LA LEDA SENZA CIGNO.
LA LEDA SENZA CIGNO ❧ ❧ RACCONTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO ❧ ❧ ❧ SEGUITO DA UNA LICENZA ❧ TOMO PRIMO
FRATELLI TREVES EDITORI • MILANO • MCMXVI
Proprietà letteraria. Riservati tutti i diritti.
Copyright by Fratelli Treves, 1916.
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Tip. Treves.
INDICE
ASPETTI DELL'IGNOTO. LA LEDA SENZA CIGNO.
Questo mi fu raccontato ieri, prima di sera, sul pontone piatto che la bassa marea lasciava in secco a poco a poco, mentre udivamo intorno bruire la vita nascosta delle sabbie e a quando a quando il chiù rammaricarsi nelle macchie litorali fiorite di ginestrelle e di giunchi marini, mi fu raccontato da Desiderio Moriar, squisitissimo artista ignudo di opere e di fama; il quale con me sa come nel vivere, ancor più che nel leggere, nulla valga quanto l'abito dell'attenzione.
Ma egli ha una voce che somiglia a una di quelle giornate torbide di marzo, tutte sprazzi argentini, ventate subitanee, rovesci d'acqua e di gragnuola, pause piene di melodia, dove le cose non nate sembrano aver più potenza che le cose già venute in luce. E questa sua voce passa per una bocca avida e scontenta come d'un bimbo ghiotto che con un soldo falso e gobbo s'indugi davanti alla vetrina del pasticciere. E su certe parole i suoi occhi bruni si muovono tra il battito dei cigli con una inquietudine che sembra accendere una stilla di sangue nell'angolo delle palpebre verso il naso, come quel tòcco vivo di cinabro che si vede in certi ritratti manierati; oppure talvolta pare che ritraggano a sé lo sguardo e galleggino su non so che acqua di sogno come due gusci lisci di nocciuola.
Né, veduto di fronte, egli è lo stesso uomo che si mostra di profilo: a una sensualità avventurosa, insofferente di costrizione ma intesa a scegliere pur nella sua subitezza, egli sembra volgendosi opporre l'abnegata volontà di chi senza fallo scopre il medesimo orrore vuoto sotto i più facili e i più difficili capricci della vita. Le sue belle mani, a volta a volta nervose come quelle del grande violinista tra archetto e tastatura o disossate e morbide come quelle del famoso sarto in punto di provare il vestito alla dama, con un gesto brusco fanno di tratto in tratto scrocchiare le dita parendo saggiare il tono dello scheletro celato. Allora certe rapide onde sensitive, palesandoglisi al pomello della gota, alla tempia, al mento, mi ricordano la pelle troppo fina dei cavalli di sangue e qualche volta anche il muso comico dei conigli.
Or che mirabile strumento animato per rilevar con un gesto, con un accento, con una pausa, con un cenno, con uno sguardo i valori delle cose visibili e invisibili!
Egli diceva iersera, per quel misto di fanciullaggine e di magìa: «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno, sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano». Così, narrando, egli mi faceva sentire di continuo quella meravigliosa oscurità su cui si disegnano le forme e gli eventi, quella divina ombra che riempie la piega d'una gonna o la fessura d'un cuore.
Disperando d'imitare pur lontanamente l'arte sua viva, nel riferire taluno de' suoi racconti io mi studio d'imaginarmi che il caso sia seguìto a me medesimo.
Ero in una di quelle giornate di tedio, che si dice sieno state inventate per le nature ambigue dal precettore di Nerone, quando la virtù attiva della vita si ritrae dai cerchi dell'anima come l'acqua dalle gore d'una gualchiera o d'un mulino lasciando a secco i fossi ingombri di rottami e di lordumi intorno ai congegni inerti.
Par di fiutare in ogni pensiero un odore di melma in fermento. Il corpo stesso è come sguainato e stroncato: cerca di sostenersi, di appoggiarsi, di trovar requie in qualche attitudine durevole; ma somiglia quei vecchi crocifissi mancanti della croce, che nelle botteghe degli antiquarii sembran rinchiodati a supplizio in qualunque luogo e contro qualunque arnese si ritrovino.
Anche la stagione secondava tale miseria; ché pioveva e non pioveva, nella Landa. Una nuvola bucherata spruzzolava un tratto di sabbione con gocciole grosse e rade che, per esser quasi tiepide, parevan cadute da uno schiumatoio. Ma di là dalla banda annaffiata s'intravedeva la sabbia secca, e più in là un'altra spruzzaglia, e più in là un'altra lista di alido; cosicché anche la terra pareva in malessere come quelle donne incinte che si sentono la pelle a chiazze fredda e calda, qualcosa d'informe dentro sobbalzando in una profondità indefinita.
Stavo per lasciare dietro di me, al cancello d'un giardino, una di quelle dolci e noiose creature che, all'incontro della giovenile visione di Dante, si ostinano di tener senza fine su le braccia il loro amore esanime «involto in un drappo sanguigno leggiermente» per non potersi mai risolvere a seppellirlo, e si sforzano di farci mangiare «per ingegno» il loro caro cuore che pur non arde. Vide cor meum.
Udivo il suono della lamentazione consueta come quel ronzio che il chinino lascia nell'orecchio del malato di febbri dopo l'accesso. E non istavo né dentro né fuori; ché la pietra della soglia era tra noi, cosparsa di pòlline giallo. E vedevo quella farina selvaggia attaccarsi alla pittura recente del cancello nuovo, riempiere gli interstizii, involgere una bolla di gomma che in una traversa di quel legno di pino non interamente morto si gonfiava a quel modo che la vescica s'alza nel palmo d'una mano avanti d'incallire.
Un vasetto di coccio sospeso a un tronco scorticato aveva ricevuto d'un tratto tanta ragia, al primo muovere del succhio, che ne traboccava in lunghi filamenti d'apparenza quasi zuccherina, sicché metteva voglia di darla a masticare per impiastrarne la lingua molesta e invescare contro al palato le parole importune. Sotto la mollezza d'una nuvola latticinosa e irresoluta gli uccelli qua e là stonavano come gli alunni svogliati d'una scuola corale. E tutta la vita m'aveva l'aria di una di quelle sciocche allegorie che un tempo il maestro di retorica proponeva su la lunga panca dell'esame. L'avevo così mal composta che, per punizione, ero costretto a portare il foglio appiccato con due spilli dietro la schiena.
Allora, scendendo verso il Quartiere d'inverno per i sentieri della foresta, pensai con invidia a quei rari pastori landesi, ultimi discendenti de' vecchi fantastici che su gli alti trampoli varcavano stagni e pantani del deserto arenoso e co' gran passi potevan eguagliare il galoppo d'un cavallo de' Pirenei.
Ne avevo conosciuto uno nella macchia, pochi giorni innanzi. Ridotta la misura delle pertiche leggendarie a due modesti mozziconi. messi ad armacollo l'ombrello verdognolo e il sacchetto brunastro, calcato su gli orecchi il berretto di lana in forma di fungo, costui passava tutto il santo giorno immobile contro il sostegno del bastone, lavorando di calzette coi ferri, immune di pensieri come il suo cane, indifferente alla fuga del tempo come dev'essere l'ampolla dell'oriuolo da polvere, con la sua lingua riposta per anni nel silenzio della sua saliva come la sardina conservata nell'olio della scatola.
Lungi dagli occhi amati o non più amati, la luce pare diversa.
Per entrare nella nostra camera, il cielo aspetta che le lampade sieno spente.
Tra le raschiature fresche dei pini (in distanza i fusti avevan l'aria di portare inchiodate quelle pelli rossigne di capretti che soglion pendere agli usci dei macellai) scorgevo la città variopinta dell'Etisìa covata da un tepore umidiccio di stufa alquanto disgustoso come quello che si respira in certi bagni turchi trasportati in Occidente, ove gli uomini grassi s'affannano a sudare leggendo il giornale della loro fede spiegato su la pancia grondante.
Le ville parevano leggiadramente costruite di carton pesto e di latta traforata da un architettorello girondino con pizzo al mento e svolazzo alla cravatta, che si fosse ingegnato di conciliare nell'arte sua ospitale l'inspirazione della Riviera ligure a quella del Lago dei Quattro Cantoni, entrambe consolatrici. Ogni facciata portava inscritto in lettere di stil novo il suo bravo nome fornito dalla mitologia, dalla botanica, dai fasti civici o dalla buaggine sentimentale. Ogni interno doveva avere il suo vaso di fiori artificiali sotto la campana di cristallo, la sua grossa conchiglia bitorzoluta, la sua figurina di Giovanna d'Arco in armatura di piombaggine, e la sua pendola col cuccù per chiamare la felicità o la morte.
Cumuli di ciarpe e di coperte, sollevati di tratto in tratto da uno schianto di tosse, riposavano su lunghe sedie di vimini, di là dai vetri nettissimi che come quelli degli aquarii parevano chiusi sopra un mondo remoto. Su la via bianca una fila interminabile di bruchi, discesa chi sa di dove, camminava verso l'eternità con la contrattura lieve e spaventevole delle sue miriadi d'anelli. Qualcuno dei loro nidi lanuginosi in cima a qualche ramo dava imagine d'una mano malata avvolta di filacce. Un pianoforte lassù, che aveva ereditato l'anima di un organetto di Barberìa suo parente, sonava uno di quei pezzi che portano un numero su ogni nota per condurre ciascun dito al suo tasto; e non so quale avo romantico risvegliandosi in qualche parte di me si mostrava curioso di sapere se la copertina s'ornasse d'una gondola nera o d'un salice piangente o d'un'arpa ossianica in litografia e se il titolo fosse: «Il sospiro dell'Esule» oppure «Il giovine schiavo» oppure «Ultimo giorno di Maria Stuarda».
Un pensiero atroce e puerile mi passò pel cervello: «Se ora getto un grido, tutti i malati si precipitano alle finestre, e mi restano là con i loro visi eguali e bucati come i sugheri che pendono dalla sciabica stesa ad asciugare dopo la pésca.»
In una finestra senza cortine, dietro il vetro si levò un che di simile a un gesto bianco che scacciasse un moscone o che mi chiamasse. Certo, non altro che un sottil vetro mi separava dalla morte, e quella mano ignota stava per romperlo.
Mi ricordai che un mio cugino a Nizza ebbe la ventura d'essere meravigliosamente amato per tutto un pomeriggio, fino alla sera, da una canonichessa di Cracovia, che poi spirò nella notte.
Ma la porta della mia donna eletta e perduta era chiusa; e nel piccolo giardino una serva in cuffia e in zoccoli insaponava un can barbone color castagno che pareva stingere sotto la schiuma come fosse di cioccolata, mentre l'acqua sporca colava giù per la viottola nella strada, verso me, simile a una mano deforme che palpasse in terra e s'allungasse e s'allargasse cercando qualcosa che io avessi perduta.
Non sapevo che.
M'aspettavo che qualcuno di dietro mi dicesse con zelo: «Signore, guardi, si volti; ha perduto la tal cosa.» Ma nessuno fiatò; né quella mano colante si levò a restituirmi la cosa: seguitò a palpare più lontano, fino al rigagnolo, disturbando un conciliabolo di bruchi radunati sotto una specie di canavaccio che poteva somigliare tanto a una spoglia di serpe quanto alle cellette d'un favo votato e disseccato.
Un carrozzino a forma di cesta intanto mi veniva incontro su tre ruote, sospinto da un uomo baffuto e brizzolato che compieva quell'officio con la dignità propria dei reduci dalle patrie battaglie e dei salvatori di professione addetti agli annegamenti e agli incendii. Una vecchia signora v'era distesa, che nel suo aspetto di moribonda serbava non so che luccichìo di furore in due pupille ostili all'Universo, sporgenti in sommo di due borse grinze che ricordavano la ferocia del polpo legato al suo triste sacco e non si sapeva per qual mai accidente mancassero degli otto tentoni guerniti di ventose. A due passi da me il carrozzino s'arrestò così inaspettatamente che sobbalzai.
Una riga di bruchi attraversava la strada; e il degno spingitore — chi sa per qual movimento di pietà, di ribrezzo o di superstizione — cercava un modo ingegnoso d'evitare la strage. Com'egli di dietro pontava su l'orlo della cesta perché la ruota davanti si sollevasse, la vecchia sentendosi sballottare ritrovò tutti i suoi spiriti per schizzare contro il gaglioffo l'acredine dei suoi due polpi senza tentoni. La ruota ricadde e tagliò il lungo budello villoso e molle. Le altre due ruote e le due scarpe seguaci compirono il tagliamento.
Per disgustò volgendomi, vidi dietro una palizzata un ragazzo che rideva da due minuti occhi porcini affondati in una faccia enorme e lustra sul punto di scoppiare come se dalla nuca forata qualcuno seguitasse ad insaccarvi sugna e carne pesta.
La carogna brulicante d'un can bastardo in un immondezzaio non è spettacolo quasi ricreativo al confronto di certe apparizioni della bruttezza umana vestita di panni?
Una gran folata di vento mi passò sul capo: uno di quei fiati subitanei che sembrano venire dal miracoloso confine d'un'altra vita non conoscibile se non talora indistintamente per certi baleni del ricordo o bagliori dell'ansia, quando lo spirito, forse memore, forse presago, si dibatte invano per sottrarsi alle abitudini, alle manìe, alle bugìe, alle smorfie, alle paure, alle infezioni senza numero ond'è composta la nostra vita.
Il pòlline pareva fumigare dai rami scossi e dorare di sé la nuvola dilacerata che mi lasciò scorgere d'un tratto il più angelico tra i visi dell'aria per mezzo a due lembi simili a due bende di lino spolverate da quell'oro silvano.
E, prima di udire la nota inesperta di un usignuolo novizio, sentii che il pino al passaggio del soffio si gonfiava di musica, dal pedale alla vetta, come uno strumento a fiato.
E bastò quella nota gracile perché tutto si mutasse.
Allora m'affrettai verso la città, pensando che forse la musica era per interpretare l'enigma di tutte quelle figure introdotte in me da non so che senso crudele aggiunto alla vista normale.
Un giovine sonatore di cembalo, escito dalla Schola Cantorum, educato alla grazia e alla forza degli antichi cembalisti italiani, mi aveva scritto con fiera gentilezza che nel suo concerto di quel giorno avrebbe sonato per me solo.
Ottima cautela, del resto, perché, entrando nel Casino, m'accorsi come la più gran parte dei porci paesani — more biblico — non fosse stata attratta dalle margherite.
Gli uditori erano scarsissimi nella vasta sala tutta senza risparmio dipinta in quello stile turchesco che ha la virtù d'infiammare la fantasia dei sottuffiziali nei parlatorii dei bordelli. Non mancava se non il profumo delle famose pastiglie dette del Serraglio. L'Euterpe locale, donna ossuta e brusca, posta a guida d'ogni raro uditore verso la sua seggiola, cacciando di tratto in tratto la mano nella tasca del grembiule faceva sperare che fosse per prendere una di quelle pillole odorifere e per abbruciarla nel polito scodellino delle mance; ma ogni volta il gesto era seguito dalla delusione.
S'udì scrosciare un nuovo rovescio su la vetrata del soffitto; ed ecco, lo spirito agile dell'acqua parve penetrar nell'ombra squallida, con non so che di fragranza terrestre di gioia.
Le pareti s'apersero; la gran carcassa di ferro, di legname, di stucco e di vernice fu portata via da un sol colpo di vento, quasi fosse un mucchietto d'aghi di pino su la spiaggia battuta dall'Atlantico.
Chiare fonti repentine scoppiarono da ogni parte come in quel luogo quieto del barco ove l'ospite con un sorriso misterioso conduce gli invitati senza sospetto e non visto volge la chiave nascosta nella faretra d'un Cupìdo per muovere i giochi e i tradimenti dell'acqua.
Su dall'erba rasa, di tra i cespugli simmetrici, di tra i bossi tonduti, dalle mammelle delle naiadi, dalle conche dei tritoni, dai dorsi dei delfini, dalle gole delle rane di bronzo acquattate presso i sedili o alla soglia delle grotte, dalle modanature dei balaustri lungh'esse le terrazze e le scale, dalle cupole dei tempietti e dalle arcate dei passeggiatoi, da ogni parte i getti spicciano sprizzano bàlzano schioccano perseguono percuotono formidabili come nell'imboscata le spade gli stocchi le picche.
Dame e galanti strillano ridono corrono si schivano si salvano.
Ma in ogni rifugio, in ogni nascondiglio è l'insidia della fresca persecutrice; ecco uno schizzo obliquo nella nuca, nell'orecchio, tra le spalle; ecco una polla bassa che suona sotto il verdugale come un batacchio in una campana sorda; ecco uno stroscio rude che rapisce una parrucca, l'immola, la sparpaglia, ne fa quasi un fiocco della sua spuma.
Amarilli fuggendo inciampica in un cespo di rose, cadendo bocconi le sfoglia e si punge. La malizia degli zampilli l'assale, come uno stormo di gnomi trasparenti e saccheggia la sua leggiadria inerme. Una piuma, un velo, un nastro, un nodo d'amore, un neo di taffettà, un pettine di scaglia, una scarpetta di tela d'oro, ogni spoglia leggera danza in cima d'ogni zampillo come tal uovo forato e votato; e anche una foglia verde, un petalo bianco, una spina bruna.
«Aita! Aita!» Il cavalier Palamede non s'indugia, non si volge, non ode; se la dà a gambe con gran tintinnio di ciondoli, con la coda di traverso, con le calze appiccicate alle insigni polpe, con in mano il fodero floscio dello spadino smarrito.
Tutti e tutte fuggono strillando, soffiando, lungo le spalliere di càrpini, verso la gradinata di marmo carnicino, come un branco misto di paperi e di cigni cacciato fuor dal suo laghetto da uno spavento improvviso.
Già si credono in salvo e si scrollano le fuggitive, quando le piccole sfingi di marmo carnicino, ben pettinate e savie come damigelle di compagnia, riposanti su due branche dagli ugnòli inoffensivi, prendono a soffiar dalle bocche senza enigma larghi ventagli d'acqua che s'incrociano per tutta la scala.
Ricomincia la fuga venusta; e la scala sembra che si prolunghi come quella di Giacobbe, verso il cielo soave d'occidente ove le spole delle rondini tessono il velo violetto della Malinconia.
Ed ecco la prima collana di perle si rompe sgranellandosi: gli acini ruzzolano giù per i gradini lisci e rosei che l'acqua discende in minuscole cascate.
Si rompe la seconda (di sette fili?); si rompe la terza (di ventun filo?) e un'altra, e un'altra ancora, senza novero.
Le perle si moltiplicano, simulano una grandine mite, scorrono per ogni verso, rilucono, risonano, rimbalzano, si mescolano ai rivoli, ora sembrano le bolle preziose dell'acqua, ora le gocciole della bellezza grondante.
E, come cessano le sfingi di soffiare, i pavoni appollaiati nei càrpini si levano con uno strido; vengono su la strada come attratti dal becchime inatteso; inseguono i grani trascinando sul marmo umido i loro chiusi flabelli.
Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo soffice di gatti d'Angola, e bianchì come la panna e grigi come il fumo, dagli occhi rossi, dagli occhi cilestri.
Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo di bertucce nere e lustre come il giaietto, dalle manine pallide e grinzose, con un campanello d'oro alla coda.
E i mici e le monne inseguono le perle sonore, le fermano, le afferrano, se le mandano e rimandano, scherzando, ruzzando, rissando, con atti con gesti con cenni di grazia sempre facile e nuova.
E lassù le collane si spezzano, si sfilano, si sgranellano ancóra, quasi che per prodigio lassù il riso carnale della Giovinezza si cangi in quei disciolti monili trascorrenti e irrecuperabili. (Nel rosaio, laggiù, Amarilli ha perduto i sensi? o ha reso l'anima?)
Erano le sonate di Domenico Scarlatti.
Il giovine sonatore aveva il viso raso angoloso e sparso di qualche neo irsuto alla Franz Liszt, un paio d'occhiali professorii a stanghette d'oro sopra un naso quasi greco, l'antico zazzerino spolverato di Jacopo Peri, una cravatta a due giri sopra un di que' lunghi panciotti di velluto nero che portano gli eleganti nelle litografie di Gavarnì; ma per l'arte mirabile delle sue dita e dei suoi spiriti si rivelava un vero «maestro al cembalo» degno del Settecento e del divino Napoletano.
Il vigore, l'ardire, l'eleganza, l'allegrezza, la franchezza, la volubilità, la voluttà di quella musica rinnovavano e rinfrescavano a miracolo in me il senso della vita. Ciascuna sonata, con l'unico suo tema condotto sopra un movimento diviso in due parti, pareva disegnare ogni volta la linea breve d'una perfezione sempre diversa e variare per modulazioni imprevedute l'energia del più limpido elemento.
In un intervallo, quando le mie palpebre erano ancóra abbassate sopra una delle mie imaginazioni incantevoli, mi giunse in un fruscìo tenue un profumo di donna simile all'odore che si parte da un cespuglio scosso; cosicché al primo attimo credetti di non esser turbato se non dal mio medesimo sogno. Amarilli?
Ma, volgendomi, vidi una giovine signora che stava per sedersi nella sedia accanto alla mia; e nel primo aspetto notai la qualità de' suoi occhi che pareva non le servissero a dirigersi. Di sùbito il mondo creato in me da quella musica crollò e si dissipò, come se mi fosse caduta di mano una di quelle sfere cristalline che figurano l'orbe terraqueo nella palma d'un angelo inglese della Creazione. Gli zampilli cessarono di stoccheggiare, le collane cessarono di sfilarsi. L'anima, escita magicamente di sé stessa, balzò indietro di più secoli.
La nostra vita è un'opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto è più ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l'ordine delle leggi apparenti. Né, quando crediamo di dormire e di sognare, siamo noi addormentati ma sì bene il Mago s'assonna tralasciando di condurre le nostre virtù verso le virtù delle cose con l'arte sua improvvisa e infallibile. Abbandonati per un tratto a noi stessi, potremmo forse spiarlo e conoscerlo come potremmo osservare il nostro segreto s'egli non fermasse in noi un qualche congegno, al modo dell'operaio che introduce un chiodo o una scheggia nella macchina per renderla inservibile. Ma l'uomo veglia di continuo, fin dal cominciamento del mondo; e nessun Macbeth può, in verità, uccidere il sonno che mai non gli si accosta.
Il sonno umano è un errore come il tempo e come lo spazio.
Il nostro letto non è se non il simbolo d'un rito incompreso o mal compreso, come l'antico catafalco annuale di Adone o quello di Gesù eretto nella navata innanzi Pasqua. Non l'uomo ma l'imagine cèrea d'un dio vi si stende.
Gli occhi della sopravvenuta erano di quelli che ci lasciano perplessi e disperati come davanti a una muraglia liscia di roccia senza varco e senza presa. Gli orli delle palpebre induriti e netti come castoni li legavano come questi legano le gemme, e mi facevano pensare agli occhi d'un dio o d'un atleta di bronzo composti d'argento azzurrognolo o di pasta vitrea colati o connessi nella cavità del metallo per essere imperituri e per domandare in perpetuo ai mortali l'offerta o la lode senza concedere alcuna cosa in compenso.
Ma il colore della pelle sul viso nudo era per contro così delicato che non mai tanto m'aveva commosso la prima delle piccole rose scempie che sbocciano dallo stecco del pesco. Era un pallore illuminato non so se da una qualità insigne del sangue o dalla potenza della modellatura, non avendo io ancor mai veduto i piani d'una faccia vivente trattati con tal larghezza scultoria che, nell'angustia d'una maschera, potesse ricordarmi i movimenti grandiosi del terreno nei paesi nobili, il ritmo inimitabile della valle e del colle nella stagione più chiara e più tacita.
Mi copersi con la mano la vista; e, chinata la fronte, l'ascoltai per alcuni attimi respirare di là dalla musica, o forse in fondo alla musica che mi pareva non più correre lungo la tastiera ma agguagliarsi e quietarsi come quei ricetti d'acqua lasciati a vespro su la spiaggia dalla marea quando la mia imaginazione nutrita dal Mediterraneo dà una causa alla loro sublime bellezza fingendovi trasportata qualcuna delle statue che naufragarono sotto le Cicladi.
Il sentimento della presenza umana mi sembra così meraviglioso che mi domando per quale aberrazione o per qual viltà io mi compiaccia di vivere tanto a lungo in mezzo agli alberi e su le rive deserte. Ma bisogna dire che anche l'anima più robusta e più sveglia si ricusa agli sforzi consecutivi e che occorre una straordinaria somma d'attenzione per trapassare l'ottusità della consuetudine e per giungere a percepire il ritmo nascosto di una vita estranea.
Io fui subito sopraffatto da un'onda di tristezza, come se quella creatura avesse rifatto per me il cammino tra le case dei malati, avesse patito lo sguardo di quei due feroci occhi senili sporgenti in cima di quelle due borse grinze, e mi riconducesse i miei pensieri color di cenere brancicati da quella mano sudicia che colava in terra.
Con una forza d'allucinazione inoppugnabile come la realtà, sentii a un tratto la miseria e la sciagura in un modo informe e diffuso, non legate a quel volto e a quel corpo ma sparse come quando si sale su per una scala sinistra, si esita per un corridoio scialbo, e poi s'entra in una stanza mal rischiarata ove restano le tracce d'un delitto commesso. Penso che avrei scoperto nell'oscurità qualche oggetto rivelatore se non avessi tolto di su' miei occhi lo schermo e non mi fossi voltato a guardare la mia vicina con una sconvenienza involontaria che sembrò meravigliarla più che offenderla.
La sua bellezza aderì ai miei sensi perfettamente come se in questi ella avesse già il suo luogo e vi rientrasse a quel modo che la cosa rara si riadatta alla sua custodia o il rilievo alla sua impronta. La mia divinazione dolorosa si ritrasse in disparte e mi lasciò intero nella commozione nuova.
La linea di quella forma obbediva alla legge delle grandi opere plastiche; perché, in qualunque punto io la immaginassi generata, ella era condotta al compimento da una specie di fluida necessità: partita dalla nuca, tornava alla nuca; partita dal ginocchio, tornava al ginocchio, con una continuità e una pienezza proprie a lei sola, con un movimento che solo le conveniva come a una determinata forma musicale, come l'«a tre quarti» a quell'Andante, come l'«a sei ottavi» a quell'Allegro di Domenico Scarlatti.
Ella portava una giacchetta di cincilla più lieve che la peluria d'un cigno cinerino, sopra una stretta gonna di panno bigio che la impastoiava senza castità. Di sotto al suo cappello di crino rialzato da una banda e ornato di due penne d'airone di Numidia simili a due coltelli, una seta manosa e brillante d'un colore castagno dorato era disposta a matasse che non ratteneva né un pettine né una forcina apparente ma la loro stessa densità vivace.
Ella era tutta così fasciata nella squisitezza di quella moda che allora sembrava apprestare le donne per giacersi comodamente dentro le lunghe cassette mortuarie delle principesse faraoniche. Su la sua sedia non occupava più d'aria che non ne contenga un di quei sepolcri egizii di legno dipinto. Ma, pur a traverso la più recente eleganza, dalla linea che si generava nella ondulazione della sua guancia ella era per me disegnata sino ai piedi quale gli artisti devono imaginarsi l'antica Leda dell'Eurota. Dalla cintola in giù la sua grazia pareva inflessa verso il mistero del «divino Olore», come avrebbe detto Poliphilo.
E ripensai a quella Leda di Leonardo, che Cassiano del Pozzo, l'amico del Pussino, poté tuttavia vedere a Fontanabeliò nel 1625 e ch'io mi sogno sempre di ritrovare in qualche maniera inverosimile.
— Beethoven? — dissi a bassa voce, sorpreso dall'accento della musica che riudivo dopo l'intervallo indefinito del mio silenzio distratto.
Per una curiosità spontanea, la signora guardò nel programma che aveva sul manicotto e, come sollecitata dalla mia attitudine di attesa, disse:
— Ferdinando Turini.
Aveva proferito quel nome italiano con una timidezza infantile e quasi leziosa accompagnata da un rossore che pareva cancellare la potenza della sua maschera come quel succo vermiglio di cui si tingevano il volto triste le vergini dell'Apulia disponendosi ad abbracciare la statua funebre di Cassandra.
— Che pensare? — dissi, felice del pretesto, col cuore palpitante. — Aveva egli avuto conoscenza del primo stile beethoveniano? Non so, veramente. Se potessimo sapere che l'ignorò, quanto valore originale e significativo avrebbe per noi questa Sonata in re bemolle!
M'accorsi della nativa e profonda indifferenza del suo spirito per questo genere di sottigliezze e di problemi, come con una sola nota di saggio un cantore s'accerta della sordità di un luogo chiuso. I suoi occhi tra gli orli precisi delle palpebre ridivennero impenetrabili. Per istinto mi chinai un poco verso di lei, sul margine del suo segreto, ma smarritamente, destituito di quella virtù che nei primi attimi m'aveva rivelato in lei una massa di oscura miseria.
Il suo profumo dissolveva la forza della mia indagine: e ora io la guardavo come chi guardi non so che ultima cosa per la quale egli abbia fatto non so che lungo viaggio. Un flutto di vita remota, simile a quel fiato subitaneo che avevo udito spirare sul mio capo e sul pino, sopravveniva a travolgermi e a sommergermi. Mi pareva che una necessità patetica fosse sospesa su me, e ch'io fossi già disposto a quella specie di follia arteficiata onde si compone l'incanto che precede la passione.
Infatti consideravo ogni particolarità sotto una luce indefinibile che pareva già inviluppata di passato, come qualcuno che osservi e avvolga poi con estrema cura oggetti da riporre, i quali sieno per divenirgli preziosi ricordi dond'ei creda trarre una ebbrezza certa quando gli accadrà di riprenderli in mano. Cosicché il passato e il futuro convenivano in quel mio sentimento composto, e il presente non era se non una sorta di levame.
Le parlavo dentro di me come in un giorno a venire: «Tutto m'è chiaro nella memoria. Ti chinasti un poco innanzi come per meglio ricevere la musica. Pareva non ascoltassi con l'orecchio che coprivano i capelli ma col labbro gonfiato, come certi fanciulli quando una favola li rapisce. Tenevi la mano destra nel manicotto. Due volte, avendola messa fuori, la ricacciasti dentro con una strana fretta come per impedire che qualcosa ne cadesse. Il guanto era infilato nel polso ma la mano era nuda, escita dalla fenditura, e la spoglia di pelle penzolava sul dorso serbando la forma delle dita vive. Notai lungo il pollice un segno impresso, simile a una leggera ammaccatura prodotta dal contatto di non so che durezza....»
Non credo ch'ella ascoltasse veramente la sonata italiana. Mi pareva che la sua sensibilità musicale fosse molto scarsa.
La musica diffonde qualcosa di aereo nel corpo delle donne che sentono l'innocenza della melodia, come quell'aria ch'empie le ossa vane nelle ali degli uccelli volanti. Non so perché, una volta, in un concerto, vedendo l'amica mia curvata sotto il suo male e sussultante alla lamentazione sovrana d'un famoso violino, ripensai quelle bolle d'aria che il cacciatore vede salire a traverso il sangue caldo della ferita nell'ala dove l'òmero fu rotto dal piombo. Bella e profonda imagine, che mi ritornava nello spirito mentre io consideravo per contro la densità di quella vita, la coesione di quella sostanza, quella sorta di piena animalità dissimulata dai volumi d'un'architettura sì nobile.
Eppure ella era abitata da un'angoscia che in quel punto doveva urtare contro il fasciame delle sue coste come per ischiantarlo. E la pena, che di tratto in tratto saliva a gonfiarle il labbro inferiore, m'era così manifesta ch'io quasi mi meravigliavo di non vederne l'onda correre su per la delicata pelliccia come certi brividi d'agonia che solcano a spiga il mantello delle bestie inferme.
— Soffrite, signora? — osai chiederle, con una voce alterata che certo la toccò.
Ella volse verso me l'enigma di quel suo viso dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte.
— Niente affatto — rispose; e rise d'un secco riso senza risonanza come ridono talvolta le cortigiane a qualcuno che è dietro di loro mentre lo specchio riflette quella cera fissa e brusca ch'esse hanno nel trafiggere col lungo spillo il cappello.
Allora tutte le mie imaginazioni novamente si disfecero. Ella si mise a chiacchierare come una piccola mondana di Parigi, con una bocca molle ed elastica che esagerava la forma delle parole e la modulazione delle sillabe fino alla smorfia. Si burlò della sala turchesca, del pianista zazzeruto, dell'uditorio melenso; spregiò la vita meschina e noiosa di quella cittadaccia nata per baracche e baraccuzze da un accampamento di resinieri: si disperò d'essere condannata a vivacchiarci quasi tutto l'anno.
— Perché, signora? — chiesi timidamente. — Per la salute?
Ella rise di nuovo, con acredine.
— Ho l'aria d'esser malata? Qua e là qualche gola tossiva nell'ombra che pareva divenire a poco a poco più fredda, un nuovo rovescio crepitando su la vetrata grigia.
— No, certo.
Ella si raddrizzò su la sedia, sollevò il busto con una scossa quasi involontaria come quel rude sussulto che ci comunicano talora certi brividi inesplicabili. Notai la larghezza delle spalle e del petto, struttura solida che corrispondeva allo stile del capo. Travidi nell'apertura del manicotto qualcosa di luccicante, avorio e acciaio, simile all'impugnatura d'un revolver che stesse per scivolare.
— È per l'automobile — disse sorridendo, quasi volesse rispondere al mio probabile stupore di vederla armata. — Dopo il concerto, vado sino a Bordeaux.
Veramente ora pareva che le labbra appartenessero a un'altra donna, in mezzo a quel volto vivessero d'una vita estranea, con quella frivola mobilità che contrastava alla scolpita fermezza degli altri lineamenti e al mistero formidabile dello sguardo nudo. Ripensavo certe danze sarde danzate a viso chiuso e cupo, certe danze arabe in cui il solo ventre s'agita incessantemente in un corpo annodato da non si sa qual fascino serpentino. Il rosso artificiale era fresco, messo di recente, forse prima d'entrare con mano frettolosa, che sopravanzava alquanto gli orli e gli angoli, più o meno intenso. I denti erano robusti, quelli di sotto piantati un poco irregolarmente, splendidi come pezzetti di materia preziosa, fatti d'uno smalto così profondo e puro che si pensava ai carati della perfezione, quasi fossero gemme da osservarsi su la carta del gioielliere.
— Ascoltate — dissi, tocco da qualche nota del secondo tempo d'una sonata di Domenico Paradisi, ch'era l'ultima.
La spiavo di sotto ai miei cigli socchiusi.
La forza della dissimulazione abbandonò a un tratto quelle labbra su cui un sentimento di sconosciuta gravità sembrò porre una vera benda, quale non più fitta devono portar le Berbere nella nostra bianca e lunata Ghadamès.
Eppure, la cadenza essendo per risolversi e il mio cuore temendo la fine come un addio, la guardai di nuovo come uno che guardi un'ultima cosa per la quale egli abbia fatto il più lungo viaggio.
Era così liscia che pareva non dovesse avere un solco neppure nel cavo della mano. Era levigata veramente dall'acqua dell'Eurota, se tanto mi risplendettero nella memoria i ciottoli del fiume laconico senza cigni fra le strette ombre azzurre degli oleandri e delle canne. «Chi sei, chi sei, tu che certo ospiti dietro la tua fronte bassa un serpe scaltro, se bene il tuo cuore sia gonfio di lacrime?»
Come tante altre volte, tutto il mio essere aderì all'incognito che è il fondo della vita, per l'ombra accolta nel corpo, pel buio che occupa i nascondigli della carne, per l'oscurità delle viscere e dei precordii.
Sentivo stillare verso me il dolore e la morte come le gocciole che gemono dalla parete d'una caverna tenebrosa.
Una disperata poesia divenne la mia propria sostanza.
Ella era in piedi, tra sedia e sedia, mentre la sala si votava degli uditori come d'una poltiglia scorrevole che l'Euterpe ossuta spazzasse verso l'uscio. Ogni forma d'umanità pareva abbassata verso terra, privata di vertebre, scolorata e strascicante, tranne quella che in piedi m'era dinanzi, intiera, silenziosa, piena d'un suo male simile a una verità o a una menzogna profondissima che le tenesse vece di vita.
I luoghi più solinghi non sono nei deserti e nei monti, non tra sabbie e rocce sterili, ma dove l'anima affronta il destino respirando per alcuni attimi un'aria non respirabile da alcun altro essere prossimo.
Ella ora guardandomi restringeva un poco quelle palpebre che pur m'eran parse ferme come nelle statue arcaiche le gronde di bronzo rilevate intorno al cavo dell'orbita. Un cozzone di cavalli in esame d'una bestia da mercanteggiare non ebbe mai una qualità di sguardo più fredda e accorta. Ma mi sembrava che in fondo alle sue pupille l'esame luccicasse come uno strumento micidiale da cui fossi per esser leso. Ella non celava nel dolce manicotto color di perla se non una sola mano, quella nudata; e, certo, doveva con quella tenere l'arme piccola per assicurarsi che non cadesse. Ma il raggio de' suoi occhi era molto più pericoloso. Non so perché, mi sentivo più fragile, più caduco, angosciato da un'apprensione non dissimile a quella che si prova quando un medico ci palpa per scoprire il nostro punto debole. E (questo riferisco con assoluta veracità, se pur possa in séguito sembrar troppo singolare) e mi passò nel cervello un'imagine involontaria, risorta forse da un episodio della mia esistenza obliato: l'imagine bizzarra e lugubre del dottore d'una Società d'assicurazione, in atto di tastare e d'ascoltare il cliente nello stomaco, nel fegato, nel polmone, nel cuore, per un calcolo di durata approssimativo. Sentii che le arti del mio spirito, non potevano prevalere contro quella creatura a cui, come nel mito, il divino doveva appressarsi sotto la specie animale.
Non fui, sotto il suo sguardo estimatore, se non un corpo miserabile, logorato dall'eccesso, disgregato dall'inquietudine, di continuo minacciato dallo schianto che segue ogni estrema tensione. «Sì, certo;» voleva rispondere a quell'indagine la mia ironia «è facile finirmi. Tutto il mio vigore è concentrato alla base del mio cranio. Basterebbe un piccolo colpo secco, o un forellino non più grande di quello che la dònnola fa nel capo d'un pollo....»
Or da quale linea della sua faccia moveva verso di me quell'aura delittuosa? Perché in quel punto ella stessa mi rivelava quel che v'era di nocivo e di distruttivo nel suo istinto profondo?
Tuttavia non l'agguato soltanto era in lei ma anche un grido indistinto che, non giungendo ancóra al mio orecchio, mi toccava già l'anima.
— Bisogna andare — ella disse volgendosi, con una fretta subitanea, per quello squallido labirinto di seggiole.
Ora, come al primo entrare, pareva che gli occhi non le servissero a dirigersi. Urtata dalle sue gambe una seggiola cadde, e poi un'altra ancóra. Ella seguitava ad avanzare come una cieca, trovandosi sempre dinanzi le lunghe file senza passaggi. Bisognava rovesciarle per aprirsi un varco. Era come in certi sogni affannosi e ridicoli.
Non so veramente se la sala si fosse oscurata; però m'aveva l'aria di una brutta chiesa piena d'echi nell'ufficio delle Tenebre. E la custode ossuta accorreva verso noi furibonda, con lo zelo d'un sacrestano contro i profanatori. Una moneta tesa la placò e le mosse una ilarità inestinguibile; ché, come la signora rideva d'un riso falso, ella per compiacenza la imitava senza freno, rialzando le seggiole e persuadendo a noi e a sé stessa che quell'avventura era la più buffa del mondo.
Fuori, non pioveva. Un vento fresco, pregno di ragia come quell'acqua piovana che riempie i vaselli appesi ai pini, mi lavò la faccia. La cresta delle nuvole a ponente era come una schiuma abbagliante.
Qualcosa d'argenteo, quasi un riflesso di madreperla, guizzò negli occhi della sconosciuta. Il primo quarto della luna pendeva dal cielo verdigno come se la fata Morgana vi rispecchiasse il pallore della Landa.
— Avete una vettura per rientrare? — mi domandò ella, con una esitazione che la mia timidezza non seppe cogliere.
Conosceva dunque la mia via e me?
— Rientrerò a piedi — risposi. Mi guardava, considerando in sé cose ch'io non sapevo vedere e che nondimeno mi parevano influire su l'orizzonte e caricarlo d'una forza simile a quella che lampeggia senza tuono in certe sere d'estate quando tutta la nostra anima sta per ispiccarsi in faville dall'apice del nostro cuore una fiamma investita dal nembo. Il suo viso era alterato da un tremito muscolare che non potevo più reggere, quasi trasposto nella commessura delle mie mascelle come quello spasimo che i medici chiamano trisma.
La mia coscienza era come il mozzo d'una ruota velocissima.
— Buona sera — allora disse ella movendosi verso l'automobile coi piccoli passi lesti a cui la costringeva la stretta gonna.
Che ironia patetica nel contrasto di quella volontà oscura impedita da quelle pastoie eleganti!
— Ci rivedremo?
La mano armata restò sempre nascosta nella pelliccia molle.
— Chi sa!
Tra il rombo del motore, scorsi dietro il vetro dello sportello il gesto dell'altra mano guantata, un gesto bianco simile a quel che avevo intraveduto alla finestra senza cortine, nella città dei malati e dei morenti. In un attimo, non restò su la via, tra i due solchi delle ruote, se non il riflesso della nuvola abbagliante impigliato nella melma liquida.
La sconosciuta era scomparsa. Per sempre?
Certo, un carro funebre non avrebbe potuto trasportarla per me in un mistero più fondo, in un annientamento più cupo. Quell'assenza e la morte non avevano il medesimo aspetto? Bisognava evocare quel viso da una tenebra eguale a quella del sepolcro.
Risalivo pel cammino già noto, ripassavo pel Quartiere d'inverno; ma non tanto avevo il senso della mia direzione quanto il senso dello spazio percorso da quel destino di carne su la strada diritta ove la luna novella cominciava a segnare le ombre, strazianti di dolcezza per un cuore disperato.
Era già l'ora delle lampade domestiche. A ogni lampada accesa, la mia malinconia traboccava come per nutrirla.
Non riconoscevo la faccia delle case: le quali parevano non aver più altra vita che quella addensata nel cerchio luminoso, ove le ombre venivano ad attingere la luce come al margine quieto d'una fonte. Di là dal cerchio, tutto pareva involto da un vapore di natura umana, come se vi fumasse la febbriciattola vespertina che s'accende al calar del sole nella colonia infetta.
Il crepuscolo era ancóra tanto chiaro che potevo distinguere un ragnatelo stellato tra le verghe d'un cancello, o tra qualche filo d'erba una di quelle piccole sfere raggiate di peluria, delle quali non ho mai saputo il nome, più lievi che il primo laniccio del bozzolo, destinate a involarsi di là dai confini del mondo sotto il soffio d'un fanciullo gonfiagote.
Un pioppo tremolava, solo, vestito d'argento cangiante, all'angolo d'un giardino; e nel tremolìo diceva: «Eccola, eccola».
D'un tratto apparve quella ch'egli annunziava trepido, ma assai più bianca di lui, tutta candore e freschezza, tutta giubilo nuziale, una sposa pudica, abbigliata della sua propria verginità: la fioritura d'un melo!
Ogni apparenza era apparizione al fervore de' miei sensi; ma ognuna era accompagnata da un dolore folgorante che mi pareva quasi corporale, simile a quello che provavo un tempo per l'avidità di respirare profondamente l'aria marina con un torace dove tre costole rotte non eran saldate ancóra.
Pativo l'urgenza d'una forza che non dominavo; della quale veramente non sapevo se io la contenessi o ne fossi contenuto.
Quel gusto ceneroso, che avevo assaporato scendendo verso l'inatteso incontro, mi tornava misto a non so che dolciore sanguigno, contro cui si levava entro di me una ripugnanza amara come la nausea, i miei pensieri somigliando con orrore a quelle sanguisughe che bambino avevo veduto mettere in un piatto di cenere perché vi rivomitassero il sangue succhiato.
Quando alfine, trapassata la zona della malattia e dell'agonia, mi ritrovai nella selva selvaggia, sentendomi vellicare il volto e il collo dai fili invisibili tessuti tra ramo e ramo, compresi che quella era la carezza della primavera e che forse fino allora avevo torbidamente sofferta la doglia primaverile.
Una gocciola mi cadde su una mano, un'altra su una palpebra; una pina secca schizzò di sotto al calcagno; qualcosa di molliccio saltellò a traverso il sentiero, forse una botta; l'assiuolo sonò il suo oboe d'una sola nota; l'usignuolo colse nell'ombra quella nota di velluto bruno e la trasmutò in limpido cristallo volubile gorgheggiandola. Tutta la foresta fu piena di gemito e di canto, stillò di piovitura, grondò di ragia, sapida come un piatto di mescolanza, ineffabile come il sentimento della pubertà.
Ma in quell'immenso fiato la mia ansia non cercò se non il ricordo di quel profumo «simile all'odore che si parte da un cespuglio scosso», nel quale era venuta a me la donna impastoiata. L'ansia eterna dell'avventura mi riprendeva e mi riagitava con una violenza folle. Quale altra novità di possesso potevo sperare? quale altra comunione attendere? quale altra delusione raccogliere? Mi morse e m'artigliò il rammarico iroso di non aver saputo o voluto con un movimento d'audacia prevalere su la perplessità momentanea della sconosciuta, quando ne' suoi occhi fissi luccicava il doppio acume del dilemma. M'ebbi in dispregio come se avessi lasciato sfuggire per fiacchezza e per sciocchezza una preda magnifica. Dimenticai l'apprensione che m'aveva data, fra sedia e sedia, l'indagine di quello sguardo.
Il fermento della foresta mi comunicava una forza illusoria, onde nascevano propositi insensati. Cercavo d'orientarmi verso il punto della corsa lontana, verso la strada maestra. Non avrei avuto il tempo di ritrovarmi là, sul suo passaggio, aspettando il ritorno nella sera o nella notte? Mi pareva che una follia remota chiamasse la mia follia, a traverso la Landa. Affrettavo il passo. Due volte m'avvenne di smarrire il sentiero e di ritrovarlo passando pel folto, fra le ginestre e i rovi, col cuore che mi balzava come a un bandito che s'imboschi.
Anche nella mia casa erano accese le lampade. Le nuvole, avendo rioccupato il cielo, rasentavano il tetto, in fuga verso levante. Quando entrai, le stanze terrene erano piene di quello spavento indistinto che sembra riempire le stanze deserte finché la presenza consueta non lo dissipi; ché, quando l'uomo si volge per andarsene, sembra che un fantasma prenda il suo luogo e si sieda ov'egli era seduto poco innanzi. La marea saliva; e qualcosa di simile alla minaccia di una moltitudine di femmine romoreggiava contro la duna, rimbombava nella veranda.
— È venuto qualcuno? — chiesi al domestico.
— La signora — rispose.
Se bene non potessi aver dubbio su la persona, l'altra mi si voltò nel cuore con un tonfo sordo.
— Aveva l'aria molto inquieta — soggiunse. — Ha aspettato qui fino alle sei. La prega di andare da lei sùbito dopo pranzo.
Ci sono ore della vita solitaria, in cui la sensibilità del corpo sembra dilatarsi fino alle pareti della casa, in quella guisa che talvolta levando un braccio sentiamo il nostro cuore battere fino alla punta delle dita e oltre.
Tutta la casa pareva prepararsi a ricevere un che d'incognito. Un evento silenzioso poteva entrare per ogni porta. L'attenzione delle mura era tutta rivolta verso la notte. Nessuna stanza conservava il suo sentimento d'intimità, ma ascoltava quel ch'era per accadere di fuori e tralasciava di rattenere il calore e di conciliare i pensieri delle cose in lei raccolte e disposte.
Cercai tra le mie stampe qualcuna delle Lede conosciute. Prima mi venne sotto la mano quella dell'Ammannato, che è al Bargello. Un lontanissimo ricordo fiorentino mi risorse nello spirito. Lo ritrovai nel libro segreto della mia memoria, alla data del 22 settembre 1899.
Lessi, con una commozione confusa che non osavo scrutare per non dissolverla: «Ieri, incredibile a dirsi, alcuni servi del Bargello, volendo rimuovere la Leda, la lasciarono cadere; e il marmo si ruppe in sette pezzi. I frammenti furono portati all'Officina delle pietre dure per il restauro. Sono andato oggi a vedere quella voluttà disgregata. Le parti che più intensamente godevano sono intatte. La testa è fenduta, come la mia.... Dall'Officina son poi passato al Museo, per vedere il posto lasciato vuoto dal gruppo infranto. La mia imaginazione l'ha riempiuto d'una bellezza più ardua. Ora, stando io in questo imaginare, a un tratto tutte quelle campane mute e abbandonate che ingombrano la loggia (bocche col bavaglio) si son messe a risonare nella mia testa....»
La pagina seguente pareva scritta in un leggero delirio, né sapevo più per quale amore, per quale assenza: «Mi sembra che, allungando la mano, potrei afferrare qualche cosa di te nello spazio e tirarti a traverso la distanza, come un fanciullo tira la corda di un aquilone che il vento minacci di portar via oltre le nuvole. Lo spazio s'accende, e tu apri la bocca per bere il fresco della rapidità. Tu ridi. Odo il tuo riso; lo tocco come si tocca una collana, àcino per àcino. Si potrebbe piangere....»
