, così tra i vortici inebrianti della danza, come fra i dolori di un ospedale e di un assedio, portando corbe, picche, terra e fascine, e lavorando ai bastioni, mentre cantavano un inno in onore della Francia. Il Termes assicurava “di non aver mai vista in vita sua cosa più bella„. “Vorrei aver dato (così il Montluc) il miglior cavallo per aver quell'inno, e poterlo qui riferire.„ E soggiunge: “non conobbi pur un solo di quei cittadini temere„; gentiluomini, contadini, preti, frati, donne e fanciulli, al suono di un campanello, o al grido: forza, forza, correvano a lavorare ai terrapieni, di giorno e di notte, e una volta fin quaranta ragazzi fecero una sortita con frombole e partigianelle. Presto cominciarono gli stenti. Non vuo' tediarvi colla enumerazione de' prezzi delle cose più necessarie alla vita: due grappoli d'uva in un fazzoletto erano un gran dono; i topi e i gatti divennero un cibo di lusso; un'insalata squisita l'erbacce che crescono a piè delle mura. Ognuno avea in casa il suo bravo mulino con certe macinelle piccole a mano; eppure, fra tanta penuria, non mancarono a Siena i dolci e il pan pepato: “bericuocoli e pan pepati (narra il Sozzini) appena cotti si portavano in piazza, ed erano subito spacciati caldi, caldi„. Un soldato ne mangiò una cesta piena, e si lagnava di non essere satollo.
IX.
Come Gavinana decise delle sorti di Firenze, i tristi poggi di Scanagallo furono la tomba della Repubblica Senese. Piero Strozzi, uscendo dalla città, si proponeva di unirsi coi rinforzi che attendeva, di porgere una mano al fratello Leone, che dovea giunger per mare, di allargare l'assedio, di far la raccolta in quelle campagne e di ribellare gli Stati al duca. Nessuno di quest'intenti gli riusciva efficacemente. Rimasto ucciso Leone presso Scarlino, dopo una grande aggirata pel Volterrano, il Pisano, il Lucchese, dopo aver passato e ripassato l'Arno, scendeva Piero in Val di Chiana, occupava Marciano e Foiano, provocava il nemico a battaglia. Infine i due eserciti si trovarono a fronte sulle alture fra le quali scorre il capo torrente di Scannagallo; già pativano di tutto, e i capitani esortavano lo Strozzi a sloggiare di notte; ma egli coll'ostinazione propria de' caratteri più avventati, accecato da una fatale pazzia, volle battere in ritirata alla luce del giorno, sfoggiando bravura, come in una giostra. All'ultimo momento il Bentivoglio offriva di sacrificarsi per assicurargli la marcia, e lo Strozzi, per tutta risposta: “chi ha paura fugga, io voglio combattere„. “Signore, fuggirò„, rispose in collera quel prode, e corse nelle prime file.
Erano circa le 11 del mattino del 2 agosto, e il sole sfolgorava implacabile. Gli squadroni della cavalleria imperiale si avanzano, alzando le visiere, e con faccie allegre mostrando alle fanterie il desiderio della vittoria. “Parevano (scrive il Montalvo, un testimone oculare) una montagna di ferro con piume al cielo, vista non meno brava che bella.„ La cavalleria francese, con armi e sopravvesti dorate, e molti paggi, sembrava “un bellissimo torneo„. Intorno allo Strozzi stringevansi i fuorusciti suoi concittadini, levando bandiera verde col verso dantesco: “libertà vo cercando ch'è si cara„. Tre sagri imperiali tuonavano; due falconetti davano loro poca o nessuna risposta. Già l'onda dei cavalli cesarei irrompe al di là del fosso, quando l'alfiere dei Francesi gitta il grido infame del tradimento e della paura! scampa, scampa! Era stato comprato dal nemico con alcuni fiaschi di monete d'oro, che si erano fatti credere di tribbiano. Lo splendido squadrone si divide, si rompe, fugge a spron battuto; fuga maledetta anche dalle cantilene dei contadini che destano pur oggi l'eco triste della solitaria campagna:
“O Piero Strozzi, in du' son i tuoi soldati
Al Poggio delle Donne in que' fossati:
Meglio de' vili cavalli di Franza,
Le nostre donne fecero provanza.„
Tutto non era ancora perduto. Il signor Piero, sulla cima del Poggio delle Donne, armato alla leggera di armi nere dorate, su di un cavallo turco, e collo stocco in pugno, facendo gli uffici di generale e di soldato, conforta le fanterie, esclamando che quella fuga è un suo artifizio; fa dare nei pifferi e nei tamburi; sventolano le bandiere; gli Svizzeri scendono giù a precipizio, urlando: Francia, Francia; mentre dall'altro lato rispondono: Spagna, Imperio. I bruni Spagnuoli, che si erano inginocchiati a pregare prima di menar le mani, Francesi, Italiani, Svizzeri e Tedeschi si urtano, si mescolano, si uccidono. Si videro ferite stravagantissime; monti di uccisi, e il fosso ripieno di morti talmente che la retroguardia lo passava con facilità. Lo Strozzi avea proibito ai suoi di tragittarlo; ma chi poteva trattenerli? Giunti al di là, ecco di nuovo i cavalieri vittoriosi che l'investono di fianco; oramai agli imperiali e ai cosimeschi non resta che uccidere e far prigionieri; de' Francesi e dei Senesi non se ne trovavano insieme neppur cinquanta per segno di qualche residuo di ordinanza. La strage fu di qualche migliaio; i superstiti gittavano le bandiere in terra, e domandavano la vita, levandosi le bande bianche. Furono inseguiti per oltre due miglia, fin sotto Lucignano che si arrese. La furia della preda fu tale che i morti vennero “ignudati totalmente„. Lo Strozzi, ferito in un fianco ed in una mano, è travolto negli amari passi della fuga: solamente sei ore sono trascorse; ma quante speranze e quante vite distrutte; quanti anni di vedovanza e di lutto; quante lacrime, quanti orfani, qual mutazione solenne di destini, mentre il sole fa trafelare i guerrieri nelle armi rilucenti (scrive il Montalto che vi scoppiavano dentro) e continua implacabile a flagellare gli aridi campi allagati di sangue! Frattanto il duca gittava i danari a manciate dalle finestre di Palazzo Vecchio “talchè in quella piazza vi si rassembrava un altro fatto d'arme, stante la gran quantità di pugna che vi correvano„; faceva appendervi le lacere bandiere conquistate; adunarvi musici e cantanti; far salve di gioia; suonar campane, cantare il Te Deum, e scrivea a Cesare: “che Dio è restato servito, dare a Vostra Maestà ed a me, suo devoto servitore, la vittoria contro i nostri nemici„. Quella vittoria si festeggiò perfino in Inghilterra.
X.
Alcuni giorni dopo la battaglia di Gavinana Firenze si arrendeva; dopo quella di Marciano e di Scannagallo, Siena resiste ancora per oltre otto mesi; scrive allora l'ultimo canto, forse il più bello della sua epopea. Ritiratosi lo Strozzi in Montalcino, fu Dittatore il Montluc. Tutte le bande del duca erano intorno alla città; le trincee giungevano fino alle porte. Nella notte di Natale i nemici preparano un orrido festino: la scalata, che non riusciva, perchè il Montluc, saltato fuori delle mura coi soldati e colle schiere cittadine, fa chiuder la porta colla ingiunzione di non aprirla, anche se morisse con tutti i suoi, eppoi perchè il Marignano colle sue fiaccole rese micidiali i tiri degli avversari. Di lì a poco si annunzia la batteria, cioè il bombardamento; alcuni vociferano di resa; ma il Montluc ne pensa un'altra delle sue. Era stato malato tanto che quando non vedeva i nemici non avea forza (dice lui) di ammazzare un pollo; ma in quel frangente, per incuorare i Senesi, che l'avean visto andare attorno tutto imbacuccato, e lo facevano spacciato, infila le sue belle calze di velluto cremisi, che avea portate quando faceva all'amore, ed avea tempo (com'ei si esprime) da consacrare alle belle, e maschera il cereo pallore del volto impiastricciandosi col suo vin greco, finchè non ebbe preso un po' di colore. Vi giuro, egli esclama, che io non riconosceva me stesso, mi pareva “essere innamorato, come una volta!„ I suoi capitani ridevano come matti; ma intanto lo accompagnano al Palagio, dov'ei tiene un bel discorso e li fa giurare: “inanzi Iddio che noi moriremo tutti l'arme in mano con essi loro per adjutar li (il buon generale si compiace di saper bene e di scrivere anche l'italiano) a deffendere lor sicuressa et libertà; et ogni uno di noi s'obbligi per li soi soldati: et alsate tutte le vostre mani„. Le destre valorose si alzarono, e si udirono più voci: “Io, io, huerlic; ouy, ouy, nous le promettons„. I Senesi, anche una volta promettevano da parte loro di mangiare sino ai propri figli, prima di arrendersi. La batteria non fece effetto; un buon senese con un suo mezzo cannone smontò e fe' tacere i pezzi nemici; il Montluc gli gridava: “Fradel mio, da li da seno, per Dio, facio ti presente d'altri dieci scoudi et d'un bichier de vino greco„. I cittadini gridavano dalle mura: “Marrani, venete qua, vi meteremo per terra vinti brassi di muri„. Il Marignano dovea oramai fondare nella fame ogni sua speranza.
Un pittore, Pietro Aldi, così presto rapito alle visioni dell'arte e della gloria, volle in un bel quadro esprimere le atroci sofferenze de' Senesi; povero Aldi, qual pittore al mondo saprebbe uguagliare i quadri terribili della realtà? Ora sono i vinti di Marciano che rientrano svaligiati, malconci, feriti e che si buttano piangendo per le strade, che già lo spedale era pieno a quattro per letto, e di più erano piene le banche, le tavole, le chiese; ora sono alcuni poveri gentiluomini, che, sulla sera, vergognosi, battono agli usci implorando un pane per amor di Dio; qua sono le visite domiciliari fin nelle cantine, conquassando ogni cosa per trovare il grano nascosto; là bare e battenti, o infelici, i quali ad un tratto, camminando, cadono morti sulla piazza. Qualche volta lo scoraggiamento s'impadroniva del pubblico Consiglio, che non poteva deliberare anche pe' contrasti ed il mormorio; era sempre la vecchia discordia; ma fuori dell'aula, e sulle mura tornavano tutti unanimi nel valore e nei patimenti; unanimi perfino in qualche improvvisa, eroica allegrezza. Mentre tetro e lento scorreva il carnevale del fatale 1555, più magro e digiuno della più scarna quaresima, i Senesi (indovinate!) fecero un ballo tondo in piazza e un bellissimo giuoco di pallone, nel quale un hidalgo spagnuolo fatto prigioniero da un prosaico pizzicagnolo, riportò i primi onori, “perchè era benissimo in gambe; nè c'era alcuno che facesse li corsi che faceva lui„. Dopo vi fu un bellissimo affronto di pugna; si udì una voce: “alla guardia, alla guardia!„, ed ognuno tornava ai luoghi deputati. Sul volto abbronzato del Montluc si videro lacrime di tenerezza.
XI.
Quel tripudio fu lampo fugace. L'assedio diveniva sempre più duro; le citole vestite di bianco, scapigliate e scalze, andavano a processione, gridando: oh Christe audi nos! o intuonando laudi dal verso immensamente piatoso; già ognuno andava a capo basso, senza parlare; appena tre o quattro donne erano rimaste nella loro prima effige; i vivi portavano invidia ai morti; parenti ed amici, incontrandosi, esclamavano: mi è venuto a noia il vivere. Si cuoceva la malva in luogo di pane, perchè facesse ripieno. Il Montluc avea tirato il collo all'unica gallina regalatagli dal Marignano affinchè godesse di qualche uovo fresco, e si era ridotto a mangiare una sola volta al giorno col Bentivoglio ed il Cajazzo, il suo panino di una libbra con un po' di pesce e di lardo; “ma era un pranzo, egli esclama, se tornavamo affaticati e vittoriosi da una scaramuccia„. Dovè consentire alla Signoria di trattare, vedendo che “non c'era rimedio che mangiarci fra noi„. I Francesi e lo Strozzi avevano abbandonata la misera città, promettendole di continuo il soccorso che non arrivava mai. “Almeno, dicevano i popolani, se ci vogliono dare di queste carote facciano che si mangino col pane!„ Il duca stipulò l'accordo, come luogotenente di Cesare; l'antica libertà fu da Cesare, secondo l'uso, promessa e non mantenuta, e Siena, trattata come un feudo di Spagna, finì decaduta e avvilita nelle mani di Cosimo, che, italiano e toscano, era stato il più subdolo e crudele fra i suoi nemici, ed infine il più lieto, facendo dipingere in Palazzo Vecchio il leone e la lupa avvinti dalla stessa catena d'oro; ma su quell'oro quanto sangue!
I padri narrarono ai figli le atrocità di quell'assedio insieme coi ricordi di Montaperti e delle secolari discordie, e nel cuore de' Senesi durò per lungo tempo ancora un risentimento invincibile contro Firenze; fin nel secolo XVII v'erano Senesi ch'esaltavano il loro vernacolo a scapito del fiorentino; che si ostinavano a disconoscere il genio di Dante perchè fiorentino, che facevano le meraviglie se udivano che Firenze era più bella di Siena. La repubblica avea mandati i suoi cannoni contro Firenze, ed ora soccombeva allo stesso destino; era tradita ugualmente; nell'ultima sventura diveniva sorella dell'antica rivale, ma sorella gelosa, irrequieta ed altera.
“Come un turbine spazza via dalle immondezze una piazza, così i poveri Senesi (dice il Sozzini) spazzarono a un tratto la piazza del Campo„ dalle vettovaglie che vi si erano da ogni parte accumulate. Sfido io! Si erano arresi più che al nemico alla fame: per forza, Siena, ripetè il proverbio, o neppure arresi veramente perchè molti uscivano coi Francesi, a bandiere spiegate, ed a tamburo battente, lunga e stupenda processione giù per i poggi brulli e rossastri. Dove sono i cittadini, là è la patria. I profughi aveano avuta dagli Spagnuoli la cortesia di pochi muli per le vecchie e pe' fanciulli, ch'esse presero sulle ginocchia; gli altri procedevano a piedi, uomini e donne; queste ultime portando sul capo le culle dove i lattanti vagivano. Più di cento giovinette seguivano i padri e le madri; molti uomini tenevano per una mano la figliuola e coll'altra la moglie. “Non ho mai visto in vita mia (così il Montluc) partenza sì desolata„. All'Arbiarotta gli Spagnuoli stessi erano accorsi a porger loro il pane della carità, che salvò la vita a più di duecento di quegl'indomiti repubblicani affamati. Mario Bandini era con loro. Siena, divenuta spagnuola e granducale, ridotta da 40 a 7 o 8 mila anime, non era più la patria de' loro cuori e de' loro sogni. La repubblica continuò, risorse in Montalcino coi suoi magistrati, la balzana, la moneta, le sue vecchie passioni. Certo era un simulacro; ma i più umili simulacri, un cencio di bandiera, una logora medaglia non sono anche grandi ricordi, conforto, auguri, speranze? La vita stessa non è un lungo ricordo ed una continua, inquieta speranza?
La repubblica di Montalcino era sotto il regime militare del comandante francese; gli esuli sussidiati dalla Francia; il loro numero si andava sempre più assottigliando, ma pure resistettero, per quattro anni resistettero alle armi, alle lusinghe, ai tradimenti, fra i quali uno proposto da Pietro Fortini turpe nella vita come nelle novelle turpissime. Infine nel trattato di Cateau-Cambrésis insieme colle sorti di regni e di sovrani si definirono pur quelle della minuscola città di Montalcino, e tutta l'Italia si addormentava nel sonno della servitù.
XII.
Queste vicende insieme colla pietà ed il terrore destano nell'animo un senso di raccapriccio, dacchè, ne' due campi avversi, sulle labbra de' combattenti suonava la dolce loquela di Dante, di Santa Caterina e del Petrarca. Eppure quei vinti han sempre, di generazione in generazione, destata una simpatia istintiva, irresistibile; offerte inspirazioni ed ammaestramento. Se non altro vediamo in loro meglio delineata e colorita la fisonomia di questo nostro Comune singolarissimo. L'indole sua fu da Dante e dai cronisti paragonata con quella di Francia, nè il raffronto è una semplice figura rettorica. I Francesi, la grande nation, han sempre dato lo spettacolo di virtù straordinarie, eroiche, e de' più incredibili eccessi. Sono effervescenti, calorosi come il vino della loro Sciampagna. Il ne quid nimis, la giusta misura, l'aurea mediocrità non han mai fatto per loro. Ripensate alla grande rivoluzione, a Giovanna d'Arco e alla Saint-Barthélemy, al Marat, alle Crociate, a San Luigi, agli epigrammi del Voltaire, al Rousseau, a San Vincenzo de' Paoli e al Terrore, alle poesie ed ai romanzi di Vittor Hugo, alla rocca di Solferino, al Boulanger. Lo stesso può ripetersi, serbate le debite proporzioni, di quella cittadinanza vivace, mobile, irrequieta che bevve l'acqua di Fontebranda. Non vi è eccesso, e dite pure pazzia che non abbia commessa, nè bellezza peregrina ed eroismo, del quale non sia stata capace.
“Solinga dalle altre e in sè romita„ (come il Prati cantava) Siena, la rossa città, altiera e gentile, come una delle sue contadine leggiadre, dritta a guardare dai suoi poetici poggi, certa di esser bella ed ammirata, formò un mondo a parte, che spesso per l'antico Senese era tutto il mondo. Nelle sue fazioni, nell'arte, nei costumi, nelle leggende, nelle sacre rappresentazioni, nel suo teatro, negli scrittori ha quasi un impeto lirico, romanzesco e fantastico; dalla satira più acuta corre alla malinconia più solenne; dalla commedia più gaia e scollacciata alla tragedia più cupa con rapidi, improvvisi, impensati trapassi. Siena eccede sempre, o, come i Senesi dicono, sforma; ma è bella e simpatica sempre, anche nelle sue ritrosie e ne' suoi sdegni. Guardate gli artisti. Eccedono nella conservazione de' tipi antichi, negli ornamenti, nella eleganza; ma nè il sapiente disegno della scuola fiorentina, nè lo sfolgorante colorito dei Veneti hanno la grazia carezzevole e tutta casalinga delle immagini senesi. Il Bazzi nol dirò senese di genio, come lo fu per adozione, perchè visse fra bertuccie, gatti, asini e barberi tanto che la sua casa parea l'arca di Noè, o per una supplica e una denunzia de' suoi beni ai magistrati della repubblica, “un orto che io ho lo lavoro, e gli altri ricogliono; un corvo che favella, che lo tengo, che insegni a parlare a un asino teologo in gabbia; un gufo; tre bestiacce cattive che sono tre donne„; nol dirò senese perchè i frati di Montoliveto l'avevano soprannominato il mattaccio (quanto a matti tutto il mondo è paese); ma per lo sfarzo, la dolcezza, le inspirazioni, la bizzarria de' suoi quadri, nonostante che la sua tecnica risenta dell'arte lombarda, egli che alla senese dischiuse nuovi e più larghi orizzonti. La pittura storica, allegorica, morale e filosofica in nessun'altra scuola, ebbe più ampia e più ricca espansione; i solitari della Tebaide nel Camposanto urbano di Pisa, l'assedio di Montemassi, la disfatta della Compagnia del Cappello nella sala del Mappamondo, la sala della Pace vel dimostrano; ma nelle scene più solenni ecco ad un tratto qualche stravaganza, la vecchia che fila nell'Annunziazione del Berna, il cane che lecca un piatto e il gatto che lo punta, nell'ultima cena del Lorenzetti. Ora idealità paradisiache, ed ora particolari realistici, come un Giuda appiccato, putrefatto, e cogl'intestini fuori.
I novellieri senesi sono i più licenziosi ed i più delicati; dipingono la fanciulla che muore d'amore; e si ravviluppano nel brago della pornografia tanto da fare arrossire i pornografi moderni, se questi signori possedessero una prerogativa sì bella. Un umanista senese spinse l'entusiasmo pel latino fino a proporre che fosse insegnato alle balie affinchè i bambini si abituassero a balbettare sentenze di Tito Livio ed emistichi di Virgilio; Bernardino Ochino prima è il padre Agostino dei suoi tempi, eppoi uno degli eretici più audaci e sventurati, ed era nato, avvertite, nella stessa contrada di Santa Caterina; pei Sozzini Lutero e Calvino erano moderati e conservatori; le fazioni senesi sono le più intricate ed infuriate, l'assedio è, se non il più lungo, certo il più ostinato d'Italia; le miserie di Siena sono le più lacrimevoli, le sue feste le più popolarmente liete, fragorose e bizzarre. Narrano che Pietro Leopoldo, pregato dai Senesi a favore del Manicomio, rispondesse: chiudete le porte, e il manicomio è bell'e fatto. Ma oh che bel manicomio da fare invidia ai savi!
XIII.
La Repubblica si era condannata a morte da sè stessa; ma il governo mediceo non riuscì proprio di gran lunga migliore. Anche il Monte dei Paschi, più che ai Medici fu dovuto alla operosità ed alla accortezza de' Senesi, mentre tutte medicee furono le persecuzioni fin contro gli studenti protestanti dell'antichissima università. Gli eccessi de' libertini non debbono far dimenticare che imperatore e duca avrebbero potuto essere meno impazienti, cupidi, orgogliosi, violenti, un po' meno sovrani ed un po' più umani. Co' bisogni de' tempi nuovi, coll'ambiente, con quel comodo servo muto del fato storico voi proverete che le Repubbliche di Firenze e di Siena, così dissimili in vita, doveano perire di ugual morte; ma intanto un istinto, un sentimento che la critica spigolistra non è degna d'intendere, ci avvisa che non ebbero po' poi tutti i torti coloro che considerarono quei vinti, quei morti come i precursori ciechi, inconsapevoli, ma degni de' morituri, i quali, meditandone le gesta, volarono ad altre battaglie, non pel campanile, sia pure splendido e caro, e per le mura natali, ma per la gran patria comune, incoronata da' suoi monti, baciata dal suo duplice mare, e per le sue cento città dalle mille gloriose torri, sulle quali doveva sventolare finalmente la stessa bandiera. Chi pugnò per salvare, se non la vita, l'onore dell'antico Comune, diè il sangue, o Signori, per un'istituzione eminentemente nazionale; per la più intima, antica e schietta manifestazione della nostra travagliata nazione e della sua civiltà; per una delle patrie, senza le quali la gran patria era impossibile. Dante che fu il poeta più universale, fu altresì il poeta nazionale per eccellenza; ma ei fu il più splendido fiore della civiltà dei Comuni, coi quali la coscienza nostra d'italiani pronuncia la sua prima ed incerta, eppure la sua più italianamente robusta ed efficace parola. Nessun'altra se ne udì più potente, nonostante le invocazioni del Machiavelli, un altro figlio del Comune, fino ai dì nostri, fino alla generazione che, incoronata dall'aureola del martirio e della gloria, ne precede e si dilegua per l'oscuro sentiero della tomba.
Sappiano le animule blandule, beffarde, leggiere che si aggirano così amabilmente indifferenti nel circolo vizioso de' sensi e del sentimentalismo, sghignazzando, sospirando e sbadigliando con tanta grazia, senza infilar mai la via maestra dello affetto e del sentimento, e delle quali il numero cresce ad occhio veggente come le mosche e le zanzare in un'afosa giornata d'estate, ritemprarsi a quella antica fortezza di propositi, a quell'ardore di entusiasmi, deplorarne i traviamenti, dirigerli a ben altra, a più nobile meta. I tesori di abnegazione che i padri nostri prodigarono nelle discordie, prodighiamoli, una buona volta, nella concordia e nell'amore. Ma ricordiamo, a ben comprenderli ed a ben giudicarli, che la storia ha da essere, più che tema di erudizioni e di critiche inesauribili, più che fredda dimostrazione matematica di ciò che doveva o non doveva accadere, più che un'alterna vicenda sistematica di demolizioni, di riabilitazioni e di ricostruzioni, la lampada della vita che i giovani si trasmettono l'un l'altro inestinguibile, nella corsa infaticata per la conquista dell'avvenire.
Gli scrittori politici del Cinquecento
DI
CESARE PAOLI.
I.
Signore e Signori,
Nella storia della civiltà italiana il secolo decimosesto è uno splendore e un tramonto. Generato dal seme vigoroso del Rinascimento umanistico, ebbe nell'arte, nella letteratura e nei costumi, i godimenti di un'età raffinata; e la luce della sua coltura ci empie anche oggi di ammirazione. Ma nell'andamento politico fu un precipizio; ogni fiaccola di libertà e d'indipendenza si spenge; ai liberi comuni succedono i tiranni o le oligarchie; gli stranieri corrono da padroni la penisola, se la contrastano, se la dividono, e la riducono tutta, o quasi, in servitù. La lega di Cambray del 1508 dà un primo colpo a Venezia; la pace pure di Cambray del 1529 uccide Firenze; l'una e l'altra, aiutata dalle reciproche gelosie degli Stati italiani e dalle cupidigie e dai tentennamenti dei papi; il trattato di Cateau-Cambresis distende sull'Italia il lenzuolo funebre e l'abbandona oppressa, avvilita, spremuta in balìa della Spagna, che finisce col toglierle, anche nel pensiero e nei costumi, ogni alito di nazionalità.
E pure sull'orlo di questo precipizio, nel passaggio della gaia e tumultuosa libertà al silenzio del servilismo; in mezzo alla perturbazione continua cagionata dall'agonia delle repubbliche, dalle effimere e violente signorie dei tiranni, dalle lotte, dalle congiure, dalle invasioni straniere; il pensiero politico, per opera di alcuni grandi scrittori, si eleva ad alte concezioni, destinate a sopravvivere alla universale rovina. È in queste il germe d'una scienza nuova, che spoglia di pregiudizi locali e di tradizioni scolastiche, fondata sull'esperienza dei fatti, ma tendente a nuove idealità, si studia di disegnare, tra lo sfacelo del mondo medioevale, le basi dello Stato moderno. Di questi scrittori politici del Cinquecento è mio ufficio oggi di parlarvi. Non senza trepidazione mi presento oggi, la prima volta, dinanzi a voi, ben conoscendo la gravità dell'argomento e la mia insufficienza; ma la vostra squisita cortesia, o Signori, mi conforterà nell'arduo cammino; e, poichè altro non pretendo di essere che un semplice espositore, avrò da voi venia, se al buon volere non corrisponderà la poca virtù dell'ingegno.
II.
Cacciati i Medici nel 1495, la Repubblica Fiorentina, sotto l'ispirazione di frate Girolamo Savonarola, si riordinò in istato popolare, con un Consiglio grande, un Consiglio o Senato degli Ottanta, un magistrato dei Dieci di libertà e balìa, che soprintendeva in special modo alle cose della guerra; e più tardi, con la instituzione di un gonfaloniere a vita, che fu Piero Soderini. Questo reggimento, nato onestamente, pur avendo di continuo a lottare con gravi difficoltà interne e con gravissime minaccie esteriori, governò con onestà e con decoro la Repubblica sino al 1512, e alla storia di esso è legato il nome del più grande dei nostri politici del Cinquecento, di Niccolò Machiavelli.
Il Machiavelli era nato nel 1469, e a ventinove anni entrava negli uffici della Repubblica, come coadiutore della seconda cancelleria, ed era più particolarmente deputato all'ufficio di segretario dei Dieci. Mantenuto sempre, quanto a ufficio, in un grado secondario, fu bensì adoperato in gravi e delicate missioni, che egli adempì con grande fedeltà e zelo; quivi si formò la sua educazione politica, quivi si presentarono alla sua mente i gravi problemi politici e sociali della sua età, e ne fu indotto a cercarne la soluzione e a comporne gli elementi di una dottrina o arte di Stato.
Il professore Pasquale Villari, nel suo libro magistrale intorno a Niccolò Machiavelli e ai suoi tempi[2], osservò giustamente che uno dei documenti più importanti a conoscere la vita del segretario fiorentino sono le sue Legazioni e Commissarie; trovandosi in esse non solo la storia fedele della sua attività diplomatica, ma anche i primi germi delle sue dottrine politiche[3]. Poichè debbo oggi esporvi ciò che più volentieri sarei stato ad ascoltare dalla sua voce autorevole, permettetemi, Signori, di toccare brevemente di queste Legazioni.
Nell'ufficio di mandatario della Repubblica Niccolò Machiavelli visitò vari paesi e varie Corti in Italia e fuori; conobbe uomini di Stato ragguardevoli; assistè e partecipò a fatti politici di non piccola importanza. Io non m'indugerò, o Signori, a riferirvi le cose trattate in queste Legazioni, e basterà, per il fine nostro, che ne rileviamo certi lineamenti più caratteristici, dai quali si desume il metodo d'osservazione e la preparazione sperimentale e dottrinale del Machiavelli.
Fu quattro volte in Francia dal 1500 al 1511 e una volta, nel 1507-8 in Germania (passando per la Svizzera e per il Tirolo); e le sue osservazioni su quelli Stati, oltrechè nei dispacci quotidiani, si trovano raccolte in particolari relazioni che egli chiama “Ritratti„. Osserva in Francia la gagliardia di quella Corona, e ne pone come cagione principale l'avere essa sottomessi tutti i baroni. Non benevolo ai Francesi nei ragguagli che dà della natura loro, nota sopratutto il disprezzo che hanno verso gl'Italiani, perchè questi sono senz'armi e senza denari; e con occhio attento segue la fortuna dei Francesi in Italia, essendo con quella congiunta la fortuna di Firenze, per cagione di un'amicizia che egli malinconicamente dice: “essersi mendicata e nutrita con tanto spendìo, e con tanta speranza mantenuta„. In Isvizzera rimane ammirato di quella “libertà libertà„ (com'egli la chiama), e della piena ugualità d'ogni ordine di cittadini. Delle comunità di Germania loda i costumi patriarcali, e studia minutamente le relazioni tra imperatore, principi e comunità. In tutti quei paesi stranieri studia inoltre, con profonda attenzione, gli ordini delle milizie, esaminandoli con particolare riguardo all'Italia; e ne nota la forza e la debolezza; o indaga con che metodi possano esse vincere, e con quali opportuni rimedi potrebbero essere vinte dagli Italiani, se questi avessero armi proprie. Delle armi mercenarie aveva il Machiavelli già fatto trista esperienza nella guerra di Pisa, delle faccende della quale aveva dovuto occuparsi giorno per giorno come segretario dei Dieci. Quando poi, nel 1500, fu dato per compagno a Luca di Antonio degli Albizi, commissario al campo dei Francesi che assediavano, per conto di Firenze, quella città; potè sempre meglio conoscere la mala fede, la violenza, le ruberie infinite di quelle soldatesche. Del resto, dalla discesa di Carlo VIII in poi, e anche prima, erasi fatto palese come l'Italia, per mancanza d'armi nazionali, fosse corsa e sopraffatta dalle milizie straniere senza difesa, o dovesse commettere la difesa sua in milizie mercenarie anche più ladre. E io voglio qui citare il buon speziale Luca Landucci, che, nel suo Diario fiorentino, all'anno 1478, con grande semplicità e dirittura, così giudica dei soldati a servizio delle repubbliche italiane: “L'ordine dei nostri soldati d'Italia si è questo: tu atendi a rubare di costà, e noi faremo di qua.... Bisogna venga un dì di questi tramontani, che v'insegnino fare le guerre.„[4].
Una delle legazioni più notevoli del Machiavelli è quella al duca Valentino in Romagna dall'ottobre del 1502 al gennaio 1503. Aveva già egli conosciuto di persona Cesare Borgia, fino dal giugno precedente, avendo allora accompagnato in Urbino il vescovo Soderini, che la Repubblica Fiorentina inviava al Duca, per congratularsi del violento acquisto di quel ducato, e per invocare intanto la restituzione di certe terre aretine ribellate da Vitellozzo Vitelli. E fin d'allora il Machiavelli delineò del Valentino un ritratto che mostra com'egli ne ricevesse una vivissima impressione. “Questo signore è molto splendido e magnifico; e nelle armi è tanto animoso, che non è sì gran cosa che non li paia piccola; e per gloria, e per acquistare stato, mai si riposa, nè conosce fatica e pericolo. Giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva. Fassi ben volere a' suoi soldati, ha cappati i migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunto, con una perpetua fortuna.„ Il Machiavelli era in Sinigaglia quando Cesare Borgia, il 31 dicembre del 1502, fece prendere con fine astuzia, e poi tranquillamente strangolare, Vitellozzo Vitelli, gli Orsini ed altri signorotti della Romagna, già suoi emuli, e ora suoi troppo creduli alleati; del quale eccidio il Machiavelli stesso fece poi una distesa e vivace Descrizione. Ch'egli ne fosse consigliatore, come qualche storico mediocre ha vociferato, è una stupida accusa, che non ha ombra di fondamento; ma certo è che, per quel fatto, la immaginazione sua fu profondamente colpita dall'energia, dall'audacia, dalla rapidità di quel giovane tiranno che non conosceva ostacoli, e li superava tutti, con qualsiasi mezzo, buono o cattivo, ma sempre opportuno, capacissimo di ogni malvagità, ma (come bene osserva il Tommasini[5] ), “non di fare male vano„; e notevole anche in questo, che di quelle opere sue, che a noi paiono malvagie, cercava avidamente la lode. In fatti raccontò al Machiavelli la cosa “con la migliore cera del mondo„ e si rallegrò tanto di questo successo che (dice il Machiavelli) “mi fece restare ammirato„. Diedegli poi ordine che se ne rallegrasse colla sua Repubblica, alla quale diceva d'aver fatto un gran bene, collo spegnere quei nemici di lei capitalissimi, e avere “tolto via ogni seme di scandolo, e quella zizzania che era per guastare Italia„. E i Dieci di balìa, non meno stupefatti del loro segretario, prima gli scrissero che si rallegrasse col Duca di “questa sua felicità„, bensì “con modestia„ per salvare almeno l'apparenza del pudore morale; ma, quando seppero che tra gli strangolati v'era anche il rubatore delle terre d'Arezzo, allora misero da parte ogni scrupolo, e di gran cuore confermarono al Machiavelli la commissione dei rallegramenti; “tanto più vivamente (dicono), da poi s'è inteso la morte di Vitellozzo, della quale questa città ha cagione di contentarsi assai.„
III.
L'esperienza acquistata in quattordici anni di attività politica nella mente riflessiva di Niccolò Machiavelli erasi ordinata in osservazioni ragionate; quando la reazione del 1512, riportando in Firenze i Medici, distrusse il governo del Soderini, e lui, Machiavelli, privò d'ogni ufficio. Ritiratosi allora in una sua villa presso San Casciano, datosi agli studî storici e letterari, a quegli studi, i quali, come scrisse Cicerone, “ secundas res ornant, adversis perfugium et solatium praebent „, mise a profitto le osservazioni fatte, l'esperienza acquistata nelle cose di Stato, e, corroborandola collo studio comparativo dell'antiche istorie, ne compose quelle opere somme, che l'hanno fatto segno ora di ammirazione, ora di odio, e anche di vituperio, ma che hanno fatto il suo nome universale e immortale, e hanno meritato che sul sepolcro di lui in Santa Croce si scolpisse “ Tanto nomini nullum par elogium! „
Le opere politiche del Machiavelli, sono principalmente due: i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e il Principe. Nei Discorsi si ragiona in tre libri, della formazione, dell'accrescimento e dell'ordinamento delle repubbliche; nel Principe, in ventisei capitoli, dei modi che ha da tenere un principe nuovo, o piuttosto un tiranno, a fondare uno Stato e a conservarselo. Le due opere (chi le consideri superficialmente) mostrano di avere un carattere diverso; perchè la prima tratta di repubbliche, e l'altra di principato; quella nella più gran parte riguarda una condizione di ordinata libertà; questa invece uno stato violento e transitorio, qual'è la fondazione di un principato nuovo in una società corrotta, e per opera di un tiranno; infine i Discorsi sono come un commentario di storia antica, mentre il libro del Principe, proponendosi un fine non solo dottrinale, ma pratico ed immediato, trae quasi tutti gli esempî dalla storia contemporanea. Ma, se si studino un po' attentamente, si vedrà che le due opere nei principî generali e nel metodo si accordano; e di parecchie massime che sono nel Principe si trovano i germi, e più che i germi, nei Discorsi.
Permettetemi, Signori, di darvene un breve ragguaglio complessivo.
Nei Discorsi cinque capitoli sono dedicati alla religione, che il Machiavelli, pur considerandola come un fatto puramente umano, pone come fondamento principale e necessario della salute degli Stati “perchè (dice) dove è religione si presuppone ogni bene, dove ella manca, si presuppone il contrario„. E ha una fiera ed eloquente invettiva contro la Chiesa Romana, che muove dal principio che, “appunto per gli esempî rei di quella corte„ l'Italia avesse perduto ogni “divozione ed ogni religione, il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini„. Prosegue poi più fieramente l'invettiva, accusando il potere temporale della Chiesa d'essere d'ostacolo alla unità d'Italia, e d'averla ridotta a tanta debolezza “da essere stata preda, non solamente di barbari potenti, ma di qualunque l'assalta„. Di questa materia della religione è nel Principe appena qualche cenno fugace, laddove l'autore confessa la missione divina di Mosè, e dove dice che il Principe debba, se non essere, almeno parere religioso.
Degli ordini militari discorre con largo ed intimo studio nell'una e nell'altra opera. Ha parole roventi contro le milizie mercenarie ed ausiliarie, e raccomanda vivamente ai principi e alle repubbliche di avere armi proprie.
Per quanto attiene ai metodi di governo, nei Discorsi è, forse più che nel Principe, conservato il rispetto a certi principî generali di moralità, che sono superiori a ogni contingenza politica: ma però sono sempre enunciazioni astratte, che non hanno alcuna influenza sulla determinazione dei modi più opportuni e più efficaci che occorrono per fondare e mantenere uno Stato.
Il Machiavelli più volte, nell'una e nell'altra opera, si chiarisce fautore convinto dello Stato popolare, e avverso ad ogni oligarchia di nobili ed ottimati; ma, anzi tutto, reputa necessario, per bene instaurare una repubblica o un principato ab imis fundamentis, la volontà e la mano ferrea d'un solo ordinatore, che abbia autorità pienissima; e scusa e difende Romolo d'aver ucciso il fratello Remo, e d'aver consentito alla morte del collega Tazio Sabino, perchè il fine che lo indusse a tali omicidî fu la salute dello Stato. Inoltre un principe nuovo ha da fare ogni cosa di nuovo, e perchè gli uomini si hanno “a vezzeggiare o a spegnere„ bisogna che si faccia amico il popolo, e tolga di mezzo gli emuli e i grandi senza pietà. Non si fonda uno Stato libero, se non si ammazzino i figliuoli di Bruto; non vive sicuro un principe nuovo, se si lascino vivere coloro che del principato furono spogliati. E, in sul principio, se occorre, bisogna anche usare crudeltà, ma usarle bene, in modo che si convertano in utilità dei sudditi; e farle subito, e tutte ad un tratto, “per non avere a ritornarci sopra ogni dì, e a star sempre col coltello in mano.„ Come medicina, veda poi il principe di guadagnarsi gli uomini col beneficarli, e i benefizî farli a poco a poco “acciocchè si assaporino meglio„. Degnissimo di lode è il principe buono; ma la bontà deve usare con prudenza e secondo necessità. Buono sì; ma non tanto da essere rovinato “infra tanti che non sono buoni„; nè da avere ritegno a fare, necessitato, cose malvagie, quando giovino a salvare lo Stato. Peraltro, le buone qualità, anche se non si hanno è bene parere di averle, perchè l'universale giudica secondo le apparenze, e nelle azioni guarda al fine. Resta, per ultimo, che diciamo dell'osservare la fede data. La quale cosa è buona e lodevole; mentre la frode (salvo nel maneggiar la guerra) è in ogni altra azione detestabile. “Nondimeno (dice il Machiavelli) si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede han tenuto poco conto, e che hanno saputo aggirare con astuzia i cervelli degli uomini ed alla fine hanno superati quelli che si sono fondati in sulla lealtà.„ E cita come maestro d'inganni papa Alessandro VI, che “non fece mai altro che ingannar uomini„; e pure gli inganni gli andarono sempre bene, “perchè conosceva bene questa parte del mondo.„ Certo se gli uomini fossero tutti buoni, la lealtà sarebbe un bene; ma, perchè son tristi, e di rado osservano la fede, un “signore prudente„ non può nè debbe osservarla agli altri “quando gli torni conto, e che sieno spente le cagioni che la fecero promettere„. Tutto sta che s'abbiano cagioni legittime a giustificare tale inosservanza, e che la cosa sia colorita bene, in modo da conservarsi la reputazione dell'universale.
IV.
Queste sono, per sommi capi, le dottrine che si contengono nei libri politici di Niccolò Machiavelli; esaminiamole ora con calma, sine ira et studio. Nè a caso ho detto “con calma,„ perchè pare a me che esse esercitino sugli animi nostri, in pari tempo, un grande fascino e una grande repugnanza: e mentre il senso morale ne rimane offeso, la tragica verità di certe massime si palesa nel fatto pur troppo evidente. Della meravigliosa penetrazione del Machiavelli e della sincerità spietata con cui egli espone le cose osservate e le dottrine che ne derivano siamo ad un tempo sopraffatti e scandalizzati; e ci domandiamo, con un certo sgomento, che giudizio debba farsi del carattere morale dell'opera, che giudizio del carattere morale dello scrittore.
Diciamo per prima cosa dell'opera. Bisogna, anzi tutto, porre in sodo che le dottrine del Machiavelli riguardano esclusivamente lo Stato come ente politico, e i reggitori degli Stati esclusivamente nella loro attività politica; e non pretendono di dare precetti di morale e regole di virtù. Ora, o Signori, se noi consideriamo la società, in mezzo alla quale il Machiavelli viveva, non mai più profondo d'allora ci apparisce il dissidio tra la ragione pubblica e la morale privata; non mai più profonda la corruzione; non mai più sicura e trionfante la violenza. Il Machiavelli ha veduto la profondità del male; e, senza riguardo nè pietà, ha posto nella piaga il coltello del notomista, l'ha dilacerata, l'ha messa a nudo, l'ha trattata col ferro rovente, e alla violenza eccessiva dei mali ha opposto la violenza eccessiva dei rimedî.
Forse c'è un errore grave nelle speculazioni del Machiavelli, e questo dipende dal metodo suo troppo rigido e sistematico, per cui dai proprî studî solitarî e dall'osservazione di un numero limitato di fatti trae spesso troppo generali conseguenze, di che lo rimproverò la mente pratica di Francesco Guicciardini. Forse anche contribuì al pessimismo delle sue dottrine lo stato dell'animo suo crucciato e invilito per le condizioni di vita in cui si trovava, e che sono meravigliosamente descritte in una lettera di lui del 10 dicembre 1513 al magnifico Francesco Vettori, oratore mediceo in Roma, della quale avrò occasione di riparlare tra poco. Ma che egli avesse “malvagio il pensiero„, come affermò nella Storia di Firenze il marchese Gino Capponi, mi pare (con ogni riverenza) una troppo recisa ed esorbitante accusa. Malvagia piuttosto era la materia che aveva da trattare; e perchè la trattò col metodo storico, tenendo conto come egli dice, “della verità effettiva„ e non foggiandosi “repubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti„, non poteva fare che quella triste materia diventasse rosea, per contentare la voluttà sentimentale degli umanitarî e degli ottimisti.
Siamo giusti; il tanto odiato machiavellismo non è già il Machiavelli che l'abbia inventato. La parola dicono sia nata in Francia al tempo di Caterina de' Medici, per sospetto e per antipatia dell'influenza italiana[6]; e ha fatto fortuna, tirata sempre al peggior senso, in disdoro del Machiavelli e dell'Italia; ma la cosa ha radici antichissime; ha germinazioni sempre rinascenti; e la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi ci dimostra, che tra la ragione di stato e la morale privata la conciliazione, per quanto desiderabile, non è sempre possibile; anzi il dissidio, per quanto doloroso, è in parecchi casi inevitabile; e talvolta, diciamolo schietto, per la salute dello Stato, doveroso.
Niccolò Machiavelli, questo grande colpevole, è messo in croce, perchè ha detto crudamente delle crudeli verità; ma almeno di tante accuse, che gli sono state fatte, non avrà meritata quella di ipocrisia; e di molte altre potrà essere giustificato, per le alte idealità, a cui è inspirata l'opera sua, che sono: la costituzione organica dello Stato al di sopra e all'infuori di ogni interesse individuale e partigiano; la visione dell'Italia unita e libera da ogni oppressione straniera; un sentimento profondo di giustizia sociale; un amore vivissimo alla patria e alla libertà. Io vi ricorderò, o Signori, il capitolo nono del Principe, dove esorta il principe a satisfare con onestà piuttosto al popolo che ai grandi, “volendo questi opprimere, quello non essere oppresso„, e il capitolo decimosesto, che pone tra i vizi più perniciosi del Principe quello di “rubare i sudditi„ e di “gravare i popoli straordinariamente„. Ricorderò quel vigoroso capitolo del libro III dei Discorsi, nel quale è detto che “dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debba cadere alcuna considerazione nè di giusto, nè di ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito, che li salvi la vita, e mantenghile la libertà„. Vi ricorderò infine la maravigliosa esortazione a liberare l'Italia dai barbari, che è in fondo del Principe; nella quale è tanta esuberanza di sentimento e di idealità, che l'animo del lettore si riconforta, e ne riceve un'onda calda di fede e d'entusiasmo, dopo avere percorso insieme coll'autore lo sconsolante cammino delle tristizie umane.
E ora diciamo dell'uomo; e lasciando stare l'uomo privato (che, a dir vero, non fu uno stinco di santo, almeno in quanto si riferisce a castità di costumi e a sentimenti religiosi), vediamo il cittadino, il pensatore. Cittadino servì lo Stato con fedeltà e con zelo, senza vantaggio alcuno, per sè; e lasciò il servizio col rammarico di non potere adoprare l'attività sua in pro della patria. Pensatore, serbò fede, in ogni condizione di vita, ai proprî ideali. E qui torna in campo la celebre lettera al Vettori, dianzi citata, la pressante raccomandazione che egli fa all'ambasciatore di impiegarlo coi Medici; la famosa frase: “ se anche dovessero cominciare a farmi voltolare un sasso „; la proposta, per conciliarsi il favore mediceo, di dedicare al magnifico Giuliano il libro del Principe; e ne vien fuori la vecchia accusa (rimessa a nuovo con molto compiacimento dal signor Perrens)[7] che il Machiavelli voltasse faccia per suo interesse personale; e pur di guadagnare e di farsi innanzi, s'adattasse a servire la tirannide, dopo d'aver servita la libertà. Ho riferito senza attenuare; nè contro alla grave accusa arrecherò per difesa il profondo disdegno che egli doveva sentire di quella vita inutile o vile nella villa di San Casciano, tra uomini volgari, che gli empieva, come egli dice, “di muffa il cervello„, e gli convertiva spesso il riso in un “angoscioso pianto„. Ma vogliate invece considerare che, se egli adattavasi al nuovo governo mediceo, reso necessario dalle mutate condizioni esterne ed interne, voleva bensì che si fondasse sulla libertà e sul popolo; e quando, circa il 1515, per commissione di papa Leone X e del cardinale Giulio de' Medici (che fu poi Clemente VII) scrisse un Discorso sopra il riformare il governo di Firenze, si sforzò di conciliare la preponderanza dei Medici colle forme repubblicane, ed esortò i padroni viventi a restituire, alla morte loro, l'intera libertà al popolo. Utopie di pensatore idealista, ma che mostrano com'egli nel mutato ambiente politico non mutasse i suoi convincimenti.
Eppure in quella fugace restituzione di governo popolare, che avvenne nel 1527, il Machiavelli fu sospettato, e tenuto lontano dagli ufficî; e forse il crepacuore dell'ingrato abbandono affrettò la sua morte, che avvenne il 22 giugno di quell'anno. Giovambattista Busini, in una delle sue celebri lettere a Benedetto Varchi, fa del Machiavelli un ritratto assai malevolo; ma termina con dire che “egli amava la libertà e straordinarissimamente„. Queste parole del caldo e incorrotto repubblicano sono la più nobile testimonianza del carattere integro di Niccolò Machiavelli.
V.
In questo stesso anno 1527, nell'ufficio di Segretario dei Dieci, che già era stato onorato dal nome del Machiavelli, entrava Donato Giannotti, assai inferiore a lui, come dice lo stesso Busini. Anche il nuovo segretario volle scrivere di politica, e quelle sue esercitazioni continuò, caduta la repubblica, nell'esilio. Il Giannotti, per altro, era un animo retto ma un intelletto mediocre; e le sue elucubrazioni politiche mancano d'ogni originalità. Da Polibio trae il concetto di governo misto di principato, di aristocrazia e di popolo; e vuole che in questa combinazione abbia prevalenza il popolo mediocre, cioè la democrazia borghese, mentre, rispecchiando le antiche tradizioni fiorentine, ha in avversione i nobili e in grande dispregio il popolo minuto. Tra gli stati moderni prende ad esempio la Repubblica di Venezia, intorno alla quale scrisse un trattato in forma di dialoghi, pregevolissimo; e vuole perfezionata la costituzione data dal Savonarola alla Repubblica Fiorentina. Ma al concetto dello Stato, della patria, che in sè riassume tutti gli interessi, tutti gli affetti, secondo il bellissimo detto di Cicerone: omnes omnium caritates patria una complexa est; a questo concetto, che fu la grande idealità di Niccolò Machiavelli, il Giannotti non s'innalza mai, e non è capace di intenderlo. Egli, invece, dell'affetto e dell'avversione dei cittadini alla cosa pubblica, non trova altre ragioni, se non l'appetito della roba e dell'onore, o la difesa contro il danno o l'ignominia; e a questi interessi, a queste ambizioni, che sono interessi di partiti e di persone, si studia di provvedere con un sistema di equilibrio e di accomodamento, che si rassomiglia, a distanza di tempi e di condizioni, al parlamentarismo moderno; di che gli dia lode chi se ne diletta! E anche riguardo al concetto dell'Italia il Giannotti rimane indietro; nè altro esempio voglio addurne se non il suo Discorso a papa Paolo III sulle cose d'Italia; nel quale, dopo aver ragionato, con una serie d'argomentazioni fredde e infinitamente noiose, dei contrasti possibili tra l'Impero e la Francia, e dell'interesse che possono avervi i potentati italiani; e dopo avere espresso la sua avversione all'Impero, non sa trovare altro rimedio ai mali d'Italia che invocare le armi del Re di Francia; la quale illusione, se fu comune a quasi tutti i fuorusciti repubblicani, mostra che il Giannotti non aveva lo sguardo più acuto degli altri; mostra che, pur mantenendosi un intemerato repubblicano fiorentino, non s'elevò mai al concetto d'un'Italia indipendente da ogni ingerenza straniera. Ma la memoria di lui è, ad ogni modo, degna di venerazione, perchè, in mezzo alla folla irrequieta e procacciante dei fuorusciti, onorò, coi nobili studî, sè e la patria lontana; e si studiò di apparecchiarle quello che a lui pareva il miglior governo possibile, se la patria fiorentina fosse risorta.
VI.
Se non che, i tempi definitivamente chiusi non erano per ritornare; la civiltà, bene o male, pigliava altre vie; e alle repubbliche sfinite succedeva inevitabilmente il principato. All'instaurazione del quale, in Firenze, diede opera un altro sommo storico e politico, Francesco Guicciardini.
Anche a lui la diplomazia fu principio di educazione politica, ed ebbe più vasta, ed in più vasto ambiente del Machiavelli, esperienza di governi. Non ancora trentenne fu spedito ambasciatore a Ferdinando il Cattolico, in Spagna; e presso quel principe, altrettanto perfido quanto fortunato, apprese tutti i raggiramenti della politica europea. Governò poi per la Chiesa, l'Emilia e la Romagna in tempi difficili, da' tempi di papa Leone X a Clemente VII; e tenne quei governi con fermezza e con abilità, e partecipò a negoziazioni gravissime, corrispondendo pienamente alla fiducia de' suoi padroni; ma nell'animo suo se ne ingenerò un grande disgusto, che egli espresse più volte in mordaci invettive contro il governo dei preti, dolendosi della necessità, che l'aveva costretto a servirli. Caduta la repubblica di Firenze (la cui fine egli aveva, con diritto acume, preveduta già da gran tempo), si adoperò ad instaurarvi, con forme temperate, il principato mediceo, cercando di conservare qualche forma di libertà e la preminenza degli ottimati. Primeggiò col duca Alessandro, i cui diritti difese fieramente contro i fuorusciti; e, dopo l'uccisione di questo, cooperò all'elezione di Cosimo, lusingandosi di tener in propria balìa l'inesperto giovine. Ma il figliuolo di Maria Salviati e di Giovanni delle Bande Nere (nel quale forse il Machiavelli avrebbe riconosciuta un'incarnazione del suo Principe ), si liberò presto dai suoi tutori, e con senno e con fermezza, non disgiunta da crudeltà, pose solidamente le basi della monarchia medicea. Allora il Guicciardini si ritirò in campagna, dove attese alla grande e monumentale opera della Storia d'Italia.
