NOVELLE DI CANTERBURY

DI

G. CHAUCER

SAGGIO DI UNA PRIMA TRADUZIONE ITALIANA

BOLOGNA

DITTA NICOLA ZANICHELLI 1897

A

GIUSEPPE PICCIOLA

PREFAZIONE

He is the poet of the dawn who wrote The Canterbury Tales, and his old age Made beautiful with song....

( Longfellow )

Le cinque novelle che presento al lettore in questa prima veste italiana sono un semplice saggio di una traduzione di tutte le Novelle di Canterbury, che avrei in animo di fare, se la modesta opera mia non venisse giudicata del tutto inutile. Uno studio compiuto e minuzioso intorno alla vita e alle opere del Chaucer sarebbe qui fuori di luogo, perchè destinato ad illustrare troppo piccola parte della maggiore e più importante opera del poeta. Per questa volta, quindi, mi limiterò a dare qualche notizia delle Canterbury Tales in generale, fermandomi più particolarmente su ciascuna delle novelle tradotte in questo primo saggio.

Il Chaucer non compose e scrisse la geniale opera, alla quale maggiormente deve la sua fama di poeta grande ed arguto, tutta di seguito e di un sol getto, ma ne raccolse ed elaborò il vasto e vario materiale in molte riprese, e a lunghi intervalli di tempo. E da questo forse ebbe origine la mancanza, quasi assoluta, di una rigorosa e chiara unità nella economia generale di tutta l’opera, tanto che l’ordine stesso col quale si seguono le novelle è incerto, e varia secondo i codici. Quindi non si può con precisione determinare quando le Novelle di Canterbury siano comparse, per la prima volta, come un lavoro organico e artisticamente compiuto. Quello che è certo, è che l’opera non potè essere finita di compilare prima del 1386, giacchè in alcune novelle si allude a fatti che a quest’anno si riferiscono. E questa è appunto la ragione, per cui come data approssimativa della composizione delle Canterbury Tales è accettato comunemente l’anno 1386. Alla questione se il Chaucer avesse conoscenza del Decamerone, e da questo avesse preso il disegno generale delle sue novelle, accenneremo più avanti parlando della storia di Griselda: per ora diremo solamente che l’idea di riunire insieme, in forma di racconti fatti da varie persone, storie più o meno avventurose, il Chaucer potrebbe averla presa dal romanzo dei Sette Savi, così popolare nel medio evo, o anche più verisimilmente, come fu osservato[1], dalla Vision concerning Piers Plowman, attribuita a William Langland, dove si racconta di «pellegrini e palmieri» che si recavano a San Giacomo di Compostella, e a visitare altri santi a Roma «raccontando molte savie novelle.»

Thomas à Becket, caduto ai piedi dell’altare sotto il pugnale dei sicari di Enrico II, che lo fece assassinare perchè aveva osato di opporsi alla dinastia normanna per la libertà del popolo sassone, fu canonizzato, ed il suo corpo venne sepolto e religiosamente conservato nella cattedrale di Canterbury. Quivi i suoi concittadini venivano dalle regioni più lontane dell’Inghilterra in pellegrinaggio, non solo per ottenere qualche grazia dal santo miracoloso, ma spinti da un religioso sentimento di gratitudine verso il primo inglese, che dall’epoca della conquista era stato un terribile nemico dei tiranni stranieri.[2]

Il Chaucer immagina appunto che una allegra brigata si ritrovi, per caso, una sera di aprile, in un albergo di campagna in Southwork, chiamato il Tabarro, e vi passi la notte, per recarsi la mattina presto in pellegrinaggio alla tomba di S. Tommaso. Dopo cena l’oste Harry Bailly, saldati i conti con i suoi numerosi avventori, si mette a chiacchierare con loro allegramente, e avendo sentito che andavano tutti a Canterbury, in un momento di buon umore fa ai suoi ospiti una proposta, che è accolta subito con entusiasmo.—La mattina egli sellerà il suo cavallo, e partirà con loro.—E poichè la strada che conduce a Canterbury è lunga e noiosa, propone che ognuno, mentre la brigata cavalca tranquillamente, racconti per turno due novelle, e lo stesso si faccia al ritorno.

I pellegrini capitati al Tabarro erano in tutto trentadue[3], cosicchè le Novelle di Canterbury avrebbero dovuto essere, almeno, cento ventotto. Ma il Chaucer, purtroppo, non finì l’opera che aveva concepito con sì largo disegno, ed a noi non restano che venticinque novelle, compresa «The Cokes Tale of Gamelyn» che da molti è ritenuta apocrifa, due delle quali sono in prosa[4].

Nel prologo, che il Craik definisce «a gallery of pictures almost unmatched for their air of life and truthfulness»[5] il poeta ci presenta, ad uno per volta, tutti i suoi compagni di viaggio (giacchè immagina di essere stato anch’egli della brigata) con tutti i più minuti particolari della condizione, della educazione, delle abitudini, delle qualità fisiche e morali e del modo di vestire di ciascuno. Dal nobile cavaliere di ventura al contadino, dal letterato al marinaio, dall’avvocato all’usciere del tribunale, dal mugnaio al dottore, dal buon parroco di campagna al frate disonesto e imbroglione, dalla monaca educata e inappuntabile alla volgare e sguaiata venditrice di fazzoletti, la vecchia società inglese della fine del secolo XIV è descritta, in questo originalissimo e interessante brano di poesia, in tutti i suoi diversi elementi. Nessuno dei particolari più minuti che si riferiscono alla stravaganza delle vesti in uso al tempo suo, nel quale quasi ogni classe di persone aveva un modo proprio e caratteristico di vestire, è dimenticato dal poeta.

Suora Eglantina, per esempio, «portava il fisciù appuntato con molto garbo» il monaco «aveva le manopole di pelliccia della più fine qualità» e la donna di Bath «portava le calze rosse ben tirate su fino al ginocchio.» Lo stesso dicasi dei segni particolari del viso, delle qualità dell’animo e del corpo, che si alternano nella descrizione del poeta disordinatamente e senza gradazione di sorta, sicchè talvolta sentiamo nel suo modo di parlare qualche cosa di rude e di contorto. Traducendo sarebbe stato facil cosa mettere un po’ di ordine, ed evitare le frequenti spezzature del periodo e il ripetersi di certe espressioni, ma trattandosi di una versione in prosa, questo io mi sono proposto prima di tutto: conservare, nella parola e nel pensiero, più che fosse possibile l’impronta caratteristica di questo geniale poeta novellatore, che senza avere la frase concisa e scultoria del nostro Boccaccio, e senza essere fino ed arguto come lui, è di lui forse più moderno nel modo di vedere e di sentire, I pratici consigli che egli suggerisce alle donne che hanno marito, nel lepidissimo congedo col quale il chierico di Oxford chiude il suo racconto, possono essere, se io non erro, un esempio di questo spirito di modernità, e di quella giovanile gaiezza che dà vita a tutta l’opera poetica del Chaucer. I personaggi che ci sfilano davanti in questo prologo, con la varietà di colori e di atteggiamenti con cui vediamo passare, una dopo l’altra, le figure di una lanterna magica, non sono immaginati e inventati dalla fantasia del poeta. Sono creature vive e reali, uomini e donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e per questo i loro discorsi e i loro atti ci interessano e ci divertono. Fermiamoci per un momento davanti a qualcuna di queste figure. Il dottore, in fatto di medicina, oggi senza dubbio, sarebbe un poco arretrato, nonostante i suoi profondi studi sulle opere di Esculapio, di Ippocrate, e di tutte le celebrità mediche dell’Arabia, e nonostante la sua scienza astrologica: ma se il medico è per noi antico, l’uomo è interamente moderno. Infatti due cose premono sopratutto al nostro bravo dottore: la sua salute e i quattrini. E però «mangiava poco, ma cercava che quel poco fosse roba nutritiva e facile a digerirsi» e si teneva cari ed amici gli speziali, che eran d’accordo con lui «nel cavar sangue al prossimo». Chi non riconosce nel mercante di indulgenze un frate Cipolla dotato di una malizia più moderna di quella che non avesse, in fondo, il simpatico frate boccaccesco? Egli veniva da Roncisvalle: ma nelle sue lunghe peregrinazioni, che faceva con la sola missione di imbrogliare devotamente il prossimo, certo ebbe a capitare anche in Truffia e in Buffia come frate Cipolla. Ma a lui non bastava gabbare gli ingenui e gli sciocchi: aveva anche «alcune altre taccherelle, che si taccion per lo migliore[6].» Accanto alle poco oneste figure del mercante di indulgenze e di frate Uberto, suo degno collega, spiccano le altre due dell’umile ed onesto parroco e del contadino suo fratello, che ispirano, come osserva assai felicemente il Ward,[7] quella grande simpatia che Dickens sapeva trovare nelle persone semplici e povere. L’impiegato del tribunale che quando ha alzato il gomito un po’ troppo incomincia a parlare in latino, l’economo che ruba sulla spesa a man salva, senza che nessuno se ne accorga, il monaco divoratore di arrosti, e cacciatore impenitente come don Paolo nella «Scampagnata» del Fucini, sono tutte macchiette una più vera e più originale dell’altra. E non ultima fra di esse è quella così caratteristica dell’oste, il quale è l’anima della brigata, sempre pronto a richiamare all’ordine tutti, a fare le sue osservazioni sulle novelle che si raccontano, e a ridere e a scherzare allegramente. Il prologo delle Canterbury Tales è una delle creazioni più perfette del Chaucer, e forse fu la parte da lui scritta per ultima di tutto il suo libro di novelle. Per la sua ingenua schiettezza, per la sua simpatica e piacevole semplicità, che ne fanno una delle più pregevoli cose dell’antica poesia inglese, esso resterà sempre, nel suo genere, un modello non facilmente imitabile. Che figure scialbe e senza vita sono quelle sette persone così accademicamente riunite in un albergo a raccontare novelle, nelle “ Tales of a Wayside Inn ” con cui il gentile poeta di Evangelina[8] volle imitare i pellegrini di Canterbury!

La lunga storia che il compìto cavaliere racconta per il primo ai suoi compagni di viaggio, non offre il destro ai cacciatori di più o meno pretese fonti di sbizzarrirsi troppo. Poichè il disegno generale e la materia principale di questa novella sono tolti, in modo da non ammettere discussione, dalla Teseide del Boccaccio; dalla quale il Chaucer ha tradotto quasi letteralmente circa duecento settanta versi, ed oltre cinquecento ha imitati o parafrasati. Per quale ragione però egli che si è valso, nei suoi scritti, così spesso e con tanta larghezza dell’opera poetica del Boccaccio, non abbia mai ricordato il nome di lui, è un mistero che fino ad ora nessuno ha saputo spiegare. Mentre cita debitamente ai luoghi loro Dante e il Petrarca, ai quali deve ben poco in confronto degli obblighi che ha verso il Boccaccio, e dimostra quasi una certa sollecitudine nel ricordare altri scrittori latini e medievali, che avrebbe potuto lasciare nell’oblio senza scrupoli di coscienza, dimentica sempre l’autore del Decamerone. Si direbbe anzi che appunto quando attinge da lui più direttamente e più largamente, come in questa novella del Cavaliere, e nel poema intitolato Troilus and Cressida, il Chaucer si studi di nascondere meglio che può, a chi legge, la vera fonte, con citazioni false ed enigmatiche. Gli autori che egli cita, quando dovrebbe citare il Boccaccio che è la fonte vera, sono: Lollius, Stazio, e il Petrarca. Il Sandras non riuscendo a spiegare in altro modo questo fatto stranissimo, sospetta che il Chaucer abbia voluto fare uno scherzo ai suoi lettori, confondendoli con citazioni fuori di proposito ed inventate. Questa spiegazione, la quale dimostrerebbe, in fine, che l’autore delle Novelle di Canterbury ebbe lo spirito di voler ridere alle spalle dei suoi futuri critici, non piacque troppo al Lounsbury,[9] che la dice non solo inverosimile e priva di ogni fondamento, ma trova, non so con quanta ragione, nelle parole del critico francese: «a tone of candid depreciation.» E conclude: «Forse non sarà mai possibile per noi sapere con certezza per quale ragione il Chaucer non nomina il Boccaccio, nelle sue opere; e su ciò non si potranno esprimere se non opinioni individuali, le quali non avranno mai il valore di veri e propri argomenti.»

Il fatto citato dal Rossetti[10] che Pierre Seigneur de Beauveau, il quale verso la fine del secolo XIV fece una traduzione francese in prosa del Filostrato, afferma in modo assoluto che l’autore del poema da lui tradotto era un poeta fiorentino, chiamato Petrarca, non porta davvero nessuna luce sul silenzio del Chaucer in quanto al nome del Boccaccio. Ed anche volendo concluderne, col Tyrwhitt e col Rossetti, che forse il Chaucer, cadendo nello stesso errore di Pierre de Beauveau, credè che delle opere del Boccaccio a lui note fosse autore il Petrarca, non si viene a capo di nulla: anzi la matassa si fa sempre più intricata. Poichè se da una parte, così, si spiegherebbe il caso della storia di Zenobia[11] attribuita al Petrarca, mentre si trova nel De casibus virorum et foeminarum illustrium del Boccaccio, dall’altra rimane sempre più oscuro il mistero di Lollius, citato come autore del Filostrato. Secondo lo Skeat[12] la vera spiegazione di questo enigmatico nome sarebbe quella proposta dal prof. Latham,[13] il quale crede che il Chaucer, intendendo malamente il verso di Orazio: «Troiani belli scriptorem, maxime Lolli[14] » abbia supposto che Lollio fosse uno scrittore latino che avesse trattato della guerra troiana. E questo, secondo il Latham, bastò al poeta per citarlo, senz’altro, come la fonte dell’episodio della guerra di Troia, che egli, invece, aveva attinto al Filostrato. Certamente può sembrare strano il fatto che il Chaucer, il quale aveva tradotto tutto il De Consolatione di Boezio, dimostrando una certa famigliarità con la lingua latina, sia caduto in un errore così grossolano: ma non potrà parere impossibile, quando si pensi che non sarebbe questo il solo. Un altro errore del genere, assai curioso è, per esempio, il pernicibus alis di Virgilio, nella descrizione della Fama ( En. IV, 180), tradotto con: ali di pernice. Se quella del prof. Latham è la vera spiegazione, o almeno la più probabile, è lecito concludere che spesso le citazioni del Chaucer sono fatte in mala fede, e forse con lo scopo di nascondere, molto ingenuamente, la verità. E basterebbe, se io non erro, a giustificare questa conclusione che spiegherebbe tutto, la citazione di Stazio alla quale io accenno nella nota 23 della Novella del Cavaliere. Nè si può opporre il fatto che Dante, il Petrarca, ed altri scrittori, sono sempre citati a dovere: poichè, tenuto conto di quanto il Chaucer deve nelle sue opere al Boccaccio, si potrebbe rispondere che in questo caso il poeta delle Canterbury Tales fa come certi scrupolosi debitori, i quali pagano i debiti piccoli, e poi si dimenticano di quelli più grossi. Ma torniamo alla novella del Cavaliere.

Del lunghissimo poema del Boccaccio il Chaucer non ha preso che la materia romanzesca, che molto bene si adattava al racconto fatto da un cavaliere, il quale «ebbe in alto rispetto la cavalleria, la lealtà e l’onore, la libertà e la cortesia.» L’argomento della sua novella è infatti la storia cavalleresca dei due giovani tebani Palemone e Arcita, che dopo una serie di romanzesche avventure si disputano in un grande torneo la bella cognata di Teseo.

L’elemento epico, cioè quanto si riferisce alla guerra dell’eroe ateniese contro le Amazzoni, che nel poema del Boccaccio occupa tutto il primo canto, è escluso dal racconto del Cavaliere. Il quale solo sul principio accenna fugacemente alle gesta di Teseo nella Scizia, ed incomincia la sua novella dal ritorno trionfale di lui in Atene, e precisamente dalla strofe 25 del Libro II della Teseide. Il Chaucer, senza abbandonare mai il disegno generale, secondo il quale è svolta dal Boccaccio l’avventura dei due cavalieri di Tebe, ha notevolmente abbreviato la storia di Palemone e Arcita, che nella sua novella è raccontata in 2250 versi, mentre nella Teseide si estende a 8600 circa. Di questo la critica gli ha dato ampia lode, notando che egli ha dimostrato un sano criterio artistico, e buon gusto, nel lasciare molte delle lunghe e noiose descrizioni del Boccaccio. Se non che si potrebbe domandare, senza togliere nulla al merito del poeta inglese, se ciò si debba proprio al suo buon gusto soltanto, o piuttosto alle esigenze della forma da lui prescelta per la sua storia. E la risposta non mi pare difficile: poichè se il Cavaliere, destinato dalla sorte a incominciare per primo la serie dei racconti di Canterbury, invece di raccontare una novella, avesse preteso di recitare un poema intero in dodici canti, quale è la Teseide, c’era il caso che molti dei suoi compagni di viaggio avessero dovuto rinunziare al proprio racconto; dato che l’oste Harry Bailly, il quale aveva tanto buon senso, non lo avesse obbligato, come fece al Chaucer[15], a cambiare argomento. Del resto il Cavaliere stesso, incominciando la sua novella, dice che dovrà abbreviarne la lunga storia affinchè «nessuno per colpa sua debba rinunziare al proprio racconto.» Ma ben più largamente, dobbiamo confessarlo, il Chaucer avrebbe potuto sfrondare dalla selva epico-romanzesca della Teseide, se troppo spesso non si fosse compiaciuto, anche egli, di quelle lunghe e noiose descrizioni, più tollerabili ad ogni modo in un poema che in un racconto in forma di novella, e di quelle tirate rettoriche, a base di mitologia e di storia sacra, che sono l’indispensabile bagaglio poetico di quasi tutti gli scrittori dell’età di mezzo, in cui si preferiva all’aurea semplicità di Virgilio la gonfia rettorica di Stazio. La minuta descrizione di tutte le figure istoriate nei tre templi del grande anfiteatro destinato al torneo, l’enumerazione delle varie specie di alberi e di piante onde fu eretto il rogo di Arcita, gli epici particolari dei suoi funerali, che il Cavaliere poteva risparmiare ai suoi compagni di via senza punto nuocere all’interesse della sua novella, dimostrano che il Chaucer non si lasciò consigliare sempre dall’arte e dal buon gusto nel far suo il materiale della Teseide.

Con tutto ciò non si può negare, certamente, che egli abbia portato nell’argomento della favola di Palemone e Arcita qualche nota personale, e modificazioni talvolta felici ed opportune come quelle notate, insieme col Tyrwhitt[16], dallo Skeat e dall’Hertzberg[17]. Il Chaucer era troppo poeta nel fondo dell’anima, per fare nella sua novella un semplice sunto in versi dell’originale onde la tolse.

Quanta poesia in questa breve descrizione dei primi albori del mattino:

«The busy larke, messager of daye, Salueth in hire song the morwe gray; And fyry Phebus ryseth up so bright, That all the orient laugheth of the light, And with his stremes dryeth in the greves The silver dropes, hongyng on the leeves.»[18]

Per trovare una di queste pennellate così poeticamente sentite e riprodotte dalla natura, bisogna leggere Dante e Shakespeare. Longfellow pensava certo a questi versi, quando in quel suo bellissimo sonetto scriveva del Chaucer:

«He listeneth to the lark

Whose song comes with the sunshine through the dark Of painted glass in leaden lattice bound: He listeneth and he laugheth at the sound, Then writeth in a book...»[19]

La storia del romanzesco amore di Palemone e Arcita fu uno degli argomenti che più allettarono il Chaucer fin da quando ne ebbe conoscenza per la prima volta nella Teseide. E dobbiamo dire che egli ebbe una particolare predilezione anche per il poema del Boccaccio, giacchè reminiscenze e traduzioni della Teseide se ne trovano anche in altri tre suoi componimenti poetici: The Parliament of Fowls, Of Queen Annelida and false Arcite, Troilus and Criseide. Molto prima che nella novella del

Cavaliere, inoltre, le avventure amorose di Palemone e Arcita il Chaucer le aveva trattate in un componimento giovanile che è andato perduto, e che egli stesso ricorda nel prologo di un’altra sua opera poetica intitolata: The Legend of good Women.[20] Questa prima redazione fu certo molto diversa da quella che è rimasta nelle Canterbury Tales: il Tyrwhitt non esclude che potesse essere una semplice traduzione della Teseide. Molto probabilmente la Novella del Cavaliere non è che un rifacimento di questo primo lavoro giovanile, che, composto in origine con intendimenti ben diversi, passò poi a far parte delle Novelle di Canterbury.[21] La cavalleresca storia di Palemone e Arcita è una creazione originale del Boccaccio, o è il riflesso di qualche novella medievale? Il tema, come osserva, il Crescini[22], non è nuovo: ma nessun documento si può produrre fino ad oggi, il quale contenda al Boccaccio il merito di questa favola d’amore, che ebbe maggior fortuna di quello che forse non meritasse. Giacchè passando dalla Teseide alla novella del Chaucer, e da questa al dramma attribuito al Fletcher e al poema del Dryden, ebbe l’onore di ispirare alcuni dei più nobili ingegni dell’Inghilterra.[23]

Nella patetica storia di Costanza, raccontata dal Dottore in legge, piuttosto che di fonti immediate, di copie e di imitazioni, bisogna parlare di riscontri e di analogie; ed è necessario andare molto cauti, prima di gridare alla scoperta, per non cadere in qualcuno di quegli errori o in alcuna di quelle tante inesattezze, in cui cadde troppo spesso la critica letteraria di questo secolo, smarrendosi per l’intricata selva delle genealogie dei racconti medievali. Questa novella ha in sè elementi assai diversi, derivati in origine dalla grande sorgente popolare, che la tradizione orale e scritta ha modificato lentamente, con una larga messe di variazioni. I temi fondamentali di cui essa si compone sono due: la bellezza, causa di peccato e di sventure, e il trionfo della innocenza perseguitata. A questo secondo nella leggenda popolare è sempre unito l’elemento miracoloso: ed anche in questa novella ha molta parte, non solo, ma non manca neppure il miracolo vero e proprio: v’è infatti il cavaliere assassino e spergiuro, al quale una mano misteriosa con un colpo fa schizzar via gli occhi dalla testa. La storia di Donegilda che facendo ubriacare il messo, il quale deve recare al re Alla la lieta notizia che Costanza ha partorito un bel maschio, gli toglie di tasca la lettera, e la sostituisce con un’altra in cui è scritto che sua moglie ha dato alla luce un essere mostruoso o una bestia, è il vecchio e popolarissimo tema della suocera regina, che odia la nuora e vuole disfarsene ad ogni costo[24]. E nelle sue molteplici versioni e relazioni con altri fatti, lo troviamo spesso ripetuto, nelle novelle nostre, dalla storia di Dionigia principessa di Francia, di Ser Giovanni Fiorentino,[25] alla moderna novellina toscana, per citarne una, intitolata «L’uccellino che parla.»[26] Lo stesso può dirsi, in generale, degli altri elementi che compongono questa Novella del Dottore in legge: il tradimento del cavaliere che uccide Ermenegilda ricorre, in circostanze poco diverse, nel Roman de la Violette, nel romanzo inglese Le Bone Florence of Rome[27], in un capitolo dello Speculum Maius di Vincent de Beauvais, frate domenicano fiorito verso il 1260, e nelle Gesta Romanorum. Le avventure e le sofferenze di una principessa, costretta dal padre a sposare uno straniero, o un re di religione diversa dalla sua, sono un argomento comunissimo e di una tradizione assai remota. Il Tyrwhitt afferma in modo assoluto che il Chaucer, con qualche leggerissima variante, ha preso la pietosa storia di Costanza dal secondo libro della Confessio Amantis di John Gower, amico del poeta ed il maggiore dei poeti suoi contemporanei. Aggiunge però che egli non ritiene neppure il Gower inventore della novella, e cita in proposito un’antica poesia inglese intitolata Emaré, dal nome dell’eroina che ha una serie di avventure presso a poco simili a quelle di Costanza[28]. L’opinione del Tyrwhitt, il quale dà per fonte diretta e immediata ciò che non può avere altro valore, se non quello di un fortuito riscontro, non è accolta dal Wright.[29] Egli crede, molto più verisimilmente, che la Novella del Dottore in legge abbia per fonte diretta qualche antico romanzo francese, e nota che la redazione della storia quale si trova nel poema del Gower, è tolta, invece, dalla cronaca anglo-normanna di Nicolas Trivet, o Treveth, il quale era un frate domenicano inglese che visse nella prima metà del secolo XIV. La cronaca di Nicolas Trivet, contenente la vita di Costanza, figlia dell’Imperatore Tiberio Costantino, fu stampata, con la traduzione inglese, da Edmund Brock nelle pubblicazioni della Chaucer Society.

Da un accurato raffronto che il dotto critico fa del racconto che si trova in questa cronaca, con la novella raccontata dal Dottore in legge, rilevandone tutte le somiglianze, sembrerebbe che il Chaucer si fosse valso piuttosto largamente della cronaca del frate inglese[30]. È probabile, quindi, che tanto il Gower quanto il Chaucer abbiano attinto, senza saperlo, alla stessa fonte, cioè al racconto francese di Nicolas Trivet. Questa infatti è l’opinione più comunemente accettata: l’Hertzberg,[31] però trova che non vi sono prove e documenti abbastanza sicuri per accogliere le conclusioni del Wright, e dice che la sola cosa che si può affermare con certezza, è che nè il Gower nè il Chaucer hanno inventato la storia di Costanza, ma hanno attinto ad una fonte antica, che probabilmente non è la cronaca del Trivet.

La novella del Dottore in legge è una delle più belle di tutta la lunga serie dei racconti di Canterbury, e come pittura commovente della rassegnazione cristiana, e dell’umana virtù, è degna sorella della storia di Griselda raccontata dal Chierico di Oxford. L’episodio della partenza di Costanza sulla nave, dove viene abbandonata col bambino in balìa delle onde e dei venti, è così profondamente sentito, e così vero in tutti gli affettuosi particolari dell’amore materno e della fede, che non si può leggere senza provare un intimo senso di commozione. In questa novella il Chaucer non adopera il metro da lui comunemente usato nello stile eroico e burlesco, cioè il così detto verso eroico: per gli argomenti serî e patetici egli predilige una forma poetica speciale, nella quale sono scritte, oltre questa, la «Novella del Chierico di Oxford» la «Novella della Madre Priora» e la «Novella della seconda Monaca.» Si tratta di una strofe rimata di sette versi, composta su questo schema: a b a b b cc. Il Chaucer ha intradotto per il primo questo metro nella letteratura inglese: per quanto nel suo poemetto Troilus and Cressida, che è un rifacimento del Filostrato, questa strofe sostituisca evidentemente l’ottava del Boccaccio, sembra strano che essa debba considerarsi una derivazione diretta dell’ottava rima, come vorrebbe qualcuno[32]. Il Tyrwhitt[33] inclina a credere che sia, invece, di origine provenzale, e cita una poesia di Folchetto di Marsiglia, scritta in una strofe di sette versi, che corrisponde esattamente a quella del Chaucer. E la sua opinione è divisa dall’Hertzberg, il quale dice, senz’altro, che questo metro è preso in prestito dai poeti di Provenza. In Inghilterra questa strofe divenne subito molto popolare, e fu usata assai spesso dai due immediati seguaci e imitatori del Chaucer, Occleve e Lydgate. Perfino Giacomo I di Scozia l’adoperò in un suo lavoro poetico intitolato The Kinges Quair:[34] e pare, anzi, che in omaggio a questa regale predilezione la strofe acquistasse il nome di ryme royal, col quale la sua popolarità durò fin verso la fine del secolo XVI, in cui fu spodestata dalla nuova stanza dello Spencer, composta di nove versi.

