CONTEMPLAZIONE
DELLA MORTE.
GABRIELE D'ANNUNZIO
CONTEMPLAZIONE DELLA MORTE
FRATELLI TREVES EDITORI MILANO • MCMXII
Seconda Edizione (4.º a 7.º migliaio).
Proprietà letteraria. Riservati tutti i diritti.
Copyright by Fratelli Treves, 1912.
Tip. Treves.
MESSAGGIO.
A MARIO PELOSINI DI PISA.
Mio giovine amico, per quella foglia di lauro che mi coglieste su la fresca tomba di Barga pensando al mio lontano dolore, io vi mando questo libello dalla Landa oceanica dove tante volte a sera il mio ricordo e il mio desiderio cercarono una simiglianza del paese di sabbia e di ragia disteso lungo il mar pisano.
Ben so come profondamente nel vostro petto fedele voi custodiate la luce dell'ora in cui per la prima volta, sconosciuto e atteso, varcaste la soglia della casa ch'io m'ebbi un tempo alla foce dell'Arno tra i ginepri arsicci e le baglie marine. Eravate quasi fanciullo, generosus puer, ebro di poesia, tremante di riconoscenza e d'amore; e la divina virtù dell'entusiasmo ardeva in voi così candidamente ch'io mi credetti riveder me stesso giovinetto nell'atto di accostarmi a un puro spirito, ora esulato dalla terra, che molto amai e molto ascoltai. La casa era tanto prossima al frangente che dalla finestra non si vedeva se non il flutto, come da un'alta prora. E mi piacque che intorno a quel nostro primo dialogo non paresse stagnare la quiete domestica ma spirare quasi la libertà d'una navigazione avventurosa. Anchoras praecide. Credo che tal fosse il mio primo insegnamento. E ci accomiatammo, secondo il costume di coloro che non si riposano su alcuna certezza o promessa, come se non dovessimo rivederci più mai.
Di lontano, non ebbi da voi se non sobrie testimonianze d'un amore sempre più forte e d'una fede sempre più tenace. Cosicché, pensando al prato sublime che sta tra il Camposanto e il Battistero o alla funebre spiaggia tra il Serchio e l'Arno, posso senza discordanza pensare a voi prediletto tra i pochissimi che sanno amarmi come solo voglio essere amato.
Ecco che riprendo in queste pagine una contemplazione già iniziata nella solitudine di quel Gombo ove vidi in una sera di luglio approdare il corpo naufrago del Poeta che s'elesse Antigone e vegliai la salma colcata a fianco della vergine regia, tra l'uno e l'altra sorgendo il fiore «inespugnabile» nomato pancrazio.
Poi che non val la possa
della Vita a comprendere tanta
bellezza, ecco la Morte
che braccia più vaste possiede
e silenzii più intenti
e rapidità più sicura;
ecco la Morte, e l'Arte
che è la sua sorella eternale...
Ma, di qua d'Arno, nella selva spessa che va sino al Calambrone, in un meriggio dello stesso luglio, portai il pensiero della fine su i miei piedi nudi come una fiera porta la sua fame o la sua vigilanza. Il demone del rischio mi aveva detto: «Va e gioisci. Beviti le musiche degli uccelli e dei vènti, abbàgliati delle luci, inèbriati degli odori. Una vipera ti ucciderà». Andai, e cercai la mia vipera. Portavo leggeri sandali di sparto legati ai malleoli con corregge sottili. Tanto era l'attesa che, quando mi sentii mordere la prima volta, non potei trattenere il grido. E farmi pallido in quell'aria affocata mi pareva una sorta di voluttà eroica. Guardai. Non era se non la puntura d'una spina: il sangue gocciolava, e tutte le vene del piede erano gonfie per lo sforzo del camminare nella sabbia ardente come la brace o su gli aghi arroventati come gli schisti del Deserto. «Non ancóra,» E seguitai, senza guardare a terra, entrando sempre nel più folto. E a ogni puntura dicevo: «Ecco». E non era se non un aculeo più acerbo. E ogni goccia di sangue mi pareva più preziosa. E tutti i miei sensi divenivano soprannaturali, perché creavano una natura più potente e più bella. Vedevo fumare dai cespugli l'aroma, la vita del pino brillare di sotto la scaglia come la porpora nel murice, l'esiguo triangolo chiaro nella coccola del ginepro significare il mistero d'un dio verde il cui baleno era la lucertola guizzante. E seguitai, seguitai, sanguinando, ma senza trovare la mia vipera. Se i miei piedi erano gonfii e dolenti, il mio capo era perspicuo e lieve come nel santo digiuno.
Un'allegoria è nascosta in ogni figura del mondo; e giova, secondo la sentenza di san Gregorio, «lo intendimento delle allegorie ridurre ad esercizio di moralitade». Sotto il più alto fervore, sotto la più profonda conturbazione del mio spirito la mia ferinità persiste, o giovine amico. E voi comprenderete perché, tornando dall'aver contemplato in ginocchio la beatitudine del Cristiano sul letto candido, io abbia palpato in ginocchio le mammelle numerose della Diana Efesia sotto la specie brutale.
Or qual bellezza doveva essere in quel Santo, se pareva che la morte le convenisse!
Bisogna credere che sempre e in ogni luogo lo spirito dell'uomo sia l'iddio verace dell'uomo e che le imagini mitiche o incarnate della divinità non sieno se non i modi che conducono a riconoscere sol quello: sol quello che non si può nominare e a cui non si può disobbedire. Gran tempo io diffidai del Galileo come d'un nemico, per una provvidenza che nel nemico pone la salute del forte. Pur non temendo il «dio senza muscoli», non m'avvenne di guardarlo negli occhi. Nella prima giornata di questo Quatriduo si narra come il sùbito pianto del vecchio me lo facesse presente. Ora a volte Egli se ne va davanti me, cammina sopra queste acque come sopra il mar di Tiberiade. Ieri si presentò su la riva e mi disse: «Getta la rete». E quel giovine dalla sindone che ora è il mio compagno, del quale si parla nella terza giornata di questo Quatriduo, si precipitò nel mare «perciocché egli era nudo, erat enim nudus ». Questi sarà il mio mediatore affinché il Figlio dell'Uomo mi conduca a riconoscere compiutamente il mio intimo Signore. Così, dopo aver cantato tutti gli iddii, canterò il mio dio verace. E vi manderò il libro di Taigete come lo spirital fratello del libro di Alcione composto là dove non era altra croce se non quella degli staggi sospesa su la fiumana in un miracol d'oro. Ed è grazia della sorte che questo novo canto s'alzi dall'estremo Occidente ove «per cento milia perigli» era giunto l'ardore dell'Ulisse dantesco. E il dio voglia che, di continuo tendendo l'orecchio, riesca io a cogliere il ritmo della grande onda occidentale per mescolare con esso la mia anima italica.
Ma qual è il Redentore che voi aspettate, che aspettano i vostri eguali? Forse un nuovo sentimento sacro riempie freschi occhi che non conosco, che non vedrò mai. Talvolta, se ascolto, mi par d'udire pensieri ascendere come l'argento e il cristallo di quel vasto coro infantile che saliva dallo Stadio nella Città subalpina. Qualcuno scrolla e sfonda porte lontane; e par mi giunga lo strepito indistinto. Qualcuno reca in sé tutta una stirpe occulta e bramosa, che chiede di nascere. E chi sale contro a me, dall'altro declivio del secolo, in silenzio? Colui che io ho annunziato?
Ieri, su l'Atlantico, una imaginazione mi venne dal ripensare che in Tespia il simulacro di Amore era un sasso greggio. Anche ripensavo a quegli zòani primitivi che aveano le gambe congiunte l'una all'altra e congiunte le braccia lungo i fianchi sino alle cosce. E consideravo la potenza commossa dell'artefice che primo disgiunse le gambe del dio rude e primo atteggiò al gesto le braccia. Per ciò guardo e interrogo le mani dei giovani pensosi, se sien capaci di tagliare il sasso greggio di Tespia. Taluno ha l'aria di aver dormito in un tempio e di non voler parlare. E la sua faccia par piena di segni e di segreti come la palma della mano.
Ma non sempre indarno io ho masticata la foglia del lauro, come gli indovini, pur temendo gli indovinamenti del mio cuore.
E vengono verso me fantasmi che non si generano dai miei sogni.
E che può mai essere per me il rinascere, se «io nacqui ogni mattina»? Ora la cosa non è più tra me e l'alba.
E ora so che il dio verace è quello a cui non si può disobbedire, quello contro cui non si può commettere peccato. E quello io debbo trovare e conoscere.
E la qualità della mia fede è tale che, quando apro il volume della Comedia, io credo aver Dante visitato in carne e in ispirito i tre regni.
E io, il quale volli un tempo essere un Maestro, ora so come nulla di ciò che è veramente vivo e divino possa essere insegnato.
E io, che più d'una volta respinsi l'ingiuria, ora comprendo la parola del Crisostomo: «che niuno non può essere offeso, se non da sé medesimo».
E io ricevo ora la forza di tutti i miei errori vinti e di tutti i miei mali superati, come quel cavaliere del romanzo carolingio, il quale ereditava il potere di quanti uomini e mostri abbattesse la sua lancia.
E so che gli occhi lontani di quelli che piansero e piangono su i miei errori e su i miei mali non possono essere né puri né profondi.
E chi prende e soppesa taluna delle mie opere, consideri una delle tante mie parole che il tumulto impedì d'intendere: «I figli miei concetti nell'ebrezza — come delitti sacri alla dimane....»
E chi mi ama sappia che di ogni mia dimora distrutta io ho sempre potuto serbare la pietra che porta inciso l'enigma della mia libertà: « Chi 'l tenerà legato? »
E chi mi segue sappia che perfino nella mia nave piena di sozii l'istinto implacabile della liberazione mi spinse più d'una volta a gittarmi solo in mare come il poeta di Metimna ma senza ricorrere al delfino salvatore.
E non vorrò mai esser prigioniero, neppure della gloria.
E non vorrò mai riconoscere i miei limiti.
E non vacillerò mai dinanzi alla necessità del mio spirito e alla cicuta.
E non farò mai sosta alle incrociate delle mie vie.
E serberò fresca la vena inestinguibile del mio riso pur nella peggiore tristezza.
E dico che l'elemento del mio dio è il futuro.
E dico che ciò ch'io non sono, domani altri sarà per mia virtù.
O giovine amico, ciascuno di questi pensieri non è se non il tema d'un inno e non può esser condotto a compimento se non dal ritmo eroico. E credo avere accresciuto il numero delle mie corde dopo questi funerali, come il costruttore di città, avendo imparato la melodia dei Lidii nelle esequie fatte a Tantalo da essi Lidii, aggiunse tre corde alle quattro della lira.
Ma pur saprei soffiare su ciascuno come il fanciullo su la lanugine del cardo argentino, per astringermi di considerare nella mia memoria quel poco di sole che impallidiva su quel poco di paglia davanti alla porta del mio malato e quel poco di vetro rotto che vi luceva come lacrime o rugiada.
Il silenzio era un inno senza voce.
Tale potrebbe essere allora il mio silenzio. Ma quegli che sale contro a me, dall'altro declivio, quando m'incontrerà e gitterà il suo grido?
O mio giovine amico, talvolta la giovinezza mi chiama dalle viscere della Città come la sirena dall'abisso; e accorro, ansioso, alla mia maraviglia e alla mia perdizione. Amo cercare nel traffico e nell'ignominia della via gli occhi dell'Ignoto, gli occhi fissi che mi sfidano, gli occhi obliqui che mi sfuggono, sotto il rombo senza pensiero. Ho su la lingua la cenere dei miei sogni, e la mastico per non esserne strozzato.
La penultima sera d'aprile ebbi nella via un compagno ventenne: un volto imberbe modellato dal pollice ferreo del Destino come quello del Beethoven; un cuore chiuso in cui forse sonavano le quattro note spaventose della Sinfonia Quinta. Andavamo a paro, oppressi da uno di quei cieli d'uragano bassi e rossastri, sotto i quali Parigi sembra schiumare e fumigare come un bulicame enorme. La carta dei giornali, ond'era invasa tutta la città, pareva elettrica come quando esce tesa dai cilindri della cartiera nei giorni secchi scoppiettando di scintille. Il bandito famoso era morto laggiù, nella casa diroccata e arsa, dopo l'assedio feroce e ridevole, gittando l'ingiuria suprema fuor del suo capo forato da dodici palle. E, mentre era celebrato nei fogli l'eroismo degli assediatori coperto di materassi, l'atroce parola plebea pareva fosse per rimaner sospesa su l'immensa adunazione dei tetti sicuri, fino al crollo totale. Tutto lo spazio era pieno di violenta morte, di bellezza torbida, e di non so che travagli, e di non so che presagi, come se il Futuro si chinasse dalla nuvola ferrugigna a soffiarci sul viso il suo polline ben più potente che il vivo solfo della Landa pinosa. E ci pareva d'entrare in ogni via come il soldato entra nella trincea, ed ogni via ci pareva chiusa come i vicoli ciechi, e ci pareva di sfondarla con la volontà senza gesto. E un branco di bagasce, contro un muro infetto dalla lebbrosìa degli affissi, ci guatò di sotto ai grandi cappelli piumati, con qualcosa di selvaggio negli occhi pesti e nelle labbra dipinte, simili a menadi sfatte di un Dioniso tavernaio. E più in là, dietro una vetrina piena di dolciumi stantii e di sciroppi inaciditi, scorgemmo la Parca Atropo. E più in là, dentro una meschina bottega d'oriolaio, intravedemmo un Saturno barbato e scerpellato che mangiava un lungo rocchio di salsiccia figliale, tra orologi morti e decomposti.
Come il mio compagno povero abitava nel sobborgo, per aspettare l'ora del treno entrammo in un piccolo Caffè; e ci sedemmo l'uno accanto all'altro davanti a una lastra di marmo su cui la traccia lasciata da una sottocoppa sporca disegnava il circolo dell'eternità. E il luogo ignobile s'empì del nostro tumulto inespresso, come una conca è piena di rombo oceanico che solo un orecchio aderente ode. E, quando il tavoleggiante accese sul nostro capo il becco del gas, vidi la bocca del mio compagno simile alla bocca dei mutoli che vogliono parlare; e forse era piena della parola nuova, o forse soltanto di saliva angosciosa. E guardai anche quel chiarore su le sue mani pallide, pensando al sasso di Tespia. E non mai ebbi così grande il sentimento d'un dio ignoto che divorasse un'anima gonfia.
«Bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamo». Tornai indietro solo, verso la febbre notturna; e alzavo di tratto in tratto gli occhi al volto indistinto che dalla nuvola si chinava verso me come quelle strigi gotiche dalle gronde delle cattedrali. E, passando per una via angusta, di colpo la bertuccia d'un merciaiuolo ambulante mi saltò su le spalle. E tutto il lastrico sonò di risa e di motti plebei. E l'ingiuria lugubre dell'uomo dal capo forato era sospesa nel crepuscolo pregno d'una forza senza nome. Ma il mio compagno ventenne, traballando laggiù nel treno tardo, udiva forse Amfione preludiare sopra un mucchio di calcinacci.
Ora bisogna che anche noi ci separiamo e poi ci ritroviamo, mio giovine amico.
Addio.
Dalle Lande, maggio 1912.
G. d'A.
ALLA MEMORIA
DI
GIOVANNI PASCOLI
E DI
ADOLPHE BERMOND.
VII APRILE MCMXII
VII APRILE MCMXII
Anche una volta il mondo par diminuito di valore. Quando un grande poeta volge la fronte verso l'Eternità, la mano pia che gli chiude gli occhi sembra suggellare sotto le esangui palpebre la più luminosa parte della bellezza terrena. Penso che Maria dolce sorella, la tessitrice dalle mani d'oro, a cui Giovanni chiamato dai suoi morti chiedeva un giorno in una tenue ode divina il «funebre panno», abbia compiuto pur quell'officio, ella che è virile in pietà come Caterina da Siena. E chi allora fu di lei più certo che nel cari occhi abbuiati dalla pressura scompariva anche l'allegrezza dell'aprile presente?
Fantasma tu giungi,
tu parti mistero.
Venisti, o di lungi?
ché lega già il pero,
fiorisce il cotogno
là giù.
Se imagino i suoi occhi nell'ultima ora e se imagino le rondini all'Osservanza «quelle dal petto rosso e quelle dal petto bianco» traversanti pel vano della finestra nel cielo di Pasqua, mi torna alla memoria una sua parola d'or quindici anni, in cui — non so perché — parvemi veder riflesso il baleno del balestruccio come in un marmo nero levigato. Parlava egli alle volatrici nella favella francescana, e diceva: «Vorrei avere tutto il dì, mentre sto curvo sui libri, negli occhi intenti ad altro, la vertigine d'ombra del vostro volo!» Oggi riodo gli stridi delle sue compagne sotto le grondaie lontane, e vedo in que' suoi occhi intenti ad altro la vertigine d'ombra. Quella parola ch'egli credeva dire per la sua vita, egli la diceva per la sua morte; e io non sapevo che, fra tante di cui sono immemore, mi fosse penetrata così a dentro e si fosse accresciuta di questa funebre bellezza.
