La vita italiana nel Trecento.
LA VITA ITALIANA NEL TRECENTO
Conferenze tenute a Firenze nel 1891
DA
R. Bonfadini, F. Bertolini, A. Franchetti, M. Tabarrini, E. Masi, P. Rajna, I. Del Lungo, E. Nencioni, A. Bartoli, A. Graf, D. Martelli, P. G. Molmenti, C. Boito
Con 13 profili di V. Corcos.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1895 — Terza Edizione.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves
INDICE
LE LETTURE FIORENTINE SU LA VITA ITALIANA NEL TRECENTO
I.
Arduo assunto il mio! Dovrei descrivervi la sala, il pubblico, l'ora del tempo e l' infida stagione, gareggiare con l'artista, squisitamente elegante, che in pochi tocchi sa cogliervi la fisonomia del “dicitore„ o, come oggi lo chiamano, del conferenziere; dovrei riepilogarvi in brevi parole più d'un lungo discorso. E, ahimè, la penna non si addice a simili miracoli; è sempre quell'arnese, di cui scriveva il Giusti alla nipote, la povera signora Guglielmina, che “quanto più si sa tenerla in mano e più scotta„.
La sala è ad ogni descrizione ribelle: gli splendidi arazzi delle pareti, dove con vivi colori sono intessute antichissime storie, i fregi dei lacunari di legno intagliato, la cristallina iridescenza delle lumiere veneziane, le linee armonicamente severe d'un camino scolpito da settignanesi scalpelli, e il formicolio delle teste aspettanti con impazienza curiosa l'ora del raccoglimento e dell'attenzione, e l'incrociarsi degli sguardi balenanti da pupille di ogni colore, e la varietà degli abbigliamenti e delle acconciature, e il pissi-pissi confuso di frasi e parole d'ogni idioma e di ogni pronunzia.... son tutte cose che non si mettono in carta e non si stampano, nemmeno co' lenocini della cromo-tipografia. E il pubblico? l'ho già detto altre volte: non si ritrae. Occorrerebbe un catalogo di nomi, garbatamente aggettivato sul gusto di quello che leggesi in certo capitolo del Piacere di Gabriele d'Annunzio; e ad ogni nome dovrebb'essere sovrapposta una piccola corona od altro segno blasonico, ornandone le iniziali con il profilo d'una testa muliebre. Poi, a compiere il quadro, bisognerebbe illuminarlo con la luce discreta che piove da' finestroni d'un antico palazzo, nell'ora in cui il sole, indorando le case di faccia, richiama i pensieri a' bei tramonti primaverili, quand'esso frastagliasi tra le chiome dei lecci e delle querce delle Cascine.
Meglio presentarvi, uno alla volta, i lettori che hanno salito trepidando i due scalini della cattedra del palazzo Ginori, salutati sempre da un applauso cortese che, nel suo muto linguaggio, avrebbe voluto dir tante cose.
Badate, avvertivano quei battiti di manine impazienti, badate di non passar quel termine, oltre il quale anche una conversazione criminosa languisce! Badate; il pane della scienza deve avere, mercè vostra, il lievito delicato di quello che ha l'onore e la fortuna d'essere morso da' nostri dentini! Via le orribili citazioni latine che l'orecchio non sente! ci bastan quelle del nostro paroissien, che leggiamo magari a rovescio, o l'altre del nostro blasone. Le date non son per noi, che vogliamo scordar quelle della nostra cronologia! Della storia, come della vita, non c'importano i fatti, ma le persone, e queste vogliamo vederle, conoscerle come se ci fossero presentate da un amico intelligente e discreto. Della letteratura dovete parlarci come se ci raccontaste un romanzo o una commedia; scegliete pochi libri, pochi autori, e svelateci il segreto loro spiegandoci perchè ci commuove un sonetto angelicato di Dante e sorridiamo a una novella del Certaldese. Se così farete, vi promettiamo, fra un'ora e non più, di cavarci il guanto sinistro per dare un po' d'aria ai brillanti e alle turchesi e per applaudirvi quasi foste la Duse o Sarah Bernhardt, accompagnando l'applauso d'un piccolo e rauco grido come quando il Tamagno si confessa disonorato in cospetto del pubblico.... e noi, al solito, ci abbiamo tanto piacere!
E il lettore o l'oratore a cotesto applauso fa un bell'inchino, e s'accomoda sul seggiolone dorato che deve allora sembrargli imbottito di nòccioli....
II.
Confesso che non ho mai salito senza paura una cattedra e che appunto per questo, ho sempre proseguito con la mia ammirazione quanti hanno codesto eroico coraggio. Meglio parlare alle turbe in un comizio di disoccupati, giacchè, predicando l'anarchia, si deve cominciare da quella della grammatica. Meglio ascendere su d'un pulpito e recitare omelie e panegirici: ci son tanti squarci d'eloquenza da tradurre e da mandare a memoria! Meglio ancora salire in una bigoncia accademica avendo intorno e dinanzi un uditorio, cui le viete eleganze ipnotizzano e, mansuefatto, addormentano. Secondo me, non ha tutti i torti un mio amico, professore e accademico illustre, che fin qui non ha voluto piegarsi a parlare ad un pubblico femminile, ma deve fare onorevole ammenda se ha lontanamente pensato alle elette uditrici del palazzo Ginori, che alla dirittura del giudizio uniscono ogni più sottile squisitezza di gusto e di sentire.
Romualdo Bonfadini.
Ascoltarono con profonda attenzione le letture del Bonfadini sulle Fazioni, del Bertolini su Roma e il Papato, e di Augusto Franchetti sulle Signorie e le compagnie di ventura; non batterono palpebra udendo la splendida e perspicua esposizione che Pio Rajna fece della Genesi della Divina Commedia; ammiraron plaudenti le pagine magistrali che Isidoro Del Lungo lesse intorno a Dante nel suo poema; manifestarono tutto il loro entusiasmo, quando Enrico Nencioni fece vibrare ne' loro animi gentili le corde più delicate del sentimento, parlando della Letteratura mistica nei secoli XIII e XIV.
Francesco Bertolini.
Romualdo Bonfadini è certamente uno dei più valorosi artisti della parola, e le conferenze fiorentine non potevano esser meglio inaugurate. Il facondo conferenziere fu salutato al suo apparire da un fremito di simpatia, che alla fine d'una dotta e magistrale improvvisazione si mutò in un applauso di ammirazione e di ringraziamento. Sarebbe superfluo altresì riepilogare la lettura dell'illustre Francesco Bertolini, il cui nome è promessa mantenuta di profondità di pensiero e d'eleganza di forma. Questi i due primi conferenzieri, nei quali ognuno riconosce che le qualità preclarissime dell'ingegno sono pari alla fama; poichè i dicitori che la Società Fiorentina raccoglie intorno a sè debbono tutti esser già noti e pregiati dal pubblico, non trattandosi di creare riputazioni campanilesche, ma d'invitare quanti hanno nome di oratori valenti, quanti hanno autorità riconosciute per trattare questo o quel dato argomento. Ma non ci dilungheremo in elogi che potrebbero sembrare superflui. Meglio presentare ai lettori il profilo dei conferenzieri, còlto dal vero da un valente artista quand'eran sulla cattedra; che tentare di parlare dei loro meriti.
Augusto Franchetti, la cui testa va prendendo il colore dell'avorio antico, mentre la barba già nera comincia a inzuccherarsi, è un uomo di elettissimi studi e d'acutissimo ingegno. È avvocato, professore, o meglio libero docente di storia moderna all'Istituto di Studi superiori, insegnante a quello di Scienze sociali intitolato al nome di Cesare Alfieri, accademico della Crusca, segretario della Società dantesca italiana, consigliere del Comune e socio di non so quante altre accademie e sodalizi, alle cui adunanze giunge sempre.... desideratissimo. Fra un processo verbale e un'interpellanza, tra una lezione e una relazione accademica, traduce l'Aristofane, scrive una rivista bibliografica o una rassegna drammatica per la Nuova Antologia, minuta una lettera per alcuna delle sue Società, arrotola la quarantesima sigaretta della giornata e, alle volte, si lascia andare ad un di quei brevi riposi che pur son necessari ad una esistenza così afflitta dalle pubbliche cure.
Augusto Franchetti.
Amico zelantissimo, in tutta questa farraggine di faccende trova ancor tempo di ricordarsi dei molti che gli vogliono bene e di far la sua quotidiana passeggiata pedestre al Viale dei Colli, a tu per tu con qualche libro di scienza. La sua lettura sulle Signorie e compagnie di ventura, che dovè preparare in brevissimo tempo, diè prova dell'erudizione ond'è soppannato, e fu notevolissima per la nova maniera d'illustrare i fatti della storia con documenti della letteratura a quelli contemporanea; onde i versi di Dante, del Petrarca, del Saviozzo senese e d'Antonio Pucci davan luce e vita al racconto, mentre passi e luoghi tolti ai prosatori del tempo a quello aggiungevano forza ed evidenza.
Pio Rajna.
Pio Rajna che successe al Franchetti, e il 21 di marzo risalì quella cattedra da cui l'anno decorso raccolse così largo tributo di applausi, è nome meritamente caro ed illustre in Italia e fuori. In lui la profonda dottrina è come irradiata dalla perspicuità della mente, e la sincerità scientifica, ond'è osservante fino allo scrupolo, aggiunge alle sue parole il fascino e lo splendore del vero. La lettura ch'ei fece sulla Genesi della Divina Commedia, ricercando nell'animo di Dante e negli elementi esteriori, quanto potè ispirare l'altissimo concetto, fu tra le più belle e originali di questa serie, e piacque all'eletto uditorio per la novità della ricerca e per la lucidità della forma.
Isidoro Del Lungo.
Dante ha avuto un altro insigne illustratore in Isidoro Del Lungo, di cui tutti conoscono e pregiano le benemerenze verso la nostra antica letteratura. Il Del Lungo pare anch'oggi, a chi lo guardi, un uomo antico travestito co' panni moderni. Certo, gli starebbe meglio addosso il lucco scarlatto, e in capo il cappuccio o il mazzocchio de' nostri bisavoli; perchè egli è un uomo tutto di un pezzo, che deve trovarsi quasi a disagio in mezzo a questa modernità pettegola e piccina. In ogni sua cosa mette una parte di sè, e la migliore: fu maestro, professore di belle lettere in più di un Liceo del regno, e tutti i discepoli suoi ricordano con affetto riverente l'amore ch'egli metteva nel farli partecipi della sua ammirazione per le più elette pagine dei nostri classici. Passato all'Accademia, a quella buona e vecchia Accademia della Crusca, — quella povera vecchia come la chiamava il Mamiani — sfogò la sua idealità nelle fitte colonne del Vocabolario, e consacrò gli anni migliori nello studio de' tempi di Dante e di Dino Compagni. Lavorò con la coscienza d'un galantuomo e con la sincerità d'uno scienziato moderno, tutto in sè raccolto, sordo alle punzecchiature, ai sarcasmi, alle invettive. E dopo molti anni di ostinata pazienza, ebbe l'intima soddisfazione di veder ricredere molti scettici e di comporre al suo Dino un piedistallo glorioso di documenti inoppugnabili. L'onestà letteraria, che accompagna in lui quella di cittadino, di maestro e di scrittore, ebbe il meritato tributo di plausi e di ammirazioni sincere. Ormai nessuno dubita più della autenticità della Cronica di Dino Compagni; ormai nessuno oserebbe affermare ch'egli, il critico illustre, non sia quasi un testimone vivente di quei tempi immortali. Dante ha trovato in lui un interprete fedele ed eloquente. Ond'io vi lascio immaginare quale profonda impressione facesse nell'animo degli uditori la sua lettura veramente ispirata. Disse cose e non parole, e le cose peregrine che gli usciron dal labbro rivestì d'una forma impeccabile, leggendo con un magistero di dizione che tutti gl'invidiano, con quel calore che può dare soltanto il convincimento del vero.
Enrico Nencioni.
Non fo il cronista di queste letture, che stampate correranno, come le precedenti, per le mani di tutti. Mi piace ricordare, dar libero sfogo a quel po' d'entusiasmo sincero che tutti abbiamo nei fondacci della coscienza. Lasciate dunque che senza tema di sembrare parziale vi dica della conferenza d'Enrico Nencioni sulla Letteratura mistica nel secoli XIII e XIV, compendiando il mio giudizio in brevi parole. Il Nencioni, esperto dell'arte difficilissima di commuovere un uditorio femminile, ebbe un grande e meritato trionfo. Egli conosce tutti i punti, tutte le delicatezze del sentimento, e fu pari all'aspettativa che di lui si aveva grandissima; anzi, ardisco dirlo, la superò. Enrico Nencioni è poeta anche in prosa: ogni frase, ogni periodo che lesse giungeva diritto alla meta e sapeva commuovere. Lesse con quella sua voce velata che sfugge gli effetti volgari e sottolinea ogni parola, e d'ogni parola ogni sillaba. Raffrontò l'antico all'odierno, ebbe lampi di humour felicissimi, fu convincente, patetico, ironico, sublime. Parrà ch'io abbia usurpato il mestiere ad un giornalista teatrale che voglia patrocinare una vecchia abbonata, una egeria della propria agenzia. Invece io esprimo in disadorne parole quanto provarono gli ascoltatori devoti di quella lettura, che salutarono l'oratore con un applauso caldo, pieno di commozione sincera. Enrico Nencioni sentì profondamente il soggetto che prese a trattare. E questo è ancor sempre il vecchio segreto per commuovere; è l'oraziano si vis me flere dolendum est primum ipsi tibi.
E, per una volta tanto, mi si passi la citazione latina.
III.
Ormai delle letture del palazzo Ginori anche l'ultima eco è svanita; parliamone dunque un'ultima volta con animo più riposato, per rievocare il ricordo di tante ore deliziose trascorse in quella serenità di spirito che era conceduta dalla stagione clemente, dalla geniale compagnia e dall'abito ormai acquistato di convenire a così eletti ritrovi. Perchè, gioverà rammentarlo, queste letture su La Vita Italiana nei secoli XIII e XIV, come le altre su Gli Albori, ebbero il plauso d'un uditorio sceltissimo, la cui assiduità non ha bisogno d'esser messa alla prova; d'un uditorio capace d'intendere le più riposte finezze d'una critica sottilmente ideale, come di non batter palpebra allo scrosciar de' robusti periodi d'un dicitore classicamente erudito.
Non ho mai conosciuto più severo areopago nè più sodi cervelli di questi che si nascondono all'ombra de' cappellini civettuoli e delle meglio composte acconciature. Il giudicio femminile, a torto così bistrattato, è quasi sempre d'una sagacità senza pari. Quello degli uomini, il più delle volte si lascia fuorviare da ragioni di convenienza, di scuola, di partito, di politica. Quest'altro invece mira dritto alla meta senza riguardi, senza preconcetti, senza ipocrisie; anzi talvolta spinge la franchezza sino alla più cruda brutalità. E, sopra tutto, aborre dalla presunzione: quando non capisce, sbadiglia; quando sbadiglia e contorcesi sulla seggiola, s'annoia; e quando si annoia, condanna senza remissione, senz'attenuanti. Ha pure un senso straordinario della misura, della convenienza, della decenza oraziana: è quell'istesso intuito d'arte che la donna sa mettere nella scelta dei colori, nel taglio d'un vestito, nell'adornamento della persona.
Ernesto Masi.
Conoscitrici consumate, autrici e critiche ad un tempo di quel piccolo poema di grazia e di civetteria che è l'opera delle loro mani e di quelle di.... Dio, sanno il segreto di ogni opera d'arte e non perdonano ad un disserente noioso, ad un accademico pedante, ad un dotto senza facondia, ad un conferenziere senza carità cristiana. Esse, che d'amore s'intendono, vogliono sentirne l'afflato in ogni opera d'arte. Non c'è creazione senza connubio, nè connubio senza simpatia, senza calore d'affetto. Perciò se restan fredde ascoltando un lavoro, pronunziano contro il colpevole una sentenza mortale. Il gentile areopago potrà forse reprimersi; e allora, per eccesso di modestia, giudicherà il lavoro dottissimo, ed erudito l'autore; e con questo eufemismo gli negherà per sempre il battesimo d'artista o di poeta.
Ma i nostri lettori di quest'anno (1891), come quelli dell'altra serie, e delle serie future, possono presentarsi al pubblico più difficile e schifiltoso senza paure. Enrico Panzacchi, Ernesto Masi, Isidoro Del Lungo, Enrico Nencioni, per tacere degli altri valenti, conoscono a prova il segreto di dir cose belle e peregrine tenendo attento e divertito un eletto uditorio. Nè gli altri che seguirono furon da meno dei precedenti. Ernesto Masi seppe improvvisare in pochissimi giorni un quadro compiuto dei tempi illustrati da Dante. Del Barbarossa, d'Enrico VI, d'Innocenzo III, di Federigo II, di Manfredi, di Carlo d'Angiò, di Corradino, di Bonifazio VIII, di Carlo II e di Roberto, della Regina Giovanna trattò, nella sua lettura sugli Svevi e Angioini, con quella grande competenza ch'è frutto di studi coscienziosi e con felicità di parola, ritraendo in brevi ed efficacissimi tocchi la fisonomia storica dei varii personaggi e digredendo in considerazioni alte e razionali. Il Masi dimostrò ancora una volta ch'egli sarebbe un eccellente professore di storia moderna, di cui potrebbe onorarsi qualunque Ateneo, ora segnatamente che le cattedre universitarie sono occupate dai microscopisti della scienza, con grave danno di quella coltura generale che i giovani non possono attingere fuori della scuola.
Arturo Graf.
Arturo Graf aveva scelto quest'anno un argomento attraentissimo Il tramonto delle leggende, e ne parlò con abbondanza di sicure notizie, con magistrale conoscenza del tema. Egli ha una fiera passione: quella di non lasciare inesplorata nessuna parte del soggetto preso a trattare; e perciò i suoi lavori acquistano maggior pregio ad un'attenta e ponderata lettura. Lo studio sulle Origini del Papato e del Comune di Roma, ch'ei lesse l'anno scorso, è stato per unanime giudizio riconosciuto un de' migliori scritti del volume su Gli Albori edito dai Treves.
Marco Tabarrini.
Al Graf succedette il senatore Marco Tabarrini, cui non dispiacque di fare onore alle Letture di casa Ginori con una sua conferenza su Le Consorterie nella storia fiorentina. Il Tabarrini, richiamato da un gentile invito a' suoi antichi studi prediletti, lasciò per un poco le gravi cure della politica; e con affetto giovanile si pose a dar forma di piacevole ed elegante discorso a' materiali laboriosamente raccolti trent'anni fa sopra un argomento poco noto di storia patria. E vi riuscì così bene, da far dimenticare, con l'aurea semplicità dello stile, con la squisita eleganza dell'elocuzione e con la grazia toscana della lingua, la difficoltà dell'assunto. Perchè, chi nol sappia, egli è un sapiente maestro anche nell'arte del dire, ma un di quelli del buon tempo antico, i quali sdegnano i lenocini della rettorica, non di altro curanti che di dar veste ben conveniente agli studiati pensieri. E' vi parlano con quella bonomia socratica, per la quale le astruserie della scienza paiono a chiunque accessibili e piane; e tutto il loro segreto consiste nel dar ordine lucidissimo a quel che hanno chiaro e luminoso nel loro intelletto. Il miglior artificio per fare una buona conferenza è quello d'averla fatta prima a noi stessi, d'aver bene in mente ciò che si vuol dagli altri compreso; e però riescon meglio le conferenze addirittura improvvisate, quelle fatte a braccia, quando la frase sia obbediente al pensiero e questo segua il cammino prestabilito, senza fermarsi sbadatamente per via.
Diego Martelli.
E tale fu appunto quella che Diego Martelli fece su Gli artisti Pisani, parlando di storia dell'arte con la sicurezza che nasce da una lunga pratica e amorosa col proprio soggetto. Diego Martelli non fa nè l'artista nè il letterato di professione; ma è, per felice intuito, per le doti naturali dell'ingegno e per svariata coltura, un dicitore piacentissimo, che riesce a nascondere lo studio e l'erudizione sotto le apparenze d'un'arguta bonarietà. Parlò del bizantinismo con novità e originalità di concetti, descrisse le meraviglie create dagli artisti pisani con la evidenza e la semplicità onde un viaggiatore di buon gusto vi pone sott'occhio quanto di meglio ha veduto in lontani paesi. La sua conferenza fu come la relazione d'un viaggio nel passato dell'arte, compiuto da un nostro contemporaneo, che sappia raffrontare l'antico con il moderno, e d'arte giudicare con intelletto d'artista. Non smancerie, non frasi imparate a mente, non effetti retorici; ma quella signorile bonomia con la quale i nostri antichi ragionavano de' miracoli dell'arte nelle botteghe de' pittori o degli scultori. Il Martelli, compagno di studi a quanti dal 1859 in poi han trattato la stecca o il pennello, ammiratore ed amico dell'Abbati, del Sernesi e degli altri valorosi rinnovatori della pittura in Toscana, è un finissimo ingegno d'artista che si nasconde nella giacca d'un possidente di campagna. Egli odia la ipocrisia, sotto tutte le forme, e per questo vive un po' solitario e fa parte da sè stesso. Tanto meglio, se nella quiete d'una biblioteca sa preparare al pubblico che gli vuol bene, un'ora di dilettazione estetica, come quella indimenticabile che ci donò il 16 aprile nella sala Ginori!
Pompeo Molmenti.
Tre giorni appresso risaliva quella cattedra un altro bell'ingegno, il Molmenti. Un artista che vuol essere aristocratico succedeva al più democratico di tutti i conferenzieri; alla naturalezza del fiorentino all'antica, seguiva la raffinata eleganza d'un cortesan veneziano. L'onorevole Molmenti non se l'abbia a male: il paragone non ha nulla d'odioso per lui; tanto è vero che posson farlo i lettori, raffrontando i ritratti dei due dicitori dovuti alla elegante matita del Corcos.
Camillo Boito.
Il tema assegnatogli era Venezia nel secolo XIV, e l'autore della Dogaressa ne trattò con caldezza d'affetto, con vera ispirazione. Dimostrò come l'arte in questi anni di vigorosa vita civile facesse naturalmente difetto; poichè l'arte meglio fiorisce nelle età più riposate, negli splendori della decadenza. Nei primordi della repubblica l'arte si rivelò, è vero, in Venezia con opere magnifiche; ma non fu nè nazionale nè individuale, fu invece arte bizantina e prodotto sociale. Venezia comparisce degnamente nel campo dell'arte sul principio del secolo XV, mentre appunto incomincia il suo scadimento civile. — Questa la tesi maestrevolmente svolta con abbondanza di notizie e di particolari, con osservazioni originali e sapienti, con una forma scintillante, armoniosa, carezzevole, a cui aggiungeva nuovo incanto la voce dell'oratore e la blandizia della pronunzia. Pompeo Molmenti — non più Pompeo Gherardo — è un felice temperamento d'artista, che conserva tutta la giovanile baldanza, nonostante qualche capello bianco di più, nonostante le cure della politica. Egli è un dei beniamini del pubblico nostro, che con applausi cordiali lo rimerita dello zelo da lui posto nello studiare e preparare i materiali di queste genialissime conversazioni.
Camillo Boito fu l'ultimo della eletta schiera, e parlò dei Giudizi artistici nel secolo XIV con quella finezza di gusto onde è da tutti pregiato. Singolare soggetto, degno dell'attenzione d'un critico sapiente e originale, ch'egli trattò con ricchezza di particolari, con felicità di raffronti, ritessendo per sommi capi la storia di due monumenti, del Duomo di Milano e di Santa Maria del Fiore, mostrandoceli nel loro divenire e per tal modo insegnandoci come in materia d'arte pensassero i nostri padri.
IV.
Questa l'ultima lettura del '91; poichè una ostinata indisposizione impedì al prof. Adolfo Bartoli di darci quelle sul Petrarca e sul Boccaccio che dovevano chiudere la serie trecentistica, prenunziando le altre sul Rinascimento riserbate alla primavera del '92.
Adolfo Bartoli.
E il 9 marzo, con il sorriso della lieta stagione che leniva le crudezze ingiuriose onde l'inverno volle farsi colpevole, nelle tepide giornate scintillanti di sole, si tornò anche quest'anno agli usati convegni della Sala Ginori, ad ascoltare la parola ornata di valenti dicitori che fecero di quell'età gloriosa uno splendido quadro.
Le letture del '92, che riuscirono attraentissime ed ebbero un vero crescendo di applausi e di entusiasmo, furono la consecrazione della bella ed utile impresa che è decoro alla nostra Firenze. La serie sulla Vita Italiana nel Rinascimento si aperse con le due letture di Adolfo Bartoli, alle quali furono assegnati i giorni 9 e 12 di marzo. Del Petrarca, l'illustre storico della letteratura italiana, fece un compiuto ritratto, mostrando in lui specialmente l'uomo della rinascenza, l'uomo moderno. Studiò il Boccaccio nella vita e nelle opere minori, ricca miniera di notizie e particolari biografici, toccando del Decameron quanto era necessario a darne un'idea complessiva, come importava a quel pubblico delicato e discreto. — Non potevano i due argomenti esser trattati, in così breve giro di tempo, con più fine magistero; di che gli uditori furon gratissimi al vero Bartoli, di cui è qui il ritratto, plaudendo al falso Bartoli che prestò la voce al maestro indisposto.
E il falso Bartoli indovinate chi era?
Guido Biagi.
LE FAZIONI ITALIANE
DI ROMUALDO BONFADINI
Nelle commedie antiche — e non meno buone per ciò — il primo personaggio che parlava agli spettatori era ordinariamente Frontino che introduceva il gentiluomo, o Fiammetta che annunciava la gentildonna.
Non altrimenti intendo oggi il còmpito, a cui la sorte m'ha destinato, di inaugurare quelle conversazioni storiche e letterarie, di cui vedo che dodici mesi, trascorsi in altri ambienti, non vi hanno fatto perdere la memoria... o la speranza.
La buona conversazione — fu detto in qualche luogo da un brillante scrittore — è l'ultima virtù dei popoli che decadono. Speriamo sia anche la prima dei popoli che risorgono. Almeno è un augurio che mi sfugge dal labbro, vedendo dietro l'uscio ch'io sono incaricato di schiudere, quella serie d'illustri ingegni, alla cui parola il vostro desiderio si affretta. Certe sentenze feriscono per la loro eccentricità più ancora che per la logica loro.
Non era in decadimento l'ingegno fiorentino, quando gli Orti Oricellarj raccoglievano sotto i platani ombrosi le dotte conversazioni di cui rimane ancora memoria. Non era in decadenza lo spirito fiorentino, quando, fuori porta San Gallo, ai fieri assalti della pestilenza, una vivace compagine opponeva il fascino di un'arguta conversazione alla cui dottrina potranno forse giungere quelle del palazzo Ginori, se anche, per altre ragioni, non potranno emularne la giocondità.
E senza voler raccogliere altri esempi a confutazione della severa sentenza, basterà ricordare che non appartiene ad epoche di decadimento, ma risale proprio alle origini dell'umanità quella conversazione-tipo, a cui si sono modellate poi le più interessanti di tutti i popoli e di tutti i tempi — la conversazione del serpente con Eva.
Lasciate dunque che vengano a voi, come nello scorso anno, i conferenzieri. Sono gli stessi e son nuovi. Vi parleranno, come in passato, dell'Italia che voi amate e che è bene studiare. Soltanto, mentre per voi questo intervallo non è stato che di un anno, per essi sarà stato di un secolo. Dall'Italia dei vescovi e dei Comuni dovranno giungere all'Italia dei tiranni e delle compagnie di ventura. Dall'avventuriero normanno che fonda nella bassa Italia la dinastia d'Altavilla, dovranno balzare all'avventuriero francese che si annida nel regno con poco sforzo e vi sovrappone, meno eroica e più sanguinaria, la dinastia degli Anjou. La contessa Matilde, sicura nel suo dominio, fiera del suo fanatismo, amica e protettrice dei più grandi Pontefici, sparirà dalla scena, dove saliranno invece le turbe scamiciate dei Ciompi o i feroci armigeri di Gualtiero di Brienne. Invece delle rozze mura di Fiesole o di Milano vedrete innalzarsi o incominciarsi il Palazzo Ducale di Venezia, Santa Maria del Fiore, la Certosa di Pavia. Dalle figure stecchite e angolose dei mosaici bizantini un'arte nuova vi porterà fino a Gaddo Gaddi ed a Niccola Pisano. E mentre, già respinti nell'estremo settentrione d'Italia, i menestrelli si preparano a varcare le Alpi, riportando nelle corti di Borgogna o di Provenza il loro ritmo di lamento e d'amore, sorge nell'Italia centrale il racconto che ha nome Boccaccio; la lirica, che ha nome Petrarca; l'epopea, piena di fantasia e di dottrina, che ha nome Dante Allighieri.
Singolare trasformazione che si manifesta nei popoli italiani dalla fine del secolo duodecimo al principio del decimoquarto!
Istituzioni, costumi, linguaggio, genio letterario ed artistico, tutto è mutato. Altre passioni agitano la razza italica; altri interessi sono sorti; vi si provvede con tutt'altre forme.
Forse il solo secolo XVIII potrebbe pareggiarsi a quell'epoca per le sorprese dei fatti, per la rivoluzione delle cose. E un fiorentino che avesse potuto prender parte, nel 1260, alla battaglia di Monteaperti
Che fece l'Arbia colorata in rosso
sarebbe stato altrettanto meravigliato, potendo vedere, ottant'anni dopo, Firenze prostrata sotto il tallone del Duca d'Atene, come sarebbe stato intontito un francese che avesse potuto assistere nel 1715 ai funerali di Luigi XIV, e vedere, meno di ottant'anni dopo, la regina di Francia condotta al patibolo fra gli urli omicidi delle trecche di mercato.
È che allora — come più tardi — non v'era equilibrio di contemporaneità nello svolgimento delle attitudini umane. Allora — come più tardi — il progresso nelle discipline d'indole morale era più lento e meno sicuro del progresso nelle discipline d'indole scientifica od economica.
Economicamente, il paese era ricco. I fattori della prosperità pubblica s'erano avvantaggiati di tutto quel moto emancipatore che nei secoli anteriori aveva innalzato le plebi e spezzate le resistenze del feudalismo.
Divenute libere le città, e vinti i castelli nelle campagne, il lavoro s'era fatto rimuneratore, la sicurezza maggiore nelle strade permetteva i commerci: la borghesia si costituiva.
Le fabbriche d'armi in Lombardia e le consorterie artigiane in Toscana accennavano ad industrie già fiorenti, che alimentavano esportazione di prodotti. Il commercio coi porti del Levante dava a Genova, a Venezia, ad Amalfi, a Pisa un movimento di persone e di scambi fecondo di attività prosperose. Il Banco di San Giorgio iniziava da Genova la prima forma del biglietto cambiario, potente aiutatore della ricchezza. Dai banchieri “lombardi„ traevano i re di Francia le somme necessarie alle loro imprese militari; i Bardi e i Peruzzi prestavano ai re d'Inghilterra dei milioni pur troppo non restituiti più.
Questa agiatezza dirigeva verso i lussi educatori dell'arte e della lettura lo spirito pubblico.
Dappertutto i grandi municipii consacravano il loro superfluo — allora ne avevano — all'erezione di quei palazzi e di quelle chiese, a cui gli artisti moderni attingono ancora i più squisiti criteri del bello architettonico.
La richiesta di artefici ne stimolava il genio; e si fondavano le scuole d'arte, dove i discepoli diventavano a loro volta maestri e diffondevano per le più umili borgate d'Italia il senso delle cose belle e dei disegni eleganti. Non siamo ancora giunti al genio enciclopedico che plasmerà i grandi artisti del cinquecento, Michelangelo, Leonardo, l'Alberti. Ma il nesso fra le arti è già il culto costante e appassionato delle maggiori personalità di quel tempo. Già l'Orgagna non rifiuta di sacrificare alle Muse, fra una pittura pel Campo Santo di Pisa ed una scoltura per le nicchie di Orsanmichele. E il Giotto s'illustra col suo campanile, non meno che coi trittici sacri e col ritratto di Dante.
Parallelo all'incremento della coltura artistica viene quello della coltura letteraria e scientifica. Ormai l'intelletto italiano ha riacquistato il dominio de' suoi confini e li allarga. Le Università degli studi, già fondate un secolo prima a Napoli ed a Bologna, cominciano ad attirare i valori giovanili, fino allora sviati dalle brutalità bellicose. Dai monasteri si traggono a furia codici e classici antichi, mentre un classicismo nuovo si fonda intorno al gran triumvirato letterario, che da Firenze riempie l'Italia della sua fama.
Questa rispecchia nella triplice sua espressione il complesso dei sentimenti che si disputano il pensiero popolare italiano.
Dante mutatosi da guelfo in ghibellino, e rimasto poi tale fino alla morte, è l'uomo di parte, l'uomo d'azione per eccellenza. La patria è la sua fede, ma vuole una patria tenace e implacabile, come l'ira sua. La chiede a tutti, ma piuttosto agli imperatori che ai papi. E per quelli ha così grande indulgenza, mossa dalla speranza, che fra i tanti peccatori contro la libertà dell'Italia, da lui dannati all'inferno, dimentica il maggiore del quale non era certo perduta la memoria a' suoi tempi, Federico Barbarossa.
Il Petrarca è più guelfo che ghibellino; ciò che non gl'impedisce di accettare dai ghibellini di Milano e di Pavia la più larga ospitalità. Il suo canto è d'amore, poichè ha la vita felice quanto infelice e turbata è quella dell'Allighieri. Anch'egli ama la patria, ma colla nota della pace, invece che della guerra. Anch'egli è uomo pubblico, ma la sua indole lo porta alla politica di conciliazione piuttosto che alle lotte di parte. È un ambasciatore piuttosto che un uomo di Stato. Benevolo per gli uomini, eclettico nei sistemi politici, vorrebbe Cola di Rienzo in Roma e non vorrebbe il papa in Avignone.
Giovanni Boccaccio non è nè guelfo nè ghibellino. Rappresenta quella borghesia nuova, che alla politica crede poco, che vorrebbe dar sicurezza ai commerci, alle relazioni sociali, e trarre da quelle il fondamento di uno Stato tranquillo. La sua filosofia è piuttosto materialista; non si lascia trascinare dagli amori e dagli odî; comprende la patria, ma gli pare eccessivo che una patria debba essere un ostacolo alla felicità della vita.
In altre parole, il genio di Dante è governato dalla passione, quello del Petrarca dall'idealità, quello del Boccaccio dal gaudio. Nessuna di queste tre forme rudimentali dello spirito umano basta da sola a delineare la fisonomia d'un popolo; tutte insieme la riassumono e la completano.
La geografia non isfugge a questi impulsi di rinnovamento. Mentre Marco Polo, tratto da audacie commerciali, affronta le incognite dell'estremo Oriente, per visitare e descrivere i regni fantastici del Catai, la bussola compie la sua rivoluzione nell'arte marinaresca e Amalfi le prepara i grandi viaggiatori del secolo successivo: Colombo, Vespucci, Sebastiano Cabotto.
Contemporaneamente ai fatti ed agli studi crescono di valore gli uomini che ne trasmettono ai posteri la memoria. Il volgare illustre si sostituisce al vecchio e disadorno latino, in cui erano scritte le croniche di Landolfo e di sire Raul. Ricordano Malespini e i fratelli Villani danno qualche sapore di storia, se non di critica, alle loro narrazioni. Più alto s'erge Dino Compagni, qualunque sia la polemica che s'è fatta intorno all'opera sua. La Cronica fiorentina è già il lavoro d'un uomo di governo a cui non manca l'ingegno letterario. Si sente che il Machiavelli non è lontano.
Sventuratamente a tutto questo moto intellettuale non viene compagno un identico progresso negli ordinamenti politici. Anzi pare che qui si cammini a ritroso.
Non è che manchi all'uomo politico del '300 lo stigma della virilità. Anzi, questa può dirsi ormai perfetta nella sua manifestazione. Farinata degli Uberti, Vettor Pisani, Azzone Visconti, Ruggero di Lauria, Bonifacio VIII, il Conte Verde sono personalità di fiero metallo, atte a dominare in ogni epoca le eventualità della storia. Nota il Machiavelli, colla solita sicurezza del suo criterio, che il numero dei grandi uomini dipende quasi sempre dalla vastità degli Stati. Le occasioni di mostrare nelle cose pubbliche senno e vigoria diminuiscono man mano che gli Stati s'aumentano, assorbendone altri. Un gran popolo, raccolto ad unità politica, ha bisogno d'un minor numero d'uomini che vi rappresentino le prime parti; sicchè le facoltà umane cessano d'acuirsi intorno alle faccende di Stato, e si dilagano verso altri intenti, forse più utili ma che a minor fama conducono.
Ora, proprio la condizione opposta era quella che prevaleva in Italia nei secoli 13.º e 14.º; dove la moltiplicità dei regimi e delle signorie esigeva gran consumo di uomini pubblici, gran ressa degli intelletti intorno agli argomenti sui quali ogni forza di governo si regge.
Ma se dai tipi individuali scendiamo a considerare i criteri delle maggioranze, le impressioni a cui ubbidivano, i sentimenti dai quali erano mosse nella vita pubblica, nessun orgoglio pur troppo possiamo trarre dalla rimembranza di quei nostri antenati.
Il buon seme italico, la tradizione del valore, il disinteresse patriottico erano raccolti da alcune menti privilegiate, sollecite dell'avvenire. Ma ad ideali di questa natura non si prestavano che assai fuggevolmente i complessi politici della nazione.
Allo sforzo vigoroso sopportato per tanti anni dai Comuni, vogliosi di emancipazione civile e sociale, era succeduto un periodo di stanchezza, che produceva tumulti ma non elaborava resistenze. Gli animi erano depressi ed avevano perduta la fede. Non eccitavano più ardori le Leghe fondate per combattere nemici comuni. Al proprio nemico ciascuno si opponeva o si assoggettava da sè. Nessuno spingeva lo sguardo a confini di patria, al di là delle mura del proprio nido. L'Italia aveva ancora scatti di sdegno o fenomeni d'entusiasmo; non aveva più disegni politici o coesione d'indipendenza.
E scatto di sdegno, non altro, fu quella rivolta dei Vespri Siciliani, ond'ebbe per tanti secoli quasi usurpato onore Giovanni da Procida e vantaggio immediato la stirpe dei re d'Aragona. Fenomeno d'entusiasmo, non altro, fu quella pace giurata, fra le lacrime, da trecento mila guerrieri sui campi di Paquara; dove frate Giovanni da Vicenza precorse di oltre cinque secoli il buon parroco Lamourette, nella illusione di spegnere con cinque minuti di commozione l'incendio suscitato dall'irrompere delle passioni umane.
Queste avevano origini e radici in troppi fatti o recenti o contemporanei, perchè non fossero aizzate in Italia ad ogni turbamento di leggi morali.
La lotta aspra e implacabile fra il Papato e l'Impero, — i rancori lasciati dalla distruzione dei castelli feudali a beneficio delle città murate, — la venuta in Italia di quel primo Carlo francese che la politica pontificia chiamava contro gli Svevi, come dugent'anni dopo un altro Carlo sarebbe stato chiamato contro gli Aragonesi, — finalmente gli effetti politici e sociali lasciati in tutta Europa dalle crociate, — erano tutte cause primordiali, atte ad inoculare nel sangue italiano il lievito esclusivo della violenza.
Quindi violenti i principi nell'usurpare gli Stati, violente le congiure per rovesciarli; violenti i predicatori di scismi e di eresia; violentissimi i pontefici, che ne reprimevano colla forza e coi supplizi l'apostolato; ad ogni insidia ricorrevano i vinti, nessuna pietà frenava le reazioni dei vincitori; in Palestina s'erano cominciate le stragi benedette da fanatismo religioso, — si continuavano in Italia, dove quel fanatismo trovava rinforzo in avidità di dominio; l'uccidere non bastava più, bisognava tormentare; e un tirannello veneto, che non sfuggì alla vendetta di Dante, Ezzelino da Romano, come aveva emulato Nerone nella varietà delle torture, lo avrebbe superato ben presto nel numero dei torturati.
Che esempi, che freni potevano trarre le masse italiane da una compagine politica adagiatasi in mezzo a tali sozzure? dove avrebbero trovato la virtù di reagire contro le loro passioni, mentre alle proprie si abbandonavano con tanta impudenza i personaggi posti a capo dei governi e destinati ad essere i saggi e i prudenti nella politica italiana?
Ecco dunque il fondamento dello spirito pubblico nei secoli di cui vi discorreranno i vostri conferenzieri.
Dopo il mille, quel fondamento era stato il bisogno della libertà; e la violenza non era apparsa che il mezzo necessario per distruggere il feudalismo.
Dopo il 1200, la libertà genera i commerci e le industrie; ma la violenza rimane come la forma inspiratrice d'ogni reazione e d'ogni abuso, di principi o di moltitudini.
Due correnti prevalgono e non possono fondersi. Una spinge verso la ricchezza, verso i commerci, verso le soddisfazioni dell'arte e del sodalizio letterario; l'altra spinge alla potenza che non è fine a sè stessa, ma istromento d'arbitrii e di tirannie. Nella prima s'inalvea la vita privata, la seconda trascina la vita pubblica. La quale, inquinata in ogni sua parte da terrori o da vendette, uscita da ogni traccia di legge, divenuta asilo d'ogni turpitudine di scherani o di avventurieri,
mena gli spirti nella sua rapina
e converte due secoli di storia, pieni d'una letteratura così robusta e d'un'arte così squisita, in una specie di leggenda paurosa, che governa ancora, nei suoi apprezzamenti sull'Italia, il pregiudizio popolare europeo.
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Ed eccovi chiara la genesi delle fazioni italiane. Queste non sorgono per fatti contemporanei, ma preesistono a quelli e costituiscono, per così dire, i quadri, entro i quali i fatti medesimi si versano e si distribuiscono.
Nel '300 in Italia si nasce faziosi, come si nasce gialli nella China o negri nel Tombuctù. La fazione si assorbe col latte materno, s'impara dal precettore. I giuochi dei fanciulli sono, come le passioni dei grandi, basati sul guerreggiar delle parti. Si può entrare e si può non entrare in un ciclo di attività politica; ma, quando vi si entra, nessuno pensa ai bisogni complessivi di un paese; l'interesse della fazione a cui si appartiene tien luogo di fede, di patriottismo, di virtù.
Vi ha detto acutamente lo scorso anno l'attuale ministro della pubblica istruzione[1] che, distruggendo nelle campagne i ricoveri del feudalismo, le città trasportavano nell'interno delle mura quella guerra civile che credevano aver terminata al di fuori.
Infatti, quando posavano le guerre fra Svevi e Angioini, fra papi e imperatori, nascevano le guerre fra l'una e l'altra delle città italiane; fra Genova e Venezia, fra Pisa e Firenze, fra Modena e Bologna, fra Piacenza e Milano.
Quando fra le città s'era fatta la pace o una pace, il dissidio interno cittadino non tardava a scoppiare; dissidio tra nobili e plebei, tra governanti e governati, tra rioni occidentali e rioni orientali, tra antichi servi orgogliosi della vittoria e antichi feudali memori della sconfitta.
Se anche a siffatte querele veniva meno la materia o la lena, il bisogno di lottare sorgeva da cause minori. Si cominciava con una rivalità d'individui, si continuava coll'ostilità delle famiglie a cui questi individui appartenevano; ogni famiglia allargava le sue ire alle famiglie alleate; si finiva colla tradizionale divisione politica.
Così, e non altrimenti, nascevano le fazioni interne, che lacerarono per tanti anni le maggiori città, — i Buondelmonti e gli Uberti a Firenze, i Panciatichi e i Cancellieri a Pistoja, i Lambertazzi e i Geremei a Bologna, i Cappelletti e i Montecchi a Verona, i Beccaria ed i Langosco a Pavia, a Mantova i Bonacolsi e i Gonzaga. Su più vasto campo, e destinati a maggiori dominazioni, i Colonna e gli Orsini a Roma, i Fieschi e i Doria a Genova, i Visconti e i Torriani a Milano sono altrettante variazioni del fenomeno fondamentale.
Ricordare gli episodi da cui sorsero quelle inimicizie di carattere secolare, ci porterebbe assai lungi. Ogni cronista riporta quelli della propria città, e tali narrazioni si seguono, rassomigliandosi.
Un delitto v'è quasi sempre all'origine di queste contese; un delitto d'ambizione, più sovente un delitto d'amore.
Voi conoscete la storia delle vostre famiglie; quella giovane Donati, per cui s'accende Buondelmonte dei Buondelmonti, dimenticando il preso impegno di sposare una fanciulla degli Amedei, indi l'ira di questi, che si estende agli Uberti, antichissimi ottimati di Firenze; e il consiglio di famiglia per deliberare sulla vendetta da prendersi; e l'insidioso motto di Mosca dei Lamberti: cosa fatta, capo ha. Voi vedete di qua l'appostamento degli Uberti e degli Amedei sull'angolo settentrionale del Ponte vecchio; e il bel Buondelmonte che s'avanza d'oltr'Arno, vestito di bianco, caracollando sul bianco palafreno; e il sangue che macchia tutto quel bianco, il cadavere giovanile su cui s'accaniscono tutti quei ferri, e l'urlo di trionfo che inaugura per le vie di Firenze quarant'anni di stragi.
Dopo questa, ecco la leggenda veronese che commuove tutti i cuori sentimentali d'Europa e che risveglia, a secoli di distanza, il genio drammatico di Shakespeare e il genio musicale di Bellini.
Nè dissimile dal fatto di Giulietta e Romeo è quello che avvolge Imelda e Bonifacio nella vicina Bologna.
Imelda del Lambertazzi, giovinetta di gentili costumi, è amata alla follia da Bonifacio dei Geremei, giovanissimo egli pure ed alieno, come dice il Muzzi, dal sangue e dalla ferocia. Lungamente supplicata, riceve un giorno nelle sue camere l'innamorato. Sono spiati, denunciati e sorpresi. I fratelli d'Imelda, furenti dell'oltraggio recato alle loro casa ed alla loro sorella, si slanciano sul giovane Geremei e gli immergono nel petto uno di quei pugnali avvelenati, onde avevano tratto l'uso dai Saraceni i cavalieri crociati. Trascinatolo in un sottoscala, ivi lo abbandonano per correre ad adunar partigiani. Imelda, che al primo rumore era fuggita, ritorna, vede le traccie del sangue, le segue ed arriva al cadavere dell'amato. Alcuni ultimi sussulti di vita la muovano ad una speranza e ad un eroismo. Chinandosi sulla ferita, ne sugge, col sangue, il veleno; e le ancelle, ricercandola, trovano l'erede dei Lambertazzi, generosa suicida, sul corpo del Geremei.
La tragedia non era che incominciata. Poichè, essendosi agitato il partito di uscire in campo contro Modena e contro Forlì, si disputarono intanto i Lambertazzi e i Geremei per sapere di quale città si dovesse preparare l'assalto. E la discussione fu così viva che, per quaranta giorni, Bologna fu piena di morti e di feriti, accatastati sulle rovine delle case incendiate; e Modena e Forlì potettero stare tranquillamente a vedere quanti dei loro presunti nemici sarebbero usciti salvi dalle reciproche brutalità.
Debbo parlarvi di quella Virginia Galucci che è rapita da Alberto Cabonesi e provoca fra le due famiglie lunghissima ostilità? o di quella Bianchina Landi, che, insidiata da Galeazzo Visconti, se ne schermisce e determina fra Milano e Piacenza feroce guerra? o di quella fanciulla tedesca, scesa in Italia per le feste del Giubileo, che, oltraggiata da Bernardino dei Polenta, si uccide, e lascia in retaggio la sua vendetta a due fratelli, capitani d'una compagnia di ventura?
Tutti questi episodi non servono che a dimostrare come la materia infiammabile fosse equabilmente sparsa in tutte le contrade italiane, e come la violenza collettiva fosse dappertutto la figliazione legittima dell'eccesso individuale.
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Forse il più fatale di questi episodi, quello che ha lasciato più lunga eredità di passioni devastatrici e provocata maggior mole di eventi intorno a sè, ha cominciato a svolgersi nella Marca Trivigiana verso gli ultimi anni del secolo duodecimo. Tisolino di Camposampiero, nobile padovano, confida ad Ezzelino, feudatario d'Onar e di Romano, la sua intenzione di dare in moglie a suo figlio la ricca ereditiera del feudo di Abano, Cecilia Ricco. Ezzelino riceve la confidenza, tradisce l'amico e fa sposare immediatamente al proprio suo figlio, l'ereditiera. Indi, le prime ire e le prime fazioni. Il figlio di Tisolino riesce a rapire l'antica sua fidanzata e rimandarla, disonorata, al marito. Questi la discaccia a sua volta, ma ritiene la dote dei castelli e dei feudi. La lotta si estende da Padova e da Treviso a Vicenza e a Verona. Prese e riprese, tutte queste città e le borgate intermedie diventano un campo di battaglia, sul quale i Romano e i Camposampiero gareggiano di furore. Le nuove generazioni ereditano gli odii e gli scopi delle generazioni antiche; quasi un secolo scorre prima che in un'ultima tragedia si spengano le antecedenti.
Ma quest'ultima tragedia soverchia in atrocità tutte quelle che il secolo permetteva. Nessuna dominazione, in nessun tempo, è stata, sui propri sudditi, così scellerata come quella che per oltre trent'anni esercitò su gran parte dell'alta Italia Ezzelino III da Romano, in cui le leggende popolari ben presto additarono l'Anticristo.
Era figlio di quell'Ezzelino che aveva sposato per forza Cecilia Ricco. Piccolo di statura, soldatesco di modi, altiero di linguaggio, terribile nello sguardo, faceva tremar tutti e nessuna cosa lo faceva tremare.
A nessun sentimento di pietà e d'affetto aveva preparata l'indole sua. Godeva del sangue e dei tormenti, come del bere o del vincere. Non conosceva l'amore; forse neanche la voluttà; e perciò, dice il Sismondi, trattava le donne colla stessa implacabile ferocia degli uomini.
Fattosi devoto stromento della politica imperiale germanica, n'ebbe ogni assenso ed ogni indulgenza a tirannide. Fabbricava carceri e demoliva palazzi; dov'egli era, uccideva; dove non era, mandava i suoi podestà a tormentare e ad uccidere. Immolava per un sospetto centinaia d'individui; se uomo o donna gli veniva in uggia, faceva sterminare quanti erano di quella famiglia; aveva quasi distrutti i Camposampiero, nemici suoi, e i Dalesmanini, suoi parenti ed amici. Non contava i nemici sul campo di battaglia, ma li contava anche meno nel consegnarli al carnefice. Per vendetta contro i loro concittadini, fece perire una volta di varie morti undicimila padovani. Spopolava letteralmente le città che governava o che conquistava; e in tutta Italia s'erano sparsi, elemosinando e imprecando, uomini ch'erano stati mutilati o storpiati o acciecati nelle sue carceri.
Contro un tiranno così straordinario si sollevarono gli animi nella Penisola, e un papa d'indole pietosa ed umana, Alessandro IV, non esitò ad impiegare contro Ezzelino III quell'arme dei tempi che era parsa efficace contro i Saraceni e contro gli Albigesi: bandì la crociata.
Fu nel marzo del 1256 che il legato del papa, arcivescovo di Ravenna, iniziò da Venezia la predicazione della crociata. Questa s'ingrossò immediatamente di tutti i capi delle città sottomesse, di tutti gli esuli di tutte le famiglie, nelle quali la crudeltà d'Ezzelino aveva fatto qualche vittima o destato qualche rancore. Azzo d'Este, signore di Ferrara, apparve il condottiero naturale di questa impresa, che la pietà aveva suggerita, che la politica consigliava, che il fanatismo spingeva contro un nemico della Chiesa e della religione.
Per tre anni durò quella lotta, che Ezzelino affrontò con grande animo e senza rallentare d'un giorno o temperare d'un grado il delirio delle sue crudeltà. S'era procurato l'alleanza di un potente signore cremonese, Buoso da Dovara e di quell'Uberto Pelavicino, che era forse il maggior personaggio di Lombardia e che, nel turbinoso andamento di quelle rivoluzioni, lasciò più d'una volta trasparire senno e vigore di uomo di Stato.
Senonchè, avendo Ezzelino trattato con ognuno dei due per disfarsi dell'altro, il pericolo comune li indusse entrambi ad abbandonare il mostro incorreggibile, unendo le loro forze a quelle della crociata.
La quale, divenuta più potente per l'accessione di Milano alla lega, strinse da vicino il tiranno, non impaurito da tanti nemici, e lo abbattè a Cassano, nella battaglia del 16 settembre 1259.
Ferito in un piede, mentre cavalcava verso la mischia, rovesciato poi in mezzo ad essa e colpito al capo da un armigero, a cui egli aveva mutilato il fratello, Ezzelino venne fatto prigioniero. Si tentò di curare le sue ferite. Ma egli, infierendo contro sè stesso colla medesima implacabilità con cui aveva infierito contro tutti, si strappò le bende dalle ferite e morì bestemmiando il cielo, come Capaneo.
Questa iliade di violenza nella gran valle del Po ha il suo riscontro, con forme diverse, nella complicata tragedia svoltasi alle falde del Vesuvio intorno a quella regina meridionale che precede di dugent'anni, pel fascino, per l'ingegno, pel delitto e pel supplizio, la regina settentrionale di Scozia.
Anche Giovanna di Napoli, come Maria Stuarda, era bella, culta, leggera, amabile ed amata. Anch'essa si trovò a sedici anni assoluta signora di un regno, disputato da selvagge ambizioni. Anch'essa ebbe, in così giovane età, un marito per cui non provava affetto e che l'assediava de' suoi sospetti coniugali e delle sue esigenze politiche.
Cortigiani e consiglieri malvagi s'affollavano intorno ad entrambi, cercando allargare a proprio vantaggio i germi della divisione. Peggiori intorno ad essa le influenze di Filippina da Catania, sua dama d'onore, e dell'imperatrice Caterina, sua zia, madre del giovane principe Luigi di Taranto, che aveva saputo entrare ben addentro nel cuore della sua reale cugina.
Della congiura che si ordisce contro il marito Andrea, figlio del re d'Ungheria, la regina di Napoli non può essere ignara. Pur l'asseconda, recandosi con parte della sua Corte ad Aversa, in solitario castello.
E lì, Giovanna è con Andrea, come Maria Stuarda sarà con Darnley, piena di tenerezze e di seduzioni. In mezzo alle quali, attirato con supposti dispacci fuor della camera nuziale, Andrea è aggredito nel prossimo corridoio dai cospiratori, strozzato con una fascia di seta e d'oro, e gettato cadavere da una finestra.
Subito il regno è scosso nelle sue fondamenta ed inondato di sangue.
Carlo di Durazzo, cognato e cugino della regina Giovanna, s'erge accusatore di lei per usurparne il trono. Il re d'Ungheria le scrive una lettera di acerba rampogna e move un esercito per vendicare il fratello. Clemente VI, memore della politica di Gregorio VII, avoca al tribunale ecclesiastico il processo della regina e manda Bertrando di Baux a raccoglierne gli elementi.
Essa, la regina, non fa che deboli sforzi per salvare dalle torture e dai supplizi i complici suoi. Forse il loro eccidio è salvezza per lei. E, mentre la sua dama d'onore muore di strazio sotto i tratti di corda, la regina Giovanna passa a seconde nozze col capo dei cospiratori, Luigi di Taranto, seppellendo sotto la brama delle nuove carezze l'ingrato rimorso delle carezze antiche.
Così Maria Stuarda offrirà pubblicamente gli attestati della sua simpatia all'assassino di suo marito, e aspetterà a stento la fine del processo per farsi rapire e sposare da lui.
Nè mancheranno ai nuovi sponsali della regina di Napoli, come non mancarono a quelli della regina di Scozia, le indulgenze pontificali. Le prepara abilmente la cessione che fa Giovanna al papa Clemente VI del suo dominio di Avignone. E la sentenza definitiva nel gran processo di Napoli constata che se la regina ha avuto parte nell'uccisione di Andrea, fu perchè non ha potuto resistere all'influenza predominante esercitata da una fattucchiera.
Si vede che l'argomento della “forza irresistibile„ non è stato inventato dagli avvocati odierni.
La regina Giovanna sopravvisse anche al secondo marito; sopravvisse al terzo che fu Giacomo d'Aragona. Sarebbe forse sopravvissuta anche al quarto, Ottone di Brunswich, se nelle guerre provocate dalla sua volubilità non fosse caduta nelle mani di un altro cugino, Carlo di Durazzo, che la fece strozzare da' suoi baroni, com'ella aveva fatto strozzare Andrea d'Ungheria, con un cordone di seta e d'oro.
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A questa bufera, che travolge popoli e principi, città e regni, individui e famiglie, mescolando tutti in una sola e vasta nebulosa di sangue, due sole contrade italiane riescono quasi interamente a sottrarsi: Venezia e gli Stati del conte di Savoia.
Quali ragioni abbiano principalmente determinato l'indirizzo eccezionale preso da questi due regimi politici, sarebbe lungo esporre, ma non è difficile indovinare.
Così a Venezia come al piede delle valli savoiarde, la benedizione d'un governo stabile s'era potuta creare.
Nulla v'era di comune nello spirito politico dei due governi, ma ad entrambi era riuscito di evitare il periodo delle fazioni, allargando le influenze politiche, e traendo da una maggiore preoccupazione degli interessi popolari una saldezza di base che gli altri governi italiani non conoscevano.
Ho avuto l'onore, nello scorso anno, di tratteggiarvi i primi passi nella storia della dinastia di Savoia. Credo avervi detto allora, e in ogni modo mi permetto ora ripetervi, che nella lunga successione di quei conti, divenuti poi duchi, e quindi re, i critici più acerbi non hanno potuto scovare nè un tiranno nè un vile.
Stonava talmente questa tradizione dinastica coll'esempio di tutte le dominazioni finitime, che la legge storica italiana a poco a poco venne ivi mutando. Passato il primo periodo delle franchigie comunali, succedute al potere vescovile, lo sminuzzamento politico si fermò presto. Ben tennero dominio su parecchie città piemontesi gli Angioini, venuti a combattere la casa Sveva. E parecchie contese trassero in campo, durante il secolo XIII, le due potenti famiglie dei Saluzzo e dei Monferrato. Ma il fenomeno delle città divise in due parti, delle vicendevoli distruzioni e dei deliri di sangue, fu in tutte quelle contrade immensamente minore.
Un influsso di moderazione e di giustizia partiva dalla casa di Savoia, la più potente di tutte. Per le loro guerre, per le loro alleanze di famiglia, pei loro arbitrati, i principi di quella Casa s'erano acquistati un prestigio, di cui non usavano mai per iscopi ingiusti o colpevoli.
L'indole mite e previdente della loro politica faceva sì che nessuna città nuovamente venuta sotto il loro dominio pensasse più a scuoterlo, per affrontare le paurose eventualità di altri regimi. Così non sorgevano occasioni di violenza, i rancori tradizionali si venivano spegnendo nella comune prosperità; lo Stato fondato da Umberto Biancamano sempre più si aumentava di gente spossata dalle guerre civili, e che, adagiata in nuove tranquillità, vedeva da lungi riardere quelle fiamme e rincrudir quelle stragi, alle quali un'amica fortuna l'aveva finalmente sottratta.
Questo spiega come nel secolo XIV appaia già con impronta di Stato moderno quel complesso di dominii, sfuggito al disastroso periodo delle fazioni italiane, e che, con Amedeo V, e più ancora con Amedeo VI, il Conte Verde, vanta un sovrano civile, così dissimile da tutti gli altri principotti della penisola.
Valoroso in Oriente come in Occidente, fortunato innovatore nelle arti della guerra come in quelle della pace, fondatore dell'Ordine dell'Annunziata e autorevole pacificatore delle due Repubbliche di Genova e di Venezia, il Conte Verde brilla fra i personaggi del suo tempo come un precursore di civiltà. Sessant'anni dovranno ancora passare, prima che nel resto d'Italia sorgano due usurpatori di Stati, Francesco Sforza e Cosimo de' Medici, a creare una forma di monarchia civile e durevole. Egli, non usurpatore, ma legittimo principe, precede ogni altro nell'esempio e nell'effetto. Egli solo, nel tempo suo, può dire di avere un dominio basato sull'amore dei sudditi. Le altre signorie italiane si reggono ancora dappertutto sul terrore dei conquistati.
All'opposta estremità della gran valle padana fiorisce l'altra potenza, che si stacca, con sufficiente fortuna, dalla solidarietà delle fazioni italiane.
Di Venezia e delle sue condizioni vi parlerà, con assai maggiore competenza di me, un altro dei vostri conferenzieri. Ciò che solo importa al mio tema è l'attitudine dello spirito pubblico, venutosi educando a forme di pensiero e di manifestazione, affatto diverse da quelle che prevalevano nelle altre parti d'Italia.
Nata sul mare e pel mare, Venezia aveva dovuto coordinare le proprie istituzioni agli speciali bisogni della sua igiene idraulica.
Mentre le valli piemontesi avevano cercato in un principato militare ereditario le guarentigie della loro tranquillità, Venezia le aveva cercate, e per molti secoli ottenute, da un ordinamento a Repubblica commerciale. La casa di Savoia entrava con prudenza nelle questioni italiane, tratta dalla necessità di difendersi contro invasioni oltramontane, o assorbimenti di ambizioni limitrofe. Venezia, non minacciata da siffatti pericoli, cresceva per altre vie; approfittava di errori, che non potevano investirla; costeggiava la politica italiana, senza tuffarvisi.
Le crociate, che erano state per tanti governi causa di rivoluzioni politiche e d'impoverimenti economici, avevano aumentata la sua influenza e la sua ricchezza.
Certo, d'allora le si era schierata contro una potente rivalità marittima, quella di Genova, a cui sapeva male che Venezia avesse tratto dai trasporti marittimi delle prime crociate occasione ad occupazioni d'indole militare, in Dalmazia e in Oriente.
Ma, chetata quella guerra, la Repubblica veneta aveva ripreso le sue attività commerciali e allargate le sue relazioni con tutto il mondo conosciuto. Ben è vero che, dal giorno in cui si mescolarono alle sue tradizioni d'affari interessi d'indole militare, una modificazione aristocratica ne' suoi ordini di governo apparve inevitabile. Già verso la fine del duodecimo secolo, l'elezione dei Dogi era stata levata all'assemblea popolare e trasferita ad un Consiglio di ottimati. Poi, al Consiglio stesso fu data facoltà di eleggere i propri componenti. E finalmente, nel 1297, il doge Gradenigo compiè la Serrata del Gran Consiglio, limitando il diritto di sedervi ai discendenti di quelle sole famiglie che vi avevano avuto fino allora dei rappresentanti.
Questa, che fu una vera rivoluzione aristocratica nel reggimento veneto, provocò immediate resistenze e pochi anni dopo la famosa congiura di Bajamonte Tiepolo. Il governo represse facilmente le prime e punì la seconda, con nessun altro frutto che di dare carattere ancor più chiuso all'istituzione repubblicana, mediante la creazione del terribile tribunale dei Dieci.
Ma, per quanto Giuseppe Ferrari si sforzi di vedere anche in questi fatti la ripetizione dello svolgimento tradizionale italiano, dei comuni, dei tiranni e delle signorie, è facile persuadersi che se violenze sono, sono violenze informate a tutt'altro tipo.
Gli episodi veneti sono d'indole essenzialmente politica; e di una politica a lunghe previsioni, affatto diversa dai moti personali e sussultorii che agitavano in quegli anni medesimi le contrade di terraferma. Bajamonte Tiepolo non è un fazioso come il conte Lando o Lodrisio Visconti; è un rivoluzionario democratico, che vuole ricuperare, non a sè stesso, ma al popolo diritti organici di reggimento politico. Il Gradenigo non è un tiranno come il conte Ugolino o Ezzelino da Romano; è un uomo politico, che determina nella Costituzione dello Stato un nuovo periodo storico, — che può ingannarsi nell'apprezzamento di questa necessità, ma che ha per fine supremo di raggiungere, attraverso temporanee contese, durevoli prosperità.
E che il riformatore aristocratico non si fosse interamente ingannato sembrerebbe dimostrarlo la tranquillità politica goduta da Venezia durante quel secolo XIV rigato di tanto sangue in tutti gli altri Stati d'Italia. Poichè la congiura e il supplizio del doge Marin Faliero non rivelano commozioni di ordine pubblico, ma sono il portato di una vendetta individuale per oltraggi che in tutte le epoche e presso tutte le nazioni si sogliono lavare col sangue.
Certo, il 1300 è l'ultimo secolo, per Venezia, di un'esistenza sicura e di una politica indipendente. Ma il mutamento in essa avvenuto non dipende da influenza di fazioni, se pur può dipendere indirettamente dalla riforma del Gradenigo.
È che nel secolo successivo Venezia si lascia sedurre dal miraggio delle ambizioni territoriali; è che, abbandonando l'antica orientazione politica, si volge a cercarne una nuova attraverso le mutabili combinazioni dei governi europei; è che il berretto ducale cade sul capo di quell'irrequieto megalomane che fu Francesco Foscari, del quale indarno il buon Mocenigo aveva pronosticati gli errori, e al quale Venezia deve il primo passo sopra una via di mendaci grandezze e d'insanabile decadenza.
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V'è ad ogni modo un nesso storico, che, se non per le cause, avvince a sè pei nomi tutti quei fenomeni di guerra e di rivalità dovunque prodotti.
Per dugent'anni almeno, e se dicessi trecento forse non esagererei, la storia d'Italia è dominata, corrotta, avvelenata da un dualismo fondamentale le di cui origini sono misteriose, indeterminata la fine, il dualismo fra i Guelfi e i Ghibellini.
Le contese possono nascere per qualsivoglia ragione, svolgersi in qualsivoglia ambiente, proporsi qualunque scopo, qualunque interesse, — finiscono per esser classificate secondo una di queste due parole. Uomini, regimi, passioni, delitti, benefizi, non isfuggono a questa alternativa; avranno carattere guelfo o carattere ghibellino. Uno scrittore sarà guelfo, un altro ghibellino. E il senso morale andrà così traviato da queste mistiche nomenclature, che agli occhi dei Guelfi come a quelli dei Ghibellini parranno virtù od eroismi i misfatti compiuti a danno della parte contraria.
Come e quando siano stati veramente applicati questi due nomi alla varietà delle discordie italiane, non è ben chiaro.
L'ipotesi più verosimile è che venissero d'Alemagna; dove, nel castello di Weiblingen, era nato Corrado il Salico, antenato degli imperatori di casa Sveva; mentre i Welf, di Baviera, e imparentati colla casa d'Este, avevano disputato nientemeno che a Federico II la corona imperiale.
Forse quella divisione germanica scese in Italia appunto coi primi eserciti condottivi da Federico II. E l'attitudine ostile da lui presa forzatamente contro i pontefici, unita alle terribili memorie lasciate in Italia dall'antenato suo Barbarossa, diede subito al dualismo italiano un carattere che certo non aveva il dualismo tedesco; cioè un'impronta quasi di libertà nazionali sotto gli auspici dei papi alla parte guelfa; un'aspirazione di potere dispotico, sorretto dagl'imperatori stranieri, alla parte ghibellina.
Verso la metà del secolo XIII cominciano i cronisti italiani a trovare in questo dualismo la ragione storica degli avvenimenti che espongono: ed è già cominciato il 1500 che ancora in alcuni paesi italiani, come a Milano, il nome dei guelfi e dei ghibellini è attribuito a personaggi contemporanei.
Nulla v'era di meno stabile di queste classificazioni, città e famiglie passavano, secondo la logica degli interessi, dall'una fazione all'altra o ritornavano alla fazione antica. Dante, come già dissi, era uscito da un ambiente guelfo per entrare nella politica ghibellina. Uberto Pelavicino, ghibellino fierissimo, s'era inscritto nella crociata guelfa, per combattere gli Ezzelini. Lo stesso Federico II, il prototipo del ghibellinismo, aveva cominciato il suo regno, difendendo il pontefice contro le pretese di Ottone IV.
Nondimeno, nelle sue grandi linee, la divisione politica fondamentale rimane in Italia impersonata dai Guelfi, di simpatie pontificie, e dai Ghibellini, di simpatie imperiali. Così gli antipapi son ghibellini, sono guelfi ordinariamente gli antimperatori. Le guerre di Stati, di città, di famiglie finiscono per assumere una di queste denominazioni, per la necessità di trovare alleanze e solidarietà. Col tempo le prime ragioni spariscono, i fatti nuovi fanno dimenticare gli antichi. Ma le denominazioni rimangono, come bandiere di lotta, se non come vincolo di opinioni.
L'uomo, e specialmente l'uomo italiano, è cosiffatto che ama nascondere sotto una rigida differenza di parole la sconfinata elasticità del suo pensiero politico.
Questo era vero nel 1300 e nel 1400 come è vero nel 1891.
Probabilmente al nome di guelfi e di ghibellini s'erano acconciate le popolazioni italiane quando un po' di fede le animava a sostegno dell'una causa o dell'altra, e per questa fede si sapeva combattere e morire.
Ma, sopravvenuti gli scetticismi politici del Rinascimento, e sostituito nella vita pubblica il concetto utilitario alla lotta di parte, quelle denominazioni di un antico dualismo dovettero parere alle masse popolari italiane una specie di sciarada storica che non cercavano di approfondire.
E certo gli scrittori politici dovettero continuare, per abitudine, l'uso di siffatte denominazioni, assai tempo dopo che ogni caratteristica di guelfi o di ghibellini era scomparsa dalla fisonomia delle cose e delle persone.
Come accade — lasciatemelo dire — a parecchi pubblicisti moderni, i quali traggono da un antico dualismo di Destra e di Sinistra criteri offuscatori di una situazione politica, sfuggita di sotto a quei nomi, e intonata a forme nuove di pensiero e di avvenire.
Chi dice uomo dice dissidio; e non può essere che transitoria, come la pace di Paquara o il baiser Lamourette, una fase di unanimità. Però il progresso morale influisce su questa legge umana in due modi: temperandone le asprezze personali e sostituendo intenti elevati a passioni volgari.
Ho dovuto richiamarvi, per la necessità del mio tema, a pagine dolorose del nostro passato, e forse dovrei chiudere, come il Prati:
Se iniqua storia vi raccontai,
Quello ch'è storia non cangia mai.
La nostra generazione però ha cambiato anche la storia, ed ha fatto dell'Italia un paese, che pochi pensatori avevano desiderato, che nessuna moltitudine aveva sognato mai.
Ora, neanche in questa nuova condizione di cose, il dissidio storico mancherà. Dirò di più, non è desiderabile che manchi; perchè le unanimità sono più spesso sintomo di paura che di pensiero.
Solamente, bisogna augurarsi che, spazzando il terreno di guelfi e di ghibellini, come lo spazzeremo certo di destra e di sinistra, il dissidio ricompaia sopra questioni di più preciso significato; che si allarghi a più vaste intuizioni di bisogni futuri; e che si manifesti con una vigorosa emulazione nel bene, dopo averci per tanti secoli ballottati fra il male d'un giorno ed il peggio del giorno dopo.
ROMA E IL PAPATO NEL SECOLO XIV
DI FRANCESCO BERTOLINI
Il secolo XIV rappresenta nella storia italiana un'epoca di grandi contrasti. Mentre, da un lato, esso ci fa assistere alla decadenza delle istituzioni feudali e gerarchiche del medio evo; dall'altro, ci offre lo spettacolo della risurrezione della coltura antica, che credevasi estinta per sempre. Il papato e l'impero, queste due grandi creazioni del genio latino, sono essenzialmente mutate da ciò che erano state nel passato. Le nazioni cristiane ripudiano tanto la teocrazia papale, quanto l'autocrazia imperiale, come ripudiano ogni potere che pretenda all'universalità. Un sentimento nuovo le investe, che a poco a poco assume la gravità di un bisogno indeclinabile: egli è di vivere ciascuna a sè, indipendente da ogni potestà straniera.
Il momento era solenne per la patria nostra. Trattavasi di sapere, se nella rovina delle due grandi istituzioni, che furono opera sua, sarebbe pur essa stata travolta, ovvero se il suo genio sarebbe stato capace di crearle una nuova missione nel mondo in servizio della civiltà e del progresso umano.
I sintomi erano sinistri: l'imperatore e il papa invocati da lei, affinchè accorressero in suo soccorso per arrestare l'opera deleteria delle fazioni, si mostrarono impotenti di guarirla da' suoi mali, come lo erano di risorgere dall'avvilimento in cui essi stessi erano caduti. In questo momento, in cui pareva che un lenzuolo funebre dovesse stendersi su la misera Italia, e chiudere per sempre il libro della sua storia, il suo genio la rianimò a vita nuova, e le creò una missione di civiltà, che le fruttò per la terza volta la egemonia morale sull'Europa. Codesta missione fu il rinnovamento della coltura antica, che schiuse alle genti cristiane nuovi ideali, facendole assurgere alla libertà del pensiero, che si svolse poi in libertà civile.
Per grande sventura, mancò all'Italia l'applicazione alla vita reale della libertà del pensiero; di maniera che, mentre essa stava operando il suo rinnovamento letterario e artistico, fu vista lasciarsi novamente mettere in ceppi dalle genti straniere, ch'essa avea intellettualmente rigenerate.
Così si aperse all'Italia una nuova èra di servitù, la quale non dovea chiudersi che all'età nostra. In questa nuova missione serbata all'Italia dal suo genio, Roma non poteva conservare il primato tenuto nel passato. La metropoli del mondo cristiano, da cui aveano avuto origine le due istituzioni cosmopolitiche dell'impero e del papato, traversava allora una crisi che minacciava di seppellirla nell'oblio, al pari di un tempio rimasto senza culto e senza sacerdozio. Essa era, infatti, rimasta senza il papato, che era la sua anima, la sua vita; e l'impero non le si faceva vivo fuorchè per comprovare la propria impotenza e ignominia.
Ma, anche indipendentemente da questo suo stato anomalo, Roma non possedeva alcuna qualità che la rendesse idonea ad essere sede della coltura classica risorta. Essa era sempre nel pensiero universale la metropoli necessaria della cristianità: essa poteva quindi aspirare ad essere chiamata la nuova Gerusalemme celeste:
E sarai meco senza fine cive
Di quella Roma onde Cristo è Romano;
Purg., XXI.
ma non avea alcun titolo per tenere il primato nella nuova signoria, che l'Italia era chiamata ad esercitare sull'occidente. E come avrebbe potuto una città, la cui vita parve per secoli andare assorbita dal papato; una città, che pur nel papato personificava la fede cristiana, così da poter quella far dire al poeta:
O Sommo Patre, duca e Signor mio!
Se Roma pere dove starajo io?[2];
come avrebbe potuto, diciamo, tale città essere la sede di una coltura che osava lacerare il velo mistico della fede, venerare gli eroi, i poeti, i filosofi dell'antichità pagana, colla stessa fervida devozione con cui la cristianità avea per lo innanzi venerato i martiri, gli apostoli e i padri della Chiesa, e accogliere nella sua civiltà lo spirito pagano?
Questo titolo che mancava a Roma, di dirigere la nuova coltura, era posseduto da Firenze, vera rappresentante del genio nazionale italiano, che si fe' persona in Dante Alighieri. Firenze, potente per operosità civile e per vita intellettuale, e sopratutto fornita di genio politico, potè difendere e conservare la libertà più a lungo delle sue sorelle italiane. La sua resistenza alle armi di Enrico VII, non solamente fu un grande atto di valore, ma ancora di patriottismo. Da quel tempo, Firenze fu degna di essere la rappresentante dell'indipendenza e dell'onore nazionale. Matteo Villani, pieno di entusiasmo per quella difesa eroica, scioglie un inno al guelfismo italiano. “E di vero, la parte guelfa, scriv'egli, è fondamento e rocca ferma e stabile della libertà d'Italia, e contraria a tutte le tirannie.„
Ma il risveglio della coltura classica non è il solo servigio reso dal secolo XIV alla civiltà europea. Esso diede pure il primo colpo, e fu letale, al grande edifizio gerarchico eretto dalla Chiesa, e dal quale essa dettava legge al pensiero e alla coscienza delle genti cristiane. La critica filosofica e il diritto pubblico alzarono allora per la prima volta il capo, e precorrendo il mistico suono della tromba di Gerico, sciolsero il pensiero dalle pastoie teocratiche a cui il medio evo avealo asservito.
Il concetto civile della monarchia divenne il manifesto del diritto pubblico e il simbolo di una generazione riformatrice, che tendeva ad affrancarsi dalle strettoie della gerarchia feudale. Novamente, come nel passato, la società si divide nei due campi del papato e dell'impero; ma il concetto che anima i seguaci di quest'ultimo è del tutto mutato. I monarchici non sono più solo conservatori, essi sono anche rivoluzionari; imperocchè, mentre combattono per l'antica e sacra potestà imperiale, pugnano ancora per la libertà del pensiero e la indipendenza delle nazioni. A questa nuova lotta presero parte due figure titaniche, che le impressero la loro grande personalità. Da un lato, Tommaso d'Aquino scese a sostenere il principio guelfo della Chiesa, e nella teologia e nella scolastica sostenne l'idea della monarchia di Cristo, che avviliva la potestà regia, facendole conseguire dal papato un fondamento nazionale e giuridico, nello stesso modo che il corpo umano riceve dallo spirito la sua vitalità e dall'intelletto il suo impulso. Dall'altro lato, Dante Allighieri combattè quell'idea, opponendole nella sua Monarchia la dottrina della inalienabile integrità dell'impero e della missione di signoria universale data da Dio al popolo romano. L'impero, indestruttibile nella sua dignità divina, dovea diventare il cosmo della legge, del bene civile, della libertà, della pace e della civiltà. Rimesso l'impero nel suo antico diritto, il papato veniva pure restituito alla sua missione storica, che era di guidare le anime alla conquista del paradiso. Era naturale che la filosofia, risorgendo, prendesse di mira codeste istituzioni, che eran lì sotto gli occhi di tutti, e determinavano, per così dire, la vita di ogni giorno delle nazioni d'occidente. Bonifacio VIII e Giovanni XXII colle loro intemperanze diedero impulso a codeste investigazioni, e promossero il trionfo del nuovo giure sul dogma di Roma. Da questo trionfo uscì fuora la condanna pronunciata dalla scienza e dalla storia del potere temporale dei papi. Questa condanna rimase allora senza sanzione: ma il mancato eseguimento non infirmava l'autorità incontestabile del tribunale da cui era emanata. La stessa teologia apprestò le armi per convalidarla. La lotta che nel 1322 si accese fra Domenicani e Minoriti, è il preludio di quella, che, da lì a due secoli, trasse mezza Europa fuori del grembo della Chiesa, e fece consacrare dal diritto pubblico europeo il principio della libertà di coscienza. In questa lotta, i figli del monaco di Assisi compariscono quali precursori dei protestanti: infatti, le dottrine riformiste, che più tardi ebbero per apostoli Giovanni Wicleff, Giovanni Huss e Martin Lutero, erano state, già due secoli prima, proclamate dai Minoriti. Sotto la presidenza del generale del loro ordine, Michele da Cesena, quei frati aveano, l'anno 1322, nel sinodo di Perugia, dichiarato formalmente, che chi affermava Cristo e gli Apostoli non avere posseduto proprietà alcuna nè personalmente nè in comunanza, quegli non diceva eresia, anzi professava un principio di fede severamente cattolico. Le sacre scritture furono chiamate a somministrare le prove della coraggiosa dichiarazione: e fu da quel tempo, a cagione delle nuove investigazioni teologiche, che divennero popolari i motti evangelici: Regnum meum non est de hoc mundo: reddite quæ sunt Cæsaris Cæsari: Nemu militans Deo implicat se sæcularibus negotiis. Non seguiremo la polemica che allora si accese fra' teologi pel fatto di questa dichiarazione, nella quale, fra le molte cose strane, inspirate dalla passione, furono pure uditi dei grandi veri. Uno di questi affatica anche oggi lo spirito delle genti cristiane, perocchè gli sia mancata la dovuta soddisfazione. Lo pronunciò Marsilio da Padova, in quella sua celebre protesta, nella quale affermava, “non essere la gerarchia dei preti, sì bene la comunità di tutti i fedeli ciò che costituisce la vera Chiesa.„
La polemica rimase allora circoscritta fra' teologi; chè i popoli, non ancora usciti dalle tenebre della barbarie medievale, non potevano interessarsi a cose che non capivano. Ed estranea ad essa rimase pure Roma, sebbene vi fosse più direttamente interessata. Ciò fu una grande sventura per l'Italia; imperocchè, non mai si presentò una occasione tanto favorevole per far iscomparire senza scosse e senza turbamenti il poter temporale, siccome allora. In luogo di riguardare la lontananza dei papi siccome una liberazione propria, i Romani la considerarono come una calamità: onde stemperaronsi in lacrime e in querele per far tornare nell'abbandonata basilica di San Pietro il successore dell'Apostolo, nel quale vedevano più volentieri una miniera da sfruttare, che un despota da abbattere. Tutti erano concordi in questo sentimento; perciò i settant'anni della dimora dei papi in Avignone rimasero sterili per la romana libertà. Più che sterili, e' furono ad essa addirittura nefasti. Perchè, in quel periodo andò distrutta la potenza delle case patrizie che era stata l'unico freno del despotismo papale. Quelle case, già colpite nelle loro ricchezze dalla lontananza della curia ecclesiastica, lo furono nella stessa loro esistenza dall'odio popolare suscitato dalle violenze loro. I settant'anni passati dai papi in Avignone, furono per Roma settant'anni di guerre civili combattute fra nobiltà e popolo. Il Petrarca, che avea l'anima piena di entusiasmo e di ammirazione per Roma, così da poter dire, che la vista della città eterna gli avea destato la meraviglia, non già che essa avesse dominato il mondo, sì bene che tanto tardi fosse giunta a dominarlo; allo stesso cardinale Colonna, al quale manifestava questo suo pensiero, tesseva il seguente quadro dello Stato di Roma durante l'assenza dei papi. La lettera è del 1335.
“La pace è da codesti luoghi, non so per qual delitto del popolo, per quale legge celeste, per qual destino o quale influsso di costellazioni, bandita. Poichè, vedi! Il pastore vigila qui armato nei boschi, più temendo i ladroni che i lupi: loricato è qui il colono, che adopera la lancia per pungere il dorso dell'indocile toro; qui nulla si tratta senz'armi. Fra gli abitanti di questa contrada non regna sicurezza, non pace, non umanità; ma guerra, odio, e tutto ciò che assomiglia ad operazione di mali spiriti„ ( Rer. Fam. Ep. II, 12).
Chi avesse voluto trarre il prognostico della vita di Roma in quei 70 anni dalle promesse fatte a Dio dai Romani all'inizio di quel periodo, avrebbe dovuto credere che l'epoca di Numa fosse scesa dal suo regno mitico per diventare nel secolo XIV una realtà storica. Ma quando mai furono visti i voti innalzati al cielo in un momento di terrore, vincolare le coscienze dei popoli dopo che il terrore è scomparso e dissipata è la tempesta che lo avea fatto nascere? — Nella notte del 6 maggio 1308, la chiesa madre della cristianità, la basilica Lateranense era andata distrutta da un incendio. Quella rovina parve l'annunzio di una punizione celeste che stesse per colpire la città. L'assenza del papa dalla sua legittima sede, concorreva a raffermare quel lugubre giudizio. In mezzo a tanto abbattimento degli animi, le parti nemiche si riconciliarono; e tutti, nobili e popolo, si posero all'opera con grande fervore per isgombrare il suolo dalle rovine e per procacciare materiali da costruzione intanto che le processioni dei preti si aggiravano mestamente salmodiando per le vie della città sgomentata.
Erano passati appena pochi mesi da quel disastro, che i Romani si erano scordati affatto del loro voto, e coloro che aveano promesso di vivere in consorzio fraterno, erano tornati novamente alle prese fra loro: da un lato, le famiglie Orsini e Colonna, per mutua gelosia e insaziabile cupidigia; dall'altro, la nobiltà e il popolo, per antagonismo sociale, moveansi aspra guerra. La città pareva diventata un campo di battaglia; e mentre i nobili dall'assenza del papa traevano argomento di nuova baldanza, il popolo faceva esso pure pro' di tale anarchia, opponendo alla nobiltà una specie di Comune democratico. Ai due senatori che rappresentavano il ceto privilegiato, esso contrappose pertanto una rappresentanza delle corporazioni delle arti, e chiese al papa che sanzionasse il nuovo governo. Clemente V, non potendo per le nuove condizioni del papato, sedare le discordie romane, si appigliò al partito più profittevole alla Curia: egli diede, cioè, ragione alla parte popolare, lasciando ai cittadini la facoltà di darsi il governo che loro meglio talentasse. Così, per opera di un papa francese e residente fuori d'Italia, Roma ebbe nelle età di mezzo le sue prime libertà. Il popolo non guardò con quale animo fossero quelle concesse, come non presentì che il successo delle discordie cittadine sarebbe stato la rovina d'ogni libertà. Con grande letizia adunque s'inaugurò il novello Comune, il Comune democratico, e i due senatori cedettero il posto al magistrato popolare.
Mentre questo evento si compiva in Roma, un grido di gioia echeggiò dalle rive del Po a quelle del Tevere. La maestà dell'impero romano, per sessant'anni invocata invano, compariva nel 1310 improvvisa, dispensatrice di pace alle genti italiane. Personificava il lussemburghese Enrico VII. “Egli veniva, scriveva allora Dino Compagni, a metter pace come fosse un agnolo di Dio„; egli veniva, scrivea il divino poeta di nostra gente, a compiere i destini provvidenziali del popolo romano, a visitare e a consolare la desolata Roma:
“Vieni a veder la tua Roma che piagne
Vedova e sola, e dì e notte chiama:
Cesare mio, perchè non m'accompagne?„
Purg., VI.
Non mai un principe suscitò al suo comparire tante speranze nella gente nostra, come non mai a quelle era mancata ogni ragione che le giustificasse. Ma non era la persona del sovrano che qui si acclamava e s'invocava; sì bene era la maestà dell'impero per lui fatta rediviva; di quell'impero, che l'Allighieri, illustrandolo nella conservazione della tradizione romana, associava al rinnovamento d'Italia e all'abbattimento del poter temporale della Chiesa.
Quest'inno che l'Italia scioglie all'impero risorto, è un preludio anch'esso del Rinascimento che sta per ispuntare. Il quale ha già vivo il suo vate e il suo padre ancora. Egli è Francesco Petrarca. Nella mente di lui, come in quella di Dante, l'impero consiste nel popolo romano; ma la storia di esso popolo non è più pel Petrarca, come lo fu già per Dante e per gli scolastici, una serie di predestinazioni provvidenziali, di mitiche adombrazioni di una futura città di Dio; sì bene è la più poderosa manifestazione della civiltà umana; ond'egli ne trasse ragione di maggiore abominio dal medio evo — i cui rappresentanti, coetanei suoi, gli parevan già cadaveri puzzolenti — e di pronostico di una nuova età, onde sentiva in sè l'ideale, e ne era così penetrato da trasfonderne la coscienza ne' suoi contemporanei. Quando il popolo romano, lasciate per un istante le battaglie civili, si affollò intorno al Petrarca recandogli corone di fiori, e i Colonna e gli Orsini imposero ai loro odii la tregua di Dio per deporre insieme la ghirlanda d'alloro sul suo capo, era la religione dell'ingegno e della scienza che ricevea il suo primo culto, era il Rinascimento che ricevea il primo saluto dal mondo.
Ma il popolo romano, nel rendere quel saluto, non ebbe la coscienza della grandezza dell'atto che compiva: tanto è ciò vero, che niuno meno di esso approfittò della nuova luce di civiltà che il Rinascimento diffuse nel mondo. Codesta antinomìa esistente fra il concetto altissimo in cui il popolo romano era tenuto, specie in quella età, e l'effettivo merito suo, è dal Petrarca spiegata per mezzo dell'ignoranza di esso popolo della propria storia. Secondo il Petrarca, Roma solo allora risorgerebbe, quando giungesse a riconoscere sè medesima. Ma non era solo il riconoscimento proprio che a Roma mancasse: mancavale sopratutto un organamento sociale omogeneo, senza il quale il patriottismo diventa fazioso e la concordia impossibile. Le classi in cui era partita la cittadinanza romana, portavano i soliti nomi di nobiltà e popolo; ma questa nobiltà e questo popolo sentivano e agivano oppostamente l'una all'altro; imperocchè avessero contrari gl'interessi e gl'intenti. Già il titolo di principi, che i nobili si arrogavano, dimostrava lo spirito di casta imperante in seno ad essi, e fatto ora più potente dall'assenza dei papi. In seno alla nobiltà tre famiglie sopratutto spiccavano per potenza e per orgoglio: i Colonna, gli Orsini e i Gaetani. Mezza Roma stava in potere di costoro; e, mentre essi riempivano la città di loro violenze, le prime due famiglie offrivano lo spettacolo di un odio fanatico, che dalla ragione di parte traeva il pretesto, e dalla cupidigia disfrenata l'impulso. Di fronte alla nobiltà stava il popolo diviso in corporazioni d'arti e mestieri; ma lo scarso sviluppo avuto da queste, non permise al popolo romano di opporre alla nobiltà associazioni ordinate e poderose per il numero e l'agiatezza dei membri; onde quella potè avere sul popolo facile ragione. Codesto stato di disgregamento sociale diede i suoi frutti nel periodo dell'assenza dei papi. Ei sembra che più popoli vivessero in Roma, anzichè un popolo solo; tanto è piena di incoerenze e di contraddizioni la condotta sua nelle diverse contingenze in cui la città venne a trovarsi. Tutto dunque in Roma è discordia: discordia fra nobiltà e popolo, e fra ciascuno dei due ceti. Come era possibile fondare in tale condizione di cose la libertà romana?
Vediamo ora in atto questi elementi discordi. Primo a sperimentarli fu Enrico VII. Il principe, invocato in tutta Italia come un liberatore, trova in Roma il primo contrasto. Mentre il popolo lo acclama, i nobili lo combattono. Roma è trasformata in un campo di battaglia; le sue vie sono fatte rosse di sangue; sembra che satana le abbia invase: e in mezzo alla battaglia civile, Enrico ricevea la corona di Costantino dalle mani di due vescovi, nella basilica Lateranense: cerimonia non mai vista in quel luogo e con tali capi. E se l'assenza del papa toglieva ad essa il suo maggiore prestigio, le macerie della basilica non ancora rimosse, simboleggiavano la rovina che fatalmente incombeva su l'impero feudale.
Partito Enrico, la battaglia civile continuò fra nobili e popolani; i primi cacciano dal Campidoglio il vicario imperiale, e v'insediano Francesco Orsini e Sciarra Colonna quali senatori. Quei due nomi, uniti insieme nel supremo magistrato, doveano essere simbolo di pace fra le due famiglie rivali; ma fu la pace di un giorno. Guastolla la riscossa popolare, nella quale i due senatori furono cacciati dal Campidoglio, e la somma delle cose fu affidata a un capitano del popolo, Jacopo Arlotti, assistito da un consiglio di 26 boniviri, rappresentanti i 13 rioni della città. Questa vittoria del popolo dovette essere di ben grande momento, se il nuovo capitano potè trarre carichi di catene davanti al suo tribunale i capi delle famiglie nobili, e giudicare senz'appello di loro sorte. Alla ragione di Stato che domandava estremo rigore, prevalse la compassione inspiratrice di clemenza, e i prigionieri uscirono da quelle strette col solo sfratto da Roma. Il rigore risparmiato ai nemici ebbe uno sfogo selvaggio, d'altra parte. Un decreto dell'Arlotti ordinava la distruzione dei monumenti e dei palazzi posseduti dai nobili. Pareva si fosse tornati dieci secoli addietro, quando su Roma pagana infuriava il fanatismo dei nuovi cristiani; e come quelle rovine avean inspirato le imprecazioni dell'ultimo poeta romano Claudio Claudiano, così le rovine nuove inspirarono l'invettiva non meno legittima del primo storico del Rinascimento, Albertino Mussato, da Padova. Se tutti i monumenti romani consacrati alla distruzione non scomparvero allora, ciò fu dovuto alla loro grande solidità; e andò salvo, fra gli altri, per questa cagione, Castel Sant'Angelo.
Male auspicato era il plebiscito rinascente fra quelle rovine. Esso infatti non veniva, come il vecchio plebiscito tribunizio, a proclamare la egualità civile e politica fra la nobiltà e il popolo, la quale era stata la base di granito su cui era sorto il dominio mondiale dell'antica Roma; sì bene veniva ad affermare l'impotenza di Roma medievale, di vivere indipendente e libera. E dappoichè il papa l'avea abbandonata, il popolo invocava il braccio dell'impero, e chiamava l'imperatore Enrico a salire il Campidoglio da trionfatore, e a restarvi, tenendosi pago il popolo di essere riconosciuto come autore del nuovo principato: Cæsarem evocandum in urbem, scrive il Mussato, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe recogniturum.
Ricordo troppo amaro avea Enrico portato con sè da Roma, perchè potesse accogliere l'invito che eragli fatto. Nè s'ingannò disconoscendo di quello la serietà e l'efficacia. Infatti, colla stessa rapidità ond'erasi compiuta poc'anzi la rivoluzione democratica, la reazione dei nobili atterrava, sulla fine di febbraio del 1312, il reggimento popolare, non curandosi del riconoscimento che quello avea avuto da Avignone. Le parti sono ora invertite; il giudice dei nobili, Jacopo Arlotti, è tratto in prigione, e i nobili da lui banditi riprendono il seggio senatorio.
