L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO
L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO
Omaggio offerto a Venezia da Gabriele d'Annunzio
IN FIRENZE — PRESSO ROBERTO PAGGI — M.DCCC.LXXXX.V
L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO FRAMMENTO D'UN POEMA OBLIATO
Il munifico sire Autunno, il dio
cui non più la matura uva compone
intorno il nero crin cerchio d'oblío
né come al fauno del selvaggio Edone
alto in man brilla il cembalo giulío
(ben, cingon la sua fronte ardua corone
di gemme e l'occhio cerulo gli langue
profondamente quasi che del sangue
ei nudrisca una lenta passione)
riverso in nube per i vitrei seni
lucida al sole come un rogo ardente,
quali d'árbori forme in rii sereni
vede pender ne l'aria agilemente
i fastigi de' templi, e sciolti ai leni
spirti de l'aria dà la chioma aulente
che il ciel solca, celeste fiume d'oro,
dietro lasciando un fremito sonoro
a cui guardan le turbe umane intente.
Lui seguon pe 'l viaggio, in un corteo
lungo e composto, cento giovinetti.
Han l'arco più che quello d'Odisseo
grande e lunato, in fascio han dardi eletti;
anche han palvesi; e portan su 'l febeo
capo una sorta di vermigli elmetti
ricoprenti la gota, a mo' de' Frigi,
a mo' del biondo cavalier Parigi.
Nudi e in tutte le membra ei son perfetti.
Perfetti come se dal fior de' parii
marmi avesseli tratti Prassitèle,
muovono insieme i cento Sagittarii,
al magnifico iddio coro fedele.
Brandiscono i gravi archi in gesti varii,
però che frema ne la man crudele
il disío de la strage e de la gloria
e risuonino ancor ne la memoria
le gran selve terrestri, di querele.
Argábalo n'è il buono imperadore
che tiene in pugno il gonfalon levato,
Argábalo che molto dal signore
teneramente è sopra gli altri amato.
Aureo porta l'elmetto e un giustacuore
nitido, di finissimo broccato.
Adergesi com'aquila in ardire,
su 'l capo udendo il gonfalon garrire.
Brilla di gemme il piede coturnato.
Così va la milizia, al suo comando,
raccolta presso il dio; ma se in cortesi
ludi per l'aria s'apre a quando a quando
come s'apre un'aurora, a voi sospesi
guizzano i corpi snelli balenando
e co' i dardi e co' li archi e co' i palvesi
fingon nuove a la vista meraviglie.
Alto ridono, simili a vermiglie
fiamme, gli elmetti dal gran sole accesi.
Il dio, poggiato in su la palma il mento
imberbe, a torno gli occhi umidi gira.
— Non più — mormora — i giuochi de' miei Cento,
cui par che guidi il suono d'una lira
così nobile è il lor componimento
e armoniosa la lor flórea spira,
non più recan diletto al cuor profondo!
Qual male ignoto dentro me nascondo,
che sì forte mi crucia? — il dio sospira.
Sospira ei dietro a la sua disianza
ignota; e chiama il buono imperadore.
— Fa che cessi d'in torno ogni esultanza,
o Argábalo, però che del mio cuore
il Dolore fatto abbia la sua stanza! —
Pronti, al comando, frenano l'ardore
i Sagittarii; e seguon tristamente.
Suonano ancor ne la memoria ardente
le gran selve terrestri, di clamore.
Di clamore e de l'armi e de' gran corni
risonavan le selve al lor passare.
Vedeansi lungi per i bui soggiorni
i meandri de' fiumi balenare.
Se i nudi cacciatori in su' ritorni
venìa la ninfa pavida a spiare,
scorgeano quelli in tra la fronda il molle
velo, ed un foco in tutte le midolle
correva. — Oh non mai van perseguitare!
Oh dolce cosa ancor di sangue tinti
premere l'orme de la fuggitiva
giovine, a gara per que' laberinti
ove i culmini il vespero feriva;
lei ghermir; tra la chioma di giacinti
cogliere il fior de la sua bocca viva! —
Seguono in van la desiata effigie.
Tal fino al labro era ne l'onde stigie
Tantalo, e il bel giardin vicin fioriva.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Venezia, ottobre 1887.
