PROLOGO
Mentre Lucrezia Borgia, in nuziale
pompa, venìa con piano
incedere (la veste lilïale
risplendea di lontano)
tra i cardinali principi in vermiglia
cappa, che con ambigui
sorrisi riguardavano la figlia
de ’l papa,—ne’ contigui
atrj i coppieri, adolescenti flavi
che rispondeano a un nome
sonoro ed arrossian come soavi
fanciulle ed avean chiome
lunghe, i coppieri d’Alessandro sesto
tenean coppe d’argento
entro la man levata, e con un gesto
d’umiltà grave e lento
offeriano a le molte inclite dame
le rose ed i rinfreschi.
Allettati correan pieni di brame
i veltri barbareschi
traendo fra le zampe il guinzal d’oro
che mal ressero i paggi.
Gioivano le dame inclite in coro
ai gran salti selvaggi,
e disperdendo in copia su ’l lucente
musaico a piene mani
cibi e rose, blandían trepidamente
i belli atroci cani.
Allor Giulia Farnese, un suo lascivo
balen da li occhi fuora
mettendo (a ’l riso il corpo agile e vivo
fremea come sonora
cetra), il sen nudo porse; e in tra le poppe
bianche rotonde e dure
un fante a lei da le papali coppe
versò le confetture.
Or non così, mie belle, o voi che tanto
amai e celebrai
e incoronai del mio lucido canto
ne’ boschi e ne’ rosai,
or non così venite al mio festino
ove l’Amor v’aduna?
I vostri baci, più dolci de ’l vino,
a ’l sole ed a la luna
io colsi un tempo; e, come entro una rara
coppa di fin lavoro,
mentre i nuovi desii cercanvi a gara
—veltri da ’l guinzal d’oro,—
la profonda dolcezza entro la rima
sottilemente infusa
io vi rendo. Gioite voi. Ma, prima,
Isaotta, la Musa,
quella ch’io più cantai, con un baleno
tra i cigli e con protese
le bellissime braccia, offre il suo seno,
come Giulia Farnese.
IL LIBRO D’ISAOTTA
Ella apparve.—Buon dì, messer cantore!—
disse ridendo con gentile volto.
Il dolce grappolo, II.
Il dolce grappolo, II.
Disegno di Alfredo Ricci. Fototipia Danesi Roma
SONETTO LIMINARE
Palagio d’oro
, nobile magione
de la Speme, de ’l Riso e de’ Piaceri,
ove sotto i belli archi alti e leggeri
danzano i Sogni cinti di corone;
Selva d’oro
ove Amor, nudo garzone,
con i Desiri, cupidi sparvieri,
con i Peccati, veltri agili e neri,
attende a la sua dolce cacciagione;
Fonte d’oro
ove candidi e tranquilli
vanno i cigni di Venere per torme
facendo a ’l dorso calice de l’ale;
O mio libro
, convien che più sfavilli
sonante il verso e più ridan le forme
quando Isaotta Guttadàuro sale.
I. IL DOLCE GRAPPOLO
I.
—O madonna Isaotta, il sole è nato
vermiglio in cima a ’l bel colle d’Orlando:
ei su’ vostri balconi ha ravvivato
le rose che morìan trascolorando.
Sorga da l’ampio letto di broccato
or la vostra beltà lume raggiando.
O madonna Isaotta, il sol che v’ama
con un lucido cantico vi chiama;
e gridano i paoni a quando a quando.
Udite voi salir nostre preghiere
o ancor vi tiene il Sonno in tra le braccia?
Dolce sarebbe a’ nostri occhi vedere
i primi raggi su la vostra faccia
ove il trapunto lin de l’origliere
ne la notte lasciò sua rosea traccia.
Palpita il vostro sen con più veloce
ansia a’ richiami de la nostra voce,
mentre la fante il busto alto v’allaccia?
«Levasi a lo mattin la donna mia
ch’è vie più chiara che l’alba del giorno,
e vestesi di seta Caturìa,
la qual fu lavorata in gran soggiorno
a la nobile guisa di Surìa»,
canta l’Antico nel poema adorno.
«Il su’ colore è fior di fina grana,
ed è ornato a la guisa indiana;
tinsesi per un mastro in Romanìa».
Levasi da ’l gran letto in su l’aurora
la mia donna; e la sua forma ninfale
tra le diffuse chiome a l’aria odora
e a ’l sol risplende più bianca del sale.
Tutta di gocce tremule s’irrora
ne ’l lavacro di marmo orientale.
Miran le statue a torno quella pura
forma e tessuta ad arte in su le mura
ride la greca favola d’Onfale.
Ridono i fatti di Venere dia
su ’l cofano di cedro, alto lavoro
d’artefici maestri di tarsìa,
che sta ne ’l mezzo d’un bacile d’oro;
ove con signorile atto la mia
donna gitta incurante il suo tesoro
di smeraldi, rubini e perle buone
che piovon come per incantagione
sovra il metallo nitido e sonoro.
Ella, composta in vago atteggiamento,
a mezzo de la rara conca emerge;
e la fante con anfore d’argento
pianamente d’ambrate acque l’asperge.
Al diletto ella freme, e con un lento
gesto la chioma rorida si terge.
Come tondi i ginocchi e come bianchi!
Han dal respiro un dolce moto i fianchi
e il petto ad ogni brivido s’aderge.
O madonna Isaotta, è dura cosa
ir le beltà non viste imaginando.
A voi conviene omai d’esser pietosa
poi che da tempo in van prego e dimando.
La bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca in fine quando
concederete al bacio disiato?
O madonna Isaotta, il sole è nato
vermiglio in cima a ’l bel colle d’Orlando.—
II.
Così chiamai l’amata in nona rima,
sotto il grande balcon di tiburtino
ov’han lo scudo i Guttadàuro-Alima
con gocce d’oro in campo oltremarino.
Dormìa la villa ne ’l silenzio: in cima
a li aranci de ’l nobile giardino
aprivano i paoni le gemmanti
piume verso la luce, e de’ lor canti
striduli salutavano il mattino.
Ella apparve.—Buon dì, messer cantore!—
disse ridendo con gentile volto.
—Non questo è il tempo gaio de ’l pascore,
ma voi siete di ver loquace molto.
Or seguite a trovar rime d’amore,
chè con benigno orecchio, ecco, v’ascolto.—
Io le dissi:—Madonna, io son già fioco.
Or voi di sì salutevole loco
scendete a me che son di pene avvolto!
—
Ella tacque; ed il capo inchinò mite:
ne li occhi le ridea novo pensiere.
Tutta quanta di porpora una vite
saliva da l’inferïor verziere,
e le bacchiche foglie colorite
mesceansi con le rose a le ringhiere.
Avean piegato un dì li aspri sermenti
a la copia de’ grappoli rubenti
che il padre Autunno infranse nel bicchiere.
Ella disse ridendo:—Io pongo un patto,
vago sire, a la mia dedizïone.
—Il vago sire—io dissi—accoglie al tratto
quel ch’Isaotta Guttadàuro pone.
Ed ella:—Quando un sol grappolo intatto
ne’ vigneti che bagna il Latamone
lungh’esso il chiaro colle solatìo
troveremo, io sarò pronta al disìo
vostro e sarete voi di me padrone.—
III.
Ella discese allora: un giuramento
fece sicuro il gran patto d’amore.
E prendemmo la china. Senza vento
era l’aria; ne ’l placido candore
erano i campi senza ondeggiamento,
brevi selve di canne erano in fiore.
Quasi una gratitudine beata
al sole offrìa la terra bene amata:
era novembre, il tempo de ’l sopore.
D’innanzi, il Latamon, fiume regale,
lambiva in suo lunante arco i vigneti
ove l’ebro clamor vendemmiale
ed i carmi de’ rustici poeti
salutato avean già l’almo natale
de ’l vino autor di gioia, ora quieti.
Disse Madonna:—Siate accorto e saggio:
quivi incomincia il pio pellegrinaggio.—
D’in torno s’inchinarono i canneti.
Io dissi:—Non mi giova la fortuna,
o madonna Isaotta, ne ’l trovare.—
Ed ella a me:—Non ha virtude alcuna
il fino Amore per v’illuminare?
Il grappolo tardìo dove s’aduna
da lungo tempo, come in alveare,
la dolcezza del miele a ’l lento foco
de ’l sole, aspetta noi per qualche loco.—
Io dissi:—Non mi stanco di cercare.—
Noi camminammo giù per la vermiglia
china che discendeva all’acque d’oro.
Da lungi a quando a quando una famiglia
di villici sorgendo da ’l lavoro
ci guardava con alta maraviglia;
e le fanciulle interrompeano il coro.
Venendo innanzi con giulivo ardire
una gridò:—Che mai cerchi, o bel sire?—
Ed io risposi a lei:—Cerco un tesoro.—
Noi così camminammo: ella men lesta,
poi che non concedeami anco la mano.
In guardare tenea china la testa,
bella come la bella Blanzesmano
allor che cavalcò per la foresta
a fianco a ’l suo Lancialotto sovrano.
Le fronde sotto i pie’ stridevan forte;
ma a quelle viti ignude aspre e contorte
li occhi chiedevan la dolce esca in vano.
Disse Madonna:—Riposiamo al fine.—
Era lungi un trar d’arco il bel rivaggio.
L’alta erba mareggiava in su ’l confine
placidamente, come biada a maggio;
or sì or no giungea da le colline
di citisi e di timi odor selvaggio.
Pareva il sol d’autunno per le chiare
vie de ’l cielo un novello orbe lunare:
i vapori facean mite il suo raggio.
Ella disse. Non mai le sue parole
ebber soavità così profonda:
cadevan come languide viole
da l’arco de la sua bocca rotonda.
E quel sorriso fievole de ’l sole
ancor la testa le facea più bionda.
Era, d’intorno, un grande incantamento.
Era il diletto mio qual d’uom che, lento,
in giaciglio di fiori ampio s’affonda.
Tacque. Uno stuol d’augelli, d’improvviso,
attraversò con ilari saluti.
Noi trasalimmo, come ad un avviso
misterioso de la terra; e, muti,
impallidendo ci guardammo in viso.
Poi prendemmo sentieri sconosciuti.
I pioppi nudi e senza movimento
parevan candelabri alti d’argento;
ed i lauri fremean come leuti.
IV.
Oh ne la valle concava d’Orlando
inaspettata vista del tesoro!
Giacea la bella vigna fiammeggiando
con tralci di rubino e foglie d’oro;
e uno stuolo d’augelli roteando
facea ne ’l mezzo de la vigna un coro,
—O madonna Isaotta, ecco la vita!—
io le gridai, con l’anima rapita.
Ed in alto gridò lo stuol canoro.
Io la trassi a quel loco: ella più lesta
venìa, chè forte io la tenea per mano.
Tutta rosea volgea da me la testa,
bella come la bella Blanzesmano
allor che la baciò per la foresta
l’amato suo Lancialotto sovrano.
E le dissi:—O Madonna, io tengo il patto.
Per voi colgo il fatal grappolo intatto.—
Ella mi diede il bacio sovrumano.
II. BALLATA D’ASTÍOCO E DI BRISENNA
Amor, quando fiorìan ne ’l bel paese
il biondo Astíoco e Brisenna reina,
da ’l colle a ’l pian, da ’l fiume a la marina
sonavan alto le tue chiare imprese.
La terra di Brolangia era un verziere,
in figura d’un sistro, ismisurante.
Il verde paradiso due riviere
cingeano, come braccia d’un amante.
Il suol crescea meravigliose piante,
nudrito da le pingui alluvïoni.
Quivi tennero lieti eptameroni
il dotto Astíoco e Brisenna cortese.
La bontà che venìa da’ lor costumi
era sì dolce, o Amore, e sì profonda
che il suolo si coprìa di rose e i fiumi
volgean oro smeraldi ambra ne l’onda;
e, come ne la Tavola Ritonda,
ragionavano i tronchi e le fontane,
potea la Luna su le menti umane,
munían gl’incanti ai prodi elmo e pavese.
Su la cima del bel colle d’Orlando
sorgevano i palagi, aperti a ’l giorno.
Diecimila colonne scintillando
ricorrevan per l’alte moli a torno.
Vi saliva una scala, in doppio corno,
ampia, coperta di fanti e d’arcieri,
di messi, di valletti e di levrieri,
di dame e di donzelle in ricco arnese.
Convenivan le donne de’ poeti
ivi, in un luogo detto Galaora;
e sedeano in su’ fulgidi tappeti,
ove li amor di Cefalo e d’Aurora,
illustri opere d’ago, uscieno fuora
qua e là di tra le vesti ricoprenti.
Sedean le donne, in bei componimenti
di grazia, ad ascoltar la serventese.
Oh fontana d’Elai, per molti getti
ricadente ne ’l vaso di porfíro,
che dieci ninfe e dieci satiretti
reggean, piegati ad una danza, in giro!
Immergeavi una coppa di zaffiro
Brisenna, e la porgeva a ’l rimatore.
Celava l’acqua in sè virtù d’amore
che in cor mortale si facea palese.
Ma le belle traevansi in disparte.
Venivan quindi per eguali torme
di sette; e digradando in lungo ad arte
imitare volean l’ímpari forme
de ’l flauto che il dio Pan seguendo l’orme
di Siringa construsse in su ’l Ladone.
Come le canne, l’agili persone
tutte vibravano, a la danza intese.
Ogni torma correa verso l’eletto.
Ad una ad una le bocche fragranti,
le bocche dolci più che miel d’Imetto,
egli baciava, splendido in sembianti.
Fuggia la torma, ed ecco l’altra avanti.
E svolgeasi così, lungo i roseti,
la danza; mentre li èmuli poeti
a tal vista fremean nuove contese.
Oh fontana d’Elai, dove son l’acque
che un dì fluiron per sì larga vena?
Dov’è il murmure tuo che tanto piacque
a ’l mite Astíoco e a Brisenna serena?
Cadde una notte ne ’l tuo sen la piena
Luna, divelta per forza di carmi.
S’infransero a ’l tremore orrido i marmi,
e fumaron stridendo l’acque incese.
III. ISAOTTA NEL BOSCO
«Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
«e in tal regno le feste ho celebrate
«de’ suoni de’ colori e de le forme.»
Ballata VI.
Ballata VI.
Disegno di G. A. Sartorio.
BALLATA I.
Pur jeri (uscían da la recente piova
i cieli, tersi più che vetri schietti)
andavam co’ ginnetti
pe’ boschi de la valle cavalcando.
Ella, dritta in arcioni, agile e franca,
reggea ne ’l pugno i freni
e moveali con varia maestría.
Piegava ad arco il ginnetto la bianca
chioma e fervea con leni
giochi, sommesso a quella tirannía;
e la sua leggiadría
e la beltà d’Isotta e il bosco intento
e li albori sereni,
che di velari penduli d’argento
adornavano il bosco in tutti i seni,
facean così gentil componimento
ch’io mi chiesi:—Non forse in lor balía
hannomi i Sogni?—E stetti dubitando.
BALLATA II.