La lunga assenza del papato accresceva intanto le angoscie di Roma. Venuti meno alla città i profitti della curia, la miseria afflisse le classi popolari, incapaci di compensare col lavoro i redditi mancati. La miseria del popolo diè impulso al rimbaldanzire della nobiltà faziosa; la quale trovò ora nello stesso ceto sacerdotale un emulo alle sue ribalderie. In una epistola indirizzata dai Romani a papa Giovanni XXII, è fatta una nera dipintura dei costumi dei giovani ecclesiastici. Essi scorazzavano, diceva lo scritto, di notte per le vie con la spada in pugno, commettendo ogni fatta di enormezze: per tabernas et loca alia inhonesta cum armis evaginatis per urbem.... homicidia, furta, rapinas commictunt.
Unico rimedio a codesti mali riguardavasi da tutti il ritorno dei papi in Roma; e legazioni su legazioni furono mandate dai Romani ad Avignone per sollecitare papa Giovanni a fare ritorno nella sua legittima sede. Non ascoltati, e' gittaronsi nelle braccia del suo nemico Lodovico il Bavaro; il quale allora appunto veniva in Italia per strappare dalle mani di usurpatori stranieri, com'egli diceva, i diritti dell'impero e la signoria del mondo. “Nell'aprile del 1327, i Romani, scrive Giovanni Villani, si levarono a rumore e feciono popolo.„ Impadronitisi gl'insorti di Castel Sant'Angelo, cacciarono dalla città i partigiani del re angioino e fondarono un governo democratico, eleggendo capitano del popolo il ghibellino Sciarra Colonna, quel desso che, 25 anni prima, avea in Anagni puntata la sua spada al petto di Bonifacio VIII. Giovanni XXII, preso da furore, bandisce una crociata contro il Bavaro; e questi fa proclamare dal popolo romano, radunato in parlamento nella piazza di San Pietro, la deposizione del pontefice imputato di eresia. Ma la eresia di che papa Giovanni era colpevole davanti ai Romani, e per la quale essi eransi levati contro di lui e aveanlo deposto, era cosa affatto diversa da quella dichiarata dall'umanista padovano Marsilio nella sua celebre invettiva: la colpa del pontefice era di dimorare fuori di Roma e di rifiutarsi a farvi ritorno. Vi era tanto poco sentimento religioso in quella levata di scudi, che in quei giorni stessi di fermento popolare, un cappellano del papa, Jacopo Colonna, potè entrare in Roma accompagnato da quattro uomini mascherati, leggere pubblicamente la sentenza di scomunica lanciata dal papa contro il Bavaro, e andarsene poi da Roma, senza che alcuno lo molestasse. Conclusione necessaria di questa lotta fu la creazione di un antipapa. Sortì eletto, con procedimento affatto nuovo, un monaco di Corbara, che prese il nome di Nicolò V.
Ma tutto questo dramma effimero svanì, appena che Lodovico fu partito da Roma, menando seco l'antipapa. La sua partenza era parsa piuttosto una fuga. Un'impresa tentata con esito infelice contro Napoli gli avea fatto perdere ogni prestigio presso i Romani; e quando egli se ne andò, “lo ingrato popolo, scrive Giovanni Villani, gli fece la coda romana, onde il Bavaro ebbe grande paura ed andonne in caccia e con vergogna„. Così l'impero, che l'Allighieri avea poc'anzi magnificato nella sua idealità sublime, cadeva ora in una realità ignominiosa. I Romani divisero quell'ignominia. Il popolo, fatto nuovo parlamento, abiurava la fede data al Bavaro e all'antipapa, e faceva piena sottomissione al papa di Avignone. Tornarono ora gli antichi malanni, rincruditi dalle nuove delusioni, a tormentare la misera città. La quale consumavasi nella inopia e nella oscurità col capo rotto ed esangue, intanto che nella remota Avignone il vecchio pontefice, dimentico di lei, ammassava tesori. Alla sua morte, trovaronsi nel suo scrigno diciotto milioni in tante monete d'oro e sette in oggetti preziosi. Questo tesoro dà ragione della povertà onde Roma era allora tribolata.
Ma la morte del pontefice avaro non pose termine e nemmeno temperò i mali della misera metropoli. Il nuovo papa, Benedetto XII, invece di restituirvi il sommo pontificato, inalzava in Avignone un palazzo pontificio di dimensioni colossali, quasi che esso fosse destinato a ospitare perpetuamente i papi. Questo Vaticano avignonese dura anche oggi nella sua grandiosità, coi suoi merli e colle sue torri, ma muto e vuoto come un sepolcro di Faraoni; e pure, chi sa dire, se esso rimarrà morto e vuoto per sempre? O che il suo risorgere e ripopolarsi di nuovi gerarchi della Chiesa, non sia scritto nei fatali ricorsi della storia?...
Sotto l'impressione di questo abbandono del papato che pareva definitivo, il popolo romano, a segno di protesta, si levò un'altra volta a ribellione: “feciono popolo„, secondo la frase del Villani. Questa rivolta del 1338 si distingue dalle precedenti pel proposito degl'insorti di romperla coi papi per sempre. E come i Romani antichi, nell'atto di scrivere le patrie leggi, aveano interrogato la sapienza greca; così i loro lontani nipoti, nell'atto di mutare gli ordini dello Stato, interrogarono la sapienza dell'Atene italica, e v'inviarono legati, perchè studiassero quegli Ordinamenti della giustizia, coi quali Firenze avea del tutto fiaccata la potenza dei grandi. Ma ben altra era la condizione delle arti fiorentine da quella delle romane! Alla prima prova, si sentì l'inefficacia della riforma, e papa Benedetto potè proseguire tranquillamente la fabbrica del Vaticano avignonese, e nominare a Roma novamente i senatori!
Passarono tre anni, e la scena cangiò un'altra volta. Ora il cambiamento fu più strepitoso per la comparsa di un personaggio, che seppe per un momento trasfondere nel popolo l'entusiasmo che lo animava, e con le sue novità riempì di stupore l'Occidente. Egli è Cola di Rienzi; personificazione viva di un'età che sta a cavaliere di due mondi, il barbarico che si estingue e il classico che rinasce. Ciò spiega le antinomìe che si manifestano nel famoso tribuno; le quali sono così spiccate e recise, da far credere che in lui due persone opposte coesistessero: l'una che intuisce e crea, l'altra che travede e distrugge la stessa opera sua. Quest'opera non era però tutta uscita dalla mente di Cola: gliene avea dato la prima idea Francesco Petrarca, con lo avere posto su la cima dell'ideale del popolo italiano il concetto e il nome d'Italia nazione. E Cola, traducendo in atto la grande idea, la guastò con lo associare al disegno della unificazione politica d'Italia con Roma a centro, il concetto della monarchia universale foggiato in iscenate simboliche e teatrali.
Nessun momento, a guardare le cose come apparivan di fuora, presentavasi più propizio per realizzare il grande pensiero del Petrarca: il papato, cagione secolare delle divisioni italiane, erasi condannato all'impotenza con lo abbandono della sua legittima sede: l'impero, ferito a morte nella persona di Enrico VII, mandava con Lodovico il Bavaro e con Carlo IV l'ultimo rantolo. “Le due luci del mondo, l'impero e il papato, scriveva allora il Petrarca, sono sull'estinguersi; le due spade stanno per ispuntarsi.„ Il regno di Napoli, grande cittadella del guelfismo italico e l'arsenale del papato, era, colla morte del re Roberto, caduto in uno stato di sfacelo; onde niun ausilio poteva più il papato aspettarsi da esso: le città italiane, in lotta coi loro tiranni, aspettavano un liberatore: e questo liberatore parve per un momento che comparisse nella persona di Cola da Rienzi; cui l'uomo celebrato allora in tutto il mondo come un genio, avea salutato “Camillo, Bruto, Romolo redivivo„; e togliendo ogni misura alla sua ammirazione per l'eloquente novatore, avealo perfino chiamato un dio. “Quando ripenso, scrivea il Petrarca a Cola, il gravissimo e santo discorso che mi tenesti l'altro ieri su la porta di quell'antica chiesa, parmi di avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo.„
Ma chi, con occhio perspicace, avesse guardato dentro il cervello di quest'uomo, anzichè arrestarsi alla sua parola ammaliatrice; chi avesse inoltre rivolta l'indagine alla cagione ispiratrice dell'entusiasmo di Roma per lui; l'incanto magico da cui la città pareva rapita, sarebbesi rivelato cosa del tutto effimero. Una tale indagine avrebbe, infatti, dimostrato, che tutto l'edifizio innalzato da Cola poggiava sull'arena. Nè poteva accadere altrimente, non essendo il fondatore suo nè capitano, nè uomo di Stato; egli era privo, cioè, delle due qualità necessarie, tanto a fondare gli Stati, quanto a guidarli e a rimetterli sulla via della civiltà e del progresso, quando se ne siano allontanati.
Ciò spiega lo squilibrio esistente fra il pensiero di Cola e la sua azione: quanto è fecondo e animoso il primo, altrettanto è sterile e paurosa la seconda. Piena la mente di concetti tratti dall'antichità romana, e sformati dalle idee fantastiche del suo tempo, ei si scoraggiava e perdeva quasi il lume dell'intelletto, tosto che entrasse nella vita reale del mondo. Ciò spiega ancora com'ei fosse preso dalle vertigini, appena che dall'umile stato in cui era nato, si vide portato su dalla fortuna. La vanità s'impadronì del debole suo spirito, così da neutralizzare in lui ogni nobile sentimento. Più che i titoli grandiosi assunti e gli apparati di pompa onde si fe' circondare, vi è un fatto che dimostra l'influenza sinistra che la vanità esercitò sul suo carattere. E il fatto fu l'offesa ch'ei recò all'onore di sua madre per farsi credere di origine regale, quando invece era nato da un taverniere. La lettera ch'egli scrisse a Carlo IV, l'agosto 1350 dal carcere di Praga, in cui, per riacquistare la libertà, mise fuora la fiaba di essere figlio di Enrico VII, accusando sua madre — Quæ invencola erat et non modicum speciosa — di avere concesso ad Enrico VII, al tempo dei tumulti romani suscitati dalla sua coronazione — nec minus forsitan quam sancto David et iusto Abrahe per dilectas extitit ministratum; — questa lettera, dico, getta sul carattere di Cola un'ombra più sinistra che non potessero fare tutti gli errori suoi accumulati insieme. Fra questi errori, ve n'è uno che fu cagione principale della sua rovina. Esso fu l'associazione della sua opera rivoluzionaria con la teologia. Il fondamento mistico sul quale il tribuno fissò il nuovo Stato romano consisteva nella presunzione ch'esso fosse opera della Spirito Santo. Da ciò il titolo da lui assunto di candidatus spiritus sancti, che, per via di auto-promozioni, dovea condurlo a quello eccelso di secondo Gesù Cristo, adducendo a ragione del raffronto superbamente insano il fatto, che, come il Nazareno, in età di 33 anni, incoronato di vittoria salì al cielo, vinti i tiranni dell'inferno e liberate le anime; così egli nella età stessa, avea abbattuto, senza sfoderare la spada, i tiranni di Roma, ed erasi fatto incoronare colla corona tribunizia come unico liberatore del popolo. E anche in questo campo mistico, che, per la sua natura, meno si prestava ad antimonìe, Cola trovò modo di portarvi la sua duplice personalità. Perchè, scordando egli che la sua qualità d'inviato di Dio gl'imponeva sopratutto l'umiltà sotto tutte le forme, praticò l'opposto circondandosi di una magnificenza asiatica, che al titolo stesso di tribuno stranamente contraddiceva. Ma già il nome tribunizio era stato soffocato da una selva di pomposi addiettivi e di complementi, così da essere ridotto a una vera parodia. Ecco infatti come Cola si chiamava nelle pubbliche carte: “Nicolò, per autorità del clementissimo signor nostro G. C., severo e clemente, tribuno di libertà, di pace e di giustizia, e liberatore della sacra repubblica romana.„
Che Cola di Rienzi fosse riuscito, ad onta di queste sue stravaganze, a suscitare un grande entusiasmo per sè, non solo in Roma, ma ancora in tutta Italia, è un fatto codesto che non può mettersi in alcun dubbio. Lo comprova la stessa testimonianza del Petrarca. In una epistola indirizzata al popolo romano, il Petrarca chiamava Cola di Rienzi “nuovo Bruto, maggiore dell'antico„ e invitava i cittadini a onorarlo: “Ma voi, cittadini, diceva il grande poeta, onorate codest'uomo, onoratelo quasi un messo del cielo, un raro dono di Dio, e ponete la vostra vita per la sua salvezza.„ Il popolo non avea bisogno di tale impulso per amare e onorare il suo tribuno. Ma non era lo slancio di un patriottismo nobile e disinteressato inspiratore di codesto sentimento popolare per Cola; era invece la generale miseria del tempo, la quale operava che ciascuno si volgesse a chi pareva promettere lenimento e salvezza. E questa sicurtà, da gran tempo perduta, Roma l'avea per opera del suo tribuno riacquistata: “Allora, scrive il biografo contemporaneo di Cola, le selve si cominciaro a rallegrare, perchè in esse non si trovava ladrone; allora li bovi cominciaro ad arare, li pellegrini a far la cerca per la santuaria, li mercanti a spasseggiare, li procacci.... In questo tempo paura e tremore assalìo li tiranni; la buona gente, come liberata da servitude, si rallegrava.„ Ma quando la clemenza inconsulta del tribuno verso i tiranni fe' da costoro svanire la paura, allora la sicurezza decantata dal biografo scomparve, e con essa cadde il fascino che Cola avea esercitato sul popolo. Da quel momento la fine del tribuno fu segnata. Ora fu messa pure in evidenza l'inettezza assoluta di quest'uomo a far trionfare la rivoluzione da lui suscitata. Dalla più audace impudenza egli passa alla più volgare pusillanimità: e il candidato dello Spirito Santo, che dal suo evento avea dato l'inizio di una nuova êra — liberatæ Reipubblicæ anno primo, — alla prima levata di scudi de' suoi nemici, si ripara in Castel Sant'Angelo, per poter di là, col favore delle tenebre, fuggire da Roma come un malfattore. E non fosse mai più tornato in quella città per lui fatale! Avrebbe risparmiato al popolo romano un crimine codardo, a sè una fine raccapricciante.
E che rimase, si può ora domandare, di questa gran rivoluzione che Cola di Rienzi seppe suscitare nel nome di Roma? Il suo risultamento del tutto negativo ci dimostra che, se l'autore di essa fu troppo minore della colossale impresa, minore di essa fu anche il popolo romano, e con esso tutta la gente italiana d'allora. Un solo dei contemporanei la comprese, e la immortalò, sia con le sue opere latine, sia con quella celebre canzone, che per lungo tempo si era creduto fosse indirizzata a lui, e che, sebbene ad altro personaggio si riferisse, comparisce egualmente come il vaticinio di un grande evento, onde il Petrarca avea piena l'anima, l'Italia, cioè, fatta nazione. Per farlo nascere al suo tempo, il poeta, dopo di avere invano invocato la pace, predicò la guerra, la guerra contro i tiranni di Roma; e invocò “Gesù buono e troppo mansueto„, perchè sorgesse ad abbattere i suoi nemici, che, sotto lo scudo del suo nome, facevano cose obbrobriose. Ma non era scritto nei fati d'Italia che la patria nostra dovesse risorgere in quella lontana età. E profetica fu ancora la canzone Spirto gentil, per quella immagine del “Cavalier che Italia tutta onora„, il quale ha da sedere su 'l Monte Tarpeo, “Pensoso più d'altrui che di sè stesso„. È argomento tuttodì controverso a chi il poeta intendesse alludere con quella immagine, la quale, come attesta il Machiavelli, attrasse e inspirò l'anima entusiasta dell'infelice Stefano Porcari. Ma qualunque sia il personaggio a cui il poeta riferì l'immagin sua, egli è certo che l'Italia, dopo averla cercata invano per lunghi secoli, la trovò finalmente all'età nostra, in quel cavaliere, che, portata sul Campidoglio la spada d'Italia, pronunciò davanti al mondo civile le celebri parole: “qui stiamo e qui resteremo„; compendiate felicemente dal successor suo nell'attributo dato alla Roma libera d' intangibile.
I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA
DI AUGUSTO FRANCHETTI
I.
Se, passando da piazza della Signoria, alzate gli occhi a guardare le armi dipinte sotto il ballatoio di Palazzo Vecchio, ne vedrete una, che porta uno scudo azzurro col motto Libertas, ed era l'insegna del magistrato de' priori: la stessa parola si legge scritta sullo stemma di Bologna e d'altri comuni; e si trova ad ogni passo nei bandi delle autorità, nei discorsi degli oratori, nei versi dei poeti, durante i secoli XIII e XIV. Ma la libertà che amavano e bramavano gli uomini di quei tempi, e per la quale erano pronti a dare fino all'ultima goccia di sangue, era la libertà di regolare le cose del Comune opprimendo ferocemente le consorterie e le fazioni avversarie, e di tener soggette le terre vicine, anche taglieggiandone gli abitanti. Alle menti medievali, il diritto politico si rappresentava come un privilegio, e le attribuzioni dello Stato come franchigie; quel che chiamavasi Comune era quasi sempre il governo d'una fazione; le sue leggi e i suoi statuti, anche in materia civile e amministrativa, miravano a difesa o ad offesa partigiana; e le sue giustizie medesime apparivano vendette. Abbattuti i feudatari e costretti i più di questi a venire dentro le sue mura, il Comune s'era sostituito nelle loro ragioni, e le esercitava, con non minor vigore, a carico dei vassalli, sotto le due alte e mal definite potestà della Chiesa e dell'Impero; potestà intorno alle quali s'aggira tutta la storia dell'evo medio, e che combatterono tra loro le ultime grandi battaglie appunto fra il 1226 e il 1268, cioè fra il principio della seconda Lega lombarda e il supplizio di Corradino. Laonde rimase all'Italia una funesta eredità di odî, di divisioni e di rovine e le si apparecchiò, pel futuro, uno stato d'impotenza e di dipendenza politica, confortato soltanto dal sogno della duplice supremazia universale.
Non vanno accettate a chius'occhi le meravigliose descrizioni che ci lasciarono poeti e cronisti del beato vivere nelle prime età dei Comuni. Presto incominciarono le guerre coi vicini e anche le discordie
Tra quei che un muro ed una fossa serra.
E la parte che v'ebbe senza dubbio la diversità di schiatta non appare dai documenti raccolti sia stata così preponderante nè così universale come afferma qualche moderno storico; mentre, a buon conto, le stesse gare di fazioni nemiche, le stesse violenze pubbliche e private si ritrovano nei luoghi dove non penetrarono nè si stanziarono invasori germanici. Si può tenere per vera l'opinione del Balbo che la fusione delle razze era omai compiuta al tempo della pace di Costanza, nel 1183; e già di lunga mano si era andata operando in seno alle moltitudini. Avvalorata da varie cause accessorie, la esaltazione delle forze individuali congregatesi in molteplici compagnie, fu causa d'ogni bene e d'ogni male, di precoci fortune e di non meno precoci calamità, pei popoli della penisola che sorgevano rigogliosi a vita nuova in sul principiare del secolo XII.
II.
Ogni città pertanto soleva avere molti nemici e di molte sorta: primi fra tutti, i fuorusciti che avevano avuto le case arse e disfatte, a furia di popolo e talvolta per sentenza del magistrato, e tutti i beni pubblicati, ossia confiscati; onde peregrinavano condannati essi stessi a morte o all'esilio, insieme colle donne e coi figliuoli (quando pure questi non fossero stati trattenuti come ostaggi): bensì costoro, senza perdersi d'animo, costituivano subito uno Stato fuori dello Stato; si raccoglievano a consulte, si eleggevano capi, stavano uniti ed armati, offrendo i loro servigi in cambio dell'ospitalità a quelli della loro parte, e spiando l'occasione di tornare in patria, per render la pariglia ai loro avversari: taluni pure stretti dal bisogno si mettevano agli stipendi di qualche signore italiano o straniero, facendosi così precursori delle compagnie di ventura. C'erano inoltre altri nemici del Comune, più coperti, ma non meno pericolosi: dentro, la moltitudine dei malcontenti, cioè degli esclusi dagli onori: e questi solevano essere, in Toscana, i nobili e i plebei, poichè coloro che in sul finire del secolo XIII si erano recati in mano lo Stato erano generalmente i popolani grassi; ma ai grandi poi vennero ascritte, per astio e per vendetta, molte famiglie d'origine cittadina, e gli stessi popolani grassi, divisi in consorterie e in nuove fazioni, si fecero guerra tra loro. Fuori poi, stavano le terre e le città soggette le quali erano tenute in freno più che altro dalla paura; e quanto più esteso era il dominio, tanto più eran temibili le ribellioni; nè si ristavano dal fomentarle i feudatari della campagna, che non tutti si erano condotti a vivere dentro le mura, ma parecchi serbando una mezza indipendenza eran venuti a patti col Comune, nè avevano scrupolo di violarli ove a loro tornasse conto. Non occorre accennare alle insidie e alle guerre degli emuli vicini o lontani, essendo sorte che tocca a tutti gli Stati. Bensì i Comuni, per la loro natura, vi andavano più esposti degli altri.
Invero varie città, guerreggianti coi signori del contado, avevano ordinato l'affrancazione dei servi della gleba; talvolta li avean persin ricomprati; e famosi sono i decreti promulgati da Bologna nel 1256 e 83, da Firenze nel 1289 e 97, che sembrano precorrere, nella consacrazione della libertà personale, le dottrine filosofiche del secolo XVIII. Ma tali atti, ristretti alla sola servitù rurale, possono equipararsi alle emancipazioni sancite dai pontefici qual conseguenza delle bolle di scomunica; poichè come da un lato non ponevano ostacolo alla servitù domestica (di cui si trovano traccie negli Stati italiani fin oltre al seicento), così dall'altro non iscioglievano tutta la compagine degli ordini feudali; ed i Comuni vietando di vendere o di comprar coloni e abolendo le angherie dovute ai Signori, non intendevano menomamente di rinunziare alla giurisdizione civile e politica sui loro vassalli. Anzi, persino accettando la dedizione spontanea o l'accomandigia di qualche terra, non mancavano d'imporle un tributo od almeno un atto d'omaggio, insieme coll'obbligo di obbedire ad ogni loro comandamento. Figuratevi dunque come trattassero i conquistati!
Al Machiavelli che in un capitolo dei Discorsi sulle Deche di Tito Livio aveva vagheggiato l'idea d'una grande Repubblica italiana, il Guicciardini obbiettava, nelle sue Considerazioni, che ciò sarebbe stato a vantaggio d'una sola città e a rovina delle altre, dappoichè repubblica non concede il benefizio della sua libertà “a altri che a' suoi cittadini propri„, mentre la monarchia “è più comune a tutti„. Tal contrasto, sagacemente notato dallo statista fiorentino, si trova espresso, con singolare vivezza di passione, nell'ultimo scorcio del secolo decimoterzo da un rimatore politico, il Saviozzo da Siena, in una canzone da lui composta a laude di Giovan Galeazzo, duca di Milano, la quale incomincia:
Novella monarchia, giusto signore,
Clemente padre, insigne, virtuoso,
Per cui pace e riposo
Spera trovar la dolce vedovella....
Niuno oserebbe affermare che il desiderato sovrano meritasse tutti quegli epiteti; ma è certo che il poeta senese esaltava principalmente in lui l'avversario degli odiati Fiorentini. E poichè i Fiorentini stessi avevano sempre in bocca la parola libertà, e aggregando nuove città al loro dominio non si vantavan già (come faceva Antonio Pucci, cantor popolare e trombetta del Comune) di averle recate al loro mulino, ma affermavano di averle ridotte in libertà, il Saviozzo invocava la giustizia e la vendetta di Dio contro quel
detestabil seme
Nimico di quïete e caritade
Che dicon libertade
E con più tirannia ha guasto il mondo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Costor coi loro inganni han messo al fondo
Già le cose di Dio
E conculcato quasi ogni vicino.
. . . . . . . . . . . . . . .
Ch'el sangue fiorentino
Purghi ogni sua più velenosa scabbia
E noi siam franchi da cotanta rabbia!
La voce del rimatore politico è avvalorata da due ben più gagliarde, levatesi già al principio e verso la metà dello stesso secolo, quelle di Dante e del Petrarca. L'uno, imprecando anch'esso, ma con tutt'altro animo, alla sua città, che gli si era fatta matrigna, e predicendole grandi sventure, le faceva intendere come le terre soggette, non meno che i nemici, le augurassero ogni male:
Tu sentirai di qua da picciol tempo,
Di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
E a tutti predicava in ogni forma, secondo il suo ideale politico, fraterna pace e giustizia. L'altro similmente lamentava, tra le peggiori piaghe d'Italia, la folle superbia di soprastare e la cupidigia di taglieggiare i vicini più deboli; per le quali imprese gli Stati italiani, quando fu scritta la canzone (cioè secondo ogni probabilità fra il 1344 e il 45) solevano già adoperare le armi mercenarie delle soldatesche di ventura:
Qual colpa, qual giudicio, o qual destino
Fastidire il vicino
Povero, e le fortune afflitte e sparte
Perseguire, e in disparte
Cercar gente e gradire,
Che sparga 'l sangue e venda l'alma a prezzo?
A queste testimonianze, tolte, come vedete, da varii momenti del periodo storico di cui nel presente anno vogliamo intrattenervi, ne potrei aggiungere molte più intorno al furore delle sette, alle mutabilità dei provvedimenti, ed agli altri mali che straziavano i Comuni. Ma me ne astengo, poichè non bisogna abusare di nulla, neanche dei versi dei migliori poeti; tanto più che vorrò pure citarvene altri in altre occasioni, pensando che vi riesca gradita, com'è utile e buona, simil maniera d'illustrare i casi storici coi documenti della letteratura contemporanea: al che giovano non meno delle opere dei dotti ingegni, le leggende e i cantari fatti pel popolo da rimatori mediocri e spesso ignoti. Ma non vo' farvi credere d'essere andato io a scovarli dai vecchi codici dove erano sepolti; a tale studio dettero impulso fra noi il D'Ancona, il Bartoli, il Carducci; e dietro a loro una eletta schiera di giovani che alla lor volta sono già diventati maestri, quali il Casini, il Frati, il Mazzoni, il Medin, il Morpurgo, lo Zenatti, e mi piace di ricordarli per debito di gratitudine.
III.
Basta il fuggevole sguardo che abbiamo dato alle condizioni interne ed esterne dei Comuni per fare intendere che sorta d'esistenza travagliata e precaria essi menassero e come aprissero facile varco alle ambiziose mire dei futuri Signori. I quali, peraltro, non ostante tutte le arti loro, non avrebbero potuto insediarsi nè mantenersi in istato ove non fossero stati sorretti, per un tempo, dal favore delle moltitudini. E non poteva essere altrimenti; giacchè la licenza e le sfrenatezze generano tal sazietà, che viene un momento in cui un popolo si darebbe anche al diavolo, pur di tirare in basso i prepotenti e di godere qualche giorno di vivere riposato; si acconcia allora all'assoluta potestà d'un solo, finchè i mali dell'oppressione non abbiano alla lor volta cancellato il ricordo degli abusi della libertà. Ci possiamo fare una chiara idea di questa legge storica, ripensando (per addurre un solo esempio) alle vicende della repubblica in Francia, negli ultimi cento anni: nè parrà strano il raffronto, chi consideri quanto si somigliano nell'instabilità le nostre antiche democrazie con la moderna di Francia. Colà due volte, nel 1800 e nel 1848, la nazione intera si buttò volonterosa in braccio ad un Bonaparte, affinchè la salvasse dai pericoli dell'anarchia. Speriamo che, al presente, faccia miglior prova la terza repubblica; e noi, come italiani, dobbiamo desiderarlo; ma poco mancò, due anni or sono, che essa non precipitasse sotto la strana dittatura d'un fantoccio soldatesco, di cui teneva i fili una compagnia di legittimisti, d'imperialisti e di faccendieri. Ed avvertasi che se, nella prima repubblica, c'erano due categorie di persone messe fuor della legge, gli emigrati ed il clero non costituzionale, nelle altre due repubbliche, tutti partecipavano e partecipano al governo, anche i residenti in remotissime colonie; mentre per contrario gli assoggettati, gli esclusi e gli sbanditi costituivano il massimo numero degli abitanti, nei nostri Comuni medievali.
Non deve dunque parere strano che la vita loro abbia avuto, in complesso, splendida, ma non lunga durata, essendo sorta coll'undecimo secolo, e già nel decimoterzo incominciando a declinare; c'è piuttosto da meravigliarsi che alcune città riuscissero, tra molte traversie, a mantenersi libere fino ai tempi moderni, e che quattro delle antiche repubbliche sopravvivessero ancora in Italia quando l'intiera Penisola, travolta nel turbine della rivoluzione francese, fu soggiogata dalla nuova repubblica e dal suo condottiero, nato in Corsica, di schiatta toscana: quattro repubbliche, Venezia, Genova, Lucca e San Marino, tutte prettamente oligarchiche, salvo una che, sola superstite, ci è caro di conservare qual minuscolo testimone d'un mondo scomparso.
Per tutti gli altri Comuni, la trasformazione in signorie ha principio col 1200 ed ha compimento nel 1559. Durante questo periodo si manifestano svariatissime forme di vita politica che s'intrecciano e si avvicendano, secondo che portano l'energia individuale e l'umore avventuroso d'un popolo, il quale si ridesta, giovane e vecchio ad un tempo, superbo delle antichissime tradizioni latine, perpetuatesi nei travestimenti del medioevo, e pur voglioso d'innestare su quelle i germogli d'una nuova civiltà.
IV.
Al modo stesso che i Comuni si sono inalzati sui feudi, appropriandosene gli usi e le prerogative, così ai Comuni si sovrappongono le signorie usurpandone le ragioni e riducendole in mano ad un solo. Ma poi (questa è una sentenza veramente storica del cronista Matteo Villani) “come tirannie si criano, com'elle esaltando si fortificano e crescono, così in esse si nutrica e si nasconde la materia della loro confusione e ruina„.
Laonde avveniva non di rado che un Comune, caduto sotto l'autorità d'un tiranno, si rivendicasse in libertà, e che poi più d'una volta si rinnovasse la stessa vicenda. Non alla sola Cesena, ma a parecchie città si potevano applicare i versi di Dante:
Così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
Tra tirannia si vive e stato franco.
E del pari le signorie non istavano ferme; le grosse ingoiavano le piccole; e queste, quando se ne porgeva il destro, tornavano indipendenti, salvo a ricadere sotto gli artigli d'un più potente vicino. Se non che neppure il semplice trapasso, che può dirsi normale, da feudo a comune, da comune a signoria, e da signoria piccola a signoria grossa, non sempre accadeva, nè dappertutto; e molto meno poi tali successioni si effettuavano contemporaneamente. Nel modo stesso che a quanto c'insegnano gli astronomi, si muovono, negli spazi eterei, mondi in formazione, e poi sistemi planetari che come il nostro compiono le proprie rivoluzioni, e infine soli spenti e pianeti frantumati; così a mal agguagliare, sussistevano insieme, nei secoli XIII e XIV, feudi d'antica data, comuni rimasti o rifattisi liberi, e signorie di varia grandezza e di varia natura.
Sotto quest'ultimo nome, nel più largo significato, si comprende ogni specie di sovranità: Venezia e Firenze, per esempio, avevano ciascuna la sua signoria, che era composta, per la prima, del doge e dei suoi collegi, per la seconda del gonfaloniere e de' priori. Signorie si chiamavano pure le giurisdizioni e i principati feudali, per lo più di remota ed oscura origine; alla qual categoria appartenevano alcuni Stati ragguardevoli, come quelli dei marchesi di Monferrato, e dei marchesi di Saluzzo (ambedue famiglie aleramiche), e quelli dei conti di Savoia, da cui si era staccato nel 1295 il ramo dei principi d'Acaia. Finalmente spetta la medesima denominazione anche al potere acquistato per eredità, o conquistato per invasione, quale fu quello che ebbero sul Regno, prima gli Svevi succeduti ai Normanni e poi gli Angioini, e sulla Trinacria nel secolo XIV gli Aragonesi, dopochè la mala signoria dei Francesi trasse Palermo a gridar mora! mora! Di codeste signorie peraltro non tocca a me d'intrattenervi, salvochè per ricordare come gli Angioini, introdottisi in Piemonte nel 1265, vi ottenessero la dedizione di parecchie città; le quali poi, tradite dal marchese Guglielmo di Monferrato, fecero lega, e, presolo, lo rinchiusero dentro una gabbia, in Alessandria, ove in capo a due anni morì, e quelle città passarono per la più parte a Casa di Savoia. Ma le signorie, nel significato ristretto e propriamente storico della parola, sono soltanto quelle che si sostituirono ai Comuni. Anche in tali termini la materia è sì vasta che ci sarebbe da discorrerne per mesi ed anni, non che per ore e giorni. Ma non vi spaventate! c'è una tirannia, maggiore d'ogni altra, e che non ha bisogno d'illustrazione: è quella del tempo, alla quale non voglio menomamente sottrarmi. Per ciò appunto ho scritto questa chiacchierata, invece di dirla familiarmente come avrei preferito. E per la medesima ragione non istarò a enumerarvi tutte le signorie del XIII e del XIV secolo (che già sarebbe impossibile) e neanche tutte le principali. Mi contenterò invece di additarvi rapidamente le diverse specie in cui esse possono distinguersi; e le loro qualità generali, come fin qui ho cercato di mostrarvi la causa prima e fondamentale da cui derivarono tali rivolgimenti politici. Dopodichè, determinata la cornice e descritto il campo del quadro, potremo mettervi dentro qualche figura più tipica delle varie famiglie di signori e di tiranni.
V.
Se guardiamo alle origini, parecchi tra i signori sono antichi feudatari che già dimorano stabilmente nelle città, oppure vi calano dagli aviti castelli, dove tuttavia esercitano i privilegi nascenti dall'atto d'investitura e dalla consuetudine, e più veramente dalla forza, per quanto almeno la forza altrui non gli abbia stremati. Ve ne sono poi che vengono dal popolo; i quali, nei tempi più recenti (in particolar modo nel secolo XV), non procedono più alla maniera selvaggia dei primi, ma con arti politiche raffinate e, come dicevasi, con modi civili. Infine i condottieri, qualunque sia la loro schiatta, costituiscono una categoria di per sè stante; giacchè i primordi delle compagnie di ventura, così nella storia come anche nel nostro tema, si collegano coll'estendersi delle signorie. Rispetto dunque all'origine si hanno i feudatari, i cittadini, e i condottieri, che possono essere dell'una o dell'altra specie; quanto poi all'acquisto della signoria, suol conseguirsi per dedizione, per compra o per violenza o per queste varie vie congiuntamente, e di solito mediante l'ufficio di podestà, di capitano del popolo o di vicario.
VI.
Insediatosi nella città, il signore deve pensare a difendersi contro gli avversari, che in casa e fuori congiurano contro di lui o gli fanno guerra aperta. Come ha acquistato l'autorità per virtù della propria energia personale, del pari deve adoperare assiduo studio a conservarla. Il suo governo sarà più o meno feroce a seconda dell'indole dell'uomo e delle contingenze; rimarrà sempre peraltro un sogno poetico l'ideale che il Petrarca delineava scrivendo a Francesco da Carrara, signore di Padova, intorno all'ottima amministrazione dello Stato. Egli voleva che il principe fosse non padrone ma padre della patria; e delle armi e dei trabanti si valesse non contro i cittadini, ma contro i nemici e i ribelli. Se non che costui, per la sua stessa condizione, è indotto a sospettare di tutti i cittadini più ragguardevoli ed a trattarli tutti da nemici e ribelli: non è rattenuto da alcun scrupolo ne si ristà dal commettere delitti, macchiandosi puranco del sangue dei suoi parenti. Colla plebe invece, che non gli dà ombra, si sforzerà di mostrarsi benefico, e di amicarsela provvedendo largamente ai bisogni pubblici. Ma per tali spese, non che pel fasto della sua corte e per lo paghe delle sue milizie, gli occorrono denari; procurerà di non aumentare le gravezze e finchè può lascerà le cose come le ha trovate, ma penserà ad impinguare l'erario, sia colla meditata spoliazione di un dovizioso cittadino e magari d'un proprio ministro arricchito, sia mediante qualche impresa fortunata o qualche buona condotta militare; nè è raro il caso che un signorotto si metta per un certo tempo agli stipendi d'un altro signore o d'un Comune.
Sospetto, crudeltà e cupidigia sono pertanto i vizi ordinari del signore, che quasi per necessità è costretto a farsi tiranno. E niuno meglio di Dante che nel suo esiglio dovette pur troppo frequentare le corti, e
Scender e salir per l'altrui scale,
esprime lo sdegno dei galantuomini contro coloro
che dier nel sangue e nell'aver di piglio;
e ne fa vendetta cacciandoli all'inferno dentro al sangue bollente.
Tutti ricordate come nella famosa imprecazione alla serva Italia in sul principiar del 300, egli attesti:
Che le terre d'Italia tutte piene
Son di tiranni ed un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Ma c'è un altro passo della sua operetta latina sulla volgare eloquenza, dove, dopo aver esaltato il valore e la gentilezza della casa di Svevia e specialmente di Federigo II e di Manfredi, vi contrappone l'abbietta volgarità e la superbia plebea dei tiranni contemporanei; e con bizzarra fantasia finge che facciano tutti insieme un diabolico concerto musicale per chiamare a raccolta i più scellerati uomini del mondo. Racha, racha! incomincia egli, usando una parola evangelica, come a dire: Ohibò, vitupero! E poi prosegue: Che mai suona ora la tromba dell'ultimo Federigo (d'Aragona)? Che la campanella di Carlo II (d'Angiò)? Che il corno dei potenti marchesi Giovanni (di Monferrato) e Azzo (d'Este)? Che i pifferi degli altri signori? Qual voce n'esce salvo che questa: Venite carnefici! venite frodatori! venite predoni!
Così li bollava il gran giustiziere del medioevo; ma non bisogna credere che tutti i signori fossero scellerati volgari. Pronti ad ogni delitto erano i più tra loro: non i più peraltro facevano il male senza qualche ragione politica, ed unicamente per isfogo di basse e brutali passioni. La sottile arte di stato che il Machiavelli vide praticata in sul finire del 400 e in sul principiare del 500, e che egli ridusse in regole scientifiche nel libro del Principe, erasi andata formando appunto nei due secoli precedenti; nè altrimenti sarebbe potuta giungere d'un tratto a sì alto grado di odiosa perfezione.
VII.
Consapevole della propria illegittimità, il nuovo Signore s'industria ad avvalorare la sua autorità con un diploma d'investitura imperiale o pontificia, che paga anche a caro prezzo. Ma i titoli che si comprano, allora come ora, si sa appunto quanto valgono, non più e forse meno del costo. Dopo la rovina degli Svevi la maestà dell'impero andò sempre declinando; invocati pacificatori quando stavan lontani, i Cesari germanici, ogni qualvolta calarono in Italia tra il 1268 e il 1400 fecero mostra d'impotenza; se uno almeno, Arrigo VII, vi morì sconfitto ma compianto (e le lodi di Dante, di Dino Compagni, di Cino da Pistoia, di Sennuccio del Bene, di Albertino Mussatto onorano tuttavia la sua memoria), gli altri due, Ludovico il Bavaro e Carlo IV di Boemia, se ne partirono svillaneggiati e derisi, dopo aver operato più da mercanti che da sovrani.
Le beffarde querele di Franco Sacchetti a papa Urbano V e a Carlo IV, quando passaron da Firenze nel 1365, poi le invettive anche più fiere di Fazio degli Uberti contro l'istesso Carlo e gli altri lurchi moderni germani omai immeritevoli di custodire l'augello imperiale, essi che d'aquila un allocco n'hanno fatto, per tacere dei giudizi del Villani e degli ondeggiamenti e dei disinganni del Petrarca, mostrano come, durante quel periodo, si andasse perdendo, tra gli Italiani, la fede negli antichi ideali politici; e più d'uno cominciava forse a pensare ciò che scriverà ai primi del 500 Francesco Vettori che “l'investitura data da un uomo che vive in Germania, e che d'imperatore non ha che il titolo, non basta a fare un villano vero signore di una città„.
I signori invero, tuttochè si procaccino pergamene, fanno assegnamento più che altro sul proprio valore, e non meno sull'ingegno che sulla forza. Di tanto cresce l'importanza del pensiero, di quanto scema la riverenza verso le due grandi autorità, fonti del diritto pubblico universale, il Papato e l'Impero romano germanico. Mentre nei primi secoli del medioevo predominano le consorterie, le corporazioni, le scuole e le arti, onde parecchi monumenti, così d'architettura come di legislazione, rimangono anonimi e collettivi, invece coll'istituzione delle signorie emergono e campeggiano gli individui. Rarissimi sono i Signori che non abbiano in pregio la coltura; anzi, amando modellarsi su Federigo II (il quale in molte parti aveva precorso al moderno concetto dello Stato), lo imitano anche nel compor versi d'amore o d'argomento politico e morale. E pur si leggono nelle raccolte antiche o moderne rime di Guido da Polenta, di Castruccio Castracani e di Arrigo suo figliuolo, di un Bruzzi figlio naturale di Luchino Visconti, di un Malatesta dei Malatesta di Rimini, signore di Pesaro, di Marsilio dei Carraresi di Padova, di Roberto dei Guidi del Casentino, conte di Battifolle, il quale scambiò col Petrarca epistole latine e un sonetto volgare. Similmente si compiacevano di accogliere in corte poeti e dottori; e, se taluno, rozzo e altezzoso, trattava i poeti alla pari de' giullari e dei buffoni, molti invece ne facevano gran conto e se ne giovavano per commissioni e ambascerie. Così Franceschino Malaspina, marchese della Lunigiana, incaricò Dante di conchiudere una pace, e Guido da Polenta lo mandò poi oratore a Venezia. Il Petrarca fu inviato anch'egli presso la Serenissima da Giovanni Visconti; all'imperatore e al re di Francia da Galeazzo II, e prima del papa Clemente VI alla regina Giovanna di Napoli. I signori ed i Comuni facevano a gara per aver segretari letterati che componessero, con destra argomentazione e con erudita rettorica, lettere e discorsi. La nuova arte diplomatica sorgeva insieme colla trasformazione dello Stato. Per non tediarvi con un altro elenco di nomi, ricorderò soltanto, da un lato il Saviozzo da Siena di cui v'ho citato la laude al giovane Galeazzo e che fu cancelliere di Federigo da Montefeltro conte di Urbino; dall'altro Coluccio Salutati che, dopo aver servito la Curia romana, diventò segretario della repubblica di Firenze, e, al pari dei suoi predecessori e dei successori, in tale ufficio, fu uno dei più dotti uomini dell'età sua. Giovan Galeazzo diceva che le epistole di Coluccio gli facevano paura più di mille cavalieri.
VIII.
Ma di questo Visconti, che già due volte ho avuto occasione di nominarvi, riparleremo più distintamente in appresso, perchè fu l'ultimo e più compiuto tipo del tiranno trecentista. Ora per rifarmi invece dal primo con cui s'inizia il periodo delle signorie, debbo presentarvi il molto magnifico ed inclito marchese Azzo o Azzolino VI da Este, signore di Montagnana, di Gavello, di Rovigo e del Polesine, non che di parecchi castelli e terre allodiali in Lombardia e in Lunigiana, e di più creato da papa Innocenzo III marchese d'Ancona, del qual feudo doveva poi due anni appresso ottenere da Ottone IV anche l'investitura imperiale. Apparteneva ad una schiatta antica e potente, un ramo della quale costituì in Germania la casa di Brunswick; sicchè Ottone IV in un diploma lo chiamava suo cognato ossia congiunto. Grazie ad un parentado aveva unito ai propri beni le ricchezze grandissime dei Marcheselli Adelardi capi della fazione guelfa in Ferrara, come i Salinguerra erano della ghibellina. Liberale del suo, si era procacciato numerosi aderenti, e grazie al favor popolare otteneva ed esercitava volentieri l'ufficio di podestà, per esempio, nel 1205 a Ferrara, nel 1206 a Mantova, nel 1208 a Verona, dove (dice un cronista) egli d'accordo col conte di San Bonifacio dominò finchè visse.
Le podesterie furono, come già v'ho accennato, primo avviamento alle signorie. Tal magistratura, la quale non aveva nulla a che fare con quella che il Barbarossa, sotto l'istesso nome, aveva già voluto imporre ai Comuni, si era omai estesa, con universale gradimento, in ogni città. Il podestà essendo un forestiero a cui veniva affidato per un solo anno, e coll'obbligo di render conto, l'incarico di far eseguire le leggi e di amministrar la giustizia civile e penale, offriva una guarentigia d'imparzialità che lo rendeva accetto a tutti gli abitanti. Doveva menar seco, non le persone di famiglia (chè gli era vietato), ma una famiglia di giudici, cavalieri e berrovieri. Il sospetto che diventasse troppo potente fece poi distaccare dal suo ufficio il comando delle milizie, e così creare l'altra magistratura del capitano del popolo. Ma non era un buon rimedio: poichè i signori feudali che ambivano la potestà, nè scadendo dall'ufficio, avrebbero potuto per regola esservi confermati, riuscivano invece a farsi eleggere capitani del popolo, e viceversa, perpetuando così la propria autorità. I Comuni, in sostanza, con simile istituzione, si confessavano inetti ad esercitare la giustizia, senza ricorrere ad un estraneo; era dunque naturale che quest'ultimo, destreggiandosi fra le parti contrarie o mettendosi a capo di una di esse, suscitasse nei più il desiderio che gli fosse dato in mano lo Stato.
Ciò appunto avvenne in Ferrara; dove Azzo d'Este e il Salinguerra giuniore, dopo aver proceduto d'accordo per qualche anno, vennero ad aperta rottura; nel 1207 il secondo cacciò il primo, e alla sua volta fu cacciato l'anno seguente. Ma in tale occasione la cittadinanza creò l'Estense governatore, rettor generale e signore perpetuo di Ferrara, colla trasmissione della dignità nel suo erede, e col diritto di provvedere, di correggere, e di riformare ogni cosa ad arbitrio della sua volontà.
Fu il primo esempio, dice il Muratori (che pubblicò l'atto solenne), d'un Comune il quale cedesse la propria sovranità per metter freno alle discordie intestine. Se non che la fazione dei Salinguerra tornò vittoriosa nel 1209, e l'imperatore Ottone riconciliò momentaneamente i due competitori; ne seguirono nuove vicende di guerra e di pace, finchè nel 1240, abbattuti gli avversari coll'aiuto del legato pontificio, Azzo VII diventò davvero signore perpetuo della città. Invero, morto che fu, nel 1264, i fautori della sua casa ne assicurarono la successione ad un figliuolo illegittimo d'un suo figliuolo. Ed un cronista contemporaneo sentì un Aldighiero dei Fontanesi (disceso dagli Aldighieri di Val di Pado e però congiunto col sommo Poeta) arringare il popolo dicendo: “Non temano gli amici, nè s'imbaldanziscano i nemici.... Rimane quell'Obizzo diciassettenne, di buona indole e di buona speranza. E se, a prender la signoria, Casa d'Este non avesse più nessuno, ce lo faremmo di paglia.„ E il popolo a gridare: sì, sì! In simil modo Obizzo fu acclamato signore di Modena nel 1288 e di Reggio nell'89: plebisciti che poi si rinnovarono anche a pro di altri Estensi: segnatamente a Ferrara per Rinaldo nel 1317 e a Modena per Obizzo II nel 1336. Ma dell'opera propria non ebbe già da lodarsi quell'Aldighiero; il quale morì avvelenato a tradimento da Obizzo I, e poco dopo i suoi parenti, essendosi due volte sollevati, furono tutti o ammazzati o banditi.
Di questi e d'altri delitti (quali l'eccidio per agguato di Jacopo del Cassero e la seduzione di Ghisolabella de' Fontanesi) fece giusta vendetta il Poeta sommergendo lo spirito del tristo marchese nella fossa di sangue bollente, e infamando in pari tempo (secondo la voce che allor correva) le azioni e i natali del suo successore Azzo VIII:
.... Quella fronte che ha il pel così nero
È Azzolino; e quell'altro che è biondo
È Obizzo da Esti, il qual per vero
Fu spento dal figliastro su nel mondo.
IX.
Bene stanno uno accanto all'altro quei due tiranni, il guelfo Obizzo, alleato di Carlo d'Angiò, e il ghibellino Ezzelino III da Romano, genero e vicario di Federigo II, spietati ugualmente ambedue, se non che l'uno più feroce e l'altro più perfido.
Degli Ezzelini v'è già stato parlato da altro lettore[3]: ond'io ricorderò soltanto in qual modo questi grandi feudatari (anch'essi, come gli Estensi, d'origine germanica) fondassero la lor signoria nella Marca Trevigiana, dove il loro avo Ecelo nel 1036 aveva avuto dall'imperatore Corrado II il castello di Romano. Il primo Ezzelino, tornato dalla seconda crociata, fu creato avvocato ossia mandatario e campione di molti vescovi e abati e con ciò arricchì e ingrandì la sua casa. Dopo aver servito il Barbarossa, passò all'altro campo e diventò rettore della Lega lombarda; giurò la cittadinanza di Treviso e di Vicenza e in ambedue questi Comuni tenne per primo l'ufficio di podestà.
Il figliuolo, Ezzelino II, vien detto il Monaco, perchè (come varii principi di quella e d'altre età) volle finir la vita in un chiostro. Succeduto al padre nel 1184, ne continuò le tradizioni e la fortuna politica, or podestà, or capitano di varie città, e sempre accortamente mescolato nelle guerre e nelle paci, nelle leghe e nelle fazioni. L'istesso fece il terzo Ezzelino; ma con tanta gagliardia e con tanta crudeltà che colpì le menti di pauroso stupore; le storie e le novelle, anche più di due secoli appresso, sono piene del suo nome; onde l'Ariosto cantava:
Ezzelino, immanissimo tiranno
Che fia creduto figlio del demonio.
Colle podesterie e colle armi, aiutato da Federigo II e dai Ghibellini, s'era impadronito di Verona, di Vicenza, di Bassano, di Padova, e quindi di Treviso, di Trento, d'Este, di Bassano e di Belluno: si reggeva cinto da satelliti, spogliando e abbassando i grandi, e sollevando la plebe, e parve giungere al culmine nel 1250, mentre la città di Verona lo gridava suo signore, a suono di trombe e di tamburi, in mezzo ad un generale tripudio non minore di quello che nel 1259 doveva festeggiare la sua estrema rovina. Oramai i Comuni lombardi che primi avevano acquistata la libertà, erano anche i primi a mostrarne fastidio. E se n'era veduta pure una prova, diciassette anni innanzi, quando il buon frate Giovanni di Schio, predicando concordia e perdono, aveva fatto giurare la pace a ben 300 mila persone sui campi di Paquara. Poichè il frate medesimo col favor della moltitudine fu eletto conte e signore a Vicenza e a Verona; e tosto prese a mutare statuti e magistrati, a farsi dare ostaggi, e fu accusato d'infierire contro gli eretici e i Ghibellini; onde si riaccesero le passioni un momento sopite, e l'opera del sant'uomo miseramente fallì. Par di leggere la scena dello Shakespeare, così vera di psicologia storica, dove la plebe romana, in risposta all'infiammata allocuzione di Bruto, gli gridava: “Sii tu il nostro Cesare!„ Infatti la repubblica nell'antica Roma non poteva risorgere, e trascorsi appena tredici anni dall'uccisione di Cesare, vi si impiantava il dominio d'un solo. Alcunchè di simile accadde nei Comuni lombardi, nella seconda metà del secolo XIII, dopochè Ezzelino, vinto al Ponte di Cassano dalla crociata bandita contro di lui da papa Alessandro IV, morì ferocemente quale aveva vissuto, lacerandosi le ferite, e quindi il fratello e i parenti di lui furono fatti a pezzi, con orribili stragi.
Nell'ebbrezza della vittoria tutte le città pensarono di rivendicarsi in libertà, e Verona, Vicenza, Padova, Treviso strinsero una lega di scambievole difesa e fratellanza. Ma fu un fuoco di paglia: e in breve si assoggettarono a nuovi padroni. Verona, per la prima, assalita dal guelfo conte di Sambonifacio nel 1261 elesse capitano del popolo Mastino della Scala, antico soldato e castellano d'Ezzelino. Ed essendo stato questi assassinato nel 1279, il popolo levatosi in armi trucidò i congiurati e mise nel luogo del morto il fratello di lui Alberto, che era podestà a Mantova. Alberto governò con mitezza, promosse l'industria e il commercio, abbellì e munì la città, e aggregò allo Stato Vicenza, Feltre, Belluno e altri luoghi. Gli succedettero prima il figlio Bartolomeo dal 1301 al 1304 e poscia i fratelli Alboino e Can Francesco, serbando sempre il titolo di capitani del popolo, finchè Arrigo VII nel 1312 li creò vicari imperiali.
Questa famiglia che per l'innanzi non aveva avuto possessi nè titoli feudali, mentre un de' suoi era stato console nel 1147, fu molto probabilmente d'origine latina e cittadina; e la miglior tempra di alcuni suoi principi fa gradevole contrasto coll'efferatezza dei tiranni contemporanei. A Bartolomeo alludeva Dante, quando si faceva dire dal suo avo Cacciaguida:
Lo primo tuo rifugio e il primo ostello
Sarà la cortesia del Gran Lombardo
Che in su la scala porta il santo uccello;
Che in te avrà sì benigno riguardo
Che del fare e del chieder, tra voi due,
Fia primo quel che gli altri è più tardo.
Il fratello e successore di lui, Alboino, fu uomo fiacco di mente e di corpo; nè il Poeta ebbe da lodarsene; onde gli dette una sdegnosa sferzata nel Convito; ma, per ammenda, esaltò oltremodo il terzo dei figliuoli legittimi d'Alberto, il quale (in grazia, a quanto narrasi, di certo sogno avuto dalla madre) si chiamò fin dalla nascita Cangrande.
Non se ne sono ancor le genti accorte
Per la novella età....
Ed infatti aveva solo nove anni nel tempo in cui Dante finge avvenuto il suo misterioso viaggio, e non più di tredici, quando egli stesso si recò effettivamente in Verona. Annunzia bensì, sempre per bocca di Cacciaguida, che
.... pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni
(cioè prima che Clemente V mandi a vuoto l'impresa di Arrigo VII)
Parran faville della sua virtute
In non curar d'argento nè d'affanni;
Le sue magnificenze conosciute
Saranno ancora sì, che i suoi nemici
Non ne potran tener le lingue mute.
A lui t'aspetta ed a' suoi benefici:
Per lui fia trasmutata molta gente,
Cambiando condizion ricchi e mendici.
Nell'ultima profezia può ravvisarsi un'allusione agli effetti del principato che sollevava gli umili e abbassava i grandi, ma assai più oscura è la terzina che segue e che ha inutilmente affaticato l'ingegno degli interpreti:
E portera'ne scritto nella mente
Di lui.... ma nol dirai.... E disse cose
Incredibili a quei che fia presente.
I primi versi invece si riferiscono a fatti noti, cioè alla fastosa liberalità con cui Cangrande, rimasto solo signore di Verona nel 1311, radunava intorno a sè artisti, letterati, giullari, uomini d'arme, guelfi o ghibellini che fossero; la compagnia finì col parer anche troppa al Poeta, il quale si partì sdegnosamente da quella corte, dove (se credesi a certe leggende tramandateci dal Petrarca) la sua franchezza riuscì mal gradita. Narrasi in fatti che c'era fra gli altri un istrione procacissimo il quale con motti e con gesti osceni rallegrava assai la brigata. E Cangrande, sospettando che Dante ne fosse indispettito, gli chiese come mai un tal pazzo piacesse a tutti, e viceversa a tutti increscesse un savio come lui. Al che quegli rispose con arguta amarezza: “Perchè ogni simile ama il suo simile.„ Ed anche in altra occasione, dopo un convito, si sarebbero scambiate male parole il Poeta e il Signore esaltato dal vino. Vere o false, queste storielle ritraggono i costumi delle corti medioevali; e parimente ci dà un'idea di tal vita allegra e agitata una bizzarra frottola di Manuel Giudeo, che fu amico e ammiratore di Dante, e che dava il vanto a Verona su tutte le terre di Levante da lui visitate:
Destrier e corsiere,
Masnate e bandiere,
Coraccie e lamiere
Vedrai rimutare.
E poi fanti che passano, bandiere che sventolano, strumenti che suonano....
Qui vengono feste
Con le bionde teste,
Qui son le tempeste
D'amore e d'amare.
In altre strofette si descrive la più eletta compagnia che raccogliesi nelle sale del Palazzo:
Baroni e Marchesi
De tutti i paesi
Gentili e cortesi
Qui vedi arrivare.
E vi si fa cenno di dotte discussioni che peraltro non dovevano procedere molto tranquille:
Quivi astrologia
Con philosophia,
E di theologia
Udrai disputare;
Quivi Tedeschi
Latini e Franceschi
Fiamminghi e Inghileschi
Insieme parlare;
Fanno un trombombe
Che par che rimbombe
A guisa di trombe.
. . . . . . . . . .
Vi s'incontrano giudei, saraceni, romei, pellegrini, cantori, trovatori, falconieri, ragazzi; poveri affamati; animali domestici e selvaggi; è una corte bandita dove tutti si satollano, tutti si sollazzano di giorno e di notte, con giuochi senza fine: assai lontano crepuscolo alle raffinate eleganze onde rifulgeranno nel seguente secolo, le case e le ville medicee di Firenze, i palagi ducali di Ferrara, di Mantova e d'Urbino.
E questo è 'l signore
Di tanto valore
Che 'l suo grande honore
Va per terra e per mare.
A questa conclusione del nostro rimatore fanno eco altri contemporanei che pagarono con simili lodi i benefizi ricevuti dallo Scaligero: così il Ferreto, storico e poeta di Vicenza, ne cantò la gloria in un poema latino, ed il cronista Sagacio Muzio Gazzata ci lasciò una descrizione delle splendide stanze assegnate agli ospiti, dipinte con diversi emblemi a seconda della condizione delle persone.
Per contrario non gli si mostrò benevolo nè in prosa nè in verso Albertino Mussato, l'insigne storico e il poeta incoronato di Padova, sebbene preso in guerra, sotto le mura di Vicenza, fosse stato trattato da Cangrande più come ospite che come prigioniero. Ma egli era uno dei pochi che serbassero in cuore il culto disinteressato della libertà e del Comune: onde non perdonò mai al signore di Verona le violenze e le insidie a danno della sua patria, mentre per amor di questa, dimenticò, nel maggior pericolo, le ingiurie e l'esiglio sofferti dai Carraresi, che si eran fatti tiranni della città; e invitato si unì con essi contro il comune nemico.
Autore, tra le altre opere, di una tragedia latina dove col titolo di Ecerinis mette in iscena il tiranno, già diventato leggendario, della Marca Trevigiana, il Mussato chiama lo Scaligero Ezelino redivivo. Ma questi, benchè non immune dai vizi dell'età sua e del suo stato, non merita davvero sì ingiuriosa appellazione. Si citano di lui vari tratti che lo mostrano magnanimo anche cogli avversari e assai men rapace d'altri più potenti sovrani; così quando Filippo il Bello, d'accordo con Clemente V, abolì l'ordine dei Templari ( nel Tempio portò le sacre vele ), e si appropriò le immense ricchezze che possedeva in Francia, Cangrande invece consegnò lealmente ai cavalieri Gioanniti i beni immobili esistenti nel suo Stato, e volse ogni rimanente a vantaggio della città. La sua potenza fondavasi sull'accorgimento politico non meno che sulla virtù guerresca, ed era giunta all'apice nel 1319. Aveva finito col sottometter Padova, cedutagli dallo stesso Marsilio da Carrara, in odio al suo tristo congiunto Niccolò; e posto l'assedio a Treviso, anche questa città gli si arrese, per consiglio degli anziani che vollero prevenire un moto di popolo in favore della nuova signoria. Ma pochi giorni dopo esservi entrato, morì di morbo improvviso, e la sua fine, se crediamo ad un anonimo cantore, fu pianta da tutti, baroni e plebei, e anche da ogni principe e re di corona.
Mort'è la fonte de la cortesia,
Mort'è l'onor de la cavalleria,
Mort'è il fior di tutta Lombardia,
Ciò è messer Can grande,
Che 'l suo gran core e la sua valoria
Per tutto 'l mondo spande!
Ed un altro rimatore, forse più antico, diceva del pari in un sirventese non pervenutoci intero:
Messer Can de la Scala, franca lanza
[è 'l più le]al che sia de qui a Franza,
[per tutto] 'l mondo el porta nomenanza
de prodeze.
I nipoti Mastino ed Alberto ne ereditarono il dominio e l'ambizione, ma non l'animo nè il senno. La fortuna in principio li favorì coll'acquisto di Brescia, di Parma e di Lucca; ma la loro minacciosa grandezza suscitò nel 1337 una lega capitanata da Venezia e Firenze, coi Visconti, i Gonzaga ed altri signori italiani e stranieri a desolazione e rovina degli Scaligeri. Dicevasi allora, e lo riporta un anonimo cronista romano, che Mastino si fosse procacciata una preziosa corona per farsi incoronare re de Lommardia; una simile accusa, in sul finir del secolo, si ripeterà per Giangaleazzo Visconti: e bastava a stringere momentaneamente in un fascio le forze di tutti, contro il pericolo da tutti temuto. Mastino II e Alberto, vinti ed oppressi, perdettero tre quarti dei loro stati e dovettero nel 38 giurar fedeltà a Venezia, cedendole Treviso, Bassano e altre terre. Dopo di loro, quella casa sì ben cominciata finì malamente tra fratricidi e congiure, e nel 1387 Verona cadde in balìa di Giangaleazzo.
L'istessa sorte toccò l'anno seguente a Padova ed ai Carraresi che avevano imprudentemente aiutato Giangaleazzo contro gli Scaligeri. Marsilio, il quale aveva ottenuto la signoria della città, in premio di aver tradito Mastino per cui trattava la pace, era morto prima di poterne godere, e l'aveva lasciata al cugino non meno fornito d'ingegno che di crudeltà. Avendo questi chiamato a succedergli per testamento un Papafava, l'erede escluso, Giacomo da Carrara, assassinò l'altro nel 1345, e morì assassinato egli stesso cinque anni dopo. Il nipote e il pronipote, Francesco il Vecchio e Francesco Novello, che avevan dovuto nell'88 rinunziare allo Stato, lo ricuperarono dopo alcuni anni, ma finirono nel 1406 strangolati entrambi nelle carceri di Venezia.
X.
Non posso fermarmi sopra altre delle minori signorie lombarde, tutte macchiate di sangue, e pur non prive d'importanza.
Ma voglio ricordare, in grazia d'una canzone del Petrarca, i casi di Parma, la quale era passata da Giberto da Coreggio ai Rossi e da questi, per accordi intervenuti, agli Scaligeri, nel 1335. Sei anni appresso, Azzo da Coreggio, che già era stato avvocato dei nuovi signori, in corte pontificia, patteggiò coi Visconti e coi Gonzaga che se l'aiutavano a cacciare costoro dalla sua patria egli ne terrebbe la signoria per cinque anni e poi la consegnerebbe a Luchino Visconti. La sollevazione promossa da uno de' suoi fratelli e da lui soccorsa riuscì felicemente; ed il Petrarca, che entrò con Azzo medesimo, suo amicissimo, nella città liberata, celebrò il fatto in bellissimi versi
Libertà, dolce e desiato bene
Mal conosciuto a chi talor no 'l perde,
Quanto gradita al buon mondo esser dèi.
Da te la vita vien fiorita e verde:
Per te stato gioioso si mantene
Ch'ir mi fa somigliante agli alti dei....
. . . . . . . . . . . . . . .
E poi, con un giuoco di parole o con allusioni conformi al costume letterario del tempo, così continua:
Cor regio fu, sì come sona il nome
Quel che venne securo a l'alta impresa
Per mar per terra e per poggi e per piani;
. . . . . . . . . . . . . . . . .
E soave raccolse
Insieme quelle sparse genti afflitte
A le quali interditte
Le paterne lor leggi eran per forza,
Le quali, a scorza a scorza,
Consunte avea l'insazïabil fame
De' Can che fan le pecore lor grame.
E qui viene una erudita enumerazione di tiranni, per concludere, con esagerazione o meglio con finzione poetica, che Mastino e Alberto erano i peggiori di tutti.
E la bella contrada di Trevigi
Ha le piaghe ancor fresche d'Azzolino;
Roma di Gaio e di Neron si lagna
E di molti Romagna:
Mantova duolse ancor d'un Passerino.
Ma null'altro destino
Nè giogo fu mai duro quanto 'l nostro
Era, nè carte e inchiostro
Basterebben al vero in questo loco;
Onde meglio è tacer che dirne poco.
Al che tien dietro, per contrapposto, un cenno, più breve, dei principali fautori di libertà, fra i quali tutti naturalmente Azzo porta la palma:
Non altri al mondo più verace amore
De la sua patria in alcun tempo accese....
. . . . . . . . . . . . . . .
E, perchè nulla al sommo valor manche,
La patria tolta a l'unghie de' tiranni
Liberamente in pace si governa;
E ristorando va gli antichi danni
E riposando le sue parti stanche
E ringraziando la pietà superna,
Pregando che sua grazia faccia eterna.
E ciò si po sperar ben, s'io non erro;
Però ch'un'alma in quattro cori alberga
Et una sola verga
È in quattro mani et un medesmo ferro.
Per gustare artisticamente tal canzone bisogna dimenticare l'occasione per cui fu composta e i fatti che precedettero e susseguirono la celebrata liberazione di Parma. Ma per lo storico invece importa assai il ricordarli; poichè in tal guisa la poesia diventa altresì un documento psicologico, mostrandoci come uno de' più nobili ingegni di quel secolo, pronto ad esaltarsi ai nomi di patria e di libertà, si studiasse di rappresentare quali magnanimi eroi i suoi amici Da Coreggio, purgandoli dalla taccia di traditori. Questo, secondo il Carducci che ha illustrato da par suo l'intiera canzone, è l'intendimento politico con cui fu scritta, e che fa capolino nel congedo:
Tu pôi ben dir, chè 'l sai,
Come lor gloria nulla nebbia offosca.
E, se va' in terra tosca
Ch'appregia l'opre coraggiose e belle,
Ivi conta di lor vere novelle.
Del rimanente se è vero che nei primi tempi il governo dei quattro fratelli Da Coreggio parve imparziale e paterno, presto andò peggiorando; si mise tra loro la discordia; ed Azzo, assenzienti i più, finì nel 44 con cedere la signoria a Obizzo d'Este per 60 mila fiorini d'oro. Laonde Luchino Visconti, lagnandosi della mancata fede, si unì col Gonzaga e cogli Scaligeri, e ruppe la guerra; sinchè nel 46 convenne con Obizzo che gli retrocedesse la città contro rimborso del denaro da lui pagato ad Azzo; il quale poi, riconciliatosi cogli Scaligeri, ne ottenne nuovamente la fiducia, e nuovamente la tradì: “falso ed abietto uomo„ ben dice il Carducci, chè tale va giudicato sebbene il buon Petrarca “seguitasse ad amarlo e lodarlo, e gli dedicasse quasi a conforto i dialoghi De remediis utriusque Fortunae, e ne compiangesse la morte.„
XI.
La terra tosca, a cui il Poeta indirizzava la canzone (che poi tralasciò peraltro di porre tra le sue Rime ) e dove i Da Coreggio desideravano apparire amatori di libertà, non era propizia all'impianto di stabili signorie; ma neanche v'attecchivano ordini durevoli d'alcuna sorta. Tutti avete a mente il rimprovero di Dante a Firenze:
....... fai tanto sottili
Provvedimenti, ch'a mezzo novembre
Non giugne quel che tu d'ottobre fili,
rimprovero che fu suggerito senza dubbio al Poeta dall'acerbo ricordo del suo Priorato (incominciato il 15 ottobre e interrotto anzi tempo il 7 novembre del 1301), ma che si riscontra giusto in tutta quanta la storia del nostro Comune. Legge fiorentina, suonava un vecchio dettato, fatta la sera e guasta la mattina.
Per tacere dei mutamenti d'istituzioni, di magistrature e di leggi (alcuni dei quali erano vere rivoluzioni più radicali delle moderne, e, come allor dicevasi, facevano popolo nuovo), il Comune, dove già aveva spadroneggiato nel 1301 Carlo di Valois coi guelfi neri, sotto gli auspicî di Bonifacio VIII, nel 1313 dette la signoria di sè per cinque anni all'angioino re Roberto di Napoli, e similmente per altri dieci, nel 25 e nel 26, al primogenito di lui Carlo duca di Calabria (che in diciannove mesi fece spendere più di 900 mila fiorini d'oro senz'alcun frutto); ed in fine del 42 elesse Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, a capitano e conservatore del popolo; “avventuriere, dice uno storico, di poca fermezza e di meno fede..., cupido, avaro e male grazioso, che pure il popolo stesso, ampliandogli il potere, acclamò signore perpetuo e che dopo una diecina di mesi cacciò con rabbioso furore.„ La ragione di queste frequenti dedizioni sta nella debolezza del Comune, che, riconoscendosi impotente a soddisfare le sue mire ambiziose, si affidava ad un signore di fuorivia nel quale sperava di trovare coll'unità del comando la forza che gli mancava. Tal sentimento è espresso nel caso nostro, forse meglio che da ogni storico, dal rimator popolare Antonio Pucci in un suo lamento per la perdita di Lucca: città che i Fiorentini avevano comprata da Mastino II Scaligero per ben 250 mila fiorini, ma che sol pochi mesi avevano posseduta, avendola i Pisani assediata ed espugnata. Nel lamento dunque che ha per titolo: Come Lucca si perdè, Firenze stessa così si rammarica:
Questa mi fu peggior mercantazia
Ch'i' comperasse mai in vita mia;
Sì cara mi costò la sensaria
A questa volta.
Oimè, Lucca d'ogni vertù folta,
Che, per averti meco, insieme accolta,
Ti comperai, ed altri me t'à tolta,
Ond'io rimango
Con tanta pena, ch'ogni dì me 'nfrango,
E sospirando giorno e notte piango.
. . . . . . . . . . . . . .
E di questo andare continua un pezzo, poichè la sobrietà non è la qualità propria di siffatti cantari. Ma ciò che qui importa è la lieta speranza che anima la chiusa del componimento:
Or tal signor m'à preso ad aiutare
Ched i' ò intenzïon di vendicare
Ogni passata offesa, e racquistare
L'onor perduto.
Che 'l franco capitan prod'e saputo,
Duca d'Atene ch'è per ciò venuto,
Mill'anni par che d'onore compiuto
Ci renfreschi;
E seco menerà pochi tedeschi,
Ma cavalier taliani e francieschi,
Que' che son sempre a ben ferir maneschi
Come leoni.
Ma furono vane lusinghe; e l'istesso rimatore, in una ballata scritta per la cacciata del tiranno, con arguto scetticismo fiorentino ne fa la storia sommaria e ne dà la conclusione morale, che vale per tutti i tempi:
Il giorno della Donna ( l'8 settembre ), ebbe per manna
Il Duca di Firenze signoria;
E fu disposto il giorno di sant'Anna
Che è madre della Vergine Maria;
E sì come di pria
Si disse — viva, viva! — con gran gioia,
Si gridò — muoia, muoia! —
Comunemente d'una volontade.
Se non temessi d'abusare della vostra pazienza vi leggerei anche qualche verso d'un altro lamento che il Pucci mette in bocca al duca d'Atene, dove egli ricorda che Arezzo, Pistoia, Volterra, Colle San Gemignano gli s'erano date a vita al pari di Firenze (ed è fatto vero), sicchè ei si credette esser re di Toscana; ma s'accorse a sue spese che i Fiorentini “Gente non son da tener con gli uncini„. Poichè, mentre stava per montare in su la rot a, ricevette tal colpo sulla gota, onde rimase lasso! ne la mota, Ispodestato. E il peggio fu per Firenze che a un tratto (dice il Machiavelli), del tiranno e del suo dominio priva rimase; poichè quelle città e terre si ribellarono, e non senza promesse e travagli il Comune potè ricuperarle.
Aveva ragione il vecchio Poeta popolare: per soggiogare i Fiorentini non ci volevano asprezze soldatesche e violenze tiranniche, ma arti raffinate e modi civili; e già in mezzo alle discordie delle arti maggiori e minori, e delle famiglie antiche e delle nuove, fra il breve trionfo dei Ciompi e le vendette dei grandi, si faceva strada una casa di ricchissimi e intelligenti banchieri che doveva nel secolo XV creare una particolare forma di signoria, appropriata all'indole della città e assai più salda delle precedenti.
XII.
Di tutt'altra natura fu la dominazione esercitata su Pisa e su Lucca fra il 1313 ed il '16 da Uguccione della Faggiuola, gentiluomo romagnolo, prode capitano, ma anche meno dello Scaligero, degno di rappresentare (come fantasticò qualche studioso) il Veltro dantesco. Più volte podestà d'Arezzo ed anche di Genova, di Gubbio, di Pisa e d'altre città, ora chiamato ed ora remosso, ora campione ora sospettato traditore dei ghibellini, egli mirava a farsi uno Stato; e vi riuscì un momento prendendo Pisa per volontaria dedizione e Lucca per forza. Benchè battesse i guelfi toscani e i reali di Napoli nella gran giornata di Montecatini del 1315 (il quale avvenimento porse occasione in quel tempo ad ma ballata anonima mirabile di fervente ispirazione partigiana), fu poco dopo cacciato a furia di popolo dalle sue due città, e morì combattendo sotto le bandiere di Cangrande.
I Lucchesi, liberatisi da Uguccione, elessero capitano e poi signore per un anno il loro concittadino Castruccio Castracani, che aveva passato la gioventù trafficando e militando in Francia e in Inghilterra, ed era stato rimesso in patria da Uguccione stesso insieme cogli altri fuorusciti ghibellini. Ma in quel momento era in carcere e condannato a morte, non ostante il valore mostrato a Montecatini, per cagion di certi omicidi e ladronecci commessi in Lunigiana. Era invero una natura d'uomo e di tiranno, tra tanti, originale e singolarissima: feroce ed ardito, accoppiava le arti civili e politiche colle virtù militari; procedeva senza scrupolo in ciò che gli consigliava la ragione di Stato, e riusciva pure a farsi adorare dai soldati e dai sudditi. Meritò insomma che il Machiavelli ne facesse il protagonista d'una specie di romanzetto storico che intitolò dal suo nome. Bandì trecento famiglie, ne sterminò altre (fra le quali i Quartigiani suoi primi fautori), abbattè trecento torri, servendosi dei materiali per costruire una fortezza, riordinò le milizie cittadine e mercenarie, le esercitò alle finte battaglie, e le capitanò vittoriosamente nelle vere. Accorto parlatore, sempre primo a farsi innanzi in ogni frangente, bastò talvolta la sua sola presenza a sedare un tumulto o a ricondurre le schiere all'assalto. Dopo quattro anni si fece attribuire la signoria perpetua; e, ripresa la guerra coi Fiorentini, li sconfisse a Altopascio nel 1325, inseguendoli poi fino a Signa; il che fu cagione che Firenze si desse a Carlo di Calabria. Già si era impadronito di Prato e di Pistoia; Lodovico il Bavaro con cui entrò in Pisa e che accompagnò a Roma, lo aveva fatto duca, ed egli sfidava una crociata banditagli contro dal cardinale legato Giovanni Orsini, quando morì nel 1328. Nè i figliuoli di lui poterono mantenersi in istato.
Troppo lungo sarebbe enumerare le signorie a cui soggiacque Pisa, innanzi e dopo quella di Uguccione; la prima fu, tra il 1284 e l'88, del conte Ugolino della Gherardesca, la cui catastrofe è sì famosa, e sulla cui memoria pesa una taccia di tradimento, che il mio amico Del Lungo con sagaci ragioni persuade, se non a remuover del tutto, almeno ad attenuare; l'ultima fu del tristo Jacopo d'Appiano, che nel 1392 assassinò il suo predecessore Piero Gambacorti, di cui era cancelliere e familiare; il figliuolo Gherardo nel 98 vendette il dominio a Giangaleazzo, riserbandosi Piombino e l'isola dell'Elba, dove la famiglia durò fino al secolo XVI.
XIII.
Pisa, come avverte giustamente il prelodato storico dei guelfi pisani, è il Comune di Toscana che offre minori dissomiglianze con quelli d'oltre Apennino. E però ci apre la via a dir due parole dei tiranni di Romagna, sui quali ha raccolte molte notizie con lodevole diligenza il conte Pietro Desiderio Pasolini. Questi osserva a ragione ch'essi si distinguono tra loro poco più che pel nome, e generalmente non sono notevoli se non per gli atroci delitti di cui sono autori spietati o vittime miserande, e talvolta l'uno e l'altro successivamente, quasi tutti feroci e perversi, pronti a tradire ed a spegnere amici, parenti e fratelli, senz'alcun fine ideale, senz'alcun principio comune, salvochè la sete di dominio. Aggiungasi che la lontananza dai papi, dopo il 1304, e lo scisma d'Occidente dopo il 1378, favorivano le ambizioni dei signori, in quell'inestricabile sviluppo di guerre, di congiure e di stragi. Mettiamo da parte, innanzi tutto, il buon Guido da Polenta, amico di Dante, a cui rese degne onoranze funebri dopo averlo ospitato negli ultimi anni; protettore di Giotto che chiamò a dipingere due chiese a Ravenna; e gentil rimatore egli stesso. I Polentani si erano fatti grandi col favore del clero e quali vicari arcivescovili; ma dopo il 1282, grazie alle podesterie esercitate e all'autorità acquistata, fondarono pacificamente la signoria di Ravenna e di Cervia, or combattendo, or venendo ad accordi coi pontefici e coi loro conti di Romagna:
Ravenna sta, com'è stata molt'anni:
L'aquila di Polenta la si cova,
Sì che Cervia ricopre co' suoi vanni.
Se non che, dopo la morte di Dante, accadde un tristo mutamento. Guido Novello e il fratel suo l'arcivescovo Rinaldo troppo dirazzavano dai loro conterranei per poter durare a lungo; e nel 1322, mentre l'uno era capitano del popolo a Bologna, e l'altro teneva il governo senz'alcun sospetto, un cugino, di nome Ostasio, si fece dare da quest'ultimo le chiavi della città, e, introdotto uno stuolo di sicari, lo fece scannare nel proprio letto. Il popolo acclamò costui podestà e sbandì come ribelli Guido e gli amici suoi, che invano sperarono e tentarono di essere richiamati.
Uniti in parentela coi Polentani erano i Malatesta di Rimini; parentela che condusse ad una tragedia domestica immortalata da Dante e modernamente posta in iscena dal Pellico; finchè duri al mondo un alito d'amore e di poesia, ogni cuore gentile palpiterà al racconto dei dubbiosi desiri e dell'ardente passione onde furono avvinti Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, passione così forte che neanche l'inferno valse a discioglierne i nodi, ed in ciò almeno, la colpa, secondo la fantasia del Poeta, vinse la giustizia divina. Il pietoso fatto successe a quanto pare nel 1285, e divise per un tempo le due famiglie; ma pochi anni dopo l'utile comune le riconciliò. Antichi cittadini di Rimini, i Malatesta da Verrucchio, seguivano al pari dei Polentani la parte guelfa; e del pari anche resistevano ai conti pontifici ed ai papi stessi, che due volte, dal 283 al 300, li misero al bando della Chiesa e poi li ribenedirono. Nel 1295 ci furono a Rimini tre giorni di guerra civile tra guelfi e ghibellini, capitanati i primi da Malatesta dei Malatesti, i secondi da Parcitade dei Parcitadi, prode e virtuoso cavaliere. Ma avendo saputo il Malatesta che Guido da Montefeltro (di cui or ora darò notizia), veniva in aiuto agli avversari, finse di voler rappaciarsi col suo competitore. I due infatti si abbracciarono tra gli evviva del popolo, e convennero di radunar le genti assoldate. Il Parcitade mantenne scrupolosamente la parola data; ma l'altro nascose o fece tornare indietro i suoi scherani, coi quali, la mattina seguente, s'impadronì della città facendo strage dei ghibellini. Il Parcitade si salvò a stento, ma due suoi figliuoli un Montagna ed un Ugolino Cignatta furono fatti prigioni, e trucidati da Malatestino, degna progenie di Malatesta. Dante lo ricorda chiamando costoro:
Il Mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio
Che fecer di Montagna il mal governo.
Malatestino poi, succeduto al padre nel 1312, volendo insignorirsi di Fano, chiamò a parlamento due dei migliori cittadini, e giunti che furono al ritrovo li fece senz'altro uccidere e gettare in mare.
Similmente a Faenza, nel 1285, Alberigo Manfredi che fecesi poi frate di Santa Maria, per meglio vendicarsi del fratello e del nipote da cui aveva ricevuto uno schiaffo, finse di volersi riconciliare con loro e li invitò a desinare al suo castello di Cerata. Verso la fine del banchetto gridò: “Vegna la frutta„ e i suoi sicarii sbucarono dalla cortina dietro la quale erano appostati e li scannarono. Una multa e un breve esilio composero la faccenda; ma Dante lo trova all'inferno, confitto nel diaccio, dove dice:
Io son Frate Alberigo
Io son quel dalle frutta del mal orto,
Che qui riprendo dattero per figo.
Una particolarità di Maghinardo Pagani che tiranneggiava Imola e Faenza era di recitare scopertamente una doppia parte nella commedia politica fra il due e il trecento: pupillo ed amico del Comune di Firenze, a cui il padre l'aveva raccomandato morendo, e per cui combattè a Campaldino, egli era guelfo in Toscana e ghibellino in Romagna:
Le città di Lamone e di Santerno
Conduce il lioncel del nido bianco,
Che muta parte dalla state al verno.
Aveva anche il soprannome di demonio; e Dante dice altrove che le buone opere de' suoi discendenti non basteranno a far che “puro giammai rimanga d'essi testimonio„. Non va poi confuso cogli altri tirannelli romagnoli quel valoroso guerriero e feudatario ghibellino che fu Guido da Montefeltro, al cui avo Buonconte, Federigo II aveva concesso la città e contado d'Urbino. Fedele alla casa di Svevia accompagnò nell'infelice impresa il povero Corradino; poi, ritiratosi in Romagna, sfidò e vinse in una gran battaglia nel 1275 i guelfi condotti da Malatesta da Verrucchio; sicchè parve sul punto di dominare l'intera regione; ma la parte avversa riprese il sopravvento dopo l'elezione di papa Martino IV e l'invio di soldatesche francesi; assediato in Forlì da forze preponderanti e ridotto agli estremi, si racconta che Guido si liberasse e facesse strage del nemico con un audacissimo stratagemma: poichè uscì chetamente dalla città cogli uomini validi, lasciando aperta una porta, e dentro i vecchi, le donne e i fanciulli; quindi mentre gli assedianti entrati in Forlì gozzovigliavano, piombò loro addosso improvvisamente; dicesi che vi perissero quasi tutti gli ottomila francesi; al che allude Dante coi noti versi:
La terra che fe' già la lunga prova
E di Franceschi il sanguinoso mucchio
Sotto le branche verdi si ritrova.
Fu questa peraltro una vittoria di Pirro: Forlì, che aveva eroicamente resistito per oltre un anno, ad un tratto si sottomise senza voler più combattere; e così Cesena, Forlimpopoli ed altre terre; Guido, perduto tutto lo Stato, venne a patti col papa, che gli prese in ostaggi due figli e lo confinò prima a Chioggia, poi in Asti, dove era da tutti onorato. Uomo di retto animo lo dice fra Salimbene, costumato, liberale e amico de' Frati Minori. Nel 1289, invitato da Pisa ad assumer l'ufficio di podestà e di capitano del popolo, ruppe il confino; dopodichè, nel 94, tornò in pace colla Chiesa; ribenedetto da Celestino V ed entrato in grazia di Bonifazio VIII, ricuperò i suoi possessi e fu mandato con 500 cavalli a difesa del Regno di Napoli; due anni appresso, stanco della vita e pentito delle colpe commesse, vestì l'abito di san Francesco, e morì santamente in Assisi nel 1298. Il racconto di Dante sul consiglio fraudolento da lui dato a Bonifazio VIII pare una leggenda, da cui il Poeta traesse buon partito per sfogare il suo sdegno contro “lo Principe de' nuovi Farisei„.
XIV.
Primeggia, fra tanti feroci uomini, una donna così energica e valorosa che guelfi e ghibellini si uniscono ad ammirarla. È la Cia o Marzia, degna moglie di Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlì e di Cesena che un anonimo contemporaneo chiama “perfido cane patarino, ribelle della Santa Chiesa.... uomo disperato„; ed aggiunge che “aveva odio mortale a li prelati.... e non voleva... vivere a discrezione di preti„. Amico del Boccaccio, da trent'anni si rideva così delle scomuniche come delle ribenedizioni pontificie, allorquando nel 1353 venne il cardinale Egidio d'Albornoz, mandato da Innocenzo VI, a sottomettere i tiranni di Romagna, i quali, approfittando della lontananza della Corte pontificia, trasferitasi da 46 anni in Avignone, s'erano fatti sempre più riottosi e indipendenti. L'Ordelaffi, che da principio aveva stretto in lega gli altri signori, rimase poi solo, coi Manfredi di Faenza, a negare obbedienza al legato, che bandì una crociata contro di loro; anche i Manfredi, perduta la lor città, dovettero schierarsi fra i suoi avversari; ma egli aveva seco la moglie, la quale aveva già dato prova di valore combattendo (dice Matteo Villani) “non come femmina ma come virtudioso cavaliere; ed a lei affidò la custodia di Cesena. Essendovi entrato il nemico col favor del popolo levatosi a tumulto, Cia si ritirò nella murata, o ricinto intorno alla rôcca, e la difese (continua a narrare il cronista fiorentino) “ella sola guidatrice della guerra, stando il dì e la notte coll'arme indosso„. Durò un mese, dal 29 aprile al 28 maggio, a contrastare il passo alle genti del legato; quindi “avendo fatto meravigliosamente d'arme e di capitaneria alla difesa, si ridusse con 400 tra cavalieri e masnadieri nella rôcca, acconci a' comandamenti della donna, per singulare amore, sino alla morte„. Otto macchine scagliano una grandine di pietre sì che le torri squarciate minacciano rovina. Il padre di Cia, Vanni Ubaldini, signore di Susinana, che milita nell'esercito pontificio, supplica la figliuola d'arrendersi. “No, risponde essa, quando mi deste in moglie al mio signore, non mi raccomandaste voi di obbedirlo ad ogni costo? Ora egli ha affidata questa rôcca a me: io la difenderò sino alla morte.„ Quando dopo 22 giorni di disperata resistenza i suoi connestabili le dimostrarono non esservi più riparo e dichiararono che non intendevano perir schiacciati tra le macerie, “la valente donna.... non cambiò faccia nè perdè di sua virtù„. Ma prese essa stessa a trattare col legato e ne ottenne che tutti i suoi soldati potessero uscir liberi, portando seco ciò che volevano. Nulla chiese invece per sè nè pei suoi figli e congiunti; e menata con essi in prigione nel castello d'Ancona “così contenne il suo animo non vinto e non corrotto, come se la vittoria fosse stata sua„. Trattata onestamente, ricusò, a quanto affermasi, di essere immediatamente liberata “temendo la subitezza del marito„. Il quale continuò dal canto suo a sostener con eroica fermezza lo sforzo delle armi nemiche, e soltanto dopo ventitrè mesi (il 4 luglio del 1359) sopraffatto dal numero, rese al legato la rôcca di Forlì, e implorò umilmente il perdono che, trascorsi pochi giorni, gli fu largamente concesso a prezzo di tenue penitenza. Assolto dalle condanne e creato vicario pontificio in Forlimpopoli e Castrocaro, tornò a ribellarsi; militò agli stipendi dei Visconti, e quindi della repubblica di Venezia, dove fu raggiunto dalla fida consorte e dove finirono ambedue l'avventurosa lor vita in sì povero stato che ne furono fatte le esequie a spese della Serenissima. I loro nomi restarono popolari tra gli antichi sudditi; i quali tutti, compreso il clero, ne accolsero con grandi onoranze le ossa, quando il figlio Sinibaldo le riportò, l'anno 1381, nella città di cui aveva racquistato l'ereditaria signoria. I Forlivesi, secondo l'espressione del Villani, erano pazzi dell'Ordelaffio; e ne fa testimonianza anche un cronista anonimo che, pur non risparmiando al tiranno ingiurie e calunnie, conchiude col dire: “era incarnato coi Forlivesi ed amato caramente: dimostrava modo come di pietosa caritade; maritava orfane, allocava pulzelle e sovveniva a povera gente di sua amistade.„
In questa coppia, e non è la sola della sua specie, riscontransi in sommo grado l'indomita energia, le ardenti passioni, i subitanei trapassi delle nature medievali. E si vede pure come in mezzo ai casi della fortuna e non ostante le crudeltà necessarie, i tiranni riuscissero a conciliarsi l'affetto delle moltitudini, che preferivano l'arbitrio d'un unico e forte padrone alla discorde e faziosa sovranità comunale. Il bellicoso legato, il quale per ingegno non meno che per prodezza era degno di affrontare i tiranni romagnoli, vinti e umiliati che li ebbe, non trovò miglior partito che restituir loro le antiche signorie perchè le tenessero col titolo di vicari pontificii.
XV.
Una fra le cause della sconfitta dell'Ordelaffi furono i mercenari tedeschi del conte Lando e d'altri condottieri ch'egli aveva assoldati nel 1357 colla promessa di 25 mila fiorini, e che quindi l'abbandonarono, essendosi venduti per una somma doppia all'Albornoz; e come prima avevano suscitato colle loro rapine i malumori degli abitanti di Forlì, così poi dettero il guasto alle campagne, amici o nemici ugualmente funesti.
Era, in simil forma, una nuova forza malefica, sopravvenuta da quindici anni, ad accrescere la confusione della vita politica italiana: stava per diventare una vera e propria istituzione nazionale che doveva nel secolo XV sorgere ad insperate fortune. Il primo germe, a dir vero, risale al feudalismo, che essendo, sotto apparenze gerarchiche, una costituzione sociale sciolta e disordinata, richiedeva il braccio e favoriva le ambiziose voglie di venturieri. E venturieri ungheri e saraceni si ritrovano in Italia fin dai tempi carolingi; come erano venturieri i Normanni che conquistarono le due Sicilie. Alla medesima specie appartengono, dopo il 200, le guardie sveve che aiutarono i ghibellini in Toscana stessa, in Romagna e in Piemonte. Con quelle schiere avvezze al mestiere delle armi, le quali fecero da battistrada alle compagnie di ventura, mal potevano competere le milizie cittadine; scemato l'antico ardore che un tempo chiamava grandi e popolani sotto le insegne, per correr gualdane, per far cavalcate, per andare a oste intorno al carroccio, invalse, nel trecento, fra i Comuni come fra i Signori il più comodo costume di assoldare mercenari: in tal modo i più doviziosi apparvero i più potenti, e Venezia colle ricchezze de' suoi traffici, Firenze che (come disse Bonifazio VIII) era la fonte dell'oro, poterono stare a fronte di sovrani che possedevano molto più vasti dominii. Le guerre del secolo XIV furono quasi esclusivamente condotte da soldatesche prezzolate, specialmente tedesche. Alcune di queste masnade, licenziate da Pisa, nel 1342, pensarono di stare unite in compagnia, per andar guerreggiando i più deboli e facoltosi, mettendo in comune i guadagni da distribuirsi secondo il merito e il grado di ciascuno. Guarnieri duca d'Urslingen, che aveva fatto l'accorta proposta, ne fu eletto capo; Pisa gli offrì di soppiatto le paghe di quattro mesi; da varie parti lo aizzarono contro i signori di Romagna e contro i comuni di Siena e di Perugia; ingrossato d'altre genti, traversò la Toscana, taglieggiando, saccheggiando e devastando ogni luogo. Similmente passò in Lombardia e, fatti grassi accordi, con ricco bottino, tornò in Germania. A far pompa della sua ferocia costui portava sul petto una scritta a lettere d'argento che diceva: “Duca Guarnieri, signore della Gran Compagnia, nimico di Dio, di pietà e di misericordia.„
Il bell'esempio naturalmente trovò imitatori; e questo fu il principio delle compagnie di ventura straniere; perchè non ebbero la stessa natura le precedenti dette del Ceruglio e della Colomba; nè ebbe importanza il primo tentativo italiano della Compagnia di Siena. Bensì alle straniere si sostituirono le italiane dopo che nel 1377 il giovane conte Alberto da Barbiano fondò la sua sotto il titolo di San Giorgio, e la mise ai servigi di Urbano VI. La grande rotta ch'egli dette in Marino alle masnade dei Brettoni che minacciavano Roma, risollevò l'onore delle armi italiane e iniziò un nuovo periodo nelle vicende della milizia.
Ma io non dovevo qui se non indicarne le origini; poichè la storia dei condottieri italiani, se incomincia nella seconda metà del secolo XIV, si svolge e si compie nel XV; nè le due parti si possono separare.
XVI.
Tutti i signori si servirono di mercenari, ma niuna casa quanto quella dei Visconti, che con Matteo, cacciati per sempre i Torriani, nel 1315, si erano stabilmente insediati a Milano. Accadde al successore di lui, Galeazzo, che le sue masnade gli si ribellarono, e lo spodestarono nel 1322, ad istigazione del suo cugino Lodrisio Visconti; il quale, dopo un mese, mutato proposito, coll'aiuto delle stesse soldatesche, lo rimise in seggio. Per il che Galeazzo chiese ed ottenne di assoldare 600 cavalieri tedeschi a quel Lodovico il Bavaro che doveva poi, cinque anni appresso, imprigionarlo per un tempo nei famosi forni di Monza.