Ieri un caso volgare e ammirabile mi diede il modo di assistere continuamente col pensiero il mio amico nella sua agonia. E più tardi, per una rispondenza misteriosa, potetti ascoltare la musica infinita che la sera faceva intorno al suo silenzio.
Lo credevo quasi guarito, o almeno fuor d'ogni pericolo. Notizie recenti mi assicuravano ch'egli fosse per tornare alle sue consuetudini cotidiane e per riprendere il lavoro disegnato. Venerdì notte, cedendo alla svogliatezza primaverile, lasciai a mezzo la mia pagina; e mi misi a sfogliare qualche libro di figure. Mi venne fatto di scorrere la raccolta delle acqueforti pascoliane di Vico Viganò. Per confrontare il ritratto inciso del poeta con una imagine d'esattezza fotografica, cercai il volume illustrato dell' Inno a Roma credendo che ci fosse. La memoria m'ingannava: non c'era. Ma mi soffermai su l'impronta dell'ascia sepolcrale romana; e rilessi i bellissimi esametri.
Ascia, teque eadem magnae devovit in oris
omnibus Italiae, dein toto condidit orbe...
Anche una volta l'evocatore delle auguste forze scomparse aboliva nel mio spirito l'errore del tempo. Riconoscevo a quel dilatato respiro del mio sogno uno dei più alti suoi doni; perché certe sue evocazioni dell'antico si avvicinano ai limiti della magia. Qualcosa di magico è nella potenza repentina onde un grande poeta s'impadronisce dell'anima nostra. A un tratto l'immensa notte oceanica s'empiva de' suoi fantasmi. Il numero del suo verso si prolungava in una lontananza solenne, fin là dove la parola dell'inno vedico pareva la sua stessa eco ripercossa dall'invisibile confino. «Ciò ch'io ti prendo, o Terra, racquisterai presto. Possa io, o pura, non ferire alcuna tua parte vitale, non il cuor tuo».
Roma sed exsistens e sulco pura cruento
sacravit Terrae Matri, qua laeserat et qua
esset per gentes omnes laesura, bipennem.
La notte era tranquilla ma non serena, con istelle forse infauste, prese in avvolgimenti di veli e di crini. L'acqua dell'insenata non aveva quasi respiro, ma di là dalle dune e dalle selve l'Oceano senza sonno faceva il suo rombo. Nondimeno questa quiete comunicava con quel tumulto, e la sabbia di quella riva tormentosa era simile alla sabbia di questa che si taceva. Così talvolta, nella più agitata angoscia, un meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace. E dove dunque era per approdare l'Ulisse dell' Ultimo viaggio? su questa o su quella riva?
Ora mi chiedo con turbamento perché di tratto in tratto il mio spirito interrompesse il suo fantasiare per cercar di rinvenire in sé l'aspetto mortale del poeta. Non mi pareva di ritrovarlo nell'acquaforte dell'artista lombardo, né sapevo dove cercarne un'imagine precisa. E, se chiudevo gli occhi e mi sforzavo di ricomporne le linee sul fondo buio, il volto indistinto si dissolveva in bagliori. Allora mi ricordai d'avergli detto un giorno: «Se tu avessi il viso tutto raso e se tu non sorridessi, somiglieresti a Piero de' Medici com'è scolpito da Mino». Ma in verità egli non s'era mai lasciato guardare da me fisamente.
La nostra amicizia soffriva d'una strana timidezza che non potemmo mai vincere perché i nostri incontri furono sempre troppo brevi. Era un'amicizia «di terra lontana» come l'amore di Gianfré Rudel, e per ciò forse la più delicata e la più gentile che sia stata mai tra emuli. Si alimentava di messaggi e di piccoli doni. Da prima egli temeva che la sua rusticità e la sua parsimonia mi dispiacessero, come io temevo che gli increscesse la mia diretta discendenza dalla brigata spendereccia. Egli forse pensava che qualcosa di vero ci dovesse pur essere in fondo alle dicerie della cialtronaglia. Un giorno lo colpì la schiettezza del mio riso dinanzi a certe sue esitazioni; e allora gli parve di potermi offrire l'ospitalità nella sua casa di Castelvecchio, poiché l'acqua il pane e le frutta erano il mio regime consueto di «operaio della parola». Ma la sorte volle ch'io non conoscessi il sapore del pane intriso rimenato e foggiato a crocette, secondo l'usanza di Romagna, dalle mani di Giovanni e di Maria. Spesso, alla buona stagione, eravamo vicini; e vedevamo entrambi, al levarci, la Pania e il Monte forato. Ma non avemmo agio né forse voglia di visitarci, perché ci sembrava pur sempre che qualcosa delle nostre persone facesse ingombro alla familiarità dei nostri spiriti. Di Boccadarno io gli mandai un di que' coltelli ingegnosi che hanno nel manico tutti gli arnesi del giardiniere, dalle cesoie al potaiolo. Di Versilia gli mandai un'ode curvata in ghirlanda con l'arte mia più leggera.
Ma come c'incontrammo la prima volta? A Roma, per insidia. Già ci amavamo da tempo; e avevamo scambiato molti messaggi affettuosi e quelle lodi acute, d'artiere ad artiere, che s'inseriscono alla cima dello spirito e fanno dimenticare la grossezza dei solenni tangheri i quali oggi in Italia giudicano di poesia. Trovandosi in Roma, egli certo desiderava di vedermi; ma, nel momento di porre ad effetto il suo proposito, la timidezza lo arrestava; né i nostri amici riescivano a persuaderlo, né io riescivo a scovarlo in alcun luogo. Allora Adolfo de Bosis, il principe del silenzio, il nobilissimo signore di quel Convito che fu «presame d'amistade» fra i pochi deliberati d'opporsi alla nuova barbarie ond'era minacciata la terra latina, ricorse a un grazioso stratagemma. Me lo condusse di buon'ora, all'improvviso, nella mia casa, dandogli ad intendere che lo conducesse a veder una statua di Calliope ritrovata nel limo del Tevere la sera innanzi, divinamente levigata da secoli d'acqua. Io era in giorni di splendida miseria, abitando nell'antica selleria dei Borghese, tra Ripetta e il Palazzo, tra il fiume torbo e quel «gran clavicembalo d'argento» celebrato in un sonetto dell'adolescenza. La vuota selleria principesca era di così smisurata grandezza che rammentava la sala padovana del Palazzo della Ragione, se bene mancasse non giustamente in su l'ingresso la pietra del vitupèro «lapis vituperii et cessionis bonorum». In tanta vastità io non avevo se non un letto senza fusto, un pianoforte a coda, una panca da tenebre, il gesso del Torso di Belvedere, e la gioia del respirar grandemente. Come Adolfo spinse alla soglia il poeta delle Myricae e mi chiamò al soccorso, balzai mezzo vestito. E due confusioni si abbracciarono senza guardarsi. L'ingannatore rideva nel vederci così vergognosi mentre tuttavia ci tenevamo per mano. Poi ci sedemmo su la panca, felici, senza far molte parole, nessuno di noi temendo il silenzio che è sì soave quando il cuore si colma. Eravamo sani e resistenti entrambi, sentivamo la nostra purità nel divino amore della poesia, preparati alla disciplina e alla solitudine. L'uno promettendo di superar l'altro, eravamo certi di non iscoprir mai su i nostri volti «il livido color della petraia». Una potenza oscura si accumulava nelle nostre profondità: egli doveva ancóra comporre i Poemi conviviali e io dovevo ancóra cantare le Laudi. O bel mattino in sul principio della state, quando Roma ha gli occhi chiari di Minerva che nutre a sua simiglianza i pensieri degli uomini! Entrava il sole pe' cancelli delle finestre, e il romore del ponte frequente, che pareva l'antico «assiduo murmure» del Tevere. Ma il fiume sacro non aveva parlato ancóra a traverso il bronzo dell'inno, non aveva ancor chiamato l'anima dei forti gridando:
Heus, rostro navis qui terram scinditis unco,
quam detraxistis navi iam reddite proram
atque in me longos infindite vomere sulcos
usque ad coeruleum, iuvenes, maris aequor, et ultra.
Est operae!
La grandiosità del Torso erculeo bastava a riempiere le mie mura; perché era quel terribile frammento titanico presso cui Michelangelo decrepito e quasi cieco si faceva condurre per palparlo. (Or potevan dunque le sue mani toccare un marmo senza riscolpirlo intero?) Avevamo dinanzi ai nostri occhi un esemplare sovrano e quasi direi il cànone eroico; ma ignoravo quale di noi due ne fosse tócco più a dentro. Se avessimo potuto saperlo, forse avremmo conosciuto la nostra misura. Come gli guardai le mani, delle quali sono sempre curioso, egli le ritrasse con un atto quasi fanciullesco. Io volevo osservare le dita che avevano foggiato l'odicina per le due sorelle e i madrigali dell' Ultima passeggiata. Allora sorridendo gli ripetei i primi versi del Contrasto:
Io prendo un po' di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
ve' la fiala, come un dì di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Con quelle stesse mani che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. Sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili mirici per salire verso la rupe scabra. E poi parlammo d'Odisseo e della predizione di Tiresia.
Questo fu il nostro primo incontro. E l'ultimo fu nella sua casa bolognese dell'Osservanza, qualche settimana prima della mia partenza per l'ultima avventura: triste commiato di chi era per farsi fuoruscito a chi restava legato dalla catena scolastica.
Tutto il giorno m'ero lasciato condurre dalla mia malinconia nei luoghi ove ella più potesse gravarmi. M'ero indugiato su la piazza solitaria che la tomba di Rolandino fa pensosa, e quella dei Foscherari, degna d'un cantore, sotto i suoi archetti verdi, alzata sopra le sue colonne simili al coro delle Muse nel numero. Ed ero entrato nel tempio domenicano di rosso mattone: tra il sepolcro bianconero di Taddeo Pepoli e il monumento di Re Enzio avevo sentito soffiare su me l'ambascia dell'Olifante senza più suono.
Va, ma non giunge. È un brusìo d'ombre vane
ch'ode Re Enzio, quale in foglie secche
notturna fa la pioggia e il vento.
E m'ero poi smarrito nel sacro laberinto di San Stefano, nella Basilica delle sette chiese. Misteri ed imagini per ogni dove, e il colore del fumo e il colore del grumo. Sanguigno e fumoso il chiostro, e sopravi l'ombra della torre quadrata, e nell'ombra il pozzo tra le due colonne, la carrucola di legno consunta, che non stride più; e fra gli interstizii dell'ammattonato l'erba umile, e intorno intorno, ai davanzali delle finestre alte, i vasi di basilico. E poi nell'altro cortile, fra il cotto, la grande tazza di pietra, il fonte senz'acqua ove nessuno si battezza più; e il tabernacolo d'oro luccicante a traverso i vetri appannati; e nel vano della finestra, su una colonnetta, il Gallo che canta; e, da presso, il Vescovo colcato nel marmo sepolcrale, che il canto non risveglia più; e, dietro l'altare irto di candelabri ferrei, le rudi arche di granito che l'ascia mistica tagliò nel sangue pietrificato dei Martiri; e la luce che passa nell'abside per gli alabastri fulvi come quel miele amaro di cui si nutriva il Battezzatore.
Perché oggi, della Città ove per fato si spengono i nostri grandi poeti, non vedo se non quella piazza mortuaria e quel laberinto cristiano? In quella piazza vuol ripassare il mio dolore seguendo il feretro del mio fratello, e nel più profondo dei sette luoghi, nel settimo, nella Confessione sotterranea, vuole accompagnarlo e deporlo. Bologna non ha oggi per me se non quella faccia misteriosa, se non quella bocca piena di freddo alito e di sublime silenzio.
Chi potrà dire quando e dove sien nate le figure che a un tratto sorgono dalla parte spessa e opaca di noi e ci appariscono turbandoci? Gli eventi più ricchi accadono in noi assai prima che l'anima se n'accorga. E, quando noi cominciamo ad aprire gli occhi sul visibile, già eravamo da tempo aderenti all'invisibile. Oggi mi sembra che quel pellegrinaggio meditativo non fosse veramente una preparazione spirituale alla visita ch'io era per fare ma fosse già la visita, e che nessuna delle parole ch'io dissi poi valesse quelle che andando io diceva al mio compagno senza carne.
Ma, quando mi ritrovai nella strada, pensai a quella creatura divina che sempre m'era parso dovesse stargli nella casa a conforto, sola quella, con la sua lampada e co' suoi libri. Qualora le Città nobili usassero far doni ai poeti, che mai avrebbe potuto donare Bologna all'estremo Omeride se non la testa dell'Athena Lemnia? Sembra escita da certe visioni tumultuose dei Poemi conviviali, sembra una duratura bellezza provata dalla strage e dall'incendio, un frammento dissepolto di sotto alle rovine d'un antico assedio. Ha il viso e il collo chiazzati di ferrugigno, come ingrommati di sangue vetustissimo; e sotto il collo, nello sterno e nella clavicola, è come infoscata dal fuoco che appiccarono al tempio i saccheggiatori corazzati di bronzo.
E troppo tardi mi ricordai d'avergliene promessa l'impronta. Sapevo che n'era stato tratto il gesso, ma per notizia vaga; e i custodi del Museo civico non seppero darmi alcun ragguaglio. Tuttavia, non potendo per allora portargli l'imagine, quanto di me gli diedi con la meditazione ch'io feci dinanzi al cippo, nella grande sala deserta, ove come la sua poesia quella forma sovrana era sola tra ruderi e cocci mediocri.
Salii dunque all'Osservanza con qualche fiore. Ero così pieno di pensieri che non ritrovo nella memoria l'aspetto delle cose, perché le guardai con occhio disattento. Non entravo in una casa ma in un'anima che pareva volersi fare per me ancor più bella. Se la vita non mi avesse dato altro che quell'alta ora di amicizia, pur la stimerei generosa e mi direi contento d'aver vissuto in mezzo agli uomini. Della nostra timidezza non si mostrò se non un'ombra, sul principio, quando, guardandolo io, egli mosse il capo in non so qual modo sfuggente e batté le palpebre come per cancellare la lesione crudele degli anni e spandere sul suo volto appesito gli spiriti alacri dell'amore. Volevo dirgli: «Non ti peritare, fratello. Vedi quanto anch'io sono leso. Ma oggi la carne miserabile non c'ingombra; e io qui respiro la più pura essenza della tua poesia. Tu hai l'aspetto della tua forza immortale; e non è fatto dalle tue labbra il sorriso della tua tristezza. Siediti ancóra accanto a me, come quella volta su la panca da tenebre. Siamo due pazienti artieri. Quanto abbiamo travagliato e quanto sopportato, da quel mattino di Roma! Non tentò taluno di far verghe de' miei allori per batterti, flagelli de' tuoi lauri per flagellarmi? Ma chi prevarrà contro la nostra pazienza e contro la nostra fede? Bastava che di tratto in tratto, di sopra allo schiamazzo, ci dessimo la voce. Ora siediti. Non t'ho mai amato come oggi. Faccio una breve sosta; e poi riprendo il mio cammino, lasciando dietro di me tutti i miei beni vani».
Mi sedetti su la sua sedia, dinanzi alla sua tavola. Le sue carte, le sue penne, i suoi inchiostri erano là. Tutto era semplice ed usuale, come in una qualunque stanza di chi abbia un cómpito modesto. Ma un sentore di sapienza pareva impregnare ogni oggetto, e le mura e il soffitto e il pavimento, come se la qualità stessa di quel cervello maschio si fosse appresa al luogo del lavoro. Non so in che modo significar tal mistero. Un'aria singolare è nella fucina, anche quando non rugge il fuoco; perché gli arnesi, gli ordegni, tutti gli strumenti fabrili, anche non maneggiati, quivi esprimono con la loro forma la lor destinazione e quasi direi suggeriscono la potenza a cui serviranno. Nello studio d'uno scultore fecondo la quantità della creta, le armature, i modelli, le forme cave, gli abbozzi coperti dai teli molli, le cere da sbavare, i bronzi da rinettare, gli scarpelli, le lime, i bossoli, gli odori stessi delle materie plastiche rappresentano lo sforzo del creatore. Ebbene, qualcosa di simile mi pareva fosse presente in quella piccola stanza tranquilla e ordinata, ove certo le mani di Maria avevan dato pace alle pagine scorse: qualcosa che oserei chiamare la presenza del dèmone tecnico.