GLOSA
Io pensava in un pomeriggio recente — tornando dai Giardini per quella tiepida riva degli Schiavoni che all'anima dei poeti vaganti poté sembrar talvolta non so qual magico ponte d'oro prolungato su un mare di luce e di silenzio verso un sogno di Bellezza infinito — io pensava, anzi assisteva nel mio pensiero come a un intimo spettacolo, alla nuziale alleanza dell'Autunno e di Venezia sotto i cieli.
Era per ovunque diffuso uno spirito di vita, fatto d'aspettazione appassionata e di contenuto ardore; che mi stupiva per la sua veemenza ma che pur non mi sembrava nuovo poiché io l'aveva già trovato raccolto in qualche zona d'ombra, sotto l'immobilità quasi mortale dell'Estate, e l'aveva anche sentito fra lo strano odor febrile dell'acqua vibrar quivi a quando a quando come un polso misterioso. «Così, veramente,» io pensava «questa pura Città d'arte aspira a una suprema condizione di bellezza, che è per lei un annuale ritorno come per la selva il dar fiori. Ella tende a rivelar sé medesima in una piena armonia quasi che sempre ella porti in sé possente e consapevole quella volontà di perfezione da cui nacque e si formò nei secoli come una creatura divina. Sotto l'immobile fuoco dei cieli estivi, ella pareva senza palpito e senza respiro, morta nelle sue verdi acque; ma non m'ingannò il mio sentimento quando io la indovinai travagliata in segreto da uno spirito di vita bastevole a rinnovare il più alto degli antichi prodigi.»
Questo io pensava, assistendo allo spettacolo incomparabile che per un dono di amore e di poesia io poteva contemplare con occhi attentissimi la cui vista mi si mutava in visione profonda e continua... Ma con qual virtù potrò io mai comunicare a chi m'ascolta questa mia visione di bellezza e di gioia? Non v'è aurora e non v'è tramonto che valgano una simile ora di luce su le pietre e su le acque. Né sùbito apparire di donna amata in foresta di primavera è inebriante così come quella impreveduta rivelazione diurna della Città eroica e voluttuosa che portò e soffocò nelle sue braccia di marmo il più ricco sogno dell'anima latina.
Io sono certo che in tale aspetto ella apparve a Paolo mentre colui cercava dentro di sé l'imagine della Regina trionfale. Ah io sono certo ch'egli ne tremò nell'intime vene e piegò i ginocchi, in atto di chi adora percosso e abbacinato dal miracolo. E quando volle dipingerla nel Palazzo del Doge per manifestare agli uomini la sua meraviglia, egli — il prodigo artefice che parve aver raccolto in sé tutte le imaginazioni dei satrapi più sfrenate, il poeta magnifico ch'ebbe l'anima simile a quel fiume lidio dagli Elleni armoniosi nomato Crisorroa, fuor de' cui gorghi auriferi era sorta una dinastia di re carichi d'una opulenza inaudita — egli, il Veronese, profuse l'oro, le gemme, lo sciamito, la porpora, l'ermellino, tutte le sontuosità, ma non poté rappresentare il volto glorioso se non in un nimbo di ombra.
Sol per quell'ombra, bisogna levare al cielo il Veronese!
Tutto il mistero e tutto il fascino di Venezia sono in quell'ombra palpitante e fluida, breve e pure infinita, composta di cose viventi ma inconoscibili, dotata di virtù portentose come quella degli antri favoleggiati, dove le gemme hanno uno sguardo; e dove taluno poté trovare nel tempo medesimo, in una sensazione indicibilmente ambigua, la freschezza e l'ardore. Bisogna esaltare il Veronese per questo. Raffigurando in sembianze umane la Città dominatrice, egli seppe esprimerne lo spirito essenziale: che non è — in simbolo — se non una fiamma inestinguibile a traverso un velo d'acqua. E io so di taluno che, avendo lungamente immerso la sua anima in quella zona sublime, la ritrasse accresciuta d'una nova potenza e trattò indi con mani più ardenti la sua arte e la sua vita.
