LA FIACCOLA SOTTO IL MOGGIO
LA FIACCOLA SOTTO IL MOGGIO
TRAGEDIA DI GABRIELE D'ANNVNZIO
PRESSO I FRATELLI TREVES EDITORI IN MILANO.
Quarto Migliaio
DRAMATIS PERSONÆ
- Tibaldo, Simonetto e Gigliola de Sangro.
- Bertrando Acclozamòra.
- Donna Aldegrina.
- La femmina di Luco Angizia Fura.
- Le due nutrici Annabella e Benedetta.
- Il serparo.
- I manovali.
Nel paese peligno, dentro dal tenitorio di Anversa, presso le gole del Sagittario, la vigilia della Pentecoste, al tempo del Re Borbone Ferdinando I. CHORVS
ΔΡΑΣΑΝΤΙ ΠΑΘΕΙΝ ΤΡΙΓΕΡΩΝ ΜΥΘΟΣ ΤΑΔΕ ΦΩΝΕΙ
ΕLECTRA
ΠΡΕΠΕΙ Δ'ΑΚΑΜΤΩ ΜΕΝΕΙ ΚΑΘΗΚΕΙΝ
ATTO PRIMO
Appare un'aula vastissima nella casa antica dei Sangro costrutta sul dosso ineguale del monte. Alla robustezza della primitiva ossatura normanna tutte le età han sovrapposto le loro testimonianze di pietra e di cotto, dal regno degli Angioini al regno dei Borboni. Ricorre all'intorno un ballatoio ricco di sculture, sopra arcate profonde; delle quali alcune sono tuttora aperte, altre sono richiuse, altre sono rette da puntelli. Delle tre in prospetto, la mediana prolunga la sua vôlta verso il giardino che splende, di là da un cancello di ferro, con i suoi cipressi le sue statue i suoi vivai; la destra mette a una scala che ascende e si perde nell'ombra; la sinistra, ornata in ciascun fianco da un mausoleo, s'incurva su la porta della cappella gentilizia che a traverso i trafori di un rosone spande il chiarore delle sue lampade votive. A destra gli archi, più leggeri, sorretti da pilastri isolati, si aprono su una loggetta del Rinascimento a cui fa capo un ramo della scala che discende nella corte. A sinistra, nel muramento d'un arco è praticata una piccola porta; e quivi presso, armadii e scaffali son carichi di rotoli e di filze. Cumuli di vecchie pergamene ingombrano anche il pavimento sconnesso, sopraccàricano una tavola massiccia intorno a cui son seggioloni e scranne. Busti illustri su alte mensole, grandi torcieri di ferro battuto, cassapanche scolpite, una portantina dipinta, alcuni frammenti marmorei compiscono la suppellèttile. Una fontana di gentile lavoro, dominata da una statuetta muliebre, alza nel mezzo dell'aula la sua conca vacua. E il tutto è vetusto, consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire.
SCENA PRIMA.
Donna Aldegrina è seduta presso la tavola, intenta a consultare le pergamene dell'archivio. Benedetta torce il fuso, Annabella gira l'arcolaio. Il sole pomeridiano entra dalla loggetta.
Donna Aldegrina. Annabella, Annabella,
non senti come tremano le mura?
Che è mai questa romba?
La casa crolla?
Annabella. È Probo di Gonnàri
che dà fuoco alla mina,
che rompe i massi con le mine al monte,
al Monte Picco delli Tre Confini
in Serra Grande.
Donna Aldegrina. Dalle fondamenta
scote la casa. Ora me la dirocca!
Benedetta, non vedi che s'allarga
la fenditura, là, nella travata?
E ancora non fu messa la catena!
Questo Mastro Domenico di Pace
dunque non viene mai?
Vuole la nostra morte?
Benedetta. Lavora dalla parte delle logge,
o Signorìa, con vénti manovali,
a mettere puntelli e stanghe e sbarre;
e dice che gli tocca lavorare
anco stanotte al lume dette fiaccole;
ché quella parte è tutta
crepe e crepacci, e pende che a vederla
fa spavento. Il pietrame
si sgretola, si scioglie
in sabbia, come tufo; anco il mattone,
peggio che crudo fosse.
Annabella. Questa mane
è rotolata già dalla sua nicchia
la Regina Giovanna; e il Re Roberto
tentenna, Signorìa.
Benedetta. E l'aquila è caduta dal sepolcro
del vescovo Berardo.
Annabella. Anco la fontanella di Gioietta
ammutolita s'è. La gromma intasa
tutto: le tre cannelle sono secche.
S'alza. Va a sollevare il disco di pietra nel pavimento. Prova a dar l'acqua. Gira e volta la chiave nel chiusino,
l'acqua non passa più!
Lascia ricadere il disco. Guarda la fontana. Una cannella sola
ancóra dà una gocciola ogni tanto.
Peccato! Ci teneva compagnia.
Benedetta. Pericola il soffitto nella stanza
della contessa Loretella. E tutti
gli specchi torbi intorno si son rotti
(piano, fuso, che non si rompa il filo)
dove ci si vedeva nelle macchie
non so che cose del tempo che fu.
Annabella. Ci si vedeva il viso
della contessa, e l'appannava il fiato
suo, come dietro il vetro
d'una finestra quando
s'aspetta che uno passi e gli occhi attenti
si velano alla pena del fiatare,
(piano, arcolaio, ché la matassa è scura)
e solo sta quel velo innanzi agli occhi,
e solo passa il tempo, e nulla più.
Benedetta. Caduti sono i travicelli e gli émbrici
sul pavimento; e c'è piovuto: un croscio
d'acqua, un rovescio di gragnuola: ed ora
svolacchiano le rondini pel varco...
O Signorìa, che pensi?
Donna Aldegrina. Dove sarà Gigliola?
È la vigilia della Pentecoste
oggi.
Annabella. Oggi fa l'anno. Benedetta. Verso sera. Annabella. Non volle
detta la messa di requie stamani.
Vuol che si dica dopo Pentecosta.
Chi sa perché!
Donna Aldegrina. Dove sarà Gigliola? Benedetta. Nel giardino sarà per la ghirlanda. Annabella. A cogliere i papaveri selvaggi?
Ma di quel rosso non si fa ghirlanda.
Men sùbito s'accaglia il sangue sparso
che quello non si guasti. O Signorìa,
tutto inselvatichito è il tuo giardino,
e tristo come il campo di nessuno.
Anche i pavoni l'hanno abbandonato.
Donna Aldegrina. Dove sarà Gigliola, ed il suo cuore? Annabella. Va per la casa, per le cento stanze
va come ieri andò, come andrà sempre,
con quel suo cuore che tanto le pesa.
Tanto le pesa che s'è fatta curva.
E non ha pace, e non si stanca mai.
E va di porta in porta,
ecco apre un uscio, dietro a sé lo chiude,
sale una scala, scende un'altra scala,
piglia un andito, passa un corridore,
a una loggia s'affaccia,
attraversa una corte,
sparisce in un androne;
e risale e riscende e non ha pace
e cerca cerca cerca e mai non trova...
Ah, questa casa chi la fabbricò
tanto grande? e perché con tante porte?
A quanti mali ei volle dare albergo?
S'odono voci di fatica lontane e confuse. S'ode la cadenza che accompagna lo sforzo. Benedetta. I manovali vociano. Donna Aldegrina. Annabella, Annabella,
odi un rumore fondo?
Qualche cosa rovina
in qualche parte, laggiù... Corri, guarda.
Annabella. No. Signorìa, non paventare. È il fiume
che mugghia, è il Sagittario che si gonfia
nelle gole. Si sciolgono le nevi
ai monti, alla Terrata, all'Argatone;
e il Sagittario sùbito s'infuria.
Mentre Annabella parla, l'ombra d'un uomo appare contro il cancello in fondo all'arcata di mezzo. Appare e dispare. Benedetta. L'uomo, l'uomo! L'ho visto
dietro il cancello, che spiava...
Donna Aldegrina. Quale
uomo? Chi è?
Annabella corre al cancello e guata. Benedetta. Stava alla posta; e sùbito
s'è ritratto. È passato
per la muraglia rotta,
là, dietro la fontana
della Ginevra, certo. L'hai tu scorto,
Annabella?
Donna Aldegrina. Ma quale
uomo?
Benedetta. Da ieri sera
un uomo gira intorno
alla casa. È un serparo:
porta i sacchetti di pelle caprina
alle spalle, alla cintola; ha il suo flauto
di stinco per l'incanto, e su le mani
e sui polsi è marchiato
dal ferro della mula di Foligno.
Signorìa, non udisti
iersera quel richiamo
ch'ei faceva col flauto
ad ora ad ora sotto le finestre?
Annabella. L'ho traveduto: s'è gettato a terra,
e sguiscia sotto i bòssoli, laggiù,
verso il Vivaio.
Donna Aldegrina. E perchè viene? Ha fame
forse. Vuol far ballare le sue serpi
innanzi a noi. Ditelo a Simonetto,
che questo gioco almeno lo rallegri.
Benedetta. Non per questo è venuto, Signorìa.
Ha già parlato, ha dimandato. Cerca
la femmina di Luco.
Donna Aldegrina. Angizia? Benedetta. Vien dal Fùcino, dai boschi
dei Marsi.
Donna Aldegrina. Ebbene? Benedetta. Dice ch'è parente.
È forse il padre. Certo, le somiglia.
Ha li stessi occhi.
Donna Aldegrina. Ah figlio mio demente! Annabella dalla loggetta. Signorìa, Don Tibaldo è nella corte
col fratellastro. E Don Bertrando sembra
che s'adiri. Hanno diverbio tra loro.
SCENA SECONDA.
Gigliola discendendo la scala esce dall'ombra del voltone, vestita di gramaglia, in atto d'inseguire perdutamente qualcuno che le sfugga, pallida, anelante, con gli occhi allucinati. S'arresta e vacilla. Ha la voce rotta.
Gigliola. Nonna, sei qui? sei tu? Donna Aldegrina. Gigliola! Gigliola. Sei
qui, nutrice, Annabella! Benedetta!
Donna Aldegrina. Che hai? Dove correvi? Annabella. Perchè tremi? Benedetta. Chi t'ha fatto spavento? Gigliola. Nonna, nonna,
non l'hai veduta? Dimmi!
Donna Aldegrina. Chi, cuor mio? Chi? Gigliola. Non era avanti a me?
Non è passata?
Donna Aldegrina. Chi? Annabella a bassa voce. Non dimandare,
Signorìa. Tu lo sai. Non dimandare!
Guardale gli occhi.
Gigliola, subitamente dominando l'ambascia, mentre la visione le si spegne nelle ciglia. Sono pazza. Questo
tu vuoi dire, nutrice?
Ho la pazzia negli occhi.
Me l'ha data in contagio
quella povera zia Giovanna, forse;
che lassù, che lassù nella prigione
urla, e nessuno l'ode.
Ancora un giorno, un giorno solo, e poi...
Nonna, domani è il dì di Pentecoste.
Questa notte è la festa
delle lingue di fuoco.
Se lo Spirito viene anche su me,
io che ho sempre taciuto, parlerò.
Si siede presso la fontanella. Donna Aldegrina. Non t'appenare. Non ti divorare
così l'anima tua.
Giovine sei. Pensa a una casa nova,
pensa al nido ove un giorno
tu ricomincerai la tua canzone
con la tua gola fresca.
Gigliola. Oh, che dici? che dici? La parola
più crudele! L'orrore
su le labbra più care! Dove soffro
tu mi tocchi. E lo sai.
Non ho qui nella gola
anch'io la lividura
e il gonfiore e la piaga,
e la secchezza sempre?
Io non porto le stìmate di Cristo,
i segni della passione santa.
Ma le stìmate porto
di quella carne che mi generò.
E ne sanguino e brucio.
Non mi fu medicina il mio silenzio.
Oggi fa l'anno che mia madre cadde
nella tagliuola orrenda, tratta fu
all'insidia impensata, presa fu
dall'astuzia selvaggia
nell'ordegno di morte... Ah, ecco il giorno!
Oggi parlo, se il dubbio è verità.
Si solleva agitata. Donna Aldegrina. O Gigliola, mio cuore, tenerezza
e spina del cuor mio
desolato, o Gigliola,
o tu piccola, sempre,
pe' capelli miei bianchi,
non mi fare paura,
non m'affannare così! D'improvviso
divampi. Tutta m'appari affocata
dalla tua febbre nascosta, agitata
dal tuo sogno furente;
e la tua faccia si muta, e si muta
la tua voce; e più nulla
di quel che in te fu la grazia del primo
fiore e fu il pane mio dolce fra tanta
amarezza, più nulla
rimane. E più non so se tu sii quella
che appoggiava la gota a questi poveri
ginocchi ed ascoltava
senza batter le ciglia
la mia favola lunga.
Gigliola. T'ho fatto pena. Che ho detto? Nulla.
Mi si svanisce il capo,
qualche volta, non so.
Tutto va, tutto passa.
L'ombra è là, e nessuno
deve guardarla. I giorni
sono eguali, e si vive.
È vero. Si può vivere
in pace, e avere gioia
da un fil d'erba che trema
sul davanzale al soffio
che viene non si sa
di dove, non si sa
di dove! Si può vivere
in pace e avere gioia
dalla piuma che cade,
dal volo d'una rondine...
Sì, mi ricordo. Vedo ogni mattina
Assunta della Teve
seduta su la sedia sua di paglia,
laggiù nel vano della sua finestra,
che cuce le lenzuola, ed è tranquilla;
e i giorni sono eguali;
ed ella s'alza quando il padre torna;
e non si sente ella mancare il cuore
per pietà di quel povero sorriso
che l'uomo fa con le sue labbra smorte
quando gli passa nella schiena il freddo
della vergogna...