Mai il senso magico della vita s'era fatto in me tanto profondo. Come la musica obliata nel quaderno rivive intiera ed esercita la sua virtù novellamente, quasi allora allora creata, se il sonatore la suoni su le sue corde, così quel ritmo del passato si misurava al respiro che m'era in bocca. Taluna parola sembrava apparirmi al modo di quelle che un tempo il dito d'una piccola sorella scriveva sopra uno specchio e che non mi si palesavano se non quando appannavo la spera con l'alito. E lessi per ultimo: «In una vecchia pietra sepolcrale d'Inghilterra, Lady Beauchamp non poggia il capo su l'origliere né sul veltro fedele, secondo la consuetudine, ma sul dosso di un cigno, sembrando vogare verso l'isola di Artù. Penso che, se potessi tornare stanotte di nascosto nell'Officina, tale m'apparirebbe Leda morta....»
Chiusi gli occhi; e nel viso della donna impastoiata cercai su l'orlo del labbro superiore una parte esigua che, non ricoperta dal rosso, si mostrava lividiccia durante l'attimo del tremito, mentre la finezza del naso pareva estenuarsi e prendere nelle narici quel colore fumolento che suole accompagnare la perdita dei sensi.
Il domestico venne ad avvertirmi che la lanterna era pronta. La portai per farmi lume nella via sabbiosa, tra le pozzanghere, andando verso il giardino della mia amica.
La Landa era buia sotto il nuvolato; ma faceva dolco, come nella nostra Maremma notturna col vento di levante o di scirocco quando s'ode fra lunghe pause un anatrare di germani nelle tamerici, uno squittire di volpi lungo i paduli teneri di cannuccia novella, uno sgretolare di sassi al passaggio dei cinghiali su per le muricce, e il lagno che viene dal fondo dei secoli.
Qui udivo gli stridi fiochi degli uccelli marini di là dalle dune, simili talora a un pigolìo triste, e la voce dell'Oceano rammaricoso, e la nota del chiù che mi toccava ogni volta il punto più dolente del cuore come se meglio di me lo conoscesse.
Una nostalgia improvvisa m'accorava, creandomi nei sensi fantasmi così pronti che un brano di me stesso pareva sollevarsi da un di que' paglieti e poi ributtarsi giù in qualche piscina, o escire da una lama, scendere per un trattoio, pascolare sotto una sughera. Poi le allucinazioni animali s'interrompevano; e il sentimento poetico della patria era come il murmure degli spiriti che sognano all'ombra degli iddii lontani.
«M'è impossibile vederla, parlarle, intenderla» pensai soffermandomi e posando la lanterna su la sabbia, dentro un'orma d'uomo.
Mi pareva di non poter sopportare la presenza dell'amica tormentosa che m'aspettava, né contatto o prossimità di alcun altro essere angusto che mi richiamasse a me, mi forzasse a rientrare in me stesso, ricacciasse nelle impronte consuete quella straordinaria vita che sgorgava dal mio petto e si spandeva per tutto l'orizzonte cupida di lontananza, di novità e di creazione.
La lanterna era ai miei piedi; e dall'orma ch'ella occupava si partivano altre orme per ogni banda e si perdevano di là dal limite del chiarore. Il solco d'un carro biancicava come sparso di farina sfuggita a un sacco forato, ed era il pòlline piovuto dal nuvolo; nell'altro solco parallelo una catena di bruchi camminava verso l'eternità con la contrattura lieve e spaventevole delle sue miriadi d'anelli; un ramo rotto e sfrondato giaceva in traverso, biforcuto come quello che serve a scoprire i tesori sepolti. Poco chiarore era per terra; ma mi pareva che, se avessi voluto, avrei potuto accendere nel sommo del mio spirito una di quelle luci onniveggenti che dalle torri della nave da guerra esplorano in giro lo spazio ostile e irraggiano l'avanzare cauto della morte. Avrei potuto scrutare il fondo della notte, se avessi sollevato un'altra palpebra che m'era più a dentro di quella sensibile su cui mi piaceva di provare la frescura marina abbassandola come sotto un labbro fugace. Ma l'ansia di creare arrestava a ogni tratto l'espansione del mio spirito, la mia aspirazione verso l'infinito, la mia inclinazione verso gli abissi, come se avessi in me una sorta di presame misterioso che rappigliasse in figure determinate l'idealità del mondo.
Un gran silenzio s'era fatto nella Landa; il quale non era se non il muto crescere della notte paziente.
Come gli uccelli si precipitano contro i cristalli del faro, come gli insetti aliano intorno alla lampada, la vita della solitudine urgeva all'orlo del chiarore basso, respirava verso di me, mi guatava senza esser veduta.
Tesi l'orecchio a un rumore singolare, non senza sgomento; ché pareva ora prossimo ora lontano. ora nell'aria ora sotterra, simile al battere cadenzato di due stecche l'una contro l'altra, simile al tintinno che nel lavoro di maglia fanno i ferri urtandosi. Era il pastore?
Era certo il pastore immortale della Landa, su i suoi trampoli, là nell'ombra, poggiato a un pino scaglioso, con ai piedi il suo cane selvaggio dagli occhi palpitanti come i fuochi delle lucciole. Era vestito di foglie? aveva per barba al mento uno sciame sospeso? dall'opra assidua delle sue dita escivano pannocchie di corimbi?
La forma e la metamorfosi m'eran così vive nell'immaginazione che, se avessi spenta la lanterna, avrei certo creduto vedere con le pupille del mio capo e l'uomo e il semidio.
Tesi ancóra l'orecchio, inquieto; ché il battito strano continuava senza intervallo. Seguendo il suono, entrai nell'ombra con un sentimento indicibile, come se lasciando il cerchio del chiarore escissi di me stesso per assumere non so che nuova natura notturna e udissi battere il mio proprio polso nella sostanza che stava per incorporarmi.
Non era se non il vento nelle dure foglie lanceolate d'una pianta gigliacea che si moltiplica per le sabbie.
E dentro me non era se non il mostro oscuro dell'amore, non ancor domato, non ancor legato, che ancóra si mutava e rimutava in mille forme, mi tentava e m'ingannava per mille figure, mi travagliava e rinnovellava con mille arti.
Come in me, così fuori di me tutto era travaglio e mutamento, angoscia e smania.
Camminavo alla ventura, tenendo giù la lanterna sospesa e oscillante a rischiarare i lembi d'un mondo meraviglioso come quello che il palombaro vede per i fori dello scafandro. Come nel fondo del mare, la vita vegetale e la vita animale avevano i medesimi aspetti. I cespugli erano irti d'orrore, una voracità vigile protendeva le fronde. E m'incalzava la sorte di colui che, avendo intraveduto alla soglia dell'antro l'ombra della sirena, non seppe più ritornare a galla.
Dov'era in quel punto la donna del mito? I fanali, davanti alle sue ruote veloci, rischiaravano laggiù la strada deserta, la carreggiata fangosa, i mucchi di selci, il ciglio dei fossi? Era ella tutta rotta dal suo dolore segreto, come quel marmo che fu ricomposto?
Subitamente mi ripiombò sul cuore la severa tristezza che m'aveva sopraffatto quando, coperta con la mano la vista, m'ero messo in ascolto per cogliere il suo respiro di là dalla musica. In un attimo, quella specie di delirio silvano si dissipò. Mi sentii sfinito come quando la febbre decade. Il passo nella sabbia mi divenne penoso. Nulla in me rimaneva che non fosse umano, malsano, miserabile.
Ritrovai la via della consuetudine.
Un'afa tetra snervava l'elasticità dell'aria. Dal nuvolato cominciava a cadere qualche gocciola quasi tiepida. S'udiva crescere a poco a poco il crepitìo sopra le macchie. Un assiuolo si lagnò nel folto: e parve che mi ricordasse la parola scritta nel libro segreto della mia memoria: «Si potrebbe piangere....»
Prima vidi, pei vetri d'una finestra, ardere nella casa una lampada rosea. Il cuore mi batteva non so perché, quasi di paura. In prossimità del cancello, mentre mi chinavo a spegnere la lanterna, fui chiamato per nome da una voce ansiosa e roca, da una voce di sventura che mi rimescolò tutte le vene. M'appressai, chiamai anch'io per nome. Travidi la mia amica dietro il cancello, agitata, tutta bianca, che con le due braccia nude scoteva le sbarre sforzandosi d'aprire.
— Che hai? Che accade?
Le sue mani passarono a traverso e mi toccarono, tremanti, già molli di pioggia, come per sentirmi vivo.
— Spingi! — disse ella in angoscia. — Spingi forte! Non posso aprire.
Spinsi con la spalla, ma il cancello resistette. All'umidità il legno nuovo s'era rigonfiato, e la pittura fresca aveva saldato la commettitura. Cercai più volte di sforzare, ma inutilmente. Le bolle di gomma schiacciate m'impiastravano le dita.
— Bisogna chiamare i domestici — consigliai, tentando di ridere come conveniva.
— No, no — fece ella, impaziente e stravolta, con una voce già soffocata dal pianto, aggrappandosi di nuovo alle sbarre. — Prova, prova ancóra!
Provai. Le sue mani di nuovo passarono a traverso, mi palparono il viso smarritamente.
— Che hai fatto? Che hai fatto?
La pioggia cresceva, scrosciava. L'assiuolo non cessava di lagnarsi. Tutta la Landa pareva oppressa da un'ambascia inesplicabile.
E l'amore singhiozzò come se contro il legno malvivo io l'avessi inchiodato e flagellato.
Le figure di quel pomeriggio e di quella notte si spogliarono d'ogni realtà rapidamente, fin dal risveglio del giorno dopo. Il ricordo fluttuò come l'ombra d'un sogno sul malessere primaverile. Ogni voglia di notizie e di ricerche fu sùbito contrariata dalla disciplina abituale della vita in disparte, dalla regola della clausura studiosa, dal saggio proposito di non ricascare in tentazioni. Il caso non favorì né un nuovo incontro né la scoperta d'un qualche utile informatore. A queste cagioni di rinuncia s'aggiunsero i sospetti, la vigilanza, l'assiduità dell'amica tenace. Poi seguirono le pene della rottura, una malattia d'indole nostalgica, una lunga convalescenza in un paese di colli e di prati, una rinnovata diligenza di meditazione e di contemplazione.
L'imagine della Leda senza cigno veniva nondimeno a me, assai spesso, con un vero alito vivo tra le labbra che il gioco dissimulatore non poteva più deformare, non mai chiuse perfettamente ma di continuo socchiuse come quelle che devono lasciar respirare più d'un'anima.
Mi visitava talvolta nell'ora delle lampade, quando il servo le governa e le accende nella camera terrena e sembrano elle già presenti per un che di divino onde soglion essere precedute nella scala già scura ma lasciano tuttavia che nell'indugio noi conosciamo quei pensieri anche divini i quali accompagnano il partirsi dell'altra luce da ciascuna delle nostre cose amiche per ritornarsene all'Occidente.
Poi che tutto il lungo giorno non fu pel solitario se non un edificio della volontà, egli ama verso sera lasciare aperta una piccola porta franca per ove possa entrare la mendicante o la strega, la semplicista o l'avvelenatrice, una inviata dell'Ignoto insomma; e vuol ripalpitare, attendendo l'inatteso. Per lo più non entra se non qualche larva inoffensiva.
Quella mia ospite era legata alla vita da un gran numero di nodi e d'incanti, impastoiata non soltanto dalla sua stretta gonna; e, ogni volta che s'inclinava verso di me, pareva tendesse una catena, schiantasse una ritòrtola, spezzasse una fune. Io le dicevo per incoraggiarla: «Non temere. Móstrati. Tu vieni all'ora della mia maturità. Tutto comprendo, tutto indovino».
Pareva che la coscienza aspirasse al momento glorioso in cui potesse tutto accogliere e rendere immune, simile a quelle città d'asilo dove si rifuggivano gli incolpati senza ragione o oltre ragione, simile a quei luoghi sacri che in antico ritenevano «la feccia e la ribalderia del mondo». Ma i suoi atti non erano senza ambiguità e contradizione. In fondo, l'affaticava la speranza di creare un sentimento nuovo, capace di condurre le più torbide forze dell'istinto e di salire più alto che la voluttà. Per quest'arte la giustizia e la misericordia non valgono. Convengono altre specie, altre osservanze, altri riti.
S'appressava intanto nella nuova primavera l'anniversario del giorno strano, quasi ricondotto dal lungo corteo dei bruchi per la via ringiallita di pòlline. E, quasi alla medesima data, il giovine maestro della Schola Cantorum tornò con gli usignuoli a dare il suo concerto italiano. Questa volta aveva seco la sua compagna: una piccola Spagnuola di Cuba, dorata come una squisita foglia di tabacco; la quale, promettendo di cantare per me solo arie ed ariette del Carissimi, del Caldara, di Antonio Lotti, mi faceva pensare non senza rammarico a quella specie di cani senza latrato che i Conquistatori trovarono nell'isola di prodigio dove oggi non esiste più, perdùtasene fin la memoria.
Gli onori del cembalo erano tuttavia per Domenico Scarlatti. La Sonata in la maggiore, quasi fosse una formula magica, risollevò dal passato intera e viva l'ora misteriosa come se la sconosciuta venisse di nuovo a sedermisi accanto e di nuovo con tutto il mio acume io mi chinassi all'orlo del suo segreto.
Se bene gli uditori fossero in più gran numero, la sedia vicina era rimasta vuota.
Scorsi un'ombra che s'appressava lungo la fila.
La mia inquietudine cresceva d'attimo in attimo così appassionatamente, che mi volsi, con l'anima negli occhi e col cuore balzante alla gola, come per ricevere d'un tratto quella bellezza che in tutti i miei sensi aveva già il suo luogo.
Due magre mani dalle dita a spàtola si tendevano verso di me, e il mio nome era proferito da una voce non obliata.
Riconobbi subito un amico mio, del quale da qualche tempo non avevo più notizie: un musicista di molto valore e di fama non volgare, che più d'una volta era stato ospite del triste Quartiere d'inverno nell'alternativa del meglio e del peggio.
— Tu qui? da quanto tempo?
— Ho passato qui tutto l'inverno, con mia madre, non bene.
— Ma hai un ottimo aspetto.
Per mordere il dolore gli era rimasta una mascella scarna da cui il rasoio pareva avesse portato via brani di pelle morta sostituiti dall'unto e dal lustro della glicerina.
— No. Sono bruciato.
I pomelli delle gote erano rossi e venati come le foglie della vite vergine su per un muro in autunno, non senza qualche rimasuglio di verdiccio e qualche traccia d'allumacatura. Avevo per la sua ruina, ahimè, le stesse pupille implacabili che avrebbero notato la più lieve onda nella seta manosa di certi capelli o nelle gronde di certe palpebre il radore d'un sol ciglio caduto.
— Bruciato da che?
Egli fece un gesto d'incuranza quasi brutale, ma mi fissò con uno di quegli sguardi che da uomo a uomo scendono dentro e sembrano cercare nel cuore un punto di sostegno, il luogo d'una simpatia virile.
Anche i suoi occhi ora m'apparivano come privi della loro buccia, come messi a contatto immediato con la crudità esterna, come se fossero i vertici scoperti della sua sensibilità e non potessero da nessun collirio essere leniti. Il suo sguardo mi doleva.
— Rimani ancóra? — gli chiesi. — Vuoi che ci vediamo?
— Parto fra due o tre giorni, sabato forse. Mia madre mi strappa via.
Aveva nell'alito l'odore del vino di Porto, ma i denti bianchi lasciavano ancóra alla sua bocca un che di giovenile.
Pativo la sua umanità con una forza singolare, come se fossi stato per qualche tempo il suo infermiere e avessi tollerato l'esalazione de' suoi sudori e conoscessi a una a una le sue miserie e le sue manie.
E già attendevo anche da lui l'inatteso.
— Vieni a colazione da me domani. Ti manderò la mia vettura.
— Sì, vengo.
E mi prese una mano e me la strinse tra le sue dita convulse. Come incominciava la Sonata in fa minore, tacemmo. Mi parve che la musica non ci ravvicinasse ma ci separasse, perché pensai ch'egli dovesse sentirla da artefice, in un modo assai diverso. Su la sedia non conteneva la sua irrequietezza, e me la comunicava.
— Che hai? Chi cerchi?
Come si volgeva, mi volsi. Indietro, a destra in piedi, addossata alla parete, stava la sconosciuta, col viso verso di noi accennando. I suoi lineamenti tremarono nella mia commozione e si cancellarono come un pastello immerso nell'acqua.
— La conosci? — mi chiese egli, con uno di quegli accenti che sembrano soffiare in un petto subitamente votato di tutto.
— No. L'ho veduta una volta. Chi è?
Mi disse il nome, che non aderì alla persona ma rimase in aria, suono vano ed estraneo, come quello apposto alla bellezza d'una collina lontana che da tempo viva innominata e immateriale nel nostro sentimento.
— A domani — soggiunse levandosi, mentre la cadenza si compiva.
Come la vampa riscoppia dal tizzo velato di cenere, la febbre diede lume al suo viso disfatto. Lo vidi andare verso la donna, un po' curvo ma con una sollecitudine che invadeva anche le pieghe dei suoi abiti e i suoi capelli precocemente grigi sopra il bavero. Lo vidi raggiungerla, scambiare un saluto, partire con lei. Colsi dietro di me il comento maligno di due uditori. Dominai il mio tumulto, scossi le scorie delle mie imaginazioni solitarie, riacquistai l'acume del mio sguardo, mi preparai a ricacciar le mani nella materia viva. Dimenticai i giochi d'acqua, le collane sgranellate, la scarpetta d'Amarilli in cima allo zampillo, le fughe ridenti nella scala di marmo carnicino, per sentire di nuovo stillare verso me il dolore e la morte come le gocciole che gemono dalla parete d'una caverna tenebrosa.
Il mio amico venne, secondo il convenuto. Avevo tuttavia pietà di lui; ma mi accorsi che ora lo consideravo quasi strumento da servire, quasi arnese da trattare con mano delicata o rude nella vicenda. E la mia dolcezza, come spesso m'accade, non era se non una forma della mia energia.
La lucidità talvolta s'accompagna a un orrore quasi animale che sembra il castigo inflitto al laceratore dell'illusione, all'abolitore della convenzione.
Egli aveva cattive abitudini di malato e di maleducato mangiando: masticava con rumore, beveva col boccone in bocca, faceva schioccare le labbra, dimostrava una voracità e una sete non frenate da alcuna creanza. E queste cose comuni, in quella camera monastica annobilita dai libri e dalle stampe, dove ero solito prendere i miei pasti brevi leggendo o seguendo il mio pensiero, queste cose usuali apparivano enormi, aggravate dal mio sentimento insidioso; ché io di continuo gli rifornivo il piatto, gli colmavo il bicchiere, mi affannavo a rimpinzarlo e a inciuscherarlo come usa il compare col compare quando vuole averlo alla mano.
Veramente pareva che avesse grandi caverne da riempire o che da satollare avesse dentro di sé quell'uno che minacciava di non lasciargli neppur le cartilagini e le ossa. Accanto a quel viso vizzo, acceso da una punta di sbornia, incorniciato dai capelli lunghi e dalla cravatta a fiocco, arieggiante ancóra le vecchie maschere romantiche di Henri Mürger, ponevo l'enigma di quell'altra faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte.
E chiedevo senza suono: «È dunque la tua amante? Conosci la forma delle sue ginocchia? La tocchi con le spatole delle tue dita? Mangia, bevi».
Un soffio di creazione mostruosa alitava tra le pareti fitte di volumi, ove la mia anima era vibrante come quell'aria che chiudono i legni secchi d'un violino ben costrutto. Ciò che dei libri immortali si mescola alla fluidità della vita nel silenzio, l'eternità che è fissa nei frammenti patetici dei capolavori, il mito che appesantisce su una tempia invisibile il fiore vinato del giacinto, lo splendore limpido del vino simile alla presenza corporea del dio che discioglie, un pane, un frutto, un coltello, un lembo di carne trasmutato dal fuoco, l'orlo d'un bicchiere toccato dalla grazia d'un raggio, ogni cosa innanzi a me e intorno a me esprimeva me a me stesso. Pieno di significati, giocavo con l'amore e con la morte. Con la figura del mio ospite, con la figura della donna assente e con la mia sobria ebrietà componevo i quadri successivi d'una nuova Danza macabra.
— Chi è quello? — disse egli, volgendosi verso il camino.
Era il calco intero d'uno degli otto incappati che portano la pietra sepolcrale nel monumento del Gran Siniscalco di Borgogna. Stava presso l'alare, curvo ma con la spalla senza carico, nascosto il volto sotto il cappuccio, scoperto una sola mano dal pollice lungo.
— Veramente — disse — non ti sei fatta una casa allegra.
E, fissando lo sguardo torbido verso qualcosa che vedeva egli solo, s'attristò come fa l'anima quando si raggomitola sul sacco riempiuto.
— Vieni, vieni — dissi all'improvviso levandomi e prendendolo per un braccio familiarmente, con una gaiezza audace. — Raccontami i tuoi nuovi amori.
— Quali amori?
— T'invidio. È una magnifica belva.
Lo feci sedere in una poltrona comoda, mentre il domestico recava i liquori e le sigarette. Io mi misi all'ombra d'uno scaffale, come in agguato.
Egli trasse il suo tabacco misto d'oppio da una sua scatola di bossolo e lo rotolò nella carta tra l'indice e il pollice ingialliti come dalla tintura di iodio. Affettava quel sorriso vano che gli conoscevo bene, quel sorriso di donnaiuolo disgustato che non fa differenza fra tresca e tresca; ma una delle sue deboli gambe tremolando sul tacco ed egli guardandosi la punta della scarpa, mi risorse nella memoria l'imagine d'un contadino che avevo veduto in un campo guardare tranquillo il suo piede scalzo ove una testa di vipera pareva incastrata per sempre come una sesta unghia.
— Perché la chiami belva? — disse. — Tu sai la storia?
— Non so nulla. Chi è?
Egli la bruttò con una parola vile; e poi biasciò come se la lingua gli si fosse disseccata.
— L'ami dunque?
Egli parlò, pieno di rancore, di sgomento, di vendetta e d'incantesimo, con qualcosa d'intollerabile come la vista di un'agonia, con qualcosa di falso come il gioco di un istrione, a volta a volta miserando e odioso, tragico e ridevole.
Ora la Leda senza cigno era là, così liscia che pareva non dovesse avere un solco neppure nel cavo della mano, levigata veramente dall'acqua dell'Eurota. E la sua vita era un'altra.
Nasceva d'una di quelle razze miste la cui virtù funesta è prodotta da un oscuro concorso di sangui e di fati, come la potenza di quei miscugli da infuriare, ove la radica della mandragola e l'umore della giumenta bollivano insieme. Suo padre, grande amatore di cavalli, aveva tenuto una famosa scuderia da corsa; poi s'era rovinato, aveva vissuto d'espedienti, da cavaliere d'industria; discendendo di bassezza in bassezza, inciampando più d'una volta nel codice. Dopo aver vissuto in contatto cotidiano coi palafrenieri, coi fantini, con gli allenatori, sfogando la sua temerità nativa e i suoi gusti da circo nel montare i puledri trienni su i galoppatoi publici, ella aveva sposato a diciott'anni un gentiluomo francese: aveva divorziato a venti; e s'era ritrovata prima con una fredda canaglia d'amante e poi sola, nel disagio, alla ventura, esposta alle persecuzioni del padre che voleva foggiarne un bell'arnese da guadagno non per lei ma per sé. Incapace di affrontare la miseria, deliberata a tutto, ella aveva incontrato in una città di terme una specie di procacciante in cerca di complici e di vittime: il quale per un seguito di accorgimenti felici era riuscito a fidanzarla con un giovine sciocco appena appena escito di minorità, orfano, già molto ricco e prossimo erede d'un'ancor più lauta fortuna. Ella, il fidanzato e il mediatore avevano vissuto due anni insieme, «avevano fatto la vita», errando d'albergo in albergo, di piacere in piacere, di noia in noia, dall'una all'altra veglia, dall'una all'altra tavola da giuoco, in una promiscuità non confessabile; ché la promessa sposa aveva posto il divieto fino all'ascensione del talamo e il paraninfo era riuscito ad esercitare sul novellino un dominio assoluto, simile a una sorta di malia perversa, servendosi di quel filtro che si porge con la siringa d'oro. La morfina, somministrata dalla mano sapiente, aveva diffusa una così rosea benignità che senza sforzo e senza sospetto fu ottenuta in favore della fidanzata austera una polizza d'assicurazione per un milione e mezzo, pegno nuziale. Quando il primo versamento fu eseguito in regola, la previdenza consigliò di sopprimere il benefattore. Un giorno, in una via difficile dei Pirenei, a una dose più forte di narcotico seguì una disgrazia preparata con squisita cautela. L'automobile rimessa in movimento, dopo una sosta casuale, precipitò nella forra lasciando su la carreggiata l'assassino incolume.
Non ascoltavo cose già note? Certo, di simili casi abbondano gli annali giudiziarii e i rossi romanzi ad uso dei portinai. Ma serpeggiava di sotto a quella massa di fatti volgari, non so che canale d'ombra che il mio spirito aveva già risalito e ora novamente risaliva riconoscendovi in confuso gli indizii del suo primo passaggio. E quella profondità mi dava l'ansia di scavare ancor più profondo in me stesso, di raggiungere in me un più vero di me, il quale non temesse e non fallisse dinanzi a ciò che stava per formarsi e per apparire.
— Come sai queste cose?
Egli animava di tratto in tratto il suo racconto con talune di quelle intime rivelazioni che non può commettere ad altri se non chi si confessi audacemente contro sé medesimo.
— Le so da lei.
— Ella si accusa?
— Non si accusa; parla. Ignora dove sia il bene, dove sia il male. Prima ti dice una cosa tremenda, senza guardarti, con non so che sorriso timido, come chi provi col piede la resistenza della tavola posta a traverso il torrente, prima di passare. Poi ti curva come un carico, ti pesa sopra come una colpa che tu debba reggere con l'osso della tua schiena.
— E sei sicuro che di queste cose ella non si componesse allora e non séguiti ora a comporsi una vita imaginaria?
— Porta il ferro della realtà ben ribadito al piede.
— Come?
— Vive con l'assassino.
— Dove?
— In questo paese.
— Da quanto?
— Da due anni.
— Era già la sua amante, prima della catastrofe?
— Sì, era; ma per compenso della mediazione, e poi per mezzo della complicità. Ella lo abomina.
— E perché lo tollera?
— Le circostanze che accompagnarono la fine del promesso sposo parvero sospette. E la Compagnia ne profittò per contestare la validità della polizza. Le prove mancavano o eran troppo vaghe. Nondimeno il processo fu avviato e si trascina ancora. L'uomo dunque la tiene sotto la minaccia di una denunzia folle e della mutua perdizione. Credo che, terminato il processo sul cui buon esito finale non v'è omai dubbio, la somma debba essere divisa tra i due in misura già pattuita.
— Quali rimasugli di vecchio romanzo poliziesco t'ingombrano la fantasia?
— Tutto questo è reale, e non è se non un barlume della realtà cotidiana. Imagina: essi vivono insieme, là, sul Bacino, in una di quelle villette sonore fatte di tramezzi e di palchi sottili, dove s'ode il cuore battere e il polmone gonfiarsi, dove non è possibile sfuggire all'odore dell'essere odiato né allo sciacquìo della sua catinella.
— E che uomo è costui?
— Imagina una testa a piramide tronca, una vera testa di pitone, precisa come una volontà geometrica, rigida come un problema o come una sentenza, con due occhi senza colore dietro un paio di lenti spesse come i cristalli delle lanterne cieche....
— E chi provvede alle spese?
— Egli non è d'origine se non un borghesuccio, figlio di un fabbricante di porcellane limosino. Ella ha qualche resto della sua dote. Ma tanto poco non basterebbe alle sue abitudini di eleganza e di lusso, almeno esterne. La fiducia nell'esito del processo le apre un credito rovinoso presso gli usurai vinattieri della Gironda. Anche per queste strozzature è buon mediatore il pitone freddo.
— E tu chi sei davanti a lui?
— La vittima designata del gioco abituale. Due o tre volte, mentre ero davanti al pianoforte, là, nella villa sul Bacino, l'ho veduto apparire nel vano dell'uscio, sogghignare silenziosamente, poi ritirarsi come uno che vada altrove per abbandonarsi alla sua ilarità. E ogni volta aveva per me l'aspetto di quei fantasmi che si formano da certe disgregazioni dello spirito su l'orlo della follìa e che agghiacciano il malato con una presenza intermittente. Un mio povero compagno, prima di entrare in una casa di salute, era frequentato da uno di questi visitatori; e non osava mai voltarsi per tema di vederselo allato. Ora qualcosa di simile accade anche a me....
— Ma è chiaro che si tratta di un fantasma tollerante e perfino compiacente, amico mio.
— Non contraria i giochi del caso e della fantasia, i capricci della noia e della crudeltà, ma soltanto li sorveglia da vicino o da lontano. Egli non ha se non uno scopo: tener legata a sé la complice, sia pure con una lunga catena da lentare quando convenga. Egli non teme se non la fuga, lo scampo, diciamo pure «l'evasione». Ora le armi ch'egli serba contro di lei e le note minacce rendono inefficace qualunque tentativo in terra. Ma v'è uno scampo dalla parte del buio, v'è lo scampo di sotterra. E questa la sola minaccia ch'ella possa opporre a quelle altre che la curvano.
— È capace di uccidersi?
— A ogni momento.
Rividi luccicare l'arme d'acciaio e d'avorio per l'apertura del manicotto color di perla. Rividi la donna dalla mano celata, in piedi dinanzi a me, intiera, silenziosa, piena d'un suo male simile a una verità o a una menzogna profondissima che le tenesse vece di vita.
— A ogni momento, per un nulla, come si apre un uscio, come si passa una soglia, come si scende un gradino.
Fino a quel punto le cose narrate erano rimaste non meno estranee alla figura ideale di lei che, per esempio, al calco dell'Apollo di Piombino posto sopra uno scaffale di libri quadrato e girevole, là, vicino al pianoforte. Non riuscivo né a comprendere né a sentire che tale fosse la vera sostanza della sua vita. Il suo mistero rimaneva intatto come la divinità oscura della statua che attraeva i miei occhi dorata dalla luce del pomeriggio. Tanto quelle azioni definite erano dissimili alla creatura infelice quanto un inno omerico o un capitolo di mitologia eran diversi da quella forma intenta abitata da uno spirito non meno inconoscibile che il vigore d'un albero il quale alleghi i suoi frutti.
Dov'era la mano che aveva modellato su la fronte breve del dio il doppio ordine simmetrico di riccioli? Non meno insistente mi pareva il potere di quel passato nel cui rigore doveva essere costretta quell'anima. Il mio spirito non riconosceva alcuna coesione in sì grave massa di fatti volgari, ma era posseduto da un sentimento poetico che lo mescolava in un modo misterioso a ciò che si genera sotto il silenzio umano. Per ciò l'istinto volgeva tanto spesso i miei occhi verso l'Apollo che, finito come un'opera di cesello, esprimeva da ogni linea un infinito di poesia. Anche una volta la forma mi diveniva una fede veggente; e, ascoltando tante vane ignominie, non credevo se non a ciò che mi significava la bellezza levigata dall'acqua dell'Eurota.
Or ecco che, all'improvviso, tal bellezza m'appariva appresa alla morte come un di quei cammei intagliati nella vena bianca di un'agata scura. Il rilievo ne divenne così fiero che tutto il resto si dissipò. Udivo il mio cuore battere con tanta violenza che mi stupivo non l'udisse il mio amico. Ma egli doveva essere assordato dal suo proprio tumulto, su cui di tratto in tratto versava un sorso ardente.
— Perché? — gli chiesi. — Perché ne parla con arte; perché, come tante altre donne, ne fa una graziosa millanteria....
— Due anni fa, in un periodo d'insofferenza e di furore, tentava la morte quasi ogni giorno. Aveva uno di quei canotti leggeri da corsa che si vedono alle gare di Monaco, munito d'un motore a sedici cilindri, donatole da un ammiratore argentino. Un'anima dannata di meccanico l'accompagnava, a qualunque ora del giorno o della notte, quando col maledetto vento di ponente il Bacino era in tempesta e il passo dell'Oceano diveniva impraticabile. Con prodigi d'astuzia, sfuggiva a ogni attenzione e a ogni impedimento. Quasi sempre tornava nel punto in cui si perdeva la speranza di vederla riapparire. Per ore ed ore l'onda aveva schiumeggiato su lei come contro una figura di prua. Chi la baciò, dové sentire per lungo tempo il sapore del sale su quelle labbra screpolate.
Ben la vedevo, quasi avessi dentro di me l'approdo, coperta dalla sua cappa impermeabile, con la sua faccia dentro il camauro d'incerato diafana come la lampada della medusa natante. E non l'avevo attesa se non per ripartire con lei nel crepuscolo.
— In una spiaggia galante di Normandia, poco dopo il suo divorzio, fu assiduamente assediata da un giovane giocatore di «polo» che le faceva montare i suoi cavalli deliziosi. Senza nulla concedergli, seppe renderlo così folle di passione ch'egli le offrì di sposarla. Ella ne rise, e lo torturò con tanta raffinatezza che un giorno egli trovò il coraggio di partire e forse andò a giocare il suo gioco su qualche buon terreno inglese dell'India. Ella non lo amava: non s'era abituata a lui se non come a uno schiavo da servire a invenzioni e ad esperienze di supplizii; ma amava teneramente uno di quei cavalli da «polo», un saurello che portava il nome shakespeariano di Petruchio. Quando seppe della partenza, la sera stessa si avvelenò con qualche pastiglia di sublimato corrosivo; e rimase per giorni e giorni tra la vita e la morte. Dal letto di dolore non faceva che tendere la palma della mano, ripetendo il gesto usato nell'offrire lo zucchero al suo Petruchio.
Ora, di sotto ai miei cigli socchiusi, vedevo quella sua mano nuda, tratta fuori del guanto, quella mano lunga e robusta dalle nocche asciutte e polite sfiorare il labbro esiguo d'uno dei piccoli cavalli fidiaci che galoppavano nei gessi del Fregio disposti lungo la mia parete. Non mancava se non la palla di legno e il mazzuolo dal manico flessibile agli sveltì cavalieri ateniesi, il prato raso ed elastico agli zoccoli delle loro bestie ben raccolte. Vedevo il sole obliquo ferire l'erba grassa di Normandia e un fascio di raggi come una lama d'oro tagliar netto due zampe nervose pontate in terra nell'arresto brusco. Ma il mio cuore di rivale balzava di gioia selvaggia alle parole: «Ella non lo amava».
— Or è un anno, di questi giorni appunto ai primi d'aprile, una sera....
Il mio cuore si fermò. Riudivo, dentro di me, cadere le seggiole rovesciate sul pavimento sonoro, laggiù, nell'ombra della sala piena d'echi come una chiesa nell'ufficio delle Tenebre.
— Una sera? — feci, per sollecitare la voce che s'era interrotta come se la sopraffacesse la mia ansietà. Rivedevo negli occhi della sconosciuta il riflesso di madreperla, e il suo viso alterato dal tremito indomabile.
— Una sera, a Bordeaux, per qualcosa di simile, mentre seduta nell'automobile discuteva con lo zio d'un povero ragazzo che volevano impedirle di rivedere, lasciò partire a un tratto un colpo verso il suo petto, dal revolver nascosto nel manicotto. La palla rasentò il polmone e si conficcò sotto la scapola. Ancóra la vita in pericolo per settimane e settimane, l'orrore d'un letto in una clinica, il pitone desolato al capezzale....
Tutte le apparenze e tutte le divinazioni di quella lontana sera di primavera rifluirono dentro di me con una forza moltiplicata, creando un sentimento ch'era come una forma di dolore immensa ch'io non potessi patire e conoscere tutta quanta se non nel futuro. Non avevo alcun dubbio; nondimeno chiesi:
— Che giorno era? Lo sai?
— Sì, era il cinque d'aprile.
— Per disperazione d'amore?
Una gelosia oscura mi travagliava.
— Per imaginazione d'amore e per insofferenza della stupida vita.
Quel Paolo, il minorenne ch'ella aveva traviato, era il nipote d'un mercante di vino col quale il pitone aveva trattato operazioni d'usura sul denaro di là da venire, su la farina del diavolo insomma. Vedi strano gioco! Quasi per rappresaglia contro lo strozzino, ella s'impadronì del ragazzo che non mancava di grazia fisica e d'una certa finezza sentimentale. In poco tempo lo mutò, ne fece una cosa sua, da tenere sul pugno all'obbedienza come uno sparvieretto incappellato. Scoperto il pericolo, i parenti corsero al riparo, prendendo sùbito la misura più efficace. Sequestrarono Paolo, lo trascinarono via, lo nascosero non si sa dove. Questo bastò perché il capriccio esasperato divenisse in lei una specie di furore. Domandò di rivederlo per una volta, di parlargli per l'ultima volta. Non le fu concesso. Si faceva portare quasi ogni sera nella strada dov'era la casa dei parenti, e mandava un messaggio; ma rimaneva delusa. Quella sera a un messaggio imperioso e minaccioso accorse lo zio per tentare di persuaderla alla rinunzia. Ella era nella vettura; egli le parlava dal predellino. Ostinata, ella ripeteva: «Voglio vederlo». Ostinato, l'altro negava. Di sotto alla pelliccia, a un tratto il colpo partì, come per caso. Lo strozzino accompagnò il corpo forato alla clinica. Quando ella rinvenne e poté soffiare qualche parola, supplicò che le lasciassero rivedere Paolo, almeno per un attimo. Inutilmente. La legge dei mercanti fu inesorabile. Solo il pitone rimase accanto al letto bianco, e la primavera contro i vetri della finestra. La palla fu estratta. Le cicatrici....
— Ah, vuoi descrivermi le cicatrici?
Non contenevo più il mio tumulto. Su quella parola egli s'era interrotto per bere ancora un sorso, per versare ancóra un po' di fuoco liquido nella caverna ove ansava il suo cuore stracco. Egli fasciava interamente il bicchiere con le spatole delle sue dita, cosicché l'indice e il pollice circondavano l'orlo ov'egli metteva le labbra aspirando l'essenza del liquore intiepidato. Le sue narici palpitavano sopra la maschera lustra del vizio. Tutto in lui ora m'offendeva e m'irritava. Vedevo, tra le sue dita deformi e il vetro quasi spremuto, tremolare non so che sorriso odioso. Pensavo ai porci demoniaci che sogliono abitare in quella specie di artisti aspettando d'esserne espulsi dall'esorcismo dell'inspirazione.
— Racconta, racconta. Come dunque è venuta a te?
Rise brutalmente nel cerchio del bicchiere.
— All'odore della carogna, forse.
— Si potrebbe dire con più grazia funebre: a raccogliere il canto del cigno. Non ti dà l'idea d'una Leda? Guarda questo gruppo dell'Ammannati.
Egli sentì l'inimicizia nella mia voce.
— Compagno, — fece convulso, fissandomi — dimmi la verità. Non fu simulazione, ieri, quando mi chiedesti chi fosse? Non l'hai tu conosciuta prima di me? Non sei passato per là, tu anche?
— No.
— E perché sei geloso?
— Non geloso, ma forse un poco iroso. Tu lo sai: io non concepisco la vita se non sotto la specie dell'espressione. Ora coi tuoi racconti opachi tu hai contrariato, linea per linea, la sua espressione in me. Bisogna che io la ritrovi e la ricomponga a forza d'amore e di dolore.
Toglievo ogni gravità a quel che dicevo, col tono e col sorriso.
— Verrà a te; e l'amerai, e ne soffrirai.
— Me la lasci in retaggio?
— Certo, io ne vorrei morire. Ma sono trascinato via come Paolo, sono sottratto al bel destino. E la sua strana sorte è questa: che, al buon momento, ogni vittima designata le sfugga. Ella medesima sfugge a sé.
— A un polmone già leso da una ferita non hai temuto di comunicare il tuo male?
L'aria della stanza pareva divenuta cruda come quella che spira nei luoghi senza legge e senza menzogna. Non ero più capace di reticenza né di dolcezza. Vedevo da una parte quella forma stupenda, trattata con una magnanimità non men severa di quella che rivelavano gli esemplari dell'arte antica nella cui testimonianza continua si conferma il mio senso del mondo; e dall'altra parte consideravo quell'umano focolare d'infezione, quella sorta di sensualità ignominiosa che non potevo separare da un'imagine di lordura e di frode. La mescolanza mi pareva inverisimile. In fondo a quella mia domanda era un'indagine maligna, ché lo sapevo millantatore e incapace di confessarsi deluso come il cavaliere di Petruchio.
— L'hai tenuta veramente fra le tue braccia? Hai respirato in lei?
Le mie pupille lo foravano. Una contrattura involontaria delle labbra mi parve l'indizio atteso; ma egli lo cancellò con uno scoppio stridulo di riso, levandosi e un poco barcollando.
— T'informi con una prudenza senza pudore — disse. — Ma il contagio nella successione sarebbe la mia vendetta. Che ora è? Passerà di qui verso le cinque, a prendermi per ricondurmi. La vedrai. Desidera che tu le mostri i tuoi cani. Io partirò con mia madre domattina, senza fallo. È il caso di dire che ti trasmetto la fiaccola correndo.
Apersi la vetrata su la veranda, con la fretta di chi si senta soffocare da una esalazione malvagia.
La marea, che è femmina, montava verso la duna ispida di giunchi. Tutte le acque tremavano e brillavano sommergendo i banchi di sabbia pallidi e dolci come i corpi dei naufraghi succhiati dalle sirene. S'udiva un mormorìo profondo come dev'esser quello che annunzia la rompente primavera nei paesi di ghiaccio. Il sole declinante lasciava dietro di sé una via splendida per ove pareva dovessero scendere i suoi grandi cavalli bianchi liberati dal giogo. I miti della mia razza venivano a invadere le solitudini senza storia. Il mio spirito era fervido, fertile e fatale come nel principio dell'amore. Il compimento d'una divinazione era prossimo, e l'oracolo del sangue era stato bene interpretato.
Non avevo più volontà di volgermi e di rivedere quel viso distrutto, l'orribile teschio, la dura maschera d'osso a traverso la pelle logora. Qualcosa più forte di me e di quella miseria, ecco, nasceva; ed era per somigliarmi. Uno spirito diceva: «Soltanto esiste quel che ancor non è, e tu vivi del futuro, non ti ricordi se non del futuro». Il mio cuore diceva: «Tutto prendo su me. Ella è senza colpe. L'assolvo. Eccola». Parlava come quel pioppo che stava solo, quella sera, vestito d'argento cangiante, all'angolo di quel giardino. Reduci le apparizioni crepuscolari e notturne mi trapassavano, si dileguavano.
Udii il rumor secco che fece il coperchio del pianoforte sollevato; e non mi volsi ma attesi, rabbrividendo come se la mano si fosse posata su la mia spalla e non su la tastiera.
L'anima dello strumento vibrò come per uno schianto di dolore.
Il morituro parlava il suo vero linguaggio. La disperazione parve talvolta imitare il grido d'una felicità terribile e afferrare il destino alla gola con una branca potente come quella di Beethoven. Tutto quel che innanzi era stato detto o pensato, tutto fu piccolo, vano e lontano. La luce del giorno fu simile alla cecità.
Mi volsi contro lo stipite, vi poggiai la mano alzata e contro la mano la fronte, con chiuse le palpebre. Feci la notte in me, per cogliere i bagliori che la musica spandeva di tratto in tratto sul fondo vacuo della vita. Una pausa mi sospese sopra il mio proprio annientamento. Era come se il silenzio fosse per durare in eterno. Il pianto ricominciò; poi di nuovo si tacque. Ricominciò per la terza volta, come in una sosta al limitare della porta che si deve chiudere; poi finì. E nessuno si mosse.
D'improvviso udimmo un rombo al cancello del parco.
E quegli si levò, e io mi volsi; e mi vidi scolorato in lui, smorto e con le labbra livide, come chi dal fondo risale a galla senza respiro.
Vi sono sentimenti di non so che virtù plastica, i quali sembrano quasi rimaneggiare la materia umana e rifoggiarla in un aspetto momentaneo.
Quando scendemmo verso il cancello, non ancora abbandonati dalla potenza musicale, mi parve che facessimo un essere solo, più grande di noi due, pieno di un'anima primitiva, e che quell'essere fantastico vacillasse da un lato, zoppicasse da una banda. Non fu se non un attimo, inesprimibile, che si dileguò nell'immensità della primavera, s'involò di là dai confini del mondo. Se la donna avesse posseduto una visione magica, avrebbe veduto avanzarsi verso di lei quella forma ineguale dell'Amore, simile a una chimera labile. Ma a ogni passo noi ci separavamo più nettamente. Sentivo la commozione del mio compagno salire in confuso a traverso la sua ebrezza fumida, a traverso i veleni del suo sangue, gli ingombri de' suoi mali. Sentivo la mia spandersi come un succo vigoroso per la leggerezza del mio corpo quasi digiuno, aumentarsi ad ogni passo come se il contatto del tallone sul suolo m'arricchisse del fervore terrestre.
Ella era rimasta nella carrozza, davanti il cancello. Quando ci vide vicini, balzò a terra, con un movimento che suscitò in me onde innumerevoli, quali nell'acqua del Bacino talora il salto di certi pesci dorati e arcuati come la giovine luna.
Non portava più le pastoie. Quella inflessione della sua grazia, che avevo già notata dalla cintola in giù a imagine di Leda in atto di accogliere il cigno, pareva favorita dalla gonna drappeggiata e quasi arrotolata in avanti su le due gambe con una maniera che mi faceva pensare ai petali ravvolti di quei grandi giaggiuoli foschi detti gigli di Susa. Ogni piega e l'ombra dentro la piega e il chiaro su la falda e la docilità del tessuto e il disegno ricorrente erano modi della sua fresca vita, che mi toccavano come la linea del suo mento tirata dalla divina giovinezza. La ricevevo in me, semplice e numerosa, in quella guisa che la massa dell'aria ci preme intiera e nel tempo medesimo penetra ciascuno dei nostri pori. Tutto in lei m'era noto e tutto m'era ignoto, per l'attimo e per sempre. Ed ella certo lesse questa novità ammirabile nei miei occhi.
«Ancóra! Ancóra!» Uno spirito ripeteva in me la parola di chi non è mai sazio e di chi sa che dopo una cosa bella v'è una cosa più bella.
Cose visibili ed invisibili sopraggiungevano nella luce, come tratte da una corrente, con quell'aflluire precipitevole che vediamo presso le cateratte.
Il parco era trasmutato in una cuna di calore, per uno di quegli affocamenti improvvisi che nella Landa sembrano l'inganno della Morgana occidentale intenta a simulare l'alito estivo. L'oro solare e il pòlline arboreo mescolavano al palpito del vento una medesima polvere. I pini avevano alla punta di ciascun ago una gocciola d'azzurro.
Parlavamo. Ciascuno di noi tre aveva l'aria d'ascoltare l'altro e di rispondergli. Ma era come quando in sogno vediamo muovere le labbra dei vivi o dei morti e non udiamo il suono. Si formava un vortice silenzioso con la sostanza fluida di due vite; e la terza vita era simile a uno di quei rottami che sono attratti, aggirati e poi respinti. Tutto era nascosto e tutto era palese, tutto accadeva alla radice dell'anima e all'estremità dei nervi, somigliava all'iniziazione e somigliava alla perdizione. E certo uno di noi era perduto, e forse due erano perduti, e forse tre, come nella canzone greca di Caronte.
— Che fai?
Non rattenni il grido, ma potei smorzarlo, davanti al gesto dell'istinto; che egli s'era aggrappato al braccio della donna, quasi fuor di sé, supplichevole e pauroso. E nulla fu più triste del modo ond'egli riescendo a dominarsi tentò di dare a quell'atto involontario l'aspetto d'una familiarità innocente.
Ella arrossì, poi si scostò, e si mise a correre verso il canile; dove già i giovani cani tumultuavano. Entrammo insieme, come nella schiuma d'un'ondata che si rompe. L'altro non osò, temendo l'urto; restò di fuori, contro le sbarre.
— Leda! Leda e i cigni!
L'antico ritmo della Metamorfosi circola tuttavia nel mondo.
Ella pareva ripresa e rifoggiata nella giovinezza della natura, abitata da una sorgente che pullulasse contro il cristallo de' suoi occhi. Ella era la sua sorgente, il suo fiume e la sua riva, l'ombra del platano, il tremolìo della canna, il velluto del musco. I grandi uccelli senz'ali l'assalivano; e certo, quando ella tendeva la mano verso alcuno e lo prendeva pel collo piumoso, ella ripeteva esattamente il gesto della figliuola di Testio.
— Leda e i cigni!
S'era addossata a un tronco, per resistere all'assalto; e, quando io tentavo di scacciare con la frusta e con la voce le bestie folli, ella mi gridava:
— Lasciate! Lasciate!
Era una muta di levrieri barzoi natami nel mese d'agosto dalla candida Thamar; ma l'imagine divina della schiuma pareva legata alla loro nascita come il soprannome ellenico di Venere. Essi venivano in corsa al richiamo come il flutto viene al frangente; e dirò che ogni volta mi stupivo di non udire lo scroscio ai miei piedi? Certo, erano fatti di materie preziosissime; e nessuna conchiglia era delicata come quelle bocche nel passaggio del roseo delle gengive al bianco dei denti. Taluni nei chiari occhi variegati avevano tutte le ramificazioni della flora marina come raccolte in una gocciola incorruttibile.
— Lasciate!
Dritti su le zampe cercavano di leccarle il viso e il collo, smaniosi di carezze; ma uno più degli altri, abbagliante sebbene sparso di qualche macchia leggera come l'ombra del fumo, uno più degli altri la incalzava e premeva.
— Oh! questo! — ella disse con un accento d'amore eleggendolo.
Riescìi ad allontanare gli altri e a lasciarle quel solo.
O imaginazione, onnipotenza del desiderio, pupilla della poesia!