Ben tale fiamma io sentiva, in un pomeriggio recente, assorgere alla veemenza estrema e infondere nella bellezza di Venezia una forza d'espressione non mai veduta prima. Tutta la Città ai miei occhi si accendeva di desiderio e palpitava di ansia nelle sue mille cinture verdi, come l'amante che aspetta la sua ora di gioia. Ella tendeva le sue braccia marmoree verso il selvaggio Autunno di cui giungevale l'umido alito profumato dalla morte deliziosa delle campagne lontane. Ella spiava i vapori leggeri che sorgevano dal limite della laguna muta e parevano avvicinarlesi in aspetto di messaggi furtivi. Ella ascoltava intentissima nel silenzio da lei medesima generato i più tenui romori; e il soffio del vento fuggevole nei suoi orti rari aveva per lei un prolungamento musicale fuor delle chiostre. Una specie di stupore si raccoglieva intorno ai solinghi alberi prigionieri che trascolorivano splendendo come se conflagrassero. La foglia arida caduta su la pietra consunta della proda brillava come una cosa preziosa; in cima al muro ornato dai licheni biondi il frutto del melograno gonfio di maturità si fendeva subitamente come una bella bocca sforzata dall'impeto di un riso cordiale; una barca passava lenta e grande, colma di grappoli come il tino che sta per essere premuto, diffondendo su l'acqua ingombra d'alghe morte l'ebrietà aerea della vendemmia e la visione delle vigne solatie frequenti di giovinezze canore. Tutte le cose avevano una eloquenza profonda, come se un segno invisibile aderisse al loro aspetto visibile e per un divino privilegio élleno vivessero nella superiore verità dell'arte.
«Sicuramente dunque» io pensava «sicuramente è nella Città di pietra e d'acqua, come nello spirito di un artefice puro, una aspirazione spontanea e costante verso ideali armonie. Una specie di intelligenza ritmica e fittiva sembra elaborarne studiosamente le rappresentazioni, come per renderle conformi a un'idea e convergerle a un fine meditato. Sembra ch'ella possegga mani meravigliose per comporre le sue luci e le sue ombre in una continua opera di bellezza; e ch'ella sogni fornendo il suo lavoro e dal suo sogno medesimo — ove il molteplice retaggio dei secoli splende trasfigurato — ella tragga il tessuto d'allegorie inimitabile che la ricopre. E, poiché sola nel mondo la poesia è verità, quegli che sa contemplarla e attrarla in sé con le virtù del pensiero, quegli è presso a conoscere il segreto della vittoria su la vita.»
E l'ora s'approssimava: già quasi era imminente l'ora della Festa suprema. Uno straordinario lume propagavasi nei cieli dall'ultimo orizzonte, come se il selvaggio Sposo vi trascorresse con un carro di fuoco agitando il suo gonfalone purpureo. Generato dalla sua corsa il vento spirava carico di tutti gli odori terrestri; e all'aspettante, su l'acqua ove qua e là vaghe capellature marine fluttuavano, recava l'imagine dei rosai bianchi e compatti che si distruggevano a poco a poco come ammassi di neve contro i balaustri dei giardini inclinati verso la Brenta. L'imagine intera del paese lontano parevami rispecchiarsi nel cristallo dell'aria come per la meteora fallace dei deserti; e quell'aspetto di natura valeva a magnificare la rarità di quel sogno d'arte, poiché nessun fasto autunnale di verzieri e di boschi — nella memoria — era comparabile alle divine animazioni e trasfigurazioni dell'antica pietra.
«Veramente, non è per giungere un dio su la Città che gli si offre?» io chiedeva a me medesimo, sopraffatto dall'ansia e dal desiderio e dalla volontà di gioire che tutte le cose intorno a me esprimevano come invase da una febbre di passione infinita. Ed evocai l'artefice più possente perchè con le forme più fiere e con i colori più fulgidi mi raffigurasse quel giovine dio aspettato.
Era per giungere! La coppa invertita del cielo versava su tutte le cose un flutto di splendore che sembrò da prima ai miei occhi incredibile, tanto la sua qualità superava di ricchezza pur le più ricche illuminazioni interiori del pensiero esaltato o del sogno involontario. Come una materia siderale, di natura sconosciuta e mutevole, in cui fossero figurate a miriadi imagini d'un fluido mondo indistinte, dalle quali un perpetuo fremito con una vicenda di distruzioni e di creazioni stupendamente facili traesse un'armonia sempre novella, così appariva l'acqua. Tra le due meraviglie la pietra multiforme e multanime come una selva e come un popolo, — quella smisurata congerie muta da cui il genio dell'Arte estrasse i concetti occulti della Natura, su cui il tempo accumulò i suoi misteri e la gloria incise i suoi segni, per le cui vene ascese l'umano spirito verso l'Ideale come la linfa ascende verso il fiore per le fibre degli alberi — la pietra multanime e multiforme assumeva d'attimo in attimo espressioni di vita così intense e nuove che veramente parve distrutta per lei la legge e la sua inerzia originale irradiarsi d'una miracolosa sensibilità.