Donna Aldegrina. Oh perchè, se sei dolce,
mi fai più pena? Hai gli occhi asciutti; e sembra
che ogni parola tua traversi un mare
di pianto, prima d'arrivare a me.
Sièditi.
Gigliola. Sì. Ecco, mi siedo. Sono
in pace. Appoggerò la gota ai tuoi
ginocchi, come allora. Non si deve
soffrire. Cucirò
i teli, come Assunta della Teve,
seduta accanto alla finestra. E quando
verrà mio padre, non lo guarderò,
perché non faccia quel sorriso. E quando
verrà la moglie di mio padre, allora
m'alzerò come innanzi alla padrona
mia legittima. O nonna,
sì, lo so: per ciascuno
viene la volta del servire. Quella
spazzava tra due porte, con le braccia
nude e la gonna rialzata ai fianchi,
e il vento del riscontro
le sollevava intorno l'immondezza
e glie la rigettava contro il viso...
Mi ricordo. La vedo.
Donna Aldegrina. Ora il tuo capo pesa come il bronzo;
ch'era così leggero!
Gigliola. Pesa? Dimmi: perché
mille pensieri insieme
non hanno il peso d'un pensiero solo,
quando è solo? Io lo scuoto, e me ne libero.
Si può vivere in pace.
Che cosa mai accade? Nulla. I giorni
sono eguali, e si vive.
Il mio fratello è ancóra nel suo letto
con la fronte voltata verso il muro.
È sempre stanco, e pieno di terrore.
Ma vive. Ascolta i passi
che fa la zia Giovanna
nella stanza di sopra,
rinchiusa a doppia chiave;
i passi e i balzi e i gridi sordi conta,
ch'ella fa per sfuggire
a quello sconosciuto
ch'è rinchiuso con lei,
a quell'essere enorme
e beffardo ch'è nato
a poco a poco dalla malattia,
che s'è nutrito e ha fatto l'ossa ed ora
è il compagno e il nemico,
il custode e il padrone;
che ha più carne di lei,
che ha più soffio di lei,
che la guarda, le parla,
le s'accosta, la tocca,
le rifiata vicino
intollerabilmente,
visibile e palpabile
per lei sola...
Donna Aldegrina. No, no!
Taci.
Ella pone le sue mani scarne su la bocca di Gigliola. Sei devastata,
sei disperata fino a dentro, sei
bruciata fino alta radice. Tutto
quel che è misero e offeso
e rotto e agonizzante
parla per la tua bocca. Sei la voce
della nostra ruina,
di tutte le ruine senza scampo.
O mia povera povera
povera creatura,
piccola anima mia,
per me piccola sempre,
chi ti consolerà?
chi t'inumidirà un'altra volta
queste pàlpebre secche? Ahimè! Ahimè!
Una pietra, una terra calcinata,
una stoppia riarsa.
E che farò per te io vecchia e lógora?
Chi mai chi mai farà per te nel mondo
alcuna cosa, o piccola mia sola?
Gigliola. Io, io farò. Fare bisogna, fare
bisogna. Alzarmi debbo,
restar diritta in piedi fino all'ora
di coricarmi. Baciami la fronte.
Mi bacerai a sera un'altra volta.
Così. M'alzo. Il coraggio non vacilla.
Stanotte i manovali
lavoreranno al lume delle fiaccole.
Non lo sai? Tutta notte.
Anch'io anch'io laggiù, in qualche parte,
ho una fiaccola rossa
nascosta sotto il moggio,
sotto un moggio vecchissimo nascosta
che non misura più perché non tiene
più né grano né orzo.
Entro i cerchi di ferro rugginoso
ha le doghe sconnesse.
Quella terrò nel pugno, a rischiarare
il travaglio notturno
intorno alla ruina.
E se la casa crolla
io sono certa che una sepoltura
resterà ferma e immune.
Lo prometto.
Donna Aldegrina. Gigliola, dove vai? Gigliola. A promettere. Entra sotto l'arcata dei mausolei: sparisce per la porta della cappella. Donna Aldegrina. Séguila, Annabella.
Séguila in ogni passo.
Non la lasciare mai.
Ho paura, ho paura.
Annabella. Signorìa, non m'attento.
Vuol sempre stare sola quando scende
alla Cappella e s'inginocchia
a quella sepoltura.
Posso mettermi là, dietro la porta.
Donna Aldegrina. Non la lasciare. Va. Tu, Benedetta,
guarda chi è su per la scala bassa.
Benedetta, origliando. È la voce di Don Bertrando. Sale
col fratellastro. Sento anche la voce
di Don Tibaldo.
Donna Aldegrina. Si sarà levato
Simonetto? Che ora
è?
Benedetta. Quasi ventun'ora, Signorìa. Donna Aldegrina. Va, va di sopra. Guarda
se dorme ancóra. Non lo risvegliare
se dorme. Ma se è sveglio
fa che si levi, e prenda
la medicina.
Benedetta. Signorìa, non vuole
la sorella che prenda medicina
se non glie la prepara
con le sue mani.
Donna Aldegrina. Perché? Benedetta. Io non so.
Ha il suo pensiero.
Donna Aldegrina. Salgo anch'io fra poco.
Annabella! Annabella!
La vecchia scompare sotto l'arcata chiamando sommessamente la nutrice. Con lei entra nella cappella. Benedetta si avvia su per la scala, sospirando.
SCENA TERZA.
Entrano, per la scala che dà su la loggetta, sotto l'armatura di travi e di corde, Tibaldo de Sangro e Bertrando Acclozamòra, i fratellastri.
Bertrando. Dunque rifiuti? È l'ultima parola? Tibaldo. Non ho manco un tornese!
Non so come farò
a pagar la giornata
dei manovali. E se non pago, Mastro
Domenico di Pace
lascia che tutto vada a precipizio:
leva i puntelli. Intendi?
Bertrando. Tu mentisci. Tibaldo. Vedi: mia madre fruga
tutte le cartapecore
degli scaffali, mette sottosopra
l'archivio, lo riscontra a filza a filza,
ci si logora gli occhi...
Ah, se si ritrovasse l'istrumento
di quel vincolo fidecommissario,
nella lite che abbiamo coi Mormile!
Bertrando. Non divagare. Ti domando ancóra
una volta: mi dài quella miseria?
Tibaldo. Ma se ti dico che non ho un tornese!
Credimi.
Bertrando. Tu mentisci.
Non riscotesti ieri
da Crescenzo Castoldo
centoventi ducati di caparra
pel grano che gli devi consegnare
dopo la mietitura?
Tibaldo. Non è vero. Bertrando. Hai coraggio di negarlo!
Bene ti s'è indurato
il sangue su cotesto viso giallo,
come la sugna ràncida
nella vescica risecchita.
Tibaldo. Ancóra
cerchi di sopraffarmi con l'ingiuria.
È il raccolto del campo di Malvese,
ch'è di mio figlio, dell'eredità
di sua madre.
Bertrando. Ma il frutto è tuo. Tibaldo. Non posso
toccarlo.
Bertrando. Tu! tu che conficchi ovunque
le tue granfie ed hai solo
lo scrupolo del tarlo
che ha roso il Cristo e non voleva rodere
il chiodo! Razza dei Sangro.
Tibaldo. Ma chi,
ma chi è che mi succhia,
chi è che mi dissangua da vent'anni
senza tregua?
Bertrando. Di tutto il mio ti sei
impossessato con l'usura.
Tibaldo. Quali
erano i beni degli Acclozamòra?
Bertrando. Incominciò tuo padre
a spogliarci.
Tibaldo. Di che?
Fra la Serra dei Curti
e il Sirente avevate
i vostri latifondi?
Ovìndoli è paese
di pecorai.
Bertrando. Avevamo Celano,
avevamo Paterno,
Aielli...
Tibaldo. Al tempo degli Aragonesi,
sotto il buon re Alfonso.
Ti ripigliò mio padre nella casa,
te con tua moglie, quando
non t'era altro rimasto
se non un branco di cinquanta pecore,
le formelle di faggio e le casciaie.
Bertrando. Nominarmi il tuo padre
tu osi e rinfacciarmi il benefizio!
Qual benefizio? A me restituire
doveva quel che a me minore avea
frodato. La tutela
fu il latrocinio guarentito. Parli,
parli quella che è vedova due volte...
Tibaldo. Tu di tutte le infamie
ti lordi la tua bocca di mastino;
e sempre tu sei pronto
ad addentare fino al sangue e all'osso,
se non ricevi l'offa.
Bertrando. Non aizzare il mastino, Tibaldo. Tibaldo. Che vuoi da me? ch'io mi ti dia legato
mani e piedi? vuoi darmi
la sorte di Giovanna? seppellirmi
vivo fra quattro mura?
e gavazzare poi con le tue scrofe
e coi tuoi bardassoni
su gli avanzi dei Sangro?
Metti almeno un bavaglio
alla vittima, ché troppo si sente
gridare; e v'è taluno
che volge il capo in su.
Bertrando. Guardami fiso, guardami negli occhi,
tu che parli di vittime.
Ben una t'è stampata
in fondo alla pupilla,
o vedovo di Mònica, marito
della femmina marsa.
Tibaldo. Oh! Oh! Una mi vedi
nella pupilla? Sono io stato fiso?
E certo m'hai veduto impallidire.
Ride sardonico. Bertrando. Sei la vescica di grassume smorto
che non si muta.
Tibaldo. Almeno
tu mi vedi tremare.
Guarda come mi tremano
le due mani. Ho il parlético.
Bertrando. La malattia ti rode
le vertebre. Finito sei.
Tibaldo. O Giudice
profondo, e che farai
se l'assassino è pallido e tremante
anche quando gli dici che hai veduto
una milza di bue
penzolare alla porta d'un macello?
Bertrando. Non ridere, non ridere così;
o ti schiaccio su i denti
il ghigno.
Tibaldo. E che farai,
Giudice, se ogni sera l'assassino
scaccia di sotto al letto con la scarpa
il rimorso importuno?
Con una vecchia scarpa,
come si scaccia un sorcio.
Bertrando. Ridi, ridi;
e nel bianco degli occhi hai lo spavento.
E il tuo riso di dentro
cigola, peggio che una vecchia imposta
sconquassata lassù
nell'ultima finestra
lassù perduta sotto la grondaia
rotta. Il vento la strappa dagli arpioni.
E ti casca sul collo e te lo stronca.
Bada che la tua beffa
non ti ritorni sopra
d'un colpo.
Tibaldo. Sì, mi bado.
Non passo già per gli anditi
scuri né per le scale strette, quando
sei nella casa.
Bertrando. T'odio,
con ogni goccia del mio sangue contro
ogni goccia del tuo.
Intendi? Tu m'ingombri.
Il tuo fiato m'attossica
l'aria che serve al mio polmone. Fino
nel ventre di mia madre
tu m'hai preso il mio posto: sei venuto
dopo di me nel conio
della mia razza, tu mollume senza
scheletro, nato dal seme d'un vecchio.
E l'essere tu nato
mi fu sempre un sopruso
che mai non seppi perdonarti. Intendi?
E di nessuna carne umana sento
ribrezzo come della tua; né so
perché. L'ho dentro le midolle, cieco
e bestiale. Tutto
di te m'offende: il passo, il gesto, il riso,
il respiro, lo sguardo.
Quella bolla bianchiccia di saliva
che ti nasce nel canto
delle labbra se ciarli, mi fa ira,
m'esaspera. Ho un rancore
mortale contro le tue mani flosce
che mostrano l'enfiore
del mal cardìaco...
Tibaldo subitamente s'accascia. Tibaldo. Ohimè! È vero, è vero.
È l'edema, è l'edema molle e freddo
che cede al dito e resta là col cavo.
Il mio cuore è ammalato. Morirò
di sùbito passando quella porta.
E tu prendilo e gettalo
nel letamaio, questo
mio cuore, come un fico putrefatto;
e una gallina lo trovi raspando
e se lo porti nel becco a pollaio...
Bertrando, io t'ho negato
quei cinquanta ducati,
mentre debbo morire!
Te li darò. Aspetta.
Bertrando gli si avvicina. Bertrando. Soffri? Hai tremor di cuore?
Io non voleva farti violenza.
Ma tu lo sai: mi lascio trascinare
dalla collera... Soffri?
Tibaldo. Te li darò. Ma non li ho qui. Bisogna
che tu venga con me...
Bertrando. Dove? Tibaldo. Dove ho
accumulato...
Bertrando. Dove? Tibaldo. Ah, se potessi confidarmi in te
come nel mio fratello!
Bertrando. Non sono il tuo fratello? Tibaldo. M'odii, con ogni goccia del tuo sangue.
L'hai detto.
Bertrando. Sì, nell'impeto dell'ira.
Ti piaci d'aizzarmi: ti fai beffe
di me... Ma poi tu stesso
ridi della mia furia.
Tibaldo. Non m'hai più odio! Posso confidarmi
dunque?
Bertrando. Parla. Tibaldo. Il tesoro... Bertrando. Dov'è? Parla. T'ascolto. Non temere. Tibaldo. Tu sai la vecchia diceria che corre
tra la gente d'Anversa,
e per tutta la valle
del Sagittario, e dalla Forca d'oro
alla Terrata fra i pastori.
Bertrando. Sì,
la so.
Tibaldo. La casa magna
dei Sangro, quella delle cento stanze,
tutta crepacci e tutta ragnateli,
che da tutte le bande
si sgretola, e nessuno ci rimette
pur una mestolata di calcina...