Non m’avevano i Sogni in lor balía;
chè mi disse la Bella, ad un radore:
—Senti soave odore
di viole, che giunge a quando a quando!—
Su’ freschi venti odore di viole
giungea, soave e forte;
trepidavano li alberi novelli,
in torno; e aprivan loro gemme a ’l sole
le rame ésili e torte;
e verzicavan fitti li arboscelli,
come verdi capelli
ondeggiando ne l’aria ad ogni fiato.
E parevan le morte
ninfe rivivere, e parea rinato
Pane al mondo, ed alfin parean risorte
tutte le deità del tempo andato,
ma quali un dì le vide il Botticelli
in su’ poggi di Fiesole vagando.
BALLATA III.
Ella disse:—Cerchiamo le viole
tra l’erbe, chè non son lungi nascoste.—
(O fiori, che a me foste
cagion di gaudio, vostro pregio io spando.)
Balzai a terra; ed ella, anche d’un salto,
vennemi sovra il petto,
ridendo. Propagaronsi per l’òra
le freschissime risa, in mezzo a l’alto
silenzio; ed il ginnetto
anitrì ver la dolce sua signora.
Noi ci mettemmo allora
su l’odorosa traccia a ricercare
ne ’l bosco giovinetto.
Chini su ’l suol pratío, senza parlare,
noi eravamo intesi a quel diletto.
S’udivano i cavalli pascolare
da presso e impazienti ad ora ad ora
scuoter li arcioni, forte respirando.
BALLATA IV.
Piovea su ’l verde il sol di marzo, infranto,
però che avea co’ rami allegra lotta.
E le man d’Isaotta
sparivano in tra ’l verde, a quando a quando.
Oh mani belle, oh mani bianche e pure
come ostie in sacramento,
dolci a li afflitti, prodighe, regali
meglio che a’ tempi gai de l’avventure!
Oh mani che il cruento
cuor nostro ignavo e le piaghe mortali
e tutti i nostri mali
con infinita carità guariste,
ed a ’l nostro tormento
le porte d’oro de’ bei sogni apriste,
e a ’l nostro ardore cieco e vïolento
in coppa d’oro un vin sereno offriste!
Oh bianche mani, oh gigli spiritali
tra le viole, ne ’l chiarore blando!
BALLATA V.
Riprendemmo la via, con i ginnetti
ch’eran più vivi e più giocondi. Al corso
anelavano; e il morso
tingean di calda bava, scalpitando.
Ora la selva, innanzi a li occhi nostri,
misteriosa e grave,
ergeva i tronchi e i rami a ’l ciel maggiori;
e, lunga componendo ala di chiostri,
volgeasi in ampia nave,
qual dòmo, o spaziava in alti fòri.
Avea cupi romori.
Ella disse:—Non dunque tal sentiere
mena a ’l loco soave
u’ la Bella, aspettando il Cavaliere,
dorme sepolta in tra le chiome flave
che crebbero per mille primavere?—
Ond’io sorrisi. Ed ella:—Or quali amori
sogna colei ne l’animo, aspettando?—
BALLATA VI.
—Non sogna—io dissi. Ed ella:—Io so che un giorno
venne il sire a fugar da que’ cari occhi
l’incanto, ed a ginocchi
baciò la rara mano, supplicando.
Ei parlò di tesori e di castella,
di terre ismisurate,
d’omaggi e di diletti senza nome.
Lucidamente arrisegli la Bella,
dicendo: «Voi mi fate
«onor grande, o mio sire. Ma pur, come
«sorga l’alba, le some
«voi leverete, a ritrovare l’orme.
«Altre plaghe ho regnate!
«Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
«e in tal regno le feste ho celebrate
«de’ suoni de’ colori e de le forme.»
Disse; e di nuovo arrise, ne le chiome
ampie, come in un gorgo, profondando.—
BALLATA VII.
Il mister favoloso in cui la selva
era sommersa, e quella voce umana
che dava ad una vana
ombra la vita, e quel chiarore blando,
il senso mi cingean di tal malía
ch’io mi credeva udire
suono di corni in lontananza ròco
e veder cervi a mezzo de la via,
grandi e candidi, escire
con in fronte una croce alta di fuoco.
Strano li alberi gioco
facean di luci. L’un parea, tra’ rai,
smeraldi partorire;
l’altro balzar da li orridi prunai
come serpente, in mal attorte spire.
Disse Madonna:—Si convenne Elai
un tempo con Astíoco in questo loco,
il qual re meriggiava poetando.
BALLATA VIII.
Meriggiava quel re, sotto il pomario
che splendeva a’ suoi dì come un tesoro.
Cadeano i frutti d’oro
gravi su ’l suolo in torno, a quando a quando.
Rendean per l’aria in torno una fragranza
di miel, così gioconda
che al cuor giungeva quale un vin di rose.
E il buono Astíoco, in mezzo a l’abondanza
de’ frutti, di profonda
dolcezza pieno l’anima, si pose
a laudare le ascose
virtuti de la terra in un poema.
Giunto era a la seconda
canzone quando, senz’alcuna tema,
ei scorse Elai. Qual re di Trebisonda,
il capo cinto avea d’un dïadema
ed il petto di pietre preziose
che vincevano il dì riscintillando.
BALLATA IX.
Chiesegli Elai: «Vuoi tu, sir di Brolangia,
«sopra tutta la terra alzar tuo soglio?»
Ed il sir: «Ben io voglio!
«Or tu dammi, che ’l segua, il tuo comando.»
«Sorgi dunque da l’ombra e t’incammina
«pe ’l sentier ch’io t’addito,
«fin che tu giunga in riva de ’l ruscello,
«ove un giorno la fata Vigorina
«adagiò ne ’l fiorito
«letto de l’erbe il corpo agile e bello;
«ed il magico anello
«che fiammeggiava più che foco vivo
«mise, come in un dito,
«ne ’l verde stel d’un giglio ancor captivo;
«e sognò, me’ che in letto di sciamito,
«a ’l murmure de l’acque fuggitivo.
«Or trarre ti convien da ’l gambo snello
«il fin tesoro, là dov’io ti mando.»
BALLATA X.
Surse pronto il re musico; ed il lesto
piè mosse in cerca de ’l beato giglio.
E a l’antico giaciglio
di Vigorina giunse trepidando.
Vide lo stelo e vide anche l’anello;
e lo stel ne ’l cerchietto
pareva il dito fragile e mortale
d’una ninfa cangiata in arboscello.
Ma il sire, a tal conspetto,
non osò porre la sua man regale
su l’anello fatale;
poichè, da quando l’erbe a Vigorina
furon fiorito letto,
il giglio erasi aperto a la divina
luce, non più da ’l calice constretto;
e Astíoco, in tòr la pietra alabandina,
infranto avrebbe il giglio verginale
che a ’l sol ridea, sì dolce palpitando.—
BALLATA XI.
Questo narrò la mia favolatrice.
Ed a me parve che un incantamento
fluisse da quel lento
eloquio, tutti i boschi affascinando.
Com’ella tacque, il fremito de ’l suono
mi tremolò sì viva—
mente a’ precordi ch’io rimasi assorto
nel mio diletto ripensando a ’l buono
Astíoco.—E se a la riva
d’oro il giglio d’Elai non anche è morto?
E se ancora a diporto
la fata Vigorina è pe’ sentieri?—
ella chiese, chè udiva
non lungi mormorii rochi e leggeri
d’acque, correnti giù per la nativa
ombra, e vedeva crescere i misteri
entro i seni de ’l valico ritorto.
Onde spronammo, innanzi trapassando.
BALLATA XII.
Era la fonte in una lene altura
coronata d’opachi elci e di mirti.
Rompevano li spirti
de la fonte tra’ sassi palpitando.
Non mai dolce suonò bistonia lira
come le fronde a ’l vento
su la natività de le bell’acque;
nè fu sì chiaro il talamo d’Argira
e nè pur l’arïento
u’ con la ninfa, poi che a Giove piacque,
Ermafrodito giacque.
Partìasi l’onda in rìvoli tra’ massi
de ’l clivo, in più di cento
rìvoli che brillavano, pe’ sassi
fini e politi, con varïamento
di carbonchi topazi e crisoprassi.
Attoniti mirammo; ed in noi nacque
desìo di bere...—O fonte, io t’inghirlando!
BALLATA XIII.
Io t’inghirlando, o fonte ove quel giorno
parvemi bere in coppa jacintea
il sangue d’una dea,
che a ’l cuore mi fluì letificando!—
Scendemmo il piano margine; e commise
in sì dolce atto Isotta
il fior de la sua bocca ad una vena
e sì fresco e vermiglio e vivo rise
quel fiore in tra la rotta
onda e s’aperse, ch’io ritenni a pena
un grido e in su la piena
bocca più baci e più, cupido, impressi.
Ella rideva... Oh lotta
di baci che cadean sonanti e spessi
e mescevansi a l’acque! Oh ne la grotta
ampia e ninfale mormorii sommessi
d’acque e le risa de la mia serèna!
Bevemmo e ci baciammo, ivi indugiando.
BALLATA XIV.
Or quale io bevvi ignoto filtro, inconscio?
Era ne la sua bocca, era ne l’acque
la virtù cui soggiacque
ogni mio senso, amor rilampeggiando?
Non so. Ma come uscimmo da la chiostra
in su’ paschi feudali
ove il bel fiume suoi tesori aduna,
parvemi cavalcare ad una giostra,
e che da que’ fatali
occhi mi sorridesse la fortuna
e fusser ne la luna
in urna d’adamante custodite
le mie sorti regali.
Onde, felici, a ’l Sol candido e mite
e a l’ardor de’ cavalli ed ai natali
venti ci abbandonammo; e le due vite
nostre mescemmo e rinnovammo in una
vita più forte, che s’aprì raggiando.
IV. SONETTO D’APRILE
. . . . a ’l cuor giunge il freddo del serpente.
Melusina.
Melusina.
Disegno di Giuseppe Cellini. Fototipia Danesi Roma
Aprile, il giovinetto uccellatore,
a cui nitido il fiore
de le chiome pe’ belli omeri cade,
ne ’l cavo de la man, come un pastore,
in su le prime aurore
ha bevuto le gelide rugiade.
Aprile, il giovinetto trovadore,
su le canne sonore
dice l’augurio a le nascenti biade:
i solchi irrigui fuman ne ’l tepore,
un non so che tremore
le verdi cime de la messe invade.
Ecco la Bella! Ecco Isotta la blonda!
China, de la sua porta a ’l limitare,
ella stringe il calzare
a ’l piè che sanno i boschi. E il dì la inonda.
Toccan la terra, a l’atto de ’l piegare,
i suoi capelli, in copia d’or profonda.
Oh, la faccia gioconda
che a pena da quel dolce oro traspare!
V. BALLATA DELLE DONNE SUL FIUME
A torme a torme candidi paoni,
lenti, silenti come neve in aria,
discendono su l’agili ringhiere.
Eliana.
Eliana.
Disegno di Mario de Maria.
I nitidi mercanti alessandrini,
profumati di cìnnamo e d’issopo,
bevean su la riviera di Canopo
ne’ calici de ’l loto i rosei vini.
Noi lungo il fiume, ove sì dolci istanti
indugiammo cercando per la via
il grappolo tardivo,
navighiamo a diletto, in compagnia
di musici che il lido empion di canti.
Tutto s’accende il lido fuggitivo
a lo splendor vermiglio.
Tu, ridendo, co ’l calice d’un giglio
attingi le bell’acque scintillanti.
La man tua lieve crea schietti rubini.
Le gentildonne, che fan gaia corte
a te con gran sollazzo, in su’ minori
legni, rapidamente
seguon l’esempio e con i bianchi fiori
attingon l’acque d’or, ridendo forte.
Tutte, in un tempo, bevono a ’l lucente
vespero, inebriate,
quasi Bacco le linfe abbia cangiate
in vin di Scìo, da’ regni de la morte.
Suonano a torno i lieti ribechini.
Così tu vai, piacente Primavera,
navigando ne ’l vespero, per l’almo
fiume onde Amore sorse;
e i gigli tratti dietro il paliscalmo
vestono forme, ne la dubbia sera.
Non calano da’ rotti argini forse
le ninfe a ’l Latamone?
Questa, piena di donne e di canzone,
non è l’isola bella di Citera?
Non sei tu dunque iddia ne’ tuoi domíni?
Questa è l’isola bella: non la tiene
però Venere. Isotta ha signoria,
Isotta Biancamano,
su la verde Brolangia solatìa
ove reìne clementi e serene
vissero a lungo, in tempo assai lontano,
e amaron poetare.
Qui non s’ode Bacchilide cantare,
non Saffo, non Alceo di Mitilene.
Ma s’odono i leuti fiorentini.
O musici, toccate li strumenti
con più dolcezza, poi che a’ lauri in cima
è la luna novella.
Cantate, o gentildonne, a cui la rima
fiorisce in amorosi allettamenti
a sommo de la bocca picciolella.
Sicchè di su l’altura
udendo suoni e canti a la ventura,
veggendo faci, dicano le genti:
—Torna forse Brisenna a’ suoi festini?
VI. BALLATA E SESTINA DI COMMIATO
. . . . su da la tenebra
crescea per l’arti de la maga tessala,
porgendo la man nivea.
Diana inerme.
Diana inerme.
Disegno di Giuseppe Cellini.
BALLATA.
Ora è muto il selvaggio paradiso
già costumato a la tua signoria.
Dov’è la voce onde l’anima mia
e la selva tremavan d’improvviso?
Pavidi, in tra la selva umida e fresca,
correano a quella voce i cavriuoli.
Splendean miti ed umani
li occhi a l’ombra in guardarti; ed i figliuoli,
alti e biondetti, sen venìano a l’esca
de ’l cibo, come a ’l pan giovini cani.
Forte ridevi tu quando a le mani
i lor teneri denti
ti mordevan con piani incitamenti.
Tra la fronda eran queti li usignuoli
ed i frassini intenti
ascoltavan salire il dolce riso.
SESTINA.
Quando più ne’ profondi orti le rose
aulivano per l’aria de la sera
e mesceasi a quel lor tepido fiato
sapor di miele da’ pomari d’oro,
venne Isaotta un tempo a le mie braccia,
candida e mite quale a maggio luna.
Non sì dolce chinò li occhi la Luna
su ’l suo vago sopito in tra le rose
Endimïon, tendendo ambo le braccia,
(splendeva il Latmo a la vermiglia sera,
cui bagnano i ruscelli in vene d’oro:
sol de’ veltri s’udia l’ansante fiato)
com’ella sovra me. Caldo il suo fiato
io sentìa su ’l mio volto, ed a la luna
vedea brillare la cesarie d’oro
cui cingevano i miei sogni e le rose.
Fulgida aurora a me parve la sera,
ne ’l cerchio de le sue morbide braccia.
Dolce cosa languir tra le sue braccia!
Dolce, languendo, bevere il suo fiato!
Voci correan d’amor per l’alta sera;
e bramire s’udian cervi a la luna
da’ chiusi, e Agosto a l’ombra de le rose
cantar soletto in su la tibia d’oro,
e a quando a quando, come in vaso d’oro
pioggia di perle, da le verdi braccia
de li alberi che misti eran di rose
le odorifere gomme ad ogni fiato
d’aura cader su’ fonti ove la luna
piovea gl’incanti de l’estiva sera.
