Gabriele d'Annunzio

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LA GIOCONDA

TRAGEDIA

Cosa bella mortal passa, e non d'arte. Leonardo da Vinci.

medallion

MILANO

Fratelli Treves, Editori

31.º migliaio.

proprietà letteraria.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

È assolutamente proibito di rappresentare questo lavoro senza il consenso per iscritto dell'Autore. ( Articolo 14 del Testo unico, 17 settembre 1882 ).

Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera che non porti il timbro a secco dell'autore.

Milano, Tip. Treves—1922.

per ELEONORA DUSE

dalle belle mani.

DRAMATIS PERSONAE. ATTO PRIMO, SCENA PRIMA, SCENA SECONDA, SCENA TERZA, SCENA QUARTA, ATTO SECONDO, SCENA PRIMA, SCENA SECONDA. ATTO TERZO, SCENA PRIMA, SCENA SECONDA, SCENA TERZA. ATTO QUARTO, SCENA PRIMA, SCENA SECONDA, SCENA TERZA. CONCORDANZA.

DRAMATIS PERSONAE.

Lucio Settala. Lorenzo Gaddi. Cosimo Dalbo. Silvia Settala. Francesca Doni. Gioconda Dianti. La piccola Beata. La Sirenetta.

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A Firenze e su la marina di Pisa, nel tempo nostro.

ATTO PRIMO.

Una stanza quadrata e calma, ove la disposizione di tutte le cose rivela la ricerca di un'armonia singolare, indica il segreto di una rispondenza profonda tra le linee visibili e la qualità dell'anima abitatrice che le scelse e le ama. Tutto intorno sembra ordinato dalle mani di una Grazia pensierosa. L'imagine di una vita dolce e raccolta si genera dall'aspetto del luogo.

Due grandi finestre sono aperte sul giardino sottostante; pel vano di una si scorge sul campo sereno del cielo il poggio di San Miniato, e la sua chiara basilica, e il Convento, e la chiesa del Cronaca, "la Bella Villanella", il più puro vaso della semplicità francescana.

Una porta mette nell'appartamento interno; un'altra conduce all'uscita. È il pomeriggio. Per entrambe le finestre entrano il lume, il fiato e la melodia di Aprile.

SCENA PRIMA.

Appariscono su la soglia della prima porta Silvia Settala e Lorenzo Gaddi il vecchio, avanzandosi l'una a fianco dell'altro, entrando insieme nella freschezza primaverile.

Silvia Settala.

Ah, sia benedetta la vita! Per aver sempre tenuta accesa una speranza, oggi io posso benedire la vita.

Lorenzo Gaddi.

La vita nuova, cara Silvia, buona creatura coraggiosa, così buona e così forte! La tempesta è passata. Ecco che Lucio ritorna a voi, pieno di riconoscenza e di tenerezza, dopo tanto male. Sembra ch'egli rinasca. Dianzi aveva gli occhi d'un bambino.

Silvia Settala.

Egli ritrova tutta la sua bontà, quando voi gli siete accanto. Quando vi dice Maestro, la sua voce si fa così affettuosa che il vostro gran cuore paterno ne deve palpitare.

Lorenzo Gaddi.

Dianzi aveva gli occhi medesimi che gli vidi quando venne a me la prima volta e io gli misi la creta fra le mani. I suoi occhi erano attoniti e dolci; ma fin da quel tempo il suo pollice era energico e rivelatore. Conservo il suo primo abbozzo. Pensai di offrirvelo in dono il giorno degli sponsali. Ve lo darò per augurio della nuova felicità.

Silvia Settala.

Grazie, maestro.

Lorenzo Gaddi.

È una testa di donna coronata di lauro. Mi ricordo: era là una piccola modella mediocre. Lavorando, egli la guardava di rado. Talvolta pareva assorto, e talvolta ansioso. Gli uscì dalle mani una specie di maschera confusa, in cui s'intravedeva non so qual lineamento eroico. Rimase per qualche minuto perplesso e scoraggiato, e quasi vergognoso, dinanzi alla sua opera, non osando volgersi a me. Ma subitamente, prima di tralasciare, con pochi tocchi segnò intorno alla testa una corona di lauro. Quanto mi piacque! Egli volle coronare nella creta il suo sogno inespresso. La fine della sua giornata fu un atto d'orgoglio e di fede. Lo amai da quell'istante, per quella corona. Io vi darò l'abbozzo. Forse, guardandolo con attenzione, saprete scoprirvi il volto ardente di Saffo, quella figura ideale che qualche anno dopo egli seppe condurre alla perfezione di un capolavoro.

Silvia Settala, che ascolta avidamente.

Sedete, sedete, maestro; rimanete ancora un poco: vi prego! Sedete qui, accanto alla finestra. Rimanete ancora qualche minuto! Io ho mille cose da dirvi, e non saprò dirvene una. Vorrei vincere questo tremito continuo che mi tiene.... Bisogna comprendere....

Lorenzo Gaddi.

La gioia vi fa tremare?

Egli siede presso la finestra. Silvia, poggiata le reni al davanzale, rimane volta verse di lui; e il suo viso campeggia nell'aria cerulea dove sfonda il bel poggio religioso.

Silvia Settala.

Non so se sia la gioia.... A volte tutto quel che fu, tutto il male, tutto il dolore, e perfino il sangue, e perfino la cicatrice, tutto dilegua, scompare, è cancellato dall'oblio, è nulla. A volte tutto quel che fu, tutto l'orribile peso della memoria, si addensa, si aggrava, si fa compatto e opaco e duro come una muraglia, come una roccia che io non debba sormontare giammai.... Dianzi, quando voi parlavate, quando mi avete offerto quel dono inatteso, pensavo: "Ecco, ora prenderò nelle mie mani quel dono, quel pezzo di creta dove egli gettò il primo seme del suo sogno come in una zolla feconda; io lo prenderò nelle mie mani, andrò verso di lui sorridendo, portandogli intatta la parte migliore della sua anima e della sua vita; ed io non parlerò, ed egli riconoscerà in me la custode di tutto il suo bene, e mai più egli vorrà partirsi da me, e noi saremo giovini ancora, saremo giovini ancora!" Così pensavo; e il pensiero e l'atto si confondevano con una facilità incredibile. Le vostre parole trasfiguravano il mondo.... Poi, ecco, un soffio passa, un alito, il più tenue fiato, un nulla, e travolge ogni cosa, e distrugge ogni illusione; e l'ansietà ritorna, e il timore, e il tremito.... Oh aprile!

Subitamente ella si volge alla luce, con un largo sospiro.

Come turba quest'aria, che pure è così limpida! Tutte le speranze e tutte le disperazioni passano nel vento con la polvere dei fiori.

Ella si sporge dal davanzale chiamando.

Beata! Beata!

Lorenzo Gaddi.

La piccola è nel giardino?

Silvia Settala.

E là, che corre tra i rosai. È folle d'allegrezza.—Beata!—S'è nascosta dietro una siepe, la monella. E ride. L'udite ridere? Ah, quando ella ride, io so quale sia la gioia dei fiori che si riempiono di rugiada fino all'orlo del calice. Così il suo riso fresco mi colma il cuore.

Lorenzo Gaddi.

Forse anche Lucio l'ascolta, e ne è consolato.

Silvia Settala, grave e trepida, chinandosi verso il maestro, prendendogli una mano.

Voi credete dunque ch'egli sia guarito veramente.... d'ogni piaga? Credete ch'egli ritorni a me con tutta l'anima sua? Avete sentito questo, vedendolo, parlandogli? Questo vi dice il cuore?

Lorenzo Gaddi.

M'è parso, dianzi, ch'egli avesse l'aspetto dell'uomo che ricomincia a vivere con un senso nuovo della vita. Colui che ha veduto il volto della morte non può non aver veduto in un baleno anche quello della verità. I suoi occhi sono sbendati. Egli vi riconosce intera.

Silvia Settala.

Maestro, maestro, se voi v'ingannaste, se la speranza fosse vana, che sarebbe di me? Ho consumato tutte le forze.

Lorenzo Gaddi.

E di che temete omai?

Silvia Settala.

Egli ha voluto morire; ma l' altra.... l' altra vive, e la so implacabile.

Lorenzo Gaddi.

E che potrebbe ella omai?

Silvia Settala.

Tutto potrebbe, s'ella fosse ancora amata.

Lorenzo Gaddi.

Ancora amata? Oltre la morte?

Silvia Settala.

Oltre la morte. Ah, comprendete la mia angoscia! Per lei egli ha voluto morire, in un'ora di delirio e di furore. Pensate quanto egli dovesse amarla se il pensiero di me, se il pensiero di Beata non l'ha trattenuto.... Egli era dunque, nell'ora terribile, tutto intero la preda di lei sola; egli era al culmine della sua febbre e del suo spasimo, e il resto del mondo era abolito. Pensate quanto egli dovesse amarla!

La voce della donna è sommessa ma lacerante. Il vecchio china il capo.

Ora, chi può dire quel che sia accaduto in lui, dopo il colpo, quando il buio della morte è passato su la sua anima? S'è egli risvegliato immemore? Vede egli un abisso tra la sua vita che si rinnovella e la parte di sè che è rimasta di là da quel buio? Oppure.... oppure l'Imagine è risorta dal profondo, e rimane su l'ombra per sempre, dominatrice, con un rilievo indistruttibile? Dite!

Lorenzo Gaddi, perplesso.

Chi può dire?

Silvia Settala, con un accento di dolore.

Ah, ora voi stesso non osate più consolarmi! Dunque, è così? Non v'è riparo?

Lorenzo Gaddi, prendendole le mani.

No, no, Silvia.... Io intendeva:—chi può dire quali mutamenti porti in una natura come la sua una forza tanto misteriosa? Tutto annunzia in lui l'apparizione di un nuovo bene. Guardatelo quando sorride. Dianzi, là, prima che voi vi allontanaste per accompagnarmi fuori, quando vi ha baciato queste care mani, non avete sentito che tutto il suo cuore si struggeva di tenerezza e di umiltà?

Silvia Settala, accesa il volto da una tenue fiamma.

Sì, è vero.

Lorenzo Gaddi, guardandole le mani.

Care, care mani, coraggiose e belle, sicure e belle! Sono d'una straordinaria bellezza le vostre mani, Silvia. Se troppe volte il dolore ve le ha congiunte, anche ve le ha sublimate, le ha rese perfette. Sono perfette. Ricordate la donna del Verrocchio, la donna dal mazzolino, quella dai capelli a grappoli? Ah, è là!

Egli s'accorge, dallo sguardo e dal sorriso di Silvia, che una copia del busto è posata su un piccolo armario in un angolo della stanza.

Voi avete dunque già riconosciuta la parentela. Quelle due mani sembrano consanguinee delle vostre, sono della medesima essenza. Vivono, è vero?, d'una vita così luminosa che il resto della figura n'è oscurato.

Silvia Settala, sorridendo.

Oh anima sempre giovine!

Lorenzo Gaddi.

Quando Lucio riprenderà il suo lavoro, dovrà il primo giorno modellare le vostre mani. Io ho un pezzo di marmo antico, trovato negli Orti Oricellari. Glie lo darò, perchè le scolpisca in quello e poi le sospenda come un ex-voto.

Silvia Settala, a cui passa un'ombra su la fronte.

Credete ch'egli riprenderà presto il suo lavoro? Lo desidera? Ve ne ha parlato?

Lorenzo Gaddi.

Sì, dianzi, quando voi non eravate là.

Silvia Settala.

Che vi diceva?

Lorenzo Gaddi.

Cose vaghe e deliziose, imaginazioni di convalescente. Le conosco. Sono stato anch'io malato. Ora gli sembra d'avere smarrito l'arte sua, di non aver più alcuna potenza, d'essere divenuto estraneo alla bellezza. Ora invece gli sembra che i suoi pollici abbiano assunto una virtù magica e che a un semplice tocco le forme debbano escirgli dalla creta con la facilità dei sogni.... Ha qualche inquietudine per l'abbandono in cui crede sia rimasto il suo studio, laggiù, sul Mugnone. Mi ha pregato d'andare a vedere.... Avete voi la chiave?

Silvia Settala, turbata.

C'è il custode.

Lorenzo Gaddi.

Non siete più stata laggiù, da quando?

Silvia Settala.

Da quando la cosa incominciò.... Non ho ancora avuto il cuore di rientrarvi. Credo che vedrei da per tutto le macchie di sangue e troverei da per tutto le tracce di colei.... Ella è ancora padrona laggiù. Quel luogo è ancora il suo dominio.

Lorenzo Gaddi.

Il dominio di una statua.

Silvia Settala.

No, no.... Non sapete che una chiave è rimasta nelle sue mani? Ella entra là, ancora come una padrona.... Ah, ve l'ho detto, ve l'ho detto: ella vive, ed è implacabile.

Lorenzo Gaddi.

Siete sicura ch'ella sia rientrata là, dopo quel che è accaduto?

Silvia Settala.

Sono sicura. La sua audacia non ha limiti. Ella è senza pietà e senza vergogna.

Lorenzo Gaddi.

Ed egli, Lucio, lo sa?

Silvia Settala.

Non lo sa. Ma, certo, egli lo saprà, o prima o poi. Ella troverà il modo ch'egli lo sappia.

Lorenzo Gaddi.

Ma perchè questo?

Silvia Settala.

Perchè ella è implacabile, perchè non rinunzia alle sue prede.

Una pausa. Il vecchio è pensoso. La voce della donna si fa tremante e roca.

E la statua.... la Sfinge.... l'avete voi veduta?

Lorenzo Gaddi, dopo avere un poco esitato.

Sì, l'ho veduta.

Silvia Settala.

Fu egli che ve la mostrò?

Lorenzo Gaddi.

Sì, un giorno dell'ottobre scorso. L'aveva finita allora.

Una pausa.

Silvia Settala, con la voce che le trema e le manca.

È meravigliosa; è vero? Dite!

Lorenzo Gaddi.

Sì, è bellissima.

Silvia Settala.

Per l'eternità!

Una pausa, grave di mille cose indefinite e tuttavia ineluttabili.

La voce di Beata, dal fondo del giardino.

Mamma! Mamma!

Lorenzo Gaddi.

La piccola vi chiama.

Silvia Settala, scotendosi, sporgendosi dal davanzale.

Beata!... Ah, ecco: mia sorella Francesca traversa il giardino; vienesu, con Cosimo Dalbo. Sapete? Cosimo è tornato dal Cairo; è arrivato iersera a Firenze. Lucio sarà molto contento di rivederlo.

Lorenzo Gaddi, levandosi per accomiatarsi.

Dunque addio, cara Silvia: forse a domani.

Silvia Settala.

Rimanete ancora un poco! Mia sorella vorrà vedervi.

Lorenzo Gaddi.

Bisogna ch'io vada. Sono già in ritardo.

Silvia Settala.

Quando avrò il dono che mi avete promesso?

Lorenzo Gaddi.

Forse domani.

Silvia Settala.

Senza forse, senza forse. Vi aspetto. Bisogna che voi veniate spesso qui, tutti i giorni. La vostra presenza è un gran bene. Non mi abbandonate! Confido in voi, maestro. Ricordatevi che una minaccia è ancora sul mio capo.

Lorenzo Gaddi.

Non temete. In alto il cuore!

Silvia Settala, volgendosi alla porta.

Ecco Francesca.

SCENA SECONDA.

Entra Francesca Doni e s'avanza verso la sorella per abbracciarla. Cosimo Dalbo, che la segue, saluta Lorenzo Gaddi che è sul punto di uscire.

Francesca Doni.

Vedi chi ti conduco? Ci siamo incontrati davanti al cancello. Salute, maestro. Ve ne andate quando io entro?

Ella saluta il vecchio.

Silvia Settala, tendendo la mano al giovine cordialmente.

Bentornato, Dalbo. Vi aspettavamo. Lucio è impaziente di rivedervi.

Cosimo Dalbo, con sollecitudine affettuosa.

Come sta, ora? S'è levato? È guarito?

Silvia Settala.

È in convalescenza: un poco debole ancora; ma di giorno in giorno va riacquistando le forze. La ferita è interamente chiusa. Lo vedrete subito. Ha la visita del medico; vado ad annunziarvi. Sarà una grande gioia per lui. Mi ha già chiesto di voi più volte, nella giornata. È impaziente.

Ella si volge a Lorenzo Gaddi.

A domani, dunque.

Esce con un passo vivo e leggero. La sorella, il maestro e l'amico la seguono con gli occhi fino alla soglia.

Francesca Doni, con un sorriso carezzevole.

Povera Silvia! Sembra, da qualche giorno, che abbia le ali. Quando la guardo, in certi momenti, mi sembra che stia per spiccare il volo verso la felicità. E nessuno più di lei merita d'esser felice; non è vero, maestro? Voi la conoscete.

Lorenzo Gaddi.

Sì, ella è veramente quale i vostri occhi di sorella la vedono. Esce dal suo martirio alata. V'è in lei una specie di fremito incessante. Lo sentivo dianzi, mentre le stavo vicino. Ella è veramente nello stato di grazia. Non v'è altezza ch'ella non potrebbe raggiungere. Lucio ha nelle sue mani una vita di fiamma, una forza infinita.

Francesca Doni.

Siete stato a lungo con lui, oggi?

Lorenzo Gaddi.

Sì, qualche ora.

Francesca Doni.

Come lo avete trovato?

Lorenzo Gaddi.

Traboccante di dolcezza e smarrito. Voi lo vedrete fra poco, Dalbo. La sua sensibilità è pericolosa. Le persone che lo amano possono fargli molto bene e molto male. Una parola lo agita e lo sconvolge. Siate attento ad ogni vostra parola, voi che lo amate. A rivederci. Bisogna che io vada.