Il cuore mi si empiva di una voluttà sconosciuta. Addossata al tronco, ella aveva contro di sé l'animale palpitante; e gli parlava con quelle parole che la dolcezza scioglie in suoni vani. Il lungo muso le era contro la gota; e la bocca ferina e l'umana avevano la medesima freschezza giovenile. Le dita nude s'insinuavano nel bel manto come nella piuma molle che è sotto l'ala.
Vi sono sguardi che incontrandosi celebrano un mistero in un battito di cigli. Ve ne sono altri, o gli stessi, che si scambiano tal dono ond'è menomato il pregio di tutto il resto.
La paglia di pino secca strideva sotto i passi di noi tre, mentre tornavamo verso il cancello senza parlare. I fusti da una banda splendevano come corazzati di rame, dall'altra nereggiavano come spalmati di pegola. I margini erano gialli di farina selvaggia. Concilii di bruchi stavano raccolti sotto una specie di canavaccio che poteva somigliare tanto a una spoglia di serpe quanto alle cellette d'un favo votato e disseccato. Rabbrividii udendo all'improvviso presso il mio orecchio quella specie di tintinno sinistro che, nella notte lontana, m'aveva evocata la figura del pastore taciturno intento a oprare la sua maglia interminabile. Era la brezza del vespro nelle lunghe foglie fatte a ferro di lancia.
— Addio, dunque — disse il mio amico, presso lo sportello.
— Partirai veramente domattina?
— Partirò.
— Forse mi troverò alla partenza del treno, per salutare tua madre.
Gli si torse la bocca come a un rigurgito d'amarezza. Salì con pena, si sedette accanto alla donna del mito.
Pareva ch'ella non conoscesse più né me né lui. Ora, tra gli orli delle palpebre induriti e netti, aveva di quelli occhi che ci lasciano perplessi e disperati come davanti a una muraglia liscia di roccia senza varco e senza presa. Lo stesso bagliore obliquo, che mutava in piastra rossa la scaglia dei tronchi, le infiammò su la tempia il metallo dei capelli.
— Addio — disse ancóra il mio amico, levando la mano che aveva tratto dalla tastiera la lamentazione notturna.
«Non t'ama, non t'ama.»
Le ruote si mossero nel rombo, solcarono profondamente la via sabbiosa lasciando tra l'uno e l'altro solco qualcosa di quel fascino che la mia lanterna posta in terra aveva rischiarato nella notte lontana.
Il rombo sì attenuò, si perse. Rimasi in ascolto tuttavia. Non udivo più se non i colpi del mio cuore ripercossi nella mia nuca. Un'ansietà simile a una vampa struggente dissolveva in me i pensieri, e mi ricacciava in bocca quel gusto di sangue e di cenere che avevo masticato sul cammino interrotto da quella mano sudicia colante e brancolante in cerca della cosa perduta.
Tornai verso il canile, come si torna verso il luogo dove si compì un miracolo di vita o d'arte, per rinnovare le domande che restano senza risposta.
I lunghi musi umidi sporgevano di tra le sbarre, e gli occhi scuriti dalla sera guatavano come quelli dei cigni quando si passa lungo l'acqua d'un giardino già invaso dall'ombra e dal sonno.
Entrai; parlai, con quelle voci gutturali che i cani comprendono. Tutti m'erano intorno, imitando su le quattro zampe la cresta del flutto quando forma la voluta o impennandosi come le capre che danzano in memoria dei satiri. Un solo in disparte s'abbandonava a una folle allegrezza, come i cuccioli quando trovano un osso, gettando in aria e riprendendo fra i denti qualcosa che non potevo distinguere. Era appunto il favorito di Leda.
Lo chiamai più volte. Egli cessava di giocare, mi guardava con diffidenza furbesca, esitava per qualche attimo, più sinuoso di un'onda in un disegno giapponese; poi si riallontanava saltabeccando e scambiettando sugli aghi di pino. Un richiamo più severo lo consigliò all'obbedienza. S'accostò gatton gattoni, quasi strisciando, con una grazia disperata; fece gli ultimi passi tutto chino sopra un fianco; poi si rovesciò sul dosso, ai miei piedi, come per svenirsi o per esalare l'ultimo fiato. Ma teneva tuttavia la cosa fra i denti con una forza accorta che la serrava senza romperla.
— Che hai? che hai? Lascia vedere.
Annaspava con le zampe in segno di supplicazione. Per forzarlo a lentare, gli misi le dita nella commessura delle mascelle. Così gli tolsi la presa; era un pettine di tartaruga bionda, un piccolo pettine caduto dai capelli di Leda!
Lo sentivo umidiccio di bava. Lo sentivo vivere d'una vita segreta nella mia palma soppesandolo. Non pesava più di una stella marina. Il cane era ancóra là disteso, come aspettando il perdono d'un fallo; e tra le frange socchiuse delle lunghe labbra i denti gli splendevano evocando in me «i carati della perfezione».
Non avevo se non un pensiero tormentoso, generato da un'angoscia oscura: tentare di rivederla prima di notte. Il pettine smarrito era un pretesto plausibile. Forse ella era rientrata a casa sua, dopo aver ricondotto l'amico. Pensavo tremando: «Se la trovassi sola! Se potessi parlarle!» Ogni indugio mi pareva favorire non so che potenza nemica e respingere la mia fortuna. L'ansia non può respirare se non nella rapidità.
Saltai su una bicicletta e presi la via, di corsa. Alla prima erta dura non ebbi alcuna pena. Uno strano vigore m'era venuto in tutti i muscoli, e il vento della sera entrava nel mio petto come in un fogliame nuovo. Traversai il Quartiere d'inverno, la città dei malati. Travidi qualche lampada accesa dietro qualche vetro. Mi parve d'indovinare, a destra, prima d'una svolta, la veste argentina del melo rifiorito. La campana sonò su la Cappella. In fondo a un viale arborato, dietro un alto Crocifisso, luccicò il Bacino.
Sapevo che la casa era in vicinanza dello sbarcatoio: la quarta, a sinistra. Per trovarla camminai a piedi, piano, mancandomi l'ardire. L'ombra era in tutte le finestre. Passai lungo il muro del giardino, dove le foglie lisce degli arbusti lustravano tuttora. Le vetrate del vestibolo erano aperte: si vedeva in fondo un balcone anche aperto sul cielo pallido; e la brezza gonfiava le cortine, alitava sotto la volta. La casa pareva deserta. La risacca vi risonava come contro una banchina. «Forse è là, seduta nell'ombra. Ora mi riconosce, si alza e getta un grido.»
Attesi immobile, nella corrente d'aria che mi rapiva in faville la vita. Ora ella non era più davanti a me; era dietro di me, come un blocco di gelo.
Al suono d'un passo mi volsi. Qualcuno entrava dal giardino. Non so che ribrezzo istintivo e il luccichio delle lenti spesse m'avvertirono che l'uomo dal capo a piramide tronca sopraggiungeva.
— Chi è là? — domandò, con una voce secca e penetrante che fendette il romorio della marea.
Mi nominai; spiegai con poche parole la mia presenza; gli porsi il pettine avvolto perché lo restituisse a chi l'aveva smarrito.
— Non è tornata ancóra — disse.
E, con una cortesia precisa e gelida, mi propose d'aspettarla.
Le mie pupille abituate all'ombra vedevano la testa fissa del pitone come nella incoerenza d'un sogno quando senza sospetto s'entra nella stanza e a un tratto si scopre nell'angolo il rettile enorme, fuggito dal serraglio, che guata eretto sul mucchio delle sue spire all'altezza dell'uomo.
— Grazie — risposi, non potendo dominare quello strano terrore. — Bisogna che vada.
Uscìi; ripresi la corsa; giunsi fino all'estremità del viale marino, sperando d'incontrarla. Risalìi verso le dune. Rientrai; ritrovai tra i miei libri e i miei calchi l'odore del tabacco oppiato; rividi la tastiera scoperta e l'ombra dell'Immortale su l'avorio ammutolito.
Vissi parte della notte come uno che sa di non più possedersi intero. Stetti in ascolto per cogliere un grido che non giungeva ancóra al mio orecchio ma toccava già la mia anima.
Non so se da molto durasse il sopore della stanchezza, quando la mia anima risalì nei miei sensi col tumulto d'una moltitudine percossa da un allarme improvviso. Mi ritrovai levato su i gomiti, pieno d'una pulsazione fragorosa, con gli occhi spalancati nel buio, inconsapevole del tempo, del luogo e della sorte, come colui che si sveglia per morire nella casa che crolla. Secondo la consuetudine, la finestra era aperta; e indovinai l'approssimarsi dell'alba dal colore del cielo stellato. La frescura mi placò. Mi ricoricai supino, vigilando.
In nessuna riva la malinconia del mondo fluttua come su questa dell'estremo Occidente, al principio d'ogni nuovo giorno. Il gallo della Landa ha il canto roco e lugubre, come se si ricordasse di discendere da quello ch'era consacrato a una divinità concepita dalla Notte senza il soccorso d'alcun altro iddio. L'uomo, che quel canto risveglia, si sente ombra, prima di riprendere il peso del suo corpo per ritrascinarlo alla sua pena.
Di nuovo la stanchezza mi vinse.
Come la gran luce mattutina mi riscosse, sùbito mi ricordai d'aver promesso un saluto alla madre del mio amico. M'affrettai per non perdere l'ora, e portai meco un mazzo di violette.
S'era levato il vento di ponente in un cielo intrepido, pieno di fecondità, di migrazioni e di ritorni.
«Forse non parte» pensavo, rivedendo la sua bocca amara, riudendo il suo riso stridulo. «Non parte più.»
Ma un altro spirito, ricordandosi dello schianto di dolore che aveva lacerato le fibre dello strumento, mi diceva: «Parte. Se ne va. È vinto».
E io avevo velato dentro di me l'enigma di quell'antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte. Attendevo da non so quale orizzonte non so qual messaggio, per disvelarlo e rimirarlo senza paura.
Entrai sotto la tettoia squallida. Il treno era fermo su le rotaie, nero, stupido e massiccio. Sopra un lungo banco erano accumulate certe gabbie di canna piene di polli tramortiti. Il viso d'ogni creatura umana pareva portare un marchio di servitù e d'onta. Il gallo della Landa aveva cantato per costoro.
Camminavo lungo le vetture in cerca del mio amico e di me, quando lo scopersi ripiegato contro la spalla della madre, cereo, come intorpidito da un narcotico, là, con le gambe flosce, con un po' del bianco degli occhi apparente fra le palpebre mal chiuse. Un gesto della vecchia signora prevenne l'importunità d'ogni mia parola, d'ogni mio atto. Ella si chinò con influita cautela verso me, evitando di riscuotere il figlio; e mi bisbigliò:
— Stanotte s'è uccisa.
Questo mi fu raccontato da Desiderio Moriar.
Come il racconto parve giunto alla fine ed egli taceva fisso al banco di sabbia mediano (pallida lacca senza asfodeli e senza vestigi, che apparteneva al mondo di giù) io gli domandai:
— Poteste vederla sul letto di morte?
— La vidi — rispose.
— Aveva il viso intatto?
Accennò di sì, chinando il capo; e le sue mani tremavano un poco, su le sue ginocchia.
Osai aggiungere, a bassa voce:
— E com'era il suo viso allora?
Egli fece la notte in sé, coprendosi la vista con le palme; e restò silenzioso.
Il riflusso aveva lasciata scoperta l'immensa spiaggia; e l'acqua bassa non respirava più, ma immota rispecchiava il cielo immoto. I canali, i banchi, le dune, le lunghe lingue sottili, i capi protesi, le macchie basse, tutte le interne linee secondavano quella dell'orizzonte oceanico, per obbedire a un ritmo di perfezione sublime non consentito agli uomini se non nella sola ora che segue il transito.
In un silenzio eguale alla nudità perfetta, la bellezza dell'Occidente stava supina.
Nella Landa, giugno 1913.
LA LEDA SENZA CIGNO ❧ ❧ RACCONTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO ❧ ❧ ❧ SEGUITO DA UNA LICENZA ❧ TOMO SECONDO
FRATELLI TREVES EDITORI • MILANO • MCMXVI
LICENZA.
A Chiaroviso.
Riodo approssimarsi il galoppo delicato dei puledri di gran lignaggio sul mio silenzio che oggi è metà nell'ombra e metà nella luce come la prateria liscia nel paese di Silvia l'Italiana.
Vi sovviene ancóra, o Chiaroviso, di quel giorno d'estate acerbo e torbido come un meriggio di primavera immatura? Era l'ultimo spettacolo della vita leggera: la gara breve della grazia e dell'ardore ereditati per sangue. I puledri di due anni ci parvero le più belle creature dell'Universo, alti su le gambe e senza ventre come i miei levrieri creati e allevati nello stampo ideale dalla mia volontà che impara ogni arte.
L'ippodromo era quasi deserto. Rari e assorti gli spettatori, tenuti da una inquietudine comune che inclinava i loro sguardi verso il suolo come se nel verde agguagliato cercassero erbe da sortilegi. Taluni erano sprofondati nella lettura dei fogli sibillini, senza volgersi al ritmo delizioso che segnavano gli zoccoli dei giovani cavalli partendo in gruppo sul terreno sonoro e cedevole. Io pensavo al principio di un'ode, che somigliasse a quell'impeto fresco, fresco e allegro come il frullo d'uno stormo d'uccelli spiccatosi da una frasca rinnovellata; il quale era per risolversi in schiuma e in sudore fumanti giù per la pelle ove il fuoco delle vene palesi dava imagine di quella vibrazione silenziosa che la canicola crea contro le sabbie ignude.
Patetica ora di bellezza e di divinazione, perpetuata nella memoria come il frammento d'un fregio sopravvissuto a un tempio in rovina. Non era infatti men bello della cavalcata fidiaca quel grande stuolo di puledri «figli del vento» che non sembravano calpestare l'erba ma sorvolarla. Erano ventuno: tre volte sette: il numero ritmico e magico del quale fui sempre studioso. E li cavalcavano fantini quasi fanciulli, dai visi netti, senza pur la prima lanugine, fratelli minori dei cavalieri ateniesi, sprovvisti della clamide e del cappello tessalico ma non della flessibile eleganza.
Ci protendevamo dallo steccato per seguire la corsa, con gli occhi avidi di chi s'accommiata e si volge prima di allontanarsi. Seguivamo quell'onda ardente e fremente, dal sole all'ombra, dall'ombra al sole, su la pista verde e azzurra a volta a volta, con la stessa agitata malinconia che ci travaglia quando vediamo dileguare l'ultima giovinezza o l'ultimo amore o l'ultimo piacere.
Era l'ultimo gioco dei nostri ozii e della nostra pace. Attendevamo che del gruppo, compatto come una sola bestia baia dalle zampe numerose, irrompesse il vincitore certo, il campione designato, quello che avevamo scelto per la scommessa, quello che l'eccellenza della struttura e la potenza del sangue annunziavano più formidabile nella lotta. E mi si ripresentava nella mente concitata quel meraviglioso corsiere britanno, prediletto della vittoria, che sul punto d'esser superato dal rivale si voltò furibondo e lo addentò al garrese per impedirgli di vincere. Così a un tratto l'ansietà del gioco si mutava in un sentimento più acre e più profondo. Non già sprizzò sangue dal garrese del puledro che alla svolta sopravanzava di tutta l'incollatura lo stuolo chiuso conducendo la corsa; ma l'odore del sangue futuro pareva salire da quel dolce seno dell'Isola di Francia, ma dai molli orizzonti del Vallese pareva affacciarsi la Guerra e soffiare la sua afa di putredine e d'incendio.
Non più palpitavamo per quella vittoria ma per un'altra, non più per i giovani cavalli ma per i giovani eroi. Ci guardavamo negli occhi, a leggervi lo stesso pensiero; ed eravamo un poco pallidi, sotto l'ombra d'una nuvola fugace. E, come nei nostri occhi fraterni, in tutta la nobiltà della contrada, su cui tremolava pel declinare del giorno il sorriso italiano di Silvia, noi leggevamo il presagio della resurrezione latina. Gli edifizii, le colline, le acque, i prati, i parchi si armonizzavano in lineamenti della medesima architettura. Nel dominio che la nepote trilustre di Maria de' Medici s'ebbe per il più abile dei suoi cinti, la mia anima toscana si accomodava come in una vecchia villa medícea. La Nonetta era vagabonda e vitrea come l'Ambra. L'Orsina arieggiava la bella Vespuccia dalla collana d'angue. Teofilo cantava come il Poliziano.
Il puledro vincitore era ricondotto a mano nel recinto del peso. Un che di fluido e di fermo, insieme: il tremolìo dei muscoli sotto il sudore schiumante faceva pensare alla mobilità delle polle improvvise; ma i suoi tendini convenivano alla sua ossatura come le corde ai tenieri delle balestre. Dalla barbozza al nodello, dalla spalla all'anca, dalla punta del petto al fusto della coda, era tutto opera di stile ancor più concisa che quella scolpita nella metope attica. Ma tanta severità di forma non era destinata se non a governare la strapotenza della vita. Nelle narici e negli occhi gli spiriti del sangue bruciavano con la forza del fuoco che apparisce per gli interstizii del forno fusorio.
E nel modo inimitabile di comprendere e di sentire quella convenienza e quella bellezza noi ci riconoscevamo latini. E intorno allo sforzo vittorioso di quel giovine animale perfetto vedevamo disporsi la perfezione secolare di tutte le nostre culture.
Ed ecco che a quel gioco lieve stava per succedere un gioco tremendo, la cui posta consisteva di tutti i nostri beni. Noi eravamo per rischiare tutti i nostri beni contro un getto di dadi. Già udivamo risonare i malvagi dadi su la pelle d'asino tesa nel tamburo del lanzichenecco.
Traversammo la prateria deserta, quasi a vespero, per tornare verso la casa amica. Io pensavo alla dimora di Silvia specchiata nelle acque chiare. Imaginavo nella parlatura di Francia l'accento della patrizia romana.
Rare parole, passi lenti, gravi pensieri: Le torri del Castello allungavano l'ombra su i bacini e su gli spiazzi. Laggiù, forme taciturne della sera, un cigno attraversava uno stagno, una cerva attraversava un viale. Laggiù, in una sala deserta, il serpe grazioso si dislacciava dal collo della Simonetta e le si moltiplicava nei capelli ornati. Il bel capo genovese si faceva irto e sibilante come quello della Gorgone, e sovr'esso la nuvola del destino si gonfiava di minaccia.
Sorridevamo di questa imaginazione camminando sul tappeto dell'erba; ma, come la luce si dipartiva da tutte le cose per andarsene all'occidente, sentivamo tutte le cose più dilette a poco a poco abbandonarci. Non soltanto un giorno finiva ma un mondo si dissolveva. I fantasmi della vita leggera si dileguavano più veloci che il galoppo dei giovani cavalli. In mezzo a quel morbido prato una necessità repentina ci premeva e ci curvava, dura come il ginocchio del Genio michelangiolesco.
Io e Marcello, il mio compagno di giuochi, distaccandoci alquanto dalle gonne serrate che sembravano impastoiare anche le nostre gambe, ci guardammo con una commozione che scomponeva le nostre labbra e ci stringeva la gola; perché il flutto dei nostri pensieri e dei nostri presentimenti, levandosi e aumentandosi nel tempo medesimo, ci aveva insieme sopraffatti.
La casa materna era là, tranquilla, sotto la protezione dei vecchi alberi: bella e comoda casa francese, tutta chiara e nitida, illuminata dall'ordine quasi più che dalle finestre, un poco italianeggiante come un sonetto della Pleiade.
Udivamo i cani uggiolare e squittire nel vestibolo. Come la cateratta si solleva e la forza dell'acqua precipita, così la porta s'aperse e la loro gioia impetuosa ci assalì senza ritegno. Era una irrequietudine di muscoli simile allo sbattimento d'una stoffa di seta manosa percorsa da rapidi riflessi; e per entro vi brillavano gli occhi e vi s'appuntavano i musi che parevan quasi l'acume dello sguardo nella volontà di penetrare lo spazio. Tutto era potenza elastica, levità balzante, secchezza essenziale come nei cespi aromatici, giubilo d'amore, malizia infantile, desiderio di fuga, avidità e gelosia, fedeltà e disobbedienza. Erano fanciulli capricciosi e tremende macchine di vittoria, belve crudeli e damigelle timide, sognatori taciturni e dilaniatori inesorabili. Li amavamo come si ama una donna malfida e tenera, mista di svogliatezza e d'ardore, di frenesia e di mestizia. E, quando Marcello si chinò verso il prediletto e gli sollevò una zampa di dietro per esaminare un'unghia malata, il cuore ci tremò come davanti alla più squisita delle opere d'arte vedendo l'estrema luce trasparire nella membrana tra lo stinco e il tendine.
Eppure il giorno innanzi, parlando della guerra, s'era a noi presentata l'eventualità di sopprimere una parte del canile, la necessità orribile di uccidere i nostri amici e di seppellirli in una fossa. Tutto quel vigore scolpito e cesellato era omai sotto la condanna. I morituri erano già scelti. Qualcosa di funebre era entrato con noi nella casa pacifica. Nelle stanze ordinate le tende e le portiere non si movevano, ma l'aria pareva inquieta come quando sta per scoppiare l'uragano e i servi corrono a chiudere i vetri e gli usci.
Il Sacrifizio era venuto a prender posto tra i Penati. Non volgemmo il capo per ignorare la sua presenza. Ma ci avvicinammo a lui, gli togliemmo il velo, e lo guardammo con pupille ferme.
Ora non dimenticabile di amicizia, di proposito, di speranza! Eravamo seduti intorno alla tavola familiare. Le lampade non erano state accese. A una a una le cose erano abbandonate dalla luce del giorno che se ne tornava all'Occidente. Una Vittoria dorata, del tempo dell'Impero, luccicava sul marmo del caminetto. Parlavamo piano, come se l'ombra di quella sera avesse una grandezza inconsueta. Lasciavamo freddare l'arguzia nella bocca e la bevanda nella tazza. Il nemico non era soltanto al confine ma su quella soglia. La soglia della casa e il confine della patria erano una sola santità che poteva essere profanata. Bisognava sorgere e combattere.
Allora Marcello venne sorridendo, con quel suo viso bianco e affilato come una spada nuda che riposi sopra una lastra di Carrara. Venne e recò la sua tunica azzurra e il suo berretto di fantaccino tirati fuori dal fondo di un canterano. Odoravano di canfora.
Non altrimenti ci saremmo commossi se fossimo stati sfiorati dalle pieghe della bandiera sventolante. Ciascuno di noi palpò il panno rude. Qualcuno forse lo vide intriso di sangue.
Come il berretto andava al mio capo, ne traemmo un buono augurio; e ritrovammo il nostro sobrio riso con aggiuntovi un che di tagliente. Fin da quella sera le due patrie furono una sola per noi.
Una campana di fuoco sonava in sommo del crepuscolo di luglio.
Ci levammo per uscire all'aperto, come soffocati. Respirammo la battaglia e la liberazione nel vento che passava su l'Isola di Francia.
Vi sovviene, o Chiaroviso, di quella sera? In quella sera, per segno di fraternità latina, io vi diedi il bel nome italiano che a un tratto mi ricordai d'avere scoperto in una vecchia carta notarile pistoiese quando i bei nomi generavano nel mio spirito le belle eroine: Chiaroviso. Sembra il nome luminoso delle due patrie congiunte.
Poi seguirono giorni stupendi, che canteremo.
Colgo intanto per voi nel libro della mia memoria queste pagine di passione scritte sotto la data del 27 di quel luglio tragico. V'è un canto nascosto.
[Veramente oggi la vita è sospesa; e, così com'è, sembra non valga più la pena d'esser vissuta. Il tedio e l'ansia s'avvicendano; o l'una attraversa l'altro come la corrente che passa pel mezzo del lago stagnante. Non so quante cose malate e quante cose morte appèstino l'aria. Respiriamo infezioni senza numero e ignote, come quando la polvere crassa e il fango risecco ribollono sotto la prima acquata in un paese che devastarono la canicola e la pestilenza.
Mi ricordo di aver paragonato una certa tristezza dell'uomo alla nave che con l'elica guasta è perduta nell'immenso polipaio, nell'inerzia ardente dell'Oceano sotto il Tropico, morendo a poco a poco nel fetore della sua sentina.
Sentii l'odore d'un abisso
invisibile e onnipresente,
il pestifero fiato
d'un gran mare torpente
ma pieno di occulta
ferocia, di vita vorace....
Ritornano in me le imagini di certi pomeriggi romani, nel tempo più tristo, quando le oche del Campidoglio scendevano a starnazzare e a gracidare nella Cloaca, restando abbattuto o deserto ogni altare venerabile. Ritorna in me qualcosa di quella disperazione e di quella nausea.
Manìe, Manìe silenziose,
erranti nell'inferno
della città canicolare,
col passo degli sciacalli
famelici, tra le bucce
lùbriche dei frutti e lo sterco
dei cavalli coperto
d'insetti che hanno il lucore
dell'acciaio azzurrato....
L'aspetto di Parigi è sinistro, sotto il cielo basso umidiccio e grigio come il vapore della caldaia che bóllica. Il fiato di tutti quegli uomini che s'accalcano nel Tribunale sembra appestare la città intera. Ciascuno di costoro ha messo la sua unghia listata a bruno nei buchi fatti dal piombo alla veste dell'ucciso, e con quella stessa unghia s'è levata la càccola dal naso partigiano e l'ha deposta cautamente su la manica del suo prossimo.
Non c'è dunque altra bandiera che quel soprabito bucato e un po' di biancheria sporca? Non c'è altro grido di allarme e di riscossa che il falso rugghio avvocatesco? In un rauco baritono forense Parigi vede un magnanimo leone, e i baffi ritinti e spioventi d'un accusatore ben mandibolato le danno imagine dell'antica rudezza gallica. Sii dura alla presa, mascella faconda!
Dicono che la vendicatrice non abbia ucciso se non per farsi riamare da un marito stufo. Non so perché, penso a quel piombo che i pescatori mettono in bocca ai pesci morti, di cui si servono per esca. L'anima stessa della città mi ricorda uno squalo arenato, laggiù, su la spiaggia atlantica, in una sera di luglio senz'astri, ove l'udii lungamente soffiare e agitarsi finché l'alta marea non lo salvò.
La marea sale? Che è questo romore meraviglioso, il qual sembra venire dalla profondità dell'orizzonte? Non c'è nessuno che si corichi in capo d'una strada, dalla Parte di levante, e ponga l'orecchio contro terra in ascolto? Forse la Francia eterna, la grande Seminatrice che ha esausto la semenza del grembo, sta ora così contro terra in ascolto; e un poco di quella terra arida si pone ella su la lingua, sotto specie eucaristica, prima di risollevarsi.
S'aspetta la sera, per alfine seppellire il morto e i mal vivi. Forse a mezzanotte dai quattro canti della città, subitamente, le trombe invisibili soffieranno la guerra; e nessuno vorrà dormire nel suo letto, ma ognuno aspetterà l'alba per riconoscere il suo vero viso e il viso altrui. E il tono dell'ultima canzone, interrotta nella gola grassa della cantatrice da conio, sarà cosa memorabile pel goditore costretto a intendere il primo grido dell'allodola come richiamo di combattenti.
Tuttavia la speranza della pace cola pei rigagnoli, alla soglia delle botteghe, tra chiavica e chiavica, come una immondizia tarda che domattina gli spazzaturai mescoleranno all'altro sudiciume e porteranno via su' loro carri cigolanti. È l'ultimo giorno di vituperio? sono l'ultime ore di vergogna?
Non so se la femmina del mestatore oda ripalpitare il cuore della vittima sotto il pavimento della cella, secondo l'ingenua favola del rimorso e dell'espiazione; ma a noi sembra udire, in una maniera misteriosa, un cuor nuovo battere a quando a quando, non sappiamo dove, forse nella nuvola, forse già nella nostra carne opaca, come allorché il nostro polso medesimo rappresenta al nostro orecchio un rombo strano e lontano.
O necessità della sorte, dura e pur bella, che non ci consente di vivere più oltre se non siamo capaci di creare a noi stessi la nostra primavera e di restituirci in novità di vita!
Perché quello che fino a ieri ci valse, oggi non ci vale più; quel che ci appartenne, non più ci appartiene. I sostegni abituali mancano a un tratto, i comuni rimedii sono inefficaci. Domani non possederemo più nulla, di quanto fu la nostra ricchezza illusoria. La nostra vecchia anima sarà men che un cencio da buttar via. Saremo spogli di tutto, vuoti di tutto. E non ci sarà permesso di mendicare, ma sì ci sarà imposto di conquistare. E la vera legge marziale sarà su noi instaurata dopo la guerra delle armi; che uccidere e distruggere sarà ben facile cómpito in paragone di quel che i superstiti troveranno dinanzi a loro.
Quale, tra le sorti del mondo, è magnifica come questa che si disegna ai nostri occhi attoniti? Neppure la resurrezione asiatica, il subitaneo ringiovanimento che rinnova la sacra Asia, le è comparabile; né alcun altro più fiero dramma di stirpi nella storia umana. Ecco che l'Europa decrepita, la temporeggiatrice incurvata dal peso delle sue frodi e delle sue viltà, sta per immergersi tutta nel sangue con la certezza di uscirne più giovine che quando su lei barbara i freschi vènti della Rinascenza soffiarono dal Mediterraneo! Il più crudo fato diventa una fede inebriante, per gli spiriti maschi. L'ansia si placa in un culto di aspettazione.
Penso che l'antico Ade non fosse nel mondo di giù, ma rimasto sia con gli uomini che l'imaginarono. In questo intermezzo di giorni so che mi muovo tra le ombre della vita, ignudo di ogni bene e quasi immemore, non dissimile a un ospite delle valli cieche. La malattia m'aveva già distaccato da molte cose, e liberato interamente dalle ceneri del mio stesso ardore. Esco dalla convalescenza come uno che, abituato a camminare con gravi fardelli e più grave compagnia, passi a nuoto una rapida fiumana, avendo prima in essa gettato ogni sua soma e lasciato i seguaci su la riva. Sono leggero e spedito per andare verso l'avventura, verso il pericolo e verso la morte. Forse mi sarà dato di sentire in me la stupenda novità che si prepara, prima di disciogliermi. Ma già la ricevo in forma di annunciazione.
Dal principio della primavera a questa estate, un sentimento continuo di precarietà m'ha impedito d'intraprendere qualsiasi cosa e pur di disegnarla. La vicenda cotidiana m'era estranea e remota. I prossimi mi parevano larve inesistenti. Poiché la vita, quale mi s'offriva, non valeva la pena ch'io la vivessi, ero contento d'essere occupato dal mio male e dalla mia pazienza, chiuso in una sorta d'involucro angusto, simile a una crisalide silenziosa. Ma tuttavia avevo in me la certezza che quel tempo non fosse se non un passaggio fatale e che in fondo a quel silenzio si accelerasse il ritmo formidabile del Destino. Pensavo che una parte della materia umana fosse tolta a me, come a ogni altro uomo consapevole o inconsapevole in quel punto, per alimentare e aumentare l'evento, e che il mio soffio e l'altrui fossero menomati per accrescere un turbine non del tutto composto ancóra. Tenevo il viso rivolto verso una triste finestra che dava su una corte ove non s'udiva se non cuoche scodellare, serve cianciare, bambini fiottare, ustolare cani prigionieri. Quanto ho amata quella umile solitudine che mi preparava a non essere più solo!
E mezzogiorno, è l'ora alta in cui le carogne abbandonate brulicano di vermi e ronzano di mosche. L'aria è ambigua, calda e fredda a volta a volta, afosa e umidiccia, quasi ributtante come certe mani che ci sono tese nella strada e che ci danno il bisogno subitaneo di nettarci dal loro contatto non soltanto con l'acqua ma con l'acido. Alla punta della Torre di ferro, che sembra il priapo della città, la nuvola si lacera rossastra come il fumo alla bocca del cannone. Pioviggina? o è l'immondo sudore della Corte d'Assise, che ricade su Parigi anelante? Un venditore di giornali vocia, laggiù, verso l'Arco di Trionfo; e mi par di vedere la sua fauce vinosa, la sua carotide gonfia che sforza la cravatta rossa, il suo berretto consolidato dall'untume. Il vano dell'Arco è senza luce: sembra murato provvisoriamente con mattoni per coltello. Ma domani l'alto rilievo eroico di Francesco Rude, la Dipartita, non si staccherà dalla pietra, non diverrà un gruppo scolpito di tutto tondo, non si metterà a camminare, non s'ingrandirà come una valanga, non travolgerà tutto e tutti nel suo impeto trionfale?
Abbasso le palpebre su la mia intollerabile angoscia; e rivedo la mietitura del mio paese, un certo campo del Lazio tutto sanguigno di papaveri, una mano bruna che ha un suo certo modo di prendere la manata di spighe da segare, un fastello di covoni coperto di passeri ghiotti nel contado di Settignano, uno stuolo di mietitori seminudi lungo la via polverosa di Montecassino, il tremendo specchio del lago di Nemi nel suo cerchio di selve, la lunata d'una spiaggia etrusca, la stortura d'un pino piceno carico di cicale, gli occhi d'una paranza ortonese dipinti di minio, e la sacra bocca dolente di mia madre.
Si parte dalla mia anima un gesto improvviso di passione, come verso una presenza tangibile, come verso una creatura nel tempo medesimo reale e ideale. Per alcuni attimi il desolato volto materno si pone tra me e il volto della Patria che ho creduto di scoprire come in un lampeggiamento penoso. «O timore simile all'inverno che conduce per mano la speranza simile alla primavera!»]
E trovo nel libro della mia memoria queste altre pagine sotto la data del 30 di agosto. V'è un canto celato.
[Oggi l'invasore è a La Fère, occupa la cittadella forse immemore d'un'altra capitolazione precipitosa davanti alla medesima forza. I suoi cavalli scendono per la vallata dell'Oise verso Parigi, calcano già il vero cuore della Francia, scalpitano la più sensibile parte della terra afflitta, con ogni pesta profanano una memoria, offendono una bellezza, rinnovano un dolore. Ho veduto un velo subitaneo turbare lo sguardo di colui che dianzi mi dava la triste novella, nato nella contrada natale di Jean Racine, all'ombra delle vecchie torri alzate da Louis d'Orléans. Ora, se socchiudo gli occhi ed evoco l'Isola dai tre Gigli, mi sembra di vedere tra poggio e poggio tutti i suoi campanili tremolare come i suoi pioppi; e forse non è se non il pianto contenuto del mio amico, che mi fa vacillare lo spirito.
Ma mi riappare, ne miei ricordi di pellegrino, l'antica signoria dei Coucy senza paura, entro la disutile cerchia merlata, sopra le praterie basse inondate dalle due fiumane, in un odore di concia. Or è quarantaquattr'anni, quella città di pellai, di mugnai e di oliandoli issò la bandiera bianca, avendo perduto tre de' suoi borghesi, dopo un assedio d'un giorno, con tutte le sue vettovaglie intatte e con più di cento cannoni ammutoliti. La foschía di quel malvagio novembre lontano sembra oggi a un tratto rispandersi su Parigi attonita. Il cielo è ingombro di cenere, le strade sono pallide come arterie senza sangue, la Senna stagnante e spessita sembra resistere allo sforzo del rimorchiatore fumoso che trascina la lunga fila dei barconi carichi di carbon fossile; e tutti gli alberi perdono le foglie, come se all'improvviso si ammalassero d'autunno.
Il palpito della città è intermesso, ineguale, rotto da lunghe pause o accelerato da un'ansia folle. Una piazza deserta par vôtata dalla tromba duna nuvola che s'alza, s'avvolge e trascorre a levante, torbida e gonfia della vita rapita agli uomini. Uno sprazzo crudo di sole contro un marciapiede popoloso sembra annientare i passanti, come uno scoppio di mitraglia. Un gruppo di operai famelici, sotto un muro spellato di vecchi affissi osceni, non è se non una minaccia d'occhi selvatici e di bocche ferine. Vetture in corsa, zeppe di carne da macello, passano con un gran rombo e un gran vocìo, andando verso tramontana; e tutti i fantaccini son seduti su le loro brache rosse, come i battaglioni falciati all'altezza degli inguini stanno a terra in una pozza grumosa e ancor gridano. Le dodici stazioni di Parigi pompano il coraggio e la viltà: scaricano fuor della cinta quelli che vanno a combattere e quelli che si salvano. Visi bianchi di donne dalle ciglia e dalle labbra dipinte appariscono, nella rapidità dello spavento, di tra i cumuli delle valige e delle scatole, in fuga disordinata come se già il primo drappello di ulani fosse alla Porta Delfina. Il veterano già rimastica il pane scuro dell'assedio, tra i denti che gli restano. La cortigiana, abbandonata dal mantenitore, si dondola su gli alti tacchi con un gioco sapiente di ginocchi e di lombi nella gonna stretta, lungo le botteghe chiuse, sotto l'ingiuria delle oneste portinaie, già pronta ad accogliere il dragone bavaro o l'ussero della morte. Contro i cancelli d'un ambasciatore invisibile s'accalca la fame degli emigrati, s'impazienta la lunga attesa vana; e già l'odio e la ribellione balenano sopra la miseria, mentre il lezzo umano si mescola al fiato putrido dell'estate moribonda.
Ecco il silenzio della pietra, una via deserta e cieca, un'ombra plumbea fra alte case esanimi, uno spazio morto, qualcosa d'un canale succhiato dalla bassa marea, e me simile a un rottame sperso, a una bottiglia vuota, a una scarpa informe di naufrago. «Chi sono? dove vado? e che ho mai fatto?» Le mura si serrano. Mi soffermo, per fiutare quell'aria ignota. In capo della strada, tre vecchie agucchiano e biasciano davanti a una soglia, con le gote grinzute come le palme delle mani e, come le palme, scritte dal Destino per segni indecifrabili. Parche senza nome, mi guatano e mi agghiacciano, minacciando con le loro cesoie nascoste l'ultimo filo del mio passato. «Il ragno tumido ha tessuto la sua tela fra i rami del mio lauro.»
Perché non posso più sopportare la solitudine? e perché non posso più conservare la mia sostanza né considerare gli aspetti della mia anima?
Un tempo sapevo con qual tra- vaglio l'operaio sanguigno, che m'ho alla cima del cuore, trasmutasse tutte le cose in mio sentimento. Oggi mi sembra che il cuore carnale «non maggiore della man chiusa» faccia un altro lavoro, a me sconosciuto, e ch'egli non riconduca a sé, pel circolo consueto, quel che fuori di sé ha spinto. Tutto si parte, e nulla ritorna. Tutto si dona, e nulla si riprende. Ho perduto il mio mondo, e non so se ne conquisterò un altro. Ho ripudiato quel che fu la mia potenza; e talvolta, con un profondo brivido, nel tumulto degli uomini, penso a una bellezza segreta che non so rivelare ancóra e che forse altri manifesterà per un'arte misteriosa non posseduta da me se non in forma di divinazione. « Chi inciderà ancóra una sillaba nel frontone dell'Arco? E chi nella parete del Monte scolpirà una lettera sola del nome? E chi scruterà l'Avvenire convolto nel grembo penoso?»
Talvolta, all'annunzio d'una strage, penso che la guerra prepara gli spazii mistici per le apparizioni ideali. Se resto solo, o nella mia casa o nella via, mi sembra di udire in realtà crollare le masse d'uomini come quando nella foresta folta si pratica la radura che subito è occupata dalla nuova luce. Questo senso continuo dell'opera di morte dissolve ogni pensiero abituale. L'abbattimento è senza pausa. Quel che un Antico nostro chiamava «il tagliamento delle genti» non ha mai tregua. In ogni attimo le creature sono agguagliate alla terra che si abbevera del loro sangue furioso, prima d'inghiottirle e di convertirle in sua grassezza tranquilla. Anche una volta la divinità della terra è testimoniata dall'immane sacrifizio. Ella prende il corpo orizzontale dell'uomo come misura unica per misurare il più vasto Destino. E se si sazia di carne, poi la rende in ispirito. Dove il carnaio si dissolve, quivi nascono i fermenti sublimi. Dove si sprofonda il peso mortale, quivi la libertà dell'anima si leva. Quanto più larga sarà l'offerta, tanto più alto sarà il prodigio.
Così comprendo come la terra e la guerra sieno entrambe d'essenza divina e per sempre congiunte da un patto non violabile. Nei campi e nelle nazioni il solco, sia bruno o sia vermiglio, è fatto per essere seminato. E ogni solco non ha altra necessità se non di crescere e d'alzarsi. Mi viene in mente una parola tragica: «Avete voi giaciuto come il figliuolo e la madre, tu e la terra?» Mai fu più forte e pieno il contatto fra l'uno e l'altra. E ora so perché mi diede tanta commozione il leggere che i soldati d'Africa, in un assalto disperato contro i reggimenti della Guardia imperiale, combatterono tutti a piedi nudi.
Ogni attimo ha qualcosa di lontano e di sacro; e in ogni luogo lo spirito è dalla poesia rapito fuori del tempo.
La Senna ristagna sotto una calura cinerea. Di là dalla ripa arborata il poggio s'accovaccia sotto un castigo di nuvoli. Nell'acqua inerte si specchiano le croci bianche abbaglianti dipinte su le prore delle lunghe barche di traffico. L'ululo d'un rimorchio lacera l'afa greve, e gli risponde un mugghio dal polverio del ponte. Innanzi la porta risonano i colpi degli abbattitori d'alberi, che tagliano i tronchi per abbarrare il passo. Dietro la porta, nella via soda, i picconi scavano la trincea. Qualcosa di primordiale e di selvaggio è nel chiarore del nembo imminente. Il pericolo soffia per la valle del fiume tributario; par visibile come la polvere, come il fumo, ch'entrano negli occhi e nella gola di chi cammina.
Una immensa mandria di buoi s'incalza e s'accavalla sul ponte, sbocca su la strada, si spande per la ripa, spinta coi gridi e coi pungoli dai soldati e dai bovari polverosi. Sono mille, sono duemila, sono tremila. Si precipitano innanzi come un torrente gonfio; e hanno il colore dell'alluvione che ha rapinato le terre fulve, il colore della ruggine e dell'ocra, della paglia e del croco. Perché tanto si affrettano? per sfuggire all'inseguimento del nemico? Par di udire già all'altro capo del ponte il galoppo dei cavalli e di scorgere un balenìo d'armi in asta e di respirare l'antichissima forza dei re chiomati.
L'amico che mi accompagna, della miglior razza di Francia, mi serra il braccio in una sùbita commozione. Egli ha inteso, nel grido d'un giovine bovaro, il nome della bella bestia color di covone che passa rasente sfiorandoci col suo corno spuntato: «Jaunet!»
Non è l'accento di Piccardia? Qual campo del paese invaso arò il bue flavo dal nome leggiadro? Le figure delle città violate riappariscono: Amiens rivolta verso il suo Angelo fulgido di cicatrici diritto sotto la Porta maggiore che il Paradiso invidia; Saint-Quentin, squillo di tromba, rintocco di campana, grido di riscossa, raccolta nella loggia del suo palazzo comunale la fede inespugnabile; Noyon silenziosa e pensierosa, con le sue case di cotto e i suoi orti murati, intorno al suo duomo dall'abside coronata di cappelle raggianti....
La tristezza del mio compagno e il richiamo rinnovato del bifolco risvegliano in me il ricordo d'un campo toscano a me dolce, ove sino al tardo vespero udivo la voce di colui che guidava l'aratro incitando i bovi bianchi dal muso imprigionato nella gabbia di salcio splendenti tra gli oppi e gli olivi più che ogni altra cosa chiara, mentre su dall'Arno veniva il rombo della mulina e delle pescaie.
Il temporale scoppia sul poggio, come una battaglia. Il tuono imita il fragore del cannone. Le nuvole si squarciano e si riserrano. Una luce sulfurea illividisce la verdura. Le prime gocce di pioggia sono tiepide, come se grondassero da una larga piaga. Forse il buon batrono San Dionigi cammina sopra le nuvole, verso la città minacciata, portando tra le mani ferme il suo capo mozzo che cola e non dole? L'immensa mandra sbigottita, sotto gli urli e sotto i pungoli, si precipita verso la porta, scalpitando la via sonora, rosseggiando ai lampi spessi, accavallandosi contro i tronchi abbattuti, contro l'alzata di terreno che difende la trincea, contro i cancelli afforzati in fretta con travature di longarine. È la vettovaglia d'assedio, la provvisione contro la nuova fame, il vitto di sciagura. Una frotta di colombi messaggeri vola basso, nel chiarore sinistro, a poche spanne dal tumulto dei dorsi fulvi. S'ode in alto, nella regione delle folgori, il battito coraggioso d'un velìvolo che affronta la tempesta. Un carro di feriti è arrestato dal bestiame che si serra contro le ruote fumanti: il sangue brilla nelle fasciature e l'intrepidità negli occhi. Sotto le sferze della pioggia i buoi mugghiano a morte. Le bandiere garriscono nella raffica, come vele sfuggite alla scotta. Le foglie s'involano nell'ignoto, con le sorti sibilline. D'improvviso uno smisurato arcobaleno s'accende sulla città cupa, e il teschio di San Dionigi fiammeggia nel disco del sole.»]
Ed ecco, amica animosa, ecco le pagine scritte il 3 di settembre, alla vigilia del miracolo inatteso. V'è un canto nascente.
[È un giorno mistico, dominato da un silenzio così alto che il passaggio dei carri di guerra ferrati non l'interrompono. La gente è taciturna e raccolta, grave e rara. Le vie sembrano più larghe, piene di attenzione dalla parte della luce, piene di aspettazione dalla parte dell'ombra, deserte d'uomini inutili, popolate di pensieri operanti, con in fondo qualche monumento solenne che non è se non un gruppo di memorie impietrate. Tutta la paura alfine ha lasciato la città, è fuggita con ogni sorta di veicoli, s'è dispersa per le province più lontane, ha messo in salvo il suo ventre correndo senza fiato verso le terre immuni e grasse, ha già raggiunto i Pirenei, l'Atlantico, il Mediterraneo. Si respira un'aria più schietta e più aspra, come se un vento robusto avesse a un tratto spazzato le infezioni. E, considerando Parigi divenuta più bella e più forte, penso a quell'antica Torre fondata su la riva destra della Senna da Carlo il Calvo; la quale nella notte che seguì il primo assalto dei Normanni condotti da Sigefredo, quasi a miracolo crebbe di più cubiti e si munì d'un altro ordine di feritoie.
Oggi mi sembra che nell'Isola della Città si sia novamente rafforzata l'anima civica. E io veggo entrare nel Duomo di Nostra Donna l'imagine della Francia male armata ma intrepida, come v'entrò a cavallo Filippo il Bello con quella mezza armatura, senza usbergo né gambiere, ch'egli portava a Mons-en-Puelle vittorioso contro la sùbita aggressione dei Fiamminghi.
Non più brulicanti del formicaio umano che le celava e lordava, non più sonanti del penoso strepito, ridiventate a un tratto ignude e libere, le pietre oggi vivono d'una vita antica e nova, riacquistano il mistero e la potenza, rimemorano quel che fu e annunziano quel che è per apparire. Alle rotte luci di questo pomeriggio ove l'autunno sembra scendere precoce, ingannato dalla rossa vendemmia che si fa fuor de' tini, esse hanno l'aspetto profondo dei sogni che sono proposti all'interprete dei fati. L'illusione del tempo è distrutta. E mentre laggiù San Luigi entra per la Porta maggiore tra le due torri recando la corona di spine, ecco che dietro di me, al ponte di Maria, sbarca un giovinetto sconosciuto, smorticcio e scarno, di nome Bonaparte.
L'Isola, simile a una nave incagliata nel limo del fiume, ha la prua frondosa rivolta all'Occidente: non soltanto alla parte del cielo ove declina il sole ma al sacro mondo di bellezza, di eroismo e di gloria che pesa in questa parola nostra dacché verso la plaga incognita l'Ulisse novello fece de remi «ale al folle volo».
Occidente, splendore dello spinto senza tramonto, nessun barbaro poté mai spegnerti, nessuno mai ti spegnerà ne' secoli, finché l'uomo porti su' suoi sopraccigli una fronte per rispecchiarti.
È un giorno mistico. Le nubi sono così fulgide e si dilatano in così ampio cerchio che mi fanno pensare alla Rosa sempiterna, e mi rammentano la parola di Beatrice: «Vedi nostra città quanto ella gira!» Quale può esser mai l'ardore dell'azzurro, oggi, su Roma? e qual mai, apparendo al popolo rapito, la faccia del nuovo pontefice latino?
Chiudo gli occhi, col capo tra le mani, coi gomiti su la pietra del parapetto; e il silenzio m'accompagna nella memoria la via di Santa Marta, la via delle Fondamenta, deserte e sonore sotto il mio passo, ove in giorni inquieti di giovinezza e di ambizione cercai un che di grande e di remoto all'ombra dei Palazzi Vaticani. Rivedo, più oltre, la Pineta Sacchetti, simile a un colonnato chiomoso, ove tra l'erba fioriva il porrazzo che è l'asfodelo dell'Agro, per me inespugnabile come quello dell'Ade. Là solevo far lunghe soste, in vista della mole papale e del Soratte solitario, con una specie di pensieri che non ritrovo più ma che mi raffiguro quasi corporei, dotati d'una violenza flessibile e audace, in quel modo che un cacciatore si ricorda del fiato forte d'una fiera con cui ha combattuto da vicino.
E rivedo la volta dei Profeti e delle Sibille, dove oggi forse dinanzi all'Eletto si abbassano i baldacchini dei porporati. « Acceptas ne electionem....»
La materia del mondo è di nuovo incandescente, come il massello che deve patire l'incudine e il maglio; è in fusione come il bronzo che deve colare per tutti i rami di gitto a riempiere la forma cava. Se il pontefice fosse un artefice di vita, se il vicario di Dio fosse un creatore onnipotente, quale opera potrebbe escire dalle sue mani!