Il Guicciardini, come scrittore politico, è meglio conosciuto, dacchè sono venute in luce le sue Opere inedite. Le Considerazioni sui Discorsi di Niccolò Machiavelli ci rivelano alcune differenze di giudizio tra lui e il Segretario fiorentino in cose politiche; differenze però più di metodo che di principio. I Discorsi politici analizzano e spiegano, con grande conoscenza degli uomini e dei luoghi, alcuni tra i principali avvenimenti svoltisi sotto i suoi occhi, o ai quali egli partecipò. Nei Dialoghi del Reggimento di Firenze, e in altri opuscoli, svolge le sue idee intorno a quel governo misto, che parve a lui e ad altri il rimedio di tutti i mali. Infine i Ricordi politici e civili, che egli raccolse o riordinò nel suo ritiro dagli affari, sono una miniera preziosissima di osservazioni acute, su fatti speciali, di regole pratiche, di ricordi vivaci.
Della mente di Francesco Guicciardini, de' suoi metodi e del suo valore politico, del paragone che è da farsi tra lui e il Machiavelli, hanno discorso critici valentissimi, e tra i più recenti, il Benoist, il De-Sanctis, il Capponi, il Villari. Nè io, in verità, saprei dire più o meglio di loro; perciò vi contenterete, Signori, di pochi lineamenti generali.
Se si abbia rispetto alla potenza speculativa e al concetto sistematico di una scienza di Stato, non può disconoscersi che il Machiavelli tiene di gran lunga il primo luogo: se non che il Guicciardini è dei fatti pratici più preciso e più diritto osservatore. Aborre dalle teorie generali, ma nei casi particolari trova spesso la soluzione giusta. Anch'egli fa distinzione fra la ragione di Stato e la morale privata; alla religione non è certo più riverente di quello che sia il Machiavelli; anche egli ammette in politica la violenza, la frode, la simulazione; ma, spirito moderato, aborre da ogni eccesso, e si sente che in cuor suo desidera il bene. Ciò che manca al Guicciardini è l'idealità, l'entusiasmo, la fede in un principio superiore. Non ha un convincimento proprio, e non può infonderlo negli altri. Infine, uomo d'onestà indubitabile, è per altro scettico e profondamente sfiduciato; e in tutti i suoi scritti (come stupendamente osservò Adolfo Thiers[8] ) si sente “un tono di tristezza e di cruccio, come di un uomo stanco delle innumerevoli miserie che ha visto„.
VII.
E ora, o Signori, possiamo lasciare Firenze, dove, spentasi la libertà, spengesi pure nel popolo ogni operosità o speculazione politica. E dobbiamo anche dire che, con la caduta di Firenze, susseguita a venticinque anni di distanza da quella di Siena, si chiude il periodo storico delle repubbliche comunali.
Sopravvivono Lucca e Genova, ma di vita repubblicana serbano ormai poco più che il nome e l'apparenza; venute alle mani di aristocrazie grette ed esclusive, nelle quali ogni giorno più si abbassava il livello intellettuale e la dignità del sentimento politico.
In Lucca ci si offre il caso di Francesco Burlamacchi. Questi, infervorato dalla lettura delle antiche istorie, e in specie delle Vite di Plutarco, non che dai ricordi e dagli ammaestramenti dello zio fra Pacifico, fervente savonaroliano, concepì il fantastico disegno di richiamare in libertà le città toscane, e stringerle in Federazione; del quale suo proposito, appena avviato negli atti, e non agevolmente attuabile, ebbe a pagare il fio colla vita. Non porremo certo il Burlamacchi nel numero dei pensatori politici, ma dei sognatori piuttosto; un sognatore bensì onesto e generoso, e almeno non codardo: come codardo si dimostrò il governo della sua patria, che, spontaneamente, con un zelo fatto di paura e di ferocia, lo denunziò all'Imperatore e a Cosimo primo, lo processò, lo torturò, e lasciò poi consumare la strage del suo cittadino, perchè non s'avesse a sospettare, nè anche lontanamente, che quel pio e nobile senato potesse avere connivenza alcuna in un peccato di libertà.
Dei vizi della costituzione aristocratica genovese ragiona Uberto Foglietta nel dialogo Della Repubblica di Genova, stampato la prima volta in Roma nel 1559, che egli scrisse col leale intendimento di predicare l'unione della cittadinanza in un sol corpo, e la razionale e patriottica ugualità dei diritti e degli uffici; e ne fu pagato coll'esilio. Questa opericciuola bensì, come libro di politica, ha un valore mediocre, e non è da porsi a riscontro per altezza di concetto nè per larghezza di vedute colle opere somme dei politici fiorentini. Noi vediamo allegati in essa, secondo il metodo consueto degli umanisti, i fatti della repubblica romana, per dare autorità al ragionamento; vi vediamo delineati, con diligenza annalistica, parecchi fatti della storia medievale di Genova; aggiuntovi qualche accenno fugace di storia esteriore; ma tutto si riduce a uno studio non profondo, nè completo, delle condizioni interne genovesi; nè lo sguardo dell'autore si protende al di fuori, nè sa che vi sia un'Italia, nè la nomina mai.
VIII.
Con più decoro, e pel nome suo e pel nome italiano, sopravvisse la Repubblica di Venezia; poichè quella forte e veneranda compagine di Stato, pur avviandosi fatalmente anch'essa a una lenta decadenza, trae vitalità dall'intenso amore de' sudditi e dalle antiche virtù, non ancora del tutto affievolite, della sua gloriosa aristocrazia. Quivi troviamo, nella seconda metà del secolo XVI, l'anima onesta di Paulo Paruta, la cui legazione a Roma, negli anni 1591-95, è un monumento di sapienza e di patriottismo. Scrisse il Paruta opere dottrinali di politica, con alto intendimento morale e civile, e con eleganza di dettato; cioè i Dialoghi Della perfezione della vita politica in tre libri, pubblicati la prima volta nel 1579, e i Discorsi politici in due libri, che videro la luce in Venezia nel '99, un anno dopo la morte dell'autore. Del Paruta scrisse ampiamente e bene Cirillo Monzani[9]; di recente Giuseppe De Leva[10] ha giudicato che egli sia “lo statista il più vicino, di spirito e di senno, al Machiavelli, in ciò solo da lui discosto, che, pio e religioso, non sogna tra le miserie d'Italia uno Stato pagano„. Nel quale giudizio in massima conveniamo; se non che, pare a me siano da rilevarsi nel Paruta altre differenze, anche rispetto al metodo. Il Paruta tratta della politica principalmente da filosofo, e si compiace non di rado (più spesso nei Dialoghi che nei Discorsi ) delle astrazioni teoriche. Il tema che egli si propone è la ricerca della ottima forma di governo; e, tenendo sempre volta la mente ad un'idealità di perfezione morale e civile, intende al conseguimento di tale fine, con nobilissima fede, e con acume d'investigazione e di considerazioni. Ma l'osservazione vivace, l'analisi intima, penetrante, degli uomini e delle cose, quella specie (dirò col Villari) di “vivisezione„, per cui hanno tanta efficacia e tanta evidenza le opere dei politici fiorentini, pare non si addica alla dignità filosofica e allo stile togato del dotto Procuratore di San Marco.
IX.
Con Paolo Paruta si chiude la serie dei grandi scrittori politici del Cinquecento: dopo non si sentono più che voci isolate, gridanti nel deserto, le quali però additano una nuova via, preconizzano un avvenire. Questa nuova via, nei primi del Secento, parve attirare lo sguardo ambizioso e il grande e irrequieto animo di Carlo Emanuele di Savoia; e a lui si volsero le speranze di alcuni coraggiosi scrittori politici. Traiano Boccolini, nella Pietra del paragone politico, che è una vivace e implacabile requisitoria contro la preponderanza spagnuola, saluta Carlo Emanuele “primo guerriero d'Italia„; e poco più tardi Alessandro Tassoni, nelle sue celebri Filippiche, vede nello stesso Duca di Savoia il salvatore possibile d'Italia, ed esorta, pur troppo invano, principi e stati italiani ad aggrupparsi intorno a lui. Ma l'età volgeva allora a precipizio, non a risorgimento; e dovevano passare altri secoli di servitù e di sofferenze, doveva una grande rivoluzione rinnovare dalle fondamenta la società politica prima che il popolo italiano trovasse la sua via. È bensì provvidenziale, e quasi diremmo fatidico, in tanta rovina di cose, questo volgersi, sia pur momentaneo, degli sguardi in quel piccolo e fievole raggio di luce, da cui doveva dopo quasi tre secoli venire la salute d'Italia. Le voci di quei profeti solitari (lo ha già detto assai bene una giovane e valente scrittrice)[11] si perdono inascoltate nel silenzio del Secento: ma giungono vive ed incorrotte fino a noi, perchè, antivenendo i tempi, portarono il concetto italico di Dante e del Machiavelli “dal campo dell'idea e dell'azione possibile in quello dell'azione reale„.
Signori!
Niccolò Machiavelli, in quel sublime e angoscioso grido, con cui chiuse il libro del Principe, invocava “redentore„ un tiranno qualsiasi, purchè valesse a liberarci dalla “puzza del barbaro dominio„. Il voto del grande pensatore, del grande patriotta è ora esaudito; e non per violenza di tiranno, ma per virtù concorde di principe e di popolo. Auguriamoci, o Signori, che questa virtù non s'affievolisca e non degeneri; e come ha fatto l'Italia libera ed una, così sappia farla moralmente grande!
L'ORLANDO FURIOSO
DI
GIOSUÈ CARDUCCI.
I.
Quando l'Ariosto mise mano all'Orlando? Non si sa preciso, ma su la fine del 1506 la orditura doveva essere molto innanzi. Isabella d'Este marchesana di Mantova, a cui il cardinale Ippolito aveva mandato il poeta per rallegramenti in occasione di un parto, rispondeva il 14 febbraio 1507 al fratello, ringraziando, che l'ambasciatore le aveva anche per conto suo addotto gran soddisfazione, avendole con la narrazione dell'opera che compone fatto passare due giorni non solo senza fastidio ma con piacer grandissimo. Ludovico s'era messo risolutamente attorno l'opera tosto che credè aver ritrovato presso il cardinale stanza quieta, e provvigione da sopperirgli alle strettezze di famiglia, nelle quali aveva penosamente affaticata la sua gioventù. Nato gli 8 settembre del 1474, egli era allora su la trentina: molto aveva composto di versi in latino, poco e male in italiano, che le sue rime belle sono tutte per l'Alessandro Benucci, scritte cioè nel 1513 e dopo: benchè fin dai primi anni, oltre la prova fanciullesca della Tisbe, andasse attorno co'l duca Ercole a fare cioè a recitare commedie, non ne aveva ancora scritte: ma al poema pensava da un pezzo. Egli era nato e cresciuto in un'aria tutta impregnata dalla rifioritura classica dei romanzi. La prima edizione del Morgante in ventitrè canti fu del 1481, la seconda compiuta in ventotto dell'82. La prima edizione dell' Orlando innamorato in due libri venne del 1486; la seconda, in tre libri, del 95. Nel 95 era anche finito il Mambriano, e nel 1509 fu stampato con dedicatoria al cardinale Ippolito. Nel 1506, quando l'Ariosto gettava le fondamenta al Furioso, usciva dalle stampe di Venezia il primo libro della continuazione all' Innamorato composta dall'Agostini, e il secondo doveva uscire nel 13, tre anni prima che l'Ariosto finisse la sua. Non lasciavano poi tregua alle stampe i poemi minori.
II.
Quando un'età è ancora poetica, cioè quando la poesia già arte d'individui è per altro in contatto ancora co'l sentimento dell'universale e in iscambio di cooperazione con la fantasia e la leggenda popolare, allora la epopea non è nè può esser mai individuale affatto. La materia epica resta in comune per un pezzo fra tutta una razza, ma disposta a prendere nel continuo rimaneggiamento dal genio delle nazioni vario, nelle vicende opposte dei tempi, sotto le forze dei singoli artisti, spiriti, atteggiamenti e forme diverse. Al secolo decimoquinto materia epica erano tuttavia le leggende cavalleresche in specie carolingie nelle quali la immaginazione del popolo e l'arte dei poeti pur rinnovandosi si dilettavano per antico abito, come già, per altro, con meno d'efficacia, la poesia alessandrina rilavorava nelle intelaiature omeriche e su' miti argonautici. La poesia carolingia francese, trasportata in Italia dai trovieri e giullari feudali de' secoli decimosecondo e decimoterzo, ci divenne ben presto popolare, e, quando in Francia l'antica pianta spogliavasi, i nuovi rampolli avevano messo qui foglie e fiori. Il popolo italiano, come aveva tredici e più secoli prima tolto in prestito dalla Grecia non pure il mito iliaco ad innestarci i miti suoi ma l'epos omerico sol di poco e nel men vivo rimaneggiandolo, così allora pigliava dalla Francia la leggenda carolingia, in attenenza anche maggiore con la sua storia recente, con le più fresche idealità, apprestandosi per altro ad animarla e atteggiarla di spiriti e di forme singolarmente nuove. A quelle francesi scaturigini d'epopea si abbeveravano volentieri sì la plebe, sì i grandi e letterati: questi per amore al ristorato nome dell'impero raffigurato in Carlomagno, quella pe'l sentimento religioso che l'accendeva a venerare in Orlando un glorioso martire della fede. E come ispiratrice e arbitra e giudice dell'epopea, quando spontanea e quasi fatale, è la plebe o vero la moltitudine, e come nella plebe prevalgono con l'istinto del soprannaturale e co'l sentimento religioso il culto della forza e l'entusiasmo per il valore, così il carattere epico che signoreggiò tutti gli altri e intorno o sotto al quale si coordinarono gli altri fu Orlando.
La immagine di Ruodlando, prefetto della marca di Britannia ucciso con altri officiali del palazzo imperiale in una imboscata di Guasconi tra le gole de' Pirenei l'anno 777, rozzamente scolpita con tradizione e arte monastica su la facciata della cattedrale di Verona, fu da prima venerata come d'un santo dal popolo italiano. Il quale poi, imparando a più genialmente conoscerlo nella marziale ardenza delle canzoni di gesta recitate e cantate su i teatri mobili e in piazza, se ne innamorò, se lo prese, lo fece nascere poveramente in Imola, pargoleggiare eroico mendicante in Sutri, abbattere miracoloso giovinetto un esercito infedele co'l suo re in Aspromonte, lo creò senatore romano, lo vide assistere alla sacra delle vecchie chiese in Firenze, scoprì nell'etrusche rovine di Fiesole l'antro delle fate onde egli uscì tutto incantato, lo ritrovò a Spello gigante e peccatore, ammirò su i campi delle battaglie nazionali i macigni che il paladino aveva lanciati, intitolò dal nome di lui il bel promontorio presso Castellamare e molte torri fin nell'isola di Lampedusa.
La leggenda carolingia s'allargò dunque assai presto in tutta Italia, ma la prima confermazione letteraria l'ebbe nelle contrade del settentrione; ella s'acclimò e si svolse in quel movimento che dal secolo decimoterzo al cominciare del decimoquarto, avanti la egemonia toscana, tendeva a constituire nella Lombardia, nella Venezia, nelle regioni circumpadane una lingua e letteratura che dal francese attingeva e derivava assai degli argomenti e non poco di forme e colori alla elocuzione. Le poesie carolingie che corsero i castelli e le piazze dell'alta Italia furono di più maniere. Pe'l contenuto: canzoni di gesta francesi, con alterazioni poche e di sole parole: poemi di argomenti simili a canzoni di gesta, ma discostantisi dalla configurazione epica francese e con introduzione di racconti, favole e personaggi nuovi: poemi la cui contenenza è affatto nuova, o tra le canzoni di gesta fin qui conosciute non se ne trova che ad essi corrispondano. Per la forma: canzoni di gesta in lingua e verseggiatura francese: poemi di lingua e verseggiatura ibrida, nei quali il fondo francese è tutto invaso e guasto da forme del dialetto veneto o meglio di quella lingua letteraria che mal provò d'impiantarsi nel Veneto e nel Lombardo, e il modello della verseggiatura francese è alterato negli accenti, nelle sillabe, nelle rime: cantàri in dialetto veneto con verseggiatura del modello epico francese e serie monoritme.
Della prima famiglia è la Chanson de Roland, che fu anche in Italia il nòcciolo eroico di tutto il ciclo; della seconda sono sei poemi (Beuve d'Hanstone, Berte, Karleto, Berte et Milon, Ogier le Danois, Macaire) di mani diverse, ma raccolti insieme con evidente intenzione ciclica, come quelli che contengono le storie della famiglia carolingia e de' suoi principali eroi. Importantissima la storia degli amori di Berta e Milone e della fanciullezza d'Orlando nato di loro, sì perchè la invenzione non pure non ha riscontro in veruna canzone francese ma è anzi alla leggenda francese del tutto contraria, sì perchè l'azione è posta in Italia e Orlando fatto italiano, e più ancora perchè negli amori occulti e perseguitati di Milone e di Berta, nelle avventure della fuga e dell'esilio, sin che l'imperatore riconosce nel fanciullo mendicante di Sutri e nella madre nascosta in una grotta il nipote e la sorella, vediamo annunziarsi l'elemento romanzesco che è per essere l'anima della poesia con la quale gli Italiani ricomporranno la materia epica carolingia.
Questi poemi si conservano nella biblioteca marciana di Venezia insieme con altri due, della terza famiglia, ma scritti ancora in francese ibrido, Entrée en Espagne e Prise de Pampelune che vorrebbero più lungo discorso. Autore del primo è un Nicolò, che annunzia, con esempio nuovo nell'epica, la sua persona e la patria, ricordando gloriosamente il mito iliaco tra le leggende carolingie. Son padovano, egli dice, della città che il troiano Antenore fece nella gioiosa marca del Trevigian cortese. Si è messo a trovare, egli afferma, del miglior cristiano che fosse mai cantato da giullare perchè vuole castigare i codardi e vani, far ritornare i villani a cortesia e crescere i rettori di terre in sano consiglio. La sua istoria l'ha composta acciò sia intesa e cantata; e tutto questo vi so dire, aggiunge, perchè io ne sono stato l'autore. Nulla qui dunque manca del poema propriamente letterario, nè l'affermazione della personalità, nè la rivendicazione dell'invenzion propria, nè il fine civile, nè l'intenzione popolare. Aggiungasi che il padovano non condusse su modelli francesi il suo racconto di ben ventimila versi; che ricorre a fonti nuove, certo anche alla sua fantasia, forse a tradizioni indigene; che tratta con abilità molta il dialogo e sfoggia vera eloquenza nei discorsi dei personaggi; che è il primo a narrare e forse a imaginare le avventure di Orlando peregrino per isdegno in Oriente; che è il primo a citare testimone e mallevadore di avventure anche da sè inventate Turpino.
All' Entrata in Ispagna seguita nella materia la Presa di Pamplona anch'essa d'un italiano di Lombardia. Egli non solo fa partecipare alla guerra di Spagna Desiderio re dei Lombardi, in nessuna delle canzoni francesi degnato mai di tanto, ma anche narra come, avendo i Tedeschi dell'esercito di Carlo voluto rubare ai Lombardi il pregio e il premio d'una loro vittoria, questi ne fecero strage; di che adiratosi Carlo riprese e condannò i Lombardi, ma Orlando gli giustificò e difese presso l'imperatore; il quale per ammenda concesse a Desiderio tre privilegi: che quelli di Lombardia fossero sempre e tutti franchi, che tutti senza distinzione di natali potessero divenir cavalieri, che tutti potessero portare la spada a fianco anche in cospetto dei re. La democrazia dei comuni entrò così trionfante nell'epopea feudale. Che se a ciò che già notammo intorno l' Entrata in Ispagna aggiungasi ora come e in questa e nella Presa di Pamplona le favole di più poemi e canzoni sono raggruppate e svolte in un racconto molteplice e continuato a cui è come guida e lume il fatto dell'antagonismo dei prodi e dei traditori, della casa di Chiaramonte e della casa di Maganza (che era la nota caratteristica e il nesso logico della futura epopea romanzesca italiana), dovremo confessare che di essa epopea l'idea tipica, la forma organica e il procedimento tecnico sono già più che in germe ne' due poemi franco-italiani della Venezia. Anello tra questi e la futura epopea romanzesca in ottava rima furono i cantàri in dialetto veneto e in verseggiatura di modello francese: dei quali ci avanza un Buovo d'Antona in 2525 versi, che deriva dall'omonimo poema della Marciana, ed annunzia il poema toscano su lo stesso argomento. E con essi si chiude il primo periodo della poesia romanzesca italiana, il periodo lombardo-veneto, nel quale Orlando e Oliviero erano recitati su teatri mobili in Milano e i cantastorie delle cose di Francia disturbavano gli anziani di Bologna nel loro palazzo che li bandivano dalla piazza del Comune (1278).
III.
Di su tali cantàri e di su gli anteriori poemi, dopo che Firenze ebbe ottenuto il primato della lingua e della poesia e l'ottava rima da lirica diventò narrativa, i cantastorie toscani e specialmente fiorentini ripresero la materia epica. La nuova letteratura era riuscita, proprio come Dante voleva, aristocratica (egli diceva aulica ): per una gran parte di popolo la Commedia anche coi commenti rimaneva maestosamente oscura, e il Decameron era troppo artistico: del Canzoniere non è a dire. I dantisti, gli ammiratori del Petrarca e gli amici del Boccaccio disprezzavano coteste storie di paladini udite lombardamente o venezievolmente strillare da rauche voci pei trivii. I Ciompi invece, che bruciavano i palazzi dei cittadini grassi per poi far cavalieri i padroni su le macerie, ammiravano i colpi d'Orlando, forse piangevano su la gran rotta di Roncisvalle, certo applaudivano ferocemente al supplizio di Gano; mentre i mercantucci dagli ozi delle oscure botteghe proseguivano l'ideale delle avventure per le plaghe d'Oriente, gli amori delle fanciulle reali per lo stalliere, e il trionfo e le vendette dello stalliere tornato re. Ma l'abbandono alla plebe di così nobil materia cristiana e cavalleresca dovè dispiacere ai popolani serii, che pur compiacendosi dell'arte nuova erano rimasti fedeli alle tradizioni romane ecclesiastiohe del medioevo. In servizio dei quali e per lettura nelle camere e nelle sale, Andrea da Barberino, notaro ed uomo di studi, ricompilò da molti testi molte prose di romanzi, tra le quali più conosciuti e diffusi i Reali di Francia, e il Guerrin Meschino: ricompilò con intenzioni critiche il riordinamento cronologico e genealogico, con intendimenti storici e religiosi, con pretensioni di stilista: ricongiunse i Franchi ai Romani, Carlomagno a Costantino, Orlando a Scipione, e al racconto disceso a saltelloni dalla lassa monoritmica francese sostituì la flessuosa dicitura della novella italiana colorata morbidamente qua e là di qualche lume ovidiano. Le compilazioni del Barberino certamente furono lette anche allora, rimasero poi lettura prediletta al popolo specialmente di campagna, che nei grossi libri in ottave non ci raccapezzava di molto, mentre in quelle prose credeva seriamente leggere la storia della Chiesa e dell'Impero; ma nulla di nuovo e d'importante conferirono al lavorìo plebeo toscano su l'epopea carolingia, alle cui prime e caratteristiche produzioni pare che seguissero anzichè precedessero.
Lo spazio a cotesto lavoro, che tanto più crebbe quanto l'uso della letteratura volgare veniva scemando negli alti ordini tutti invasati di greco e latino, può essere posto dal 1350 al 1480. Da prima erano cantàri staccati, poi storie in due o in quattro cantàri, poemi in fine di quaranta o più canti, recitati questi un per giorno o a due sessioni per giorno, con un cenno in fin di ciascuno alla contenenza del seguente. Più famosi e stampati, e ristampati in edizioni di carta straccia fin quasi al nostro secolo, il Buovo d'Antona in ventidue canti, la Spagna in quaranta, la Regina Ancroia in trenta, tutti tre di autori fiorentini, tutti tre del secolo decimoquarto finiente, o al più del decimoquinto cominciante. Nel primo l'argomento è anteriore all'impero di Carlo, e si raccontano le avventure di un lontano avo d'Orlando: il secondo contiene la parte eroica e religiosa della leggenda carolingia, la più gran guerra contro i Saracini e la rotta di Roncisvalle con la morte di Orlando: il terzo i fatti di Rinaldo, che tien fronte a una regina infedele venuta ad assalire il regno di Carlo. In tutti tre il legame ciclico e cercato e proseguito nell'antagonismo tra maganzesi e chiaramontesi. Nel secondo e nel terzo, Orlando, che per isdegno con Carlo va peregrino venturoso per l'Oriente, comincia a divenir romanzesco. Nel Buovo cominciano i segni della mistura comica non senza intenzione satirica nella caricatura di gente di chiesa. L' Ancroia è il tipo già esagerato della donna guerriera. Nella Spagna c'è qualche cosa di più singolare. Carlomagno, che incognito ritornando in Parigi si presenta alla moglie ed è riconosciuto non da lei ma da un cane di lei, assomiglia all'eroe dell'Odissea in modo che non par caso. Tutto ciò in Firenze su la fine del secolo decimoquarto annunzia la fusione degli elementi e degli spiriti che in questa forma dell'epica andrà a compiersi nel decimoquinto e meglio nel decimosesto. Del resto nella Spagna le forme esteriori del genere sono già tutte fissate dalle necessità quotidiane della recitazione: nei principii de' canti le preghiere o invocazioni cristiane che il Pucci imiterà e l'Ariosto cambierà in esordii eleganti: nel fine, le licenze o congedi agli uditori: di più, la interruzione e la ripresa delle diverse fila della favola. L'autore del Buovo comincia ogni canto con ricordare ciò che fu detto o a che fu lasciato il racconto nell'anteriore; come poi fece il Boiardo. Ma il fiorentino chiude una volta il canto avvertendo gli uditori ch'egli ha sete e va a bere, intanto si riposino. L'autore della Spagna su 'l fine del quinto li ammonisce che si ricordino di por mano alla tasca e far dono.
Luigi Pulci, raccogliendo e trasformando spiritosamente la costoro eredità, chiude il secondo periodo, fiorentino e plebeo, della epopea romanzesca, e introduce al terzo e ultimo, lombardo, nel quale ella diventa classica. Anche nella seconda età dell'arte italiana, dal 1480 in poi, il movimento ricomincia da Firenze intorno la materia popolare e con spiriti popolari. Dopo tanto greco e latino, dopo tanto ricercare le isole fortunate della gloriosa antichità, si sentì il bisogno di ritornare un po' in famiglia, se non altro per assettare a onesta pompa tra le dovizie paterne le ritrovate preziosità degli avi, per lavorare con l'arte nuovamente imparata le materie gregge domestiche. Come Lorenzo de' Medici e Angelo Poliziano avevan preso a rinnovare e rincivilire la ballata, lo strambotto, la lauda, il canto carnescialesco, così il Pulci volse l'orecchio e l'animo alle storie che si cantavano in piazza. Fu l'ultimo dei cantastorie; ma salì le belle scale del palazzo Medici, e lesse, non cantò, alla tavola di Lorenzo e di sua madre Lucrezia, avendo ascoltatori e consiglieri il Poliziano, il Ficini, il Landino, genio o demonio suggeritore quel suo bizzarrissimo ingegno non mai stanco di far capriole e rilevarsi giovenilmente ridendo. Però, con tutto il rispetto ch'egli serba a tutte le monotone forme organiche dell'epica popolare, manca al suo poema la proporzione massimamente tra la prima e la seconda parte; nè ciò fa male, come non stanno male le finestre fuor di squadra nei palazzi di quel tempo. Egli séguita fedele nel grosso della favola i canti dei suoi antecessori, senza darsi briga più volte di pur mutare i versi; e con tutto ciò il Morgante è fra tutti i poemi italiani quello nel quale la individualità del poeta si affaccia più ostinata, più curiosa, più impertinente. Non fece nè potè fare scuola: accennò al periodo classico, mostrando coll'esempio che anche di storie cavalleresche si poteva fare un poema lungo, leggibile ai signori ed ai letterati, e sprigionando tra quella fuga di fantasmi giganteschi e grotteschi un gruppo elettrico di scintille di buon umore.
Passando dai colli toscani alle pianure del Po, dalla piazza della Signoria di Firenze al castello di Niccolò terzo e di Borso, dalla famiglia dei Pisistrati banchieri alla dinastia dei discendenti di Adalberto e Matelda e dei guelfi vincitori di Ezzelino, dalla camera d'un gentiluomo fiorentino scaduto di nome e d'averi alle stanze merlate d'un governatore e ambasciatore ducale, dal Pulci, dico, al Boiardo, l'epopea romanzesca ritrovava il luogo e l'uom suo. Nella biblioteca del duca Borso c'erano molti romanzi d'avventura del ciclo bretone e della Tavola rotonda. Matteo Maria Boiardo scriveva egloghe latine, aveva tradotto Erodoto ed Apuleio. Intanto l'elemento romanzesco erasi già compenetrato all'epopea carolingia non sì tosto ella fu migrata in Italia; ma nessuno ancora aveva avuto il coraggio di far innamorare Orlando. Anche il Pulci non scherza con l'eroe di Roncisvalle: lo fa combattere e morire con un vero sentimento epico che ricorda la canzone di gesta, lo fa miracoleggiare con una fede infantile e grossa che ricorda la cronaca di Turpino. Ma il Boiardo al ciclo guerriero carolingio che piaceva alla plebe intrecciò il ciclo galante d'Artù che piaceva alle corti; e nell'opera sua il terribile guercio che tagliava con Durandal i graniti dei Pirenei, lo sposo di Alda, della quale solo il nome occorre due volte nella Canzone di Rolando, s'innamora d'una principessa della China. Ciò non per tanto, le avventure più strane, le fantasie più bizzarre, le forme più grottesche pigliano nell'opera del Boiardo proporzione e decenza classica. Circe e Medea non erano state fate e maghe? I dragoni non custodivano gli orti delle Esperidi e il vello d'oro? Vulcano fabbricò armi incantate ad Achille e ad Enea, e Achille è il primo degl'invulnerabili. Più, il Boiardo aveva tradotto l' Asino d'oro, ove la novella sensuale e la divina storia di Psiche s'incontrano fra gl'incanti e le stregonerie più sconce e paurose. Così la nuova forma dell'epopea romanzesca usciva gloriosamente composita dalle mani dello scandianese ammirato lui stesso del suo lavoro.
La calata di Carlo VIII distrasse e ruppe il cerchio degli uditori: la morte ghiacciò la mano del poeta sul principio della terza parte, che gli rimaneva a cantare la disfatta e la morte del re Agramante invasore del regno di Francia, con la fine degli amori di Orlando, di Rinaldo, di Ruggero: morendo, egli lasciava i Saracini vittoriosi intorno Parigi. Per la curiosità volgare potea bastare la continuazione affrettata dell'Agostini. Ma la miglior generazione del miglior tempo del Rinascimento, la generazione a cui il Bembo e il Sannazzaro insegnavano la lingua e la poesia, e dava precetti di cavalleria il Castiglione, di politica il Machiavelli, di filosofia il Pomponazzo, la generazione per cui il Bramante costruiva palazzi che il Primaticcio ornava e Giulio Romano affrescava, la generazione per cui Leonardo e Raffaello dipingevano, Michelangelo scolpiva, il Cellini cesellava, quella generazione voleva qualche cosa di meglio.
Ecco perchè Ludovico Ariosto continuò l' Innamorato del Boiardo componendo il Furioso.
IV.
L'Ariosto compose il Furioso negli anni che passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, come gentiluomo di fiducia adoperato negli offici solenni o nei casi ed affari di maggior momento e più rischiosi. Il cardinale credeva, o almeno affermava, avergli dato d'entrata presso a trecento scudi; ma il poeta, interponendo un suo cugino a raggiustare le partite co'l padrone, lagnavasi di non avere più che 150 lire, e queste pagategli a sbalzi ed a sgoccioli. La provvisione ordinaria da una lettera del cardinale (21 gennaio 1511) parrebbe determinata in 240 lire marchesane (1200 fr. circa) su proventi della cancelleria arcivescovile di Milano: c'erano di più i frutti di certi benefizi ecclesiastici che l'Ariosto godè per qualche tempo e avrebbe forse anche potuto accrescere e conservare se avesse portato la chierica: il pagamento gli era fatto ogni tre mesi, ritenendosi il costo dei panni e vestiarii che venivano, pare, forniti dalla guardaroba del cardinale. Il poeta aveva anche, da due o tre anni all'infuora, anni di guerra, le spese del vivere, nel 1516 vino e frumento per due bocche, paglia e fieno per due cavalli. In tali condizioni di vita fu scritto il Furioso, che del resto fu tutt'altro che l'unico pensiero e lavoro dell'Ariosto in quei tredici anni. Per feste del cardinale compose nel marzo del 1508 la Cassaria, nel febbraio dell'anno seguente I Suppositi, e tradusse e riadattò per le scene qualche commedia di Terenzio.
Veniva intanto la lega di Cambray ad avvolgere gli Estensi nella guerra contro Venezia e nelle furie di Giulio II. Due volte nel 1509 l'Ariosto fu spedito a Roma; la seconda, di decembre, in gran fretta e fra pericoli grandi, a sollecitare soccorsi contro l'armata che i Veneziani spingevano su per Po. Ebbe notizie in Roma, al 25, della battaglia vinta da Ippolito su l'armata veneta alla Policella tre giorni a dietro, nella quale avean combattuto tre Ariosti; e scriveva súbito al cardinale rallegrandosi “di avere istoria da dipingere nel padiglione del mio Ruggero a laude di Vostra Signoria„. Su la fine dunque del nove era di certo tutta ordita e già bene avviata la favola del poema, poichè sol nell'ultimo canto figura il padiglione nuziale di Bradamante e Ruggero: non però che il poeta fosse allora, come talun suppose, a scrivere l'ultimo canto: anche nel terzo, quindicesimo e vigesimoquarto è menzione della vittoria di Policella. Nel 1510 il papa, voltatosi coi Veneziani contro i Francesi, bandiva scomunicato e scaduto d'ogni diritto il duca di Ferrara tenutosi fedele alla lega di Francia e intimava al cardinale fratello di ridursi tosto a Roma. Ippolito non la intendeva, e si metteva di mala gamba; e l'Ariosto nel maggio e dal giugno all'agosto fu in Roma a placargli la grand'ira di Secondo, che una volta in Castel Sant'Angelo minacciò di farlo buttare in fiume se non gli si toglieva davanti. Stretto poi il duca e Ferrara dai Veneziani e dai papali, il poeta partecipò i pericoli della patria. Egli stesso, come ne lo lodò il fratel Gabriele nell'epicedio latino, “tutto armato fu in campo, non per istudio di veder la battaglia e cantar della battaglia gli eventi, ma preparato a morire di onesta morte per la patria e aggiungere onore agli onori del nome suo„. Ciò fu sotto i comandi di Enea Pio da Carpi in una seconda battaglia della Policella, che il duca anche vinse su' Veneziani il 24 settembre del dieci, e nella quale è fama che il poeta assalisse e conquistasse egli una nave dei nemici. Subito dopo la battaglia di Ravenna (11 aprile 1512), ove il duca Alfonso fece miracoli con la sua artiglieria distruggendo la fanteria spagnuola senza molti riguardi agli alleati francesi ( — Tirate, tirate, — gridava a' suoi, — son tutti barbari a un modo e nostri nemici — ), egli vide il campo.
Io venni dove le campagne rosse
Eran del sangue barbaro e latino,
Che fiera stella dianzi a furor mosse;
E vidi un morto all'altro sì vicino,
Che, senza premer lor, quasi il terreno
A molte miglia non dava il cammino.
Ma la vittoria di Ravenna fiaccò e disciolse l'esercito francese; e il duca dovè nel luglio andare a Roma, con salvacondotto, alla sottomissione. Se non che Giulio troppo incalzava con le pretese, e poco cedeva Alfonso; che finalmente, non ostante il salvacondotto, ebbe di catti di scampar dalla grand'ira di Secondo tra le armi dei Colonna, che lo tenner celato tre mesi nel loro castello di Marino, onde sotto più travestimenti, di cacciatore, di famiglio, di frate, si salvò per la Toscana a Ferrara nell'ottobre. L'Ariosto accompagnò tra quei pericoli e in quelle fughe e travestimenti il signore; e il primo d'ottobre in riparo a Firenze scriveva a un Gonzaga: “Sono uscito delle latebre e dei lustri delle fiere e passato alle conversazioni degli uomini. Dei nostri pericoli non posso ancora parlare: animus meminisse horret luctuque refugit. Da parte mia non è quieta ancora la paura, trovandomi ancora in caccia, ormato da levrieri, da' quali Domine ne scampi. Ho passato la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile mascherato, l'orecchio all'erta ed il cuore in soprassalto„. Nel marzo del 13 con la elezione di Leone X rinacquero o crebbero le speranze di meglio nel duca e più forse in Ludovico, che era stato dei famigliari del cardinal de' Medici, e che súbito mandato a Roma per faccende ducali vedeva intorno al nuovo papa i suoi vecchi amici, il Divizio, il Sadoleto, il Bembo. Se non che ben presto (7 aprile) scriveva con la sua ironia bonaria a Ferrara: “È vero che ho baciato il piè al papa, e m'ha mostrato di odir volentera: veduto non credo che m'abbia, chè dopo che è papa non porta più l'occhiale. Offerta alcuna nè da Sua Santità nè da li amici miei divenuti grandi novamente mi è stata fatta: li quali mi pare che tutti imitino il papa in veder poco.„ Di Bernardo Divizi aggiungeva: “È troppo gran maestro, ed è gran fatica a potersegli accostare; sì perchè ha sempre intorno un sì grosso cerchio di gente che mal si può penetrare, sì perchè si convien combattere a dieci usci prima che si arrivi dove sia: la qual cosa è a me tanto odiosa, che non so quando lo vedessi: nè anco tento di vederlo, nè lui nè uomo che sia in quel palazzo.„ E conchiudeva: “Io intendo che a Ferrara si estima che io sia un gran maestro qui: io vi prego che voi li caviate di questo errore.„ Meglio che la fortuna gli arrise l'amore: di ritorno da Roma in Firenze, per le feste di San Giovanni, s'innamorò fermamente della fiorentina Alessandra Benucci, per la quale scrisse rime bellissime, e la cui leggiadra imagine egli vagheggiava tra le favoleggiate battaglie e dinanzi alle ferite del più gentile de' suoi cavalieri (nel c. XXIV):
Così talora un bel purpureo nastro
Ho veduto partir tela d'argento
Da quella bianca man più ch'alabastro
Da cui partire il cor spesso mi sento.
Sul finire del 13 si raccolse in Ferrara, dove il suo cardinale, esperimentato Leone di volontà non migliore che Giulio, s'era ridotto, e dove anche Alessandra venne, vedova com'era d'un Tito Strozzi gentiluomo ferrarese.
Per un anno e mezzo attese a fornire e limare il poema, del quale nel luglio del dodici alle dimande del marchese di Mantova aveva risposto non essere limato nè fornito ancora come quello che è grande ed ha bisogno di grande opera. Amore la agevolò. Dicono che la Benucci esigesse, per aprire al poeta, compiuto un canto ogni mese. Ai 26 ottobre del quindici l'Ariosto supplicava al doge di Venezia, che, avendo egli “con lunghe vigilie e fatiche, per spasso e ricreazione de' signori e persone di animo gentile e madonne, composta un'opera in la quale si tratta di cose piacevoli e dilettabili d'armi e di amori, e desiderando ponerla in luce per sollazzo e piacere di qualunque vorrà e che si diletterà di leggerla,„ volesse il doge dar privilegio nel suo dominio alla stampa che l'autore preparava. Più di un mese innanzi (17 settembre) il Cardinal d'Este aveva scritto al suo cognato marchese di Mantova, come, essendo per far stampare un libro di messer Ludovico Ariosto suo servitore ed a questo bisognandogli estrarre da Salò mille risme di carta, lo pregava per esenzione del dazio al porgitore della lettera. Il Furioso era dunque finito nella seconda metà del quindici che l'Ariosto aveva quarantun anno, età giusta, pensa un francese del giusto mezzo, per l'epica: troppo presto il Tasso, troppo tardi il Milton. E a' 22 aprile del sedici era finito anche di stampare da Giovanni Mazzocchi dal Bondeno in Ferrara.
Nella seconda carta di codesta prima edizione si può leggere una bolla di Leon X del 26 marzo contrassegnata dal Sadoleto, con la quale il pontefice, lodando la singolare e antica osservanza dell'Ariosto a sè e alla sua casa, la egregia dottrina in lui delle lettere e arti buone, l'elegante e chiarissimo ingegno ne' più miti studi e specialmente nella poesia, risolve che tutti questi e meriti e pregi paiono quasi per diritto esigere che il pontefice conceda liberalmente e graziosamente al poeta ogni cosa che possa tornargli in vantaggio, specialmente dimandando egli cose giuste ed oneste; séguita anche lodando i libri dell' Orlando Furioso scritti in volgar lingua ed in verso, scherzevolmente ( ludicro more ), pur con lungo studio e meditazione e con molte veglie: dopo che viene alle solite comminazioni di multe e pene, compresa la scomunica, a chi riprodurrà o venderà, senza il permesso dell'autore, il Furioso. Per un poema dove l'apostolo San Giovanni figura per dimostratore di certe cose nel mondo della luna non c'è male da parte di un papa; ma fu la sola larghezza che il patrono di Baraballo facesse al maggior poeta del secolo; se pur larghezza s'ha a dire, dando retta al poeta nella satira quarta:
Di mezza quella bolla anco cortese
Mi fu, de la quale ora il mio Bibbiena
Espedito m'ha il resto e le mie spese.
V.
E ora che dire del Furioso? Anzi tutto, non cose nuove.
Che Angelica e Bradamante non raggiunte mai da' cavalieri i quali si ostinano a seguitarle rendano imagine del genio d'Italia; che anche Orlando dia come una somiglianza del popolo italiano inebriato dal filtro del medio evo; che l'Ariosto abbandoni, abbattuto dal trono, alle risate del volgo il vecchio Cesare, il quale aveva di tante illusioni pasciuto lo spirito di Dante, che colpisca l'impero di Carlo V e il regno di Francesco I, rimandando essi oltr'alpe con in dosso a pena gli stracci degli orpelli onde la tradizion cavalleresca aveva ammantato le loro povere persone; sono volate di fantasia storica che nella poetica prosa del Quinet posson piacere, anche perchè movono da un principio di vero; ed è, che il Furioso è tutto informato al sentimento e alla vita del tempo in che fu composto. Non so se la fantasia storica del Quinet fosse almen di lontano ispirata da un'idea estetica del Gioberti, il quale, cercando invano con dottrinali preoccupazioni nel Furioso una finalità epica, scoprì in vece in quella continuata ironia la satira della cavalleria e del medio evo.
Ma la finalità del poema romanzesco è in sè stesso, è, come scriveva l'Ariosto al doge di Venezia, nel raccontar piacevole a ricreazione delle persone d'animo gentile. L'Ariosto in questi propositi continuava il Boiardo; il quale scherzò anch'egli su gli eroi e su le donne, e mescolò l'umore all'entusiasmo e la novella all'epos, e pure è giustamente annoverato tra i più seri e sentimentali poeti della cavalleria. L'epopea romanzesca, nel lavorio di rifacimento col quale gl'italiani la vennero di continuo trasmutando, non pur non rimase nè potea rimanere in fedel soggezione d'uno spirito tradizionale o quasi originale che la movesse e atteggiasse sempre ad un modo, ma nè fu nè si tenne obbligata mai a riprodurre caratteri stabilmente fermati in un tipo consuetudinario, anzi nello svolgersi a fasi nuove rinnovava tuttavia spiriti e colori secondo gli ambienti diversi. E come gli autori de' poemi franco-italiani e dei cantàri veneti del secolo decimoterzo e decimoquarto avevano con un primo natural processo italianizzati i paladini francesi delle canzoni di gesta, e come i cantastorie di Firenze gli avevano poi ridotti alle proporzioni e alle fattezze intellettuali de' Ciompi; così l'Ariosto vide e ritrasse gli eroi del Boiardo e degli altri suoi prossimi antecessori tra il prisma del molteplice Rinascimento. E male fu scambiato per intenzionale ironia quel fine spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico. E male si giudica prosaicamente ironico e volgarmente scettico quel tempo, nel quale anzi lo spirito italiano (e fu questa la sua gloria e la sua grazia immortale) giunto al sommo dell'ascensione parve abbracciare, se mi si conceda l'imagine, l'antichità e il medio evo, l'occidente e l'oriente, con tale una potente gioia di amore espansivo che anche parve per un momento volerli e poterli in quel suo divino abbracciamento fondere e confondere a sè. La generazione poi della quale era l'Ariosto serbava ancora, malgrado gli Sforza ed i Borgia, qualche sentimento di cavalleria: lo attestano i soldati francesi in quella memorabile liberazione e resistenza di Pisa giuratisi campioni e difensori alle dame, lo attesta la disfida di Barletta e la figura di Baiardo cavalcante severo e gentile tra i lanzichenecchi. La luce del Furioso spuntò tra la battaglia di Ravenna e la battaglia di Marignano, vinta quella da un giovin capitano che per amore della dama vi combattè con un braccio tutto ignudo, vinta questa da un giovine re che prima di dar dentro volle esser armato cavaliere da Baiardo. Che se la vittoria di Ravenna fu guadagnata dalla fanteria villana di Dumolard e dalla artiglieria sapiente del duca Alfonso (le due arme della rivoluzione e della monarchia moderna), la cavalleria italiana fece nella resistenza dalla parte dei confederati prove gloriose; e Fabrizio Colonna, dopo romanamente respinti dalle mura delle città sette assalti, si precipitò nella battaglia caricando a capo dei suoi cavalieri i cannonieri e i cannoni d'Alfonso e di Francia sin che fu fatto prigione in mezzo ai pezzi. E la battaglia di Marignano che durò tre giorni, e nella quale eserciti di tre lingue si mescolarono al lume di luna per iscannarsi, e il re di Francia credendo aver raggiunto un corpo di suoi si trovò in mezzo a ottomila Svizzeri, che per farsi riconoscere gli puntarono (come egli scrisse) seicento picche al naso, “bevve dell'acqua d'un ruscello tutta sanguinosa, mentre un trombetta italiano al suo fianco soffiava tutta notte nel corno, come Orlando a Roncisvalle, contro i corni di Unterwald ed Uri; la battaglia di Marignano non è veramente ariostesca? Tanto poi l'Ariosto fu di per sè lontano dall'intenzione d'una finale ironia contro l'ideale cavalleresco, che a gloria della spada e della lancia fe' maledire a Orlando l'arma da fuoco e l'artiglieria, forza e vanto del suo duca. Ma come si può parlare d'ironia intenzionale dell'Ariosto? dell'Ariosto, che al personaggio di Carlomagno, mortificato dalla famigliarità birichina dei piazzaiuoli di Firenze, restituì la maestà d'imperatore e il contegno d'eroe? dell'Ariosto che l'Astolfo fatto buffone dal Boiardo rifece cavaliere d'avventure e miracoli, pronto a tutto affrontare, le porte così dell'inferno come del paradiso, con quella sua seria audacia inglese che lo costituisce degno istromento della provvidenza alla salute d'Orlando? dell'Ariosto che in Orlando il peccato dell'amore, peccato per l'eroe e pe'l cristiano, punisce con la terribil pazzia? E come si può parlare d'ironia continua e finale dinanzi alla terribilità tragica di quella pazzia in quella più che descrizione e narrazione epica, la quale dalla minuta e fedele osservazione dei succedentisi momenti psicologici va a passo a passo crescendo vorticosa e vertiginosa e finisce in uno scoppio titanico? dinanzi all'eroica grandezza dell'ultimo abbattimento fra i tre re saracini e i tre paladini, e alla mossa, tutta di cuore, del poeta, su'l cadere di Brandimarte,
Padre del ciel dà fra gli eletti tuoi
Al martir tuo fedele omai ricetto?
La cavalleria feudale era morta da un pezzo, ma l'idealità della cavalleria civile colorava ancora d'un'ultima luce crepuscolare l'Europa trasformantesi nelle monarchie accentratrici e amministrative. Francesco I invecchierà, e diverrà traditore, spergiuro, brutale. Verrà la triste figura di Carlo V. Egli, nella incoronazione, a Bologna, toccava colla spada la testa di chi voleva essere cavaliere dicendogli Esto miles; e tanti si affollarono chieditori intorno a lui, gridando — Sire, sire, ad me, ad me, — che egli stanco e sudato e dicendo ai cortigiani — No puedo mas — inchinò sopra tutti la spada, soggiungendo — Estote milites, todos, todos; — e così replicando, gli astanti partirono cavalieri tutti e contenti. Allora Teofilo Folengo frate e Pietro Aretino vivente su le tristi lusingherie della rea penna poteron bene con grossolana caricatura fare strazio d'Orlando, di Rinaldo e d'ogni cavalleria. L'Ariosto no: egli era troppo gentiluomo e poeta.
Che l'Ariosto, passando ad altro, attingesse a molte fonti, pigliando, come dicea La Fontaine, il suo bene dove lo trovava, lo disse fin dal tempo del poeta il Pigna, e raccontò com'egli avesse fin tradotto per suo uso romanzi francesi e spagnuoli; lo provarono fin dal cinquecento il Dolce, il Lavezzuola, il Ruscelli, mettendo in vista favole, descrizioni, comparazioni ch'egli ebbe derivate da greci, da latini, da italiani. Ultimamente compiè le ricerche con un libro, ove nulla, credo, si desidera, Pio Rajna, il critico che più originalmente ha studiato le fonti e i procedimenti della epopea cavalleresca tra noi. Ma dopo tante ricognizioni e rivendicazioni la parte che rimane all'invenzione dell'Ariosto è pur sempre grande, e ciò che egli prese da altre o conservò della leggenda comune od opere d'arte individuali egli lo ha così trasformato sotto il fuoco del suo ingegno e nel crogiuolo dell'arte sua, che a distinguerlo ci vuole il più delle volte un vero lavoro di critica chimica. Questione del resto che importa assai più alla storia della letteratura che a quella dell'arte. Era negl'istituti, per così dire, dell'epopea romanzesca, che ogni nuovo autore prendesse liberamente da' suoi antecessori e vicini tutto che gli giovasse e piacesse; era nel costume del Rinascimento rivestirsi delle spoglie greche e latine. Il Foscolo paragonò benissimo il Furioso alla chiesa di San Marco, che i Veneziani fabbricarono a colonne di tutti gli ordini, con marmi di tutti i colori, con frammenti dei tempii greci e di palazzi bizantini. Gli antiquari fan bene a riconoscere e distinguere il frammento del tale arco romano, i marmi di quel tempio greco, le colonne della tale altra chiesa bizantina, e anche la rozza pietra d'un torrazzo feudale. Noi chiediamo alla solenne opera dell'architettura: c'è dentro il Dio? Sì? Adoriamolo.
Il dio per noi è l'artista. E artista l'Ariosto è senza paragoni grande. Non quale se lo favoleggia certo volgo di lettori e critici dozzinali, fantasia sbrigliata e smemorata che si prodiga negli episodi sorridendo ella stessa del suo smarrirsi in via dietro le mille sue favole: egli invece ha, come tutti i poeti della famiglia greco-latina, un senso dell'ordine e della proporzione, un senso della finalità artistica, mirabilmente serio e ragionativo. Si propose di continuare l' Innamorato del Boiardo, “per non introdurre, osservava benissimo il Pigna, nuovi nomi di persone e nuovi cominciamenti di materie nell'orecchie degli italiani, essendo che i soggetti del conte erano già nella loro mente impressi ed instabiliti in tal guisa, che egli, non continovandogli ma diversa istoria cominciando, cosa poco dilettevole composto avrebbe„: intitolò da Orlando il poema, perchè Orlando era l'eroe più popolarmente conosciuto ed accetto della gesta carolingia; la guerra poi tra cristiani e infedeli, oltre che l'aveva ereditata dal Boiardo, era d'obbligo, come quella che forniva, per così dire, il centro d'unità e lo spazio e il termine idealmente storico a ogni epopea romanzesca. Ma la parte di continuatore abbandonò egli subito e uscì francamente dalla serie o dalla classe de' suoi predecessori avendo in prima luce i caratteri già secondari di Ruggero e di Bradamante e facendo del loro matrimonio il soggetto principale del poema, soggetto che ha in sè il concetto politico, la illustrazione della casa d'Este, come l'Eneide ebbe l'apoteosi della casa Giulia. Così l'Ariosto, lungi dagli intendimenti e dagli spiriti o democratici o feudali de' suoi predecessori, rientra e rimane tutto nel tempo suo, nel primo ventennio del secolo decimosesto, quando, non rialzatosi ancora con Carlo V l'impero nella nuova forma e forza di gran potenza militare straniera a soggettare l'Italia, era possibile, era opportuno, era utile sollevare e glorificare una antica dinastia italiana contro le insidie e le minacce della mostruosa signoria papale che al fine ingoiò Ferrara. E rientra nel tempo suo anche come artista. Egli è un classico, ma classico composito del Rinascimento; e il Furioso è, ben disse il Voltaire, l'Iliade e l'Odissea insieme, il poema politico e religioso, l'epopea eroica, con Carlo-Magno ed Orlando, il poema privato e famigliare, il romanzo moderno, con Ruggero e Bradamante. Favola generale o meglio fondamento del complesso poema è la guerra fra tutta la cristianità e tutto l'islam: centro Parigi, con i due re, i due eserciti l'uno a fronte dell'altro, dai quali e ai quali vengono, vanno, ritornano, intrecciandosi nelle direzioni di tutti i venti le donne, i cavalier, l'armi, gli amori. Sommo tra i cavalieri Orlando pe'l cui amore e per la pazzia la catastrofe rimane sospesa come per l'ira d'Achille la presa di Troia: principalissimi tra i personaggi Ruggero e Bradamante, di nazione e fede diversi, nella disgiunzione de' cui amori si ricongiunge il vario movimento de' due campi, nella congiunzione la favola si chiude. Orlando rinsavito trasporta la guerra cristiana in Africa espugnando Biserta capitale del nemico di Carlo, e la finisce col gran duello nell'isola di Lampedusa. Ruggero, nello stesso giorno delle nozze con Bradamante, uccide l'ultimo e più terribil nemico avanzato al nome cristiano, Rodomonte. Così la cristianità è non pur salva ma secura, e la famiglia d'Este ha principio.