Altri già v'intrattenne, meglio ch'io non potrei fare, delle origini di questa casa e delle sue gare coi Torriani. Or qui ricorderò soltanto come Azzo figlio di Galeazzo, ingrandisse coll'acquisto di Brescia lo stato che aveva ricomprato da Lodovico il Bavaro; e come poi l'arcivescovo Giovanni v'aggiungesse Bologna vendutagli da Taddeo Pepoli e Genova ricevuta in dedizione. Morendo nel 1354 egli lasciò tre nipoti, Matteo, Galeazzo e Bernabò; gli ultimi due avvelenarono il primo e si divisero i dominii, tenendo in comune Milano e Genova. Giangaleazzo, succeduto al padre Galeazzo, incominciò, secondo le tradizioni domestiche, con carcerare e assassinare lo zio Bernabò e due suoi figli; così riunì le varie parti dello Stato; e parve ancora raccogliere in sè tutti i vizi e le qualità di quella singolare famiglia. Gli altri tiranni, pur servendosi di mercenari, solevano guidar l'esercito in campo e combattere di persona. Egli invece, rinchiuso nel suo castello, coll'opera di ministri e di condottieri, volse l'animo a fondare una grande monarchia. Bensì col sagace ingegno aveva inteso l'importanza di crearsi un esercito nazionale che capitanato da soli italiani, Ugolotto Biancardo, Facino Cane, Ottobuono Terzo, i due Dal Verme, e il maestro di tutti, Alberico di Barbiano, gli dette infatti la vittoria sulle milizie straniere. Profondo dissimulatore e destro statista, spiava ogni occasione propizia, non risparmiando denaro nè sangue, per conseguire il proprio intento. La sua crudeltà non può mettersi al paragone con quella del suo zio Bernabò, tristamente famoso per l' uffizio dei cani e per quelle quaresime, che erano 40 giorni di lenti tormenti, cui sottometteva le sue vittime prima di finirle; mentre egli dimostrò pure il suo gusto per la scienza e per l'arte istituendo un'accademia di architettura e di pittura, raccogliendo codici, ampliando l'università e fondando la certosa di Pavia, iniziando la costruzione del Duomo di Milano. Prese Verona e Vicenza agli Scaligeri, Padova e Treviso ai Carraresi; occupò Siena e Pisa; poi Perugia ed Assisi, ed infine Spoleto e Bologna; anche Lucca stava per cadere in sua balìa. Firenze sola resisteva gagliarda, ma incominciava a sgomentarsi. Egli aveva comprato, per 100 mila fiorini, dall'imperatore Venceslao il titolo di duca; ma ambiva quello di re; e già ne aveva ordinato la corona, quando improvvisamente morì nel 1402; e l'edifizio da lui innalzato andò in isfacelo.
Uno stuolo di poeti in Lombardia, in Toscana, nell'Emilia celebrava il gran principe e lo stimolava a compiere il suo vasto disegno; e vorrei potervi dare qualche maggior saggio di tal letteratura viscontea, così ricca che ha dato materia ad una speciale bibliografia. Persino la vita e la morte dell'odioso Bernabò aveva acceso la fantasia di novellieri e di cantastorie; a lui non mancarono rime politiche, che lo animassero nelle sue imprese dicendogli: “ Al punto se' d'Italia dominare „; nè lamenti che moralizzassero poi sulla sua misera fine o che ne facessero l'epico racconto. Ma anche più numerosi e importanti sono i versi indirizzati a Giangaleazzo. La canzone di Saviozzo, che abbiam citata in principio, lo invitava senz'altro a prender la corona d'Italia, col favore delle stelle, dei Numi, dei Santi e dei Beati, anzi faceva che l'Italia stessa gliela offerisse:
Ecco qui Italia che ti chiama padre,
Che per te spera omai di trionfare,
E di sè incoronare
Le tue benigne e preziose chiome.
Similmente un Tommaso da Rieti lo esortava a seguire il leggiadro e bel destino a cui i Cieli lo chiamavano
Per onorare il gran nome latino,
E far vendetta della lunga offesa
D'Italia nostra, dopo lunghi affanni.
E ripetevagli:
Correte alla corona
Che vi promette chi corrusca e tona.
Un anonimo rimatore gli rappresentava le città lombarde, che schiave ed afflitte, aspettavano salute da lui:
Stan le città lombarde con le chiavi
In man, per darle a voi, Sir di Virtute.
e Roma stessa lo chiamava Cesar mio novello e gli chiedeva di coprire la sua nudità, per dar principio all'affrancazione di tutta Italia.
Infine, riproducendo sott'altra forma la stessa idea, un padovano, Francesco di Vannozzo, gli dedicava una corona di otto sonetti, il primo a nome d'Italia, gli altri delle principali città: Padova, Vinegia, Ferrara, Bologna, Firenze, Rimini, Udine, Viterbo, Roma, tutte unanimi di una sognata concordia; per cui il poeta concludeva:
Dunque, correte insieme, o sparse rime,
E gite predicando in ogni via
Che Italia ride e che è giunto il Messia.
Ma il Messia di Francesco di Vannozzo, come il Veltro di Dante, erano di là da venire. Spirato che fu Giangaleazzo, nel 1402, apparve chiara la vanità di quelle speranze e di quelle profezie. I valorosi capitani che lo avevano servito passarono subito agli stipendi de' suoi nemici: il Barbiano fu assoldato dai Fiorentini, il Del Verme da Venezia, Carlo Malatesta dal Papa; altri si fecero signori di alcune città ribellatesi, come Facino Cane a Alessandria, Ottobono Terzi a Parma, Pandolfo Malatesta a Brescia. La vedova di lui, Caterina, morì in prigione: ai due figliuoli legittimi, che si erano diviso lo Stato, restò soltanto un'ombra d'autorità; ed un terzo, naturale, che comandava in Pisa, ne vendette la cittadella ai Fiorentini. In tal modo si avverò pure questa volta il detto del Villani sulla formazione e sulla fine delle signorie.
XVII.
Anche per noi è tempo di por fine al discorso e di raccoglier le vele. Abbiamo veduto come, dopo essersi sostituito al feudo, il Comune, travagliato da fazioni interne e circondato da potenti nemici, avendo oppresso parte de' suoi abitanti ed escluso dal governo le genti soggette, fosse tratto necessariamente a perdere le proprie libertà ed a trasformarsi in signoria; e come trovasse molti ambiziosi pronti ad assumerne o a usurparne la sovranità col favore d'una fazione o dei più. Abbiamo veduto come questi signori o tiranni sorti cogli accorgimenti, colle violenze o più spesso con gli uni e le altre, fossero costretti a servirsi degli stessi mezzi per mantenersi, e governassero generalmente senza alcuno scrupolo nè freno morale, creando una forma originale di Stato, che per altro conteneva in sè il germe della propria rovina. Abbiamo veduto infine come con tale condizione di cose si collegasse per varii rispetti l'uso delle armi mercenarie e l'origine delle compagnie di ventura; e come le minori signorie andassero a mano a mano inghiottite dalle maggiori.
Questo moto di fatti storici, a cui fa riscontro in altri paesi d'Europa, la costituzione di monarchie nazionali, non produsse in Italia il medesimo effetto; perchè incontrò un invincibile intoppo, non tanto nel papato (come sentenziò il Machiavelli), quanto nell'indole individuale degli Italiani, contrastando alla unità il sentimento proprio delle diverse città e regioni, e mancando tuttavia una coscienza politica nazionale. E qui mi fermo. Non temete che, raffrontando il passato al presente, io vi ripeta ciò che sta scritto nel cuore d'ogni italiano. Qualsiasi più gustoso sapore, diventerebbe stucchevole, se fosse ammannito a tutto pasto.
Aimez-vous la muscade? on en a mis partout!
Dirò soltanto che occorreva si avverasse, per tutta quanta la patria nostra, la profezia predicata a Firenze dal Savonarola. Bisognava che l'Italia per rinnovarsi fosse flagellata a sangue; e la flagellazione doveva durare più secoli. Così possano le memorie del passato e lo studio della storia (per amor del quale avete oggi dato una prova di longanime pazienza), spronandoci ad emulare la feconda operosità intellettuale e la mirabile spontaneità artistica del primo rinascimento, premunirci dal rinnovare, sott'altri nomi, le discordie intestine e le intolleranze faziose dei Comuni, le crudeltà e le perfidie dei tirannelli, le male arti e le interessate scorrerie degli avventurieri senza patria, senza fede, senza ideali!
LE CONSORTERIE NELLA STORIA FIORENTINA DEL MEDIO EVO
DI MARCO TABARRINI
Signore gentili e signori,
La vita morale dell'uomo ha presso a poco le stesse leggi che governano la natura fisica. Tutti più o meno abbiamo l'età in cui fioriscono le facoltà della mente, come piante vigorose in terra vergine; alla quale succede poi quella che ne matura i frutti; finchè si arriva alla vecchiezza che non ha più nè fiori da sbocciare, nè frutta da cogliere. Chi nacque col bisogno di fare qualche cosa nel mondo, di non seppellire nell'ozio il danaro dell'ingegno che gli fu concesso, se rifà con la mente la storia della sua vita intellettuale, si accorgerà facilmente che tutte le risoluzioni più efficaci di operosità di pensiero, tutti gli argomenti di studi geniali, si produssero in lui nella gioventù, vera primavera della vita, quando le forze dell'intelletto sono ancor fresche, e si ha fiducia in sè stessi e negli altri. I disegni più arditi, gli studi più faticosi son propri di quella prima levata dell'ingegno giovanile, che poi si coloriscono e si compiono nelle età successive, se un felice concorso di circostanze favorisce la buona volontà. È questa presso a poco la legge di produzione dei frutti dell'ingegno, dai più alti ai più umili.
E anch'io, per quanto ultimo degli ultimi, quando fui onorato dell'invito di fare una conferenza di argomento storico in questa cara Firenze, ove, se non ebbi la fortuna di nascere, ricevei però il battesimo della vita civile, dolente di rispondere con un rifiuto, mi diedi a riandare i miei studi giovanili, per vedere se tra i lavori incominciati ed interrotti per le vicende della mia vita, che ho dovuto consumare tutta in cure disparatissime, alcuno ne trovassi che potessi riprendere oggi, e ridurre alle proporzioni di una conferenza tollerabile. Fra il disordine di carte polverose trovai certi studi sulle consorterie del medioevo, incominciati con molta pazienza trent'anni sono, quando non mi mancava il tempo di consultare biblioteche ed archivi. Su questo tema mi aveva messo il mio maestro di diritto romano Pietro Capei; il quale mi ammonì che poco avrei trovato nei libri, e che bisognava cercare la materia negli statuti e negli atti pubblici e privati dei secoli XIII e XIV. Mi posi con grande amore in queste ricerche, e tanto mi si allargarono tra mano che il materiale raccolto fu piuttosto eccessivo che abbondante. Ma ripresi oggi quelli studi, presto dovei accorgermi che tutta quella congerie di testi e di documenti non faceva ora al caso mio, e che, tenendomi su quella via, non ne avrei potuto cavare un discorso tollerabile anche da uditori indulgenti. Allora pensai che altro non mi rimaneva da fare che trarre da quelle minute ricerche le conclusioni più logiche ed evidenti, lasciando da parte quasi tutta la preparazione erudita. Così se il mio discorso perderà gran parte della sua importanza scientifica[4], avrà però il merito di non annoiarvi soverchiamente, e, sacrificando la vanità di erudito, di trattenervi sopra un argomento poco noto di storia patria, senza tedio e stanchezza.
La gran mole dell'Impero romano nel quale si era conchiusa la sintesi della civiltà pagana, era caduta pezzo per pezzo sotto la spada dei barbari, aiutata dall'odio delle provincie soggette a Roma. La rovina fu lenta, perchè le forze che sostenevano quell'enorme edifizio vennero meno a poco a poco; e la distruzione si arrestava talvolta per qualche tempo, per riprendere poi con maggiore impeto l'opera sua. Il Cristianesimo guardava quasi con indifferenza questo sfacelo di un mondo che non era il suo, aspettando di poter ricostituire sopra altri fondamenti una nuova civiltà. Alla fine del VI secolo si può dire che la dissoluzione dell'Impero romano fosse compiuta. Roma, presa due volte dai barbari, privata dell'Imperatore e dei Consoli, non era più il capo del mondo, e con lei si spegneva lo spirito latino che aveva informato la civiltà da lei imposta alle nazioni. Un avanzo dell'Impero durava ancora sul Bosforo, nella città di Costantino, ma poco o nulla aveva di romano; e la sua vita morale si alimentava degli avanzi della civiltà greca ed orientale, infeconda nella sua decrepitezza, e sulla quale i Teologi consumavano l'opera deleteria dei Sofisti antichi.
La caduta dell'Impero latino lasciò un gran vuoto nel mondo, e l'umanità smarrita non sapeva per qual via incamminarsi per trovare nuove ragioni di civiltà e nuove forme di reggimento. Di costituito non c'era altro che la Chiesa, la quale, forte del principio che le dava vita, custodiva la tradizione latina, e preparava l'avvenire. Questo periodo di sgomento e di incertezza, è rappresentato nella storia da due secoli di oscurità e di paura, nei quali non si scorge altro che la violenza di chi opprime e l'avvilimento di chi si lascia opprimere.
Finalmente allo spirare del millenio, sopra questo campo insanguinato, in questo rimescolarsi confuso di vincitori e di vinti, cominciano a disegnarsi le prime forme civili, e si mostra l'embrione d'una società nuova. È naturale che dalle genti germaniche le quali avevano disfatto l'Impero romano, venisse il concetto dei nuovi organismi sociali; poichè la forza era nei vincitori, e chi vince colla spada nel campo dei fatti seguita a vincere nel campo delle idee. Senza fermarci a discutere quali elementi di vita propria portassero nel mezzogiorno dell'Europa le razze germaniche conquistatrici, a noi basterà notare come al finire dell'XI secolo, anche in Italia, la nuova società si fosse costituita a forma feudale, la quale era quella che meglio rispondeva ai sentimenti e al costume di quelle genti. Debolissima e quasi obliterata l'idea dello Stato unitario, della suprema potestas, come i Romani l'avevano intesa, i feudi la rappresentavano frantumata nelle famiglie. Non più la respublica divisa in provincie, in municipii, in colonie, ma un impero nominale diviso in marche, ducati e contee.
È inutile per noi la ricerca se il feudo venisse dal beneficio latino, se il colonato si mutasse in vassallaggio. Quello che importa di stabilire è chi fossero i marchesi, i duchi, i conti; chi fossero i vassalli, di chi si componesse il popolo libero.
Le irruzioni dei barbari in Italia avevano proceduto con forme diverse, producendo molta varietà di effetti. Alcune erano di eserciti che si aprivano la via con la spada; altre di popoli che scendevano ad occupare le terre abbandonate o non difese. Le prime eran passate come uragani distruggitori, le altre con occupazioni violente, avevano sovrapposto un popolo sull'altro. Gli Eruli e i Vandali, dopo aver corsa l'Italia, si erano dispersi nell'Africa; i Goti, dopo un regno effimero semi-romano, erano passati in Spagna; i Longobardi avevano preso stanza nella Valle del Po, da questa erano entrati, passando l'Apennino, nella Valle del Tevere; e coi ducati di Spoleto, di Benevento e di Salerno, avevano invaso anche l'Italia meridionale. Il regno da essi fondato durò due secoli. Distrutto da Carlo Magno, rimasero i vinti nelle loro sedi accomunati ai vincitori, coi quali avevano comune il sangue; e pesarono ambedue sulla misera plebe del popolo di razza latina. In Italia dunque, verso il mille, c'era un popolo vinto che serviva, e un'accozzaglia di vincitori che dominava. I vincitori, seguendo l'antico costume germanico che aborriva dal chiudersi nelle città murate, si erano sparsi per le campagne, e nei contadi avevano ascritto alla gleba i coltivatori delle terre, appropriandosene i frutti. Nella città era rimasto il popolo che esercitava le arti e i mestieri, ingrossato da quanti vi avevano cercato rifugio nelle prime invasioni.
Questa divisione etnografica prendeva forme civili dall'organismo feudale prevalente; ed ogni signore teneva il feudo come un piccolo Stato, sicuro nel munito castello, intorno al quale formicolavano le turbe dei vassalli. Le città uscirono da questa rete di piccole signorie, sebbene fino a un certo tempo anch'esse avessero i conti; ma forse più come magistrati che come signori.
I signori dei grossi feudi erano di stirpe longobarda o franca, e i loro titoli di signoria risalivano alle prime conquiste; poi seguivano quelli che erano venuti cogli imperatori e singolarmente cogli Ottoni, ed erano rimasti in Italia gratificati di feudi per afforzare il partito imperiale. C'erano poi signori feudali di razza latina, ed eran quelli tra i più ricchi che avevano ottenuto, per premio di devozione o per moneta, concessioni feudali dagli imperatori di Alemagna nelle loro frequenti discese in Italia; e c'erano finalmente i Vescovi e gli Abati, baroni e conti dell'Impero, pei quali era sorta la gran quistione delle investiture ai tempi di Gregorio VII. Inferiori a questi pullulavano una miriade di conti, di cattani, di militi, e di lambardi i quali o si erano arrogati la signoria di piccoli borghi o casali ai tempi della conquista, o avevano ottenuto subinfeudazioni di terre dai maggiori feudatari.
E tutti questi o per diritto di conquista o per leggi e consuetudini del diritto feudale, esercitavano giurisdizioni mal definite, o meglio un potere arbitrario che non aveva limiti, e contro il quale non c'era riparo possibile; perchè l'Imperatore che soprastava a questo esercito di prepotenti, era lontano e senza forza; i suoi Vicari tiranneggiavano per conto proprio; e il Papa, difensore naturale dei deboli e degli oppressi, doveva difendere sè stesso.
Sotto queste diverse categorie di soprastanti che comandavano, stava nei contadi la plebe dei vassalli, forse avanzo degli antichi coloni latini, e di piccoli proprietari spossessati dalla violenza delle conquiste. I miseri legati alla gleba che bagnavano del loro sudore, si compravano col fondo come il bestiame e gli altri strumenti di produzione. Ed ove i feudi avevano lasciato qualche tratto di terre franche, c'erano proprietari liberi che coltivavano il fondo con le proprie braccia, o lo facevano coltivare da lavoratori non ascritti alla gleba. La libertà e la proprietà erano sicuramente grandi benefizii per questa classe media posta tra i signori di feudi e i vassalli; ma libertà e proprietà non difese da poteri pubblici erano di poco valore, e non li francavano dalle angherie dei feudatari, che li taglieggiavano nelle vie, ai passi dei fiumi, ai mulini; o turbavano i confini dei campi con frequenti usurpazioni. Queste violenze ci sono insegnate dagli statuti dei Comuni, che più tardi ne ordinarono la repressione. Risparmio le citazioni per diminuire la noia di chi mi ascolta. Voglio però notare come il linguaggio del tempo facesse palese l'indole tutta feudale che aveva assunto la società; contado ( comitatus ) era la signoria del conte; contadini ( comitatini ) gli abitanti delle terre del contado. La parola vassallo, per quanto sappia, è rimasta viva soltanto nel dialetto romanesco, nel senso di uomo vile e spregevole; perchè a Roma, l'antica baronia durò potente più che altrove, mentre in Toscana feudi e vassalli sparirono troppo presto per lasciar traccia nella lingua.
Mi resta ora a parlare delle città che erano rimaste immuni dal regime feudale. Nelle città desolate dalle prime invasioni, e ridotte senza mura, perchè non potessero essere centri di difesa, erano rimasti gli avanzi del popolo latino, il quale viveva esercitando i mestieri ed il commercio, da cui aborrivano gli invasori, e serbando le tradizioni d'una civiltà la quale, se non era bastata a liberarli dalla barbarie irruente del settentrione, almeno li consolava nella presente miseria con la memoria dell'antica grandezza. Che gli artieri e i mercanti della città conservassero le tradizioni latine e l'orgoglio del loro sangue, e che poca presa vi facessero le leggi e le costumanze barbariche, almeno per ciò che riguarda la Toscana, mi pare indubitato. Qui meno che altrove i conquistatori presero stanza; qui prima che altrove rifiorirono le industrie e i commerci; e finalmente qui ebbe vita la lingua volgare che più si avvicinava al latino. Se a questo si aggiunge l'azione del Clero, il quale di continuo, e colla lingua rituale e con la poca coltura che possedeva, richiamava le menti al passato, e le professioni della legge personale ammesse nella legislazione carolingia, si avrà una serie di argomenti per dimostrare che gli spiriti latini continuarono negli animi del popolo della città, anche nei tempi più tenebrosi della barbarie.
Questo popolo cittadino, come abbiamo già notato, si componeva di proprietari liberi di beni nel contado, di mercanti e di artieri. Il clero ed i notari ne formavano, a così dire, la parte colta, sebbene la loro coltura andasse poco più in là del leggere e dello scrivere. Ciò che mancava a questa gente operosa, che nelle città smantellate non si teneva sicura, e nel contado andava soggetta alle vessazioni dei signori feudali, era principalmente la tutela degli interessi; e come questa tutela non la trovavano nell'Imperatore lontano ed impotente, nè tampoco nei suoi Vicari, intesi sopratutto a mantener vive le ragioni imperiali in Italia, senza alcun riguardo alla soddisfazione dei popoli, furono condotti a cercarla in sè stessi.
La stessa fiacchezza del potere imperiale, che dopo gli Ottoni, impigliato nelle guerre interne e nella gran lotta coi papi, esercitava ben poca azione sulle città italiane, prestò occasione agli uomini delle città prima di chiedere privilegi, come di rialzare le mura diroccate, poi di batter moneta, e inoltre di vendicarsi in libertà, e di costituirsi a Comune, cioè con un reggimento proprio che provvedesse ai comuni interessi. Questo felice rivolgimento che segna il principio di una grande epoca nella storia italiana, accadde sulla metà del secolo XI; e fu il risvegliarsi dell'idea del municipio latino, forse non del tutto spenta anche sotto le dominazioni barbariche, come si vede dal primo magistrato creato dai Comuni liberi, che furono i consoli, nome che non veniva sicuramente dalle foreste germaniche.
Come e quando si costituisse il Comune di Firenze, meglio che dagli altri storici antichi è stato messo in chiaro dai recenti studi del Villari, del Santini e del Del Lungo, nè io voglio ripetere qui quello che da essi fu scritto. A me basta rammentare, come, appena costituito il Comune, i Fiorentini videro bene che la nuova libertà bisognava difendere da due potenti avversari che l'avrebbero prima o poi insidiata ed oppressa; dall'Imperatore che avrebbe quando avesse potuto rivendicata la sua autorità, e dai signori feudali che impedivano al Comune di espandersi nel contado. Perciò, all'Imperatore lontano, contrapposero la Chiesa e la lega degli altri Comuni guelfi della Toscana, ed ai signori feudali vicini ruppero subito una guerra implacabile.
Ed infatti la dieta di San Genesio che costituì la lega delle città guelfe, è del 1172, ed è il primo grande atto del Comune di Firenze, che avesse effetti i quali passavano gli stretti confini del suo territorio; atto che imitava in più esigue proporzioni la Lega Lombarda, che appunto in quel tempo era uscita vittoriosa dalla guerra contro l'Imperatore Federico. Ma prima ancora della lega guelfa, il Comune aveva cominciato le guerre feudali. Fino dal 1107 si erano abbattuti i castelli di Pogna e Montegrossoli nel Chianti, e di Monte Orlandi a Signa; e in quel torno si disfà il castello di Cambiate nel Mugello e se ne cacciano i Cavalcanti. Si fabbrica Montelupo a fronteggiare gli Alberti di Capraia, e nel 1135 si rovina il castello di Monteboni, costringendo i Buondelmonti a venire in città e starvi da cittadini. Queste guerre erano feroci e si combattevano col ferro e col fuoco; e sulle prime le difese dei signori erano disperate, perchè vedevano nella vittoria del Comune la loro rovina; ma poi fatti accorti che ogni resistenza veniva meno di fronte a quegli impeti popolari che sempre si rinnovavano, alcuni piegarono ad accordi, ed il Comune li ricevette in accomandigia, che è quanto dire garantì loro la proprietà della terra, ed essi diedero fede al Comune di essere suoi difensori. Così furono accomandati i conti di Mangona e di Vernio, e più tardi i Ricasoli di Brolio ed altre potenti famiglie. E questa politica di guerra contro i feudatari non mutò mai per mutare di governi in Firenze, per oltre due secoli. Quando Pistoia fu aggregata al contado fiorentino, nel 1331, si disfanno i castelli della Montagna, e lo stesso accade nel 1339 quando Firenze ebbe Arezzo; i Tarlati e i Barbolani furono ricevuti in accomandigia, e agli Ubertini, ai Pazzi di Valdarno, ai conti della Faggiola e di Montefeltro, fu vietato di accostarsi ad Arezzo meno di dieci miglia.
Oltre a snidare i magnati dai castelli, pensò il Comune di diminuirne la potenza, emancipando i vassalli da ogni servitù, dichiarandoli liberi nella persona e nello stato, e vietando loro, sotto pena di lire mille di fiorini piccoli, di vendere per qualsiasi titolo, a tempo, o in perpetuo la loro libertà. L'atto dei Priori delle arti ha un proemio dottrinale sul diritto naturale dell'uomo ad esser libero e sull'interesse che ha lo Stato ad avere liberi cittadini anzichè servi, che parrebbe scritto nel secolo XVIII, mentre ha la data del 1279 e meriterebbe di essere testualmente riferito, non fosse altro per dimostrare che le dottrine di libertà erano note ed applicate in Italia, cinquecento anni prima che fossero proclamate in Francia dalla Rivoluzione; ma se io lo recitassi qui nel barbaro latino del notaro imperiale Bonsignore di Guezzi che lo scrisse, annoierebbe la cortese udienza, e voltato in italiano perderebbe il suo carattere e la sua importanza. È giusto poi di notare che in questa emancipazione dei vassalli, il Comune di Firenze fu preceduto dal Comune di Pistoia che la dichiarò nel 1205, e dal Comune di Bologna che fece lo stesso nel 1256; e della grande contentezza che questi atti produssero nelle popolazioni rurali, si ha la prova nell'appellativo di paradiso di gioia che ebbe a Bologna il libro ove si scrissero i nomi dei liberati.
L'emancipazione dei vassalli recise i nervi della potenza feudale, perchè tolse le braccia che essa armava in sua difesa e ad offesa degli inermi. Ma conseguenze economiche anche più benefiche ebbe quell'atto per il contado fiorentino. I signori non avendo più i contadini in loro balìa, nè potendo loro imporre la cultura dei campi come servigio obbligatorio, doverono patteggiare con essi, e diedero le terre in affitto, o in enfiteusi, o a colonia parziaria ( partiarius colonus ) per via di contratti di mezzeria ( locatio ad medium ) che poco differiscono da quelli tuttora in uso tra noi. L'enfiteusi, o come poi si disse il livello, creò gran numero di proprietari nelle terre e nelle ville, i quali a poco a poco fatti ricchi col risparmio, formarono quella grassa borghesia campagnuola che diffuse poi l'agiatezza in tutta la Toscana; mentre la mezzeria diede vita ad una classe numerosa di lavoratori liberi, quasi condomini coi padroni delle terre, che con loro ne dividono i frutti: nullum justius genus reditus, quam quod terra, cœlum, annus, refert, come dicono le carte del tempo.
Abbattuti i castelli, sciolti da ogni vincolo di servitù i vassalli, il Comune costringeva i signori di feudi a venire in città e fare vita civile. Con che animo e con quali passioni venissero in Firenze questi magnati a contendere in palagio coi mercanti di Calimala e coi lanaioli di Mercato Vecchio, è facile immaginare. Memori degli aviti castelli e sdegnando abitare le umili case dei cittadini, cominciarono a fabbricarsi palazzi merlati di solida architettura, con torri altissime, e mensole per reggere impalcature esterne, e grosse campanelle di ferro con catene atte a fare serraglio alle strade; vere fortezze munite, nel mezzo della città. E intorno al palazzo del capo della casata si distendevano le case dei parenti come campo trincerato a comune difesa. Mi ricordo che un giugno del 1853 passeggiando con Adolfo Thiers le vie di Firenze, ed ammirando le solide costruzioni degli antichi palazzi dei secoli XIII e XIV, senza finestre al pian terreno e colle mura rivestite di pietra forte, senza che il tempo vi abbia potuto fare una sconnettitura, egli osservava acutamente che i Fiorentini avevano inventato l'architettura della guerra civile.
E veramente arnesi validi di guerra civile furono quei palazzi abitati da famiglie che portavano in città i costumi e le prepotenze della vita feudale, aborrenti dalla quiete del vivere cittadinesco e dall'eguaglianza civile professata dal Comune. Le famiglie feudali di razza teutonica erano fortemente costituite, non per l'autorità del padre di famiglia secondo le leggi romane, ma per un legame di solidarietà riconosciuto e mantenuto da quanti uscivano dal medesimo sangue, e avevano comuni il nome e l'arme. Ed anche le famiglie di origine latina che avevano avute investiture feudali dagli Imperatori alemanni, avevano a poco a poco adottato i costumi e le consuetudini delle prime.
Questo vincolo di solidarietà, che era patto tacito di mutua offesa e difesa per tutti, debole finchè le famiglie feudali erano disperse nei castelli del contado, si fece forte e prese una forma più determinata quando queste famiglie furono costrette a vivere in Firenze, dove trovavano il popolo nemico, e dove il bisogno della comune difesa era più urgente. Perciò esse cominciarono dal fabbricarsi palagi e torri una presso all'altra, per essere vicini e pronti sempre all'offesa e alla difesa. Così c'erano vie ove quasi tutte le case appartenevano alla medesima casata, e le torri, costruite a spese comuni, si aprivano per accogliere in caso di pericolo, quanti erano di quel gruppo di famiglie. E le famiglie spesso erano numerose, ma, per quanto crescessero, non si staccavano mai dalla comunanza del nome che portava seco comunanza di passioni e d'interessi. Degli Ubertini di Mugello si contavano quindici famiglie, e i Cancellieri di Pistoia, mandarono in campo dei loro fino a 107 uomini d'arme.
Questa unione di famiglie uscite dal medesimo ceppo, che faceva comuni a tutti le offese e le vendette costituiva quel vincolo che allora si disse consorteria, e che era un prodotto più del costume che della legge, talvolta modificato dalle convenzioni, ma che sempre portava obbligo d'onore ai consorti di non infrangerlo. E la solidarietà dell'offesa portava seco la solidarietà della vendetta per tutti i consorti. Dante nel Canto XXIX dell' Inferno trova Geri del Bello suo parente che era stato ucciso e non vendicato; e l'ombra di costui fugge via sdegnosa senza voler parlare al Poeta, ond'egli ne spiega la ragione in questi versi:
. . . . . . La violenta morte
Che non gli è vendicata ancor, diss'io,
Per alcun che dell'onta sia consorte,
Fece lui disdegnoso; onde sen gio
Senza parlarmi......
Consorti si nasceva, e consortes sunt de eadem stirpe per lineam masculinam usque in infinitum, si legge nelle carte del tempo. Chi volesse rintracciare l'origine precisa delle consorterie, non verrebbe a capo di scoprirla; si trova il fatto nella storia, e la sua repressione nella legge statutaria, senza sapere quando e come si producesse. Piuttosto non mi pare oziosa l'indagine diretta a conoscere se le consorterie derivassero da costumanze germaniche o da tradizioni latine.
I conquistatori di razza teutonica, avean portato, con la conquista, costumi, leggi, ed affetti propri. Il Cristianesimo, ordinato nella Chiesa, compenetrava del suo spirito vivificatore gli avanzi umiliati della gente latina e le vigorose propagini dell'innesto barbarico; e mentre ai dominatori temperava gli istinti selvaggi, teneva viva nei vinti la memoria delle loro nobili origini, che non sarebbe stata sempre il misero orgoglio d'un tempo che fu. Da questa mescolanza di idee e di sentimenti, che in parte erano eredità dei vinti, in parte patrimonio dei vincitori, deriva una grande incertezza sulle origini delle istituzioni medioevali, tanto nella loro forma esteriore, quanto sul principio storico che le ha generate. Le ricerche più pazienti rare volte conducono a stabilire se una istituzione politica o civile sia stata fra noi un portato germanico o una reminiscenza latina. La geologia, distinguendo le stratificazioni sovrapposte che formano la corteccia della terra, determina esattamente i prodotti particolari delle diverse epoche cosmiche: altrettanto non può fare la storia; la quale, per ciò che tocca il medioevo, meglio si assomiglierebbe ai codici palinsesti, ove la sbiadita scrittura antichissima trasparisce qua e là sotto la più recente del monaco copiatore, tanto da far leggere al paleografo esperto, tra i versetti d'un salmo, un frammento di Cicerone. Proviamoci a trattare questo metodo nella ricerca delle origini della consorteria.
Abbiamo notato più sopra la costituzione della famiglia germanica, nella quale la proprietà, la colpa e la vendetta erano comuni a tutti gli uomini atti alle armi; differiva essenzialmente dalla famiglia latina, nella quale l'autorità era concentrata nel padre di famiglia, che rispondeva di tutto e per tutti. Ora aggiungiamo, che, per le antiche consuetudini germaniche, più famiglie del medesimo sangue costituivano una fara. Più fare costituivano un gau, forse il pagus dei latini, a cui presiedeva un ufficiale pubblico detto graf. Quando queste genti occuparono le terre del mezzogiorno, il luogo ove queste unioni di famiglia si formavano e prendevano sede, si chiamò fara; nome che è rimasto ancora ad alcune località, come Fara Sabina, Fara Novarese, Fara Olivara, Fara San Martino, Fara Vicentina. Nella lingua nostra, per quanto mi sovvenga, la parola non è entrata altro che nella voce farabutto, che sicuramente fu trovata dai vinti in dispregio ed in onta dei vincitori. A non guardare ad altro, parrebbe che la consorteria fosse una derivazione della fara longobarda. Ma noi non crediamo di doverci fermare qui. La parola consorteria, che viene dal latino, ci induce a credere che nella idea originata dalla particolare costituzione della famiglia germanica, entrasse pur qualche elemento di romanità. Le parole non si usano a caso e sono segno d'idee, e, quando i nostri antichi chiamarono consorteria l'unione di più famiglie uscite dal medesimo sangue, danno indizio che volessero esprimere qualche cosa che non era la fara longobarda.
I Romani oltre la familia avevano la gens che comprendeva le famiglie uscite da un medesimo stipite. Ex gente Domitia duo familiæ venerunt Calvinorum et Ænobardorum, dice Svetonio. La gens era segno di nobiltà perchè dimostrava l'antichità della schiatta; ed Orazio nelle Satire chiamava sine gente un uomo spregevole e macchiato di colpe. Coloro che uscivano dalla medesima gente, erano chiamati gentiles, e Cicerone li definisce egregiamente nella Topica, gentiles sunt qui inter se eodem sunt nomine; ab ingenuis oriundis; quorum majores nemo servitutem servivit, et qui capite diminuti non sunt; e in altro luogo con perdonabile vanità chiama il re Servio Tullo meo gentili, quasi ambedue fossero usciti dalla gente Tullia. Dunque anche presso i Romani la medesimezza del sangue e del nome produceva un legame tra più famiglie; legame che non era soltanto una comunanza della religione domestica e del sepolcro, ma produceva anche effetti civili; perchè lo stesso Cicerone nella Rhetorica ad Erennio, ci insegna che se il padre di famiglia moriva intestato, il suo patrimonio ( familia et pecunia ) andava agli agnati e ai gentili. Nè questo concetto della gens e della gentilitas si spense coi Romani, ma perdurò anche nel medioevo, che della tradizione latina aveva conservata più che non si creda dai fautori del germanismo. Coppo Stefani nella sua Cronica, parlando dei grandi che sostenevano il conte Guido Novello vicario imperiale, aggiunge così chiamavano li gentili. E Dante, nella fiera esortazione ad Alberto imperatore, esclama:
Vien crudel, vieni, e vedi la pressura
Dei tuoi gentili....
E parlando della discendenza delle case nobili antiche la chiama gente. Così dei Malaspini di Lunigiana, dice:
Che vostra gente onrata non si sfregia:
e deplorando la decadenza dei Traversari e degli Anastagi
Che l'una gente e l'altra è diretata.
Così pare evidente che prima assai della fara germanica, gli Italiani latini ebbero la gens romana, con significato presso a poco eguale ma con effetti meno assurdi e più civili.
Ed ora, ripigliando la parola consorteria, derivata dal latino consors, che è dei tempi migliori della latinità, anche qui la romanità vince la barbarie. La definizione di consors, ci è data dai commentatori del diritto romano: consors significat dominii perticipem, et hii quibus talis communis est res, consortes appellantur. Nè il consorzio riguardava soltanto il dominio di una cosa comune a più, ma si estendeva anche ad altri oggetti; e si aveva il consors litis, munerum, petitionis, quasi eiusdem sortis, hoc est fortunæ, in omni vel in aliqua re. E nel diritto feudale passò la parola consortes a significare il signore e il vassallo, quasi eiusdem militiæ socii.
Non voglio moltiplicare citazioni, e, raccogliendo il pensiero in una sintesi conclusiva, a me pare che, data la costituzione germanica delle famiglie signorili nel medioevo, colla solidarietà di tutti nell'offesa e nella vendetta, si applicasse fra noi a queste famiglie il concetto tradizionale latino della gens, e si chiamassero pure con voce latina consorterie queste comunanze. Ond'è che nella consorteria, come in quasi tutti gli istituti del medioevo, c'è una mistura di elementi germanici e latini, senza prevalenza assoluta degli uni sugli altri, ma con tendenza manifesta a fare assorbire il più barbaro dal più civile, perchè la civiltà nuova, fino dai suoi primi albori, accennava a costituirsi con intendimenti essenzialmente latini.
Dai signori di feudi venuti ad abitare in Firenze si continuarono, quanto era possibile, le consuetudini della vita dei castelli. Dispregiatori di questo popolo di artigiani e di mercanti che li aveva cacciati dai luoghi ove eran nati, vivevano appartati nelle case, muniti di torri per la difesa e di logge per le radunate dei consorti. Le case una accanto all'altra impedivano vicinanze ostili ed incomode. Per avere un'idea del numero e della potenza delle consorterie dei grandi, rammenterò che in uno dei tanti tumulti popolari, i Bardi ebbero rovinate 22 case, e persero mobili per il valsente di molte migliaia di fiorini.
Nell'anno 1200 si contavano 75 famiglie che avevano torre. Le torri erano quadrate, alte dalle 120 alle 140 braccia, e si tenevano in condominio dalla consorteria. A questo condominio si dava sanzione con atto pubblico, assegnando a ciascun ramo della consorteria la sua parte, e si eleggevano uno o due dei consorti più provetti e autorevoli, come capi e conservatori della comune giurisdizione che la consorteria aveva sopra la torre. Il governo dello Stato non ebbe mai tanta forza da far demolire questi baluardi di prepotenza e strumenti di guerra civile, e soltanto assai tardi ordinò che fossero scapezzate di braccia 40.
Queste torri, oltre il nome della famiglia e della consorteria alla quale appartenevano, erano designate dal popolo con soprannomi forse imposti a scherno dall'ira delle guerre civili. Quella presso Badia ove si radunavano i Priori delle arti era detta la Castagna; quella dei Magalotti e dei Mancini presso San Firenze, la Pulce; quella dei Castellini da Castiglione presso Mercato Vecchio, la Lancia; quella presso il Bigallo, il Guardamorto; quella a pie' del Ponte Vecchio, del Leone; quella tra Borgo SS. Apostoli e Porta Rossa, la Basciagatta; e così di molte altre.
La loggia era una specie di piazza coperta, più o meno ornata, che si apriva sulla via pubblica in mezzo alle case dei consorti. Prima del 1200 erano 13 le famiglie che avevano loggia; e le loggie come le torri erano di condominio della consorteria. Servivano ai ritrovi festivi dei consorti, alle radunate per nozze e sepolture; ed alcuna aveva dinanzi uno sterrato usato per il maneggio dei cavalli. Fu anche preteso che fossero luoghi di asilo, e più volte i consorti respinsero gli esecutori della giustizia che volevano porvi il piede. Avevano il nome della consorteria, ma quella degli Adimari era chiamata la neghittosa. Della loggia degli Agolanti si diceva che lì non si faceva casaccia, cioè che lì non si concludevano matrimoni sconvenienti alla nobiltà dei signori. E nei matrimoni e nelle esequie la consorteria sfoggiava nelle loggie col lusso delle vesti che era segno di ricchezza e col numero dei consorti mostrava la sua potenza. Il Monaldi, nella sua Cronaca, descrive le esequie che si fecero a Jacopo degli Alberti, e narra “che tutti i consorti e parenti stretti della casa comparvero vestiti a sanguigno, tutte le donne entrate e uscite di lor casa vestite a sanguigno, e molte famiglie, i servi e i garzoni a nero„. Chi diceva in Firenze famiglia di torre e loggia, intendeva quelle più illustri per antica nobiltà e per ampiezza di possessioni in contado.
Abbiamo detto fin qui delle consorterie del sangue che dipendevano dal fatto naturale dell'agnazione; altre però ve ne erano che si stringevano per carta, che è quanto dire per convenzione scritta, tra famiglie alle quali mancava il nesso del comune stipite. In queste però sembra che rimanesse distinto il nome e l'arma dei consorti. Altro genere di consorterie eran quelle che si concludevano per esercizio di mercatura e singolarmente per i banchi di cambio, sebbene queste prendessero il nome più proprio di compagnie. Vi erano finalmente le consorterie degli uffici, e ce ne dà esempio la istituzione dei Priori delle arti, che fu la prima forma popolare del governo del Comune. Per dare stabilità e forma a questa istituzione, si volle che il priorato fosse una consorteria di libertà, vale a dire che i Priori fossero solidali nei loro atti ed obbligati tutti uno per l'altro; e questo trovato mostra come allora della responsabilità politica non si avesse altro concetto che quello che risultava dalla consorteria.
Le consorterie avevano durata indefinita, perchè il vincolo del sangue durava sempre; ma quando la casata si era assai accresciuta di famiglie consorti, quella di essa che si sentisse forte, e volesse farsi grande per fatti propri, si staccava dalla consorteria, e prendeva nome ed arme propria. Ma così le consorterie non scemavano ma si moltiplicavano. Quando poi per levare gli uffici pubblici alla parte avversa, si cominciò ad ammonire, cioè a dar divieto a persone ed a consorterie di potere esercitare certi uffici, qualche famiglia e non pochi cittadini dichiararono al Potestà di rinunziare alla consorteria a cui appartenevano, e così tornavano abili alle magistrature da loro ambite.
Nel 1337 quando il Comune di Firenze ebbe Arezzo, fece larghi patti ai conti Tarlati di Pietramala ed ai loro consorti. Concesse a tutti la cittadinanza di Firenze, promise la difesa dei loro castelli, consentì che tenessero armati fino a 90 famigli, distribuiti fra i consorti, prout placuit Domino Petro. Il Comune gli promette 32 paghe per 32 militi a cavallo italiani, e queste paghe il conte potrà dividere e distribuire fra i suoi consorti. Tutto questo per sicurezza personale dei conti Pietramala, giacchè il capitano preposto alla difesa d'Arezzo, doveva tener seco ducentos equites et ducentos pedites italianos, qui non sint de dicta civitate. Ed è questa la prima volta che trovo la parola italiani nei documenti di quel tempo.
La consorteria, come abbiam detto, era vincolo gentilizio tra le famiglie nobili e potenti, e il Borghini, nei Discorsi, dice che non esistevan tra la “gente bassa, perchè non hanno legame che li ristringa insieme, e fuor dei gradi vicinissimi, in poco tempo appena si riconoscono„. Non mi pare esatta questa affermazione, perchè quando negli ordinamenti di giustizia, rub. XVIII, si vieta ad un grande di comperare beni di un popolano venuti per condanna al Comune, prima di sentire i consorti del popolano si consortes habuerit, et si non habuerit, duo vel tres de proximioribus consanguineis, si riconosce che anche le famiglie popolane avevano e potevano avere consorteria.
Raramente, ma pur qualche volta, le consorterie si disfacevano per comando dell'autorità pubblica; come si rivela dallo Statuto di Siena, libro detto la catena, che annulla la consorteria dei Galeazzi, protetta dal duca di Milano, e vuole che ne sia tolta l'arme dentro quindici giorni, con la pena di scudi mille per chi contro facesse.
Le questioni sulla consorteria si portavano ai tribunali ed erano decise dai magistrati. Nel 1453 le due famiglie Capponi e Vettori, ricorsero di comune accordo ai tribunali, acciò dichiarassero che non v'era tra loro nessun vincolo di consorteria, per non aver divieto agli uffici della Repubblica. Si allegava che le due famiglie non avevano avuto interessi comuni altro che di mercatura fino dal 1314, e che non avevano mai tenuto a briga insieme. A ciò si opponeva la pubblica opinione che le aveva sempre riconosciute come consorti, e l'arme comune che si vedeva in certe sepolture di San Jacopo sopr'Arno, e che si vede ancora.
I giudici sentenziarono che i Capponi e i Vettori non erano di presente, nè erano mai stati consorti, ma poi, con manifesta contraddizione, mantennero alle due famiglie il divieto dei tre uffici maggiori, gonfaloniere, priore e collegi.
Invoco l'indulgenza di chi mi ascolta per questo tritume di erudizioni storiche; ma in parte è colpa dell'argomento mal definito dai cronisti del tempo; che non si può illustrare altrimenti che raccogliendo fatti minuti dalle carte antiche per trarne qualche conclusione che sia di lume alla storia.
Come abbiam visto, l'aristocrazia feudale si era quasi tutta rassegnata a vivere in città; e chiusa in palagi muniti, rafforzata con la consorteria, stava in mezzo ad un popolo libero come nemica. Voleva soprastare negli uffici maggiori del Comune, e quando non riusciva con le male arti, ricorreva alla violenza. Erano due razze diverse costrette a vivere sullo stesso terreno, con istinti e passioni non pur diverse ma contrarie. Le fazioni dei guelfi e dei ghibellini rinforzarono questa divisione, e diedero un nome e una bandiera alle parti che già esistevano. Tutto questo ci conduce a dubitare della sentenza del Balbo, il quale ritiene che, dopo la pace di Costanza, la fusione delle razze in Italia fosse fatta, e l'unità morale della nazione ormai costituita. Per compire questa fusione e questa unità ci vollero i secoli della servitù domestica e straniera, la quale, pesando su tutti, fece scordare, nei comuni dolori e nelle comuni umiliazioni, le antiche divisioni d'origine e di sangue.
Le fazioni dei guelfi e dei ghibellini più che odii di famiglia erano un portato del tempo. La gran contesa tra l'Impero e la Chiesa che divideva il mondo d'allora, sotto forme diverse divideva le città, i contadi, le famiglie. Coll'Impero stavano tutti i signori di feudi, tutta l'aristocrazia che aveva antichità di nome e di ricchezza, sia per affinità di razza, sia perchè nell'Imperatore riconosceva il suo capo naturale, come quello dal quale venivano le investiture. Colla Chiesa stavano i popoli di recente costituiti a Comune, che avevano tradizioni latine, e che nel Papa riverivano il capo della loro fede, il fautore e il difensore della loro libertà. Il Comune di Firenze nacque naturalmente guelfo, perchè il popolo vecchio che lo costituì era di spiriti latini e di molto sentimento religioso. Sulla religione dei ghibellini, c'era molto da dire, e ne sia prova Guido Cavalcanti.
I guelfi di Firenze, dopo la vittoria di Campaldino, ebbero in mano il governo del Comune per parecchi anni. I ghibellini tentarono più volte di rilevare il capo come partito politico, facendo testa agli Uberti che erano i più potenti; ma il popolo li ributtò sempre, e nel 1251 ne cacciò dalla città i caporali, e poi nel 1258, abbattute le case degli Uberti presso il Palagio, li bandì tutti; e fu questo il primo esempio dell'esilio di tutta una parte. Allora i ghibellini si raccolsero a Siena, e aiutati dal re Manfredi che mandò loro il conte Giordano con buona mano di Tedeschi, vinsero nel 1260 a Montaperti. I guelfi, decimati da quella sconfitta, si ritrassero volontariamente a Lucca, senza aspettare la vendetta dei vincitori.
E le vendette pur troppo arrivarono pronte e terribili. Rientrati i ghibellini, manomisero le proprietà dei guelfi, case rovinate in città, possessioni devastate in contado; tanta ira di distruzione non si era mai vista. I Pazzi di Valdarno tentarono di riattaccare alla gleba i contadini, che il Comune aveva emancipato. Ma questa baldanza durò pochi anni. Rotto e morto il re Manfredi a Benevento, la fortuna dei ghibellini cominciò a declinare, e i guelfi, aiutati da Carlo d'Angiò, ripresero animo; e cacciato da Firenze il conte Guido Novello, vicario imperiale, ebbero soli il governo del Comune. I ghibellini impauriti uscirono dalla città, ed il governo guelfo si impadronì di tutti i loro beni e ne fece una massa che divise in tre parti: ed una ne assegnò al Comune; una ne diede ai suoi per risarcimento dei danni patiti; della terza fece il patrimonio della parte. E questo fu l'atto più audace e più astuto che i guelfi consumassero contro i loro avversari; rappresaglia crudele dei mali sofferti e mezzo efficacissimo per mantenersi in mano il potere.
Intanto il reggimento del Comune si faceva sempre più popolare. Il vicario del re Carlo aveva instaurato il governo dei Buonuomini, al quale si sostituì nel 1282 quello più largo dei Priori delle arti. Assicurato così il dominio della parte guelfa nel Comune per l'abbassamento dei ghibellini, le lotte interne non ebbero più il colore politico, e si combatterono unicamente tra la parte aristocratica e la popolare. Non è più quistione d'Impero o di Chiesa, ma di grandi e di popolo.
E contro i grandi o magnati, come allora si diceva, cominciarono quelle leggi d'odio e di rancore che il popolo, memore delle antiche offese, chiamava di giustizia. Nel 1285 si impose alle famiglie dei grandi di città e del contado di dare malleveria pecuniaria al Comune per tutti i malefizi che si potevano commettere dai loro componenti maschi maggiori di età; e non si creda che queste leggi ferissero pochi; poichè il Buoninsegni ci dice che nel 1338, erano 1500 i nobili che sodavano, cioè davano garanzia per grandi al Comune. Finalmente nel 1292 si proposero da Giano della Bella e si vinsero nei Collegi gli ordinamenti di giustizia. Giano della Bella di buona famiglia ed antico popolano era in quel tempo il maggior cittadino di Firenze, così scrive Coppo Stefani, e veramente egli è rimasto nella storia di Firenze una delle più nobili figure. Egli era dei Priori nel 1293, e, per la difesa della parte popolare e per contenere i grandi senza rispetto al colore politico, fece passare gli ordinamenti che furono una legge d'eccezione contro l'aristocrazia, non domata dalle battiture precedenti. Le disposizioni di questa legge sono contrarie ad ogni principio di giustizia, ed apparisce chiaramente che questa era un'arma di guerra in mano ad una fazione che voleva abbattere gli avversari. Le consorterie furono attaccate nel loro principio, ed ove era la solidarietà dell'offesa e della vendetta, si pose la solidarietà della pena. La famiglia e la consorteria pagavano per maleficio dell'uomo. Alla casa dell'esecutore era una cassetta dove ognuno poteva deporre accuse contro i grandi; ogni otto giorni si apriva, e sulle accuse trovate si faceva inquisizione. Per la prova del reato bastava un solo testimone de visu o due testimoni di pubblica voce e fama. Contro la procedura non si ammettono eccezioni. Il potestà deve dare sentenza dentro cinque giorni, e le sentenze sono inappellabili. Le pene in gran parte pecuniarie sono gravissime; vietato l'accatto dei partigiani per mettere insieme la somma. Per l'uccisione di un popolano, condanna nel capo e devastazione dei beni, che, devastati, cedono al Comune. Per ferite gravi, se si può aver il reo, gli si recida una mano, se è fuggito, paghi la famiglia e la consorteria 2000 lire; per ferite lievi 1000 per ferita.
A fare eseguire gli ordinamenti, si istituì il Gonfaloniere di giustizia, con 1000 popolani armati al suo comando. Quando succedeva un malefizio, si suonava la campana a martello e l'Esecutore andava con buona mano di gente armata a casa del colpevole e la faceva abbattere fino alle fondamenta. Queste ed altre feroci disposizioni, ora aggravate, ora mitigate secondo i tempi, si leggono nel testo degli ordinamenti di giustizia, che furono la legge di più lunga durata che avesse la Repubblica fiorentina, giacchè erano in parte sempre in vigore quando fu spenta.
Che pace e che tranquillo vivere potessero portare alle città questi ordinamenti che pur si dicevano fatti a quel fine, è facile immaginare. I grandi male potevano tollerare quella oppressione ed empirono la città di tumulti; nei quali soffiavano i popolani grassi, come li chiamavano, cioè quelli che nella mercatura avevano fatto ricchezze e che avevan seguito nel popolo. Già trapelavano le ambizioni di questa classe di cittadini, che invidiava il nome e la grandigia delle famiglie dei magnati, e ad esse si accostava quando poteva farlo senza pericolo. Ma se si veniva alle mani, allora erano col popolo per dividere con lui i frutti della vittoria. Così in uno dei tanti tumulti di questi tempi, avendo il popolo assalito le case asserragliate dei Frescobaldi nei Fondacci di S. Spirito, nè potendosi dagli assalitori venire a capo di espugnarle, i Capponi che avevano le case accosto, ruppero il muro comune, e lasciarono che il popolo, passando per quella rottura, prendesse i Frescobaldi alle spalle e li cacciasse. L'uomo di maggior conto che tenesse il campo in quelle opposizioni armate dell'aristocrazia magnatizia, fu senza fallo Corso Donati, guelfo, di poca ricchezza, ma capo d'una consorteria numerosa potente. Natura fiera e superba, egli presenta il tipo di quei nobili violenti, avvezzi a farsi ragione colle armi, che non sapevano rassegnarsi ad esser comandati da gente minuta in farsetto. Di lui dice lo Stefani, “che aveva gran seguito e grande grandigia, e che, per gli ordinamenti di giustizia, non poteva esser grande quanto gli pareva di meritare„.
Ucciso nel 1308 Corso Donati, non per questo cessarono le offese e le vendette. I popolani, armati degli ordinamenti di giustizia, adoperarono quest'arma senza misericordia. Poco sangue si sparse, ma un gran numero di famiglie andarono in rovina, consumate dalle condanne o pene pecuniarie esorbitanti. Gli ordinamenti, come abbiam visto, avevano per fine di escludere i grandi dagli uffici del Comune, di disfare le consorterie dando divieti ai consorti e facendoli solidali nelle pene; e di difendere i popolani dai soprusi dei grandi. Questi fini furono raggiunti, ma, coll'escludere un'intera classe di cittadini dal governo, e metterla fuori dal diritto comune nelle pene, si perpetuarono le discordie e gli scandali. Eppure, quando quelle leggi furono proposte, da alcuni buoni mercatanti ed artefici desiderosi di vivere in pace, dei quali fu caporale Giano della Bella, come dice il Buoninsegni, se ne sperava una gran bene. Coppo Stefani peraltro meglio avveduto dice che ogni male di Firenze è proceduto dal volere gli uffici, e poi avuti, ciascuno a volerle per sè tutti e cacciarne il compagno.... Sotto colore di Guelfi si sono ammoniti uomini detti Ghibellini, non per altro fine che per avere per sè gli uffici; e si è trovato l'ammonire e il confinare, e il porre a sedere, e il divieto degli uffici.
I nobili, stanchi di questa oppressione, e delle leggi iniquie fatte a lor danno, e la parte popolare desiderosa di crescere favore a sè stessa togliendolo agli avversari, condussero alcune famiglie potenti a farsi popolari, e furono come tali ricevute dal Comune, a patto che rinunziassero alle loro consorterie, e mutassero il nome e l'arme. Queste condizioni per casate antiche, orgogliose del loro nome, erano umilianti, ma di poco effetto, quando la consorteria continuava a sussistere nelle famiglie che restavano dei grandi. Anche nelle armi e nel nome si fece poca mutazione; come può vedersi da queste famiglie che tolgo da lunghi elenchi. Gli Agli presero il nome di Scalogni, i Tornaquinci quello di Tornabuoni, i Mannelli quello di Pontigiani, perchè avevano le case a Pontevecchio, i Cavalcanti quello di Cavallereschi, i Bostichi quello di Buonantichi. E come per grazia i grandi potevano essere fatti popolani, così per pena questi si facevano dei grandi, per colpirli con le ammonizioni e coi divieti.
Gli ordinamenti di giustizia durarono in pieno vigore fino al Duca di Atene, che non li abrogò ma li applicava a capriccio. Dopo la cacciata di lui, furono ravvivati, e inaspriti sotto il governo dei Ciompi, ultima espressione della democrazia fiorentina. Nel governo degli ottimati, che successe ai Ciompi, furono assai mitigati secondo i tempi, ma nessun governo osò mai di abolirli, perchè il popolo non lo avrebbe consentito, considerandoli come la carta delle sue libertà. Quando a Roma Cola di Rienzo voleva restaurare la repubblica, chiese al Comune di Firenze le leggi con le quali si governava, ed il Comune gli mandò gli ordinamenti, che a nulla valsero per il tribuno; il quale se aveva a Roma la baronia feudale come a Firenze, non aveva il popolo risoluto a conquiderla e a renderla impotente.
Sotto le ferree disposizioni degli ordinamenti, anche le consorterie a poco a poco piegarono, e dopo essere state la forza dei grandi nella lotta coi popolani, rimasero poco più che un legame tradizionale di famiglia, che poi si sciolse col tempo. Ed infatti questo arnese di guerra civile, potente finchè durò la lotta di due principii, non ebbe più valore, quando, annientata la fazione feudale, la contesa si ridusse alla supremazia di famiglie appartenenti a quel popolo grasso che era rimasto incolume sul campo, pronto a dividersi le spoglie dei vinti.
Nè altro senso hanno le discordie che si videro nei tempi susseguenti tra gli Albizzi, gli Strozzi, gli Alberti, i Ricci e i Medici. Era questione di sapere quale di queste famiglie sarebbe stata la famiglia principe che avrebbe dominato sulle altre; il popolo aveva cessato di essere attore, ed era divenuto strumento delle private ambizioni.
Quando si pensa che le agitazioni e i tumulti nei quali stette il Comune di Firenze per quasi tre secoli, furono il periodo storico per lui più glorioso, una grande ammirazione ci prende per la fortezza di quegli uomini, i quali, fra gli orrori della guerra civile, sapevano arricchire coi loro commerci, innalzare monumenti d'arte che le pacifiche età susseguenti non hanno saputo emulare, e attendere alle arti e agli studi preparando il Rinascimento. Non si può fare paragone di quei tempi coi nostri, nè pronunziare giudizi di confronto che sarebbero temerari. Quello che si può dire, senza fallo, è che i caratteri si formavano a quella rude scuola, e che la fortezza dell'animo era sempre maggiore delle sventure. La vita allora tra la guerra, le condanne e gli esigli, sicuramente era dura, ma non trovo che nessuno si uccidesse per uscirne. Il suicidio è quasi ignoto nel medioevo. Grande era in quegli uomini la virtù del sopportare; e se Dante scrisse fra i dolori dell'esiglio il suo divino poema, mille altri minori di lui ed anche di povero ingegno, si aiutarono come poterono ad uscire da quella stretta senza mai disperare di nulla.
Nella storia fiorentina l'ammirazione di noi posteri, è tutta per quel popolo pieno d'ingegno e di coraggio che instaura nel Comune la sua libertà e la difende contro tutti. Ma per essere giusti convien dire che anche in quell'aristocrazia feudale era gran forza di resistenza, e nature d'uomini gagliarde e fieri caratteri; e se la parte popolare avesse saputo ammansirli e dar loro un posto nell'assetto del Comune, forse ne avrebbe cavato una milizia formidabile nelle guerre esterne, e la Repubblica non sarebbe caduta in mano dei capitani di ventura che furono la peste d'Italia. Ma i fiorentini mercanti aborrivano dalle armi, e le domestiche credevano pericolose per la libertà, mentre avevano danari per pagare le mercenarie.
Fatta questa riserva, noi dobbiamo essere riconoscenti a questo popolo che al principio del secolo XIII, costituiva il Comune libero, scioglieva i vassalli dal vincolo feudale, emancipava i servi dalla gleba, ed abbatteva l'aristocrazia feudale compiendo quel riconoscimento dei diritti umani, che altrove si fece, ed a qual prezzo! parecchi secoli dopo. La Toscana deve a questa prima infusione di democrazia, quel sentimento di libertà e di eguaglianza civile, che si innestò alle sue tradizioni e che rimase nei suoi costumi, più forte della mutria spagnuola portata dai Medici. Ed anche ai tempi nostri, in mezzo alle utopie dei socialisti che agitano la moltitudine pasciuta di folli speranze, noi possiamo mostrare con orgoglio, come prodotto di quell'epoca memorabile la mezzeria, che ha resistito a tutte le vicende, e che è anch'oggi l'unica soluzione pratica, non imposta da leggi, non escogitata dai filosofi, ma figlia del buon senso dei nostri maggiori, della questione eterna del capitale e del lavoro della terra, che all'Irlanda costa lacrime e sangue.
Con questi precedenti storici, la Toscana si trovò bene apparecchiata alle riforme civili alla metà del secolo XVIII; tantochè quando più tardi la libertà ci fu portata di fuori con apparato di parole magnifiche, i Francesi, che si annunziavano come liberatori, videro con stupore che noi godevamo pacificamente, già da tempo, quelle che essi chiamavano le nuove conquiste del secolo.
E poichè anche la storia ha le sue antitesi, noterò, per conchiudere queste parole già soverchie alla vostra cortese attenzione, che, nel tempo stesso che a Firenze si costituiva il governo popolare, a Venezia il Gradenigo chiudeva il gran Consiglio. Così, accanto ad una repubblica democratica, sorgeva in Italia la più potente oligarchia che sia stata al mondo. Quale dei due Stati meglio provvedesse alle sue sorti future, lo dice la storia. A Firenze la libertà morì oppressa dalle armi straniere, dopo aver combattuto le ultime battaglie col Ferruccio, con Dante da Castiglione, con Stefano Colonna; Venezia si spense per impotenza senile, senza che un braccio si levasse a difenderla e a darle almeno la dignità del morire.
SVEVI E ANGIOINI
DI ERNESTO MASI
Se, pigliando alla lettera il tema assegnatomi, avessi a narrarvi per filo e per segno i fatti compresi sotto i due nomi di Svevi ed Angioini, dovrei, pur non oltrepassando il secolo XIV, narrarvi per lo meno un dugento quarant'anni di storia. Che se poi, dopo avervi mostrata intiera la parabola storica, ascendente e discendente, della dinastia Sveva, volessi fare altrettanto per l'Angioina, seguendola fino al tempo che, morta la seconda Giovanna, finisce con essa la linea principale della Casa d'Angiò, e nella monarchia dell'Italia meridionale le sottentra con Alfonso il magnanimo la dinastia Aragonese, dovrei, a dir poco, narrarvi più di trecent'anni di storia, e di quale storia! Della più varia, più complicata, più intricata anzi di tutto il nostro Medio Evo; trecento e più anni, nei quali tutte le instituzioni, che compongono la tela del terribile dramma, fanno l'estremo di lor prove, si svolgono, si combattono, vincono, sono vinte, e dopo avere nei loro contrasti perpetui, nelle loro antitesi inconciliabili mandati a male, non dirò i possibili tentativi, ma le meno utopistiche occasioni d'una qualsiasi ricostituzione nazionale, consumano tutta la vita politica italiana, compiono un intiero ciclo di storia e con esso ancora un intiero ciclo di civiltà, che d'italiana si trasforma in mondiale, e dà luogo ad una mutazione così profonda, che, come evoluzione civile, torna bensì col Rinascimento a beneficio di tutti, ma, come vicenda di storia, si chiude nella catastrofe politica dell'Italia medievale, destinata, com'altri disse, a morir sola per la salvezza di tutti.
Non vi spaventate, o signore, di tale orribile ampiezza di disegno. Sarò al possibile misericordioso e con voi e con me. Il Tommasèo consigliava di studiare la storia per circoli concentrici e sempre allargantisi, vale a dire sempre più comprensivi di un maggior numero di particolari. Per questa volta converrà invertire il metodo proposto dal Tommasèo, e dai circoli esteriori e più larghi venir dritto ai più interni e più ristretti, scegliendo, fra tanta congerie di fatti e tanta ressa di personaggi storici di capitale importanza, quelli che sono più spiccatamente caratteristici dei varii periodi che dobbiamo percorrere; quelli che più ci giovino quindi, se non a penetrare, ad intendere alquanto il mistero di quella torbida vita italiana dei secoli XIII e XIV e che più s'attengano come sfondo di quadro storico e come fonte d'inspirazione ai sentimenti, ai pensieri, alle creazioni d'arte del triumvirato toscano, le cui opere immortali fecero di Firenze la vera Roma del Medio Evo e sono quest'anno il principale soggetto di queste conferenze.
Anche per scegliere però c'è di troppo, e a persuadervene vi basti ricordare quanti e quali fatti, fra quelli soltanto di ordine più generale, sono coinvolti nel destino della dinastia Sveva e dell'Angioina: la seconda e terza lotta fra il Papato e l'Impero, le quattro ultime Crociate, la prima e la seconda Lega Lombarda, l'apogèo della teocrazia con Innocenzo III e la sua decadenza con Bonifazio VIII, il tentativo di Federico Barbarossa d'imporre all'Italia la sovranità tedesca e quello di Federico II di far dell'Italia il centro e la sede d'un nuovo Impero, la monarchia dell'Italia meridionale congiunta all'Impero e poi separatane per sempre per la tenace e implacabile politica dei Papi, l'espansione italiana dei tre primi Angioini di Napoli e la decadenza della dinastia iniziata dal Vespro Siciliano, il Comune finalmente, che nell'Italia superiore sostiene contro l'Impero con federazioni transitorie i diritti penosamente conquistati, pur non cessando mai un momento le proprie lotte interiori di Guelfi e di Ghibellini, e coi podestà e coi capi militari inclinando ben presto a signoria, mentre in Firenze invece, nel Comune più tardivo a svolgersi, ma straziato esso pure dalle medesime lotte interiori, la parte popolare sormonta, e, superata la forza dell'Impero, vinte le insidie papali e francesi, esplica tutte le sue potenze fino alle più tiranniche e diviene il tipo del Comune guelfo e democratico, sicchè dir Parte Guelfa e dir Comune di Firenze è tutt'uno.
Questi i fatti, ripeto, di ordine più generale, e non son tutti. Dei personaggi non parlo. Sono tutti gli attori della Divina Commedia, che, sparsi e variamente atteggiati, incontrate qua e là nelle bolgie d'inferno, sul monte del Purgatorio, nei nove cieli tolemaici del Paradiso, perchè la Divina Commedia è principalmente lo specchio della vita politica dell'Italia nel tempo di cui ci occupiamo; la Divina Commedia si profonda anzi talmente nel più fitto baratro delle lotte contemporanee e soprattutto fiorentine, che quanto è ad esse estraneo quasi non vi trova luogo, e di certi fatti, che pur sono grandissimi, di certi personaggi, che pur sono famosi, di certe città, illustri nella storia, Dante non parla o vi accenna appena. Non saprei spiegarmi in altro modo certi silenzi d'un poema storico per eccellenza, qual è quello di Dante. Di Venezia, ad esempio, che, come sapete, rimane fuori dalla lotta delle fazioni italiane, nulla dice. Federico Barbarossa è nominato appena con una parola incerta fra la stima e l'ironia. Di Enrico VI nulla. Di Federico II in persona il nome soltanto fra gli eresiarchi ed altri, poi parla di lui per ricordo. E tutti e tre questi Svevi chiama i tre venti, i tre uragani, come pare che debba intendersi, i quali hanno sconvolto il mondo, e non più. E tant'altri potrei accennare di questi silenzi e di queste reticenze dantesche. Ma se poco dice dei primi Svevi, non è così degli ultimi, non è così degli Angioini, più strettamente collegati alle fortune del Comune di Firenze; sicchè, scegliendo solo fra i personaggi della storia quelli che entrano nel poema dantesco, potremmo conoscerli, se non tutti, quelli, almeno, che importa più di conoscere. E le figure che vi atterriscono nella Divina Commedia, quelle pure che son nominate ad ogni momento e quasi con riverente terrore nel Novellino, vecchia raccolta d'indole ben più umile e popolare, vi fanno ridere nel Decamerone e nelle novelle di Franco Sacchetti, e tuttavia sono press'a poco le stesse; ma sotto la celia comica del Boccaccio e del Sacchetti si vede già che la solennità tragica delle grandi lotte italiane sta per dissolversi, si vede già che nel periodo di storia, il quale comprende gli Svevi e gli Angioini, si viene compiendo la trasformazione della società medievale in moderna, tant'è che la modernità già si mostra coi rosei bagliori dell'alba nel Petrarca, il quale libera dai veli e dalle oscurità del Medio Evo la scienza, la donna, l'amore; sebbene poi, allorchè vagheggia, come uomo politico, un rimedio all'anarchia italiana, esso pure non sappia trovarlo che nel passato, nel concetto cioè universale di Roma e d'Impero, ed il suo pensiero si riscontri anzi quasi identico a quello che cent'anni prima ferveva nella mente di Federico II. Quanto v'ha di nuovo e di profetico nell'opera sua forse sfugge al Petrarca, perchè i contemporanei ignorano il senso storico dei propri atti. Nella letteratura stessa, quando è più prossima l'evoluzione del Rinascimento, Franco Sacchetti, morto il Petrarca nel 1374, morto il Boccaccio un anno dopo, crede tutto finito e sclama disperato:
Or è mancata ogni poesia,
La stagione è rivolta,
Se tornerà, non so, ma credo tardi;
e ciò quasi al momento stesso che fra la morte di Roberto d'Angiò e quella delle sue due figliuole, Giovanna I di Napoli e Maria di Durazzo, tra il 1343 e il 1382, la fortuna degli Angioini s'avvia alla sua estrema ruina.
Quantunque precedente in ordine di tempo ai due secoli, che più specialmente ci sono assegnati, mi sarebbe impossibile parlarvi degli Svevi e non prender le mosse almeno da Federico Barbarossa. Quando nel 1154, eletto già da due anni Imperatore, egli discese per la prima volta in Italia, da diciassette anni niun esercito tedesco avea più varcate le Alpi. Come trovava Federico l'Italia, e che cosa voleva esso in Italia? Quel che voleva è presto detto: ricostituire i diritti del regno tedesco sull'Italia come al tempo d'Ottone I. Quel che trovava è un po' più lungo a dire, ma mostra appunto la difficoltà dell'impresa, a cui s'accingeva, perocchè i Comuni dell'antico regno longobardo hanno ormai abbattute le instituzioni del tempo degli Imperatori Sassoni, si sono ormai messi al posto dei feudatari e riconoscono bensì l'autorità imperiale, ma ne contrastano l'esercizio ogni volta che lo giudicano contrario alle loro buone consuetudini, che nel linguaggio del tempo valgono come diritti.
Nel resto d'Italia (e poichè a parlar di Firenze è ancor presto) Federico trovava la monarchia meridionale, che alle pretensioni dell'Impero, se ne ha, oppone l'alta sovranità del Papa; trovava il Papa, che alla sua volta vanta sull'Italia e sul mondo un diritto superiore a quello dell'Imperatore. Tuttociò indica che un gran mutamento è avvenuto nei Comuni, nell'Impero, nel Papato stesso, il qual è ben lontano ancora dall'avere raggiunto tutta la sua grandezza; ma esso pure, nel momento che Federico scende per la prima volta in Italia, è travagliato interiormente da avverse tendenze, da tendenze filosofiche trascendenti a razionaliste, da tendenze mistiche, che vogliono rivocarlo alla povertà dell'Evangelo, alla separazione dei due poteri, e queste, uscite dalle scuole francesi d'Abelardo, vengono ad assalirlo con Arnaldo da Brescia nella stessa sua Roma. Non per questo il Papa è disposto a transigere coll'Imperatore e occorrendo si associerà ad ogni suo avversario. Che cosa farà Federico? Sotto la guida di lui, scrive Giacomo Bryce nel suo bel libro sul Sacro Impero Romano, il potere transalpino compì il massimo de' suoi sforzi per soggiogare i due antagonisti, che allora lo minacciavano ed erano all'ultimo destinati a distruggerlo: il Papato e quella che, con espressione poco esatta, lo stesso Bryce chiama la nazionalità italiana. A tal fine, approfittando delle feroci discordie comunali, Federico cercherà di opporre i Comuni minori ai maggiori, il contado alle città prepotenti, ma in questo non riescirà che a mezzo, perchè pochi Comuni si uniranno a lui insieme coi feudatari (i discendenti degli antichi invasori barbari) e gli altri Comuni si stringeranno insieme contro di lui, salvo a straziarsi di nuovo in appresso gli uni cogli altri. Peggio è che i propositi dell'Imperatore non si limitano a sottomettere i Comuni. Vuol sottomesso anche il Papa; vuol tornare anche più addietro del concordato di Worms del 1122; non pace, ma tregua, che fu, colla quale però si chiuse la prima lotta fra l'Impero e il Papato. Ora è fatale che questa lotta si riaccenda e spinga il Papato ad associarsi ai Comuni. Non divamperà subito. L'Imperatore vuol essere coronato a Roma e il prezzo di tale concessione è la vita d'Arnaldo. Di fatto Arnaldo può ben essere per noi un eroe, un precursore, un profeta, ma che cos'era e poteva essere per Federico? Meno di nulla, e fu immolato. E che cos'era per Federico quella Repubblica, allora proclamata in Roma, quella Repubblica colle sue strambe pretensioni classiche di concedere per gran grazia all'Imperatore i diritti del popolo romano; di ospite, come dicevano, farlo cittadino, di straniero, farlo principe? — “Ma che linguaggio è codesto? (è naturale che Federico rispondesse). Sono ombre di morti che parlano o sono pazzi?„ — E la coronazione finì in una strage.
Sei volte l'Imperatore scese in Italia. Alla quarta la Lega Lombarda, che giurata già una prima volta a Bergamo, una seconda a Cremona, pigliò nome dal terzo giuramento di Pontida, è già costituita di venticinque città; bel moto, non d'indipendenza nazionale (che a chiamarlo così si commette un anacronismo ridicolo), ma bel moto nazionale ad ogni modo, stupenda riscossa latina, e che non ha riscontri nella nostra storia medievale. Alla quinta discesa Federico è sconfitto nella battaglia di Legnano il 29 maggio 1176. L'indomabile Imperatore piega dinanzi ad avversari degni di lui, un gran Papa, Alessandro III, una lega di città eroiche. Ma non chiediamo nè al Papa di pensare ad altro che al Papato, nè ai Comuni di perseverare nella Lega per costituire l'Italia in una federazione perpetua. Oibò! Ognuno ha combattuto colle idee del suo tempo, non con quelle di sei o sette secoli dopo. Se c'è un solo, che abbia mutato opinione, è il leale Imperatore, il quale s'avvede che dinanzi al Comune, dinanzi a questo feudatario nuovo, che nel suo regno d'Italia ha preso un posto così formidabile, è forza cedere e cede in realtà a Costanza nel 1183, benchè il Papa avesse già trattato per primo e da sè, e benchè la Lega Lombarda si fosse già a quest'ora disciolta. Ad ogni modo, ripeto, la prima Lega Lombarda, Pontida, Legnano sono certamente le più grandiose ed epiche pagine del nostro risorgimento comunale nel Medio Evo. Quali che siano i fini della lotta, v'ha Italiani contro stranieri e la lotta è santa, giusta, gloriosa. Ma v'ha ancora Italiani alleati dell'Imperatore e ciò in forza delle condizioni e delle divisioni storiche d'allora, che non si possono giudicare coi sentimenti dei nostri giorni. Bisogna guardarsi dal recare idee d'altro tempo in questi conflitti, altrimenti si rischia di non capirci più nulla; bisogna guardarsi dal quarantotteggiare (permettetemi la parola) anche nella storia, come quando dir Pio IX e Alessandro III, imperatore d'Austria e Barbarossa, Goito e Legnano pareva che fosse tutt'uno e che non facesse una piega.
Ad un ultimo fatto della storia di Federico Barbarossa mi conviene accennare, ad un ultimo fatto, che ha conseguenze d'estrema importanza. Quella Milano, ch'egli ha combattuto con tanto accanimento, quella Milano, ch'egli ha umiliata, distrutta, rasa al suolo e che nondimeno l'ha vinto, è divenuta ora la prediletta di quel grand'animo di soldato e di cavaliere, e la ricolma de' suoi favori, e vi celebra, per farle onore, le nozze di suo figlio Enrico VI con Costanza, l'erede del trono normanno di Sicilia, le quali nozze danno agli Svevi un diritto di successione alla monarchia meridionale, nei tempo stesso che gli Svevi cercano di rendere ereditaria nella loro casa la corona imperiale. Per tal guisa diventa possibile l'eventuale unione dell'Impero e della monarchia meridionale italiana; per tal guisa alla lotta perpetua di preminenza fra l'Impero e il Papato, s'aggiunge un altro argomento, e più aspro, di nuovi dissidi; per tal guisa il destino di casa Sveva è più che mai stretto, vincolato indissolubilmente all'Italia. Il caso volle che di tuttociò si vedessero ben presto gli effetti, perocchè presa da Saladino Gerusalemme e commosso di tanta perdita tutto il mondo cristiano, il vecchio imperatore Federico, che già da giovinetto avea presa la croce, volle finire da crociato la gloriosa sua vita e la finì non in battaglia, combattendo, ma tragittando un fiumiciattolo, che lo strascinò nella sua corrente e l'affogò. Strano ludibrio di destino, che parve allora all'ingenua fantasia dei contemporanei in tal contrasto, in tale sproporzione, dirò meglio, coll'epica figura di quest'eroe nazionale tedesco, di questo fulmine di guerra, uscito vivo da tante battaglie, di questo Ildebrando imperiale, come il Bryce lo chiama, ultimo forse ad avere schietto e splendente nell'animo il concetto dell'origine divina della sua potestà universale, a considerarsi secondo la conferma, che al suo concetto porsero i grandi giuristi bolognesi, padrone del mondo, fonte della legge, incarnazione del diritto e della giustizia, che alla sua morte non si volle credere, e Barbarossa trapassò nella leggenda e nella poesia come il mito perpetuo e sempre aspettato del Sacro Impero, come il vendicatore millenario, che tornerà nel giorno assegnato dal destino per castigare i nemici dell'Impero e della Germania. L'Imperatore non è morto (canta la vecchia ballata, che potete vedere riprodotta sino ai giorni nostri nei versi del Rückert, dell'Heine, del Geibel), l'Imperatore non è che addormentato coi suoi cavalieri in una caverna inaccessibile dell'Untersberg, aspettando l'ora che i corvi abbiano finito di svolazzare intorno alla cima del monte e il pero nano di fiorire giù nella valle, per ricomparire alla testa de' suoi crociati e riportare alla sempre giovane Germania dalle bionde chiome l'èra della pace, della forza e dell'unità.
C'è che ire però prima che il misterioso vaticinio si compia. Ma non è lontano il tempo, che un altro successore degno del primo Federico, benchè con tutt'altri pensieri, si mostri sulla scena del mondo. Intanto il figlio di Barbarossa, Enrico VI, doma con selvaggia ferocia il regno tedesco, tutto sconvolto alla morte del padre, poi tenta due volte la conquista della Sicilia, spettantegli per diritto ereditario di sua moglie Costanza, e la seconda volta la prende e la tiene con così spietata crudeltà di governo, che viene in odio a tutti, alla stessa sua moglie, la quale movendo dalla Germania per partecipare ai trionfi del marito avea dato alla luce in Jesi un fanciullo, Federico II, che i contemporanei chiameranno poi stuporem mundi, la meraviglia del mondo. Ma tra la morte d'Enrico VI e l'anarchia, che le succede nel regno tedesco a cagione dell'Impero conteso tra Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick, un altro gran Papa, il maggiore dopo Gregorio VII, è salito sulla cattedra di San Pietro, Innocenzo III, che la dottrina della supremazia papale formulerà con tal audacia teorica, e praticherà con tale ardimento, abilità e scaltrezza di politica, da doverlo considerare come l'ultimo dei grandi Papi del Medio Evo, e quegli che veramente chiude un'epoca della storia del Papato, siccome Federico II ne chiuderà e per sempre un'altra della storia dell'Impero. Dove non ha egli, Innocenzo III, distesa la sua mano?! Durante il suo papato le crociate, questo gran moto dell'Occidente sull'Oriente, questo gran moto inspirato, promosso, capitanato sempre dai Papi (anche quando trovansi fra i crociati i più potenti principi d'Europa), sta per cambiare carattere, perchè l'antico entusiasmo è sbollito, perchè la speculazione commerciale e politica (come chiaramente dimostra la quarta crociata, che piglia Costantinopoli e lascia
Il sepolcro di Cristo in man dei cani),
la speculazione commerciale e politica, dico, vi s'è infiltrata e prevale in sostanza all'inspirazione religiosa; ma Innocenzo III crea un'altra specie di crociata, quella contro gli eretici, gli Albigesi per primi, con che all'astratta supremazia papale surroga una ingerenza strana e nuovissima nel governo d'uno Stato europeo. Quanto alla Sicilia, Innocenzo III ha un concetto assai chiaro, che trasmetterà ai suoi successori: impedire che sia unita all'Impero con un solo sovrano, e vi persiste, nonostante che la vedova di Enrico VI abbia messo sotto la sua tutela l'erede diretto degli Svevi e della corona Normanna; vi persiste sino a che la necessità lo spinge ad opporre Federico II ad Ottone di Brunswick, a cui è riescito d'arraffare l'Impero. Allora credendo in poter suo costringere poi il suo pupillo a rinunciare alla Sicilia, Innocenzo III può dunque morire nella dolce illusione d'aver sottomesso il mondo al Papato. In quella vece il principio imperiale, civile, laico, che dir vogliate, è appunto allora che sta per reagire. È tristo a dirsi, signore mio, ma fra queste azioni e reazioni, fra questi corsi e ricorsi si travaglia continuamente la storia. È egli vero, che al di sotto di essi c'è, come crede il Gervinus, una corrente profonda, che avanza sempre e sempre procede? Speriamolo! Intanto la supremazia papale di Innocenzo III era un sogno, e quella dell'Impero, che un altro grand'uomo, Federico II, ritenta, sarà un sogno ancor essa!
Consideriamo Federico specialmente in relazione all'Italia, perchè al mio tema mi convien cercar limiti da ogni lato.
Dalla prima Lega Lombarda in poi s'hanno altri esempi e frequenti di leghe di Comuni, quella di San Donnino, quella di San Ginesio in Toscana, quella per aiutare Innocenzo III. È bensì vero che ne sono aiutati talvolta anche Ottone, anche Federico, e che si hanno altresì leghe di Comuni contro Comuni. Ma infine questa forma persiste. È forse essa che potrà riordinare stabilmente l'agitata vita dei Comuni italiani? Oibò! Le leghe sono uno spediente transitorio. Gli odii sopravvivono; lo strazio persiste; per le più futili cagioni i Comuni si combattono, ed una caricatura profondamente storica, nonostante i suoi anacronismi, è la Secchia Rapita del Tassoni, che tutti conoscono. Non basta! La lotta è anche dentro il Comune, permanente, indomabile, fra classe e classe, fra una contrada e l'altra, fra una casa e l'altra. Non importa contare le sette od ottomila guerre di Comuni, che ha noverato il Ferrari. Bastano i versi di Dante:
E l'un l'altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
Come fa, ciò nonostante, a vivere il Comune? Eppure, non soltanto vive, ma oggi è guelfo, domani è ghibellino, a seconda che l'una o l'altra parte prevale, e nondimeno questo nocciolo centrale, quest'unità primitiva, che si chiama Comune, non si dissolve. Oh, vorrei ben vedere quanto resisterebbero oggi a tali prove i nostri grandi congegni parlamentari ed amministrativi! Quell'unità del Comune ha pur dunque saputo imporsi alle divisioni delle parti. Perchè non potrebbe un'unità superiore imporsi ai Comuni? Non ha già il Comune una autorità unificatrice nel Potestà, che per i patti di Costanza era imperiale ed ora è suo? non è il Podestà straniero per rappresentare appunto una giustizia superiore ai partiti? e perchè non si può avere un Podestà straniero e più alto, che molti Comuni rispettino? Potrebbe essere un gran papa, se Innocenzo III non fosse morto. Sarà invece un grande imperatore? Sarà Federico II? È questo, o signore, il suo gran tentativo. Chi potrebbe osarlo meglio di lui? “È il più italiano, dice il Del Lungo, anzi il solo italiano fra quei Cesari ghibellini„; ha sangue normanno e tedesco nelle vene, è nato in Italia, è imperatore in Germania, è re in Sicilia, è, soggiunge il Lanzani, sveglio e immaginoso come un Italiano, ardito e scaltro come un Normanno, scettico come un Greco, voluttuoso come un Arabo, tenace come un Tedesco; è bello, cultissimo, parla cinque lingue, ha il pensiero libero, la mente sagace, pochi scrupoli, diplomazia sopraffina. Quale attitudine gli manca ad una grande impresa, come quella di pacificare i Comuni e riunirli sotto di sè, egli, che è già signore diretto di così gran parte d'Italia? C'è di più. Federico ha il concetto dello Stato laico ed accentratore (le sue costituzioni melfitane del 1231 lo dimostrano) quasi come un moderno. Non ha, non vuole ombre medievali intorno a sè, ma gaiezza, luce, amore, poesia. Fra le più rabbiose contese reca un alto senso di tolleranza scettica e filosofica. Predilige le scienze, le arti, le lettere, tanto che v'ha chi anche oggi sostiene che la poesia italiana è nata alla sua Corte. Quanto a me, quest'opinione ho per troppo assoluta; e il fatto m'è sempre sembrato assai più complesso, e non così determinabile di tempo e di luogo. Comunque, l'affermazione di Dante è in suo favore ed è tutto dire, sebbene la poesia aulica siciliana sia assai povera di contenuto e la più aduggiata d'influenze straniere. Ma ciò non scema nulla all'agile ingegno di Federico, che, curioso e indagatore, ama, oltre le lettere, la scienza, non solo nelle sue indagini pazienti, ma ancora nei suoi deliri. Si tiene accanto uno dei più grandi ingegni del tempo, Pier delle Vigne, e dal nulla lo solleva ai primi onori. Ha una corte splendida; gli fa corona una figliuolanza bellissima; ben sedici figliuoli gli conta il Raumer, lo storico degli Hohenstauffen. I cronisti e i novellieri del tempo lo ammirano. “Lo vidi una volta e lo amai„ dice fra Salimbene, che pure era guelfo ardentissimo. Tutto questo, o signore, vi indica una personalità straordinaria, una figura, che non ha riscontri in tutto il nostro Medio Evo. Ma che giova tutto questo agli intenti di Federico? Con lui scoppia la terza lotta fra il Papato e l'Impero, e le grandi qualità personali di Federico divengono quasi altrettanti delitti, dei quali i Papi lo tacciano. Con tre di essi specialmente ebbe briga, per usare l'espressione dantesca. Ma se con Onorio gli bastò destreggiarsi, con Gregorio IX e con Innocenzo IV fu una guerra a morte e nella quale Federico ebbe la peggio. Era il pupillo dei Papi, il Re dei preti, lo chiamavano per beffa i Guelfi tedeschi: i Papi s'erano covata essi in seno, come dicevano, questa serpe, ma a proposito della Crociata, sempre promessa e sempre differita, Gregorio IX (che non è un don Bartolo come Onorio, ma ha nelle vene il sangue d'Innocenzo III) lo scomunica tre volte in un anno e dalla scomunica Federico si appella (gran novità anche questa) alla pubblica opinione, segno certo, che questa si veniva mutando. Tant'è che nel giugno 1228 Federico, benchè scomunicato, parte per la Crociata, e questa è condotta da lui, anzichè come una guerra, come un negoziato diplomatico, degno di un principe sapiente, cristiano e tollerante. Ma è uno scomunicato, che invece di massacrar gli infedeli, ha trattato con essi. Che importa, se ha riacquistato Gerusalemme e il sepolcro di Cristo? Non avesse contro di sè che questa lotta così pazzamente insensata, Federico forse la supererebbe, ma quando vuol ricondurre i Comuni dell'Italia ai patti di Costanza, che s'erano già pian piano rimangiati, egli si trova a fronte d'una seconda Lega Lombarda. Come domarla? Gli mancano gli aiuti feudali di Germania. Venissero; la lega chiude i passi delle Alpi. Non resta se non poggiarsi sul partito Ghibellino, che è dentro ai Comuni. E allora dove se ne va l'ideale del Podestà supremo, del principe pacificatore? Il Papa stesso, che non è più arbitro del regno di Sicilia, dove troverà aiuto contro l'Imperatore? Nei Guelfi dei Comuni. Il fatto delle discordie italiane trascina dunque per forza nel suo stretto campo, contaminato d'odii e di sangue, le grandi potestà universali del Medio Evo. E con esse tutti vi sono trascinati egualmente, chè anche i grandi feudatari non hanno forza, se non s'aggrappano alle fazioni lottanti nelle città. Ezzelino da Romano, bizzarro ceffo di tiranno in
Quella parte della terra prava,
Italica, che siede in fra Rialto
E le fontane di Brenta e di Piava,
è un Ghibellino; come gli Este son Guelfi. L'Imperatore lotta colle forze che ha. I Comuni invece con vera soppiatteria e perfidia italiana (gli stranieri hanno questa volta ragione di chiamarla così) porgono di nascosto la mano al ribaldo figlio dell'Imperatore, che gli si è ribellato in Germania; infamia, nella quale almeno, dice il Raumer, il violento ma onesto Gregorio IX non trescò. Con tutto questo Federico vinse la seconda Lega Lombarda a Cortenuova il 27 novembre 1237. È la rivincita di Legnano codesta? Mai più! Anzi, mandando a Roma in Campidoglio, come alla sua capitale, le spoglie opime di Cortenuova, Federico allarma ed irrita sempre più il Papa, che non ha più ritegno nella lotta, e lo scomunica, lo destituisce dal regno e dall'Impero, gli cerca ovunque competitori, lo denuncia per ateo, eretico, epicureo, maomettano, gli bandisce contro una crociata, e indice un concilio, mentre l'Imperatore dal canto suo fa mandare a picco le navi, che vi portavano cardinali, vescovi e prelati. Morto Gregorio, la lotta è continuata da Innocenzo IV, nè d'altro lato l'Imperatore riesce a domare i Comuni, i quali colla battaglia di Parma del 1248 vendicano anzi Cortenuova e infliggono all'Imperatore un disastro irreparabile. Oramai la stella di Federico tramonta; sventure pubbliche, sventure private, tutto gli si accumula addosso; lo stesso suo figlio Enzo, bello, cavalleresco, valoroso, amore del padre, idolo dei poeti e delle donne, è sconfitto a Fossalta e cade prigione dei Bolognesi, che non lo restituiranno mai più. Fu l'ultimo colpo — e tanta ruina abbuiò anche la generosa indole di Federico; lo rese sospettoso, feroce, sicchè è di questo tempo la morte di Pier delle Vigne, il consigliere più illustre, l'amico più fido dell'Imperatore, che improvvisamente gli cade in disgrazia ed il cui supplizio rimane un'onta per Federico, quasi come quello di Boezio per Teodorico. La cagione fu e rimane un mistero. Fra i contemporanei si credette Pietro vittima dell'invidia e della calunnia, ed oggi l'Huillard Breholles, l'illustre storico di Federico e di Pier delle Vigne, conferma quest'opinione, che fu pur quella professata da Dante, il quale incontrando Pier delle Vigne in Inferno fra i suicidi, si fa dire da lui:
E se di voi alcun nel mondo riede
Conforti la memoria mia, che giace
Ancor del colpo che invidia le diede.
L'Imperatore morì l'anno dopo, negli ultimi del 1250. Di lui riparlerò conchiudendo. Basti qui che con lui scompare la più grande forse e la più complicata figura di tutto il Medio Evo. È la figura di un vinto? Nella lotta fra Impero, Papato e Comuni il vincitore vero è pel momento il Comune, ma Federico segna la prima riscossa del principio laico contro il principio teocratico, e questa è la sua vera vittoria.
Ben lo sentono i Papi e non daranno più tregua alla dannata razza degli Svevi. Sembra un fato di tragedia greca che, al pari di quella degli Atridi, incalzi questa famiglia, e gli epigoni di Barbarossa scompaiono uno dietro l'altro misteriosamente. Rimangono in Germania un fanciullo di nome Corradino, figlio di Corrado di Svevia e di Elisabetta di Baviera, ed in Italia, Manfredi, figlio naturale di Federico II, legittimato in punto di morte. Corrado era morto in Italia (vero cimitero degli Svevi) contrastando ai Papi, insieme con Manfredi, il regno di Sicilia, e intanto, durante il grande interregno dell'Impero, passerà più di mezzo secolo prima che l'Italia riveda un Imperatore tedesco. Ha usurpato Manfredi il regno di Corradino? La questione è dubbia, ma inclinerei ad ammetterlo. Non per nulla Manfredi è figlio di Federico e di una bella e astuta Siciliana! Ma la corona di Sicilia non se l'era forse guadagnata? e chi l'avrebbe difesa dal 1250 al 1258 contro le furie del Papa, se non era questo giovane ventenne, erede dell'ingegno, dell'avvenenza, della scaltrezza e del valore del padre? Pensate, o signore, in che temperie sociale e politica egli deve agire. Egli è in Italia, si voglia o no, il rappresentante del principio ghibellino e d'altra parte pei Ghibellini è un usurpatore. I Guelfi lo temono, ma temono assai più i vecchi e feroci feudatari ghibellini, uno dei quali, Ezzelino da Romano, osa innalzare fin su Milano le sue mire ambiziose. Il Papa, implacabile sempre, maledice Manfredi, come ha maledetto in fasce Corradino, e intanto fra così fiera lotta di passioni selvaggie, turbe infinite di flagellanti percorrono le città, implorando pace e perdono. Le leghe guelfe s'accosterebbero a Manfredi, ma la sua coronazione, che pare l'accenno d'una riscossa Sveva, rianima i Ghibellini, i quali coll'aiuto di Manfredi vincono il 4 settembre 1260 la battaglia di Montaperti, la qual vittoria è la fine di quello che i nostri cronisti chiamano il vecchio popolo di Firenze ed il principio del secondo popolo, fattosi in pochi anni “così vigoroso (scrive Cesare Paoli, pubblicando quel prezioso monumento di storia, che è il cosiddetto libro di Montaperti ) da compiere prima che termini il secolo la sua evoluzione guelfa e democratica coll'istituzione del Magistrato dei Priori delle Arti, da affermare la sua nuova e grande potenza colla battaglia di Campaldino„; la rivincita guelfa, in cui, secondo la tradizione, anche Dante ha combattuto.