Si accomiata dai due, per uscire.

Francesca Doni.

A rivederci, maestro. Forse domani vi rivedrò qui. Spero. Voi avete orrore delle mie scale!

Ella accompagna il vecchio sino alla porta; quindi torna verso l'amico.

Che fuoco d'intelligenza e di bontà, in quel vecchio! Quando egli entra in una stanza, sembra che porti un conforto per tutti. Chi è triste si solleva e chi è lieto s'infèrvora.

Cosimo Dalbo.

È un animatore; appartiene alla più nobile casta degli uomini. La sua opera è una continua esaltazione della vita: è il continuo sforzo di comunicare una scintilla, tanto alle sue statue quanto alle creature che egli incontra nel suo cammino. Lorenzo Gaddi mi par degno d'una gloria ben più alta di quella che gli concedono i suoi contemporanei.

Francesca Doni.

È vero, è vero. Se sapeste di che energia e di che delicatezza ci ha dato prova, in questa orribile sventura! Quando la cosa avvenne, mia sorella non era qui: era da nostra madre, a Pisa, con Beata. La cosa avvenne nello studio, là, sul Mugnone, verso sera. Soltanto il custode udì il colpo. Com'ebbe scoperta la verità, per istinto corse ad avvertire Lorenzo Gaddi prima d'ogni altro. Nell'angoscia e nell'orrore di quella sera d'inverno, tra la confusione e l'incertezza, egli solo non si perse mai d'animo, non ebbe mai un attimo di esitanza. Conservò sempre una strana lucidità da cui tutti fummo dominati. Egli solo disponeva: tutti obbedivamo. Fu egli che volle trasportato il povero Lucio qui nella casa, moribondo. I medici disperavano della salvezza. Egli solo ripeteva, con una fede ostinata: "No, non morrà, non morrà, non può morire." Io gli credetti. Ah che notte eroica, Dalbo! E poi l'arrivo di Silvia, l'annunzio ch'egli stesso le diede, il divieto ch'egli le fece di entrare nella stanza dove un soffio poteva spegnere quel barlume di vita; e la forza di lei, l'incredibile resistenza di lei alla veglia e al disagio per intere settimane, la vigilanza fiera e silenziosa con cui ella custodiva la soglia come per impedire il passaggio alla morte....

Cosimo Dalbo.

E io ero lontano, inconsapevole di tutto, a bearmi d'ozio in una barca sul Nilo! Eppure una specie di presentimento mi pungeva, prima di partire. Per ciò io tentai ogni mezzo di persuadere Lucio ad accompagnarmi nel viaggio che in altri tempi avevamo sognato insieme. Egli aveva finito in quei giorni la sua statua; e io pensavo che nel marmo stupendo fosse la sua liberazione. Mi rispose: "Non ancora!" E, qualche mese dopo, doveva cercarla nella morte. Ah se io non fossi partito, se fossi rimasto al suo fianco, se fossi stato più fedele, se avessi saputo difenderlo contro la nemica, nulla sarebbe forse avvenuto!

Francesca Doni.

Non bisogna rammaricarsi, se da tanto male può venir qualche bene. Chi sa in quale tristezza disperata mia sorella si sarebbe consunta, se il fatto violento non l'avesse riunita a Lucio d'improvviso! Ma non crediate che la nemica abbia deposto le armi. Ella non abbandona il campo....

Cosimo Dalbo.

Che? Gioconda Dianti....

Francesca Doni, facendo il segno del silenzio, abbassando la voce.

Non dite quel nome!

SCENA TERZA.

Appare su la soglia Lucio Settala appoggiato al braccio di Silvia, pallido e scarno, con gli occhi straordinariamente ingranditi dalla sofferenza, con un sorriso tenue e dolce che affina la sua bocca voluttuosa.

Lucio Settala.

Cosimo!

Cosimo Dalbo, volgendosi, accorrendo.

Oh Lucio, caro, caro amico!

Egli prende il convalescente fra le sue braccia; mentre Silvia si trae in disparte, si avvicina alla sorella ed esce con lei, piano, soffermandosi a guardare l'amato prima di scomparire.

Tu sei guarito; è vero? Tu non soffri più; è vero? Ti trovo un po' pallido, un po' dimagrato, ma non troppo.... Hai l'aria che avevi certe volte uscendo da un periodo di lavoro febrile, quando rimanevi dodici ore al giorno dinanzi alla tua creta, divorato dalla grande fiamma. Ti ricordi?

Lucio Settala, smarrito, girando lo sguardo per vedere se Silvia sia ancora nella stanza.

Sì, sì....

Cosimo Dalbo.

Anche allora gli occhi ti s'ingrandivano....

Lucio Settala, con una inquietudine indefinibile, quasi infantile.

E Silvia? Dov'è andata Silvia? Non era qui anche Francesca?

Cosimo Dalbo.

Ci hanno lasciati soli.

Lucio Settala.

Perchè? Ella crede, forse.... No, io no ti dirò nulla, io non so più nulla. Tu sai, forse. Io no; non mi ricordo, non voglio ricordarmi più.... Dimmi di te! Dimmi di te! È bello il Deserto?

Egli parla in una maniera singolare, come trasognando, con un misto di agitazione e di stupore.

Cosimo Dalbo.

Ti dirò. Ma bisogna che tu non ti affatichi. Ti racconterò tutto il mio pellegrinaggio; verrò da te ogni giorno, se mi vuoi; rimarrò con te quanto ti piacerà, ma senza che tu ti stanchi. Siedi qui....

Lucio Settala, sorridendo.

Tu credi che io sia tanto debole?

Cosimo Dalbo.

No; tu stai già bene, ma è meglio che tu non ti stanchi. Siedi qui....

Lo fa sedere presso la finestra; guarda la collina disegnata puramente sul cielo d'aprile.

Ah, mio caro, cose meravigliose hanno mirato i miei occhi e hanno bevuto una luce al cui paragone anche questa sembra smorta; ma, quando rivedo una semplice linea come quella là (guarda là San Miniato!), mi sembra di ritrovar tutto me stesso dopo un intervallo di errore. Guarda là il poggio benedetto! La piramide di Chéope non fa dimenticare la Bella Villanella; e più d'una volta, nei giardini di Koubbeh e di Gizeh, serbatoi di miele, masticando un grano di resina, ho pensato a uno svelto cipresso toscano sul limite di un oliveto magro.

Lucio Settala, socchiudendo gli occhi sotto l'alito primaverile.

Si sta bene qui; è vero? C'è un odore di violette.... C'è forse un mazzo di violette nella stanza? Silvia ne mette da per tutto, anche sotto il mio guanciale.

Cosimo Dalbo.

Sai? Ti ho portato, tra le pagine di un Corano, le violette del Deserto. Le ho colte nel giardino di un monastero persiano, in vicinanza della Tebaide, ai fianchi del Mokattam, su un'altura di sabbia. Là, in una caverna scavata nel monte, coperta di tappeti e di cuscini, i monaci offrono al visitatore un thè d'un sapore speciale, il thè arabo, profumato di violette.

Lucio Settala.

E tu me le hai portate, sepolte nel libro! Tu eri felice quando le coglievi, laggiù; e io avrei potuto esser teco.

Cosimo Dalbo.

Tutto era oblio, laggiù. Salivo per una lunga scala di pietra, diritta, che conduce dal piede della montagna alla porta dei Bectaschiti. Il Deserto era intorno: una immensa aridità allucinante dove soli vivevano il palpito del vento e il tremolio del calore. Non distinguevo qua e là, tra le dune, se non le pietre bianche dei cimiteri arabi. Udivo i gridi degli sparvieri, altissimi nel cielo. Guardavo sul Nilo passare a torme le barche dalle grandi vele latine, bianche, lente, di continuo, di continuo, come fiocca la neve. E a poco a poco mi rapiva un'estasi che tu non puoi ancora aver conosciuto: l'estasi della luce.

Lucio Settala, con una voce che pare lontana.

E io avrei potuto esser teco, oziare, obliare, sognare, inebriarmi di luce. Tu hai navigato sul Nilo, è vero?, in una vecchia barca carica di otri, di sacchi e di gabbie. Tu sei disceso in un'isola verso sera; tu eri vestito di lana bianca; tu avevi sete; tu ti sei dissetato a una sorgente; tu hai camminato a piedi nudi sui fiori; e l'odore era così forte che ti pareva di non aver più fame. Ah, ho pensato, ho sentito queste cose, dal mio guanciale.... E anche pel deserto ti seguivo, quando la febbre era più alta: per un deserto di sabbie rosse, tutto seminato di pietre brillanti che si sfaldavano crepitando come i sarmenti al fuoco.

Una pausa. Egli si solleva un poco, interrogando con un accento chiaro, ad occhi aperti.

E la Sfinge?

Cosimo Dalbo.

La prima volta la vidi di notte, al lume delle stelle, profondata nella sabbia che conservava ancora l'impronta violenta dei turbini. Soltanto la faccia e la groppa emergevano da quella specie di gorgo placato, la forma umana e la bestiale. La faccia, dove l'ombra nascondeva le mutilazioni, in quell'ora mi parve bellissima: calma, augusta e cerulea come la notte, quasi mite! Non v'è, Lucio, cosa al mondo che sia più sola di quella; ma la mia anima era come dinanzi a moltitudini che dormissero e su le cui ciglia cadesse la rugiada. La rividi, poi, di giorno. La faccia era bestiale come la groppa; il naso e le gote erano corrosi; il fimo degli uccelli bruttava le bende. Era il pesante mostro senz'ali imaginato dagli scavatori di sepolcri, dagli imbalsamatori di cadaveri. E mi riapparve nel sole la tua Sfinge imperiosa e pura che porta le ali imprigionate vive negli omeri.

Lucio Settala, con una commozione subitanea.

La mia statua? Tu parli della mia statua? Tu la vedesti, è vero, prima di partire; e ti sembrò bella.

Egli guarda inquieto verso la porta, per tema che Silvia possa udire; e abbassa la voce.

Ti sembrò bella; è vero?

Cosimo Dalbo.

Bellissima.

Lucio si copre gli occhi con ambo le palme e resta per alcuni attimi intento come par evocare una visione nell'oscurità.

Lucio Settala, scoprendosi.

Non la vedo più. Mi sfugge. Appare e dispare come in un baleno, confusa. Se l'avessi ora qui davanti, mi parrebbe nuova; gitterei un grido Io l'ho scolpita, con queste mie mani?

Egli si guarda le mani affilate e sensitive. Un'agitazione crescente lo invade.

Non so più, non so più. Nella prima febbre, quando avevo ancora il piombo nella carne e il rombo continuo della morte su l'anima perduta, la vedevo diritta a piè del letto, accesa come una torcia, come se io medesimo l'avessi plasmata in una materia incandescente. Così per più giorni e per più notti io la vidi, a traverso le mie palpebre. S'accendeva con la mia febbre. Quando i miei polsi bruciavano, ella si faceva di fiamma. Pareva che salisse e ribollisse in lei tutto il sangue versato ai suoi piedi....

Cosimo Dalbo, inquieto, guardando anch'egli verso la porta per lo stesso timore.

Lucio, Lucio, tu dicevi dianzi che non sapevi più nulla, che non volevi ricordarti più di nulla.... Lucio!

Egli scuote dolcemente l'amico che è rimasto fisso.

Lucio Settala, riprendendosi.

Non temere. Tutto è laggiù, lontano, in fondo al mare. Anch'essa la statua è sommersa con l'altre cose, dopo il naufragio. Per ciò io non la vedo se non in confuso, a traverso le alte acque.

Cosimo Dalbo.

Ella sola sarà salvata, vivrà in eterno; e tanto dolore non sarà stato sofferto invano, tanto male non sarà stato inutile, se ancóra una cosa bella si aggiungerà all'ornamento della vita.

Lucio Settala, sorridendo ancora del suo sorriso tenue e parlando con la sua voce lontana.

È vero. Io penso qualche volta alla sorte di colui che naufragò in una tempesta con tutto il suo carico. In una giornata serena come oggi, egli prese una barca e una rete; e tornò sul luogo del naufragio con la speranza di trarre dal fondo qualche cosa. E, dopo molta fatica, trasse a riva una statua. E la statua era così bella che, al rivederla, egli pianse di gioia; e si sedette su la riva del mare a contemplarla, e fu pago di quel bene, e non volle altro cercare; e obliò tutto il resto.

Egli si leva, quasi con impeto.

Perchè Silvia non torna più?

Ascolta. Chi ride? Ah, è Beata nel giardino. Guarda! San Miniato è d'oro: sfólgora. C'è una luce più gloriosa a Tebe?

Cosimo Dalbo.

L'estasi della luce! Te l'ho detto: tu non potrai conoscerla altrove. Cerchi, ghirlande, rote, rose di splendori, innumerabili faville.... I versi del Paradiso tornano alla memoria. Solo Dante ha trovato le parole abbaglianti. In certe ore il Nilo diventa la fiumana dei topazii, il "miro gurge". Come un sasso nell'acqua, un gesto nell'aria suscita mille e mille onde. Tutte le cose nuotano nella luce; tutte le foglie ne stillano. Le donne che passano lungo il fiume con gli otri riempiuti fiammeggiano veramente come le milizie angeliche nella Cantica, distinte "e di fulgore e d'arte".

Lucio, avendo scoperto su una tavola il mazzo di violette, lo prende, e vi affonda quasi il viso per aspirarne l'odore.

Lucio Settala, tenendo ancora il mazzo alle nari e socchiudendo gli occhi nella delizia.

Sono belle le donne del Nilo?

Cosimo Dalbo.

Talune, le adolescenti, hanno corpi d'una purezza e d'una eleganza stupende. Tu che prediligi le musculature agili e salde, una certa acerbità nelle forme, le gambe lunghe e nervose, troveresti là qualche modella incomparabile. Quante volte ti ho invocato! Nell'isola d'Elefantina avevo un'amica di quattordici anni: una fanciulla dorata come un dattero, magra, svelta, arida, con le reni forti e arcate, le gambe diritte e potenti, i ginocchi perfetti—cosa rarissima, come tu sai. Su tutta quella magrezza dura, che dava imagine d'un'arme da lancio precisa e fine, tre cose mi seducevano con una grazia infinitamente molle: la bocca, l'ombra dei cigli, l'estremità delle dita. Ella s'intrecciava i capelli con le dita ch'erano rosse all'estremità come petali intinti nella porpora; e guardarla in quell'atto, su la soglia della casa bianca, era la gioia dei miei mattini. Avrei voluto portartela con le statuette, con gli scarabei, con le stoffe, col tabacco, con i profumi, con le armi. Ma t'ho portato un bell'arco, che ho comperato ad Assouan e che le somiglia un poco.

Lucio Settala, con un lieve turbamento, rovesciando indietro il capo.

Doveva essere una creatura deliziosa!

Cosimo Dalbo.

Deliziosa e inoffensiva. Ella somigliava a un bell'arco, ma le sue frecce non erano avvelenate.

Lucio Settala.

Tu l'amavi?

Cosimo Dalbo.

Come amo il mio cavallo e il mio cane.

Lucio Settala.

Ah, tu eri felice laggiù; la tua vita era facile e leggera. Era dunque l'isola d'Elefantina quella dove io ti vidi approdare, nel sogno. Avrei potuto esser teco! Ma io andrò, partirò. Non desideri di ritornarvi? Io avrò una casa bianca sul Nilo: farò le mie statue col limo del fiume e le alzerò in quella tua luce che me le convertirà in oro.... Silvia! Silvia!

Egli chiama verso la porta, come assalito da una impazienza repentina, da una volontà ansiosa di vivere.

Sarà troppo tardi?

Cosimo Dalbo.

È troppo tardi. Sopraggiunge la grande estate.

Lucio Settala.

Che importa? Io amo l'estate, il calore, anche l'afa. Tutti i melagrani saranno fioriti nei giardini, e qualche volta pioverà, verranno giù nell'afa quelle gocce larghe e tiepide che fanno sospirare di voluttà la terra....

Cosimo Dalbo.

Ma il Khamsin? quando tutto il Deserto si solleverà contro il Sole?

Silvia appare su la soglia, sorridendo, con tutta la persona mossa da una visibile animazione. Ella ha mutato abito: è vestita d'un colore più chiaro, primaverile; e porta fra le mani un mazzo di rose fresche.

Silvia Settala.

Che dite, Dalbo, contro il Sole? M'hai chiamata, Lucio?

Lucio Settala, ripreso da una specie di timidità inquieta, come d'uomo che abbia il bisogno di abbandonarsi e non osi.

Sì, ti ho chiamata, perchè non ti vedevo più tornare.... Cosimo mi raccontava tante cose belle, del suo viaggio. Volevo che anche tu le udissi.

Egli guarda la moglie con occhi attoniti, come se scoprisse in lei una grazia nuova.

Stavi per uscire?

Silvia Settala, arrossendo un poco.

Ah, tu guardi il mio abito. L'ho messo per provarlo, giacchè Francesca era là.... Mia sorella vi fa le sue scuse a entrambi, per essersi partita senza venire a salutarvi. Aveva fretta: l'aspettano i suoi bambini. Spera, Dalbo, che voi andiate presto a vederla.

Ella depone su una tavola il mazzo di rose.

Pranzate con noi, stasera?

Cosimo Dalbo.

Grazie. Stasera non posso. Mia madre mi tiene.

Silvia Settala.

È giusto. Domani, allora?

Cosimo Dalbo.