La Novella del Chierico di Oxford è, in sostanza, la storia raccontata da Dioneo nell’ultima novella del Decamerone. Ma la fonte non è il Boccaccio: il Chaucer stesso ci fa sapere nel prologo[35], che la fonte diretta è il Petrarca, e questa volta, ad onore del vero, egli dice proprio la verità. Poichè il racconto del Chierico di Oxford segue quasi letteralmente la parafrasi latina che Francesco Petrarca fece della novella del Decamerone, e che egli stesso mandò con bellissime parole al Boccaccio verso il 1373[36]. La questione che alcuni critici[37] hanno voluto fare, se il Chaucer abbia composto la sua novella sopra un semplice racconto orale a lui fatto, della storia di Griselda, dal Petrarca (come sembrerebbe si dovesse ricavare dal prologo), o se egli abbia, invece, avuto sott’occhio il manoscritto latino, mi sembra oziosa e senza alcun valore. Giacchè nulla aggiunge e nulla toglie al merito del poeta inglese, il fatto che egli abbia avuto, o no, fra mano il testo latino della traduzione del Petrarca. Comunque sia, basta un diligente confronto di questo testo con quello del Chaucer, per convincersi che l’autore della novella del Chierico di Oxford ha indubbiamente avuto sotto gli occhi la traduzione latina del Petrarca. Certe espressioni, certi movimenti e atteggiamenti del pensiero, certi minuti particolari che poca o nessuna relazione hanno con la narrazione generale del fatto, non possono essere rimasti così impressi al Chaucer, che egli abbia potuto ripeterli, nella sua novella, quasi con le stesse parole del testo latino. L’Hertzberg ritiene che l’asserzione del Chierico di Oxford nel prologo non implichi altro che il semplice fatto, che il Chaucer ha attinto alla traduzione del Petrarca. Le parole del Chierico, secondo lui, non bastano per affermare che il poeta abbia realmente conosciuto a Padova il cantore di Laura, e proprio dalla sua voce abbia appreso la storia di Griselda. Certo non vi sarebbe nulla di strano e di inverosimile ad ammettere che il Chaucer trovandosi verso la fine del 1372 in Italia, dove era stato mandato dal governo di Edoardo III in missione diplomatica, si recasse a Padova per conoscere Francesco Petrarca, che proprio in quel tempo si trovava in mezzo ai dolci colli di Arquà. Ma nessun documento prova questa visita del poeta inglese al poeta italiano: e forse nelle parole del Chierico di Oxford si è voluto trovare più di quello che il Chaucer stesso abbia voluto dire. Assolutamente destituita di fondamento, poi, è l’asserzione di alcuni biografi e studiosi[38] del poeta, che egli avesse conosciuto il Petrarca in Milano fino dal 1368, in occasione delle nozze di Violante, figlia di Galeazzo Visconti, con Lionello Duca di Clarence. E ci volle, davvero, tutta la buona volontà e la calda fantasia del Baret, per affermare, senza provarlo in alcun modo, che in questa circostanza il Chaucer fu presentato anche al Boccaccio; e per immaginare perfino i geniali discorsi tenuti dai tre illustri letterati: «Que de sujets durent être traités, que d’idées échangées, quels horizons nouveaux ouverts par les deux doctes Italiens à cet enfant curieux de la Grand Bretagne encore barbare!»[39]

Ma ad una questione assai più importante ci conduce la storia di Griselda raccontata dal Chierico di Oxford: cioè se l’autore delle Canterbury Tales abbia avuto conoscenza del Decamerone. Le novelle del Chaucer, che ordinariamente sono considerate come prese o imitate dal Decamerone, sono, oltre la Novella del Chierico di Oxford, queste tre: «The Schipmannes Tale» (Novella del Marinaro) che corrisponderebbe alla novella di Gulfardo e Gosparruolo ( Decam. VIII. 1); «The Frankeleynes Tale» (Novella del Possidente) corrispondente alla storia di Madonna Dianora e Messere Ansaldo ( Decam. X. 5); e «The Reeves Tale» (Novella del Fattore) da confrontarsi con la novella raccontata da Panfilo ( Decam. IX. 6). Relazioni di somiglianza, specialmente in certi dettagli, si trovano, inoltre, fra la Novella del Mercante (The Marchaundes Tale) e quella di Lidia e Nicostrato ( Decam. VII. 9), e fra la Novella del Mugnaio (The Milleres Tale) e la storia di Frate Puccio ( Decam. III. 4). Senza entrare in particolari e senza fare qui dei raffronti che sarebbero fuori di luogo, notiamo solamente che le somiglianze fra racconto e racconto nelle novelle che abbiamo citate, non sono tali da potere provare materialmente che il Chaucer conosceva il Decamerone. In mezzo alle numerose e sostanziali variazioni di uno stesso tema, che la tradizione orale ha modificato in mille modi, non è possibile rintracciare l’originale e designare la fonte. Nè si può certo chiedere ad un raffronto fra il Decamerone e le Canterbury Tales la prova che il Chaucer abbia avuto conoscenza dell’opera maggiore del Boccaccio. Anzi se si voglia tener conto del fatto, che delle altre opere del Boccaccio a lui senza dubbio note, come la Teseide, il Filostrato, De casibus virorum et faeminarum, De claris mulieribus, e il De Genealogia Deorum, egli si è valso molto spesso, e senza tanti scrupoli, da un simile raffronto si dovrebbe concludere che forse al Chaucer non dovette essere noto il Decamerone.

Molto più che la storia di Griselda, pur rimanendo nel racconto del Chierico di Oxford tale e quale, in sostanza, è nella novella raccontata da Dioneo, il Chaucer non l’ha tolta evidentemente dal Decamerone, ma dalla traduzione latina del Petrarca. Ma se mancano gli elementi e gli argomenti necessari per potere affermare esplicitamente che il Chaucer conobbe il Decamerone, nessuno vorrà negare la stranezza e la inverosimiglianza del fatto, che il Chaucer, il quale conobbe e tradusse la Divina Commedia, e conobbe le opere del Petrarca fino al punto da chiamarlo «my master Petrarch»[40] e da tradurre quasi alla lettera il sonetto LXXXVIII del Canzoniere,[41] non conoscesse affatto l’opera maggiore e più importante del Boccaccio, il quale egli mostra di avere conosciuto anche troppo nella Teseide, nel Filostrato, e più o meno in quasi tutte le opere latine. Nessuno, credo, potrà ammettere facilmente che un letterato di ingegno come il Chaucer, avido di imparare e di conoscere, il quale cerca fuori della rozza sua patria un raggio luminoso di quell’arte e di quella poesia per la quale si sente nato, giunto in Italia vi si trattenga circa undici mesi (dal Dicembre del 1372 al Novembre del 1373), ed insieme col nome di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca, a lui notissimi, non senta mai ricordare quello di Giovanni Boccaccio. E si badi che il Chaucer durante il suo non breve soggiorno in Italia, si recò a Firenze proprio nell’anno 1373, vale a dire quando il Boccaccio incominciava, per incarico del Comune di Firenze, le sue letture pubbliche sulla Divina Commedia nella chiesa di S. Stefano. Anche ammesso che il Chaucer, il quale sembra che lasciasse Firenze prima del 22 Novembre, non avesse avuto il tempo o l’occasione di assistere ad una delle lezioni del Boccaccio, che inaugurò la cattedra dantesca il 23 Ottobre, è molto inverosimile che non avesse almeno sentito parlare di un avvenimento così importante, e dell’alto onore a cui la Signoria di Firenze chiamava l’autore del Decamerone. Ma è proprio un destino che certe circostanze e certi particolari interessantissimi della vita del Chaucer debbano restare nell’ombra e nel mistero: se si potesse provare che egli conobbe realmente, a Padova, il Petrarca, e da lui ebbe notizia della storia di Griselda, avremmo un valido argomento di più per ritenere che il Boccaccio e le sue novelle dovettero essere noti al Chaucer. Poichè il Petrarca che mandando la sua traduzione latina al Boccaccio scriveva: «A chiunque poi mi domandasse se la cosa sia vera, cioè se questo scritto sia favola o storia, risponderei come Crispo: chiedetene conto all’autore che è il mio Giovanni»[42] il Petrarca, dico, non avrebbe certo tenuto nascosto al Chaucer il nome dell’amico suo, e del libro onde egli aveva tradotto la novella di Griselda. Stando così le cose, e non essendo possibile, purtroppo, in tale questione, uscire dal campo delle congetture e delle semplici supposizioni, a me sembra che senza affermare in modo assoluto e gratuitamente come il Mamroth,[43] che il Chaucer conobbe il Decamerone e da questo tolse il piano del suo libro, si possano accettare le conclusioni del Kissner,[44] cioè che forse le Canterbury Tales debbono al Decamerone più di quello che comunemente si crede, e che ad ogni modo non ci sono nè documenti nè ragioni inoppugnabili, i quali ci vietino di poter credere che le novelle del Boccaccio fossero note al Chaucer.

Le origini della storia di Griselda si perdono nella tradizione popolare: e in argomenti di questo genere non è raro il caso, in cui la voce del popolo ci porti l’eco di qualche fatto accaduto, chi sa in quali circostanze e con quali particolari, in tempi lontanissimi.[45] Che la storia della povera pastorella «provata fino al martirio dal marito marchese» fosse nella tradizione orale, lo provano, come già osservò il Bartoli[46], queste parole del Petrarca, dalle quali sembrerebbe che la storia di Griselda fosse nota già da molto tempo non solo a lui, ma anche al Boccaccio: «ricordandomi di averla io stesso con gran piacere udita narrare molti anni indietro, e poichè tanto era piaciuta a te stesso, che degna la credesti di farne materia al tuo stile.»[47] II tema è piuttosto comune: ci troviamo davanti ad una delle numerose versioni che rientrano nel vasto ciclo della moglie calunniata e perseguitata, come la storia di Genoveffa[48]. L’opinione del Duchat[49], accolta e ripetuta anche dal Le Grand d’Aussy[50], dal Manni[51], e dall’abate de Sade[52]: che il Boccaccio avesse tolto la storia di Griselda da un antico manoscritto francese intitolato: Le Parement et Triomphe des Dames, fu dimostrata assolutamente erronea, prima anche che dal Landau, dal Tyrwhitt, il quale osservò che l’autore del Parement, Olivier de la Marche, era nato e vissuto molti anni dopo la morte del Boccaccio.

Il Chaucer nella sua novella non si discosta quasi mai dal testo del Petrarca: e lo segue così scrupolosamente, anche nei particolari più minuti, che il racconto del Chierico si potrebbe chiamare una traduzione poetica della prosa latina petrarchesca. Non c’è una frase, non una sola parola nella novella del Chaucer, che possa fare supporre, anche lontanamente, che egli avesse letto o conosciuto in qualche modo la novella del Boccaccio. Unica indiscutibile fonte è il Petrarca: ed io non saprei, a questo proposito, come qualificare l’assurda asserzione del Klein, il quale dice che il racconto del Chierico di Oxford «è un miscuglio di Boccaccio, Petrarca e Maria di Francia»[53] aggiungendo a questo non pochi altri spropositi, che, con tutto il rispetto dovuto ad un critico tedesco, non vale neppure la pena di rilevare. Per quanto però il Chaucer traduca molto spesso quasi letteralmente dal Petrarca, la sua natura di poeta e le sue qualità di osservatore e conoscitore profondo dell’animo umano, spiccano in questa novella anche più che in altre, dove la materia del racconto è più originale e indipendente. Quando Gualtieri dopo avere detto a Griselda che il papa gli ha permesso di prendersi un’altra moglie, la caccia di casa, e le ingiunge con amara irrisione di riprendersi la dote che aveva portato, il Petrarca segue e traduce il Boccaccio, il quale così fa rispondere dalla povera pastorella al crudele signore di Saluzzo: «Comandatemi che io quella dote me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, nè a voi pagator nè a me borsa bisognerà nè somiere, per ciò che uscito di mente non m’è che ignuda m’aveste.» Il Chaucer con un linguaggio profondamente umano, che rende anche più commovente la risposta di Griselda dice: «In quanto alla concessione che mi fate di lasciarmi andar via con la dote che vi ho portato, capisco bene che voi intendete parlare dei miei poveri cenci, che non erano niente di bello davvero: ma nonostante ben difficilmente io potrei ora ritrovarli. Buon Dio! a sentirvi parlare, e a guardarvi, sembravate così buono e gentile il giorno del nostro matrimonio!» Non è un senso di intima ribellione che fa scattare la povera e ingenua pastorella: in quella esclamazione è mirabilmente compendiato tutto il suo dolore e tutto il suo stupore, davanti a tanta e così inaudita crudeltà di animo. Con quanta verità di sentimento, alle semplici parole: «Audito ergo non tam filiae tacite redeuntis quam comitum strepitu occurrit in limine: et seminudam antiqua veste cooperuit»[54] onde il Petrarca descrive il primo incontro di Griselda, scalza e in camicia, col vecchio padre, il Chierico di Oxford sostituisce quest’altre nel suo racconto: «Il povero vecchio, avendo sentito che la sua figliuola ritornava a casa in quel modo, in fretta in fretta le andò incontro, portando seco la vecchia veste che essa aveva lasciato, e piangendo amaramente, cercava di coprirla alla meglio con quella.» La fiera invettiva al popolo incostante e mutevole come la luna, i commoventi particolari della pietosa scena fra Griselda e i suoi figliuoli, il congedo originalissimo, e di un sapore veramente moderno, col quale il Chierico, finito il suo racconto, si rivolge agli uomini che hanno moglie, e alle donne che hanno marito, ed altre finezze ed arguzie che ognuno potrà facilmente riscontrare da sè, basterebbero da soli a giustificare le lodi e l’ammirazione di tutti i critici più autorevoli dell’Inghilterra, per questa novella, che nel suo genere è forse la più bella fra le Canterbury Tales.

Le «celesti sofferenze» di Griselda, dalla novella del Decamerone in poi, furono imitate e riprodotte in quasi tutte le più importanti forme letterarie antiche e moderne: la rappresentazione sacra, la ballata, la novella, il poema, la commedia, la tragedia, e perfino, ai giorni nostri, il melodramma, si disputarono questa storia, che ha goduto una popolarità lunghissima e quasi senza interruzione. E non solo in Italia, ma anche presso le altre letterature d’Europa, specialmente in Francia in Inghilterra e in Germania, sbocciò attorno alla ideale figura di Griselda una vera fioritura poetica.[55] Se il Boccaccio, come sembra, non si può considerare l’inventore di questa fortunata storia, egli ha tuttavia il grandissimo merito di averne dato, nella sua novella, la prima redazione scritta che si conosca: e nessuno può invidiargli e negargli la gloria di averne creato quel capolavoro di semplicità e di sentimento, che tanta luce di arte e di poesia irradiò fin dal suo nascere.

Venuto il turno del Mercante d’Indulgenze, le persone più civili e bene educate[56] che si trovavano nella gioconda brigata di Canterbury, avendo capito subito, strada facendo, che razza di prete scapestrato e libertino egli era, e forse avendone già avuto abbastanza del licenzioso racconto della donna di Bath, e di qualche altro, non meno scurrile ed osceno, dei novellatori che lo avevano preceduto, misero le mani avanti: e lo pregarono di non dire sguaiataggini. Ed egli, mantenendo la sua promessa, racconta infatti una storia moralissima, e piena di savi avvertimenti[57]. La fonte di questo racconto del Mercante d’Indulgenze è sconosciuta: le sue linee generali si ritrovano in una novella del Novellino[58], nella quale un santo romito avendo scoperto in una selva un tesoro, fugge per non essere tentato da quello. Ed incontrati tre briganti che lo fermano, dice loro come egli fuggisse perchè aveva alle spalle la Morte, indicando ad essi il luogo dove giaceva il tesoro. I tre malfattori trovato il tesoro, decidono che uno di loro vada in città a vendere una piccola parte dell’oro che hanno scoperto, e ne compri da mangiare e da bere per tutti e tre, mentre gli altri restano a far la guardia. Quello che va in città mette il veleno nelle vivande e nel vino che porta ai suoi compagni, per ucciderli e restare egli solo padrone di tutto il tesoro. Appena tornato, però, è ucciso dagli altri due, che avevano deciso di disfarsi di lui, per dividere fra loro solamente le ricchezze trovate. Ma avendo poi mangiato e bevuto delle vivande e del vino che erano avvelenati, muoiono, come l’altro, vittime della loro cupidigia.

Per quanto le somiglianze e i punti di contatto fra questo racconto e quello del Chaucer siano piuttosto notevoli, non si può, in modo assoluto, affermare che il Novellino sia la fonte diretta alla quale il poeta delle Canterbury Tales ha attinto la storia del Mercante d’Indulgenze[59]. È probabile, invece, che la fonte immediata sia qualche antico fabliau francese andato perduto[60], dal quale forse il racconto passò anche al Novellino. Un particolare diverso e molto interessante pel significato altamente poetico, è nella novella del Chaucer questo: che il santo romito dell’antica novella italiana, il quale rappresenta la virtù morale e cristiana, e nell’oro vede e fugge la morte dell’anima, è cambiato in un vecchio decrepito, che indarno chiede di morire e domanda pace per le stanche sue ossa: poichè egli è la Morte. Dura condanna: dare altrui la morte, cioè il riposo del corpo, senza poter morire! Il Ward paragonando questo vecchio della novella chauceriana all’Ebreo errante della leggenda, nota che tale concezione è degna di un poeta[61]. Il racconto secondo il Liebrecht ( Orient. und Occid., I, 654) ha origine orientale, e ricorre anche nelle Mille e una notte[62]. L’avventura, per il suo carattere altamente morale, entrò nelle sacre rappresentazioni, e la troviamo infatti nella Rappresentazione di S. Antonio. Dal Novellino passò, in versioni differenti, ad altri testi, fra i quali a quello latino del Morlini[63].

Il Chaucer aveva temperamento e natura di poeta: e senza dubbio le peggiori e più noiose sue novelle sono le uniche due scritte in prosa, dalle quali non bisogna certamente giudicarlo nè come poeta nè come scrittore di prosa. Egli ha, tuttavia, notevoli qualità di prosatore. Oltre l’osservazione arguta, la visione delle cose sempre pronta e giusta, la frase sbrigliata e incisiva, il Chaucer possiede la quadratura artistica del discorso e del racconto in prosa. E queste sue qualità egli dimostra più specialmente in questa novella, nella quale non il sentimento nè la poesia della storia di Costanza e di Griselda è da ammirare, ma la perfetta tessitura del racconto, dove nulla è superfluo, tutto è al suo posto e naturale, anche nei più minuti particolari.

Il Cantare di Ser Thopas è una satira, fatta con molto spirito e con fino accorgimento, dei romanzi cavallereschi, i quali in versi rozzi e privi, generalmente, di qualunque senso d’arte, narravano le più inverosimili e barocche avventure di qualche famoso cavaliere. Questi antichi cantari, goffi nella forma e pieni di particolari inutili e spesso grotteschi, erano divenuti popolarissimi in Inghilterra, ed avevano finito per guastare, o meglio falsare, il gusto letterario della incolta età del Chaucer. Il quale, dotato di quell’intelletto d’arte che come un improvviso sprazzo di vivida luce illuminò la buia notte della sua patria, fu naturalmente spinto a deridere una forma di poesia così vacua e convenzionale. Voler fare per questo del Chaucer un precursore del Cervantes, come ad alcuno piacque, sarebbe, senza dubbio, una esagerazione non giustificabile: ma prendere sul serio le avventure di Ser Thopas, e negare la satira e la parodia, sarebbe errore gravissimo e un voler disconoscere al Chaucer una delle più spiccate qualità del suo ingegno. Il poeta non intende di screditare la cavalleria, e la poesia cavalleresca in generale: anzi egli stesso dimostra una speciale predilezione per il racconto romanzesco, e si compiace di avventure cavalleresche, come nella Novella del Cavaliere e nella bellissima e fantastica storia di Cambuscan, re di Tartaria, raccontata dallo Scudiero. Egli mette in ridicolo una forma speciale e determinata di poesia, caduta nelle mani del popolo e di poeti rozzi ed incolti, nella quale alla barbarie della lingua e alla volgarità del verso e della rima facevano riscontro frivolezze e stravaganze d’ogni genere. E questo è precisamente il racconto cavalleresco in strofe di sei versi, rimati a a b a a b, dei quali il primo, il secondo, il quarto e il quinto, sono ottonari completi:

il terzo e il sesto hanno questo schema:

oppure quest’altro:

In questo metro appunto sono alcuni di questi cantari nominati dal Chaucer in Ser Thopas, come Horn child, e Ser Libeaux[64]: e con una grande abilità egli imita e riproduce da questi, nel suo cantare, tutti quegli errori e quelle goffaggini di forma, e tutte quelle frasi peregrine, che così spiritosamente mette alla berlina. La monotona ripetizione della stessa rima del primo e secondo verso, nel quarto e quinto della strofe, non poteva sfuggire al fine orecchio del Chaucer. Certe rime, ad arte sbagliate, e l’uso di certe barbare parole, accanto a delle finezze di forma e di espressione che non si trovano negli altri racconti cavaliereschi di questo genere, dimostrano non solo, in modo indiscutibile, che il fine del Cantare di Ser Thopas è la satira burlesca, ma provano anche la conoscenza mirabile che il Chaucer aveva della lingua, e la maestria con cui sapeva trattarla.

Ser Thopas è evidentemente il prototipo dei donchisciotteschi cavalieri dalla lunga lancia e il terribile sciabolone di questi vecchi cantari, nei quali è dipinto un mondo ridicolo e fattizio, dove tutto è convenzionale: i boschi, le piante, gli uccelli, e perfino la esilarante bevanda onde ogni bellicoso cavaliere si rinfrancava prima di cimentarsi. Non è improbabile, come altri notò, che nel Cantare di Ser Thopas il Chaucer abbia ripreso il soggetto di qualche antico racconto del genere[65] trasformandolo nella sua spiritosa caricatura; ma l’affermazione del Hurd[66]: che esistesse un vecchio cantare intitolato The boke of the Giant Olyphant and Chylde Thopas, del quale il poeta si sarebbe servito, è assolutamente infondata[67].

Della mia traduzione poco debbo dire. Ho preferito la forma in prosa perchè, ad ogni modo, mi è sembrato minore colpa fare della prosa mediocre che della poesia cattiva. Per mantenere al racconto, più che fosse possibile, quella forma semplice e popolarmente spigliata che il Chaucer ha voluto dare alle sue novelle, ho cercato di restare, fin dove ho potuto, fedele alla espressione del poeta, senza preoccuparmi troppo di certe durezze di stile che mi saranno, spero, facilmente perdonate. L’edizione delle Canterbury Tales della quale mi sono servito per la traduzione, è quella del Tyrwhitt, comparsa per la prima volta nel 1775: ma ho avuto sott’occhio anche quella del Wright, e del Bell, che ho sempre seguito, per la grafia molto più corretta, nelle citazioni del testo inglese. Tutte le volte che ho creduto di abbandonare la lezione del Tyrwhitt, l’ho dichiarato in una nota. Edizioni più recenti non ho, purtroppo, potuto consultare, nè ho avuto modo di valermi delle pubblicazioni della Chaucer Society, che sotto l’alta direzione del suo illustre e benemerito fondatore, Frederick James Furnivall, ha portato preziosi contributi alla intelligenza del testo chauceriano. Per la compilazione delle note mi sono valso più specialmente delle note e del glossario del Tyrwhitt, dello Speght, del Wright e dell’Hertzberg, che ho sempre citato ai luoghi loro: per le notizie generali sulla vita del poeta e su tutta l’opera sua, ho attinto all’opera magistrale del Lounsbury. In una prima traduzione di un testo così difficile, e non di rado controverso, è facile essere caduto in qualche errore: e di alcuno mi sono avvisto io stesso, ahimè troppo tardi, nel compilare le note, quando esso era già irrevocabilmente consacrato alla stampa. Di questi, e di altri che mi possano essere sfuggiti, chiedo venia fin d’ora al benigno lettore.

Pesaro 7 luglio 1897.

NOTE ALLA PREFAZIONE

[1] A. W. Ward, Chaucer, London, Macmillan 1884.

[2] Macaulay, H ist. of. Engl., vol. I. B. Tauchnitz, Leipzig.

[3] Compreso, s’intende, anche l’oste, al quale nessuno avrebbe vietato di raccontare una novella, per quanto non fosse obbligato. Intorno al numero preciso dei pellegrini nominati da Chaucer, non si trovano tutti d’accordo. E c’è, in verità, un po’ di confusione: poichè il poeta (Cf. Prologo, pag.4 ) dice che erano ventinove (non si sa se comprendendovi se stesso), e poi ne nomina trentuno, compreso lui stesso e non contando l’oste.

[4] La «Novella di Melibeo» raccontata dal Chaucer stesso, e la «Novella del Parroco» che è l’ultima delle novelle rimaste. Delle ventiquattro autentiche due sono mutile: La «Novella del Cuoco» della quale non restano che pochi versi, e la «Novella dello Scudiero.»

[5] Hist. of Eng. Literat. Scribner, New York 1875, 1.

[6] Come dice il Boccaccio del servo di frate Cipolla. Il ritratto morale del mercante di indulgenze è completato da lui stesso nel principio del suo racconto (Cf. pag.273 segg).

[7] Op. cit., pag. 114.

[8] Longfellow, Poetical Works, London, G. Routledge and Sons. pag. 288. Noto qui, per incidenza, che fra gli altri personaggi seduti accanto al fuoco a raccontar novelle, vi è uno studente, una poco originale imitazione del Chierico di Oxford, il quale racconta la storia del Falcone di Ser Federigo, del Decamerone (Gior. V. Nov. 9). Intorno alle fonti di queste novelle vedi Varnhagen, Longfellow’ s Tales of a Wayside Inn, und ihre Quellen. Cfr. Anglia, VII, 1884.

[9] Lounsbury, Studies in Chaucer, J. Osgood, London, 1892. II, 234.

[10] Chaucer’s « Troylus and Cryseyde » compared with Boccaccio’s « Filostrato.» Cfr. Lounsbury, op. cit. 235.

[11] Nella novella raccontata dal Monaco.

[12] Poetical Works of G. Chaucer, edited by Robert Bell, revised by W. Skeat, G. Bell, London, 1885. I. pag. 18. n.

[13] Cfr. Lettera all’ Athenaeum, 3 Ott. 1868, p. 433.

[14] Epist. I. 2. 1.

[15] Cf. Il Cantare di Ser Thopas, pag.317.

[16] The Poetical Works of G. Chaucer. London.

[17] Chaucers Canterbury-Geschichten aus den Englischen von Wilhelm Hertzberg. Leipzig.

[18] Non ho saputo resistere alla tentazione di citare il passo nell’originale: per la traduzione V. Nov. del Cavaliere pag.76.

[19] Longfellow, op. cit. pag. 280.

[20] La regina Alcesti enumerando al dio dell’Amore alcune delle opere poetiche del Chaucer, dice che egli scrisse anche: «all the love of Palemon and Arcite.»

[21] Vedi quanto su questa novella, sulle sue relazioni con la Teseide e con altri scritti del Chaucer scrive il Ten Brink, nei suoi interessanti studi: Chaucer, Studien zur Geschichte etc. A. Russell. Münster, 1870, p. 39. Per le due redazioni della storia di Palemone e Arcita vedi anche: Köbbing, Zu Chaucer’s «The Knightes Tale». Remarques sur le rapport des deux rèdactions etc, in Englische Studien, II. 1878. p. 528-532.