Ogni attimo, allora, vibrò nelle cose come un baleno insostenibile. Dalle croci erette in sommo delle cupole gonfie di preghiera ai tenui cristalli salini penduli sotto l'arco dei ponti, tutto brillò in un supremo giubilo di luce. Come la vedetta gitta dai precordii l'acuto grido all'ansia che sotto di lui freme in guisa di procella, così l'angelo d'oro dal vertice della massima torre diede alfine l'annunzio fiammeggiando.
Ed Egli apparve. Apparve su una nuvola assiso come su un carro di fuoco, traendo dietro di sé i lembi delle sue porpore, imperioso e dolce, e con socchiuse le labbra piene di murmuri e di silenzii silvani, e con diffusi i capelli sul collo arduo come un collo equino, e con nudo il torace titanico misurato al respiro delle foreste. Inclinò verso la Città bella il suo giovenile volto donde emanava un indicibile fascino inumano, non so qual bestialità delicata e crudele cui contrastavano gli sguardi profondi di conoscimento sotto le palpebre gravi. Ed era palese che per tutto il suo corpo il sangue pulsava e balzava con violenza fino ai pollici dei piedi agili, fino all'estreme falangi delle mani forti; e cose occulte erano per tutto il suo essere, che parevano celare la gioia e la tristezza come i grappoli in fiore celano il vino; e tutto il fulvo oro e tutta la porpora ch'egli portava seco erano come il vestimento dei suoi sensi...
Con che passione palpitando nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili la Città bella si abbandonò al dio magnifico!
In tal figura — evidente e reale per me in quell'ora, tanto che quasi mi parve tangibile — chi m'ascolta non vede le analogie che la rendono significativa di cose singolari?
La mutua passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e l'altro al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha origine in una affinità profonda; poiché l'anima di Venezia, l'anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è autunnale.
Avendo io scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e l'interiore, il mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. L'immensa moltitudine di forme imperiture, che popola le chiese e i palazzi, rispondeva dalle sue sedi alle armonie della luce diurna con un accordo così pieno e così possente che in breve divenne dominatore. E — poiché la luce del cielo s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura inestinguibile nell'anima umana — quando cessò nelle cose il prodigio dell'ora, il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze di un Autunno ideale.
Tal sembra veramente a me la creazione d'arte compresa tra la giovinezza di Giorgione e la vecchiezza del Tintoretto. Essa è purpurea, dorata, opulenta ed espressiva come la pompa della terra sotto l'ultima fiamma del sole. Se io considero i creatori impetuosi di sì forte bellezza, mi si presenta allo spirito l'imagine che sorge da quel frammento pindarico: «Quando i Centauri conobbero la virtù del vino soave come il miele, che vince gli uomini, sùbito respinsero dalle lor mense il bianco latte; e s'affrettarono a bere il vino in corni d'argento...» Nessuno al mondo conobbe e assaporò meglio di loro il vino della vita. Essi ne traggono una lucida ebrietà che moltiplica il lor potere e comunica alla loro eloquenza una energia fecondatrice. E nelle loro creature più belle il battito violento dei loro polsi sembra persistere a traverso i secoli come il ritmo stesso dell'arte veneziana.
