La vita italiana nel Seicento.

AVVERTENZA.

Alcune conferenze di questa serie intitolata “ Vita Italiana nel Seicento „ si ricollegano con avvenimenti del secolo precedente.

LA VITA ITALIANA NEL SEICENTO

Conferenze tenute a Firenze nel 1894

DA

Guido Falorsi, Ernesto Masi, Domenico Gnoli, Pompeo Molmenti, Guido Mazzoni, Giovanni Bovio, Isidoro Del Lungo, Enrico Panzacchi, Olindo Guerrini, Adolfo Venturi, Enrico Nencioni, Michele Scherillo, Alessandro Biaggi.

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

INDICE LA VITA ITALIANA NEL SEICENTO

I.

STORIA.

Dalla pace di Castel Cambrese a quella dei Pirenei Guido Falorsi

La reazione cattolica Ernesto Masi

Roma e i Papi nel seicento Domenico Gnoli

La decadenza di Venezia Pompeo Molmenti

MILANO Fratelli Treves, Editori 1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA Riservati tutti i diritti. Tip. Fratelli Treves.

DALLA PACE DI CASTEL CAMBRESE A QUELLA DEI PIRENEI (1559-1659)

CONFERENZA DI Guido Falorsi

I.

Posciachè nella giostra, indarno deprecata da Caterina de' Medici, giacque, per l'asta infelice del Montgomery, Enrico II, lasciando a un adolescente infermiccio, e dopo questo a fanciulli fracidi di corpo e di spirito, il gran pondo della corona di Francia; gli effetti delle battaglie di San Quintino, e di Gravelines, mal contrappesati dal racquisto di Calais, parvero farsi di due cotanti più gravi, e stendersi più tetra e gigantesca che mai sulla pavida Europa l'ombra di Filippo II.

Egli allora sembrava attingere a un fastigio di grandezza, da gareggiare con quella dell'Impero romano ne' suoi giorni migliori; e superarla per taluni rispetti.

Sua la Spagna, tuttavia fremente nell'orgoglio delle recenti vittorie; suoi, pressochè per intiero, gli Stati, colla ricchezza e floridezza de' quali i Duchi di Borgogna s'erano avvisati di far fronte insieme e alla Monarchia francese e all'Impero germanico; suoi i Regni, prosperosi sino a que' giorni, di Napoli, Sicilia, Sardegna; e la pingue Lombardia; e i porti della Toscana, freno alle velleità Papali o Medicee; suoi i galeoni che„ carichi d'oro, gl'inviavano dagl'immensi possedimenti d'America i Vicerè senza scrupoli e senza ritegno; legato a lui dalla tema del particolarismo tedesco, della Riforma, de' Turchi, l'Impero germanico, colle austriache dipendenze d'Ungheria e Transilvania; stretto a lui dall'intento di ricuperare nell'unità della Fede il dominio delle coscienze, o di vietare almeno ulteriori conquiste ai Riformati, il Papato; vicino a cadergli in grembo, colle amplissime colonie d'America, d'Asia, d'Affrica, il Portogallo; dedita a lui, contro le ambizioni Savojarde e Francesi, Genova; poco meno che vassalli suoi Savoja, Farnesi, Medici; tenuta in briglia dalla minaccia turca la stessa Venezia; devoto a lui un partito in Francia, e sino in Inghilterra. La Monarchia Universale, di cui le due Diete d'Augusta (1550 e 1555), tenendo ferme le ragioni di Ferdinando I alla Corona imperiale, avevano sfatato il sogno, poteva parere anco una volta a Filippo una meta, che, volendo saldamente, e sapendo, sarebbesi pur conseguita.

Nè il volere gli faceva difetto; cupo insieme ed ardente, impetuoso e meditato; se gli facesse difetto il sapere, nella scelta e nell'uso dei mezzi, o se gli ostacoli fossero tali da non superarsi con forza ed arti maggiori di quelle adoperatevi da Filippo, mal potrebbesi dire di primo tratto; ma chi rimediti altri periodi storici, che con questo hanno più prossime analogie, s'accorgerà che la tradizione della Torre di Nimrud si perpetua, rinnovellata, per le intrinseche leggi, ond'è governato l'universo delle Nazioni.

Per quel ch'è di Filippo, nell'anima, alta no, ma vasta, egli accolse il disegno di dominazione tanto ampia ed intiera in ogni sua parte, quanto altra mai ne potè esser concepita da umana superbia e temerità. Dominare su tutti, dominare in tutto; penetrare gli arcani delle volontà; e a quelle dettar legge, e al pensiero, frugato con assidua scaltrezza ne' suoi recessi profondi; sradicare dall'anime, esterrefatte al bagliore de' roghi e al luccicare delle mannaie, sin la facoltà di creder possibile la ribellione; far parere norma alle coscienze, nell'ordine civile come nel religioso, la coscienza dell'Imperante; premio la sua approvazione; Ministri, Familiari adoperare come strumenti passivi, e, alla minima renitenza, annientarli coll'esilio, col veleno, col ferro; questa la visione che, nel delirio della sua oltrepotenza, vagheggiò e potè per un istante imaginarsi d'avere incarnata; questa la Torre babelica, che credette d'avere inalzata pei secoli lo sconoscente figliuolo di Carlo V.

Se il biblico “ transivi, et ecce non erat „ ha trovato mai, per le meste profondità della Storia, una luminosa esemplificazione, ella è questa.

“E voi pensate

fa dire lo Schiller al suo marchese di Posa (nel Don Carlos )

“E voi pensate,

Seminando la morte e la sventura,

Piantar per gli anni eterni? Oltre lo spirto

Dell'artefice suo la vïolenta

Opra non vive!„

Filippo potè vedere cogli occhi proprî i primi vacillamenti ed i crolli dell'edificio, ch'egli aveva reputato imperituro; cogli occhi proprî, facendo accortamente buon viso a cattiva fortuna, vide rientrare ne' porti spagnuoli i miserabili avanzi dell' Armada, ch'erasi predicata invincibile; dovette egli, che aveva steso allo scettro di Francia, caduto, e non senza sua colpa, nel fango e nel sangue, l'artiglio rapace; e s'era lusingato d'avere almeno a porlo nella mano della figlia prediletta, d'un genero, alla peggio in quella d'un usurpatore per necessità legato a lui; dovette egli segnare la pace di Vervins, che quello scettro fermava in pugno al Monarca più odioso a lui dopo la Tudor, e contro al quale aveva scatenato tante ire e papali e granducali e duchesche. E morendo poco appresso, dovè portarsene nel paventato oltretomba il presentimento che, allettate invano colle tarde promesse d'una fallace e malsicura autonomia, le Fiandre erano sfuggite per sempre alla signoria degli Habsburgo.

L'orgoglio forse gli fece velo ad intendere e pesar tutti i danni di quella Spagna, che Carlo V gli aveva trasmesso in parvenze così floride. Non misurò il vuoto, che la migrazione de' più audaci, e intraprendenti a cercar repentine fortune in America lasciava nelle campagne, con ruina, irreparata sin qui, della pastorizia e della agricoltura; non quello lasciato da' Mori, traenti seco nella loro fuga al Marocco la industria delle pelli e delle armi; o da' Protestanti, che all'ospitale Inghilterra portavano, migliorata nel trapiantarsi, la industria de' tessuti; non lo svilimento de' metalli preziosi, che recati in copia, madidi di sangue e di lacrime, dal Nuovo Mondo, mal bastavano a comprar fuori i prodotti un tempo dalla Spagna esportati; nè capì, pago a noverare i monasteri e le chiese, a misurare gli amplissimi latifondi ecclesiastici, quanto la sua ipocrisia feroce aveva nuociuto alla nobile indole degli Spagnuoli; quante calunnie e quanto odio aveva accumulato su quella Fede, cui toccò, fra le altre, la sventura d'esser professata e protetta da lui.

II.

Colla morte di Filippo II, e coll'avvento d'Enrico IV in Francia, pare d'un tratto che un incubo letale siasi tolto di sul cuore all'Europa, e che, alleggeritane, l'Umanità si avvii più spedita a' suoi migliori destini.

Se il gran disegno avesse proprio toccato la perfezione di quella Repubblica Cristiana che, benedicente, o almeno annuente il Papa, sarebbesi, per le armi d'Enrico vittoriose su' due rami d'Habsburgo, formata confederando, con leggi certe e pacificatrici, Germania, Ungheria, Boemia, Polonia, Danimarca, Svezia, Olanda, Inghilterra, Spagna, Francia, Regno di Lombardia, Venezia, Stato Pontificio con Napoli, Repubblica italiana comprendente Toscana, Genova, Lucca, Parma, Mantova, Modena (federazione di federazioni), non potrebbesi con piena sicurezza affermare, quanto a' particolari; ma del concetto, in genere, fanno fede molte testimonianze contemporanee, pubblicate e diligentemente illustrate in tempi prossimi a' nostri. Ad Enrico IV, dunque, che certo non aveva letto il De Monarchia di Dante, spetta l'onore d'avere ammodernato e tratto quasi dal campo delle remote speranze in quello della politica pratica quel concetto degli Stati uniti d'Europa, cui sospirava il grande Poeta sociologo, ed a cui, mutato l'estrinseco, intendono, fra tanto clangore d'armi, e mentre echeggia ancora in Europa l'urlo di codarde stragi impunite, non pochi nobili cuori, fatti pensosi de' moltissimi, cui il luccichìo delle parate militari costa lacrime e stenti diuturni.

Ma i destini d'Europa e del mondo civile non erano, e di gran lunga, ancora maturi.

“La sacra vita

Del quarto Arrigo un empio spense;„[1]

e, istigatrici o no ch'esse fossero del Ravaillac, le due case Austriache esultarono

“Quando l'Eroe nel lacrimato avello

Portò i fati d'Europa e le speranze.„

Una nuova minorità, una nuova Reggenza, ben più fiacca, per sè, e misera che non quella di Caterina, incombevano per anni alla Francia. La sospettosa turbolenza de' Calvinisti, dalle fortezze che la Pace di Saint-Germain en Laye aveva loro concesse, e l'Editto di Nantes confermate; la insolenza feudale, che dalle contese religiose traeva in vario senso pretesti, minacciavano anco una volta disfar l'opera d'Enrico, e de' suoi ministri. La Francia stava per essere riaperta a' nemici d'oltre Reno e d'oltre Pirenei; e mentre in Germania, contro le rideste e cresciute ambizioni di Casa Austro-tedesca, Riformati, Danesi, Svedesi, avrebbero fatto di sè una prova, che il rabbassamento della Francia rendeva dubitosa assai, pareva che sull'Italia misera avesse ad estendersi ed aggravarsi la dominazione spagnuola, tanto più ladra, indecorosa e corruttrice, quanto più fiacca e guasta e bisognosa s'era fatta la Potenza dominatrice; quanto più insolentemente arbitrarî i Ministri e Rappresentanti di lei.

La spietata energia esercitata dal Richelieu all'interno della Francia, con intenti altamente patriottici, ma con mezzi informati più assai al desiderio di toccar presto la meta, che ad una scrupolosa moralità; — il conflitto che, con meno d'impeto e più di scaltrezza, il Mazarino sostenne, durante una terza Reggenza, non co' Calvinisti, che non facevano ormai più Stato nello Stato, ma colla Nobiltà riottosa, sognante il racquisto de' vetusti privilegi mercè la mutazione del ramo dinastico; la sua resistenza allo fugaci velleità della Magistratura, aspirante a trapiantare in Francia le libertà riaffermate testè dall'Inghilterra; ripararono a' pericoli delle due Reggenze, alla pochezza dello sbiadito Luigi XIII, e serbarono alle armi di Francia, nella guerra di Valtellina, in quella del Monferrato, nell'ultimo periodo dei Trenta anni, una efficacia preponderante.

La politica e le armi di Francia ebbero, la mercè del Richelieu e del Mazarino, una parte segnalata ad assicurare colla pace di Westfalia l'indipendenza olandese, a salvare dal temuto assorbimento austriaco le autonomie germaniche, a guarentire da violenze liberticide la coscienza religiosa dei Riformati; come già l'avevano avuta a vietare che l'acquisto della Valtellina stabilisse fra gli Stati Austro-tedeschi e la Lombardia spagnuola una continuità di territorî, minacciosa a Venezia e a' Grigioni, pericolosa a Savoja. Ma quando poi, salvati in Westfalia quelli ch'erano, dal suo punto di vista, i più vitali interessi d'Europa, il Mazarino proseguì, dal 1648 al 1659, in un interesse esclusivamente francese, la guerra colla Spagna, e trasse Filippo IV alla Pace de' Pirenei, egli apparecchiava all'Europa tutta minaccie e pericoli di poco minori da quelli, che la oltrepotenza ed oltracotanza spagnuola le avevano fatto correre.

Perduta l'Olanda; in procinto di perdere il Portogallo, che gli Olandesi avevano intanto spogliato delle sue migliori Colonie; co' suoi Vicereami d'Italia esausti da una amministrazione ignorante, rapace, e impotente nonchè a fare, a voler pure il bene; ridotta a un'ombra di quella marina con cui aveva, obtorto collo, contribuito alla gloriosa vittoria di Lepanto, e acquistato per troppo breve tempo la signoria di Tunisi; umiliata dalla pochezza di cui fece prova nella prima guerra Monferrina contro Carlo Emanuele la Monarchia spagnuola non era tale, che i piccoli Dinasti italiani osassero assalirla scopertamente; ma bene era impotente a vietare ai piccoli Dinasti italiani una politica disforme dalla sua. La smisurata mole, precipitata da una fervida virilità ad una senilità repentina, occupava tuttavia grande spazio di suolo; ma su quello, più assai che non vi sorgesse, giaceva, inerte, incresciosa a se stessa.

Mentre la Spagna precipitava, dall'altro pendio de' Pirenei, tratta dagli aviti castelli a Versailles e fatta cortigiana la già ribellante nobiltà; facendole, colla gloria militare, col fasto, col buon gusto, colle eleganti frivolezze dimenticare la licenza d'un tempo; colla sapiente e feconda operosità giustificando quasi l'oblio di quello che delle antiche libertà rimaneva alla Francia; due Ministri di primo ordine, e una plejade d'altri minori disciplinavano, incameravano alla Monarchia, senza fiaccarle o umiliarle, le mirabili energie della Nazione. Così, di fronte a quel povero Carlo II, decrepito dall'infanzia; di fronte a que' vacillanti Stuardi, che, per reggersi compravano a prezzo de' veri interessi inglesi la sua protezione, le sue munificenze; Luigi XIV, raccolto personalmente dalle mani del morente Mazarino il potere, poteva slanciarsi per la sua via, avido di gloria, di autorità assoluta in patria, di incontrastato predominio in Europa; tanto simigliante a Filippo II, quanto la viva genialità francese glielo consentiva; unendo all'ingegno politico di Filippo II il coraggio militare, che allo Spagnuolo, cosa singolare in tal famiglia, in tal gente! mancò.

III.

Tra i primordi di Filippo II e quelli del potere personale di Luigi XIV corre un secolo stipato d'avvenimenti per modo, che il solo enumerarli chiederebbe troppo più tempo, di quanto possa dall'altrui pazienza concedermisi. Nè s'intende qui di quelle vicende della Filosofia, delle Scienze, dell'Arte, della pubblica Economia, che hanno co' fatti più propriamente politici, un alterno perpetuo vincolo di cagioni e di effetti; ma di soli gli eventi politici, i quali per altro, hanno tutti, in questo periodo, uno strettissimo legame colla dissidenza religiosa, suscitata dalla Riforma, ch'è di ciascun d'essi cagione, occasione, pretesto. L'Europa tutta, nel sistema politico della quale incominciano ora ad entrare, per effetto appunto della contesa religiosa, Danimarca, Svezia, Polonia, è divisa in due campi; nell'un de' quali stanno i Dissidenti e coloro che, avendo per nemici i nemici loro, se ne fanno alleati; nell'altro quelli, che o convincimento religioso o interesse politico induce a mostrarsi teneri della unità cattolica. Senonchè tal Potentato che cerca fuori l'alleanza de' Dissidenti, in casa sua li perseguita come ribelli; tale altro, che perseguita i Cattolici come ribelli, si procura fuori l'alleanza d'uno Stato cattolico; perchè, non libertà si vuole da Cattolici o da Dissidenti; ma esclusiva preponderanza della Confessione propria, oppressione dell'altrui entro i confini del proprio Stato.

Ond'è che, animati Principi e Popoli, Governanti e Ribelli, dal più eccitabile e comprensivo degli umani affetti, convinti di non aver via di mezzo fra l'opprimere e l'essere oppressi, vengono al conflitto con tutto il furore e tutte le forze loro; si valgono talora senza scrupolo di tutti i mezzi, per quanto condannati dalla Fede medesima che professano; perchè, con inumano sofisma, fingono a sè stessi posto fuori della Legge, che fanno procedere da essa Fede, chi da quella Fede o da quella Legge dissenta; poi, alterati i criterî, trattano in ugual modo l'avversario religioso e quello puramente politico, l'avversario politico ed il nemico personale. Di qui le congiure, in quel secolo sì frequenti, non meno contro gl'individui rivestiti di pubblici ufficî, che contro Repubbliche e Principati; di qui le giustizie, che malamente esercitate prendono aspetto di vendette; e le vendette, che usurpano le forme e la solennità della Giustizia; guerre condotte da briganti; brigantaggi che assumono importanza ed ampiezza di guerre vere e proprie; e ceppi, e roghi, e mannaie, che tutto improntano il secolo di una efferata tragicità.

IV.

Nemmeno le declamazioni volgarmente rettoriche di Liberi pensatori da strapazzo valsero a scemare l'orrore e il ribrezzo di quegli auto-da-fè, ne' quali la sinistra fantasia di Filippo e de' suoi toccò, colla squisitezza de' tormenti e colla scenica atrocità dell'apparato, per così dire, il sublime della ferocia. “La coscienza umana, esclama uno scrittore cattolico francese, non se ne consolerà mai!„ Ma col suo Sovrano che, in pericolo d'affogare, faceva voto al Dio delle misericordie,, se lo avesse tratto salvo al lido di Spagna, d'immolargli il più splendido auto-da-fè che avesse fino a que' giorni fatto fremere le viscere della Umanità, ardisce contendere in efferatezza il suo Duca d'Alba; il quale, spedito nelle Fiandre ribelli,

.... il general perdono,

Tutti escludendo, ai Batavi bandisce,[2]

e dal suo “Tribunale di sangue„ manda in pochi mesi al patibolo 17 000 vittime, costringendo all'eroismo della disperazione e inalzando alla grandezza di un'epica perduranza e di favolosi combattimenti quel gueux, che nel principio s'erano mostrati sì cautelosi, e preoccupati delle loro comodità ed interessi. Dicono che quando su due pali ferrati vide infisse le teste dei Conti di Egmont e di Hornes, già fidi e cari amici di Carlo V, copertisi di gloria per Filippo II a San Quintino ed a Gravelines, anco il Duca, nel lutto universale, piangesse; ma le lacrime non gli vietarono di proseguire implacato la mostruosa opera sua; sinchè, più che il grido d'Europa, più che la voce della coscienza, la manifesta inefficacia di cotali mezzi non ebbe indotto Filippo a sostituirgli il Requesens, che all'aperta brutalità faceva seguire ipocrita e ormai non creduta dolcezza.

La Parte cattolica che, aggredita, reagì prima; che, cullatasi nella fiducia ormai più volte secolare di un incontrastato dominio, rimbalzò con tutte le energie della stupore, del terrore, della indignazione, contro chi veniva a sturbarnela; che, nella difesa delle proprie dottrine e in quella, pur troppo non meno acre, dei proprî interessi temporali, procedette con tanto più inesorata, energia, quanto più era convinta di provvedere per tal modo alla salute eterna di que' medesimi, a' quali faceva fronte, la Parte cattolica, dico, porta in generale la maggiore, anzi presso i più, l'unica odiosità di quelle scene di sangue. Cattolico, io deploro, più che non possa qualsiasi Libero pensatore, che il Cattolicesimo abbia stimato potersi e doversi difendere nel modo, in che s'avvisarono di difenderlo Filippo, il Granuela, il Duca d'Alba, e altrettali; deploro che allora (come oggi, del resto) tanta scoria terrena si mescolasse allo zelo di certi difensori ed apologisti; ma, nel vero, i Cattolici, maggioranza numerica ed aggrediti, fecero quello che, dov'erano maggioranza, facevano i Dissidenti aggressori.

Il rogo, sul quale Calvino fece ardere Michele Servet, può parere poca cosa (al Servet non pareva certo) di fronte alle migliaia accesine dall'Inquisizione; ma Scrittori protestanti deplorano quel pazzo furore iconoclasta, che, indarno contrastato dallo stesso Principe d'Orange, sino dal principio della sollevazione spinse alla devastazione delle chiese cattoliche e al sangue i Calvinisti fiamminghi. Alla Dieta di Spira si era dovuto espressamente sancire che, ne' paesi ove dominava il Protestantesimo (ove cioè era Protestante il Capo dello Stato, qual che si fosse poi la credenza dell'universale o della maggioranza), non si vietasse da loro la Messa a' Cattolici. Alla Dieta di Augusta, dove Ferdinando I d'Habsburgo si dimostrò il più sincero amatore di pace, e fautore di reciproca tolleranza (o che così sentisse, o che così gli dettassero la tema de' Turchi e la brama di ricuperar l'Ungheria), i Protestanti non si mostrarono meno acri a oppugnare che i Cattolici a sostenere il Riservato ecclesiastico, vietante il passaggio de' beni ecclesiastici dalla Confessione cattolica alla dissidente, per mutata Fede del titolare. Nella stessa Dieta i Luterani non furono men fermi de' Cattolici a escludere dalla pacificazione religiosa i Calvinisti, i Sacramentarî, gli Anabattisti odiatissimi, gli Utraquisti di Boemia. Ferdinando adoperavasi bensì a fermare il principio che, negli Stati ecclesiastici dell'Impero, officialmente cattolici, fosse guarentita contro le persecuzioni del Principe la coscienza dei Dissidenti, che potevano anco divenir maggioranza o quasi totalità; ma i Casisti sì dell'una che dell'altra parte, i quali, secondo l'espressione d'un nostro Cronista, “cominciarono a interpretare„ si trovarono, d'accordo, beati loro! Cattolici e Dissidenti, su questo unico punto: che a' professanti Fede diversa da quella del proprio Sovrano restasse la invidiabile libertà di vendere i proprî beni, ed andarsene altrove. Le persecuzioni d'Elisabetta contro i Cattolici inglesi eran tali, che Filippo II osò raccomandarle maggior tolleranza. Non è detto se proponesse ad esempio sè stesso!

E per un pezzo e in più luoghi ad un tempo si proseguiva collo stesso sistema, e co' criterî medesimi. Pel trionfo de' suoi Indipendenti il Cromwell percuoteva di colpi non meno aspri i Cavalieri aristocratici, che i Livellatori ultra democratici; ma, più che questi, desolava con sistematiche devastazioni la cattolica Irlanda, le cui miserie datano dal Governo di questo alleato del Re Cristianissimo. In Svezia Erick XIV perseguitava i Cattolici; a Mosca Ivan IV concedeva bensì la erezione di un tempio Calvinista e d'uno Luterano, ma il furor popolare imponevasi anco al terribile, che doveva farli trasferire a due verste fuor di Città; le Carte costitutive di quelle colonie nord-americane, nelle quali i Dissidenti inglesi si rifuggivano dalla tirannide dello Stato, e della sua Chiesa officiale (established Church), consacravano solennemente la più esclusiva intolleranza religiosa.

V'era in Europa, dopo la pacificazione d'Augusta, una Confessione di più; che i Principi potevano abbracciare senza esser messi al bando dell'Impero, al bando del Diritto pubblico; ma che poi un Suddito potesse professare altra Fede da quella del suo Sovrano senza farsi ribelle, non si voleva ammettere; i diritti della coscienza religiosa individua di fronte allo Stato, la incompetenza della Società civile a conoscere in materia di Fede, l'obbligo dello Stato di restringere al campo sociale e politico l'azione propria, erano lungi dal venire riconosciuti.

Ove peraltro ambizioni e cupidigie politiche si trovassero, come in Francia, in più intimo accordo coi risentimenti cattolici; ivi, segnatamente se vi soffiava dentro lo spirito di Filippo II, l'odio proruppe più atroce. Dopochè, a Parigi, il supplizio dell'onesto e saggio Consigliere Anne Dubourg, predicatore di tolleranza, aveva, il 23 dicembre 1559, contrassegnato lugubremente il cominciamento delle influenze dei Guisa, l'aperta guerra religiosa divampava nel 1562, per mano dei Guisa stessi, colla gratuita, spietata strage di Vassy. Nello stesso anno i compagni del Calvinista Ribault, recatisi, per consiglio del Coligny, a colonizzar la Florida, v'eran sorpresi dallo spagnuolo Mendez de Aviles, e impiccati tutti quanti colla scritta: “Non come Francesi, ma come Calvinisti.„ Per Filippo II, nel Piemonte non anco restituito al suo Duca, il Governatore Spagnuolo di Milano faceva strage di quei Valdesi, che dovevan più tardi sentir l'ira, non meno feroce, di Luigi XIV. Della Saint-Barthèlemy, cui non scema o accresce orrore qualche centinaio di morti che gli Scrittori dell'una parte scemino quelli dell'altra accrescano al noverò, consigliatori e inspiratori, furono, questo è certo, Filippo II e il suo Duca d'Alba. L'uno e l'altro potevano ben ravvisare un degno loro discepolo in quel Duca di Feria, che' da Milano, eccitando al Sacro Macello (19 luglio 1520) contro i Grigioni i Cattolici di Valtellina, sperava assicurare con quello alla Spagna l'ambita conquista della Valle superiore dell'Adda. Loro degnissimo alunno quel Bedmar, la cui congiura contro Venezia non è chiaro, qualora avesse sortito i suoi micidialissimi effetti, se sarebbe servita a incremento massimo della dominazione spagnuola in Italia, o ad ingrossare di tanta e tal preda lo Stato indipendente, che il Vicerè di Napoli Ossuna sognava di procurare a sè stesso (1618). Il Governo Veneto, decadente già, ma non peranco del tutto degenere, represse l'insano tentativo con maggiore agevolezza e prontezza, che non lo stesso Governo, genovese, allorchè questo, dieci anni più tardi, ebbe a sfatare l'oscena congiura di quel Vachero, con cui si direbbe incredibile che fosse entrato in accordi tal uomo, quale era Carlo Emanuele.

V.

Le congiure, inspirate alle reminiscenze classiche d'Aristogitone e di Bruto nel periodo della Erudizione, perdono pregio, per copia, per ampiezza, raffrontate a quelle che, nel secolo di cui trattiamo, furono mandate ad effetto, e delle altre non poche, che furono senza effetto tramate.

In Italia, con serotina larghezza d'intenti riformatori e repubblicani, congiurava a Lucca, per una sognata federazione di repubbliche antipapali, Francesco Burlamacchi, consegnato da Cosimo alla scure spagnuola. Nel 1559 (per non risalire al 1537 e all'insano tentativo degli Strozzi, concluso colla scaramuccia di Montemurlo, e colla misteriosa morte di Filippo Strozzi) contro Cosimo I congiurava a Firenze, senza altro danno che della sua testa, un Pandolfo Pucci. Una congiura animata da risentimenti politici e da fanatismo religioso contro Pio IV scuoprivasi, e punivasi severissimamente, in Roma, l'anno 1564. Nel 1575 un altro Pucci (Orazio) con Ridolfi, Alamanni, Machiavelli, Capponi, tramava di spegner Francesco I e tutta la stirpe medicea; scoperto, pagava egli col capo suo; gli altri fuggivano; e le grosse confische de' loro patrimonî fecero dire, che Francesco aveva a bello studio esagerato il numero de complici; il che si disse puranco nel 1609, quando, conscii i Gonzaga e gli Estensi, si ordì in Parma altra nobilesca congiura contro Rinuccio II Farnese, che dette assai animosamente di piglio nel sangue e negli averi degli accusati, colpevoli o no.

Fuor d'Italia, la infelicissima Maria Stuarda, che il Bothwell aveva, coll'assassinio d'Enrico Darnley, cacciata in un abisso di vergogne e di guai, diveniva, fuggiasca in Inghilterra e prigioniera a Fotheringay, eccitamento o pretesto a congiure senza fine contro Elisabetta, che le sventava e ne faceva suo pro. Un duca di Norfolk che, giudice di Maria, vinto dalla bellezza di lei, strette intelligenze con la Spagna, aveva sognato sposarla, finiva nel 1572 col Northumberland suo complice sul patibolo, provocando rappresaglie crudeli contro i Cattolici. Una congiura dei Guisa, tramante uno sbarco sulle coste inglesi, fu, pare, denunziata ad Elisabetta da Filippo medesimo, cui la soverchia potenza di quei suoi clienti glie li avrebbe sottratti, e forse voltati contro. Ad incrudir nuovamente contro i Cattolici porgeva argomento la congiura del Somerville, preparatosi empiamente co' Sacramenti alla uccisione di Elisabetta. Il fantasioso Don Giovanni d'Austria, conscio questa volta Filippo II (che sperava o perderci il troppo intraprendente fratello, o porlo in difficoltà che glie lo assoggettassero del tutto), sognava anch'egli uno sbarco in Inghilterra, le nozze della Stuarda, il trono de' regni Cambrici, il ristabilimento del culto cattolico in Inghilterra. La congiura del Babington colmò finalmente la misura, e mentre a Fotheringay la testa bellissima della Stuarda cadeva sotto la mannaia (1587), ed il popolo di Londra s'abbandonava alla esultanza e incendiava fuochi d'artifizio, Elisabetta, fingendosi sorpresa, simulava una indignazione e un rammarico, che non ingannavan nessuno. Lo Schiller le fa riassumere abilmente in un meraviglioso monologo i pretesti, co' quali ella poteva coonestare le sue regali paure, e le sue femminili vendette; e quel tratto d'altissima poesia è profonda e nitida visione della realtà psicologica e storica. Del resto era fato antico di questi Stuardi il finire tragicamente: Giacomo I, il poeta, assassinato da' nobili; Giacomo II, morto all'assedio di Roxburgh per lo scoppio d'un cannone; Giacomo III, caduto a Bannockburn, combattendo contro il proprio figlio ribelle Giacomo IV; che doveva anch'egli poi morire contro il cognato Enrico VIII a Flodden; sinchè nel 1648 la fredda, plebea, beffarda crudeltà del Cromwell porgeva all'attonita ma inerte Europa lo spettacolo, non più veduto dal tempo d'Agide spartano, d'un Re tratto giudizialmente al patibolo da' sudditi proprî.

In Francia (per non ricordare ora il Clement, uccisore di Enrico III, nè la fallita Congiura d'Amboise), nel 1602, il Maresciallo Biron, già così benemerito d'Enrico IV, intrigava cogli stranieri contro il suo Re glorioso, macchinava la spartizione della Francia in Governi, con un Re elettivo, e dipendente da una specie di Dieta; e, ciò nonostante, il parricida avrebbe trovato grazia appo Enrico, solo che si fosse indotto, come n'era sollecitato, a chiederla. Ben più frequenti è naturale che si tramassero le congiure contro al Richelieu. Nel 1626, il Talleyrand di Chalais veniva decapitato; strangolato o avvelenato a Vincennes J. B. d'Ornano, nipote della celebre Vanina, creatura del duca d'Orleans. Nella congiura del 1632 il Motmorency, vilmente abbandonato dallo stesso Duca suo inspiratore, sarebbe stato graziato da Luigi XIII, se altri, in mal punto, non avesse additato al Re, in una Bibbia rimasta aperta sopra un leggío, lo scempio di Achad, Re degli Amaleciti. Nel 1642 il solito Gastone d'Orleans, furente per Maria Gonzaga negatagli in moglie, abbandonava alle vendette del Cardinale e al carnefice il Cinq-Mars, il De Thou, e determinava in Spagna la caduta dell'Olivarez, partecipe della brutta macchinazione.

Maggiori conseguenze, sebbene non sortisse il suo pieno effetto, ebbe sullo spirito pubblico inglese, e sulla condizione de' Cattolici nei Regni Cambrici, la Congiura delle polveri (1604); tuttochè Giacomo I, de' Cattolici odiator grande, dichiarasse egli medesimo in Parlamento non potersi a una intiera Confessione religiosa apporre la insensata efferatezza di pochi.

Anco in Olanda, lo Stautembourg, per vendicare il padre suo Barneveldt, cospirava contro Maurizio di Orange; che, sfuggito al colpo, non potendo Guglielmo, il reo, già postosi in salvo, mandava al supplizio l'innocente fratello di lui.

Tutti questi furono tentativi andati a vuoto, e ricaduti sulla testa de' colpevoli autori; ma a vuoto non andò il colpo che in Delft, presenti la moglie e la sorella, spengeva, per mano di Balthazar Gèrard, con tre palle di pistola, Guglielmo d'Orange (1584); il quale, scampato già, quantunque ferito sconciamente, all'attentato dello spagnuolo Javregny; sottrattosi, col duca d'Anjou, a quello del Salcède (che veniva squartato poi in piazza di Grève a Parigi), spirava, pregando Dio “che avesse misericordia dell'anima sua, e del suo povero popolo„. A vuoto non andarono i replicati colpi del Ravaillac, pei quali potè la Francia temere le si apparecchiassero giorni peggiori di quelli conseguiti immediatamente alla catastrofe di Enrico II.

E a queste tragiche morti di sovrani, quante altre si alternano d'uomini cospicui; talune macchinate da' Re, e da' pubblici Poteri fatti assassini, come quella del Duca Enrico e del Cardinale di Guisa, di cui Enrico III non s'era vergognato di proporre la esecuzione al valoroso Crillon ( le brave Crillon ), che gli aveva profferto, invece, di sfidare il Guisa a duello; l'assassinio del Concini, sagace precursore del Richelieu nel combattere l'alleanza della Feudalità e del Calvinismo cospiranti contro la potestà Regia, al quale l'oscitante Luigi XIII fu spinto dall'avido orgoglioso Luynes; quello del Sampiero da Bastelica, lo strangolatore dell'amatissima bellissima Vannina d'Ornano, voluto dal Governo genovese, sperante invano così la pacificazione della Corsica; e celebre sopra le altre, tipica, nel fiero genere suo, la morte del Wallenstein, ordinata da Ferdinando II, che affrettavasi, peraltro, a far celebrare per la requie del turbolento suo generale ben tremila Messe.

Altri eccidî sono compiuti da privati, sotto l'impero quasi sempre del fanatismo religioso, caratteristico di quella età: come quello del Condè prigioniero, perpetrato a freddo, dopo la battaglia di Saint-Denis, dal capitano Montesquiou (1569); del Duca Francesco di Guisa, al quale il Poltrot du Merè si dispose, durante l'assedio di Orléans, con sì lunga e raffinata simulazione (1563); del Buckingham, in cui il puritano Felton s'imaginava di spengere poco meno che l'Anticristo.

Nè mancava al pugnale omicida il plauso delle Muse, e la severa approvazione de' Maestri in Israello. La storia del Genere umano ha da registrare, tra le altre miserie, i versi latini, con cui da dotti Protestanti fu cantato il Poltrot du Merè; le lodi officiali della Sorbona per Bathazar Gérard; l'elogio che Famiano Strada, non volgar narratore delle guerre fiamminghe, tesse, nel suo bel latino, del Javregny; le apologie che il Boucher scrisse, prima, del Clement, poi dello Chatel, provatosi fin dal 1594 ad assassinare Enrico IV.

VI.

E quando, a far giustizia, Repubbliche e Re non sdegnavano armare e stipendiare mani assassine, non fa meraviglia che la scure della Giustizia divenisse per contro lo strumento di private vendette, la pubblica ed ufficiale esecutrice di misfatti. Caterina de' Medici aspettò sino al 1574, ma riuscì pure finalmente, còltolo fra i Protestanti, a far decapitare sulla piazza di Grève il Montgomery, involontario uccisore di Enrico II. Giacomo I, odiator di Cattolici in Inghilterra, mendicante fuori l'alleanza e la parentela della cattolica Spagna, immolava agli sdegni spagnuoli lo importatore della patata, il colonizzatore della Virginia, arricchita da lui col tabacco; e la testa dell'antico favorito di Elisabetta, sir Walter Raleigh, come già quella dell'Essex, cadeva per mano del carnefice. Maurizio d'Orange traeva pretesto dalla disputa fra Gomaristi e Arminiani per mandare al patibolo, come reo d'aver difeso nel campo teologico la libertà morale, quel glorioso Barneveldt, che nel campo politico difendeva la libertà civile dell'Olanda contro le ambizioni orangiste (1619). Per le cagioni stesse imprigionavasi quel grandissimo Grozio, che, fuggito mercè l'accorta pietà della moglie, rifiutava di tornare in patria alle indegne condizioni propostegli. E se tanto osavasi nella Olanda repubblicana, non farà meraviglia che il Richelieu ponesse segno alle sue meditate e non fallibili vendette il Marillac, preconizzato per breve ora, nella Journée des dupes, a succedergli nel Ministero, e ch'egli colse nel 1683, e commise a Giudici, de' quali lo stesso Richelieu beffardamente ammirò l'acume, quando ebbero saputo scuoprire le concussioni, sotto il cui carico mandarono a morte quel valentuomo. A un altro valentuomo, al Bassompierre, sagace nel penetrare i riposti disegni del Ministro, costava la Bastiglia l'aver detto: Vous verrez, que nous serons assez fous pour prendre la Rochelle. Chiuderemo la serie col ricordare, notabilissimo fra gli altri, pel mistero che lo avvolse, per la mancanza d'ogni legale parvenza, per lo spietato modo in cui fu perpetrato, l'assassinio, che del Monaldeschi ordinò, nemmeno più Regina ormai, la mal lodata Cristina di Svezia.

Neanche gli orrori del parricidio fanno difetto alla lugubre età. Filippo II consegnava ai carnefici il vanitoso inetto Don Carlo, da cui temeva fosse un giorno sovvertita l'opera propria; e col convincimento d'aver fatto la pura necessaria giustizia, fra gl'incensi d'una devozione obbrobriosa, alloppiava i rimorsi. Ivan IV, in un impeto cieco, colla mazza ferrata che, barbarico scettro!, sempre aveva in pugno, spegneva il figlio prediletto, suo auspicato continuatore; e di questa, almeno, tra le sue efferatezze provò disperato ribrezzo.

Se tal gente, mossa da tali passioni, assuefatta a tali spettacoli, potesse esercitare con quella minore inumanità ch'è desiderabile il funesto dritto di guerra, e far dimenticare i sacchi, onde vanno sinistramente famose le guerre del secolo precedente (Brescia, Capua, Prato, Ravenna, Roma), lo dicano gli eccidî d'Anversa per mano degli Spagnuoli, onde per alcun tempo quella dei Belgi s'unì alla insurrezione dei Batavi; lo dicano le rappresaglie di quella guerra Moresca negli Alpujarras, che la pietà dell'arcivescovo Talavera si studiò indarno d'evitare; e l'atroce sacco di Magdeburgo, che lo spietato Tilly paragonava, gloriandosene, alla presa di Troja e di Gerusalemme; e quello di Mantova (1630), perpetrato dalle milizie imperiali del Collalto. Ben è vero che costoro non potevano aver letto ancora il libro del Grozio; il quale, invece, doveva pure esser noto a Luigi XIV quando, mezzo secolo dopo, calcando freddamente sotto il pie' superbo ogni legge d'umanità, egli ordinava le replicate devastazioni del Palatinato (1674-1689).

VII.

Eppure, per quel Fato storico, o meglio per quella legge di Provvidenza, che guida, infrena, completa, corregge l'opera del Libero Arbitrio umano (i due massimi coefficienti della Storia), da' roghi, da' patiboli, dalle Città devastate, da' campi di battaglia, da' Consigli de' despoti, l'Umanità prendeva l'abbrivio a nuove e migliori conquiste. Una necessità ineluttabile costringe chi perseguita in casa ad allearsi fuori colla setta o confessione perseguitata. E come già Francesco I ed Enrico II coi Collegati smalkaldici, e sulle traccie di quell'accordo di Friedwald, che negoziato co' Luterani da un vescovo di Bajona faceva Enrico II (1551) vindicem libertatis Germaniæ et Principum captivorum; così Padre Giuseppe de la Tremblay (l'Eminenza Grigia, il rigido istitutore delle Figlie del Calvario ) negoziava pel Richelieu, in nome del Re Cristianissimo, accordi coi Protestanti tedeschi e colla Svezia; e s'adoperava a far togliere al Wallenstein il comando delle milizie imperiali. Giacomo I cercava (lo abbiamo già veduto) la amicizia, anzi la parentela della cattolica Spagna, contro la Francia cattolica, per rivolgersi poi nuovamente a questa contro la Spagna. I Turchi, le rivalità dell'una coll'altra Potenza cattolica, l'ambizione, il pericolo di veder congiunti coi Dissidenti religiosi i rivendicatori delle violate od obliterate franchigie politiche, imponevano più o men parziali Editti, e pratica più o meno costante di tolleranza. Enrico III, il vincitore de' Calvinisti francesi a Jarnac e a Montcontour, chiamato, perchè cattolico e perchè buon soldato, sul trono di Polonia, doveva, tra gli altri pacta conventa, giurare la osservanza delle libertà religiose. Poco appresso (1594), Sigismondo, Re cattolico nella Svezia protestante, doveva fare altrettanto; nè Casa d'Austria potè ad altro prezzo tener l'Ungheria, cui nel 1608 Mattia, nel 1637, e nuovamente nel 1647, Ferdinando III dovevano confermare la libertà di coscienza. Quanta parte l'essersene violati i patti in Boemia avesse alla guerra dei Trent'anni, è inutile il dire. Orrore delle stragi, per tanti anni e in sì larga parte d'Europa rinnovellate; temenza che una piena vittoria in Germania ribadisse ai polsi d'Italia la catena spagnuola; legittimo sospetto che, assicurata per altre parti, la Potestà imperiale tornasse ad accampare in faccia alla papale antiche pretese, e a tiranneggiare, sotto colore di protezione, la Chiesa; fecero che la Diplomazia pontificia s'adoperasse non inutilmente a procurar quella Pace, che fu poi conclusa in Westphalia.

Frutto d'alleanze inspirate da altro che da idealità di Confessione religiosa, e di conflitti politici fra popoli professanti la Confessione medesima, questa Pace, che sanciva l'ammissione di Danimarca e Svezia nella famiglia delle genti civili d'Europa; conferendo a' Calvinisti in Germania i dritti medesimi, che la Dieta d'Augusta a' Luterani; assicurando la indipendenza dell'Olanda, sottratta così alla pericolosa intraprendenza degli Orange; agevolando al Portogallo il futuro riacquisto della sua autonomia, consacrava nel Diritto pubblico europeo il principio della tolleranza religiosa, la incompetenza dello Stato in materia di Fede, i diritti della coscienza religiosa individua in faccia al Potere civile; accennava ad una più ampia e fraterna consociazione di popoli, tra' quali l'aspirazione a una Fede comune potesse farsi vincolo e argomento d'amore, non laccio omicida, non pietra di scandalo, non face d'incendio divoratore.

Il trattato di Westphalia (1648), il De jure Belli (libri tres, Hanau 1598) di Alberico Gentili, il De Jure Belli et Pacis, ed il Mare liberum di Ugo Grozio, sono tra i migliori legati, che abbia trasmesso il secolo di cui parliamo alle età future. Felici se ritroveranno, più che nella polvere degli Archivî, nell'intimo della coscienza umana, anche il gran disegno di Enrico IV, e fondamento alla umana felicità cercheranno, non ne' bilanci di guerra ogni dì più onerosi, ma nella pace sicura e nelle “giustizie pie del lavoro!„

Come de' nostri Cari, che la morte c'invola, tornano a noi le imagini fatte più auguste e serene, e non i loro momentanei sviamenti, e gli sdegni fuggevoli, ma ci stanno dinanzi, in pura luce, le virtù, che al viver loro furono guida ed inspirazione; così de' secoli discesi negli ipogei della Storia, le età successive raccolgono in eredità la parte positiva e migliore, e quella come sacra eredità si trasmettono.

Perciò, quando, con armi ed arti diverse, sorgerà in cospetto all'Europa un nuovo Filippo II, Olanda e Spagna, testè nemiche da parere irreconciliabili, s'armeranno l'una per l'altra, e coll'Olanda, la Svezia muoverà contro quella Francia, ch'era stata sì lungamente alleata sua contro l'Impero. Le armi dell'Impero concorreranno esse medesime a difendere da Luigi XIV il nuovo Diritto, sancito a Munster e ad Osnabruok.

VIII.

Quale la condizione, quale la parte dell'Italia in un'Europa siffatta?

Lo abbiamo accennato già prima; la Pace di Gateau Cambrèsis abbandonava l'Italia alla Spagna dominatrice; e, pareva, senza riparo o difesa. Venezia aveva sulle braccia la forza navale de' Turchi, e, per schermirsene, bisogno dell'alleanza Austro-tedesca e dell'Austro-spagnuola; il conflitto colla Riforma legava ad entrambi i rami d'Habsburgo, ma più particolarmente all'Austro-spagnuolo, il Papato; comprati a Spagna col Monferrato sino dal 1535, e come la Repubblica genovese, tenuti in fede dalla paura delle poco platoniche ambizioni savojarde, i Gonzaga; fatti cosa tutta spagnuola, con in mano di Spagna quel mirabile Alessandro, che di soli diciassette anni aveva effettivamente partecipato alla battaglia di San Quintino, i Farnesi; legati a Spagna, per la nemicizia cogli Strozzi e co' Francesi, e pel vassallaggio di Siena, i Medici; imbrigliata dalla nimistà de' Gonzaga, da quella di Genova, Casa Savoja; fatte così ausiliarie alla dominazione spagnuola in Italia le nimistà, le gelosie, le reciproche paure italiane.

Nè, in paese così diviso politicamente, poteva esser segnacolo comune di riscossa, una qualsiasi dissidenza religiosa dalla potenza dominatrice. I parziali moti, i conati individuali non contano; l'Italia era rimasta cattolica, più assai che per meditato e cosciente convincimento, per quella gioconda indifferenza verso i grandi problemi religiosi, ch'era una fra le più infelici conseguenze del Rinascimento; gli effetti, del resto considerevoli assai, della contro-riforma o rimbalzo cattolico, bastavano ad acquietare le coscienze di coloro, pe' quali in qualche cosa altro, che nelle estrinseche pomposità del culto, consisteva la Religione.

Ogni comune centro di vita, ogni vessillo, sotto cui tutta si fosse potuta raccogliere ad impresa che, per la mole dell'avversario, e per la sua situazione nella Penisola, tutte avrebbe richieste le forze della Nazione, mancava dunque all'Italia. Si portavano ora, nel servaggio, le pene delle antiche colpe. Le forze abusate e sfrenate, le idee, con colpevole leggerezza sfatate, mancavano all'opera del riscatto, più per la difficoltà di adattare ad essa una disciplina, che per reale esaurimento delle energie nazionali, che inquiete s'agitano, anzi, si sviano, e traviano; mancava, e questo era il peggio, a una gran parte di quella Nobiltà, senza la quale Popoli o Dinasti nulla in tale età avrebbero potuto tentare, la misura del vilipendio, in cui s'era lasciata cadere la Patria; della Patria stessa e della dignità propria s'era oscurata l'idea negli animi, compri dalle bugiarde onorificenze e da' ciondoli, che tanta bile muovevano all'Autore, qualch'egli sia, delle Filippiche, e a quello della Pietra del Paragone Politico.

E ogni giorno arrogeva al danno. Non m'attenterò a rifare il quadro, che con mano maestra fu condotto da Alessandro Manzoni, della impotenza arrogante, della insipienza presuntuosa, con cui gli Spagnuoli sgovernavano il Ducato di Milano. Da quello, ben noto, può ciascuno argomentare qual si fosse la condizione dei Regni meridionali; dove, avendo meno da temere di Potentati vicini, i quali degli errori spagnuoli e del malcontento eccitatone facessero loro pro, la rapacia, e la insolenza spagnuola si sfrenavano bene altrimenti; e dove la mole dell'ufficio alle ree loro mani commesso, e le forze di cui disponevano, inanimavano i Vicerè o a farsi belli a Madrid con più feroci esazioni, o ad assumere in esizio dei popoli miserrimi, e a sodisfacimento di loro ree cupidigie, gli atteggiamenti d'una indipendenza, che taluno fra loro sognò, forse, completa. E ben potevasi sognare in Napoli dal duca d'Ossuna, una corona indipendente se, nel dimezzato Ducato di Milano, il governatore Fuentes aveva potuto rifiutarsi di mandare in Fiandra i 30000 soldati, che, finito l'affare di Saluzzo tra Enrico IV e Carlo Emanuele I, gli si ridomandavano dal suo Sovrano. Ai moti, che nel Popolo la fame e la tracotanza degli esattori destò, la Nobiltà venne meno, dedita, più che in altra parte d'Italia, a Spagna, che la pasceva di vento; tenera de' fumosi privilegi, e, per la varietà delle origini sue, difficile a consentire in un unico simbolo. Di volgersi a un Principe italiano, nè Grandi, nè Popolo avrebbero fatto il pensiero, chè saria parsa loro dedizione di loro autonomia, assoggettamento di Provincia vassalla a Stato sovrano; Principi chiamati di fuora, come i Guisa, avrebbero avuto per sè, sola quella parte che risaliva ad origini francesi, o a spagnuole. In Sicilia le rivalità feroci tra Messina e Palermo, e nella stessa Messina le opposte fazioni di Malvezzi (liberali) e Merli (assolutisti) guarentivano a' Re spagnuoli la inanità finale d'ogni risentimento, meglio e più che un esercito.

Meno nota in genere, perchè difficile a cogliersi in un prospetto sintetico, più lunga a narrarsi, che non paia consentito dalla relativa picciolezza di certi eventi, la condizione de' Principati, cui rimaneva dopo il 1559 un'ombra di indipendenza.

D'essi, alcuni erano Dinastie recenti; come Farnesi e Medici; altri di recente, dopo procelle terribili, tornati in Stato, come casa Savoja; altri, infine, oltre le italiane, avevano sulle braccia faccende di gran momento fuori d'Italia, come il Papa e Venezia. Si trattava per loro di assicurarsi con una buona amministrazione la tranquillità interna; d'evitare all'interno ed all'estero conflitti, ne' quali il recente o il rinnovellato edifizio fosse posto a troppo duri cimenti, od offrisse opportunità all'altrui cupidigia sempre sollecita e intraprendente.

Ed invero, quanto ad amministrar bene lo Stato, taluni di quei fondatori o rinnuovatori di Dinastie porsero meditabili esempî. Le cure di Emanuele Filiberto per italianizzare di lingua, di cultura, d'interessi il suo Stato, ritolto tutto di mano a' prepotenti occupatori, e accresciuto della contea d'Oneglia comprata a' Doria; i provvedimenti per aver molte e pronte e buone armi, senza invocar mercenarî, col vietare a' suoi nobili di farsi mercenarî essi negli eserciti altrui, sono le ben note sue glorie. Meno noti, ma non meno gloriosi sono gli accorgimenti con cui, tolti di mezzo gli Stati generali, ch'erano omai custodi di vieti privilegi nobileschi e preteschi, anzichè di libertà, sciolse da ogni rimanenza di vincoli feudali le persone; e la giustizia distributiva con cui, gravando più ugualmente la mano su tutti gli ordini della cittadinanza, triplicò in breve le entrate del Ducato. Nè sono da tacere le molteplici cure date all'annona, all'igiene, all'agricoltura, alla sericoltura (promosse con le leggi e col proprio ducale esempio), agli studî sì di Scienze, che di Lettere e d'Arte; nè il freno posto alle intemperanze clericali, e la libertà restituita a' Valdesi.

“Bella e cappata gente„ chiama il Botta, nel suo antiquato ma vigoroso linguaggio, le milizie di quel Cosimo I, che nelle galee di San Stefano trovò un utile sfogo al Patriziato fiorentino, i cui vivaci spiriti piacevagli bensì rimuovere dal tentar nuovità interne, ma non sviare, o fiaccare. La Maremma senese, ch'egli ebbe con settemila abitanti, ne contava già, alla sua morte, circa a venticinque mila. Gli altri provvedimenti per la finanza, rispondevano a questi. Grande il merito suo nel tenere, come tenne, tranquillo senza efferatezze il paese, tutt'altro che quieto per sè; e si parve sotto il troppo minore suo figlio Francesco, quando nei primi diciotto mesi del governo di costui quasi duecento tra ferimenti e omicidî funestarono la sola Città di Firenze. Men felice la casa Farnese; nella quale potò bensì la buona amministrazione d'Ottavio far dimenticare in parte a' Piacentini e a' Parmensi le nequizie di Pier Luigi; ma Alessandro, più che a' sudditi suoi, prodigò, mal rimeritato, l'alto ingegno e la forte anima a Spagna nello sterile affanno del debellare le Fiandre; Rinuccio primo, tra' sospetti e le vendette imbestiò; sinchè quella gente parve ravviarsi a una politica estera ed interna più sana con Odoardo.

Il virgiliano Res dura et regni novitas me talia cogunt Moliri, ben s'addice alla prontezza colla quale Cosimo, ed altri di que' Principi novelli, s'affrettavano a spegnere ogni favilla d'incendio. Lo stento con cui, tuttochè Generalissimo di Spagna, vincitore di San Quintino per una parte, cognato del Re di Francia per l'altra, Emanuele Filiberto ricuperava da Francesi e da Spagnuoli gli Stati suoi, e la stessa Torino destinatane capitale; la agevolezza colla quale, dopo la uccisione del mostruoso Pier Luigi, s'era disciolto, tra Ecclesiastici e Spagnuoli, lo Stato Farnesiano, e le pene che c'eran volute a ricomporlo, e le condizioni sotto le quali Spagna aveva restituito Piacenza, ammonivano a guardarsi da agitazioni, chi volesse conservarsi lo Stato; e l'interesse de' Principi era qui interesse de' Popoli, che certo da Estensi, da Medici, da Farnesi non avevano mai da temere quel che da Spagna; e che in ogni caso, restavano almeno italiani.

Se la Spagna vegliava, e se conscia a sè stessa d'una già incipiente disproporzione fra le formidabili parvenze e la limitata realtà delle posse, ell'era ferma nel non tollerare incrementi de' Principi italiani, anco devoti apparentemente a lei, lo mostrarono i suoi sordi furori e le minaccie iraconde allorchè seppe della profferta che, stanchi della oppressione genovese, avevan fatta di sè a Cosimo i Còrsi, e la inclinazione di Cosimo ad accoglierli sotto il suo non libero ma ordinato Governo.

Ond'è da ammirarsi insieme la sagacia e il felice ardimento di Pio V e di Cosimo, nel conferimento del titolo e della corona granducale, con cui volevasi por termine alla contesa della precedenza fra Toscana, Casa d'Este e Savoja; contesa incresciosa, non oziosa; quando trattavasi di crescere autorità e forza a un libero Stato italiano, men saldo sino a que' dì che Savoja, men coperto che gli Estensi dalla sovranità papale. È da ammirarsi Cosimo in quel matrimonio tra Francesco I e Giovanna d'Austria, che riuscì infelice non per colpa di lui, e che ad ogni modo poneva sagacemente l'un contro l'altro i due rami di Habsburgo, e metteva Cosimo in grado di lentare, per una parte, i lacci spagnuoli; per l'altra, di rispondere non senza fermezza all'Imperatore stesso, che scriveva altezzoso a proposito del trattamento fatto a Giovanna.

L'alleanza francese, o il bilanciarsi, con una politica di matrimonî francesi, di interventi e mediazioni diplomatiche tra Francia e Spagna, era sin oltre la Pace di Vervins, malsicuro; e malsicuro segnatamente a Cosimo, sinchè erano in credito alla corte francese gli Strozzi, a' quali il Re di Francia diceva: mon cousin. Ed argomenti di timore non lievi porgeva quel Ducato senese, di cui, morto Cosimo, volevasi negare la investitura a Francesco, e che poteva da un momento all'altro divenire cosa spagnuola; od esser conceduto a quell'inquietissimo Pietro de' Medici, di cui tanto si valsero gli Spagnuoli per tenere il suo maggior fratello Francesco in soggezione; o divenir, magari in mano degli Strozzi, prezzo d'accomodamento tra Francia e Spagna.

Sotto Francesco, per la tema che, mentre travagliavasi nelle interne sue guerre il Regno francese, la Spagna incuteva più che mai agli Stati italiani, ed anco per l'indole prava del governante, la Toscana spagnoleggiò, e vide giorni per diverso modo nefasti; chè, oltre la frequenza de' delitti comuni notata di sopra, l'assassinio del Buonaventuri, primo marito di Bianca Cappello; l'uccisione, che della moglie Eleonora di Toledo perpetrò il già ricordato Piero, cliente di Spagna; la morte di Elisabetta, altra figlia di Cosimo I, per mano del marito Giordano Orsini, non a torto geloso; sono ben più certe tragedie, che non la favoleggiata morte di Garzia e di Giovanni, od altrettali.

Ma non appena la Francia s'avviò al suo scampo, e prima ancora che l'abjura di Mantes desse modo a Clemente VIII di trattare apertamente con Enrico IV, Ferdinando I, felicemente succeduto a Francesco, entrava mediatore tra Clemente ed Enrico; Venezia tornava all'antica alleanza francese; il Papa affrettava co' voti e coll'opera il giorno della pacificazione; le nozze di Maria de' Medici col Re di Francia, l'attivo intervento papale nella faccenda di Saluzzo, l'accorta e non disinteressata sapienza d'Enrico IV nella pace di Lione, davano segno manifesto che la esclusiva preponderanza spagnuola sugli Stati italiani era scossa.

Delle stipulazioni di Brusolo pare fossero bene informati e paghi Venezia, il Papa e il Granduca; non la Corte Farnese, veramente raccostatasi a Francia solo al tempo di Rinuccio II. Senonchè, prima ancora che la repentina morte d'Enrico IV richiamasse i piccoli Dinasti italiani a più cautelosi pensieri, e lasciasse Carlo Emanuele in quel terribile impaccio, da cui, colla tardità, che una mal dissimulata decadenza ingenerava in ogni moto di Spagna, contribuirono a trarlo i buoni ufficî della Diplomazia papale, erasi fatto manifesto come, pur di fronte alla decisa politica e al saldo animo d'Enrico IV, questi Dinasti non credessero avere completa identità d'interessi, da potersi tutti ugualmente alienare la Spagna. La cessione di Saluzzo a Savoja, frutto non meno del perseverante coraggio del Duca, che della accorta temperanza del Re, spiacque a' Medici e agli altri, perchè ne pareva fatto men pronto e presente il sussidio francese. Nè di ciò sembrava ad essi compenso sufficiente l'incremento sabaudo in Italia. Che se poi questo fosse stato, per avventura, maggiore, e più se ne sarebbero doluti; perchè meglio s'acconciavano a conseguire una relativa indipendenza mercè il contrapporsi d'uno ad un altro Potentato straniero in qualche parte d'Italia, che a subire la egemonia d'uno fra gli Stati italiani, cresciuto abbastanza per tutelar gli altri da qualsiasi straniero; al quale ufficio era manifesto oramai non potere, per la situazione a confine con Francia, per la mole dello Stato, pe' suoi ordinamenti militari accingersi, con qualche speranza di successo, se non casa Savoja. E di questa misera e colpevole gelosia non sono da riprendere soli que' Principi italiani, a taluni de' quali converrebbe anzi fosse più equamente pietosa la Storia, e che, conosciuti più da presso (Cosimo II, Ferdinando II, Edoardo I, Rinuccio II), guadagnano; ma ne sono da riprendere, per lo meno al pari di loro, i Popoli, ne' quali il particolarismo, ambizioso, sospettoso, era vivo pur troppo; tantochè, quando, nella guerra di Valtellina, pareva che le armi di Carlo Emanuele si vantaggiassero soverchiamente in Lombardia contro alle spagnuole, il Senato milanese, in tante altre faccende sì corrivo e sì docile, fece pervenire a Madrid le alte e veramente patriottiche sue lagnanze, perchè il governatore Duca di Feria capitanava con poca fortuna contro il Principe italiano le genti di Spagna. Tal quale come quando, sollecitandosi, un secolo e mezzo prima, per Pio II, una lega di Stati italiani, che formata contro il Turco, sarebbe stata efficace contro ogni altro Straniero, lo ammonivano del pericolo (?!) di far tutta veneziana l'Italia gli Oratori fiorentini; a' quali il Papa rispondeva: meglio in ogni modo farla veneziana, che turca, o comechessia straniera.

La Storia italiana, di questo periodo almeno così poco divertente, non è, o abbastanza nota o meditata abbastanza. Più nota o più meditata avrebbe, FORSE! risparmiato all'Italia il vano conato del federalismo neo-guelfo, chiarendo impossibile a conseguire od a conservare col buon volere di Dinastie, tutte recenti, e aventi fuor d'Italia le loro radici e la nativa ragione dell'esser loro, quello, che non erasi potuto o saputo volere, sotto la ignominia e la rapina spagnuola, da antiche Famiglie italiane, congiunte le più in parentela fra loro, e strette anche con casa Savoja da quella “catena d'amore„ di cui le figlie di Carlo Emanuele avrebbero dovuto essere gli anelli. Più nota o più meditata, questa Istoria ci farebbe meno corrivi e più oculati a tutela della conseguita unità.

Chè se i Lombardi, calpestati, dissanguati dagli Spagnuoli, delle vittorie savojarde si contristavano e si querelavano a Madrid, resta agevole intendere le fiere ripugnanze di Genova repubblicana contro le monarchiche insidie di Carlo Emanuele; intendere come co' Sovrani loro consentissero i Popoli in quelle gare di precedenza, che fecero, anche dopo la coronazione di Cosimo I Granduca, spargere tanti fiumi d'inchiostro, e minacciarono fare spargere fiumi di sangue fra Estensi e Toscani; intendere il furore della guerricciuola fra Lucca e gli Estensi, omai ridotti a Modena e Reggio, per la Garfagnana. E s'intende per questo modo quel correre addosso a Carlo Emanuele per vietargli l'acquisto del Monferrato; e quella suprema vergogna del lasciarlo solo, quando, non più pel Monferrato, ma sosteneva la guerra con Spagna, ed a quella invitava, come a debito loro, gli altri Principi d'Italia, per la indipendenza italiana, ch'egli ad un modo e quei Principi intendevano a un altro, e stimavano forse minacciata non meno che dalla Spagna, da lui, che della eventuale vittoria avrebbe raccolto in aumenti territoriali il massimo frutto. Il fatto è che mentre per la Francia, per la Spagna, per l'Austria, contro i Turchi, contro i sollevati Fiamminghi, contro gl'Inglesi troviamo a combattere volontarî di varie parti d'Italia, e taluni, per vero merito militare, ne' primissimi gradi, niuno ne troviamo con Carlo Emanuele in quella, che a lui sembrava guerra d'indipendenza nazionale; a troppi altri guerra di mero interesse dinastico. Degli altri Stati italiani lo Stato ecclesiastico, arrotondatosi cogli incameramenti di Ferrara e d'Urbino, protetto dalla maestà della Religione, e sperante da uno sconquasso degli Spagnuoli un incremento d'influenza sul Regno meridionale, si mostrava il meno geloso de' possibili ingrandimenti sabaudi. Gli errori e le colpe del Governo pontificio, che tanto contribuirono a far possibile la unificazione italiana, gli sono stati rimproverati abbastanza; è ufficio della Storia veridica ed equanime il riconoscere che, nè alla indipendenza d'Italia, nè all'ufficio di potenza moderatrice e conciliatrice, cui i Papi aspiravano fra gli Stati italiani, nocquero i predetti incameramenti d'Urbino e di Ferrara, nè il nepotismo politico, di cui furono frutto i Medici ed i Farnesi, e avrebbe potuto esser frutto un principato Barberino od Aldobrandino di Valtellina. Le generose illusioni sono da rispettare; e la difesa, che delle loro libertà repubblicane fecero Firenze e Siena, onora i Fiorentini, i Senesi, l'Italia; ma erano illusioni! Se la Lega, che il Burlamacchi sognò più tardi, si fosse potuta stringere cinquant'anni prima, se la voce di Pio II e di Paolo II non fosse andata perduta fra i pettegolezzi delle Repubbliche e delle Signorie tuttora immuni da contagio straniero, Firenze, che fu percossa da' grossi cannoni forniti agli Imperiali da Siena; Siena che cadde sotto le armi di Firenze collegate alle Spagnuole, avrebbero combattuto effettivamente per conservare i loro ordinamenti repubblicani; ma nel 1530 per Firenze, nel 1554 per Siena, si trattava, non già di rimanere Repubbliche o di diventar Principati; sibbene d'essere o Spagnuole o Medicee, e fu gran ventura che rimanessero a' Medici; gran ventura che tornasse a' Farnesi Piacenza.

S'intende che qui si risguardano il nepotismo e i suoi effetti sotto il rispetto della politica positiva italiana; non sotto quello più generale de' morbi, da cui giova sperare che la catastrofe del Poter temporale sia per far monda la Curia romana.

Ai torti del Papato temporale nella guerra Barberina, bruttissima, fanno contrappeso, durante il secolo, che ho cercato ritrarre nel suo complesso, meriti religiosi e civili non piccoli. Pio IV, forse soverchiamente severo agli orgogliosi Caraffa, mentre, animato dal nipote Carlo Borromeo concludeva il Concilio di Trento, fortificava contro i Turchi, sbarcati testè a Manfredonia, la città Leonina, Ancona, Civitavecchia; aiutava pur contro a' Turchi di denaro, di navi, di gente, Malta e l'Impero; ampliava il Vaticano; ornava Porta Pia. Pio V, oltre il sagace ardimento d'avere, colla incoronazione, contro le proteste del Corpo germanico, contro le rinforzate guarnigioni spagnuole, ed i clamori d'Este e Savoja, contribuito alla autorità e grandezza di Cosimo, che purtroppo consegnavagli il Carnesecchi, ma dava puranco galere per le guerre turchesche; ed oltre l'accorgimento con cui difese contro le insidie di Don Giovanni d'Austria la libertà genovese, ha il merito sommo d'avere, nonostante tutto il malvolere di Filippo II, menata a conclusione la gran Lega cristiana, e preparata quella battaglia di Lepanto, mercè la quale, sebbene non se ne raccogliesse a gran pezza ogni debito frutto, si protrasse la vita, e vita non tutta ingloriosa, a Venezia. Se pur non è più giusto il dire che quella Lega, come l'altra, che più tardi Innocenzo XI Odescalchi stringeva fra l'imperatore Leopoldo e re Giovanni di Polonia, salvassero per secoli dalla barbarie turca la civiltà cristiana.

La fama popolare predica ancora flagellator grande di banditi, e severo riordinatore dello Stato Sisto V. E meritamente invero; quantunque i buoni effetti dell'opera sua non durassero tutti, e gl'inquieti spiriti di certe popolazioni italiche tornassero a prorompere nelle geste epicamente brigantesche di quel Battistella, le cui imprese nella Maremma grossetana finirono solo quando la Spagna n'ebbe prese a' suoi stipendî le masnade nello Stato de' Presidî; o di quel Marco Sciarra, arcifamoso, che, dopo fatta contro a Pontificî e Toscani vera e propria guerra guerreggiata, finì al soldo de' Veneziani, mandatone, pe' giusti reclami di Clemente VIII, a militare in Candia. Co' quali, tra i prosecutori ed eredi di Ghino di Tacco, che il confine ecclesiastico e toscano fecero teatro d'imprese vive pur troppo ancora nella memoria e nella imaginazione del popolo nostro, convien noverare quell'Alfonso Piccolomini duca di Marciano, che prima negoziò col Papa da potenza a potenza la consegna del suo complice Pietro Leoncillo, poi, vinto da' Toscani in battaglia campale, a San Giovanni in Bieda, era da Ferdinando I, reclamandolo invano i Tribunali ecclesiastici, fatto impiccare.

Ma, per tornare alla politica italiana de' Papi, se lo zelo intemperante di Paolo V dette luogo alla nota contesa della Repubblica veneziana, restano ad onore suo e d'altri Papi le sapienti ed efficaci sollecitudini loro per tutti i Principi italiani, ed in specie quelle d'Urbano VIII per Carlo Emanuele I; ch'egli chiamò replicatamente “Onore d'Italia„ “Difensore della libertà italiana.„ Poichè, infine, a quel più di “libertà italiana„ che i tempi lasciavano allora sperare, indirizzarono i Papi la loro azione politica: e la egemonia, alla quale aspiravano sugli altri Stati italiani, si esercitò tutt'altro che in detrimento di questi.

Del resto, questi piccoli Stati, che unirsi ad impresa di comune indipendenza contro la Spagna non seppero o vollero mai, per una troppo gelosa cura di loro autonomie e precedenze; che insensibilmente declinarono col declinare di lor dinastie locali, presto degenerate; potevano tutti, al precipitar della mole spagnuola dire, come quell'uomo di Stato francese al cessar del Terrore: Ho vissuto! E l'aver vissuto, l'aver saputo vivere quando, morendo, sarebbesi fatto luogo a un incremento di dominazione straniera, di dominazione obbrobriosa, corruttrice, rapace, era già qualchecosa.

Ma se i singoli Stati italiani s'erano ridotti a vivere nel più modesto significato della parola, il pensiero italiano visse nel significato più alto e fecondo. Affermando contro la pervadente Teologia i diritti della Scienza, separando dal campo della Fede quello dell'esperienza e del raziocinio, contrapponendo alle fole di uno pseudo-aristotelismo i procedimenti del metodo sperimentale, Galileo Galilei recava alla famiglia umana beneficio di poco minore da quello, che le aveva recato la libertà di coscienza.

E di che vita fremessero ancora, non ostante le vecchie colpe paesane e la ignorante oppressione straniera, le viscere della gran Madre Italia, ben si pare dalla perseveranza e dal coraggio con cui, in nome della Verità scientifica, Gentiluomini, a' quali le vie dilettose de' facili onori erano aperte, Scienziati che dovevano, fatti nuovamente discepoli, disdire sè stessi, affrontarono le contrarietà, gli scherni, e le minaccie di peggio; si pare da que' luoghi del Galilei, e degli altri scrittori della sua scuola, ne' quali l'animo loro, commosso a portenti di che erano o ritrovatori o testimoni novelli, chiama a Dio, che di tanto dono li aveva privilegiati.

Nè già potevano essi allora prevedere, o solo in parte assai piccola le applicazioni, che della verità per essi certificata sarebbersi fatte alla industria, con aumento di comodità a' men privilegiati dalla fortuna, e con appressamento della umana famiglia a quella æqualitas, che San Paolo auspicò, e alla quale è preciso debito nostro il cooperare colla parola e co' fatti. Ma amore del Vero li scaldava; del Vero per sè medesimo, supremo Bene dell'anima umana dal quale, non cercati, non sperati o intraveduti talvolta, tutti gli altri Beni derivano; perocchè a ogni ordine d'umano pensiero, opera, affetto, si convenga quell'evangelico: “Zelate la giustizia ed il Regno di Dio, ed il resto verrà da sè.„

Lacera, conculcata, travolta dagli errori e dalle colpe proprie, e da necessità poco meno che ineluttabili, la Patria nostra aveva, pure nel secolo per lei sì melanconico, che dalla pace di Cateau Cambrèsis va a quella de' Pirenei, recato alla universa civiltà il cospicuo suo contributo.

LA REAZIONE CATTOLICA

CONFERENZA DI Ernesto Masi.

Permettetemi, cominciando, di ricordare che l'anno scorso, parlando del come e quanto fosse risentita in Italia la Rivoluzione Protestante Tedesca, ebbi a distinguere tre tendenze diverse manifestatesi allora in Italia, la prima, che senz'altro aderisce al Protestantismo e molte volte lo oltrepassa; la seconda, che, allarmata delle disastrose conseguenze del Rinascimento nell'ordine morale e religioso, mira ad un tal rinnovamento interiore della Chiesa Cattolica da rendere anche possibile una conciliazione pacifica col Protestantismo e quindi il ristabilimento dell'unità nella Chiesa Cristiana; la terza, che vuole e organizza la resistenza ad ogni costo e la reazione a tutta oltranza.

La prima di queste tendenze è domata colla violenza. La seconda e la terza camminano per alcun tempo parallele: pare anzi che si diano la mano e si aiutino scambievolmente; ma infine la terza, quella della resistenza e della reazione, ha il sopravvento e rimane l'ultima e definitiva trionfatrice.

È di questa, che dobbiamo ora più specialmente occuparci.

Essa, come fatto politico, piglia le prime mosse dall'accordo stabilitosi nel convegno di Bologna fra Clemente VII e Carlo V, ove si conferma non solo la servitù dell'Italia, ma s'offre alla Roma dei Papi la possibilità di rifarsi, dopo che la Rivoluzione Protestante avea già staccato dalla sua dominazione spirituale tanta parte d'Europa ed il suo principato temporale s'era per un momento, nel 1527, ridotto agli spaldi di Castel Sant'Angelo, donde il Papa potè vedere messa a ferro ed a fuoco la sua città.

Deserta, spopolata, con pochi erranti a guisa di ombre fra muraglie crollanti e affumicate dagli incendi, Roma, a questo punto della sua storia, pare veramente la gran tomba del Rinascimento. Eppure è da questa tomba che la Roma dei Papi risorge a contrastare trionfalmente, e per secoli, ai suoi nemici il dominio spirituale del mondo!!

Il fatto è grande, signore, e sa di prodigio!

Consideriamolo nondimeno obbiettivamente; consideriamolo nella sua realtà e possibilmente senza passione e senza indifferenza.

Il troppo zelo o il non sentire affatto la potenza degli ideali religiosi e delle loro manifestazioni nella storia stroppiano egualmente in questi casi. Bisogna mirare, se non altro, ad un modello più alto e più sereno di storica imparzialità; e tra i moderni ce lo porge il Ranke, lo storico filosofo della Reazione Cattolica, se anche non vogliamo lasciarci andare agli entusiasmi dello storico artista, il Macaulay, che, Protestante al pari del Ranke, ma nondimeno rapito appunto dallo spettacolo di quella strapotente riscossa Cattolica, depone il suo orgoglio d'Inglese ai piedi di Roma e profetizza che Roma perdurerà sempre giovine e vigorosa, anche quando un pellegrino della Nuova Zelanda, sedendo su un arco rotto del ponte di Londra, in mezzo ad una solitudine desolata, disegnerà sul suo albo di viaggio i ruderi della chiesa di San Paolo.

In settant'anni e non più, quanti passano dal convegno di Bologna alla fine del secolo XVI, la Reazione Cattolica è compiuta; i suoi effetti religiosi, morali, politici sono già manifesti, e se potessi indugiarmi tra via, varrebbe la pena di farvi vedere appunto accozzati dal caso al convegno di Bologna, che fu delle maggiori e più caratteristiche solennità del Cinquecento, i superstiti dell'età del Rinascimento cogli uomini destinati ad inaugurare la Reazione Cattolica.

Vi vedreste, per dir solo d'alcuni, il successore di Clemente VII, Alessandro Farnese, che dovrà, suo malgrado, aprire il Concilio di Trento, il Cardinal Gonzaga e Monsignor Giberti, ai quali spetterà in quel Concilio una parte importantissima, Gaspare Contarini, il generoso utopista della Conciliazione fra Cattolici e Protestanti, e insieme, Pietro Bembo, il maggiore rappresentante dei fervori letterari e dell'indifferenza religiosa del Rinascimento, e con altre gran dame italiane del tempo la principale di tutte, Isabella Gonzaga, che rappresenta il passato in quello che ebbe di più squisitamente artistico e gentile, mentre le damigelle della sua corte lo rappresentano in quello che ebbe di più spensieratamente giocondo, perchè quelle care ragazze s'abbandonano in quella occasione a tale intemperanza d'amori cosmopoliti da contarsi per le vie di Bologna fino a diciotto morti fra gli intraprendenti gentiluomini, che si disputano a colpi di spada i loro favori.

Ma non andrà molto, ripeto, e la Reazione Cattolica avrà trionfato, sicchè essa è già in tutta la sua forza, quando il Cinquecento è in sul finire e s'apre il Seicento, l'età, vale a dire, che è il colmo e l'espressione più legittima e più genuina così della piena servitù dell'Italia sotto la Spagna, come della rinnovata energia Cattolica, la quale ferma di colpo i progressi, rapidissimi in sulle prime, del Protestantismo e riconquista tanta parte del terreno o minacciato o perduto.

L'uno e l'altro di questi due aspetti del grande fatto storico, che stiamo esaminando, svegliano in noi, come uomini e come Italiani, tale tumulto di pensieri e di sentimenti, tal cumulo di dolorose memorie, tale impulso spontaneo anche di postume ribellioni; che comprimere tutto ciò in fondo all'anima per narrare e giudicare con la maggior possibile serenità non è facile. Tanto è vero, che a scrittori Italiani non è riuscito quasi mai, e fra gli stranieri, per citar qualche esempio recente, il Philippson, Tedesco, che espressamente se lo propone, scatta ad ogni momento, ed il Symonds, Inglese, se per altezza e sincerità di mente mette in piena luce tutta la vastità dell'argomento, non può trattenersi però, invertendo le parti, dallo scomunicare in nome del Rinascimento, di cui è innamorato, la Reazione Cattolica, ch'egli detesta.

Eppure si rischia così di fraintenderla o d'intenderla a mezzo!

Facciamoci ora una prima domanda. La Reazione Cattolica è essa tutta dovuta all'occasione, allo stimolo della ribellione Protestante Tedesca, od ha altresì altre cagioni, da questa indipendenti, e che sorgono spontanee dal seno stesso della Chiesa Cattolica? Sì, o signore, le ha; e se così non fosse, non credo che la sua forza sarebbe stata, come fu, così grande ed intensa.