[22] Contributo agli studi sul Boccaccio. Loescher, 1887.

[23] Il dramma che va sotto il nome del Fletcher, attribuito da qualcuno anche a Shakespeare, è intitolato: « The two noble kinsmen ». Sullo stesso argomento già aveva composto un dramma Richard Edwards, che fu rappresentato alla presenza della regina Elisabetta nel 1566, col titolo: « Palemon and Arcite.» Il poema del Dryden è una parafrasi del racconto del Cavaliere.

[24] Trovasi anche nel romanzo intitolato: Le Chevalier au Cigne, e in quello anche più antico del Re Offa.

[25] Pecorone, X, I. Vedi quanto scrive sulle varie versioni del racconto di questa novella, e delle sue relazioni coll’antico romanzo francese della Bella Elena di Costantinopoli Egidio Gorra ( Il Pecorone, in studi di Critica Letteraria ).

[26] Confr. V. Imbriani, Novellaia Fiorentina VI.

[27] Vedi Ritson, Metrical Romances. Cfr. Bell, op. cit. I. 271.

[28] Per la relazione della storia di Emaré con l’antico romanzo anglo-sassone del re Offa, vedi Ritson, Op. cit.

[29] The Canterbury Tales of G. Chaucer by Thomas Wright.

[30] Cf. Lounsbury, Op. cit., II. 210.

[31] Op. cit.

[32] Cfr. Bell, Op. cit., pag. 272.

[33] Op. cit., pag. XL. n.

[34] The Kinges Quair (cioè The King’s Quire: Il libro del re ) è un poema di circa 1400 versi, nel quale Giacomo I ricorda, insieme col Gower, il Chaucer come «maister dear».

[35] Cfr. pag. 208.

[36] Lettere Senili, Lib. XVII, III.

[37] Cfr. R. Bell, Op. cit., pag. 22. e segg.

[38] Cfr. Warton, Hist. of. Eng. Poetry. London pag. 225.

[39] E. Baret, Les Troubadours et leur influence sur la Litterature du midi de l’Europe, pag. 262.

[40] Nella «Novella del Monaco.»

[41] Il Sonetto incomincia: «S’amor non è etc.» La traduzione è inserita nel poemetto: Troilus and Cressida I, 400.

[42] Lettere senili di F. Petrarca, volgarizzate da G. Fracassetti. Firenze, Le Monnier 1870. Vol. 2, Libr. XVII. 3.

[43] F. Mamroth, G. Chaucer, seine Zeit und seine Abhängigkeit von Boccaccio. Mayer, Berlin. 1872. Pag. 56 segg.

[44] A. Kissner, Chaucer in seinen Beziehungen zur Ital. Literat. Bonn, 1867, Pag. 76.

[45] Noguier, nella sua Histoire de Toulouse, afferma che Griselda visse realmente nel 1103. Bouchet ( Annales d’Aquitaine, III.) dice: «Griselidis vivoit environ l’an 1025.» Anche il Foresti ( Supplemento delle Cronache ) dice che Griselda è esistita, ed il fatto è vero. Questi documenti non hanno certamente alcun valore, ma potrebbero fare sospettare che esistesse la tradizione di un fatto realmente accaduto.

[46] I Precursori del Boccaccio etc. Firenze, 1876. Pag. 42.

[47] Lett. cit.

[48] Cfr. Landau, Die Quellen des Decameron, Pag. 156 segg.

[49] Note a Rabelais. Cfr. Dunlop, Hist of Pros. Fict, London, 1888, II, pag. 145.

[50] Fabliaux I. 269.

[51] Ist. del Decam. Firenze, 1732. Pag. 603.

[52] Memoires pour la vie de Petrarque. III. pag. 797. Cfr. Tyrwhitt, op. cit. 61, n.

[53] Geschichte des Dramas, Leipzig, 1867, I. pag. 639. Il Lai del Fresne di Maria di Francia, nonostante alcune tenui analogie, non ha che qualche relazione di somiglianza con la storia di Griselda, e non può essere considerato come fonte originale.

[54] Anche il Boccaccio dice semplicemente che Giannucole «guardati l’aveva i panni, che spogliati s’aveva quella mattina che Gualtieri la sposò: per che recatigliele et ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della casa paterna si diede.»

[55] Una interessante enumerazione di tutte le opere a cui ha dato origine la storia di Griselda, si trova nel dotto articolo su Griselda di Reinhold Köhler, inserito nella Encyklopädie von Ersch und Gruber. Vedi anche: Westenholz, Die Griseldissage in der Litteraturgeschichte. Cfr. Zeischrift für Deutsche Philologie, xxi, p. 472. Per la letterat. russa vedi Wesselofsky, La Griselda ecc. in Civiltà italiana, Anno I. pag. 156 e segg.

[56] Il Chaucer dice «the gentils» che io nella traduzione ho omesso, dando alla frase un altro movimento.

[57] La maggior parte di quelli che si riferiscono alla gola e all’avidità del mangiare e del bere, sono tolti dall’opera De Contemptu mundi, di Innocenzo III. È curioso che la espressione latina, onde il Mercante d’Indulgenze esprime l’argomento delle sue prediche, che è poi quello della sua novella, ricorre tale e quale nel testo latino del Morlini (Nov. XLII, ediz. Jannet. P. 85): radice malorum cupiditate affecti.

[58] La LXXXI nel testo del Borghini, e la XVI in quello del Papanti. Cfr. la Nov. LXXXIII nell’ediz. del Gualteruzzi.

[59] Che il Chaucer avesse conoscenza del Novellino non è provato: altre novelle che abbiano con esso anche una lontana relazione, nelle Canterbury Tales non ve ne sono. L’episodio di Talete che cade in una fossa, nella «Novella, del Mugnaio» è troppo comune e popolare, per supporre, come il Tyrwhitt, che il Chaucer l’abbia tolto dalle Cento Novelle Antiche (Gualt. 38. Borgh. 36).

[60] Della conoscenza che il Chaucer ebbe dei Fabliaux francesi parla il Wright nei suoi Anecdota literaria.

[61] Op. cit., pag. 131.

[62] Per l’origine di questa storia, per questi ed altri riscontri, e per la versione orale popolare, vedi D’Ancona, Le Fonti del Novellino, in Studi di Critica e Storia Letteraria.

[63] Sulle novelle e sulla vita del Morlini, del quale fino ad ora ben poco si conosce, sta studiando da qualche tempo il Saviotti, già noto agli studiosi per altre pregevoli pubblicazioni. Rileviamo fin d’ora l’importanza di questo che sarà un nuovo contributo alla storia della novella.

[64] Nello stesso metro è anche The King of Tars, che ha, in alcune espressioni, rapporti di somiglianza con la storia di Ser Thopas. In questa medesima stanza di sei versi scrisse il Dunbar (1460-1520) una ballata burlesca, intitolata: Sir Thomas Norray.

[65] Cfr. Hertzberg, op. cit.

[66] In Letters on Chivalry and Romance. Cfr. Lounsbury, op. cit. II, 245. Egli, del resto, ha il merito di essere stato il primo, o uno dei primi, a dimostrare che il racconto di Ser Thopas va inteso come una parodia dei cantari cavallereschi.

[67] Cfr. Tyrwhitt, op. cit. e Ritson op. cit.

ERRATA-CORRIGE

Errata Corrige

Pag. 24. Aviceno Avicenna

» 52. soccorerci soccorrerci

» 77. il campo «ha «il campo ha

» 94. che tormentano, in questo mondo, che tormentano in questo mondo

» 113. abbi pietà, abbi pietà

» 115. levando in alto, la mano levando in alto la mano,

» 123. diedero dànno

» 150. Malkins Malkin

» 152. Alceste Alcesti

» 174. «Chi Chi

» 195. coraggio il coraggio

» 196. Mentre il senatore, Mentre il senatore

» 197. nostro Signora nostra Signora

» 224. E È

» » posa possa

» 287. e poi o poi

» » Dio le sue Dio con le sue

» 293. restarono atterriti restarono attoniti

NOVELLE DI CANTERBURY

▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪

PROLOGO

Quando le dolci pioggie di Aprile hanno spento l’arsura di Marzo, rinfrescando ogni vena della terra con quel succo meraviglioso che ha la virtù di dare la vita ai fiori; quando zeffiro sfiora col molle soffio i teneri germogli in ogni bosco e in ogni pianura, e il giovane sole ha percorso la metà del suo cammino in Ariete; quando gli uccelletti si abbandonano ai loro canti, e dormono tutta la notte con gli occhi aperti (così vivamente li punge il risveglio della natura), la gente prova, allora, un vago desiderio di mettersi in moto; e i pellegrini[1] vanno in cerca di straniere piagge, per visitare i santi miracolosi di qualche lontana contrada[2]. E in gran numero, specialmente, si recano dalle estreme campagne d’Inghilterra a Canterbury, per ringraziare il martire benedetto di quel luogo, che fece loro la grazia, quando erano malati.

Una sera, appunto in questa stagione, mentre me ne stavo all’osteria del Tabarro, in Southwerk, aspettando la mattina per mettermi divotamente in viaggio verso Canterbury, capitò all’improvviso una brigata di ventinove persone di varia condizione: tutti pellegrini, che si erano trovati, per caso, lì al Tabarro, per andare a Canterbury, come me. Le camere, e le stalle pei nostri cavalli, erano per fortuna abbastanza grandi, e ci accomodammo tutti alla meglio.

In un attimo (il sole era appena andato sotto) barattai una parola con ciascuno di loro, e senz’altro fui della brigata anch’io, colla promessa di esser su per tempo la mattina, pronto a prender la strada di Canterbury con loro.

Ma prima di cominciare il mio racconto, giacchè non ho fretta e il tempo non mi manca, mi pare molto naturale ch’io debba dirvi di questi miei compagni di viaggio, quello che potei raccapezzare: chi fossero, di che condizione, e come vestiti. Comincerò, per primo, da un cavaliere.

C’era, dunque, un cavaliere, una degna persona, il quale fin da quando montò la prima volta a cavallo, ebbe in alto rispetto la cavalleria, la lealtà e l’onore, la libertà e la cortesia. Si era segnalato in prodezza combattendo pel suo signore e non c’era fra i cristiani e gl’infedeli uno che avesse cavalcato quanto lui, sempre onorato per la sua dignità di valoroso cavaliere.

S’era trovato alla presa di Alessandria[3]; e in tutte le città della Prussia era stato più di una volta capo tavola[4]. Nessun altro cristiano della sua condizione aveva mai viaggiato quanto lui in Lituania e in Russia. Fu all’assedio di Algezir a Granata; combattè a Belmaria[5]; vide cadere in mano dei Turchi Layas e Satalia[6], e nel mare Grande[7] fece parte di molte illustri armate. Ben quindici volte si era trovato a ferali conflitti, e a Tremissen[8], per la nostra fede, era sceso tre volte in lizza, uccidendo sempre l’avversario.

Questo prode cavaliere una volta, col signore di Palathia[9], combattè contro un pagano di Turchia, e anche allora si segnalò. Sebbene fosse così valoroso, era tuttavia molto prudente; ed aveva un modo di fare modesto e semplice come quello di una fanciulla. Un atto sgarbato, una parola scortese, non gli sfuggì mai, in tutta la sua vita, neppure trattando con l’essere più volgare di questo mondo. Insomma era veramente un compìto cavaliere. Perchè sappiate, ora, in quale arnese egli cavalcava, vi dirò che aveva un bel cavallo, ma di poco brio. Portava una casacca di fustagno tutta macchiata dalla ruggine della corazza, poichè era di ritorno da un lungo viaggio per andare a Canterbury.

Aveva portato con sè suo figlio, un giovine scudiero, innamorato, di sangue molto caldo, coi capelli tutti ricci, che parevano arricciati artificialmente[10]. Poteva avere, tirando a indovinare, una ventina di anni. Era di corporatura piuttosto snella, di un’agilità meravigliosa, e fortissimo. Una volta era stato in Fiandra, in Artois e in Piccardia, facendo parte di una spedizione militare, e si era portato valorosamente, sebbene così giovane, con la speranza di entrare in grazia alla sua bella.

Era di una carnagione così fina, che il suo viso si sarebbe potuto paragonare a un prato coperto di fiori, bianchi e rossi. Cantava, o suonava il flauto, tutto il giorno; aveva, in somma, tutta la freschezza giovanile del mese di Maggio. Portava una tunica corta con maniche lunghe e larghe; stava molto bene a cavallo, ed era un bel cavaliere. Componeva canzoni, era buon parlatore, valente giostratore, bravo ballerino, e sapeva dipingere e scrivere assai bene. La notte, per fare all’amore, dormiva meno di un rosignolo.

Aveva modi molto cortesi, ed era modesto, e pronto a prestarsi in qualunque cosa: a tavola col padre era lui che tagliava e faceva da scalco.

Dei servitori, il nostro cavaliere non aveva portato con sè che un valletto, il quale aveva una veste verde, e un cappuccio dello stesso colore. Dalla sua cintola pendeva, con molta semplicità, un fascio di frecce adorne di penne di pavone, lucide e appuntate; che egli sapeva scagliare dritte e veloci da pari suo. In mano teneva un poderoso arco. Aveva la testa rapata e il colorito bruno. Conosceva molto bene il mestiere del boscaiuolo. Al braccio portava un lucido bracciale; a un fianco una spada e uno scudo, all’altro un bel pugnale ben montato, con la punta aguzza come quella di una lancia. Sul petto gli brillava un S. Cristoforo di argento. Portava a tracolla un corno, appeso ad un nastro verde. Se non m’inganno, doveva essere proprio un guardaboschi.

C’era anche una monaca, una madre superiora, che aveva un aspetto semplice e modesto; il suo più gran giuramento era per S. Luigi. Si chiamava suora Eglantina. Cantava molto bene la messa, intonandola dolcemente col naso; parlava benissimo e con garbo il francese che parla il popolo di Stratford, a Bowe[11]: ma non conosceva affatto quello di Parigi. Stava a tavola con tutte le regole: non c’era caso che le cascasse qualche cosa di bocca o che si ungesse le dita con la salsa. Portava il boccone alla bocca con tanta attenzione, che non le cadeva mai una briciola sul petto. Si compiaceva molto ad essere bene educata. Ogni volta che beveva, si asciugava, prima di bere, il labbro superiore; il quale non lasciava nel bicchiere la più piccola macchia d’unto. Insomma cercava di mangiare con tutta l’eleganza e la correttezza possibile. La sua compagnia era molto divertente e piacevole; aveva un modo di fare che la rendeva amabile. Si studiava, con ogni cura, di imitare le maniere che usano a corte, e di avere modi gentili; poichè ambiva d’essere stimata una signora degna di riguardo.

Vi dirò delle qualità dell’animo suo: era così caritatevole e pietosa, che piangeva, solamente a vedere un topo preso in trappola, morto, o ferito. Aveva dei cagnolini che ingrassava a carne arrosto, latte, e schiacciata. E piangeva a calde lacrime se per caso uno di loro moriva, o buscava per la strada una bastonata un po’ forte. Era una donna piena di sincerità e di cuore. Il fisciù che portava al collo era appuntato con molto garbo. Aveva il naso lungo ma ben fatto; gli occhi grigi come il vetro, la bocca molto piccola con labbra morbide e rosse come una rosa; bellissima fronte, larga quasi un palmo. Era piuttosto bassa; e raggiungeva a fatica la statura ordinaria di una donna.

Il mantello che aveva indosso era, per quello che ne posso giudicare io, fatto con gusto. Attorno al braccio portava una doppia corona di piccoli coralli, tutta guarnita di verde, dalla quale pendeva un bel medaglione d’oro. Sul medaglione era incisa un’A con sopra una corona; e dopo il motto: Amor vincit omnia. Aveva con sè un’altra monaca che le faceva da cappellano, e tre preti[12].

C’era anche un monaco, un gran brav’uomo in verità: appassionato per andare a cavallo e per la caccia, di aspetto florido e degno proprio di un abate. Aveva nella stalla dei cavalli bellissimi; e quando passava col suo cavallo, si sentiva da lontano il rumore dei sonagli ben distinto; e qualche volta suonavano forte come la campana della cappella nella quale egli aveva la sua dimora religiosa.

Il buon monaco amava il progresso: la regola di S. Marco e di S. Benedetto, un po’ troppo rigorosa, a dire il vero, era roba vecchia; meglio, quindi, lasciarla stare, e seguire le pratiche del mondo nuovo. Del testo il quale dice: che chi va a caccia non può essere un sant’uomo, e che un monaco senza regola[13] è un pesce fuor d’acqua, cioè un monaco senza monastero, non glie ne importava proprio un’acca[14]. Un testo che dice queste cose, secondo lui, non valeva un soldo[15].

E, badate, non la pensava mica male: perchè rinchiudersi in un chiostro a logorarsi il cervello con lo studio, sempre col naso sul libro? O perchè, come vorrebbe S. Agostino, fare i calli alle mani lavorando dalla mattina alla sera? Se tutti dovessero fare così, dove anderebbe a finire il mondo? Lasciamo pure a S. Agostino, se gli preme, il diritto di lavorare. Però era un forte ed abile cavaliere, ed aveva dei levrieri che volavano come uccelli. Per lui il cavallo e la caccia della lepre erano una vera passione; non ci avrebbe rinunziato a nessun costo.

Vidi, se ben ricordo, che aveva le maniche della veste, vicino alla mano, guarnite di pelliccia, della qualità più fina che si trovasse nel suo paese. Per fermare il cappuccio sotto il mento portava uno spillo, molto curioso, lavorato in oro, che nella parte più grossa aveva un nodo d’amore[16]. Era interamente calvo, e aveva un cranio lucido come uno specchio.

Anche la faccia era senza un pelo, e liscia come se gli ci avessero passato una mano d’olio, tanto egli era grasso e ben pasciuto. Aveva gli occhi infossati, e li stralunava come un matto, mentre la testa gli fumava come il camino d’una fornace[17]. Calzava un bel paio di stivaloni di pelle molto fine, e aveva il cavallo bardato con lusso; insomma era un gran bel prelato. Non era pallido, nè pareva che avesse l’animo tormentato; e per lui un buon papero, bello grasso, era il migliore arrosto del mondo. Cavalcava un palafreno scuro come una bacca di cipresso.

C’era anche un cercatore, un fratacchiotto svelto e d’umore allegro, il quale viveva d’elemosina: l’avresti detto un sant’uomo. In tutti e quattro gli ordini di quei frati non c’era un altro che sapesse scherzare e chiacchierare come lui. Più di una volta aveva combinato, a spese sue, il matrimonio di qualche bella ragazza. Tra i frati del suo ordine era un pezzo grosso. Ben veduto da tutti, bazzicava dappertutto, ed era accolto famigliarmente dai signorotti di campagna, non solo, ma anche dalle signore più cospicue della città: perchè, com’egli stesso diceva, avendo la licenza del suo ordine, egli poteva confessare meglio di un curato. Ascoltava con molto amore la confessione, ed era molto indulgente nel dare l’assoluzione. Quando sapeva che c’era da buscare qualche cosa andava molto adagio con la penitenza: chi era pronto a fare un po’ di elemosina a un povero ordine di frati, non poteva avere macchia nella coscienza, e l’assoluzione l’aveva in saccoccia prima di confessarsi. Uno che fa l’elemosina, diceva egli, quasi vantandosi della scoperta, è già pentito dei suoi peccati. Non c’è mica bisogno di piangere: c’è della gente che ha il cuore così duro, che non sa tirare una lacrima neppure se è ferita a sangue. Quindi fa molto meglio chi senza tanti piagnistei e senza tanti paternostri, lascia guadagnare qualche cosa ai poveri frati.

Dentro il cappuccio portava sempre una quantità di piccoli coltelli[18] e di spilli, per offrirli alle belle donne che ne avessero bisogno. Aveva un bel timbro di voce, e sapeva cantare e suonare a memoria. C’era una specie di canto, poi, nella quale era insuperabile.[19] Il suo viso era bianco come un giglio. Da valoroso campione conosceva a menadito le bettole di tutte le città dove era stato, ed era amico di tutti gli osti e di tutti i più allegri cantinieri, come un lazzarone o uno straccione qualunque. Se non che, ad una persona come lui non stava bene, almeno fin dove gli era possibile farne a meno, trattare con simile canaglia. Quella non era davvero una compagnia che gli facesse onore, e potesse giovargli; perciò era meglio accompagnarsi con chi aveva soldi, e grazia di Dio da vendere. Quando sapeva che c’era da beccare qualche cosa, correva subito, tutto gentilezza, e pronto a rendere qualunque servizio. Non c’era al mondo un uomo che avesse le sue virtù: in tutta la confraternita non era possibile trovare un altro frate più bravo di lui per domandare l’elemosina[20]. Poichè anche se andava da una povera vedova, che non avesse da dargli, per modo di dire, un paio di scarpe rotte[21], qualche cosina, prima di andar via, buscava sempre; con tanta dolcezza sapeva dire il suo: In principio. Era, poi, così accorto nel comprare e rivendere, che rimediava più col suo piccolo commercio che con la tonaca. Quando una cosa non andava a modo suo, abbaiava come un cane cucciolo; perciò quando c’era da comporre qualche questione poteva prestare un valido aiuto. Non credete che avesse l’aria di uno di quei poveri diavoli, che vanno in giro con una tonaca frusta frusta: pareva un canonico, anzi un papa addirittura. Portava una mezza cappa di lana filata a doppio, tonda e tutta d’un pezzo come una campana[22]. Quando parlava, faceva sentire, per vezzo, un po’ di lisca, affinchè la lingua inglese in bocca sua suonasse più dolce. Allorchè, finito il canto, toccava l’arpa, gli occhi gli brillavano come due stelle in una serena notte d’inverno. Questo rispettabile frate si chiamava Uberto.

C’era anche un mercante con la barba forcuta e il vestito di vari colori, il quale se ne stava sul suo cavallo, con un gran cappello di castoro in capo. Aveva un bel paio di stivali elegantemente affibbiati. Diceva le sue ragioni con molto calore, e in ogni occasione tastava accortamente il terreno, per vedere se c’era modo di guadagnare qualche cosa. Avrebbe desiderato che il tratto di mare fra Middelburg e Orewel fosse, per ogni buon fine, guardato e reso sicuro dai pirati. Era molto abile a cambiare, ad interesse, gli scudi con le altre monete. Questo bravo mercante sapeva valersi molto bene della sua abilità: e con tanta accortezza faceva gli affari, stringeva contratti, prendeva denari in prestito, che non c’era mai caso di sentir dire che avesse qualche debito. Era, in somma, una persona veramente degna; ma se devo dire la verità, non so come si chiamasse.

C’era anche un chierico di Oxford, che da un gran pezzo almanaccava con la logica. Aveva un cavallo che reggeva l’anima coi denti, ed anche lui, per dire la verità, del grasso non ne aveva da buttar via, ma era smunto e malandato. Portava un mantello tutto logoro, e non poteva comprarsene un altro, perchè ancora non godeva nessun beneficio, e non era adatto a un altro impiego qualunque. Era più contento di avere a capo del letto una ventina di volumi delle opere di Aristotile, ben rilegati in pelle nera e rossa, che dei begli abiti, o un violino, o un altro strumento a corda, per divertirsi a suonare[23]. Con tutta la sua filosofia, era sempre al verde; perchè tutto quello che poteva raccapezzare dagli amici, lo spendeva in libri o per imparare qualche cosa. E pregava giorno e notte per l’anima di coloro, che contribuivano, in qualche modo, a procurargli i mezzi di studiare, non avendo egli al mondo altro pensiero, altro desiderio che lo studio. Non diceva mai una parola più del necessario: e parlava sempre correttamente, e con modestia, in poche parole, e sempre con molto criterio. I suoi discorsi erano pieni di virtù e di morale, e con ugual piacere era sempre disposto a imparare e ad insegnare.

C’era, con noi, anche un impiegato del tribunale,[24] colta e intelligente persona, il quale aveva passeggiato più di una volta su e giù per il portico di Westminster[25]. Era un uomo che aveva realmente delle ottime qualità; sempre prudente e pieno di buon senso, ispirava a tutti un certo rispetto. Godeva tale stima, ed erano così apprezzati i suoi savî discorsi, che molto spesso era invitato a sedere giudice in tribunale, a nome di una intera commissione[26]. Con la sua dottrina, e col nome che s’era fatto, guadagnava quanto voleva, e d’ogni parte gli piovevano regali. Era difficile trovare un altro che sapesse fare i propri interessi come lui. I suoi beni erano tutti libera proprietà; e non si poteva fare sospetti su quel ch’egli comprava. Era un uomo d’affari, senza dubbio, ma aveva un po’ la smania di darsi da fare anche più del bisogno. In tribunale citava tutti i momenti casi e giudizi che risalivano, nientemeno, al tempo del re Guglielmo[27]. Aveva l’abilità di redigere e presentare un verbale in modo, che nessuno vi trovava mai da ridire; e sapeva a mente tutti gli articoli del codice. Cavalcava alla meglio, con una veste di stoffa a vari colori, stretta alla vita da una cintura di seta a striscie. Ma basta del suo vestiario.

Faceva parte della brigata anche un possidente[28], con la barba bianca come un fiore di margherita e col viso molto colorito. La mattina, appena alzato, cominciava sempre con una buona zuppa nel vino. Da vero figlio di Epicuro era solito passarsela allegramente, e pensava che la vera felicità è riposta nel pieno godimento del piacere. Proprietario di case, ed uno di quelli grossi, era il S. Giuliano del suo paese[29]. Pane e birra, alla sua tavola, erano sempre della migliore qualità[30]; nessuno aveva in cantina le botti di vino che aveva lui, e in casa sua c’era sempre pronto, a tutte l’ore, qualche buon piatto, cotto al forno, di pesce o di carne, e in grande abbondanza. Da mangiare e da bere gli pioveva in casa d’ogni parte, con tutto ciò che di più squisito si può desiderare. Il suo pranzo e la sua cena variavano col variare delle stagioni. Teneva ad ingrassare in gabbia molte buone pernici, nel vivaio nuotavano a dozzine le regine e i lucci: e guai al cuoco, se la salsa non era piccante e saporita, se in cucina non andava tutto come un orologio. Nel suo salotto da pranzo c’era sempre la tavola apparecchiata, dalla mattina alla sera.

In consiglio la faceva sempre da padrone, come quegli che era stato, non so quante volte, deputato della provincia. Alla cintola, che era bianca come latte appena munto gli pendeva una daga e una borsa di seta. Aveva fatto anche il pretore e il ragioniere[31]; insomma un proprietario bravo come lui non s’era mai visto.

Erano venuti con noi anche un merciaio, un legnaiuolo, un tessitore, un tintore e un tappezziere, vestiti nell’uniforme della importante e numerosa società alla quale appartenevano; ed era tutta roba nuova e pulita. Il pugnale non aveva il manico di rame, ma tutto ben lavorato in argento, e d’argento erano anche la cintura e la borsa. Avevano tutti e cinque l’aria di persone per bene, e ognuno di loro avrebbe potuto sedere benissimo, in una sala dorata, alla tavola d’onore[32]. Per senno, poi, sarebbero stati ottimi consiglieri municipali; molto più che avevano tutti qualche cosa al sole. Le loro mogli naturalmente sarebbero state contentissime, ed avrebbero fatto male a non essere: sentirsi chiamare «signora» e la sera, andando ai ritrovi festivi in chiesa con una elegante mantiglia, prendere, senza tante cerimonie, i primi posti, è una bella soddisfazione.