Bertrando. Si, sì, la so. Tibaldo. E la famiglia fa
magra cucina. E dentro un muro cieco
è nascosto il tesoro
di Don Simone; ed ogni primogenito
eredita il segreto e l'avarizia...
Bertrando. Ebbene? Tibaldo. Quanto sei
impaziente, fratello!
Vuoi che ti dica come
stride ogni chiave arrugginita? come
cigola ogni uscio sgangherato? Vuoi
che ti nòveri tutto
quel che si macchia, quel che si scolora,
quel che si sloga, si curva, si sfalda,
s'ammolla, cola, marcisce?
Bertrando, oscurandosi. Tibaldo,
non divagare.
Tibaldo. Ascolta. Ho un po' d'affanno. Ansa e soffia, simulando. Ascolta. Il mio figliolo
Simonetto è infermiccio, ed è svanito,
anch'egli — ahimè — di vita troppo breve.
E se ne va la primogenitura...
Ah se tu non mi fossi
tanto nemico! Acclozamòra
contro Sangro.
Bertrando. Io nemico? Oh no! Tibaldo. M'ingiurii
sempre.
Bertrando. Ma senza fiele.
Per caldezza di sangue.
La stessa madre ci portò. Se tu
non mi rinneghi, io sono il tuo fratello,
a cuore aperto. Le parole volano.
Dimentica, ti prego. Ecco la mano.
Tibaldo rompe con uno scoppio di scherno la sua simulazione. Tibaldo. Tieni: un ducato, un ducato! Non vale
di più questo tuo sùbito
amor fraterno. Tieni.
Per un ducato, lo compero.
Bertrando. Ah mulo! Tibaldo. Prendilo dalla mano floscia. Ancóra
mi regge al riso il cuore
ammalato. Anzi questo
mi giova meglio che la digitale.
Bertrando. Non ti giova. Ti metto sotto i piedi,
ti spezzo quel tuo dosso di buffone!
Ah, per dio, questa volta
non ti salvi da me. Ti faccio mordere,
giuro, i tuoi calcinacci.
Tibaldo. Lasciami! Bruto! Bruto! Bertrando. Giù! La nuca
a terra! Acclozamòra
contro Sangro.
Tibaldo. No! Lasciami! Assassino! Bertrando. Mordi come una femmina... Tibaldo. Assassino!
SCENA QUARTA.
Appare la madre, accorrendo dalla cappella. E dietro di lei viene Gigliola, seguita da Annabella; e rimangono quivi in disparte.
Donna Aldegrina. Figli! Figli! Bertrando!
Ah vergogna, vergogna! Forsennati!
Non avete onta? Mi volete morta
d'orrore? Su, gettatevi
contro me. Su, rompetemi il mio petto.
Su, squassatemi i miei capelli bianchi,
più bianchi di dolore
che di vecchiezza, e per voi, figli tristi,
per voi nati da me, dalle mie viscere
dilaniate. Ma che latte mai vi diedi
io, che latte malvagio,
perché me lo rendiate in stille e in sorsi
di tòssico, ogni giorno?
O Bertrando, o selvaggio,
che follìa t'ha invasato? Sempre in guerra
sei. Dove tu tocchi
lasci l'impronta dell'artiglio. Sempre
teso a nuocere. Metti
dunque la mano anche su me. Soltanto
questo ti resta.
Bertrando. Taci, madre. So
che non m'ami, da quando ti fu grave
l'esser fedele ad una tomba, e guasto
mi fu il mio nido, e imposta
mi fu la servitù verso gli intrusi
sempre più dura; e il vecchio nome, il mio,
ti sonò male come una rampogna.
Donna Aldegrina. Misero te! Non è la prima volta
che tu mordi tua madre alla mammella.
Bertrando. Non mordo io già. Costui,
vedi, ha tentato di mordermi le dita
con i suoi denti di coniglio. E tu
proteggilo. Proteggi
costui che ha il viso smorto
e il fiato grosso. Ei n'ha bisogno. Ma
consiglialo a restar nascosto lungo
tempo sotto le coltri.
Donna Aldegrina. O selvaggio, non vedi
che la sua figlia è là
con la faccia nascosta?
Bertrando. Dille che, s'ella guarda
nella pupilla al vedovo
riammogliato, se gli guarda in fondo,
vedrà...
Donna Aldegrina. Bertrando! Bertrando! Bertrando. Sì, taccio.
Addio, madre. O Tibaldo,
il tuo ducato, guarda,
è rimasto per terra:
mostra il rovescio. Bada!
Raccàttalo e sii cauto.
Spinge col piede la moneta verso il fratellastro; poi apre la porta sinistra per uscire. Addio, madre. Donna Aldegrina, seguendolo. Bertrando, non andartene
così. Ti prego! Torna in pace. Stendi
la mano al tuo fratello.
Bertrando. Per un ducato? Esce. Donna Aldegrina. Aspetta!
Ascolta la tua madre.
Ti prego!
Segue il figlio, che non si volge.
SCENA QUINTA.
Tibaldo de Sangro rimane seduto, tra le cartapecore, a capo chino, ancora affannato dalla lotta e pallidissimo. Gigliola leva il capo, guarda il padre, cammina verso di lui. S'odono le voci di fatica lontane.
Gigliola. Vattene, Annabella. Si sofferma e segue con lo sguardo la nutrice che; se ne va silenziosamente, su per l'ombra della scala. Poi s'accosta al padre, e la voce le trema. Padre,
son io. Non c'è nessuno più. Son io
sola, con te.
Egli si leva, timidamente, vacillando un poco, senza osare di guardare in viso la figlia. Tibaldo. Gigliola! Gigliola. Oh no, non devi
sorridere così. Tu mi faresti
meno male, se tu mi calpestassi.
Tibaldo. Non ti devo sorridere... Perché?
Ti faccio male... Non so... Lascia allora
ch'io mi metta in ginocchio avanti a te,
figlia. Non so che altro potrei, figlia,
ora. Tu no, non mi faresti male
se tu mi calpestassi.
Ma ti benedirei.
Gigliola. No, no, non in ginocchio. Sta diritto. Una pausa. Corruga le ciglia. Chi ti voleva piegare la nuca
a terra?
Tibaldo. Figlia, abbi pietà del tuo
padre se tu sei stata testimone
della vergogna.
Gigliola. Tremi tutto. Sei
più bianco della tua camicia.
Tibaldo. Soffro
un poco.
Gigliola. Certo, tu non tremi... è vero?
tu non tremi... per quello.
Tibaldo. Per quello? Una pausa. Gigliola. Padre! Tibaldo. Di': che hai? che vuoi,
Gigliola? Parla.
Gigliola. Tu non hai paura. Tibaldo. Di chi? Una pausa. Gigliola. Gli hai morso la mano. Tibaldo. Gigliola... Gigliola. Forte? Tibaldo. Che mi domandi! Gigliola. Forte dovevi. Tu non hai paura;
è vero?
Tibaldo, balbettando. Ma che hai?
Che mi domandi! Se tu hai veduto
quello che non doveva esser veduto
dagli occhi tuoi, perdónami, perdónami.
Gigliola. Tutto ho veduto, veggo.
Non ho più ciglia: sono senza pàlpebre:
gli occhi miei non si serrano
più, non battono più.
Veggo, terribilmente.
Tibaldo. Gigliola sei? Che mai
avvenne? Chi ti dà
questa forza? Che gridi, quanti gridi
nella tua voce sorda!
Gigliola. Dimenticato avevi
il suono della mia gola ferita.
Tibaldo. Rimasta eri velata
per me, tutta velata
dal tuo lutto, in disparte.
Gigliola. T'è nuova la mia voce?
Per un anno in silenzio
ho portata la piaga
senza sangue, la piaga
che fu fatta anche a me
in un punto, lo sai,
qui d'intorno al respiro...
Tibaldo. Come ti guarderò?
Eri velata. Vivere ho potuto,
esiliato dall'anima tua,
con l'amore dell'esule
pel piccolo giardino ove non entra
più...
Gigliola. Tutto è arso. Non aver parole
di tenerezza per la creatura
abbandonata nell'orrore, sola,
come in fondo al burrone,
come in mezzo al ghiacciaio.
Ma guardami; ma leva gli occhi. Guardami
quale sono: non più
piccola e neppure più
dolce... Nulla di giovine è rimasto
in me. Passata in un anno è la mia
primavera. Mi sono maturata
non al sole ma all'ombra,
all'ombra d'una sepoltura. Guardami;
ché devo interrogarti,
e il tempo incalza. Ho fretta.
Con uno sforzo angoscioso il padre solleva le palpebre, la fisa. Tibaldo. Oh, l'orrore, l'orrore
nella tua faccia, gli occhi senza pàlpebre!
Figlia, e m'odii anche tu?
E chi t'ha fatta così dura? Dimmi.
Gigliola. Ti ricordi? Fra poche
ore viene quell'ora:
verso sera. Mia madre fu chiamata;
e la povera entrò
nella stanza già scura.
E, poco dopo, quell'altra, la serva
tortuosa, la femmina di Luco,
escì gridando. E già
la vittima non si moveva più...
Tibaldo. No, no, non seguitare! Gigliola. Bisogna che tu m'oda,
e che tu mi risponda.
Quell'altra è la tua moglie
oggi. Tu me l'hai data per padrona.
Mi fu tolta la madre e mi fu data
per padrona colei che con lo straccio
lavava il pavimento.
Non è vero? Ma guardami!
Tibaldo. Non posso più. Non ho più forza. Gigliola. Eppure
bisogna che, con gli occhi
negli occhi, a viso a viso,
tu mi risponda.
Tibaldo. Sùbito
parla. Dimmi che vuoi.
Ti guardo.
Gigliola. Sai la verità? Tibaldo. Ma quale? Gigliola. No, padre, no, non mi sfuggire. Tieni
ferma l'anima tua nella pupilla
come ho ferma la mia.
Chi la fece morire?
La verità! La verità!
Tibaldo. Non fu
la sorte iniqua? la percossa cieca?
Gigliola. Oh ti supplico, padre!
Non mi mentire. Parlami
come s'io fossi moribonda, come
se dopo io mi dovessi
avere negli orecchi e nella bocca
il suggello per sempre. Non lo sai?
Non sospetti? Quell'altra
che uscì gridando...
Tibaldo. No, no! Gigliola. Ma sei tutto
bianco.
Tibaldo. Oh! Oh! E tu pensi,
figlia, tu pensi di me questa infàmia:
ch'io t'avrei sottoposta
a tanto orrore nella casa dove
mi nascesti, ch'io complice
avrei congiunto col legame orrendo
la bestia criminosa
e la tua purità,
qui nella casa dov'è custodita
quella che fu sepolta...
Gigliola. Silenziosamente
sepolta fu, silenziosamente:
ed ogni viso intorno
era come la pietra sepolcrale,
come la pietra che si pone sopra
la cosa buia e segreta. E il tuo viso...
Tibaldo. Il mio viso... Gigliola. Pareva
che avesse un marchio d'onta.
Oh che pietà di te, padre! Ma tutto
dire debbo. Pareva
che già lo difformasse
l'obliquità che poi ho riveduta
mille volte, la maschera convulsa
che t'ha messa la femmina e che tu
non puoi strapparti...
Tibaldo. Me la vedi? qui?
l'ho qui? Se piango, non si fende? Ma
chi t'ha fatta così crudele? Chi
t'ha mutata, anche te?
t'ha convulsa, anche te?
Tu non sei più Gigliola.
Gigliola. Non sono più Gigliola. Maturata
sono, disfatta, e non dall'ombra sola
di quel sepolcro ma dal fiato impuro
che m'alita su l'anima continuo,
e da quel tuo sorriso, dal sorriso
di vergogna, che per un anno fu
il segno della tua bontà paterna!
Tibaldo. Mi struggevo d'amore
per te, con un rimpianto senza fine,
esiliato dall'anima tua,
esiliato da tutte le dolci
cose che conoscevo
in te che m'eri il fiore
di questo tronco guasto.
Gigliola. E perché l'hai gittato,
il fiore, sotto i piedi assuefatti
a camminare scalzi
nell'immondezza?
Tibaldo. Come
potresti tu comprendere il mio male
disperato, la mia miseria senza
riparo?
Gigliola. Ah che pietà di te! Non sono
crudele.
Tibaldo. Me n'andrò, scomparirò.
Non mi vedrai. Vuoi questo?
Gigliola. Scàcciala. Tibaldo. Tu non puoi, non puoi comprendere! Gigliola. Scàcciala. Tibaldo. Me n'andrò. Gigliola. Scàcciala. Il laccio è teso anche per te.
Cieco tu sei. Io vedo.
Tibaldo. Il ribrezzo ti va
innanzi alla parola. Di': che vedi?
Gigliola. La turpitudine ovunque, la frode
servile, il tradimento. Profanàti
sono i miei occhi; e chiuderli non posso.
Tibaldo. Con ogni tua parola
come con una branca
m'afferri il cuore e me lo serri. Dimmi
tutto.
Gigliola. Sì, tutto debbo dire come
chi sta per trapassare.
Di tutte queste cose che m'insozzano
mi purificherò.
Una pausa. Scàcciala. L'uomo
che ti voleva piegare la nuca
a terra, e tu l'hai morso
alla mano... Oh sozzura!
Si copre la faccia. Tibaldo. No, no, no!... Che sai tu? Come sai tu?
O figlia, tu vedere... No, no. L'odio...
l'odio t'abbaglia.