O donna ch’anzi vespro a me fai sera,
cui Laura è suora ne le rime d’oro,
deh foss’io, come il vago de la Luna,
addormentato, e alfin tra le tue braccia
mi risvegliassi e bevere il tuo fiato
potessi ancora, in letto alto di rose!
Tu la Bella vedrai diman da sera
e a lei ricingerai le chiome d’oro,
canzon, nata di notte senza luna.
QUI FINISCE IL LIBRO D’ISAOTTA.
SONETTI DELLE FATE
E su tal corda l’anima sospira.
Grasinda.
Grasinda.
Disegno di Giuseppe Cellini.
A GIUSEPPE CELLINI
Lino ai boschi de l’isola di Creta
udía le ninfe correre tra i rami
e Teocrito udía lunge i richiami
di Lyda a riva e i canti di Dameta.
Tu ne li orti d’Italia odi, o poeta,
rider le fate come in lor reami.
Ti chiede Urganda:—O mio sire, tu m’ami?—
e ti trae ne la sua reggia segreta.
Agile, ardente quale fiamma, Urganda
t’intesse a torno con rapidi voli
una danza di perfida virtù.
Ma non anche tu dormi in Broceglianda
tra i mirti intonsi, a’ lai de’ rosignoli,
poi ch’io suono il fatal corno d’Artù.
ELIANA
Dorme a notte il palagio d’Elïana,
simile a un dòmo gotico d’argento.
Or, ne la luce senza mutamento,
pare un fragile incanto di Morgana.
Armoniosa come uno stromento
apresi a torno l’alta ombra silvana;
ed a piè de la scala una fontana
singhiozza in ritmo ne ’l silenzio intento.
A torme a torme candidi paoni,
lenti, silenti come neve in aria,
discendono su l’agili ringhiere.
Sono le spose morte di piacere,
che tentan la dimora solitaria.
E il bosco è pieno d’implorazïoni.
MIRINDA
Mirinda e il fido, ne l’occulta stanza,
adagiati su’ troni orientali,
dilettansi a gittar lucidi strali
sotto i piè d’un fanciul nudo che danza.
Un grande e bianco augello, a passi eguali,
carico d’otri, sparge in abondanza
acque d’ambra d’insolita fragranza
su i marmi che dan lume ai penetrali.
—Vedrem fiori, com’ampie urne, fiorire;
berremo un vin ne’ puri alvi de’ frutti;
e guarderemo entro smeraldi il sole.—
Dice Mirinda. E il tremulo nitrire
de’ liocorni e il murmure de’ flutti
si mescono a le sue lente parole.
MELUSINA
Guarda, assisa, la vaga Melusina,
tenendo il capo tra le ceree mani,
la Luna in arco da’ boschi lontani
salir vermiglia il ciel di Palestina.
Da l’alto de la torre saracina,
ella sogna il destin de’ Lusignani;
e innanzi a ’l tristo rosseggiar de’ piani,
sente de ’l suo finir l’ora vicina.
Già già, viscida e lunga, ella le braccia
vede coprirsi di pallida squama,
le braccia che fiorían sì dolcemente.
Scintilla inrigidita la sua faccia
e bilingue la sua bocca in van chiama
poi che a ’l cuor giunge il freddo de ’l serpente.
GRASINDA
Dorme Grasinda in mezzo a’ suoi tesori,
ove l’incanto un sonno alto le impose.
E l’intima dolcezza de le cose
ver lei migra in assai vaghi romori.
Fremono a torno li alberi canori,
da la grande armonía piovendo rose
quasi che per virtù misteriose
si rispandano i suoni in rari fiori.
Lento il corpo ne ’l sonno a ’l ritmo cede:
compongonsi le membra agili in arco
e prendon forma di lunata lira.
Si tendono le chiome argute al piede
facendo strano a’ due pollici incarco;
e su tal corda l’anima sospira.
MORGANA
Or tremule, su i mari e su le arene,
crescon ne la lunare alba le imagi:
materïati d’oro alti palagi
e torri ingenti assai più che Pirene.
Salgono scale in luminose ambagi
con inteste di fior lunghe catene.
Come navi in balía de le sirene,
ondeggiano le pendule compagi;
poi che Morgana, in dolce atto giacente
ne ’l letto de la nube solitaria,
quasi ebra di quel suo divin lavoro,
ama, seguendo un carme ne la mente,
cullare de le man languide a l’aria
la città da le mille scale d’oro.
ORIANA
Orïana tenea l’incantamento.
Giacean, ebri d’assai dolci veleni,
ne l’antro i prodi; e larga di sereni
sogni la Luna era a l’umano armento.
Pascean su ’l limitare i palafreni
meravigliosi, li émuli de ’l vento:
battean la lunga coda in moto lento
a la coscia, e nitrían per li alti fieni.
Giunse Amadigi a l’antro solitario,
tutto de l’armi splendide vestito;
e tre volte suonò, ne ’l muto orrore.
Quindi, rompendo il magico velario
che l’edera tessea, con quell’ardito
gesto egli prese ad Orïana il cuore.
ORIANA INFEDELE
Quando Amadigi con l’eterna amante
giunse a l’isola Ferma (auree ne ’l giorno
lucean le mura ed i verzieri in torno
aulívano), le porte d’adamante
s’apriron mute e gravi, a ’l suon de ’l corno;
ma, lasciando Orïana a Floridante,
il Donzello del mare, almo e raggiante,
penetrò solo ne ’l divin soggiorno.
Disse a la donna il bel sir di Castiglia:
—Ahi che troppo di te m’arse il desio!
Or tu m’odi!—E la trasse ai labirinti.
Mago ne l’aria odore di jacinti
vinse Orïana de ’l soave oblio.
Ridea Lurchetto in sua faccia vermiglia.
SONETTI D’EBE
. . . . Morgana, in dolce atto giacente
ne ’l letto de la nube solitaria. . . .
Morgana.
Morgana.
Disegno di Vincenzo Cabianca.
IL CAVALIERE DELLA MORTE
In un’antica stampa de ’l Durero
va contro maghi e draghi a la battaglia
tutto chiuso ne l’arme un Cavaliero
su ’l gran cavallo coperto di scaglia:
a ’l fianco l’accompagna da scudiero
la Morte senza piastra e senza maglia,
dietro gli segue da valletto il nero
Peccato; e fosca innanzi è la boscaglia.
Io così, nuovamente, a la conquista
de l’Arte e de l’Amor, salgo la vita;
ma il mio bieco scudier non mi rattrista,
ma il valletto ridendo alto m’incita
ed incanto non v’ha che mi resista,
poi che già in groppa, o Bella, io t’ho rapita.
IL FIUME
I.
Quando lungo il selvaggio
fiume la mia signora
navigava, a l’aurora,
con pomposo equipaggio,
si faceva canora
la riva a ’l suo passaggio
e li uccelli di maggio
volavan su la prora.
Scendevano i tappeti,
di color rosso e giallo,
ne l’acqua di turchese.
E i galanti roseti
salutavano il gallo
dipinto su ’l palvese.
II.
Per virtù de’ miei canti
emergevan da l’onda
amorosa e feconda
mille fiori odoranti;
e la signora bionda
da’ grandi occhi stellanti
arrideva alli incanti,
con voluttà profonda.
Prendeano singolare
forma ne ’l dubbio lume
alti i pioppi d’argento
e parean s’abbracciare
giù ne ’l letto de ’l fiume,
co ’l favore de ’l vento.
III.
Sorgean quindi, nutrite
da ’l padre fiume, vive
selve lungo le rive
e s’aprian ne ’l ciel mite.
Da le sedi native
le ninfe sbigottite
correvano inseguite,
candide fuggitive.
E pe’ i recessi impervi
de i divini soggiorni,
ne ’l silenzio divino,
bramivan come cervi
li egìpani, bicorni
iddii da ’l piè caprino.
IV.
La bianca dama il ciglio
con la man, dolcemente,
schermìa da la nascente
forza de ’l sol vermiglio
e l’altra man pendente,
simile a un molle giglio,
tenea fuor de ’l naviglio
entro l’acqua corrente.
E nulla era più bello
e leggiadro de l’atto
ch’ella facea, tra i raggi,
cogliendo un ramoscello
o un gran fiore scarlatto
da li argini selvaggi.
V.
Quando a terra posava
ella il suo piè ducale,
la selva fluviale
tutta in fiore cantava.
Saliva il nuziale
inno a l’ospite flava;
e a ’l tuono era la cava
selva una catedrale.
Io, piegando i ginocchi,
dicea:—Bionda signora,
un servo, ecco, si prostra.
Ella chinava li occhi,
bella come l’aurora,
e dicea:—Sono vostra.
IL CANTO
Un giorno ella cantò, su la galea,
ad alleggiar la mia grave fatica.
E il mare a noi, spirante ancor l’antica
divinità, propizio sorridea.
Al riso innumerevole, l’aprica
riva non lungi in breve arco splendea,
polita e bianca, qual ne l’Odissea
la riva de la dolce Näusìca.
Or così, mentre io ripensava Ulisse,
guardando pe ’l seren grembo de l’acque
palpitar l’ombra de l’amata chioma,
parvemi, Omero, il dáttilo fiorisse
in sommo de ’l gentil labbro, che nacque
a favellar ne ’l tuo puro idïoma.
SIMILITUDINE
Pascono in ozio su le mura erbose
i cavalli asïatici d’Erode,
mirabili cavalli; e tra le rose
il fluttuare de le lunghe code
mollemente si perde. Accidiose
dormon le palme a torno in su le prode,
e or sì or no ne ’l sonno de le cose
il vivente de ’l mar fremito s’ode.
Ma se Jacìm con rauco grido appare,
balza correndo a lui lo stuol disperso,
a lui guardando da li occhi inquieti.
Amo così, mia bella, io figurare
i desideri miei per te ne ’l verso,
cavalli pascolati in tra i roseti.
SOGNO D’UNA NOTTE DI PRIMAVERA
Tu discendi con pompa orientale
giù pe’ i lucidi gradi; ed una schiera
di femmine ti segue, per la nera
scala raggiando la beltà nivale.
Verso la terra, in atto di preghiera,
tu protendi le braccia; ed a ’l segnale
da le bocche mulièbri agile sale
il cantico a la nuova primavera.
Si muovono con lento ondeggiamento
le teste a ’l ritmo, e su per l’aria aperta
in lontananza il pio cantico spira.
Odesi, poi che il gran clamore è spento,
la lunga scala d’ebano, coperta
di femmine, vibrar come una lira.
L’ADORAZIONE
Pallidi ne li azzurri jacintèi
stan li oleandri lungo il mar giocondo,
quali Tádema, il dolce pittor biondo,
già vide ne li idilli di Pompei.
Biancheggiano in quadrùplo ordine a tondo
su le insigni colonne i propilei;
e da l’ombra felice ove tu sei,
Ebe, ne l’aria sale odor profondo.
L’aroma de ’l divin fiore, che intatto
ne ’l tuo misterioso essere chiudi,
per una lenta ebrïetà m’attira.
De le trepide braccia, umile in atto,
io ricingo i tuoi piè candidi e nudi.
Suona l’anima mia, come una lira.
RURALI
Siede una donna, bianca e taciturna,
tenendo l’arpa da le molte chiavi,
su ’l solio, ne la sacra ora notturna.
Vas Spirituale.
Vas Spirituale.
Disegno di G. A. Sartorio. Fototipia Danesi Roma
VIA SACRA
Io te porto su ’l plaustro alto, Maraja,
istorïato d’angeli e di santi,
su ’l plaustro di trionfo a quattro paja
di bovi da le corna erte e lunanti.
Ondeggia in ritmo ai passi ogni giogaja
bianca splendendo; il can fulvo davanti
gioiosamente a i gravi passi abbaja;
e a ’l salïente amor s’alzano i canti.
Oh per il colle olivi in rare file
sopiti, in un pallor dubbio di argento
su ’l dolce azzurro pomeridiano!
Oh tra li olivi il coro feminile
svolgentesi ne l’aria senza vento,
come un ampio cantar gregoriano!
PER LA MESSE
I.
Quando il tuo corpo d’Ebe, alto, ridente
ancor d’infanzia e già schiuso nel fiore
de la prima bellezza adolescente,
sorse avanti improvviso (era l’odore
pe’ i ricolti sereno), la vivente
ubertà de’ capelli a ’l fulvo ardore
de le spighe così naturalmente
si giunse e così vergine il candore
del sol ne l’innocenza del mattino
arrise, ch’io tremai. Non forse tu,
risorta da la terra genitrice,
eri un’iddia de ’l buon tempo latino?
E non venivi ai popoli datrice
d’una nuova più forte gioventù?
II.
Sia con l’uomo la pace e la giustizia.
Tace, inerte nel sonno, la pianura
sazia di luce e pingue di dovizia
oppressa da l’immensa genitura.
Argentëi de’ venti a la blandizia
li olivi custodiscon la matura
copia. Fáusto il ciel brilla; e un coro inizia
i gravi offici de l’agricultura.
E si svolge così, ne la profonda
serenità de la tua luna estiva,
l’inno del pane, o madre terra esperia;
come quando per Cerere feconda
il mite canto arvalico saliva,
regnando Numa con la ninfa Egeria.
III.
Or falcian diecimila braccia umane
la messe del frumento. Come antiche
are sacrate a deità pagane,
su i rasi campi sorgono le biche;
e lietamente l’uomo a le fatiche
piega la forza de le membra sane,
però che ride in cima de le spiche
a l’uom l’augurio de ’l futuro pane.
Guarda da l’alto su la rusticale
opera il Sole, dio benigno e grande
a cui sacro è ne’ solchi ogni covone.
E ne la pia letizia cereale
per me la tua geòrgica si spande,
o Publïo Vergilïo Marone.
LA MADRE
Vigile, all’alba, sta su ’l limitare
della casa la Madre ottagenaria,
da poi che alla fatica frumentaria
i molti figli attendono. E cantare
ode la Madre i figli alto nell’aria
concordemente l’inno salutare
che prega il Sole di beneficare
la santità dell’opra alimentaria.
Alla dolcezza del compatimento
materno in cuor de’ figli la nativa
pazienza risorge. Or, tra i sudori
e la sete e la polvere ed il vento,
la pazienza è il lene olio d’oliva
che conforta le membra ai lottatori.
I SEMINATORI
Van per il campo i validi garzoni
guidando i buoi da la pacata faccia;
e, dietro quelli, fumiga la traccia
del ferro aperta alle seminagioni.
Poi, con un largo gesto delle braccia,
spargon li adulti la semenza; e i buoni
vecchi, levando al ciel le orazïoni,
pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia.
Quasi una pia riconoscenza umana
oggi onora la terra. Nel modesto
lume del sole, al vespero, il nivale
tempio de’ monti inalzasi: una piana
canzon levano li uomini, e nel gesto
hanno una maestà sacerdotale.
IL POMO
Pendono i frutti, maturati a ’l roseo
calor de ’l sole, e tremano:
intatti ancora, poi che ad Ebe l’intima
dolcezza lor consacrano.