Insieme con loro c’era un cuoco, che avevano portato apposta, per fargli cucinare, all’occorrenza, un buon pollo lesso con la gelatina, e una torta di farina e di galanga[33]. Costui era un famoso bevitore di birra, e un bicchiere di quella di Londra lo sapeva giudicare senza sbagliare. Era molto bravo per cuocere l’arrosto allo spiede e sulla gratella, per il bollito, pel fritto, per fare brodi di carne battuta, e per la torta al forno. Peccato però, pensavo, che avesse il cancro ad una gamba: cucinava così bene il cappone in galantina[34]!

C’era anche un marinaro, che veniva dal lontano Occidente, ed era, per quello che potei capire, di Dartmouth. Cavalcava, alla meglio, un ronzino preso a nolo, e indossava una veste grossolana, che gli arrivava giù fino al ginocchio. A tracolla, appesa a un cordone, portava una daga; i cocenti calori dell’estate gli avevano abbronzato il viso. In fondo era davvero un buon diavolo, sebbene nel suo viaggio a Bordeaux, mentre il mercante se la dormiva tranquillamente sulla nave, spillasse ogni tanto, dalla botte, qualche bicchiere di vino, senza tanti scrupoli di coscienza......................[35]

Come marinaro però e come pilota, per abilità nel conoscere le maree, le correnti e le secche per le quali doveva passare, e per calcolare l’altezza del sole e della luna, non se ne trovava uno compagno, neppure a cercarlo da Hull[36] a Cartagine. Era coraggioso, e nello stesso tempo aveva molta prudenza nell’avventurarsi[37]; più di una tempesta gli aveva arruffato la barba. Conosceva a occhi chiusi tutti, i porti, da Gothland fino al capo di Finistere[38], e tutti i golfi della Bretagna e della Spagna. La sua nave si chiamava Maddalena.

Era venuto con noi anche un dottore, di cui non c’era in tutto il mondo l’eguale in medicina e in chirurgia, poichè conosceva a fondo anche l’astrologia. Si occupava moltissimo dei suoi malati, intrattenendoli delle ore intere con esperimenti magici; e con molta abilità sapeva rendere l’oroscopo[39] favorevole all’ammalato.

Trovava subito la causa di qualunque malattia, sia che provenisse dal freddo, sia dal caldo, o dall’umidità o dalla siccità dell’aria; con un’occhiata, vedeva dov’era il germe del male e come si era formato. Era in verità un ottimo pratico. Conosciuta la causa e trovato il germe della malattia, lasciava la sua ricetta, e c’erano subito pronti gli speziali, che mandavano droghe e pillole, d’accordo con lui, da buoni e vecchi amici, nel cavar sangue al prossimo. Aveva studiato a fondo il vecchio Esculapio, Dioscoride, Rufo, il vecchio Ippocrate, Hali e Galene, Serapion, Rasis, e Aviceno, Averrois, Damasceno e Costantino, Bernardo, Gatisdeno e Gilbertino[40].

Mangiava poco, ma cercava che quel poco fosse roba nutritiva e facile a digerirsi. Sulla Bibbia non ci perdeva molto tempo; aveva un vestito rosso-sangue e celeste, foderato di taffetà e di seta piuttosto fina. Quando si trattava di spendere, andava molto adagio, e in questo modo s’era messo da parte tutto quello che aveva guadagnato nell’anno, in cui ci fu quella famosa pestilenza[41]. Poichè l’oro è il cordiale del medico, egli lo preferiva, naturalmente, a qualunque altra cosa.

C’era anche una buona donna di un paese vicino a Bath, la quale, per sua disgrazia, era un po’ sorda. Lavorava così bene il panno, che le sue stoffe superavano quelle di Ipres e di Ghent[42]. In tutta la parrocchia nessuna donna si sarebbe arrischiata di andare prima di lei a offrir l’obolo all’altare; e se qualcuna si provava a passarle innanzi, ne avea tanta rabbia, che tutta la sua devozione andava in fumo. I fazzoletti che la Domenica portava attorno, sul capo, per vendere, erano di un tessuto bello doppio: ci scommetto che pesavano almeno una diecina di libbre[43]. Aveva le calze rosse scarlatto, ben tirate su al ginocchio, e un bel paio di scarpe nuove. Era una bella donna; un po’ provocante con quel suo viso colorito: ma in fondo era stata sempre onesta. Tant’è vero che aveva salito cinque volte l’altare[44] per andare a marito, e da giovane non aveva avuto mai tresche; ma lasciamo stare il passato, chè ora non è il caso di andarlo a rivangare. Era stata tre volte a Gerusalemme, e aveva passato molti fiumi stranieri, e visto Roma, Bologna, S. Jacopo in Galizia, e Colonia, cosicchè non le mancava davvero la pratica di viaggiare. Per dire la verità era piuttosto ghiotta[45]. Cavalcava con disinvoltura un buon cavallo; aveva il collo ben coperto, e in capo portava un cappello largo come uno scudo o una targa. Era avvolta in un gran mantello che le scendeva, stretto ai fianchi, fino ai piedi, e alle scarpe aveva un bel paio di sproni appuntati. In compagnia rideva e chiacchierava che era un piacere; conosceva tutti i filtri dell’amore, poichè nell’arte di questo vecchio giuoco era provetta[46].

C’era anche un buon prete, un povero parroco di una piccola città, il quale era proprio un sant’uomo; aveva molta dottrina, e predicava, sinceramente, il vangelo di Cristo, educando, con gran devozione, i suoi parrocchiani. Faceva molta carità, si occupava con grandissima premura del suo gregge, e più d’una volta aveva dato prova di molta rassegnazione nella sventura.

Sentiva una certa ripugnanza ad angustiarsi per gl’interessi suoi[47], e preferiva pensare a gli altri; infatti era sempre in mezzo ai suoi poveretti, per dividere con loro quello che ricavava dalle offerte, e qualche volta anche il frutto di quel po’ di roba che aveva. Per lui ce n’era d’avanzo: si contentava di poco. La sua parrocchia era molto grande, e si stendeva fino a certe case lontanissime dalla città; nonostante, anche con l’acqua e coi tuoni, egli non abbandonava mai i suoi afflitti: prendeva su il suo bastone, e via, a piedi, a trovarli. In tutte le cose dava per il primo il buon esempio, e poi predicava agli altri. Ricorreva sempre alle parole del vangelo, e finiva spesso con questo paragone: «Se l’oro fa la ruggine, che cosa farà mai il ferro? Se un prete, al quale noi ci affidiamo, è il primo a dare il cattivo esempio, che cosa dovrà fare un povero ignorante?... È una cosa vergognosa, se uno ci pensa bene, vedere un cattivo pastore in mezzo a delle buone pecore. Perciò è dovere di ogni buon prete insegnare con l’esempio al suo gregge, come bisogna vivere in questo mondo.»

Questo buon parroco non era uno di quei tali, che riducono il beneficio un mercato, e lasciano marcire nel fango il loro gregge. Non correva a S. Paolo in Londra, per farsi una prebenda pregando per l’anima dei morti, o con la speranza di trovare un posticino in qualche confraternita. Se ne stava sempre a casa, e badava con molta cura alle sue pecore, sempre attento che il lupo non glie ne portasse via qualcuna. Insomma, faceva il pastore, non faceva il mercante. Sebbene avesse un animo così retto e virtuoso, non trattava mai con asprezza quelli che peccavano; nè parlava loro severamente, ma li ammoniva sempre con la sua solita bontà. La sua vita non aveva altro fine che quello di mostrare alle anime la via del paradiso. Però se qualcuno si ostinava nel male, e non la voleva intendere con le buone (fosse un signore o uno del popolo, era lo stesso), sapeva trattarlo come si meritava. Vi dico che era proprio il più buon prete del mondo. Nemico di ogni pompa e di ogni lusso, non si dava pensiero di condire le sue prediche con belle frasi[48]: predicava la dottrina di Cristo e dei suoi dodici apostoli, ed era il primo a seguirla.

Con lui era venuto anche un suo fratello, contadino, che aveva caricato, in vita sua, molti carri di letame; ed era un uomo laborioso e dabbene, di indole tranquilla, e molto caritatevole. Venerava Iddio con tutto il cuore, e, bene o male che gli andassero gli affari, il suo primo pensiero era sempre rivolto a lui; poi pensava al prossimo, che egli amava come sè stesso. Quando aveva tempo, batteva il grano, zappava, e vangava la terra, per quei poveri contadini che non si potevano permettere il lusso di pagare le opere; e lavorava sempre per amore di Dio, senza prendere un centesimo da nessuno. Pagava puntualmente le sue decime, su ciò che guadagnava con le sue fatiche, e su quel po’ di roba che aveva. Cavalcava una cavalla, avvolto in un tabarro.

C’erano anche un mugnaio, un economo, un fattore, un cursore un mercante d’indulgenze[49], e per ultimo c’ero io.

Il mugnaio era un tocco di villano, coi muscoli d’acciaio e le ossa così robuste, che non ce la poteva nessuno; infatti nella lotta riusciva sempre vincitore, e guadagnava il montone. Era tarchiato, e duro come un nodo d’albero: con un colpo di testa sgangherava o sfondava qualunque porta. Aveva la barba rossiccia come le setole della scrofa e il pelo della volpe, e la portava piatta come una pala. Proprio sulla punta del naso ci aveva un bernoccolo con un ciuffo di peli, rossi come le setole delle orecchie di una scrofa, e le narici erano larghe e nere. Al fianco portava una sciabola e uno scudo. La bocca pareva un forno. Era un famoso chiacchierone, un goliardo che passava la vita nel vizio e nel vitupero, ed aveva un’abilità straordinaria per farsi la parte sul grano che gli portavano a macinare, facendosi pagare, per giunta, tre volte invece d’una[50]. Nondimeno, per Dio, aveva anche lui, il suo pollice d’oro[51]. Era vestito di bianco, con un cappuccio celeste in capo; e siccome suonava molto bene la cornamusa, ci fece camminare a suon di musica fino fuori della città.

L’economo, persona molto gentile, era al servizio di un collegio di avvocati[52], e da lui tutte le serve avrebbero potuto imparare a far la spesa. Perchè era così accorto, che, anche se la roba che comprava non la pagava subito, ma la prendeva a credenza, trovava sempre il modo di portar via di bottega quel che c’era di meglio, e di intascare qualche soldo[53]. Siamo giusti, domineddio gli aveva dato un bel dono: vi pare poco, che un uomo, il quale in fondo era un pezzo d’ignorante, avesse l’abilità di rivendere tanti dottori?

I suoi padroni, gli avvocati del collegio, erano più di una trentina, e in fatto di legge ne sapevano tutti di molto, ed erano valentissimi. Immaginatevi che ce n’era una dozzina, i quali sarebbero stati capaci di amministrare il patrimonio e i terreni di qualunque Lord inglese. E con la sua rendita (salvo che non avessero dovuto combattere con un matto) gli avrebbero fatto fare la figura del gran signore, senza un centesimo di debito, se pure non avesse preferito menare una vita semplice e modesta. Erano amministratori così abili, che avrebbero saputo rimettere in gambe le finanze di qualunque provincia, per quanto malandata; eppure il nostro economo, quando si trattava della spesa, li metteva tutti nel sacco.

Il fattore era un uomo magro e collerico; si faceva radere la barba fino alla pelle, e intorno all’orecchio voleva sempre ben tagliati i capelli. Davanti aveva il cocuzzolo spelato come un prete. Aveva un paio di gambe lunghe e secche come due bastoni, senza un’oncia di carne. Per tenere in ordine un granaio o un magazzino era valentissimo; e non c’era revisore che potesse trovare da ridire su i conti fatti da lui. Dalla siccità e dalla umidità della stagione ti sapeva dire, senza sbagliare, come sarebbe andata la raccolta. Le pecore, il bestiame, il latte e il burro, i maiali, il cavallo, le provviste, e i polli del suo padrone, erano tutti affidati alla sua custodia e direzione; e per contratto faceva il rendiconto annuale, fin da quando il suo padrone aveva vent’anni. Nel suo libro non c’erano arretrati: i conti erano sempre in regola. Fattori, contadini e pastori, conoscevano tutti la sua furberia e le sue astuzie, e avevano di lui una paura indiavolata. Abitava in un luogo amenissimo, ombreggiato dal verde degli alberi. Zitto e cheto s’era messo da parte un bel gruzzolo, poichè sapeva spendere il denaro meglio del suo padrone, del quale cercava, furbo matricolato, di entrare nelle grazie, prestandogli, all’occorrenza, del suo, e guadagnandoci qualche volta, insieme ai ringraziamenti, anche un vestito o un cappello. Da giovane aveva imparato il mestiere del legnaiuolo, ed era riuscito un valente artigiano. Cavalcava un bellissimo stallone grigio pomellato, ed era vestito di una lunga cappa turchina, con una spada arrugginita al fianco. Questo fattore si chiamava Scot, ed era nato a Norfolk, vicino ad una città chiamata Baldeswell. Aveva la cappa legata alla vita come un frate, e cavalcava sempre in coda alla brigata.,

C’era, con noi, anche un usciere del tribunale ecclesiastico, con una faccia da cherubino, rossa come il fuoco per uno sfogo che gli era venuto fuori. Aveva gli occhi piccolissimi, ed era caldo e lascivo come un passerotto. Le ciglia spelate e la barba mezza spelacchiata lo faceano sì brutto, che i bambini ne avevano un gran terrore. Mercurio, piombo bianco, zolfo, borace, biacca, tintura di tartaro, unguenti, tutto era inutile: non era possibile trovare una medicina, che gli facesse sparire dal viso tutte quelle pustole bianche, e gli spianasse i bernoccoli che aveva sulle gote. Faceva delle gran mangiate d’aglio, di cipolla, di porri, e ci trincava sopra del vino generoso e rosso come il sangue, chiacchierando e gridando come un ossesso. Quando poi aveva bevuto ben bene, allora cominciava a parlare in latino. Stando tutto il giorno al tribunale in mezzo alle sentenze e ai decreti, niente di più naturale che qualche frase latina gli fosse rimasta in mente: del resto, ognuno sa che anche una gazza impara a discorrere bene come il papa[54]. Se qualcuno poi per divertirsi col suo latino lo faceva discorrere un poco, tirava fuori tutta la sua dottrina, e si metteva a gridare: Questio quid juris[55].

Scapestrato sì, ma in fondo aveva il core buono, e non c’era più buon diavolo di lui; se un amico gli pagava un quartuccio di vino, era padrone di tenersi, magari per un anno intero, una concubina: egli lo compativa, e chiudeva un occhio volentieri. Quando qualche merlo gli capitava sotto, se lo pelava, piano piano, senza che questi se ne accorgesse[56]. Tutte le volte che s’imbatteva in qualcuno dei suoi buoni amici gli insegnava a non aver paura dei fulmini dell’arcidiacono, dicendo: «l’anima nostra non è mica rinchiusa dentro la nostra borsa. Perciò niente paura, perchè l’arcidiacono colpisce lì, lì dentro è l’inferno per lui». Ma egli mentiva per la gola: il colpevole dovrebbe temere sempre la scomunica, poichè questa perde l’uomo, come l’assoluzione lo salva; e dovrebbe, ognuno, guardarsi dal significavit[57].

Aveva sotto la giurisdizione del suo ufficio tutta la gioventù[58] della diocesi, e con tutti era largo di consigli, con tutti si trovava sempre d’amore e d’accordo. S’era messo in capo una ghirlanda di fiori come quelle che si vedono appese per insegna alle birrerie, e invece di scudo portava una focaccia.

Insieme a lui cavalcava un simpatico mercante d’indulgenze, di Roncisvalle, suo degno amico e compare, il quale era ritornato proprio allora da Roma. Non faceva altro che cantare con quanto ne aveva in gola: «Amor mio vien qui da me[59] »; mentre l’usciere con una voce che sonava più di un trombone, gli faceva il basso accompagnandolo. Questo mercante di indulgenze aveva i capelli biondi come la cera, e morbidi come fiocchi di lana, che gli cascavano giù per le spalle, un ciuffo qua e un ciuffo là, molto radi; nonostante, per fare il chiasso stava senza il cappuccio, e lo teneva chiuso in fondo alla sacca. Pretendeva di cavalcare secondo l’ultima moda, e se ne andava, coi capelli svolazzanti per le spalle, con una semplice berretta in testa, mentre gli occhi gli luccicavano come quelli di una lepre. Sulla berretta aveva cucito una piccola immagine di Cristo, e si teneva davanti la sua sacca, piena zeppa d’indulgenze che venivano belle calde da Roma. Parlava con una vocina così curiosa, che pareva di sentir belare una capra. Era senza un pelo di barba, e ormai, credo, aveva perduto la speranza di averne: con quella faccia così pulita e liscia, sembrava sempre uscito dalla bottega del barbiere. Non mi ricordo bene se montava un cavallo o una cavalla.

Da Berwike a Ware non c’era un mercante d’indulgenze bravo come lui. In fondo alla sua sacca c’erano dei veri tesori: c’era una federa, che era fatta, niente di meno, col velo di Maria Vergine; c’era un pezzo della vela che portò S. Pietro pel mare, quando incontrò Gesù che lo raccolse e lo salvò. C’era una croce di metallo con pietre preziose, e degli ossi di porco dentro un bicchiere. Con queste reliquie quando trovava qualche povero curato di campagna, in un giorno solo gli rimediava più di quello che il poveretto non guadagnava in due mesi. E così lisciando e scherzando egli si giocava il curato e tutta la sua gente. Però bisogna dire la verità, in chiesa era un gran bravo prete. Leggeva molto bene l’epistola, e qualunque altra parte della messa;[60] ma era proprio inarrivabile nel cantare un offertorio. Siccome sapeva che subito dopo c’era la predica, e bisognava scioglier la lingua[61] per intascare quattrini con la sua solita abilità, cantava con maggior lena, e gridava con quanto ne aveva in gola.

E così, eccovi, in poche parole, la condizione, l’abbigliamento, il numero di tutta quella brava gente, e l’occasione in cui l’allegra brigata si trovò riunita a Southwork nella simpatica osteria del Tabarro presso Belle. Bisogna ora che vi racconti, come ce la passammo quella notte lì all’osteria; poi vi dirò qualche cosa della nostra cavalcata, e saprete tutto il resto del nostro pellegrinaggio.

Comincio dunque col chiedere alla vostra cortesia, lettori carissimi, di non volervela prendere con me e tacciarmi di ignorante, se io vi parlo alla buona, e vi racconto i discorsi e gli scherzi dei miei compagni di viaggio, con le loro precise parole. D’altronde, lo sapete meglio di me, chi racconta, deve cercare, fin dove gli è possibile, di riferire scrupolosamente quello che ha sentito, senza badare a come deve parlare. Altrimenti finisce per non dire la verità, ed è costretto quindi a inventare o a lambiccarsi il cervello dietro alla metafora. Quand’anche si trattasse di raccontar qualche cosa che si riferisse, faccio per dire, a un fratello, siamo sempre lì: non bisogna badare a una parola piuttosto che a un’altra. Guardate un po’ Cristo: nella sacra scrittura egli parla apertis verbis, e dice sempre le cose come sono; eppure nessuno ci ha trovato mai nulla di male. E Platone, signori miei, che cosa dice a questo proposito? Dice, a chi lo sa leggere, che le parole debbono essere parenti dei fatti[62].

Vi prego anche di perdonarmi se qui nel mio racconto non ho dato a ciascuno dei miei compagni di viaggio il debito posto, secondo la propria condizione, come avrei dovuto fare. D’altronde il mio ingegno, lo vedrete bene, è un po’ corto.

Il nostro oste, dunque, fece festa e buon viso a tutti, e ci mise a tavola in un momento, servendoci delle ottime vivande. Il vino era piuttosto generoso, e andava giù che era un piacere. L’oste, dicevo, il quale era stato maggiordomo di palazzo, ci trattò con molta cortesia. Egli era piuttosto grosso, ed aveva gli occhi infossati. In Chepe non c’era un tipo più simpatico di lui: franco savio e pieno di accortezza, uomo nel vero senso della parola, e per di più sempre di umore allegrissimo. Dopo cena si mise subito a scherzare con noi, e ci tenne un po’ allegri co’ suoi discorsi; poi saldati i conti disse: «Signori miei, siate di cuore i ben venuti; sulla mia parola io non ho mai avuto in questo albergo una così geniale brigata. Se mi riuscisse, vorrei trovare il modo di farvi sembrare il lungo cammino che dovete fare, meno noioso che fosse possibile. E credo proprio di aver trovato un mezzo molto semplice, e che non vi costerà nulla. Voi andate tutti a Canterbury, non è vero? Il signore v’accompagni, e il beato martire vi ricompensi. Or bene, io m’immagino che lungo la strada cercherete di chiacchierare e di scherzare; perchè il viaggio non offre, davvero, nulla di bello e di divertente, a chi abbia intenzione di starsene sul suo cavallo come un pezzo di marmo. In questo caso, signori miei, mi propongo io, come vi dicevo, di farvi passare il tempo più presto e con meno noia. Se vorrete avere la gentilezza di seguire tutti il mio consiglio, e se domani quando sarete a cavallo vi piacerà fare quello che vi dirò io, vi giuro su l’anima di mio padre, il quale è morto, che farete un viaggio piacevolissimo. Quando non fosse vero, tagliatemi la testa con un colpo. Ma senza tante chiacchiere, su la mano, ai voti!»

La nostra approvazione non si fece aspettare tanto: ci parve che non fosse il caso di discutere la proposta dell’oste; e senz’altro accettammo, pregandolo di esporre il suo disegno.

«Signori, diss’egli, fate del vostro meglio per ascoltarmi, e non ve ne abbiate a male, vi prego, se la mia proposta non vi piace. Ecco, in sostanza, di che cosa si tratta. Ciascuno di voi, per ingannare la lunga strada, dovrà raccontare due novelle nell’andare e altre due al ritorno; s’intende che ognuno è padrone di raccontare fatti avvenuti quando che sia. Chi di voi si porterà meglio, cioè chi racconterà cose più belle e più divertenti, dovrà avere una cena, qui in questo albergo, a questa stessa tavola, pagata da tutti gli altri al vostro ritorno da Canterbury. E perchè possiate fare un po’ più di allegria, verrò anch’io con voi, a mie spese bene inteso, e vi farò da guida; proponendo, fino da ora, per chi lungo il cammino non farà quello che dico io, la punizione seguente: pagare le spese, di viaggio per tutti. Se l’idea vi piace, ditelo senza tanti complimenti, che io domattina mi farò trovare pronto per tempo.»

L’idea dell’oste piacque, e tutti demmo di buon animo la nostra parola, pregandolo non solo a voler fare davvero quanto ci aveva proposto, ma a volere essere il nostro capo, e nello stesso tempo giudice e relatore delle nostre novelle. E fino da quel momento fu stabilita, a un dipresso, la spesa della cena da farsi al nostro ritorno. Così da quanti eravamo li presenti, senza distinzione di grado, fu convenuto di affidarsi all’oste come guida, e di sottomettersi, di comune accordo, al suo giudizio di relatore. Egli allora ci portò del vino, e dopo aver bevuto ce ne andammo tutti a letto senza altro.

La mattina, appena giorno, il nostro oste si alzò prima di tutti, e fu così il gallo che ci cantò la sveglia. Messici tutti in rango, e montati a cavallo, c’incamminammo, di passo per la strada che conduce all’abbeveratoio detto di S. Tommaso[63]. Qui l’oste fermò il suo cavallo, e disse: «Signori, vi prego di ricordarvi della vostra promessa; se il canto della sera va d’accordo con quello della mattina, vediamo chi è che deve raccontare la prima novella. Ch’io non possa bere più, in vita mia, una goccia di birra e una goccia di vino, se chi si rifiuta di obbedirmi non farà per tutti le spese del viaggio!

Signor cavaliere, mio padrone, qua anche voi a fare al conto,[64] poichè ho stabilito che decida la sorte chi deve essere il primo a raccontare. Anche voi, sora Madre priora, venite qua; e voi signor chierico, siete pregato d’essere un po’ più svelto, e di non pensare ora ai libri. Avanti, giù la mano tutti».

In un momento tutte le mani si schierarono, e per non farla tanto lunga (fosse fatalità o caso, o quel che si voglia), la sorte cadde sul cavaliere, con gran piacere di tutta la brigata. E così gli toccò a raccontare pel primo la sua novella, secondo quello che di comune accordo era stato stabilito, come già sapete. Quel buon diavolo del cavaliere, in fine, quando vide che toccava a lui, da uomo savio, e sempre pronto a mantenere la sua parola, disse: «Ebbene, se devo essere io il primo, tanto meglio: sia lodato Dio, che è toccato proprio a me! Mettiamoci, dunque, in cammino, e fate attenzione a quello che dico.»

Con queste parole riprendemmo la nostra strada, e il cavaliere di buonissimo umore cominciò subito il suo racconto, e disse questa novella.

NOVELLA DEL CAVALIERE

Nelle storie dei tempi antichi si racconta che una volta c’era un duca, chiamato Teseo, il quale era signore e governatore di Atene; ed aveva così gran fama di conquistatore, che allora non ce n’era uno più grande di lui sotto la cappa del sole. Aveva conquistato molti grandi regni, e da valente e prode cavaliere era riuscito a soggiogare anche quello delle donne conosciuto anticamente col nome di Scizia, sposando la bella regina Ippolita, che egli si portò gloriosamente e con solenne pompa in Atene, insieme con la giovane sorella di lei Emilia. Ed ora appunto questo duca famoso cavalca verso Atene in mezzo alla gloria e ai suoni del trionfo, seguito da tutto il suo esercito in armi.

Se non avessi paura di andare troppo per le lunghe, vi racconterei per filo e per segno in qual modo Teseo riuscì, coi suoi cavalieri, a vincere il regno delle donne; vi descriverei la grande battaglia fra Atene e le Amazzoni, l’assedio di Ippolita, la bella e coraggiosa regina della Scizia, le feste che celebrarono le sue nozze con Teseo, e i sacrifici ch’egli fece, al suo ritorno, nel tempio di Pallade. Ma pur troppo, per questa volta, debbo farne a meno. Dio sa quale vasto campo da arare io ho davanti a me: e i buoi che tirano il mio aratro sono fiacchi. Il seguito della mia storia, dicevo, è molto lungo; e non vorrei che qualcuno di voi, per colpa mia, dovesse rinunziare al suo racconto. Ciascuno deve dire la sua novella, e staremo a vedere, poi, chi vincerà la cena. Riprendiamo, dunque, dove eravamo rimasti.

Il duca del quale vi parlavo, giunto quasi alle porte della città, e quando stava proprio per entrarvi con tutto il suo splendido seguito, volgendo per caso gli occhi da una parte della strada, vide una lunga fila di signore abbrunate, che stavano in ginocchio a due a due, lungo la strada, piangendo e gridando così disperatamente, che mai persona viva aveva sentito tali lamenti. Nè si chetarono, finchè non ebbero fermato il cavallo di Teseo, prendendolo per la briglia.

«Chi siete, disse loro Teseo, voi che col pianto turbate in questo modo, il mio trionfo? Piangete forse, e vi lamentate così, per invidia della mia gloria? Chi vi ha maltrattato, chi vi ha offeso? Ditemelo, ch’io possa, se è possibile, rimediarvi. Come mai siete tutte vestite di nero?»