Or è molt'anni, in una notte di dolore commossa da un fremito di speranze, salutammo un re eletto dal Destino con segni che ci parvero meravigliosi.
O tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare!
Si sogna che in questa ora sia vestito della tunica bianca e coperto del camauro vermiglio un papa giovine come quell'Ottaviano principe de' Romani nomato Giovanni XII, imberbe come il figlio di Alberico ma capace di contenere nel suo petto il coraggio sovrumano d'Ildebrando. Si sogna ch'egli non vada a sedersi sul trono preparato davanti all'altare per ricevere il bacio dei suoi cardinali, ma rimanga solo e si stenda supino sul pavimento della Cappella, con gli occhi e gli spiriti rivolti alla visione sublime di Michelangelo, e quivi faccia la sua vigilia, steso come le miriadi d'uomini in quel punto abbattuti su la terra dalla guerra, inspirato dalla Morte che è la musa della Resurrezione.
E, se tu volgi col dito
il foglio del libro verace
or che il Genio con la sua face
t'accende la lucerna,
qual tirannide crolla,
nasce qual novo mito,
qual puro eroe s'eterna?
L'acqua passa sotto il ponte, fatta bionda dal riflesso delle nuvole bionde, come l'acqua del Tevere. Un segno più luminoso arde su i padiglioni del Palazzo comunale, a imagine di quell'angelo fiammeggiante che apparve sul sepolcro di Adriano mentre Gregorio stava per entrare nella basilica di San Pietro. Tutto il cielo è solcato di presagi, come nelle ore fatali. Sembra mosso per me dal medesimo ritmo che nello spazio curvo della Sistina atteggia le forze necessarie. La Delfica svolge il suo rotolo pieno di sorti, da oriente a occidente.
Che guardi? Una cosa fuggente,
o una che giunge dai mari
onde tu stessa venisti?
Scendere su i popoli tristi
le ceneri crepuscolari,
o sorgere l'albe cruente?
Mi tornano nello spirito le melodie che non furono udite e che perciò a taluno devono oggi sembrare più belle. Rimpianto e speranza mi fanno delle due patrie una patria sola. Qual potenza si mostra oggi, laggiù, dall'altura che è la sommità dell'anima cristiana, all'aspettazione del popolo? Qual mano si leva oggi a tracciare tre volte nell'aria di Roma il segno della croce, mentre da ogni terra una crociata senza croce si leva contro l'ultima barbarie? Ecce sacerdos magnus.
Ma forse il nuovo Pastore è carico d'anni e, incatenato alla pietra secolare, già si curva sapendo
come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l'altre some.
L'ombra di Dante sembra soccorrere alla mia tristezza, creando in me per l'eco della sua rima un sentimento musicale che si confonde col desiderio della patria lontana. L'anima affannata si sogna di cercarlo nei luoghi dove forse peregrinò, e di ritrovarlo, e di domandargli quella consolazione ch'egli domandò sì dolcemente al buon cantore da Pistoia. «Casella diede il suono.»
Come in sogno entro nel laberinto delle vie scure, che sta fra la piazza di San Michele e quella più antica dove un tempo gli scolari e le baldracche danzavano tra la Forca e la Gogna a suon di pifferi e di cornamuse. Casupole sordide dalle mura sudice di filiggine, attraversate da doccioni di latta, da cannelle di piombo che soffiano un tanfo di cavoli e di rigovernatura; porte di ricoveri disgustose come bocche di fogne, orribili covili dove nel cuor della notte i dormienti sono scossi d'improvviso e presi per i capelli dallo sbirro che li abbaglia con la sua lanterna di scoperta; bettole anguste come nascondigli, color di carne affumicata, ove si spende il quattrino del furto o dell'elemosina; botteghe di semplicisti, piene d'erbe giallastre, ove par d'intravedere per la vetrina bavosa di lumache i cadaveri seduti di quelle tre avvelenatrici che una mattina furono ritrovate uccise dai vapori delle droghe messe a bollire su' loro fornelli; cànove di vino tenute da vecchie megere, in zoccoli che sembrano staccheggiare nella feccia e nel fondime; ruderi di conventi divenuti depositi di pellami e fondachi di rigattieri. Un vagabondo lacero leva al mio passaggio il viso gonfio di cattivo sonno, mi guarda coi suoi occhi malati, e poi ricasca sopra il foglio che gli fa da guanciale. Quella femmina, su la soglia di quella taverna dalle tendine rosse, è la Caterinaccia, o è la Gianna soprannominata Scorzone da Benvenuto, la salvatichella veloce che gli servì di modello per le due Vittorie e per la Fontana Beliò? Quel negro camuso e crespo, in quella locanda sinistra a quella finestra senza vetri, non è forse Zamor, l'ignobile scimmiotto che divertiva la Dubarry e che più tardi le fece tagliare il collo? Par di riudire, con non so che allusione attuale, il grido della favorita bianca di terrore e abbrancata ai ferri del cancello: « Encore une minute, monsieur le Bourreau! »
Ma dov'è il «vico degli strami»?
Ecco, in una pietra murata, San Giuliano che traghetta Gesù con la sua chiatta. Ecco, alla porta della chiesetta povera, una sponda di pozzo riturata e consunta, ove forse bevve Gregorio di Tours. Ecco le due absidiole con umiltà francescana rannicchiate contro il Coro, ove sono sepolti i due Normanni incestuosi. Giuliano di Ravalet e la sua sorella Margherita, con le due teste mozze. Si dice che quivi Dante abbia pregato. Ma oggi l'altare non è più latino: è servito da preti e da diaconi barbuti, con la liturgia di San Giovanni Crisostomo.
Un campanile di vecchia pietra fosca leva in un campo di ruine la sua croce sormontata dal gallo di ferro. Intorno, case sventrate che mostrano le tracce miserabili degli abitatori, cumuli di mattoni e di calcinacci, rottami e immondizie, travi tronche, tavole fendute, palchi, puntelli, tutti gli orrori della distruzione, come in una contrada devastata dall'invasore. Di là dalle palafitte si scorge l'abside annerita come da un incendio, con le sue vetrate protette dalle grate fulve di ruggine. I mostri delle gronde protendono i lunghi colli squamosi, pontati con le branche all'orlo del tetto. Una plebe meschina e afflitta sta seduta lungo il fianco della chiesa, dalla parte opposta al chiostro e al presbiterio: vecchi, donne, fanciulli, con su le ginocchia un cesto di lattuga, un filo di pane, una cartata di pesce fritto, un frutto mézzo in una foglia floscia. E il rombo delle campane fa tremare mare l'aria su i loro visi esangui, come un velo d'acqua ghiaccia trema sempre su i visi degli annegati esposti laggiù, alla Morgue, dietro il Coro di Nostra Donna.
Questo è il santuario di San Severino. La tradizione m'appare verità. Sento che in quest'ombra Dante pregò e meditò, ebbe il suo luogo pio riconosciuto per consuetudine dalle sue ginocchia. Dove?
La grande nave mediana è rischiarata dal duplice ordine di finestre; ma le due e due navi laterali, basse come i portici dei chiostri, sono occupate da un'ombra calda e bruna che fa pensare alla pàtina preziosa composta dal tempo e dalla musica sul legno sensibile d'un violino. Per mezzo ai pilastri nervuti, scorgo una vetrata a losanghe senza imagini, simile a una lastra di ghiaccio segnata di mille incrinature. Scorgo, più in là, in un bagliore sanguigno, Gesù crocifisso, che riceve il colpo di lancia dal Romano. Tutte le cappelle intorno vivono d'un silenzio animato, sotto il gesto d'un santo o d'un arcangelo, d'una vergine o d'un evangelista: San Luigi Gonzaga riceve l'ostia dalle mani di San Carlo Borromeo; San Michele schiaccia il demonio; San Giorgio trafigge il dragone; San Severino, poggiato alla sponda del suo pozzo, parla con Clodoaldo e co' seguaci; Santa Genoveffa guarisce la madre sua. La pietà, la forza, la saggezza, il miracolo brillano come lo smeraldo, come il rubino, come l'ametista, come lo zaffiro.
Ma non veramente il solitario del tempo di Childeberto possiede questa selva di pietra. La Santa Speranza ne abita la parte più segreta, come suole nei cuori umani. E per lei gli steli di pietra alzano e slanciano verso l'ogiva le palme che in gloria furono agitate su la via di Gerusalemme. Meraviglia indicibile! L'anima respira all'ombra d'un palmeto perpetuo e crede udire il murmure della fontana sempiterna. Dove Dante s'inginocchiò? dove pregò? Qui, certo: presso la colonna mediana dell'abside, che s'attorce con un movimento impetuoso per iscagliare più in alto i rami della palma santa. Un'armonia grave d'organo sale secondata dalle saglienti nervature. Mi volgo, e vedo la nave maggiore tutta folta di popolo, come se a un tratto i credenti fossero risorti di sotterra, su dall'antichissimo carnaio, senza parlare, senza fiatare. Vedo ondeggiar nell'ombra le ali candide sul soggólo delle monache; vedo le madri vestite a bruno con a fianco i giovani soldati pallidi e gravi; vedo le bocche socchiuse dei bimbi attoniti, le teste vacillanti dei vecchi cariche di ricordi atroci. Da tutta quella carne misera, stanca o inconsapevole, si forma una sola anima pura.
Ed ecco, una parola risuona:
— Padre celeste che sei Iddio, abbi pietà dei nostri fratelli!
E un canto sommesso la ripete, un murmure profondo la prolunga.
— Cristo Gesù che sei Iddio, abbi pietà dei nostri fratelli!
Contro i pilastri i cuori d'oro votivi raggiano come se li infervorasse la preghiera concorde.
— Spirito Santo che sei Iddio, abbi pietà dei nostri fratelli!
Nostra Donna della Santa Speranza risplende tra due vetrate, in un cespuglio di viticci ardenti ove i ceri sottili s'incurvano e si consumano senza lacrime.
— Santa Maria, madre di Dio, prega per loro!
A ogni invocazione il canto sommesso s'innalza.
— San Michele, patrono della Francia, prega per loro!
— San Maurizio, patrono dei combattenti, prega per loro!
— Angeli santi, se Dio ve li diede in custodia, e pregate per loro!
Laggiù, per entro ai fusti del palmeto sublime, l'Arcangelo, armato apparisce a Giovanna d'Arco. A quando a quando il cantico s'abbassa, trema, s'affievolisce, come se si bagnasse di pianto; poi si rafforza e invoca.
— Da ogni peccato,
dall'ira e dall'odio,
dalle imboscate e dagli assalti del nemico,
dalle angosce e dalle tristezze dell'agonia,
dalla mala morte,
per la tua passione lunga,
per la tua solitudine e per la tua desolazione,
per gli scherni e per le gotate,
per il flagello e per la corona di spine,
per la tua agonia e per la tua morte,
proteggili, o Signore,
preservali, o Signore,
sii tu la loro forza, il lor coraggio e la lor trincea,
in faccia, al nemico, o Signore Iddio nostro.
E dégnati d'accettare il loro sacrifizio. Amen.»]
Esaudita fu la preghiera, nel profondo e nell'altissimo.
Avevo veduto, pochi giorni innanzi, scintillare negli occhi coraggiosi di Marcello dure lacrime, mentre era egli sul punto di partire armato del suo fucile e della sua croce. Il nemico già occupava il dominio della prima stirpe, dalle cripte merovinge della badia di Saint-Médard alle cinque absidi di Saint-Yved, dal dolmen della Fontaine-Bouillante al Sasso forato di Morsain, dalla rupe druidica di Ostel al mastio di Coucy, la contrada regale che custodisce l'anima pura della vecchia Francia e i vestigi della sua più alta storia, la terra austera e soave che ospitò San Luigi e Bianca di Castiglia nella pace dei suoi cenobii adorni. Il nemico già minacciava il paese di Silvia, stava per ardere i boschi e contaminare i ruscelli del Vallese! Tutto era perduto.
Chi dirà la bellezza della notte in cui le sorti si volsero e si disegnò il prodigio?
Era il più sereno dei plenilunii su l'altipiano di Villacoublay attorniato dalle basse tettoie degli aviatori, dai neri nidi dei volatori di battaglia. Tutta la volta del cielo era piena d'un silenzio straordinario, d'uno di quei silenzii che sembrano quasi imperiosi, tanto superano di potenza ogni voce, ogni rumore. E il fisso destino era la chiave della volta.
Bisognava prepararsi a ricevere il nemico; e ciascuno aveva il suo modo, fra spavalderia ed eleganza, fra temerità e fermezza. Noi l'aspettavamo sul noto cammino del 1870, al limitare del bosco di Meudon, in quel recinto di fienili e di granai dove è tuttora inscritta la memoria degli Zuavi caduti combattendo. Il casale di Dama Rosa! Questo nome mi spande ancora nell'anima non so che profumo di vecchia Francia, di «Francia la dolce». Lunghi muri pallidi, espressivi come il pallore delle facce sofferenti, pieni di tedio come i testimoni che da troppo tempo aspettano, pieni di piaghe e di cicatrici come i mendicanti nobili che non tendono la mano ma soltanto guardano. Tetti bassi di lavagna o di tegole, sporgenti sopra l'intonaco grigio che non ha pensieri ma soltanto tristezza senza mutamento e vecchiezza senza riparo. Grandi porte dipinte di rosso, color di grumo, alte come i carri torreggianti di paglia o di fieno, girevoli a fatica su gangheri che vacillano negli stipiti, rugginose di serrami che non serrano, infracidate da basso nell'umidità della terra senza soglia. Pietre sconnesse e inverdite della cisterna scoperta dove stagna l'acqua piovana che non più rispecchia la giogaia del bue né tremola al belato tremulo della pecora immersa. Prato segreto, prato cinto e difeso, fratello del chiostro erboso e del cimitero selvatico, orizzontale come i morti che dormono senza nome, melodioso di musici invisibili, variato dal vento che lo rovescia come piuma o pelame, a onde chiare, a onde scure, inazzurrato dall'ombra della nuvola, calcato dal corpo che vi si riposa e vi s'imprime.
O Chiaroviso, un giorno dirò questi aspetti della mia esule malinconia, in quel libro che incominciai e interruppi.
Non avevo mai sentito più misteriosamente la natura magica dei miei cani. Nel gran canile imbiancato i loro occhi brillavano come carboni accesi su la neve, maravigliosamente. Quando udirono i colpi improvvisi battuti alla porta esterna, tutti balzarono dalle cucce e si drizzarono tutti contro i cancelli latrando. Lo splendore ferino dei denti vinceva quello degli occhi. Eretti su le zampe di dietro, con la carena del petto contro le sbarre, col collo arcuato, con tese le orecchie, erano bestie da combattimento, pronte allo slancio e alla presa.
Un soldato veniva, dal posto vicino, ad annunziare il pericolo imminente e a consigliare lo sgombro rapido del casale. Ma avevamo imparato il sorriso di Francia, e rispondemmo con quel sorriso. Dama Rosa non era più difesa dagli Zuavi ma da una muta di sessanta levrieri, da un battaglione dentato. Non abbandonavamo i bei compagni, ma volevamo con essi aspettare il ferro e il fuoco.
Inchiodammo le nostre bandiere ai pali del chiuso, esaminammo le armi, distribuimmo un lauto pasto, e ci disponemmo a vegliare. Tra la muta senza collari né guinzagli, Donatella aveva un viso d'astuzia allegra, come chi consideri l'effetto d'uno stratagemma inopinato. Al chiarore della lanterna, ella si chinava verso la famosa Meg che non aveva ancor finito di leccare i suoi dodici pezzati cuccioli partoriti la mattina. Con un vezzo infantile, ella parlava ai suoi prediletti che la comprendevano e le rispondevano. L'invitto Agitator fiammeggiava dai verdi occhi più folli che mai; l'insaziabile Nut saltava come un canguro, chiedendo di continuo qualcosa da divorare; il gruppo demoniaco dei cani neri, condotto dall'enorme Great Man, se ne stava taciturno in disparte, serbando l'attitudine dell'agguato; la mia dolce Dorset color di miele, costrutta come una piccola arpa sensibile, non si dipartiva dalla sua schifiltà d'ermellino timoroso di contaminarsi; e la vostra vecchia Delrosa, per la rarissima nobiltà del suo lignaggio scampata al sacrifizio compiuto da Marcello non senza pianto, alzava il sottile muso con angoscia cercando di vedere dai suoi poveri occhi intorbidati.
Imaginavamo che i nostri cani fossero per essere i precursori di quelli, in seguito celebratissimi, i quali escivano dal limite dei villaggi distrutti formando una catena di difesa intorno ai focolari ancor fumanti. I garzoni, in assetto di guerra, motteggiavano spezzando il biscotto quadrato e sparpagliando nelle cucce i lunghi fastelli di paglia fresca. A quando a quando, taluno si poneva in ascolto credendo aver udito il trotto d'una pattuglia di ulani. Il vento vivo, profumato dal fogliame della foresta e rinfrescato dalla corrente della Senna, agitava in cima ai pali le bandiere latine. Si udiva talvolta uno strepito di carriaggi per la via di Versaglia; si udiva talvolta il rombo di un motore sotto i ricoveri degli uomini alati. Poi seguivano grandi pause di silenzio radioso. La luna era al colmo. Un comandamento di pace scendeva dal sereno. La melodia dell'erba brulicante pareva cullare i morti immemori. Le rane ospiti della piscina mettevano a prova note intermesse, come se stentassero ad accordare ottavini e clarinetti per il concerto di mezzanotte. A un tratto, scorgevo l'alta ombra della mia compagna che camminava lungo il granaio chiaro col suo passo spedito di Diana cacciatrice calzata di coturni bene unti; e un sentimento di bellezza eroica superava l'ironia della mia attesa. La giovine donna, disdegnando ogni consiglio di prudenza, era pronta a perire coi suoi cani ammirabili difendendo le mura del suo rifugio. I denti le brillavano più che il bianco degli occhi, rischiarando quel suo viso di bel fanciullo caparbio. Ella imaginava di scagliare col suo grido gutturale la muta formidabile contro i primi invasori apparsi, e di capitanare la strana battaglia nel rossore dell'incendio.
Stando disteso in mezzo all'erba, tra Dorset e Agitator che si serravano ai miei fianchi tenendo il muso contro le mie ascelle, io la udivo parlare nel canile, di banco in banco, non altrimenti che un capitano in punto di esortare i suoi fedeli. Sorridevo all'avventura che d'imaginaria poteva farsi verace, considerando come la morte non mi potesse cogliere in un'ora di più singolare poesia né spegnermi in più grande pienezza di vita.
Il grido di un uccello notturno si prolungò nel sonno profondo della foresta.
Di sopra il muro pallido le querce scossero lievemente il capo. Un filo d'erba, che mi sfiorava la tempia, sentì l'approssimarsi dell'alba e me lo disse. L'anima la riconobbe prima dell'occhio vigile, più esperta a distinguere luce da luce.
Allora mi levai, ed eccitai la coppia dei levrieri al giuoco. Essi partirono di balzo nell'erba che si sbiancava pel solco della loro rapidità. Pareva che la falciassero col lor vigore falcato. Poi s'aggiravano in volute sempre più strette, come i venti quando fanno mulinello.
La Diana caucasea, alta e pieghevole sui suoi coturni allacciati, apparì con un'altra coppia al limite della prateria. Non incedeva sopra il sangue ma sopra la rugiada, non sopra il vermiglio ma sopra il verde. Non portava in fronte la mezzaluna ma la prima ora del mattino.
Come i canattieri richiamarono i due corridori anelanti e li presero a guinzaglio per impedire le risse, fu lanciata l'altra coppia. E così tutta la muta, due per due, fece il suo galoppo mattutino nell'allegrezza del prodigio.
Incominciava, all'orizzonte, la battaglia prodigiosa. Un velivolo passava rombando su la chiostra quadrilunga, accorrendo verso la Marna con le ali candide della Vittoria.
O Chiaroviso, come dimenticherò quella veglia d'amore sul vostro suolo fremente e quella carola selvaggia — vera danza pirrica — dei miei «lunghi musi»? Non sentimmo, io e la svelta eroina e i nostri compagni fulminei, non sentimmo in confuso la gioia della terra che pareva fatta sonora dal preludio del combattimento invisibile?
V'è oggi una condizione singolare della nostra sensibilità, che ci raccomuna alla terra. In quei giorni, e nei giorni che seguirono, io ebbi un sentimento quasi eucaristico della mia patria seconda. Mi parve d'imitare, non in atto ma in ispirito, la comunione di quella gente a piedi fiamminga che si pose in bocca una particella del suolo invaso, prima di menare il gran tagliamento dei vostri cavalieri.
Quando conducevamo a guinzaglio i cani per ore ed ore nel laberinto della foresta, spesso ci avveniva di far sosta e di coricarci su la proda erbosa dei viali. con l'orecchio chino, quasi a cogliere il fremito della battaglia. I levrieri si ponevano a giacere presso di noi, col muso allungato tra le zampe davanti protese, con gli occhi acuminati e intenti sotto la fiera grazia degli orecchi disposti a solicchio.
Si faceva gran silenzio fra le radici e le vette. L'agguato dei cani pareva accrescere la forza della nostra attenzione. Origliavamo la terra e la sorte.
Di sùbito, i cani balzavano dandoci una grandissima stratta e abbaiavano furenti con lanci di belve, tentando di sfuggire al guinzaglio. Avevano veduto un lepratto o una donnola attraversare laggiù la radura. In piedi, con tutta la possa delle due braccia reggevamo il fascio delle strisce di sovattolo robuste che si tendevano come le redini dei cavalli sboccati. Invano puntavamo i talloni e inarcavamo le reni: i furiosi ci trascinavano. Il clamore feroce echeggiava per tutta l'ombra. Pareva che nulla più valesse, nell'ombra, fuorché la bianchezza di quelle giovani zanne pronte ad afferrare e a dirompere. Nulla più valeva fuorché l'azione, fuorché il combattimento a oltranza, fuorché il sangue inesausto. La furia della muta si apprendeva alle nostre vene. Si accendeva nei nostri occhi la visione della battaglia disperata, di là dai boschi, di là dalle fiumane, di là dalle colline. Il mio cuore gridava d'angoscia verso la mia patria prima, verso l'Italia inerme e irresoluta. Ora un giorno avvenne ch'io fossi da tanta violenza non trascinato ma stramazzato, nella mota sdrucciolevole, dopo l'acquazzone di settembre ond'era stillante e scintillante tutto il fogliame. Avevo i guinzagli attortigliati ad ambo i polsi, e la volontà ferma di non lasciare a nessun costo sbandarsi i levrieri che, come i venti, non tornano più indietro né si arrestano finché hanno soffio. Come quei conduttori di carri che urtando la meta precipitano e sono travolti nella polvere dai corsieri impazzati, mi rotolavo nelle peste mollicce, mi avvoltolavo nel fango rossastro, risolcavo la carrareccia con i piedi con le ginocchia e col capo.
Quando alfine soccorso da un'asperità del suolo riuscii a frenare l'impeto e a rialzarmi, avevo tutto il viso impiastrato e facevo sangue dalle gengive e dalle narici, mi sentivo stronchi i gomiti e i polsi. Assistito dai garzoni sopraggiunti coi miei cuccioli di un anno eccitati come gli adulti, districai l'intrico dei guinzagli e mi liberai per tastarmi il corpo contuso. Ridevo di me, e il mio riso sapeva di sangue e di mota.
Spedita la muta innanzi, restai solo e mi sedetti contro un ceppo di quercia presso il ciglio del fosso.
L'avventura era ridevole, ma su i miei panni terrosi e su le mie mani segate dal cuoio c'era qualche stilla rossa. Avevo in bocca un sapore di terra e di vena.
Allora dalla solitudine, placato l'ansito, sedato l'istinto del gioco, venne in me un sentimento grave che a poco a poco s'illuminò di poesia. Assorto, lasciavo su me gocciolare il sangue e disseccarsi la mota. Quel fosso deserto mi dava imagine della trincea tremenda. Sentivo la presenza della morte a tutti i crocicchi del laberinto silvestro. Sentivo dentro me il mio scheletro prigioniero, involuto di carne riconversa in argilla. Sentivo, presso e lungi, la insaziabile voracità della terra, e la deità sua.
L'una e l'altra avevano obliato gli uomini. Avevano essi creduto di averla vinta e asservita. Con la rapidità avevano abolito i suoi spazii, quasi direi scorciato le sue forme in sfondi di baleno, quasi palpato la sua diversità con non so qual nuovo senso titanico. Con le macchine simili a miriadi di schiavi senza sonno e senza fame, avevano forato i monti, cavato le miniere, imprigionato le sorgenti, domato i flutti, deviato i fiumi, tagliato gli istmi. Non forse ci sembrava di averla stretta, con vincoli più forti di quelli onde gli Italioti avvolgevano il più antico simulacro di Opi? Non riluceva ella, dietro l'aratro novamente congegnato, più docile che non la conduca Omero intorno allo scudo di Achille? Avevamo discostato dal nostro spirito il suo genio, come il vangatore col suo coltello distacca dalle suola la zolla premuta, stando a sera su l'aia o su la soglia. Ed ecco, di sùbito, ella ci riapparisce in una specie di rivelazione primitiva, come al pastore dei tempi dritto su la collina e rivolto verso i punti sacri del mondo. Di sùbito, ella ci riafferra, ci riprende la carne e l'alito, ci spalma della sua creta, ci abbraccia ineluttabile, ci piega al suo amore vorace, ci inebria di orrore e di virtù, mescola la sua sostanza al nostro coraggio, la nostra morte alla sua immortalità.
Sempre la guerra nei secoli ricondusse le creature verso colei «che ha un vasto e ricco petto».
Il guerriero di Amasi dinanzi a Barce, il Macedone a Tebe, il Romano a Temiscira, il Gallo contro Cesare in Avarico, ognuno respirava l'odore di giù, maravigliosamente sospeso fra la cuna e la tomba, come il figlio della terza Republica nella trincea della Sciampagna o della Mosa, nelle sabbie della Fiandra o nei forteti dell'Argonna, votato alla profonda madre «che nutre i giovinetti e le ariste». Ma questa guerra suprema sembra interamente rifondere tutte le stirpi nella materia originale affinché i loro genii possano alfine rifoggiarli nel fango sanguinoso e risollevarli alla vita con un soffio più vasto.
L'alpe, il colle, il poggio, il piano, la ripa, la duna, la selva non più ci appariscono come visioni velate d'aria ma come azioni mistiche il cui ritmo si congiunge alle vicissitudini del fato umano non meno strettamente che giustizia e forza quando lottiamo col nemico a corpo a corpo. Sopra tanti misfatti, tante menzogne, tante vergogne, si spande per noi Latini non so qual pura magnanimità. Dalle albe più remote risplende a noi la nobiltà delle nostre origini, con i gesti e con i segni. Il cielo su la nostra battaglia è un tempio aereo simile a quello che l'augure partiva sul suo capo, da settentrione ad austro, con la sua verga adunca. Non altrimenti disegnava egli un tempio sul suolo patrio, di forma quadrata, non esistente se non in ispirito, senza muri né recinto. Tuttavia i limiti erano inviolabili. E gli eserciti, nei loro accampamenti d'ogni sera, imitavano l'imagine del tempio onde avevan seco recato gli auspicii.
Così mi raffiguravo io allora, così oggi mi raffiguro le linee ideali dei nostri valli latini contro le tane avverse. Così per noi ciascun moggio di terra scavata è offerto agli spiriti che la deificano e divengono i Penati del combattente. Tra le radici e le pietre, ben questi ritrova nella profondità compatta la virtù de' suoi padri, oppure, sotto l'assiduo fuoco e l'ostinato ferro, inventa la sua, novissima. Il suo grido di vittoria o di riscossa screpola sul suo corpo l'involucro risecco che stagna le sue ferite.
In quelle notti di settembre la buona Vanna, la pulzella di Lorena, saltava sul parapetto, in arnese di mota, in tutt'arme di fango, e gridava: «Ohimè, messer Gesù, quanto sangue di mia gente cola in terra! Perché da niuno fui desta?»
M'accadde di veder legare a diecine i cadaveri terrosi intorno a un palo, dritti, come intorno all'ascia le verghe dei littori; e ripensai quella nostra moneta consolare ove il fascio involto di lauro sta fra una spiga e un caduceo. Guardando un de' vostri giovani eroi irrompere dalla trincea, coperto di melma, con la faccia simile a un'informe zolla armata di denti e di occhi, mi avvenne di ripetere in me medesimo la parola iniziatrice: «Insieme giaceste, come il bimbo e la madre, tu e la terra?»
Per quanti altri segni riconobbi la nostra elezione, Chiaroviso, mia suora di Francia, nelle settimane miracolose!
O vespri sublimi, in quel dominio della prima stirpe, in quel suolo di martiri e di re, quando udivo i racconti della recente prodezza seguirsi come nelle lasse d'una canzon di gesta, presso le rovine della Badia cisterciense non immemore d'avere ospitato San Luigi! Un gruppo di cavalli morelli s'abbeverava nel nero stagno feodale, ove due cigni immobili parevano adunare in sé quanto di candore e di silenzio rimaneva nel folle mondo. S'udiva tonare il cannone, a borea, nella montagna occupata dal nemico; s'udiva ansimare come un bufalo enorme il carro di ferro impantanato nella via cupa; s'udiva in alto il battito d'un velivolo fendere la nube, segnando il ritmo novello del coraggio solitario. E il cielo, dilacerato a levante, aveva il colore del tendine «che pallido è come la perla ineffabile, palesato nella ferita».
Dimenticherò io quell'ora e la sua bellezza? Gli Zuavi di Palestro e i Cacciatori di Solferino, i veterani dell'esercito d'Italia, non dunque mi fissavano dal fondo di quelle giovani pupille? Il cannone di Melegnano non dunque tonava alla mia sinistra, tra il cimitero e il ponte?
Non altro se non la forza dell'amore mescolava anche una volta nel mio sogno i due sangui fraterni.
Su i ghiacci dello Stelvio, su le nevi della Carnia, su i picchi delle Dolomiti, su i dirupi del Monte Nero, da per tutto, nella nostra Alpe truce, oggi risuona un canto possente come quello dei Legionarii: la voce stessa di Roma. Così mi parve un giorno riconoscere la cadenza dell'antichissima vostra canzone carolingia nel coro dei vostri soldati.
Conoscete, o Chiaroviso, un borgo che si chiama Longpont? Pontelungo. Somiglia quasi a una delle mie piccole città umbre, tra l'infranta ossatura della chiesa abbaziale e una porta munita di torricelle eguali a quell'una che Santa Barbara sorregge nella palma della mano. Il suo aspetto ingannava il mio esilio, come il suo ricordo oggi mi ravvicina alla seconda patria distante.
Era una domenica di settembre torbidiccia e dolca. Assistevo alla messa funebre, nella cappella angusta fatta di quattro crociere superstiti d'una sala ogivale che aveva lungamente servito di ambulatorio alla comunità cisterciense. I soldati avevano rempiuto di rosso tutti i banchi di quercia; ma, come la cappella non ne poteva contenere se non un piccolo numero, gli altri si accalcavano al limitare, occupavano tutto il sagrato all'ombra delle rovine.
Dall'altare luccicante di reliquiarii, l'abbate a gran voce noverò i morti. Poi celebrò il sacrifizio del corpo e del sangue di Nostro Signore.
E un canto sorse, nel crepuscolo delle vetrate grevi di piombi, un gracile coro di donne e di fanciulli, un coro tremulo, che a poco a poco rafforzarono le voci rauche degli uomini, finché s'ampliò in invocazione robusta. « Kyrie eleison! » Tutti i soldati cantavano, nella cappella e nel sagrato, prima di tornare alla battaglia, come nell'antichissima canzone carolingia. « Kyrie eleison! »
Pur quelli che imbracavano i grandi cavalli da tiro, pur quelli che sellavano le loro bestie ferrate a nuovo, pur quelli che caricavano le lunghe carra di sei ruote, tutti intonarono il cantico santo, come i compagni del figliuolo d'Ansgarda.
«Signore, — diss'egli — se non mi scavalca la morte, tutto quel che tu vuoi, e io lo compirò.
«Quando si fu da Dio accommiatato, levò il suo gonfalone e cavalcò per Francia. Coloro che l'attendevano, levarono grido: — Monsignore, gran tempo è che ti attendiamo.
«Allora così egli parlò: — O compagni, siate racconsolati. Finché io non v'abbia fatti liberi, non mi poserò.»
Lo stesso epico soffio mi pareva spingere le nuvole a dilacerarsi contro gli archi rotti della chiesa estinta, mi pareva agitar l'erbe selvagge su pei contrafforti ridotti omai a non più reggere se non la deserta fierezza loro. Vedevo tremare gli spiriti del vento nella grande Rosa vacua come la bocca d'una maschera senza sònito. Scheggioni di mura erano come imminenti minacce. Massi informi precipitati nell'abside parevan pronti a essere scolpiti in forma di severi sepolcri.
E subitamente, nell'erma Rosa, come in uno spazio mistico, scolpita apparve la faccia della Morte: non l'orrida femmina ossuta ma il bellissimo genio maschio.
«Dio sia laudato! — disse il condottiero vedendo quel ch'ei cercava.»
I soldati non cessavano di cantare, prosternati nel rosso di robbia come nella lor propria strage. A quel modo che la sinfonia dell'organo accompagna il salmo, tonavano obici e mortai contro la ripida cava donde forse erano escite tutte quelle pietre per ricongiungersi conce a gloria del Signore. Credevamo a quando a quando udire anche l'ansima della belva incalzata, il croscio dei frantumi in fondo ai burroni e ai botri.
«Dio sia laudato! — E si fece innanzi, e intonò un cantico santo. E tutti con lui cantavano: Kyrie eleison!
«Quando finito fu di cantare il cantico, e cominciò la mischia: il sangue schizzò alla faccia, il sudore grondò dalla fronte dei combattenti....»
Dopo, dal ciglione della via ingombra di carra cariche di feriti esposte al fuoco delle batterie avverse, abbracciai con un atto d'amore la città di Clodoveo non visibile se non per le punte delle sue guglie.
Erano le guglie di San Giovanni della Vigna. Superavano il colle che nascondeva le mura. Parevano i culmini sensibili della città nascosta, sensibili come le mani che si tendono, come le mani che implorano senza congiungersi o prima di congiungersi. Toccavano il cielo ma là dove il cielo è cittadino, dov'è umanato dal respiro delle case, delle strade e delle piazze. La forza accolta della città viveva in quell'aria palpitante dove la pietra scolpita e commessa sembrava assumere qualcosa di spiritale e quasi di alato. Pur sotto il tuono dei mortai, pensavo al canto dell'allodola gallica. Pensavo a tutte le vostre cattedrali, a tutte le pietre delle vostre cattedrali, che il canto etereo dell'allodola sembra aver condotte dalle fondamenta alle sommità, più alto, sempre più alto.
Ora, da quel ciglione, sentivo e misuravo il ritmo generatore della città profonda, con un sentimento quasi filiate, con un istinto di razza, con una divinazione non dissimile a quella che mi rappresentò gli spiriti di Siena quando per la prima volta valicai la disperazione sublime delle sue crete affocate dal tramonto.
Altri carri di feriti giungevano, sostavano. Il cammino che conduceva all'ospedale, e l'ospedale stesso, era battuto dal nemico, senza tregua. La carne sanguinosa era stipata, dolore contro dolore, calore contro calore. Non s'udiva un lagno né una imprecazione. Tutti mi sembravano belli. Il viso della Francia era in ciascun viso. In rilievi d'osso e di muscoli vi si scolpiva il più maschio destino. Le recenti ferite non parevano le cicatrici vecchie della nazione riaperte e riaccese? Un sorriso effuso in un volto bendato non somigliava a quel primaverile sorriso che il popolo vide schiudersi nelle statue delle sue cattedrali costrutte col canto? Un motto eroico faceva ondeggiare in una sùbita ilarità tutte quelle fasce insanguinate, con non so qual freschezza pur sopra l'orrore, come un bianco e rosso roseto.
Qualcuno disse: «Dalla cava bombardano la città». Allora la città fu come tutta quella carne. Mi pareva udire, di dietro al colle, battere il suo cuore impavido.
Nell'aria solcata dal ferro e dal fuoco la pietra delle due guglie protese aveva quel delicato color cinerino che talvolta sembra cangiante come la gola della tortora. Credevo di vederle vacillare a ogni rimbombo. Il nemico occupava coi suoi cannoni le cave stesse donde era escita la pietra delle case e delle chiese e dei baluardi.
Per me che vedevo le due braccia della fede intatte, come per i feriti che non vedevano se non la triste via preclusa, la città colpita non era soltanto la sede venerabile della prima dinastia, la diletta del Merovingio battezzato da San Remigio, ma era l'imagine ideale della città edificata dalla gente franca, della città inginocchiata all'ombra della cattedrale costrutta dall'artiere e dal popolo come un modello dell'Anima e del Corpo, come un emblema del Cielo e della Terra, come un simbolo del Paradiso e dell'Inferno.
Tendevo l'orecchio per cogliere il suono delle campane entro le pause dell'atroce rombo. Tendevo l'orecchio per cogliere il suono della gloria, il clangore di tutte le glorie. Tendevo l'orecchio per intendere la voce dei secoli, per ascoltare nei secoli la voce dell'amore, della costanza e della speranza.
L'Angelo che veglia allo spigolo del pilastro, vestito d'una tunica numerosa che non sembra pieghe intorno a una forma, sì raggi intorno a una mente; l'Angelo che porta l ora solare sul suo petto; l'Angelo delle Cattedrali materne era salito a sommo del cielo, si librava fra i due pinnacoli. E l'attimo inevitabile era segnato da lui.
Un abbaglio improvviso turbò i miei occhi. Tutto lo spazio vacillò. Il respiro della città profonda s'arrestò. Un silenzio umano e sovrumano si fece intorno, si fece in tutte le cose, come quando la moltitudine accolta nella piazza si tace per udire il capo dell'innocente rotolar dal palco nel paniere del carnefice.
Una delle due guglie appariva mozza. La città non levava al cielo se non un braccio e un moncherino.
Dal ciglione gridai verso i carri. Allora tutte le ferite sanguinarono per quella pietra che non sanguinò.
Dopo, da un'altra altura, toccai un amore, un dolore e uno splendore anche più maravigliosi. Vidi un'altra Cattedrale, la più solenne, quella delle grandi Sagre, compiersi nella fiamma. Vidi la fiamma, suprema artefice, condurre tutte le linee della pietra immobile alla perfezione della preghiera alata. Le due braccia levate al cielo e non congiunte, vidi la fiamma congiungerle.
Come il silenzio di Soissons, il cantico di Reims era senza parole. I mille e mille e mille uomini, che avevano cavato tagliato e commesso le pietre cantando, intonavano di nuovo il loro cantico interrotto, che saliva fuori del tempo misurato e fuori del linguaggio scandito. Non era se non una forza saliente, come la fiamma. Era anzi la medesima forza saliente. La Cattedrale toccava alfine il cuore del cielo.
Nata da un aspirazione verso l'altezza, nata da una imitazione angelica, da un bisogno di volo e di coro, la Cattedrale esprimeva un'ansia che non si placa mai. Ella non poteva esser condotta dagli uomini al suo compimento né poteva compiere sé stessa. Nessuna generazione la vedeva compiuta. Il peso della pietra, il peso dello scalpello, il peso della mano serbavano una terrestrità invitta. L'ansia degli edificatori non riusciva se non a volgere verso l'alto il fogliame dei capitelli e le penne degli Angeli impietrite. L'edifizio era un desiderio arrestato nel punto di superarsi. Era una mole radicata che invidiava la nuvola sorvolante.
Ed ecco, d'improvviso, la fiamma eroica ne riprendeva e ne svolgeva il ritmo primiero. La pietra si moveva, la pietra si liberava, la pietra saliva nel firmamento. Tutto il suo sforzo di ascensione era secondato dalla fiamma. Dall'abside, dalle arcate dei contrafforti, dalle curvature dei portali, da tutti i luoghi di gloria, le ali si spiegavano, gli Angeli s'involavano nel fuoco. E dal fuoco altri Angeli si creavano, e seguivano il medesimo volo. Il mistero dell'Ascensione, chiuso nella Cattedrale, era rivelato non in verbo ma in atto. La Cattedrale era scoperchiata come il monumento presso cui Maria se ne stava in pianto allorché i messaggeri vestiti di bianco le dissero: «Donna, perché piagni?»
La Cattedrale era fiammeggiante di resurrezione; e l'anima della Francia era quivi alzata in piè, come il riapparito.
Dopo mi accadde di approssimarmi al tempio sublimato. La sua nuova bellezza mi sopraffece come un apparizione improvvisa. L'incendio era spento, ma le fiamme vigevano come gli spiriti della musica si manifestano nella pausa che segue il suono.
Ella era giovane e integra, perché tutte quelle ferite la confermavano invulnerabile.
Era tutta pura, come quando fu posta nel suolo la prima pietra ed ella viveva sola nell'aria e nella mente del popolo creatore.
I tempi l'avevano caricata di molte cose vane ed estranee; ed ecco, di ogni cosa vana ed estranea ella era monda.
I grandi pilastri parevano esser ritornati alla natura sacra, esser ridivenuti rupi da percuotere per isprigionarne fonti nascoste.
Le vetrate non serbavano se non i neri piombi, come le foglie consunte dall'autunno non serbano se non le nervature; ma i piombi disegnavano imagini di cielo là dov'erano imagini di vetro.
I sette e sette contrafforti mi parevano come ingigantiti dallo sforzo di serrare una vita strapotente e di sollevarla.
La torre incotta dall'arsione aveva il colore che ha la carne dei martiri quando nel martirio trasumana. Pativa e cantava, come i confessori.
E v'era un canto udito e un canto inaudito.
Dinanzi al Battesimo di Clodoveo era deserta la cantoria del Gloria dove i chierici solevano intonar l'inno nella domenica dell'Ulivo. Ma l'occupava non so che aspettazione, quasi visibile come quel drappo che vien disteso nella loggia dove sia per apparire il benedicente o l'annunziatore.
Dirò forse più tardi tutto quel che vidi e compresi e interpretai nel tempio non minato ma restituito a grazia per la Sagra futura.
Oggi dico un movimento della mia ispirazione.
Guardavo le nuvole cineree lacerarsi ai pinnacoli dei contrafforti e correre verso il levante, come battaglioni mandati alla riscossa. Nella torre arsa il capo d'una statua incotto si disfece come al vento la lana d'un cardo; si dissipò, si dileguò; e fui cosparso da un lieve polverio, quasi da poca cenere squallida. Mi voltai verso l'immane Crocifisso tutto arrossato dall'incendio, come tratto dalla guaina delle sue membra per una perfezione di supplizio, tutto muscoli e vene palesi. Lo vidi senza cranio e non irto di spine ma d'un lungo chiodo rugginoso, più crudele degli altri tre confitti.
La piazza era deserta. L'aria fumigava sopra le mura fosche delle case bruciate. Il mortaio brutale tonava e ululava. Udii un lungo schianto. E il custode si fece al limitare della Porta maggiore e mi chiamò. Una granata aveva colpito il grande organo, aveva ucciso il gran corpo sonoro. La selva delle canne appariva tuttavia intatta. Non così poteva il canto degli edificatori essere spento. Raccolsi una scheggia di quel legno impregnato d'armonia, e rimasi in ascolto.
Da una parte e dall'altra della Porta, robuste travature embriciate da sacchi di sabbia proteggevano l'ordine delle statue belle. Chino scorgevo la luce passare per gli interstizii come per le fenditure d'una caverna selvaggia. E subitamente mi tornò nello spirito una mia imaginazione d'altro tempo, la quale m'aveva fatto riconoscere la figura dell'Ulisse dantesco in una di quelle statue barbata e coperta d'una sorta di berretta da navigatore. Ricordavo il vigilante coraggio del suo viso, e la sua bocca sinuosa ma ferma, che i ricci della barba lasciavano libera: bocca degna di proferire l'«orazion picciola».
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti....
Travolto da un'onda di tristezza, mi risentii fuoruscito e discorde. La solitudine si fece ferrea veramente, mi compresse le costole come un congegno di tortura. Chiusi gli occhi; e la mia patria, dimentica ma indimenticabile, mi si formò dal cuore con un rilievo più potente che il rilievo di qualunque simulacro. E il cuore era pieno di pietà, di rimorso, di rimpianto, di rampogna, di furia, di onta, di supplicazione, di dedizione, di presagio.
Considerate la vostra semenza.
Era ben quello il verso eterno da incidere nella fronte dell'orgoglio latino. Dall'altra parte erano i bruti, con le loro ignominie. Ed ecco che l'ingiuria loro non aveva potuto distruggere la bellezza costrutta dalla volontà creatrice. Tanta bellezza s'era fatta più altera e più alta, come ogni creatura regale si solleva sopra l'oltraggio.
V'è una superstizione della bellezza, lo la posseggo. Perché la Cattedrale mi sembrasse più patetica e più pura, bisognava che veramente delle tante sue pietre profanate falsate racconciate rinnovate ella si fosse alleggerita nella ruina e che per una sorte misteriosa ella avesse conservato i suoi segni più nobili.
«È salvo l'Ulisse di Dante?» chiedeva al mio cuore la mia angoscia. Ma già conoscevo la risposta dell'intimo dio. Quel che è più bello non perisce.
Nella sera dell'incendio le fiamme congiungendosi imitavano i due archi dell'ogiva. Ora l'imaginazione mi rappresentava il fuoco diviso in due corni, il rogo bipartito ove si consuma il martirio dei due compagni.
O voi che siete duo dentro ad un fuoco!
Nel mio spirito ogni sillaba s'innovava di significazioni attuali. Il Libro della mia gente non è forse grave di oracoli per ogni interprete?
La mia superstizione dalla incolumità o dal guasto della statua eletta voleva trarre l'auspicio di ciò ch'era nella mia fede, nei miei voti e nella mia impazienza.
Allora sguisciai fra travatura e modanatura, mi curvai nell'ombra dei sacchi, palpando la pietra con le mani cariche d'anima, come chi nel buio speri di riconoscere il suo caro tra morienti e morti. Per gli interstizii penetrava qua e là il chiarore svelando l'orlo d'una tunica, un gomito piegato, due piedi giunti. V'era quasi l'umidità della trincea scavata di recente, la segretezza del cammino coperto, l'ingombro tumultuario dell'opera difensiva alzata per chiudere la breccia. Battevo il capo ora contro una trave ora contro una sagoma. M'arrestavo e repugnavo a ogni tratto, come chi tema di calpestare un cadavere o di rivoltolare un teschio. Finalmente, aggrappandomi, credetti sentire sotto le mie dita le pieghe del saio marino. Mi sforzai allora di allargare lo spiraglio tra sacco e sacco, palpitando come il sepolto vivo che ha sete della luce. Mi volsi nell'angustia, aguzzai la vista in su; e, col tremito di chi disseppellisca un capolavoro profondo, scopersi la chiusa bocca dagli angoli rilevati, che non sorrideva come le labbra sorridono ma come sorride la mente.
L'effigie dell'Ulisse dantesco, dell'esemplare eroe tirreno, era intatta; e pareva spiare in silenzio per la falla da me aperta fra i due sacchi di rena, tranquillo e pronto come nel ventre del cavallo di Troia. Soltanto aveva sul ginocchio una scalfittura, bianchiccia nella pàtina bruna.
«Ale al folle volo!» gridò senza suono il mio cuore. Il presagio era fausto. I due corni della fiamma antica dovevano convergere. Un presto Ulisside doveva disfare la Circe grinzosa e il suo branco.
Ma ho grazia presso di voi, o Chiaroviso, per una sollecitudine più dolce. Marcello, nei primi giorni della guerra, s'era già accommiatato dalle cose più care. Aveva già condotto alla requisizione la sua bella cavalla da caccia, la sua fedele compagna di corse e di fantasie, nata per portare i sogni d'un poeta a traverso le bionde campagne e i ruscelli flessibili del Vallese. Aveva già sacrificato le sue cagne, tranne la vecchia cieca Delrosa rifugiata nei granai di Donatella; le aveva prese egli stesso a guinzaglio per darle alla morte tuttavia gioiose e balzanti; aveva egli stesso coricato i nobili corpi, l'uno accanto all'altro, nella fossa cavata in mezzo alla foresta; e se n'era tornato per il sentiero, a capo chino, coi collari vuoti e coi guinzagli flosci.
L'ora di più crudeli sacrifizii era sonata. L'invasione barbarica pareva irresistibile; la selva regia di Compiègne mezzo distrutta, la delicata e pensosa Senlis messa a sacco, le vie di Chantilly gementi e stridenti sotto i convogli e i carriaggi, la bellezza viva di Silvia piagata e straziata!
Sapevo come sanguinasse il cuore del mio amico, laggiù, nelle trincee di Lorena. Ahimè, il fetore dell'orda immonda aveva ammorbato l'aria argentea dell'Isola di Francia e fugato dagli ozii ombrosi le api e le cervie.
Sapevo per quali radici, sensibili come i suoi nervi, egli fosse profondato nel paese a cui avevano sorriso Maddalena di Savoia e Maria Felicia Orsina, nella terra disegnata secondo lo stile del gran Condé vincitore di battaglie e protettore delle Muse, nel bel dominio venatorio dove il veltro bianco di Enrico IV s'era accoppiato con le cagne del Conestabile Anna per produrre i più eroici cuccioli.
Avrebbe egli potuto ripetere sorridendo:
«Uni Condæo dum placeam, satis est.»