Quando il Rinascimento è ancora in tutto il suo fiore, una specie di arcana preoccupazione, una specie di vago presentimento di guai imminenti, immalinconisce, loro malgrado, le fisonomie dei più caratteristici attori dello stesso Rinascimento. C'è mestizia, come ha notato il Carducci, sul dolce viso di Raffaello, corruccio su quello di Michelangelo, l'interna pena si tradisce nelle figure del Machiavelli e del Guicciardini, una tristezza invincibile e quasi ira nel sorriso dell'Ariosto e del Berni!

Per altri è peggio, e allarmati, ripeto, delle conseguenze che possono recare l'immoralità pagana e l'indifferenza filosofica del Rinascimento, s'agitano e promuovono, per quanto possono, un rinnovamento del sentimento religioso, che a questo tempo, in cui i limiti che separano il Cattolicismo dal Protestantismo non sono ancora del tutto determinabili e determinati, sa spesse volte di eretico e di Protestante, o per lo meno è trattato per tale, se non s'affretta a travestirsi, a confondersi nella Reazione Cattolica, come dimostrano due esempi solenni: quello del Cardinal Gaspare Contarini che, dopo avere inutilmente tentata una conciliazione fra Cattolici e Protestanti, va a morir solitario in un convento di frati a Bologna nel 1542, e quello del Cardinal Giovanni Morone, che, processato e carcerato per eretico sotto Paolo IV, finisce invece ad essere il diplomatico di fiducia di Pio IV e la maggior figura forse del Concilio di Trento.

Questo rinnovato sentimento religioso, che andava serpeggiando, a guisa di latente cospirazione, per entro la più elevata società Italiana del Rinascimento e che dovea avere di certo larghe diramazioni fra il popolo, il quale partecipò sempre poco coll'animo ad un moto, tutto di cultura e d'arte, com'era il Rinascimento, questo rinnovato sentimento religioso, dico, parve vicino a trionfare, sotto l'immediato successore di Leone X, sotto Adriano VI, l'ultimo Tedesco, anzi l'ultimo straniero, che abbia seduto sulla cattedra di San Pietro. È lui di fatto, che pronuncia la gran parola: occorrere che la riforma vada dal capo alle membra, e vi si accinge con tale severità e tenacità, che mette i brividi a tutti i gaudenti della Corte Romana, i quali si disperdono maledicendo a questo barbaro del Nord con un coro d'improperi e di beffe, di cui ci resta l'eco nella satira del Berni:

O poveri infelici cortigiani,

Usciti dalle man dei Fiorentini

E dati in preda a Tedeschi e marrani.

.... Ecco che personaggi, ecco che Corte,

Che brigate galanti cortigiane,

Copis, Vinci, Corinzio e Trincheforte!

Nomi da fare sbigottire un cane.

.... Or ecco chi presume

Signoreggiare il bel nome latino!

Ma dopo il carnevale di Leone X, la tetra quaresima di Adriano VI fu breve. Quei gaudenti, per vendicarsi, gli tribolarono la vita, lo vilipesero, lo impedirono. Morì dopo un anno, nè gli restò che farsi incidere sul sepolcro l'amara espressione del suo disinganno: “ahimè! in che tempi mi sono imbattuto!„

Non si può dire tuttavia, che la sua fugace apparizione fosse inutile del tutto, perchè quel rinnovato sentimento religioso perdurò, e se anche andò poi confuso e travolto nella grande fiumana della Reazione Cattolica, pure avendo questa innegabilmente riformata in molte parti la Chiesa, se ne deve concludere che quel rinnovato sentimento religioso cooperò non poco a determinare questo movimento di controriforma, quasi ponendo esso alla propria Chiesa questo trilemma, che bisognava o conciliarsi coi Protestanti, o riformarsi, o perire. Un altro coefficiente della Reazione Cattolica, indipendente anch'esso dalla ribellione Tedesca, è il venir meno grado a grado dei primitivi impulsi, che avevano in Italia fatta la grandezza del Rinascimento. L'umanismo, riavuti i classici e dato vita ad un nuovo ideale di cultura, imbozzacchisce nell'erudizione, nel pedantismo accademico, e nell'imitazione. La pittura e la scultura, dopo Michelangelo, declinano nel manierismo. L'architettura s'immobilizza nei tipi fissi del Palladio e del Barozzi. Dopo l'Ariosto, la poesia non dà più guizzo di luce fino al Tasso, ma il Tasso è figlio, suo malgrado, d'altra civiltà e d'altro tempo. Ed ultimo coefficiente della Reazione Cattolica è esso finalmente il consenso, la partecipazione diretta, che l'Italia presta alla Riforma Luterana e Calvinista?

Credo, aver indicati l'anno scorso i limiti di questo consenso e di questa partecipazione; credo (tale almeno era di certo la mia intenzione) di non averli nè scemati, nè ingranditi; credo aver dimostrato soprattutto che una storia della Riforma Protestante in Italia non solo esiste, ma è importantissima, e che negarle il posto che le spetta nello svolgimento del pensiero e della coscienza italiana, è un'intolleranza assurda in sè, incivile, ed irriverente ai martiri eroici e agli esuli venerandi, che il Protestantismo ebbe in Italia; ma contuttociò non si può dire, che, quanto a determinare la grande Reazione Cattolica o Controriforma, che dir vogliate, quest'ultimo coefficiente abbia avuto il valore e l'efficacia degli altri, meno che mai del maggiore di tutti, di quello che, quantunque non unico, sorpassa di gran lunga tutti gli altri, vale a dire della ribellione Protestante Tedesca, che vittoriosa, indomabile, progrediente d'anno in anno, costringe la Chiesa Latina, nonostante tutte le ripugnanze e le resistenze dei Papi e della Curia, nonostante tutte le ambagi della politica, a persuadersi della necessità di opporre una riforma sua propria a quella di Lutero, di Zuinglio e di Calvino per salvare ciò che le resta, riassodare ciò che vacilla, e riguadagnare in tutto o in parte, se possibile, il terreno perduto.

Ad ogni modo il trapasso dall'età del Rinascimento a quella della Reazione Cattolica, quantunque breve, non è a data fissa, senza oscillazioni e senza contrasti. Gli ideali del Rinascimento si vanno oscurando bensì, ma non tutti ugualmente, nè tutti ad un tratto, perchè questi mutamenti a scatto d'orologio nella storia non si danno, ed è già troppo, a mio avviso, assegnare per la sola pittura, ad esempio, il principio della sua decadenza al 1530, come fa il Burckhardt nel suo Cicerone, e non dico nulla del Ruskin, scrittore di grande ingegno, ma critico paradossale e Puritano intrattabile, il quale non si contenta dei fulmini e delle contumelie, che scaglia sulla povera arte, svoltasi poi sotto l'influsso della Reazione Cattolica, ma giudica già una decadenza lo stesso Rinascimento ed un manierista Raffaello!

In quella vece da Paolo III a Clemente VIII occorrono non meno di dodici regni di Papi, quattro dei quali bensì brevissimi o insignificanti, perchè si possa dire spostato il centro del Rinascimento, di cui va via via scemando in Italia ogni spontaneità creatrice, e perchè Roma ridivenga alla sua volta centro d'un altro gran moto, cioè della Reazione Cattolica, e così prevalga ancora nuovamente nel mondo.

Comunque, il termine di tempo è pur sempre cortissimo per così enormi risultamenti, settant'un anni e non più, anche calcolando non dal convegno di Bologna alla fine del secolo XVI, ma dal Papato di Paolo III, durante il quale si avverte appena che il Rinascimento sta per finire, a quello di Clemente VIII, in cui Roma e l'Italia sono talmente mutate da non riconoscerle più per quelle di prima.

Pur troppo il tempo cammina svelto nella eterna Roma, e strani giuochi di fortuna prepara, tanto più sbalorditoi, quanto più Roma vi dà l'ammaliante illusione che il tempo non passi mai e che si possa sempre fare a fidanza con esso!

Ne volete altra prova? Per certo la maggior parte di voi conosce Roma e per conseguenza San Pietro. Or bene, viaggiando colla fantasia, entriamo in San Pietro e nell'abside di fondo fermiamoci a sinistra dinanzi al monumento sepolcrale di Paolo III Farnese. Quella nobile e bellissima figura di Papa barbuto e meditabondo, quelle altre due figure di donna, coricate davanti al sarcofago, l'una vecchia e l'altra giovine, e rappresentanti la Prudenza e la Giustizia, vi dicono, nella loro composta e vigorosa magnificenza, che siamo ancora in piena arte del Rinascimento. Tanto più ve lo dice la tradizione storica, la quale riconosce nell'una di quelle donne il ritratto di Giulia Farnese, la Du Barry dei tempi Borgiani, e nell'altra il ritratto di Giovanna Caetani di Sermoneta, la madre del Papa; curioso accozzo in verità e di una disinvoltura quasi sacrilega in quell'occasione e in quel luogo. — Ora voltiamoci indietro e guardiamo all'altro monumento sepolcrale, che sta di fronte al primo. È il sepolcro di Papa Barberini, Urbano VIII. La testa del Papa col triregno è bella; è anch'esso barbuto, ma non colla barba all'Enrico IV o coi mustacchi alla Wallenstein di altri Papi del secolo XVII. Pur tuttavia quello scheletraccio alato e dorato, che, seduto a sghimbescio su un'urna nera, registra il nome del Papa nel libro dei morti, tutto quello svolazzo e tormento di pieghe nelle vesti, tutti quegli atteggiamenti teatrali, cascanti e manierati delle altre figure, non solo vi dicono che siamo già a tutt'altro tempo, a tutt'altra arte, ma il nome stesso del Papa, che per sua sventura condannò Galileo, che ebbe assai più sentimento di gran principe che di Papa, che, durante la guerra dei Trent'anni, per odio alla grandezza degli Absburgo, badò assai più ai motivi politici che non ai motivi religiosi di quella titanica lotta, vi dice altresì che il tempo della Reazione Cattolica è esso stesso oltrepassato e che il Papato s'incammina già per quella via di sfarzo principesco e di assolutismo monarchico, per la quale fu avviato bensì dalla Reazione Cattolica contro la Riforma Protestante, ma, seguendo la quale, dovrà poi scontrarsi a tutt'altri ostacoli ed a tutt'altre resistenze. Eppure tra l'una e l'altra età, a cui si riferiscono que' due monumenti, tra l'uno e l'altro di quei due Papi, tra Farnese e Barberini, neppure un secolo è corso, ottantanove anni e non più!!

Un singolare destino ebbe Paolo III! Ch'esso sia il vero Papa della transizione fra il Rinascimento e la Reazione Cattolica lo dimostrano dall'un de' lati essere stato fatto cardinale (e per che vie!) da Papa Borgia, essere stato educato all'umanismo nell'Accademia di Pomponio Leto e al gusto dell'arte nella Corte di Lorenzo il Magnifico, aver fatto compire a Michelangelo il Giudizio e voltare la cupola, fatto lavorare il Cellini, edificato il Palazzo Farnese e, non scoraggiato dall'esempio dei Borgia, aver mirato ed essere riescito a fondare un regno ai nipoti, e dall'altro lato aver esso creato cardinali il Sadoleto, il Polo, il Giberti, il Fregoso, il Contarini, il Caraffa, i primi quattro inchinevoli bensì a conciliazione coi Protestanti, ma tutti zelantissimi di una riforma interna della Chiesa, ed il quinto il rappresentante della repressione e della resistenza a tutta possa, aver introdotta in Italia l'Inquisizione spagnuola, approvata la Compagnia di Gesù, la riforma e l'istituzione di altri ordini religiosi, e finalmente avere aperto il Concilio di Trento, con che si può dire che Paolo III, quantunque per indole e per gusti fosse di suo assai mediocremente zelante e appartenesse più al Rinascimento che alla Reazione Cattolica, pure, spinto dalla forza delle circostanze e soprattutto dal risveglio dello spirito religioso manifestatosi nella Chiesa, organizzò sotto il suo pontificato tutti i principali e più formidabili strumenti della Reazione Cattolica.

All'apertura del Concilio però non s'indusse che con la maggior ripugnanza e resistette sinchè potè. Ricordava con terrore gli ultimi quattro: quello di Pisa, che avea deposti due Papi; quello di Costanza, che sotto la presidenza dell'Imperatore avea condannata bensì l'eresia di Giovanni Huss e di Girolamo da Praga, ma s'era poi trasformato in vero tribunale giudicante il Papa e il Papato, avea costretto tre Papi ad abdicare ed accentuata all'estremo la tendenza delle Chiese nazionali ad emanciparsi da Roma mediante i concordati; quello di Basilea, che era stata una vera ribellione alla supremazia dell'autorità Papale; e finalmente il Lateranense, opposto da Giulio II ad una ripresa del vecchio conciliabolo Pisano, e che Leone X avea dovuto con disinvoltura Medicea affrettarsi a chiudere, affinchè non uscisse di carreggiata.

Paolo III quindi resistette, ripeto, sinchè potè, e quando piegò per forza alla deliberata volontà di Carlo V, che già alle prese coi Protestanti di Germania lo imponeva ad ogni patto, traccheggiò ancora, ed il Concilio, dopo infiniti sì e no, convocato a Trento nel 1542, si prorogò al 1543 è in realtà non fu aperto che nel 1545.

Se non che fin dalla prima sessione nè corrispose ai desideri di Carlo V, il quale, benchè Cattolico fervente, vagheggiava qualche mezzo termine, che gli consentisse d'intendersi coi Protestanti e pacificare la Germania, tutta in subbuglio, nè giustificò le timide apprensioni del Papa, se pure anzi non superò ogni sua aspettazione.

Per mia e vostra fortuna, signore, io non posso neppure compendiarvi la storia esteriore del Concilio di Trento, nonchè entrare nel merito delle sue discussioni. Il Concilio di Trento ebbe, come sapete, due grandi storici italiani, l'uno Fra Paolo Sarpi, l'altro, il cardinale Pallavicini, gesuita. Sono due storici classici, ma due storici di partito, e chi si colloca su questo terreno (una trista esperienza ce lo mostra ogni giorno) non può, non vuole nè conoscere, nè dire la verità. Tant'è che queste due storie sono non solamente l'opposto l'una dell'altra, ma il mondo Cristiano è, dice il Ranke, diviso in due nel giudicarle, nello stesso modo che è diviso in due nell'apprezzare pro o contro l'opera del Concilio di Trento.

Certo l'uno, il Sarpi, tira tutto al peggio e interpreta tutto sinistramente, l'altro, il Pallavicini, difende tutto e, scrivendo per confutare il Sarpi, non gli lascia passare una parola, un fatto senza contraddirlo, e dove la verità di ciò che ha scritto il Sarpi salta agli occhi, allora gira largo, o ricorre alle fiorettature, agli sbalzi, ai bagliori incerti dello stile, dei quali gli scrittori del suo Ordine sono sempre stati maestri, e nei quali in Italia purtroppo hanno fatto tanti discepoli.

In buona fede piena non lo sono nessuno dei due, perchè il Sarpi, acceso d'amore per la sua Venezia, che lotta contro le usurpazioni di Roma, detesta la Roma di Paolo V Borghese, quell'orgoglioso, che ha scritto il suo nome di famiglia sul frontone di San Pietro, non meno del Concilio di Trento, che ha costituita Roma qual egli la vede al suo tempo, ed il Pallavicini scrive per commissione del suo Ordine, ch'era stato il grande inspiratore e maneggiatore del Concilio di Trento.

Quanto a me però dico il vero, il Pallavicini lo intendo e me lo spiego. Tutto invece nel Sarpi, tranne il suo patriottismo Veneziano, mi rimane, come ad Edgardo Quinet, un enigma. Il suo libro somiglia al Principe del Machiavelli. Nel Principe, coi fatti della storia alla mano si mostra con che arti si fondi e si mantenga uno Stato in tempi corrotti. Nel libro del Sarpi si mostra con che arti si pretenda riformare una religione, quand'essa ed il tempo sono corrotti del pari.

Se non che il Machiavelli almeno ci avverte che la morale non ha da far nulla coll'arte di Stato, e che la religione sarebbe bensì un grande aiuto, se ci fosse, ma quando non c'è, si fa a meno anche della religione. Il Sarpi invece rimane sacerdote di questa religione; respinto anzi da essa, le rimane fedele a costo anche della vita e tutto ciò nell'atto stesso ch'egli scruta questa religione nelle sue fondamenta, la sorprende in peccato e la denunzia al mondo. Come si spiega questo mistero? Con motivi volgari, no certo, perchè questo povero frate non chiede nulla per sè, non esce mai dal convento, vive povero e virtuoso e muore, augurando soltanto alla sua Venezia di durare eterna. Ma è Protestante il Sarpi? è Cattolico? è un precursore di Portoreale e dei Giansenisti? anticipa puramente i giurisdizionalisti del secolo XVIII? è un precursore dei Vecchi Cattolici odierni? Noi sappiamo i suoi odii, perchè ce li ha detti lui. Delle sue predilezioni conosciamo soltanto quella a Venezia. Il resto è uno dei soliti enigmi del pensiero Italiano, che n'ebbe tanti in quei tempi.

Il Sarpi ha chiamato il Concilio di Trento l' Iliade del suo secolo, denominazione che può avere molti significati e gli è stata molto rimproverata. Considerandolo soltanto sotto l'aspetto umano e storico, mi pare però che sì per la lunga durata, come per l'importanza e le strane vicende, quella denominazione non gli disconvenga del tutto. Si protrasse per quasi ventidue anni, si adunò a intervalli per diciotto anni tre volte, senza contare la sua momentanea traslazione a Bologna nel 1547, fu interrotto da paci, da tregue, da guerre, e quando, dopo inconciliabili discordie fra i Padri stessi del Concilio, parve perduta ogni speranza di tenerlo unito e tirarlo a conclusione, fu appunto allora, che con uno sforzo eroico ed un'arte sopraffina approdò. Dopo di che ognuno giudicò dei risultamenti del Concilio secondo le proprie speranze, le proprie tendenze intellettuali e le proprie aspirazioni religiose, positive o negative che fossero.

A me basta dire che superato il disgusto del veder precorsi in quell'assemblea tutti gli artifizi, i lacciuoli, i giuochetti, i retroscena, le divisioni per gruppi e sottogruppi, le comparse che votano, le infornate che spostano le maggioranze, tutte le macchinette insomma del parlamentarismo moderno, e giudicando il fatto con criterio umano, ma pure ammettendo che i più dei membri del Concilio erano sinceri, dotti e di tutto cuore aspiranti ad una seria riforma della Chiesa, due forze mi sembrano aver prevaluto a far riescire il Concilio come riescì: i Gesuiti, tutta colpa o tutto merito dei quali è la inespugnabile rigidità dottrinale, in cui il Concilio si contenne, e la Corte di Roma, la cui finissima arte diplomatica rese essa sola possibile fra tante difficoltà politiche, che ad ogni poco l'interrompevano, la continuazione e la fine del Concilio.

Corrispose esso alle speranze degli spiriti più temperati fra i dissidenti e dei più elevati fra i Cattolici? Per me dico: no. Altri dirà: sì; e saranno due convinzioni egualmente rispettabili. Certo è che i risultamenti immediati, se si guarda soltanto al fine che ebbe Roma nel riunirlo, furono grandissimi. Determinato cioè per sempre il dogma Cattolico, ristabilita la gerarchia e la disciplina ecclesiastica, tolta la confusione d'idee, che fra gli stessi Cattolici regnava prima del Concilio, arrestate le tendenze centrifughe nazionali, l'autorità Papale riconosciuta superiore ai Concilii e grandemente aumentata, il clero inferiore sottomesso ai Vescovi, scartata ogni novità nel culto, dato al Papato un nuovo carattere, diversissimo da quello che ebbe nel Medio Evo e nel Rinascimento, migliorato coi Seminari il valor morale e intellettuale del clero, disciplinati i Conventi, imbrigliata la stampa coll' Indice.

In tutto questo è il bene e il male del Concilio. Quanto all'Italia, la sua servitù politica era già piena, allorchè il Concilio incominciò. Le si aggiunse ora la piena servitù del pensiero e della coscienza, con tutti i guai che ne conseguono alla civiltà, al carattere ed alla vita d'un popolo, e Roma ebbe fidi e terribili strumenti a quest'opera l'Inquisizione ed i Gesuiti.

Dei cinque Papi, che regnarono durante il Concilio di Trento, tre soli meritano particolare attenzione, Paolo III, Paolo IV e Pio IV. Degli altri due, Giulio III rappresenta una parentesi volgare nella Reazione Cattolica, e Marcello II, che regnò tre settimane, non potè se non dare il suo nome alla famosa Messa, con cui tra le prescrizioni e i divieti del Concilio il Palestrina riescì (e fu un grande trionfo) a portar fuori salva la musica sacra.

Ma notate bene, o signore, a conferma di quanto io vi diceva, che non due Papi zelanti, ma due Papi politici, Paolo III e Pio IV, sono quelli che iniziano e conducono a fine il Concilio.

Paolo IV, che sta fra i due, il fondatore dei Teatini e quegli che da cardinale persuase Paolo III a trapiantare in Roma l'Inquisizione Spagnuola, era troppo fiero e troppo invadente personaggio da sopportare l'aiuto del Concilio, sebbene fosse stato il leader della sua prima sessione, e non sapendo piegarsi neppure alla dominazione Spagnuola, tentò levarsela di dosso, gettandosi con uno scarso aiuto Francese nella più disperata avventura guerresca, che mai si potesse immaginare.

Per sua fortuna Carlo V, stanco e disgustato della sua stessa grandezza, aveva abdicato, e Filippo II, il suo successore Spagnuolo, era un Tiberio bigotto, che al Duca d'Alba, il quale guidava gli Spagnuoli, ordinò di trattare il Papa vinto, come se fosse stato vincitore. Da quel momento il Papa mutò; i nipoti, che avevano fomentate le sue aberrazioni politiche, furono esiliati; Roma, la Corte, la Curia, la Chiesa, la città si trasformarono sotto l'impulso di rigori, quali potea imporli un Paolo IV umiliato e forse pentito; l'Inquisizione in tutta Italia e in Ispagna fece il resto. In queste due nazioni fu quindi soffocata ogni velleità eterodossa, ma in questo tempo medesimo il Cattolicismo perde l'Inghilterra e la Scandinavia; quasi tutta la Germania è divenuta Protestante; la Polonia e l'Ungheria balenano; Ginevra s'atteggia a piccola Roma Protestante, e la Riforma è già in armi e già combatte in Francia e nei Paesi Bassi.

In tali condizioni cominciò a regnare Pio IV. Se non che ebbe un'idea chiara ed ardita: riaprire il Concilio, fidarsi ad esso in apparenza, ma regolarlo lui d'accordo coi Principi, persuadendoli che l'assolutismo Papale e l'assolutismo Monarchico erano l'uno il necessario sostegno dell'altro.

Troppo dovrei dire, se volessi mostrarvi che capolavoro diplomatico sia la condotta di Pio IV col Concilio e colle Potenze Europee in relazione al Concilio; con che mano leggera e vellutata egli sappia toccare tutti i tasti e far loro rendere il suono che gli conviene; come superi, ora cedendo, ora resistendo, ogni difficoltà. Fu aiutato dal cardinale Morone, indole mansueta e quasi timida, ma ferma, intelletto acutissimo, anima onesta e schiettamente religiosa e che, figlio del famoso cancelliere degli Sforza, l'arte diplomatica, si può dire, l'avea nel sangue. Fatto è che a fronte di questi due preti, Filippo II, il Duca d'Alba, Caterina de' Medici, il cardinale di Lorena, Ferdinando I non sono che dilettanti di bassa sfera.

Le discussioni nel Concilio sono tempestose; ogni giorno minaccia di sfasciarsi; e nondimeno tutto sempre ripiglia e finisce dove e come il Papa ha voluto. La satira contemporanea si sfogò a dire che lo Spirito Santo viaggiava in posta da Roma a Trento. Sarebbe stata del pari irriverente, ma più esatta, se avesse detto che da Roma faceva il giro d'Europa e portava a Trento la volontà del Papa, quand'era divenuta la volontà di tutti.

Così il Concilio potè chiudersi; così Roma ricostruì il suo colossale edificio, circondandolo di tali muraglie, appiè delle quali venne ad infrangersi l'onda, fino a quel momento irresistibile, della Riforma Protestante, e da questa rocca Roma uscì di nuovo con un esercito rifatto di entusiasmo, di disciplina e di fede e tutto stretto nella sua mano, come un'unica spada, alla riconquista del mondo.

Non direi il vero, signore, contribuirei anzi colle mie parole a darvi un falso concetto della Reazione Cattolica, se arrecassi tutti i suoi effetti prossimi e remoti a sola arte di regno, a sola finezza diplomatica della Corte di Roma. Ciò che assicura anzi quegli effetti è principalmente il fervore di quel nuovo sentimento religioso, ch'io dissi già ricomparso, quando il Rinascimento incominciava ad allarmare le coscienze più timorate; è una successione di Papi irreprensibili e di una terribile severità, come quella che va da Pio V, Gregorio XIII e Sisto V a Clemente VIII; è un clero presente in ogni dove e dopo il Concilio migliorato d'assai; è l'apparizione quasi simultanea di uomini di una fede ardente, di una carità veramente apostolica, di una abnegazione a tutta prova, quali Ignazio di Lojola, Francesco di Sales, Carlo Borromeo, Filippo Neri, il Calasanzio, il Saverio e tanti altri; è la riforma degli ordini religiosi antichi e la creazione di nuovi, dei quali si contano diciannove dallo scoppio della Rivoluzione Protestante nel 1521 alla pace di Vestfalia nel 1648; è la repressione inesorabile dell'Inquisizione e dell'Indice, che ne è una propaggine, la quale spegne ogni libertà di coscienza e di pensiero; è finalmente la furia di combattimento e di espansione dei Gesuiti. Tutto questo coopera ad un sol fine, obbedisce ad un solo comando, si muove com'un uomo solo, e se confrontate la nostra presente confusione ideale e morale con quella salda e tremenda compagine, sarà il miglior mezzo di convincervi non della nostra debolezza, chè forse non ne avrete bisogno, ma della enorme potenza di quella organizzazione.

Dell'Inquisizione, dico chiaro, mi ripugna a parlare. È un'instituzione abietta ed odiosa fino dai suoi principii, durante il Medio Evo, come ha tanto bene dimostrato di recente e con grande imparzialità un illustre storico Americano, Enrico Carlo Lea, e tale si conservò, anche quando, nel 1542 fu trapiantata in Italia.

Non è così dei Gesuiti. Per quanto è dato discernere il vero fra tanto furore di accuse e di difese, a cui furono fatti segno in ogni tempo, per quanto sembri provato che la Compagnia di Gesù incominciasse a deviare dal proprio instituto quasi subito dopo la morte di Ignazio di Lojola, per quanto sia certo che in progresso di tempo, inebbriata della propria potenza, ricca, intrigante, presente e agitantesi ovunque dalle reggie ai tuguri, ne deviò sempre più, e si corruppe e intristì nella setta; pure ne' suoi primordi, o in relazione almeno al momento storico, di cui ci stiamo occupando, quand'essa cioè incarnava ancora, al pari del Lojola, lo spirito cavalleresco e il misticismo Spagnuolo, l'uno e l'altro fecondati da un ardente ambizione, quando colla più strana mescolanza di pietà, d'abnegazione, di fanatismo, d'astuzia, d'energia selvaggia, senza scrupoli sulla scelta dei mezzi, come senza esitanza, si gettava a corpo perduto nella lotta, quando alla fine del secolo XVI si vedeva già sparsa nelle quattro parti del mondo, dominare in Italia, in Spagna, in Portogallo, guadagnare in Francia un terreno contrastatole palmo a palmo, e serrare da presso in Germania il focolare del Protestantismo da Vienna, da Praga, da Ingolstadt e da Monaco, non possiamo, comunque si pensi, difenderci da un sentimento d'ammirazione per questo audace manipolo d'uomini, che giustamente furono chiamati i Giannizzeri del Papato e della Reazione Cattolica. Esagera bensì il Macaulay attribuendo loro ogni merito d'avere salvato il Cattolicismo, fermati i progressi della Riforma e respintala dai piedi dell'Alpi alle coste del Baltico, perchè si dimenticano così Filippo II, l'Inquisizione, il Concilio di Trento, la Casa d'Austria e quella dei Wasa di Polonia, le grandi forze insomma, senza le quali poco o nulla avrebbero potuto Ignazio di Lojola e la sua milizia.

Non è men vero ad ogni modo che in quel momento, in cui la Chiesa Cattolica si trasforma tutta in una grande missione, i Gesuiti, tipo vero di quella nuova specie di frati, non più puramente ascetici e contemplativi, ma in continuo contatto con la vita, i Gesuiti, operosi, instancabili, sono all'avanguardia della parte più militante, e nel tempo stesso che disfanno il passato, preparano l'avvenire, sottentrando colla loro azione, che sa trasformarsi in mille guise alla libera azione individuale, non per sopprimerla, ma per dominarla e avviarla ai fini soltanto che si propone la Chiesa.

Or eccovi, signore, il grande edificio della Reazione Cattolica compiuto in tutte le sue parti. L'assolutismo Spagnuolo dal 1559 al 1700, dal trattato di Castel Cambrese alla prima guerra di successione, domina quasi tutta l'Italia. L'assolutismo papale, ritempratosi nella Controriforma, stende la sua azione al di là delle Alpi e del mare, ma strettamente unito al dominatore Spagnuolo, fa sentire in Italia più immediata e continua la sua potenza. La quale è in realtà così grande, che con Pio V sembra quasi ridestare lo spirito delle Crociate e oppone ai Turchi una Lega, vincente a Lepanto l'ultima gran battaglia cristiana, e con Sisto V pare non avere più confini ne' suoi sogni d'ambizione e vagheggia un'alleanza colla Persia e la Polonia per abbattere l'Impero Turco, congiungere il Mediterraneo al mar Rosso per restituire il primato marittimo all'Italia, conquistare il Santo Sepolcro, di cui il Tasso cantava la liberazione, e trasportarlo a Montalto, l'umile paesello presso Ascoli, dove Sisto V era nato. Sogni, deliri di potenza, e non più, perchè se l'Italia, sotto la duplice dominazione, da cui è compressa, perde quasi la coscienza dell'esser suo, la Spagna si accascia via via sotto il peso della grandezza in una decadenza irrimediabile, ed il Papato devia, durante il Seicento, dal concetto religioso, che gli avea rifatte le forze, in un concetto sempre più personale ed esclusivamente principesco, che ha bensì nello splendido San Pietro, come ha dimostrato Giacomo Barzellotti, la sua più caratteristica e monumentale espressione, che fonda in Roma bensì col nepotismo finanziario una aristocrazia nuova, ma dischiude al Papato altre lotte, alle quali non potrà più opporre il sentimento, la vigoria e la rinnovata giovinezza di prima, quantunque sia riescito per ora nient'altro che a far di tutti gli Stati Cattolici un istrumento della Chiesa.

Innanzi che incominciasse questa seconda fase della Reazione Cattolica, i Papi e la Corte, Roma e l'Italia, a dar retta almeno a quanto scrive nel 1576 l'ambasciator Veneto, Paolo Tiepolo, erano già divenuti modelli di pietà, d'onesto vivere e di cristiani costumi. Ma c'è da fidarsi del tutto a queste impressioni di viaggiatore? Non v'ha dubbio che un gran mutamento era avvenuto, un gran fervore di sentimento religioso s'era ridestato, ma c'è d'altra parte il terrore, che domina ovunque; c'è l'ombra dell'Inquisizione, che aduggia tutto; c'è il fare accomodante, procacciante, instancabile dei Gesuiti, che s'insinua per tutto; c'è il costume Spagnuolo, tutto cerimonie e sussiego nobilesco, tutto boria e gale di titoli, di privilegi e di pretesi dogmi cavallereschi, che nella vita di Corte accentra ogni ideale delle alte classi e sempre più le separa dal popolo, sfruttato a sangue, e cui non rimane altro conforto, che la rassegnazione consigliatagli da un cappuccino, o altra speranza, che quella della vita eterna, annunziatagli dal campanile della parrocchia; c'è finalmente il vecchio scetticismo pratico Italiano, il quale o combina il di dentro e il di fuori in modo da non aver seccature, e avete la falsità nei caratteri e l'ipocrisia nei rapporti sociali, o non piega e si ribella, e allora avete i martiri, che sfidano la tortura ed il rogo, oppure avete la vita eslege del brigante, frutto indigeno dell'Italia e della Spagna, o la vita, eslege del pari, del signorotto violento, gli Innominati e i Don Rodrighi dei Promessi Sposi.

Questo in pieno Seicento. Prima c'è un tempo d'intervallo, di contrasto spasmodico fra il vecchio e il nuovo e di tale contrasto il tipo e la vittima è Torquato Tasso. Una volta la storia di lui era assai semplice. Un gran poeta innamorato d'una principessa; un tiranno spietato, che lo castiga del suo ardimento collo spedale dei matti, colla carcere, colle beffe dei pedanti e dei cortigiani, e il poeta che muore di sfinimento in un convento di Roma, mentre s'odono di lontano le campane del Campidoglio suonare a festa per la sua coronazione. Ora questa leggenda è sfatata. Non per questo il Tasso è divenuto un felice di questo mondo, ma è infelicissimo per tutt'altre cagioni: perchè non può mettere pace nell'animo suo, nè come uomo nè come poeta, fra i ricordi del Rinascimento e le violenze della Reazione Cattolica; perchè dubita e crede; perchè vorrebbe esser uom libero e la vita di Corte è per lui come certe donne, con le quali non si può vivere nè viver senza di loro; perchè si sente originale e grande e nello stesso tempo indulge e piega per vanità e per paura ai cattivi gusti del tempo; perchè è mistico e sensuale; perchè ha ragione il Carducci di definirlo il solo Cristiano del Rinascimento, come ha ragione il Quinet di definirlo il solo umanista della Reazione Cattolica. Di tutto questo contrasto, che gli avvelena la vita, impazza e muore.

Non più in contrasto fra due tempi, ma in pieno accordo col Seicento, è invece il Marini con la sua vita e con l'opera sua. Si giunge a lui, passando a traverso l'idillio sensuale e musicale dell' Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini, e la sua intima correlazione col tempo non sta tanto nella goffa e proverbiale esagerazione della forma, quanto e più nel fatto che il suo poema, l' Adone, è il vero poema epico del Seicento, il poema della voluttà sentimentale, dissimulata sotto il velo ipocrita dell'allegoria, il poema della pace, ma dell'ignobile pace dell'Inquisizione, del Gesuitismo e della dominazione Spagnuola. È lui, il Marini, il dittatore universale, nè gli si oppone che il poema eroicomico, la Secchia Rapita del Tassoni, della cui misteriosa ironia l'Inquisizione diffida, ma non sapendo bene da che lato colpirla, processa il poeta per aver regalato alla sua serva un diavoletto chiuso in una boccia d'acqua, che a premerne il tappo sgranava gli occhi e andava su e giù, come se fosse vivo.

Opposizione vana ad ogni modo quella del Tassoni; al pari della satira politica del Boccalini e di qualche nobile accento di Salvator Rosa, poichè il Marini fa scuola e le due caratteristiche del Marinismo, la sentimentalità voluttuosa e lo sforzo della forma, cogli svolazzi, le riprese, i trilli, i gorgheggi variati all'infinito, si rispecchiano nell'architettura barocca del Maderna e del Bernini, artisti grandi, ma compiutamente travolti dalla corrente del loro tempo, e nella scultura e nella pittura, barocche esse pure ed insieme enfaticamente sentimentali, del Maderna e del Bernini stessi e dei Carracci e dei Carracceschi.

L'architettura barocca non ha più leggi nè limiti, neppure di buon senso, nella sua smania decorativa, di cui sono tipo le chiese dei Gesuiti col

grosso angel paffuto,

dice il Carducci,

Che nelle chiese del Gesù stuccate

Su le nubi s'adagia

Su le nubi dorate e inargentate,

Che paion di bambagia,

e sembra presa invero d'una specie di frenesia, anche quando, come spesso in Roma, e soprattutto in San Pietro, riesce pure a intonarsi di qualche guisa, e, se non altro, colla grandiosità, alle belle linee del Rinascimento.

La scultura e la pittura, per lo più di soggetto sacro, non possono più contenersi neppure esse e anche nelle opere migliori, nella Santa Cecilia del Maderna in Trastevere, nella Pietà del Bernini o Berniniesca della Cappella Corsini in Laterano e peggio ancora nella Santa Teresa a Santa Maria della Vittoria, al pari che nelle pitture dei Carracci, di Guido e del Guercino, pare che nulla più basti allo sforzo, alla posa, al gigantesco di questa scultura e di questa pittura, e la divozione diventa delirio, l'estasi agonia, il martirio carnificina.

Letteratura ed arte, le quali dimostrano pur troppo che sotto a tutto questo eccesso di forme, sotto a tutto questo spettacolo esteriore di reazione Cattolica (i cui effetti morali lo Schiller ha con tanta poesia rappresentati nell'ascetismo erotico di Mortimero nella Maria Stuarda ) un gran vuoto s'è fatto nel pensiero, nella fantasia e nella coscienza italiana. E con questo vuoto un silenzio di tomba. Restano vive ancora la musica e la scienza: la musica, che è accusata d'aver cullato il sonno degli schiavi e divertito i padroni, ma che sarà il capolavoro artistico del Settecento e ricorderà di nuovo il sacro nome d'Italia all'Europa: la scienza, che rivendica i suoi diritti all'avvenire colle divinazioni e il sacrificio eroico di Giordano Bruno e che con Galileo, umiliato ma non persuaso, intima, misteriosamente minacciosa, alla Reazione Cattolica: “ hai vinto sì, ma di troppo!

ROMA E I PAPI NEL SEICENTO

CONFERENZA DI Domenico Gnoli.

Ciascuna città riflette principalmente, nella pianta, nei monumenti, nel fabbricato, nella decorazione, nei prodotti dell'arte e perfin dell'industria, il gusto e l'indole d'un'età; di quell'età in cui essa raggiunse il massimo grado della prosperità e dello splendore. Così qui a Firenze tutto palpita della vita del Rinascimento, e nella Roma moderna impera sovrano il Seicento: esso le ha impresso il suo carattere, l'ha animata del suo spirito: il che specialmente è vero se, non attenendoci strettamente al rigor delle cifre, si faccia incominciare il Seicento dal pontificato di Sisto V, cioè dal 1585. Le antiche basiliche, le fabbriche del Rinascimento quel secolo ha trasformato in gran parte, secondo il suo ideale estetico, colla sicurezza di renderle più belle e magnifiche; e quel che resta d'intatto, si nota quasi come monumento storico, difforme dal carattere dominante. L'età posteriore ha camminato sull'orme di quel secolo.

Il Cinquecento aveva dato con San Pietro il tipo della Chiesa Romana, e col palazzo Farnese quello del palazzo. Il Seicento applica, estende a tutta la città quei due tipi con una serie di variazioni degli stessi motivi. Chi dalla balaustrata del Pincio guardi il panorama di Roma, è colpito da una popolazione di cupole sorgenti grandi e solenni sovra il piano dei tetti. Quella di San Pietro, che campeggia gigante sull'orizzonte, fu voltata da Sisto V; seguirono quelle di Sant'Andrea della Valle, di San Carlo a' Catinari, di San Carlo al Corso, di Sant'Agnese ed altre. Sulle piazze e per le vie della città v'incontrate a ogni passo in una di quelle enormi facciate di chiesa, tutte di travertino, a due piani, selve di pilastri e di colonne, con angeli e santi agitati dal vento, quali Sant'Andrea della Valle, Sant'Ignazio, la Chiesa Nuova e tante altre; e se entrate in quelle chiese, quasi tutte le troverete a croce latina, con arcate intramezzate da pilastri; e sugli altari una orientale ricchezza di marmi colorati, d'oro e di bronzo uniti con un senso maraviglioso della policromia; sulle piazze i grandi obelischi eretti da Sisto V, e i minori della Minerva e del Pantheon da Alessandro VII e da Clemente XI. E i palazzi giganti tra il vecchio fabbricato, semplici e severi, senza lusso di decorazione nè ornato d'ordini architettonici e le fontane nelle piazze, e le grandi mostre dell'Acqua Felice, dell'Acqua Paola e dell'Acqua di Trevi, quest'ultima, opera d'arte secentistica nel secolo successivo, tutto infine quello che più apparisce all'occhio, che prima colpisce il visitatore, è opera del Seicento.

E chi si affacci a quel gran teatro della Chiesa Romana che è la piazza di San Pietro, si trova innanzi a quel periodo della storia e dell'arte. Alessandro VII erigeva i portici, Paolo V la facciata della chiesa, Sisto V trasportava l'obelisco e voltava la cupola, Innocenzo XI compieva le due fontane. E nell'interno, l'opera di Bramante era trasformata in quel secolo: prolungata la chiesa, mutandone la pianta da croce greca a latina, decorata di stucchi e di marmi, aggiuntovi il grande altare della confessione e la cattedra; e sugli altari, opere del Domenichino, del Guercino, dell'Algardi, de' più famosi artisti del secolo. E lì, nelle grandi tombe, giacciono per la maggior parte i papi di quel periodo, di cui le figure grandeggiano, non più distese sull'urna, ma ritte in piedi o sedute, fra gli svolazzi delle statue allegoriche, i drappi di marmi colorati, e il bronzo e l'oro, ostentando morti la grandiosità, la magnificenza ed il lusso che professarono vivi.

Interprete del sentimento e della vita romana, scultore e architetto officiale del papato, domina tutto quel secolo, tutta l'arte di Roma Lorenzo Bernini, che operò senza posa sotto nove pontificati. Egli fu detto corruttore, che meglio dovrebbe dirsi rigeneratore. Nelle acque stagnanti dell'arte con cui si apriva il secolo XVII, grande senza grandiosità, scorretta senza novità, egli portò il soffio potente del genio; la agitò, la mosse, fino a sconvolgerla in tempesta. Il grande, il magnifico, l'ingegnoso, l'appariscente, il maraviglioso, l'eccessivo, era lo spirito, l'ideale del tempo; e questo, Michelangelo meridionale, egli tradusse nell'arte. Non si guardi all'opera della vecchiezza, quando esaurite le forze, cercò nel bizzarro e nell'esagerato l'effetto; nè egli deve rispondere della turba scapigliata de' suoi seguaci; nè dei deliri dell'emulo suo, il Borromini, che gelosia pazza spinse a farsi della stravaganza una legge: ma nella gioventù e nella virilità egli seppe svolgere l'ideale del suo tempo entro i confini del bello; e come che si voglia giudicare quello stato della civiltà, egli ne fu certo il più grande interprete artistico. Ad una ricchezza esuberante di fantasia accoppiando una maravigliosa padronanza dei mezzi tecnici, egli profuse in Roma le sue opere immortali. La piazza di San Pietro, degna della cupola di Michelangelo, la scala regia del Vaticano, la fontana dei fiumi sulla piazza Navona, sono opere che sorpassano i termini dell'ingegno per entrare nel campo del genio. E i papi di quel secolo, dalla faccia marziale, dai mustacchi alla Wallenstein, dal pizzo alla cavaliera, sono ancora nei marmi da lui scolpiti assai più vivi che non quelli di nessun altro secolo.

*

Ma se le città pigliano forma dal periodo della loro maggior grandezza e prosperità, che diritto aveva il secolo XVII d'imprimere a Roma le sue fattezze? Non ha forse periodi di maggior grandezza il papato?

Il secolo decimosettimo per la Chiesa e pel papato non fu senza gloria. Il distacco di tanti popoli dal Vaticano per opera della Riforma, aveva risvegliato nella Chiesa una vigoria di cui non la si sarebbe creduta capace. Fu un lungo periodo di guerra, che dev'essere perciò giudicato coi criteri che governano lo stato di guerra; a questo stato corrispondono la dittatura del papato, e i tribunali dell'Inquisizione, veri tribunali marziali. Il mondo cattolico fu messo in istato d'assedio. La politica del Vaticano non ebbe altro fine che di far argine allo estendersi della Riforma, di soffocare ogni favilla che minacciasse un nuovo incendio. Nessuna libertà, nessuna debolezza di fronte al nemico; ma unità di comando, ma obbedienza cieca, ma disciplina di ferro. E il nemico non era solo oltre i confini del mondo cattolico; chè il moto violento della Riforma aveva scosso tutta l'anima cristiana, agitato gl'intelletti, turbato le coscienze; e d'ogni parte pullulavano dottrine violente, bizzarre, contrarie, minacciando di rompere l'organismo cattolico, di dissolvere l'unità della Fede. La gerarchia episcopale era strumento insufficiente alla urgenza, alla gravità dei bisogni e dei pericoli. I nunzi apostolici, vero Stato Maggiore della Chiesa, teologi e canonisti, abili diplomatici, recavano a principi e a vescovi la parola del Papa, trattavano i più ardui negozi, stringevano alleanze, portando nel grembo, ora pieghevoli ora alteri, benedizioni e scomuniche. Gli Ordini Regolari, e sopra tutti i Gesuiti, posti sotto la diretta dipendenza del Papa, formavano la milizia mobile della Chiesa. Predicatori dai pulpiti, maestri nei collegi dei nobili e nelle scuole del popolo, assistenti negli ospedali, accorrenti dove ci fossero piaghe da lenire e miserie da sollevare, ad ogni bisogno della società corrispondeva l'Ordine, la Congregazione religiosa. La riforma interna della Chiesa, invocata invano per secoli dai Santi e dai popoli, ordinata dal Concilio di Trento, ebbe in gran parte nel Seicento la sua esecuzione. In quella guerra fieramente combattuta colle armi spirituali e le temporali, fu salva bensì l'unità della Fede, ma a prezzo del pensiero soffocato, della libertà strozzata.

*

Ma altro è la storia del papato altro è quella di Roma.

Città e papi non vissero nel medio evo di buon accordo; ma fu anzi un avvicendarsi di lotte e di convenzioni malfide. Ora i papi stettero in Roma racchiusi sospettosamente entro le mura della città Leonina, ora trasportarono altrove la loro sede. Col ritorno di Martino V, e meglio nel 1443 con quello d'Eugenio IV, ultimo papa cacciato dai Romani, i papi si stabilirono definitivamente in Roma. Ma la città e la Curia erano due cose distinte. Da una parte la vecchia popolazione scarsa di numero e di ricchezza; baroni, rozzi e guerrieri, che risiedevano spesso ne' loro castelli; nobili famiglie cittadine, date la maggior parte alla pastorizia e all'agricoltura, non ricche e prive di coltura e d'arti civili; plebe irrequieta e miserabile. Questa era la città che attorniava il Campidoglio. Dall'altra parte, al Vaticano, c'era un santuario, e una corte ecclesiastica: una specie di convento, dove le istituzioni permanevano intatte, e un popolo di celibi vi passava dentro senza lasciare nè nome nè discendenza. Come nel palazzo pontificio, così in quelli de' cardinali, e ne' palazzetti de' protonotari apostolici, degli abbreviatori, degli officiali della Curia, continuamente cambiavano gli ospiti; mutava nome il palazzo, e spesso anche la piazza che gli stava innanzi e la strada; i potenti, i ricchi di ieri, sparivano senza lasciar traccia, nuovi sottentravano diversi di paesi, di costumi, di lingue, mentre altri s'affollavano, nella speranza di raccoglier presto la successione. Quando il Papa e la Curia si allontanavano da Roma, la città ne restava pressochè deserta.

Nello splendido pontificato di Leone X e sotto Clemente VII, alla vigilia del Sacco, ho trovato per un documento che vedrà in breve la luce, che la popolazione di Roma superava di poco i cinquantacinquemila abitanti; se ne togli la Corte papale e quelle dei cardinali, e i prelati e le corporazioni religiose e i seguaci della Curia Romana, Romanam Curiam sequentes, tutta cioè la popolazione mobile raccolta intorno al papato, di Roma non resta che un grosso villaggio. Dopo il Sacco, cioè nel 1528, la popolazione di Roma era ridotta a poco più che trentamila abitanti. Ma da quel punto incomincia un lungo periodo di pace, interrotta solo dalla breve guerra del reame sotto Paolo IV; i baroni son ridotti a vivere civile; si ordina a poco a poco lo Stato, e l'autorità s'accentra maggiormente, dopo il Concilio di Trento, nelle mani del papa. Ridotto, per la Riforma, il suo carattere d'universalità, la Chiesa diviene principalmente latina, si afferma ostentatamente romana; e nella grandezza esteriore e nella pompa essa cerca di nascondere, se non di compensare, le gravi sue perdite.

Tre papi del Seicento, cosa non più vista da parecchi secoli, sono romani di nascita.

Il celibato della Curia impediva il costituirsi in Roma di nuove famiglie, il formarsi d'una nuova città. Venne il periodo del nepotismo. Il frazionamento dei popoli in piccoli Comuni e in piccole signorie, rese possibile a pazzi ambiziosi di tentare, con intrighi diplomatici, con tradimenti, con armi raccogliticce, di formare a beneficio delle loro famiglie uno Stato. Ma dei papi del Rinascimento, nessuno lasciò in Roma una grande famiglia; e gli ambiziosi nepoti dei Cibo, dei Borgia, dei Della Rovere, dei Medici, dopo avere sconvolto mezza Italia, scomparvero dalla città eterna coi papi a cui s'appoggiava la loro potenza. Cresceva la Curia di ricchezza e di splendore, aumentava la popolazione mobile; ma la cittadinanza stabile delle famiglie restava presso a poco la stessa.

Nè la città nuova si sarebbe formata, se non era il trasformarsi del nepotismo papale da politico in domestico. Quando, per le condizioni politiche d'Italia, era follia il tentare di formare alla famiglia uno stato, i Papi volsero l'animo a fondar ciascuno in Roma una grande famiglia principesca, che gareggiasse di ricchezza e di fasto colle Case regnanti. L'esempio del nepotismo papale seguirono cardinali e prelati, e tutti si diedero a fondare in Roma una famiglia in linea trasversale, quando non potevano in linea diretta. Da circa trentacinque mila abitanti, la popolazione saliva nel 1600 a circa centodiecimila. Continuava poi più lentamente ad aumentare per tutto il Seicento: nel 1650 superava i centoventiseimila, nel 1700 s'avvicinava ai centocinquantamila.

La nuova forma del nepotismo papale non fu sul principio più fortunata dell'altra, e i nepoti del Carafa finirono tragicamente. Rimase però la famiglia Buoncompagni; rimase, benchè non durasse a lungo, la Peretti o Montalto fondata da Sisto V, e imparentata colle due case baronali de' Colonna e degli Orsini; e quella degli Aldobrandini, che rientra pure nel secolo successivo.

Al secolo di cui discorriamo era riservato di fondare la più gran parte della nuova aristocrazia: dodici pontificati, uno de quali durò meno che un mese, lasciarono nove grandi famiglie. Convien dire però che una di queste, la Odescaichi, non venne in grandezza per opera del papa, Innocenzo XI, severo promotore di moralità nella Chiesa, e nella riforma del costume severo talora fino al grottesco. L'ultimo dei papi del Seicento, Innocenzo XII, Pignatelli, nobile figura di pontefice fu immune dal vizio de' suoi predecessori, e non volle presso di sè i suoi parenti; gli altri furono tutti macchiati di quella pece: e se Alessandro VII, Chigi, nel cardinalato censore austero del nepotismo, sul principio del pontificato tenne lontani i parenti, cedette poi alla corrente, lasciando a compiacenti consiglieri la cura di giustificare in lui quello che negli altri egli aveva condannato. Nella via del nepotismo nessuno arrivò agli eccessi del Barberini (Urbano VIII), nella persona del quale il papa parve un accessorio del principe. Per opera del nepotismo, uomini senza capacità, nuovi de' pubblici negozi, occupavano d'un tratto tutte le cariche più alte e lucrose, e il cardinal nepote governava lo Stato, infeudato ad una famiglia. Le entrate della Camera Apostolica servivano alla grandezza della famiglia papale, e lo Stato s'immiseriva per formare quella nuova aristocrazia. Diciassette milioni di scudi d'oro diceva papa Odescalchi essere costato già quel nepotismo: e in seguito costò dell'altro. E si vide perfino una donna avara e intrigante, donna Olimpia Maidalchini, regnare in Vaticano, dominando il debole cognato Innocenzo X, e la corte bizantineggiare in una umiliazione di pettegolezzi e di scandali, che davano largo pascolo ai lazzi e alle risate di maestro Pasquino.

La parte di Roma coperta di fabbricati, entro il vasto recinto aureliano, colle vie anguste e la popolazione densa, non aveva spazio per le nuove reggie, per le grandi chiese di questa nuova aristocrazia papale, dominata dall'idea del grandioso e del magnifico. E però la città, sorta e cresciuta sui sette colli, poi nel medio evo discesa al piano e distesasi lungo il fiume e intorno al colle capitolino, e nel Rinascimento piegatasi verso il ponte Sant'Angelo, porta del Vaticano, nei rioni di Parione e di Ponte, si allargava con Sisto V al Quirinale, al Viminale, all'Esquilino, e coi successori occupava con immensi edifici, sul Quirinale e nel Campo Marzio, l'area già coperta d'orti e di vigne. Nei palazzi edificati dalle famiglie pontificie noi possiamo seguire quasi ad uno ad uno i pontefici del Seicento. Apre la serie un papa che dopo aver regnato otto anni nel secolo XVI, entrò con soli cinque nel XVII, cioè Clemente VIII, Aldobrandini; e il suo palazzo era quello oggi Salviati, sul Corso. Dopo Leone XI, Medici, che regnò meno di un mese, ecco il primo papa secentista, Paolo V Borghese, romano, col suo splendido palazzo di Campomarzo; poi quello incominciato dai Ludovisi, oggi sede del Parlamento Nazionale; il Barberini, una vera e splendida reggia; il Panfili in piazza Navona, che forma un complesso principesco colla chiesa di Sant'Agnese e le stupende fontane; il Chigi, sulla piazza Colonna, per l'edificazione del quale fu allargata e dirizzata la via del Corso, che divenne da allora la principale della città; il Rospigliosi sul Quirinale; l'Altieri sulla piazza del Gesù. Non parlo di quello dell'Odescalchi, che non fu edificato, ma acquistato più tardi dalla famiglia, nè di quello Ottoboni, oggi Fiano, che s'incominciò a riedificare, ma che rimase interrotto per la morte troppo sollecita d'Alessandro VIII.

Alla grandezza e magnificenza esterna di questi palazzi, corrispondeva il lusso e la pompa interna. Splendide sale decorate di stucchi, di dorature, di affreschi, mobili riccamente intagliati, tavole ornate di bronzo e di marmi, grandi storie d'arazzi, cortinaggi di stoffe fiorate, tutto quello che dessero di più sontuoso le arti e le industrie italiane e straniere. Ma non bastava di raccogliere il meglio che quell'età, producesse; i cortili e le scale eran ridotte a musei di statue e di marmi antichi, e dalle pareti delle sale pendevano dipinti di Raffaello e di Tiziano, de' più grandi pittori dell'età scorsa, e i palazzi ducali di Ferrara e d'Urbino, e i minori de' principotti delle Marche, dell'Umbria, delle Romagne, si spogliavano per ornare la splendida sede della famiglia papale, e l'onnipotenza del cardinale nepote si adoperava a raccogliervi libri e codici preziosi, traendoli dalle antiche corti principesche, dai conventi, dalle chiese, dalle abbazie, e formando così, tra altre minori, le biblioteche famose dei Barberini e de' Chigi.

Ai palazzi magnifici corrispondevano non meno magnifiche le ville Aldobrandini, Borghese, Ludovisi, Barberini, Panfili; e sui colli ameni d'Albano e del Tuscolo più sontuose e più splendide quelle degli Aldobrandini, di Paolo V, del cardinale Borghese, dei Ludovisi, dei Barberini.

Col costituirsi delle famiglie papali, Roma acquistava così la stabilità delle città laiche, incominciava a vivere di vita propria. Intorno a quelle si stabilivano interessi durevoli e tradizioni e costumi, si formava una cittadinanza romana accanto alla mobile della Curia papale.

Ma disgraziatamente questa nuova aristocrazia, se non aveva uguali nella ricchezza e nello splendore, era per ogni altro titolo troppo diversa da quelle gloriose dell'antica Roma, di Venezia, d'Inghilterra. Venuta su non per valore d'armi, o per merito d'opere e d'ingegno, non per attività di commerci o d'industrie, ma per favor di fortuna, essa non aveva nè tradizioni da conservare, nè fini da raggiungere. Assicurata l'integrità del patrimonio di primogenito in primogenito colla istituzione del fidecommesso, esclusa da ogni partecipazione alla vita pubblica, riservata unicamente al clero, ad essa non restava altro pensiero che del come spendere le accumulate ricchezze, come impiegare i suoi ozi infecondi. Se qualche personaggio ragguardevole diede l'aristocrazia romana, ciò avvenne nonostante le istituzioni e non già per esse. Aristocrazia d'apparato, decorativa, essa adempiè egregiamente a questo suo ufficio.

Come le commedie scritte pei collegi senza donne, così la storia di Roma è per lo più storia di soli uomini. Dopo Lucrezia Borgia, di cui la figura bionda s'intravede in seconda linea tra le ampolle di veleni e i pugnali, nessuna ne apparisce, per tutto il Cinquecento nella corte di Roma. Nè c'era posto conveniente alla donna in una corte ecclesiastica. Ma nel Seicento, collo stabilirsi della nuova aristocrazia laica, essa non vi si trova più fuor di luogo. Dopo donna Olimpia, un'altra entra nella vita di Roma, argomento di tutti i cicalecci, oggetto di tutti gli sguardi, portandovi coll'ingegno arguto e la non comune coltura la bizzarria, la violenza, l'indocilità nativa del suo carattere. Abdicato il trono, abiurata la religione luterana, Cristina regina di Svezia, era condotta trionfalmente a Roma dai Gesuiti. Il lato interno della porta del Popolo, colla grande iscrizione: Felici faustoque ingressui, resta ancora a monumento della sua entrata solenne. Ma quale non fu il disinganno del papa e della Corte di Roma; che quando pensavano di poter profittare della regia neofita a edificazione dei fedeli e richiamo dei protestanti, dovettero invece affannarsi a coprire gli scandali, a riparare le stravaganze di quel cervello balzano. È curioso di conoscere come la reale neofita giudicasse quella Roma papale, dalla quale era stata accolta con tanta festa. “Non crediate, scriveva alla contessa di Sparre, che quantunque io sia in un paese abitato già dai più grandi uomini della terra, e dove ancora restano maravigliosi, splendidi avanzi delle azioni di quegli eroi, non crediate, mia bella, che sia questo il paese de' sapienti e degli eroi, nè l'asilo degl'ingegni e della virtù. O Cesare, o Catone, o Cicerone! o padroni del mondo, la vostra patria così illustre per le virtù e le imprese vostre, doveva dunque, per vituperio e sventura dell'umanità, cadere un giorno in preda all'ignoranza grossolana, alla cieca e assurda superstizione! O bella contessa, qui non ci sono che statue, obelischi e palazzi sontuosi, ma uomini non ci sono.„ Non c'è male, per una neofita! Ma quale che fosse il suo giudizio sulla Corte e la società romana, essa trovò pure da divertircisi, e rifarsi del tempo speso in patria ad ascoltar prediche. “Le mie occupazioni qui, essa scriveva, sono di mangiar bene, dormir bene, studiare un poco, chiacchierare, ridere, veder le commedie francesi, italiane e spagnole, e passare il tempo piacevolmente. Infine non ascolto più prediche: secondo che sentenzia Salomone, tutto il resto è sciocchezza; perchè ciascuno deve viver, contento, mangiando, bevendo e cantando.„ E in certe postille fatte a margine d'un'edizione del Principe di Machiavelli, dove questi dice che i Collegati d'Italia tenevano gli uni pel Papa gli altri pe' Veneziani, essa notava: “Oggi, chi teme più il Papa?„ Tale era l'acquisto che, per opera de' Gesuiti, aveva fatto la religione!

Cristina destò nelle famiglie aristocratiche una gara di spettacoli e di feste. Erano commedie dai Panfili e dai Barberini, erano tragedie al palazzo Mazzarino, erano melodrammi ne' palazzi de' cardinali; dei quali però la regina, col suo sacro orrore per le prediche, si doleva talora, che fossero delle prediche in musica. Protetto dalla regina, l'Alibert democratizzava il teatro, facendolo discendere dalle sale principesche alle sale a pagamento. Alessandro Cecconi, detto per antonomasia Alessandro, virtuoso di musica, era l'astro più fulgido delle feste romane. La regina stessa imparava musica. Al palazzo Riario alla Longara, dove oggi è il palazzo Corsini, era un continuo succedersi di serenate, di giostre, di spettacoli, di saltatori e di saltimbanchi. Ivi la regina fondava l'Accademia d'Arcadia, in cui la poesia si sposava alla musica; e i poeti, primo fra essi il Guidi, gonfiavano di vento, in onore, della Pallade di Svezia, le vesciche delle loro canzoni. Corteggiata da una schiera di cardinali, circondata di nobili spiantati, e di ribaldi riparati nella franchigia del suo palazzo per salvarsi dai birri, tra i musici, i poeti e gli alchimisti, più volte partitasi da Roma e più volte tornatavi, gelosa degli onori reali, lorda del sangue di Monaldeschi, la Regina che aveva costato ai papi tanto danaro, morì finalmente, nel 1689, liberandoli da infiniti fastidi, e procurando al popolo l'ultimo spettacolo, quello de' suoi funerali. Si celebrarono per l'anima della regina ventimila messe!

Le feste mondane di Roma ebbero una interruzione sotto il pontificato dell'austero Odescalchi. Sollecito di sollevare la dignità del pontificato, alle pretese di Francia resistè virilmente; il marchese di Lavardino suo ambasciatore, minaccioso e in arme dentro Roma stessa, scomunicò. Egli vagheggiava di far di Roma un convento. Fra i suoi provvedimenti per la riforma del costume, noterò l'editto con cui ordinava “che nessuna zitella, vedova o maritata, di qualsivoglia stato, grado e conditione, possa imparare a cantare, nè Professore alcuno, Musico, Regolare o Secolare, possa più alle suddette insegnare la musica, sotto pena di scudi cinquanta.„ Ma più che ogni altra cosa gli stava a cuore la verecondia del vestire. Mandò fuori editti feroci, ordinò a' confessori di non assolvere le donne che non vestissero colla debita modestia. E ciò non bastando, gettò improvvisamente i birri addosso alle lavandaje, e fece loro sequestrare tutte le camicie che fossero aperte al collo e non avessero lunghe le maniche. Ma ne venne un guaio. Molte, per quella fiera ordinanza, rimasero con quella sola che portavano indosso.

*

Come le principali famiglie dovevano la loro grandezza all'improvvisa fortuna, così la instabile dea era venerata nella città eterna assai più che non il lavoro intelligente e perseverante. Industrie non c'erano: le antiche famiglie della nobiltà cittadina vivevano, come ho detto, dell'agricoltura primitiva e della pastorizia che esercitavano nei latifondi della Campagna romana; i bisogni della Corte e dell'aristocrazia mantenevano il piccolo commercio. Ma chi lavorava per vivere era tenuto quasi in disprezzo: la via degli onori e della fortuna era quella delle dignità ecclesiastiche, l'arte più proficua quella d'entrare in grazia ai potenti. Le famiglie cittadine avviavano un de' figli per la via del sacerdozio, e in esso speravano: un prelato in casa era una provvidenza che la nobilitava e ne alzava le sorti. Un immenso servitorame sparlava de' padroni che lo sfamavano, e nelle oziose anticamere pullulava la pasquinata mordace. Poichè al torso famoso si è fatto un onore immeritato rappresentandolo come censore e vindice popolare: ora scipito, ora arguto, esso è ordinariamente un passatempo di sfaccendati, l'eco de' cicalecci delle sacrestie e delle anticamere de' palazzi. Più in basso una plebe miserabile, indolente, superstiziosa, che applaudisce o fischia lo spettacolo delle pompe continue, e che s'affolla, si pigia, si schiaccia a raccogliere le briciole cadute dalla mensa dei grandi. Eppure non può sfuggire all'osservatore che quella plebe, per quanto tenuta a vile, è però già cresciuta di grado. Nelle corti del Rinascimento, generalmente, la plebe, degna prima che nasca di morire, secondo l'espressione dell'Ariosto, non ha valore neppure come spettatrice: essa è tenuta lontana dalle feste di Corte, o se v'interviene nessuno si dà pensiero di quel ch'ella pensi o dica. Tocca ai palafrenieri e ai valletti di tenerla indietro coi bastoni, o ai birri di trarla in prigione. Adesso la plebe forma la platea, i grandi ne studiano l'approvazione e l'applauso, e il cronista ne prende nota con compiacenza. È un personaggio abbietto, ma è pure un personaggio.

*

In un secolo passionato del fasto, delle pompe, della magnificenza, Roma tenne incontrastata il primato, fu il più gran teatro del mondo. Quella scena di colonnati, di facciate enormi di travertino, di palazzi grandi come reggie, di fontane sonanti nelle grandi conche, di colonne, di obelischi, di statue, e l'interno delle chiese, cariche d'oro e di marmi, fra gli angeli volanti sulle nuvole e i santi agitati da celesti bufere, era la scena che ci voleva per quelle grandi azioni coreografiche scintillanti d'oro, splendide di colori. Era una continua successione di grandiosi spettacoli, un passaggio continuo di maraviglia in maraviglia. Alle annuali solennità del Vaticano dove il Vicario di Cristo, il rappresentante della divinità sulla terra, appariva in una grandezza e maestà che pareva trascendere l'umano, si aggiungevano frequenti le solennità straordinarie, le creazioni di cardinali, le morti di papa, i possessi del papa nuovo, i giubilei, le entrate solenni degli ambasciatori, i ritorni dalle caccie. E qui, come al cuore del mondo cattolico, si ripercuotevano tutti gli avvenimenti d'Europa: nascite e morti di regnanti, paci e trattati, vittorie sugl'infedeli. Agli occhi del popolo, abituato a quel succedersi continuo di solennità, spariva la ragione della festa, e la festa sola restava. Tutto era buono ugualmente: il catafalco e la benedizione, la luminaria e la processione, la cavalcata e i fuochi d'artificio. Esso contava le carrozze e le torcie, giudicava la ricchezza de' parati e delle livree. Ma specialmente gl'importava che si distribuisse pane, si gettasse in quantità moneta bianca o d'argento, ci fosse da mangiare e da bere, e da saccheggiare le macchine de' fuochi d'artifizio. L'antico panem et circenses era il motto della Roma del Seicento. Il popolo amava i papi vecchi, perchè davano speranza di spettacoli prossimi.

Meglio che dai volumi degli storici, lo spirito e la vita romana di quel secolo risulta dagli avvisi e dalle cronache contemporanee; e andrò perciò spigolando qua e là da queste fonti inedite quello che meglio giovi all'intelligenza di quei costumi.

Le potenze cattoliche sentivano quanto in Roma valesse il lusso e la pompa, e però miravano, per mezzo de' loro ambasciatori, a sopraffarsi l'una l'altra, e imporsi alla Curia. Le descrizioni delle entrate solenni degli ambasciatori paiono racconti delle Mille e una notte. Restò famosa, pel numero de' cavalli e la ricchezza de' costumi persiani, quella dell'Oratore di Polonia nel 1643; il cardinale de' Medici, ambasciatore di Toscana, entrava nel 1687 con centododici carrozze tirate ciascuna da sei cavalli, cioè seicentosettantadue cavalli. I principi Colonna, grandi di Spagna, sfoggiavano ogni anno nella cavalcata con cui portavano al Papa il tributo della chinea, e la sera sulla piazza de' Santi Apostoli s'incendiavano fuochi d'artifizio con macchine di sempre nuove invenzioni, delle quali fortunatamente ci rimangono le stampe, ora d'argomento simbolico, ora mitologico, ora biblico ed ora cavalleresco.

E le fontane di vino, che si direbbero una fantasia di bevitori che sognino il paradiso, erano il compimento obbligato di quelle allegrezze continue, con accompagnamento ugualmente obbligato di gente schiacciata e di costole rotte. Le fontane solevano ornarsi riccamente e con bizzarre invenzioni. Sulla piazza di Spagna, che per la splendidezza degli ambasciatori di quella nazione era il teatro delle feste più sontuose, la sera dei 29 di giugno 1690 s'ammirava una fontana bellissima, e davano da bere al popolo sei gobbi con ramini inargentati. Quella novità dei gobbi parve un'invenzione di spirito; ma ordinariamente erano i servi, in fastose livree, che ministravano al popolo intorno al bancone o allo steccato da cui la fontana era recinta.

Altra volta l'aquila bicipite dell'impero versava vino da' suoi due becchi; ma nell'aprile del 1687, per la ricuperata salute del Re di Francia, eran fontane di vino alla Trinità de' Monti, sulla piazza del Popolo, a piazza Madama, riccamente ornata di torcie e di gigli, e a Campo de' Fiori, “con gran giubilo de' birbanti, narra un cronista, et copia di imbriachi et gran concorso di popolo.„ Come può imaginarsi, con quel po' di vino in corpo, le feste finivano spesso in tumulti; così avvenne nel 1680 per la venuta dell'Ambasciatore di Polonia: che dopo i fuochi d'artifizio e la fontana di vino, incominciò una tremenda sassaiolata del popolo contro i Polacchi, con buon numero di morti e feriti. E il peggio era quando, alcune volte, le dame, nell'ebbrezza della festa, dalle finestre e dai balconi gettavano al popolo merangoli, canditi, pasticcini e perfino i guanti, gli scuffini e gli scacciamosche.

I grandi erano spettacolo al popolo, e il popolo ai grandi, che si divertivano a vederlo azzuffarsi e rompersi le costole per un bicchier di vino, per un candito, o per un mezzo giulio, coll'avidità brutale della miseria. Nel febbraio 1662, l'Ambasciatore di Spagna fece nella piazza dello stesso nome una macchina che mai non s'era veduta l'eguale. Il carro del Sole con quattro superbi cavalli, che doveva muoversi e rappresentare la levata e il tramonto, e due fenici, e selve, e grotte con leoni e un albero di palma e cento altre meraviglie.

La macchina era appoggiata al palazzo di Propaganda; e a far più bello lo spettacolo, l'ambasciatore aveva pubblicato che, finito il fuoco d'artifizio, macchina, torcie, sole, cavalli, travi, mille tavole di castagno, ogni cosa infine andrebbe a sacco, e chi piglia piglia. Nessuno volle restare a casa, e “di certo, dice un cronista, sariano succedute gran morti e ferite„ specialmente nella lotta del popolo cogli operai addetti alla macchina e co' soldati spagnuoli che la circondavano, i quali avrebbero voluto esser soli al bottino. Ma accadde che gli operai che eran dietro al castello, nel sollevare il sole sbagliassero un movimento; e i luminelli e i razzi appiccarono fuoco alla macchina, con gravissimo pericolo che s'appiccasse a Propaganda e alle case circostanti. La fuga del popolo e delle carrozze, delle quali la piazza era stipata, fu, anche per quei tempi, qualcosa di spaventoso.

Nelle feste di Francia, di Spagna e dell'Impero, facevano luminarie, fuochi, spari e fontane di vino non solo gli ambasciatori, ma i loro affezionati, e clienti, principi e cardinali; e nelle gare dei partiti, che procuravano al popolo sollazzi continui e sempre più splendidi, s'avverava il proverbio che tra i due litiganti il terzo gode. Ed esso era sempre del partito di chi facesse le fontane di spillo più grosso, più sfarzose le macchine, più ricche le livree. Ma quando nel luglio del 1688 giunse a Roma l'annunzio della nascita di un maschio al re d'Inghilterra, allora, non bastando il bere, si volle anche dar da mangiare al popolo; e nella piazzetta di San Girolamo della Carità, dov'era la Chiesa della Trinità degl'Inglesi, e presso al palazzo del cardinale di Norfolch, fu alzato nel mezzo un terrapieno dell'altezza di un uomo, recinto d'uno steccato; e su quello, sopra due assi, infilzato ad un enorme spiedo un giovenco intero, ripieno di castrati, capretti e galline, che due uomini giravano sopra una fornace di carboni. La cucina omerica durò dalle cinque alle venti ore; e allora comparve sul terrapieno un uomo vestito di bianco, con un gran coltellaccio in mano, che, tagliate le parti migliori del giovenco, le mandò ai padroni dei palazzi vicini; e dopo, due uomini con casacconi di tela rossa e gran berrettone in capo, incominciarono a tagliare pel popolo, a cui gettarono pezzi di carne con mezze pagnotte di pane bianco. Chi può imaginare la ressa e il tumulto di quella piazzetta! Ma, nota il cronista, “poco buona detta carne, e puzzolente, per non haverla saputo cuocere.„ Ivi presso, nella via di Monserrato, presso il Collegio degl'Inglesi, era una fontana di vino bellissima coll'arme del Re, e la sera furono accese trecentosei torcie e gran numero di fiaccole, e spari e razzi che fu un inferno.

Simile cocitura di bove fu fatta fare dall'Agente d'Inghilterra, che abitava sulla piazza della Trinità de' Monti, ma là le cose non passarono così liscie. “Successo, scrive con molta indifferenza il cronista, il rubbamento di tutto il bove già arrostito, sassajolata horribile con molti feriti, due morti et sbirri fuggiti.„

Anche nelle due sere seguenti ci furono a Monserrato, avanti al palazzo del cardinal d'Inghilterra, fontane di vino, trombe, timpani e razzi a mano; ma poco fu il concorso del popolo, poichè in quelle sere stesse l'Ambasciatore di Spagna festeggiava con fontane di vino e fuochi artificiali l'onomastico della regina Anna Luigia.

Fu uno splendore! Dietro alla fontana della Barcaccia sorgeva uno scoglio alto sessanta palmi, in mezzo al quale era Angelica, legata i piedi e le mani: un enorme drago usciva colla bocca aperta per ingoiarla, e in aria era un cavaliere armato di lancia. Seicento torcie, su tripodi di legno, rischiaravano la piazza, e il popolo occupava la via Condotti fino a piazza Borghese. Fu una vista, narra il cronista, mirabilissima. Il dragone ebbe un bel gittar fiamme contro la giovinetta, che il cavaliere lo fulminò colla lancia e la liberò! Morta nella letteratura la poesia cavalleresca, essa però viveva tuttavia più che mai rigogliosa come ispiratrice delle arti, e argomento di spettacoli pubblici.

Così i nostri avi si spassavano allegramente: e l'anticamera fruttava meglio che l'officina; e il vivere in ozio non impediva di buscarsi una minestra alla porta de' conventi, e vino e pane e qualche giulio nelle occasioni solenni.

Qualche volta però si facevano ai poveri delle burle non molto piacevoli. Nel maggio del 1685 i poveri accorsi per la distribuzione all'ambasciata di Francia, che era al palazzo Farnese, vi furono serrati dentro; e dopo lungo tempo, riaperte le porte, licenziati senza un centesimo.

E solennissima era la festa della incoronazione dei nuovi papi, in cui si faceva in Vaticano larga distribuzione di danaro, che si ripeteva poi ogni anno nell'anniversario in proporzione minore. Si dava mezzo giulio a ciascuno che si presentasse a richiederlo, e la somministrazione aumentava per ciascuno dei figli: le donne incinte contavano per due. Come può imaginarsi, si prestavano, si affittavano i figli, e i guanciali moltiplicavano le gravidanze. Le più procaccianti riuscivano a ripresentarsi più volte, e mettere insieme un bel gruzzoletto d'argento. Alla distribuzione di danaro si sostituì quella del pane; ma il popolo ne fu malcontento, e si tornò all'uso antico. Il costume è durato tanto, che rientra ne' miei ricordi d'infanzia. Triste ricordo quelle turbe di megere co' bambini sulle braccia, co' ragazzi alle gonnelle, urlanti, incalzanti in una gara furiosa, dove era premiata l'impudenza e l'inganno.

Pane e spettacoli! Dalle incoronazioni si passava, collo stesso animo, ai funerali, dove alla porta del palazzo o della chiesa si distribuiva l'elemosina, e si rissava per le candele. I giubilei o anni santi erano fonte di nuovi guadagni e di spettacoli nuovi. Nel 1675 dalle città e dai paesi circostanti affluivano a Roma confraternite in processione; quella del SS. Sacramento di Viterbo, centoventi persone, entrava solennemente dalla porta del Popolo fra una calca infinita, col cappuccio calato, ed un teschio in mano. Ma le Compagnie che venivano così devote e compunte alle tombe degli apostoli, poi s'azzuffavano fra di loro, e i bordoni da pellegrini divenivano arme da guerra. Pareva il campo d'Agramante. Risse a San Pietro, risse a San Giovanni, risse per le strade, e seguito di morti e feriti.

Le feste più clamorose del secolo ebbero occasione dalla liberazione di Vienna, e dalla presa di Buda e di Belgrado; eco carnevalesca di avvenimenti gloriosi. Fu bruciato un fantoccio rappresentante il Bassà; e Stefanaccio, un buffone grottesco famoso tra la plebe, vestito da Bassà, cavalcò per le vie sopra un somaro fra risa e chiasso d'inferno. Quell'entusiasmo religioso andò da ultimo a sfogarsi sopra gli ebrei, con furore brutale d'uccisioni e d'incendi. Convien dirlo: un editto fu emanato perchè non si molestassero, e i frati corsero in Ghetto a frenare l'eccidio.

*

E le cronache ci parlano pure quasi ad ogni pagina d'una vera malattia di quel secolo, le questioni d'etichetta e di precedenza. Dagli ambasciatori, dagli alti uffici dello Stato quel contagio si estende agli uffici più umili, alle più modeste corporazioni. Vogliono tutti la precedenza; onde questioni interminabili, e non di rado risse e sangue. Per le contese fra le confraternite spesso non era neppur possibile di fare le processioni.

Ed altra materia di quotidiani discorsi, di delitti e di disordine, era quella delle franchigie, massime degli ambasciatori; i quali pretendevano che non solo i loro palazzi, ma anche una zona intorno ad essi fosse immune dalla giurisdizione del Governo papale. Invano, fin dal secolo precedente, parecchi papi, e principalmente Sisto V, ne avevano dichiarato l'abolizione; che se si riuscì ad abolirla pei palazzi dei cardinali, non così per quelli degli ambasciatori. Ivi i ribaldi e i malviventi trovavano asilo e protezione, beffandosi dell'autorità pontificia; e i soldati degli ambasciatori, specialmente quelli di Francia, giunsero a tanta audacia da assalire e pigliar prigionieri i birri e soldati del papa che passassero nelle vicinanze dell'Ambasciata.