Dopo Montaperti e la morte del Papa Alessandro IV si svolge la breve fortuna di Manfredi. Egli è sul trono; parte ghibellina prevale; la sempre torbida Roma ha cacciato in esilio la corte Papale; Manfredi marita sua figlia Costanza a Pietro d'Aragona (altre nozze che avranno conseguenze importanti); egli stesso, Manfredi, mortagli Beatrice di Savoia, sposa Elena, greca e discendente dei Comneni. Mai la casa di Svevia era stata così potente in Italia, e in questa breve tregua Manfredi si volge alle più civili arti di regno coll'intuito, il buon gusto, l'alacrità del padre. Sembrano rinati i più bei tempi della corte di Federico; il re è il più gentile cavaliere d'Italia; sua moglie una delle più belle donne del mondo. Intorno a questi due giovani tutto è festa, luce, musica, amore, poesia. Perchè non potrebbe Manfredi stendere da mezzodì al centro e a settentrione d'Italia la sua egemonia, determinando la conciliazione dei due partiti? È un bel sogno anche questo, che forse attraversò la mente di Manfredi, ma si dileguerà come un sogno! Manfredi pure non è in realtà che un capo di parte. Di suo, proprio suo, non ha che la sua spada, i Saraceni di Lucera e i mercenari tedeschi. Ha un bell'essere e sentirsi italiano. Pei popoli d'Italia è un tedesco; pei Papi è il figlio di Federico II, e durante quattordici anni i Papi gli cercano un competitore, battendo a tutte le porte, finchè Urbano IV, un papa francese, si volge a Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia e conte di Provenza. Costui è un principe cupido, valoroso, violento e già dalla Provenza al di qua delle Alpi ha distesa la mano rapace su parecchie città del Piemonte. Non è senza virtù; ha vigor d'animo e di corpo, e Dante, così avverso a questo primo Angioino ed ai seguenti, salvo Carlo Martello, amico suo personale, ce lo indica come colui dal maschio naso, il nasuto, certo però con intenzione non benevola, al pari del figlio Carlo II, il zoppo, indicato pel Ciotto di Gerusalemme; al pari del nipote Roberto, che sebbene noto nella storia coll'attributo di savio e di buono, Dante disprezza come un qualunque pedante coronato, chiamandolo re da sermone.
Istigato dall'ambiziosa moglie, che ha tre sorelle regine e vuol essere regina essa pure, soccorso con ogni mezzo, lecito ed illecito, da due papi francesi Urbano IV e Clemente IV, Carlo d'Angiò muove alla conquista del regno, e sebbene Manfredi raccolga ogni mezzo di difesa, Carlo passando senza inciampo per
Ceperan là dove fu bugiardo
Ciascun Pugliese,
lo raggiunge a Benevento e il 26 febbraio 1266 lo sconfigge, e Manfredi muore, combattendo da eroe. Onorando da soldato il valore infelice, Carlo volle dar sepoltura al corpo di Manfredi. Glie la negò invece il legato del Papa. Ma al di sopra di questi odii selvaggi, al di sopra di queste atroci intolleranze, che inferociscono anche contro un cadavere, si solleva, come la giustizia di Dio, la giustizia di Dante, che assolve Manfredi nei suoi versi immortali.
Carlo d'Angiò, atteggiatosi subito come capo di parte guelfa in Italia, appena assestate con mano di ferro le faccende del regno, va in Toscana in persona, ma intanto al Papa non paga il tributo, non fa la Crociata, si mescola a tutta la politica italiana. Da tale amico mi guardi Iddio, deve dire il Papa! Ma è tardi a pentirsi! Nel regno però il malcontento è grande e con lagrime di coccodrilli si rimpiangono Manfredi e gli Svevi. Ne approfitta il giovinetto Corradino, e spinto dal tristo fato della sua casa viene in Italia. Parve da prima arridergli la fortuna. A Carlo d'Angiò ch'era, come ho detto, in Toscana, si ribellò mezzo il regno, l'isola di Sicilia andò in fiamme, ma Carlo accorse come un fulmine, e il 23 agosto 1268 vinse Corradino sui campi Salentini, nella battaglia, che erroneamente ebbe nome da Tagliacozzo, come ha dimostrato il Ficker, correggendo a questo proposito gli errori topografici del Raumer e dei suoi predecessori. Rientrato nei confini romani, Corradino si rifugiò nella Torre d'Astura, ma tradito da un Frangipani e consegnato a Carlo, il 29 ottobre 1268, senz'alcuna forma di giudizio, checchè si sia preteso in contrario, fu giustiziato sulla piazza del mercato di Napoli come un volgare predone di strada. Che parte ebbe il Papa Clemente IV in questo delitto, che tale è veramente? Molti lo accusano. Il Del Giudice, così benemerito dei documenti Angioini e così autorevole illustratore di questa catastrofe, lo assolve; ma è in punto oscuro di storia, tanto più che il pietoso e breve romanzo di quest'ultima vittima Sveva, eccitò, come doveva, la fantasia popolare, che vi ricamò attorno ogni sorta di leggende, fra le quali basti ricordare quella del guanto, che Corradino getta dal patibolo ed è raccolto da Giovanni da Procida, il futuro e dubbio eroe dei Vespri Siciliani. Ciò dimostra però che tra i due fatti la coscienza popolare intravvedeva un rapporto, che in realtà è storico, anche se, come l'Amari ha provato, Giovanni da Procida è bensì intermediario fra la malcontenta baronia siciliana e le cupidigie aragonesi, ma non l'eroe dell'improvvisa e spontanea insurrezione siciliana, che nel 1282 troncò il volo alle ambizioni di Carlo d'Angiò, le quali oramai da occidente ad oriente parevano non avere più limiti. Ma la separazione della Sicilia è il primo segno della decadenza angioina, perchè, nonostante una guerra interminabile, la Sicilia non fu ricuperata, e quando, salito al Papato Bonifacio VIII, al debole successore di Carlo I d'Angiò fu dal Papa chiamato in aiuto un altro avventuriere francese, Carlo di Valois, tutto finì nell'abbietta pace di Caltabellotta, la quale lascia la contesa come la trova, e di cui, ora invocandola ora violandola, sapranno ben avvalersi gli Aragonesi. Certo la loro ambizione fu più fortunata ed accorta di quella del Papa loro nemico, quel peccatore di grand'animo, strumento e vittima della lega guelfa fra la Chiesa e la Francia, che Dante mise ancor da vivo in Inferno, sebbene compassionasse in lui la dignità del Papato vilipesa nel sacrilegio d'Anagni. Trinciandola da Gregorio VII, Bonifazio VIII non ne fu che la caricatura, perchè all'alto ideale di quel Papa non surrogò che cupidigie e passioni personali, delle quali anche Firenze portò la pena e nelle quali il Papato non guadagnò che l'abbandono di Roma e la schiavitù d'Avignone. Chi aiutò molto a far durare questa schiavitù e ne trasse profitto fu re Roberto di Napoli, figlio di Carlo II d'Angiò e il più notevole dei successori di Carlo I. Fra le satire e le invettive dantesche contro Roberto e le lodi che gli tributavano il Petrarca, fatto da lui incoronare poeta, ed il Boccaccio, vissuto alla sua corte e che adombrò nel Filostrato la storia dei suoi amori con una figlia naturale del re, il giudizio può rimanere un po' incerto, ma guardando ai fatti si conferma che quel titolo di re da sermone, affibbiatogli da Dante, non gli tornava poi tanto male. Potenza ebbe molta; occasioni a farsi grande non gli mancarono; l'animo gli mancò. Non seppe riacquistare la Sicilia; non seppe nè mantenere, nè assodare l'ascendente che esercitò nei primi anni dal suo regno in Roma, in Toscana, in Lombardia. Ai tentativi dei Ghibellini, di Arrigo VII, di Lodovico il Bavaro, di Giovanni di Boemia contrastò con fortuna; ma se Convenevole da Prato, il maestro del Petrarca, interprete d'una necessità, che da molti allora doveva essere sentita, lo preconizzò in un poema latino come futuro capo d'un gran regno, non napoletano o siciliano soltanto, ma italiano, certo è che mal poteva rispondere a cosiffatto ideale, e in quel tempo, un re dotto bensì e letteratissimo, protettore di poeti e scienziati, ma timido, non guerriero, e che non aveva lasciata altr'arme in mano ai suoi sudditi che una mazza di legno per difendersi dai cani.
Di Giovanna I, la donna dai quattro mariti, che colla tragica morte espia le colpe della giovinezza, di Ladislao, le cui cesaree velleità Firenze seppe a tempo frenare, di Giovanna II, che come dice il Cipolla, fra l'impero dei favoriti, le gelosie dei cortigiani, le sanguinose gare dei principi, la guerra esterna ed interna, e l'universale anarchia, precipita la ruina degli Angioini, non ho più tempo a parlare e varcherei del resto i limiti cronologici che mi furono assegnati.
Mi affretto dunque a conchiudere, chiedendovi scusa se per quanto io me ne sia ingegnato, non m'è riuscito d'esser breve quanto avrei voluto.
Ho cominciato dal parlarvi di Federico Barbarossa, archetipo d'imperatore tedesco, affinchè poteste meglio apprezzare il carattere italiano di Federico II e di Manfredi. V'è in questa trasformazione dei nipoti di Barbarossa tale vittoria della civiltà latina sul germanesimo, che vi colpisce per la sua rapidità e i suoi effetti. — Rendere italiano l'impero, come tentò Federico II, era un concetto degno d'una gran mente, ma era un concetto utopistico. Ad ogni modo, se non il Comune, il Papa era per certo un ostacolo insuperabile, ed è perciò che fu talora creduto avere Federico mirato ancora a cumulare in sè Papato ed Impero. In Manfredi invece v'è in realtà un momento, in cui si direbbe davvero possibile per la casa di Svevia assumere tale egemonia italiana da raccogliere sotto di sè tutta la penisola. Se non che anche Manfredi è storicamente collegato al ghibellinismo, ha contro di sè il Papato e l'Italia comunale. Non può riescire e non riesce.
La vittoria definitiva dei Guelfi dopo la battaglia di Benevento porta alla maggiore altezza la civiltà dei Comuni, principalmente in Toscana, ma è pure preparazione alle signorie nell'Italia superiore. È in quella vittoria guelfa che si fonda l'autorità di parecchi Podestà e capitani del popolo, i quali si mutano in signori, e l'esempio del principato e di una corte italiana, dato da Federico II e da Manfredi, non è senza efficacia a formare il tipo del signore e delle corti italiane, che qua e là divengono centro di civiltà e di splendido vivere.
L'età di Federico II e di Manfredi è uno dei momenti di più operosa vitalità politica italiana, sia per l'azione sveva e ghibellina, sia per la reazione comunale e guelfa. Questa vitalità per l'improvviso apparire della casa d'Angiò rimane interrotta, perchè vien meno uno degli elementi della lotta, vale a dire l'Impero, e gli altri, il Comune guelfo e il Papato, s'adagiano più tranquilli all'ombra della nuova monarchia guelfa. Qual'è l'azione di questa nuova venuta nella storia d'Italia? A torto o a ragione tutti si volgono, come eliotropi, a questo sole nascente. Che meraviglia? Sia giusto o no, il mondo è dei forti e (come ha di recente dimostrato il Merkel in un lavoro di assai belle e originali ricerche, in cui prende in esame le storie, le cronache, le canzoni dei trovèri, dei trovatori, dei minnesingeri e dei poeti, che cantarono nel provenzale nativo o nel nuovo volgare italiano) la caduta materiale degli Svevi s'accompagnò con la loro caduta morale nella pubblica opinione, la quale fu in prevalenza favorevole all'impresa di Carlo d'Angiò. S'ebbe come una sosta nel turbinìo degli elementi componenti la vita italiana, ma gli ideali politici del tempo scaddero tutti e neppure la vittoria finale fu degli Angioini. L'idea imperiale era già diminuita, fin da quando casa di Svevia s'era fatta italiana, perchè, scemata la sua autorità al di là delle Alpi, perdette con questo della sua universalità. Ed ora la separazione dall'Impero di quel regno delle due Sicilie, ove gli Italiani avean veduto da ultimo la sede degli imperatori, compie la scomparsa dell'idea imperiale dalla vita reale d'Italia. Quest'idea rimane il sogno di Dante; rimane un'ombra che inutilmente cerca incarnarsi in Arrigo di Lussemburgo, in Lodovico il Bavaro. L'ultimo suo nobile rappresentante è Arrigo, a cui Dante prepara in Paradiso un seggio di gloria; poi l'idea imperiale casca negli impronti, negli avventurieri, nei truffatori.
Che cosa surroga a quell'idea la casa d'Angiò? Nulla di grande, perchè è guelfa, perchè è straniera e rimarrà sempre tale; perchè la sua azione si va sempre più ritraendo, prima dalla valle del Po, quindi dalla Toscana, ed infine si regge a mala pena entro gli stessi confini del regno.
Quanto al Papato, e al Comune guelfo, che hanno vinto colla spada di casa d'Angiò, essi non coglieranno che tristi frutti dalla loro vittoria. Il Papato s'è dato un padrone; il Comune settentrionale decade nelle signorie, le quali chiedono una consecrazione alla loro usurpazione, che gli Angioini sono impotenti a dare e che esse preferiscono ricevere dall'Impero, ogni volta che pare risorgere, sia pure sotto l'aspetto di una scorribanda di ladri, o di un'avventura da intriganti. Quanto ai Comuni dell'Italia centrale, essi vedono gli inframmettenti Angioini mescolarsi alla loro vita, ma per recarvi nuovi elementi o di discordie o di servitù.
Finalmente, quanto alla stessa casa d'Angiò, se paragonate soltanto le condizioni d'Italia nel primo decennio del secolo XIV cogli ultimi anni della casa di Svevia, vedrete che gli Angioini hanno già perduta una parte della loro monarchia, che hanno il Papato avverso e cospirante alla loro ruina, che alle signorie dell'Italia superiore basta la comparsa d'un'ombra d'imperatore per rifarsi ghibelline, che i Comuni dell'Italia centrale invocano talvolta il suo aiuto, ma poi subito l'hanno in sospetto e se ne liberano. In tali condizioni essa, non solo non ha più speranza di divenire una potenza italiana, ma, mantenutasi a stento napoletana, non le rimarrà che sprofondarsi a poco a poco nell'anarchia e finalmente cedere il campo agli Aragonesi, più validi, più destri e più fortunati.
Che tetra e dolorosa storia ho dovuto narrarvi! Gente che corre dietro alle ombre; grandezze fatue, colpe, sventure, illusioni; nulla di certo, tranne sognare, decadere, annientarsi, scomparire come in un perpetuo nirvana. Ma queste conclusioni dolorose sono la grande e malinconica poesia della storia! Nella quale intendo la rassegnazione cristiana del Manzoni, il gemito disperato del Leopardi, ma nella quale l'ottimismo, se non è sulle labbra sarcastiche del Voltaire, mi sembra la più volgare delle conclusioni. Del resto, che meraviglia? La storia è la vita!
LA GENESI DELLA DIVINA COMMEDIA
DI PIO RAJNA
La molta cortesia non vi faccia dire di no, Signore e Signori: voi mi guardate con una certa quale curiosità per vedere che razza di viso abbia la sfacciataggine. Avete mille volte ragione. Ho osato sottomettere spontaneamente le spalle ad un carico, al quale non reggerebbero muscoli ben altrimenti robusti che i miei. La Genesi della Divina Commedia!
O tu chi se', che vuoi sedere a scranna
Per giudicar da lungi mille miglia
Con la veduta corta d'una spanna?
( Paradiso, XIX, 79).
Per scusarmi posso ben dire qualcosa. Nella letteratura italiana la Divina Commedia giganteggia in maniera, che il cupolone del Brunellesco non basta a renderne immagine. Piuttosto sarà da ricorrere a quel Duomo mirabile, che là nella gran pianura lombarda si slancia verso il cielo, cospicuo da ogni parte a cento e più miglia, tra l'ammasso delle case milanesi; dorato il mattino dai primi raggi del sole, imporporato dagli ultimi, sfolgoreggiante ne' suoi bianchi marmi sotto la luce meridiana. Orbene: questo gran monumento, tolto il quale la nostra letteratura cambia affatto d'aspetto, nel disegno delle conferenze quale a me fu annunziato, appariva solo di traverso. Ed ecco uno stimolo interno pungermi irresistibilmente a voler sopperire al difetto, mostrandovi un'altra faccia del portentoso edificio. Bella scusa davvero! Ho fatto come un villano, ingenuo e dabbene, che, penetrato, Dio sa in qual modo, in una sala dove sia gente di gran conto, vedendo l'uomo, ch'egli sa tra tutti il più famoso, lasciato pressochè solo in disparte da una specie di reverenza timorosa, vada a piantarsegli accanto.
Ma questi tutti son vani discorsi. S'io ebbi l'imprudenza, o l'impudenza, di mettere il mio nome appiè di una grossa cambiale senza pensare s'ero da tanto di poterci far fronte, ora, che la scadenza è venuta, bisogna che m'ingegni almeno di raggranellare le poche lire di cui dispongo. Un fallito dovrò essere di necessità; ma che io sia, se non altro, un fallito d'onore.
Donde cominciare? — La Signora Critica, dopo aver fatto la bisbetica per un pezzo — come pur troppo le avvien molto spesso, non già per malanimo, ma per rigido amore del vero — permette ch'io muova di colà, di dove, se a voi fosse lasciata la scelta, desiderereste di certo che io principiassi. È una figura ed è un nome di donna che devo qui evocare, ed è dell'affetto più gentile e più potente che abbia signoreggiato la mente dantesca che v'ho da intrattenere anzitutto. Guai di sicuro a chi nella Vita Nuova prenda ogni cosa alla lettera; ma la Vita Nuova non è neppure un tessuto di finzioni immaginate colla mira di comporre un romanzo; anche là, dove non è storia di fatti reali, essa viene ad essere pur sempre — talora con una certa perturbazione cronologica — storia di sentimenti, di pensieri, di fantasie.
A Dante fanciullo — “Prima che fuor di puerizia fosse„ — entrò nel cuore l'immagine di una fanciulletta, che di certo allora egli non chiamava altro che “Bice„. Chi s'inalberi all'idea di un innamoramento così infantile, può essere dottissimo e sapientissimo in tutto, ma non conosce abbastanza l'anima umana. Passarono gli anni senza che l'immagine, di continuo ravvivata, venisse mai a cancellarsi; i sentimenti che essa suscitava si fecero via via più distinti; beato nel pensiero di quella gentile, il giovane ebbe a dirla la sua Beatrice — beatificatrice —, ossia fu portato a designarla col nome intero, di cui Bice era lo scorciamento familiare. A questo modo il caso (non il caso, direbbe lui, dacchè per que' tempi “nomina consequentia rerum„, i nomi nascono dalle cose) gli forniva quel senhal, o nome convenzionale, cui i trovatori avevan ricorso per cantare più liberamente le donne amate: un senhal non molto recondito, se si vuole, ma da bastare tuttavia allo scopo; qui specialmente, dove, sotto alle eteree sentimentalità, non si nascondeva, come tante volte nel mondo provenzale, una tresca impudica. D'altronde di questo senhal Dante doveva allora servirsi solo, o pressochè solo, ragionando con sè medesimo, dacchè esso nelle poesie pervenuteci si mostra unicamente dopo la morte della donna.
Dante è in sui diciotto anni. Abbattutosi nella regina del suo cuore, che se ne va, in bianca veste, tra due matrone, e inebriato dal saluto di lei, si ritrae alla sua camera e pretende di aver avuto un sogno. Nel sogno vuole aver visto Amore, che regge in sulle braccia Bice addormentata, avvolta in un drappo leggermente sanguigno. In una delle mani egli tiene, ardente, il cuore dell'innamorato; e di questo, destata la fanciulla, induce lei a mangiare. Voltosi quindi di gaio ch'egli era prima, a piangere amarissimamente, si avvia verso il cielo, portando seco la donna.
Che Dante in quella notte sognasse di Bice, niente d'inverosimile; che la vedesse al modo che narra, pochi saprebbero credere, nè io sarò certo del numero. Ma se le cose dette non vide, egli, quel giorno o un altro, le immaginò, salvo assai probabilmente l'ultimo tratto del volo verso la regione degli angeli, inspirato dai successivi eventi. E questa fantasia fu da lui esposta in un sonetto, che, pur non essendo stato di sicuro la prima prova del suo librarsi sulle ali del canto, è il più antico saggio che noi di lui si possieda. Il sonetto, indirizzato “A ciascun'alma presa e gentil core„, ma destinato propriamente per coloro che “erano famosi trovatori in quel tempo„ come una specie di problema di cui si chiede la spiegazione, non ha bisogno di essere letto qui perchè voi vediate in esso come un primo presagio della Divina Commedia. Il presagio è ben tenue di certo; ma forse che la sproporzione toglie la rispondenza tra l'immagine che si disegna sulla nostra retina e lo sterminato volume della stella che da una distanza inconcepibile manda all'occhio la sua luce? Fatto sta che in un caso e nell'altro abbiamo una visione, e una visione che muove dall'amore medesimo, quale materia di una creazione artistica.
A questa prima visione tante altre ne tengono dietro, da far sentenziare a un illustre storico della nostra letteratura — ad Adolfo Bartoli — che la Vita Nuova “procede tutta, si può dire, per via di visioni„. Un valore generico queste visioni l'hanno sempre per noi; ma, naturalmente, non ci si deve arrestare se non a quelle che abbiano anche qualche importanza specifica. E così, prima d'incontrarci in nessuna di cui sia ancora a far parola, si dà di cozzo in una composizione, che, sebbene non sia il riflesso di nulla di cosiffatto, ci trasporta tuttavia ai mondi oltraterreni.
Dante, in un periodo d'afflizione, perchè la sua Beatrice, biasimando alcuna cosa in lui, gli ha tolto il prezioso saluto, cerca conforto nell'esaltazione dell'amata, e s'attenta, forse per la prima volta, ad affrontare il genere lirico più elevato, cioè la canzone. Egli parla a “Donne e donzelle amorose„, e squarcia loro d'un tratto i misteri del Paradiso:
Angelo clama in divino intelletto,
E dice: Sire, nel mondo si vede
Maraviglia nell'atto, che procede
Da un'anima, che fin quassù risplende.
Lo cielo, che non have altro difetto
Che d'aver lei, al suo Signor la chiede;
E ciascun santo ne grida mercede
Sola Pietà nostra parte difende
Chè parla Iddio, che di Madonna intende:
Diletti miei, or soffrite in pace
Che vostra speme sie quanto mi piace
Là, ov'è alcun che perder lei s'attende,
E che dirà nello 'nferno a' malnati:
Io vidi la speranza de' beati.
Se tutto non v'è riuscito chiaro in questi versi, non fatene colpa a voi stessi, giacchè anche la gente che pretende di spiegarli agli altri, dopo averci ficcato gli occhi ben addentro, dubita e disputa. Molto tuttavia si capisce abbastanza. Un angelo chiede istantemente a Dio, a nome di tutti i beati, che sia chiamata in cielo un'anima, che unica manca a rendere perfetta la festa di lassù. La Pietà sola — s'io non m'inganno, Maria — propugna le parti della povera umanità. Questa voce la vince: Dio conforta i suoi “diletti„ a portar pazienza, e lasciare che la loro “speme„, Beatrice, resti sulla terra tanto, quanto piace a lui di lasciarvela. Insomma, noi veniamo ad aver qui una piccola “Commedia divina„.
Ma “l'enimma forte„, che tormenta gli Edipi, è la chiusa della stanza. In terra, per testimonianza di Dio, è, tutto pauroso di perdere Beatrice, alcuno
... che dirà nello 'nferno a' malnati:
Io vidi la speranza de' beati.
Se prima abbiamo avuto come un lieve sentore della Divina Commedia, in questi due versi da un pezzo se ne scorge il deliberato proposito, e gli sforzi fatti per cercarvi altra cosa, riescono, per quanto vengano da intelletti vigorosi, vani del tutto. E vani sono del pari i tentativi di resecare chirurgicamente dalla canzone questa stanza, supponendola aggiunta poi; ed urta contro improbabilità ben gravi e difficoltà pressochè insuperabili anche la congettura recente, che solo questi due ultimi versi siano stati inseriti di nuovo, surrogandoli ad altri, nell'atto del legar questa gemma dentro allo splendido diadema della Vita Nuova. Frattanto il disegno di un viaggio sotterra avanti la morte di Beatrice, riesce a noi difficile da comprendere; ed io per il primo m'ho da rammaricare che, se il disegno è formato fin d'ora, la bella dimostrazione della lenta, graduale evoluzione del futuro poema, che a me pareva di potervi fare, e che in sè stessa appariva la cosa più logica di questo mondo, ne vada non poco in iscompiglio. Ma, grazie a Dio, non sono ancora avvezzo a mettere il bavaglio ai fatti, perchè non abbian modo di levare la voce contro le concezioni del mio cervello; e l'esperienza m'ha insegnato da gran tempo che il vero si prende non di rado il gusto di andarsene a stare ben lontano dal verosimile. Così, se Dante fin d'ora — ossia non più tardi del 1289, posto che Beatrice sia, come penso ancor io, la figliuola di Folco Portinari, morto il 31 dicembre di quell'anno e non morto ancora quando la canzone fu composta — se Dante, dico, ha già immaginato una Divina Commedia senza voler permettere a noi di scrutare in che modo propriamente l'idea venisse a nascere, e sia pure! Cosa questa Divina Commedia fosse per essere, nessuno di certo saprebbe dire; si può dire bensì cosa non sarebbe stata, ossia, che essa sarebbe riuscita quanto mai diversa da quella che possediamo. Certo nel lunghissimo periodo che corse in ogni caso dal primo concepimento all'esecuzione, il concetto dell'opera ebbe a subire via via una serie di trasformazioni profonde. Ben diversa dall'attuale era manifestamente anche la Commedia che Dante ebbe ad immaginare, quando, come vedremo tra poco, nessuno dubita ch'egli ad essa non pensi, e quando intanto la maggior parte delle vicende che improntarono il poema del loro marchio, ancora non era seguita. O che diremmo, se, per esempio in questa primissima fase, egli avesse fantasticato una specie di purgazione in vita, analoga a quella, che sarà da menzionare più tardi del Pozzo di San Patrizio, come solo mezzo atto a renderlo degno di amare colei che di continuo ci rappresenta come angelo in terra?
Rimettiamoci in via, dolenti di saperne forse un po' troppo perchè l'interesse dell'osservare non venga a soffrirne, ma fermi sempre nel proposito di tener gli occhi bene aperti. Dante ammala e cade in estrema debolezza. In quello stato gli succede di pensare, da una parte alla sua donna, da un'altra alla fragilità della vita, sicchè gli s'affaccia naturale l'idea che Beatrice stessa dovrà un giorno morire. Sopraffatto da smarrimento, chiude gli occhi e vaneggia. Ed ecco che “nel cominciamento dell'errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: Tu pur morrai! E poi, dopo queste donne, m'apparvero certi visi diversi ed orribili a vedere, i quali mi diceano: Tu se' morto„. Continuando il farneticare, egli non sa più dove sia: “e veder mi parea donne andare scapigliate, piangendo, per la via, maravigliosamente triste; e pareami vedere il sole oscurare sì, che le stelle si mostravano d'un colore, che mi facea giudicare che piangessero: e parevami che gli uccelli volando cadessero morti, e che fossero grandissimi terremoti„. O cos'è questo pianto della natura? La parola di un amico glielo spiega: “Or non sai? La tua mirabile donna è partita di questo secolo„. Egli allora alza gli occhi al cielo: “E pareami vedere moltitudine di angeli, i quali tornassero in suso ed avessero dinanzi da loro una nebuletta bianchissima; e pareami che questi angeli cantassero gloriosamente; e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis.„ Dopo di ciò la fantasia gli rappresenterà ancora in atteggiamento ineffabilmente sereno le spoglie mortali della sua donna, ed egli si sentirà tratto a invocare la morte, e piangerà lagrime vere, finchè non sarà destato, nel momento che gli uscirà di bocca il nome di Beatrice.
In questo caso la visione non è un sogno, bensì un delirio. E il delirio è preparato da condizioni siffatte e si viene svolgendo in cotal maniera, che nessun psicologo ci troverebbe a ridire. Però stavolta abbiamo forse a fare proprio con qualcosa di sostanzialmente reale. Ma non è di ciò che a noi importa. C'importano, comunque sorti nella mente, quei ceffi di demonii, quelle figure d'angeli, tutto quello spettacolo pauroso e fantastico di morte, di dolore, di beatitudine. E c'importa che anche qui alla fantasticheria tenga dietro la rappresentazione artistica, dataci dalla canzone “Donna pietosa e di novella etate„, che è tra le più belle, più calde, più vive, che Dante componesse mai.
Beatrice non molto appresso viene realmente a morire, e l'Alighieri rimane lungamente affranto. Si rianima poi a poco a poco, e finisce per lasciarsi vincere da un nuovo amore, rampollato dalla compassione che s'accorge d'aver destato in un'anima gentile. Sennonchè presto “una forte imaginazione„, in cui gli pare di vedere Beatrice fanciulletta, come l'aveva vista la prima volta e in quelle stesse vesti sanguigne che allora indossava, lo riconduce, pentito, a pensar di lei sola. Ora dunque egli riprende a cantare il dolor suo. Non a lungo tuttavia; chè, ecco apparirgli “una mirabil visione, nella quale„ egli dice, “vidi cose, che mi fecero proporre di non dir più di questa benedetta, infino a tanto che io non potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò, studio quanto posso, sì com'ella sa veramente. Sicchè, se piacere sarà di Colui, per cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, spero di dire di lei quello che mai non fu detto d'alcuna.„
Che ciò che qui s'annunzia sia la Divina Commedia, è da avere in conto di cosa certa. E se non fossero i due versi che ci hanno dato filo da torcere poco fa, noi diremmo che essa erompa proprio dalla visione a cui qui oscuramente s'accenna, senza unirci tuttavia al coro di coloro che identificano in certo modo il poema colla visione stessa. Il bottone, turgido da un pezzo, al bacio di un sole infocato aprirebbe ora primamente i suoi petali. Ma se il disegno è vecchio già di qualche anno, bisognerà che in questo luogo esso venga solo a subire una metamorfosi. Quanto a determinar propriamente in che la visione attuale consistesse, ne lascerò il còmpito a chi sia dotato di una potenza divinatrice, che il cielo a me, poveretto, non ha voluto concedere. Questo so bene di poter dire, sicuro oramai di avervi compagni, che il concetto del gran poema sgorga direttamente dalla vita dell'Alighieri e dall'affetto santissimo della sua gioventù, e che il suo prender forma di visione, non è che una manifestazione più intensa di tendenze che noi vediamo connaturate colla mente sua.
Dal punto a cui ci s'è condotti all'esecuzione definitiva, correrà tuttavia molto tempo ancora. Qui non dobbiamo essere che al 1292 all'incirca; e la scena stessa del poema è posta nel 1300. Degl'indugi sarà poi da chieder conto alla bufera politica che travolgerà l'Alighieri; ma prima il conto vuol domandarsi a un doppio ordine d'infedeltà, solo apparenti le une, più che reali invece le altre. Dante si dà allo studio della filosofia; e questa passione s'impadronisce a tal segno dell'animo suo, da sopraffare il pensiero della morta donna. Di cotal lotta, dell'esito che essa ha, ci è documento l'ammirabile canzone: “Voi che intendendo il terzo ciel movete„, ampiamente commentata nel secondo trattato del Convivio. Ma se qui l'Alighieri ha l'aria di discostarsi da Beatrice, e però anche dalla Divina Commedia, mentre in realtà sempre più loro s'avvicina, egli se ne discosta realmente d'assai lasciandosi andare ad una vita licenziosa, nella quale il peccato che ultimo si espia sul monte del Purgatorio, ebbe manifestamente non poca parte. Eppure questo stesso traviamento finisce per accatastare nuova legna per la immensa fiamma che verrà poi a divampare; più l'Alighieri s'imbraga, e maggiore diventa la necessità di mezzi più straordinari che non siano le “spirazioni„, in sogno o non in sogno, per trarlo a salvezza:
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
Alla salute sua eran già corti,
Fuor che mostrargli le perdute genti.
( Purg., XXX, 136).
Sarà mai vero che il proposito fermo di battere quind'innanzi altra strada e gli sforzi di salire “il dilettoso monte„ irradiato dal sole della virtù, fossero fatti allorchè il gran Perdono del 1300 offriva per la prima volta a tutta la Cristianità, conturbata dalla coscienza delle proprie colpe e dai terrori della vita futura, un modo relativamente agevole di lavarsi da ogni macchia e di sciogliersi da ogni pena? — Impossibile rispondere; ma se anche questo non fu, Dante non poteva certo scegliere momento più opportuno per collocarvi il suo mistico viaggio.
Quella che noi s'è venuta finora considerando per la Divina Commedia, è la genesi interna: la genesi in quanto ha luogo nell'animo stesso di Dante. Ma di contro a questa c'è una genesi esteriore. Al fenomeno soggettivo corrisponde un fatto oggettivo; se da un lato c'è una corda mirabilmente disposta a vibrare e render suono, dall'altro c'è una mano che la scuote. Si tolga l'una delle due: s'immagini un Dante diverso da quello che è, oppure si collochi a vivere in un mondo diversamente foggiato, e il grande poema andrà del pari a perdersi nell'infinito popolo dei non nascituri.
Volgiamoci a quest'altra parte. Volgervisi, dovrà manifestamente significar soprattutto rendersi conto del posto che tenevano nell'età dantesca le fantasticherie dei mondi oltraterreni, le quali, anche prima che ci si fermi a guardar le cose davvicino, appariscono pure essere per la Divina Commedia schiatta e famiglia. E il posto era stragrande davvero. Di queste fantasticherie avevano piena la testa, e la riempivano altrui, ecclesiastici e laici, predicatori e giullari, pittori e poeti: per lo più mirando piamente ad atterrire, talora anche a sollazzare. E fu per sollazzo (come non richiamare in Firenze, sia pur nota quanto si voglia, questa memoria fiorentina?) che, nella lieta ricorrenza del calen di maggio del 1304, mentre Dante già calcava le dure vie dell'esiglio, i mattacchioni di Borgo San Frediano, su barche, e navicelli, e impalcature, rappresentarono in Arno l'inferno, “con fuochi„, dice il Villani (VIII, 70) “e altre pene e martorii, con uomini contraffatti a demonia, orribili a vedere, e altri i quali aveano figure d'anime ignude, che pareano persone, e mettevangli in quegli diversi tormenti con grandissime grida, e strida e tempesta„: spettacolo che, fatto così per trastullo, parrebbe irreligioso ai nostri tempi, e che allora non era; ma che ebbe fine lagrimosa, dacchè, rovinato, per il peso soverchio della folla spettatrice, il ponte alla Carraia, ch'era tuttora di legno, molti perirono; “sicchè„, conchiude il cronista, “il giuoco da beffa avvenne col vero; e, com'era ito il bando, molti per morte n'andarono a sapere novelle dell'altro mondo„.
E da tempo immemorabile le fantasticherie avevano proprio anche assunto la veste di andata alle dimore dei defunti. Siffatta concezione fu quanto mai comune presso i Greci, non uguagliati forse da nessun popolo nella familiarità con quelle regioni. Cosa di più noto alle menti elleniche che l'Acheronte, il Cocito, Caronte colla sua barca, la reggia di Plutone e Proserpina? Le andate più antiche si immaginaron corporee, come un altro viaggio qualsiasi. Tali son quelle d'Ercole, di Piritoo, di Orfeo, spettanti al dominio del mito; tale è nell'epica quella di Ulisse, di cui l' Odissea ci darà una particolareggiata narrazione, alla quale il pochissimo che l'Alighieri ne seppe, non toglie di essere la più remota progenitrice della Divina Commedia a cui noi si possa risalire.
Più tardi, per effetto dello spiritualismo filosofico, si contò di peregrinazioni compiute dall'anima soltanto. Anche ad un'immaginazione di questo genere ricorse Platone, il più fantasioso tra i filosofi greci, e quello che maggiormente si piacque di dar forme concrete e sensibili alle idee sue intorno alla sorte riserbata ai defunti; e alcuni secoli dopo vi ricorse allo stesso modo Plutarco. Riferire le cose dette da questi due, sarebbe gradevole a me, come sarebbe gradevole a voi l'ascoltarle; appena sapreste persuadervi di essere nel mondo pagano. Ma poichè il mio scopo è di prepararvi a capire come nasca la Divina Commedia, e non di farvi conoscere la storia delle idee e delle fantasie che si riferiscono all'altra vita, mi guarderò bene dal lasciarmi sedurre.
Dire che qualcosa fosse dei Greci, è un dire insieme che da un certo tempo in qua fu anche dei Latini, loro eredi non meno che emuli. I Latini parteciparono dunque anche per questa parte alle concezioni elleniche; solo, di tanto più positivi, ci si abbandonarono meno. Ma ecco, per trascurar tutto il resto, che Cicerone farà avere al suo Scipione Africano un sogno, che è una vera visione del paradiso; e Virgilio ci darà di una discesa di Enea all'Averno una descrizione, che, grazie alla vitalità somma del poema in cui era contenuta, eserciterà un'azione efficacissima anche per tutto il medioevo.
Venne il cristianesimo; e succhiò per questa parte latte pagano, ben più che israelitico; nè poteva essere altrimenti, dacchè il posto che nelle menti pagane era occupato dalle fantasie relative alla sorte riserbata all'anima al suo uscir dal corpo, nelle israelitiche era riempito invece dal pensiero e dalla rappresentazione del finimondo, della risurrezione, e del gran Giudizio. Ma è troppo facile intendere, date le idee cristiane, come da questo tempo in là le visioni dovessero moltiplicarsi: visioni per lo più tenere, pietose, commoventi, nell'età dei martiri; paurose invece nel medioevo, durante il quale la religione diventò in grandissima parte sinonimo di terrore. Non diamone maggior colpa a lei che alle generazioni che essa si studiava di tenere a freno.
Io non istarò qui a farvi passare dinanzi la lunga serie di coloro che di secolo in secolo pretesero, o si pretesero, aver visitato i regni della morte; giacchè vedo bene quanta sarebbe la noia, e non vedo invece quale sarebbe l'utilità di una filata di nomi accompagnata da scarsi ragguagli. Mi pare senza confronto miglior partito prendere tra i moltissimi un caso singolo, che possa servir di esemplare, e fare di quello un'esposizione abbastanza particolareggiata. Non sceglierò quella visione di frate Alberico, dattorno alla quale fu combattuta un tempo la battaglia dell'originalità o non originalità del poema dantesco da chi ancora non sapeva, o non considerava abbastanza, com'essa non fosse che un individuo, non privo certo di qualche importanza, di una stirpe ben numerosa. Che Dante la conoscesse, è più che improbabile. E neppure mi appiglierò alla discesa famosissima di Owen nel pozzo di San Patrizio in Irlanda, nonostante che questo pozzo conservasse la sua reputazione di bocca delle regioni delle anime con una tenacia singolare, contro cui non valse nemmeno la distruzione eseguitane per ordine di papa Alessandro VI nel 1497. Prenderò invece la visione di Tundalo, germogliata ancor essa dal medesimo suolo irlandese, d'una fecondità proprio impareggiabile per roba siffatta. Questa può dirsi il capolavoro della sua specie. Composta alla metà del secolo dodicesimo, si divulgò, latina e molteplicemente tradotta, in modo veramente straordinario; e per me non è dubbio come sia tra quelle di cui Dante ebbe conoscenza diretta, e da cui trasse partito.
Tundalo era un cavaliere irlandese, giovane, bello, prode, piacevole, ma che non voleva darsi alcun pensiero delle cose dell'anima. Un giorno, mentre siede a tavola in casa altrui, si sente mancare, e, gridando, cade a terra. Appaiono in lui i segni della morte. Il corpo è steso sopra di un letto, e vi rimane tre giorni. Trascorso questo tempo, mentre tutto è pronto per la sepoltura, riapre gli occhi, con gran meraviglia dei circostanti. Egli riceve il corpo di Cristo, poi fa testamento in favore dei poveri, e quindi racconta i meravigliosi suoi casi.
Uscita dal corpo, l'anima era stata presa da grande paura, pensando alla sua vita colpevole. Una turba di demonii la circonda, digrigna i denti, le preannunzia l'inferno, e crudelmente la schernisce. Quand'ecco, egli vede accostarsi come una stella splendidissima, che, fattasi vicina, risulta un giovane di singolare bellezza (chi non ricorre qui subito colla mente al celeste guidatore del “vasello snelletto e leggiero„?) e gli si dà a conoscere per il suo angelo custode, mandato dalla misericordia divina. Gli annunzia pene bensì, ma insieme anche il ritorno alla vita, e gli dice di seguirlo. I demonii gridano contro l'ingiustizia di Dio, si picchiano tra di loro, ma se ne vanno, lasciando in quel luogo un gran puzzo. L'angelo, e Tundalo dietro di lui, si mettono in via.
Dopo aver fatto lungo cammino, in mezzo a tenebre rischiarate solo dalla luce dell'angelo, giungono a una valle profonda, piena di carboni ardenti, e ricoperta da un'immensa gratella arroventata, su cui friggono molte anime. Come cera si squagliano e colano sui carboni, per poi essere restituite nella forma di prima. Cominciano di qui i loro tormenti, seguiti da altri ancor maggiori, i parricidi, i fratricidi, gli omicidi in genere, e i loro complici.
Più oltre è un monte con uno stretto passaggio, che ha da una parte un fuoco di zolfo, e dall'altra neve e grandine, e vento orribile. Qui demonii, con forche roventi, aspettano al varco gli insidiatori, per metterli a tormentare, con dolorosa vicenda, or di qua, or di là.
I superbi urlano e gemono entro a un fiume di zolfo nel fondo di una tavola angusta, su cui solo agli eletti è dato di reggersi, mentre gli altri tutti precipitano. Questo ponte, che non rimane solo, come si vedrà or ora, è un'immaginazione che viene ben di lontano. Tundalo, grazie alla sua scorta, riesce a passarlo.
Proseguendo per una via tortuosa, si trovan di fronte a una bestia di grandezza così sterminata, da poter contenere nella bocca molte e molte migliaia di uomini. Il mostro si chiama Acheronte. Esso vomita fiamme, e certi demonii sono continuamente affaccendati a cacciargli in corpo delle anime. È il tormento degli avari. L'angelo d'improvviso sparisce, e Tundalo è preso e trascinato a patire pene incredibili e svariate in quell'orrido ventre. Pure alla fine si trova libero di nuovo, e l'angelo gli è al fianco.
Risanato con un semplice tocco del dito, è condotto ad un lago in continua e violentissima procella, pieno di mostri terribili, che stanno continuamente in attesa di anime da divorare. Questo pure è attraversato da un ponte, largo un palmo, lungo tre miglia, tutto coperto di punte che forano i piedi. Sopra di esso tocca a Tundalo di avventurarsi, tirandosi dietro una vacca indomita, in pena del furto di un animale siffatto. Il poveretto tollera patimenti indicibili; ora cade lui, ora la bestia; e ancora s'aggiunge l'incontro di un'altr'anima, carica di un gran fascio di spighe. Pure, quando Dio vuole, la prova è superata.
Lascio altri tormenti, anche più strani e tremendi, tra i quali non è tuttavia, come forse vi aspettereste, lo starsene a sentire conferenze noiose. E tutto questo non è che purgatorio! Alla fine Tundalo ode grida, ed urli, e tuoni, che fanno un insieme di cui non si può dir a parole l'orrore, e si vede dinanzi come un gran pozzo, dal quale escono tratto tratto fiamme e fumo, che paiono arrivar fino al cielo. Insiem colle fiamme son portate in alto numerosissime anime in forma di faville, che poi ricadono nel profondo. Ecco l'inferno. Una turba di demonii, usciti ancor essi di colà colle fiamme, fa ressa dattorno a Tundalo, e dà luogo a una scena, che subito ci fa pensare a ciò che nell'inferno dantesco segue sulle porte di Dite e al ponte de' barattieri. Ma l'angelo, che era prima sparito, riappare di nuovo, e dissipa costoro. Quindi conduce Tundalo anche giù nel baratro infernale; ma ve lo conduce invisibile a tutti, e senza che più deva partecipare alle pene. Dar conto dei supplizi veduti laggiù, non sarebbe, ci si dice, possibile; però altro non ci si descrive che Lucifero, mostro spaventoso e d'incredibile grandezza, nerissimo, con mille mani, lunga ciascuna cento palmi e munita di unghioni di ferro, con un enorme becco e una gran coda. Giace incatenato sopra una gratella, alla quale sono sottoposti carboni ardenti, rinfocati di continuo per forza di mantici da demonii senza numero. Pieno di furore, prende quante anime gli vien fatto di afferrare, le strizza, le infrange, e quindi, soffiando, le sparge per ogni parte dell'inferno. È allora che si solleva la gran fiamma vista uscire dal pozzo, la quale altro non è che il fiato di Lucifero. Ma poi il mostro aspira di nuovo; e fuoco, ed anime, e demonii, tutto gli rientra in corpo. La pittura è grandiosa davvero e spaventevole.
Tundalo, inorridito, dopo aver avuto dalla sua scorta molte dichiarazioni, domanda ed ottiene di uscir fuori, e ben presto, con gran meraviglia, si trova lieto e sicuro, non più circondato da tenebre. S'arriva ad un muro altissimo, appiè del quale se ne stanno alla pioggia ed al vento moltissime anime, travagliate da fame e da sete. Son coloro che vissero onestamente bensì, ma che non fecero elemosina come dovevano; però, simili agli scomunicati dell'Alighieri, rimangono qui alcuni anni ad aspettare.
Non aspettano Tundalo e l'angelo, e per una porta entrano in un giardino amenissimo su cui il sole mai non tramonta, dove sono le anime di coloro che, liberati dai tormenti infernali, ancora non meritano d'essere accolti nella compagnia dei santi. Nè da questo luogo son bandite del tutto le pene.
Giungiamo al piede di un secondo muro, che non ha porte, e al di là del quale Tundalo si trova, senza saper come, tra cori di santi, che lieti e festosi, in splendide vesti, deliziati da profumi inenarrabili, cantano soavissime melodie. È il paradiso dei maritati, che tennero fede al matrimonio. Al di là di questo, separato al modo medesimo da un muro, n'è uno anche più splendido, destinato ai martiri, a chi serbò la verginità, agli edificatori e benefattori di chiese. Questi ultimi se ne stanno in celle d'oro e d'avorio sotto un grand'albero che raffigura la Chiesa. Finalmente, al di là di un altro muro, fatto di pietre preziose, sono i nove ordini delle milizie angeliche, e la beatitudine più piena. Vi si scorge una seggiola meravigliosa, destinata a un'anima che ancora è tra i viventi. Mentre Tundalo sta qui gustando di una dolcezza ineffabile, gli è annunziato dall'angelo che deve ritornarsene, e immediatamente egli si trova gravato del peso del corpo. Fu allora che riaperse gli occhi.
Tale è questa visione, superiore ad ogni altra così per l'orditura generale come per molti particolari, ma infinitamente lontana pur sempre dalla Divina Commedia.
Là dove tanti avevano fantasticato, e non di rado vaneggiato, Dante solo pensò. La mente dantesca è una tra le più meravigliosamente contemperate che mai sian state nel mondo; fantasia e ragione, che nella maggior parte degli uomini paiono come rappresentarci i due piatti d'una bilancia, dei quali l'uno non può calare senza che l'altro si sollevi, qui sono entrambe in grado sommo e si crescon forza a vicenda. E alla ragione e alla fantasia s'accompagna una potenza di sentimento, capace al modo stesso delle più squisite delicatezze e degl'impeti più fieri; che può esser ruscello che scorre trasparente, accarezzando gentilmente le erbe che sporgono dalle rive, e torrente furioso che va a precipizio, travolgendo macigni, alberi, case, tutto quanto gli si para dinanzi.
Tale la natura aveva fatto l'Alighieri: la vita, piuttosto che per favore di circostanze, grazie ad una sete inestinguibile di sapere, — “La sete natural che mai non sazia„ altro che se Dio stesso l'appaga — aggiunse a tutto ciò una padronanza pressochè piena della scienza del tempo suo. Questa scienza sarebbe stata assai facilmente per altri come una gran pietra legata al piede, sia pure di un'aquila; per lui invece riuscì come la zavorra, per virtù della quale la nave si fa stabile e ben equilibrata.
Questo l'uomo che concepì il disegno di percorrere, dopo tanti e tant'altri, i mondi delle anime. Stiamo pur sicuri ch'egli non ricalcherà le orme di chicchessia. Perfino al cospetto di Virgilio, dell'“altissimo Poeta„ ch'egli non si stanca di chiamare “maestro„ e che, a motivo anzitutto della discesa di Enea all'Averno, sceglie a guida attraverso alle due regioni delle pene, non si riduce nient'affatto a diventare servile. Egli ha certo la rappresentazione sua incomparabilmente più fissa nella memoria d'ogni altra, l'imita talvolta in qualche particolare, ma serba piena ed intera la propria libertà.
Posto di fronte al soggetto suo, Dante provò il bisogno vivissimo di sottometterne, del pari come la successione dei peccati e delle pene, così anche la topografia, a quelle leggi d'ordine e misura, a cui era stato sempre ribelle. Era un caos ciò che a lui stava dinanzi. Poche soltanto tra le descrizioni de' suoi antecessori presentano contorni che possano in qualche maniera esser colti; e allora è un concetto assai povero che ci si offre. Abbiam come una sterminata estensione orizzontale, nella quale s'apre una profonda voragine. Tale è la disposizione virgiliana, tale quella che avete visto nella visione di Tundalo, tale quella di altri esemplari parecchi. Il baratro, come sapete, è l'inferno, dove nel più dei casi neppure si penetra, e del quale ad ogni modo si parla sempre in succinto. Nella parte superiore s'hanno le punizioni a tempo, ossia il purgatorio; e all'estremità sua sogliono incontrarsi le sedi dei beati: ben naturalmente nella concezione dei pagani, pei quali, fino a che la filosofia troppo non se ne immischia, il regno dei morti è uno solo, governato tutto da Plutone, ma con assurdità patentissima quando ci troviamo nei dominii del cristianesimo. I luoghi di pena, apertamente o non apertamente, s'immaginano quasi sempre sotterra. È dunque sotterra anche il paradiso?
Di concepire le cose come i predecessori, Dante non poteva contentarsi: egli cosmografo, egli dotato in grado ben alto di quel senso classico, che rifugge dall'indeterminato e dall'indeterminabile, costituendo un così reciso contrapposto alle tendenze dell'ingegno orientale. E non pago di modificare, tutto trasformò.
Il gran cardine della metamorfosi fu il purgatorio. Dante lo trasse dalle profondità del suolo e lo staccò recisamente dall'inferno. Così operando, egli si accostava ai teologi, che, mentre per lo più eran d'accordo nel ritener sotterranea la regione dei dannati insieme col limbo, non solevano pensare il medesimo di quella delle anime purganti. E non mancava, credo, chi questa regione ponesse appunto, come si fa dal poeta, agli antipodi. Dico solo “credo„ perchè la testimonianza che mi soccorre al momento è alquanto posteriore alla Divina Commedia; ma è troppo ovvio che, se il purgatorio era sulla superficie terrestre, dovesse immaginarsi in quelle parti a cui si pensava che l'uomo non potesse giungere. Del resto perduti nell'oceano i luoghi di pena temporanea sono anche in qualche esposizione leggendaria tra quelle che in generale ci son meno prossime, segnatamente nel famosissimo viaggio di San Brandano.
Ma se qui Dante, fino a un certo segno, abbandonava una tradizione per avvicinarsi ad un'altra, egli fu propriamente originale nella determinazione specifica del concetto. Quel medioevo che tanto favoleggiò delle regioni dei morti, vagheggiò non poco anche l'immagine di quelle sedi beate, che il primo atto di seduzione femminile e di debolezza mascolina si credeva aver tolto all'umanità. All'esistenza reale ed attuale del paradiso terrestre si dava fede quasi universalmente; e fede continuò a darcisi per un pezzo, sicchè è noto come lo stesso Colombo immaginasse di essere arrivato ne' suoi paraggi quando giunse alle foci dell'Orenoco. E sulle carte dell'età di mezzo questa regione felice, alla quale molte leggende facevano pervenire dei fortunati visitatori, è segnata molto spesso. Solo c'era qui pure dissenso quanto alla situazione. I più la ponevano in un remotissimo oriente; non pochi nell'India; altri, che si potranno un giorno far forti anche della poderosa autorità dell'Astolfo ariostesco, nell'Etiopia; parecchi — e non dico infine, perchè ancora non si sarebbe finito — lungi dal mondo abitato, divisa da esso, secondo taluni, da un gran tratto di mare. Ma l'accordo si ristabiliva tra il maggior numero per ciò che spetta alla configurazione particolare. Il paradiso terrestre doveva esser vetta di un monte isolato di straordinaria altezza; di un monte che certuni (chi conosce la Divina Commedia capisce subito il motivo dell'avvertire siffatta particolarità), per sottrarne la cima ai turbamenti atmosferici, facevan spingere il capo fin dentro al cielo lunare. Orbene: Dante prese questo monte, s'appigliò al partito unicamente ragionevole di collocarlo in mezzo al mare e agli antipodi, e dintorno alle sue pendici dispose il purgatorio, ripartendolo, colla sua mente geometrica, in altrettanti ripiani o cinture di forma regolarissima. Curiosa la rispondenza che cotale concezione viene ad avere con una che s'incontra nel Libro delle visioni e rivelazioni della tedesca Matilde di Hakeborn: curiosa assai, ma casuale, e buona a provarci a quante illusioni ci espongono non di rado certe somiglianze anche assai spiccate.
A togliere dalle viscere della terra il purgatorio, a trasportarlo alla luce, ad associarlo strettissimamente coll'Eden, Dante non fu mosso niente affatto da mere convenienze architettoniche. È un concetto ben altrimenti elevato che lo inspira. A lui la condizione di un'anima che espiando si purifica, apparisce cosa celeste. Anzichè una specie di vestibolo dell'inferno foggiato a sua immagine, la regione delle pene temporanee gli si affaccia come scala al paradiso. Questa è regione di dolore bensì: ma di dolore cui muta natura la certezza della felicità che s'aspetta e alla quale il soffrire è un avvicinarsi continuo. Però nel poema dantesco le scene terribili dell'inferno fanno qui luogo a rappresentazioni che parlano un linguaggio soave; alla disperazione succede una tenera malinconia; alle tenebre di una notte “privata d'ogni pianeta, sotto pover cielo„, il biancheggiar dell'alba.
Ahi, quanto son diverse quelle foci
Dalle infernali! chè quivi per canti
S'entra, e laggiù per lamenti feroci.
( Purg., XII, 112).
Quindi, se a questa sede benedetta si verrà per acqua, non altrimenti che all'inferno, a far da nocchiero, in luogo di “Caron dimonio con occhi di bragia„, avremo un angelo. Ed angeli, non demonii come in tutte le descrizioni anteriori, saranno i ministri preposti a questi luoghi. Davvero io non esito a dire che il purgatorio è la più bella, la più poetica, la più umanamente ammirabile tra le creazioni dell'Alighieri.
Ho detto che qui sta il cardine del nuovo sistema. Le profondità della terra restano così riserbate alle sole pene eterne, delle quali Dante, con un ordinamento che è il rovescio di quello degli antecessori suoi, acquisterà troppo ragionevolmente conoscenza prima di passare al purgatorio, a quella maniera che poi dal purgatorio salirà al paradiso. Il purgatorio d'un tempo, sgombrato dei vecchi suoi ospiti, diventerà parte integrante dell'inferno. E siccome le pene che i visitatori antecedenti s'erano trattenuti a descrivere, e che fanno riscontro alle dantesche erano sempre state sole, o quasi sole, le temporanee, ne viene che l'inferno dantesco è anzitutto e soprattutto l'altrui purgatorio. La forma sua nondimeno muove da quella che s'era attribuita all'inferno vero e proprio. Ma dove gli altri s'erano contentati di una voragine informe, egli anche a quella voragine dà un'architettura regolare, foggiandola a cono rovesciato, con una serie di gironi che vanno via via restringendosi e digradando, sì da riuscire come il riscontro concavo della montagna del purgatorio. E giù nel fondo colloca Lucifero. Di collocarlo in tal modo l'idea gli poteva più o meno essere suggerita anche dalla tradizione schiettamente sacra; nondimeno chi metta a paragone il Lucifero suo con quello della leggenda di Tundalo, mal può rattenersi dal pensare che di lì “Lo 'mperador del doloroso regno„ abbia a riconoscer l'origine.
Resta il paradiso. Se nella pittura dei tormenti — temporanei o perpetui, non fa differenza — i visionari che precedettero Dante avevano spesso dato prova d'ingegno e di facoltà inventiva, nel descrivere la beatitudine celeste essi erano rimasti così rasente terra, da muovere a pietà. Non erano davvero atte a un volo così ardito le loro ali di struzzo. Però il loro paradiso si riduceva per lo più a un mero paradiso terrestre, o ad una povera copia della Gerusalemme apocalittica. Che se taluni avevano osato slanciarsi negli spazi, all'ardimento non aveva corrisposto l'effetto.
Per ben intendere ciò che sono per dire, si richiami alla mente come si concepisse l'universo dal medioevo, come si fosse concepito per solito dagli antichi, come continuasse a concepirsi fino a che le idee copernicane non mandarono ogni cosa a soqquadro. La terra — questo povero granellino di sabbia lanciato negli spazi — s'immagina ferma e salda, e nientemeno che centro al gran tutto; le stelle fisse sono disposte in una specie di strato sferico, che potremo rassomigliare a ciò che è in un arancio la buccia; lo spazio compreso tra questa regione superiore e la terra si suppone divisa in varie sfere racchiusa l'una nell'altra, alla maniera di certe palle di legno che s'aprono, delle quali la prima ne contiene una seconda, la seconda una terza, e così via. In ciascuna sfera, fatta astrazione dal nucleo centrale, ossia dalla terra, e dal suo involucro immediato, compie i suoi moti un pianeta: partendo dal basso, successivamente la luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno. Al di sopra del cielo delle stelle fisse, ragioni filosofiche e matematiche avevano portato a congetturarne un altro, che fu detto “primo mobile„ o “cristallino„; e sopra a questo, che veniva ad essere nono, la speculazione cristiana ne mise ancora un decimo, chiamato “empireo„.
Nel cielo empireo i teologhi ponevano Dio; in esso o nel sottoposto cristallino, i beati. Se Dante si fosse adagiato in siffatta idea, si sarebbe ridotto a non aver a descrivere che un solo cielo. Cosa sarebbe mai stata allora la terza cantica? E ne sarebbe andata distrutta anche la legge di progressione che regola il poema. Il poeta doveva dunque sentirsi spinto a popolare giù giù anche tutte le sfere inferiori. A ciò poteva incitarlo, non ostante gli scontorcimenti degl'interpreti, la parola stessa di Paolo, “rapito fino al terzo cielo„; a ciò quel nome appunto di cieli, dato universalmente a tutte senza distinzione le sfere, e il concetto che vi si collegava; a ciò le fantasticherie di un'antica letteratura cristiana, nella quale tiene uno dei primi posti l'Ascensione d'Isaia, e gli echi che di cotal letteratura s'ebbero nel medioevo; a ciò, per farla finita una volta pur non avendo finito, il sogno ciceroniano di Scipione, che agli spiriti eletti assegnava qual dimora la via lattea, e il Timeo di Platone, conosciuto anche allora, che faceva discendere le anime dalle stelle a vivificare i corpi, e ad esse, se buone, le rendeva dopo morte. Ma neppure a questo secondo partito, troppo repugnante a quella teologia che nel Paradiso prende necessariamente il di sopra, Dante poteva adattarsi senza temperamenti; e il temperamento fu di natura, da conciliare in tutto e per tutto le convenienze artistiche colle teologiche. Accettò l'idea che i beati avessero tutti quanti sede nell'empireo; ma suppose che nondimeno si manifestassero nei cieli sottoposti, tra i quali si trovassero ripartiti a seconda delle virtù o delle tendenze che avevano spiccato in loro durante la vita. È all'astrologia giudiziaria, non ripudiata nient'affatto entro certi limiti nè da Dante nè dagli stessi teologi, che si chiedono i principii direttivi della ripartizione. Però le anime che l'influsso della stella di Venere al momento della nascita aveva portato ad essere amorose, in Venere appunto dovranno apparire.
Gli è solo delle linee generali del poema che noi ci siam resi conto in questa maniera; abbiam visto come Dante foggiasse le celle dove deporre il suo miele. Ma qui non mi è lecito andar troppo più oltre di così. All'opera portentosa del poema sacro “han posto mano„ realmente “e cielo e terra„. Il poeta vi profonde a piene mani — a seconda delle opportunità offertegli via via da un disegno sconfinatamente vasto, che, non pago di abbracciare l'universo intero, comprende lo stesso Dio — tutti i tesori inesauribili di una natura meravigliosamente e svariatissimamente dotata, di una scienza accumulata con lungo ed amoroso studio, di una vita fatta esperta se altra mai dalla sorte “E degli vizi umani e del valore„. Dar conto particolareggiato di un contenuto così straordinariamente complesso e moltiforme, come si potrebbe qui mai? Però, invece che accostarmi al mio scopo, mi parrebbe di allontanarmene, se mi fermassi a discorrere di questo o quell'elemento, di questa o quella rappresentazione speciale. Farei come chi, per vedere il Giudizio Universale di Michelangelo, appoggiasse il naso alla parete. Certo, Caronte, Minosse, Cerbero, le Arpie, vengono da Virgilio; sono di origine virgiliana, o pagana in genere, sebbene subiscano una trasformazione profonda, e la palude Stigia, e la città di Dite, e Lete, e altre cose assai, troppo patenti e note perchè sia lecito insisterci; e dalla visione di Tundalo, colla quale s'è detto doversi riconnettere il Lucifero dantesco, emanerà probabilmente anche il seggio vuoto riserbato nel cielo all'“alto Arrigo che a drizzare Italia Verrà in prima ch'ella sia disposta.„ Queste e innumerevoli altre derivazioni si potranno osservare; ma dopo averle rilevate, in cambio di aver progredito nella comprensione generale dell'opera, si arrischierà di non capirne più nulla, quando non ci s'affretti a riallontanarci di tanto, che il grande ed il piccolo siano abbracciati insieme dallo sguardo e riprendano le loro rispettive proporzioni. Metterà maggior conto rilevare, esser probabile che dalle visioni precedenti Dante ripeta il concetto che il viaggio sia intrapreso a scopo di purificazione morale, pur trattandosi qui di una idea molto ovvia, e che nella Commedia assume un significato senza confronto maggiore per effetto di quel senso allegorico, tanto cercato, tanto accarezzato dalle menti colte dell'età di mezzo, che viene a sovrapporsi alla lettera, e che nelle concezioni principali raddoppia in certo modo il poema. E furono le vecchie visioni a dar l'esempio del surrogare all'inferno e al purgatorio singolarmente povero della pretta tradizione teologica — fiamme e zolfo e poco più — una grande svariatezza di tormenti. Molto importa poi il notare che già parecchie tra le visioni antecedenti avevano largamente frammischiato nelle rappresentazioni loro la terra, col facile espediente del riconoscere tra le anime parecchi, di cui era ancor viva la memoria. Cosa voglia dir ciò per la Divina Commedia, chi mai non vede? Vuol dire Francesca e Ugolino, Farinata e Pier delle Vigne, Sordello e Guido Guinizelli, Piccarda e Carlo Martello, in una parola, quantitativamente un porzione grandissima del poema, e sott'altro rispetto tutto ciò che v'ha in esso di più poetico, di più sentito, di più vitale. Ma bisognava che la semenza cadesse sopra un terreno ben portentosamente disposto per fruttificare in cotal maniera! Però a me non piace si parli di “Fonti„ per la Commedia non altrimenti da quel che si faccia per il Decamerone, per il Furioso, per la Gerusalemme. Questi son fiumi: la Divina Commedia è addirittura il mare. E come nel mare, l'acqua che vi scende da ogni spiaggia, che vi piove dalle nubi, prende nuovo sapore. Ma di quella condizione singolare per cui il grande poema riesce opera d'impareggiabile originalità, pur dovendo infinitamente al mondo che lo circonda, potrà esserci miglior immagine un grand'albero, che da una parte si sprofonda nel suolo ad aspirarne succhi per mille e mille radici, e dall'altra si eleva meravigliosamente poderoso, ricco di rami, lussureggiante di foglie, tutto rivestito di fiori.
Alla grande intrapresa del poema Dante riuscì a dar compimento poco prima forse che la vita gli mancasse. Venutone a capo, egli poteva rivolgere con profonda soddisfazione il pensiero alle parole scritte al termine della Vita Nuova: l'ardita speranza di dir di Beatrice “quello che mai non fu detto di alcuna„ era stata seguita da un effetto, a cui la speranza stessa, per ardita che fosse, mal poteva arrivare. Il voto era sciolto; egli aveva elevato un monumento, a paragone del quale le piramidi dei Faraoni, la mole di Adriano, e quant'altro mai di più gigantesco e più splendido l'uomo eresse quale albergo alle ossa proprie o alle altrui, erano a dire meschinità. Il monumento era riuscito di tale ampiezza, e così straordinariamente ricco, da parere altra cosa che un sepolcro; eppure la figura di Beatrice tutto lo dominava dall'alto, trasfigurata, indiata, ma non dissimile da ciò che era apparsa vivente.
Sicuro: nella Commedia la Beatrice umana non manca. Noi la riconosciamo allorchè al sommo del monte del purgatorio scende sul carro fatidico, “vestita di color fiamma viva„, non diversamente da quel che si fosse mostrata fanciulla, e, prima ancora di sollevare il velo che le copre il viso, induce un tremore in tutte le membra di lui, che
già cotanto
Tempo era stato, che alla sua presenza
Non era di stupor tremando affranto.
( Purg., XXX, 34).
E il dolce nome di “Bice„ riesce un momento a risonare, lontano e soave ricordo, pur tra le meraviglie del cielo ( Par., VII, 14). Ma se questo è verissimo, non toglie per nulla che la Beatrice del poema non sia in primissimo luogo una Beatrice celeste. Sennonchè, tra questa nuova Beatrice — presa pure nel suo ufficio di simbolo, ossia guardata sotto il suo aspetto più etereo — e la Beatrice antica, non c'è contraddizione nessuna. Tra le due ha luogo quella continuità medesima, per la quale adulti siamo pur quegli stessi che si fu un tempo bambini.
Già nella Vita Nuova Beatrice è una Bice idealizzata; idealizzata a tal segno, da indurre molti a non la saper più riconoscere per donna viva nonostante che viva la rivelino indubbiamente certi batter di palpebre. Idealizzata bisognava bene che fosse; o non è sempre di un ideale, pur troppo ben lontano il più delle volte dalla realtà e che al contatto di questa si dissipa lasciandosi dietro il disinganno, che s'invaghirono quanti, uomini e donne, amarono, amano, e saranno per amare finchè la nostra razza perduri? In Beatrice, leggiadra sicuramente d'una leggiadria delicata, e non men che leggiadra, dolce, pudica, umile, cortese, Dante vedeva fatto persona ogni pregio femminile, come del corpo, così dell'animo. La “gentilissima„: ecco nella Vita Nuova la designazione sua consueta; e davvero, se c'è dote in cui l'idea tipica della donna incarni sè medesima, questa è di sicuro la gentilezza.
Beatrice muore. Muore nel fiore dell'età, avanti che il tempo abbia osato far sfregio al suo viso, avanti che le sue virtù abbiano, in mezzo a nuove condizioni, dovuto trasformarsi. È moglie, a quel che pare; ma giovane moglie; e che tale sia stata, la morte farà poi dimenticar presto. Orbene, colei che già in vita era apparsa al poeta un essere angelico sospirato dai celesti, gli apparve da quel giorno angelo vero e proprio; e quando nell'anniversario della sua dipartita, piena la mente del pensiero di lei, la sua mano vorrà come rappresentarne le sembianze, sarà la figura di un angelo che verrà a tracciare. Quindi la vedrà starsene gloriosa nel più alto luogo del cielo a godere della beatitudine celeste, ossia della visione divina. E la visione divina, o, in altri termini, la vita contemplativa, essa rappresenterà nel poema, contrapponendosi a Matelda, simbolo della vita attiva, e insieme con essa facendo riscontro a Rachele ed a Lia. Contemplando Dio essa lo conosce; però in lei viene ad esserci, per intuizione immediata, un sapere teologico superiore a tutta quanta la dottrina dei più profondi tra gli uomini; ma chi addirittura, e già ab antiquo, fa di Beatrice il simbolo della teologia, trapassa, a mio vedere, il concetto dantesco.
A questa idealità femminile, serbatasi intatta e rimasta così potente appunto perchè Dante non le si accostò troppo da vicino, noi dobbiam dunque anzitutto la Divina Commedia. Di un dono siffatto la donna, concepita quale in generale ebbe a vagheggiarla il passato, può veramente andare gloriosa. Se altrettanto sia per darci la donna di un tipo molto diverso che si sforza modernamente di uscire dal guscio, la donna avvocatessa, ingegneressa, deputatessa, ossia, per dir tutto con un'immagine, volgare se volete, ma assai efficace, la donna barbuta, permettetemi, o signore, grazie a Dio ancora “gentili„, di dubitar qualche poco.
DANTE NEL SUO POEMA
DI ISIDORO DEL LUNGO
I.
Signore e Signori,
Era un esule fiorentino, che, or or fanno sei secoli, traeva seco in doloroso pellegrinaggio le sventure e la parola d'Italia. E “poichè fu piacere„ scriveva “della bellissima e famosissima figliuola di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno..., per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicante, sono andato, mostrando, contro a mia voglia, la piaga della fortuna„. Le sventure d'Italia erano con quel cittadino, che le discordie della sua terra avevano, come tanti altri d'ogni terra italiana, balestrato in esilio, strappatagli la famiglia, divietatagli la vita civile: la parola e il pensiero d'Italia erano col Poeta, che affinando e sublimando nelle ispirazioni della sciagura quelle del tempo felice, i fantasmi giovanili d'amore idealizzava in figure di universal significato, civile, religioso ed umano; da' suoi affetti di cittadino, di partigiano, di fuoruscito derivava il concetto e il sentimento d'una patria virtuosa, libera e giusta; l'idioma dei volghi inalzava, laico ardimentoso, alla dignità del latino, e ne faceva verbo di scienza; e il volgare suo nativo, la favella dell'“ingrato e maligno„ suo popolo, il volgar fiorentino, consacrava in una grande opera d'arte siccome lingua della nazione; questa lingua che egli sentiva “stendersi„ alle parti anche remote ed estreme della grande patria italiana ed era vincolo tenace che le collegava per la futura unità. E perchè nulla, a rappresentare in sè l'Italia de' tempi suoi, e le inconsapevoli energie della nazione verso un'Italia avvenire, mancasse in quest'uomo, egli e la parte sua popolare e guelfa erano le vittime nobilissime delle politiche ambizioni della teocrazia romana, e de' mercimonii di questa coi protettori stranieri: egli e la parte sua de' Guelfi Bianchi, che la resistenza a coteste impure ambizioni avea cacciati fra i Ghibellini, erano gl'idealisti dell'Impero; di quella gigantesca ombra del nostro passato, nella quale l'Italia, affermando a nome d'un diritto fittizio il primato antico, veniva, qualunque ella si fosse in effetto, ad affermare sè stessa.
Tali concetti e sentimenti, negli ordini del pensiero e dell'azione, della lingua e dei fatti, della scienza e dell'arte, simboleggia a noi il nome di Dante. E nella schietta e gagliarda italianità di questo simbolo la patria nostra ha ricercato il proprio essere, verso quel simbolo luminoso è stata da' suoi più alti intelletti ricondotta, ne' secoli dolorosi del suo servaggio e dello alienamento da sè medesima; in quello ha costantemente ritemprato il suo pensiero, rinvigorito il sentimento, custodita e difesa, come arra di rivendicazione, la santità dell'idioma. Il nome di Dante ha sonato sempre e suona nelle nostre famiglie, nelle scuole, nelle piazze stesse e ne' campi alle plebi lavoratrici, come un che di supremo, in cui si raccoglie quanto ha di più geniale, di più domestico, la mente e il cuore della nazione, quanto di più intimo e perenne è nelle tradizioni di lei. Di nessun libro fu pronunziato il titolo con egual riverenza, sin dal secolo stesso dell'autore, e con sì profonda religione, come della Commedia, che non esso l'autore, ma i dopovenuti, chiamaron divina; per nessun libro, così spontaneamente e con altrettanta popolarità si fece un sol nome del libro e dell'uomo, il Dante.
E veramente è un uomo in quel libro. Ma perchè quell'uomo vi è per ciò che fu nella vita reale, e per l'idealità dietro le quali visse cotesta vita, è accaduto che quanto si andava, nel volger dei tempi, perdendo della notizia e del sentimento di quella realtà, dalla quale ci venivamo sempre più allontanando, altrettanto si sostituisse, nell'interpretare uomo e libro, di idealità più o meno infedeli e di sentimento soggettivo. Il che ebbe principio, insieme con l'ammirazione e il culto, fin da' tempi stessi dell'Alighieri, e quando ancora “eran calde le sue ceneri sante„. E anche solo a confrontare ciò che con tanta semplicità, ma con sì profondo sentimento del vero, scrive in ricordanza di Dante, di “questo Dante, onorevole e antico cittadino “di Firenze di Porta San Piero e nostro vicino„, Giovanni Villani nella sua Cronica, a confrontarlo con la biografica laudazione che pochi anni più tardi ne congegna il Boccaccio, si vede come in quella pagina di cronica un artefice vissuto con Dante delinea e colorisce una figura viva; subito dopo incominciano i ritratti di maniera, incominciano appunto con la biografia boccaccevole. I tratti di quella irosa vecchia laureata, che Raffaello eternò sotto il nome di Dante Alighieri negli affreschi vaticani, primo a disegnarli può dirsi essere stato il gran novelliere e umanista fiorentino. Nel capitolo del Villani abbiamo quelli nei quali, per l'arte di Giotto, Dante, effigiato fra altri uomini del tempo suo nella città sua, è rivissuto autentico a' giorni nostri, da una parete del Palagio del Potestà. La benaugurata restaurazione degli studi danteschi, la quale è certamente uno de' principali vanti della moderna letteratura civile, ha ormai posto per uno dei sommi principii suoi, che nella interpretazione d'un'opera, com'è la Divina Commedia, dall'un capo all'altro compenetrata della viva e genuina personalità dell'autore, a poco di vero e di positivo approdano gli studi più o meno ingegnosi sul testo, se non si abbia altresì ben presente, che sopratutto rivivendo ne' tempi del Poeta, con lui rivivendo, è possibile appropriarci, far nostro, il sentimento col quale Dante volle essere nel suo Poema, quello che fu nella vita. Di questo Dante nel suo Poema, del Dante storico, del Dante di fatto, quale nella sua poesia riproduce sè stesso io mi accingo a rinvergare le linee. Assommerò per capi principalissimi, e limiterò la materia a quelle sole parti che, in un poema tutto personale per eccellenza, sono le più strettamente personali: per sommi capi, dico, e dentro quei limiti che il tempo e la discrezione impongono a chi non deve abusare della benevolenza, la quale invoco, di un così eletto uditorio, e specialmente della vostra, Signore gentili.
II.
Poichè il Poema di Dante, concepito con intendimento mistico verso una figura (Beatrice) e un affetto reali, svolge e atteggia, intorno a questa figura e a questo affetto sovrani, la realtà umana in universale, ma con molto maggiore abbondanza e rilievo di figure e concentramento d'interesse la realtà storica contemporanea; il protagonista di tale rappresentazione non lo possiamo pensare in guisa diversa che come uomo nel quale questa realtà odierna s'individua, per lo meno, tanto potentemente, quanto negli altri personaggi che con lui convissuti egli nel Poema introduce con sè. È questa una necessità estetica del concepimento dantesco, la quale informa e caratterizza la figura di lui che vi opera. Dante, nell'azione del Poema, è l'uomo, la creatura umana, che tende al divino: ma l'uomo del tempo suo: e poi l'italiano; e ancora, il fiorentino; del tempo suo, sempre: anzi è egli stesso lo scrittore, è Dante Alighieri, il cui proprio nome in un luogo solo del Poema, e solamente “per necessità, si registra„, ma la vita sua co' suoi affetti e i pensamenti e i dolori e le colpe quel Poema l'occupa tutto: quel Poema al quale il Gozzi, sotto tale rispetto, foggiava, secondo lo stampo tradizionale, come appropriatissimo, il titolo di Danteide.
E poichè quel vasto rappresentamento della realtà storica contemporanea, al quale diciamo essere ordinato tutto il Poema, si eseguisce mediante episodi lungo lo spiritale viaggio; nei più gagliardi e vivaci di cotesti episodi, dove o il suo cuore d'uomo e di cittadino batte più forte, o la virtù sua di pensatore si leva dietro questi affetti più vigorosa e ferisce più in alto, stanno le linee del ritratto che di sè ci ha lasciato Dante nel Poema immortale.
III.
Dante (permettete che brevemente vi ricordi) visse lai 1265 al 1321. Nato da famiglia di Grandi, e d'antica cittadinanza, in Firenze, poco prima che la parte sua Guelfa, sbanditane nel 1260, nel 67 stabilmente vi restaurasse la propria potenza; crebbe egli durante l'espandersi di questa in forme di governo artigiano e progressivamente democratico: accettò quelle forme, e col farsi popolano partecipò al reggimento. Divisi i Guelfi fiorentini in Bianchi e Neri dietro due potenti famiglie Cerchi e Donati; Guelfi temperati i Bianchi, gelosi della indipendenza del Comune, e a questo patto non alieni da conciliazioni coi Ghibellini; Guelfi radicali i Neri, e strettamente legati con la Corte di Roma non senza pregiudizio e pericolo di quella indipendenza; Dante, co' migliori cittadini, è dei Bianchi: cade con essi; e la proscrizione che lo colpisce nel 1302, lo distacca da Firenze per sempre. Il Poema, la cui prima ispirazione antecede all'esilio ed è connessa con le visioni amorose della Vita Nuova, fu scritto durante questo: e all'esilio certamente appartengono il Convivio, commento scolastico alla sua lirica amorosa ed etica; e la Volgare Eloquenza, trattato latino dove, pure con forme scolastiche, indaga e determina le potenze dell'idioma italiano alle opere letterarie: di dubbia data l'altro trattato, pure latino, De Monarchia, su l'autorità imperiale e le relazioni sue con la ecclesiastica.
La vita di Dante, da quanto ne conosciamo e che al desiderio nostro e al bisogno è sì poco, la vita nel mondo vissuta da quest'anima, la quale parve accogliere in sè le virtù più efficaci, i più geniali caratteri, dell'età e della patria che furono sue, appartiene, per la gioventù, alle rime d'amore, al servigio in armi del suo Comune guelfo, all'addottrinamento: per la virilità, alle cure e alle passioni civili, nelle fazioni e nei magistrati di quel medesimo Comune parteggiante fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, che è il più breve periodo e culminante, e che l'esilio interrompe: per i successivi anni, all'esilio. Intorno a ciascuno di questi aspetti di Dante nostro, dai tre regni ch'egli ha architettato e popolato, si aggirano, figure riviventi intorno a lui vivo, persone a lui note ed egli a loro; e il luogo in quello o questo de' regni eterni ad esse assegnato le caratterizza per ciò che furono e fecero, e che il Poeta pone in relazione con ciò che ha fatto ed è egli. Quindi su loro, e sulla vita da lui insieme con loro vissuta, la poesia dantesca concentra sentimenti di pietà e di sdegno, di reverenza e di dispregio, d'amore e d'odio; e gioie, e dolori, e memorie, e pentimenti, e rimpianti, e disinganni, e speranze; e soavità di preghiere, e asprezza di scherni, e lacrime di patimenti, e violenza di rinfacci, e maledizioni feroci: onda che si rimescola e bolle entro l'animo del Poeta, per traboccarne impetuosa, o pianamente diffondersi, ne' suoni, a tanta varietà di contenuto con mirabil magistero appropriati, d'una poesia che rimane unica al mondo.
IV.
I due Poeti sono sulla spiaggia appiè del Purgatorio, in cospetto della marina che tremola a' primi raggi dell'alba. Un lume rosseggiante, con non so che di bianco intorno, si fa visibile sull'orizzonte, e rapidamente s'appressa: è la navicella angelica, e porta le anime che dalla foce del Tevere sacro hanno navigato verso il luogo d'espiazione che dee prepararle alla gloria. Approdano, sbarcano; s'accorgono di Dante, che non è, come son esse, spirito spoglio del corpo; si maravigliano: una di loro si fa avanti; l'un Fiorentino riconosce l'altro; fanno atto, inutilmente, d'abbracciarsi, come una volta nel mondo; e Casella, a richiesta di Dante, intona le note musicali che già appose ad una delle canzoni del Convito “Amor che nella mente mi ragiona„. L'arte, onnipotente anche nel mondo d'oltre la tomba, s'impossessa di tutti quanti là sono ad ascoltarlo: le anime dimenticano il Purgatorio che le aspetta; Dante e Virgilio, il viaggio; se non fosse l'aspra voce di Catone, che li richiama tutti al dovere, e ciascuno al proprio destino. — Altrove, asceso il sesto girone della sacra montagna, fra il verde delle piante cariche di frutta, a martirio e purificazione de' golosi, e innaffiate di acque zampillanti, un rimatore, Bonagiunta da Lucca, anch'egli riconosce in Dante il “cominciatore delle nuove rime„, e Sei tu (gli dimanda) l'autor della canzone “Donne ch'avete intelletto d'amore?„ Al che rispondendo Dante, Io son poeta che a dettatura d'Amore scrivo quel che sento; fa che il rimator di maniera bonamente confessi la cagione della inferiorità sua e degli altri di quella scuola. — Altrove, ancora, ma in luogo ben diverso, nel girone sabbioso de' violenti contro Dio, la natura e l'arte, sotto la pioggia del fuoco infernale, Brunetto Latini ravvisa e con amorevolezza paterna saluta il giovane concittadino, e gli ricorda la ben promettente giovinezza, e questi a lui, con reverenza di figliuolo, gli ammaestramenti e i conforti ricevutine al sapere e alla gloria, che l'altro gli conferma non essere, congiuntamente con la sventura, per fargli difetto: con la sventura, che il maestro prognostica, e il discepolo con franco e sicuro animo accetta, dall'inimicizia della malnata loro cittadinanza. — Da quella cittadinanza, pur riconoscendo ancor esso il concittadino, e “l'altezza d'ingegno„ sua ricordando, da quella cittadinanza astrae, come già in vita nei superbi trascendimenti della filosofia negatrice, messer Cavalcante, sepolto coi miscredenti nel cimitero infocato sotto le mura di Dite; e in Dante non vede se non l'amico del figliuol suo, di Guido poeta; e del figliuolo, non d'altri nè d'altro, gli chiede, “Mio figlio ov'è? e perchè non è teco?„: e nella risposta di Dante, la figura di Guido passa disdegnosa e solitaria, ravvolta nelle ombre d'un verso, come l'anima sua, misterioso. — Ritorniamo a quel sesto balzo del Purgatorio: dove, prima che da Bonagiunta, il Poeta è stato ravvisato, e con troppo maggior cordialità e commozione, da un affine e compagno di vita giovanile, Forese Donati. Forese, al rivederlo, grida “Qual grazia m'è questa?„, come già Brunetto: “Qual maraviglia!„: e Dante ripiange le lacrime sparse quattr'anni avanti per la morte di quel suo carissimo; e ricordano insieme la famiglia e la patria; e insieme si vergognano e si senton gravati di avere, trascorrendo dietro le mondane follìe, partecipato giovenilmente al malcostume fiorentino: e contro questo, Forese, il libertino pentito, inveisce, e del suo pentimento e della grazia da Dio usatagli fa tributo di gratitudine e di amor coniugale alla vedovella sua che ha pregato per lui, alla Nella virtuosa: e Dante, che i tesori di quella grazia fruisce ancor vivo, nomina Colei per la quale gli sono largiti, la donna sua ideale che a sè lo ho ricondotto; col nome suo di persona, e di persona famigliarmente nota, la nomina a Forese, il che non ha fatto con altri: “io sarò là dove fia Beatrice„. — Ed è con Beatrice quando nella stella amorosa di Venere, per entro ad uno di quei fulgori, gli parla lo spirito del giovine principe Carlo Martello d'Angiò, da lui conosciuto, e l'uno all'altro affezionatisi, nella breve e pubblicamente festeggiata dimora che questi fece in Firenze la primavera del 1294: ed anche a questa memoria di giovinezza congiunge il Poeta le dolci sue rime d'amore: e si fa da Carlo, angelicatosi in quel terzo cielo, ricordare l'altra Canzone del Convivio, “Voi che intendendo il terzo ciel movete„, e l'affetto di che s'eran presi, in quel fuggevol conoscersi, egli e cotesto Angioino degenere dalla stirpe sua trista. — Altra conoscenza cara, pur di quelli anni, gli si rinnova nel Purgatorio, nella fiorita valletta de' Principi: Nino giudice, il Guelfo pisano, e nella guerra guelfa contro Pisa tutto cosa dei Fiorentini, e da città a città della Lega continuo sommovitore di maneggi e d'armi; e tuttavia, in tanto arrovellarsi civile e guerresco, gentile spirito, dischiuso ai miti affetti di sposo, di padre, d'amico; e questi nelle parole che Dante gli pone in bocca rivivono: ma nulla vi si risveglia, di quelli altri più fieri e tempestosi, in che si trovaron pure mescolati i due giovani partigiani. — Della guerra guelfa, alla quale nessun Fiorentino che l'età facesse atto o a' Consigli o alle armi potè fra il 1284 e il 93 essere estraneo, della guerra guelfa imagine espressa è invece, sanguinosa imagine e reminiscenza, Bonconte di Montefeltro che al Poeta parla di Campaldino, e della battaglia, tra' cui furori e lo imperversare degli elementi sparisce il suo corpo travolto dal diavolo, mentre dell'anima pentita trionfa l'angelo salvatore.
Di tutti questi episodi che trascelgo al nostro proposito (e se da ciascuno di essi, più che frasi sparse, il tempo mi concedesse addurre versi e terzine, voi cambiereste davvero con vantaggio la mia povera prosa), di tutti questi episodi è evidente il carattere soggettivo, e la loro relazione, anche di quelli dove non è esplicita, con l'uomo la cui giovinezza fu coetanea a que' personaggi e a que fatti; e come a ciascuno di tali episodi il Poeta affidi alcuna parte di ricordanze di quella sua giovinezza; e come dal convergimento delle loro linee si componga, e alla luce che l'affetto vi riflette si colorisca, la imagine viva di cotest'uomo in quelli anni. L'azione poi nella quale Dante, attraverso a quelli e a tutti gli altri episodi del Poema, protagonizza, si aggira tutta quanta e si svolge intorno al più gentile, al più ideale, di quei giovanili fantasmi: Beatrice. Beatrice, che manda Virgilio a soccorrer Dante nella selva mondana; Beatrice, che nella selva paradisiaca gli rimprovera le sue colpe e ne ottiene il pianto della confessione contrita; Beatrice, che seco lo solleva alle sfere celesti per condurlo sino alla visione del mistero supremo; essa stessa lo designa per “l'amico suo„ sventurato, essa sola di tutti i personaggi del Poema lo chiama per nome (ed è quel solo luogo dove si pronunzia il nome di lui), essa ricorda pudicamente le “belle membra„ nelle quali gli piacque, gli “occhi giovinetti„ amorosamente “mostratigli„, i virtuosi “desiri„ che il “sommo piacere„ della sua bellezza mortale ispirava nel giovine, le visioni dopo morte rivocatrici di lui al bene: essa è insomma anche nella Commedia la Beatrice della Vita Nuova; tanto è quella Beatrice, che forse anche la ministra di lei alla purificazione di Dante in Lete e in Eunoè, la “bella donna„ amorosa che “sceglie fior da fiore„ nel maggio perpetuo del Paradiso terrestre, quella Matelda di sì controversa identificazione storica, è, forse, una delle gentili figure femminili essa pure, una delle gentildonne fiorentine, della Vita Nuova.