Domani. Ti porterò, Lucio, i miei doni.

Lucio Settala, con una curiosità infantile.

Sì, sì, pòrtali, pòrtali!

Silvia Settala, sorridendo con un'aria misteriosa.

Anch'io domani avrò un dono.

Lucio Settala.

Da chi?

Silvia Settala.

Dal maestro.

Lucio Settala.

Che dono?

Silvia Settala.

Vedrai.

Lucio Settala, con un moto d'allegrezza.

Tu anche vedrai quante belle cose mi ha portate Cosimo: stoffe, profumi, armi, scarabei....

Cosimo Dalbo.

Amuleti contro ogni male, talismani per la felicità. Sul Gebel-el-Tair, in un convento copto, ho trovato il più virtuoso degli scarabei. Il monaco mi narrò una lunga storia di un cenobita che, al tempo delle prime persecuzioni, essendosi rifugiato in un ipogeo, vi trovò una mummia e la trasse fuori dal suo viluppo di balsami e la rianimò. E la mummia risuscitata con le sue labbra dipinte gli fece il racconto della sua antica vita, ch'era stata un tessuto di felicità. Infine, come il cenobita voleva convertirla, ella preferì di ricoricarsi nei suoi balsami; ma prima gli donò lo scarabeo preservatore. Dirvi l'uso che ne fu fatto dal solitario e le vicende per cui scese a traverso i secoli nelle mani del buon copto, sarebbe troppo lungo. Certo, non ve n'è in tutto l'Egitto uno più virtuoso. Eccolo. Ve l'offro; l'offro a entrambi.

Egli presenta l'amuleto a Silvia, che l'osserva attentamente e poi lo porge a Lucio, con un baleno negli occhi.

Silvia Settala.

Com'è azzurro! È più splendido d'una turchese. Guarda.

Cosimo Dalbo.

Il copto mi disse: "Piccolo come una gemma, grande come un destino!"

Lucio volge la pietra mistica tra le dita che gli tremano un poco, smarritamente.

E addio, a domani. Bene vi sia! Felice sera!

Silvia Settala, scegliendo dal mazzo una rosa e offrendogliela.

Ecco una rosa fresca in cambio dell'amuleto. Portatela a vostra madre.

Cosimo Dalbo.

Grazie. A domani.

Rinnovati i saluti, esce.

SCENA QUARTA.

Lucio Settala sorride con timidezza, volgendo ancora fra le dita lo scarabeo; mentre Silvia mette le rose in una coppa. Entrambi, nel silenzio, sentono palpitare i loro cuori ansiosi. Il sole declinante indora la stanza. Pel vano delle finestre appare il cielo impallidito; San Miniato splende su l'altura; l'aria è dolce, senza mutamento.

Lucio Settala, guardando all'aria, in ascolto, sommesso.

C'è un'ape nella stanza.

Silvia Settala, sollevando la faccia.

Un'ape?

Lucio Settala.

Sì. Non senti?

Entrambi tendono l'orecchio al murmure.

Silvia Settala.

È vero.

Lucio Settala.

Forse l'hai portata tu, con le rose.

Silvia Settala.

Queste le ha colte Beata....

Lucio Settala.

L'ho sentita ridere dianzi, giù nel giardino.

Silvia Settala.

Com'è felice d'essere ritornata nella sua casa!

Lucio Settala.

Fu bene allontanarla allora....

Silvia Settala.

S'è fatta più bella e più forte, per aver respirato l'odore dei pini. Come dev'esser buona la primavera a Bocca d'Arno! Non vorresti andare là, un poco?

Lucio Settala.

Là, al mare.... Ti piacerebbe?

La voce d'entrambi è alterata da un lieve tremito.

Silvia Settala.

Passare là una primavera, è stato sempre il mio sogno.

Lucio Settala, soffocato dalla commozione.

Il tuo sogno è il mio, Silvia.

L'amuleto gli cade dalle mani.

Silvia Settala, chinandosi vivamente a raccoglierlo.

Ah, l'hai lasciato cadere! Si direbbe un cattivo presagio.... Guarda. Lo metto sul capo di Beata. "Piccolo come una gemma, grande come un destino!"

Ella depone l'amuleto sul mazzo di rose, delicatamente.

Lucio Settala, tendendo le mani verso di lei, come ad implorare.

Silvia! Silvia!

Silvia Settala, accorrendo.

Ti senti male? Diventi più pallido.... Ah, ti sei troppo affaticato oggi, sei troppo stanco. Siedi qui, siedi. Vuoi un sorso di quell'elisire? Ti senti venir meno? Di'!

Lucio Settala, prendendole le mani, con un impeto di amore.

No, no, Silvia; non mi sono mai sentito così bene.... Tu, tu siedi, siedi qui; e io ai tuoi piedi, finalmente, con tutta l'anima mia, per adorarti, per adorarti!

Ella si lascia cadere sul divano ed egli in ginocchio dinanzi a lei. Ella è tutta sconvolta e tremante, e pone le mani su le labbra di lui come per impedirgli di parlare. Le passano così tra le dita l'alito e le parole.

Finalmente! Era come una piena che veniva di lontano, una piena di tutte le cose belle e di tutte le cose buone che tu hai versate su la mia vita da che mi ami; e n'avevo il cuore gonfio, ah così gonfio che dianzi vacillavo sotto il peso e mancavo e morivo d'ambascia e di dolcezza, perchè non osavo dire....

Silvia Settala, bianca in viso, con la voce spenta.

Non dire, non dir più!

Lucio Settala.

Ascoltami, ascoltami. Tutte le pene che hai sofferte, le ferite che hai ricevute senza un grido, le lacrime che nascondesti perchè io non avessi onta e rimorso, i sorrisi di cui velavi le tue agonie, l'infinita pietà pel mio errore, il coraggio invincibile dinanzi alla morte, la lotta affannosa per la mia vita, la speranza tenuta sempre accesa al mio capezzale, le veglie, le cure, l'incessante palpito, l'attesa, il silenzio, la gioia, tutto quel che v'è di profondo, tutto quel che v'è di dolce e d'eroico in te, tutto io conosco, tutto io so, cara, cara anima; e, se la violenza è valsa a spezzare un giogo, se il sangue è valso a riscattarmi, (oh, lasciami dire!) io benedico la sera e l'ora che mi portarono moribondo in questa casa del tuo martirio e della tua fede per ricevere un'altra volta dalle tue mani,—da queste divine mani che tremano,—il dono della vita.

Egli preme la sua bocca convulsa nelle palme di lei; ed ella lo guarda a traverso il pianto che le impregna le ciglia, trasfigurata dalla felicità improvvisa.

Silvia Settala, con la voce spenta e rotta.

Non dire, non dir più! Il cuore non regge.... Tu mi soffochi di gioia.... Una sola parola io attendeva da te, una sola, null'altro; e a un tratto tu m'inondi d'amore, tu mi riempii tutte le vene, tu mi sollevi oltre la speranza, tu trapassi il mio sogno, tu mi dài la felicità che è sopra ogni attesa.... Ah che dicevi tu delle mie pene? Che è mai il dolore patito, che è mai il silenzio costretto, e che è una lacrima, e che è un sorriso, al confronto di questa piena che mi trasporta? Sento che più tardi, per te, per te, mi rammaricherò di non avere a bastanza sofferto.... Forse non ho toccato il fondo del dolore, ma so che ho toccato ora la cima della felicità.

Ella accarezza perdutamente il capo di lui che è abbandonato su le sue ginocchia.

Àlzati! Àlzati! Vieni più vicino al mio cuore, ripòsati sopra di me, abbandónati alla mia tenerezza, premi le mie mani su le tue palpebre, taci, sogna, raccogli le forze profonde della tua vita. Ah non me soltanto tu dovresti amare, non me soltanto, ma l'amore che io ho per te: amare questo mio amore! Io non sono bella, non sono degna dei tuoi occhi, sono una umile creatura nell'ombra; ma il mio amore è meraviglioso, è in alto in alto, è solo, è sicuro come il giorno, è più forte della morte, è capace d'un prodigio: ti darà quel che gli chiederai. Tu potrai chiedergli anche quel che non fu sperato mai.

Ella lo attira verso il suo cuore sollevandogli il capo. Egli tiene gli occhi chiusi e le labbra strette, pallidissimo, inebriato, estenuato.

Àlzati! Àlzati! Vieni più vicino al mio cuore; riposati sopra di me. Non senti che puoi abbandonarti? che nulla al mondo è più sicuro del mio petto? che sempre lo troverai? Ah, io ho pensato qualche volta che questa certezza potesse inebriarti come la gloria....

Standole egli dinanzi col volto levato, ella con ambe le mani gli solca i capelli per discoprirgli la fronte intiera.

Bella fronte possente, segnata, benedetta! Che tutti i germi della Primavera s'aprano nei tuoi pensieri nuovi!

Tremante ella vi preme le labbra. Muto egli tende le braccia verso l'invocatrice. Il tramonto sembra un'aurora.

ATTO SECONDO.

La medesima stanza, la medesima ora. Appare per le finestre un cielo ingombro e mutevole.

SCENA PRIMA.

Cosimo Dalbo è seduto presso una tavola su cui poggia il gomito sostenendo con la palma la tempia, grave e pensieroso. Lucio Settala è in piedi, irrequieto, sconvolto: si muove incertamente per la stanza, cedendo all'angoscia che lo preme.

Lucio Settala.

Sì, voglio dirtelo.... Perchè dovrei nascondere la verità? A te! M'è giunta una lettera, l'ho aperta, l'ho letta....

Cosimo Dalbo.

Della Gioconda?

Lucio Settala.

Di lei.

Cosimo Dalbo.

D'amore?

Lucio Settala.

Mi bruciava le dita....

Cosimo Dalbo.

Ebbene?

Esita. L'emozione gli altera la voce.

Tu l'ami ancora?

Lucio Settala, con un sussulto di paura.

No, no, no....

Cosimo Dalbo, guardandolo in fondo agli occhi.

Non l'ami più?

Lucio Settala, supplichevole.

Oh, non mi torturare! Soffro.

Cosimo Dalbo.

Ma che cosa dunque ti turba?

Una pausa.

Lucio Settala.

Ogni giorno, all'ora ch'io so, ella m'attende là, a piè della statua, sola.

Un'altra pausa. I due uomini sembra che considerino davanti a loro qualche cosa di vivente e di forte, una Volontà, evocata da quelle parole brevi.

Cosimo Dalbo.

Ella ti attende! Dove? Nel tuo studio! Come può entrarvi?

Lucio Settala.

Ha una chiave: quella di allora.

Cosimo Dalbo.

Ti attende! Crede, vuole dunque che tu le appartenga ancora.

Lucio Settala.

Tu lo dici.

Cosimo Dalbo.

E che farai?

Lucio Settala.

Che farò?

Una pausa.

Cosimo Dalbo.

Tu vibri come una fiamma.

Lucio Settala.

Soffro.

Cosimo Dalbo.

Ardi.

Lucio Settala, con veemenza.

No.

Cosimo Dalbo.

Ascolta. Ella è terribile. Non si lotta contro di lei se non da lontano. Per ciò io volevo trascinarti meco, oltremare. Tu preferisti al mare la morte. Un'altra (tu sai chi, e il cuore ti si fende) un'altra ti ha strappato alla morte. E tu non puoi vivere omai se non per questa.

Lucio Settala.

È vero.

Cosimo Dalbo.

Bisogna partire, fuggire.

Lucio Settala.

Per sempre?

Cosimo Dalbo.

Per qualche tempo.

Lucio Settala.

Ella mi aspetterà.

Cosimo Dalbo.

Tu sarai più forte.

Lucio Settala.

Il suo potere sarà cresciuto. Ella avrà più profondamente impregnato di sè il luogo che m'è caro per l'opera che vi fu compita. Io la vedrò di lontano come la custode di una statua ove passò il più vivo baleno dell'anima mia.

Cosimo Dalbo.

Tu l'ami!

Lucio Settala., disperato.

No, non l'amo. Ma pensa: ella sarà sempre la più forte; ella sa quel che mi vince e quel che mi lega; ella s'è armata d'un fascino a cui io non potrò sottrarre la mia anima se non strappandola dal mio cuore. Debbo io tentare un'altra volta?

Cosimo Dalbo.

Ah, tu deliri!

Lucio Settala.

Il luogo dove ho sognato, dove ho lavorato, dove ho pianto di gioia, dove ho chiamata la gloria, dove ho veduta la morte, è la sua conquista. Ella sa che io non potrò starne lontano o rinunziarvi, che la parte più preziosa della mia sostanza è là diffusa; ed ella m'attende, sicura.

Cosimo Dalbo.

Ma esercita dunque ella un diritto inviolabile? Nessuno potrà vietarle quella soglia?

Lucio Settala., con una emozione profonda.

Farla scacciare?

Cosimo Dalbo.

No; ma vi può essere un modo meno duro, il più semplice: richiederle quella chiave ch'ella non ha alcun diritto di conservare.

Lucio Settala.

E chi la richiederebbe?

Cosimo Dalbo.

Qualcuno di noi, io stesso, rispettosamente, in nome della necessità.

Lucio Settala.

Ella rifiuterà, considerandoti come un estraneo.

Cosimo Dalbo.

Tu stesso, allora.

Lucio Settala.

Io? Andando dinanzi a lei?

Cosimo Dalbo.

No; scrivendole.

Una pausa.

Lucio Settala, con l'accento dell'assoluta impossibilità.

Non posso. E tutto sarebbe vano.

Cosimo Dalbo.

Ma v'è un altro modo: abbandonare quella casa, sgomberarla, vuotarla di tutto, trasportare tutto altrove. Tu eviterai così anche la tristezza intollerabile del ricordo.... Come non senti che il cambiamento è necessario, se la tua vita si rinnova, perchè la compagna che hai ritrovata possa assistere al tuo lavoro? Soffriresti tu ch'ella si sedesse là dove l'altra si distese? ch'ella avesse di continuo negli occhi la visione dell'orribile sera?

Lucio Settala, sorridendo scorato e amaro.

Ebbene sì, hai ragione: cambieremo, andremo altrove, sceglieremo un bel luogo solitario, toglieremo la polvere dalle vecchie cose, apriremo tutte le finestre, faremo entrare l'aria pura, avremo un cumulo di creta, un blocco di marmo, alzeremo un monumento alla Libertà.

S'interrompe. La sua voce si fa singolarmente calma.

Una mattina la Gioconda batterà alla nuova porta; io le aprirò; ella entrerà; senza meraviglia io le dirò: Benvenuta.

Egli non contiene più l'amarezza.

Ah, ma tu sembri un fanciullo! Tutto per te si riduce a una chiave. Chiama dunque un fabbro, fa mutare la toppa; e m'avrai salvato.

Cosimo Dalbo, con dolcezza e tristezza.

Non t'adirare. Da principio credevo che tu dovessi soltanto liberarti d'una importuna. Riconosco, ora, che il mio consiglio era puerile.

Lucio Settala, implorando.

Cosimo, amico mio, fa di comprendere!

Cosimo Dalbo.

Comprendo; ma tu neghi.

Lucio Settala, lasciandosi di nuovo trasportare.

Non nego, non nego. Vuoi tu ch'io ti gridi che l'amo?

Si smarrisce, si guarda d'intorno sbigottito. Si passa una mano su la fronte, con un gesto di sofferenza. Abbassa la voce.

Bisognava lasciarmi morire. Pensa: se io che ero ebro di vita, se io che ero frenetico di forza e d'orgoglio, se io volli morire, è certo che riconobbi una necessità ineluttabile. Non potendo vivere nè con lei nè senza di lei, risolsi di partirmi dal mondo. Pensa: io che consideravo il mondo come il mio giardino e che avevo tutte le avidità dinanzi a tutte le bellezze! È certo dunque che riconobbi una necessità ineluttabile, un fato di ferro. Bisognava lasciarmi morire.

Cosimo Dalbo.

Tu disconosci ora la santità d'un miracolo, crudelmente.

Lucio Settala.

Non sono crudele. Per orrore delle crudeltà a cui mi trascinava la violenza del male, per non calpestare una virtù che mi pareva più che umana, per non poter sostenere la dolcezza d'una piccola voce inconsapevole che interrogava, per impedire a me stesso il peggio, comprendi?, per questo mi risolsi. E per orrore di ricominciare io mi rammarico, perché oggi io sono come un disperato che abbia preso un narcotico e si svegli dopo un sonno profondo e ritrovi al suo capezzale la stessa disperazione.

Cosimo Dalbo.

La stessa! Ed ho ancora negli orecchi le tue prime parole: "Non so più nulla; non mi ricordo, non voglio ricordarmi più..." Tu sembravi immemore di tutto, proteso verso un altro bene. Ho ancora negli orecchi il suono della tua voce, quando chiamasti la madre di Beata, levandoti a un tratto, impaziente, come per un ardore che non consentisse indugio. Vedo ancora il tuo sguardo su lei, quando entrò palpitante come una Speranza. E, certo, quella sera tu dovesti inginocchiarti ed ella dovette piangere ed entrambi doveste sentire la bontà della vita.

Lucio Settala.

Sì, sì, così fu: l'adorazione! Tutta l'anima mia si prostrò ai suoi piedi, riconobbe quel che è divino in lei, con una ebrezza di umiltà, con un fervore di riconoscenza indicibili. Fu un rapimento. Tu avevi parlato di un'estasi della luce; io la provai in quegli attimi. Ogni macchia parve cancellata; ogni ombra distrutta. La vita ebbe un nuovo splendore. Io credetti d'essere salvo per sempre....