La rissa dei Francesi coi soldati Corsi a servizio del papa fu un degli avvenimenti più famosi di quel secolo. Un de' Francesi restò morto, parecchi feriti. L'ambasciatore Créqui partì da Roma, e la Francia volle soddisfazione. Rade volte un Governo si piegò a tanta umiliazione, a quanta Alessandro VII nella convenzione di Pisa. Fra le altre condizioni, ci fu quella che il papa licenziasse la Guardia dei Corsi, che aveva quartiere presso la Trinità de' Pellegrini; e avanti al quartiere fu eretta nel 1664 una piramide con una iscrizione, la quale diceva che, in esecrazione dell'abbominevole delitto contro l'ambasciatore di Francia, la nazione dei Corsi era dichiarata inabile e incapace a servire la Sede apostolica. Quel monumento di vergogna, fu poi fatto demolire dal papa Altieri.

Un altro effetto curioso, per non dir peggio, delle franchigie, era questo: che quando una nazione avesse bisogno di levar soldati, faceva pigliare a forza i giovani che passassero nelle vicinanze dell'ambasciata. Nel settembre del 1677 gli Spagnoli davano la caccia ai passanti in piazza di Spagna; onde si cantava ad alta voce per Roma:

Hai inteso? hai inteso?

Non passare a piazza di Spagna che sarai preso.

Ma in seguito di ciò, il papa fu costretto a mandar fuori un bando che minacciava dieci anni di galera a chi dicesse motti contro chicchessia. Più tardi, nel 1690, i Veneziani pigliavano tutti gli atti alle armi che passassero avanti al palazzo di Venezia; onde nacque tal tumulto di popolo che si dovè smettere.

Del resto, gli stranieri che si conducevano a Roma, ci narrano che la vita vi era tranquilla e piacevole, e le notti risuonavano di viole e di canti. Non infrequente il delitto per vendetta o per altri fini perversi, ma non per furto; onde il forastiero passeggiava tranquillo. Ma nelle Sedi vacanti, sospesa l'autorità del Governo, allora le vendette covate, allora i torvi disegni uscivano al sole. Nel Conclave del 1691, da cui uscì papa il Pignatelli, un cronista nota con tutta indifferenza, in data 16 maggio: “Dal 1.º febbraio ch'è sede vacante, di ammazzati per la città di giorno e di notte, n.º 180.„ Questi 180 ammazzati vanno divisi, per circa cento giorni, sopra una popolazione di circa centotrentamila abitanti.

Il secolo che si era aperto col rogo di Giordano Bruno, non poteva mancare degli spettacoli della Santa Inquisizione. Del processo e dell'abiura di due eretici sono piene le cronache. Il milanese Gian Francesco Borri, medico, alchimista, astrologo, entrò in grazia di Cristina di Svezia, e con essa lavorò alla scoperta della pietra filosofale. Conosciutosi che professava idee ereticali fu preso dal Sant'Uffizio, processato e bruciato in effigie. Egli abiurò solennemente nella chiesa della Minerva. Ma nella fantasia popolare, ed anche delle classi superiori, egli rimase il mago, il misterioso dominatore di forze occulte. Più volte il Papa permise che, accompagnato da' carcerieri del Sant'Uffizio, egli si recasse a curar malati; e nel 1675, infermato l'ambasciatore di Francia e disperato da' medici, si ricorse al Borri, che lo salvò. Il popolo s'accalcava intorno al palazzo Farnese, dove abitava l'ambasciatore, a vedere il Borri, tanto che gli si dovette permettere di mostrarsi sulla loggia. In veste lunga di color verdesanto, quello strano Ecce homo, tra le guardie del Sant'Uffizio, apparve al popolo commosso, plaudente. Tutti volevano esser curati da lui. La popolarità e il prestigio del mago mise in pensiero il Vaticano, sicchè fu dato ordine che più non uscisse dalla prigione di Castel Sant'Angelo, dove morì nel 1695. L'altro eretico famoso fu lo spagnolo Michele Molinos, autore del quietismo; una comoda dottrina che, sollevato lo spirito a Dio, abbandonava i sensi al piacere. Venuto in gran fama di dottrina e di pietà, capo dei confessori di Cristina di Svezia, egli aveva dato origine ad una setta che, in Roma e fuori, vogliono contasse molte migliaia di persone. Scoperta dal padre Segneri, o secondo altri dal cardinale d'Estré, la fallacia delle sue dottrine, fu carcerato dal Sant'Uffizio e fattogli processo. Sui primi di settembre del 1687 il popolo era accorso di buon'ora alla chiesa della Minerva per assistere alla lunga e solenne cerimonia dell'abiura; durante la quale, imbandite sulle sedie o sulle balaustrate le mense, in lieti capannelli, si mangiava e si beveva allegramente.

Ma quando si fu giunti alla lettura dei Capitoli dell'abiura, un grido formidabile risuonò per la chiesa: Al fuoco! al fuoco! — Non era alcuno speciale risentimento contro il dottor Molino, che il popolo non conosceva, e di cui ignorava nè poteva intendere le dottrine; quel grido, che soleva ripetersi anche nelle altre abiure, era lo scoppio dell'indignazione popolare contro la mitezza del Sant'Uffizio, era il feroce desiderio d'un più acre spettacolo.

Innanzi allo stesso tribunale, circa mezzo secolo prima, era passato un vecchio glorioso. Anch'egli fu rinchiuso in quelle carceri, anch'egli, non però in forma solenne, dovette innanzi ai cardinali della Sacra Congregazione, far la sua abiura, e genuflesso, vestito della camicia degli eretici, toccando i santi vangeli, aveva pronunziato le parole: — maledico e detesto l'errore e l'eresia del moto della terra. —

Non si accorsero allora ch'egli era un reo ben diverso dagli altri; che dietro la dottrina, del resto non nuova, del moto della terra, c'era un metodo nuovo chiamato a rinnovare il mondo, c'era la scienza.

Con questa parola noi siamo soliti di esprimere due concetti affatto diversi. Un tempo si diceva scienza lo apprendere quello che già era stato trovato. La verità era dietro di noi, era nel passato lontano: il teologo e il filosofo l'apprendevano, la commentavano, l'insegnavano. Per Dante, la vita dell'Universo non ha misteri; ogni fatto ha la sua spiegazione indiscutibile. L'Umanesimo guardava indietro, col Petrarca, col Boccaccio, col Machiavelli, ai Greci e ai Romani. Nei libri sacri, in Aristotile, negli antichi scrittori era la sapienza e la verità tutta intera: ufficio del filosofo lo scovarla e l'intenderla.

Con Galileo la mente umana muta orientazione e si volge verso il futuro. La verità è da trovare; la scienza è il cammino lento, per via d'esperimento, dal noto all'ignoto.

Se io non parlassi a Firenze, lascerei qui liberamente prorompere l'inno alla gran madre che si direbbe predestinata a fornire di condottieri la civiltà. Ma il luogo mi tiene a freno; e chiudo con un semplice saluto alla città dell'Arno che, dopo Dante e Michelangelo, compieva la sua triade con Galileo, con esso apriva la via a una nuova visione dell'universo, dava al mondo la formola della scienza, la formola della civiltà nuova.

LA DECADENZA DI VENEZIA

CONFERENZA DI Pompeo Molmenti.

Il dì 4 maggio 1597, Venezia festeggiava con pompa meravigliosa l'incoronazione della moglie del doge Marino Grimani. Mentre la primavera accendeva bagliori nel cielo veneziano, passavano, fra il popolo tripudiante, i patrizi vestiti d'oro e di broccato e le gentildonne scintillanti di gioielli. Le corporazioni delle arti sventolavano i serici gonfaloni lungo il canal grande, su barche parate di stoffe a colori smaglianti, di veli stelleggiati d'oro, di piume, di fiori, di ornamenti.

La dogaressa, già matura d'anni, dall'abito di broccato giallo, splendida di gemme, circondata da gran numero di patrizie biancovestite, porgea veramente l'immagine di Venezia, che sotto un aureo manto di paramenti e di cerimonie copriva le offese della senilità.

Infatti la soverchia agiatezza, derivata dai lauti e secolari guadagni, e il lusso cominciavano a grado a grado a intiepidire prima e poscia ad infiacchire l'operosità dei nobili. Il commercio avea preso altre vie, e quando, nel luglio del 1501, si seppe a Venezia che le navi portoghesi reduci dalle Indie erano rientrate a Lisbona, cadauno ne rimaxe stupefact o, dice un cronista contemporaneo, il Priuli. “Fu la peggior nuova dal perdere la libertà in fuora,„ aggiunge con nobilissima frase lo stesso cronista, a cui la rovina minacciante Venezia non facea dimenticare che tolta la libertà ogni altro bene è per niente.

La lotta di Cambrai, in cui Venezia sola avea sostenuto l'urto di tutta Europa collegata ai suoi danni, avea diminuite le sue ricchezze, logorate le sue forze. Nè potea colla pace riacquistare la gagliardia dinanzi alle continue minacce del turco e fra le incessanti agitazioni d'Italia. Ma Venezia disdegnava mostrare il suo scadimento e con la magnificenza volea abbagliare il popolo e far credere agli stranieri di non essere per anco discesa da quel culmine di possanza, ove avea posato alto un giorno, arbitra del destino di Europa. E invero alla rovina del commercio potea contrapporre la gloria, se non sempre la fortuna delle armi e l'accorta saggezza della sua diplomazia. E la militare virtù e i meditati partiti degli statisti sovvennero la patria di opera e di consigli anche nel secolo XVII, mentre a quest'ultimo riparo delle libertà italiane sempre più oscuravansi i fati, e rapidamente scemavano il dominio e il tesoro.

Seicento è sinonimo di decadenza e di corruzione, e come si dice che le arti in quella età delirarono, così una parzial critica afferma che l'Italia cadde nell'abisso dell'avvilimento e della putredine. E infatti chi guardi un aspetto solo del gran quadro della vita italiana e veneziana in ispecie, non potrà negare che il giudizio sia ingiusto.

Ma la vita degli Stati si porge molto complessa e chi soltanto un lato ne esamini non potrà farsene un'idea esatta. Così nel seicento a Venezia, accanto a vizi, a colpe, ad errori, che non sono il triste privilegio di quel secolo, ma che le condizioni particolari di quel secolo fecero crescere con fecondità esuberante, noi vediamo pur brillare virtù e pregi di sì viva luce, da trovarne radi esempi simili nelle forti età precedenti, da non trovarne di eguali nei susseguenti anni di maggior decadenza. In quel crepuscolo della vita veneziana, fra le recenti memorie di gloria e di conquista e la decrepitezza, conseguenza delle leggi inevitabili della fatalità storica, cessa il composto vivere civile, le forze morali si spiegano con effetti vari ed opposti, e uomini e cose vivono di una vita procellosa, eccessiva. Mancando quella serenità nell'animo e negli ingegni, che dà un corso ordinato e quasi armonico alla vita, l'uomo crescendo nell'esuberanza di quel mondo invano trova l'equilibrio morale ed è quasi agitato da scosse convulse. Ma come nel regno fisiologico molte regressioni sono compensate da un grande sviluppo in altre direzioni, così virtù e vizî, eroismi e codardie, sacrifizi e prepotenze si manifestano in strano viluppo, con energia esagerata e nel male e nel bene. Perciò guerrieri fortissimi che rendono alla patria la vita gloriosa e malvagi violenti, che fanno servire la spada alla soddisfazione dei capricci più iniqui; severi pensatori nei quali l'altezza della mente è pari a quella dell'animo e uomini che abbassano l'ingegno alle cupidigie più infami; scrittori temperati, sereni, e poeti artificiosi, turgidi, falsi. E la cupidigia dei materiali godimenti di rincontro al desiderio dell'idealità, la protervia al sacrifizio, l'ira cieca ed impetuosa al vigilante sentimento della giustizia, l'energia delle passioni all'abbiettezza dei sentimenti, i febbrili desideri agli ozii infecondi, le generose fidanze agli sterili disinganni, tutto un movimento turbinoso, di concepimenti, di aspirazioni, di sensazioni, a cui per essere fecondo non mancano se non la misura e l'equilibrio. Quanti aspetti offre la vita veneziana!

Sotto i portici del Palazzo, patrizi che ravvolgono meditabondi nella mente qualche trattato utile alla patria e patrizi che mercanteggiano il voto: su la piazza belle dame dalle vesti piene di gioielli e dagli occhi pieni di sorrisi e folla gaia, allegra, operosa, intrighi politici e intrighi d'amore, odi violenti e piaceri raffinati, discussioni letterarie e racconti guerreschi, battaglie gloriose e infami violenze.

Fra esorbitanze e contraddizioni, che parrebbero escludere il senso della misura e della giustizia, il governo veneziano seppe mostrarsi freddo, risoluto, concorde, appunto in sull'aprirsi del seicento, di questo secolo generalmente considerato un'età di spiriti fiacchi e avviliti. Ora tra le pagine della storia veneta ve ne sono molte più insigni, per fatti guerreschi, per ardui conquisti, per accorgimenti diplomatici, ma non certo una più nobile per energia di convinzioni e per indipendenza di sentimenti di quella che scrisse il governo veneto col suo contegno rispettoso, ma fermo colla corte di Roma, durante l'interdetto di Paolo V.

Dissapori fra Venezia e Roma esistevano da lungo tempo. Il fatto di due ecclesiastici, il canonico vicentino Saraceni e l'abate di Narvesa Marco Antonio Brandolin, voluti esaminare e processare dai Dieci non badando alle proteste del vescovo e del nunzio, che li richiedevano come soggetti a sè, fu l'ultima occasione delle fiere intimazioni del papa. Alle quali rispondendo il Senato non voler ribellarsi alla Chiesa, nè promuovere scismi, ma voler salva l'integrità delle patrie leggi, il pontefice, il 16 aprile 1606, sottopose Venezia all'interdetto. Il Senato accettò la sfida senza eccessi di fierezza, ma anche senza quella mitezza la quale è una qualità che in certi casi sa di poco; vietò severamente ad ognuno di accettare e pubblicare le bolle pontificie; bandì cappuccini, gesuiti, teatini, che a ciò non s'adattavano, e fe' pubblicare la difesa delle sue ragioni. Venezia dichiarando sempre la sua fedeltà alle dottrine cattoliche, ordinò al clero di non smettere gli atti del culto, non badando all'interdetto del papa, perchè contrario alla Scrittura e ai canoni della Chiesa.

La coscienza pubblica approvava un tale contegno ed aiutava il governo nella sua lotta: il popolo continuava ad assistere alle funzioni religiose, come se nulla fosse.

Io non ripeterò la storia dell'Interdetto, che tutti conoscono, non dirò come il Senato facesse rispettare i suoi ordini, e come, ad esempio, al prete che per sapersi regolare aspettava l'inspirazione dallo Spirito Santo, i Decemviri rispondessero di essere già stati inspirati dallo Spirito Santo di impiccar tutti i disobbedienti. Non ripeterò altri aneddoti troppo noti, in cui la Repubblica dimostrò quella forza di governo, che non è già nervosità morbosa, ma viva energia, che alle volte s'intreccia a certa arguzia maliziosa. Nè dirò come Venezia sia uscita dignitosamente vittoriosa.

Vittoriosa da una lotta per incontrarne un'altra, non meno ardua. Una nazione rivale mirava ai danni della Repubblica: la Spagna — forse perchè Venezia, sola in Italia, avea mantenuto alta la dignità contro la burbanza spagnuola, che mirava al dominio di tutta la penisola. Spagna soffiava fra gli accesi litigi di Venezia con Roma. E i torbidi suggerimenti di Spagna davano coraggio all'Austria per alimentare la lunga guerra degli Uscocchi, che correvano l'Adriatico tentando di ruinare il commercio di Venezia e logorarne le forze. La selvaggia fierezza di quei pirati giovava all'Austria per tener desta la lotta fra le due nazionalità italiana e tedesca pel dominio dell'Adriatico. E così le onde di quel mare italiano erano tinte del sangue dei figli di una medesima terra: perchè erano in molta parte dalmati gli Uscocchi, erano in molta parte dalmati i marinai delle navi veneziane. Se da quelle lotte trascorriamo ai nostri tempi, curiosi raffronti si offrono alla mente! Lissa non fu vittoria dell'armata austriaca. Gli equipaggi delle navi austriache erano in gran parte composti di dalmati figli e nepoti di quei fedeli sudditi di San Marco che furono consorti a Venezia per quanti secoli quasi la storia rammenta. E cresciuti alle antiche tradizioni marinaresche venete erano molti degli ufficiali al servizio degli Absburgo. Lo stesso Tegethoff era stato allievo dell'antico collegio di Sant'Anna a Venezia, ove avea contratto coi suoi colleghi amicizia fraterna. E quando, fra il rumor della mischia e il fumo dei cannoni, vide sommergersi il Re d'Italia chiese con ansia notizia dei naufraghi, fra i quali credea fossero alcuni suoi antichi e affezionati compagni di collegio.

Ma contro Venezia non posava il mal animo di Spagna e ne è prova la congiura che il marchese di Bedmar, ambasciatore spagnolo presso la Repubblica, ordì insieme coll'Ossuna vicerè di Napoli e col Toledo governatore di Milano. Al governo di San Marco dovea succedere la sovranità di re Filippo III: ardersi l'Arsenale, invadersi il Palazzo ducale, uccidersi i maggiorenti. La congiura fu scoperta e la Repubblica non andò lenta nel punire colla morte i rei principali. Con mente deliberata e cuor fermo sentiva essa che l'indulgenza comprende molte volte in sè offesa alla legge e turbamento agli ordini sociali, e che nella severità delle leggi sta la salvezza della patria.

Certo questa alta idea del dovere che imprime negli animi il sentimento di una fatale necessità suggerì la condanna di Antonio Foscarini, il cui nome, circondato dalla pietosa fantasia dei poeti, è divenuto una leggenda romantica, che servì di tema alla tragedia di un poeta e patriota illustre. È nota la tragedia del Nicolini.

Antonio Foscarini, innamorato di Teresa Navagero, parte per straniere contrade, in servizio della Repubblica. Teresa intanto è costretta a maritarsi con un Contarini. Quando il Foscarini ritorna, sfoga la sua disperazione cantando in gondola, sotto i veroni dell'amata. Teresa si decide ad accordargli segreto colloquio, certa per la purità dei costumi di lui, ch'essa non correva alcun rischio nell'onore. Mentre il Foscarini e Teresa ricordano dolori senza rimedio, affetti senza speranze, sopraggiunge il marito, e ad Antonio, per salvar la vita e la fama alla sua donna, non resta altra via, se non quella offertagli dal contiguo palazzo dell'ambasciatore di Spagna.

Ora bisogna sapere che una legge dichiarava reo di morte chi entrava furtivo nel palazzo di un ambasciatore straniero.

Il Foscarini è scoperto dagli sgherri dell'Inquisizione di Stato, dinanzi alla quale tace il motivo, per cui entrò nella casa dell'ambasciatore, e nol svela nemmeno al padre suo, che è doge. Veramente doge era allora Antonio Priuli (1618-1623), ma son licenze poetiche. Infine Antonio Foscarini è condannato a morte e Teresa Navagero si uccide.

E così anche dal Niccolini, come dal Byron, da Victor Hugo, dal Manzoni, per parlar solo dei maggiori, si scrisse la storia di Venezia.... in versi.

È vero, l'innocenza del Foscarini fu confessata dal Consiglio dei Dieci con atto solenne e nella chiesa di Sant'Eustachio si pose al nome dello sventurato patrizio un ricordo marmoreo che ne riabilita la memoria. Ma la calunnia dovea essere con abile malvagità preparata, se la sua reità era così comunemente creduta da non trovar fra i giudici uno solo che parlasse in sua difesa. E se innocente veramente egli fu, il governo che riconobbe l'innocenza del Foscarini, con esempio unico nella storia, potea giustificare il suo errore con le vicende dei patrizi Angelo Badoer, Giambattista Bragadin, Giovanni Minotto, che mostrano la perfidia di Spagna e la corruzione di taluni patrizi.

Certo è, nè la storia il nega, che fra i nobili serpeggiava profonda la corruzione: il lusso era fomite a basse azioni, la scellerata avidità dell'oro spingeva a infedeltà, a intrighi, a brogli nelle elezioni, a concussioni, a rapine, a sozzure.

Parecchi, intenti ai grossolani piaceri della vita, rotti alle lascivie, occupavano il tempo fra mascherate, ridotti, conviti, giuochi, balli, feste, teatri. Le esigenze ognor crescenti del lusso assottigliavano le ricchezze accumulate dagli avi, come il voluttuoso vivere scemava le energie dell'animo e del braccio.

Le donne ci appaiono tra mille colori e sprazzi e barbagli d'oro e d'argento, tra una lieta fantasmagoria di lunghe vesti seriche, di broccato, di drappo d'oro, di velluto ricamato. Le carni rosee traspaiono a traverso i merletti finissimi di Burano, o tra i lembi delle camicie leggiadramente lavorate in oro, in argento, in seta; i busti gioiellati disegnano le forme, e dalle spalle cadono cappe e robboni, foderati di pelli preziose. Nè a tanto scialacquo possono opporsi in alcun modo le leggi suntuarie, che prescrivono un limite al valore dei panni, delle vesti e a quello delle minuterie.

La bizzarra calzatura degli alti zoccoli, che le donne aveano inventato nei primi tempi per non imbrattarsi col fango delle vie e che fu poscia causa di un lusso sfrenato, si andava abolendo. Uno scrittore francese del seicento narra, a questo proposito, un aneddoto curioso. Le figlie del doge Domenico Contarini furono le prime veneziane che smettessero quest'uso e un ambasciatore discorrendo un dì col doge e coi consiglieri degli altissimi zoccoli usati dalle veneziane, incomodi così da aver mestieri per camminare d'essere sostenute, lodò le due patrizie Contarini, che avevano prescelto le scarpette, senza paragone più comode. Pur troppo comode, pur troppo! esclamò con faccia scontenta uno dei consiglieri, che sarà stato probabilmente un marito e avrà ritenuto quella specie di alti trampoli un'invenzione prudente a garanzia della felicità coniugale. Infatti la donna scende dal suo piedestallo, perde a poco a poco l'aria di cerimonia rigida e obbligatoria, si mesce alla folla, corre ai convegni allegri, ride del suo più gaio e gentile sorriso, contenta dell'oggi, fiduciosa del domani.

Le donne eleganti, briose, allegre, nervose, diverse d'indole, di pensieri, di costume dalle veneziane gravi e maestose dei secoli precedenti incominciano una vita di dolci imprudenze, di sensazioni inebrianti, di desiderî, di concupiscenze, di eccitazioni, fra i complimenti e le riverenze, le visite e le conversazioni, fra lo svolazzare delle penne e dei nastri.

In una relazione Della città e Repubblica di Venezia, che si conserva nella biblioteca Ambrosiana, sono scritte queste significanti parole: in materia di donne basta in Venetia haver maniera, pacienza e denari.

Negli stessi conventi, dove da lungo tempo era penetrata la licenza del costume, il lusso e la corruzione toccavano l'eccesso. Molte fanciulle prendevano il velo costrette dai genitori e nella solitudine del chiostro vagheggiavano mille immagini di bellezza e di piacere. Vestono alcune monache, dice una scrittura contemporanea, più lascivamente, con ricci, con petti scoperti qual dell'istesse secolari e molte hano loro innamorati, i quali uano spesso a uisitarle e confabulare, essendo tra loro continuo trafico de presenti, e perchè quasi tutti Monasteri hano quatro o cinque conuerse che uano per la città cercando elemosine e facendo altri seruitij, molte ne servono come per.... e lasciamo la brutta parola nella penna dello scrittore anonimo.

Quando il principe di Toscana, poi granduca col nome di Cosimo III, venne il 1628 in Venezia, ammirò le monache vestite leggiadramente, con abito bianco alla francese, busto di bisso a piegoline e trine altissime, il seno mezzo scoperto, e su la fronte un velo piccolo, sotto il quale uscivano i capelli arricciati.

Nella citata relazione su Venezia della Biblioteca Ambrosiana sta ancora scritto: Essere la salute della repubblica l'avere il popolo effeminato che viene ad essere infingardo.

Nelle repubbliche come presso i sovrani fu sempre arte di stato addormentar coi piaceri le passioni e i pericolosi desideri di soverchia libertà. Ma le passioni alle volte si risvegliano all'improvviso, e quando non sono volte a nobili indirizzi trascorrono sovente ai fatti più atroci, ai capricci più iniqui. Il coraggio quando non serve a onesti intenti si muta spesso in ferocia, e destandosi alla fierezza impara crudeltà. Così in mezzo alla vita veneziana molle, gioconda, che pare un carnevale continuo, ci arrestano le avventure di alcuni tracotanti, che si arrischiano ad imprese per le quali si stimerebbe appena che vi fosse stato in quei tempi animo di divisarle e braccio da eseguirle.

Proviamoci a risuscitare una di quelle scene di prepotenza e di delitti, che, meglio di lunghe descrizioni, possono dare una idea del tempo e del costume.

La sera del 28 febbraio 1601, v'era festa di nozze nella casa dei patrizi Minotto. Sapete, una di quelle mirabili feste veneziane, in cui gli appartamenti suntuosi dalle stanze tappezzate di broccato e di arazzi, scintillanti di vetri e di specchi di Murano, erano condegna cornice alle belle donne vestite di raso e di damasco, scintillanti di perle e di gioielli. I suoni erano incominciati e la novella sposa, ballando sola una specie di minuetto, avea dato principio alle danze, quando entrava nella sala un giovine patrizio di membra vigorose e spigliate, Leonardo Pesaro, tipo di suprema scelleratezza. Il tracotante giovine vide in un angolo un altro patrizio, Paolo Lion, col quale avea vecchia ruggine, e accostatosi all'avversario, che stava insieme alla sua fidanzata, lo insultò. Il Lion rimbeccò pronto al Pesaro, che uscì di casa Minotto, si armò, si unì ad alcuni altri amici arroganti e soverchiatori di professione, e tutti insieme mascherati ed armati si avviarono al palazzo dei Minotto, irruppero nella sala da ballo e spietatamente uccisero il Lion. Non paghi ancora, il Pesaro e i suoi continuarono gli insulti, le grida, lo schiamazzo, mettendo sossopra la sala, correndo per le stanze con le spade sguainate, ferendo quanti incontravano. Ne nacque uno scompiglio infernale. Le torcie erano tutte spente, tranne una tenuta dal Minotto, che, roteando con l'altra mano una sedia, difendeva la sua sposa adorna di perle e di gioielli d'inestimabile valore. Un soldato straniero, che tentava proteggere con la spada gli sposi Minotto, ebbe tagliate tre dita di una mano.

Finalmente quelli che non poterono fuggire riuscirono a salvarsi rinchiudendosi nelle stanze. Più volte bandito, il Pesaro non rimetteva di sfidare la giustizia impotente ad agguantarlo, e coll'aiuto di alcuni amici pari suoi e di una mano di bravi, che teneva nelle campagne vicine a Venezia, commetteva d'ogni sorta violenze e rapine, ammazzando, ricattando, aiutando assassini, involando e stuprando fanciulle, rubando mercanzie, bastonando donne e preti e pagando i creditori con arcobusate. Leonardo Pesaro fu il più audace, ma non il solo illustre malandrino d'alto affare di Venezia nel secolo XVII. Fra i più bei nomi dell'aristocrazia veneziana troviamo molti banditi per colpe ignominiose.

Dinanzi alla pittura di una società così corrotta e al racconto delle imprese di tai briganti blasonati, si può credere, a ragione, ciò che taluni affermano che la vecchia repubblica fosse caduta al fondo della abbiezione più obbrobriosa.

Ma in questa età di violenti contrasti, alla decadenza morale, alle ribalderie dei soperchiatori, si possono contrapporre la nobile energia e i sacrifizi magnanimi di molti, nel cui cuore palpito supremo era la patria, però che la virtù non fosse inusitata nelle signorili dimore, e il senno pratico, acuto, previdente, guidasse i provvedimenti dei governanti.

Chi consideri l'accortezza e la prudenza con cui Venezia seppe uscire dai litigi con Roma e dalle insidie di Spagna deve dar lode alla Repubblica. Ma può anche sorgere agevole l'osservazione che negli Stati tanto più intensa fiammeggia la luce del pensiero, quanto più intorpidiscono le virtù civili e militari. E in vero lo scorto maneggio e l'acuta osservazione della diplomazia celano alle volte la codardia dei popoli.

Un patrizio veneziano, Antonio Querini (m. 1608), narrando la storia della scomunica fulminata da Paolo V, faceva l'osservazione seguente: Saranno sempre alla Repubblica consigli salutari, per la forma del suo governo, per la natura et conditione de' suoi sudditi, et per molte inhabilità sue a imprese belliche, l'attender a conservar l'imperio, anzi con la prudenza civile, che con il valor militare, et abhorrir tanto la guerra, quanto farebbe la sua destrutione. Quel veneziano calunniava inconsciamente la sua patria, però che anche nel decadimento del più grande stato italiano risplenda il valore guerresco. Certo la pagina più sanguinosa ma più grande, più infelice ma più gloriosa della veneta storia è la guerra di Candia.

I Turchi già signori dell'Arcipelago agognavano al conquisto di Candia, importantissima isola, che i Veneti aveano comperata nel 1204 dal marchese di Monferrato. Colto un pretesto, l'armata turca ruppe la guerra nel 1645 e prese la Canea. La vecchia repubblica seppe ancora trovare consigli audaci e opere gagliarde, e dal 1645, per ventitrè anni continui, seppe combattere, senza posa, battaglie marittime da giganti, rifulgenti d'eroismi, che hanno qualchecosa del leggendario e non sono vinti in paragone dai più memorabili fatti di Grecia e di Roma.

Dalla guerra di Candia, Venezia era uscita bella d'eroismo e di sciagura, vuota di sangue e di denari. L'erario pubblico era stremo e per adunare denaro e rinverdire il credito scaduto, il governo prese il partito di aprire il libro d'oro.

Così molti popolani doviziosi poterono per denaro essere ammessi al Maggior Consiglio. In questa conciliazione del vecchio sangue e del nuovo, in questa mescolanza d'idee, la Repubblica avrebbe potuto trovare una causa di vigoroso ringiovanimento, una feconda trasformazione nell'ordine nobilesco. A canto al rigido patrizio si trovava ora chi era giunto all'altissimo grado, aiutato solo da quella forza che resiste a tutti gl'impedimenti: la forza del lavoro.

A Venezia, asilo sicuro d'artisti e d'operai, venivano a fecondare le loro energie molti uomini operosi e costanti, e coll'abito del risparmio, coi frutti dello ingegno aveano fondato famiglie potenti. Dopo aver raggiunto le materiali agiatezze, potevano ora assidersi nei consigli della Repubblica. Ma questi nuovi ricchi assunti al titolo nobiliare, nel contatto colla vecchia aristocrazia, non seppero con giovanile ardimento dominarla e ne subirono invece l'azione. I difetti dei risaliti non seppero evitare, non attesero più alle pratiche della mercatura, credendo avvilirsi, e presero a schifo la parsimonia nel vivere. Sentendo l'ambizione del nuovo stato in cui erano stati posti dalla fortuna, cercarono le delicature della vita, guastarono i costumi fra il lusso, e volendo emulare le vecchie casate, per far dimenticare la loro origine, instituirono fidecommessi pei primogeniti, destinando al sacerdozio e al celibato gli altri figli. Per modo che, dopo due generazioni, quasi tutte queste famiglie scompaiono senza lasciare alcuna traccia nella storia. — Non nella storia, nell'arte sì. Traccia inavvertita, azione nascosta, ma non per questo meno importante.

Le raffinatezze della civiltà, il desiderio acuto dei godimenti, lo sfoggio di genti spensierate prodighe dei risparmi accumulati dagli avi furono incremento all'arte, nella quale era, come nella vita sociale e politica, una dimostrazione infinitamente estesa di bene e di male.

La temperanza armonica delle varie facoltà dello spirito, che avea brillato di luce splendidissima nel quattrocento e non era scomparsa del tutto nel cinquecento, cessa nel secolo XVII. Quindi concetti meravigliosamente grandiosi a canto a pomposa lascivia di forma, la quale nasconde meschini pensieri; artefici riboccanti di fantasia che ora trascorrono a tutte le stravaganze, ora studiano il vero con intendimenti che formano l'aspirazione e il tormento dell'arte moderna; e una soverchianza di vita giovanile a canto al delirar senile della decrepitezza.

L'arte trovava larghi incoraggiamenti nei nuovi nobili, che voleano dorare il recente blasone con ogni maniera di magnificenza. Così sorsero le maestose moli del palazzo dei Labia, ammessi al Maggior Consiglio nel 1646, del palazzo dei Rezzonico, ascritti al patriziato nel 1687, delle fantastiche decorazioni dell'appartamento degli Albrizzi, divenuti nobili veneti nel 1667, e via via.

L'arte barocca ha in Venezia un'impronta originale e stupenda. Nelle sue origini essa è come signoreggiata da un poderoso ingegno, che pur lasciando libero ogni freno alla fantasia ebbe pieno ed efficace il senso del reale. L'azione esercitata da Alessandro Vittoria sui decoratori e statuarî veneti durò lunga pezza e l'arte, fra le lagune, continuò per molto tempo a modellarsi sull'esempio di quel grande. È questo un periodo non ancora ben definito della nostra storia artistica e merita di essere considerato meglio che non si sia fatto sinora. La critica badando al male non si è curata del bene, si è limitata ad osservare e a biasimare quell'affettazione di forza che tien del convulso, senza indagare l'anelito segreto che avea bisogno di esplicarsi in nuove forme, in espressioni nuove, il desiderio acuto di ardimentosa originalità, che in mezzo ad errori è pur sempre indizio di forte pensare. Si volea rovesciar tutta l'arte precedente; la brama d'investigare, di provare, di esperimentare, rivelatasi così cocente nella scienza, si manifestava anche nell'arte, brama non tenuta in freno dall'armonia e dalla compostezza della concezione. Si volea muover guerra alle linee rette palladiane e si cercava il bello nel difficile: alla purezza degli ordini romani si voleano contrapporre le pompe più trasmodate; alle fredde saviezze della sesta, le licenze di un'arte bizzarra.

Fra le sregolatezze dell'architettura e le incomposte bravure dello scalpello, che vuole emulare il pennello, la licenza non appare priva di magnificenza e di grandiosità.

E nella enfatica decorazione, complemento della vita fastosa, vi sono vizi e intendimenti non ordinari, vi è qualche cosa che non si può esprimere se non colla parola genialità. Imperocchè nulla di più falso che la genialità indichi sempre il massimo dell'equilibrio mentale; essa molte volte anzi rampolla da disquilibrio e da ineguaglianze.

L'arte secentistica, colla sua varietà e ricchezza, improntò Venezia di un suggello, che ne compie l'aspetto e senza il quale sarebbe men pittoresca la meravigliosa città. E le aeree cupole, gli archi fastosi, gli ampi loggiati hanno effetti di così fantastica eleganza da parere inverosimile. Eppure gli artefici del seicento, che parea non dovessero sentire se non emozioni fuggitive e veementi, sapeano anche faticare il cervello e la mano nell'irritazione acre della ricerca, nella minuziosa, paziente investigazione del vero, cercando l'indole intima, la fibra nascosta delle cose, il cuore dalla realtà. Vi sono alcuni busti di Alessandro Vittoria, così meravigliosi per vita, da sembrar gettati sul vero. Lo studio della natura in taluni artefici di questo tempo, prende l'aspetto di un'acuta ed ansiosa curiosità, di una tormentosa analisi di tutte le deformità. Mi passa dinanzi alla mente — disgustosa visione! — un mascherone colossale, che chiude a serraglio la piccola porta del campanile di Santa Maria Formosa. È una testa enorme, mostruosa, ignobile, con una espressione di osceno sarcasmo. “Il pensiero umano„ dice il Ruskin, “non può cadere in uno stato più triste di degradazione.„ — Ebbene, quel mascherone osceno ha fermata l'attenzione d'uno dei più grandi scienziati del secolo nostro, d'uno dei medici più insigni, che abbiano studiato le malattie morali delle moderne generazioni e strappato i più tenebrosi segreti della vita — il Charcot. L'illustre medico francese, guardando l'opera dell'ignoto scultore veneto, afferma che quella distorsione di lineamenti, che dà alla maschera un aspetto così schifoso e grottesco, non è l'effetto di una immaginazione bestiale. Lo scultore ha veduto co' suoi occhi quel tipo, l'ha colpito a volo, e l'ha riprodotto con una fedeltà, che ci permette di discernere una deformazione patologica speciale, una affezione nervosa così nettamente qualificata che è impossibile confonderla con nessun'altra. Come spiegare questa osservazione minutamente ricercatrice e questa insaziabile curiosità di spirito, che appena potrebbero comprendersi in un raffinato artefice moderno, con le impressioni rapide, affrettate, fantastiche, esagerate nella vita e nell'arte del seicento?

Così nè la morbida sonorità di alcuni poeti, nè le vacuità declamatorie di parecchi prosatori, poteano togliere gagliardia al pensiero e alla forma di Paolo Sarpi e di Battista Nani. La tranquilla armonia, la serenità imperturbata di taluni, formano singolar contrapposto col disquilibrio di passioni, colla violenza di idee, col fare artificioso, concettoso, scolastico di altri scrittori, che non hanno se non il culto esteriore della frase. Nulla affatica più di quest'enfasi laboriosamente sublime, che mal copre l'assenza delle idee e per cui l'unica risorsa sembra essere una disperata ricerca di artificiose immagini e di metafore incoerenti.

Fra i rimatori di questo tempo, che andavano a caccia di metafore, di antitesi, di scherzi di parole, di equivoci, gli eruditi citano il procurator Simone Contarini, il cardinale Giovanni Delfino, Giovanni Quirini, Filippo Paruta, Bartolomeo Malombra, Francesco Contarini, Nicolò Crasso, Andrea Valiero, Sebastiano Quirini, Pietro Michiel e altri molti, che vivono solo fra i tarli delle biblioteche. Un solo nome è ancora ricordato e anche questo è un esempio di quei disaccordi, che danno l'impronta agli uomini e alle cose di questo secolo. Marco Boschini scrisse in versi veneziani un'opera, il cui titolo è veramente degno dei versi: La Carta del Navegar Pittoresco, dialogo tra un Senator venetian deletante, e un professor de Pitura, soto nome d'Eselenza e de Compare, compartìo in oto venti con i quali la Nave Venetiana vien conduta in l'alto Mar de la Pitura, come assoluta dominante de quelo a confusion de chi non intende el bossolo de la calamita.

Ma fra la vana magniloquenza del poeta, il critico dà savi e giusti giudizi, specie guardando al gusto dominante. Era allora in gran voga Palma il giovane, facile e troppo fecondo artefice, ma dalla tavolozza lieta di vivide trasparenze, lo Zanchi pieno di audace bravura, Dario Varotari non indegno discepolo del Veronese, il Liberi, che ebbe il nome specchio all'indole sua, libero pittore di belle veneri ignude. — Tutti questi artefici compiono la decadenza, che il secolo XVI, coll'adorazione della forma, avea iniziata. In essi v'è il movimento, l'azione, la bellezza, lo splendore esterno, le energie dell'effetto, rado o mai l'intimo pensiero. Le bellezze opulenti si muovono in atteggiamenti procaci, in pose coreografiche. L'artefice non ha cura se non dell'effetto. Arte gaia, ricca d'immagini e povera d'idee, simile a donna il cui volto leggiadro non sia avvivato dal calore del pensiero, i cui occhi non rispecchino la luce dell'anima. Allegra e sensuale rappresentazione della vita, in cui i toni rossi, rosei, gialli, azzurri, si fondono in una stupenda armonia, che fa scintillare le tele, per dirla proprio col Boschini, d'oro, di perle, di rubini, di smeraldi, di diamanti, uniti ai fiori più smaglianti dell'oriente. Certo, specie nella pittura, l'arte scema di valore e si gonfia di boria: il colore non entra più, come nel secolo precedente, nelle profondità del vero, ma si arresta alla superficie. Fra quel delirio e quella vertigine di tinte, l'arte abbaglia non crea, inebria, non commuove. Le rosee donne dalle fulve capigliature di Paolo e Tintoretto sono diventate anche più procaci nelle farragginose composizioni mitologiche. Le veneri mostrano, senza l'ombra del velo candidissimo, nudità di rosa e di velluto; i numi s'atteggiano muscoleggiando in enfatiche contorsioni; le ninfe e le nereidi danzano in un regno fantastico, fabbricato sulle nubi dei sogni. Pure in mezzo a tante stonature artistiche quante armonie pittoriche! Armonie che non esistono in natura, ma seducono, e alle quali s'uniscono l'effetto fascinatore, la prodigiosa abbondanza nel comporre, la grande abilità di mano. Ora fra il luminoso sfarzo di quell'arte che è una gaia festa per gli occhi, ma lascia senza emozioni il cuore, tra l'occhio educato alle movenze strane, agli scorci audaci, alle apoteosi di nubi, ai lucenti olimpi, dovea sembrare fredda e uggiosa l'aurora dell'arte veneziana, così ricca d'originalità, di sentimento, di fede.

Lodovico Dolce, molti anni prima, quando il lusso sfarzoso non avea ancora cacciato in bando la pura eleganza, avvertiva come, fra i trionfi dell'arte veneziana, si dimenticassero i pittori goffi del quattrocento, e le cose morte e fredde di Giovanni Bellini, di Gentile e del Vivarino, le quali erano senza movimento e senza rilevo. Marco Boschini, venuto dopo, pur accogliendo le idee e i desideri dell'età sua, si mostrava più imparziale e più largo e abbracciava in uno stesso affetto il quattrocentista e il secentista, le delicate diligenze e le ardite trascuraggini, l'austerità e l'opulenza, Vettor Carpaccio e Palma il giovane. Sono arti diverse ma che hanno tutte e due i loro fascini. L'una parla al cuore — l'altra agli occhi — l'una vi dà il rapimento dello spirito — l'altra il fascino della carne. Certo il Boschini avea nella mente un concetto di un'arte libera e varia, un'arte che i trionfi del rinascimento e le bizzarrie della decadenza, la casta eleganza del segno e le febbrili fantasie rapidamente pensate, rapidamente eseguite, potesse unire nell'affetto medesimo e nel medesimo culto, ma l'ardito concetto del critico era soffocato dalla forma falsa, viziata, artificiosa, rettorica.

Fu cercato da molti il doloroso perchè di tale traviamento nell'arte, ma le spiegazioni a me paiono più ingegnose che vere. Si ripete che il decadimento dell'arte nostra si deve all'influsso dell'arte spagnuola e non si pensa che gli stessi difetti, le stesse colpe, gli stessi errori s'incontrano anche nella letteratura d'Inghilterra e di Francia. Non si pensa che è proprio della razza latina la ricerca di concettini, di freddure, di giuochi di parole, di antitesi, non si pensa che tale corruzione, da cui Dante non andò esente, come non andò esente il Petrarca, abbondò nella letteratura cortigiana del quattrocento, s'acuì nel cinquecento, per svolgersi poi in licenziosa pompa nel secolo XVII. Il secentismo fu una gravosa eredità dei secoli precedenti e l'ebbero indipendentemente e contemporaneamente Spagna e Italia, Inghilterra e Francia.

Solo in questo tempo l'antitesi tra l'amore del semplice e del vero e il desiderio del manierato, dello strano, del concettoso si palesa con tinte più forti. In Ispagna accanto a Luigi di Gongora, principe dei poeti gonfi e manierati, sorgeva Velasquez, pittore calmo, chiaro, ben equilibrato, paziente osservatore della natura.

Così a Venezia, se fra il pattume delle accademie imputridivano le buone e forti idee, se la vacuità declamatrice della plebe letterata trovava libero sfogo nelle verbose dispute, in altri convegni altri ragionari erano riscaldati dalla fede in ciò che è vero e buono. L'animo si esalta pensando alle alte cose che si saranno discusse in casa di Andrea Morosini storico e politico insigne, che accoglieva fraternamente Galileo, Paolo Sarpi, Giordano Bruno, Leonardo Donato, Nicolò Contarini, Santorre Santorio, fra Fulgenzio Micanzio e altri illustri. E mentre l'Italia nella servitù di Spagna perdeva armi, sostanze, ed are e patria e tutto, anche la memoria, in questo estremo lembo della penisola si rifugiavano come a sicuro porto gli animi, nei quali vibrava tutto ciò che è più eccelso e nobile nella natura umana. Mentre il pensiero italiano andava oscurandosi, nella casa tranquilla del Morosini si raccoglievano uomini, i cui nomi ricordano quanta parte di sapere per essi si innovasse nel mondo.

E mentre la letteratura, vuota di concetti e di passioni, si riduceva a un giuoco di forme, a una pazza ridda di metafore, nelle limpide notti veneziane Galileo affissava le stelle, e le stelle mormoravano alle orecchie dell'uomo i segreti del cielo.

LA VITA ITALIANA NEL SEICENTO

II.

LETTERATURA.

La battaglia di Lepanto e la poesia politica Guido Mazzoni

Il pensiero italiano nel sec. XVII Giovanni Bovio

Galileo: sua vita e suo pensiero Isidoro Del Lungo

Giambattista Marini Enrico Panzacchi

Alessandro Tassoni Olindo Guerrini

MILANO Fratelli Treves, Editori 1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA Riservati tutti i diritti. Tip. Fratelli Treves.

LA BATTAGLIA DI LEPANTO E LA POESIA POLITICA NEL SECOLO XVI

CONFERENZA DI Guido Mazzoni.

Signore e signori,

I germi della poesia sono come quelli de' fiori, che il vento leva su in alto e lascia ricadere qua e là, dove vanno vanno: de' fiori e della poesia i germi non mancano mai, ma spesso cadono dove non troveranno terriccio ed acqua ed aria quanto basti: i più non attecchiscono neppure; pochi crescono sì, ma gracili e pallidi; delle migliaia uno solo riesce un bel fiore, gioia a vederlo. Un anno fa, quando ebbi l'onore di parlarvi sulla lirica del secolo decimosesto, anche a costo d'incappare nella censura d'irriverente dispregiatore, dovei mostrare come quella lirica fu generalmente, con le sue tante eleganze di stile e di suono, vuota e fredda: parlandovi quest'anno della poesia politica in quel secolo stesso, non mi sarà dato mutare, valga quel che può valere, il mio giudizio. Ma voi rammenterete forse, perchè un anno passa presto, che dal coro delle voci artificiosamente educate a cantare tediose melodie, ne distinguemmo alcune poche, fresche o robuste, che cantarono per conto proprio di dolore e d'amore, della patria e di Dio; rammenterete forse che io chiusi la mia lettura con le strofette in lode dei Venzonesi perchè seppero nel 1509 ricacciare indietro dalla Chiusa i Tedeschi del duca di Brunswick; porgendo loro le munizioni, durante la battaglia, una gentildonna che fuse a tale uopo, come ebbe poi a fare pel Perseo il Cellini, le scodelle di stagno delle sue cucine. Fiore di campo, quelle strofette; pur mi valsero, con qualche altro esempio, ad attestare che talvolta la poesia proruppe dai fatti nel verso. E così ci accadrà oggi, di non poter vantare capilavori, e di dovere anzi riconoscere che troppa fu la sproporzione tra la bellezza della materia e gli artefici, tra la poesia de' fatti e quella de' versi: nondimeno, oltre l'utile che si ha sempre dal vedere in che modo l'arte rispecchiò la vita, alcun che di meglio che mediocre, sia pur poco, io confido non sarà per mancarci.

I.

Torniamo, per prima cosa, alla storia italiana del secolo decimosesto, non già a studiarla da scienziati nella sua corrente larga e profonda, e neppure, da geografi descrittori, nel suo corso lungo e vario, ma come viaggiatori che a diporto ne ammirino questa o quella veduta ne' luoghi più belli. E qui, poi che me la sono assunta, ho da far subito la parte pedantesca del cicerone, avvertendovi che non dovete aspettarvi più di quanto il nostro cammino ci possa dare; il che vuol dire che non potremo considerare come materia poetica buona pe' contemporanei tutto quel pittoresco e direi bizzarro che oggi appare a noi ne' costumi, nel linguaggio, nelle idee stesse talvolta, di tre e quattro secoli fa. Pittoresco e bizzarro soltanto perchè lontano: mero effetto di prospettiva. Nulla, per ciò, che possa dilettar noi, per descrizione ricca e vivace di cose aliene dalle solite che abbiamo intorno, come, ad esempio, ci diletta La leggenda de' secoli di Victor Hugo. Apriamola a caso. “Quando passa il reggimento degli Alabardieri, l'aquila dalle due teste, l'aquila dall'artiglio rapace, l'aquila d'Austria, dice: Ecco il reggimento de' miei alabardieri che si fa innanzi superbo. I pennacchi loro fanno accorrere a' balconi le belle: ed essi se ne vanno tutti d'un pezzo, protendendo la punta delle ghette, d'un passo sì preciso, senza mai ritardarlo o affrettarlo, che par di vedere tante forbici che si aprano e che si chiudano. Ed oh che bella musica, calda e soldatesca! le trombe rivibrano dal suolo; le risate orgogliose trionfanti che il soldato è costretto a soffocare in cuor suo quando marcia, muto, compresso nelle file, ne sfuggono e si liberan su da' campanellini metallici del cappello cinese; rumoreggia il tamburo con fasto orientale, e mette un fremito sonoro dalla fascia d'ottone sì che par di sentire nella sua voce chiara e gaia tintinnare allegramente gli zecchini della paga. La fanfara si spande in un fruscìo di svolazzi.„ Voi li avete già riconosciuti: è la guardia imperiale degli Svizzeri, il reggimento del barone Madruzzo, i nipoti di quelli che cent'anni prima combatterono a Marignano; ma a nessuno nel 1515, dopo Marignano, poteva venire in mente di descrivere in versi gli avi, e a nessuno nel 1615 i nepoti, come la Leggenda de' secoli, appunto perchè leggenda, ha fatto con la sua baldanza mirabile. Gli Svizzeri allora non erano un pretesto a sfoggiare colori ed armonie imitative! Per contrario, quel che importava a' poeti del Cinquecento, quando rimavano di politica, non corrisponde più, o rare volte, al sentimento nostro: amavano e odiavano, benedicevano e maledicevano uomini e avvenimenti, che a noi sono ormai soltanto nomi e date storiche, se pur ce ne rammentiamo o se per virtù di ricerche erudite riusciamo, dove essi non fecero che accennare, a veder chiaro. La poesia politica d'ogni tempo ha pertanto in sè una doppia ragione di non piacere ai posteri; i quali sono indotti a chiederle ciò che essa non può dare, e si rifiutano dal sentire ciò che essa desiderò far sentire. Soltanto l'eccellenza dell'arte è balsamo che mantiene, se non la vita, le apparenze della vita; se non la storia, è il monumento della storia; ma, per l'appunto, i grandi poeti non amano di solito mischiarsi tra i confratelli minori, pronti sempre a inneggiare quando sperano che l'occasione esterna dia ai versi loro la voga che chiederebbero invano all'intimo pregio.

Non ci indugiamo, detto questo, in altre considerazioni che facilmente se ne dedurrebbero, e guardiamo la storia. La quale ripensata nella successione inevitabile delle cause e degli effetti (quale è di rado indovinata da' presenti, ed appare invece palese ai posteri) è tutta un'alta materia poetica; ma i contemporanei non possono neppur ripensarla, perchè la vivono. Guardiamola, dunque, soltanto in quello che a loro stessi dovè sembrare singolarmente poetico, o poteva. Comincia il secolo, e quasi subito, nel settembre 1502, Baiardo, il cavaliere senza nè macchia nè paura, combatte a Trani un torneo d'undici contro undici, Francesi e Spagnoli, e rimasto con un compagno solo tien testa fino a sera contro sette avversarii; l'anno dopo, nel febbraio, a Barletta son tredici contro tredici, Italiani e Francesi, e vincono i nostri; Luigi XII di Francia entra a Milano nel 1509 tra più di mille cavalieri, coperti sopra le armi d'un saione di broccato d'oro, egli tutto di bianco; passano tre anni, e i soldati francesi gavazzano nella magnanima Brescia, che si è difesa, com'ella sa, disperatamente, e per castigo se ne spartiscono a elmi pieni l'oro e le gemme; Baiardo, che vi è rimasto ferito, si fa confortare la convalescenza da letture e da canzoni sul liuto, e nell'accomiatarsi largheggia alle giovinette che nel compiacquero, i ducati d'oro offerti a lui dalla gentildonna onde era stato ricovrato, in premio ch'ei l'avesse salvata dalle ingiurie del sacco; a Marignano, Francesco I gli s'inginocchia dinanzi e vuole esserne armato cavaliere, ed egli trae la spada, gli batte tre colpi sulla spalla, lo consacra cavaliere, esclama: “Oh spada mia ben avventurata, poi che hai dato l'ordine di cavalleria a sì bello e sì possente signore! certo ch'io ti avrò come reliquia, nè più t'impugnerò se non contro Turchi, Saracini e Mori!„; ferito a morte nel passo della Sesia, sentendosi compiangere dal duca di Borbone, lo rampogna: “Non io, signore, devo esser compianto, che muoio da uomo dabbene; voi compiango, che portate le armi contro il principe, la patria, il giuramento„; re Francesco, a Pavia, ferito nel volto e nella mano, e scavalcato, si arrende al vicerè, da cui in atto reverente è accettato prigione in nome dell'imperatore, e subito scrive a sua madre: “Tutto è perduto fuor che l'onore e la vita ch'è salva„; e il successore di lui, Enrico II, tosto che sale sul trono, invia a quell'imperatore il primo araldo del Reame, che gl'ingiunga di recarsi in Francia, a giorno e luogo fissato, per adempiervi gli officii di Pari di Francia, come conte di Fiandra ch'egli era, al che Carlo V risponde, vi si troverebbe con cinquantamila uomini a fare il dover suo. Ma questi, può dirsi, son atti di persone, non pubblici fatti: certo è, a ogni modo, che furono in sè stessi poesia e la mostrano viva. Che se diamo un'occhiata ai fatti pubblici, ecco la ribellione di Genova nel 1507 contro i Francesi, e il re che v'entra trionfalmente, e innanzi alla porta sguaina la spada, nel vanto: “Genova la superba, io t'ho domata con le armi!„ e le seimila donzelle che gli si fanno incontro, vestite di bianco e con l'olivo in mano, a gridargli pietà, e le forche piantate per ogni dove; ecco la difesa di Padova nel 1509, e il bastione donde Citolo da Perugia ributta gl'imperiali deridendoli con la gatta famosa per la canzone che, un anno fa, vi citai; ecco nel '11 la breccia della Mirandola per la quale entra il vecchio pontefice Giulio II; ecco nel '12, la battaglia di Ravenna, innanzi alla quale monsignor Gastone di Foix manda a don Raimondo di Cardona “lo insanguinato guanto della battaglia, che fu da lui ricevuto con lietissimo volto„, e dove don Raimondo mantiene con suo danno la promessa fatta ai Francesi di non cominciare la zuffa fin che non avessero passato tutti quanti il fiume; nel '13 Marignano, la battaglia de' giganti, per tre giorni e tre notti, in cui re Francesco assetato attinge acqua ch'è più sangue che acqua; e gli orrori, e gli strazii del sacco di Roma, nel '27; e il duello del '29, in cospetto a tutta Firenze assediata, combattuto “con una spada e un guanto di maglia corto nella mano della spada, senza niente in testa, arme veramente onorata e da gentiluomo„ come scrive il Varchi; e poi nel '55 le gentildonne di Siena che, partendosi in tre schiere distinte ciascuna d'un suo colore, aiutano le difese e cantano nel lavoro le lodi di Siena e di Francia. La Francia, che proprio allora aveva in Luisa Labé uno strano soldato, le capitaine Loys; fuggita a sedici anni di casa, e andata all'assedio di Perpignano, dove ella che sapeva sonare di liuto, e le dolcezze dell'italiano e dello spagnolo, combattè bravamente a lancia e spada. “Chi mi avesse veduta allora, mi avrebbe tolta per Bradamante o per l'alta Marfisa, la sorella di Ruggiero.„ Così l'epopea cavalleresca viveva ancora, pure in quelle che potrebbero parere non altro che fantasie di cantastorie.

II.

Or mentre in questi e in altrettali uomini e casi tanto porgeva la vita all'arte, l'arte poco e male se ne giovò, salvo qua e là quasi per eccezione. La poesia politica, seguendo le sorti della lirica amatoria e religiosa, nei metri, nello stile, negl'intendimenti e ne' criterii estetici, perorò in canzoni, meditò o invocò in sonetti, discorse ne' capitoli; seguendo le forme del poema romanzesco, narrò con l'ottava rima, sì da comporre nelle Guerre orrende d'Italia con varii poemetti una cronaca sterminata; senza trasmutare quasi mai in immagini il fatto bruto, in accenti vivaci il sentimento. Ciò pei colti poeti: gli umili rimatori del popolo fecero meglio, chè incolti come erano riuscirono più schietti, e almeno ci conservarono alcun che del reale; ma l'arte che sovrabbondava a quelli, sì da nuocere agli effetti, era troppo scarsa e confusa in questi, e impediva una compiuta ed efficace espressione. Non ci meraviglieremo quindi della messe che offrì alla poesia la politica del secolo decimosesto; paglia molta, grano poco.

Viva viva el gran leone

Che con piede in mar si bagna,

E con l'ale la campagna

Cuopre e tien sotto l'ongione!

cantavano i Veneziani del loro Leon di San Marco; ma se le ali non furono tarpate dalla lega di Cambrai, gli unghioni persero, per essa lega, la forza d'un tempo: e Marin Sanuto, il grande diarista che raccoglieva a mano a mano i fatti e le canzoni che importassero alla città sua, doveva anche trascrivere il Lamento e desperatione del populo venitiano, e il Lamento de' Veneciani, su cui un'incisione in legno mostrava una barca in mare, e il leone dentro, senza nessuno che la guidasse e governasse, “et è in pericolo di anegarsi.„ I Lamenti di Venezia ebbero a crescere ancora: e dentro vi crebbero di nuove sciagure le enumerazioni che erano tanta parte di sì fatto genere, da cui il popolo si dilettava attingere le notizie politiche, cantate su per le piazze con l'accompagnamento del violino: enumerazioni per antitesi tra le vittorie e le conquiste d'un tempo e le disfatte e le perdite presenti. Onde un Messer Simeone Litta faceva che la Serenissima disperata minacciasse di volgersi al Turco, da che i Cristiani la tormentavano tanto:

Su, Venetia sconsolata,

Posta in pianto e gran dolore:

Franza e Spagna e Imperatore

M'àno tutta disolata.

Eppure se è chiaro oggi che la Repubblica ebbe dalla lega irreparabili danni, tale fu il senno de' suoi reggitori ch'ella non solo durò ancora, e con onore, più secoli, ma parve a molti, per tutto quel secolo decimosesto, fosse in lei la speranza più certa delle fortune d'Italia, il baluardo più saldo della sua indipendenza. In fin de' conti, era uno Stato italiano, non soggetto a stranieri, gagliardo ancora, se poteva, dopo Agnadello, contrastare alle insidie spagnole in terraferma e alle violenze del Turco in Oriente. Prima di volgersi a casa Savoia, come fecero sul principiare del secolo seguente, quando fu chiaro che Venezia reggersi poteva, ma non arrischiarsi a ingrandimenti, era naturale che i cuori italiani si volgessero a lei. E qui troviamo tra gli altri un poeta grave, l'autore d'uno de' più tediosi poemi epici che ebbe il Cinquecento, l'Olivieri (Dio ne scampi dalla sua Alamanna!) che, pur ammirando Carlo V, invocava Venezia liberatrice di tutta Italia:

Oh secol d'or s'ella 'l tuo scettro attinge!

Canzon, vedrai nel mare

Ch'Histria e la Marca bagna, una Cittade

Rara al mondo di forza e di beltade.

Quivi ti ferma e grida

Che, fra voglie sì avare,

Esser d'Italia guida

Non nieghi: ond'ella in pace

Goda 'l terren ch'a tutto 'l mondo piace.

La canzone dell'Olivieri è del 1551; e già un trent'anni innanzi, gl'imperiali e i pontificii avevano ammonita la Repubblica a staccarsi da' Francesi e ad accostarsi all'Imperatore “perchè così si assicurerebbe in perpetuo, e l'Italia sarebbe degli Italiani„; e, d'altra parte, il re di Francia si era accusato reo dell'aver turbato Italia “per la quale sarebbe guerra sempre, finchè non fosse posseduta dagli Italiani„: belle parole che i fatti smentivano con le prepotenze d'ogni anno.

Che cosa infatti volessero gli stranieri, imperiali o regii che si fossero, sapevano ormai nel 1551 Brescia, Genova, Prato, Roma, Firenze: ed eccovi la Barzelletta nova de Bressa e la Canzone de Prato, del '12, il Lamento di Genova et il doloroso pianto d'Italia, del '22; il Pianto d'Italia e delle città saccheggiate in quella, dell'anno stesso; La presa e lamento di Roma e la Romae lamentatio; il Lamento d'Italia, del '27; il Lamento di Firenze, del '29; e via dicendo; chè nè io vorrei farvi nè voi tollerereste una bibliografia. Notevoli e qua e là curiosi documenti per la storia; ma di poesia non v'è lume quasi mai. Que' cantastorie popolari hanno anch'essi, come i loro confratelli più nobili, uno stampo, e tutto battono su quello; presentazione del personaggio che si duole, enumerazione de' beni che costui si godeva un tempo, enumerazione de' mali che l'opprimono ora: chè se invece di lamenti, fanno, come le chiamavano, canzonette o barzellette, datosi un ritornello di viva, viva! o di morte, morte! vi lavorano intorno le strofe di esaltazione o di minaccia, come dipanassero sopra un rocchetto un'arruffata matassa di rime. Se poi narrano, non pensano pur da lontano a rinfrescare i moduli consueti al vecchio poema cavalleresco: invocato Dio o la Vergine, o il santo della città, espresso l'argomento, tiran giù ottave su ottave in un racconto che non ha di poesia più che la veste del ritmo, ed è veste che va in brandelli. Non chiedete a quella povera gente che si guadagna il pane facendo da gazzettiere ambulante, come allora si usava, non chiedete immagini vive, non chiedete accenti commossi: quando vi abbiano dato due o tre paragoni con gli eroi più famosi del ciclo di Carlo o di Artù, quando vi abbiano schidionata una serie di ahi o di oh per otto o sedici versi che tutti comincino ad un modo, han toccato l'eccellenza dell'arte loro, l'estremo di lor possa. Per ciò se ci capita innanzi un rimatore quale, ad esempio, Baldassarre Olimpo, l'ingegnoso giovane da Sassoferrato, come lo dicevano, ben venga l'autore della Brunettina attribuita nientemeno che ad Angelo Poliziano, e di tanti arguti strambotti. Anche egli fa una litania di Piangi Italia, Piangi Genova, Piangi Brescia, e Prato, e Fabriano e Fermo, e più oltre; e dal volgo attinge, per compiacergli, più di quel che possa riuscire gradito a gusti meno incolti; ma almeno leva alto la voce e parla con efficace chiarezza:

Italia bella, oimè, chi te divora,

Chi t'assassina, o Dio! chi ti svergogna,

Chi ti disface e manda a la mal'ora?

Unitevi, signor, perchè bisogna,

E discacciate tutti i tramontani,

Che lascian sempre a voi danno e vergogna.

Pigliate i passi, i monti, i luoghi strani,

Fate di queste genti un carnerile,

Di lor empiendo valle e pozzi e piani.

Essi son allevati nel porcile,

E vengono a robbar in casa vostra

Dispreggiando l'Italia signorile.

Dove non è soltanto l'amore della patria, ma il ribrezzo, a così dire, dell'italiano ingentilito dal Rinascimento, per quei barbari che si eran fatti signori di casa sua e vi gozzovigliavano bestialmente.

III.

Questo ribrezzo, misto e accresciuto d'orrore, appare più manifesto a chi legga i racconti di Roma, la città nostra, la città santa, messa a ruba da' Tedeschi luterani e dagli Spagnuoli cristiani che fecero peggio di loro. Eppure le terzine della Romae lamentatio, le ottave della Presa e lamento di Roma, il Successo di Pasquino, che parlò allora sul serio, e gli altri componimenti di quella occasione, narrando, piangendo, invocando, non toccano l'animo: non mai poeta ebbe materia più pietosa di quella, e non fu mai meglio palese che la poesia delle cose non basta di per sè a far poesia d'arte, quando l'artefice non l'accolga nella mente sua, non la scaldi sì dà liquefarla in massa rovente e fumante, non la getti allora entro le forme pure dello stile e del metro, e poi non vi lavori attorno a polirla con l'opera paziente del martello e della lima. L'assalto alle mura, predetto da un predecessore di David Lazzaretti “uno di vilissima condizione del contado di Siena, d'età matura, di pelo rosso, nudo e macilento„, che a forza di profezie s'era fatto mettere in carcere; la morte del Borbone; l'irrompere de' Cesarei nel grido — Spagna Spagna, Impero Impero, ammazza, ammazza! —; il ripararsi tumultuoso del papa e de' cardinali in Castel Sant'Angelo; uno, più morto che vivo, cacciatovi dentro per una finestra, un altro tiratovi su con funi in un corbello; gl'incendii, il sacco, gli strazii per tutta la città; vivono anche oggi in qualche pagina del Cellini, del racconto di Luigi Guicciardini, in altre scritture di contemporanei, e fanno raccapricciare. La efferatezza umana, nella sede maggiore della religione di Cristo, cristiani contro cristiani, trionfò. Ma se dagli storici si passa a' poeti, per orrore che i casi abbiano in sè, è difficile non sorridere:

Fu ucciso un sacerdote, ahi gente rea!

Per non voler a un asino vestito

Dar l'ostia sacra che all'altare avea.

Un altro fraticel, ch'era fuggito,

Gli fur l'orecchie tronche e tronco il naso;

Poi fatto gli è mangiar caldo arrostito.

Ahi sorte rea, ahi sfortunato caso!

Soltanto il Berni e il Guidiccioni piansero Roma degnamente. Il Berni, che anche nella satira politica è miglior poeta che nelle buffonerie, sia che vituperi papa Adriano VI con tanta veemenza, sia che derida papa Clemente VII con tanta malizia, rammentò nel rifacimento dell' Orlando come “allo spagnolo, al tedesco furore, a quel d'Italia in preda Iddio la dette„; il Guidiccioni ne meditò con gravità accorata le vicende dal sommo imperio d'un tempo all'estremo della presente miseria:

Questa, che tanti secoli già stese

Sì lungi il braccio del felice impero,

Donna delle province, e di quel vero

Valor, che 'n cima d'alta gloria ascese,

Giace vil serva...............

Gli altri tutti riuscirono troppo inferiori all'impresa; e, certo, non cercheremo poesia, ma soltanto un gioco, che non ha il merito dell'arguzia e neppure quello della novità, nel Credo composto allora, intercalando le frasi del Credo latino, in terzine d'endecasillabi, a mo' di serventese. Dal Medio Evo in poi, le orazioni del popolo nostro furono cucinate a quel modo in tutte le salse; e il Pater noster, da che i Francesi calarono in Italia sulla fine del Quattrocento, a quando i Milanesi cacciarono nel 1848 gli Austriaci, seguì in sì fatte parafrasi tutti i nostri dolori:

Vègnino a casa nostra

Cum gran manaze

Che paren lupi rapaze,

Et ni mangiano

panem nostrum.

Se questa fosse anchora

Una volta in septimana,

Ne parerebe cosa vana.

Ma questo è

quotidianum!

Così ne' primi del Cinquecento si lagnavano i depredati dai Francesi; e un po' meglio in un'altra forma del genere stesso:

Quando lor vèneno in le terre nostre

Tanto pietosi et honesti se fano

Che pareno con soi officioli in mano

Santificetur.

Poi che in casa sono arrivati

Pareno orsi e leoni descadenati;

Biastemano como cani rinegati

Nomen tuum.

Poi subito comentiano a gridare:

“Baliate le claves del granare,

Et quella de la casa et del solare

Adveniat.

Fan poi de' nostri ben tal masaria,

Questa crudel et perfida genia,

Che in un giorno se consumaria

Regnum tuum.

Ma giova confortarci ripensando che, alla preghiera de' Veneziani nei primi decennii del Cinquecento:

Tutta l'Italia bella ha desipato

Questa gente crudel, acerba e dura:

Fa' che 'l tuo soccorso, o Dio increato,

Adveniat!

risponde quella italiana del 1848 esaudita:

Non ci lasciar cadere in tentazione

Ma rinforza in noi tutti e cuore e mente,

E vincerem nel dì della tenzone

Sicuramente:

Tu scampaci dal male e dai Tedeschi:

Deh salva l'infelice Lombardia

Dall'aulico consiglio e da Radetski,

E così sia.

I gerghi barbarici, di cui il Pater noster de' Lombardi ci ha dato un'eco, e che da Gian Giorgio Alione erano più per disteso rappresentati facendo parlare uno svizzero di quelli di Marignano:

My passer la montagne,

My mater Mont Cerviz,

My brusler la champagne,

My squarcer fior de liz,

My pigler San-Deniz,

My scacer Roy Francisque,

My voler jusqu'à Paris;

Tout spreke a la todisque;

questi gerghi, che anche qui in Firenze risonarono contro i Lanzi ne' canti carnascialeschi, si stringevano poi, Tedeschi e Spagnoli, intorno, alla città dove più pura suona la lingua d'Italia. Chi credesse di trovare nella poesia nostra, colta o incolta, un sospiro per la passione che Firenze sofferse, resterebbe deluso. Il Lamento di Fiorenza qual supplica la santità del papa ad unirsi con essa lei, con invocazione di tutte le potenze cristiane è una delle solite filastrocche d'invocazioni; e un altro poemetto, L'assedio di Fiorenza, non fa che spiegare in rima l'occasione per la quale si venne ai patti che lo seguono in prosa, con espresso rimando: “Come vedrete qui nei patti scritti.„ Se qualcuno disse alcun che di meno insulso, fu non in lode di Firenze eroica, sì in lode de' suoi conquistatori. E quando invece delle canzoni e dei capitoli d'arte pensata piacesse a noi ascoltare un umile popolano, un drappiere, Lorenzo de' Buonafedi, che pur dette un capitolo all'assedio, lo udiremmo lamentarsi soltanto del gran caro de' viveri e rallegrarsi che fosse cessato: è un pover uomo, costui, che, riflettendo alle paghe scroccate a danno del popolo, esclamava in versi: “Cosa da dargli un pugno in su quel muso!„; e non si peritava di confessare, quando furon chiesti ai cittadini gli ori e gli argenti “Io fui di quei che non v'andai altrimenti„, nè altro dell'assedio rammentò se non che in quella carestia “le veccie molle furno un buon boccone„.

E delli gatti non vo' ragionare;

E' topi, si toccava il ciel col dito.

Onde, ora che “d'ogni cosa per tutto, si trova — A tutte l'ore per ogni confino„ concludeva: “Viva il Settimo Clemente — Col nostro Duca ch'è di grande affare!„ Ma costui era un nemico de' Piagnoni: orbene, se si prenda L'assedio di Firenze, poema di Mambrino Roseo, che vi militò pe' Fiorentini, neppur là ci sarà dato trovare nulla che sorpassi una narrazione pedestre. Perfino la morte del Ferrucci vi è accennata senza un grido in cui si senta l'anima del poeta. Un grido di poesia nell'assedio vi fu; ma, gittandolo, Claudio Tolomei imprecò a Firenze ch'ei voleva distrutta, e così ne supplicava l'Orange:

Volta l'artiglieria tutta alla terra,

E fa' sentir le grida fin al cielo

Dell'uno e l'altro sesso insieme misto.

Cade Firenze, e il duca Alessandro la padroneggia con licenza ostentata: Lorenzino lo uccide ferocemente; e non manca Il pietoso lamento che fa in sè stesso Lorenzo Medici, maledicendo la colpa sua e volendo per forza riparare all'Inferno donde il diavolo lo respinge; e neppure manca Il lamento del duca Alessandro Medici, che dice addio, per filo e per segno, a tutti i parenti e gli amici, e a tutte le città e terre del suo bel ducato. Li daremmo tutt'e due volentieri que' capitoli, e più altri per giunta, in cambio della canzone che Biagio di Montluc, il forte campione di che la Francia soccorse Siena, attesta aver udito dalle gentildonne senesi in lode della patria sua, mentre lavoravano alle fortificazioni. “Vorrei per averlo e metterlo qui (scriveva poi ne' suoi Commentarii ) poter dare il miglior cavallo ch'io mi abbia„; noi, con que' Lamenti, ce la caveremmo a troppo miglior patto! Un contadino di Monsummano, che sapeva comporre ottave, ma scriverle no, inveì contro la minacciata repubblica, quasi a dispetto che altri ne avesse cantata nel '26 la vittoria su' Fiorentini con versi tanto migliori de' suoi: La guerra di Camollia è uno, infatti, de' migliori componimenti narrativi di quel tempo. Ma il valore non bastò, nel '55, contro gli imperiali e i ducali:

Se mi volto al Pastor Santo

Non ne vorrà udir novella,

Tal che fo dirotto pianto

Giorno e notte meschinella;

D'altro già non si favella

Che di Siena in ogni luoco;

Ognun grida sangue e fuoco

Contra me disconsolata.

Sono Siena sconsolata.

Quello di Piero Stronzi fu l'ultimo sforzo della libertà italiana: gli esuli fiorentini e senesi si spensero o si assoggettarono; e mancò con loro non dirò il sentimento nazionale, che era allora soltanto in un'aspirazione vaga di pochi, più letteraria che politica, ma l'amore all'indipendenza repubblicana, sopravissuto in Firenze e in Siena con nobile tenacia. Ciò spiega perchè scarseggino le poesie, che sembrerebbero dover abbondare, di nostalgia, di disperazione, in chi ripensava la terra natale. Due soli sonetti possono essere raffrontati con quello bellissimo in cui un trecentista, Pietro de' Faitinelli, prometteva a sè stesso, se mai gli avvenisse rientrare nella sua Lucca, di baciarne gli uomini per le vie, di baciarne le mura, piangendo d'allegrezza; e sono, l'uno di Galeazzo da Tamia, che esclamava:

Oh felice colui che un breve e colto

Terren tra voi possiede e gode un rivo,

Un pomo, un antro!....

l'altro, di Luigi Alamanni che, dopo sei anni d'esilio, si affacciava dalle Alpi nevose all'Italia, per rivederla almeno.

Il fato d'Italia era nel '55 ormai compiuto. Quando Siena stava per cadere, uscì un quadro allegorico in cui una figura di donna piangente, l'Italia, scrittovi sopra Italia fui, è circondata dai simboli delle varie sue regioni, insidiate o afferrate dai “fieri Oltramontani„, galli francesi, orsi tedeschi, veltri spagnoli: sola Venezia, in alto del quadro, resta intatta. E l'augurio che già vedemmo espresso dall'Olivieri torna qui in mente, e se ne intende meglio il valore, come rispondente all'ammirazione degli Italiani oppressi, per chi sapeva difendersi. Tanto piacque quella stampa, che nel 1617 la riprodussero; e il padre Lancellotti, grande encomiatore dell' Hoggidì a dispetto di tutto e di tutti, se ne arrabbiava, affermando che i tempi erano anche in ciò, come in tutto il resto, mutati in meglio. Ma, a dir vero,

..... il Turco crudel che d'hora in hora

Per la discordia de' principi adopra

Sempre a mio danno et quasi mi divora,

di che l'Italia si era doluta nel '54, aveva continuato, anche dopo Lepanto, a minacciarla, e i fieri Oltramontani, o le fiere che fossero, a dilacerarla.

IV.