L'arte, l'amore, la scienza, la patria, irraggiano di sè quella giovinezza lieta e pensosa. La musica di Casella, che rinnovata su la spiaggia dell'isola sacra si perde nella deserta immensità dell'Oceano, fu in altro tempo raccolta dalle donne leggiadre, dai giovani innamorati, festeggianti il maggio ne' verzieri de' grandi turriti palagi, o lungo le rive d'Arno feconde, o sulle colline di Fiesole rosee al tramonto primaverile; quelle note vestirono la poesia fiorentina del “dolce stil nuovo„ tenue e carezzevole in ser Lapo Gianni, incisiva e fantastica col Cavalcanti, informata da Dante al vero sentito nell'anima: e Vanna, Lagia, Beatrice, ispiratrici, se ne compiacquero. — Quel principe giovinetto, mancato, come il Marcello virgiliano, a' suoi alti destini, e il cui spirito è tratto ora in giro co' “Principi celesti„ nella roteazione delle sfere intorno all'“Amor che le muove„, fu in Firenze, splendido di gioventù e di potenza, venuto da Napoli incontro al padre che tornava d'oltremonti, dallo adoperarsi nelle pratiche di pace ch'eran susseguite alla guerra dei Vespri. Si accalcava la cittadinanza repubblicana intorno a que' suoi Angioini, “sangue della real Casa di Francia„, che la fantasia popolare avvolgeva ne' bagliori cavallereschi de' romanzi e delle canzoni di gesta, circonfondeva del nimbo religioso de' Cristianissimi, non disingannata nè allora nè poi, fatalmente, dalle rapine emungitrici, dagl'infidi patronati, dai simoneggiamenti con la Corte di Roma: e il re giovinetto passava per le anguste vie della città operaia, all'ombra de' forti arnesi di vigilante guerra domestica, dinanzi alle botteghe di quei mercatanti magistrati, addobbate della lor propria industria co' panni di Calimala e le sete di Por Santa Maria: da' balconi e dalle loggie, di sotto alle ampie protese tettoie, di mezzo agli archi flessuosi, dalle finestre ogivali, raggiava nel sorriso delle sue donne la idealità di Firenze artista. Passava il re d'Ungheria, se ne ricorda il Villani, “con sua compagnia di duecento cavalieri a sproni d'oro, franceschi e provenzali e del Regno, tutti giovani, vestiti col re d'una partita di scarlatto e verde bruno, e tutti con selle di una assisa a palafreno rilevate d'ariento e d'oro, coll'arme a quartieri a gigli ad oro e accerchiata rosso ed ariento, cioè l'arme d'Ungheria, che parea la più nobile e ricca compagnia che anche avesse uno giovane re con seco. E in Firenze stette più di venti dì, attendendo il re Carlo suo padre e' fratelli; e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli mostrò grande amore a' Fiorentini, ond'ebbe molto la grazia di tutti.„ Di questa “grazia„ ne' versi di Dante risuona l'eco immortale: “Assai m'amasti, ed avesti bene onde„, che paion inchiuder fiducia del Poeta in una Corte angioina, se Carlo Martello fosse vissuto, ben diversa da quella che poi ebbe ospiti il Petrarca e il Boccaccio. — Quel giovine fiorentino pervenuto ormai “al mezzo del cammin di nostra vita„, che non osa andare a pari con quel vecchio dannato, e dinanzi a lui inchina reverente la testa, ascoltò su nel mondo, in più verdi anni, con egual reverenza la parola di cotesto savio uomo, e fu de' meglio disposti a quel “digrossamento della cittadinanza„, che questi, ser Brunetto Latini, veniva operando con lo interpretare a' laici la parola de' filosofi, de' retori, degli oratori antichi, o col popolareggiare nel diffuso volgar di Francia, nella “prosa de' romanzi„ lo scibile delle scuole e de' chiostri, e farne “tesoro„ accessibile a tutti. In quelle sposizioni della sapienza antica, dischiudevansi all'animo del giovine le visioni della gloria, del “come l'uom s'eterna„: e l'umanista di Firenze artigiana, lo scolastico errante ne' venturosi esigli, il dettator del Comune nella lingua augusta de' padri, compiacevasi di vedere che quel terreno, tuttavia malagevole alla nuova cultura, producesse spontaneo cosiffatte piante, nelle quali “riviveva la sementa santa di Roma„, che dalle nebbie estreme, lentamente sfumanti, della grossa età medievale, si sprigionasse, ombra in sogno dell'imminente Rinascimento, l'imagine di quella universal patria delle genti civili. — Insieme con cotesto giovine di grandi speranze, e “dietro sua stella incamminato a porto glorioso„, ascoltava volontario discepolo anch'egli, ma assai men docile, come a sofferire gli ordinamenti della novella democrazia, così ad accogliere gli ammaestramenti e gli esemplari della civiltà antica, il più caro degli amici suoi, quel Guido Cavalcanti che l'anima del padre, dal mondo di là nel quale non credettero, chiama ora con voce di affetto desolato. Furono lungamente insieme e ne' loro più belli anni della vita mortale; perchè non sono essi insieme a traversare le regioni dell'altra, que' due compagni di gioventù, d'amore, di rime, di parte? Il confidente e partecipe delle visioni amorose; il solutore o, a vicenda, proponitor dei quesiti formulati secondo i dettami del trovare; l'amico, pel quale nell'idioma delle donne gentili la Vita Nuova fu scritta; il compagno d'arte a cimentare le virtù di questo idioma dietro l'orma, che essi sopravanzeranno, del massimo Guidi Guinicelli; come non essere con Dante suo là, dove alle visioni dell'anima è dischiuso l'infinito e l'eterno, dove il più arduo e tormentoso dei problemi ha risposte d'assoluta certezza; in cotesto viaggio, il cui “arrivare„ sarà alla donna di quella Vita Nuova, alla donna di quelle rime del nuovo dolce stile d'amore? Ahimè, troppo è sfiorito, troppo è inaridito, troppo è caduto, di quelle idealità giovanili! Troppo presto è morta Beatrice; troppo presto quelli “occhi giovinetti„ si chiusero, e “le membra belle si fecero terra!„ E la terra ha tirato a sè l'amante infedele: lo hanno traviato le voluttà del senso volgari; e il verso che attratto dal sorriso e dal saluto di Beatrice s'inalzava sino alla patria degli angeli dov'ell'“era desiata„, ha, dopo il ritorno di lei colassù, abbassate le “penne gravate„ giù nelle “vanità brevi„ mondane: peggio ancora, ha sogghignato e motteggiato nel gergo equivoco de' trivii, tenzonando con Forese, non già, come con Guido e Lapo e Cino, sulla spirituale casistica del “diritto amore„, ma sulle avventure dell'amor “folle„ e randagio, sulle realtà, e turpi realtà, della vita quotidiana. Allora, di quella “vita vile„, di quei “vili pensieri„, schivo e sdegnoso, Guido si è ritratto in disparte; altre cose ancora comprendendo in quel suo altero dispregio, ciò erano le cure civili, la partecipazione al governo artigiano del loro Comune, dietro le quali la giovinezza di Dante ha rotto fede alla idealità che ambedue avevano vagheggiato concordemente. Il distacco che si compie tra Guido, il quale resta de' Grandi e persona speculativa, e Dante, il quale si fa uomo di popolo e magistrato; tra Dante che si troverà a sentenziare ed eseguire contro que' Grandi, e Guido ad esserne percosso; neanche potrà cessare, il giorno che Dante, dissonnatosi da quel suo aggirarsi sonnambulare entro la selva delle cose mondane e fallaci, ritornerà per la “diritta via„ alle verità ideali, a Beatrice: perocchè tale ritorno si opera mediante la fede dell'uomo e la grazia di Dio; e Guido è escluso da questa, perchè ricusatore di quella. De' due ascoltatori di ser Brunetto, Dante solo ha potuto farsi seguace al Virgilio che nel mondo dello spirito riconosce e in sè rappresenta la deficienza del sapere umano, anche sublimato sin al grado più alto, di fronte alla rivelazione divina: perocchè Guido si è rinchiuso dentro la speculazione umana, del tutto umana, se non in quanto lo spirito della poesia aleggia su quella materia, e di là ha da sè respinto del pari e i contrasti e le brighe della vita attiva, e, negli ordini della speculazione, le supreme conciliazioni della filosofia religiosa; laddove Dante, dalle idealità e dalle affettività soggettive, passato, od anche, se vuolsi, disceso, alle realità della vita attiva e operante, deviatosi fors'anco dietro i “difettivi sillogismi„ di quella medesima scienza dubitatrice e terminativa in sè stessa, ha poi ritrovato nel cuor suo memore e non corrotto la energia delle prime e pure idealità, e sulla traccia di esse, scorto dalla Scienza sì delle cose umane e sì delle divine si è ravviato verso quella verità comprensiva di tutti gli aspetti di ciò che è, di tutte le dissonanze armonizzatrice, “che saziando di sè, di sè asseta„. E da quelle altezze, donde non vorrebbe esser mai disceso, guarda con occhio di severo giudice il proprio passato; con umiltà di penitente se ne confessa ed accusa.
Ma di cotesto passato, che la Beatrice teologale gli rinfaccia con durezza d'inquisitore, ma della cara sua giovinezza, lasciate al Poeta le ricordanze de' giorni, ne' quali egli contribuì il vigore degli affetti suoi e del braccio alla vita, che era anch'essa una gioventù, alla vita battagliera del suo glorioso Comune; lasciategli il suo Carlo Martello, il suo Nino giudice, il suo Campaldino. Sia pure che a cotesti fantasmi del proprio passato, si riaffacci egli tutt'altro uomo da quando ci visse in mezzo e operò: al mistico viaggiatore, nel riveder Nino Visconti, occorra innanzi tutto il pensiero, e sia prima e maggiore allegrezza, che cotesta anima, pericolata dell'eterna salute tra le fazioni sanguinose e le gare frodolente, nelle sinistre ambizioni del potere e ne' rancori dell'esilio implacabili, cotesta gentile anima, è salva; e salvo è Bonconte, il prode cavalier ghibellino, caduto in battaglia col dolce nome di Maria sulle labbra. Ma quella battaglia, nell'atto che Bonconte gli parla, quella battaglia, nella quale a Toscana tutta si decideva del suo esser guelfa o ghibellina, Dante se la vede ancora turbinare dinanzi, ne ascolta ancora il fragore; palpita nuovamente, fra il timore e la gioia, “pe' vari casi„ che si successero in essa; gli pesa quasi sui sensi quell'afosa giornata estiva, con l'aria gravida di procella, che poi si scatenò sulla fuga de' Ghibellini sconfitti, e accompagnò la caccia spietata data a questi dai vincitori. Egli ha veduto “corridori e gualdane sulla terra vostra, o Aretini„; ha veduto uscir di Caprona i fanti ghibellini che han patteggiata la resa con una delle tante osti fiorentine sommosse da Nino contro la sua Pisa, e in quella oste si ricorda aver egli Dante cavalcato con gli altri del Sesto suo di Porta San Piero. E a siffatti ricordi, nel Dante austero e trasfigurato del viaggio spiritale, Dante giovine rivive e sottentra: rivive cittadino e gentiluomo, rivive milite di Firenze sua, fra le cavalcate dell'oste guelfa; capitani di guerra, sotto la comunal bandiera del giglio che i Ghibellini hanno insanguinato, messer Vieri de' Cerchi e messer Corso Donati, non ancora capiparte l'uno contro l'altro nella città per odio nuovo divisa, e in nuovi travagli, in nuove colpe condotta, a nuove espiazioni serbata.
V.
E l'altro aspetto del Dante storico emerge da questa nuova malaugurata disposizione di avvenimenti, e per altri episodi o per altre, talvolta anche fuggevoli, imagini è lumeggiato nel Poema. La vita civile di Dante, che è essa quest'altro aspetto di lui nel Poema, la vita sua di poco più che un lustro, fra gli ultimi anni del XIII secolo e i primi del successivo, questi e quelli tempestosissimi, comprende l'opera di lui ne' Consigli, nelle commissioni pel Comune, nel Priorato, e il suo mescolarsi tra i Bianchi nelle fazioni della città guelfa, co' Bianchi difendendo la indipendenza del Comune contro le violenze di papa Bonifazio e dell'instrumento suo Carlo Valese, e co' Bianchi terminando involto nella loro caduta. Per tal modo la vita civile di Dante è, nel breve periodo ch'ella occupa, quasi non altro che una preparazione all'esilio, o piuttosto un precipitare verso di esso: e le imagini per le quali nel Poema e vita civile ed esilio riflettonsi, si mescolano siffattamente e s'intrecciano, da non potere la osservazione, sia storica, sia estetica, separar ciò che uno è nella intenzione del Poeta, come nella realtà dei fatti dolorosamente fu uno.
Riconosciuto da Ciacco siccome un dei “cittadini„ di buona famiglia (“buoni e gentili uomini della città„ dicevano), de' quali al parassita era altresì nota per lungo uso la mensa, da lui primo gli è nell'Inferno non nominata Firenze, ma indicata con amara perifrasi “la città piena d'invidia„, cioè d'odio fraterno: e di questo, che è già al colmo sicchè ormai “il sacco trabocca„, Dante si fa predire le imminenti catastrofi, per le quali dee consumarsi, fra l'anno che corre 1300 e il 1302, la scissione di parte guelfa in Bianchi e Neri. Son per “venire al sangue„: i Cerchi cacceranno i Donati: poi questi, parte Nera, trionferanno di parte Bianca, e la terranno soggetta: la cittadinanza ha appena due giusti sui novantamila che la compongono, e quelli non sono ascoltati: in fondo alla scena del dramma che si apparecchia, veglia, cupa sinistra figura, il Pontefice, che in apparenza “piaggia„, si sta di mezzo, fra le due parti, ma giunto il momento, farà preponderare quella, e la men degna, con la quale è segretamente legato. È la prima predizione di sciagure civili che percuote l'animo di Dante, là nella trista pianura intronata dai latrati di Cerbero trifauce, flagellata dalla pioggia sporca sotto la quale giacciono nella melma fetente i ghiottoni.
E poco si fa aspettar la seconda: la quale Dante riceve non dalla bocca lorda di Ciacco, che lo guarda con occhi stravolti, e ciondolando la testa ricade giù al suo gastigo, ma da Farinata magnanimo. Si affaccia l'Uberti alla tomba infocata, con superba noncuranza de' tormenti infernali; altero della sua vecchia fede ghibellina, per la quale ha dato anche l'eterna salvezza; pronto a disperdere, se potesse, una terza volta i Guelfi esecrati. Il giovine guelfo, che gli sta, non meno baldanzoso, dinanzi, raccoglie quella allusione alle cacciate anche de' suoi Alighieri, e crudelmente motteggia sugli Uberti che hanno finalmente disimparata “l'arte„ del ritorno. Ma Farinata ribatte il motteggio con la visione che egli ha di un non lontano avvenire: i Guelfi Bianchi tentare affannosamente di forzar le porte della città che gli ha cacciati; ed esserne dai Guelfi Neri respinti: “tu saprai quanto quell'arte pesa„. Poi, non senza una nota d'affetto che quasi oscilla in quella fiera voce di partigiano, gli chiede ragione dell'odio senza tregua al quale Firenze ha in modo speciale e nominatamente consacrati, come per anatema, gli Uberti. Al che Dante ricorda l'Arbia sanguinosa: ma Farinata il consiglio d'Empoli, e sè rimasto “solo„ a difendere dai furori matricidi la patria, “Fiorenza„: e nel nome materno di lei paiono acquetarsi dall'una parte e dall'altra gli sdegni; e Dante s'inchina dinanzi al “magnanimo„ augurando alla sua travagliata discendenza riposo. E non senza sgomento della predizione, che questa volta è a lui personale, continua il viaggio pe' regni eterni.
Anche più personali le affettuose anticipazioni che del doloroso avvenire gli fa ser Brunetto: la città partigiana inimicarsi tutta quanta all'uom virtuoso, degno di ben altra cittadinanza; opposte fazioni anelare con pari ferocia allo strazio di lui: “tanto onore„, gli dice con filosofica alterezza il Maestro “la tua fortuna, tanto onor ti serba„. E Dante con gagliardo animo scrive anche quel testo; e a Beatrice, quando giungerà a lei, ne riserba la chiosa.
Ma non degna di tanto, sebbene imprecatagli contro e proprio in pieno petto scagliatagli (“e detto l'ho perchè doler ten debbia„), la predizione che Vanni Fucci gli fa d'uno di quelli episodi guerreschi ne' quali si consumarono, tra vane speranze, i primi anni del suo esilio: e l'accenno a quella rotta di Bianchi per un Malaspina capitano della Taglia guelfa Nera, si perde fra le bestemmie del pistoiese feroce, soffocate dall'avvinghiarglisi al collo i serpenti della settima bolgia. Così pure una rapida e indiretta allusione al suo esilio, con la quale Corrado Malaspina gli prenuncia le cortesie ospitali de' potenti Marchesi; e l'altra con che Oderisi da Gubbio gli fa presentire le strettezze e le umiliazioni di quella vita raminga, il “condursi a tremar per ogni vena„ nello stendere altrui la mano supplichevole; e un'altra, forse, allusione pure all'esilio, contenuta nel predirgli Bonagiunta che una giovine donna gli farà piacere il soggiorno di Lucca; non sono rilevate dal Poeta, come sole ha rilevato le due vere e proprie profezie: di Farinata e di ser Brunetto.
E tutte poi, finalmente, le “parole gravi di sua vita futura„, o siano formali profezie o rapide e quasi guizzanti allusioni, tutte le accoglie e vi pone il suggello, e le converte in enunciazione espressa, non Beatrice veramente, come Virgilio aveva assicurato al discepolo che sarebbe, ma l'antenato suo messer Cacciaguida, morto in Palestina crociato. Questo cambiamento, o discordanza, di personaggi si suole enumerare tra quelle disavvertenze che nella complessa e laboriosa macchina de' cento Canti immortali, anche rispetto ad alcun altro particolare, si osservano. Ma chi non perdona questa, che forse è di tutte la più osservabile, chi non la perdona all'autore? Il quale, determinate meglio in altro luogo, e pure per bocca di Virgilio, le attribuzioni che avrà Beatrice, di chiarire a Dante quanto è “opra di fede„; deposto a' piedi di lei, sulla vetta della montagna conquistata col pentimento, tutto quanto egli umanamente ha peccato, così ne' trascorsi del senso arrendevole, come ne' deviamenti della ragione ribelle, come nella subordinazione delle idealità speculative alle cure e alle brighe della vita operativa; nell'atto stesso che quasi sottrae al maestrato di Beatrice, trasferendolo in Cacciaguida, questo manifestamento che gli è largito de' suoi futuri travagli fra gli uomini; la fa a quel filiale abboccarsi di lui col crociato trisavolo partecipare mediante le più care manifestazioni di donna amante verso l'amante Poeta. Sin dalle prime parole di Cacciaguida al pronipote, gli occhi di Beatrice ardono di siffatto riso, “ch'io pensai co' miei toccar lo fondo della mia grazia e del mio paradiso„. Quando Dante nelle memorie della vecchia Firenze si esalta col suo nobile progenitore, quasi dimenticando per esse le realtà sovrumane alle quali è stato inalzato, Beatrice sorride amorevolmente di quella sua debolezza. Quando infine egli, con l'animo attristato, medita sulle sciagure da lui predettegli, è Beatrice che lo conforta distornandogli il pensiero da quelle alla giustizia divina, ed egli non ha virtù di ridire quel che gli occhi di lei in quel punto gli dissero: “e quale io allor vidi negli occhi santi amor, qui l'abbandono„. Per tal modo ciascuno de' due, Cacciaguida e Beatrice, hanno nell'episodio ufficii appropriati. A Cacciaguida, l'introdurre quel suo privilegiato discendente fra le care imagini del buon tempo antico, nell'antica cerchia della loro Firenze, fra la cittadinanza sobria, virtuosa, legittima, non ammorbata dai venturieri di gente nuova, non pericolata dalla “fellonia„ de' fattisi potenti ne' traffici, non sovvertita dalla feudal grandigia dei discesi dalle castella, e che forte di concordia e d'integrità portava alto il giglio tuttavia bianco del suo gonfalone: a Cacciaguida altresì, lo annunziargli l'esilio e presignargliene le vicende, dal suo macchinarsi nella Corte mondana di Roma, e poi attraverso alle agitazioni burrascose, lungo le stazioni più o men fide, tra le amarezze e i conforti, e le speranze ingannevoli, sino alla morte, che tutte le schianta, di Arrigo VII. A Beatrice, lo accompagnare i sentimenti che nel cuore di Dante si suscitano per quelle comunicazioni tra sè e l'onorando vegliardo, accompagnarli ella con cuore di donna, che le cure civili abbandona all'uomo, ma col trepido affetto le vigila; soccorrere ella al conturbarvisi di lui, e sorreggerlo e rialzarlo, con la superiorità dell'idea che essa rappresenta, e che a quelle cose contingenti sovrasta, come appunto l'idea ai fatti, l'eterno e il divino al transitorio e al mondano.
Quanto espresse e ripetute e variamente atteggiate menzioni ha il Poeta fatte del proprio esilio, altrettanto è nel Poema, non che scarsa, ma del tutto priva, e non che di espresse testimonianze, ma pur anco di allusioni, la sua vita civile fiorentina. Inutilmente vi cercheremmo traccia della sua partecipazione ai Consigli del Comune, sebbene di uno di quelli l'atto sopravvissutoci paia a noi oggi una gran cosa, perchè ci troviamo lui Dante opporsi che Firenze mandi aiuto di cavalieri alla crociata di papa Bonifazio contro i Colonnesi. Fu pel Comune ambasciatore: e dell'ambasciata sua a San Gimignano in servizio della Taglia Guelfa rimangono documenti; dell'altra a Bonifazio nell'autunno del 1301, testimonianze sicure: ma se quelli e queste non possedessimo, nulla ne avremmo potuto da parole sue argomentare. La soprastanza di lui all'addirizzamento d'una strada, che da Porta Guelfa doveva agevolare la venuta delle milizie di contado ad ogni chiamata de' magistrati per la esecuzione degli Ordinamenti di Giustizia, è da credere non fosse il solo ufficio in che egli si facesse solidale del reggimento popolare contro i Grandi, dai quali s'era staccato per voler essere appunto di popolo e di reggimento: ma il documento rimastocene, che con parole come queste, “via e porta fatte e messe, con grande caldo e spesa, per trattato e mossa della Signoria„, ci fa rilevare la importanza politica di tale ufficio, resa maggiore per averlo Dante tenuto nella primavera del fatale anno 1301, imminendo alla città la catastrofe di parte Bianca; non certo alcuna allusione, che da qualche verso della Commedia noi desidereremmo di poter collegare con quel documento. Come finalmente non meravigliarci che nel Poema non abbia trovato luogo qualche accenno al suo Priorato, e che sur una sì notevol pagina della vita di Dante non possiamo noi leggere una linea che sia di lui stesso, se non trascrivendovi, sulla fede di Leonardo Aretino suo biografo, quelle di una lettera perduta, a ogni modo bellissime, dove l'esule rivendica a que' suoi “infausti comizi„ e l'esserne egli stato degno per lealtà di buon cittadino, e l'essergliene derivate tutte le sventure che lo hanno percosso? E come non rilevare un po' crucciosamente, che il Poeta, il quale non fermò pur con uno de' suoi versi potenti questi solenni ricordi della propria vita, abbia invece, e in uno de' più fieri e concitati canti, quello de' Simoniaci e della dannazione predestinata ai papi Bonifazio e Clemente, abbia consacrate due intere terzine, e appostele formalmente come “suggel ch'ogni uomo sganni„, al fatto d'aver egli una volta, trovandosi “nel suo bel San Giovanni„, rotto un pozzetto del battisterio per salvare “un che dentro v'annegava?„
Vero è, bensì, che ai poeti non tanto sono da chiedere menzioni espresse de' fatti i quali abbian dovuto ispirarli, quanto imagini riflesse, che dai cuori più sdegnosi e più profondamente feriti, e come più i fatti son gravi e tragici usciranno più indirette ed oblique. Così è, forse, che lo avere, egli solo, in quel Consiglio del 19 giugno 1301 negato i soccorsi d'arme al Papa per le sue profane crociate. Dante lo ripensa scrivendo
Lo principe de' nuovi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin nè con Giudei,
chè ciascun suo nemico era Cristiano....
Così agli uffici del Comune, degnamente addossatigli e con fede sostenuti, egli non poteva in cuor suo non contrapporre, nell'atto di bollarle, col verso, le volgari ambizioni dei “non chiamati„, che “solleciti„ e da sè candidandosi, gridano “I' mi sobbarco„. E quando all'esule riappariva, in sogno tormentoso, la patria; quando i gradi da balzo a balzo del suo Purgatorio gli ricordavano l'erta di San Miniato, sopra Rubaconte, e le “scalee„ costruitevi da' buoni virtuosi vecchi, e appiè del monte “lungo il bel fiume d'Arno„ la “gran villa„, venuta a mano di “guidatori„ troppo diversi da que' suoi primi, di uomini che la santità de' civili ufficii profanavano con le frodi ne' libri di fede pubblica e nella misura delle biade (onde le famiglie poi “arrossavan per lo staio„); non credete voi che Dante, scotendo per tal modo da sè la sozzura di cotesta tralignata cittadinanza non affermasse e a sè medesimo e al mondo la integrità sua di cittadino, e non la gettasse in faccia a coloro che sotto la infame accusa di barattiere gli avevano rapita quella povera patria rimasta in loro balìa? E se veramente fu in Corte di Roma, ambasciatore de' suoi Bianchi, ne' giorni medesimi in che Bonifazio, dando ad essi buone parole, spingeva contro Firenze il prezzolato paciaro francese, e le preparava i furori fratricidi e le vendette di messer Corso; tra le ricordanze che l'eterna città ha impresse nel Poema, quali raccoglieremo con maggior sentimento, quali più intimamente collegheremo alla vita del Poeta, quelle espresse attinenti al giubileo e alle sue processioni lungo Ponte Sant'Angelo, o alla “pigna„ vaticana, o all'apparita di Montemario, ovvero quella tenebrosa imagine de' maneggi curiali, con la quale Cacciaguida gli predice appunto la storia di que' giorni funesti?
Questo si vuole, e questo già si cerca,
e questo verrà fatto a chi ciò pensa,
là dove Cristo tuttodì si merca.
E se, non dal proprio Priorato, ma da quello che fu ultimo di parte Bianca, entrato pel consueto bimestre il 15 d'ottobre e rovesciato il 7 di novembre del 1301, se è da questo, com'è certamente, desunto quello scherno “de' sottili provvedimenti„, pe' quali in Firenze “il filato d'ottobre non giunge a mezzo novembre„, noi non possiamo credere che il Poeta motteggiasse amaramente di quella magistratura priorale, senza che il pensiero e il cuore gli corressero col bimestre da giugno ad agosto del 1300, quando egli n'avea sostenuto il peso fra le gare ormai scoperte della città partita, e inutilmente al confinamento de' capifazione (che fu fatale col suo Guido) avevano egli e i compagni suoi tentato di saldare le piaghe di quella malsana compagine, inutilmente proseguire la difesa, già dai predecessori iniziata, delle giurisdizioni del Comune contro il Pontefice che con le teorie e co' fatti ne invadeva il terreno.
Vi hanno, del resto, nella Commedia, luoghi, e sono de' più luminosi d'affetto e di poesia, dove tutt'altro che obliquamente e indirettamente, anzi con pieno abbandono alla passione che lo domina, il Poeta parla in nome del proprio passato; e quale egli fu nella vita, tale investe apertamente e violentemente la realtà delle cose. Anzi in cosiffatti luoghi è dove al personaggio ideale, al protagonista della fantastica azione, al viaggiatore pe' tre regni, si sostituisce il Dante vero, che non escogita artista, ma uomo sente e pensa e soffre, le cose che dice, che vive le atteggia nel verso, che del verso fa il grido dell'anima sua; e in quelle soggettive “digressioni„ (così egli stesso le ha chiamate) dal dramma oggettivo, in quelle inserzioni liriche alla materia e alla forma del Poema, in quelle sole, cessa il contrasto che è in tutto il rimanente dell'azione, e che potremmo chiamar cronologico; e che nella primavera del 1300, quando più Dante era mescolato e trascinato fra i commovimenti della vita civile, sotto quella data appunto egli rappresenti sè stesso in forma di convertito e penitente contemplatore delle cose eterne, dispregiatore delle “presenti„, “da esse tutto sciolto, e suso in cielo, con Beatrice, cotanto gloriosamente accolto„, ne' giorni ne' quali invece egli partecipò, più intensamente che mai in altri, alle agitazioni cittadine. Ma nel Sordello (cito quelle splendide liriche) nel Sordello, dove apostrofa, prima alla servitù e alle discordie d'Italia, evocando le grandi memorie della potenza e dell'unità imperiali di Roma; e poi alla sua Firenze, strascicandole attorno sarcasticamente il tributo dell'ammirazione dovutale per l'eccellenza de' suoi ordinamenti politici e per le virtù de' suoi cittadini, finchè dal cuore, che a quei sarcasmi crudeli si ribella, esce invece la imagine pietosa, che troppo meglio le si adatta, d'una povera irrequieta inferma; — ma nell'omaggio, pure ironico, al nome di Firenze, che di sè empie “il mare, la terra„, e “l'inferno„; omaggio, la cui ironia si spunta anche questa volta nell'amor cittadino, con l'augurio che il gastigo immanchevole della patria non amareggi al Poeta la vecchiezza infelice (“che più mi graverà com' più m'attempo„); — ma nell'Ugolino, dove delle dantesche invettive contro questa o quella città d'Italia, la più feroce impreca a Pisa ghibellina che la natura inorridita commetta agli elementi la vendetta dello strazio che nella muda della Fame fu fatto di lei; — in queste, vere e sublimi, liriche del grande Poema, come la favola e la scena e la data dell'azione scompaiono, così dal poeta emerge l'uomo; cessa ogni contrasto fra il sentimento reale di lui, e l'attribuitosi in quel dato momento dall'artista; trionfa insieme con l'arte, sopra l'arte forse, il cuore di Dante.
Ma il cuore di Dante è in più d'uno anche degli episodi, del tutto appartenenti al dramma, e aventi relazione storica, come il Carlo Martello, il Nino giudice, il Campaldino, alla sua giovinezza, così questi alle vicende tra le quali passò burrascosa, per entro alle quali naufragò, la sua vita civile: — è nella profezia di Guido del Duca, dove son ritratte le crudeltà di Fulcieri da Calboli, Potestà in Firenze in sul primo trionfo de' Neri, e feroce instrumento delle loro vendette (Fulcieri entrerà nella “triste selva„ cacciatore di lupi: ne mercanteggerà la viva carne, li trascinerà al macello: n'uscirà sanguinoso e disonorato: Firenze ne rimarrà diserta per secoli): — è il cuore di Dante nella visione che Forese Donati ha della morte di messer Corso, il maggior colpevole di quella “trista ruina„ (il superbo barone sarà trascinato dal cavallo, sul quale vorrà sottrarsi all'ira del popolo, e giacerà, là presso San Salvi, informe cadavere, “corpo vilmente disfatto„): — è dal cuor di Dante il furore col quale egli, nella ghiacciaia infernale, fa strazio di Bocca degli Abati traditore della bandiera fiorentina a Montaperti: — è dal cuore il grido che egli manda verso Firenze nell'incontro coi tre maggiorenti guelfi del primo e secondo popolo, quando alla dimanda se “cortesia e valore dimorano ancora nella nostra città„, come a' tempi loro, un cinquant'anni prima, soleva, egli risponde levando la faccia verso il mondo da dove è sceso all'Inferno, e apostrofa “Fiorenza te„, che “la gente nuova e i subiti guadagni„ hanno guasta; e a quelle sdegnose parole i tre, quasi invidiandone a Dante la rappresentativa efficacia, “guatâr l'un l'altro, com'al ver si guata„.
VI.
Se non che, quanto più e il cuore e il pensiero si discostano da quelli anni, ahimè gli ultimi, vissuti nella patria; quanto più Firenze, desiderata, sospirata pur sempre, lo è da più lungo tempo; tanto più fiero prevale nell'animo del Poeta un sentimento che tutti gli altri involge e tramuta, e che rimarrà come per tradizione caratteristico di Dante uomo e di Dante poeta: il disdegno o, diciam meglio, il dispregio. Tale sentimento, del resto, fin dai primi canti del Poema, qualunque sia il tempo in che e' li abbia scritti, non che trapelare, trabocca da quell'anima, che forse anche senza l'esilio avrebbe respinto da sè molte cose; anche in patria, rispetto a molte, si sarebbe sentita, e fatta, anima di esule; anche se men duramente avesse sperimentati gli odii civili, avrebbe con eguale alterezza aspirato alla lode, che si fa dare da Virgilio, di “alma sdegnosa„; nè dell'ammonimento di lui avrebbe abbisognato, perchè sulla “cieca vita„ di troppi egli stesso dicesse a sè “guarda e passa„. Forse la famiglia avrebbe in patria ammansite o temperate certe sue selvagge energie: e il “lasciare ogni cosa più caramente diletta„, lasciarla per sempre, dovè disusarlo da quelli affetti, nei quali col declinar della vita, l'uomo acqueta la parte di sè più ribelle e più acre. Fieri affetti anche gli affetti della famiglia, in quei tempi, è vero: e un fosco episodio dell' Inferno dantesco potrebbe quasi farci pensare, che se Dante rimaneva in patria, alla morte d'un suo congiunto, Geri del Bello, sarebbe stata affrettata la vendetta, vendetta di sangue. Ma come la ferocia di tali propositi, che il Poeta in cotesto episodio liberamente manifesta, non toglie la religiosità de' suoi sentimenti; così pure avveniva, che il focolare domestico alimentasse e cosiffatti odii efferati, e amori tenaci e profondi. E come la religiosità di Dante non solo informa il concetto organico della Commedia, ma ne atteggia tanti altri episodi ben da quello diversi, specialmente gli attinenti nel Purgatorio alla preghiera delle anime o alla loro redarguizione per voci o per figure; e vi colorisce imagini soavissime, quali le malinconie del tramonto elegiache, o la invocazione quotidiana della Vergine, “il nome del bel fiore„ (imagine e frase, nelle quali il Poeta nostro può dirsi anticipi, dall'uso che già ne correva, la denominazione di Santa Maria del Fiore, molto più tardi pubblicamente decretata); così, dagli affetti domestici non avess'egli tratto altre ispirazioni che quella delle austere madrifamiglia de' tempi di Cacciaguida, favoleggianti alla culla le leggende di Roma; non altre imagini n'avesse colorite, che del più santo fra quelli affetti, l'amor di madre (la madre che sospira sul figliuolo infermo, o che al figliuolo pericolante soccorre col conforto pur della voce; — la madre che ignuda salva dalle fiamme il figliuolo; — la ninnananna delle mamme, che con gli anni delle loro creature conteranno, d'ora innanzi, gli anni, lieti od infausti, della vita propria; — il bambino che impara i primi affetti nel tendere le braccia alla mamma che lo allatta; — la lode del figliuolo “benedizione alla donna che in lui s'incinse„; — intristirsi gli affetti umani dove l'amore alla madre si spenga; — desiderare i beati la resurrezione de' corpi, non tanto per sè, quanto per rivedere corporalmente, prime fra i loro cari, le “mamme„; — la madre di Maria Vergine sentire anche nel cielo la sua privilegiata maternità); dico che basterebbe questo a farci pensare, che se la ideal Beatrice, la Beatrice teologica, era sua guida per le fantasticate sfere celesti, il ricordo di due donne lo accompagnava fra i dolori della vita: il ricordo della madre sua, il ricordo della madre de' suoi figliuoli. La retorica novelliera del Boccaccio, le saccenterie critiche odierne, su quella povera Gemma Donati, valgono le une l'altra.
Ma anche se rimasto in patria, e che nulla gli avesse disturbate le dolcezze di marito e di padre; non sappiamo, invero, tornando a lui come a cittadino, se tra i “lupi„ guelfi della sua città “guerreggianti l'ovile„, egli avrebbe proprio “dormito agnello„. Ben sappiamo, che l'affettuosa parola “vicino„, sinonima, nel linguaggio statuale e comune d'allora, di “concittadino„, è, in più d'un luogo del Poema, cosparsa d'ironia antifrastica; alla quale fa dichiarazione troppo eloquente la sfuriata retorica di ser Brunetto contro le “bestie fiesolane„, che, padrone di lacerarsi fra loro, ma non devono toccare lui Dante, “pianta„ eletta, che, per miracolo, “surge nel loro letame„. E dall'un capo all'altro del Poema vediamo: dileggiati i Guelfi, e la loro Parte di Santa Chiesa, “la gente che dovrebbe esser devota„, e la cui devozione dovrebbe addimostrarsi nell'obbedire a Cesare secondo i precetti di Dio; — e rivendicata la sacra insegna imperiale dalle disoneste ambizioni dei Ghibellini, che sotto quella “fanno lor arte„. Sul Papato mondano e sulla Corte di Roma aggravarsi il più terribil flagello che mai abbia rotato mano di poeta; intorno alla figura di Bonifazio aggrupparsi dannate le altre dei Pontefici infedeli al ministerio spirituale; contro Bonifazio, su dal cielo San Pietro, non già “figura di sigillo su privilegi venduti e mendaci„, ma Papa vero ed autentico, pronunziare anatema di sede vacante; — e quello stesso Poeta, non solamente inveire, per la bocca augusta di Beatrice, contro le “pecore matte„ indocili e ribelli al Pastore, e verso “il Pastor della Chiesa che vi guida„ inculcare sottomissione cieca, ma dinanzi a Bonifazio, umiliato in Anagni, inchinarsi come a vicario di Cristo in passione, e sugli offensori imprecare la vendetta divina. Della Parte Nera, che lo ha cacciato, personificare in Corso Donati le scellerate passioni, lui costituire verso la patria il maggior “colpevole„, nella sua strage raffigurare la pubblica nemesi; sulla famiglia di lui, la sorella, la dolce Piccarda, ribadire la cognominazione popolare di Malefammi, “uomini al mal più che al bene usi„; — ma non perciò potersi dire del Poeta, “benigno a' suoi ed a' nemici crudo„, perchè della Parte Bianca, che pure fu sua, i Cerchi capiparte e' li accomuna coi Donati nel biasimo di “fellonia„ alla patria, la quale gli uni e gli altri avrebbe dovuti avere cittadini fedeli e concordi. Negli ordini della cittadinanza, dileggiare come inetta al governo la instabile democrazia artigiana, dopo essersi egli pure, sull'esempio e sotto gli auspicii di Giano della Bella, “raunato col popolo„; parodie romane sembrargli, nella persona d'un popolare, il valente giurista messer Lapo Salterelli, quei magistrati de' quali pure aveva nel Priorato e nei Consigli partecipato gli onori, il carico, i pericoli, e derivatone, insieme con cotesti uomini (fosser pure censurabili) che ora schernisce, l'esilio e la condanna nel capo; — ma non però rimpiangere il ceto de' Grandi dal quale si è scisso, non risparmiare nelle giustizie del Poema “quelle oltracotate schiatte„, e le loro magnatizie superbie scolpire nella figura di messer Filippo Argenti degli Adimari, diguazzante furioso, con una geldra di mascalzoni alle costole, nella “morta gora„ di Stige. Nell'esilio, travolto co' Bianchi, si mescola fra i Ghibellini: — ma gli uni e gli altri sono “la compagnia malvagia e scempia„; con la quale egli “è caduto in quella valle„; compagnia “tutta ingrata, tutta matta ed empia„, che gli è fieramente contraria, che gli fa più gravi le amarezze del “pane altrui„, più molesto “lo scendere e 'l salir per le altrui scale„, più increscevole la lontananza di quanto egli ha amato più caramente: e quando Bianchi e Ghibellini, strette insieme in uno sforzo disperato le armi, vengono sotto le mura della città, e sono respinti, ed è versato sangue loro; di fuggitivi sulle colline della Lastra e verso Val di Bisenzio; di prigioni, per opera di Fulcieri nel tetro Palagio del Potestà; Dante (rincresce il dirlo, ma è così) non riconosce nemmeno quel sangue de' suoi compagni di Parte: è questa, non lui, che “n'avrà rossa la tempia„: egli l'ha ormai abbandonata al “processo di sua bestialità„, la quale giungerà a tali estremi, che “a te fia bello (gli ha predetto Cacciaguida, e questa è in ultimo la sua bandiera) averti fatta parte per te stesso„.
I gratificatori a Dante del titolo di Ghibellino avrebbero dovuto ripensare nel Poema di lui almen questo verso anche prima che la critica storica, positiva, la critica degna di tal nome, non ghibellina nè guelfa, circondasse, come oggi fa, di caute eccezioni così quella come l'altra appropriazione a lui del nome di Guelfo. Il Guelfo Bianco, che coi migliori della città e dell'età sua difese le libertà del Comune contro la fazione Nera e le intrusioni della Corte di Roma, e fra quei contrasti (secondochè vien facendosi sempre più probabile) scrisse il De Monarchia, non aveva bisogno o, diciam meglio, non poteva consentire, di diventar Ghibellino, quando questo nome inchiudeva un altro, e anche più assoluto, assoggettamento di quelle libertà. Arrigo VII, l'imperator cavaliere, ultimo fra i Cesari medievali, la cui corona abbia qualche pallido riflesso di romanità, scendendo in Italia per quella corona, “parte guelfa o ghibellina non volea udire ricordare„: son parole d'un concittadino e compagno a Dante di parte e di morte civile, degnissimo; parole di Dino: e fu Arrigo VII l'Imperatore di Dante.
Così, senza più nessuno al suo fianco, attraversa il Poeta le solitudini dell'esilio sconsolate. Per quali paesi, lungo quali stazioni, noi non sappiamo così appunto come vorremmo: e troppe memorie del passaggio di quel glorioso, non sono che o un trascorso della retorica, o industrie d'erudizione, ovvero gentili inganni della tradizione, o delle ambizioni al natìo loco caritatevoli. Ma di due regioni italiche, le quali certamente videro passare l'“esule senza colpa„, Toscana e Romagna, — le signorie, i tiranni di questa, covo per covo, — le democrazie, o fosser ghibelline o fosser guelfe, di quella, lungo il corso dell'Arno dalla Falterona al mare, — furono da lui, nel XIV del Purgatorio e nel XXVII dell' Inferno, retribuite alla medesima stregua. Tanto più preziose le vestigia della sua gratitudine, che sopravvive alla potenza di due grandi casate: Scaligeri e Malaspina. E se un altro palagio di Signori, ultimo suo “rifugio ed ostello„, non ha, nel Poema, eguale o fors'anche più affettuosa testimonianza, potè il buon Guido Novello, o egli medesimo esser testimonio del trovarsi ormai quasi “piene tutte le carte, ordite„ alle tre Cantiche, od anche tenersi pago che in quelle carte fosse già vergato il canto, pel quale il nome dei da Polenta è, nella colpa e nella morte di Francesca infelice, consacrato alla pietà di tutti i secoli.
VII.
I punti storici estremi toccati nelle allusioni del Poema, — la morte d'Arrigo nel 1313, quella nel 14 del papa “guasco„ e trasferitor della Sede, Clemente V; forse, la rotta dei Guelfi a Montecatini per Uguccione nel 1315; forse, una delle imprese di Cangrande nel 18 (e a ogni modo importanza di allusioni intenzionali non l'hanno veramente che quelle prime due, all'Imperatore e al Papa); — segnano altresì le ultime relazioni fra l'animo del Poeta e i fatti, nel cui torbido e irresistibile corso venivan trasportati i dolori cocenti e le fioche speranze della sua vita di esule aspirante sempre alla patria. Per l'impresa d'Arrigo ultimo imperatore italico, per la sede vacante alla morte del primo papa avignonese, non soltanto il Poeta si commosse, ma l'uomo operò: e alla storia di quelli avvenimenti appartengono, fra le Epistole che vanno sotto il nome di Dante, le tre della cui autenticità nessuno muove dubbio: ai Fiorentini, ad Arrigo, ai Cardinali italiani. Di là da quei termini, più nulla di concreto nelle figurazioni storiche del Poema dantesco. Dante non pensa altrimenti a sè nè ai nemici suoi: il suo pensiero (vero è di questo ciò che della vita sua non gli giovò farsi predire che sarebbe) “s'infutura, via più là che 'l punir di lor perfidie„. Egli, di là dal corso breve di poche vite umane, mira ai destini eterni e provvidenziali della umana società. Al Dante personale si sostituisce il moralizzatore e il taumaturgo: al suo sentimento, la sua missione; alle sue speranze, le allegorie; alle ire sue, le sue profezie: la selva della valle infernale, e le tre fiere; la selva del monte sacro, il carro, il grifone; il Veltro, e poi il Dux, e colui “per cui questa (la lupa curiale) disceda„. Si varcano i termini del tema propostoci. Ma la visione fantastica e la missione spiritale non cancellano in Dante l'umano, non dissuggellano l'impronta che le realtà della sua vita hanno apposto sull'opera dell'arte sua. Anche pervenuto al sommo di quella visione, anche rivestiti i caratteri di quella missione supremi, egli guarda pur sempre a Firenze, egli non dispera di vincere la “crudeltà che fuor lo serra„; e “sul fonte del suo battesimo„ vorrebbe cingere la doppia corona di poeta e di teologo. Così dalle ultime linee, per le quali egli è di fatto e come uomo vivo e vero nel “Poema sacro„, si leva un grido di non domato affetto verso la città sua, che egli non rivedrà più mai.
Signore e Signori,
Quando il secolo, che ormai tramonta, ascendeva la prima metà d'un cammino, che doveva esser così laborioso e pieno di tante mutazioni sulla faccia del mondo; e mentre l'Italia, schiava ormai insofferente, maturava fra le congiure e le rivolte, le prigioni e gli esilii, le fucilazioni e i patiboli, i suoi nuovi destini; uno de' suoi figli, uno de' suoi più grandi e de' più infelici, preparandosi per Santa Croce di Firenze il monumento a Dante (era il 1818), recava al “nobil sasso„ il tributo di quei dolori, di quelle lacrime, di quella speranza. E a Dante in nome d'Italia diceva:
dalle nostre menti
Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,
Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
E in sempiterni guai
Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.
Allo scongiuro magnanimo di Giacomo Leopardi la patria ha tenuto fede: e nell'Italia tornata, com'egli disperò di vederla, “per la terza volta regina„, il nome di Dante grandeggia come di genio tutelare. Nè è divinità che tema gli ardimenti della critica. Dalle pagine nelle quali egli vive immortale, esce qualche cosa che di per sè tende all'alto. Nel Poema di Dante cercar l'uomo non è detrarre al Poeta: perchè in quella immensa rappresentazione di ciò che “si squaderna per l'universo„ sovrastanno luminose le qualità compiute della natura italica, dell'umana: il pensiero e il sentimento, il concetto e l'ispirazione, l'azione e l'idealità.
LA LETTERATURA MISTICA
DI ENRICO NENCIONI
I.
Misticismo è quella dottrina che professa una pura e disinteressata devozione, affermando di avere diretta e immediata comunicazione col Divino Spirito, dal quale l'anima nostra deriva una conoscenza di Dio e delle cose spirituali, non ottenibile dal naturale intelletto, e che non può essere nè analizzata nè dichiarata: è uno stato psicologico, nel quale l'anima umana, penetrando nella pura essenza delle cose, scuopre anche nel Naturale il Soprannaturale.
Qualcuno mi dirà forse, come disse Byron a Coleridge quand'ebbe letto la sua sibillina Biographia literaria: Ora si prega il poeta di spiegarci la sua spiegazione....
Ma, pazienza e buona volontà, gentili uditrici e cortesi uditori. Dimenticate per un momento l'ultimo trattato di Spencer che avete studiato, l'ultimo romanzo fisiologico-patologico che avete letto, l'ultimo fascicolo dell'ultima Rivista scientifica, e l'anno di grazia 1891. Per un momento, sforzatevi di rivivere in un remoto passato.... Rievochiamolo insieme.... si tratta sempre dell'eterna anima umana — e tutto quello che l'uomo ha pensato, creduto ed amato sinceramente, è, o dovrebb'essere, sempre caro e sacro per l'uomo.
Carattere essenziale del vero mistico è l'ammirazione nell'adorazione: egli è colpito, wonderstruck, come dicon gli Inglesi, dal miracolo permanente dell'Universo e dal mistero del proprio io. Il mistico rassomiglia a quel giovine di cui canta Heine, che di notte, in riva al mare deserto, dice ai flutti: “Oh spiegatemi l'enimma della Vita, l'enimma doloroso ed antico che ha tormentato tante teste! — teste coperte da mitrie geroglifiche, da turbanti, da berrette, da parrucche; e tante altre povere e bollenti teste umane. — Che cosa significa l'uomo? che cos'è? d'onde viene? dove va?„ — Il grande scettico poeta soggiunge: “I flutti mormorano il loro murmure eterno, il vento soffia, le nuvole fuggono, le stelle scintillano fredde e indifferenti — e il giovine pazzo aspetta ancora una risposta....„ Per il mistico invece, la risposta c'è; misteriosa, ma vivente e immediata, consolante e terribile a un tempo, illuminando come alla luce d'un lampo, i grandi misteri dell'Universo, dell'anima umana e di Dio.
Certo, in faccia al grande arcano dell'Universo, è naturale nell'uomo la maraviglia e come un sacro terrore. È tanto naturale, che non vi è, credo, nemmeno fra i positivisti più dichiarati, chi non abbia, o non abbia avuto in vita sua, un momento di questo stupore, e in conseguenza un lampo di misticismo.
Pensate! Le fasi della Natura ci sono parzialmente note in questa nostra frazione di pianeta — ma da quali remote leggi di ignoti universi dipendono? quale infinito ciclo di cause muove il nostro breve epiciclo? da quale inscrutabile oceano deriva questa goccia in cui ci muoviamo e viviamo? — Contemplata profondamente la Natura ci apparisce soprannaturale, perchè la essenza delle cose ci è ignota.... Scriviamo dei dotti volumi, facciamo delle brillanti letture su i fenomeni delle cose — ma la loro essenza?... Non crediamo più ai taumaturghi, ai miracoli; ma in realtà ci muoviamo, respiriamo, viviamo in un perenne miracolo, e siamo noi stessi, nella nostra essenza, nel nostro intimo io, il più complicato e stupendo di tutti i miracoli.
C'è (scriveva un grande storico filosofo) c'è un io misterioso sotto questo vestito di carne: profondo è il suo ascondimento sotto questo strano vestito, fra i suoni, i colori e le forme — e tuttavia questa veste medesima è tessuta nel cielo, e imperscrutabilmente divina nella sua essenza. Generazione dopo generazione, l'umanità prende la forma di un corpo, ed emergendo da una notte cimmeria, apparisce! Così come una celeste artiglieria, tutta folgori e fiamme, questa misteriosa umanità tuona e divampa attraverso l'Infinito, in file grandiose, in rapidissime successioni.... È per non pensare, o pensare con leggerezza, fermandosi alle apparenze, alla superficie delle cose, che cessa nell'uomo la maraviglia, e stupisce che altri stupisca dinanzi al permanente miracolo dell'Universo.„
Ma noi accetteremo il Misticismo nel senso più comune della parola, e per Letteratura mistica intenderemo quelle opere nelle quali il sentimento religioso cristiano (nel suo senso più largo ed universale) è intenso e predominante — e ne forma la base e la sostanza. Sarebbe temeraria follìa presumere di esaurire in meno di un'ora sì vario e sì vasto tema. Io mi limiterò a rapidi cenni, trattenendomi un po' più sui punti caratteristi e culminanti. Ma l'argomento meriterebbe di essere svolto in un libro — e sarebbe libro curioso e fecondo, e di alta importanza storica e psicologica.
II.
Il Medio Evo è un'epoca tragica: un'antitesi di tenebre desolate e di sfolgoranti splendori. L'umanità malata che non ha pane per satollarsi, si nutrisce delle rose del cielo, e sogna giardini di luce e ghirlande di stelle. Gli occhi quasi consunti dal lungo piangere, si fissano estatici in visioni angeliche.... Ma fa spavento il pensare a ciò che l'umanità ha patito in quei secoli. Le candide e cristalline guglie delle cattedrali si direbbero composte colle lacrime congelate di dieci generazioni. I dolori secolari guastarono radicalmente l'umano organismo. In tre secoli successivi, infieriscono tre orribili malattie, tre catastrofi: la lebbra — l'epilessia — la peste nera — che in due settimane, fa d'una città popolosa un cimitero deserto!... Pensate alle agonie dei poveri contadini in quei secoli di ferro! Servo della gleba o agricoltore, la intensità della sua miseria non cessa mai. Ma nella campagna desolata, passa un fantasma solitario, sospettoso, che cerca e svelle in fretta delle erbe sinistre dagli steli vellosi, dalle foglie rigate di nero e di rosso come lingue di fiamma. È la pallida strega che coglie il giusquiamo e la belladonna, i possenti narcotici che addormentano lo spasimo della carne e l'agonia del pensiero. È l'unico amico, l'unico medico, di quei derelitti. Paracelso, che bruciò tutti i libri di medicina del Medio Evo, confessa che i soli medici che sapesser qualcosa erano quelle infelici che il braccio ecclesiastico e il secolare torturavano e bruciavano a rara.
La intensità dei dolori faceva, per contrasto e reazione, contemplare, vagheggiare, all'uomo del Medio Evo, le delizie della pace eterna: guardare dall'inferno della Terra, il paradiso del Cielo. Il Medio Evo è la grande antitesi storica. E Dante, che ne è la sintesi e la voce trascendentale, ne ha espresso i termini contradditorii. Egli immagina torture raccapriccianti, crea versi spaventosi per rappresentarle, e ci abbaglia e ci inebria con torrenti di luce e di musica paradisiaca: Ugolino e Beatrice, Vanni Fucci e Piccarda, Mastr'Adamo e la Pia, Bertramo dal Bornio e Matelda. L'antitesi che è in Dante si trova espressa in tutta la letteratura mistica del secolo XIII e XIV. Accanto alle quiete, semplici, auree leggende del Cavalca, alle sante Eugenie ed Eufrasie, ecco le terribili cavalcate notturne di dannate del Passavanti, le adultere ignude sui fiammanti cavalli, inseguite, raggiunte e pugnalate (e il pio carbonaio vede e si fa il segno della croce....). Ecco le apparizioni dei morti, e le cappe di bragia e la goccia di fuoco che scossa sulla mano del tremante scolaro traversa mano e pavimento! Le facciate delle chiese hanno l'ala del drago accanto alle ali dell'angelo — e sotto il piede luminoso della Mater gloriosa, Lucifero. Le migliaia di visioni in versi e in prosa, dei secoli XII, XIII e XIV, sono eteree, estatiche, ineffabili — o raccapriccianti. Chi può dimenticare, una volta letta, la Leggenda dei Tre Monaci alla scoperta del Paradiso Terrestre? Dopo quaranta giorni di cammino, invece di trovarsi nell' Eden si trovano nell' Inferno.... (cosa che non accade solamente ai Tre Monaci della leggenda).... “Et videro uno laco grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gettassero fuoco et odono voci uscire di quel lago, e stridere come di popoli miserabili che piagnessero!... Et vennono in uno loco molto profondo e orribile, aspro e scoglioso, nel quale viddero una femmina nuda e laidissima et iscapigliata — e quando ella apriva la bocca per gridare, un dragono le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano lunghi infino a terra....„
La descrizione poi dei singoli tormenti si lascia di molto addietro le stesse bolge di Dante. Laghi di zolfo, valli di fuoco, botti d'acqua bollente, seghe e martelli infocati, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che non pare la carne, o turbinati in giro vorticoso da ruote di fuoco, o infilzati in giganteschi spiedi che i demoni da abili cuochi ungono e rosolano di piombo liquefatto e di olio bollente.
Anche nei Misteri e Rappresentazioni si alterna il terribile col semplice e col patetico. E il patetico è spesso toccantissimo nella sua ingenuità. Isacco che già si vede alla gola il coltello paterno dice: “Ah se fosse qui Sara, mia madre, non morirei! anche se Dio l'avesse ordinato!„
Come il lato sofistico del Paganesimo era di consacrare la natura umana anche nel suo lato cattivo; il lato sofistico del Cattolicismo medievale è di gettare un anatema troppo assoluto sulla Natura, di gustare l'abietto e l'ignobile, di vivere come lo Stilita sospesi tra il cielo e la terra, guardando a quello con estasi, a questa con un sacro terrore. Il centro della idealità è spostato, e nella vita e nell'arte. Il cadavere crocifisso di un Dio morto, l'Addolorata trafitta in seno da sette spade, diventano la vera e adorata bellezza: le magre, desolate, sanguinanti figure appaion più belle delle floride sane e raggianti. All'entusiasmo della bellezza plastica, è succeduta l'apoteosi del dolore, del patimento. E noi pure, o signori, discendenti in linea retta da quelle generazioni, non sappiamo più concepire la vita senza tristezze. L'antica e serena Euritmia aveva visto troppo poco dell'immenso Universo — poco amato e poco sofferto. Il riposo, la gioia precaria e limitata del Finito, più non ci basta. Abbiamo la torturante aspirazione all' infinito — TUTTI — anche quelli che meno credono d'averla, anche quelli che sorridono di questa parola. Secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore — e nella stessa Natura noi guardiamo con una simpatia più penetrante, quasi ignota all'antichità. Dante e Shakespeare, Goethe e Shelley, Rembrandt e Beethoven, hanno visto nella Natura più intensamente d'ogni antico — e nelle voci delle cose, hanno ascoltato la solenne e malinconica musica dell'Umanità.
Il Soprannaturale contemplato fino all'allucinazione, inebria quelle medievali generazioni! l'esaltazione è la nota predominante. Leggete in prova le Poesie di Jacopone da Todi. — Contempla la morte? La visione fisica del dissolvimento, lo stato del cadavere sepolto, lo attira magneticamente. Si compiace nel descriverlo, come un elegiaco latino nel descrivere una bella donna, o un estetico moderno nel riprodurre una squisita decorazione. — Si augura di patire in sconto dei suoi peccati? — Fa un catalogo spaventoso di tutte le malattie che affliggono l'umanità: “A me la febre quartana — La continua e la terzana — E la doppia quotidiana — Con la grande idropisìa! — A me venga mal de dente — Mal de capo e mal de ventre — Con gran tossa e parlasìa! — Mal de doglia e mal de fianco — La postema al lato manco — E omne tempo la frenesìa!„ — (E in quest'ultima preghiera pare che fosse davvero esaudito....).
Leggete i Pianti della Madonna, e le Sacre Rappresentazioni della Passione! Ogni particolare più minuto è descritto; ogni goccia di sangue è contata; e con un efficace realismo si tien conto di tutto il processo materiale e meccanico della grande tragedia. Si odono i colpi di martello sui chiodi che traversano le mani divine, i colpi di canna sulla corona di spine che trafigge il cranio del Salvatore. — Poeti e pittori hanno sete di sanguinose visioni, di terrori, di lacrime. Guardate nel camposanto di Pisa il Trionfo della morte; l' Inferno in S. M. Novella; le Matres dolorosæ delle Scuole Umbra e Senese. E questa intensità di ascetiche visioni, quest'odio alla terra caduca e alla carne colpevole, diventa talvolta un vero contagio.
Dopo la gran catastrofe europea della peste nera, un furore di penitenze sanguinose spinge popolazioni intere a frenetiche corse. Armati di flagelli, segnati di una crocellina rossa, scalzi, seminudi, vanno senza saper dove, come spinti dal vento della collera divina; cantano canzoni strane, non mai prima udite; e via via, nella corsa vertiginosa, aumenta il gran coro delle voci e dei gemiti. Si flagellavano a sangue due volte il giorno. Mezza Europa fu invasa da questo esercito di deliranti: e in Germania ed in Francia si univano al popolo signori e dame. Nella sola Francia, nel 1349, il numero dei flagellanti fu di 800000.
Nelle chiese, i canti del dolore spasimante come lo Stabat, o del tragico terrore come il Dies iræ, echeggiavano sotto le vôlte delle nuove cattedrali — e alla luce mistica calante dai vetri istoriati, i devoti genuflessi fremevano e singhiozzavano. Allora, le giovani e deboli donne, le povere Margherite, a quei terribili canti, sentivano dietro a sè l'ombra del demonio, e nell'orecchio il disperante suo ghigno — e cadeano svenute.
III.
L' Eterno Femminino raffigurato nella Madonna, dolorosa o gloriosa, consolatrice degli afflitti e rifugio degli oppressi, domina su tutto il secolo XIII e XIV. Cimabue e Giotto, Dante e il Petrarca, qualche volta lo stesso Boccaccio, a lei consacrano il cuore e l'arte. Primo tra i Fiorentini, anzi primo in Europa, Cimabue vide, con gli occhi dell'anima, il volto della benedetta fra le donne, e con mano seguace la rappresentò agli attoniti contemporanei. Questa Madonna che da più di sei secoli si prega nella Chiesa di S. M. Novella, è il primo Magnificat che l'Arte risorta ha inalzato alla Vergine Madre. Forse Dante Alighieri vi si è inginocchiato pregando. È il primo palpito di moto e di vita, dopo le secolari rigidezze delle jeratiche figure bizantine. Da quella tavola, come da una remota e sacra sorgente, deriva tutto il gran fiume reale dell'arte italiana e europea: da Giotto a Holbein, da Michelangelo a Rembrandt, da Raffaello a Rubens, da Leonardo a Velasquez! Quello è il primo passo. Pensate quante cose vuol dire questa parola: il primo!
La leggenda narra (e il Vasari lo confermava e Gino Capponi lo ammetteva) che Carlo d'Angiò volle vedere quella pittura, che fu portata in trionfo per le strade, preceduta dai trombettieri, e sotto una pioggia di fiori.... Hanno voluto provare che ciò non è vero, che quella Madonna non è di Cimabue, che Cimabue è una specie di mito... Per carità, arrestiamoci su questa china di sistematiche negazioni e demolizioni. Siam giunti al punto che ciò che prima era bianco, oggi dev'esser nero per forza, e viceversa. C'è da perder la testa! Nerone era un simpatico mattoide che aveva del genio; e i Cristiani da lui incatramati e bruciati come torce viventi erano dei pericolosi cospiratori. San Paolo era piccolo, brutto, bilioso, ignorante. Giovanna d'Arco una sgualdrina, e Lucrezia Borgia una seconda Susanna. Omero non c'è mai stato, e l'Iliade s'è fatta da sè. La storia di Roma è tutta una raccolta di novelle. Carlomagno è un mito; Mosè una costellazione. Le tragedie di Shakespeare son di Bacone — i quadri di Raffaello non son più di Raffaello. Fra poco la Divina Commedia non sarà più di Dante, ma di Cecco d'Ascoli!...
IV.
Un altro grande italiano, il cui nome fu ignorato per secoli, versava sul Medio Evo e su tutti i tempi avvenire, la grazia, la luce e il conforto di una parola unica, la sola paragonabile alla divina parola — voglio dire l'abate Gersenio da Vercelli, autore dell' Imitazione di Cristo. L' Imitazione è indiscutibilmente opera del secolo XIII — precede di molti anni l'epoca terribile, piena di scontento e di collera, l'epoca apocalittica dei grandi lamenti sulla prostituta di Babilonia, sulle simonie e la schiavitù d'Avignone; l'epoca dei Concilii di Costanza e di Basilea. L'autore della Imitazione è un solitario, che ha vissuto, amato e sofferto, e che ha sentito tutta l'amara vanità delle cose del mondo. Nulla di scolastico in questo libro — anzi vi si rivela una istintiva antipatia pei nominalisti i sillogizzanti; per la scientia clamorosa della teologia parigina. La Bibbia, la meditazione, la solitudine, lo hanno sole ispirato. Ricorda infinitamente più Gioacchino di Flora e san Francesco d'Assisi, che san Domenico o san Tommaso. Vi è diffusa un'aura di raccoglimento e di pace, come dal sereno tramonto di una bella e limpida giornata d'autunno. Gran libro! consolatore di tutti i cuori malati che il mondo non può consolare — parola che calma e risana, che ha un raggio per ogni tenebra, e un balsamo per ogni ferita; che ha confortato e conforta sacerdoti e soldati, filosofi e poeti, re e mendicanti.
L'impressione che proviamo leggendo l' Imitazione, è consimile a quella che si riceve guardando i quadri dell'Angelico; nei quali la materia è come trasfigurata, e non resta che una forma eterea, circonfusa di luce e di azzurro.... Vi ricordate? — I beati, sorridendo celestialmente, con la testa stellata di raggi d'oro, nelle loro lunghe tuniche azzurre, rosee, violacee, passeggiano tenendosi per mano, in un mistico giardino, tra l'erba smaltata di fiori bianchi e rossi; e in alto, nell'azzurro intenso, s'intravedono le ali iridate degli angeli.
V.
Quando il mondo si destò dal letargico sonno durato per lunghi secoli, e riprovò la pietà umana e l'amore, apparve un sole di carità che fece sentire alla terra il conforto della sua gran virtude.
Francesco d'Assisi è il vero iniziatore della nostra letteratura poetica con quel suo inno al Creatore e alle creature, che Ernesto Renan ha chiamato “le plus beau morceau de poésie religieuse, depuis les Évangiles, l'expression la plus complète du sentiment religieux moderne„. Questo cantico di estatica adorazione è il primo fiore, la celeste pervinca, del Giardino mistico: è l'alba annunziatrice della gran luce meridiana della Divina Commedia. Una universale simpatia facea battere il cuore di san Francesco di Assisi — e tutte le creature, dall'uomo alla cicala, avevano in lui un protettore, un amico. Il gran segno al quale si riconoscono le anime preservate ed immuni dalle orgogliose pedanterie spiritualistiche, e dalle spietate curiosità fisiologiche, è la intelligenza e la simpatia per gli animali inferiori. — San Francesco l'ebbe in grado supremo. Nel mondo moderno, due soli uomini gli sono paragonabili — Swammerdam e Michelet. La leggenda francescana narra che quando egli nacque, un volo di colombe si abbattè sul tetto della sua casa; e quando il Santo morì, al tramonto di una serena e placida giornata d'ottobre, le lodole, queste amiche della luce, svolazzavano intorno alla finestra della povera cella.
La vita di san Francesco d'Assisi è una vita-poema. L'eroismo e l'umiltà si confondono in questa vita maravigliosa. Ama e serve i lebbrosi; e affronta la superba presenza del Soldano d'Egitto — ferma e mansuefà il feroce lupo di Gubbio; e chiede genuflesso la benedizione a frate Ginepro — fonda missioni, ordini nuovi, edifica chiese e conventi, consiglia re e papi; e ascolta con religiosa attenzione il canto dei rosignoli. Parla ai fiori e alle stelle, alle cicale ed ai falchi, al fuoco ed al vento, all'Amore e alla morte, chiamando tutti fratelli e sorelle. In tempi di feroce durezza versa su l'Italia un raggio di alta poesia. Rannoda la tradizione evangelica, e pare uscito ora dalle Catacombe. È il Cristo del Medio Evo, è il nuovissimo Orfeo che doma e muove il duro sasso dei cuori umani. In una società basata sulla guerra e sulla forza, risuscita la santa fratellanza evangelica. Democratico e ascetico, eroico e poeta, egli è il più italiano di tutti i santi.
Tutta l'arte dei secoli XIII e XIV è piena di lui. Cimabue ne ripete i ritratti, Giotto descrive col pennello la sovrumana eppur semplice epopea di quella poetica e benefica vita. Vedete gli affreschi nelle chiese di Firenze, di Padova, di Assisi, di Napoli. Dante gli ha consacrato uno dei più affettuosi e sublimi Canti del Paradiso. Si direbbe che il fiero poeta confessa in quel canto tutta la vanità e l'amarezza delle passioni che hanno devastato la sua grand'anima, e che aspiri alla pace e alle gioie ascose di un'umile vita:
O ignota ricchezza! o ben verace!
Nelle effigie medievali di questo gran poeta e santo italiano, in Cimabue e in Giotto, il ritratto è in armonia con la vita. Vi è soavità unita a virile dignità, sguardo sicuro e profondo, diritta la persona, attitudini nobili e degne. Riconosciamo l'uomo “cui non gravò viltà di cuor le ciglia„ — che “ regalmente sua dura intenzione ad Innocenzo aperse„. Ma dal seicento in poi, ne hanno fatto una specie di collotorto e di baciapile. Unica eccezione, la stupenda statua in legno di Alonzo Cano. — Si direbbe che l'arte falsa e barocca non poteva rappresentar degnamente quel figliolo della Verità e della Luce.... Tutto si può simulare su questa terra: anche la giustizia e la santità — ma come simular la bellezza? — Tartufo non potrà mai fare un bel quadro; nè Don Pilone una bella statua; nè Don Basilio una bella poesia.
L'arte nostra contemporanea, ha meglio inteso il santo poeta. Ary Scheffer lo rappresentò predicante in Egitto — è una ascetica e nobile figura. Recentemente, nello studio di un nostro insigne pittore, ho ammirato un bel quadro rappresentante un poetico episodio della leggenda francescana.
Il Santo scende pensoso, ma serenamente pensoso, dalle alture della Vernia (il “crudo sasso„ ove “prese da Cristo l'ultimo sigillo„). — È una chiara e rigida mattina. Comincia a nevicare. Uno stormo di uccellini cala turbinoso sulle orme del Santo. Gli svolazzano attorno alla testa, attorno alla persona, trillando — un saluto? un inno? un ringraziamento? — Non so — ma si direbbero le voci della Natura riconoscente al Missionario di Dio.
VI.
Le Lettere di Caterina da Siena sono uno dei monumenti più insigni della letteratura mistica del secolo XIV. In esse, e per esse, meglio che per qualunque altro documento, si riconosce in che si distingue il genio mistico italiano da quello francese, belga e tedesco. Il senso pratico della vita non abbandona mai affatto il misticismo italiano. Non si ritrova in esso il cupo terrorismo di un Thauler, il fatalismo di un Molinos, il nichilismo di Mad. Guyon, l'allucinazione permanente di Swedenborg. Santa Caterina è un'anima innamorata della solitudine e del dolore — sua delizia sono le lunghe e intense meditazioni sulla Passione, e gli intimi colloqui con l'invisibile Sposo celeste. Ma, natura essenzialmente italiana, come san Francesco e come Dante, passa dalla vita contemplativa all'attiva, senza sforzo, senza pena, senza intervallo. Oggi, annichila sensi e volontà in una estasi di acquiescenza e di abnegazione completa in Dio — domani, visita spedali, riforma conventi, conforta carcerati, assiste condannati a morte, minaccia cardinali, rimprovera papi, fa sola e inerme lunghi e pericolosi viaggi, e finalmente, con la parola e con l'opera, strappa da Avignone e restituisce a Roma il pontefice. In alcune sue lettere riscontrasi felicemente fuso questo doppio carattere di Maria e di Marta, di Rachele e di Lia, di contemplante e di operante. Ecco un frammento della mirabile lettera, nella quale descrive come confortò e assistè fin sul patibolo un condannato. Vi son cose addirittura sublimi. Giudicatene voi....
“Andai a visitare colui che sapete; ed egli ricevette da me tanto conforto e consolazione, che si confessò, e disposesi molto bene. Fecemisi promettere che quando fusse il tempo della giustizia, io fussi con lui. E così promisi e feci. La mattina, innanzi la campana, andai a lui; e ricevettene grande consolazione. Menailo a udire la messa, e ricevette la santa comunione, la quale mai più avea ricevuta. Egli mi dicea: Per lo amore di Dio, non mi abbandonare; stai meco, e morrò contento. E teneva il capo suo in sul petto mio. E io sentivo un giubilo e uno odore del sangue suo.... Confortati, fratello mio dolce, gli dicevo, perocchè tosto giungeremo alle nozze. Tu v'andrai bagnato nel dolce sangue del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, il quale non voglio che ti esca mai di memoria. E io t'aspetterò al luogo della giustizia.... Aspettailo dunque al luogo della giustizia, e aspettailo in continua orazione a Maria e a Catarina Vergine e Martire.... Egli giunse, come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a sorridere; e volse che io gli facessi il segno della Santa Croce. E ricevuto il segno, dissi io: Giù! alle nozze, fratello mio! che tosto sarai alla vita durabile. Posesi giù, e io gli distesi il collo sul ceppo, e chinatami giuso, gli rammentavo il sangue dell'Agnello senza peccati. La bocca sua non diceva se non: Gesù! Catarina!... Ricevetti il capo reciso nelle mie mani, fermando l'occhio nella Divina Bontà, e dicendo: Voglio! „
E così, bagnata tutta, inzuppata com'ella scrive, di quel sangue, adornatasene come d'una stola purpurea, la vergine eroica tornava palpitante e raggiante alla sua povera casa di Fontebranda.
Amore e Morte fu la mistica divisa di questa gran donna e gran santa. Ma nel suo più ardente ed etereo misticismo ripeto che non perdè mai di vista le cose della terra; e dirò di più, non si fa mai illusioni. Questa vergine malata, che sviene sotto le stimate, che ha lunghi sublimi colloqui col suo Sposo celeste, capì benissimo che la immonda regina Giovanna non le avrebbe tenuto fede — e che dopo la Babilonia d'Avignone, lo scisma sarebbe giunto al sangue per le vie di Roma. Pensate poi che teatro, che scene, le si presentavano allo sguardo, quando essa usciva dalla mistica solitudine della sua cella! Pensate alla Siena del trecento! alla sua storia agitata, epilettica. Guerre contro tutte le città toscane, guerre tra signori e popolo, esilii in massa, confiscazioni, incendi, saccheggi, ribellioni, rivoluzioni, comizi popolari tumultuosi come quelli dei Giacobini; in nessun'altra città italiana, la vita pubblica è stata così ardente, così passionata, così tragica.
E oggi, tra gli avanzi delle sue rosse mura, tra 'l giallo delle sue crete, e il verdecupo delle sue piante secolari, Siena riposa, spopolata e tranquilla. Un gran silenzio è succeduto ai procellosi tumulti — e nelle sue vie principali fiancheggiate da solenni e taciturni palazzi, il buon borghese fa la sua quotidiana passeggiata, e la sua stazione al caffè, con sì inappuntabile precisione d'orario — che si può al suo apparire caricare l'oriolo, come dinanzi a un'infallibile meridiana. Tornano in mente i versi del Leopardi:
“.... or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
Dei nostri avi famosi?......
...... e l'armi e il fragorìo
Che n'andò per la terra?......
...... Tutto è pace, e silenzio!„
VII.
Piuttosto che ripetervi cose già dette (e dette così bene) su Dante, e non potendo in una conferenza sulla Letteratura mistica omettere un sì gran nome — il più glorioso che vanti — preferisco tradurvi letteralmente alcuni pensieri di Tommaso Carlyle sul divino poema. Gli tolgo dal bellissimo libro On Heroes and Heroworship — Su gli Eroi e il Culto degli Eroi. Forse mai di Dante e della Divina Commedia fu discorso con sì luminosa larghezza e nuova profondità di pensiero: nè alcuno con più meditato e credibile vaticinio preconizzò, or fa mezzo secolo, che la voce di Dante avrebbe prima o poi comandata al mondo l'unità politica dell'Italia, che era già in potenza nel poema divino.
“Dieci secoli hanno preparato la Divina Commedia. Essa è la voce finale e sintetica del Medio Evo. Il Pensiero di cui allora viveva l'Umanità, si elevò per lei in musica eterna. Il mondo soprannaturale prese corpo all'occhio di Dante con determinata certezza di scientifica forma. Dante credeva all'esistenza di un Inferno, di un Purgatorio e di un Paradiso, come noi siamo sicuri che vi è Costantinopoli, e che per vederlo non occorre che andarci. Il cuore di Dante meditandovi sopra lungamente, intensamente, rompe alfine in un mistico profondissimo canto, e ne nasce la Divina Commedia, il più gran libro del mondo moderno.
“Nel suo solitario ed amaro esilio, tanto più profonda era l'impressione che faceva su lui il Mondo Eterno: quella tremenda realtà sulla quale fluttua come un'ombra inconsistente questo mondo del tempo, con tutti i suoi Firenze e i suoi esilii.... — Tu, o Dante, non rivedrai Firenze e il tuo bel San Giovanni — ma vedrai distintamente (e vi abiterai) l'Inferno, il Purgatorio, ed il Cielo. Che cosa sono e Firenze, e Can della Scala, e il mondo, e la vita, a te che vieni dall'Eternità? La grande anima di Dante, senza asilo sopra la terra, fece sempre più sua dimora il terribile mondo soprannaturale.
“Il vero ritmico canto, è l'eroismo della parola. Tutti gli antichi poemi. Omero, Giobbe, sono autentici canti. Si può a rigor di termine asserire che tutte le vere poesie sono tali; che ciò che non è musicale non è propriamente poesia, ma prosa smozzicata in tante linee consonanti, con ingiuria del buon gusto, e con supplizio del nostro orecchio. Soltanto quando il cuore di un uomo è rapito in vera passione, e i toni del suo accento divengon melodici per la grandezza, profondità e armonia dei suoi pensieri — noi gli concediamo il diritto di rimare e cantare, e lo chiamiamo poeta, e lo ascoltiamo religiosamente come il più eroico dei parlatori.
“Il mondo delle anime, in Dante, è come una grande soprannaturale Cattedrale Cattolica, che giganteggia severa e solenne, spaventosa e gloriosa. La Divina Commedia è il più sincero di tutti i poemi. Derivò immediatamente dal fondo del cuore del suo autore, e perciò di generazione in generazione penetra profondamente nel nostro. Le popolane di Verona, quando incontravan Dante per via, usavan dire: — Ecco l'uomo che è stato all'Inferno. — Ah sì, egli vi era stato difatti, in un inferno di lunghe, atroci pene e tormenti. Commedie degne d'esser chiamate divine non si scrivono che a questo prezzo!
“Smettiamo i soliti lamenti sulle sventure di Dante. Se tutto gli fosse andato a seconda, sarebbe rimasto un buon lirico amoroso, un priore qualunque di Firenze, riverito ed amato — e al mondo sarebbe mancata la più grande parola che sia stata detta o cantata. Firenze avrebbe avuto un prospero magistrato di più, e dieci secoli muti fin allora avrebbero continuato a rimaner senza voce.
“Io non sono d'accordo con la moderna critica nel giudicare l' Inferno molto superiore alle altre due Cantiche. Tal preferenza è l'effetto del nostro incurabile Byronismo. Il Purgatorio e il Paradiso sono egualmente, e forse anche più ammirabili. Ma, a vero dire, i tre compartimenti, mutualmente appoggiati, sono l'uno all'altro indispensabili. Il Paradiso, tutto una divina e gloriosa musica, una sfolgorante mistica luce, è il lato redimente dell' Inferno, l'antitesi necessaria, senza cui l' Inferno parrebbe men vero. Tutti e tre formano quel Mondo Invisibile raffigurato nella Cristianità del Medio Evo; una cosa memorabile, e, nella sua intima essenza, anche vera, e per tutti. Dante ebbe la missione di esprimerla e di eternarla col canto.
“È una gran cosa per una nazione l'avere una voce che parli per lei; aver dato vita ad un uomo che esprima melodiosamente quel che essa pensa, soffre e spera. L'Italia, la povera Italia, è smembrata e dispersa. ( Ricordate Signori, che questa Lettura su Dante fu fatta da Carlyle nel 1840 ). Non apparisce come unità in nessun trattato, in nessun protocollo. Eppure, la nobile Italia è anche attualmente una. L'Italia ha Dante — l'Italia può parlare! Lo Zar di tutte le Russie è formidabile con tante baionette, cannoni e Cosacchi, ed è certo un gran fatto che riesca a tenere insieme politicamente sì gran tratto di terra, ma ancora non può parlare. Vi è qualche cosa di grande nella Russia, che un giorno avrà la sua voce — ma finora è una grandezza muta. Non ha avuto una voce di genio degna di esser ascoltata da tutti gli uomini, in tutti i tempi. Bisogna che impari a parlare. Finora non è che un muto enorme mostro. Invece, la nazione che ha un Dante è legata insieme ed unita naturalmente; e anche in fondo all'abisso, ha speranza, certezza di risurrezione.„
Ma bisognerebbe leggere intero questo stupendo studio critico del Carlyle — e vorrei che i giovani italiani lo meditassero lungamente. Son certo che lo preferirebbero ai commenti e dissertazioni di quei letterati che in sei secoli non hanno saputo desumere dalla Divina Commedia le forme di una letteratura nazionale, e di una larga ed umana forma poetica; che invece di ammirarne e illustrarne le sovrane e feconde bellezze, si son trattenuti — e ohimè! ci si trattengono ancora — a disputare sul Veltro, e sulla gran fonda, e sul piè fermo, e su pape e aleppe, e sulla famosa virgola delle famose colombe....
VIII.
La indecisione, la contradizione, l'oscillare fra due tendenze egualmente forti, rese infelice il Petrarca; uomo che le fallaci esteriorità della vita ci farebber parere felice e invidiabile. È nato poeta ed artista — ma non gli basta che l'idea, l'immagine, sia vera e viva, come bastava a Dante; vuol che sia artisticamente e spesso artificiosamente bella: vuol provare il piacere estetico (e in questo è essenzialmente il più moderno dei nostri antichi poeti) di cercarla, carezzarla, contemplarla. È già in parte l'uomo del Rinascimento, del nuovo mondo plastico e naturalista — ma resta pure uomo del Medio Evo, ed è imbevuto dalla sostanza della sua fede e delle sue dottrine. Vi è in lui lotta e reazione reciproca di Misticismo e di Naturalismo: indi, le continue contradizioni del suo amore, della sua poesia e della sua vita. Dante è tutto d'un pezzo — e va diritto alla mèta coll'impeto fulmineo e irresistibile d'un proiettile; il Petrarca procede per vie sinuose, or tra fiori or tra spine, e si attarda e si pente, e torna addietro per poi riprender la stessa strada. Stato doloroso, insopportabile, e che egli espresse con sovrana efficacia nella Canzone alla Vergine: che io definirei la più preziosa gemma del Misticismo nel Dolore.
Questo poeta ammirato, adorato dai contemporanei, ospitato dai monarchi come un monarca, confessa che
Non è stata sua vita altro che affanno!
che
Mortal bellezza, atti e parole gli hanno
Tutta ingombrata l'alma!
e conclude:
I dì miei più correnti che saetta
Tra miserie e peccati
Sonsene andati, e sol Morte m'aspetta.
Ormai non spera più che nella Consolatrix Afflictorum: vuol amare lei sola — dimenticare il vano e colpevole amore per Laura:
Vergine, tu di sante
Lacrime pie adempi il mio cuor lasso.
Che almen l'ultimo pianto sia devoto;
Senza terrestre limo,
Come fu il primo, non d'insania vuoto.
Paragonate queste parole a quelle di Dante per Beatrice. Che abisso di differenza!
La Canzone alla Vergine è inno ed elegia, confessione e preghiera ad un tempo. Vi è come un ritmico singhiozzo nelle rime a metà di verso — vi è come un desolato e supremo appello nell'insistente invocazione — “ Vergine! „ — a ogni principio di strofa. E finalmente vi è un presentimento di riposo e di pace ineffabile nei versi finali: “Raccomandami al tuo Figliol verace — Uomo e verace Dio — Che accolga il mio spirto ultimo in pace.„
Ripeto: tutto il Medio Evo nei suoi secolari dolori cerca e trova rifugio nel Sacro Ideale Femminino, nella Consolatrice. Ed è lei che risolve il gran problema del dramma medievale del Faust.
Das Ewig Weibliche
Zieht uns hinan!
Vi rammentate la mistica scena finale? Il Pater Extaticus, in preda al delirio dell'amor puro, esprime le più ardenti aspirazioni all'incorporeo, all'infinito: non appartien più a questo mondo; e librato sull'ali del desiderio, nuota nel puro etere. Il Pater profundus esalta in un magnifico inno l'amore, e canta Dio nella natura. Il Pater Seraphicus annunzia e invita le schiere angeliche che si trasmettono la parte immateriale di Fausto. San Bernardo ( Doctor Marianus ) dalla cella più elevata e più pura, annunzia l'arrivo della Mater gloriosa, che s'avanza nel blù profondo dell'atmosfera. A lei s'inchinano le tre grandi penitenti, la Maddalena, la Samaritana, l'Egiziaca, e una penitente che un tempo si chiamò Margherita, prega la Vergine Madre per la salute di Fausto. È quella stessa voce che abbiamo udita tremante d'amore nel giardino — rotta dai singhiozzi al tabernacolo della Madonna — e morente in un gemito nella Cattedrale.... E il risentirla ora in cielo, sempre amante, e supplicante per Fausto, produce un effetto unico. Come la Vergine attirò e salvò Margherita — così Margherita attira e salva Fausto. Mistica catena, magnetiche attrazioni, nelle quali e per le quali, Amore e Religione diventano una medesima cosa!
IX.
Enrico Heine in uno dei suoi volumi di prosa ricorda una vecchia leggenda tedesca, che ha, secondo me, un notevole significato storico e psicologico. Un giorno di maggio, sul finire dal secolo XV, una compagnia di preti e di monaci passeggiava in un bosco. Disputavano di teologia, distinguendo, argomentando, sillogizzando, citando san Tommaso e san Bonaventura, Scotisti e Nominalisti. A un tratto, nel più forte della discussione, tacciono tutti, e restano interdetti e come inchiodati, sotto un bel tiglio fiorito, dove un rosignolo sospirava le sue note tenere e passionate. Quei cuori scolastici e dottorali si commossero — si aprirono alle tepide emanazioni primaverili, e ascoltavano attoniti.... Ma il malizioso rosignolo (una specie di Heine coll'ali) trillò: sono il Diavolo, e fuggì via.
In questa leggenda è adombrato il lato debole, antiumano del misticismo, quando predomina e regna dispoticamente sulle menti e nei cuori; il vedere cioè nelle più belle cose naturali un lato satanico, un laccio o un agguato.... Il Rinascimento, per reazione, negò il soprannaturale — ma il misticismo aborriva troppo dal naturale. Tuttavia, il misticismo è una forza e un istinto umano; e per variare di tempi non è mai morto affatto. Che dico? vive anche oggi, e conta fra i suoi rappresentanti il più possente romanziere dei giorni nostri — Tolstoi!
Anche nel Secento, il misticismo trionfa, ma come un angelo fosco. Dopo che alla fine del secolo precedente santa Teresa ebbe unito nel suo ardente cuore di spagnola l'estasi della contemplazione all'eroismo dell'azione — il Secento vagheggiò come mistico ideale l' annientamento dell'individuo e della volontà. Era il misticismo adattato a quell'epoca sinistra ed odiosa, nella quale il barocco, il mostruoso, invadono la letteratura, l'arte, il teatro, le mode, il mobiliare, i giardini, i sepolcri.... Una cupa severa monotona etichetta sembra dirigere tutte le azioni umane: uno sbadiglio enorme va da un capo all'altro d'Europa. Anche i più grandi scrittori del tempo son tristi. Molière e Pascal muoiono di malinconia. Hobbes e Molinos — la paralisi e il fatalismo in politica ed in morale — sono i veri rappresentanti di quell'epoca tenebrosa. Galileo e Gustavo Adolfo, i soli veri eroi in quel periodo stagnante.... I conventi si moltiplicano, e un misticismo opprimente, artificioso e patologico, dà loro l'aria di tenebrosi e silenziosi manicomi. Vi siete mai trovati per caso in certi quartieri di Roma, di Milano o di Napoli, dove le strade sono come incassate fra una doppia linea di enormi edifizi grigi, alla cui cima si affaccia la punta di un cipresso, con qua e là poche finestre mezze murate, e da cui sembra colarvi addosso un'ombra, una nebbia di tedio? — Sono i muraglioni dei conventi del Secento, dove annualmente si seppellivano migliaia di giovani e ardenti Gertrudi, a benefizio del giovin signore, l'orgoglioso, e spesso stupido erede dei titoli e della fortuna!
Allora l'acquiescenza assoluta, il non volere, il quietismo, il nichilismo, divennero i religiosi Ideali. La morte parve una voluttà. Eppure anche da questa palude morale levò l'ali e si alzò nell'etere puro una creatura privilegiata, nella quale rifulse il poetico carattere delle grandi mistiche del Medio Evo: voglio dire, Madama Guyon. In quel putrido stagno, essa fece correre i rivi freschi e cristallini dei suoi Torrenti — e il suo quietismo paragonato a quello di Molinos, è come il silenzio dell'Alpi paragonato al silenzio del Deserto. Il misticismo della Guyon vien dal cuore, come quello di santa Gertrude e di santa Caterina — quello dei mistici suoi contemporanei è tutto di testa. Il suo misticismo è un luminoso e confidente mattino d'amore — l'altro è un incerto crepuscolo amoroso, pieno di esitazioni e di equivoci.... Le parole sono di fuoco, e il cuore è di gelo. Situazione precaria, penosa, demoralizzante. Meglio troncare addirittura — e meglio ancora, non aver mai cominciato....
X.
Nella letteratura mistica del secolo XIII, il misticismo amoroso si confonde col religioso. Spesso adoprano uno stesso linguaggio. Leggendo certe poesie del Guinicelli, del Cavalcanti, dell'Alighieri, vien fatto di domandarsi: si parla di una donna, o della Madonna? di una creatura umana o di un serafino?
Chi vuole aver notizie di Dio, ami! — dice Ugo da San Vittore; e Eckardt: L'amore è l'occhio dell'anima. L'amore di donna, per quei poeti del 200, è più che una passione, un desiderio, una dolce abitudine — è una perfetta ed intensa occupazione: non un episodio, ma la storia della vita: assorbe l'individuo come una religione. Ma più che la donna, la persona, amano l'amore — sono essenzialmente lirici, più che drammatici — perchè, felici o sfortunati — son sempre al medesimo punto.... Con delle frasi del Guinicelli, di Lapo Gianni, del Cavalcanti, dell'Alighieri, di Cino, si comporrebbe un libretto che si potrebbe intitolare La teologia dell'amore. (Il difficile sarebbe oggi trovargli un editore, e delle lettrici). Tutti quei poeti del 200, maggiori e minori, si somigliano tutti — dal gran poeta all'ultimo sonettista, tutti ricamano sopra una medesima stoffa teologico-metafisica. Hanno un culto di latria per quelle donne, che si dovevano passabilmente annoiare a sentirsi sempre paragonare a scale del cielo, a maestre di umiltà, a stelle Dïane, a concetti, a simboli, a sacramenti.
Ma il genio di Dante condensò, animò e immortalò tutti quelli elementi nella Vita Nuova. Il genio e la passione vera, dettero forma e movenza a quel mondo inerte di astrazioni platoniche e di fantasmi scolastici. La Vita Nuova — questo divino fiore venato di sangue, questa mistica rosa imperlata di lacrime, e, dopo sei secoli, fragrante come se colta d'ora, — è la sintesi dell'Amore del Medio Evo; come la Divina Commedia è la sintesi della sua Fede.
Il sentimento è sì intenso, che fa paura. L'amante e il poeta sembrano respirare in un'atmosfera dove la ragione umana svanisce — l'allucinazione diventa lo stato normale e psicologico. Essa passa, ed egli trema per ogni vena. Sorride, e il Paradiso scende sulla terra. Apocalittiche visioni lo assalgono — le stelle piangono, gli uccelli cascano tramortiti.... Piange in sogno, si desta, e il suo viso è realmente bagnato di lacrime. In questo stato di estasi, tutto diventa simbolo — e le cose più comuni assumono nuovo e strano significato. Un colore, un numero, un'ora della giornata, un suono, un odore, acquistano singolare importanza. Il Rossetti nel quadro della Beata Beatrix ci raffigura Beatrice pallida, un po' estenuata, occhi neri, e con abbondante volume di neri capelli. Dante però non l'ha mai descritta. E ognuno se la rappresenta a suo modo — e tutti l'amiamo!...
Vediamo invece, dipinta a caldi tizianeschi colori, Madonna Laura — la rosea, florida, bionda bellezza: — ma chi mai l'ha amata, fuori che Francesco Petrarca?...
Il misticismo nell'amore non fu ucciso neppure dal realismo pagano del Rinascimento — neppure dalla scienza moderna! Anche nel secolo nostro, ha avuto insigni rappresentanti in insigni poeti e romanzieri: mi basti ricordare Novalis e Gian-Paolo, il Liebesfrühling di Rückert, lo Shelley e il Rossetti, e la scena finale di Aurora Leigh. Lo ritroviamo anche, con una certa maraviglia, dove meno si supponeva trovarlo — in Balzac, in Tolstoi, in Roberto Browning. La Seraphita di Balzac è una creazione mistica, e altamente poetica nel suo candore di neve immacolata.
Chi però, non per arte o artificio, ma per fenomenale analogia di natura, è stato nel nostro secolo un'eco fedele della gran poesia mistico-amorosa del secolo XIII, è Dante Gabriele Rossetti: un dugentista italiano, nato, per capriccioso anacronismo della sorte, a Londra, in pieno secolo decimonono. Quasi tutta la sua opera poetica deriva in linea retta dalla Vita Nuova, dal Guinicelli e dal Cavalcanti. La bellezza corporea e spirituale della donna è il motivo di tutte le armonie Rossettiane. L'anima è sempre visibile attraverso i veli e la veste delle bellissime forme. Una luce interiore illumina le membra perfette, e dà un significato trascendentale agli sguardi profondi, agli ineffabili sorrisi delle sue donne, cantate o dipinte.
E la Blessed Damozel, la Beata Donzella, che egli vede nella profondità dell'etere azzurro chinarsi verso la terra aspettandolo — la vergine soave dagli occhi puri e profondi, dai folti e lunghi capelli, biondi come spighe mature, — estatica di celeste stupore al suo primo ingresso nel Paradiso — e che ha per solo ornamento alla sua bianca tunica di vergine e di angelo, una rosa bianca, — dono della Madonna, non pare una figura dipinta su fondo d'oro da Giotto o dal beato Angelico?
E però il nostro Rossetti non va confuso con quei preraffaellisti inglesi dei quali è assottigliato il numero ma non è spenta la razza, i quali non sanno rappresentarci che vergini magre e bionde, e passabilmente bruttine, con un ramo di mandorlo fiorito in mano, e una stella sui capelli: che non hanno di bello che il loro ramo, e di grande che i loro piedi!... manifattori della moda costoro, piuttosto che veri artisti — e che mezzo secolo addietro avrebber dipinto sedie pompeiane e Achilli con le fedine — o cantato Latona e Pasifae....
Il concetto orientale-platonico, accennato e vagheggiato da alcuni poeti del secolo XIII e XIV, di una scala progressiva di vite, è stato espresso con un misto di realismo e di patetico, così poeticamente e così indimenticabilmente da Browning nella sua Evelyn Hope, che non resisto alla tentazione di concludere la mia lettura con l'analisi di questo capolavoro di poesia mistico-amorosa.
XI.
Un uomo adulto di anni e sempre giovane di cuore, ha chiuso nell'anima e custodito come un sacro e geloso segreto, l'amore profondo che sente per una giovinetta di sedici anni. Ma la bella Evelyn Hope è morta; ed egli siede e veglia un'ora presso il letto ov'essa giace cadavere.... Quella è la sua piccola libreria, questo il suo letto: essa avea colto con le sue mani quel ramicello di geranio che comincia a morire anche lui nel calice di cristallo, sul tavolino. Poco o nulla è mutato nella cameretta: le imposte son chiuse, nè passa altra luce fuorchè quella di due lunghi raggi gialli, dagli spiragli della finestra....
Egli medita, triste ma rassegnato: — Morta a sedici anni! Forse essa aveva appena sentito parlare di lui: non era ancora venuto per lei il tempo di amare: e poi, la sua vita aveva altre speranze, altre occupazioni, e piccole cure e doveri — ed ora era quieta, ora attiva — finchè, d'improvviso, la mano di Dio le ha fatto un cenno — e quella soave fronte bianca è tutto ciò che resta di lei.
“Ah! (egli dice sottovoce alla morta, nel crepuscolo della verginale cameretta) è dunque troppo tardi, o Evelyn Hope? E che? la tua anima era pura e vera; i benefici astri avean versato su te le più divine influenze, eri fatta di anima e di fuoco, di rugiada e di luce; e perchè io avevo tre volte i tuoi anni, e i nostri sentieri divergevano così staccati nel mondo, mi si dirà che non eravamo nulla l'uno per l'altro, che eravamo compagni mortali e niente di più?... No, in verità! Poichè Dio ha creato l'amore per ricompensare l'amore, io ti reclamo, o Evelyn Hope, io reclamo il tuo amore in nome dell'amor mio. Potrà essermi ritardato ancora per altre vite, tra vari altri mondi che io dovrò traversare.... Molto avrò da imparare, molto da dimenticare, prima che arrivi il tempo di possederti. Ma quel tempo verrà, — alla fine verrà — quando io saprò che cosa voleva dire, nel basso pianeta della Terra, in anni tanto remoti, quel tuo corpo ed anima così puri e lieti.... indovinerò perchè i tuoi capelli avevano il colore dell'ambra, e la tua bocca era rossa come i tuoi gerani; e: ho vissuto (ti dirò) ho vissuto tanto da quel tempo, o Evelyn Hope, ho conquistato i guadagni di varie esistenze, ho profittato di tanti secoli, ho provato ogni ora e ogni clima: ma una cosa sola sentivo sempre, in fondo all'anima, che mi mancava, e che io le mancavo: e sempre ti ho sospirata, e ti ritrovo, e sei mia!