Allora la più vecchia fuori di sè dal dolore, e col pallore della morte in viso, che faceva pietà a guardarla e a sentirla, rispose:

«Signore, fortunato vincitore, e glorioso conquistatore, non è davvero la vostra gloria o la fama vostra che ci affligge: abbiate compassione di noi, e prestateci il vostro soccorso, ve ne scongiuriamo. Movetevi a compassione del nostro dolore e della miseria nostra. Siate così generoso da lasciar cadere una goccia della pietà vostra su noi, povere disgraziate. Pensate che noi tutte eravamo, un giorno, duchesse o regine, ed ora siamo povere donne. Vi abbiamo aspettato per quindici interi giorni, qui nel tempio della Dea Clemenza, per domandarvi il vostro aiuto: voi potete soccorerci, se volete. Io, povera disgraziata, che piango e mi dispero così, sono la moglie di Capaneo, che morì (quel giorno sia maledetto!) a Tebe. Quante voi vedete qui piangere in questo triste abbigliamento, tutte abbiamo perduto il marito là durante l’assedio. Ed ora il vecchio Creonte re di Tebe pieno d’ira e di malvagità, spinto dal dispetto e dalla prepotenza, per fare oltraggio al corpo dei mariti nostri uccisi in battaglia, ha fatto fare una catasta di tutti i morti, e non permetterà assolutamente che sieno sepolti o bruciati: vuole, per disprezzo, che siano lasciati come pasto ai cani.»

A queste parole si lasciarono cadere, senza alcun ritegno, per terra, e cominciarono a gridare pietosamente: «abbiate un po’ di compassione di noi, povere disgraziate, e lasciate che il nostro dolore vi tocchi il cuore.»

Il buon duca, sentendole parlare in questo modo, commosso, saltò giù da cavallo. Nel vederle ridotte dalla nobiltà di una volta a tanta miseria e a tanto avvilimento, gli parve di sentirsi spezzare il cuore ad un tratto; e fattele alzare in piedi, cercò con ogni mezzo di confortarle, e sulla sua lealtà di cavaliere giurò che avrebbe fatto quanto gli era possibile per vendicarle del tiranno Creonte, promettendo loro che tutta la Grecia avrebbe parlato, presto, della fine che per la mano di Teseo farebbe quell’uomo ben meritevole della morte.

E subito, senza porre tempo in mezzo, spiegò le insegne e mosse a cavallo verso Tebe, seguito da tutto il suo esercito. Non volle nemmeno entrare in Atene per riposarsi una mezza giornata, ma quella notte stessa si mise in cammino. Prima di partire fece accompagnare ad Atene la regina Ippolita e la bella sorella di lei, Emilia, perchè lo aspettassero là; quindi senza che io ve la faccia tanto lunga, montò a cavallo, e via per la sua strada.

Nella grande bandiera bianca la figura rubiconda di Marte, con la lancia e lo scudo, risplende così fulgida, che al suo passare tutti i campi scintillano. Vicino alla bandiera segue la insegna di Teseo, tutta d’oro, nella quale è raffigurato il Minotauro da lui ucciso in Creta. Così, dunque, cavalcava il duca conquistatore, accompagnato dal fiore dei cavalieri ateniesi; giunto finalmente a Tebe, scese con garbo da cavallo, e si fermò in un campo ove stabilì di dare battaglia. E per farla corta, venuto alle mani col re di Tebe lo uccise, da prode e leale cavaliere in aperta battaglia, e mise in fuga tutte le sue genti. Quindi prese d’assalto la città, abbattendone le mura, spezzando in ogni luogo sbarre e travi, e restituì alle signore ateniesi i corpi dei loro morti mariti, affinchè facessero loro le debite esequie, secondo il costume d’allora.

Troppo tempo ci vorrebbe per descrivere i pianti e i lamenti che levarono le donne di Atene mentre bruciavano i cadaveri, le cerimonie con cui Teseo, l’illustre conquistatore, prese congedo da loro: ed io ci rinunzio perchè non ho intenzione di andare tanto per le lunghe.

Teseo dunque, questo nobile duca, ucciso Creonte ed espugnata la città di Tebe, non abbandonò mai il campo di battaglia, restandovi perfino a dormire la notte, oramai padrone di fare là il comodo suo. Intanto i soldati dopo la vittoria si abbandonarono al saccheggio, frugando nel mucchio dei cadaveri per spogliarli delle vesti e delle armi. Ora accadde che costoro, in mezzo alla catasta dei morti, trovarono due giovani cavalieri, feriti gravemente in varie parti del corpo, i quali giacevano per terra, l’uno accanto all’altro, vestiti di bellissime e ricche armi. L’uno aveva nome Arcita, l’altro si chiamava Palemone, ed erano tutti e due fra la vita e la morte. Gli araldi, dalla cotta d’armi e dagli abiti che avevano indosso, si accorsero subito che i due giovani appartenevano alla famiglia del re di Tebe, e li riconobbero, precisamente, per figliuoli di due sorelle. Allora gli stessi soldati li trassero fuori dal mucchio dei morti, e li portarono, con molta cura, alla tenda di Teseo, il quale non volle sapere di riscatto, e li fece subito condurre in Atene, perchè fossero rinchiusi per sempre in prigione. Ciò fatto Teseo si mise a cavallo, e se ne ritornò col suo esercito in Atene, incoronato di alloro come un conquistatore, e là finì felice e contento i suoi giorni. Ma senza farla tanto lunga torniamo a Palemone e Arcita, i quali se ne stavan chiusi in una torre nell’angoscia e nel dolore, senza speranza di poterne mai uscire, poichè sapevano bene che non c’era oro che potesse riscattarli.

Dunque, a un giorno per volta, passarono degli anni; quando una mattina di maggio Emilia, più bella in volto del giglio sul verde stelo, più fresca del maggio stesso con tutti i suoi novelli fiori (poichè il suo colore gareggiava con quello della rosa, e non so chi delle due fosse la più bella), una mattina, dicevo, Emilia secondo il solito si alzò e si vestì prima che fosse giorno. Maggio non lascia poltrire la gente nel letto: ogni animo gentile lo sente, e balza improvviso dal sonno appena questi gli grida: «levati e fa il tuo dovere».

Emilia dunque ricordandosi che doveva far gli onori a Maggio si alzò. Perchè sappiate com’era abbigliata, aveva indosso una veste nuova, e i bei capelli biondi legati in una lunga treccia le pendevano giù per le spalle. Si divertiva a passeggiare su e giù pel giardino, mentre il sole sorgeva a poco a poco. Coglieva qua e là dei fiori rossi e bianchi, e ne intrecciava una graziosa ghirlanda per la testa, cantando come un angelo del cielo. Per l’appunto era unita al muro di questo giardino la grossa e sicura torre (il carcere principale della cittadella), nella quale erano chiusi i due cavalieri di cui vi ho parlato e dovrò ancora parlarvi.

Era una bella mattina di maggio, e il sole risplendeva nel cielo. Palemone, il povero prigioniero, si era alzato, e col permesso del carceriere era salito secondo il solito, ad una camera su in alto, dalla quale egli scopriva tutta la bella città, e il giardino verdeggiante di rami, dove la bella e giovane Emilia passeggiava per diletto.

Il povero prigioniero andava su e giù per la stanza tutto addolorato, e lamentandosi con se stesso della sua disgrazia diceva ogni tanto: ma perchè sono venuto al mondo?

Ora il caso fece che egli attraverso le fitte e grosse sbarre di una finestra gettasse gli occhi sopra Emilia, e ferito al cuore dalla sua bellezza si traesse indietro mandando un grido.

Dal quale scosso improvvisamente Arcita disse a Palemone: «Cugino mio, che cosa hai? Perchè sei pallido come la morte? Perchè hai gridato così? Chi è che ti ha fatto del male? Se è la prigionia che ti fa soffrire in questo modo, sopportala con rassegnazione, per l’amore di Dio, poichè non c’è rimedio. Il destino ci ha riserbato questa sventura: certo deve essere stato un maligno influsso di Saturno o di qualche costellazione. Invano abbiamo cercato di scongiurare il pericolo: il cielo era disposto così fin dal giorno della nostra nascita; bisogna rassegnarsi, non c’è questione.»

Rispose Palemone: «Cugino, in verità tu ti sei immaginato una cosa che non è vera. Non mi ha fatto gridare la prigione: gli è che proprio in questo momento ho ricevuto una ferita, che passandomi per gli occhi, è penetrata fino al cuore uccidendomi. La bellezza di una donna che passeggia laggiù nel giardino è ciò che mi fa gridare e soffrire. Io non so se sia una donna o una dea, ma se io non m’inganno deve essere proprio Venere.»

E così dicendo cadde in ginocchio ed esclamò: «Venere, se per tua volontà tu appari così in questo giardino a me povera disgraziata creatura, aiutaci a fuggire da questa prigione. Se è nostro destino irrevocabile di dover morire quì dentro, abbi compassione del nostro lignaggio così oltraggiato da un tiranno.»

A queste parole Arcita si mise a spiare nel giardino, dove la donna seguitava a passeggiare su e giù. E rimase così colpito dalla bellezza di lei, che se Palemone ne fu ferito mortalmente, la sua ferita non era meno mortale davvero. E sospirando disse pietosamente: «La giovane beltà di colei che passeggia laggiù mi uccide. Se quella donna non mi concede, per pietà, di poterla almeno vedere, io sono bell’e morto.»

Palemone guardando, tutto arrabbiato, il cugino gli disse: «Arcita, ma tu dici questo davvero, oppure scherzi?» «No, rispose Arcita, io dico davvero, in fede mia. Dio volesse che in questo momento avessi voglia di scherzare.»

Allora Palemone aggrottando le ciglia soggiunse: «Arcita, non ti farebbe onore ingannare e tradire me in questo modo; me che sono tuo cugino, e dopo il giuramento fatto solennemente da tutti e due di essere sempre come due fratelli, di lasciare piena libertà l’uno all’altro (a costo di morire, e fino al giorno in cui la morte ci avrebbe separati) in amore e in qualunque altra circostanza; dopo che noi abbiamo giurato, anzi, che tu in ogni caso avresti aiutato me, ed io te. Questo fu il nostro giuramento, io lo ricordo bene, tu non puoi dire di no. Tu dunque ora dovresti aiutarmi col tuo consiglio: invece mancando alla tua parola vuoi amare la donna mia, quella che io amo e servo, che amerò e servirò fino a che il cuore mi batterà nel petto.

Ma tu o Arcita, mancatore di parola non farai questo certamente. Io fui il primo ad amare quella donna, e confessai a te l’amore mio come ad un confidente, come ad un fratello che aveva giurato di aiutarmi. Tu dunque, se sei un cavaliere, devi aiutarmi come puoi, altrimenti io ho il diritto di chiamarti un uomo sleale.»

Arcita rispose risentito: «Tu piuttosto sarai un mancatore di fede e non io; anzi sei, e te lo dico chiaramente sul viso. Perchè quella donna io l’ho amata prima di te: vorresti dire di no? Tu l’avevi creduta una dea, quindi il tuo non è amore ma venerazione, mentre io l’amo come creatura umana. E appunto per questo ti ho detto tutto, come ad un cugino il quale aveva giurato di essermi fratello.

Ma supponiamo pure che tu sia stato il primo ad amarla: non conosci il motto di quell’antico saggio il quale disse: “chi può dettare legge ad un amante?” Amore è la legge più potente che un povero mortale abbia mai dettato. E infatti tutti i giorni, e da gente di qualunque condizione, noi vediamo infrangere per amore le leggi più assolute e giuramenti come il nostro. Un uomo è costretto ad amare per forza, malgrado della sua volontà. Egli non può liberarsi, ed è pronto ad incontrare anche la morte, sia colei che egli ama, indifferentemente, una fanciulla, una vedova o magari una donna maritata.

Del resto non è nemmeno probabile che tu possa restare per tutta la vita nelle sue grazie, come non vi resterò, certo, neppure io: poichè tu sai, pur troppo, che noi siamo condannati ad una eterna prigionia senza speranza di riscatto.

Noi finiremo, forse, per fare come quei due cani che si leticavano un osso, i quali stettero alle prese un giorno intero, per poi non avere nulla. Perchè mentre si azzuffavano calò in mezzo a loro un nibbio, e si portò via l’osso. Perciò, caro fratello, sarà meglio fare come si suoi dire: “alla corte del re ognun pensa per sè” ecco tutto. Tu ama quella donna quanto ti pare; io per conto mio l’amo e l’amerò sempre: non posso dirti altro davvero. Una volta che dobbiamo rassegnarci tutti e due alla prigione, segua ognuno la sorte che gli tocca.»

Grande e a lungo seguitò ancora la disputa fra loro due, se avessi il tempo di raccontarla, ma andiamo avanti. Per farvela corta, un giorno un duca famoso chiamato Piritoo, compagno di Teseo fin da quando erano bambini, andò in Atene per rivedere il vecchio amico e passare qualche tempo con lui allegramente, come era solito fare ogni tanto, giacchè si volevano tutti e due un gran bene. Si volevano tanto bene, (dicono i libri che parlano di quei tempi,) che quando l’uno di essi morì, non dico bugie, l’altro andò a ritrovarlo fin giù nell’inferno. Ma ora non è mia intenzione scrivere questa storia.

Piritoo, dunque, conosceva benissimo Arcita che aveva veduto crescere d’anno in anno in Tebe, cosicchè gli voleva molto bene: e tanto fece e tanto pregò, che Teseo lo lasciò uscire di prigione. E non solamente non volle nessun riscatto, ma gli lasciò piena libertà di andare dovunque volesse, ad una condizione: che se per caso Arcita fosse còlto di giorno o di notte, anche per un momento, in una città del regno di Teseo, e venisse arrestato, perderebbe la testa con un colpo di sciabola. Questo fu il patto, e non c’era per Arcita altra speranza di rimedio o altra via di scampo. Così egli partì, e s’avviò in fretta verso casa sua. Stia bene attento, però, perchè la sua vita corre un gran pericolo.

Quanto soffre, intanto, il povero Arcita! Si sente la morte nel cuore; piange, si lamenta, si dispera che fa pietà a sentirlo, e pensa di darsi la morte. Poi grida: «Maledetto il giorno che son venuto al mondo! Eccomi condannato ad una prigione più dura di quella di prima: eccomi condannato non dico al purgatorio, ma alle pene dell’inferno. Ah! non avessi mai conosciuto Piritoo: così sarei ancora presso Teseo legato in prigione, ma felice, e non un disgraziato come sono ora. La sola vista di colei che io servo senza sperare di essere mai degno della sua grazia, mi avrebbe abbastanza ricompensato.

Caro cugino Palemone, soggiungeva, tu hai riportato la vittoria in questa avventura: tu puoi godere ancora ed essere felice chiuso in prigione. In prigione? Che dico? In paradiso. La fortuna ha tirato essa stessa i dadi per te, poichè tu godi la vista di Emilia, ed io ne soffro, invece, la lontananza. Tu almeno, che la vedi ogni giorno, e sei un nobile e valoroso cavaliere, puoi sperare che un caso qualunque (visto che la fortuna è così cieca) ti faccia ottenere ciò che desideri. Ma per me che sono esiliato senza speranza di grazia, e mi trovo in mezzo a così grande disperazione che non può darmi aiuto o conforto nè la terra, nè l’acqua, nè il fuoco, nè l’aria, nè altra creatura da loro formata, per me non ci resta che morire dalla disperazione e dal dolore. Addio vita, addio desiderî, addio felicità, addio tutto!

Ma perchè tutti gli uomini si lamentano tanto della divina provvidenza e della sorte, che spesso e volentieri concede loro, o in un modo o in un altro, più di quello che essi stessi possano immaginare? Uno, per esempio, desidera le ricchezze, e non sa che saranno la sua morte o la sua rovina. Un altro che è in prigione, vuole uscirne ad ogni costo, e in casa sua trova la morte per mano dei servi. I mali di questo genere che da un momento all’altro ci possono capitare addosso sono tanti, che noi stessi non sappiamo che cosa augurarci nel mondo. Noi camminiamo su questa terra come l’uomo che è ubriaco fradicio: egli sa di avere una casa, ma non sa infilare la strada che lo meni dritto al portone; e su quella che ha trovato scivola maledettamente ad ogni passo. Nello stesso modo preciso camminiamo noi in questa valle di lacrime.

Noi ci arrabattiamo dietro la felicità, ma il più delle volte sbagliamo la strada; questa è la verità. Tutti dobbiamo confessarlo, ed io pel primo, che mi credevo (anzi ne ero certo) di sentirmi felice e contento il giorno in cui fossi uscito di prigione, e invece eccomi qua le mille miglia lontano dalla felicità. O Emilia, se io non debbo rivederti, è finita: io sono un uomo morto!»

Palemone, intanto, appena seppe che Arcita se ne era andato, cominciò a disperarsi in modo, che la gran torre echeggiava delle sue grida e dei suoi pianti. Fin le catene che aveva ai piedi erano bagnate delle sue amare lacrime.

«Ahimè, diceva, o cugino Arcita, Dio sa se di noi due tu sei quello, pur troppo, che ha guadagnato nella lite che ci ha divisi.

Tu ora cammini liberamente per le vie di Tebe, e poco ti importa del mio dolore. Tu se vuoi, bravo e coraggioso come sei, puoi radunare tutta la gente del sangue nostro, e far con essa una guerra così accanita al regno di Teseo da ottenere, per un evento qualunque, o come prezzo della pace, la mano di colei per la quale è destinato che io muoia. Poichè quale probabilità posso avere di possederla, col vantaggio che tu hai di essere fuori di prigione e libero di te, mentre io sono costretto a morire rinchiuso in una gabbia? Ormai posso rassegnarmi a piangere e a disperarmi per tutta la vita, per le sofferenze che mi dà la prigionia, alle quali si aggiungono i tormenti dell’amore, che raddoppiano il mio strazio.»

Ad un tratto il fuoco della gelosia gli divampò nel petto, e con tanta furia irruppe nel suo cuore, che divenne pallido come la cenere fredda della morte,[1] e disse: «O Dei crudeli, che governate il mondo con la forza della vostra parola immortale, e scrivete sopra una tavola di diamante i vostri decreti e la vostra eterna concessione, questo genere umano pel quale voi avete fatto tanto, in sostanza che cosa vale più della pecora che giace per terra nella stalla? Anche l’uomo viene ucciso come un’altra bestia qualunque, è arrestato e imprigionato, passa da una sciagura all’altra, spesso essendo, per Dio, anche innocente.

Che cosa è, dunque, questo governo superiore che tutto vede, e lascia soffrire chi è senza colpa ed innocente? Ma un’altra cosa, mi fa sentire più amaramente le mie pene; ed è che l’uomo, per amore di Dio, debba essere costretto a rinunziare alla sua volontà, mentre una bestia qualunque può soddisfare tutti i suoi desiderî. Senza contare, poi, che la bestia quando è morta riposa in pace; mentre l’uomo deve piangere e soffrire anche nell’altro mondo, come se non ne avesse abbastanza in questo. È proprio così.

Il perchè io non non lo so, e lascio, appunto, che rispondano gli indovini; ma un’altra cosa, pur troppo, so: ed è che in questo mondo ci siamo venuti per soffrire. Io, disgraziato, vedo una serpe strisciare liberamente per la via; vedo un ladro, il quale ha derubato più d’un galantuomo, andarsene comodamente a spasso dove gli pare e piace, mentre io debbo starmene qui in prigione per volere di Saturno e per l’odio e l’ira di Giunone, la quale ha quasi distrutto completamente il sangue tebano, ed abbattuto le grandi mura della città. E Venere per giunta mi fa morire di gelosia e di paura per causa di Arcita.»

Intanto lasciamo per un poco Palemone nella sua prigione, e torniamo ad Arcita.

L’estate passa, e le lunghe notti invernali raddoppiano le pene dell’amante in esilio e del prigioniero in Atene. Io non so, davvero, chi di loro due si trovasse peggio. Poichè, in una parola, Palemone era condannato a perpetua prigionia, e a morire fra i ceppi e le catene; Arcita esiliato sotto la pena della testa, non doveva mai più rivedere la donna del suo cuore.

O innamorati, che cosa rispondereste a questa domanda: chi vi pare più disgraziato, Arcita o Palemone? Questi vede tutti i giorni la sua donna, ma è condannato a passare tutta la vita in prigione; quegli è padrone di andare, a piedi ed a cavallo, dove gli pare, ma non potrà mai più rivedere la donna sua. Pensate un po’ quel che vi pare voi che siete al caso di saperne più degli altri: io intanto, riprendo il mio racconto.

Arcita dunque, giunto a Tebe, non faceva che lamentarsi tutto il giorno, fuori di sè dal dolore di non dover più rivedere la sua donna. E per dirvi in una parola quanto era grande il suo dolore: mai creatura umana ebbe a soffrire come lui, fra quante ce ne sono su questa terra, e ce ne saranno prima che il mondo finisca. Non dormiva, non mangiava, non beveva, tanto che si ridusse secco come un uscio.[2] Aveva gli occhi infossati che facevano impressione a guardarli, la faccia smunta e pallida come la cenere spenta. Stava sempre solo, lontano da tutti, e la notte non faceva che piangere e disperarsi. Se sentiva qualcuno cantare o suonare, cominciava a piangere e non la finiva più. Era così accasciato ed avvilito, così completamente cambiato, che non si riconosceva più neppure la sua voce, sentendolo parlare.

Andava girando per il mondo con l’aria non di un povero innamorato colpito dal male di Eros, ma con l’aspetto di un matto. Pareva un disgraziato al quale l’umor tetro cacciandosi nella parte anteriore della scatola del pensiero, avesse mandato a spasso il ben dell’intelletto. L’organismo fisico e morale del misero amante era, insomma, tutto scombussolato. Ma perchè dovrei passare il giorno intero a raccontarvi le sue pene?

Dunque, già da un anno o due Arcita era in mezzo a questi tormenti e a questi dolori, quando una notte, mentre dormiva, gli parve di vedere, in sogno, Mercurio, l’alato messaggero del cielo, il quale gli disse di darsi pace e stare allegro. Il dio teneva dritta in una mano la boccetta apportatrice del sonno, e un cappello gli cuopriva i capelli luccicanti; era vestito ed armato (Arcita lo guardò bene), proprio come il giorno in cui Argo chiuse i suoi cento occhi nel sonno della morte.[3] «Arcita, egli disse, tu devi ritornare ad Atene: è destinato che là abbiano fine i tuoi affanni».

A queste parole Arcita si svegliò con un sussulto. «Ciò che ho inteso, diceva, mi ha messo la febbre addosso: io anderò subito ad Atene. Non ci sarà paura di morte che mi impedisca di rivedere la donna mia, colei che io amo e servo. Davanti a lei non mi curo della morte.» E così dicendo prese un grande specchio, e guardatosi, vide che la sua fisonomia era così cambiata, che egli non era più quello di prima. Allora gli venne una bell’idea: giacchè le sofferenze patite lo avevano così mal ridotto, bastava che egli si desse un po’ l’aria di una persona di bassa condizione, per non essere riconosciuto in Atene, e poter vedere, così, ogni giorno da vicino la sua Emilia. Detto fatto: si tolse gli abiti, e si vestì come un povero operaio. Quindi accompagnato solamente da un suo scudiere (al quale aveva confidato tutto), vestito anche lui poveramente, prese la prima strada che menava ad Atene. Giunto là, un giorno andò al palazzo di corte, e si mise sulla porta, offrendosi a questo e a quello, se avesse bisogno di un uomo di fatica per qualunque servizio. E per non farla tanto lunga, gli riuscì di farsi prendere come aiuto da un cameriere addetto alla persona di Emilia. Naturalmente Arcita, accorto com’era, aveva subito saputo, appena tornato in Atene, quale era la servitù di lei. Tagliava le legna per il fuoco e portava i suoi viaggi d’acqua senza nessuna fatica: era giovane e robusto, ed aveva forza e spalle abbastanza buone, per reggere a qualunque servizio gli venisse comandato.

Erano appena due anni che egli, sotto il falso nome di Filostrato,[4] serviva in tal modo la sua bella Emilia; e già tutti gli si erano affezionati: nessuno degli altri servitori era benvoluto come lui. La gentilezza dei suoi modi era così grande, che a corte tutti ne parlavano: tutti dicevano che Teseo avrebbe fatto una vera opera di carità, a migliorare un poco la condizione di lui, facendogli fare un servizio più decoroso, in modo che potesse mettere in opera le sue virtù. Intanto la fama delle sue molte abilità e del suo bel modo di parlare si sparse per la città, e giunse presto agli orecchi di Teseo, il quale lo volle al suo servizio, e lo fece suo scudiere, dandogli, naturalmente, la paga necessaria per potersi mantenere in quel grado. Del resto c’era chi di nascosto gli portava, ogni anno, da Tebe la rendita dei suoi beni. Egli però aveva l’accortezza di spendere sempre modestamente, affinchè a nessuno potesse dare nell’occhio, e fare meraviglia, come mai avesse tanto denaro. Per tre anni Arcita se la passò in questo modo, senza essere scoperto; anzi seppe fare così bene, tanto in tempo di pace che in mezzo alle guerre, che Teseo non ebbe mai alcuno più caro di lui. Ma lasciamolo, ora, così contento e felice, e torniamo un poco a Palemone.

Questi sette anni erano passati per lui molto tristi nella orribile e cruda prigione, in mezzo ai tormenti dell’amore e della disperazione. Chi soffriva, al mondo, come Palemone doppiamente torturato? Da una parte, l’amore che lo faceva diventar matto, da l’altra, la prigione, dove si trattava di stare non un anno, ma per tutta la vita.

Quale poeta inglese potrebbe degnamente cantare, in rima, tutto il martirio di lui? Io no davvero; quindi tiriamo pure innanzi. Dopo sette anni, dunque, di penosa prigionia, precisamente la notte del tre di Maggio (come riferiscono i vecchi libri che raccontano i particolari di questa storia), fosse caso o destino (certo quando una cosa è destinata, deve accadere), Palemone, con l’aiuto di un amico, a mezza notte in punto scappava dalla prigione, dandosela a gambe per lasciare al più presto la città.

La notte era corta, e il giorno si avvicinava: era necessario nascondersi per non essere scoperto. Perciò Palemone con passo trepidante si rifugia, in fretta, in una selva lì vicina. La sua intenzione era di restare là nascosto tutto il giorno, per prendere, giunta la notte, la via di Tebe, dove poi pregherebbe i suoi amici di aiutarlo a guerreggiare contro Teseo. Poichè egli voleva, oramai, una di queste due cose: o perdere la vita, o sposare Emilia; questo si era proposto, e voleva riuscirvi.

Torniamo ora ad Arcita, il quale in mezzo a tanta felicità non sognava neppure che gli fossero così vicini, un’altra volta, gli antichi affanni; finchè la sua mala ventura gli ci fece battere proprio il naso[5]. L’allodola gaia, messaggera del giorno, saluta col canto i grigi albori mattutini; e Febo fiammeggiando levasi con tale splendore di luce, che tutto l’oriente ne ride, e nel fogliame del bosco vaporano sotto i suoi tepidi raggi le pendule gocce d’argento. Arcita intanto, il primo scudiere della corte di Teseo, si era alzato e contemplava il giorno sereno; quindi per fare onore a Maggio, con l’anima riboccante d’amore, se ne andò sul suo focoso destriero a diporto pei campi, qualche miglio fuori della città. E il caso fece che, per l’appunto, si diresse verso la selva stessa dove era Palemone, in cerca di caprifoglio e biancospino per fare una ghirlanda. E cantava con effusione al bel sole di Maggio:

«Maggio, con tutti i tuoi fiori e le tue foglie, ben venuto sii tu, fresco e ridente Maggio; io spero di trovare in questo luogo un po’ di verde.» Quindi col cuore pieno di gioia, balza a terra da cavallo, ed entrato in fretta nel bosco incomincia a girare su e giù per un viale, proprio dove Palemone, trepidando di paura, stava nascosto dietro a un cespuglio, perchè nessuno lo vedesse. Egli non sapeva davvero che Arcita fosse lì; e Dio sa se egli se lo sarebbe mai immaginato. Ma dice bene un antico proverbio: il campo «ha gli occhi per vedere, il bosco gli orecchi per sentire.» Ed ha ragione chi va cauto, perchè gli uomini si incontrano tutto il giorno, su questa terra, senza bisogno di convegni. Neppure Arcita s’immaginava che il suo compagno di sventura, zitto e cheto lì nel bosco, gli fosse così vicino da sentire tutto ciò che egli diceva.