Ah, in che puro e profetico sonno posa la vergine Orsola sul suo letto immacolato! Il più benigno dei silenzii tiene la stanza solitaria ove sembra che le pie labbra della dormiente disegnino la consuetudine della preghiera. Per le porte e per le finestre dischiuse penetra la timida luce dell'alba, e illustra la parola scritta nell'angolo dell'origliere. Infantia è la parola semplice, che diffonde intorno al capo della vergine una freschezza simile a quella del mattino: Infantia. Dorme la vergine, già fidanzata al principe pagano e promessa al martirio. Non è ella forse, casta, ingenua e fervente, non è ella l'imagine dell'Arte quale la videro i precursori con la sincerità dei loro occhi puerili? Infantia. La parola evoca intorno all'origliere gli obliati: Lorenzo Veneziano e Simone da Cusighe e Catarino e Jacobello e Maestro Paolo e il Giambono e il Semitecolo e Antonio e Andrea e Quirizio da Murano e tutta la famiglia laboriosa per cui il colore, che doveva poi divenire emulo del fuoco, fu preparato nell'isola ardente delle fornaci. Ma essi medesimi non avrebber messo un grido di meraviglia nel vedere il flutto di sangue sgorgante dal petto della vergine saettata dal bello arciere pagano? Sì vermiglio sangue in una donzella nutrita di «bianco latte»! È quasi un tripudio la strage: gli arcieri vi recano le armi più elette, le vesti più ornate, i gesti più eleganti, come in un festino. Il chiomadoro che con sì fiero atto di grazia dardeggia la martire non sembra veramente il giovinetto Eros larvato e senz'ali?
Questo leggiadro uccisore d'innocenze (o forse un fratel suo), deposto l'arco, si abbandonerà domani all'incanto della musica per sognare un sogno di voluttà infinito.
Ben è Giorgione quegli che infonde in lui l'anima nuova e glie l'accende d'un desiderio implacabile. La musica incantatrice non è la melodia che pur ieri dai liuti angelici si diffondeva per gli archi incurvati sui troni raggianti o si dileguava pel silenzio delle lontananze serene, nelle visioni del terzo Bellini. Sorge ancora al tocco di mani religiose, dall'alveo del clavicordio; ma il mondo ch'ella risveglia è pieno d'una gioia e d'una tristezza in cui celasi il peccato.
Chi ha veduto il Concerto, con occhi sagaci, conosce un momento straordinario e irrevocabile dell'anima veneziana. Per un'armonia di colore — la cui potenza significativa è senza limiti come il mistero dei suoni — l'artefice ci racconta il primo turbamento di un'anima cupida a cui la vita appare d'improvviso in aspetto d'un retaggio opimo.
Il monaco che siede al clavicordio e il suo compagno maggiore non somigliano quelli che Vettor Carpaccio figurò fuggenti dinnanzi alla fiera ammansita da Girolamo, in San Giorgio degli Schiavoni. La loro essenza è più forte e più nobile; l'atmosfera in cui respirano è più alta e più ricca, propizia alla natività d'una grande gioia o d'una grande tristezza o d'un sogno superbo. Quali note le mani belle e sensitive traggono dai tasti su cui s'indugiano? Magiche note, certo, se valgono a operare nel musico una trasfigurazione così violenta. Egli è nel mezzo della sua esistenza mortale, già distaccato dalla sua giovinezza, già in punto di declinare; ed ecco, ora soltanto la vita gli si rivela ornata di tutti i beni come una foresta carica di pomi purpurei, dei quali le sue mani intente ad altre opere non conobber mai il fresco velluto. Poiché la sua sensualità è sopita, egli non cade sotto il dominio di una sola imagine tentatrice, bensì prova una confusa angoscia in cui il rammarico vince il desiderio; mentre, su la trama delle armonie ch'egli ricerca, la visione del suo passato — quale avrebbe potuto essere e non fu — si compone come un tessuto di chimere. Indovina l'intima tempesta il compagno che già è su la soglia della vecchiezza calmo; e dolce e grave tocca la spalla dell'appassionato con un gesto pacificatore. Ma è pur quivi, emerso fuor della calda ombra come la espressione stessa del desiderio, il giovinetto dal cappello piumato e dalla chioma intonsa: l'ardente fiore d'adolescenza, che Giorgione sembra aver creato sotto un riflesso di quello stupendo mito ellenico donde sorse la forma ideale d'Ermafrodito. Egli è quivi presente ma estraneo, separato dagli altri, come colui che non ha cura se non del suo bene. La musica esalta il suo sogno indicibile e sembra moltiplicare infinitamente la sua potenza di gioire. Egli sa d'esser padrone di quella vita che sfugge ad ambo gli altri, e le armonie ricercate dal sonatore non gli sembrano se non il preludio della sua propria festa. Il suo sguardo è obliquo e intenso, rivolto a una parte come per sedurre non so qual cosa che lo seduca; la sua bocca chiusa è come una bocca che porti la pesantezza d'un bacio non dato ancora; la sua fronte è spaziosa così che non l'ingombrerebbe la più folta delle corone; ma, se io penso alle sue mani nascoste, le imagino nell'atto di frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita.