In nessun laboratorio d'uomo di lettere m'era avvenuto di sentire la maestria quasi come un potere senza limiti. Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l'arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l'arte non sia se non una magìa pratica. «Insegnami qualche segreto» gli dissi a voce bassa. E volevo soltanto farlo sorridere; ma, in verità, un'ombra di superstizione era sul mio sentimento.
Egli prese un'altra sedia e venne a sedermisi accanto, dinanzi alla tavola. Parlammo di qualche recente opera. Le sue mani, quando soppesavano i volumi, erano una tremenda bilancia. Dal vigore di certi suoi giudizii ebbi la riprova che il suo spirito era tuttora immune da qualunque debolezza. La sua stima era severa come la sua arte. Mescolando egli un che d'amaro al suo discorso, io gli dissi: «Se hai tempo, va alla Pinacoteca e cerca d'una tela del Francia, dove un Santo Stefano porta sopra un suo libro tre pietre, in segno della lapidazione. Metti tre pietre sopra ogni tuo nuovo libro e datti pace». Egli rispose col suo riso arguto: «Ma quello stolto dello struzzolo m'ingolla il libro e le pietre».
Non più sembrava timido; anzi indovinavo in lui non so che tenerezza protettrice e il desiderio contenuto di chiedermi ch'io gli parlassi de' miei guai. Io era bene il suo fratello minore, ed egli pareva cercasse il modo di sopportare il mio carico. Mi ricordo d'una bella parola antica ch'egli mi ripetette con una maravigliosa nobiltà: «Acciocché tu più cose possa, più ne sostieni». Questa parola oggi la scrivo sul muro della casa straniera, e considero d'averla ricevuta da lui per testamento.
Poi fece l'atto d'alzarsi, mi prese per mano e mi disse: «Vieni ora a vedere la cameretta che ho per te, quando tu la voglia». Un candore infantile ardeva in lui; e il primo verso del sonetto di Francesco Petrarca mi sonava nella memoria. Era una piccola stanza chiara, quasi una cella di minorita, con un di que' letticciuoli che persuadono a serbare una sola attitudine per tutta la durata del sonno. Come rispondendo alla domanda sommessa che gli avevo fatta dinanzi alla sua tavola prodigiosa, mi mormorò in un orecchio: «Quando sarai qui, allora sì che t'insegnerò un segreto». Lietamente gli dissi: «Non potrò venire se prima non abbia uccisi tutti quei mostri che sai. Mi bisogna ancora andare alla guerra». Ahimè, era egli in pace? Non lo travagliava di continuo la stessa abondanza del suo amore?
Si volse per passare nello stretto andito, mostrandomi le spalle. Si creò nell'aria uno di quegli attimi di silenzio che serrano il capo di un uomo come in un masso di ghiaccio diafano. E guardai la persona del mio amico con occhi divenuti straordinariamente lucidi; e la pietà mi strinse, che ha talvolta il pugno sì crudele. Pareva egli portasse alle spalle tutto il peso della sua tristezza, tutta l'oppressione delle sue miserie. La fronte augusta s'era celata, e non si vedeva contro il muro biancastro se non l'ingombro corporale vestito di panni che il lungo uso aveva fatto quasi dolenti, non rimaneva là se non la soma greve ove s'intossica la vita che non è se non il levame della morte.
Volle accompagnarmi fin su la strada, se bene io m'opponessi. La sua salute era già minacciata, già dubbioso era il suo passo. Cadeva su noi una di quelle sere emiliane, umide e cinericce, che sembrano generarsi laggiù, tra la foce del Reno e la bocca del Po di Goro, nella grande palude salmastra. Soffiava su noi un vento ambiguo, che pareva dolce e poi a un tratto ci dava il brivido con una folata fredda. La vettura m'attendeva poco discosto, coperta e nera, con i due cavalli che mal reggevano la lor fatica su le gambe arcate. Non parlavamo più. C'era intorno a noi una specie di silenzio soffice.
E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi...
Ma udivamo anche le nostre péste «né vicine né lontane.» L'uno chiamò il nome dell'altro nell'addio. Ci abbracciammo. Come sul viale il vento rinforzava ed egli pareva infreddolito dentro il bavero, gli dissi: «Va, va, rientra. Non restar qui». Si voltò per andare; e i cavalli avevan messo le radici, tanto stentarono a muoversi. Sicché ebbi tempo di seguirlo con lo sguardo e con l'angoscia fino alla porta. Ed ecco, lo stesso silenzio repentino della umile stanza mi serrò il capo nello stesso ghiaccio trasparente. E, come egli fu alla soglia, si voltò ancóra e levò il braccio verso me a risalutarmi. Da quel fagotto di panni stracchi s'alzò il braccio possente che su per l'erta aveva brandito la «piccozza d'acciar ceruleo».
Una voce d'eroe, quella voce omerica ch'egli aveva tradotto con sì rude efficacia, mi scoppiò dentro e franse il gelo.
Datosi un colpo nel petto, al suo cuore drizzò la parola:
— Cuore, sopporta! ben altro tu hai sopportato più cane!
E non per me, ma per lui. Vedevo, come quel braccio levato, sorgere dall'intimo di quell'uomo casalingo e cauteloso la costanza d'una virtù virile, la durezza d'una vita fatta di disciplina, di coraggio e di dominato dolore. Il suo orgoglio s'era formato a poco a poco nel fondo della sua solitudine come il diamante nell'oscurità della terra. «Da me, da solo, solo con l'anima...» Egli s'era fatto degno d'incontrarsi con Achille e con Elena, e di parlare su la tomba terribile di Dante.
Ancóra non so come sia trapassato; ma voglio esser certo che, s'egli talvolta nella vita pianse in disparte, non si velò di lacrime nel fisare la morte. Forse escì dalla sua bocca qualche bella e semplice parola, prima che la lingua gli si annodasse dietro i denti e che lo spirito gli si sciogliesse nel gran ritmo.
Aveva già dato tutto il meglio di sé, o serbava nel cavo della mano ancóra qualche ferace semenza? Che importa? Certo, mille e mille ancóra speravano in lui. Agguagliandosi alla linea dell'orizzonte, egli avrebbe potuto dire verso i suoi fedeli: «Io vi mostro la morte compitrice, la morte che per i vivi diviene incitazione e promissione.» E costoro nell'acciaio della sua ascia sepolcrale potrebbero veder riflesse le stelle dell'Orsa.
XI APRILE MCMXII
XI APRILE MCMXII
Non so se nella vertigine d'ombra, quando tutto ritorna per poi dileguarsi, io gli sia apparito. Sembra che le cose obliate e gli esseri più lontani e gli eventi più remoti e perfino i frantumi dei non interpretati sogni abbiano grazia nell'agonia dell'uomo. Se questo è vero, forse il fiore della mia amicizia ondeggiò nel suo crepuscolo come quel tenue ramo ch'io colsi e curvai per lui tra l'Alpe e il Mare, o forse come quel salso giglio della solitudine che pensando ad Antigone io mandai alla sua sorella immacolata.
Un'accelerazione della sorte volle ch'io l'assistessi con lo spirito nelle sue ultime ore fino al suo transito. La notte del venerdì, m'ero beato della sua poesia e l'avevo imaginato convalescente. La mattina ch'è innanzi al Resurresso, mentre mi disponevo all'opera, ebbi d'improvviso l'annunzio funebre. Qualcuno, dalla patria, mi chiedeva una parola per la morte del poeta! E il poeta non era spirato ancóra, anzi aveva ancóra da superare un lungo patimento. Ma l'inopportuno, pur violando la gentilezza umana, secondava una congiuntura misteriosa a cui debbo una delle più profonde ore di mia vita. Credetti il transito avvenuto la sera del Venerdì Santo e già deposta la salma sul letto mortuario. E dove poteva Maria aver alzato quel letto se non nella stanza delle vigilie, nell'angusta fucina del grande artiere, tra le mura riarse dalla vampa del cervello maschio? Ero certo di questo; e per tutta la mattina il mio pensiero non cessò un attimo dall'insistere nel luogo lontano che cercavo di ricostruire con lo sforzo della memoria. E a poco a poco la mia coscienza entrò in quello stato che precede il canto.
Ora avevo nella Landa un altro amico sospeso da più settimane tra la vita e la morte, condannato irremissibilmente. Era il mio ospite, lo straniero affabile da cui ebbi la casa tranquilla su la duna, dove abito da due anni.
Non ricordo se Gioviano Pontano nel suo capitolo De tolerando exilio e Pietro Alcionio nella sua giudiziosa dissertazione impressa dal Mencken in Analecta de calamitate litteratorum pongano tra le delizie del fuoruscito volontario o involontario il delicato sapore dell'amistà contratta oltremonte ed oltremare. Ma certo l'aroma della résina verso sera e la fragranza delle ginestre sotto vento a levata di sole non mi ricrearono mai quanto certi brevi colloquii con quel mirabile vecchio che sarebbe stato carissimo al cantore di Paolo Uccello, s'ei l'avesse conosciuto.
Si chiamava Adolphe Bermond, nato su la Garonna, nella città vinosa ch'ebbe per sindaco il gran savio Michel de Montaigne reduce da Roma e per consigliere quel candido e invitto Etienne de la Boëtie imitatore del Petrarca e traduttore dell'Ariosto. Aveva quasi ottant'anni; e, quando lo conobbi la prima volta, mi parve d'averlo già veduto tra le diecimila creature scolpite o dipinte nella cattedrale di Chartres. Aveva nel volto la tenuità la spiritualità e non so qual trasparenza luminosa, che lo assimigliavano alle imagini delle vetriere e delle porte sante.
Venne in un pomeriggio di gennaio, a marea bassa, quando la spiaggia è liscia e sparsa d'incerte figure e scritture nericce al modo di quelle lapidi terragne cancellate dai piedi e dalle ginocchia dei fedeli. Scendeva dalla Cappella di Nostra Donna dell'Imbocco e aveva seco il libro del cristiano, legato di cuoio bruno, che anch'esso era liscio e lustro d'assiduità come il dosso d'un messale. Entrò nella stanza con un passo alacre e lieve, ché la grande età non l'aveva punto aggravato; e sùbito sentii ch'egli entrava anche nel mio gradimento. Tutto il suo viso era illuminato d'una fresca ingenuità che pareva mutasse le grinze da tristi solchi senili in vivaci segni espressivi, immuni dalla vecchiezza come le rughe delle arene, delle conchiglie, delle selci. I suoi occhi erano più chiari di quel cielo invernale, più pallidi dell'acqua intorno al banco di sabbia scoperto; e il sorriso vi pullulava di continuo dall'intimo. La sua voce era ancor bella, misurata da giuste cadenze; e la consuetudine delle preghiere senza suono faceva sì che le parole sembrassero disegnate dalle labbra prima d'esser proferite.
Come s'accostò alla mia tavola, scorse spiegata su le carte l'imagine intiera della Santa Sindone. Come volse gli occhi in giro, vide le pareti interamente coperte delle più diverse imagini di San Sebastiano, sul leggìo d'un armònio la Matthäus-Passion del Bach, sul marmo del camino i gessi delle quindici statuette di piagnoni appartenenti al sepolcro del duca Jean de Berry, su l'assito alcuni frammenti della grande Rosa di Reims, in un angolo una delle Virtù che Michel Colombe scolpì per la tomba di Francesco II duca di Bretagna. Non dimenticherò mai il leggero tremito del suo mento e quel misto di stupefazione e di gratulazione, che dava alla sua vecchiaia non so che fervore di giovinezza. Una fiammata allegra di pino e di pigne favellava su gli alari, con lo scroscio e il friggìo della résina.
Componevo nella lingua cara a Ser Brunetto il Mistero di San Sebastiano, ed avevo già compiuta la scena tra il Santo e gli Schiavi sotto la volta magica ove brillano i sette fuochi planetari, quando gli infelici e gli infermi domandano che il novo dio si manifesti per segni nel Confessore.
Esclaves, esclaves, oui, coeurs
épaissis!
Il vecchio si chinò esitante su le pagine tormentate. V'eran quasi, in verità, le tracce d'una lotta sanguinosa, tanto l'inchiostro rosso delle didascalie e le cancellature violente e gli emistichii più volte riscritti e i margini tempestati di richiami facevano ardua ed aspra la carta. «Anche l'arte, come la vita, è una milizia» egli disse «e chi dà più di sangue riceve più di grazia.»
Quella parola sùbito mi toccò, tanto la rendeva religiosa l'accento. Allora gli parlai della mia opera, con un ardore che lo sbigottiva e lo rapiva. In quel servitore di Dio, a cui la carne pesava così poco, ritrovavo non so che affinità con la disciplina ascetica a cui m'ero costretto per giorni e per notti. Anch'egli era una sostanza infinitamente vibrante, un amore attivo e indefesso. La sua comprensione era pronta come il gesto della mano che riceve e serra quel che le è offerto. Talvolta, nella pausa, mi pareva di veder discendere il mio pensiero in lui come un anello gettato in un'acqua limpida, sino al fondo, e quetarsi.
Sincero e puro, non dubitò della mia sincerità e della mia purità. Cattolico ferventissimo, dedito a tutte le pratiche della divozione, non fu turbato da alcuna inquietudine, non fu punto da alcuno scrupolo. Mi sentiva ardere, e questo gli bastava. Non sapeva imaginare un poeta senza dio, né un dio diverso dal suo. Chi mai restava solo con me nelle mie notti? Certo egli credeva che fosse in me lo spirito medesimo ond'era nata quella figurina della Rosa di Reims, che chinandosi aveva raccolta e teneva ora fra le sue dita magre.
Mi pregò di leggergli una scena del Mistero. Volli leggergli quella ch'era ancor calda del travaglio e non ancor distaccata dalle mie viscere.
A toi, nous venons tous à toi,
Seigneur!
Gli schiavi accorrevano verso il guaritore. La lamentazione si prolungava per gli anditi tortuosi. Gli infermi apparivano, portati a braccia dai parenti, agitati, illuminati di speranza. Gridavano i loro mali, le loro piaghe, le loro angosce. Chiedevano d'essere sanati, d'essere liberati. Chiamavano a testimonianza quelli di loro che nascondevano nelle pieghe del saio i rotoli delle Scritture, perché quelli conoscevano i miracoli operati dal dio novello. Ed ecco, tutte le guarigioni erano noverate, l'una dopo l'altra: il lebbroso era mondo, il paralitico camminava, il cieco vedeva, il lunatico e l'ossesso avevano pace, l'idropico era alleviato delle sue acque, il figlio della vedova di Naim sorgeva dalla sua bara. Ma un dei leggitori di rotoli ripensava il miracolo più profondo, ripensava il cadavere quatriduano, e gridava: «Ti sovvenga di Lazaro!» E l'incredulità di Didimo era addotta. Didimo voleva vedere le ossa disgiunte ricongiungersi e favellare. Il Cristo gli aveva risposto: «Le ossa disgiunte io te le mostrerò ricongiunte. Vieni a Betania, Didimo, vieni con me. Gli occhi di Lazaro vuotati della putredine, io te li mostrerò pieni di visione. Vieni con me, Didimo. Le labbra imputridite su i denti di Lazaro, le vedrai muovere, le udirai favellare. Vieni a Betania, Didimo, se vuoi vedere e udire, vieni con me.» Queste testimonianze adducevano gli schiavi, per volere il segno. E allora Sebastiano balzava a ghermire con mano terribile l'anima dei miseri. Egli medesimo evocava il Risuscitato, sembrava con la sua voce far presente il miracolo nell'ombra calda di aneliti. Come il pargolo nelle fasce, il cadavere era avvolto nelle bende. «Lazaro vieni fuori!» Primo, fuor della pietra, sorgeva il ginocchio...
Le genou surgit le premier.
M'interruppi, perché avevo sentito il vecchio sussultare e levarsi. Egli era in piedi davanti a me, sconvolto, senza colore, affannoso. Era l'uomo di fede, il servo di Dio, lo spettatore ideale a cui si manifestava il mio poema con le virtù della musica e dell'apparizione. Ebro, imaginai dietro di lui una moltitudine che gli somigliasse. E non volli dargli tregua. Anche la mia parola fu come il tizzo che incendia la stoppia quando rinforza il vento.