VI.
L'Ariosto, per attendere con più riposato animo agli studi, fatta nel 1527 divisione dai fratelli, che egli aveva allevati e messi in istato, si tirò su una casetta in contrada Mirasole, e vi condusse attorno un orto o giardino, la cui costruzione e coltivazione e la revisione del poema gli furono ultime occupazioni della vita. “Nelle cose dei giardini — scrive suo figlio Virginio — teneva il modo medesimo che nel far de' versi; perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco, e, se piantava anime di persiche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano, che finalmente rompeva il germoglio. E perchè aveva poca cognizione d'erbe, il più delle volte presumea che qualunque erba che nascesse vicina alla cosa seminata da esso fosse quella; la custodiva con diligenza grande fin tanto che la cosa fosse ridotta a' termini che non accascava averne dubbio. Io mi ricordo, ch'avendo seminato de' capperi ogni giorno andava a vederli, e stava con una allegrezza grande di così bella nascione; finalmente trovò ch'erano sambuchi, e che de' capperi non n'eran nati alcuni.„ Quanto alla casa: “perchè — séguita Virginio — male corrispondevan le cose fatte all'animo suo, solea dolersi spesso che non gli fosse così facile il mutar le fabbriche come li suoi versi, e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa essendo persona che così ben dipingeva i palazzi, rispondeva, che faceva quelli belli senza denari.„ Della correzione dei versi: “avvedutosi — riferisce il Pigna — che alle volte il cercar troppo di cambiare ogni minima cosa più tosto di danno gli era che di giovamento, usò di dire che de' versi quello avveniva che degli alberi: per ciò che una pianta che piantata da sè vaga risurga, se vi s'aggiunge la mano del coltivatore che alquanto la rimondi, più felicemente ancora può crescere; ma se, dopo troppo vi sta attorno, ella perde la sua natia vaghezza. Parimente una stanza che quasi ne sia dalla mente in un sùbito uscita e che sia bella, se quel poco di rozzo vi si lieva che vi si scorge essere avvenuto nel primo parto, potrà agevolmente parer migliore; ma, se pur tuttavia il poeta vuole affinarla, rimarrane senza quella prima beltà che portò seco nel nascere.„
Certo che un sommo buon gusto guidò l'Ariosto alla perfezione nel correggere, che non avvenne al Tasso. Ma anch'egli, come il Tasso, sarebbesi abbandonato a troppi critici e consiglieri, se fosse vero che avesse dato a esaminare ed emendare il poema al Bembo, al Molza, al Navagero, al Sadoleto, a Marc'Antognio Magno e a non so quanti altri; se fosse vero, ciò che racconta il Giraldi, che, aumentatolo, due anni innanzi di darlo alla stampa, lo ponesse nella sala della sua casa, lasciandolo in balia del giudizio di ciascuno. Benissimo pensava il La Bruyère, non essere opera per quanto perfetta che non s'andasse dissolvendo per la critica, se l'autore consentisse a tutti i censori che volessero tolto via il luogo che a loro piaccia meno. Ma l'Ariosto pare a me chiedesse e accettasse consigli ed emendamenti soltanto su l'elocuzione, nè c'è prova che ad altri per ciò si rivolgesse che al Bembo; al quale a' 23 febbraio del 1531 scriveva: “Io son per finir di rivedere il mio Furioso; poi verrò a Padova per conferire con V. S. e imparare da Lei quello che per me non sono atto a conoscere.„ E a Padova fu di fatto nell'ottobre, ma v'andò dai bagni d'Abano con la febbre e vi restò pochi giorni pure ammalato, per poi seguitare il duca a Venezia. Con la terzana a dosso e in pochi giorni le conferenze non poterono essere sì lunghe che l'Ariosto imparasse dal Bembo a correggere un poema di quarantasei canti. Ci sarebbero anche stati, secondo la tradizione, correttori più umili: un monaco Severo camaldolese di Volterra o di Firenzuola; un Annibale Bichi, uomo d'armi da Siena, che scrisse certe stanze e una lettera all'Aretino; l'Alessandra Benucci di Firenze. Che il frate volterrano e il soldato senese potessero suggerire o migliorare al poeta qualche frase o qualche forma, non si vuol negare; ma che potessero insegnargli e correggergli tutta la lingua con la quale è scritto il Furioso par difficile. Che l'amore su la fiorentina bocca dell'Alessandra potesse dirozzare certe grossolanità del ferrarese, amerei crederlo; ma l'Alessandra nelle lettere che di lei ci rimangono lombardeggia ella a tutto spiano. E pure è fama che l'Ariosto negli ultimi anni fosse venuto a tali scrupoli di fiorentinismo da dar dei punti al Manzoni; non voleva, per esempio, scrivere palazzo, perchè i Fiorentini allora dicevano palagio. Tutto si accomoderebbe se fosse vero ciò che asseriva il Salviati, facendosi della toscanità di messer Ludovico arma e scudo contro il Tasso, cioè che egli dimorò in Firenze, per imparare i vocaboli e le proprietà del linguaggio, parecchi anni. Ma l'Ariosto fu, è vero, in Firenze, ben sei volte, ma sempre o di passaggio o per breve soggiorno: al più si può concedere al Fornari che un qualche anno (forse il 1520) ei ci restasse per ispazio di sei mesi in casa d'un Vespucci parente dell'Alessandra. Ma sei mesi sono eglino sufficienti a tesoreggiare tanta ricchezza di gentil parlare quanta è nei quarantasei canti? E pure il Foscolo notava giustamente: “Se si confrontino le due edizioni (del 16 e del 32), e il confronto sarebbe lezione a' giovani poeti utilissima, apparirà incomprensibile come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contro le regole del buon gusto e della dizione poetica potesse in séguito espungere tali colpe e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze.„ In somma, se fosse poi vero che all'Ariosto anche di proprietà e d'eleganza fosse trovatore e affinatore l'ingegno aiutato da una facoltà di percezione prontissima e squisitissima?
VII.
Parve singolare al Gibbon che de' cinque maggiori poeti epici venuti nello spazio di quasi tremila anni sul teatro del mondo due sieno reclamati a sì breve intervallo da sì piccol territorio quale il ducato di Ferrara. Ma lasciando da una parte Omero e dall'altra Virgilio e Milton, i quali solo l'antica poetica poteva ammettere nella stessa famiglia con l'Ariosto, e aggiungendo il Boiardo che nel genere romanzesco è de' poeti maggiori, pare anzi naturalissimo, chi ricordi e accetti le cose in principio discorse su lo svolgimento dell'epopea romanzesca, che Ferrara producesse nello spazio di un secolo i tre maggiori poemi cavallereschi a distanza quasi precisa d'un cinquant'anni fra loro, cominciando il movimento coll' Innamorato nel 1486, toccando la perfezione col Furioso nel 1532, determinando la reazione con la Gerusalemme nel 1581. Contro altre osservazioni e meraviglie che nell'aer crasso della bassura ferrarese potesse accendersi quel gran sole della fantasia ariostesca, io volli diffondermi a raccogliere i particolari delle condizioni economiche e delle difficoltà politiche, delle incertezze e inquietezze quasi continue tra le quali fu concepito e composto il Furioso, io volli distendermi a raccontare le strettezze, le taccagnerie, le ingratitudini e iniquità delle quali l'Ariosto fu tribolato tutta quasi la vita; perchè, raffrontate tali condizioni alle condizioni di pace, di agiatezza, di pompa, tra le quali scrissero Virgilio ed il Goethe, raffrontata alla villa di Posilipo e al casino di Weimar la casa paterna dell'Ariosto onde la veduta del piano è scarsa e sconsolata e la casetta di Mirasole ove la vita è imprigionata fra pochi metri di orti e di mura, e ripensando quanto spirital mondo fosse intuito e creato, quanta e quale serenità di poesia si spandesse da tali confini, l'uomo si rialzi e si rallegri e conforti, che in fine in fine l'ingegno umano trovi tutto in sè stesso. Nell'animo di Ludovico Ariosto non tramontava mai il sole interno più veramente che non tramontasse su i regni di Carlo quinto il sole della natura.
Più degna di esser notata mi pare la somiglianza delle circostanze, di preparazione, d'inspirazione, di svolgimento e di effetti, che è tra il lavoro letterario dell'Ariosto e quello, da una parte, di Dante, dall'altra di Alessandro Manzoni. Nati e cresciuti tutti tre nei principii d'un movimento e d'un mutamento politico e letterario che determinò le più differenti e in diverso aspetto più importanti età della vita italiana, tutti tre, modificate essenzialmente ma non spogliate al tutto le idee e le affezioni della gioventù, accompagnarono il mutamento e il movimento, fin che, non dico lo fermarono, ma lo illustrarono al punto più alto dell'ascensione con un'opera che, raccogliendo tutte le idealità del loro passato ed agendo con grande efficacia su gli spiriti le opinioni e le concezioni estetiche del presente, eccitò pure una reazione. Dante, cresciuto nel primo scadimento del papato e dell'impero, del medio evo in somma, e quando il reggimento delle città italiane passava nelle forme o del comune o della signoria dalle oligarchie gentilizie all'autorità democratica, mutatosi da guelfo a ghibellino e da dicitor d'amore a neoclassico, scrisse, dopo la rivoluzione di Giano della Bella che gli tolse la nobiltà, dopo il colpo di stato del Valois che gli tolse la patria, la Commedia, opera guelfa insieme e ghibellina, scolastica e popolare sì nel concepimento sì nell'esecuzione; e pur raggiando gli albori dell'età nuova chiuse il medio evo, levandone alle maggiori altezze l'idealità e universalità artistica: alle quali seguirono per reazione l'opera individuale del Petrarca e l'opera realistica del Boccaccio. Nato e cresciuto quando l'umanesimo finiva d'abbattere i resti di quelle comunità d'arte e pensiero indigene e plebee che s'erano mantenute nell'intermezzo tra il medio evo e la riforma, quando le signorie nazionali erano per disparire attratte nella violenza dell'impero risorto come monarchia conquistatrice, l'Ariosto, da poeta latino trasmutatosi a poeta di romanzi, dopo la invasione francese, durante la guerra della lega santa contro Venezia e del papa contro il suo duca, scrisse, e dopo la caduta della repubblica di Firenze compiè, il suo poema, chiudendo i periodi della poesia romanzesca, l'ideale delle plebi, dei signori e dei capitani di ventura de' secoli decimoquarto e decimoquinto; il poema che canta le glorie d'una dinastia contro l'impero e la chiesa; il poema che trasforma con un lavoro perfettamente classico la materia medioevale e rende finalmente italiana la lingua toscana; il poema che, pure operando con grandissima efficacia su'l movimento letterario non pure italiano ma europeo, provoca sì negli spiriti sì nelle forme la riazione cristiana aristotelica individuale del Tasso. Nato il Manzoni tra i fulgori ed i fulmini della rivoluzione francese, crescendo quando il filosofismo dell'Enciclopedia della Costituente della Convenzione impersonatosi nel Bonaparte provocava la reazione tra medioevale e liberale dell'Europa, quando la invasione francese con le forme di repubblica o di regno conturbando e sommovendo la vecchia società italiana cagionava un risvegliamento quasi nazionale degli spiriti guelfi e ghibellini, egli, di giacobino e classico, tramutatosi in cattolico e romantico, chiudeva quel periodo di sconvolgimento e di turbazione con un libro di raccoglimento individuale, di realismo ideale, in cui il soggettivismo autoritario giacobino persistendo riforma a imagine sua le idee cattoliche e le teorie romantiche; un libro, che pure efficacemente operando su l'educazione estetica provocò una reazione subitanea sì nei pensieri e sentimenti sì nelle forme. A compiere i paralleli, anche gli anni della pubblicazione delle tre opere si corrispondono. La Commedia, pensata e lavorata per tutti i primi anni del secolo decimoquarto fu finita nel 1321: fu finito nel 1516, corretto nel 21, riformato nel 32 il Furioso: i Promessi Sposi finiti nel 1826 furono corretti nel 40.
E qui basta. Le generazioni e l'ordine sociale fiorenti e dominanti in Italia in questo scorcio di secolo hanno il diritto e anche il dovere di riconoscere nel Manzoni il loro più affine rappresentante artistico. Ma, se alcun voglia comparare o anteporre l'efficacia e l'importanza storica dell'opera in prosa di lui alla poesia di Dante e dell'Ariosto, quegli obbedirà a una preoccupazione del presente che si può bene intendere ma non può esser levata alle regioni della storia, quegli sottometterà il vero oggettivo alle sue parziali impressioni estetiche, quegli correrà pericolo di scambiare una riforma di sentimento e stile in Italia per una rivoluzione della letteratura europea. Lasciamo di Dante. Ma dirimpetto alla esuberanza di vita e alla calda rappresentazione di tutto il sentimento, di tutta un'epoca che tutta l'Europa ammirò nel Furioso, la novella provinciale del Manzoni è domesticamente e democraticamente modesta. Che se lo spirito giacobino d'accordo questa volta con l'umiltà cristiana parvero audacia rivoluzionaria persuadendo al Manzoni di scegliere a eroi due contadini brianzoli, gli vietarono però di fare poema; e al meraviglioso inventore e analizzatore prosastico venne a mancare un addentellato nella tradizione non pur nazionale ma europea, la quale si perpetua in un retaggio di grandi leggende e di grandi fatti di razza e di nazione congiunti ai grandi problemi psicologici che si rinnovano nei secoli. I poemi del secolo decimonono sono il Faust e il Prometeo liberato. Il problema psicologico dei Promessi Sposi fu un fenomeno passeggero in alcune anime di sola una generazione, e la preoccupazione di cotesto breve momento, la restaurazione romantica del cattolicismo, forse che rattrista, se non raffredda, lo spirito artistico del vero e nobil volume. Il quale forse per ciò non s'ebbe fuori d'Italia, in Europa, che un successo inferiore al valor suo reale, inferiore di molto alla fortuna di altri romanzi francesi e inglesi che gl'Italiani reputano di gran lunga inferiori al romanzo lombardo. Il Furioso, oltre le versioni e le edizioni moltissime in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, in Olanda fin dal secolo in cui fu composto, ispirò a tempi diversi quattro dei più varii e favoriti ingegni della letteratura europea, lo Spencer nella Regina delle fate al secolo decimosesto, il Byron nel Don Giovanni al nostro, e al settecento i due tra loro più simpatici ingegni delle due più avverse nazioni, il Voltaire nella Pulcella, il Wieland nell' Oberon. Il Furioso dunque tiene un luogo ben alto nella letteratura europea.
VIII.
Opera così varia e superba d'uomo così semplice e buono!
“Mai non si satisfaceva de' versi suoi — lasciò nei ricordi Virginio suo figlio — e li mutava e rimutava; e per questo non si teneva in mente niun suo verso. Ma di cosa che perdesse niuna gli dolse mai tanto, come di un epigramma che fece per una colonna di marmo la quale si ruppe nel portarla a Ferrara.„ A questo punto la memoria di Virginio è interrotta. Finirò io. Erano due colonne che dovevano sorreggere una statua equestre di Ercole I: nel trasporto rotta e caduta in Po l'una per cui l'Ariosto scrisse l'epigramma, l'altra fu lasciata e giacque inutile ove ora è in Ferrara la piazza ariostea, per molti anni, fino al 1659, che la drizzarono e vi posero su la statua di Alessandro settimo papa. Nel 1796 i repubblicani della Cispadana atterrarono dalla colonna il pontefice, e vi piantarono, presente il generale Napoleone Bonaparte, una statua della Libertà in gesso. Nel 1799 gli Austriaci calarono giù la libertà di gesso, e per conto loro non inalzarono nulla. Ma nel 1810 gli antichi repubblicani della Cispadana elevarono sopra la colonna la statua di Napoleone imperatore, che, fondator di repubbliche, aveva già assistito alla elevazione della libertà di gesso: anch'egli vi durò ben poco, fu abbassato nel 1814. Dal 1833 in poi su quella colonna che l'Ariosto vide portata a Ferrara per sorreggere la statua del duca sotto il quale egli nacque, e che invece sopportò un papa, una repubblica, un imperatore; dal 1833 su quella colonna sta la imagine di Ludovico Ariosto scolpita da Francesco Vidoni. Non è una bella statua. Ma nè papi nè imperatori nè la libertà medesima cacceran te di lassù o poeta divino, che scrivesti l' Orlando e tanto ti dolevi d'aver perduto un epigramma latino, e tanto ti consolavi del crescere dei sambuchi credendo fossero capperi.
TORQUATO TASSO (1544-1595).
DI
ENRICO NENCIONI.
I.
Vi sono due Torquati Tasso: che potrebbero dirsi i due lati sofistici di questo vecchio, e sempre nuovo, e sempre magnetico soggetto. Vi è il Tasso della leggenda romantica, quello delle Veglie e della Eleonora, anzi delle Eleonore, dei duelli e dei travestimenti; una specie di gran mandolinista della poesia, quale è ormai impresso nel cuore del popolo, e quale su per giù è cantato egualmente da librettisti e novellieri d'infimo ordine, e da insigni poeti come Byron, Lamartine, Espronceda, Giovanni Prati. Non parlo del Tasso del Goldoni, che è una specie di farsa, nè di quello di Goethe, che non è che un prestanome, un interprete dei sentimenti dell'olimpico Goethe (Goethe Antonio), all'epoca in cui si atteggiava a impassibilità marmorea, e aveva per la sua sacra persona un vero culto di latria, e portava la propria testa come si porta il Santissimo Sacramento.
Vi è poi un altro Tasso, più di moda, scovato modernamente ed egualmente sofistico, — un Tasso affetto di monomania religiosa, di delicato ma non grande ingegno, egoista e pigolone, che ha sempre gridato per mali tollerabilissimi, che ha messo a lunga e dura prova la pazienza di quel bravo duca Alfonso, così prudente, così previdente, un vero precursor di Lombroso, un frenologo da dar dei punti al professor Tamburini.
Oggi però, grazie alle pazienti indagini e agli accurati studi del Solerti e del Mazzoni, si comincia a veder più chiaro nella vita e nel carattere del Tasso, — e i loro lavori, uniti a quelli precedenti del Guasti, del D'Ovidio, del Masi, del Falorsi, dello Cherbuliez, e del Symonds, hanno messo non foss'altro un po' d'ordine in quel labirinto di enimmi e d'ipotesi che si chiamava la Vita di Torquato Tasso.
Io vorrei solo, o signori, studiar oggi con voi il carattere dell'uomo nell'opera del poeta, — cercare sopratutto nella Gerusalemme il segreto dei dolori, e la chiave della vita di questo grande e infelice italiano. Nella natura dei grandi ingegni, — quando l'ingegno non consiste esclusivamente nel meccanismo artistico, ma nella espressione sincera di certi stati dell'anima, — è tutta la storia della loro vita. La Gerusalemme, il Paradiso perduto, il Childe-Harold ci dicono sul carattere e la vita del Tasso, di Milton, di Byron, più di cento documenti d'archivio. I fatti sono così poca cosa, se non possiamo intuire la loro origine ascosa, e afferrare il misterioso segreto dell'azione palese! Quanti documenti abbiamo su questo grande poeta di Aminta e di Armida; e quanto poco sappiamo ancora di certo e di positivo!
È supremamente difficile analizzare e definire il carattere e l'ingegno di Torquato Tasso; ingegno poetico tutto sfumature e fremiti e gemiti, lirico-elegiaco, essenzialmente musicale: eppure, a momenti, grandemente, largamente, sovranamente epico. Il suo ingegno è un mistero — come i suoi amori e la sua follia! Non ci si presenta in una schietta, sana e plastica nudità, come quella dell'Ariosto, ma rassomiglia a quella bella nuotatrice che alletta i due cavalieri nel Canto XV della Gerusalemme:
Il crin che in cima al capo avea raccolto
In un sol nodo, immantinente sciolse,
Che lunghissimo in giù cadendo e folto
D'un aureo manto i molli avori involse.
Meglio che vedere, s'intravede, si desidera, s'indovina, — è un genio suggestivo, che respira e ci fa respirare in un'atmosfera di voluttà e di passione, di pietà religiosa e di eroismo cavalleresco. È il poeta del sentimento, — sentimento nel senso moderno, quel misto di rêverie elegiaca musicale, di cui è traccia in Virgilio, che abbondò poi nel Petrarca, e che ritroveremo trionfante in Jean-Jacques o nella numerosa sua scuola.
Basta leggere l' Aminta e la Gerusalemme, per accorgersi e sentire che il loro autore, nell'epoca in cui visse, era come un istrumento fatto apposta per il dolore.
Nato alla gioia, all'amore, alla poesia, a tutti i nobili e grandi ideali, sensibile, immaginoso, suscettibile, delicato e nervoso, fa pena vederlo in quell'ambiente di egoismo, di dispotismo, d'ipocrisia, — di cortigiani, di pedanti e di bigotti.... Quando vediamo piovere una grandine di sventure sopra un Dante, un Milton, un Shakespeare, un Cervantes, non ci badiamo tanto. Sappiamo che quei giganti hanno spalle da resistere, e armi da vendicarsi.... ma il povero Tasso! Ci fa l'effetto di veder picchiare un bambino.... Si direbbe una muta di mastini e di bull-dog alla caccia di un rosignolo. O amici eruditi, voi vi affannate molto a cercare le vere cause, i documenti della follia del Tasso, — e non vi accorgete che sono legione, — e che la cosa veramente maravigliosa è che non sia impazzato prima, e che poi sia guarito.
Era così ingenuo, e primitivo, e ostinato nei suoi poetici sogni, che le lunghe e ripetute esperienze non gl'insegnarono mai nulla. Solo a Sant'Onofrio, nella terribile imminenza della morte, vide, come nel bagliore di un lampo, la tragica realtà della vita. Avrebbe avuto, per difendersi dal mondo e da sè stesso, un bisogno supremo di volontà, e non seppe mai fortemente volere: fu come una piuma di cigno in balia d'un infernale Simoun! Restò sempre un illuso, un debole, un poetico adolescente. Pensate, per contrapposto, alla scienza della vita di Lodovico Ariosto! che abisso di differenza!...
II.
L'anima tenera e dolorosa del Tasso contempla la natura, o meglio si abbandona subbiettivamente alle impressioni della natura: non ha la immaginazione attiva e dominatrice dell'Ariosto; ma sente anche nelle voci della natura la voce malinconica dell'umanità. È il poeta inspirato, e come inconscio, di un mondo lirico e sentimentale, che succede al mondo ariostesco del Rinascimento. Quindi, paragonato all'Ariosto, ci può parere monotono. Si sono dipinti nei loro versi. L'Ariosto: “Signor, far mi convien come fa il buono — Suonator sovra il suo strumento arguto — Che spesso muta corda e varia suono — Ricercando ora il grave ora l'acuto„. E il Tasso: “In queste voci languide risuona — Un non so che di flebile e soave — Che gli occhi e lacrimare invoglia„....
L'Ariosto è grafico e preciso, — il Tasso è suggestivo: il primo descrive pittorescamente, il secondo musicalmente, come più tardi lo Shelley e il Lamartine. Il Tasso, come i grandi musicisti, riesce incomparabilmente superiore a tutti i poeti del suo secolo nell'esprimere il vago, l'indefinito, e l'infinito, dei grandi spettacoli della natura. I cieli, le aurore, i pleniluni, le trasparenze primaverili, le malinconie delle foreste in autunno, i grandi silenzii meridiani, sono il suo incontestato dominio.
È largo, luminoso, malinconico e solenne, come una Campagna romana di Claudio Lorenese. La sua Musa chiude un mondo, il mondo plastico del Rinascimento, e ne apre un altro, — il mondo moderno del sentimento lirico personale, e della musica. Certe ottave di Erminia sembran preludere a certe note del Freyschütz e della Sonnambula. È il vero fratello di Palestrina e di Pergolese.
E che dire delle sue adorabili donne? Paragonate ad esse, la maggior parte delle donne dell'Ariosto sono dei bellissimi e sanissimi animali. Dico la maggior parte, — chè sarebbe ingiusto dimenticare la soavissima Fiordiligi. Ma Erminia e Sofronia e Clorinda Gildippe e Armida! Come si riconoscono tutte al sorriso triste e fatale della passione, — allo sguardo umido e voluttuoso, alla smania del sacrifizio e della morte! Non sono bel marmo pario, ma carne e sangue vivente, — anime e cuori di vere donne.
La loro forza sta nella loro debolezza — (e non accade solamente alle donne del Tasso) — alcune sono idilliche ed elegiache, come Erminia; alcune poetiche e ideali, — fiere e tenere a un tempo, — come Clorinda; altre passionate e ardenti come Armida. Armida è creazione di gran poeta. Nella maga c'è la donna, — la donna perdutamente innamorata (già tutte le innamorate sono un po' maghe ). Essa talvolta ha il grido di Saffo, di Didone, e di Fedra. “In Armida — dice il De Sanctis — si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile, con le sue voluttà, coi suoi ardori sensuali, con le sue furie, i suoi odii, le sue gelosie. Nessuno aveva ancora colta la donna con un'analisi così fina nell'ardenza e nella fragilità dei suoi propositi, e nelle sue contradizioni. La lingua dice: odio; e il cuore risponde: amo. La mano saetta, e il cuore maledice la mano.„ — Belle e giuste parole.
L'amore sensuale la fa delirare come Fedra: è una bella e terribile malata. È giunta a quel grado di passione che fa dimenticare ogni rispetto, ogni riguardo umano; la dignità, la coscienza, il dovere, e la vita. Sembra dire anch'essa col poeta francese:
Oh laissez-moi sans trève écouter ma blessure,
Aimer mon mal, et ne vouloir que lui.
Fa pena a vederla, così supplicante, quasi con l'entusiasmo dell'avvilimento, trascinarsi a' piè di Rinaldo, e piangere e pregare:
O sempre, o quando parti e quando torni,
Egualmente crudele. . . . . . .
Ecco l'ancella tua! — d'essa a tuo senno
Dispon, gli disse; e le fia legge il cenno.
La passione, questo veleno, questo filtro di Medea che consuma visibilmente, è espressa in Armida con carattere nuovo e moderno. È di una verità tale, che noi riscontriamo i suoi sentimenti, talvolta le sue stesse espressioni, nelle lettere di donne reali che hanno patito e son morte del suo stesso male — nelle lettere di Eloisa, in quelle della Religiosa Portoghese, in quelle di Mademoiselle Lespinasse. Vi troviamo gli stessi accenti, stavo per dire gli stessi singhiozzi. Per esempio, in questo biglietto della povera Lespinasse, datato “de tous les instants de ma vie. Mon ami; ne m'aimez pas, mais souffrez que je vous aime toujours. Je souffre, je vous aime, je vous attends. Je vous aime comme il faut aimer — avec excès, avec folie, avec désespoir. Les battements de mon cœur, les pulsations de mon pouls, ma respiration, tout cela n'est plus en moi que l'effet de la passion„. È il grido di Fedra:
C'est Vénus tout entière a sa proie attachée!
È il grido d'Armida:
Solo ch'io segua te mi si conceda!
III.
Questo carattere di nuovità, stavo per dire di modernismo, che distingue la Gerusalemme da tutti i poemi del secolo XVI, apparisce distintamente anche in certe situazioni, in certe pitture, in certe trovate poetiche, talora anche in singoli versi. Vi citerò qualche esempio. Sofronia, a incoraggiare e confortare nell'imminente supplizio l'amante, gli dice:
Mira il Ciel com'è bello — e mira il Sole
Che a sè par che ne inviti e ci console!
E questi versi su l'infanzia e l'adolescenza di Rinaldo:
Lui nella riva d'Adige produsse
A Bertoldo Sofia — Sofia la bella
A Bertoldo il possente; e pria che fusse
Tolto quasi il bambin dalla mammella,
Matelda il volse e nutricollo e instrusse
Nell'arti regie, e sempre ei fu con ella;
Finchè invaghì la giovinetta mente
La tromba che s'udia dall'Oriente.
La improvvisa apparizione di Clorinda! Un colpo di lancia le ha fatto balzar via di testa l'elmo,
E le chiome dorate al vento sparse
Giovine donna in mezzo al campo apparse.
Gli occhi della voluttuosa Armida, nella ebbrezza delle carezze; due versi maravigliosamente moderni:
Qual raggio in onda, le scintilla un riso
Negli umidi occhi tremulo e lascivo.
La innamorata Erminia, in una splendida notte, al lume della luna, contempla dall'alto il campo cristiano, ed esclama:
O belle agli occhi miei tende latine,
Aura spira da voi che mi ricrea!
E la stanza ineffabilmente tenera e molle, dolce come note di flauto, in cui è descritto il destarsi di Erminia, di prima mattina, nell'albergo pastorale:
Non si destò finchè garrir gli augelli
Non sentì lieti e salutar gli albori,
E mormorare il fiume e gli arboscelli,
E con l'onde scherzar l'aura e co' fiori.
Apre i languidi lumi, e guarda quelli
Alberghi solitarii de' pastori,
E parle voce udir fra l'acqua e i rami
Che ai sospiri ed al pianto la richiami.
Rinaldo prima di affrontar la impresa del bosco incantato, confessatosi a Pier l'Eremita, va solo, di prima mattina, sul monte Oliveto, pensoso in un pio raccoglimento. Qui abbiamo accenti, sentimenti, descrizioni che sono di un'assoluta novità nella poesia italiana del secolo XVI. Sentite.
Era nella stagion ch'anco non cede
Libero ogni confin la notte al giorno;
Ma l'Orïente rosseggiar si vede,
Ed anco è il ciel di qualche stella adorno:
Quando ei drizzò ver l'Oliveto il piede,
Con li occhi alzati contemplando intorno
Quinci notturne e quindi mattutine
Bellezze incorruttibili e divine.
. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . Alle più eccelse cime
Ascese — e quivi, inchino e riverente,
Alzò il pensier sopra ogni ciel sublime,
E le luci fissò nell'Oriente.
Quattro mirabili versi, di sentimento così essenzialmente cristiano, che potrebbero leggersi in Dante, ma che sarebbero impossibili nell'Ariosto e altri poeti del Rinascimento.
. . . . Pregava — e gli sorgeva a fronte
Fatta già d'oro, la vermiglia Aurora,
Che l'elmo e l'armi, e intorno a lui del monte
Le verdi cime illuminando indora;
E ventilar nel petto e nella fronte
Sentia gli spirti di piacevol ôra.
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
La rugiada del Ciel su le sue spoglie
Cade, che parean cenere al colore;
E sì le asperge chè il pallor ne toglie
E induce in esse un lucido candore:
Tal rabbellisce le smarrite foglie
Ai mattutini geli arido fiore.
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
Il bel candor della mutata vesta
Egli medesmo riguardando ammira:
Poscia, verso l'antica alta foresta
Con secura baldanza i passi gira.
Il sentimento religioso e intimamente umano che compenetra tutta la Gerusalemme, ha il suo punto culminante nella morte di Clorinda. Il pathos di quella situazione è irresistibile. L'amante che inconscio uccide la donna amata, e in quel supremo momento di conoscenza, di conversione, di perdono, di amore e di morte, la battezza con quella stessa mano che l'ha uccisa — è una delle scene più drammatiche che sia venuta in mente a un poeta. Il plastico vi è fuso col sentimentale; il realistico col soprannaturale cristiano. Alla fine siamo rapiti in un mondo che trascende l'immaginazione, e ci pare naturalissimo che
. . . . . . . . in lei converso
Sembri per la pietade il Cielo e il Sole.
E che versi meravigliosi! Ai contemporanei dovettero parere note di un altro mondo....
Poco quindi lontan, nel sen del monte,
Scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v'accorse, e l'elmo empiè nel fonte.
E tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
Non conosciuta ancor, sciolse e scoprìo.
La vide, e la conobbe; e restò senza
E voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
. . . . . . . . . . . . . . . .
Mentr'egli il suon dei sacri detti sciolse,
Colei di gioia trasmutossi, e rise:
E in atto di morir lieto e vivace,
Dir parea: S'apre il Cielo — io vado in pace.
D'un bel pallore ha il bianco volto asperso
Come a gigli sarian miste vïole:
E gli occhi al Cielo affisa; e in lei converso
Sembra per la pietade il Cielo e il Sole:
E la man nuda e fredda alzando verso
Il cavaliero, in vece di parole,
Gli dà pegno di pace. In questa forma,
Passa la bella donna — e par che dorma.
E com'è compreso e affascinato il poeta dal suo soggetto! Come si sente che vive della vita dei suoi personaggi! All'opposto di Sakespeare, Ariosto e Goethe, che stanno al di fuori della loro opera, e foggiano le loro creazioni con mani ardenti ma con fronte tranquilla — il Tasso, come Dante e Schiller, si appassiona coi suoi cavalieri, con le sue donne. Rinaldo, Tancredi, Sveno, e anche Solimano ed Argante — Erminia, Gildippe, Clorinda ed Armida — son sangue del suo sangue, e anima della sua anima. Il De Sanctis, e altri che gli han fatto eco, osservano che il Tasso, ingegno essenzialmente lirico e melodrammatico, riesce debole nella parte epica, nei caratteri epici. A me pare che il giudizio dell'insigne critico sia per lo meno un po' troppo assoluto. E nella Gerusalemme, e nelle Liriche e nelle stesse prose, e perfino in certe lettere, il Tasso conserva un carattere di epica gravità. Talvolta è anche troppo serio e solenne. Rileggete il terribile Canto IX, e poi ditemi se Solimano non vi pare creazione epica e grande carattere! E Argante? Sarà a momenti un po' troppo selvaggio e millantatore, ma nell'ultima ora è epicamente sublime. Ricordate le malinconiche solenni parole a Tancredi, prima del duello mortale?
S'incamminano soli al luogo del combattimento. Argante è taciturno e pensoso. Tancredi gli dice:
Or qual pensier t'ha preso?
Pensi ch'è giunta l'ora a te prescritta?
E Argante:
Penso, rispose, alla città del regno
Di Giudea antichissima regina
Che vinta or cade; e indarno esser sostegno
Io procurai della fatal ruina!
Com'è grande, nobile, ed epico!
IV.
Il Rinascimento ci stupisce per la varietà dei suoi impulsi, per la moltiplicità dei suoi intenti, per la diversità dei suoi eroi. Epoca di gioventù, di azione e di audacia. Pensate ai grandi nomi che la illustrano — e che cosa vuol dire ciascuno di questi nomi! Brunellesco e Copernico, il Magnifico e il Savonarola, Paracelso e Pico della Mirandola, Colombo e Michelangelo, Rabelais e l'Ariosto, Raffaello e il Machiavelli, Guttemberg e Leonardo da Vinci. Nel suo sforzo titanico abbracciò l'infinito nello spazio e nel tempo — completò la Terra, scuoprì il Cielo, creò le Scienze naturali, perfezionò le Arti, e morendo ci lasciò un divino dono — la Musica. Il Palestrina e il Tasso sono i due ultimi uomini del Risorgimento — e i due primi dell'Età moderna. Cantarono quando l'Italia agonizzava — e però la loro musica e la loro poesia sono così spesso bagnate di pianto. Come dal Tasso deriva tutta la letteratura lirica e personale, da Palestrina emana tutta la musica emozionante. Lo ha detto divinamente bene il più gran poeta di Francia:
Puissant Palestrina! vieux maître, vieux génie,
Je vous salue ici, père de l'harmonie:
Car ainsi qu'un grand fleuve où boivent les humains,
Toute cette musique a coulé de vos mains!
Car Gluck et Beethoven, rameaux sous qui l'on rêve.
Sont nés de votre souche et faits de votre sève!
Car Mozart, votre fils, a pris sur vos autels
Cette novelle lyre inconnue aux mortels,
Plus tremblante que l'herbe aux souffle des aurores
Née au seizième siècle entre vos doigts sonores!
Car, maître, c'est à vous que tous nos soupirs vont
Sitôt qu'une voix chante, et qu'une âme répond!
Che la nuova arte inaugurata dal Tasso tardasse tanto a dare degni frutti in Europa — che al Tasso tenesser dietro e trionfassero pei primi, gli imitatori ed esageratori dei suoi difetti, e alla Gerusalemme succedesse l' Adone, non è da farne carico a lui, vero e grande poeta — nè è certo colpa del Tasso se si esagerarono anche le sue qualità e al Sentimento subentrò il Sentimentalismo, che ne è la parodia e la negazione. Se si esagerò, specialmente dalle varie scuole romantiche, nella emozione, nell'entusiasmo lirico, non cessa per questo di essere inumana e anche antiestetica la barbara teoria dell' Arte per l'arte. La decantata calma olimpica di alcuni poeti moderni ha dato frutti artificiali ed insipidi; nessuna opera di prim'ordine. Nella stessa opera poetica di Goethe, la parte viva e immortale è quella anteriore all'epoca in cui s'atteggiò a marmoreo Giove dell'arte. Dal Wallenstein a Atalanta, dal primo Faust al Don Giovanni, dal Prometeo alle Contemplations, da Atta Troll agli Idilli del Re, da Aurora Leigh all' Anello e il Libro, dalla Basvilliana ai Sepolcri, dai Canti di Burns ai Canti del Leopardi — tutte le opere che hanno segnato un avvenimento nella storia dell'arte moderna, sono calde di sentimento e di vita — la vita trasfusa loro dall'anima dell'autore!
E poi che cos'è in sostanza questa calma olimpica? Prima di tutto, come argutamente rispose un giorno Vittor Hugo, l'Olimpo è tempestoso e non calmo. — Gli olimpici infatti son passionati, battaglieri, hanno l'arco, la lancia, la clava, il fulmine.... tagliano teste, scuoiano gli audaci competitori con le loro mani immortali, si fanno trascinare dai Leopardi. L' Iliade è un'immensa tempesta, un divino tumulto in venti canti.
Nè vi è, in realtà, artista e poeta vero che nel momento della creazione, nel momento della divina visione interiore, per usare la bella espressione di Wordsworth, resti calmo ed indifferente. Accade allora nell'uomo come una trasformazione psichica; la mente acquista una lucidità, una rapidità di concezione fenomenale; si direbbe che il poeta sta a dettatura di un altro io che lo ispira. Ogni creazione porta un disequilibrio, nel suo misterioso e sacro momento. L'artista gelido farà sempre cose fredde e smorte: la vita nasce dalla vita; la fiamma deriva dal calore. Se non sentite nulla, potrete fare dei versi ben torniti e pittoreschi, della chincaglieria poetica, che sarà di moda per qualche mese, fors'anche per qualche anno, ma che è destinata inevitabilmente e irreparabilmente a perire. Un poeta senza cuore e tutto cervello, è un animale mostruoso — mi ricorda le oche ingrassate artificialmente.... e almeno quelle ci danno i famosi pasticci.
Il predominio del sentimento sui sensi nella poesia di Torquato Tasso, la sua spiritualità, la sua malinconia, le sue mistiche aspirazioni, non si saprebbero spiegare, e ci parrebbero troppo fenomenali, nella terra e nel secolo dell'Ariosto e del Machiavelli, se un gran fatto storico contemporaneo non ce ne desse, almeno in parte, la chiave: dico il Rinascimento Cristiano, e la Riforma Cattolica, confermati poi dal Concilio di Trento. All'occhio spassionato degli stessi Protestanti, come il Macaulay — e degli stessi Razionalisti, come il Proudhon — quel gran movimento religioso ebbe immediate e durevoli conseguenze. Dalle sale del Vaticano all'ultima povera parrocchia dell'Appennino, la Riforma Cattolica fu sentita dovunque. Nella lotta terribile fra Cattolici e Protestanti, che durò tre generazioni, e nella quale fu adoprato ogni genere di armi, materiali e spirituali, ambe le parti posson ricordare grandi ingegni e grandi eroismi, grandi virtù e grandi delitti.
Il Macaulay osserva, nel suo bel saggio sul Ranke, che in cinquanta anni, a datare dal giorno in cui Martino Lutero rinunziò alla Comunione Cattolica, e bruciò la bolla di Leone innanzi alle porte di Vittemberg, il Protestantismo raggiunse il suo più alto ascendente — ma lo perdè presto, e non lo riacquistò mai. Gli è stato recentemente risposto che il Protestantismo, essendo storicamente e sostanzialmente critico e libero esaminatore, è in realtà in continuo progresso evoluzionario, e porta inevitabilmente al razionalismo, cioè alla negazione di ogni soprannaturale. Confessione abbastanza significante! Risposta più ingegnosa e sofistica, che convincente! Quando si oppone il Protestantismo al Cattolicismo, s'intende sempre, e così intese lord Macaulay, parlare di due Comunioni Cristiane, credenti ambedue nella stessa Rivelazione. Altrimenti, si potrebbe dire che certi nostri vecchi italiani erano Luterani cent'anni prima che nascesse Martino Lutero....
L'Italiano, per sua natura, quando non è Cattolico, è indifferente, o razionalista: e perciò la Riforma in Italia non attecchì mai, nè poteva attecchire. Chi nel Rinascimento aveva conservato la sua fede religiosa, desiderava, come il Savonarola, la riforma della morale e della disciplina; ma non già del domma e della dottrina Cattolica — mentre gli irreligiosi, come il Machiavelli, non credevano alla Chiesa, ma senza odiarla. Guardavano alla religione cattolica con occhio di artisti o di politici.
A ogni modo, la Riforma Cattolica, nella seconda metà del secolo XVI, fu di una indiscutibile efficacia — e non vale evocare i Gesuiti e l' Inquisizione per scemarne la portata e i benefizi reali. Paragonate Filippo Neri, e Carlo Borromeo, e Francesco Saverio, ai prelati e cardinali del tempo del Borgia e di Leone X, e vedrete che abisso di differenza! — Il Paganesimo, nelle idee e nella vita, ebbe allora un colpo di grazia — e fu quindi possibile la ispirazione religiosa, il raccoglimento spirituale, e l'entusiasmo lirico del Palestrina e di Torquato Tasso.
V.
Il risveglio Cattolico mentre commoveva il cuore del Tasso, e vi confermava il sentimento religioso, già alimentato in lui dalla naturale disposizione alla malinconia, alla ipocondria, alla solitudine, colpiva in modo straordinario la sua immaginazione. La Direzione spirituale cattolica, che ha variato sistema secondo i diversi paesi e le differenti epoche, nella seconda metà del secolo XVI fece appello sopratutto alla immaginazione: la direzione metodica e meccanica della immaginazione, fu il gran segreto dei Gesuiti. L'idea della morte e del giudizio — l'idea dei quattro nuovissimi, fu impressa come con un ferro rovente, nell'intelletto e nel cuore dei vecchi e nuovi credenti.... e, non temete — passi pure sopra un'anima umana tutto il torrente delle passioni, e tutte le lusinghe della vita mondana — nei grandi momenti, in un grande dolore, all'appressar della morte, la impressione prima ed incancellabile riapparirà. Quei gesuiti non dicevano sulle sorti umane, sull'effimero soffio della vita, sulla terribile e inevitabile imminenza della morte, nulla più e nulla meglio di quello che avevano detto san Paolo e sant'Agostino e l' Imitazione: — di quel che, dopo loro, diranno Pascal e Bossuet, Poliuto ed Amleto — ma santo Ignazio ed i suoi fecero diretto e quasi esclusivo appello alla immaginazione — e un poeta nervoso, delicato, malato come Torquato Tasso, se provò in vita le intime consolazioni, e in morte le sublimi speranze della religione — patì anche degli scrupoli, delle ansie, dei terrori religiosi — e si mise nelle mani della stessa Inquisizione, che ebbe più giudizio di lui, e lo rimandò benedetto e assoluto.
Il Tasso però non fu mai nè fanatico nè intollerante. Esalta i Cristiani — ma non gli ripugna attribuire e sentimenti gentili e virtù eroiche ai Musulmani stessi: testimoni Clorinda, Solimano ed Argante. Egli era, come tutti i grandi poeti, uno spirito dialettico — un conciliatore. Egli conciliava ogni antitesi, nel suo istinto divino dell'armonia. Non ha odî nè intolleranze, perchè tutto capisce e tutto comprende nel musicale suo istinto. Ripeto, è il più lirico personale e musicale ingegno del secolo XVI: e qui consiste il suo magnetismo, il suo modernismo. Ceci tuera cela. La musica uccise la plastica. La musica è nata nei due paesi dove istintivamente si canta, dov'è naturale ed ingenito il senso del ritmo — in Italia e in Germania. Religiosa, e un po' molle e voluttuosa col Palestrina al sud, è tradotta in poesia da Torquato Tasso; — religiosa, ma severa e trascendentale al nord con Sebastiano Bach, è espressa nel verso da Milton. Ma nel vecchio sud e nel giovine nord, la musica interpreta il sentimento: in Italia, più spontanea e melodica — in Germania, più profonda ed armonica. Fra le due, l'Austria le concilia ed esprime, con Gluck e Mozart; e da allora la musica diventa cosmopolita ed universale. Come la scultura e la pittura esprimevano la forza, la euritmia, la visione netta e precisa delle forme e dei colori, nell'uomo del Rinascimento; — così la musica esprime i sogni, le aspirazioni, le inquietudini, gli entusiasmi divini, e i terrori e gli abbattimenti mortali dell'uomo moderno: da Palestrina a Wagner, dal Tasso ad Enrico Heine.
VI.
La infelicità della vita del Tasso non consiste tanto negli sciagurati avvenimenti — e l'amore deluso, e gli scrupoli, e le malattie, e le ansie, e la povertà, e il carcere, e il manicomio, e le agitazioni, e le fughe, e le guerre dei cortigiani e dei pedanti.... ma è l' insieme di tanti mali, di tanti dolori, moltiplicati, centuplicati da una squisita sensibilità, e da una irrefrenabile immaginazione. È stato scritto che i mali del Tasso furono in parte prosaici, in parte immaginari, in parte tollerabilissimi.... Prosaico o poetico, il male à egualmente sentito da chi lo soffre. Immaginari, il carcere, il manicomio, la miseria, le malattie? E poi della tollerabilità del male il solo giudice competente è colui che lo soffre — è sempre una tollerabilità relativa.
Ho conosciuto una giovinetta che iniquamente abbandonata dall'amante, disperata si gettò in Arno — ne ho conosciute di quelle che in simil caso, dopo due lacrimette, pensavan subito a trovare un successore.... Marzio l'assassino del Cenci, resistè per tre giorni alle più atroci e raffinate torture, alle prove del fuoco, della vigilia, dello stivaletto — senza mandare un grido e senza dire una parola di confessione. Il povero Savonarola ai primi tratti di fune cadde in deliquio, e disse.... quel che gli fecero dire. Anche si è fatto colpa al povero Tasso di avere pianto sempre con vacui lamenti sulle proprie miserie, di esprimere un dolore affatto privato.
Eh! il poveruomo, ne aveva, mi pare, abbastanza dei suoi, perchè si possa pretendere che si occupasse anche dei dolori degli altri; e cantasse i mali dell'umanità, come uno Schiller o come uno Shelley!
Ma prima che egli varcasse la soglia della dolorosa vecchiezza, di mezzo alle bugiarde speranze, ai miraggi delle corone d'alloro nel trionfale Campidoglio, alle torture delle memorie, agli strazi delle malattie, la pallida messaggera gli fece cenno — il cenno terribile, al quale bisogna obbedire, e subito, o che si sia autori della Gerusalemme, o guardiani di pecore. Ma per te, povero grande uomo, il cenno non fu terribile: la morte fu per te la grande Consolatrice.
Era l'aprile del 1595. Torrenti di pioggia piovevan su Roma da un cielo sinistro ed apocalittico. Una carrozza saliva l'erta di Sant'Onofrio. Arrivata al convento, ne discesero il cardinale Cinzio e Torquato Tasso. I monaci si affollavano alla porta, ossequenti al Cardinale, compassionanti al poeta. Il poeta, pallido e calmo, disse loro queste poche e significanti parole: “Son venuto a morire fra voi!„
Dalla finestra delle sua camera, dalla terrazza dell'orto, stanco e morituro, ma calmo, potè contemplare la grande malinconia di Roma e del suo solenne paesaggio. Un mondo era ai suoi piedi, fragile come la nostra creta. Le rovine di tre imperi le vedeva accumulate tra i fiori e l'erbe della immortale natura — e potè acquetare i suoi dolori di un giorno, nella infinita pace del sepolcro di Roma, — Roma immensa, dalla piazza del popolo alla piramide di Capo Cestio; e il Gianicolo, e l'Esquilino, e il Palatino, e le cupole di cento chiese, e i palazzi, e gli archi e le colonne, e i giardini e le ville, e le Terme, e il Colosseo, e il Foro, e il Campidoglio, e San Pietro, e la via Flaminia, e la via Appia, e la Campagna già verde, e i monti Albani e il Soratte — e il mare vicino.
Roma è il più grande e sicuro asilo alle stanchezze dell'anima. Nelle sue divine solitudini si sono acquietati i gridi ed i gemiti dei disastri dei popoli, e delle tragedie dei re. Stuardi e Borboni, Sobiesky e Bonaparte, tutti ha accolti e pacificati la gran madre Roma. Un sentimento profondo, invincibile, della vanità delle cose umane, s'impossessa qui degli spiriti anche i più vigorosi. Infatti i delusi, i malati, le anime devastate dalla passione, adorano Roma. Essa è stata, ed è ancora (non-ostante i dadi di gesso dei suoi quartieri nuovi, e gli echi stridenti di Montecitorio ) l'asilo e il conforto supremo di ogni decaduta grandezza e di ogni speranza delusa — la consolatrix afflictorum, in tutti i tempi.
Roma, e la morte vicina, elevarono l'anima angosciata e sempre agitata del Tasso, in più spirabile aere. In quei pochi giorni, conobbe, forse per la prima volta, sè stesso e il mondo! E scrisse all'amico Antonio Costantini quella lettera calma, solenne, sublime, che non si può leggere senza viva emozione: sono le ultime parole di Torquato Tasso su questa terra.
“Che dirà il mio signor Antonio quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perchè io mi sento alla fine della mia vita, non essendosi potuto trovar rimedio a questa mia fastidiosa indisposizione, sopravvenuta alle altre mie solite; quasi rapido torrente dal quale vedo chiaramente esser rapito. Non è più tempo ch'io parli della mia ostinata fortuna, per non dire della ingratitudine del mondo, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico; quando io pensava che quella gloria, che malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo dai miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone.
“Mi son fatto condurre in questo monastero di Sant'Onofrio, non solo perchè l'aria è lodata dai medici, più che alcuna altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo luogo eminente, e con la conversazione di questi divoti padri, la mia conversazione in cielo. Pregate Iddio per me: e siate sicuro che come vi ho amato e onorato sempre nella presente vita, così farò per voi nell'altra più vera, ciò che alla non finta ma verace carità si appartiene. E alla Divina Grazia raccomando Voi e me stesso.„
Questa lettera del Tasso al Costantini e quella scritta dal Machiavelli, dalla sua villa di San Casciano, a Francesco Vettori, sono, diceva bene il Gioberti, le due lettere più significanti del Cinquecento: sono come due rivelazioni dei due uomini e del loro tempo. Il Machiavelli dice nella sua lettera che “passa molte ore del giorno all'osteria, con l'oste, un beccaio, un mugnaio e due fornaciai„ — che con questi “s'ingaglioffa tutto il giorno, giocando a cricca e a tric-trac, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti gridare da San Casciano.... Così rinvoltato tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognasse.
“Venuta la sera, ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali: e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui — dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono: e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.„
Non sentite riviver qui e l'indignazione amara del Machiavelli, e l'orgoglio e la gioia dell'uomo del Rinascimento, per il quale l'antichità è culto insieme e conforto? — E non avete sentito nella lettera del Tasso l'uomo del risveglio cristiano, per il quale Dio e la vita futura son due realtà, e non più vote parole — anzi, le sole e vere realtà?...
E la notte del 25 aprile 1595 il poeta spirava a 41 anni pronunziando le sacre parole: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.„ — Sì: nelle mani di Lui, di Lui solo, potè trovare riposo e pace quell'anima travagliata.... Il mondo, coi suoi delitti, le sue ingiustizie, i suoi duchi Alfonso, le sue ipocrisie, le sue compassioni spietate è per lui già sparito, svanito, come un incubo tormentoso nella luce dell'aurora.
Avete veduto la maschera in cera del Tasso nella stanza dov'egli è morto? — Quella maschera, certe stanze della Gerusalemme, e certi frammenti delle sue lettere, ci dicon più di cento documenti sull'infelice poeta.
In quella maschera è espresso il genio, la sensibilità, il dolore, e pur troppo, anche il sinistro riflesso della follia. Povera testa sotto l'appassita corona d'alloro, povere labbra così fini, già sì eloquenti, sigillate per sempre dal dito della morte! Gli occhi socchiusi non vedran più “lo dolce lume„; ma finalmente non verseranno più lacrime. La morte fu per lui una divina liberatrice.
Ma egli vive immortale nella memoria dell'umanità beneficata e consolata dal suo melodico canto: e i tiranni e i pedanti che gli amareggiaron la vita, fino a fargli perdere la ragione, se rivivono nella memoria degli uomini, è solo perchè ebbero l'onore di conoscerlo, e l'infamia di torturarlo.
VII.
Torquato Tasso inizia la serie dolorosa dei grandi ingegni torturati dal mondo e in parte da loro stessi. Il gemito lirico, il vago delle aspirazioni, il sentimento dell'infinito, il grido della passione, il ghigno del dubbio, e gli ardori dell'entusiasmo son le loro caratteristiche. Me li figuro come una sacra ecatombe intorno al povero Tasso. Il concerto dei loro lamenti riempie due secoli. Ecco Rousseau, e Senancour, e Chateaubriand e Cowper, e Burns, e Byron, e Schiller, e Platen, e Musset, e Heine, e Leopardi....