Chi m'ascolta non vede qualche analogia fra questi tre simboli giorgioneschi e le tre generazioni, viventi a un tempo, che illumina l'aurora del secolo nuovo? Venezia, la città trionfante, si rivela ai loro occhi come un grande apparato per un convito oltrapiacente ove tutta la dovizia raccolta da secoli di guerre e di traffichi sta per essere addótta senza misura. Qual più ricca fonte di voluttà potrebbe aprire la vita al desiderio insaziabile? È un'ora di turbamento e quasi di vertigine, che vale per la sua pienitudine un'ora di violenza eroica. Voci e risa incitatrici sembrano giungere dai colli asolani ove regna in delizia la figliuola di San Marco, Domina Aceli, che rinvenne in un mirteto di Cipro il cinto di Afrodite. Ed ecco l'adolescente dalle belle piume bianche avanzarsi verso il convito come un corifeo seguito dalla sua torma sfrenata, e tutte le forti brame ardere quivi in guisa di doppieri le cui fiamme ecciti senza tregua un vento impetuoso.
Comincia così quel divino autunno d'arte al cui splendore gli uomini si rivolgeranno sempre con un palpito profondo, finché duri nell'anima umana l'aspirazione a trascendere l'angustia dell'esistenza comune per vivere una vita più fervida o per morire di più nobile morte.
Io veggo Giorgione imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o quasi, di lui s'ignora; e taluno giunse a negare la sua esistenza. Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l'arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione; il gran Vecellio sembra aver ricevuto da lui il segreto d'infondere nelle vene delle sue creature un sangue luminoso. In verità, Giorgione rappresenta nell'arte l'Epifania del Fuoco. Egli merita d'esser chiamato «portatore di fuoco», a simiglianza di Prometeo.
Quando considero la rapidità con cui il dono sacro passa d'artefice in artefice e va di colorazione in colorazione rosseggiando, mi sorge spontanea nello spirito l'imagine d'una di quelle lampadeforíe con cui gli Elleni vollero appunto perpetuare la memoria del Titano figlio di Japeto. Nel giorno della festa una torma di giovini cavalieri ateniesi partivasi a gran galoppo dal Ceramico verso Colono; e il duce agitava una fiaccola ch'era stata accesa all'ara di un santuario. Spenta dall'impeto della corsa il portatore la consegnava al compagno che la riaccendeva sempre correndo; e questi al terzo, e il terzo al quarto, e così di séguito sempre correndo finché l'ultimo la deponeva rossa ancora su l'altare del Titano. Questa imagine, per quel che ha di veemente, mi significa in qualche modo la festa dei maestri coloritori in Venezia. Ciascun d'essi, anche il men glorioso, ha tenuto in pugno almeno per un istante il dono sacro. Taluno perfino, come quel primo Bonifacio che bisogna glorificare, sembra aver colto con mani incombustibili l'interno fiore del fuoco.
Una città a cui tali creatori composero un'anima di tal possanza non è oggi considerata, dai più, se non come un grande reliquiario inerte o come un asilo di pace e d'oblio!
In verità, io non conosco al mondo altro luogo — se non Roma — dove uno spirito gagliardo e ambizioso possa, meglio che su quest'acqua torpida, attendere ad esaltare la virtù attiva del suo intelletto e tutte quante le energie del suo essere verso il grado supremo. Io non conosco palude capace di provocare in polsi umani una febbre più violenta di quella che sentimmo talvolta venire verso di noi all'improvviso dall'ombra di un canale taciturno. Né colui che meriggia profondato nella messe matura sotto la canicola sente salire alle sue tempie un'onda di sangue più fiera di quella che talvolta offuscò i nostri occhi quando c'inchinammo a cercar troppo intentamente nell'acqua se per avventura vi si scorgesse in fondo qualche antica spada o qualche antico diadema.