La voce di Angizia, nell'ombra della scala. Tibaldo! Tibaldo!
SCENA SESTA.
La femmina appare.
Angizia. Non rispondi? Che hai?
Ma sei di sasso? È vero
che c'è stato litigio
col fratellastro? che siete venuti
alle mani?
Vede Gigliola. Ah, tu stavi
qui con la tua taràntola...
Tibaldo. Con mia figlia Gigliola.
Parlavo con mia figlia. Abbiamo ancóra
qualche cosa da dirci...
Angizia. Ch'io non posso
stare a sentire?
Tibaldo. Vieni,
figlia, con me. Andiamo altrove.
Angizia. No.
Tu resta qui. Lascia che vada.
Tibaldo. Angizia,
non alzare la voce.
Non sei tu che comandi
nella casa dei Sangro.
Angizia. Il pollo mette i denti?
Che novità! Rideremo. Ma intanto
io sono la tua moglie: e la figliastra
deve obbedire. Vattene,
Gigliola. Ho da parlare
col mio marito.
Gigliola. Serva,
se — ora che hai le chiavi — puoi
senza sotterfugio intrattenerti
a scemar le caraffe
nella dispensa, almeno
èvita di mostrarti
alticcia innanzi a noi
e di farci sentire nella tua
arroganza l'odore del tuo vizio.
Angizia. Tibaldo, e non le dài una ceffata
tu che sei presso? Da costei mi lasci
ingiuriare? O taràntola, bada,
ch'io non ti metta il mio calcagno sopra.
Tibaldo. Taci, taci. Va via,
va via di qui. Non voglio che tu parli
così alla mia figlia. Non sei degna
di scuoterle la polvere dall'orlo
della veste.
Angizia. Impazzisci? Credi tu
d'essere ancóra il mio padrone? Voglio
sapere quel che dicevate. Certo
costei ti sobillava
contro di me, come fa sempre. Ma
il veleno si spegne col veleno.
Gigliola. Serva, tu sei esperta di veleni.
Lo so. Tu sei dei Marsi. Porti il nome
della montagna amara. E ieri sera
vidi il tuo padre che ti cerca, che
ti richiama col sufolo di canna.
È un ciurmadore di vipere.
Angizia. Questo
t'ha detto? Non è vero, non è vero,
Tibaldo. No, colui non è il mio padre.
Non lo conosco. È un uomo
di Luco, che passava per di qui
e voleva da me
l'elemosina.
Gigliola. Via, non t'affannare.
Vedremo poi. L'uomo di Luco è ancora
qui ne' pressi, e ti spia.
Ma non questo dicevo.
Angizia. E che dicevi? Gigliola. Serva, che oggi è l'anno. Angizia. Bene, sì. Oggi è l'anno. E tu mi guardi. Gigliola. Ti guardo. Angizia. Bene, sì. Eccomi. Guardami.
Credi ch'io abbia paura?
Gigliola. Ti guardo. Angizia. Che hai da dire? Su via, di', di' tutto.
Parla. Credi che abbassi gli occhi? No,
no, non li abbasso. Credi ch'io non sappia
quel che dicono sempre gli occhi tuoi
quando mi fissi? Dicono:
«Sei tu! Sei tu! Sei tu!.» Ebbene, sì,
è vero.
Tibaldo. No, Gigliola,
non l'ascoltare. È pazza
di furore, è la bestia
furente: ha la vertigine dell'odio.
L'hai provocata. Non sa quel che dice.
Non l'ascoltare. Vattene, Gigliola.
Costei mentisce per esasperarti.
Angizia. No, non mentisco. È vero, è vero. Sono
io. Te lo grido, e non abbasso gli occhi.
Eccomi. T'ho risposto,
senza tremare. Io l'ho fatto. Oggi è l'anno.
Tibaldo. Non è vero! La vedi: è fuor di sè;
è la bestia impazzata.
Gigliola. Madre mia, madre mia, anima santa,
questo è il punto. Sostienimi. Ho promesso;
manterrò. Sarò forte.
Angizia. E che farai?
Che mi potrai tu fare?
Sono coperta dal tuo padre. Due
siamo, due fummo.
Tibaldo. Taci,
cagna rabbiosa. Vattene. Ti scaccio.
Se ancóra parli, ti trascino fuori
pei capelli, ti sbatto al pavimento.
Angizia. Non hai forza: ti tremano i ginocchi;
ora stramazzi. Due
(tu che ancora mi chiami serva, intendimi
intendimi!) due fummo. Te lo dico
perchè tu sappia bene
che per toccarmi devi
passare sul tuo padre.
Tibaldo, piegando i ginocchi, curvandosi a terra. Non la credere!
Ha mentito, ha mentito, per vendetta.
È frenetica d'odio. Te lo giuro,
figlia. Ma passa, ma passa su me.
ATTO SECONDO
Appare il medesimo luogo, declinando il giorno.
SCENA PRIMA.
Simonetto è seduto presso la nonna, mentre le due nutrici attendono all'opera del filo.
Donna Aldegrina. Va, Simonetto, va con Annabella
a dar due passi, prima che si faccia
sera. Svàgati un poco.
Simonetto. No, non ho voglia. Sono stanco, nonna. Donna Aldegrina. Ti sei levato or ora! Simonetto. Vedi, non c'è più sole.
Fra poco piove. Senti come gridano
le rondini.
Annabella. È una nuvola di giugno. Simonetto. Tuona. Annabella. Non tuona. È il Sagittario in piena,
che romba.
Donna Aldegrina. Va a vedere il Sagittario,
Simonetto. Va fino alla spianata.
È tutto spume, fa l'arcobaleno,
bello a vederlo.
Simonetto. Allora
fammi portare con la portantina,
nonna.
Donna Aldegrina. Bambino pigro,
che capriccio ti viene?
È tutta rotta: non si regge più
su le stanghe. È più vecchia
di me. Quando la povera
Monica (s'abbia pace
nel cielo) venne sposa, ed io le andai
incontro a Bocca Mezzana con otto
portatori per cambio,
il broccatello rosso era già stinto.
Simonetto. Come il mio sangue, nonna. È stinto già.
Vedi quanto mi dura
questo piccolo taglio, qui, sul dito!
Non mi si chiude più: ci si fa sempre
una goccia bianchiccia
come una perla. Nonna,
sono tanto malato.
Donna Aldegrina. Non è vero. Stai meglio. Oggi sei meno
pallido.
Simonetto. Ma che male
è questo?
Donna Aldegrina. Il male dell'adolescenza,
non altro. Cresci. Sei su i diciassette
anni.
Simonetto. M'avevi detto: «A primavera
guarirai.» L'estate
è venuta, e mi sembra di morire
a poco a poco. No, non voglio. Nonna,
perchè non mi guarisci? Benedetta,
tu che m'hai allattato,
sei così forte; e tu non fai niente
per me. La lana nera! E fili e fili
sempre. Mi fai la coltre.
Benedetta. Figliuolo mio, ti faccio un voto ad ogni
agugliata che traggo dal pennecchio.
E come incocco e come do la torta,
sei sempre meco nel mio filo pieno.
Simonetto. Ah che tanfo di polvere e di muffa
in tutta questa pergamena. Nonna,
non lo senti? E che fa
Gioietta? Qualche cosa mi mancava
e non sapevo che;
ed era la sua voce.
Annabella. Non dà più
acqua. Il canale s'è ingrommato.
Simonetto. È chiusa
anche la vita di Gioietta! Le hanno
tolto il gioco di ridere
e di piangere a un tempo con tre piccole
bocche. Nonna, e ci restano le carte
muffite. E scartabelli, e scartabelli!
E quel poco di vento che si muove
da ogni foglio, è la volontà dei morti.
E ridiventeremo ricchi! Allora
voi manderete a Napoli
Simonetto de Sangro in portantina
e pagherete cento
dottori e glie li metterete intorno
a medicarlo... Datemi
aria!
Donna Aldegrina. Non t'agitare, Simonetto.
Sei smanioso. Hai la fronte che stilla,
le mani sudaticce.
Simonetto. Voglio andare
a Cappadòcia, dalla zia Costanza.
Mettetemi sul mulo
che sa la strada. Ah come si respira
nei boschi di castagni! Voglio ancóra
il mio schioppo e i miei cani
pezzati, bianchi e neri, bianchi e falbi;
e quei belli occhi franchi,
e quelle orecchie molli
come il velluto; e le sorgenti fredde
del Liri tra i macigni, dove scendono
e salgono le donne
con le conche sul capo; e quella stanza
bianca, dove si dorme
in pace tra l'armadio e il canterano
che stanno cheti senza scricchiolare
e sanno di lavanda.
Voglio tornare là.
Donna Aldegrina. Ci tornerai
quando vorrai.
Simonetto. C'ero di questo mese,
or è l'anno; di questo giorno, c'ero.
E non sapevo che la morte...
Donna Aldegrina. Quando
vuoi partire? Domani?
Simonetto. Anche tu, anche Gigliola, però.
Anche Annabella e Benedetta. Andiamo
via, tutti noi!
Una pausa. Nessuno mi chiamò
quando la mamma ebbe il vaiuolo nero.
Donna Aldegrina. Il contagio... il pericolo per te. Simonetto. Si può partire e poi... Benedetta. Ogni tanto diceva Donna Mònica:
«No, no, per carità! Viene, e si prende
il mio male... Tenetelo lontano.»
Simonetto. Ahimé, nutrice, anche diceva quando
era l'estate (non te ne ricordi?)
«Stasera apparecchiate sotto il platano.
Ceneremo all'aperto.»
E veniva da i monti la frescura
su la tovaglia, ed era intorno ai lumi
un aliare di farfalle, e noi
gittavamo le mandorle novelle
contro i pavoni appollaiati...
Si leva di sùbito. Andiamo,
Annabella.
Donna Aldegrina. Che hai? Perchè sobbalzi? Simonetto. Ho sentito un fruscìo giù per le scale.
Ora scende la femmina.
Donna Aldegrina. È Gigliola.
Guarda.
SCENA SECONDA.
Simonetto, correndo verso la sorella.
Sorella mia! Sei tu! Di dove
vieni? Sei stata, fino ad ora nella
mia stanza?
Gigliola. Sì. Simonetto, sotto voce. Si sentiva gridare
ancora?
Donna Aldegrina. Sai, Gigliola? Simonetto
vuol ritornare a Cappadòcia.
Simonetto. E tu
con me.
Gigliola. Sì, caro. Simonetto. Domani. Gigliola. Bisogna
che prima ti rinforzi un poco. È troppo
disagiato il viaggio.
Simonetto. Il mulo ha l'ambio
dolce.
Gigliola. Tutti i torrenti
ora fanno rapina ai monti.
Simonetto. Allora
tu mi prendi con te nella tua stanza
per queste notti, come m'hai promesso.
È vero?
Gigliola. Sì, sì, caro. Ella gli prende il capo tra le mani e lo bacia. Simonetto. Che mani fredde! Bada,
non t'ammalare anche tu come me.
Gigliola. No. Me le son lavate
nell'acqua diaccia or ora.
Simonetto, guardandole le mani. Hai su le dita
le macchie, che non se ne vanno... Tutte,
è vero? le hai gettate
dalla finestra: tutte quelle polveri
e quelle acquette! Nonna, sai? Gigliola
ha tolto via tutte le medicine,
non vuol più ch'io ne prenda.
Gigliola. Erano troppe
e troppo amare...
Simonetto. Oh sì! Gigliola. Non ti giovavano. Donna Aldegrina. Veramente, Gigliola? Gigliola. Erano guaste.
Bisognava gettarle.
Simonetto. E le guardava contro luce a una
a una, e le agitava
e le versava a gocce
nel cavo della mano, e le fiutava
alla maniera degli speziali...
Egli ride d'un riso fievole. Se tu l'avessi vista, nonna! Sa
le ricette Gigliola, sa le dosi
e le misture, tutto sa.
Gigliola. È vero;
tutto so.
Simonetto. Tu guariscimi, sorella!
Non mi lasciare mai.
Gigliola. No, caro, caro! Ella lo stringe a sè, lo accarezza, quasi materna. Simonetto. Benedetta, ritrova
quel paravento vecchio della China
figurato di tutte quelle giunche
con le vele di stuoia ed i pennoni
lunghi (sorella, non te ne ricordi?)
dove facemmo tanti bei viaggi
per tanti mari e porti
prima d'addormentarci...
Ritrovalo, nutrice;
e rimettilo al posto, tra i due letti,
là nella stanza verde. Vuoi, Gigliola?
SCENA TERZA.
Dalla porta sinistra entra Tibaldo. Simonetto ammutolisce. Le donne restano in silenzio.
Tibaldo, convulso e smarrito. Nessuno parla più... Questo silenzio...
Entra un'ombra? uno spettro v'apparisce?
Tutti muti, di pietra.
Eri tu che parlavi, Simonetto...
Ti sei levato... Come stai? Ti senti
meglio?
Simonetto. Così, sempre così. Tibaldo. Ma oggi
t'è ritornata quella febbricina?
Simonetto. Non è l'ora. Più tardi. Tornerà. Il padre gli s'avvicina e fa il gesto per accarezzarlo. Egli scansa la mano con un moto istintivo, reclinando la testa contro la spalla della sorella. Tibaldo. Non soffri ch'io ti tocchi? Donna Aldegrina. È nervoso, inquieto.
Sussulta ad ogni soffio.
Lascia che vada, Tibaldo. Voleva
uscire un poco all'aria. L'accompagna
Annabella. Su, va,
Simonetto, che non si faccia tardi.