“Intanto, per ora, silenzio.... Io ti dò a serbare questa foglia: vedi, io la chiudo dentro la tua soave gelida mano — così!... Questo è il nostro segreto: dormi ora in pace — più tardi, ti sveglierai, e ti ricorderai, e intenderai.„
················
Questo mistico concetto, intravisto dai vecchi savi d'Oriente — vagheggiato da Platone — cantato da alcuni poeti del secolo XIII e XIV — illustrato da Pico della Mirandola e altri Platonici del secolo XV — e ripreso ed espresso ripetutamente da Gœthe e da Schelling, da Gian Paolo e da Novalis, e recentemente da Roberto Browning — se non è cristianamente ortodosso, non contradice nemmeno al concetto fondamentale del Cristianesimo; ed è un'idea altamente poetica e consolante. Ed a momenti, ci par più che possibile questa scala di vite, queste ascensioni dell'anima in altri mondi. I mondi di cui Dio ha popolato lo spazio son tanti! Settant'anni di prova parrebbero troppo pochi per l'anima umana che ha aspirazioni infinite. Se fosse vero!... Passata la gioventù, ci rimarrebbe tra le ceneri del fuoco della passione, l'oro della esperienza — e la vecchiaia sarebbe un prepararsi, ammaestrati dal passato, al futuro: a mettere in atto quel che qua s'era a mala pena imparato; a leggere ciò che a fatica si compitava; a dire ciò che a stento si balbettava quaggiù.... Tutto quello che non potemmo essere sulla Terra — ed a cui pur ci sentivamo nati — tutto quello che era in noi e che il mondo ignorò — la poesia muta, l'amore soffogato, il momento fatale perduto, tutto avrebbe un giorno, altrove, azione e sviluppo, compimento e successo. Sarà un sogno del misticismo, ma convenite che è un sogno sublime.
L'anima umana, o signori, è una e identica in tutti i tempi. La rêverie religiosa della “ascosa vergine„ d'oggi, è simile a quella di santa Matilde — e la suora di carità del secolo XIX prova nel suo tranquillo ed eroico apostolato, quel che provava santa Elisabetta d'Ungheria. Il giovine appassionato che oggi per possedere l'amata donna affronta e vince i più ardui e lunghi ostacoli, è fratello di quel Giacobbe che per amore soffriva in silenzio e volontariamente serviva. La Fede e l'Amore, nei loro entusiasmi e nelle loro aspirazioni, nelle loro lacrime desolate e negli estatici sorrisi, vivono eterni: e il misticismo, inteso nella sua più larga e comprensiva espressione, cesserà solo con l'ultimo palpito dell'ultima creatura umana.
IL PETRARCA
DI ADOLFO BARTOLI
Accorrevano festanti gli esuli Bianchi a Pisa, incontro al biondo Arrigo; ed era tra quegli esuli un uomo, che traevasi dietro la moglie e due figli ancora in tenera età. Uno di quei fanciulli vide un giorno, forse nella casa paterna, un altro esule, non vecchio ancora, ma sul cui volto dovevano le lunghe speculazioni, i pensieri profondi, gli acuti dolori, avere impresso segni indelebili.
Furono così per un momento in cospetto l'uno dell'altro Dante Alighieri e Francesco Petrarca: il passato e l'avvenire della letteratura italiana, il ferreo uomo che percorse la vita, avvolto tutto ne' suoi disdegni, nelle sue ire, nelle sublimi fantasie dell'anima eccelsa, il poeta terribile che scolpì il medioevo e lo chiuse; e l'uomo irrequieto, lo spirito ondeggiante e soave, il dotto evocatore dell'antichità pagana, il poeta delle grazie e dell'amore, che sorgeva nunzio di nuovi tempi. Il nume spariva e gli succedeva l'uomo. Con Francesco Petrarca noi entriamo in un periodo nuovo del pensiero e dell'arte. Con lui e per lui tramonta un'età, e si affaccia all'orizzonte della storia il primo uomo moderno. Guardiamolo per un momento, spingiamo il nostro sguardo nei ripostigli della sua vita. L'irrequietezza è uno dei caratteri più spiccati di lui. Egli stesso confessa che in nessun luogo può trovare riposo, che sente sempre in sè qualche cosa d'insoddisfatto. Nessuno più di lui ha sospirato la quiete, nessuno l'ha mai trovata meno di lui. Se sta fermo in un luogo vorrebbe viaggiare; se viaggia vorrebbe riposarsi; se è solo desidera di aver compagnia; se ha compagnia invoca la solitudine; se è chiamato ad alti uffici, li ricusa sdegnoso; se gli pare di essere dimenticato, ne muove lamenti infiniti. Ogni più lieve pericolo lo sgomenta, ogni minaccia di sventura lo atterrisce. Dice che sa adattarsi facilmente ad ogni luogo, e poi non c'è luogo in tutto il mondo che gli piaccia. Disprezza le ricchezze e le desidera, invoca la morte e ha paura dei fulmini; oggi è umile, domani orgoglioso; un giorno scrive da asceta, un altro da pagano: insomma è una natura instabile, irrequieta, innamorata della virtù e cupida dei piaceri, intenta sempre a raggiungere le più alte cime dell'idealità e sempre estenuantesi di forze nell'arduo viaggio; un precursore, come ha detto il Quinet, di Renato o di Werther, un lontano antenato di tutti noi moderni ammalati d'isterismo e di nevrosi.
Qualche cosa del vecchio mondo resta ancora nel suo spirito; a quando a quando il misticismo lo invade, e in quei tetri momenti scrive libri che paiono usciti dalla penna d'un santo, tutto invasato dell'amor divino. Ma sono intermittenze, non altro; sono contradizioni anche queste; certe notti, egli narra, piangente nel suo letto, terrificato dal pensiero della morte, madido di sudore, chiede a Dio misericordia, recita i salmi penitenziali; si batte il petto; e poi, al primo raggio di sole che batte alla sua finestra, dimentico dei suoi terrori notturni, saluta i bei capelli d'oro all'aura sparsi. E questi due momenti della sua vita sono in antitesi tra loro, ma sono naturali ambedue. Nella storia interiore del suo pensiero, nei suoi affetti, nelle sue opere, egli si mostra sempre diviso tra desiderii diversi, tra diverse speranze, tra diversi bisogni, costante solo nella propria incostanza, fermo solo nella propria mobilità.
Ma intanto i più fervidi amori scaldano il suo petto. E primo di tutti l'amore alla patria. L'italianità è nel Petrarca profonda. Io, egli dice, fino dagli anni giovanili amai tanto l'Italia, quanto nessuno l'amò dei miei coetanei. Essa pare a lui la parte più felice del mondo, la più famosa, la più bella. I laghi, i fiumi, i monti, i campi, le valli, tutto di lei lo innamora; un giorno dalle cime del monte Gebenna egli, rivedendola, la saluta commosso con uno dei suoi carmi più ispirati, la saluta cara e santissima terra, patria delle muse, maestra del mondo. Finalmente, esclama, io faccio ritorno a te, finalmente ti riveggo, un'aura serena mi batte in viso, l'aere tuo mi accoglie; sento la patria ed esultante la saluto: salve, bellissima madre, salve, gloria del mondo. Al cuore del Petrarca è tormento continuo vedere quante divisioni, quante guerre fratricide affliggono la patria. Ai Genovesi e ai Veneziani, combattendo tra loro, ricorda che gli uni e gli altri sono Italiani, e grida che cessino dalla guerra fratricida, e che congiunte le armi ultrici le rivolgano contro gli stranieri e perfidi istigatori delle loro discordie. Se alcun rispetto serbate al nome latino, egli scrive, ricordatevi che sono fratelli vostri coloro alla cui rovina movete. Vorremo noi dunque opprimerci sempre da noi medesimi, vorremo sempre dare spettacolo al mondo delle nostre miserie? Non vorremo mai ristarci dal chiedere aiuto a chi ci sgozza? Oh, lo dirò pure a voce alta, tra gli infiniti errori degli uomini, non c'è errore più pazzo del nostro, che essendo Italiani spendiamo tant'oro per procacciarci i distruttori d'Italia! La parola del poeta tuona terribile contro le milizie mercenarie, contro la scaduta arte militare. Egli piange che tutto si corrompa e si guasti tra noi, che fatti degeneri nella lingua, nei costumi, nelle vesti, nel tenor della vita, ci adoperiamo noi medesimi in pace e in guerra a fare dell'Italia una terra selvaggia di crudeltà e di barbarie. Ogni sventura italiana, ogni dolore della patria trova eco in quel nobile petto. Il suo entusiasmo di poeta, la sua eloquenza di oratore invocano sempre un'Italia grande, libera, potente, un'Italia degli Italiani, unita, concorde, maestra un'altra volta al mondo di virtù e di sapienza.
E coll'Italia egli ama Roma. Quando per la prima volta nel 1336 il Petrarca pose piede entro quelle auguste mura, tale fu il grido che gli uscì dalle labbra: — Non più ora mi meraviglio, che da tale città fosse il mondo intero domato, ma mi meraviglio anzi che fosse domato così tardi. Roma appariva al Petrarca sotto un duplice aspetto, come la città regina ove nacque e trionfò Scipione, e come la città insieme che tiene in terra le voci del cielo, piena delle ossa dei martiri, bagnata del sangue dei testimoni del vero. Così le due Rome si confondevano nel suo affetto: ora egli passeggia estatico per la via Sacra e pel Campo Marzio, ora s'inchina al luogo ove crede che san Pietro fosse crocifisso. Qui contempla l'arco e il portico di Pompeo, qui ripensa che Cesare trionfò, che Augusto vide a sè prostrati i re del mondo; più in là si ricorda che fu troncato il capo a san Paolo, che furono bruciate le carni a san Lorenzo.
L'Italia e Roma furono per il Petrarca due ideali, non disgiunti nè disgiungibili, i due ideali a cui forse si mantenne più affezionato e fedele, quelli, che tra le fortunose vicende della sua vita non ebbero mai tramonto nel suo cuore.
Con tutto questo però guardiamoci bene dal chiedere a lui qualche cosa al di là del sentimento. Appena dalla regione degli affetti discendiamo alla pratica, noi lo vediamo come travolto in un turbine di contraddizioni.
Egli esalta Roberto d'Angiò, egli sente per lui amore ed entusiasmo, senza ricordarsi che era stato codesto capo de' Guelfi, che aveva indotto il papa Clemente V a trasportare la sede del Papato in Avignone: onde, mentre scrive che re Roberto è illustre, è divino, è magnanimo, è sapiente, è il Re dei Re, con la stessa penna getta giù le più roventi parole contro la cattività avignonese.
Egli vagheggia con Cola di Rienzo la restaurazione della Repubblica Romana; e poi si fa caldeggiatore della restaurazione dell'Impero con Carlo IV, mentre non aveva avuto una parola sola di simpatia per l'impresa di Giovanni di Boemia.
Egli, entusiasta del tribuno, è amico dei Colonna, suoi fieri avversari; e sebbene amico dei Colonna, grida che bisogna strappare dalle mani dei nobili la tirannide di Roma. Egli prende parte pei signori di Correggio traditori degli Scaligeri, e quando Jacopo Bussolari tenta di rivendicare i diritti del Comune di Pavia contro i Visconti, si fa riprenditore severo di lui per difendere quei Visconti, che erano stati i più ostinati nemici del suo Roberto e del suo Carlo di Lussemburgo. Egli vagheggia il più sublime ideale di principe, lo vuol giusto, amorevole, paterno, clemente, e poi vive alla Corte Viscontea e loda e chiama magnanimo il Galeazzo della feroce quaresima. E tutto questo deriva dal fatto che il Petrarca non sapeva mai distinguere il mondo reale dal mondo dei suoi affetti e delle sue idee. Egli vedeva tutto a traverso le proprie subitanee impressioni, e da queste impressioni si lasciava sempre come docile fanciullo condurre. Non fu mai un uomo di Stato, non fu mai un politico, non professò teorie, non escogitò mai sistemi. Amò l'Italia e Roma di amore grande, ma sempre platonico.
E l'amor all'Italia ed a Roma si ricongiunse in lui a quello per la classica antichità.
Lo spirito umano, che agonizzò nei tempi di mezzo, ebbe bisogno per riacquistar nuove forze di andarle ad attingere al mondo antico; e questo ritorno all'antichità determinò lo sviluppo di un nuovo periodo storico, che dura in parte anche oggi. Il Rinascimento ebbe anch'esso i suoi precursori, ma il primo uomo nel quale apparisca già trionfante è il Petrarca.
In lui per la prima volta sentiamo destarsi l'odio contro la vecchia scolastica, e chiamare coloro che la professano una nuova razza di mostri armata d' entimema a due tagli. Egli aborre e disprezza tutto il fardello scientifico del medio evo. Per lui non esiste altro amore che quello dell'eloquenza e della poesia. La bellezza della forma antica lo affascina e fa ogni sforzo per riprodurla nelle sue opere. Il suo ideale è Cicerone, ch'egli cominciò ad amare e a studiare fin da fanciullo.
E quest'amore crebbe cogli anni, e durò fino all'estrema vecchiezza. Egli dice di sentire il proprio ingegno conforme a quello dell'amato scrittore, che a tutti gli altri antepone, ne esalta la eloquenza, ne copia di sua mano alcune opere, se ne fa un compagno indivisibile della vita. La passione per gli scrittori dell'antichità diventa in lui sempre più intensa col progredire degli anni. Ne' suoi viaggi egli è ognora alla ricerca di vecchi manoscritti, e agli amici raccomanda che frughino dappertutto per trovargliene; e così mette insieme una raccolta di opere pei suoi tempi meravigliosa. Per lui nessuna vergogna pareggia quella di non amare l'antichità. E da questo amore agli scrittori classici deriva quell'alta idea che egli ha della perfezione letteraria, quella incontentabilità che gl'impedisce sempre d'esser pago di ciò che ha scritto. Alla mente del Petrarca si affaccia continuo il pensiero della gloria, ed è per lui, dice il Voigt, inebriante l'idea d'esser ricordato dopo secoli, e di trovarsi a lato dei grandi scrittori antichi.
L'uomo medievale alla gloria non pensò; unica gloria per lui desiderabile era quella del cielo. Sentirne dunque nuovamente il desiderio è uno dei caratteri de' tempi nei quali lo spirito umano rinasce alla vita, ed anche da questo lato per conseguenza il Petrarca ci appare uomo moderno.
Certo quel desiderio fu in lui spesso circondato da mille vanità puerili. Questo rientra nei difetti che egli ebbe e che non furono pochi. Ma intanto il pensiero della gloria gli è eccitamento continuo a nuovi studi, a nuove fatiche, a una sempre maggior perfezione. Egli è il primo ad abbandonare lo stile donnesco e snervato de' vecchi, e lo sa e se ne vanta. Egli è il primo che torni allo studio del greco, che riesca a possedere un Omero. Egli pensa a far raccolta di gemme e di monete, sente l'importanza della correzione dei codici, sceglie e ordina i suoi scritti, si dirige ai posteri narrando loro la propria vita. Tutto ciò è nuovo, è inaspettato, è moderno.
Come nuovo e moderno è il fatto delle relazioni nelle quali si mette il Petrarca col mondo esteriore. Egli viaggia per vedere cose nuove e per divertirsi; viaggia per mille luoghi, nel Belgio e nella Svizzera, in Francia, in Ispagna, fino sulle coste del mare Britannico, ma interrogando sempre la storia, e portando dovunque vada la serietà del suo spirito investigatore. A Napoli visita i luoghi descritti da Virgilio; ad Aquisgrana si fa narrare una leggenda di Carlomagno, e dice di non crederci; a Colonia si compiace nello spettacolo delle donne che si lavano nel Reno; sulle coste inglesi cerca il luogo dell'antica Tule. Il Petrarca vive oramai nella realtà delle cose. Poco rimane in lui del sonnambulismo medievale, in lui già sono le serene aspirazioni ad un concepimento più umano della vita e in qualunque cosa egli scriva sa trasfondere una particella di sè, dei suoi sentimenti, delle sue impressioni, dei suoi pensieri. Lo scrittore medievale colla sua fredda e monotona impersonalità par già lontano di secoli.
Vedete: egli scrive un lungo poema latino dove celebra Scipione Africano, un poema che, malgrado i molti difetti, è pure un miracolo di lingua e di stile, ma che ci lascia freddi per il suo contenuto, non essendo in gran parte che una versificazione delle storie di Livio. Ebbene, quando noi leggiamo in quel poema descritte le bellezze di Sofonisba, sentiamo subito che il poeta scrivendo ha pensato più che a Sofonisba ad un'altra donna, alla donna amata da lui; quando leggiamo i lamenti di Massinissa, Massinissa ci sparisce dagli occhi, e abbiamo innanzi il Petrarca che piange sull'amor suo. Quando il nostro sguardo corre sui versi dell'episodio di Magone, vicino a morte, quando sentiamo quel Cartaginese invidiare agli animali la loro sorte, preferibile a quella degli uomini, e proclamare che la vita non approda a nulla, che l'ottima delle cose è la morte: Mors optima rerum; allora noi siamo certi che qui è l'anima del Petrarca che parla, mandando il primo grido di quel dolore universale, che ha reso poi il cuore a tanti grandi moderni, e che ha trovato la sua più alta e profonda espressione in Giacomo Leopardi.
Vedete ancora: egli scrive un infinito numero di lettere, dove pare che l'erudizione affoghi spesso il sentimento. È ucciso, per esempio, a Paolo Annibaldeschi un figliuolo, e il povero padre cade, morto di dolore, sull'adorato cadavere. Che credete voi che del miserando caso scriva il Petrarca? Udite le sue stesse parole. “Il nostro Paolo perdette un figlio. Nulla è in ciò di singolare: Paolo il Macedone ne perdette due; Priamo che a tanti figli fu padre rimase solo. Ma questi a Paolo fu ucciso di ferro. Ebbene, che importa se di ferro, di fuoco, di naufragio, di febbre o di veleno si muoia? La morte è sempre la morte. Ma il figlio di Paolo morì giovanissimo. — E non è ciò naturale poichè giovane era anche il padre? Era questa forse una buona ragione perchè tanto ei dovesse dolersi?„ E qui seguita facendo al morto una lunga apostrofe e domandandogli come mai nell'atto ch'ei moriva di crepacuore non si è ricordato di Anassagora, di Pericle, di Catone, di Marzio, di Pulvillo e di non so quanti altri, che sostennero in pace la morte dei loro figliuoli. — Muore un altro suo carissimo, Franceschino degli Albizzi, e poichè egli è morto a Savona, il Petrarca fa una lunga e fiera invettiva contro quella città, tutta ridondante di citazioni e di reminiscenze classiche. — Per rallegrarsi colla moglie di Carlo IV, della figlia che le è nata, parla di Iside, di Carmenta, di Saffo, delle Sibille, di Pentesilea, di Tomiri, di Cleopatra, di Zenobia, di Lucrezia, di Clelia, di Cornelia, di Marzia. Per lodare lo scrivere elegante di un amico, lo paragona alle chiome di Cleopatra, e allo sguardo di Fedra. Per congratularsi con uno che si è ritirato a vivere in campagna gli dice che ove lo annoiasse il gracidar delle oche, pensi a quelle che salvarono il Campidoglio.
Sono queste, senza dubbio, puerilità; ma puerilità che hanno il loro alto significato. Quello sfoggio di erudizione, infatti, seminata così largamente, e, così spesso, fuor di proposito ci apparirà come una vittoria dello scrittore, che ha faticosamente riconquistata una parte della sapienza antica, e che, colla intemperanza, col fasto del nuovo ricco, ne imbandisce il banchetto agli amici, ai lontani, ai posteri. Così ogni più lunga filza di citazioni acquisterà il suo valore. E noi quindi non ci meraviglieremo più ch'egli studi, limi, corregga le sue lettere; che ne faccia altrettanti lavori letterari, altrettante mostre pompose della sua cultura. È questo un segno del rivolgimento che si sta operando nel pensiero umano. Ognuna di quelle piccole scritture è un passo di più mosso sulla via sacra del Rinascimento. Quella rettorica, che per noi oggi è cosa morta, era invece viva nel Petrarca, faceva parte del suo sentimento. Ognuna di quelle citazioni faceva battere il suo cuore di umanista. Ognuno di quei periodi accarezzati, studiati, elaborati, era come un saluto all'antichità, che stava sollevandosi dal sepolcro. Quelle sue ampollosità, quelle sue interminabili ciancie somigliano, come ha detto il Voigt, all'ingenua loquacità del fanciullo, che gode sentendo di acquistare l'uso della favella e parla per il gusto di parlare. Ma intanto sotto la sua penna la lingua latina riacquistava qualche cosa dell'antica eleganza, ed egli si educava all'arte, creava l'estetica del Rinascimento, e fondava, come ha detto il Villemain, una nuova potenza fuor della Chiesa e dello Stato, tutta morale, tutta moderna, la repubblica delle lettere. Anche un altro sentimento, che il medioevo completamente ignorò, comincia ad apparir nel Petrarca: l'amore alla natura, il desiderio di chiedere ad essa riposo dalle miserie della vita. Il suo pensiero corre con voluttà ai verdi prati, alle erbose rive dei fiumi, alla densa vôlta dei boschi: egli invidia coloro che possono non ascoltare altro che il muggito dei buoi, il canto degli uccelli, il mormorare dei rivi; che possono aggirarsi per le selve, pei colli, pei prati, benedice il soggiorno della campagna, si asside pensoso sulle rive deserte di un fiume, e sta là a contemplare il tremolio delle foglie de' pioppi, e si commuove del cicalio degli uccelli, e gode dei solenni silenzi delle foreste. L'amore della natura lo fa inerpicare sulle ardue cime del monte Ventoso, come gli fa scegliere per suo rifugio la solitudine di Valchiusa, donde non si scorgono che il cielo, le montagne e il sonante fiume della Sorga, e dove egli è felice di viver solo aggirandosi per gli aridi monti e per le roride valli, piantando alberi, coltivando fiori, tessendo ghirlande.
Pur troppo anche l'amore alla solitudine campestre ebbe nel Petrarca molte intermittenze. Tutto fu intermittente in lui. Ma intanto l'aver provato quel sentimento, l'essersi a quando a quando tuffato nel puro lavacro della natura, fu cosa tutta propria di lui, e fu una delle sorgenti delle sue ispirazioni poetiche.
Diceva Voltaire che se il Petrarca non fosse stato innamorato, sarebbe molto meno famoso di quel che non sia, ed aveva ragione. Delle molte passioni onde il suo spirito fu agitato, una sola è quella che ha fatto al suo nome traversare i secoli vittoriosamente, una sola quella che anche oggi rende quel nome caro a tutti gli animi nei quali vibra la corda della gentilezza e dell'amore.
Chi fu la donna che il Petrarca amò? Neppure oggi possiamo dirlo con piena sicurezza. Dopo tante indagini, dopo tante dispute, dopo tanto inchiostro sciupato, siamo sempre a fare delle supposizioni. Ma fra queste la più fondata è senza dubbio quella, che la donna amata dal nostro Poeta fosse la moglie di un nobile avignonese, Ugo De Sade, ch'ebbe da lei undici figli.
Sulla natura dell'amore del Petrarca molto si è scritto; chi ha voluto che fosse la più angelica delle passioni, chi la più bassa; esagerazioni ambedue. Il Petrarca era sicuramente uomo, nella più larga significazione della parola. Giovane bello, elegante, in una città come Avignone, dove la purità dei costumi lasciava molto a desiderare, ch'egli si mantenesse incontaminato non potremmo supporlo nemmeno, se non avessimo, come abbiamo, le prove del contrario. E che un tale uomo nel bollore di una passione amorosa vivesse sempre in un'aerea serenità di desideri sarebbe stolto il supporlo. No. Il Petrarca amò intensamente ed umanamente. Ma la donna amata da lui, gli apparve come donna e come angelo insieme; il cupido sospiro dell'amante si confuse spesso colla preghiera del devoto, le braccia che anelavano ai dolci amplessi, chi sa quante volte si ripiegarono contrite sul petto! L'amore del Petrarca, quale ci apparisce nelle sue poesie, è un fatto che si compone di elementi diversi e che sono non di rado in contradizione fra loro. Ora sembra che vaghi incerto e nebuloso nelle generalità insipide dell'arte trovadorica, ora invece si addentra nella più concreta realtà della poesia popolare; si compiace nelle più fini e profonde analisi psicologiche, o, trasvola alle idealità più aeree; è una realtà e un simbolo, è cosa umana e cosa divina, è gioia e tormento, è insomma una lotta e una contradizione continua. In una lettera scritta solo otto anni dopo l'incontro con Laura, il Petrarca dice che sentiva vergogna e tristezza dell'amor suo, e chiama questo amore tristo e perverso. E quando Laura morì, ringrazia Dio di aver fatto sparire dalla terra l'oggetto di un amore mortifero, e attribuisce all'aiuto di Cristo, l'avere spento l'incendio che lo bruciava. Incendio vero, badate, incendio che dovè qualche volta esser terribile, e per il quale egli stesso, il Poeta, nel libro più sincero che abbia scritto, dice di esser tutto converso in gemiti, di pascersi con voluttà di sospiri e di lacrime, di passar le notti vegliando e chiamando il nome della donna amata, di avere in odio la vita, di esser divenuto simile all'omerico Bellerofonte, che va divorandosi il proprio cuore. Queste parole del Secretum, del libro, nel quale il Petrarca fece a sè di sè stesso la confessione della propria vita, basta a renderne certi della realtà del suo amore. E non sono queste le sole. Altrove egli si lamenta che Laura, a malgrado di mille cose che avrebbero piegato ogni altra donna, sia rimasta inespugnabile. E dice di tutti i tentativi che ha fatto per guarire dell'amore suo. Come guarire però? Fuggendo forse? Ma non sono io fuggito, egli esclama, non ho forse girato l'Occidente a il Settentrione, non mi sono spinto fino ai confini estremi dell'Oceano? come guarire? Amando forse un'altra donna? Questo pensiero par che vada come cupamente agitandosi nelle profondità del suo spirito, ma ad un tratto gli esce dal cuore questo grido che ci commuove: ah no, ah no, io non posso amare che lei, lei sola; l'anima mia oramai si è abituata ad amarla, i miei occhi a guardarla fissamente, a ricevere vita da lei. Non amarla e morire sarebbe lo stesso. E pure tenta ancora di reagire contro sè medesimo e va crudelmente ricordandosi quanto sia cosa vergognosa esser divenuto la favola del volgo, quanto quella donna fatale abbia nociuto al suo animo e alla sua fortuna, quante volte sia stato da lei deluso, disprezzato, negletto; e la chiama la donna dall'ingrato sopracciglio, che se qualche cosa ebbe d'umano, ciò fu più breve e più mobile che aura di vento in estate, e si rimprovera che ella lo abbia allontanato da Dio, che gli abbia tolto ogni bene della vita, che non siasi mai curata del suo nome.
E così il suo dolce fantasma si tramuta dentro il suo spirito in fantasma odiato e pauroso, e così ciò che era ieri l'essere che lo inebriava, oggi diventa quasi un oggetto di terrore per lui.
Avvertiamo bene però. Neppure questo sentimento di amore e di odio, di fede e di dubbio è costante nel Petrarca. Alla sua passione manca delle grandi passioni il carattere vero, l'esclusività, l'idea fissa e terribile. Il pensiero amoroso del Petrarca non è, come quello del Leopardi, il possente — Dominator di sua profonda mente. Il Petrarca si divora bensì il cuore, ma se lo divora non per Laura sola. Tutti i suoi ideali, tutti i suoi amori combattono in lui: egli corre dietro a tutti e sembra che non possa mai raggiungerne alcuno, e in quello appagarsi. Gli studi, i viaggi, gli amici, Roma, l'Italia, l'arte, la gloria, la religione, la natura sono altrettanti rivali di Laura, e riescono spesso a vincerla, il suo amore è reale, ma è intermittente, ed è, come fu tutta la sua vita, un combatter continuo tra desideri e paure, tra speranze e disinganni, tra i sogni della notte e le brame del giorno, tra quell'eterno sì e no che gli martellava in tutte le cose il cervello.
Di questo stato permanente dello spirito del Poeta si risente, e non poteva essere a meno, il suo canzoniere. Che anche qui, come nel Secretum, apparisca la verità della sua passione, chi potrebbe mai mettere in dubbio? Basterebbe a provarlo quel verso che contiene in sè tante cose, che è come, da solo, un intero poema d'amore, quel verso dov'egli chiama Laura: Colei che sola a me par donna; quel verso che il poeta stesso commenta dicendo come per quante cose egli guardi non ne veda mai che una sola:
. . . . . . . . . per ch'io miri
Mille cose diverse attento e fiso
Sol una donna veggio......
come l'abbia negli occhi, come l'oda dovunque:
Parmi d'udirla, udendo i rami e l'ore
E le fronde e gli augei lagnarsi e l'acque
Mormorando fuggir per l'erba verde.
Questo sentimento esclusivo, questa unicità d'immagine, questo pensiero affascinatore fu senza dubbio qualche volta proprio del Petrarca, ma solamente qualche volta, potrei forse dire qualche rara volta. Il più spesso erano ondeggiamenti, erano titubanze e incertezze. E la prima incertezza quella della natura dell'amor suo, come l'amava egli questa donna di cui andava cantando? L'amava come una donna o si contentava di adorarla come cosa celeste? Per quanto egli gridi che l'amor suo è puro, che lo guida a Dio, che gli mostra la via della salute eterna, noi possiamo esser certi che nel suo petto bollirono anche cupidi desideri e che invidiò Pigmalione perchè potè ottenere mille volte quello ch'egli si contenterebbe di avere una volta sola:
Pigmalion, quanto lodar ti dei
Dell'immagine tua, se mille volte
N'avesti quel ch'io sol una vorrei.
E fu questa, del resto, una fortuna per l'arte; poichè a questo amore reale per la donna, noi dobbiamo quello che c'è di più bello, di più schietto, di più profondo nella poesia Petrarchesca. A questo sentimento dobbiamo, come ha detto un moderno, se il Petrarca “cominciò a svolgere gentilmente l'umano dalle fasce teologiche nelle quali lo aveva stretto il medioevo, e lo sollevò e lo ricreò da quelli annegamenti divini a cui la mistica lo abbandonava„.
Ma l'amore reale per la donna si confondeva troppo spesso in lui ad altri sentimenti. Ora era il pensiero del cielo che lo assaliva, e allora chiamava perduti i giorni che aveva consacrati a Laura, chiamava dispietato il suo giogo:
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
Dopo le notti vaneggiando spese,
Con quel fero desìo che al cor s'accese
Mirando gli atti per mio mal si adorni,
Piacciati omai, col tuo lume, ch'io torni
Ad altra vita ed a più belle imprese;
Sì ch'avendo le reti indarno tese,
Il mio duro avversario se ne scorni.
Or volge, Signor mio, l'undecim anno
Ch'io fui sommesso al dispietato giogo
Che sopra i più soggetti è più feroce.
Miserere del mio non degno affanno,
Riduci i pensier vaghi a miglior luogo,
Rammenta lor com'oggi fosti in croce.
Altre volte si sente stanco e vorrebbe riposarsi e invoca Gesù e cerca consolazione nelle parole evangeliche:
O voi che travagliate, ecco il cammino,
Venite a me, se 'l passo altri non serra.
Altre volte, ancora, piange la libertà perduta e paragona l'amore per Laura agli scogli, al porto l'amore di Dio. Tetri pensieri gli invadono l'anima, anche quello del suicidio pur di potersi liberare dalla pena amorosa che l'ange.
S'io credessi per morte essere scarco
Del pensiero amoroso che m'atterra,
Con le mie mani avrei già posto in terra
Queste membra noiose e quello incarco.
Vorrebbe tornare indietro dal viaggio periglioso, l'assalto di quei begli occhi lo spaventa, grida che non vuol più amare. Ma poi risospira alle dolci catene:
Oimè! il giogo e le catene e i ceppi
Eran più dolci che l'andare sciolto;
ed è sicuro che non potrà mai guarire dell'amor suo, e divinizza i luoghi dove ha visto Laura, e lei vede dappertutto, la segue, ne disegna il bel viso sui sassi, dice che la sua vita è una guerra,
E sol di lei pensando ho qualche pace.
Il Petrarca era nel 1337 a Roma, e là scriveva questo sonetto:
L'aspetto sacro della terra vostra
Mi fa del mal passato tragger guai,
Gridando: sta su, misero! che fai?
E la via di salire al ciel mi mostra.
Ma con questo pensiero un altro giostra,
E dice a me: perchè fuggendo vai?
Se ti rimembra, il tempo passa omai
Di tornare a veder la Donna nostra.
Io, ch'el suo ragionar intendo allora,
M'agghiaccio dentro in guisa d'uom ch'ascolta
Novella che di subito l'accora.
Poi torna il primo, e questo dà la volta:
Qual vincerà non so; ma infino ad ora
Combattut'hanno, e non pur una volta.
Eccovi in questi versi mirabilmente ritratto lo stato dell'animo suo. Perchè fuggendo vai? Se anche fugge, appena si è allontanato da lei, a ciascun passo si rivolge indietro “ripensando al dolce ben ch'io lasso„ e cerca in altre la sua immagine, non vive che della speranza di rivederla, ogni luogo lo attrista, corre da Avignone a Valchiusa, ritorna da Valchiusa a Avignone, parte per l'Italia, per la Germania, per l'Inghilterra; ma sia egli nella foresta dell'Ardenna o navighi sul Rodano e sul Po, dappertutto sogna la “bella bocca angelica„ e anela al ritorno. Poi, quando è tornato, ricominciano per lui nuovi tormenti: ora è geloso di chi gli tiene nascosto il bel viso della sua donna, ora trema per Laura malata, ora gli pare ch'ella abbia il viso turbato, che chini gli occhi, che pieghi la testa, ora si duole ch'ella tenga il velo calato sugli occhi, e di tutto si lamenta e di tutto scrive.
Le lodi di Laura sono infinite nel Canzoniere; ma accanto alle lodi sono infiniti anche i biasimi, i rimproveri, direi quasi gli oltraggi. S'ella pare al Poeta “ sovr'ogni altra gentile — Santa, saggia, leggiadra, onesta e bella „ gli pare ancora più fredda che neve, alpestra e cruda, spietata e superba, gli pare un'accorta allettatrice che non apre e non serra, non lega e non scioglie:
Tal m'ha in prigion, che non apre nè serra,
Nè per suo mi ritien nè scioglie il laccio,
che sa a tempo adoperare le soavi parolette accorte, che cerca tenerlo sempre in sospeso. Ma come quelle lodi trascendono il vero, così anche i rimproveri sono certo esagerati. Ossia, Laura è sempre quale se la finge il Poeta, nei vari momenti e nelle varie condizioni dell'animo suo. Questo vedere le cose esteriori secondo le disposizioni del proprio spirito, se è in parte comune a tutti gli uomini, è nel Petrarca abituale, continuo e necessario. Egli non afferra mai la realtà obbiettiva, ma tutto, traversando il suo spirito, ne prende il colore. Ond'è che il Canzoniere, mentre prova da un lato la verità del suo amore, è dall'altro documento novello di quella agitazione e fluttuazione continua che è il carattere fondamentale di lui. Laura fu sicuramente una donna che il Petrarca amò; ma questo amore non ha una storia, rimane sempre allo stesso punto, è più cosa interiore che esteriore. Tanto è ciò vero che l'amore più appassionato nasce quando Laura è morta. Allora ella comincia a sospirare di lui, ha per lui i dolci sguardi e le parole soavi, ha pietà delle sue lacrime, diventa gelosa e pia; ella
. . . . . . al letto in ch'io languisco,
Vien tal, ch'appena a rimirar l'ardisco,
E pietosa s'asside in su la sponda.
Con quella man che tanto disiai
M'asciuga gli occhi, e col suo dir m'apporta
Dolcezza ch'uom mortal non sentì mai.
Fra il Petrarca e Laura, finch'ella visse, si frapponevano troppi altri sentimenti del Poeta, perchè egli potesse in quell'unico amore trovare riposo. In Laura viva il mistico travedeva il peccato e la dannazione; il restauratore de' classici studi, una distrazione perniciosa alla sua gloria; il patriotta, un ostacolo al suo ritorno stabile in Italia. Ma tutto questo cessa colla morte di lei, ed egli stesso lo confessa dicendo che non vorrebbe rivederla viva, perchè tornerebbe ad esser per lui un tormento:
Non vorrei rivederla in questo inferno.
Ogni dissidio ora vien meno, e tutto si muta in pace ed armonia. Quelle che prima gli parevano crudeltà, ora son diventate arti leggiadre. Egli la ringrazia ora di quello che un tempo fu il suo tormento:
Oh quant'era peggior farmi contento!
dice adesso; adesso che alle sue tentazioni ha posto fine la morte. Ormai egli può dire con sincerità:
Benedetta colei ch'a miglior vita
Volse il mio corso, e l'empia voglia ardente,
Lusingando affrenò...........
Oramai l'angiolo adorato a mani giunte, e la donna cupidamente desiderata, si confondono in un essere solo; in un essere che è la sorella, l'amica, la confidente de' suoi dolori. Insomma, mentre la prima parte del Canzoniere è piena di contradizioni, e in essa si sente l'uomo combattente tra la carne e lo spirito, tra Laura e Dio; la seconda è un mare tornato in calma, dove la donna fatta immortale chiama a sè il Poeta, il quale non aspira più che al cielo, dove si figura che Laura lo aspetti:
Ond'io voglie e pensier tutti al ciel ergo
Perch'io l'odo pregar pur ch'i' m'affretti.
Ed ora che abbiamo, sebben troppo rapidamente, studiato il Petrarca nelle multiformi manifestazioni del suo ingegno, resta che ci facciamo un'ultima domanda: qual'è il valore estetico del suo Canzoniere, di quest'opera per la quale egli è immortale, e che fa di lui il primo lirico della nostra antica letteratura?
Bisogna, come dicevano i vecchi scolastici, bisogna distinguere. Certo non tutto è perfetto: qualche cosa in lui rimane delle scuole antecedenti, qualche cosa ha aggiunto di suo che non è bello. Certe metafore, certi giuochi di parole, certi artifizi ci dispiacciono. Egli ha scritto anche quando gli mancava l'ispirazione, anche quando l'argomento non gli era che un pretesto poetico. Resta in lui qualche traccia della poesia trovadorica, ed in lui si annunzia quello che sarà più tardi petrarchismo e seicentismo. Quando per esempio egli esorta i suoi sospiri a passare il monte, suppone che si sieno smarriti, non sa se sieno arrivati a Laura, ma conchiude che devono esser giunti perchè non li vede tornare[5]; quando giuocherella sul nome di Loreta; quando trova modo di parlar del suo amore a proposito di alcune pernici e di alcuni tartufi, che mandava in dono a un amico, allora, oh allora, in verità, noi siamo tentati di rimpiangere che il Petrarca abbia scritto troppi versi. Ma sono minuzie in mezzo ad un tesoro di bellezze divine. Il Petrarca ha il culto della forma, e qualcheduno ben disse di lui, ch'egli è il precursore di Raffaello. I suoi quadri sono smaglianti di bellezza e di finezza: ricordatevi di quei versi dove dipinge Laura giovane e fiorente:
Erano i capei d'oro all'aura sparsi
Che in mille dolci nodi gli avvolgea,
E 'l vago lume oltra misura ardea
Di que' begli occhi, ch'or ne son sì scarsi....
E ricordatevi di quegli altri dov'è ritratta Laura morta:
Pallida no, ma più che neve bianca,
Che senza vento in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne' suoi begli occhi,
Sendo lo spirto già da lei diviso,
Era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.
Meravigliosa è la plasticità di questi versi; come splendida, solenne, palpitante di affetto è quella visione di Laura nel cielo:
Levommi il mio pensier in parte ov'era
Quella ch'io cerco e non ritrovo in terra;
Ivi, tra lor che il terzio cerchio serra,
La rividi più bella e meno altera.
Per man mi prese e disse: in questa spera
Sara' ancor meco, se 'l desir non erra;
I' son colei, che ti diè tanta guerra,
E compiei mia giornata innanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto umano:
Te solo aspetto e quel che tanto amasti
E laggiuso è rimasto, il mio bel velo.
Deh perchè tacque ed allargò la mano?
Ch'al suon di detti sì pietosi e casti
Poco mancò ch'io non rimasi in cielo.
Dovrò io richiamare alla vostra memoria la canzone:
Chiare, fresche e dolci acque?
Per qual miracolo, dice a ragione il De Sanctis, la parola, mentre esprime dolore, ti rivela tanta grazia; mentre esprime contento, ti rivela tanta malinconia? È una fusione di tinte, che ti dà la vita nella sua pienezza, nel suo misto di luce e d'ombra.
L'originalità del Petrarca, ha scritto il Quinet, consiste nell'aver sentito per il primo che ogni momento della nostra esistenza può contenere un poema, che non v'è un'ora della vita che non possa racchiudere un'immortalità. E codesta ora, codesto momento il Petrarca li ha cantati colla parola più dolce che fosse mai sgorgata da labbro umano; egli ha convertito in arte ogni lacrima, ogni gioia, ogni desiderio, ogni anelito del suo cuore ammalato, ed ha con ciò aperta la via alla grande lirica di tutti i popoli d'Europa.
IL BOCCACCIO
DI ADOLFO BARTOLI
Il sabato santo del 1334 una giovane e bella donna, d'alto lignaggio, pregava nella chiesa di San Lorenzo a Napoli; e vicino, tutto rapito nella contemplazione di lei, stava un uomo, dal volto gentile ed arguto, i cui occhi scintillanti pareva volessero a forza attrarre a sè quelli della genuflessa. Ed essa infatti o quel giorno stesso o i successivi vide quegli occhi che chiedevano amore, li vide e sentì penetrarsene nel cuore una fiamma, che per lungo tempo non doveva più spengersi.
Era dessa la figlia del conte d'Aquino e di Sibilla di Sabran, una bellissima provenzale, su cui sembra si fosse posato lo sguardo del re Roberto, che ne fece la sua favorita e ne ebbe Maria; e lui, il quadrilustre giovane, Giovanni Boccacci, il figliuolo d'un mercante di Certaldo, mandato a Napoli dal padre, perchè attendesse alla pratica della mercatura, ma che invece fino da quegli anni sognava di amore e di poesia, visitava con entusiasmo la tomba di Virgilio, s'estasiava agli incanti della natura, si sentiva rapire verso ignote speranze, verso luminosi ideali.
Il Boccaccio e l'avvenente Maria si amarono di un irresistibile amore, e l'umile figliuolo del mercante certaldese trovò nel cuore di questa figlia di re tutte le gioie d'un amore corrisposto. Non in lei le ritrosie di Laura, gli accorgimenti astuti, le sottili malizie, i superbi dinieghi, ma un abbandono intero di sè al giovinetto dell'amor suo, scelto tra i mille vagheggiatori che a lei certo si affollavano intorno. Si videro, si parlarono, s'intesero, e sia, forse, nelle più celate stanze del palazzo maritale, sia nelle chiese, e per le vie, e alle feste cittadinesche, i due amanti felici ebber convegni che più sempre li strinsero l'uno all'altro.
Felice, intessuta tutta di fantasiosi sogni, di gioie e d'amore, dovè essere le vita del Boccaccio ne' primi anni del suo soggiorno a Napoli, e Napoli colle rive incantevoli del suo golfo, colla sua aria tepida e voluttuosa, collo splendore del suo cielo, colla sua lussureggiante natura dovè potentemente influire su di lui, sullo svolgersi delle sue facoltà poetiche, sull'avviarlo per quelle nuove vie ch'egli scelse all'arte sua. Furono quelli i bei tempi nei quali vagava per il mare seguendo la donna sua:
Sulla poppa sedea d'una barchetta
Che il mar segando presto era tirata
La donna mia con altre accompagnata,
Cantando or una or altra canzonetta.
I bei tempi, ritratti in questi versi che dipingono una scena tutta napoletana, che colgono in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze[6]:
Intorno ad una fonte in un pratello
Di verdi fronde pieno e di bei fiori
Sedeano tre angiolette, i loro amori
Forse narrando; ed a ciascuna il bello
Viso adombrava un verde ramoscello
Che i capei d'or cingea, al qual di fuori
E dentro insieme, due vaghi colori
Avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse,
Com'io udii: Deh! se per avventura
Di ciascuna l'amante qui venisse
Fuggiremo noi quinci per paura?
A cui l'altre risposer: chi fuggisse,
Poco savia sarìa con tal ventura.
Alla donna sua messer Giovanni diede il poetico nome di Fiammetta, e per lei scrisse molti libri; primo il Filocolo, una specie di romanzo, tratto in parte da un vecchio libro francese, noioso veramente nel suo stile involuto e nella sua pesante erudizione; ma a quando a quando appassionato e rivelatore dell'affetto che già il Boccaccio sentiva vivissimo per gli studi classici. Curiosa è veramente quella parte del libro dov'è introdotta Fiammetta, quando egli finge che Filocolo andando in cerca dell'amante sia da una tempesta obbligato a fermarsi a Napoli; e quivi un giorno s'imbatta in una brigata che sta sollazzandosi e a capo della quale è appunto Fiammetta. Entra così in scena la società napoletana del tempo e noi assistiamo in qualche modo al riprodursi delle costumanze provenzali, quando sentiamo ripetersi alcune di quelle questioni che furono già argomento alle tenzoni degli Occitanici: come queste, ad esempio: quale è più infelice fra due donne, quella che ebbe un amante e lo perdè, o quella che non può sperarne di averne mai uno? Quale di tre amanti merita la preferenza, il più cortese, il più forte, o il più saggio? Quale è più verace amore il timido o l'ardito? È preferibile amare una fanciulla, una maritata o una vedova?
Un altro libro scritto per Fiammetta fu il Filostrato, poema in ottava rima, anch'esso derivante in parte da fonte francese, e che narra gli amori di Troilo e Griselda. Il suo merito letterario è smisuratamente superiore a quello del Filocolo; e ciò che in esso specialmente ci interessa è che il Troilo e la Griselda della vecchia storia troiana spariscono dagli occhi nostri, e non restano davanti a noi che un uomo e una donna dell'eterno dramma dell'amore. Codesto amore è preso proprio alle origini, è scrutato, analizzato, svolto nei suoi casi molteplici, nella felicità e nel dolore, nell'ebbrezza e nella disperazione. Bellissimo un soliloquio di Griselda, quando ella già cerca pretesti al fallo che sente nel cuor suo ormai fatale: e combattuta, vuole e disvuole, desidera e teme, sogna i nuovi gaudi, trema già dell'abbandono. Mirabilmente dipinta la gioia di Troilo, vittorioso nell'amor suo; arditamente scolpite le intime gioie degli amanti, e nunzie dello splendore delle tinte che il futuro pittore del Decamerone prepara sulla sua tavolozza. Quel domandarsi scambievole: ma è dunque vero ch'io sono con te? E quel raccontarsi le pene sofferte, quell'anelare al ritorno prima della separazione; quel non saziarsi mai della propria beatitudine, tutto questo è vero, è profondo, è sentito dal poeta, che è il vero Troilo narrante l'amor suo per Fiammetta, alla quale il Boccaccio nella invocazione si volge dicendo:
Tu, donna, sei la luce chiara e bella
Per cui nel mondo tenebroso accorto
Vivo: tu sei la tramontana stella
La qual io seguo per venire al porto;
Ancora di salute tu se' quella
Che se' tutto il mio bene e il mio conforto
. . . . . . . . . . . . . . . .
Nel Filostrato, il Boccaccio aveva trovata una materia adatta alla sua indole, e subitamente raggiunse una perfezione che appena doveva superare nel Decamerone. Codesta storia d'intrighi amorosi, di seduzione, di gelosia, era una vera novella, malgrado i nomi classici e si confaceva mirabilmente alle attitudini più spiccate del suo ingegno, che lo portava a rappresentare la realtà con finezza di osservazione, accompagnandola col suo riso beffardo[7].
Anche il lungo poema della Teseide fu scritto per Fiammetta e contiene molte allusioni al suo amore. Ma la sua prolissità, la mescolanza di elementi eterogenei, la studiata imitazione degli antichi ed altri difetti ne rendono faticosa la lettura. Ad ogni modo egli fu con quest'opera l'annunziatore del poema romanzesco del secolo XVI, e fu, se non l'inventore, certo il perfezionatore dell'ottava, che doveva poi servire alle immortali creazioni dell'Ariosto e del Tasso.
Un idillio, che nella sua maliziosa ingenuità può quasi (come alcuno ha detto) ricordare il Don Giovanni di Byron, è il Ninfale Fiesolano, in ottava rima anch'esso e anch'esso scritto durante gli amori del Boccaccio con Maria. Il pastore Africo s'innamora di Mensola, una delle ninfe di Diana, ne è riamato e la povera ninfa perde il fiore del suo pulzellaggio; ma poi, pentita, abbandona l'amante, che disperato si uccide. Essi sono trasformati nei due fiumicelli che scorrono presso la collina di Fiesole, e che mescolano insieme le loro acque.
Un caldo sentimento della natura, un profumo incantevole di gentilezza e un acre fremito di sensualità fanno del Ninfale un'opera d'arte già per sè stessa perfetta. Qui, come dice il Carducci[8], l'idillio d'amore persuaso dalla stessa natura s'intreccia coll'epopea delle origini, e la sensualità in mezzo a' campi e torrenti è selvatica e pura come nel Dafni e Cloe, e la verità di tutti i giorni, un'avventura d'amore forse dell'altro ieri, è carezzata dal canto delle ninfe mitologiche su le cime di Fiesole soavemente illuminate dagli splendori di maggio e della leggenda, nelle fiorenti convalli che saranno poi scena al Decamerone; e viene in fine Atalante il mitico incivilitore, e, a vendetta de' due amanti sacrificati ai voti crudeli di Diana, disperde le ninfe e le costringe ai matrimoni, e fonda la città e la civiltà. Non sembra la parabola del Rinascimento sulle rovine degli istituti ascetici?
Arrivò un giorno nel quale l'amore di Maria parve intiepidirsi. Era andata da Napoli a Baia, e forse la lontananza, o la stanchezza, o altro a noi sconosciuto motivo la resero diversa da quello che era prima. O forse la gelosia faceva credere a messer Giovanni quello che non era. Certo è che di quel tempo abbiamo alcune sue rime nelle quali sentiamo gemere dolorosamente l'anima sua:
C'è chi s'aspetta con piacere i fiori,
E di veder le piante rinverdire,
E per le selve gli uccelletti udire
Cantando forse i lor più caldi amori.
Io non son quel: ma come sento fuori
Zefiro, e veggio il bel tempo venire,
Così m'attristo e parmi allor sentire
Nel petto un duol, il qual par che m'accuori.
Ed è di questo Baia la cagione,
La quale invita sì col suo diletto
Colei che là sen porta la mia pace,
Che non mel fa alcun'altra stagione;
E che io vada là mi è interdetto
Da lei, che può di me quel che le piace.
Allora non sono più gemiti ma sdegni feroci, e propositi di fuga:
Dice con meco l'anima talvolta:
Come potevi tu giammai sperare
Che dove Bacco può quel che vuol fare
E Cerere v'abbonda in copia molta;
E dove fu Partenope sepolta,
Ov'ancor le Sirene usan cantare,
Amor, fede, onestà potesse stare,
O fosse alcuna sanità raccolta?
E se 'l vedevi, come t'occupare
I fals'occhi di quella che non t'ama
E la qual tu con tanta fede segui?
Destati omai e fuggi il lito avaro,
Fuggi colei che la tua morte brama
Che fai? che pensi? che non ti dilegui?
E arriva finalmente il grido dell'imprecazione:
Perir possa il tuo nome, Baia, e il loco,
Boschi selvaggi le tue piagge sieno!
E le tue fonti diventin veleno,
Nè vi si bagni alcun molto nè poco!
In pianto si converta ogni tuo gioco,
E sospetto diventi il tuo bel seno
Ai naviganti, e il nuvolo e il sereno,
In te riversin fumo, zolfo e fuoco!
Che hai corrotta la più casta mente
Che fosse in donna, con la tua licenza
. . . . . . . . . . . . . . .
Nè dell'imprecazione a Baia è contento; ma va più in là, e con parole quasi selvagge urla che sarà felice quando vedrà distrutte le bellezze della donna amata, quando la vedrà vecchia, macilente e vizza:
S'egli avvien mai che tanto gli anni miei
Lunghi si faccian, che le chiome d'oro
Vegga d'argento, onde io m'innamoro,
E crespo farsi il viso di costei,
E crespi gli occhi bei, che tanto rei
Son per me, lasso! ed il caro tesoro
Del sen ritrarsi, e il suo canto sonoro
Divenir roco sì, com'io vorrei.
Ogni mio spirto, ogni dolore e pianto
Si farà riso, e pur sarò sì pronto,
Ch'io dirò: Donna, Amor non t'ha più cara
. . . . . . . . . . . . . . . .
Non dirò, o Signori, che questi sian versi bellissimi; ma son versi che ci dicono quanto fosse vera, profonda, ardente la passione del Boccaccio. Paragonati a quelli del Petrarca, essi rimangono certo molto inferiori per l'eleganza; ma ci rivelano un amore pieno, quasi troppo pieno, di tutte le realtà più sensibili e più terrene. Il futuro novelliere mostra già qui le sue tendenze a ciò che è schiettamente umano, a ciò che si stacca da tutti i misticismi, da tutti i trascendentalismi dei tempi anteriori. Ci riaccostiamo alla natura e alla verità; ed è questo un gran fatto nella storia dell'umano pensiero.
Se Baia tolse per un momento al Boccaccio l'amor di Maria, questo dovè, pare, più tardi, riaccendersi. Era stato Giovanni richiamato imperiosamente dal padre a Firenze. Un giorno che Maria era andata a visitare forse le monache del convento di Bajano dove era stata educata, entrò là dentro un mercante fiorentino, che narrò aver visto pochi giorni prima che partisse entrare nella casa de' Boccacci una bellissima giovane, la quale gli avevano detto esser la sposa di Giovanni. La notizia non era vera. Una giovane sposa era entrata bensì nella casa de' Boccacci, ma sposa del padre; del “vecchio freddo, ruvido e avaro„, rimaritatosi con Bice de' Bostichi.
L'annunzio del mercante però trafisse il cuore a Maria. Lasciate che parli per un momento ella stessa, che ella stessa vi dica le angosce e i furori suoi: “Venuti i nostri ragionamenti, ciascuna si dipartì, ed io con animo pieno di angosciosa ira.... ora nel viso accesa ed ora pallida divenendo, quando con lento passo, e quando con più veloce che la donnesca onestà non richiede, tornai alla mia casa. E poi che lecito mi fu di poter fare di me a mio senno, entrata nella mia camera amaramente cominciai a piangere, e quando per lungo spazio le molte lacrime parte della gran doglia ebbero sfogata, essendomi alquanto più libero il parlare, con voce assai debole cominciai: ora, o misera Fiammetta, sai perchè il Panfilo non ritorna, ora sai quello che tu andavi cercando di trovare: che, misera, chiedi di più? che più addimandi? Panfilo non è più tuo. Gitta via omai i tuoi desideri di riaverlo, abbandona la mal ritenuta speranza, pon giù il fervente amore, lascia i pensieri matti: credi oramai agli auguri e alla tua divinante anima, e comincia a conoscere gli inganni de' giovani. Tu se' a quel punto venuta là dove l'altre sogliono venir che troppo si fidano. E con queste parole mi raccolsi nell'ira e rinforzai il pianto, e da capo con parole troppo più fiere ricominciai così a parlare: o Iddii ove siete? ove ora mirano gli occhi vostri, ov'è la vostra ira? perchè sopra lo schernitore della vostra potenza non cade?... O Iddii rivolgete in lui alcuno di quelli pericoli, o tutti, de' quali io già dubitai: uccidetelo di qualunque generazione di morte più vi piace, acciò che io ad un'ora tutta e l'ultima doglia senta che mai debbo sentire per lui, e me vendichiate ad un'ora.„
Queste parole si leggono in un libro scritto dal Boccaccio; una specie di romanzo d'amore, intitolato Fiammetta, dove i pericoli del primo incontro, la felicità dell'amor diviso, la irrefrenabile forza della passione, il combattimento contro tutti gli ostacoli, i lamenti per la separazione, il desiderio della persona lontana, il destarsi della gelosia, la disperazione dopo la certezza della perdita, tutto è rappresentato con profonda verità, con larga espansione, con tenerezza sincera.
Se non che anche nella Fiammetta certi difetti non mancano. Come già nel Filocolo, come nel Filostrato, nella Teseide e nell' Ameto e in tutte le opere giovanili del Boccaccio apparisce evidente la tendenza del suo spirito verso l'antichità classica. I lunghi e latineggianti periodi del Filocolo, le reminiscenze degli scrittori antichi, la predilezione per la mitologia, ce lo dicono chiaro; e anche la Fiammetta ci apparisce troppo erudita, troppo imbevuta di letture classiche, troppo smaniosa di citazioni, troppo diversa da quello che doveva essere una donna del tempo suo.
E questo è sicuramente un difetto. Ma un difetto che trova la sua ragione, e la sua scusa in uno dei caratteri più eminenti dell'ingegno del Boccaccio.
Il quale, mentre amava Maria, mentre scriveva i suoi romanzi amorosi, mentre si dava bel tempo nei lieti ritrovi di Napoli, aveva anche il pensiero ai suoi diletti studi umanistici, e si apparecchiava ad essere dell'umanismo uno dei più operosi fondatori. Il modo appunto col quale il Boccaccio cerca di giustificare e trasfigurare l'impetuosa passione di Fiammetta con modelli e confronti delle antiche leggende d'iddii e d'eroi, mostra che per le più intime disposizioni dell'animo suo, per il suo impulso, forse sfrenato ma profondamente ragionato verso lo svolgimento della piena e intera natura umana, egli non trovava riscontro e risposta se non nella libera e agitata umanità dell'antico mondo greco. E così quando egli nella seconda metà della sua vita si venne con sempre maggior fervore rivolgendo agli studi classici, potè fare il suo ingresso nel mondo antico come persona ad esso legata da intima affinità, e potè condurre quegli studi ad uno svolgimento e a una perfezione che hanno avuto un effetto decisivo per la cultura moderna[9].
Il Boccaccio fu il primo che si applicasse con profitto allo studio del greco, fu il primo che possedesse un manoscritto completo di Omero, che egli leggeva col calabrese Leonzio Pilato, a cui diede ospitalità nella sua povera casa, e per il quale ottenne che fosse nello studio fiorentino istituito un pubblico insegnamento di lingua greca. Potè così scrivere il suo trattato della Genealogia degli Dei, vasta compilazione nella quale è raccolta la sua erudizione mitologica e che per quei tempi è cosa prodigiosa.
Certo su questo indirizzo dell'operosità del Boccaccio dovè esercitare non piccola influenza il Petrarca. I due grandi uomini s'incontrarono la prima volta nel 1350, quando il Petrarca passò per Firenze, diretto a Roma. E nell'anno seguente, al Petrarca portò il Boccaccio a Padova la lettera del Priore delle Arti, del Popolo e del Comune di Firenze, colla quale gli si rendevano i beni già confiscati al padre suo e s'invitava a ritornare alla patria. — “Vieni, gli scrivevano, vieni, o aspettato. Abbastanza vagasti intorno; città e costumi di straniere nazioni ti furon conti abbastanza. Te ogni privato, te nobili e plebei, te i domestici lari, te i ricuperati poderi invocano e chiamano.„ — Forse questa lettera così abbondante d'affetti fu scritta dal Boccaccio stesso, e noi possiamo figurarci con che gioia egli si movesse per portarla al suo grande amico, in quali dolci colloqui si trattenesse con lui. Essi trascorsero insieme alcuni giorni deliziosi; mentre il Petrarca era allora tutto intento agli studi teologici, il Boccaccio si trascriveva avidamente una parte o l'altra delle opere di lui; verso sera scendevano nel giardinetto ridente nel lusso della vegetazione primaverile, e si ricreavano in isvariati colloqui[10]. Per il Boccaccio, il Petrarca era una specie di divinità; egli lo chiama sempre maestro suo, e lo proclama santissimo esempio di onestà, famosissimo poeta, arca di verità, splendore di virtù, gloria della facoltà poetica; egli, modesto e buono, spera di aver fama dopo la morte sol perchè fu in corrispondenza col Petrarca “Questo mi fa sicuro, egli dice, che così almeno il mio nome alla più tarda posterità giungerà venerabile, chè non potranno gli assennati creder dappoco e neghittoso un uomo cui tu frequenti e lunghe lettere scrivesti.„ E quelle lettere ordina amorosamente in volume, e si affatica a trascriver per lui opere antiche, e lo circonda di un amore, di un rispetto, di una venerazione, che ci svelano (se pur ce ne fosse bisogno) tutta la bontà di quell'anima. Si fa piccolo davanti a lui, gli scrive che ha bruciate le proprie poesie dopo aver letto le sue. Gli parla de' cari suoi, della figlia, della piccola nipote, del genero, con un affetto candido e vivo, e dal quale apparisce quanto fosse sensibile il suo cuore, quanto squisitamente nei suoi affetti gentile. Non vi dispiaccia sentir questa pagina; colui che scrive è quel Boccaccio che tante volte fu chiamato maestro di lascivie e corruttore del costume. Viveva a Venezia col marito e con una piccola bambina, Francesca figliuola del Petrarca; lei visitò il Boccaccio, e così all'amico ne scrive: “Riposatomi alquanto mi recai alla casa di lei per salutarla, la quale saputo appena ch'io v'era, non altrimenti che fatto avrebbe per il tuo ritorno, lietissima in volto mi corse incontro, e tinta alcun poco di rossore, poichè mi fu accanto, chinati a terra gli occhi in atto di modestia e di filiale affezione, mi fe' un gentile saluto e a braccia aperte mi ricevette. Dio buono! M'accorsi tosto che ella adempieva un tuo ordine, vedi la fiducia che in me voi tutti ponete, e di essere veramente tutto cosa tua io meco stesso mi rallegrai. E poichè d'alquante cose e delle recenti novelle si fu parlato alcun poco, scendemmo nel tuo orticello, ed ivi con più aperte e più tranquille parole, la casa, i libri, e tutto quanto è tuo e quanto è suo con matronale gravità, perchè il prendessi, m'offerse. Ed ecco, mentre noi parlavamo, a passo più posato che a quella età non si convenga, a noi venire la tua delizia, Eletta tua, che prima di parlarmi mi guardò sorridendo; ed io non lieto soltanto, ma avidamente, tra le braccia la strinsi. Al primo aspetto parvemi rivedere la mia bambina. Eguale a quello della mia figliuoletta è il viso della tua piccola Eletta; eguale il sorriso, eguale la vivezza dell'occhio, il gestire, l'andare, sebbene più grandicella e d'età un poco maggiore fosse la mia, che già toccava cinque anni e mezzo quando la vidi per l'ultima volta.... Ahimè infelice! quanto soventi volte abbracciandola teneramente e prendendomi diletto di favellare con lei, la memoria della mia bambina perduta mi fece prorompere in pianto.„
Se grande però era la venerazione del Boccaccio per il Petrarca, egli sapeva anche a tempo parlargli con quella franchezza ch'era propria di lui. Giunse un giorno all'orecchio del Boccaccio che il Petrarca aveva accettato l'ospitalità dei Visconti, e all'uomo povero e onesto parve ciò imperdonabil delitto, tanto più che egli si ricordava come già nel loro soggiorno a Padova avesse udito l'amico gridare contro le tirannide dei signori di Milano. E presa tosto la penna gli scrisse, ricordandogli prima com'egli a Padova parlasse dello stato infelice dell'Italia, e della tirannia dell'arcivescovo Giovanni Visconti; “ti dirò il vero, io sono rimasto di sasso, ed ho detto, è impossibile. Ma poi da una tua lettera stessa sentii la notizia accertata. Oh Dio! chi mai avrebbe potuto aspettarsi tanta mobilità di carattere? Chi avrebbe creduto che per avidità tu potessi così rinnegare la tua fede? Hai forse fatto ciò per vendicarti dei tuoi concittadini? Ma quale uomo di onore, se anche avesse ricevuto qualche torto dalla sua patria, si unirebbe coi nemici di lei? Oh quanto hai tu mortificato con questo atto i tuoi ammiratori ed amici, che non si stancavano mai di lodarti e di proporti ad esempio a ogni virtù?„
Queste parole franche e fiere, questo rivolgersi con tanto coraggio all'uomo ch'ei chiamava maestro, che circondava di tanto rispetto, ch'era per lui quasi un idolo, ci mostra quanto nobile fosse il carattere del Boccaccio, e come egli sentisse altamente gli obblighi dell'amicizia. Non egli certo, che era pure angustiato dalla povertà e che così infelice si trovava sotto il duro tetto paterno, non egli avrebbe sacrificata la propria dignità e il proprio onore, sino a divenire l'ospite dei più feroci tiranni d'Italia. Vero è che il Petrarca con uno di quei gridi d'orgoglio che gli uscivano di tratto in tratto dalle labbra si giustificava dicendo: non sono già io che vivo presso i principi, sono essi che vivono presso di me. Ma queste non erano che frasi. Il Boccaccio nella sua integrità sentiva che l'amico suo era colpevole, colpevole d'ambizione e di cupidigia, e a viso aperto dicevagli quel ch'era il vero, affrontando così lo sdegno dell'uomo che pur gli era supremamente caro.
Nè questo è tutto: a certi superbi disdegni del Petrarca sapeva il Boccaccio opporsi senza tergiversazioni e senza timori. Egli aveva un vero culto per Dante, e doveva sapere che l'amico suo poco l'amava e forse in cuor suo disprezzavalo. Onde un giorno gli mandò un esemplare della Divina Commedia, accompagnandolo con un carme latino, nel quale traspare tutto il suo entusiasmo per l'Alighieri, e nel quale, ancora, non manca un po' di maliziosa ironia per il disdegno Petrarchesco. Accogli, dice, accogli quest'opera gradita ai dotti, mirabile al volgo.... nè ti sia duro mirar versi che tengono la loro armonia sol dalla patria favella: sono d'un poeta esule, che, gran peccato della fortuna, non ebbe corone.... Accogli, ti prego, questo tuo concittadino e dotto insieme e poeta; accoglilo, leggilo, uniscilo a' tuoi, onoralo, lodalo....
Questa schiettezza, dice il Gaspary, colla quale il Boccaccio riconosce la grandezza degli altri, ce lo rende specialmente simpatico. E l'amor suo a Dante dimostra com'egli meglio del Petrarca intendesse per quale via oramai, dopo il grande poema dantesco, dovesse porsi la letteratura italiana.
E a porla su quella via contribuì egli potentemente. Il Petrarca spregiava il volgare, non si riprometteva fama che dalle opere latine, si vergognava, da vecchio, di avere scritto il Canzoniere. Che sarebbe accaduto della nascente letteratura, se questo concetto avesse prevalso? Ma il Boccaccio seppe tenere in pregio la lingua italiana, ed egli, così fervido amatore de' greci e de' latini, scrisse in volgare la maggior parte delle opere sue, apparecchiandosi così a quella tra esse, che fa di lui uno de' patriarchi della nostra letteratura.
Il Decamerone è, come ben sapete, una raccolta di cento novelle.
La novella era un genere letterario che piacque grandemente al medioevo: che gli piacque per quell'ardente desiderio dei racconti che era comune a tutti nell'età infantile dei popoli europei; che gli piacque ancora, perchè potè usarne largamente per i suoi istinti e pei suoi scopi di misticismo. Tutta una ricca serie di opere ci mostra questo speciale carattere della novella dell'età di mezzo: il carattere cioè di servire ad una data applicazione morale, o più spesso ad un precetto ascetico: ed è notabile il fatto, che, per servire a ciò, essa non rifugge dalla narrazione delle cose più stravaganti e si tuffa anzi ben spesso in tutto quello che può esserci di più ributtante e di più sconcio, di più sciocco e di più immorale. In quei libri è una mescolanza continua di turpe e di ridicolo. Ma cosiffatto è il misticismo dell'età di mezzo: un idiotismo delle menti, rimpiccolite e annebbiate dall'oltremondano, che non sanno uscir mai da quel ristretto giro d'idee, dove inesorabilmente le confina il falso concetto che si son fatto della vita e del mondo; dove le costringe quel deperimento morale della coscienza, quella mancanza del sentimento umano, tutto insomma quell'insieme di condizioni patologiche onde si compone il medioevo. La reazione contro un tale sonnambulismo dei cervelli non mancò: ben presto il giullare francese intuonò il suo fabliau gaio e mordace. Ma il fabliau è tutto quello che può immaginarsi di più ruvido, di più scopertamente basso e triviale. Esso non conosce nè eleganza, nè delicatezza di forma, nè elevatezza di sentimento. È quasi un grido brutale che si sprigiona dall'anima inconscientemente. Per quale ragione dunque, come scrive il Villari, quei personaggi incerti, fantastici, e astratti de' racconti francesi, che traversan come ombre tutto il medioevo, divengono a un tratto personaggi reali nel Decamerone? In esso troviamo, con la più pura ed elegante favella, descritta la intricata e molteplice vicenda delle cose umane. Il maraviglioso e l'impossibile spariscono e ci viene invece riprodotto quel contrasto di capricciosa fortuna e di umane passioni, che crea la mutabilità della nostra sorte. Il poeta ha una grande esperienza degli uomini, ed un continuo sogghigno sulle labbra, poichè egli vede, sotto la sua penna, un mondo di sogni e di fantasmi trasformarsi nel mondo reale di uomini schiavi delle loro passioni e dei pregiudizi che essi medesimi crearono. Quella tendenza che noi osserviamo continuamente nel Boccaccio di dar carattere storico ai suoi personaggi, di determinare la nascita, la patria, la vita, il nome di uomini che vissero solo nella fantasia del popolo, ci prova chiaro il bisogno di realtà e di verità, che è in lui come in tutti i nostri grandi scrittori.
Tutte infatti le figure del Boccaccio sono di rilievo, sono caratteri che egli ha studiato, e che ci mette sotto gli occhi vivi, parlanti. Le sue novelle sono azioni drammatiche ritratte dal vero. Noi possiamo scegliere là dentro quel che vogliamo da ser Ciappelletto a Belcore, da Calandrino a Griselda, da Masetto da Lamporecchio a frate Alberto: troveremo sempre una grandezza di rappresentazione, una pittura così oggettiva, dei tratti di pennello così franchi, decisi, presi dal vero; una grandiosità d'insieme e una cura minuta dei particolari che inutilmente si cercherebbero nelle produzioni dei tempi anteriori.
Il Decamerone è una grande opera d'arte, è la commedia umana in tutti i secoli, in tutti i paesi, in tutte le condizioni, disegnata sul fondo della natura al lume della ragione. Niuno dopo Dante e prima dello Shakespeare creò come il Boccaccio tante figure diverse, in tante diverse posizioni[11]. Se in un luogo egli rappresenta scene colte sul vivo nella più abietta vita napoletana, altrove si piace novellando dar prova che amore è fonte d'ogni virtù; e contro il medioevo che malediceva la donna egli se ne fa difensore, e contro il medioevo adoratore de' cherici, egli se ne fa flagellatore indomabile: non flagellatore colla satira terribile dell'Alighieri, ma col riso beffardo, ond'ha reso immortali le figure di frate Alberto, del prete di Varlungo, del proposto di Fiesole e d'altri mille.
Io non posso entrare, davanti a voi, o signore, in particolari minuti sulle novelle del Decamerone, o almeno su quelle che più meriterebbero studio. Ma per darvi un'idea della geniale malizia, della finezza comica di messer Giovanni vi citerò due esempi: quello di ser Ciappelletto e del giudeo Abraam. Ser Ciappelletto (che noi sappiamo oggi essere stata persona reale) è dipinto come un grande bestemmiatore, un falsario, un ladro, un usuraio, il quale persino sul letto di morte inganna il confessore. Eppure ser Ciappelletto quando è morto diventa un santo e tanto cresce la fama della sua santità che a lui tutti si votano: ed affermasi, dice il Boccaccio, “molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente a lui si raccomanda„: segno questo della infinita misericordia divina. Vedete voi spuntare un sorriso motteggiatore sulle argute labbra di messer Giovanni, mentre scrive quelle parole? Come meglio poteva egli deridere le facili credenze del volgo negli impostori e negli ipocriti, come meglio smascherare le arti dei bricconi che voglion passar per santi?
Più acuta e tagliente ancora la satira nella novella di Abraam, il quale è un giudeo che istigato a farsi cristiano vuol prima andare a Roma “e quivi vedere colui il quale tu di' che è Vicario di Dio in terra e considerare i suoi modi e i suoi costumi, e similmente de' suoi fratelli cardinali; e se essi parranno tali che io possa comprendere che la vostra fede sia migliore che la mia„ io mi farò cristiano. Ora cosa accade? Il Giudeo va infatti a Roma, osserva il papa e i cardinali, vede che essi sono golosi, bevitori, ubriachi, avari, simoniaci, coperti insomma d'ogni più ignominioso peccato; e allora si fa davvero cristiano, poichè, egli dice, se tanti prelati e lo stesso pastore supremo si affaticano instancabilmente a distrugger la Chiesa, e ciò nondimeno essa vive ancora, segno è che lo Spirito Santo ne è fondamento e sostegno.
Se Dante aveva dannati tragicamente papi e cardinali all'inferno, comicamente ora il Boccaccio li metteva alla gogna; più atroce pena, forse, di quella, perchè traentesi dietro uno scroscio di risa, non cessato ancora traverso i secoli.
E se delle risa che suscita il Decamerone sui preti, sui frati, sugli amanti, sui mariti, sulle donne cattive e sugli uomini gonzi, su tutta una turba infinita che ci passa davanti viva, vera, sublime nella sua comica realità, io potessi parlarvi, sentireste quanto sia vero quello che disse un moderno, essere stato il Boccaccio il più terribile vendicatore dei diritti umani contro le ascetiche malvagità. Ma il silenzio mi è imposto su questa che è certo la più bella e caratteristica parte del Decamerone. Permettetemi solo ch'io vi dica ancora come sapesse il Boccaccio mirabilmente infondere uno spirito nuovo nell'antica leggenda, e anche qui innestare la nota comica nel tragico racconto, creato dalle malate fantasie medioevali. Tutti i volghi d'Europa tremarono un giorno al racconto della caccia infernale. Un povero carbonaio, mentre vegliava nella sua capanna a guardia della fornace, sentì, a mezzanotte, alte grida di dolore. Uscì per vedere quello che fosse, e vide venir correndo e stridendo una femmina scapigliata e ignuda e dietro le veniva un cavaliere in su un cavallo nero correndo, con un coltello ignudo in mano, e dalla bocca e dagli occhi e dal naso del cavaliere e del cavallo uscia fiamma di fuoco ardente. Giunta alla fornace, la femmina corre intorno ad essa, ed ivi è raggiunta dal cavaliere, che l'afferra per i capelli svolazzanti, la trafigge col coltello nel petto e la getta nella fossa ardente, dalla quale poi la ritrae viva e fugge con essa. Quella donna e quel suo persecutore erano stati nella vita una dama e un cavaliere che si erano amati ardentemente, e per lui la donna aveva ucciso il marito, onde era stata condannata ad essere ogni notte uccisa ed abbruciata dall'amante, che provava egli stesso quei tormenti dei quali era esecutore.
Tale, in una delle sue svariate versioni, la leggenda della caccia infernale, narrata da Elinando, da Vincenzo di Beauvais, dal Passavanti e da altri, e procedente forse dal mito nordico del dio Wuotan cacciatore demoniaco inseguente la donna selvaggia.
Sentite ora il Boccaccio: Nastagio degli Onesti, da Ravenna, amava perdutamente una fanciulla de' Traversari, la quale sempre si era all'amor suo rifiutata, ponendo il giovane alla disperazione. Per tentare di dimenticarla o di mitigare almeno la sua cocente passione, partì egli da Ravenna per Chiassi, e, quasi inconsapevole di quel che faceva, s'inoltrò una sera nella pineta, sempre pensando a colei ch'era verso di lui tanto crudele. “Quando (son le parole stesse del novelliere) subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; perchè rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per vedere che fosse.... e vide venir correndo verso il luogo dov'egli era una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da' pruni, piangendo e gridando forte mercè; ed oltre a questo le vide ai fianchi due grandissimi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giungevano la mordevano; e dietro a lei vide venire, sopra un corsiero nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando.„ Il cavaliere, da Nastagio interrogato, gli disse esser stata quella donna ribelle all'amor suo, ond'ei si uccise: ed essere stati ambedue condannati all'inferno con questa pena: “a lei di fuggirmi davanti, ed a me, che già cotanto l'amai, di seguitarla come mortal nimica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco col quale uccisi me uccido lei, ed aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo nel qual mai nè amor nè pietà poterono entrare, coll'altre interiora insieme le caccio di corpo e dòlle mangiare a questi cani. Nè sta poi grande spazio ch'ella, sì come la giustizia e la potenza di Dio vuole, come se morta non fosse, risorge, e da capo comincia la dolorosa fuga e i cani ed io a seguitarla; ed avviene che ogni venerdì in su quest'ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai.„ Nastagio degli Onesti, udendo queste parole, pensò di trar profitto per sè della strana avventura, fece in modo che la fanciulla de' Traversari assistesse il venerdì successivo all'orrendo spettacolo; e questa tanto spavento ne ebbe e tanto temè che un giorno potesse accadere a lei il simigliante, che all'amor suo arrendendosi divenne sua moglie. “E non fu, conclude il malizioso Certaldese, non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a' piaceri degli uomini furono, che prima state non erano.„
Questa novella, osserva un moderno, par quasi la parodia della leggenda. Quella finisce col terrore degli ascoltatori, e coll'esortazione alla penitenza; la novella Boccacesca consiglia alle donne d'esser pieghevoli all'amore e si chiude con una risata. Il mondo leggendario tramonta; ciò che prima aveva atterrito i cuori diventa ora un sollazzo per la mente.
Il gran libro del Certaldese è insomma un documento del più alto valore per la storia del pensiero umano. In esso noi troviamo i più forti e caratteristici segni della reazione contro tutte le idee medievali, sia nelle novelle che ci mostrano il Boccaccio ardito propugnatore della libertà di coscienza, sia in quelle dove flagella gli ipocriti, i falsi spacciatori di miracoli, i preti attentatori all'onore delle famiglie, le monache nasconditrici delle loro debolezze nel segreto de' claustri profanati. Ci sono nel Decamerone certi tipi immortali, che a ricordarli solo, si sente come per essi fosse colpita a morte tutta un'età; ser Ciappelletto, fra Cipolla, Martellino, Masetto da Lamporecchio, Rustico Monaco, frate Alberto celebrano il gaio funerale del medioevo, cantano l'alba del mondo moderno. Oramai i nuovi tempi sono maturi. Si torna ad avere un concetto più giusto della vita e della natura: il mondo non è più nè disprezzato nè maledetto, non è più fatto antitesi del bene, della felicità, della virtù; dalle nebbie del paludoso misticismo, s'innalzano gli uomini a più serene e luminose regioni, dove la verità e la bellezza si abbracciano, immortali sorelle. L'uomo rinasce, e con lui riprende i suoi diritti l'umana ragione e più vasti orizzonti si aprono al suo emancipato pensiero. Le ricche forme del mondo greco-latino, le sue rosee immagini, i suoi caldi colori, riconciliano natura e spirito, idealità e materia; e al contatto di esso tutto si rinnovella, la politica, la religione, l'arte e la letteratura. Vedete: già sono sulla soglia della storia il magnifico Lorenzo, nel quale così mirabilmente si armonizzeranno la tradizione e l'attualità, e il dotto Poliziano che sarà come la sintesi vivente dell'elemento classico e popolare; il Masaccio che studierà gli effetti del rilievo, il chiaroscuro, lo scorcio, il colorito: il Pollaiuolo che scorticherà i cadaveri per cercare i muscoli. Questo ringiovanire delle forze umane, estenuate nell'affannosità dei sospiri ascetici e dei sillogismi scolastici, questo ricongiungersi del pensiero alla terra e all'umanità e staccarsi dal simbolismo e palpare con mano amorosa la natura ignuda, era ben necessario perchè potessero educarsi alla scuola della ragione e della esperienza i politici, i riformatori, i filosofi, tutti i grandi preparatori della moderna civiltà.
E a questo nuovo mondo, uscente dalla tetra necropoli del medioevo, diede alito vivificatore il Boccaccio; il buono e tranquillo messer Giovanni, che fu dispregiatore degli onori, sempre sereno nella sua grande coscienza di artista, innamorato sopra tutto della gloria e delle belle donne, e che scese nel sepolcro povero, egli che lasciava al mondo i tesori della sua prodigiosa ricchezza.
IL TRAMONTO DELLE LEGGENDE
DI ARTURO GRAF
Signore e Signori,
Uno dei fatti più notabili della storia intellettuale e morale dei popoli cristiani nel medio evo si è la produzione di quello sterminato numero di leggende, varie d'indole, di significato e di forma, che furono allora tanta parte della credenza e della letteratura; e uno dei fatti più notabili della storia intellettuale e morale degl'Italiani in quella età si è che, meno di ogni altro popolo dell'Occidente, essi cooperarono a tal produzione. Non già che abbiano, generalmente parlando, ignorate o sgradite quelle pie od eroiche finzioni; ma il più delle volte si contentarono di riceverle dai vicini, già belle e formate: e se le ripeterono spesso con devozione ed amore, tradotte nella loro favella; se, non di rado, le rimaneggiarono e le ampliarono, acconciandole ai propri sentimenti e bisogni, non però si diedero gran fatto pensiero di accrescerne la vasta e prestigiosa congerie. Rubando i vocaboli al linguaggio delle industrie e dei traffici, si potrebbe dire che gl'Italiani consumarono molte leggende e ne produssero poche; ne importarono in copia e ne esportarono assai scarsamente.
Le maggiori leggende, così sacre come profane, le quali ebbero corso nel medio evo, e furono, per secoli, patrimonio comune della cristianità, nacquero, pressochè tutte, e crebbero fuori d'Italia. Delle ascetiche, molte, che più strettamente si legano alle Scritture, sono antichissime, e apparvero dapprima in Oriente, dov'era stata la culla della fede, e d'Oriente passarono a mano a mano in Occidente, seguendo alcuna volta assai da presso la predicazione e la diffusione dell'Evangelo. La leggenda della penitenza di Adamo ed Eva; quella, ben più famosa, del legno onde fu formata la croce; quelle ancora di Giuda e Pilato, della discesa di San Paolo all'Inferno, dei Sette Dormienti, della Vendetta del Salvatore, di San Silvestro che sanò e convertì Costantino imperatore, dell'Anticristo, che alla fine de' tempi verrà a porre in grande travaglio la Chiesa e il mondo, e altre parecchie, le quali sarebbe lungo ricordare, ebbero per lo appunto, in tutto o in parte, sì fatta origine e sì fatta vicenda, e alcune di esse non penetrarono, a quanto sembra, in Italia, se non dopo che si furono sparse per varie province d'Europa. Nella storia necessariamente oscura e confusa di queste finzioni, non è sempre possibile, gli è vero, rintracciare i primi cominciamenti, seguire le derivazioni e i trapassi; ma l'incertezza che non si scompagna da' singoli casi non muta però l'indole del fatto generale. Molte altre leggende ascetiche ebbero diffusione in Italia, le quali indubbiamente sorsero fuori dei nostri confini, qua e là per l'Europa, spesso tra genti assai remote da noi, e talvolta quasi ancora barbare. Tali quelle meravigliose e paurose Visioni del mondo di là, che precedono il poema di Dante, e, in un certo senso, il preparano. Parecchie, come la Visione di San Furseo, la Visione del cavaliere Tundalo, la leggenda del Pozzo di San Patrizio, ebbero divulgazione e celebrità grandissima, e furono note e ripetute anche in Italia; ma quando se ne tolgano alcune poche di minor conto, riferite da Gregorio Magno e da san Pier Damiano, e quella, assai tarda, del monaco Alberico, tutte l'altre, così, le maggiori come le minori, avemmo dagli stranieri. Altrettanto dicasi di quella singolare peregrinazione dell'irlandese san Brandano, che acconciamente fu chiamata una Odissea monastica, e di molte altre leggende ove si narrano viaggi miracolosi al Paradiso terrestre.
Se, lasciate da una banda le leggende ascetiche, ci volgiamo all'eroiche e romanzesche, vediamo che le condizioni dell'Italia, per rispetto alla produzione loro, non mutano. Tutta, o quasi, la poesia epica nostra è nudrita di tradizioni e di leggende non nostre. Le storie favolose di Alessandro Magno, i romanzi di Apollonio di Tiro e di Fiorio e Biancofiore sono orientali d'origine; e, come tutti sanno, le leggende epiche del ciclo carolingio e del ciclo brettone, o, secondochè usò dirsi nel medio evo, la materia di Francia e la materia di Brettagna, ci vennero appunto di Francia.
In tutto ciò, se v'è del notabile, non v'è però nulla di strano; ma bene vi parrà essere alcun che di strano nel fatto che sienci venute di fuori, e di gran lontananza talvolta, leggende nelle quali di proposito si parla di cose nostre, o che a cose nostre si legano strettamente. Concedete ch'io rechi di ciò alcuni esempi.
Tutti sanno a quale curiosa trasformazione sia andato soggetto Virgilio nel medio evo, e quale rigogliosa leggenda gli sia cresciuta d'attorno. Di poeta che fu, egli divenne a poco a poco maestro di tutte le scienze, e poi mago, operator di miracoli e dominator di demoni. Si mostravano in Roma e in Napoli gli edifizi meravigliosi da lui costruiti, i talismani e gli amuleti da lui congegnati, in benefizio e a tutela dell'una o dell'altra città. Una gran fabbrica, detta Salvatio Romæ, fatta per arte magica, e mercè la quale i Romani erano incontanente avvertiti di qualsiasi ribellione che avvenisse tra i popoli sottoposti al loro dominio, era opera sua; opera sua la strada che correva da Roma a Napoli; opera sua la Grotta di Posilipo, ecc., ecc. E molte meraviglie si raccontavano della sua conversione, della sua morte, della portentosa virtù che conservavano le sue ossa. Ora, sebbene sia più che probabile che molte di queste immaginazioni abbiano origine popolare, e siano primamente sorte in Napoli, dov'era e si venerava il sepolcro del poeta; e sebbene parecchie si annodino a una tradizione letteraria già cominciata anticamente in Italia, non è men vero che altre (non posso indugiarmi qui a fare le distinzioni opportune) nacquero fuori d'Italia; come, da altra banda, gli è certo che e quelle e queste si trovano ricordate la prima volta da stranieri, da Giovanni di Salisbury, da Giovanni di Alta Selva, da Corrado di Querfurt, da Gervasio da Tilbury, da Alessandro Neckam, tre inglesi, un francese, un tedesco.
Altro esempio. Sapete che cosa l'antica leggenda epica racconti del re Artù, che mortalmente ferito in battaglia, fu dalla sorella Morgana, la famosissima fata, portato nell'isola di Avalon, e quivi serbato miracolosamente in vita. Orbene, in sul principio del secolo XIII, e probabilmente anche assai prima, Artù, non mai guarito delle sue ferite, è in Sicilia, e abita sul monte Etna, o nell'interno di esso, in un palazzo di mirabile fattura, cinto di deliziosi giardini. Ma da chi sappiamo noi ciò? dal testè ricordato Gervasio da Tilbury, inglese, da un monaco tedesco, che aveva il capo pieno di diavolerie, Cesario di Heisterbach, morto verso il 1240; dall'innominato autore di un poema alquanto più tardo, il Florian et Florète dove si legge ciò che quegli altri due debbono sapere, ma non si curano di dire, cioè, che l'Etna è una specie di regno fatato, pieno di meraviglie e di delizie, consueta dimora di Artù e della sua corte. Gli è probabile che questa forma nuova data all'antica leggenda si debba alla fantasia dei Normanni: comunque sia, non se ne trova cenno in scritture italiane, salvo che in una bizzarra poesia, composta, come pare, nel secolo XIII, nella quale n'è uno assai fugace ed oscuro.
E poichè sono a parlar di vulcani, siami concesso di ricordare come i vulcani si credessero comunemente nel medio evo luoghi di pena per le anime dannate o purganti. Parecchie leggende s'inspirarono di quella credenza; e poichè l'Etna, il Vesuvio, l'Epomeo, lo Stromboli, sono in casa nostra, parrebbe che quelle leggende dovessero essere sempre, o quasi sempre, italiane, e riferite da autori italiani. Eppure non sono; o se, quanto all'origine, sono alcune di esse italiane, non però trovano, o di rado trovano luogo in libri italiani. Gregorio Magno, romano, narra di un solitario dell'isola di Lipari, che vide precipitare nella bocca di quel vulcano il re Teodorico, dannato; ma questa novella, ripetuta poi da innumerevoli stranieri, appena trova in Italia, durante tutto il medio evo, chi la voglia ripetere. Altre leggende simili si narrano del re Dagoberto di Francia, di Bertoldo V, duca di Zäringen, di Attone, vescovo di Magonza, di altri parecchi; ma sono sempre stranieri coloro che le narrano. L'Etna è l'Inferno, o un vestibolo dell'Inferno, al quale i diavoli portano quotidianamente a volo le anime dei dannati; ma è un cronista francese del secolo XIII colui che lo afferma, Alberico delle Tre Fontane. In fondo al lago d'Averno, presso Pozzuoli, si vedono le porte di bronzo dell'Inferno, divelte e infrante da Cristo quando penetrò nel limbo; ma se tutti le vedono, chi ne parla è il già ricordato Gervasio.
Se questa litania non v'annoia troppo, io seguito un altro po' perchè non mi par che sia inutile.
In un anno del secolo undecimo che, discordando gli storici, non si sa precisamente qual fosse, avvenne nell'aurea città di Roma un caso nuovo, strano e memorabile. Un giovane patrizio, avendo il giorno stesso delle sue nozze posto in dito a una statua di Venere, per poter più liberamente giocare alla palla, l'anello nuziale, fu poi, per lunghissimo tempo, perseguitato e tribolato dall'antica dea mutata in demonio, la quale, allegando il fatto dell'anello, pretendeva di essere sua legittima sposa e di togliere il luogo all'altra. Ci volle tutta l'arte di un solennissimo mago per strappare all'intrusa l'anello indebitamente ricevuto e restituire il giovane alla libertà e a più naturali amori.
Questa novella piacque oltre modo nei due secoli che seguirono, e fu narrata da molti cronisti; ma tra i molti inglesi la più parte e frati, voi cerchereste inutilmente un italiano; o dovrò dire che a me non riuscì di scovarlo. Solo molto più tardi, in pieno secolo XVI, se ne vede fatto ricordo in un libro del piemontese Simone Majolo.
Un altro bel caso ci si offre nella leggenda di Gerberto, il quale non fu italiano, ma molti anni visse in Italia, e da ultimo fu papa in Roma, dal 999 al 1003. Non v'è dubbio che la persona e gli atti di lui dovettero stare molto a cuore agl'Italiani di quel tempo, e più particolarmente ai Romani. La leggenda narra di lui cose singolari, spaventose ed incredibili: che, essendo in Ispagna per cagion di studio, rubò a un negromante saraceno un libro magico di mirabile virtù e pregio; che fece un patto col diavolo; che fu il drudo di una diavolessa, che si faceva chiamar Meridiana, ed era, al vedere, più bella di un angiolo; che con l'ajuto, non del Cielo, ma dell'Inferno, salì tutti i gradi della ecclesiastica gerarchia, finchè s'assise, con sacrilega tracotanza, sulla cattedra di San Pietro, e fu vicario di Cristo; che essendo in Roma, penetrò per sua avvedutezza in certi sotterranei meravigliosi, ov'erano raccolti, e custoditi gelosamente, gl'immensi tesori d'Ottaviano Augusto imperatore; che sentendo prossima la sua ultima ora, rientrò in sè, si pentì, e con atroce e non più udita penitenza riscattò l'anima dalle mani dei demoni, che già gli si affollavano intorno furiosi, facendosi, vivo ancora, tagliare a pezzi. Io non so dire, e nessuno, credo, saprebbe se qualche parte di tale storia sia prima germogliata in Italia; ma gli è certo che essa si trova da prima solo in libri stranieri. I cronisti italiani non cominciarono a riferirla se non nel secolo XIV, quando già da oltre due secoli essa correva l'Europa, e i racconti loro non sono se non ripetizioni, e più spesso abbreviature dei racconti d'oltr'alpe.
Come non ricordare, dopo la leggenda di un papa, quella di una papessa, della famosa papessa Giovanna? Se si dovesse dar fede a certi manoscritti, il primo a darle lo spaccio sarebbe stato quell'Anastasio Bibliotecario, che visse in Roma nella seconda metà del secolo IX, fu abate di Santa Maria in Trastevere e scrisse certe Vite dei pontefici assai cognite agli storici di professione; ma, prima di tutto, non si conosce con sicurezza s'egli fosse italiano o greco; poi quei manoscritti sono di genuinità peggio che sospetta, e si ha buona ragione di credere che l'intera novella sia una interpolazione o aggiunta di tempi posteriori. Nacque essa in Italia? Nessuno può dirlo, e non è gran fatto probabile perchè se si trova in iscorcio in alcuni dei nostri cronisti, e se in tempi già assai tardi la narra malignamente, per disteso, il Platina, sono assai più gli storici forastieri che la raccontano, l'adornano, la commentano.
Potrei continuare un pezzo a recare altri esempi; ma quelli che ho recati mi pare che bastino a mostrare come gl'Italiani lasciassero a Francesi, a Inglesi, a Tedeschi la briga di crear leggende anche di argomento italiano, o come nemmen poi s'affrettassero, in molti casi, a ripeterle. È questo un fatto da tener presente, e che dovrò ricordare quando parlerò del rapido svanire delle leggende nel nostro paese.
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Badiamo per altro di non esagerare. Non bisogna fare maggior che non fu questa incapacità, o svogliatezza, o come altramente volete chiamarla, degl'Italiani, di creare leggende. Lasciando stare ora le molte che essi accolsero e fecero proprie, parecchie ancor ne crearono, e ragion vuole che si dica qualche cosa di queste, dopo aver detto di quelle ch'e' lasciarono creare agli altri.