S'interrompe.

Cosimo Dalbo.

Ma poi?

Lucio Settala.

Poi riconobbi che v'era qualche altra cosa da abolire in me: questa forza che affluisce alle mie dita incessantemente per riprodurre....

Cosimo Dalbo.

Che intendi?

Lucio Settala.

Intendo che forse sarei salvo, se avessi dimenticato anche l'arte. In certi giorni, là nel mio letto, guardandomi le mani indebolite, mi pareva incredibile che potessero ancora creare; mi pareva che avessero perduto ogni virtù. Mi sentivo interamente estraneo a quel mondo di forme in cui avevo vissuto.... prima di morire. Pensavo: "Lucio Settala, lo statuario, è trapassato." E imaginavo di farmi giardiniere d'un piccolo giardino.

Egli si siede, come placato, socchiudendo le palpebre, con un'aria di stanchezza, con un sorriso d'ironia appena visibile.

Potare i rosai, annaffiarli, liberarli dai bruchi, agguagliare il bossolo con le cesoie, guidare l'edera su pei muricciuoli, in un giardinetto inclinato verso il fiume dell'Oblío; e non più rammaricarmi di aver lasciato su l'altra riva un glorioso parco popolato di lauri, di cipressi, di mirti, di marmi e di sogni.... Tu mi vedi là, felice, con le cesoie lucenti, vestito di bordatino!

Cosimo Dalbo.

Non ti vedo.

Lucio Settala.

Peccato, amico mio.

Cosimo Dalbo.

Ma chi ti vieta il grande parco? Tu vi rientri pel viale dei cipressi, e trovi sul limite il tuo genio tutelare.

Lucio Settala, levandosi di scatto, come uno che perda di continuo la padronanza di sè.

Tutelare! Ah, mi sembra che tu pieghi una parola su l'altra, come fasce su filaccie, per la paura di sentir pulsare la vita. Hai tu mai premuto il dito su un'arteria messa a nudo, su un tendine lacerato?

Cosimo Dalbo.

Lucio, tu ti adiri ogni momento. V'è in te qualche cosa di acre e di convulso, una specie di esasperazione che t'impedisce di esser giusto. Tu non sei ancora escito di convalescenza, non sei guarito ancora. Un urto improvviso è venuto a turbare l'opera dolce che la Natura compiva in te. Le tue forze che rinascevano si sono inasprite. Se il mio consiglio valesse, io vorrei che tu andassi per ora a Bocca d'Arno, come avevi disegnato. Là, tra il bosco e il mare, tu ritroverai un po' di calma per considerare quale debba essere la tua attitudine; e ritroverai anche la bontà che ti darà lume...

Lucio Settala.

La bontà! La bontà! Credi tu dunque che il lume debba venirmi dalla bontà e non da quell'istinto profondo che volge e precipita il mio spirito verso le più superbe apparizioni della vita? Io sono nato per fare le statue. Quando una forma sostanziale è uscita dalle mie mani con l'impronta della bellezza, l'officio assegnatomi dalla Natura è per me compiuto. Io sono nella mia legge, sia pure di là dal Bene. Non è forse vero? Me lo concedi?

Cosimo Dalbo.

Continua.

Lucio Settala, abbassando la voce.

Il gioco dell'illusione mi ha congiunto a una creatura che non m'era destinata. Ella è un'anima d'un pregio inestimabile, dinanzi a cui mi prostro e adoro. Ma io non scolpisco le anime. Ella non m'era destinata. Quando mi apparve l'altra, io pensai a tutti i blocchi di marmo contenuti nelle cave delle montagne lontane, per la volontà di fermare in ciascuno un suo gesto.

Cosimo Dalbo.

Ma tu hai già obbedito al comandamento della Natura, generando il capolavoro. Quando vidi la tua statua, pensai ch'ella ti fosse liberatrice. Tu hai perpetuato in tipo ideale e incorruttibile un esemplare caduco della specie. Non sei dunque pago?

Lucio Settala, accendendosi.

Mille statue, non una! Ella è sempre diversa, come una nuvola che ti appare mutata d'attimo in attimo senza che tu la veda mutare. Ogni moto del suo corpo distrugge un'armonia e ne crea un'altra più bella. Tu la preghi che si arresti, che rimanga immobile; e a traverso tutta la sua immobilità passa un torrente di forze oscure come i pensieri passano negli occhi. Comprendi? Comprendi? La vita degli occhi è lo sguardo, questa cosa indicibile, più espressiva d'ogni parola, d'ogni suono, infinitamente profonda e pure istantanea come il baleno, più rapida ancora del baleno, innumerevole, onnipossente: insomma lo sguardo. Ora imagina diffusa su tutto il corpo di lei la vita dello sguardo. Comprendi? Un battito di palpebre ti trasfigura un viso umano e ti esprime una immensità di gioia o di dolore. Le ciglia della creatura che ami si abbassano: l'ombra ti cerchia come un fiume un'isola; si sollevano: l'incendio dell'estate brucia il mondo. Un battito ancora: la tua anima si dissolve come una goccia; ancora: tu ti credi il re dell'Universo. Imagina questo mistero su tutto il suo corpo! Imagina per tutte le sue membra, dalla fronte al tallone, questo apparire di vite fulminee! Potrai tu scolpire lo sguardo? Gli Antichi accecarono le statue. Ora—imagina—tutto il corpo di lei è come lo sguardo.

Una pausa. Egli si guarda intorno sospettoso, per tema d'essere udito. Si accosta anche di più all'amico, che lo ascolta con una emozione crescente.

Te l'ho detto: mille statue, non una. La sua bellezza vive in tutti i marmi. Questo sentii, con un'ansietà fatta di rammarico e di fervore, un giorno a Carrara, mentre ella m'era accanto e guardavamo discendere dall'alpe quei grandi buoi aggiogati che trascinano giù le carra dei marmi. Un aspetto della sua perfezione era chiuso per me in ciascuno di quei massi informi. Mi pareva che si partissero da lei verso il minerale bruto mille faville animatrici come da una torcia scossa. Dovevamo scegliere un blocco. Ricordo: era una giornata serena. I marmi deposti risplendevano al sole come le nevi eterne. Udivamo di tratto in tratto il rombo delle mine che squarciavano le viscere alla montagna taciturna. Non dimenticherei quell'ora, anche se morissi un'altra volta... Ella si mise per mezzo a quell'adunazione di cubi bianchi, soffermandosi dinanzi a ciascuno. Si chinava, osservava attentamente la grana, sembrava esplorarne le vene interiori, esitava, sorrideva, passava oltre. Ai miei occhi la sua veste non la copriva. Una specie di affinità divina era tra la sua carne e il marmo che chinandosi ella sfiorava con l'alito. Un'aspirazione confusa pareva salire verso di lei da quella bianchezza inerte. Il vento, il sole, la grandiosità dei monti, le lunghe file dei buoi aggiogati, e la curva antica dei gioghi, e lo stridore dei carri, e la nuvola che saliva dal Tirreno, e il volo altissimo di un'aquila, tutte le apparenze esaltavano il mio spirito in una poesia senza confini, lo inebriavano d'un sogno che non ebbe mai l'eguale in me.... Ah, Cosimo, Cosimo, io ho osato gettare una vita su cui riluce la gloria d'un tal ricordo! Quando ella tese la mano sul marmo che aveva scelto e volgendosi mi disse: "Questo", tutta l'alpe dalle radici alle cime aspirò alla bellezza.

Un fervore straordinario riscalda la sua voce e avviva il suo gesto. Colui che lo ascolta ne è sedotto, e ne dà segno.

Ah, ora tu comprendi! Tu non mi chiederai più se io sia pago. Ora tu sai come debba essere furiosa la mia impazienza se penso che in questo momento ella è là, sola, a piè della Sfinge, che mi aspetta. Pensa: la sua statua è alzata sopra di lei, immobile, immutabile, immune d'ogni miseria; ed ella è là affannata, e la sua vita fluisce, e qualche cosa di lei perisce di continuo nel tempo. L'indugio è la morte.... Ma tu non sai, tu non sai....

Ha l'accento di chi confida un segreto.

Cosimo Dalbo.

Che cosa?

Lucio Settala.

Tu non sai che io avevo già cominciata un'altra statua....

Cosimo Dalbo.

Un'altra?

Lucio Settala.

Sì: rimasta interrotta, abbozzata nella creta. La creta si dissecca, tutto si perde.

Cosimo Dalbo.

Ebbene?

Lucio Settala.

La credevo perduta.

Un sorriso irresistibile gli brilla negli occhi. La sua voce trema.

Non è perduta: è ancora viva. L'ultimo tocco di pollice è là, ancora vivo!

Egli fa l'atto di plasmare, istintivamente.

Cosimo Dalbo.

E come?

Lucio Settala.

Ella sa le cose dell'arte, sa in che modo la creta si mantenga molle. M'aiutava, un tempo. Ella stessa bagnava le tele...

Cosimo Dalbo.

Dunque ella pensava a tenere umida la creta, mentre tu morivi!

Lucio Settala.

Non era forse anche quello un modo di contrastare la morte? Non era anche quello un atto di fede, ammirabile? Ella conservava la mia opera...

Cosimo Dalbo.

Mentre l'altra conservava la tua vita.

Lucio Settala, oscurandosi, tenendo la fronte bassa, senza guardare l'amico, con una voce quasi dura.

Quale delle due cose ha maggior pregio? La vita m'è intollerabile, se mi fu resa gravata d'un divieto. Te l'ho detto: bisognava lasciarmi morire. Quale rinunzia può eguagliare quella che io avevo fatta? Soltanto la morte poteva arrestare l'impeto del desiderio che conduce fatalmente il mio essere verso il suo bene. Ora io rivivo: riconosco in me il medesimo uomo, la medesima forza. Chi mi giudicherà, se proseguo il mio destino?

Cosimo Dalbo, sgomentato, prendendolo per le braccia, come per trattenerlo.

Ma che farai dunque? Hai già risoluto?

Percosso dallo sgomento subitaneo che è nella voce e nell'atto dell'amico, Lucio si smarrisce, vacilla.

Lucio Settala, mettendosi nei capelli le mani febrili.

Che farò? Che farò? Conosci tu una tortura più crudele? Io ho la vertigine; comprendi? Se penso ch'ella è là, e m'attende, e le ore passano, e la mia forza si perde, e il mio ardore si consuma, la vertigine mi afferra l'anima, ed ho paura d'essere trascinato, forse stasera, forse domani. Sai tu che sia la vertigine? Ah, se potessi riaprirmi la ferita che mi fu chiusa!

Cosimo Dalbo, cercando di trarlo verso la finestra.

Càlmati, càlmati, Lucio! Taci! M'è parso di sentire la voce....

Lucio Settala, trasalendo.

Di Silvia?

Si copre d'un pallore mortale.

Cosimo Dalbo.

Sì. Càlmati! Hai la febbre.

Gli tocca la fronte. Lucio si appoggia al davanzale, quasi che le forze lo abbandonino.

SCENA SECONDA.

Entra Silvia Settala con Francesca Doni. Questa tiene un braccio intorno alla cintura della sorella.

Silvia Settala.

Oh, Dalbo, siete ancora qui?

Ella non vede il viso di Lucio, che è rivolto all'aria aperta.

Cosimo Dalbo, ricomponendosi, salutando Francesca.

Lucio mi ha trattenuto....

Silvia Settala.

Aveva molte cose da dirvi?

Cosimo Dalbo.

Ha sempre molte cose da dire, troppe forse. E si stanca.

Silvia Settala.

Vi ha detto che sabato andremo a Bocca d'Arno?

Cosimo Dalbo.

Sì, lo so.

Francesca Doni.

Non siete mai stato a Bocca d'Arno?

Cosimo Dalbo.

No, mai. Conosco la campagna pisana, San Rossore, il Gombo, San Pietro in Grado; ma non mi sono mai spinto sino alla foce. So che la spiaggia è bellissima.

Silvia ha lo sguardo fisso al marito che rimane abbandonato sul davanzale, immobile.

Francesca Doni.

Deliziosa in questa stagione: una spiaggia aperta, bassa, di sabbia fina; il mare, il fiume, il bosco; l'odore delle alghe, l'odore della ragia; i gabbiani, gli usignuoli.... Dovreste fare molte visite a Lucio, mentre è là.

Cosimo Dalbo.

Certo.

Silvia Settala.

Potremo ospitarvi.

Ella si stacca dalla sorella e va verso il marito, col suo passo leggero.

Francesca Doni.

Nostra madre ha là una casa molto modesta, ma grande: una casa bianca di dentro e di fuori, in una macchia d'oleandri e di tamerici; e c'è una vecchia spinetta dell'Impero, appartenuta—imaginate a chi!—a una sorella di Napoleone, alla duchessa di Lucca, a quella terribile e ossuta Elisa Baciocchi: una spinetta che qualche volte si sveglia e piange sotto le dita di Silvia; e c'è anche una barca, se il ricordo napoleonico non vi seduce, una bella barca, bianca come la casa.

Silvia si sofferma in silenzio alle spalle di Lucio, come sospesa. Egli resta assorto.

Cosimo Dalbo.

Vivere in una barca, su l'acqua, alla ventura: non v'è nulla che riposi di più. Per settimane e settimane ho vissuto così.

Francesca Doni.

Bisogna mettere il convalescente in una barca e affidarlo al buon mare.

Silvia Settala, toccando con un gesto lievissimo la spalla del marito.

Lucio!

Egli trasale e si volge.

Che fai? Siamo qui. C'è Francesca.

Egli guarda in viso la moglie, titubante; poi tenta di sorridere.

Lucio Settala.

Sta per venir giù un rovescio d'acqua. Aspettavo le prime gocciole: l'odore della terra....

Egli si inclina ancora verso la finestra e tende all'aria la mano aperta; che gli trema visibilmente.

Francesca Doni.

Aprile or piange or ride.

Lucio Settala.

Oh, Francesca, come state?

Francesca Doni.

Bene. E voi, Lucio?

Lucio Settala.

Bene, bene.

Francesca Doni.

Si parte dunque sabato?

Lucio Settala, guardando la moglie, trasognato.

Per dove?

Francesca Doni.

Come! Per Bocca d'Arno.

Lucio Settala.

Ah sì, è vero. Ho il capo svanito.

Silvia Settala.

Non ti senti bene, oggi?

Lucio Settala.

Sì, sì, bene. Il tempo un poco m'uggisce; ma mi sento bene, assai bene.

Nell'accento con cui pronunzia le semplici parole egli pone un eccesso di dissimulazione che le rende strane come quelle d'un uomo folle. È palese che l'attenzione dei tre astanti gli è divenuta intollerabile.

Tu vai via, Cosimo?

Cosimo Dalbo.

Sì, vado. È ora.

Egli s'accinge ad uscire.

Lucio Settala.

T'accompagno fino al cancello.

Si muove dalla finestra verso la porta, sollecito.

Silvia Settala.

Così, a capo scoperto?

Lucio Settala.

Sì, ho caldo. Non senti che aria gravosa?

Si sofferma su la soglia aspettando l'amico. Un'acuta pena d'improvviso punge i cuori, ammutolisce le labbra.

Cosimo Dalbo.

A rivederci.

Saluta turbato; esce con Lucio. Silvia china il capo, con le ciglia contratte, come chi consideri per risolvere. Poi sembra che un'onda subitanea di energia le sollevi la persona.

Francesca Doni.

Hai veduto il Gaddi?

Silvia Settala.

Non ancora. Oggi non è venuto.

Francesca Doni.

Allora non sai....

Silvia Settala.

Che cosa?

Francesca Doni.

Quel che ha fatto.

Silvia Settala.

No.

Francesca Doni.

È andato dalla Dianti.

Silvia Settala, con una emozione contenuta.

Da colei! Quando?

Francesca Doni.

Ieri.

Silvia Settala.

E tu l'hai veduto?

Francesca Doni.

Sì, l'ho incontrato. Mi ha detto....

Silvia Settala.

Parla dunque!

Francesca Doni.

Andò da lei ieri, verso le tre. Si fece annunziare. Fu ricevuto subito. Ella aveva l'aria sorridente; s'inchinò, non disse una parola, restò in piedi, aspettò che il vecchio parlasse; l'ascoltò con rispetto, tranquilla. Tu imagini quel che egli potè dire per persuaderla a restituire la chiave, a smettere ogni altro tentativo, a non voler più turbare una pace ricuperata col sangue, e con quanto dolore! Ella non gli chiese alla fine se non questo: "È Lucio Settala che vi manda a me?" Alla risposta negativa, soggiunse con un tono fermissimo: "Vogliate perdonarmi, ma io non posso riconoscere se non a lui il diritto di chiedere quel che voi mi chiedete."

Silvia Settala, impallidendo ed ergendosi come per affrontare la lotta.

Ah, è la sua ultima parola? Ebbene, c'è un'altra persona che ha un diritto eguale e lo farà valere. Vedremo.

Francesca Doni, sbigottita.

Che pensi di fare, Silvia?

Silvia Settala.

Quel che è necessario.

Francesca Doni.

Che, dunque?

Silvia Settala.

Vederla, mettermi di fronte a lei nel luogo stesso dov'ella è un'intrusa. Intendi?

Francesca Doni.

Tu vuoi andare là!

Silvia Settala.

Sì, voglio andare là. So la sua ora. Tu stessa la sai. L'aspetterò. Ella verrà. Finalmente ci guarderemo in viso.

Francesca Doni.

Ma non farai questo.

Silvia Settala.

Come no? Credi tu che mi manchi il coraggio?

Francesca Doni.

Ti supplico, Silvia!