Ora gli schiavi chiedevano di vedere almeno l'effigie. «Poiché tu hai abbattuto tutti gli iddii di sangue e di fango, alza dinanzi a noi l'effigie del dio novo, che possiamo conoscerlo, che possiamo adorarlo!» Sapevano essi ch'Egli soleva apparire ai discepoli. Non era Egli apparso al Confessore? «Il suo volto è celato, il suo corpo è velato.» Un'angoscia mortale serrava il petto di Sebastiano, illividiva le sue labbra, fiaccava le sue giunture. Implacabili erano i súpplici, inappagate le pupille della carne loro. Eglino volevano la presenza del dio novo. «Non ha più corpo; sangue più non ha. Ha dato il suo corpo e il suo sangue per le creature.» Ma i segreti leggitori dei rotoli sapevano che col suo corpo e col suo sangue era apparso ai discepoli, sapevano ch'Egli aveva lor mostro le mani e il costato, e ch'essi avevan veduto le lividure, e che Didimo aveva posto il dito entro la piaga, e che dopo Egli aveva rotto il pane e mangiatolo, aveva anche mangiato un pezzo di pesce abbrustolito. «Come potresti amarlo di tanto amore? Come potresti chiudere gli occhi, essere così smorto e in tutte le vene tremare di tanto amore, se tu non avessi mai conosciuta la sua faccia? Tu tremi.» Flutto vermiglio non mai sgorgò da gola recisa né onda di lacrime da dolor colmo, come allora dal petto santo scoppiava l'angoscia. «Tremo perché su l'anima mia porto peso d'obbrobrio. L'han percosso coi pugni, l'hanno schiaffeggiato, gli hanno sputato addosso. La sua faccia è contraffatta. Gli sputi e il sangue gli colano per le gote. Tutti i denti gli tentennano nella bocca enfia. E le sue palpebre, e i suoi occhi, ahimè!»
Credo che in quel punto la voce mi si spegnesse, perché mi si serrava la gola. E allora un sentimento mai provato mi scrollò le radici dell'essere, perché a un tratto udii il suono d'un pianto umano che non avevo udito mai, tra quelle quattro mura deserte e lontanissime da ogni rumor del secolo udii il profondo singhiozzo del «consumato Amore» che cantò Jacopone, scorsi le medesime lacrime che avevano rigato il viso di Francesco in ginocchio dinanzi al Crocifisso di San Damiano o errante intorno alle mura della Porziuncola.
O secca anima mia,
che non puoi lacrimare!
Non mi mossi. Poteva quel pianto essere consolato o interrotto? E quale parola poteva esser detta, che valesse in dolcezza una sola di quelle lacrime? E, in verità, qual cosa avrei potuto trovare dentro di me più bella di quella «nuditate d'amore» che mi si mostrava all'improvviso in un vecchio già inchinato verso la tomba? E come potrei ora significare la qualità di quel pianto «pieno di consolanza?» Il Beato ha espressa la legge dell'ineffabile.
Quello ch'è non si può dire,
puossi dir quel che non è.
E un rammarico simile al rimorso m'assale, mentre ne scrivo. E avrei serbato il dono nel mio segreto, se il mio amico elevato dalla sua santa morte alla condizione di mistero glorioso non mi sorridesse oggi a traverso quella visiera di cristallo. Ma potrà comprendere soltanto colui che fra mille canti sa distinguere la melodia nata dal cuore della Terra e tra le parole dei Vangeli la parola che per vero esci dalle labbra di Gesù e resta in eterno piena del suo soffio vivente. Fino a quell'ora io aveva udito gli uomini piangere in un altro modo, e li avevo veduti confinati e fissi nel luogo delle loro lacrime come il ferito giace nella pozza del suo sangue, e me medesimo dalla pietà ristretto e quasi prigione di miseria. Il pianto di quel cristiano pareva sonare su la malinconia del mondo; e il Volto illividito dalle gotate, lordo di sputi e di sangue, pareva impresso nel pallido cielo come nel pannolino della Veronica ma per me in non so che maniera indefinita e futura. E, quando uscimmo, il silenzio dell'immensa Landa, con le sue miriadi di tronchi dissanguati dal ferro del resiniere, con le innumerevoli sue piaghe di continuo rinfrescate e allargate, con il perpetuo suo gemito aulente, era come il silenzio d'una moltitudine dolorosa che non si lagna perché accetta il suo cómpito e la sua pena. E io compresi quella parola d'avvenire, che dice come la natura sia per trasformarsi a poco a poco in cerchio spirituale e il tutto sia per sublimarsi in anima.
Chi anche ha parlato di «membra mistiche dell'uomo»? In qualche ora sembra che noi non riconosciamo taluno degli atti più consueti della nostra vita corporale. Come camminavamo, l'uno a fianco dell'altro, sul sordo sentiero coperto dagli aghi dei pini? Non v'era divario tra il passo del vecchio e il mio, perché il nostro passo non era delle nostre ossa, dei nostri muscoli, dei nostri tendini. Se bene andassimo davanti a noi, io aveva in me il sentimento di volgere indietro quel che più di me ferveva, come la face trasportata rovescia la cima della sua fiamma. Gli occhi del mio amico erano appena rasciutti; e il luogo, ove il «consumato Amore» aveva pianto, e l'evento avverato erano già come avvolti in un velo di memoria, i cui lembi ondeggiavano verso la mia più fresca infanzia. La commozione ancor mi teneva tutto, la realtà non soltanto era recente ma presente ancóra; e pure una parte di me faceva uno sforzo ansioso per ricordarsi di non so che altro, per raffigurarsi non so che cosa di più profondo e di più dolce. Ma può l'attesa avere la figura della rimembranza?
Non parlavamo. Di tratto in tratto io lo guardavo con l'angolo dell'occhio; e mi stupivo che un viso di tanta vecchiaia, lavato dalle lacrime, mi rammentasse per la sua espressione certi episodii patetici della fanciullezza: uno tra gli altri. Un giorno avevo fatto piangere la mia cara sorella Anna, per un capriccio crudele; e poi l'avevo racconsolata, sbigottito, perché ella era tanto sensibile che quando le accadeva di piangere, anche per una cosa lieve, pareva l'avesse colpita una sciagura irreparabile ed ella fosse per stemprarsi nel suo dolore. Vedendomi così pentito e afflitto, ella si sforzava di raffrenare il singulto e di rasciugarsi le guance. E mi ricordo che io la presi per mano e la condussi per una rèdola, tra due campi di lino; e avevamo con noi il nostro cane paziente ch'era stato la causa del litigio. E di tratto in tratto io la sogguardavo; ed ella, per non farmi più pena, cercava di vincere il singulto ostinato che le scrollava il piccolo petto, o, come per togliergli l'acredine, lo preveniva con un sorriso che si rompeva sùbito. E allora mostrava d'esser contenta di tutto quel cilestro del lino, come s'io gliel'avessi donato; e pareva che non io volessi rientrare nella sua grazia ma sì volesse ella farsi perdonare. E v'era nella sua attitudine tanta tenerezza e gentilezza che non potei più sostenerla, e mi feci tutto lacrimoso anch'io, con suo sgomento.
Non so perché, questo ricordo mi rifiorì dal cuore mentre camminavo a fianco del vecchio. E mi pareva di andare errando senza mèta per un paese che io non conoscessi; ma egli sapeva la sua via. Ci ritrovammo a piè della duna ove sorge la Cappella, e salimmo, tra i giovani pini, sino al limitare. Egli non disse alcuna parola per invitarmi a entrare nel suo rifugio. Mi tese la mano, e mi diede la sua amicizia come nella Domenica delle Palme si dà il rametto d'ulivo su la porta della chiesa azzurra d'incenso. Portando meco la cosa preziosa, discesi la china, mi dilungai per la Landa.
Era prossima l'ora del vespro, ma l'aria pareva non rattenere della luce se non le particelle d'argento. Di là dalla selva non scorgevo i lidi, ma ricevevo la quiete della bassa marea; che è come quando la febbre decade nel polso cui vien sottratta qualche oncia di sangue. Non avevo mai sentito vivere gli alberi di tanta doglia. Taluno aveva un sol taglio nel piede; altri l'aveva sino a mezzo il tronco scaglioso; altri portava una ferita viva accanto a una rammarginata; altri era svenato a morte, con solchi che incavavano l'intero fusto simili alle scanalature nella colonna dorica. E il succo vitale stillava e colava per tutto: i vaselli d'argilla n'erano colmi. Qualche resiniere ancóra s'attardava a rinfrescare una piaga; e s'udiva risonare il ferro nel vivo, senza lagno. Ciascun albero aveva il suo martirio, quasi che in ciascuno abitasse uno spirito avido di soffrire e di sanguinare come l'eroe divino da me eletto.
E in quella sera feci l'invenzione del Lauro ferito. Il corpo di Sebastiano si distaccava lasciando tutte le frecce nel tronco del lauro d'Apollo. Le asticciuole scomparivano nella carne miracolosa come un vanire di raggi. «Rivivrai, rivivrai! Ritornerai!» gridavano gli Adoniasti.
D'allora innanzi il mio novello amico mi visitò sovente. Come io faceva di notte giorno, egli soleva venire su la fine del pomeriggio, quando ero per accendere il mio fuoco. Mi ricordava il principio dell'inno di Sant'Ambrogio Ad completorium:
Te lucis ante terminum...
Entrava in punta di piedi, parlando a voce bassa, come nell'oratorio. Temeva di turbare il silenzio e di smuovere le cose invisibili che si nutrivano d'esso. Restava seduto per breve tempo dinanzi al camino; e io vedevo dalla mia tavola la sua testa d'antico Donatore inginocchiato nell'angolo d'una pala d'altare inclinarsi di sotto alle statuette dei Piagnoni funerarii. Egli pareva essere per me il messaggero e l'interprete di quell'età da cui avevo raccolta una forma d'arte caduta in dissuetudine per rinnovellarla. Ma forse egli era assai più antico, e aveva partecipato a quel pellegrinaggio che si partì da Bordeaux nell'anno 333 seguendo l' Itinerarium Hierosolymitanum, come io gli dicevo per motteggio. Però nelle sue «stationes» e «mutationes» a traverso i secoli egli doveva essersi attardato più lungamente in quella immobile serenità che splende nella Passione di Bourges come nelle metope arcaiche d'un tempio greco. Egli ne portava tuttavia l'illuminazione su la sua fronte.
E, se è vero che tutte le cose certe sono vive e tutte le incerte sono morte, la sua meravigliosa certezza lo poneva di là dalla vita come una creatura compiuta e immutabile. M'appariva dal suo discorso ch'egli considerava la storia del mondo come la rappresentano le cattedrali della terra di Francia. A simiglianza dei maestri marmorai e vetrai, egli credeva che, dopo l'avvento di Gesù, non avesse il mondo avuto altri grandi uomini, se non i confessori i dottori e i martiri. Nel suo spirito come nel santuario, i conquistatori e i vincitori avevano il luogo più basso. Così nelle vetriere essi sono genuflessi ai piedi dei Santi, piccoli come fantolini, gracili come i fili d'erba nelle commessure dei gradini sacri. Persisteva in lui la coscienza di quegli che compose lo Speculum historicum facendo la minor parte agli imperatori e ai re, la massima agli abati, ai monaci, ai pastori, ai mendicanti. Per lui, come per il domenicano protetto da San Luigi, i più alti fatti non erano i trattati le incoronazioni e le battaglie ma la translazione d'una reliquia, la fondazione d'un monastero, la guarigione d'un ossesso, la beatificazione d'un eremita. La tremenda lotta moderna, combattuta con i congegni più perigliosi e con le volontà più crudeli, aveva per lui la medesima importanza ch'ebbe per Vincent de Beauvais la grande giornata di Bouvines, posta modestamente tra l'istoria di Santa Maria d'Oignies e l'istoria di San Francesco poverello. Simile a quei pellegrini che traversavano gli eserciti nemici avendo per solo salvacondotto in sul cappello il piombo effigiato di San Michele del Periglio o di Sant'Egidio di Linguadoca, egli passava immune a traverso il secolo d'acciaio. Anche dinanzi ai traffici della sua città operosa e danaiosa egli doveva aver di continuo negli occhi quella parete del Camposanto di Pisa ove un nostro pittore — che fu, quanto lui, divoto di San Domenico — dipinse la Tebaide degli anacoreti come un mondo verace in un mondo fallace. E la Via lattea certo era pur sempre per lui il cammino di San Iacopo, e i bagliori in cima agli alberi delle navi erano i fuochi di Sant'Elmo; e San Medardo era ancóra il signore dell'utile pioggia.
E nulla d'angusto, nulla di meschino s'accompagnava in lui a questa ingenua fede. La sua indulgenza era grande come la sua disciplina. Egli era venuto verso me con abondanza di cuore non certo attratto da odor di santità ma solo dal pregio di un'anima sempre vigile; perché una povera serva gli aveva detto che io consumavo nelle mie notti più olio d'oliva che non ne bisognasse alla lampada perpetua della Cappella. E la finezza della sua mente corrispondeva alla delicatezza del suo cuore. Un nobile ritegno governava ogni suo atto e ogni sua parola, quando egli era per appressarsi all'intima vita dell'amico. Non prodigava i consigli, anzi non ne dava quasi mai; ma la sua semplice presenza era un soccorso coperto.
Vidi un giorno su la collina di Francavilla, in un sentiero selvaggio che conduceva al Convento ove col mio grande e puro Francesco Paolo Michetti mi credo aver vissuto i miei giorni migliori, vidi un giorno a maraviglia per una proda il tronco tagliato d'un vecchio alloro rimettere un gran numero di germogli che al lor nascere avevan l'aria di sprizzare dal legno come faville verdi. Ogni volta che passavo, il tronco pareva cangiare tutte quelle cimette vive in lingue loquaci per dirmi: «Non disperare, non disperare». Non altrimenti risfavillava di sempre fresca speranza il mio amico. Egli conosceva la sentenza e la vignetta dell' Ars moriendi. «Havvi un sol fallo grave al mondo: il fallo di chi dispera. Ben più colpevole fu Giuda in disperare che il Giudeo in crocifiggere Gesù.» E, quando andava a visitare i poveri, gli infermi, i prigionieri e ogni sorta di peccatori in angustia, soleva dire che quattro Santi l'accompagnavano: San Pietro il qual rinnegò tre volte il suo Maestro; Maria Maddalena a cui tanto pesò la sua carne impura; il persecutore San Paolo che Iddio convertì con la folgore; il buon ladrone che non si pentì se non nelle braccia della croce infame.
Come taluno dei nostri Beati italiani, egli conciliava in sé quei doni che appartengono alla vita contemplativa con quei doni che appartengono alla vita attiva «poiché tutti procedono da uno spirito stesso». Per lunghi anni nella sua città natale egli governò le corporazioni cattoliche più operose, ed esercitò la carità con tal larghezza da meritare il soprannome d'Elemosinario. «Dispersit, dedit pauperibus.» Donò grandemente, e senza contare, e sempre di nascosto. Non so s'egli abbia mai ricoverato nel suo letto un mendicante, come quel Blaise Pascal del quale ignorò sempre i tormenti le vertigini e le febbri; ma più volte, come un servo umile e pronto, rigovernò la casa de' suoi poveri e de' suoi malati. Quegli che aveva tanta luce su la sua fronte, amava aver tanta ombra su le sue mani! Per lui non era detto già: «Nesciat sinistra tua quid faciat dextera tua», ma era detto: «Non sappia la tua destra quel che la tua destra dà». Quando la segreta elemosina ebbe di molto assottigliato il suo patrimonio, lo punse carità dei figli, ch'ebbe numerosi e ben nati. Divise tra loro il rimanente, avendo altrove conquistato una indivisibile signoria; e si ritrasse nella Landa ad abitare seco. Che cosa debba fare colui che seco abita, egli lo sapeva dall'Antico ma meglio dalla sua stessa aspirazione. «Secum purgatur, orat, legit, et meditatur.»
Divotissimo era di San Domenico; e sotto il vocabolo del sublime amico di San Francesco è posto il tetto ch'egli mi concesse. Per umiltà egli volle andare ad abitare nell'antica infermeria dei Padri Domenicani, che aveva ricomperata a causa d'amore. È una bruna casipola di legno, tra l'ombra della Cappella e l'ombra della pineta. In quella scelse la stanza più modesta, sapendo che «la cella di continuo abitata diventa dolce». Quando la Landa rombava come l'Oceano, allo sforzo del vento, egli credeva essere sopra un vascelletto in punto di salpare per l'ultimo viaggio. Ma quando l'oro primaverile colava sul balcone giù dal minuto crivello dei pini e gli uccelli facevano il lor concerto, quella era la casa lieve ch'io m'avevo sognata più d'una volta, era «la casa in sul ramo», lieve, sonora, pronta.
Aveva quivi trasportato un piccolo organo da mantici, perché amava la musica sacra e sonava con grazia qualche mottetto. Come quel soave domenicano Enrico Suso, egli si piaceva di chiamarsi «il servitore»; e, come lui, doveva certo ogni mattina, svegliandosi all'ora della Salutazione angelica, udire entro di sé una voce cantare nel modo minore le parole: «Maria, la Stella del Mare, ecco, si leva».
Un giorno, entrando, lo trovai assopito davanti alle due tastiere; e trattenni il piede e il respiro per non isvegliarlo, tanta beatitudine mi apparì nel suo volto. Ripensai a quel ch'egli m'aveva narrato del giovine Suso. Forse anch'egli sognava d'essere nel mezzo del concerto celeste a cantare il Magnificat; e la Vergine gli veniva incontro e, per segno d'aver gradito un'offerta di rose, gli comandava di cantare il versetto: «O vernalis rosula!»