Vermigli sono e de ’l lor peso aggravano
i rami e de ’l lor numero;
e tale effluvio spargono aulentissimo
onde mi ride l’anima
tutta e ne ’l capo assai giocondi nasconmi
pensieri e vaghe imagini
di amore sì che in vero tutta ridemi,
come ne ’l vino, l’anima.
Sopraggiunge ne li orti Ebe, con subita
gioia; e ridendo gridami:
—O tu, o tu che siedi sotto l’albero
de ’l pomo, un frutto coglimi!
—
—Non io te ’l coglierò, ma te medesima
leverò, fino a giugnere
il ramo, su le mie braccia, o dolcissima
Ebe.—Ed ella:—Or tu lévami
su le tue braccia.—Ed io la levo, a giugnere
il buon frutto che penzola
ed alletta, sì come ne la favola
antica del re Tantalo.
Ergesi il corpo d’Ebe, quale un’anfora,
da la mia stretta; e l’avide
mani ella tende a ’l ramo, in attitudine
bellissima; ed ai cúbiti
nudati le sorridono due rosei
cavi, due nidi rosei,
ove, meglio che a ’l frutto, io vorrei mordere,
me’ che a l’inarrivabile
frutto.—Ancora!—ella grida—Ancora! Un ultimo
sforzo, ed ha vinto Tantalo!—
Ond’io più l’alzo; e più ne ’l desiderio
ardo, sentendo il palpito
de le sue membra. Grida ella:—Vittoria!—
E, d’un salto, si libera
da le mie braccia e fugge, abbandonandomi.
—Vittoria!—li orti echeggiano.
Poi ella torna, perocchè ne l’animo
sia pïetosa. Offrendomi
la cara bocca, ancora tutta rorida
de ’l succo, d’onde l’alito
esce fragrante come su da ’l calice
d’un fiore, dice:—Baciami!—
Ed a lungo io la bacio; e tutti fremono,
parmi, d’invidia li alberi.
LA VENDEMMIA
Prema co ’l pié gagliardo un giovinetto,
entro il tino di quercia, le capaci
sacca ricolme d’uva succulenta;
ed all’urto gli scorra il mosto in rivi.
Poggiato ad una verde asta silvana,
ei moderi co ’l suo canto l’alterno
salto de’ piedi; e sia composto, quale
è Dïonigi nel buon marmo acheo.
Gli ridano le membra, temperate
di grazia e di vigore, agili in ritmo.
Appariscano a fior del suo torace
adolescente i fieri archi dell’ossa,
come a studio segnati da preclaro
artefice; e le braccia al busto inserte
nitidamente sieno e nerborose
come d’atleta al disco esercitato;
e le gambe in lor moti abbian la maschia
venustà della forma e la lunghezza
quasi fluente, che alli Antichi nostri
in tele e in marmi assai furono care.
Vengan d’in torno le fanciulle al tino
da le prossime vigne, con canestri
di grappoli in su ’l capo; e faccian coro,
quali un dì le canéfore in Atene.
Fluiscano, di sotto alle calcagna
imporporate del vendemmiatore,
larghi rivi di mosto; e liberale
sia di gioia a l’umana opera il Sole.
LA NEVE
Scende la neve su la Terra madre,
placidamente. E lei bianca riceve
la Terra ne’ suoi giusti ozi, da poi
che all’uom copia di frutti ha partorito.
Guarda il bifolco splendere a’ sudati
campi la neve, mentre siede al desco;
e a lui dal cuor la speme e dal bicchiere
sorride la primizïa del vino.
—Scendi con pace, o neve; e le radici
difendi e i germi, che daranno ancora
erba molta alli armenti, all’uomo il pane.
Scendi con pace; sì che al novel tempo
da te nudriti, lungo il pian ridesto,
corran qual greggia obedïenti i fiumi.
BOOZ ADDORMENTATO
Ella cavalca, lungo il reo padule;
e dietro; a paro, su due bianche mule
seguon due vecchi, gravi e taciturni.
L’Alunna.
L'Alunna.
Disegno di Mario de Maria. Fototipia Danesi Roma
Da Victor Hugo.
I.
Ora Booz giaceva, stanco le braccia e il petto,
però che faticato avea molto su l’aja.
Ed or giaceva alfine Booz, presso le staia
ricolme di fromento, ne ’l consueto letto.
Possedea grandi il vecchio campi d’orzo e di grano
al sole; e prosperavano i suoi campi in dovizia.
Se ben dovizioso, era mite ed umano
il vecchio; e incline avea l’animo a la giustizia.
Quando a sera tornavano da le agresti fatiche
carichi di manipoli i mietitori a torme,
ei, vedendo una femmina china cercar ne l’orme,
dicea:—Lasciate, o uomini probi, cader le spiche.
Così, candidamente, lungi da oblique strade,
di probità vestito e di lino, incedeva.
Parean publiche fonti le sue sacca di biade,
però che vi attingeano quanti la fame urgeva.
D’argento era la barba, come rivo d’aprile.
Le femmine guardavano, più che l’ésili e blande
forme di un uomo giovine, quella forma senile;
però che l’uomo giovine bello è, ma il vecchio è grande.
Il vecchio, risagliente a le origini prime,
entra nelli anni eterni, esce dai dì malcerti.
Al giovine una fiamma brilla ne li occhi aperti,
ma ne li occhi de ’l vecchio è una luce sublime.
II.
Ora Booz dormiva ne la notte tra i suoi.
Presso le mole simili ne l’ombra a monumenti,
i mietitori stavano distesi, come armenti
stanchi. E questo era in tempi lontanissimi a noi.
Le tribù d’Israello avean per capo un saggio.
La terra, esercitata da una gente errabonda
che ignote orme giganti scoprìa ne ’l suo passaggio,
tutta era molle ed umida pe ’l diluvio e feconda.
III.
Come Jacob e Judith, con le pálpebre chiuse
Booz giacea ne ’l grave sonno patriarcale.
Or la porta de ’l cielo su ’l suo capo si schiuse
e ne discese un sogno. Ed il sogno fu tale:
Booz vide una quercia fuor de ’l suo ventre in piena
vita sorgere e lenta giugner l’ultimo lume.
Una stirpe di umani vi s’ergea, qual catena:
un re cantava a ’l piede, moriva in alto un nume.
E mormorava Booz, sotto le verdi foglie:
—Come può mai, Signore, questo dunque accadere?
Su ’l mio capo fiorirono ottanta primavere:
ed io non ho figliuoli, ed io non ho più moglie.
Da gran tempo colei che meco ebbi giacente
ha lasciato il mio letto pe ’l tuo letto, Signore;
e noi siam l’una all’altro ancor misti d’amore,
ella pur semiviva ed io quasi morente.
Una progenie nuova da me sorgere a gloria?
Or come posso io dunque aver prole, o Signore?
La prima giovinezza ha trionfanti aurore:
esce il dì da la notte come da una vittoria;
ma la vecchiezza è tremula, quale ai venti alberello.
Io son vedovo, solo, ne ’l vespero, su ’l monte;
come un bove assetato piega all’acqua la fronte,
io l’anima reclino, mio Dio, verso l’avello.—
Così Booz parlava, ne la misteriosa
notte, e a Dio volgea l’occhio inerte; però che
l’alto cedro non sente a ’l suo piede una rosa
e non sentiva Booz una donna a ’l suo piè.
IV.
Mentre Booz dormiva, Ruth, una moabita,
s’era distesa ai piedi de ’l vecchio, nuda il seno,
sperando un qualche ignoto raggio o ignoto baleno
se venìa co ’l risveglio la luce de la vita.
Ora Booz inconscio dormiva sotto i cieli;
Ruth inconscia attendea, con pia serenità.
Una fresca fragranza salìa da li asfodeli,
e i soffi de la notte languìan su Galgalà.
Era l’ombra solenne, augusta e nuziale.
Volavan forse, innanzi a li occhi stupefatti
de li umani, erranti angeli; però che in alto a tratti
apparivano azzurri lembi simili ad ale.
Il largo respirare di Booz dormïente
mesceasi de’ ruscelli a ’l romor roco e grave.
Era nel tempo quando la natura è soave:
i colli avevano gigli su la cima fiorente.
Ruth pensava; dormiva Booz. L’erbe alte e nere
ondeggiavano; in pace respiravan li armenti;
una immensa dolcezza scendea da i firmamenti.
Era l’ora in cui placidi vanno i leoni a bere.
Ogni cosa taceva in Ur e in Jerimàde.
Li astri riscintillavano su pe ’l cielo profondo;
il mite arco lunare, tra il giardino giocondo
de’ fiori de la luce, risplendea su le biade;
e Ruth, immota, li occhi socchiudendo tra i veli,
chiedea:—Qual mietitore dio de l’eterna estate,
poi che le sue stellanti ariste ebbe tagliate,
gittò la falce d’oro ne ’l gran campo dei cieli?
IDILLII
. . . . i cervi, a cui ne li occhi il fascino
sta de le solitudini
natie, sazî de ’l pascolo, su ’l limite
scendono in torme a bevere.
Diana inerme.
Diana inerme.
Disegno di Alessandro Morani. Fototipia Danesi Roma
L’ANDRÒGINE
Ermafrodito, il semidio procace,
sta ne la fonte immerso
come in un letto d’oro; ed il ben terso
corpo dona a l’abbraccio di Salmace.
Tremano i fiori su la calda linfa
i calici schiudendo,
mentre si compie l’imeneo stupendo
de ’l figliuol di Mercurio con la ninfa.
A la marina, a ’l bosco, a ’l piano, a ’l monte
una immensa letizia
muove da ’l padre Sole: arde propizia
la voluttà su l’amorosa fonte.
E sal con deità di giovinezza
ne ’l favore di Giove
il gentil mostro che le forme nuove
ha temprate di forza e di bellezza.
L’ESPERIMENTO
Ne la stanza regale, ampia e rotonda,
ove brillano scritti a le pareti
i versetti de’ saggi e de’ poeti
in bei carbonchi di Palesimonda,
il Re si chiude in suoi pensier segreti:
la barba il petto eröico gl’inonda.
Lo sguardo ei tien su ’l cofanetto assiro
che in dieci lune l’orafo compose.
Giunge da li orti il soffio de le rose,
quasi con metro egual, come un respiro.
Il veltro de le cacce avventurose
dorme, composto il lungo dorso in giro.
Sta ritto in piè con tutta la figura
l’unico Erede, figlio di Ieéna.
Ei tace. Una lanugin fulva a pena
gli ombra la faccia imperiosa e dura.
Bella è la bocca; e l’occhio gli balena
di desiderj enormi d’avventura.
Troppo il padre ha regnato, ei pensa. E, piano,
scegliendo ne la cintola uno stile
cui di recente un suo velen sottile
ha fatto azzurro, avanza; e con la mano,
già invitta nel frenar l’impeto ostile,
punge le nari a ’l veltro persiano.
«HYLA! HYLA!»
De la placida selva entro li abissi,
ove s’odon li egìpani bramire,
Ila di Misia, il giovinetto sire
a cui cingon la fronte i bei narcissi,
prono su la cerulëa sorgente
tutte le membra, in atto di ristoro,
v’immerge una sua grande anfora d’oro
con tardo gesto, dilettosamente.
Piegano a ’l peso de ’l metallo cavo
i calici de ’l loto; e treman l’acque
poi che l’efébo, ignudo come nacque,
in chinarsi v’intinge il suo crin flavo.
Ma da la man ch’è presa di languore
sfugge l’anfora e lenta si sprofonda:
ne ’l glauco vel la sua forma rotonda
appare qual meraviglioso fiore.
L’Asïatico già tende le braccia
trepidamente verso l’imo ignoto:
attonito, fra i calici de ’l loto
ei vede arguta ridere una faccia.
Insidiose, in lunghi allacciamenti,
ondeggiano le najadi lascive:
balenano di riso ne le vive
bocche le chiostre nivëe dei denti.
Sogguardan elle con languida brama
Ila, si torcon elle in fra le piante.
—O figliuolo del re Teodamante,
non così dolce mai Ercole t’ama!—
—O tu, de li Argonäuti diletto,
a cui cingon la fronte i bei narcissi!—
Discopron elle in tra’ capei prolissi,
ridendo a sommo, il ventre bianco e il petto.
Or, prono a la soave riva, il lene
Ila sente vanir sua conoscenza,
quasi di bocca la divina essenza
d’un frutto gli si strugga per le vene.
E le najadi in lunga teorìa
sorgon, gli avvincon de le braccia il collo.
—Ila chiomato, oh simile ad Apollo!—
Ei beve, ei beve; e il caro Ercole oblìa.
VAS SPIRITUALE
Siede una donna, bianca e taciturna,
tenendo l’arpa da le molte chiavi,
su ’l solio, ne la sacra ora notturna.
Angeli immensi reggon li architravi;
e fra simboli oscuri, in su gl’incisi
cuoj, regine con mitra ésili e gravi
stanno cogliendo rossi fiordalisi.
Raggian come pianeti i bronzei dischi
su le porte di cedro; e ne li adorni
velari i liofanti e i liocorni
mesconsi a le giraffe e ai basilischi.
Ella, rigida e pura entro la stola,
pensa una verità teologale.
Chiari i segni de ’l ciel zodiacale
a lei giran la chioma di viola.
Li smeraldi e le piume de li uccelli
brillano su ’l suo largo vestimento
onde le mani cariche di anelli
si riposano lungo l’istrumento.
E a piè de ’l solio il vescovo latino
move in ritmo un turibolo d’argento
ov’arde con la mirra il belzuino.
L’ALUNNA
Sotto i propizïati albor notturni
ella cavalca, lungo il reo padule;
e dietro, a paro, su due bianche mule
seguon due vecchi, gravi e taciturni.
In fondo all’acque cupe di tristizia
si muovono talor vaghe figure.
Ella rafforza contro le paure
il cavallo, con placida blandizia.
Il suo corpo, che intriso fu lung’ora
nel lago d’olio all’isola Junonia,
dolce come le pelli d’Issedonia
a ’l tatto e fresco assai più che l’Aurora,
or chiuso in armatura di gioielli
molto riluce. È bionda come il miele;
e, come li occhi de la fata Urgele,
li occhi suoi brillan verdi in tra’ capelli.
Sale dubbio vapor su da li stagni,
che in alto a l’aria forme truci assume;
a fior de l’acque bollono le schiume;
or sì or no da ’l limo escono lagni.
Ma balzan, di desir tutte vermiglie,
le rose in tra le zampe a ’l palafreno
e baciano a la bella dama il seno
o la mano che tien salda le briglie.
E la Luna talor, nuda le spalle,
a l’aereo veron d’oro s’affaccia
e graziosa a lei mostra la traccia
segnando cerchi magici su ’l calle.
Ella cavalca. E, poi ch’è giunta a ’l loco,
lascia d’un salto il ben gemmato arcione.
A lei li arnesi de l’incantagione
porgono i vecchi. Ell’è trepida un poco.
Or prima, i quattro venti a richiamare,
battendo ad arte con le lunghe dita
sovra una spera concava e polita,
fa la rossa mandrágora cantare.
Quindi, girando in ritmo agile a danza
tre volte su ’l sinistro piè leggiere,
coglie al fine, con risa di piacere,
l’unico fior de la dimenticanza,
che, misto a ’l succo de’ giusquìami bianchi,
rende a le donne la beltà nativa
e alli uomini il già freddo cuor ravviva
e cinge di valore inclito i fianchi.