Silvia Settala.

Credi tu che io tremi?

Francesca Doni.

Ti supplico!

Silvia Settala.

Oh, sii pur sicura che non io abbasserò gli occhi, non io verrò meno. Tu dovresti conoscermi omai, per più d'una prova.

Francesca Doni.

Lo so, lo so. Nulla ti vince. Ma pensa: trovarti là dopo tanto, nel luogo stesso dove avvenne l'orribile cosa, là, sola, di fronte a quella donna che ti ha fatto tanto male....

Silvia Settala.

Ebbene? Che importa? Ho forse una volta sola—una volta sola, Francesca!—evitato di compiere quel che m'è parso necessario? Di' tu: m'hai veduta rifiutare qualche peso? A quale tortura mi sono io sottratta? Ben altre pene ho guardate in faccia; e tu lo sai. Tu temi che mi manchi il cuore di porre il piede là dov'egli cadde.... Ma io ebbi cuore di vederlo allora, per la fessura dell'uscio, disteso sul suo letto di morte, e nessuno era dietro di me a sorreggermi; e, prima che mi fosse permesso di accostarmi al suo capezzale, passarono per le mie mani i ferri del chirurgo e le fasce macchiate di sangue.

Francesca Doni.

Sì, sì, è vero: la tua forza è grande. Nulla ti vince. Ma pensa: non è la stessa cosa.... Non è la stessa cosa trovarsi là, all'improvviso, di fronte a una donna che non conosci, capace di tutto come quella, ostinata, impudente....

Silvia Settala.

Non temo di lei. Quel che ella fa è basso. Perchè mi crede sommessa e debole, ella si mostra così audace; perchè tanto tempo sono rimasta in silenzio e in disparte, ella pensa di potermi sopraffare anche una volta. Ma s'inganna. Allora il mio bene era perduto, ogni difesa era inutile. Ora l'ho ricuperato, e lo difendo.

Francesca Doni.

Mio Dio! Tu ti getti in una lotta a corpo a corpo. E se ella resiste?

Silvia Settala.

Resiste come? Ho il mio diritto. Saprò scacciarla.

Francesca Doni.

Silvia, Silvia, sorella mia, ti supplico: indugia ancora qualche giorno, rifletti ancora un poco, prima di far questo! Non precipitare!

Silvia Settala.

Ah, parli bene tu, tu che sei felice, tu che sei sicura, tu che hai la vita serena e nessuna minaccia su la tua pace. Indugiare, riflettere! Ma sai tu a quale estremità io mi ritrovi oggi? Sai tu per quale difesa io mi batta? Per il mio capo e per quello di Beata, per l'esistenza, per la luce degli occhi. Intendi? Non si ricomincia un supplizio dove già tutti i nervi furono lacerati, dove già furono sperimentati tutti gli strazii. Ho dato al dolore tutto quel che potevo dare: ho sentito il ferro duro su la mia nuca e ai miei polsi; alla fine della mia giornata il mio sonno era preso dall'orrore della giornata seguente in cui bisognava pur vivere e, per vivere, seguitare a spremere il cuore che pareva esausto. Ah tu parli bene, tu! Quando tu sorridi nella tua casa, il tuo sorriso medesimo ritorna a te in cento raggi come se tu vivessi nel cristallo. Per me il sorriso era una pena di più; sotto, i denti si serravano; ma Beata non ha visto una mia lacrima. Per mantenere la promessa che è nel suo nome, quando non v'era fibra in me che non si torcesse, le mie mani verso di lei avevano sempre qualche fiore.... Non saprei più ricominciare. Vorrei piuttosto andarmene, alla mia volta: trovare laggiù un po' di spiaggia deserta e coricarmi con Beata perchè il mare ci prendesse.

Francesca Doni, gettando le braccia al collo della sorella, baciandola in viso.

Che dici? Che dici? Tu non devi più temere di nulla. Non ti ama? Non hai riavuto tutto il suo amore? Questo soltanto vale; e il resto è nulla.

Silvia chiude gli occhi per alcuni istanti, e l'illusione le illumina la faccia.

Silvia Settala.

Sì, sì, ho riavuto il suo amore.... Sembra.... Come potrei dubitare di quella voce? Quando non sono là, mi chiama, mi cerca; ha bisogno di me; sembra che io debba guidare i suoi passi....

Si scuote; si scioglie dalle braccia della sorella; è ripresa dall'ansietà.

Ma oggi.... L'hai veduto? l'hai guardato?... Oggi non è più come ieri; è diverso.... Un mutamento subitaneo.... L'hai guardato tu quando egli era là alla finestra, chino sul davanzale? Hai udito il suono delle sue parole? Hai veduto come gli tremava il braccio quando l'ha steso fuori? Ah dimmi che anche tu hai sentito che qualche cosa accade, che qualche cosa lo sconvolge.

Francesca Doni.

È convalescente ancora. Pensa: un nulla può turbarlo, l'aria, il tempo...

Silvia Settala.

No, no; non è questo. E non hai veduto? Anche Cosimo Dalbo pareva che facesse uno sforzo per nascondere un'ombra.... I miei occhi non fallano.

Francesca Doni.

No, non pareva. Ha parlato con me.

Silvia Settala, sempre più agitata.

Ma Lucio è disceso ad accompagnarlo e non è risalito ancora. O forse è passato dall'altra parte.

Va alla finestra, spia tra le cortine.

Ah, è ancora là, al cancello, che parla, che parla... Sembra fuori di sè....

Alza gli occhi al nuvolo.

Ora vien giù lo scroscio.

Spia di nuovo, intentissima.

Francesca Doni.

Chiamalo!

Silvia Settala, volgendosi, come incalzata da un pensiero terribile.

Certo è così, certo è così.

Francesca Doni.

Che pensi, ora?

Silvia Settala, fermandosi, pronunziando le parole nettamente, risoluta ma pallidissima.

Lucio sa che colei lo aspetta.

Francesca Doni.

Lo sa? Come?

Silvia Settala.

Non v'è dubbio, non v'è dubbio.

Francesca Doni.

Tu l'imagini.

Silvia Settala.

Lo sento; ne sono certa.

Francesca Doni.

Ma come?

Silvia Settala.

Ma bisognava pure che questo avvenisse; bisognava pure che un giorno ella trovasse il modo. Come? Forse una lettera.... Egli ha ricevuto una lettera.

Francesca Doni.

E tu non vigili!

Silvia Settala, con un atto di disdegno.

Anche questo?

Francesca Doni.

Ma forse t'inganni.

Silvia Settala.

Non m'inganno. Dopo la visita del vecchio, ella ha scritto. L'indugio omai non è più possibile, neppure d'un giorno, neppure d'un'ora. Tu comprendi il pericolo. Sia anche tornato a me con tutta l'anima sua, si sia anche distaccato da lei interamente, si sia anche volto a un'altra vita, a un altro bene, non senti tu quale possa ancora essere il fascino di una donna che gli dice, ostinata e sicura: "Sono qui; aspetto?" Sapere ch'ella è là, che non un giorno manca alla sua attesa, che nulla può sconfidarla.... Comprendi il pericolo? Se Lucio ha saputo stamani ch'ella lo aspetta, bisogna ch'egli sappia stasera—e dalla mia bocca medesima—ch'ella non lo aspetta più.

Un'energia indomabile afforza ed eleva tutta la sua persona.

Questo saprà stasera; glie lo prometto.

Ella tende la mano verso la finestra, col gesto di chi giura.

Vuoi accompagnarmi?

Francesca Doni, sbigottita, supplichevole.

Silvia, Silvia, rifletti ancora un minuto! Pensa a quel che fai!

Silvia Settala.

Non ti chiedo aiuto. Ti chiedo che tu m'accompagni soltanto fino alla porta. Per il resto, basto io sola; è necessario anzi che io rimanga sola. Vuoi? Che ora è?

Si volge per guardar l'ora; va verso la tavola.

Francesca Doni, arrestandola.

Ti supplico! Dammi ascolto, Silvia! Il cuore mi dice che non può venir bene da quel che vuoi fare. Dà ascolto alla tua sorella! Ti supplico!

Silvia Settala, con un gesto d'insofferenza.

Ma non hai dunque ancora compreso quel ch'io gioco in questo momento? Lasciami. Vado sola.

Si china su la tavola, guarda l'ora.

Sono le quattro. Non ho un minuto da perdere. Hai una vettura, giù?

La pioggia scroscia subitamente su gli alberi del giardino.

Francesca Doni.

Non senti che rovescio d'acqua? Non uscire! Rimanda tutto a domani. Vieni, ascolta.

Cerca di attirarla.

Aspetta almeno che spiova.

Silvia Settala.

Non ho un minuto da perdere. Bisogna che io sia là, prima di lei; bisogna ch'ella mi trovi là come nella mia casa. Intendi? Lasciami. Sùbito il cappello, il mantello, i guanti... Giovanna!

Ella passa nella stanza attigua chiamando la sua donna. Francesca Doni, presa dallo sgomento, va verso la finestra dove scroscia la pioggia.

Francesca Doni.

Mio Dio! Mio Dio!

Guarda nel giardino; chiama.

Lucio! Lucio!

Torna verso la porta d'ond'è scomparsa la sorella.

Silvia Settala, riapparendo, ansante.

Eccomi pronta. Ho lasciato là Beata che piange. Voleva uscire con me. Tu rimani, ti prego: va a consolarla. Io esco sola. Prendo la tua vettura. A rivederci.

Fa l'atto di baciare la sorella.

Francesca Doni.

Tu vai, dunque? È risoluto?

Silvia Settala.

Vado.

Francesca Doni.

T'accompagno.

Silvia Settala.

Andiamo.

Involontariamente, ella si sofferma e volge gli occhi in giro come per abbracciare con uno sguardo tutte le cose predilette. Le cortine palpitano; la pioggia scroscia. Ella aspira la fragranza umida che entra per le finestre. Solo per un attimo, l'arco teso della sua volontà si allenta.

L'odore della terra...

Trasale vedendo apparire d'improvviso, su la soglia ond'ella sta per uscire, Lucio febricitante, a capo scoperto, con i capelli e gli abiti molli di pioggia. Si guardano. Un intervallo di silenzio gravissimo.

Lucio Settala, con la voce rotta.

Tu esci?

Silvia Settala.

Sì, esco.

Lucio Settala.

Come sei pallida!

Silvia si passa una mano su la gota.

Dove vai? S'è aperto il cielo.

Egli si tocca i capelli stillanti.

Silvia Settala.

Bisogna ch'io esca. Non tarderò molto a ritornare. C'è Beata di là, che piange perché voleva venire con me. Va a consolarla; dille che le porterò forse una cosa bella.

Lucio con un atto repentino la prende per le mani e la guarda fissamente negli occhi.

Silvia Settala, padrona della sua forza, con un accento chiaro e fermo.

Che hai, Lucio?

Egli abbassa le palpebre. Ella libera le mani, scotendole forte come per un saluto. La tempra della sua volontà squilla nella sua voce vivida.

A rivederci! Andiamo, Francesca. È ora.

Esce rapidamente, seguita dalla sorella. Lucio Settala rimane a capo chino, vacillante, sotto un pensiero che lo folgora.

ATTO TERZO.

Una stanza alta e spaziosa, illuminata da un lucernario, coperta di tappezzerie cupe. Nella parete del fondo è un'apertura rettangolare, assai più larga di una porta, che mette nello studio attiguo dello scultore. Su l'architrave sono fissi alcuni frammenti del fregio fidiaco delle Panatenaiche; contro i due stipiti sono erette due grandi figure alate "vestite di vento": la Nike di Samotracia e quella scolpita da Pæonios per il tempio dorico di Olimpia consacrato a Zeus; occupa il vano una cortina rossa.

Nella parete destra, una porta è nascosta da una portiera pesante e ricca; nella sinistra, un uscioletto a muro è dissimulato dalla tappezzeria. Amplissimi divani, coperti di drappi e di cuscini, ricorrono in torno. Le figure sono disposte ad arte, per secondare la meditazione e il sogno: un fascio di spighe in un raso di rame sta innanzi al bassorilievo eleusino di Demeter; un piccolo Pegaso di bronzo su uno stelo di verde antico sta innanzi alla Medusa Ludovisia.

Il sentimento espresso dall'aspetto del luogo è diversissimo da quello che addolcisce la stanza dell'altra casa in vista del poggio mistico. La scelta e le analogie di tutte le forme rivelano qui l'aspirazione verso una vita carnale, vittoriosa e creatrice. Le due Messaggere divine sembrano agitare e ampliare incessantemente l'aria chiusa con la foga del loro volo immenso.

SCENA PRIMA.

Silvia Settala è nel mezzo della stanza, in piedi, avendo già deposto il cappello, il mantello, i guanti. Sembra ch'ella cerchi di riconoscere le cose, quasi di rendersele novamente familiari, di ristabilire una comunione con esse, di non sentirsi estranea. Ella domina la sua angoscia, sotto gli occhi della sorella. Francesca Doni s'è seduta, perché le ginocchia le tremano e il cuore le batte troppo forte.

Silvia Settala, guardando intorno.

È strano: sembra più grande....

Francesca Doni.

Che cosa?

Silvia Settala.

La stanza. Non sembra più la stessa....

Ella guarda intorno, con l'aspetto di chi respiri un'aria insolita. Un intervallo di silenzio.

Francesca Doni, vigilante.

Hai chiusa la porta?

Silvia Settala.

Sì, l'ho chiusa.

Francesca Doni.

Si sentirà aprire....

Silvia Settala.

Hai paura? Non è l'ora. Fra un minuto, vattene.

Francesca Doni.

Dove?

Silvia Settala.

Vuoi aspettarmi nella vettura? su la strada?

Francesca Doni.

No, è impossibile. Vorrei rimaner qui, stare più vicina... Se potessi nascondermi!

Silvia Settala.

Nasconderti, qui? No. Bisogna ch'io sia sola.

Francesca Doni.

Abbi pietà di me! Morrei d'ambascia.

Silvia Settala.

Attendi. Ci dev'essere là un'uscita segreta.

Seguendo il ricordo, va verso il muro dov'è l'uscio dissimulato; cerca, trova, apre. Un'onda di luce la investe.

Vedi? Si passa di qui nella stanza dei modelli, poi in un corridoio. In fondo al corridoio v'è una porta che mette sul Mugnone. Vuoi passare di qui?

Francesca Doni.

Sì; ma lascia chi'io rimanga nella stanza o nel corridoio, ad aspettare. Aspetterò che tu mi chiami.

Silvia Settala.

Certo, aspetterai ch'io ti chiami?

Francesca Doni.

Sì, te lo prometto.

Silvia Settala.

Non aver paura. Vedi? C'è il sole su le vetrate.

Entrambe guardano per l'uscio semiaperto. Il chiarore interno illumina i loro volti. Una striscia luminosa si allunga sul pavimento.

Francesca Doni.

Non piove più. Guarda quante primavere su l'argine!

Silvia Settala.

Va ad aspettarmi su l'argine, all'aria aperta; va.

Francesca Doni.

C'è un povero cavallo malato, con le gambe nell'acqua. Vedi? E le rondini volano rasente... Penso una cosa.

Ella trasale e si volge subitamente indietro spiando le pieghe immobili della portiera.

Silvia Settala.

Che hai?

Francesca Doni.

Mi pareva d'aver sentito...

Entrambe tendono l'orecchio.

Silvia Settala.

No, t'inganni. È ancora presto. E poi, la porta della scala fa un gran rumore quando si richiude... Non hai sentito dianzi? Le mura tremavano.

Francesca Doni, implorando.

Silvia!

Silvia Settala.

Che hai, ora?

Francesca Doni.

Ascoltami. Sei ancora in tempo. Vieni via, vieni via, almeno per oggi! Fa una prova, almeno. Ella saprà che tu sei stata qui. Parleremo di nuovo col custode. Tu dovresti anzi lasciar qui qualche segno, dimenticare un guanto, per esempio.... Ella comprenderà, non tornerà più.

Silvia Settala.

Basterà un guanto? Ah come tutto è facile pel tuo cuore!

Ella guarda novamente in giro con una segreta disperazione.

Non c'è più nulla di me, qui

La sorella rimane presso l'uscio semichiuso, con la persona illuminata a metà dal riflesso vivo. Silvia dà qualche passo nella stanza. Un intervallo di silenzio.

Tutto sembra più grande, più alto, più oscuro...

Francesca Doni.

È l'ombra che t'illude. C'è poca luce. Bisogna tirare la tenda del lucernario.

Silvia Settala.

No; meglio così.

Ella seguita a guardare per ogni angolo, come cercando una traccia.

Dimmi...

L'emozione le tronca la voce.

Quella sera ti vennero a chiamare, tu accorresti. Tu ti trovasti qui, nella prima ora...

Esita.

Dove fu? Ti ricordi in che posto?

Francesca Doni.

Di là, nello studio, sotto la statua.... No, non andare!

Silvia si volge verso la cortina rossa che pende tra le due Vittorie. Ai suoi piedi, come una linea divisiva, si allunga la sottile zona di sole.

Silvia Settala, sommessamente.

La statua è là.

Francesca Doni.

Non andare!

Silvia rimane per alcuni attimi immobile e muta davanti alla cortina chiusa, da cui la separa la zona lucente.

Non andare!