Fin dalla sua prima visita, fin dall'ora di quel pianto repentino che rimase in fondo alla nostra amicizia come non so che misteriosa freschezza, credo ch'egli sperasse di volgermi all'esercizio della preghiera secondo il suo rito. Ma non mai, neppure per un attimo, assunse aspetto e tono di convertitore. Aveva un suo modo gentilissimo di farmi sentire che v'era fra noi un bel segreto, del quale non conveniva ragionare. Talvolta, se qualche mia parola giusta lo toccasse, mi guardava intento, sospeso, con uno sguardo singolare in cui pareva quasi direi trasposta l'attenzione d'un'orecchia inclinata, fattosi somigliante a tale che abbia udito un suono rivelatore e ne segua le onde per ansia di riconoscerlo. Talvolta anche, in certe pause, mi dava imagine di un uomo che, stando in una contrada al principio della primavera quando i succhi cominciano a muovere, si ponga in ascolto per desiderio di cogliere la melodia indistinta della linfa che in breve trasfigurerà ogni creatura abbarbicata alla terra. Così la sua illusione spiava in me l'opera interiore della Grazia.
Lo raggio della grazia in che s'accende
verace amore, e che poi cresce amando...
Gli parlavo di Dante; e mi commoveva la sete ch'egli aveva di quella gran fonte. Un giorno gli raccontai come io avessi contemplata nella cattedrale di Amiens la Speranza scolpita in quel modo che il Poeta la canta nel Paradiso quando Beatrice nell'ottavo cielo gli mostra il barone
per cui laggiù si visita Galizia,
e San Iacopo lo esorta: «Di' quel che ell'è». Dante e l'ignoto marmorario avevano fedelmente tradotto, l'uno nella terza rima, l'altro nella materia dura, la diffinizione che della Speranza dà nel Libro delle sentenze un teologo di Francia, Pierre Lombard vescovo di Parigi. «Spes est certa expectatio futurae beatitudinis....»
«Spene» diss'io «è uno attender certo
della gloria futura...»
Il mio amico restò lungamente pensoso di quella rispondenza fra la cattedrale di pietra e la cattedrale di parole, l'una sorta nella sua terra e l'altra nella mia. Pareva che io gli avessi più avvicinato Dante e gli avessi scoperto nell'ardua mole gotica un punto misteriosamente sensibile in cui potessero i nostri spiriti convergere e comunicare. Alla fine del nostro colloquio (il vento occidentale squassava tutta la Landa e l'immenso fragore dell'Oceano faceva sembrar fragili tutte le cose) egli mi posò le mani su l'uno e su l'altro òmero, mi guardò con la sua anima nuda emersa a fiore del suo viso diafano, e mi chiese: «Quando? Quando?» Era in me quella malinconia potente in cui il cuore batte più robusto e più celere. Gli dissi, con dolcezza figliale: «Io sono nato per vedere, per ricordarmi e per presentire». Poi soggiunsi: «E forse attenderò me stesso fino alla morte».
Rimanemmo qualche tempo senza visitarci, perché io ricominciai a vegliare la notte e a dormire il giorno. Egli sapeva che la mia lampada era accesa e che avevo in serbo molto olio nel mio orcio. «Lo sposo dell'anima suole a mezza notte venire. Guarda che a dormire non ti truovi.»
Una sera dello scorso febbraio, dopo compiuto l'anno dall'ora del pianto e del legame, uno de' suoi figli mi giunse, inatteso; e mi disse: «Mio padre vuole vedervi. Non ha che qualche settimana o qualche giorno di vita. Esauditelo».
XV APRILE MCMXII
XV APRILE MCMXII
Quando entrai nella piccola infermeria domenicana, al primo sguardo conobbi che l'uomo da bene aveva già abbracciata la nostra suora morte corporale e se la teneva ben sensata contro il suo petto. Primamente, non veduto, lo vidi in uno specchio. Una donna, dolce e severa, che poteva essere Sant'Anna col suo mazzo di chiavi appeso al fianco, m'aveva condotto sul verone di legno ove s'affacciava la camera dell'infermo; e s'era ritratta, per lasciarmi solo con lui, per non farsi testimone inopportuna del nostro turbamento. Nell'appressarmi alla soglia, scorsi su la parete lo specchio e dentrovi, dentro quella specie d'orrore inaccessibile e rischiarato, il vecchio che stava seduto, intentissimo, tenendo ambe le mani premute su l'atroce ospite carnale che gli rodeva la bocca dello stomaco. Mi soffermai, con uno spaventoso tremito nel cuore, perché veramente dentro quel vano la morte era visibile come nelle Danze macabre, e tutta l'imagine veramente era di là dal velo. Egli alzò le ciglia e sussultò abbandonando le mani su le ginocchia, perché mi scoperse anch'egli nella spera e mi vide venire a lui non dalla vita diurna, non dall'aria e dalla luce, ma dal fondo di quel pallido sepolcro. E, com'entrai, mi parve non di varcare una soglia comune ma di superare un limite tremendo.
Non conosco, nella storia della santità, una preparazione al transito più bella di questa. San Francesco, pur conversando con la sua suora infermitade, lasciò che i medici tentassero di combatterla. Riconobbe d'aver sempre trattato troppo duramente il suo corpo e mostrò di pentirsene. «Giubila, frate corpo, e dammi perdonanza; che or mi conviene satisfare a' tuoi disii.» I dottori pontificii, a Fonte Colombo, gli cavarono sangue, lo vessicarono e cauterizzarono. Col ferro rovente gli affocarono le tempie, mentr'egli pregava «frate focu» che soffrire non lo facesse oltre sopportazione. Ad Assisi, nella casa del Vescovo, di continuo lo curava il medico aretino. Di tratto in tratto era preso da qualche strana voglia e mandava in cerca i suoi frati che talvolta, come nella notte del prezzemolo, s'impazientivano. Alla Porziuncola Giacomina Settesoli gli apprestò quella vivanduzza romana prediletta, quel camangiare di mandorle, che durante la malattia aveva spesso desiderato. Dopo, sentendo prossima la fine, si fece spogliare d'ogni vestimento e colcare su la terra ignudo.
Il mio amico dedusse quest'ultimo esempio fin dal principio, non pel suo corpo ma per l'anima sua. Spogliato di tutto egli era come mi pareva non potesse mai uomo spogliarsi. E non gli restava se non quella «nuditate d'Amore» oltre la quale, in paragone di purezza, v'é soltanto la prima luce del mattino. Vidi presso di lui il volume della Imitazione chiuso. È certo quello il trattato del totale spogliamento: riduce in un pugno di polvere la sostanza in cui l'uomo più si compiace, e senza pietà separa l'uomo da ogni diletta cosa che non sia il compiuto amore. Egli non aveva più nulla da apprendere in quel libro: perciò era desso quivi chiuso, e senza segnali. Ed egli l'aveva tanto praticato e meditato non soltanto come il libro dell'eternità, ma come quello ch'era nato dalla disciplina della sua stirpe «sotto l'ogiva di Francia», vera «conoscenza e virtute d'Occidente.» Né gli restava alcun dubbio intorno a tale origine; talché una volta ch'egli vide il mio esemplare col nome di Tommaso Kempis, scosse il capo. Soleva dire, non senza finezza, che l' Imitazione franceseggia in latino. Vi riconosceva trasposti i modi e le cadenze della prosa Francesca, e talvolta la levità d'un orecchio che aveva ascoltato la voce dell'allodola paesana.
Nelle lunghe settimane di patimento, dal giorno in cui l'insonne cancro incominciò a morderlo per finirlo, sino all'ora in cui perse la parola terrena per un altro linguaggio, non dimandò d'essere medicato né alleviato, non volle intercessore tra l'infermità e la carne, non chiese che le sofferenze gli fossero attutite ma soltanto che con esse gli fosse accresciuta la forza di sostenerle. «Courage, courage, mon âme!» diceva nello spasimo. «Encore un peu, mon Dieu! Faites-moi souffrir encore un peu, mais donnez-moi la force de supporter la souffrance.» Quando il morso diveniva meno atroce, egli si faceva gaio e arguto; non soltanto sorrideva ma anche rideva d'un riso schietto. Come dalla città i suoi molti figliuoli e i suoi nipoti numerosissimi e i famigliari suoi devoti venivano a visitarlo, ciascuno adduceva, per giustificare la visita insolita, un pretesto più o men verisimile, credendosi di illuderlo. Egli ben sapeva che quelle erano visite di funebre commiato; e un giorno ch'io ero là, tra quegli affettuosi dissimulatori, l'udii motteggiare con sì vivace grazia che veramente le più celebri delle parole stoiche mi sembrarono cosa ruvida e grossa. Una notte di marzo la figliuola maggiore, ch'era venuta a trattenersi nella casa per assisterlo, dal suo letto udì nella camera del padre un gran ridere. Attonita e un poco sbigottita, si levò e andò a origliare. L'ottimo abate Eugène de Vivié, rettore della parrocchia, consolatore intrepido, aveva voluto vegliar l'infermo nel martirio notturno. Aiutandolo egli a sollevarsi dal guanciale per l'orribile rigurgito che lo travagliava, una inattesa facezia del sofferente aveva suscitata quella ilarità concorde. Ripensai quel rimbrotto di Frate Elia, quando San Francesco giaceva al Vescovado in custodia e voleva che Frate Agnolo e Frate Leone gli cantassero ogni ora le laudi di nostra suora morte per rallegrarsi nel Signore. «Hacci la scolta alla porta; e niuno vorrà credere esser tu un santo uomo, udendo del continovo cantare e sonare nella tua cella.»
Finché la volontà potè comandare le membra affievolite, si trascinò ogni mattina alla Cappella per ricevere il pane eucaristico; del quale solo sembrava nutrirsi, non prendendo nella giornata se non qualche sorso di latte o il succo di qualche frutto. Súbito dopo la comunione, si ritraeva, non avendo più la forza di assistere alla messa. L'ultima volta ch'egli varcò la soglia santa, non ebbe neppure la lena per appressarsi alla mensa di Cristo. Sfinito, fu costretto di sedersi; e il prete scese dall'altare e andò a portargli l'ostia vivente. Come da quel punto nessuno sforzo di volontà più valse, si comunicò per viatico, sino al Venerdì Santo.
Comprendemmo qual fosse la sua segreta e inebriante speranza quando ripeteva: «Encore un peu, mon Dieu! Faites-moi souffrir encore un peu!» Egli sperava di poter vivere sino alla Settimana di Passione, sperava di poter congiungere la sua agonia e la sua morte all'agonia e alla morte del Salvatore. Fu esaudito.
Il giorno che ricevette il sacramento della Estrema Unzione, mandò per me. Egli aveva preso ad amarmi più che s'io gli fossi stato figliuolo unico. I suoi prossimi si stupivano nel vederlo tanto illuminarsi quando gli apparivo. I suoi occhi si volgevano a me interrogandomi, così pallidi che parevano aver perduto quel poco di cilestro a forza di fisare chi sa qual bianchezza abbagliante. Sempre i famigliari, se erano presenti, escivano l'un dopo l'altro perché rimanessimo soli. Per non affaticarlo, non lo lasciavo parlare né gli parlavo con le labbra. Stando al suo fianco, seduto, in silenzio, non mi peritavo di guardarlo intentamente, tanto m'attraeva la bellezza del suo mistero. Lo sentivo morire e vivere. Il suo viso nella macie era come un teschio palese, ricoperto d'un tenue velo di fuoco bianco. Non so dov'egli fosse per trapassare e per ricominciare; ma è certo che, tacendo, simile a un tessitore in sogno, tesseva con la sua morte una vita che non era come la mia vita. La mia vita, che è la mia passione e il mio orrore, la mia vita, che mi rapisce e mi ripugna, si moltiplicava con un'abondanza vorticosa come quando ascolto tra la folla le sinfonie dei grandi maestri. L'amore il dolore e la morte rimescolavano l'oceano della mia musica con braccia titaniche indistinguibili. Talvolta il morituro prendeva il mio polso e lo teneva nella sua mano sul sostegno della seggiola. Allora soffrivo d'avere tuttavia tanto sangue, e così rapido. Mi ritornava il senso del mio corpo, accompagnato da un'angoscia che doveva essere simile allo sforzo vano del generare, quando ne stilla un sudore quasi di tramortimento. E non m'ero mai sentito tanto potente e tanto miserabile.
«Amico», gli parlavo in silenzio «ho avuto molte primavere travagliate, ma non una come questa. So quel che mi significa la dimanda dei vostri occhi buoni, ma non so che rispondere. Le parole che talvolta mi salgono alle labbra, non oso proferirle; anzi oppongo al loro impeto i denti serrati, perché temo di perdermi e di non potermi più ritrovare. Nondimeno mai, da che vivo, non ebbi un istinto e un bisogno di mutazione tanto profondi e agitati. Un giorno, ahimè, molto lontano, nel Camposanto di Pisa, che sembra illuminato dal crepuscolo di quella luce verso cui siete vòlto, meditai su me medesimo
tra i due neri
cipressi nati dal seno
della morte;
e mi parve che, se avessi dovuto cominciare la mia vita nuova, avrei scelto per luogo del cominciamento quel divino chiostro alzato dall'arte della mia razza non tanto per serbare la terra del Calvario quanto per contenere tra i quattro portici una larva dell'albore immobile ch'era intorno alla Croce.
Forse avverrà che quivi un giorno io rechi
il mio spirito, fuor della tempesta,
a mutar d'ale.
E da quel giorno un'alta creatura «eletta da me, per me perduta», a lunghi intervalli, a traverso le vicende e le lontananze, mi manda il messaggio di quelle tre parole: «Mutar d'ale». Il mio presentimento è dunque divenuto un comandamento di ferro e di diamante? è divenuto alfine la raggiante e lacerante necessità? E la sorte mi mandò fuor della mia terra, verso questo paese occidentale di sabbia e di sete, che non è se non un deserto imboschito, perché la vecchia spoglia mi fosse tratta dalla mano d'un vecchio morente «in verità di santità»? Come la spogliazione dei beni vani fu agevole e quasi senza ombra di rammarico! Si vide che la magnificenza del mio vivere non era nei miei velluti e nei miei cavalli. Un branco di scimmie calpestò e distrusse non senza tardità quel che forse, o prima o poi, avrei distrutto io medesimo in un'ora, per far largo intorno al mio pensiero impaziente. Mi parve che il modo mi offendesse, e m'accorsi che non ero offeso in alcun modo. Avendo perduto qualche bel legno tarlato, qualche bel vetro incrinato, qualche bel ferro arrugginito, entrai nel possesso di questa più bella verità: esser necessario bruciare o smantellare i vecchi tetti, sotto i quali abitammo in carne o in ispirito. Soltanto mi furono tolti il giubilo e l'orgoglio della volontaria arsione.
Or, quando c'incontrammo, io non aveva se non gli strumenti del mio lavoro, la mia lampada fornita, e una vecchia serva che nel servire era più nobile dell'antica regina dal piè d'oca. Ahi, non questo era l'essenziale. «Dopo aver tutto ottenuto per ingegno, per amore o per violenza, bisogna che tu ceda tutto, che tu ti annienti.» Ma che cosa è tutto per me? e quale la condizione dell'annientamento? So che, per farmi nuovo, io non debbo obbedire a una parola già detta ma a una parola non ancor detta. So che la povertà e l'amore della povertà non hanno alcuna efficacia spirituale nella conquista ch'io son per intraprendere. Ma il Cristo ha veramente detto tutte le sue parole?