Tra le più importanti (intendo delle profane) sono le leggende concernenti le origini di molte città. Queste leggende erano promosse dall'orgoglio cittadinesco, e dalla rivalità dei Comuni, che con tutti i mezzi e per tutte le vie cercavano di soperchiarsi l'un l'altro. Una origine molto antica e molto gloriosa era già di per sè un titolo di preminenza, una ragion di maggiorità. A imitazione dei Romani quasi tutti i popoli d'Europa cercarono di far risalire le origini proprie sino ai Trojani. In Italia, Padova, Pisa, Verona, Piacenza, Aquileja, Mantova, Modena, Parma, e più altre città che non vi sto a ricordare, si vantavano fondate da fuggiaschi di Troja espugnata. Alcune, di maggiore orgoglio, volevano essere più antiche, o non meno antiche di Troja, madre di Roma. Luni aveva mandato navi e genti in soccorso de' Greci, contro ai Trojani. Fiesole si gloriava d'avere avuto a fondatore Atalante, o Attalo, pronipote in quinto grado di Jafet (altri dicevano pronipote di Cam, di Saturno e di Giove) e padre di quel Dardano che poi edificò Troja; e asseriva d'essere la prima città sorta in Europa, e perciò denominata Fia sola. Ma le contrastava Ravenna, fondata da Tubal, nipote di Noè, e più ancora Roma, che sdegnando oramai le troppo recenti origini trojane, fece risalire il suo primo cominciamento a Noè, approdato dopo il diluvio in Italia, e a Giano, figliuolo di Jafet, che, in compagnia di altri, costrusse sul Palatino una città, da lui detta Gianicolo. Genova si vantava ancor essa fondata da Giano; Brescia da Ercole. Milano pretendeva d'essere stata edificata 932 anni prima della Roma di Romolo, se non di quella di Noè. Firenze, meno ambiziosa, e più ragionevole, legava i suoi principii alla guerra combattuta contro Catilina, e la edificazion propria attribuiva a cinque signori di Roma, Giulio Cesare, Macrino, Albino, Gneo Pompeo, Marzio, da' quali fu cinta di buone mura, guernita di buone torri, lastricata pulitamente, provveduta di acquedotti che menavano acque pure e sanissime, insignita di un Campidoglio a somiglianza di quello di Roma: e il nome gentile derivava da un nobile cittadino romano (altri dirà re), detto Fiorino, il quale fu morto in quella guerra contro lo scellerato Catilina, e anche da' molti e vaghi fiori che nascono ne' campi e sui colli in mezzo ai quali è assisa. Questa nobile istoria è narrata da' più antichi cronisti della città, e si ritrova nel così detto Libro Fiesolano, ed è ripetuta da Giovanni Villani, e da Ricordano Malespini. Costui poi vi lega, non di suo capo, credo, una novella assai romanzesca di Bellisea e di Teverina, moglie l'una, figliuola di Fiorino l'altra, e degli amori di Catilina e d'un centurione. Cinquecent'anni dopo, Attila (molti dicono Totila, giacchè l'uno spesso si scambia con l'altro nella leggenda) Attila, figliuolo, salvo il vero, di un cane, volendo vendicare la morte di quel buon Catilina, riedificò Fiesole e distrusse Firenze, la quale poi, a marcio dispetto de' Fiesolani, fu rifabbricata da Carlo Magno imperatore. A tutte queste favole, senza dubbio antichissime, accenna Dante là, nel quindicesimo canto del Paradiso, quando fa che Cacciaguida suo avo descriva l'antica donna fiorentina, non guasta ancora dal lusso, tutta intenta al governo della casa, ad allevare i figliuoli, e che,
traendo alla rocca la chioma,
Favoleggiava con la sua famiglia
De' Trojani, di Fiesole e di Roma.
Per amor di brevità non dico nulla di certe leggende araldiche e genealogiche, le quali facevano risalire la nobiltà di certe famiglie a gran cittadini e patrizii di Roma antica, o a eroi famosi del ciclo carolingio.
In parecchie città d'Italia diedero argomento a leggende gli avanzi di antichi monumenti, che ancor sussistevano a far memoria e testimonianza della romana grandezza. Com'è naturale, le più numerose e notabili sorsero intorno a quel monumento di Roma che il tempo, i Barbari, e i propri suoi cittadini non erano giunti a distruggere. Di tali furono intessuti due libri, detto l'uno Mirabilia Romæ, e Graphia aureæ urbis Romæ l'altro, i quali, nel dodicesimo, decimoterzo e decimoquarto secolo, ebbero grandissima celebrità e incredibile divulgazione. In essi, miste a tradizioni e notizie di argomento e carattere affatto religioso, trovansi molte e curiose immaginazioni risguardanti le rovine ingenti del Palatino (le quali si credeva avessero formato un solo, smisurato e magnifico palazzo), il Colosseo, il Campidoglio, il Pantheon, il Mausoleo di Adriano, mutato in Castel Sant'Angelo, altri palazzi in gran numero, e templi, e terme, e acquedotti, e ponti, e statue. Ora, sebbene parecchie, e forse molte di tali immaginazioni, possano, esse pure, avere straniera origine, ed essere state messe in corso, come par più probabile, da quegli innumerevoli pellegrini che, senza intermissione, venivano sin dalle più lontane regioni d'Europa a visitare i limina apostolorum, ciò nondimeno gli è ragionevole credere che parecchie altre avessero ad autori gli stessi Romani, o i pellegrini, non d'oltremonti, ma d'Italia. Certo si è che in parte esse già trovansi in libri di Benedetto, canonico di San Pietro, di Albino, cardinale di Santa Croce in Gerusalemme, di Cencio Camerario, che poi fu papa col nome di Onorio III, tutti italiani, e vissuti nel XII secolo, morto l'ultimo nel 1227; e che i Mirabilia furono di latino voltati in volgare già nel secolo XIII. Se s'ha a dar fede, e non v'è ragione di non dargliela, all'anonimo narratore della sua vita, Cola di Rienzo tutta la die se speculava negl'intagli de marmo li quali iaccio intorno Roma.
Gl'Italiani ebbero dai Francesi le leggende epiche del ciclo carolingio e del ciclo brettone; ma quelle leggende essi non si contentarono di ripetere tali e quali erano loro trasmesse. Molte alterarono in vario modo, altre esplicarono più largamente, e non poche nuove inventarono di pianta, legandole a memorie locali, a città, ad avvenimenti delle storie nostre, a particolarità del nostro paese. Orlando, che si chiamò veramente Rolando, e a cui fu da noi mutato il nome in quella foggia, diventò quasi un eroe nazionale, e quasi una leggenda nazionale la sua leggenda interminabile. Nè di leggende epiche proprie mancò in tutta l'Italia, sebbene le vicende e il corso della sua storia, e le condizioni di vita del suo popolo, nei secoli di mezzo, spieghino abbastanza la scarsità e tenuità loro. Le guerre combattute fra Longobardi e Franchi, appiè delle Alpi e sui campi di Lombardia, suscitarono alcune tradizioni epiche, di cui forse una piccola parte soltanto pervenne sino a noi, e che avrebbero potuto, qualora fossero state favorite dagli eventi, prender vigore, e moltiplicarsi, e congiungersi in epico ciclo. E ad altre leggende epiche diedero argomento, in alcune nostre città, il nome esecrato di Attila, e il ricordo terribile de' suoi fatti, le quali, sebbene non fossero, nemmen esse, di tal condizione da poter produrre rigogliose e vivaci epopee, pure non si smarrirono così presto come quelle pur ora accennate dei Longobardi, anzi durarono a lungo e si legarono (caso, ahimè, non unico, nè raro) con la storia di casa d'Este, e trovarono ancora, in pieno secolo XVII, ripetitori, rimaneggiatori e, dobbiam credere, anche lettori.
Da Attila flagellum Dei a Ponzio Pilato proconsole romano la distanza è grande; ma li ravvicina in mio servigio il fatto che c'è una leggenda al tutto italiana in cui è fatto ricordo del tristo giudice. Nel medio evo si mostrava in Roma una casa, o torre, o palazzo di Pilato, e in un racconto certamente italiano, la Cura sanitatis Tiberii, si dice che il proconsole, chiamato dall'imperatore a dar conto de' fatti suoi e della ingiusta morte di Cristo, fu imprigionato in una città di Toscana, variamente nominata, e quivi, non dandogli pace la mala coscienza e il terror del castigo, di propria mano si uccise. Non ricorderò, nemmeno di volo, le mille favole che di Pilato si narrarono nel medio evo, per tutta Europa; ma solo farò cenno di una, secondo la quale il corpo del maledetto, gettato in fiumi, o in laghi, in pozzi profondi, o sulla sommità di monti quasi inaccessibili, e trascinato d'uno in altro luogo, seppellito sotto cumuli di pietre, per tutto suscitava, con la presenza sua, spaventose procelle, e morbi micidiali, od altre calamità. Parecchi furono, e sono in Europa i monti e i laghi di Pilato, e un monte e un lago di Pilato volle avere anche l'Italia. Fazio degli Uberti ne fa un cenno nel Dittamondo; altri ne parlano più distesamente. Il monte e il lago erano presso Norcia, luogo di diabolica nominanza. Al lago, ove nuotavano, come pesci, i diavoli, ed era sommerso il corpo di Pilato, traevano da tutti i paesi i negromanti per consacrare i libri loro di magia, tanto che ci si eran dovute porre le guardie per vietarne l'accesso. Ogni anno bisognava dare in pastura a quei diavoli un condannato, senza di che avrebbero con le procelle mandato a soqquadro tutto il paese.
E legata ai monti di Norcia troviamo un'altra leggenda tutta italiana, la leggenda dell'antro della Sibilla, la quale non è improbabile che abbia suscitato la leggenda tedesca del Monte di Venere, di quel Monte di Venere entro a cui andò a perder l'anima il gentile cavaliere e poeta Tannhäuser. Andrea da Barberino, nel V libro di quel suo romanzo che, dopo cinque secoli, ha ancora in Italia innumerevoli lettori, e tutti gli anni si ristampa, e sembra, senza suo merito, destinato all'immortalità, voglio dire il Guerin Meschino, parla molto diffusamente delle meraviglie dell'antro, e molti altri ne parlano dopo di lui. Nell'interno del monte era un amoroso regno, pien di letizia, e d'ogni vaghezza di cose naturali o artifiziate: campi d'impareggiabile amenità, giardini che non avevano i simili in terra, palazzi d'inaudita ricchezza, sfolgoranti d'oro e di gemme. Regina del luogo era la Sibilla, che in ristampe più recenti si mutò nell'Alcina dell'Ariosto, adorna d'ogni bellezza e leggiadria, servita da schiere di avvenentissime donzelle, e da un popolo di cavalieri e valenti uomini, quivi trattenuti dall'amore di lei, e per sempre, o per alcun tempo soltanto, spogliati della libertà. I giorni e gli anni si consumavano giojosamente, banchettando, amoreggiando, fra musiche e danze e sollazzi d'ogni maniera; ma tutte le settimane, al sopravvenir del sabato, la regina e i soggetti suoi si trasformavano in draghi, in serpi, in basilischi e in altre specie di rettili.
Altre leggende potrei venire ricordando, nate in Italia, o nel formar le quali ebbero gl'Italiani non piccola parte. Italiana è la leggenda di quello stretto parente spirituale dell'Ebreo errante, chiamato, con nome tolto agli Evangeli, Malco, il quale avendo dato a Cristo uno schiaffo con un guanto di ferro, fu condannato a girar senza posa in un sotterraneo, intorno a una colonna, fino al giorno dell'Universale Giudizio. A forza di camminar tutto il dì e tutta la notte, per secoli e secoli, egli ha scavato un solco profondo nel pavimento di pietra. Talvolta, sopraffatto dalla disperazione e dal tedio, ei s'avventa col capo contro quella colonna, ma non riesce a tòrsi la vita, lasciatagli in punizione. L'Ebreo Errante, che, se non altro, può correre a suo talento il vasto mondo, è assai meno infelice di lui. E gl'Italiani collaborarono in modo notabile alla leggenda di Maometto, la quale, per ragioni facili a intendere, fu una delle maggiori del medio evo, e diffusissima per tutta Europa; e così ancora collaborarono alla leggenda di quel Prete Gianni, che governava nell'India remota, e poi nel cuore dell'Africa, un vastissimo impero cristiano, pieno di meraviglie, e aveva tanti tesori quanti gli storici e i viaggiatori non ne potevan descrivere, e di cui leggevansi in tutte le lingue d'Europa, l'epistole scritte a papi, a re, a imperatori. In sul principiare del secolo XVI, o poco innanzi, Giuliano Dati fiorentino scriveva ancora della magnificenza di lui un poemetto in ottava rima, e Lodovico Ariosto lo introduceva, sotto il nome di Senapo, nell' Orlando Furioso.
Durante tutto il secolo XIV vi furono in Italia scrittori e ripetitori di leggende. Crescono allora di numero, si variano di colore e di profumo, que' Fioretti di San Francesco, che, dopo avere innamorate di sè tante anime pie, innamorarono pure tanti studiosi di nostra lingua; e nasce la leggenda di Santa Caterina da Siena. Nel secolo precedente, un domenicano, che fu vescovo di Genova, Giacomo da Voragine, aveva raccolto in un libro latino, divenuto presto famoso, e intitolato Legenda aurea, una gran quantità di leggende di santi, attingendo con ingenua e dilettosa credulità a fonti disparatissime; nel secolo XIV molte di quelle, e altre assai, similmente latine, si recano in volgare, si mettono talvolta in versi; e recansi in volgare, non si può dire con sicurezza da chi, le antiche Vite dei Santi Padri nel Deserto. I predicatori, dal pulpito, confortano con esempi tratti da leggende gli ammaestramenti loro, sebbene non con la frequenza e copia che si veggono usate dai predicatori d'oltremonte. Gli scrittori ascetici spargono di leggende, intese a edificare o intimorire gli animi, i loro scritti. Parecchie, alcune delle quali assai notabili, se ne leggono nello Specchio di vera penitenza di Frate Jacopo Passavanti, e parecchie nelle opere di Fra Domenico Cavalca. Nel Fiore di Virtù, opera di uno sconosciuto, trovansi mescolate ad alcune, che più propriamente si direbber novelle, alquante leggende. Altri libri di quel tempo, come il Fiore de' filosofi, il Fiore della Bibbia, il Fioretto di cronache degl'imperadori, il Fiore d'Italia di Frate Guido da Pisa, la Fiorita di Armannino Giudice, il Libro imperiale, il Libro dei Sette Savii, son pieni di varie leggende; e qualcuna pur se ne trova in quel fastidioso romanzo ch'è l' Avventuroso Ciciliano attribuito a Busone da Gubbio, e molte ne riferisce succintamente, in quel suo fastidioso poema del Dittamondo, Fazio degli Uberti.
Il diavolo che tanta briga diede nel medio evo, ne diede agl'Italiani, parlando in generale, assai meno che ad altri popoli cristiani, e non ingombrò così fieramente gli animi qua come fece altrove, nè li empiè di tante immaginazioni e di tanti terrori; e noi non abbiamo, nella letteratura nostra, libri che possano fare degna accompagnatura ai molti stranieri, ove non d'altro quasi si parla che della sua tristizia, male arti e scellerate imprese, e dei modi che tiene in conciare chi gli capita finalmente tra l'ugne. Ma non mancano nemmeno da noi le leggende diaboliche, e un nostro monaco agostiniano, che visse gli anni suoi migliori nel secolo XIV e morì nel susseguente, Fra Filippo da Siena, ne raccolse parecchie, insieme con più altre di vario argomento, in certo suo libro cui pose titolo Gli assempri. Quivi si legge di mali cavalieri, e di pessimi religiosi, e di usurai, e di mercanti, e di giocatori, portati via dai diavoli, quando in anima soltanto, e quando in anima e in corpo, e talvolta strozzati; e di diavoli infelloniti, che invasero una chiesa dov'era stato seppellito un malvagio uomo, e la empierono di romore e di tempesta, “e quando parevano cavalieri che giostrassero, e quando parevano uomini che combattessero con le spade in mano, e quando parevano animagli ferocissimi che rabbiosamente con mughi dolorosi s'accapegliassero insieme„, tanto che fu forza disseppellire quel maledetto corpo, e trarlo di chiesa, e interrarlo nell'orto, dopo di che s'ebbe pace. E quivi ancora si legge la paurosa istoria di una nobil donna sanese, molto vaga di sua bellezza, e dello adornarsi, la quale lisciata e acconcia una volta dal diavolo, apparsole in sembianza di cameriera, diventò così scura nel volto che nessuno la poteva guardare senza tramortire dallo spavento, e colta da una febbre continua, senza più potersi riavere, in tre dì venne a morte: e la storia di due genitori mal consigliati, i quali, avendo un loro figliuolo ammalato, permisero, per farlo guarire, che una pessima incantatrice l'offrisse al diavolo: e la storia di un soldato tedesco in Lombardia, ch'ebbe in prestito dal diavolo tremila fiorini d'oro, e non potendoli rendere in capo di tre anni, com'era il patto, fu vivo vivo portato via dal suo creditore all'Inferno; e la storia d'un altro soldato tedesco, il quale, per avere dal diavolo certa quantità di denari, gli cedette una sua figliuola, bellissima e di ottimi costumi, che poi fu salva, e il padre similmente, mercè l'ajuto della Vergine Maria.
Moltiplicavano in pari tempo, a cura di altre anime devote, i Miracoli della Vergine, e moltiplicavano i contrasti fra Cristo e Satana, fra Satana e Maria; e il celebre giureconsulto Bartolo da Sassoferrato dettava in latino un Trattato della questione ventilata innanzi al Signor Gesù Cristo fra la Vergine Maria da una parte e il diavolo dall'altra.
Andarono ancora moltiplicando in quel secolo le storie e le novelle cavalleresche, quali in prosa e quali in verso. I così detti Cantari, fattura di poeti popolari, tennero viva fra il popolo la memoria degli eroi di Francia e di Brettagna e di Grecia e di Roma: divulgarono i casi d'innamorati celebri, e avventure romanzesche di più maniere. Antonio Pucci, fiorentino, che di fonditor di campane diventò banditor del Comune, ebbe a comporne parecchi. L'istoria di Apollonio di Tiro, L'istoria della Reina d'Oriente, Madonna Lionessa, il Gismirante, e fors'altri ancora. Il già ricordato Andrea da Barberino rinarrò nel volgar nostro più storie romanzesche francesi, e narrò, non sappiamo se traendola dal suo capo, o d'altronde, la storia, pur ora da me nominata, di quel Guerin Meschino, che distrusse in guerra tanti Turchi e Saracini, liberò tante città assediate, soccorse tante regine strette da' nemici, e viaggiò le più remote contrade della terra, popolate di mostri, e scese, oltrechè nell'antro della Sibilla, anche nel Pozzo di San Patrizio, e nel fondo dell'Inferno, e ritrovò dopo molt'anni e infiniti travagli, i genitori, da' quali era stato separato bambino.
Appare da quanto sono venuto dicendo che gl'Italiani ebbero, contrariamente alla opinione di molti, una letteratura leggendaria abbastanza copiosa e abbastanza variata; ma rimane pur sempre vero che quella letteratura può dirsi scarsa a paragone di altre, pur leggendarie e che per molta parte essa è formata di elementi non nostri. Ora le ragioni di tale scarsezza sono in sostanza quelle stesse le quali fan sì che le leggende, sieno sacre, sieno profane, dileguino dalla coscienza e dalla letteratura nostra un pezzo prima che dalla coscienza e dalla letteratura di altri popoli d'Europa. Le leggende già impallidiscono nel cielo d'Italia, e già tramontano, mentre in altri cieli sono ancora assai alte e brillano di tutto il loro prestigioso splendore. Nè poteva avvenire diversamente. Quelle medesime cause, alcune più prossime, altre più remote, le quali dovevano, in Italia, prima che altrove, condurre alla nuova coltura dell'umanesimo, iniziare il Rinascimento, mutare le condizioni del pensiero e della vita, dovevano pure contrastare a una produzione di leggende molto copiosa, e sollecitare la sparizione di quelle che s'erano venute via via producendo. L'umanesimo, contraddistinto, sino da' suoi principii, da un nuovo spirito di esame e di critica, avversa, insieme con molte altre cose della precedente età, anche le leggende, nate di credulità e di errore. E notisi che le leggende ascetiche, le quali sono tanta parte delle leggende medievali, in Italia malamente potevano allignare; non solo perchè la qualità del nostro cielo, e la natura delle nostre contrade, e l'indole del nostro popolo, non si accordano con ciò che in molte di esse è di tetro e di terribile; ma ancora perchè col carattere loro più consueto non si accorda, generalmente parlando, la qualità del nostro sentimento religioso, il quale non è, di sua natura, troppo contemplativo o fantastico, e piuttosto che perdersi dietro alle vane immaginazioni, tende alle utili riforme, e di rado si fa cupo e doloroso. Le Danze macabre, o Danze della Morte, una delle più fosche e terribili creazioni dell'ascetica fantasia, ebbero in Italia pochissimo favore. San Francesco, che raccomandava a' suoi seguaci la giocondità e la serenità dell'anima, e la piena affidanza in Dio Padre e in Cristo Salvatore, non poteva essere gran fatto amico delle paurose visioni e delle innumerevoli leggende infernali e diaboliche.
Se molte leggende sono ancor vive in Italia nel secolo XIV, sono pur molti i segni dell'affievolirsi loro e della prossima sparizione.
I cronisti nostri non furono in nessun tempo così vaghi di finzioni come quelli d'oltralpe, e nei libri loro i cercatori e gli studiosi di leggende poco trovano da raccogliere. Noi non abbiam nulla che possa, per questo rispetto, stare a paragone delle Cronache di Elinando, di Vincenzo Bellovacense, di Guglielmo di Malmesbury, e di molte altre, francesi, inglesi, tedesche. Nel secolo di cui discorriamo c'è ancora qualche cronista favoloso, come Bonamente Aliprando e Giacomo da Acqui; ma è nata oramai la storia vera; e sebbene il Machiavelli e il Guicciardini sieno lontani ancora, pure già si scorgono i segni di quello spirito pratico e indagatore che sarà il loro spirito. A poco a poco la storia distoglie l'occhio dal mondo di là, e lo fissa sul mondo di qua, e comincia a penetrare il segreto delle umane vicende, e a discernere le forze che le promuovono, e a intendere le leggi che le governano. Giovanni Villani non manca di religione, e crede ai segni e ai portenti che prenunziano l'avvenire; ma il suo spirito non corre, di solito, dietro ai fantasmi; anzi è tutto volto alla sua città, al suo popolo. Egli s'industria di mostrare altrui il modo e le ragioni del loro crescere e del loro scadere: studia il meccanismo di quel mutabile reggimento, rileva e descrive le congegnature della pubblica vita, specifica le entrate e le spese, forma il bilancio, accerta il debito pubblico, osserva il moto della popolazione, narra rovesci economici, enumera le arti e le industrie, ragionando di lor condizioni; pone, come giustamente fu detto, i fondamenti della statistica. Qua e là, nel corso della lunga e minuta sua narrazione, riferisce qualche rara leggenda, come quelle già ricordate delle origini di Fiesole e di Firenze, o quella di Gog e Magog, e alcuni miracoli accaduti a' suoi dì; ma le favole non trovano in lui facile credenza; e quando viene a discorrere, in principio del terzo libro, di quell'antico simulacro di Marte che i Fiorentini credevano essere presidio della loro città, e che dopo esser rimasto sommerso in Arno più secoli, fu posto, al tempo di Carlo Magno, su una pila, ove ora è Ponte Vecchio, egli dice risolutamente: “grande simplicità mi pare a credere, che una sì fatta pietra potesse ciò adoperare; ma vulgarmente si dicea per li antichi, che mutandola convenia che la città avesse mutazione„. E come avrebbe potuto avere l'animo inclinato alle favole quel Dino Compagni, cui lo spettacolo della città partita empieva di così vivo rammarico e di così generoso sdegno, e che in procacciar la concordia de' male avvisati cittadini spendeva tutto sè stesso? La turbolenza e il periglio continuo della vita reale nelle città nostre, le passioni prosciolte e gl'interessi molteplici in contrasto, dovevano distogliere di necessità le menti dalle finzioni e dai sogni. E già nella coscienza degli uomini meno colti certi temi tradizionali di visione o di leggenda venivano rimettendo alquanto del loro carattere pauroso, e si piegavano a interpretazioni e a propositi che dovevano a poco a poco alterarne profondamente lo spirito. Narra lo stesso Giovanni Villani che nel maggio del 1304, essendo in Firenze il Cardinal da Prato, con buona speranza di metter pace fra i cittadini, si fecero le compagnie e le brigate de' sollazzi, in più parti della città, a gara l'una contrada dell'altra, e quei di Borgo San Friano, i quali avevano per antica usanza di fare più nuovi e diversi giuochi, si mandarono un bando per la terra, che chi volesse sapere novelle dell'altro mondo dovesse essere il dì di calende di maggio in sul ponte alla Carraja e d'intorno all'Arno. E fecero di palchi, sopra barche, una immagine dell'Inferno, piena di diavoli, e di anime dannate, e di fuochi, e di varie qualità di tormenti, sicchè parea odiosa cosa e spaventevole a udire e vedere. Al quale nuovo giuoco trasse sì grande quantità di popolo, che, sfasciatosi il ponte, il quale era ancora di legname, molti annegarono, molti rimasero guasti della persona, di modo che, nota lo storico, il giuoco da beffe tornò a vero.
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I gran moti religiosi dei due secoli precedenti, dei due secoli che avevano veduto Gioachino di Fiora, e le torme dei flagellanti, e gli apostoli dell'Evangelo eterno, s'erano andati a mano a mano chetando. Nasceva Caterina da Siena; ma l'opera di san Francesco isteriliva; e uno spirito laico, indocile ed irrequieto si diffondeva allo intorno e sormontava. Era nato in alcuni spiriti il concetto di una scienza autonoma, libera de' suoi movimenti; di una verità procacciata direttamente col mezzo della osservazione e della ragione, e tolta alla perigliosa comunanza delle credenze indiscusse, delle immaginazioni e delle favole. Già Federico II, grande avversario della Chiesa, cinto di dotti, avido di sapere era stato sperimentatore appassionato, e talvolta, feroce. Quel malavventurato di Cecco d'Ascoli, che qua in Firenze finì la vita sul rogo, e di cui la leggenda ebbe a narrare, indi a poco, un patto stretto col demonio e l'inganno sofferto, rimproverando a Dante le meraviglie e i miracoli della Commedia esclamava nell' Acerba:
Qui non se canta al modo del poeta
Che finge emmaginando cose vane
. . . . . . . . . . . . . . . .
Qui non si sogna per la selva obscura
. . . . . . . . . . . . . . . .
Lasso le ciance torno su nel vero:
Le favole me fo sempre inimiche.
Parole che molto dicono e più lasciano intendere.
Che alle leggende, più specialmente se ascetiche, dovessero poi essere avversi, in particolar modo, gl'increduli, dirò così, di professione, come Guido Cavalcanti (se di lui si sa il vero), e i seguaci di quella setta degli Epicurei, ricordata da Fra Salimbene e da Dante, alla quale aveva appartenuto Federico II, e, stando al giudizio di alcuno, anche Manfredi; setta che negava, in sua dottrina, la immortalità dell'anima; s'intende facilmente, come pure s'intende che non dovessero troppo curarsene i compagni di certe brigate sollazzevoli, sorte nelle città prosperose, arricchite dai commerci e dalle industrie, quali erano que' giovani della brigata spendereccia in Siena, che, messe in denaro tutte quasi le loro sostanze, e fattone un cumulo di dugentomila ducati, in termine di venti mesi li ebbero consumati, e rimasero poveri. I nostri viaggiatori esploravano intanto le più remote regioni dell'Asia, e vedevano dileguarsi dinanzi agli occhi le infinite meraviglie di cui già la fantasia degli antichi le avea popolate, sebbene non lasciassero di riferirne qualcuna. Marco Polo è un osservatore di prim'ordine, che studia i costumi delle genti da lui visitate, intende le ragioni della prosperità o dello scadimento degli Stati, descrive le merci ed i traffici e non bada, o di rado bada, a leggende e a portenti.
Francesco Petrarca fu detto il primo dei moderni, l'iniziatore dell'evo moderno, e non senza verità, sebbene non senza esagerazione. Meno che per la fede, e per l'indole del sentimento religioso, si può dire che per tutto il resto egli sia in contraddizione col medio evo, da cui esce, e che sembra chiudersi dietro di lui. Il suo è uno spirito di poeta e di critico al tempo stesso. Egli non serve nè all'autorità, nè alla tradizione, sebbene non manchi verso di esse del dovuto rispetto. Nessun uomo, in tutto il secolo, è più spregiudicato, più libero di mente di lui. La fede non uccide, nè comprime in lui la ragione, che si rafforza del sapere. Miracolo quasi unico, non pure in quel tempo, ma in tutti i tempi, egli è, quasi affatto, scevro di superstizioni. Deride l'astrologia, e ai sogni non crede, sebbene di due ch'egli ebbe narri i fatti esser seguiti poi come da quelli eragli stato mòstro. Quando il certosino Gioachino Ciani, in nome di un suo compagno di convento, poc'anzi morto in odore di santità, ammonì il Boccaccio che si ravvedesse, e facesse ammenda de' suoi trascorsi, se non voleva morire in breve, fu il Petrarca quegli che confortò l'autore del Decamerone, tutto sgomento di quella minaccia, e lo esortò a non darvi fede così alla leggiera, perchè poteva ben esserci inganno sotto.
Si capisce come il Petrarca, con tale indole e qualità d'ingegno, non dovesse essere troppo corrivo in accettare leggende; anzi dovesse averle piuttosto in dispregio, o cercare di trarne fuori, con l'ajuto della critica, quel tanto di verità che potessero contenere. E di ciò fanno prova gli scritti suoi. Nel libro secondo del trattato Della vita solitaria, egli riferisce parecchie leggende di santi; ma non senza esprimere alcuna volta un dubbio sulla loro veracità, o accennare a contraddizioni o ad errori. In una delle sue lettere familiari, scritta a Francesco, priore dei Santi Apostoli, egli narra come trovandosi un giorno nel convento di San Simpliciano, presso Milano, gli fu fatta vedere da que' monaci una Vita di esso santo, piena di cose alterate e di confusione, e va in collera contro lo scrittore di essa, e la vita del santo narra poi egli stesso sommariamente, in modo conforme a verità. In altra lettera sua, ch'è pure tra le familiari, scritta al cardinale Giovanni Colonna, abbiamo un altro esempio che merita d'essere ricordato. Nella città di Aquisgrana, dove capitò durante una delle molte sue peregrinazioni, egli udì narrare ai preti di quella cattedrale una strana novella. Carlo Magno s'era così perdutamente innamorato di una donna di bassa condizione, che non si scostava più un'ora da lei, e per lei trascurava i più gravi negozii dello Stato. Accadde che questa donna infermò e morì; ma non perciò mancò la passione dell'imperatore, il quale, come affascinato, continuò ad amare quel corpo senza vita, da cui più non voleva staccarsi. Una rivelazione del cielo fece avvisato di qualche frode un vescovo, il quale, approfittando di una breve assenza dell'imperatore, esaminò il corpo, e trovato sotto la lingua un anello magico, ch'era cagione del fascino, lo tolse. Incontanente Carlo cessò d'amare la morta, ma prese ad amare il buon vescovo, il quale non poteva più muover passo senz'averlo alle calcagna. Questi per liberare l'imperatore e sè stesso, e prevenire guai maggiori che avrebbero potuto succedere, gettò l'anello in un lago presso Aquisgrana; ma l'imperatore allora s'invaghì di quel lago, per modo che più non volle partirsene, e in Aquisgrana fermò la sua residenza, e quivi ordinò che i successori suoi fossero incoronati. Il Petrarca rinarra la novella, che dice d'aver poi anche letto in alcuno scrittore, ma non vi dà nessuna fede. La chiama una favoletta non ispiacevole; ricorda altre favole soggiunte da que' preti, le quali egli, nè può credere vere, nè stima che si debban ripetere; e da ultimo chiede scusa all'amico, se non potendo formar la sua lettera di cose serie, la formò di fanfaluche. Quella favoletta, che in più diversi modi trovasi riferita da scrittori del medio evo, vive ancora in Aquisgrana, nella tradizion popolare.
Che il Petrarca, primo degli umanisti e studiosissimo dell'antichità romana, non potesse credere le molte favole ch'erano corse, e ancora correvano, intorno a parecchi dei grandi scrittori latini, è cosa che non parrà strana a nessuno. Richiesto una volta da re Roberto di Napoli che cosa ei pensasse della magìa di Virgilio, rispose risolutamente avere il tutto in conto di favola inetta e di sogno.
Io non dirò col Settembrini che dal Boccaccio abbia principio un'era nuova, il terrore cessato, cominciato il riso e lo scetticismo; nè col De Sanctis che dal Boccaccio abbia principio a dirittura un nuovo mondo; ma bene dirò che l'autor del Decamerone fu uno spirito disinvolto e spregiudicato, amabilmente scettico e beffardo, niente devoto della tradizione, poco rispettoso dell'autorità, aperto assai più alle impressioni della vita reale, di cui fu dipintore insuperato, che non ai sogni della leggenda e alle ubbie del soprannaturale. In alcune parti egli vince, quanto a libertà di spirito, almeno negli anni suoi migliori, lo stesso Petrarca. Chiunque abbia letto il Decamerone può farne fede. L'inclinazione che il Petrarca ebbe naturalmente all'ascetismo egli non ebbe mai, nemmeno in vecchiezza, dopo che si fu ravveduto e pentito. Ebbe, gli è vero, alcune superstizioni, ma le più in sul tardi, quando già era molto mutato da quel di prima, e col vigor della mente gli si era scemata l'antica baldanza. Da giovane credette un po' ai sogni; ma quante più son le cose alle quali le sue novelle mostrano ch'ei non credette punto! Non credette alle virtù mirabili delle pietre preziose, di cui tanti, a cominciar dagli antichi, avevano scritto, e a cui non pochi dovevano credere ancora dopo di lui, tra gli altri Marsilio Ficino e Giambattista Porta; non credette alle malìe e agl'incanti; non ai fantasmi; perchè non si ride, così com'ei fa, delle cose cui si crede; e in materia d'amore, egli che ne fu intendentissimo, non ebbe fede alcuna nei filtri e nei brevi magici, ma solo nella gioventù, nella bellezza e nella grazia. E chi più di lui, e meglio di lui, derise i falsi santi, le false reliquie, i falsi miracoli, temi consueti di tante leggende? E chi lo agguagliò nel mettere in canzone le astinenze, le macerazioni e la santa vita di certi anacoreti? Veggasi l'uso che nella novella di Rinaldo d'Asti egli fa di una leggenda celebratissima, non meno divulgata in Italia che fuori, la leggenda di san Giuliano lo Spedaliere. E non è forse la novella di Ferondo, che vivo vivo fu messo in purgatorio, una satira delle visioni e dei viaggi nel mondo di là? e la novella di quel Tingoccio Mini, che si lasciò vedere, dopo morto, al compagno, una canzonatura delle apparizioni? e la novella di Maestro Simone che volle esser fatto della brigata che andava in corso, una salatissima parodia di tutti gli stregamenti, di tutti gl'incantesimi, di tutte le diavolerie? Ma dove forse il Boccaccio mostra più aperto il modo suo di sentire e di pensare rispetto alle leggende, si è nella novella di Nastagio degli Onesti, la quale essendo in origine, come tuttavia può vedersi nei racconti di Elinando e del Passavanti, una delle più fosche leggende ascetiche del medio evo, diventa sotto la penna dell'innamorato novellatore una storia molto profana, da cui si tragge questa curiosa e memorabile moralità, che chi si mostra duro e sconoscente in amore convien che paghi poi l'error suo, nel mondo di là, con atroci castighi.
E gli altri novellieri di quel secolo, venuti dopo il Boccaccio? Franco Sacchetti non ha neppure una leggenda mista alle sue novelle. Ser Giovanni Fiorentino ne reca alcune, perchè, pur di dar modo di cicalare a quella sua coppia scipita d'innamorati, e' toglie ciò che gli viene alle mani. Ser Giovanni Sercambi ne narra parecchie; alcune profane, quali son quelle degl'inganni fatti da donne a Virgilio e ad Aristotele; altre devote, come quelle del Re Superbo, e quella di un conte di Francia, che fece un patto col diavolo, e fu portato per aria all'Inferno. Ma non si capisce se egli, che è di tutti i novellieri italiani senza paragone il più laido, e ruba al Boccaccio la novella di Rinaldo d'Asti e l'altra di Ferondo, parli proprio sul serio, quando narra di un conte di Brustola, che, soccorso dalla Vergine, di cui era devoto, potè scampare dalle mani del diavolo, e riferisce un colloquio in versi che un ebreo di Roma, il quale poi si convertì, ebbe in una chiesa con una immagine della Madonna; giunti poi a certa novella ove racconta del modo tenuto da san Martino per punire un prete disonesto, e tutelare l'onor di un marito, ciò che sopratutto si capisce si è che il tempo delle pie leggende è passato per sempre.
E non delle pie soltanto è passato il tempo. L'umanesimo vien premendo e ributtando anche le profane, e più specialmente quelle che avevano argomento da persone, cose e fatti dell'antichità classica. L'antichità, che durante il medio evo era rimasta come velata agli occhi degli uomini, ora comincia a disvelarsi, a lasciarsi vedere qual fu veramente. Le favole nate da ammirativa ignoranza, o da terrore, a poco a poco dileguano. Gli eroi, i re, gl'imperatori, i poeti, i filosofi depongono le maschere e le bizzarre vesti della finzione, e racquistano a mano a mano l'antica figura. Le sacre mura di Roma scuoton da sè quella rigogliosa vegetazion di leggende ch'era loro cresciuta addosso. I Mirabilia non si perdono, ma si trasformano. La rinascente dottrina li penetra a grado a grado, e li purga di quelle favole secolari ond'eran pieni: ed ecco venir fuori a lungo andare certi Mirabilia nuovi, che con gli antichi non hanno quasi più nulla di comune. Verso il mezzo del secolo XIV (per quanto si può congetturare) uno scrittore della Curia Romana, e canonico di Santa Maria Rotonda, Giovanni Cavallino de' Cerroni, componeva in latino un libro intitolato Polyhistoria, il quale è, più che altro, un trattato d'antichità romane e, insieme, una descrizione di Roma. L'autore conosceva la Graphia, e senza dubbio anche i Mirabilia, ma di quelle favole non introduce nel suo libro se non pochissime, sebbene nol chiuda ad altre fantasticherie. Nasceva l'archeologia scientifica, e già non erano lontani Poggio Bracciolini e Flavio Biondo.
Tutto volto all'antichità, innamorato dell'arte antica e pieno ormai del suo spirito, l'umanesimo avversa ancora quell'epiche leggende, che, maturate nella oscurità e nella confusione dei tempi di mezzo, porgevano materia a indigesti romanzi in prosa e a popolareschi cantari, composti senz'arte e nudi d'ogni eleganza. Dante aveva giudicate bellissime le favole del ciclo di Artù; ma il Petrarca, che, quando volle fare un poema epico, andò a cercarne il soggetto nelle istorie di Roma antica, il Petrarca ne parla con manifesto disprezzo, non nato di sole ragioni morali, quando, descrivendo in uno de' suoi Trionfi la lunga processione de' prigionieri d'amore, fa che il misterioso amico che lo ammaestra prorompa in quelle parole:
Ecco quei che le carte empion di sogni,
Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,
Onde convien che 'l vulgo errante agogni.
E con manifesto disprezzo accenna ai rozzi cantari Franco Sacchetti, quando, narrata quella novella del fabbro che cantando, come si canta uno cantare, alcun pezzo del poema di Dante, ne tramestava e sconciava i versi, onde il poeta, per castigarlo, gli buttò sulla via tutti i ferri e gli arnesi che aveva in bottega, soggiunge: “Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose e torna al suo lavorio; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto, e lasciò stare il Dante.„ Ormai le vecchie leggende epiche avevano smarrito il vero e proprio carattere di leggende, e divenivano una materia tutta mobile e fantastica, senza radici nella credenza e nel sentimento, e preparata a trasformarsi in pura materia d'arte e, all'occorrenza, di beffa. Pochi anni ancora, e nascerà, qua in Firenze, Luigi Pulci.
Ecco principia nuovo secolo, appar nuovo dì, e le leggende tramontano. Tramontano le colorite leggende che avevano constellato il nostro cielo, e illuminate di fantastica luce, per lungo volger di tempi, le vie della vita, e penetrate le anime dei loro influssi, e scaldatele del loro calore. Tramontano, ma non si spengono. Come astri dilungatisi nelle profondità dello spazio, esse brillano ora in più recondite plaghe. Gli occhi delle moltitudini più non le scorgono; ma le scorgono i dotti; e figgendo in esse lo sguardo e la mente scrutano e intendono nel lume e nella natura loro non piccola parte della vita che fu, non piccola parte della grande e immortale anima della umanità.
GLI ARTISTI PISANI[12]
DI DIEGO MARTELLI
Donne gentili, cavalieri cortesi,
Fra le grandi scoperte di questo secolo ne è stata fatta una che si attaglia meravigliosamente al caso mio. Questa scoperta consiste nel pensare, come dall'alto di una piramide, si vedono le cose in modo assolutamente diverso da quando, dalla base si guarda di sotto in su. Difatti, ora che io mi trovo appollaiato su questo pinnacolo, sento tutta la responsabilità dell'opera, alla quale mi sono accinto; opera che mi pareva possibile quando ero alla base della piramide summentovata. Ora mi accorgo della pochezza mia, specialmente riflettendo agli illustri uomini che mi hanno preceduto, ed agli illustri che dovranno venire dopo di me. Io mi paragono ad un povero cantastorie orecchiante, ad uno zufolatore qualunque, messo al confronto dei più egregi contrappuntisti, dei divini strumenti di Paganini e di Sivori; piaccia alla bontà vostra che questo zufolo rusticano, non debba far la fine delli zufoli di montagna.
Dovendo dire dei grandi artisti, che nei primordi del risorgimento italico illustrarono e Pisa patria loro, e l'Italia tutta, io credo che si debba tornare, per così dire, un passo addietro, e mettersi bene in mente la situazione artistica, nella quale si trovava la società quando essi sorsero, ed i fatti che li precedettero. Per questa ragione mi sono domandato, se quello che usiamo chiamare bizantinismo — parola che sta a rappresentare il disprezzo delle generazioni successive e più colte, per un'epoca di ignoranza e di barbarie — sia veramente un epiteto che torni a capello, e sia per conseguenza una storica verità.
Io francamente non lo credo. Quando un mondo intiero si rinnuova, è quasi una necessità psichica quella di dimenticare le vecchie pratiche, e le vecchie teorie. Mercè lo impulso di certe dottrine e di certi sentimenti dell'anima, nasce, fiorisce e si sviluppa una certa arte. Quando questa ha percorso il suo ciclo, quando, a tempi maturi e maturati, succedono albori e risorgimenti, generati da nuove idee, e più potenti di quelle antiche, necessariamente bisogna, per un certo tempo, dimenticare il vecchio, ricostruire una verginità dell'anima, e trovare forme inusitate che con le antiche non abbiano nulla che vedere. Se penso ai monumenti insigni della epoca bizantina, ai monumenti del quinto o sesto secolo, alla Santa Sofia di Costantinopoli, al San Vitale di Ravenna, al San Clemente di Roma, e cerco in quella età, così poco nota, così poco studiata, di raccorre tutti gli elementi che mi possono dare una idea della potenza intellettiva di quel tempo, io dalla meraviglia sono indotto a credere che il bizantinismo non significhi un'epoca di barbarie, ma piuttosto un'epoca di grandi e splendidi orizzonti, un'epoca eminentemente artistica.
Giorni sono io visitava la biblioteca Laurenziana, nella quale mi era guida amorosa l'amico e compagno Biagi, e trovavo là un codice, che porta la data del 586, ed è per giunta un codice siriaco. Ebbene, se voi vorrete fare, a comodo vostro, una passeggiata in quella insigne biblioteca, se voi vorrete gettare un occhio amoroso su codesto codice, vedrete in quelle miniature, nelle quali manca affatto la bella arte della linea pura pagana, che vi si trova una intensità di sentimento tale, da dovere assolutamente riconoscere che chi dipingeva quelle pagine era un artista, ed un artista potente.
Però non si può disconoscere il fatto storico che angosciava quell'epoca e che si sovrappone alle dispute ed alle sottigliezze dei bizantini, alle aspirazioni ed alla costituzione di tutto il mondo cristiano avvenire; e questo è il rovesciarsi che fecero i barbari incolti sulle nostre contrade, seminandovi la desolazione e la morte.
Ho segnato qui (negli appunti) un brevissimo cenno delle condizioni d'Italia nel 566, e negli anni successivi. Ebbene, nel 566 una orribile pestilenza affligge e diserta quasi la Italia intiera. L'esterminio fu tanto che in alcune città non si vedevano più uomini; solo vagavano cani erranti, in cerca di qualche rimasuglio di cibo. Le messi non furon raccolte, le vendemmie non furono fatte, per mancanza di braccia, e perfino gli animali delle stalle rurali erravano pei campi, perchè non avevano più padrone. Nel 568, come se questa peste fosse stata poca, calarono i Longobardi, e capite che da una peste come quella descritta ad una invasione di Longobardi poca differenza poteva esserci. Nel 569 la carestia infuria, nel 570 una epizoozia orribile attacca gli armenti, cagionando anche negli uomini malattie tremende, fra queste il vaiolo; nel 589 spaventevoli inondazioni funestano l'Italia. Il Tevere straripa, fa guasti di ogni natura; a Verona l'Adige dà di fuori allagando mezza città, dissolve ed impaluda quelle che prima erano fertili contrade, impaludamento aiutato dalla gelosia de' nuovi venuti, e dalla necessità di difesa dei Veneti, rifugiati nelle isole della laguna; e per giunta alla derrata, stormi di cavallette, curiose invasioni di topi, portano dovunque la desolazione a tale, che gli abitanti della etrusca Roselle sono costretti ad abbandonarla, sopraffatti dalla loro molestia. Comprendete che in queste angustie se il sentimento artistico, che pure è forte in alcuni monumenti di quell'epoca, non fosse stato potentissimo, se quella fosse stata un'epoca di vera, di assoluta decadenza, se non ci fosse stato uno spirito nuovo che animava le menti di quegl'infelici, allora si sarebbe proprio potuto dire “Finis Italiæe„ come disgraziatamente è stato detto, in tempi più moderni “Finis Poloniæ„.
Orbene, appena dopo la invasione barbarica si comincia a riorganizzare una forma qualunque di società e di governo, appena si cominciano a raccogliere, per quanto non abbondanti, le messi, dall'ottavo all'undecimo secolo quest'arte si affina, si evolve, si educa, prende forma più gentile e più bella, e abbiamo nel mille una vera efflorescenza artistica. Nel 1071 nasce il San Marco di Venezia, nel 1013 si costruisce per opera del vescovo Ildebrando di Firenze il nostro bel San Miniato al Monte, preceduto dal Duomo di Fiesole e dalla Badia d'Arezzo. Cento e cento sono i monumenti che sorgono e nei quali voi, che siete certamente di buon gusto, non potete negare che una importanza immensa, una immensa potenza rivela il sentimento artistico che li creava; basti nominare fra tutti, da un capo all'altro d'Italia, e il San Marco di Venezia, vero splendore della civiltà cristiana, e l'abbazia di Monreale, monumento insigne, emulo e rivale di quello.
Leggendo di questa celebre abbazia, di questo grande monumento, trovai notato ch'esso è costruito su di una base perfettamente decimale, cioè in modo tale che tutte le proporzioni della basilica sono rappresentate da una funzione di numeri decimali. Vedete che in quell'epoca, che pare così trascurata, non solo la pianta, ma l'alzato eziandio, corrispondono a leggi non esclusive di architettura, ma di numero e di prospettiva. Si credeva e si riteneva, in que' tempi, quello che veramente si deve credere, cioè che l'architettura non è un aggruppamento di masse più o meno con gusto accomodate, come da un tappezziere si accomoda una sala qualunque, ma è veramente una sapiente armonia, una armonia che non ha nulla di differente, nella sua essenza, dalle armonie che si sprigionano dalle sapienti composizioni de' grandi maestri musicali; si può dire che una grande cattedrale, costruita su codesti principii, eguaglia una splendida sinfonia di Beethoven.
L'architettura, dice Victor Hugo, è il vero linguaggio dei tempi che precedono la stampa, ed è per questo che io principalmente di architettura ho voluto cominciare a parlare. Ma se un'arte è potente è egli mai possibile che le altre giacciano nella abiezione della ignoranza? Una cosa è conseguenziale dell'altra, lo scibile si svolge multiforme ma parallelo. In una certa raccolta cromolitografata di monumenti delle province meridionali che si conserva nella biblioteca Marucelliana, fra le altre cose ho trovato un dipinto che appartiene all'undecimo secolo, e rappresenta precisamente Cristo, il quale salva l'adultera dal supplizio. La figura dell'adultera è concepita in un modo, che si potrebbe oggi dire assolutamente moderno. Questa donna guarda il Salvatore, tranquillamente seduto e riguardante lei, con l'aria di chi non si rende ben conto della situazione nella quale si trova. Si comprende in quell'atteggiamento tutta la storia della nuova evoluzione del pensiero. Quella donna conosceva la legge del suo paese, essa era rea confessa, quindi sapeva la morte che l'attendeva; la parola che l'ha salvata non è un vecchio cavillo di giurista o di scriba, è una parola nuova che ha paralizzato tutti quanti. Ai lati si vedono i farisei andarsene guardando torvi il Cristo, come se dicessero “Oggi ci hai assolutamente sconfitti, ma ci rivedremo a suo tempo„; essa invece guarda Gesù e lo guarda in modo, come dire “O che affare è questo?„ C'è un sentimento intimo in quella espressione. Ora questo sentimento di intimità, che è potente nell'arte nostra moderna, e costituisce forse l'unica gloria dell'attuale nostro risorgimento artistico, i bizantini lo hanno posseduto e lo hanno posseduto molti secoli prima di noi. Da questo voi vedete che il bello dell'arte bizantina non va cercato nella esatta proporzione, nella ritmicità dell'arte greca, o greco-romana, che deriva dal solo ed esclusivo sentimento della forma, mentre in questa deriva da un sentimento dell'anima. Noi dobbiamo concedere che essa è un'arte grande, la dobbiamo studiare, e credo di potervi star garante, o signori, che quanto più osserverete le cose di quel tempo vi troverete un gran diletto ed una grande fonte di delizie artistiche.
Leggendo più qua e più là, mi avvenne di trovare questo modo di definire la bellezza, modo esposto da un frate, che ha avuto fama ed ingiustamente di essere nemico delle arti. Questi è frate Girolamo Savonarola che passa quasi per un iconoclasta per i suoi celebri auto-da-fè; se il monaco ferrarese non sentiva l'arte nuovamente pagana, non per questo era meno artista nel suo concetto, e ve lo dice egli stesso con la sua propria bocca in una predica della quale vuo' leggervi un brano.
“Dimmi (sono sue parole) vorrei sapere cosa è bellezza; la bellezza non consiste solo nella formosità di una parte del corpo, ma è una qualità che risulta dalla proporzione e corrispondenza delli membri e delle altre parti del corpo. Non dirai che la tal donna è bella per avere uno bello naso o belle mani, ma quando ci sono tutte le proporzioni. Donde viene questa bellezza? Se vai investigando, troverai che è dall'anima.„
Voi vedete dunque, o signori, che questo mio sentimento era diviso da un grande uomo e grande pensatore già qualche secolo fa!
Passiamo ora a Pisa, giacchè a Pisa dobbiamo venire.
Questa città, o che abbia come alcuni vogliono origine pelasgica o come altri credono ellenica, è sempre fondata da colonie che discesero dalle pendici dei monti dell'Ellade, da remiganti che partiti, in cerca di fortuna, dalle foci dell'Alfeo giunsero alla imboccatura dell'Arno. Quindi fino da' suoi primordi si può assicurare esser questa città di razza forte e gentile. A tempo degli Etruschi, Pisa tenne posto onorato e grande; certamente i suoi navigli quando i Tirreni toscani dominavano, non solo il nostro mare, ma si spingevano fino alle coste della Spagna e dell'Affrica, con alterne vicende furono o alleati o nemici dei Fenici di Cartagine, e tennero alto il nome loro e della loro città. Colonia Giulia ai tempi di Augusto, fu prediletta da Nerone, che la insignì di grandi e cospicui mutamenti, finchè nel 542 fu schiacciata dopo aspra difesa dalle orde dei Visigoti. Pur tuttavia Pisa resiste, e fino dall'epoche più tenebrose del medio evo italico, noi la vediamo costituita come città celebre ed illustre. Nell'ottavo secolo il diacono Paolo legge di grammatica in Pavia e diventa tutore di Carlomagno, che seco lo porta alla sua reggia di Francia, dove è riconosciuto, dal monaco Alcuino, l'altissimo merito di costui. Alle crociate i Pisani presero sempre nobilissima parte, e papa Eugenio III di casa Paganelli, benedettino ed amico di san Bernardo, fu pure pisano. Nel 1017 papa Benedetto mandava legati a Pisa per eccitare i Pisani a cacciare i Saraceni dalla Sardegna; ed i consoli, insieme al vescovo Lamberto de' Lanfranchi, col consenso del popolo, deliberarono di partecipare alla impresa purchè fosse loro consegnato il vessillo di san Pietro. Nel 1114 li vediamo partire per la conquista delle Baleari, ed al Duomo pisano poco dopo mettevano una porta trasportata da Maiorca, trofeo glorioso della loro vittoria. Questa loro campagna fu cantata in esametri, abbastanza degni di questo nome, da un monaco di nome Lorenzo da Verna, nel 1188. Avendo i Pisani in quell'epoca molti e frequenti contatti con Costantinopoli, incaricarono Burgundio, uno de' loro maggiorenti, che mentre andava a ratificare una pace con quello imperatore, verso il 1135, portasse seco il codice delle Pandette che fu il primo codice di leggi romane ritornato in Italia. Esso dal greco lo tradusse in latino, come tradusse in latino le opere di Galeno, tantochè a questo benemerito fu posta sul sepolcro, ancora esistente nella chiesa di San Paolo a Ripa d'Arno, una iscrizione enumerativa delle sue virtù nella quale, non a torto, è chiamato “Doctor doctorum„.
E nell'anno 1202 incipit liber Abbaci compositus a Leonardo filio Bonacci. Questo antico Abbaco, è nulla di meno che la introduzione del calcolo a cifre arabiche o indiche nelle matematiche, e nell'uso comune. Voi capite che, a quell'epoca, una scoperta di cotesto genere equivaleva senza forse alle future glorie del cittadino pisano Galileo Galilei. Finalmente, quando dalla bassa latinità dei tempi scaturisce il nuovo fiore della lingua nostra, nel 1295 troviamo in bellissimo italiano scritto un trattato di pace con Elmiro di Momino re di Tunisi, nel quale si assicurano franchigie e rispetto per terra e per mare ai cittadini della repubblica pisana. Ve ne leggo un piccolo brano perchè questo brano dà una esatta idea della vastità dei domini di Pisa. Ivi al capitolo,
“ De l'isule de' Pisani.
“Lo quale dominus Parenti disse e ricordone lo confine delle terre loro le quali messe sono in questa pace e le quali sono in terra ferma et grande, cio este dallo Corbo infine a Civitavecchia et l'isule le quali sono in mare, ciò este tutta l'isula de Sardinia et castello di Castro et isula di Corsica et l'isula di Pianosa, d'Elba, et l'isula di Capraja e l'isula di Gorgona e l'isula del Giglio e l'isula di Monte Cristo.„
Pure in buon volgare è scritto un diploma di Arrigo re di Gerusalemme e di Cipro, che concede consolato ed esenzioni ai Pisani nel 1291.
Queste erano le condizioni di Pisa dal decimo al tredicesimo secolo, nel quale resistè con diciotto anni di guerre maledette contro la lega guelfa toscana, sussidiata dalla rivale sua Genova. Voi vedete che è già molto che una città che, dopo tutto, conta un numero di abitanti assai limitato che la maggior parte del suo territorio possiede in terreni di conquista, possa in un solo momento raccogliere tanta virtù, potenza e civiltà. Difatti, quando l'impresa di Palermo contro i Saraceni fu condotta a termine, fortunatamente, sorge il gran Duomo, la grande primaziale di Pisa.
Prima di questa già esistevano varie altre chiese più antiche ed aveva Pisa la sua cattedrale nel San Paolo a Ripa d'Arno. In questo noi troviamo il germe, il principio della futura costruzione del Duomo, come in un'altra piccola ed elegante chiesa di Diotisalvi, nella chiesa del Santo Sepolcro, troviamo il germe e l'origine del bel San Giovanni.
Buschetto, che fu l'autore del Duomo, si crede da alcuni che possa non esser pisano; però è molto controversa la cosa, perchè da un certo verso nel quale accenna a Dulichio, ma nel quale si allude anche alla ingegnosità di Ulisse, non si capisce bene se si voglia dare questa isola greca come patria a Buschetto, o se si voglia fare allusione alla sagacia con la quale seppe trovare gli ingegni, difficilissimi per quei tempi, con i quali potè erigere una mole sì vasta.
Il Duomo di Pisa, come tutte le chiese di quel tempo, è per la maggior parte costruito con materiale raccolto dovunque, da edifizi preesistenti. La leggenda vuole che i Pisani dalle loro conquiste portassero quelli immensi blocchi di granito e di marmo. Io propendo a credere, e posso dire, secondo anche il parere di un pisano molto amante delle patrie antichità, l'eruditissimo Pelosini, che questa arte nuova, che non avea più nulla che fare col vecchio, si servisse dei ruderi degli antichi monumenti come di materiale pei nuovi; però, se voi guardate quanta grazia, quanta sveltezza esiste nel modo di combinare quelle arcate, su colonne di diversa grandezza, di accomodare a quelle capitelli di diverso tipo, troverete che se l'architettura non è più la classica, la vecchia architettura pagana, pur tuttavia è certamente una razza greca o derivante dall'Ellade, quella alla quale era dato inalzare, col sentimento rinnuovato e cristiano, un monumento di squisita eleganza come il Duomo di Pisa.
Accanto al Duomo sorse, pochi anni dopo, il San Giovanni, opera di Diotisalvi. A metà della costruzione mancarono i danari; i Pisani non vollero però che il lavoro rimanesse a mezzo, e si quotarono, con una quotazione volontaria, di un soldo d'oro a famiglia. Questo avvenimento ci giova per avere una idea della potenza della popolazione di Pisa, poichè ci resulta che trentaquattromila famiglie danno un minimum di centocinquantamila abitanti nella città. Voi vedete che per una città medioevale, centocinquantamila abitanti, raccolti in trentaquattromila famiglie che volontariamente potevano spendere un soldo d'oro, il numero non è piccolo, e vi dimostra che Pisa era uno dei più grandi empori del Mediterraneo d'allora.
Grande ammiraglio della flotta pisana, non solo, ma anche di tutta la flotta della terza crociata, era lo arcivescovo Ubaldo de' Lanfranchi; nè sembri strano che l'arcivescovo comandasse codesta spedizione, poichè siamo appunto nell'epoca la quale coincide con quel risveglio della latinità, che ebbe pei primi rappresentanti i vescovi, a quel momento della nostra storia che Giuseppe Ferrari chiama rivoluzione dei vescovi, la quale precede la rivoluzione dei consoli. Ebbene, questo fiero arcivescovo, giunto alle coste della Palestina e sbarcato, seguitò gli eserciti di terra comandati, come sapete, da Barbarossa, da Riccardo Cuor di Leone, e da Filippo Augusto re di Francia, e sul Calvario pose la sua tenda. In quel luogo santo per la memoria del Redentore, ebbe una artistica e religiosa idea, pensò che le sue navi eran da tanto che avrebbero potuto trasportare in patria quanta di questa santa terra fosse stata necessaria, perchè i Pisani potessero riposare in quella il sonno della morte custoditi come da una preziosa reliquia.
Alla idea tenne dietro e pronta l'esecuzione; furon caricati i navigli onerari della flotta pisana; nè poco potenti dovevano essere se si accinsero a tanta impresa; e la terra che fu bagnata dal sangue del Giusto fu trasportata nel Camposanto di Pisa.
Reliquia così grande e così singolare doveva essere per certo custodita con molta cura; ed infatti ad un grande artista capitò la fortuna di eseguire la bella commissione, e la santa reliquia ebbe pure la fortuna di trovare un artista degno di lei; per cui nacque l'occasione di uno dei più bei monumenti che mai si potessero immaginare. Infatti se, conosciutene le origini, pensate al Camposanto di Pisa, opera di Giovanni di Niccola Pisano, voi probabilmente sarete con me nel convenire che quel Camposanto ha veramente la forma di un cofano. Ricordatevi dei cofani preziosi lavorati nel tredicesimo secolo, rammentatevi la forma oblunga e semplice del Camposanto pisano, la intonazione di quelle mura rivestite di verrucano, simile all'avorio ingiallito, e troverete che veramente all'esterno esso è tutto semplicità, è come una cassetta nella quale è stato posto questo grande gioiello. All'interno invece il monumento si sviluppa in vaghissimi loggiati; la gemma che si voleva custodire, che si voleva onorare come santo ricordo, non doveva avere esteriorità, era cosa intima, era dell'anima; perchè il sacrato costituito dal rettangolo della terra portata dalla Palestina sta esposto al sole ed ivi fioriscono le primavere, nè ha tettoia come l'hanno i loggiati che lo inghirlandano. In codesto esempio di architettura, come nella loggia dell'Orsanmichele di Firenze, vediamo già gli archi tondi, combinati con parecchie curve che formano l'ogiva; caratteristica specialissima dell'architettura pisana, ed anche in parte dell'architettura fiorentina; la quale non ha mai il sesto acuto gotico schietto ma sempre addolcito e modificato.
Questi i principali architetti ed i più illustri; insieme ad essi Bonanno, autore del campanile, che lavora insieme con Guglielmo d'Innspruck, frate domenicano.
Io non ho tempo nè voglia di farvi dettagli minuti su ciò che vi ho descritto; si possono citare dei passi di uno scrittore, le opere d'arte bisogna vederle.
Accanto a questi artefici delle grandi masse e delle grandi linee, riesciti perfetti, ci sono gli artisti del pennello e dello scalpello e quindi i grandi nomi di Giunta da Pisa, di Niccola Pisano, di Giovanni suo figlio, di Andrea da Pontedera, di Nino di Tommaso figlio di Andrea. Questi sono, ed è naturale, i più conosciuti. Però per quanto si sappia e si creda che il Giunta, amico com'era di frate Elia edificatore del San Francesco di Assisi, certamente vi dipingesse, ciononostante per la gelosia de' Fiorentini, che volle a Pisa togliere ogni gloria in un certo tempo, si contestano a lui molte di quelle pitture attribuendole a Cimabue. Allora la cosa poteva andare, ma oggi che vivaddio ci sentiamo tutti Italiani, non ci importa se l'architettura o la pittura prime risorsero o a Pisa, o a Siena, o ad Arezzo, o a Firenze; rinacquero certamente e risorsero in Italia e ci basta.
Del resto il Giunta fu un grande pittore, e probabilmente iniziò Cimabue nell'arte sua. Nei pressi di Pisa abbiamo una antichissima chiesa forse del nono secolo, il San Piero in Grado. Essa fu costruita usando colonne e capitelli greci e romani, col materiale avventizio che probabilmente si trovava, come abbiamo detto, sparso nei dintorni di codesta località; certo che a quella chiesa i Pisani dovevano dare molta importanza, perchè la leggenda che a quella si collega che narra come san Pietro stesso, navigando per Roma, fosse da una tempesta gettato a codesto lido, e che quivi consacrasse la pietra dello altare, gli attribuisce un carattere molto nobile; di più, questa era la chiesa del porto, e le chiese dei porti in tutti i tempi ed in tutti i porti sono state inalzate con grande magnificenza e custodite con grande riverenza.
La chiesa del porto pisano è anteriore al San Paolo ed è la più grande e la più bella che i Pisani avessero prima del Duomo. Questo è un esempio singolarissimo — sul quale un nostro povero amico, Emilio Marcucci, grande indagatore delle cose di quell'epoca, si affaticava — della pittura murale, che costituisce parte integrante della architettura dello edifizio. Infatti la chiesa di San Piero in Grado, non è, come molte altre chiese posteriori, decorata di pitture murali, distese come arazzi simili a quelli che ornano le pareti di questa sala, delle grandi dipinture cioè che vanno da uno zoccolo poco rilevato dall'impiantito, del monumento che si vuole abbellire, fino alla vetta. La chiesa di San Piero in Grado ha gli archi policromi rossi e bianchi, ha fra gli archi delle decorazioni a colori, sopra la linea degli archi, dei piccoli tabernacoli disegnati con incipiente prospettiva, dentro i quali una sfilata con le immagini policrome di tutti i papi.
Sopra questa, un'altra piccola decorazione a rilievo (sempre dipinta), e, sopra, un'altra grande decorazione a scompartimenti, come generalmente si vedono ovunque, rappresentanti le storie del martirio di san Pietro; dopo queste, salendo, un ordine di finestre e di archi dipinti che non combinano nemmeno con le luci vere della chiesa; ed in queste finestre finte, che costituiscono un ordine di pilastri ed archi policromi vaghissimo, sono accuratamente dipinti gli impostoni di legno ora chiusi ora aperti ed ora socchiusi, e da questi ultimi fan capolino degli angeli, che dal di fuori al di dentro guardano nel Santuario; motivo graziosissimo quanto mai. Questo modo di decorazione è importante per questo, che senza le dipinture la chiesa mancherebbe della principale sua architettura. Questo è un principio generale, contrario a quello degli architetti moderni, che quando hanno costruito una mole qualunque chiamano il primo imbianchino che capita perchè ne faccia quello che li pare (e ciò sia detto fra parentesi).
Di Niccolò Pisano si è voluta impugnare la patria, inquantochè si è trovato un documento delli 11 maggio 1266 nel quale si dice che fra Melano, operaio del Duomo di Siena, Requisivit magistrum Nicholam Petri de Apulia, e siccome fu esso chiamato da re Carlo d'Angiò nel regno di Napoli, dove molte tracce del suo sapere lasciava, si è voluta rivendicare questa paternità alle provincie meridionali, e dalle parole de Apulia desumere che fosse pugliese anzichè pisano. Però il dotto cav. Fanfani Centofanti di Pisa, cercando ha trovato, che Pulia si chiama un sobborgo meridionale della città di Lucca e che esiste una Pulia, borgata Aretina, per cui è probabile che questo nome di Pulia venga da un luogo prossimo a Pisa o per lo meno toscano.
Che le opere principali di Niccolò siano fatte a Pisa, e che abbia vissuto in Pisa, risulta da molti documenti nei quali esso stesso si confessa pisano; esso dice, facendo delle ricevute all'operaio del Duomo di Siena: “Ricevuto pel pergamo io Niccolò Pisano della cappella di San Blasio„ determinando anche la parrocchia ove teneva domicilio. Del resto poi la dicitura Petri de Apulia potrebbe significare che non lui ma il padre suo Pietro fosse di Pulia. Lasciamo andare, è uno dei più grandi artisti che siano mai stati per la forza del sentimento. Le opere che fece sono moltissime.
Trovo qui negli appunti che nelle ricevute fatte da lui dal 26 luglio 1267 al 6 di novembre 1268 a fra Melano operaio del Duomo di Siena che per ben tre volte si sottoscrive: “ Ego magister Nicolus olim Petri lapidum de Pissis popoli Sancti Blasii. „
Egli oltre il pergamo del Duomo di Siena fece quello del San Giovanni di Pisa, l'Arca del San Domenico di Bologna, lavorò nel 1225 una Deposizione dalla Croce nel San Martino di Lucca, una Madonna con San Domenico per la Misericordia di Firenze e come architetto concepì e diresse i lavori del convento e della chiesa dei Domenicani di Bologna, del palazzo degli Anziani di Pisa, che era dove ora è la scuola normale, sulla piazza de' Cavalieri, fece in Pisa la chiesa e il campanile di San Niccola, la chiesa del Santo a Padova, il San Jacopo a Pistoia, la Santa Margherita a Cortona, la chiesa de' Frari a Venezia e la elegantissima nostra Santa Trinità. Ad Orvieto, coadiuvato da fra Guglielmo, scultore dell'ordine dei Domenicani, lavorò i bassorilievi del Duomo, circa i quali il padre Della Valle, scrittore dell'epoca barocca (e questo va tenuto a mente perchè i barocchi dispregiavano le sculture de' tempi primitivi), si esprime così: “E il marmo dei due bravi Pisani maneggiato con grande eccellenza mi parve parlante, imperioso.„
Questo imperioso io lo trovo bellissimo, inquantochè prova come questi artisti, ad onta della differenza del secolo nel quale lo scrittore parlava di loro, fossero così potenti da imporsi, tanto imperiosamente, che la differenza di scuola non influiva affatto perchè fosse giocoforza riconoscerne la eccellenza. Ora quest'arte che s'impone, che, attraverso i secoli ed i gusti, rimane sempre eccellente, bisogna convenire che è l'arte perfetta, grande per quella virtù dell'anima che il Savonarola ci dice.
Giovanni lavorò quanto il padre, e forse più; fu, come già vi ho detto, l'autore del celebre chiostro del Camposanto di Pisa, lavorò con Andrea e Nino a quel gioiello che è la chiesa di Santa Maria della Spina; e qui voglio affacciare alla mente vostra come le memorie della passione di Cristo e della redenzione del genere umano, si colleghino alla vecchia storia delle crociate pisane. In questa chiesa della Spina si conserva la reliquia di una spina della corona posta in capo a Gesù Nazareno portata anch'essa di Terra Santa, e da questa tradizione si inspirò la bella statua della Madonna che al bambino Gesù, che tiene in collo, porge una rosa. L'arca altare di San Donato in Arezzo è pure lavoro di Giovanni Pisano, e vorrei che voi poteste vedere il restauro e la interpretazione di codesto lavoro fatto dal già rammentato mio amico Marcucci, per capire a quale eleganza sarebbe arrivata quell'opera che rimase incompiuta nelle mani dell'artefice pisano. A quest'arca insigne con Giovanni Pisano lavorarono degli artefici tedeschi, che poi andarono al servizio di papa Bonifazio VIII, che se ne servì lungamente in varie opere, che ora è inutile stare a descrivere. Questo però vi faccia capire come l'arte avesse carattere universale e di una continua corrispondenza di idee da un capo all'altro di Europa. Quando avessi occasione di parlarvi dei primordi dell'arte in Germania, vi farei vedere come l'arte nostra è stata trasportata colà: ci sono alcuni monumenti, alcune sculture che dimostrano questa parentela, questa frammassoneria del genio che dilaga dalle nostre sponde in tutti i climi ed in tutti i paesi.
Nel 1283, Giovanni, chiamato da re Carlo a Napoli, edifica il Castel dell'Uovo; nel 1302 lo vediamo a Carrara per provvedere i marmi per il pulpito nuovo del Duomo di Pisa, assiste alla loro estrazione e ne cura lo imbarco alla spiaggia. Nel terzo pilastro del lato meridionale della Primaziale di Pisa si legge: In nomine Domini amen. Borgogno di Fado fece fare lo perbio nuovo lo quale è in Duomo cominciati corente ani Domini 1302 fu finito in ani Domini corente 1311 del mese di Diciembre.
Pur tuttavia per una scoperta fatta nel 1865 di una iscrizione nello zoccolo dell'ultimo pilastro a destra della facciata del Duomo dove si legge: † Sepoltura Guglielmi magistri qui fecit pergum Sancte Marie, si crede che non sia opera originale di Giovanni Pisano il pergamo di Pisa. Questa opinione però è contestata da dei fatti: primo il carattere della detta iscrizione che non è dell'epoca di Giovanni Pisano, e poi se è detto che Borgogno fece fare un pulpito nuovo pel Duomo, ciò indica che ce n'era uno vecchio; nè è possibile che una chiesa, finita già molti anni avanti, fosse priva del pergamo. Quindi, o che l'autore del vecchio pergamo fosse questo Guglielmo o che la parola pergum vada interpretata diversamente, certo si è che, guardando ai resti, si riconosce evidentissima la maniera scultoria assoluta e decisa di Giovanni Pisano. Questo pergamo fu disfatto e rovinato dopo che la cattedrale di Pisa ebbe a soffrire d'incendio nel 1596, incendio terribile al quale dobbiamo se si persero le belle porte antiche che decoravano la facciata. Le origini di questo incendio furono identiche a quelle che hanno incendiato il Duomo di Siena recentemente. Una padella di stagnino, destinata a servire per i restauri del tetto di piombo, attaccò il fuoco alle travi e fu cagione di questo grave disastro. Però, come il pulpito di Niccolò a Siena, così questo di Pisa ebbe la fortuna di rimanere illeso dai rottami che cadevano dal tetto. Quello che il fuoco non aveva fatto lo fece però la insipienza dei preposti dell'opera in tempi posteriori; il pulpito fu disfatto perchè incomodo, disperse molte sue parti e con alcune rabberciato come oggi si vede. Si deve ad un bravo uomo di Pisa, Giuseppe Fontana, intagliatore amantissimo delle glorie artistiche della città sua, se con una pazienza da benedettino è andato cercando più qua e più là nei giardini privati e nel Camposanto urbano tutte le parti del vecchio pulpito. Queste parti ci sono, esso le ha misurate, sono proprio quelle, le ha rimesse insieme e facendo la proporzione in diminutivo, costruì in legno di sana pianta il modellino del pulpito come esso dovrebbe essere; e se voi andando a Pisa visitate la interessantissima pinacoteca del comune che i Pisani tengono però abbastanza male, troverete il modello di codesto pulpito; vedrete che è una delle più belle concezioni dello spirito degli architetti e scultori pisani. Lì, come in tutte le altre opere loro, l'anima si eleva meravigliosamente, e crea delle linee d'insieme d'una eleganza superba.
Quando Niccola e Giovanni avevano già empito il mondo della loro fama, ser Ugolino, figlio di Nino tabellione di Pontedera, battezzando il figlio col nome di Andrea, segnò la nascita del capostipite di una famiglia di artisti poderosissimi. Esso lavorò, come ho già detto, alla chiesa della Spina, costruì il castello di Scarperia, andò a Venezia e lavorò a varie statue del San Marco e prese parte come ingegnere alla costruzione dell'Arsenale. Prima del 1316 modifica e munisce la cinta delle mura di Firenze e ne costruisce il pezzo che da Porta a San Gallo andava alla Porta al Prato, edifica il torrione della Porta San Frediano, da dove miseramente dovevano dopo, in tempi più funesti, transitare i prigionieri della patria sua. Fu amicissimo di Giotto, mandò per suo mezzo una croce di bronzo al papa ed ebbe quindi, e forse per l'eccellenza di codesto lavoro riconosciuto dai Fiorentini, l'incarico della costruzione della porta maggiore del Battistero fiorentino, alla quale lavorò per ventidue anni. Essa è quella che guarda ora il Bigallo, gareggiando per lo ingegno e per la bellezza, con quelle di Lorenzo Ghiberti. Nel 1317 lavorò a Pistoia, servì Gualtieri duca d'Atene in molte costruzioni e forse anche nel Palazzo Vecchio nostro, ma non per questo cadde in disistima dei Fiorentini, che anzi continuò ad essere, anche dopo la famosa cacciata, uno dei loro capimaestri; tantochè non solo gli dettero la cittadinanza, ma a settantacinque anni quando morì, lo seppellirono onorevolmente in Santa Maria del Fiore.
Fu ad Orvieto e vi scolpì una parte dei bassorilievi della facciata, lavorò alla facciata del Duomo di Siena ed alle formelle del campanile di Giotto; io vi suggerisco di non passare davanti al Duomo senza gettare uno sguardo su quelle formelle, quasi dimenticate, dove voi vedrete specialmente in certe figure rappresentanti l'Architettura e la Matematica, una tale intensità di sentimento, una tale giustezza di movenze dalla quale vi sarà dato arguire quale eccellente artista egli fosse specialmente per esprimere il senso intimo delle cose.
Da lui nacquero Nino e Tommaso, collaboratori nella chiesa della Spina, dove Nino scolpisce la Madonna col San Pietro a fianco, nel quale si dice che il figlio abbia ritratte le sembianze del padre. Più specialmente orafo fu Tommaso, che per commissione del doge dell'Agnello fece il sepolcro di Margherita sua moglie, sepolcro che fu distrutto nell'incendio del Duomo del quale vi ho parlato. Nel Camposanto di Pisa si vede una Madonna in bassorilievo, con quattro santi, con questa iscrizione: “Tommaso figliuolo di maestro Andrea fece questo lavoro et fu Pisano.„ Nino morì nel 1368 ed ebbe compagno di studio quel Giovanni Balducci che scolpiva l'arca di Sant'Eustorgio a Milano.
La scultura, come vi ho detto e avete capito, è largamente rappresentata dai Pisani, che lavorando in materia più duratura hanno potuto lasciare più larga traccia di sè, ma però molti furono anche i pittori, e, per non andar troppo per le lunghe, nominerò soltanto pochi ed uno fra questi principalmente.
Questo tale è l'autore di un ritratto di San Tommaso d'Aquino che si trova nella chiesa di Santa Caterina di Pisa. Codesta pittura è del 1345. Sopra un fondo di cielo stellato, le figure dei filosofi Aristotele e Platone, che stanno ai lati della gigantesca figura del Santo, sono di movenze così giuste, di espressione così esatta, che ci dimostrano che il Traini è certamente uno dei più grandi artisti della sua epoca. Di lui resta anche, nella galleria di Pisa, un San Domenico il quale è degno di stare a fianco del suo collega San Tommaso d'Aquino. Di Francesco Traini poche o punte, oltre questo, sono, che io sappia, le opere che si conoscono.
Jacopo di Niccola detto il Gara di Pisa pittore della scuola di Cimabue, è abbastanza insigne, ma quello che più importa è il Traini che si vuole compagno ed amico dell'Orcagna e che può stargli degnamente a livello.
Nel breviario pisano si fa menzione fino dal 1303 di un Upettino Pisano ottimo dipintore. “Nero Nellus me pinxit A. D. MCCIC„ stava scritto in basso di una Madonna in tavola ora irreperibile della chiesa di Tripalle. Bernardo Nello di Giovanni Falconi Pisano fu allievo dell'Orcagna, e dipinse nel Camposanto le storie di Giobbe, continuando Giotto; e Vicino Pisano fu maestro di pittura e musaico e lavorò nel Duomo, insieme al Gaddi e a Lorenzo Paladini.
Tutta questa grande epopea artistica si svolge in Pisa a' suoi tempi gloriosi, e termina colle sventure di questa illustre città. Noi troviamo, nei ricordi dell'epoca, che molti sono gli artisti che dal di fuori vengono a Pisa per lavorare, ma abbiamo già veduto che molti sono gli artisti pisani che vanno a lavorare in altre parti d'Italia. L'Orcagna lavora a Pisa, Giotto lavora a Pisa, fra Jacopo da Torrita, i Gaddi suoi scolari lavorano a Pisa, di più avete visto Niccola andare a Siena per il pergamo, là incontrarsi con altri e viceversa; cosa che ci dimostra che per quanto gravi fossero gli odii e le cupidigie che spingevano gli Italiani a dilaniarsi fra loro, la comunione del pensiero pure esisteva; in mezzo a queste grandi divisioni l'Italia intelligente lavorava collettivamente per un solo fine.
Difatti, accanto ai grandi artisti della squadra dello scalpello e della tavolozza, noi troviamo anche i grandi artisti della penna, esemplari insigni della lingua nostra, fra questi il Passavanti, il Cavalca ed il primo commentatore della Divina Commedia, Francesco da Buti. Questo è un fatto che deve grandemente consolare perchè fa rimontare l'origine della nostra fratellanza e della nostra comunione spirituale, come nazione, tempi molto antichi e diversi.
Oggi le catene, trofeo odioso che dai Genovesi furono involate al porto pisano, sono tornate nella quiete del sepolcro, segno di pace eterna e solenne, nel bello, nel santo Camposanto pisano, così sieno sepolte per sempre le discordie fra noi; imperocchè Pisa disgraziatamente si tacque quando fu vinta dal tradimento, quando fu vinta dalla sventura, quando Firenze le si sovrappose, la distrusse, la sperperò. Essa risorse a poco a poco al principio dell'età moderna e negli albori di una nuova filosofia, tutta umana, Pisa precorre le città toscane e ci dà Galileo. Così nel 1848 primavera sacra d'Italia (perdonate a me vecchio la quarantottata) manda la sua gioventù universitaria sui campi lombardi dove si affermava, con l'armi in pugno, con l'olocausto della vita, la liberazione della patria.
LA GRANDEZZA DI VENEZIA
DI POMPEO MOLMENTI
Signore e Signori,
Io non posso oggi parlarvi, se non per incidenza, dell'arte veneziana. Nei tempi della grandezza veneta, lo storico non trova alla gloria dei fatti corrisponder quella delle arti di imitazione. Pure quei due secoli di gloria civile e guerriera hanno in sè tanta ideal luce di poesia da valer bene le opere del pennello e dello scalpello. Io vi discorrerò adunque le ragioni, per le quali a Venezia l'arte tardò ad apparire.
È noto che l'infanzia della singolare città fu piena di varî casi e di sanguinosi avvenimenti. Pure, allorchè la tirannide feudale fiaccava in altri paesi gli animi e gli ingegni, qui, con moti incomposti, se vuolsi, in lotte discordi, si rivendicavano col sangue la patria e l'esistenza, in questo remoto angolo d'Italia si tutelavano i diritti della libertà, prima ancora che sulle balze elvetiche balenassero i primi lampi d'indipendenza!
Alla torbida infanzia succede la gagliarda giovinezza di quella città, che ci ha dato, fra le rivolture italiane, il più alto esempio di libero reggimento, non contaminato per quattordici secoli da invasori stranieri.
È questo il periodo più glorioso della potenza veneziana. Le nebbiose congetture finiscono: incomincia la lucida certezza dei fatti. Cessa la triste notte delle ire e delle vendette, e già rosseggia dei crepuscoli mattutini la gloria del lavoro e della ricchezza. Questo fecondo lavoro, che smaglia le ire delle fazioni, fu veramente il blasone di famiglia del popolo veneziano.
Gli ultimi eredi del nome latino, spinti a salvamento fra le lagune dalla furia dei barbari, ignari di quella potenza morale, che portavano in sè e vigoreggiava nel cimento delle lotte, nell'attrito delle sventure aveano saputo, o validamente combattendo colle armi o destreggiandosi abilmente con arti sottili, allargare il dominio, rafforzare l'indipendenza, instaurare le leggi.
All'impero d'Oriente, a poco a poco si rivolgevano non più come soggetti, ma talvolta come salvatori, tal altra come fieri vendicatori di tradimenti e d'offese, sempre come eguali, ottenendone privilegi e franchigie. Debellarono i pirati e conquistarono l'Istria e la Dalmazia, facendo dell'Adriatico un mare italiano, mentre su tutti i lidi del Mediterraneo era rispettato e conosciuto il vessillo della Repubblica. Parteciparono alle crociate con fervore di credenti e con prudenza di mercadanti, ponendo un freno agli impeti dell'animo colle caute previdenze della ragione, e ottenendo in quelle imprese, generosamente irriflessive, vantaggi ai loro traffichi e quartieri proprî nelle vinte città, dove si reggevano con leggi veneziane. Nelle contese fra il Papa e il Barbarossa furono scelti a pacieri, e finalmente, nel 1204, essi, gli oscuri profughi della laguna, collegati ai più nobili signori d'Europa, piantarono il vessillo di San Marco sulle torri imperiali di Bisanzio.
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Venezia prorompeva a questo tempo in mirabile amplitudine di vita. Ma intanto che i suoi dominii allargavansi e diveniva il più temuto stato d'Europa, si andavano per converso man mano restringendo gl'interni liberi instituti, quasi la gloria delle conquiste e l'accresciuta potenza esteriore richiedessero più salda unità di governo. Quindi, a impedire i voleri superbi di un potente, o i capricci mutabili della folla, s'instituì, verso la fine del secolo XII, il Maggior Consiglio, destinato ad assumere in sè ogni autorità popolare. E in pari tempo si accrebbero i Consiglieri del Doge, i quali formarono il Minor Consiglio, e si tolse al popolo l'elezione del Capo dello Stato, commesso invece ad undici elettori, scelti dal Consiglio Grande.
Durante il ducato di Pietro Ziani, dal 1205 al 1229, Venezia si raccoglie in sè stessa per rafforzare le ottenute conquiste e godere dei passati trionfi.
L'immenso e ricco bottino fatto a Bisanzio, la più lauta preda, al dire del Villehardouin, eroe e storico di quell'impresa, la più lauta preda dalla creazione in poi, era stato per gran parte trasportato a Venezia. Quei tesori, preziosi per arte e per valore, adornavano i pubblici edifici, scintillavano sugli altari, ma brillavano eziandio, con evidente contrasto, nelle modeste case dei rudi e forti guerrieri dell'Adriatico. Imperocchè al lusso s'era fino allora preferito l'utile. Si erano bensì eretti templi, che servivano al fasto e alla pietà, e la dimora sontuosa dei governanti provava la prosperità della patria, ma le private fabbriche conservavano la primitiva umiltà. Qua e là qualche palazzo di pietra, come quelli del Memmi, dei Molin, dei Quirini, dei Dandolo, ma intorno, casupole coperte di paglia, ponti di legno, campi erbosi, canali tortuosi e, per fondo, la melanconica distesa delle paludi.
Strana la rassomiglianza nelle vicende e nei destini dei popoli grandi! Anche Atene, fino ai tempi di Temistocle, vide alzarsi superba solo l'Acropoli, fra le case umili e basse, dimora d'eroi. E la povera abitazione di Temistocle e quella modesta di Milziade, ricorda Demostene nell'orazione contro Aristocrate, rimproverando a' suoi contemporanei d'innalzare palazzi eguali o superiori in bellezza ai pubblici edifizi.
A poco a poco i veneti isolani, fieri delle vittorie, orgogliosi per le ricchezze acquistate, non furono più contenti di vivere con quella modestia, che alla vita civile si richiede. Come più dall'antica semplicità si allontanavano, doveano, insieme colla brama di goder nel presente il passato, sentire il fastidio della patria umile e angusta.
Ad altri lidi tendevano gli animi ambiziosi, e fra le visioni degli antichi trionfi, e nella tristezza del soggiorno fra le lagune, sfavillavano come un sogno incantato il Bosforo e Bisanzio. Fra lo squallore delle paludi adriache s'era fondata la nazionalità, fra la luce dell'Oriente, in regioni gioconde, essa si sarebbe ben svolta in tutta la sua potenza. Le bellezze e le armonie del mondo antico avrebbero potuto ridestarsi al palpito di una vergine e giovane vita.
Non s'era forse maturata al sole d'Oriente la civiltà veneziana? I veneti lari avrebbero ben trovato un luogo degno sulle sponde dell'Asia, fra le ampie palme e i boschi di mirto. Le vigorose audacie di un popolo nuovo avrebbero potuto infonder vita alle squisitezze raffinate di una civiltà moribonda, e la Sirena antica dell'Asia avrebbe potuto, sulle rive scintillanti del Bosforo, accogliere fra le sue braccia la Najade delle lagune. Sarebbe stato doloroso, è vero, lasciar la patria, santificata dai dolori, dalle sventure, dalle lotte, dai trionfi, doloroso abbandonare il tempio dorato del Santo Patrono, intorno al quale si collegava qualche cosa più che non fosse un semplice simbolo religioso, una effusione di anime credenti, il tempio, che non rappresentava solo la fede, ma la patria.
Ma l'Evangelista non avrebbe trovato forse onore di culto e devozione di preghiere anche sotto l'immensa cupola di Santa Sofia, nel tempio meraviglioso, che aveva fatto esclamare al suo fondatore Giustiniano: Salomone io ti ho vinto?
Di tal genere, se non tali appunto, doveano essere i pensieri di molti veneziani, non abbastanza veneziani, da formare il proposito di trasportare a Costantinopoli la sede della repubblica.
Narra uno storico, Daniele Barbaro, come il doge Pietro Ziani, considerando li grandi e mirabili progressi che se avevano fatto in Levante, ghe venne pensiero, che se dovesse andar ad abitar in Costantinopoli, e in quella città fermar e stabilir il dominio dei veneziani. Che proprio al solo doge sia venuta questa idea c'è da dubitare, come è da dubitare (e i migliori scrittori non ne fanno alcun cenno) che tale questione si sia dibattuta in Maggior Consiglio e per un solo voto si sia deciso di rimanere a Venezia. Ma non è da revocare in dubbio che molti vagheggiassero di trapiantarsi sul Bosforo, per ragioni d'ambizione e d'utilità. La leggenda attribuì al doge, a questo capo di uno Stato trafficante e positivo, la difesa delle ragioni di pratica utilità e di maturo senso civile.
Il Doge, dinanzi al Consiglio, fece una triste pittura delle condizioni materiali di Venezia. Essa ci prova quali ostacoli si siano vinti per edificare poi una città di così meravigliosa bellezza. Il Doge disse come Venezia fosse continuamente esposta ai pericoli d'inondazione, ricordò le città vicine scomparse. Quando invece il mare lascia scoperte le secche il fetore è insopportabile. Quel che si consuma in città è portato tutto dal di fuori; nelle paludi non frumento, nè uva, nè legna, non si raccolgono altro che cappe, granzi et altri pesseti malsani e di cattivo nutrimento. Invece a Costantinopoli si sarebbe stati in un paese comodo, fertile, abbondantissimo, dotado de tutte quasi quelle gratie et quei doni che da Dio et dalla natura se possono maggiori desiderar....
Alla prosa dell'utile, rispose la santa poesia della patria, che anche ai popoli più positivi ricorda come un paese non viva soltanto di dovizie e di commerci, ma sì anche di anima e di affetti. La tradizione incarna la religione della patria in un vecchio di molta autorità. Angelo Falier, procurator di San Marco, il quale rispondendo al doge rammentò come in quelle squallide paludi fossero morti e sepolti i padri, e vivessero i figli e le mogli e ogni cosa più caramente diletta.
Aggiunse la desolazione dei luoghi esser stata la causa della forza dei veneziani, spingendoli alla suprema principal industria: la navigazione. E molte altre nobili cose disse.
Rivoltosi poi — così un vecchio cronista, nella sua cara ingenuità — verso un'immagine di Gesù Cristo, con molto patetica preghiera invocò il suo patrocinio; e con le lagrime agli occhi smontò dalla bigoncia. Quinci ballottata la proposizione, di un solo voto venne deciso, e fu il voto della provvidenza, di non fare la proposta emigrazione.
Il voto della Provvidenza? E chi sa? Forse sarebbero nate altre sorti in Europa: forse la potenza musulmana, trovandosi dinanzi la gagliarda gente veneziana, invece che gli avanzi decrepiti dell'impero bizantino, si sarebbe infranta, nè lo stendardo di Maometto sarebbe sventolato sul Corno d'oro.
Ma, anche fra le lagune, Venezia si andava trasformando: un'altra società sorgeva e con essa nuove idee e nuovi sentimenti.
Mentre la luce dei Comuni andava in Italia estinguendosi e incominciavano le Signorie, e tra i papi, anelanti a fondare l'unità teocratica, e i cesari tedeschi, combattenti per la tirannide monarchica, ferveano contese, fra le venete paludi prosperava il più felice Stato della penisola.
Nè fra le prosperità il braccio svigoriva. Pel santo amore di libertà, che, oltre ad interessi commerciali, la stringeva di un vincolo morale ai Comuni italiani, ebbe Venezia gran parte nella prima lega lombarda; a distruggere l'oltracotanza feroce di Ezzelino da Romano, feudatario dell'impero, potè molto Venezia; a debellare i Genovesi, che per abbassare in Oriente la rivale, aveano patteggiato colla perfidia dei Paleologhi, ridivenuti imperatori di Costantinopoli, bastò Venezia; per conservare la supremazia dell'Adriatico contro le gelosie degli Stati confinanti, trovò forze Venezia, che allargò le sue conquiste in Dalmazia; alle scomuniche del papa francese Martino IV, che imponeva ai navigli di San Marco di allearsi coll'armata francese per combattere la guerra del Vespro Siciliano, non badò Venezia.
Nè tante imprese e tanti pericoli la distolsero dall'accorta serenità, con cui ella svolgeva l'elaborazione ultima de' suoi interni ordinamenti politici.
Alla fine del secolo XIII, nel governo veneziano succede una radicale riforma nelle instituzioni dello Stato: l'approvazione della legge proposta dal doge Pietro Gradenigo e comunemente conosciuta col nome di Serrata del Maggior Consiglio, giacchè chi non vi aveva appartenuto nei quattro ultimi anni non poteva più esservi ammesso.
Questa legge, che chiude il periodo democratico, portò anche nel vivere e nelle consuetudini un grande mutamento. I patrizî, che alla ricchezza avevano aggiunto ciò che ne è il compimento, la potenza, incominciarono a formare una casta a sè, lontana dal popolo.
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Ma la riforma del Gradenigo era di lunga mano preparata.
Lo abbiam veduto: fin dal giorno in cui Enrico Dandolo, dopo la conquista di Costantinopoli, prese il titolo di Doge di Venezia, della Dalmazia e della Croazia, Signore di un quarto e mezzo dell'impero di Romania, un grande cangiamento era avvenuto nell'animo dei veneti maggiorenti. È vero: essi curavano più l'utilità della dignità e lasciarono ai Fiamminghi e ai Francesi il titolo imperiale, paghi di accrescere i privilegi commerciali. Anche non chiesero vastità di possedimenti, ma sì, con pratica accortezza, una linea di terra, che dalle isole Jonie costeggiava e dominava tutto il mare fino alla Propontide. Pure, dopo tanta gloria d'imprese, gli animi si cullavano in un compiacimento a cui, come abbiamo detto, non erano estranei il desiderio delle sontuosità di una vita mondana e il sentimento del bello. Infatti Venezia si foggia novellamente.