Silvia fa un passo, di là dai raggi, quasi con impeto, come per varcare un ostacolo; con un gesto rapido solleva un lembo, s'insinua tra le pieghe, sparisce. La cortina si richiude dietro di lei, grave e folta. Alcuni attimi di silenzio, in cui non s'ode se non il respiro affannato della sorella. D'improvviso, per entro al cupo colore di porpora, riappare la faccia pallidissima dell'eroina, che sembra irradiata dal lume dell'opera sovrana. Anche le sue mani ignude, che separano i lembi, sembrano risplendere sul cupo colore. I suoi occhi restano intenti, allargati dalla meraviglia, abbagliati non da una visione di morte ma da una imagine di vita perfetta. Trema nelle orbite l'indizio d'un'onda saliente. Due meravigliose lacrime si formano a poco a poco nel cavo, brillano, sgorgano, solcano le gote. Prima che giungano alla bocca, ella le arresta con le dita, le diffonde su la faccia, quasi per lavarsene come d'una rugiada lustrale; poichè non dal ricordo o dalla traccia del sanguinoso fatto umano ella è commossa ma dall'apparizione dell'opera bella, immune e sola. Ella ha ricevuto il benefizio sommo della Bellezza: la tregua della sua angoscia, la pausa dei suoi timori. La folgore sublime della gioia ha traversata la sua anima sanandola per qualche attimo, rendendola cristallina come le lacrime. Non sono queste sue lacrime se non l'offerta ardente e muta dell'anima al Capolavoro.

Silvia, Silvia, tu piangi!

Silvia Settala, sommessamente, col segno del silenzio.

Taci.

Ella si distacca dalla cortina. Interroga sommessamente.

L'hai veduta? L'hai veduta?

Francesca Doni, frantendendo, con un sussulto.

Chi? lei? È là?

Silvia Settala.

No; la statua....

La sorella accenna di sì. Ella fa un gesto che esprime il suo abbagliamento. S'ode il rumore d'una porta pesante che si richiude. Entrambe sobbalzano.

Eccola! Vattene, vattene.

Francesca Doni, tendendo le braccia verso di lei con un'ultima implorazione angosciosa.

Oh, sorella mia!

Silvia Settala, ritrovando l'energia primitiva.

Vattene! Non temere.

Ella sospinge la sorella per l'apertura; richiude l'uscio. La zona di sole sparisce; la stanza torna nell'ombra eguale.

SCENA SECONDA.

Silvia Settala si tiene in piedi, con la faccia rivolta verso la porta, con lo sguardo fisso, quasi irrigidita nell'aspettazione. In mezzo all'alto silenzio s'ode distintamente stridere la chiave che apre. L'aspettante non muta attitudine. Una mano solleva la portiera. Entra Gioconda Dianti, richiudendo la porta dietro di sè. Da prima, ella non scorge l'avversaria, poichè viene dalla luce nell'ombra e un velo denso le nasconde tutto il viso. Quando la scorge, s'arresta con un grido soffocato. Entrambe rimangono per alcuni attimi l'una di fronte all'altra, senza parlare.

Silvia Settala, con un accento fermo e chiaro, ma scevro di risentimento o di minaccia.

Io sono Silvia Settala.

La rivale tace, sempre velata. Una pausa.

Voi?

Gioconda Dianti, a voce bassa.

Non lo sapete, signora?

Silvia Settala, sempre contenendosi.

So soltanto che voi siete entrata qui come in un luogo che vi appartenga. Mi trovate qui sicura come nella mia casa. Una di noi due usurpa, dunque, il diritto dell'altra; una di noi due è l'intrusa. Quale?

Una pausa.

Io, forse?

Gioconda Dianti, sempre chiusa nel velo e a voce bassa, come per attenuare la sua audacia.

Forse.

Silvia Settala si fa anche più pallida e vacilla un poco, come chi riceva un colpo a dentro.

Silvia Settala, risollevandosi, vibrante di sdegno.

Ebbene, v'è una donna che ha attirato un uomo nella sua rete con le peggiori lusinghe; che lo ha strappato alla pace della casa, alla nobiltà dell'arte, alla gentilezza di un sogno da lui nutrito per anni col fiore della sua forza; che lo ha travolto in un delirio torbido e violento dov'egli ha smarrito ogni senso di bontà e di giustizia; che gli ha inflitto i tormenti più acuti che possa mai inventare la crudeltà d'un carnefice malato di tedio; che lo ha esausto e inaridito tenendogli accesa di continuo nelle vene una febbre perversa; che gli ha resa intollerabile la vita, che gli ha armata la mano, che lo ha spinto a uccidersi; che infine lo ha saputo moribondo per giorni e giorni sopra un letto lontano, intorno a cui si combatteva una lotta senza tregua contro la morte; e che non ha avuto rimorso, non pietà, non vergogna, ma è rientrata nel luogo sinistro prima che il sangue fosse lavato, meditando di riattaccarsi alla preda, aspettandola di nuovo al varco, calcolando a uno a uno gli effetti della sua temerità e della sua tenacia, promettendosi il piacere di una nuova ruina. V'è una donna che ha fatto questo; che ha detto:—Una forte e nobile vita fioriva liberamente nel mondo: io l'ho abbrancata, l'ho piegata, l'ho abbassata, poi l'ho troncata d'un colpo. Ho creduto di averla distrutta per sempre. Ed ecco che essa rigermoglia, si rinnova, si rialza, può rifiorire! Ecco che intorno a lei le ferite si chiudono, il dolore si calma, la speranza risorge, può sorridere la gioia! Patirò io un tal sopruso? Mi lascerò io così deludere? No. Io ricomincerò, ritenterò, avrò ragione d'ogni resistenza, sarò implacabile.—V'è una donna che ha promesso questo a sè medesima, che ha impugnata la sua volontà come una scure, che è pronta a vibrare i nuovi colpi sorridendo. La conoscete voi? Ella è entrata qui col viso coperto, ha parlato con una voce sorda, ha proferito dianzi una parola gelida, calcolando pur sempre su la sua audacia e su l'altrui remissione. La conoscete?

Gioconda Dianti, senza mutare il modo.

Quella che io conosco è diversa. Soltanto perchè è triste dinanzi a voi, ella parla a voce bassa. Rispetta il grande e doloroso amore che vi fa vivere; ammira la virtù che v'inalza. Mentre parlavate, comprendeva bene che soltanto per consolare un'indicibile disperazione la vostra parola figurava un'imagine così diversa della persona vera. Non v'è nulla d'implacabile in lei; ma ella stessa obbedisce a una potenza che può essere implacabile.

Silvia Settala, amara e altiera.

So che siete esperta in tutti i linguaggi.

Gioconda Dianti.

Che giova questa durezza? Le vostre prime parole avevano un altro suono; e pareva, quando voi mi avete rivolta una domanda, che voleste conoscere semplicemente la verità.

Silvia Settala.

E quale è dunque la vostra verità?

Gioconda Dianti.

La verità che vale, dinanzi a noi, è una sola: verità d'amore. Voi lo sapete. Ma temo di ferire.

Silvia Settala.

Non temete di ferire.

Gioconda Dianti.

La donna, a cui faceste tante accuse, fu ardentemente amata e—soffrite ch'io lo dica!—d'un glorioso amore. Ella non abbassò ma esaltò una vita forte. E poichè l'ultima voce ch'ella udì, poche ore prima che si compiesse l'atto terribile, l'ultima fu di amore, ella crede d'essere ancora amata. E questa è la verità che vale.

Silvia Settala, perdutamente.

S'inganna, s'inganna.... V'ingannate! Egli non vi ama più, non vi ama più; forse non vi ha amata mai. Non fu amore il suo ma attossicazione, ma servitù atroce, demenza e arsura. Quando egli soffriva sul suo guanciale, il ricordo gli passava di tratto in tratto negli occhi come un baleno di terrore. Piangendo ai miei piedi, egli ha benedetto il sangue che è valso a riscattarlo.... Non vi ama, non vi ama!

Gioconda Dianti.

Il vostro amore grida come un naufrago.

Silvia Settala.

Non vi ama! Siete stata per lui come l'assillo, l'avete reso furente, l'avete spinto alla morte....

Gioconda Dianti.

Non io, non io l'ho spinto alla morte; ma voi stessa. Sì, per riscattarsi da un vincolo egli ha voluto morire, ma non da quello che mi legava a lui: da un altro, dal vostro, da quello che gli imponeva la vostra virtù o la vostra legge e che lo faceva soffrire intollerabilmente.

Silvia Settala.

Ah, non v'è nulla che voi non osiate travolgere! Da lui, dalla sua bocca, in un'ora in cui tutta la sua anima era alzata nella luce, da lui io l'ho udito:—Se la violenza è valsa a spezzare un giogo, sia benedetta!—Da lui io l'ho udito, quando tutta la sua anima si riapriva nella verità.

Gioconda Dianti.

Ma qui, poche ore prima ch'egli cedesse all'orribile pensiero, qui—tutte queste cose ne sono testimoni—egli mi parlò le più ardenti e le più dolci parole ch'ebbe il suo amore; qui mi chiamò anche una volta vita della sua vita; qui mi disse anche una volta il suo sogno d'oblio, di libertà, di arte, di gioia. E qui mi disse la sua insofferenza del legame, il peso inevitabile della bontà, più crudele d'ogni altro, e l'orrore del supplizio cotidiano, la ripugnanza a rientrare nella casa del silenzio e delle lacrime, la ripugnanza omai divenuta invincibile....

Silvia Settala.

No, no! Mentite.

Gioconda Dianti.

Per sfuggire a quell'angoscia, una sera che tutto gli parve più triste e più muto, egli cercò la morte....

Silvia Settala.

Mentite! Mentite! Io ero lontana.

Gioconda Dianti.

E voi mi accusate d'avergli inflitto un tormento infame, d'essere stata il suo carnefice! Ah, le vostre mani soltanto, le vostre mani di bontà e di perdono, gli preparavano ogni sera un letto di spine ove egli non volle più distendersi. Ma, quando egli entrava qui dove io l'attendeva come si attende il dio che crea, era trasfigurato. Egli ritrovava dinanzi alla sua opera la forza, la gioia, la fede. Sì, una febbre continua gli ardeva il sangue, tenuta accesa da me (e questo è tutto il mio orgoglio); ma al fuoco di quella febbre egli ha foggiato un capolavoro.

Indica col gesto la sua statua che la cortina nasconde.

Silvia Settala.

Non è il primo; non sarà l'ultimo.

Gioconda Dianti.

Certo, non sarà l'ultimo; poichè un altro è pronto a balzare dal suo viluppo di creta, un altro ha palpitato già sotto il pollice animatore, un altro è là semivivo, e attende d'attimo in attimo che il miracolo dell'arte lo tragga intero alla luce. Ah voi non potete comprendere questa impazienza della materia a cui fu promesso il dono della vita perfetta!

Silvia Settala si volge verso la cortina; fa qualche passo, lentamente, con l'apparenza d'un atto involontario, quasi che obbedisca a un'attrazione misteriosa.

È là; la creta è là. Quel primo spiracolo ch'egli vi aveva infuso, io l'ho conservato di giorno in giorno come si bagna il solco dov'è il seme profondo. Non l'ho lasciato perire. L'impronta è là, intatta. L'ultimo tocco, che vi pose la sua mano febrile nell'ultima ora, è là visibile, energico e fresco come di ieri, tanto potente che la mia speranza in mezzo alla frenesia del dolore vi si affisò come a un suggello di vita e ne prese forza.

Silvia Settala s'arresta dinanzi alla cortina, come la prima volta; e vi rimane immobile e muta.

Sì, è vero, voi eravate intanto al capezzale del moribondo, protesa in una lotta senza tregua per strapparlo alla morte; e per questo foste invidiata, e per questo siate lodata in eterno. Voi avevate la lotta, l'agitazione, lo sforzo: avevate da compiere qualche cosa che vi pareva sovrumana e che vi dava l'ebrezza. Io, sotto il divieto, nella lontananza e nella solitudine, non potevo se non raccogliere e stringere—con tutta la volontà contratta—il mio dolore in un vóto. La mia fede era pari alla vostra; certo, si collegò con la vostra contro la morte. L'ultima favilla creatrice partita dal suo genio, dal fuoco divino che è in lui, io non l'ho lasciata estinguere, io l'ho tenuta sempre viva, con una vigilanza religiosa e ininterrotta.... Ah, chi può dire fin dove sia giunta la forza preservatrice di un tal vóto?

Silvia Settala fa l'atto di volgersi con violenza, come per rispondere; ma si trattiene.

Lo so, lo so: è ben semplice e facile quel che io ho fatto; lo so: non è uno sforzo eroico, è l'umile cómpito di un manovale. Ma non è l'atto quel che importa. Quel che importa è lo spirito con cui l'atto si compie; quel che solo importa è il fervore. Nulla è più sacro dell'opera che comincia a vivere. Se il sentimento con cui io l'ho custodita può rivelarsi alla vostra anima, andate e guardate! Perchè l'opera séguiti a vivere è necessaria la mia presenza visibile. Riconoscendo questa necessità, voi comprenderete come io nel rispondere "forse" a una vostra domanda ho voluto rispettare un dubbio che poteva essere in voi ma che non era in me, che non è in me. Voi non potete sentirvi sicura qui come nella vostra casa. Questa non è una casa. Gli affetti familiari non hanno qui la loro sede; le virtù domestiche non hanno qui il loro sacrario. Questo è un luogo fuori delle leggi e fuori dei diritti comuni. Qui uno scultore fa le sue statue. Vi sta egli solo con gli strumenti della sua arte. Ora io non sono se non uno strumento dell'arte sua. La Natura mi ha mandato verso di lui per portargli un messaggio e per servirlo. Obbedisco; lo attendo per servirlo ancora. S'egli ora entrasse, potrebbe riprendere l'opera interrotta che aveva incominciato a vivere sotto le sue dita. Andate e guardate!

Silvia Settala è rimasta dinanzi alla cortina, senza avanzare. Un tremito sempre più forte le scuote la persona, indizio della grande agitazione interiore; mentre le parole della rivale si fanno sempre più pronte e stringenti, divenendo alla fine limpide e ostili. D'improvviso ella si volge, anelante, impetuosa, risoluta alle difese estreme.

Silvia Settala.

No. È inutile. Troppo abili parole. Voi siete esperta in tutti i linguaggi. Trasfigurate in un atto di amore e di fede quel che non è se non un accorgimento e un'insidia. L'opera che fu interrotta doveva perdersi. Con la mano medesima che aveva impresso nella creta il segno di vita, con la mano medesima egli strinse l'arma e la rivolse contro il suo cuore. Egli non dubitò di mettere tra sè e la sua opera il più oscuro degli abissi. La morte è passata di là, e ha reciso ogni legame. Quel che fu interrotto sarà perduto. Ora egli è rinato, è un uomo nuovo, aspira ad altre conquiste. Nei suoi occhi si è fatta una nuova luce; la sua forza è impaziente di creare altre forme. Tutto quel che è dietro di lui, tutto quel che è di là dall'ombra, non ha più alcun potere e alcun pregio. Che mai gli importa che una vecchia creta cada in polvere? Egli l'ha dimenticata. Ne troverà della più recente per infondervi il soffio della sua rinascenza, per modellarla a imagine dell'idea che oggi l'infiamma. Giù, la vecchia creta! Come potete voi mostrarvi convinta d'esser necessaria alla sua arte? Nessuno è necessario all'uomo che crea. Tutto converge in lui. Dite che la Natura vi ha mandato verso di lui per portargli un messaggio. Ebbene egli lo ha accolto, lo ha compreso ed ha risposto con una espressione sublime. Che altro potrebbe egli trarre da voi? Che altro potreste voi dargli? Non è concesso toccare due volte il medesimo vertice, compiere due volte il medesimo prodigio. Voi siete rimasta di là, di là dall'ombra, lontana, sola, su la vecchia terra. Egli va ora verso le terre nuove, dove riceverà altri messaggi. La sua forza sembra vergine, e la bellezza del mondo è infinita.

Gioconda Dianti, sconvolta da quell'inatteso impeto che la respinge, divenendo più acre, esaltando il suo orgoglio, assumendo un'aria di sfida.

Io sono viva e sono presente; ed egli ha trovato in me più d'un aspetto, e mi inebriano ancora le parole ch'egli diceva per significare la sua visione diversa ogni mattina quando gli riapparivo. Fino a ieri, certo, egli ha ignorata la mia attesa; e la sua inconsapevolezza vi ha illusa. Ma oggi egli sa. Comprendete? Egli sa che io sono qui, che io l'attendo. Stamani una lettera glie lo ha rivelato, una lettera che è giunta nelle sue mani, ch'egli ha letta. E io sono sicura, comprendete?, sono sicura ch'egli verrà. Forse è in cammino, forse è presso la porta. Volete che lo attendiamo?

Una straordinaria mutazione altera il volto di Silvia Settala. Sembra che qualche cosa di insolito e di orribile accada entro di lei. Ella è come chi a un tratto si senta afferrare da una spira e si torca nel ribrezzo e nel fascino serpentino, perdutamente. La fatalità antica della menzogna assale d'improvviso l'anima della donna pura, la vince e la contamina. Alle ultime parole della nemica ella rompe in un riso inaspettato, amaro, atroce, provocatore, che la rende irriconoscibile. Gioconda Dianti ne rimane sopraffatta.

Silvia Settala.

Basta, basta. Troppe parole. Il gioco è durato già troppo. Ah la vostra sicurezza, il vostro orgoglio! Ma come avete potuto credere ch'io sia venuta qui per contrastarvi la porta, per vietarvi il passo, per mettermi di fronte alla vostra audacia, senza che una sicurezza ben più salda della vostra mi affidi? La conosco la vostra lettera di stamani, mi fu mostrata, non so se con più stupore o con più disgusto.

Gioconda Dianti, sopraffatta.