Mai Gesù mi fu più vicino, e mai n'ebbi un senso tanto tragico. In un libro disegnato or è quindici anni, sacro e sacrilego, io imaginavo che il «bellissimo nemico» discendendo dal Golgota dopo il supplizio entrasse nella casa della Veronica e quivi s'intrattenesse con la pia donna a parlare misteriosamente del Re crocifisso mentre nell'ombra la Faccia divina e dolorosa splendeva di sudore e di sangue nel sudario spiegato. Dal giorno del vostro pianto, agli interni miei colloquii col mio nascosto nemico assiste nell'ombra il sudario della Veronica. Ora sento continua sopra il mondo la presenza del sacrifizio di Cristo; e sento per ciò in confuso la mia voce e le mie azioni diversamente ripercuotersi, come quando taluno con gli occhi bendati entra sotto una ignota cupola sonora. Ma chi troverà il luogo dell'eco perfetta e l'accento giusto per la grande ripercussione? Da Ferrara, in un giorno di novembre, mi mossi per cercare un'eco famosa. Camminai per un viale di platani, lungo un argine verde e molle tutto sparso di foglie lionate. Avevo in me l'inquietudine della divinazione; e di tratto in tratto, credendomi di riconoscere il punto, gettavo un richiamo; e ogni richiamo rimaneva senza risposta; e ogni volta più mi cresceva una sorta di tristezza fastidiosa e inutile, perché cercavo un che di divino e il grido era meccanico, la parola di prova era quasi risibile. Allora giunsi a un piccolo poggio verde che ha il nome di Montagnola; e quivi era a diporto una compagnia di giovani cappuccini, condotta da un frate barbuto, e le tonache dei novizii avevano lo stesso colore delle foglie sparse per l'erba. Mi rivolsi al frate per dimandargli novelle dell'eco; ed egli n'aveva una memoria vaga, come di cosa scomparsa. Solo sapeva di certo che laggiù un muro era crollato in una casa visitata dall'incendio. I novizii tonduti rimasero pensosi. La luce su la campagna infinita era come quella che passa a traverso gli alabastri. Vagai ancóra intorno al poggio e per gli argini chiamando, provando; e il tono della mia voce mi faceva soffrire, tanto era lontano da quello della mia anima ed estraneo al mistero che perseguivo. Nondimeno la qualità del mio scontento era nuova e mirabile. Tornai su le mie orme, pei viali molli d'acqua piovana. La pianura era senza fine come il cielo. Una campana sonava alla Certosa. Rividi sotto il poggio le foglie e le tonache fulve. M'appressai. I novizii erano assorti e taciturni; e qualcuno aveva in bocca qualche filo d'erba e, tenendo gli occhi bassi, mi pareva che sentisse con le palpebre la freschezza della sua anima. Io dissi: «Non c'è più! Forse è morta. Era la più bella del mondo». I novizii erano pieni d'ansia, e forse di miracolo; e mi pareva che inclinassero verso la terra un orecchio musicale. Ma il frate mi disse, placido: «A San Francesco ve n'è una sotto la cupola, che ripete Ave tre volte.» Certi ricordi chiedono di essere interpretati come le visioni; ma dov'è il mio interprete? E, se voi ora per me sollevaste il velo, che scoprireste se non la vostra certezza?
Certo, da una limitazione può nascere la più vasta vita; e una mutilazione può moltiplicare la potenza, come sa il potatore. Certo, qualche parte di me dorme ancora un profondissimo sonno; e me la rivelano in certi mattini i sogni non interpretati. È necessario che io faccia luogo in me a ciò che sorgerà da quel risveglio. Ho talvolta il sentimento delle interne mie lontananze come l'ha di queste Lande lo svenatore di pini. Preparo l'arme acconcia perché anch'io, entrato nel folto, possa aprire nuove ferite onde sgorghi l'aroma e possa mantenerle sempre aperte. Tale è l'insegnamento della Landa.
Ora a ciascun mio pensiero è aderente un altro pensiero, oscuro. Così nella cattedrale notturna le colonne sono illuminate da una sola banda, perché la lampada arde in una sola navata. Bisogna che io accenda all'altra banda un'altra lampada, ma senza spegnere la prima. Ho paura di spegnerla. Debbo vincere questa paura? E chi m'afferma che diverrò più forte? Se mi ritrovassi ottenebrato o diminuito?
Lo so. Gli uomini non edificheranno nuovi templi per nuovi culti. Il prodigio unanime della cattedrale non si rinnoverà. Ma il dio medesimo, che l'ha rempiuta, può un giorno apparirvi con un aspetto per la seconda volta trasfigurato, affacciandosi alla grande Rosa nell'ora in cui dietro lei suole coricarsi l'astro come al confino d'una foresta. Simile alla foresta, la cattedrale d'Occidente può essere penetrata in tutte le sue fibre secolari dalla forza d'una primavera inaudita. Quale avvenire osservano i Profeti protesi dì e notte come vedette e scolte dai contrafforti del Duomo picardo ove riconoscemmo scolpita la Spene di Dante? La pietra commessa e alzata, come quella, al suono degli inni, ha in sé l'infinito del canto: non può contenere una fatalità compiuta e immota ma sì l'aspirazione a una bellezza di continuo perfettibile.
Non vi fu, di là dal torrente di Chedron, nell'Orto degli Ulivi, un apostolo ignoto che si unì agli Undici per ricompire il numero, e non dormì né la prima né la seconda né la terza volta? Tra tutte le persone della tragedia di Cristo due m'attrassero sempre più d'ogni altra, le più misteriose: Lazaro di Betania tornato del buio e il giovine dalla sindone. Non avete mai pensato chi potesse mai essere quel giovine «amictus sindone super nudo», del quale parla il Vangelo di Marco? «E tutti, lasciatolo, se ne fuggirono. E un certo giovine lo seguitava, involto d'un panno lino sopra la carne ignuda, e i fanti lo presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo». Chi era quel tredicesimo apostolo, che aveva preso il luogo di Giuda nell'ora dello spavento e della grande angoscia? Solo egli vide il sudore cadere a terra «simile a grumoli di sangue».
Era minore di Giovanni figlio di Salome. Era vestito d'un vestimento leggero. Si fuggì ignudo «reiecta sindone, nudus profugit ab eis». Nulla più si seppe di lui nel mondo. Forse un giorno dirò una imaginazione che di lui mi giunse.»
In tali erramenti divagava il mio spirito, per una specie di dormiveglia intimo ove le imagini più rilevate si avvicendavano con ombre fluttuanti e il ritmo precedeva i pensieri, come quando il sonatore cieco improvvisa su l'organo. E la perplessità si avvicendava con la paura. E smisurate masse d'anima erano smosse da taluna interrogazione appena distinta, come quando la forza d'un tema entra nella sinfonia. «Che avverrà di me se io mi rendo interamente al vostro Salvatore?» E poi tutto si abbandonava a una fuga dirotta, come quando s'ode rintronare il lastrico sotto la carica dei cavalieri.
E gli uomini cadevano
intorno a me guardandomi
negli occhi, come in sogno
quando uno solo è come moltitudine
e un viso è come mille
e il cor supino è pieno di memoria
vertiginosa.
Ciascun percosso
parca gridarmi:
Per chi m'uccidi?
Ah, ben io so!
Era la materia della mia arte, che si mescolava a quella della mia vita. Una voce della mia tragedia d'amore e di morte, dell'opera che componevo nelle mie notti, diveniva oscuramente la voce d'uno di quegli esseri incogniti da me contenuti.
L'andito è nero
per ove ci viene
tastando con le mani,
come il cieco mendico;
ma posta ho in terra
la lampada perché sotto la porta
segni il segnale di luce. Or qualcuno
è tra la lampada e la notte.
Con l'anima mia foggiavo due corpi pieni di nero sangue, e vivevo tutto in loro, per comprendere il peccato; poiché è detto che non si possa veramente comprendere la bellezza del Cristo «senza comprendere il peccato». Ugo da Este e Parisina Malatesta m'erano due esploratori di tenebre.
Col peso della carne del mio cuore
pesava il mio peccato. E disse: «Io so.
Ma che paventi?»
Camminavamo verso il barlume di levante con la medesima ambascia. Anche per la nipote di Francesca l'attesa aveva il volto della rimembranza.
Questa pena
di sudore Ei sostenne,
perché da noi
si spiccasse la febbre del peccato...
Dici che sogno? Non so quando io chiusi
gli occhi, non so da qual mai lungo sonno
io mi svegli; non so,
non so di quale vita
io viva, in verità. Tutto ritorna
dal profondo. Commessa
fu la mia colpa,
patito il mio dolore,
sofferto il mio spavento;
sospesa fu la mia sciagura, inflitta
la mia morte. Non sogno,
o meschina, non sogno: mi rimemoro.
Non vivo: di mia vita mi sovviene,
mi sovviene di me come discesa
nel mondo io sia pe' rami
d'un nero sangue...
D'un tratto, se bene la mano del morente avvolgesse il mio polso, se bene io ne sentissi il gelo nella mia midolla, un turbine mi separava da lui, un turbine sorto dall'assito di quella camera quieta. E bisognava che io mi levassi a seguitare una virtù che s'era partita da me e aveva superata la soglia. Erano ancóra su la tavola i fiori che avevo recati, e i frutti d'Italia. Erano le spesse arance siciliane, del cui solo succo omai si nutriva il mio amico, a stilla a stilla. «Non più ho bisogno dei vostri fiori e dei vostri frutti ma delle vostre preghiere». Allora discendevo nella Landa carica di polline sulfureo, lasciando dietro di me l'interlocutore silenzioso dei miei dialoghi affrontato col muro ove s'apriva il vano dello specchio inesorabile. E, come tutto in me era disposto al canto, facevo le mie preghiere.
Adunque il giorno che ricevette il sacramento dell'Estrema Unzione, mi mandò a chiamare. Come indugiai un'ora, mandò di nuovo. Pareva ch'egli fosse in grande ansietà. Salendo su per la duna, mi soffermavo per contenere il battito e per guadagnare qualche istante. Intorno alla Cappella era l'odore di quelle lacrime di ragia che sovente sostituiscono l'incenso e il belzuino nei turiboli delle Lande. Quando fui sul verone di legno, incontrai nello specchio il suo sguardo d'attesa. Mi spiava nel fondo del cristallo lugubre ove egli voleva essere testimone continuo del suo perire. Non stava già nel suo letto ma tuttora seduto su la sua seggiola. La sua santità era cresciuta di lume. Non soltanto egli era stato unto del crisma ma aveva anche ricevuto per messaggio la benedizione del Pontefice di Roma. E una reliquia preziosissima era su la tavola, presso di lui.
Soltanto allora seppi ch'egli possedeva nel suo oratorio una scheggia della vera Croce, e che da anni le aveva consacrato una lampada perpetua.
Non osai di sedermi, se bene invitato. Qualcosa di lontano e d'inviolabile era in lui, quasi che il vetro d'un tabernacolo lo proteggesse. Ma, quando mi fisò, il più umano tremito scompose le linee del suo viso spiritale, così ch'io tutto mi contrassi come a ricevere una percossa.
Egli ritrovò in sé il soffio bastante a formare la parola e il discorso, perché credeva di obbedire a un comandamento. Non poteva più tacere, non poteva più attenersi alla muta interrogazione dello sguardo e all'allusione timorosa. Già unto dell'olio santificato, stava per entrare con Dio in quel colloquio che non più consente di volgersi verso l'uomo. Egli non aveva se non quell'ora, sul limite del sepolcro, per indirizzare in via di salute l'anima confidatagli dalla divina providenza. Questo diceva il suo tremito.
Rare volte le mie radici ebbero uno scrollo tanto doloroso. Egli parlò. Io volgevo le spalle alla luce, e l'ascoltavo inclinato. Dietro di me la Landa stormiva al vento di ponente, e io era come ciascun albero e come la moltitudine. Potrei ottenere dalla mia anima la confessione di ciò che per l'uomo è inconfessabile, ma non otterrò mai ch'ella mi ridica quel che udimmo quivi.
Allora il pianto fu più forte della favella. Una creatura che pareva non aver più sangue, aveva ancor tante lacrime! Le mie mani erano tutte molli; e il rombo di una catastrofe terrestre non m'avrebbe dato lo sgomento che mi dava quel singhiozzo senile, lacerante come l'implorazione d'un fanciullo. Quel che v'è di più profondo in me pareva toccato, e pure conobbi una nuova oltranza; perché mi sentii baciar le mani!
Così l'umiltà chiedeva l'umiltà, l'amore chiamava l'amore. Non so quale atto altrui, nella mia vita, abbia potuto pesare su me come pesò quello. Per lunghe ore fui oppresso da una sofferenza quasi corporale, come quando l'equilibrio della vita è sconvolto dal germe d'una malattia ignota, che somiglia al presentimento d'una sciagura senza nome. E talvolta era come un rimorso confuso; e talvolta era come un'atroce durezza che si formasse di tutta la mia sostanza fluida, a quel modo che una corrente si congela; e talvolta mi pareva che tutto me medesimo non fosse se non un impedimento enorme a me medesimo, insuperabile, contro cui non avessi potenza ma soltanto ira.
La sera, sedato in parte il tumulto, accesi la lampada con l'animo di sottopormi alla disciplina consueta. Avevo bisogno delle mie mani per continuare la mia opera. Le posai su le carte, nel cerchio del chiarore, per considerarle. Un gran sussulto mi scosse, al ricordo recente. E mi parve, assai più che altre volte, vivessero d'una lor vita propria e quasi non mi appartenessero. Le sollevai e le guardai contro il lume: un poco tremavano, e tra le dita chiuse ardeva una linea rossa. N'ebbi pietà; poi n'ebbi orgoglio. Nel pollice, nell'indice e nel medio l'ultima fatica aveva approfondito il segno della penna. Pensai ai giovani pallidi e smarriti che me le avevano baciate d'improvviso, me repugnante, nell'ombra. Ma che cosa le mie mani dovevano a quell'atto del morente immacolato? Forse riposarsi, e attendere il novel tempo.
Non si riposarono. Lavorarono fino all'alba.
E in quella notte Ugo disse:
Non v'era in me più forza né coraggio
né soffio. Avviluppato in una nube
d'angoscia, profondato
ero in un'onda amara
e calda, con l'orrore
della sorte premuto
su tutto me. Parole
udivo escite
da non so qual potenza, nella notte
senza vie. La salvezza e il perdimento
eran senz'occhi entrambi.
E tutto inevitabile
era. E non combattevo
se non per te
anche una volta, se non pel mio vóto,
non più nel sangue
ma nelle lacrime.
E disse Parisina:
O mia vita, o mia morte,
dove sei? dove siamo?
Siamo nel luogo profondo, e la lampada
dell'attesa arde in terra; e suggellata
è la pietra su noi,
cementata, afforzata
con ispranghe di ferro...
Ma di nuovo l'usignuolo cantò, con una melodia ancor più alta dopo la pausa. E l'amato implorava:
O voce forte e pura nella notte
senza vie, nel tremore
spaventoso degli astri,
oh dimmi la parola
ch'è in me, dimmi la muta
parola che si sforza
di separarsi dal mio cuore, in vano,
con sì crudel travaglio!
Vivere, vivere, o morire? Dimmi!
Morire o vivere?
E Parisina allora disse:
La notte ha la sua via.
XXIV APRILE MCMXII
XXIV APRILE MCMXII
È mezzogiorno. Un'oscurazione di catastrofe si stende su la terra. Ogni cosa ha un aspetto notturno, e sembra rivelar di sé quel che non fu mai veduto per innanzi. È una notte non illuminata dalla luna, né dalle stelle, né dal primo fiato dell'alba, ma da una lampada soprannaturale che spande un egual chiarore e non segna le ombre. Non so perché, penso a quel che provai una volta entrando nella camera buia di un dormente, con una lanterna cieca, per osservare il segreto del suo viso nel sonno.
Vedo nelle cose quella stessa impronta di verità interiore, quello stesso segreto palesato. Non è, pel mio spirito, un giorno interrotto ma una notte scrutata a fondo. L'anima della terra è notturna, ma la luce del sole la nasconde più che non la nasconda la tenebra. Soltanto può rivelarla la divinazione dei poeti, che portano nel loro cuore un sole velato come quello d'oggi. È l'ora del meriggio, e non v'è luce e non v'è tenebra; ma le cose, a questo lume di miracolo, mostrano l'aspetto che debbono avere quando nessuno può guardarle né riconoscerle. Milioni d'uomini in quest'ora volgono gli occhi verso il cielo e per passatempo, a traverso il vetro affumato che simula Io smeraldo neroniano, spiano il contrasto del sole e della luna, il disco violetto che sormonta la raggiera d'oro, l'estrema falce solare che imita il novilunio. Ma il vero miracolo è in terra. Se io guardo gli uomini, li vedo smorti come i trapassati; e i loro corpi non gettano su la sabbia più ombra che non ne facciano i peccatori nella landa sabbiosa del Terzo Girone, laddove scorrono le lacrime che il Veglio goccia da tutte le fessure ond'è vulnerato. Così per questo silenzio, lungo la sorda riva, vedo venire la larva del Poeta che sa l'«asfòdelo prato» e «i freschi mai». E vorrei, come il suo Odisseo nella dimora del Buio, scavare nella sabbia una fossa ed empirla di sangue, sicché egli potesse come Tiresia abbeverarsi dello squallido sangue e dirmi «infallibili cose».
Sol dopo ciò mi parlava il profeta incolpabile, e disse:
— Tu mi ricerchi il ritorno di miele....
Ma il meriggio dell'anima si trasmuta, a poco a poco perde di mistero e d'orrore, vanisce come un sogno divino che al risveglio s'impigli e si stempri nel torbidume dei nostri sensi. Il disco violetto trascorre, e l'astro diurno sembra riardere fumigando dall'uno all'altro corno. La tenzone del sole e della luna ha termine. Ancóra una volta la luce nasconde la vera faccia della terra, e la cieca vita fa ingombro alla morte perspicace.