Diceva egli: «Certo il fucile non mi pesa, né m'importa di stare giorni e notti fitto nella mota sino alle ginocchia. Ma non so vincere l'angoscia, se penso alla mia casa, ai miei libri, al mio padiglione solitario nel mio giardino. Fu calpestato, insultato, insozzato anche il nostro suolo? Quanto della foresta fu arso? quanto del castello fu guasto o rubato? Il cuore mi si torce se penso al mio bel Vallese profanato. Sì, la piccola patria ci torce il cuore, se la grande ci solleva l'anima....»
Rividi le sue lacrime dure nei suoi occhi coraggiosi. Partii su la mia macchina veloce divorando le vie ancor torbide di battaglia, a traverso le campagne sconvolte dalle trincee improvvise, cosparse di bottiglie vuote e di proietti non scoppiati, gonfie qua e là di tumuli freschi, irte di croci rozze, fatte ancor più lugubri dalle carogne dei cavalli che tutte giacenti drizzavano all'aria una delle zampe di dietro sollevata dal ventre disteso e ripetevano quel gesto orribile per tutto il piano sino all'orizzonte.
«La casa di Chiaroviso! La casa di Silvia la Romana! La foresta, il parco, il giardino, lo stagno, la fonte!» Il sole aveva rotto le nuvole, come i bei reggimenti azzurri e rossi avevano rotto le orde bige. Subitamente s'intiepidirono i boschi e aulirono. Sentii la gola calda della signoria di Chantilly, anzi quasi mi sembrò di palparla. I miei occhi cercarono il tronco abbattuto, il muro crollato. Tutto pareva incolume, tranquillo, sicuro. Il castello era tuttavia qual piacque al duca d'Aumale: «un cigno dormente su l'acqua». La città era più mite e più taciturna che mai. Il suo silenzio mi toccò il cuore come un'armonia sommessa. Certo, nessuna branca di lurco aveva rubato la divina tavoletta ove Rafaele giovine dipinse le Tre Grazie.
«La casa di Chiaroviso!» Era salva, intatta, affacciata con pace sul lastrico; e si sentiva, dalla sua freschezza, che il suo giardino le faceva da ventaglio.
Prima mi parlò la giovine donna della bottega accanto, con la gentilezza che dovevano avere le governatrici dei canarini di Madama la principessa di Condé. Poi venne ad aprirmi la vecchia cuoca custode, una figura aperta e accorta del migliore stampo di provincia; la quale doveva aver ben cucinato in altri tempi alcuna delle trote e delle carpe che il Conestabile Anna si piaceva di pescare dalle sue finestre.
Rividi il vestibolo chiaro; accarezzai i levrieri superstiti, che non avevano perduto se non il tono dei muscoli; visitai i libri bene ordinati nel padiglione studioso; entrai nella stanza familiare dove in quella sera di luglio, dopo la corsa dei puledri di due anni, Marcello mi aveva mostrato il suo cappotto blu ed il suo cheppì di fantaccino. In ogni angolo della casa materna i piccoli iddii domestici respiravano a bell'agio.
Allora mandai il messaggio consolante, e portai via una foglia di edera, di nostra edera vivace seguace tenace. « Nec recisa recedit. »
Autunno piovigginoso e freddo: fumante vendemmia nel tino smisurato; ore d'aspettazione e di sospensione senza fine.
Il recinto solitario di Dama Rosa fu requisito, riempito di bestiame da macello, convertito in una tetra cloaca nerastra su cui si prolungavano i mugghi degli animali malati d'afta. Nella prateria d'allenamento, non più un fiore non più un filo d'erba ma una mescolanza nauseosa di bovina e di belletta, dove i manzi e le vacche stavano affondati sino al ventre, famelici, sitibondi, scheletriti, così che a sera ci pareva di vedere su dal mucchio fumigare la febbre.
I granai bassi erano pieni di bestie moribonde coricate sopra la paglia, nel buio e nel fetore. A quando a quando uno sbattimento di luce, per l'apertura d'una porta lamentevole, rischiarava due froge color di carne morticcia, due occhi torbi dalle lunghe ciglia biancastre, un fianco pezzato e cavo, l'osso arcuato duna schiena falba, le mani villose d'un bovaro nell'atto di strascicar per la coda una bestia spirante.
I «lunghi musi» non avevano più i loro giuochi mattutini, le loro fantasie e follie su pel terreno soffice, tra le mura dorate dal sole o inazzurrate dall'ombra. Erano sempre condotti a guinzaglio pei sentieri della foresta gialli di foglie, o per le campagne abbandonate ove i branchi neri delle cornacchie crocidavano sopra i mucchi di letame color nocciuola come la corteccia del pane caldo.
Andavano al passo, di mala voglia, tristi sotto i loro mantelli da pioggia, con le museruole bene strette, spesso ringhiando l'un contro l'altro, quando si davano noia, anca contro anca, essendo in troppi a mano di pochi garzoni inesperti; ché i buoni canattieri erano anch'essi andati alla guerra e s'erano assuefatti a ben altri latrati. Nel parco delle lepri non era rimasto se non una povera zoppa che scavava tuttavia la terra a piè del muro e saltava ostinatamente verso i pezzi di vetro fitti nella cresta, sperando di scampare di sopra o di sotto.
Pomeriggi d'ottobre desolati sul vasto brago, quando ai muggiti dell'armento infetto rispondeva l'uggiolio lugubre dei cani oppressi dal tedio! Rimanevamo a lungo nell'infermeria su le seggiole rozze di legno, dopo aver ricucito un po' di pelle lacerata in una rissa di banco o aver curata una zoppìa tenace o avere spennellato una gola gonfia. Rimanevamo là per riprender cuore prima di uscire a rivedere l'orribile morìa, prima di riattraversare il pattume con i grossi zoccoli. Ascoltavamo la monotonia della pioggia guardando la luce diminuire su i vetri della finestra alta. Le quattro pareti imbiancate parevano contenere un silenzio quasi solido. Gli ultimi sacchi di biscotto erano ammucchiati in un canto, quasi tutti frantumi e forse magagnati, ché non costole né spigoli forzavano la tela bruna. Un odore di stantio si mescolava all'odore della tintura di iodio. Fiocchi di cotone nuotavano in una catinella tinta di sangue. Fasce di garza sfilaccicate e macchiate rimanevano tuttora su l'impiantito. Un moscone ronzava dentro lo stipo socchiuso dei farmachi. Ogni cosa distillava la malinconia nel nostro cuore pesante.
In una pausa della pioggia udivamo talvolta all'improvviso una rondine tardiva rasente la finestra gittare un grido che ci passava l'anima. Non potevamo più resistere alla nostra tristezza. Ci alzavamo, uscivamo. I cani indovinavano e balzavano dai banchi disperatamente latrando. I latrati e i mugghi facevano un coro tetro nel gran chiostro di melma. Fuggivamo verso la strada di Versaglia, per avere una tregua.
Là, una sera, incontrammo un carro che portava i resti d'un velivolo caduto: le ali rotte e lacere, l'elica schiantata, il motore contorto e lordo di fango. Una seconda macchina in corsa passò, sotto il riflesso giallo del crepuscolo, portando due corpi inerti e insanguinati. Uno dei due era quasi informe.
Un'altra volta, verso il tramonto, nel campo incolto ch'è tra il limite del bosco e il muro di cinta, vidi una greggia all'addiaccio, chiusa intorno da una rete rada, come in uno stazzo della mia terra d'Abruzzi. Le pecore s'ammusavano in un mucchio lanoso, già sentendo la notte. Ma sopra il mucchio turbinava uno stormo sperduto di rondini. Era un turbine nero d'angoscia, con qualche guizzo bianco. Erano le rondini sbigottite dal fragore della cannonata, respinte dal rombo della battaglia, timorose di valicare la linea del fuoco. Ne avevo già vedute tante tremare su i fili del telegrafo o tramortire su i margini delle vie solcate e risolcate dalle ambulanze. Ma quelle, più delle altre, mi attristarono.
Volavano basso, rasente i dossi lanuti, per sentire il calore della greggia compatta, per beccare nella lana grassa gli insetti. Avevano freddo, avevano fame, avevano paura, e una grazia malinconica che pareva toccare il cuore deserto dell'autunno. Non osavano sollevarsi né orientarsi né intraprendere la dipartita. Temevano la sera, temevano la notte. Erano condannate a perire nell'Isola di Francia, a marcire come le frondi, a non più rivedere le contrade serene. E s'aggiravano, s'aggiravano senza posa nel calore esalato dal branco raccolto. Le pecore non si movevano, non alzavano i musi. Restavano in silenzio aspettando la notte paziente, dentro la rete sicura. Alcuna rondine, a quando a quando, s'impigliava nei bioccoli, si dibatteva per qualche attimo, nera e forcuta sul biancicore; poi si liberava e riprendeva a roteare.
M'appressai con cautela. Una s'era intricata nella rete e non riusciva a districarsi. S'udiva il suo strido superare lo stridio fioco dello stormo disperato.
Allora accorsi, per aiutarla. Senza farle male, tolsi dal laccio improvviso i suoi artiglietti selvaggi. L'ebbi palpitante nella mano. Era tutta cuore e piuma. Vedendomi vicino, il suo stuolo s'era alzato nell'aria. Io feci un vóto nella mia tristezza segreta, e diedi la libertà alla messaggera. Ella, come se le avessi infuso un coraggio subitaneo, partì verso austro, simile a una freccia che io avessi scoccata dal mio arco invisibile. E fu condottiera; ché tutta la compagnia la seguì alla ventura, senza più strida.
Andò a impigliarsi nei veli della notte, con la prima stella? O riuscì a valicare l'impedimento fragoroso e a ritrovare la traccia della speranza?
O Chiaroviso, in quel mattino dello scorcio di maggio, quando ebbi l'annunzio inatteso della vostra visita all'infermo, nella prima meraviglia, udendo gridare una rondine presso il davanzale veneziano già fiorito di gelsomini, m'imaginai che fosse proprio quella dell'addiaccio da me tenuta nella mia mano, tanta fu la forza della vita che a me ritornava di laggiù, dal piano che sta tra la via di Versaglia e la foresta di Meudon, dalla contrada di Dama Rosa.
Subito il mio mattino d'infermo fu agitato dai fantasmi della vita energica nell'aria libera, al nuvolo e al sereno. Col gesto abituale, sollevai la benda di su l'occhio leso per osservare il tristo ragno nero che v'ha tessuta la sua tela iniqua. Occupava esso pur sempre il centro, col suo addome rotondo, e non erano le cordicine né diradate né impallidite. Ma il mio corpo, vinto dai miei torturatori amorevoli in tredici settimane di cure, parve a un tratto percorso dalla primitiva inquietudine muscolare. Sentii sul viso mezzo cieco risoffiare la brezza frizzante dei mattini d'allenamento, quando la potenza animale si comunicava anche ai miei garetti e alla mia schiena. Sentii quegli atti e quegli sforzi rieccitare i miei nervi affievoliti, come se una virtù magica operasse in me una guarigione repentina e mi trasportasse sopra l'erba rasa tra i miei cani gioiosi.
Le voci gettate da un'estremità della prateria verso l'estremità opposta dove il garzone sguinzaglia la coppia, che alle voci parte bruciando il suolo come una doppia fiamma, per alfine gettarsi ai miei piedi e rotolarsi nel verde o solcarlo con la carena acuta del petto. Gli inseguimenti e le scalmane per sedare le risse che separate ricominciano più da discosto; gli sdruci nel fianco, nel collo, nell'orecchia; il frignare del ferito sollevato a due braccia e portato all'infermeria come un bimbo che ha la bua. Il giudizio ansioso dell'ultimo galoppo, alla vigilia della corsa; l'esame minuto dei muscoli, dei tendini, dei piedi, del respiro; le lunghe fregagioni sapienti, stando il levriere fra le mie due gambe, giù pei fasci induriti del dosso fino alle masse formidabili delle cosce, con mani pieghevoli e vigorose, nate a quel mestiere che mal s'impara; e la forza magnetica comunicata a grado a grado, come quella che il gran sonatore comunica alla sensibilità del suo strumento; e l'orgoglio di riconoscere nel campione prediletto la struttura sublime di uno Stradivario, e la gioia di sentirsi quasi il liutaio di quella perfezione viva. I pasti sostanziali di rossa carne trita, data in porzioni esatte, con la mia propria mano abile a non lasciarsi prendere un paio di falangi dalla voracità che ingoia prima con gli occhi e poi con la gola. La visita notturna di banco in banco, il tocco lieve per accertarmi che il tartufo scuro o chiaro del naso sia ghiaccio, segno della tranquilla salute; il rimescolio della paglia compressa; le coperte riassettate, riallacciate; l'esplorazione attenta delle correnti d'aria e delle lanterne sospese; la carezza tenera per l'eletto, con in cuore l'augurio della vittoria.
Scrivi che quivi è perfecta letitia. La sveglia impaziente nel giorno della gara; l'irrequietezza nervosa su i banchi di quelli che già sanno di dover correre perché hanno veduto sospesi alle inferriate i bei mantelli da cerimonia distinti dai tre anelli d'oro e dalle tre frecce d'argento; il governo minuzioso, le fregagioni toniche della miscela bianca, l'esame dei piedi tra dito e dito e il lavamento tiepido; il pasto eccitante e leggero, la breve passeggiata nella corte per la comodità del ventre, una occhiata non vana in memoria degli antichi aruspici. La vestizione dei prescelti, resa difficile dalla loro frenesia, tra il clamore e i lanci disperati dei prigionieri; la cautela nel distribuirli agli allenatori che li pongono dentro le automobili chiuse e li guardano; la gelosia di tutti contro i favoriti che prendo con me nella vettura più comoda. La pena e la tenerezza per il loro continuo tremito, per la loro angoscia, per i loro sguardi ora di belve implacabili ora di cortigiane innamorate. La loro smania di starmi addosso, di insinuarsi dietro la mia schiena, di salire su le mie ginocchia, di alitarmi in faccia a traverso la museruola. La comunicanza profonda, per contatto e per imaginazione, tra la loro generosità e la mia, tra la mia e la loro fiducia, tra la mia e la loro attesa.
Scrivi che quivi è perfecta letitia. L'arrivo sul prato della corsa, la prudenza nel moderare il balzo della discesa, la sbirciata ai rivali, il passo ondoleggiante delle coppie disdegnose sotto l'eleganza principesca dei mantelli d'ottima foggia. La terribilità che a un tratto s'accende nelle pupille dardeggiate, quando appariscono le alte stuoie di paglia ond'è cinto il parco delle lepri d'Ungheria. L'entrata nel ricovero di legno a due scompartimenti, l'un de' quali pieno di uova, di balsami, di droghe, di bevande, di lini, di lane. Il primo suono della campanella, che inaugura la prima gara; il battito concorde dei cuori negli animali a due piedi e in quelli a quattro piedi, divenuti quasi consanguinei; il nome del mio cane gridato dal punto della partenza, ove brilla il panciotto rosso dello sguinzagliatore. Il passaggio solenne del campione lungo la fila dei conoscitori addossati al parapetto del campo; il mio sforzo per serbare un viso tranquillissimo in cima a un ardore e a un'ansietà di gioco che mi travagliano come una passione indomabile; la consegna del favorito all'uomo che gli leva delicatamente la coperta pel verso del pelo, lo sospinge per metterlo a paro del rivale già pronto, lo fascia col sovattolo resistente per meglio trattenerlo al primo escire incerto della lepre sul prato. Poi il precipitarsi della coppia occhiuta e zannuta, a lanci, mal frenata dall'uomo che correndo la regge ancóra; lo scatto del congegno che apre i collari e dà la via agli inseguitori; lo scocco della rapidità, dell'agilità, della ferocia, della bellezza, della morte, di tutto ciò che pone lo spirito della lotta all'apice del mondo. Lo spasimo del mio cuore, la contrattura di tutti i miei nervi, sotto il dominio del mio viso impassibile; il soffio della resistenza e del coraggio, comunicato a traverso lo spazio, dall'immobilità silenziosa; lo sguardo fisso che non abbandona mai né i cani né il giudice né la sorte. Infine la preda afferrata in aria, mentre fa l'ultimo sette; la coda tesa e rigida dell'uccisore, in quel prodigio elastico, usata come il timone del naviglio che vira di gran forza; il gemito leporino, simile al suono di un oboe fesso, nel silenzio dell'aria grigia; l'accorrere verso il vittorioso, col collare, col guinzaglio, col mantello; le prime cure della bocca e della gola piene di sangue e di pelame; le parole del gergo di canile mormorate nell'orecchio eretto e vibrante; il ritorno superbo nel ricovero; l'esame di tutte le membra, fatto in ginocchio; il cordiale dato a cucchiai; il conforto magnetico dato con le palme delle mani e con la dolcezza della voce, nell'attesa della seconda prova.
Scrivi che quivi è perfecta letitia.
Tutte queste cose, o Chiaroviso, o Nontivolio, tornarono a vivere nella mia vita, con gli sforzi, con gli scatti, con i ritmi, con i movimenti bruschi o lievi ch'esse richiedono. Il vigore dell'uomo sano si levò dal languore dell'infermo. Strappata la benda vile, stavo quasi per gridare: «Datemi gli stivali ingrassati! Datemi la frusta lunga! Datemi la pelliccia grigia!» Era un mattino di corse? Un mattino aspro di febbraio? Gli uomini, finita la guerra, riprendevano i giuochi severi? Avevamo noi incettato da padroni, in Ungheria, le grandi lepri rossastre di lunga lena? Il fornimento del nostro parco faceva parte del bottino? M'era giunta una coppia di levrieri illustri per le prossime gare? Chiaroviso e Nontivolio erano i loro nomi? S'italianizzavano anche le glorie del canile da corsa. Buon segno!
O amica, metta anche questo fra i miei sogni d'infermo che solevo trascrivere nel buio sopra le strette liste di carta sibilline, non senza qualche sorriso nel supplizio. Voi, e la vostra svelta compagna Nontivolio, mi recavate non soltanto i ricordi di Dama Rosa, ma l'alito di Roma ripalpitante nell'anniversario purpureo, ma l'odore antico e novo di Villa Medici, di Villa d'Este, di Villa Mondragone, ma sul fondo degli orti e dei ruderi laziali le vostre imagini di cacciatrici disegnate alla Fontana Beliò da Benvenuto.
Viaggio di alleate, pellegrinaggio di riconoscimento e di testimonianza, voto d'amore e promessa di fedeltà, fresca ricerca di armonie. Ecco Chiaroviso che, in veste bianca e succinta, poggia il braccio sul margine d'una fontana di Villa Torlonia; la quale per la grazia di quel gesto le appartiene. Ecco Nontivolio che, nella Villa Adriana, lungo la sublime nudità di un muro, lascia trascorrere la sua spedita eleganza emula di quella propria delle danzatrici negli stucchi delle Terme. Ecco Chiaroviso che, quivi, con una tunica liscia orlata di greche, allarga le braccia in un intercolunnio e tocca con la punta delle mani tese l'una e l'altra colonna striata, sapendo come la liscezza della sua veste convenga al valore delle scanalature. Ecco Nontivolio, che sa con la voluta dei suoi capelli contornare i suoi occhi glauchi a ricordo di Atena quando si poneva in capo l'elmetto chiamato aulopide dai Greci, eccola nella Villa del Belvedere, contro la balaustrata di travertino, intenta a contemplare l'Agro sino al Tirreno, e i Monti di Tivoli e la Sabina e il Soratte d'Orazio. Ecco Chiaroviso che, ponendo il suo piede arcuato sul nono gradino del Teatro di Tuscolo, mormora il più melodioso tra i versi della divina Berenice.
O suore di Francia, in ognuno di quei luoghi indimenticabili voi vi accordaste facilmente col loro genio e sapeste comporre un'armonia latina, come io non mi sentii straniero — nei giorni del ferro e del fuoco — a Soissons, a Reims, a Senlis, a Chantilly, tra le foreste e le correnti del Vallese. La grazia di Silvia, l'ombra di Maria Felicia Orsina, vi accompagnava tra le statue e le vasche delle ville romane. E certo con voi ella ripassò le Alpi e se ne tornò nella sua casa a specchio dello stagno, e forse ora séguita a gettar l'amo nelle acque chete del vivaio, stando fra le sue donne, col suo cervo bianco giacente ai suoi piedi, « Legato son perch'io stesso mi strinsi. »
Sopraggiunte nella intenebrata Venezia di guerra, nella Venezia delle altane munite, non più tenuta desta dalle canzoni voganti ma dal grido delle vedette in guato su i colmigni, voi sembraste subito vivere nella sua ombra indicibile come nell'elemento stesso della vostra eleganza; ne faceste il vostro mantello e la vostra bautta, con una invenzione estemporanea che stupì e forse indispettì le più studiose frequentatrici del Liston.
Strana cosa, per me monocolo tra due e due occhi invitti, ritrovare a un tratto nelle mie gambe fiacche, su per i ponti disagevoli e lungo le fondamente anguste, il ritmo flessibile delle nostre lunghe passeggiate d'allenamento.
Il passo bene accordato è uno tra i più squisiti piaceri dell'amicizia.
Sorridemmo tutt'e tre, del medesimo sorriso, quando riconoscemmo l'accordo. E per alcuni attimi il lastricato della calle fu come il musco nel sentiere della foresta.
Nontivolio quella sera portava una veste di tela rude color di laguna quando intorno alla barena il cilestro muore nel grigio; ma era tutta ricamata d'argento, come una veste di Cenerentola trapunta di nascosto da una fata lunatica che l'avesse tolta dal chiodo dov'era appesa e poi ve l'avesse riappiccata così mista di luna in fili torti. Chiaroviso invece portava una veste scura, listata di bianco intorno al collo, intorno alle maniche, dovunque toccasse la pelle, orlata di bianco in basso: una veste di lutto; ma il bianco v'era messo con quell'arte lieve che usavano i nostri vecchi vetrai nell'orlare un vetro fumato. Amico a Nontivolio era il tremolar delle stelle nei rii colmi di marea alta; amico a Chiaroviso era il riflesso dei rari fanali tra violetto e azzurro. I muri, di lontano, sembravano paramenti di velluto tesi fin giù nell'acqua come quei drappi che le gentildonne strascicavano dietro le gondole. Non erano lisci ma a opera, densi d'una ricchezza profonda e diversa che si scopriva a poco a poco. La coltre che un tempo ammantava il feretro del Doge defunto non poteva essere magnifica come quella banda di ombra nera. Mi veniva fatto di sollevarla con la mano come un cortinaggio, per lasciare le due ospiti passare di sotto senza chinare il capo. Ed ecco che, da presso, non era bruna ma rossa come il robone d'un procuratore di San Marco. La notte trasparente non spegneva il colore del mattone salso ma lo vellutava, ma lo rendeva quasi manevole. Avevamo voglia di toccarlo, di sentirne la morbidezza e il peso, come d'una stoffa che fosse sciorinata nel fondaco d'un setaiuolo.
Ma se tanto era mirabile il nero, il bianco era oltremirabile. La pietra degli architravi, degli stipiti, dei gradini, degli zoccoli pareva imbevuta di lume stellare. La fosforescenza mossa dal remo nel rio pareva vi si propagasse e vi durasse. Valori e rapporti non mai trovati da alcuno più potente o esquisito colorista si succedevano con una sensualità che ci rapiva fino alla più alta ebrezza musicale, come se in una barca invisibile ci seguissero i sonatori di Giorgione.
La stessa mia infermità moltiplicava per me gli incanti e gli inganni, confondendo la misura delle distanze, prolungando o accorciando gli spazii, congiungendo o sovrapponendo i fantasmi delle cose, per modo che io mi credeva gioco d'una Morgana notturna venuta dall'estremo limite delle lagune deserte a illudere la città spenta e il poeta semispento.
Mettevo le mani innanzi per non urtare il capo contro i pilastri d'una chiesa quasi bianca e quasi bruna, e la chiesa si discostava palpitando come una vela chioggiotta tinta di emblemi neri.
Un muro mi precludeva il passo nella fondamenta sonora, ed ecco si apriva davanti a me come una torma di pietre mobili, risvegliandomi il ricordo di quando m'accadeva di traversare trasognato una di quelle greggi che passano innanzi l'alba per le vie di Roma, appunto intorno al tempo del solstizio.
Così, di calle in calle, di campo in campo, di rio in rio, già improvvisavo quell'arte che mi servirà ad attenuare il colpo della sorte. Fasciato la tempia dolente, bendato l'occhio estinto, già imparavo quei movimenti accorti del capo che debbono sovvenire al difetto. E mi pareva cominciasse a spandersi nelle mie membra un senso delicato, non forse dissimile a quello che dirige i tentacoli.
Ma sul Canalazzo la Morgana ombrifera faceva i suoi giuochi più molli, dissolvendo la pietra, distemperandola nell'acqua, colorandone la marea. Tal palagio era convertito in una vasta chiazza d'olio natante, ricco in colore e in essenza come gli olii aromatici conservati negli otri d'Arabia. Tal altro ondeggiava immerso fino alla sommità, fino all'altana, come un edificio della città abissata che traspare nella leggenda oceanica. I sandali, le gondole, le peote, adunati in una zona d'ombra, esalavano un respiro di sonno animale, respiravano come il nero della piuma e del pelame vivente, come il nero dei cani demoniaci di Donatella, che è il più bello e il più intenso del mondo. Talvolta Nontivolio tendeva verso di loro la sua lunga mano, come per voglia di lisciarli. Soffermati, stavamo in ascolto, se uno di quei grandi uccelli non togliesse il capo di sotto l'ala starnazzando o se uno di quegli smisurati béveri a un tratto non si tuffasse.
Udivamo il fresco strepito della marea contro le rive levigate, misterioso ed esultante come lo strepito del disgelo primaverile nell'alpe, come la sinfonia remota e prossima che odono i navigatori polari quando il settentrione si disghiaccia. Era una gioia delle vene, un giubilo dei polsi, prima che dell'anima. Il crescente portava seco e travolgeva le stelle, mutando le costellazioni in infusorii, la Via lattea in fosforescenza. Alzavamo la fronte per riconoscere il vero cielo. Era il vespro? era l'alba? Veniva da occidente, veniva da oriente quel chiarore?
Innamorata del pallido crepuscolo, la notte lo aveva preso nelle sue braccia per non lasciarlo morire; e vivo da occidente lo traslatava a oriente, fra il tremore attonito degli astri. A quando a quando si soffermava ella per rimirarlo o per baciarlo; e nell'abbandono lasciava cadere alcuno dei suoi veli costellati nel flusso che li rapiva per non più renderli.
Avevamo dunque dimenticato il sangue? il bulicame che non resta mai? quell'altra marea che sempre monta e che per istelle travolge gli eroi?
Riudivo su la città anadiomene l'allarme della sirena sinistra, il colpo di cannone annunziante l'incursione celeste, il fragore delle altane lampeggianti come torri di navi in battaglia. E mi ritornava di lontano l'ambascia che mi prese sul ciglione della strada ingombra di ambulanze laggiù, nella signoria di Clodoveo, quando vidi mozzare la guglia di San Giovanni della Vigna.
«Dove andiamo?» Sorgeva in noi un pensiero concorde. L'alpe scheggiata di Trento, le colline sfigurate di Verdun si levavano sopra ogni bellezza, di là da ogni armonia. Il sentimento della lontananza ci affaticava come un affanno implacabile. Non avevamo dentro al petto se non la piaga fumante della patria. Lo sguardo fraterno mi rendeva la mia fascia e la mia benda più care di ogni lauro. «Dove andiamo?»
Non era più un passo di nottambuli oziosi il nostro, ma diveniva rapido e diretto a una meta. Passavamo quasi a tentoni le calli strette, i sottoportici bassi, i piccoli ponti erti. Non vedevamo più le stelle ma i rari fanali azzurri incappellati. L'ombra non era più di velluto ma di non so che incerto e incognito. La notte non portava più su le braccia il dolce crepuscolo ma il destino di ferro.
Ci arrestammo davanti a una grande porta nera che lasciava passare un poco di lume tra i battenti socchiusi. Salimmo i gradini, penetrammo nel vestibolo. Fiutammo l'odore della carta umida, dei caratteri di piombo, delle macchine rotanti: l'odore elettrico, l'odore febrile del giornale che scrivono compongono stampano gli insonni. Nel fondo, a traverso una inferriata, apparivano le facce smorte e sudaticce dei tipografi chini su le cassette, attenti al gesto ripetuto, sotto i crudi riverberi. Contro una parete era una sorta di armadio enorme rafforzato di chiodi a gran capocchia, come una postierla. Su e giù per una scala d'ampiezza patrizia salivano e scendevano uomini frettolosi come se dovessero consegnare i loro fogli a staffette che li attendessero. V'era là quasi un riflesso della guerra lontana.
«Il bollettino di Cadorna! Il bollettino di Joffre!» Quale doveva esser letto prima? Non era soltanto la guerra d'Italia, non era soltanto la guerra di Francia. Era la lotta suprema dei Latini contro i Germani. Era lo sforzo di Roma e di tutti i suoi secoli. Su ogni altra fronte la battaglia pareva sospesa, quasi che il mondo volesse assistere in silenzio alla meravigliosa vicenda. Italia! Francia! Eravamo pallidi nel contenere il nostro fremito. A Coni Zugna, al Passo di Buole gli Italiani avevano sterminato le colonne nemiche respingendo l'assalto. Le pendici boreali di Douaumont erano rialzate da cataste di cadaveri tedeschi, massicce come contrafforti, che i combattenti scalavano per venire a corpo a corpo su le creste dei carnai.
Escimmo nel buio. Vacillavo sopra il primo gradino, come cieco delle due pupille. Mi guidò leggermente la vostra mano di sorella. E sentii quanto di fierezza era nella vostra gentilezza.
Mi sembrò che per voi, Chiaroviso, il rimatore senese avesse cantato:
È gentilezza dovunque è vertude
siccome è cielo dovunque è la stella.
Passammo per un sottoportico basso e vicino all'acqua come il tiemo impeciato di un burchio. Salimmo e scendemmo pel dosso d'un ponte rischiarato da un grande zaffiro. Entrammo in una calle cupa che pareva quel corridoio lungo da poppa a prua nei vecchi bastimenti di alto bordo, sotto a tutte le batterie, chiamato di alto puntale perché ci si andava ritti in piè. Le porte chiuse dei fondachi le davano pareti di legno dogato; la mia vista ondeggiante le conferiva un moto di rullio, da banda a banda. V'era un odore forte di caffè, un odore di spezie, esalato dalla stiva su cui camminavamo. Si camminava e si navigava verso l'Oriente. Rimanevamo in silenzio, come chi è prossimo all'approdo e sogna il paese strano. Un altro grande zaffiro rischiarava il vano d'un arco profondo e si rifletteva in un pavimento levigato. Vedemmo l'Orsa alta brillare in cima a un'alta cuspide, come in cima all'albero maestro. Le sette stelle fatali palpitavano al vento come se fossero trapunte nel drappo ceruleo d'una bandiera. « Sub ipsa semper. »
La Basilica era là, tutta chiusa come il libro nella branca del Leone irato, cavernosa d'ombra, compatta, larga, come se avesse scorciato la sua altezza e prolungato il suo fondamento per meglio radicarsi nella città sua. Lampi di calore si succedevano senza pause dietro le sue cupole, come il battito incessante d'una palpebra di fuoco. Le colonne dei lunghi portici s'accendevano e si spegnevano allo sguardo fulmineo, parendo crollare e risorgere. E di laggiù, di tra le due colonne, veniva il respiro dell'approdo. Vedemmo due Vittorie nel luogo dei due Santi stiliti.
Allora, su la riva chiara come se l'alba vi avesse già posato il suo piede d'argento, fummo ripresi dalla voluttà della vita che era come la severità della morte. Allora sentii rifluirmi nel cuore l'onda nera che mareggia in quel Notturno da me significato su liste sibilline nelle notti della mia cecità e del mio insonnio. Il quale a voi manderò prima che si compia questa nostra estate di gloria, come a tutti i miei fedeli. E mi risalì dal cuore quella domanda che l'intona:
« O sorella, perché due volte m'hai deluso? »
E credo che parlai della morte come si parla dell'amore, al modo di quegli enigmi che ingannano per similitudine l'interprete. Che potevano omai essere a me i piaceri e i giuochi, al paragone di quegli attimi d'altezza in cui m'ero fatto puro spirito in cima all'idealità del mondo? Tutta la mia poesia si era risoluta in quell'unica melodia non udita se non da me, non udita neppure dal mio compagno eroico. Una linea necessaria, che stava per compiere la mia imagine vera chiudendosi, era stata interrotta da un comando non comprensibile. Se a quell'approdo mi fosse riapparito il mio compagno e mi avesse portato seco su l'ala « più alto e più oltre », senza ritorno, ecco che la mia imagine si sarebbe alfine conclusa.
Allora Nontivolio, che dava un orecchio alle mie parole e l'altro alla sinfonia del crescente, disse: «Eppure la vita è bella».
Disse Chiaroviso: «Eppure l'Italia è bella, ed è vostra».
Ma bisogna morire per confessarla. «Confesserò te nella cetera» canta uno degli antichi salmi. Uno dei novissimi canta: «Confesserò te nella tua ala».
LA LEDA SENZA CIGNO ❧ ❧ RACCONTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO ❧ ❧ ❧ SEGUITO DA UNA LICENZA ❧ TOMO TERZO
FRATELLI TREVES EDITORI • MILANO • MCMXVI
LICENZA.
a Chiaroviso.
Il giorno dopo, in quel giardino solatio della Giudecca, non respirammo tutta l'Italia bella sotto la specie del profumo?
Era come uno di quei doni che figurano la copia delle contrade. Era come uno di quei doni che accompagnano il commiato, troppo ricchi, fatti per colmare e per straziare. Una ricchezza selvaggia. I fiori a mucchi, le erbe a fasci.
I rosai commisti alle ortaglie. Il fogliame frastagliato del carciofo confuso con quello corinzio dell'acanto. Un arco violetto di pendule clematiti, più lieve d'uno sciame, lungo la muraglia ove ingrassano i cavoli glauchi, che sembrano rugiadosi di luna, tutti foglie intorno il cuore simile a una rosa azzurra serrata e indurita dal gelo. Alti oleandri, non arbusti ma alberi, come nelle spiagge del Tirreno. Strisce di giaggioli come in vetta al muro d'un podere di Fiesole; macchie di rosolacci come sul ciglio d'una via laziale. La vite e i suoi viticci freschi, asprigni al gusto; il ribes e i suoi grappoletti di vetro lucido; il fico e i suoi fioroni chiari come le nervature delle sue foglie arrovesciate dal vento; il susino e, tra le sue prugne ancóra acerbe, qualcuna già bionda di miele. I ciliegi carichi di vìsciole e d'amarasche, sopra un pratello in disparte; e le scale rozze poggiate contro i tronchi, per cogliere le ciocche rosse che fanno pensare agli orecchi dei bambini ornati di quei sugosi coralli. I melagrani come candelabri accesi di fiammelle che sono quasi fiore e quasi frutto, quasi lume e quasi cera. Le teste dei papaveri, alte come la giovinetta Proserpina, coronate dalla corona di nove punte, stillanti sopore. I garofanetti a mazzi, che i pii Veneziani chiamano oculicristi e voi chiamate garofani dei poeti, quasi fatti a ricamo sopra una veste di seta verdina. Le viole del pensiero a tappeti gialli, bianchi, violetti; le roselline a corimbi, a grappoli, a capanne, a cascate; le rose d'ogni mese a siepi, a masse, a campi. Il rosmarino, la salvia, la menta, lo spigo, il timo, il serpillo, tutte le erbe odorifere, come in un orto domestico. La lupinaggine, il trifoglio, l'erba medica, l'erba sulla, tutti i foraggi, come in un recinto da pascolo. I limoni e gli aranci nei vasi di terracotta e nelle casse quadrate di legno dipinto, intorno alla vasca d'acqua verde ove scivolano gli insetti gambuti e marcisce il fascio di vinchi gialli e la rana prova a quando a quando il suo flagioletto fioco.
Dove siamo? Ecco un gruppo d'allori nobili come quelli del Bosco Parrasio. Dove siamo? Ecco una fila di cipressetti compagni a quelli di Vincigliata. Dove siamo?
Ecco un pino emulo di quelli che albergano le cicale della Campania e le cornacchie dell'Agro.
Camminiamo per una ripa erbosa, piano, senza parlare, temendo che si sveglino i grandi uccelli di paradiso accovacciati, che non sono se non una fila di tuie auree, a cui il libecciuolo arruffa la piuma come increspa la laguna color di foglia d'aloè.
Rapiti, a un tratto, scorgiamo l'albore dell'Annunziazione. Mille e mille Angeli sono inclinati davanti a mille e mille Marie? e ciascuno alza il suo segno di purità? È la via lattea dei gigli, il cammino senza labe. Tutti gli steli sono precocemente fioriti, avanti la festa del Santo. Maggiori di Chiaroviso, giungono alla tempia di Nontivolio altocinta. Tanto argento vince l'oro del sole e crea un incanto lunare nel giorno.
Dove siamo? Laggiù la Primavera d'Italia e l'Estate d'Italia alzano ciascuna il braccio nudo e congiungono in sommo l'una mano con l'altra, come nei balli a tondo quando tutta la catena deve passare sotto il giogo delle due prime danzatrici.
Ma le ospiti volgono per un altro cammino, con non so che umiltà inebriata.
E nessun fiore fu colto.
Il domani, verso sera, visitammo quel giardino bacìo che sta tra la Madonna dell'Orto e la Sacca della Misericordia, piantato dal procuratore di San Marco Tomaso Contarini fratello di quel cardinale Gaspare che fu candido amico di Vittoria Colonna e accomandò a Paolo III Ignazio di Loyola.
Non è un giardino disordinato e copioso come quello della Giudecca, mescolanza ardente di odori e di sapori. È ricomposto con arte su i vestigi cinquecenteschi, segretamente architettato, simile alle sale e alle camere terrene d'un palagio di verdura ove abiti una Stagione educata come una gentildonna ma non schiva d'intorbidare con qualche negligenza la sua grazia mite.
A traverso le sue grate di ferro guarda la laguna di Murano e di San Michele, dove il Gran Becchino attinge l'acqua triste con una secchia di vetro forata.
Ha le sue vecchie mura, la sua vecchissima cinta, dove ogni mattone ha vissuto la sua propria vita, patito i suoi mali, veduto passare i fantasmi del tempo, ceduto o resistito alla corrosione dei secoli e della salsedine, acceso o spento il suo colore. Uno ha tanto sanguinato che è come un massello di grumi; un altro s'è tanto consunto che si nasconde dietro un ragnatelo; un altro, divenuto insensibile, s'è indurito come la rosea cornalina. Altri hanno altri aspetti, altre infermità, altre rimembranze. E il muro tocca l'anima come un racconto che passi per le pupille, scritto coi segni delle fenditure e delle cicatrici. Quando si vede qua e là riapparire tra il fogliame, s'ha pietà come della vecchiezza denudata. Ma gli uccelli si posano su la sua cresta o sul ramo per cantare il medesimo canto.
Quella sera lo scirocco ci fu favorevole. Inumidì il mattone e la pietra ravvivandole, come l'antiquario passa la spugna umida su una lastra appannata di pavonazzetto o di cipollino per iscoprirne le venature e gli screzii.
Nontivolio camminò col suo passo «alla levriera» sopra un pavimento a quadri bianchi e rossi orlato di bossolo non più massiccio di un festone; e sotto l'altissimo tacco il marmo veronese riluceva come porfido suntuoso.
Passammo di appartamento in appartamento, per gli anditi dei pergolati. Le pergole erano sostenute da vecchie colonne, da vecchi capitelli, da vecchie travi, ove la fronda pareva non anche racconsolarsi d'aver portato e d'aver lasciato cadere il fiore. V'era un ricordo di cosa allegra, come quando il ramo séguita a vacillare dopo che l'uccello s'è involato.
Entrammo in una sala di musica. Gli arazzi erano verdi, verdi i tappeti. I sonatori di Giorgione se n'erano già andati, con i loro strumenti e intavolature. Uno aveva dimenticato per terra un archetto, o qualcosa che ci parve nell'ombra un archetto, non forse fatto di crini ma di bei capelli tesi. Come la nostra malinconia origliò su la soglia, il silenzio le ripeté le ultime note d'una cascarda detta la Contarina.
Traversammo una fuga di camere attigue, costrutte di bossolo, di carpino, di mortella, d'alloro, di caprifoglio. Qualcuno fuggiva dinanzi a noi, senza mostrarsi, di camera in camera. Avevamo l'aria d'inseguirlo, se bene andassimo adagio. Inseguendolo, ci trovammo all'ingresso d'un corridoio basso, di fronda così fitta ch'era quasi buio come un cunicolo. Allora stesi la mano e dissi: «Non passiamo di qui». Credo che voi credeste che fosse una precauzione d'infermo malsicuro.
Il cielo sciroccale fumigava non senza qualche sprazzo di vampa, come quando il fuoco piglia e non piglia nella catasta di legna verdi. Volgemmo verso il pergolato mediano, simile a un portico di monastero; salimmo tre gradini umidi, ci trovammo dinanzi al cancello di ferro che dà su l'approdo dalla parte della laguna. Ci affacciammo al cancello. E la ruggine fulva tingeva i guanti delle vostre mani appoggiate, facendo parer più chiara la vostra biondezza. L'estremo ardore del tramonto s'era aperto un varco nella fumèa pigra e accendeva dinanzi a noi, su l'acqua immobile, la muraglia claustrale che cinge l'Isola dei Morti. Tutta la palude e le altre isole erano fumo e ceneraccio. Soltanto l'isola funebre e il suo cipresseto e le ali dei gabbiani spersi splendevano in quel silenzio che pareva lor sostanza e spirito.
Lo splendore ravvicinava il cimitero, abbreviava il transito. La terra sepolcrale invadeva il giardino di delizia. Il mio compagno sepolto m'era prossimo, come quando mi chinai verso le sue scarne mani violacee, prima che il coperchio di piombo fosse sigillato dalla fiamma che già ruggiva e dardeggiava presso la cassa lunga come la sua spoglia.
Allora il cuore mi dolse così forte che, per aver sollievo, dissi il suo nome, parlai della sua anima, parlai delle sue ali e della mia promessa.
Discendendo dalle nuvole perigliose, io solevo condurlo nell'orto contareno. Il giardino gli pareva più bello in un'aria grigia, o sotto un cielo lavato dalla pioggia d'autunno. Preferiva un luogo segreto ov'era non so che pace dell'Estremo Oriente, quasi una cadenza della narrazione di Marco Polo.
Là in una vasca bassa viveva un loto dalla larga foglia che gli sembrava la più dolce e ricca seta del mondo. Una grande e bellissima donna essendosi con noi accostata alla vasca, si vide che aveva l'altezza medesima dello stelo; cosicché la pelle della sua faccia e del suo collo pareva venire a gara, non senza compiacenza, con la foglia solinga. Ma questa, sebbene immobile, riceveva la luce più misteriosamente, come una creatura divina riceve una cosa divina.
Eravamo fermi in un attimo di felicità, senza desiderio. Forse il mio compagno cercava in sé le parole d'uno di quei sentimenti o concetti — gnomas breviculas — pe' quali Giacomo Boni un giorno gli aveva rivelato la grazia dei poeti d'Asia più lontani. Spesso egli per gioco si piaceva di foggiarne a simiglianza, con quel misto di sottigliezza e d'ironia ch'era il tono del suo spirito tra estranei.
Allora la bellissima donna si volse verso noi troppo silenziosi; e domandò, con la gota contro il margine della foglia perfetta: «Chi è più bella?».
«Quella che non parla» rispose il misogino, placidamente.
Non so se in quel giorno o in un altro, seduto sopra uno dei gradini laterali che scendono al cancello dell'approdo, mi ripeté ancora qualche pensiero e qualche sorriso dell'Estremo Oriente, guardando a traverso il ferro battuto l'Isola dell'ultima pace.
Un filo di fumo azzurrino gli esciva dall'angolo delle labbra e, spinto dal vento, si avvolgeva al ferro, vacillava, e poi vaniva. Due farfalle bianche, di quelle che per ali hanno rapito quattro petali a una rosa di neve, esitavano su l'acqua color di perla e poi svolazzavano su per il cancello come se volessero entrare nel giardino, ma pareva non osassero passare per i vani temendo di sgualcirsi. Una alfine si posò sul ferro rugginoso, come su una corolla inflessibile.
Allora il mio amico si ricordò d'una di quelle imagini asiatiche di farfalle che gli aveva mostrate il romito del Palatino. E ripeté, in un velo di fumo, guardando con que' suoi occhi d'ambra verdiccia quel bianco fiore di quattro petali fiorito dalla ruggine bruna: «Ha le ali ancor tremule, e già s'è posata».
Avremmo potuto incidere questa allusione alla sua anima nel suo cippo di pietra istriana, s'egli non fosse stato un guerriero, se nel suo corpo esiguo non avesse chiuso il rigore d'una volontà eroica, se la severità della sua sorte non avesse in noi annerato il ricordo del suo sorriso lieve.
Quand'anche questa immensa guerra non altro facesse che ricondurre l'uomo alla familiarità della morte abolendo quel falso limitare che sembrava separarla dalla vita e dalla luce, già dovrebbe per noi essere lodata e benedetta.
Un giovine granatiere della Brigata di Sardegna, tornato con una corta barba rossa da rabbi cresciutagli nella trincea intorno a un viso fermo e netto come se glie lo avesse ridisegnato a sanguigna l'intagliatore del Trionfo di Cesare, parlandomi d'un suo compagno che non aveva saputo ben morire, mi disse: «Era venuto alla guerra, come tanti, senza aver prima fatto la pace in sé». Disse questo con una piana semplicità. E, più delle parole, mi colpì quella sua aria tranquilla che non somigliava a una certa tranquillità usuale ma alla figura d'un sentimento straordinario, all'espressione d'un acquisto e d'un possesso più preziosi che tanto di suolo nemico espugnato e occupato.
Egli era rimasto solo per un giorno intero, in mezzo ai reticolati austriaci, nascosto in uno di quegli imbuti che scavano nella terra le granate scoppiando; e, mentre il nostro fuoco abbatteva gli spineti e sconvolgeva il suolo, egli osservava l'esattezza del tiro e pigliava rilievi imperturbabile.
Un altro giorno, come la sua gente già provata dall'artiglieria nemica era stata presa di mira per errore dalla nostra, egli solo con una bandiera in pugno, sopra un'eminenza del terreno scoperta, tra i due fuochi, ritto in piè, aveva persistito a far segnali finché i nostri pezzi non ebbero mutato bersaglio.
Un'altra volta, di notte, su la montagna, in una di quelle gloriose incamiciate ove eccellono la prodezza e l'accortezza dei nostri fanti, s'era battuto contro una puntaglia austriaca con la baionetta impugnata come una daga e poi, sopraffatto, a pugni a calci a morsi, lasciando sul terreno la pelliccia a brandelli ma riuscendo a svincolarsi e a raggiungere i suoi per ricondurli alla mislea con un mozzicone di lama e con un largo riso ne' suoi denti di lupo tutti in sangue. Aveva perso il pelo, non la ferocia.
Ammalatosi di tifo e di polmonite nella belletta putrida della trincea, i medici avevano diviso in zone il suo corpo paziente, curandolo a contrasto, col freddo e col caldo. Una vescica di ghiaccio sul capo, un'altra sul ventre; un impiastro bollente sul petto; la morte ai piedi esangui. Egli non si ricorda se non di una gran pace deserta, fra sole e neve, ov'egli restava immobile senza tempo, come una di quelle sentinelle perse che si considerano già sepolte.
Era venuto per un'ora a vedermi, senza ansia. Della sua compagnia erano superstiti ventitré uomini. Doveva ritrovarsi all'alba su l'Altipiano tremendo.
Diceva: «Comando da una diecina di giorni una compagnia speciale della Brigata dei Granatieri: la compagnia degli Esploratori. Si tratta di ciò che noi chiamiamo «una formazione organica» da istruire particolarmente, con metodi nuovi, con una disciplina nuova. Si tratta di creare un'anima e un corpo, e di prepararli a sacrificarsi. C'era, in altri tempi, chi allevava le vittime, chi produceva i tori bianchi e le pecore nere. Imagini un che di simile. Non so dove io abbia letto che tre cose costituiscono il sacrifizio: la vittima, l'oblazione della vittima e l'uccisione della vittima. Imagini una compagnia istruita in questo senso. Si va sempre fuori di notte a far esercizio, da mezzanotte alle cinque, su i colli. Mi sono amicate le costellazioni, che conoscevo così poco; e son riuscito a ispirare nei miei Granatieri l'amore della notte. I soldati italiani, in genere, non amano la notte. Gli austriaci ne hanno qualche pratica; ma anche in questa siamo per superarli. I miei Esploratori, per i segnali, già imitano maravigliosamente i gridi degli uccelli notturni. Sono quattrocento ottanta sceltissimi. I pochi superstiti dell'ultima carneficina vi son tutti. Gente che, a vederla, è più alta della sua statura vera. Dalle spalle in su, c'è l'aria della testa: il coraggio che non sopporta d'esser misurato, come la passione. In poco più di dieci giorni, avevo formato intorno a questa compagnia qualcosa come un'aurèola. L'aurèola aiuta a vederci di notte. Nelle soste, solevo raccontare anche le storie antiche dei Granatieri che si chiamavano «enfants perdus». I nuovi rinnovano quel nome a modo loro. Perdutissimi, infatti. Credo che riescirei a spingerli tutti, d'un balzo, di là dalla morte, senza sforzo. Credo che farei qualcosa di buono, con questa gente, anche se si tornasse proprio alla guerra di trincea, nel Carso, come pare. Invece qualcuno s'è accorto che una simile accozzaglia non è regolare, non è «sugli organici»! E la compagnia sta per essere sciolta, prima dell'immolazione. Io sarò rimandato a inquadrarmi, a ridiventare sagoma da tiro nella massa. Non mi lagno. Conosco la trincea. Per un mal di trincea, sono stato diviso in zone fredde e calde: esperimento di culture. Ma confesso che m'è, a un tratto, venuta la voglia di volare. Dopo tanta terra, un poco di cielo. Mi aiuti, se può. Conosco bene la zona di confine perché ho cacciato nella conca di Gorizia e sul Carso. Sono stato a Lubiana, a Gratz, da per tutto laggiù. So la lingua, i dialetti, gli usi. Vista ottima. Peso, in allenamento, circa sessantacinque chili. Ho molta pratica di motori a scoppio....»