Arcita dopo avere girato qua e là per un bel pezzo, cantando la sua canzone di Maggio, improvvisamente divenne muto e pensieroso, come fanno quei bei tipi degli innamorati; i quali un momento sono su in paradiso, un minuto dopo giù nell’inferno;[6] e vanno su e giù come un secchio nel pozzo. Poichè l’incostante Venere rende mutabile, a un suo comando, l’animo dei sudditi, come il giorno a lei sacro. Infatti il venerdì ora c’è il sole, ora piove a catinelle: raramente è uguale agli altri giorni della settimana.

Finito il suo canto, Arcita cominciò a sospirare, e si mise a sedere lì nel bosco, dicendo «Maledetto il giorno che sono nato! Per quanto tempo ancora, o Giunone crudele, vorrai far guerra alla città di Tebe? Estinta è oramai la regale progenie di Cadmo e di Amfione: di Cadmo che fu il primo fondatore di Tebe, il primo a governarla e ad esserne incoronato re. Io sono del suo sangue, suo discendente in linea diretta, ed appartengo proprio al ceppo reale; ed ora eccomi qua, ridotto così disgraziato e vile, che non mi vergogno di servire, come misero scudiere, un uomo che è mio mortale nemico. E per mia maggiore vergogna, Giunone mi spinge perfino a disconoscere il mio nome; poichè mentre mi chiamo Arcita, ora mi nascondo sotto il nome di Filostrato, che significa: uomo da nulla. Ah! Marte crudele, ah! crudele Giunone, l’ira vostra ha ormai distrutto il sangue nostro; noi soli restiamo: io e quel disgraziato di Palemone, che Teseo tiene a marcire in prigione. Ma non bastava tutto questo; amore, per darmi il colpo di grazia, ha trafitto così profondamente il mio povero cuore di cavaliere col suo cocente dardo, che il cielo, senza dubbio, doveva avere destinato la mia morte prima ch’io venissi al mondo. O Emilia, tu mi uccidi con gli occhi tuoi; tu sei la causa della mia morte. Di tutto il resto non mi importa nulla: purchè io possa fare qualche cosa per piacerti.»

E così dicendo cadde svenuto, e rimase, per qualche momento, privo di sensi. Intanto Palemone, il quale si era sentito, ad un tratto, come passare il cuore da una fredda lama, balzò in piedi; e tutto tremante dalla rabbia non potè più a lungo restar nascosto. Appena udito il racconto di Arcita, come un pazzo, e pallido come un morto, saltò fuori dal folto cespuglio che lo nascondeva, dicendo: «Ah! falso Arcita, falso e malvagio traditore, finalmente ti ho còlto, te che pretendi di amare tanto la donna mia; colei per la quale io soffro tutte queste pene e questi affanni. E dire che tu sei del mio sangue! che avevi giurato, come spesso ti ho ripetuto, di aiutarmi coi tuoi consigli! In questo modo, dunque, hai ingannato Teseo, cambiandoti il nome? S’io non cadrò morto, tu dovrai quì stesso morire. Tu non amerai la mia Emilia; io solo l’amerò, e nessun altro, poichè sono (come tu vedi) Palemone, il tuo mortale nemico.

E sebbene quì non abbia la mia sciabola, essendo fuggito per un caso di prigione, io non ti temo affatto; e tu dovrai o morire, o rinunziare all’amore di Emilia. Scegli, dunque, ciò che ti piace di più, poichè non c’è per te altro scampo.»

Arcita allora fuori di sè dalla rabbia, appena l’ebbe riconosciuto udendo quelle parole, con la ferocia di un leone trasse fuori la spada e disse: «Per il Dio che sta su in cielo, s’io non avessi pietà dei tuoi affanni e della passione che ti rende pazzo; se non fosse perchè non hai la spada, tu non moveresti più un passo da questa selva, senza cadere sotto la mia mano. Io spezzo quì la fede con cui tu pretendi che io sia ancora legato a te. Che? Pazzo che non sei altro: pensa che l’amore è libero; ed io amerò la tua donna a dispetto di tutta la tua forza. Ma poichè tu sei un prode e cortese cavaliere, e vuoi contenderla con la spada, eccoti la mia mano: domani, immancabilmente, io sarò quì; e nessuno (parola di cavaliere) saprà nulla di quanto è accaduto fra noi.

Al mio ritorno porterò anche per te una buona armatura; anzi tu sceglierai delle due la migliore, e lascierai a me la peggio. Stasera, intanto, ti porterò da mangiare e da bere, e penserò anche a provvederti delle coperte per la notte. E se sarà destinato che tu vinca con la spada la mia donna, ed uccida me in questo bosco, abbiti pure la donna in premio».

Palemone rispose: «Va bene, accetto».

E si lasciarono così, per trovarsi la mattina dopo come ciascuno aveva lealmente promesso.

O Cupido, re spietato ed assoluto! È proprio vero, come si suol dire, che amore e impero non vogliono sapere di società. E nessuno lo sa meglio di Arcita e Palemone.

Arcita, intanto, se n’era tornato, in fretta, in città; e la mattina seguente, prima di giorno, si procurò di nascosto due armature complete, con tutto l’occorrente perchè egli e Palemone potessero misurarsi sul terreno. Montato, quindi, a cavallo con le due armature davanti a sè, si mise in cammino; e così all’ora e nel luogo stabilito i due amici si ritrovarono.

Appena si videro, impallidirono tutti e due. Come il cacciatore Trace appostato con la lancia alla tana del leone o dell’orso, sentendo dal fruscio del bosco avvicinarsi la belva (che rompe sui suoi passi rami e foglie), pensa trepidando: ecco il nemico, o io l’uccido sulla tana, o egli uccide me, se fallisco il colpo; così Arcita e Palemone, pallidi, trepidarono, conoscendo ciascuno il valore dell’altro. Senza nè anche salutarsi indossarono le armi, aiutandosi come due buoni fratelli. Quindi impugnata un’asta bene appuntata e forte, si avanzarono, con lunghi passi, l’uno contro l’altro. Avresti detto, vedendoli combattere che Palemone avesse la ferocia di un leone, e Arcita la fierezza d’una tigre: infuriati come due orsi che hanno la bocca biancheggiante di spuma, menavano tutti e due orribili colpi, immersi nel sangue fino al collo del piede. Ma lasciamo loro che si battono in questo modo, e torniamo a Teseo.

Il destino, ministro di tutte le cose, il quale distribuisce in questo mondo la provvidenza divina, è così potente, che quando gli uomini hanno giurato che una cosa non può accadere se non in un dato modo, un bel giorno accade proprio alla rovescia; e te la do in mille anni, se un’altra volta sola si ripete in quel modo lì. I nostri desiderî, di qualunque genere siano: guerra, pace odio, amore, tutti, senza dubbio, sono guidati dalla mente di Dio. Dico questo a proposito di Teseo, il quale ha una passione così grande per la caccia, specialmente per quella del cervo nel mese di maggio, che l’alba non lo trova mai a letto; ma è sempre pronto a montare a cavallo, con tutto il suo seguito di cacciatori coi corni e i cani. Egli trova nella caccia un divertimento così grande, che il suo maggior diletto, la sua unica ambizione, è l’essere chiamato: la distruzione dei cervi.

Era, come ho già detto, una bella giornata, e Teseo, con l’animo giocondo e pieno di felicità, montato a cavallo con regale pompa, se ne andò a caccia insieme alla sua bella Ippolita e ad Emilia, che indossava un bellissimo abito verde. E s’incamminò verso un piccolo bosco, lì vicino, dove gli era stato detto che c’era un cervo. Quindi si spinse avanti per una pianura, dove seppe che l’animale era solito fuggire presso un ruscello, e seguitò ancora la sua strada in quella direzione. Il duca lo seguì una o due volte, sguinzagliando i cani, che stavano tutti pronti ad un suo cenno; e finalmente giunto in un prato, portando la mano agli occhi, perchè il sole gli permettesse di vedere, scôrse Arcita e Palemone che combattevano infuriati come due tori. Le spade luccicanti volavano per l’aria così terribilmente, che il più piccolo colpo avrebbe abbattuto una querce. Teseo non sapendo chi fossero, diè di sprone al cavallo, e in un salto fu in mezzo a loro, con la sciabola sguainata, e gridò: «Olà! fermi, per la vostra testa. Giuro per Marte, dio potente della guerra, che il primo il quale, davanti a me, tirerà un altro colpo solo, cadrà morto. Chi siete voi che osate venire qui a combattere in questo modo senza un giudice o un ufficiale che diriga l’assalto, come in un leale torneo?»

Palemone rispose subito: «Signore, perchè non dirti, senz’altro, la verità? Tutti e due ci meritiamo la morte: noi siamo due disgraziati prigionieri stanchi della vita; tu che sei nostro signore e nostro giudice, non avere per noi nè compassione nè perdono. Uccidimi pel primo, che mi fai una vera carità, ma uccidi anche il compagno mio. O se tu lo desideri, uccidi lui prima di me; poichè sappi, se non te ne sei accorto, che costui è Arcita, il tuo mortale nemico. Egli fu bandito dal tuo regno sotto la pena della testa: perciò si merita la morte. Sappi che costui venne alla tua porta, e dicendo di chiamarsi Filostrato, riuscì ad ingannarti per molti anni, sì che tu stesso lo hai fatto tuo primo scudiero. Egli ama Emilia.

E giacchè è venuto il giorno della mia morte, faccio intera la mia confessione: io sono quel disgraziato di Palemone, che è fuggito, per sua unica volontà, di prigione. Sono anch’io tuo mortale nemico, ed amo così ardentemente la bella Emilia, che sarei felice di morire davanti a gli occhi suoi. Perciò da me stesso ti chiedo la mia condanna di morte; ma tu uccidi anche il mio compagno, chè tutti e due ci meritiamo di essere uccisi.»

Allora il nobile duca rispose: «La cosa è molto semplice. La vostra stessa bocca confessando tutto, vi ha condannato, ed io non lo dimenticherò. Non c’è, quindi, bisogno di farvi parlare con la tortura, e, per Marte rubicondo[7], voi morrete subito.»

A queste parole (le donne, si sa, fanno presto a commoversi) la regina cominciò a piangere, e con lei Emilia e le altre signore del seguito. Tutte ebbero pietà di quei due giovani, di illustre lignaggio, che solo per amore si battevano a quel modo. E vedendoli così orribilmente feriti e sanguinanti, si volsero a Teseo gridando: «Signore, abbiate compassione almeno di noi». E mettendosi in ginocchio per terra, volevano baciargli i piedi. Un cuore gentile si muove facilmente a pietà: e finalmente si commosse anche Teseo. Sebbene furibondo, da principio, contro i due Tebani, riflettendo, poi, alla colpa che avevano commesso, e alla causa che li aveva spinti, sentì che se l’ira li condannava come rei, la ragione non sapeva fare altro che scusarli. Pensò che chiunque, per amore, avrebbe fatto lo stesso, cercando di scappare, ad ogni costo, di prigione. Ebbe, poi, compassione di tutte quelle donne che piangevano in coro, e ripensando nell’animo generoso al caso dei due prigionieri tebani, diceva fra sè: «Guai a quel sovrano che è senza pietà, ed è un leone tanto con l’uomo pentito e sommesso, quanto con l’uomo superbo e ribelle! Guai a quel sovrano che ad ogni costo vuole mantenere ciò che in un momento di rabbia ha minacciato! Ha poco criterio chi in un caso simile non sa distinguere, e mette sulla stessa bilancia l’orgoglio e l’umiltà.» E tosto, sbollito il primo impeto dell’ira, alzando gli occhi sorridenti da terra disse, a voce alta, queste precise parole:

« Benedicite! Che signore grande e potente è Amore! Tutto vince la sua potenza, e potrebbe, davvero, essere chiamato un Dio pei suoi miracoli. Il cuore degli uomini è in mano sua.

Guardate Arcita e Palemone: fuggiti di prigione, avrebbero potuto vivere, in Tebe, come due re; invece per quanto sicuri di trovare in me un mortale nemico, eccoli un’altra volta qua, condotti, come ciechi, da Amore a cercare la morte. Non vi pare una grande pazzia questa? Chi più matto, in questo mondo, di un uomo innamorato? Guardate un po’ per l’amore di Dio, come sanguinano quei disgraziati! Non vi pare che si siano conciati, tutti e due, per le feste? Ecco come Amore, loro padrone, li ha pagati e compensati dei servizi resi. Eppure andate a levar loro di testa, se vi riesce, che sono due matti, a volere servire Amore ad ogni costo.

Ma il più bello è questo: che la donna della quale sono, tutti e due, così gelosi, può ringraziarli, di tanto amore, precisamente come me. Poichè di questa interessante faccenda, per Dio, non ne sa nulla davvero[8]. Tutti, però, giovani o vecchi, di sangue caldo o pezzi di ghiaccio, dobbiamo esser messi alla dura prova: tutti, una buona volta dobbiamo perdere la testa per una donna. Io stesso ci sono cascato, a suo tempo, ed ho servito come gli altri. E perchè, appunto, so per prova le pene dell’amore, e, preso più d’una volta nei suoi lacci, conosco quale strazio sia per quel disgraziato che ci casca; io vi perdono, o cavalieri Tebani, per amore della regina, che me lo domanda in ginocchio, e della mia buona cognata Emilia. Ma voi, qui stesso, mi dovete giurare che non cercherete mai di insidiare la mia terra, di attaccarmi e di costringermi a combattere, nè di giorno nè di notte. Io vi perdono interamente, purchè siate, in ogni occasione, amici miei». Palemone e Arcita giurarono che avrebbero fatto tutto ciò che egli chiedeva; e lo pregarono, fino da quel momento, di concedere a tutti e due la sua pietosa protezione. Teseo promise loro tutto il suo favore, e soggiunse: «Quanto ad Emilia, per la quale è nata tra voi questa battaglia e questa gelosia, io trovo che se anche fosse una regina o una principessa, non potrebbe desiderare di meglio che sposare, un giorno, uno di voi due: poichè senza dubbio ne siete ugualmente degni, pel vostro lignaggio e per le ricchezze vostre. Ma capirete bene, che non può sposarvi tutti e due. Quand’anche doveste disputarvela con le armi eternamente, uno dovrebbe tornarsene per forza con le pive nel sacco;[9] insomma, siccome non la potete sposare in due, abbia fine, oramai, la vostra gelosia e la vostra rabbia. Io farò in modo che ognuno di voi abbia il suo destino, e non si possa lamentare. Sentite, dunque, come ho pensato di finire, una buona volta, questa avventura.

Il mio avviso, per venire ad una conclusione decisiva, senza che ci si debba più tornare sopra, sarebbe questo, che approverete se vi piacerà. Ognuno di voi vada, oggi stesso, liberamente dove crede, senza riscatto e sicuro; ma passate cinquanta settimane da questo giorno, voi dovrete ritornare tutti e due qua, dovunque siate, portando ciascuno cento cavalieri armati di tutto punto, pronti per entrare in lizza, e venire a battaglia. Ed io sulla mia parola di cavaliere, vi prometto che chi di voi due uscirà vittorioso dal torneo, cioè abbia la fortuna di uccidere, coi suoi cento cavalieri, l’avversario, o di metterlo fuori di combattimento, avrà da me Emilia in isposa.

Farò fare in questo stesso luogo la lizza, e Dio mi salvi l’anima davvero, se io sarò un giudice equo e coscienzioso. La cosa non sarà definita, fino a che uno di voi non resti ucciso, o sia fatto prigioniero. Ditemi ora quello che pensate della mia proposta e se vi pare che io abbia parlato bene, approvatela; questa deve essere la fine e la conclusione della vostra avventura».

Chi era più felice, in quel momento, di Palemone? Chi più di Arcita matto dalla contentezza? Chi potrebbe raccontare o descrivere la gioia di tutti, quando Teseo ebbe fatto una grazia così bella? Tutti si inginocchiarono davanti a lui, ringraziandolo di cuore, e specialmente i due giovani tebani.

Quindi Palemone e Arcita, con l’animo pieno di speranza e di felicità, presero commiato, e s’incamminarono, a cavallo, verso Tebe dalle grandi ed antiche mura.

Ma io non posso seguitare il mio racconto senza dirvi quello che spese Teseo, per far preparare subito la lizza: son sicuro che qualcuno non mi perdonerebbe una negligenza simile. Poichè si tratta di un anfiteatro così grande e così bello, che ci scommetto, non c’era l’uguale in tutto il mondo. Aveva quasi un miglio di circuito, cinto tutto intorno di mura in pietra, in modo da formare un circolo perfetto come quello tracciato da un compasso. Nell’interno c’erano delle gradinate, all’altezza di sessanta passi l’una da l’altra in modo che chi stava seduto davanti, non impedisse di vedere a quello che gli era dietro. Si entrava nella lizza per due porte di marmo bianco, uguali precise, che guardavano una ad oriente e l’altra ad occidente. Insomma, per farvela corta, basti dire che non si era mai visto sorgere, in così breve tempo, sulla terra, un edificio come quello. Poichè quanti ingegneri pittori e scultori erano in Atene, tutti furono chiamati da Teseo, e mantenuti a sue spese, per costruire l’anfiteatro e dirigere i lavori. Sopra la porta ad oriente fece costruire una cappella con un altare, in onore di Venere, dea dell’amore, per celebrarvi i suoi riti, e fare i debiti sacrifici; sopra quella ad occidente ne fece costruire un’altra compagna per onorare la memoria di Marte, e tutti e due costarono una somma favolosa[10]. Una terza, poi, in onore di Diana, pudica e casta dea, Teseo fece innalzare con grande magnificenza, dentro una piccola torre, che si levava sul muro di cinta verso il Nord E questa era tutta d’alabastro e di corallo, un vero splendore di ricchezza.

Ma dove lascio le magnifiche incisioni, le pitture e le belle immagini effigiate in queste tre cappelle?

Nel tempio di Venere, appena entrati, si vedevano figurati sul muro, in un quadro commovente, i sonni interrotti, i dolorosi sospiri, le amare lacrime, i lamenti, e i fieri colpi di passione, che tormentano, in questo mondo, i servi d’amore, i loro giuramenti e le loro promesse. In bell’ordine, poi, erano dipinti sulle pareti il piacere e la speranza, il desiderio e l’audacia, la bellezza e la gioventù, il ruffianesimo e l’oro, la civetteria e la violenza, la menzogna e l’adulazione, la prodigalità e gl’intrighi, la gelosia con una corona d’oro in testa e un cuculo appollaiato sopra una mano, feste e strumenti musicali, carole e danze, libidine e lusso. Tutti i compagni dell’amore, insomma, c’erano rappresentati, in un numero molto più grande di quello che io ho ricordato e potrei ricordare. Il monte Citerone, per esempio, sul quale Venere ha la sua principale dimora, si vedeva dipinto sul muro col suo giardino e con tutta la gaia serenità che vi spira attorno. Il pittore non si era dimenticato di nulla: c’era l’ozio che stava a guardia sulla porta, Narciso, famoso per la sua bellezza, c’era la pazzia di re Salomone, la forza maravigliosa d’Ercole, gl’incantesimi di Medea e di Circe, Turno audace e coraggioso, e finalmente il ricco Creso in mezzo alle catene. Questo quadro dimostrava che il sapere, l’oro, la bellezza, l’astuzia, la forza e il coraggio, non possono cospirare e lottare, anche tutti insieme, contro Venere sola, la quale è padrona del mondo. E tutta quella gente che si vedeva lì dipinta, era caduta nelle sue reti, e si lamentava, senza tregua, pel dolore. Per far presto io vi ho ricordato solamente qualche esempio, ma ce n’erano ancora più di mille.

Nuda in mezzo alla gloria del mare, spiccava la splendida figura di Venere, cullata dall’onda azzurra e cristallina, che le nascondeva la parte inferiore del corpo. Nella destra stringeva una cetra[11], sopra la sua testa leggiadra, incoronata di freschissime rose, svolazzavano le sacre colombe. Dinanzi le stava il figlio Cupido, con le ali alle spalle e la benda agli occhi, armato dell’arco e di frecce lucide e appuntate.

Perchè non vi dovrei descrivere, ora, anche le figure effigiate nel tempio di Marte rubicondo? Tutta intera una parete rappresentava l’interno dei gran tempio di Marte in Tracia, nell’aspra regione dove il Dio ha il suo regno.

Prima di tutto si vedeva una foresta, di vecchi alberi nodosi e senza foglie, irta di orribili rami, abbandonata dagli uomini e dalle belve. E dal fondo pareva si sprigionasse un rumore sordo, come di un uragano che schiantasse tutto. In basso, ai piedi di un colle sorgeva il tempio di Marte bellicoso, tutto d’acciaio brunito, con un’entrata così lunga e stretta, che metteva paura. E di là dentro si scatenava una tale tempesta,[12] che tutte le porte del tempio tremavano. I muri non avevano finestre, per cui penetrasse un raggio a rompere l’oscurità; solo l’ingresso era illuminato dall’aurora boreale[13]. La porta era tutta di diamante, attraversata, per lungo e per largo, da fortissime sbarre di ferro; e di ferro erano anche le grosse[14] colonne che sostenevano il tempio, luccicanti al sole.

Entrando, si vedevano dipinti sul muro l’orribile immagine del delitto, con tutte le sue arti, l’ira feroce, rossa come un tizzo di fuoco, il tagliaborse, e la paura pallida come la morte. C’era l’uomo che ride, e sotto il manto ci ha il coltello, la stalla che brucia con le pecore in mezzo a nuvoli di fumo, il traditore che assassina l’uomo che dorme, la guerra dalle ferite sanguinanti, la rissa che impugnato il coltello sanguinoso minaccia fieramente; e un cupo frastuono regnava in quel luogo di dolore. Si vedeva, quindi, il suicida, coi capelli intrisi nel sangue che gli sgorgava dal cuore lacerato; quegli che muore con un chiodo piantato in mezzo al cervello; e la morte fredda che leva in alto la bocca spalancata. In mezzo al tempio sedeva col volto afflitto e sconsolato, la sventura. Venivano poi il furore sghignazzante nella rabbia, il lamento dei ribelli[15], le grida disperate, e le imprecazioni, la carogna distesa per terra, vicino a un cespuglio, con la gola tagliata, un migliaio di morti caduti in battaglia[16], il tiranno che trascina per forza la preda, la città distrutta: nulla, insomma, ci mancava dei disastri di Marte. C’erano, in mezzo alle fiamme, le navi che danzano sull’acqua[17], il cacciatore strangolato dagli orsi inferociti, la scrofa che divora il bambino nella culla, il cuoco che si è scottato col manico del suo lungo romaiolo, e il carrettiere che travolto dal carro, pel malefico influsso di Marte, cade lungo disteso sotto le ruote.

Venivano, quindi, della grande compagnia di Marte, l’armaiuolo, il fabbricante di archi, e il fabbro che aguzza le spade sull’incudine. Su in alto, sopra le altre figure, si vedeva dentro una torre la Vittoria, seduta trionfalmente, mentre sulla testa le pendeva, da un sottile filo messo a doppio, quella tale spada affilata[18]. Poi v’era dipinta la morte di Giulio Cesare, quella del grande Nerone e di Antonio, i quali allora non erano nemmeno nati; ma già si vedeva quale fine Marte minaccioso destinava loro. Poichè in quel quadro c’era dipinto, come nelle sfere celesti, il destino di ognuno; si vedeva chi doveva essere ucciso, e chi era destinato a morire d’amore. Ma basti un solo esempio tolto dalle antiche storie, giacchè non potrei ricordarli tutti neppure se io volessi.

Sopra un carro si vedeva la statua di Marte tutto armato, con lo sguardo truce e sinistro. Sul corpo gli brillavano due stelle che nelle antiche scritture sono chiamate: una Puella, e l’altra Rubeus[19]. Il Dio delle armi era raffigurato con un lupo, dagli occhi fiammeggianti, ai suoi piedi, nell’atto di divorare un uomo. Questa storia che si trovava lì ad onore e gloria di Marte, era un fine lavoro in matita.

Ora passiamo in fretta al tempio della casta Diana, ed io vi descriverò le caccie e gli esempi di modestia e di pudore che erano dipinti qua e là su le pareti.

Vidi Callisto addolorata, che dall’ira di Diana fu cambiata di donna in orsa, e divenne poi la stella polare. Così, almeno era dipinta, ed io non so dirvi altro. Anche suo figlio, come ognuno poteva vedere, era in figura di stella. C’era Dafne cambiata in albero: dico Dafne la figlia di Peneo, non la dea Diana[20]. Vidi Atteone mutato in cervo per avere osato di guardare Diana nuda, e i cani che non avendolo riconosciuto lo sbranarono vivo. Più oltre, nella stessa parete, si vedeva Atalanta che dava la caccia all’orso insieme con Meleagro e molti altri, puniti tutti da Diana che dette loro affanni e dolori. C’erano istoriati, in fine, molti altri fatti maravigliosi che ora non ho voglia di ricordare.

La Dea stava seduta sopra un cervo, con dei piccoli cani ai suoi piedi, e proprio sotto ai piedi aveva una luna ancora crescente, ma già prossima a calare. Era vestita splendidamente di verde, con l’arco in mano e le freccie nel turcasso, ed aveva gli occhi rivolti in giù, verso il tetro regno di Plutone. Davanti alla dea si vedeva una donna presa dai dolori del parto, la quale non potendo sgravarsi invocava pietosamente Lucina, e diceva: «Abbi compassione di me, tu che meglio d’ogni altro puoi aiutarmi».

Chi dipinse questo quadro era certo un artista molto geniale, e deve avere speso un occhio nei colori.

La lizza, dunque, era pronta; e Teseo, che con tanta profusione di danaro aveva adornato i templi ed il teatro, quando tutto fu finito ne rimase soddisfatto ed ammirava con grande compiacenza.

Ma lasciamo un poco lui, e torniamo a Palemone e ad Arcita.

Si avvicinava il giorno del loro arrivo, coi cento cavalieri per il torneo; e tutti e due, secondo i patti, giunsero in quel giorno in Atene con cento cavalieri armati di tutto punto e pronti alla battaglia. Più d’uno, certamente, pensò che mai, da che il mondo è mondo, s’era veduto (per quanto siano sconfinati il mare e la terra che Dio ha creato) un’accolta così bella di prodi ed eletti cavalieri. Poichè quanti amavano la cavalleria ed aveano desiderio di acquistarsi un nome glorioso, chiesero di prendere parte a questo torneo, e fu fortunato chi potè essere scelto. Chè se domani ci fosse un torneo simile, voi siete certi che ogni ardito cavaliere il quale fosse amante di imprese amorose ed avesse sangue nelle vene, inglese o di qualunque altra terra, vi accorrerebbe con gioia e vorrebbe prendervi parte. Combattere per una donna! Benedicite, dovrebbe essere una gran bella vista!

Con Palemone, dunque, vennero molti e molti cavalieri. Alcuni erano armati di una maglia di ferro e di una corazza con una veste corta; altri avevano al petto e alle spalle due larghe piastre d’acciaio, o portavano uno scudo prussiano o una targa; alcuni avevano le gambe ben difese dagli schinieri, ed impugnavano un’accetta o una clava d’acciaio. Naturalmente non c’è moda, per quanto nuova, che una volta non sia stata vecchia: così ognuno s’era armato come gli era sembrato meglio.