Ai veltri spagnoli, come a supplizio inevitabile, l'Italia dopo il 1555 si adattò rassegnata; e per un trentennio, finchè non cominciò a sperare in Carlo Emanuele I di Savoia, non chiese rimedio per sè, lo chiese per tutta la cristianità. Il sentimento patriottico, compresso e vilipeso, taceva; parve si ridestasse il sentimento religioso: se non che la paura del Turco aveva in ciò più parte della fede. Correvano le fuste barbaresche il Mediterraneo dall'un capo all'altro; le navi del Sultano, reputate invincibili, predavano i possedimenti veneziani in Oriente, gli spagnoli in Italia. I terrori privati crescevano forza ai sospetti e ai lutti pubblici; nel '58 Cornelia, sorella di Torquato Tasso, sposa novella, poco mancò non cadesse nelle mani de' Turchi, sbarcati improvvisamente a Sorrento; e Bernardo, sapendo di questo sbarco, tremava che la figlia bellissima non fosse riserbata “per lo presente del Turco„: due anni dopo, alle Gerbe, l'armata cristiana fu distrutta tutta quanta; passati a fil di spada o fatti schiavi i soldati delle galee che non vi perirono. Una lega possente appariva sempre più necessaria a frenar l'audacia de' Mussulmani: se Venezia ne soffriva politicamente più che gli altri stati cristiani, neppur essi potevano senza timore scorgere il rapido avanzarsi in Europa di sì tremendo nemico; le terre del littorale, nelle isole e nelle provincie meridionali, invocavano d'esser salvate; sul pontefice ricadeva dolorosamente quel flagello della cristianità. Flagello meritato davvero. Chi crederebbe, se la parola del pontefice stesso non ne facesse fede, che i Cristiani nel combattere i Turchi, facevano su' confratelli loro peggio che i Turchi? “Non sono mancati taluni (dovè ammonire Pio V con minacce di scomunica) tanto immemori della cristiana fratellanza che, assaltando le terre dei Turchi mostri nemici, han fatti schiavi pur i Cristiani di quelle parti, e spogliatili dei loro beni e sostanze li hanno incatenati nelle galee, messi al remo, ed anche imposto il taglione per il loro riscatto. Donde è seguito che i fedeli redenti col sangue di Gesù Cristo, i quali avevano con le loro orazioni e voti affrettata la venuta e la vittoria de' Cristiani, tali cose abbian avuto a patire dai Cristiani istessi loro fratelli e vincitori, quali appena dai Turchi aspettar si potevano.„

L'assedio di Malta (occasione anch'esso a rime narrative e liriche), la cattura delle navi de' Veneziani fatta da Selim sultano, e la domanda di lui che gli avessero senz'altro a cedere il regno di Cipro, precipitarono le cose; onde, auspice Pio V, si fece la lega tra Venezia, Spagna, il pontefice, aderendovi i cavalieri di Malta, il granduca di Toscana, Genova, Savoia; lega voluta dal sentimento pubblico cristiano, voluta anche, fino a un certo segno, dalla utilità comune, ma patteggiata con sospetti e con gherminelle, mantenuta soltanto per la bontà del pontefice e per la longanimità che il loro tornaconto consigliava ai Veneziani. Re Filippo, che li desiderava deboli, voleva più far mostra di aiutarli che aiutarli in effetto; ed essi, difendere i loro possedimenti più che la croce di Cristo. Nondimeno, stretta la lega, parve all'Europa cristiana che stesse finalmente per armarsi quella crociata che ecclesiastici e poeti non si erano mai stancati d'invocare, dal Medio Evo in poi, interpretando la coscienza religiosa e l'aspirazione all'ideale che viveva nelle moltitudini fin da quando si erano mosse alla liberazione di Gerusalemme, e vi avean fatto pellegrinare Carlo Magno, e poi liberarla col suo Orlando per forza d'armi, e avean confuso co' paladini Goffredo di Buglione, sì da narrare che per amore della sorella del re pagano si fosse travestito e introdottosi nella corte di lei. Ma anche nelle forme più consuete che prese fra i popoli neolatini la leggenda di Carlo Magno, che altro erano quelle sue guerre contro i Saracini se non una grande e vittoriosa crociata occidentale? Quando si consideri da questo lato la storia del nostro poema romanzesco, si vedrà facilmente, per una ragione di più, come a torto i teorici lo volessero distinto dall'epico propriamente detto: il Boiardo e l'Ariosto non interpretarono meno del Tasso il sentimento nazionale e cristiano; tanto più, perchè essi scrivevano nelle memorie recenti delle guerre contro i Mussulmani di Spagna. Fattisi minacciosi i Mussulmani di Costantinopoli, e venuta la guerra ad Oriente, fu meglio opportuno allora che la Gerusalemme liberata rammentasse le imprese già combattute gloriosamente colà. Del resto, anche l'Ariosto che chiedeva ai re di Francia e Spagna:

Se Cristianissimi esser voi volete

E voi altri Cattolici nomati,

Perchè di Cristo gli uomini uccidete?

Perchè de' beni lor son dispogliati?

accennava loro ad Oriente più giusta occasione di adoprare l'armi:

Perchè Gerusalem non riavete,

Che tolto è stato a voi da rinnegati?

Perchè Costantinopoli e del mondo

La miglior parte occupa il Turco immondo?

Sì che anche innanzi venisse in mente al Muzio di cantare in un poema italiano la liberazione di Gerusalemme, e il Bargeo la cantasse in un poema latino, gli incitamenti ad una crociata orientale erano divenuti uno de' luoghi comuni della poesia nostra; e come l'autore del rozzo Mambriano aveva sperato che vi si mettesse un nuovo Carlo, Carlo VIII, così da Carlo V la invocava Danese Cattaneo, e da Luigi d'Este, per quando fosse divenuto pontefice, il Tasso giovinetto. Il quale, studente a Padova, si compiaceva nel Rinaldo descrivere il campo di Carlo Magno e raffrontarlo con le corti e i campi del tempo suo, per concludere:

Che meraviglia è poi se 'l rio serpente

Sotto cui Grecia omai languendo muore,

Orgoglioso minaccia a l'Occidente

E par che 'l prema già, che già il divore?

Ma dove or fuor di strada inutilmente

Mi torcon giusto sdegno, aspro dolore?

Dove, amor e pietà, mi trasportate?

Deh! torniamo a calcar le vie lasciate.

La promessa da lui fatta nel '62 al cardinale, di celebrarlo liberatore del Sepolcro di Cristo, riapparve nella Liberata per Alfonso

..... s'egli avverrà ch'in pace

Il buon popol di Cristo unqua si veda,

E con navi e cavalli al fero Trace

Cerchi ritôr la grande ingiusta preda;

scomparve dagli augurii della Conquistata al cardinale Aldobrandini. Ormai la battaglia di Lepanto aveva mostrato la potenza delle forze cristiane unite, ma anche la impossibilità del tenerle unite.

Non si erano ancora raccolte tutte le navi della Lega, che già i collegati tentavano l'uno il danno dell'altro con insidie diplomatiche, e si azzuffavano per le vie di Napoli con le armi. Or mentre s'indugiano essi in tal modo, Famagosta cade nelle mani de' Turchi, e Marcantonio Bragadino, dopo tormenti di più giorni, v'è scorticato vivo. Vanamente il Papa aveva pianto quando gli era toccato vedere con gli occhi proprii quali fossero gli animi ch'egli voleva concordi; le gelosie di Spagna contro Venezia, le puerili questioni di precedenza tra Malta e Savoia, l'invidia di Giannandrea Doria per Marcantonio Colonna, troppe altre passioni attraversano l'impresa. Indettato secretamente da re Filippo, il capo dell'armata, Don Giovanni d'Austria, per animoso che fosse e desideroso di gloria, cercava piuttosto lasciar indebolire Venezia che debellare quei che la indebolivano: onde consulte che duravano ore: “che io premetto a Vostra Signoria illustrissima (scriveva il Colonna a un cardinale) che da che si comincia a consultare, può un'armata nemica far duecento miglia.„ Peggio; chè Don Giovanni, una volta che si poteva cogliere insieme all'improvviso e sull'àncore tutta quanta l'armata turchesca, non volle, e fingendo fosse errore notturno de' timonieri, navigò e fe' navigare deviando dal nemico! E questo accadde dopo Lepanto, quando cioè un'altra vittoria avrebbe facilmente confermati all'Europa i frutti, non voluti cogliere subito, di quella grande giornata.

Quanta poesia sfolgora dai fatti del 7 ottobre 1571! Ma non la cerchiamo, per carità, ne' poemi epici che si sforzarono riverberarla; nel frammento che ci è rimasto della Vittoria Navale del Cattaneo, nella Cristiana Vittoria marittima di Francesco Bolognetti, nell' Austria di Ferrante Caraffa, nella Vittoria Navale di Francesco di Terranova, nella Vittoria Navale di Guidobaldo Benamati, nella Vittoria Navale di Ottavio Tronsarelli, e neppure negli episodii o accenni che ne trassero, con vani artificii, Curzio Gonzaga pel suo Fidamante, Girolamo Garopoli pel suo Carlo Magno, e, maggiore di tutti perchè poeta vero, Alonzo Ercilla, l'epico di Spagna, per La Araucana. Avvezzo come sono da più anni a farmi un diletto della noia degli studî eruditi, in fe' mia, signori, non ci ho retto; e potete fidarvi a me quando v'affermo che i poeti epici di Lepanto sono uno peggiore dell'altro. Valgono meglio i lirici? Ne ho numerati novantotto in latino, non computando trentacinque componimenti anonimi; e molti han più d'una poesia: de' verseggiatori italiani vi sono tre copiose raccolte a stampa, uscite tutt'e tre a Venezia nel 1572, e, non è molto, fu indicata un'altra miscellanea che ne offre a sè sola trentanove certi, ventidue anonimi, sei pseudonimi, e due poetesse per giunta. Altri non tarderanno a venir fuori: troppa grazia. Nè epici nè lirici (parrebbe impossibile, se non avessimo sott'occhio l'esempio de' giorni nostri, che pur furono così ricchi di elementi poetici nelle imprese del Risorgimento, e sì miseri poeti hanno dato a cantarle) nè epici nè lirici, in tanti che vi si misero, trasformarono in poesia di parole la poesia de' fatti. Il migliore tra quegli epici italiani è forse il Benamati; eppure non seppe trovar meglio che narrare, a proposito della battaglia, in ventinove libri, gli amori d'una donzella che va travestita da uomo a cercare tra le armi la morte per punirsi dell'avere ucciso, com'ella crede, l'amante suo: la battaglia è verseggiata negli ultimi tre: nè, secondo i moduli d'allora, manca l'arrivo dell'armata cristiana, per una diabolica tempesta, sulle spiaggie dove fioriscono i giardini di Venere. Il migliore tra quei lirici si direbbe dovesse essere Torquato Tasso; eppure nelle poche sue rime che più o meno direttamente accennano a Lepanto, ei riuscì, non che inferiore a sè stesso, inferiore ad altri. Insomma verseggiatori molti, troppi; poeti neppur uno. Anche qui chi volesse rivivere il fatto, non si volga a loro, sì agli storici contemporanei.

V.

Venivano la mattina del 7 ottobre 1751 per le placide acque di Lepanto a mischiarsi e urtarsi duegentotredici navi cristiane, da un lato, duegentottanta navi turche dall'altro: v'eran sopra ottantamila cristiani, ottantottomila turchi. “Venendo ad incontrarsi (scrive il Diedo) amendue l'armate sì spaventevoli, gli elmi lucidi e i corsaletti dei nostri, gli scudi d'acciaio come specchi, e l'altre arme lucenti, percosse da' raggi solari, che insieme con le spade nude forbite, allora tratte ad arte, e a studio vibrate, ripercotevano assai lontano nel viso di questo e di quello; non meno minacciavano i nimici, nè arrecavano loro minor paura, che arrecasse a' nostri maraviglia e diletto l'oro di tanti fanò e bandiere, molto risplendenti e riguardevoli assai per la varietà di mille vaghi e bei colori.„ Ed ecco un colpo di cannone dalla capitana de' Turchi; è il segno della sfida a Don Giovanni d'Austria e alla Lega; la capitana nostra risponde. E allora dagli alberi delle galee cristiane scendono le bandiere dei principi, e si alza, unico vessillo, su quella di Don Giovanni, il grande stendardo benedetto dal Papa pel giorno della battaglia; in campo di seta cremisina Cristo crocifisso: e comincia sulle galee, inginocchiandosi tutti, la confessione generale fatta da' cappuccini che assolvono sommariamente schiera per schiera, e taluno di que' padri arrampicarsi ne' cordami e cominciare di là conforti e incoramenti che proseguirono nel folto della mischia bociati di tra le palle fischianti a quelli che, sul ponte invaso dal nemico e più volte sbrattato a colpi di archibugio e di picche, combattevano ferocemente. Perchè ormai, arrancando di tutta lena sotto le sferzate continue degli aguzzini, gli schiavi han sospinte le navi innanzi innanzi, senza saper dove, aspettandosi di secondo in secondo l'urto orrendo nell'avversario, e forse l'ondata che irrompe dal fianco squarciato sottocoperta, e soffoca in bocca l'urlo della disperazione, e travolge giù nell'abisso.

Don Giovanni, quando ha visto che la battaglia non si può più evitare come le istruzioni secrete di Filippo I gli raccomandavano, dà libero sfogo all'impeto giovenile: si poteva finalmente menar le mani! e sulla piazza d'arme della sua galea balla sfrenatamente con due cavalieri una gagliarda. Le galeazze piantate innanzi all'armata cristiana come antemurali cannoneggiano lo sciame mussulmano che le avvolge e le oltrepassa: ormai il cozzo è di tutti contro tutti: i legni si aggrappano l'uno all'altro, e se ne forma come una spianata su cui passano e ripassano confusamente vincitori e inseguiti; e i ridotti barricati vomitan fuoco, piove fuoco dagli alberi. Fu attorno alla reale sì folta la mischia che i tanti alti turbanti, narra qui il Diedo, parevano un turbante solo. Agostino Barbarigo, che per farsi meglio sentire aveva gittata la rotella con cui si copriva il volto, e a chi ne lo rimproverava, rispose: “Meglio esser ferito che non esser udito!„, colto da una freccia in un occhio, cade; ma si rialza, dà comandi ancora; e poi scende nella cabina, da sè stesso si strappa il ferro dall'occhio, ringrazia Dio e muore. Un cappuccino, a veder que' be' colpi non regge; si arma di un roncone, e spaventando i nemici non men con quello che con l'aspetto feroce (tra il cappuccio e la barba lunga dovean luccicargli gli occhi come carboni) sette ne sconcia e fa che altri si buttino in mare. A tanto furore si giunse e così cieco, che in una galea turchesca, mancando ormai ogni munizione di guerra, diedero di piglio perfino a' cedri e agli aranci de' quali avevano gran copia, e cercavano con quelli offendere i nostri; “alcuni de' quali per beffa e per ischerno, rimandavano contro loro detti cedri e aranci: ed era venuto a tanto in molti luoghi verso il fin del conflitto quella zuffa, che il vederla era anzi cosa da ridere che no.„

In sei ore la potenza del Sultano sul mare fu distrutta; ventimila de' suoi periti, cinquemila fatti prigioni; dodicimila cristiani liberati; morti de' nostri tremila, e perdute diciassette galere, ma centosette del nemico. Ed ecco salire sulla capitana di Don Giovanni l'ammiraglio di Venezia, il vecchio Sebastiano Venier, che era con lui da più tempo in aspra contesa, e il giovane precipitarglisi fra le braccia; ecco presentarsi il grave Marc'Antonio Colonna, e tutti e tre baciarsi in fronte. Non vo' togliervi il piacere che ha dato a me una frase del Guglielmotti, storico eloquente di quella giornata: “Il viril romano, il giovanetto spagnuolo, e il vecchio veneziano, espressero con quel bacio la letizia di tutte le età.„ Insieme si recarono il giorno dopo a rivedere il campo della battaglia che pur da lontano si scorgeva per l'acqua stranamente colorata, dove ardevano due galere abbandonate, e le onde trabalzavano rottami e cadaveri, sospingendoli alla spiaggia. Quivi per lungo tratto non si vedevano che teste rase di Turchi.

VI.

Cantiam cantiamo il fortunato giorno

De le nostre vittorie alme e felici

esclamò un de' nostri poeti, e un altro subito:

Suonin le cetre, gli organi, e ogni coro,

Canti il basso, il tenor, l'alto e il soprano;

Rida il pianto, il dolor si faccia sano,

Et l'Adice ci innondi arene d'oro.

Come furono esauditi, ho detto sopra: non solo le cetre e gli organi veneziani ma le chitarre e gli organetti bresciani, bergamaschi, pavani e friulani gareggiarono fra loro a chi facesse più chiasso. I poeti dialettali, toccando le note che a noi suonan burlesche, non riescono, almeno, tediosi. Chi legga il Pianto et Lamento de Selim, che per disperazione dà a Maometto del “busaro, iniquo e can„ e si vuol convertire al Cristianesimo, se non ammira il poeta, sente qualcuna delle risate sarcastiche, che a Venezia doveron prorompere quando, undici giorni dopo la battaglia, fu vista entrare nel bacino di San Marco la galea che ne recava la novella, sparando a festa le artiglierie e strascicando per l'acqua le conquistate bandiere. — Il leone ha graffiato sul vivo questa volta! Selim si pensava venir qua a “piar cappe longhe e tuor melloni„: viva San Marco! — Invece se, lasciando da parte con gli altri minori e minimi il Trionfo di Cristo di Celio Magno, che fu più che altro un pretesto a sfoggiare apparati, vi ponete innanzi la canzone di uno dei migliori che poetassero allora, Giovanni Andrea dell'Anguillara, e cominciate:

Apollo, se gioir unqua s'udio

Pe' dolci accenti tuoi Cinto e Parnaso,

Esci del sacro vaso

Di Teti, e scopri il tuo bel carro d'oro.

E cantando vien poi verso l'occaso

U' n'invita Talia Polimnia e Clio,

Acciò del vero Dio

Gli eletti orniam di trionfale alloro

c'è il caso che gettiate via il libro press'a poco come fece l'Alfieri quando s'imbattè in quel primo “conciosiafossecosachè„ di Monsignor Della Casa. L'autunno del 1571 diede (e parve presagio miracoloso) non solo rose in copia come se fosse estate, “ma i pomi, le ciriegie, le pera, gli armillini ed i prugni„: a dar fiori di poesia ci vogliono miracoli troppo maggiori di una stagione ben temprata di caldo! Ciò che noi chiamiamo a torto il secentismo, era già allora in pieno vigore. Dopo il Paruta che In laude de' morti nella vittoriosa battaglia contro a' Turchi rinnovò l'eloquenza di Pericle pe' morti del Peloponneso, uno di quei poeti, Luigi Groto, ebbe il coraggio di affermare, innanzi al Doge e alla Signoria, che egli aveva profetizzato il successo, traendolo dai penetrali della cabala, coll'ordinare le lettere della data MILLE CINQUECENTO SETTANTA UNO così: IL LEON VENETO VA A LE TESTE OTTOMANE E VINCE QUEI CANI. E chiedeva costui: “E perchè crediam noi che le piove sian sute questa primavera e questa state sì rare? Non per altro, se non perchè essendo queste un pianto dell'aria, ella, di tanta vittoria presaga, non potea piangere.„ Pensate ora di che fosse capace costui, in versi!

Le feste pel ritorno de' collegati furono infinite: il Colonna ebbe a Roma gli antichi onori del trionfo, di che Spagna si adombrò. Ma i soldati, licenziati, come allora si usava, prima di essere ricondotti in patria, furono costretti per giungervi a vendere le armi e a mendicare; Michele Cervantes, che a Lepanto era rimasto storpio d'una mano, altro guadagno non ne ebbe che quella viva testimonianza del suo valore. E poi già troppo si era vinto; Venezia ripigliava le forze; meglio era lasciarla ancora alle prese col Turco.

E il secolo decimosesto, che a Lepanto avea dato l'estrema prova del valore medievale, la rinnegò. Quanto esso aveva avuto di poesia negli avvenimenti, può infatti considerarsi come una conseguenza di tradizioni, di costumanze, di affetti medievali: i poeti educati alla scuola retorica del Rinascimento, non erano forse più capaci di raccogliere dalla storia la poesia, il che vuol dire interpretare e rappresentare la storia nella sua rispondenza col sentimento umano; e forse è in ciò la spiegazione del perchè que' casi epici non trovarono a celebrarli la voce che meritavano. Acuto scrutatore delle ragioni de' fatti, non poteva il Machiavelli trasformarli in fantasmi poetici ne' suoi Decennali: i lirici d'arte, che cantavano della patria a diletto, non potevano esserne la voce viva. Quando, ad esempio, il Coppetta esortava i signori d'Italia a unirsi insieme per difenderla, non pensava tanto al bene di lei quanto alle lodi che avrebbe da Guidobaldo d'Urbino, capitano generale della Chiesa, cui egli si volgeva. L'Italia, per bocca della Notte di Michelangelo, diceva allora:

Grato m'è il sonno....

Infin che il danno e la vergogna dura;

Non veder, non sentir m'è gran ventura.

L'anima italiana aveva bisogno di due secoli di riposo per risvegliarsi ancora gagliarda.

IL PENSIERO ITALIANO NEL SECOLO XVII

CONFERENZA DI Giovanni Bovio.

I.

Ad Andrea Cesalpino medico del Papa non fu dato a leggere in Roma l' Erbario del Brunfelsius senza licenza dell'inquisitore e senza aggiungervi deletis delendis. Oggi a Roma sono convenuti seimila medici da tutte le parti del mondo a parlare — senza licenza — delle leggi della materia e della vita. Un congresso di tutta questa dottrina mondiale in Roma era più che un desiderio una previsione del secolo XVII e un filosofo di quel tempo lo prefiniva quasi Concilio dell'umanità a correzione del Concilio di Trento.

Il presagio di quel filosofo, sepolto vivo per 27 anni, è adempito, proprio per opera di quelli che egli deputava a migliorare la razza umana. È forse il solo vaticinio adempito della filosofia di quel secolo?

Delirava quel secolo — scrisse Alfieri. — Delirava come lui, o signori, e sono i grandi delirii che rinnovano la storia, spoltriscono il pensiero e preparano l'avvenire. Se voi ripetete con Bruno che l' Uno nel quale coincidono i contrarî non è trascendente, ma immanente nella natura, voi delirate. E delirate, se, allogandovi nel tempo e nella sede di Galilei, affermate che più mondi rotano e la terra con quelli. E così circola — delira Sarpi — il sangue intorno al cuore. E così tutta l'umanità circolerà intorno ad una mente, ad un pensiero solo — questo era il delirio del filosofo calabrese indicatore di un Concilio pensante. Tu, o Vittorio, posando austero in Santa Croce, t'inspiravi ne' magnanimi delirî tu, e delirando evocavi tempi che ti parevano passati e non erano stati mai. Vedesti vacillare la libertà da te eretta sopra un trofeo di pugnali, e ti accorgesti che c'era stato un delirio più chiaroveggente del tuo — quello che l'avea fondata sulla scienza.

Tal era il pensiero dominante del secolo XVII. — Fissiamolo ben chiaro; fissiamolo fuori degli aneddoti e degli episodî, prendendo la massa della produzione scientifica, letteraria e politica di quel tempo, interrogando le istorie, scrutando attraverso i tanti dissidî e contraddizioni l'idea che vince, quella cioè che sopravvive e si trasmette.

Par troppo per una conferenza? Il tema è vostro, ed è segno che vi basta l'animo di decuplicare il pensiero in ogni parola e di preoccupare con la mente i sottintesi.

II.

Entriamo in questo secolo dando uno sguardo alla produzione politica. E chi primamente incontriamo in questa Firenze che dettò con Machiavelli le regole dello Stato e con Guicciardini le regole dell' io, che in mezzo alla decadenza comune cerca in sè rifugio e indipendenza? Incontriamo qui nel 1603 un Lorenzo Ducci che c'insegna l'arte di farci cortigiani, indicandoci — modello inaspettato — Sejano.

Tutta la scienza della viltà vi è messa innanzi, perchè questo cortigiano del Ducci non si propone a suo fine lo Stato o il Principe ma l' io; e questo non è l' io di Guicciardini — un ultimo rifugio alla indipendenza — ma è l'estratto del servilismo utilitario, secondo il quale si può essere cittadino disonorato purchè si resti avveduto cortigiano.

E poichè Ducci ha da Firenze capovolto Tacito per presentarvi un Sejano rifatto, perchè venti anni dopo non sarà lecito da Bologna a Matteo Pellegrini capovolgere Platone per rifare nella politica il tipo del filosofo? Orsù, mano all'opera: il filosofo non sarà più il capo dello Stato, il fondatore della libertà sulla virtù, il disprezzatore della momentanea fortuna, il modello agli altri; ma capirà una buona volta che il mondo è fuori, non dentro di lui, e che bisogna a due mani pigliarlo come va. Servi vuole e servi bisogna farsi, eruditamente, graziosamente, giovialmente servi, e servendo si domina, si comanda al padrone, si è più liberi di chi comanda, con meno responsabilità e talvolta con più gloria e ricchezza. Ecco il savio.

Ma per salire a tanto bisogna che egli sappia adulare. Quale forma di adulazione sarà più penetrante? Ci è la ristucchevole e ci è la disdegnosa. Questa è la buona — rispondono entrambi — e questa era già stata consigliata nel secolo precedente da Agostino Nifo, filosofo adulatore di Carlo V. Avevano questi scrittori trovato in Tacito un esempio mirabile. Doversi ogni anno rinnovare il giuramento a Tiberio — proponeva Messala cortigiano in Senato. Te l'ho chiesto io? domandava Tiberio. E il cortigiano: Ho parlato spontaneo e del mio cervello userò nelle cose dello Stato, anche a rischio di spiacerti. Oh, dice Tacito: Ea sola species adulandi supererat! È appunto la specie buona, soggiungono Nifo, Ducci e Pellegrini.

E c'è la specie migliore — osserva Sigismondi. — Ancora? la logica della viltà non ha detto l'ultima parola? Voi non avete provveduto al migliore trinciante, al più svelto pincerna del Principe, alle più belle... E questa che si chiama l'adulazione muta sarà sempre in Corte la più eloquente.

Ora, signori, non sono tre che parlano così all'aprirsi dei seicento; que' tre ho indicato per saggio; la lista ignominiosa è lunga; dal tipo Sejano al trinciante presenta tutta la scala dell'abiezione e presenta qualche altra cosa: il colore politico del tempo. Ma ricordate che il colore politico non tinge mai tutto l'orizzonte. E spieghiamoci.

III.

Quella, è la produzione politica perchè quella è la storia politica di quel tempo. Non mi parlate del Boccalini, del Tassoni, del conte Verna, perchè il riso, demolitore più potente del sillogismo, non costruisce. C'è più costruzione nel paradosso di Rousseau che nel sarcasmo di Voltaire.

Il secolo XVII è partito a mezzo dal gran fatto della pace di Westfalia, che dopo un secolo e mezzo di lotte religiose, significa finite per sempre le guerre di religione. Il secolo XVIII potrà presentare guerre di successione, il secolo XIX guerre di nazionalità, il secolo imminente guerre non guerreggiate bensì ideali, ma il vanto di aver chiuso il ciclo delle guerre religiose tocca al secolo XVII.

Fu picciol vanto? E che significa aver chiuso il periodo delle guerre di religione senza consenso del Papa e per grido di popoli? Significa che la vittoria, pur non proclamata, restò ad un gran principio, alla libertà di coscienza, che fu vittoria del pensiero.

Significa anche più: che se nelle nazioni cattoliche il potere — troppo assoluto ancora — riusciva ad asservire la politica, a creare i Ducci, i Sigismondi, i Pellegrini, voci roche ed ultime della Ragion di Stato, il pensiero n'era fuori del tutto, tanto fuori da non essere nè cattolico nè protestante, ed ivi più libero dove più cattolico durava il culto, più assoluto il potere.

Quindi accanto alla logica della viltà scorre nel medesimo tempo e luogo la logica de' supremi ardimenti, nella città medesima dove Ducci scrive Galilei insegna, in Roma dove Sigismondi è ospite di un cardinale, Campanella è ricoverato dall'ambasciatore di Francia, per Bologna dove Pellegrini serpe passa Paolo Sarpi verso Roma, e in mezzo ai più umili precetti di ossequio simulanti la politica erompe l'utopia più larga ed audace che resterà codice a qualunque cervello impaziente. La politica potè riuscire a testimoniare servilmente il potere indiscutibile d'ignoti signori, il pensiero ad indicare nel trattato di Westfalia le clausole della propria indipendenza; e dove l'una consiglia l'esecuzione muta di qualunque ordine superiore, l'altro condanna Arrigo VIII protestante e Aldobrandini papa se l'uno consegna alla mannaia Tommaso Moro cattolico e l'altro al rogo Bruno eresiarca.

La più vasta e più cattolica potenza era la Spagna; il paese su cui più incumbeva era l'Italia; qui più servile era la politica, qui più tenace la resistenza del pensiero. In nessun tempo forse come nel seicento fu così spiccato il dissidio tra quelli che chiamano uomini pratici ed i pensatori.

Questo dissidio, nella letteratura, che non vuol servire e non arriva a pensare, che spagnuola non vuol essere ed italiana non può, diventa la più strana licenza formale; e nella filosofia, dove il pensiero è destinato ad affermarsi o a spegnersi, diventa quella magnanima eresia intellettuale che sconvolse le scienze, segnando le conclusioni massime al naturalismo aperto da Telesio nel secolo precedente.

Non è però soltanto estrinseco il dissidio che tormenta la filosofia in quel secolo, è più grave, è intimo. Non trovate nessun pensatore de' più celebrati che mentre lotta contro la Chiesa e la scuola, contro la Spagna e i politici che la rappresentano non lotti con più affanno contro sè stesso. E contro sè deve difendersi assai più che dall'inquisitore, dal pedante aristotelico, dal cortigiano, dal vicerè. Questo contrasto intimo ne' pensatori del seicento è degno di uno studio speciale che tocca davvero meno alla critica logicale che all'esame psicologico e storico.

In fatti il secolo che metteva innanzi arditamente i più grandi problemi naturali e non ancora poteva chiaramente vederne la soluzione, e che nella posizione istessa de' problemi presenta lo spirito nuovo e ribelle sotto la soma delle vecchie forme, crea negli animi quella contraddizione che non è più l'irresolutezza — paralisi degli animi fiacchi — ma è l'antilogia, tormento degli animi forti, che accolgono in sè le due grandi voci dell'epoca, e in sè rifanno il dialogo dell'età loro. Un medesimo uomo allora vi par due, con due lingue e due tendenze, come se doppia fosse la coscienza sua, che è pure la più semplice ed elevata.

Questo fenomeno, signori, è veramente d'ogni tempo e di ogni cervello poderoso. Nessuno di voi può sottrarsi a questa influenza delle due voci che vi fanno pensosi su problemi già risoluti facilmente dal volgo che da un lato guarda le cose. In ogni mente ogni giorno si ripete la tenzone tra il sì e il no, tra il vecchio e il nuovo, tra l'educazione e l'osservazione, e chi, per saltare, si affretta a risolvere è condannato a tornare indietro. Il certo è che questa doppiezza è umana, ed ogni valentuomo in sè porta sè stesso e qualche altro, e più porta di sè quanto ei più comporti dell'altro.

Questo dissidio intimo fu maggiore nel secolo XVII, il quale nella prima metà rappresentò il secondo periodo del risorgimento e nella seconda il transito dal risorgimento all'età moderna.

Confrontate, per esempio, lo spiritismo de' tempi nostri col mistagogismo campanelliano e avvertirete meglio le differenze di più e di meno. Voi incontrerete un darvinista che vi parlerà della legge evolutiva onde la materia sale sino alla dignità e funzione di pensiero, e a lui potete negare i santi e Dio senza che la terra e i cieli se ne commovano; ma gli spiriti ci hanno a restare. Non per testimonio altrui egli li conosce: li ha veduti, ha parlato, è in buona dimestichezza con un mondo ignoto. Negate ancora? Ed egli vi dice che la vostra esperienza è incompleta, la vostra incredulità è metafisica. Lo spiritismo, dunque, è un capitolo del suo metodo sperimentale, il mondo ignoto non è una superstizione nata sulla rovina di una religione, è invece una continuazione del mondo noto, un ultimo grado quasi della evoluzione superorganica. Egli ha sentito la contraddizione e crede averla superata; egli può affermare che veramente Amleto ha parlato col re morto di Danimarca, ma nella tendenza ei resta monista.

Non così Campanella. Per lui la contraddizione tra il mondo delle credenze e il mondo dell'esperienza resta intatta. Egli non la turba, non sa se siavi un punto verso cui le due linee convergano, non vuol saperlo, non sogna il monismo. Possiede tutta l'ispirazione de' profeti ed è uno; esercita tutta l'osservazione dello sperimentalista ed è un altro. Può avere nella sua cella sotterranea l'uno accanto all'altro i ritratti di Telesio e di Santa Brigida; e può tentare una congiura calabrese con la fede ne' miracoli di Giovanna d'Arco.

Questo dissidio intimo non è vinto da lui, ma forse dall'ultima parola del suo secolo.

IV.

Io apro una delle tante opere di Campanella, l' Atheismus triumphatus, e vi leggo che la famiglia degl'increduli è composta di filosofi osservatori della legge naturale, e che di questi appena quattro egli ha sospettato nel secolo suo, e venticinque ne ha veduto in tutta la storia universale.

I venticinque non ci riguardano. I quattro chi sono? Ei non li nomina e ci sforza a moltiplicare il suo sospetto. Se egli guarda fuori Italia, sarà difficile seguirlo; se all'Italia del suo secolo, ognuno corre con la mente a Sarpi, a Galilei, a Bruno, a Campanella istesso, i quattro singrafi del nuovo vangelo naturale.

Consentite che io rapidamente delinei queste quattro figure.

E comincio da Sarpi. Non è un individuo nè una scienza, è uno Stato. Quello che fu, che doveva essere lo Stato di Venezia, la sua ragione di essere, quello è in atto la mente di Fra Paolo.

Egli conosce tutte le scienze, ma sotto nessuna scoperta, sotto nessuna dottrina egli ha posto il suo nome. Per via di amplificazioni arriverete a dargli il titolo di precursore, ma il nome d'inventore, di sistematore non tocca a lui.... Se lo sottraete allo Stato di Venezia, voi non troverete più il nome di Sarpi.

E la storia del Concilio di Trento? Svela il Concilio — il cui disegno era noto ai principi del tempo — e se non un cattolico, un protestante l'avrebbe scritta; ma nessuna idea nuova balena, non una idea che possiate aggiungere a Machiavelli, non una da aggiungere al Bellarmino.

Scritto chiaro, schietto dal consultore de' dieci, frate cattolico per giunta, il libro corre pel mondo. Un protestante poteva accettarlo, un cattolico non poteva condannarlo. Ma dov'è Fra Paolo veramente?

Sia o no suo, certo ispirato da lui è l' Opinione del come si abbia a governare la repubblica di Venezia per avere il perpetuo dominio. Voi non siete più innanzi al Ducci e al Sigismondi, voi finalmente comprendete come una capitale sorta sul fango e senza soldati proprii potè alzarsi gigante tra due imperi. Venezia è l'Anti-Roma: in questo motto la missione è definita, e s'intende nella grande rivoluzione la catastrofe contemporanea del papato e di Venezia.

Venezia è l'Anti-Roma; è la repubblica del rinascimento; la mente n'è Fra Paolo. Il suo andare, il suo vivere ti mostra il servita; il suo occhio ti dice il consultore di stato; la sua discussione ti apre tutte le parti del rinascimento. La contraddizione in lui è muta; egli non ve la svelerà mai; e il suo labbro è chiuso a voi come in Cosenza la bocca di Telesio era per sempre chiusa a Campanella.

V.

In Venezia Sarpi discute con Galilei intorno alle nuove applicazioni delle matematiche, ed in Venezia Bruno era prigioniero della Inquisizione. Come!... nella repubblica del rinascimento è carcerato — proprio in quel tempo — il più gran filosofo del rinascimento? Signori, ricordate che l'Inquisizione di Venezia non voleva consegnarlo a quella di Roma; ricordate che la consegna avvenne nell'assenza di Sarpi; e ricordate pure che anche le repubbliche più indipendenti sottostanno all'ora della ragion di Stato. Potete fingere la scoperta di un'isola introvabile, ma non la fingerete separata dal mondo.

Ciò che tra Sarpi e Galilei era un dialogo, in Bruno era già un sistema; e ciò che tra que' due si discorreva sommesso l'altro aveva già divulgato nel mondo.

Lunga e crudele fu l'espiazione, e grande dovè essere il peccato. Certo, quando avete affermato che i mondi sono innumerabili e che l'assoluto è nell'universo, avete detto l'ultima bestemmia.

Ne uscì la natura divinizzata e l'uomo, sciolto dalle contemplazioni monastiche, restituito alle virtù civili. Mai forse, da Lucrezio in fuori, la natura fu celebrata con versi così belli, fusione mirabile di filosofia e poesia; mai forse come in lui si avverò che la filosofia è una poesia sistemata e la poesia è una filosofia intuita; mai l'universalità del genio fu così contemperata coll'indole meridionale, che è di filosofi poeti. L'indicazione istessa della filosofia è in lui una poesia che sgara qualunque poema filosofico antico. Bisogna udirlo: Nuda è la divina Sofia, e nuda irradia luce da tutto il corpo.... Deh! non la velate, chè gran peccato è velare questo santo corpo. Essa fa fede di sè.

Nuda est illa, nublis circumque stipula maniplis,

Nudaque de toto jaculatur corpore lucem,

Magna est velari sanctum hoc injuria corpus.

Ipsa fidem facit ipsa sibi. . . . . . . . . . . .

De Univer. et Immen.

La sua spiccata natura di filosofo poeta dovea dargli una qualità che dicono esclusiva della gente nordica, specialmente dell'anglo-sassone; l'umore. Non credo che in Italia ve ne siano due, vedo che in lui questa facoltà scintilla quando ei si mette di fronte al pedante. Quali motti e quanta finezza! Ciò che in Socrate era ironia di fronte al sofista, in Bruno è umore in faccia al pedante. La brevità non mi consente allargarmi in questo esame, che non è senza importanza.

Pur non manca in lui la contraddizione del suo tempo: non sono le due correnti di Campanella, ma è un dissidio intimo tra l'uomo nuovo e molte vecchie reminiscenze, attraverso le quali il morto soprannaturale tenta miracoli di resurrezione. I ricordi tomistici, la difficoltà di certe soluzioni, l'oscurità di certi problemi, e que' freni che qualunque età impone anche ai fortissimi più d'una volta insidiano la trama della ragione.

Il dissidio però in Bruno è raro e più alla superficie che nella cosa. Il monismo in lui è sostanziale e questa forte unità dell'intelletto in contrasto coi poteri costituisce il suo carattere eroico.

Il carattere, signori, non è qualcosa di sovrapposto alla mente, è la mente istessa, e nel filosofo è il testimonio della sua filosofia. Se oscilla, se volta qua e là la faccia, se sale per la via men buona, se gonfia o supplica, sarà erudito, abile, avveduto, sarà politico pure, filosofo no. Le opere di Bruno sono filosofia e poesia, e sono un autobiografia: vi si legge l'universo e l'uomo. In quella autobiografia è il suo destino, i trionfi, il carcere, la sentenza. Prima che i giudici la firmassero, ei l'aveva scritta, e quella de' giudici ei poteva sprezzarla.

VI.

Telesio vi dice che il libro della filosofia è la natura; Bruno afferma che questo libro è infinito; Galilei conchiude che il libro è scritto in “caratteri assoluti cioè matematici. Quindi voi dovete leggere in quel libro e non parlar voi prima di aver letto, perchè la natura prima fece le cose a suo modo e poi i discorsi umani, che saranno sinceri o falsi secondo l'accorgimento del lettore. Quando la natura fu fatta parlare per voce di teologi, fu medio evo; quando per voce di metafisici, fu il primo periodo del risorgimento; ora deve parlare per voce propria, cioè di naturalisti, ed è il periodo conclusivo del risorgimento.

L'inizio dunque dev'essere sperimentale e matematica la conclusione. Così egli sale agile dall'oscillare di una lampada all'isocronismo del pendolo, dalla caduta di una grandine alla caduta de' gravi, dal fischio di un ferro raschiato alle proporzioni delle onde sonore. È un relativista dunque Galilei come sono molti positivisti di oggi? No: se la conclusione è matematica è del pari necessaria per Dio e per l'uomo, per l'oggi e pel domani, per Pisa e pel mondo. La differenza sarà di estensione e di numero, non di valore.

Vi è chiaro già il carattere dell'uomo: potrà inginocchiarsi, non disdirsi; potrà accettare da Aristotile l'universo fondato sul moto, ma inducendo non costruendo, trasformando cioè il moto, creando la meccanica terrestre, sgombrando la via della meccanica celeste all'anglo che tanta ala vi stese.

Nondimeno egli il gran matematico della natura, per questo appunto forse che è troppo matematico, riesce dualista, dando alle scienze naturali geometrizzate un valore di necessità e a tutte le altre scienze un valore, dirò, troppo ipotetico. Si potrebbe dire che il nome di scienza a quelle altre è una concessione di uso, un traslato quasi. E come, se quelle altre sono capitoli di quel libro unico, almeno un'appendice? e se le leggi matematiche sono universali, chi ne limita l'applicazione qua o là? Non intravide egli ne' Dialoghi delle Scienze nuove la possibilità di una Scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni? Vico è vivo non meno di Galilei e le degnità dell'uno possono essere un riflesso degli assiomi dell'altro. Il certo è che il concetto dell'unità naturale nel tempo stesso si traduce nel concetto della unità umana, e siamo già di fronte all'utopia di Campanella.

VII.

Ecco la grande utopia del secolo XVII. La parola è del 1516 — De nova insula utopia — ma il concetto è antico, è della Grecia, dove il pensiero nato come pensiero, supera le istituzioni contemporanee; e si determina dal VII libro in poi della Repubblica di Platone. Dal comunismo platonico alla pace universale di Kant, dall'imperatore universale di Dante al pontefice universale di Campanella voi non incontrate nessun grande ingegno senza una utopia. Ma l'utopia che vince le altre di estensione e di ardimento è la Città del Sole, che il frate di Stilo oppone al dominio universale della Spagna e all'oligarchia universale della Compagnia di Gesù.

Questa del frate calabrese resterà codice ai comunisti di ogni tempo.

Contro tutte le utopie sorgerà la Ragion di Stato — opera di un abate — il codice della mediocrità, che si adagia sempre sul presente.

I caratteri comuni alle più grandi utopie sono la oosmopolitia e il comunismo; i caratteri comuni ai politici di Stato, sono il particolarismo politico e l'individualismo economico.

Differiscono altresì i metodi.

Il metodo degli utopisti è evolutivo, accettando anche la rivoluzione come un momento dell'evoluzione istessa; il metodo della Ragion di Stato è preservativo, e ne' casi pericolosi ricorre a Sallustio: Imperium his artibus facile retinetur, quibus initio partum est.

L'Italia è la terra classica delle utopie, che nascono spontanee in un paese che ebbe dominio universale e cadde nella peggiore servitù. Ma l'utopia tipica — come ho detto — è quella che nasce nel secolo XVII, sotto la servitù ispana e in mezzo ai politici servili.

Entrando nella Città del Sole, che è un'isola oceanica, troviamo a guida un pontefice che non è il papa, un culto che non è quello di Roma, armi che non sono un esercito stanziale, una libertà che non è eretta sopra un trofeo di pugnali, un bilancio che non è quello dello Stato, e magistrati che non rappresentano il diritto, ma la morale, i costumi, l'igiene. E che città è questa? È il miluogo dove la scienza, la libertà, la morale fanno uno, fanno l'uomo.

Con Platone fece comuni tante cose che il diritto romano fece private, ma oltre Platone, oltre gli Stoici, oltre i cristiani primitivi corse verso l'universalità umana. Oltre i socialisti de' nostri tempi corse verso la misura del lavoro: questi vogliono otto ore, egli quattro: il resto all'educazione della mente. Tanto è vero che nessuna utopia è più liberale della filosofia. Chi oserebbe dire che Galilei, Bruno, Campanella, furono borghesi? Il pensiero non è una classe, è l'uomo.

Quei quattro furono invece il manipolo più eroico della tragedia del nostro pensiero; e niente i più arditi potranno desiderare che la mente di quelli non abbia o affermato o intraveduto.

VIII.

Dove sono più, o signori, i nomi de' Ducci, de' Sigismondi, del Pellegrini? Cancellateli pure, e se toglierete qualche cosa alla legge de' contrasti, non toglierete nulla alla storia del nostro pensiero. Possiamo dire altrettanto del Bruno, di Galilei, di Campanella? Toccateli: la mano vi trema. Ben ci è chi vorrebbe cancellarli, ma le sillabe del pensiero sono immortali, e ciascuna fa parte di quel discorso continuo che si chiama progresso. Trasferendovi, in fatti, col pensiero dal secolo XVII ai seguenti, voi trovate che il principio di causalità, come fu integrato da Bruno diviene la legge di evoluzione de' nostri tempi. Evolversi è causarsi. Trovate che la matematica di Galilei si estende a poco a poco nel campo delle altre scienze, che non possono essere pagine sparse di un libro insignificante, ma debbono farsi capitoli e corollarî del libro unico indicato da Telesio e misuratamente determinato da Galilei. Già il tentativo di allargare la matematica alle altre scienze fu cominciato immediatamente nella scuola istessa di Galilei, dal suo discepolo Vincenzo Viviani. Trovate, in ultimo, che l'unità umana vaticinata da Campanella diventa dichiarazione de' diritti dell' uomo nel secolo passato e dichiarazione de' doveri dell' uomo nel secolo nostro. Al secolo che si avvicina — voi lo presentite — non toccano dichiarazioni ma soluzioni, e questa, prima di ogni altra, l'equilibrio tra' doveri e i diritti, il quale si chiama giustizia.

Tra il comunismo del filosofo calabrese e l'individualismo della prudenza conservatrice la lotta fu e durerà lunga. Ma considerate che la storia non ha dato assolutamente ragione a nessuna delle due parti, e che il secolo nostro cerca una risultante, ora col nome di collettivismo, ora con altri nomi e provvedimenti. Non curate il nome, certo è che la risultante s'impone.

Comunisti no, individualisti neppure, e il secolo nostro si affatica alla ricerca di un equilibrio, di un contemperamento. Ma di risultante non si parlerebbe, se già que' due termini estremi non fossero stati posti dal pensiero, il quale quello è che dopo aver tocco gli estremi si adagia nel medio.

Badiamo, dunque, alla parola modernità. Se è fondata sulla evoluzione, deve riconoscere i germi ond'è formata, e non può ignorare i pensieri e le fatiche de' nostri grandi: se no, è moda, è leggerezza, non è modernità. Con quale animo eleveremo un monumento a Galilei a Pisa, a Bruno in Roma, ad Arnaldo in Brescia, a Dante in Ravenna, senza averli prima allogati nella série dei nostri pensieri, senza avere inteso il significato della Città terrena in Petrarca, della Città filosofica in Campanella, insomma del regnum hominis di Bacone?

Troppo — tenuto conto del tema così vasto e del poco tempo — io sento i vuoti dell'esposizione, ma sento non inutili le poche faville, come voi sentite che ho parlato di cose che ho letto con amore e per molti anni. Compirò il mio pensiero a Pisa, parlando di Galilei.

Altrove sarei riuscito oscuro. A Firenze no: qui parla l'aria, ogni pietra commenta ed illustra le mie parole. E parlando di quelli, io mi esalto e mi sottraggo all'oscurità di questa ora. Sul pensiero di quelli è fondata l'Italia e non può perire. Nel nome di quelli in me in voi è incrollabile la fede nella missione, nell'avvenire del nostro paese. Chi dubita, chi insidia non ha vissuto la vita del nostro pensiero, non conosce l'eredità trasmessaci e che dobbiamo, aumentata, trasmettere. La crisi è momentanea. Noi siamo appena all'alba della nostra giornata.

GALILEO LA SUA VITA E IL SUO PENSIERO (1564-1642)

CONFERENZA DI Isidoro Del Lungo

Letta la prima volta in Roma, dinanzi alla Maestà della Regina d'Italia, nell'Aula del Collegio Romano, per la Società per la Istruzione della Donna; poi letta a Firenze nelle Conferenze sulla Vita Italiana.

I.

Maestà,

Signore e Signori,

Il 18 di febbraio del 1564 moriva in Roma, glorioso nonagenario, Michelangelo Buonarroti. Il corpo, trasferito, o si può dire piuttosto trafugato, a Firenze, vi ebbe onori solenni: l'Accademia de' pittori e scultori, istituita pochi anni innanzi con lui per primo accademico, ne adornava l'esequie in San Lorenzo con apparati e figure, prestandovi l'opera loro, pei pittori il Bronzino e il Vasari, per gli scultori il Cellini e l'Ammannati; oratore, il Varchi; Vincenzio Borghini, rappresentante il Duca: al trasporto in Santa Croce, fatto a spalla dai giovani artisti, tutti essi gli artisti, tutta Firenze. Erano le esequie alla grande arte italiana, che in sè aveva raccolto le possenti ispirazioni medievali del risorgimento dalla barbarie, e le splendide visioni del rinascimento assorgente all'antico: — l'arte che seppe avere le intuizioni dello spirito oltreveggenti, e le apprensioni vigorose del senso; — che alle più remote idealità conciliava, senza discendere, la plasticità più rilevata; — l'arte, alla quale era stato istinto irraggiare di bellezza l'umano, umanizzare il divino; e che nel baldo giovanile esercizio della sua potenza avea toccata quella suprema linea di là dalla quale è lo sforzo, generatore d'una bellezza che può esser compresa dall'intelletto, ma non trova le vie del cuore. Dante e Giotto, Tommaso d'Aquino e i Pisani, il Petrarca e il Boccaccio, Leonardo e Raffaello, il Tiziano e l'Ariosto, erano stati i sommi artefici dell'ingegno italiano in quest'opera di civiltà universale, alla quale un altro dei grandissimi nostri, il Colombo, dischiudeva le regioni di un nuovo mondo, acquistava la porzione ignorata dell'umanità. Michelangelo, signore delle tre arti e poeta; — cittadino e propugnatore di repubblica, e avuto in luogo di eguale o di maggiore da sovrani e da pontefici; — scultore del David al Palagio del Popolo, e del Mosè pel sepolcro d'un papa agitatore di popoli e guerriero; — che impronta il fato pagano nell'omerica trinità delle Parche, e le vendette di Cristo giudice sulle pagine dantesche della Sistina; — che disegna con severità claustrale la libreria Medicea ai tesori del senno antico, e nel palazzo Farnese attua le dottrine di Vitruvio con la più fiorita adornezza che forse si sia mai posata su linee di palazzo regale; — che passa tra quella corruzione di ordini politici e di anime, di Stato e di Chiesa, ripensando al Savonarola e amando Vittoria Colonna; — che sulle tombe dei Medici scolpisce il Pensiero del tenebroso avvenire, e verso Dio onnipotente solleva nel sereno de' cieli le curve superbe della cupola Vaticana; — Michelangelo, avea quasi assommato in sè le energie, i contrasti, i lutti, i trionfi, di quei tre secoli della vita d'Italia, e circondato dal loro splendore scendeva nella tomba.

Tre giorni prima ch'egli morisse, un altro fiorentino aveva, in Pisa, veduto la luce: Galileo Galilei.

II.

In quella età media, che occupano successivamente il Risorgimento e il Rinascimento, l'arte, atto immediato dello spirito verso i tre connaturati amori, ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che è, aveva dominato le manifestazioni della vita intellettuale, era stata essa il verbo della civiltà e dell'umano progresso. La scienza, la quale di ciò che è cerca e dimostra le ragioni, non aveva potuto più che questo, ed era già molto: raccogliere ed assumere la tradizione che la barbarie aveva spezzato; e dalla sapienza antica, che il genio universale d'Aristotile avea piena di sè, derivare, lungo le traccie luminose impresse dai Padri e dai Dottori della Chiesa benemerita conservatrice, una filosofia, la quale, innanzi tutto, era un conserto di autorità e testimonianze intorno alla verità delle cose, ai problemi nella cui soluzione si è sempre affaticato, in qualsivoglia età, per sua gloria e tormento, il pensiero degli uomini. Questo conserto era bensì stato solidato ed eretto in maestoso edificio dalla mano poderosa di San Tommaso, l'Aristotile cristiano; e la scolastica, nella gran mente di lui, fu invero un organismo di propria vita animato, nel quale la ragione naturale delle cose e l'ordine ideale che ad esse sovrasta, i postulati della scienza e i dommi della fede, avevano ricevuto coesione e armonia di sistema. Ma quella filosofia teologica, già fin dal suo nascere rumorosa di dispute e molteplice di sette; — disdegnata dagli eruditi del Rinascimento, i quali, risalendo alle fonti dell'antichità classica, sovrapponevano al contenuto disputabile lo studio positivo del testo, al modo stesso che nelle vagheggiate conciliazioni di Aristotile con Platone cercavano un cristianesimo geniale, a cui meglio si adattasse la latinità di Cicerone e di Virgilio; — la filosofia teologica, che con frate Rogero Bacone e il cardinale Cusano si era pure inoltrata fin sulle soglie della indagine sperimentale; — sopraffatta per gli assalti di quello che, dal Pomponazzi al Bruno, mi sembra possa chiamarsi il reagire del misticismo negativo; conchiudeva il periodo della sua attività, feconda, ne' secoli pe' quali cosiffatto filosofare fu proprio, e benefica. Non però che se a tale sua attività cessava il favore delle condizioni esteriori e storiche, la filosofia teologica potesse essa stessa cessare. Ella rimaneva, perchè congiunta ad una funzione naturale dello spirito, che è la fede, e ad una istituzione di fatto, la Chiesa: ma in atteggiamento rimaneva di difesa (tanto più sospettoso ed ostile, in quanto la grande e possente unità della Chiesa Romana era stata smembrata, ed era tuttavia minacciata, dalla Riforma), in atto di difesa e di repugnanza contro il procedimento ulteriore del pensiero, e disgraziatamente, in comunione d'interessi e in coalizione colla tirannide civile, che nella rovina delle libertà di Comune veniva costituendo, e duramente calcando sulle nazioni e sulla società, un diritto che si usurpava il titolo di divino. E il procedimento ulteriore dello spirito, fu la filosofia del dubbio; dico del dubbio, non della negazione, che è anch'essa una servitù del pensiero: fu la filosofia del dubbio, disciplinato dal metodo, e applicato alla enciclopedia dello scibile: — furono, la induzione che Francesco Bacone vuole applicata, mediante l'esperienza, alle cose reali; e la deduzione, le cui affermazioni il Cartesio chiede al proprio pensiero: — realismo e idealismo critici, che atteggiati in varietà di sistemi (e sopr'essa si librano le visioni radiose del Leibnitz e del Vico), faranno capo al Kant, dal quale, o contro il quale, si svolge, per diversi rami, tutta la filosofia moderna.

Ma a cotesto procedimento chi assicurò, non per teoria e come verità di senso comune e a priori, sibbene con l'opera e l'esempio propri, l'istrumento e il beneficio dell'esperienza; — il filosofo che attuò il metodo sperimentale, così sui fatti e fenomeni più semplici attinenti alle cose che tocchiamo, come per lo studio e la rivelazione della macchina universale, di cui ciascuno degli esseri umani non attinge che una menoma particella; — il dialettico, che ridusse a impotenza perpetua gli arbitrii dei sofisti e i delirii degli allucinati, che il ragionevole ossequio all'autorità subordinò alla legittima confidenza dell'umano intelletto nelle proprie forze; — il pensatore che fece della logica una matematica, e restituì alla metafisica lo studio dei fatti interni e della idealità, togliendole l'abusivo ingerimento nell'argomentazione dagli effetti naturali alle cause; — che alla voce effimera degli uomini sostituì quella immortale delle cose e di Dio; — questo, più che filosofo, liberatore del pensiero, fu Galileo.

Invitato a dire di lui, in Roma, dinanzi alla maestà e al fiore della gentilezza italiana, — fra queste pareti, dove aleggia quasi la voce che v'è risonata del gran pensatore e incombe il peso e il delitto della sua persecuzione, — ritrarrò rapidamente dai fatti l'idealità della sua vita, quale si disegna, con tanta gloria d'Italia, nella storia dell'umano pensiero. Un altro studio, più ricco di particolari e d'analisi, che rimarrebbe da farsi sul filosofo e lo scrittore — La mente e l'arte di Galileo, — aspetterà, non uditorio più degno, ma un oratore che possa affrontare con minor trepidanza il soggetto, nobilissimo ed arduo sempre.

III.

Studente di medicina, e già male accetto ai Peripatetici dello Studio di Pisa, de' quali se esemplava fedelmente (in un latino tutt'altro che aureo) il dettato dalla cattedra, non si asteneva tuttavia dall'opporre ai loro assiomi le evidenze de' fatti, Galileo non da quelle scuole fallaci, sibbene nel silenzio delle segrete comunicazioni fra l'anima e l'infinito, ha, sotto le vôlte austere del duomo, la prima vocazione alla scienza vera; e misura ai battiti del polso le oscillazioni isòcrone della lampada sacra. E pochi anni dopo, fatta prova di sè in attuazioni diritte e ingegnose de' principii di Archimede, del suo “divino„ Archimede, torna in Pisa lettore di Matematiche: è collega non meglio accetto, di quel che fosse discepolo; e mentre quei barbassori strascicano pe' loro atrii la toga professorale, egli motteggia loro dietro giovenilmente in versi bernieschi, e a cotesta scienza umbratile sostituisce la scienza interrogatrice delle cose in piena luce solare, e aspirante a larghi polmoni la libertà, fra le bellezze della natura, le meraviglie dell'arte, le realtà della vita. Inventa la cicloide; e dimostra a dito, pel disegno del nuovo ponte sull'Arno, com'ella sia da applicarsi nel dar forma agli archi dei ponti: espone il trattato del moto, di Aristotile; e dopo averne dalla cattedra, con la reverenza dovutagli, combattuto le conchiusioni, lascia il libro in iscuola, e, seguito dagli scolari e dagli stessi attoniti cattedranti, sperimenta dall'alto del campanile pendente la caduta de' gravi: séguita a conversare amichevolmente con gli studiosi, e discendendo lungo le rive del fiume sino a Bocca d'Arno, là dinanzi al mare immenso e raggiante, traccia con platonica genialità le prime linee di quelli che fra cinquant'anni, nello sconsolato tramonto della sua vita, saranno i Dialoghi di Scienza Nuova, il primo codice legislativo della dinamica.

IV.

Ma teatro della sua gloria cattedratica era destinata Padova. Nello Studio padovano, l'alto e geloso sentimento che la Serenissima aveva di sè e di quanto emanasse da lei, produceva effetti sommamente benefici alla scienza e al pensiero. Sotto il dominio di San Marco, come la ragion di Stato era, per secolari tradizioni, tirannica, così, nel giro ben chiuso e inviolabile di questa, tutto si moveva con una libertà, che negli altri Stati italiani, o la tradizione politica personale e irresponsabile, in un d'essi teocratica, — o la recente loro e artificiosa costituzione e le eventualità inerenti alla forma, sia dinastica sia subordinata, de' loro governi, — rendevano malagevole o addirittura impossibile. Galileo, che fin da quando, dismessi gli studi della Medicina, si era dato alla speculazione matematica, aveva aspirato ad una Lettura, dapprima nello Studio di Bologna (e furono forse quelle pratiche l'occasione, perchè egli nell'87 venne la prima volta a Roma), poi nello Studio appunto di Padova; dovè riflettere come in questo allo sperimentare (fosse pure non metodico) nelle cose naturali si lasciava agevolezza che altrove non era consentita; come l'Aristotelismo vi aveva manifestazioni originali e sino a un certo grado non vincolate da preconcetti; — come la vita scolastica, massime per la frequenza di studiosi da ogni nazione d'Europa, vi era la più gagliardamente animata, e la più geniale altresì, che forse in nessun altro degli Studi d'Italia; — ed infine, quanto desiderabil signore ad un filosofo che cercava le applicazioni della scienza al mondo sensibile e alla vita, fosse il Senato d'una Repubblica, i cui gentiluomini e reggitori sedevano uditori negli scanni della scuola, e le sue navi portavano ancora pe' mari di tutto il mondo la memoria e il retaggio d'una potenza cooperatrice gagliarda di civiltà.

E gli anni del soggiorno padovano, dal 1592 al 1610, furono, com'egli poi ebbe a dire, “li diciotto anni migliori di tutta la sua vita.„ Glieli fecero tali la lieta giovinezza, e il mescolarsi coi giovani che accorrevano volenterosi alla sua scuola e, come a luogo di studio domestico, alla sua mensa ospitale; — l'agiatezza, quasi signorile, che il lavoro procurava a lui, bisognoso non tanto per sè quanto per la famiglia paterna, al suo cuore buono dilettissima sempre (e la famiglia gli fu sempre, per tutta la vita, cagione di cure e travagli); — la scienza, che da lui restituita alla retta osservazione de' fatti e fenomeni naturali, rivelava per la prima volta a' veggenti suoi occhi i misteri del cielo; — la indipendenza fatta al suo speculare, o, come que' gentiluomini sovrani gli dicevano con frase caratteristica, “la libertà e monarchia di sè stesso„, a tutti, ma più ad un pensatore e più ancora in que' duri tempi, preziosa; — la splendida cortesia, la gaia cordialità, la socievolezza letteraria, di quella cittadinanza; — l'amicizia, l'amore. Egli insegna meccanica, idraulica, fortificazioni, cosmografia: e le sue lezioni si moltiplicano, di copia in copia, per le mani degli studiosi: e nella sua casa, in Borgo de' Vignali, presso al Santo, agiata di spazio, amena di sito, circondata d'orto e di vigna, che lo stesso giovane filosofo si diletta a coltivare, sono ospitati quelli che egli chiama “scolari domestici„, la più parte oltramontani, e v'alloggia un meccanico per la fabbricazione degli strumenti, il compasso, l'armatura delle calamite, il termometro. L'Università e le Accademie si onorano del suo nome: la Repubblica lo rafferma nella Lettura delle Matematiche, con partiti di volta in volta più onorevoli e vantaggiosi. La stessa filosofia Aristotelica, che nello Studio di Pisa annebbiava i cervelli con la esegesi vaporosa e pesante del già suo maestro Buonamico, in Padova almeno gli s'impersona dinanzi in un cattedrante di vasto e valido ingegno, il Cremonino, il quale, con l'assolutezza rigorosa e la pertinace bizzarria della sua fede sistematica contro tutto e tutti, compresi anche, occorrendo, i teologi e l'Inquisizione, nega sì all'avversario la sodisfazione del combattere con le armi sperimentali, ma gli procura quella di sostenere in faccia ad un carattere d'uomo, a una coscienza di ragionatore, sia pur deviata, propugnare, contro l'autorevolezza d'una fama non immeritata, i diritti del vero e prepararne l'irrepugnabil vittoria.

Quando nel 1604 una nuova stella comparve in cielo con grande spavento dei Peripatetici, che da simili apparizioni vedevano messa in pericolo la teoria del loro Aristotile, che il cielo fosse “inalterabile ed esente da qualunque accidentaria mutazione„, Galileo dai sentimenti di terrore superstizioso e di curiosità umana suscitati negli animi, prese opportunità per esporre dalla cattedra, a un uditorio d'oltre mille persone, i principii dell'esperienza applicati alle cose celesti; e dalle sciocchezze che si venivan filosofando su tale argomento, per combattere quella falsa scienza anche popolarmente, fino a collaborare ad una arguta scrittura in dialetto padovano contadinesco. Era la rivendicazione, scientifica a un tempo e sanamente democratica, non pure della indagine sperimentale ma del senso comune, dalla tirannia di quella che egli soleva chiamare “speculazione cartacea„; ed era altresì il primo rivolgersi espressamente del grande osservatore verso le regioni del cielo. Ma con quale animo Galileo si sia affacciato alla contemplazione, ben si può dire, dell'universo, quando costruito nel 1609, sull'esempio venutone d'oltremonti, l'occhiale o cannocchiale; e per prima cosa sperimentatolo ad uso semplicemente topografico coi patrizi veneti dal campanile di San Marco, e donatane alla Repubblica quella prima costruzione; — perfezionatolo pochi mesi appresso, e fattolo essere il telescopio; — quando potè rivolgere la mirabile virtù del nuovo istrumento verso le regioni luminose del cielo stellato, rimaste sino a quel momento a disperata distanza da' nostri occhi mortali; lo dica, non la inefficace parola nostra, ma il grido suo di trionfo che suona e tripudia nel titolo della scrittura, latina perchè fosse di universale intelligenza fra i dotti, con la quale annunziava al mondo le cose vedute: “ Sidereus Nuncius, Il messaggero del cielo stellato, che manifesta grandi e altamente ammirabili vedute, e le presenta alla osservazione di ciascuno, massime de' filosofi e degli astronomi; le quali da Galileo Galilei, patrizio fiorentino, pubblico Matematico dello Studio di Padova, mediante l'occhiale testè ritrovato da lui, sono state osservate nella faccia della luna, nelle stelle fisse innumerevoli, nella Via Lattea, nelle nebulose; principalmente poi in quattro pianeti che intorno alla stella di Giove a intervalli e periodi dispari con celerità maravigliosa si avvolgono; i quali, a nessuno conosciuti sin oggi, l'autore ha per primo testè scoperti, e imposto loro il nome di Stelle Medicee.„ Ed invero il nuovo satellizio, che la scoperta di Galileo dava a Giove, spostava i termini assegnati dal sistema Tolemaico alla costituzione dell'universo; inquantochè la centralità assoluta ed immobile della Terra, intorno alla quale siccome la Luna così anche girassero gli altri corpi celesti, veniva ad essere sostanzialmente infirmata dal vedere che uno di questi era esso medesimo il centro d'una circolazione. Nel Messaggero, od Avviso sidereo, è senza dubbio piena di attrattiva, anche per noi profani alla scienza degli astri, la narrazione di quanto il telescopio, “il mio scopritore„ com'ei lo chiamava “delle novità celesti„, gli vien rivelando; sia nella Luna, dove le parti oscure e le chiare gli raffigurano le acque e le terre di quel corpo “similissimo alla Terra„, divinato tale dai Pitagorici; sia nelle Stelle, il cui numero gli si dimostra dieci volte maggiore di quello creduto, e il loro corpo gli apparisce limitato e spoglio della criniera luminosa, e tra i pianeti e le fisse esser diversità di semplice irradiazione e di scintillazione; sia nella Via Lattea, favoleggiamento perpetuo e non di soli poeti, ora nel fatto non altro che “una congerie di innumerevoli stelle insieme ammucchiate.„ Ma quando la narrazione, che par quella d'un viaggiatore nell'avanzarsi per regioni inesplorate, assume andamento di diario, dal 7 gennaio 1610, che per la prima volta gli appariscono, piccole ma lucidissime, quella notte tre, due in altre notti, finalmente quattro, le stelle di Giove; e successivamente di notte in notte, fino alla seconda del marzo, teniam dietro non tanto alle osservazioni dello scienziato, quanto alle ansietà dell'uomo, che dinanzi a' suoi occhi vede decifrarsi il mistero dell'universo, e i cieli narrare, secondo il sublime concetto biblico, narrare a lui pel primo, la gloria del Creatore; — e pensiamo che questo scienziato conquistava la riprova del ragionato e sostenuto da lui, la conferma del suo metodo, il coronamento del suo pensiero; — che quest'uomo, al quale la fede al vero fruttava già tante molestie, e che forse presentiva quanto per quella sua fede era destinato a soffrire, che quest'uomo, pieno di ardore per la scienza e della religione degli alti intelletti verso il principio delle cose supremo, poteva in quella maravigliosa rivelazione riconoscere, col resultato dell'opera propria, anche il premio di Dio; — allora dalla vivace e pittoresca latinità del Nuncius Sidereus corriamo col cuore commosso a poche linee d'una sua lettera scritta il dì 30 di quel gennaio memorabile, da Venezia, che dicon così: “Rendo grazie a Dio, che si sia compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa così ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta.„

Il rumore levato dalla scoperta galileiana fu immenso da ogni parte del mondo civile: “il moto„ scriveva Galileo “è stato ed è grandissimo.„ I Peripatetici avevano un bell'alzar le spalle, e sorridere di commiserazione, alle audacie di costui che affrontava la natura delle cose senza stillare i ragionamenti pel lambicco delle autorità; avean voglia di polemizzare con opuscoli e diatribe più o men velenose; avevano un bell'ingegnarsi (così lo stesso Galileo al Keplero) di sconficcare, a forza d'argomenti loici, come per arte magica, i nuovi pianeti dal cielo: i pianeti seguitavano la loro danza giuliva; e i Peripatetici restavano a vedere. Anzi a non vedere: perchè il Cremonino, il terribile Cremonino, sempre lo stesso, ricusava di volgervi gli occhi, dicendo: “Quel mirare per quelli occhiali m'imbalordisce la testa„; e seguitava imperturbato, dalla cattedra e per la stampa, le sue argomentazioni più che mai aristoteliche sulla faccia della Luna, sulla Via Lattea, sul Denso e 'l Rado, preparando volumi preziosi (“semilibri„ li chiamava Galileo) per la biblioteca del dottissimo don Ferrante, destinati ad esumarsi fra due secoli dall'arte maestra di Alessandro Manzoni. Della cui signorile ironia era degno questo motto che usciva in que' giorni dalla bocca di Galileo: “Cotesti filosofi non vogliono in terra veder le mie ciancie: le vedranno forse nel passarsene al cielo.„ Meno ostinati, o più accorti, de' Peripatetici i Teologi, da queste mura stesse del Collegio Romano, a Galileo, che attendeva trepidando, mandavano per bocca del gesuita Clavio (valentuomo, ma poc'anzi ancor egli motteggiatore), sul cadere pur del 1610, dopo osservazioni fatte con occhiali che Galileo medesimo aveva loro provvisti, la dichiarazione d'aver veduto, e “veduto distintamente,„ riconoscendogli “la gran lode dell'aver egli osservato pel primo.„ Ma ricognizione più degna era la parola del Keplero, il grande scienziato alemanno, col quale fin dal 1597, quando questi pubblicava la sua Cosmografia, aveva Galileo avuta opportunità di manifestare la convinzione, comune ad entrambi, delle dottrine Copernicane: e l'uno aveva salutato l'altro fraternamente, siccome “valoroso compagno nell'indagare e amare la verità„; e avevano augurato il trionfo del sistema di Copernico “maestro nostro„, essi dicono “nel cui sistema son rivissute le tradizioni platoniche e pitagoriche„; e il Keplero a Galileo, che con presago sgomento guardava nell'augurato avvenire, si era profferto per la divulgazione delle comuni dottrine: ed ora, fedele alla promessa, curava una ristampa del Nuncius con una sua propria dissertazione; e appena potuto drizzare il telescopio verso i nuovi pianeti, manifestava con un motto storico: Galilæe, vicisti! (o Galileo, vincesti!), la sua esultanza per quella che davvero era una vittoria della esperienza sull'affermazione, della scienza sulle opinioni, della verità sull'errore. E alla vittoria non mancavano i cantici: canzoni toscane, odi latine; e da Napoli, di dentro alle carceri spagnuole, un'allocuzione entusiastica di frate Tommaso Campanella. Galileo fissava pure il cielo col suo telescopio: e a quella de' Satelliti di Giove aggiungeva la scoperta di Saturno tricorporeo, delle macchie solari, delle fasi di Venere.

V.

Ma intanto le Stelle Medicee, proprio esse, lo riconducevano, non con propizio influsso, in Toscana. Non trattenuto dalla conferma a vita fattagli con abbondante stipendio dal Senato Veneto; non dalla affettuosa venerazione che in quella sua miglior patria lo circondava; non dall'amicizia di alti e liberi intelletti, il Sarpi; di nobilissime anime, Gianfrancesco Sagredo; non dall'avere Venezia e Padova dato a lui le ebbrezze dell'amore e le cure soavi della paternità; Galileo, che alienatosi dallo Studio di Pisa aveva bensì conservate co' propri Principi, e alimentate d'anno in anno nel suo recarsi a Firenze, relazioni non pur di suddito ma di scienziato, in quello stesso anno 1610 rinunziava alla cattedra padovana, e accettava da Cosimo II, recente successore di Ferdinando I, l'ufficio e il titolo di “Primario Matematico dello studio di Pisa e Primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana.„ Tale era da qualche tempo (come il cuore degli uomini è a' loro danni irrequieto!) la segreta ambizione del sommo filosofo: aveva preso a stancarlo la cattedra, lo allettava la Corte; e in capo a questo precoce riposo dalle fatiche dell'insegnamento, negli agi d'una condizione indipendente dal servigio pubblico, travedeva egli la comodità di attendere alle grandi opere il cui disegno gli occupava la mente, e i modi più efficaci di assicurare al suo pensiero la combattuta via della conoscenza e del consentimento fra gli uomini. Non era certamente (e come avrebbe potuto essere?) una volgare ambizione la sua: il che non toglie però che la Corte, questo barbaglio adescatore di cuori e d'ingegni, delle cui illusioni la grande e tragica vittima era stata pochi anni innanzi Torquato Tasso, la Corte, prima quella di Mantova (ed erano state pratiche vuote d'effetto), poi quella della sua Firenze, attirasse anche questa grande anima di pensatore, vincolasse a sè l'opera di questo spezzator di catene. A tali disposizioni dell'animo suo non fu certamente estraneo il pensiero di denominare dai Medici quelle stelle, che meglio avrebber portato il nome stesso del loro rivelatore: e fu certamente questo omaggio, graditissimo al giovane principe già suo alunno, che affrettò la conchiusione alla pratica del suo rimpatriare. Tornava Galileo a Firenze, lieto (sono queste le sue parole) “di non più servire al pubblico„ dalla cattedra, di non dover più nel privato insegnamento “esporre le sue fatiche al prezzo arbitrario d'ogni avventore„: lieto della comodità a' propri studi, che “solo un principe assoluto poteva dargli„, e di aver così “messo il chiodo allo stato futuro della vita che gli avanzava„. “Condurrò a fine tre opere grandi che ho alle mani„ (due di queste erano certamente i Massimi Sistemi e le Nuove Scienze ): “darò forma ai segreti particolari, de' quali ho tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce ed ha sempre nociuto: conferirò a Sua Altezza tante e tali invenzioni, che forse niun altro principe ne ha delle maggiori; delle quali io non solo ne ho molte in effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte ancora alla giornata, secondo le occasioni che si presentassero: magna longeque admirabilia apud me habeo; grandi e altamente ammirabili cose ho io presso di me....„ Ahimè, non pensava il povero grand'uomo, che diciotto anni innanzi, tanto meno glorioso, la Repubblica Veneta lo aveva ricevuto onorevolmente, senza infliggergli l'affanno di tante profferte; non gli si affacciava alla mente che quella libertà filosofica, per la quale il Keplero, facendosi incontro a' suoi timori, gli si era esibito, avrebbe all'occorrenza trovato tanto più valida e già da altri sperimentata protezione nell'invisibile e paventato braccio di San Marco, che dallo scettro gemmato d'un principe. Il suo Sagredo rimpiangeva l'immensa perdita che esso e gli amici avean fatta; gli augurava felicità con parole piene, verso il nuovo padrone dell'amico, di veneta ossequente magnificenza; ma, con l'occhio proprio altresì di que clarissimi, gli rammentava “la libertà e monarchia di sè stesso„, le miserie cortigiane, e per ultimo i pericoli, diciamo con una sola parola, teologici, disegnandogli come in lontana prospettiva la sinistra figura, dal veneto orizzonte sbandita, dei Gesuiti.

VI.

I Gesuiti, la forte e compatta e valorosa milizia della Curia Romana dopo la scissione della unità della Chiesa; il sodalizio che ne' nuovi tempi proseguiva, con modi secondo l'età diversa mutati, quell'impero sulle menti e sui cuori, che altri ordini religiosi di tutt'altro stampo avevano esercitato nella età media; non derogarono neanche questa volta al loro istituto, di seguire attentamente e far suoi, adattandoli a' propri intendimenti, i portati dell'umano intelletto, tenersi in prima fila nel procedimento della scienza verso la verità, e, a tutti gli effetti, disciplinarlo. Così è che nella primavera del 1611 noi troviamo Galileo, qui in questa loro poderosa cittadella, assistere, festeggiato e acclamato, alla lettura d'un Nuncio Sidereo del Collegio Romano, in persona del quale il padre Clavio e i suoi valenti discepoli parlavano latinamente agli uditori in tal forma: — Essere condizione degli uomini il dubitare della verità delle grandi scoperte; le prime e più frettolose notizie voler essere confermate dalle posteriori, che arrivino magari a piè zoppo. A confermar quelle recate pel mondo dal Messaggero di Galileo, eccomi qua io, secondo corriere, ancor io dalle stelle, che vi riferisco ed attesto il veduto palesemente da noi. — Ciò avveniva dopo che essi medesimi, i Gesuiti, interrogati dal loro cardinale Bellarmino, valente ed erudito ed anche comprensivo ingegno, ma subordinatore assoluto de' resultati scientifici al criterio dell'autorità, avevano riconosciute le scoperte galileiane. Le quali poichè si collegavano strettamente col sistema Copernicano, che poneva il sole centro d'attrazione de' pianeti, compresa fra questi la Terra, e de' loro satelliti; — col sistema Copernicano, che non ancora condannato, oscillava però sul dubbio e pericoloso limitare di una possibile apparenza di contradizione con la lettera delle Sacre Scritture; — così, fin dal principio, Galileo più che de' Peripatetici aveva avuto apprensione de' teologi, la cui potenza, non obbligata non che a cimento di esperienze ma quasi neanco a dibattito di argomentazioni, costituita pro tribunali, aveva per propri istrumenti l'ammonizione, il divieto, la condanna, fino all'estremo atto del sostituirsi al braccio secolare e punire col carcere, con la corda, col rogo. E per ciò stesso, appena rimpatriato, egli avea chiesto al Granduca la licenza di questo viaggio romano (il suo secondo), non con altro proposito che di far palesi ed accette ai potenti della città eterna, e sicure per l'ulteriore svolgimento, le sue scoperte e le dottrine che ne conseguivano. Ora egli poteva, tornando al suo Principe, chiamarsi sodisfatto di quei più che due mesi di soggiorno in Roma. Il Collegio Romano; — il Quirinale, ne' cui giardini aveva a cardinali ed altri prelati e a gentiluomini mostrato col telescopio i Pianeti Medicei; — il principe Federico Cesi, e l'Accademia de' Lincei che si era onorata del suo nome; — la conversazione amichevole specialmente de' cardinali Dal Monte e Maffeo Barberini, suo anche encomiaste poetico; — infine, la presentazione fatta di lui a papa Paolo V dall'ambasciatore toscano; — erano i lieti ricordi del suo trionfo. Tale invero possiamo chiamarlo, quando in una lettera di quel cardinale Dal Monte al Granduca leggiamo: “Se noi fussimo ora in quella repubblica Romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio, per onorare l'eccellenza del suo valore.„ Ma in “quella repubblica Romana antica„ non si era più; la via trionfale del Campidoglio metteva erba da un pezzo: e da un'altra via, assai più battuta, là dietro la Basilica di San Pietro, la Sacra Romana Inquisizione, in que' giorni stessi che Galileo era in Roma, mandava una lettera all'Inquisizione di Padova, la quale avea dovuto mescolarsi nelle trascendenze aristoteliche del Cremonino, una lettera che dimandava: “Veggasi se nel processo del Cremonino sia nominato Galileo.„ In quel terribile registro, scienza vecchia e scienza nuova, Aristotile e Archimede, Cremonino e Galileo, erano scritti sulla medesima linea: ma Cesare Cremonino era sempre filosofo e pubblico lettore della Serenissima; e le vicende alle quali si congiunge il nome di fra Paolo Sarpi, erano storia recente.

VII.