Parlava semplice, con gesti sobrii. Il reale e l'ideale avevano in lui il medesimo accento. Lo guardavo fiso, senza rispondere, con quella pupilla dove ora s'aduna tutta la voracità del mio sguardo. Sentivo in lui l'amore dell'olocausto «in cui tutta la vittima si brucia, totalmente ad onor divino».
«So che non cessa di pensare al Suo compagno scomparso» mi disse, con una bontà velata.
Gli risposi: «Le auguro uno che a lui somigli».
E m'erano là, accanto, sopra lo sgabello, in mucchio, le liste di carta scritte nel buio, quando avevo gli occhi bendati, quando stavo supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi, sollevando leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v'era posata.
Cercai nelle rubriche. Trovai, e lessi.
[La coppia virile, la coppia da battaglia, rinata nella creazione dell'ala umana, conduttore e feritore, arma d'altezza, arma celeste, maneggiata da una sola volontà, come la duplice lancia del giovine Greco.
Il compagno è il compagno. Non v'ha oggi al mondo legame più nobile di questo patto tacito che fa di due vite e di due ali una sola rapidità, una sola prodezza, una sola morte.
Il più segreto brivido dell'amore non espresso è nulla al paragone di certi sguardi che, nelle ore leggère, riconfermano tra i due la fedeltà all'idea, la gravità del proposito, il sacrificio taciturno di domani.
Ora la morte, che doveva prendere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l'offerta, contro la giustizia, contro la gloria.
Alla cima della gloria, per la coppia alata, è l'olocausto: il sacrifizio in cui è arsa tutta la vittima.
La sorte del fuoco è la lor vera sorte.
La loro ala rombante diviene il lor rogo fiammeggiante.
Come nell'ottava bolgia, essi sono due «dentro ad un fuoco», ma il fuoco non è diviso. Non parlarono in alto; non ebbero bisogno dell'orazion piccola per essere acuti; né parleranno nei crolli della fiamma. Come il volo era un silenzio ceruleo misurato dal canto ritmico della combustione, così l'olocausto si risolve in nero silenzio.
La necessità eroica della coppia alata, quando sia sopraffatta, è l'arsione totale.
Chi si rende prigione, e cede la sua ala, si può dire veramente che pecchi contro la patria, contro l'anima e contro il cielo. Sventurato o svergognato, perde ogni diritto alla gloria.
Portato dal fuoco, il combattente aereo è un incendiario in vita e in morte.
Beati i due compagni eroi le cui ossa irriconoscibili sono mescolate nella barella come tizzoni fumanti!]
Egli guardava di tratto in tratto la mia tempia fasciata, il mio occhio bendato, con un sentimento di dolcezza, ma senza proferire alcuna di quelle parole di compianto o di conforto che mi sono odiose e mi sembrano vilissime. Io notavo che i suoi occhi bruni erano straordinariamente ingranditi e che la barba fulva intorno alla faccia ossuta gli dava quell'aspetto energico e pacato che doveva avere il Purificatore quando ebbe cacciato dal Tempio «coloro che vendevano e comperavano in esso». Non v'era più nulla di superfluo nella sua carne come non v'era più nulla di vano nel suo spirito. Non un'oncia di vanità né un'oncia di adipe. Il vero asceta nei due sensi, come quegli che aveva esercitato e preparato alla perfezione il corpo e lo spirito.
Certi asceti cristiani parevano respirare veracemente in Dio, cioè non nell'aria comune, non nei vènti del mondo; parevano avere i polmoni e l'anima adattati a una nuova condizione di esistenza. Simile egli pareva respirare in disparte, in non so che novità interiore, consapevole di sé stesso, e pure non più appartenente a sé stesso, presente e pur trapassato. Non era un uomo; era un'offerta. Non aveva più nessun legame, fuorché quello che lega l'offerta al sacrificio. Era, nel più alto significato ideale, il Volontario.
Parlava semplice, con gesti sobrii. Stava là seduto, occupava poco spazio. Ma quella sua serenità aveva qualcosa d'immenso e di profondo. Io mi sentivo all'orlo della sua serenità come su la riva di un mare raggiante. Dinanzi a un uomo, ecco che avevo un senso sovrumano dell'uomo.
Era quello un uomo pel quale la vita e la morte s'erano confuse come il giorno e la notte si confondono nella zona dell'alba.
Tuttavia le sue mani erano robuste e, nella lotta a corpo a corpo, avevano preso il nemico per la gola; forti erano i suoi bianchi denti, e avevano morso alla disperata il nemico; saldi i suoi piedi, nelle grevi scarpe munite di chiodi, e avevano sferrato contro il nemico il buon calcio all'inguine.
Pensavo: «Ecco un soldato d'Italia». Mi tornavano nella memoria certe sere d'ottobre, laggiù, lungo l'Isonzo, quando parlavo ai reggimenti in punto di marciare verso la battaglia. Da prima i reggimenti non avevano se non un solo viso e un'anima sola, perché io non vedevo se non la fronte allineata, a traverso la mutazione della mia voce. Ma dopo, rotte le righe, avvicinandomi, scoprivo in uno sbattimento d'ombra, in un riflesso di lume vespertino, qualche aspetto di sovrana giovinezza, qualche testa costrutta come quelle delle statue atletiche di Delfo, qualche faccia illuminata come quelle dei martiri invitti, un che di ferino e di spiritale, un che di adamantino e di fervente, come nel volto del mio visitatore. Certo, i più belli erano venuti alla guerra dopo aver fatto la pace in sé.
L'ho io fatta in me?
V'è certo, per ottenerla senza sforzo, un dono di grazia, una elezione gratuita. Allora essa scende e ci sgombra di tutte le infezioni e di tutte le fermentazioni, come dei mali incurabili accadeva al tocco del guaritore. Allora l'identità della vita e della morte diviene un sentimento luminoso. Il pericolo — come da me fu scritto in un libro di prova ascetica — diviene l'asse della vita sublime.
Mi guardo dentro; e confesso che quella qualità di pace, quella pura tempra interna, rivelatami dalla presenza di quel giovine amico, non mi fu concessa, benché io mi sforzi di osservare la disciplina utile a conseguirla.
Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Dov'è la pace, non può essere l'ebrezza. Non si può dire che vi sia vero silenzio in quello spirito che il levame lirico solleva e infervora di continuo. È necessaria una certa nudità interiore, l'assenza delle imagini e delle melodie, perché l'anima imiti quella trasparenza dell'alba «dove il giorno e la notte si confondono».
Ma, poiché la divinazione di una trasparenza tanto perfetta mi rapisce, io cerco il modo di accostarmi a quello stato che mi sembra oggi il più alto per colui che vuol donare tutto sé stesso, per il volontario della sua propria libertà.
Dal momento in cui quel giovine [Paolo Stivanello caduto nel Carso il 9 agosto 1916] si rizzò in piedi e prese commiato per andare a vivere come si va a morire, per andare a morire come si va a vivere, la mia aspirazione lo segue. Quando udii la porta richiudersi dietro di lui, stetti in ascolto. Il suo passo tranquillo risonava nella calle stretta allontanandosi. Nondimeno egli mi appariva in un modo misterioso, riempiendomi di fremito e d'anelito.
Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Considero le trasformazioni del «pensiero dominante», da che stette su me, dal principio di un esilio che fu per me una specie di trapasso. Non pace ma ansietà; non fermezza ma ebrezza; non silenzio ma clamore. Il sangue sgorgante dal corpo ignudo del mio Sebastiano aveva per lui medesimo la forza del vino fumoso. Il ritmo del suo canto era come il polso della mia febbre. Per essere a sé il suo cielo, egli voleva le sue ferite innumerevoli come gli astri. Era di sé martire e testimone. I suoi uccisori gli erano specchio. Egli medesimo era l'uccisore e l'ucciso, il saettatore e il saettato. Cangiava la morte in voluttà, guardandola. Gli arcieri, ogni volta che lo ferivano, morivano in lui; ed egli in loro moriva. Per dire il suo rapimento nella morte, imitava il furore della vita.
Come dissimile a quel giovine combattente dell'Alpe!
Forse qualche vampa di quell'antica febbre risorgeva in me, o Chiaroviso, quando vi parlavo della morte lungo la bella riva. Ritornava nel mio sangue l'appassionato aroma della Landa che versa la resina dalle mille e mille piaghe dei suoi tronchi morituri. E forse fu la consueta smania di liberazione, o una subitanea curiosità di confronto, quella che mi spinse a condurre verso la figura del martire inebriato due compagne non immemori di quel che già fui e di quel che già mi piacque.
Il domani della sosta nell'orto di Tomaso Contarini, approdammo a quella casa dei Contarini che fu dipinta e dorata da Zuane de Franza. Passava un canotto veloce, di legno bruno levigato e leggero come quello d'un contrabbasso, con a poppa un Ammiraglio canuto, blu e oro, figura di cera in una custodia di vetro.
I due filoni della scìa propagarono l'onda alle due rive del canale pieno. Dall'improvviso rimescolamento la gondola stava per essere sbattuta contro i gradini di marmo, quando col remo abile il gondoliere tranquillo la distaccò e la tenne discosta. Il fondo piatto diede tre o quattro colpi su l'acqua come la spatola di Arlecchino. Poi rimanemmo qualche minuto a danzare tra onda e onda, ber una nuova scìa lasciata da un battello nell'accostarsi al pontile vicino. E tutta la vita fu una cosa vana, fluttuante e inesplicabile. I pensieri si alleggerirono e si dispersero. I sentimenti non ebbero più alcun peso. Un sorriso eguale s'indugiò nella bocca delle due donne, il sorriso fisso e dipinto delle statue arcaiche dalle molte trecce, mentre s'attendeva che la danza terminasse. Le liste corrose del marmo di Verona brillarono nel portico quasi che la salsedine vi avesse incrostato cristalli di sale e schegge di conchiglie. Lo sciacquìo orlò di bava i gradini gialli come l'avorio dei dittici. Il palagio traforato ci pendeva sul capo come fatto di refe da una Buranella malaticcia e paziente che tuttavia vi lavorasse di sul tetto con le sue mani da dogaressa. Anche le qualità della materia si trasmutavano come le facce della mente. Non sapevo più nulla, e non v'era più nulla, fuorché maniere di dire, figure di musica, ambagi di linee. Non sapevo perché fossi là e non altrove, non in cima a una piramide, non dentro a un labirinto. Era come una dispersione attonita, come un annullamento stupefatto. Quel legno cavo e nero danzava sul nulla; e i colpi della spatola di Arlecchino risonavano a quando a quando nel vuoto dell'anima. Alfine mettemmo il piede su la pietra ferma. Avemmo il passo cauto, come dopo una vertigine. Aspettammo davanti a una porta che non si apriva. Il passato esiste? Tornavo a quella porta dopo vent'anni. Vedevo, a traverso il battente, nella sala terrena, me chino, con Giorgio Franchetti e con Angelo Conti, me in ginocchio come un operaio a commettere nello stucco porfidi e serpentini per rifare il pavimento di musaico.
I riflessi del canale entravano coi soffii dell'aria marina; e noi secondavamo col nostro lavoro quei giuochi della luce, orientando ad arte i tasselli così che ciascuno pigliasse la sua diversità di chiaro e di scuro e tutta l'opera fosse varia e sensibile, là dove un musaicista meccanico avrebbe tutto appianato e agguagliato in una politura inerte. A ogni passaggio di battello, uno strepito di risacca si prolungava su la riva, riecheggiato dal portichetto come da un antro. Avevamo nella conca dell'orecchio una melodia argentina, e quelle sillabe ineffabili che si creano a quando a quando nei riscontri del vento. Nei pomeriggi di scirocco, i marmi misti sudavano come le nostre tempie, come le nostre mani; e quella tepidezza umidiccia pareva propagare alla materia la sensibilità della nostra pelle e più umanamente assomigliare a noi la nostra opera. Divenivamo più lenti ma più imaginosi. Un orto vicino, di là dal muro coronato dai vecchi merli di terra cotta color «rosa di gruogo», ci mandava l'odore vainigliato dell'oleandro nella polvere soffocante dei calcinacci. Perdevamo a poco a poco la memoria di noi, attratti in non so che incantesimo delle cose. Vedevamo i piedi ignudi d'una creatura sconosciuta passare sul nostro lavoro nettato dalla spugna.
Ed ecco che il custode venne ad aprire la porta, dopo vent'anni! E non osai guardarlo in viso.
Entrammo. La mia ombra e quella dei miei due amici si dileguarono pel pavimento, nello sprazzo di luce marina che lo percosse. Nulla intorno era mutato. Non camminai sul musaico, quasi temessi di calpestare le mie stesse mani. Camminai rasente.
Erano tuttavia là i rottami, le assi, le lastre di marmo non segate, le scorticature della parete, le travature scoperte, la solitudine aspettante, l'abbandono e il trasognamento, e quelle furtive larve grige vestite di ragnateli laceri, che abitano le case dove il nuovo fu demolito per ritrovare il vecchio.
Il gran pozzo rossigno era là, nel mezzo del cortile, pieno di silenzio e di polvere come un'arca. Allora mi ricordai che venivamo a visitare un ospite moriente e immortale. E non mi tornò di sopra al muro merlato l'odore dell'oleandro ma quello della resina, quello dei pini piagati d'occidente; il profumo della Landa, l'aulente malinconia della spiaggia oceanica, l'aroma dell'esilio.
E, salendo la scala erta, riudivo nell'aria il coro angelico di Claudio Debussy ripetere misteriosamente il nome del Santo. E il mio spirito tremava di maraviglia come quando per la prima volta sentì dalla profondità del dramma salire la rivelazione della melodia. Gli si ripresentò a un tratto l'evento immenso. «Dal vecchio mondo che si gonfia e crolla, ecco balza la giovine Musica».
Andavamo vacillando sul solaio sconnesso della sala veneziana restituita alla sua vastità primiera. «Dov'è?» diceva Nontivolio. «Dov'è?» diceva Chiaroviso. Tavole pencolanti, pareti raschiate, usci senza imposte. Come sta ad asciugare il bucato dei poveri, stavano appesi a una cordicella per traverso alcuni tappeti persiani di grande pregio. Attoniti, ci soffermammo a toccarli. Erano vivi. Avevano serbato nei secoli la vita animale onde è pregna la lana tondata nel momento che la tingono i tintori d'Asia. Nontivolio passò la sua lunga mano in uno sdrucio.
Ma che era quella bellezza ferita al paragone dell'altra?
Vacillavamo tuttavia sul solaio malfermo. Ed ecco un arco marmoreo, l'apertura stupenda d'una specie di tabernacolo glorioso, tutto marmi venati e rosati, cui non tanto rischiarava l'alto spiraglio quanto il soffitto a melagrane d'oro.
«Dov'è?» ripeteva Chiaroviso. Gli occhi non lo vedevano ancora, ché la luce dov'egli viveva era una luce diversa da quella del giorno.
«Eccolo.» Egli era diritto in piedi, dentro l'edicola. Era come in un ciborio di marmo. Era nudo, sol fasciato i fianchi sobrii; grande, svelto, col petto quadro. Nella sua carne i dardi parevano fitti con arte, come gli aghi crinali in una capellatura simmetrica. Il suo sangue colava parco, quasi lo ritenesse la durezza dei muscoli.
Non riconoscevo il mio giovinetto canoro, rivolto verso l'Oriente dei misteri sanguigni, turbato dalle lamentazioni degli Adornasti, dal pianto melodiante delle donne di Biblo. L'eroe scolpito dal pennello di Andrea Mantegna era di verace schiatta romana. Nella sua larga faccia, sostenuta da un collo robusto come un rocchio di colonna, la bocca dai piccoli denti schietti mi ricordava quella del giovine combattente partito per l'Altipiano. Dischiusa, non per dire una parola o per gittare un grido ma per bere l'aria silenziosa, aveva non so che purità belluina, come se vi respirasse un selvaggio istinto. Confitto presso il piede saldo e attraversato dalla cocca pennuta d'una saetta, un cero sottile portava la sua fiammella e un cartiglio dov'era scritto:
Nil nisi divinvm stabile est cœtera fvmvs.
Ma il divino lampeggiava e s'oscurava, appariva e dispariva, presente e fugace, diverso e instabile, tra il fumo dalle mille e mille forme.
Ripassando lungo l'inferriata bassa della sala terrena, mi volsi a cercare l'imagine mia giovenile inginocchiata sul musaico. Si faceva sera. Ripensai la mia finestra bassa, laggiù, su l'Ausa, dove i miei compagni venivano a chiamarmi picchiando i vetri con le nocche. Erano giovani. Intravedevo nell'ombra violetta i loro denti bianchi come quelli del San Sebastiano di Andrea Mantegna il Cesàreo.
Ora bisogna che io mi umilii. Divini et humani nihil a me alienum....
Apro a caso il libro segreto della mia memoria, e mi chino sopra questa inquieta cenere d'una mia giornata arsa.
[Il mio generale — dalla cui rude bontà m'ebbi ieri in dono una sorta di alloro spinoso sradicato alle falde del sanguinante Podgora e trapiantato in un vaso di terra rossa — il mio generale mi avverte che stamani l'oratore castrense parla alla Brigata Caltanissetta accampata in Versa.
Vado a Versa. È una mattina d'ottobre limpidissima, quasi temprata e forbita come un'arme nuova. Le strade sono già asciutte, stanno per ridiventar polverose. File di soldati, file di muli, file di carriaggi. La mia macchina grigia, snella, vibrante come una piccola torpediniera, fende i battaglioni che si aprono. Movimento insolito da per tutto. Si sente che qualcosa è nell'aria, che qualcosa di grande si prepara. Si fiuta già l'odore del sangue, come il fumo del mosto alla vigilia della vendemmia.
Arrivo sul campo. Cerco sùbito l'altare. È alzato in mezzo ai pioppi ingialliti, fasciato con le coperte di lana bruna in cui s'avvolge il sonno dei combattenti nella trincea. Talune sono così vecchie che mostrano i buchi. Ci si vede il sole a traverso.
I soldati si schierano dall'una e dall'altra banda, col fucile e con la baionetta inastata. Hanno un aspetto di vigore che cova l'impeto. Appartengono alla Brigata siciliana, alla Brigata di bronzo. Taluni sono foschi come i Saracini dell'imperator Federico. Il loro capo grida i comandi con una voce dura. Sembra un veterano eritreo o libico, che abbia lasciato appeso all'arcione lo staffile di cuoio d'ippopotamo.
Il Duca arriva, con quel suo aspetto grave e un po' distante, ma semplice, tranquillo.
Comincia la messa officiata da un prete robusto come uno zappatore, che pronunzia le formule sacre con una bocca accesa sporgente da una barba fulva.
Il capo grida: «In ginocchio!» I soldati s'inginocchiano, poggiandosi al fucile. Come nei duomi la preghiera è sostenuta dalle guglie e dai pinnacoli, qui oggi è infissa nelle punte delle baionette. Una preghiera irta e aguzza. Volti inclinati di giovani imberbi, di uomini maturi, taluni belli come i più belli esemplari dell'Ellade e del Lazio. Bocche sensuali, bocche tristi. Lanugine bruna o rossastra su mascelle risentite, su bazze tutt'osso. In taluni l'intero teschio traspare; e si pensa allo scheletro che attende entro la carne e che ne imita i gesti, ne segue le attitudini, prigioniero. Teste già toccate dalla morte, già segnate dall'Operaia indefessa. Una massa di carne da macello, un carnaio ben preparato.
Il cannone tuona, verso il monte di San Michele. Un velivolo nemico si mostra alla sommità dell'azzurro, tra le nuvolette degli scoppii. Quasi tutti gli occhi si sollevano al cielo lacero. Si vede il bianco ma non è il bianco della paura. Vi balena un sorriso selvaggio.
Il sacrificio della messa s'interrompe affinché il Cappellano parli. Egli sale sopra una bigoncia che domina l'altare fasciato di lana rozza. Con una facondia senza intoppi, egli parla del coraggio. Il coraggio l'ascolta, armato e taciturno.
Il cielo è d'una purità sublime, incurvato su l'Alpe che le prime nevi imbiancano. Un tepore lento si forma dalla preghiera, sopra le baionette nude e verticali. Il fogliame moribondo dei pioppi tremola di continuo, oro nell'oro. Il Carso è laggiù, laberinto di trincee e forteto di reticolati, quale lo conosco dall'alto. È certo che domani s'ingrosserà quel fiume caldo che vi si forma sotto il sasso.
Non odo più le parole dell'oratore che ha già la bocca piena di saliva. Odo il canto della terra, odo la pulsazione assidua dei cuori che pompano il sangue del sacrifizio; odo il silenzio di sotterra e il silenzio che sta di là dall'azzurro.
È una grande ora, la più grande da che abbiamo passato il confine e piantato la bandiera nel suolo redento. So che domani, a mezzogiorno, incomincerà lo sforzo, incomincerà la tremenda sinfonia, assai più vasta che quella dei giorni di luglio.
Volti di soldati in una specie di trasognamento, che sembrano già posati su l'erba funerea. L'anima si curva su di essi. Il cielo s'affoca d'amore. Veggo il mio volto presso quei volti, agguagliato a quella bellezza. Qualcuno si curva, mi riconosce, mi chiude gli occhi. La marea si ritira di sotto alla volta del mio capo. Due sollevano il mio corpo per coricarlo nella barella.
Perché penso a quella pietra che un giorno sollevai nella foresta opaca e lasciai ricadere sbigottito, avendovi di sotto scoperta una vita brulicante e fuggiasca?
Il Barnabita cessa di parlare. Il sacrificio della messa vien ripreso dall'officiante, con un susurro lieve, con un moto di labbra, perché ciascuno oda nel cuore la parola profonda.
«Siate facitori della Parola, e non uditori» è scritto sul pulpito di Grado, nella Basilica dei Patriarchi.
Vedo luccicare i chiodi nelle grosse scarpe del cherico inginocchiato davanti all'altare: i chiodi tra il fango, fra la terra molle, fra qualche fil d'erba e foglia morta.
I soldati sono di nuovo in ginocchio. Le teste sono chine sotto la selva lustra delle baionette. S'ode negli alberi gialli un crocidare di cornacchie sommesso. Il Duca è immobile, pensoso, con quel suo maschio pallore solcato dalla forza d'una malinconia che sembra in lui risalire dalle profondità secolari della sua stirpe di guerrieri e di santi. Egli si volta a guardare un poco in su. Il vino vermiglio brilla nell'ampolla, sopra la tavola dell'altare; e il riflesso batte nella spalla destra di Emanuele Filiberto segnando d'un segno luminoso il rozzo panno soldatesco del cappotto ampio come una tonaca senza cordiglio.
« Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua deduxisti me.... »
Un giovine capitano, alto, snello, adusto, si china verso di me e mi dice a bassa voce: «Perdoni, tenente». Poi mi mette le dita nel collo e afferra una vespa che stava per pungermi. Ha la vespa viva tra il pollice e l'indice. Me la mostra sorridendo. Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia madre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblæum.
Il crocidare fioco delle cornacchie su gli alberi d'oro accompagna la fine della messa di sangue. « Ite, missa est. » Il sacrificio è compiuto. I soldati si levano in piedi, e hanno un poco di terra molliccia ai ginocchi. Presentano le armi, mentre il Duca si muove, seguito dai suoi ufficiali, per raggiungere il luogo dove aspetterà che tutte le compagnie passino in ordinanza davanti a lui vicario della Gloria.
Il sole monta al meriggio. Le ombre sono brevi. Nella gran luce i corpi umani hanno un che di sparente, un che di labile. Quella massa di carne mortale scorre, su la prateria, non men lieve che la fuga d'una nuvola. Il passo misurato risona, come una pesta sorda; ma sembra che, dal ginocchio in su, gli uomini sieno avviluppati di silenzio, d'un silenzio remoto come quello che s'incurva laggiù su l'Alpe bianca della prima neve.
La rapidità mi placa. Odo di tratto in tratto, sopra al rombo del motore, il mortaio tonare sul monte. Vado al colle di Medea per visitare l'osservatorio di dove lo Stato Maggiore della Terza Armata assisterà alla prossima azione. Possiamo salire con l'automobile per la strada nuova, rischiando le gomme contro la ghiaia asprissima. Arriviamo al posto telefonico. I soldati si ricoverano sotto le tettoie per non essere colpiti dai bossoli, che i cannoni della nostra difesa aerea continuano a tirare contro un ostinato uccellaccio austriaco. Do all'ufficiale di guardia alcune istruzioni per la copritura dei vetri che luccicano e rivelano il posto all'osservatore nemico. Entriamo in una specie di ridotto, tutto corridoi bui come quelli delle Catacombe. Passiamo per una stanza fasciata di legno che un pittore ambizioso orna di festoni, di ghirlande, di cartigli, come per un convito augurale. Tutti questi operai sono pieni di devozione, di ardore, di fremito. Costruiscono e ornano il Belvedere della Vittoria?
Che spettacolo, dalla vetta del colle! La pianura dolce come un invito, i borghi d'un grigio di tortora, le città biancicanti, Gorizia condannata, i monti e i poggi già irrigui di sangue italiano e ricchi di ossame quanto di sasso. Tutto è oro d'autunno, azzurro di lontananza. Intorno al velivolo è una corona di nuvolette bianche, quasi serafiche. Il sole s'è fatto caldo come in maggio. I fianchi di Medea sono vestiti di acacie, di pioppetti, di cespugli. Ho voglia di stendermi su la proda e di dormire.
Se mi stendessi, non dormirei. L'irrequietudine mi caccia. Rientro nel mio rifugio su l'Ausa, nelle mie due stanze basse che la manìa di un cacciatore o di un ornitologo paesano riempì di uccelli impagliati. L'occhio sfugge i palmipedi per confortarsi nelle imagini della Nike di Samotracia, della Vittoria di Brescia. Che farò per attendere il domani? Ecco un messaggio. I marinai delle batterie navali collocate nell'Isola Morosina confidano che domani a mezzogiorno sarà con loro il Lanciere di mare. Rivedo il sabbione biondiccio, le passerelle su la mota, le torri di legno nascoste nella fronda delle querci, la Sdobba azzurra, un lembo del Bosco Cappuccio, Ronchi, Doberdò, la selva di Monfalcone, la Rocca, e Duino sul precipizio di rocce, e lo smottamento rosso di Sistiana, e laggiù Barcola, e laggiù Trieste, tutta l'Istria cilestrina. Le voci dei marinai e delle cornacchie tra gli alberi. A volte un gabbiano brilla nell'aria come un velivolo. Due cavalleggeri guardano i fili del telefono, coi loro piccoli cavalli villosi tra la frasca. Nell'osservatorio nascosto dentro la quercia, il comandante calcola sopra un quaderno, tra il goniometro e il canocchiale. Il sole brilla su i treppiedi di legno levigato. Il megafono, la grande bùccina di metallo, sporcata di verde, sta appeso al ramo. S'aspetta il primo colpo. «Pezzo uno, attenti! Castagnola, fuoco!»
Le visioni, le apparizioni e i sogni mi rapiscono lo spirito a ogni attimo se mi soffermo, se mi seggo, se mi riposo.
Già i cavalli sellati sbuffano davanti alla porta. Monto Doberdò, che sembra allegro. Vado su la strada di Palmanova, in cerca d'un prato per galoppare. Ne trovo uno troppo piccolo, dove s'affonda. Scopro, verso Muscoli, un fiumicello colmo che corre tra file di salici annegati fino a mezzo il fusto, dorati come la chioma di Ofelia. A un certo punto, non incontro più né carriaggi né ambulanze né truppe. Una pace improvvisa, in una ripa solitaria.
L'acqua verde, la viottola umida, i salci d'oro, i pioppi d'un oro anche più splendido; le erbe lunghe, le vermene oscillanti, un uccello misterioso che fugge per l'ombra, senza grido; il sentiero che si restringe sopra l'argine, finché diventa impraticabile; una fila di alti pioppi dorati, laggiù, dove non posso andare; e l'acqua che fluisce come un sorriso sinuoso.
Soavità di questo paese riacquistato! L'autunno vi biondeggia come un ritratto del Palma vecchio. Qualcosa di femineo e di docile, da mettervi la mano per entro. Dov'è la guerra? Dov'è tutta quella carne da lacerare e da pestare, che stamani era accomandata dal prete al Dio degli Eserciti?
Mi arresto là dove è impossibile passare col cavallo, tanto è folto l'intrico delle acacie. Torno indietro per le viottole erbose e fangose. La pesta sorda di Vaivai, che mi segue, sembra attirare indietro la mia malinconia, in un modo musicale che non so esprimere. Doberdò sbuffa, e a quando a quando tuba, roco come una tortora.
Vado a cercare un prato che conosco, di là dall'Ausa. Galoppo finalmente sul terreno soffice, sopra le ombre lunghissime dei fusti, come sopra uno smisurato rastrello.
Il prato è segreto, tutto chiuso fra cortine di pioppi, silenzioso, dolce come chi ama arrendersi. Gli alberi ardono per le cime, come i ceri, pioppi e salici dai lunghi rami verticali: leggeri, aerei. Le ombre s'allungano finché toccano l'altra estremità. Il cielo impallidisce. La mia malinconia si fa più musicale ancóra, misurata dal galoppo ritmico del cavallo. Ripenso, o meglio risento certi vespri fiorentini sul Campo di Marte, in vista di Fiesole gloriosa, tra una chiarità di muri graffiti....
Il passato non val più nulla. né vale il presente. Il presente non è se non un lievito.
Ho non so che volontà di morire. Ascolto la melodia del mondo, che significa: «È tempo di morire, tempus moriendi ».
Esco dal prato come da me stesso, col cavallo in sudore. Ritorno su la strada brutale, fra lo strepito atroce dei carri. Fumo, polvere, puzzo, ingombro, grida. E il cielo così arduo e tanto immacolato
Nella scuderia, l'odore della canfora, l'odore della miscela inglese. Uno strano intorpidimento m'invade, nella posta, tra muro e tramezzo, su la paglia fresca, mentre il palafreniere fa la fregagione alla spalla di Vaivai. Nessuna volontà di tornare a casa, di seguitare a vivere. Imagine d'una trincea profonda, sul Monte San Michele, nel Bosco Cappuccio, dove si muore, dove la morte percote e schiaccia di sùbito, dove il corpo diventa inerte come la mota, come il sasso, all'improvviso. Torno a casa. Tutte le noie della vita comune, di quell'altra vita, sono là, su la mia tavola. Se devo finire domani, val la pena di occuparsene? Donatella è là, nella cornice di smalto, con i due levrieri favoriti, con Agitator e con Great Man, col fulvo e col nero. Mi riappare la prateria di Dama Rosa, il muro pallido, il granaio basso, il gioco dei cani nell'erba non falciata. Ore lontane, ore di solitudine, di ebrezza, di afflizione. E la tomba della mia povera Dorset Red, laggiù, nell'angolo, rilevata di zolle, simile ai tumuli dei soldati, che vidi ieri sotto i cipressi di Aquileia, all'ombra del campanile venerando. E l'immensa guerra che riempie i continenti e le isole, la gigantesca forza nemica, la pulsazione tremenda della razza barbarica.
Dio, Dio, solleva domani di mille cubiti la statura nostra! Dacci il sentimento della potenza, del diritto divino, dell'imperio ereditato.
«Gettiamo il fegato di là dal Carso e andiamo a riprenderlo. Questo bisogna.» Così diceva iersera un soldataccio che odorava di trincea muffita.
Perché nessun canto mi esce dal cuore? Perché, quando per forza mi dispongo a comporre il canto aspettato, sono preso da una specie di ripugnanza che par vergogna?
Lo so, lo so, mia gente. Voglio sparire prima che la fede m'abbandoni.
Ero intento alle solite cure atletiche dei muscoli, quando il migliore dei miei compagni di terra ha picchiato ai vetri della finestra bassa: il capitano dal bel capo di negro impallidito, il mio pilota di tempesta, quello del più arduo volo.
Forse viene a offrirmi la fine eroica. «Al quale io dissi: Benvenuto è il tuo nome. Rispose: Benvenuto sarò io questa volta per te.»
Mistero della sera, dell'arrivo inatteso, della voce che suona su la soglia, tra l'aria di fuori e l'ottusità di dentro. Ogni uomo è un messaggero. Bisogna aprirgli il pugno.
Il benvenuto ritorna, quando sono pronto. Al primo vederlo, gli trovo la qualità dei sogni. Mi porta il vento alpino che passa pel valico, là nell'Altipiano dei Sette Comuni; mi reca l'odore della prateria soleggiata dove pascolano le vacche presso la loro ombra lunga, dove i fiori violetti del colchico si piegano verso la loro ombra lieve. Tutti i nastri delle vie legano la terra verde. Delle abetine non vedo se non le cime fitte come schiere e schiere e schiere di lance. Dell'alpe non vedo se non i denti che stracciano le nuvole, le groppe che s'accavallano, le ombre disposte come le nervature nelle foglie palmate...
Il benvenuto mi parla, e non lo comprendo. Mi occupa l'orecchio il tono del motore. Sto sul mio seggiolino di prua. Porto il barografo legato a zaino su la schiena. Mi serro la mia cintura di sicurezza. Non ho davanti a me se non il bordo di zinco verniciato di bianco, simile a quello d'un leggerissimo palischermo. Non ho davanti a me se non l'agile mitragliatrice collocata sul treppiede d'acciaio. La fisso con la canna in alto. Sento sotto i miei piedi la fragilità dell'assicella di noce. L'aria mi penetra. Sono d'aria e d'anima. Vivo una vita perfetta.
Il benvenuto mi parla, e io non l'odo. Passiamo su Gorizia, sotto una cupola di scoppii bicolori. Ora andiamo incontro alla sera, alla nostra sera. Il pilota abbandona le leve e allarga le braccia, come verso una donna bella, con una subitanea fantasia giovenile. Nel verdognolo e nel bruniccio i nastri delle vie legano la terra. I denti dell'alpe masticano l'oro del tramonto, lo ruminano, lo sfilaccicano. Siamo sopra la pianura. Udine biancica nel violaceo. Il sole scompare nelle liste delle nuvole, quasi spade che lo decapitino. Ora siamo a duemila e ottocento metri di quota. Si scende con un volo librato arditissimo. La prua dà di becco nell'ombra. Tutto il mondo gira intorno al mio sogno. La pianura si solleva e diventa cielo; il sole mi passa sul capo come se tornasse al meriggio; l'alpe danza una giga frenetica; le città e i borghi sono lanciati nello spazio come sassi da una frombola titanica. Il sole, fasciato dalle liste d'oro, turbina. Un discobolo divino lo scaglia verso il fato di domani...
Il benvenuto m'indovina assente e mi riconduce a lui toccandomi il gomito, come quando dal suo posto nella carlinga, tra le nuvolette bianche e rosse dei tiri austriaci, mi chiedeva il taccuino per scrivervi tranquillo: «Cattiva carburazione. I radiatori sono freddi. Spero di raggiungere le nostre linee». Lo guardo, lo guardo bene.
Ha i capelli rasi fino alla cotenna, come gli atleti greci, come i lottatori del ginnasio. Vorrei nominarlo col nome d'uno dei tre Magi, del più giovine, di quello dalla pelle buia, dalle labbra grosse, dagli occhi sporgenti, di quello che portava la mirra.
Piemontese d'oggi, pacato, volontario, tenace, ma non senza pieghevolezza e amore del gioco, preciso e ardito, deliberato a vincere e a godere. Ha ventisette anni: è nel culmine della giovinezza, quando la prima fame è sazia e cominciano gli indugi sul sapore.
È stato a Verona, per tre ore, divorato dal desiderio e dall'ansia, per vedere una sua amica che passava da quella stazione con un treno della Croce Rossa. Servito da un'astuzia e da un'audacia fredde, dissimulando la sua avidità quasi ferina — dopo la lunga astinenza del campo d'aviazione — ha potuto riescire a ritrovarsi con lei: per alcuni attimi? per un'eternità? La visione di tutta quella carne dolorosa, composta negli scompartimenti squallidi, ha traversato il suo delirio. E, per perdonare a sé l'empietà, egli ha promesso al suo rimorso l'espiazione: ha giurato di offerirsi al più gran pericolo, ora e sempre, per tutta la guerra...
Mi racconta questo su la soglia, mentre si vede luccicare l'Ausa sotto la luna nuova, e s'ode sul ponte lo scalpitío dei cavalli.
Per avere ventisette anni darei il libro di Alcione.
Ho la mia fotografia di ieri, implacabile, che mi mostra quel che sono, quel che è il mio viso. Eppure, oggi, a cavallo, avevo non so che senso giovenile del mio corpo. Dianzi, sotto le spazzole dure e sotto i guanti di crino avevo non so che senso giovenile dei miei muscoli, dei miei tendini, delle mie arterie.
Ma là, nella fotografia di ieri, nella «istantanea» spietata, sono già vecchio. Lo vedo: c'è là qualcosa di senile, che pure mi sembra estraneo, che pure non sento in me. Quando cammino, quando galoppo, quando volo, quando l'aria mi percote, quando il vento mi fischia negli orecchi, ho del mio viso un sentimento che non è reale. Credo di avere il viso fermo e liscio della mia volontà. E questo è un viso grinzoso di vecchietto «richiamato»!
Pure, dianzi, davanti alla porta della scuderia, sono saltato giù dalla sella con una leggerezza di volteggiatore; e mi sono ritrovato in piedi, con un equilibrio netto, su le gambe elastiche.
V'è una giovinezza di movimento, che può essere conservata a lungo dalla disciplina. Ma l'età e la passione, accoppiate sotto un giogo, continuano ad arare la faccia.
Il filo di scarlatto che misi intorno al collo d'un mio eroe per segno della minacciata mannaia, non era se non una figura della mia inquietudine. Talvolta penso che mi piacerebbe di reggere il mio proprio teschio in mano, come certi militi della Leggenda aurea, e di concedere al resto del corpo le sue illusioni muscolari.
Il benvenuto mi offre il buon rischio, con una certa galanteria, come si offre un trifoglio di quattro foglie. Domani, a mezzogiorno, incomincerà la sinfonia sanguinosa. Martedì mattina andremo, col nostro leggero «Farman», a riconoscere le linee nemiche e a proteggere con la nostra mitragliatrice i «Caudron» che faranno il servizio per le artiglierie.
Il tono vitale sembra aumentato anche nelle cose intorno. Il capo raso del benvenuto ha per fondo le imagini equestri del Gattamelata e del Colleoni. La Leda del Museo marciano è ghermita dal gran cigno dell'Eurota, non con piede palmato ma con artiglio d'aquila che travaglia la lunga coscia voluttuosa.
«Perché Leda tra i Condottieri e le Vittorie?» mi domanda il ghermitore di Verona, ne' cui occhi forti ondeggia un'altra imagine.
«Perché è la madre dei Dioscuri, che stanotte verranno di nuovo a lavare i loro cavalli bianchi nel Timavo.»
Egli sorride. Ha i denti di smalto intatto. Sveglio in lui l'istinto della poesia. Certe volte, a grande altezza, quando tutto era divino intorno a noi, sopra di noi, e le nostre ali parevano ferme, rigate dalle ombre esili dei tiranti, egli mi chiedeva il taccuino e abbandonava le leve per scrivermi un suo pensiero lirico.
Siamo ora seduti tutt'e due sul banco. Si parla di apparecchi, di camerati, di capi, di fortuna, di sfortuna. Si guarda su la carta la distanza tra Campofòrmido e Vienna: il nostro sogno. Ier l'altro, il colonnello Barbieri, a Pordenone, dimostrava l'impossibilità di compiere l'impresa con un «Caproni» da trecento cavalli. Si discute, si persiste, si vuole, si spera. Si sogna e si disegna un velivolo di forza triplice, robusto e rapido, armato a prua e a poppa: una squadriglia formidabile, capace di gettare su Schœnbrunn diecimila chilogrammi di tritolo.
Siamo tutt'e due sul banco, l'uno accanto all'altro. Ci sembra che i nostri destini si leghino, si annodino. Egli è giovane, io non sono più giovane. E tutt'e due martedì, prima di mezzogiorno, potremmo esser morti, essere un pugno di carniccio carbonizzato, qualche osso annerito, qualche cartilagine rattratta, un teschio spiaccicato con qualche dente d'oro luccicante nella poltiglia. O forse abbatteremo un velivolo nemico, il primo, e discenderemo nella gloria!
Quando glie lo dico, i suoi occhi luccicano tra le palpebre rilevate come quelle dei bronzi arcaici.
Si alza per andarsene. Ha i guanti troppo stretti. È ancor lontano dalla vera eleganza. Ma i denti bianchissimi gli brillano, come lassù, nel nembo montano, su la tempesta impietrita dell'alpe, quando mi voltavo verso di lui dal mio seggiolino di prua per fargli un cenno risoluto.
Su la soglia, nella sera limpida, mentre la luna nuova brilla tra la fronda della ripa, mentre un ragazzo fischia sul tiemo d'un burchio ormeggiato, mentre là su la strada di Palma un cavallo nitrisce, mentre laggiù il Trecentocinque dell'Isola Morosina romba e rimbomba, egli riprende a parlare della sua amica bella e della furente ora veronese. Un Maggiore medico, dal treno della Croce Rossa, vedendolo passare, mentre l'infermiera fingeva di non conoscerlo e dissimulava l'ansietà, il Maggiore medico aveva detto: «Guardi che capitano giovine! Sembra un ragazzo».
Il capitano soggiunge, con modestia incantevole: «M'ero fatta la barba».
Se ne va. Va a desinare, poi riparte per Campofòrmido. Lo accompagno fuori. Lo seguo con lo sguardo fino di là dal ponte. Non ho voglia di andare alla mensa, non ho voglia di ritrovarmi in quella sala fumosa, piena di chiacchiere; non ho voglia di riudire tra quel baccano l'ufficiale dell'Intendenza parlarmi del «cavallo di carica» e del «prelevamento» di una uniforme pel mio caporale.
Lo spiazzo è deserto di carriaggi, perché domattina lo debbono spianare e inghiaiare. L'Ausa è liscia come uno specchio, senza il più lieve increspamento, senza la più tenue ruga. È giovine.
Varco il ponte, alla ventura. Le vie sono ancora piene di soldati, gonfie di sangue cupo. I carri passano ronfiando, con un solo occhio azzurro. Passa una fila di cavalleggeri, portando i cavalli a mano. Passa un'automobile del Comando, a tutta velocità, con il solo fanale di sinistra acceso. L'Ausa non si muove; sembra stagnante come il Lete: chi lo varca è un morto. La luna è insensibile, come al tempo dell'insonnio di Saffo.
Torno indietro. Cammino per la strada di Palmanova. Giungo davanti alla catena tesa dalle guardie, alla barra notturna. Passo oltre, scavalcandola. L'occhio blu di un carro mi viene incontro. Come si avvicina, il chiarore mi abbaglia, perché il soldato che lo conduce ha grattato la vernice azzurra e ha scoperto nel centro un disco di luce bianca, per veder meglio la via. Mi scanso, e urto contro qualcuno che borbotta e puzza.
È un prigioniero straccione, che un lanciere a cavallo caccia innanzi, su per il margine.
Vedo, laggiù, lungo la fronte, splendere le bombe illuminanti. Arrivo all'Ospedaletto e torno indietro. Un medico fuma un sigaro davanti alla porta, tranquillo.
Rientro. Non ho pace. Soffoco. C'è nelle stanze requisite un odore di stoffa nuova: l'odore dei paraventi portati dal tappezziere di Udine, che mi servono a nascondere gli orrori dello stile goriziano. Paraventi? Come vorrei stanotte appoggiare la mia vita contro un parapetto di trincea!
Il letto requisito mi sembra ridicolo, col suo doppio guanciale, con la sua rimboccatura ben fatta, col suo piumino trapunto, con la sua carafa d'acqua sul marmo del comodino.
Non ho sonno, ma credo che ho un po' di fame, perché sento che la testa mi si vuota. A quest'ora il digiuno è inevitabile. Non è la vigilia? la grande vigilia?
Odo uno scalpiccío di truppe sul ponte. Il cuore mi balza. Esco, accorro.
È una brigata di rinforzo, fanteria scelta. Le file marciano nel chiarore della luna declinante, valicano L'Ausa, traversano la città addormentata e spenta. Passo vivace. Allegria schietta. Scoppio di lazzi, di risa, di canti. E vanno a morire.
Stamani, sul campo di Versa, nella luce meridiana, sotto il cielo candido, il torrente di carne mortale mi pareva perdere la sua consistenza e divenir quasi moltitudine di larve in punto di dileguare per la prateria come ombra di nuvola. Ma quest'altra gente nella notte, non so perché, mi pesa come se io la portassi, come se io medesimo la trasportassi alla morte. Non sono larve, non sono labili imagini. La luce non li divora, non li consuma. Sono uomini, ossature, muscoli, fiati. Homines, durum genus. Hanno quel terribile odore che sale dal numero quando esso è numerato dal destino per la sua bisogna. Mi sono prossimi. Un gomito mi urta; il calcio d'un fucile mi batte contro l'anca; un alito forte mi soffia alla gota. Mi confondo con loro. Rientro nella mia sostanza. Mi sembra che la mia anima sfavilli, e che le faville si apprendano alle loro ossa. Essi parlano, gridano, cantano; e io sono silenzioso. Ho cantato per loro, essi cantano per me. Nessuno mi riconosce nella notte. Mi riconosceranno all'alba. Gridano: «Viva la guerra!» gridano: «Viva l'Italia!» Io grido in loro.
Passa un capitano sopra un cavallo enorme come gli stalloni dei condottieri, sopra il cavallo di Bartolomeo Colleoni, tanto alto che par rialzato da un piedestallo, con una potentissima groppa, con un vasto petto di toro, con un massiccio collo crinito. Di dov'è mai disceso questo destriero monumentale? dov'è mai andato a cercarlo la Requisizione dei quadrupedi? Sembra una bestia di leggenda, riapparita per portare a una nuova meta un nuovo destino. Odo sonare su la strada i suoi quattro zoccoli ferrati, distintamente tra lo scalpiccío e il clamore. Scorgo i lunghi fiocchi selvaggi ai suoi pasturali, la sua coda cresputa e ondosa come se in cammino le si fossero disfatte le trecce e le ligature di pompa. Non è questo il cavallo che domani a notte sarà abbeverato nel Timavo dalle sette fonti? Non è candido come quel di Càstore, è nero come l'inferno del Carso.
Anche l'ufficiale che lo monta è membruto, avvolto nell'ampio mantello, col cappuccio su gli occhi, taciturno. È un destino commesso a un'ossatura più che umana. Appare intagliato nel chiarore freddo, grandiosamente.
Lo seguo trasognando. La poesia mi travaglia il petto, come una branca nascosta; e il mio istinto di cavaliere mi tormenta i muscoli delle gambe. In altri tempi avrei sognato di abbattere quel destino coperto, e di porre il mio in sella usurpando il potere. Cammino a fianco dei soldati, con non so che meravigliosa umiliazione di cui si colma il mio cuore come d'una felicità inattesa.
Siamo all'ombra delle case, nella via arborata. In un crocicchio, la luna bassa apparisce in fondo alla strada di destra e rischiara la fila. Un sottotenente imberbe mi riconosce al mio collaretto bianco del reggimento di Novara e alle due alette d'oro che luccicano su la mia manica. Arresto le sue dimostrazioni. Scambiamo qualche parola a bassa voce.
«Viene con noi?»
«Vengo con voi.»
«Fino alla trincea?»
«Fino alla trincea.»
Egli trema e ha due belli occhi puri, raggianti d'amore e di fervore. Tace, al mio segno. Rientriamo nell'ombra. Camminiamo in silenzio, col passo dei soldati. Ora siamo fuori del sobborgo, su la grande via bianca. Il cavallo gigantesco si disegna sul cielo stellato. Se si impennasse, parrebbe in punto di sollevarsi per tornare alla costellazione nomata del suo nome, tanto la sua forma è favolosa. I soldati intonano un canto che dall'avanguardia si propaga laggiù sino agli spedati. Misuriamo il passo su la cadenza, e ci sembra d'essere per sempre immuni dalla stanchezza.
Vicino a me un soldato non canta ma di tratto in tratto, rapito nell'impeto delle riprese, manda qualche nota monca, come se masticasse. Lo guardo. Ha il boccone in bocca. Mangia il suo viatico. Sembra pan fresco, all'odore. Sùbito la mia fame si sveglia.
Senza peritarmi, gli domando un pezzo del suo pane. Egli si volge confuso.
«L'aije muccicate, 'gnore tenende» dice con un rammarico gentile, mostrandomi il segno dei denti nella crosta bruna.
Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l'accento del mio paese, l'idioma della terra d'Abruzzi.
Lo guardo. Non può avere più di vent'anni. Anch'egli ha i denti bianchissimi, nel suo sorriso d'innocenza, e gli occhi stralucenti come quelli degli spiritati che vidi roteare intorno al santuario di Casalbordino, dietro gli altissimi stendardi rapiti dal turbine del miracolo. «Evviva Maria!»
Gli levo il pane di mano, lo spezzo in due, e gli rendo la metà. Rimane attonito, con gli occhi bassi. Alla luce delle stelle scorgo le sue lunghe ciglia ricurve. Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio, che mi salgono alle labbra. Mordo crosta e mollica, franco.