Insieme con Palemone vedevi, tra gli altri guerrieri, perfino Licurgo, il grande re della Tracia. Aveva barba nera e faccia maschia, con occhi luccicanti tra il giallo e il rosso; portava i capelli ben pettinati sulla fronte austera, e mentre camminava si guardava attorno come un grifone. Era grosso, ed aveva ossa dure e forti, larghe spalle, e le braccia rotonde e lunghe. Secondo il costume del suo paese sedeva in un carro d’oro tirato da sei bovi bianchi. Invece della cotta d’armi sulla bardatura c’era una vecchia pelle d’orso divenuta nera, col tempo, come il carbone, adorna di borchie gialle, che luccicavano come l’oro. I lunghi capelli gli cadevano dietro sulle spalle, ed erano lucidi e neri come una penna di corvo. In testa portava una corona d’oro dello spessore di un braccio, tempestata di pietre preziose, di finissimi rubini e di diamanti. Attorno al suo carro c’era una ventina di mastini bianchi, grossi come un vitello, che servivano per la caccia del leone e del daino, con una muserola d’oro fermata strettamente e l’anello del collare ben pulito. Il seguito era composto di cento cavalieri forti e coraggiosi, armati di tutto punto.

Insieme con Arcita, come riferiscono le antiche storie, veniva, simile a Marte re delle armi, il grande Emetrio, re dell’India, il quale montava un cavallo baio, bardato in acciaio, con una bella coperta in oro. La sua cotta d’armi era di panno di Tartaria guarnito, tutto intorno, di candide perle grosse e rotonde; la sella era d’oro massiccio lavorato a fuoco. Sulle spalle aveva un mantello corto tutto coperto di rubini rossi, che risplendevano come fiamma; i capelli cresputi e pioventi giù in lunghe anella, erano biondi, e luccicavano come il sole. Aveva il naso in su, gli occhi chiari[21], le labbra rotonde, e il colorito sanguigno; nella faccia si vedeva sparsa, qua e là, un po’ di lentiggine di un colore fra il giallo e il nero, e nel suo sguardo c’era la fierezza di un leone. Avrà avuto, presso a poco, venticinque anni, e già gli spuntava nel mento la prima barba. Quando parlava, la sua voce squillava come una tromba. In testa portava una corona d’alloro fresco che era bellissima, e sopra una mano teneva per divertimento un’aquila ammaestrata, bianca come un giglio. Conduceva un centinaio di cavalieri armati ricchissimamente e (tranne l’elmo che lo avevano tutti uguale) nella maniera più svariata. Immaginatevi che in questa nobile schiera s’erano radunati, per amore, e per spirito di cavalleria, conti, duchi, e re. Attorno al loro condottiero, il re Emetrio, correvano d’ogni parte leoni e leopardi addomesticati.

Tutti questi cavalieri, dunque, giunsero ad Atene la mattina presto di domenica, ed entrati in città, scesero da cavallo.

Teseo, il nostro duca, il nostro illustre cavaliere, poichè li ebbe condotti per la città, e trovato alloggio a ciascuno secondo il proprio grado, li accolse con gran festa, e si dette tanto da fare perchè non mancasse loro nulla, e per onorarli degnamente, che tutti pensano ancora che non ci potrebbe essere uomo, chiunque egli fosse, che potesse fare più o meglio di quello che fece Teseo. Non starò a parlarvi della musica, del lusso con cui fu preparato il ricevimento, degli splendidi doni ch’egli offrì ai suoi ospiti di qualunque condizione fossero e dell’addobbamento del palazzo di corte; non ricorderò chi a mensa occupava i posti d’onore, quali fossero le signore più belle e quelle che ballavano meglio e sapevano meglio cantare e carolare, nè chi aveva più sentimento nel parlare d’amore. Non sto a dirvi che razza di falconi si vedessero appollaiati su in alto nel bastone, e quanti cani erano pronti per la caccia: ma riprendo il racconto che è meglio. Ora viene il bello, ascoltatemi dunque se ne avete voglia.

La domenica, prima che spuntasse il giorno, Palemone appena sentì cantare l’allodola (e già cantava che mancavano due ore all’alba) si alzò col cuore pieno di giovanile baldanza, e se ne andò, divotamente, in pellegrinaggio al tempio di Citerea benedetta e benigna, di Venere onorata degnamente dagli uomini. E nell’ora a lei sacra, si avviò alla lizza dove sorgeva il suo tempio, e inginocchiatosi umilmente e facendo atto di adorazione disse:

«Venere, mia signora, la più bella tra le belle, figlia di Giove e sposa di Vulcano, tu che allieti colla tua presenza il monte Citerone, per l’amore che porti al tuo figlio Adone, abbi pietà delle mie amare e calde lacrime, e non disprezzare questa mia umile preghiera.

Ah! Io non trovo parole per esprimere tutto quello che soffro, tutto l’inferno che mi tormenta il cuore. Non ha forza l’animo mio di manifestare quello che sente, ed io sono così confuso che la parola mi manca. Ma tu, o splendida signora, abbi compassione di me, tu che mi leggi nel pensiero, e vedi gli affanni che io soffro; considera tutto questo, e compiangi il mio dolore, ed io ti prometto che con tutte le forze mi dedicherò umilmente al tuo servizio, e farò sempre guerra alla castità. Io ti faccio questo voto, tu aiutami adunque.

Io non mi curo della gloria delle armi, nè ti chiedo di concedermi domani la vittoria e l’onor del torneo. Io non cerco la vana gloria del premio conquistato con le armi perchè il mio nome sia strombazzato a destra e a sinistra; ma voglio che Emilia sia mia, e voglio morire al suo servizio; trova tu il modo ch’io possa ottenere questo. Non voglio sapere se per me sia meglio riuscire vincitore su i miei avversari o che essi vincano me, purchè io possa aver lei tra le braccia. Per quanto Marte sia il Dio delle armi, la tua potenza è così grande su nel cielo, che se tu vorrai, potrò avere, finalmente, l’amor mio. Io adorerò sempre il tuo tempio, ed ogni volta che monterò a cavallo o uscirò a passeggiare, ti farò i debiti sacrifici ed accenderò il fuoco in tuo onore.

Chè se tu non vorrai aiutarmi, o mia dolce signora, ti prego allora di far sì che Arcita domani mi passi il cuore con la sua lancia. Poichè una volta che io abbia perduta la vita, non mi potrà dispiacere che Arcita, rimasto vincitore, si abbia in moglie la donna. Di questo io ti prego, e quì finisce la mia preghiera: signora benedetta e cara, fa’ che io m’abbia l’amor mio».

Dopo questa preghiera Palemone, con l’animo pieno di compunzione, fece subito i sacrifici; ma io non starò a raccontarvi tutti i particolari e tutte le pratiche ch’egli osservò. Dirò solamente che, finito il sacrificio, la statua di Venere fece un segno dal quale Palemone si accorse che la sua preghiera era stata, quel giorno, accolta con favore. Il segno della Dea significava, veramente, che doveva aspettare: ma egli capì bene che la ricompensa gli era concessa. Perciò se ne tornò subito a casa con la gioia nel cuore.

Tre ore dopo[22] che Palemone se ne era andato al tempio di Venere, il sole si levò, e anche Emilia lasciò il letto, e se ne andò al tempio di Diana seguita dalle sue ancelle, con l’incenso, le vesti e tutto l’occorrente pei sacrifici, pei quali non mancavano, secondo l’uso, nemmeno i corni pieni di miele.

Mentre il tempio fumava, tutto adorno di bei drappi, Emilia, col cuore pieno di giubilo, lavò e purificò il corpo ad una fonte. Ma non vi sto a dire nulla del modo con cui essa compiè il rito; poichè anche a volere accennare solamente le cose in generale, non sarebbe una faccenda da poco stare a sentirle tutte. Capisco che con un po’ di buona volontà non sarebbe poi una fatica dell’altro mondo, ma è meglio che nessuno resti sacrificato. I biondi capelli, dunque, le cadevano sciolti sulle spalle, e sul capo aveva una bella corona di foglie di quercia ancora fresche, accomodata con molta grazia. Se ne andò all’altare e accesi due fuochi compiè i sacrifici della Dea, di cui vi risparmio la descrizione, perchè ognuno può leggerla da sè nella Tebaide di Stazio[23] e negli altri antichi libri che ne parlano.

Quando il fuoco cominciò ad ardere su l’altare, Emilia con aria mesta e supplichevole parlò a Diana in questo modo.

«O casta dea dei verdi boschi, che contempli il cielo la terra e il mare, regina del regno tetro e profondo di Plutone, dea delle vergini, che da molti anni conosci il mio cuore, e sai quale sia il mio pensiero, proteggimi tu stessa dalla tua vendetta e dall’ira tua, per la quale Atteone soffrì orribilmente. O casta Dea, tu sai bene che io desidero di rimanere vergine per tutta la vita, e che non voglio innamorarmi e divenire moglie. Io sono (tu lo sai) una fanciulla del tuo seguito, ed amo la caccia e i boschi selvaggi, e non voglio divenire donna ed avere figli; e perciò appunto fuggo la compagnia degli uomini. Tu dunque aiutami, signora, poichè lo puoi, te ne scongiuro per la tua triplice forma. Di questa grazia io ti prego: fa che Palemone il quale ha per me tanto amore, ed Arcita che mi ama così caldamente, stiano d’accordo, e distogli il loro cuore da me, in modo che tutto l’amor loro, ogni loro desio, tutte le loro sofferenze, tutto il loro ardore, si spenga, o sia rivolto altrove. Chè se non vuoi farmi questa grazia, e se è mio destino che io debba avere per marito uno di loro due, fa allora che io sia di colui che più mi desidera.

Guarda, o Dea della pura castità, le lacrime che mi scendono sulle guancie. Poichè tu sei vergine e protettrice di tutte le vergini, proteggi e conserva la mia verginità, e per tutta la mia vita io starò al tuo servizio».

I fuochi ardevano sullo splendido altare, mentre Emilia faceva questa preghiera; quando ad un tratto essa ebbe una strana visione. Improvvisamente uno dei due fuochi si spense, e subito si riaccese, mentre si spengeva l’altro, e cigolando come un tizzo ardente bagnato nell’acqua mandava fuori dall’uno dei capi un fiotto di sangue. Emilia ne rimase così spaventata, che per poco non divenne pazza; e non sapendo che cosa questa visione significasse, cominciò a disperarsi, e per la paura gridava e piangeva in modo da far pietà.

Intanto, mentre piangeva così, ecco comparire Diana con l’arco in mano, in arnese da caccia, la quale voltasi ad Emilia le disse: «Figlia, cessa dal tuo affanno; gli eccelsi Dei hanno ormai stabilito, e scritto, e confermato, con eterna parola, che tu debba sposare uno dei due giovani tebani che per te soffrono tanti affanni e tanto dolore: quale dei due, però, tu dovrai sposare, non te lo so dire. Addio, dunque, poichè io non posso più a lungo trattenermi. I fuochi che ardono sul mio altare ti faranno capire, prima che tu esca di qua, quale sia la fine di questa tua avventura amorosa».

E a queste parole le freccie che la Dea aveva nella faretra risuonarono, ed essa scomparve. Emilia stupefatta disse: «Che vuoi mai dire questo? Ahimè! Io mi metto sotto la tua protezione, o Diana, e a te mi affido». Quindi per la via più breve se ne ritornò a casa. Così finì ed io non ho altro da dire.

Nell’ora sacra a Marte che seguì a questo fatto, Arcita se ne andò al tempio del feroce Dio della guerra, per sacrificare in onor suo secondo il rito pagano. E pieno di umiltà e di devozione fece a Marte questa preghiera.

«O forte Dio, che sei onorato nei freddi regni della Tracia di cui sei signore, tu che maneggi a tuo talento le armi d’ogni terra, e dispensi agli uomini buona o cattiva fortuna, accetta da me questo pietoso sacrificio. Se tu credi che la mia giovinezza ne sia degna, e che io sia in grado di servire il tuo nume, sì ch’io possa essere dei tuoi, abbi pietà delle pene mie, te ne prego, per gli affanni che hai sofferti, per quel fuoco che t’arse tutto, quando godesti le grazie di Venere giovane e bella, e la stringesti, fin che ti piacque, fra le tue braccia. Abbi compassione delle mie pene atroci, te lo chiedo pel dolore che provasti (una volta t’andò male anche a te), quando Vulcano, ahimè, ti prese nei suoi lacci, e ti colse mentre giacevi con sua moglie.

Io sono, come ben sai, giovane ed inesperto, e colpito, s’io non m’inganno, da Amore, come mai anima viva fu ferita al mondo: poichè la donna per la quale io soffro tutte queste pene, non si cura affatto di me, e poco le importa che io affoghi o mi salvi nuotando. Io debbo, prima che essa si muova a pietà, conquistarla con la forza sul luogo della lotta; e so, pur troppo, che senza il tuo aiuto e il tuo favore la mia forza non varrà a nulla: perciò domani sul campo di battaglia aiutami, signor mio, pel fuoco che ti arse e che ora arde me, e fa che domani io mi abbia la vittoria. A me lascia la fatica, e la gloria sia tua; ch’io, poi, penserò ad onorare l’eccelso tuo tempio più d’ogni altro luogo, e sempre faticherò nel tuo duro mestiere per farti cosa grata. Appenderò nel tuo tempio la mia insegna e tutte le armi della mia schiera, e sempre, fino al giorno della mia morte, arderà sul tuo altare eterno fuoco. Anche questo voto io faccio: ti sacrificherò la mia barba e la mia lunga chioma non toccate mai, fino ad ora, dal rasoio e dalle forbici; e fino alla morte sarò sempre tuo servitore. Tu ora abbi pietà dei miei cocenti dolori, e dammi la vittoria, chè altro non ti chiedo».

Quando il forte Tebano ebbe finita la sua preghiera, i cardini della porta del tempio e le porte stesse tremarono così fortemente, che Arcita rimase stupefatto. I fuochi ardevano sull’altare fiammeggiante, che illuminò ad un tratto tutto il tempio, e dal suolo si levò improvvisamente un dolce profumo; allora Arcita, levando in alto la mano gettò sul fuoco nuovo incenso e compiè altri riti, dopo i quali la statua di Marte cominciò a far risuonare l’armatura di ferro. E insieme al suono delle armi Arcita sentì una voce bassa e cupa che mormorò: «Vittoria». Perciò egli onorò e glorificò Marte.

Quindi con la gioia e la speranza nell’animo Arcita se ne ritornò a casa in fretta come un daino che fugge la luce del sole.

A questo punto su in cielo cominciò, per tutte queste promesse, un tale battibecco fra Venere Dea dell’amore e Marte il fiero e potente Dio delle armi, che Giove si affannava inutilmente per rimettere la pace. Finalmente però il pallido e freddo Saturno, che sapeva tante e così vecchie storie, trovò il modo, con la sua antica esperienza e la sua grande pratica del mondo, di mettere d’accordo le due parti in quattro e quattr’otto. È proprio vero che la vecchiaia ha molte risorse: i vecchi hanno sempre senno ed esperienza. Si può vincere un vecchio con le gambe, ma con la testa no.

Saturno, dunque, contro il suo modo di pensare, si indusse a cercare un rimedio per far cessare il dissidio fra i due Dei.

«Venere, mia cara figlia, egli disse, sappi che il mio corso il quale compie un giro così vasto per la volta celeste, ha più potenza di quello che gli uomini non pensano. Sotto l’influenza mia la gente affoga là nel grigio mare, per me s’apre agli uomini la buia prigione, e li strangola il capestro; sono opera mia il grido e la ribellione delle plebi, il rancore e il nascosto veneficio. Quando mi trovo nella costellazione del leone, io vendico e correggo tutti i torti. Pel mio influsso rovinano gli alti castelli, cadono le torri e le mura sulla testa del minatore e del falegname; per opera mia morì Sansone sotto il peso della colonna, e nacquero sempre le tristi malattie, i turpi tradimenti, e le congiure. Il mio apparire è foriero di pestilenza. Ora, dunque, non pianger più; penserò io a fare sì che Palemone, che è il tuo cavaliere, ottenga la sua donna come tu gli hai promesso, quantunque Marte aiuti il suo protetto. Voi due avete preso a proteggere un cavaliere ben diverso, e per questo tutto il giorno siete alle prese: ma è ora di farla finita, e che ritorni fra voi la pace. Io sono tuo nonno, e mi avrai sempre pronto ad ogni tuo desiderio; non piangere più, che sarà fatto quello che tu vuoi».

Ma lasciamo ora Marte e Venere, dea dell’amore, su nel cielo, poichè io voglio raccontarvi in poche parole la fine della mia storia.

Quel giorno tutta Atene era in festa, e Maggio stesso colla sua leggiadria rallegrò così vivamente l’animo di tutti, che la Domenica passò in giostre e danze e fu dedicata agli alti onori di Venere. La notte però tutti andarono a letto, perchè la mattina si dovevano alzare presto per andare ad assistere al combattimento. L’indomani allo spuntare del giorno dappertutto, nei vicini alberghi, era uno strepito di cavalli e d’armi; e numerose schiere di cavalieri su i loro destrieri e i loro palafreni se ne andarono al palazzo di Teseo.

Si vedevano armature d’ogni sorta, belle e riccamente lavorate in oro e in acciaio con fregi, scudi luccicanti al sole, elmi e bardature, elmetti lavorati in oro, loriche e cotte d’armi. Si vedevano cavalieri in splendidi costumi, col loro seguito e i loro scudieri, dei quali chi rinforzava le lance con dei chiodi, chi metteva le fibbie agli elmi, chi era intento a lucidare gli scudi e ad adattarvi le corregge. Insemina dovunque c’era da fare qualche cosa, nessuno stava con le mani in mano. Vedevi qua e là destrieri con la schiuma alla bocca che rodevano il morso sotto le briglie d’oro, ed armaiuoli che correvano d’ogni parte con lime e martelli. Era un via vai di gente che veniva a piedi dalla campagna, di plebaglia armata di bastoni, così affollata per le vie che non c’era posto dove mettere i piedi; e tutti avevano zufoli, trombe, tamburi e clarinetti, chè durante il combattimento mandavano suoni di sanguinosa battaglia. Il palazzo di Teseo era pieno di gente: qua c’era un gruppo di tre persone, là ve n’erano una diecina che questionavano e scommettevano pel vincitore dei due cavalieri tebani. Chi diceva che la battaglia sarebbe andata in un modo e chi nell’altro; alcuni tenevano per quello con la barba nera, altri per quello che era un po’ calvo, altri invece per quello che aveva i capelli così folti, ed osservavano che aveva l’aspetto di un guerriero feroce e che si batterebbe fortemente, e soggiungevano: «Ha in mano un’alabarda che peserà almeno una ventina di libbre».

Per un bel pezzo, fin dal levar del sole, nel palazzo fu una continua questione, per cercare di indovinare chi sarebbe stato il vincitore. Il gran Teseo svegliato dalla musica e dal frastuono della gente, rimase in camera, nel suo ricco palazzo, finchè i due cavalieri tebani furono condotti, con uguali onori, al palazzo.

Teseo se ne stava ad una finestra, in gran tenuta, che pareva un Dio sul trono; allora la gente si affollò improvvisamente da quella parte per vederlo e fargli atto di riverenza, e per sentire i suoi ordini e le sue disposizioni.

Un araldo montato sopra un palco di legno diè cenno che tutti facessero silenzio, e cessato ogni rumore, manifestò così il volere del potente loro Duca:

«Il signor nostro, col suo saggio consiglio, ha pensato che sarebbe un inutile spargimento di nobile sangue il combattere in questo torneo come si combatterebbe in fiera battaglia; quindi per impedire che molti cadano morti, egli ha modificato il suo primo proposito. Nessuno, pena la testa, può scagliare o portare dentro la lizza dardi di qualsivoglia specie, nè alabarde, nè lancie. Nessuno deve adoperare o portare al fianco spade corte ed aguzze; nessun cavaliere potrà assalire il compagno con la lancia affilata se non andando di corsa. Per difendersi, se crede, il cavaliere può balzare a terra. Colui che sarà còlto in fallo, sarà preso e non ucciso, ma verrà portato in un recinto appositamente preparato ai due lati della lizza, e quivi dovrà per forza rimanere fuori di combattimento. Appena sarà fatto prigioniero uno dei due capi, o l’un d’essi cada morto, il torneo sarà immediatamente finito. Dio sia con voi, andate e mettetevi presto in ordine. Combattete con le lunghe spade a vostro talento, e finchè ne avete voglia. Andate, dunque; questo è il volere del Duca».

Le voci del popolo arrivavano fino alle stelle, allorchè tutti con quanto n’avevano in gola si misero a gridare pieni di gioia: «Dio salvi il nostro buon signore, il quale non vuole che si sparga inutilmente del sangue».

Fra i suoni delle trombe e i canti la schiera dei combattenti si avviò ordinatamente alla lizza, attraversando la vasta città che era tappezzata non con panni di lana ma con drappi d’oro. Teseo, il nobile Duca, cavalcava con signorile portamento in mezzo ai due Tebani, e dietro a lui venivano a cavallo la regina ed Emilia, seguite dalla rispettiva compagnia d’onore, secondo il loro diverso grado. Così attraversarono la città, e giunsero alla lizza che non era ancora giorno fatto.

Quando Teseo, nel suo splendido costume, la regina Ippolita, Emilia, e tutte le altre signore del seguito ebbero preso il loro posto, tutta la schiera dei combattenti si riversò nel circolo. Arcita entrò difilato, coi suoi cavalieri e la bandiera rossa, dalla porta ad occidente, dov’era il tempio di Marte; contemporaneamente dalla porta che guardava ad oriente entrava in lizza, sotto la scorta di Venere, Palemone insieme con i suoi portando baldanzoso la bandiera bianca. A cercarle in tutto il mondo non si troverebbero più due schiere di così uguale valore sotto ogni rispetto. Nessuno per quanto accorto avrebbe potuto dire che uno solo fosse superiore a gli altri per dignità, per condizione, e neppure per età, così uguali in tutto e per tutto erano stati scelti coloro che dovevano provarsi nel torneo. Intanto i cavalieri si erano schierati su due righe in bel modo; e quando, fatta la chiama, si vide che nessuno mancava, furono chiuse le porte dell’anfiteatro, ed una voce gridò: «Giovani e prodi cavalieri, fate ora il dovere vostro».

Gli araldi allora fermarono i loro cavalli che avevano spinto con lo sprone qua e là per la lizza, e le trombe e i claroni incominciarono a suonare forte. E quì, senz’altro, le lancie vanno in resta, e li sproni entrano nei fianchi dei cavalli: alcuni diedero prova di essere abili giostratori, altri abili cavalieri. Le lancie vibrano su i forti scudi, e qualcuno si sente passare il petto dalla punta; le scheggie delle aste volano all’altezza di parecchi piedi, le spade luccicanti vanno in frantumi, e gli elmi spaccati cadono a pezzi, mentre il sangue sgorga orribilmente a fiotti rossi, e le ossa scricchiolano sotto i fieri colpi delle poderose mazze. Qua vedi uno cacciarsi dove più ferve la mischia, e menare colpi orrendi; là i forti destrieri inciampare e cadere per terra, mentre un cavaliere ruzzola come una palla tra le gambe del cavallo. Uno si difende a colpi di bastone, un altro getta di sella l’avversario urtandolo col suo cavallo. Si vede uno ferito nel corpo, trascinato a forza dentro lo steccato laterale e costretto, secondo era stato convenuto, a restare là, mentre ad un altro tocca la stessa sorte dall’altra parte. Ogni tanto Teseo fa riposare i combattenti perchè prendano nuova lena e bevano se ne hanno voglia.

I due Tebani si scontrarono più d’una volta ferendosi, e per due volte l’uno gettò l’altro giù di sella. Una tigre della valle di Galafa, cui il cacciatore avesse rubato il tigrotto, non si scaglierebbe con la ferocia con cui la gelosia spinge Arcita contro Palemone; non c’è leone in Belmaria che stimolato dal cacciatore o acciecato dalla fame, si inferocisca ed abbia sete di sangue, quanto Palemone desidera uccidere il suo avversario. Cadono su gli elmi loro tremendi colpi, ed il sangue sgorga rosso dai fianchi.

Ma tutto finisce in questo mondo: il forte re Emetrio, prima che il sole cadesse, attaccò Palemone mentre si batteva con Arcita, e con la spada gli fece una profonda ferita. Il disgraziato non voleva cedere, ma a forza venne trascinato da una ventina d’uomini fuori di combattimento, dentro lo steccato laterale. Il forte re Licurgo che era accorso in aiuto di Palemone fu pure rovesciato; ma anche Emetrio, nonostante la sua grande forza, fu gettato di sella, alla distanza di una spada, da un colpo che Palemone gli vibrò prima di essere preso.

Tuttavia, malgrado i suoi sforzi, Palemone dovè uscire dalla lizza; il suo coraggio non gli valse: una volta preso, dovè ad ogni costo restare là, secondo i patti stabiliti prima.

Chi, in questo mondo, ha provato il dolore di Palemone, costretto ad abbandonare il combattimento? Teseo veduto l’esito di quello scontro gridò alla moltitudine che ancora combatteva: «Olà, basta! Il torneo è finito: io non rappresento nessuna delle due parti, e sono qui giudice imparziale. Il tebano Arcita avrà Emilia, poichè egli ha avuto la fortuna di conquistare, con le armi, la sua bellezza».

A queste parole si levò tra la folla un grido di gioia così potente, che per un momento parve che il gran teatro franasse.

Intanto, che diceva su in cielo la bella Venere? Che cosa faceva la regina dell’amore? Si disfaceva in lacrime perchè il suo volere non era stato compiuto, e diceva: «Io mi vergogno, in verità, di quanto è accaduto».

Allora Saturno, per consolarla, le rispose: «Figlia mia, non ti disperare. Marte, è vero, ha ottenuto ciò che voleva: il suo cavaliere ha conquistato il premio, ma tu per mezzo mio sarai presto consolata».

I trombettieri davano nelle trombe, e gli araldi gridavano a squarcia gola, pieni di gioia per la fortuna toccata al signor loro Arcita. Ma abbiate la bontà di fare un po’ di silenzio, e state a sentire che razza di miracolo avvenne lì per lì.

Il fiero Arcita si tolse l’elmo ed a cavallo attraversò tutta la pianura per mostrarsi a tutti, guardando e cercando con gli occhi la sua Emilia, la quale gli volse un affettuoso sguardo (le donne, si sa, facilmente si accomodano ai capricci della fortuna), ed era ormai tutta di lui non solo apparentemente, ma anche nel cuore. In questo mentre sbucò fuori dalla terra una furia infernale mandata da Plutone per volere di Saturno; e il cavallo di Arcita, spaventato, cominciò ad impennarsi, e saltando bruscamente da una parte cadde. E prima che Arcita avesse il tempo di liberarsi lo lanciò giù di sella a capo fitto, lasciandolo come morto, con uno squarcio nel petto che gli aveva fatto, nel cadere, l’arcione. Mentre giaceva lì per terra, il sangue gli era affluito alla testa con tanta veemenza, che egli aveva la faccia nera come il carbone o come l’ala del corvo.

Fu subito raccolto da quel luogo, e portato, con lo strazio nel cuore, al palazzo di Teseo. Per far presto gli fu tagliata indosso l’armatura, e con molta cura fu messo subito a letto, poichè era ancora vivo, e non faceva che piangere per la sua Emilia.