Giova, a questo punto del nostro rapido discorso sopr'una delle più nobili vite che mai abbiano onorata ed esaltata l'umana natura, soffermarsi un tratto, e considerare. Galileo, non ancora toccato il suo cinquantesimo anno, aveva ormai in pugno l'intento nobilissimo di tutte le sue fatiche. Aveva dissotterrato dalla congerie de' vacui e speciosi filosofemi il principio sovrano dell'esperienza, e del ragionamento matematico sui dati genuini di lei; e dopo molte e varie e squisite applicazioni di tale principio ai fenomeni naturali, aveva, sempre mediante l'uso di quello, resa sensibile, al lume della razionale evidenza e dello splendore degli astri, invitta a qualsiasi impugnamento, la costituzione dell'universo. D'ora innanzi, ed era nel vigore d'una sana e ben complessa virilità, la parte ch'egli aveva da Dio verso gli uomini era la divulgazione della nuova dottrina, il suo svolgimento compiuto, la dimostrazione de' particolari, le riprove molteplici del già dimostrato o argomentato, le induzioni ulteriori; ed inoltre, come genialmente egli concepiva il proprio ufficio, l'abbellimento di quella verità coi lumi dell'arte, con le attrattive del sentimento: che fu il creare la prosa scientifica italiana. A ciò fare gli erano sembrate meno atte od anguste le aule della scuola, e aveva traveduto mezzo più efficace la immediata dipendenza da un Principe: aveva presentito ostacoli da Roma, e si era subito mosso a remuoverli o prevenirli. Questa parte, che egli teneva da Dio, doveva essergli contrastata dagli uomini; e più duramente da quelli, fra gli uomini, che parlavano nel nome di Dio.

Le maggiori opere di quei tre ultimi decennii della sua vita, le “grandi opere„ che gli abbiam sentito annunziare, non tanto al desiderato Principe quanto con gioiosa fiducia a sè stesso, nel trasferirsi da Padova a Firenze, furono il Dialogo de' Massimi Sistemi e i Dialoghi delle Scienze Nuove: — il Dialogo de' Massimi Sistemi, in dichiarazione e dimostrazione del sistema Copernicano comparato al Tolemaico, interlocutori i due suoi grandi amici e patroni, il Sagredo veneto e il fiorentino Filippo Salviati, e un buon diavolo di peripatetico, che da uno de' commentatori di Aristotile ha il nome, al quale fa molto onore, di Simplicio: — l'altra opera, i Dialoghi delle Scienze Nuove, pur co' medesimi interlocutori, lavoro eroico de' suoi estremi anni, da cieco infermo e perseguitato, dove, ripigliando i suoi giovanili studi sul Moto, “suggetto eterno„ son sue parole “e principalissimo in natura, speculato da tutti i gran filosofi„, su questo, e “sulla resistenza de' corpi solidi ad essere per violenza spezzati„, pone i principii o, com'egli dice quasi affacciandosi all'avvenire, “apre le prime porte di due nuove scienze, che gl'ingegni speculativi ne' seguenti secoli accresceranno con progresso e trapasso da quelle proposizioni ad altre infinite.„ Insomma, ne' Massimi Sistemi la costituzione della macchina mondiale: nelle Nuove Scienze le fondamenta della fisica moderna. E frammezzo a queste monumentali opere, il cui concepimento occuperebbe esso solo degnamente la vita intera d'un uomo, s'interpongono, materia adeguata all'operosità di tutta intera la vita d'un altro, gli studi (e le incresciose ma pur feconde controversie che li conseguitano) sulle macchie solari, quelli sulle cose galleggianti, quelli sul flusso e riflusso del mare, la trasformazione del telescopio in microscopio e il perfezionamento di questo, il ritrovato per la determinazione delle longitudini in mare, gli studi sulle comete, e da questi quella maraviglia di scrittura polemica che è il Saggiatore: nè la enumerazione è completa: e vi si aggiunge un immenso indefesso carteggio, prezioso del pari per quant'altro contiene di contributo alla scienza, e per essere in troppe pagine il desolato giornale d'un sublime martirio.

VIII.

Martirio, che può dirsi incominciato segretamente fin da quando tutto nell'ordine e nel progresso mirabile de' suoi studi lo portava a confermare e proclamare le verità Copernicane; e tutto, nel triste ambiente che lo avvolgeva, contrastava e ricacciava indietro questa libera espansione della sua coscienza scientifica. A Pisa, nella degna conversazione del filosofo e letterato Iacopo Mazzoni, a Padova nella altrettanto degna corrispondenza col Keplero, questo sentimento avea sempre pesato su lui: “non oso„ scriveva al Keplero “non oso pubblicare quanto potrei su tale argomento; la sorte di quel nostro maestro mi sgomenta.„ Ma la vittoria del Nunzio Sidereo gli dette animo, lo sospinse, gl'impose: quel suo prospero viaggio a Roma lo confortò: il consenso e l'affetto de' suoi seguaci, fra' quali uomini di Chiesa rispettabilissimi, il favore del giovine Principe e della madre sua Cristina di Lorena, parvero quasi dischiudergli la via. E mentre dal pulpito volgari cerretani della pietà profanavano essi la parola di Dio che accusavano lui d'impugnare, e contro di lui la appuntavano, vociando “Uomini Galilei, che state voi a guardare nel cielo?,„ e contro di lui eccitavano la falange de' semplici, de' timorati e degli ignoranti; egli in lettere, che erano manifesti e programmi della sua dottrina stupendi, in lettere al padre Castelli suo benaffetto discepolo, a monsignore Piero Dini, alla granduchessa Cristina, designava con mano sicura i limiti fra la scienza e la fede: — rivendicava “ai sensi, al discorso, all'intelletto„ il diritto e il dover loro di strumenti datici da Dio per conoscere il vero; alla scienza astronomica il privilegio di essere la libera dimostratrice de' misteri (sono sue parole) di quella “gloria e grandezza del Creatore, che mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture, e divinamente si legge nell'aperto libro del cielo„: avere lo Spirito Santo, per comune sentenza de' Padri e Dottori, raccolta in un'arguta frase dal dottissimo cardinale Baronio, voluto ammaestrarci “come si vada al cielo, e non come vada il cielo„: doversi ben guardare dall'erigere “ad articoli di fede le conclusioni naturali che sono in balía del senso e delle ragioni dimostrative„; — e protestandosi cattolico migliore e più provvido che non i suoi detrattori, scongiurava, come atto malaugurato e funesto, la minacciata condanna del libro di Copernico. La quale infatti può dirsi avere, nella storia del pensiero, inaugurato formalmente il dissidio tra la fede e la scienza; tardi, e inefficacemente riparato dai condannatori stessi, ne' primi lustri del secolo che ora volge al suo termine, con la cancellazione di quel marchio inconsulto dai libri e di Copernico e di Galileo.

Il marchio fu impresso sul libro di Copernico; e Galileo, generosamente accorso a Roma alla difesa, ben si può dire oggi, non solamente della scienza ma anche della religione, fu dal cardinale Bellarmino, per commissione del Sant'Ufizio, ammonito che abbandonasse quella dottrina: come a dire, che abbandonasse la coscienza del proprio pensiero. Era il 26 febbraio del 1616; e Galileo si trattenne ancora alcuni mesi, non per altro forse se non perchè la personale benevolenza che papa Paolo gli addimostrava lo illudesse a credere di poter egli, restando qua, favorito anche come si vedeva dai possenti Barberini, attenuare le conseguenze del fatto ormai consumato, ad impedire il quale anche Tommaso Campanella, il filosofo prigioniero, aveva assunto volonteroso, ma senza alcun pro, l'apologia e di Copernico e di Galileo. Nè tornò in Roma (poichè tali stazioni segnano ormai la sua via dolorosa) che nel 1624, per rendere omaggio al nuovo Pontefice Maffeo Barberini, asceso l'anno innanzi sulla cattedra di San Pietro col nome di Urbano VIII. Quel suo ritorno avveniva dopo pubblicato, in occasione della disputa sulle Comete, il Saggiatore, cioè dopo perduta la grazia de' Gesuiti, uno de' quali, il padre Grassi, era in quel capolavoro di dialettica e d'ironia staffilato fieramente: e cotesta conversione di animi ne' filosofi del Collegio Romano, i quali Galileo riconosceva “sapere assai sopra le comuni lettere de' frati,„ cotesta mutazione d'aura in queste sale che risonavano ancora delle festose accoglienze al Nunzio Sidereo, doveva pur troppo, volgendo “i lieti onori in tristi lutti„, ridondare in maligni influssi sull'ardimentoso censore. Tenne sospesi tali influssi l'amicizia che Maffeo Barberini conservava da papa per l'uomo che da cardinale avea favorito, da poeta aveva esaltato, e che, attestata a Galileo dalla continuazione di non scarsi favori, pe' quali egli forse s'illuse oltre il ragionevole, gli giovò tuttavia ad ottenere nel 1630, tornato a Roma la quinta volta, la licenza di stampa al Dialogo de' Massimi Sistemi. Ma quando nel 1632 il Dialogo fatale fu pubblicato; e che in esso, di sotto al tormento del trattarsi come mere ipotesi, accompagnate da epifonemi di esteriore disapprovazione, le conchiusioni più evidenti che logica umana abbia mai elaborate dai fatti; di sotto allo strazio di quella pressione indegna; la povera angustiata verità balzava fuori più intera e gagliarda che mai, e circondata altresì dalla possente attrattiva della patita violenza; e con altrettanto disdoro per la caparbietà de' violentatori; — e peggio poi, dopo che una pia calunnia ebbe insinuato a papa Urbano, come l'antica sua affettuosa ammirazione verso il filosofo fiorentino fosse ricambiata nel modo più sleale ed abietto, perchè fra i personaggi del Dialogo l'interlocutore dalle opposizioni per lo più inconcludenti e dalle inani sottigliezze scolastiche, l'uomo di paglia della conversazione, il “buon peripatetico„ Simplicio, era proprio lui Maffeo Barberini; — e badasse bene Sua Santità, che “quel libro di Galileo era più esecrando e più pernicioso a Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino„; — allora il Pontefice, nel cui animo (non volgare nè cattivo, fiero bensì quanto di qualsivoglia altro de' Pontefici più tempestosi) facevano magnifica e pericolosa alleanza tutto il fastoso orgoglio d'un Principe del secolo XVII, e l'irritabile vanità d'un letterato..... di tutti i secoli; e che si sentiva parlare a nome sì de' suoi doveri spirituali e sì delle sue passioncelle mortali; trapassò dall'affezione reverente al più fiero risentimento: e da quel giorno la rovina di Galileo fu irrevocabile. Perocchè la questione era addivenuta, non tanto della condanna o assoluzione, quanto della esemplarità del gastigo su quest'uomo, che sapeva il modo di vincere anche disarmato, e che dai decreti del tribunale Romano si appellava tacitamente, e trionfalmente, a quelli della umana coscienza.

Il 1632 è, nella vita di Galileo, l'anno che segna, insieme con la pubblicazione del Dialogo immortale, il suo ammalarsi in quello de' sensi che gli avevan partecipate le meraviglie del cielo, e sul declinare dell'anno l'intimazione del Commissario generale del Sant'Ufizio a comparire in Roma dinanzi a lui, ripetuta, poichè egli indugiava a muoversi, con la minaccia di esservi condotto prigioniero e in catene. Inutili le pratiche e le rimostranze del suo Principe, che era il novello Granduca Ferdinando II: nè, del resto, dal Granduca di Toscana poteva Galileo attendersi quella più efficace difesa di resistenza, che sola forse degli Stati italiani la Repubblica Veneta avrebbe potuta e voluta; la Repubblica, che l'anno innanzi ovviava volonterosa alle difficoltà da lui incontrate per la stampa del Dialogo, offrendoglisi per tale pubblicazione e per ricondurlo Lettore nel mal abbandonato Studio di Padova. Nel cuor del verno, fra i disagi del crudo gennaio e i sospetti vessatorii della moría, infermo e prostrato, Galileo per la sesta ed ultima volta era in cammino verso Roma: non più apportatore di nuovi trovati e di scoperte celesti, maestro di osservazione e di metodo; non più gratulante al Pontefice, e dai pontificali favori animato ad alte speranze per l'intento supremo della sua vita: ma in qualità di colpevole, contravventore alle ammonizioni del 1616, divulgatore di dottrina ormai condannata, esposto ai rigori del tribunale più universalmente temuto. De' quali se fu mitigata sulle membra cadenti del misero vecchio l'applicazione materiale, consentendogli, nei cinque mesi che qua dimorò, il più lungo soggiorno nel palazzo dell'Ambasciata toscana a Villa Medici, e a sola una ventina di giorni, in due volte, riducendo la sua stanza a modo di prigioniero nel palazzo stesso dell'Inquisizione; e risparmiandogli la tortura, che quasi certamente lo avrebbe ucciso; — se, evidentemente, la sodisfazione di vederselo a' piedi, dovuto dal suo stesso Principe a malincuore commettere alla mercè della onnipotenza teocratica, portò nel successivo procedimento, più miti consigli; — rimane poi sempre, che questa menomissima parte di giustizia salvatagli fu congiunta e subordinata all'atroce tortura, che egli da sè medesimo dovesse infliggersi, di ritrattare le verità conquistate, mentire a sè medesimo, sconfessare l'opera sua rivelatrice dell'universo. Fra quelle mani inflessibili, il venerando settuagenario discese tutta la china dolorosa delle proteste sulla sua retta “intenzione„, che la logica autoritaria e grossolana de' giudicatori convertiva in altrettante rinnegazioni del suo pensiero scientifico; fino alla profferta, discese pur troppo, di profanare il Dialogo, con l'apposizione d'una quinta e una sesta giornata, nelle quali avrebbe ripigliato gli argomenti già recati a favore della opinione falsa e dannata, per confutargli “in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato.„ La sciagurata profferta non fu (sia detto, imparzialmente, a lode di coloro) non fu raccolta; e il Dialogo non patì l'indegna profanazione: ma se questa si adempiva, non Dio benedetto, che è fonte di luce, l'avrebbe “somministrato„, sì lo spirito delle tenebre che in quella ora nefasta vinceva. E quando in altro interrogatorio, e fu il terzo, di pochi giorni appresso, dalla bocca di Galileo, dopo fatto presente il peso degli anni e delle infermità, i disagi del viaggio, la vita da quelle amarezze scorciatagli, uscirono parole come queste — “aver egli fede nella clemenza e benignità degli Eminentissimi giudici; con speranza che quello che potesse “parere alla loro intera giustizia, che mancasse a tanti patimenti per adeguato gastigo de' miei delitti, lo siano, da me pregati, per condonare alla cadente vecchiezza, che pur anch'essa umilmente se gli raccomanda„; — queste parole, da quella bocca, le riceveva, cancelliere invisibile, l'Angelo di giustizia e di misericordia, che avvolgeva delle sue ali l'augusto imputato, e scriveva sopra un libro che non era quello della Sacra Inquisizione Romana. Per tal modo l'infelicissimo filosofo seguiva le istruzioni ricevute, a sua salvezza, dal pietoso ambasciatore Niccolini; il buono e zelante ambasciatore toscano, che lui confortò, insieme con la gentildonna sua moglie, delle più amorevoli cure, per lui spese presso la Curia e presso il Papa quei più valevoli uffici, che dalla condizion delle cose e dalla qualità delle persone erano consentiti. A Galileo, che, nella onesta baldanza del sovrano intelletto, “si confidava di difender molto bene„ le sue opinioni scientifiche, le quali egli, sinceramente cattolico, non riputava, nè voleva per nulla, contraddicenti alle locuzioni figurate e interpretabilissime della Sacra Scrittura, aveva il Niccolini, con la premura di salvarlo a ogni costo, raccomandato che, “per finirla più presto„, non si curasse di sostener quelle opinioni: “sottomettersi„ gli diceva “a quel che vegga che posson desiderare sia veduto o tenuto da lei.„ Parole non meno piene di intimo dispregio pei tormentatori, che di affannosa pietà pel tormentato. Ma al primo riceverle, al vedersi con esse, inesorabilmente, posta la menzogna prezzo della salvezza, il misero vecchio era precipitato in tale turbamento e abbandono, “che„ avea scritto l'Ambasciatore, “da ieri in qua si dubita grandemente della sua vita.„ Quella notte di supremo strazio, alla quale appartiene la vera tortura di Galileo; e lo aver sopravvissuto a dettare i Dialoghi delle Nuove Scienze; lo assolvono dinanzi ad ogni anima generosa, e il disonore della violenta menzogna fanno cader tutto sopr'altro capo che il suo.

Era il 21 giugno 1633; e in un ultimo interrogatorio, agli assalti dell'“inquirente„, Galileo dichiarava l'opinione sua essere quella de' “Superiori„, cioè stabile la Terra, mobile il Sole: — contestatogli il tenore e il procedimento del Dialogo incriminato, replicava essere in quello, “esplicazion di ragioni„ dall'una e dall'altra parte, non “conchiusione dimostrativa„; questa essere riserbata “a più sublimi dottrine„: cioè alle dottrine di coloro dinanzi ai quali si trovava condotto: — per la terza volta incalzato, aversi forte presunzione del contrario; “e perciò, se non si risolva a confessare la verità, si deverrà “contro di lui agli opportuni rimedi di diritto e di fatto„, risponde: “Io non tengo nè ho tenuta questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla. Del resto son qua nelle loro mani: faccino quello gli piace:„ — e minacciatogli in ultimo, che “dica la verità; se no, si deverrà alla tortura„, il suo rispondere si estingue lamentosamente così: “Io son qua per far l'obedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto.„ E l'obbrobrioso dramma ha lì fine. Ma la sottoscrizione di Galileo, su quella carta 453 del processo, è questa volta vergata con mano tremante.

Il giorno dipoi, nella gran Sala dei Domenicani alla Minerva, gli era data lettura della sentenza che proibiva il suo libro, e a lui infliggeva il carcere ad arbitrio, nelle prigioni del Tribunale; e ricevevano, stando lui inginocchione, l'abiura impostagli, che egli recitava di parola in parola, e sottoscriveva. Il motto sdegnoso “ Eppur si muove! „ è una postuma vendetta della umana coscienza. Galileo non lo pronunziò. Ma il Galileo che abiurava i diritti imprescrittibili del pensiero, non era più lui! Il vero, l'autentico Galileo, che ancora per nove anni sopravvisse a quel povero vecchio conculcato e disfatto, nulla abiurò, nulla rinnegò, non mentì mai a Dio e a sè stesso: e i personaggi del Dialogo maledetto rivissero (proprio lo stesso Sagredo, lo stesso Salviati, lo stessissimo Simplicio) in un altro Dialogo, Le Nuove Scienze; rivissero imagini fedeli e immutate del suo alto pensiero, testimoni per lui e accusatori immortali contro i giudici suoi.

IX.

Ma la vita di que' nove anni! — La prigionia nella propria casa; la segregazione dalla cittadinanza e dal mondo; l'essergli o vietata, o sospettata, o largita a misura, o minacciosamente redarguitagli, la comunicazione del pensiero con gli amici, coi discepoli, coi pensanti le medesime cose: — e la sua villa del Gioiello in Arcetri, sperato e sudato rifugio e conforto alla stanca vecchiaia, vicina a un povero convento che accoglie monache, ombre del sogno della vita, le due sue figliuole, convertitagli in luogo di gastigo, fatta, com'egli ne data più lettere, “la mia carcere d'Arcetri„: — e non giovargli l'obbedienza, la sottomissione, il baciar la mano che lo percuote; non il remuover da sè la gloria che scende da ogni parte di mondo civile a illuminare de' suoi raggi que' bianchi capelli; non l'aver ricusato (con sodisfazione del Papa) dagli Stati d'Olanda la collana d'oro, omaggio agli studi e proposte per la determinazione delle longitudini; nulla giovargli, perchè quella schiavitù, nonostante il tre e quattro volte raccomandarsi, sia tolta; anzi minacciarglisi, se persisterà in tali suppliche che “mi faranno tornare, là, al carcere vero del Santo Ufizio„: — a mala pena, e solamente dopo bene accertato, e con visita dell'Inquisitore e del medico, il suo progressivo declinare verso il sepolcro, ottenere di trasferirsi nella sua casetta di città, concederglisi la preghiera in chiesa; ma solamente i giorni festivi, e alla chiesuola vicina, e che non ci sia gente: — intanto, prima da uno poi da tutt'e due gli occhi, accecare: “talmente che quel cielo, quel mondo è quell'universo, ch'io con mie maravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente creduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch'e' non è maggiore di quello che occupa la persona mia„: — e intanto, ancora, morirgli a trentatrè anni la sua suor Maria Celeste, un angelo di figliuola, che ne' silenzi del chiostro, ha della vita di lui fatta la vita sua; che dal gentile e pronto ingegno ha derivato tesori d'ammirazione per la paterna grandezza, e dal suo cuore di santa tesori d'affetto e di consolazione per le sventure di lui; che gli annunziava, povera monacella, aver prescelto lui, il processato per veemente sospezion d'eresia, a suo Patrono nella corte di que' cieli “i quali Vossignoria ha penetrati„; che aveva attratta a sè la condanna del Santo Ufizio, e addossatasene le penitenze spirituali; che mandandogli fiori di dicembre, “Le siano„ gli dice “simbolo di primavera celeste di là dal breve e oscuro inverno della vita presente„: — morirgli una tale figliuola, morirgli d'accoramento per quella inesorabile persecuzione, e rimanergli nell'anima la voce di lei, “della mia figliuola diletta,„ scrive egli piangendo, “che mi chiama, mi chiama continuamente„: — così, lungo questa agonia di vita, finir di morire; o veramente “mutar la mia presente carcere in quella comune, angustissima ed eterna„: — ecco i nove ultimi anni della vita di Galileo!

Eppure anche durante que' nove anni, anche fra quelle ombre che gli avvolgono l'anima, e di mezzo alle tenebre che gli si aggravano sulle spente pupille, quale eroico combattere con l'arme invitta del pensiero pel trionfo, sia pur lontano, sia pur disperato, della verità! Eppure appartengono a que' nove ultimi anni: i Dialoghi delle Scienze Nuove, coronamento del suo pensiero scientifico, che si pubblicano, come se di contrabbando, in Leida nel 1638; — il continuamento delle pratiche per la determinazione delle longitudini in mare; un catalogo delle operazioni astronomiche; gli studi sulla titubazione del disco lunare e sul candore o luce secondaria della luna; l'applicazione del pendolo all'orologio; — le risposte ai quesiti, incessanti e molteplici, dei curiosi e dei dotti; — le oneste e liete accoglienze, quando e quanto era possibile in quella sua condizione di custodito e sospetto, verso i visitatori (un d'essi, giovane non ancora trentenne, eternò poi il ricordo di quella visita in una linea d'un suo Poema, il Paradiso perduto!); — la ripresa e continuazione del carteggio con vigore e genialità giovanile sino agli ultimi giorni; — i disegni suoi, e il conferir sugli altrui, per la pubblicazione di tutti i suoi scritti; — la trasmissione e conferma, o diciam meglio la consacrazione, del suo pensiero ne' giovani (e quali giovani! Evangelista Torricelli, Vincenzio Viviani!), che vegliavano e scrivevano accanto a cotesto letticciuolo di martirio. Insomma, nel supremo sfolgorare di quel gran lume d'anima umana, par quasi che ella si sdoppi; rimanendo la parte affettiva sotto il peso di que' dolori ineffabili, e la intellettuale perdurando sino all'ultimo non alterata e non doma.

Forse il segreto di questo trionfo che in lui ebbe sulla umana la particella nostra divina, è nelle memorabili parole, che ad uno de' nobili spiriti adoperatosi inutilmente a mitigargli i rigori della condanna, con severa rassegnazione e con alterezza degna scriveva: “Non spero sollevamento alcuno; e questo, perchè non ho commesso delitto nessuno.... Sopra uno innocentemente condannato conviene, per coperta d'avere operato giuridicamente, mantenere il rigore.... Due conforti mi assistono perpetuamente: non aver mai declinato dalla pietà e dalla reverenza alla Chiesa; e la mia propria coscienza, da me solo pienamente conosciuta in terra, e in cielo da Dio.„ E ad un altro: “La rabbia de' miei potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo: i quali finalmente hanno voluto per sè stessi manifestarmisi„: e ciò (prosegue) mediante le parole di un matematico del Collegio Romano, il quale aveva dichiarato, che “s'egli si avesse saputo mantenere l'affetto dei Padri di questo Collegio, nulla sarebbe stato delle sue disgrazie, e avrebbe potuto scrivere ad arbitrio suo così del moto della Terra come d'ogni altra materia. — Sì che non è questa nè quella opinione quello che mi ha fatto e mi fa la guerra, ma l'essere in disgrazia de' Gesuiti.„

Morì perdonando. Una lettera al fido Castelli, che incomincia da filosofo “Il dubitare in filosofia è padre dell'invenzione, facendo strada allo scoprimento del vero„, finisce da cristiano: “Gli ricordo il continuare le orazioni appresso il Dio di misericordia e d'amore, per l'estirpazione di quelli odii intestini, de' miei maligni infelici persecutori.„ Così la benedizione di papa Urbano, che l'8 gennaio del 1642 si posava sul suo capezzale, nel carcere di Arcetri, vi trovò consumato il sacrifizio della vittima, intatta la coscienza del pensatore, non un sentimento di rancore nè d'odio.

Nel dicembre di quel medesimo anno nasceva il Newton, che sarà l'autore dei Principii matematici di filosofia naturale. Dei grandi sacerdoti dell'umanità, l'uno consegna all'altro, di secolo in secolo, la lampada inestinguibile: lampada tradunt!

X.

I funerali e la tumulazione di Galileo furono celebrati novantacinque anni dopo la morte: perchè la degna onoranza, alla quale subito si era profferto il fiore degli ingegni e de' cuori di Firenze, fu impedita, presso il debole Principe, dalla parola del Papa, di papa Urbano VIII sempre, che ricordò Galileo esser morto condannato dall'Inquisizione e durante la pena. Tentatosi di negargli financo la sepoltura ecclesiastica, Santa Croce, dov'eran le tombe de' suoi, e nel cui monastero sedeva l'Inquisizione, non fu permesso gli offrisse se non un oscuro angolo, fuori, si può dir, della chiesa, in uno stanzino annesso alla cappella del Noviziato, dove qualche anno appresso la pietà d'un buon francescano osò porgli un ricordo. Passati i novantacinque anni che ho detto, nel 1737, mutata di Medicea in Lorenese la dinastia, e nel secolo che doveva fra breve vedere la soppressione de' Gesuiti, gli avanzi suoi e del suo più figliuolo che discepolo Vincenzio Viviani, che aveva voluto esser sepolto con lui, e lasciato agli eredi l'obbligo di un monumento al Maestro, furono trasportati condegnamente al loro proprio luogo. Come al trasferimento di Michelangelo, così a questo di Galileo, nella medesima Santa Croce, destinata tempio della gloria italiana, partecipava, ne' suoi migliori intelletti, la cittadinanza: ma quale abisso, di quanto maggiore spazio che del tempo numericamente intercesso, si frappone tra que' due secoli, il XVI e il XVIII! Di là, l'ingegno italiano, non ancora dalla servitù mortificato, che percorsa fra gli splendori dell'arte una curva sempre più alto ascendente, ha improntato del suo stampo la civiltà del mondo. Di qua, una discesa cupa e rovinosa, dove la brutal forza de' pochi, abusato il cieco e oblioso assentimento de' molti, ha trascinato e compresso, sempre più giù, sempre più giù, con la libertà le coscienze, con la ispirazione gl'ingegni. Ma disotto a quelle rovine, ribelle indomita, fra le catene non mai ribadite vittoriosamente, per entro alla cenere de' roghi vivificatrice, si agita la scienza: e per virtù di lei risorgeranno l'ingegno, le coscienze, la libertà.

E allora, non che il dovuto sepolcro, ma a Galileo, presso la reggia che fu de' suoi Medici, sorgerà, tempio suo e della Scienza, la Tribuna che s'intitolerà dal suo nome: nel suo nome, sul compirsi del secondo secolo dalla morte, converrà in quella Tribuna, dinanzi alla sua statua e alle effigie de' suoi discepoli e continuatori, il terzo di quei Congressi, per la cui opera il fato provvidenziale d'Italia, dalle prigioni e dai patiboli, penetrava nelle aule de' sovrani e de' dotti: e del raccogliere splendidamente le carte galileiane, e del promuoverne e patrocinarne la pubblicazione, l'ultimo dei Granduchi farà gloria al principato civile. Ma quanto più caro, noi lo sentiamo, quanto più caro alla tua ombra placata, o padre della scienza italiana, quanto più degno e della scienza e della patria, che il tuo pensiero abbia oggi l'omaggio del culto nazionale nella Edizione (così ella risponda alla grandezza dell'assunto!) nella Edizione delle tue opere che porta in fronte, col tuo, il santo nome d'Italia, scrittovi, e scritto in Roma, dalla mano auspicatrice del Re d'Italia!

GIAMBATTISTA MARINI (1569-1625)

CONFERENZA DI Enrico Panzacchi

Conferenza tratta dal resoconto stenografico

I.

Signori! Signore!

In una calda giornata del giugno 1624, il cavalier Giambattista Marino tornava a Napoli, dove era nato nel 1569, e donde era stato lontano molti anni, dimorando molto a Roma e moltissimo in Francia. Ritornava, come suol dirsi, carico di lauri e alla guisa di un trionfatore antico. Ma la forma del suo trionfo era oltre ogni dire spettacolosa e bizzarra.

Fra tanto popolo, egli, sgraziato cavaliere, solo a cavallo. Dintorno a lui, dai lazzaroni ai gentiluomini, tutti facevano calca gridando evviva e tenendo il capo scoperto sotto quel sole cocentissimo. Avanti al corteggio era spiegata una gran bandiera su cui si leggevano in caratteri d'oro queste parole a foggia di epigrafe: Al nome del cavaliere Giovan Battista Marino, mare di incomparabile dottrina, di feconda eloquenza, di faconda erudizione, anima della poesia, spirito delle cetere, norma dei poeti, scopo delle penne, materia degli inchiostri, facondissimo, fecondissimo, tesoro dei preziosi concetti, delle peregrine invenzioni, felice fenice dei letterati, miracolo degli ingegni, splendor delle Muse, decoro della letteratura, gloria di Napoli, degli oziosi cigni principe meritissimo, dell'italica musa Apollo non favoloso, dalla cui gloriosa penna il poema ritrova i proprî pregi, l'orazione i naturali colori, il vero la vera armonia, la poesia il perfetto artifizio, ammirato dai dotti, onorato dai regi, acclamato dal mondo, celebrato dalle cose. In questi pochi inchiostri, picciol tributo di povero rivolo, Donato Facciuti, meritamente dona e consacra.

L'epigrafe è un po' lunga, ma mi pare che serva a metterci, come suol dirsi, nell'ambiente. In sostanza il Marino era il più celebre poeta che vivesse allora nel mondo.

Ricordiamoci che allora viveva anche in Inghilterra un certo Guglielmo Shakespeare. Ma chi l'aveva mai sentito solamente nominare dalle nostre parti? Bisognava che trascorressero molti e molti anni perchè Shakespeare avesse almeno una sinistra reputazione, quando il signor di Voltaire lo ebbe chiamato un barbaro ubriaco.

Il Marino, ho detto, era unanimemente riconosciuto per il primo poeta del mondo. Claudio Achillini, bolognese, uno dei suoi più celebri imitatori, gli scriveva, quando era in Francia: “Nella più pura parte dell'anima, mi sta viva questa opinione che voi siete il maggiore poeta tra quanti ne nascessero o fra i latini, o fra i greci, o fra i caldei, o fra gli ebrei. Questa affermazione difendo e professo colla lingua qualora ne parlo, e colla penna quando ne scrivo. Le api pandee non sanno stillare favi più dolci di quelli che si fabbricano nella vostra bocca, e la vostra fama poetica non sa volare con altre penne che colle vostre.„ E un degno collega dell'Achillini, anch'esso di Bologna, anch'esso scrittore celebratissimo, Girolamo Preti, gli scriveva: “Col vostro ingegno voi avete sorpassato tutti gli scrittori non solamente di questa, ma anche dell'età antica, i quali scrittori dell'età antica (così soglio dire sempre) se vedere potessero gli scritti del signor Marino, io mi fo a credere che gli scritti loro tanto meno piacerebbero a loro stessi, quanto più piacevano al loro secolo....„ E di questo gran concetto del Marino erano partecipi e facevano ad esso eco fedele i letterati più insigni delle altre nazioni. E mi basterà citarne uno solo, il Lopez De-Vega, il più gran poeta spagnuolo di quel secolo, il quale in frequenti passi ha del Marino lodi sperticate, che possono riassumersi in questo suo distico:

Joan Battista Marino es sol del Tasso,

Si bien che el Tasso lo servio de aurora.

E di questa fama ora dal tempo molto sfrondata, riman pure qualche cosa, o signore! Rimane non solamente nei libri delle storie letterarie, ma anche là dove il sopravvivere dell'opera sembra che sia un infallibile segno di grandezza. Girando per la vostra Toscana, forse non troverete più dei contadini che ricordino le terzine della Divina Commedia; e per la Laguna veneta i gondolieri hanno ormai dimenticate le ottave che celebrano i dolori di Erminia e gli amori di Clorinda; ma in qualunque regione d'Italia, penetrando nelle umili classi popolari e massime delle campagne, voi facilmente troverete ancora un poemetto di Giovanni Battista Marini, La strage degli Innocenti. Per tutte queste ragioni, il trattare di Giovanni Battista Marini parve conveniente a voi quando decideste i temi delle conferenze di quest'anno; ed io, onorato dell'incarico di parlarvene, cercherò di corrispondere come meglio potrò alla fiducia dimostratami, non tralasciando di ricordarvi che è un grande ausiliare di chi parla l'essere animato d'entusiasmo per il proprio argomento. Entusiasmo, ve lo confesso avanti, per il mio soggetto io proprio non ne ho! Mi sta dinanzi un clamoroso e complicato fenomeno letterario; ed io mi propongo di descriverlo in brevi tratti nelle sue origini e nelle sue fasi, lasciando naturalmente a voi il giudizio del come io l'avrò trattato.

Credo bene premettere che bisogna evitare delle confusioni molto dannose in questo argomento. Da alcuni si adoperano con molta facilità, alla rinfusa, i vocaboli seicento, seicentismo, marinismo. Il confondere i significati di questi vocaboli, è di grande ingiuria alla realtà dei fatti.

Il Seicento è ben altra cosa del seicentismo; o, se volete, il seicentismo non è che degenerazione del seicento, il quale ha lasciato le sue pagine gloriose nella storia d'Italia. Il Cinquecento instaurò nel mondo latino l'intuito, il sentimento del reale, sgombrandolo dalle nebbie del Medio Evo. Ora a questo sentimento, vivo ma sempre un po' vago e indeterminato, il Seicento fece seguire la dimostrazione sperimentale; e questo basterebbe per la gloria di un secolo. A rappresentare poi questa gloria basterà ricordare Galileo Galilei e l'Accademia del Cimento.

Anche nell'arte figurativa il Seicento ha glorie insigni. Fu esso un secolo di generosi contrasti, di sforzi erculei per rattenere nella china fatale le arti che precipitavano. E in questo contrasto le arti erano rappresentate da uomini di grande ingegno e di fortissimo sentire, come il Bernini, il Domenichino, Guido Reni ed altri. Da questo contrasto uscì fuori una nuova forma d'arte italica che intimamente corrisponde al periodo tragico; una conquista importantissima, che, nella loro artistica serenità, i secoli anteriori non si erano curati di afferrare.

Rimane dunque a parlare del seicentismo letterario; e anche qui, per avere un'idea esatta, bisogna allargare i confini geografici. Non è vero che il seicentismo fosse fenomeno prettamente italiano. Tutte le nazioni ebbero in quel tempo il loro Seicento. Lo ebbero gli Spagnuoli, col nome di gongorismo; lo ebbero gl'inglesi col nome di eufuismo; lo ebbero i Francesi col nome di preziosismo. E quando, per esempio, Filarete Chasles ci dice che il cavalier Marino andò a fare scuola a Parigi chiamatovi dal maresciallo D'Ancre e protettovi da Maria de' Medici, dice una cosa grandemente inesatta. Bisognerebbe anzi invertire i termini del fatto. Fu la gran consonanza fra il gusto del Marino e i gusti prevalenti già da tempo in Francia, che determinò la chiamata del poeta e causò il suo incredibile trionfo. L' Hôtel Rambouillet era già pieno da un pezzo dei suoi preziosi e delle sue preziose; ed essi pendevano dalle labbra dell'autore dell' Adone appunto perchè nelle sue metafore e ne' suoi “concetti„ sentivano quello che era accetto al gusto loro e lusingava le loro più vive predilezioni. Potremo anzi dire di più; e cioè che il Marino stesso (e questo lo si rileva leggendo con ordine cronologico parecchi dei suoi componimenti più importanti) che il Marino stesso attinse dalle preziosità francesi degli elementi nuovi che al focoso napoletano prima erano sfuggiti. È vero che il Cottin e il Voiture e il De Portes e Balzac e gli altri presero da lui senza dubbio; ma se presero dal Marino, qualche cosa anche a lui dettero; e tanto dettero che il Marino, ci ritornò di Francia non solamente come autore delle sperticate metafore e delle smisurate fantasie, ma anche come il poeta di certi vezzi e di certe raffinatezze, che hanno la loro origine nella mente e nel gusto della Francia di quel tempo; tutto un edificio letterario di pessimo gusto, che doveva poi esser assalito dall'umorismo potente di Molière e dagli anatemi del Boileau.

Questo dunque bisogna mettere in chiaro. Il seicentismo non fu un malanno esclusivo di noi altri Italiani; fu invece una specie di lebbra universale, che invase le letterature europee di quel tempo.

Quale l'origine di questo male comune? Io credo che esso debba considerarsi come una mala conseguenza dell'umanismo, pigliato, ben inteso, non nella sua pura e gagliarda essenza, ma nella sua parte caduca e facilmente degenerativa. Orazio ha detto una sentenza feconda di grandissimi significati: facile est inventis addere. Ora il dare ad un popolo una letteratura che non nasca tutta intera dalle sue viscere, che non sia tutta inspirata dalle condizioni vive e presenti dell'epoca, ma che sia formata per la più parte di splendidi e seducenti ricordi, lascia nell'organismo di questo popolo delle facoltà latenti ed inerti, che poi pel vizio stesso dell'inerzia sono tratte o ad intorpidirsi o a sovvraeccitarsi. Da questo doppio difetto nacquero e la rinuncia ad ogni bella e vigorosa iniziativa e un fatuo e sregolato amore di novità. Condotti da questi due istinti viziosi, i poeti si dettero con predilezione a lavorare le materie già loro somministrate dall'antico; poi, come non si può sempre ripetere quello che è stato detto, ma bisogna qualche cosa aggiungere, divenne inevitabile che essi, aggiungendo, guastassero. Per cui a poco a poco si formò un fenomeno semplicissimo e naturalissimo; che cioè l'artista si venne a mano a mano obliando nell'opera sua, facendo a sè stesso spettacolo dilettoso del proprio artifizio. Ed una volta messo su questa strada, si lasciò andare a una specie di degenerazione inavvertita e istintiva. Aggiungete che a questa degenerazione si aggiunse lo stimolo potentissimo dell'emulazione, perchè se uno passava di una linea il giusto segno, l'altro doveva passarlo di due. Pur troppo è con l'aumento e con l'incremento materiale delle proporzioni e dei colori che l'opera d'arte riesce a richiamare l'attenzione del grosso pubblico!

Però non è da meravigliarsi se tutte le nazioni moderne, le quali, per l'esempio e per l'impulso dell'Italia, hanno ricominciato a rivivere nel culto e nell'imitazione di letterature morte, hanno tutte preso la medesima china e se il seicentismo fu un guaio comune.

Credete poi che frugando un po' attentamente entro la letteratura del Medio Evo, non ritrovereste nei residui della bassa latinità, degli eccessivi e puerili artifici ricorrenti ad ogni piè sospinto? Massime gli scritti puramente mistici sono pieni di ogni fatta di manierismi; e a tradurli in italiano ci parrebbe di essere già da un pezzo in pieno Seicento. Lasciamo da parte le preziosità latine eredità dei provenzali, e certe ricercatezze a cui non seppe sfuggire nemmeno il genio austero di Dante Alighieri. Lasciamo da parte i giochetti a cui si lasciò tanto volentieri andare il Petrarca sul nome di Laura, e certi contrasti che fanno parer lui, piuttosto che il principe dei poeti amorosi italiani, l'ultimo arrivato dei trovatori provenzali. Ma fermiamoci a contemplare un aspetto solo dell'arte del dire, quello che più si presta ai ragguagli ed ai confronti istruttivi: il sentimento della natura. Voi vedete come il sentimento della natura nei nostri poeti del Trecento è, in generale, schietto ed efficace. Dante con una terzina ha la potenza di rendervi un paesaggio in termini così sobrii e insieme così rilevati che la fantasia e il gusto non domandano di più. Ma come venite al quattrocento, ecco che già il manierismo comincia a far capolino. Il Poliziano, per esempio, l'adorabile nostro Poliziano, non vorremo noi dire che qualche volta si lascia andare alle vaghezze d'un artificio troppo palese?

Trema la mammoletta verginella

Con occhi bassi, onesta e vergognosa,

Ma vie più lieta, più ridente e bella

Ardisce aprire il seno al sol la rosa.

Questo di verde gemme s'incappella;

Quella si mostra allo sportel vezzosa,

L'altra che in dolce fuoco ardea pur ora,

Languida cade e il bel pratello infiora.

... L'alba nutrica d'amoroso nembo

Gialle, sanguigne e candide viole;

Descritto ha il suo dolor Giacinto in grembo;

Narciso al rio si specchia come suole;

In bianca vesta con purpureo lembo

Si gira Clizia pallidetta al sole;

Adon rinfresca a Venere il suo pianto;

Tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.

Adorabili ottave! ma un principio artifizioso, qua e là, sarebbe impossibile dissimularlo. E quella tanto decantata ottava dell'Ariosto intorno alla rosa, chi negherà che non abbia qualche cosa di eccessivo, quando dice che a questo fiore la terra e il cielo e il sole s'inchinano? Troppo grande atteggiamento dell'Universo intorno a così piccolo oggetto!

Ebbene, a questi accenni e a questi spunti si attaccarono con una specie di furia tutti gl'ingegni minori. E noi in pieno Quattrocento abbiamo un vero e proprio seicentismo, tanto che il mio maestro e amico, vanto non bugiardo dell'erudizione e della critica italiana, Alessandro d'Ancona, descrivendoci le rime del Cariteo, del Tribaldeo, dell'Alunno, di Serafino Aquilano, del Sessa, del Notturno, dell'Altissimo ed altri poeti minori di quell'epoca, non fa altro che venire su bel bello passando dai loro sonetti a quelli dell'Achillini e del Marini. Questa esposizione ci mostra che il trapasso riuscì nella storia agevolissimo; anzi parecchie volte si rimane in forse se, nel confronto, i meno seicentisti non debbono considerarsi il Marini e l'Achillini. Naturalmente poi nel suo ascendere questa artificiosità arriva ad un punto che sa di mostruoso e di grottesco. E per darvi un'idea di questa specie di vertice sciagurato a cui si potè arrivare, non faccio che prendere alcune ottave del nostro Marino attorno alla rosa e vi consiglio di ascoltarle avendo presente l'ottava dell'Ariosto.

Rosa, riso d'amor del ciel fattura,

Rosa dal sangue mio fatta vermiglia

Pregio del mondo e fregio di natura,

De la terra e del sol vergine figlia,

D'ogni ninfa e pastor delizia e cura

Onor de l'odorifera famiglia,

Tu tien d'ogni beltà le palme prime,

Sopra il volgo de' fior donna sublime.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Porpora dei giardin, pompa dei prati,

Gemma di primavera, occhio d'aprile.

Di te le Grazie e gli Amoretti alati

Son ghirlanda alle chiome, al sen monile.

Tu, qualor torna agli alimenti usati

Ape leggiadra o zeffiro gentile,

Dai lor da bere in tazze di rubini

Rugiadosi licori e cristallini.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Non superbisca ambizïoso il Sole

Di trionfar fra le minori stelle,

Che ancor tu fra i ligustri e le vïole

Scopri le pompe tue superbe e belle.

Tu sei con tue bellezze uniche e sole

Splendor di queste piagge, egli di quelle;

Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,

Tu sole in terra, egli rosa in cielo!

Vedete a che punto, salendo di grado in grado, può arrivare l'artificiosità. Un altro esempio, perchè io credo che valga meglio valersi degli esempi anzichè procedere per elaborate dimostrazioni teoriche, lo abbiamo in un altro argomento anche più attraente, molto trattato dalla letteratura italiana: il bacio.

Dante Alighieri scolpì e condensò tutta la poesia del bacio con un verso solo:

La bocca mi baciò tutto tremante.

Quante perifrasi, quanti allungamenti e aggiunte dal manierismo poetico a quel tocco rapido e potente in cui sentiamo tutte le suggestioni del dramma d'amore! Ora andate a leggere (preferisco, o signore, che leggiate voi) come sottilmente teorizzi e pindarizzi sul bacio uno dei poeti più cari alla propria generazione e che mantenne fino a noi una meritata fama, voglio dire G. B. Guarini, Fautore del Pastor Fido, l'emulo di Torquato Tasso nella poesia nell'idillio campestre:

Quello è morto bacio a cui

La baciata beltà bacio non rende......

E tutta quella melliflua onda di baci si chiude col distico di cadenza:

E son come d'amor baci baciati,

Gl'incontri di due cori innamorati.

II.

Contro tutto questo esagerare e sconfinare dell'artificio in Italia, non esisteva un argine sicuro. L'umanismo per sè stesso era stato un forte coefficente di vita italiana, anzi l'aveva eretta e rialzata a più nobili ideali; ma questo accadde soltanto fino che perdurarono in Italia certe date condizioni. Ma pur troppo la vita italiana, voi lo sapete, decadde miseramente per tante cause che sarebbe fuori di luogo qui l'enumerare. La vita italiana si venne rapidamente fatturando e artificiando oltre ogni dire in tutti i suoi elementi. Se voi esaminate tutti gli strati di questa vita, voi vedrete perchè la cultura dovesse diventare inevitabilmente un futile fine a sè stessa. L'Italia mancò al proprio destino, mentre altre Nazioni lo raggiungevano; e avvenne che tutte le forze residuali di questo grande organismo, invece di esercitarsi ed effondersi nel bene, si ripiegarono sopra loro stesse, e in qualche guisa scambievolmente si macerarono e si corruppero. In tutti gli strati della vita italiana, voi vedete l'artificio e la falsità. Mancò il gran tentativo del rifacimento religioso, o riuscì solamente in parte. Mancò in tutto e per tutto il nobile sforzo balenato a qualche mente generosa della ricostituzione politica; e noi rimanemmo un paese che non poteva più bastare a sè stesso, perchè non aveva più un avvenire. Ed è doloroso insieme e curioso il vedere come, più noi penetriamo nella essenza della vita italiana d'allora, più risaltano l'artificio e la corruttela che prende il posto del suo sano e spontaneo svolgimento. Bisogna rifarsi da gli usi della casa, principiando dalla cucina, dove la droga e il pigmento portano una specie di guerra micidiale agli stomachi. Certe morti celebri e poeticamente immaginate (o miseria!) non sono altro che delle morti di indigestioni. Chi oserà più scrivere romanzi e tragedie pietose sul fato di Bianca Capello e di Ferdinanda de' Medici? Poi andate su su per tutte le forme esteriori della vita e sempre e da per tutto si affaccia il medesimo fenomeno sconsolante. Un povero principe di Casa d'Este voleva che i suoi figliuoli intraprendessero un viaggio per l'Italia; dovette rinunziarvi perchè non si riuscì mai a combinar bene le precedenze nel passo degli usi fra lui e i Principi delle altre Case d'Italia!

A questa vita affatturata, ammanierata e finta, doveva corrispondere una falsa poesia, perchè la poesia, non bisogna mai dimenticarlo, è il riflesso ingenuo, spontaneo delle condizioni morali di un popolo. Questa poesia che non aveva più grandi ideali da cantare, dovette profondere i suoi tesori di melodia e di immagini intorno alle frivolezze; e più l'argomento era frivolo e più bisognava che il tono si alzasse, e le immagini si gonfiassero, e i sentimenti fossero manifestati con goffa ostentazione. Mancato lo scopo civile e lo scopo religioso; ossia tenuti in basso luogo l'uno e l'altro; subordinati i grandi e serî uffici della vita alle pompose esteriorità, anche l'arte, anche la poesia dovevano risentirne; e a tutti gli altri ideali doveva essere preferito quello della sorpresa; e a preferenza di tutti gli altri effetti, doveva esserne ricercato uno solo, lo stupore.

La poesia del Seicento non è che una continua ricerca di questo unico intento: lo stupore. Il Marino, a buon dritto, fu salutato il grande poeta dell'epoca, appunto perchè egli diede insieme la poesia e la poetica del suo tempo.

È del poeta il fin la meraviglia.

Chi non sa far stupir, vada alla striglia.

E fedele a questa sua massima, voi lo vedrete sempre tormentare ed agitare il suo ingegno di poeta nato (perchè sarebbe ingiustizia grande il negare che il Marino fosse poeta nato), lo vedrete arrovellarsi a pungere e a sovreccitare tutte le sue facoltà preziose per non raggiungere che questa esteriorità: lo stupore; per contentare sempre e solo questa facoltà di secondo ordine: lo stupore. Perchè, bisogna riconoscerlo, o signore, la meraviglia, lo stupore se non s'accompagnano ad un grande e nobile sentimento, per sè stesse hanno qualche cosa di puerile e di frivolo, e si confondono facilmente colla curiosità prevalente nelle donnicciuole e nei bambini. Si tratta insomma di una facoltà umana di second'ordine; e ben a ragione Dante ebbe a dire che lo stupore “negli alti cor tosto s'attuta.„

E per raggiungere lo stupore, quali i mezzi? I mezzi furono molti e furono molto ingegnosamente usati; ma prevalsero i così detti concetti. Che cos'è il concetto, poeticamente parlando? Ecco: una delle grandi magie della tavolozza poetica è il traslato. Ma il traslato ha in sè stesso una vivacità esauriente, come quello che rampolla nella nostra fantasia momentaneamente eccitata per l'effetto di qualche oggetto esteriore o interiore che ci colpisca. Bisogna dunque che il traslato abbia come una limitazione e una ragion d'essere fuori di sè stesso. Se per il contrario noi prendiamo il traslato come punto di partenza e come fine; se moviamo da esso per procedere alla conquista d'un traslato ulteriore, si forma un soverchio, che ingombra la nostra fantasia e offende il nostro gusto. La immagine invocata opportunamente dall'artista per abbellire e dar rilievo all'oggetto si converte in una specie di miraggio perturbatore, il quale, frapponendosi fra la mente e l'oggetto, induce effetto contrario.

Permettetemi un esempio usuale. Se io di un bel praticello di aprile dico che esso è “ridente„ adopro un traslato che corrisponde perfettamente al caso mio, perchè appunto si collega con quella vivacità di emozione che la cosa ha risvegliato in me. Ma se, attaccandomi a questo traslato, ne adopro un altro e dico che i fiorellini bianchi del prato sono i denti e i fiorellini rossi sono le labbra manifestanti quel sorriso, ecco che do in una goffaggine che abbuia e distrugge l'effetto per cui ho adoprato la prima metafora.

Orbene di queste goffaggini fecero la loro delizia e il loro vanto continuo i poeti seicentisti; ed a tutti loro andò di sopra per ardimento, per audacia, per maliziosa abilità tecnica Giovan Battista Marini.

Alle volte si tratta di semplici allitterazioni, di puerili giuochi di parole:

La vite, onde la vita è sostenuta,

D'ogni calamità fia calamita.

Oppure:

Se il crine è un Tago e son due soli i lumi,

Non vide mai più bel prodigio il cielo,

Bagnar coi soli ed asciugar coi fiumi.

E qui non c'è solo giuoco di parole, ma c'è appunto quella sovrapposizione e quell'amalgama di più traslati a cui accennavo più sopra, che distrugge tutta la vaghezza della prima immagine.

Ma il Marino non effuse tutta quanta la sua potenza di poeta nel giuoco lirico dei concetti. Egli ambì di trattare i diversi soggetti poetici cogli espedienti dell'arte sua, in modo da potersi cimentare coi poeti più insigni che lo avevano preceduto. E qui egli manifestò, ottenendo un infelice primato sovra i suoi contemporanei, la mancanza di ogni misura, dandoci nel modo più rilevato il secondo carattere del Seicento; voglio dire, oltre l'artificiosità, l'intemperanza.

Confuse lo sfarzo colla forza; confuse l'abbondanza tumultuaria colla ricchezza vera. Il dire una cosa venti, trenta volte, parve a lui vanto migliore che il dirla una volta sola sobriamente ed efficacemente.

Non si stanca mai di amplificare, di gonfiare, di esagerare. E quando è arrivato al vertice della sua infelice piramide, come quel re Salmonèo che voleva imitare Giove, lampeggia e tuona a tutto andare. Ma se guardate bene per entro al bagliore e al fumo, troverete un concettino che mette il burlesco accanto all'elefantesco, accanto al mostruoso il puerile.

Questo il Marinismo ne' suoi punti più decisivi e più caratteristici. Riprendiamo gli esempi. A dare un'idea del grandioso i veri poeti dell'antichità ci avevano avvezzato con tocchi rapidi ed efficacissimi.

Ricordatevi Dante che ci mette davanti vivo e scolpito un gigante smisurato:

E com'albero di nave si levò;

oppure ci fa vedere la statura orrenda e gigantesca di Lucifero con due versi:

E più che ad un gigante io mi convegno

Che un gigante non fan colle sue braccia.

Il Marino si accinge ad emulare questa potenza di rappresentazione e si illude di riuscirvi, profondendo a piene mani gli epiteti più significativi pigliati alla rinfusa da tutto ciò che può associarsi all'idea di grandezza smisurata. Ecco una sua descrizione a proposito d'Apollo che prostra il serpente Pitone:

Già l'ingordo Piton, che avea pur dianzi

Co' fiati ardenti e con gli acuti fischi

Secche le selve, impoveriti i prati,

Decisi i fiori e consumate l'erbe,

E con la bocca e con la lingua immonda

Distrutti i fonti ed asciugati i fiumi,

Infetta l'acqua ed infamati i lidi,

Con un bosco di strali in su la scorza

Per man del biondo Dio giacea trafitto.

E il superbo Cadavere che, ancora

l'ali e la fronte orribilmente adorno

D'aurate conche di purpuree creste

E l'aspra coda e lo scoglioso tergo

Tinta di nera e squallida verdura,

La foresta cuopria di fiera pompa,

Svolte le immense e smisurate spire

Distesi gli orbi e rallentati i nodi,

Sotto il suo vasto sen lo spaziò intero

Occupato tenea di cento campi.

Il verso di Dante ci ha dato una pittura viva; i diciannove versi del Marino ci danno una farraggine di particolari sconfinata ed inverosimile, che lascia la nostra fantasia fredda e vuota.

E questa sua emulazione nei temi ove meglio prevalsero i grandi poeti che lo avevano preceduto, è realmente un suo infelice proposito. Infatti egli non tralascia nelle lettere che scrive agli amici di vantarsi d'aver messo il piede dove l'avevano messo i poeti grandi suoi predecessori, e di essersela cavata con molto onore! Per esempio, egli scrive all'Achillini che è molto contento del suo idillio L'Orfeo, e che gli pare di averlo trattato in guisa che egli non abbia a scapitare, per quanti poeti, e sono tanti e così insigni, si possano ricordare che hanno trattato il medesimo soggetto.

Alla mente qui subito si affaccia, come una ironica condanna, quel gioiello d'ispirazione e di freschezza poetica che è l' Orfeo del Poliziano. Voi ricordate certo la semplicità melodica, l'effusione passionata e schietta del lamento di Aristeo:

Udite selve mie dolci parole

Poichè la bella Ninfa udir non vuole!

La bella Ninfa sorda al mio lamento

Il suon di nostra fistola non cura;

Però si lagna il mio cornuto armento

Nè vuol bagnare il ceffo in acqua pura

Nè toccar la tenera verdura,

Tanto del suo pastor gl'incresce e duole.

Udite selve mie dolci parole Poichè la bella Ninfa udir non vuole!

Ebbene, al Marino pareva di aver fatto qualche cosa di meglio dell' Orfeo del Poliziano! Ed io vi darò per tutto saggio dello stile alcuni versi nei quali descrive la fuga di Euridice. Euridice fugge davanti al pastore Aristeo, che ha cercato invano di espugnare il suo cuore con un interminabile e stucchevolissimo lamento. La bella Ninfa per tutta risposta, si mette a fuggire e incontra la morte, perchè, come sapete, trovò per istrada il serpente che la punse e la mandò al di là delle acque di Lete dove lo sposo doveva poi andare a riconquistarla. Ecco ora come il Marino descrive la fuga di Euridice:

Facean le bionde trecce

(Amorosi trofei de' bianchi ordegni)

Lacerate, grondanti ai negri busti

De le ruvide querce aurei monili;

E volando d'intorno

A quelle belle e lucide catene

Vi restò prigionier più d'un augello....

Che ne dite, o signore, di questi capelli della Ninfa convertiti in un paretaio?

III.

Però, dopo avere enumerati tanti difetti, non si può negare al Marino di aver portato qualche cosa di suo e di buono nella poesia italiana; ed è, a mio creder, una seducente musicalità, per cui fu detto che egli deve considerarsi come il vero ispiratore di Pietro Metastasio, che trovò poi modi e forme così confacenti allo svolgersi della melodia italiana nel secolo passato. Veramente io questo particolare merito al Marino non mi pare che con giustizia possa esser fatto. Maestri di Metastasio furono piuttosto i greci e Torquato Tasso, della cui indole tanto egli risentiva, della cui più sobria e più nitida musicalità tanto hanno impronta i suoi versi, massime dove, lasciato il movimento degli sciolti, si riassumono e si condensano in quelle eleganti strofette, le quali così a ragione ci sorprendono per quella che il poeta chiamava “la sua difficile facilità.„

Ad ogni modo nel poetare di Gian Battista Marini c'è veramente qualche cosa di nuovo; c'è una gamma musicale che la poesia italiana può vantare come una nuova conquista:

Io chiamo te, per cui si volle e muove

La più benigna e mansueta sfera,

Santa madre d'amor figlia di Giove,

Bella Dea d'Amatunta e di Citera

Te la cui stella, onde ogni grazia piove,

De la notte e del giorno è messaggera,

Te lo cui raggio limpido e profondo

Serena il cielo ed innamora il mondo.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Dettami tu del giovinetto amato

Le venture e le glorie alte e superbe;

Qual teco in prima vissi, indi qual fato

L' estinse e tinse del suo sangue l'erbe,

E tu m'insegna del tuo cor piagato

A dir le pene dolcemente acerbe,

E le dolci parole e il dolce pianto;

E tu de' cigni tuoi m'impetra il canto.

E tutta quella pròtasi del poema è veramente una magnifica sinfonia. A quest'onda melodiosa il senso del lettore si lascia trascinare e volentieri oblia.... Tante cose oblia!

Oblia per esempio la finezza più riposta, ma tanto più pregevole dei variati e melodici atteggiamenti che i poeti avevano saputo indurre nei loro versi. Non c'è più quella indefinita, varia, libera accentuazione che tanto piace nei trecentisti e nei quattrocentisti. Si direbbe che il Marino è come il precursore di certi musicisti superficiali del suo paese, e che con un mezzo solo, al par di essi, egli vuol trascinare e conquidere il sentimento del suo lettore.

Un altro pregio è certo la affettività, la esuberanza del sentimento tutta meridionale che trabocca dall'animo del Marino, massime quando descrive certi affetti e certe commozioni di un'indole, a dir vero, non nobilissima. Talvolta egli ha realmente una foga di sensualità che nessun poeta italiano aveva ancora raggiunto. E qui vi chiedo, o signore, che mi crediate sulla parola anzichè indurmi a citarvi degli esempi!

Dopo avere emulate le pagine soavissime, seducentissime del suo conterraneo il Pantano che, per dir vero, aveva stracciato quasi tutti i veli che cuoprivano l'amore, Giovan Battista Marini, volendo mantenere il primato fra i poeti del suo tempo, non poteva mancare ad un assunto, che era ancora, pur troppo, obbligatorio dinanzi al pubblico italiano. Anch'egli, il poeta lirico che tutti i paesi acclamavano ed invidiavano all'Italia, non si sentiva completo se non impugnando l'epica tromba, dando all'Italia il suo poema epico.

Tutti già da tempo l'aspettavano. Ed egli lasciava dire promettendolo; e di mano in mano faceva vedere con molta diplomazia qualche saggio di quello che sarebbe stato il suo lavoro, enunciandolo come il coronamento dell'edificio. E venne l' Adone. Ed è appunto in questo poema, o signore, che appare manifesta la grande deficenza di questo poeta; e la grande sproporzione che esistè fra la sua fortuna e il suo merito.

La macchina dell' Adone è tuttociò che si può pensare di più frivolo e di più meschino. Tutto si riduce alle peripezie ed alle avventure amorose della Dea del piacere col giovinetto figlio di Mirra. E poichè da questo magro idillio non si poteva cavare un poema, se non gonfiandolo ed imbottendolo in tutti i sensi, così la macchina è ingrandita ed allargata introducendo le più strane e futili immaginazioni che mai si possano escogitare dalla mente di un poeta perdigiorni.

E non crediate che per questo il Marino declinasse da nessuna pretesa degli epici suoi contemporanei e predecessori. Egli crede di aver fatto un vero poema epico in tutta la serietà della sostanza e con tutte le grazie della forma. A nulla egli rinuncia; nemmeno al concetto dell'allegoria. Voi sapete che al Tasso, fatta la Gerusalemme Liberata, i suoi critici dicevano: non c'è poema epico perfetto, se non ha la sua allegoria, che dia ragione dell'insieme e di tutte le sue parti. Dov'è la allegoria della Gerusalemme? E il povero Torquato dovette stillarsi il cervello e contentarli!

Al suo poema il Marino diede dunque un'allegoria; e la diede eminentemente morale. Ci voleva davvero tutta quanta la sua sfacciataggine! Il poema è tessuto di scene tutt'altro che eccellenti per morale austerità, come potete immaginare; ma egli sa così bene trar partito dalla disinvoltura del suo ingegno che riesce a cavar fuori delle formule morali da quel soggetto.

Per esempio, al canto VIII vi descrive le più intime scene d'amore tra i due eroi del poema. Immaginate voi di che possa trattarsi. Ebbene: anche il canto VIII ha in testa la sua brava allegoria, così spiegata dal Marino:

Il Piacere, che nel giardino del Tatto sta in compagnia della Licenza, allude alla scellerata opinione di coloro che danno al Senso una indebita signoria sulla Ragione.

Il che ci fa pensare a quel gesuitismo artistico tanto di moda a quel tempo, in virtù del quale si dipingevano, per esempio, delle Veneri licenziosette anzi che no e poi, messoci accanto un teschio di morto, si facevano passare per Maddalene pentite e penitenti. A che non s'arriva sottilizzando e distinguendo? Ricordiamoci di quel frate che trovandosi di venerdì con avanti un cappone arrosto sclamava: baptipzo te carpam! E battezzatolo per pesce se lo mangiava con la coscienza tranquilla.

Il fatto è che viene un senso di profondo dolore a pensare come la materia epica, così nobilmente materiata di spiriti cavallereschi dall'anima di Torquato Tasso, potesse cadere tanto in basso. Veramente fa pena il doverlo dire, ma bisogna pur dirlo. Ogni paese, ha il poema che si merita; e se l' Adone è il poema delle classi colte dalla società italiana del Seicento, è forza convincersi che queste classi erano troppo scadute e meritavano e doveano aspettarsi ogni peggior castigo.

Vi basti sapere, o signore, che quest'eroe, di cui nella protasi il poeta si propone di cantare le gesta “alte e superbe„ in sostanza non ha che due sentimenti che in lui prevalgono: la cupidità e la paura.

La paura di Adone è descritta dal Marino con termini che fanno stupore veramente, perchè non si intende come mai il poeta non abbia avuto l'accorgimento di dissimularla per quel naturale e pietoso amore che doveva professare al proprio eroe.

Sopraggiunge Marte geloso. Sentite come l'eroe s'atteggia dinanzi al suo rivale, sotto gli occhi della donna amata.

Pallido più che marmo, è freddo e muto

Mentre ch'apre le braccia e parlar vuole,

In quella guisa che talor, veduto

Dalla lupa del bosco il pastor suole!

Ed è sì oppresso dal dolor che l'ange

Che al pianto della Dea punto non piange!

Miserabile vigliacco! Vi ricordate in Omero Paride sfuggito al telo d'Aiace e piangente al cospetto di Elena? Ma Paride è un vero eroe di fronte a questo Adone che non sa che piagnucolare all'appressarsi del suo rivale; ed è tanto preoccupato della sua paura che nemmeno lo tocca il pianto della Dea che egli ama!

Vi ripeto: se il poema Adone dovesse essere simbolo dell'Italia del proprio tempo, bisognerebbe spiegare un altro grande miracolo; cioè come un popolo caduto così in basso abbia potuto trovare delle vie recondite e meravigliose per rialzarsi.

Fatto è, o signore, che l'Italia si rialzò dal suo grande decadimento politico, morale ed artistico. Come questo sia avvenuto non è assunto mio il dimostrare. Il miracolo avvenne; e noi dobbiamo compiacerci che sia avvenuto, e tanto più quanto la nostra caduta era stata più miserevole e profonda.

La poesia apparve rinvigorita dalla cultura dell'umanesimo, quando dietro ad esso vi era il nerbo di una vita forte nazionale consapevole di sè e degna di un grande avvenire. La poesia mancò completamente a sè stessa quando non rimasero avanti a lei che dei modelli freddi, non più animati dai forti spiriti di una vita attuale.

Noi avevamo profusi i tesori della nostra vita arricchendone le altre nazioni; avevamo comunicate ad esse tutte le forze del nostro risorgimento; e quella che seguì al di là delle Alpi fu una resurrezione in molta parte aiutata dall'opera degl'Italiani. Ma le altri nazioni, accanto e sotto alle spoglie del vecchio umanismo, sentivano vigoreggiare una giovane vita, e seppero innestare gagliardamente il nuovo sull'antico.

La Spagna, l'Inghilterra, la Francia, ebbero la loro vita nuova. Noi, pur troppo, l'avevamo avuta. Nessuna meraviglia quindi che delle fiorenti letterature sorgessero in quei paesi; e la nostra declinasse e quasi si spegnesse. Ma quelle nazioni non dovevano troppo inorgoglirsi e non dovevano dimenticare l'Italia. Noi avevamo dato, per così dire, l'olio della nostra lampada per illuminare le lampade altrui, rimanendo quasi al buio. Ma per vie provvidenziali a poco a poco la coscienza nazionale si rifece anche in noi; si rifece dapprima in forma effimera ed appena osservabile, poi, a poco a poco, si venne determinando e rafforzando. La vita tornò ad avere uno scopo civile per l'Italia, e la sua coscienza si rinnovò.

Ed allora vedemmo insieme alla coscienza della nazione risorgere la poesia vera. Il marinismo rimase un fenomeno patologico degno d'essere studiato dagli storici. La poesia italica riprese le sue grandi tradizioni con Vittorio Alfieri, con Giuseppe Parini, con Vincenzo Monti. E dico appositamente, anche con Vincenzo Monti, poichè, per opera sua e del suo gruppo, riannodandosi agli spiriti dell'antico umanesimo, mostrò come l'anima moderna di tutti i gloriosi ricordi dell'antico anzichè indebolirsi si fortifichi e trovi in essi un aiuto alle nuove energie che le abbisognano per dare origine ad un'arte veramente nuova e vitale.

ALESSANDRO TASSONI (1565-1635)

CONFERENZA DI Olindo Guerrini.

Signore e Signori,

Ricordo che, alcuni anni sono, tenni questa Società di letture a battesimo, facendo un poco di prefazione alle dotte ed applaudite conferenze che vennero di poi. Mi rivolsi specialmente alle Signore, scongiurandole a prendere sotto la protezione loro la associazione che nasceva, perchè le donne sono il sale che conserva le instituzioni e perchè il loro buono e santo istinto materno protegge ed alimenta i nati da poco. E mi compiaccio con amore di padrino di rivedere così prospera la figlioccia e mi congratulo con lo squisito gusto fiorentino e con la costante ed affettuosa gentilezza delle dame le quali crebbero e mantennero amorosamente questa società che oramai ha una storia gloriosa, mentre tante altre sorelle sue italiane dormono o cloroformizzate o morte. E di questo titolo di padrino mi glorio e mi valgo per raccomandarmi ancora alla vostra cortese ed ambita benevolenza, poichè io e l'argomento che tratto ne abbiamo troppo bisogno.

Alessandro Tassoni, di cui debbo intrattenervi, nacque e visse in tempi di così basso decadimento che peggiori non potranno farci vergogna mai più. L'Italia non fu mai più serva, più abietta, più fracida. La religione degli avi, la religione santa e pura, per la quale da San Francesco al Savonarola tante anime avevano spasimato sino al delirio, era morta allora allora, affogata nel Concilio di Trento, e la Compagnia di Gesù cresceva già lieta di trionfi terreni, e Filippo II, laudando le pie ed atroci carneficine del duca d'Alba, accendeva i roghi benedetti da Pio V, non Pontefice ma Inquisitore, e Carlo IX assassinava con la sua mano i sudditi acattolici la notte di San Bartolomeo. Dalle anime sgomente esulava la fede cedendo il posto alle piccole divozioni, alle sottigliezze della casuistica, alle reliquie diventate talismani, al meccanismo rituale e cerimoniale delle pratiche esterne. Si dimenticava il Vangelo e si diceva il Rosario, e Giordano Bruno e Lucilio Vanini erano arsi pel delitto di pensare, e Galileo Galilei era costretto ad abiurare e a rinnegare la scoperta verità.

Nè a tanti mali, se pure l'avessero voluto, potevano metter riparo i Pontefici, avviluppati come erano in troppe cure terrene, interessi di nipoti, contese con principi, difficoltà di governo in uno Stato impoverito dai balzelli, guasto dai banditi che nemmeno le innumerabili forche di Sisto V poterono sterminare. E tutta l'Italia era così, se non peggio. Napoli e Lombardia, dominio spagnolo, eran spremuti da Governatori o da Vicerè avidi, imbroglioni, prepotenti, il cui potere dipendeva dall'instabile capriccio di una corte, dove l'autorità non era che insolenza violenta. Le piccole dinastie agonizzavano nei vizi, come i Gonzaga e i Della Rovere, impiccolivano nei raggiri come i Medici, diventavan bastarde, come gli Estensi. Decadeva Venezia che vide la pelle del suo eroico Bragadino appesa all'albero di una galera turca, portata a ludibrio sui mari, mostrata a vergogna lungo le coste che furon già di San Marco. Gli Uscocchi corrono il Golfo impuniti, Dragutte infesta il Mediterraneo e i Turchi scendono in Italia a saccheggiare le città ed a bruciarle, facendone schiavi gli abitatori. Era troppo e la virtù latina fu costretta all'ultimo sforzo di Lepanto, dove tanto sangue e tanto valore furono gloriosamente ma inutilmente prodigati. Le galere trionfatrici non erano ancora tornate al porto e già le vele degli infedeli erano in vista del lido italiano. Pochi anni dopo, Manfredonia e parecchie altre città erano arse dai Turchi e le belle latine rapite veleggiavano per l'harem del Gran Signore.

Solo il Piemonte era immune da tanta lue. Chiuso tra la Francia e il dominio spagnolo, era costretto a viver sempre con l'orecchio teso e l'armi pronte. La razza forte, l'ambizione tenace dei principi, la potenza pericolosa dei vicini, lo costringevano alla vigilanza assidua, della sentinella che sa di aver presso il nemico e, in simile attesa, nè un soldato nè un popolo possono addormentarsi. Emanuel Filiberto, indi Carlo Emanuele, non pensarono che a negoziati ed armi, e guatando oltre i confini, meditarono e prepararono accrescimenti di spazio e di potenza, non paurosi della formidabile arroganza spagnuola, non disavveduti tra le insidie degli ausili francesi. Il pericolo educava alla fortezza e nel laido sfacelo della Italia di quel tempo, unica regione non putrida fu quel Piemonte al quale si dovette poi in gran parte il miracolo della risurrezione di un cadavere, l'unità d'Italia.

Nè la morale aveva di che invidiare alla politica. Se i re assassinavano i sudditi, c'erano assassini anche pei re, e il Clément uccise Enrico III e il Ravaillac, Enrico IV. Il pugnale non faceva orrore nemmeno a Roma e frate Paolo Sarpi lo seppe. Era il tempo dei bravi assoldati per servire l'iniquità dei signori, era il tempo dei duelli mortali per quistioni di preminenza e di etichetta; era il tempo dei banditi, della immoralità bestiale trionfante dovunque fosse potente e prepotente. Immoralità in alto e in basso, poichè il popolo si lorda di delitti atroci e di vizi turpissimi non soffocati dal capestro e dal rogo, e la nobiltà ci offre la tragedia dei Cenci, e Bianca Cappello è granduchessa di Toscana. Venezia è piena delle orgie e della crapula in che abbrutiscono i discepoli dell'Aretino; i conventi, come quello di suor Virginia de Leva, sono scuole di lussuria e di veneficio; le Corti d'Urbino e di Mantova, già onore della gentilezza italiana, non hanno più gentildonne ma cortigiane, e in tutta Italia trionfa la brutalità più lurida, la perversione degli istinti più sfacciata.

L'arte stessa è tutta una rovina. Michelangelo e Tiziano si sopravvivono e in questi anni si spegne la loro geniale decrepitezza; ma da loro e per loro nascono la corruzione, l'esagerazione, la falsità. L'energia diventa contorsione, l'audacia stravaganza, e impera oramai il barocco tumido e vuoto, che non ha più espressioni ma smorfie. Le lettere, malate del gongorismo imbecille che infierisce su tutta l'Europa, impazziscono nella ricerca di stranezze inaudite, nella caccia puerile ai concetti sbalorditivi, alle freddure scempiate, e il Marino è l'astro maggiore di questo povero cielo, dove l'Achillini, il Preti e mille altri, anfanando dietro alle vesciche sonore, alle ampollosità bislacche, sperano di meritare un posto alla lor volta. L'artificio e la falsità si accoppiano, e dalle nozze nefaste nascono i mostri che ora ci muovono al riso o alla noia mentre allora destavano l'ammirazione sincera di un pubblico di matti. Solo la musica, vellicatrice degli orecchi avidi di nuove lussurie, rallegratrice delle feste o rinnovata compagna delle pompe ecclesiastiche, la musica che non fa paura nè ai governi nè alla Inquisizione, esce di nido in quei giorni e comincia a spiegare il dilettoso volo. Ma tutto il resto non è che un mucchio di oscene macerie, un enorme sterquilinio in cui male si cercherebbe una piccola perla. Religione, politica, costumi, arte, tutto è lezzo di corruzione, fracidume di cimitero.

Tali furono i dolorosi tempi in cui visse Alessandro Tassoni, il quale ebbe anche nemica la fortuna in questo, che nato (1565) da una famiglia di buona nobiltà e già ben fornita di censo, al suo avvento nel mondo la trovò spiantata. Così, orfano di buon'ora, le sue prime impressioni della vita non dovettero esser piacevoli certo ed i suoi più antichi ricordi d'infanzia dovevano condurgli in mente un lungo e malauguroso andirivieni di avvocati, di procuratori e di notai che, rodendo le ultime briciole della fortuna sua, infestavano la casa con allegazioni, libelli e liti senza fine. Triste infanzia non consolata da carezze materne, non protetta da vigile affetto di padre, che dovette lasciar nell'anima del Tassoni quel sapore amaro che gli sale tante volte alle labbra mal curvate al sorriso. La povertà fin d'allora gli fu compagna assidua ed anche quando riuscì per poco a tenerla lontana, ebbe sempre meno pecunia che desideri ed aspirazioni. Finalmente spuntò il raggio della fortuna anche per lui e raccolse una eredità che lo mise nell'agiatezza; finalmente! Ma egli aveva tanto usato dello scherno e dell'ironia che i fati gli reser la pariglia. L'eredità aspettata e benedetta gli capitò solo pochi giorni prima della morte.

Tanto però gli restava, da giovane, che potè studiare, prima in patria, poi girovago in varie Università italiane. Fu a Bologna, a Ferrara, a Pisa e forse altrove, finchè, addottorato, ritornò a Modena. Pare che a Bologna gli si appiccasse il malo morbo di compor versi, o almeno i primi che ci restano di lui vengono appunto di là e sono gonfi, idropici di bisticci e di arguzie come li voleva la moda, poichè corteggiando in un sonetto certe signore Orsi, madre e figlia, le paragona all'Orsa maggiore e minore, e altrove, poichè piovve durante il funerale di una bella signora, esclama:

Velò di nubi il sol, versando al basso

Lagrime amare in doloroso nembo

E sospiri esalò con tutti i venti.

Queste scioccherie delle nubi che piangono ed altrettali parevano allora squisitezze, ma il Tassoni che aveva il gusto fine e molti studi, presto se ne ritrasse, nè lo si vide più cadere in simili sguaiataggini. Era però caduto quasi in miseria e gli era pur forza trovare qualche occupazione che gli desse profitto. In tali casi, pei gentiluomini pari suoi, spiantati e letterati, la via era indicata dalla tradizione: il servigio dei principi. Già gli umanisti avevano rimesso in moda Mecenate ed Augusto e servirono in corte senza sentirsene umiliati. Gli esempi di Orazio e di Virgilio scusavano tutto, fino la domesticità, e la divinità delle lettere non lasciava sentire nemmeno le offese alla dignità personale. L'esempio del commendatore Annibal Caro era recente e in quelle pompose corti del seicento erano numerosi i gentiluomini poveri e talora gli avventurieri, diventati ricchi e potenti. Perciò il Tassoni si acconciò al servizio del cardinale Ascanio Colonna, figlio di quel Marcantonio che aveva onorato il nome italiano a Lepanto; principe ricco e splendido, è vero, ma bizzarro perchè malsano, imperioso perchè conscio della grandezza della sua casa, insofferibilmente superbo perchè educato in Spagna, spagnolo nell'animo e, nell'alterigia, imitatore ed emulo di quella nobiltà.