Tuttavia come a un rifugio benigno non vengono qui le anime gracili, e quelle che celano qualche piaga inconfessabile, e quelle che compirono qualche finale rinunzia, e quelle che effeminò un morbido amore, e quelle che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire? Forse ai loro pallidi occhi Venezia appare come una clemente città di morte abbracciata da uno stagno soporifero. In vero, la lor presenza non pesa più delle alghe vagabonde che fluttuano presso le scale dei palazzi marmorei. Esse aumentano quel singolare odor di cose malaticce, quello strano odor febrile su cui è così dolce, talvolta, verso sera, dopo una giornata laboriosa, cullare il sentimento della propria pienezza, che talvolta somiglia al languore.
Pur non sempre l'ambigua indulge all'illusione di coloro che la implorano pacificatrice. Io so di taluno che a mezzo dei suoi riposi sussultò sbigottito come quegli che, giacendo con le dita leni dell'amata su le sue palpebre stanche, udì repentine serpi sibilare nei capelli di costei...
Ah, se io sapessi dire di che prodigiosa vita ella mi par palpitante nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili! Ogni giorno ella assorbe la nostra anima: ed ora ce la rende intatta e fresca e tutta nuova quasi direi d'una novità originale su cui domani i vestigi delle cose avranno una ineffabile limpidezza; ed ora ce la rende infinitamente sottile e vorace come un calore che strugge quanto attinge, per modo che talvolta a sera rinveniamo tra le ceneri e le scorie qualche straordinaria sublimazione. Ella ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace essenza stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito.
In verità, se tutto il popolo emigrasse abbandonando le sue case, attratto oggi da altri lidi come già la sua eroica giovinezza fu tentata dall'arco del Bosforo al tempo del doge Pietro Ziani, e nessuna preghiera più percotesse l'oro sonoro dei mosaici concavi, e nessun remo più perpetuasse col suo ritmo la meditazione dell'antica pietra, Venezia rimarrebbe pur sempre una Città di Vita. Le creature ideali che il suo silenzio custodisce vivono in tutto il passato e in tutto l'avvenire. Noi discopriamo in loro sempre nuove concordanze con l'imminente edifizio dell'Universo, riscontri inattesi con l'idea che nacque ieri, chiari annunzii di ciò che in noi non è se non un presentimento, aperte risposte a ciò che noi non osiamo chiedere ancora. Esse sono semplici, e tuttavia cariche di significazioni innumerevoli; sono ingenue, e tuttavia vestite di tuniche speciose. Se noi le contemplassimo per un tempo indefinito, esse non resterebbero mai dal versare nel nostro spirito verità dissimiglianti. Se noi le visitassimo ogni giorno, esse ogni giorno ci apparirebbero in un aspetto impreveduto, come i mari, i fiumi, i prati, i boschi, le rupi. Talvolta le cose ch'esse ci dicono non giungono fino al nostro intelletto, ma si rivelano a noi per una specie di confusa felicità in cui la nostra sostanza sembra fremere e dilatarsi dall'imo. In qualche mattino limpido esse ci indicheranno il cammino che conduce alla foresta remota ove la Bella ci attende da tempo immemorabile sepolta nella sua mistica chioma.
Donde a loro viene lo smisurato potere?
Dalla pura inconsapevolezza degli artefici che le crearono.
Questi uomini profondi ignorano l'immensità delle cose ch'essi esprimono. Immersi nella vita con milioni di radici, non come alberi soli ma come vastissime selve, essi assorbono infiniti elementi per trasfonderli e condensarli in specie ideali le cui essenze rimangono a loro ignote come i sapori del pomo al ramo che lo porta. Essi sono i misteriosi tramiti per cui si appaga la perpetua aspirazione della Natura verso i tipi ch'ella non giunge a stampare integri nelle sue impronte. Per ciò, continuando l'opera della divina Madre, la loro mente «si trasmuta in una similitudine di mente divina», come dice Leonardo. E, poiché la forza creatrice affluisce alle loro dita come la linfa alle gemme degli alberi incessantemente, essi creano con gioia.
Creare con gioia! È l'attributo della Divinità. Non è possibile imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora.
E questi artefici creano con un mezzo che è per sé medesimo un mistero gioioso: col colore, che è l'ornamento del mondo; col colore, che sembra esser lo sforzo della materia per divenir luce.