Ed è il miglior pane che io abbia mai mangiato, in verità, da che ho denti d'uomo.]
Tale la cenere inquieta d'uno dei miei giorni vissuti con quel «pensiero dominante» che è il tema melodico del racconto musicale composto da me fuoruscito all'ombra dei pini landesi intorno al tempo del solstizio, or è tre anni. Il quale io vi mando costassù nella contrada di Silvia l'Italiana, o Chiaroviso, come il dono dell'alleato e il ricordo dell'ospite, accompagnandolo con questa Licenza che poteva esser breve come il congedo d'una ballatetta e m'è ora divenuta sotto la mano un libro folto, per il gran piacere del divagare proprio al convalescente.
Sorrido pensando a quegli invogli di fronde compresse e risecche, venuti di Calabria, che un giorno vi stupirono e incantarono, quando ve li offersi sopra una tovaglia distesa su l'erba di Dama Rosa, non ancor falciata, ove da per tutto tremolavano i fiori scempii e le avene fatue fuorché nei solchi segnati dal giuoco dei levrieri. Gli invogli erano di forma quadrilunga come volumetti suggellati d'un solitario che avesse confuso felicemente la biblioteca e l'orto. Ci voleva l'unghia per rompere la prima buccia. La membrana andava in frantumi ma le nervature resistevano come quelle del dosso d'un libro legato in cartapecora. La seconda foglia era più tenace e la terza ancor più, e la quarta più ancora. Il viluppo si faceva più stretto assottigliandosi. Le dita non arrivavano mai in fondo; e l'attesa irritava la curiosità; e l'indugio faceva credere al gusto che là dentro si celasse la più saporita cosa del mondo. E m'ho tuttavia nella memoria quella grazia del viso chino, ove la bocca si socchiude e chiude per l'acqua che le viene.
Ecco l'ultima foglia in cui è avvolto il segreto, profumata come il bergamotto. L'unghia la rompe; le dita s'aprono e si tingono di sugo giallo, si ungono di non so che unguento solare. Pochi acini di uva appassita e incotta, color tané oscuro, di quel colore che «pare ottenga nell'occhio il primo grado», pochi acini umidi e quasi direi oliati di quell'olio indicibile ove nuota alcun occhio castagno ch'io mi so, pochi acini del grappolo della vite del sole appariscono premuti l'un contro l'altro, con un che di luminoso nel bruno, con un che di ardente senza fiamma, con un sapore che ci delizia prima di essere assaporato.
Così, o Chiaroviso, il racconto della Leda senza cigno è ravvolto in questi molti fogli che conviene svolgere o frangere. Non dico che in fondo il sapore sia tanto squisito, ma certo è insolito.
Quando la dura sentenza del medico m'inchiodò nel buio, m'assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro; quando il vento dell'azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d'un tratto esclusi dalla soglia nera; quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me; quando ebbi abbandonato la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d'ingannare il medico severo senza trasgredire ai suoi comandamenti.
M'era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m'era possibile vincere l'antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell'arte che non vuole intermediarii né testimoni fra la materia e colui che la tratta.
L'esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga ma nella seconda e nelle seguenti.
Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato. Sorrisi d'un sorriso che nessuno vide nell'ombra, quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto, al lume d'una lampada bassa.
Quando ella si accostò al mio capezzale col suo passo cauto e mi portò il primo fascio di liste eguali, tolsi pianamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. Sentii ch'eran divenute più sensibili, con nelle ultime falangi qualcosa d'indistinto che somigliava a un chiarore affluito. Stavo per imparare un'arte nuova.
Prima, la mano soppesava la materia e l'occhio la considerava. La materia aveva colore, rilievo, timbro. La penna era come il pennello, come lo scalpello, come l'arco del sonatore. Temperarla era un piacere glorioso. Lo spirito umile e superbo tremava nel misurar la risma compatta e intatta da trasmutare in libro vivente. La qualità dell'olio per la lampada era eletta come per un'offerta a un dio inconciliabile. Nelle ore di creazione felice la sedia dura diveniva un inginocchiatoio scricchiolante sotto le ginocchia che sopportavano la violenza del corpo inarcato.
Nel buio, un sentimento vergine rinnovava in me il mistero della scrittura, del segno scritto. Il mio corpo era come in una cassa, disteso e serrato. Mi pareva di essere uno scriba egizio, in fondo a un ipogeo. Occupavo la mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina. Pensavo sorridendo: «Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell'officio mio. Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov'è dipinta all'esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l'orrore della vita?»
Il mio capo restava immobile, chiuso nelle sue bende. Dalle anche alla nuca una volontà d'inerzia mi rendeva fisso come se veramente l'imbalsamatore avesse compiuta su me la sua opera.
Sùbito le mie mani trovarono i gesti, con quell'istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose. Prendevo una lista, la palpavo, la misuravo. Era simile a un cartiglio non arrotolato, simile a uno di quei cartigli sacri che i pittori mettevano nelle loro tavole. V'era un che di religioso nelle mie mani che lo tenevano. L'udivo crepitare tra le mie dita che tremavano. Sembrava che la mia ansia soffiasse sul tizzo ardente che m'avevo in fondo all'occhio. Vampe e faville s'involavano nel turbine dell'anima. Sentivo su le mie ginocchia la mano della pietosa.
Le sollevavo leggermente per ricevere la tavoletta. Era, per me oscurato, come una tavoletta votiva. Fra il pollice l'indice e il medio prendevo il cannello. Il medio aveva tuttavia il solco del lavoro ostinato. Nulla dies sine linea. E tremavo davanti a quella prima linea che stavo per tracciare nelle tenebre senza scorgere le parole.
Cerco nelle rubriche del Notturno, e trovo questo:
[Non scrivo su la sabbia, scrivo su l'acqua. Ogni parola tracciata si dilegua, come nella rapidità d'una corrente scura. A traverso la punta dell'indice e del medio mi sembra di vedere la forma della sillaba che incido. È un attimo accompagnato da un luccicore come di fosforescenza. La sillaba si spegne, si cancella, si perde nella fluida notte.
Il pensiero sembra correre sopra un ponte che dietro di lui precipiti. L'arco poggiato alla riva è distrutto, sùbito crolla l'arco mediano. L'ansia raggiunge la riva opposta con uno sgomento di scampo, mentre il terzo arco cede e sparisce.
Scrivo come chi caluma l'àncora, e la gomena scorre sempre più rapida, e il mare sembra senza fondo, e la marra non giunge mai a mordere né la gomena a tesarsi.]
Un giorno mi venne il desiderio improvviso di riconoscere l'accento di quell'altra mia arte; e mi ricordai di un'opera da me scritta nel mio rifugio della Landa, tra la fine della primavera e il principio dell'estate, scritta con una penna e un'attenzione più aguzze che mai.
La voce di Desiderio Moriar mi risonò nel buio. «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano.»
Il volto di Desiderio Moriar mi riapparì nel buio. «Egli fece la notte in sé, coprendosi la vista con le palme; e restò silenzioso.»
Allora pregai qualcuno, che stava al mio capezzale, di rileggermi quelle pagine obliate.
V'era, qua e là, alcun tratto d'arte notturna. V'erano parole d'uno strano potere, che sembravano tracciate a occhi chiusi. Tra riga e riga, gli aspetti della vita assumevano il carattere delle apparizioni. «La nostra vita è un'opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto è più ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l'ordine delle leggi apparenti.» La vocazione della morte v'era espressa con modi musicali d'una novità che mi rapiva. Avevo dato al «pensiero dominante» uno stupendo viso di donna, «quell'antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte».
Certe cadenze mi facevano d'improvviso balzare il cuore veloce e suscitavano dal fondo del mio occhio ferito grandi bagliori, come d'un incendio che ricominciasse.
Ed ero immobile sempre. Gli orizzonti si avanzavano come quattro barre, si chiudevano come uno steccato. La città vi rimaneva dentro, senza vista, senza respiro, esanime. La casa, piena di sollecitudini, di voci sommesse, di cure, di rumori segreti, di piccoli iddii nascosti, s'acquetava, si dileguava quasi, diveniva inesistente. Sole le quattro pareti della mia stanza esistevano; e intorno era il vuoto senza fine. Poi sole esistevano le quattro colonne del mio letto, che credevo di sentire nel buio come quattro aste d'una tenda quadrata nel deserto. Poi sole esistevano le mie ossa, solo esisteva il mio scheletro fasciato di carne.
E nello scheletro era come una coagulazione subitanea della vita. La vita s'aggrumava, s'accagliava come il sangue che non scorre più. Era un orribile peso.
E ascoltavo la voce del lettore: «Tutto il mio essere aderì all'incognito che è il fondo della vita, per l'ombra accolta nel corpo, pel buio che occupa i nascondigli della carne, per l'oscurità delle viscere e dei precordii. Sentivo stillare verso me il dolore e la morte come le gocciole che gemono dalla parete d'una caverna tenebrosa. Una disperata poesia divenne la mia propria sostanza....»
È dunque un dono funebre questo che io vi mando, o Chiaroviso?
È l'ultima opera d'arte pura ch'io abbia composta nella solitudine dell'estremo Occidente. A considerarne la materia e il lavoro, par chiusa come una di quelle belle pigne penzolanti dal più alto ramo del pino piagato; la quale io m'imagino non possa esser colta se non per infiggerla alla punta del tirso «che rende furibondo chi lo porta».
Dimentico dunque di averla già assomigliata a qualcosa di più dolce che i semi durissimi custoditi dalla scaglia verdebruna? Ma forse entrambe le similitudini le convengono; ché nulla è inconciliabile dinanzi alla sovranità del ritmo.
Mi misi a comporla attentissimamente, per farmi il polso allo stile di un'opera più vasta intitolata La primavera. Anche una volta, mi aiutava a scoprire gli aspetti dell'ignoto la mia più profonda sensualità. Questo racconto misterioso, anzi quasi direi mistico, è ricco d'elementi naturali come nessun altro. Il mistero v'è adombrato per una successione d'imagini dense, corporee, d'un rilievo palpabile, immuni da ogni indeterminatezza, espresse in una lingua che la lontananza sembra aver fatta più potente come il vino navigato.
Per solito io sono sagacissimo nel distinguere quel poco che di me può piacermi. Questo mi piace. V'è il meglio dei miei difetti e delle mie virtù, con qualcosa d'indefinibile che annunzia una terza giovinezza del mio spirito.
I miei prossimi sanno come l'unica lode che mi valga sia quella di me a me, infrequente. Sorrido prendendo in mano questa cosa d'arte, soppesandola e stimandola da ottimo conoscitore, quasi non fosse mia, con un occhio che si esercita per due, mentre la necessità dell'azione m'incalza e il desiderio della bellezza sembra irrevocabilmente sottomettersi a quel «ritmo di perfezione sublime non consentito agli uomini se non nella sola ora che segue il transito.»
È dunque un dono funebre questo che io vi mando, o Chiaroviso, là dove i cigni solcano tuttavia in pace lo stagno di Silvia la Romana?
In fondo, non è se non una storia di canile, poco dissimile a quelle che ci raccontavamo certe sere seduti su i banchi dei favoriti frantumando il biscotto quadrato, mentre i garzoni continuavano a spandere la paglia fresca nelle cucce attigue donde saliva a quando a quando un lagno di gelosia.
Temo che Marcello dalla sua tenace avversione contro i barzoi sia impedito di gustarla, specie dopo la cattiva prova fatta sul nostro campo di corse da quei discendenti della razza tartara che nell'originaria steppa asiatica difendeva la tenda contro le belve notturne e non temeva di battersi col leopardo, addolcita poi nella migrazione verso l'istmo caucaseo, verso la Tauride e il Volga, forse accresciuta di grazia e di snellezza da qualche mescolanza col biondo veltro di Persia che si vede figurato in quelle miniature di cacce ove i re sassànidi tendono l'arco mentre le favorite a cavallo suonano l'arpa o il tamburino.
So che non lo commoverà una sì nobile genealogia, tanto studiosamente raccolta in un periodo disposto in tondo come il dosso di un levriere che dorma sopra un bel tappeto. Ma non mi accorderà egli forse qualche indulgenza se gli dirò che usavo allenare i miei barzoi di diciotto mesi con un terribile greyhound per toglier loro ogni traccia di mollezza acquistata in Occidente, e se gli dirò che non amo la mia muta piumosa e spumosa se non lungo la riva del mare?
È una vera storia di canile, in fondo. Mettiamo che non si tratti veramente di levrieri ma di cigni. Bisogna per lo meno convenire che son cigni della specie di quelli, oriundi non dell'Eurota ma della Moskova, i quali riescirono a sbigottire Donatella sedicenne. Vi ricordate della bella storia che la grande amica ci raccontò frescamente, sul banco del suo divino Plotinus — the fastest dog of his day — una sera di luglio memorabile negli annali del Greyhound Club di Francia perché fu la sera in cui dovevano nascere gli otto illustri cuccioli dalla nera White Orris sposata al biancazzurro figlio di Platonic e di Streemoch?
Un collegio di fanciulle nobili instituito da una vecchia dama in memoria della sua figlia morta: una grande casa di campagna in un parco immenso e solitario come una steppa, biancheggiante di betule, occhieggiante di stagni.
Tutte le sere le educande vanno a uno stagno che sanno, pieno di cigni. Attraversano il parco tenendosi allacciate e cantando in coro. Portano il pane ai cigni che accorrono verso il margine fendendo l'acqua liscia; e tutta l'acqua rimane raggiata di scie su l'imbrunire. Risa, grida, sobbalzi; e non so che vago terrore, perché i grandi uccelli taciturni guardano con un cipiglio selvaggio e si appressano a prendere il cibo con un aspetto quasi imperioso alzando le ali a calice sul dosso e tenendo il collo all'altezza delle cinture. Le vergini hanno i loro prediletti; e li imitano nelle attitudini talvolta, inconsapevolmente, come l'amante imita l'amato e di lui si forma.
Or ecco che una sera le damigelle inebriate di canto trascurano di portare il pane. I cigni accorrono, e non ricevono se non voci di rammarico e promesse che non riempiono le mani vuote. Qualcuno soffia di collera come il serpe drizzato contro l'incantatore.
Quando le fanciulle si accomiatano per riprendere la via del ritorno, afflitte d'aver deluso i favoriti, ecco che odono su le loro tracce uno stropiccìo di piedi palmati e di penne dibattute. Si volgono, e scorgono la frotta malcontenta che, lasciato lo stagno, le insegue senza grazia pel cammino. Gettano un grido che più le sbigottisce, e si danno alla fuga, credendo di avere alle calcagna il soffio dei lunghi colli, credendo di vedere a ogni svolto biancheggiare la frotta minacciosa. Non si arrestano. Le più timide e le più folli comunicano alle altre la paura e la delizia d'aver paura. Giungono a casa scapigliate, pallide, anelanti, con nel bianco degli occhi la voluttà del rischio ignoto. Raccontano l'avventura interrompendosi a vicenda con la voce rotta dall'ansia. Qualcuna a un tratto scoppia in singhiozzi. Entrando per le finestre aperte la sera ha lo sguardo torvo dei cigni; le tende mosse dalla brezza hanno il fremito delle piume. La notte cala come le notti delle favole. Si favoleggia fino a tardi. L'inquietudine scaccia il sonno dai letti virginei. Si ascolta, si palpita, si sobbalza. Quando gli occhi stanchi si chiudono, quando si placano i seni illesi, di tra le pieghe delle cortine bianche un collo bianco s'allunga verso il capezzale.
V'era una copia dorata della Leda marciana, sopra una base di marmo veronese, nel gabinetto che per una favorevole disposizione della luce fu scelto dal dottore chiamato a esaminare il mio occhio spento, la sera del mio ritorno dal campo.
Ero seduto sopra uno sgabelletto; e il piccolo specchio forato splendeva contro la mia fronte come il fuoco di un astro infausto. Ero tranquillo ma attentissimo come quando mi ritrovo solo con la mia sorte e tendo l'orecchio a percepire una mutazione di ritmo da introdurre nella mia musica.
Il dottore abbassò lo specchietto forato. La sua faccia mi piacque per una certa crudità che contrastava con tutte quelle forme della raffinatezza settecentesca in quello stanzino adorno di medaglioni mitologici.
«Chiuda l'occhio sinistro» mi disse, con un modo brusco che mi parve rendesse ancor più salda e diritta la mia spina dorsale. «E mi dica quel che vede di quella statua lucente.»
La doratura brillava giù per la lunga schiena, giù per le gambe lunghe della Leda callipige; e tre riflessi vividi rilevavano i tre unghielli del Cigno confitti nella coscia con una violenza di rapina.
Premetti con un dito la palpebra sinistra. Non vidi più nulla, se non il doppio apice della capellatura, di là da un'onda nerazzurra sottilmente orlata d'ambra.
Allora, non so perché, mi riapparve in mezzo dell'anima il viso di Donatella quale era là, sul banco del suo campione, quando raccontava l'avventura dei cigni ridivenuta sedicenne, fresca e misteriosa come la sua voce: una tra le più potenti grazie della terra.
E sentii, come Nontivolio su la riva degli Schiavoni, quanto la vita fosse bella.
Tuttavia, nel levarmi e nel ricondurre fino all'uscio col mio più affabile sorriso l'aspro condannatore, io ero accompagnato da una bellezza d'altra natura, per cui credo che piacqui al mio demonico.
La vita è bella, anche pel monocolo; il quale può dirsi beato in paese di ciechi. Imagino che oggi siete nella casa di Silvia, o Chiaroviso, con quella veste bianca e succinta che avevate visitando la villa Torlonia. V'intrattenete, imagino, nella «sala fresca» della fontana che alimenta lo stagno, all'ombra dei faggi. Vi si fa un concerto di oboe, di flauti e di pive, misurato da Luigi Lulli con battute di tirso? O forse la compagnia italiana condotta da Domenico Biancolelli vi recita Arlecchino e Lelio servi del medesimo padrone?
In codesto chiaro stagno le dame solevano prendere con nodi scorsoi i cervi che il suono dei corni e il clamore delle mute cacciavano verso lo scampo dell'acqua. Legavano esse il laccio a prua del palischermo e, levati i remi, si lasciavano trarre alla ventura dalla bestia perduta che tentava di riguadagnar la riva.
Non v'è in tal diporto quasi una similitudine di questi miei divagamenti? Segnis ludibria languoris.
La vita è bella; e l'arte è sempre da trovare; e nessuna materia varrà mai ciò che lo spirito inventa.
L'altra notte ritornai alla Madonna dell'Orto, rientrai solo nel giardino del Procuratore, per l'approdo che guarda la laguna, per quel cancello rugginoso dove un giorno avevo veduto esitare le due farfalle bianche. Qualcuno m'aveva annunziato la fioritura precoce del grande loto. Portavo una lanterna cieca, e l'occhio avido.
Inciampicai a destra su quei tre gradini di mattoni messi per coltello. Camminai lungo le inferriate intravedendo il chiarore della luna logora che sorgeva dietro i cipressi di San Michele. Voltai sotto il muro che corre dalla parte della Madonna. L'ombra mi avviluppò. Non potei evitare la stretta pergola cupa che quel giorno avevo temuta. Là ero atteso. L'aria s'agghiacciava dietro i miei passi. La vedetta dall'altana degli Spiriti gettò il suo grido, che mosse le onde della notte liquida.
Pensavo che il primo fiore del loto mi facesse un segno chiaro. Ma l'oscurità era più fonda in quel luogo che credevo di riconoscere. Nondimeno tenni coperta la lanterna, per non disperdere il mistero che d'attimo in attimo mi rendeva più sensibile. Respiravo lodare dell'acqua tacita, come se mi chinassi su la bocca d'un pozzo. V'era qualcosa come un respiro senza suono, nella tenebra. V'era qualcosa come una perfezione presente. V'era qualcosa come un evento magnifico, sospeso nel tempo. Tutto il mio essere si affannava a sentire di là dalla sua potenza. I limiti del mio corpo si confusero coi margini delle vaste foglie.
Feci la luce. Una creatura da non abbracciare, da non possedere. Ogni foglia come una faccia voltata verso una felicità non visibile se non a lei sola. Steli così puri, d'un così spontaneo getto, d'una così necessaria ascensione, che non potevano aver nascita da una radice obliqua. Una divinità in piedi, che lasciava intravedere i lembi rotondi del suo divino ammanto. Non so che ombra voluttuosa sopra non so che pensiero eterno. Una voluttà vinta dalla bellezza. Una melodia modulata dall'alto verso il profondo, verso ciò che deve risorgere. Un silenzio diviso e unanime.
Non avevo ancora scoperto il fiore. Ero come qualcuno che in ginocchio levi lo sguardo su per la veste ineffabile al cui sommo sta il viso nudo, il candore ch'egli teme di profanare, la verginità intatta.
Finalmente! Era più alto che tutte le foglie, più alto d'ogni altro stelo. Veduto, non lasciava più altro vedere. Senza radice, solo, nella notte.
Una mano mi toccò la spalla. E soltanto allora mi volsi.
La vita è bella. Sotto le pergole di quella vigna Nontivolio avrebbe dovuto curvarsi come la grande Circe quando versa il filtro nelle coppe delle mense collocate Presso il suolo. Era una vigna di Murano, una solitaria vigna in pergole, appena appena inclinata verso l'acqua, all'estremità dell'isola.
Fu ieri, o quasi, e me ne ricordo come d'un sogno interrotto. Passammo Per un monastero senza monache, vecchissimo, senza usci senza imposte, pieno di donne cenciose e di bambini macilenti, brulicante di malattie e di miserie sonante di ciarle e di strilli e di singhiozzi, popoloso e vuoto, dove ardeva e splendeva l'ara di un vetraio, laggiù, in fondo a un corridoio ingombro di legna: un cuore di fuoco domato. Il dolore della Foscarina ripalpitava all'orlo della fiamma.
Poi, non so per che via, non so per che andito, entrammo nella vigna come in un'opera di vetro freddo e verde.
Era un labirinto di pergole basse. Non ci si camminava in piedi. Le viti qua e là si staccavano dai graticolati malfermi di pali e di canne, per coricarsi in terra, per abbracciarsi su l'erba. I tralci a ogni passo c'impastoiavano; i pampani ci passavano una mano fresca su la faccia; i viticci tentavano di pigliarci l'orecchio e il collo. Tenevo il braccio alzato su la fronte per proteggere la vista che mi rimane, temendo il palo aguzzo e la canna fessa, nell'ombra ingannevole. Intravedevo le stelle per gli spiragli della volta pampinosa, e parevano vicine da poterle tastare come i grappoli acerbi che penzolavano da per tutto fitti e duri.
V'era un lume quasi di crepuscolo, un lume di perla, un albore di via lattea, che rendeva sensibile la trasparenza dei pampani. V'era talvolta un che di vitreo, un che di fragile, qualcosa come un ghiaccio verdiccio che s'incrinasse, che si screpolasse. Il canto delle raganelle continuava in suono quella fragilità, quella verdezza. Credevamo di udir saltare una botta molliccia a traverso il cammino, e mettevamo il piede cauto per non schiacciarla, rabbrividendo. Senza sapere perché, avevamo uno sgomento improvviso, un senso languido di freddo, come se la febbre ci salisse dall'erba su per le ginocchia. L'umidità pareva che c'impallidisse, che c'illividisse. Il cammino si faceva cedevole. L'orma si sprofondava. Ci sorreggevamo a vicenda per non sdrucciolare nella belletta.
Tornavamo indietro, smarriti, esitando ai crocicchi. Eravamo prigionieri del laberinto d'uva. Le pergole si facevano più basse. Andavamo quasi carponi, vincolati dai sarmenti, serrati nella frescura delle foglie, soffermandoci a mordicchiare i viticci asprigni. D'improvviso vedevamo luccicare l'acqua, giù per un'apertura praticata tra la ripa e la fratta come una callaia da passarvi. V'era legato a un piuolo, con una corda stramba, un sandalo marcito; e un mozzicone di remo, una forcola consunta, una gottazza senza manico davano al silenzio raccolto in quel legno cavo una tristezza umana che faceva pensare agli annegati solitarii.
Da quella parte la vigna era più selvaggia: finiva in prunaia, finiva in canneto. Sentivamo, di là dagli sterpi, di là dalle cannucce, l'ambascia della dozàna, l'afa dell'acqua morta, sciacquìi e fruscìi misteriosi nel limaccio. Erano i serpi che calavano ad accoppiarsi con le anguille in amore?
Non so che apprensione ci respingeva verso i dubbii intrichi della vigna. Erravamo ancora di pergola in pergola, abbassandoci, risollevandoci. Vedevamo sopra ogni pampano una stella, posata come un acino di luce. Tastavamo i grappoli immaturi per trovare un granello meno acerbo. Ci pareva che l'umidità c'inverdisse fino alla cintola. Il bianco degli occhi, in chi mi camminava allato, era stranamente bianco.
A un crocicchio ci abbattemmo in una tavola rustica, senza tovaglia, intorno a cui erano disposte le scodelle e le panche. Non v'era seduto alcuno, se non una figura di spavento. Noi ci sedemmo, trasognati, obbedendo a una sùbita stanchezza.
Allora ci fu uno che ruppe il silenzio per dire: «Questa tavola è fatta col fasciame della barca che pescava l'alga nella Valle dei sette morti».
Vi sono parole che sembrano crearsi nell'aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse. Erano modulate secondo quella luce e quell'ombra, secondo quegli aspetti e quei lineamenti, secondo quel freddo verdore di sott'acqua ove il respirare era simile al boccheggiare. Risolvevano con un accordo atteso i rapporti musicali della malinconia.
«Quale barca raccoglieva l'alga nella Valle dei sette morti?» domandò un'altra voce intonata su quella cadenza.
La tavola era dinanzi a noi. fatta d'un legno più vecchio che quello del coro di Santa Chiara, dove sono iscritti i nomi lucenti delle prime Clarisse ed è appeso un fascetto di spighe. Era di pino. Mostrava le vene e i nocchi. Scheggiato, screpolato, abbrumato, serbava l'odore del catrame e della salsuggine. Io v'ero appoggiato con i due gomiti e mi reggevo con le due mani il capo; e mi pareva di sentirla barcollare come se fosse ridivenuta cava e avesse rimutato in chiglia i suoi quattro piedi.
Tenevo le palpebre socchiuse; e rivedevo — con l'occhio che non riconosce più i viventi ma riconosce i fantasmi — rivedevo Roberto Prunas, il mio compagno sardo, caduto nella laguna con le ali rotte, rivoltolato e trascinato dalla corrente, non ritrovato se non dopo molti giorni dai palombari, laggiù, agli Alberoni, tutto disfatto nel sacco del suo gabbano, con mezza carne del viso distaccata dal teschio.
V'era, in quel verdore di sott'acqua, non so che spavento bianchiccio.
L'antica leggenda lagunare trasformava la vigna in barena. Ascoltai? o guardai?
«Sette uomini dei lidi, raccoglitori d'alga, passando con la barca lungo una barena, scoprirono il corpo d'un annegato che giaceva sul fianco tra i fiori di tapo, deposto dalla magra. Non gli s'appressarono per tirarlo a bordo o almeno per legarlo con una cima e prenderlo a rimorchio. Passarono oltre. Attesero a raccogliere l'alga. Poi accadde che, venuta l'ora del pasto, si riaccostassero a quella barena per cuocere la polenta e scodellarla.
Era con loro un fanciullo, il figlio d'uno d'essi. E il fanciullo, mentre il paiuolo bolliva, si dilungò dalla barca. Vide sul margine della barena, tra i fiori di tapo, un uomo coricato che non si mosse. Tornò egli al padre, e disse: Padre v'è laggiù uno che dorme. A Nora il padre gli fece: Va, e sveglialo, che venga a mangiare con noi.
Il figliuolo andò, e toccò alla spalla il giacente, un poco lo scosse. L'uomo si svegliò, e si rizzò in piedi, e si mise a camminare dietro il bambino.
I sette avevano giù scodellato la polenta: e s'erano posti innanzi alle scodelle fumanti, e attendevano.
Come scorsero l'ombra di colui che veniva a mangiare con loro, di sùbito piegarono il capo, né più lo rialzarono; né fecero motto, né diedero fiato. Così stettero, rimasero.»
Allora levai la testa, e guardai. E vidi venire per la notte verde, sotto la pergola bassa, il corpo alzato di Roberto Prunas nel sacco fradicio del suo gabbano impellicciato. E la carne macera gli tremolava su l'osso del viso; e la mascella era scoperta, perché mancava il pezzo del labbro; e la fossa del naso e un'occhiaia erano vuote.
La vita è bella, o Chiaroviso. L'altra notte tornavamo dall'aver fatto musica in quella sala verde ove, se vi sovviene, i sonatori capelluti di Giorgione partendo avevano dimenticato l'archetto di una viola da braccio.
I nostri sonatori erano alcuni giovani cannonieri dal capo raso, che la guerra ha tolti da un'orchestra di legni e posti in un'orchestra di acciai. La viola era venuta da una batteria di San Nicolò; il violino era disceso da un'altana munita; il violoncello aveva smesso allora allora la guardia della strada ferrata. Ed era un famoso strumento d'un famoso liutaio, di Andrea Guarnieri: una creatura sensibile come uno dei miei levrieretti d'un anno, vestita duna vernice così ricca, d'una pelle così trasparente, che l'avevo veduta rilucere perfino all'ombra degli alberi, tra le fresche pareti verdi, come se veramente la sua lucentezza cristallina fosse data dalla polvere di diamante.
L'artigliere aveva ricolcato il suo dolce violoncello nella custodia e avviluppato la custodia in un càmice di panno bigio. Ma, poiché la gondola era carica da poppa a prua come la barca di Caronte, la cassa stava in piedi per prender meno posto, e aveva il suo corpo, il suo collo, il suo capo, a simiglianza degli altri passeggeri. Essendo calda la notte, il sonatore, toltosi il berretto, ne aveva coperto la sommità della custodia, là dove riposa il manico dal mirabile riccio; cosicché eravamo nel leggero legno dieci uomini e uno spettro d'uomo. Tutti eravamo seduti su le panchette o sul fondo. Soli stavano in piedi lo spettro bigio e i due soldati rematori. Il violoncellista reggeva il suo caro con le due braccia. Ciascuno di noi serbava tuttavia nell'anima la potenza di quelle corde ridiventate mute.
Calda era la notte, senza bava. Lo scirocco aveva perso ogni alito. Il latte di Galassia pareva inondare tutto il firmamento. Le stelle annegavano in una biancosa mollezza. L'acqua pareva «in ardore» come nelle maree di settembre, come intorno al tempo dell'equinozio. I due remi propagavano gli anelli della fosforescenza sino ai muri della Sacca.
Andavamo per la Sacca della Misericordia cercando l'eco. Era con noi una cantatrice dalla voce duplice, che saliva alle più alte note del soprano e scendeva alle più basse del contralto: un pallore cupo annodato da nere trecce, sopra un collo rigato dalle vene della melodia. La sentivamo tra noi vivere d'una pura vita musicale, come il violoncello di Andrea Guarnieri. Ciascuno di noi era legato a lei dalla cadenza di un'aria prediletta. Non avevamo altra voce se non la sua.
Ella teneva la testa alta, come lo spettro bigio. Era attentissima, come a un richiamo. Le sue labbra serbavano la forma della modulazione. Mi pareva di vedere la nota nella sua gola come la perla nella conchiglia.
Di tratto in tratto metteva un gorgheggio e poi inclinava la testa nella pausa, come l'usignuolo quando incomincia. Tutti imitavamo quell'atto, ascoltando se la risposta venisse. Così ella tentava l'aria, tentava il silenzio.
I rematori levavano il remo, restavano sospesi, chini anch'essi dalla medesima banda, mentre dalla pala gocciolava l'acqua in collane disciolte. Poi seguitavano a remare piano, anch'essi attentissimi, cercando di divinare il luogo acconcio, scotendo il capo quando la voce non era ripercossa. Tentavano l'acqua come la cantatrice tentava l'aria. Ci sentivamo fatti d'aria, d'acqua e di musica. La gondola era uno strumento natante, col suo corpo, col suo manico, con la sua rosa, col suo scagnello.
Dov'era l'eco? Era scivolata lungo i muri? s'era nascosta sotto il ponte della Sacca?
Ma la cantatrice paziente continuava a interrogare il silenzio. Talvolta qualche nota veniva ripercossa, come se la piena eco fosse prossima. Il rematore di prua teneva il remo ritto a governare; solo vogava adagio adagio quello di poppa, senza che lo scalmo forcuto desse il più lieve stridore. Era come nella caccia di padule, quando il barchino s'accosta al branco e il fucile è già contro la spalla e l'occhio alla mira, e nessuno fiata. Ma, poco più discosto, le note si perdevano. E una strana pena cominciava a opprimerci. Qualcosa di morto era intorno a noi, era tra noi. Mi volsi, e vidi i cipressi di San Michele nel biancore lento. Rabbrividii guardando lo Spettro bigio ch'era tra noi l'undecimo, immobile, rigido, più alto di tutti.
Cresceva la notte senza bava, già senza stelle. I cerchi di luce si rompevano contro le grandi zattere di legname che galleggiavano nella Sacca tristi come se avessero trasportato mucchi di naufraghi o di pestilenti. Le finestre cieche del Casino degli Spiriti, murate a una a una per impedire che vi si riaffacciasse la fantasima, non si riaprivano?
D'un tratto udimmo un tuono cupo come d'un uragano che scoppiasse laggiù su l'Adriatico. Stavamo per entrare nel rio di Noale.
Alzai una mano per far segno ai rematori che s'arrestassero. La mia mano mi parve troppo pallida e il mio gesto troppo vano. Guardai i miei compagni, e li vidi tutti dello stesso color grigio, dello stesso color di cenere, nella barca nera, tutti simili a quello spettro ravvolto in quel càmice e coperto di quel berretto. Erano tutti fissi come quando aspettavano che l'eco rispondesse al gorgheggio escito di quella bianca gola.
«È il cannone su l'Isonzo, uno disse, a bassa voce, da prua come da una indefinita distanza
E due o tre mani troppo pallide si levarono ancora, per far più di silenzio in quel silenzio mortale.
E fu l'ultimo gesto. Ascoltammo, senza soffio, senza colore, divenuti spettri gli uni per gli altri, esangui, esanimi. Non ci guardavamo in viso, ma tutti eravamo fissi al morto dal càmice bigio che ci dominava, ritornato dal sonno come quello che piegò su le scodelle le facce dei raccoglitori d'alga.
I tuoni si seguivano quasi senza pause, formavano un solo rombo propagato dalle solitudini del mare. La battaglia era nascosta sotto l'orizzonte, bolliva nella conca della notte. Gli spettri di prua vedevano forse il fumo del bollore sanguigno tingere l'orlo dell'alba.
Noi non ci volgemmo; non potemmo noi volgerci. Né si volsero i vogatori. I remi rimasero sospesi su l'acqua lùgubre, e credemmo che non ricalassero più.
La vita è bella. Oggi è il solstizio d'estate, è l'immobile estasi della luce, la culminazione del giorno febèo. Tutta l'aria è volontà e voluttà di vita. Il cerchio del sole sùbito brulica d'api ardenti che mellificano il fuoco. Passa nel libeccio l'ebrezza del miele igneo. Il bel giardino lagunare, ove fiutammo tutto il profumo d'Italia accolto, lentamente si cuoce. Sfatte sono le rose, sfatti sono i gigli; e gli steli ingialliti si mutano in stecchi. Le speronelle si sfogliano al vento come farfalle che perdano un'ala. Gualcita è la seta dei gracili rosoni che s'aprono intorno alle verghe fogliute delle alcee. Ma il timo, il rosmarino, la spicanardi, tutti gli aromati, sembrano consumarsi come l'incenso. I fiori numerosi della lavanda sono quasi fumo azzurrino. I melograni sono tutti accesi di fiammelle che si nutrono nella cera scarlatta dei balausti. Il giardino s'appassisce e s'appassiona. Gli ho lasciato il mio affanno. La bellezza del fiore si perde, e il frutto non riempie la mano.
Io sono andato a visitare i morti. Si compiono oggi quattro mesi della mia pena, si compiono sei mesi dal trapasso di quel compagno alato ch'era divenuto la metà del mio coraggio, dimidium animi. Ed egli era nato, or è trentatre anni, nel giorno del solstizio estivo. È questo il suo dì natale, il suo genetliaco di luce.
Per la prima volta ho sfidato la luce, nell'ora vietata. Mi pareva d'andare verso il totale abbacinamento, verso la cecità compiuta; o verso un miracolo d'oro. La scala era nell'ombra, tutta la casa era nell'ombra delle tendine verdicce: una prigione cupa e senza pace, dove il letto è un segno spaventoso come la croce a chi ne fu deposto tramortito per ricominciare a morire.
Sono disceso con cautela, senza rumore, come chi fugge per non tornar mai più. Sentivo le mura fatte di tedio, d'angustia e di smania. Andavo ai morti come alla libertà. Nondimeno ho esitato prima di passare la soglia Ho avuto paura della luce come d'un abbacinatore all'agguato nella calle deserta. Ho visto una lama di sole, stretta come uno stocco, davanti a me, allungarsi sul muro dell'orto dei Corner. E il ragno nero, che sta nel centro della sua tela tessuta dentro il mio occhio destro, m'è parso muoversi in un bagliore giallo vorticoso.
Ma come avrei potuto meglio prepararmi a visitare il più ardito dei miei compagni se non con un atto di temerità? Il gusto del rischio pareva di nuovo diffondersi in tutte le mie membra, simile a un sapore da troppo tempo vietato. L'anima sentiva di nuovo la qualità del sangue, come nei mattini delle mie dipartite, quando il pensiero del ritorno era lasciato nel vestibolo a dispregio, quasi ingombro vile.
Contro la riva il canotto aveva il medesimo battito, incitante come la diana, come il rullo del tamburo teso. Ma non v'era sul banco il mio gabbano pesante, né il mio camaglio, né il mio paio di calzari, né la mia maschera, né la mia pistola carica. V'erano sul banco tre fasci di fiori colti in quel giardino isolano ove respirammo l'essenza inebriante dell'Italia bella: tre fasci mortuarii, coperti affinché non li cocesse il sole. E nella corsa il vento sollevava la copertura e il mio cuore, che mi pareva a ogni tratto il sole non soltanto li guastasse ma li pigiasse come fa dei grappoli il duro vendemmiatore. E il marinaio che era al timone, presso al meccanico, si volgeva e con una mano cercava di ricoprire i fiori, per quetare la pena che la sua gentilezza leggeva nel mio viso. Ma anche quella mano era rude come il sole, e mi faceva soffrire. Imagini funebri mi attraversavano il cervello pulsante. Rivedevo la mano villosa del medico nell'atto di ricoprire il cadavere dopo avere iniettato il balsamo per conservarlo.
Allora con un segno brusco ho impedito che l'uomo continuasse quel gesto. E il vento ha rapito la copertura, che s'è dileguata tra i due filoni della scìa schiumanti. Sul legno caldo del banco il sole divorava la freschezza dei fiori.
Ho cavalcato per ore ed ore nel deserto. Solo, di mezzogiorno, ho traversato le sabbie roventi che dividono le grandi Piramidi dai sepolcreti di Sakkarah. Ma non mi ricordavo che il sole potesse tanto essere terribile. Avevo dunque dimenticato, sotto la coltre della mia tristezza, la forza del giorno italiano?
Ero uscito dalle cautele dell'ombra per entrare in un contrasto di violenze aperte. La vibrazione del motore si comunicava a tutte le mie ossa. Tenevo i miei piedi sospesi per interromperlo, discostavo le mascelle perché non arrivasse all'orbita, serravo la palpebra per comprimere i tessuti e gli umori dell'occhio leso. L'acqua rotta dalla rapidità mi spruzzava la gota; e i suoi riflessi erano intorno come un combattimento ad armi bianche. Vedevo, a traverso la palpebra, un rossore simile a una nuova emorragia raggiante, ove il ragno tenace fosse annegato. E il dominio del mio corpo meschino sfuggiva alla mia anima non dominabile. Il mio corpo temeva, si contraeva, pareva quasi cercasse nascondersi per sfuggire all'offesa. L'istinto se n'era impadronito. Ma la miglior parte di me era sollevata da un dolore più solitario che la sommità stessa del cielo. Consideravo la miseria del mio corpo come la fragilità di quei fasci funebri, sopra quel banco arido e palpitante. Il mio dolore e il mio amore volevano difendere la freschezza di quell'offerta che il sole disfaceva. Più che la velocità dello scafo, quel sentimento mi avvicinava alle tombe. E pure quei fiori erano destinati a esser deposti su le zolle secche, destinati a divenir strame innanzi sera. Che già incominciassero a morire, importava forse ai morti? Potevano essi forse godere la loro freschezza?
O illusione sublime dell'amicizia! Io portavo quelle rose, quei garofani e quelle ortensie a colui che un giorno, reduce da un'impresa su Pola, nell'orto di Tomaso Contarini aperto in vista dell'isola sepolcrale, mi aveva ripetuto un pensiero e un sorriso dell'Estremo Oriente: «La farfalla non parla. Vorrei mi dicesse come sogna i fiori».
L'approdo è dalla parte del muro vecchio. Di là dai mattoni disfatti si alzano i cipressi ancora arrossati qua e là come il panno nero delle coltri che servirono a troppi funerali. Eccomi alla riva. Non so se è vero. Mi ritrovo su lastre di pietre sonore. I passi mi rimbombano nel capo. I quattro marinai hanno di nuovo sollevata la cassa, con le larghe cinghie. Cammino di nuovo dietro la cassa, di nuovo la tocco, la riprendo. Mi accosto, e metto le mie mani sotto: ora sento il peso. La coltre mi copre le braccia fino al gomito. Cammino senza vedere niente altro che il nero e l'oro e i fiori. Entriamo nel chiostro, attraversiamo il portico. Andiamo verso un uscio, verso il deposito mortuario dove la salma attenderà fino a lunedì per essere seppellita. Non mi distacco dal mio feretro. Entro anch'io nella stanza fredda, imbiancata. La cassa è deposta su due cavalletti. È ancora coperta dalla coltre e dai miei fiori. Mentre mi raccolgo e m'agghiaccio e dico anche una volta addio al mio compagno (il suo povero corpo è scosso da questo continuo moto, dalle prove e riprove per la collocazione stabile), ecco che cominciano a entrare le corone. Sono enormi, talune. I portatori le dispongono contro le pareti, l'una su l'altra. Sono cento, sono più di cento. Un'afa irrespirabile. Fiori ancor vivi, fiori già quasi putridi. Tutta la stanza è ingombra. Per far posto, bisogna premere le ghirlande, calcarle, pestarle....
Non è vero. Trasogno. La gran luce m'acceca. I riflessi acuti mi trafiggono come stocchi. La riva è troppo erta sopra la marea bassa. Una mano ignota si tende per aiutarmi a salire. Mi ritrovo su le lastre di pietra arroventate che mi abbacinano. Fuggo verso la porta del chiostro. Ho qualche minuto di smarrimento. Tutta la vita e come uno sciacquìo lontano, simile a quello che suona contro l'approdo verdastro. Tutta la vita è come il ciarlìo continuo di quei passeri su quei tetti bruni ove qualche tegola rosseggia. Vacillo su le ombre delle colonnette, su liste d'ombra sottili come lame a doppio taglio, che mi mozzano le caviglie. M'imbatto nella porta grigia del deposito, che è chiusa. Mi soffermo davanti alla vecchia lapide di Regina Carazzolo. Rivedo incisa la lieve ghirlanda di ulivo e di edera; rivedo le due ali. Come si sono alzate le erbe negli interstizii delle lastre sconnesse, intorno al pozzo francescano! Sono alte come candele infisse. Il gran sole non lascia scorgere le fiammelle.
Passo tra due cipressi e due magnolie. Salgo una breve scala. Un crudele ardore m'abbaglia, simile a quello che tremola sopra le stoppie deserte. Una pietra bianca, una pietra di tomba, si smuove sotto i miei piedi. Odo il lagno rauco d'una sirena che lacera laggiù, la laguna torpida. Odo un maglio che batte, laggiù, su ferramenti grossi. Il cuore mi manca. Tocco il fondo della più opaca tristezza. Sono tra buio e barbaglio. Ho in un occhio l'orribile ragno nero, e nell'altro una vertigine di fiamma. Vado avanti, e non so perché non cada. Tutte le pietre delle tombe si smuovono sotto il mio passo. Discendo qualche gradino che splende e tentenna come le lapidi. Ora la ghiaia stride. Che è quella scala di luce e d'ombra? È la via dei cipressi, che rasenta il cimitero dei marinai. Vedo non so che cosa dolce e miserabile: in un campo di fango rappreso, un mucchio di piccole croci, di poveri segni, di ghirlande secche, di nomi che luccicano, di tumuli senza nomi e senza erbe. E il mio primo compagno non s'alza? non mi viene incontro? E gli altri due miei compagni dove sono?
Dov'è Roberto Prunas? dov'è Luigi Bresciani?
Intravedo nel bagliore il cippo di Giuseppe Miraglia. L'ala dorata d'Icaro vi splende nel cavo. Domina tutte le altre sepolture. È come un grande stipite terminale. Le parole che io v'incisi, la gloria non le dimenticherà. L'alloro che io v'appesi, il tempo non lo sfronderà.
Ma dove sono le altre due tombe? Non le conosco. Non le riconosco. La sera del 2 aprile i due miei amici erano vivi, seduti accanto al mio letto. Dovevano, il giorno dopo, esperimentare la nuova ala, senza di me. Sentivo nell'ombra la loro forza ch'essi dissimulavano, sentivo la loro gioia ch'essi dissimulavano per non straziare la mia impazienza. Tendevo a ogni tratto verso di loro le mie mani per avvicinarmeli. Gino sorrideva con tanta bontà che il suo viso n'era rischiarato. Aveva l'aria d'un giovinetto, d'un guardiamarina ancóra timido, con quella testa imberbe e bionda un poco inclinata verso la spalla sinistra, con quelle ciglia chiare che nel sorriso si serravano e palpitavano lasciando scorrere uno sguardo limpido come una di quelle gocciole di guazza che nel velivolo, fra tela e tela, pendono da un tirante d'acciaio. La faccia di Roberto olivastra pareva invece come invecchiata dai due profondi solchi che contornavano la bocca sottile. Era una faccia di pastore sardo scavata dal tedio e dalla riflessione. Usava egli l'ironia, talvolta l'arguzia; ma la sua maschera era come quelle campagne solcate da torrenti aridi in attesa di piene subitanee. I solchi delle lacrime erano scolpiti nelle gote fin giù al mento. E sembrava che da un momento all'altro dovessero riempirsi.
Da quella sera ansiosa e affettuosa, ecco che per la prima volta ricalco la terra dove i due corpi si disfanno. Cammino fra lo strame funerario, fra il pacciame che ricopre i crepacci. Mi curvo su i morti del mare, a scoprire, a leggere. Ogni nome mi ferisce, ogni pietra mi colpisce. Ecco il capo torpediniere del sommergibile Jalea, Ciro Armellino. Ecco il sottocapo, Biagio di Tullio. Un ricordo sublime mi solleva il cuore. Rivedo, in fondo allo specchio d'acqua esplorato, la lunga tomba di ferro, il sepolcro navale. Ecco i morti del sommergibile Medusa, ecco i morti dell' Amalfi, ecco i naufraghi ripescati e sotterrati. Son forse più tristi qui, in questa mota gialliccia, sotto queste croci meschine, sotto queste ghirlande di zinco.
Forse era meglio che Roberto Prunas non fosse ritrovato dai palombari lungo la diga solitaria. Forse era meglio ch'egli sentisse ancóra passare sopra sé le torpediniere a fuochi spenti in rotta verso i porti dell'Istria. Era meglio che sottomare si cangiasse «in qualcosa di ricco e di strano».
Qui non ha più nome; né il suo pilota ha nome. Li cerco, e non li trovo. Mi smarrisco nella farragine della morte. Vacillo nel barbaglio. Odo sotto il mio cranio uno scampanìo continuo che è come la sonorità della luce. Vedo un'ombra passare lungo il muro abbagliante di lapidi.
È un vecchio cappuccino, vecchio decrepito, che strascica gli zoccoli biasciando, con le mani congiunte sul cordiglio di San Francesco, seguito da un gatto nero e da due gatti tigrati che gli miagolano alle calcagna. Mi accosto, lo riverisco, lo interrogo. Non è se non una tonaca logora, non è se non un cappuccio penzoloni, tanto la sua carcassa mi sembra cadente e sparente. Il suo viso è niente, è meno d'un pomo aggrinzito e muffito. I suoi occhi sono come due frantumi di vetro azzurrognolo, senza sguardo, senza cigli. Si sofferma, non comprende, non risponde. Gli domando dove sieno i miei morti. I morti sono da per tutto. Egli medesimo è un morto che va a coricarsi in quella fossa laggiù, dove i suoi gatti scarni lo lamenteranno tutta notte. I suoi piedi nudi sono morti negli zoccoli che fanno stridere la ghiaia. Egli non ode le voci umane che vengono dalle fondamente lontane; non ode le campane lontane; non ode l'ora che suona; non ode il martello che batte; non ode quel bambino che piange, chi sa dove, forse in fondo a un locello, di sotto a una lapide, dietro a un cipresso.
Dove sono i miei morti? Vedo Roberto Prunas che apre la tabacchiera d'oro donata al suo bisnonno dal re di Sardegna e prende una sigaretta tra le sue dita brunicce. Luigi Bresciani è in piedi, come sotto la tettoia dell'Arsenale dov'era ricoverato il suo meraviglioso idròttero; e la sua gota è inclinata verso la pala dell'elica ferma verticalmente; e le linee del suo volto sono fini, precise e misteriose come quelle del legno propulsante. Batto le palpebre. Le apparizioni vaniscono. Il sudore mi cola giù per la tempia.