DIANA INERME
Quando a ’l mattino il Sol gode tra li alberi
con aurea bocca attingere
il fior de l’acque, ridono i miracoli
de la luce ne ’l mobile
specchio. Ed i cervi, a cui ne li occhi il fascino
sta de le solitudini
natie, sazi de ’l pascolo, su ’l limite
scendono in torme a bevere.
Or le cervine imagini e le arboree
tremano a ’l fondo in pendula
corona: s’ode ne la pace il crépito
de le lingue che lambono.
E, poi che lievi l’aure sopra giungono,
i mammiferi timidi
ergono il muso ne l’inquietudine,
grondanti da le fauci.
Passano lievi per la selva l’aure.
Sospiran come cetere
li alberi a torno, e ne ’l divin silenzio
più gran dolcezza piovono.
Oh de le antiche iddie presente spirito!
Non quivi un giorno, in libero
d’erbe e di fior profondo letto, giacquero
donne possenti e amarono?
Biancheggia entro le chete acque una statua,
sommersa; le marmoree
forme de ’l petto resupino, simili
a chiusi fiori, emergono.
È Diana: così dorme da secoli.
Ma pur, quando a le tiepide
lunazïoni estive i boschi odorano,
si sveglia ella; ed il lucido
corpo piegando in arco alzasi. Tremano
l’acque raggiate; e, attoniti
in conspetto di tal forma, su’ margini
non han li alberi fremito.
Alzasi lenta; e cresce come nuvola,
come su da la tenebra
crescea per l’arti de la maga tessala,
porgendo la man nivea.
Da quel divino gesto attratti, vengono
i cervi a lei con docile
bramire, ed una siepe alta compongono.
Gioisce a lo spettacolo
di tanta preda il cuore de la vergine
cacciatrice.—Oh lietissime
stragi sonanti lungo i fiumi patrii!—
ripensa ella; e sommergesi.
INTERMEZZO MELICO
Titania
:
Music, ho! music; such as charmeth sleep.
A midsummer-night’s dream Ac. II. Sc. II.
Ne la man con gesto lieve
da i virgulti accoglie l’onda.
Romanza.
Romanza.
Disegno di Alessandro Morani.
ROMANZA
Quale un dio lieto che gode
in sua via sparger viole
e salire ode la lode
da la sua terrena prole,
su la selva alta, che tace,
dolcemente guarda il Sole.
Roco il vento, ne la pace,
mette sue rare parole.
Stanno li alberi aspettando,
con monili di rugiade.
Sopra l’erbe a quando a quando
una gemmea stilla cade.
Hanno li alberi stupore
de la forza che li invade;
ma non anche vive un fiore
su le braccia lunghe e rade.
Pianamente viene l’Ora.
Ella, come l’Ebe, è bionda;
e de’ baci de l’Aurora
ella ancora è rubiconda.
Ne la man con gesto lieve
da i virgulti accoglie l’onda.
Guarda e ride. Quindi beve,
con felicità profonda.
E la selva a poco a poco
cede al fascino de ’l Sole.
Ne la pace, il vento roco
mette sue dolci parole.
ROMANZA
Ondeggiano i letti di rose
ne li orti specchiati da ’l mare.
In coro le spose con lento cantare
ne ’l talamo d’oro sopiscono il sir.
Da l’alto scintillan profonde
le stelle su ’l capo immortale;
ne ’l vento si effonde quel cantico e sale
pe ’l gran firmamento che incurvasi a udir.
Ignudo, le nobili forme
consparso d’un olio d’aroma,
l’amato s’addorme: la sua dolce chioma
par tutta di neri giacinti fiorir.
Discende da’ cieli stellanti
un fiume soave d’oblio.
Le spose, pieganti su ’l bel semidio,
ne bevon con lungo piacere il respir.
ROMANZA
Sotto l’acqua diffuse
verdeggiano le piante;
e in rigido adamante
paion constrette e chiuse.
Le coppe ampie de ’l loto
splendono ivi, non tocche:
su ’l loro stelo immoto
paiono aperte bocche.
Ancora il vaso d’oro
che a l’acqua Ila protese,
la vasta urna cretese
da ’l bel fianco sonoro,
fa co ’l suo grave pondo
le foglie ancor piegare.
Ma non s’odono a ’l fondo
le najadi cantare.
Le najadi procaci,
che il giovinetto sire
ad Ercole rapire
osarono co’ baci,
giacciono a ’l fondo estinte
da gran tempo ne ’l gelo;
e le lor membra avvinte
che splendean senza velo,
quelle membra ove i lievi
fiori de ’l sangue allora
uscían brillando fuora
come rose tra nevi,
e li occhi ove saette
avea certe il disío,
e le bocche perfette
ove più d’un bel dio
trapassando per Colco
piacquesi a lungo bere,
e le chiome leggere
che segnavan d’un solco
aureo l’acque ne ’l nuoto
involgendo e portando
i calici de ’l loto
con un murmure blando,
or tutto è inerte e informe
ne l’ime sedi algenti.
In biechi atteggiamenti
di morte, il coro dorme.
Dorme per sempre il coro
de le ninfe sommerse;
ma brilla il vaso d’oro
ch’Ila ne ’l fonte immerse.
ROMANZA
Lungo il bel fiume, taciti
muovono i cigni a schiera.
Nobili e puri, splendono
quali forme di luce.
Un desío, ne la torbida
notte di primavera,
li aduna; e li conduce
a lidi più lontani.
Desío d’amori umani
forse li accende ancora.
A ’l lor remeggio s’aprono
l’acque in raggianti anelli,
e fan soave crepito
come innanzi a una prora;
cui rispondon con lento
murmure li arboscelli,
cui talvolta rispondono
ne ’l gran silenzio intento
con iterati suoni,
come d’un riso, li echi.
Ai lidi i cigni muovono,
dove in profondi spechi
donne misteriose
da gran tempo prigioni
vivono, inconsce d’ogni
diletto de l’amore.
Come Leda Tindaride
a ’l dio Giove soppose
il bellissimo fiore
di sue membra (e ne’ sogni
de’ poeti, miracolo
di gioia, Elena sorse),
così le occulte najadi,
ch’entro l’adamantino
gelo de l’acque il Sole
non mai baciò nè scorse,
offriranno il lor vergine
seno. Ed un’alma prole
nascerà da’ connubii,
poi che il cigno è divino.
ROMANZA
Prono, su ’l mar natale
cui nasconde la duna,
ride il sole autunnale,
dolce come la luna.
S’ode il mare pe ’l lido
gemere, lento e grave.
S’ode talora il grido
fievole d’una nave
che faticosa in vano
lotta co ’l vento avverso,
o il richiamo lontano
d’un uccello disperso,
o l’improvviso tuono
d’un’onda più gagliarda.
Ride il sole, già prono,
e dolcemente guarda.
ROMANZA
Il porto ampio s’addorme,
stanco d’uman lavoro:
chiude un molle tesoro
entro il suo seno enorme.
Par che ne l’aria salga
un suo possente fiato:
è caldo e profumato
come di frutti e d’alga.
Arde qualche fanale,
raro tra la nebbietta:
il chiaror torbo getta
lunghe e péndule scale.
Ad ora ad or si leva
un flutto, e su le prore
fa trepido romore
qual d’un gregge che beva.
Come crescono i vènti
de la terra, più gravi
li odori e più soavi
e più sottili e ardenti
salgon da’ vasti legni
carchi di spezie rare.
E ne l’alba lunare
a noi s’aprono i regni
meravigliosi, i liti
cari a ’l Sole, ove amando
vivono e poetando
uomini forti e miti.
Da ’l soffio a l’aria effusi
per lunghe onde i profumi,
come celesti fiumi
in un solo confusi,
ondeggian su la bruna
congerie de le antenne.
Ed ecco, ne ’l solenne
silenzio de la luna,
alzasi un lento coro
da quella selva informe.
Il porto ampio s’addorme,
stanco d’uman lavoro.
ROMANZA
Ne la coppa elegante
ove il sole ha fulgori
tremuli e gai colori
come in un diamante,
non anche dà un sospiro
il giglio morituro.
Piega, mistico e puro,
in suo dolce martíro.
Cade, su l’acqua accolta
ne la carcere breve,
mite come la neve
qualche foglia disciolta;
e li stami che ardenti
quali raggi da un serto
rompeano da l’aperto
seno a tentare i vènti,
i vivi agili stami
cui d’un volo sonoro
cingean gl’insetti d’oro
laboriosi a sciami,
entro il calice infranto
paiono irrigiditi
verso Dio, come i diti
lunghi e scarni d’un Santo.
Un odore assai fioco,
odor quasi d’incenso
che per un tempio immenso
vanisca a poco a poco,
da ’l giglio umile sale
divotamente a ’l cielo.
Trema il languido stelo.
O Vas spirituale!
ROMANZA
Ne le sue nubi avvolta
la Luna si riposa,
come in profondo letto.
Ridendo, a volta a volta,
sorge come una sposa
ignuda a mezzo il petto.
Ancor su l’acqua splende
trepidamente in arco
il solco de ’l naviglio;
e lungi si protende
la fresca ombra de ’l parco
entro il chiaror vermiglio.
Ne l’aria de la notte
il fior d’arancio effonde
odor più dolce e pieno,
misto a ’l fior d’oleandro.
Su la scala, ove rotte
hanno gemiti l’onde,
Rosalinda vien meno
tra le braccia a Silvandro.
RONDÒ PASTORALE
A ’l gran Maggio i vènti aulenti
per le selve hanno lamenti
vaghi e assai lontani cori;
e, recando ampi tesori
d’acque, suonan le correnti.
Oh bei colli, sorridenti
ne’ rosati albeggiamenti,
d’onde salgon mille odori
a’ l gran Maggio!
Siede in mezzo i bianchi armenti
Gallo e trae novi concenti
da’ l suo flauto a sette fori;
e i richiami ode Licori
da le siepi rifiorenti
a’ l gran Maggio.
Su la scala, ove rotte
hanno gemiti l’onde,
Rosalinda vien meno
tra le braccia a Silvandro.
Romanza.
Romanza.
Disegno di Vincenzo Cabianca.
RONDÒ
Come sorga la luna
da le cime selvose
e grave su le cose
sia l’oblio de la luna,
amica, tu verrai
furtiva ne ’l verziere.
Hanno i consci rosai
ombre profonde e nere.
O amica, senz’alcuna
tema verrai: le rose
avran latébre ascose
per lor sorella bruna,
come sorga la luna.
ROMANZA
Ella tremando venne
alfine, ove a me piacque.
Che mai dicevan l’acque
ne ’l silenzio solenne?
Palpitavan le stelle
ne la conca profonda;
come fiori, più belle
splendeano in tra la fronda.
Parevano i roseti
ne l’ombra alte compagi
di neve: in loro ambagi
avean cari segreti.
Ella con le due braccia
il mio collo ricinse,
e mi porse la faccia,
e tutta a me s’avvinse.
Con sì lungo piacere
io la baciai d’amore
che parvemi ne ’l cuore
tutte le rose avere.
Ben or, se l’aulorose
labbra onde il miel trabocca
bacio, sapor di rose
mi si diffonde in bocca.
RONDÒ
Entro i boschi alti e soli
(era la luna piena)
fluiva in larga vena
canto di rosignoli.
Da ’l triste inno corale
pendeva ella, in ascolto.
Chino su ’l davanzale,
io pendea da ’l suo volto.
Non i miei lunghi duoli,
non de ’l suo cor la pena
a la notte serena
diceano i rosignoli
entro i boschi alti e soli?
RONDÒ
Lungi i boschi alti e sonori
dove l’Austro avea gran lite
e da mille verdi vite
salían canti a’ nostri amori!
Eran tristi i bei cantori
a le nostre dipartite.
Ma pur oggi, o amica, dite:
non udite i nuovi cori?
Ne’ religïosi albori
sorge Roma, augusta e mite;
e le sue cupole ardite
prende il sole e i vasti fòri,
augurando a’ nostri amori.
ROMANZA
Dolcemente muor Febbraio
in un biondo suo colore.
Tutta a ’l sol, come un rosaio,
la gran piazza aulisce in fiore.
Dai novelli fochi accesa,
tutta a ’l sol, la Trinità
su la tripla scala ride
ne la pia serenità.
L’obelisco pur fiorito
pare, quale un roseo stelo;
in sue vene di granito
ei gioisce, a mezzo il cielo.
Ode a piè de l’alta scala
la fontana mormorar,
vede a ’l sol l’acque croscianti
ne la barca scintillar.
In sua gloria la Madonna
sorridendo benedice
di su l’agile colonna
lo spettacolo felice.
Cresce il sole per la piazza
dilagando in copia d’or.
È passata la mia bella
e con ella va il mio cuor.
RONDÒ
Quante volte, in su’ mattini
chiari e tiepidi, io l’aspetto!
Ella ancora ne ’l suo letto
ride ai sogni matutini.
Su la piazza Barberini
s’apre il ciel, zaffiro schietto.
Il Tritone de ’l Bernini
leva il candido suo getto.
I nudi olmi a’ Cappuccini
metton già qualche rametto:
senton giugnere il diletto
de’ meriggi marzolini.
Come il cuor balzami in petto
se colei vedo, che aspetto,
in su’ tiepidi mattini!
ROMANZA
Vi sovviene? Fu il convegno
sotto l’Arco dei Pantani.
Voi, saltando giù da ’l legno,
mi porgeste ambo le mani.
Ridean l’agili colonne,
tutte argento buono, a ’l sol;
ed i passeri loquaci
le cingean d’allegro vol.
Sotto l’Arco il cavalcante
attendea con i due bai.
Con sì pronto atto elegante
voi balzaste, ch’io pensai:
—Quante volte ne’ selvaggi
parchi il cervo ella inseguì?
Dolce cosa al fianco suo
galoppar tra gli allalì!
—
Voi chiedeste, con un riso
ne’ belli occhi:—Dunque andiamo!—
Era bianco il vostro viso,
bianco assai. Risposi:—Andiamo.—
Ma facean altre parole
gran tumulti in fondo a me.
Le contenni: il cuor ne ’l petto
con che furia mi battè!
Era il fòro taciturno
da una grave ombra occupato.
Sopra il tempio di Saturno
indugiava il dì, pacato.
Un non so che senso augusto
si spargea, di deità,
su da quella morta pietra
ne la gran vacuità.
Un istante voi fermaste
il cavallo in su ’l confine.
Ne l’eguale ombra più vaste
digradavan le ruine.
Ma s’apría più vasto ancora
e profondo il mio desir.
Io sentìa l’impeto forte
a la mia bocca salir.
Voi diceste:—Or dunque il vostro
bel San Giorgio? È ancor lontano?—
In silenzio alto di chiostro
era il fòro. Con che strano
sentimento di tristezza
ne ’l silenzio risonò
quella voce, e ne ’l mio cuore
la speranza ravvivò!
A San Giorgio io vi guidai,
a la chiesa erma e gentile
che fiorito a’ novi rai
leva il roseo campanile.
Da la prossima Cloaca,
che de ’l maggio a la virtù
pur fioría, di femminette
gran cantar veniva su.