Simonetto. Vieni, Gigliola, con me! Gigliola. Ti raggiungo,
se posso. Vado a preparar la stanza
con Benedetta, a trasportar le tue
cose, i tuoi libri...
Simonetto. Sì, sì. Gigliola. Quando torni,
trovi tutto già pronto.
Simonetto. Sì, sì. Gigliola. Caro,
cammina adagio: fa che non ti stanchi,
che non ti scalmi. Passa
per la viottola, èvita la polvere.
Stagli attenta, nutrice.
Benedetta,
vieni.
Benedetta. Ecco, vengo. Raccolgo il filato. Salgono per la scala, spariscono.
SCENA QUARTA.
Restano la madre e il figliuolo, l'uno di fronte all'altra.
Tibaldo. E tu non te ne vai,
mamma? Non fuggi il lebbroso anche tu?
Non ti turi la bocca
per non bevere l'aria
infettata?
Donna Aldegrina. Figliuolo,
non ti lagnare. Sei passato sopra
i cuori che t'amavano.
Tibaldo. E non v'è più speranza?
non v'è pietà?
Donna Aldegrina. Li lasci calpestare
da un piede assuefatto
allo zòccolo ignobile.
Tibaldo. Son calpestato io stesso. Donna Aldegrina. Gli altri sono innocenti. Tibaldo. Io sono l'assassino? Si leva, tremando, nel raccapriccio dell'accusa. Tu lo credi? Gigliola te l'ha detto?
M'accusa innanzi a te?
Donna Aldegrina. Figlio, figlio, che tristo giorno è questo!
È come un sogno nero che ci sòffoca
Tremiamo tutti sotto una minaccia.
Il sospetto s'acquatta in ogni canto.
Tu te lo vedi innanzi, te lo senti
alle spalle; e non puoi
afferrarlo. Hai spavento di te stesso;
e gridi le parole irreparabili.
Tibaldo. Ho gridato? Che ho gridato, madre?
La mia voce non è più dentro a me.
Ho guardato il mio viso nello specchio
e non mi son riconosciuto. Allora
gli ho dato un colpo e l'ho spezzato. L'anima
è andata in mille pezzi,
s'è sparpagliata giù pel pavimento;
e mi rivedo mille,
e non mi riconosco. E veramente
non so la verità
che mi fu dimandata, non la so,
madre. E tu che m'hai data questa povera
anima, e tu m'aiuta a raccattarla,
a rappezzarla. Pensa
che il giorno in cui tu mi mettesti al mondo
non vale più; ma questo
giorno mi vale per l'eternità,
se tu m'aiuti.
Donna Aldegrina. Come
t'aiuterò? Parliamo
per coprire lo strepito
ch'è in fondo ai nostri cuori.
E ciascuno di noi è solo attento
a quel che l'altro non ha detto. E sembra
che il dolore abbia il volto dell'inganno.
Tibaldo. Chiedi, interroga, frugami
dentro, strappa da me
la verità che sfugge agli occhi miei
loschi. Per non vedere
si sono torti; e avrò lo sguardo obliquo
fin su la bara. Dimmi
tu quel che vedi in questa
miseria che ti trema innanzi.
Donna Aldegrina. Ahimè,
non v'è miseria eguale
a quella che patisce
la madre che non può più consolare!
Una pausa. Tibaldo. Dunque... lo credi? Donna Aldegrina. Che
debbo io credere, figlio?
Tibaldo. Gigliola... t'ha parlato... Donna Aldegrina. Quando? Dianzi?
E può essere vero?
No, no, non ho voluto
comprendere.
Tibaldo. Ma come
t'ha detto?
Donna Aldegrina. Era discesa
allora dalla stanza del fratello:
aveva tolto via
tutte le medicine...
Tibaldo. Ebbene? Donna Aldegrina. Ho indovinato
che il sospetto terribile era in lei;
ma non dalle parole,
perché s'è rattenuta
davanti a Simonetto inconsapevole.
Ho indovinato dalla tenerezza
mortale ch'era in lei quando stringeva
al petto quella povera
creatura... corrosa di nascosto...
Può essere? No, no,
non può essere. Troppo grande infamia!
Tibaldo. Oh! Oh! Perché son nato?
Madre, perché m'hai messo al mondo? Questo
mi serbavi nell'ora
che ho fatto grido verso te perdutamente
per essere aiutato all'ultimo
passo! Scopriti gli occhi.
Anche tu guarda dunque l'altra faccia
dell'orrore.
Le prende le mani e le scopre il viso. Sì, certo,
quello che non può essere
è. Non sapevo: e tu m'hai rivelato,
non sapendo. Ma, certo,
quello che non può essere
è. Nè io so perché ma me l'attestano
le mie vèrtebre stesse nel mio corpo
frollo, ma me lo giura
tutto il mio sangue che si risovviene
nel mio cuore disfatto.
La bestia velenosa
è all'opera di morte e non si sazia.
Donna Aldegrina. Abominio! Abominio! E tu lo dici!
Ma allora?
Tibaldo. Allora ascoltami,
madre: se tu mi salverai nell'anima
della mia creatura disperata,
io farò quello a cui la mia viltà
e il mio vizio ripugnano
nel più profondo della mia radice,
io compirò la liberazione
incredibile, l'atto che nessuno
attende... Hai tu compreso?
Donna Aldegrina. Ah, non so, non comprendo. Tutto è buio.
Un flagello implacabile disperde
nella notte i superstiti tremanti.
Beata quella che riposa in pace!
Tibaldo. Ascoltami. Non ho voluto mai
leggerti nelle pupille, per paura
della risposta alla domanda cruda.
Quella ch'è in pace, da qual mano fu
sospinta d'improvviso nel silenzio?
La madre si copre la faccia novamente. E ancóra mi nascondi
il tuo dubbio o la tua certezza! Qui,
dianzi, quella che Gigliola chiama
serva con una voce
che taglia il viso peggio della sferza,
la femmina di Luco,
la mia moglie legittima,
in una frenesia
d'odio, in una vertigine di còllera,
a viso a viso le ha gridato: «Sì,
è vero. Sono io. L'ho fatto.»
La madre tenta di alzarsi, fa l'atto di scostarsi. No!
Resta. Non mi fuggire. Non è tutto.
Non è nulla, anzi, questo che t'ho detto.
L'accusa era nell'aria, in ogni soffio,
esalava da tutte le pareti,
si celava nell'ombra delle vôlte,
si disegnava nelle fenditure
e nelle crepe come su le labbra
vive, come negli occhi palpitanti.
Il grido della bestia
impazzata ha risposto ad un silenzio
lungo che le diceva fissamente:
«Sei tu.» Gigliola non ha dato crollo.
Pareva che serrasse
l'anima sua nelle sue mani ferme
come un'arme affilata.
Madre, madre, e dinanzi a lei, dinanzi
a quell'anima nuda
(la fronte gli occhi il mento,
l'impronta mia, la simiglianza mia,
il segno del mio sangue
su quel viso figliale
si palesava a me come non mai,
in quell'attimo eterno
con non so quale forza
nuova, non so che rilievo mordace,
comprimendomi, entrando nel mio petto
spossato come un suggello di vita
indelebile) o madre, e la nemica
additandomi...
S'inginocchia ai piedi della vecchia, rotto dall'ambascia. Scopriti la faccia,
ti supplico! Ch'io veda quel che fa
il tuo dolore! Guardami. Ecco, sono
più tremante, più debole,
più bisognoso d'aiuto che quando
ti nacqui del tuo spasimo,
brandello miserabile di carne
animato dal gemito. Ch'io veda
se puoi salvarmi o se sono perduto
anche per te!
La madre lo guarda. Sì, così. Egli esita un istante. La nemica
additandomi ha detto: «E che farai?
Sono coperta dal tuo padre. Due
siamo, due fummo.»
La vecchia tenta ancora di alzarsi. Madre,
non mi lasciare. Stendimi le mani
Ha creduto, ha creduto!
Ho visto nella faccia disperata
che la menzogna era creduta!
E tu?
S'ode la voce di Angizia nel giardino. La voce di Angizia. Non ti conosco. Vattene, pezzente!
Non so chi sei. Ti gitterò le pietre.
Ti farò divorare dal mastino.
Ora lo sciolgo. Vattene! Va via!
O grido al ladro. Fuori!
Fuori! Non so chi sei.
Vuoi dunque che ti scacci con le pietre?
Di là dal cancello, si scorge la femmina chinarsi a terra per lapidare. Donna Aldegrina. Eccola, viene. Portami di là.
Reggimi, ché le gambe non le sento
più. Non le posso muovere. Non posso
più levarmi, non posso camminare.
Che è mai questo? Reggimi, Tibaldo,
portami tu, trascinami
là fino all'uscio. Eccola, viene.
Tibaldo. Madre,
è il destino. Rimani.
Vinci l'orrore. Sii
testimone del mio combattimento
mortale. Per la morte e per la vita
giudica tu. Non ho più nulla dietro
di me. Son solo. Tutta la mia razza
è scomparsa con tutta la sua forza
cieca. I forti che m'hanno generato
non m'aiutano più. Questa rovina
non degna pure di schiacciarmi, tanto
io sono poco per la sua grandezza.
Tu stessa, madre, non sei mia: son nate
da te due geniture avverse; e il tuo
cuore diverge. Non t'ingannerai
giudicando. Rimani.
Devi. Questo è il giudizio senz'appello
a cui mi serra il destino.
SCENA QUINTA.
Angizia chiude il cancello di ferro, e il colpo rimbomba sotto il voltone.
Angizia. O Tibaldo,
hai sentito? Era là!
Era tornato l'accattone, ancóra!
Sai? quel serpàro di Luco. Hai sentito?
Gli ho scagliato la pietra nella schiena.
Ma, se si ardisce di tornare un'altra
volta, bisogna scacciarlo col manico
della granata... Non tu,
che soffii. Mi ci metto
io, con Bertrando; e vedi...
Oh! Signora mia suocera, e che hai?
Hai avuto paura?
Tibaldo. Io col bastone
come una bestia immonda
scaccerò te...
Angizia, volgendosi inviperita. Ah! ricominci? Tibaldo. Chiama
tuo padre, ch'io ti riconsegni a lui
perché ti schiacci il capo con la pietra
che gli hai scagliata alle spalle.
Angizia. Ma dunque
non ti passa la smània? Ti rimorde
la taràntola? Quello
non è mio padre. Non ho padre.
Tibaldo. È vero.
Nasci dal putridume senza nome.
Angizia. E m'hai raccolta? Tibaldo. Per averti spinta
col piede, fuor del mucchio
lurido, son rimasto
infetto.
Angizia. E m'hai legata a te per sempre? Tibaldo. Non v'è legame tra la bestia e l'uomo.
È sacrilegio quel che ho fatto. Avevo
perduto il senso umano.
Angizia. Supplicata
m'hai, piangendo, torcendoti per terra,
quando volevo andarmene; m'hai presa
ai ginocchi, hai posata
la faccia nella polvere perché
ti premessi il calcagno su la nuca.
Tibaldo. E che tu mi rinfacci le vergogne,
e che tu mi ricordi le viltà,
ora, che importa? Ho rialzato il capo.
Lo vedi.
Angizia. Sì. Per poco.
Per mostrarti a costoro che t'aizzano
contro di me. Dianzi
ti sei messa la maschera dell'uomo
forte davanti alla tua figlia; ed ora
te la metti davanti alla tua madre.
Ma non m'inganni. Sotto,
veggo il tuo viso senza sangue.
Tibaldo. Oh, ecco,
tu mi rendi il mio viso
cotidiano. Alfine, lo ritrovo.
È vero. Non conviene ch'io sia tanto
terribile. Ora abbasso
la maschera e la voce. E quel che deve
esser fatto, sarà
fatto con un sol gesto e senza grido.
Angizia. Quando tu sarai solo
con me, ti gitterai
per terra, un'altra volta;
e piangerai, e mi supplicherai.
E nulla sarà fatto,
perchè tu sei legato a me per sempre
e legato due volte.
E il legame segreto è palesato
omai. E tu non osi,
e nessuno oserà
toccarmi.
Tibaldo. Tu ripeti la menzogna
inutile.
Angizia. Che l'odano altri orecchi
qui dentro.
Tibaldo. Infàmia a vòto. Angizia. Veramente?
Persuadi a tua figlia
che la serva mentisce
quando ti chiama complice e consorte.
Guarda la vecchia, là.
Tibaldo. È l'orrore di te,
che l'impietra.
Angizia. O Tibaldo, io non credevo
che tu potessi impallidire ancóra
di più.
Tibaldo. E se mia madre
parlasse e ti chiedesse
una prova... che prova le daresti
tu?
Angizia. Che prova era contro
di me quando tua figlia
dianzi ripeteva a me: «Ti guardo»?
E la vecchia ti guarda.
E non hai più colore
di vita e non hai gocciola
di sangue che non sia ghiaccia nel tuo
cuore; e fai uno sforzo disperato
per non battere i denti
— anzi, ecco, la mascella ti tradisce —
come la notte d'or è l'anno, quando
salisti a piedi scalzi, di nascosto,
nella mia stanza buia e mi cercasti
brancolando e venisti
a coricarti accanto a me, perché
non potevi star solo;
ed io sapevo il tuo consentimento
coperto e tu sapevi il compimento
della mia mano pronta.
E ci stringemmo; e fummo
due, per la vedovanza e per le nozze.
Non ti ricordi? Sei convinto? Basta,
ora. Questo doveva
esser detto, per pegno del silenzio...
che si poteva rompere.
Tibaldo. Madre, hai udito? Resti
immobile.
La madre non può parlare. Hai creduto?