Il Tassoni lo servì in qualità di segretario, con diligenza se non con affetto. Lo seguì in Spagna e di là tornò parecchie volte in Italia per affari del suo padrone che era stato creato vicerè d'Aragona. Ma se non si guastò col cardinale, si guastò colla Spagna; e da quell'epoca comincia l'avversione, anzi l'odio feroce del Tassoni contro la nazione che preponderava allora in Italia. Egli che poco tempo prima in un sonetto un po' pretenzioso aveva pur pianto la morte di Filippo II, scaraventò due sonetti, l'uno più lurido e sucido dell'altro, contro Madrid e Valladolid, infamandone l'aspetto, i costumi e le donne. Semplice antipatia non dovette essere, e facilmente il bizzarro poeta che era pronto al risentimento, tra quella nobiltà superba e dominatrice dovette ricever qualche urto le cui lividure gli rimasero per sempre.

Si congedasse egli dal cardinale, come crede il Muratori, o lo servisse fin che lo vide morire, come pare al Tiraboschi, certo è che quelli furono gli anni della sua attività letteraria più feconda, gli anni anzi in cui concepì, o cominciò, o scrisse le sue opere maggiori, tenendo onorato luogo nelle Accademie dei Lincei e degli Umoristi. Forse, servendo così splendido padrone, aveva raggruzzolato qualche peculio, poichè per qualche tempo non volle nuove catene e visse a suo modo studiando, scrivendo e litigando, libero, bizzarro e mordace, non risparmiando invettive e libelli ai suoi avversari che non ne risparmiavano a lui e dimenandosi in queste baruffe ora elegantemente, ora trivialmente, ma sempre con un non so che di originale, di tutto suo, che lo leva in alto anche come polemista tra la turba de' suoi coetanei competitori. Ma questi bei giorni di libertà non potevano durar molto. La necessità picchiava all'uscio e bisognava trovare un nuovo padrone e una nuova catena.

Forse il suo aborrimento verso la Spagna gli persuase di cercar servizio presso la corte di Torino, poichè il duca Carlo Emanuele era il solo principe italiano che avesse l'ardire di resistere alla prepotenza spagnola. Ma se Carlo Emanuele era allora il principe più illustre d'Italia e non alieno dalle lettere, stimava più i soldati che i letterati. Resisteva alla Spagna, è vero, e la combattè spesso, ma non dimenticava la politica tradizionale della sua casa e, dietro sè, teneva sempre una porta aperta alla ritirata, volendo esser libero di cambiare parte e bandiera secondo l'interesse suo e de' suoi richiedeva. Irrequieto, impetuoso, avvolto sempre in guerre infelici che gli rodevano il tesoro, non poteva essere Mecenate troppo splendido e, pel Tassoni specialmente, sciolse di rado e di malavoglia i cordoni della borsa. Poetava anch'egli in italiano, in francese, in spagnolo, in piemontese e cantava:

Italia, ah, non temer! Non creda il mondo

Ch'io mova a' danni tuoi l'oste guerriera,

egli che trovava la famosa formula del carciofo italiano che vuol esser mangiato foglia per foglia, e i suoi successori lo mangiarono così bene! Ma il peggio è che si dilettava sopratutto di poesie satiriche e, mietendo così appunto nel campo del Tassoni, è naturale che lo guardasse un po' di traverso. Infatti in tutta la condotta di Carlo Emanuele verso il Tassoni si sente una freddezza che spesso pare antipatia e qualche volta canzonatura. Ordinò che gli fossero pagati dugento scudi, ma da levarsi dalle entrate che la Casa di Savoia aveva nel regno di Napoli. Ora gli Spagnoli che tenevano il regno, non pagavano affatto, e nessuno meglio del Duca lo sapeva, per cui il dono dovette parere al Tassoni un pessimo scherzo. Altre provvigioni sfumarono così, finchè fu messo come gentiluomo presso il cardinale Maurizio di Savoia, giovane splendido, anzi prodigo, che dovette esser cagione di buone speranze al povero poeta. Ma ahimè, il cardinale prodigo con tutti fu avaro col Tassoni pel quale anch'egli sembra aver provato una certa avversione. Complimenti e promesse ne largì senza fine, ma quattrini pochi o punti.

Il Tassoni tirava innanzi alla meglio col suo cardinale in Roma quando fu richiamato a Torino (1620). Nuove speranze, poichè l'ufficio di segretario cui era destinato, apriva l'adito a miglior fortuna; ma all'arrivo, il duca gli si mostrò freddo, anzi avverso. Il poeta aveva lo scilinguagnolo sciolto e la lingua lunga e bene affilata, per cui si può ben credere che trattato e pagato a quel modo, ne dicesse delle sue. Il duca inclinava di nuovo alla Spagna, ed al Tassoni, che protestava del contrario, erano attribuite le ferocissime filippiche; sì che i competitori del poeta al posto di segretario, ingrossando tutte queste faccende, fecero sì che anche l'ufficio sperato gli fosse negato. Dovette tornare a Roma dal cardinale che lo accolse male e lo pagò peggio, così che il Tassoni, perduta la pazienza e la speranza, sciolse il freno alla lingua e scrisse un certo oroscopo mordacissimo del suo padrone che gli valse il congedo e un breve esilio da Roma.

I sogni ambiziosi erano così finiti e il Tassoni dovè cercarsi, non più un principe, non più una corte, ma un cardinale qualunque pur che pagasse; e l'eminentissimo Ludovisi pare che fosse buon pagatore poichè il Tassoni lo servì per sette anni, in capo ai quali, morto il cardinale, si ridusse in patria a servire il duca Francesco I, ai cui stipendi morì nel 1635. Ultimi anni in cui il Tassoni schizzò fuori tutto l'aceto e il fiele di cui si era abbeverato nella passione della vita, ultimi anni, torbidi per polemiche feroci, che per poco non finirono a coltellate. Un frate almeno ne riportò un carico di legnate solenni. E chi sa con quanta amaritudine il poeta moribondo riandò la vita sua così sciupata e si dolse di non aver colto più ricchi frutti dall'ingegno grande! Ed ecco, ultima ironia della fortuna, egli che aveva ramingato, servito, scritto tanto per fuggire la miseria, ecco, poco prima di morire, quando il denaro non serve più a nulla, eredita e diventa ricco. Tristi tempi e triste vita che devono farci intendere e scusare quel che nel Tassoni vorremmo di più generoso, di più delicato, di più buono.

Come scrittore, la prima cosa di lui che vedesse la luce fu una Parte dei Quesiti che protestò edita contro sua voglia e che corresse ed ampliò in seguito sino a farne i dieci libri dei Pensieri diversi. Ivi ragiona di tutto, di astronomia, di fisica, di politica, di morale, di letteratura, capricciosamente, e con quella ricerca della singolarità che non è impronta di cervello originale, ma artificio freddo e voluto per attirare le occhiate; quel che oggi dicono posa. L'argomento di molti pensieri è pensatamente stravagante, come là dove ragionando di cose fisiche cerca perchè il pane sembri più bianco freddo che caldo o il biscotto sia più duro caldo che freddo. Tra i pensieri di cose naturali si cerca perchè incanutiscano i vecchi, perchè non nascano peli verdi, perchè le donne non abbiano barba, perchè i gamberi camminino all'indietro, perchè fossero create le mosche. Per la morale, si chiede perchè chi si vergogna tenga gli occhi bassi, perchè le donne vadano vestite di lungo (dice press'a poco che è per nascondere le gambe storte), perchè si amino anche le donne brutte e finisce col sostenere che il mestiere di boia non è infame; e per la letteratura, basti che egli addenta caninamente Omero, al quale, in più luoghi, antepone il Tasso, e mette in burla il Villani al quale, come stilista, preferisce il Guicciardini. E tutti questi pensieri, la cui enunciazione è ora buffa, ora paradossale, sono mescolati con altri più gravi e seri, ma sono svolti tecnicamente lo stesso, cioè con un apparato d'erudizione greca e latina che pesa come un monumento. Il vero pensiero dell'autore si coglie difficilmente, avviluppato com'è da cento allegazioni e citazioni, annegato in un mare di testi odiosi e noiosi, in cui si sente troppo l'ostentazione. Anche Michele Montaigne, prima di lui, aveva proceduto con lo stesso metodo ne' suoi meravigliosi Saggi e forse il Tassoni non lo ignorò; ma quale immensa distanza tra il moralista benevolmente scettico e il pedante che affetta ghiribizzi eruditi, conditi spesso da una ignoranza e da una credulità, anche per quei tempi veramente calandrinesca! Il Tassoni infatti credeva all'astrologia, all'alchimia, agli oroscopi ed alla pietra filosofale; credeva che i corpi dei fulminati non si putrefacessero, perchè lo dice Plutarco, e che l'anno sessagesimoterzo fosse climaterico o pericoloso, perchè l'imperatore Augusto lo credeva. I Pensieri riveduti e accresciuti, vennero in luce quando gli studi copernicani erano nel primo fervore e il Galilei spiegava già i nuovi sistemi. Se la bizzarria del Tassoni fosse stata vera e non affettata, la novità lo avrebbe subito sedotto; ma invece egli, Accademico Linceo, sostiene ancora che la terra è immobile e mobile il sole, rifriggendo i vecchi testi tolemaici e biblici in un lungo e verboso ragionamento che ricorda quello di don Ferrante sulla peste nei Promessi Sposi. Il libro fu accolto da un sordo brontolìo, foriero di prossime burrasche, ma non suscitò polemiche o risposte. I filosofi inorridirono del poco rispetto usato verso Aristotele che allora era testo infallibile, gli eruditi arrabbiarono per le insolenti beffe ad Omero, i letterati ed i linguisti inferocirono per le canzonature alla lingua del trecento, ma per allora tacquero. I tempi non erano maturi e il libro, forse, non ebbe gran voga.

Ma se i Pensieri passarono in silenzio, non fu così delle Considerazioni sul Petrarca, scritte in gran parte viaggiando col cardinal Colonna. Il Tassoni, rivedendo le chiose del Castelvetro, altro bizzarro ingegno modenese, più secco ma più serio del Tassoni, chiosava alla sua volta alcune rime. Qua e là era qualche osservazione mordace, come: “questa non mi pare comparazione da invaghirsene„ oppure “questi son due quaternari da far venir l'asma a chi non ha buon petto„; ma a noi, ora, queste non paion punture da levarne strilli disperati. Altre e ben più gravi discussioni e critiche hanno assalito idoli più venerati del Petrarca, e oramai ci abbiamo fatto il callo; ma allora non era così. Bisogna pensare a quel che era il Petrarca nel concetto dei letterati di quel tempo, arca santa che non si poteva toccare, Adonai venerando di cui si poteva appena pronunciare il nome tra due genuflessioni. Il dubbio solo, come in religione, era eresia e sacrilegio, e quelle Considerazioni che a noi sembrano, ora lambiccate e cavillose, ora giuste e calzanti, parvero un sovvertimento della santità della tradizione e della ragion poetica, un nero delitto di lesa maestà. Un Giuseppe degli Aromatari, sotto il nome di Falcidio Melampodio, rispose criticando le osservazioni del Tassoni, il quale, alla sua volta, sotto il pseudonimo di Crescenzio Pepe, si difese. Replicò l'Aromatari, inspirato ed aiutato dai devoti del Petrarca scandolezzati, e il Tassoni, col nome di Girolamo Nomisenti, mise fuori un volumetto che intitolò la Tenda rossa, dove, rotto ogni freno, inveì fieramente contro le idee e le persone, assalendo e mordendo senza riguardi. La discussione letteraria si era così per via inacidita ed invelenita fino a ricordare le invettive degli umanisti e, diventando più piccina, era diventata più feroce. Non avevano certo i letterati d'allora la tempra dura del Poggio e del Filelfo, e i tempi diversi e gli occhiali dei revisori nol consentivano, ma il lievito c'era, e basta ricordare le contese del Marino col Murtola e con lo Stigliani, in cui si sparse sangue. Ad ogni modo l'Aromatari si tacque, perchè aveva la lingua meno aguzza del Tassoni e minor coltura, ma rimase un lungo strascico di rancori e di libelli infami pei quali un Bisaccioni fu carcerato e il conte Brusantini inspiratore e collaboratore di costui, se fuggì al bargello, non fuggì alla vendetta atroce del poeta che lo infamò col nome di conte di Culagna nella Secchia Rapita. Il Tassoni ebbe il disopra perchè più ardito e perchè più dotto, come si vede dallo studio sui poeti provenzali che egli fece, cosa rara allora, per trarne chiose e confronti alle rime del Petrarca; ma a poco a poco i libri incendiari andarono a dormire sotto la polvere delle biblioteche. Tuttavia l'idolo, se non era caduto infranto, aveva però perduto l'aureo nimbo della santità impeccabile. Il Petrarca tornò fin d'allora qual era, uomo e poeta. E se il Tassoni rimpicciolì troppo la contesa e non vide quel che di alto e di severo poteva derivare da una discussione ragionata e ragionevole, ebbe però il inerito di scuotere, sia pure per capriccio, per umor nero, per bizza, il fastidio di un culto cieco che addormentava nella noia la lirica italiana.

Di altre sue opere minori è inutile dire. Le Considerazioni sul vocabolario della Crusca che vanno sotto il suo nome, non sono sue, ma dell'Ottinelli, come provò bene il Muratori e come del resto si sento bene dalla mancanza di causticità e di punte in quel libro pregevole. Il Tassoni avrebbe fatto un volume di motti e di arguzie, non un posato e serio studio lessicografico e d'altronde, essendo Accademico della Crusca, non avrebbe voluto dar troppe noie ai colleghi, già nel poema abbastanza stuzzicati. Anche le filippiche, biliose e furibonde diatribe contro la Spagna e gli Spagnoli, non sono forse tutte sue, od almeno egli, o per interesse o per paura, le rifiutava, e d'altronde sono opera più politica che letteraria. Il suo capolavoro, al quale è ormai tempo di venire, è la Secchia rapita, poema pel quale il suo nome fu e rimase glorioso, meritamente.

Tutti sanno quel che sia la Secchia rapita e non importa raccontarla. Solo è da notare che si può dividere in due parti. Nella prima sono descritte le zuffe tra i Bolognesi e i Modenesi a proposito d'una infelice e vil secchia di legno tolta per forza; passati in rassegna le genti ed i capitani con un lusso di cognomi regionali che dovette contribuire assai alla voga del poema; narrate le ambascierie, messo in caricatura il concilio degli Dei, l'assedio di Castelfranco, insomma beffeggiato, stravolto, parodiato, il contenuto eroico dei poemi cavallereschi. Nella seconda parte e specialmente nei canti VIII, IX, X ed XI, prevale invece l'elemento schiettamente comico che si svolge come episodio sproporzionato nei canti del cieco Scarpinello e nelle avventure del conte di Culagna che diventa protagonista. Il Tassoni disse di aver trovato una nuova forma di poema, e invero il suo è il primo dove per deliberato proposito, in un tutto organico, primeggi e domini la comicità. Egli diceva che nell'opera sua era un innesto dell'eroico col comico, e così dicendo stabiliva forse la divisione del poema in due parti, cui si è accennato. Infatti nel canto VI, per esempio, poche sono le facezie e, salvo che in alcune ottave, leggiamo un frammento di poema serio: ma tuttavia il ridicolo penetra da per tutto e l'intonazione burlesca non lascia mai in pace l'ascoltatore anche quando si crede tra i paladini.

Per questo il poema era veramente una novità e gli antecedenti che gli si possono trovare non gli levano quel che ha di originale. Non importa risalire alla Battaglia delle vecchie con le giovani del Sacchetti o disseppellire la Nanea o la Gigantea o la Contesa di Parione per questo. Già accenni alla canzonatura de' propri eroi se ne trovano nel Pulci, nel Boiardo e nell'Ariosto e non pochi; ma sono sorrisi e non risate, incidenti, episodi, non intenzioni principali e sostenute. Più vicini alla Secchia sono l' Orlandino del Folengo, dove il ridicolo è cercato nella trivialità del turpiloquio erotico e scatologico, l' Orlandino frammentario dell'Aretino dove c'è il travestimento dei paladini in gaglioffi e non altro, la Vita di Mecenate del Caporali, conosciuta certo dal Tassoni, che è piuttosto una sfilata di capitoli bernieschi che un poema organico, e forse il Poemone del Bardi, poichè il Tassoni ne conobbe l'autore ( Secchia r. XII, 15), scherzo idiomatico e noioso in cui la festività è affidata alla parola, non al concetto. Ma se può dirsi che qualcuno di questi poemi sia stato presente agli occhi della memoria del Tassoni, certo l'influsso fu ben tenue e a troppe sottigliezze condurrebbe il cercarne le tracce.

L'inspirazione la trasse dal suo tempo e l'indole del suo ingegno fece il resto. In quella putrefazione di ogni cosa bella e grande, che poteva fare un uomo della sua tempra? Ridere; amaramente, velenosamente, ma ridere. Le forme invecchiate si canzonano volontieri, le mode antiquate destano l'ilarità e il poema cavalleresco era oramai decrepito. Dove trovar più gli ingenui ascoltatori delle imprese d'Orlando in un secolo malizioso, in un paese nel quale è spenta sino l'ammirazione istintiva della forza, del valore, della generosità, poichè non ha soldati se non forestieri, principi se non vigliacchi? E la produzione di poemi eroici dopo il Tasso era stata così eccessiva da diventar seccatura e render necessaria la natural reazione del ridicolo. Molti lo sentirono e meglio di tutti il Cervantes che ebbe ben altra e più geniale tempra ed altezza di cuore che non il Tassoni, quando faceva ardere la libreria del suo eroe, condotto in mezzo a cento eroicomiche avventure ad una dolorosa vendemmia di bastonate. Il Tassoni conobbe il Don Chisciotte, e il conte di Culagna nel suo duello col romanesco Titta, reca

Il brando famosissimo e perfetto

Di Don Chisotto e il fodro ha il suo padrino.

Ahimè, no, questo è inverosimile! Troppo sarebbe pesata la spada del buon Cavaliere della Trista Figura alle mani ignobili del conte. Don Chisciotte è una idea, il conte di Culagna una persona, anzi una personalità. Don Chisciotte è ridicolo, ma non vile; pazzo, ma non volgare. Affronta, è vero, i mulini a vento, ma li crede giganti e, pur credendolo, non ha paura. Si macera in buona fede, attira le risa e le legnate, ma sempre col cuore alto, con la illusione di difendere il debole e di onorare la dama. Invece il conte di Culagna è stomachevolmente vigliacco, bestialmente basso e triviale. In tutto il poema cerchereste invano una figura che sotto al ridicolo abbia il cuor nobile e fiero. La stessa Renoppia, che dovrebbe esser la Clorinda e la Bradamante del poema, non è che una figura senza plasticità, una Marfisa di stoppa. Sin da principio è deformata con una infermità ridicola e più avanti riprende il cieco Scarpinello con un linguaggio sboccato, sconveniente non che ad una gentildonna, ad una vituperata. Non c'è nemmeno una rassomiglianza lontana, o nella vita, o nelle opere, tra i due demolitori dei romanzi cavallereschi. Il Cervantes, soldato valoroso, storpiato a Lepanto, schiavo dei mori, è dignitoso nella miseria del suo mantello stracciato, mentre il Tassoni, servo di principi, impiegato di cardinali, è querulo ed amaro lamentatore della Sua povertà mal celata dal saio del cortigiano o dalla veste talare dell'ecclesiastico. Il Don Chisciotte non è solo un assalto ad un genere letterario invecchiato, ma proposizione di una letteratura nuova, più umana e più vera. La Secchia invece è negativa affatto, nuova solo nella parte formale, scherzo, bello certamente, ma scherzo soltanto.

Perchè io non riesco a scoprire i riposti intenti civili e morali che alcuni videro nella Secchia rapita, non parendomi da ciò nè i tempi nè il poeta. Ci fu chi, vedendo intenti simili un po' da per tutto, disse che se i contemporanei avessero inteso il Tassoni, il poema non avrebbe potuto veder la luce. Altri, al polo opposto, negò, non solo ogni seconda intenzione, ma ogni efficacia alla Secchia. I più, tenendosi ad una via di mezzo, riconoscono qualche effetto, ma negano l'intenzione.

Si disse per esempio che questi intenti civili sono dimostrati dalla scelta dell'argomento. Il mettere in canzone una di quelle sciocche e feroci guerre di città a città che insanguinarono il medio evo, era mostrare i mali della divisione, la necessità dell'unione fra gli stati italiani per cacciare lo straniero, era, si direbbe, precorrere al Mazzini. Esagerazione. Dov'erano più, al tempo del Tassoni, le lotte tra comune e comune, o anzi, dove erano i comuni, i Guelfi e i Ghibellini, il potestà, il carroccio e sopra tutto dov'era la libertà? A chi si rivolgeva egli, al popolo o ai principi? Al popolo no certamente, poichè il Tassoni non lo capiva che come plebe, e del resto non ci voleva gran testa per intendere che gli Italiani del seicento potevano levarsi a qualche sommossa, ma ad una rivoluzione mai. E nemmeno poteva rivolgersi ai principi, senza forze e senza volontà di scuotere il giogo spagnolo. Avrebbe quindi predicato al deserto il verbo della unità nazionale; ma il vero è che all'unità non pensava allora nessuno, nè il Tassoni, nè il popolo, nè i principi, se pure nei torbidi sogni dell'ambizione non ci pensava Carlo Emanuele, non per fare un poema, ma per fare un regno.

Per gli intenti morali che sarebbero nascosti nella Secchia basti il ricordare l'episodio di Bacco e di Venere, i canti del cieco Scarpinello e le sciagure coniugali del conte di Culagna. Chi volesse sillogizzare potrebbe sostenere che l'intento non fu morale, ma immorale; il vero è che non fu nè l'uno nè l'altro.

No, io non mi posso persuadere che il Tassoni fosse un carbonaro o un riformatore. Certo che volendo far ridere bisogna pur trovare un argomento adatto, e gli Dei di Omero e i paladini di Carlo Magno erano frolli abbastanza per essere cucinati a quel modo. Certo che frustando a destra e a manca, qualche frustata colpisce chi se la merita; ma l'intenzione del poeta non era nè politica nè etica, era solamente artistica.

La Secchia rapita è dunque soltanto un'opera letteraria, una parodìa indovinata dei poemi cavallereschi, una caricatura dell'Olimpo di cartone abusato dai poeti, una morsicatura ai cruscanti della rigida osservanza in quei tempi dell'Infarinato e dell'Inferigno. Tale fu il primo poema eroicomico, forma facile e volgare dell'arte, segno di decadimento letterario come la satira e il romanzo, secondo ci mostrano le letterature decadenti di Grecia e di Roma. I popoli e i tempi hanno l'arte che meritano, e quando i poeti non cantano più per Mecenate o per Leone X, ma per la folla, bisogna pure che cerchino di piacerle, che respirino nell'ambiente suo e che da lei s'inspirino e scelgano le forme artistiche della decadenza quando la società è decrepita. Così fece il Tassoni, e l'opera sua rimane come pietra miliare che segna la civiltà e l'arte di un'epoca, opera di buon gusto, di ingegno vivo, di facile vena, ma opera di second'ordine. Già, nel suo secolo, se mancava la fiamma sacra, se gli scrittori insanivano dietro ai concettini artificiosi od alle iperboli tonanti, la tecnica ad ogni modo era posseduta a perfezione. A frugare nelle montagne di versi che ci lasciarono mille poetastri, non se ne trova uno duro, stonato, enarmonico. Se si potessero gustare i versi come la musica e fare astrazione dalle parole, la poesia avrebbe raggiunto il suo culmine nel seicento, tanta è la sonorità musicale che anche nei mediocri si trova. Ma purtroppo le parole bisogna sentirle e sono troppo noiosamente sciocche nei più per non sentirne l'uggia. Pochi non impazzirono, e fra questi il Tassoni, che pure alle bizzarrie era inclinato e da giovane aveva poetato come gli altri ubriachi. Si mantenne anche nel poema castigato e naturale e bisogna tenergli buon conto di questa prova di gusto artistico eccellente, poichè mantenersi immuni dal vizio tra i viziosi è difficile. C'è più merito ad esser Lot puro in Sodoma che Aron puro nel tempio.

Il poema ebbe un effetto enorme, maggiore forse di quel che il poeta avrebbe voluto, poichè ammazzò il poema eroico forandolo proprio nel cuore, mentre anch'egli meditava e cominciava un Oceano che doveva cantare le glorie del Colombo. Dopo la Secchia non fu più possibile e tollerabile in Italia poema che non fosse eroicomico, e tanto son pecore matte ed imitatrici i poeti, che alla colluvie dei poemi eroici successe ben presto il flusso degli eroicomici, e l'imitazione dilagò, valicò i monti e figliò a suo tempo buona prole come il Riccio rapito, il Lutrin e la Pulcella d'Orleans. Tutta questa letteratura vanta per solo padre il Tassoni, poichè le querele del Bracciolini, che mal gli contese la priorità, furono giudicate, e del resto lo Scherno degli Dei, principe nel regno dei libri noiosi, non poteva avere e non ebbe effetto alcuno.

Ma la trivialità che nel Tassoni di rado è sguaiata, peggiorò nei figli e nei nepoti, e quasi subito dopo, vediamo l'incanagliamento della Secchia nel Lambertaccio del Bocchini che vorrebbe essere una risposta bolognese al poema modenese e non è che una seccatura grondante volgarità. Si cade sempre più in basso, come a ruzzoloni per una scala, lo spirito diventa sboccatura, le frasi si razzolano in mercato e il comico diventa buffoneria di pagliaccio. Eppure la storia delle lettere poteva indicare l'esempio della Nencia dove il rozzo parlare dei villani e la bassezza dei sentimenti sono con tanto gusto lavorati dall'arte, che lo scherzo talora olezza della soavità dell'idillio. Ma siamo sempre lì; erano i tempi del Gran Duca Cosimo II, non quelli del magnifico Lorenzo, e l'arte era come quei tempi la volevano e la meritavano. E questi furono i tempi, questa la vita, queste le opere di Alessandro Tassoni. Quel che fosse come uomo lo dicono l'acredine mordace ed il pessimismo bizzarro, i quali, anche nello scherzo, ci lasciano la bocca amara. Il perchè è da cercare così nell'indole come nelle vicende sue di gentiluomo decaduto e bisognoso, costretto in servitù e inacetito dalle delusioni delle corti, dalle umiliazioni del servire, dalle lividure della emulazione e dell'invidia. Un carattere ed una vita così fatti non dispongono l'animo alla benevolenza, all'amore, al rispetto del proprio simile, e il Tassoni non rispettò nessuno, nemmeno i preti, coi quali allora non si scherzava. Conscio del proprio ingegno, si rodeva dentro vedendo il poco frutto che ne poteva cavare, e quando poteva scioglier la lingua, la sua parola putiva di fiele. Un altro perchè si può cercare nell'assenza dell'eterno femminino nelle sue opere e nella sua vita. Qual poeta, per piccino che sia stato, non cercò una donna per la rima e pel bacio, madonna Bice purissima e ideale o mona Belcolore fiorente e tangibile? Ma nel Tassoni la donna si cerca indarno e da per tutto, specialmente ne' Pensieri, trasuda da lui una itterica persuasione della imperfezione e della inferiorità muliebre, traspare una antipatica ottusità di sentimento che gli cela ogni fior di gentilezza. Pare che abbia il gusto malato e pervertito perchè sente l'odor del concio, non quello delle rose, e l'unica donna che traversa per poco la sua vita fegatosa è una Lucia Graffagnina, più serva che druda, la quale lo compromette col Santo Ufficio e gli partorisce il bastardo Marzio da lui trascurato, riconosciuto, maltrattato, scacciato e quasi aborrito. Anima arida, cuore di legno, in nessuna pagina delle sue opere, in nessuna ora della sua vita manda un fioco barlume di sentimento. Chiuso in tutte le piccole vigliaccherie dell'egoismo, non ha una frase per la patria o per l'amore che non sia di scherno, e tanti, minori di lui, l'avevano pure; contorta, affettata, barocca, ma l'avevano. Solo il riso amaro, il sarcasmo, l'ironia sono nella sua bocca e i fiori che ci porge grondano di veleno e l'arte squisita è scelleratamente tentatrice a cose non degne.

Non è questa l'arte da imitare, sia pure nel furore delle polemiche, non è questa l'arte che è sogno di tutte le anime; che se l'arte deve esser questa, muoia pur l'arte. Se dobbiamo serrarci in una Atlantide bieca, dove l'odio vinca la bontà, dove i baci diventino morsicature, dove tutto goccioli tossico e bava, muoia pur l'arte. Ma non morrà perchè voi, Donne e Signore, nell'arte ci siete pure per qualche cosa e gli occhi vostri parlano e dicono: “o non verrà anche per l'arte il giorno dell'amore?„ E pure il sole ride ancora sui colli verdi d'ulivi e fragranti di rose: e pure in fondo ai cuori vigila sempre il vivo, il santo, il giocondo desiderio d'amare; e pure in voi, Donne e Signore, è sempre l'anima buona e misericorde di Beatrice, di Laura e, nol dico per male, anche di Fiammetta. Che, dovremo odiar sempre, maledir sempre, morire come cani arrabbiati mordendoci le viscere a vicenda? No, voi, Donne e Signore, nol consentirete. Voi non vorrete l'insipido e perpetuo miele d'Arcadia, ma nemmeno il vituperio di questo livore giallo che avvelena l'arte e la vita. Non lo vorrete, non lo volete, poichè nella luce serena de' vostri occhi, ciascuno di noi legge: “Ecco la primavera. Amiamo!„

LA VITA ITALIANA NEL SEICENTO

III.

ARTE.

I Carracci e la loro scuola Adolfo Venturi

Barocchismo Enrico Nencioni

La commedia dell'arte Michele Scherillo

La musica del secolo XVII Alessandro Biaggi

MILANO Fratelli Treves, Editori 1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA Riservati tutti i diritti. Tip. Fratelli Treves.

I CARRACCI E LA LORO SCUOLA

CONFERENZA DI Adolfo Venturi.

Nel secolo decimoquinto, l'arte rispecchiava la varietà dei caratteri dei comuni, delle regioni, della vita d'Italia: la gentilezza toscana e la gravità lombarda, l'umiltà umbra e la magnificenza veneziana. Ogni provincia allora tesseva ghirlande per la madre Italia; e la terra, nell'arte che la ritrasse, sembra tutta fiorita, lieta di giovani, di danze, di suoni, di amori. A questa terra il nuovo secolo, il secolo decimosesto, apparve come il sole folgoreggiante ch'esca dalle onde del mare, e salga su nel cielo senza nubi. Salutarono la novella aurora i genii, ultimi figli del secolo precedente: la salutarono Leonardo, il profeta; Michelangelo, il gigante; Giorgione, il cavaliere dei tempi nuovi. Giovinetti ancora la videro Raffaello con occhi di vita fulgidi, e Tiziano, colorandosi del suo fuoco; e le sorrise infine Correggio fanciullo. Quell'aurora prometteva l'azzurro eterno; ma poi che sparvero i genii, eredi del secolo precedente, la cappa di cielo plumbea rinchiuse la terra brulla. E col disparire dei genii, venne meno la varietà dell'arte delle regioni italiche: ai caratteri si sostituirono i tipi, alla sincerità dell'ispirazione le formule. Sembra che Raffaello trionfasse in ogni luogo, nelle imitazioni di un popolo d'artisti; ma il suo spirito non era più, la soavità sua non alitava disotto la scorza di stucco degli imitatori. Sembra che Michelangelo dominasse il mondo, che al suo verbo s'inchinassero le turbe; ma non ebbero il forte respiro de' suoi atleti e la terribilità del suo pensiero le statue degli acrobati seguaci. Sembra pure che l'antichità classica donasse i suoi esemplari dissepolti dai fori e dalle terme a tutta l'arte; ma non le gittò che gli elmi, i palii, i paludamenti, le tuniche per mascherare i nuovi armigeri, i nuovi filosofanti, i colendissimi signori. E così l'arte, verso la metà del secolo decimosesto, ci appare quasi senz'anima più: cerca la grandiosità delle masse, affine di stordire con gli effetti, non avendo più forza di attrarre gli animi; sente il freddo rabbrividire le sue opere grandiose, e tenta di avvivarle col forte chiaroscuro, incamminandosi irrequieta a stravolgere, contorcere, martoriare ogni forma. Invoca il sorriso della grazia, e trova la smorfia; vuole pararsi con gran magnificenza, e cade per pesantezza; si sforza a copiare l'antico, e ne fa la parodia: nelle convenzioni si offusca il vero, non brilla l'anima più, non arride l'ideale: tutta quell'arte, che non segue la natura, che sta oppressa sotto il peso delle memorie, si raggomitola, si raggrinza e raffredda, quasi le venissero meno i battiti della vita.

*

Il colore non cantava più! Io penso che il sentimento del colore si modifichi secondo i differenti momenti della vita di un popolo. Quando fiorisce la primavera dell'arte, i colori si equilibrano, si baciano, si fondono nella luce, e sembrano spirare raccoglimento nei chiostri, echeggiare salmodie nelle chiese, sciogliere inni all'aria e al sole nei palazzi. In seguito, alla semplicità e alla sincerità di quelle tinte, si sostituisce di mano in mano una ricerca di impercettibili differenze di colore: violetti, azzurri smorzati e opachi, colori inusitati, cangianti; e intanto l'arte perde la vivezza de' suoi smalti, e si copre di cenere. Come in ogni stagione svolazzano farfalle di tinte speciali, così gli artisti di tempi diversi, diversamente si colorano. Gli scolari del Francia bolognese, del Costa di Ferrara, di Leonardo a Milano, di Raffaello in Roma, del Perugino, già vecchio, nell'Umbria, soffiano nelle carni il fuoco di un tizzone ardente. Arrivano quindi i pittori iridati; poi sopraggiungono i pittori rosei, che stillano carmino da tutte parti. Quando i Carracci sorsero, il Barrocci ritenuto per il pittore più compito del tempo, dipingeva i piani delle figure di rosso cinabro e i mezzi piani di cobalto, in modo che le sue figure sembrano illuminate da fiamme al chiaro di luna. Proprio l'arte che si allontanava dal vero, perdeva il senso del colore, aveva ogni di più lo sguardo appannato e triste.

*

Alle cause naturali di decadenza, si aggiunse una causa nuova, la Contro-riforma, che spinse indietro l'arte nel suo cammino, lontano, nel medioevo barbaro, coll'amore del simbolo, con la ripugnanza al nudo, con l'espressione viva del martirio della carne. Una pittura o una scultura non doveva essere che una pagina della bibbia, del catechismo o del panegirico d'un Santo figurata; e il nudo doveva essere soffocato sotto gli ampli drappi. Eppure, benchè si mettessero le brache alle figure del Giudizio Universale di Michelangelo, benchè si coprissero di veli i Cupidi e le Veneri, l'arte non divenne pudica; anzi creò le Susanne coi Vecchioni, le figlie di Lot nel delirio bacchico, Giuseppe con la moglie di Putifarre: composizioni ripugnanti per la naturalistica brutalità. Il tormento della carne, voluto dalla Contro-riforma nelle rappresentazioni delle immagini sacre, fu sfuggito dai primitivi Cristiani, che, in vece di tristi soggetti, si compiacquero di contemplare scene di pace e di gioia, i fratelli nella fede in un'eterna oasi, ove le acque zampillavano tra i gigli, ove i pavoni, simbolo dell'immortalità, spiegavano la coda gemmata tra i frutteti. Nell'età barbariche invece, l'arte pretese di ispirare più la pietà che la fede, e si spinse addentro nella rappresentazione dei patimenti fisici del Cristo e dei Martiri. Il Rinascimento rigettò tutte quelle forme spettrali; il dramma della Passione divenne una scena di tenerezza e di amore; l'arte, rivolta alla ricerca del bello, rifuggì dall'espressione degli effetti violenti che alterano, contorcono, contraggono le linee dei volti e dei corpi. Ecco la Contro-riforma a turbare la serenità delle figure, la tranquillità del Dio martire e degli eroi del Cristianesimo! E si rivedono i Cristi lividi, insanguinati del Medioevo, i Santi martoriati crudelmente, coi ventri squarciati, boccheggianti nel sangue. Sante Peranda, per dipingere un San Giovanni decollato, pregò il duca della Mirandola di lasciare troncare innanzi a lui il capo d'un condannato al patibolo; e un padre gesuita raccomandava calorosamente al Pomarance di rappresentare bene al vivo la scorticatura di San Bartolomeo, perchè attirasse a divozione i cuori. Ecco quindi rappresentati dall'arte i santi anacoreti scarni, quasi fossili; ecco le Sante nell'esaurimento nervoso e nella catalessi; ed ecco la morte arrancata sui monumenti o rattrappita sotto lo stemma dei Chigi nel pavimento della cappella di Santa Maria del Popolo in Roma, ove già Raffaello, sotto il pretesto dei segni dello Zodiaco, aveva raffigurato Giove sogguardante, dall'alto della cupola, Mercurio, Marte e la stessa Venere.

*

Tali erano le condizioni generali, allorchè Ludovico Carracci e i suoi due cugini Annibale ed Agostino entrarono nel campo dell'arte a Bologna. Quivi l'arte non aveva avuto mai, neppure nei giorni felici del Rinascimento, un rigoglio conforme ad altre città italiane. Fino alla seconda metà del quattrocento, una pleiade di pittori bolognesi seguiva materialmente, come per forza d'inerzia, le forme trecentistiche; e solo il Francia, alla fine del quattrocento, surse a rappresentare degnamente l'arte bolognese, come il Borgognone in Lombardia, come Lorenzo di Credi in Toscana e il Perugino nell'Umbria; ma i suoi dugento e più scolari furono quasi tutti poveri di spirito, che strapparono dalle sue forme la mitezza, il raccoglimento monacale, l'umile atteggiamento, la carità umana. Quanto il Francia era stato diligente, tanto i discepoli furono spregiatori d'ogni cura, o convenzionali come Innocenzo da Imola, o squilibrati come Amico Aspertini, che il Vasari descrive in atto di tenere con una mano il pennello del chiaro e nell'altra quello dello scuro, e con una cinta intorno intorno a cui erano attaccati “pignatti pieni di colori temperati, di modo che pareva il diavolo di San Macario con quelle sue tante ampolle.„

Bologna, come Roma, aveva ricevuto i tributi dell'arte, pochi ne aveva recati di proprii alla bellezza; Bologna nel Rinascimento può considerarsi quale un bacino, entro cui affluissero e stagnassero i rivi dell'arte di altri luoghi, di Ferrara e Firenze, di Venezia e Milano. Per la morte del Francia, agli artisti bolognesi venne meno l'esperto nocchiero, così che furono balzati qua e là come naufraghi. Alcuni si diedero a tradurre in una prosa scorretta le immagini del maestro; altri si foggiarono all'ingrosso una maniera raffaellesca, specialmente sulle incisioni di Marcantonio, ed altri si misero a gonfiare i muscoli delle figure come vesciche, credendo di imitare Michelangelo. Il Manierismo produsse le cose più bislacche, corpi per aria sgambettanti, figure lunghe lunghe tagliate nel legno o coperte di piombo, drappeggiamenti che sembrano carta scompisciata, colori cangianti di camaleonti. A Bologna quindi aveva potuto metter piede il Calvaert fiammingo, presentare al pubblico que' suoi quadri con grande stridore di rosso e con lo sguaiato giallo canarino; avevano potuto salire in fama i Samacchini, i Procaccini, Bartolomeo Passerotti ed altri, che molto peccarono, molto oltraggiarono la maestà dell'arte. I Carracci si proposero di rivendicarla, di ridare all'arte derelitta la corona regale.

*

Ludovico Carracci aveva visitata Venezia, e là aveva veduto, innanzi alle opere di Tiziano e del Tintoretto, il tramonto di fuoco dell'arte veneziana; a Firenze poi aveva ammirato il crepuscolo dell'arte nelle penombre di Andrea del Sarto; a Parma l'aurora boreale fiammeggiante nelle opere del Correggio e del Parmigianino; a Mantova i fuochi della sera riflessi negli affreschi di Giulio Romano. Sprovvisto di naturale facilità al disegno, così che il Fontana bolognese e il Tintoretto lo dissuasero a dedicarvisi, si volse all'imitazione, vagheggiò la fusione della maniera romana con la lombarda e la veneta, di Raffaello col Correggio e con Tiziano. I suoi due cugini gli vennero in aiuto, Annibale col suo ardore, Agostino co' suoi calcoli. Ludovico però fu il più proteiforme nell'artistico triumvirato bolognese, e si studiò di far sue le forme più diverse, come si vede d'un tratto nella pinacoteca di Bologna, ove nel Cristo tra i Farisei s'ispira finanche ai tipi degli avari del fiammingo Quentin Matsys, e nel San Giovanni che predica alle turbe imita l'arte di Paolo Veronese. Mentre però la scuola di Paolo in un quadro dello stesso soggetto, similmente condotto, fa pispigliare la luce tra le fronde degli alberi, diffondersi nell'aria con onde argentine, scintillare sui manti orientali delle figure, Ludovico Carracci avvolge quasi ogni figura nell'ombra, che spegne i colori, e rende sordo quel rosso carraccesco di cinabro. La tendenza a cercare gli effetti col chiaroscuro, più che coi gradi delle tinte, rende le sue figure nerastre, con gli occhi cerchiati e talvolta cavernosi: non più raggi di sole avvolgono le Vergini del Cielo, ma chiarori di tra la nebbia o luce di luna tra i vapori acquei. Quelle Vergini, ora grossolane e schematiche, ora espressive e gentili, non rendono tuttavia sì nell'uno che nell'altro modo, il tipo dell'ideale femminino idoleggiato nell'anima dell'artista, ma ricordano molto le donne degli altri. Tutta l'arte di Ludovico era presa a prestito dell'arte altrui, e dimostra come la forza creatrice della pittura italiana fosse esaurita sullo scorcio del secolo decimosesto; l'arte del passato non penetrava dagli occhi al cuore, non si mesceva nel sangue; le immagini antiche rimanevano separate, senza fondersi insieme, senza comporne di nuove: rimanevano quali saggi od esemplari, non davano vita a nuove creazioni; erano pollini di fiori non mutati dalle api industri in favi di miele. Parve comprendere Agostino Carracci, il filosofo della compagnia, che quell'accattar motivi dagli antichi pittori non fosse buon partito: “se il Correggio„ disse agli altri due, “se il Tiziano, se il Tibaldi, se Paolo Veronese sono andati contro il gusto comune, era il lor naturale, era un proprio, che in essi quanto riusciva bene, tanto in altri si dirà sempre posticcio ed imprestito.„ Eppure, crollando il capo rispondeva Annibale, “se piace tanto il Correggio, se tanto Tiziano, il nome de' quali fa contrasto a quello di Raffaello, perchè piacer non dovrem noi, che di tutti e tre la strada battiamo?„ Agostino fu vinto, e mise in versi le teoriche eclettiche dei colleghi con questo sonetto in lode di Niccolò dell'Abbate:

“Chi farsi un buon pittor cerca e desia

Il disegno di Roma habbia alla mano,

La mossa, coll'ombrar veneziano,

E il degno colorir di Lombardia.

“Di Michel Angiol la terribil via,

Il vero natural di Tizïano,

Del Correggio lo stil puro e sovrano

E di un Rafel la giusta simmetria.

“Del Tibaldi il decoro, e il fondamento,

Del dotto Primaticcio l'inventare,

E un po' di gratia del Parmigianino.

“Ma senza tanti studi e tanto stento

Si ponga solo l'opre ad imitare

Che qui lasciocci il nostro Nicolino.„

Cioè Nicola dell'Abate, un altro camaleonte, che s'ispirò ai Dossi e a Giulio Romano, che andò brancicando in cerca delle forme degli altri. La ricetta era scritta; e i Carracci ne fecero uso, al dire del Bernini, come un cuoco che metta in una pentola un po' di ogni sostanza contenuta in altre pentole poste sui fornelli. Ma come la mescolanza di varii colori dà un brutto grigio, così in quell'unione delle differenti maniere artistiche; si spense la forza individuale, il carattere. Ad ogni modo, poi chè il carattere non si rilevava più nella forma, poichè la forza individuale era impotente a determinarsi, i Carracci mettendo insieme cose belle, raccogliendo le reminiscenze della grand'arte fuggita, disegnando molto e con diligenza, meglio fecero che molti loro predecessori e contemporanei, che, sotto la pompa delle composizioni, nascondevano la incertezza della forma.

*

Fu un nobile proposito quello dei Carracci di rinnovare l'arte, riportandola se non alle fonti, innanzi a forme assolute del bello. E Annibale, che più degli altri fu bene dotato dalla natura, si sforzò di stringere alle tradizioni antiche l'arte del suo tempo, o almeno di nasconderne l'aspetto raggrinzato ed ebete sotto una maschera lusingatrice. Annibale aveva sentito l'angelica beltà del Correggio, di quei putti della cupola di Parma che, com'egli stesso scriveva, “spirano, vivono e ridono con una gratia e verità, che bisogna con essi ridere e rallegrarsi„; a Venezia, aveva conosciuto Paolo Veronese, di cui vantò la facilità e la copia delle invenzioni; era entrato nella casa di Giacomo Bassano, ove stese, tratto in inganno, la mano ad un libro ch'era dipinto; aveva ammirato il Tintoretto, che a lui parve “ora eguale a Tiziano e ora minore... del Tintoretto.„ Tanto a Parma, come a Venezia, lo raggiunse Agostino suo fratello, più intento all'incisione che alla pittura, facile a' contrasti, a sofisticare intorno a tutto, a ciarlare di politica, a dissertare di filosofia, a sciorinare le sue ricche cognizioni di letteratura, di astrologia, di medicina. “Ma venga a Parma,„ gli aveva fatto dire Annibale, “che staremo in pace, nè vi sarà che dire fra noi, che lo lascierò dire tutto quello che vole, attenderò a dipingere, e non ho paura che anch'esso non faccia il medesimo.„ Tornati a Bologna, dopo quel bagno nell'arte del Rinascimento fiorente, dopo quel bagno di sole, Agostino promosse la creazione di un'Accademia del disegno, quella dei Desiderosi, che fu il primo tipo delle Accademie delle arti belle. Si cominciarono a disegnare nasi e bocche e orecchie staccate dai volti, disgregando così, a furia di analisi, l'insieme del vero; si studiarono i canoni della bellezza sui busti e sui bassorilievi antichi, senza por mente che il fiore della bellezza spunta nel fondo dei cuori, non si ottiene soltanto coi compassi e le squadre. Non si vedeva più fiorire spontanea l'arte nelle zolle d'Italia, e si volle ottenerla artificialmente; ma nelle serre, di tra i lambicchi e i prismi, l'arte perdette la vita propria: dalle serre uscì il fiore senza profumo; dalle storte uscì l'acido carbonioso, non il cristallo di diamante; nei prismi si scompose la luce dell'arte antica, invece di ricomporsi in una forma nuova, armonica, potente.

*

Annibale Carracci, più degli altri due triumviri, senti il colorito e l'equilibrio delle sue figure. Nella “Visione della Vergine„ della pinacoteca di Bologna (n. 36), un fulgore argentino circonda il capo della Madonna, le cui carni sono del colore di madreperla; i paludamenti e i manti delle figure dei Santi sono a lacche rosse e verdi segnate con pennello libero e franco: le luci giallo-dorate delle vesti degli angioli ricordano subito Paolo Veronese, il prototipo di Annibale Carracci a Venezia; mentre il San Giovanni, che addita la Vergine, ricorda il Correggio, il suo prototipo a Parma. Quanto superò in questo quadro il fratello Agostino, tutto schematico e calcolatore, così che tagliava come in una palla le tonde teste delle figure della sua “Comunione di San Girolamo!„ e quanto il cugino Ludovico, che caricava troppo gli scuri, e mutava di forme ad ogni mutar di vento! Lavorarono tutti e tre nelle sale dei Signori Favi a Bologna, per colorirvi le imprese di Giasone, e nel palazzo dei Magnani, per frescarvi le istorie di Romolo. Ma Annibale, sempre meno impacciato degli altri due, trovava accenti naturalistici. Mentre Ludovico era grave nel portamento, bramoso di onori e dei titoli, e Agostino trattava con poeti, novellieri e cortigiani, Annibale vestiva selvaticamente, “col collar torto„ dice un suo contemporaneo, “col cappello a quattr'acque, mantello mal rassettato, barba rabuffata.„ Annibale, noncurante di sè, perchè più assorto degli altri nelle opere, lasciò più degli altri memoria dell'arte sua, specialmente nella galleria di palazzo Farnese in Roma, il più splendido saggio decorativo del Seicento in Italia.

A Roma, quando vi giunse Annibale Carracci, si disputavano il campo della pittura Michelangelo da Caravaggio, lanzichenecco dell'arte, che si godeva tra giuocatori, bari e zingare, e il cav. Giuseppe d'Arpino, il Marino della pittura, corrotto e corruttore, falso nel disegno, nel colorito, nell'anima. Annibale Carracci gettò tra i due contendenti la formula che le meraviglie della Roma dei Cesari e della Roma di Leone X gli suggerirono: tornare all'antico! Non all'antico vagheggiato a Bologna, ma ad una sua forma più scultoria e monumentale. I resti dell'antichità classica avevano colpita la fantasia dell'artista, tanto che, avendogli Agostino vantato con gran calore il Laocoonte, e fatte le meraviglie di vederlo taciturno, egli prese un carbone, e disegnò sul muro il gruppo sì giustamente, come se l'avesse avuto dinanzi per imitarlo; e rivoltosi al fratello, disse ridendo: “Noi altri dipintori habbiamo da parlar con le mani.„ Osservando l'antico, parve ad Annibale che, tra gli avi dell'arte sua, Raffaello sopra tutti avesse sentita la bellezza classica, nel dare forma monumentale alle sue composizioni pittoriche, nel disporre le sue figure sur uno stesso piano, come bassorilievi policromi. Ne seguì l'esempio nella galleria Farnese, ispirandosi principalmente alla sala della Psiche della Farnesina, a quel risaltare delle figure tra loro, a quell'artificio con cui si riempiono gli spazi dell'affresco, a quelle classiche forme. Non ha tuttavia la disposizione della vôlta della galleria Farnese la semplicità, la gaiezza della sala della Psiche, ove Raffaello immaginò uno scomparto formato di festoni di fiori e frutta a frondi; fece volare, negli spazi vuoti, sui lembi di cielo azzurro, le divinità dell'Olimpo; e stese nella vôlta, per mettere come al coperto la sala del banchetto, due finti arazzi attaccati ad anella. Leon X, i Cardinali, i prelati, la diva Imperia entravano così dal giardino della Farnesina nella loggia, come sotto a un pergolato, e si sedevano alla mensa scintillante di piatti d'oro e d'argento, fatta ammannire da Agostino Chigi, il mercante magnifico, mentre gli Dei a convito, rappresentati sopra al loro capo, bevevano il nettare, festeggiavano gli sponsali di Amore e Psiche.

La sala di Annibale Carracci a palazzo Farnese in parte è a finta scultura: sul cornicione si solleva il fregio con pilastri a chiaroscuro, medaglioni di bronzo e termini di finto rilievo che reggono la vôlta; sui basamenti dei pilastri stanno giovani coloriti al naturale, senza un significato proprio, vere accademie o studii dal nudo, in atto di tenere festoni pendenti da maschere sceniche. Al ricchissimo fregio sembra non corrispondere la decorazione della vôlta, dove si stendono quadri con cornici dorate o a mo' di stucco; e la composizione non ha l'unità, che nella sala della Psiche vi spirò Raffaello, svolgendo la fabula grecanica di Apuleio, che pare racconto di una fata. Annibale Carracci volle figurare la guerra e la pace tra l'amore celeste e l'amore terreno; ma l'allegoria filosofica di Platone portava troppo all'astrazione, e non poteva trasparire chiaramente nelle rappresentazioni degli amori di Ercole, di Anchise, di Diana, di Polifemo, ecc. L'allegoria è composta come da citazioni affastellate con grande affanno da un erudito secentista; e tuttavia Annibale Carracci, nella galleria del palazzo Farnese, ottenne il suo scopo, tradusse l'antico con abilità mirabile, fece sporgere pel forte chiaroscuro i termini del cornicione, rese con armonia e riccamente le scene mitologiche, ispirandosi nel disegno all'ultima maniera di Raffaello, ottenendo una vivezza e un chiarore nuovo di colorito, variando i motivi decorativi con una signorile larghezza. Nel Baccanale a mezzo la vôlta però non folleggia il piacere, come nei Baccanali di Tiziano; e Venere seduta sul talamo, mentre Anchise le leva un coturno, non è come la Rossane della Farnesina, il venustissimo fiore, dipinto da Antonio Bazzi, detto il Sodoma, a cui intorno scherzano gli amori, a cui si appressa rischiarato dalla face d'Imene, con la fiamma del desiderio negli occhi, l'eroe, Alessandro. Non vi sono insomma le allegorie e le scene mitologiche, quali seppe renderle il Rinascimento, combinando l'arte classica col senso fresco, spontaneo della natura; non traspare, sotto il velo della finzione, l'anima dell'artista con le sue passioni; non riluce nella scena la vita gaia e libera della società.

Raffaello diede talora agli Dei dell'Olimpo la cristiana dolcezza sulle labbra, Michelangelo l'ombra del pensiero sotto le arcate delle sopracciglia, Correggio la grazia nei corpi snelli, Paolo Veronese un'atmosfera di faville tutt'intorno. Annibale Carracci non riuscì, in quella prima decade del seicento, in quel disgregarsi e squagliarsi d'ogni forma, non riuscì che a ridare agli antichi eroi, agli Dei dell'Olimpo l'equilibrio dei corpi, traendoli fuori da una buona stampa accademica, inquadrandoli in una splendida cornice, salvandoli dalla brutalità artistica invadente. Quasi che Annibale Carracci vedesse non alitare intorno alle sue figure l'aria fresca e serena, che ondeggiava la chioma della Galatea di Raffaello; quasi che l'afa del seicento ne opprimesse lo spirito, divenne di umore malinconico e cupo. “Si giuoca„, scriveva l'ambasciatore estense Fabio Masetti, “a indovinare per trovarl'in casa, oltre che s'è ritirato in una habitatione, segregato da ogni commercio dietro la Vigna dei Riarii alla Lungara„. Morì l'anno 1609, salutato restauratore e principe dell'arte, “restituita e innalzata da lui„, scrive il Bellori, “nuovamente alla vita del disegno e del colore, dopo averla raccolta per terra in Lombardia e in Roma„. La sua salma fu portata nel Pantheon, esposta sopra un catafalco, a capo del quale si collocò un quadro di Annibale, come al letto di morte di Raffaello fu posta la sublime “Trasfigurazione„ dai discepoli riverenti; e “il popolo accorse a vedere le esequie lugubri e le morte spoglie di Annibale, quasi nel luogo stesso si mirasse di nuovo Raffaello disteso sulla bara„. E là nel Pantheon dorme presso alla tomba di Raffaello, che vissuto in un tempo felice, nella fiorente primavera dell'arte, era salito tra gl'immortali: Annibale giace come l'adoratore presso il suo Dio.

E del suo Dio egli aveva predicato il verbo alle turbe, onde per tutto il secolo decimosettimo all'arte napoletana focosa, naturalistica e tetra si contrappose l'arte dei Carracci sospirante il decoro e la bellezza antica.

*

Nei palazzi principeschi d'Italia, nelle vaste chiese erette dalla Contro-riforma trionfante, l'arte dei Carracci penetrò: salì nelle cupole, si stese lungo gli archi, apparve sugli altari tra il fumo dell'incensi, lo scintillio dell'oro, l'agitarsi delle statue barocche; e nei palazzi, nelle sale, ove convenivano i grandi d'Italia, esaltò i ricordi della patria, il fasto delle famiglie, con un linguaggio pieno d'enfasi, rumorosamente. Tutt'all'intorno delle storie magnanime gettarono corone, volarono, caddero rovescio sui nuvoloni, virtù simboliche, angeli e demoni.

Da Bologna a Madrid, tra gli ornati dell'Escuriale, ad Anversa tra i fuochi e le fiamme di Rubens, a Parigi traverso le istorie di Nicola Poussin giunsero i Carracci, s'inoltrarono nel tempo per la via delle Accademie, e batterono sino alle porte del nostro secolo. I moderni, in estasi innanzi alle verginali cose del Rinascimento, li bestemmiano, disconoscendo che il loro tentativo di incamminare l'arte verso l'antico era animato da un sentimento simile a quello che volge noi a contemplare e ad amare l'arte dei giorni felici. Il Ruskin, che scrive d'arte gettando sulle pagine la sua spugna impregnata di colori, e il Leroi, nell'organo magno dell'arte parigina, ed altri ed altri in coro bestemmiano i Carracci, non accorgendosi del loro nobile sforzo di innestare dignità e vigore sulla pianta già verde e con bacche d'oro, nell'annosa pianta isterilita dell'arte italiana.

*

Gli sforzi non andarono a vuoto: ecco Guido Reni educato dai Carracci meglio determinare l'idea della bellezza ne' suoi angioli, in quelli di San Gregorio in Roma ad esempio, con lunghe chiome inanellate, coi grandi occhi nuotanti nell'azzurro. Il concento dei liuti e delle viole e dei cembali sale dalla tribuna della cappella nel cielo luminoso, ove si appuntano gli sguardi e le amplissime ali candide degli angioli.

Guido Reni non fu un mistico, ma neppure si lasciò conquidere dallo spirito realistico della Contro-Riforma. Le teste de' suoi Cristi coronati di spine, con le pupille che languono smarrite sotto le palpebre, con le labbra semiaperte, rendono il dolore dell'anima; ma i bei capelli ondulati ricadenti sugli omeri, le carni alabastrine non dicono la tortura del corpo: nell'espressione spira la tranquillità del martire cristiano, negli occhi supplici da cui sfuggono lacrime e preci la rassegnazione divina. Mentre la Contro-riforma chiedeva all'arte le immagini di Cristo livide, rosse di grumi di sangue, coperte dalle ombre della morte, Guido Reni volge le teste del Redentore al cielo, come se lo spirito fosse per esalare e tornare alla luce. Purtroppo il pittore abusò di quell'espressione, e molti suoi Santi si affisano ugualmente nel cielo, e divengono forme convenzionali, stereotipate; purtroppo la forza di Guido, quella che lo aveva assistito in San Gregorio a Roma, nella grandiosa scena del Sant'Andrea che adora la croce, cadendo ginocchioni sulla strada del martirio, tra manigoldi, soldati e popolani, quella forza a poco a poco gli venne meno; e le sue figure biancastre, vuote, tondeggianti, le sue donne dal volto di Niobe e dai capelli di stoppa, rendono dilavata, fredda l'idea della bellezza quale rifulse negli anni giovanili alla mente di Guido. Quando egli si provò ad imitare Raffaello nella “Fortuna„ dell'Accademia di San Luca o nel San Michele della chiesa dei Cappuccini in Roma, cadde miseramente; quando invece colorì l'Aurora di Palazzo Rospigliosi, e specialmente quando compose le ancone con Madonne e Santi (quella della pinacoteca di Faenza è mirabile esempio), si innalzò maestoso. L'equilibrio di Annibale Carracci regna nelle sue tele, nel moto ordinato delle figure grandiose, nel ricadere degli ampli drappi e dei manti, nel raggrupparsi delle figure tra loro, anche quando la passione sembra dare strappi all'euritmia della composizione. Così, ad esempio, si vede nella “Strage degli Innocenti„ a Bologna, ove nel pavimento giacciono due morticini, che fanno pensare ai due nati di Eduardo, di cui i sicarii di re Riccardo raccontano, nel dramma di Shakespeare, la morte, “la distruzione„, dicono essi, “della più bell'opera che la natura avesse formata dopo la creazione„. Le parole degli sgherri angosciati di re Riccardo potevano sfuggire agli stessi manigoldi nel raccontare l'eccidio dei fanciulli. Dicevano quelli: “Stavano adagiati in un medesimo letto.... abbracciati si tenevano con le loro braccia innocenti e candide come l'alabastro. Le loro labbra sembravano quattro rose sopra un solo stelo, che si baciassero l'uno con l'altro nel loro più vermiglio splendore.„

*

Compagno di Guido Reni fu l'Albani, minore di gran lunga d'ingegno, sempre in cerca di piccoli espedienti. Sarebbe stato un pittore di genere, se i Carracci non lo avessero rivolto alla pittura sacra e alla mitologica; tuttavia anche nel sacro cercava le scenette graziose, gli accessori eleganti, le espressioni zuccherine, e nelle scene mitologiche impiccioliva tutto, dava sorrisetti a tutte le teste, un'aria civettuola alle Grazie. Dopo aver dipinto a Roma, fece ritorno a Bologna sua patria, ed ebbe dalla seconda moglie bellissima, della nobile famiglia Fioravanti, numerosa prole, di cui si servì per modello nel ritrarre, là nella sua villa di Meldola e di Querciola, abbellita di fonti e di peschiere, le deità del cielo e della terra e del mare, i suoi genietti ed amorini, gli elementi, in vaghi paesi e giardini, boscaglie, prati fioriti, collinette apriche, con limpide lontananze marine.

Fu secentisticamente detto l'Anacreonte della pittura; ma ad ogni modo quelle galanterie di putti ricciutelli, che giuocano e scherzano, quelle ninfe leziosette sono una forma non priva di genialità, benchè non irrompa la vita negli amorini accarezzati, ordinati, educati; non iscroscino le risa delle ninfe pettinate, levigate, con le lustre carni d'avorio. Eppure la fonte dell'Albani non mancava di freschezza, le composizioni mitologiche del Domenichino, a cui si ispirava il pittore, erano gioconde e festevoli.

*

Domenico Zampieri, detto il Domenichino, fu un quattrocentista smarrito nel seicento, di un candore, di una ingenuità, d'una timidezza singolare in mezzo all'assordante clamore dei barocchi. Ci sembra di vederlo in tutte le sue opere come Ludovico Carracci lo vide ancora in tenera età, nella sua Accademia, il giorno in cui solevasi dare il premio ai disegni: egli se ne stava solo, ritirato in un canto, dopo aver messo l'olio nelle lampade della scuola, e senza pronunciar motto; e quando il suo disegno fu giudicato il migliore di tutti, “non ardiva di farsi avanti, ma solo manifestossi col berrettino in mano, e con voce sommessa e vergognosa„ ( Bellori ). Restò sempre modesto, pauroso quasi dell'opera sua; ma disse giustamente il Bellori, si vantino pure gli altri pittori della facilità, della grazia, del colorito e delle altre lodi della pittura che a lui toccò la gloria maggiore di lineare gli animi e di colorire la vita. Egli comprese come ogni linea, prima che dalla mano, dovesse essere mossa dall'intelletto; come al pittore convenisse non solo osservare gli affetti umani, ma sentirli in sè. Mentre dipingeva a San Gregorio, in concorrenza di Guido, Annibale Carracci lo vide, entrando nella cappella, adirato e in preda allo sdegno, che si studiava di esprimere nel volto del manigoldo minacciante il santo martire Andrea. E gli affetti traspaiono ne' suoi fanciulletti, che si stringono impauriti alle gonnelle delle tenere madri, negli angioli che sporgono tra le nuvole la testolina curiosa, nei garzoncelli che stendono supplici le mani a Santa Cecilia benefattrice: da per tutto in quegli occhietti vivaci, in quell'ingenuità di moti, in quel candore di volti.

Gli altri secentisti si affannarono a cercare il nuovo, e forme strane non vedute mai; il Domenichino invece si provò a continuare, a perfezionare l'opera de' suoi predecessori, e come nella Santa Cecilia a San Luigi de' Francesi in Roma, s'ispirò al quadro dell'“Elemosina di San Rocco„ di Annibale, nella “Comunione di San Girolamo„, ora nella galleria vaticana, tenne di mira il quadro dello stesso soggetto di Agostino Carracci. Però nel Santo Anacoreta egli seppe esprimere lo sfasciarsi delle membra per gli stenti e la decrepitezza, e gli ultimi aneliti di lui negli occhi dilatati, che guardano al Sacerdote apprestante il pane divino. A tutte le figure del quadro par che tremi il cuore, e financo piange il leone, compagno dell'eremita, con la testa china sugli artigli e le sopracciglia increspate dal dolore.

Profondo sempre e sempre candido, il Domenichino dà alle sue Sibille l'aspetto di vergini rapite nella visione del futuro, fa inchinare i Santi con divozione ed umanità, soffrire i Martiri con rassegnazione divina, gioire le sue ninfe innocenti come in un paradiso terrestre. Le invidie, le persecuzioni abbatterono quel grande, che, nel seicento, anche sotto gl'involucri pesanti della forma, anche sotto lo strato del colore senza guizzi di luce, fece trasparire la sua anima buona. Sant'Agata a Bologna, nella Pinacoteca, Sant'Agata che stende le bianche manine nell'aria, e inoltra lo sguardo tremulo nell'azzurro dei cieli e nella gloria, che apre le piccole labbra scolorite da cui l'anima si fugge per ondeggiare incorporea negli spazi celesti, è simbolo dell'arte di Domenichino casta e gentile, anche sotto il pondo delle spoglie, sotto lo stucco del seicento. Se l'arte dei Carracci non avesse spirato vita che al Domenichino, grande e infelice, coscienzioso in un tempo in cui la coscienziosità sembrava povertà di spirito, timido fra i contemporanei audaci, l'arte dei Carracci sarebbe degna anche per questo di onore.

*

Nè l'anima del Domenichino, nè il pensiero di Guido, nè il sorriso dell'Albani rispecchiansi soli nelle forme diffuse dai Carracci; ma sì tutta l'opera d'una legione d'artisti, che per l'Italia sventolano le insegne dei maestri di Bologna: di Giovanni Lanfranco di Parma, co' suoi colossi rapidamente elevantisi su le cupole e gli archi e le ampie moli, del Tiarini di una sincerità popolana, di Sisto Badalocchio, di Antonio Maria Panico, di Antonio Carracci, di Innocenzo Tacconi, di Lucio Massari, di Lorenzo Garbieri, del Cavedoni, del Guercino, ecc.

Gli ultimi due, Cavedoni e Guercino, errano per differenti vie: il Cavedoni cerca il fuoco e lo splendore dei quadri veneziani, il Guercino avvolge le sue composizioni nelle tenebre, e qua e là le rischiara da bianche livide luci. Sembrano giunti col Guercino i giorni funebri del colore; ma l'arte continuò a far tesoro dell'eredità dei Carracci, a sentire il loro impulso di ricercare, di ritornare all'antico. Dalle Accademie, ove ancora germinavano i semi carracceschi, l'arte si mosse verso l'antichità classica, nel secolo scorso; verso il Medioevo e il Rinascimento, nel secolo che ora volge al suo termine. Ma nè i Cincinnati, nè i Coriolani ingessati dell'arte del Regno Italico; nè i cavalieri dal collo torto, nè le dame dagli occhi di triglia morta del ciclo romantico; nè le lunghe fanciulle col collo tirato, nè i Santi con le teste su scudi d'oro agganciate a' panni de' preraffaellisti, espressero la vita nuova.

L'arte del passato non può renderla con gli echi delle sue epopee, e a noi basta di venerarla nei musei; l'arte del presente senza unità, incerta del suo fine, ora si aggrappa al passato come alla tavola di salvamento, ora ne rifugge per navigare senza bussola nel regno dei sogni; l'arte dell'avvenire ci dirà senza convenzioni, senza miscugli l'ideale delle anime? Torneremo a' giorni lieti, in cui la vita prorompa nelle immagini dell'arte giovani, fresche, sane? Allora sarà giusto ricordare, come ricordiamo oggi, nell'ansia dell'attesa, chi tentò nella società guasta e degenere del seicento ricondurre l'arte alla bellezza, chi con i piedi nel fango fissò gli occhi nel cielo.

BAROCCHISMO

CONFERENZA DI Enrico Nencioni.

I.

Signore e signori,

Il barocco è la caratteristica del secolo XVII, più particolarmente in Spagna e in Italia; e non solo nella Letteratura e nell'Arte, ma nella Vita; nei costumi, nelle mode, nel cerimoniale, negli spettacoli, nella religione, nell'amore, nella guerra, perfin nei delitti.... Due cose essenziali bisogna però ricordare quando si parla del barocchismo letterario ed artistico; cioè, che nei suoi principii, nel Bernini, per esempio, esso fu una reazione del genio individuale contro il sistematico classicismo accademico e dottrinario degli ultimi anni del Rinascimento. “Meglio ippogrifi che pecore!„ parvero dirsi quei primi arditi nuovatori. Bisogna poi ben distinguere fra barocchi e barocchi: fra quelli fioriti nella prima metà del secolo XVII, e quelli della seconda: non confondere gli audaci coi deliranti, il Bernini col Borromino, il padre Bartoli col padre Orchi. Certo, un po' di barocchismo è in tutti quanti i Secentisti: unica e gloriosa eccezione, il gran Galileo. Ma gli stessi discepoli di Galileo non ne sono affatto immuni. Il Torricelli, per esempio, scrive che “la forza della percussione porta sulla scena delle maraviglie la corona del principato„. Ma il vero delirio, nella lirica, nel teatro, nell'architettura, comincia nella seconda metà del Seicento. Tipi supremi, la facciata del San Moisè del Tremignone, a Venezia; e le prediche del padre Orchi.

Queste sono il vero colmo del barocchismo letterario, e disgradano gli stessi Preti e Achillini. E notate che destarono l'entusiasmo degli uditori e furono applaudite nel Duomo di Milano. Bastano i titoli soli delle prediche per esilararci. Eocone uno: “Le bevande amatorie date a bevere alla sposa dal suo servitore, per farla adulterare„ che vuol dire i diletti del corpo che distaccano l'anima da Dio. È lui che in un panegirico di Santa Maria Maddalena, disse che, prima di udire la parola di Cristo, essa era “sollevata di fronte, sfrontata di faccia, e sfacciata d'aspetto„ ma dopo ascoltato il Salvatore, “le si svegliò nel meriggio del cuore l'austro piovoso del tenero compungimento, e sollevando i vapori dei confusi pensieri, le strinse nel cielo della mente i nuvoli del dolore„. Questo bravo padre Orchi farebbe oggi furore a Parigi fra certi simbolisti, non meno stravaganti, e più sibillini di lui.

Un giorno paragonò la confessione a una lavandaia, la quale “nudata il gomito, succinta il fianco, prende il panno sucido, ginocchione si mette presso d'una fiumara, curva si piega su d'una pietra pendente, insciuppa il panno nell'acqua, lo stropiccia coi pugni, con le palme lo batte, lo sciacqua, lo aggira, lo avvolge, lo scuote, lo aggroppa, lo torce; indi, postolo entro un secchione, poi al fervore del fuoco in un caldaio, fatto nell'acqua con le ceneri forti un mordente liscìo, bollente glielo cola di sopra; giuoca di nuovo di schiena, rinforza le braccia, rincalza la mano, liberale di sudore non meno che di sapone; e finalmente, fattasi all'acqua chiara, in quattro stropicciate, tre scosse, due sciacquature, una storta, candido più che prima e delicato ne cava il pannolino„.

L'uditorio proruppe in applausi, ed egli, il giorno dopo, riconoscente, confessò che “non poteva più contenere in seno il grande amore pei suoi ascoltatori....„ “La vostra attenzione, esclamava, ha fatto da balia a questo amore; lo ha fasciato e cullato; e ora, divezzato dal poppare mercè l'aloe amaro della partenza, si pascerà col solido cibo delle memorie. La brama di tornare a voi è una gravidanza matura, sicchè io sto con la doglia del parto, finchè la grazia del Cielo non mi servirà da Lucina, per figliare un nuovo maschio Quaresimale.„

Ora io domando: sarebbe giusto confondere sotto la stessa denominazione di barocche queste prediche del padre Orchi e quelle contemporanee del padre Segneri? le pagine descrittive, sovrabbondanti, ma pittoresche e musicali, del Bartoli, coi leziosi Disinganni del Lancellotti? le enfatiche ma possenti strofe del Testi e del Filicaia, con le insulsaggini del Ceva? Eppure anche il Segneri e il Bartoli e il Filicaia sono, in gran parte, barocchi. E barocco, ma sempre grandioso e geniale anche nel suo barocchismo, è spesse volte il Bernini. Ora chi oserebbe confonderlo coi Tremignoni, i Borromini, i Buonvicino e i Rusconi? Il Bernini è artista unico nel suo genere: l'ultimo veramente grande e originale artista italiano: con lui l'Italia abdica gloriosamente il suo primato nell'Arte, e assume quello scientifico con Galileo.

II.

Nel secolo XVII, come nel XVI e poi nel XVIII, Roma è città sterile d'arte e di artisti proprii; ma è come il gran mercato dove si eseguivano, o si trasportavano, le opere dei più insigni artisti italiani e stranieri: un gran centro di ecletticismo. Lorenzo Bernini, nato di famiglia fiorentina a Napoli, visse e lavorò quasi sempre in Roma. Fa spavento il pensare quanti sono i lavori di lui nella sola Roma; fra chiese, palazzi, colonnati, archi, fontane, scale, statue, gruppi, busti, mausolei.... Si direbbe una legione di artisti. Nella prodigiosa fecondità gli sono solo paragonabili Rubens e il Tintoretto. Genio veramente creatore e moderno, dipinse nel marmo, e mise nei suoi ritratti la vita ed il movimento; rilevando con possente efficacia la fisonomia caratteristica dei personaggi. Nell'architettura, spirò una trionfale grandezza. Le sole fontane basterebbero a immortalare il suo nome. Prima di lui, nessuno, nè antichi nè moderni, avevan capito la poesia e il carattere dell'acqua, messa in movimenti armonici e pittoreschi. Chi non è stato a Roma non ha idea di fontane. Le più celebri fuori di Roma, e in Italia e all'estero, non sono che spruzzi d'acqua, o docce da bagno, o saliere. Vuotatele, e potrete figurarvele, senz'alcuna repugnanza, piene di qualunque altro materiale; — vuotate quelle del Bernini, e a nessuno verrà il minimo dubbio che lì c'era, e doveva essere, il fluido irrequieto elemento — la fresca abbondante e sonante acqua romana. Alcuni critici d'arte chiamano bella ma barocca la fontana di Piazza Navona, dove sono le grandi statue del Danubio, del Nilo, del Gange, del Rio della Plata, in attitudini ondeggianti e serpentine come l'acqua. Se veramente questa fontana è barocca, vuol dire allora che l'ideale di una fontana è il barocchismo, — che una fontana per essere bella e caratteristica e pittoresca, deve esser barocca. Ma vi son taluni pei quali ogni nuovità, ogni ardimento è barocchismo.

A proposito delle statue del Bernini, e ne ha delle stupende e perfette come la Santa Bibiana ed il Davide, si è fatto un gran declamare contro gli svolazzi dei manti del suo Apollo, dei suoi Angioli del Colonnato. Ma hanno mai pensato cotesti rigidi censori che Apollo è in atto di inseguire una Ninfa, e che questo Apollo inseguente Dafne, era destinato a una villa, all'aria aperta, e non alla sala di un Museo come lo vediamo ora, fra le dee greche dai pepli corretti e dalle tuniche aderenti? Era possibile e logico che il manto del Dio non svolazzasse? L'Apollo è ammirabile nel suo movimento impetuoso, come la Dafne nello stupore di sentirsi conversa in pianta, e i piedi tramutarsi in radici, e fiorirle i capelli, e il sangue aggelarsi, e la carne attonita diventar vegetale. E quei santi e angeli sui culmini di San Pietro, del Colonnato, di San Giovanni Laterano, campati in aria, dai gesti drammatici violenti, agitanti delle croci gigantesche con movimenti aerei, saranno barocchi quanto volete, ma lì dove sono stanno bene, e spiccano a cinque miglia di distanza, e armonizzano con la Cupola e con la immensa campagna. Metteteci invece delle belle figure corrette e composte, non si vedrebber nemmeno. I barocchi, anche i più decadenti, ebbero un vivo sentimento dell' ambiente, come i grandi artisti moderni. Così le Susanne del Bernini bisognerebbe vederle là per dove eran fatte, presso la vasca di una villa romana, all'ombra verdastra delle elci secolari, e non nelle sale d'un Museo. Come certi grandi vasi da fiori del Secento, ammirabili come decorazione (i Barocchi e i Giapponesi sono i più insigni decoratori del mondo), non si possono giudicare vedendoli vuoti, e in una collezione — ma bisognerebbe vederli sulle scalee di una villa, o in un grande giardino dell'epoca e pieni di fiori, non vuoti. Ogni opera d'arte, o signori, anche se perfetta in sè stessa, perde di pregio, quando la contempliamo in un ambiente troppo diverso da quello nel quale e per il quale fu fatta. Pochi giorni fa, in una visita al nostro Museo Nazionale, vidi murate alle grandi pareti di due immense sale, una moltitudine di Madonne dei Robbia; bellissime e adorabili ciascuna per sè, ma lì tutte in fila, mi parvero a un certo momento, Dio mi perdoni, tanti soldatini delle scatole di Nurimberga.... E pensavo all'effetto grande, inevitabile e delizioso, che una sola di quelle Madonnine faceva quando era dove doveva essere, in un chiostro solitario dell'Appennino, o nella penombra mistica di una chiesa.