I mattoni bisantini
rilucean vermigli a ’l sole,
come fosser pietre fini,
carboncelli o cornïole.
Oh San Giorgio benedetto!
Ivi alfin l’amor s’aprì.
Dolci cose io vi parlai.
Piano, voi diceste sì.
ROMANZA
Dolce ne la memoria
quella vista si leva.
Su l’Aventino ardeva
lento il giorno: una gloria
come di bianche rose
versava il ciel su ’l colle
e copría de la molle
neve tutte le cose.
A ’l pian nebbie leggere
si spandeano da ’l fiume:
parean, ne ’l dubbio lume,
volubili riviere
traenti in loro ambagi
favolosi navigli.
Dietro, grandi e vermigli
tra i cipressi i palagi
su ’l colle imperiale
parean arsi da chiusi
fochi. In un sol confusi
romor profondo eguale,
suoni d’opere umane
salían da la vicina
ripa; a Santa Sabina
squillavan le campane.
Una pace serena,
la pia pace che amavi
ne’ tuoi cieli soavi,
o Claudio di Lorena,
si spandea ne l’occaso,
piovea su’ cuori oblío.
Vinto l’essere mio
da quel fascino e invaso,
tutto de la recente
voluttà pieno ancora
(come, o dolce signora,
la tua bocca era ardente!),
all’alto all’alto, anélo,
tendea, spenta ogni guerra.
E parea che la terra
illuminasse il cielo.
OUTA OCCIDENTALE
Guarda la Luna
tra li alberi fioriti;
e par che inviti
ad amar sotto i miti
incanti ch’ella aduna.
Veggo da i lidi
selvagge gru passare
con lunghi gridi
in vol triangolare
su ’l grande occhio lunare.
Veggo pe ’l lume
le donne entro i burchielli:
vanno su ’l fiume,
date all’acqua i capelli,
tra i gridi delli uccelli.
Tende ogni amante
all’amante le braccia
e a sè l’allaccia
entro la bianca traccia
de l’astro radiante.
Passan li uccelli.
Oh chiome feminili,
chiome gentili,
lunghe reti sottili
tratte dietro i burchielli!
Oh di roseti
profondi laberinti
ove i poeti
in giacigli segreti
stanno alle belle avvinti!
La nostra nave,
cui non pinse Ki-Tsora,
va con soave
andare; e su la prora
tu ti stendi, o signora.
I tuoi capelli
sciolti hanno il fresco odore
dei ramoscelli
che ondeggian lenti, in fiore,
con sommesso romore.
La tua man breve,
passando, i fiori coglie:
par tra le foglie,
tra i calici di neve
una farfalla, lieve.
Ma, come pieno
è il grembo, ti riposi:
palpita il seno,
bevono il gran sereno
li occhi meravigliosi;
e dolcemente
stan su i fiori adagiate
le mani.—Oh fate,
belle mani adorate,
il gesto che consente!
LAI
La Luna diffonde
pe’ cieli suo latte:
a lei, chiuse e intatte,
sospiran le selve,
profonde.
Un murmure, lento,
si spande ne ’l piano;
e giunge un lontano
di cervi bramire
su ’l vento.
Discende ne l’ode
la dea che m’è dolce;
e a me i suoni molce
de ’l verso. Ma l’altra
non ode.
Ma quella ch’io amo
non ode. I roseti
ancora han quieti
misteri e fan lungi
richiamo;
e ancor ne’ giacigli
rimangono l’orme
recenti e le forme
recenti tra i fiori
vermigli.
Ma quella ch’io bramo
non meco vi giace...
O cuor senza pace,
ed occhi miei lassi,
moriamo.
RONDÒ
Com’api armoniose
uscenti a ’l novo sole
per le felici aiuole
de’ gigli e de le rose,
queste che Amor compose
delicate parole,
com’api armoniose
uscenti a ’l novo sole,
su le chiome odorose
che Amor cingere suole
di sogni e di viole
spìrino dolci cose,
com’api armoniose.
DONNE
Per l’antico viale de l’Aurora. . . .
Nympha Ludovisia.
Nympha Ludovisia.
Disegno di Onorato Carlandi. Fototipia Danesi Roma
NYMPHA LUDOVISIA
Per l’antico viale de l’Aurora,
mentre i cipressi dormono al mattino,
o nova principessa di Piombino,
tu passi; e a te d’intorno il vento odora.
Vive d’intorno a te la grande flora
ludovisia crescendo a ’l sol latino,
bionda Napea di Rafael d’Urbino,
ne la beatitudine de l’ora.
E le fontane vivono; e l’intensa
voluttà de la vita, a ’l tuo passare,
urge fino i cipressi alti e quieti;
e te brama ed a te canta l’immensa
anima de la villa secolare,
o diletta ne’ sogni dei poeti.
VIVIANA
O Vivïana May de Penuele,
gelida virgo prerafaelita,
o voi che compariste un dì, vestita
di fino argento, a Dante Gabriele,
tenendo un giglio ne le ceree dita,
Vivïana, non più forse a la mente
il ricordo di me vi torna omai.
E pure allora, quando io vi parlai,
mi sorrideste a lungo e dolcemente.
Fiorían, Villa Farnese, i tuoi rosai
ne ’l mattino di maggio e su le antiche
mura il sole una veste aurea mettea:
tra le liete ghirlande si svolgea
la bellissima favola di Psiche;
navigava in trionfo Galatea.
O Vivïana May de Penuele,
or vi sovviene de ’l lontan mattino?
Voi sceglieste le rose ne ’l giardino
ove un tempo convenne Rafaele,
muta, con lento gesto, a capo chino.
Non vidi allor la Primavera iddia?
Disser la vostra lode a me li uccelli;
fiori parvero nascer da’ capelli,
come ne la divina Allegoria
cui pinse in terra Sandro Botticelli.
Poi su l’accolta de le vive rose
reclinando la testa agile e bionda,
avidamente, come sitibonda,
tutte beveste l’anime odorose
—oh voluttate mistica e profonda!
Poi, smarrita in un sogno, alta levaste
la faccia ove le azzurre ésili vene
languíano, e mi volgeste (or vi sovviene?)
le pupille ne ’l sogno umide e caste.
Non così pura in cielo è mai Selene.
Io sol dissi a la notte alma e felice,
solo dissi a le stelle il novo amore.
Secreto in me de’ vostri occhi il fulgore
io custodii, beata Beatrice.
Tale un raggio di luna il silfo ha in cuore.
Or cantarti m’è dolce, o Vivïana.
Splendimi ne la chiara ode, vestita
de la tunica verde e redimita
d’argentei fiori, in calma sovrumana
tenendo un giglio tra le ceree dita!
GORGON
L’Asïatico già tende le braccia
trepidamente verso l’imo ignoto:
attonito, fra i calici de ’l loto
ei vede arguta ridere una faccia.
Hyla! Hyla!
Hyla! Hyla!
Disegno di Cesare Formilli. Fototipia Danesi Roma
I.
Ella avea diffuso in volto
quel pallor cupo che adoro.
Le splendea l’alma ne li occhi
quale in chiare acque un tesoro.
Ne la bocca era il sorriso
fulgidissimo e crudele
che il divino Leonardo
perseguì ne le sue tele.
Quel sorriso tristamente
combattea con la dolcezza
de’ lunghi occhi e dava un fascino
sovrumano a la bellezza
de le teste feminili
che il gran Vinci amava. Un fiore
doloroso era la bocca,
e un misterioso odore
esalava ne ’l respiro.
I capelli aridi in onde
s’accoglieano su le tempie,
su la nuca, di profonde
voluttà larghi a l’amante
che scioglieali ne l’alcova,
forse; e avean talor riflessi
di viola, come a prova
de la fiamma il puro acciaio.
II.
Questa nobil donna un giorno
io conobbi. Era l’estate
ampia; e dolce il mare intorno
diffondevasi nel sole,
come un drappo suntuoso.
Templi, portici, obelischi
partoria l’imaginoso
vespro; e a fior de ’l mare pénsili
le sottili architetture
si moveano lentamente:
emergean lunghe figure
fra li intercolonni, a un tratto,
mostri umani o bestiali;
s’immergeano li edifizi
ne le fredde acque natali.
Ella, sola, su la loggia,
tutta involta da i prestigi
de ’l tramonto, in attitudine
d’indolenza, li occhi grigi
tenea quasi semichiusi.
Quando Alberto Delle Some,
conducendomi cortese
presso a lei, disse il mio nome,
ella volse il capo e li occhi
grandi aprì su la mia faccia.
Poi mi porse ambo le mani
sorridendo. Avea le braccia
sino al gomito scoperte,
bianche, pure, di squisite
forme; a’ bei polsi rotondi
eran finamente unite,
come a stel fiori, le mani.
Oh divine mani, oh bianche
mani ch’io non ho baciate!
Si posavan, come stanche,
su ’l marmoreo davanzale;
e le lunghe ésili dita
risplendevano di anelli.
Io sentia dolce la vita
mia fluire ed i capelli
divenir gelidi, quasi
per un’ideal carezza,
da sottil fremito invasi.
III.
Ella, semplice, parlava,
con la sua voce sonora,
lievemente roca a tratti.
Una preziosa flora
nascea lenta ora da ’l mare,
a’ nostri occhi. Li edifizi
giacean spenti in fondo a l’acque.
Pe’ i mirabili artifizi
de la luce ora sorgevano,
come calici di gigli,
alte trombe, e si spandevano;
e nutrite dai vermigli
fumi in cielo prendean tutte
forma d’alberi. Viole
d’improvviso da le arboree
forme piovvero, e ne ’l sole
tutto il mare allora parve
brulicante di meduse.
Ella tacque. Io la guardava.
In quell’attimo confuse
le nostre anime rimasero.
Io non seppi dirle:—V’amo.
Ella, forse paventando
l’ora, disse:—Rientriamo;
è già tardi. Io vi saluto.—
E, tendendo la sicura
man, sorrise un’altra volta.
Quindi uscì.
IV.
La sua figura
ondeggiava alta ne ’l passo,
con un ritmo affascinante.
Un pensier dolce mi venne:
—Io sarò forse l’amante;
io felice le mie notti
dormirò sopra il suo cuore!—
Ah, perchè voi mi fuggiste?
Ebro, come d’un liquore
troppo forte, ebro di voi,
de ’l ricordo di voi, sento
da quel giorno in tutti i baci,
sento in ogni blandimento
feminile, sento in ogni
voluttà più desiata,
o signora, voi, voi sola;
voi che tanto avrei amata!
ATHENAIS MEDICA
Nobili e puri, splendono
quali forme di luce.
Romanza.
Romanza.
Disegno di Vincenzo Cabianca.
I.
Poichè su la campagna salutare
era venuta la dolce stagione
e un gran disío di vivere e d’amare
in me tornava con la guarigione,
ella talvolta a le mattine chiare
tutta ridente apriva il mio balcone.
Il suo riso e la luce in un sol getto
m’inondavan di gioia: álacre in petto
balzava il cuore. Oh mie memorie buone!
Vedea composti in fila li alberelli
su ’l cielo azzurro come il fior de ’l lino,
dritti, con rare foglie, e lunghi e snelli,
quali eran cari a Pietro Perugino;
e a quando a quando udia di tra’ ramelli
gittar suoi trilli dotti un lucherino.
Mi veniva ne ’l cuor sì gran diletto
da quella vista, ch’io m’ergea su ’l letto
alquanto, a riguardar più da vicino.
Ben ella avea que’ miei palpiti istessi.
Talvolta io mi sentia li occhi velare.
Le lacrime facean sì ch’io vedessi
tutte le forme a l’aria tremolare
confusamente, simili a riflessi
vani di cose in fondo a un roseo mare.
Ella, ne le sue man présomi stretto
il capo, susurrava:—Oh mio diletto!
Amor mio dolce!—Io mi credea mancare.
II.
1.
Io ricordo, Atenái. Lungo il sentiere
de’ pioppi bianchi e de le tamerici,
maga possente contro i maleficj,
guida voi foste a ’l debil cavaliere.
Ilare, accanto a voi, senza temere,
io respirava l’aure innovatrici:
mi battean ratte ne le cicatrici
l’onde de ’l sangue tiepide e leggere.
Or co ’l vento giungean quasi a riviere
i profumi da l’ultime pendici;
e, sentendosi il vento a le narici,
i cavalli fremevan di piacere.
Su l’argine de i fossi aride e nere,
fuor de la terra uscendo, le radici
si distendean con lotte ed artificj
meravigliosi a l’ime acque per bere.
Ma salivan ne’ tronchi e ne le intiere
membra correvan l’acque avvivatrici;
contendeva il germoglio i beneficj
de la luce, bramando di godere;
e, in alto, a ’l Sole un coro di preghiere
mormoravano li alberi felici,
espandendo le chiome ai vènti amici,
crescendo a le future primavere.
2.
Io ricordo, Atenai. Voi, con un mite
sorriso di bontà su le fiorenti
labbra, i miei gesti e i vari atteggiamenti
de ’l mio cavallo seguivate.—Oh dite,
maga Atenai, voi che le mie ferite
curaste di sì dolci lenimenti;
voi che le mani tenere ed aulenti
posaste ne le mie piaghe inasprite;
voi che le insonni mie notti infinite,
piene di mille acuti patimenti,
confortaste d’amor co’ pazienti
balsami de la voce umile, dite,
adorata sorella, oh dite, dite
la gran soavità di quei momenti,
allor che li occhi in lacrime ridenti
vi baciai con le labbra impallidite!
3.
Noi, muti, a lungo cavalcammo ancora
quella terra benigna ove fioriva
la pace tra le umane opre. E s’udiva
de’ cavalli la lenta orma sonora.
Poi, ne la grave santità de l’ora,
sorse un cantico lungi da la riva
de ’l Mar, subitamente. E il sol moriva.
Ma quel tramonto a noi parve un’aurora.
Io ricordo. Infinito, da le chiare
comunïoni de le cose, a ’l giorno
emanava non so qual senso umano
di dolcezza e di oblìo. Proni d’intorno
stavano i poggi e risplendea lontano,
non anche sazio de la luce, il Mare.
DONNA FRANCESCA
Dorme, poggiata il capo a ’l davanzale
de ’l balcon fiorentino,
la Titania di Shakspeare; . . . .
Donna Francesca, IV.
Donna Francesca, IV.
Disegno di Giuseppe Cellini.
I.
Se dentro i favolosi orti vermigli
adunava la Luna i suoi misteri
(per lei presi d’amore, alti e leggeri
tremolavano in doppio ordine i Gigli),
il capo ergeano su da li origlieri
le Belle, a tesser rai: lungo i giacigli
di rose, propagavansi i bisbigli
richiamanti a l’agguato i Cavalieri.
In quelle notti, o Bella, de ’l lunare
argento una fatal rete voi forse
tesseste con le vostre dolci dita?
Sentendomi da voi tutto legare,
questo ne ’l mio pensier dùbito sorse;
e ancor ne trema l’anima smarrita.
II.
Odor di rose, forse da i giardini
chiusi del Re, venìa confusamente;
e splendea ne la fredda ora, imminente,
la Luna su ’l palazzo Barberini.