Credi?
La madre resta immobile. Io sono il tuo figlio
folle e vile e perduto. E costei mescola
la sua colpa alla mia follìa così
ch'io non potrò dissepararne l'anima
mia giammai né salvarmi innanzi a te.
Lo so. Perduto sono.
Ma costei che m'accusa,
che m'incatena al suo
delitto, che s'aggrava
con tutto il peso della sua perfidia
sopra ciascuna sillaba
della menzogna sua
come sopra la vittima,
costei, costei è quella
che mistura i rimedii
dell'ammalato...
Angizia. Non è vero! Come
lo sai? Chi te l'ha detto?
Tibaldo. che apre e fruga
per tutto e ruba con le chiavi false...
Angizia. Non è vero! Tibaldo. che scaglia
la pietra nella schiena
del suo padre...
Angizia. Non è mio padre, no!
Non lo conosco.
Tibaldo. che s'accoppia dietro
gli usci e nei ripostigli
col mio fratello nemico...
Angizia. Non è
vero! Diglielo in faccia,
chiedilo a lui, affróntalo.
Tibaldo. che insozza
tutta la casa, corrompe, avvelena,
appesta tutto...
Angizia. E ieri t'aggrappavi
alla mia gonna come
un bàmbolo!
Tibaldo. costei
è la bestia selvaggia senza nome,
è la devastatrice che bisogna
distruggere.
Si getta su la femmina come per strangolarla. Angizia. Ah! Sei pazzo? Che mi fai?
Pazzo! Pazzo! Ti penti.
Chiamo Bertrando. O vecchia,
gridagli!
La vecchia rompe l'immobilità dell'orrore e si leva con un grido. Tibaldo lascia la presa. Donna Aldegrina. No, Tibaldo. Tibaldo, indietreggiando. No, no, madre.
Lascio. La lascio. Non davanti a te.
ATTO TERZO
Appare il medesimo luogo, nell'ora del tramonto.
SCENA PRIMA.
Il Serparo entra pel cancello sotto l'arcata, seguendo Gigliola che lo incuora.
Gigliola. Non c'è nessuno. Resta. Non temere,
uomo. Sei sospettoso.
Il Serparo. O baronella, non mi fare inganno. Gigliola. No, non ti faccio inganno. Sta sicuro,
uomo. Che guardi?
Il Serparo. Guardo com'è grande
càsata, grande più che la Badia
della contessa Doda
in valle Merculana, veramente.
Ma s'abbandona. Non ne può più. Vuole
colcarsi. E anch'io vorrei. Non reggo.
Gigliola. Sei
stanco? Patisci?
Il Serparo. Sento
il cuore mio che dentro
si schianta. Dammi la pezzuola tua
ch'i' leghi la mia mano
insanguinata.
Gigliola. T'ha morso una serpe? Il Serparo. L'hai detto. Gigliola. Velenosa? Il Serparo. L'hai detto. Gigliola. Puoi morire? Il Serparo. Si muore e non si muore.
«Chiedeo lo morto all'asse dell'abete:
«Non hanno miso figliema nel foco?»
«Figlieta» fece l'asse «magna e beve;
s'è compro un busto de velluto novo.»
Lo sai quel canto antico, baronella?
Gigliola. Siediti là, se non ti reggi, uomo.
E dammi la tua mano
ch'io te la leghi.
Il Serparo. Te non mi ti presi
in braccio quando tu piangevi, te
non ti cullai; per te
non mi tolsi il boccon di bocca; il sorso
di gola né mi tolsi, che crescessi,
che mi fiorissi bella.
E non m'imprechi, pietre non mi gitti;
mi fasci la mia mano.
Gigliola. Quanto amaro hai nel cuore!
Colpo di pietra è questa,
taglio di pietra puntuta.
Cerca di bagnare il lino nella tazza della fontanella. Gioietta
non dà più acqua. Posso
appena inumidire la pezzuola.
Ti faccio male? Stringo troppo? Va
bene così?
Il Serparo. La figlia
sei del barone! E cóme ti
chiamano? come dicono il tuo nome?
Gigliola. Gigliola. Il Serparo. Oi te, gentiletta! E tu l'hai
per matrigna! Tre pietre mi gittò:
una nel fianco mi piglia, alle reni
l'altra, la terza alla mano. E tu cuòcigli
i capi di tre serpi,
d'aspido, di marasso e di farea,
che ne mangi e si colchi!
Gigliola. E tu sei dunque
il suo padre.
Il Serparo. Edia Fura
sono, nato di Forco che serviva
il Santuario prima di me. E prima
di lui c'era Carpesso, della nostra
progenie; che forniva la cisterna
santa. E nel tenitorio
di Luco e in tutto il popolo dei Marsi
non v'è nòvero delle geniture
di nostro ceppo, ch'ebber la virtù.
E si nasce col ferro della mula
di Foligno, segnato su i due polsi
(ci segna il Tutelare,
fin dal ventre, a quest'arte):
e la genìa serpigna riconosce
la nostra padronanza; e siamo immuni.
E non so da quant'anni
è nella casa questo flauto d'osso
di cervo, per l'incanto, ritrovato
chi sa da quale de' miei vecchi, in uno
dei sepolcri che stanno
su la via di Trasacco;
ché il nostro ceppo è antico
da quanto quello dei baroni.
Gigliola. E vieni
da Luco? E come avesti la novella?
Il Serparo. Per le Palme, una femmina d'Anversa,
ch'era a vendere orciuoli e d'ogni sorta
stovigli, fece a mógliema: «La tua
figliuola s'è sposata a uno barone.»
Allora disse mógliema: «Ventura!
E sarà vero? Andòssene agli estrani
a far servigio; e si dismenticò.
O Edia, quando porti
le serpi al Santuario,
scendi per la Pezzana e pel Casale
fino ad Anversa, e là dimanda e vedi.
E la dismemorata mi saluti.»
E così me ne venni
facendo le mie prede
giù pel Vado e pel Pardo e per le prata
d'Angiora e per le terre rosse d'Agne
e in Venere, e lungh'essa la vallea
del Giovenco al Luparo.
Edia, quante montagne camminasti,
quanti rivi guadasti,
per la cagna insensata rivedere!
Gigliola. Ma tu che vuoi da lei? che le domandi? Il Serparo. Nulla Edia vuole. Non dimanda sorso
d'acqua il serparo, né boccon di pane.
Non fa sosta alle soglie. Passa. È frate
del vento. Poco parla.
Sa il fiato suo tenére. Piomba. Ha branca
di nibbio, vista lunga. Piccol segno
gli basta. Perchè triemi il filo d'erba
capisce. Segue la genìa che, senza
orme lasciare, fuggesi.
Tutto ch'altri non ode, e quello egli ode,
non con l'orecchio, sì con uno spirito
ch'è dentro lui. Modula un modo solo
sul flauto suo d'osso di cervo; ma
niuno sa quel modo;
lo sa egli e lo seppero i suoi morti.
E dessa è la virtù, e dessa è l'arte.
E d'altro non gli cale
più della pelle che getta la biscia.
Egli fa l'atto di sciogliere un de' sacchetti; e dentro vi caccia la mano. Gigliola. Ma che vai tu traendo
ora, di quel sacchetto?
Il Serparo. Non aspidi. Fatti animo,
figliuoluccia. Non sono aspidi.
Gigliola. Ho animo,
Edia Fura. E se fossero
aspidi, e qualcheduno
vi cacciasse le mani
dentro a un tratto, così,
morderebbero?
Il Serparo. Certo morderebbono,
da lasciar fino il dente nella vena.
E non ti gioverìa
manco l'aver beuto
acqua della cisterna
santa a bigonce.
Gigliola. E perché? Il Serparo. Perché d'uno
aspide l'uomo ciurmato si può
guarire; ma di più
non si guarisce mai, per la gran possa
del tòsco che si spande
sùbito, e prende la cima del cuore
e fa cancrena negra.
Gigliola. E tu ne' tuoi sacchetti,
tu n'hai di quella sorta,
Edia Fura? o fai preda
di bisce mansuete solamente?
Il Serparo. Male mi ridi, baronella. Io n'ho.
Ho due marassi di padule e tre
aspidi.
Gigliola. Senza denti? Il Serparo. Male mi ridi. Il maschio dei marassi,
a mezzo il corpo, è grosso
quasi quanto il tuo polso. Cinericcio,
ha la gran fascia scura e la crocetta.
In cinquant'anni Edia giammai ne vide
uno ardito così. Non sente ancóra
l'incanto.
Gigliola. Dici il vero? Il Serparo, mettendo la mano su un de' sacchetti. Ora gli do la via,
e agli altri quattro.
Gigliola, senza sbigottirsi. Bene, Mostra. Il Serparo. Hai animo. Gigliola. Ho animo, Edia Fura,
Ed è questo il sacchetto
della gran morte, questo ch'è legato
con la cordella verde? E come s'apre?
Il Serparo. Lascia, cìtola. Questo
non è per te. Ti mostrerò, se vuoi,
una sirènula, una coronella,
un biacco...
Gigliola. E di': se, non ciurmato, l'uomo
sciogliesse la cordella e follemente
dentro cacciasse tutt'e due le mani,
in quanto tempo ei morirebbe?
Il Serparo. In poco,
figliuoluccia.
Gigliola. Non sùbito. Il Serparo. Non sùbito. Gigliola. Ma in quanto? Il Serparo. Forse in un'ora, forse in meno, in più,
secondo...
Gigliola. Tempo avrebbe
di compire la cosa designata.
Il Serparo. Qual mai cosa? Che son questi parlari? Gigliola. Tempo avrebbe un bifolco
di staccare i suoi bovi e governarli.
Il Serparo. Certo che sì. Gigliola. Ma là, dove hai la mano,
son di che sorta?
Il Serparo. Cìtola, non sono
serpi; son doni.
Gigliola. Quali doni? Il Serparo. I miei.
Ti dicevo che nulla
Edia vuole. Non chiede
ma dà. Recato avevo per la sposa
questo pettine. Guarda.
Gigliola. È bello. Il Serparo. Il vento
dell'alidore le scapigli il capo!
Gigliola. A doppia dentatura, con la costola
intagliata di cervi e di leoni...
Il Serparo. E questa collanetta. Guarda. Gigliola. Oh come
è leggiera!
Il Serparo. Le stia sul collo un giogo
di bronzo!
Gigliola. Grani d'oro giallo ed àcini
di vetro verdemare.
Da chi l'avesti?
Il Serparo. E guarda: questo spillo
lungo.
Gigliola. È un crinale: sembra uno stiletto. Il Serparo. Da parte a parte la gola le passi! Gigliola. Edia, che dici? Il Serparo. Un motto vano dice
Edia. E questo vasetto
di vetro, guarda; che lustreggia come
la pelle delle bisce a mezzodì.
Gigliola. Per l'unguento. Ma dove
trovasti queste cose?
Il Serparo. Sopra Luco evvi un monte erto e serposo
nomato Angizia, come la matrigna
tua; dove salgo per far preda. E v'era
una città, nei tempi, una città
di re indovini. E sonvi le muraglie
di macigni ed i tumuli
di scheggioni pel dosso. E quivi su,
cercando in luogo cavo,
trovai dintorno ad uno ossame tre
vasi di terra nera coperchiati.
E nel primo trovai farro, nell'altro
fiòcini d'uva, e tritoli di fave,
nel terzo queste cose che ti dono.
Gigliola. A me le doni? Il Serparo. A te. Non ho più figlia. Gigliola. Prendo solo il crinale. Porta un capo
di cignaletto. È bello.
Edia, mi sei parente.
Il Serparo. Prendi tutto. Gigliola. Solo il crinale. E in cambio ti darò
questo anello con un rubino buono.
Il Serparo. No. Tièntelo nel dito. A me non m'entra.
Lasciami in vece questa tua pezzuola
che m'hai legata intorno alla mia mano.
Gigliola. Edia! Ha un riso convulso. Il Serparo. E che mi vuoi dire? Strano ridi,
figliuoluccia. Che hai?
Gigliola. Lasciami per stasera quel sacchetto
della cordella verde. Vorrei mettere
spavento al mio fratello
quando torna, e poi ridere con lui.
Il Serparo. Che pensiero ti passa nella mente?
Ridi e ti smuori...
Gigliola. Guàrdati! Tua figlia
viene.
Nasconde nella veste il crinale; e, mentre il serparo si leva e si volge, ella sottrae il sacchetto, lo cela dietro la veste addossandosi al pilastro.
SCENA SECONDA.
Appare alla porta sinistra Angizia seguita da Bertrando Acclozamòra.
Angizia, gridando. Ah, sempre quest'uomo!
Chi è costui? Gigliola, ora tu fai
entrare in casa gli accattoni e i ladri
di strada?
Il Serparo. Non gridare,
donna. Se questo è il tuo marito...
Angizia. No.
M'è cognato. E che vuoi?
Il Serparo. Nulla voglio. Se questo è il tuo cognato,
tu non temere, donna. Io non gli dico
che il serparo di Luco
è il tuo padre.
Angizia. Bertrando, è un mentecatto
che vaneggia. Sì, ecco,
ora me ne ricordo. Nel paese,
gli correvano dietro a fargli beffe
i bardassi.
Bertrando. Esci, uomo.
Prendi le tue bisacce nauseose
ed esci senza ciarle.
E fa ch'io non ti colga un'altra volta
né qui né in vicinanza.
Il Serparo. Signore, sei nella tua casa. È male,
per la terra ch'è intorno alle tue porte!,
è male minacciare
colui che non ti nuoce,
dinanzi a questa vergine ospitale.