No, non è possibile!

Silvia Settala.

Sì, così è. La risposta, io ve la porto. Lucio Settala ha perduta la memoria di quel che fu e chiede d'essere lasciato in pace. Egli spera che il vostro orgoglio v'impedirà di divenire importuna.

Gioconda Dianti, fuori di sè.

Egli vi manda? egli stesso? È la sua risposta? la sua?

Silvia Settala.

La sua, la sua. Io vi avrei risparmiata questa durezza, se non m'aveste costretta. Vogliate ora uscire.

Gioconda Dianti, con la voce rauca di collera e di onta.

Sono scacciata?

Il furore la soffoca e le dà un fremito gagliardo. Sembra che si svegli in lei la fiera vendicativa e devastatrice. Pel suo corpo pieghevole e possente passa quella forza medesima che contrae le musculature micidiali dei felini in agguato. Il velo, ch'ella ha sempre tenuto sul volto come una maschera fosca, rende più formidabile l'attitudine della persona pronta a nuocere in qualunque modo e con qualunque arma.

Scacciata?

Silvia Settala sta convulsa e livida dinanzi alla donna furibonda; e non lo spettacolo di quel furore la sbigottisce, ma qualche cosa ch'ella guarda dentro di sè, qualche cosa di orribile e d'irreparabile: la sua menzogna.

Ah, a questo voi l'avete condotto! In che modo? in che modo? Fasciandogli di cotone l'anima come la ferita? medicandogliela con le vostre mani molli? Egli è disfatto, è finito, è un cencio inutile. Comprendo; ora comprendo. Povero lui! Povero lui! Ah, perché non è morto, piuttosto che sopravvivere all'anima sua? Egli è finito dunque; è un povero mentecatto che voi condurrete per mano nelle strade solitarie. Tutto è distrutto, tutto è perduto. La sua fronte non si solleva più, il suo occhio è spento....

Silvia Settala, interrompendola.

Tacete! Tacete! Egli è vivente e forte, e non ebbe mai in sè tanta luce. Dio sia lodato!

Gioconda Dianti, frenetica.

Non è vero. Io, io ero la sua forza, la sua giovinezza, la sua luce. Diteglielo! Diteglielo! Egli è divenuto vecchio; da oggi è vecchio e fiacco e senz'anima. Io porto via con me, diteglielo!, tutto quel che era in lui di più libero, di più ardente e di più fiero. Il sangue che versò là, sotto la mia statua, fu l'ultimo sangue della sua giovinezza. Quello che voi gli avete rinfuso nel cuore è senza fiamma, è debole, è vile. Diteglielo! Io porto via con me, oggi, quel che fu la sua potenza e il suo orgoglio e la sua gioia e tutto. Egli è finito. Diteglielo!

Il furore l'acceca e la soffoca. Sembra ch'ella sia invasa da una torbida volontà distruttiva, come da un dèmone. Tutto il suo essere si contrae nel bisogno di compiere un atto immediato di distruzione. Un pensiero subitaneo precipita quell'istinto verso una mira.

E quella statua che è mia, che m'appartiene, ch'egli ha fatta con la vita che ha spremuta da me a stilla a stilla, quella statua che è mia....

Ella si slancia con un balzo di fiera verso la cortina chiusa, la solleva, passa oltre.

....ebbene, io la spezzerò, l'abbatterò!

Silvia Settala gitta un grido accorrendo per impedire il delitto. Entrambe scompaiono dietro la cortina. S'ode l'anelito d'una breve lotta.

Silvia Settala, gridando.

No, no, non è vero, non è vero! Ho mentito.

Copre le disperate parole lo strepito d'una massa che s'inclina e cade, lo schianto della statua abbattuta; a cui segue un nuovo grido lacerante di Silvia che lo spasimo le trae dalle viscere profonde.

SCENA TERZA.

Francesca Doni appare, folle di terrore, correndo verso quel grido ch'ella riconosce; mentre Gioconda Dianti si mostra fra le pieghe della cortina, ancora velata, con l'attitudine di chi abbia ucciso e cerchi lo scampo.

Francesca Doni.

Assassina! Assassina!

Ella si piega a soccorrere la sorella, mentre l'altra fugge.

Silvia, Silvia, sorella mia, sorella mia! Che t'ha fatto? che t'ha fatto? Ah! le mani, le mani....

La sua voce esprime l'orrore di chi vede una cosa raccapricciante.

Silvia Settala.

Portami via! Portami via!

Francesca Doni.

Mio Dio! Mio Dio! Ti son rimaste sotto? Mio Dio! Ti si sono schiacciate.... L'acqua! L'acqua! Non c'è nulla qui.... Aspetta!

Silvia Settala.

Ah che spasimo! Non reggo; muoio. Portami via!

Ella appare, uscendo di tra le pieghe rosse, col viso indicibilmente convulso dallo spasimo; mentre la sorella curva le sostiene le due mani avvolte in un pezzo di tela umida—tolta di su la creta—che s'insanguina.

Che spasimo! Non reggo più.

Ella sta per venir meno; quand'ecco si precipita nella stanza Lucio Settala come un forsennato. Ella trasale, fissando su di lui i suoi gran di occhi lacrimanti ove l'anima disperata muore.

Tu, tu, tu!

Francesca Doni, sostenendo sempre le due povere mani schiacciate che inzuppano di sangue la tela in cui è nascosto lo sfacelo immedicabile.

Reggetela! Reggetela! Ora cade...

Lucio Settala regge tra le sua braccia la dolce creatura sanguinosa, che sta per perdere la conoscenza. Ma, prima di mancare, ella volge lo sguardo semispento verso la cortina come per accennare alla statua.

Silvia Settala, con la voce morente.

È.... salva.

ATTO QUARTO.

Una stanza terrena, tutta bianca, semplice, con due pareti—che fanno angolo—quasi interamente aperte alla luce per un ordine di vetrate, al modo di un tepidario. Le stoie sono alzate: a traverso i cristalli si vedono gli oleandri, le tamerici, i giunchi, i pini, le arene d'oro sparse d'alghe morte, il mare in calma sparso di vele latine, la foce pacifica dell'Arno, di là dal fiume le macchie selvagge del Gombo, le Cascine di San Rossore, le lontane montagne di Carrara marmifera.

Una porta, che conduce all'interno, è nella terza parete. Da un lato della porta, su una mensola, è la Donna dal mazzolino—la nota figura di Andrea del Verrocchio—ospite nuova, venuta dall'altra casa come una compagna fedele, le cui belle mani sono pur sempre intatte, atteggiate di grazia verso il cuore. Dall'altro lato è una vecchia spinetta—del tempo di Elisa Baciocchi duchessa di Lucca—con la cassa di legno scuro intarsiata di legno chiaro, sorretta da piccole cariatidi dorate nello stile dell'Impero, con i suoi quattro pedali riuniti in forma di una cetra.

È un pomeriggio di settembre. Il sorriso dell'Estate sparente sembra incantare tutte le cose. Nella stanza solitaria è sensibile la presenza dell'anima musicale che dorme in fondo allo strumento abbandonato, come se anch'esse le corde rinchiuse fossero tocche dal ritmo che misura la calma del mare vicino.

SCENA PRIMA.

Silvia Settala appare su la soglia, venendo dall'interno; si sofferma; fa qualche passo verso le vetrate; guarda la lontananza, guarda intorno a sè, con occhi infinitamente tristi. V'è nella sua movenza qualche cosa di manchevole, che suscita un'imagine vaga d'ali tarpate, che dà il sentimento vago d'una forza umiliata e tronca, d'una nobiltà avvilita, d'un'armonia rotta. Ella porta una veste cinerizia alla cui estremità corre un piccolo orlo nero, come un filo di lutto. Le maniche lunghe nascondono i moncherini, ch'ella tiene distesi giù pe' fianchi e talvolta serrati contro, un po' in dietro, come per nasconderli nelle pieghe, con un moto doloroso di pudore.

Di fuori, tra gli oleandri folti, appare una figura feminina— La Sirenetta —che ha la sembianza di una fata e di una mendicante, in atto di chi spia. Ella s'insinua verso le vetrate con un passo furtivo, reggendo in una mano il lembo del grembiule ripieno di alghe, di nicchi e di stelle marine.

Silvia Settala, scorgendola e andandole in contro con un sorriso spontaneo impreveduto.

Oh, la Sirenetta! Vieni, vieni.

La Sirenetta, avanzandosi fino ai cristalli.

Mi riconosci?

Rimane di fuori, in modo che la sua figura appare tra il luccichio dei cristalli, i quali sembrano continuare intorno a lei il tremito raggiante e incessante delle grandi acque. È giovine, sottile, pieghevole; ha i capelli fulvi e scarmigliati, il volto d'un color d'oro olivigno, i denti candidi come l'osso della seppia, gli occhi umidi e glauchi, il collo esile e lungo, ornato d'una collana di conchiglie, in tutta la persona qualcosa d'indicibilmente fresco e guizzante che fa pensare a una creatura impregnata di salsedine, emersa dalla mobilità dei flutti, proveniente dai nascondigli d'una scogliera. La sua gonna di bordato bianco e turchino, lacera e scolorita, scende poco più giù dei ginocchi, lasciando scoperte le gambe ignude; il suo grembiule azzurrognolo stilla e odora di salmastro come una nassa; i suoi piedi scalzi, a contrasto dal color bruno che le ha dato il sole, sono singolarmente pallidi come le radici delle piante acquatiche. E la sua voce è limpida e puerile; e taluna delle parole ch'ella proferisce sembra rischiarare d'una misteriosa felicità il suo volto ingenuo.

Mi riconosci, signora bella?

Silvia Settala.

Ti riconosco, ti riconosco.

La Sirenetta.

Mi riconosci? Chi sono io?

Silvia Settala.

Non sei la Sirenetta?

La Sirenetta.

Sì, tu m'hai riconosciuta. Quant'è che sei rivenuta?

Silvia Settala.

È poco.

La Sirenetta.

Tu rimani?

Silvia Settala.

Per molto tempo ancora.

La Sirenetta.

Sino all'inverno, forse.

Silvia Settala.

Forse.

La Sirenetta.

E la tua figliuola?

Silvia Settala.

Oggi l'aspetto. Verrà.

La Sirenetta.

Beata! Non si chiama Beata?

Silvia Settala.

Sì, Beata.

La Sirenetta.

Tu le hai messo quel nome? Beata, non Beatrice. Quand'era qui, voleva da me ogni giorno le stelle: le stelle di mare. Te l'ha detto? Voleva sentirmi cantare. Te l'ha detto?

Silvia Settala.

Sì, me l'ha detto. Si ricorda di te. Ti vuol bene.

La Sirenetta.

Mi vuol bene? Lo so. Mi dava ogni giorno il suo pane.

Silvia Settala.

Tu l'avrai ogni giorno, se vuoi. Pane e companatico, Sirenetta, mattina e sera, quando ti piace. Ricordati.

La Sirenetta.

Mattina e sera ti porterò una stella. Ne vuoi una? una bella? più grande di una mano?

Silvia Settala, turbata, con un moto istintivo trae in dietro le braccia.

Silvia Settala.

No, no! Serbala a Beata.

La Sirenetta., attonita.

Non la vuoi?

Silvia Settala.

Dimmi piuttosto quel che fai della tua vita; dimmi la tua giornata. È vero che tu parli con le sirene del mare? Dimmi, racconta, Sirenetta.

La Sirenetta.

Eravamo sette sorelle. Ci specchiammo alle fontane: eravamo tutte belle. —Fiore di giunco non fa pane, mora di macchia non fa vino, filo d'erba non fa panno lino— la madre disse alle sorelle. Ci specchiammo alle fontane: eravamo tutte belle. La prima per filare e voleva i fusi d'oro; la seconda per tramare e voleva le spole d'oro; la terza por cucire e voleva gli aghi d'oro; la quarta per imbandire e voleva le coppe d'oro; la quinta per dormire e voleva le coltri d'oro; la sesta per sognare e voleva i sogni d'oro; l'ultima per cantare, per cantare solamente, e non voleva niente.

Ella ride d'un breve riso nitido che sembra tintinnire su i suoi denti splendenti.

Ti piace questa storia?

Silvia Settala, presa dalla grazia di quella semplice.

È già finita? Perchè non seguiti?

La Sirenetta.

Se tu ti siedi qui, io t'addormento come addormentavo la tua figliuola su l'arena. Non hai sonno a quest'ora? È buono il sonno, di settembre.

Settembre dall'altura porta al piano la frescura e l'Estate in sepoltura. Amen.

Silvia Settala.

No. Seguita la tua storia, Sirenetta

La Sirenetta.

L'oliva si fa scura e la doglia si matura: olio e pianto alla pressura. Amen.

Silvia Settala.

Seguita la tua storia, Sirenetta.

La Sirenetta.

Dove siamo rimaste?

Silvia Settala.

"E non voleva niente!" Una pausa.

La Sirenetta.

Ah, ecco:

—Fiore di giunco non fa pane, mora di macchia non fa vino, filo d'erba non fa panno lino— la madre disse alle sorelle. Ci specchiammo alle fontane: eravamo tutte belle. E la prima filò torcendo il suo fuso e il suo cuore, e la seconda tramò una tela di dolore, e la terza cucì una camicia attossicata, e la quarta imbandì una mensa affatturata, e la quinta dormì nella coltre della morte, e la sesta sognò nelle braccia della morte. Pianse la madre dolente, pianse la mala sorte. Ma l'ultima, che cantò per cantare per cantare per cantare solamente, ebbe la sorte bella. Ella abbassa la voce, la fa segreta e remota. Le sirene del mare la vollero per sorella.

Una pausa.

Silvia Settala.

Dunque è vero che tu parli con le sirene?

La Sirenetta, ponendosi l'indice su la bocca.

Non dimandare!

Silvia Settala.

È vero che nessuno sa dove tu dorma la notte?

La Sirenetta, col medesimo gesto.

Non dimandare.

Silvia Settala.

Vuoi tu che io ti dia ricetto, qui nella casa?

La Sirenetta, fissandola in viso, come se non avesse udita la domanda.

Tu hai gli occhi afflitti. Non sapevo che fosse la mia pena, quando mi guardavi. Ora vedo: hai negli occhi un gran dolore. Qualcuno t'è morto.

Silvia Settala.

Tu sola mi consolerai!

La Sirenetta.

Chi t'è morto?

Silvia Settala.

Non dimandare!

La Sirenetta.

Ora ti vedo: tu non sei più quella. Ho pensato a una rondine dell'altro settembre, che non aveva più le sue penne maestre e stava per annegarsi nel mare. Che t'hanno fatto? Qualche cosa di male t'è stato fatto.

Silvia Settala.

Non dimandare!

Istintivamente ella nasconde nelle pieghe della veste i suoi moncherini, con un moto doloroso che non sfugge all'indagine della creatura incantevole. La quale, d'improvviso, come per un accorgimento, lascia il lembo del grembiule in modo che il suo piccolo tesoro marino cade e si sparge sul terreno.

La Sirenetta, inclinandosi e scegliendo.

Vuoi una stella? una bella? più grande di una mano? Guarda!

Ella mostra alla mutilata una grande asteria a cinque raggi.

Prendila! Te la dono.

La mutilata scuote il capo in segno di diniego, serrando le labbra come per ricacciare in giù il nodo che le chiude la gola.

Non puoi? Hai le mani malate? fasciate?

La mutilata accenna di sì col capo. Le parole dell'altra si fanno tremule di pietà.

Sei caduta nel fuoco? te le sei bruciate? Ti dolgono ancora? o stanno per guarire?

Silvia Settala, con una voce appena udibile.

Non le ho più.

La Sirenetta, sollevandosi sbigottita.

Non le hai più! Te le hanno tagliate? Sei monca?

La mutilata accenna di sì col capo, spaventevolmente pallida. L'altra rabbrividisce d'orrore.

No, no, no! Non è vero.

Ella tiene gli occhi fissi alle pieghe della veste ove la mutilata nasconde i suoi moncherini.

Dimmi che non è vero.

Silvia Settala.

Non le ho più.

La Sirenetta.

Perchè? perchè?

Silvia Settala.

Non dimandare!

La Sirenetta.

Ah, che cosa crudele!

Silvia Settala.

Le ho donate.

La Sirenetta.

Le hai donate? A chi?

Silvia Settala.

Al mio amore.

La Sirenetta.

Ah, che crudele amore! Com'erano belle, com'erano belle! Credi tu che io non me ne ricordi? Te le ho baciate; tante tante volte te le ho baciate con questa bocca. Mi davano il pane, una melagrana, una tazza di latte.... Erano belle come se te le avesse fatte l'Alba con un fiato, bianche come il fiore della maretta, più fini di quei ricami che fa il vento nell'arena; si movevano come il sole nell'acqua, favellavano meglio della lingua e delle pupille, quello che dicevano era come una parola benigna, quello che prendevano per donare doventava tutt'oro. Me ne ricordo: le vedo, le vedo. Un giorno giocavano con l'arena tiepida: l'arena passava tra le dita come in un vaglietto e si piacevano nel gioco; e la Beata le guardava e rideva; e io, che le guardavo, avevo il medesimo piacere. Un giorno sbucciavano un'arancia: e ne fecero tanti spicchi, e a me ne toccò uno ed era dolce come un fiale. Un giorno mettevano una fasciolina intorno a un piede della piccola, che piangeva perchè l'aveva pinzata un gamberello; e il dolore súbito cessò, e la piccola si mise a correre per la riva. Un giorno giocavano con que' bei riccioli, e d'ogni ricciolo si facevano un anello per ogni dito, e poi ricominciavano, e poi ricominciavano ancora; e la Beata si addormentò con la rugiada in bocca....