Mormoravan con voci roche e lente
le fontane invisibili tra i pini:
or sì or no li stocchi adamantini
oltre i rami balzavan di repente.
Noi, chinati da l’alta loggia, soli,
(ella rabbrividìa) de le fontane
ascoltavamo i languidi racconti.
Non così dolce cantan li usignuoli!
Vago ne l’alba suono di campane
giungeva da la Trinità de’ Monti.
III.
Più chiara su ’l palazzo Lorenzana
la Luna risplendea, Donna Francesca,
quella vostra beltà raffaellesca
guardando con dolcezza quasi umana.
La fontana di Giacomo, a la fresca
serenità, con voce roca e piana
mettea parole, come una fontana
magica de l’età cavalleresca.
Scintillavano l’acque; le figure
prendean vive attitudini, a l’albore
danzando in tondo con rapide fughe.
Per tale ausilio, al fin le vostre pure
labbra io baciai; così vinsevi amore...
Oh fontanella de le Tartarughe!
IV.
Dorme, poggiata il capo a ’l davanzale
de ’l balcon fiorentino,
la Titania di Shakspeare; e un divino
sogno da ’l cuor lunatico le sale.
Una rete d’argento siderale
i suoi capelli accoglie,
e luminose fasciano le spoglie,
dei colùbri la sua forma ideale.
Per lei tramano i ragni, su l’opale
de l’aria, le sottili
opere in tra li stipiti; ed i fili
aurei tremano a l’alito immortale.
Così, Donna Francesca, entro il natale
albore di Selene,
ora dormite; e, in torno a le serene
bellezze, io vo tramando il madrigale,
mentre spiran le rose l’aromale
anima ne’ roseti
e li usignuoli i fiumi ed i poeti
cantan la notte augusta e nuziale.
V.
Una notte, com’io l’alta portiera
sollevai piano co’ la man tremante,
presso il gran letto la mia dolce amante
scorsi a ginocchi in atto di preghiera.
Ricorrean ne la stanza ampia e severa,
intessute con rara arte, le sante
Allegoríe che l’anima pregante
traevan forse a più gioconda sfera.
Muto io ristetti, come a ’l limitare
d’un tempio; ma il disío tutto s’immerse,
stridendo, in quel misterioso aroma.
Ben, quando (oh notte!) la divina chioma
io le disciolsi e vinta ella m’aperse
le braccia, il letto parvemi un altare.
VI.
Entra l’albore gelido, pe’ i vetri,
ne l’ombra di quel letto ov’ella dorme
stanca di voluttà con semichiuse
le dolci labbra in cui trema il sorriso.
Or la Luna, ferendo ne l’aperto
cofano i bei gioielli, gloriate
opere di sottili orafi, illustra
diamanti, camei, perle e smeraldi.
Splendono le collane, come spire
d’un favoloso rettile sopito;
e paiono viventi occhi i rubini.
Langue, da presso, entro la coppa un giglio
in sua verginità, nobile e puro
quale un vaso liturgico d’argento.
VII.
O amica dolce, non sapeste mai
la verace dottrina che ne ’l mondo
il figliuol di Gesù, bello e giocondo
adolescente, a l’ombra de ’l Sinái,
predicava, nel nome d’Adonai,
a le spose ed alli uomini ascoltanti
ed ai compagni efébi, in tra’ rosai,
mentre scendean dal monte i greggi erranti.
Ei, come Ciro figlio di Cambise,
destro era e forte, generoso e parco,
non superato in trarre lancia od arco;
e molte fiere la sua mano uccise,
la sua man degna d’un regale sire,
ben usa a profumar la chioma bionda
di rare essenze che facean languire
le femmine in soavità profonda.
Divino era il suo nome: Eleabani.
Ed era come un olio di viola,
sereno, che ne ’l suon de la parola
si spandesse a lenire i petti umani.
In fondo a l’occhio suo puro e crudele
eran segrete fascinazïoni.
Come il santo profeta Danïele,
avrebbe ei vinti a ’l suo giogo i leoni;
e con la voce, cantico di lire,
mansuefatti avrebbe aspidi in guerra.
Or prima, a soggiogar l’anime in terra,
trasse i cuor de le donne a ’l suo desire.
Tutte, da’ bei palagi ove risplende
l’oro, e da’ templi ove la pace dorme,
e da l’umili case, e da le tende
nomadi, e da’ tuguri, a torme a torme,
venivano a ’l figliuol de ’l Nazareno,
al bene amato eroe de la fortuna.
Lui proseguìano a ’l sole ed a la luna;
lui chiedeano, in morir de ’l suo veleno;
lui, ne l’alba, torcendosi le braccia,
invocavan su ’l tepido origliere,
o sognavano, pallide la faccia
tra l’ampia chioma, sfatte da ’l piacere.
Per l’orrore de’ portici silenti
a la fonte, assetata, una Maria,
come il cervo simbolico, venìa
e ne l’acqua immergea le mani ardenti.
Quindi, protesa le stillanti mani,
e il ventre, bianco qual coppa d’avòro,
nudata, mormorava:—Eleabani!
Eleabani da la chioma d’oro,
o tu per le cui nembra i rai de ’l sole
una veste han tessuta, Eleabani,
o tu cui ne la bocca come grani
di puro incenso odoran le parole,
o tu che de ’l tuo corpo hai fatto vase
a’ balsami celesti ed a’ profani,
o tu che scendi ne le nostre case
qual ne’ campi rugiada, Eleabani,
m’odi: li astri de ’l ciel com’aurei pomi
tremano in tra le foglie a’ melograni;
io son ebra e languisco, Eleabani,
come la damma a ’l colle de li aromi.
Come al vento tra le árbori la damma,
io trasalgo e sobbalzo ai romor vani.
Ad ora ad ora, in ciel vedo una fiamma.
Non tu sei che lampeggi, Eleabani?
Ed egli, avendo ereditato il Verbo,
amò, come Gesù, peregrinare.
Le parabole sue, rapide e chiare,
pungean le menti con lor senso acerbo.
Predilesse i conviti, poi che aperto
ne la fraternità convivïale
è l’animo de li uomini ed un serto
di chiarissima luce il vin spirtale
cinge a le fronti; e predilesse i petti
feminei, de’ lunati omeri il giro,
a segnar come in nitido papiro
evangelicamente i suoi versetti.
Quale un fiume, cui gonfia d’acque il maggio,
da le sedi natali alto discende
e più cresce in sua gioia e con selvaggio
fremito ride e a ’l sol pieno s’accende:
odono i boschi giugner la ruina,
vasti su le pacifiche pendici;
in van lottano; e, presi a le radici,
piomban ne ’l gorgo: tal la sua dottrina
volgea, passando, le credenze e i culti
e risplendea di libertà ne ’l sole.
Come il fiume in sua via reca virgulti,
pur recava d’amor nuove parole.
Egli ammoniva: «O giusto, è breve l’ora.
«Ne la tua servitù sii paziente.
«La pazienza è l’immortal nepente
«che afforza i nervi e l’anima ristora.
«Come in un tempio, ne ’l tuo cor ricevi
«l’alto Ideale che de l’uomo è figlio.
«E sappi in quel che mangi e in quel che bevi
«trovar l’ambrosia e il nettare vermiglio.»
Ed ammoniva: «O donna, o Vaso insigne
«de la dolcezza ed Arca de l’oblìo,
«versa a li uomini il vin che già il Desío
«cantando ricogliea ne le tue vigne.
«Fa che soave il tuo spirito ceda
«a l’alitare d’ogni passïone,
«come la tibia d’oro ove un’auleda
«prova a diletto sua lene canzone.
«Ama il tuo sposo ed ama il tuo figliuolo
«ma fa che il beneficio tuo si spanda
«pur su colui che in carità dimanda
«una stilla d’amore, umile e solo.
«E tutto diverrà per t’onorare
«Mirra, Olibano, Incenso e Belzuino;
«e saliranno come ad un altare
«i cuori a te, con giubilo divino.
«La carne è santa. È l’immortale rosa
«che palpita di suo sangue vermiglia.
«È la madre de l’uomo ed è la figlia.
«Ed è quella che sta sopra ogni cosa.
«Ella racchiude, come un’urna aromi,
«tutte le voluttà, tutti i dolori.
«Ha l’ardente opulenza ella de’ pomi,
«ha la soavità casta de’ fiori.
«Quale a notte in un tempio una fontana
«mormora ascosa e dà voci di lire,
«fa il sangue in lei pe ’l ritmico fluire
«una musica assai dolce e lontana.
«La carne è santa. Guai a chi non piega
«l’anima innanzi a lei; però che tristo
«egli l’essere suo nega, e rinnega
«il suo divin maestro Gesù Cristo:
«Gesù che, fatto carne, in su la croce
«morì ne la montagna solitaria,
«Gesù che, fatto carne, ebbe in Samaria
«verso la donna così mite voce,
«Gesù che, fatto carne, arse d’amore
«vedendo un giorno in su la via fiorita
«la Magdalena, e lei pregò d’amore
«e me condusse a questa dolce vita!»
Tali cose ammonia, tra la comune
giocondità de ’l vino, in su la chiara
mensa. E le perle de la sua tiara
splendeano vagamente come lune.
Il cenacolo avea forma di lira.
Quattro colombe d’or con ali tese,
in alto, tra le frange di Palmira,
a invisibili fili eran sospese.
Due dromedari, avendo in su la schiena,
otri forati ed una campanella
di fino argento sotto la mascella,
spargean su’ marmi essenza di verbena.
In torno, i domitori-di-cavalli
efebi, sollevando in tra le mani
vasi che rendean suon come timballi,
beveano salutando Eleabani.
Bevean, coperti di carbonchi, in torno
satrapi enormi da la barba d’oro
il chalibon, rarissimo tesoro,
in un corno sottil di liocorno.
I dottori, i grammatici, i salmisti,
ed i leviti, i giudici, li scribi,
e i mercatanti, e i musici, commisti,
disperdean su la mensa i rari cibi.
Le vestimenta lor, tinte di fuchi
preziosi, brillavan di lontano.
Alcuni, taciturni, aveano strano
aspetto di carnefici o d’eunuchi.
Ma le femmine cinte di ghirlande,
con denti bianchi come il gelsomino,
rideano tra ’l vapor de le vivande,
suggean da coppe di smeraldo il vino.
Il lor nitido riso giungea grato
ai cuori, come un verso numeroso.
Stendean le braccia, con un grazioso
gesto, a mostrare il cùbito rosato;
e prendean su la mensa i cedri, i fichi,
e le mandorle, i datteri, le olive.
Ne ’l bacio offrian, con belli atti impudichi,
la molle polpa su le lor gencive.
—Or mangiate e bevete, e di piacere
inebriate il vostro cuor mortale;
chè da l’ebrezza a Dio l’inno risale,
grato, come l’odor da l’incensiere
—
diceva Eleabani. Ed era immune
il cuor suo da l’ebrezza ed era chiara
la sua voce; e splendeano come lune
ferme le perle de la sua tiara.
VIII.
—Francesca, o amica, o trepida colomba,
perchè piegate voi su ’l sen la testa,
pallida udendo il tuon de la tempesta,
che improvviso ne l’anima rimbomba?
Perchè torcete ne ’l dolor le mani,
le care mani, i fior gracili e snelli,
che pur ieri sapevan, con sì piani
blandimenti, solcare i miei capelli?
Francesca, o amica mia, perchè piangete?
Le vostre membra treman così forte,
e così roca su le labbra smorte
vi muor la voce, ch’io non ho quiete.—
Ed ella:—Io guardo nel cuor mio; che, ardente
come una lampa, è tutto avviluppato
da una spoglia di serpe, transparente,
su cui l’orrido Inferno è figurato.
IX.
Come a notte in un tempio una fontana
mormora ascosa e dà voci di lire,
fa il sangue in noi pe ’l ritmico fluire
una musica assai dolce e lontana.
Veramente io non so quali parole
il buon sangue ne ’l capo mi favelli
volgendo sue misteriose ambagi;
ma ben io so che mai gighe o viuole
ornaron di più vaghi ritornelli
serenate d’amor sotto i palagi.
Canta, o buon sangue! Ed i pensier malvagi,
tutti, qual vin, da l’anima discaccia.
Nel mezzo del mio cor ride una faccia,
guardando la vendemmia allegra e sana.
X.
Se pure il verso mio, Francesca, è reo
d’aver la vostra natural piacenza
ritratta intiera, in un lavacro, senza
la casta zona e senza il conopeo,
fu tempo già che Fra Bartolomeo,
pingendo i Protettori di Fiorenza,
la Nostra Donna in sua gentil movenza
ritrasse ignuda in mezzo a ’l gran corteo.
Or dunque se il buon frate di San Marco,
il quale è assunto ne l’eterne stelle,
ebbe per l’opra sua cotale ardire,
non io potrò ne ’l verso mio scoprire
de ’l vostro sen le due beltà gemelle
e de le late spalle il candid’arco?
XI.
Quando su per le scale ampie d’argento
la Reina salìa verso l’altare,
levata li umidi occhi a ’l Sacramento,
pallida e fredda, se volea pregare,
dava il bianco metallo un vibramento
sonoro in ritmo a li urti de ’l calzare:
tutte le scale come uno stromento
si mettevano in gloria a risonare.
O Francesca, così la vostra bionda
bellezza da ’l disìo chiamata ascende
or de’ miei versi il mistico edifizio.
Fremono a i vostri piedi, con un’onda
di suoni, i versi; e a ’l culmine vi attende
tra i profumi de l’urne il sacrifizio.
XII.
Aveva un tempo il cardinal Grimani
ne ’l breviale suo, fino tesoro,
un’image ove molti angeli in coro,
ceruli e biondi, da’ bei volti umani,
su li omeri o su le agili ale d’oro
o su l’èsili palme de le mani
offrìan cinte de’ nimbi cristiani
l’anime de li Eletti al Signor loro.
Ignude erano l’anime: più bella
tra l’altre una figura feminina,
ne la sua dolce nudità, salìa.
Amo io così raffigurarti, o pia
Sposa, lungo l’azzurra erta divina,
su l’ali d’una candida angelella.
O del Signore ancella,
soffuso di pudore il vivo giglio
de le tue membra apparirà vermiglio
e per tutte le anella
fiammeggerà la celebrata chioma
simile ad una gran face d’aroma.
DONNA CLARA
. . . . il biondo
capo sorride da l’origliere.
Donna Clara, I.
Donna Clara, I.
Disegno di Alfredo Ricci. Fototipia Danesi Roma
I.
Sta Donna Clara (ne ’l mio pensiere)
su ’l damascato letto ampio e profondo:
splende la nudità ne l’ombra, e il biondo
capo sorride da l’origliere.
Erto su l’ésili zampe il levriere
blandisce il pié divino a l’Atalanta;
e freme, a la blandizia, tutta quanta
l’ignuda forma strano piacere.
Salgono miti su da ’l verziere
a ’l balcone i leandri in rosei fiocchi;
un gran paone sta co’ suoi cent’occhi
vigile in alto da le ringhiere.