Rousseau e Byron son quelli che più mi ricordano il Tasso: in due cose specialmente: nella continua agitazione e irrequietezza della vita; e nella devozione alla donna. Di Rousseau fu detto: “Sa vie a étè toujours entro le mains des femmes„ — e di Byron fu cantato:
“E spesso i lauri delle sue ghirlande
Andâr bagnati di femmineo pianto.„
e fu anche detto argutamente: “Dipingetemi Byron, con in mano una spada e un velo di donna.„
La Nouvelle Heloïse riaprì la sorgente dell'amore nel secolo XVIII, come la Gerusalemme quella della religione nella seconda metà del secolo XVI — e però furono i due libri più popolari del loro tempo.
La Nuova Eloisa fu insieme una rivelazione e una rivoluzione. Fu la risurrezione del cuore atrofizzato dai piaceri egoisti della galanteria. Che accenti ineffabili e nuovi! Unici nel 1760! Nulla di simile in Diderot, nulla in Voltaire. Fu come un flutto di tiepide acque termali dopo anni di neve: son gli accenti di un nuovo mondo, la cui eco dura con variazioni magnifiche in tutta Europa, dal Goethe al Foscolo, dal Byron a Giorgio Sand. Una scintilla elettrica percorse tutta la Francia; — fin le galanti duchesse, dal cuore inaridito e dalla immaginazione pervertita — le eroine dei più scettici salons — ne restaron commosse, mutate. La duchessa di Luxembourg fu vista piangere.
Dalla gomorra delle infami alcove, dai faticosi piaceri dei petits soupers, Rousseau richiamò la donna alla natura, alla libertà, ed all'affetto. Egli primo rese i bambini al latte e al bacio delle madri; e ricostituì così la famiglia. Al capriccio, la fede; alla femmina, successe la donna — e una madama Roland fu possibile nella terra delle Liaisons dangereuses.
Destinato a errare nella procella e a crear nel dolore come il povero Tasso, ne ebbe, come lui, la mente sconvolta.... Egli portava nel suo fatidico seno tutte le tempeste della imminente Rivoluzione, insieme alle tempeste del suo proprio cuore. Dotato di una parola di fuoco — parola unica, che agita, sorprende e comanda, fece un gran bene e un gran male; e quando cadde e tacque, parve che la Francia non avesse più nè cuore nè voce.
L'altro, Byron, è un uragano di passioni che si slancia attraverso gli ostacoli con la fulminea rapidità di un proiettile. Come nella vita dolorosa del Tasso predomina il gemito, in Byron vi è gemito e fremito — singulto e ruggito. È forse il più subbiettivo di tutti i poeti. Non intese e non rese che sè: Byron-Aroldo, Byron-Lara, Byron-Manfredo, Byron-Caino, Byron-Don Giovanni. Originale sempre, anche nelle monotone pitture delle sue tempeste interiori; misantropo e violento; poi tenero, soave, patetico, la sua poesia è una vera epopea individuale — è il dramma di un'anima. L'eloquenza di Byron, come poeta del Dolore, è la più magnifica e irresistibile che si sia mai udita.
Dipinse sè solo. E sia. Ma con che tragica grandezza, con che intensità di pittura! — la favola, gli accessorii, i personaggi secondari del Manfredo, per citare un esempio, non sono certo gran cosa.... tutt'altro! Ma egli è un uomo, nella più bella e forte e nobile espressione della parola. Ha vissuto, lottato, odiato, amato, peccato, sofferto e fatto soffrire. Ha domato gli altri; e sa domare sè stesso. Si dà alla magìa, per una sublime e disperata speranza di amore, per riveder lei, per una terribile audacia satanica di ribelle — non per una curiosità d'alchimista, e per sete d'oro e di voluttà, come il vecchio dottore tedesco. Adora la natura, la solitudine e una diletta morta, amata di colpevole amore. Come uomo, come individuo è più simpatico di Fausto. Se invece di riguardar Fausto come un simbolo dello spirito umano nello spazio e nel tempo — lo consideriamo come un individuo, quale ci appare in realtà nella prima parte; se spogliamo il gran poema di tutti gli splendori del fondo, degli stupendi episodi drammatici, degli accessori lirici; se dimentichiamo per un momento la grande creazione di Mefistofele — e il gran concetto cosmico che informa tutto il poema, e le sue meraviglie di ritmo, di plastica, e di colore — e ne stacchiamo col pensiero la figura di lui, Fausto, come semplice uomo, egli non c'inspira davvero nè simpatia, nè pietà, nè ammirazione. Il suo ideale è troppo egoistico: vuole due cose sole: sapere e godere. La sua più importante azione è di sedurre una povera giovinetta, e abbandonarla, dopo averle ucciso il fratello. Ha troppe velleità di estetico e di dilettante.... e finalmente si salva, non si capisce bene il perchè, e sale gloriosamente al cielo come un San Francesco d'Assisi. Credo che due sole persone lo abbiano amato davvero — Margherita e Volfango Goethe.
Il più grande fra i poeti desolati che abbia avuto l'Italia, Giacomo Leopardi, ci torna in mente parlando di Torquato Tasso: e non per analogie di carattere o di sventura, che non ve n'è alcuna, ma per la riverenza e la vivissima simpatia che il Leopardi ebbe sempre pel Tasso. Nel suo triste soggiorno in Roma, il Leopardi era in uno stato di apatia, di glacialità assoluta: guardava alle meraviglie pagane e cristiane di Roma come insensato ed attonito. Nulla lo colpiva; era diventato di pietra. Le sue lettere da Roma potrebbero essere datate da Biella o da Avellino, sarebber le stesse. Nelle poesie, non un cenno su Roma. È strano: soprattutto se si paragona questo silenzio del Leopardi alle calde ispirazioni, agli accenti eloquenti che die' Roma a Goethe, a Byron, allo Shelley, a Chateaubriand, al Platen, al Browning, allo Story, al Carducci. Eppure una cosa — una cosa sola — colpì in Roma il Leopardi, e ne rimane sacra e toccante memoria nel suo Epistolario — la stanza e la tomba del Tasso a Sant'Onofrio. Là il suo cuore irrigidito si commosse — e il poeta di Nerina e d'Aspasia s'inginocchiò e pianse su le ceneri del poeta di Erminia e di Armida.
Povero Leopardi! il più completamente e continuamente infelice di tutti i grandi infelici! Tutti gli altri ebbero qualche raro conforto. Il Tasso ebbe la religione, Rousseau, la natura, — Byron, la gloria. Ma lui! nè fede, nè amore, nè gloria, nè patria, nè gioie di famiglia, nè consolazioni di natura, nè salute, nè bellezza, nè ricchezza, nè pace. La sua filosofia è una assoluta e spaventosa condanna della Natura e della Esistenza, più, assai più di quella di Schopenhauer. Egli è il più radicalmente nichilista di tutti i poeti d'Europa. Eppure che anima! che squisito sentire! che divina poesia! È l'Inferno cantato da un Angelo.
Spettacolo penoso, o Signori, questo sguardo retrospettivo su i dolori immeritati, o anche meritati, dei grandi scrittori infelici: penoso soprattutto nel caso del Tasso, per la debolezza e la sensibilità del paziente, e per la lunghezza e la crudeltà del martirio. Solo ci può confortare il rivolger gli occhi sui rari esempi di volontà eroica, di lotta perseverante, di rassegnazione sublime che ci presenta la storia della letteratura: — Come Cervantes, Camoens, Milton.
Il Milton fu come ancorato nella vita: e neppur le tempeste che si scatenarono sulla testa di re Lear l'avrebber smosso d'un palmo dalla via della Fede e del Dovere. La forza del suo spirito fu più forte di ogni calamità. Nè la ruina del suo partito politico e religioso, nè le beffe e le persecuzioni dei trionfanti nemici, nè l'abbandono, nè la solitudine, nè la penuria, nè le malattie, nè le sventure domestiche, nè l'ingratitudine delle figliuole, nè la suprema delle sventure — la cecità — alteraron mai il suo grande intelletto e la sua grande anima. Cieco, povero e solitario — cantò quella grande epopea sacra, che sola è degna di stare fra la Commedia di Dante e la Gerusalemme del Tasso.
Ma egli, il povero Tasso, non seppe, non potè mai, fortemente volere: quindi fu continuamente travolto in un eterno Scilla e Cariddi. E avrebbe potuto dire, anche con più ragione del Foscolo:
“Morte sol, mi darà fama e riposo.„
LA LIRICA DEL CINQUECENTO
DI
GUIDO MAZZONI.
Signore e Signori,
Se volessi richiamare con mezzi che direi illeciti la vostra attenzione a un argomento, come questo è, che non merita molta curiosità, nè può sperare di destarla, comincerei audacemente, con un paradosso, così: la miglior maniera per rappresentare fedelmente una persona è farle la caricatura. E forse con due o tre sofismi me la caverei abbastanza bene, quanto alla dimostrazione della sentenza affermata. Ma nè io mi compiaccio di tali gherminelle, nè voi siete un pubblico che vi resti preso, e per ciò restringo il paradosso in questa verità: nessun ritratto dà così vive le caratteristiche d'una persona, come la sua caricatura. Perfino la fotografia ha malizie di chiaroscuri e di ritocchi, e dissimula; la matita del caricaturista mette in luce senza pietà.
Non vi sembrerà strano, per ciò, ch'io vi presenti qui subito un caricaturista insigne, messer Mariano Buonincontro da Palermo. Costui, mentre era studente a Ferrara, ne' primi decennii del Cinquecento, se la godeva a verseggiare i più bei sonetti del mondo, chi li giudicasse dall'elocuzione e dal suono; ma elocuzione e suono non erano che una maschera vuota; sotto neppure un briciolo di senso! Dato a questi suoi versi un titolo ben sonante, li spacciava fuori come opera di pellegrini ingegni: inescato l'amo, stava a vedere se i pesciolini abboccavano.
I più lievi che tigre pensier miei
Scorgendo il cor che tra duoi petti intiero
Tiene un pensier, poi che gl'ingombra il nero
E folle error, fuggono i casi rei.
E benchè da gli antichi semidei
Biasmato fosse ovunque ogni altro e fiero
Monte d'orgogli, ahi lasso, io già non spero
Gioir in quel disir che aver vorrei.
Son le quartine di un sonetto in morte dell'illustrissima signora duchessa d'Urbino. Le terzine andremo a pigliarle, tanto fa!, da un altro sonetto:
Ahi giustizia divina, come puoi
Non far quel che far dèi? qual fiero spirto
Fu quel che indusse questa peste al mondo?
Deh fuss'io stato allor posto nel fondo
Dell'Acheronte, che fui giunto al mirto
Ch'ombra mortal mi fa co' rami suoi!
Ma quel bizzarro palermitano non si contentava di vedere ammirate le rime sue dai tanti che le leggevano, come si fa, senza curarsi d'intenderle: fingendo aver dubbii sul senso, provocava il parere di cappati maestri; e vi fu un dotto senese che s'infiammò così da scrivere sul sonetto per la duchessa un commento diviso in quattro libri. Nè valse che l'autore dicesse poi la verità: il senese e gli altri non si dettero per vinti, e messer Buonincontro fu agli occhi loro uno sfacciato plagiario.
La caricatura ci dà a questo modo, con una linea comicamente sforzata, la immagine viva della lirica del Cinquecento in uno dei suoi aspetti più notevoli: la povertà della materia poetica, e la necessità che ne seguiva di celare quella povertà col paludamento delle rime e coi fronzoli della rettorica. Rammentatevi il parlare ambiguo, il tacere significativo, il restare a mezzo, lo stringer d'occhio, il soffiare del conte zio ne' Promessi Sposi: “come quelle scatole, dice il Manzoni, che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è nulla.„ Tale gran parte di quella lirica. Ma, salvo messer Buonincontro, gli autori non si confessavano; anzi, come il conte zio, s'industriavano a far sì che la verità stessa prendesse una certa apparenza di mistero, con accrescimento della loro autorità; e per ciò, quando non si commentavano da sè, procuravano che altri li commentasse; e attorno a quattordici versi crescevano così quei commenti ponderosi di che ci ha dato or ora un esempio il dotto senese. Degli esempii eccone un altro, che scelgo a bella posta tra i più famosi; è di Torquato Tasso sopra un sonetto del Della Casa: “Sarà questa mia Lezione in due parti divisa; e nella prima si cercherà, in che sorte di stile sia questo sonetto composto; e trovatala, alcune cose communi a quella maniera di stile si considereranno, movendo, ove l'occasione il ricerchi, qualche dubitazione. Nella seconda parte poi, solo a quello che è proprio di questa particolar composizione s'avrà riguardo, e nella esposizione d'esso alquanto mi spazierò.„ Parole che, col debito rispetto alla memoria del Tasso, vorrei vi riuscissero d'un qualche conforto; perchè tali erano, Dio ne scampi, le pubbliche letture del secolo decimosesto!
Chiome d'argento fine, irte e attorte
Senz'arte intorno a un bel viso d'oro;
Fronte crespa, u' mirando io mi scoloro,
Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
Occhi di perle vaghi, luci torte
Da ogni obbietto diseguale a loro,
e via dicendo, con le ciglia di neve, le mani grosse, le labbra di latte, i denti d'ebano rari e pellegrini, erano le bellezze della donna immaginata da Francesco Berni per deridere il formulario poetico col quale i divini servi d'Amore, cioè i poeti petrarcheggianti, usavano celebrare il fantasma femminile che, da Laura in poi, ondeggiava vaporoso a mezza costa del Parnaso italiano. Per i conti zii la gravità enigmatica; pei don Rodrighi e gli Attilii, epiteti già scelti, rime già suggerite, frasi bell'e fatte, ai ritratti, alle preghiere, ai lamenti, ai vanti d'amore. Come oggi per le signorine saper toccare il pianoforte, era allora, non solo pei gentiluomini e i valentuomini, ma anche per le gentildonne e, chiamiamole così, per le donne valenti, una parte necessaria della coltura il rimare. Ma del pianoforte non soffrono che i vicini; dei versi soffrivano tutti, perchè tosse, amore e versi non si celano. Onde il Berni medesimo usciva in questo sospiro di desiderio: “S'io son mai signore, dove gli altri sogliono per quiete e mantenimento del buon vivere mandar bandi e proibizioni che non si porti arme per la terra, io voglio mandarli, non si mostrino versi, e sopra ciò costituire un bargello particulare, che non attenda ad altro, dì e notte, che andar per la terra cercando le maniche e il seno a' poeti per li versi, come si fa dell'arme; e tutti quanti ne truova in fallo, tanti ne meni in prigione, dia la corda, e li impicchi ancora.„ Chè se intanto non si potesse, proponeva almeno che i convinti di poesia portassero in testa una berretta verde, per segno d'infamia, sì che la gente avesse modo di guardarsene a tempo.
I.
Le forme dell'una e dell'altra maniera, della lirica amorosa e della lirica d'argomento civile e filosofico, che la caricatura ci ha mostrate con l'ingrossamento satirico dei difetti eran venute al secolo decimosesto per antica eredità di famiglia: belle masserizie, onde si erano adornati riccamente un tempo i palazzi degli avi, ma stinte ormai nelle stoffe, annerite negli ori, scrostate nelle impiallacciature, e anche qua e là tarlate nel legno; non più adatte, per giunta, senza un po' di disagio, ai mutati usi del vivere. Nè per la storia dell'arte accadde in diverso modo che per quella della natura: il frutto che giunse a perfetta maturità deve necessariamente guastarsi; può aver grazia un po' acerbo, fa nausea putrefatto. La lirica amorosa, civile, religiosa, della scuola che mosse da Guittone d'Arezzo, e fu de' Bolognesi e de' Toscani, e fu di Dante, aveva toccato l'estremo della sua virtù nel Canzoniere del Petrarca; nel Canzoniere che potrebbe per ciò dirsi a ragione il capolavoro del dolce stil nuovo. Ma il capolavoro d'un genere d'arte non si ha senza scelta, rimondamento, politura; e ciò che in esso è perfezione diviene negli imitatori estenuazione e progressivo esaurimento. Onde a mano a mano, nella lirica nostra della fine del secolo decimoquarto e di tutto il decimoquinto, fu un batter monete d'argento e di rame su quella forma stessa dove il Petrarca avea battuto le sue d'oro con l'effigie di Laura; e l'effige riusciva sempre più sbavata ne' contorni, da non potersi in fine riconoscere più. Tanto che il pubblico cominciò a brontolare contro la zecca; e Pietro Bembo dovè, sempre con l'effigie di Laura, rifare i punzoni, e ingannar l'occhio con argento dorato.
Non vorrei stancarvi con le metafore, e dico alla buona la cosa. Il Petrarca, cantando Laura viva, cantando Laura morta, aveva accomodato al gusto comune quell'idealismo filosofico, onde era assurta alla vita sempiterna dell'arte la Beatrice dantesca: il Canzoniere, non è infatti, a ben considerarlo, che un volgarizzamento della Divina Commedia. Beatrice, troppo sublime negli splendori de' cieli teologici, fu subito vinta nell'ammirazione popolare da Laura: la quale pur essa scorge il suo poeta a Dio, e nel cospetto di Lui lo precede, quasi a insegnargli la via; ma resta anche lassù donna vera, sì che il primo pensiero ch'ella ha, giunta in Paradiso, è di dare un'occhiata agli angeli più belli, per vedere se siano più belli di lei. Non altrimenti per la lirica civile e filosofica il Petrarca faceva gradite a tutti le intonazioni più elette dei suoi predecessori, schivando sempre la pedanteria de' sillogismi e l'astruseria delle dottrine scolastiche. Stile e lingua egli, nato in Toscana, ma educato e cresciuto e vissuto fuori, si compose con quanto il toscano avesse di più colto e letterario, senza crudi latinismi sintattici, da un lato, senza bassi idiotismi fiorentini, dall'altro: il che vuol dire che pur qui mise in pratica, e fe' accettare ai rimatori d'ogni parte d'Italia, l'intendimento di Dante, il volgare illustre che fosse a tutti i nostri comune. Determinò pertanto alla lirica gli argomenti, i metri, lo stile, la lingua; e fece testo.
Fu un bene o un male? È la solita domanda; e, mentre io la muovo, le date voi stessi una risposta assennata. Fu un bene in sè, nell'opera del Petrarca; fu un male per gli effetti, nell'opera dei tanti che trovarono aperta e spianata la via ai loro esercizii in rima: ma del bene la lode è di messer Francesco; del male non va a lui il biasimo. Que' tanti che imitarono lui non si sarebbero mica astenuti dal far versi, perchè fosse loro mancato il modello del Canzoniere! Sia pure che non avremmo avuti i petrarchisti; ma senza quel modello puro, avremmo avuto chi sa quale altra ciurmaglia di rimatori; nè migliori nè peggiori, forse, pe' concetti poetici; certo, più rozzi nell'esecuzione. Tanto è vero che quando il petrarchismo, per una parte del secolo decimoquinto, venne quasi a mancare, o per lo meno degenerò, poi che non sorgeva un intelletto possente a rinnovare, minor male fu che il Bembo richiamasse all'origine sua il petrarchismo medesimo e lo ritemprasse. Insieme coi goffi verseggiatori che faticavano a guadagnarsi il tozzo di pane per gli accampamenti de' capitani di ventura, dando loro a tutto spiano dell'Alessandro, del Cesare, dell'Augusto; insieme con gl'ingegnosi rimatori di concettuzzi amorosi per le corti de' principi; il Bembo tolse via, quasi di contraccolpo, anche i facili cantori che sugli esempii del Giustinian e del Poliziano traevano dal popolo e al popolo restituivano le rime delle ballate e degli strambotti. Ma, siamo giusti, il danno non fu grave: dopo i veneti e i toscani, anche i napoletani si erano ormai provati e riprovati su que' pochi motivi popolari delle benedizioni, delle maledizioni, delle disperazioni amorose; e non perdemmo proprio nulla nel cambio, se uno strambotto si mutò in un sonetto, una ballata si mutò in una canzone. Poesia schietta, di vena, non zampillava più, nè per questi nè per quelli: tra le rozze rime de' petrarchisti antiquati, le raffinatezze di concetto de' petrarchisti più recenti, le sguaiataggini de' poeti popolareggianti, pareva che all'anima italiana non dicessero più nulla le mille voci della natura e dell'affetto.
Eppure le primavere nostre fiorivano, come già agli occhi del Petrarca quelle di Provenza; stormivano le selve nostre, come la pineta che Dante fe' degna di raffigurare il Paradiso Terrestre; tremolavano le marine lungo le coste d'Italia; le Alpi si ergevano candide nell'azzurro del cielo o si coprivano di tempeste. Nè gli odii e gli amori erano men caldi d'un tempo; chè il desiderio, la gelosia, l'invidia, il furore, la carità, movevano ancora nel bene e nel male gli uomini tutti, e grandi imprese si compievano intanto di guerre e di paci; e grande, più grande che mai, era il dissidio delle coscienze. Perchè dunque non avemmo un'alta poesia lirica? Guardiamoci dall'errore in cui caddero quelli che troppo filosofeggiando confusero le ragioni dell'arte con quelle della vita: non mancò mai nella vita, nè mai potrà mancare, la materia poetica, ma soltanto a distanza di secoli sorgono i grandi che a una qualche parte della vita san dare l'espressione del bello. E quando un dato modo di esprimere la vita, che è come dire una data forma letteraria, fu adoperato da l'un di loro, è vano l'industriarvisi su, e conviene aspettare; verrà poi un altro eroe dell'arte, e con altri modi rappresentando un altro aspetto della vita, che si trasmuta senza posa nelle sue sembianze, lo donerà eterno alla gioia del genere umano.
II.
La lirica medievale, addestrata dai trovadori di Provenza, aveva rappresentato mirabilmente nella Vita nuova e nel Canzoniere, l'ideale neolatino dell'amore e della fede; e l'officio suo era compiuto. Altri aspetti della vita del Medio Evo e del Rinascimento dovevano esser colti ora e perpetuati dall'arte; e nel romanzo preparato dai troveri di Francia, ecco il Boiardo, l'Ariosto, Torquato Tasso, esprimere l'ideale cavalleresco. Ma già la sottile analisi delle passioni incominciava anch'essa a chiedere chi l'addestrasse ai capilavori di Shakespeare e di Molière; e i comici e i tragici nostri, e più i novellieri, vi si affaccendavano intorno: cominciava già a chiedere un'espressione piena e viva nella lirica il sentimento della natura e quello della storia; e, non sapendo far di meglio, alcuni studiavano come si potessero almeno rimutare per ciò le corde del liuto, ed altri, più arditi, mutare a dirittura l'istrumento. Vedremo, tra breve, a che riuscissero. Mi giova intanto sperare di aver mostrato che, se pur il vecchio liuto medievale del Petrarca non era tutto scordato, ben poco vi potevano ormai cantar su con novità ed efficacia i lirici del secolo decimosesto.
Camuffatisi più o men bene da messer Francesco, costoro atteggiavano la donna amata a somiglianza di madonna Laura; e sè e le belle ricantavano con quei modi che duecento anni prima erano piaciuti principalmente per virtù del sentimento, e piacevano ora principalmente negli effetti dell'elocuzione. È stato detto che quando l'uomo si contenta di chiedere a Dio un po' di periodi, Dio non glieli nega mai: credo che nella sua infinita larghezza non gli si mostri meno prodigo pe' versi; e i versi è anche più facile comporli, se lo scioperato non si studia di esprimervi schietto e aperto l'animo suo, ed ha in mente soltanto un modello da imitare, e innanzi sul tavolino ha i vocabolarii e i rimarii che gli agevolino i riscontri. Il Canzoniere era in tutte le menti; i vocabolarii e i rimarii dedotti dal Canzoniere, su tutti i tavolini dei poeti. Da quel cerchio magico i più non sapevano uscire: lascivi, scettici, partigiani, nei palazzi, nelle corti, ne' campi; platonici, cristiani ferventi o contriti, invocatori di pace, nei sonetti e nelle canzoni; mentivano agli altri e a sè stessi. In ciò la colpa di quella lirica, ed il castigo. Perchè, se pure una troppo breve esperienza sembri qua e là accennare il contrario, non è dubbio che, alla fine, tanto nella vita politica quanto nella intellettuale, la vittoria spetta agli uomini e alle imprese di buona fede. Quella lirica non fu in buona fede, e per ciò morì quasi intiera nella coscienza della nazione.
Dell'imitazione scrupolosa e meticolosa del Petrarca fu, come già ebbi ad accennare, iniziatore Pietro Bembo. Nè qui vorrei ritogliergli la lode, se lode fu, che dianzi gli ho data, di aver rifatti a nuovo i punzoni per l'effigie di Laura, e di aver battuto le monete di argento dorato: un minor male è pur esso un bene. Ma confermando con l'autorità sua di filosofo platonico, di legislatore grammaticale, di verseggiatore elegante, l'imitazione del Canzoniere, non è dubbio che egli ritardò lo svolgimento verso forme nuove e più rispondenti ai tempi mutati; non è dubbio che egli diè, con un insigne esempio di correttezza nello stile e nella lingua, un esempio non meno insigne di ciò che ho potuto dire mala fede, perchè parlavo del fenomeno letterario in generale, e dirò ora invece scetticismo estetico, perchè parlo di un uomo che nella storia delle lettere nostre non merita oltraggio. Fatto sta che, a quarantatrè anni, egli s'innamora di una fanciulla di sedici, la fa sua (non con la mano destra), vive con lei, ne ha tre figli. Al futuro cardinale di Santa Chiesa, preconizzato pontefice, non faremo rimprovero acerbo di ciò che pareva a' suoi tempi scusabile; ma al poeta possiamo ben chiedere perchè i sorrisi della sua Morosina, perchè i sorrisi de' figli suoi, non trovarono in tante rime un accento solo che li legittimasse, se non nella vita, nell'arte. Perchè? perchè Laura De Sade aveva sempre respinti gli omaggi di messer Francesco Petrarca, ed aveva dati i figli, non a lui, al marito. Ma il Bembo avrebbe dovuto considerare che messer Francesco cantò soltanto quelle repulse vere, e i pentimenti suoi veri; nè mai invece recò nei versi platonici, mentendo, la donna che l'amò e che lo fe' padre.
La Morosina morì, giovane ancora, a trentotto anni; e l'amico suo, che ne aveva ormai sessantacinque, pianse in rima, con più sonetti, tanta sciagura. Que' sonetti posson muovere a riso chi li scorra cercandovi una qualche testimonianza di affetto sentito, e vi s'imbatta invece in sospiri di questa fatta:
O per me chiaro e lieto e dolce solo
Quel dì (nè può tardar s'ella m'ascolta)
Che squarcerà questa povera gonna!
O trovi lodi di quest'altro genere:
Spenta colei ch'un sol fu tra le belle
E tra le sagge, or è mio nembo interno,
Forme d'orror mi sembra quant'io scerno;
Esser cieco vorrei per non vedelle.
Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io
Non scorga lei fra molte meste, o lasso!,
Chiuder morendo le sue luci sante.
O legga riflessioni come queste:
Come a sì mesto e lacrimoso punto
Non ti divelli e schianti, afflitto cuore,
Se ti rimembra che alle tredici ore
Del sesto dì d'agosto il sole è giunto?
In questa uscìo de la sua bella spoglia
Nel mille cinquecento trenta cinque
L'anima saggia; ed io, cangiando il pelo,
Non so però cangiar pensieri e voglia
Ch'omai si affretti l'altra e s'appropinque,
Ch'io parta quinci e la rivegga in cielo.
Ma stringono invece il cuore, se torna la mente ai sospiri, alle lodi, alle riflessioni consimili che al Petrarca aveva ispirato l'amore non corrisposto per la moglie di Ugo De Sade; se torna la mente al realismo (proprio così, perchè il Petrarca fu anch'egli un grande realista) di que' versi famosi:
Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella
Ch'indi per Lete esser non può sbandita,
Qual io la vidi in su l'età fiorita
Tutta accesa de' raggi di sua stella.
Sì nel mio primo occorso onesta e bella
Veggiola, in sè raccolta, e sì romita,
Ch'io grido: Ell'è ben dessa! ancor è in vita!
E in don le chieggio sua dolce favella.
Talor risponde, e talor non fa motto.
Io, com'uom ch'erra e poi più dritto estima,
Dico a la mente mia: Tu se' ingannata:
Sai che 'n mille trecento quarant'otto,
Il dì sesto d'april, ne l'ora prima,
Del corpo uscìo quell'anima beata.
Son versi che voi sapete a mente, e potevo risparmiarmi di ripeterli; ma a far palese che la copia d'un quadro è cattiva, non c'è miglior modo del porla lì accanto al quadro stesso. E delle cose belle è sempre vero quel che il Petrarca diceva di Laura, non averla veduta ancora tante volte che non le trovasse bellezza nuova; e non volevo io, petrarchista fervente, lasciarmi sfuggire l'occasione di rammentare, innanzi a voi, uditorio intelligentissimo, il torto, il gran torto, che fa alla memoria d'un alto poeta chi lo confonde, nel biasimo e nel disprezzo insiem con la turba de' suoi ricantatori.
III.
Dopo il Bembo, i ricantatori del Petrarca imperversarono, nel Veneto prima, di lì nel resto d'Italia, su tutti i toni; meglio e peggio, s'intende, secondo l'ingegno e l'arte di ciascuno. Imperversarono perchè è più facile copiare da una copia che da un originale. E a gente che non voleva tanto esprimere l'animo suo quanto far opera di stile e di suono leggiadro, non è meraviglia piacessero, del Petrarca e del Bembo, piuttosto i difetti che i pregi; onde gli strani concetti e le antitesi a freddo; tutti i giochetti insomma del pensiero e della parola. Madonna ha un pappagallo? ecco il poeta pregare il vago augelletto dalle verdi piume a riferirgli quel che Madonna dirà; nè fin qui, salvo l'indiscrezione, è gran male; il male sta nel resto:
E parte dal soave e caldo lume
De' suoi begli occhi l'ali tue difendi,
Chè il fuoco lor (se, com'io fei, t'accendi)
Non ombra o pioggia e non fontana o fiume
Nè verno allentar può d'alpestri monti.
Il diluvio universale ci vorrebbe dunque per le ali d'un pappagallo! E Madonna “ghiaccio avendo i pensier suoi„ se la gode tranquilla dell'incendio degli altri. Non m'incolpate d'essere andato a scegliere l'esempio da un poeta dozzinale; l'autore, quasi mi vergogno a confessarlo, è uno de' migliori di quel secolo, è Giovanni Della Casa. Un altro autore, non illustre oggi, ma illustre allora, Luigi Groto, ci darà l'esempio tipico per le antitesi; rampolli tralignanti, anche questi, della Musa petrarchesca.
Se il cor non ho, com'esser può ch'io viva?
E se non vivo, come l'ardor sento?
Se l'amor m'ange, come ardo contento?
Se contento ardo, il pianto onde deriva?
S'ardo, ond'esce l'umor ch'a gli occhi arriva?
Se piango, come il foco non è spento?
Se non moro, a che ognor me ne lamento?
E se moro, chi sempre mi ravviva?
S'agghiaccio, come porto il foco in seno?
Mi fermo qui, ed è anche troppo per ciò che mi proponevo: mostrare in che modo cercassero sovente la poesia non nel pensiero, sì nel contrapposto delle parole. L'uno esempio e l'altro, quel del pappagallo e questo delle domande, ridevoli tutt'e due, scoprono il vizio esterno di grandissima parte della lirica petrarchesca rimessa a nuovo dal Bembo: l'esagerazione. Vizio esterno rispondente all'interno, che già v'indicai, della falsità. Se a chi sente non è facile, nell'esprimere il sentimento proprio, guardarsi dall'ingrandirlo, è impossibile, a chi dice diversamente da ciò che sente, guardarsi dalle spiritose invenzioni, come le chiamava Arlecchino, con frase di cui egli critico letterario non avrebbe saputo trovare una migliore per le bugie in rima di tutti i secoli. Perciò l'esagerazione, nei petrarchisti del Cinquecento, guasta anche quello che avrebbe potuto riuscire garbatamente. Un di loro vede la donna sua (Filli; notate il nome; l'Arcadia ha le radici, nelle rime idilliche e pastorali, fin lassù) Filli che innaffia il giardino. Oh finalmente! vien voglia di esclamare; ecco un po' d'aria aperta, ecco un atto colto dal vero, ecco un oggetto umile, l'innaffiatoio, che ottiene anch'esso, non a torto, un po' di luogo nella poesia, sia pure mascherato da cavo rame, e con un'elsa invece del semplice manico. Coraggio, o Celio Magno, o poeta gentiluomo; se sai vincere la difficoltà, noi vanteremo poi il tuo sonetto come un gaio annunzio dei Lieder di Volfango Goethe. Ah, dove mi va a cascare! I fiori non vogliono essere innaffiati; e dicono alla bella:
. . . . . tua man candida e tersa
Cessi l'onda spruzzar, chè noi ricrea
Sol la virtù che 'l tuo bel ciglio versa.
E così il Magno, che d'ingegno non mancava, corruppe miseramente altre poesie sue, di mossa ardita e promettente.
Sembrin le piume tue pungenti spine
A chi 'l corpo ti crede e pace spera,
Ingrato letto!
L'intonazione non potrebbe esser migliore: avrà fiato il poeta per arrivar fino in fondo? Non gli regge neppure a compiere la prima quartina:
. . . . e in te sanguigna schiera
Di sozzi, avidi vermi il ciel destine.
Il dir troppo è gran nemico del dir bene. Talvolta non si fermavano a tempo, tale altra s'indugiavano ne' preparativi. Un confratello del Magno, Orsatto Giustinian, chiude un sonetto di domande alle varie parti del corpo, con le risposte loro, a questo modo eccellente: ha un ritrovo con la donna sua, tra breve la rivedrà, la udirà parlare; e domanda al cuore:
Ma tu, cor, perchè vai così tremante
A tanta gioia? — Perch'io temo, lasso!
Di perir per dolcezza a lei davante. —
Prima di questa, buona, altre tre domande ci sono, agli occhi, agli orecchi, ai piedi:
Piedi, ond'è ch'or sì pronto avete il passo?
— Perchè n'andremo a quelle luci sante,
Ch'avrian virtù di far movere un sasso. —
Tutt'e tre veneti, il Groto, il Magno, il Giustinian; e da loro ho scelto, perchè il petrarchismo bembiano, chiamiamolo così, furoreggiò specialmente nel Veneto, auspici Girolamo Molin e Domenico Venier, che Bernardo Tasso, da loro beneficato, metteva poi insieme nel suo Amadigi:
Il Veniero e 'l Molin cui l'Indo e 'l Mauro
Ammira, e qual più fama e grido tiene.
E sembra lode comica; ma più comica quella del Venier per la morte del Bembo, in un sonetto apposito:
Per la morte del Bembo un sì gran pianto
Piovea da gli occhi de l'umana gente.
Ch'era per affogar veracemente,
Come diluvio, il mondo in ogni canto.
A questo modo, l'un l'altro, in vita e in morte, si celebravano tutti, anche se non si fossero veduti mai; anche se non conoscevano, del lodato, che un qualche povero sonetto di proposta; anche se nulla sapevano ch'egli avesse detto o fatto. I cimiteri, si sa, sono la reggia della Bugia; ma le fandonie scolpite sulle lapidi dall'amore o dalla riconoscenza han pure una ragione ed una scusa: ragione e scusa non hanno, nè verso la verità nè verso l'arte, gli encomii rimati dei più tra i cinquecentisti. Volevano, dovevano comporre versi; ogni occasione, ogni pretesto era buono. Posso qui fare a meno dell'esempio, perchè voi rammentate il sonetto di messer Buonincontro per la morte della duchessa d'Urbino, e la caricatura disse meglio che la verità non direbbe su que' trionfi di vane parole.
Quando erano stanchi di descrivere madonna, di supplicare madonna, di piangere madonna; quando non sapevano cui rispondere in rima, o chi celebrare; quando avevano finito, per quella volta, di lagnarsi seco stessi del tempo gittato via nelle vanità del mondo; due altri argomenti restavano loro: l'Italia e la fede; l'Italia decaduta ancella da donna di provincie; la fede di Cristo minacciata da Lutero e dai Turchi. Non che fosse tutta retorica: anzi, devo qui espressamente richiamarmi alla distinzione che stimai prudente di fare tra l'uomo e l'artista; l'uomo amava ed odiava veramente quando anche, nell'arte, si ostinava a mentire vestendo di colori falsi gli odii e gli amori suoi. E il sentimento della grandezza della patria, quale un tempo era stata, doveva spesso scuotere gli animi, col balzare dai libri de' Latini, su cui si venivano fin da' primi anni educando; e il sentimento della fede doveva spesso muovere i cuori, allora che la Riforma sottraeva a Roma tanta parte d'Europa e il vessillo mussulmano correva le nostre marine, con tanto danno di rapimenti e di prede, con tanta minaccia di peggiori conquiste. Onde da un lato il fantasma dell'Impero che s'imponeva ancora alla coscienza italiana; dall'altro, le scomuniche, i tormenti, e l'ultimo sforzo vittorioso di Lepanto. Non solo v'era dunque, pure in ciò, materia altamente poetica; ma nella vita politica e nella religiosa durava e si manifestava non di rado poeticamente un sentimento verace. Ne facciano testimonianza i nomi di Francesco Burlamacchi e di Pietro Carnesecchi, morti ne' supplizi, l'uno per l'Italia, l'altro per la fede, con fermezza romana e cristiana. Se non che la patria, come accadeva dell'amore, soltanto di rado era cantata con rispondenza vera al sentimento del poeta, il quale parteggiava per Carlo, per Francesco, per Venezia, pel pontefice, soltanto nella vita; nell'arte non sapeva che volgersi quasi per esercizio di scuola, a quelle “antiche mura che ancor teme ed ama e trema il mondo„, che il Petrarca aveva salutate con lagrime nel grido della sua ammirazione. A guardar la cosa secondo politica, ben dicevano i tanti Lamenti sullo stato miserando d'Italia, e ben diceva il Venier. Così cominciava un Lamento, famoso a metà del secolo:
Io son l'afflitta Italia, anzi pur fui,
Che piango la mia gloria in terra scesa,
E doler mi vorrei, nè so di cui.
Deh, poi ch'io non son forte a far difesa,
Perchè non posso almen morire, e a un'ora
Finir mia doglia e l'altrui rabbia accesa?
E quasi con le stesse parole il Venier:
Mentre, misera Italia, in te divisa
Da strane genti ogni soccorso attendi,
Contra te stessa in man la spada prendi,
E vinca o perda, hai te medesma uccisa.
Ma nè questi erano versi buoni, nè poteva la considerazione politica (fosse pure, come qui è, piena di rammarico e di mestizia) procacciare di per sè sola un'alta poesia patriottica. Quanto alla fede, le toccò meno ancora che alla patria; e ripensando alle condizioni nostre nel secolo decimosesto, nessuno ne stupirà. Del papato ci curavamo, istituzione mondana; della Riforma germanica avemmo terrore o sogghignammo; nè il concilio di Trento durò fatica tra noi a piegare nella disciplina apparente le forze della fede vivace. Perchè la poesia politica potesse rinnovarsi, convenne che l'Italia si destasse, sotto la voce aspra di Vittorio Alfieri, e nelle scosse de' nuovi invasori; perchè potesse innovarsi la poesia religiosa, convenne che il filantropismo del Voltaire rinfrescasse i precetti di Cristo negli Inni sacri di Alessandro Manzoni.
IV.
Non vorrei sembrarvi Minosse, che esamina le colpe in sull'entrata, e giudica e manda secondo che avvinghia; così io, nel condannare alla spiccia que' poveri lirici, tutti quanti. Se in cambio d'un'occhiata generale avessi agio di dare insieme con voi a ciascuno di loro particolarmente l'attenzione debita, saremmo indotti, non è dubbio, a distinzioni ed eccezioni: perchè il Tansillo, Galeazzo di Tarsia, il Rota, Angelo di Costanzo, per l'Italia meridionale, il Guidiccioni e il Della Casa per la centrale, il Molza per la settentrionale, e la schiera gentile delle poetesse, la Colonna, la Stampa, la Gambara, per tacere di troppi altri e di alcune altre, hanno ciascuno fattezze proprie, e meriterebbero censure e lodi appropriate. Ma ben può dirsi che nessuno, neppure il Tansillo, ch'è forse di tutti il migliore, seppe infondere durevolmente spiriti nuovi alla decrepita poesia petrarchesca, vanamente rimbellettata dal Bembo. Oggi, per l'arte, non si può attribuire importanza vera se non a ciò che rientra nello svolgimento de' generi letterari fino al capolavoro; sia esso stato prodotto in quella o in questa parte del mondo civile. Con uno scambio continuo d'imitazione le genti europee alle quali si aggiunsero di recente le sorelle d'America, collaborano tutte ad una grande arte comune; e il poeta dell'una è gioia e gloria di tutte, non solo perchè tutte lo ammirano, ma perchè possono secondo i casi vantarsi tutte di averlo più o meno efficacemente preparato e vaticinato. Shakespeare è un frutto del Rinascimento che mosse da noi; Molière non sarebbe stato senza la commedia letteraria nostra e senza quella, pur nostra, che fu detta dell'arte; i Promessi Sposi non potevano sorgere se la Scozia non avesse dato Gualtiero Scott al romanzo storico. Ora in questo nobile avvicendamento, la lirica petrarchesca del Cinquecento ha troppo lieve importanza: imitata fu anch'essa, perchè l'arte nostra, levigata dal Rinascimento, precedeva e ammaestrava le altre più recenti; imitata fu, ma non recò sangue nuovo nella poesia europea; e chi la guardi, con occhio medico, quale si presenta nell'insieme de' sintomi, riconosce subito che sangue nuovo non poteva darne, perchè ella stessa si moriva d'anemia.
Quel che è peggio, moriva tra gl'improperii e gli sghignazzamenti d'una turba sguaiata, che le aizzavano contro Pietro Aretino e Nicolò Franco; incapaci d'un'alta parodia estetica, quale fu poi pe' romanzi il romanzo del Cervantes, ma capacissimi di satire mordaci. Garbo non ebbe forse che un poeta vero, il Berni; dico in tali battaglie contro il petrarchismo; il Berni, di cui rammentai il sonetto sulle bellezze della donna sua, e che chiudeva così in pochi versi la sentenza giusta e ragionata, contrapponendo ai pedissequi del Petrarca Michelangelo Buonarroti, poeta vero anche lui:
Ho visto qualche sua composizione:
Sono ignorante, e pur direi d'avelle
Lette tutte nel mezzo di Platone;
Sì, ch'egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle:
Tacete unquanco, pallide viole,
E liquidi cristalli e fere snelle;
Ei dice cose, e voi dite parole.
Questo unico poteva essere il rimedio; in ciò soltanto la guarigione. Ma a dir cose non basta, nell'arte, la buona volontà; bisogna averle nel pensiero, sentirle entro sè, saperle esprimere in modo che appariscano cose anche agli altri. Per ciò, fu tentativo inefficace, sebbene lodevole, quello del Della Casa e del Guidiccioni che, sperando migliorare la musica, si contentarono di riaccordare l'istrumento. Il Petrarca, come nel resto dell'arte sua, era stato anche nei metri non tanto inventore quanto purificatore; che è, del resto, legge costante nei grandissimi e perfetti per tutti i generi e per tutte le forme estetiche: non si era valso che della canzone e del sonetto semplice, con qualche sestina, qualche ballata, qualche madrigale; e la scelta severa fu dalla riforma del Bembo consacrata agli imitatori. Di più, in quei metri stessi, l'orecchio squisito del maestro aveva fissate le pause, con rispondenza continua tra il ritmo e la sintassi, il suono ed il pensiero: da ciò, come accade, la monotonia de' seguaci. Onde dovè apparire al Della Casa un gran fatto quando osò, contro le pause determinate dagli esemplari e dall'uso, svolgere i suoi periodi, nel sonetto, dall'una all'altra quartina, dalle quartine nelle terzine, e rompere il verso con quello che i romantici francesi chiamarono, in una riforma consimile, gli enjambements.
O dolce selva solitaria, amica
De' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
Mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
D'orrido giel l'aere e la terra implica;
E la tua verde chioma ombrosa, antica,
Come la mia par d'ogn'intorno imbianchi;
Or che 'n vece di fior vermigli e bianchi,
Ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;
A questa breve e nubilosa luce
Vo ripensando, che m'avanza; e ghiaccio
Gli spirti anch'io sento e le membra farsi:
Ma più di te dentro e dintorno agghiaccio;
Chè più crudo Euro a me mio verno adduce,
Più lunga notte, o di più freddi e scarsi.
Bel sonetto; ma più bello nel suono che nel concetto, e non senza peccato di ridondanza nello stile. E poi, fossero pur perfetti questo e l'altro al Sonno
O Sonno, o de la queta umida ombrosa
Notte, placido, figlio.
pochi sonetti e poche canzoni armonicamente temprate, non basterebber a far poeta il Della Casa, che fu soltanto un artista, non di rado, felice. E valga, ciò che dico di lui, anche pel Guidiccioni, e per gli altri della scuola loro: alla quale il massimo onore fu fatto da Torquato Tasso, che nella lirica vi militò da per suo. Ma neppure Torquato (sul quale meglio ch'io non saprei vi parlò il Nencioni, e ciò mi scusi se accenno a lui così di passaggio) neppure Torquato fu lirico rinnovatore. Infuse, è vero, talvolta la gentile anima sua nel sonetto e nella canzone, con effetti mirabili; cesellò madrigali finissimi; ma quelle sue rime buone mischiò fra troppe altre lambiccate in servigio de' signori e delle signore, o a loro sollazzo, con sì poca serietà artistica che non di rado, contro il precetto del Vangelo, fece servire a due padroni un componimento medesimo. Nondimeno, dove fu schietto, anche in quella ultima maniera della lirica petrarchesca riuscì grande; perchè grande era l'anima sua di poeta: e se la lode allo Stigliani è pur essa un tristo esempio della mala fede con la quale si celebravano l'un l'altro a vicenda.
Stiglian, quel canto onde ad Orfeo simile
Puoi placar l'ombre dello stigio regno,
Suona tal che ascoltando ebro ne vegno,
Ed aggio ogni altro e più 'l mio stesso a vile,
come dolcemente suonano invece in sospiro gli ultimi versi dello stesso sonetto, dopo l'incoraggiamento al giovane che salga l'aspro Elicona!
Ivi pende mia cetra ad un cipresso:
Salutala in mio nome, e dàlle avviso
Ch'io son da gli anni e da Fortuna oppresso.
E così sempre quando parlò di sè e de' casi suoi, o quando in argomento degno si volse da gentiluomo, con un cotal suo garbo di libera devozione, ai principi onde era beneficato, alle dame che ammirava e che amava. Meglio ancora nei cori dell'Aminta; dove la sua naturale mestizia, che direi volentieri di epicureo, se non fosse voce abusata in senso non buono, si compiacque di tutta la dolcezza ch'è nel rimpianto; nel rimpianto ai tempi favolosi dell'età dell'oro, quando l'Amore non aveva da contrastare con l'Onore, e tra le erbe fiorite, senza sospetti nè rimorsi,
Sedean pastori e ninfe
Meschiando a le parole
Vezzi e sussurri, ed ai sussurri i baci
Strettamente tenaci.
Amiamo, concludeva catullianamente il voluttuoso poeta della corte estense, che a mano a mano doveva macerarsi e distruggersi, combattendo sè stesso con gli scrupoli religiosi, combattendo l'arte sua con gli scrupoli critici:
Amiam, chè non ha tregua
Con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, chè 'l Sol si muore, e poi rinasce:
A noi sua breve luce
S'asconde, e 'l sonno eterna morte adduce.
L'arte del Tasso, per la sterminata ammirazione che suscitò, ebbe molta parte a determinare la poesia del Seicento: ma, come nella Gerusalemme così nella lirica, egli, anzi che indurre a forme nuove, chiuse e consacrò forme antiche. Con lui morì il poema epico-romanzesco, con lui morì la lirica petrarchesca. Quel molto di vitale che egli trasse dall'anima sua, anima di uomo e di poeta moderno, e depose in quelle nobili forme, non germogliò se non quando ne fu tratto fuori, e in altre forme ridestato: a quel modo che si narra dei chicchi di grano rimasti inerti ne' secoli entro il chiuso delle Piramidi; che, ridonati alla terra ed al sole, germogliarono vivi.
V.
Cerchiamo altrove i principii delle forme nuove, della lirica nuova. E perchè il tempo stringe, mettiamo subito da parte ciò che il Cinquecento, fuor della lirica petrarchesca, ebbe di eccellente in sè, ma senza accenni all'avvenire: l'elegia in terza rima dell'Ariosto, il poemetto in ottava rima del Molza. Destinato a farvi da guida per una Galleria men buona ma più lunga di quella degli Uffizi, con l'obbligo di farvela correre tutta in un termine prestabilito, voi non potreste senza ingiustizia rimproverarmi, o signori, ch'io non vi lasci il tempo d'ammirare, il tempo di respirare: ne soffro più di voi pensando che sono costretto, in qualsiasi modo, a spiacervi. Si passi dunque da una sala all'altra, dalla Scuola petrarchesca, alla scuola classicheggiante. Non vi aspettate miracoli: in quella trovammo le prove estreme d'una maniera invecchiata, abbiamo in questa le prime prove d'una maniera troppo giovane ancora.
O come virtute ben posasi in alta Colonna!
O come chiaro nome, salda Colonna, m'hai!
Or qual sostegno come questo poteva trovare
Virtù? qual'ombra, qual riposato nido?
Or qual caro dono più che virtude potea
A te dintorno porsi, Colonna sacra?
Degna è la virtù di te, alta onorata Colonna;
Tu de la virtude degna Colonna sei....
Non vi spaventate: mi fermo qui. Nel 1441 l'Amicizia, per opera di Leonardo Dati, era scesa dal cielo nella nostra Santa Maria del Fiore, a mostrare, nel così detto Certame coronario, l'eccellenza del volgare nostro, capace di emulare il latino con le armi sue stesse, cioè con gli esametri, i pentametri, i saffici, e via dicendo. Ma per allora i nuovi metri, sebbene li sperimentasse anche Leon Battista Alberti, non ebbero nè molti nè ostinati cultori; e soltanto nel 1539, col libro Versi et regole de la nuova poesia toscana, Claudio Tolomei e i suoi amici e seguaci li presentarono al pubblico di tutta Italia arditamente. Già vi dissi: il liuto del Petrarca, a forza di sonarvi su, era tutto scordato; mentre alcuni cercavano riaccordarlo, questi altri tentavano rimettere invece in onore l'antica lira. L'intendimento, a parer mio, era buono; l'esecuzione fu pessima: il libro del 1539 è tutto pieno di versi sul genere di quelli che avete ora saggiati in lode di monsignor Francesco Colonna, che in sua casa ospitava l'Accademia della Virtù fondata dal Tolomei. Perchè imitavano i latini, credevano costoro di poter dai latini dedurre non soltanto il ritmo apparente dei versi antichi, quale resulta a noi barbari dagli accenti delle parole, ma quello altresì sostanziale della quantità relativa delle sillabe. Non basta; stimavano lecito nei versi all'antica sforzare all'antica la sintassi nostra, troppo più che non avrebbero fatto nei versi di tradizione italiana. Onde un viluppo spinoso di suoni dal quale soltanto una poesia alta e altamente espressa avrebbe potuto balzare a ogni costo incolume, se pure non senza sgraffiature. Ma poesia alta non avevano essi in sè, più de' confratelli petrarchisti, nè altamente esprimevano, più di loro, quel che avevano dentro l'animo. Uno de' più politi cinquecentisti, Dionigi Atanigi, ebbe il coraggio di volgersi al Tolomei in questo bel modo:
Pastor famoso e degno di gloria
Che d'alti sensi e d'unico stil raro
Vinci o pareggi quanti Atene
Viddene con Roma più lodati:
Per te si pregia l'inclita patria,
Per te s'adorna d'ogni valor vero:
Tu primo scorgi in quella l'alme
Muse da' colli latini tolte;
Onde gli etruschi carmi divengono
Più gravi ed alti, e fuor di viottoli
Imparano anch'essi vagando
Girsene per la diritta strada.
Credeva di fare, a questo bel modo, un'alcaica! quel metro, cioè, che, ripreso dall'arte di Giosuè Carducci, suona a' giorni nostri così:
Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
Del Foro, io segno con dolci lacrime
E adoro i tuoi sparsi vestigi,
Patria diva, santa genitrice.
Son cittadino per te d'Italia,
Per te poeta, madre di popoli,
Che desti il tuo spirito al mondo,
Che Italia improntasti di tua gloria.
Dopo i quali versi io non oserei davvero recarne altri a documento della scuola del Tolomei. Meglio dell'alcaica trattarono, di rado, la saffica, quasi sempre il distico elegiaco; ma tutta la raccolta dei versi barbari (chiamiamoli pur così, chè se lo meritano!) non offerse alla lirica nostra un'ode sola di che possa vantarsi. Gli esempii buoni cominciarono soltanto con Gabriello Chiabrera, che non fu grande anima di poeta, bensì fu artista di arditi intendimenti e di eleganze squisite. Se non che il Chiabrera, sebbene nato nel 1554, appartiene nei modi e nell'efficacia dell'opera sua piuttosto al decimosettimo che al secolo decimosesto; come Ottavio Rinuccini che, insieme con lui, mirando da un lato ai Greci, dall'altro ai Francesi, iniziò il melodramma a imitazione di quelli, e la canzonetta leggiera, melodica, variata di rime in parole tronche, a imitazione di questi. Dei metri barbari uno solo riuscì nel Cinquecento a tale bontà da vincere la forza della tradizione e ottenere la cittadinanza italiana: il metro dell'Eneide del Caro, del Giorno del Parini, dei Sepolcri del Foscolo, delle Ricordanze del Leopardi: l'endecasillabo sciolto.