E il novissimo senso musicale ch'essi hanno del colore fa sì che la lor creazione trascenda i limiti angusti dei simboli figurati e assuma l'alta virtù rivelatrice di un'infinita armonia.
Mai come dinnanzi alle loro ampie tele sinfoniali ci appare evidente la sentenza proferita da quel Vinci a cui la Verità balenò un giorno co' suoi mille volti segreti: «La musica non ha da essere chiamata altro che sorella della pittura.» La lor pittura non è soltanto «una poesia muta» ma è anche una musica muta. Per ciò i più sottili ricercatori di rari simboli, coloro che più furon curiosi di segnare nella purezza di fronti meditative gli indizii di un interno Universo, ci sembrano quasi aridi al paragone di questi grandi musici inconsapevoli.
Quando il Bonifacio, nella Parabola del ricco Epulone, intona su una nota di fuoco la più potente armonia di colore in cui siasi mai rivelata l'essenza di un'anima voluttuosa e superba, noi non interroghiamo il sire biondo che ascolta i suoni assiso tra le due cortigiane magnifiche i cui volti splendono come lampade di puro elettro; ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino d'olio odorifero ove una galera palpitante di orifiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato di un gran fiore.
Non la vedremo noi veramente coi nostri occhi mortali, in qualche sera di gloria, approdare al Palazzo dei Dogi?
Non ci appare essa da un orizzonte profetico nell'Allegoria dell'Autunno che il Tintoretto ci offre come una superiore imagine creata del nostro sogno di ieri?
Seduta su la sponda, in aspetto di deità, Venezia riceve l'anello dal giovine dio pampinifero disceso nell'acqua, mentre la Bellezza si libra nell'aria a volo con un serto di stelle per coronare l'alleanza meravigliosa.
Guardate il naviglio lontano! Sembra che rechi un annunzio. Guardate i fianchi della Donna simbolica! Sono capaci di portare il germe d'un mondo.
Bisogna onorare quel cittadino veneziano che, inviando un nobile messaggio ai nostri maestri d'arte e a quelli d'oltremonte e d'oltremare, dimostrò d'aver fede in questa forza di fecondità ideale ond'è dotata Venezia. V'è dunque ancora qualcuno che in mezzo a tanta miseria e a tanta abiezione serba la fede nel genio occulto della stirpe, nella virtù ascendente delle idealità trasmesseci dai padri, nel potere indistruttibile della Bellezza, nella sovrana dignità dello spirito, nella necessità delle gerarchie intellettuali, in tutti gli alti valori che oggi dal popolo d'Italia sono tenuti a vile. Bisogna onorare quel cittadino. Invitando con solennità a convenire in Venezia maestri d'ogni paese perchè recassero innanzi a questo eterno focolare d'arte una qualche testimonianza dei loro sogni e dei loro sforzi nuovi, egli dimostrò di conoscere il significato verace dell'evento opportuno.
In nessun altro luogo — egli certo pensò — questi ospiti potrebbero sentire più profondamente il discordo che è oggi tra l'Arte e la Vita.
O uomini solitarii — egli volle dire — i quali vi traeste in disparte dalla folla ostile per adorare un fantasma che sol vive nello specchio dei vostri occhi; e voi che vi creaste re d'una reggia senza finestre, ove in vano aspettate da tempo immemorabile non so qual Visitazione; e voi che di sotto a una ruina credeste disseppellire il simulacro della Bellezza, e non era se non una Sfinge corrosa che vi travaglierà coi suoi enigmi sino alla morte; e voi che ogni sera vi mettete su le vostre soglie per veder giungere lo Straniero misterioso dal mantello gonfio di doni, e pallidi ponete l'orecchio contro la terra per udire il passo che sembra avvicinarsi e poi si dilegua; voi tutti che un cordoglio rassegnato sterilisce o un orgoglio disperato divora, voi tutti che indura una pertinacia inutile o rende insonni un'attesa di continuo delusa, venite a riconoscere i vostri mali sotto lo splendore di quest'anima antica e pur sempre novella. Essa vi rivelerà il segreto della sua fiamma inestinguibile quando vi dirà che nacque dal più appassionato connubio dell'Arte con la Vita.
Nell'ottobre del 1895, chiudendosi la prima «Esposizione internazionale d'Arte» in Venezia. Stampato in Firenze per i tipi di Salvadore Landi novembre, 1895.