Il frate minore non torna indietro. Scorgo nel viale un custode nero. Lo chiamo. Lo interrogo. Non sa. Va a consultare il registro. Si allontana. La ghiaia scricchiola.
L'attesa mi vuota l'anima, e vuota il mondo. I pensieri ruotano e si sperdono come nella vertigine. Col supplizio della luce negli occhi, resto fisso alla mia ombra coricata sul sabbione dove i miei piedi si stampano. Sopra la mia ombra svolazzano due farfalle bianche, simili a quelle che esitavano davanti al cancello rugginoso dell'orto contareno.
Il custode torna. Mi tende una piccola carta piegata: la polizza sepolcrale, la bulletta funeraria: dov'è scritto che Luigi Bresciani fu seppellito nella fossa tredicesima della fila terza.
Oggi è la festa del suo nome.
Ho il foglio tra le dita. Cerco. Scopro la pietra quadrata che porta scolpito il numero tredici.
Nel primo attimo, qualcosa di vivido e di leggero, qualcosa come la sensibilità, come la delicatezza e l'acume del mio amico, trema su quella desolazione. Poi vedo la cruda miseria. Nessun nome, nessun segno. Una grossa corona di zinco e di porcellana, un'altra di conterie nere e bianche; un fascio di palme secche, quasi spinose, legato da un nastro stinto; un coccio rossastro, con uno stecco fitto in un poco di terra; un cartoccio di latta, con un poco di acqua e un mazzolino marcio.
La tristezza mi curva, mi fiacca i ginocchi, mi schiaccia su quel povero orrore. Vedo il viso raso e chiaro, il biondo puerile dei capelli lisci, le labbra esigue e sensitive, i leali occhi fraterni che di sùbito il coraggio affilava e aguzzava. Tra la lugubre cianfrusaglia che ingombra questa sepoltura, scopro il fiore tenue del vilucchio, un che di fresco e di candido, quasi volubile sorriso. S'allevia il peso del cuore.
Ecco che il nostro primo compagno, ecco che il più amato è con noi. La sua voce mi passa nell'anima, come quando conduceva al mio sogno le imagini dell'Estremo Oriente, nel giardino situato dalla Parte dell'ombra.
«Una donna esce dalla casa mattutina, col suo orciuolo, per attingere acqua del pozzo. E vede che un vilucchio prestamente nella notte s'è attorcigliato alla corda umida della secchia ed è fiorito. Rientra nella casa, posa l'orciuolo, e dice: Il vilucchio ha preso la corda. Chi mi dà acqua?»
Qui neppur l'amore immortale può disgiungere dalla putredine la figura della morte. La cassa d'abete rozza, dove fu chiusa — or è sei mesi — l'altra cassa levigata e ornata, per preservarla, è certo fracida nell'umidità della fossa. Le assi hanno ceduto, e la mota salsa ha spalmato l'altro coperchio dov'era inciso il nome di Giuseppe Miraglia.
Il 27 decembre era un giorno di piovitura e di caligine. Tutto il camposanto pareva ridivenuto una barena melmosa. Quando fu portata la cassa di legno bianco, quando l'altra vi fu dentro deposta, quando il marinaio conficcò i chiodi a gran colpi di martello, quando vennero i seppellitori con le corde, quando vidi il fango agglomerarsi intorno alle loro suola su l'orlo della fossa, quando vidi in fondo alla fossa luccicare un poco d'acqua giallastra, io non ebbi se non un pensiero e una pena e una domanda. Mi fu risposto che l'abete grezzo poteva durare in terra due anni. Ma non era vero. I sei becchini grigi imbracarono il legname e lo calarono, pontando i piedi nella mota che saliva a mezza gamba. Poi presero le pale. Le aste delle pale erano lisce per l'uso. Un riflesso vi guizzava a ogni movimento. La terra era molliccia, quasi liquida. Le prime palate di melma sopra le assi diedero un suono sordo, un croscio fiacco. Il corpo dell'uomo alato era sepolto nel fracidume. Ma vidi nel fracidume rilucere una conchiglia. Allora aguzzai la vista. E scopersi innumerevoli conchiglie, intiere o trite, bianche o rosee.
Perché queste cose alleviano il dolore? Perché l'amore superstite rimane così tenacemente legato alla bara, al corpo disfatto, alle ossa, alle ceneri, alla materia del sepolcro? Perché oggi, al primo chinarmi sul tumulo del mio compagno, ho sofferto delle fenditure che il calore apre nel breve spazio compreso tra gli orli di busso ingiallito?
M'è egli più vicino qui? o nella mia casa, o nella strada, o su l'acqua, o dovunque io vada e pensi?
Lo rivedo a traverso la terra, a traverso il legno e il piombo. Lo sento rivivere. Lo sento respirare, lo sento ripalpitare, quando m'inginocchio, quando poso la mia mano su la sua sepoltura calda come sul suo fido petto.
L'illusione è profonda come quella radice della speranza che nessuno di noi riesce a strapparsi del cuore interamente.
Non piango, ma entra in me qualche dolcezza. Resto inchinato, col giogo del sole sul collo. Il mio occhio illeso è sensibile come il mio occhio infermo. Le imagini vi s'imprimono e vi restano. Come guardo fisamente la corona d'alloro sospesa al cippo, ecco che la mia visione si fa verde. Potrei levarmi e accorgermi d'esser divenuto cieco. Perché qui un tal pensiero non mi sbigottisce?
Qui non è l'inerte chiarore glauco che ghiacciava la pergola bassa, là, nella vigna di Murano. È un ardore, un incendio divorante Chiudo le Palpebre, poi le riapro.
Vedo i fili d'erba che tremano.
Vedo un ciuffo di trifogli, e non v'è quello di quattro foglie. Vedo le conchiglie lucenti, e ve n'è una fatta come un'orecchia. Le formiche rossigne camminano su per gli ovoli e gli sgusci del plinto. Una lucertola è ferma contro lo spigolo, e par fusa nel bronzo come il braccio d'Icaro nel bassorilievo incastrato. Ma ciascuna di queste cose perde la sua sostanza vera e si trasmuta in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamentazioni.
Chi ha portato a questa tomba i fiori violetti della barena, perpetui come gli asfodeli? Sono simili a quelli che cogliemmo nella laguna di Grado un dì d'agosto, «fiuri de tapo», per spargerli su lo specchio d'acqua dov'era colato a picco il Jalea. Mi volgo, e vedo il marinaio che m'ha seguito portando i tre fasci di rose, d'ortensie e di garofani. Aspetta, sotto il cipresso, diritto, in silenzio.
Chiudo ancora le palpebre. Sento che il mio compagno è dietro di me, seduto al governo delle leve, come in quella partenza. Sento l'oscillazione del velivolo. Ho davanti a me, sopra una specie di rastrelliera, quattro bombe con le eliche fissate da un fil di ferro e il fascio di fiori che un'anima pietosa ci ha affidato per gettarlo sul sepolcro marino.
Prendiamo altezza. C'è vento fresco, ma l'apparecchio è stabile. Un rullio leggero, a quando a quando, poi un senso d'immobilità, di sospensione nell'aria. Il cuore si dilata. Un sorriso spontaneo brilla alla cima dell'anima.
V'è qualche ragnatelo sparso nell'azzurro.
Il mare increspato fa un poco di bava bianca ai lidi sottili.
Un raggio traversa il cofano e fa rilucere il tubo d'ottone nel motore.
Nella scìa d'una torpediniera i due filoni divergono, simili alle due palme nelle mani della Vittoria.
Tutto di qui appar soave, quasi femineo. Dianzi, la città e il ponte erano come il fiore e il gambo.
La gola di Venezia era come la gola della colomba cangiante quando un poco si gonfia e s'inarca nella voglia di tubare.
I colli euganei erano laggiù come tumuli d'amanti famose, inzaffirati.
Le chiare dighe sono cinture cinte alla terra bionda e molle che, come una donna, ha le sue delicatezze segrete da non potersi sorprendere se non di quassù.
Nell'estuario le porzioni della terra sembrano fatte per essere offerte, come il pane si frange, come la focaccia si parte.
Il fango è una materia preziosissima: di quassù è opulento come la sabbia del Pattolo.
Le rive sono protese, distese come chi si stira nel sopore: sono attitudini, sono gesti.
La laguna ha i suoi prati che aspettano le sue greggi d'argento squammose.
La laguna è come la perlagione d'un cielo vista a traverso le nervature duna foglia macera.
Ora il mare la imita. Ora nel mare le correnti rilucono e lo fanno simile alla laguna solcata dai canali tortuosi.
Nel pallore della laguna i canali tortuosi sono verdi come la malachite, verdi come l'ossido di rame, come certi occhi.
Le piccole città bianche, su le sporgenze della costa, sono da prendere e da portare in palma di mano.
Ecco Caorle. Sta sopra una sporgenza che ha la forma di una tiara aguzza.
Guardo ancóra Caorle. Il lido m'appare tagliato come una sella d'alto arcione; e la città è posta in sommo dell'arcione di velluto logoro.
Il mare è deserto. Gli orli spumosi hanno una dolcezza infinita, simili a non so che favellìo, a noi so che sorrise parolette.
L'ala inferiore è metà nel sole e metà nell'ombra. La parte davanti è nel sole. L'ombra di tratto in tratto avanza. Resta nel sole una striscia sottile: la costola.
Leggo e comprendo i segni intersecati che fanno le ombre dei tiranti d'acciaio.
Ho lo spirito lucido come l'aria. Si sale, si sale. «Sublimare è d'una cosa bassa e corrotta farla alta, e grande, cioè pura.»
Si sale. Siamo di là dai duemila metri. Siamo soli, io e il mio compagno. Quel che io ho veduto, egli l'ha veduto; quel che io ho sentito, egli l'ha sentito.
Mi volgo. Lo guardo. Ha l'aria d'uno di quegli idoli dell'Estremo Oriente accosciati e immobili. È fisso. Il suo viso è bronzino nel camaglio di lana. Alla radice del naso ha l'ammaccatura degli occhiali, violacea. Porta i baffi tagliati nettamente su la bocca grande, rasi col rasoio agli angoli. I suoi occhi sono felini, tra verdognoli e giallognoli, pieni di polvere d'oro. Prendono qualcosa d'infantile quando mi sorridono.
Egli mi domanda il taccuino, e scrive: «Vuoi, di grazia, stringermi l'elastico degli occhiali, che m'è lento?».
Mi sporgo dal mio seggiolino; faccio miracoli d'agilità per non disturbargli il governo, mentre il velivolo rulla al vento che rinfresca. La molletta non serra. Mi levo i guanti. Riesco a fare un nodo. Vedo a traverso le lenti ridere i suoi occhi. Ho sùbito le dita ghiacce. Il freddo aumenta.
Si continua a salire. Il sangue è armonioso. La vita è piena.
Ecco Grado nostra. Grado d'Italia!
«O Gravo belo, me no posso dî
El canto eterno de la to belessa....»
Discendiamo. La terra il mare il cielo s'aggirano in un solo vortice raggiante. Le barene e le velme ci sono sul capo come le nubi. Le alpi dentate della guerra mordono l'Adriatico come l'addentano i moli di Trieste. I gabbiani si precipitano incontro a noi come per passarci a traverso. Abbiamo nel petto i canali verdi, i prati salsi, i lidi biondi orlati di spuma, le isole violette come i pascoli dell'Ade.
Le isole, le barene, le velme, tutte le seccagne solitarie, sott'acqua, a fior d'acqua, nel cieco splendore, hanno non so che aspetto avernale.
I pioppi sembrano consumarsi nel tremito dell'aria, le tamerici vanire nella loro pallidità, i grandi erbai di color gridellino inclinarsi al soffio di non so che transito.
Nulla più ci tocca, fuorché l'imagine della tomba d'acciaio che sta in un fondo ignoto del mare. La cercheremo, la scopriremo. La nostra sosta è accompagnata da non so che funebre melodia marina.
V'è un superstite, un solo. Ha la sua carne sopra le sue ossa; eppure nella luce è simile a un'anima con due dolci occhi.
Ha un'anima paziente e potente come quella del re d'Itaca questo naufrago ventenne; ma i suoi occhi a mandorla sono belli come gli occhi della gioventù che danza intorno ai vasi campani.
È un figlio della Campania, dorato come il frumento. È della stirpe costrutta secondo la «divina proporzione». Come tanto cuore può esser contenuto in quel petto breve? Si chiama Vietri, che vuol dire intrepidezza.
Quale naufrago, perduto nel mare deserto, non teme la notte? Questo non paventò la notte, ma sì scelse di superarne l'orrore, in vista del lido!
V'è un momento eroico più profondo di ogni altro: quello che scocca tra il cuore dell'uomo e tutto l'ignoto, tra il volere dell'uomo e tutto il silenzio.
Questo eroe è come disgiunto dalla sua gloria. V'è un ardore di gloria sparso nella solitudine del mare dove cercheremo la tomba di grigio metallo. E questo superstite ignora la sua virtù, e la bellezza del suo evento.
Cammina col suo passo di marinaio, provato sul guscio del battello emerso. Va lungo la proda del canale, sul prato violetto di santònico; e ha dietro sé le ombre glauche dei suoi morti.
Dov'è Guido Cavalieri? per qual lido si voltola? quale corrente lo trasporta? Il flutto non ha rigettato se non il materasso di gomma che lo sosteneva nel nuoto disperato.
Lo rivedo su la riva degli Schiavoni, presso il ponte, vestito di bianco, parlare con la sua bella compagna, prima della partenza. Era diritto in piedi, svelto, elastico, non curvato sotto la condanna oscura. Sorrideva, mentre tagliava le sue scarpe bianche l'ombra d'un balaustro.
Partenza nella sera di perla. Molla ormeggi. In moto il motore a combustione di diritta. Dal ponte di una torpediniera vedo passare il Jalea emerso, di là dagli sbarramenti, in prossimità della costa, e navigare verso Grado. Il mare s'incupisce; ma nella sua palpitazione accelerata si sente già la fosforescenza notturna. L'increspamento luccica qua e là d'una luce interiore, come una palpebra che batta e lasci sfuggire uno sguardo misterioso. La luna nuova è come un pugnello di solfo che bruci. A quando a quando la nuvola nera del fumaiuolo la nasconde, oppure sembra trarla come una favilla fugace nella sua voluta. La vita non è un'astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare. Guardo il sommergibile allontanarsi. Un gruppo d'uomini è sul guscio, una massa grigia indistinta, come un'escrescenza sul dosso d'un cetaceo. La prua acuta penetra la notte e scompare. Il lungo fuso verdastro s'immergerà laggiù, proseguendo le sue rotte parallele alla linea che congiunge la Secca di Muggia e la Punta Sdobba. E per quegli uomini la vita somiglierà a un'agonia energica. Le loro facce saranno come i quadranti bianchi dei manometri. Le loro arterie saranno come i tubi dipinti di rosso nella camera di manovra.
All'alba il semaforo di Grado vede il Jalea immergersi, oltrepassato il gavitello che segna l'origine della rete, e proseguire veloce a levante, verso la Secca di Muggia. Nessuno più lo vedrà nel golfo. Lo scafo è già un sepolcro. Gli uomini sono già seppelliti nel mare. Uno d'essi, vestito d'una tunica azzurra, tien la mano poggiata alla ruota d'ottone che governa la pompa d'assetto, ov'è scritto: Dal mare al mare.
Vietri sale nella torretta. Di qua e di là dal cristallo pendono le due rivoltelle da segnali. L'acqua è più pallida dell'alba. Le voci salgono nel silenzio come le bolle in quel pallore. L'occhio non distingue se non il portello di prua, i due maniglioni laterali, qualche medusa fuggevole. Il sudore stilla dalla fronte del marinaio. Ma la clessidra del Tempo ha già cessato di gocciolare.
V'è nel mondo una specie di silenzio che galleggia sul rumore come l'olio su l'acqua.
Uno sciacquìo intermesso sale dalle intercapedini. La ruota del timone orizzontale si riflette nello specchio del piccolo lavabo che le sta di fronte. In quell'apparenza v'è qualcosa di lontano, qualcosa che aumenta la lontananza all'infinito.
Il comandante è fisso al periscopio, con la fronte contro la tabella di mira. Gli sta a sinistra la tabella che indica l'altezza delle soprastrutture di ciascuna nave nemica. Egli ha una veste di color marino. La sua faccia rasa è bruna; ma stranamente smorti sono i suoi piedi nei sandali di cuoio allacciati. Laggiù, a prua, i due siluri con le loro eliche e i loro timoni aspettano nei tubi di lancio. Le due teste di bronzo, cariche di tritòlo, aspettano nella camera stagna. S'ode la voce del comandante, la voce che ancóra è nella sua gola col suo soffio: «Accosta sempre a diritta. Quanto?» Un uomo dalla barba rossa è seduto vicino alla ruota del timone verticale. Risponde: «Centoquarantasei». È fisso, con tutti i lineamenti immobili, con le fulve ciglia senza battito, più vivo della vita e più morto della morte, simile a un ritratto magnetico....
Così il mio ricordo si converte in sogno, mentre coricato su i fiori funerei della barena, supino, attendo che si riparta.
Mi sovviene d'uno dei più lugubri orrori sorto dalla mia carne, mentre un giorno coi miei compagni, presso le chiuse di Sagrado, mangiavo allo scoperto, in un luogo battuto dal fuoco austriaco. Ciascuno di noi poteva essere sorpreso dalla morte col boccone in bocca, con la vivanda tra le mascelle mal masticata. Imagine d'animalità orrenda. Il pasto interrotto dal rantolo. Il sussulto del tristo sacco ripieno. Avevo già veduto un soldato riverso nella mota gialla della trincea, col rancio nel gozzo, col resto della gamella sparso nel sangue fumante. Un filaccico di lesso gli esciva dall'angolo delle labbra livide. La morte gli pigliava a un tempo il corpo e il cibo. Quegli che stava ingoiando, ecco, era ingoiato. La morte gli toglieva ogni bellezza, all'atto bestiale della nutrizione aggiungendo più di bestialità, fissando al limitare dell'eterno quel che è ignobile. Il compagno che gli chiuse le palpebre, gli nettò anche da quei rimasugli la bocca e il mento. La misericordia vinse la ripugnanza. Sempre vedrò quel gesto pietoso e atroce, quelle due dita ficcate tra i denti lordi del cadavere.
Verso mezzogiorno, il Jalea scende adagio sul fondo, per il pasto dell'equipaggio. I rumori si attenuano. Il motore elettrico è fermo. Sopra la camera del motore elettrico il boccaporto di poppa guarda coi suoi due occhi glauchi. Un salvagente dipinto di rosso v'è sospeso: una massiccia aureola.
Il manometro indica che la tomba d'acciaio è posata a tredici metri di profondità. Gli uomini mangiano, gli uomini masticano, ruminano. Qualcuno è svogliato e sonnolento. Il malvagio calore pesa intorno al capo come un elmo di scafandro. Il fondo è ignoto. Nessuno sa dove sia. Dianzi si navigava col periscopio immerso. Tutto il battello è ora una clessidra che gocciola. Gli attimi sono lenti e veloci. Sembra che si mettano d'improvviso a tintinnire. Ma è il tintinno dei campanelli.
Il Jalea si solleva dal fondo. Il manometro segna. La pompa sposta l'acqua da poppa a prua. L'acqua fa una specie di salmodia sorda circolando nelle intercapedini. Si risale a quattro metri e mezzo. Il cetaceo riacquista il suo occhio girante. L'uomo fulvo è di nuovo seduto al timone verticale. È fisso; non batte ciglio, non ingoia la saliva. È netto, lucido e spaventoso come certe figure dei musei di cera.
Sono le due del pomeriggio. Il mare è deserto e raggiante. Sonnecchiano le piccole città bianche intorno al golfo dove svaria la grana del vento. Un pescatore dorme supino su le tavole fracide del suo vecchio topo, laggiù, nella pace della laguna, alla proda d'una barena fiorita di santònico.
Vietri smonta di guardia al periscopio; e dalla camera di manovra si ritira nella camera dei tubi di lancio a prua. Ode la voce del comandante che ordina l'accostata per invertire la rotta. Un tuono improvviso lo stordisce, uno scroscio biancastro lo percuote. L'acqua gli si precipita addosso, lo fascia sino all'altezza delle spalle. Non ode nessun grido. La gente perduta non mette un grido né un lagno. Egli è tuttavia in piedi, con l'acqua alla gola. Percepisce nettamente lo scoppio degli accumulatori. Si tappa la bocca e il naso per non essere soffocato dal cloro che si sviluppa. Si avvicina alla paratia che lo separa dalla contigua camera degli ufficiali; ma presso la porta stagna trova ancor vivo il tenente di vascello Guido Cavalieri che gli grida: «È inutile andare a poppa. Cerchiamo di salvarci dal portello di prua».
Egli getta lo sguardo e l'anima verso poppa. Non ode nessun grido, nessun gemito. Il comandante Ernesto Giovannini è caduto al suo posto di comando. S'è coricato per dormire il suo sonno eroico tra il lido gradense e l'Istria sua. Portava sempre in cuore la vecchia cittadella della sua gente, l'imagine di Capodistria severa e soave, come la rappresentò per amore nella tavola dell'Ingresso Benedetto Carpaccio. Sempre vedeva nel cielo della sua speranza le code di rondine che fanno corona ghibellina al Palagio del Podestà, e la Cibele romana armata e alzata tra i due merli, e la porta della Muda aperta a un altro Ingresso, e i balaustri della fonte arcuata che sembra debba crescere e decrescere come la marea sotto un ponte di Venezia.
«Capodistria, succiso adriaco fiore!»
Pochi giorni innanzi, avendo a bordo come pilota il fuoruscito Nazario Sauro nato all'ombra della colonna di Santa Giustina, avvistava dalla torretta del Jalea emerso la città dei cinque Dogi, e la salutava prima d'immergersi; quindi, posato sul fondo di quei paraggi rimasto republicano e veneto come la Piazza Grande, si stendeva a fianco del pilota fraterno, beati entrambi in un medesimo sogno come se fossero per dormire sotto il voltone della scala comunale e per essere risvegliati all'alba dalle campane dell'arengo.
Ora egli dorme un poco più in su, più a tramontana, più a ponente. Col comandante, tutto l'equipaggio s'è coricato silenziosamente nella bara d'acciaio. Se l'acqua penetra per la falla d'una nave d'Italia, non mai vi penetra la paura, comunque lo squarcio sia largo.
Il silenzio è già sepolcrale, ma il sepolcro è ancora sospeso nel gorgo. Ciascuno dei sei viventi ha inciso nel cuore l'attimo in cui lo scafo tocca il fondo.
La volontà di vivere tien luogo di respiro. Vietri s'aggrappa alla scaletta per aprire il portello. Ma Ciro Armellino, il capo torpediniere, sopraggiunto, prima di lui riesce ad aprirlo e ad escire. Guido Cavalieri, il sottocapo Tullio di Biagio, un torpediniere, un marinaio salgono ed escono. Vietri, con la bocca chiusa, col naso tappato, aspetta che gli altri sieno scomparsi su per la colonna gorgogliante. Tanto è più tardo il tempo quanto è più rapido il cuore dell'uomo. Se il palpito si accelera, l'attimo si allunga. L'antichissima parola eroica, nata nel Mediterraneo, ecco che ha forza anche sottomare. «O cuore, sopporta.» Colui che è l'ultimo, è il primo. Egli solo è pari all'evento e all'elemento.
Prova sublime, rivelazione magnifica, là dove l'uomo sembra cancellato! Quel punto della profonda e irrespirabile solitudine, io voglio consacrarlo, celebrarlo. Quivi un cuore d'uomo oppone il battito misurato del suo potere a tutte le forze avverse. Tranquillo, accetta la lotta e la conduce. Fin dal principio è attento a non commettere errore alcuno. Deliberato a preservare la sua vita, egli si cura tuttavia degli altri prima che di sé. Ogni suo gesto è fraterno e generoso. Vuol portare il messaggio di sciagura alla riva ma non si antepone ai compagni. Se bene i cinque superstiti sieno di lui più esperti nel nuoto, egli spontaneo li soccorre, li conforta. Poiché la costa istriana è molto erta mentre l'avversa è al livello del mare, egli si crede esser molto più vicino all'Istria che a Grado; ma non esita a dirigersi verso la sua riva, stimando esser meglio giunger morto alla sua gente che darsi vivo al nemico. Ogni suo movimento ha origine in una virtù vera che è la sua sostanza medesima, la sua midolla, l'osso della sua schiena. Vi sono forse gesta di marinai nostri più splendide, quasi baleni d'eroismo, su i ponti delle navi sottili, ai pezzi delle batterie sbarcate. Ma in questa avventura di naufrago si rivela una perfezione di disciplina così alta che può servire d'esempio agli equipaggi più induriti. Nel mezzo del golfo che è nostro, in fondo al mare irto d'insidie, su da uno scafo squarciato, ecco che sorge per i marinai d'Italia un monumento invisibile ma perpetuo. «Sopporta, o cuore.»
Questo dramma sottomarino è d'una brevità e d'una novità non eguagliate da alcun altra delle tragedie navali conosciute. Le persone del dramma sono vestite d'acqua sino al collo. I corpi sono già ingoiati dall'abisso; ma le sei maschere umane respirano ancóra allo stesso livello, nell'aria che comprime la massa irrompente e le impedisce di invadere tutto lo spazio chiuso. La mia imaginazione vede quei sei respiranti teschi decapitati dal filo dell'acqua, e non riesce a rilevare i loro lineamenti né a rischiararli di quel chiarore incognito. Li cerco invano nel tranquillo occhio nero del superstite che forse ne serba l'imagine ma non l'esprime. Non so che avida violenza è nel mio sguardo, come per sforzare quel taciturno a rievocare il momento indicibile, come per comunicare l'acuità dei miei sensi a quel sobrio narratore. Che accadde quando il portello di prua fu aperto e il primo uomo balzò fuori e gli altri lo seguirono risalendo dal profondo verso la luce che a mano a mano cresceva? Vietri fu l'ultimo ad abbandonare lo scafo squarciato. La vita non v'era del tutto spenta. Pochi attimi innanzi, il comandante era stato intraveduto ancora in piedi. Il resto dell'equipaggio non aveva dato grido né segno, ma forse laggiù nella tenebra qualche gola palpitava tuttavia. E v'era tuttavia l'ultimo dolore delle cose, l'aspetto estremo delle cose che non hanno più potere, che non servono più, che non indicano più nulla, che non misurano più nulla: il portavoce, il tubo del periscopio, i cinque tubi della pompa, i tre segnali rossi, la lampadina della bussola, i quadranti degli indicatori, le ruote dei timoni, la bandiera avvolta.... Il manometro grande aveva segnato i metri di profondità? aveva misurato di metro in metro la discesa del sepolcro? V'era là, in quegli ultimi attimi, un odore, un rumore, un silenzio, un'ombra, una figura finale, una faccia della sorte, un estremità immaginabile che questi giovani occhi videro e che nessun altro mai vide né vedrà mai. La poesia in me trema e si vela.
Ora le cinque teste umane, l'una dopo l'altra, emergono a fiore del mare deserto. Si contano. Una chiazza oleosa li ha preceduti. Ecco Vietri a galla: respira; si netta il viso con una mano; sente nel torace i suoi polmoni e il suo cuore; sente sotto il cranio il suo cervello maschio. Tutto in lui è sano e pronto. Sùbito le sue forze si equilibrano, la sua mente s'aguzza, la sua bontà si offre. E tutto il suo coraggio si quadra nella disciplina.
Aiuta Guido Cavalieri a togliersi le scarpe e gli accomoda il materasso di gomma (ve n'erano otto a bordo) che gli serve a meglio sostenersi. Dà una mano agli altri per liberarli dagli impedimenti. Sveste il torpediniere Motolese, che pare il men vigoroso. Poi pensa a sé medesimo. Sa che non ha grand'arte nel nuoto e che gli conviene adoperare ogni accorgimento per risparmiarsi. Il mare è mosso da scirocco. Quando egli s'allontana dal luogo del naufragio, dove pullula la nafta mista alle bolle d'aria, quasi rantolo e sangue della nave uccisa, un gran dolore gli fende il petto. Fa tre volte il segno della croce, raccomanda a Dio le anime dei sepolti, promette di recare il messaggio alla patria. Poco dopo, ode dietro di sé il grido soffocato del torpediniere che già pericola; ode l'ultima voce di Ciro che annega; vede davanti a sé il gruppo degli altri tre nuotare più veloce verso ponente. Rimane solo.
Il mare è sempre deserto. Lo scirocco rinfresca. Sul far della sera, dopo circa sei ore di nuoto, il naufrago avvista la Mula di Muggia, ha l'illusione della salvezza, la tentazione dell'approdo.
Ecco il momento eroico di questo gran cuore marino.
La terra è là, sinuosa e bassa, coi suoi lunghi dossi violacei. La sera sinistra cala su la solitudine non interrotta né da una scìa né da una traccia di fumo. Lungo la costa nemica si accendono i fasci di luce che scrutano il cielo e il mare ostili. Dai cannoni che tuonano su l'Isonzo, si propaga il rombo per tutto il golfo. Nessuna stella sgorga dal crepuscolo che s'abbuia. Laggiù, sul fondo di sabbia e di fango, sotto lo specchio d'acqua ove continuano a pullulare la nafta e l'aria, il Jalea morto giace coi suoi morti. Un d'essi è scivolato fuori dalla falla di poppa, e va fluttuando nella striscia oleosa. Dove sono i tre nuotatori che mostravano di aver tanta fretta? Dov'è Biagio di Tullio? dov'è Guido Cavalieri? Hanno raggiunto la costa? hanno preso terra a Grado? già in salvo?
Un materasso di gomma galleggia trasportato dalla marea, là, verso il Banco d'Orio.
Vietri, che vuol dire costanza, mentre fa il morto, supino su l'onda squammosa, considera pacatamente le probabilità di salvezza e delibera. Sa che alla Mula di Muggia in quell'ora non c'è anima viva e che, se riescisse ad approdarvi, si troverebbe tutta la notte abbandonato in una spiaggia perfida di rena e di melma. A progredire verso Grado la corrente non gli è favorevole, anzi lo respinge al largo per levante. Ma quella stessa corrente, s'egli la segua invece di contrariarla, lo aiuterà forse a ridiscendere verso Grado nella prima luce del mattino. Gli conviene dunque riallontanarsi dalla terra e prepararsi a passare in mare una notte di circa nove ore. Non esita, non si scoraggia, non dubita delle sue forze, non ha paura dell'ignoto, non è stanco di lottare e di patire. «O cuore, sopporta.» Ed è un cuore di vent'anni!
Riconosce il proiettore austriaco di Duino; e su quello si regola per determinare via via la direzione e la velocità della deriva. Tutta la notte vede balenare, ode tuonare la battaglia lontana su l'Isonzo affocato. Il cuore non gli vien mai meno, né la mente gli s'offusca. È duro, costante, vigile, sagace. Come non si lascia sopraffare dall'ansia, così non si lascia vincere dal freddo, dalla sete, dalla fame. Sono passate quattro ore, e la notte è al colmo. Fra quattro ore comincerà ad albeggiare. La sua pazienza d'uomo supera la pazienza della notte. Il vecchio marinaio d'Itaca non è più virtuoso di questo imberbe marinaio campano. Il sale lo impregna e lo preserva. Le stelle gli sono fauste. Alla diana egli scorge di nuovo la terra, avvista la riva di Grado.
Allora getta il suo primo grido, il saluto del risveglio, il richiamo del gallo. Chiara è la voce, e aumenta con la luce. È la novissima giovinezza d'Italia che saluta il giorno, temprata nel suo mare.
S'ode la voce su la spiaggia latina, nel vecchio porto dei Patriarchi, nelle acque gradate.
Allora la sorte a tante prove così crude aggiunge un ultima prova, la più cruda.
Alla voce di soccorso ripetuta, escono senza indugio un battello a elica e una piccola barca lagunare, un topo da pesca; e si mettono alla ricerca del naufrago.
Ma il capo cannoniere che guida il battello, quando è sul punto di scoprire il nuotatore, scorge un velivolo austriaco che traversa il golfo da Trieste volando verso Grado. Il rombo del motore impedisce di riudire la voce sottovento. Egli tralascia la ricerca e ritorna nel porto, sotto la minaccia del nemico aereo. Il naufrago distante lo vede coi suoi occhi scomparire. Dopo la sedicesima ora di resistenza inumana, quando pare che il suo patimento sia per finire, ecco che egli deve chiedere al suo cuore un nuovo sforzo, il più difficile! Resiste anche alla disperazione. Aspetta che il velivolo passi, che il rombo si dilegui; e ricomincia il suo clamore.
Il battello esce di nuovo; fa rotta ad ostro, verso l'origine della voce; avvista finalmente l'uomo, in vicinanza del gavitello che è posto al largo. Il capo cannoniere s'alza in piedi e grida di lontano al nuotatore: «Viva l'Italia!».
Vietri, che vuol dire ardore, si leva con tutto il petto fuori dell'acqua e risponde con tutta la possa dei suoi polmoni: «Viva l'Italia!».
Quando il battello gli è vicino, egli lo raggiunge con due bracciate; poi, senz'aiuto, pontando le braccia, sale a bordo. Respira; sorride; chiede da bere.
Gli uomini del battello sono confusi: non hanno portato né acqua né cordiale. Uno gli offre una sigaretta, peritoso. Egli franco la prende, l'accende, tira qualche boccata di fumo, con gli occhi socchiusi, con un'aria di contentezza infantile, come se riassaporasse la vita di bordo, come se ritrovasse il primo tra i piaceri del marinaio.
Sbarcato, condotto all'infermeria, non perde mai le forze, non si lascia mai vincere dal malessere e dalla stanchezza. Conserva la sua disciplina in ogni atto, in ogni motto, come — dopo sedici ore di mare — la sua pelle serba il buon colore di frumento e la ferma grana, conciata all'uso nostro, all'uso d'Italia, non con la vallonea spenta nell'acqua di mortella, ma col sale e col sole.
Quando nomina la sua nave perduta, quando parla del suo comandante e dei suoi compagni rimasti nel fondo sepolti, quando apprende che nessuno è giunto in salvo, di quelli esciti con lui dal portello di prua, il dolore lo stringe: un dolore senza lacrime, un dolore d'eroe, che par gli intagli quel dolce volto con uno scarpello più severo. Resta mutolo e fisso, col capo reclinato. L'acqua salsa gli cola dall'orecchio giù per l'omero nudo.
Sembra che la purità di quella mestizia si diffonda su le lagune e sul golfo, quando dal canale di Gorgo ci rialziamo a volo per esplorare lo specchio funebre, per scoprire in fondo alla trasparenza marina il sepolcro d'acciaio.
Abbiamo colto i fiori violetti della barena. Davanti a me, coprono le bombe, con quell'altro fascio. La pulsazione energica del motore non turba il sentimento musicale che ho in me e che raccoglie tutti gli orizzonti in una sola armonia.
Mi volgo verso il mio pilota. Il suo volto è grave e attento. Ora mi guarda senza sorridere. Una stessa commozione ci mescola. Il nostro petto è pieno di patria. Vedo laggiù, dietro il suo camaglio, di là dai timoni, il campanile di Aquileia e i santi pini superstiti della grande selva nautica che copriva dal Gargano al Timavo il lito adriano. Abbiamo nelle ali gli spiriti della storia più solenne. Respiriamo una nobiltà presente come l'aria. Onoriamo nei nostri morti un'elezione divina.
Mettendo la prua verso Punta Grossa, prendiamo quota, mentre osservo se dalla baia di Muggia non si levi incontro a noi un'ala nemica. Il nostro «Albatros» è male armato per il combattimento aereo, ma acquistiamo il vantaggio del vento, del sole e dell'altezza. Il golfo è deserto e liscio come un lago alpino. Trieste è tutta bianca in un velo di luce. Vedo l'ombra lievissima dell'elica tremolare su la tela chiazzata d'olio bruno. I tiranti ben tesi vibrano come le corde dell'arpa eolia. L'orecchio attento, a traverso la tasta di bambagia che lo tura come la cera d'Ulisse, percepisce le minime variazioni nel tono del motore. Lo spirito è oggi tanto sensibile al numero che tutte le apparenze gli giungono ritmeggiate. Il suo silenzio è vicinissimo al canto.
Nella virata vedo alzarsi da Gorgo due nostri velivoli; distinguo sopra le ali le due bande e i due cerchi neri. S'alzano a proteggere la nostra esplorazione. Paiono immobili, sospesi nella quiete. Roteando in larghi giri, attendiamo che prendano altezza. Laggiù, il Carso pallido sembra che vibri nel calore come la lava quando si fredda perdendo il vermiglio.
Incomincia la nostra discesa, mentre i due velivoli fanno la guardia incrociando a levante. Il cuore diviene ansioso, l'occhio attentissimo. Siamo su la linea congiungente Punta Grossa e Grado. Il sole declina, la bonaccia si fa tutta eguale, senza bava di vento.
Mi piego sul bordo, col capo nel turbine dell'elica, studiando gli aspetti dell'acqua. I segni della mia mano indicano al mio compagno le diverse direzioni. Il velivolo obbediente le segue, sempre più abbassandosi. Vira, sbanda, sta su le volte, procede a biscia, come una vela che bordeggi per non allontanarsi dal luogo.
Ed ecco, con un balzo del cuore alla gola, ecco che mi sembra di scorgere su lo specchio liscio una chiazza scura, simile a quelle macchie screziate che appariscono quando si muove il primo pelo dell'acqua e il mare muta colore Mi volto verso il mio pilota con un gran gesto involontario. Egli si china dalla stessa banda e guarda, mentre l'Albatro cala a poche braccia dall'indizio. È una chiazza oleosa, è la nafta del Jalea.
Allora l'ansietà di scoprire il fondo mi curva sul bordo della carlinga, dove la mia gola aderisce come a una lunetta di ghigliottina. Sono tutt'anima e tutt'occhi, tremante e lucido. In un battito delle palpebre mi riappare di tratto in tratto il viso del capitano. Per lui mi fu confidato quel fascio di fiori. Quando mi sollevo per rivolgermi al mio pilota, sento nel calore del cofano il profumo della cedrina e delle rose bianche.
Sorvoliamo in su e in giù lo stesso spazio. Ci risolleviamo, ci riabbassiamo. Proviamo e riproviamo. La trasparenza è mutevole, la luce è ingannevole. Il mare ci contende il suo segreto.
Distinguo a una profondità di circa tre metri qualcosa di chiaro e di rotondo come una larga medusa. È la testa di una torpedine. Siamo sopra lo sbarramento, contro il quale urtò nell'accostata il sommergibile.
Quale istinto misterioso governa ora la nostra macchina alata? Quale spirito la guida? Dentro di noi, fuori di noi, si fa un grande silenzio. Tutto è acqua e aria. Le coste hanno assunto una qualità eterea. Non le guardo ma le posseggo come orli luminosi del mio sentimento.
Simile a una visione interiore, simile a una di quelle imagini che la poesia rischiara d'improvviso nella profondità della tristezza, m'apparisce in un attimo la tomba navale.
Or dove sono quei fiori che si posarono su lo specchio funebre senza turbarlo? Come ritroverò i movimenti di quella sinfonia vespertina che pareva rendere a noi sensibili le nostre ali, quasi fossero appiccate ai nostri òmeri?
Si volava a poca altezza, seguendo il lido sinuoso, come se alla terra ci avvicinasse un aumento d'amore. Ma ci sembrava d'essere, in verità, tra due cieli, tanto la faccia della laguna più e più prendeva simiglianza con la sera già su lei china a rimirarla.
Tutto quel chiarore diffuso aveva origine laggiù, sottomare, nel fondo del golfo. Non era un lume di tramonto. Era il lume di non so che spiritualizzamento operato dalla morte immortale.
Chi mi raccontò un giorno la leggenda di quell'uomo solitario che lasciò lo sguardo sopra una imagine sacra lungamente e ferventemente contemplata? I suoi occhi continuarono a vivere senza sguardo, pur rimanendo aperti allo spettacolo del mondo. Ma l'imagine sacra, la tavola dipinta, rimase arricchita d'un mistero inimitabile come il Paradiso.
Questa figura mi serve a sollevarmi verso il modo di quel sentimento che s'era generato in me dalla visione del sepolcro immerso. Il mio sguardo, rimasto nello specchio funebre, s'era convertito in una spiritualità senza confini, ond'ero alleviato e illuminato io medesimo fin nell'imo della mia sostanza.
Allora, più che in alcun'altra elevazione della mia miseria, conobbi come l'anima sia un elemento perpetuo, non legato ai corpi, non prigioniero, ma dai corpi attinto come il vaso attinge l'acqua e la contiene e poi la riversa. Ora saliva e fluiva essa come l'alluvione, smisuratamente accresciuta dalla carneficina che vuotava ogni giorno innumerevoli petti. Restituita in libertà dall'eroismo, essa fluttuava sul carnaio trasmutando gli aspetti della terra e il senso del nostro respiro umano. Sopra tanta strage, sopra tanti cadaveri, non sentivamo noi una più grande quantità d'anima nel mondo? Più grande in copia, più pura in essenza. Noi stessi n'eravamo traboccanti, e ansiosi di versarla ad aumentare la piena. La sua potenza era per sforzare le ossa della stirpe futura, l'angustia carnale dei nostri figli; era per costringerli ad esternarla di continuo in grandi azioni, in grandi invenzioni, in grandi sacrifizii.
Il nostro volo ci pareva sostenuto da una specie di rapimento. Il mio pilota abbandonava le leve senza che le ali vacillassero. Il palpito del fuoco operoso pareva attenuarsi nello spazio che l'estasi sempre più allargava dentro di noi respingendo i limiti dei sensi. Respiravamo l'anima e la melodia dell'anima, e i pensieri eterni che i poeti traggono dalle improvvise sue sublimazioni. Era come la beatitudine di un transito. Vivere era come morire, morire era come vivere. La nostra fragilità non era se non divina trasparenza.
E il mio compagno mi toccò la spalla, come soleva; e poi fece un segno verso occidente.
Mi volsi; mi chinai a guardare; insieme ci chinammo.
Avevamo di poco passato Caorle bianca come una città votiva d'argento tra i suoi parallelogrammi esatti. La laguna era tuttora laggiù come la perlagione d'un cielo vista a traverso le nervature d'una foglia macera. Ma nella parte già invasa dalla sera i canali apparivano di quel colore profondo che ha l'acqua intorno agli scogli pescosi. Una lunga fila di nere barche crociate venivano a rimorchio per l'ombra verdazzurra, lasciando una scìa di santità e di silenzio.
Era un convoglio di feriti navigante verso gli ospedali notturni che laggiù attendevano quel carico di sangue e di dolore. Erano i feriti dell'Isonzo e del Carso, i lacerati, i mutilati, i moribondi che scendevano per le vie quiete della laguna. Erano i feriti sorridenti, le giovinezze sublimi, i miracoli inconsapevoli. Qualcosa del loro sorriso ineffabile, quasi non so che freschezza del loro patimento, pareva rilucere nella santa scìa, solco d'anima, traccia spiritale.
Il cuore ci tremava come quando eravamo chini a scoprire la tomba di ferro nel fondo del mare funesto.
Ci abbassammo a volo, con un movimento che forse rispondeva a una volontà d'inginocchiarci. E i fiori della barena, gli asfodeli violetti dell'estuario, che in parte avevamo serbati per memoria degli eroi marini, io li sparsi su quel convoglio silenzioso e glorioso come il sepolcro sommerso.
E il mio più alto canto, o Chiaroviso, è il canto che quella sera io non cantai ma che son certo di riudire in me quando si farà notte e rincontrerò il mio pilota a faccia a faccia.
Venezia, giugno 1916.
INDICI DEI TRE TOMI.
Tomo primo.
Desiderio Moriar e la notte Pag. 1
La landa del tedio 6
La città dell'Etisìa 12
Le sonate di Domenico Scarlatti 23
La vita è un'opera magica 31
Ritratto d'ignota 33
Le pastoie 38
Il divino Olore 39
L'osso dell'ala 44
Una bocca 49
Uno sguardo 53
Il carro funebre 58
Il pioppo e il melo 63
La sera silvestra 65
La casa ansiosa 67
La Leda infranta 70
Il pastore in trampoli 78
L'amore flagellato 82
L'ora delle lampade 86
La seggiola e il tisico 90
Il pastello nell'acqua 95
La gozzoviglia dell'amore e della morte 97
La Leda svelata 103
Il pitone compiacente 111
Il cammeo bianco e nero 116
Il nepote dei cavalli fidiaci 119
Il giovincello e l'usuraio 123
I porci esorcizzati 126
La marea femmina 130
Il lamento del morituro 132
L'Amore claudicante 134
Il giglio di Susa 136
La canzone di Caronte 138
Leda e i cigni 139
Munus funus 143
Il levriere e il pettine 147
Il pitone in agguato 151
Il gallo della Landa 155
La Leda velata 156
Desiderio Moriar e la notte 158
Tomo secondo.
L'ultimo giuoco 163
Il puledro vincitore 169
La collana della bella Simonetta 171
I cani condannati 173
La campana di fuoco 178
Parigi in ambascia 179
La Francia eterna 183
La necessità di creare 185
La malattia liberatrice 188
La Dipartita 191
Imagini d'Italia bella 192
L'isola dai tre gigli 194
Parigi si purifica 195
Il ragno nel lauro 199
I fermenti del carnaio 200
I combattenti a piedi nudi 203
La mandria sul ponte 205
Il bue flavo 206
Il teschio di San Dionigi 207
La torre di Carlo il Calvo 211
La nave incagliata 213
La fusione del mondo 215
Il rotolo della Delfica 218
Ecce sacerdos magnus 219
Il vico degli strami 222
San Severino 225
Il palmeto perpetuo 227
La preghiera di sangue 230
Il plenilunio della Marna 232
Il canile di Dama Rosa 233
I veltri guerrieri 237
La Diana caucasea 240
L'alba del miracolo 241
La danza pirrica 243
La muta in ascolto 245
Il sangue e la mota 248
La madre vorace 249
L'arnese di fango 254
La cittadella in palma di mano 258
La canzone carolingia 260
Kyrie eleison! 262
Le due guglie 264
La freschezza delle ferite 265
L'Angelo dell'Ora 268
Il moncherino 269
La Cattedrale compiuta dalla fiamma 271
Magnæ ossa parentis 273
L'Ulisse di Dante 277
Silvia minacciata 284
La casa incolume 287
L'armento infetto 290
La greggia e la rondine 295
Il ragno nero 299
« Scrivi che quivi è perfecta letitia » 302
Le alleate pellegrine 309
L'ombra di Maria Felicia Orsina 312
Il passo bene accordato 313
La notte di Venezia in arme 315
Il riflesso della guerra lontana 323
Il corridoio di alto puntale 326
Il Leone a libro chiuso 327
« Più alto e più oltre » 329
Tomo terzo.
Il giardino al sole 333
Il giardino all'ombra 338
Il loto e la bella 345
La foglia e la gota 347
La farfalla sul ferro 348
L'eroe tranquillo 350
La coppia alata 358
Necessità dell'olocausto 359
Il volontario 362
La pace del combattente 364
Il pensiero dominante 367
La spatola di Arlecchino 370
Il musaico 372
La melodia del mondo 376
Apparizione di San Sebastiano 377
Cristo in Versa 381
La preghiera su le baionette 383
I facitori della Parola 387
Il Duca taciturno 388
Vulnus hyblaeum 389
Il Belvedere della Vittoria 392
Le batterie navali 393
La chioma di Ofelia 395
Il prato segreto 397
Tempus moriendi 398
Il benvenuto 401
L'ala su Gorizia 403
Il vecchio giovine 407
Leda tra i condottieri 410
L'Ausa e il Lete 415
Il paravento e il parapetto 417
La marcia notturna 418
Il cavallo del Colleoni 419
Il canto della strada maestra 423
Il pane spezzato 424
L'invoglio di fronde 426
Il buio 428
Un'arte nuova 431
Lo scriba egizio 432
Il cartiglio 433
Scrivo su l'acqua 434
Il dono funebre 439
Il conoscitore 441
Una storia di canile 444
Le educande e i cigni 445
La Leda dorata 449
Il sorriso del Demonico 451
I cervi al laccio 452
Il fiore del loto 453
La vigna di Murano 457
Il sandalo marcito 461
La tavola rustica 462
I sette morti 465
L'ombra di Roberto Prunas 467
Un concerto di cannonieri 468
Il càmice bigio 469
L'eco nella Sacca 471
Il tuono sul mare 474
Il genetliaco di luce 478
L'abbacinato 479
I tre fasci mortuarii 481
La farfalla non parla 485
Le ghirlande calcate 487
Il cimitero dei marinai 489
Le tombe di Roberto Prunas e di Luigi Bresciani 490
I gatti lugubri 494
La polizza sepolcrale 497
Il vilucchio e la corda 499
Sul sepolcro di Giuseppe Miraglia 500
Le conchiglie nel fango 501
Gli asfodeli della barena 504
L'ala sul mare 505
Il superstite del Jalea 512
La partenza per la morte 515
Dal mare al mare 517
Il timoniere dalla barba rossa 519
Il boccone e il rantolo 521
Il sonno del capitano 525
Il portello di prua 527
«Sopporta, o cuore» 530
I sei naufraghi 534
Il momento eroico 535
La corrente di marea 537
L'ultima prova 539
«Viva l'Italia!» 541
Il sale e il sole 542
Il lito adriano 544
Lo specchio esplorato 546
La chiazza oleosa 547
La tomba navale 549
La leggenda dell'uomo senza sguardo 551
L'aumento dell'anima 552
Il volo estatico 553
Le barche crociate 554
La scìa e il sorriso 555
A faccia a faccia 556
L'autore avverte che non poté correggere le stampe di quest'opera.