La canzonetta alla francese non durò fatica a vincere, con le altre forme, il pindarismo arcaico, preparato da quel critico egregio e poeta miserrimo che fu il Trissino, e proseguito da Luigi Alamanni; anche perchè fe' sua l'imitazione d'Anacreonte. Le odicine che vanno a torto sotto il nome del vecchio di Teo, furono edite per la prima volta nel 1554; e subito imitate in Francia dalla scuola di Pietro Ronsard. Che piacere dovè essere per quegli avi nostri, tediati a morte dalla gravità concettosa della lirica medievale ne' suoi ultimi sforzi, leggere le invenzioncelle minuscole, in versi brevi, tutti rose, pampani, colombe ed Amori! Le credevano opera di pura classicità; e ciò faceva legittima e rinfocolava l'ammirazione. Anche gli antichi dunque non si erano sempre dilettati della poesia noiosa, e si poteva dunque imitarli in un genere che fosse di sollievo alla mente e all'orecchio! Ma i nostri, nel secolo decimosesto, non osarono andare oltre, la parafrasi nelle forme medievali del sonetto e della canzone, o al più nella forma nuova dell'ode oraziana.
Quello che accadeva ad Anacreonte, era accaduto ad Orazio, tradotto in sonetti e canzoni. Innanzi di vestirlo di panni a lui convenienti, gli avevano cacciato addosso, per forza, la tonaca e il cappuccio del canonico messer Francesco Petrarca: strane vesti, di cui da buon pagano si vergognava, senza aver troppa consolazione del vedersi accanto camuffati a quel modo Tibullo e Properzio. Qualche anima buona pensò poi a trarlo di lì, e gli procacciò un abito tagliato alla peggio, come si potè allora, sull'uso antico: non che Orazio ci si sentisse a suo agio e si lodasse del sarto, ma insomma e' non faceva più ridere le brigate. Codeste anime buone furono, nell'intenzione, il Trissino; nell'esecuzione, Bernardo Tasso, padre di Torquato, e Benedetto Del Bene, con più altri, traduttori e imitatori. Onde le strofe brevi di endecasillabi e settenarii rimati, disgiunte l'una dall'altra, le strofe che saranno poi care a Giuseppe Parini, e perfette per virtù di lui; e con le strofe nuove, rinnovati di sull'antico i motivi della lirica encomiastica, convivale, amorosa, mordace. Anche in ciò non vi debbo nascondere che non poco giovò l'esempio del Ronsard; dal quale il Del Bene si lagnava non essere ricambiato delle lodi che gli aveva profuse.
Ecco un esempio, singolare, di questa lirica neo-oraziana; e ce l'offre il Del Bene medesimo in un'ode Ad un signore vecchio innamorato, che non riusciva a fare innamorare la bella: l'ode, dopo altri ammonimenti, chiude così, invitando costui a dimenticare tutto nel vino:
Invan con lieti panni
Et oscurato pelo
Ti sforzi ogn'or de gli anni
Velar le nevi e quell'arido gelo
Che non si scioglie al varïar del cielo.
Lascia di mirto omai
Ad altri la corona,
E de' tuoi giorni gai
Sendo omai giunto a vespro, non che a nona,
D'edera le tue chiome orna e corona,
E di grato liquore
Cingi la mensa e ingombra,
Ivi obliando Amore.
Ma queste voci vivaci son troppo rare nella lirica sì di Benedetto Del Bene, sì degli altri oraziani. Anch'essi nè sentivano dentro di sè le sacre fiamme della poesia, nè seppero destare e alimentare con arte sottile quel po' di brace accesa che avevano. Iniziarono: nulla più.
Ci è lecito ormai voltarci addietro e chiudere in uno sguardo solo la via faticosa per la quale salimmo. Nel secolo decimosesto l'Italia non ebbe una lirica tale di che possa vantarsi nel cospetto delle sorelle europee. Due scuole vi si provarono: ma l'una, di derivazione medievale, che venerava nume protettore il Petrarca, e onorava sommo sacerdote di lui in terra Pietro Bembo, non diè frutto perchè senilmente fiacca; l'altra, nata dal Rinascimento, si divise in due, e non diè frutto perchè, nella prima gioventù, troppo gracile ancora. La vecchia pianta, sorretta con artificii dal Della Casa, potè nondimeno sbocciar fiori un'ultima volta nelle liriche di Torquato Tasso: la pianta giovine mise sotterra le radici, per merito del Tolomei, di Bernardo Tasso, del Chiabrera, del Rinuccini; e ne sorsero poi con rigoglio stupendo la canzonetta melica del secolo scorso, le odi del Parini, le odi barbare del Carducci.
VI.
Nella decadenza del vecchio, nella preparazione del nuovo, s'intende come ben poco avemmo che abbia importanza oltre la storia. Ma la poesia non era morta nella vita: quante volte l'arte ebbe il coraggio di rappresentarla schiettamente, tante riapparve, così nelle forme vecchie come nelle nuove, e ci commuove pur oggi. Cose non parole diceva Michelangelo; e ne' suoi versi duri palpita ancora il suo gran cuore per gli alti ideali dell'amore, della patria, dell'arte: egli a Dante risaliva, su dal petrarchismo, e Dante riabbracciava con ardore di concittadino e di confratello:
Di Dante mal fur l'opre conosciute
E 'l bel desio, da quel popolo ingrato
Che solo ai giusti manca di salute.
Pur foss'io tal! Ch'a simil sorte nato,
Per l'aspro esilio suo con la virtute,
Darei del mondo il più felice stato.
Un sentimento vero moveva l'Alamanni esule a riaffacciarsi dalle Alpi sulle terre d'Italia; e per ciò diceva anch'egli cose e non parole:
Io pur, la Dio mercè, rivolgo il passo
Dopo il sest'anno a rivederti almeno,
Superba Italia, poi che starti in seno
Dal barbarico stuol m'è tolto, ahi lasso!
E con gli occhi dolenti e 'l viso basso
Sospiro e inchino il mio natio terreno,
Di dolor, di timor, di rabbia pieno,
Di speranza, di gioia, ignudo e casso.
Poi ritorno a calcar l'Alpi nevose.
Non mentiva il Guidiccioni, quando al tempo del sacco di Roma, rammentava le glorie del passato dinanzi alla enorme miseria del presente; e per ciò il rimpianto gli usciva facondo dal labbro:
Tal, così ancella, maestà riserbi,
E sì dentro al mio cor suona il tuo nome,
Ch'i' tuoi sparsi vestigi inchino e adoro.
Che fu a vederti in tanti onor superbi
Seder reina, e 'ncoronata d'oro
Le glorïose e venerabil chiome?
Non mentiva Vittoria Colonna, quando nel piangere il marito lo ricordava ne' suoi trionfi e ne' ritorni felici; ricordava di averlo pregato a narrarle le venture sofferte e i rischi e le ferite:
Vinto da' prieghi miei, poi mi mostrava
Le belle cicatrici, e 'l tempo e 'l modo
De le vittorie sue tante e sì chiare.
Quanta pena or mi dà, gioia mi dava;
E in questo e in quel pensier piangendo godo
Tra poche dolci e assai lagrime amare.
Nè Gaspara Stampa mentiva quando osava confessare nel verso di aver ceduto all'amore che, vilipeso, la uccise; e si volgeva al suo Collatino, e lo confortava a lasciare le guerre. A che guerreggiare, se si può vivere amando?
Perchè tante fatiche e tanti stenti
Fan la vita più dura, e tanti onori
Restan per morte subito spenti.
Qui coglieremo a tempo e rose e fiori
Ed erbe e frutti, e con dolci concenti
Canterem con gli uccelli i nostri amori.
Ma anche più schietta di loro, nella percossa immediata e recente, riuscì Barbara Torelli; e il suo sonetto è per ciò la miglior poesia ch'io mi sappia di donna italiana. Era vedova; amava un gentil cavaliere e poeta, Ercole Strozzi; ma lei desiderava e voleva Alfonso duca di Ferrara, il marito di Lucrezia Borgia. Per sottrarla alla insistenza del duca, lo Strozzi la sposò; e tredici giorni dopo, una mattina, fu trovato per terra, con aperte le canne della gola, e ventidue ferite su la persona. Non fu fatto processo di sorta. La Torelli, mentre tutti tacevano si alzò vendicatrice del suo diletto, e additò, chè non poteva nominarlo, l'assassino:
Spenta è d'Amor la face, il dardo è rotto
E l'arco e la faretra e ogni sua possa,
Poi c'ha morte crudel la pianta scossa
A la cui ombra cheta io dormia sotto.
Deh, perchè non poss'io la breve fossa
Seco entrar dove hallo il destin condotto,
Colui che a pena cinque giorni et otto
Amor legò pria de la gran percossa?
Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio
Intepidire, e rimpastar col pianto
La polve, e ravvivarla a nuova vita.
E vorrei poscia baldanzosa e ardita
Mostrarlo a lui che ruppe il caro laccio,
E dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto!
Nulla di più alto di questo immaginato miracolo d'amore: in faccia all'odio che distrusse, amore restituisce la vita e gliela ostenta con un grido di felicità, ch'è vendetta e castigo. Così talvolta la poesia della vita faceva anch'ella un miracolo d'amore, risuscitando le voci dell'arte.
E poesia, come l'amore, è l'indignazione; dalla quale il Berni traeva versi come quelli contro il Malatesta e quelli, migliori, contro i preti corrotti:
Godete, preti, poi che 'l vostro Cristo
V'ama cotanto che, se più v'offende,
Più da Turchi e Concilii vi difende
E più felice fa quel ch'è più tristo.
Ben verrà tempo ch'ogni vostro acquisto,
Che così bruttamente oggi si spende,
Vi leverà: chè Dio punirvi intende,
Col folgor che non sia sentito o visto.
Ma il Berni aveva anche lui il torto di nuocere ai costumi con l'equivoco osceno delle sue rime giocose o, quando a ciò non scendesse, di sperdere in risate l'ingegno e l'arte che aveva mirabili. Meglio ad ogni modo il comico de' suoi lazzi, che il vaniloquio degli strambotti popolareggianti, come quelli di Olimpo da Sassoferrato, che giunse fino agli Strambotti di nomi senza conclusione e agli Strambotti tutti di verbi:
Pianti, singulti, gemiti, dolori,
Suspiri, isdegni, pena, angoscia, stenti, ecc., ecc.
Quando un sentimento le inspirò, anche in queste forme popolareggianti la morta poesia risurse. Rozzi versi sono quelli dei Padovani contro gl'imperiali, fuggiti di sotto al bastione donde Citolo da Perugia li aveva sbeffeggiati, come allora si usava, agitando sur una picca la gatta:
Su su su, chi vuol la gata
Venghi innanti al bastïone,
Dove in cima d'un lanzone
La vedete star legata....
Su, Todeschi onti e bisonti,
Su su su, fòr de la paglia;
Voi mai più passati i monti
Se verete a dar battaglia:
Vostre arme poco taglia,
Se la faza v'è mostrata.
Rozzi versi; ma nella bilancia della Musa non pesano più di certi sonetti del Bembo? Venezia, sui primi del Cinquecento, incarnava, di contro alla Lega, l'indipendenza d'Italia; e i canti che nacquero da quella gloriosa difesa son voce fatidica dei canti nei quali i volontarii nostri pugneranno dal 1848 al 66 contro lo stesso nemico, e lassù fra le strette delle Alpi venete, nel 48-49, con la stessa bandiera. Lassù fra le strette, tre secoli prima dell'inno garibaldino, medesimi sensi avevano echeggiato con quasi il ritornello nostro: Va' fuori, o straniero.
Ritornati, o discortese,
Imbriaghi e vil canaglia;
Vostre arme sì non taglia
A voler con nui contese.
Ma delle canzoni del Bembo, io non so quante ne darei per la Canzone in laude dei Venzonesi. Nel luglio del 1509 Enrico di Brunswick entrò per la Pontebba in Italia con mille fanti e duecentocinquanta balestrieri tedeschi. I nobili veneziani che comandavano la piccola fortezza di Chiusa, stimando non poterla difendere, l'abbandonarono; ma il popolo li costrinse a tornare a' posti che la patria voleva difesi; e un dottore di Venzone, con quaranta de' suoi concittadini, sorresse per tre giorni, ne' ripetuti assalti del nemico, le scorate milizie marchesche: venendo meno le munizioni, una gentildonna fuse in proiettili le scodelle di stagno, e con rischio della vita le recava ella medesima a' combattenti.
Su su su, Venzon, Venzone,
Su fideli e bon Furlani,
Su legittimi Italiani,
Fate che 'l mondo risuone
Di gridar Venzon Venzone!
Su su, Chiusa, Chiusa, Chiusa,
Ognun gridi ad alta voce.
Chè la gente cruda e atroce
Fuor d'Italia ha spinta e exclusa
Tanto piccol bastïone.
Su su su, Venzon, Venzone!...
Non si teman più Tedeschi
Poi ch'è fatta esperïenzia
Che la barbara violenzia
Con fideli e ver Marcheschi
Non può stare a paragone.
Su su su, Venzon, Venzone.
Eran gionti al stretto passo
Nove millia e più Germani:
Avean preso il monte i cani!;
Ma cacciati fôro al basso
Da quaranta di Venzone.
Su su su, Venzon Venzone....
Un popolo che opera così, e che canta le sue glorie così, meritava lirici d'arte migliori di quelli del secolo decimosesto; e perchè li meritava, mutati i criterii dell'arte, li ebbe.
RAFFAELLO SANZIO DA URBINO (1483-1520)
DI
ENRICO PANZACCHI
(tratta dal resoconto stenografico).
I.
Quando entrai la prima volta nel Panteon a visitare la tomba di Raffaello, io stetti lungamente almanaccando come mai uno scrittore così misurato (e anche un poco pedantesco) quale era il cardinale Pietro Bembo, avesse potuto scrivere per la tomba del pittore d'Urbino un epitaffio concepito d'una iperbole così sterminata.
Permettete ch'io ve lo riferisca nel testo:
“Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci
Rerum magna parens et moriente mori.„
La versione suona così: “Qui giace Raffaello. Lui vivo, la grande madre delle cose temette di esser vinta; Lui morente o morto, temette di essere annientata.„
Insomma, pare troppo! Se fossimo in pieno Seicento, quando era smarrito ogni senso di moderazione nello scrivere e nel discorrere, quando per la morte d'un mediocre geografo lo si paragonava subito ad Atlante; quando per la morte d'un poeta qualunque, si tirava subito in ballo Orfeo, o Zeusi per la morte d'un qualunque pittore, l'epigrafe passerebbe. Ma nel classico Cinquecento essa, o signore, è un curioso enigma. Ed io mi adoprai a spiegarmelo; e anzi dopo mi convinsi che, solamente spiegando quest'enigma dell'epigrafe bembiana, ci possiamo render conto dell'immenso concetto in cui fu tenuto Raffaello da Urbino dai suoi contemporanei e del vuoto grande e doloroso che egli lasciò, andandosene da questa terra.
Raffaello da Urbino pittore, architetto e archeologo di Papa Leone X, all'apice della sua gloria, affaticato dall'ingente lavoro, fu preso a un tratto dai primi brividi di una febbre, che in pochi giorni lo condusse al sepolcro.
Notate. Egli era nato il 28 marzo 1483 nel Venerdì Santo, e morì il 6 aprile del 1520 nel Venerdì Santo. Il giorno della morte di Cristo.
Quella piccola differenza di giorni scompariva nella fantasia del popolo. Di più, aveva 37 anni, ma la opinione generale gliene attribuiva 33; gli anni in punto di Gesù Cristo. Aggiungete che poco dopo la morte di Raffaello avvenne una scossa di terremoto fortissimo in Roma, e tutta la città ne fu agitata, e il Vaticano si sentì come crollare sulle proprie basi, tanto che il Papa spaventato fuggì dal proprio appartamento e andò a rifugiarsi in un padiglione degli orti vaticani. Le Stanze e le Logge furono malconce dal terremoto, come se quelle pareti non volessero più stare in piedi dopo che era morto il grande pittore, che le aveva convertite in monumenti così insigni nell'arte e nella storia.
Tutte queste coincidenze di segni diedero naturalmente alla fantasia del popolo, e non del popolo soltanto ma anche della gente colta; tanto che un discendente di Pico della Mirandola, in una sua lettera in cui rende conto della morte del pittore d'Urbino, osa affrontare francamente il terribile paragone, e dice: — sì, il mondo si è scosso e le pietre si sono spezzate per la morte del pittore d'Urbino come si spezzarono per la morte del Nostro Signore. Lapides scissi sunt. — Da tutte le parti si levò un lamento. Il popolo di Roma e i grandi della Corte traevano in folla alla stanza di Raffaello; e veggendo la sua ultima opera collocata su quel giovane capo morto, molti scoppiavano in pianto. Lettere di ambasciatori e di privati, partite da Roma in quei giorni, non tralasciano di lamentare la scomparsa del gentile pittore. Baldassare Castiglione, scrivendo a sua madre, dice: — Roma non mi par Roma; vi manca il mio poveretto Raffaello! —
Di lì a pochi giorni tutti i poeti d'Italia, da Lodovico Ariosto al Molza, intuonavano elegie di dolore per la scomparsa del grande artista.
Di quest'uomo meraviglioso, io debbo parlarvi, o signore; e ve ne parlerò come lo consentono i brevi termini d'una conferenza, cioè molto sommariamente; e Dio voglia non troppo indegnamente!
Il Vasari, che molto ammirava Raffaello, ma che molto non lo amava, ha messo una trascuratezza speciale nel narrare dei primi anni del pittore d'Urbino. Dice che studiò sotto il padre, Giovanni Santi, e che poi fanciulletto fu mandato alla scuola del Perugino in Perugia. La verità è che egli nella scuola del Perugino non entrò se non giovanetto già adulto. Le prime ispirazioni, i primi rudimenti dell'arte egli li ebbe invece in patria e dal padre, il quale era un pittore ondeggiante fra il buono e il mediocre.
Questo Giovanni Santi possedeva una singolare cultura in ordine all'arte del proprio tempo. Amando moltissimo gli artisti, egli si informava con grande premura delle cose loro e sovr'esse esprimeva giudizî non sempre trascurabili. Come documento di questa speciale cultura artistica del buon Giovanni, è rimasta una cronaca rozzamente da lui composta in terza rima ove sono celebrati quasi tutti i pittori contemporanei venuti in qualche fama. Per cui il giovine Raffaello cominciò molto di buona ora ad avere un concetto assai largo e vario dell'arte; e a gittare gli sguardi oltre i confini della piccola Urbino. Egli fino da giovinetto sentiva nominare in famiglia, fra gli altri, Paolo Uccello, Pier della Francesca, il Perugino, Melozzo da Forlì, Baldassarre Peruzzi, Leonardo da Vinci, Andrea Mantegna. Sopratutto del Mantegna, il padre di Raffaello mostravasi caldo ammiratore. Negli ultimi anni della sua vita questo mediocre pittore ebbe un insperato trionfo, essendo stato per intromissione dei duchi suoi padroni, invitato a Mantova a fare il ritratto di un cardinale Gonzaga. Là conobbe il Mantegna ed ebbe campo di ammirarlo in tutta la sua potenza, per cui non rifiniva di magnificarlo; ed è probabile che agli orecchi del figlio, ancora fanciullo, pervenissero, distinti su quelli degli altri pittori, gli elogi del grande discepolo dello Squarcione. Così il latte dell'arte veniva per tempo succhiato da Raffaello; e il senso della pittura derivatogli “per li rami„ dal padre, era prontamente accresciuto e nobilitato da quei primi ricordi domestici.
Ma scarso, interrotto e quindi di piccola efficacia, dovè essere l'insegnamento del padre, in quell'epoca troppo occupato in faccende e viaggi. Il vanto d'essere stato primo e vero maestro di Raffaello spetta invece (come ha dimostrato con validi argomenti il Morelli) all'urbinate Timoteo della Vite, allievo caro e insigne (lo dico con paesana compiacenza) di Francesco Francia bolognese. La maniera di Timoteo si manifesta innegabilmente ne' primi disegni e nelle prime teste del figliuolo di Giovanni. Solo più tardi, nel Sogno del Cavaliere e nella Incoronazione della Vergine comincia veramente ad esprimersi il magistero del suo secondo maestro, Pietro Perugino.
Ma per vedere un quadro che indubbiamente affermi la potenza personale di Raffaello bisogna che noi veniamo fino al 1503. Egli lo dipinse per la chiesa di San Francesco in Città di Castello e rappresenta lo Sposalizio della Vergine. Non è chi non conosca, almeno per delle stampe, questo quadro famoso, che è uno dei migliori ornamenti della Pinacoteca di Brera a Milano, ove oggi sorride nella sua grazia ingenua e nella vivezza de' suoi colori, come se fosse uscito da poco dalla mano del giovane artista.
Questo quadro è grandemente significativo per intendere Raffaello. In caso si afferma una singolarità tutta propria del suo ingegno e contiene, come in potenza, tutto lo svolgimento e le fasi dell'arte sua. Esaminando il quadro di Raffaello in una stampa e confrontandolo ad una stampa del quadro consimile che il maestro avea dipinto, a prima giunta, credete d'avere dinanzi agli occhi lo stesso quadro del Perugino, tanto la imitazione della composizione è accurata, quasi servile. Ebbene, qui l'ingegno di Raffaello manifesta quella che potremmo chiamare la sua fatalità geniale. Egli è destinato, durante tutta la sua carriera artistica, a pervenire all'eccellenza movendo sempre sulle orme di qualcheduno; salvochè egli poi trova sempre modo di svelare le qualità individuali del suo ingegno per modo, che noi siamo costretti a dire: — Questo è Raffaello! Solamente Raffaello potrebbe fare così! — Dove altri annegherebbe nel plagio, egli si salva, si innalza e trionfa.
Raffaello era anzitutto uno spirito agilissimo, un'anima ascoltante, aperta a tutte le voci che sonavano nel campo dell'arte da presso e da lontano. Questo mi dà argomento anche a ricordare due sentenze di Michelangelo intorno a Raffaello. Una volta, da vecchio e sempre memore di certi dissidii fomentati da tristi, egli affermò che tutto quello che Raffaello da Urbino sapeva dell'arte, lo doveva a lui, Michelangelo; e questa affermazione, o signore, è falsa. Un'altra volta, discorrendo con Giorgio Vasari, disse che Raffaello l'eccellenza dell'arte sua non la doveva alla natura, bensì allo studio; e questo io credo che contenga una sembianza di verità, la quale va subito chiarita e precisata, per non aprire l'adito ad un grossolano errore.
Che Raffaello non avesse sortito da natura una eminente indole di artista, mi pare impossibile il pensare. Non si dipinge la Disputa del Sacramento nè la Madonna di San Sisto; non si ritrae dal vivo Leone X e Baldassare Castiglione, come li ha ritratti Raffaello, se la natura non vi ha arricchito di doti pittoriche straordinarie. Ma nel detto di Michelangelo, ripeto, vi ha una parte di vero, inquantochè lo spirito artistico del pittore di Urbino ebbe sempre a giovarsi di eccitamenti esteriori per suscitare, e rendere operose le facoltà geniali dell'artista, che stavano come aspettando nella parte più eletta dell'anima sua. Questo si avvera in tutte le fasi, e si riscontra in tutti gli aspetti della vita artistica di Raffaello.
Che cosa abbisognava a lui per prendere il campo nel regno dell'arte, per diventare quello che egli riuscì infatti, vale a dire un trionfatore e un dominatore? L'angusta cerchia della vita artistica di Perugia; il magistero del Vannucchi e del Pinturicchio, non sarebbero bastati. Rimasto in questa cerchia, Raffaello sarebbe indubbiamente riuscito il più squisito, il più delicato, il più immaginoso dei pittori umbri. Egli avrebbe, in altri termini, portato al suo grande apogeo, quella forma di bellezza così casta insieme e così viva, che partendo da Nicolò Alunno e da Gentile da Fabriano aveva già toccato invidiabili altezze. Parecchi professori d'estetica oggi non dubitano di esclamare: così pur fosse accaduto! Ma che giova fantasticare davanti alla storia?... Bisognava a Raffaello di slargare il suo spirito nella vita e nella cultura italiana; bisognava che egli sentisse tutto quello che vi era di vivo, di eletto, di irrequieto e di cercatore nella sua epoca; e che si stabilisse una specie di suggestivo contatto fra l'anima sua e l'anima del suo secolo. E in ciò gli sovvenne favorevolissima la fortuna; perchè nel 1503, volgendo la stagione di autunno, ebbe occasione di restituirsi nella sua Urbino, dove regnava, benedetto e circondato di tutta l'affezione del popolo, Guidobaldo da Montefeltro, il quale, seguendo l'esempio del suo predecessero, il duca Federico, insieme alla sua graziosa e coltissima donna, Elisabetta Gonzaga di Mantova, aveva costituito una piccola corte, dove erano in fiore tutte le delicate e leggiadre discipline di quell'epoca. Raffaello, giovinetto modesto, avvenente, simpatico, fu accolto con ogni maniera di carezze, come un fanciullo portentoso, in mezzo a quegli spiriti eleganti, a quelle gentildonne piene di grazia e soavità. In questo ambiente così colto e così tutto pieno di modernità per i tempi suoi, Raffaello da Urbino sentì come slargarsi e moltiplicarsi le facoltà del suo spirito. In mezzo alla corte d'Urbino egli pervenne ad una estatica comunicazione coll'umanesimo dei suoi tempi, ascoltando i discorsi di Ottaviano Fregoso, di Bernardo da Bibbiena, non ancora cardinale, di Pietro Bembo e sopratutto di Baldassare Castiglione, un uomo che aveva tutti gli abiti intellettuali e tutte le eleganze e tutte anche le maschie virtù del suo tempo; che seppe cogliere e illustrare in una nobilissima idealità il tipo del gentiluomo del Cinquecento, con un libro che è uno dei più rappresentativi che si possono leggere, quando, ben inteso, leggendolo, si abbia occhio allo spirito dell'epoca.
In quell'ambiente eletto e fortunato, il giovine Raffaello potè agevolmente arricchire e affinare la propria cultura d'artista. Egli non era il pittore isolato sopra un ponte a condurre qualche rigido affresco ascetico, ma l'artista mondano, l'artista del suo tempo, la cui anima poteva liberamente estendersi e rispecchiare le più elevate e complesse idealità della propria epoca. Mentre egli sarà rimasto incantato dalle eleganze di Emilia Pia e di donna Elisabetta, le quali dimostrarono in diverse circostanze d'avere per lui una signorile e schietta affezione, avrà certamente aperta tutta l'anima sua ai discorsi di Baldassare, che insisteva sempre (il libro del Cortegiano ne fa fede) in quella sua gran massima che la Grazia deve dominare il mondo.
E qui notate che per “Grazia„ il Castiglione non intendeva già quella piccola virtù, facilmente futile e smorfiosa, che ha poi dominato negli usi delle corti e del così detto mondo elegante. Con quella parola egli voleva invece esprimere una specie di signorile disinvoltura, destinata ad accompagnare e ornare tutte le azioni di un uomo dabbene, dalle più indifferenti alle più gravi. Non è uomo valente, non è uomo gentile, non è uomo di corte, chi non possegga la “Grazia„ in tutte le manifestazioni dell'esser suo; negli uffici pubblici e nella vita privata, nelle imprese guerresche, e nella disciplina della pace.
Ora se noi pensiamo, o signore, al carattere dominante nell'arte di Raffaello, che fu appunto una specie di grazia dignitosa, atteggiata nelle forme più magnifiche e nelle espressioni più ideali, ci persuaderemo volentieri che bisogna unire i precetti di Baldassare Castiglione a quelli di Timoteo della Vite, di Perugino e di Pinturicchio per renderci pieno conto della educazione del giovane artista.
II.
Chi di voi ebbe la bontà di ascoltarmi quando, in questa stessa sala, narrai la vita di Leonardo da Vinci, ricorderà anche che io notava tristamente come tutti i periodi della vita artistica del grande toscano si chiusero con un dolore e con una sconfitta. La vita invece del nostro pittore ci presenta tutto l'opposto. Raffaello procedè di successo in successo, di trionfo in trionfo. Tutti i sorrisi della fortuna furono per lui.
Lo vedo bene, o signore, questo potrebbe destare in voi un senso di scarsa benevolenza, forse di antipatia. Ma pensate che Raffaello non fece mai nulla per demeritare il benefizio della fortuna; anzi, per quanto fu da lui, cercò sempre di mostrarsene degno.
Così allargato il suo intelletto, così ingentilito l'animo nella convivenza di tutti quegli eletti spiriti della corte d'Urbino, Raffaello si trova davanti al secondo periodo della sua vita. Il giovane pittore lascia la piccola città d'Urbino e viene a Firenze. Un orizzonte ben più vasto si schiude innanzi a lui. Nel 1504 egli arriva, o signore, nella vostra città, avendo appena 22 anni; e trova questo gran focolare dell'arte in uno dei suoi momenti più fortunati. Michelangelo ha 30 anni; Leonardo ne ha 50; Fra Bartolomeo della Porta ne ha 35; Andrea del Sarto, giovinetto, comincia a fare le sue prime prove; Sandro Botticelli, ricordo glorioso del Quattrocento, volge al termine della sua vita. Raffaello d'Urbino, guidato dalla sua favorevole stella, trova in Firenze le accoglienze più gentili. Nella bottega di Baccio d'Agnolo ove si raccoglievano a veglia e a dispute feconde, e spesso anche concitate e irose, tutti i più grandi artisti della Firenze d'allora, egli è carezzato, ricercato, portato in palma di mano.
La sua giovinezza non dà ombra ad alcuno; tutti vogliono bene a questo giovane umbro che, venuto giù dalle sue montagne, si mostra tutto studio e tutta curiosità per arricchire il patrimonio delle sue cognizioni artistiche. Si offre a tutti graziosamente per discepolo e tutti volentieri gli fanno da maestro. E qui trova veramente modo di esplicarsi nel più largo senso quella peculiare qualità che ho notato più sopra nello spirito artistico di Raffaello. Egli è aperto a tutte le impressioni, egli ascolta tutte le voci. Lo si direbbe nato per imitare sempre, deliberato a imitare tutti; invece egli si accinge ad assimilare, a fondere, a trasformare tutto nella propria individualità in modo così portentoso, che ben presto si pone sopra i mediocri e sta alla pari con i grandissimi. Infatti eccolo che subito si interessa delle vecchie pitture fiorentine e va a copiare al Carmine il Masaccio, il Filippo Lippi, il Masolino da Panicale; poi gira avidamente l'occhio intorno a sè; e dovunque trova una buona fisonomia d'artista, gli si mette ai panni e, senza farsi scorgere, trova modo di rapire a lui il suo segreto. Vede la Gioconda di Leonardo da Vinci e dipinge la Maddalena Doni; vede le Sante Famiglie di Fra Bartolomeo della Porta e dipinge la Madonna del Granduca e la Madonna del Baldacchino. Richiamato per breve tempo nell'Umbria, va al chiostro di San Severo e là nella parete di un grande affresco dimostra quanto vivi fossero in lui i ricordi dei maestri fiorentini e specialmente del Frate di San Marco; ricordi che non cesseranno mai più d'accompagnarlo e di manifestarsi nelle sue opere.
Molti lavori raffaelleschi di questa epoca potrei citarvi, ma quello che rivela di più il singolarissimo istinto eclettico di Raffaello è la Deposizione della croce, che per tanto tempo ha ornato la galleria Borghese in Roma. Lo studio di questo quadro e sopratutto un esame attento dei disegni e schizzi, con cui laboriosamente il pittore lo preparò (si trovano nelle collezioni di Oxford, del Louvre, della Galleria Pitti), dimostrano quante impressioni d'arte occupavano in quell'epoca l'animo di Raffaello e se ne contendevano, in qualche guisa, il dominio. Sulle prime egli mette giù dei segni coi quali par che voglia rifare il processo dello Sposalizio, riproducendo e assimilando il componimento della Deposizione del suo maestro il Perugino, che ora si conserva agli Uffizi. Ma poi si pente, non parendogli forse prudente questo bis in idem. Cominciano in vario senso le ricerche e le prove. Il Mantegna, il Ghirlandaio, Fra Bartolomeo, lo stesso Michelangelo della Madonna della Tribuna concorrono a formare questa Deposizione raffaellesca, che nelle arie dei volti, negli atteggiamenti delle figure, persino nel girar delle pieghe si richiama a questo e a quello. Eppure chi, appena visto nel suo insieme il quadro, non vede, non sente l'anima di Raffaello? Le sparse modulazioni si fondono nella dolce e grandiosa sinfonia; e non si pensa più che a lui. Però l'opera di Raffaello in Firenze, comechè coronata di successi continui, non ha nulla di clamoroso, nulla di trionfale. Quando Pietro Soderini, gonfaloniere a vita della repubblica, vuole far eseguire certi affreschi, si parla un po' di Raffaello. Questi mette anche in mezzo la protezione della Corte d'Urbino; ma è inutile; il buon momento passa e di Raffaello non si parla più. Forse gli nocque la sua giovinezza inesperta e l'essere egli nè fiorentino nè toscano.
Il gran teatro della gloria di Raffaello non poteva essere Firenze; sarà Roma. Ma di quanto non è egli debitore a Firenze! Qui egli ha tesoreggiato nei più fioriti campi dell'arte; qui ha fatto le ali al grandissimo volo; qui il suo spirito fu visitato da visioni di paradiso. A Roma potrà averne di più grandiose, non di più fresche, di più pure, di più soavi....
Giorgio Vasari, nella vita di Sebastiano del Piombo, dice che al tempo di Leone X Roma era diventata la “patria comune„ di tutti i pittori d'Italia. È una frase superba ma inesatta, anzi ingiusta. Il movimento di attrazione di Roma verso tutte le parti d'Italia, nel senso dell'arte, era cominciato da un pezzo; si era molto accresciuto sotto Alessandro VI e aveva raggiunto il suo apice luminoso, regnando quella fiera e forte tempra di papa, che fu Giulio II, il quale non contento degli allori della guerra volle circondare il proprio pontificato con tutti gli splendori dell'arte, sottomettendo al suo spirito grandioso e violento i più alti e liberi spiriti del suo tempo. Egli fu il vero mecenate di Michelangelo; egli il vero iniziatore in Roma della grandezza di Raffaello d'Urbino. Infatti quando Raffaello d'Urbino va a Roma, Giulio II ha già commesso a Michelangelo il proprio sepolcro; specie di delirio faraonico, alla esecuzione del quale la basilica di San Pietro non offre ampiezza sufficiente! Già le pareti della Sistina si aprivano dinanzi all'ingegno dantesco del grande fiorentino, il quale indarno si schermiva che la pittura “non era arte sua„. Papa Giulio volle che Michelangelo fosse pittore e a Michelangelo toccò di sottomettersi. Buono per noi, buono per la civiltà, chè da quella sottomissione uscì la pagina forse più meravigliosa dell'arte moderna!
Raffaello venne chiamato a Roma dal Papa, forse per suggerimento di un suo grande e potentissimo concittadino, il Bramante, che godeva tutto il favore di Giulio come architetto di San Pietro, che non amava Michelangelo e che forse nell'agile e moltiforme abilità di questo giovinetto vedeva un utile strumento per la sua lotta col temuto artista di Firenze.
Fatto è che un bel giorno papa Giulio II dice a questo giovine venticinquenne: “Dipingimi la vôlta di questa stanza„; e Raffaello vi dipinge in quattro tondi la Teologia, la Poesia, la Giurisprudenza e l'Astronomia. Appena il Papa vede queste quattro figure che, non ostante le pareti fossero già in parte coperte da pittura insigni (e basterà ricordare i nomi del Suardi, del Perugino, del Peruzzi, del Sodoma), egli dice a Raffaello: “Leva via tutto e coprimi tu col tuo pennello questi muri!„ E Raffaello ossequente e sollecito si mette a dipingere e completa la Stanza della Segnatura!... Questa Stanza ha un'importanza davvero straordinaria. Non è solo la pagina più insigne nella vita del grande artista; è il cominciamento di tutta un'epoca nella storia dell'arte, è l'inizio di un movimento che dovrà riempire grande spazio della nostra storia artistica in questi ultimi tre secoli.
Vero fondatore della scuola romana, voi dunque capite che io pongo Raffaello; e lo direi anzi unico fondatore. Si suol citare Michelangelo ma a torto, io credo. Michelangelo era troppo colossalmente individuale per formare scuola nel senso che si usa e si deve dare a questo vocabolo. Michelangelo è un genio incomunicabile, oltre che per la sua stessa elevatezza trascendente, per quel che di scontroso e di geloso che è nel suo genio. Ma voi direte: come va dunque che abbiamo il michelangiolismo? Ebbene, io vi dico che il michelangiolesimo non è che una invasione che viene sì da Michelangelo, ma per l'intervento di Raffaello. Non potevano dei pittori mediocri avere la forza di appropriarsi in modo diretto, e quindi volgarizzare la maniera del terribile fiorentino. Questa sua maniera era come la clava d'Ercole, che nessuno poteva stringere e maneggiare. Bisognò che un altro genio, degno di stargli a fronte, si cimentasse con lui e si piegasse al suo metodo: bisognò che Raffaello dopo essere stato peruginesco, dopo essere stato vinciano, dopo essere stato imitatore di tanti altri, si atteggiasse per un momento anche ad imitatore di Michelangelo. Solamente egli, con quel suo privilegio singolarissimo di selezione, seppe prendere ciò che in Michelangelo vi era di comunicabile. Infatti, soltanto dopo l' Isaia, dopo le Sibille della Cappella Chigi, dopo le figure dell' Incendio di Borgo, allora soltanto il michelangiolesimo divenne cosa possibile; e fu anzi troppo facile a tutti il mettersi dietro a quella insegna perigliosa!
Io credo adunque di avere affermato cosa prettamente conforme alla verità storica, dicendovi che il vero, l'unico fondatore della scuola romana fu Raffaello d'Urbino.
III.
A costituire questa scuola abbisognava un genio vasto insieme e accomodante; e questa era appunto, o signore, la duplice qualità che distingueva, fra gli altri grandi suoi contemporanei, Raffaello. Egli potè imporsi ai pittori che venivano a Roma da ogni parte d'Italia, ai Veneziani, ai Padovani, ai Mantovani, ai Ferraresi, ai Bolognesi, ai Fiorentini, agli Umbri, potè imporsi a tutti perchè con tutti egli se la intendeva, con la sperimentata famigliarità nella pratica dell'arte. Ed essi, gli artisti, senza contrasto, abdicavano il particolarismo della loro arte e lo deponevano ai piedi di Raffaello, perchè trovavano qualche cosa di loro stessi nella pittura di Raffaello. C'era, insomma, una specie di do ut des, una specie di scambio geniale, attraentissimo, che seduceva i pittori di tutte le parti d'Italia, rappresentanti istinti, maniere, ideali d'arte spesso notevolmente dissimili. E Raffaello graziosamente li tirava tutti dentro la sua orbita e li disciplinava, perchè a tutti aveva conceduto qualche cosa, da tutti qualche cosa avea mutuato. Ognuno, a qualunque regione o tradizione italica appartenesse, si sentiva meno umiliato nel cedere alla supremazia romana, perchè il Raffaellismo si presentava come una federazione degna, come una apoteosi armonica concordata di tutte le scuole che si erano venute svolgendo in Italia.
E quale fu il carattere di questa scuola romana? L'argomento, o signori, meriterebbe di per sè solo una lunga conferenza. Il cattolicismo, giunto all'apice della potenza mondana, si crea e inspira un'arte conforme al suo genio moderno e ai nuovi bisogni suoi. Fino a quel tempo i pittori delle varie parti d'Italia avevano rappresentato il sentimento religioso con libera scelta, secondo l'indole e le tradizioni dei vari paesi; devoto, raccolto, e quasi monastico nell'Umbria; più vivace a Firenze; smagliante di bellezza felice e di pompa signorile a Venezia. Tutto ciò in Roma bisognava che si fondesse, generando finalmente un'arte cattolica, ossia universale. E mentre la Chiesa voleva un'arte in corrispondenza alla propria universalità, il pittore romano, guidato da questo grande impulso, dimenticava a poco a poco ogni intento particolare e sentiva che d'ora innanzi dalle sue pareti, dalle sue cupole, dalle sue tele, doveva parlare a tutta quanta la cattolicità. La Chiesa, dal canto suo, sentiva ingrossare i tempi e s'affrettava a circondare di tutti i prestigi dell'arte il dogma, onde meglio preservarlo dai prossimi assalti. Aveva dominato il mondo nel medio evo con la pietà e con la scolastica; ma ora sentiva che la nuova società, tutta impregnata di umanesimo, meglio si sarebbe dominata con l'arte e con la bellezza.... Questa pittura romana, destinata a così grande ufficio, doveva avere, caratteristica speciale, una spiccata magniloquenza; e questo vi spieghi, signore, quel che di ampolloso, e di violento e di sforzato che troviamo talvolta nelle composizioni anche dei migliori. Quegli artisti vi danno l'idea di un oratore, il quale parli ad un grandissimo uditorio in una piazza smisurata. Egli istintivamente è tratto a forzare la voce e il gesto, perchè vuole che il senso della voce e del gesto arrivi ai lontani termini del suo uditorio....
IV.
Fedele sempre all'indole sua, anche a Roma, Raffaello cercò un impulso esteriore da cui muovere, un esemplare grande in cui ispirarsi; e questa volta lo trovò nella classica antichità. Prima di recarsi a Roma, Raffaello si era trovato poco a contatto dell'antico. Checchè ne sia del suo disegno delle tre Grazie a Siena, e per quanto a Firenze abbia visti e studiati i marmi che i Medici avevano raccolto, certo è che poco o punto il suo stile se ne risente. In Roma si trova davanti a tutti i tesori dell'arte greca e romana. Parecchi dei più meravigliosi marmi, che formano ora la invidiata ricchezza del Vaticano, erano già stati scoperti. Era stato scoperto l'Apollo di Belvedere, era stato scoperto il Laocoonte, il Torso, l'Arianna. Quasi non trascorre giornata senza che il sacro suolo non restituisca qualche frammento della antica bellezza. E gli artisti e gli umanisti e la Corte e il popolo li illustrano a gara e li accolgono in festa. Tutta questa suppellettile classica nell'anima di Raffaello ebbe un'efficacia grandissima. Egli vede quale grande partito potrà cavare da essa per le vaste composizioni che i Papi gli danno a eseguire e che egli rivolge di continuo nella mente. Da allora in poi l'antico diventa la suprema guida di Raffaello d'Urbino. Egli fonde e coordina nel suo spirito questo nuovo e grandissimo coefficiente a tutte le altre educazioni artistiche già da lui maturate a Perugia, a Urbino, a Firenze; e con la guida dell'antico va in cerca di un ideale che degnamente risponda alle nuove richieste dell'arte cattolica.
E mostrò subito d'averlo trovato con gli affreschi nella Stanza della Segnatura. Questa camera, veduta oggi, produce un senso di tristezza. Quanto guasto ha fatto il tempo a quelle pitture! Dapprima subì il sacco di Roma; poi per rimediare ai guasti orribili della soldataglia, fu incaricato Sebastiano del Piombo. Cattiva scelta! Sebastiano del Piombo, l'invidioso, il nemico di Raffaello, l'eccitatore maligno degli ingiusti sdegni di Michelangelo! Che coscienza mai avrà egli potuto mettere in impresa così ardua e delicata? Fatto è che nel 1536, essendo Tiziano in Roma, passeggiava un giorno a braccetto col suo compaesano per le Stanze e per le Loggie. Voltosi a lui d'improvviso gli chiese: “Chi è stato quell'asino che ha restaurate queste pitture?„ E Sebastiano dovette confessare che era stato lui!
Ma il male non si è fermato qui. Nel secolo XVII Carlo Maratta fu incaricato di restaurare le pitture di Raffaello per comando di Innocenzo XI. Questo buon Maratta procedeva a certe sue lavature “con vino greco e panni bianchi„ così maledettamente disinvolte, che lo spirito pubblico se ne commosse e vi fu gran sussurro per tutta Roma, onde impedire tanto vandalismo. Ma intervenne il Papa e dette ragione a Maratta perchè egli, il Papa, aveva dato la commissione! Questo vi spieghi abbastanza perchè adesso quelle pitture sono poco più che l'ombra di loro stesse.
Quanto più fortunate, per esempio, le pitture del Pinturicchio nell'appartamento di papa Borgia! Paiono uscite ieri dal pennello del suo autore, perchè nessuno ha mai pensato a restaurarle. Per cui, voi lo vedete, o signore, tante volte c'è da augurarsi al mondo di non esser troppo celebrati!... Fatto sta che le pitture neglette del Pinturicchio ora sorridono di tutto il loro bel colorito, mentre, al piano superiore, quelle di Raffaello scontarono la loro celebrità, venendo esposte a tutte le ingiurie della insipienza e della presunzione restauratrice.
Ma ad onta di questo, chi guardi in quelle stanze con occhio attento e sopratutto chi si adopri a coordinare il concetto informatore di quei dipinti, non può, direi quasi, non genuflettere il proprio spirito davanti alla grandezza del pittore d'Urbino. Il quale a Roma manifestò in grado eminente una dote di cui prima non si aveva per anche la misura piena; voglio dire di essere un geniale concettista libero e originale.
La Stanza della Segnatura non è un insieme di dipinti collegati fra loro da un qualche simbolo come vediamo in tanti palazzi e in tante chiese; no, qui siamo in presenza della apoteosi del cattolicismo alleato con l'umanesimo; qui è celebrata, in un poema di segni e di figure, tutta la gloria del secondo Rinascimento italiano!
Nella vôlta abbiam detto che Raffaello dipinse la Poesia, la Teologia, la Filosofia e la Giurisprudenza, messe là come i sommi principii direttivi della vita civile e religiosa. Accanto ad ognuna di esse, pure nella vôlta, sta un primo quadro, che è come una più viva illustrazione del concetto astratto, già personificato nelle belle figure delle Virtù. Così, vicino alla Giurisprudenza si vede rappresentato il Giudizio di Salomone, una specie di giustizia primitiva, elementare, mitica. — Accanto alla Poesia egli mette Apollo e Marsia, appropriatissimi a simboleggiare l'assidua lotta, la eterna lotta che in tutti i tempi servì di stimolo e di incremento a tutte le arti. Di fronte alla Filosofia si vede una Musa pensosa (forse Urania) ascoltante l'armonia delle sfere, fissa sopra un globo armillare, tutta compresa dal concetto dei mondi fatti da Dio in numero, pondere et mensura. Di fianco alla Teologia, Raffaello dipinge La colpa di Adamo, ossia tutta la storia della umanità, quando alla maniera di Sant'Agostino e di Bossuet, la si voglia considerare come un gran dramma sacro, un poema religioso. — Alla figura della Giurisprudenza corrispondono due episodi storici e giuridici: L'imperatore Costantino che dà le Pandette a Triboniano, e Il papa Gregorio che bandisce i Decretali. Ecco il diritto romano e il diritto canonico, le due forze meravigliose dalle quali uscirà il Medio Evo colle sue lotte e affermazioni potenti. — Corrisponde alla Poesia Il Parnaso, dipinto in una delle pareti, con Apollo in cima, il bellissimo Dio che suona e canta; circondato dal coro delle Muse e dal sacro stuolo dei poeti, accompagnati dalle care donne che in vita li amarono, li fecero soffrire, li ispirarono. Il concetto artistico della Filosofia è meravigliosamente svolto e completato con la Scuola d'Atene, un modello di composizione euritmica. — E finalmente alla Teologia corrisponde La Disputa del Sacramento, forse, anzi senza forse, la più elevata, ideale, bella, fra le composizioni di Raffaello Sanzio. Se l'idea venne da Giulio II, bisogna dire che il Papa ebbe un presentimento del suo grande significato. Notate una coincidenza strana! Mentre Raffaello dipingeva la Disputa capitava a Roma un frate tedesco, un giovine tutto chiuso in sè stesso, dallo aspetto nordico, dall'occhio meditabondo. Era Martino Lutero, il quale, nel fervore della sua prima fede, era venuto, come tanti Tedeschi, in pellegrinaggio a Roma. S'aspettava di trovare la mistica Gerusalemme, invece (a detta sua) aveva trovato qualche cosa che gli ricordava Sodoma e Babilonia. Forse in quell'epoca il frate ribelle cominciò a pensare il motto: “Io farò un buco in questo tamburo„ che fu poi il grido di battaglia, che eccitò tante sollevazioni di anime e doveva rompere la unità spirituale nel mondo cristiano. L'unità del mondo cristiano stava per rompersi, e precisamente il dogma che doveva servire di principio a tutte le altre negazioni, era appunto quello dell'Eucaristia. E allora un giovane pittore d'Urbino segnava in una pagina immortale la glorificazione di questo dogma!... Poi verrà il Bellarmino e i Gesuiti col loro apostolato di riconquista; e il Concilio di Trento con l'Antiriforma; ma a difesa del dogma, per certe anime, varrà forse meglio di tutti questo argomento di sovrana bellezza espresso dal pittore in una parete del Vaticano....
Qui si apre l'epoca in cui Raffaello, forse perchè ha raggiunto una specie di apice, incomincia a somministrare delle forti prese alla critica. Già egli si eleva troppo; tutti sono intorno a lui ammirati e quasi genuflessi. Il Papa, non contento di averlo pittore di palazzo, lo fa architetto di San Pietro. Poi gli dà un incarico che sarebbe stato da solo bastante a riempire la vita di un uomo centenario e a domare i muscoli di un Ercole. Gli dà niente meno che la missione di risuscitare tutta la Roma classica, di notare e illustrare tutti i monumenti dell'antichità pagana. Leone X, preso da una specie di furore di restaurazione classica, vuole che tutto quello che è rimasto di pregevole e di salvabile della antichità, si salvi e si illustri; e ne incarica Raffaello. Ed ecco Raffaello a capo anche di questa grandissima impresa! Egli allora, con la meravigliosa agilità del suo ingegno, si converte in un grande archeologo; e non solo di Roma si occupa; ma in Sicilia, in Grecia, in Provenza, manda uomini di sua fiducia, che lo ragguaglino di memorie, di disegni, di schizzi, per poter con opportuni confronti misurare le rovine di Roma. Intanto egli conduce e termina una relazione al Papa che avrebbe fatto onore al più consumato archeologo del suo tempo.... dirò meglio, o signore; nessuno degli archeologi contemporanei avrebbe saputo fare altrettanto. E in vero Raffaello, in mezzo ai pregiudizî del tempo inevitabili sempre, ci manifesta, oltre l'intuito sicuro del bello, tanto rispetto alla verità e un tale senso storico dell'arte delle varie epoche, che, leggendo oggi la sua relazione, siamo costretti a stupirne come di un felice anacronismo.
V.
In mezzo a tanto lavoro era possibile che tutto ciò che usciva dalle mani di Raffaello fosse una espressione meditata e serena delle sue forze, una fioritura eletta della sua coscienza d'artista? No. E fu allora che da Raffaello uscì fuori il Raffaellismo; fu allora che cominciò l'opera davvero soverchiante dei suoi allievi. Allievi ne ebbe molti, come sapete, ed alunni artisti di primo ordine; basti ricordarvi il Penni, il Pippi, Giovanni da Udine, Polidoro da Carreggio, Perino del Vago.... Disgraziatamente in tutte queste produzioni farraginose e frettolose che dovevano uscire di giorno in giorno da quella specie di associazione pittorica, tutto non poteva essere eccellente. Talvolta di Raffaello non abbiamo che il nome: talvolta vediamo la mano, ma si capisce (come fu detto con frase felice) che il suo pensiero era assente. Ecco perchè quando pensiamo a Raffaello ci sentiamo compresi di ammirazione, quando pensiamo al “raffaellismo„ l'animo nostro si sente come allontanato da lui.
Però ogni tanto, anche in questo periodo, Raffaello si ricorda chi egli è e sente il bisogno di riaffermare con qualche opera la sua meravigliosa potenza. E allora egli nella villa di Agostino Chigi dipinge la Galatea, con cui pare fissato in perpetuo il tipo elegantissimo della pittura mitologica; allora egli dipinge Santa Cecilia, la bella santa che si lascia cadere di mano le canne dell'organo terreno, avendo l'anima tutta assorta nelle melodie degli angeli. Allora egli dipinge la Madonna di San Sisto, la più bella, la più trionfale di tutte le madonne del mondo.