Anche per apprezzare equamente la Santa Teresa del Bernini, bisogna rammentare e il carattere religioso della Riforma Cattolica, e il misticismo rêveur del Secento, e Molinos e Madama Guyon. Questa Santa Teresa non è una santa del Medio Evo, ma una gran dama devota del secolo XVII; avvezza ai grandi cerimoniali liturgici del Gesù e di San Pietro, all'odore degl'incensi, al sacro lume dei ceri, alle melodie dell'organo, all'oro dei piviali, alla penombra mistica del confessionale, al monotono gemito delle salmodie. Guardatela sotto questo aspetto e la troverete ammirabile. Dicono troppo adulto ed equivoco l'angelo che la ferisce con lo strale del divino amore. Sarà. Però, è abbastanza curioso, che per giudicare della bellezza della santa, si debba prima esaminare la fede di nascita di quell'angelo, il quale, qualunque età abbia, è piuttosto bruttino. Ma che ardor di passione in questa Santa Teresa! “Elle a séchè dans le feu, dans les larmes„, attendendo lo Sposo celeste. Svenuta d'amore, gli occhi semichiusi, è caduta in un'estasi dolorosa e voluttuosa ad un tempo. Il bel viso è magro, la bocca sospira, le mani sono languidamente abbandonate. Vista una volta, non si dimentica più. Il Taine, credibilissimo giudice, e piuttosto severo per il Bernini, ha scritto di questa statua: “Bernini a trouvé ici la sculpture moderne, toute fondée sur l'expression.„

III.

E che dire della gran piazza di San Pietro, tutta opera del Bernini? Lo Shelley scriveva: “Più vedo San Pietro e più mi sembra inferiore alla sua fama; ma la piazza è stupenda.„ E il Taine: “Non v'è una piazza eguale, o solamente comparabile a questa, in tutta Italia e in tutta Europa. Nessuna bellezza più solida, più sana di questa: il nostro Louvre, la piazza della Concordia non sono al suo confronto che decorazioni da Opera. Essa monta leggermente, e si abbraccia tutta in un colpo d'occhio. Due superbe colonnate in triplice linea la cingono con la loro curva. Un obelisco nel centro, e ai lati due fontane che agitano i loro pennacchi di schiuma popolano soli la sua immensità.„ Ma l'interno della grande Basilica apparve al Taine come allo Shelley, al Ruskin ed al Symonds, una enorme combinazione di effetti barocchi: grandiosa ma teatrale, possente ma enfatica. “Una grande opera architettonica dev'essere, dice il Taine, una parola sincera, come un grido che esprima immediatamente un sentimento.„ E il Taine ha ragione: ed è anche innegabile che il carattere cristiano di dolore e di sacrifizio è meglio espresso dai chiaroscuri, dalle tenebre mistiche, dai vetri colorati, dalle selve di colonne e di guglie di una cattedrale gotica; che, senza uscir d'Italia, come opere d'arte una e omogenea, Santa Maria del Fiore, San Marco di Venezia, il Duomo di Pisa, il Duomo di Milano, son superiori al San Pietro. Ma guardiamo San Pietro da un altro punto di vista. Non vi cerchiamo nè i terrori, nè le mistiche tenerezze della Chiesa militante e sofferente: cerchiamoci invece lo splendore e la magnificenza della Chiesa trionfante e cattolica; e allora essa ci apparirà, come apparve a Byron e a Chateaubriand, a Browning e a Hawthorne, la vera Cattedrale del mondo. Anch'essa ha una parola sincera, esprimente un sentimento vero: solamente, questa parola, questo grido, non sono un Miserere, o una profetica lamentazione — ma un glorioso Te Deum espresso in pietra ed in marmo, in oro ed in bronzo.

La grande basilica sembra sorridere ai suoi critici, nella sua calma serenità; e dire per tutta risposta: “ Guardatemi! „ e ridirlo con una continua, insistente ripetizione: “Guardatemi, guardatemi bene, in silenzio, senza preconcetti e senza prevenzioni, e poi giudicatemi!„

In certe giornate di rito solenne essa ci appare sovrumanamente sublime — per esempio quando la sua immensità è piena e animata dai canti liturgici del Palestrina — o nella notte di Natale, o per Pasqua di Risurrezione. Eccola descritta dal poeta di Christmas-Eve and Easter-Day, appunto nel giorno di Pasqua:

“Che cosa è questa mole che si eleva su colonne di prodigiosa larghezza? È realmente sulla terra, questo stupendo Duomo di Dio? Il metro misuratore dell'Angiolo che, gemma per gemma, numerò i cubiti della Nuova Gerusalemme, lo ha forse misurato, e i figliuoli dell'uomo hanno eseguito ciò ch'egli delineò? — disponendo così in giro i fusti del colonnato, che apre le grandi braccia come invitando l'umanità a cercare un rifugio in questo tempio?... A quest'ora io vedo la intera Basilica piena e vivente come un popoloso alveare. Uomini ai balaustri, nel centro, nelle navate; uomini sugli architravi delle colonne, sulle statue, sulle tombe che chiudono papi e re nel loro grembo di porfido — tutti ansiosamente aspettando il momento della consacrazione dall'altar maggiore: perchè, vedete, il gran momento è vicino in cui al più puro fromento della terra si mescola il cielo: i grandi ceri palpitano, le enormi spire di bronzo sollevano più superbo il baldacchino; i respiri dell'incenso finora compressi, esalano in nuvole; l'organo muggendo e trascinandosi in bassi suoni, trattiene la voce possente come se il dito di Dio lo acchetasse, sfiorandolo; ed ecco, al suono argentino del campanello, il pavimento improvvisamente è coperto dalle facce adoranti della moltitudine prosternata.„

IV.

Roma è la città unica che simboleggia e comprende le cose più disparate. Vi sono in Roma cinque o sei Rome che hanno il loro carattere particolare e i loro speciali visitatori ed ammiratori. Winckelmann e Overbeck, Goethe e Chateaubriand, Shelley e Lamartine, Byron e Ruskin, Veuillot e Mazzini, l'hanno adorata con eguale entusiasmo. Dall'Apollo di Belvedere ai mosaici bizantini; dal semplice altare scavato nel tufo delle catacombe, alle magnificenze liturgiche di San Pietro; dal palazzo dei Cesari, dal Colosseo e dalle Terme, alle chiese dei gesuiti e ai palazzi e fontane del Bernini; dalla desolata e pittoresca solitudine della Campagna, ai parterres ricamati e agli alberi pettinati delle ville principesche; esistono in Roma i più spiccati contrasti. È la città dialettica per eccellenza: concilia tutte le espressioni della storia e della vita, nella solenne unità della sua grandezza, e nella infinita malinconia delle sue memorie.

Ma la Roma del barocco grandioso, non ancora delirante, ma ardito e solenne, è quella che più apparisce, e direi quasi s'impone, a chi visita per la prima volta l'eterna città. Nè la democratica vita contemporanea, nè il movimento sociale e politico di capitale del Regno, hanno minimamente alterato quel carattere di una grandissima parte di Roma. Noi rivediamo anche oggi tal quale la Roma delle vecchie stampe, che facevan tanto fantasticare Gœthe fanciullo: anzi, nelle vecchie incisioni ritroviamo Roma più vera e rassomigliante che nelle moderne fotografie. Una fotografia è cosa troppo elegante, troppo nuova, troppo lustra, per rappresentarci la vecchia Roma barocca, pontificale e blasonica. Quelle immense piazze con un obelisco e una fontana nel mezzo, traversate da carrozzoni stemmati a sei cavalli, e da qualche cavaliere in cappa, spada e parrucca — quelli scaloni popolati di mendicanti — quei muraglioni di convento a cui s'affaccia la punta di qualche cipresso — quei palazzi enormi, dai cui cancelli di ferro arrugginito s'intravedono delle rose e si ode il murmure di una fontana — quelle rovine di acquedotti tra cui sono sdraiati dei ciociari e dei bufali — quelle architetture strane ma sempre grandiose e indimenticabili; periodi ciceroniani scanditi in pietra ed in marmo — tutte queste romanità non si possono sentire e gustare che nelle vecchie stampe.

E questa Roma barocca o baroccheggiante (scusate il vocabolo) è quella che meglio mi riesce di ripopolare, di risuscitare con la mia immaginazione. Passeggiando in certe ville romane ho rivisto quei principi, quelle dame, quei cardinali antiquari e latinisti, quelle file di servi gallonati, quelle grandi carrozze dorate fin su le ruote. Queste ville sono come il guscio di un animale sparito, lo scheletro fossile di una vita durata più di due secoli, vita che consisteva quasi tutta nella rappresentazione cerimoniosa, nella decorazione pomposa, nella etichetta di anticamera e di Corte. Essi non s'interessavano nè alla natura nè all'arte per sè medesime, nè a un bell'albero o a un bel tramonto, nè a una bella statua o a un bel quadro, per un sentimento disinteressato e istintivo di ammirazione; ma li riguardavano come elementi necessari alla decorazione, e ne facevano come l'appendice della propria vita. Ville fatte non per viverci in libertà, per amare o rêver, ma per passeggiare e conversare in buona compagnia, scambiandosi riverenze e saluti.

Che abisso, o signori, fra quella gente e noi! La Rivoluzione francese, come un formidabile terremoto, ha spezzato e separato due mondi: di mezzo, vi corre oggi un terribile mare, che non sarà mai superato.

O cavalieri e dame del Secento, dal gran sussiego e dalla scrupolosa etichetta, principi di baldacchino, grandi di Spagna, Conti zii e Cardinali nipoti, Eccellenze e Eminenze!... E voi incipriati, rubantés e profumati cicisbei del Settecento, dame dai nèi e dai poufs, dai volants e dai guardinfanti. Come vi ritrovo in queste ville romane! In villa Albani ho sentito l'eco delle toccate del Galluppi e dei duettini dello Scarlatti. — Dillo, o caro.... — Dillo, o cara.... — Se tu m'ami — S'io t'adoro — e la voce esciva dal torace di un cicisbeo che potea far da modello per Ercole, e dalla superba abbondanza di un petto di donna che pareva quello della madre Cibèle. Ah! essi non logoravano la vita quei cari nostri antenati.... Non avevano nè letteratura naturalista, nè romanzi estetici e psicologici, nè teatro educatore, nè discorsi delle Camere, nè musica dell'avvenire.... e prima che la ipocondria di Rousseau mettesse di moda l' aurora, si levavano sempre a mezzogiorno. Le passioni eran capricciosi volani, scambiati a leggeri colpi di racchetta. Il buon Goldoni lo attesti.

V.

Subito dopo le prime opere del Bernini, e lui ancor vivente, il barocco trionfò, divenuto un contagioso delirio, nelle lettere, nelle arti e nella vita: nei poemi, nei drammi, negli edifizi, nelle statue, nei quadri, nel lusso, negli spettacoli, nelle mode, nelle questioni d'onore, nel cerimoniale, a Corte, in chiesa, nei conventi, in casa, dappertutto. Chiese e palazzi a piante poligone, come il San Francesco di Paola in Milano, che rappresenta un violoncello; colonne festonate e bistorte, un perpetuo aborrire dalle linee rette, ondulazioni che danno il capogiro, come se i marmi patissero di convulsioni; frontispizi rotti, e sul loro pendìo santi e angeli coricati; figure sedenti sui cornicioni a gambe spenzolate, che è una passione a vederle....

Fu allora che i cantanti si cominciarono a chiamar virtuosi, e Ferdinando di Mantova spese per una bella virtuosa quanto aveva ricavato dal vender Casale! Il macchinismo teatrale era veramente prodigioso nel suo barocchismo. Nel 1648 nel giorno natalizio di Madama Reale in Torino si rappresentò il Vascello della Felicità. — “Allo scuoprirsi della sala regia, con musica strepitosa comparvero in Cielo gli Dei propizi, ciascun dei quali cantava un recitativo, a cui rispondeva il coro: venivan poi gli Elementi, simboleggiati l'acqua in un vascello, in un teatro la terra, nel Mongibello il fuoco, nell'iride l'aria. Ed ecco il palco riempirsi d'acqua a guisa di mare, e un vascello lentamente inoltrarsi portando a prora un ricchissimo trono per la Corte; ai lati di qua e di là gli stemmi delle provincie soggette al duca di Savoia, e in mezzo una tavola per cinquanta persone, che invitate dal dio del mare furon servite di sontuosa cena dai Tritoni portanti le vivande sul dorso di mostri marini.„ ( Cantù, Storia di Milano. Vol. III).

Dopo le prediche del P. Orchi un esempio veramente unico, il colmo del barocchismo dell'epoca, ce lo danno i libri sulle questioni d'onore, sul punto d'onore, come dicevano. In uno di quei libri intitolato Conclusioni del duello e della pace, evangelisti della umana reputazione, le cui parole servono ad empire di tanti dogmi di fede d'onore i margini delle cavalleresche scritture, si comincia da sottili definizioni dell'onore e delle sue opere, e se stia nell'onorante o nell'onorato; altrettanto si fa dell'ingiuria, considerata nella qualità, quantità, relazione, azione, passione, tempo, luogo, moto, distinguendo le ingiurie voltate, rivoltate, compensate, raddoppiate, propulsate, ritorte, necessitate, volontarie, volontario-necessitate, e miste. Suprema era la dottrina del carico, cioè dell'obbligo di risentirsi, ributtare, ripulsare, provare, riprovare; ed era aforismo che il carico alcune volte nasce dalla ingiuria, ma non mai l'ingiuria dal carico. Altrettanto si sottilizza nel distinguere e definire l'inimicizia e il risentimento; e qui figurano la vendetta trasversale, il vantaggio, la soperchieria, l'assassinio. Cardine di questa scienza era la mentita, la quale può essere affermativa, negativa, universale, particolare, condizionata, assoluta, privativa, positiva, negante, infinitante, certa, sciocca, singolare; generale per la persona, generale per l'ingiuria, generale per l'una e per l'altra; cadente sulla volontà, sulla affermazione, sulla negazione; valida, invalida, sdegnosa, ingiuriosa, suppositiva, circoscritta, coperta, vana, nulla, scandalosa; vera, data veramente, falsa, data falsamente; ve n'ha di legittime, ve n'ha d'impertinenti o ridicole, o disordinate, o universali di cosa particolare, o particolari di cosa universale.... (V. Cantù — Storia degl'Italiani, Vol. III). E credo vi basterà.

Questo punto d'onore e le leggi del cerimoniale e dell'etichetta intralciavano tutti gli affari di Stato e di municipio. Muore in Napoli una Principessa nel 1658, e le esequie sono impedite da Commissari regi, perchè ha stemmi e insegne da più del suo grado; e bisogna deporre in disparte il cadavere, finchè arrivino le decisioni da Madrid! A una solennità, il vicerè si leva indispettito di chiesa, perchè vede posare due cuscini sotto i piedi dell'Arcivescovo, che avea diritto a un cuscino solo. Ottantadue anni contesero ai tribunali e nei libri Cremona e Pavia, qual delle due dovesse avere il passo su l'altra; finchè il Senato di Milano “dopo gravissima consideratone ed maturità de consilio„ decise.... di non decidere nulla. Contagiosissimo esempio, e fedelissimamente imitato anche da altri Senati!

Vien da ridere a pensare all'effetto che dovean fare su questi schiavi dell'etichetta, del lusso barocco, e del sussiego spagnuolo, le selvaggie abitudini dei principi Moscoviti, quando passavan d'Italia.

In un recente libro di Francesco Pera, intitolato Curiosità Livornesi, si legge una Relazione sugli Ambasciatori Moscoviti in Livorno che è una delle più curiose Curiosità del volume. L'ambasciata si componeva di trentadue persone; ma i veri capi eran due: il gran Principe, bel vecchio di settant'anni, e il Segretario dell'Ambasciata. Fra i componenti il corteggio vi è un Papasso che porta sempre attaccato al collo un gran tabernacolo con le immagini della Madonna e di San Nicolò, da cui volevan le grazie per forza, sino a frustarne l'effigie se non le ottenevano. Mangiavan tanto caviale, anche fuori dei pasti consueti, che di dove passavano lasciavan traccio così acute, da dovere adoprare potenti profumi per dissiparle. Erano avarissimi. Agli schiavi del Bagno che andaron loro incontro per festeggiarli “con pive e strumenti alla Turca„ dettero in tutti quindici crazie; e ad altri musicisti che si trattennero assai suonando e cantando sotto le loro finestre, due paoli. Invitati a pranzo da Sua Eccellenza il Governatore, vedendo che questi mangiava la minestra col cucchiaio, essi non assuefatti a quell'arnese, la prendevano con le mani, poi la mettevan nel cucchiaio, e quindi in bocca. Ecco un saggio di barocchismo.... gastronomico moscovita. Nè, quasi cent'anni dopo, i Reali di Russia erano meno selvatici e primitivi. Pietro il Grande mentre disciplinava eserciti, fondava scuole, dettava codici, organizzava tribunali, edificava città nei deserti, congiungeva mari distanti per mezzo di fiumi artificiali, tracciava strade di migliaia di miglia, e creava uno dei più potenti Imperi del mondo, viveva nel suo palazzo come un maiale in una stalla. Racconta il Macaulay che quando lo Czar era ospitato da altri Sovrani, lasciava sempre sulle tappezzate pareti e nei letti di trine e velluto “non dubbi segni che vi era stato un selvaggio„. La principessa Wilhelmina di Prussia scriveva: “Oggi lo Czar ha voluto prendermi in collo, e mi ha baciata in modo da spellarmi il viso con la sua barba di tre giorni.„ La Czarina lo accompagnava con un corteggio di quattrocento dame in ricchissimi e sudicissimi abiti. Queste dame d'onore facevano il bucato, cucinavano, facevano anche qualche altra cosa.... In una adunanza di gran cerimonia, alla Corte di Berlino, lo Czar alla vista della bella e grassissima duchessa di Magdeburgo, non sa più contenersi, la prende fra le braccia.... ma basta, è cosa troppo.... Samoieda, per insistervi sopra.

VI.

Gli anni che corsero dal 1670 al 1715, anno in cui finalmente si spense la funesta luce del roi-soleil, son gli anni più lugubri, i più pesanti, i più inumani, perchè i più artificiosi, che ci presenti la storia. Una cupa, severa e monotona etichetta sembra dirigere tutte le azioni umane. Un mostruoso barocchismo invade la letteratura, l'arte, il teatro, le mode, il mobiliare.... persino i sepolcri. Uno sbadiglio enorme va da un capo all'altro d'Europa. Guerre freddamente sterminatrici, senza il pittoresco movimento e la passione dell'epoche precedenti; lotte di casuisti e di teologi; una religione diventata una idolatrica superstizione, imposta e mantenuta col nerbo, la galera, le dragonnades e gli auto-da-fè; conventi-prigione e terribili in pace soffoganti i gemiti di lunghe agonie; amori galanti ed equivoci, Gomorra rivivente tra le dorate alcove di Versailles e del Buen Retiro, tra i veleni della Voisin e il confessionale della Maintenon: tale è la seconda metà del Secento.

Tutto quell'odioso secolo decimosettimo, anche prima di precipitare al mostruoso suo fine, è un secolo falso e barocco. I suoi più illustri uomini di guerra, eccetto Gustavo Adolfo, hanno tutti un non so che di sinistro nella calcolata ferocia, dal demonio Wallenstein al lupo Louvois. Nessuno fra i grandi scrittori di Luigi XIV si avvicina alla sublime altezza di un Eschilo, di un Dante, di uno Shakespeare, di un Cervantes. In tutti sembra pesare l'incubo del proprio tempo. Come son tristi tutti quei grandi! Molière e Pascal muoiono di nera malinconia: nessuno ha la gioia serena e il riso divino degli eroi del Rinascimento, dei veri inventori e creatori. Hobbes e Molinos, la paralisi ed il fatalismo in politica ed in morale, sono i veri rappresentanti di quell'epoca tenebrosa.

E da noi, che contraccolpo continuo di miserie inaudite e di ridicole e pompose vanità! Che cosa sia stata l'Italia nel primo quarto di quel secolo, lo ha descritto in modo sovrano, e immortalmente inciso nella memoria degl'Italiani, Alessandro Manzoni: ma l'Italia della fine del secolo XVII, aspetta ancora la sua resurrezione; e verrà lo storico, il romanziere, il poeta che la dipinga. I materiali non mancano.

Entrate nella galleria di un principe Romano. Fra i tanti ritratti di famiglia, tra le belle e nobili, fiere e minacciose, franche ed ardite figure dipinte dal Tiziano e dal Veronese, guardate là in fondo quei quadri buî, dove la sola cosa visibile a primo aspetto sono due grandi facciole di un bianco sudicio. Osservate meglio, e vedrete che quelle tenebre sono una toga, e una parrucca enorme, sotto cui apparisce il viso cachettico di un magistrato, che appoggia il gomito a una catasta di libroni, e nella destra tiene un foglio che non legge, benchè lo guardi con due occhi, spenti di pesce morto.... Ecco il Secento.

E avete notato quei libroni? Li potete rivedere se volete, alla Casanatense o alla Magliabechiana, fra i libri di Legge e di Teologia di quel secolo. Son volumi che per levarli dallo scaffale ci vuole un facchino, e fanno scricchiolare la sedia o la tavola su cui si depongono. Scritti per lo più in un barocco latino, irti di testi, corazzati di argomenti, velenosi di invettive, sono di mille pagine l'uno....

Vi siete mai trovati per caso, in certi quartieri di Roma, di Napoli, o di Milano, dove la strada è come incassata fra una doppia linea di enormi edifizi grigi, con poche finestre mezze murate, e da cui sembra colarvi addosso una nebbia di tedio? Sono i muraglioni dei conventi del Secento, dove annualmente si seppellivano migliaia di ardenti giovinette, a benefizio del giovin signore, l'orgoglioso e spesso stupido erede dei titoli e della fortuna. Quei cupi casoni hanno tutti l'aspetto di spedale o di carcere. Non un segno d'arte, non un fiore del Rinascimento, ne interrompe e consola la spietata monotonia; e vi sentite mancare il respiro, attraversando quei deserti e desolati quartieri.

E finalmente, se volete avere un'idea complessiva di quell'epoca odiosamente barocca, guardate di quali immagini, di quali simboli, di quali forme, circondavano il luogo dell'ultimo riposo; di quale immenso catafalco di pesanti vanità e di dorate menzogne volevan coperti i loro nobili scheletri! Non vi è grande chiesa di Roma, di Napoli, di Venezia, di Milano e di Firenze, che non sia profanata (è la vera parola) da uno di questi monumenti pomposi della vanità impotente, e della ridicola adulazione. Sono ammassi di marmo e di stucco dorato, cariatidi di Mori orribili in marmo nero, draghi impossibili che sorreggono un barocco sarcofago, e sopra, in alto, l'eroe guerriero o magistrato o erudito, in armi o in toga, ma sempre in parrucca, stendente il braccio con un gesto di attore applaudito, sotto un gran tendone di marmo giallo o sanguigno. Ai suoi lati, figure allegoriche vestite alla Romana, la Virtù, il Valore, la Vittoria, la Giustizia con le solite bilancie da droghiere, la Fama con la solita tromba di saltimbanco, gesticolano e si contorcono come prese da un attacco di epilessia. La iscrizione in pomposo latino, incisa a lettere cubitali, è anche più barocca del monumento.

E quali i quadri, quali le statue, di quella grottesca fin de siècle! Una decrepita galanteria, che vorrebbe sorridere, e fa dei versacci; delle occhiate ridicole, dei gesti da manicomio. Artisti senza ideale, grossolanamente carnali, e che non sanno più rappresentare la carne: le loro opere sono la loro condanna. Grazie al cielo, l'arte almeno è inaccessibile alla menzogna. Figlia del cuore e della ispirazione, l'arte non si lascia violentare e violare dal falso; e quando questo trionfa, essa muore.

VII.

Non vi è parola bastante ad esprimere fino a che punto fu in quelli anni barocco e ridicolo il cerimoniale di Corte. Pare accertato che Filippo IV morisse di una resipola perchè un braciere troppo ardente e troppo vicino gli infiammò il viso, e il grande di Spagna incaricato della custodia del monarca in quel giorno, non fu lì pronto ad allontanare il caldano, nè alcuno osò farlo in sua vece. Madama d'Aulnoy, testimone oculare, racconta nella famosa sua Relazione che “quando suonan le dieci, se la Regina è sempre a cena, le sue dame cominciano a spettinarla; altre sotto la tavola, le levan le scarpe; poi l'alzano, la spogliano e la mettono a letto come una bambola, mantenendo un religioso silenzio.„ Il levarsi e vestirsi, o meglio farsi levare e vestire, del re, durava due ore. Un vero dramma, diviso in quattro atti. Venti personaggi, principi del sangue e grandi di Spagna, agiscono nella grande scena della camisa, e nel lavargli le mani. Vi sono quattro entrate di spettatori titolati, durante la reale toeletta, e tutto ciò si compie in un sepolcrale silenzio....

Eppure, tra questo stupido formalismo e tra questo putridume — come tra il fermento del concime e tra l'erba grassa dei cimiteri, si vedono talvolta spuntare dei fiori strani, dalle foglie lustre e metalliche — brillavano i grandi occhi neri e le svelte figure delle più pericolose donne del mondo. Le loro toelette, le loro abitudini, hanno del barocchismo orientale. Eccole descritte da madama D'Aulnoy: “Elles sont plutôt maigres et fort brunes, et c'est une beauté parmi elles de n'avoir point de gorge. Elles disparaissent sous une profusion de jupes qui traînent par devant et sur les côtés, en etoffes fort riches et chamarrées de galons et de dentelles d'or et d'argent, jusqu'à la ceinture. Tout cela bouffe et tombe à terre autour d'elles, quand elles sont assises, les jambes croisées, sur des carreaux. Les petites mains fluettes sortent des grandes manches en étoffe d'or et d'argent mêlé de rouge et de vert. La ceinture est bosselée de réliquaires et de médailles. Sur leurs manches et leurs épaules sont des agnus dei et des petites images.... An dessus de cet échafaudage compliqué et éblouissant, se dresse la tête, maigre et ardente, constellée de mouches de diamants et de papillons de pierrerie. Les cheveux noirs et superbes sont si brillants qu'on pourrait s'y mirer. Le visage, lavé avec un mélange de blanc d'oeuf et de sucre candi, est si luisant qu' il semble vernissé. Les sourcils, peints, se rejoignent au milieu du front. Les joues, le menton, le dessous du nez, le dessus des sourcils, le bout des oreilles, la paume des mains, les doigts, les épaules, sont avivés de rouge. Une fumée de pastilles brûlées, et la pénétrante odeur de la fleur d'oranger, s'exhalent des robes et de la personne.„ Lo strano e tremendo fascino di Faustina e di Teodora doveva somigliar quello di queste spagnuole.

In Francia, negli ultimi anni del Secento, prevaleva e si ammirava un tipo femminile affatto opposto. Quelle grandi dame a cui predicava Bossuet, sono un olimpo di classiche divinità: dee giunonesche dalla fronte bassa e stretta che contrasta col turgidissimo seno: naso leonino, labbra carnose: lo sguardo duro e incisivo indica, più che il desiderio voluttuosamente passionato, l'acre ardor sensuale; ed hanno tutte una inesorabile salute di ferro.

In pochi anni, che differenza di tipi e di mode! Guardavo pochi giorni fa certi Studi di donna del Watteau. Gracili, svelte, hanno tutte dei grandi occhi ardenti che sembrano illuminare i loro volti espressivi: il naso è affilato, e sulla bocca sottile erra quel sorriso magnetico che Leonardo fermò immortalmente sulle labbra della Gioconda: sorriso ineffabile, che accusa tanti dolori, e avviva tante speranze! Qui veli e trine aeree, invece delle pesanti stoffe e dei plumbei velluti: qualche fiore fresco tra i capelli, o sul seno — un négligé più adorabile di ogni raffinata toeletta, e la grazia e la voluttà che respirano in tutta l'attitudine della persona.

Son veramente belle? No: le grandi dame di Luigi XIV sono senza dubbio più scultorie e più belle: ma ad eccezione della Vallière e della Longueville, son piuttosto belle statue che belle donne. Parlando delle nervose e simpatiche donne della Reggenza, — Sono dei piccoli scheletri — disse un vecchio marchese. E c'è del vero nell'epigramma. Ma in compenso, che passione e che vita! Com'è rapido e grazioso ogni movimento, com'è ritmico e alato il passo di quelle parigine della Reggenza! Al piombo, succedon le ali; alla paralisi, il volo.

E l'azione, il movimento, la causerie, succedono alle sonnolente sieste dopo i pantagruelici pasti di Versailles, e ai tedî dello stupido cerimoniale. I letti immensi rimpiccoliscono, si mobilizzano. La signora riceve di mattina non più da letto, ma alla sua toeletta e nel suo boudoir. Essa si alza e si muove alla fine: non è più sempre sdraiata sopra un divano, e intirizzita in un busto-corazza: si asside sopra una sedia manevole ed elegante, s'interessa a tutto, discute di tutto, (anche di politica, ohimè!), e vuol tutto sapere, con avida e intelligente curiosità. I salons diventano il focolare che riflette e rimanda, riceve ed emana, e mantiene sempre viva la corrente simpatica della opinione pubblica.

Dopo la Reggenza e Louis quinze, torna di moda un altro barocco anche più inestetico di quello della fine del regno di Louis quatorze. Prima c'era il torturante busto-corazza della Montespan, e i plumbei abiti della Maintenon. Ma nei primi anni del regno di Luigi XVI, l'assurdo, l'inaudito, il mostruoso, predominano. Guardate le stampe delle mode dell'epoca (1774-84). O deliri del gusto! o epopee del capriccio! È l'epoca in cui la duchessa di Chartres nella colossale architettura dei suoi capelli porta un ritratto, un pappagallo, un mazzo di ciliegie, un piccolo negro, e una nave a vele spiegate... è l'epoca in cui nella coiffure à la circonstance le signore eleganti hanno in testa un cipresso, e un fastelletto di grano; e in quella à l'inoculation, un serpente, un sole levante, e due olivi. È l'epoca in cui la marchesa di Boufflers regge in capo un mappamondo che disegna sui suoi capelli le cinque parti del mondo; e in cui la contessa di Lamballe (che dovea poi morire così pietosamente, così tragicamente, così eroicamente ), scuote uno Zodiaco fra le sue chiome d'oro, e porta in testa il sole, la luna, e le stelle... È l'epoca in cui le donne galanti somigliavano a delle acquaiole che abbiano dei secchi sotto le sottane; e in cui i paniers davano alle signore tali circonferenze, da render necessario che per ogni dama fosser destinate tre sedie.

Ma torniamo al Seicento.

VIII.

I delitti stessi sembrano in quell'epoca funesta assumere qualcosa di strano, di raffinato, stavo per dire di barocco... Chi non ricorda la storia di Virginia de Leyva, di Lucrezia Buonvisi, del Monaldeschi? Chi non ripensa con fremiti d'orrore al terribile lusso di supplizi in quel tempo, a quel che patirono i poveri Untori, alle migliaia e migliaia di streghe — cioè di innocenti — torturate e arse vive? e a quei pedanteschi e diabolici libri di Martino del Rio e di Giacomo Sprenger — Le Disquisizioni Magiche Il Martello delle Streghe, che costarono più vite umane di tutte le guerre napoleoniche? Come nota abbastanza caratteristica, ecco un passo del Diario del Ghezzi, citato dall'Ademollo nel suo libro delle Giustizie a Roma.

“Quando un condannato moriva in carcere, la sentenza si eseguiva sul cadavere: ma ad evitare quanto fosse possibile questo caso, pei condannati in procinto di morte naturale si affrettava il supplizio e si mandavano al patibolo anche moribondi, facendoli portare in una sedia d'appoggio con stanghe, da uomini mascherati, e si tiravano su per la forca con le girelle.„

Che dire degli uomini mascherati in una processione funerea? Nè si creda che fosse una maschera purchessia, tanto da celare il viso. “Un giovane che non voleva acconciarsi a morire, scrive lo stesso Ghezzi, fu trascinato sopra la carretta, perchè si era indebolito; e dietro gli andavano due mascherati, con maschere di traccagnino et abito di pulcinella, con girelle e corde per tirarlo sul patibolo se bisognava.„ Pare però che quella volta non vi fosse bisogno dell'aiuto dei pulcinelli.... Peccato per altro che si fosse in quaresima! Se invece era di carnevale, i pulcinelli dal patibolo potevano andare a far baccano nel Corso senza cambiar di vestiario.

Cristina di Svezia è un tipo di donna che riassume tutto lo stravagante, l'ingegnoso, il ridicolo, il pomposo, il falso, il barocco e il crudele di quell'epoca: dai suoi primi studii, alla sua conversione e ingresso trionfale in Roma; dal freddo e barbaro assassinio di Monaldeschi, alla sua morte teatrale. Piena d'ingegno, di spirito e di dottrina — un po' gobba e calva — nera come una talpa — superba come Lucifero — intrigante e prepotente, simulatrice e sfacciata — omicida e devota — un vero maschiaccio, come la chiamavano i trasteverini. E che avesse più aria di maschio che di femmina, lo attesta un ammirabile busto di lei, scolpito dal Bernini, e che si vede in Firenze in casa del marchese Piero Azzolino. — E dire che il povero Bernini; moribondo, supplicò che si facesse pregare per lui da S. M. la regina Cristina di Svezia “stimando, diceva, che quella gran signora avesse un linguaggio suo particolare con Dio, da essere sempre intesa„. (V. Baldinucci). Questo è veramente il re dei colmi: il Bernini morente che spera nella intercessione e nei meriti di Cristina di Svezia, e nel volapuk di questa nuova santa col Padre Eterno!...

IX.

Tre insigni paesisti del secolo XVII dimorarono lungamente in Roma: Poussin, Claude Lorrain, Salvator Rosa. Il paesaggio dei primi due, sopratutto del primo, ha carattere essenzialmente romano. Poussin, benchè metta troppa architettura e troppa archeologia nelle sue tele, ebbe vivissimo il sentimento della campagna romana. Claudio mise primo nei suoi paesaggi effetti di sole e di luce, prospettive aeree, la diversa poesia dei cieli, i fasci di raggi luminosi, le rose dell'aurora, gli incendî del tramonto, le forme varie e incessantemente mutabili delle nuvole. Salvatore è il pittore delle foreste — misteriose, sinistre, minacciose — popolate di banditi, e di querci fulminate o atterrate. Lo accusan perciò di non essere abbastanza meridionale: ma l'accusa non ha fondamento; perchè i boschi e molti paesaggi meridionali sono in realtà più sinistri e paurosi dei paesaggi del Nord. Sparse di spenti vulcani e di viventi solfatare, certe selve meridionali somigliano alla selva dei suicidi di Dante; e gli alberi sembrano agonizzare in attitudini disperate. Salvatore li vide così, e così li dipinse.

Ce damnnè Salvator, come lo chiama Michelet, è il pittore delle selvagge solitudini, del furore degli elementi scatenati, dei boschi tormentati dalla bufera, delle piagge flagellate dai flutti sconvolti, delle irte scogliere, degli antri tenebrosi, delle battaglie feroci combattute su terreni desolati, o fra selve incendiate....

Ha talvolta del manierato, del barocco; verissimo; ma noi ci troviamo dinanzi a una possente personalità. Tale l'artista. L'uomo poi era superbo, violento, chiuso ai domestici affetti — ma rimane nonostante uno dei pochissimi caratteri virili e sinceri in un'epoca di falsità e di barocchismo. Ha una fierezza indomabile in quel secolo adulatore e cortigianesco: e nelle sue satire strappa il velo a tutte le piaghe civili, sociali, ed artistiche: attacca la triplice tirannia feudale, sacerdotale, e soldatesca, con generosi rabbuffi, con invettive larghe ed eloquenti, con un impeto tribunesco, che se talora diventa un po' declamatorio, è sempre di una penetrante efficacia.

Quest'uomo crede a qualche cosa; è come ammalato alla vista delle miserie e delle vergogne di quella Italia Spagnola; dell'agonia delle plebi, languenti negli stenti e nella fame.... Ha un ideale religioso, un ideale patriottico, un ideale estetico, fra tutti quei contemporanei che non credono a nulla; è un uomo-realtà fra tutti quelli uomini-fantasmi. Tra il fracidume d'allora sente l'alito dei tempi nuovi; e sembra stender la mano al Parini ed al Beccaria.

Di alcune sue satire può dirsi davvero che facit indignatio versum. Ecco come egli apostrofa i poeti contemporanei, cortigiani e voluttuosi, e che facevan dell'arte un trastullo o un pervertimento:

“Uscite fuor dei favolosi intrichi,

Accordate la lira ai pianti, ai gridi,

Di tanti orfani, vedove e mendichi!

Dite senza timor gli orridi stridi

Della terra, che invan geme abbattuta,

Spolpata affatto da tiranni infidi.

Dite la vita infame e dissoluta

Che fanno tanti Roboàm moderni,

La giustizia negata o rivenduta.

Dite che ai tribunali ed ai governi

Si mandan solo gli avvoltoi rapaci.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Dite che sol dai principi si pensa

A bandir pésche e cacce, onde gli avari

Su la fame comune alzan la mensa.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Dite che ognor degli Epuloni al soglio

I Lazzeri cadenti e semivivi

Mangian pane di segala e di loglio.

Dite che il sangue giusto scorre a rivi,

Che esenti dalle pene in faccia al cielo

Son gl'iniqui, ed i rei felici e vivi.

Queste cose v'inspiri un santo zelo,

Nè state a dir quanto diletta e piace

Chioma dorata sotto un bianco velo!

È una voce isolata e magnanima, clamans in deserto. Poi la notte s'addensa anche più buia, e l'Italia per quasi due secoli sembra morta. Per quanti lunghi anni parlarono con insultante leggerezza di lei, come di persona profondamente sepolta fra i morti! “Sì, essa fu, essi dicevano, — così il poeta di Atalanta e di Mary Stuart — essa fu, quando i tempi eran giovani; ma ora più non è. I brandelli del suo sudario tremolano nell'aria sepolcrale: remote stagioni di anni immemorabili avvolgono ormai il suo antico e freddo cadavere, su cui son passati tanti vènti d'inverno, e tante pallide primavere; essa non è più una cosa di questo mondo. Nè importa che la sua morta testa conservi sempre, come una viva ghirlanda, l'aurea lunga chioma che le scorre giù sul petto fino ai piedi. Morte regine, la cui vita era stata lieta e trionfale, furon trovate così fredde, così composte, così coronate, con ogni cosa appassita addosso e d'attorno, eccetto una sola cosa bella, — la loro antica chioma immortale, — mentre la carne e l'ossa diventavan polvere, appena esposte alla luce. E l'Italia è morta come loro!.... Ma mentre essi parlavan così, l'Italia riebbe a un tratto il suo possente respiro; e il latino sangue gentile ricircolò nelle esauste sue vene.„

X.

Ed ora concludendo, o signori, queste mie rapide impressioni, questa causerie sul Barocchismo, permettetemi un'ultima considerazione; discutibile, discutibilissima, lo so; ma a che serve una Conferenza, se non eccita qualche discussione; se non è una suggestione, un invito, a esaminare, a riflettere, a conversare sopra un dato argomento?

Questo barocchismo, di cui vi ho esposto qualcuno dei molteplici aspetti che ha nelle varie sue fasi del grandioso e dell'ardito, dello stravagante e del ridicolo, del molle e del triste; è essenzialmente moderno, nella sua passionata ricerca del nuovo a ogni costo: e certe sue espressioni, prima che esso deliri assolutamente, ci simpatizzano più della inappuntabile symmetria prisca. Dimenticate per un momento i Manuali, le lezioni, le Guide, e quel che si deve dire, e quel che si deve ammirare; guardate coi vostri occhi, pensate con la vostra testa, sentite col vostro cuore; e forse vi parrà d'essere più vicini alla Dafne del Bernini, che alla Giunone di Villa Ludovisi; alla Santa Teresa, che alla Venere Capitolina. Forse Gœthe, il Foscolo, e Keats, son stati gli ultimi che hanno sentito od espresso in plastici versi la divina Euritmia. Noi siamo oggi tutti un po' barbari, un po' bizantini, un po' barocchi.... Nelle statue greche perfette, vediamo eternato nel marmo il felice equilibrio dei sensi e dei sentimenti: queste statue ci rammentano la primavera del mondo. L'anima umana era sana e giovine allora; non era ancora venuta meno sotto l'oppressione dei propri sogni: nè ancora l'intelligenza era stata torturata da trenta secoli di precetti, di sistemi, e di dubbi: nè il cuore affranto da trenta secoli di dolori. Nessuna penosa dottrina, nessuna crisi interiore, avevan alterato la felice armonia della vita e della forma umana, e il bel corpo cresceva come una bella pianta sempre esposta alla luce. Oggi invece, la nostra vita è tutta artificiale e sempre agitata: l'organismo nervoso è continuamente sovreccitato, e rimane sempre irrequieto e assetato di sensazioni nuove, strane, eccessive. La lampada della vita non è più una fiamma pura e tranquilla, nutrita di liquore d'oliva, ma una face resinosa e fumosa che manda torbide e rosse faville.... Tu avevi visto poco dell'immenso universo, poco amato e poco sofferto, e però, o divina Euritmia, il tuo volto è così calmo e sereno! Ma noi moderni, sentiamo qua dentro qualche cosa che mancava agli antichi; che è il tormentoso, eppur glorioso, nostro retaggio: il sentimento dell'Infinito, e la coscienza dell'umanità. L'uomo moderno è meno egoista; e non sa godere e sperare senza, un palpito di fratellanza. Non ha limitato il suo ideale della Vita e dell'Arte a poche leghe di terra privilegiata, ma indaga ed ama ogni plaga dove un altro uomo respiri, soffra, ed ami. Secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore: e nelle voci stesse della Natura, noi ascoltiamo la solenne e malinconica musica dell'Umanità.

LA COMMEDIA DELL'ARTE

CONFERENZA DI Michele Scherillo.

I.

Quel fiorentino bizzarro del Lasca fu tra i pochissimi italiani che nel secolo decimosesto avessero un concetto chiaro e concreto di ciò che fosse e di ciò che dovess'essere il genere drammatico. Non che riuscisse a scriver lui delle commedie vitali; ma, pur non avendo scritta nè una Drammaturgia nè un Nathan il saggio, egli ebbe in sè qualcosa del Lessing: una scarsa vena poetica, cioè, e un'acuta vista critica, snebbiata dagli uggiosi e letali pregiudizi della imitazione classica. E fu una nuova iattura per l'arte nostra che gli sprazzi di luce, emananti dai prologhi delle sue commedie o dalle poesie burlesche, non valessero a trattenere qualcuno dei nostri tanti commediografi dall'inoltrarsi per quella via senza uscita della imitazione di Plauto e di Terenzio.

Poichè, mi preme dirvelo subito, noi abbiamo speciale obbligo a codeste due nostre glorie passate se siamo privi d'un vero teatro nazionale. Come fummo gli ultimi a tollerare che un nuovo volgare si sostituisse a quella lingua con cui i nostri maggiori avean governato il mondo; così ancora noi non sapemmo staccarci in tempo da quelle tradizioni letterarie, che il mondo ancor venerava e c'invidiava. E mentre una gente nuova, senza scrupoli e senza doveri, ci guadagnava la mano, noi, con gli scrupoli ed i doveri di eredi d'una nobile razza, ci attaccammo al passato; e nella poesia drammatica ci persuademmo che s'avessero a prendere a modello le commedie degli antichi anzichè la natura e la vita che ci s'agitava d'intorno.

Quando da un poeta come l'Ariosto ci sentiamo dire nel prologo dei suoi Suppositi: “vi confessa l'autore havere in questo et Plauto et Terentio seguitato...., perchè non solo nelli costumi, ma nelli argumenti anchora delle fabule vuole essere degli antichi et celebrati poeti a tutta sua possanza imitatore; et come essi Monandro et Appollodoro et gli altri greci nelle lor latine comedie seguitaro, egli così nelle sue volgari i modi et processi de' latini scrittori schifar non vuole„; quando, dico, ci sentiamo dichiarar di codeste cose dal poeta che con un sorriso tra scettico e bonario ravvivò la già stracca materia cavalleresca mettendone in rilievo il lato comico senza sdrucciolare nella caricatura, da quel virtuoso della forma che illuminò della luce della rinascenza tutto un informe e caotico mondo germogliato nelle fantasie medievali: ci si stringe il cuore, e ci corre sulle labbra l'angosciosa esclamazione del falconiere dantesco: “ohimè, tu cali!„ E l'Ariosto calava davvero; giacchè nel prologo della prima sua commedia, la Cassaria, egli aveva levato baldo il volo e bravamente affrontati quei pregiudizi dov'ora s'impigliava:

Nova commedia v'appresento, piena

Di varii giochi, che nè mai latine

Nè greche lingue recitarno in scena.

Parmi veder che la più parte incline

A riprenderla, subito ch'ho detto

Nova, senza ascoltarne mezzo o fine;

Chè tale impresa non li par suggetto

Delli moderni ingegni, e solo stima

Quel che li antiqui han detto esser perfetto.

È ver che nè volgar prosa nè rima

Ha paragon con prose antique o versi,

Nè pari è l'eloquentia a quella prima;

Ma gl'ingegni non son però diversi

Da quel che fûr; ch'ancor per quell'artista

Fansi, per cui nel tempo addietro fêrsi!

Ohimè! dopo, egli dovea rimetter le mani su questa medesima Cassaria, e, per renderla meglio rispondente agl'ideali classici, ritoglierle la nativa freschezza e quel colorito giovanile onde a un giudice ben difficile e competentissimo, al Machiavelli, era parsa “una gentil composizione„, traducendone perfino il dialogo in quei fastidiosi versi sdruccioli che avrebbero dovuto arieggiare i giambi! Il pubblico fu poco grato al poeta per codeste nuove cure; e il Lasca dava ragione al pubblico:

In fino ad oggi non s'è recitata

Commedia in versi mai che sia piaciuta;

E la Cassaria, in versi trasmutata,

Nel recitarsi non fu conosciuta.

Ma l'Ariosto aveva della poesia drammatica un concetto troppo aristocratico,per preoccuparsi del giudizio di spettatori che non fossero al caso di apprezzar degnamente le finezze e l'arte squisita ond'egli l'avea trapiantata sul suolo italiano dai verzieri fiorenti del mondo classico. Per festeggiare la seconda discesa in Italia di Carlo V, il duca di Mantova richiese l'Omero ferrarese di qualche nuova commedia; ed egli si affrettò a mandargliene quattro, scusandosi se le sue occupazioni non gli permettessero di correggerle “delli errori circa la lingua„. Ma gli furono rimandate tutte e quattro, accompagnate da una letterina del Duca, nella quale dichiarava che “avenga che l'inventione de tutte siano belle, et scritte benissimo, nondimeno a me non piace de farle recitare in rima„; e gli chiedeva: “se havete le due ultime scritte in prosa, ed anche la Cassaria reconcia et mutata com'è questa in versi, haverò piacer me ne facciate copia; et aggiongerò questo all'obbligo che vi ho de haverle mandate a questo modo, quale è veramente de maggior arte e scienza, ma nel recitar pare non reuscisca, come fa la prosa„. L'Ariosto dovette rimanerci male. Al Duca si contentò di rispondere, con un laconismo che mal cela il dispetto: “a me pareva che stessero così meglio che in prosa; ma i giudicii sono diversi„. Questa volta però il giudicio del Duca aveva per sè il suffragio del maggior numero; e, questa volta almeno, il senso comune era equivalente a buonsenso!

II.

Che stanchezza a quelle monotone rifritture dell'angusto repertorio classico! Perchè dalla folla che vi accorreva si sbaglierebbe ad argomentare ch'esse divertissero molto. Avidi di spettacoli, a quegli spassoni dei nostri bisnonni non si concedeva libertà di scelta. E del resto non era davvero la commedia che li attirasse, bensì la magnificenza e la sontuosità dell'apparato scenico, lo sfarzo delle dame e dei cavalieri che v'intervenivano, e le fantastiche pantomime ed i graziosi balletti che tramezzavan la recita. Che questa poi, nel più dei casi, annoiasse, non si osava dire, sia pel timore di passar per dappochi ed ignoranti, sia per non parere ingrati verso gli splendidi signori che avean data la festa. Tuttavia, nella intimità, quanti sfoghi di sbadigli repressi! Nel 1502, la marchesana di Mantova era tornata nella casa paterna di Ferrara per prender parte alle nozze di suo fratello con Lucrezia Borgia; e, avendo assistito a una rappresentazione della Bacchide plautina, scriveva al marito che questa “fu tanto longa et fastidiosa et senza balli intramezzi, che più volte me augurai a Mantua„. Lo stesso diletto è presumibile le abbian dato le altre quattro commedie, pur di Plauto, recitate in quella occasione; le quali, a buon conto, non serviron che di pretesto al duca di Ferrara per isfoggiare la sua ricchissima guardaroba. “Dopo desnar„, racconta l'Isabella Gonzaga, “levassimo la sposa da camera, et se reducessimo in la sala grande, dove era tanta moltitudine di persone, che non li restava loco da ballare: pure, al meglio che si potè, si ballò dui balli. Poi, il Signor mio padre fece la monstra de tutti li vestimenti che intrano in cinque Comedie, a fine che se conoscesse che li vestimenti fussero facti a posta, et che quelli de una Comedia non havessero ad servir le altre. Sono in tutto cento diece, fra uomini e donne: li habiti sono de cendale, et qualche uno di zambellotto a la morescha. Inanzi era uno in forma de Plauto, che recitò il sogetto di tutte. La prima de Epidico, la seconda la Bachide, la terza il Soldato glorioso, la quarta la Asinaria, et la quinta la Casina. Facto questo, andassimo in su l'altra sala, et inanti un'hora de nocte se principiò lo Epidico, el quale de voci et versi non fu già bello, ma le moresche che fra li atti furono facte, comparsero molto bene et cum grande galanteria„.

Le moresche erano appunto i balletti e le pantomime, interamente estranee al dramma; e la marchesana si ferma lungamente a descriverle, come la parte meglio gustata. Se vi piace averne un'idea, state a sentire ancora un brano d'una di codeste lettere. L'Isabella parla delle due sole moresche tramezzate alla Bacchide:

Una de dece homini, fincti nudi, cum un velo a traverso, il capo capillato di stagnolo, cum corni de divicia in mano, cum quatro dopiroli accesi dentro, pieni de vernice, quali nel movere de li corni se avampavano. Nanti a questa era uscita una giovene che passò spaventosamente senza sono, et andò in capo de la scena. Uscitte poi uno dracone, et andò per divorarla; ma appresso lei era uno homo d'arme a pede che la difese, et combattendo col dracone, lo prese, et menandolo ligato, la giovene a brazo cum uno giovene lo seguitava; et intorno andavano quelli nudi, ballando et gettando in foco quella vernice. La seconda fu de matti, cum una camisa indosso, cum le calze loro, in testa uno scartozo, in mane una vesica schionfa, cum la quale batendosi, fecero triste spettaculo.

III.

In Firenze, dove — non ve ne abbiate a male — un tanto lusso di apparati non era possibile, la commedia, non potendo contare che sulle forze proprie, dovè venire a patti, se volle vivere. Ed essa si rivolse, con filiale fiducia, al più insigne autor comico che abbia mai avuto la nostra letteratura; e nelle cento novelle trovò una larga copia di argomenti, d'intrecci, di scene, di caratteri, di caricature, di tipi, di motti, di arguzie. Lo stampo in cui i comici gettaron codesta nuova materia era sempre il plautino e il terenziano; ma l'antica monotonia era insomma interrotta. Così, la Calandria, se da un lato non è che una ricucinatura dei popolarissimi Menechmi (così popolari che si finivan generalmente col chiamare i Menechini!), dall'altro essa è tutta rinfronzolita di episodi desunti dal Decamerone; e la Mandragola, la più squisita certo delle nostre antiche commedie, se in fondo non fa che sceneggiare e ravvivare intrecci e personaggi creati o coloriti da quel nostro grande parigino del secolo decimoquarto che l'ammirazione per Dante e pel Petrarca ribattezzò italiano, nel magistero scenico non si stacca dai modelli latini.

Un Amante meschino,

Un Dottor poco astuto,

Un Frate mal vissuto,

Un Parassito di malizia il cucco,

Fien questo giorno il vostro badalucco:

diceva il poeta nel Prologo.

Non crediate però che a Firenze mancassero i pedanti, i quali facevano il viso dell'armi a ogni più piccola condiscendenza verso i nuovi gusti. Il Varchi, ch'era il Varchi, nel prologo della Suocera osava ancora dire che la sua commedia non era “nè del tutto antica, nè moderna affatto, ma parte moderna e parte antica„; e, aggiungeva, “benchè ella sia in lingua fiorentina, è però cavata in buona parte dalla latina: cavata dico e non tradotta, se non in quel modo che traducevano i Latini dai Greci„. E il Salviati, che non era il Varchi, declamava nel prologo del Granchio:

Nuova

Dunque è questa Commedia, e a tutto

Potere di colui, che l'ha fatta,

Fatta a imitazione delle antiche;

Di quelle antiche però che gli antichi

Chiamavan nuove: adunque non in prosa,

Ma in versi..........

Figuriamoci le smanie di chi, essendo venuto per divertirsi, dovea invece succhiarsi di codeste insipide ed ambiziose filastrocche! Anche allora però il buon pubblico sapea far valere i suoi diritti:

E Lionardo Salviati muor di duolo

Perchè il suo Granchio fu tanto schernito!

ci fa sapere il Lasca.

Si desiderava veder riprodotta sul teatro la vita contemporanea, e magari le piazze e le vie della propria città; si era stufi di assistere a garbugli tramati da servi astuti a padroni goffi, ad amorazzi di soldati vanagloriosi, a nauseanti vanterie di parassiti, a riconoscimenti che pur quando fossero verosimili in astratto erano lontani oramai dalla realtà. E si applaudiva al Gelli che nel prologo della Sporta, rompendola con la tradizione ed ormeggiando il Machiavelli, diceva: “La commedia, per non essere elleno altro che uno specchio di costumi della vita privata e civile, sotto una immagine di verità non tratta d'altro che di cose che tutto il giorno accaggiono al viver nostro.... Il luogo, ov'ella si finge, è Firenze vostra; e questo ha fatto l'autore per due cagioni: l'una, perchè e' non saprebbe eleggere luogo dov'ei credesse che a voi e a lui piacesse più la stanza, l'altra, perchè la maggior parte dei casi, che voi vedrete, sono a suo tempo corsi e forse corrono in Firenze, e, quando bisognasse, vi saprebbe dire a chi e come.„ E si faceva festa a un altro comico calzaiuolo

(Apollo vuol che sempre un calzaiuolo

Per lui tenga in Firenze il principato,

E sia nel far commedie unico e solo,

osservava il Lasca), a Lotto,

Ch'Ulisse e Turno da parte lasciando,

Dimostra solo a questa età presente

Ruggier, Gradasso, Marfisa ed Orlando

E Menandro e Terenzio ha per nïente,

Ma sol Giovan Boccaccio va imitando;

Onde moderne fa con gran ragione

Commedie che non hanno paragone.

E si levava a cielo il fecondissimo Cecchi, in ispecie quando coll' Assiuolo presentò una commedia, non iscevra per verità di elementi boccacceschi, ma ch'egli affermava “nuova nuova„ e “non cavata nè da Terenzio nè da Plauto, ma da un caso nuovamente accaduto in Pisa tra certi giovani studianti e certe gentildonne„.

A giudizio del popol fiorentino

E delle donne, che più pesa e grava,

Il Cecchi ha vinto e superato il Cino

Che prima era un poeta a scaccafava.

IV.

Ma — che è, che non è? — mentre codesta gara ferveva tra' letterati fiorentini, ecco che cápita qui una compagnia d'istrioni. Il popolo corse subito in frotta alla Stanza (chiamavano così il loro povero teatro), lasciando in asso e il Cecchi e Lotto e il Cino e il Buonanni. I quali rimasero con tanto di naso quando il nuovo salone della commedia fu concesso da inaugurare a quegl'istrioni vagabondi. Il Lasca se ne frega le mani e ride alle loro spalle.

Tutti i comici nostri fiorentini

Son per questa cagione addolorati:

Prima il Buonanni e la casa de' Cini

Sì favoriti e tanto adoperati;

E Lotto e il Cecchi alfin, piccin piccini,

Con tutti gli altri dotti, son restati,

Parendo questa sorba loro arcigna,

E il Lasca chiude l'occhiolino e ghigna.

Pensando il primo ognuno esser richiesto,

La sua commedia aveva apparecchiato:

Chi l'avea mostra a quello e chi a questo,

Sperando d'ora in ora esser chiamato;

Ma il popol poi veggendo manifesto

l'onor dei Zanni in fino al cielo alzato,

Senza più altro intendere o sapere,

Altre commedie non vuol più vedere.

Sì che chi n'ha composte ne dia loro.

Pregando che le vogliano accettare;

Poi che ne fanno tanto buon lavoro,

Ch'ogni cosuzza una gran cosa pare.

La voce, gli atti e i gesti di costoro

Sì grazïosi fan maravigliare

La gente alfin fuor d'ogni umana guisa,

quasi quasi crepar delle risa.

Non credo mai che gl'istrion passati,

Volete in Roma o volete in Atene,

Sì capricciosi giuochi e sì garbati

Rappresentasser nell'antiche scene.

Se quei fur buon, questi son vantaggiati,

Questi fan meglio se quei fecer bene;

Onde assai più di lor fieno i Gelosi

Nei secoli avvenir sempre famosi.

Era dunque giunta allora a Firenze nientemeno che la Compagnia dei Gelosi! A quanti di voi questo nome riesce indifferente, e parrà fors'anco ridicolo! Eppure, codesta fu la Compagnia più famosa di quante per due secoli recitarono in Italia e fuori la Commedia dell'arte; ed ebbe per insegna un Giano bifronte col motto che dava ragione del suo nome:

Virtù, fama ed onor ne fêr Gelosi.

“Trappola mio,„ — esclamava in un suo dialogo chine fu per molti anni il condottiero — “di quelle compagnie non se ne trovano più; e ciò sia detto con pace di quelle che hanno solamente tre o quattro parti buone e l'altre sono de pochissimo, valore, e non corrispondono alle principali, come facevano tutte le parti di quella famosa compagnia, le quali erano tutte singolari. Insomma ella fu tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna compagnia de comici„, e mostrò “a i comici venturi il vero modo di comporre e recitar commedie, tragicomedie, tragedie, pastorali, intermedii apparenti, et altre inventioni rappresentative, come generalmente si veggono nelle scene„.

Com'è tristamente efimera la gloria di chi valse per un momento a scuotere la nostra anima o ad allietare la nostra vita, ricreandone sulla scena una immaginaria e dando corpo e voce a' fantasimi che parevan fiochi nelle pagine dei poeti! Che resta ora più di quell'arte onde Gustavo Modena rapiva ed inebbriava i nostri padri? E pensate che nella storia i Gelosi lasciarono una traccia più profonda che non il grande attore del nostro secolo; anche per questo, che la Compagnia del Modena rassomigliò sempre a una monarchia assoluta, mentre quella dei Gelosi fu come un consesso di pari. Povero Andreini! che amara delusione lo aspetterebbe se potesse levare il capo dal suo sepolcro mantovano, egli che nel suo stile enfatico, espressione però sincera del suo entusiasmo, avea vaticinato che il grido dei Gelosi non avrebbe mai vista “l'ultima notte!„

V.

Purtroppo a noi non è giunta che l'eco degli applausi; poichè il meglio della Commedia dell'arte, ciò che veramente deliziava gli ascoltatori, è stato portato via, com'un mondan rumore, da un fiato di vento! Del dramma non era tracciata che la sceneggiatura, lo scenario; il resto era affidato all'improvvisazione dei comici. E il resto era tutto. Gl'intrecci per lo più si desumevan da novelle, o addirittura dalle commedie sostenute e perfin dalle classiche; e invece il dialogo ogni attore lo improvvisava ogni volta, così che riusciva necessariamente diverso pur da una replica all'altra della stessa commedia. Una parola, un accento, un gesto dell'interlocutore poteva suggerire un motto o un'uscita nuova ed inaspettata; un avvenimento della giornata, la presenza in teatro d'un signore amico o d'una dama.... che non fosse una dama, poteva ispirare lì per lì un'allusione piccante; l'esser di buono o di cattivo umore poteva all'attore accendere o smorzare l'estro. Ogni attore era un poeta estemporaneo; anzi, soggiunge il comico Beltrame, al secolo Nicolò Barbieri, “i comici italiani partecipano del compositore e del rappresentante, poi che inventano favole, e molti le adornano con discorsi partoriti da' loro talenti„. Perciò la Commedia dell'arte non fu possibile che in Italia. E in verità non fu chiamata dell'arte per significare che la fosse la perfetta tra le commedie, il nec plus ultra dell'arte, come affermò Maurice Sand, bensì perchè, a differenza della commedia scritta, essa non era e non poteva esser rappresentata che da attori di mestiere.

Non ce ne restano che gli scenari, lo scheletro: “il più divin s'invola!„ E innanzi a quelle mute liste di attori, a quelle scarne indicazioni d'un'azione che s'intreccia e si snoda, proviamo quel senso di malinconia che faceva esclamare al poeta contemplante l'effigie sepolcrale d'una bella donna:

Tal fosti: or qui sotterra

Polve e scheletro sei!

Ascoltate, per saggio, il primo atto d'uno dei migliori scenari del repertorio dei Gelosi. È intitolato Il Cavadenti.

“ Atto primo. — Pantalone dice a Pedrolino (servo) l'amor che porta ad Isabella vedova, e dubitar che Oratio suo figlio non gli sia rivale, e che di ciò dubitando haver risoluto di mandarlo allo studio. — Pedrol. lo riprende, tenendo da quella d' Oratio; s'attaccano di parole e di fatti. Pant. dà a Pedrol., et egli le morde un braccio, mostrando d'haverlo morduto forte. Pant., minacciando, parte, dicendo che per suo conto parli con Franceschina (serva). Via. — Pedrol., di vendicarsi del morso che gli ha dato Pant. — In quello, Franc. va per cercar Oratio per ordine della sua padrona; vede Pedrol. e da lui intende la cagione del suo dolor del braccio; s'accordano di fingere che a Pant. puzzi il fiato, per vendicarsi. — Franc. in casa, Pedrol. rimane. — In quello Flavio (fratello d' Isabella ) scopre a Pedrol. l'amor suo, urtandolo nel braccio. Pedrol. grida; poi s'accordano di finger che a Pant. puzzi il fiato. Flavio via, Pedrol. rimane. — In quello, Dottore che ha d'haver d. 25 da Pant., piglia Pedrol. per lo braccio, e gli grida, e seco fa l'istesso accordo del fiato puzzolente, promettendoli farli havere i suoi d. 25. Dott. via, Pedrol. va per trovar Oratio. Via.

Capitano Spavento, l'amor d' Isab. e le sue bravure. — In quello, Arlecchino servo d' Isab. fa seco scena ridicolosa, et entra per far venir fuora Isab. Cap. aspetta.

Flaminia (figlia di Pant. ), che dalla finestra ha veduto il Cap. da lei amato, lo prega all'amor suo. — In quello, Isab. fuora credendosi di trovar Oratio. Cap. la prega all'amor suo; ella lo scaccia, et egli fa il simile con Flam., facendo scena interzata. Alla fine Isab. entra in casa scacciando il Cap. Egli fa il simile con Flam., e parte. Ella riman dolente. — In quello, Pedrol., che in disparte ha sentito il tutto, minaccia dirlo a suo padre; poi s'accordano della cosa del fiato con suo padre. Ella se n'entra. Pedrol., che li duole il braccio più che mai, se bene s'è fatto medicare, e di volersi vendicare a tutte le vie. — In quello, Arlecch. arriva. Pedrol. con dinari l'induce a fingersi cavadenti; lo manda a vestirsi; Arlecch. via. Pedrol. si ferma. — In quello, Oratio intende da Pedrol. come Pant. suo padre concorre seco nell'amar Isab., e che lo vuol mandar allo studio. Oratio, dolente di cotai nuove, si raccomanda a Pedrol., il qual le promette aiuto, e s'accordano della cosa del fiato. Oratio, che vorrebbe ragionar con Isab. Pedrol. la chiama.

Isab. intende dell'amor suo e della sua dura dipartenza. Ella se ne attrista. — In quello, Pant. parlando forte. Isab., sentendolo, se n'entra. Pedrol. brava con Oratio perchè non vuole andare a Perugia. Pant. vede il figlio, al quale ordina che si vada a metter all'ordine subito subito, perchè vuole che vada a Perugia. Oratio, tutto timoroso, entra per mettersi all'ordine, guardando Pedrol. Pant. intende come Pedrol. ha parlato con Franc.; poi sente Pedrol. che dice: ohibò, padrone, il fiato vi puzza fuor di modo! Pant. se ne ride. — In quello, Franc. fa il simile, dicendo che se il fiato non le puzzasse, che Isab. l'amerebbe; et entra. Pant. si maraviglia. — In quello, Flavio passa et, a' cenni di Pedrol., fa il simile con Pant., e via. Pant. si maraviglia di tal mancamento. — In quello, Dott. arriva. Pedrol. li fa cenno della cosa del fiato. Dott. fa il simile, et via. Pant., di voler domandar a sua figlia s'è vero di quel puzzore. La chiama. — Flam. confessa a suo padre come li puzza il fiato fuor di modo; et entra. Essi rimangono. — In quello, Oratio, di casa, conferma l'istesso, poi ritorna in casa. — Pant. si risolve farsi cavar quel dente che cagiona il fetore. Ordina a Pedrol. che li conduca un cavadenti, et entra. Pedrol. rimane.

Arlecch. vestito da cavadenti. Pedrol. ordina ad Arlecch. che cavi tutti i denti a Pant., dicendoli che sono guasti. Si ritira. Arlecch. sotto le fenestre grida: chi ha denti guasti? — In quello, Pant. dalla fenestra lo chiama. Poi esce fuora. Arlecch. cava fuora i suoi ferri, i quali sono tutti ferri da magnano, nominandoli ridicolosamente. Lo fa sedere, e con la tenaglia li cava quattro denti buoni. Pant., dal dolore, s'attacca alla barba del cavadenti, la quale, essendo posticcia, li rimane in mano. Arlecch. fugge. Pant. li tira dietro la sedia. Poi, lamentandosi del dolore dei denti, entra in casa.

E qui finisce l'atto primo.„

Sunt lacrimæ rerum! Codesta non è che la trama, il canavaccio, d'un tessuto che da chi lo vide sentiam celebrare per la squisita varietà, vivezza e contrasto delle tinte; non è che la feccia d'un vino inebriante da cui si sia evaporato lo spirito; non è che la pianta topografica d'una città, famosa nella storia, oramai distrutta. Anzi, uno scenario rispetto alla sua rappresentazione è qualcosa di meno che la moderna Pompei comparata alla deliziosa città che s'adagiava, fidente nei suoi vezzi, ai piedi dell'infido Vesuvio. Là dove, per esempio, è semplicemente detto: Capitano Spavento, l'amor d'Isabella e le sue bravure, nella rappresentazione Francesco Andreini sfoggiava uno di quei suoi monologhi che bastavan da sè soli ad assicurare il successo alla commedia, e che il dotto comico distese per iscritto e tramandò ai posteri col titolo: Le bravure del Capitano Spavento divise in molti ragionamenti in forma di dialogo (Venezia, 1624). Sono stramberie, esagerazioni, goffaggini, inventate ed accozzate insieme da un fanfarone che ha una grande paura, e che mentre si vanta d'avere sfondato l'Inferno, riceve le bastonate da Arlecchino. A leggerle non ci fanno più ridere; anzi ci fa quasi dispetto che un tempo si sia potuto ridere a sentir, per esempio, quest'ordine del Capitano al cartolaio: “per foglio di carta mi mandi la pelle del dragone Hesperio, per penna il corno del rinoceronte, per inchiostro il pianto del coccodrillo, per polvere il mar della sabbia, per cera la schiuma di Cerbero e per sigillo la sassifica testa di Medusa„. Ma non bisogna dimenticare e che i nostri gusti letterari son molto mutati, e che certe allusioni o ci sfuggono o ci arrivan fredde, e che soprattutto quelle goffaggini non ci è dato sentirle della bocca, e accompagnate dagli atti e versacci, di quei comici ch'eran maestri di mimica. Si può ad ogni modo indovinare quanto riuscisse saporito per un pubblico della fine del Cinquecento l'ordine del Capitano al cuoco perchè gli prepari da pranzo tre piatti di carne: “il primo sia di carne d'Hebrei, il secondo di carne di Turchi, ed il terzo di carne di Luterani„; o il racconto che, quante volte si era “trovato a desinare e a cena con Plutone re dell'inferno, tante volte gli era toccato a mangiare qualche Luterano arrosto e qualche Calvinista a guazzetto„.

La Commedia dell'arte è specialmente opera di attori, i quali erano autori ed interpreti della propria parte. Sceglievano quella per cui credevano di aver maggiori attitudini, e con essa s'identificavano così che il dramma doveva adattarsi a loro, non essi al dramma. Ritenevano il nome con cui eran la prima volta riesciti accetti al pubblico; e nello scenario che abbiam letto, come in tutti gli altri dei Gelosi, Flavio indicava Flaminio Scala, il Capitano Spavento Francesco Andreini, Orazio Orazio Nobili, Isabella Isabella Andreini. Poichè spesso il nome scelto pel teatro era quello di battesimo. Quando si diceva che nella commedia prendeva parte Flavio o l' Isabella, non s'indicava solo che ci sarebbero stati quei personaggi ma quegli attori. I quali, anche nella vita privata e nelle loro corrispondenze coi prìncipi e coi loro segretari, finivano con l'adoperare il nomignolo teatrale, spesso da solo, spesso aggiungendolo al proprio casato. E del resto anche ora voi tutti conoscete il nomignolo di Molière, ma non tutti forse il suo nome di famiglia.

Quando la parte assunta non avea nulla di veramente caratteristico, come quella dell'innamorato più o meno smanceroso o ardito o cavalleresco, il nomignolo tramontava con l'attore: e non c'è stato che un Flavio, un Orazio, un' Isabella. Ma spesso il comico sapeva felicemente cogliere una caricatura locale, o il tipo d'una certa classe di persone; e allora il personaggio sopravviveva all'attore, e quel primo nomignolo si perpetuava. E chi, dopo, avesse voluto rappresentare il vecchio veneziano o il servo bergamasco o il pedante bolognese o il contadino napoletano, avea l'obbligo di chiamarsi Pantalone, Brighella o Arlecchino, Dottor Graziano, Pulcinella, di vestirsi nel modo tradizionale, di parlar quello speciale dialetto con quelle speciali inflessioni di voce, di dir perfino certi motti e di far certi movimenti e certe smorfie. Così la Commedia dell'arte veniva a mancare di varietà, e i comici degeneravano in marionette. Un bel giorno, anzi, gli attori di carne e d'ossa non sembreranno più necessari, e saranno sostituiti dai fantocci. Voi lo sapete: è appunto nel casotto dei burattini che oramai agonizza la gloriosa Commedia che dovea rendere immortale il nome dei Gelosi!

VI.

Ma torniamo indietro, a tempi più lieti. Quando, nel 1578, la celebre Compagnia venne a Firenze con tanto piacere del Lasca e tanto dispetto degli altri commediografi, essa tornava dalla Francia, dove aveva mietuta una larga messe di allori. Vi era stata invitata da una regina italiana, Caterina de' Medici, che nella Corte francese avea portati i suoi gusti e la sua coltura di dama fiorentina della Rinascenza.

Ci si rispettava come sovrani nel regno dell'arte pure allora che ci si vedeva così bassi politicamente! E chi oltre monti ed oltre mare avesse cuore gentile, apprendeva con la lingua dei nostri avi la nostra, per poter gustare l'armonia del periodo del Boccaccio o del Machiavelli, la melodia soave dei sonetti del Petrarca o del Bembo, la cadenza arguta o malinconica delle ottave dell'Ariosto e fra poco del Tasso. Che stupore in quel popolo, che ora pare arrogarsi il monopolio d'ogni cosa che si riferisca al teatro, quando, nel 1548, potette assistere alla rappresentazione della Calandria, che la “natione fiorentina„ fece dare a Lione dai migliori comici che vivessero allora in Italia, e che essa avea fatti venire con grandi spese per onorare la regale concittadina! Il testimone Brantôme confessa quello spettacolo essere “chose que l'on n'avoit encores veu, et rare en France, car paradvant on ne parloit que des farceurs, des connardz de Rouan, des joueurs de la Basoche, et autres sortes de badins et joueurs de badinages, farces, mommeries et sotteries„. Che incanto quegli apparati e quelle prospettive di Firenze, dipinte dal fiorentino Nannoccio! E che maraviglia quei commedianti, e specialmente quelle commedianti “qui estoient très-belles, parloient très-bien et de fort bonne grâce!„ Dopo quell'anno, nel 1555, erano stati recitati alla Corte, da alcuni gentiluomini, i Lucidi del Firenzuola e la Flora dell'Alamanni; e nel '60, dalle figliuole stesse del Re e da altre dame e damigelle, la Sofonisba tradotta dal Saint Gelais. Ma su codesta tragedia la Regina “eut opinion qu'elle avoit porté malheur aux affaires du royaume„, e di tragedie non volle più saperne; “mais ouy bien des comédies et tragicomédies, et mesmes celles de Zanni et Pantalons, y prenant grand plaisir, et y rioit son saoûl comme une autre, car elle rioit volontiers„.

Correva l'anno 1571 allorchè questa prima Compagnia di comici dell'arte passò in Francia, chiamatavi in occasione delle feste per l'entrata in Parigi del re Carlo IX con la sua sposa. La vivacità e gaiezza dei nuovi comici, la facilità e spontaneità della loro improvvisazione, i vezzi delle servette e le virtuose galanterie delle prime donne, conquistaron tutti, prìncipi e cortigiani; e l'ambasciatore d'Inghilterra si affrettò a darne conto, in un dispaccio ufficiale, alla sua Regina, che tra' suoi sudditi contava già il giovanetto Shakespeare. In Francia però le rappresentazioni teatrali eran di privativa di alcune confraternite religiose; e, profittando dell'assenza del Re, queste si querelarono ai magistrati. I quali, troppo timorati di coscienza per voler partecipare all'ammirazione dei loro sovrani per gl'istrioni d'oltremonti, furon lieti di fulminar contro di essi multe ed ostracismo. La protezione regale bastò appena a quella povera gente per salvarla dalle multe.

Sennonchè l'anno appresso riapparvero a Parigi, per allietare le nozze del re di Navarra con una delle sorelle del Re. La Compagnia, che sembra avesse già allora il titolo dei Gelosi, era condotta da un bergamasco Alberto, noto pel suo nome o soprannome di Ganassa; al quale oltre tutto il resto, si deve fors'anche l'invenzione della parte e del nome del secondo Zanni, cioè dell' Arlecchino. A Mantova, prima di passar le Alpi, avea dovuto, per volere del Duca, fondere la sua antica Compagnia con l'altra condotta da Pantalone; onde il Brantôme accennava alle loro commedie come “celles de Zanni et Pantalons„, e un signor De la Fresnaye Vauquelin immortalerà nei suoi versi

Ou le bon Pantalon, ou Zany dont Ganasse

Nous a représenté la façon et la grâce.

È d'un effetto tragicomico il leggere, con una data anteriore di solo qualche giorno alla terribile tragedia di San Bartolomeo, una nota di pagamento del Tesoriere di Corte “à Albert Ganasse,' joueur de commédies...., tant à luy que à ses compaignons, en considération du plaisir qu'ilz ont donné à Sa Majesté.... en plusieurs commédies qu'ilz ont représentées par diverses fois devant sa dicte Majesté„.

Nell'ottobre, la Compagnia era ancora a Parigi. Poi sembra si riscindesse; chè, nel 1572, sentiam parlare di Gelosi a Genova e, nel '74, a Venezia, e intanto il Ganassa va a cercar fortuna di là dai Pirenei. Egli che avea fatto tanto ridere i francesi contraffacendo un borioso gentiluomo spagnuolo col nomignolo di baron de Guenesche a cui faceva parlare un misto di bergamasco e di spagnuolo, ora va alla Corte di Filippo II, a far ridere, se non il Re che dicon non ridesse mai, appunto quei baroni valamediós!

Da qualche anno un misterioso dramma si era chiuso in quella Corte: la primogenita di Caterina de' Medici, promessa sposa al principe don Carlos ma sposata poi dal re Filippo, si era spenta d'un male arcano nella fiorente giovinezza di ventitrè anni; e con lei era stato spento il principe amante. Isabella o Elisabetta di Francia avea fatto da spettatrice e da attrice nelle recite che s'eran date nella Corte francese; e in Ispagna, per quegli anni che vi rimase, fece forse brillare il sorriso delle Muse che s'eran ridestate così vezzose nel fiorito nido del suo casato materno. Certo, la compagnia “des comediantes italianos, cuya cabeza y autor era Alberto Ganassa„, vi ebbe lieta accoglienza. Rappresentava “comedias italianas, mímicas por la mayor parte y bufonescas de asuntos triviales y populares„, nelle quali figuravano “las personas de Arlequin, del Pantalon, del Dotore, etc.„ E un contemporaneo ci fa fede che, sebbene il Ganassa non vi fosse “bene e perfettamente inteso, nondimeno, con quel poco che s'intendeva, faceva ridere consolatamente la brigata; onde guadagnò molto in quelle città, e dalla pratica sua impararono poi gli Spagnuoli a fare le commedie all'uso hispano, che prima non facevano„.

Non vogliate credere che codesta sia una vuota vanteria. La commedia popolare italiana fece colà l'effetto d'una folata di vento che spazzasse via la nebbia dei pregiudizi. E non è forse senza merito del Ganassa se Lope de Vega, che allorchè questi andò in Ispagna era sui dodici anni, potè dire: “Quand'io mi metto a scrivere una commedia, chiudo le regole sotto dieci chiavi e mando fuori della mia stanza Plauto e Terenzio per paura che non mormorino contro di me. Scrivo seguendo la maniera che hanno inventata quelli che ricercano gli applausi del pubblico. Giacchè infine, visto ch'è lui che paga, mi sembra giustissimo parlargli, magari da ignorante, sempre però in modo da divertirlo.„

VII.

Quei compagni del Ganassa che non lo aveano seguito di là dai Pirenei, recitarono nel carnevale del 1574 a Venezia, e nella primavera trapiantaron le tende a Milano, dove concorsero alle feste che la città celebrò in onore di don Giovanni d'Austria, l'eroe di Lepanto. Ma nel luglio erano richiamati sulle lagune.