E mentre il cane, quasi per bere,
vibra in ritmo la lingua umida a ’l fiore
de ’l niveo pié, gli corron su ’l nitore
de ’l dorso lunghe onde leggere,
e i fianchi scarni pulsano, e in fiere
di serpe anella torcesi la coda,
e tremano le zampe in su la proda
de l’ampio letto, lucide e nere.
II.
Con il fior de la bocca umida a bere
ella attinge il cristallo. Io lentamente
le verso a stille il vin dolce ed ardente
entro quel rosso fiore de ’l piacere;
e chinato su lei, muto coppiere,
guardo le forme dilettosamente:
la sua testa d’Ermète adolescente
e la sagliente spira de ’l bicchiere.
Or, poi che le pupille a l’amorosa
concordia de le due forme stupende
io solo, io solo, io solo ho dilettate,
godo infranger la coppa preziosa;
e improvviso un desìo vano mi prende
d’infrangere le membra bene amate.
III.
Splendidi in tra’ vapori aurei de ’l vino
per lei, come pe’ i belli iddii pagani
ne la serenità de ’l ciel latino,
sorgono li atrj d’Alessandro Albani.
In mezzo, un vivo stel dïamantino
balza ne ’l sole: tra i fuggenti vani
de le colonne adorano il divino
Sole i cedri, li aranci e i melograni.
Ella posa ne l’ombra, in signorile
atto: si stende a ’l niveo piè d’avanti
la pelle d’una gran tigre di Giava.
Dormono a presso i veltri da ’l sottile
muso di luccio, candidi, eleganti,
snelli, che Paol Veronese amava.
IV.
Vive anco, immersa ne ’l natale aroma,
lungo il mare una gran selva d’aranci,
ove lento il paone apre ne l’ombra
la pompa de le sue fulgide piume?
Un tempo, allor che in chiari ozi taceva
il golfo ed era il sole alto ne’ cieli,
(sempre dolce il ricordo a me) giacere
noi amavamo ne la selva d’oro.
Udivam, ne ’l silenzio, a quando a quando
cader su l’acqua i frutti, ed i paoni
schiamazzare tra i rami a noi su ’l capo;
fin che vinceane il Sonno. E de ’l profumo
agreste come de ’l calor d’un vino
si nutrivano i sogni dilettosi.
V.
Un dì, come il silenzio alto ne’ campi
regnava, a mezzo il giorno, e tra le messi
cantavano i servili uomini un inno
a l’abondanza de ’l rinato pane,
ella solea discender le marmoree
scale de ’l suo palagio; ed i levrieri
d’Africa in torno a lei con prodigiosi
balzi urgevan chiedendo d’inseguire.
Sorrideami, guardando, ella. Secura,
sopra l’ultimo grado, indi blandiva
i bei levrieri dalla rosea gola
candidi cacciatori, insofferenti
d’ozio, che in torno a lei con prodigiosi
balzi urgevan chiedendo d’inseguire.
VI.
Ne ’l cortile marmorëo, tra l’alte
colonne a cui s’abbracciano le piante
con amorosi vincoli di fiori,
tace la Bella Fonte, inanimata?
Nè più Bacco fanciullo, in su li opimi
grappoli assiso, ride da la tonda
faccia e vendemmia, candido tra l’acque
riscintillanti a ’l sole ed a la luna?
Scendevano i suoi bianchi cani a l’alba
latrando; ed ella li seguìa ne ’l corso
tenendo entro il gentil pugno i guinzali.
E conduceali a dissetarsi. Oh dolce
cosa vedere lei presso la fonte,
simile a Delia, tra i beventi cani!
INVITO ALLA CACCIA
Pascean su ’l limitare i palafreni
meravigliosi, li émuli de ’l vento. . . .
Oriana.
Oriana.
Disegno di Enrico Coleman.
Poi che un vel di fino argento
copre i cieli a l’albor primo,
(ne ’l mattin trepido, cento
volpi corrono fra il timo)
o voi, Clara, che dormite
ne ’l gran letto di damasco;
(odor d’erbe inumidite
sale su da ’l verde pasco)
Clara, alfin da li origlieri
sollevando il capo d’oro,
(ne ’l canil basso i levrieri
gran tumulti hanno fra loro)
ascoltate il suon de’ corni
che voi chiamano a la caccia;
(per li ombrosi alti soggiorni
lascia il cervo la sua traccia)
e, ne l’abito maschile
chiuso il dolce fior de ’l petto,
(vibran lieti pe ’l cortile
i nitriti de ’l ginnetto)
o voi, Donna Clara, alfine
discendete... Urrà, mia bella!
(Rossa in cima a le colline
sta l’aurora). In sella! In sella!
EPILOGO
Sale dubbio vapor su da li stagni,
che in alto a l’aria forme truci assume. . .
L’Alunna.
L'Alunna.
Disegno di Mario de Maria. Fototipia Danesi Roma
A F. P. MICHETTI
O Francesco, le ninfe de ’l Guercino
seminude accorrenti ne la caccia
ove Diana da le nivee braccia
tende a la strage il grande arco divino;
e la fatale donna de ’l Vecelli,
pallida, a cui ne le perfette mani
risplendono le gemme de li anelli
arcanamente, come talismani;
e il bel vïolinista Rafaele
a cui si piega sovra il collo puro,
quale un nobile giglio morituro,
esangue il capo d’angelo infedele,
o Francesco, per che virtù profonda
hanno l’anima tua rinnovellata?
Sorge l’anima tua, da la gioconda
communïone, fulgida ed alata
a l’Ideale che non ha tramonti,
a la Bellezza che non sa dolori?
Quando grida una voce:—In alto i cuori!—
raggiano de’ poeti erte le fronti.
Oh pomeriggi chiari e dilettosi
in cui fiorì la tua nova fatica
e dentro i versi miei laboriosi
tremò il disìo de la bellezza antica!
Mentre ne l’ampia sala gentilizia
su i quadrati di marmo il sol fluiva
simile ad una lene acqua sorgiva
dilagando con placida letizia,
tu ne la tela, senza alcuna lotta,
l’oro fulvo rapivi a Tizïano,
io derivava in gloria d’Isaotta
i larghi modi de ’l Polizïano.
Una serenità lucida, eguale,
noi tenea. Da la tela a quando a quando,
me d’un fraterno riso illuminando,
tu levavi la faccia giovïale;
o, lento, senza volgere lo sguardo
da l’opra, amavi un tuo pensier felice
ornare, tu che come Leonardo
hai la dolce facondia allettatrice.
Io, ben uso a ’l gentil freno de l’arte,
come un orafo mastro di Fiorenza,
eleggea con acuta pazienza
le gemmate parole in su le carte;
ma, se de ’l mio pacato sofferire
il termine supremo era vicino,
a ’l cuor sentìa l’ebrïetà salire
quasi io bevessi un calice di vino.
Fluiva su ’l marmoreo pavimento
un lume biondo come l’idromele;
e il bel vïolinista Rafaele
parea toccar le corde a ’l suo stromento.
O Francesco, m’è grato il rammentare!
Or n’andremo a la patria, ove più molle
per la falcata riva ondeggia il mare
e più mite è l’olivo in cima a ’l colle.
Ne la tua vasta casa, ad ogni stanza
penderanno li arazzi medicéi
e, come ne’ bianchi atrj di Pompei,
discenderà la luce in abondanza.
Tu, signor del pennello, io de la rima,
fingeremo beltà meravigliose.
E riderà de’ miei pensieri in cima
quella che il suo d’amor giogo m’impose.
Su ’l vespro converranno a una tenzone,
ne l’orto pien di fonti e di roseti,
donne, scultori, musici, poeti,
principi, come in un decamerone.
E ne ’l convito calici e bicchieri
farà vermigli il dio vin de ’l paese:
andranno in torno i cani ed i coppieri
che amò ne le sue Cene il Veronese;
e i servi porgeranno in vasellami
d’argento frutti il cui vital sapore
da la bocca parrà giungere a ’l cuore
dando piacere per ignoti rami.
Poi sarà dolce insieme ragionare,
lungo i roseti, ne la notte bella;
o dormire su l’erbe; o pur vegliare
cantando in coro qualche ballatella.
EPODO
Amo io così raffigurarti, o pia
Sposa, lungo l’azzurra erta divina. . . .
Donna Francesca, XII.
Donna Francesca, XII.
Disegno di Giuseppe Cellini.
A GIUSEPPE CELLINI
I.
Cellini, erami assai duro ed ingrato
il tempo, quando in cieca ira venìa
a ’l grand’assedio de la vita mia
Amore con suo dardo avvelenato.
Ben ora a più gioconda signoría
una donna il mio senso ha costumato,
risuscitando ne ’l mio cor placato
uno spirto amoroso che dormía.
Con che mitezza accenna la sua faccia,
tra ’l diffuso fiorir de’ ricci biondi,
in un colore angelico di perla!
Ride l’anima mia, solo a vederla;
tal serena bontà fuor de’ profondi
occhi le sgorga, che tutto m’abbraccia.
II.
Amico, le mie tristi passïoni
or s’inchinano a lei, non più ribelli;
e volan alto, come lieti augelli,
per gran cieli d’amor le mie canzoni.
Vennero a lei le Grazie, in lor guarnelli
semplici a lei portando i rari doni,
come un tempo a Giovanna Tornabuoni
ne ’l bel
fresco
de ’l nostro Botticelli.
Vennero a lei le Grazie; ed ella, come
Giovanna, porse in atto di piacenza
il grembialetto a le visitatrici.
Ed esse la chiamarono per nome.
E ancora, parmi, de la lor presenza
risplendono le mie stanze felici.
III.
Quando ne la mia casa, ospite caro,
io t’avrò, se non sien duri li eventi,
in questi di settembre allettamenti
che indugiano pe ’l cielo umido e chiaro,
tesser vorrem di be’ ragionamenti,
lungo le vigne camminando a paro,
o, ne l’ombra, Tibullo e Fiacco e Maro
ornar di sottilissimi comenti.
Ampia in torno sarà pace rurale.
Ma i nostri orecchi udranno ad ogni poco
da la pergola escir suoni di lira.
E il sol cadrà su’ monti; e il mar natale
da lungi arriderà tra ’l roseo foco,
sospirando Tibullo da Corcira.
RILEGGENDO OMERO
A GIULIO SALVADORI
I.
Son paghi i voti miei. Divin custode
ondeggia innanzi a la mia porta il mare.
Canta, grave e soave: il suo cantare
ha un’ignota virtù su l’uom che l’ode.
Qual gregge, con un lento digradare
scendon li olivi a le ricurve prode;
in su ’l meriggio la pia selva gode
le chiome ne la queta onda specchiare.
Son paghi, o amico, i voti miei. Conviene
Omero ne’ giocondi ozi: non cede
pur la sua voce a ’l grande equoreo coro.
Quale il Sole per l’alte aure serene,
fulgido, lungo i liti Achille incede
ne la lorica tutta quanta d’oro.
II.
In vano, in van tra le colonne parie
de ’l mio sogno di lusso e di piacere
le bellissime forme statuarie
ridon pur sempre.—O sacre primavere
de l’arte antica, o grandi e solitarie
selve di carmi ove raggianti a schiere
passan li eroi, ne l’arida barbarie
de l’evo or chiedo splendami a ’l pensiere
la vostra luce!—Troppo in un malsano
artifizio di suoni io perseguii
a lungo de l’amor le larve infide.
Ora un lucido senso alto ed umano
me invade, poi che novamente udii
cozzar ne ’l verso l’armi de ’l Pelide.
NOTE
. . . . beata Beatrice.
Viviana.
Viviana.
Era venuta nella mente mia
La gentil donna, che per suo valore
Fu posta dall’altissimo Signore
Nel ciel dell’umiltade ov’è
Maria
Disegno di G. A. Sartorio. Fototipia Danesi Roma
Rondò pastorale,pagina 168.
Questo rondò è composto, metricamente, sopra un esemplare di Clemente Marot. Li altri quattro sono composti a similitudine di quelli (più propriamente Rondels ) attribuiti a Francesco Villon, che son meno esatti. L’ultimo segue la regola di Carlo d’Orléans.
Outa occidentale,pagina 186.
Leggendo l’elegantissima traduzione che ultimamente Judith Gautier ha fatta di talune poesie giapponesi, tentai di riprodurre in italiano la struttura di una outa; ed aggiunsi le rime.
I Giapponesi, pure ammirando i versi chinesi e talvolta imitandoli, si attengono di preferenza alla poesía nazionale che chiamasi outa. Due specie di outa vi sono: l’outayé-outa, da cantarsi con compagnía di stromenti o senza; e la yomi-outa, da leggersi. La prima è più lunga, spesso lasciva ed oscena; la seconda è più corta, si compone di pochissime linee senza rima e senza ritmo, ma d’un determinato numero di sillabe seguentisi in un ordine stabilito.
La più elementar forma di poesía giapponese è la strofa di cinque versi, di cui il primo è di cinque piedi, il secondo di sette, il terzo di cinque, e di sette li altri due. In complesso, trentun piedi.
Per esempio, ecco una outa della principessa Issé:
Harou goto ni
Nagarourou Kawa o
Hanato mité
Orarénou mizou ni
Sodé ya Norénamou.
La quale outa vuol dire: «Per cogliere i fiori di prugno, i cui colori agita l’acqua, io mi son chinata verso l’acqua; ma, ahimè!, io non ho colto i fiori e la mia manica è tutta bagnata.»
Nella mia occidentale la frequenza della rima e il ritmo troppo accentuato tolgono alla strofa gran parte del suo carattere primitivo.
Donna Francesca, VIII,pagina 241.
Alcune particolarità descrittive di questa poesía sono tratte dal Tentation de Saint Antoine di Gustavo Flaubert. E la poesía in sè non ha nemmen l’ombra d’una intenzione antireligiosa; ma è una semplice e pura ed anche, se si vuole, oziosa esercitazione di stile e di metrica.
Donna Francesca, X,pagina 243.
Fra Bartolomeo Della Porta, domenicano di San Marco, uno dei più singolari artefici del Rinascimento fiorentino, soleva, prima di cercar le pieghe delle vesti per le sue figure sacre, disegnare i corpi nudi dal vero. La pittura di cui si parla è una tavola che gli fu allogata da Piero Soderini per la sala del Consiglio, «nella quale sono tutti e’ protettori della città di Fiorenza, e que’ Santi che nel giorno loro la città ha aute le sue vittorie», come porta il Vasari.
La Galleria delli Uffici possiede alcuni bellissimi disegni che il Frate fece per la detta tavola. Uno di quei disegni (n. 1204), eseguito a penna, rappresenta nude le figure comprese nella parte inferiore della composizione; e tra le figure è la Vergine assisa con su le ginocchia il bambino Gesù.
Donna Francesca, XII,pagina 245.
La miniatura del Breviario del cardinal Grimani, attribuita al Memling, rappresenta li angeli che offrono a Dio l’anime de’ nuovi eletti. È del quattrocento; e si trova a Venezia, nella Biblioteca di San Marco.
A Giuseppe Cellini, II,pagina 277.
Il fresco di Sandro Botticelli, raffigurante Giovanna Tornabuoni e le tre Grazie, si trova ora nel Museo del Louvre, guasto in più parti. È, come quasi tutte le opere di quel meraviglioso pittore, d’una straordinaria bellezza.