E a proposito di tutte quelle sue madonne lasciate che io vi accenni anche qualche cosa della religiosità della sua pittura. Una delle critiche, che si fanno a questo grande pittore, uno dei moventi anzi che hanno determinato quel moto di reazione che fu detto preraffaellista e che più schiettamente dovrebbe dirsi antiraffaellista, nacque appunto dall'aver negato il senso schietto e puro della religiosità ai suoi dipinti. In altri termini si è detto che la religiosità dell'arte, per colpa di Raffaello, subì in qualche modo una degenerazione. È vero questo? Prima di tutto quando si parla di questa benedetta religiosità dell'arte vorrei che si spiegassero un poco i termini di un soggetto così sottile, così delicato e controverso. Dove comincia la religiosità dell'arte? Dove finisce? E poi quelli che seggono in cattedra a dissertare e sentenziare su questo argomento sono sempre giudici competenti?... Per esempio, Giovanni Ruskin nella sua fredda anima di presbiteriano anglosassone, nel suo aborrimento per il Papa e per il cattolicismo, è egli proprio un buon giudice intorno alla religiosità delle madonne in genere e specialmente delle madonne di Raffaello? E il signor Ippolito Thaine, questo rigidissimo positivista, è proprio in grado di giudicare la religiosità, non solo di Raffaello, ma di tutte le pitture sacre del Cinquecento?... Eppure noi italiani accogliamo in ginocchio le sentenze di questi signori come se fossero dei responsi infallibili! Io invece vi confesso che, trattandosi di pittura religiosa, preferirei molto volontieri alle sentenze dei Ruskin, dei Thaine e di tanti altri, un semplice plebiscito di spiriti sinceramente religiosi; perchè mi pare che sia qui più che mai il caso in cui ciascuno dovrebbe giudicare nella propria materia. Quanto alle madonne di Raffaello, se guardo quella di San Sisto, io rimango commosso come davanti alla glorificazione della casta bellezza femminile; quanto alle altre, non avranno tutte (concedo volontieri) lo ascetismo semi-bizantino delle madonne di Cimabue e di Duccio da Siena, non il raccoglimento monacale di quelle del Francia e del Perugino. Sono, se volete, delle gentildonne del Cinquecento belle, soavi, eleganti; ma volentieri l'animo mio si porta verso di loro con senso di adorazione, perchè veggo la loro umana bellezza spiritualizzarsi e idealizzarsi nella santa effusione della maternità!... E questo mi basta, o signore, per non sottoscrivere a sentenze date in senso contrario, con autorità e competenza molto dubbie.
Quanto poi a certi altri aspetti di quest'arte del Cinquecento, che realmente non legano più col nostro gusto, io vi esprimerò solo un'osservazione. Noi abbiamo spezzato nella nostra coscienza quella grande unità morale e storica, che creò l'arte del nostro secondo Rinascimento. Noi, o signori, diciamolo, se ci piace, a nostra gloria, siamo anzitutto dei critici, che più delle cose fatte amiamo le cose in formazione, quindi siamo attratti da uno spirito invincibile di predilezione e di curiosità per tutto quello che si fa, per tutto quello che si volve, per tutto quello che non è ancora arrivato. Quando un ciclo è chiuso, un fatto è compiuto, ridiventa qualche cosa di freddamente oggettivo per noi, qualche cosa che non è più in pieno accordo con la nostra coscienza, inquieta e cercatrice; e principiamo ad amarlo meno.
Per questo alla nostra coscienza di critici e cercatori fanno un effetto di grande genialità, per esempio, i Primitivi, che noi volentieri ammiriamo anche quando tradiscono la loro inesperienza, perchè ci sembra di assistere, come in un dramma spirituale, all'evolversi della loro facoltà estetica e al graduale maturarsi della loro potenza tecnica e operativa. E ogni volta che uno di quei pittori dell'epoca relativamente incompleta mette ne' suoi quadri una intenzione e vince una difficoltà (intenzione e difficoltà che vedute in un quadro del Cinquecento ci lascierebbero freddissimi), esso assume ai nostri occhi l'aspetto e il valore di una gioconda meraviglia, precisamente come riesce a noi letterati di meravigliarci quando nei Fioretti o nelle Vite del Cavalca ci imbattiamo in un traslato vivo, che ci dà un senso improvviso di arditezza e un profumo quasi di modernità.
VI.
Del resto (e mi approssimo a finire) io vorrei, o signore, che, nello studiare Raffaello, teneste conto di una sentenza di Wolfango Goethe, il quale in materia d'arte aveva una profonda competenza, non solo perchè era un ingegno sovrano ma perchè era uno spirito eminentemente sereno. Volfango Goethe aveva l'abitudine di tenere sempre sotto gli occhi delle stampe di composizioni di Raffaello, e le esaminava quotidiamente. Un giorno si compiaceva dell'una, un giorno dell'altra; poi tornava da capo a guardare, a studiare, ad ammirare. Interrogato dall'Eckermann perchè questo facesse, egli diceva: “Per mantenere familiare col mio spirito l'idea della perfezione della forma.„ E questo è tanto vero che trova anche un riscontro nel nostro sentire e parlare quotidiano. Allorchè ci troviamo di fronte a una vera e completa bellezza, quando quel senso di dolce turbamento che essa ha suscitato in noi vogliamo esprimere con un solo vocabolo, diciamo: bellezza raffaellesca.
Dopo questa grande caratteristica notata giustamente dal Goethe nelle opere di Raffaello, cioè di avere egli saputo cogliere con semplicità e chiarezza la formosità armonica e piena delle cose, lasciate che ne ricordi un'altra, e che fa nobilissima testimonianza del merito di Raffaello nella storia dell'arte, giustificando l'altissima ammirazione di cui fu oggetto vivo e l'immenso compianto da cui fu accompagnata la sua morte. Ma qui io non posso far altro che rendermi debole interprete di una pagina eloquente del mio illustre e compianto cittadino Marco Minghetti, il quale nella fine del suo bel libro sul pittore sovrano, consacra parole eloquenti ad encomiare la “elevatezza morale„ che rappresentano insieme la vita e le opere del pittore d'Urbino. Il quale, dice il Minghetti, non segnò una linea nè diede un colpo di pennello che non tenda ad ingentilire il nostro spirito, mentre nulla troviamo nelle opere sue che al nostro spirito porti degradazione o turbamento. A questa altezza morale delle opere di Raffaello s'unisce la buona testimonianza nella vita. Egli fu sempre giusto e cortese con tutti. Per non citare che un fatto, mentre Michelangelo qualche volta si lasciava andare a dei moti immeritati d'ira verso di lui, egli non ebbe mai che parole di rispetto verso il grande fiorentino; anzi (ce lo narra il Condivi) fu spesso udito esclamare: Ringrazio Dio che mi ha fatto nascere a questo mondo insieme a Michelangelo!... Lo so bene; questa bontà morale e ideale delle opere di Raffaello, che trova così degno riscontro nella sua vita, farà sorridere coloro, che ormai si sono abituati a non disgiungere l'immagine del genio da quello della delinquenza. Ma che cosa volete! io non mi sono ancora acconciato a certe novissime teorie. Per quanto si voglia agitare e tormentare in tutti i sensi questo benedetto argomento della moralità dell'arte, per il quale si sono versati tanti fiumi di inchiostro, un fatto rimane sempre vero; ed è che è brutto e vile l'artista quando si colloca mediatore e sollecitatore compiacente fra la nostra coscienza e gli istinti meno nobili della nostra natura. Tutto il resto è sofisma e paralogismo.
Rallegriamoci dunque senza alcun riguardo, rallegriamoci di tutto cuore che il nostro grande pittore abbia alla eccellenza dell'arte sempre accompagnato un nobile rispetto alla dignità di essa. Compiacciamoci di trovare questo punto luminoso nel nostro Cinquecento tanto bistrattato e calunniato; anzi proclamiamo alto che questo punto luminoso è tutt'altro che isolato. Ne abbiamo bisogno, o signore! La storia di questa nostra grande epoca, noi, pur troppo, l'abbiamo troppo facilmente abbandonata alla discrezione di giudici forestieri, che dicono di amarci, e sarà anche vero; ma il loro amore somiglia spesso all'amore dei medici per i cadaveri, che stanno squarciando sulle tavole anatomiche.
E ricordiamolo; noi a forza d'aver paura di passare per dei chauvins, finiamo per mettere alla mercè di tutti i grandi documenti del nostro passato. Intanto che noi lasciamo dire e fare, a poco a poco, tutto si oscura, tutto si impiccolisce e va in controversia nei periodi più belli della nostra civiltà. Credetemi, o signore; un po' di chauvinismo, anche per noi, ogni tanto, farebbe così bene!... Esso ha fatto la forza dei francesi, degli spagnuoli, degli inglesi, e di tutti i popoli; mentre questo compiangerci continuo, questo renderci sempre umili e arrendevoli dinanzi alle negazioni di tutti, ci ha condotto a termini molto infelici. Ma come, poche settimane fa, aveste la fortuna di sentire dalla bocca di Giosuè Carducci che l'ideale cavalleresco del tempo dell'Ariosto non era niente affatto spento fra di noi nel Cinquecento, come certi critici nostri, sempre facendosi eco compiacente degli altri, avevano sentenziato; e come sentirete dirvi fra poco da Ernesto Masi che nella Italia di quel tempo, in mezzo alla corruttela, all'indifferenza e al cinismo di molti, vigoreggiarono anche delle pure e nobili coscienze con aspirazioni eroiche verso il rinnovamento dell'ideale religioso, così consentite che io pure vi dica che mi compiaccio altamente ogni volta che, come italiano e come uomo, io mi rivolgo a quella nostra grande epoca; e sono lieto di ricordarvi anche una volta che il Cinquecento italico non è tutto nell'Aretino, nel Franco, nel Sodoma, nel Sebastiano del Piombo; esso vanta dei nomi che splendono nella storia umana come dei fari di luce sfolgorante insieme e purissima. Uno di questi è senza dubbio Raffaello da Urbino.
MICHELANGELO BUONARROTI[12] (1474-1564)
DI
JOHN ADDINGTON SYMONDS.
Signore, e Signori!
Non posso cominciare la mia lettura, senza prima esprimervi il profondo sentimento ch'io provo per l'onore che il vostro invito mi conferisce. Io, Inglese, sono invitato a parlare nella città di Firenze, davanti ad un uditorio di Fiorentini sopra uno dei Fiorentini più illustri. Nessuna cortesia potrebbe giungere più gradita all'animo di uno studioso e di uno scrittore.
È stato spesso osservato che il Rinascimento fu un periodo di uomini dalle multiformi attitudini e di universali genialità. Vi noveriamo uomini come Leon Battista Alberti, il quale insieme alla letteratura, alla scienza e alle matematiche, esercitò la pittura e l'architettura, e si segnalò per forza ed agilità fisica; uomini come Leonardo da Vinci, dei quali è dubbio, se le stesse facoltà artistiche non fossero inferiori alla originalità delle loro invenzioni scientifiche; principi come Lorenzo de' Medici, che furono uomini di stato, poeti, filosofi, critici della più squisita sensibilità, raccoglitori di antichità, inspiratori della gaia vita e della moda; e finalmente, vi vantiamo Michelangelo Buonarroti.
Mi propongo di parlare di Michelangelo sotto il suo quadruplice aspetto di scultore, di pittore, di architetto e di poeta. In vita, fu ritenuto eccellente in ognuno di questi rami dell'Arte. Benedetto Varchi in un'Orazione letta all'Accademia Fiorentina, gli decretò una quadruplice corona, e ve ne aggiunse una quinta proclamandolo “amatore divinissimo„.
Michelangelo si professò sempre essenzialmente scultore. Diceva a Giorgio Vasari che “a Settignano aveva succhiato lo spirito dello scalpello col latte della sua nutrice„, la quale era figlia e moglie di scalpellini. Chiamato a dipingere la Cappella Sistina, protestò che la pittura non era mestier suo; e più tardi, allorchè Leone X insistè perchè egli completasse la facciata del San Lorenzo e edificasse la Nuova Sagrestia e la Libreria, amaramente si dolse di non aver mai studiato architettura.
Tuttavia Michelangelo riteneva l'arte del disegno eguale in ogni suo ramo e indispensabile strumento di tutte le scienze, e tale teoria è da lui chiaramente esposta nelle famose Conversazioni di San Silvestro in Roma, che ci sono state conservate dal pittore spagnuolo, Francesco d'Olanda.
Il primo passo per un artista consisteva, secondo lui, nel rendersi padrone del disegno lineare con penna, inchiostro, gesso o punte di metallo. E il solo soggetto che Michelangelo considerava degno d'imitazione, era il corpo umano nudo; perciò sosteneva che la profonda conocenza delle proporzioni fisiche e anatomiche dell'uomo, era essenziale all'architettura scientifica. È evidente che una viva genialità lo traeva alla scultura, di cui la forma umana è l'assoluta ed esclusiva preoccupazione. I paesaggi, gli edificî, i fiori, le ricche stoffe, i gioielli, i mobili, che hanno una parte così importante nell'arte del quattrocento — nel Ghirlandajo, in Benozzo Gozzoli, in Piero di Cosimo, in Sandro Botticelli e persino in Leonardo da Vinci — Michelangelo li escludeva rigorosamente dalla sua sublime ed astratta sfera dell'arte. L'unico elemento decorativo che egli introducesse nella vôlta e nella parete occidentale della Cappella Sistina, fu la forma umana maschile e femminile; maschile principalmente, in ogni possibile attitudine. Egli sdegnò quei problemi di prospettiva aerea, quelle squisite gradazioni di luce e d'ombra, quelle così dette sfumature, che formavano la principale delizia del magico Leonardo. Linee austere del corpo, che cominciavano dagli studî anatomici del cadavere, e s'inalzavano agli elaborati e maravigliosi studî del nudo vivente; — questa fu la severa scuola nella quale Michelangelo esercitò il suo genio giovanile. È vero che egli passò il primo anno di tirocinio nella bottega del Ghirlandajo, dove imparò l'arte della pittura a fresco, e seguì il misto stile del quattrocento; ma quando entrò nei Giardini di Lorenzo de' Medici a San Marco, l'ambiente a lui più conforme dette nuovo impulso al suo genio. Il maestro Bertoldo, deputato da Lorenzo de' Medici all'insegnamento dei giovani artisti, era stato seguace di Donatello, e l'influenza di Donatello improntò di sè l'adolescenza del Buonarroti, e potè su lui durante tutto il viver suo. Noi lo sentiamo nel tipo delle faccie adottate pel David, per Giuliano de' Medici, per il così detto Adone e Vittoria del Museo Nazionale: lo riscontriamo di preferenza nelle mani grandi e nelle lunghe dita muscolose, che danno un'impronta particolare alle sue statue, come al Captivo del Louvre.
Avendo toccato della prima educazione di Michelangelo, voglio ricordare due maestri che, pare, abbiano avuto una diretta influenza sul suo stile. L'uno fu Jacopo della Quercia, lo scultore senese, i cui bassorilievi sulla facciata di San Petronio a Bologna suggerirono a Michelangelo il trattamento del soggetto della creazione di Adamo ed Eva nella Cappella Sistina; l'altro fu Luca Signorelli. Il grande pittore di Cortona fu di temperamento conforme assai al Buonarroti. Ambedue si compiacevano del nudo, dell'anatomia, della inesauribile varietà di attitudini che può essere studiata nel corpo umano. L'immaginazione di ambedue era veemente, sublime, contrassegnata da terribilità piuttosto che da grazia o da dolcezza. Il Signorelli, non meno di Michelangelo, sdegnò la vaghezza degli accessorî meramente ornamentali. I contemporanei notarono l'intima connessione fra i due artisti. Il Vasari, come di un fatto conosciuto, scrive: “esso Michelangelo imitò l'andar di Luca, come può vedere ognuno„.
Non deve ritenersi per questo che il Buonarroti fosse seguace di qualsivoglia maestro a lui precedente. Il vero sta nel parere contrario. Niun grande artista ebbe mai un'individualità più imperiosa, una più libera originalità di genio. Non v'è della sua mano uno studio dal nudo, non un frammento di scultura in marmo, non una figura dipinta a fresco, non un architrave o nicchia, non un sonetto, non la sentenza di una lettera, che non faccia immediatamente distinguere la sua dall'opera altrui. In ciò egli offre un gran contrasto con Raffaello, il cui maturo stile era formato da successivi atti di assimilazione o imitazione, che dal Perugino possono chiaramente seguirsi, per Leonardo, e per Fra Bortolommeo, sino alle antichità romane ed a Michelangelo.
Il giovane Buonarroti doveva tutto allo studio della natura. Dotato di un peculiar dono del sentimento di essa, cominciò dal copiarla con quanta maggior cautela potè, senza chiederle in qual maniera gli altri uomini avessero risguardato o tratteggiato i suoi capolavori. Egli gettava una solida base per il termine della sua virilità, coi realistici disegni dal vero. Ciò si manifesta in tutte le opere della sua carriera giovanile. Restiamo meravigliati dinanzi al realismo del Bacco, ch'egli eseguì per Jacopo Gallo a Roma. L'ideale bellezza della Pietà a San Pietro, si combina colla profonda anatomica accuratezza nella modellatura del Cristo morto. Ma la statua che mostrò il realismo di Michelangelo nella sua luce più forte, è il David, che stette tanto tempo sulla gradinata del palazzo della Signoria. La scala di questa stupenda figura è colossale. Ma il tipo scelto è quello di un giovane appena formato. Michelangelo aveva letto che, quando si avventurò contro il gigante Filisteo, David era soltanto: “giovinetto, sano e di bello aspetto„; ecco perchè gli dette quel gran capo, quelle mani colossali, che sono fuori di proporzione per il torace della figura ancora imperfettamente sviluppato. Noi sentiamo che il suo David ha ancora due o tre anni per crescere, per consolidarsi, per espandersi, prima di raggiungere il suo pieno sviluppo. Non si può negare che questa devozione alla realtà, trasse seco nel David, qualche sacrificio di grazia e di bellezza. V'è un po' di goffaggine nella testa disquilibrata, nelle mani sproporzionate di cui ci rendiamo conto soltanto quando ci ricordiamo quanto sinceramente lo scultore amasse la verità. Lo stesso si può dire circa l'espressione repulsiva e l'atteggiamento del Bacco. Nel desiderio di afferrare il momento di ebrietà incipiente, Michelangelo neglesse le armonie dell'arte idealizzante. Insisto su questo punto, poichè si crede comunemente che Michelangelo fosse un'idealista, o uno schiavo delle tradizioni classiche; mentre la verità è nel contrario più assoluto. Vedremo poi in quali condizioni fu obbligato a sviluppare un tipo fisso di fisica bellezza.
Le statue di cui ho parlato, posero Michelangelo nella prima classe dei maestri di disegno; e gli procurarono una nuova chiamata a Roma dal Papa, che, fino a un certo segno, è stato il suo cattivo genio. Era inevitabile che Giulio II e Michelangelo dovessero contrarre intimità. Essi erano uomini di egual calibro e dello stesso temperamento — grandiosi nei loro disegni, fieri nella esecuzione dei loro piani, terribili nella violenza e nel vigore del loro genio; — uomini costrutti moralmente e materialmente con linee di forza e di grandezza, piuttosto che di grazia e di sottigliezza; uomini in cui niente era di volgare o di mediocre, i cui stessi difetti erano improntati di passione e di grandezza. Essi s'incontrarono come nubi cariche d'elettricità, pregne di tempeste e di lampi. Di primo tratto s'intesero l'un l'altro. Il resultato dei loro primi colloqui a Roma fu uno schema, che traeva seco la distruzione della vecchia Basilica di San Pietro. Papa Giulio decise di erigersi un gigantesco monumento mentre era ancora in vita. Doveva essere una montagna di marmo ricoperta di più di quaranta figure colossali: Profeti e sibille; Allegorie delle arti e delle scienze; Statue di vittorie e di provincie prostrate, ascendenti verso una sommità sulla quale gli angeli elevavano nell'aria il sarcofago del Pontefice, mentre la terra piangeva per la sua perdita e il Cielo si rallegrava per l'assunzione della sua anima all'eterno godimento. Lo schema di Michelangelo era così stupendo che l'abside della Basilica non poteva contenerlo; laonde Giulio II decise l'immediata distruzione della venerabile Madre chiesa occidentale. Questo atto aveva un gran significato. Non indicava solamente l'imperiosa natura del Papa, il quale spazzava via qualunque cosa contrastasse ai suoi ambiziosi disegni; ma simbolizzava anche quel mondano spirito del Rinascimento, entusiasta per la gloria, indifferente per la santità delle tradizioni religiose. Segnava un'epoca nuova nella storia della Chiesa, presagiva lo scisma Luterano e annunziava la reazione cattolica. La presente Basilica di San Pietro rimane un colossale simbolo in pietra di tutti quei cambiamenti che separarono il medio evo dall'età moderna.
Questo disegno fu disastroso per Michelangelo, poichè lo condusse a quello che il Condivi chiamò — la Tragedia della Tomba di Giulio, — una tragedia prolungata per cinque atti dolorosi, su un periodo di più di quaranta anni pieni di perplessità e d'angoscia. Per prima cosa, Michelangelo fu mandato a scavare il marmo a Carrara; tornato a Roma trovò che il Papa aveva perso ogni interesse nel monumento, e furioso per il modo con cui fu trattato in Vaticano da alcune guardie e da alcuni prelati, egli se ne partì con aspre parole; tornò in Firenze, rifiutò di ascoltare i messi di Giulio e disubbidì ai brevi papali che lo richiamavano.
Ma la tomba gli pesava come una macina attorno al collo. Papa Giulio non intendeva abbandonare intieramente l'idea del monumento. Dopo la sua morte, i suoi eredi entrarono in una serie di contratti collo scultore, in ciascuno dei quali era involto qualche cambiamento nel disegno, e così le statue che erano state sbozzate per il primo disegno, divennero inutili via via che lo schema andò facendosi graduatamente più angusto. Le rovine del disegno originale sono sparse in Francia e in Italia, nei due sublimi Captivi del Louvre, nella Vittoria e nell'Adone del Museo Nazionale, nelle grottesche figure nude del Giardino di Boboli. Michelangelo fu accusato di mala fede e di appropriazione indebita. Finchè visse sospirò e supplicò che gli fosse concesso di condurre a termine la grande impresa, che era stata il sogno della sua vigorosa maturità e che fu lo struggimento della sua vecchiaia. La vita sua si prolungò perchè egli rinnovellasse il San Pietro, e lo incoronasse con quella meraviglia del mondo che è la cupola. Ma la disgraziata tomba non vi trovò alcun posto. Il deformato e defraudato sepolcro — un rattoppo di schemi discordanti — fu finalmente eretto in San Pietro in Vincoli. Là noi andiamo ancora per ammirare il gigantesco Mosè, la Madonna piena di grazia, le bellissime statue di Lia e Rachele (Vita contemplativa e attiva) che sono fra le opere più belle dei capolavori in marmo. Ma si sente che esse sono soltanto frammenti di un'incompleta concezione; poco convenienti alla situazione loro, mancanti di equilibrio, malamente associate alle opere di scultori meno valenti — un miserabile ritratto del Papa, una sgraziata Sibilla e uno spregevole Profeta.
Volendo porre bene in vista questa tragedia della Tomba di Papa Giulio, ho dovuto anticipare gli avvenimenti; torno ora al momento in cui Michelangelo, in collera, lasciò Roma e tornò a Firenze. Questo accadeva nella primavera dal 1506. Vi rimase circa sette mesi, e fu immediatamente impegnato in un'impresa che esercitò in appresso non poca influenza sulla sua carriera. Il Gonfaloniere Soderini risolse di decorare i muri della Sala del Gran Consiglio con due grandi affreschi rappresentanti fatti della storia di Firenze. L'uno di essi fu commesso a Leonardo da Vinci, che scelse per soggetto un episodio della Battaglia di Anghiari. Michelangelo ricevè l'altro, ed elesse un episodio della guerra di Pisa: una banda di soldati fiorentini sorpresi da una truppa della cavalleria di Sir John Hawkwood mentre presso Pisa si bagnavano nell'Arno.
I cartoni preparati da questi illustri rivali sono periti. Ci sono pervenuti solo per fama e per mezzo di deboli copie; ma è evidente da quello che i contemporanei dicono del disegno di Michelangelo, ch'esso era un capolavoro del tempo. Il Cellini, che con altri studiosi lo copiò nella sua adolescenza, lo considerava superiore agli affreschi della Cappella Sistina. L'argomento permetteva a Michelangelo di spiegare tutta la sua profonda scienza della forma umana, e di dar vita ad un gruppo di uomini nudi in movimenti passionati ed energici. Le attitudini più variate che possono esser prese da soldati repentinamente sorpresi e chiamati alle armi mentre si bagnano, erano trattate con una conoscenza del vero vivente, con una padronanza della forma, con una esperienza dell'anatomia muscolare, non immaginate mai fino allora. I frammenti che sopravvivono — studî in penna ed in gesso; una trascrizione di un'atletica figura incisa da Marco Antonio Raimondi, una miserabile copia en grisaille della composizione generale — sono sufficienti per giustificare le lodi del Cellini, e per farci sentire che nella Guerra di Pisa abbiamo probabilmente perduto la più fresca produzione della maturità di Michelangelo. Sembra che anche in questo cartone egli si sia attenuto all'intimo e severo studio della natura. Il suo ideale della forma non era ancora divenuto così artificioso e schematico come apparve dipoi. Il Vasari racconta due storie contradditorie circa la sparizione di questo cartone. Secondo l'una, il disegno andò disperso per la gelosia del Bandinelli; secondo l'altra, una masnada di artisti lo avrebbe messo in pezzi durante la malattia di Giuliano de' Medici nel 1516.
Mentre Michelangelo era occupato a questo Cartone, durante l'estate del 1506 fra il Papa e il Gonfaloniere procedettero alcuni negoziati concernenti l'estradizione dello scultore al suo imperioso signore. Il Soderini temeva realmente che Papa Giulio movesse guerra a Firenze, se Michelangelo non gli era rimandato, perciò Michelangelo nel novembre se ne partì per Bologna con una lettera di raccomandazione e di protezione sotto il sigillo della Repubblica. A Bologna trovò il Papa che godeva il trionfo su questa città, dalla quale aveva appunto espulso i Bentivoglio. L'incontro fu burrascoso. Ma papa Giulio avea bisogno di Michelangelo, e, dopo avergli mostrato un po' di collera, condiscese a perdonarlo. Il lavoro, che ora il Papa gli commise, fu una colossale statua di bronzo di sè stesso, seduto, con una mano alzata per minacciare i ribelli Bolognesi. Michelangelo vi occupò due anni, e la finì dopo un indugio tedioso. La statua fu debitamente posta sulla porta centrale di San Petronio. Nel 1511 i Bentivoglio tornarono; i Bolognesi si sollevarono. La statua di papa Giulio fu gettata giù dal suo trono e data al Duca Alfonso d'Este di Ferrara, il quale ne fece un cannone, che chiamò “la Giulia„. Nulla è restato che possa darci la benchè minima idea di questa statua.
Era davvero necessario che Michelangelo avesse una lunga vita, perchè alcun che sopravvivesse a provare la sua maestria ed il suo genio. Nel 1511 aveva 36 anni, e già tre delle sue opere più belle erano state distrutte o condannate ad una sollecita dispersione; la tomba di papa Giulio com'era stata prima ideata, la statua del Papa, e il Cartone per la guerra di Pisa. È strano che la privata corrispondenza di Michelangelo non contenga sillaba di commento o di compianto sullo sfacciato oltraggio fatto ai capolavori, che davano la misura delle esuberanti energie dei migliori anni della sua virilità.
Il Cartone era essenzialmente l'opera d'uno scultore. Vi era applicata l'arte del disegno in grande ad un argomento che, intrinsecamente, non aveva altro valore che di spiegare il nudo in azione. Tuttavia Michelangelo si era impegnato ad eseguire questa composizione a fresco e in gara con Leonardo da Vinci, che era il primo pittore di quel tempo. Dopo questo non poteva rifiutare un ordine od un invito insistente, a far prova della sua maestria su una grande scala, come pittore a fresco.
Un tale ordine gli venne da papa Giulio appena compiuta la statua a Bologna. Egli invitò Michelangelo a Roma, e gli palesò l'intenzione di assegnargli gli affreschi per la vôlta della Cappella Sistina in Vaticano. S'insinuò che Bramante, architetto della Corte papale, e zio di Raffaello da Urbino, avesse indotto papa Giulio a questo passo, persuadendolo che sarebbe stato un cattivo augurio il completare il suo proprio mausoleo. Bramante sperava che Michelangelo paleserebbe la sua incompetenza nella difficile arte della pittura a fresco sulla superficie di una vôlta. Fino allora Michelangelo non aveva dato altro segno di facoltà pittorica che in una tavola dipinta per la famiglia Doni di Firenze. Egli stesso, diffidando delle proprie forze, protestò ch'egli era scultore di professione, e si sforzò di rifiutare quella commissione.
Papa Giulio tenne fermo, e Michelangelo fu costretto a cedere. Nel maggio del 1508 cominciò a lavorare per la vôlta sui cartoni. L'attuale pittura fu continuata l'anno seguente, mentre i compartimenti centrali del soffitto furono scoperti nel novembre 1509. Non sappiamo con certezza come fosse fatto il lavoro: Michelangelo aveva impegnato abili assistenti di Firenze; ma trovandoli incapaci di collaborare con lui, li rimandò. Ond'è che la maggior parte dell'opera dev'essere stata da lui compiuta nella solitudine. La Cappella fu gelosamente preservata da ogni intrusione: il Papa solo per mezzo di una galleria privata, visitava il maestro sulla impalcatura. Quando il giorno d'Ognissanti del 1509 gli affreschi della Creazione, della Caduta, del Diluvio, furono scoperti, l'intiera Roma si affollò per vederli. L'effetto fu sorprendente. Michelangelo, famoso già come maestro di disegno e di scultura, era ora salutato come principe dei pittori.
La pittura colpisce il sentimento estetico della maggior parte degli uomini più direttamente e più acutamente di quello che non faccia la scultura. Per questa ragione apparisce che Michelangelo subitamente arrivò coi suoi affreschi della Cappella Sistina, ad un grado di fama a cui non lo avevano innalzato il David e la Madonna della Febbre. Se Bramante aveva cercato di annichilire il rivale, facendolo dipingere a fresco, aveva commesso uno sbaglio portentoso. Michelangelo spiegò la più consumata arte del disegno in quelle centrali composizioni della vôlta; la più gran dignità di trattamento nel difficile soggetto della Creazione; la più elevata bellezza della forma nelle figure di Adamo e di Eva — il primo uomo e la prima donna; — la più forte e drammatica passione nel Diluvio. E quello che non poteva immaginarsi fu, che egli si mostrò, se non un brillante, un sapiente colorista. Il colorito di quelle vaste pitture simili a nubi, era così luminoso e così graziosamente intonato, le tinte delle carni dei nudi così chiare; così ben calcolata l'architettura dei contorni, che anche il suo gran nemico non potè negargli il merito di essere un grande e originale artista decorativo. Ciò che emergeva dall'intiera opera era la titanica personalità dell'uomo, che riusciva a fondere forma, colore, architettura nella sublime realizzazione di una singola e peculiare visione.
Poi le porte della Cappella Sistina si richiusero, e Michelangelo tornò al suo solitario lavoro. Non sappiamo nulla di quello che passò durante i mesi seguenti; ma nell'ottobre del 1512 la Cappella fu nuovamente aperta, e i Profeti e le Sibille e i nudi Geni sulle loro mensole apparvero nel loro incomparabile splendore. Le lunette e gli angoli delle vôlte furono scoperte coi gruppi di figure istoriate. L'intiero schema si mostrò finalmente nella sua stupenda gloria e forza. Gli artisti confessarono ad una voce che niente v'era nell'arte che si potesse paragonare a quell'opera — artisti che disperavano di un ulteriore progresso dell'arte sotto il rispetto dell'esecuzione. Michelangelo aveva mostrato quello che Michelangelo solo poteva fare. Un mondo di potenti forme umane era stato distribuito e schierato nei cieli sul capo dell'uomo. Niente stonava nello stupendo schema: non v'era una linea, non un'attitudine ripetuta. La bellezza e il ritmo governavano l'intiero complesso. Una musica visibile era stata creata per l'eternità.
Subito dopo l'esecuzione degli affreschi della Cappella Sistina, Giuliano Della Rovere morì, e Giovanni de' Medici fu fatto papa col titolo di Leone X. Il nuovo Pontefice figlio di Lorenzo il Magnifico, non solo come Papa, ma come patrono ereditario, aveva il diritto di pretendere i servigî del Buonarroti. Nell'autunno del 1515, Leone formò il disegno di completare la chiesa Medicea di San Lorenzo con la costruzione di una grande facciata, di una Libreria e di una nuova Sagrestia. Il cardinale Giulio de' Medici suo nipote (che fu poi Clemente VII), prese ancora più grande interesse allo schema, la cui esecuzione fu commessa a Michelangelo. Invano Michelangelo protestò che egli era già più che occupato colla Tomba di papa Giulio. Invano egli gridò che l'architettura non era mestier suo. Fu obbligato a sottomettersi, e per diciotto anni, dal 1516 al 1534, la sua vita fu principalmente occupata nell'opera di San Lorenzo. Fece i disegni per la Facciata, per la Sagrestia, e per la Libreria. Passò anni interi nelle cave di Carrara e di Serravezza, estraendo blocchi di marmo per quei principeschi edifici. Si dedicò allo studio dell'architettura, tracciò strade, fece contratti con muratori e con capi muratori: fece davvero ogni cosa meno quello a cui il suo genio lo aveva destinato. Lo scalpello, durante tutto questo tempo, rimase relativamente inoperoso nella sua bottega.
Vediamo che cosa ci resta dei tre disegni dei Papi a San Lorenzo. La facciata non fu mai eseguita. Quello che ne sappiamo è che doveva essere ornata di statue in nicchie e di bassorilievi. La scala della Libreria era pressochè finita quando Michelangelo abbandonò l'opera. Dall'architettura incompleta, è evidente che i numerosi spartimenti e le nicchie erano anch'essi destinati alla scultura. In questo tempo Michelangelo, che era stato costretto a farsi architetto, considerava i muri soltanto come superfici adatte per esporvi delle statue. La gran sala della Libreria e le sue decorazioni in legno, furono eseguite sotto la sua sorveglianza da abili artefici. Fra questi edificî, quello in cui è meggiormente impressa l'orma del genio di Michelangelo, è la Nuova Sagrestia. Noi la vediamo ora quale Michelangelo intendeva che dovesse essere. La cupola e i muri nudi al disopra delle partiture marmoree, erano destinate per le decorazioni a fresco. Le nicchie di queste partiture marmoree dovevano essere riempite di statue. Anche il muro fronteggiante l'altare avrebbe dovuto esser dipinto, e la superba Madonna avrebbe dovuto troneggiare sopra una mensola sporgente fra i santi Cosimo e Damiano.
Ci resta abbastanza del piano originale per fare di questa Sagrestia una delle opere d'architettura e di scultura più stupende d'Italia. Lo stile architettonico è tanto originale quanto lo statuario. Ambedue riflettono l'opera di un singolare genio, che non ha nè confronti, nè uguali; e ambedue colpirono i contemporanei come rivelazione di nuove possibilità nell'arte. Durante l'erezione della Cappella, i due ultimi eredi maschi legittimati di Lorenzo il Magnifico — Lorenzo duca d'Urbino, e Giuliano duca di Nemours — morirono. Fu finalmente deciso di consacrare la Cappella alla loro memoria, e di erigere le tombe coi ritratti in marmo di questi Principi.
Michelangelo concepì i sepolcri Medicei in un austero spirito di allegoria; non curandosi di riprodurre i lineamenti dei Duchi. Lorenzo, chiamato “ Il pensieroso „, è un simbolo del lato più oscuro dell'umana natura. Immerso in una profonda melanconia e sprofondato in una perpetua e cupa tristezza, siede meditando sulla morte e il destino, sulla caduta degli imperi e sul fato dei re. Giuliano, avvolto in una luce più viva, colla fronte più serena, in un'attitudine più vivace, rappresenta le energie della vita umana, le nostre attività e le nostre speranze, i nostri desiderî e le nostre ambizioni. Sotto i loro troni, contorte in strane attitudini sulle curve dei sarcofagi, sono quelle quattro tremende allegorie enigmatiche, simili a Sfingi, alle quali i nomi della Notte e del Giorno, del Crepuscolo e della Sera sono stati dati appropriatamente. Ma esse significano assai più di quello che quei titoli importano. Come le statue dei Duchi allegorizzano due differenti aspetti dell'esistenza umana; così i quattro genî stanno quali simboli del sonno e della veglia, dell'azione e del pensiero, delle tenebre della morte e dello splendore della vita, dello stato intermediario fra la tristezza e la speranza, che formano i confini dell'una e dell'altra. La vita è un sogno fra un sonno e l'altro; il sonno è il gemello della morte; la morte è la porta della vita: questi sono i velati e misteriosi pensieri suggeriti da questi miti titanici.
Ricordatevi che non solo la linea maschile di Lorenzo il Magnifico si era estinta fra il principiare e il finire di questa opera a San Lorenzo; ma la stessa Repubblica di Firenze era morta. Michelangelo era stato testimone del sacco di Roma, dell'assedio di Firenze, della completa estinzione delle libertà italiane compiuta da Carlo V a Bologna. Egli aveva avuto una parte direttiva nella difesa della sua nativa città contro gl'Imperiali; e quando riprese lo scalpello aveva il cuore pieno di mestizia, d'indignazione, di dolore.
Ecco perchè l'Aurora si slancia dal suo giaciglio con uno spasimo di tragico dolore. Il suo destarsi è simile al tornare della conoscenza in colui che è restato annegato e riapre gli occhi stanchi sopra un mondo ruinato. Ecco perchè la Notte giace intieramente assorta nell'oscurità e nell'ombra della morte, così che pare impossibile scuoterla da quell'eterno letargo. No, non si desterebbe anche se potesse.
Caro m'è il sonno e più l'esser di sasso.
Mentre che il danno e la vergogna dura
Non veder, non sentir, m'è gran ventura.
Però non mi destar; deh, parla basso!
Questi furono gli angosciosi pensieri che Michelangelo espresse nella sostanza e nella forma delle sue grandi statue. Esse vibrano con melanconia, come la musica di una sinfonia funebre, come il canto di morte e la marcia funebre d'una nazione. Quando papa Clemente morì, lo scultore posò il suo scalpello, abbandonò la Sagrestia incompiuta, e non tornò più a Firenze. Passò il resto della sua lunga vita a Roma lavorando ancora sotto una serie di cinque Papi.
Paolo III lo rimandò alla Cappella Sistina. Doveva ricoprire con un affresco, rappresentante l'Ultimo Giudizio, la parte occidentale, al disopra dell'altare. Quest'opera nella quale occupò cinque anni, anche rovinata, resta il lavoro più straordinario dell'arte pittorica. Michelangelo aveva sessant'anni quando cominciò questo affresco. La freschezza e il vigore del suo genio giovanile eran passati; ma la profonda scienza sopravviveva nella sua piena attività. Senza ricorrere alla natura, poteva, colla sua conoscenza della forma umana, inventare attitudini, atteggiar corpi nell'aria, tracciare movenze estremamente audaci. Sdegnò introdurre un solo motivo che non fosse figura, e tutte le sue figure, i gruppi di forme umane che si alzano e cascano e s'intrecciano, sono nude. Arrivati a questo tempo, il suo tipo della forma così realista nel David, così intimamente studiato dal vero nel Cartone, così sublimemente bello nella vôlta della Sistina, era irrigidito nel manierismo. Nell'esecuzione di ampie composizioni pittoriche, è impossibile seguire da vicino il modello. L'artista deve preservare una certa unità di tipo e stabilire proporzioni d'analogia fra tutte le sue figure. Infatti egli deve creare una razza di uomini e donne a sua somiglianza; — secondo la somiglianza di un'immagine archetipa della sua mente. Ciò cominciò a fare Michelangelo nel Cartone e lo continuò nella vôlta; ma divenne rigido e inalterabile nell'Ultimo Giudizio, s'inscheletrì e si paralizzò negli affreschi della Cappella Paolina.
Domandiamo quali fossero i larghi contorni di questo tipo che dettero corpo al sentimento di Michelangelo per la dignità e bellezza della forma umana. Lo discopriamo all'altezza della perfezione nel suo Adamo. La testa piccola, il collo corto ma proporzionalmente muscoloso, le spalle immensamente larghe, il torace gagliardo; le braccia lunghe terminanti in grandi mani robuste; corto l'addome, le cosce prolungate al di là della loro consueta lunghezza, piedi corrispondenti in larghezza alla grandezza delle mani. Col progredire del tempo, le spalle e il torace si svilupparono in grossezza, finchè divennero pesanti. Queste proporzioni determinavano il suo tipo femminile. Si può dire infatti con verità che le sue donne sono soltanto una specie un po' differente di uomini. Egli non sentì mai la reale grazia e bellezza della verginità. Tutte le sue figure femminili — la Notte, l'Alba, Leda, le donne del Diluvio — sono donne adulte con gli attributi della maternità. Primitivi, titanici sono gli epiteti per descrivere la razza umana fatta dal Buonarroti secondo l'immagine sua propria. Egli creò maschi e femmine; ma essi non sono simili in niente agli esseri del nostro globo; sembrano appartenere a quelli di qualche lontano pianeta, dove le linee del paesaggio sono più semplici e le forze della natura son più efficaci.
La vecchiaia di Michelangelo fu quasi tutta consacrata alla costruzione del San Pietro. Abbiamo veduto che il disegno della tomba di papa Giulio condusse alla distruzione della Basilica di Costantino. Bramante nel 1505 era occupato nell'erezione di una nuova chiesa. Preparava piani, schiariva gli spazii e gettava le fondamenta; ma non visse tanto da compiere l'opera sua. Raffaello da Urbino, Baldassare Peruzzi, e Antonio di San Gallo, furono successivamente impiegati in quell'edificio. Ogni architetto alterò il disegno del predecessore. L'opera fu frequentemente interrotta da qualche disastro in Italia — specialmente dalla tragedia del sacco di Roma nel 1527. Il Sangallo si decise finalmente per un disegno che contraddiceva lo spirito della concezione Bramantesca. A questo punto, nel 1546 il Sangallo morì. Michelangelo era allora indicato come architetto in capo. Egli ripudiò il modello del Sangallo e ne preparò uno nuovo che corrispondeva più intimamente al disegno originale della chiesa. Questo fu accettato e per diciassette anni egli diresse le costruzioni con meravigliosa energia in uomo di età sì avanzata. Già un mezzo secolo era trascorso da che egli era entrato al servizio di papa Giulio.
Facciamo una pausa per ritrovar fino a che punto la presente Basilica di San Pietro è la genuina produzione dell'intelletto del Buonarroti. La sublime caratteristica che salva questa chiesa da una gigantesca mediocrità — la Cupola, che sorge come una lirica da una massa di prosa pretenziosa — appartiene a Michelangelo. Insuperabile per originalità, impareggiata per audacia, la Cupola di San Pietro è sufficiente a proclamare la grandezza del Buonarroti come architetto. Noi, fortunatamente, possediamo il modello in legno per la cupola che fu costruito sotto i suoi propri occhi. Nonostante che certi particolari, i quali avrebbero aggiunto grazia e forza alla struttura, siano stati omessi dai successivi architetti, tuttavia le parti essenziali del disegno — la squisita curva esterna, la vasta ed eccelsa concavità della vôlta interna — sono state conservate. Questo rimane quindi indiscutibile proprietà del genio di Michelangelo.
Ma gli architetti che successero a Michelangelo nell'opera di San Pietro, il Della Porta, il Maderno ed altri, alterarono talmente il suo disegno, che le linee principali ne furono sfigurate. Egli intendeva di conservare la forma di una croce greca, che avrebbe permesso alla Cupola di dominare l'intero edificio: essi vi aggiunsero una nave e la pesante facciata, che riduce insignificante la Cupola. La grandezza del primo concetto, noi la sentiamo soltanto quando vediamo il San Pietro da lontano; o dal Pincio, o meglio ancora da Tivoli o da Ronciglione.
L'ultimo periodo della vita di Michelangelo fu illuminato da un'amicizia, che è forse il più celebre episodio della sua esistenza, voglio dire della stretta intimità che lo unì a Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Non sappiamo quando prima si conobbero: era probabilmente verso l'anno 1540; ma è certo che quando la loro amicizia si strinse, Michelangelo aveva 60 anni e Vittoria era sui 50. È perciò ridicolo parlare di amore appassionato fra l'illustre principessa e il potente scultore. La falsificazione del testo delle poesie di Michelangelo ha portato una gran confusione in quest'affare; ma ora sappiamo che soltanto alcune di esse furono scritte per la Marchesa e che la maggior parte erano dedicate a persone delle quali, ad eccezione di Tommaso Cavalieri, giovane gentiluomo romano, poco sappiamo.
Nè sentimentale, nè romantica, quest'amicizia fu per altro ben reale. Michelangelo e Vittoria simpatizzavano nel loro sentimento religioso: ambedue per gusto ed inclinazione appartenevano a quelle persone veramente pie del Rinascimento, che desideravano una riforma della Chiesa fatta da sè stessa, e che avrebbero salutato con gioia una maggior larghezza nel suo credo dogmatico nella direzione della fede evangelica; ma ambedue erano, nel vero significato, devoti figliuoli della Chiesa Cattolica. Considerarli appartenenti alla sètta di Lutero, o parteggianti per la riforma germanica, sarebbe affatto ingiustificato dall'evidenza.
Durante tutta la sua vita, Michelangelo fu profondamente religioso. È probabile che nella sua prima gioventù egli sentisse l'influenza del Savonarola; è certo che continuò ad essere uno studioso della Bibbia. Poche delle sue grandi opere furono d'argomento profano. Abbiamo soltanto il Bacco, l'Amore, il Bruto e alcuni pezzi meno importanti di statuaria, da contrapporre alla Pietà del San Pietro, alla Madonna di Bruges, alla Sagrestia Medicea, alla Pietà del Duomo, al Cristo risorto, al David, agli affreschi della Cappella Sistina, e a tutte le figure che furono disegnate per le tombe di papa Giulio e dei duchi Medici. La sua immaginazione fu dunque sempre occupata da soggetti sacri. Perciò, in vecchiaia, sembra ch'egli sentisse che le attrattive della bellezza, l'interesse dell'arte pura, gli affari del mondo, avevano occupato troppo la sua attenzione. In varî dei suoi ultimi sonetti avvertiamo una nota di rimorso e di rimpianto. In questo tempo appunto, quando i suoi pensieri si volgevano con profonda austerità verso Cristo, quando la morte si approssimava, e le cure di questo mondo andavano perdendo presa sulle sue affezioni, i consigli e la simpatia di Vittoria furono il conforto più grande per la sua anima.
Tale era la vera natura di un legame che altri s'è ostinato a presentare in una luce falsa. Sotto l'influenza di Vittoria, Michelangelo compose un gran numero di disegni a matita bianca e rossa per illustrare la Passione e la Crocifissione di Nostro Signore, i quali formano un interessantissimo capitolo della sua produzione artistica. Senza dubbio, egli disegnò qualche monumentale opera in marmo o a fresco; ma niente d'importante sopravvive, eccetto la Pietà, che è nel Duomo di Firenze.
Principalmente pei sonetti e madrigali di Michelangelo composti dopo il suo ritorno a Roma nel 1534, lo consideriamo Poeta. Come ho già detto, alcuni di questi sonetti sono puramente religiosi e notevoli pel candore evangelico della loro fede nel merito redentore della Croce di Cristo; ma per la maggior parte sono effusioni altamente astratte e filosofiche, inspirate da un senso appassionato della bellezza, e ombreggiate di platonismo. In qualche periodo della sua vita — probabilmente quando faceva parte delle riunioni di Lorenzo il Magnifico a Firenze — egli bevve a larghi sorsi alla sorgente delle speculazioni platoniche. Niun poeta moderno ha espresso la dottrina del Fedro e del Simposio con più ardore di commozione personale. Niuno si è così intieramente assimilato il misticismo di quell'alta filosofia. Per Michelangelo, come già per Platone, la Bellezza è la manifestazione della divina idea ai nostri sensi mortali, incarnata nella più alta opera di Dio: la forma umana. L'amore della bellezza in una persona adorata, non è amore sensuale, non è appetito, non è neanche semplice desiderio: è la ricognizione di uno dei divini attributi nella sua espressione fisica più perfetta. Un tale amore inalza l'anima; a traverso la sua commozione per l'amata, conduce l'amante più presso a Dio e lo fa ardentemente aspirare a quell'eterno reame al disopra del nostro mondo, nel quale la Bellezza stessa sarà rivelata senza l'interposto velame della carne.
Troppo rara e intellettuale per la moltitudine, è la sfera di pensieri nella quale ci introducono le poesie di Michelangelo. Queste, come le sue concezioni della forma plastica, hanno qualche cosa di repulsivo nella loro austerità. Gli stessi pensieri si afferrano difficilmente, e lo stile è tutt'altro che perfetto. Michelangelo stesso si professava “dilettante di poesia„. L'espressione è difettosa a causa della grammatica storpiata: le metafore sono studiate, i ritmi aspri. Tuttavia il Varchi mostrò una giusta percezione critica, quando lodò quegli ammirabili sonetti per la loro forza ed elevazione dantesca. Nel Cinquecento, l'età dello scritto fluente e del pensiero poco profondo, egli si presenta come uno degli antichi, dei primitivi, tornato alla vita. E nella sua purezza ed astrattezza, la commozione di Michelangelo offre un singolare contrasto colle inzuccherate affettazioni e sensualità allora in voga. Uno studioso di psicologia trova nelle rime del Buonarroti, la miglior chiave del suo ingegno, come scultore, come affreschista, e come architetto.
L'uomo, infatti, era tutto d'un pezzo. Sia che si consideri come artista plastico, o come architetto, o come poeta; ne emerge la stessa singolare ed unica personalità. L'anima sua non ha nè contradizioni, nè stonature.
“Natura il fece, e poi ruppe la stampa.„
Se questa è l'espressione vera per l'arte sua, non è meno vera per la sua vita. I novant'anni ch'egli passò sulla nostra terra, comprendono il più glorioso e insieme il più tragico periodo della storia italiana. Michelangelo fu testimone dello splendore d'Italia sotto la pacifica presidenza di Lorenzo il Magnifico. Vide l'Italia dismembrata dalle guerre di Francia e di Spagna nelle sue più belle provincie; vide la rovina delle sue città più superbe, e l'estinzione delle libertà antiche. Osservò accumularsi nel Nord la tempesta della riforma germanica. Visse durante la reazione cattolica, e morì quando il Concilio di Trento aveva fondato una nuova Chiesa per la cristianità occidentale. A traverso questi cambiamenti, Michelangelo seguì una sola linea di condotta. Egli non deviò mai dalla traccia che si era prescritta. I contemporanei s'accordano nel dire che la sua vita privata, fra le tante opportunità di errare per passione o per debolezza, fu irreprensibile. Noncurante del suo proprio benessere, si dedicò a formare la fortuna della sua famiglia. Fu figliuolo ubbidiente e fratello affettuosissimo. La sola debolezza che si rivela dalla sua corrispondenza privata, è una certa irritabilità di carattere e una certa diffidenza, dovute in parte alla eccessiva tensione nervosa dell'artista, e in parte all'ingratitudine che incontrò tanto spesso. L'unità del suo carattere, che fa di lui una monumentale personalità, proviene dall'esser conseguentemente e persistentemente vissuto per alti pensieri, per nobili emozioni, per l'arte sublime. Possiamo riassumere tutto in una frase e proclamare Michelangelo Buonarroti essere stato l'Eroe come Artista. A traverso i secoli a venire, le sue opere, le sue lettere, e la sua vita, faranno più e più manifesto che almeno per una volta, l'età moderna ha prodotto con quella di Michelangelo un'anima eroica, che consacrò sè stessa con tutte le sue forze a servizio del buono, del bello, dell'eterno nell'Arte. Gli uomini differiranno nelle facoltà di apprezzare o di assimilarsi la sua arte. Molti troveranno la regione del suo genio troppo remota, troppo astratta, troppo terribile. Sospireranno alla grazia di Raffaello, al sorriso del Correggio, alla luce dorata del Tiziano, alla mistica grazia di Leonardo.
Michelangelo appartiene alla specie delle nature profonde, violente, gigantesche, appassionatamente lottanti; non a quella dolce, serena, aperta, squisitamente armoniosa e perfettamente composta. La inflessibilità con cui si attenne sempre fedele al proprio ideale — la salda unità del suo genio in tutte le sue forme — quasi gemma trasparente, agisce come pietra di paragone sulle nostre personali inclinazioni e sensibilità. Tuttavia, nessuno può contestare la sua sovraeccellenza di grandezza. Sia lode a Dio, che concede all'umanità artisti differenti per tipo e per qualità personali, ognuno dei quali incarna qualche speciale porzione dello spirito universale ( world spirit ), legando alle età successive rivelazioni segnalate e inimitabili di quel mondo ideale che è al di là della nostra terrena visione.
IL TEATRO DEL CINQUECENTO
DI
TOMMASO SALVINI.
Signore e Signori!
Avrei creduto più facile che le acque di un fiume volgessero alla loro sorgente, e che il Vulcano eruttasse blocchi di ghiaccio, anzi che io mi trovassi quest'oggi davanti a sì eletta e colta riunione a fine d'intrattenerla con una mia lettura sull'Arte Drammatica del XVI secolo. Taluni si chiederanno da che nasce questa meraviglia: e facilmente supporranno che un Artista Drammatico, abituato da molti anni a comparire dinanzi al pubblico, non possa trovarsi nè timido nè turbato. Ebbene, no, signore e signori garbatissimi. Essi s'ingannano. Esercitando l'arte che professo, è mio ufficio interpretare ed illustrare, meglio che mi sia possibile, concetti e parole altrui, quindi la mia responsabilità è limitata a ritenere a mente le parole, a penetrare e sviscerare i concetti, ad immedesimarmi nel carattere da sostenere, e stabilire gli effetti delle diverse passioni, esponendole con misura e verità.
In possesso di ciò, sentomi padrone di me stesso e con fiducia mi cimento; ma quante volte mi trovo obbligato, il che non m'avviene spontaneamente, di esporre in pubblico concetti miei proprî, mi assale un panico che mi rende nervoso, per modo che, pronunziate le prime parole, desidererei di tutto cuore fossero le ultime. Nelle diverse contrade del Mondo ch'io percorsi, e specialmente nell'America del Nord, dove in ogni banchetto, in ogni riunione, per ogni solennità è obbligatorio lo speech, molte volte bandivo l'apprensione, con la speranza, lo confesso, di non essere ben compreso; ma qui, davanti a Voi a cui non sfugge verbo del mio discorso, e che finamente ponderate i miei concetti, dovento come quel povero coscritto, che trovandosi per la prima volta davanti al fuoco, vince, per punto d'onore, la sua timidezza, e mostra un coraggio che non sente, davanti ad un nemico temibile. So però che i forti sono pur anco generosi, e mi attendo perciò da voi molta indulgenza; tanto più, quando saprete che il mio arrolamento mi venne imposto dalla cortese insistenza del comitato di queste letture.