Doveva passar per Venezia il secondogenito di Caterina de' Medici, Enrico re di Polonia, che, morto il fratello Carlo, correva ad occupare il trono ereditario. La Serenissima si diede un gran da fare per riceverlo degnamente; e, tra l'altro, mandò ai confini quattro patrizi per sapere dalla bocca del Re quali divertimenti gli andassero più a sangue. E quel principe, ch'era fuggito di notte, per una porticina segreta, dalla reggia di Varsavia, venendo così meno ai suoi regali impegni verso quel popolo generoso che se l'era eletto a sovrano; quel principe, a cui la madre ingiungeva di affrettarsi per venire ad impadronirsi della corona più temuta d'Europa; tra le cure e le ansie d'un viaggio fortunoso, trovò il modo di far sapere al governo della Repubblica che egli aveva un ardente desiderio di sentir recitare i commedianti che erano stati a Venezia nell'inverno: specialmente la prima donna, della quale la fama era giunta sino a lui! Particolare degno della fantasia di Shakespeare! E com'è comico quel futile affaccendarsi dell'ambasciatore repubblicano perchè non manchi la bramata donna agli svaghi del Re Cristianissimo; e del residente milanese perchè i commedianti si trovin pronti a Venezia pel giorno dell'arrivo!

Non ci fu tempo che di rappresentar due commedie improvvise e una “molto grata et gratiosa„ tragicommedia. Anche di questa dicono sentisse “mirabil piacere„ quel re tragicomico. Ma non pare che della donna rimanesse molto sodisfatto. Eppure, che perfezione quella signora Vittoria! “Divina Vittoria„ — esclama un contemporaneo — “che fa metamorfosi di sè stessa in scena; .... bella maga d'amore che alletta i cori di mille amanti con le sue parole; .... dolce sirena che ammaglia con soavi incanti l'alma dei suoi divoti spettatori; e senza dubbio merita d'esser posta come un compendio dell'arte, avendo i gesti proportionati, i moti armonici e concordi, gli atti maestevoli e grati, le parole affabili e dolci, i sospiri leggiadri ed accorti, i risi saporiti e soavi, il portamento altiero e generoso, e in tutta la persona un perfetto decoro, quale spetta e s'appartiene a una perfetta commediante„. E un altro contemporaneo che fece da cronista di quelle feste, Thomaso Porcacchi, la disse “unica„. Tuttavia il re Enrico, quando qualche anno dopo ebbe dato assetto agli affari di Stato e potè ripensare ai bei giorni trascorsi a Venezia, non richiese più di lei con l'antico entusiasmo; scrisse invece di suo pugno all'ambasciatore francese presso la Repubblica questo biglietto:

Maintenant que la paix est faite en mon royaume, je désire faire venir par de ça le Magnifique qui est celuy qui me vint trouver à Venise lors de mon retour de Pologne avec tous les comédiens de la compagnie des Gelosi. Je vous prie faire chercher le dit Magnifique, et luy dire qu'il me vienne trouver suivant la lettre que je luy escris, laquelle vous luy ferez bailler: vous luy ferez aussy fournir l'argent qui luy sera nécessaire pour son voyage et me mandant ce que vous luy aurez baillé. Je commanderay à ceux de mes finances qu'il vous soit aussy tost rendu...

Henry.

Giulio Pasquati era in verità un Magnifico non soltanto di nome. Il cronista aveva già detto di star in dubbio, nella sua maniera di recitare “qual sia maggiore in lui, o la gratia o l'acutezza de' capricci spiegati a tempo et sententiosamente„. Per il momento però non era a tiro: deliziava un altro monarca, l'imperatore d'Austria; e bisognò aspettare che terminasse colà i suoi impegni. Ad ogni modo, il 25 gennaio del 1577 egli insieme coi Gelosi era a Blois, dove il re Enrico aveva convocati gli Stati Generali; e quella stessa sera recitarono, innanzi al miglior fiore dell'aristocrazia francese e nella medesima sala, superbamente addobbata con arazzi istoriati a fil d'oro, dove si radunavano i rappresentanti della nazione. Giungevan con un po' di ritardo, anche perchè per via, nelle vicinanze della Charité sur Loire, eran caduti nelle mani degli Ugonotti, che avean preteso ed ottenuto dal Re un considerevole riscatto; ma sempre in tempo per far girar la testa a quegli affaccendati oziosi. Nè valse che un ardimentoso predicatore della Corte spingesse la sua audacia sino a biasimare, alla presenza stessa del Re, chi interveniva a quegli spettacoli profani e scandalosi; poichè quel giorno medesimo i sovrani e la Corte si recarono alla commedia!

Condottiero della Compagnia sembra che fosse Flaminio Scala, insigne, come dice il suo biografo, “per essere stato il primo che alle commedie dell'arte improvvisa abbia dato un ordine aggiustatissimo con tutta la buona regola, ed avendone inventate un gran numero„. Suo è lo scenario del Cavadenti, di cui vi ho letta una parte; e suoi son pure gli altri quarantanove, che compongono tutti insieme Il teatro delle favole rappresentative overo la ricreatione comica boscareccia e tragica divisa in cinquanta giornate, ch'è la più antica raccolta di scenari e il fior fiore del repertorio dei Gelosi.

Chiusi il 7 marzo gli Stati Generali, lo Scala, prima di tornare in Italia, diede delle rappresentazioni a Parigi, in quella sala del Petit-Bourbon dove alcuni anni dopo, nel 1614, si sarebbero tenuti gli ultimi Stati Generali della Francia monarchica anteriore all'Ottantanove, e dove fra meno d'un secolo il figlio del tappezziere Poquelin avrebbe inaugurata la vera commedia moderna, cementando le macerie scomposte della nostra Commedia dell'arte. Ma la Compagnia si attirò anch'essa contro le ire delle confraternite e dei magistrati. E questa volta con maggior ragione, perchè i comici attiravano ai loro spettacoli tanta folla quanta non era quella che accorreva alle prediche dei quattro migliori predicatori di Parigi messa insieme! Lo attesta, brontolando nel segreto del suo diario, un membro del Parlamento. Il Re però fece sentire la sua voce e pesare la sua protezione; e quel magistrato brontolone notò: “la corruption de ce temps estant telle que les farceurs, bouffons, mignons,... avaient tout crédit auprès du roi„.

VIII.

Era codesta Compagnia appunto che nei primi giorni del 1578 veniva a Firenze a metter lo scompiglio tra quei commediografi rivali. Il Lasca compose una specie di cartello per annunziarne l'arrivo, e sempre a strazio dei suoi prosuntuosi colleghi:

Facendo il Bergamasco e 'l Veneziano,

N'andiamo in ogni parte,

E 'l recitar commedie è la nostr'arte....

Questi vostri dappochi commediai

Certe lor filastroccole vi fanno,

Lunghe e piene di guai,

Che rider poco e manco piacer dànno;

Tanto che per l'affanno,

Non solamente agli uomini e alle donne,

Ma verrebbero a noia alle colonne.

E invitava a più riprese i concittadini a venir

. . . . . alla Stanza ad udir Zanni,

La Nespola, il Magnifico e 'l Graziano,

E Francatrippa che vale un tesoro,

E gli altri dicitor di mano in mano,

Che tutti fanno bene gli atti loro!

Il Magnifico Pantalone era ancora quel medesimo che aveva destata l'ammirazione di Enrico III. Il Graziano, vale a dire il pedante bolognese, era Lodovico de' Bianchi, il più famoso interprete ma non il creatore di quel tipo dacchè già col Ganassa recitava un Lus Burchiello Gratià. Il Lasca descrive il modo onde si cavava la berretta:

Che gentilmente la piglia con mano,

Poi la scuote e dimena con gran fretta;

E quanto l'usa più di dimenare

Più vuol amico o signore onorare.

Francatrippa, che parlava il dialetto bolognese turbato da qualche toscanesimo, era Gabriello Panzanini. E poi, un altro bolognese, Simone, recitava da Arlecchino, e si trova segnalato come osservatore del “vero dicoro de la Bergamasca lingua„. E non mancava una caricatura locale, Zanobio da Piombino, affidata a Girolamo Salimbeni.

Conduceva tutta questa brava gente il pistoiese Francesco Andreini, il Capitano Spavento. Non contava che trent'anni; ma li aveva molto ben vissuti. Imbarcatosi giovanissimo sulle galee toscane, era caduto nelle mani dei Turchi; donde non riuscì a scappare che dopo otto anni di schiavitù. In grazia della sua coltura e del suo talento, aveva trovata buona accoglienza nella Compagnia dello Scala. Recitò prima da Innamorato, ma rivelò meglio sè stesso nella parte di Capitan Spavento da Vall'inferna ( Valdinferna è una città che occorre sentir nominare nei romanzi cavallereschi); e, a volte, si provava ad inventarne anche qualche altra. A Milano, per esempio, ei racconta d'aver rappresentata “la parte d'un Dottor Siciliano, molto ridicola„ e quella “d'un Negromante detto Falsirone, molto stupenda per le molte lingue ch'egli possedeva, come la francese, la spagnuola, la schiava, la greca, la turchesca„, e “maravigliosamente poi la parte d'un pastore nominato Corinto nelle pastorali, suonando varii e diversi stromenti da fiato, composti di molti flauti, cantandovi sopra versi boscarecci e sdruccioli ad imitazione del Sannazaro„.

A Firenze, nei primi mesi di quel 1578, ebbe la fortuna di sposarsi all'artista che ha lasciato il più illustre nome nella storia del nostro teatro, a quella maravigliosa Isabella “bella di nome, bella di corpo e bellissima d'animo„ (lo attesta il marito che lo doveva sapere!) “monarchessa delle donne belle e virtuose„, la quale adoperava “per rocca il libro, per fuso la penna e per ago lo stile„. Aveva allora sedici anni (era nata a Padova nel 1562). E non vorrei sospettaste che nelle parole del comico marito ci fosse dell'esagerazione. Tommaso Garzoni — il lodatore della divina Vittoria, che pare quindi fosse specialista pei panegirici delle prime donne — la dichiarava “decoro delle scene, ornamento de' theatri, spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza„, e prognosticava che “mentre il mondo durerà, mentre staranno i secoli, mentre havranno vita gli ordini e i tempi, ogni voce, ogni lingua, ogni grido risuonerà il celebre nome d'Isabella„. Il Bayle riferisce ch'essa “chantait bien et joüait admirablement des instrumens„; il Della Chiesa, che “scriveva benissimo in latino, spagnolo e francese, et haveva non poca cognitione delle cose di filosofia„; il Quadrio, che alla sua arte, “riputata universalmente pericolosa per l'onor delle donne, seppe ella una somma pudicizia e un costume innocentissimo accompagnare„. E a lei viva inneggiò il Chiabrera quando l'ebbe sentita recitar a Savona nel 1584; a lei morta, il Marino. E se vi par poco, sappiate ch'ella commosse anche la musa del Tasso; il quale — in un banchetto dal cardinale Aldobrandini dato in onore di lei, a cui erano pure invitati altri sei cardinali, Antonio Ongaro “ed altri poeti chiarissimi„ — potè sederle vicino, ed indirizzarle un sonetto olezzante di raffinata galanteria.

IX.

E della signora Vittoria che cosa era mai avvenuto? Non risulta che andasse in Francia coi Gelosi nè che venisse a Firenze; il che vuol quasi dire che non fosse più con loro: una stella così sfolgorante non sarebbe rimasta inosservata! Nel 1580 la ritroviamo a Mantova, condottrice d'una Compagnia, ch'essa chiamava dei Confidenti ma il pubblico non sapeva indicare meglio che come la Compagnia della signora Vittoria; e par che godesse tutte le simpatie del Duca. Il quale, per la benedetta smania che avevano un po' tutti quelli della sua famiglia, di rimpastare e rimaneggiare le Compagnie, in quell'anno diede anche qualche dolore alla diva. Commuove anche noi la lettera scrittagli il 22 giugno dal pietoso segretario. Vi si tocca d'una certa donna, forse della Compagnia di Pedrolino, a cui il Duca sembra cominciasse a far l'occhiolino.

Andai dalla sig. ra Vittoria per darli il buon giorno; et la trovai di tanta mala voglia, che quasi mi fece lacrimare, dicendomi che il s. r Principe Ser. mo ha detto ad alcuni della sua Compagnia, con pena della sua disgratia, debano andare nella Compagnia di quella donna (forsi non troppo sana, per quanto mi vien detto), lamentandosi detta sig. ra, dicendo non saper la causa perchè il Ser. mo sig. r Principe li voglia dare questo danno di smambrare la sua Compagnia, non havendo mai lasciato di servirlo, nè di giorno nè di notte et d'ogni hora, et poi per guiderdone di questo, habbia a meritarsi tale afronte.

Il Duca, fortunatamente, non aveva il cuore di pietra; e quei dolci ricordi, e fors'anche l'abile insinuazione che la rivale della Vittoria non fosse “troppo sana„, lo piegarono a più umani consigli; e nel dicembre di quello stesso anno, in occasione delle nozze del figliuolo, richiedeva ancora che la signora Vittoria, la quale con la sua Compagnia avea ripreso un giro per le varie città, si trovasse pel carnevale a Mantova.

Ma la vera rivale d'arte della signora Vittoria era l'Isabella; e nel maggio del 1589, per le nozze di Ferdinando de' Medici con Cristina di Lorena, ecco che, per volere del Granduca, sono tutte e due a fronte, in Firenze. La Vittoria, “che in quel tempo era il miracolo delle scene„ come attesta anche il Baldinucci, recitò nella commedia sua “favorita„, La Zingana, il 6 maggio; il 13, l'Isabella fece stupir tutti pel suo “valore ed eloquenza„ rappresentando una commedia di sua invenzione, La Pazzia. Dopo, ognuna riprese la sua via: la signora Vittoria coi Confidenti e gli Uniti, l'Isabella coi Gelosi.

Non sarebbe nè agevole nè interessante accompagnar codeste Compagnie in tutte le loro fortunose peregrinazioni e peripezie. Basterà dirvi che, lasciata Firenze nei primi giorni del '79, i Gelosi andarono in quel carnevale a Venezia, dove per parecchie sere ebbero tra gli spettatori il principe Ferdinando di Baviera. Era questi un antico ammiratore della commedia italiana, chè aveva già nel '65, in occasione delle nozze di Francesco de' Medici con Giovanna d'Austria, goduta a Verona la recita d'un Zanni, a Mantova d'una commedia, a Firenze una splendida rappresentazione preceduta da un prologo fatto da un dottore montato sur un asinello, e a Verona, nel ritorno, d'un'altra commedia molto ridicola e piacevole. Presero, dopo, la via di Mantova, che allora, in grazia della protezione di quei duchi, era come il quartier generale dei comici. Ma ohimè! qui l'accoglienza non fu lieta! Con la data del 5 maggio un decreto ducale ordinò “che tosto abbiano ad essere cacciati dalla città e dallo Stato di Mantova i comici detti Gelosi che alloggiano all'insegna del Bissone, e similmente il sig. r Simone, che recita la parte di Bergamasco, e il sig. r Orazio e il sig. r Adriano che recitano la parte amantiorum, e Gabriele detto dalle Haste loro amico„. Fortunatamente degli Andreini non si parla. Nè vi saprei dire che cosa abbiano fatto gli altri per meritare una tal misura di rigore da un principe che viveva sempre in mezzo ai comici: certo, stinchi di santi questi non erano!

Li ritroviamo a Genova, nel luglio; donde risalirono a Milano. Nel maggio del 1580 vi erano di nuovo, forniti di legale licenza del Governatore; ma nel luglio fu loro proibito di più recitare. Avevano colà un formidabile nemico, nientemeno che il cardinale Carlo Borromeo, che ne avrebbe voluto veder lo sterminio. Ma essi ne seppero dire e far tante, che il Governatore accordò loro di riprendere le rappresentazioni “a partire dal settembre„. Il carnevale dell'81 erano a Venezia; dove tornarono nell'aprile dell'83. Nell'86, a Mantova; e il principe Vincenzo rese alla Isabella “il singolar benefitio et segnalatissimo favore dell'haver accettato Lavinia sua figliola per sua umilissima serva„ cioè di avergliela tenuta a battesimo. Nel gennaio dell'anno appresso, sono a Firenze; dove all'Isabella, feconda oltre che faconda, si presenta l'occasione di richiedere il Granduca di accordarle per una nuova figliuola la grazia che le avea già concessa il principe genero.

Una miglior fortuna toccò alla Compagnia sulla fine del 1602. La novella regina di Francia pur della casa Medicea, Maria, la invitò, con lusinghiera preferenza, d'andare a quella Corte. E fino a che punto l'Isabella vi facesse perdere i lumi e l'intelletto ai nonni di Molière, basteranno a mostrarlo questi versi sciancateli da lei ispirati a un Isaac du Ryer:

Je ne crois point qu'Isabelle

Soit une femme mortelle;

C'est plutôt quelqu'un des dieux

Qui s'est déguisé en femme

Afin de nous ravir l'âme

Par l'oreille et par les yeux.

Nell'aprile del 1604 richiesero ed ottennero licenza dal Re; e la graziosa Regina volle provvedere d'un onorevole benservito la non meno graziosa attrice, “vous pouvant assurer„, scriveva alla duchessa di Mantova, “que pendant qu'elle a demeuré de de ça, Elle a donné tout contantement d'elle et de sa troupe au Roy Monseigneur et à moy„. Ma sulla via del ritorno, a Lione, ecco che l'Isabella s'ammala gravemente; e pochi giorni dopo, il 10 giugno, muore, o, se vi piace meglio, il suo spirito “faussa compagnie au corps, qu'il laissa à la terre pour s'envoler au ciel, sans que les vœux et les cris de ceux qui l'avoient admirè le peuvent retenir„, come dice il più autorevole storico di quei tempi. Allora, e per circa due secoli dopo, in Francia era contesa ai comici la sepoltura in terra benedetta; ma la morte d'Isabella commosse perfino il curato, che scrisse nei suoi registri: “Elle est décédée avec le commun bruit d'estre une des plus rares femmes du monde tant pour estro docte que bien disante en plusieurs sortes de langues„. Fu portata al sepolcro con tutti gli onori, “favorita„, come attesta Beltrame, “dalla Communità di Lione.... d'insegne e di mazzieri, e con doppieri da' Signori Mercanti accompagnata, et hebbe un bellissimo epitafio scritto in bronzo per memoria eterna„.

Francesco Andreini, perduta la cara compagna, sciolse anche la Compagnia, e da quel giorno non attese che alla pubblicazione delle proprie opere in versi e in prosa, tutte, più o meno direttamente, consacrate alla memoria della donna adorata.

Ma alla sua gloria e all'onore di quell'arte di cui era stata tanto decoro, l'Isabella avea provveduto meglio da sè stessa; e in verità non colle sue commedie e i suoi poemi, bensì mettendo al mondo, in Firenze, sulla fine di quello stesso anno 1578 in cui il Lasca vi avea così festosamente salutato l'arrivo dei Gelosi, il suo primogenito, Giambattista. Erede delle virtù e delle virtuosità materne, questi, rispetto a suo padre, sta come il poeta dell' Aminta rispetto a quel dell' Amadigi. Sul teatro si chiamò Lelio, e fu lungamente a capo della Compagnia dei Fedeli, che nel 1604 si ricompose in gran parte con i comici di quella disciolta dei Gelosi. Nel 1601 sposò, a Milano, la diciottenne Virginia Ramponi, che, sotto la intelligente direzione del marito, dovea ben presto, col nome di Florinda, far sembrare non del tutto irreparabile la perdita della suocera. Lo affermava al dolente figliuolo uno di quei tanti rimatori che si sciolsero in lagrime sulla tomba d'Isabella:

Vive la madre tua ne la tua sposa,

Chè de lo suo divin dandole parte,

In Virginia respira e in lei si cole.

E con migliore eloquenza lo dissero i fatti. Celebrandosi nella primavera del 1608 in Mantova le nozze del principe Francesco con Margherita di Savoia figlia di Carlo Emanuele I, una delle romanine, la Caterinuccia Martinelli, doveva cantarvi l' Arianna, opera di Ottavio Rinuccini colle arie del Monteverdi e i recitativi del Peri. Nei primi giorni di marzo, colpita di vaiolo, la cantatrice muore. Dove e come trovare in sì poco tempo chi potesse sostituirla? Ecco che si offre la Virginia Andreini! Antonio Costantini, l'amico del Tasso, scriveva di là il 18 marzo:

Iddio ha inspirato di far prova se la Florinda fosse abile in far questa parte; la quale in sei giorni l'ha benissimo a mente, e la canta con tanta grazia ed affetto, che ha fatto maravigliare Madama, il signor Rinuccini e tutti i signori che l'hanno udita.

Tra codesti ultimi c'era fors'anche il Marino, che nell' Adone (VII, 68), parlando degli effetti della Lusinga, ne lasciò ricordo:

E in tal guisa Florinda udisti, o Manto,

Là nei teatri de' tuoi regi tetti,

D'Arïanna spiegar gli aspri martiri,

E trar da mille cor mille sospiri.

La Florinda fu gran parte dei trionfi dei Fedeli in Italia e in Francia, fino a che, nel 1627, scomparve dalla scena del mondo. L'infedele capo dei Fedeli non seppe però imitare l'esempio paterno, e rimase a diriger la Compagnia fino al 1652, quando, vecchio settantenne e rimaritato per di più alla commediante Lidia, abbandonò finalmente il teatro.

Egli lasciò dietro di sè un gran fardello di poemi lirici ed eroici, commedie, tragedie sacre e profane, tragicommedie, pastorali, sonetti, dialoghi, visioni; e se per essere un gran poeta gli mancaron parecchi numeri, non fu di sicuro uno di questi il numero delle produzioni. Qualcosa però gli sopravvisse; e attira ancora su di sè gli occhi curiosi degli eruditi e dei dilettanti quella sacra rappresentazione l' Adamo, che par certo servisse di scenario al Paradiso Perduto. “Il y a souvent„, dice il Voltaire, “dans des choses où tout paraît ridicule au vulgaire, un coin de grandeur qui ne se fait apercevoir qu'aux hommes de génie„; e Milton “découvrit, à travers l'absurditè de l'ouvrage, la sublimitó cachée du sujet„.

X.

La Commedia dell'arte nè fu un monopolio degli Andreini nè finì con essi. Ed io dovrei parlarvi di comici insigni come i Riccoboni, i Fiorillo, Domenico Biancolelli, Tommaso Visentino detto Tommasino, Carlo Bertinazzi detto Carlino; di donne celebri come la Maria Malloni detta Celia, di cui il Marino:

Celia s'appella, e ben del Ciel nel volto

Porta la luce e la beltà Celeste;

Ed oltre ancor, chè come il Cielo è bella

E ha l'armonia del Ciel nella favella,

e la Flaminia Riccoboni e l' Aurelia Bianchi; di dilettanti come Salvator Rosa che, diceva il Lippi,

pittor, passa chiunque tele imbiacca,

Tratta d'ogni scïenza ut ex professo,

E in palco fa sì ben Coviel Patacca,

Che, sempre ch'ei si muove o ch'ei favella,

Fa proprio sgangherarti le mascella,

ed Evangelista Torricelli, il Viviani, il Bernini:

Ma son giunto a quel segno, il qual s'io passo,

Vi potria la mia istoria esser molesta.

Devo però aggiungere che letterariamente la nostra Commedia produsse i suoi frutti più duraturi oltre i confini della patria. Avvenne per essa l'inverso di ciò ch'era avvenuto per la poesia cavalleresca; e l'Ariosto che elaborò fuori d'Italia quella materia comica inventata dagl'improvvisatori nostri, fu, voi lo sapete, il Molière. “Nous ne devons jamais oublier que la priorité de ce calque ingénieux et piquant de la nature appartient à l'Italie, et que, sans ce riche et curieux précédent, Molière n'eût pas créé la véritable comédie française„, dice George Sand; e non son mancati i Rajna a frugare nelle reliquie della Commedia dell'arte, e a ritrovarvi abbozzati intrecci, scene, episodi, tipi, personaggi, che nelle mani del geniale commediografo divennero il Tartufe, le Malade imaginaire, George Dandin, Trissotin, Sganarelle, Scapin. Sui cartoni disegnati con la carbonella, il grande artista ha rimesse le tinte, la cui vivacità oramai non è più caduca.

Certo, il teatro di Molière fu il più squisito prodotto della Commedia dell'arte; la quale ebbe nell'ospitale Francia quasi una seconda patria. Ma essa può vantare anche altre benemerenze ed altre benevolenze. Ho già accennato alla Spagna ed a Lope de Vega. Un po' prima che colà; nel 1568, un Giovanni Tabarino avea portata la nostra commedia a Linz sul Danubio, dond'egli era passato a Vienna con la qualità ufficiale di comico di Sua Maestà. Vi rimase, pare, fino al '74, facendo nel febbraio '71 una scappata in Francia; ma codesto più antico Tabarino non è da confondere col famoso buffone dello stesso nome che fu di moda a Parigi dal 1618 al '30. E nel tempo ch'egli rimase a Vienna, vi capitarono pure i fiorentini Antonio Soldino, proveniente dalla Francia, e Orazio; e poi Giulio, Giovanni veneziano, Giovan Maria romano, e i trevisani Silvestro e quel Battista che recitava da Franceschina; e, più tardi, Pier Maria Cecchini, poeta e trattatista oltrechè attore col nomignolo di Frittellino, il quale l'imperatore Mathias “fece nobile...., habilitandolo ad ogni essercizio cavalleresco, facendolo capace di quanto ad ogni titolato si concede„.

Nella Corte di Baviera la Commedia dell'arte fu, qualche anno innanzi al 1568, fatta gustare da un musicista fiammingo vissuto per lungo tempo tra noi, Orlando di Lasso, e da un musicista napoletano, Massimo Trojano, che ce ne dà conto. Si celebravan le nozze del duca Guglielmo IV con Renata di Lorena; e un bel giorno al Duca “venne in fantasia.... di udir una commedia la sera seguente„. Ne pregò il maestro Orlando, che a sua volta pregò il collega Trojano d'aiutarlo. Detto fatto, inventarono “il dilettevole suggetto„ e recitarono la sera appresso una “comedia all'improvisa alla italiana...., in presenza de tutte le serenissime Dame; che, quantunque le più che vi erano non intendevano lo che si dicevano, pure feze tanto bene e con tanta gratia il Magnifico Venetiano messer Orlando di Lasso, col suo Zanne, che smascellare della risa a tutti fece„. Le parti erano state così distribuite: messer Orlando, dunque, “fu il Magnifico messer Pantalone di Bisognosi; m. Gio. Battista Scolari da Trento, il Zanne; Massimo Trojano fece tre personaggi, il prolago da goffo villano (un villano, alla cavajola, tanto goffamente vestito che parea l'Ambasciatore delle risa), il Polidoro innamorato, e lo spagnuolo disperato sotto nome di Don Diego di Mendozza; lo servitore di Polidoro fu Don Carlo Livizzano; lo servitore del Spagnuolo, Giorgio Dori da Trento; la Cortigiana innamorata di Polidoro, chiamata Camilla, fu il Marchese di Malaspina; la sua serva, Ercole Terzo; et un servo francese„. Per meglio allietare lo spettacolo, alla commedia furono intramezzati dei madrigali musicati dal Lasso.

Ma in Germania non può dirsi che i semi della Commedia dell'arte cadessero su un terrena fecondo. Invece, nel 1577 passò la Manica una Compagnia condotta da un Arlecchino mantovano, Drusiano Martinelli, fratello d'un ben più celebre Arlecchino, che chiamava sè stesso dominus Arlecchinorum, e, per essersi fatta tenere a battesimo dalla regina di Francia una figliuola, le dava della “commare„ e si sottoscriveva “Arlecchino compadre christianissimo„. Alla Corte di Elisabetta è probabile imparassero da lui ad improvvisare su semplici scenari, ed a comporne, i due buffoni rivali Tarleton e Wilson.

Shakespeare non venne a Londra che circa otto anni dopo. È risaputo com'avesse famigliari i nostri novellieri e i nostri commediografi, e come a quella fonte attingesse intrecci, scene, situazioni. Gli Equivoci derivano dai Menechmi attraverso un'imitazione italiana; la Selvatica ammansata è ricalcata in gran parte sui Suppositi dell'Ariosto; e perfin la Giulietta e Romeo ricorda in più d'un luogo (pel lodevole zelo di parer discreti non bisogna esser poi ingiusti!) l' Hadriana di Luigi Groto. Nè sono scarse od occulte nel suo teatro le tracce dell'imitazione dalla nostra commedia popolare. Già, quando nell' Otello (I, 2) Jago chiama Brabanzio “il Magnifico „, a me pare ch'ei gli voglia dare del Pantalone anzichè indicare con quel titolo semplicemente il grado senatoriale di lui, come gli annotatori interpretano. Ma c'è ben di meglio. Il capitano Parolle, nella commedia È tutto bene quel che ben finisce, il quale porta “tutta quanta la dottrina teorica della guerra nel nodo della sua sciarpa, e tutta l'arte pratica nel fodero della daga„, non è che il nostro Capitano Spavento; e la scena in cui, essendo per vigliaccheria caduto nelle mani dei propri soldati che gli hanno fatto paura e che affettano un linguaggio barbaresco, è trascinato con la benda sugli occhi innanzi al proprio generale ch'ei crede quel dei nemici, e spiattella i segreti del campo e svilisce i colleghi, si direbbe addirittura desunta da uno scenario. Com'è in fondo il nostro Capitano spagnuolo quello spagnuolo fanfarone e galante delle Pene d'amore perdute. Basta sentirlo come del suo amore dà conto al valletto:

Voglio farti una confidenza: io sono innamorato; e com'è cosa abbietta in un soldato l'amore, così mi sono innamorato d'una vile contadina. Se potessi sguainar la spada contro codesta mia trista affezione, per sottrarmi a tali reprobi pensieri, farei prigioniera la mia passione amorosa, e la cederei a qualche cortigiano francese in cambio d'una riverenza alla moda. Mi par cosa spregevole il sospirare, e penso che dovrei rinnegare Cupido. Consolami tu, paggio mio: quali furono i grandi uomini schiavi d'amore?

Il pedante Oloferne della medesima commedia è talquale il nostro Graziano; ed è curioso ch'ei citi con malinconica ammirazione il principio d'un'egloga latina d'un oscuro umanista mantovano, cui fa seguire in italiano due versi d'una canzonetta:

Ah, buon vecchio mantovano! io di te posso dire quel che di Venezia il viaggiatore: Vinegia, Vinegia,

Chi non te vede, ei non ti pregia. Vecchio mantovano! vecchio mantovano! Chi non ti intende non ti ama!

Nella Selvatica ammansata poi, oltre alle tante parole italiane che vi ricorrono e perfino un po' di dialogo (“Con tutto il core ben trovato„, dice un amico all'altro; o questi: “Alla nostra casa bene venuto, molto amato signor mio Petronio„), ed oltre pure un certo Pedagogo che della nostra maschera non ha che la pusillanimità e l'improntitudine, c'è una scena a cui della Commedia dell'arte non manca neppure il nome d'uno dei suoi più caratteristici tipi. Un giovane s'è gabellato maestro di grammatica per dichiarare il suo amore alla giovinetta amata. È presente un vecchio galante, cotto anch'esso.

Bianca. Dove eravamo?

Lucenzio. Qui, signorina:

Hic ibat Simois; hic est Sigeia tellus,

Hic steterat Priami regia celsa senis.

Bianca. Vogliate spiegarlo.

Lucenzio. Hic ibat, come prima v'ho detto — Simois, io sono Lucenzio — hic est, figlio di ser Vincenzo di Pisa — Sigeia tellus, così travestito per ottenere l'amor vostro — Hic steterat, e quel Lucenzio che venne a corteggiarvi — Priami, è il mio valletto Tranio — regia, che ha pigliato il mio luogo — celsa senis, per ingannar meglio il vecchio Pantalone....

Bianca. Ora vediamo se riesco a tradurre: Hic ibat Simois, io non vi conosco — hic est Sigeia tellus, non mi fido di voi — Hic steterat Priami, badate ch'egli non ci senta — regia, non presumete di troppo — celsa senis, non disperate.

E pur nelle Donne allegre di Windsor, quel medico francese che lardella il suo discorso di frasi e parole della sua lingua, e quel parroco che cinguetta l'inglese da buon gallese, e quello scioccherello che parla sempre in punta di forchetta, han tutti i loro prototipi nella commedia nostra improvvisata.

Con la quale Shakespeare ebbe comune anche qualche vizio. Beltrame, per esaltare i suoi colleghi, dichiarava, nei primi decenni del Seicento, che essi “studiano et si muniscono la memoria di gran farragine di cose, come sentenze, concetti, discorsi d'amore, rimproveri, disperazioni e deliri, per haverli pronti all'occasioni„. Di qui quel loro stile così colorito; e forse di qui ancora, per lo meno in parte, lo stile enfatico ed ampolloso che il gran drammaturgo mette sempre in bocca ai personaggi italiani. Non era certo nei nostri novellieri ch'egli trovava il modello di quelle caricature.

Ma non son da porre sulla coscienza dei nostri poveri comici, già così aggravata, tutte le scurrilità onde son lerci i primi lavori del capocomico inglese. I buffoni di Elisabetta, quanto a facezie grossolane e sboccate, non avean bisogno di maestri! E chi sa che non appartengano a loro, per lo meno in gran parte, quelle che son passate alla posterità di contrabbando, appiattate nei ricchi bauli del sommo poeta? Il quale avrà lasciato che in certe scene i buffoni si sbizzarrissero a loro agio, per contentare il pubblico grosso, sempre avido di quei motti salati che magari si sentiva ripetere da anni: alla stessa guisa che i predecessori di Rossini abbandonavano i trilli e le rifioriture alla virtuosità dei cantanti. Dopo, quelle trivialità saranno state trascritte sui copioni e tutte gabellate come opera del commediografo. Cresciuto in autorità ed ammaestrato dall'esperienza, anche questi, come Rossini i trilli, avrà provveduto a disciplinare le scene buffonesche, perchè non turbassero l'azione del dramma, e perchè almeno avessero quel sapore tra ariostesco e rabelaisiano che hanno, per esempio, nell' Otello e nell' Amleto. Ricordate gli ammaestramenti del principe danese ai comici:

Badino quelli che fan da buffoni a non dir nulla di più di quel che devono. C'è tra essi qualcuno che si mette a snocciolar buffonerie, per far ridere un certo numero di spettatori idioti, proprio nel punto che il dramma richiederebbe che si stesse ad ascoltarlo con la maggiore attenzione. Ciò è indegno, e rivela nel commediante una miserevole ambizione.

Erano abusi codesti a cui certo anche la nostra Commedia dell'arte avviava; poichè ogni libertà può degenerare in licenza quando sia concessa anche a chi non trovi il necessario freno nella propria indole o nella propria educazione. Ma non si vogliano, per i cattivi effetti della licenza, dimenticare gl'ineffabili benefizi della libertà. Tra mezzo all'ossequioso servilismo delle nostre lettere a un passato irrevocabile, quei nostri comici apostoli corsero il mondo predicando e praticando la libertà: umili ma rumorosi ed efficaci guastatori di quella via per cui poi dovevan trionfalmente passare Lope de Vega, Shakespeare e Molière.

LA MUSICA NEL SECOLO XVII

CONFERENZA DI G. Alessandro Biaggi.

Questa conferenza venne accompagnata dalla esecuzione de' seguenti pezzi per pianoforte: La Frescobalda del Frescobaldi; — Les Moissonneurs di F. Couperin; — un Adagio del Tartini; — una Giga del Corelli; — una Pastorale e un Capriccio di D. Scarlatti (esecutore l'esimio prof. Buonamici); — la “ Povera pastorella „ d'A. Scarlatti, e la romanza “ Raggio di sol „ del Caldara.

Arte, raggio de' cieli, a noi tu scendi

Per mill'astri diffusa in mille lampi,

Libero spiro nel tuo vol comprendi

Le vie dell'etra e di natura i campi.

Arcano verbo, all'anima t'apprendi

E di tue fantasie l'orma vi stampi,

Luce, spiro, parola, agli occhi miei

Armonia del creato, arte, tu sei.

Nelle immagini tue, ne' tuoi divini

Intendimenti mi favelli al core

Il culto della fede, i miei destini,

Le patrie glorie ed il desìo d'onore.

Bellezza e verità ti son confini.

L'ordine è legge, la virtù splendore.

E quel che ha più di generoso e santo

La vita degli affetti egli è tuo vanto.

L. Venturi.

Il sano ed alto concetto dell'arte che esce luminoso da questi bellissimi versi di Luigi Venturi, non cominciò ad animare la musica che ne' primi anni appunto del secolo XVII.

Sino allora, e rimontando ai Greci, nella musica s'era costantemente mantenuta una taglientissima divisione: — di sopra (signoreggiante e dominante) la musica delle teoriche, dei sapienti, e delle scuole, che direbbesi aulica; — e di sotto (tenuta in nessun conto e spregiata) quella cui l'uomo è portato dall'istinto e che muove spontaneamente dalle naturali sue facoltà.

Di questa musica (che è la sola vera!) s'ebbero manifestazioni in ogni tempo. Eran tali, ad esempio, le Romanze, i Pianti, le Cobole de' menestrelli; le canzoni de' cantori a Liuto, e via via. Ma pei teorici e per le scuole, quella non era e non poteva esser musica; — era troppo semplice e, in conseguenza, come dicevano, troppo volgare.

Se ora si considera: che l'arte musicale non ha legami di sorta col mondo fisico; che è al tutto eterea, impalpabile e forse non altro che una sensazione sposata ad un sentimento, è facile vedere quale ardua impresa sia quella di piegarla e legarla ad un sistema teoretico che non la impedisca e non la snaturi.

La difficoltà di questa impresa è dimostrata a luce meridiana dal fatto: che riuscirono quasi a nulla i tentativi, gli studi e le speculazioni che vi si spesero intorno nel corso di ventiquattro secoli! Nessuno dirà (è a credere) che ai teorici sia mancato il tempo!

Che cos'è la musica? Di dove e da che viene il fascino irresistibile ch'ella esercita sull'uomo? Qual'è la legge prima e fondamentale per la quale ella riesce all'uomo un linguaggio ministro di profonde e svariatissime commozioni, e che lo ricrea, lo calma, lo agita, lo esalta, lo delizia?

I primi teorici (come dovevano) queste domande se le son fatte di sicuro. Ma a chi e a che chiesero le risposte? Errore fatalissimo, le chiesero alla fisica e alla matematica; all'essenza e a' fenomeni del suono, cioè, e alle proporzioni e alle ragioni de' numeri; mentre dovevansi chiedere alla fisiologia; all'uomo, voglio dire, a' suoi istinti, al suo organismo, a' suoi modi di percepire e di sentire.

Presa quella falsa via, i teorici vi si ostinarono ingannati dalla necessità in cui si trovarono di mettere a base di tutto il processo tecnico: la scala. È quella una necessità imprescindibile. Senza la scala, l'assetto teorico della musica è addirittura impossibile.

Ma la teoria è una cosa, e la pratica è un'altra.

Nella pratica la scala non è più e non è per nulla una base; è una successione di suoni qualunque; è uno schema melodico puro e semplice, e, come tale, è anch'esso un portato di quella prima legge fisiologica che rimase sin qui, e che forse rimarrà sempre, uno de' tanti misteri della natura.

Per dimostrare a che approdasse il primo errore de' trattatisti, e per dare un'idea delle nuove e singolari condizioni in cui si trovò la musica sul principio del seicento, debbo trattenermi ancora su quella tediosa materia che è la teoria.

Farò d'esser breve; ma, ad ogni buon conto, voi o Signore e Signori, fate d'aver lunga la pazienza.

Dalla scala, naturalmente, si passò ai così detti Toni o Modi. Nessuno ignora quale importanza s'assegni dai pratici alla conoscenza dei Toni.

Per qualificare un musicista imperito e inetto, s'è detto sempre: Non distingue nemmeno i Toni; — non sa mai in che tono canti o suoni.

Or bene, ecco quale fu dal secolo IV sino a tutto il XVI, la stabilità della teorica de' Toni. — Non fo quistione che di numeri!

Sant'Ambrogio ne riconobbe quattro. — Cassiodoro, poco dopo, ne riconobbe quindici. — San Gregorio, cui i quindici parevano troppi, li ristrinse ad otto. — Ma a soli otto, parecohi musicisti d'allora non ci volevan stare; e quindi, specialmente fra gli addetti alle cappelle italiane e gli addetti alle cappelle francesi, dissidii, controversie, dispute acri e violenti, tanto e per modo, ch'ebbe ad intromettersi (o, piuttosto, a sopramettersi) l'Imperatore Carlomagno, il quale, tutto ben considerato e ponderato, decretò che i Toni non erano nè quattro, nè quindici, nè otto; ma bensì dodici, non uno più non uno meno! Se non che alcuni anni dopo, vedendo o credendo di vedere che le cose della musica andavano alla peggio, Carlomagno non dubitò di disdirsi, decretando invece che dovevasi ritornare agli otto di San Gregorio.

Pure, tuttochè imperiale, quel decreto non tenne. — Il Bernon (un dotto benedettino del secolo X) affermò che i Toni erano nove; — e il Glareano (poeta, matematico, storico, filosofo famosissimo del secolo XVI) dopo aver spesi vent'anni di studi intorno a quella materia (così egli racconta) ebbe a convincersi che, come aveva detto Carlomagno nel primo suo decreto, i Toni eran proprio dodici.

E ai dodici si tennero: lo Zarlino e il canonico Artusi, il quale non dubitò di dichiarare che, su quel punto, la sua dottrina era posta nel primo grado di certezza.

Tuttavia, quel primo grado di certezza non persuase il padre Banchieri che, di Toni (curiosissimo temperamento!) ne voleva otto e dodici insieme; — non persuase il padre Penna che invece, ne voleva tredici; e in seguito (molto più tardi) non persuase nè il Kirnberger, che contentavasi di sei; nè l'abate Baini che ne' codici ne trovava quattordici; nè l'abate Alfieri che ne' libri corali ne trovava undici.

E non è tutto qui.

Per correggere in qualche modo la perplessità e la intrinseca manchevolezza di quella teorica, non si lasciò mai d'aggiungere distinzioni a distinzioni, classificazioni a classificazioni. — Per cui s'ebbero i Toni Perfetti, i più che Perfetti, gli Imperfetti, e i più che Imperfetti, i Naturali, i Finti, i Trasportati, i Misti, i Commisti, i Figurati, gli Affini, gli Armoniali ed altri più.

E il bello è, che con tutto quel subisso di Toni, ne' libri corali s'incontrano molte e molte cantilene, le quali, modulando in un'estensione di sole tre o quattro note, a giudizio de' teorici non sono di nessun tono.

E c'è di più, che sul conto di parecchie composizioni, i dotti e anche i dottissimi non riuscirono mai a stabilire in quali toni sono scritte.

Exempli gratia: il padre Martini dice che il Madrigale del Palestrina Alla riva del Tebro, è del secondo Tono, e l'abate Baini dice che è del quinto e del sesto.

Tale, e in tutto secondo verità, era la teoria dei Toni sullo scorcio del mille e cinquecento. E del pari instabili, arbitrarie, contradicenti ad ogni buon principio d'arte, erano le teoriche dell'armonia e del contrappunto, cui s'era aggiunto il gusto smodato per gli artifizii meccanici, diffuso e portato al delirio dalle scuole fiamminghe.

Uscita, nel 1594, la prima opera della riforma melodrammatica fiorentina (la Dafne del Rinuccini e del Peri): — uscito il Recitativo (la declamazione musicale a voce sola); e, dal Recitativo, uscita la Melodia; — tutte quant'erano quelle arruffate ed eteroclite teoriche, caddero come di sfascio. La musica trovò finalmente la sua via. E, subito, cominciò a cercare la luce, ad aver ordine e forma, a farsi parola rivelatrice d'affetti. Cominciò insomma ad esser musica, e ad esser l'arte dichiarata dalle ottave del Venturi che presi ad epigrafe: l'arte, raggio de' cieli!

Tanto operò la Melodia. La quale, della musica non è solamente un principale elemento di bellezza, come vogliono l'Hanslik ed altri; — ma è tutto: è il principio, è la ragione di essere, è l'ultimo fine. Di tutto ciò che entra a costituire la musica, non v'ha nulla che non dipenda dalla Melodia. Le doti che più si cercano e si pregiano ne' compositori: la fantasia, l'estro, la inspirazione, non han modo d'esplicarsi che con la Melodia. Senza melodia non v'ha musica.

E intanto oggi si sente dire ogni momento che la melodia è finita!!

Proprio così. S'è sempre creduto che, alito divino, la melodia venisse dal cuore commosso e dalla fantasia ispirata di quegli uomini privilegiati (quasi profeti) le cui labbra furon tocche coi carboni ardenti.... e signor no!

L'odierno progresso ci tolse dall'errore e c'insegnò invece che la melodia non fu mai altro che il portato delle materiali combinazioni de' sette suoni, e che, dàlli e dàlli a scrivere a cantare e a suonare, quelle combinazioni si son trovate e messe fuori tutte. E da questo la malinconica conclusione: che la melodia è spacciata e morta; e che oramai la musica deve rassegnarsi a farne senza. Quanto dire, all'ultimo, che il mondo deve rassegnarsi a far senza musica!

Ma non ci sgomentiamo. La melodia, come disse il De Musset, viene dal cielo ed è eterna. E in quel modo che i veri eletti e i genii l'han sempre trovata e la trovano ancora (il Verdi informi) è a ritenere che la troveranno sempre.

S'osservi però che v'ha melodia e melodia! V'ha quella che ha un fermo valore artistico, e quella che non vai nulla.

La melodia allora soltanto è pregevole, quando i suoni, grati all'orecchio per la vaghezza degli effetti acustici e per la venustà della forma, hanno la virtù di parlare al cuore dell'uditore e di trasportare la sua mente dal mondo materiale al mondo de' sentimenti e della poesia.

La melodia, ho detto or ora, fu un germoglio del Recitativo cui giunsero le ricerche e gli studi della Camerata del Conte Bardi.

Ma, com'era seguito delle canzoni popolari, dell'idillio teatrale (essenzialmente melodico) Robin et Marion di Adamo della Hale, e di tutta la musica de' Cantori a Liuto, molto probabilmente (se già non certamente), anche quel recitativo sarebbe stato non curato e messo in oblio, se a tenerlo vivo e a salvarlo non concorrevano due fortunatissime circostanze: — la naturale applicazione del recitativo alla rappresentazione scenica; — e la istituzione (ch'ebbe luogo precisamente in que' giorni) de' teatri pubblici.

Al fatto (pur tanto notevole) della istituzione de' teatri pubblici, gli storici, i tecnici e i critici non badarono più che tanto nè allora nè mai. E in conseguenza non videro mai a che dovevasi attribuire la grande e così pronta azione che esercitarono in tutto il campo dell'arte musicale.

Sino al principio del seicento l'esercizio della musica fu circoscritto: alle scuole, dove naturalmente imperavano i maestri; — alle chiese, dove il rispetto dovuto alla santità del luogo, impediva la manifestazione d'ogni giudizio; — alle sale de' sovrani e de' ricchi, dove per un elementare principio di educazione e di convenienza, non potevasi che approvare e lodare. Da questo, il lunghissimo ed assoluto dominio della musica aulica.

Dai teatri aperti al pubblico, la piena libertà dei giudizi. E però, fra la musica lenta, grave e incolora che veniva dagli strettoi delle teoriche, e quella che moveva dall'estro animato da un intento estetico, non fu ombra di lotta; come ne' compositori, non fu ombra di esitazione a scegliere fra l'elogio compassato de' musicisti e gli applausi inebbrianti del teatro.

I barbassori del contrappunto e l'armento innumerevole de' pedanti, badavano a protestare, a censurare e a strepitare. Ma i nuovi musicisti, sicuri del fatto loro, procedevan franchi e par lavan chiaro ed alto.

Il Caccini scrisse e stampò, che dai dotti colloqui tenuti coi componenti la Camerata del Conte Bardi: aveva imparata la musica assai più e meglio che dallo studio del contrappunto cui aveva consacrati trent'anni della sua vita.

Negli avvertimenti posti innanzi all'opera: Rappresentazione di anima e di corpo, pubblicata nell'anno 1600, Emilio De' Cavalieri, alla barba de' scolastici, stampò queste parole: Le dissonanze e le Quinte (intervalli e modi proscritti) si sono fatte apposta.

Col Caccini, col De' Cavalieri e cogli aderenti della Camerata Bardi, le cose passarono abbastanza quiete. Ma non così con Claudio Monteverdi, la cui opera Arianna rappresentata a Mantova nel 1607, fu fatta segno (specialmente per parte di Giovanni Maria Artusi) ad acerbe censure e a tali dileggi che, pel compositore, erano insulti addirittura ed ingiurie.

L'Artusi (canonico, per verità, ben poco reverendo) ebbe mente, studi, erudizione; e alla pedagogia musicale, se non ad altro, avrebbe potuto giovare. Ma non riuscì a nulla di bene. Pedante cocciutissimo, presuntuoso all'eccesso, arrogante, bizzoso, accattabrighe, egli passò fra i musicisti del suo tempo, come un lupo di mezzo ad una muta di cani: morsicando e morsicato!

Sul conto del Monteverdi nelle biografie e nelle storie corrono giudizi disparatissimi. — Per me fu un compositore di polso. I suoi recitativi e, per certi rispetti, la sua strumentazione, potrebbero ancora servir di modello. — Noto che nell'opera Orfeo, v'ha una specie di cantabile, sulle parole De' sommi Dei, il quale così per le note come per l'andamento, fa pensare all' Addio, cigno gentil del Lohengrin.

Il Gevaert, ora direttore del Conservatorio di Bruxelles, del Monteverdi dà questo giudizio: “Da più di due secoli le sue opere dormono nel più profondo obblio; e ciò non ostante a' giorni nostri il suo nome ha riconquistata una popolarità negata a compositori senza nessun dubbio più grandi. Devesi dirlo: la sua influenza nell'arte del secolo XVII non è stata così grande e così decisiva come generalmente si crede.„

Come credettero e credono, cioè, tutti quegli storici e critici dilettanti che senza esame e proprio ad occhi chiusi, ebbero piena fede nel Fètis (dotto del resto e d'alto ingegno), quando nel 1825 annunziò una grande sua scoperta. “Il Monteverdi, egli affermò, con l'opera Arianna mutò radicalmente e interamente la stessa essenza dell'arte, rendendo graditissimo a noi ciò che riusciva incomportabile ai nostri padri; e rendendo a noi incomportabile ciò che pei nostri padri era sorgente di sensazioni dolcissime. Nel Monteverdi è dunque a riconoscersi l'inventore e il creatore della Tonalità moderna.„

Non si tratta di poco, o Signori! Si tratta di una radicale trasformazione della essenza stessa della musica, e insieme, per conseguenza necessaria, di una radicale trasformazione dell'orecchio umano. Chi ci vuol credere, padrone. Ma a chi non vuol credere, non mancano nè buone ragioni, nè saldi argomenti, nè fatti provati, provatissimi, per dimostrare che la pretesa scoperta del Fètis è tutta un bel sogno, o per dir pane al pane, una gran frottola.

Mi tengo ai fatti. — Quella Tonalità che il Fètis vuole inventata e creata dal Monteverdi, la si trova manifestamente nelle prime opere della Riforma melodrammatica. Benchè inceppata e snaturata dalle false teoriche, la si trova nella musica del Palestrina e de' compositori fiamminghi. La si trova, aperta e libera, nell'opera di Adamo della Hale, e in tutte le canzoni popolari de' bassi secoli che pervennero sino a noi.

La Tonalità che si pretende inventata e creata dal Monteverdi nel 1607 e che dicesi Moderna, è invece antichissima; è la prima e la sola; è quella, in breve, cui il Creatore ha informato l'orecchio d'Adamo.

Dopo l' Arianna del Monteverdi, di opere teatrali degne di attenzione ne troviamo due scritte da una donna: La liberazione di Ruggero dall'isola d'Alcina, e Rinaldo innamorato, di Francesca Caccini, nei Signorini Malaspina.

Schopenhauer ha sentenziato che le donne non sono fatte per le arti belle. — Lasciando dire a posta sua quel filosofo pessimista (o pessimo filosofo, come lo qualificano i suoi contradditori) io sto coll'universale a credere che le facoltà estetiche della donna, non sono in nulla e per nulla minori di quelle dell'uomo.

Venendo alla musica, arte dei sentimenti e degli affetti, come potran dirsi disadatte le donne, cui i sentimenti e gli affetti sono la vita?!

Educata alla scuola del padre (Giulio, l'autore della Euridice ), la Caccini fu una esimia cantatrice; la migliore anzi del suo tempo, se stiamo a ciò che ne scrisse il Doni.

Di lei, come compositrice, oltre le opere teatrali, abbiamo un Primo libro delle musiche ad una e a due voci, pubblicato in Firenze nel 1618.

Nella Liberazione di Ruggero, la Caccini vince il padre così pel sentimento drammatico, come per la strumentazione evidentemente modellata su quella del Monteverdi. Ma del padre non ha nè la ricchezza armonica nè le grazie del canto. Come nelle opere del padre e del Monteverdi, anche nella Liberazione di Ruggero abbondano i Recitativi; ma fra questi e fra i cori, v'han tratti misurati e cantabili singolarmente pregevoli.

Più si procede, stretti alla cronologia, nell'esame delle opere scritte nel seicento, e più la linea melodica acquista in ampiezza, in vaghezza e, sopratutto, in espressione.

Di questi pregi fanno specialmente fede: l' Erminia sul Giordano di Michelangelo Rossi; la Catena d'Adone di Virgilio Mazzocchi; — e più specialmente ancora il S. Alessio di Stefano Landi, scritto su libretto del cardinale Barberini, poi papa Urbano VIII.

“Il S. Alessio (stampò l'abate Baini) è l'opera più drammatica e più sentimentale ch'io abbia veduto di que' tempi, sia per le sinfonie, sia per l'accompagnamento degli strumenti uniti alle voci, sia anche per gli a solo, pei duetti, pei terzetti, e pei cori!„

A questo giudizio (giudiziosissimo) del Baini, può aggiungersi che nel S. Alessio sono frequenti i modi di recitativo che preludono ai recitativi obbligati dello Scarlatti, e le pagine, quali così espressive e quali così briose, che si direbbero scritte, cent'anni dopo, dal Pergolesi e dal Cimarosa.

S'aggiunga ancora (ad accrescerne il valore e la importanza storica) che il S. Alessio è evidentemente condotto col proposito d'improntare nella melodia il carattere de' personaggi; tanto che nella parte di Satana v'han tratti che ricordano il Beltramo del Roberto il Diavolo.

Col Landi, Pierfrancesco Caletti-Bruni, detto Cavalli, che portò il melodramma a forme più simmetriche, e la melodia a maggiori e più geniali svolgimenti.

A' giorni stessi del Cavalli, Marco Antonio Cesti meno vario e originale, ma dotato di un gusto non meno eletto specialmente in ciò che si riferisce al canto.

Della storia del melodramma que' due compositori chiudono il periodo che dirò preparatore, — periodo fecondissimo di opere, di tentativi, di felici trovate. — Giunti qui, non siamo ancora alla grand'arte, nè a quelle espansioni melodiche ch'hanno potenza d'esaltare e di destare l'entusiasmo; ma ne siamo (e sanamente), agli inizi. Con la musica, non siamo ancora ad una piena e splendida fioritura; ma, come all'aprirsi della primavera, siamo al rinverdire delle piante, ai bocci e ai fiori socchiusi.

Proponendomi di riprenderlo più innanzi, lascio il melodramma per dire della musica strumentale, la quale più presto e forse meglio della vocale, seppe fare suo profitto della libertà lasciata alla fantasia e all'estro dal nuovo indirizzo preso dall'arte.

I filosofi moderni assegnano alla musica strumentale una importanza grandissima. È la vera musica (dicono), è la musica per eccellenza, ed è tale, perchè vive e spazia nelle regioni dell'ideale puro; perchè è affatto indipendente da ogni ordine di cose reali.

La parola (aggiungono) avvalora senza dubbio e dà forza al linguaggio della musica. Ma lo avvalora circoscrivendolo.

Il dramma offre alla musica un'infinita varietà d'immagini, di affetti, di passioni. Ma le leggi della verosimiglianza e le esigenze della scena, trascinano imperiosamente la musica su vie che non sono le sue.

Le eleganze e le grazie del canto, la quadratura de' pezzi, le ripetizioni e la simmetria, alla musica necessarissime, sconvengono non di rado ai procedimenti del dramma.

Il dramma, intanto, procede per analisi, e la musica per sintesi. Il dramma, anche quando è tutto d'invenzione, pretende di rappresentare il Vero e d'esser Storia. La musica, al contrario, è tutta e sempre Poesia; nient'altro che Poesia. E però frequentissimi i casi di discordia e d'inconciliabilità.

La musica Vocale e la Strumentale sono sorelle gemelle, la cui nascita rimonta forse alla creazione del mondo. Nulla s'oppone a credere che l'uomo, il quale, pel primo, cominciò a cantare, fosse contemporaneo di quello che, pel primo, cominciò a cercare i suoni soffiando nelle canne e nelle tibie.

Tuttavia, il progresso di una di quelle sorelle fu lentissimo. Sino agli ultimi anni del mille e cinquecento, la musica strumentale non ebbe un'esistenza sua propria che nelle Gighe, nelle Sarabande, nelle Gavotte e in altre forme della musica da ballo. Quanto al resto, fu tenuta sempre alla materiale ripetizione, al raddoppio cioè, delle parti vocali. Le Messe,i Salmi,i Madrigali, ecc., nel millecinquecento si scrivevano: per cantare e per suonare.

L'autonomia della musica strumentale è anch'essa un portato della Riforma melodrammatica fiorentina.

Subito aperta la nuova via, ecco procedervi sicuro un insigne musicista: Girolamo Frescobaldi; il più valente di quanti furono prima di lui e con lui, i valenti organisti. La sua fama fu tale, che, invitato a suonare in San Pietro Vaticano, gli uditori accorsi passavano i trentamila.

Eppure de' titoli di gloria del Frescobaldi, quello d'organista è forse il minore.

Egli fu compositore, per organo specialmente e per clavicembalo, d'altissimo merito. Le sue composizioni: le Toccate, i Ricercari, le Partite d'intavolatura, le Canzoni da suonare, van ricche di bellezze native e peregrine. In tutte (fatta sempre ragione ai tempi, s'intende) la melodia si svolge e discorre con naturalezza; ha forme simmetriche, è quasi sempre originale. E di sotto alla melodia, nuovo in parecchi atteggiamenti e di castigatissimo gusto, il magistero armonico.

Alla musica strumentale, il Frescobaldi ha dato il La. E a quel La si tennero tutti i cultori di quel ramo dell'arte suoi contemporanei, e i loro successori immediati: il Torelli, il Vivaldi, il Geminiani, il Bassani, il Corelli, lo Scarlatti (Domenico) e tanti e tant'altri, a dire dei quali anche per soli accenni, non che un discorso mal basterebbe un volume.

Da quei compositori (dal Bassani segnatamente e dal Corelli) la musica ebbe la Sonata; forma che è viva vivissima ancora così nella Sonata propriamente detta, come in tutta la musica strumentale da camera, ne' Terzetti, Quartetti, ecc., e nella stessa Sinfonia da Concerto.

Que' sublimi poemi che sono le nove Sinfonie del Beethoven, quanto a forma sono Sonate per orchestra.

Oltre la Sinfonia da Concerto o classica, abbiamo la Sinfonia Teatrale; quella che usa mettersi innanzi ai melodrammi, e che molti credono d'origine francese, grazie al vocabolo Ouverture, col quale viene comunemente designata.

Altra forma musicale dovuta al secolo XVII, la Sinfonia- ouverture ebbe vita in Francia senza nessun dubbio; ma è italiana, italianissima; perchè la prima di quelle Sinfonie, venne ideata e scritta da un fiorentino, da Giovanni Battista Lulli: il compositore-favorito di Luigi XIV; autore di opere teatrali acclamatissime.

Il movimento che nel secolo XVII animò il melodramma e la musica strumentale, animò pure la musica religiosa; ma per ben poco.

A rendere incerti i compositori sul cammino da seguire ed a paralizzarli, sorse, rumorosissima, una controversia.

Sedotti dagli effetti nuovi e bellissimi dell'orchestra, i compositori la portarono in chiesa; e fu, per molti, uno scandalo.

L'orchestra è del teatro (picchiarono e ripicchiarono gli oppositori) e tutto ciò che è del teatro o che lo ricorda, in chiesa non può essere che una profanazione, un sacrilegio.

Certo è che tolta di mezzo l'orchestra, restan pur tolti di mezzo non pochi e ben prossimi pericoli di cadere con la musica negli effetti teatrali.

Ma quel provedimento, non è chi nol vegga, rifiuta una parte dei poteri della musica e la stringe in termini prescritti; mentre la Chiesa, associandola alle sue cerimonie e alle sue preghiere, vuole un'arte libera; vuole un ausiliario, atto a cattivare l'attenzione e a commuovere il cuore, affinchè riesca e più pronta la intelligenza e più profonda la impressione delle verità che ella predica e insegna.

Ora, vincolata a forme determinate e prescritte, la musica troppo facilmente non potrebbe ottenere quegli effetti, e troppo facilmente mancherebbe a sè stessa.

Vietare alla musica religiosa l'uso dell'orchestra perchè serve al teatro, non è forse lo stesso che vietare alla pittura religiosa l'uso, poniamo, o del rosso o del turchino perchè servirono o possono servire a dipingere la veste di una Frine? Non è lo stesso che vietare alla poesia e all'eloquenza sacra i vocaboli degli affetti e del cuore, perchè possono esser diretti a tutt'altri che a Dio?

Nè la Chiesa del resto, pensò mai a limitare i mezzi naturali delle arti. Dalle nude e anguste cripte delle catacombe, ella venne alla magnificenza delle basiliche e delle cattedrali. Dagli informi dipinti e dai rozzi intagli con cui, nel suo grembo, si svolsero le moderne arti del disegno, ella venne a Raffaello, a Michelangiolo, al Canova. E, in ordine alla musica, ben distinta sempre la liturgica dall' artistica; — applicato alla prima ( al canto fermo ) il precetto: Nec plus, nec minus, nec aliter, — accettò dalla seconda tutti i progressi, e venne al Palestrina, al Pergolesi, al Mozart, al Cherubini, al Rossini, al Verdi.

Non mai definita, quella controversia è viva anche a' dì nostri. I compositori odierni, però, non se ne danno per intesi e tiran via come vien viene.

I compositori del seicento, al contrario, quando scrivevano musica religiosa, si toglievano d'ogni incertezza, tornando di netto alle vecchie formule delle scuole e agli artifizi (anche ai più astrusi) del contrappunto.

Da una controversia passo ad un'altra per riportarmi al melodramma.

Careggiato, applaudito, acclamato come una festa dei sensi e della intelligenza, come la più splendida e la più attraente delle forme dell'arte, il melodramma pure al suo primo apparire, fu assalito da un gran numero di oppositori, i cui argomenti erano que' medesimi de' quali si valsero le lancie spezzate del Wagner per combattere la scuola italiana che, pel melodramma, soprastava ad ogni altra un gran tratto.

Di quegli argomenti, ecco il principalissimo:

“Volendo che i suoi personaggi parlino, pensino, amino, soffrano e anche muoiano cantando, il melodramma cade, e in pieno, nel falso e nell' assurdo. L'uomo qual è nella natura, l'uomo vero, non parla cantando; e molto meno se è dominato dalle passioni; e meno ancora se muore.„

Grazie della notizia!

Ma quell'argomento non mena già, come vorrebbero gli oppositori, ad una modificazione o ad una riforma, mena bensì (e inevitabilmente) alla negazione ed alla condanna del melodramma in sè stesso. Perchè, non ammessa la convenzione che i suoi personaggi parlano cantando, il melodramma si rende impossibile, non può essere.

E se ben si guarda, con quell'argomento si negano e si condannano tutte le arti belle; perchè tutte s'appoggiano ad una convenzione; perchè in quello stesso modo e in quella stessa misura che è falso ed assurdo il personaggio del melodramma che parla cantando, è falso ed assurdo quello della tragedia che parla in versi, e quello della pittura che non si muove e non parla mai, e quello della scultura che non si muove, non parla ed è tutto di un colore solo.

Di quante sono le arti, nessuna prende tanto dal vero e può darne tanto, quanto la drammatica. — Ma anche la drammatica ha le sue convenzioni. Ed è in grazia di esse che il drammaturgo può stringere e condensare in due o tre ore, la rappresentazione di fatti i quali, nel vero, non potrebbero svolgersi che in parecchi giorni e in mesi e in anni. È in grazia di quelle convenzioni che delle tante circostanze che accompagnano i fatti, il drammaturgo, secondo quello speciale intento che s'è proposto di ottenere, può lasciar quelle e prender queste, può prenderne una sola o nessuna se gli torna; e che nello svolgimento così dell'azione come de' caratteri, può far uso di un ordine di artifizi analoghi a quelli che i pittori chiamano scorci; e pei quali lo spettatore vede ciò che realmente non c'è.

E nella commedia e nel dramma, che cosa sono rispetto al vero, i soliloqui? Che cosa sono quegli “ a parte „ così frequenti, che si vogliono uditi da tutti gli spettatori, e che gli spettatori devono credere non uditi dai personaggi che sono sulla scena e ai quali, magari, son detti proprio sul viso? Con questo non è forse stabilito e accettato: che il personaggio della commedia e del dramma, pensa, riflette e sente, — parlando?

Gli oppositori del melodramma non hanno osservato: che il fine delle arti belle, non è già la sola ed esatta riproduzione del vero, ma sì la esplicazione, per mezzo del vero, di un sentimento o di un'idea!

Non hanno osservato: che all'opera d'arte non si cerca già la commozione, in genere, che può destare il vero, ma sì quella commozione che il vero ha destato nell'artista; e dall'artista fecondata e portata ad espressione di bellezza.

Da cui quella commozione sui generis che dicesi estetica.

Gli oppositori del melodramma non hanno osservato: che il sentimento e l'amore dell'arte sono insiti nella natura dell'uomo; che sono inerenti alle sue facoltà e a' suoi bisogni intellettuali; che muovono, in conclusione, da un istinto. E non hanno osservato: che le convenzioni fondamentali delle arti sono il primo e necessario portato di quell'istinto appunto. Del che s'ha una dimostrazione che non ammette replica, nel fatto: che quelle convenzioni, non pure senza ripugnanza, ma con vivo desiderio vennero accettate in tutti i tempi, da tutti gli uomini, in tutti i gradi di cultura: dai Greci come dai Barbari; dagli adulti come dai fanciulli.

Certo è che uno scultore ritrarrebbe meglio il vero, se alle forme del marmo aggiungesse i colori. Ma qual è uomo di gusto, o così naturalmente infelice o così corrotto, che non veda e non senta che l'arte sarebbe qui disviata, che ne sarebbe invertito l'assunto, che il vero sarebbe non già imitato ma contraffatto?

Così, chi assiste alla rappresentazione del Mosè o del Guglielmo Tell, non domanda già alla scena nè il Mosè proprio quello del Pentateuco, nè il Tell montanaro e non poeta, nè musicista, nè cantante, ma domanda il ritratto fantastico di que' personaggi, animato dalle attrattive della poesia e dagli incanti della musica.

E dopo aver dichiarata assurda la convenzione del melodramma, a qual partito s'appigliano gli oppositori?

Per me s'appigliano ad un partito che è apertamente contrario al buon discorso della logica e agli intendimenti dell'arte: condannano e proscrivono il canto che canta, che viene a dire la melodia, per mettere al suo posto quella maniera di recitativo che chiamano melopèa.

Della convenzione prima e fondamentale, non ne prendono che una parte. Come se con questo puerile mezzo termine non si riuscisse ad un'altra convenzione! Come se nella materia di cui trattasi il falso e l' assurdo potessero stare nel più e non nel meno! Come se non volendo ammettere l'uomo che parla cantando il canto, perchè non vero, si potesse poi ammettere l'uomo che parla cantando la melopèa, che non è vero nello stesso stessissimo modo!

E della nuova teorica, quali i frutti?

Questi: la musica spogliata de' più efficaci suoi attributi; costretta a seguire pedestre la declamazione e a gonfiarne le inflessioni e gli accenti. Il dramma inceppato e fatto lentissimo dalla melopèa, nascosto e abbuiato dalla orchestra. La recitazione falsata e portata a termini che si contradicono: a non voler cantare per poter dire; e a non poter dire che con gli elementi del canto: — un ibridismo che mai in arte il più arbitrario, il più infecondo, il più strano!

Di compositori melodrammatici che fiorirono nella seconda metà del seicento, la storia ne ricorda moltissimi, valenti i più, valentissimi non pochi. Ma come ho fatto sin qui, mi terrò alle cime; a quelli che più giovarono all'incremento dell'arte: ad Agostino Stefani e ad Alessandro Scarlatti.

Lo Stefani (ora interamente dimenticato) nel disegno euritmico delle arie e dei pezzi concertati, fu il precursore dello Scarlatti; nella musica vocale da camera fu il precursore del Clari; e in tutto ciò che spetta alla verità della espressione drammatica, e a quegli intenti che si riferiscono al così detto color locale, fu il precursore de' tedeschi. Di due de' quali, del Keiser (grande) e dell'Händel (grandissimo) fu pure maestro. — Le migliori sinfonie dell'Händel, quali sono deduzioni e quali sono calchi di quelle dello Stefani.

Le opere: Marco Aurelio, Servio Tullio, Enrico detto il Leone e Rolando, dello Stefani, aprirono la Germania all'arte italiana.

Sopra tutti i compositori che ho nominati, s'alza gigante Alessandro Scarlatti: il Mozart e il Rossini del suo tempo: un Genio! Ottimo cantante, ottimo suonatore di violino, di clavicembalo, d'organo, di arpa, lo Scarlatti fu compositore di profondissima dottrina, di fantasia vivace e originale, di squisito gusto, e miracolosamente fecondo. — Fra serie, semiserie e buffe, scrisse dalle cento alle centoventi opere teatrali, pressochè tutte acclamate. Scrisse oltre a dugento opere di musica religiosa; otto oratorii, e un gran numero di cantate.

Lo Scarlatti piegò e strinse in una sintesi sapiente la dottrina del Palestrina e la naturale libertà della melodia. Guidato dalla indefettibilità del genio, gettò le basi di quella scuola che, detta da principio Napoletana, fu in seguito la Italiana.

Nella musica delle opere dello Scarlatti, altezza e originalità di concetti, d'intenti, di aspirazioni; — limpidezza, culta ed elegante di stile; — ricchezza inesauribile di partiti; — naturalezza d'andamenti; — abbondanza di idee melodiche native, geniali, informate al carattere voluto dalla poesia cui s'applicavano, e piene d'espressione; — varietà ed efficacia ne' giri degli accordi, ed una strumentazione così savia e sana, così bene intesa, che, senza faticose ricerche, vi si trovano in germe tutte quelle novità che usciron dopo, e delle quali si menò e si mena quel vanto e quello scalpore che tutti sanno.

Come il Monteverdi, anche lo Scarlatti assegnò non di rado all'accompagnamento del canto di ciascun personaggio un gruppo speciale di strumenti, da cui, col colore drammatico, una bella varietà di effetti acustici. Per questo rispetto, sono degne di studio tutte le sue opere, ma più specialmente: Tigrane, e più specialmente ancora La caduta dei Decemviri, nella quale l'aria: Ma il mio ben che farà, è accompagnata da soli violini, divisi in quattro parti.

Dalla bontà de' criteri estetici che lo guidavano nella pratica, la bontà del suo insegnamento.

Chiamato alla direzione di uno de' conservatorii di Napoli, il culto del bel canto, della buona armonia e della buona disposizione delle parti, dalla sua scuola, sempre popolatissima d'allievi, non che a Napoli e in Italia, si diffuse subito in tutt'Europa. — E il suo insegnamento (s'avverta) non appoggiavasi a nessun Trattato, a nessun sistema teorico. Era essenzialmente pratico. Musicista nato, e uomo di molta cultura, lo Scarlatti sapeva troppo bene che cosa erano e che cosa potevano essere, in fatto di musica, le teoriche e i trattati.

Con lo Scarlatti siamo alla grand'arte; all'arte (ripeto) raggio de' cieli, e quasi nipote a Dio!

Genio fecondatore (come poi il Rossini) intorno allo Scarlatti fu in breve una legione di peritissimi cantanti, sui quali primeggia Baldassare Ferri, detto da' biografi il cantante Taumaturgo.

E con quella de' cantanti, un'altra legione di compositori; de' quali vogliono essere distinti: l'Angelini Bontempi, Bernardo Pasquini, Giovanni Bononcini e Antonio Caldara; un compositore quest'ultimo che nel seicento e sino al Pergolesi, rimase insuperato, nella rivelazione degli affetti più delicati, de' sentimenti più intimi e, se così posso dire, de' bisbigli dell'anima.

Qual più qual meno, tutti quei compositori vennero dimenticati, ma più che per altro, per le condizioni d'esistenza in cui trovavasi la musica nel seicento; condizioni ben diverse da quelle in cui trovasi oggi.

In quel tempo le pubblicazioni della stampa erano infinitamente minori di quelle d'ora. Le più belle opere rimanevano manoscritte, tolte per ciò alla circolazione e quindi facilmente sconosciute.

In quel tempo non usavano i giornali; tanto utili a mantener vive le rinomanze e le glorie; (e anche ad inventarle).

E a far dimenticare le opere non che all'universale, agli stessi compositori, concorreva il fatto che dei Diritti d'autore in quel tempo non s'aveva nemmeno idea. — Scritta e fatta rappresentare un'opera, i compositori mettevan mano ad un'altra, e a quella scritta non ci pensavan più, perchè passata, de jure, in dominio pubblico.

Dura legge era quella pei poveri compositori; dura, ingiusta, leonina, — lo riconosco. Ma per un altro verso, era provvida e benefica, in quanto preservava l'arte dal farsi una industria commerciale, e preservava gli artisti dal farsi mestieranti e bottegai.

La scuola dello Scarlatti, ha stabilita la musica pratica su basi razionali, ferme, armonizzanti coi postulati più accettati della estetica, e con la melodia e col canto l'ha avviata sui fioriti sentieri della poesia, ben diversi dalle viottole scabrose e cieche per le quali (e a gran fatica!) si trascinò sempre la musica delle teoriche.

Pure anche questa, nel seicento, ha guadagnato non poco, ed ha fatto non breve cammino.

Aperta la via alla melodia, quella legge prima e fondamentale cui la natura ha informato l'orecchio dell'uomo, e per la quale i suoni acquistano senso ed espressione, quella legge, dico, senza cessare d'essere mistero quanto al suo principio, venne rivelandosi nella pratica co' suoi effetti. I musicisti ben dotati la seguirono per istinto; e non andò molto che le vecchie teoriche non trovaron più modo d'applicarsi e che con la pratica non ebbero più nulla a vedere.

I Toni, che abbiam trovati così numerosi e fiancheggiati da tante e così sottili distinzioni e classificazioni, a poco a poco sparirono tutti, sopraffatti da soli Due! messi in luce e imposti dalla ragione melodica.

Que' due Toni (e senza che si sentisse mai il bisogno nè di aggiunte nè di modificazioni) bastarono alle fantasie, alle ispirazioni e ai voli del Bach, del Mozart, del Beethoven, del Rossini. Bastarono al Wagner; bastano ancora; e bastano, quel che è più, a classificare prontamente e senza difficoltà, tutta l'antica musica conosciuta, e anche quella che i teorici dissero inclassificabile. Può volersi di più per mettere in sodo che con que' due Toni (il maggiore, e il minore) siamo nel giusto e nel vero? che siamo dove ci volle natura?

Mi resterebbe ancora a dire molto, ma per non abusare più oltre della vostra pazienza, o Signori, eccomi a concludere.

Nel secolo XVII, più che un rinnovamento della musica, è a vedere una rigenerazione, preso il vocabolo nel più ampio suo significato; una rigenerazione che si estese a tutti gli elementi costitutivi dell'arte; a tutte le sue forme; così all'indirizzo estetico, come al teorico; e, soprattutto, al Gusto, giacchè, sciolta da ogni regola e interamente abbandonata alla fantasia, dal Landi allo Scarlatti, la musica di quel secolo si mantenne sempre semplice, naturale, casta. Nè amplificazioni, nè stemperatezze, nè gonfiezze, nè eccessi, mai.

E sì che il barocchismo, imperversante allora in tutte le arti, s'era pur fatta strada in teatro, con la esecuzione de' cantanti, tutta a passaggi di difficoltà, e coll'apparato scenico che volevasi tutto a macchine, a voli, a sparizioni, a cascate d'acqua, a incendi, ecc., e che volevasi scortato, non esagero, da centinaia e centinaia di ballerini, di corifei e di comparse.

Quando il Verdi ha detto: Torniamo all'antico (parole d'oro) per me ha certamente voluto dire: Torniamo ai forti compositori del seicento: che seppero liberarsi dalle tenebre e portarsi alla luce; — che seppero togliere la musica dai bassi fondi degli artifizi meccanici e alzarla, agile, piena di vita e splendida, a dignità di arte.

INDICE.

Volume I : Storia.

Pag.

Guido Falorsi Dalla pace di Castel Cambrese a quella dei Pirenei 1

Ernesto Masi La reazione cattolica 57

Domenico Gnoli Roma e i Papi nel Seicento 93

Pompeo Molmenti La decadenza di Venezia 133

Volume II : Letteratura.

Guido Mazzoni La battaglia di Lepanto e la poesia politica nel sec. XVI. 165

Giovanni Bovio Il pensiero italiano nel secolo XVII. 209

Isidoro Del Lungo Galileo la sua vita e il suo pensiero 233

Enrico Panzacchi Giambattista Marini 285

Olindo Guerrini Alessandro Tassoni 317

Volume III : Arte.

Adolfo Venturi I Carracci e la loro scuola 349

Enrico Nencioni Barocchismo 381

Michele Scherillo La Commedia dell'Arte 425

G. Alessandro Biaggi La musica nel secolo XVII. 481