Da questa vicenda celeste apprendo come l'eclisse, nel mondo interiore, possa essere rivelazione piuttosto che oscurazione. La luce della nostra coscienza abituale non ci copre la nostra verità più profonda? Se alcuna forza fin allora estranea s'interponga, ecco che dentro a noi tutto si trasfigura e si manifesta. Il massimo degli eclissi è la follìa. E che grandi e inopinate mutazioni e visioni da lei nacquero! Ma vi sono anche meravigliosi eclissi prodotti da una certa specie di pensieri dominanti che offuscano la coscienza fallace. Il comune linguaggio però non ha modi per significarli.
Forse, laggiù, un pescatore perduto su l'Atlantico ha visto nel prodigio meridiano splendere Espero.
Un sentimento di lontananza è rimasto in me; che mi seconda mentre rivivo il giorno funebre. Mi sembra che l'istessa lampada soprannaturale illuminasse quel Sabato Santo, quasi ritornato fantasma di quell'eclisse
che in ciel fue
quando patì la suprema Possanza.
Era uno di quei mattini oceanici in cui l'aria e l'acqua, luna nell'altra convertendosi a vicenda, sembrano formare un solo elemento inane. Grandi velarii pallidi sorgevano, si dilatavano, si laceravano, cadevano a brandelli, si rammendavano, si ritessevano senza fine. La Landa pareva sollevarli e respingerli col suo fiato affannoso, perché era travagliata dalla doglia della fecondità. A quando a quando, se spirava il ponente, i lembi e le volute s'imbiutavano di fovilla, s'ingiallivano del solfo arboreo. Talora una nuvola di polvere ferace rimaneva sospesa su le chiome dei pini. ondeggiava, dileguava per ispandersi altrove in piogge nuziali. Aerei entrambi, il pòlline e la cenere si mescolavano, come se il vento rapinasse i fiori e gli avelli.
E colui che aveva contuso il pòlline e la cenere nell'émpito dei suoi più alti canti e divinamente comunicato all'una la virtù dell'altro, il poeta annunciatore e intercessore non anche era spirato in quel mattino, se bene io lo credessi e vedessi già composto nella sua finale santità. Ma, mentre erravo di duna in duna seguendo il mio dolore che pareva sopravvanzarmi, mi punse il cuore un'improvvisa sollecitudine dell'amico che ancora viveva lì presso; ed ebbi un desiderio ansiosissimo di rivederlo perfetto.
Or il suo vóto non era adempiuto? Non aveva egli omai accompagnato il Redentore sino all'ultima stazione della Via Crucis? Passata era l'ora di nona, l'ora del grande grido; passato era l'antisabato; Giuseppe e. Nicodemo avevano tolto dal legno il corpo, póstolo nel monumento e rotolata all'apritura la pietra. Come poteva ancor durare l'agonia del seguace? fino al Resurresso? e oltre, forse?
Dal giorno dell'Estrema Unzione non ero più stato a visitarlo. Perseverava in me il turbamento, e non so che terrore indefinito. La nostra amicizia terrena era chiusa tra quei due pianti, quasi terra compresa da due riviere nate d'una sola sorgente come il Letè e l'Eunoè.
Da questa parte, con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
dall'altra, d'ogni ben fatto la rende.
Ma, pur trovandomi in paese di sete e sitibondo, non m'attentavo di bere. Tuttavia rimanevo tra quei due confini senza trascendere né l'uno né l'altro (non per rientrare nella mia patria antica, non per avanzarmi verso la mia patria futura) quasi in una sosta di contemplazione e d'indagine. E quivi pensieri viventi, sin allora a me estranei o da me ignorati, mi divenivano familiari come i colombi che beccano il frumento nel cavo della mano. E talvolta il giovine dalla sindone era meco; il qual serbava in fondo agli occhi notturni una imagine del Maestro non veduta da alcuno. E mi lasciava egli scrutare il fondo de' suoi occhi, talvolta.
Ricomparire dinanzi all'Unto di Dio, mentre gli stava ancóra in bocca il respiro carnale, mi pareva intempestivo; né avrei voluto di nuovo toccare la sua mano, assistere agli ultimi istanti, udire i suoi rantoli, farmi testimone della sua fine. Piuttosto che commettere un tal fallo, sopportavo il dubbio di sembrargli duro o richiuso. Ben so come ornai, di quel ch'egli soleva chiamare «il nostro bel segreto» nel tempo della reticenza, io non possa più parlare se non con me medesimo, e sotto la specie del canto misurato.
Gli mandavo ogni sera i frutti italiani; ché qualche stilla di quel succo fu sino all'estremo l'unico suo ristoro. Ma pregavo la sua figliuola che non glie li mostrasse, non potendo ella recargli anche la preghiera sconosciuta che l'accompagnava. Seguivo col pensiero la fresca offerta che giungeva alla casa di legno verso l'ora della salutazione angelica. Credevo udire la campanella della porta, il passo di quella che andava ad aprire, le parole susurrate, e poi nell'ombra lo scroscio dell'arancia sugosa premuta nel bicchiere che riluceva. E quella imaginazione mi diveniva presenza quasi reale. Sentivo l'odore spandersi; vedevo biancheggiare il morente sul guanciale, e il chiarore della sera adunarsi nello specchio come negli stagni della Landa. E si generava in me non so che dolcezza accorata e melodiosa, da cui sgorgò una sera il canto alterno di Ugo e di Parisina presso il ceppo del supplizio, in fondo alla Torre del Leone.
Diceva Parisina:
Udito hai tu,
udito hai tu sul muro
della torre crosciare
la piova? Tutto è fresco,
tutto è mondato.
Or mi ricreo
come il fil d'erba.
E so che nel ciel ride
già la stella diana.
E Ugo:
Passato è un tempo,
passato è un tempo,
ch'io non posso più dire;
e quel che innanzi avvenne
e quel che dopo ancóra,
io noi viddi, noi seppi.
Forse or ti nasco;
e la morte, ch'è sopra,
par sì lontana.
E l'amata:
Ah tu non sai,
non sai qual sia
nella tua bocca
la voce nova!
La volta cupa
ove risuona
sembra il segreto
antro d'un fonte.
E l'amato:
Vedi che occhi
s'apron ne' miei?
In me tu sali,
cresci qual mare
senza amarezza.
Il flutto è in sommo.
Non ho il tuo sguardo
sotto la fronte?
E la melodia sviluppandosi assumeva un che di vitreo e di verde, un che d'acqua e d'erba, a imagine di quel giovinetto che un mattino vidi in un sandalo falciare, con la falce mortuaria dal lungo manico, le piante acquatiche nel fossato fosco intorno al Castello di Ferrara.
O mio fastello d'erbe,
dove t'ho da posare?
La nepote di Francesca rispondeva:
Pesami accanto al ceppo.
C'inginocchiammo
due volte. Anco due volte
bisogna, o bello
e dolce amico,
bisogna a noi due volte
i ginocchi piegare.
La prima nel peccato,
la seconda nell'onta,
la terza nella morte,
la quarta nell'eternità...
Quando, molto a notte, salivo alla mia stanza per coricarmi, strani brividi attraversavano la mia stanchezza inquieta, e i miei occhi sbarrati guardavano da per tutto; che m'attendevo una di quelle apparizioni che annunziano il transito delle persone care. E lo specchio era pieno d'orrore.
Certo, non cessavo dall'aver paura della morte, se bene per giorni e giorni l'avessi veduta abitare un uomo e scavarlo di dentro. Ma sentivo che alfine ero per vincere pur quella paura, e per ottenere dal morente una tal vittoria. Declinava il meriggio, nei Sabato Santo, quando l'angelo neutro per i sentieri sordi della foresta mi condusse nei pressi della collina arenosa ove sorgeva la Cappella di Nostra Donna. Scopersi in alto, di tra i rami dei pini carichi di fiori nuovi e di pigne secche, l'infermeria domenicana col suo verone di legno e sul verone la finestra che dava adito alla camera del morente. Così, non veduto, rimasi all'agguato della morte.
La casa era tacita; l'adito era vacuo come quelle aperture senza vetri e senza imposte, che sfondano all'infinito nelle case abbandonate di Assisi. Una donna passò cautamente, s'inclinò su la soglia, si fece il segno della croce, disparve nell'ombra. Un uomo ne uscì, s'incontrò con una fanciulla dai capelli sciolti, si mise l'indice su le labbra per ammutolirla, poi la trasse pel braccio nudo. Nessuno piangeva. I lineamenti umani erano come raffermati dalla necessità. L'aspetto della casa stessa era come Indurito. L'aria intorno vi pareva senza mutamento. Qualcosa come un cristallo spesso la separava dalla respirazione del borgo sparso per le sabbie, ov'era sonata l'ora del pasto comune.
Stavo accosciato su le radici d'un pino. Giovanni era meco, o la parte migliore di me era divenuta simile a lui; perché tutte le cose fisse intorno, tutte le cose radicate, erano in me riunite da movimenti d'amore come nel ritmo della sua poesia. Le formiche salivano e discendevano per le vecchie cicatrici del fusto come per le lor vie maestre, in traffico, mentre taluna di loro galleggiava morta nel vasetto d'argilla colmo di résina e d'acqua piovana. Pei nuovi intagli la ragia colava bianchiccia come la cera che si strugge e goccia intorno ai torchietti dell'altare; ma qua e là vi brillavano lacrime limpide come acini di cristallo. E dove erano infissi i pezzi di bandone obliqui per condurre lo scolo, quivi la piaga pareva più dolente. E, se volgevo gli occhi alla cima, sentivo ch'essa non era toccata dal dolore ma era assorta in un pensiero d'altezza. Redolet non dolet.
Tutto si santificava in una luce di grazia, in una «bontà senza figura.» Il più tenero fiore di cinque petali era schiuso entro una povera scarpa accartocciata come una scorza. Un germoglio lanoso spuntava dal fóro di una latta arrugginita; e tra gli spigoli della lamiera storta brulicavano su per i fili della tela minuscoli ragni, gialli come granelli di pòlline. E il minuto pigolìo dei pulcini nascosti nel cespuglio era come se quel brulicame divenisse vocale. E da ogni più piccola voce si partiva un'onda senza fine confusa nell'immensa dissonanza del vento. E il vento era come il rammarico di ciò che non è più, era come l'ansia delle geniture non formate ancóra, carico di ricordi, gonfio di presagi, fatto d'anime lacere e d'ali vane. E forse andava, laggiù, a sfogliare il libro aperto sopra il leggìo di quercia, quel libro ch'era antico quando la quercia ancor «viveva nella sua selva sonora». E forse l'ascoltava, laggiù, il cieco che non sa donde venne, non sa dov'ei vada, né può cansar l'abisso che si sente ai piedi... «di fronte? a tergo?»
Tanto era viva la presenza fraterna che mi volsi come se avessi udito il mio nome. E Giovanni di San Mauro era là, sotto un gran rovo intricato che soffocava una ginestra in fiore. Aveva la sua veste dei campi, la sua veste di contadino: il capo scoperto, il collo nudo. Sedeva sopra un ceppo tagliato. Col mento nella palma, mi guardava dentro il cuore; e, nella fissità, la sua guardatura aveva a destra una lieve loschezza come se quella fosse la pupilla sempre «intenta ad altro». Era tutto bianco, incanutito; e la fronte era veramente un luogo di luce per moltitudini, ma le ritrose dei capelli le davano un che di selvaggio in sommo, un che d'indocile su tanta umiltà. Le sue mani scarnendosi erano divenute belle. E il silenzio delle sue labbra era fatto di quelle profonde pause che ne' suoi poemi contengono il suo più umano amore o il suo più divino orrore.
In quel punto scoccò, dalla torre della Cappella, l'ora seconda dopo mezzodì. Sul verone il vano dell'adito era come un gorgo d'ombra. N'escì una donna che non piangeva, ed entrò nella porta accanto, levando le braccia. E vennero alcune altre donne, alcuni uomini, una fanciulla, tre giovinetti; e nessuno piangeva. Ma tutta quella famiglia adunata sembrava assumere una forma atta a ricevere l'ignoto, a ritenere in sé il peso dell'esanime. Il morto entrava nei vivi; e, prima di trasformarsi in memoria, riviveva in loro con la sua canizie, con le sue rughe, con le sue spalle curve, con i suoi occhi pallidi, con la sua voce fievole, con le sue viscere ulcerate. Entrarono l'un dopo l'altro nel gorgo d'ombra; s'inginocchiarono, s'accalcarono intorno al letto, divennero una cosa compatta su cui il morto pesò come su una bara di carne e d'ossa. Tutte le voci della Landa non valevano contro il silenzio che serrava la carcassa di legname in quella guisa che i ghiacci polari serrano la chiglia della nave prigioniera. La casipola rossastra, dentro la sua siepe di biancospino e di giunco marino, covava il più chiuso mistero del mondo: il corpo dell'uomo santo, la spoglia inerte di colui che ha offerto l'anima a Dio e votato sé stesso alla vita eterna.
Passai davanti alla porta, su pel sentiero di sabbia, senza arrestarmi. A ogni passo, mi pareva di perdere qualcosa di me, di lasciarmi sfuggire qualcosa di più fervido che il sangue, come se fossi premuto dal rigore di due ombre. A ciascun fianco avevo la morte, come chi cammina fra due compagni per favellare con l'uno e con l'altro alternativamente. Vedevo il cadavere nell'aspetto più spaventoso, quando non è ancóra immobile, quando non è ancóra in pace, quando il rito funebre lo manomette, lo costringe a simulare il gesto, movendolo, sollevandolo, nel purificarlo, nel vestirlo. Come giunsi al principio della mia viottola, a poca distanza dal cancello, mi riscoppiò nello spirito un lampo dell'allucinazione che mi aveva tormentato per tutto l'autunno. L'uomo era là, ma senza rilievo.
Quando salii su la mia duna, la bassa marea aveva scoperto nell'insenata il lungo banco mediano, simile nella forma sottile a un ramo secco di palmizio. Era grande bonaccia, nell'aria e nell'acqua. I velarii continuavano a svolgersi e a dissolversi. A tratti il sole appariva tra lembo e lembo; e tutte le sabbie si schiarivano, con un che di molle come il colore interno della banana. Si velava: e tutte scurivano, si facevano brune come gli aghi aridi accumulati, come le fascine delle palafitte.
Il corpo dell'annegato si riformò sul banco, intiero come quando l'avvistai la prima volta.
Fu una mattina di settembre: un cielo candido, un mare quasi di latte. La marea discendeva. Ero seduto su la loggia. Guardando, scorsi sul banco non so che cosa solitaria e immobile, la cui tristezza mi gravò il cuore prima che la vista la riconoscesse. Era un cadavere deposto dalla corrente, era l'annegato del giorno innanzi: una povera cosa nuda, più misera d'un rottame, più squallida d'un mucchio d'alghe; ma ora pareva che tutti i lineamenti del paese e della marina, da levante a ponente, da borea a mezzodì, convergessero in quel punto di miseria. Scesi alla spiaggia, chiamai due rematori; e andammo con la barca fino alla secca, per ricondurre l'uomo. Stava bocconi, con la testa pendente in un cavo della sabbia, con le ginocchia profondate, con le calcagna in alto, con le mani conserte presso l'ombelico. Il sangue versato dalle orecchie e dalla bocca tingeva la poltiglia acquidosa, e la rena scorreva lenta nel cavo e si mescolava al sangue. Un'orecchia e i capelli intorno erano ingrommati; il braccio era scarnissimo, bianchiccio, debole come un braccio di femmina; le unghie e le falangi erano paonazze come quelle del tintore a zàffara; le gambe erano pallide sotto i peli bestiali, i piedi erano chiazzati d'azzurro. Lo guardavo con l'attenzione terribile dell'arte, come non l'avrebbe guardato neppure la sua madre; me lo stampavo dietro le pupille. Tenevo curvato su lui il mio ribrezzo angoscioso con le due branche della mia volontà. Una vespa ci ronzava intorno insistente, e la sabbia era lavorata come i bugni.
I rematori gli presero i malleoli in un nodo scorsoio, e lo trassero in acqua con la gomenetta legata a poppa. Il sangue nero rimase nella poltiglia, e lo lavò la marea più tardi. Ricevetti per sempre nel cervello anche l'orrenda scìa. Poi i due, aiutati da un terzo, lo sollevarono all'approdo. Ciascuno lo teneva sotto l'ascella, e il terzo per i piedi cerulei. S'inarcava appena, essendo rigido; e la testa pendeva giù come nel cavo, col naso pieno di coagulo rossiccio.
La sera me lo rividi ritto su la loggia, nell'ombra. Per gli occhi sbarrati dallo spavento m'entrò anche più a dentro. M'era sconosciuto; non sapevo nulla di lui, fuorché qualche notizia vaga del suo stato modesto, della sua vita volgare. E l'avevo compagno implacabile. Calando il sole, cominciavo a temerlo. M'aspettava presso il cancello, quando rientravo. Nelle notti di lavoro, quando nella stanza attigua la candela s'era strutta, appariva nel rettangolo buio dell'uscio. Gli vedevo l'orecchia piena di grumi, la bocca e il naso carichi, il braccio scarno. E non m'era più possibile dormire dalla parte del mare.