I Veneziani aveano diviso i pericoli delle battaglie e le glorie del trionfo coi più celebrati cavalieri d'Europa. Pei rudi marinai dell'Adriatico, spiriti pratici che facevano traffichi e leggi, erano spettacolo nuovo certi riti di cortesia e certe gentili usanze, che tenevano in freno la violenza e associavano il culto della donna a quello del dovere militare e della religione. D'altra parte la vita errante e le sue avventure, la vista della natura d'Oriente, eternamente varia e fantastica, adornavano di nuove attrattive queste idee. Però Venezia accolse della cavalleria solo quei sentimenti, che possono anche convenire a popolo libero, ma le cortesie cavalleresche non ammollirono la gagliarda indole natìa. I Veneti rimasero estranei a quell'entusiasmo di galanteria cavalleresca, origine di una poesia di convenute raffinatezze.
E pure, parrebbe, niun aere più del veneziano adatto alla poesia romanzesca. Non ancora, è vero, dalle acque del Canal Grande sorgevano i suntuosi edifizi, sogni di poeta tradotti nel marmo, e nei quali il cesello ruba il mestiere allo scalpello. Ma sulla laguna i tramonti non doveano essere men dolcemente melanconici, nè le notti meno serenamente molli. E per questo i poeti moderni, malati di romanticismo, poterono sognare i dolci canti del trovatore, salienti, nel sereno armonioso delle notti veneziane, al verone della bionda patrizia, e via via tutti i ferravecchi della rettorica medievale al chiaro di luna. No, o signori, troppo fu mietuto dai pittori, dai poeti, dai romanzieri e ahimè! da certi storici nel campo di una Venezia scenografica, convenzionale, malata di scrofola romantica. A noi piace la città vigorosa e sana, ricca di quella gagliarda poesia, che rifugge dalle morbose fantasticherie, e s'inspira così alla sua storia singolare e gloriosa, come al silenzio raccolto delle sue strade e dei suoi canali, al colore meraviglioso, ai monumenti e alle memorie, alle lagrime e ai sorrisi delle cose. Pare, o signori, a Venezia i poeti sieno sempre stati considerati come perdigiorni, poichè nel lungo corso della civiltà veneziana e nel caldo sbocciare dell'arte, non troviamo molti poeti nè illustri. Questo Stato libero e possente, fra le cure di una politica vigilante e battagliera, avea ben altro a fare che incoraggiare il grazioso pispiglio dei poeti. L'anima non svapora in contemplazioni fantastiche. Alla poesia il cittadino veneziano guarda senza troppo amore; egli è affrettato, i suoi negozi lo chiamano, lo invitano gli affari del suo commercio. Perfino il dialetto, così dolce all'orecchio e al cuore nel linguaggio amoroso, meglio si presterà ai gravi movimenti dell'eloquenza politica, alle acute e profonde osservazioni della diplomazia. Nel secolo XIII il nome di un solo poeta giunge fino a noi, quello di Bartolomeo Zorzi, un patrizio mercante, che tra i barili di spezierie, faceva volare nella lingua occitanica il sirventese patriottico e la cobla d'amore. Sorpreso un dì sulla sua nave dai corsari genovesi, fu tratto prigione. Nelle carceri di Genova rispose coraggiosamente con un sirventese a Bonifazio Calvo, trovatore ligure il quale in versi provenzali avea insultato Venezia. E poi che la libertà si faceva attendere, lo Zorzi scrisse ancora contro i Genovesi feroci vituperi. Finalmente ei potè rivedere la patria, e la Repubblica, premiando più i suoi meriti patriottici che quelli poetici, mandò lo Zorzi a Corone in Morea comandante della fortezza.
Fra alcuni nomi di poeti oscuri troviamo più tardi, nel secolo XIV, un altro patrizio, Giovanni Quirini, il quale più che a' suoi versi deve nominanza alla sua amicizia con Dante.
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Ma che i Veneziani, distratti da guerre, da imprese, da traffichi, tributassero pochi omaggi alla gente letterata, è prova la lettera di Dante, la quale però dai più è ritenuta apocrifa. Riferendo a Guido da Polenta l'esito della sua ambasceria, l'esule divino racconta come innanzi a' governanti veneziani avesse incominciato a parlare latino. Fu esortato a cercare un interprete o a mutare favella. Allora, sdegnato, cominciò a parlare italiano, ma capivano poco anche questo.
Vero è che a purgare i Veneziani dalla taccia d'ignoranti bastano le memorie delle scuole fiorenti fra le lagune, e il trattato di fra Paolino minorita, una delle prime prose dialettali italiane, e le opere di scienze naturali dei Trevisan e la mirabile cronaca del doge Andrea Dandolo. A lavare i Veneziani dall'accusa di scortesi valgono le accoglienze liete fatte al Petrarca, il quale molto si compiaceva che nelle feste celebrate sulla piazza di San Marco, per la vittoria di Candia, il doge Lorenzo Celsi l'avesse fatto sedere alla sua destra, sulla loggia sovrastante la porta maggiore della basilica. Il Petrarca amava Venezia, si compiaceva, come scrivea al Boccaccio, delle soavi e dolci passeggiate sul mare, e lasciò gran parte dei suoi libri, alla città ricca d'oro, più ricca di fama; potente per facoltà, più potente per virtù; fondata sopra solidi marmi, più solidamente piantata sulle basi della civile concordia; cinta da salsi incorruttibili flutti, protetta da più incorruttibili consigli.
E il giudizio del Petrarca era giusto. Colla prudenza, i Veneti seppero ordinare i favori della fortuna e, come i Romani, essi congiunsero alle fine speculazioni del pensiero la pratica scienza di effettuarle. I nemici esteriori non si temevano, le cause di debolezza interna erano o parevano tolte, mercè i nuovi e rigidi ordinamenti aristocratici. Venezia poteva credere di esser secura.
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Ma dopo la legge del Gradenigo, che toglieva ogni azione popolare nel governo, s'ordirono congiure, scoppiarono rivolte. Però fra le armi dei cittadini, contendenti ad uccidersi, esciva più valida quella aristocrazia, che si tentava di abbattere.
Alla cospirazione di Marin Bocconio, impiccato, insieme coi principali suoi compagni, fra le due colonne, presso la porta del Palazzo Ducale, segue, dopo dieci anni, nel 1310, quella di Bajamonte Tiepolo. Il Tiepolo, con una forte mano di popolo, scende sulle vie gridando: — Morte al doge Gradenigo. — All'insolito romore si affaccia alla finestra una vecchierella, che inavvertitamente lascia cadere un mortaio di bronzo sul capo dell'alfiere, che a bandiera spiegata stava per entrare in piazza San Marco. Cade il vessillo dei ribelli, che perdono baldanza, mentre il doge coi suoi fidi si fa incontro a Bajamonte e lo mette in fuga. La Repubblica non andò lenta nel punire i ribelli. Inflessibile e fredda, Venezia sentiva nella severità delle leggi la salvezza dello Stato, e dopo le celebri congiure del Bocconio e del Tiepolo, s'instituì il Consiglio dei Dieci, destinato a mantenere e a salvaguardare gli ordini stabiliti. Tale Consiglio divenne ben presto il centro del Governo. I patrizi comprendevano quell'alta idea del dovere, che imprime negli animi il sentimento di una fatale necessità. Tutti gli ingegni, tutte le ricchezze, tutte le forze erano rivolte alla patria, alla patria tutto si sacrificava.
Fra le congiure, ordite dal popolo con fiero proposito di rivendicazione civile, o meglio tramate da qualche potente, che tentava volgere in suo favore le audacie popolane, la più famosa è quella di Marino Faliero. Intorno alla figura del vecchio doge s'è creata una leggenda, che la splendida musa del Byron, il pennello di Hayez e la facile vena musicale del Donizetti hanno resa popolare.
Il reggimento di ottimati salvò Venezia dal rapido e mutevole governo di tutti e dalla tirannide di un solo. Il buon governo si basa infatti su due negazioni principali: nè l'uno, nè i tutti.
Venezia, fiorente di commercio, forte di navilio, potente in terre lontane, potè svolgere tutte le sue forze complesse in questi tempi, che segnano l'apogeo della sua vera gloria. Anche il popolo andava adattandosi al nuovo ordine di cose, trovando modo di spiegare le sue energie nelle corporazioni delle arti. E i patrizi gli lasciavano alcune imagini non pericolose di governar sè stesso in tante piccole repubbliche, e non trascuravano occasione di ingrazionirsi i popolani, trattandoli con quella affabile famigliarità, che in fondo è il maggior segno di superiorità, ma che servì a poco a poco a far tacere ogni ribelle spirito d'orgoglio e a render temuti e amati i governanti. Per non citar, fra tanti, se non un solo esempio, gli arsenalotti, gli uomini destinati al servizio dell' Arzanà, celebrato da Dante, erano invitati in certi giorni solenni a un banchetto, a cui presiedeva la stessa famiglia ducale.
E fin dai primi tempi, i reggitori dello Stato s'accorsero come all'incremento dello spirito nazionale e alla quiete interna giovassero le solennità religiose congiunte alle feste, che segnavano le date gloriose dell'esistenza politica. Così la festa delle Marie perpetuava le memorie delle spose rapite dai corsari slavi, ricuperate dai Veneti; la solenne festa dell'Ascensione, in cui il doge saliva sul dorato naviglio e affermava il dominio del mare, richiamava alla memoria segnalate vittorie sull'Adriatico; la cerimonia del giovedì grasso ricordava la vittoria sul Patriarca di Aquileia, tutti, in una parola, i trionfi commemoranti vittorie guerresche e prosperi avvenimenti, s'univano alle cerimonie della religione.
Altri spettacoli invece promoveano lo sviluppo delle forze fisiche. Tali, le lotte colle canne d'India, le guerre dei pugni, sovra ponti senza parapetto, per cui molti pesti e malconci cadeano nell'acqua. Queste lotte si combattevano fra le due fazioni ond'era divisa Venezia: i Castellani (abitanti della parte denominata Castello) e i Nicolotti (abitanti della contrada di San Nicolò). Ultimi lampi, forse, degli antichi e fieri antagonismi, ma lampi a cui la folgore non seguiva, giacchè le gare fra Castellani e Nicolotti si limitavano alla supremazia incruenta delle caccie dei tori, delle forze d'Ercole, delle regate. Fra tutti questi spettacoli, che, notate bene, o signori, educavano il popolo a poco a poco al gusto del bello, al sentimento del colore, al bisogno dell'arte, fra tutti questi spettacoli, il più caratteristico era la regata, emulazione educatrice fra i più robusti rematori. Anche oggi, dopo tanto corso di tempo, di vicende, di sventure, il pensiero ritorna ai tempi andati, allora che il Canal Grande s'adorna per le regate di tappeti e d'arazzi antichi, e sulle barche, sulle fondamenta, sui traghetti s'agita un formicolaio di gente. Il tipo tizianesco delle popolane spicca, colla sua eleganza natìa, accanto alla bruna faccia del gondoliere. Qui le livree suntuose, più in là il farsetto sdruscito. A canto alla gondola, ov'è sdraiata l'altera patrizia, una povera barca dove cinguettano le poco linde popolane. Una luce diffusa si riflette sulle acque e sui vetri, illumina le tinte smaglianti delle vesti donnesche: una gaia festa di colore, non so che di magnifico e di elegante, che non ha perduto vaghezza e fa pensare al passato.
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Una mirabile floridezza davano alla città i traffichi, che si stendeano in tutti i porti del Mediterraneo e dell'Oceano europeo e nei principali dell'Asia e dell'Africa. Aveano squadre mercantili del Governo, o, come dicevano, del Comune, che trasportavano annualmente per mare merci per oltre 40 milioni delle nostre lire. Erano composte di otto o dieci navi ciascuna, e percorreano una linea fissa, come dinotava il nome di flotta di Romania, della Tana, di Siria, d'Egitto, di Fiandra. I capitani delle flotte prima di salpare giuravano ai santi Evangeli di Dio — proficuum et honorem Venetiarum eundo et reddeundo. Perdonate, o signori, questo abuso di citazioni, ma nella ingenua semplicità di questo grosso latino, pare aleggi sulla fronte l'aura di quei tempi, pare udir la voce di quei forti, che tenevano il giuramento ad evangelia sancta Dei, anche a prezzo del sangue.
Il flutto non ebbe mai terrori per essi; traevano in salvo la nave per mezzo ai gorghi mugghianti, spingevano la prora su mari inesplorati, toccavano terre sconosciute, e, reduci dai loro viaggi, affidavano allo scritto, a documento dei figli, le loro osservazioni, additavano ai posteri scoperte importantissime.
Marco Polo parve scrittore favoloso e fu verace nel raccontare le prodigiose avventure dei suoi viaggi, e i patrizi Zeno, precedendo Colombo di un secolo, mostravano ancora esistenti nell'America settentrionale gli avanzi di quei coloni scandinavi, che Abramo di Brema aveva ricordati nel secolo XI e Orderico Vitale nel successivo.
Venezia avea il monopolio del sale, e durante i secoli XIII e XIV, provvedeva di sale non pure molta parte delle provincie italiane, ma altresì i Saraceni e i Barbareschi. Altri traffichi: quelli delle spezierie, degli aromi, dei tessuti orientali, e nonostante i divieti e le scomuniche, degli schiavi.
I nobili facevano ancora il commercio direttamente e in persona, e si videro principi e duchi delle isole dell'Arcipelago, ambasciatori, legislatori, generali, capitani di flotte essere in pari tempo navigatori, mercanti di pepe, di zucchero e di scorze di noce moscata.
Quando il commercio condusse fra le lagune gente d'ogni parte del mondo, l'ospitalità veneziana fu larga e non pure per sentimento d'utilità, ma per gentilezza. Aveano dimora dal pubblico Armeni, Mori, Turchi, Greci, Siri ed erano accolti a festa i cittadini d'ogni parte d'Italia. Solo gli Ebrei, a volta a volta, si cacciavano e si richiamavano, secondo il richiedesse la pubblica utilità, e solo alla fine del secolo XIV, furono definitivamente accettati, non essendovi ancora in Venezia monti di pietà, nè pubblici banchi. Tanto vero che l'interesse è più forte dei più fieri pregiudizi. Qualche volta il pregiudizio e l'interesse s'uniscono in istrano connubio, come avvenne a san Luigi re di Francia, che per la salvazione della sua anima e di quella de' suoi antenati, rimetteva con decreto ai Cristiani una terza parte dei loro debiti cogli Ebrei. Così, se non con gli uomini, si saldavano i conti col cielo.
Nel secolo XIV, Venezia conteneva 190,000 abitanti, contava 38,000 marinai, quasi un terzo della popolazione maschile, 16,000 operai nell'Arsenale e 3300 navi sparse pei mari. La Zecca coniava un milione di ducati d'oro, 200,000 monete d'argento e 80,000 di rame all'anno. Più di mille patrizi possedevano una rendita di 200 a 500 mila lire all'anno. E non si dimentichi quale valore avesse allora il denaro. Le arti prosperavano, ma più che le belle, le utili, quelle disposate all'industria: l'orificeria, la vetraria, la tessitura di stoffe preziose, di damaschi, e tutte le arti più acconcie a una popolazione navigatrice. Per un esempio, i Fiorentini, questo quinto elemento del mondo, com'ebbe a chiamarli Bonifazio VIII, importavano a Venezia 16,000 pezze di stoffa, che si vendevan in Barberia, in Egitto, in Soria, in Cipro, in Rodi, in Romania, in Candia, in Morea, nell'Istria, e ogni mese recavano sul mercato veneziano 70,000 ducati in mercanzie, avendone in cambio dai Veneziani lane, sete, ori, argenti e gioielli.
Nè solo al mare e alle terre lontane d'Oriente la Repubblica volgeva il pensiero. Nel trecento i Veneziani erano signori di Padova, di Treviso, di tutto il Friuli, di Vicenza e di Verona.
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E al pari della potenza politica andavano crescendo la prosperità materiale e il viver lieto.
Mano mano succedevano generazioni più aristocraticamente foggiate e all'ombra della ricchezza il patrizio cominciava a riposare. Gli uomini adottavano le eleganti fogge di vestire di Francia, di Allemagna e di Spagna, già in voga in tutta Italia. Parimenti le donne abbandonarono il grave abito orientale. Anche il capo dello Stato, del quale si limitava ogni dì più la potestà, si volle circondato di sfoggiate apparenze, privilegi che dimostravano la magnificenza, non il potere della dignità. Al berretto di velluto rosso fu aggiunto nel 1253 un fregio d'oro, e nel 1361 una croce di diamanti. Le leggi dicono esplicitamente la maestà delle vesti dover accrescere quella del principe, e un decreto del 1320 ordina al doge di portare almeno dieci volte all'anno un bavero d'ermellino con bottoni d'oro. E che la magnificenza delle vesti conferisse alla dignità della persona, meglio d'ogni altro voleano provarlo le gentildonne. Ma pare i reggitori intendessero acqua e non tempesta, giacchè, fin dal 1299, s'iniziarono quelle leggi suntuarie, che vietavano i fastosi ornamenti, dannosi alle facoltà delli gentilhomeni, leggi che scendevano a particolarità da sarti e finivano col non ottener nulla.
A poco a poco tutto che brilla e sembra magnifico diviene oggetto di curiosità e di desiderio: a una maggior civiltà s'accompagna la decadenza del costume. Sempre così: quel che si acquista in cultura si perde in moralità, e le forti gare delle armi e del commercio lasciano il posto a usanze e fogge sempre più polite, e le età allegre succedono al tempo dei forti concepimenti e delle ardite azioni. Il patrizio diserta i negozi e si dedica agli studi eleganti, agli amori, ai piaceri, sorridenti di nuove attrattive. Anche la donna, che avea condotta una vita socchiusamente tranquilla, esce dalle pareti domestiche, splendendole in fronte gli albori di un nuovo dì, e si mescola tra la folla gioiosa. Belle imagini femminili, attraversanti la fervida vita veneziana, il cui ricordo giunge a noi come a traverso le nebbie del crepuscolo! Belle imagini di donne, incedenti gravi sugli altissimi zoccoli, dalle vesti conteste d'oro e a lunghissimo strascico, adorne di monili, di anelli e di armille d'oro e di perle e di gioie preziosissime! Le gale e il lusso degli adornamenti finiscono per trionfare dell'austerità antica.
Ma dinanzi al supremo pericolo della patria, i patrizi sapeano mostrare che le feste, il lusso, le ricchezze non aveano ancora svigorito il braccio e la mente. La guerra di Chioggia ha una grandezza veramente epica e mostra come in Venezia, fra i preludi del decadimento, vibrasse ancora il forte sentire della giovinezza. Perfino il meraviglioso della leggenda, conferisce a rendere più grande questo periodo e più austera e veneranda la figura del doge Contarini, che fra pericoli e rovine condusse la patria a salvezza. Si narra come ad Andrea Contarini, trovatosi per traffichi in Soria, un indovino profetasse che sarebbe divenuto principe di Venezia in un tempo di tremende sventure per la patria. Spaventato del vaticinio, si ritirò nella solitudine della campagna. Dopo alcuni anni fu eletto doge e l'accettazione gli fu imposta come un obbligo ineluttabile. Da quel dì, vinta ogni esitanza, diede tutto sè stesso alla patria.
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Nella lunga guerra tra Genova e Venezia, i Veneziani toccarono, nel 1379, una terribile sconfitta nelle acque di Pola. Comandava l'armata di San Marco Vettor Pisani, al quale le precedenti vittorie non fecero perdonare la recente disfatta. Fu condannato a sei mesi di carcere. I Genovesi, imbaldanziti, si accostarono a Venezia e minacciarono Chioggia. I Veneziani resistevano con indomato coraggio.
Qui permettete, o signori, un particolare, che traggo da un diario della guerra, scritto da un anonimo padovano contemporaneo. È uno splendido esempio di valore italiano, e in queste guerre fratricide, c'è per noi posteri l'orgoglio che il valore, da qualunque parte si affermi, è sempre italiano.
Sì i Veneti, sì i Genovesi disperatamente combattevano e per lungo tempo era alterno il cedere e l'avanzarsi, ma il ponte di Chioggia, difeso dai Veneziani, non si poteva prendere. “Allora„, cito le parole del cronista, “un zenoese di subito spogliato nudo, et entrato in una barchetta con canna, paglia, pegola et polvere de bombarda se cazò al ponte a vogare; dove di subito azonto cacciò fuoco nella barchetta, et gettatosi in acqua quella nodando cacciò sotto il ponte.„ In breve il ponte s'accese e i Veneziani dovettero fuggire. A parte l'intento, colpevole nell'uno, santo e patriottico nell'altro, ma quel zenoese, che si caccia nuotando sotto il ponte, non vi ricorda Canaris, che, con due brulotti, incendia la squadra turca nel porto di Chio?
Chioggia è presa, Venezia minacciata da presso. I vincitori non vogliono sentire proposizioni di accordi, se prima, com'essi dicevano, non avessero messo il freno ai cavalli, che stanno sulla basilica di San Marco. Ma Venezia ritrova ancora sè stessa: nobili e popolani si stringono in un volere comune: si allestisce un'armata, si riordina l'esercito. Il doge Andrea Contarini, ottantenne, monta sulle galere per combattere. Il popolo si ricorda di Vettor Pisani, corre al carcere e lo trae fuori in trionfo gridando: Viva Pisani! Ed egli, d'ogni offesa dimentico, risponde: No, zighè Viva San Marco! Esistono misteriosi affetti per qualche personaggio storico o leggendario. Fra questi amori retrospettivi, occupa, per me, uno dei primi posti, il puro e modesto eroe veneziano, che ha grandi rassomiglianze con una figura di eroe moderno, Garibaldi, figura che i posteri vedranno raggiar di una luce, non annebbiata da calcolati feticismi.
Questo ravvicinamento non è uno dei luoghi rettorici, di cui s'abbellano la torbida oratoria e l'arcadica volgarità di oggidì, ma scaturisce dagli eventi storici.
In ambedue la santa efficacia del dovere: ambedue semplici ed animosi, pazienti fra gli oltraggi, umili nella gloria. L'eroe moderno, più grande pe' suoi fatti, che per gli altrui detti, che dalle balze del Trentino espugnate, risponde al comando di ritirarsi: Obbedisco, mi par grande quanto l'eroe antico, che, tratto dal carcere fra le grida di Viva Pisani, non d'altro sollecito, se non della cara terra materna, risponde: — No, zighè Viva San Marco! — Quella voce formidabile che avea suonato ira e strage, quando il forte guerriero palpitante, bagnato di sangue nemico imperversava nella pugna, si fa mite e dolce. Tutto per la patria, niente per sè. È questo sublime annientamento dell'uomo nella patria e per la patria, che rendeva compiuta e potente l'antica energia. Zighè Viva San Marco, si direbbe che in queste parole svanissero, insieme a tutti gli orgogli, tutte le passate amarezze e l'eroismo e l'umiltà si unissero in un mirabile connubio. Viva San Marco! Al grido fatidico, che avea accompagnato il prodigioso sorgere della patria, si ripigliano, con santità di ardimenti e tenacia di propositi, le armi, e alternando l'audacia alla prudenza, si riesce a chiudere i Genovesi in Chioggia, con un assedio, reso più efficace da Carlo Zeno, d'animo non minore della perizia, reduce dall'Oriente con diciotto galee. Fierissimo assedio. Cito il mio cronista: “Havevano li cavalli, li cani, le gatte et tutto mangiato, riputandosi beato colui, che potea pigliar un sorzo per mangiarlo.„
Finalmente Chioggia fu riconquistata, e dopo dieci mesi di guerra il vecchio doge ritornò a Venezia, sul dorato Bucintoro. Fu un'apoteosi. Si alzavano grida di gioia, clamori di esultanza, inni di trionfo, laudi di ringraziamento, suoni di festa. Tra la folta di barche e di galee, assiepanti la laguna, erano trascinate diciassette galere, rotte, lacere, sanguinose, avanzo della formidabile armata genovese; 4370 prigioni rendevano più glorioso il trionfo. E il sole scintillava sulle acque, corruscava sulle corazze e sulle armi, tripudiava sulle rosse bandiere dal leone dorato, splendeva sui rasi e sui broccati, sfolgorava sull'oro, mandava bagliori come di gloria.
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Vedete, o signori, come, fra questo popolo, il senso del pittoresco e il gusto del colore, svoltisi gradatamente, imperino oramai su ogni azione: come, dopo i pericoli superati, nelle supreme esultanze della patria, le alte consolazioni si manifestino con le bandiere spiegate al vento, colle vesti sfoggiate, coi rossi broccati, colle sete variopinte, in una parola, colle pompose rappresentazioni, che soddisfacevano gli occhi e la vanità. La nazione è fatta civilmente: non le mancano se non le ultime raffinatezze della civiltà, fra le quali, l'arte d'imitazione. Il popolo è già inconsapevolmente artista: la sua percezione ottica è perfetta: egli sa accordare i colori, conosce per istinto l'effetto dei toni e delle gradazioni, ha il senso della decorazione, sa trovare nelle sagre e nelle regate la disposizione di un quadro, unisce atteggiamenti eleganti agli eleganti costumi. A tanta arte in azione non mancano se non gl'interpreti, i cronisti del pennello, ma è vicino il momento in cui le feste e le processioni si trasformeranno in quadri dipinti.
Da questo tempo, Venezia, orgogliosamente sicura della sua potenza e della sua forza, attirata nel vortice delle ambizioni, prese parte coll'autorevolezza de' suoi instituti e colla fama delle sue armi agli intrighi della politica e delle lotte italiane. Non era passato peranco il tempo degli alti concetti e delle ardite azioni, ma latente, nascosto, sotto apparenze fastose, v'era il germe del prossimo decadimento; la civiltà a poco a poco si facea corruzione e al sentimento della grandezza sottentrava la ostentazione della grandiosità.
E in fatti, i Veneziani aggiungono alle arti utili l'amore di più larghi studi, le compiacenze di un sapere più raffinato e il conoscimento delle arti belle, le quali sono un onesto modo per fiaccare il vigore degli animi. Quella Repubblica, da sì piccolo nido uscita a formare il più gagliardo Stato d'Italia, divenuta ricca di gloria e di quattrini, volle anche il lusso delle arti e tutti i godimenti della vita. Fatta eccezione per l'architettura, essenzialmente pratica, e, fra le arti, la sola congiunta agli ordinamenti civili e politici di un paese, le altre arti chiamate belle rado o mai sorgono nelle età e fra le genti, dove più vigoreggiano le virtù civili e militari. Non vi paia un paradosso, o signori, questa che, bene considerata, è una verità indiscutibile. Il dire che le arti sbocciano al caldo raggio delle virtù civili e del valore guerresco, è ripetere uno di quei luoghi rettorici, così frequenti nei giudizi della critica odierna. Di tai giudizi leggieri, tutti, e primo chi vi parla, o signori, siamo colpevoli. Ma chi ripensi con mente tranquilla si farà convinto che quando finisce la grandezza, incominciano le arti, le quali ornano i riposi dei popoli, accompagnano e confortano la decadenza delle nazioni.
Quando ci seduce il giocondo respiro del popolo allietato dall'arte, l'astro di Venezia impallidisce. Finchè fervea in ogni canto della città l'agitazione della gente affaccendata in negozi, che ci aveano a fare, tra quella vita rumorosamente operosa, le gentilezze della fantasia, le eleganze della cultura? Invece la luce del Bellini e del Carpaccio, di Giorgione e di Tiziano sfavilla quando le ricchezze, che prima servivano alle armi difenditrici del dritto o a provvidi instituti, scemavano a far prosperare le bellezze giocondatrici della vista. Del pari i più bei giorni della libertà milanese furono quelli della maggior decadenza dell'arte, la quale fiorì invece nel secolo XV, quasi conforto della perduta indipendenza.
E pure a voi, cittadini dell'Atene italiana, insieme ai bei tempi dell'antica libertà, appariranno, visioni luminose, i gran nomi dei vostri artisti e dei vostri poeti. Un po' di cronologia, o signori. Firenze difende gagliardamente la propria indipendenza fin dal 1115, nè i tumulti suscitati dall'aristocrazia feudale, introdotta in città, fiaccano la sua energia o la distolgono dall'instituire i suoi ordinamenti, guarentigia di libertà. Il Podestà, succeduto nel 1207, poteva sembrare una concessione fatta ai nobili feudatari, ma nella sua essenza era un magistrato repubblicano. Firenze non cede e non traligna. Continuano le discordie fierissime, ma esse anzichè rimpicciolir l'animo dei popolani, portano alla riforma della constituzione, compiuta sotto il nome di primo popolo. Seguono dieci anni di prodigiosa attività, in cui tutto vive in mirabile rigoglio, forse i dieci anni più gloriosi della storia italiana dell'età di mezzo. La gloria di Venezia durò più a lungo, quella di Firenze fu rapida, ma più intensa e più varia. La battaglia del 1260 che fece l'Arbia colorata in rosso, diè il primo crollo alla fortuna fiorentina. Sempre più fiere discordie, invano per un istante ritardate dalla generosa riforma di Giano della Bella, conducono a Firenze prima Carlo di Valois e poi Nicolò da Prato. Papa e imperatore si mescono nei viluppi della travagliata città. Nel 1313, un re straniero, Roberto di Angiò, la protegge, nel 1342 un signore straniero la opprime. Ben è vero che ai superbi e ai prepotenti, sapeva all'uopo, far abbassare le corna, e dalla cacciata del duca d'Atene alla morte di Ferruccio, la sua storia luminosamente il dimostra. Ma le sue forze si disperdevano, il valore era vano, la luce dell'ingegno tornava inutile a costituire quell'ordine equilibrato di forze, di valore, di ingegno, di virtù da cui sorgono gli Stati destinati a prosperare e a durare.
Ora, o signori, l'arte più meravigliosa d'Italia, splende appunto negli anni, in cui a poco a poco la libertà fiorentina va declinando. Giotto muore nel 1336, Filippo Brunelleschi nel 1346, Andrea Orcagna nel 1368. Lorenzo Ghiberti nasce nell'81, Donatello nell'83. Nicola Pisano, il Fidia italiano, nasce, è vero, nel secolo XIII, ma la meravigliosa opera sua fu fecondata assai più tardi.
Le sventure della patria si riflettono nella Divina Commedia. L'arte nasce dai contrasti, dai dolori, dalle difficoltà, dalle sventure! Se Dante fosse nato vent'anni prima, forse noi non avremmo il poema immortale. Allora, osserva il Carlyle, egli sarebbe stato priore o podestà di Firenze, amato e riverito da' suoi concittadini, ed al mondo sarebbe mancata una delle più grandi parole, che mai sieno state dette. Firenze avrebbe avuto un prospero magistrato di più e i secoli non avrebbero inteso la Divina Commedia.
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E pure a Venezia, l'arte splendeva anche nei primi tempi della forte giovinezza: anzi per chi bene osserva v'è uno strano contrasto, un profondo dissidio fra l'arte e la vita.
Parrebbe, a guardare i più antichi mosaici della basilica di San Marco, che nessun'arte sia stata nelle origini più della veneziana mistica e simbolica. In Toscana, la patria di chi imaginò il paradiso come un vasto deserto di luce teologica, ove come in fiamma favilla si vede, passano mistiche configurazioni di ruote, di aquile, di croci, di rose, nascono Giotto e Nicola Pisano, che sentono, studiano e ritraggono il vero. Nel gran tempio della Repubblica veneta, l'arte ha invece manifestazioni simili a quelle del paradiso dantesco; le navate sono piene d'oro, d'azzurro, di astri, di fiori. Sembra che il pensiero si lasci assorbire dalla fede, che il sentimento artistico si trasformi in delirio, che tutte le facoltà della mente sieno dirette alla contemplazione di Dio. Il simbolo si unisce alla visione, e quest'arte, agitata da sogni, non sembra l'arte di un popolo, ricco di salute e di energia, lieto di vivere, felice nella famiglia, orgoglioso della sua patria. Gli è, o signori, che negli albori della vita veneziana, l'arte, checchè ne dicano alcuni scrittori, sedotti dall'orgoglio paesano, non fu nazionale, ma importata da Bisanzio. Venezia sulle sponde del Bosforo portava armi e mercanzie, e Bisanzio mandava architetti e maestri di mosaico sulle rive della laguna. Erano bizantini, come quelli di San Marco, i mosaici della cattedrale di Torcello e di San Cipriano di Murano. L'arte bizantina, così malnota e calunniata, non deve essere considerata, come avviene di solito, quale un seguito del decadimento delle arti romane; essa apre, per converso, un'êra nuova, l'arte romana ringiovanita dallo spirito greco, un periodo grandioso nella vita artistica dell'età di mezzo.
Gli artefici bizantini, che ripararono in Italia, specie dopo la persecuzione degli iconoclasti, lasciarono monumenti insigni a Venezia, Ravenna, Parenzo, Grado, Milano e Roma. Fantastica arte, nella quale lo splendore non è scompagnato dalla grazia! Guardatela solo negli ornati. Una vivida fantasia lega e attorciglia, come in una creazione di sogno, fusarole, groppi, rosoni, caulicoli rampanti, croci, pesci, colombi, pavoni.
Quest'arte, trapiantata in Italia e assimilata dal genio nostrale, diede origine a quello stile, denominato appunto italo-bizantino, il primo frutto dell'arte dei magistri comacini.
L'arte bizantina splendette meglio che altrove a Venezia, nel maggior tempio della Repubblica.
Dopo le crociate, l'architettura s'adorna di nuovi incanti e di una graziosa diversità di forme. Venezia accoglie in sè le tradizioni dell'Oriente a quelle dell'Occidente; l'arte archiacuta, in leggiadra maniera, s'unisce allo stile orientale, e sull'arco bizantino della basilica marciana s'imposta l'arco a sesto acuto, colla sua ricca decorazione di sculture e di cesellature.
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Ma non ancora comparisce la personalità dell'artefice.
L'arte è di solito l'espressione di una potenza individuale, ma a Venezia, in questi tempi civilmente, commercialmente e militarmente gloriosi, e nei quali l'individuo sparisce di fronte alla società, l'arte è collettiva. Non un nome, un solo nome d'artista insigne ci arresta.
Chi fu l'autore di San Marco? Chi del Palazzo Ducale?
Il popolo, non il cittadino — l'associazione, non l'individuo.
Il pensiero individuale spariva, imperavano la fede e la patria, due concetti, che tutti gli altri assorbivano.
Così il Palazzo Ducale sorge a significare il concetto del governo, non l'idea di un artefice. L'edifizio sul quale, in pagine di marmo, è scritta la storia repubblicana, esprime l'aperta baldanza di quei guerrieri mercanti. La feudalità sospettosa, il comune ringhioso non lasciano la loro impronta sulla veneta architettura, la quale non inspira nulla di fiero e di severo. Il palazzo della Signoria di Firenze esprime un unico concetto, energico, determinato: si comprende che il disegno meravigliosamente severo scaturì dal cervello di Arnolfo, tutto di un pezzo, senza indecisioni, senza dubbi, senza incertezze. Quei merli doveano servire di schermo e di offesa; quella porta poderosa dovea serrarsi in faccia agli invasori della patria.
La residenza dei dogi si compone invece, contro tutte le regole statiche e architettoniche, di una ampia muraglia, che gravita su leggerissime logge a fori quadrilobati. Vi sorridono le stupende e diverse bizzarrie di molti architetti: l'eleganza maschia e fiera dell'arte del trecento e le meraviglie gentili del quattrocento: capitelli ingegnosamente svariati, modanature eleganti, cornici frastagliate, colonne attorcigliate, volute e viticci, fogliami e festoni, mostri e chimere, tutta una ricchezza di vegetazione marmorea, una decorazione stranamente fantastica.
Così, sul tempio di San Marco ogni generazione depone il suo strato: le arti bizantina, araba, gotica, romana, si fondono in una sublime armonia, come i palpiti dei cuori veneziani si univano nel puro, alto, sublime sentimento della patria. È un'opera sociale, non individuale, e l'architetto è il popolo, il quale ha nella basilica il suo libro e il suo poema. Gli artefici scendeano innominati nella gran calma del sepolcro e si succedevano lasciando le seste e lo scarpello, santa eredità, ad altri artefici, non curando se il loro nome andasse perduto nella gran luce collettiva, emanante dal tempio, ma fieri nel gaudio supremo di aver cooperato all'incremento dell'arca sacra della fede e della patria. Allora l'edifizio appariva come un'opera semplice e maestosa, da cui ogni seduzione artistica era bandita. Ma giunge il giorno, in cui l'arte sorride al primo incolorarsi delle tavole dipinte. E allora, sotto le vaste cupole, nella penombra dorata, fra simboli, animali fantastici, creazioni di sogno, fiammeggiamenti d'apoteosi, a canto ai santi e ai patriarchi lividi e stecchiti dei mosaici bizantini, alle vergini cadaveriche, appaiono dolci profili femminili, qualche bel San Giorgio, Apollo del Cristianesimo, recanti là entro, in quell'aura misteriosa, in quella pace solenne, come un soffio di gaia vita esteriore.
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Venezia non comparisce degnamente nel campo dell'arte, che all'aprirsi del secolo quintodecimo. Finchè Giotto compiva la divina opera del Santuario d'Assisi, Venezia era occupata in traffichi ed armi. Mentre Lorenzo Ghiberti rapiva al Paradiso le porte del vostro bel San Giovanni, e Masaccio scopriva il segreto della bellezza antica, l'arte veneziana bamboleggiava ancora.
Coi Vivarini, coi Bellini, col Carpaccio, con Cima da Conegliano, l'arte si eleva a maggior dignità di forma e di concetto; con essi veramente s'inizia la fulgida pittura veneziana. Ma essi nascono ed operano tutti nel quattrocento, nei tempi giocondi, in cui il fasto cela la decadenza.
Pure c'è ancora nella loro anima come l'eco del vecchio secolo, le amabili peritanze associate agli ardimenti giovanili del trecento. Quella poesia soave, che nasce nel cuore guardando le loro opere, esciva ancora dalla vita e ogni forma pare si espanda ad un sorriso mite, misurato. L'ideale era nelle cose. Nelle tavole di quei pittori c'è come l'ultimo sospiro di un'età moribonda, essi sono dominati da questa poesia, non la dominano come altri pittori veneziani, i quali si limitano a manifestare un sentimento individuale. Sono ingenui e veri, candidi e forti. Alla natura s'accostano come a donna desiderata, ma rispettata, e nelle cose intorno e nelle forme, nei colori, nelle linee, scorgono una significazione alta e nobile, come un'anima, che alla loro anima si accordi, accordo di bellezza, di soavità, di commozione, di meditazione.
Al loro sentimento sembra quasi sieno di impaccio gli artifizi del disegno; al loro ingegno, le lusinghe dell'arte.
Altri artefici manifesteranno tutta la pompa e il vigore della salute, ma nessun capolavoro di un'arte più avanzata e più raffinata lascia nell'anima una impressione più sincera e profonda di queste opere primitive, che hanno tutti i soavi candori dell'infanzia.
Rapido lo svolgersi, il maturare e il decadere dell'arte veneziana. Giovanni Bellini muore nel 1516 — l'ultima opera del Carpaccio è segnata dall'anno 1522 — Tiziano nasce nel 1477 — Paolo Veronese nel 1530. Bene, non sembra che i due primi sieno cresciuti nello stesso paese dei secondi, e nati a così poca distanza di tempo. Basta confrontare nelle tavole degli uni e degli altri il tipo della donna, d'ogni arte il più efficace termine di paragone. In Bellini e in Carpaccio un chiaro volto ovale, la fronte alta, candida, un po' convessa, la bocca piccola e sottili le labbra, il naso diritto e lo sguardo modesto e pensoso — tutta una casta eleganza, irradiata da uno spirito interiore, che molto ricorda il vostro Sandro divino. Le vergini e le sante di Tiziano e di Paolo — maghi del colore, fascinatori della vista — hanno la fronte superbamente levata e coronata da una gran massa di capelli d'oro filato, lo sguardo fiammeggiante d'ardente desio, nuda la giunonia abbondanza del seno, l'epidermide di latte e di rosa, sotto la quale fluisce il sangue ricco di vigoria e di salute — tutto il profumo della bellezza e della seduzione, reso con una meravigliosa abilità di mano, non sempre guidata dal pensiero. Così a poco a poco, svanito il giusto e placido sentimento della vita, le arti imitatrici sono dalla licenza dei tempi fortemente sospinte a una tendenza lasciva. I pittori, nell'acuta ricerca del piacere, si compiacciono delle baccanti ignude, delle Veneri procaci, delle donne bionde, esuberanti di gioventù e d'allegrezza. Quando tutte le poesie dell'animo finiscono nell'unica poesia della voluttà, e l'arte non cerca se non il fasto e manifesta le ardenti sensazioni con tutta la sovrabbondanza di una gioia possente, dite pure, o signori, che anche nella vita, ogni sentimento forte e gentile è perduto.
SANTA MARIA DEL FIORE E IL DUOMO DI MILANO ( I GIUDIZII ARTISTICI NEL SECOLO XIV )
DI CAMILLO BOITO
Io vi prego, signore e signori, di lasciarmi fare il contrario di quanto costumano i lettori o conferenzieri, i quali dal loro tema, per quanto sia grave, colgono solitamente i più gentili fiori, e di quelli fanno un mazzetto da offrire con bel garbo agli ascoltatori benevoli. Io voglio porgervi piuttosto le spine. Eppure il mio campo non sarebbe troppo arido, perchè i giudizii artistici possono allargarsi a tutta l'ampiezza dell'arte, e ricercando in qual modo i dotti, i poeti, i popolani del Trecento giudicavano le opere della pittura, della statuaria e dell'architettura, anche lasciando stare le altre discipline del bello, sarebbe facile cavar dalla storia curiosi esempi, distinguendo quel tanto che si riferiva allo spirito religioso o alla dignità cittadina, da ciò che risguardava la inclinazione estetica, l'amore dello sfarzo, il capriccio della moda.
Il Petrarca, quando si commuove innanzi alle meraviglie di Venezia, quando ammira la cattedrale di Colonia, quando discorre di una tavoletta di Giotto; Dante, quando dipinge o scolpisce figure e storie nel poema; il Boccaccio quando ride di artisti, quando si ferma a descrivere le belle donne innamorate (e il modo d'intendere la natura non è sempre analogo al modo di capire le opere d'arte); i cronisti, quando mostrano gli entusiasmi del popolo per un quadro o per un tempio; esprimono giudizii artistici nè più nè meno. Poi ne' giudizii sono compresi i precetti degli artefici stessi e dei trattatisti, come quel buon Cennino Cennini, il quale negli ultimi anni del Trecento così s'indirizza a chi vuol cominciare lo studio dell'arte: Adunque voi che con animo gentile sete amadori di questa virtù, adornatevi prima di questo vestimento: cioè amore, timore, ubbidienza e perseveranza.
Quante dolcezze, quante grandezze lascio in un canto, signori, per appigliarmi alla parte meno grata, più ristretta e noiosa del mio argomento: i modi di giudicare le opere o per pagarle o per farle eseguire, allorchè si tratti di disegni d'architettura. E dovrò fermarmi a questa del compasso, che si piega meno di ogni altra arte alla varietà delle immagini. Insomma, nelle supreme bellezze del Trecento io mi contento (Dio me lo perdoni) della pedanteria amministrativa, anzi, per dirlo con due parole abbominevoli, della controlleria burocratica.
Fortuna che mi trovo innanzi due monumenti, i quali possono servire da soli a mostrare i più diversi e ingegnosi metodi di giudizio: Santa Maria del Fiore, s'intende, e poi, giacchè io sono quasi Milanese e un Milanese non può non portare sempre nel cuore il suo Duomo, il Duomo di Milano. Quanto differenti l'uno dall'altro! In questo di Firenze la linea serenamente orizzontale predomina con la maestosa ghirlanda, che tutto lo ricinge e lo incorona; in quello di Milano, i pinnacoli aguzzi, le guglie puntute si spingono in cielo, e più di 4000 statue popolano i contrafforti e gli sguanci dei finestroni. Questo è rallegrato di vari colori ne' suoi diversi marmi incastonati a fascie, a fregi, a riquadrature; quello è dal basso all'alto di un solo colore, di un solo marmo. Per questo nessun principe ha sborsato, ne' bei tempi, un quattrino, o ha pronunciato una sentenza artistica; in quello, fin dal principio, innanzi al popolo apparisce spesso il tiranno, che ordina e che paga. E non di meno quante analogie! La vecchia Santa Reparata ricorda la vetusta Santa Maria Maggiore, questa e quella rimaste in piedi mentre s'alzavano i due immensi edifici nuovi; le stesse incertezze, le stesse ansie nella costruzione; gli stessi modi di raccogliere le oblazioni, le elemosine, i legati. E se il Duomo di Milano ebbe in dono le cave della Gandoglia, quello di Firenze ebbe le selve del Casentino; se nel primo lavorarono alquanti artefici toscani, nel secondo operarono alcuni lombardi, fra gli altri un Guglielmo da Campione; se per il primo i Milanesi andarono tante volte a cercare gli architetti fuori d'Italia, per il secondo (lo dice Marchionne di Coppo Stefani all'anno 1360 della Istoria fiorentina) gli cittadini mandarono in molte parti del mondo, acciocchè la loro magnifica opera fosse la più ricca e meglio ordinata che potessi essere. Marchionne disse una corbelleria. Non ci fu, in verità, bisogno di accattare in terre straniere e neanche lontano di Firenze nelle altre provincie italiane nessun artefice; e quel poco di organismo oltramontano, che si nota nel campanile ed in Santa Maria del Fiore, s'infiltrò per via di Arnolfo, di Giotto e degli altri inconsapevolmente, assumendo così nostrani lineamenti, così fiorentina espressione, che più italiana arte è impossibile immaginare.
Ho detto Arnolfo e Giotto. So bene che hanno voluto in questi ultimi tempi levare ogni merito ad Arnolfo per la chiesa e a Giotto per la torre, come ogni gloria o quasi a Filippo di ser Brunellesco per la cupola. So bene che Filippo non ha ideato il tamburo, che sta sotto la cupola enorme; ma la cupola l'ha proprio voltata lui. So bene che dopo i figliuoli di Cambio e di Bondone altri insigni artefici ampliarono, modificarono, mutarono anche in buona parte i principiati edifici, dando ad essi una novella grandezza di misura e d'arte; ma senza Arnolfo la chiesa non apparirebbe quel che è, perchè il primo concetto non venne abbandonato mai, e senza Giotto la torre sarebbe tutt'altra cosa.
Sentite il vero in terzine da Antonio Pucci, quasi contemporaneo di Giotto, banditore del Comune, autore del Centiloquio:
Nell'anno (il 1334) a' dì diciennove di luglio
Della chiesa maggiore il campanile
Fondato fu, rompendo ogni cespuglio,
Per mastro Giotto, dipintor sottile,
Il qual condusse tanto il lavorìo
Ch'e primi intagli fe' con bello stile.
Nel trentasei, sì come piacque a Dio,
Giotto morì d'età di settant'anni,
E 'n quella chiesa poi sì seppellio.
Poi lavorò, è vero, Andrea Pisano, che il Pucci chiama solenne maestro, poi Francesco Talenti; ma se è vero il proverbio: chi ben principia è alla metà dell'opra, a Giotto si deve lasciare almeno la metà dell'onore. Ed il caro amico mio Cesare Guasti, il quale fu il più sincero amatore della verità, si sdegnava quando l'orgoglio delle scoperte critiche recava ingiuste offese alla fama degli uomini grandi. Povero Guasti! Mi rammento quasi trent'anni fa quante sere si passarono insieme d'inverno, scaldandosi al veggio, e rischiarati pallidamente da una lucernina. Leggevamo le vecchie carte dell'opera di Santa Maria del Fiore, i membranacei, i bastardelli, i quaderni. Ci si fermava volentieri alle ricordanze del provveditore Filippo Marsili, le quali principiano con l'aprile del 1354 e terminano col marzo del 1357. Era un buon uomo, senza dubbio, ma ostinatello l'antico provveditore. Registrava per memoria gli argomenti da trattare e, a riscontro, le deliberazioni degli operai; nè doveva riescire un comodo ufficio il suo, tanto a cagione della delicata responsabilità, quanto per causa della varietà degli incarichi. Gli operai, che mutavano di tratto in tratto, tiravano a fare a scarica barile, rispondendo spesso: Fanne come ti pare, oppure: Vorrassi procacciare, oppure: A' nuovi, a' nuovi, che voleva dire di rimandar la faccenda agli operai del prossimo mese. Ma il Marsili teneva duro. Sembrava che gli premesse, per esempio, una certa cappella di Dolfo di Bugliaffa. Ne parla nel febbraio, e gli operai rispondono: Lascia stare. Nel marzo ripicchia, e gli operai: Non ci pare che si faccia per niuno modo, e non ciene ragionare più. Nel giugno da capo, e gli operai, asciutti: No. Passano due anni, e il provveditore ancora: La cappella di Dolfo; ma gli altri: Mena per lunga, che noi non vogliamo, e già son fiacchi e piegano, perchè chi la dura la vince. Pure il Marsili si stancò e rinunciò ad essere provveditore, pregando, come egli scrive, caramente gli operai, che se di lui trovassero cosa meno che buona, non gliela perdonassero.
Seguono per un anno i ricordi d'un altro provveditore, Cambino Signorini, contro il quale la gente mormorava, tanto che egli medesimo invoca dagli operai che ritrovino la verità e puliscano chi à la colpa. La buona sorte vuole che le ricordanze dei due provveditori abbraccino il periodo più importante della ripresa dei lavori e porgano, intorno al nostro poco ameno argomento, molte singolari notizie.
Insomma nel 1355 Francesco Talenti (io non dubito, signori, che la storia del vostro Duomo, tanto ammirato da voi tutti i giorni, la sappiate assai bene), Francesco Talenti nel maggio assume l'impegno di fare un disegnamento o modello di legname per le cappelle di dietro: e se il modello piacerà gli si pagheranno 20 fiorini, et quando che non, tutto ciò che costa paghi il detto Francesco de' suoi propri denari. Non passano due mesi e il modello è già pronto; sicchè il 15 del luglio vengono chiamati ad esaminarlo cinque maestri, fra i quali lo scultore lombardo Alberto Arnoldi, e Benci di Cione, che costruì poi la Loggia della Signoria; ed il giorno appresso si chiamano altri quattro maestri, compreso Taddeo Gaddi, pittore; ed il giorno seguente altri cinque. Le tre mute diedero in iscritto il consiglio loro, poi si riunirono insieme; ma il provveditore ha l'ordine di stendere la nota di cento cittadini e religiosi, e chiamarli tutti a giudicare mercoledì mattina per tempo. Giudicarono che il detto disegnamento istà bene et è bene corretto e sanza difetto; perciò il modello si paghi, la quale cosa doveva far piacere al Talenti, che aveva spesso bisogno di chiedere quattrini in prestito, trattenuti poi dall'opera un tanto per settimana.
Nel giugno 1357 si riparla di murare la chiesa, di fare la chiesa tutta di pietre; e il dì 9, presenti i consoli dell'Arte della lana, cui molti anni addietro il Comune aveva dato in guardia l'opera di Santa Reparata, presenti gli operai e più altri cittadini, fu registrata dal notaio l'opinione di sei frati e di sette maestri.
Si trattava delle colonne della chiesa, sulle quali gli operai vollero sentire ancora, insieme con due frati e tre maestri, il parere di Andrea Arcagnolo, l'Orcagna, il sommo architetto del tabernacolo d'Or San Michele; ma il voto doveva ponderarsi bene in quattro giorni di tempo. Un'altra adunanza, famosa nella storia del tempio, delibera il 19 dello stesso giugno intorno al fondamento delle colonne, ai valichi delle navi ed altri lavori: e delibera di concordia. E maestri, frati, cappellani, canonici, insieme con il proposto, cominciano in sul vespro dello stesso dì a cavare il primo fondamento della prima colonna, al nome di Dio e di Santa Reparata, benedetta vergine e martire, con molto trionfo di campane, d'organi e di canti. Ai maestri s'imbandì un desinare; i frati ebbero quattrini; i manovali bevettero un barile di vino, mangiando pane e melarance, malis ranciis. Maestri e frati s'erano riuniti a consiglio 38 volte, riconfortandosi, a spese dell'opera, con frutta e confetti e trebbiano.
Pochi giorni appresso il maestro Benci Cioni tenta di mettere bastoni fra le ruote, censurando il partito preso per le colonne; e non di meno il 5 di luglio, non più il proposto, ma il vescovo benedice e sagra, non solamente in nome di Dio e di Santa Reparata, ma anche in nome di san Zanobi e di tutti i santi e sante della corte celestiale, la prima pietra di marmo della prima colonna verso il campanile; e preti e chierici tenevano in mano torchietti di cera accesi, e al trionfo delle campane, degli organi e dei canti, s'unì il clangore delle trombe.
La prima pietra delle colonne era stata posta con la sua brava data scolpita sopra; ma il disegno di esse non era ideato ancora. Avevano bensì comprato per Francesco Talenti e Andrea Orcagna del gesso, acciocchè facessero ciascuno un asempro, esempio, di colonna con la base ed il capitello, e facinla per modo da poterla poi porre in luogo che ogni uomo la veggia. Il 17 luglio, sempre dell'anno 1357, otto maestri sono invitati a giudicare i due modelli di gesso. Frate Jacopo di San Marco sta per quello dell'Orcagna, benchè gli sembri peccare di soverchi aggetti e di lavori troppo miseri; e quasi tutti s'accostano a lui, sebbene a Francesco del Coro paia che la colonna abbia talune mende e sia da pensarci meglio, ed agli altri invece piaccia così come era, sanza darvi alcuna arrota o correctione, e la giudichino per più bello lavorìo e per più presto e di meno costo e più leggiadro. Solamente Giovanni di Lapo Ghini dichiara senza reticenze che non gli garba nè l'un modello nè l'altro, offerendo di farne uno egli più bello, secondo lui. Viva la schiettezza.
Gli operai ordinarono allora un consiglio di molti cittadini e canonici, ad alcuni dei quali parve che i predetti maestri avessero giudicato per animo.
Francesco e Andrea furono dunque richiesti di dare ciascuno in iscritto due nomi di maestri confidenti. I quattro, se non fossero andati d'accordo nell'arbitramento, avrebbero dovuto eleggere essi il quinto, confidente di tutti. Infatti non riescirono a intendersi, e chiamarono un orafo, Pietro del Migliore, promettendo di rimettersi nel parere di lui, il quale, con qualche modificazione, scelse la colonna di Andrea.
Malgrado ciò, si ricomincia, ordinando a Francesco Talenti ed a Giovanni di Lapo Ghini, capomaestri della fabbrica, di far dei nuovi disegnamenti, da confrontarsi poi con quello già preferito dell'Orcagna; ma il Ghini non presenta nulla. Non importa: viene da cinque maestri, in presenza degli operai, scelta all'unanimità la nuova colonna del Talenti, come più forte e bella e laudabile; e gli operai si dichiarano soddisfatti, e vogliono che codesta colonna di gesso si ponga sul primo fondamento già costrutto, e che iscritto vi sia a pie' con lettere grosse che qualunque persona volesse apporvi alcun difetto, debba fra otto dì venire agli operai o ad altri per loro a dirne l'animo suo, e sarà udito graziosamente. In oltre il provveditore Filippo Marsili inviò il messo dell'opera a tutti i maestri religiosi e secolari di Firenze, per far conoscere loro a bocca le risoluzioni intorno alla colonna, pregandoli di venire a vederla e di esprimere il proprio giudizio. Pochi giorni dopo levano l' asempro della colonna, poichè niuna cosa per niuno è stato detto sopra ciò; e danno le relative allogazioni; e il Talenti medesimo è incaricato di vigilare la esecuzione con questo severo patto, che per ogni pietra concia che si murerà alle colonne e Francesco Talenti non vi sia, egli cada in pena di soldi venti. Quando il camarlingo non trattenesse sul salario la multa, sia condannato esso camarlingo a pagare il doppio di tasca sua.
Saltiamo nove anni: al 1366.
La vecchia Santa Reparata era stata distrutta; erano state buttate giù le case dei canonici e dei cappellani, che stavano nel perimetro della chiesa nuova; bisognava pensare, dopo avere stabilito che le navi avessero quattro valichi, alla crociata, alle cappelle posteriori, che dovevano accordarsi con la novella grandiosità della parte dinanzi. Cinque orafi vennero chiamati a consiglio il 13 luglio; ma si offrono lo stesso giorno otto pittori e maestri, fra cui l'Orcagna e Taddeo Gaddi, di fare insieme entro un mese il disegno di tutta la parte posteriore del tempio. Il 13 d'agosto si convoca di fatto un consiglio, presenti otto cittadini scelti nei conventi dell'Arte, per confrontare il merito di tre modelli: il primo condotto da' maestri e dipintori in concordia, cioè i maestri Neri di Fieravante, Benci di Cione, Francesco Salvetti e l'Orcagna, ed i pittori Taddeo Gaddi, Andrea Bonaiuti, Niccolò di Tommaso e Neri di Mone; il secondo condotto da Simone figliuolo di Francesco Talenti, il terzo condotto da Giovanni di Lapo Ghini. Bisognava rispondere a questa domanda: Quale dei tre nuovi disegni pare più bello, più utile e più sicuro? Il curioso si è che vennero interrogati gli autori medesimi circa la propria opera e quelle degli emuli. Ora i maestri o dipintori rispondono, naturalmente, che il loro proprio modello è più bello, utile e forte per ogni ragione, che niun altro, mentre Giovanni di Lapo Ghini afferma, s'intende, che il modello fatto da lui gli piace di più. Ma Francesco Talenti, buon uomo, abbandona invece il lavoro del figliuolo, per appoggiare quello dei pittori e maestri, al quale si chiariscono favorevoli anche gli otto cittadini. Ed i consoli e gli operai deliberano concordi che secondo quel disegnamento la chiesa si edifichi ad onore di Dio e della sua Madre madonna Santa Maria e di Santo Zanobi e di Santa Reparata e di tutta la corte di paradiso, e a bellezza della città di Firenze. Amen.
Lo stesso giorno consoli ed operai se ne vanno al Palagio; e lì, innanzi ai Priori delle Arti e al vessillifero di giustizia, espongono ciò che hanno risoluto per le opere del tempio ottenendo promessa di aiuto e pienissima approvazione.
Pareva dunque che tutto fosse deciso. — Oibò: state a sentire.
I capomaestri contrastavano insieme. Già Neri di Fioravante e Francesco Talenti s'erano bisticciati, tanto che a rappattumarli occorse l'intromissione di due amici comuni; ma il peggio era tra Francesco e quell'inframmettente ed inquieto Giovanni di Lapo Ghini. I loro dissensi mettevano in iscompiglio le cose della fabbrica, così che il provveditore Cambino Signorini nota: O se potessono fare che Francesco e Giovanni fossono in accordo, sarebbe buono! Ma il Ghini, come vedremo, aveva chi gli faceva spalla.
Fatto sta che gli operai, temendo nuove idee e nuove ambizioni, ordinano la distruzione di tutti i modelli, eccetto del prescelto, per il quale pagano 32 fiorini d'oro agli autori. E avevano ragione di temere; bensì avrebbero dovuto cominciare dal temer di sè stessi. Ecco, che, alcuni mesi dopo, Giovanni di Lapo Ghini, il quale non s'era mai dato per vinto, ritorna alla carica con un nuovo disegno, e tanto fa che gli operai chiamano tredici maestri a giudicare il disegnamento in paragone con l'altro dei maestri e dipintori.
Gli esaminatori giurano sul messale. Cinque stanno per gli occhi, non per le finestre all'alto della nave di mezzo; otto stanno invece per le finestre: ma sul conto dell' edificio delle cupole ovvero croce, scartano il lavoro del Ghini, confermando le precedenti deliberazioni.
Questa sentenza non poteva garbare, nè crescere autorità a Giovanni. I colleghi non gli portavano rispetto, i subalterni non l'ubbidivano. Doveva essere un presuntuoso, e certo la sua indole aveva molta analogia con l'indole di un architetto francese, il Mignot, che conosceremo tra poco nei lavori del Duomo di Milano. Ad ogni modo i protettori del Ghini presentano ai consoli una petizione, la quale comincia con larghe lodi di lui, dichiarandolo di grande necessità al lavorio, e soggiunge come egli sia invidiato et oltraggiato in detti e in fatti da certi maestri e altra gente; e perchè questo non succeda più, i richiedenti domandano che l'oltraggiatore venga tosto punito con una grossa multa, della quale un quarto spetti all'ufficiale, che avrà pronunciato la condanna, un quarto all'opera di Santa Reparata, e due quarti all'Arte della lana.
Frattanto la sorda opposizione al modello dei maestri e dipintori va crescendo via via, sinchè messer Francesco Rinuccini, in nome di molti compagni suoi, proclama a viso aperto che il seguire quel disegnamento sarebbe di grandissimo pericolo, e invoca nuovi consigli di maestri e di cittadini. Il 31 di luglio gli operai chiamano tre frati e un cappellano, i quali, uditi i capomaestri e gli autori del solito modello, giudicano che questo non si possa affatto edificare; senonchè gli autori protestano che il rilievo in grande, eseguito per ordine degli operai, dal Ghini sul predetto disegnamento, non è punto conforme ad esso.
I consoli cominciano a perdere la pazienza. E gli operai tornano a convocare cittadini e religiosi, chiedendo ancora se il modello o disegnamento dei maestri e dipintori, cui già l'arcivescovo aveva apposto la sua firma, potesse venire, con qualche correzione, attuato; e frate Jacopo da San Marco risponde anche per gli altri, proponendo le modificazioni e concludendo che a questo modo l'edificio riescirà possibile e forte. Francesco Talenti e Giovanni Ghini (anche lui!) dichiarano di consentire.
Sia ringraziato il cielo! Si faccia dunque una chiesicciuola di mattoni a similitudine di detto modello, cioè un modello grande, che tutti possano intendere. Ma il Ghini (quant'è noioso!), il quale aveva pur dichiarato di piegarsi, e riceveva appunto in quei giorni dagli operai per le sue benemerenze e per maritar la figliuola il prestito di 100 fiorini d'oro, da restituire in dieci anni, stava facendo anche lui per suo proprio conto la sua brava chiesicciuola di mattoni. Bisognava risolvere una buona volta fra i due grandi modelli, perchè il Ghini era riuscito a tornar nella gara. Il 26 d'ottobre i savi e discreti operai fanno richiedere gran numero di cittadini per avere un giudizio, i quali tutti, niuno scordante, dissono e per consiglio renderono, che la chiesicciuola trovata pe' maestri e dipintori più piaceva a loro che quella trovata per Giovanni di Lapo Ghini, però ch'era più bella e più magnifica e onorevole per la città di Firenze, e che a quello esempio la chiesa si dovesse edificare e fare col nome d'Iddio.
Lo stesso giorno davanti agli operai un secondo gruppo di cittadini ripete la medesima sentenza, con un solo voto contrario di Jacopo degli Alberti, il quale giudicava la chiesicciuola del Ghini meno bella al di fuori ma più bella al di dentro; e ancora il medesimo giorno un terzo gruppo assai numeroso conferma unanime il verdetto degli altri due. Agli operai non basta: vogliono un plebiscito; e i banditori vanno per tutta la città gridando: Che ciascuna persona e ogni maniera di gente venga alla chiesa di Santa Reparata a dire quale dei disegni piace loro più e a similitudine del quale la chiesa si debba edificare.
Allora comincia una interminabile processione di visitatori, nobili, ecclesiastici, artefici, spadai, calderai, staderai, bottai, lanaiuoli, tintori, cimatori, albergatori, vinattieri, pizzicagnoli, fornai, rigattieri, ferravecchi, e che so io; e tutti quanti, senza eccezione, ripetono che la chiesicciuola dei maestri e dipintori piace loro più, e quella si debba edificare, per più bella e più onorevole e magnifica dell'altra. E il 27 continua la processione di centinaia e centinaia di cittadini, tutti concordi nel preferire la stessa chiesicciuola e nel volere che il tempio si alzi a somiglianza di quella.
E basta, alla fine. Ogni disegnamento, sì di mattoni come di legname o di carta, eccetto il prescelto, si disfaccia; anzi se un operaio volesse distogliersi dall'archetipo o lasciasse un capomaestro scostarsene venga condannato alla pena di libre dugento di piccioli, oltre alla perdita dell'ufficio; e se i consiglieri, i maestri, il camarlingo tentassero allontanarsene sieno cassati e paghino 50 libre, responsabili il notaio e gli ufficiali, considerando che all'Arte della lana potrebbe seguitare biasimo e reprensione ogni volta che il lavorio non seguitasse secondo le deliberazioni del Comune.
Altro che i tre concorsi per la facciata! Altro che le controversie o le contraddizioni sulle tre cuspidi, sul finimento monocuspidato, sul coronamento basilicale!
E avete visto, signori, la varietà dei metodi nel consigliare e nel giudicare. Dal plebiscito libero di tutti i cittadini all'arbitramento ristretto, dal voto di soli maestri al voto dei non artefici, dalle mute di esaminatori alle adunanze plenarie, tutto fu tentato per raggiungere ciò che è sempre difficilissimo ad afferrare in questo mondo di passioni, di egoismi e d'idee preconcette, la giustizia, segnatamente poi in una materia tanto delicata e tanto mutabile quale è quella dell'arte.
Pensavo a tutto ciò ieri a sera, appena giunto a Firenze. Non ci venivo da un poco di tempo. Desideravo e temevo di entrare fra le macerie di Mercato Vecchio. Cadeva il sole. Mi parve di assistere all'autopsia di un corpo di persona cara ancor viva; e intanto la luna cominciava a rischiarare dall'una parte i ruderi scuri e sanguinanti, dall'altra i monumenti freschi freschi del secolo decimonono. Curiosa! I vecchi parlavano, si lamentavano, si contorcevano; i nuovi sembravano impassibili, senza vita. Parevano stecchiti, ghiacciati e lustri, come figure di cera. Andavo pensando: certo i Priori non possono sbagliare, e le risoluzioni del comune meritano rispetto. Poi, se uomini, che amano tanto Firenze, hanno fatto così, vuol dire che hanno fatto bene. Eppure se avessero imitato gli avi, chiedendo plebisciti, mandando intorno banditori, esaurendo ogni mezzo, ogni forma anche pedantesca e bizzarra di giudizio, chi lo sa? i maestri e dipintori avrebbero finito per vincere, come vinsero nel 1366.
Insomma, signori, nè col sole nè con la luna, io giuro di non passare più dal luogo ove fu il quartiere di Mercato Vecchio.
Ma è tempo di allontanarci dai lieti colli fiorentini per condurci nel mezzo delle pingui pianure lombarde, ove sorge la guglia del Duomo, che ci deve portare nuovi esempi di giudizii artistici e di lotte.
Senonchè io non posso discorrere del monumento milanese come ho fatto del fiorentino, del quale so che voi tutti, signori, conoscete la storia. Del vostro Duomo si sanno bene tutte le vicende, si conoscono bene ad uno ad uno i nomi degli autori d'ogni sua parte, mentre dell'altro Duomo non si sa quale cervello d'artista n'abbia creato il primo disegno. Non si sa, anzi oggi ne disputano più che mai, se il germe di quel disegno fosse tutto italiano o lombardo, oppure in parte tedesco o francese. Non si è finito di battagliare su questo punto: quale merito nella fondazione spetti al popolo di Milano, quale a Gian Galeazzo Visconti. Non sono ancora tutti d'accordo sul giorno, anzi sul mese, anzi sull'anno in cui la cattedrale fu principiata.
In un mio grosso volume, che pochissimi hanno letto, chiedevo a me stesso: Quali erano le condizioni del popolo e del principe nell'anno in cui la fondazione ebbe luogo? E rispondevo con qualche pagina, in cui non ho rimorso di spigolare. Il principe era già passato dalle generose promesse e dalle misurate concessioni alle nuove imposte ed alle cautele di politica interna; il popolo dalla contenta fiducia passava già alle esigenze e ai sospetti, dimentico delle recenti e assai peggiori signorie di Galeazzo II, morto da otto anni, e di Barnabò, morto da pochi mesi. Gian Galeazzo, Dio volendo, non somigliava al padre ed allo zio. Pare un cinquecentista. Tanto era machiavellico ch'io duro fatica a pensare che non avesse potuto leggere il Principe; sebbene sempre seguisse nella vita il precetto del segretario fiorentino, al quale pareva meglio esser volpe soltanto che leone soltanto; ma la natura della volpe è necessario saperla ben colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore. Succeduto al padre, innanzi di pigliare in trappola quel lupo dello zio, faceva volentieri il santocchio ed il semplicione. Assisteva ogni giorno a due o tre messe. Parlava con reverenza del parente, benchè mostrasse di temerlo assai; e se cresceva il numero degli armigeri non era per altro che per guardarsi dalle insidie di lui: del che Bernabò rideva tenendo il nipote per una specie di babbeo.
Non credo che il conte abbia fatto avvelenare lo zio in una zuppa di fagiuoli, come vorrebbe il Corio, o altrimenti; ma, del resto, a sua scusa c'è questo, che se non l'avesse fatta lui a suo zio, suo zio, presto o tardi, od i suoi cugini l'avrebbero fatta a lui, poichè il proverbio, il quale dice: chi la fa l'aspetta, non so se nella politica sia sempre vero al dì d'oggi, ma certo era falso allora. Potevano piuttosto dire: Chi non la fa l'aspetta.
Gian Galeazzo protegge dotti ed artisti, pianta una specie di accademia di architettura e pittura, soccorre l'Università di Pavia, nel castello di Pavia forma una rara biblioteca e pensa già alla stupenda Certosa. I Fiorentini acuti indovinarono giusto, accusando il conte di aspirare alla corona di Re; ma il dolersi così vivamente come fanno alcuni illustri storici italiani, che Gian Galeazzo non abbia potuto conseguire l'audace intento, il credere che un regno d'Italia si sarebbe cominciato davvero a formare, mi sembra una rispettabile illusione storica. Non è sempre vero che gli uomini passano e le istituzioni restano.
Quel bieco e matto ragazzo, che fu Giovanni Maria Visconti, alla maniera che perdette quasi tutto il dominio, lasciato così grande, dal padre, avrebbe saputo bene perdere tutto il regno, assai più sospettato e pericolante del ducato. Non importa. Forse il regno avrebbe lasciato una traccia, che Francesco Sforza era uomo da ritrovare. E com'è dolce il leggere fino nel 1387 la parola Italia in quella canzone del veronese Vannozzo, scritta per la divisa del conte di Virtù, il nostro Gian Galeazzo, ove il poeta in otto sonetti, ne' quali parlano otto città italiane, spinge il Visconte ad unificare la patria, e, accommiatando le sue rime, annunzia ch'è giunto il Messia.
Com'è dolce il leggere in un codice dell'anno 1408, serbato nella biblioteca Ambrosiana, la canzone d'un poeta ignoto, in morte di Gian Galeazzo:
Cum pianto e pietade
Ciaschun dicea: o somma mayestade
Deh perchè privato ay questo emispero
De quel che col pensiero
Sanar volìa l'italico payese?
Intanto, intorno al 1386, il Comune andava perdendo le sue libertà. Già il Consiglio generale, composto di 900 cittadini, si riduceva a una lustra. C'erano anche allora — confortiamoci — oltre l'imposta fondiaria con i suoi bravi centesimi addizionali, anche l'imposta di ricchezza mobile, quella di esercizio e rivendite, e tutti gli altri carichi diretti e indiretti. Era cresciuta spropositatamente la tassa sul sale; il quale anzi ne pagava due, l'una al principe, l'altra alla città. Il vino ne pagava tre, compreso l'imbottato. Insomma, stiamo meglio noi. E ancora rimanevano tanti danari al popolo per la sua fabbrica del Duomo!
La basilica vetusta di Santa Maria Maggiore, metropolitana iemale (un'altra, santa Tecla, era la metropolitana estiva), non grande, mezzo diroccata, stretta fra chiese, oratorii, torri, caseggiati, non poteva più bastare ai bisogni del culto, alla devozione dei fedeli, alla onesta ambizione dei cittadini ed all'orgoglio del principe. Come i Fiorentini dalla umile Santa Reparata avevano fatto nascere il solenne tempio di Santa Maria del Fiore, così sentirono bisogno di fare i Milanesi, a' quali doveva parere vergognoso che le primarie città del dominio Visconteo, sebbene ancora ristretto, avessero cattedrali più nobili e più grandi della loro principale metropolitana. Sant'Ambrogio, Sant'Eustorgio, le altre severe basiliche, non corrispondevano più al nuovo sfarzo, ai nuovi gusti dell'arte.
Il principe non poteva rimanere indifferente innanzi alla iniziativa popolare: doveva aiutare l'impresa, proteggerla, dirigerla all'occasione, cavarne onore, come un signore assoluto usa in tutti quanti i lavori della propria città capitale, segnatamente in quelli che hanno attinenza con un sentimento, prepotente allora, potente adesso, il sentimento religioso. Il Visconte era troppo astuto per non pigliare la palla al balzo; ma era troppo ambizioso per non tirare a sè tutta la gloria dell'opera quando, come poi nella Certosa di Pavia, fosse stata sua la prima spinta e suo il merito della fondazione del monumento.
Il principio della costruzione sta, ad ogni modo, fra due date, il 12 maggio 1386 quando l'arcivescovo di Milano eccita alle elemosine per il tempio, che avevano idea di riedificare; ed il 12 ottobre dello stesso anno, quando Gian Galeazzo concede e disciplina le questue per l'edificio avviato.
E Gian Galeazzo dava privilegi alla fabbrica, le procurava ogni facilitazione, scriveva a Bonifazio IX per ottenere indulgenze e giubilei in pro di chi aiutasse i lavori, faceva rivedere le cose amministrative, inviava consigli, ordini, rimproveri, regalava, pare, le cave della Gandoglia, dalle quali uscì il marmo per tutto quanto il Duomo, trasmetteva palesi e segrete sovvenzioni in danaro.
Nel frattempo le offerte piovevano all'amministrazione da ogni parte e sotto ogni forma. Le Porte della città, le Arti, dette paratici, le parrocchie, le comunità religiose e il clero mandavano il loro grosso obolo; certe donne poco virtuose, che abitavano intorno a San Zeno in Pasquirolo, consegnavano il loro contributo a prete Ambrogio; nei luoghi più frequentati, al Broletto, all'ingresso degli alberghi, alle porte di tutte le chiese stavano esposte cassette per le oblazioni; intiere eredità erano lasciate alla fabbrica; chi non dava danaro porgeva pietre preziose, ori, argenti, drappi, vesti, che in parte si serbavano, in parte si rivendevano. Nel 1387 l'entusiasmo era tale che con le proprie mani lavorarono agli sterri i nobili e ricchi giovani milanesi, i magistrati, i giureconsulti, il podestà e, dicono, Gian Galeazzo. Nei soli primi cinque anni furono spese per la costruzione 141 mila lire imperiali, pari a quasi tre milioni, delle nostre lire d'oggi, secondo il mio computo molto taccagno, pari a quasi sette milioni, secondo Cesare Cantù, pari a quasi diciassette milioni, secondo il dotto signor Pagani, direttore dell'archivio di San Carpoforo in Milano.
Dicevo che della mole non si conosce l'architetto. Eppure gli archivisti non tralasciarono di rovistare nelle carte polverose, ed i critici di lambiccarsi il cervello, ingrossando anche i piccoli indizii. Lasciamo stare i vecchi scrittori, che attribuivano il disegno del Duomo a Giannantonio Omodeo, gentile architetto e scultore, morto nel 1522, 135 anni dopo fondato l'edificio; oppure ad Enrico di Gmünd, detto il Gamodia che sceso di Germania nel 1391, cinque anni dopo principiata la fabbrica; oppure a Nicola de' Bonaventuri, parigino, il quale capitò a Milano due anni e mezzo dopo i primi lavori. Gli scrittori d'oggi sono più sottili. Trovano un Anechino de Alamania, che nel 1387 riceve sedici soldi per un modellino in piombo del tiburio, della guglia maggiore. Oh non potrebbe Anechino essere lui l'architetto? Trovano che nel 1387 vengono pagati 24 soldi ad un valente ingegnere, Andrea degli Organi da Modena, per due libbre di morsecate. Che cosa era codesto morsecate? Poteva essere il massicotto, il protossido di piombo, il quale poteva servire alla composizione della cera plastica, la quale poteva essere stata impiegata nel fare un modello. Ora, se Andrea degli Organi faceva un modello, l'architetto del duomo era Andrea.
Abbiamo dal 1387 in poi, non solo una quantità di documenti sulla nostra fabbrica, ma i libri minutissimi dell'entrata e dell'uscita. Non un accenno, mai e poi mai, al primitivo architetto. Sappiamo i nomi dei maestri uno ad uno, che hanno atteso alla costruzione cominciando dalle prime settimane. Non una frase, non una parola, che lasci intendere sul serio di aver da fare con il creatore del tempio. Ci restano i verbali di vivacissime dispute sul concetto, oltre che sulla esecuzione dell'edificio. A chi loda non isfugge mai il nome da noi cercato, e non isfugge a chi biasima. Pare che l'ammirazione e il disprezzo in una sola cosa si accordino, nel tenerci nascosto quel che vorremmo sapere.
Ho pensato molte volte, o signore, che il diavolo ci avesse messo la coda: e rammentavo la leggenda tedesca, quella del Duomo di Colonia, il quale volere o non volere, ha con il nostro Duomo di Milano una qualche rassomiglianza.
Nei primi 29 mesi della fabbrica non troviamo altro che ingegneri italiani, la maggior parte di Campione, un bel paesetto sul bel lago di Lugano, ora svizzero, ma allora sottoposto alla diocesi milanese: Simone da Orsenigo, Marco Frisone, Giovanni di Fernach, detto anche Anni od Anne, sicchè qualcuno vuole che sia quel Anechino de Alamania, di cui abbiamo toccato, Giacomo, Zeno, campionesi, e via via.
Il primo architetto straniero, Nicola de' Bonaventuri, scende da Parigi a Milano il 7 maggio 1389. Lo eleggono ingegnere generale; gli danno, oltre il salario, casa, vino e legna. Provvedono la sua cucina di una caldaia pesante otto libbre e mezza, una padella di rame, una conca, quattro taglieri grandi e quattro piccoli, otto scodelle ed otto piatti di legno, quattro scodelle e quattro tondi di terra, sei cucchiai, tre mestole, due paia di treppiedi, una pepaiuola, una graticola di ferro, un boccale di vetro ed una tazza, una tovaglia, due tovaglioli ed un asciugamano. Principiare dalla pancia va bene, ma bisogna anche dormire. Si compera della paglia per il letto del maestro. Non se ne contenta: vuole un bel letto grande, assai comodamente fornito. Con 47 braccia di tela di lino gli fanno due lenzuola; per la coperta spendono in ragione di 128 lire delle nostre. Ottiene anche il suo bravo piumino. Si fa anticipare quattrini: evidentemente era un parigino sventato. Dà, fra gli altri disegni, quello dei magnifici finestroni dell'abside; ma dura poco. Il 31 luglio del 1390 il Consiglio della fabbrica delibera di mandarlo via, ed egli, che non doveva avere la coscienza netta, lo stesso giorno parte furtivamente: e buon viaggio.
Poco appresso, Giovanni di Firimburg, nuovo ingegnere, si sfoga nel censurare i lavori; ma le parole volano, e i deputati, che non soffrono equivoci, invitano il maestro a porre in iscritto i suoi dubbi e i suoi biasimi, affinchè si possa, occorrendo, provvedere. La relazione dovette essere o molto sconveniente o molto bestiale, perchè senz'altro si decreta che gli venga tolto il salario ed il titolo. E così Giovanni di Firimburg ripassò le Alpi.
Senonchè, gl'ingegneri italiani non bastavano più. Era stata seminata la zizzania. E poi la costruzione si avvicinava a quelle parti, che più apparivano lontane dalle consuetudini e dai criterii della nostra arte locale: i piloni si alzavano aspettando le volte ogivali, i contrafforti si alzavano aspettando i pinnacoli. Gli archi rampanti, i gugliotti, il tiburio o guglia centrale, la inclinazione dei tetti, dovevano presentarsi ai maestri, ai deputati, allo stesso arcivescovo, il quale aveva tanta ingerenza e tanta responsabilità nell'andamento dei lavori, allo stesso intelligente principe, quali tanti quesiti, che, risoluti nell'un modo o nell'altro, potevano decidere, non solo della bellezza, ma della stessa esistenza del Duomo.
Mandano un maestro teutonico a Colonia a pigliare unum maximum inzignerium; spediscono lettere ad Ulrico di Ensingen da Ulma. Intanto si contentano di sentire Gabriele Stornaloco, esperto geometra, Bernardo da Venezia, intagliatore del principe. Finalmente il 27 novembre del 1391 giunge Enrico Arler da Gmünd nella Svevia, detto a Milano il Gamodia.
Capita pieno di spirito ogivale, con le cattedrali di Praga, di Colonia e tutte le altre nel cuore e nella mente. Biasima, propone riforme, ed il primo maggio del 1392 ottiene che si discutano undici punti essenziali per l'organismo della costruzione; ma le faccende sue vanno male. Il Consiglio lo manda pro factis suis; e il povero uomo che, avendo bisogno dell'interprete, era servito in ciò dal suo connazionale, oste all'albergo della Spada, borbottando nel suo tedesco, partì. Due anni dopo cala da Ulma Ulrico di Ensingen, dianzi nominato, bisognoso anche lui dell'interprete, e mandato egli pure assai presto pro factis suis.
Segue un intervallo di maestri italiani, fra i quali brilla il nome di Giovannino de' Grassi, pittore, architetto, scultore, miniatore; confuso malamente con quel Giovanni da Milano, del quale parla il Vasari nella vita di Taddeo Gaddi. Ma i contrasti fra italiani e stranieri dovevano diventare acerbissimi dal 1399 al 1401 con la presenza di Giovanni Mignot francese, anzi, come il Bonaventuri, parigino. Principia, al solito, col censurare ogni cosa. Ripete a ogni tratto, intorno a questa o quella parte della fabbrica: magnus defectus.... nihil valent.... quod est male factum.... quod est peximum opus, ed altre simili garbatezze.
L'arte italiana e l'arte straniera cozzano insieme fieramente. Di qua questa affermazione: La scienza è una cosa e l'arte è un'altra. Di là questa sentenza: L'arte senza la scienza non val nulla. Ecco le formule trovate dal parigino di cinque secoli addietro per indicare le diverse nature delle due arti; nè sarebbe, io credo, possibile dare una definizione più rapida, più viva, più profonda della differenza del genio artistico italiano dal genio artistico oltramontano nel medio evo. I due genii si composero di mala voglia, ma intimamente, in codesto fenomeno architettonico, che è il Duomo di Milano. La sostanza come l'apparenza di esso non appartengono nè all'Italia, nè alla Francia, nè alla Germania. Sono italiane, per esempio, le fronti archiacute delle cattedrali di Siena e di Orvieto; ma il Duomo di Milano non ha patria. Nato e cresciuto nei contrasti e nelle lotte, risultò pieno di originalità e di forza: esempio insigne di quanto giovi l'incrociamento delle razze anche nel mondo dell'arte e dello spirito.
Il Mignot, pure volendo la logica in tutti i membri architettonici, pure cercando la razionalità d'ogni cosa, usciva di carreggiata, perchè tirava la teoria all'eccesso. I nostri, più pratici, più artisti, nel ragionare s'attaccavano agli specchi. Ecco, per esempio, i quattro campaniletti alzati intorno all'alta guglia centrale sui quattro piloni della crociata, tanto vantaggiosi alla stabilità, tanto profittevoli alla bellezza prospettica. Sapete perchè si volevano fare? Per dare a intendere che il nostro Signore Iddio siede in Paradiso nel mezzo al trono, circondato dai quattro Evangelisti, siccome narra l'Apocalisse.
Il Mignot scoppia, gridando che i suoi contraddittori non intendono al meglio dell'edificio, ma operano o per timore o per lucro. Perciò egli chiede che si deliberi di chiamare a consiglio quattro, sei o dodici dei migliori ingegneri dell'Allemagna, dell'Inghilterra, della Francia, altrimenti la fabbrica rovinerà; e per amore del vero e della propria riputazione egli correrà a dirlo al duca. I maestri, così furiosamente assaliti, s'impacciano, s'imbrogliano, tirano in ballo Aristotele, il quale insegnò che il moto dell'uomo verso un punto è o retto o circolare o misto; applicano questa sapienza alle misure della chiesa, terminando con una terza sentenza supremamente italiana: La scienza senza l'arte non val nulla. Il Duomo, come si vede, dopo cinquecent'anni è la migliore prova della verità di questo antico dettato: Vale più la pratica che la grammatica. Ma il Mignot, oltre che grammatico, era intollerante d'ogni arte e d'ogni opinione che non fossero le sue, prosuntuoso, impetuoso, e falso profeta di sventure per il Duomo, il quale procedeva innanzi tranquillamente, come se tanti contrasti e tante ire non lo risguardassero affatto.
Intanto i preposti alla fabbrica vivevano in grandi angustie, non sapendo a chi credere e come risolversi. Dall'una parte sentono gridare che la chiesa, pessimamente costrutta, è lì lì per cadere, dall'altra sentono giurare che la chiesa, costrutta arciperfettamente, sfida l'eternità. Gian Galeazzo pure, negli intervalli di riposo lasciati a lui dagli intrighi della politica e delle guerre, doveva sentirsi fastidito, pensando alle faccende del Duomo. Manda a Milano da Pavia due ingegneri ducali; ma senza costrutto.
Noi diciamo spesso che i nostri artisti d'oggi non vanno d'accordo, ch'è gente invidiosa e incontentabile. Ci lamentiamo che i conti preventivi delle fabbriche nuove sieno quasi sempre sbagliati. Buttiamo sulle spalle alle disgraziate Commissioni la responsabilità delle dispute, delle lungaggini, delle bestialità d'ogni specie nell'arte e nel resto. Io non esamino se abbiamo ragione e fin dove; ma voglio bene dimostrarvi che, come tutto il mondo è paese, così tutti i secoli si somigliano.
Siamo all'ultimo anno del Milletrecento, dal quale secolo non mi è lecito uscire. Si tratta della opera delle eccelse e stupende vôlte del Duomo, principiate a modificare dal Mignot, secondo il suo criterio parigino. Una Commissione di dieci maestri e dilettanti deve giudicare. La prima interrogazione risguarda la solidità del lavoro. Uno risponde che non è abbastanza solido; un altro addirittura che non è solido affatto; cinque che è solido; Giovanni Alcherio, un milanese dimorante in Francia, che non è soltanto solido, ma solidissimo; Guidolo della Croce, che è tanto solido che in nessun modo si potrebbe immaginare di più; e Simone de' Cavagnera, nel suo dialetto: che le croxere e volte archomenzate per magistro Johanne Mignoto sono fortissime, senza defeto nessuno a la forteza.
La terza domanda pone a confronto il disegno di prima con quello del Mignot per bellezza e fortezza. Sei giudicano il lavoro del francese più solido e più bello, quattro lo giudicano meno solido e meno bello, o solo meno solido, o ugualmente solido e bello.
La quarta interrogazione è relativa alla differenza di spesa fra il vecchio disegno e il nuovo. Quasi tutti ammettono che il nuovo lavoro sarà più costoso dell'altro; ma chi dice il doppio, chi il quadruplo, chi venti volte di più, chi invece solo un quarto, chi un poco, chi un pochino. E si trattava di calcolare lire, soldi e denari!
Si tratta solo di misure nella quinta domanda. Occorreranno pietre più grandi o più piccole per le crociere del Mignot? Bastava prendere le dimensioni di ciascun pezzo e moltiplicare e sommare per ottenere le cubature e il confronto. Qui almeno, volere o non volere, bisognerà che tutti vadano d'accordo. O sì! Tre rispondono più grandi; uno molto più grandi; due più piccole, e c'è chi dice la differenza sarà minima. Passano a discorrere delle nuove costruzioni del camposanto, dietro l'abside del Duomo. Gli animi s'infiammano. Guidolo della Croce, acceso in volto, senza dubbio, e con voce stentorea butta in faccia ai deputati questa formidabile accusa: “Non è da maravigliare se in queste opere del camposanto e della chiesa ricorrono molti errori, dacchè avete accolto quali ingegneri dei pittori, dei carpentieri, dei tagliapietre, e dei fabbricatori di guanti.„
Lo Scrosato, anche lui, raccomanda di valersi dei valentuomini “non delle persone idiote, che si fanno chiamare maestri senza sapere niente„. E il Galletto pure si lagna dei protettori di maestri ignoranti. E si ode una voce gridare: “Bisogna togliere questo sempiterno vituperio della città.„ Uno fa per parlare, ma l'Alcherio, mettendogli la mano sulla bocca: “Non lascierò rispondere a nessuno prima che abbia parlato il Mignoto, che è il più degno fra tutti.„
Nel frastuono di tante voci adirate, fa un curioso contrasto la parola placida di Simone de' Cavagnera, il quale, come tutta la gente quieta, inclinava a rimandar la questione: Dicho che s'ha da convocà le persone che se intendono in questo, e odire ogni homo, e pigliare la miglior parte. Non gli pareva che avessero ragionato abbastanza!
Gli odii contro il parigino si addensano. Gian Galeazzo, che lo aveva difeso, occupato in altre assai più gravi faccende, lo abbandona; allora addosso. Gli scaraventano un atto d'accusa, gl'intimano di pagare grossi risarcimenti, lo destituiscono il 20 ottobre 1401 sequestrandogli ogni cosa. Non di meno, il valente, ma imprudente, spavaldo, spensierato e indebitato ingegnere parigino lascia, partendo, molti amici e ammiratori focosi, i quali indirizzano un furibondo reclamo al duca. Principia così: “Oh grande dolore, oh immensa falsità e malignità senza confine, e ingiustizia dei malvagi! Non sembra esservi oramai persona in questa città così grande ed in tutta la patria, la quale alcunchè s'intenda dell'arte del disegno e della geometria, nè della virtù si curi in qualsivoglia modo, nè dell'onore.„ I due architetti italiani della fabbrica, Marco da Carona e Antonio da Paderno, sono chiamati ignoranti, rozzi, sozzi, del tutto idioti nell'arte loro, falsi testimoni, incettatori di quistioni; i loro protettori sono chiamati iniqui, malvagi, mentitori, ed eccoli nominati uno ad uno, deputati alla fabbrica, nobili, cittadini milanesi, ed officiali della fabbrica stessa “i quali già da molti anni, come se gli altri fossero tutti insufficienti, continuano a servire sempre nei medesimi incarichi contro gli ordini, che stabiliscono doversi gli officiali mutare d'anno in anno. E se uomini valorosi, il gran Conestabile e Facino Cane con tutto il loro esercito, volessero cavarli dal loro seggio, non vi riescirebbero, tanto sono infissi colà, e così bene ingannano l'Eccellenza Vostra, il vostro Comune di Milano, e la fabbrica, arricchendo sè medesimi„.
Questo documento, il quale continua un pezzo sul medesimo tono, è singolare per più rispetti. Innanzi tutto, la violenza sua contro uomini rivestiti di pubblici uffici, fra i quali il Tignosio, niente meno che luogotenente del Vicario di Provvisione, apparisce tale da far pensare che un simile reclamo, accolto pazientemente da Gian Galeazzo, principe assoluto e non mellifluo, verrebbe senz'altro respinto oggi dai principi e dai loro ministri. Curioso il cenno al gran Conestabile ed a Facino Cane, ove l'ira si trasforma in sarcasmo; curioso un cenno alla poca facondia del Mignot, raro difetto in un parigino anche allora; strano il disprezzo per i maestri italiani in un tempo sì ricco di ammirabili opere nostrane. Fatto sta che il duca trasmise al Consiglio della fabbrica il fierissimo documento, il quale venne letto in generale adunanza, mentre stavano in faccia gli uni agli altri accusatori e accusati.
Signori, conoscevate bene le perplessità, le contraddizioni, le battaglie seguite nella costruzione del vostro campanile e della vostra divina Santa Maria del Fiore, e avete udito ora quelle che accompagnarono la grande opera del Duomo di Milano. Eppure da questi tre monumenti, cui posero il genio e la mano tanti artefici diversi d'intelletto, di studii e d'animo, si sprigiona una grandiosa, una piena armonia, nella quale non c'è cosa che strida o che stoni. Come mai dalle opposizioni tenaci e dalle lotte accanite nasceva nel Trecento la concordia della bellezza? Come mai oggi non ci riesce di trovarla nemmeno nelle opere uscite da un solo cervello?
Vorrei, secondo le mie forze, rispondere a questi due ardui quesiti. Non abbiate paura, signore gentili: lo farò, chi lo sa? un'altra volta.
Fine.
INDICE.
Pag.
Guido Biagi Le letture fiorentine su la vita italiana nel trecento v
Romualdo Bonfadini Le fazioni italiane 1
Francesco Bertolini Roma e il papato nel secolo XIV 27
Augusto Franchetti I primordi delle signorie e delle compagnie di ventura 48
Marco Tabarrini Le consorterie nella storia fiorentina del Medio Evo 98
Ernesto Masi Svevi e Angioini 128
Pio Rajna La genesi della Divina Commedia 153
Isidoro Del Lungo Dante nel suo poema 183
Enrico Nencioni La letteratura mistica 218
Adolfo Bartoli Il Petrarca 249
Adolfo Bartoli Il Boccaccio 271
Arturo Graf Il tramonto delle leggende 293
Diego Martelli Gli artisti pisani 322
Pompeo Molmenti La grandezza di Venezia 344
Camillo Boito Santa Maria del Fiore e il Duomo di Milano 374