Prima d'entrare nel tema che mi propongo trattare domando venia a' miei uditori se in brevissime parole esporrò alcune idee intorno alla condizione nella quale si trovavano nella società antica, gli attori — chiedendo altresì mi sieno perdonate qualche digressione e le frequenti citazioni, figlie naturali di un neofito della letteratura.
Cicerone e Tito Livio affermano che agl'Istrioni antichi, nome erroneamente dato a tutti quelli che praticavano le scene, non fu reso onore; che anzi furono più volte scacciati da Roma e ripulsi dagli onori dei cittadini e dei soldati: nondimeno a qualche attore particolare famoso, e celebre nell'azione, fu data quella gloria che si merita la virtù e il valore dimostrati in questa professione pubblicamente. Ad esempio, si racconta che l'istrione Polo, contemporaneo di Pericle, recitando un giorno la parte di Elettra nella Tragedia di Sofocle, prese nelle sue mani l'urna del figlio suo, che aveva perduto da poco e le diresse le parole che Elettra indirizza all'urna di Oreste. Egli espresse tanto potentemente l'immagine della cosa, che fece lacrimare tutti gli spettatori, ed ottenne un singolare trionfo! Marco Tullio riprese il popolo Romano, per avere tumultuato mentre il commediante Roscio recitava, la qual cosa incoraggiò tanto l'attore che osò pubblicare un libro, nel quale fece comparazione della sua arte con l'eloquenza, e sopratutto fu sì caro a Lucio Silla, che essendo lui Dittatore, ottenne da quello in dono un bellissimo anello d'oro: oltre che dal pubblico ricevette ogni giorno mille danari per sua mercede, più, molti regali che gli offrivano in omaggio al suo talento. Esopo, rivale di Roscio, ma a questo inferiore, divenne sì ricco esercitando la sua professione, che lasciò duecento mila sesterzi al suo figliuolo, il quale fu prodigo talmente da liquefare le perle nell'aceto, offrendo splendide cene a' suoi commensali. Dione Cassio racconta, che l'istrione Pilade fu grato sopra modo a Nerva Coccejo, e fu favorito dall'assistenza d'Augusto; e a Publio Siro, dopo una Commedia, gli fu data la palma da Cesare, un anello pregevole e 500 sesterzi per l'eccellenza sua.
Ho portato questi esempi, per provare, come anche nell'arte di Melpomene e di Talia, faceva d'uopo allora, com'oggi, giungere ad un certo grado di perfezione per ottenere l'estimazione pubblica! Il titolo d'Istrioni, che tanto nei tempi scorsi, come nei presenti, si adotta comunemente come qualità dispregiativa per ogni arte della scena, era ben distinto anticamente. Due generi di rappresentazioni ebbero gli antichi in Teatro; con uno si parlava all'udito, con l'altro a gli occhi. Per l'udito si recitavano le Commedie, le Tragedie e l'Atellane che erano una giunta scherzevole, quasi Farse o intermezzi; per la vista, in tutto o in parte, si esprimevano le cose con gesti, positure, e movimento del corpo, e con balli imitativi, accompagnati da suono, e canzoni, al che si diede nome di Mimi, e di Pantomimi e d'Istrioni.
Ora, il disdoro ed il rimprovero caddero sul secondo genere, e non sul primo. Prova di ciò, primieramente, si è che da molti passi di Cicerone, di Apulejo e d'Ausonio e da altri, impariamo come l'Arte Comica era differente dalla Mimica; e ricaviamo dagli antichi monumenti e scrittori, come le Mimiche rappresentazioni erano piene di oscenità e di laidezze, ed all'opposto le Tragedie erano tanto morigerate e caste, che a molti dei componimenti moderni fanno in ciò vergogna. Quanto alle leggi, basta osservare, che di tutte quelle, ove dell'infamia si fa menzione agli operanti ne' Teatri, tanto ne' Digesti, come nel codice di Teodosio, o in quei di Giustiniano, nè pur una si trova in cui si veggan nominati nè Tragici nè Comici nè Attori d'Atellane. Ma più indisputabile decisione ci dà in questo punto Valerio Massimo nel secondo libro, dove parla così degli Attori dell'Atellane: “Questi, esenti sono da nota d'infamia, nè si privano di suffragio nè si rifiutano nella milizia.„ Ora, se così era dell'infima classe, che solamente al giocoso si restringeva, tanto più sarà stato dell'altre due, le quali recitavano componimenti che possono essere maestri della vita.
Cicerone, uomo pieno d'onestà e di decoro, non avrebbe professato palesemente famigliarità ed amicizia con Roscio e con Esopo, se l'arte che esercitavano fosse stata vergognosa e proscritta. Ne si sarebbe giovato egli stesso degl'insegnamenti del primo nell'Arte del bel porgere per le sue orazioni. L'equivoco avvenuto nel leggere i profani e le leggi, avvenne altresì, leggendo i cristiani scrittori ed i sacri Canoni. Ciò che si disse dei Mimi e delle arti annesse, è stato ricevuto come se venisse detto anche per i Tragici e i Comici, e quei vocaboli che per l'uno e per l'altro genere, sono stati usati talvolta, si sono interpretati secondo il significato peggiore. Se si dovesse appropriare il titolo d'Istrioni a tutti coloro che dovrebbero pur studiare l'arte del porgere, converreste meco che del nome d'Istrioni non andrebbero esenti le più alte dignità della Chiesa e dello Stato: i Magistrati, i Deputati, gli Avvocati, i Professori, i più illustri Conferenzieri, nè i predicatori più valenti. Con questo si viene a conoscere chiaramente che l'inveire dei Padri va contro i Mimi, i Saltatori, e i Cantori, e non contro ai Comici e Tragici, a' quali mai si vietarono le oneste recite, e massimamente di Tragedie, componimento secondo Orazio che vince ogni altro di gravità, e tanto nobile che meritò l'applicazione de' due grandi primi Imperatori, avendo composto Cesare l'Edipo, e cominciato Augusto l'Ajace.
Dopo i Greci e i Romani, la poesia Teatrale se ne andò a terra e per parecchi secoli si tacque, causa le invasioni, escursioni e dominazioni straniere di cui fu vittima questa povera Italia. Non vo' dire per questo, che recite in dialogo, e certe rappresentazioni incòndite non si facessero in ogni tempo; rappresentazioni informi, sconnesse e di nessun valore, che venivano praticate pur anco in chiesa: e vi furono sacerdoti e monache che ne composero, ben s'intende, di argomenti religiosi: e le fecero per diverso tempo rappresentare, fino a che Innocenzo III non le proibì.... forse per soverchia austerità. Ma siffatte produzioni, che sacre furono d'ordinario, e che si chiamavano Ludi Teatrali, erano cosa imperfetta. Il Mussato Padovano in latino, nel secolo decimoquarto: il Trissino Vicentino in volgare, nel secolo XVI, si considerano come primi che tornassero a nuova gloria il Teatro e a nuova vita le scene, con regolate e perfette Tragedie.
Albertino Mussato, al principio del 300, ed anche più, compose l' Assedio di Padova in verso eroico, e le Tragedie l' Ezzelino e l' Achille, però ben poca giustizia fu resa, lui vivente, alle opere sue, perchè tardi venute alla luce, e perchè al cantore di Laura fu accordata la gloria dell'aver risuscitata l'eleganza delle latine lettere, singolarmente nella poesia. Nel secolo decimoquinto lo studio della lingua Greca, che tanto in Italia si coltivò, avendo risvegliato il gusto d'ogni genere di lettere, anche le Commedie e Tragedie cominciarono a prender forma. In latino elegantissimo, fu la Progne, tragedia di Gregorio Corraro, il quale morì Patriarca di Venezia il 1464. Angelo Decembrio fa menzione d'Ugolin da Parma, che in quel tempo fu compositore e recitatore di Commedie: ma questi ed altri non furono che preludî e prove poco fortunate. Abbandonarono le Sacre rappresentazioni in buona volgar poesia: e sullo stampo di quelle, Angelo Poliziano foggiò il suo Orfèo. Nel Cinquecento, splendido per ogni manifestazione dell'ingegno italiano, la Tragedia sullo stampo greco, la Commedia d'impronta romana, nòverano insigni scrittori: il Bongianni, Gratardo da Salò, Maurizio Manfredi da Cesena, il Torelli, Antonio Cavallerino, G. B. Livrea che diedero alla luce Commedie e Tragedie non prive di complicati intrecci, e le cui figure sono interessanti, ma dove i personaggi hanno un colorito uniforme e convenzionale. La Sofonisba del Trissino occupa il primo posto fra tutti quei componimenti tragici, che apparirono in lingua moderna, nel rinascimento delle bell'Arti. Il Varchi scrive di lui: “Il primo che scrivesse Tragedie in questa lingua, degne del nome loro, fu per quanto so io, messer Giorgio Trissino di Vicenza„ e così Cintio Geraldi nel commiato dell' Orbecche scrive:
E 'l Trissino gentil che col suo canto
Prima d'ognun dal Tebro e da l'Iliso
Già trasse la Tragedia a l'onde d'Arno!
Palla Rucellai, fratello di Giovanni, letterato esimio e scrittore di Tragedie encomiate, scrisse al Trissino una lettera, con la quale dedicandogli l'opera del fratello Le Api si esprime così: “Voi foste il primo che questo modo di scrivere in versi materni, liberi dalle rime, poneste in luce: il qual modo, fu poi da mio fratello, nella Rosmunda primieramente, e poi nell' Api e nell' Oreste abbracciato ed usato; adunque meritamente, sì come primi frutti della vostra invenzione, vi si mandano.„ Vedete, che anche allora non si disconosceva il vero merito; e ciò che più meraviglia, veniva apprezzato dai colleghi letterati. Or io vi leggerò della tragedia Sofonisba una scena, che sembrami ricca di forma e di logiche persuasioni. La scena si passa in Cirta, città di Numidia, fra Scipione e Massinissa, quando questi, vincitore delle armi di Siface, sposo di Sofonisba, promette alla Regina di non consegnarla come prigioniera ai Romani, purchè acconsenta a divenirle moglie subitamente. Sofonisba, dimentica del suo consorte, già prigioniero dei Romani, e spinta dalla regale vanità di non umiliarsi dinanzi ai vincitori, acconsente, e l'unione vien celebrata (sembra che a quei tempi il divorzio fosse ammesso, e si regolasse facilmente, bastando il consenso d'una sola delle due parti).
Scipione, capo delle forze alleate, e rappresentante il Senato Romano, vuole, com'era per legge, che i vinti sieno mandati, niuno escluso, prigionieri in Roma. Qui comincia il dialogo che meglio vi spiegherà l'argomento e la posizione.
Scip. Signore, io penso, che null'altra cosa
Che 'l conoscere in me qualche virtute,
V'inducesse da prima a pormi amore;
Il quale amor, da poi vi ricondusse,
Che riponeste in Africa voi stesso
E le vostre speranze, in la mia fede.
Ma sappiate però, che nessun'altra
Di quelle alme virtù, per cui vi piacqui,
Tanto m'allegro aver nè tanto onoro,
Quanto la temperanza, e 'l contenermi
D'ogni libidinoso mio pensiero.
Questa vorrei, che parimenti voi
Giungeste a l'altre gran virtù che avete.
Crediate a me, ch'a l'età nostra, sono
Le sparse voluttà che abbiam d'intorno,
Di più periglio che i nemici armati;
E chi con temperanza le raffrena
E dôma, si può dir che acquista gloria
Molto maggior, che non s'acquista d'arme.
Quello, che senza me, per voi s'è fatto
Con valore, e con senno, volontieri
L'ho detto, e volontier me lo ricordo;
Il resto, voglio poi, che fra voi stesso
Più tosto il ripensiate, che a narrarlo
Vi faccia divenir vermiglio il fronte.
Questo vi dico sol, che Sofonisba
È preda de' Romani, e non potete
Aver di lei disposto alcuna cosa.
Però v'esorto subito mandarla:
Perchè convien, che la mandiamo a Roma.
E voi, s'avete a lei volta la mente,
Vincete il vostro cùpido desìo:
E abbiate rispetto a non guastare
Molte virtù, con questo vizio solo:
E non vogliate intenebrar la grazia
Di tanti vostri meriti, con fallo
Più grave, che la causa del fallire.
Mass. Io dirò, Scipion, qualche parola
Acciò che voi, così senza sentirne
Alcuna mia ragion, non mi danniate.
Non fu pensier lascivo che m'indusse
A far quel, che fec'io con Sofonisba;
Ma pietà, forse, e 'l non pensar d'errare.
So che sapete ben, che primamente
Il padre di costei me la promesse;
Ma Siface da poi, perchè l'amava,
Tant'operò, che da i Cartaginesi
A me ne fu levata, e a lui concessa.
Ond'io salì per questo in tal disdegno,
Che sempre mai da poi gli ho fatto guerra;
E con voi mi congiunsi ultimamente;
Con cui sapete ben, quel ch'io son stato,
E come presi Annone, e romper feci
I cavai di Cartagine a la torre
Che fe' Agatocle, Re di Siracusa.
E poscia, quando Asdrubale rompeste,
Sapete, ch'io vi dissi i lor consigli;
E sol m'opposi al campo di Siface.
Ma che bisogna dir che 'n mille luoghi
V'ho dato utilità con la mia gente.
D'onde presa m'avea tanta baldanza,
Che senz'altra dimanda mi ritolsi
La moglie mia, ch'altri m'avea rubata.
A questo ancor m'indusse, che più volte
M'avevate promesso di ridarmi
Tutto quel, che Siface m'occupava;
Ma se la moglie non mi fia renduta
Che più debbo sperar che mi si renda?
L'Europa già tutta si volse a l'arme
E passò il mar con più di mille navi
Contra dell'Asia e stette ben diece anni
Intorno a Troja, e poi la prese, ed arse,
Per far aver la moglie a Menelao
Che già se ne fuggio con Alessandro,
E stata era con lui vent'anni interi;
E voi non mi volete render questa,
Che ancor non è il terz'anno che Siface
Me la tolse per forza e per inganni,
Nè con tanta fatica s'è ritolta?
Deh, non negate a me sì caro dono,
E non vogliate poi, che la vostr'ira
Contra i Cartaginesi si distenda
Con tal furore, infin contra le donne.
Ma i beneficj miei possano tanto,
Che l'error di costei si le perdoni
Se mai fatto v'avesse alcuna offesa:
Che ben conviensi per amor d'un buono
Perdonare ad un reo; ma non si deve
Punire un buon, per il peccare altrui.
Scip. Chi non sapesse ove si fosse il torto,
E udisse il parlar che avete fatto,
Non si porìa pensar ch'io non l'avessi.
Ma non è giusto quel che parla bene
In ogni cosa, ove la mente volge,
Ma quel che mai dal ver non si diparte.
Se Sofonisba fosse vostra moglie,
Senza alcun dubbio vi la renderei:
Che voi sapete ben, che già vi diedi
Annon Cartaginese; onde per cambio
Di lui, color vi resero la Madre.
E come prima il regno de' Massulj
(Ch'io sapeva esser vostro) si fu preso,
Senza punto tardar vi lo rendei.
Ma se vi fu promessa Sofonisba
(Come voi dite) avanti che a Siface
Questo non fa però, che vi sia moglie;
Perchè una sola, e semplice promessa
Non face il matrimonio; voi già mai
Non giaceste con lei, nè aveste prole,
Come d'Elena avea già Menelao.
Oltre di ciò s'ell'era moglie vostra,
Che vi accadeva risposarla ancora?
E sì subitamente far le nozze
Nella nimica terra e 'n mezzo l'arme?
Che vuol dir poi, che nel principio, quando
Tutte le cose vostre mi chiedeste
Non diceste di lei parola alcuna?
Quinci si può veder, ch'era d'altrui,
Com'era veramente di Siface:
Il quale è stato con gli auspicî nostri
E vinto e preso; onde la sua persona,
La moglie, le Cittati, le Castella,
E finalmente, ciò ch'ei possedeva,
È preda sol del popolo Romano;
E esso e la Regina (ancora ch'ella
Non fosse da Cartagine, nè avesse
Il Padre Capitanio dei nemici)
È di necessità mandare a Roma,
Ov'ella arà da stare a la sentenzia
Del popolo Romano e del Senato....
Imperò che si dice avergli tolto
E alienato un Re, che gli era amico,
E poscia averlo indotto a prender l'arme
Contra di lor precipitosamente:
Sì ch'io non posso di costei disporre.
Dunque, senza tardar ne la mandate;
Ne più cercate a così fatto modo
Aver per forza le Romane spoglie.
Ma se di lor vorrete alcuna cosa
Dimandatela pur, che scriveremo
A Roma, e pregheremo, che 'l Senato
Per le vostre virtù vi la conceda.
Mass. Poscia ch'io vedo esser la voglia vostra
D'aver costei, più non farò contrasto;
Ma vo', che ancor di questa mia persona
Possiate sempre far quel che v'aggrada.
Ben io vi priego assai, che non vi spiaccia
S'io cerco aver rispetto a la mia fede:
La qual troppo obligai senza pensarvi;
E promessi a costei, di mai non darla
In potestà d'altrui, mentre che viva.
Scip. Questa risposta è veramente degna
Di Massinissa; or fate dunque come
Vi pare il meglio, purchè abbiam la donna.
Mass. Anderò dentro, e penserò d'un modo,
Che servi il voler vostro, e la mia fede!
Massinissa avendo promesso a Sofonisba che non andrebbe viva nelle mani dei Romani, le mandò un veleno, dicendole, che altro modo non aveva di mantenerle fede; e Sofonisba lo prese. A me sembra che questa scena sia molto dignitosa, profondamente eloquente e filosofica.... sebbene odori un poco di un fare rettorico. Se dovessi rilevare tutti i pregi che si raccolgono nei molteplici componimenti del Trissino, bisognerebbe a lui solo dedicare più tempo che non mi è concesso, e trascurare di troppo altri, che pur voglionsi almeno ricordare. Del satirico, mordace, e venale Pietro Aretino, il cui ingegnoso spirito s'impose al mondo in modo, che si temeva più assai la punta della sua penna, che un'aguzza spada, abbiamo una Tragedia, intitolata Orazia che venne giudicata una delle migliori che a' quei tempi fosse stata scritta. Rispetto il parere dei dotti critici, in quanto riguarda il valore poetico e letterario, ma credo di non errare, asserendo, essere questa Tragedia priva affatto di effetto scenico, e per la massa del pubblico, d'un linguaggio astruso. Le sue commedie poi sono un'evidente riproduzione della corrotta società in cui viveva e mostra delle figure, acutamente sì, ma rozzamente disegnate, ma che servirono di norma ad altri autori ne' secoli posteriori. Uomo, in superlativo grado immaginoso, si servì del suo naturale ingegno, non sempre lodevolmente, e visse, in vero, com'ei dice: del sudore degli inchiostri, e tanto ne adoprò, cred'io, da macchiarne anco l'anima.
L'autorevole scrittore Adolfo Gaspary, acconcia spietatamente il fiorentino Giovanni Rucellai (che fu secondo a scrivere Tragedie regolari in idioma volgare) criticando la sua Tragedia Oreste che giudica composta di cattivi versi e di fare sentenzioso e rettorico, dove la falsa sentimentalità, e il falso eroismo, prendono il posto dalla vera passione. Io non oso pronunciarmi su tal giudizio, bensì mi sembra, che almeno il merito di una potente efficacia descrittiva poteva esser notata dal severo critico. Il racconto che vi leggerò sarà sufficiente a farvi persuasi che non fu vana la mia osservazione. Il coro rappresentato da una donna, racconta ad Ifigenia sorella d'Oreste, come furon scoperti, da un Pastore, due stranieri, che furtivamente venivano per mare, ad impadronirsi dell'effige di Diana, come dall'oracolo di Delfo fu ordinato per placare le infernali furie che invadevano Oreste, dopo l'uccisione dell'adultera madre.
Coro. Io vi dirò per ordin da principio
A ciò che vo' ntendiate il caso a punto,
Se già la lingua, mentre io narro a voi,
La lubrica memoria non inganna.
Ifige. Ditela: che gran cosa esser può questa? Coro. Questa mattina, all'apparir dell'alba,
Andand'io per far mondi, alquanto innanzi,
Gli erbosi sassi del liquido fonte,
Che scendesser laggiù le mie compagne
A 'mbiancar de la Diva i sacri veli,
Veder mi parve, e non mi parve, andare
Due giovan di nascoso dietro il tempio.
Poscia, un pastor, che capre ivi guardava,
E stava sopra 'l vertice del monte,
Li discoperse a me primieramente;
E 'n un tratto le labbra al corno pose,
E suonò tanto forte che d'intorno
Ognun concorse con gran furia al suono.
Com'e' s'avvider ch'eran discoperti,
Si ritrasson guardando verso noi
Come Leon c'han visto i cacciatori;
E quando parve lor non esser visti,
Si misero a fuggir come due cervi
Là oltre per la via de la marina.
I Pastor pel cammin di sopra al lito
Li seguitaron tuttavia gridando.
Allor salii sovr'un piscoso scoglio,
Com'altri sempr'è vago di vedere.
Era la barca lor quivi nascosa,
Non so ben dove, ma la nuova forma
Sembrava a gli occhi miei ch'esterna fosse.
Questa, un da poppa, e l'altro dalla prora,
Come s'una cassetta d'Api fosse,
Con mirabil destrezza in mar gettaro;
E quel che di persona era più grande,
Vi saltò sopra, e nel saltar la mano
Porgea sempre, quell'altro confortando,
Ma quei che del Pastor corsero al suono
Eran già scesi in su l'asciutta arena
Con bastoni, con grida, dardi e sassi
Or di sotto, or di sopra, ed or dai fianchi,
Facendo a quelli una spietata guerra.
Già erano ambedue entr'a la barca,
Ed amendue a gran forza di remi
Tentavan dall'arena di spiccarla,
Nè si potea per la vadosa piaggia
Muover la barca fra l'arena e l'acque
Che, decrescendo il flusso venian meno;
Il che sentendo il giovin, quel maggiore
Ch'ancor fu 'l primo a saltar nel battello,
Saltò ne l'arenose onde marine,
Armato con la spada e con lo scudo;
Poi poggiò il petto e tutta la persona,
E spinse il legno: e fu sì grande l'urto,
Ch'andar lo fece un lungo tratto in mare.
Ei non trovando resistenza alcuna
A la sua possa, per che l'acqua cede,
Cadde implicato in su le negre arene;
Nè pria fu 'n terra, che gli furo addosso.
Chi gli prese le gambe e chi le braccia,
Chi lo tenea per le bagnate chiome.
Quando l'amico suo, ch'era portato
Dal legno a forza in la contraria parte,
Si gettò tutt'armato in mezzo al mare
Come tigre che 'nanzi a gli occhi suoi
Visti i figliuoli al predator in grembo,
Con gran furor si getta a questi addosso:
E quando fu là 'v'era il suo compagno,
Alzò la spada, e già feriva i nostri,
Se non ch'a mezza via, ritenne il colpo,
Per non ferir quel che salvar volea.
Insomma, tanta fu la sua possanza,
Che lo trasse per forza a quei di mano.
Allor più che mai, fu la forza grande
Di tronchi, dardi, sassi, e d'ogn'altr'arme
Ch'a chi cerca, il furor ministra e l'ira —
Dir no 'l saprei: sembrava un popol d'Api
O una negra schiera di formiche
D'un antic'elce e di sotterra uscite,
Contr'a due Calabroni aspri e pungenti.
La gente tutt'addosso era a quel solo,
Ch'avea salvo colui che cadde in terra.
Costui sostenne l'aspra furia tanto,
Che vide lo suo amico ritto in piede;
Poi, per un colpo ch'egli ebbe nel braccio,
Fu costretto lo scudo abbandonare,
Ov'era fitta una selva di strali;
Onde 'l gran petto e largo, scuopre e nuda;
Visto questo, il compagno prestamente
Il soccorre, e fra quello e fra la turba
Si pone, e fagli col suo proprio petto,
Per esser grato, sì pietoso scudo,
E disse: “Or ecco, Pilade, ch'io sono
“Venuto qui, o Pilade, o mia vita,
“Pilade, vita mia, per darti ajuto.„
E poi rivolto a noi gridava forte:
“Non date a lui, o gente empia e crudele,
“Non date a lui; in me voltate il ferro,
“In me, che cagion son di tutti i mali,
“In me, per cui 'l misero combatte.
“Eccovi 'l corpo aperto, ecco la fronte,
“Eccovi 'l collo ignudo, eccovi il petto!„
Così diss'egli; e la risposta loro
Fur mille punte, e più, di lance e spade
Che gli voltaro al volto, al corpo, al petto:
Ed ei, nulla prezzando la sua vita,
Attendèa solo a ricoprir l'amico —
Ma che può, Un contra 'l furor di tanti?
Molto potè l'amor, lo sdegno e l'ira,
E la virtù che sè stessa conosce,
Il dolor, la vergogna de l'amico,
Che gli parea veders'innanzi morto.
Ma che val forza contr'a maggior forza?
Già il fiato che 'n quei corpi non capèa,
Con gran singulti gli anelanti fianchi
Scotèa, fumando un vapor negro e grosso,
Bagnando tutte l'affannate membra;
Onde pure alla fine, stanchi e vinti,
Ma di difender non già sazî ancora,
Da' Pastor nostri sono stati presi,
Che gli conducon qui d'innanzi a voi.
Non credo mai che 'n giovin, tal bellezza
Splendesse sì nè tanta grazia in volto;
E non credo, ch'a pena il primo fiore
De la bionda lanugine ancor vesta
Le belle guance, quasi fresche rive
Fiorite, di giacinti e di viole!
Che ve ne sembra? La parte descrittiva non è toccante, efficace e ben colorita? Quello in cui appariscono, a mio avviso, difettosi questi scrittori è la poca curanza nel complesso dell'effetto scenico. Abusavano di frasi altosonanti, di rettoriche riflessioni, di concetti filosofici, e chi più ne aveva più ne metteva; poco o nulla curandosi della misura scenica, della complicanza dell'intreccio, della dipintura dei caratteri, e di quell'inaspettato nell'argomento, tanto necessario per produrre maggiore impressione nella catastrofe. — Ed ora lasciamo il coturno, per trattare del socco. L'Ariosto fu il primo a comporre delle commedie regolari italiane, ma non offrono molta originalità. Egli stesso confessa d'aver imitato gli antichi e d'essersi ispirato nelle commedie di Plauto e Terenzio. Le più commendevoli commedie del XVI secolo, sono al certo, pe' nostri tempi, di poco onesti costumi, e di parole arrischiate e sconvenienti; se ne togli certe allusioni satiriche alle condizioni pubbliche, il piccante si cercava di preferenza in equivoci indecenti.
Lo permetteva la libertà del frasario di quell'epoca, e forse a torto in oggi biasimiamo ciò che allora si accettava senza porvi importanza, nè trovarvi offesa al buon costume. Tutte quelle produzioni che oggi chiamiamo indecenti, e che lo sono di fatto, furono in massima parte dedicate ai Papi, ai Principi, che le accettarono e fecero sontuosamente rappresentare, prendendovi tanto diletto, da farne delle matte risate. Qual meraviglia se le donne non se ne scandalizzavano. Quelle donne stesse che senza ritrosìa facevansi ritrattare col bel seno scoperto, e lo esponevano all'ammirazione dei visitatori ed amici, nelle loro sale. Chi potrebbe asserire che nella sostanza, la società di allora fosse più corrotta, con le sue frasi lascive, che non sia la nostra, sotto la forma vereconda e pudica?
L'osceno era considerato quale ingrediente necessario all'arte comica, e si trova sparso in quasi tutta la letteratura drammatica del secolo XVI. La commedia Calandra del Cardinal di Bibiena è impudica da capo a fondo, e le particolarità destinate a promuovere il riso, ributtano; eppure Leone X lo creò Cardinale, molto per gli importanti servigi resi allo Stato, e un poco per le scandalose brighe che operava alla Curia. Una delle commedie che affascina per la profondità e la verità del quadro di costumi e dei caratteri di quell'epoca, è la Mandragola del Machiavelli. Essa è di certo la più importante ed originale commedia di quel secolo. Della sua immoralità non si aveva coscienza: tutti vi partecipavano.... anche l'autore stesso. Soffocare la passione per riguardo alla morale, era un precetto da leggersi, ma non da seguirsi; obbedire a gl'impulsi dell'amore, che senza esitare, per diritto di natura, va al suo scopo sensuale, era un concetto esaltato e difeso dalle massime dell'Aretino, ed accettate dalla società di allora. Di rado la passione sfrenata fu descritta con maggiore vivacità che in questa commedia del Machiavelli. Forse l'azione comparisce artificialmente ordinata, ma i personaggi sono interamente moderni, e vi è nel dialogo tale freschezza, tali sprazzi di luce sulle condizioni famigliari, da farla supporre una commedia scritta da ieri. Non mi permetto citarne alcun passo per non fare arrossire il bel volto delle mie amabili ascoltatrici, ma leggerò soltanto il prologo di questa commedia, ed una scena assai famigliare della Clizia, altro componimento comico del Machiavelli, perchè possiate riconoscere il simpatico scrittore, non scamiciato, ma vestito decentemente e con i guanti bianchi.... non però candidi del tutto!
Il Ciel vi salvi, benigni Uditori;
Quando e' par che dependa
Questa Benignità dall'esser grato.
Se voi seguite di non far rumori,
Noi vogliam che s'intenda
Un novo caso in questa terra nato.
Vedete l'apparato,
Quale or vi si dimostra.
Questa è Firenze vostra.
Un'altra volta sarà Roma o Pisa
Cosa da smascellarsi dalle risa.
Quell'uscio che mi è qui in su la man ritta,
La casa è di un dottore,
Che 'mparò in sul Buezio leggi assai:
Quella via che è là in quel canto fitta,
È la via dell'Amore,
Dove chi casca non si rizza mai.
Conoscer poi potrai
All'abito d'un Frate
Qual priore, o abbate
Abiti in tempio, che all'incontro è posto,
Se di qui non ti parti troppo tosto —
— Un giovane, Callimaco Guadagni,
Venuto or da Parigi
Abita là in quella sinistra porta.
Una giovane accorta
Fu da lui molto amata:
E per questo, ingannata
Fu, come intenderete; et io vorrei,
Che voi fussi ingannato come lei.
— La favola, Mandragola si chiama:
La cagion voi vedrete
Nel recitarla, com'io m'indovino.
Non è 'l compositor di molta fama:
Pur se voi non ridete,
Egli è contento di pagarvi el vino.
Un amante meschino,
Un dottor poco astuto,
Un frate mal vissuto,
Un parasito di malizia el cucco
Fien questo giorno il vostro badalucco.
— E se questa materia non è degna,
Per esser pur leggeri,
D'un uom che voglia parer saggio e grave,
Scusatelo con questo, che s'ingegna
Con questi van pensieri
Fare el suo tristo tempo più suave:
Perchè altrove non ave
Dove voltare el viso;
Chè gli è stato interciso
Monstrar con altre imprese altra virtue,
Non sendo premio alle fatiche sue.
El premio che si spera, è che ciascuno
Si sta dacanto, e ghigna,
Dicendo mal di ciò che vede o sente.
Di qui depende, senza dubbio alcuno,
Che per tutto traligna
Dall'antica virtù el secol presente:
Imperocchè la gente
Vedendo che ognun biasma,
Non s'affatica e spasma
Per far con mille suoi disagi un'opra,
Che 'l vento guasti o la nebbia ricuopra.
— Pur se credesse alcun dicendo male,
Tenerlo pe' capegli,
E sbigottirlo, o ritirarlo in parte,
Io l'ammonisco, e dico a questo tale
Che sa dir male anch'egli,
E come questa fu la sua prim'arte;
E come in ogni parte
Del mondo, ove il sì suona,
Non istima persona;
Ancor che faccia el sergieri a colui,
Che può portar miglior mantel di lui.
— Ma pur lasciam dir male a chiunque vuole;
Torniamo al caso nostro
Acciocchè non trapassi troppo l'ora.
Far conto non si de' delle parole,
Ne stimar qualche mostro,
Che non sa forse se si è vivo ancora.
Callimaco esce fuora,
E Siro con seco ha
Suo famiglio, e dirà
L'ordin di tutto. Stia ciascuno attento;
Nè per ora aspettate altro argomento.
Ora il nostro autore vi si è annunziato convenientemente con la sua carta. La scena che segue sarà la sua prima visita.
La posizione dei personaggi è questa.
Un vecchio libertino e il suo figliuolo, sono tutti e due innamorati di Clizia, giovane che da piccola venne allevata nella lor casa. Il padre vorrebbe dare la ragazza in moglie ad un Pirro, devoto ed esoso suo servo, per poi approfittarne. La moglie del vecchio che conosce le mire poco oneste del marito, vorrebbe invece far sposare la giovane con un Eustachio loro fattore, uomo rozzo, sì, ma onesto e denaroso.
Sofronia ( moglie del vecchio libertino entra in scena ). Io ho rinchiuso Clizia e Doria in camera. E' mi bisogna guardare questa fanciulla dal figliuolo, dal marito e da' famigli; ognuno le ha posto il campo intorno!
Nicomano ( il vecchio marito ). Sofronia, ove si va?
Sofr. Alla messa.
Nicom. Et è pur carnasciale; pensa quel che tu farai di quaresima.
Sofr. Io credo che s'abbia a far bene d'ogni tempo; e tanto più accetto sia farlo in quelli tempi, che gli altri fanno male. E' mi pare che a far bene, noi ci facciamo da cattivo lato.
Nicom. Come? Che vorresti tu che si facesse?
Sofr. Che non si pensasse a chiacchiere; e poi che noi abbiamo in casa una fanciulla bella, buona e d'assai, e abbiamo durato fatica ad allevarla, che si pensasse di non la gittare or via, che dove prima ogn'uomo ci lodava, ogn'uomo ora ci biasimerà, veggendo che noi la diamo a un ghiotto senza cervello, che non sa far altro che un poco radere, che non ne vivrebbe una mosca.
Nicom. Sofronia mia, tu erri. Costui è giovane di buon aspetto, e se non sa, è atto ad imparare, e vuol bene a costei; che sono tre gran parti in un marito, oltre gioventù e amore. A me non pare che si possa ir più là, nè di questi partiti se ne trovi a ogni uscio. Se non ha roba, tu sai che la roba viene e va, e costui è uno di quelli ch'è atto a farne venire; e io non lo abbandonerò, perchè io fo pensiero (a dirti il vero) di comperargli quella casa che per ora ho tolta a pigion da Damone nostro vicino, e empierolla di masserizie: e di più, quando mi costasse quattro cento fiorini per mettergliene....
Sofr. Ah, ah, ah.
Nicom. Tu ridi?
Sofr. Chi non riderebbe?
Nicom. Sì; che vuoi tu dire? per mettergliene su una bottega: non sono per guardarvi....
Sofr. È egli possibile però che tu voglia con questo partito strano, tôrre al tuo figliuolo più che non si conviene, e dare a costui più che non merita? Io non so che mi dire; io dubito che non ci sia altro sotto....
Nicom. Che vuoi tu che ci sia?....
Sofr. Se ci fusse che tu non lo sapessi, io te 'l direi; ma perchè tu lo sai, io non te lo dirò.
Nicom. Che so io?
Sofr. Lasciamo ire. Che ti muove a darla a costui? Non si potrebbe con questa dota o minore, maritarla meglio?
Nicom. Sì, credo; nondimeno e' mi muove l'amore che io porto all'una e all'altro, che avendoceli allevati tuttadua, mi pare di beneficarli tuttadua.
Sofr. Se cotesto ti muove, non ti hai tu ancora allevato Eustachio tuo Fattore?
Nicom. Sì, ho; ma che vuoi tu che la faccia di cotestui, che non ha gentilezza veruna e è uso a stare in villa tra buoi e le pecore? Oh, se noi gliene dessimo, la si morrebbe di dolore.
Sofr. E con Pirro si morrà di fame. Io ti ricordo che le gentilezze degli uomini consistono nell'avere qualche virtù, saper fare qualche cosa, come sa Eustachio, che è uso alle faccende, in su i mercati, a far masserizia e aver cura delle cose d'altri e delle sue: e è un uomo che vivrebbe in su l'acqua, tanto più che tu sai ch'egli ha un buon capitale. Pirro, dall'altra parte, non è mai se non in su le taverne, su per li giuochi, un Cacapensieri che morrà di fame nell'altopascio.
Nicom. Non ti ho detto quello ch'io li voglio dare?
Sofr. Non ti ho risposto che tu lo getti via? Io ti concludo questo, Nicòmaco: che tu hai speso in nutrire costei, et io ho durata fatica in allevarla; e per questo, avendoci io parte, io voglio ancora io intendere come queste cose hanno andare: o io dirò tanto male e commetterò tanti scandali che ti parrà essere in mal termine; chè non so come tu alzi il viso. Va: ragiona di queste cose con la maschera.
Nicom. Che mi di' tu? Se' tu impazzata? Or mi fai tu venir voglia di dargliene in ogni modo; e per cotesto amore, voglio io che la meni stasera e meneralla s'e' ti schizzassi gli occhi!
Sofr. O la mérrà, o e' non la mérrà.
Nicom. Tu mi minacci di chiacchiere; fa che io non dica.... Tu credi forse ch'io sia cieco, e che io non conosca e' giuochi di queste tue bagattelle? Io sapevo bene che le madri volevano bene ai figliuoli; ma non credevo che le volessero tenere le mani alle loro disonestà.
Sofr. Che di' tu? Che cosa è disonestà?
Nicom. Deh! non mi far dire. Tu intendi, et io intendo: ognuno di noi sa a quanti dì è San Biagio. Facciamo per tua fe' le cose d'accordo; chè se noi entriamo in cètere noi saremo la favola del popolo.
Sofr. Entra in che entrare tu vuoi. Questa fanciulla non si ha gittar via; o io manderò sottosopra, non che la casa, Firenze.
Nicom. Sofronia, Sofronia, chi ti pose questo nome non sognava; se tu sei una soffiona, e se' piena dì vento.
Sofr. Al nome di Dio. Io voglio ire alla messa; noi ci rivedremo.
Nicom. Odi un poco. Sarebbeci modo a raccapezzar questa cosa, e che noi non ci facessimo tenere pazzi?
Sofr. Pazzi no, ma tristi sì.
Nicom. E' ci sono in questa terra tanti uomini da bene, noi abbiamo tanti parenti, e ci sono tanti buoni religiosi: di quello che noi non siamo d'accordo, domandiamne loro, e per questa via, o tu o io ci sganneremo.
Sofr. Che vogliamo noi cominciare a bandire queste nostre pazzie?
Nicom. Se noi non vogliamo tôrre o amici o parenti, togliamo un religioso, e non si bandiranno, e rimettiamo in lui questa cosa in confessione.
Sofr. A chi andremo?
Nicom. E non si può andare a altri che a fra Timoteo, ch'è nostro confessore di casa, et è un santarello, et ha già fatto qualche miracolo.
Sofr. Quale?
Nicom. Come quale? Non sai tu, che per le sue orazioni, monna Lucrezia di messer Nicia Calfucci, che era sterile....
Non finisco il dialogo perchè lo giudico non confacente all'ambiente in cui mi trovo; nè istigo il nostro autore a ripetervi la sua visita, per tema che vi si presenti co' guanti sucidi. Molti altri scrittori seguirono le tracce del Machiavelli, del Bibiena e dell'Aretino, ma nessuno raggiunse l'eleganza di questi. De' Fiorentini, che per la lingua portano il vanto, si vogliono specialmente ricordare il Gelli, il Varchi, il Firenzuola, Lorenzino de' Medici, il Giannotti, il Nardi, ma superiori a tutti, il Lasca e il Cocchi, de' quali vorrei pur citarvi qualche brano, se il tempo concessomi me lo permettesse, ma con mio rammarico debbo rinunciarvi.
La Commedia regolare letteraria aveva sempre di preferenza la sua sede nelle Corti, nelle case dei ricchi, e nelle Accademie. Fra il popolo si usava genere più modesto, e forse più morale, ma più rozzo. Le Farse, volgarmente dette Cavajole, genere antico, ma plebeo, erano graditissime al popolo, perchè fondate principalmente sulla vivacità dei lazzi, sul frizzo delle espressioni, sull'opportunità degli argomenti; e come le canzoni e rappresentazioni maggesi di variato genere e di più avariato pregio, erano il diletto del contado, così le rappresentazioni sacre e le Farse, erano la gioia del popolo. Solo alla metà del XVI secolo comparvero le donne sul palco scenico, e quando nacque la così detta Commedia dell'Arte, che consisteva nell'ideare il soggetto, stabilire la distribuzione delle scene, prefiggere i personaggi, lasciando all'improvvisazione, assoluta libertà dei concetti e delle parole. Quando s'incominciò a praticare questo, per me, riprovevole sistema, la buona commedia regolare, ed in special modo la tragedia, sparirono dalla scena a danno e disdoro dell'arte. Non per tanto ci resta la gloria d'essere stati i primi a comporre produzioni sceniche regolate; e già più centinaia se ne contava prima che Stefano Jodelle, sessant'anni dopo, ne ponesse una, sulle scene di Francia, sotto Enrico III. Due altri motivi concorsero a far dimettere in Italia le tragedie nei teatri. Il primo fu l'uso introdotto di recitare in musica, e il compiacersi che fece il mondo de' Drammi musicali, ed il secondo fu l'introduzione de' varî dialetti e delle maschere. Fino al secolo XVI, nelle società, le maschere non si usavano che nelle feste, e per coprirsi il volto onde prender parte ai giuochi d'azzardo; di poi, le donne portarono, per preservare la pelle, una maschera di velluto, che si chiamava Lupo. Venuto in moda il rossetto ed i nei, le donne non portarono più i lupi (sul viso, s'intende!), così le maschere non furono più adoperate che nel travestimenti carnevaleschi e sulle scene.
Dopo aver parlato degli autori, desidero trattenervi su gli attori, come parte necessaria, e direi quasi indivisibile dei primi. Una rigogliosa e ben vestita pianta si potrà ammirare, ma quella, adorna di frutta, si ammira e si gusta; la pianta è l'autore, il frutto, l'attore. Fra quelli più famosi del secolo cui tratto, vi presento un Sebastiano Clarignano, che il Giraldi chiamò il Roscio e l'Esopo del tempo. Eccovi un Angelo Beolco, detto Ruzzante, che sebbene provenisse da bassissima estrazione (che il nome di Ruzzante gli fu appropriato da ragazzo perchè ruzzava sempre con un cane che gli guardava il bestiame), pur nullameno fu attore ed autore pregiatissimo. Altro stimato artista fu Niccolò Campani, detto lo Strascino, che compose diverse farse. Un altro distintissimo lo abbiamo in Andrea Calmo, anch'egli attore ed autore comico. Insigne artista fu il Valerini Adriano autore di rime e di tragedie; ma di lui ricorderò in appresso. Nè si devono dimenticare G. B. Verati, che dopo morto, fu commemorato con un epitaffio, composto da Torquato Tasso: nè il Ponzoni, nè il Flaminio; e per chiudere va ricordato il Ganossa, che tanto in Francia che in Germania e specialmente in Spagna, non solo fu acclamato e desiderato da quei regnanti, ma raccolse pur anco ricchezza con l'arte sua!
Ed ora al sesso gentile! Si fa menzione di una Flaminia, romana, che, formosissima donna, nella tragedia era valente. Si esalta la Andreini Isabella che fu decoro delle scene: spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza; e si onora altamente una Virginia Rotari, detta Lidia, già amante del Valerini Adriano, gentile e piena di grazie, che ispirò, nel momento della sua partenza, ad un poeta che l'amava, questi versi:
Lidia mia, il dì che d'Adrian per sorte
Ti strinse amor con mille nodi l'alma,
Io vidi il mar che fu per lui sì in calma,
A me turbato minacciar la morte!
Si encomia molto la Vittoria Piissimi, bella maga d'amore, dai moti armonici e concordi, dagli atti maestosi e grati, dalle parole affabili e dolci, dai sospiri ladri e accorti, dai risi saporiti e soavi, dal portamento altiero e generoso (come disse il Garzoni), che fu rivale d'altra ancor più famosa attrice, la Vincenza Armani, in confronto della quale la fama di Sarah Bernhart impallidisce. Lascio la parola al panegirista!... “Ne avendo i tre lustri dell'età sua toccati appena, possedeva benissimo la lingua latina, e felicemente vi spiegava ogni concetto. Scriveva correttamente il latino e l'italiano idioma, ed il carattere che usciva dalla sua penna era bellissimo. Imparò la logica e la rettorica; nella musica fece tale profitto, che non solo cantava sicuramente la parte sua con i primi cantori d'Europa, ma componeva in questa professione meravigliosamente, ponendo in canto quei medesimi sonetti e madrigali, e le parole di cui ella anco faceva, in modo che veniva ad essere cantatrice e poetessa. Suonava varie sorte d'istrumenti musicali, e da sè stessa accompagnava il suo canto; e ciò faceva con tanta dolcezza, che rapiva chiunque avea la sorte d'udirla. Posesi di più ad imparare la scultura, e con sì efficace desiderio vi attese, che scolpiva ogni effigie in cera al naturale. Ben provveduta di meriti e d'eloquenza, diedesi a recitare commedie sulla scena, comparendovi la prima volta nella città di Modena; esprimendo sì prontamente e con tanta grazia i suoi concetti, che sorprese quell'uditorio, la maggior parte composto di letterati di grido. Recitava essa in tre stili differenti, cioè, nel comico, nel pastorale, nel tragico, conservando il decoro di ciascuno tanto drittamente, che l'Accademia degl'Intronati di Siena disse più volte: che questa donna riusciva meglio parlando all'improvviso che i più consumati autori, scrivendo pensatamente. Fece vedersi su i teatri di Roma (che in quel tempo le donne vi comparivano), in Fiorenza e in altre città della Toscana; come pure in Venezia e per tutta la Lombardia; e in ogni luogo rimaneva il nome delle sue virtù impresso nelle menti degli uomini. Nel giungere ch'ella faceva in qualche città, si sparava l'artiglieria (e ciò non è favola) per l'allegrezza del suo arrivo o del suo ritorno, e i principali della terra le andavano incontro, e i dotti portavansi a lei per lo schiarimento di molti dubbi che avevano intorno a questioni filosofiche. I musici, i poeti e i pittori cercavano, con ogni sforzo ed industria, di renderla coll'arti loro immortale: ed i più nobili ed illustri cavalieri, per onor suo, mostravano in giostre, in barriere ed in altri tornei il lor valore; ed ella stessa poneva il premio al vincitore, e dava a molti bellissime imprese con i suoi motti appropriati, che erano da tutti avuti più a caro di qualsivoglia ricco dono. I principali signori d'Italia concorrevano in mandarla a ricercare dovunque ella si fosse, acciò andasse a ricreare le loro città, e a spargere in esse il fecondo seme della sua virtù. Di corpo era bellissima, d'una statura piuttosto grande che no; e con esatta proporzione, e conveniente misura erano situate le belle membra. Aveva i capelli lunghi e finissimi del colore dell'oro; e le ciglia nere arcate e sottili, da giusto intervallo divise. La fronte pareva di lucido e terso alabastro: e le nasceva profilato il naso da i confini delle ciglia, scendendo per mezzo il volto con debita convenienza. Fiammeggiavano gli occhi suoi, e tra il bianco e il nero avevano molta vaghezza, ora ridenti, or lusinghevoli, ed ora altieri. Le sue candide guancie rosseggiavano in mezzo senza artifizio alcuno. La bocca, del color di rubino avea le labbra, e mostrava in aprendosi i suoi denti bianchissimi in egual ordine graziosamente disposti. Avea bellissime mani, ed era in tutto graziosa, modesta e gentile. Nel maggior grido della sua fama, portatasi in Cremona a recitare, dopo d'avere esposti per più d'un mese i parti del suo dotto intelletto, infermossi; e nel fiore degli anni, travagliata da breve malattia, munita degli ordini sacri, e piena di rassegnazione, cristianamente, con dispiacere universale, rese l'anima al Creatore il dì 11 settembre l'anno 1569. Adriano Valerini, comico famoso, il quale onestamente amavala, ed era da lei corrisposto, l'assistè sino all'ultimo respiro; unito al quale, da essa udì queste parole: “Adriano, restiti in pace, io me ne vado. Addio!„ Questo comico scrisse e recitò la sua Orazione funebre, che insieme con le rime di diversi autori, in lode di questa celebre comica, fu stampata in Verona l'anno 1570.„
Bisogna convenire che a quel tempo non v'era penuria di calda ammirazione per i degni rappresentanti dell'arte drammatica. Viceversa, per i non eletti, trovo quest'atroce invettiva: “Ma quei profani comici che pervertono l'arte antica introducendo nelle commedie disonestà solamente e cose scandalose, non possono passare senza aperto vitupero, infamando sè stessi e l'arte insieme con le sporcizie che ad ogni parola scappano loro di bocca; e quanto maggiore ornamento acquista l'arte comica dai precedenti, tanto maggiore infamia trae da costoro, ch'anno con l'Aretino o col Franco cambiato la lingua per ragionare solo da sporchi e vituperosi come sono!„ Scusate s'è poco!!! Dopo aver udito le due campane della lode e del biasimo, dobbiamo persuaderci che il mondo fu sempre eguale; che in allora, come oggi, v'era un'eccedente esagerazione nella lode, come troppa acrimonia nel biasimo avventato, licenzioso ed offensivo. Negli omaggi entusiastici prodigati a quelle celebrità, mai si accenna ad una delle migliori prerogative dell'artista drammatico, quale è quella del porgere naturalmente e della dizione nitida e vera, e mi vien fatto perciò domandarmi da quali massime gli attori d'allora erano guidati? Con quali mezzi, e per quali meriti fisici e intellettuali diventarono grandi? Con qual forma, con quale concezione, con quale ispirazione interpretavano e riproducevano i vari caratteri e le diverse passioni? Ignoto! Mistero!... Cominciando da Roscio e da tutta la falange degli illustri artisti più sopra citati, che ne sappiamo noi? Che furono eccelsi attori, e nulla più! Non vi sembra che l'arte rappresentativa, diseredata dal suo nascere d'esemplari ricordi, non abbia diritto, per legge di compensazione, a dimostrazioni più entusiastiche, più esaltate dell'altre sue sorelle, alle quali è dato il vantaggio enorme d'un'analisi costante e d'una ammirazione imperitura? Non dobbiamo quindi meravigliarci se si prodigano ai seguaci di Roscio esuberanti manifestazioni di simpatia, le quali sono destinate ad essere sepolte con chi le promosse.