Poi fu meno assiduo, si mostrò a intervalli sempre più lunghi, si scolorò, divenne una larva fievole, si disperse. Ma il pensiero della morte restò in me gravato da quell'orrore.
Ed ecco che riappariva, ecco che si rimetteva bocconi su la sabbia ad aspettare, come se io dovessi di nuovo imbarcarmi e andare a cercarlo!
Sì, la paura corporale della morte era in me, come se l'uno e l'altro amico dipartendosi m'avessero curvato verso il sepolcro, verso la putredine l'ossame e la cenere. Le dita invisibili della malattia mi sfioravano la nuca, le reni, la gola, i precordii. Camminavo imaginando le gambe appesantite da un piombo subitaneo o invase da una sorda mollezza di bambagia. Vedevo chino su me il medico che ascolta e che palpa. Un soffio, un fremito, un qualche romore di condanna m'esciva del cuore; o da una molecola del cervello un offuscamento repentino si spandeva su tutto, come il nero che schizza dalla borsa della seppia e intorbida l'acqua.
Dominai l'angoscia. Tuttavia le cose mi si manifestavano come se io le guardassi da non so che chiusa profondità. I suoni parevano impigliarsi nel silenzio come in una sostanza tenace: il gemito fioco d'una sirena all'imbocco, il rombo d'un'elica, il tonfo d'un remo, il richiamo d'un pescatore, il grido d'un uccello. E le attitudini disperate dei pini, davanti la mia loggia, in tanta inerzia dell'aria, mi toccavano per un sentimento simile a quello ch'esprimono i gruppi scolpiti della Deposizione, ove le Marie si piegano sul divino corpo investite da una ráffica di dolore. Lo sforzo iroso del vento aveva torto per anni i tronchi e i rami; e l'aspetto della tortura durava, mentre l'aria era immobile.
Un fanciullo mi portò l'annunzio dall'infermeria domenicana. Uno dei figli mi scriveva come il padre gli avesse raccomandato di annunziare la sua fine a me prima che ad ogni altro e di comunicarmi che nel Venerdì Santo «all'ora di nona» m'aveva benedetto e poi non aveva più parlato in terra.
Mi disposi di visitare il beato, declinando il sole. Non so che umida dolcezza s'era diffusa nel cielo: qualcosa di racconsolato e di fidente, che mi ricordava il volto del vecchio quando uscimmo insieme sul sentiero di paglia, la prima volta, dopo il pianto. I gradini della mia scala esterna erano polverosi di pòlline, ove il piede lasciò la traccia. Il medesimo solfo vivace ingialliva i margini del viale. I miei cuccioli di otto mesi, che l'uomo del canile conduceva su la spiaggia per l'esercizio del pomeriggio, mi corsero incontro facendomi festa a gara. Alzati su le zampe nervute, mi coprivano della loro vita pieghevole e trepidante. I loro denti erano più puri del gelsomino, e i loro occhi vai o grigi o lionati parevano scintillare alla cima della loro inquietudine. Una pena mi si svegliò nel cuore: pensai ai miei cuccioli di cinque giorni, dagli occhi ancóra suggellati. Erano nove; e, per non spossare la madre, bisognava risolversi alla scelta crudele, al sacrifizio dei meno belli e dei meno forti! Avevo fatto cercare da per tutto una nutrice, senza riuscire a trovarla. Entrai nel canile, col cuore ammollito da una pietà quasi feminea. La levriera, coricata sul fianco, teneva il muso nascosto tra le zampe incrociate, con la grazia del cigno che caccia il becco sotto l'ala. I suoi belli occhi d'un colore di dattero avevano una lucentezza quasi febrile, e un lieve affanno sollevava le sue costole disegnate come i madieri d'una carena. Cinque de' suoi piccoli poppavano, con un vigore già pugnace, pontando contro il seno materno le due zampette per ispremere la mammella, scotendo a tratti il capo per meglio trarre; e un'ondulazione di godimento correva dalla grinzolina della collottola alla punta della coda di sorcio, parendo quasi render palese il getto irrigante; e un fievole fiottìo accompagnava il poppare, un fiottìo lontano che faceva pensare a quello mattutino dei gabbiani sospeso su la bonaccia. Gli altri quattro, sazii, dormivano sul dorso come bimbi, mostrando il ventre roseo dove l'ombelico era appena chiuso, mostrando la pianta dei peducci lucida e tenera come certe fogliette appena nate, che sembrano di cera e di lanugine. A quando a quando sussultavano e gemevano come se già sognassero. Uno seguitava a poppare in aria, con la bocca molle modellata su la forma del capezzolo; e la lingua era concava come un petalo carnicino; e la gola palpitava come se tuttora la irrigasse il latte.
Mai il primo fiore della vita animale m'era parso più miracoloso. La cagna aveva alzato il muso verso la mia carezza, poi s'era volta a leccare il poppante che succhiava l'ultima mammella già esausta premendola con un'insistenza irosa. Ella gli dava leggeri colpi per rivoltarlo sul ventre, ma il catellino tenace non lasciava la presa e metteva un suono di dispetto simile a un garrito spento. Era bianco pezzato di grigio; aveva una stella in fronte, un orecchio bruno e uno roseo, ancor nudo, suggellato come gli occhi, occluso da due o tre vescichette lustre. Lo conoscevo bene in tutti i suoi segni, come gli altri. E ora tutto mi pareva straordinario, divino come la diversità dei fiori, con quegli screzii del pelame, con quelle mischianze misteriose dei caratteri materni e paterni. Li avevo veduti escire a uno a uno, come piccole nuvole opaline, come sfere azzurrognole, come mondi informi: spettacolo nauseabondo e sublime. Avevo veduta la infaticabile tenerezza della madre nettarli a uno a uno dall'orrenda schiuma, troncare il cordone sanguinante, sospingerli ciechi e sordi verso la fonte tiepida della sua vita. Tutto m'era parso grande e augusto, portento d'amore e di sapienza; tutto ora mi pareva sacro. Come avrei potuto scegliere e condannare? Mi sentivo pronto a qualunque ufficio più umile e greve per salvare pur la men bella di quelle creature viventi.
L'uomo del canile indovinò la mia pena e mi disse: «Aspettiamo ancóra qualche giorno. La nutrice si troverà. Me n'hanno promessa una, nella Landa».
Mi mossi verso la Cappella di Nostra Donna. Il cuore mi oscillava tra la vita e la morte. Avevo preso meco un mazzo di rose che somigliavano quelle ch'io non vedo più, quelle di Toscana alternate coi giaggiuoli lungh'essi i muri graffiti dei poderi, a Castel Gherardo, o verso il Palagio del Sere, o lassù al Crocifisso Alto. Riudivo il versetto intonato da Enrico Suso: «O giovinetta rosa di primavera! O vernalis rosula!»
Nessuno piangeva, nella casa domenicana. Un dolore composto e taciturno annobiliva tutta quella genitura discesa dall'uomo santo. Passai pel verone di legno, non scorsi rilucere lo specchio, misi il piede sul limitare, vidi qualcosa di bianco nascere, presso e lontano. Prima che le pupille scoprissero l'immobile forma, nel mio amore e nella mia reverenza due bare si congiunsero. L'umile uomo da bene e il poeta indimenticabile erano una sola morte. Ed erano un solo sorriso, una sola pace, una sola beatitudine.
Non avevo mai veduto la morte vestita di quel divino pudore, se non in certe stele funerarie ad Atene, se non in certe pietre sepolcrali di questa terra di Francia, nelle quali il marmorario sembra precorrere il lavoro dell'Artefice eterno che al novissimo dì riscolpirà tutti i volti secondo la bellezza perfetta. Ogni lesione della vita pareva cancellata. Non l'anima soltanto, non soltanto l'anima di sacrificio e di preghiera, ma la carne di dolore e di colpa aveva ottenuto l'indulto. Tanto dunque una carne miserabile, vaso di dissolvimento, può divenir bella nelle prime ore della morte? Ero certo che anche nel volto del mio fratello, laggiù, su la collina d'Italia, risplendeva quella bellezza.
Posai le rose su' suoi piedi congiunti sotto la coltre bianca. Mi chinai a baciarlo in fronte, e non ebbi terrore. Una voce sommessa mi chiese: «Non volete pregare per lui?» Mi fu offerto un inginocchiatoio leggero, che aveva la predella di paglia. M'inginocchiai. Altre creature erano in ginocchio e pregavano, senza susurro.
Volgevo le spalle alla luce. La mia ombra cadeva sul letto funebre, stava su le ginocchia sparenti del cadavere, incrociata con quel corpo tanto sottile che non s'alzava dal piano più d'un bassissimo rilievo né sembrava pesare più della mia ombra. Quanti difficili nodi ho conosciuto, dai più robusti che fanno con i canapi i marinai a quelli che si piacque di disegnare l'ermetico Leonardo! Ma nessuno mai arcano come il groppo di quelle due mani esangui intorno al crocifisso d'ebano. Nessuno mi parve mai tanto durevole e indissolubile. L'osservavo di continuo, gli occhi miei affascinati fisandosi di continuo in quel punto; e non riescivo a comprendere come le dita fossero tra loro intessute, come quella cosa pallida e solinga fosse connessa.
Il chiarore che tante volte avevo veduto nello specchio spaventoso, quel medesimo ora occupava la stanza. Mi volsi un poco a sinistra, e scorsi lo specchio coperto d'un lenzuolo bianco. Quali visioni insostenibili aveva serbato nel profondo?
Da prima in me fu silenzio. L'umile uomo da bene e il sovrano cantore del bene erano una sola morte e una sola santità. Volgevo le spalle alla luce del giorno occidente, all'immensa Landa deserta. Era in me col silenzio un'attesa senz'angoscia. E a poco a poco uno spirito musicale entrava in me. Mi sovveniva della sera d'ottobre, della sera d'un altro sabato, d'un abituro presso un'altra Cappella, in mezzo a un'altra foresta. Mi sovveniva di Francesco alla Porziuncola e dell'ultimo cantico cantato nell'ombra, con la faccia rivolta al cielo, mentre i fratelli ascoltavano rattenendo il respiro. « Voce mea ad Dominum clamavi. » Tutto il cielo, quando il Serafico si tacque alla soglia d'eternità, tutto il cielo della sera fu pieno d'un coro miracoloso di allodole.
Ed ecco, dall'immensa Landa, una melodia sorse e si sparse, una melodia che forse già riempiva tutta l'ombra degli alberi piagati ma che non fu da me udita se non in quel punto. Di duna in duna, di selva in selva, di macchia in macchia, la Landa si fece tutta melodiosa, fino all'Oceano. Era un cantico d'ali, un inno di piume e di penne, quale non s'ebbe più vasto il Serafico, quale non si sognò così pieno Paulo di Dono. Era la sinfonia vesperale di tutta la primavera alata, per Giovanni di San Mauro, per l'interprete di ogni aerea voce.
Saliva, saliva senza pause. E a poco a poco, di sotto al salmo silvano, si moveva una musica fatta di gridi e di strepiti conversi in note armoniose da non so qual virtù della lontananza e della poesia. Erano i suoi famigliari che avevano cullato i sogni agresti di Castelvecchio: risa di bimbi, favellìo di massaie, uggiolìo di cani, péste di cavalli, mugghi di mandre, stridore di carretti. E i galli chiamavano e rispondevano, dai chiusi di giunco marino e di bianco spino, come se il vespro si mutasse in alba, la quiete in risveglio. E le campane sonavano come «nei cilestri monti». E la sera varcava la soglia, simile a un grande arcangelo velato.
Giova ciò solo che non muore...
La cella era divenuta cupa come una cripta, ma il salmo della Landa la riempiva come il rombo dell'Oceano riempie la conca. Il letto bianco era divenuto simile a quelle arche d'argento che splendevano nella vecchia contea di Sciampagna; e sopra vi giaceva una statua supina. E non era l'effigie d'un morto ma d'un immortale: come le figure del secolo di fede, aveva gli occhi aperti perché non credeva se non nella Vita. Come nell'antifonario di Santa Barbara, era per levarsi e per dire con un'allegrezza imperiosa: « Aperite mihi portas justiciæ. Ingredior in locum tabernaculi admirabilis usque ad domum Dei ». Non mostrava le tracce degli anni, i solchi senili; ma era ferma nella giovinezza del Risorto, nell'età che tutti gli uomini avranno quando saranno per risorgere come Lui. E non le stava sul capo la guglia trilobata che sovrasta ai Santi nei pilastri e nelle vetriere della cattedrale? E il duomo di Dio, la cattedrale unanime e innumerabile, non s'alzava di sopra a quella cripta nuda, con la sua selva di simboli e di misteri? E il sole gotico non s'era colcato dietro la grande Rosa?
Il salmo non aveva fine. Tutto pareva salire, ancóra salire, sempre salire, nel rapimento di quel canto. Il ritmo della Resurrezione sollevava la terra. Io non sentivo più i miei ginocchi, né occupavo il mio luogo angusto con la mia persona; ma ero una forza ascendente e molteplice, una sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura. Cose ignote, esseri ignoti erano per nascere al suono della mia prossima voce. Non v'era più ombra né paura di morte in me; né pur v'era desiderio o speranza di pace. «Non voglio la pace. Voglio morire nella passione e nel combattimento. E voglio che la mia morte sia la mia più bella vittoria.» Avevo accesa una nuova lampada ma anche rifuso un più ricco olio nell'antica perché riardesse. Mi sentivo figlio di me, e le mie labbra non avevano appreso a proferire il nome del Padre nell'orazione.
«Amici, è sempre sera e presto sarà notte.» Vedendo guizzare su la parete un lume improvviso, mi levai. Qualcuno stava per accendere un cero a pie dell'arca imaginaria. Mi levai, mi volsi, uscii. L'atto fu così rapido che nessuno mi seguì, tranne un giovinetto. Gli aditi erano bui. Non lo distinguevo. Quando mi sfiorò il braccio per passarmi innanzi, vidi brillare il bianco de' suoi occhi. Quando fummo sotto la tettoia, vidi la sua faccia dorata, le ciocche folte e nere de' suoi capelli. Lo sentii tremare mentre m'apriva la porta sul sentiero di sabbia. Allontanandomi, non udii il rumore del cardine dietro di me; e pensai ch'egli fosse rimasto sul limitare a guardarmi. Ma non mi voltai. Mi pareva che un viso nuovo mi fosse nato dal mio spirito. L'imagine rivelatrice del giovine dalla sindone mi toccò la cima del cuore.
Discesi la duna. Il calcagno s'affondava senza sonare. La Landa ora taceva, in una nuvola di pòlline, piena di connubio. Il salmo vesperale era cessato. Una costellazione misteriosa si accendeva nel cielo violetto. Il tuono remoto dell'Oceano era come il vigore del silenzio.
Giova ciò solo che non muore, e solo
per noi non muore, ciò che muor con noi.
Ero in quello stato di potenza che talvolta ci fa sentire come il vivere non sia se non un continuo creare. Passai presso un cespuglio fragrante nell'ombra, che mi divenne un sentimento meraviglioso. D'un tratto uno scoppio di passione canora trasmutò il silenzio in un'ansia intenta. Le stelle s'appressarono alle chiome dei pini feriti. Cantava l'usignuolo.
Vidi brillare il Faro laggiù, su l'estrema lingua di sabbia. M'accorsi d'esser vicino alla mia duna. Camminai verso la casa, con l'anima rovesciata indietro a ricevere il canto. Un'ombra stava diritta presso il cancello, nel luogo medesimo ove soleva aspettarmi l'uomo livido. M'appressai con un passo più rapido, con gli occhi aguzzati.
Era uno sconosciuto della Landa che mi conduceva la nutrice. Teneva a guinzaglio una cagna da caccia, che a quando a quando mandava fuori un lamentìo sommesso. E la voce della madre era così straziante che non udii più quella dell'usignuolo. «Dove ha lasciato i suoi piccoli?» chiesi allo sconosciuto. Il carnefice li aveva annegati in una tinozza d'acqua fredda, tutti: erano dodici! Mi curvai verso la disperata, posi un ginocchio a terra. Lo sprazzo rosso del Faro illuminò la sua bella testa falba dalle larghe orecchie di velluto, la sua faccia possente e pacata ove brillavano due occhi folli. E vedevo galleggiare nella tinozza i dodici piccoli cadaveri.
Allora, inginocchiato su la sabbia, le palpai le mammelle ch'erano gonfie e calde tra i lunghi peli bianchi e bai. Il forte lezzo della maternità mal curata e della cuccia negletta mi rendeva più pesante il cuore. E lo sprazzo candido del Faro mi passò sul capo chino.