Esco, né tornerò.
Mi scalzerò, passata la tua soglia;
gitterò nel torrente i miei calzari.
Ma tu, donna, per questa
macchia di sangue ch'è sul lino offerto,
odimi. Io te lo dico: quanto è certo
che il sole ora si colca,
il tuo destino è compiuto. Prepàrati.
Colui che rinnegasti e lapidasti
brucerà la tua culla
di quercia dove ti cullò: che ancóra
è legata allo scanno
del letto grande con la corda lógora
e vi son dentro i chicchi di frumento
e i granelli di sale e le molliche
e la cera. Ma non nel focolare
la brucerà, sì nel crocicchio ai vènti,
nel crocicchio ove latra la canèa.
E che tu sia dispersa come quella
cenere! E che la notte venga sopra
a te con trèmito e singulto!
La donna atterrita dalla imprecazione paterna è curva, con le spalle voltate al padre. S'accascia. Bertrando. Via,
esci!
Fa l'atto di prenderlo pel braccio. Il Serparo. Non mi toccare.
Esco; né tornerò.
A Gigliola. Addio ti dico, bene ti sia, santa
ospite, tu che m'hai medicato. Abbi
animo.
Si avvia verso il cancello. Bertrando. E dove vai? Il Serparo. Non mi toccare. Vado. Bertrando. Ancora ad acquattarti in mezzo all'erba?
Passa da quella parte, dalle scale;
e non di sopra i muri, come i ladri.
Il Serparo. Signore mio, lasciami andare! È male
quello che fai. Per dove
io venni me ne vado. Non porrò
piede su altra soglia. Vo pel varco.
Bertrando. Mariuolo, ti dico di passare
da quella parte.
Il Serparo. È male,
è male. Sei nella tua casa.
Bertrando. Intendi?
O ti trascino, di sotto ti getto.
Il Serparo. Non mi toccare. Bada! Bertrando gli mette le mani addosso, egli si libera con una stratta e s'allontana. L'altro l'insegue, minaccioso. Bertrando. Oh, cane, ora ti concio. Entrambi scompaiono dietro i cipressi, nel bagliore del tramonto.
SCENA TERZA.
Gigliola è sempre addossata al pilastro, con le mani dietro di sè, nascondendo il sacchetto di pelle caprina. Angizia esce dal suo raccoglimento cupo, s'alza, si volge; cammina come in una nube. Vede Gigliola, ancora addossata al pilastro; e si arresta.
Angizia. E che fai là? Non ti muovi? Le si avvicina. Sei tu,
sempre tu! Non ti muovi? Non parli?
A che pensi?
Gigliola. Lo sai.
Penso a una sola cosa.
Angizia. Vuoi la guerra? L'avrai.
Tu, per farmi onta, tu
l'hai chiamato, quell'uomo.
E doveva egli prenderti,
chiuderti in una delle sue bisacce
con le compagne, o serpicina livida,
portarti via con seco.
Ma di quel che m'hai fatto
prenderò la vendetta:
non dubitare.
Gigliola. Serva,
non è più tempo di querele. Pensa
a quel che ti predisse
l'uomo delle bisacce nauseose.
Abbi paura della notte.
Angizia. So
di che m'hai accusata
al tuo padre. Il tuo zio
anche lo sa. Vedrai,
vedrai.
Gigliola. Abbi paura della notte. Angizia. Credi che non dormirò più? Le spalle
scrollo. Mi sento forte. Ho fame e sonno.
Dormirò come un masso.
Gigliola. Fra poco è l'ora. Si fa silenzio. Angizia sta in ascolto. Non riesce a vincere il peso che l'aggrava. E Bertrando non torna
ancóra indietro.
Guata di sotto l'arcata verso il giardino. Forse
passa dalle terrazze dei Leoni.
Ascolta ancóra, inquieta; poi scrolla le spalle. Resti là? Gigliola. Resto. Angizia. E poi? Gigliola. Nulla. Angizia. E che fai? Gigliola non risponde. Hai mandato un corriere a Cappadòcia.
E perché?
Gigliola non risponde. La femmina la guarda con occhi indagatori. Non rispondi?
Sei quasi verde. Ti s'è fatto il viso
piccolo e stretto come un pugno.
La scruta ancóra. Gigliola resta immobile e impenetrabile. Vado.
Ci rivedremo.
Gigliola. È certo. Va. Angizia sale per la scala. Gigliola si stacca dal pilastro, ascolta. Rapidamente va verso il cumulo delle carte e vi nasconde il sacchetto rapito al serparo. S'odono nel silenzio le voci confuse dei manovali al travaglio. Poi si ode su per la scala bassa la voce affannosa di Simonetto. La voce di Simonetto. Gigliola!
Gigliola!
SCENA QUARTA.
La sorella corre verso la porta. L'apre. Simonetto giunge e si getta nelle braccia della sorella, perdutamente.
Gigliola. Sono qui. Che hai? Che hai? Simonetto. Gigliola! Gigliola. Ma che hai? Ma che t'accade?
Come ti batte il cuore!
Hai la fronte sudata.
Perché hai corso? Parla.
Annabella dov'è? Càlmati.
Simonetto. Nulla,
non ho nulla... Ma un'ansia,
un'ansia m'è venuta all'improvviso,
non so perché, un'ansia
verso di te... per te... non so... Gigliola!
Gigliola. Oh caro, caro, sièditi. Son qui. Sopraggiunge la nutrice. Annabella. Ah, figlia, un'altra volta
non lo conduco, se non vieni tu
anche. M'ha fatto prendere spavento.
D'un tratto mi s'è messo
a corsa disperata...
Gigliola. Ma perché? Simonetto. Non so. Lascia. Annabella,
non mi gridare. Ora sto bene qui.
Gigliola. Ti sei scalmato. Asciùgati. Simonetto. M'avevi detto che mi raggiungevi. Gigliola. Non ho potuto. Sai? T'ho preparata
la stanza.
Simonetto. Ah, veramente? Gigliola. Ho spedito un corriere a Cappadòcia,
che zia Costanza venga
sùbito a prenderti ella stessa...
Simonetto. E tu
non vieni? E nonna Aldegrina?
Gigliola. La nonna
si sente un poco male.
Annabella. Che dici, figlia? Gigliola. Si, s'è coricata.
Anzi, Annabella, va; ché già t'ha chiesto
più volte.
Annabella. E come mai? Le due donne si guardano. Annabella esce per la porta sinistra. Simonetto. Allora aspetto che si levi. Intanto
tu mi tieni con te.
Gigliola. Stai meglio; è vero? Simonetto. Nella stanza tua
non entra mai la femmina; non può
entrare. Tu la chiudi...
Gigliola. Sta certo, sta sicuro:
non entrerà mai più. Te lo prometto.
Simonetto. Da quella volta che la vidi a faccia
a faccia, risvegliandomi
sùbito in un sussulto tra il sudore
freddo, da quella notte
che me la vidi appresso,
china sul mio guanciale,
quasi nel mio respiro,
a spiare il mio sonno tra i miei cigli
— dura come una maschera di bronzo
con lo smalto nel bianco de' suoi occhi,
orrida, come l'incubo apparito —,
ah Gigliola, da quella volta, sempre
mi sono addormentato col terrore
di rivederla...
Gigliola. Non la rivedrai.
Stai meglio; è vero?
Simonetto. Si, un poco meglio. Gigliola. Non ti senti più forte? Simonetto. Sì, un poco. Gigliola. Hai camminato. Anche hai potuto correre. Simonetto. È bello il Sagittario, sai? Si rompe
e schiuma, giù per i macigni, mugghia,
tuona, trascina tronchi, tetti di capanne,
zàngole, anche le pecore e gli agnelli
che ha rapinato alla montagna. È bello,
sai?
Gigliola. Ah, ti si ravviva
l'anima!
Simonetto. Tutti i vetri delle case
di Castrovalve ardevano, sul sasso
rosso.
Gigliola. Hai guardato il sole? Simonetto. I manovali
hanno acceso le fiaccole e le ciotole
di pece sotto le logge. Hanno infisso
le fiaccole nei bracci
di ferro, nei torcieri nostri, in mezzo
alla travata. E un gruppo
stava chino a guatare
tra le faville il buono Re Roberto
venuto giù dalla sua nicchia, tutto
armato con la testa mozza...
Gigliola si leva agitata e s'aggira. Dove
vai?
Gigliola. Simonetto! Simonetto. Sorella, che vuoi
dirmi! Perché sei tanto
smorta?
Gigliola. La casa crolla.
Tu senti la ruina
grande. L'hai vista al lume delle fiaccole,
fùnebri. La tua casa
muore. E non le ami tu, queste tue vecchie
muraglie? Tu sei l'ultimo dei Sangro
d'Anversa: sei l'erede.
Simonetto. Gigliola, anche l'erede muore; e in tutte
queste carte è l'odore della morte.
Ho freddo e sono stanco.
La sorella gli s'inginocchia dinanzi. Gigliola. Perdonami, fratello. T'ho parlato
sempre come a un bambino
dolce. Non ti ricordi
quando la sera, nella stanza nostra,
t'aiutavo a slacciarti le tue scarpe?
E rimanevo innanzi a te così
come son ora, lungo tempo, lungo
tempo, a parlare. E tu mi trattenevi
quando volevo alzarmi
e mi dicevi: «Resta un altro poco!»
E si faceva tardi. E nostra madre
allora, udendo le voci, veniva
all'uscio e ci gridava: «A letto! A letto!»
E tu le rispondevi: «Un altro poco!»
Te ne ricordi?
Simonetto. Sì. Gigliola. «Che ti racconta
Gigliola?» ella diceva.
«La favola del Re dai sette veli?»
E s'affacciava all'uscio
con quel suo viso tenero,
con quel suo collo èsile che pareva
quasi azzurrino, tanto era venato...
La gola le si chiude. Te ne ricordi? Simonetto. Sì, sì. Gigliola. Oh perdónami,
caro! Un bambino dolce
sei ancóra per me.
E sono qui, sono qui come allora,
ai tuoi piedi; e ti parlo.
Simonetto. Dimmi, dimmi. Gigliola. Ma fa che tu m'ascolti
con un'anima forte.
Bisogna che nel fondo
del tuo buon sangue tu ritrovi il tuo
coraggio.
Simonetto, ansiosamente. Nonna Aldegrina si sente
molto male? è in pericolo?
Gigliola. No, non è questo.
Dimmi: oggi sei stato
nella cappella a pregare?
Simonetto. Gigliola,
tu sai: senza di te, non posso. Andremo
ora, insieme.
Gigliola. Hai pensato
oggi a Lei?
Simonetto. Sì, sorella. Gigliola. L'hai veduta? Simonetto. Dimmi tu come debbo
chiudere gli occhi per vederla.
Gigliola. Sempre
io la vedo.
Simonetto. Nei sogni, anch'io. Gigliola. La vedo
ad occhi aperti.
Simonetto. Dove? Gigliola. Dovunque. Non riposa,
non ha requie. La pietra
greve non basta a imprigionarla giù
nel buio. Non la placano i suffragi.
Non può giacere in pace, e non mi lascia
prender sonno. Fratello,
in quest'anno di lutto e di vergogna
tante cose ho sentito
morire andando andando
per la casa che tutta quanta è in fine,
ed una sola vivere
(quella che non potrebbe)
una sola, ma forte
come si sente il battito
della febbre nel polso,
come si sente il brivido
nelle ossa, di continuo.
E sai tu quale? Quella sepoltura.
Simonetto. Oh Gigliola, Gigliola, non andrò,
non me n'andrò, non ce n'andremo più.
Come lasciarla se non ha riposo?
È per quella che ha preso il posto suo,
per la femmina intrusa; non è vero?
E che faremo? Chi la scaccerà?
Io sono troppo debole, sorella;
e il nostro padre è servo
di quella che serviva.
Gigliola. Simonetto... Simonetto. Parla. Come ti trema
il tuo povero ménto
così smagrito!
Gigliola. Non avesti mai
sospetto?
Simonetto. Ma di che? Gigliola. Quando ti tennero
lontano, quando ti fu detto il modo
del suo morire... per pietà di te,
per pietà detta tua
anima ignara... Fu menzogna.
Simonetto. Parla!
Toglimi quest'angoscia. Vedi: spiro.
Gigliola. Perdónami, perdónami, fratello.
È necessario ch'io ti faccia questo
male.
Simonetto. Ma dimmi! Gigliola. Nostra madre fu
uccisa.
Con un gran sussulto di tutto il suo corpo estenuato, Simonetto si leva; poi vacilla, e ricade a sedere, balbettando. Simonetto. Hai detto? hai detto? hai detto? Gigliola. Fu
uccisa. Abbi coraggio, abbi coraggio.
Serra i denti.
Simonetto. Sì. Parla. Gigliola. Aspetta, aspetta. Il palpito ti sòffoca. Simonetto. No. Parla. Voglio sapere. Di' tutto. Gigliola. Aspetta. Simonetto. Voglio sapere. Gigliola. Di fuoco,
di gelo sei. Andiamo,
andiamo nella nostra
camera, Simonetto.
Vieni. Ti porto.
Simonetto, imperiosamente, con una forza improvvisa. No. Voglio sapere. Gigliola. È l'ora, questa è l'ora. Ecco la notte. Una pausa. Fu nella stanza d'Alcesti. La femmina
era là che cercava nel cassone
panni; e pareva non trovasse. Allora
si fece all'uscio, in agguato; e chiamò.
Il cassone era aperto;
sollevato il coperchio,
la tagliuola era pronta,
preparato l'ordegno
allo scatto mortale.