Permettetemi ora un breve cenno sui precetti dell'arte drammatica di quel tempo, per poi conchiudere. Il dotto israelita, De Sommi, mantovano, poeta e autore drammatico, nella sua opera in materia di rappresentazione scenica, nel terzo dialogo, sui recitanti, s'esprime così: “Nell'attore è a ricercare buona pronunzia, e questo più che altro importa: e poi cerco che sieno d'aspetto, rappresentante quello stato che hanno da imitare più perfettamente che sia possibile, come sarebbe, che un innamorato sia bello, un soldato membruto. Pongo poi gran cura alle voci di quelli, perchè io la trovo una delle grandi e principali importanze.... E se io, poniam caso, avessi a far recitare un'ombra in tragedia, cercherei una voce squillante per natura, o almeno atta con un falsetto tremante a far quell'effetto che si richiede in tal rappresentazione.„ A me sembrerebbe cosa quasi ridicola udire un'ombra parlare in falsetto tremante. E neppure in tutto sono d'accordo con lo scrittore Ingegneri il quale vuole “che l'ombra abbia una voce alta e rimbombante, ma ruvida ed aspra ed in conclusione orribile e non naturale e dello stesso tuono.„ (Dello stesso tuono e non naturale, ne convengo, ma a mio credere la voce dovrebbe essere non alta ma sonora, non ruvida ed aspra, ma cavernosa e monotona). Torno al De Sommi: “Delle fattezze dei visi non mi curerei poi tanto, potendosi agevolmente con l'arte, supplire ove manca natura„ (l'arte non darà mai l'espressione e la vivacità naturale alla fisonomia!) “ma non mai però in caso alcuno mi servirei di maschere, nè di barbe posticce, perchè impediscono troppo il recitare„ (e dovendo rappresentare Barbarossa, lo vorrebbe sbarbato?) “e se la necessità mi costringesse far fare ad uno sbarbato la parte di un vecchio, io gli dipingerei il mento, sì ch'egli paresse raso; con una capigliatura canuta sotto la berretta, e gli darei alcuni tocchi di pennello sulle guancie e sulla fronte, tal che non solo lo farei parere attempato, ma decrepito, e grinzo bisognando.„ (I tocchi sulle guancie e sulla fronte, sta bene, ma perchè la capigliatura canuta sotto la berretta? Non era più naturale e semplice il dire, con una parrucca bianca? Seguiamo!).“L'attore dovrà dir forte quanto basti da farsi intendere comodamente a tutti gli spettatori, acciò non cagionino di quei tumulti che fanno sovente coloro, li quali per essere più lontani, non ponno udire, onde ha poi disturbo tutto lo spettacolo.„ (A quanto pare, anche allora il pubblico era talvolta riottoso!) “Bisogna che l'attore s'ingegni di variar gli atti, secondo la varietà delle occasioni; dico, che non basterà ad uno che faccia la parte, poniam caso, d'un avaro, il tener sempre le mani sulla scarsella, il tentar spesso se gli è caduta la chiave dello scrigno, ma bisogna anche che sappia, occorrendo, imitare la smania ch'egli avrà, exempli gratia, intendendo che il figliuolo gli abbia involato il grano.„ (Ora viene il buono!) “E se farà la parte d'un servo, in occasione d'una subita allegrezza, saper spiccare a tempo un salto garbato: in occasione di dolore stracciare un fazzoletto co' denti: in caso di disperazione trar via il cappello, e simili altri efficaci effetti, che danno spirito al recitare.„ (E che ai tempi nostri farebbero fischiare!) “E se farà la parte d'uno sciocco, oltre il risponder male a proposito, il che gl'insegnerà il poeta con le parole, bisogna che a certi tempi, sappia far anche di più lo scimunito: pigliar delle mosche, cercar delle pulci, e altre siffatte sciocchezze. E se farà la parte d'una serva, saper scuotersi la gonnella lascivamente, se l'occasione lo comporta, ovvero, mordersi un dito per isdegno, e simili cose, che il poeta nella testura della favola, non può esplicatamente insegnare.„ (Per fortuna sua!) In quanto al modo che il De Sommi voleva vestiti gli attori, non è meno curiosa una breve descrizione. Egli scrive: “Io m'ingegno poi quanto più posso, di vestire i recitanti fra loro differentissimi: e questo ajuta assai, sì allo accrescere vaghezza con la varietà loro, e sì anco a facilitare l'intelligenza della favola. Ora, se io avrò (per gratia di esempio), da vestire tre o quattro servi, uno ne vestirò di bianco con un cappello; uno di rosso con un berrettino in capo; l'altro a livrea di diversi colori; e l'altro adornerò per avventura con una berretta di velluta e un paio di maniche di maglia, se lo stato di lui può tollerarlo, parlando però di commedia che l'abito italiano ricerca; e così, avendo da vestire due amanti, mi sforzo, sì nei colori, così nelle fogge degli abiti, farli tra loro differentissimi: uno con la cappa, l'altro col ruboncello: uno co' pennacchi alla berretta, e l'altro con oro senza penne: a fine che tosto che l'uomo vegga, non pure il viso, ma il lembo della veste dell'uno o dell'altro, lo riconosca, senza aver da aspettare, ch'egli con le parole si manifesti: avvertendo generalmente, che la portatura del capo è quella che più distingue, ch'ogni altro abito, così negli uomini come nelle donne; però sieno diversi tutti fra loro quanto più si possa, e di foggia e di colori. Nè mi resterei di vestire un servo di velluto o di raso colorato, purchè l'abito del suo padrone fosse con ricami e con ori cotanto sontuoso, che avessero tra loro la debita proporzione.„ (Così, se una signora caduta al basso e priva di mezzi, fosse costretta a vestire di mussolina, per star ligi alla proporzione, qual'altra stoffa dovrebbe usare la sua cameriera? Io non vi vedrei che quella adottata da Eva; e prima del peccato).
Concretando su quanto vi descrissi dei componimenti tragici e comici: degli attori e critici loro, come dei precetti che guidavano gli artisti sul modo d'interpretare ed esporre i caratteri; ed infine, sul gusto d'abbigliarsi sulla scena, mi abbisogna vagare su induzioni che potrebbero essere fallaci; pure non mi pèrito ad emettere la mia opinione, dicendo che le aspirazioni artistiche di quel secolo tendevano più alla ricerca del bello nell' arte, anzichè al bello nella natura; più all'estetica della parola, che a quella dei caratteri e dell'azione: più a soddisfare i sensi, che a convincere l'intelletto.... escludendo però del tutto l'idea in me di menomare con questo, il sovrano ingegno di coloro, che nelle composizioni, come nelle interpretazioni, furono giustamente proclamati sommi. Se esiste l'arte bella, vi è pure l'arte vera. L'arte bella si discute e si giudica col sentimento convalidato dall'istruzione, dall'educazione e dai costumi filtrati, ed assorbiti nel secolo in cui uno vive. L'arte vera è intangibile in tutte le epoche. Non si giudica; v'incanta, vi affascina, e s'idolatra. La prima è frutto dell'ingegno, la seconda del genio. L'arte vera non è stata, non è, e non sarà che una, ed è figlia della natura; e come dice Dante: è quasi nipote a Dio! Lasciando da parte il grado di nobiltà ch'essa occupa, la drammatica, sebbene infelice dal suo nascersi, come dissi più sopra, a parer mio, è l'arte più perfetta e più utile di quant'altre mai. La scultura e la pittura riproducono anch'esse la natura, ma le loro figure, sebbene esprimenti un pensiero, restano immobili: non parlano, non gesticolano, non respirano. Vedute cento volte non vi rivelano che la stessa idea.... immobilmente tacita; nè presto alcuna fede alla favola di Pigmalione, se lo scalpello d'un Michelangelo non ebbe il potere di far parlare il suo Mosè! Ammirando quelle figure, l'effetto morale siete obbligato raccoglierlo nella vostra immaginazione. Così, anche il componimento drammatico, è sterile, inanimato, se non riceve l'alito fecondatore della rappresentazione.
L'arte della scena ha il potere d'insinuare nell'anima degli spettatori quei sentimenti, quelle passioni, quegli entusiasmi, che già intuiti dall'artista, trasfonde all'uditorio, non con mezzi estranei e fittizî, indispensabili alle altre arti, ma con quelli della movenza facciale, della voce, del sentimento e della feconda parola, che sono le legittime, vere, naturali espressioni dell'uman genere. È tanto convincente, persuasiva, insinuante quest'arte, che, in ogni tempo, ma più nel XVI secolo, dal previdente ed astuto clero, fu temuta, quindi osteggiata, non come esempio di pervertimento ai costumi, ma come potente diffonditrice di quella istruzione, di quei liberali sentimenti, di quelle patriotiche aspirazioni e di quelle nobili ed oneste tendenze, per le quali e con le quali soltanto, si formano le grandi Nazioni.
Ma mi avveggo che l'ora assegnatami è di soverchio trascorsa, e non voglio abusare maggiormente della benevolenza de' miei cortesi ascoltatori. A coloro, che per caso avessero qualche piccolo peccatuccio veniale da scontare, dico, che dopo la penitenza da me, ad essi, imposta quest'oggi, vengono del tutto purificati. Gli altri, che per le devote pratiche pasquali la partita del dare e avere hanno liquidata, saranno rimunerati dal sommo Fattore di tutte cose. Ma tanto a gli uni che a gli altri, debbo i sensi della mia riconoscenza che per non tediarvi di più, compendio in una sola parola. Grazie.
LA MUSICA NEL SECOLO XVI[13]
DI
G. A. BIAGGI
“Di tutte le opere dell'uomo (scrisse ne' suoi Ricordi Massimo D'Azeglio), la più meravigliosa ed insieme la sola per me inesplicabile, è la musica.
“Capisco la poesia, capisco la pittura, la scultura, le arti d'imitazione insomma. Il loro nome ne svela la origine. V'era un modello, la umanità v'impiegò secoli per imitarlo, e finalmente lo imitò.
“Capisco le scienze. Dato il raziocinio, non trovo difficoltà a comprendere che, profittando ogni età delle riflessioni dell'età antecedente e, per così dire, salendo sulle sue spalle, la umanità si sia inalzata al punto al quale oggi si trova.
“Ma dove diamine siamo andati a cercare la musica? Questo è quello che non capisco.
“La musica è un: Mistero.„
Il D'Azeglio disse benissimo. Così nella sua essenza come ne' suoi effetti, la musica è un mistero.
Le arti del disegno hanno elementi determinati, costanti e invariabili nel mondo fisico. La musica, al contrario, col mondo fisico non ha nè legami nè attinenze di sorta. Pur col ritmo o col suono, che sono i primi suoi elementi, ella è già nel campo della idealità.
Il suono, considerato in sè stesso, ha proprietà e leggi ben note al cultore dell'acustica. Ma quelle proprietà e quelle leggi, almeno sino ad ora, con la musica non han nulla a vedere.
Quando dai calcoli e dalle dimostrazioni dell'acustica, passiamo a ciò che costituisce il linguaggio musicale, alle attrazioni de' suoni, alle loro repulsioni, alle loro energie, alla potenza che hanno di destare in noi diversi ordini di sentimenti e commozioni vive così da mutare in un attimo lo stato dell'animo nostro, tutto è mistero.
A' giorni nostri, col Tyndall e coll'Helmholtz, la scienza acustica ha fatto un gran cammino, è giunta ad un meraviglioso grado di sviluppo; e si dice da non pochi, che nell'opera di quegli illustri uomini è a vedersi: un ponte gettato fra la scienza e l'arte.
Ebbene, o Signore e Signori, io avrò torto, è facile, pur troppo; sarò cieco (può darsi anche questo), ma quel ponte non mi venne mai fatto di vederlo — e non lo vedo.
Per me, gli ultimi progressi dell'acustica lasciarono le cose in quel medesimo stato ch'eran prima.
La scienza è da una parte ricca di verità dimostrate e provate, di scoperte fortunatissime, di postulati irrecusabili. L'arte è dall'altra parte, bella, attraente, luminosa, — se si vuole; ma in tutto, come prima, legata all' empirismo. E fra l'una e l'altra, nel luogo dove dovrebbe essere il famoso ponte, impedimenti e barriere senza numero, lacune, pozzanghere, scogli ben alti e ben irti, e una rete fitta e imbrogliatissima di viottole, quali senza uscita, quali ripiegantisi oziosamente sopra sè stesse.
E come coll'acustica, la musica non ha nulla a vedere colla matematica.
Tollerate, o Signori, ch'io insista a dire delle teoriche, — perchè il saper bene di dove vengono e ciò che sono, è imperiosamente voluto dal concetto che informa il discorso ch'io sto infliggendovi.
Se stiamo a quanto raccontano Porfirio e i filosofi della scuola d'Alessandria, Pitagora sarebbe stato il primo ad affermare: “essere la musica una scienza figlia della matematica.„ Com'egli voleva spiegare la perfezione della causa prima, l'essenza dell'anima umana e le leggi tutte della natura a forza di numeri, così a forza di numeri voleva pur spiegare l'essenza e gli effetti della musica.
Quel concetto, con Tolomeo, con Macrobio, col Boezio, col Galilei, padre e figlio, coll'Eulero, col Rameau, coi Tartini e con altri di minor nome, attraversò i secoli e venne, vivacissimo sempre, sino a noi, quantunque validamente combattuto da Aristosseno, da Aristide Quintiliano, dall'Eximeno, dal Requeno, dal D'Alembert, dal Fétis; — quantunque dimostrato erroneo dalla costante e intera sua sterilità e dalla sua inettezza a piegarsi e ad acconsentire come che sia, ai modi e ai bisogni della pratica.
Che quel concetto di Pitagora fosse vivo e ben vivo nel secolo XVI, lo sappiamo dal Fogliani, e, più esplicitamente, da Giuseppe Zarlino: teorico famosissimo di quel secolo.
Zarlino, nelle sue Istituzioni armoniche, racconta sul serio che Tolomeo, accettata la dottrina pitagorica, vi portò di suo una inversione. E cioè: mentre Pitagora voleva spiegare la musica con la matematica, Tolomeo voleva spiegare la matematica con la musica. E applicando quella sua idea alla astronomia, insegnò: che dalla Terra alla Luna, corre l' intervallo di un tono, e un semitono da Mercurio a Venere, e da Venere al Sole un tono e un semitono, da cui venne a stabilire: che dalla Terra al Sole corre preciso preciso l' intervallo di quinta.
Zarlino, che fu pure un forte ingegno e un uomo cultissimo, ammise senz'ombra di difficoltà quella teorica, e riconobbe: che le distanze correnti fra i pianeti e quelle correnti fra gli intervalli musicali si corrispondono con meravigliosa esattezza, che si combaciano addirittura. Tanto da poter concludere: che, veramente, le leggi della musica si dovrebbero desumere da quelle che governano i movimenti degli astri. Ma non ammise però l'intervallo corrente fra la Luna e la Terra. E combattendo Tolomeo, ecco come argomenta: l'intervallo suppone necessariamente due suoni. Ora, nel caso, di cui trattasi, uno di que' due suoni move dalla Luna; e si capisce, sta bene. Ma l'altro suono dovrebbe muovere dalla Terra: e questa (son sue parole) è cosa fuori d'ogni ragione, conciossiachè (s'avverta che l' Eppur si muove di Galileo uscì quaranta o cinquanta anni dopo) conciossiachè non può essere che quelle cose le quali per loro natura sono immobili, com'è questo elemento che dicesi Terra, siano atte a generare l'armonia.
Nè la astronomia cessò di essere associata alle teoriche musicali con lo Zarlino. Un buon secolo dopo, e precisamente nel 1657, il padre Girolamo d'Avella uscì a distinguere e a classificare i Toni, secondo la influenza che subiscono, o del Sole, o della Luna, o di Giove, o di Venere, o dei segni dello Zodiaco; non senza fare una classe a parte per quelli che van soggetti alle eclissi.
E di teoriche battute a questo conio, senza ferme basi, non altro che speculative, arbitrarie e non di rado assurde, più e più altre. E chi dicesse che dal più al meno sono tutte così, per me non andrebbe molto lontano dal vero.
Da questo: la teorica che contraddice e s'oppone alla pratica; la musica plumbea e assiderata delle scuole; e la musica viva, vivificante ed alata che viene per diretto da Dio e dalla natura.
I musicisti pratici, i valenti davvero e, più specialmente que' fortunati intelletti che si dicono genii, non attesero mai a dettar regole nè a compilare trattati, e scrissero sempre come loro dettavan dentro la fantasia e il cuore. E i trattatisti abbandonati a sè stessi, ostinati nelle loro speculazioni, incatenati alle loro formule e ai loro pronunziati come se fossero dogmi (quantunque perpetuamente inapplicati), riusciron sempre e pressochè tutti alla saccenteria e alla pedanteria, presi i vocaboli nel peggiore loro significato. Il che vien dimostrato a luce meridiana dal fatto, che nell'arte musicale nessun savio tentativo, nessuna innovazione, nessun miglioramento, per quanto voluto dalla ragione, potè farsi strada e stabilirsi, senza destare le ire, non sempre incruente, e le imprecazioni dei precettori e delle loro scuole. E fu così in ogni tempo. Timoteo venne condannato all'esilio dagli Efori di Sparta, reo d'aver aggiunta una corda alla lira. Guido d'Arezzo che ideò il Rigo (senza il quale la musica non sarebbe stata mai un'arte), e che trovò il modo d'insegnare in pochi giorni ciò che prima richiedeva dieci e più anni di studi, Guido ebbe a combattere con tutti i precettori de' suoi giorni; e se non fu condannato all'esilio, fu costretto (e a quel che pare, per disperazione) ad abbandonare il tranquillo ritiro della Pomposa e ad esiliarsi da sè stesso. Zarlino ebbe a vedere assalita di nottetempo la tipografia dove si stampavano le sue opere e trafugati e dispersi i suoi manoscritti. Contro il Monteverdi, perchè non obbediente ciecamente ai trattati, non fu insolenza e ingiuria che non venisse scagliata. E a quali censure e a quali fatti si lasciassero andare i trattatisti e i direttori de' Conservatorii contro il Mozart, il Beethoven, il Rossini e il Bellini, non istarò a dirlo, perchè storia notissima a tutti.
Tenuto fermo che nella sua essenza e ne' suoi principii attivi la musica è un mistero, che le sue teoriche sono precisamente in quello stato che ho detto, è facile capire che, quanto alla sua didattica, tutto deve ridursi ad una serie più o meno logica di postulati e di precetti empirici.
Tant'è. Ma v'ha empirismo e empirismo. V'ha quello che l'Humboldt ammetteva persino ne' severi procedimenti delle scienze; quello cioè, che raccoglie i fatti, che li analizza, che li aggruppa secondo le analogie, e che opera sempre col soccorso di ipotesi stabilite su cognizioni accertate. E v'ha l'empirismo inculto, cieco, che tende sempre al basso, e che ha parentele vive e pericolosissime con la ciarlataneria. E quest'ultimo, mi duole di doverlo dire, nelle scuole musicali è il dominante.
S'aggiunga, a dimostrar meglio quanta ragione s'abbiano coloro che dicono la musica: una scienza, che quel secondo empirismo, così inculto e cieco com'è, dalla teoria passa intatto nella storia, da cui viene, comunissimo a non pochi scrittori e ad un nuvolo di compilatori, un “maiuscolo paralogismo„ quello di ritenere come inerenti alla natura e all'essenza dell'arte, i risultati delle speculazioni dirette ad intenderla ed a dichiararla; senza fermarsi ad osservare che le speculazioni possono essere mal fondate, mal condotte e riuscenti per necessità logica al falso.
Ond'è che, pur a' giorni nostri, si dice e si stampa, ad esempio: che ne' secoli decimoquarto, decimoquinto o decimosesto, alla musica mancavano gli intervalli e gli accordi più essenziali.
Ma mancavano alla musica proprio, o sfuggirono alle analisi de' teorici? o è, come è da credere, che i teorici, piena la mente di preconcetti, non li seppero trovare o non li vollero vedere?
Agli scrittori e ai compilatori de' quali parlo, que' dubbi non caddero in mente; e, stretti al fatto che la teorica non fa parola di alcuni intervalli e di alcuni accordi che assai tardi, han creduto ed insegnato (e seguitano a credere e ad insegnare) che sino allora quegli intervalli e quegli accordi non c'erano, o, come pur dicono, non esistevano!! Quanto credere e insegnare che prima del Cesalpino il sangue umano non circolava, e che al tempo di Tolomeo il cielo non era che una gran vôlta di cristallo bucherellata qua e là dalle stelle!
In ciò che ho detto sin qui, stanno le cagioni principalissime che in ogni tempo resero incerto, faticoso e incredibilmente lento il cammino dell'arte de' suoni. Lento per modo, che a quel grande e mirabile movimento intellettuale che iniziato da Dante giunse a Raffaello, al Buonarroti, all'Ariosto e al Machiavelli (al Risorgimento, in una parola), ella rimase in tutto e per tutto estranea.
Sul principio del secolo XVI, mentre la poesia, la pittura, la scultura, l'architettura correvano trionfanti per vie tutte luce e splendori, la musica anfanava nelle tenebre, smarrito affatto il sentimento del bello, avversa ad ogni sano intendimento estetico, avversa, e pertinacemente, a tutto ciò che poteva redimerla.
Che se n'era egli fatto di quel canto che Dante sentiva nell'anima, che quetava tutte le sue voglie, e pel quale rese immortale il Casella? Sparito, interamente sparito.
Può supporsi che di quel canto rimanessero traccie nelle Laudi spirituali, nelle canzoni popolari e in quelle de' Cantarini o Cantori da panca stipendiati da' Comuni, o in quelle, più probabilmente, de' Cantori a liuto; ma nella musica che tenevasi in dignità di arte, nè traccie, nè indizii.
Sul principio del cinquecento, imperava la scuola Fiamminga; una scuola sorta nelle Fiandre sullo scorcio del trecento; che si distese, dominatrice assoluta, per tutt'Europa; che idoleggiava l'artifizio; e che, in conseguenza, non solo non faceva il menomo conto, ma teneva in intero dispregio, così il canto come la melodia: elementi troppo semplici, troppo bassi e volgari per poter entrare a far parte del legittimo patrimonio dell'arte.
Sin dove trascorressero i compositori di quella scuola cogli artifizii del contrappunto non è a dire. Chi avesse la pazienza di descrivere lo strazio ch'essi fecero della povera musica, fornirebbe alla storia dei delirii umani uno dei più curiosi e strani capitoli.
In ordine ai contrappunti, con gli ostinati, coi perfidiati, coi cancherizzati, con quelli alla zoppa e in salterello, essi giunsero ai retrogradi contrari i quali si dovevano eseguire, prima tenendo il foglio pel suo diritto, poi capovolgendolo pel rovescio. Da cui seguiva (difficoltà pel compositore da far strabiliare!) l'invertimento delle parti; quelle che per un verso eran del soprano, del contralto, del tenore e del basso, per l'altro verso eran quelle del basso, del tenore, del contralto, del soprano. E coi canoni giunsero agli enigmatici, per sciogliere i quali davasi con un motto, una specie di traccia. Ad esempio: Sol post vespera declinat, con che avevasi a intendere che ad ogni ripresa, il canone doveva abbassarsi di un tono. Scempiaggini, stranezze, deliri, — lo accordo.
Ma non accordo si possa dire però coi seguitatori dell'Helmholtz, che le opere de' Fiamminghi non sono altro che tours de force senza valore musicale.
Senza valore estetico, sì. Ma senza valore musicale, no. Perchè quella parte dell'arte che dicesi estetica potesse esplicarsi liberamente e alzarsi alla bellezza espressiva, era necessario che la parte tecnica si componesse prima in un certo ordine e acquistasse una certa fermezza. E questo fecero i Fiamminghi indubbiamente. Posta negli strettoi dei loro artifizi, la materia dell'arte si rese pieghevole ed atta ad una infinita varietà di atteggiamenti e di forme. In que' giri tortuosi, in que' continui avvolgimenti e contorcimenti cui erano forzatamente condotti, i suoni si mostrarono sotto tutti gli aspetti e rivelarono intera l'indole loro.
Non è poco. Ma in ogni caso, c'è da aggiungere che ai Fiamminghi andiamo debitori del contrappunto, e che il contrappunto, per quanto inestetico, ne' suoi principii e ne' suoi intenti, per quanto empirico nelle sue applicazioni scolastiche, o volere o volare, è ancora il fondamento de' buoni studi di composizione. Che che si dica, il compositore non contrappuntista, sarà sempre un compositorello; un canzonettaio.
Per ciò che fecero in favore della didattica, i Fiamminghi potrebbero andar assolti d'ogni peccato risguardante l'estetica.
Ma di peccati ne commisero altri, e non posso tacerli.
Non uno di que' compositori che avesse cura di mettere in una certa armonia, almeno, il carattere e la espressione delle note, col testo e col significato delle parole. A questo non badavano per nulla. Fra le Messe e stampate e manoscritte, appartenenti a quel tempo, ne ho trovate parecchie, nelle quali sotto le prime note de' pezzi, leggevasi o Kyrie o Gloria o Sanctus, ma dopo queste, non più parole. Nè si pensi che così facessero o gli stampatori o i copisti a risparmio di tempo e di fatica. Come attestano gli autografi, facevano così gli stessi compositori. E la prova provata che alle parole non avevan badato, esce da questo, che ad adattare sotto le note gli interi versetti, non si riesce che a stento, e non senza ripetizioni e storpiature.
E non è tutto. Alle parole prescritte dalla liturgia, ne aggiungevano altre a capriccio. In una Messa avente a tema l' Ave Maria del canto fermo, si canta contemporaneamente dai soprani il Kyrie, dai contralti il Gloria, dai tenori il Credo e dai bassi l' Ave Maria per disteso.
E non è tutto ancora. Si fece mille volte peggio. Non contenti dell'accoppiamento di parole diverse, ma sacre, vennero all'accoppiamento di parole sacre e profane, — e di che tinta profane! In una Messa dell'Obrecht, al primo Kyrie, il tenore canta, in volgare: Io non vidi mai la più bella! Al Christe: Oh! buon tempo! Al secondo Kyrie: Dove potrò mai trovarla! All' Osanna: Il segreto del mio cuore! E al Benedictus: Signora, fatemi sapere se....
E Messe così fatte, incredibile a dirsi! erano cantate alla presenza del Papa e dei Cardinali da quella Cappella Sistina che salì dopo in tanta e così bella rinomanza.
A quella maniera di Messe, che era, insieme, un pervertimento artistico e morale, si venne accomodando di punto in punto la esecuzione. Di questo ne fa certi la risposta del cardinale Domenico Capranica, reduce dalla Nunziatura di Lisbona, data al papa Niccolò V, quando lo richiese del suo parere intorno al merito de' famosi suoi cappellani cantori: Santità, disse schietto il Cardinale, mi par di udire una mandra di porcelli che grugniscono a tutta forza, senza proferire un suono articolato, non che una parola.
Giunte le cose a tale estremo, si sentì il bisogno di porvi rimedio; e vi si pose.
Ma, come corse per secoli in tante e tante opere pretese storiche, e come di quando in quando ritorna a correre negli scritti degli storici compilatori e dilettanti, chi fu il primo a trovare e a proporre il rimedio non fu il Palestrina. Bensì egli lo attuò e da par suo. Secondo quegli scrittori: il Papa Marcello II, scandolezzato e indignato de' tanti sacrileghi abusi, avrebbe formalmente licenziati i cappellani-cantori e posta la musica al bando della Chiesa; e il Palestrina, poco dopo, con una castigatissima sua Messa avrebbe ottenuta la revoca di quel decreto. In questo nulla di vero.
La musica, intanto, non fu mai proscritta dalla Chiesa da nessun Papa. Quanto a Marcello II, può aversi per certissimo che della musica non s'occupò menomamente, perchè non ebbe il modo e nemmeno il tempo.
Marcello II, come abbiamo dal Polidori suo biografo, fu eletto la sera del 9 aprile (martedì santo del 1555) e volle essere consacrato vescovo e incoronato il giorno dopo: affine di potersi tutto impiegare in que' giorni cotanto santi, nei divini uffizi. E infatti non mancò a nessuna delle tante funzioni che si celebrano nella Cappella Sistina dal mercoledì santo al dì di Pasqua.
Il sabato in albis, Marcello II era a letto infermo, e dieci giorni dopo (il 30 dello stesso aprile) rese l'anima a Dio. In tutto, un pontificato di ventidue giorni, undici dei quali, di malattia. Ora, come e quando avrebbe egli avuto tempo e modo di pensare alla musica, e, cosa al certo di non piccolo momento, di decretarne la proscrizione? E dove, pel Palestrina, il tempo di comporre una Messa e d'apprestarne la esecuzione?
Sul conto di quella celebratissima messa (che venne poi dedicata alla memoria di papa Marcello) ecco la verità quale esce dai diari che si conservano nella Biblioteca della Cappella Sistina, e come l'abbiamo nella biografia del Palestrina scritta dall'abate Baini.
I cardinali Vitellozzi e Borromeo, deputati dal papa (Paolo IV) al riordinamento della musica religiosa ne' termini decretati nella sessione XXII del Concilio di Trento, posero per principio e stabilirono: I. che i Mottetti e le Messe con accoppiamenti di diverse parole, non dovevansi più eseguire; — II. che del pari non dovevansi più eseguire le Messe lavorate sopra temi di canzoni profane e laide; nè i Mottetti scritti da persone private. — Si discusse quindi per definire se le parole sacre cantate dal coro si sarebbero udite più scolpitamente e sempre. I due cardinali desideravano che fosse; ma i cappellani-cantori risposero recisamente: che non era possibile. Instavano i cardinali: “ Se le si possono udire e le si odono alcune volte, perchè non sempre? „ Replicavano i cappellani cantori: “ esserne in colpa l'obbligo delle fughe e delle imitazioni che costituiscono il carattere della musica armonica; e che non era possibile privare la musica di quegli artifizi, senza snaturarla.„
In questa discussione vennero citati dai cardinali un Te Deum di Costanzo Festa, gli Improperi e alcuni pezzi della Messa: ut, re, mi fa, sol, la del Palestrina, come esempi (quanto alle parole) senza eccezione. Ma i cantori rispondevano: “ che quelle erano composizioni brevi, e che nelle fughe, massime del Gloria e del Credo, non si sarebbe potuto ottenere in egual maniera la chiarezza delle parole, offuscate dagli imprescindibili giri e ritorni delle Imitazioni e delle Fughe.„
Venuti i dissenzienti a partito, fu infine risolto: si desse commissione al Palestrina di scrivere una Messa, che stesse in tutto alle prescrizioni de' due cardinali e nella quale le Imitazioni e le Fughe non impedissero in nessun modo le parole.
In luogo di una Messa sola, il Palestrina ne scrisse tre: delle quali, eseguite per prova in casa del cardinale Vitellozzi il 21 aprile 1565, venne scelta per acclamazione la terza.
In quella Messa, il Palestrina vince tutte le difficoltà, supera tutte le barriere e, ispirato, procede con la indefettibile sicurezza del genio. Nè artifizi di contrappunti, nè complicazioni di sorta, nè arruffii di parole; piena e maestosa la sonorità, severi i giri degli accordi, severe, ma nettamente disegnate e sto per dire melodiche, le cadenze; solenne, tuttochè semplice, lo stile. Non una nota in quella Messa che non sia la rivelazione o la sanzione d'una sana regola dell'arte, mentre da ogni nota esala purissimo il sentimento religioso. Avuto riguardo alle condizioni in cui allora trovavasi la musica: un miracolo di bellezza.
Quando venne pubblicamente eseguita per la prima volta (il 19 del giugno 1565), Pio IV esclamò: “ Sono queste le armonie del nuovo cantico che San Giovanni apostolo udì nella celeste Gerusalemme, e che un altro Giovanni (Palestrina) ci fa udire nella Gerusalemme terrestre.„
La Messa di papa Marcello nella cui musica è una così viva aspirazione alla melodia e al canto, scosse dalle basi il grottesco edifizio dell'arte fiamminga, ed è, incontrastabilmente, la pietra angolare dell'arte italiana; di quell'arte italiana che fu poi, sino a' giorni nostri, l'arte di tutto il mondo.
Del Palestrina, qui non saranno affatto fuor di luogo alcuni cenni biografici.
Il vero suo casato è Pierluigi, e il nome, Giovanni. Fu detto Palestrina dalla piccola città delle Romagne, dove nacque, per quanto si sa, nel 1524.
Chiamato alla musica da molte ed elette disposizioni naturali, si recò, giovinetto, a Roma, dove fu ammesso alla scuola, aperta poco innanzi da Claudio Goudimel, compositore di grande e meritata fama.
Da quella scuola, il Palestrina uscì maestro, tanto che nel 1551 venne nominato Direttore della Cappella Giulia in San Pietro Vaticano. Dalla Cappella Giulia passò alla Sistina (dalla quale fu poco dopo espulso, perchè ammogliato) e quindi alla Cappella di San Giovanni in Laterano, a quella di Santa Maria Maggiore, e di nuovo alla Giulia, in San Pietro, rimasta vacante per la morte di Giovanni Animuccia.
Il Palestrina fu uomo di specchiata onestà, di severi costumi e, come artista, indefesso al lavoro, operosissimo; — il che non tolse ch'egli non avesse sempre a combattere con le strette della povertà, mal bastando gli stipendi delle cappelle alle prime necessità della vita. Egli morì, assistito e confortato da San Filippo Neri, il 2 febbraio 1594.
Alla scuola del Goudimel, il Palestrina non è a farne meraviglia, s'era educato e fatto ai principii e al gusto de' Fiamminghi. Le prime sue Messe (pubblicate nel 1554) son tutte fatica e stento; tutte a imitazioni, a fughe, a canoni, a rodelli, a misure e andamenti binarii, posti a forza sopra misure e andamenti ternarii. Nè seppe guardarsi dagli strani accoppiamenti di parole. In una sua Messa, così nel Kyrie, come nel Gloria e nel Credo, v'ha sempre una parte che canta l'antifona: Ecce sacerdos magnus, ecc.
Nel Palestrina adunque sono a vedersi due compositori ben distinti fra loro: il fiammingo sino alla Messa di Papa Marcello, e da quella Messa in poi, l'italiano.
E se qui mi si domandasse: Dove le cause così determinanti dei decreti del Concilio di Trento e del programma de' cardinali Vitellozzi e Borromeo non fossero state, il Palestrina avrebbe abbandonata la prima sua maniera? E avrebbe trovata la seconda, passando in un subito da un gretto e pretenziosissimo meccanismo, ad una semplicità ispirata e che ha del divino?
Pur ammirando in quel compositore un maestro solenne e un altissimo ingegno a quelle domande io sarei tentato di rispondere negativamente.
I musicisti amano il suono; — ed è giusto. Ma del suono (chi non lo sa e non ne ha patito?) i musicisti non si contentano mai. Più ne hanno, più ne vorrebbero e, beatissimi, vanno al frastuono ed allo strepito. È questa, a mio avviso, una tendenza naturale e irresistibile. Esperienza che oramai può farsi ogni giorno: le bambinette pei serii loro studi delle cinque note, vogliono il cembalo tutto aperto; e, se v'arrivano, andate franchi che il piedino sul pedale del forte, ce lo mettono e ce lo tengono. Dell'abuso della sonorità, i musicisti si son rimproverati sempre, a cominciare dal libro di Giobbe.
Quanto a spiegare la tendenza che è ne' musicisti, specie ne' compositori, al complicato e all'artifiziato, è presto fatto. Gli artifizi e le complicazioni, non richiedono nè altezza di mente, nè squisitezza di sentimento, nè vivacità di fantasia, nè estro, nè ispirazione. Basta ad essi ogni mezzano ingegno; bastano la pazienza e lo sgobbo. Convinto di questo, vo' pur convinto che dalla scossa, per quanto forte, avuta dalla Messa di Papa Marcello, la scuola fiamminga si sarebbe facilmente ripresa e avrebbe prolungato chi sa per quanto tempo ancora l'infesto suo dominio, se, provvidenziale, non veniva da Firenze la Camerata del conte Bardi del Vernio, colla riforma del melodramma.
Ottavio Rinuccini, Jacopo Corsi, Vincenzo Galilei, Girolamo Mei, Jacopo Peri, Giulio Caccini, e gli altri dotti e musicisti componenti la Camerata di Giovanni Bardi, che cosa han fatto?
“ Hanno inventato il melodramma;„ — così si disse universalmente sino a pochi anni sono; e così dicono ancora parecchi storici e scrittori, tuttochè eruditissimi e di polso.
Ma l'hanno veramente inventato? — Io non credo e penso non lo credessero nemmen loro, per questa semplicissima ragione: che il melodramma, notissimo a tutto il mondo, esisteva da secoli.
Il concetto di sposare la musica all'azione rappresentata, al dramma, ebbe applicazioni pratiche che rimontano ad una antichità remotissima. — Per trovarne i primi tentativi converrebbe forse risalire con Origene e con Renan, al Cantico dei Cantici della Bibbia.
Ma, a non entrare nel campo delle congetture, questo è ora storicamente certo (grazie alle ricerche e agli studi del Westphall, del Bellerman e del Gevaert) che le tragedie e le commedie dell'antico teatro greco, eran veri e propri melodrammi seri e melodrammi buffi; ed è certo che Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, ecc., eran poeti e insieme compositori di musica.
Nei drammi liturgici dei primi secoli della Chiesa, nella tragedia: Cristo paziente di Apollinare d'Alessandria, un tempo attribuita a san Gregorio Nazianzeno, ne' drammi della Hrotswita, negli Atti sacramentali degli Spagnuoli, nelle Vergini saggie e nelle Vergini spensierate de' Tedeschi, nelle Moralità degli Inglesi e, insomma, in tutte quelle rappresentazioni che si comprendono sotto il nome di Misteri, la musica vi aveva una non piccola parte. V'erano canzoni, preghiere e cori. I personaggi principali, il Redentore, la Vergine, i Santi, gli Angeli, i Demoni, non parlavano mai altrimenti che cantando; e al canto s'accompagnava il suono di vari strumenti, arpe specialmente e piccoli organi portatili.
Nel 1285 Adamo de la Hale fece rappresentare a Napoli: Robin et Marion, un idillio, osserva il Renan, che ha molte analogie col Cantico dei Cantici. E nel Robin et Marion il concetto del melodramma è nettamente esplicato. Vi si trovano, in germe, e arie, e duetti, e ritornelli strumentali.
Dopo il Robin d'Adamo de la Hale, la storia registra come rappresentazioni accompagnate da musica vocale e strumentale: la Conversione di San Paolo del Baverini, San Giovanni e San Paolo, poesia di Lorenzo il Magnifico e musica di quel valente compositore Isaac che il Lasca ricorda col nome d'Arrigo tedesco; il Sagrifizio del Beccari, posto in musica da Alfonso della Viola; l' Egle e l' Orbeck del Giraldi; gli Oratorii di San Filippo Neri musicati dall'Animuccia; il Satiro e la Disperazione di Fileno di Emilio de' Cavalieri e, infine, l' Amfiparnaso di Orazio Vecchi.
Come vedesi, il melodramma è assai più antico di quanto credono ancora non pochi; ed è chiaro perciò che quello uscito a Firenze negli ultimi anni del cinquecento, non era e non poteva essere una invenzione; ma sì, un perfezionamento o, piuttosto, come veramente fu e deve dirsi: una Riforma.
Per darsi conto ora di ciò che volle e operò la Camerata del Bardi con la sua Riforma, bisogna rifarsi ai Fiamminghi, e ricordare: che per loro la melodia e il canto non esistevano; ricordare che mettevano il sublime e il sommo dell'arte nello stile madrigalesco, nel contrappunto; e ricordare che non dubitarono (se ne tenevano, anzi!) di condurre con quello stile ogni maniera di composizioni: le religiose, le profane da camera, le Canzoni a ballo e le Canzoni a bere, le Ballate e le Ballatelle, le Villanelle, le Frottole, e persino quelle che dovevansi eseguire per le vie e sulle piazze a sollazzo del popolo, quali: le Maggiolate, le Mascherate, le Carrate, i Canti carnascialeschi, ed altre più.
Ora, come si potesse concepire l'idea d'applicare quello stile alla rappresentazione scenica, non si riesce ad intendere in nessun modo; ma sta in fatto che i Fiamminghi vollero ed ebbero il melodramma in stile madrigalesco.
Spregiato, dimenticato o voluto dimenticare, perchè essenzialmente melodico, il Robin et Marion d'Adamo de la Hale, che sta da sè, che nella storia è un fiore nel deserto, tutti gli altri melodrammi che ho citati dianzi sono condotti con quello stile; quanto dire che sono scritti per un coro di quattro, cinque e più voci; e che quel coro, da un capo all'altro del dramma o della commedia, canta costantemente la parte di tutti i personaggi, uomini e donne, e così i soliloqui come i dialoghi, così le domande come le risposte.
Per quanto so io, l'ultima uscita di quelle opere fu l' Amfiparnaso d'Orazio Vecchi, rappresentata a Modena nel 1594.
Quell'opera s'apre, dopo un Prologo, con un dialogo fra Pantalone e il suo servitore Pedrolin, che comincia così:
Pant. O Pedrolin, dove sei? Dove sei, Pedrolin?
Pedr. Messere, sono in cucina.... e non mi posso muovere....
Pant. Ah, ladro! Ah, cane! e che cosa fai in cucina?
Pedr. M'empio la pancia con certi tali che, prima, cantavano tutto il giorno: piripipì, curucucù!
Pant. Ladro! tu vuoi dire galletti, galline, piccioni....
E con la citazione mi fermo qui.
Se avessi ora a domandarvi, o Signori, quante voci, quanti cantanti possono occorrere per eseguire sulla scena quel dialogo; tutti al certo rispondereste: due! uno a rappresentare Pantalone, e l'altro a rappresentare Pedrolin.
Ebbene, no! Alla vostra risposta i compositori Fiamminghi si sarebbero messi a ridere di compassione.
Come esigeva imprescrittibilmente lo stile madrigalesco, per eseguire quel dialogo occorre un coro composto di soprani, di contralti, di tenori, di bassi; e quel coro canta tanto la parte di Pantalone, quanto quella di Pedrolin; e così in tutto il rimanente della commedia.
Date, relativamente alla musica, queste condizioni, vorrebbesi pur sapere, in qual modo si venisse alla rappresentazione. Ma su questo punto corrono opinioni diverse. Chi crede che sulla scena uscivano soli i cantanti rappresentanti i personaggi e che il resto del coro cantava, a così dire, dietro le quinte. Chi crede invece, che dietro le quinte cantava tutto il coro, e che sulla scena i personaggi venivano rappresentati da mimi; e chi crede e mantiene infine, che le opere in stile madrigalesco non venivano rappresentate, ma solamente cantate, come usò e usa anch'oggi degli Oratorii.
Sia come si vuole, questa è questione affatto secondaria. Ciò che preme e importa di mettere in sodo è che, prima della Riforma fiorentina, le opere teatrali, i melodrammi, si scrivevano a quel modo.
Sul conto dell' Amfiparnaso e del suo valore artistico, stimo inutile il far parole. Per me, e come commedia e come musica, è una poverissima cosa.
Ed eccoci alla Riforma fiorentina, il cui concetto venne nettamente dichiarato da quell'insigne scrittore che fu Giovanni Battista Doni.
“Questi virtuosissimi personaggi (egli parla d'Ottavio Rinuccini e di Jacopo Corsi) si possono dire i primi restauratori della musica scenica e autori dello Stile recitativo; imperocchè, riconoscendo che la maniera d'oggi non era troppo idonea alla espressione degli affetti e al cantare in iscena, e dall'altra banda avendo letto i miracoli che faceva anticamente la musica, fecero tanto coi più perfetti musici che si trovavano allora, che s'indussero a tentare una nuova strada, e a provare che riuscita farebbe una melodia che s'avvicinasse al parlare famigliare e movesse gli animi degli ascoltanti; — il che non potendo succedere senza far loro ben sentire le parole; e non potendo queste accoppiarsi con tanti artifici di contrappunto, vollero che, rimossi questi, s'attendesse solo ad un bello e leggiadro procedere, ed al fare il canto più naturale e vicino alla favella più che fosse possibile; onde conoscendosi che la cosa sarebbe ricevuta, fu composta dal signor Ottavio Rinuccini la Dafne, che fu rappresentata con plauso grandissimo, essendo stata armonizzata dai signori Jacopo Corsi e Jacopo Peri.„
Nessuna ambiguità nelle parole del Doni.
I componenti la Camerata del Conte Bardi posero la mira alla espressione de' sentimenti e degli affetti, persuasi che, senza quella espressione, la musica non può essere mai altro che un rumore, più o men grato all'orecchio, ma vanissimo; un balocco per l'uditore e, pel compositore, un giuoco di pazienza.
Persuasi di ciò, que' valentuomini videro: che a muovere e a determinare la espressione de' sentimenti e degli affetti, doveva esser prima, la parola; videro che la parola non poteva esser prima se, comecchessia, impedita; videro che con le inflessibili sue esigenze, il contrappunto non poteva non impedirla e, sicuri e con mente divinatrice, tagliaron netto e corto.
Come aveva fatto il Palestrina (e come doveva, in vista della musica religiosa), i componenti la Camerata Bardi, non si tennero ad una mezza misura.
Ma con una innovazione che mai nel campo delle arti belle la più ardita e più radicale, condannarono il contrappunto tutt'intero qual era, capitalmente. Si misero innanzi, come bandiera, la nota sentenza di Platone: nel canto, il primo posto spetta alla parola, il secondo al ritmo, il terzo al suono; la adattarono alle possibilità del momento e ai mezzi de' quali potevano disporre; e argomentando dagli effetti ottenuti dalla melopèa greca e dall'arte di Archiloco, di Terpandro, di Talete, di Saffo, tolsero di mezzo la polifonia, s'attennero alla voce sola accompagnata da uno o più strumenti, e idearono il recitativo; o piuttosto lo inventarono, che qui, quel verbo torna a capello; perchè della melopèa greca mancavan loro interamente gli esempi pratici; e perchè insufficienti troppo all'uopo, i rari tratti recitativi che s'incontrano nel Passio del canto fermo.
Fortemente scossa dalla Messa di Papa Marcello, la scuola fiamminga ebbe dalla riforma melodrammatica fiorentina il colpo di grazia. E il mondo riebbe la musica!
La bontà e la saviezza de' principî estetici e de' criteri fondamentali che diressero le ricerche e gli studi de' riformatori fiorentini, non han bisogno d'essere dimostrate. Sono evidenti per sè stesse; e riescono evidentissime, se seguiamo il melodramma ne' suoi svolgimenti ulteriori.
Dal 1600 in poi, noi lo troviamo sviato e mal vivo ad ogni poco; quando per l'abuso delle rifioriture e de' passaggi di difficoltà cui si lasciano andare tanto volentieri i cantanti, a scapito della espressione poetica e drammatica; — quando per le complicazioni cui tendono incessantemente i compositori; — quando pel predominio della musica spinto tanto innanzi da nascondere e le parole e il dramma.
In seguito a quegli sviamenti, escono i riordinatori o, come si chiamano, i riformatori. Per non citare che i più famosi: il Glück nel secolo scorso, e il Wagner nel nostro.
Secondo la generalità degli scrittori, il Wagner, come riformatore, non fece altro che riportarsi al Glück. Il quale (sempre secondo quegli scrittori) è a reputarsi il primo, il vero, l'unico, il riformatore insomma per eccellenza.
Ma per me, non è tale davvero.
La riputazione di riformatore in che è tenuto quel valentissimo compositore, mosse tutta dalle Prefazioni poste innanzi alle sue opere: Alceste ed Ifigenia in Aulide. Ma in quelle Prefazioni, non una idea, non un concetto, nè una osservazione, che non si trovi negli scritti risguardanti la Riforma fiorentina, di Giovanni Bardi e di suo figlio Pietro, del Rinuccini, del Doni, del Della Valle, del Bonini, e nelle Prefazioni che i compositori: Peri, Caccini, Emilio de' Cavalieri, Marco da Gagliano e Monteverdi, posero anch'essi innanzi alle stampe delle loro opere; e dalle quali il Glück tolse molto probabilmente l'esempio.... e il resto. Dato (badiamo, non è che un sospetto) dato che tutto non sia opera invece del suo librettista italiano, Ranieri Calsabigi; il quale, poeta, uomo cultissimo e toscano com'era, è ben difficile supporre che di tutti quegli scritti non avesse notizia.
Escludiam pure, se si vuole, ogni idea di plagio, ammettiamo come possibile l'incontro fortuito, non che di idee e di concetti, di espressioni e di parole. Ma sta in fatto ed è: che la pretesa riforma del Glück e quella della Camerata Bardi non differiscono in nulla; e sta ed è, che l'una è l'altra e che, in ogni caso, alla seconda non può assegnarsi altro merito che quello solo di aver confermato il valore della prima.
Si crede e si afferma da molti che la prima opera scritta secondo gli intendimenti della Camerata Bardi, sia stata la Euridice del Rinuccini e del Caccini. Ma è indubitato che fu la Dafne del Rinuccini istesso e del Peri, rappresentata in casa del Corsi nel 1594. (Ed ecco per la terza volta la data 1594: la morte del Palestrina; l'ultima opera in istile madrigalesco; la prima opera della riforma, in istile, come dicesi, recitativo o rappresentativo ).
La priorità della Dafne è attestata dal Clasio in una nota illustrativa posta in fine alla ristampa del libretto del Rinuccini, dove leggesi: “che, compiuta nel 1594, la Dafne fu per tre anni consecutivi recitata in casa Corsi, con gran piacere ed applausi degli spettatori.„ E del resto è pure attestata dal Rinuccini nella lettera con cui dedica la sua Euridice alla Regina Maria de' Medici, e nella quale v'hanno considerazioni e notizie che giova conoscere:
“È stata opinione di molti (scrive il Rinuccini) che gli antichi Greci e Romani cantassero sulle scene le tragedie intere; ma sì nobile maniera di recitare, non che rinnovata, ma neppur ch'io sappia sin qui è stata tentata da alcuno; e ciò, credo io, per difetto della musica moderna, di gran lunga all'antica inferiore. Ma pensiero sì fatto mi tolse interamente dall'animo messer Jacopo Peri, quando, udita l'intenzione del signor Jacopo Corsi e mia, mise con tanta grazia sotto le note la favola di Dafne, composta da me, che incredibilmente piacque a que' pochi che la udirono. Onde, preso animo, e data miglior forma alla stessa favola, e di nuovo rappresentata in casa Corsi, fu ella non solo dalla nobiltà di tutta questa patria favorita, ma dalla serenissima Granduchessa e dagli illustrissimi Cardinali Del Monte e Montalto.„
A dimostrarvi praticamente, o Signori, la innovazione operata dalla Camerata Bardi, avrei dovuto scegliere un pezzo della Dafne; ma, disgraziatamente, della musica di quell'opera non trovasi più una nota. Andò smarrita tutta. Ebbi quindi ricorso al prologo della Euridice, opera degli stessi autori, Rinuccini e Peri, e posteriore alla Dafne di soli sei anni.
In quel prologo sono poche e semplici note; ma note che prendono la ragione di essere dalle parole; che vi si immedesimano; e che, con inflessioni e con accenti naturali ed espressivi, ne rendono efficacemente il sentimento, l'affetto, la passione. Sono note ben semplici, ripeto, ma in alcuni de' loro movimenti piegano già alle leggi del ritmo: elemento (il ritmo ) che, come la melodia, i Fiamminghi avevano interamente abbandonato. Quel prologo, in fondo, è ben poco più di un recitativo; ma quel recitativo è una vera e propria trovata; è, come ho detto, una vera invenzione ed è tipico; ma quel recitativo fu all'arte musicale quel medesimo che fu alla scienza e alle applicazioni della elettricità, la pila d'Alessandro Volta. In breve, da quel recitativo uscirono le frasi, le cadenze, i cantabili; uscì la melodia!
E con la melodia, che i Greci definivano una poesia sopra la poesia, una delizia dell'anima, un incanto, la luce fu ad un tratto su tutta la distesa dell'arte; ne penetrò le viscere, e vi portò il calore della vita e la fecondità.
Infatti, ne' primi dieci anni del secolo seguente, noi vediamo che la musica, con tutte le sue diramazioni e le sue forme, si volge, come per elaterio, ad alti e nuovi intenti, e muove sicura per nuove vie: la vocale, col melodramma, per la via che doveva portarla al Don Giovanni, al Barbiere di Siviglia e al Guglielmo Tell; e la strumentale, per quella che mise capo al Boccherini, all'Haydn, al Mozart e al Beethoven.
Tenuto conto di tutto questo, chi crede di poter dire che la Camerata del Bardi inventò il melodramma, a più forte ragione, mi pare, dovrebbe dire che ha inventato la musica!
Metto da parte l'inventare, e riassumo: la Camerata del Conte Bardi, animata da un sano intendimento artistico, e guidata da un elettissimo buon gusto, tolse la musica dagli inestetici e goffi artifizi de' Fiamminghi; la fece libera richiamandola al naturale suo principio, alla melodia, e rendendo possibile la rappresentazione scenica, dette al mondo il melodramma, che è la più attraente di quante sono le forme dell'arte: che è una festa dei sensi e dell'intelligenza.
E il melodramma, com'essa lo intese e lo volle, offrendo un vasto e convenientissimo campo d'azione alle preziose doti di sentimento, di voce e di fantasia, delle quali la natura è così prodiga agli Italiani, fu all'Italia, e per più di due secoli, un titolo invidiatissimo di gloria e, insieme, una non piccola sorgente della pubblica ricchezza.
Fine.
INDICE.
Pag.
Luigi Alberto Ferrai Francesco I e Carlo V 1
Ernesto Masi La Riforma in Italia 34
Isidoro Del Lungo L'assedio di Firenze 65
A. Jéhan de Johannis Sulle condizioni dell'economia politica nel cinquecento e la scoperta d'America 113
Giuseppe Rondoni Siena nel secolo XVI 146
Cesare Paoli Gli scrittori politici del cinquecento 186
Giosuè Carducci L'Orlando Furioso 209
Enrico Nencioni Torquato Tasso 242
Guido Mazzoni La lirica del cinquecento 268
Enrico Panzacchi Raffaello Sanzio da Urbino 302
Addington Symonds Michelangelo Buonarroti 329
Tommaso Salvini Il teatro del cinquecento 353
Alessandro Biaggi La musica nel secolo XVI 387
NOTE:
1 . Nella lettura, anzi nelle letture, una delle quali onorata dalla presenza di Sua Maestà la Regina d'Italia, il testo, quale qui si dà distesamente, fu adattato a limiti di tempo e di discrezione. 2 . Firenze, Successori Le Monnier, 1877-1882: volumi tre. 3 . Op. cit., Prefaz., pag. XIII. 4 . Firenze, Sansoni. 1883, pag. 24-25. 5 . La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli , I, 113. 6 . Histoire de Florence , Parte II, tomo III. 7 . Tommasini , op. cit., I, 11. 8 . Histoire du Consulat et de l'Empire . Avvertimento. 9 . Prefazione alle Opere di Paolo Paruta. Firenze, Le Monnier. 10 . Legazione di Roma di Paolo Paruta (Prefazione). 11 . Emilia Errera , Sulle Filippiche di Alessandro Tassoni . Firenze, 1890. 12 . L'autore di questa conferenza, fu un inglese amicissimo e studiosissimo dell'Italia. In Italia aveva da lungo preso dimora, e qui morì, precisamente a Roma, il 19 aprile dell'anno scorso (1893). Era nato a Bristol nel 1840 e fu professore all'Università di Oxford. L'opera sua principale è una Storia del Rinascimento in Italia in 7 volumi. Pubblicò pure un'introduzione alla vita di Dante, il grande articolo sull'istoria d'Italia nell'Enciclopedia britannica, molti saggi sull'Italia e la Grecia, una vita di Michelangelo in 2 volumi. Tradusse pure in inglese parecchie opere italiane. Questa conferenza fu da lui consegnata in inglese poco prima di morire; e fu tradotta dalla signora Ida Falorsi. 13 . A dimostrare praticamente il cammino corso dalla musica nel secolo XVI, questa Conferenza venne accompagnata dalla esecuzione di tre pezzi: del Sanctus della Messa detta di papa Marcello del Palestrina; di una scena della commedia l' Amfiparnaso di Orazio Vecchi, e del prologo dell'opera Euridice di Jacopo Peri.