Silvia Settala, soffocatamente.

Non dir più! Non dir più!

La Sirenetta.

Ah, che crudele amore!

Una pausa. Ella resta pensosa.

E dove saranno? Lontane da te, sole, nella terra, in fondo.... Le hanno seppellite? Dove? In un bel giardino?

Una pausa. La mutilata tiene le palpebre chiuse e appoggia il capo al cristallo ove si riflette il tremolio del mare.

Le hai vedute portar via? Com'erano bianche! Le hanno intrise in un balsamo forte. E gli anelli? Con tutti gli anelli? Ne avevi uno con una pietra verde, e uno con tre perle, e uno intrecciato d'oro e di ferro, e uno liscio, un cerchietto lucente, e quello solo era all'anulare.

Una pausa. Un'espressione indefinibile appare sul volto della mutilata, mentre ella abbandona le braccia lungo i fianchi allentando la contrattura.

Ci pensi? Le sogni? Se ti rifiorissero calde....

La mutilata apre gli occhi e sobbalza, come chi si sveglia all'improvviso. Le sue braccia sussultano.

Che hai?

Silvia Settala.

È strano: veramente qualche volta mi par di riaverle, mi par di sentire il sangue scendere alla punta delle dita. Quando tu parlavi, le avevo.... erano più belle, Sirenetta.

La Sirenetta.

Più belle?

Silvia Settala.

Tu mi consolerai, Sirenetta. Io non posso prendere la tua stella, ma posso guardare i tuoi occhi e udire la tua voce. Stammi vicina, ora che t'ho ritrovata. Anch'io ti vorrei per sorella.

La Sirenetta.

Vorrei darti le mie mani, se non fossero tanto ruvide e scure.

Silvia Settala.

Sono felici le tue mani: toccano le foglie, i fiori, l'arena, l'acqua, le pietre, i fanciulli, gli animali, tutte le cose innocenti. Tu sei felice, Sirenetta: la tua anima nasce ogni mattina; ora è piccola come una perla e ora è grande come il mare. Tu non hai nulla e hai tutto; non sai nulla e sai tutto....

La Sirenetta, volgendosi a un tratto e interrompendola.

Hai sentito la folata? Guarda, guarda quante rondini sul mare! Sono più di mille: una nuvola viva. Guarda come brillano! Ora partono, vanno a un gran viaggio, in una terra distante; l'ombra cammina su l'acqua con loro; qualche piuma cade; si farà sera; incontreranno le barche in alto mare; vedranno i fuochi, udranno i canti dei marinai; i marinai le guarderanno passare; passeranno rasente alle vele; qualcuna urterà, cadrà sul ponte stanca. Una sera, una nuvola di rondini stanche s'abbatterà su una barca come un passo di storni su le paretelle e tutta la ricoprirà. I marinai non le toccheranno. Non si moveranno, per non spaventarle; non parleranno, per lasciarle dormire. E, come ce ne sarà anche sul ceppo dell'àncora e su la barra del timone, per quella notte la barca andrà alla ventura sotto la luna. Ma all'alba.... Ah! Chi ti chiama?

Interrompe il sogno, udendo una voce estranea tra gli oleandri; fa l'atto di fuggire.

Addio, addio.

Silvia Settala, ansiosamente.

È mia sorella. Non fuggire, non te n'andare, Sirenetta! Rimani qui d'intorno. Viene Beata.

La Sirenetta.

Addio, addio. Tornerò.

Fugge verso il mare, si dilegua nell'azzurro e nel sole.

SCENA SECONDA.

Appare tra gli oleandri Francesca Doni seguita da Lorenzo Gaddi il vecchio.

Francesca Doni.

Vedi chi ti conduco?

Silvia Settala, ansiosamente.

E Beata? E Beata?

Francesca Doni.

Verrà fra poco. L'ho lasciata con Faustina. Son venuta innanzi perchè non t'arrivasse all'improvviso....

Silvia Settala.

Caro maestro, come vi sono grata!

Il vecchio fa l'atto istintivo di tendere le mani verso di lei. Ella s'inchina leggermente e gli offre la fronte, ch'egli sfiora con le labbra.

Lorenzo Gaddi, dissimulando la sua commozione.

Come sono felice io di rivedervi, cara Silvia, e di rivedervi già sollevata e sana! Il mare vi giova. Il mare è pur sempre il gran consolatore. Laggiù, al Forte dei Marmi, si pensava molto a voi.

Silvia Settala.

Non è tanto lontano di qui il Forte dei Marmi.

Lorenzo Gaddi, indicando i lidi remoti.

È laggiù, sotto Serravezza, di qua da Massa.

Guardano per le vetrate la lontananza.

Francesca Doni.

Come si vedono bene oggi le montagne di Carrara! Si possono contare le punte a una a una. Non mi ricordo una giornata più limpida di questa. Chi era con te, Silvia? La Sirenetta? M'è parso di vederla fuggire verso il mare. E poi, ecco la sua traccia: alghe, nicchi, stelle marine.

Ella indica il tesoro puerile sparso a terra.

Silvia Settala.

Sì, era qui con me, dianzi.

Lorenzo Gaddi.

Chi è la Sirenetta?

Francesca Doni.

Una piccola pazza errante.

Silvia Settala.

Una veggente, che ha il dono del canto; una creatura di sogno e di verità, che sembra uno spirito del mare. La conoscerete e l'amerete con me. Conoscendola, udendola parlare, si comprendono molte cose profonde. Certo, vi parrà perfetta: ella dà sempre e non chiede mai.

Lorenzo Gaddi.

Vi somiglia in questo.

Silvia Settala.

Ahimè, no. Avrei voluto e dovuto somigliarle in questo; ma la luce mi venne meno e cedetti all'inganno della vita. Quale accecamento! Tanto chiesi che, per ottenere, mi ridussi perfino a mentire: io! Ne esco mutilata, stroncata, per ammenda della menzogna. Avevo tese le mani troppo violentemente verso un bene che m'era vietato dal destino. Non mi lagno, non gemo. Poichè bisogna vivere, vivrò. Forse un giorno la mia anima sarà pacificata. Sentivo nascere in me questa speranza, ascoltando la voce di quella creatura semplice e candida che può insegnare le cose eterne. M'ha detto che mi porterà una stella ogni mattina.

Ella tenta di sorridere. La sorella è rimasta presso le vetrate e sembra intenta a guardare le montagne lontane; ma l'ombra della tristezza occupa il suo viso mite.

Guardate là, maestro, la Donna dal mazzolino. È venuta meco. Ora, se la guardo, ha qualche cosa di funebre per me: tuttavia non ho saputo distaccarmene. Vi ricordate, maestro, di quel giorno d'aprile? e della testa inghirlandata?

Lorenzo Gaddi.

Mi ricordo, mi ricordo....

Silvia Settala.

La vita nuova!

Lorenzo Gaddi.

In ogni cosa era un augurio.

Silvia Settala.

Quando vedo passare i cammelli carichi di fascine, là, oltr'Arno, nelle macchie del Gombo, ripenso all'arrivo di Cosimo Dalbo, all'allegrezza di quella sera, allo scarabeo che io misi in mezzo a un fascio di rose colte da Beata....

Si volge verso la sorella.

Oh, Francesca, io parlo e il cuore intanto mi fa così male che non resisto più. Dov'è Beata?

Francesca Doni, stretta dalla pena.

Vuoi dunque vederla ora? Sei forte?

Silvia Settala.

Sì, sì, sono forte, sono pronta. L'indugio è peggiore.

Francesca Doni.

Allora vado, e te la conduco.

Silvia Settala, non riuscendo a contenere l'ansietà.

Aspetta un minuto. Non rimanete con noi qui, stasera, maestro? Sarei contenta.

Lorenzo Gaddi.

Ebbene, sì, rimango.

Silvia Settala.

Possiamo ospitarvi. Faccio preparare la vostra stanza. Aspetta, Francesca, un minuto.

Ella è convulsa, non potendo più dominare la sua ambascia. Va verso la porta con l'atto di chi corra a nascondere un pianto che sia per irrompere.

Francesca Doni.

Vuoi ch'io venga, Silvia?

Silvia Settala, con la voce soffocata.

No, no.

Scompare.

Francesca Doni.

Ah, che maledizione, che maledizione! La vedete? Finchè era nel suo letto, sotto le sue coperte, fasciata, esangue, tutto l'orrore della cosa non appariva. Ma ora che è in piedi, ora che si muove, cammina, rivede le persone amiche, ritrova le abitudini d'un tempo, si dispone ai gesti che le erano famigliari.... Pensate!

Lorenzo Gaddi.

Sì, è una sorte troppo atroce. Mi ricordo ancora di quel che diceste tanto teneramente, guardandola, in quel giorno d'aprile. "Sembra che abbia le ali!" La bellezza e la leggerezza delle sue mani le davano quell'aspetto di creatura alata. V'era in lei una specie di fremito incessante. Ora sembra che si trascini....

Francesca Doni.

Ed è stato un sacrifizio inutile come gli altri, non è valso a nulla, non ha mutato nulla: ecco l'atrocità della sorte. Se Lucio le fosse rimasto, credo ch'ella sarebbe contenta di avergli potuto dare quest'ultima prova, d'avergli potuto fare anche il sacrifizio delle sue mani vive. Ma ella conosce ormai tutta la verità, nella sua crudezza.... Ah che infamia! Avreste mai potuto credere che Lucio fosse capace di tanto? Dite.

Lorenzo Gaddi.

Anch'egli ha il suo fato, e gli obbedisce. Come non fu padrone della sua morte, così non è padrone della sua vita. Lo vidi ieri. M'aveva scritto al Forte dei Marmi per pregarmi di salire alle Cave e di spedirgli un masso. Lo vidi ieri, nel suo studio. Il suo viso è così scarno che sembra debba divorarglielo il fuoco degli occhi. Quando parla, si eccita stranamente. Ne rimasi turbato. Lavora, lavora, lavora, con una terribile furia: forse cerca di sottrarsi a un pensiero che lo rode.

Francesca Doni.

La statua è ancora là?

Lorenzo Gaddi.

È ancora là, senza braccia. L'ha lasciata così: non ha voluto restaurarla. Così, sul piedestallo, sembra veramente un marmo antico, disseppellito in una delle Cicladi. Ha qualche cosa di sacro e di tragico, dopo la divina immolazione.

Francesca Doni, a bassa voce.

E quella donna, la Gioconda, era là?

Lorenzo Gaddi.

Era là, silenziosa. Quando uno la guarda, e pensa ch'ella è causa di tanto male, veramente non può imprecare contro di lei nel suo cuore;—no, non può, quando uno la guarda.... Io non ho mai veduto in carne mortale un così grande mistero.

Una pausa. Il vecchio e la mite sorella rimangono in pensiero, per qualche attimo, chinato il capo.

Francesca Doni, sospirando per l'angoscia che l'opprime.

Mio Dio, mio Dio! E intanto ora dovrò condurre Beata alla madre, e si rivedranno, dopo tanto; e la piccola capirà la verità, saprà la cosa orrenda.... Come nascondere, a lei che si ricorda di tutte le carezze e ne è folle! L'avete veduta, l'avete udita, dianzi....

Silvia Settala riappare su la soglia. I suoi occhi sono arsi e tutta la sua persona è contratta da uno sforzo spasimoso.

Silvia Settala.

Eccomi, Francesca; sono pronta. La stanza è già preparata, maestro, se volete salire.

Lorenzo Gaddi, andando verso di lei con la voce tremante di commozione.

Coraggio! È l'ultima prova.

Esce per la porta. La mutilata si avanza verso la sorella, anelante.

Silvia Settala.

Ora va, va! Conducila. Aspetto qui.

La sorella le cinge con le braccia il collo e la bacia, in silenzio. Poi esce dalla parte del mare, si allontana rapidamente tra gli oleandri.

SCENA TERZA.

Silvia Settala, anelante, guarda per mezzo ai rami che il sole obliquo accende. È l'ora estatica. Il giorno è più limpido che i cristalli della stanza bianca; il mare è soave come il fiore del lino, immobile così che le lunghe imagini delle vele rispecchiate sembrano toccarne il fondo; il fiume sembra generare quel gran riposo, versandovi l'onda perenne della sua pace; i boschi salubri, tutti penetrati di fluido oro, si alleggeriscono meravigliosamente, quasi che perdano le radici per nuotare nella delizia del loro aroma; le Alpi marmifere in lontananza segnano nel cielo una linea di bellezza, in cui si rivela il sogno che sorge dal loro chiuso popolo di statue addormentate.

Riappare in quel silenzio La Sirenetta e s'ode la sua voce pura.

La Sirenetta.

Sei sola?

Silvia Settala, affannata.

Sì, attendo.

La Sirenetta, accostandosi.

Hai pianto?

Silvia Settala.

Sì, un poco.

La Sirenetta, con infinita pietà.

Sembra che tu abbia pianto un anno. Hai gli occhi bruciati. Troppo ti duole il cuore.

Silvia Settala.

Taci. Non posso premermi il cuore.

Ella si stringe contro il tronco dell'oleandro più vicino, convulsa, non potendo più sostenere lo spasimo dell'attesa.

Ora viene, ora viene.

Ella si distacca dal tronco e rientra nella stanza, come presa dal terrore, con l'atto di chi cerchi un rifugio.

La voce di Beata, tra gli oleandri.

Mamma! Mamma!

La madre sussulta, si volge, spaventosamente pallida.

Mamma!

La figlia si slancia verso la madre con un grido di gioia, tutt'accesa in viso, calda, con i capelli scomposti, ansante come dopo una lunga corsa, portando un fascio confuso di fiori. Com'ella si slancia, il fascio cade. La mutilata si china verso le piccole braccia che le avvinghiano il collo; offre la faccia morente ai furiosi baci.

Silvia Settala.

Beata! Beata!

Beata, ansante.

Ah, quanto ho corso, quanto ho corso! Sono fuggita, sola. Ho corso, ho corso.... Non volevano lasciarmi venire. Ah, ma io sono fuggita, col mio fascio di fiori.

Copre di nuovi baci il volto materno.

Silvia Settala.

Sei tutta molle di sudore, sei tutta calda, bruci.... Mio Dio!

Nell'impeto della tenerezza, ella sta per fare il gesto istintivo di asciugarla; ma si trattiene, nasconde nelle pieghe della veste i suoi moncherini; e un brivido di orrore, visibile, le traversa la persona.

Beata.

Perchè non mi prendi? Perchè non mi stringi? Prendimi! Prendimi, mamma!

Ella si solleva su la punta dei piedi, per essere rapita dall'abbraccio materno. La madre indietreggia, perdutamente.

Silvia Settala.

Beata!

Beata, incalzandola.

Non vuoi? Non vuoi?

Silvia Settala.

Beata!

Ella tenta di esprimere il sorriso delle sue labbra smorte che torce l'indicibile dolore.

Beata.

Tu giochi? Che nascondi? Oh, dammi, dammi quello che nascondi!

Silvia Settala.

Beata! Beata!

Beata.

Io t'ho portati i fiori, tanti fiori. Vedi? Vedi?

Nel volgersi per raccogliere il fascio caduto, ella scorge la sua amica selvaggia; la riconosce.

Oh, la Sirenetta! Sei là?

La Sirenetta è là, davanti ai cristalli, diritta in piedi, muta testimone, con gli occhi fissi alla madre dolorosa. Come il soffio iterato del vento passa tra le frondi d'un arbusto e le fa tremolare, così il dolore della madre sembra investire e penetrare quell'esile corpo a cui il sole obliquo cinge le sue bande d'oro.

Vedi quanti? Tutti per te!

La piccola raccoglie il suo fascio.

Tieni!

Si slancia ancora verso la madre, che indietreggia.

Silvia Settala.

Beata! Beata!

Beata, attonita.

Non li vuoi? Prendi! Tieni!

Silvia Settala.

Beata!

Ella cade in ginocchio, vinta dal dolore, abbattuta come da un colpo più forte, cade in ginocchio dinanzi alla figlia sbigottita; e un fiotto di pianto, che sgorga dagli occhi come il sangue da una ferita, le inonda la faccia. Beata.

Piangi? Piangi?

Sbigottita ella si getta contro il seno della madre, con tutti i suoi fiori. La Sirenetta, caduta anch'ella in ginocchio, prona, tocca con la fronte e con le palme distese la terra.

ΤΕΛΟΣ

CONCORDANZA.

Οὑ νἑμεσις...

"Ed Elena, prestamente avvoltasi di veli bianchi, uscì dalla stanza nuziale piangendo; e lei seguivano due donne: Etre figlia di Pitteo e Climene dagli occhi bovini. Ed ecco, giunsero alle Porte Scee. Priamo, Pantoo, Timete, Lampo, Clitio, Icetaone alunno di Ares, e Ucalegonte e Antenore fior di saggezza entrambi, sedevano, vegliardi venerandi, sopra le Porte Scee. E la vecchiaia li teneva lontani dalla guerra; ma erano eglino agoreti eccellenti, simili alle cicale che nei boschi appese a un albero versano la lor voce melodiosa. Tali erano i principi dei Troiani, seduti in cima della torre. E, come videro Elena che saliva verso di loro, dissero gli uni agli altri sommessamente queste parole alate:—Certo, è giusto che i Troiani e gli Achei da' bei schinieri patiscano tanti mali e da sì gran tempo, a cagione di una tal donna; perocchè ella somigli in sua bellezza alle iddie immortali."

Iliade: raps. III.