Chiamò dall'uscio; nostra madre venne,
entrò senza sospetto; si chinò
a cercare. Il carnefice
la prese d'improvviso, le calò
il coperchio sul collo;
premette, soffocò
l'ultimo grido...
Novamente, con un gran sussulto, Simonetto si leva, trasfigurato. Simonetto. Ah, morte, morte! Dammi
dammi... qualcosa per ferire, dammi
da uccidere... Gigliola, ora vado,
ora corro... Mi sento
forte. Lasciami!... E tu sapevi, tu
sapevi. E m'hai mentito
anche tu, m'hai tenuto
nella menzogna orrenda. E tutto un anno,
per la tua anima un'eternità
di tortura e d'infamia,
tu hai potuto vivere, m'hai fatto
vivere a fronte a fronte,
vivere quasi tra le mani che hanno
strangolato... Oh! Oh! Oh!
E mio padre, mio padre...
Su, dammi, dammi qualcosa... Ch'io corra,
ch'io la cerchi... Dov'è? La prenderò
per i capelli, la trascinerò
sino alla pietra, su la pietra stessa
la sbatterò, la finirò...
La violenza lo soffoca. Egli vacilla e manca. Ahi! Ahi!
Che è questo? Gigliola,
Gigliola, questo spasimo...
Se ne va l'anima... Aiutami tu!
Non potrò... non potrò...
La forza! Dammi la forza! Gigliola!
Un singulto gli schianta il petto. Oh! Oh! Oh! Sono un povero malato...
Oh! Oh! Altro non posso che morire...
Si lascia cadere tra le braccia della sorella singhiozzando disperatamente.
ATTO QVARTO
Appare il medesimo luogo, dopo il tramonto.
SCENA PRIMA.
Entra per la porta sinistra Benedetta recando una lucerna accesa di più lucignoli. Gigliola esce dalla cappella e passa tra i mausolei dell'arcata. Tutt'assorta nel suo pensiero terribile, spinta da una straordinaria forza di volontà finale, va per l'ombra dirittamente verso il cumulo delle carte ov'è celato il sacco degli aspidi. Scorgendo la donna nel chiarore vacillante, s'arresta di sùbito, con un grido soffocato.
Gigliola. Ah! Chi sei? chi sei? Benedetta. Io, io, Benedetta. Gigliola. Benedetta, sei tu? Che vuoi? Perché
vieni?
Benedetta. Ho portata la lucerna. È buio.
Suona un'ora di notte.
La pone su la tavola ingombra. Gigliola. E che mi dici? S'è acquetato? Benedetta. No.
Smania ancóra. Oh che pena,
che pena! Vuole te. Ti chiama sempre.
La febbre sale.
Gigliola. E l'hai lasciato solo? Benedetta. Annabella è rimasta al capezzale. Si accosta a Gigliola e la guarda. Ma tu, ma tu stai peggio
del tuo fratello! Bruci.
La febbre ti divora
gli occhi.
Gigliola. A quest'ora la casa era piena
d'urli e di pianti. Ti ricordi?
Benedetta. Figlia,
mi fai paura. Scuòtiti.
Gigliola. A quest'ora,
una povera cosa straziata
era là, sopra un letto bianco...
Benedetta. Figlia,
il castigo verrà. Non disperare.
Gigliola. A quest'ora la bocca
più dolce che abbia mai
fatto udire, movendosi
appena appena, le parole mute
che nessuno sa come si sepàrino
dal cuore, ti ricordi?
era sformata, divenuta orribile
di strazio, mal fasciata
perché non la guardassi
io che vedevo solo
quella nel mondo...
Benedetta. Figlia,
non ti fissare così! Tu mi fai
paura.
Gigliola. Ma mi chiama,
mi chiama. Benedetta,
anche tu le eri cara.
Abbracciami per lei.
Sii fedele a quel povero bambino...
Benedetta. Va da lui, che ti vuole.
Non star più qui. Se non vai, non s'acqueta.
Gigliola. Andrò. Ma tu mi devi
aiutare.
Benedetta. Sì. Dimmi. Gigliola. Accendi là nella cappella tutti
i candelabri, tutte
le lampade. Ch'io trovi la gran luce
quando ritorno. Va.
Benedetta. Farò come tu vuoi.
Troverai tutto acceso.
L'anima santa ti protegga.
Gigliola. Va. La sospinge verso la porta; si sofferma a guardarla. Poi, come la donna scompare, ella si volge; cammina verso il cumulo delle carte; s'inginocchia, brancola, ritrova il sacco letale, mentre parla sommessamente come chi prega ma con un fervore eroico che la irradia. Madre, tutte le lampade,
madre, tutte le fiaccole
pel sacrifizio in questa
ora che non avrà
l'eguale! Ho conosciuto
il deperire lento,
granello per granello,
respirando la polvere
delle cose consunte.
E lo sfacelo fu
per un anno il mio padre.
Il mio padre ebbe nome
dissolvimento. E l'altro
non fu più mio, lo sai;
perché due sono, due
furono alla ferócia.
E, da che tu sparisti,
sola qui dentro ho udito
nella notte e nel giorno
la parola del tarlo
per consolarmi, sola
quella sillaba eguale
empir l'immensità
della malinconia
nel mio cuore e nel mondo.
Madre, e dammi ora tu
la forza di venire
a te placata, a te
pacificata, a te
che lasciasti nell'anima,
mia la vocazione
della morte. Io la morte
mi pongo alle calcagna,
andando alla vendetta;
ch'io non possa tornare
né rivolgermi in dietro
né soffermarmi. E, come
il tuo trapasso fu
atroce, così voglio
il mio, madre, per me
che non ti vigilai,
che scamparti non seppi.
E quanto più selvaggio
sarà questo supplizio
tanto più mi parrà
esserti presso, in te
ricongiungermi, in te
confondermi, una sola
cosa ridivenire
con te, madre, come
quando tu mi portavi
nel tuo silenzio santo.
Mezzo nascosta dal cumulo, quasi irrigidita dallo sforzo inumano per vincere il ribrezzo, ella scioglie la cordella verde, caccia ambe le mani nel sacco mortifero. L'orrore e lo spasimo le contraggono i muscoli del volto esangue; ma ella mozza coi denti il grido dell'istinto insorto. È fatto. Ella ha la forza di richiudere il sacco e di legarlo. Madre, tu m'hai dato l'animo. Si alza, cammina; solleva per l'anello di bronzo il chiusino della fonte di Gioietta; caccia il sacco nel vano; lascia ricadere il disco di pietra. Si cerca il crinale nella veste. Madre, assistimi ancóra! S'ode dietro la porta sinistra la voce di Annabella. La voce di Annabella. Benedetta!
Benedetta!
Risolutamente la moritura si lancia su per la scala buia, scompare.
SCENA SECONDA.
Annabella entra per la porta sinistra.
Annabella. Non c'è nessuno! Dove
sei, Benedetta?
Benedetta accorre alla soglia della cappella illuminata. Benedetta. Eccomi. Sono qua.
Chi mi vuole? Che vuoi?
Annabella. Gigliola è dentro?
Chiamala. Simonetto
non fa che smaniare.
Io non so più tenerlo.
Benedetta. Ma è venuta. Or ora
era qua; e m'ha detto
che accendessi le lampade;
ed è venuta.
Annabella. Vengo
io dalla stanza e non l'ho vista.
Benedetta. Come!
Non l'hai scontrata già pel corridore?
Annabella. No, ti dico. Oh che palpito!
Possa venire l'alba
di questa notte trista.
Benedetta. E dove sarà, mai
andata? Forse dalla vecchia.
Annabella. Sono
passata dalla camera di Donna
Aldegrina: e non c'era.
C'era nel corridore Don Tibaldo,
là davanti alla porta della madre,
che m'ha fatto paura,
là fermo, senza muoversi,
senza parlare; e non entra. Non l'ho
mai visto con quel viso...
Benedetta. Oh destino, destino!
Così finire questa casa grande!
E non è grande assai per tanta doglia.
E pare che non debba venir l'alba
mai più!
Annabella. Non è tornato Don Bertrando.
E non si sa perché. Un manovale
dice d'averlo intraveduto là
sotto i cipressi, a calata di sole,
con quell'uomo di Luco,
e che ai gesti pareva furioso
come se lo volesse
battere... Sempre pronto a far la rissa
l'Acclozamòra. Ma la gente marsa
è d'ossa dure. E chi sa che può essere
accaduto!
Benedetta. Gran pianto
non si farebbe per lui nella casa
dei Sangro.
Annabella. Vedi, vedi: pel giardino
le fiaccole.
Benedetta. Che fanno? Annabella. Tra i cipressi:
vedi? Forse lo cercano
i manovali.
Si sofferma sotto l'arcata mediana, dinanzi al cancello; e guarda. Poi, ripresa dall'ansia, si volge. Ma Gigliola dove
sarà mai? Ora salgo.
Benedetta. Non hai sentito un grido? Annabella. No. Son gli uomini
che si dànno la voce.
Ascolta. Ora è silenzio.
Odi il rombo del fiume?
e la goccia che cade
là nella fontanella di Gioietta...
È il primo quarto della luna nova.
Malinconia! Malinconia!
Benedetta. Mi trema
il cuore dentro. Ho sempre negli orecchi
grida.
Annabella. Donna Giovanna... Ma di qui
non s'ode.
Benedetta. Se tu sali, io vado... Annabella. Taci!
SCENA TERZA.
Ella ha udito un fruscìo giù per le scale. Entrambe sobbalzano. Appare d'improvviso Gigliola, irriconoscibile. Le donne sbigottite gettano un grido.
Benedetta. Oh, figlia, e che hai fatto? Gigliola. Annabella, Annabella,
dove hai lasciato Simonetto? dove
l'hai tu lasciato?
Annabella. Nella stanza. Gigliola. Quando? Annabella. Or ora. Son venuta per cercarti.
Chiama; ti vuole.
Gigliola. E non s'è mosso mai
dal suo letto?
Annabella. No, mai.
Finora sono stata al capezzale.
E prima di me c'era Benedetta.
Gigliola. E allora? Annabella. Figlia, figlia, ma che hai
fatto?
Benedetta. Dio, Dio, le mani!
Che t'hanno fatto alle mani?
Gigliola. Dov'è
mio padre? Chi l'ha uccisa? chi l'ha uccisa?
Annabella. Di chi parli? Dell'anima
santa?
Gigliola. No: della femmina. È là morta. Benedetta. Ha la febbre. Delira! Gigliola. Io l'ho trovata morta sul suo letto. Annabella. Delira. E queste piaghe
su le mani... Oh sciagura
nostra!
Gigliola. No, non deliro, non deliro
ancóra. Io l'ho trovata morta.
Il padre appare alla porta sinistra. Vedendolo, in un lampo ella comprende. Tu!
Il suo sangue è su te.
Il padre è mortalmente pallido. La sua voce è sommessa ma ferma. Tibaldo. Io, sì, l'ho spenta.
Il suo sangue è su me. T'ho vendicata.
Gigliola. Tu non potevi, non potevi. Il vóto
era mio solo. Vittima per vittima!
Tu l'hai sottratta al mio diritto santo.
Tibaldo. Perché la mano tua
non si contaminasse,
figlia, io l'ho fatto.
Gigliola. Ma la tua non era
pura per questo sacrifizio.
Tibaldo. In questo
sacrifizio ho lavata
la mia vergogna.
Gigliola. Hai suggellato il tuo
segreto nella bocca accusatrice.
Tibaldo. Quella bocca mentiva
in rigùrgito d'odio
per ch'io fossi perduto anche nell'anima
tua...
Gigliola vacilla, vinta dal malore che la torce. Subitamente il suo volto si scompone come nel principio dell'agonia. Le donne la sorreggono. Annabella. Dio, Dio, che è questo? Tibaldo. Gigliola! Benedetta. Dio! Le mani sono livide,
s'annérano...
Tibaldo. Gigliola! Annabella. Enfiati i polsi,
le braccia... Che hai fatto?
Parla!
Gigliola si riscuote, vince lo spasimo; allontana da sé le due donne. Gigliola. Non mi toccate! Benedetta. O sciagura, sciagura nostra! Annabella. Parla! Tibaldo. O figlia, abbi pietà! Gigliola parla come chi entri nel delirio. Gigliola. Non mi toccate!
Io lo so, io lo so.
Non potete aiutarmi.
Medicina non vale.
Quando mi mossi, io volli
non più tornare in dietro.
M'ha chiamata, mi chiama.
Andare debbo. Ho il letto
per l'agonia: la pietra
che fu chiusa da due...
Tibaldo. Implacabile, ascoltami!
Il mio cuore è schiantato.
Anch'io non sopravvivo.
Ti parlo già dall'ombra.
Gigliola. Misera, che accendesti
le lampade, e ora spegnile!
Fa l'ombra, tutta l'ombra
su chi non potè compiere
il suo vóto.
Si volge verso il cancello, dietro a cui si vedono rosseggiare le fiaccole dei manovali. Spegnete
le fiaccole, volgetele,
spegnetele nell'erba,
o uomini. Agitare
la mia nel mio pugno
non potei. Tutto fu
in vano.
Cammina verso la cappella. Addio, addio. Il padre le attraversa il passo, barcollando come chi sia sul punto di stramazzare. Tibaldo. Gigliola! La figlia si sofferma, per non abbattersi in lui. Gigliola. No. Nessuno
mi segua. Addio.
Tibaldo, cadendo a terra di schianto. Passa, passa su me!
ADOLPHVS DE-KAROLIS ORNAVIT
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