Intanto il duca Teseo se ne ritornava con tutto il suo seguito a casa, attraversando con gran festa e gran pompa tutta la città. Nonostante la disgrazia accaduta, egli volle che tutti stessero allegri, molto più che i medici dicevano che Arcita non correva pericolo e presto sarebbe guarito. E ciò che accresceva la gioia generale, era il fatto che di quanti avevano preso parte al torneo, nessuno era morto, sebbene fossero tutti conciati in malo modo, uno specialmente, al quale una lancia aveva forato lo sterno. Ognuno aveva i suoi rimedi e i suoi incantesimi per curarsi le ferite, e rimettere al posto le braccia rotte; e pur di salvare la pelle ricorrevano ad ogni sorta di medicine, e d’erbe, e bevevano perfino l’acqua di salvia. Il nostro nobile duca confortava tutti e a tutti faceva onore, e dava ai cavalieri che avevano preso parte al torneo trattenimenti notturni, come a lui si conveniva, poichè trattandosi di una giostra non c’era ragione che i vinti si affliggessero. D’altronde non era mica una sconfitta: il cascare da cavallo è una disgrazia che in un torneo può capitare ad ogni cavaliere. E l’essere preso, come toccò a Palemone, e trascinato per forza fuori di combattimento da venti cavalieri che lo spingevano per le gambe e pei piedi, mentre staffieri, mozzi, e servitori, cacciavano fuori dalla lizza anche il suo cavallo, a furia di bastonate, non era reputato cosa disonorevole e molto meno una vigliaccheria. Perciò Teseo, perchè non ci fossero rancori ed invidie, fece spargere subito la notizia che a tutti i cavalieri di ciascuna schiera sarebbe stato distribuito il debito premio, come si trattasse di premiare due soli fratelli.

Ed infatti ad ognuno egli dette il premio che gli spettava secondo il suo grado, e fece una festa che durò tre giorni. I re che avevano preso parte al torneo li fece partire da Atene tutti insieme nello stesso giorno, accompagnati con i dovuti onori; gli altri cavalieri se ne ritornarono alle case loro ognuno per la sua strada, e dappertutto era un gridare: «Addio, state bene». Ed ora che ho finito di raccontarvi del torneo, torniamo a Palemone e ad Arcita.

Il petto del povero Arcita incominciò a gonfiare, e il male cresceva sempre più nel cuor suo. Il sangue che per effetto del colpo si era aggrumato nell’interno, nonostante tutte le arti del medico, si corruppe dentro il corpo, e non giovavano più nè salassi nè ventose nè bevande di qualunque erba. La forza espulsiva o animale, detta appunto per questo forza naturale, non riusciva a cacciar fuori il veleno e ad espellerlo dal corpo. I lobi polmonari cominciarono a gonfiarsi, e il sangue guasto dal male ammorbava ogni muscolo nel suo petto. Non gli valsero, a salvare la vita, gli emetici e le purghe; il suo corpo intero era in dissoluzione, e la natura non aveva più alcun potere sopra di lui. E quando la natura non può fare più nulla, addio medicina: portate pure il malato in chiesa. La conclusione, insomma, è questa: Arcita era condannato a morte; e poichè egli lo sentiva, mandò a chiamare Emilia e il suo diletto cugino Palemone, e disse così: «Il mio spirito addolorato non può manifestarti la millesima parte di quello che io soffro, o mia signora, che io amo immensamente; e poichè io sento che la mia vita non può durare a lungo, lascio a te, più che a ogni altro, la cura dell’anima mia, quando sarò morto. Ahimè! quanto dolore, quali pene ho sofferto per te, e per quanto tempo! Ahi! dura cosa, Emilia mia, dover morire, e lasciarti per sempre! Ahimè, regina del mio cuore, moglie mia, unico scopo della mia vita! Che cosa è dunque questo mondo? Che giova all’uomo il desiderare? Egli vive felice con l’amor suo, e ad un tratto eccolo là nella fredda tomba, solo, senza nessuno. Addio, mia cara, addio, Emilia mia, sollevami dolcemente fra le tue braccia, e ascolta ciò che ti dico.

Per molto tempo io ho combattuto e odiato il mio cugino Palemone, per amor tuo, perchè ero geloso di te. Ma Giove voglia essere guida all’anima mia, come è vero che io non ho mai conosciuto al mondo un uomo degno di essere amato come Palemone: lealtà, onore, valore, virtù, modestia, condizione, casata, libertà, tutte insomma, egli possiede le qualità di buon cavaliere. Giove salvi l’anima mia, se è vero questo che io dico di lui, il quale è tuo servitore, e lo sarà per tutta la vita. Perciò se un giorno tu dovrai riprendere marito, non dimenticare Palemone il gentile cavaliere».

Detto questo la parola gli cominciò a mancare, e il freddo della morte che già gli era addosso, lo avvolse tutto dai piedi fino al petto. Anche alle braccia venne meno la forza, e la vita a poco a poco scomparve. L’intelletto che era rimasto sempre lucido, si offuscò solo quando anche il cuore addolorato sentì la morte: allora gli si velarono gli occhi, e gli mancò il respiro. In quell’istante volgendo un ultimo sguardo alla sua donna, disse queste ultime parole: «Pietà di me, Emilia». E l’anima sua cambiò di casa. Dove andasse precisamente non ve lo saprei dire, perchè andò in un luogo dove io non sono stato mai; e poichè non sono un indovino e non mi intendo del viaggio delle anime, non aggiungo una parola di più, non avendo l’intenzione di riferire l’opinione di coloro che ne sanno qualche cosa. Il fatto è che Arcita è stecchito sul letto: Marte accompagni l’anima sua, chè io ritorno ad Emilia.

Palemone singhiozzava, Emilia era disperata, e Teseo dovette sostenerla, svenuta, fra le braccia, e strapparla via dal cadavere di Arcita. Ma è inutile che io stia a perdere il tempo per dirvi che la disgraziata non faceva che piangere dalla mattina alla sera. Le donne quando il marito se ne è andato all’altro mondo, chi più chi meno, si disperano tutte a questo modo; altrimenti fanno una malattia tale che finiscono per andarsene anche loro.

Le lacrime e i lamenti dei vecchi e dei giovani, per la morte di questo Tebano, furono infiniti per la città, poichè tutti lo piangevano. Non fu versato sì largo pianto neppure quando il cadavere di Ettore fu portato a Troia. Le donne graffiandosi il volto e strappandosi i capelli, gridavano pietosamente: «Perchè sei morto, tu che avevi conquistato tante ricchezze e la tua Emilia?»

Teseo non sapeva darsi pace di questa disgrazia, e solo il vecchio padre Egeo riuscì a consolarlo, pratico come era delle eterne vicissitudini di questo mondo. Avendo veduto, nella sua vita, alternarsi senza posa la gioia e il dolore, il dolore e la felicità, con questo esempio dette al figlio una immagine di ciò che è il mondo, per vedere di consolarlo.

«Come non morì mai uomo, prese egli a dire, il quale un giorno non avesse vissuto, in qualche modo, su questa terra, così non visse mai uomo, il quale non sia morto. Il mondo non è che una stazione di passaggio piena di dolori, e noi siamo dei poveri pellegrini che giriamo di qua e di là aspettando la morte che è la fine dei nostri guai».

Queste e molte altre cose disse il vecchio, esortando tutti alla rassegnazione.

Teseo cercò, con ogni cura, il luogo più degno e conveniente, dove seppellire il buon Arcita. E volle, finalmente, che in quello stesso bosco placido e verde, nel quale Arcita e Palemone avevano combattuto per amore, dove Arcita aveva sofferto, per amore, tanti affanni, tanti e sì cocenti ardori, si innalzasse un rogo, ed ivi si facessero i sacrifici ed il funerale. Quindi dette ordine di tagliare le vecchie querci del bosco, di spaccarle, e di preparare, coi tronchi, la catasta per il rogo. I suoi ufficiali montarono a cavallo in fretta ed eseguirono subito gli ordini ricevuti. Teseo intanto mandò a prendere una bara, vi distese dentro un drappo d’oro, il più ricco che aveva, e dello stesso drappo vestì Arcita, al quale furono messi i guanti bianchi, una corona di alloro fresco in testa, e una spada lucida ed appuntata in mano. Così vestito, Teseo col volto pallido e spaurito lo depose nella bara, e cominciò a piangere amaramente. Poi perchè tutti potessero vedere il prode cavaliere, venuto il giorno, lo fece trasportare nella gran sala del palazzo, dove era un continuo via vai di gente che piangeva e gridava.

In questo mentre giunse, tutto addolorato, il tebano Palemone, con la barba incolta, i grigi capelli arruffati, e in abito di lutto; il suo dolore era più forte di quello che tutti gli altri sentivano, ed egli piangeva più amaramente anche d’Emilia. Perchè il funerale riuscisse più splendido e degno, Teseo fece portare tre bei cavalli bianchi bardati di lucido acciaio, e su ciascuno di essi fece montare un cavaliere armato delle armi di Arcita: uno infatti teneva in mano il suo scudo, un altro la lancia, e il terzo l’arco turco ed il turcasso d’oro; e così armati i tre cavalieri cavalcavano lentamente e col volto addolorato pel bosco. I più nobili dei Greci che erano in Atene portavano la bara sulle spalle, percorrendo a lenti passi, e con gli occhi rossi e bagnati di pianto, la via principale della città che era tutta parata a nero. A destra del feretro c’era il vecchio Egeo, a sinistra Teseo, e tutti e due recavano vasi d’oro finissimi, pieni di miele, latte, sangue e vino. Dietro loro veniva con un gran seguito Palemone, e quindi Emilia, che, secondo il costume d’allora, portava in mano il fuoco per accendere il rogo.

Tutti erano in faccende per preparare la legna, ed ormai la catasta toccava il cielo con la verde cima, e i tronchi stendevano per una ventina di braccia i loro rami. Il primo strato del rogo era formato di fascetti di paglia.

Ma non starò a raccontarvi per filo e per segno come l’avessero innalzato, e vi risparmierò i nomi di tutti gli alberi che furono atterrati, insieme con le querci, gli abeti, le betulle, gli ontani, i lauri, i pioppi, i salici, gli olmi, i platani, i frassini, i bossi, i castagni, i tigli, gli aceri, gli spini, i faggi, i nocciuoli, e i tassi. Non vi dirò come i silvestri dei, privati della loro abitazione, fuggissero di qua e di là, abbandonando quel bosco dove Ninfe, Amadriadi e Fauni avevano avuto fino allora tranquillo e sereno albergo. Nè vi racconterò come gli animali e gli uccelli tutti scappassero spaventati allorchè il bosco fu atterrato; nè come il suolo della selva, non abituato alla luce del sole, rimanesse spaurito di tanto splendore improvviso. Non dirò, che il rogo era formato prima di uno strato di paglia, poi di tronchi secchi spaccati in tre pezzi, poi di uno strato di verzura e di aromi, coperti da un panno d’oro pieno di pietre preziose, attorno al quale erano appese corone di molti fiori, con la mirra e l’incenso dal dolce profumo. Non starò a raccontare come Arcita fu deposto in mezzo a tutta questa roba, nè a fare il conto di tutte le ricchezze che erano attorno il suo corpo; nè come Emilia dando fuoco al rogo secondo l’uso di quei tempi, venne meno dalla commozione, nè ciò che disse o desiderò in quel momento, nè quali gioie furono gettate nel fuoco allorchè si levarono le fiamme divampando, nè come dei presenti chi gettava nel fuoco lo scudo, chi la lancia, chi parte dell’armatura, o coppe piene di vino, di latte, di sangue, che bruciavano subito come fossero di legno. Non vi dirò come i Greci in lunghissimo corteo cavalcarono per tre volte attorno alle fiamme, incominciando da sinistra, con grida altissime e squassando per tre volte la lancia; nè come per tre volte le donne si abbandonarono ai lamenti, nè come Emilia fu ricondotta a casa ed Arcita, divenuto un mucchio di cenere fredda, fu vegliato dai Greci che passarono la notte in mezzo ad ogni genere di giuochi. Non starò a dirvi quali furono questi giuochi fatti durante la veglia, nè chi, untosi il corpo d’olio, fu il miglior lottatore e si portò meglio riuscendo a battere sempre l’avversario. Non dirò, finalmente, come, finiti i giuochi, tutti se ne ritornarono in Atene, poichè è ormai tempo di venire alla fine di questa lunga novella.

Col tempo, passati alcuni anni, fu stabilito, per comune consenso, che avessero fine i lamenti e le lacrime. Ed allora, se non m’inganno, ebbe luogo un’adunanza in Atene per trattare di alcune questioni particolari, e tra le altre cose si parlò anche di stringere alleanza con non so quali paesi, e di avere, ormai, anche quella dei Tebani. Perciò il nobile Teseo fece chiamare subito Palemone, senza che egli sapesse di che cosa si trattasse; ed il giovine tebano, tutto dolente e vestito a bruno, accorse subito, obbedendo all’ordine di Teseo, il quale intanto aveva fatto chiamare anche Emilia.

Allorchè si furono seduti, e si fu fatto intorno silenzio, Teseo aspettando un momento, prima di lasciare uscire una parola dal saggio suo petto, e volto attorno lo sguardo pieno di mestizia con un tacito sospiro, disse finalmente così:

«L’alto fattore del supremo principio, quando inventò la prima volta la bella catena d’amore, ebbe un nobile ed alto intendimento, e sapeva quel che si faceva, mosso da un fine ben determinato. Egli univa insieme, con la bella catena dell’amore, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, con legami che non era possibile infrangere. Questo principe e fattore di tutte le cose ha fissato i giorni che ogni creatura viva deve rimanere in questa valle di lacrime, ed oltre quel dato numero di giorni a nessuno è dato passeggiarvi più. E non c’è bisogno di citare in proposito qualche autorità, perchè ormai tutti lo sappiamo per esperienza: io non faccio altro che manifestare la mia opinione. L’ordinamento di tutte le cose dimostra chiaramente che v’è una mente direttiva immutabile ed eterna: e basta avere un dito di cervello per capire che in questo mondo ogni piccola parte deriva da un tutto. Poichè la natura non ha avuto origine da parti e frazioni di una cosa, ma da una cosa perfetta ed una, che a mano a mano allontanandosi dalla perfezione è scesa giù fino a divenire corruttibile. E perciò egli, il fattore supremo, con la sua saggia previdenza ha creato questo meraviglioso ordinamento, in modo che l’evoluzione e il progresso delle cose si deve effettuare per mezzo di successive trasformazioni, che conducono alla fine e non alla eternità. E di questo ognuno si può persuadere con gli occhi suoi. Guardate, per esempio, la quercia che dopo sì lunga vita, un bel giorno muore. Pensate che la dura selce che ogni giorno calpestiamo coi piedi quando camminiamo, a poco per volta si consuma anch’essa, sulla strada, e finisce. Così il vasto fiume improvvisamente si secca, e le grandi città cadono e spariscono, perchè tutto, come vedete, finisce nel mondo. Lo stesso accade degli uomini e delle donne: tutti, il re come il suo paggio, devono morire dentro uno dei due limiti della vita umana, vale a dire la gioventù e la vecchiaia. Chi muore nel suo letto, chi in mezzo al mare, chi in mezzo alla vasta campagna; ma non c’è rimedio: tutto finisce per la stessa strada, tutto muore. E chi è l’autore di tutto questo, se non Giove re dell’universo? Egli è principio e causa di tutte le cose, e tutto si trasforma secondo il suo volere, dal quale tutto ha avuto la sua origine; nè creatura viva al mondo, si può opporre a lui, qualunque essa sia. Perciò è da savi, mi sembra, fare di necessità virtù, e mettersi l’animo in pace, una volta che tutti, senza eccezione, dobbiamo finire nello stesso modo. Chi se ne lamenta è un pazzo, perchè pretende di ribellarsi a colui che è guida di tutto. Certamente per un uomo è bello morire nella grandezza della sua fama e nel vigore degli anni, con la sicurezza di lasciare un nome onorato. Egli muore senza aver mai recato disonore all’amico e a se stesso, cosicchè l’amico dovrebbe rallegrarsi della sua morte, preferendo che egli sia spirato nel fiore della sua gloria, piuttosto che vederlo morire quando questo è già appassito dal tempo; poichè allora il suo valore è presto dimenticato. Quindi per lasciare un bel nome è meglio morire all’apogeo della gloria; e chi non la pensa così si ostina ad essere uno sciocco. Perchè, dunque, noi ci lamentiamo e non sappiamo rassegnarci che il nostro Arcita, il fiore della cavalleria, sia uscito con tanta lode ed onore da questa brutta prigione che è la vita? Perchè si lamentano, qui, la moglie sua e il suo cugino, che pur gli volevano tanto bene, della sorte che gli è toccata? Deve egli ringraziarli di questo? No davvero, e lo sa Dio stesso, poichè col pianto offendono l’anima di Arcita e se medesimi, solamente per soddisfare il desiderio proprio.

Quale è, dunque la conclusione di questo mio lungo discorso? È questa: io penso che noi dopo tanto dolore dobbiamo ormai stare un po’ allegri, e ringraziare Giove della sua bontà. Prima che ci lasciamo, noi dobbiamo fare di due dolori una sola e completa gioia che duri eterna. Vedete, tra le persone qui presenti ce n’è una più acerbamente di tutti colpita dal dolore: ebbene io voglio che la gioia incominci proprio da lei.

Sorella (indi soggiunse) è desiderio mio e della mia corte, che il gentil Palemone, il cavaliere che con tanto zelo è al tuo servizio, e ti ha sempre servito con tanto amore e del suo meglio dal giorno che lo conoscesti, abbia finalmente la grazia del tuo cuore: io voglio che tu lo faccia tuo marito e tuo signore. Dammi la tua mano, poichè così noi abbiamo stabilito. Dà a noi, qui presenti, un esempio della tua riconoscenza. Palemone è, per Dio, figlio del fratello di un re, e sebbene egli sia un semplice cavaliere, mi pare che meriti la tua pietà, giacchè egli ti ha servito per tanti anni, ed ha sofferto tanti affanni per amor tuo».

Poi disse al cavaliere Palemone: «Io credo che non occorreranno molte parole per indurti ad approvare questa mia decisione. Vieni dunque qua, e prendi per la mano la moglie tua».

Così fu stretto, fra loro due, il nodo che si chiama matrimonio o maritaggio, con l’approvazione di tutta la corte, e in mezzo all’allegria e ai canti furono celebrate le nozze. Ed ora Dio che ha creato questo immenso mondo, conceda al prode cavaliere la sua protezione, che se l’è guadagnata davvero. Palemone, infatti, vive contento e felice in mezzo alle ricchezze, e pieno di salute, con la sua Emilia; ed essa l’ama così teneramente, ed egli con tanta cortesia la serve, che tra di loro non si parlò mai di gelosia nè di altre seccature.

Così finirono Palemone ed Emilia, e Dio benedica tutta questa bella brigata.

NOVELLA DEL GIURECONSULTO

▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪

PROLOGO

Il nostro oste si accorse che lo splendido sole aveva già compiuto la quarta parte, più mezz’ora buona, del suo corso giornaliero; e per quanto non avesse, in fondo, una grande dottrina, sapeva però che quello era il ventottesimo giorno di Aprile, cioè il messaggiero di Maggio. Egli osservò che l’ombra degli alberi, in terra, aveva la stessa lunghezza del fusto dell’albero che la proiettava, e da questo fatto calcolò che Febo, il quale riluceva in quel momento in tutto il suo splendore, era salito per quarantacinque gradi. Il che significava, in conclusione, che, dato quel giorno e quella latitudine, allora erano le dieci; perciò spinse avanti il suo cavallo dicendo:

«Signori, ho l’onore di avvertire tutta questa brigata, che la quarta parte del giorno se n’è bell’e ita. Quindi, per amore di Dio e di San Giovanni, guardate, se vi riesce, di non perdere più tempo. Signori miei, il tempo non ci aspetta mica: giorno e notte si consuma, e se la svigna o mentre noi tranquillamente dormiamo, o quando, desti, non sappiamo approfittarne: egli fa come il fiume che scende dal monte alla pianura senza tornar mai indietro. Non per nulla Seneca, e con lui molti altri filosofi, rimpiange più la perdita del tempo che quella dell’oro dello scrigno; poichè le ricchezze si possono in qualche modo ricuperare, ma la perdita del tempo è irreparabile. Il tempo non ritorna davvero indietro, come non ritorna a Malkins[1] la verginità, una volta che la sua lascivia glie l’ha fatta perdere. Non stiamo, dunque, a marcire così nell’ozio.

Signor giureconsulto, che Dio vi benedica, raccontateci voi, ora, una novella, secondo che abbiamo stabilito. Anche voi avete acconsentito a sottomettervi al mio giudizio: fate dunque il vostro dovere, e mantenete la vostra promessa».

«Oste, egli rispose, de par dieu jeo assente, giacchè non ho intenzione di mancare alla mia parola. Ogni promessa è debito, e vi ripeto che io farò volentierissimo l’obbligo mio. Gli stessi libri nostri dicono che la legge è uguale per tutti: ma tuttavia io non posso dirvi una novella discreta, che non sia stata già raccontata da Chaucer (sebbene l’arte del verso e della rima non sia il suo forte), in quell’antico idioma inglese nel quale, come tutti sanno, egli ebbe a scriverle. Poichè se non l’avrà raccontata in un libro, amico mio, sta pur sicuro che l’avrà raccontata in un altro. Sono più gli amanti di cui ha scritto la storia lui, o in un libro o nell’altro, che quelli semplicemente nominati da Ovidio nelle sue antichissime epistole. Che cosa vi debbo dunque raccontare, se le novelle che io so, sono già state raccontate da Chaucer! Nella sua gioventù egli scrisse la novella di Ceyx e Alcyon, e quindi ha fatto la storia di tutte le donne e gli amanti più illustri. Chi avesse voglia di leggere il suo libro intitolato: La sacra leggenda di Cupido, vi troverà descritte le larghe e profonde ferite di Lucrezia e di Tisbe babilonese, vi troverà la storia di Didone che si trafigge con la spada per causa del traditore Enea, e di Fillide cambiata in albero pel suo Demofoonte. Vi troverà il pianto di Deianira, di Ermione, di Arianna e di Isifile, il nudo scoglio nel lontano mare, dove Leandro affogò per la sua bella Ero, le lacrime di Elena, il dolore di Briseide e di Laodamia, e la tua crudeltà, o regina Medea, che appendesti pel collo i figlioletti per vendicarti di Giasone, l’amante spergiuro. In quello stesso libro egli loda altamente la vostra fedeltà, o Ipermestra, Penelope, Alceste.

Ma naturalmente non fa neppure parola del turpe esempio di Canace che amò, incestuosamente, il proprio fratello, nè (Dio ci scampi da certe novelle) ricorda la storia, raccontata da Apollonio Tirio, di quell’infame re Antioco che deflorò la propria figlia, gettandola (orribile a leggersi) a forza per terra. Di tali turpi cose egli non volle mai scriverne, ed io, se me lo permettete, mi dispenso dal raccontarvele. Ma come farò, dunque, a dire anch’io, oggi, la mia novella? Certamente io mi guardo bene dal voler gareggiare con le Muse altrimenti dette Pieridi (voi capite, senza dubbio, che io alludo alle Metamorfosi); del resto poco m’importa di Ovidio: faccia pure quanti versi vuole, io parlerò in prosa». E detto questo, il giureconsulto, serio serio, incominciò la sua novella, e disse quello che segue.

NOVELLA DEL GIURECONSULTO

O miseria, male pieno di pericoli, sinonimo di sete, freddo, e fame; tu ti vergogni in cuor tuo di domandare aiuto, e se anche non lo chiedi, invano tenti di nascondere le piaghe delle tue ferite: esse sono così dolorose, che per forza devi mostrarle altrui. Il bisogno, tuo malgrado, ti costringe a rubare, ad accattare, o a prendere a credenza il pane.

Tu te la prendi con Cristo, e col cuore gonfio d’amarezza, dici ch’egli non distribuisce equamente le ricchezze sulla terra. Rimproveri, a torto, il tuo vicino, perchè mentre tu hai ben poco in questo mondo, a lui non manca nulla. E gridi: «Per Dio, verrà anche per lui il redde rationem, verrà il giorno in cui il fuoco gli brucerà la coda perchè non aiuta chi ha bisogno!»

Ascolta, piuttosto, ciò che ti dice il savio: meglio la morte della miseria. Il tuo vicino, se sei povero, sarà il primo a guardarti dall’alto in basso: pel povero non c’è rispetto. Impara anche questo dai savi: i giorni del povero sono tutti uguali, tutti brutti lo stesso; perciò abbi giudizio prima di cacciarti da te in mezzo a tante spine.

Se tu sei povero, neppure i tuoi fratelli ti possono vedere, e gli amici, ahimè, ti salutano tutti. Felici voi, o ricchi mercatanti, voi sì che siete gente rispettabile e con un po’ di sale in zucca; per voi non c’è doppio asso: ma il cinque e sei, ad ogni tiro di dadi, v’empie le tasche. Almeno, voi, per Natale potete ballare allegramente.

Voi scrutate terre e mari in cerca di guadagno, e da gente savia conoscete le condizioni di ogni paese, e ne recate notizie e avventure di pace e di guerra. Ed ora, appunto, non saprei dove pescare una novella, se un mercante, morto parecchi anni fa, non mi avesse raccontato questa che voglio dirvi.

Nei tempi antichi, dunque, c’era in Siria una società di ricchi mercanti così bravi ed onesti, che avevano un estesissimo commercio di stoffe in oro e in seta dei più smaglianti colori. La loro merce era così bella e così nuova, che tutti reputavano una fortuna comprar da loro e cambiar con loro la merce.

Ora accadde che questi mercanti una volta stabilirono di andare a Roma, non so se per affari, o per semplice divertimento; fatto sta che non vi mandarono i loro commessi, ma andarono da sè, e presero alloggio dove tornava loro più comodo per gli affari.

Già da qualche tempo si trovavano per loro piacere in Roma, quando un bel giorno sentirono parlare della famosa Costanza figlia dell’Imperatore, la cui fama giungeva loro agli orecchi con sempre nuovi particolari.

La voce che correva sulla bocca di tutti era questa: «Il nostro Imperatore, Dio ce lo conservi, ha una figlia così bella e buona, che da che il mondo è mondo non si è vista l’eguale nè per bellezza nè per bontà. Dio la protegga, e possa essere un giorno la regina dell’Europa intera.

La sua straordinaria bellezza è senza orgoglio, la sua gioventù non conosce capricci e non ha grilli per la testa. Ogni sua azione ha per guida la virtù, ed umiltà, in lei, vince superbia. Questa donna è un vero specchio di gentilezza: nel suo cuore alberga la pietà, e la sua mano è ministra di libertà e di misericordia».

E tutto questo che la voce del popolo diceva, era vero come la voce di Dio. Ma torniamo a bomba: questi mercanti caricate le loro navi, e dopo aver veduto, finalmente quella benedetta fanciulla, ritornarono in Siria, e si rimisero ai loro affari come prima, passandosela da signori.

Ora dovete sapere che questi mercanti erano molto in grazia al Sultano di Siria. Ed ogni volta che essi facevano ritorno da qualche paese straniero, egli pieno di affabile cortesia faceva loro festa e buon viso, e domandava, con grande interesse, notizie dei vari stati, per sapere se avevano visto o sentito nulla di bello e di meraviglioso.

E questa volta fra le altre cose, essi gli parlarono con sì calda ammirazione dello splendore di Costanza, che il Sultano provava un grandissimo piacere a immaginarsi colla fantasia la figura di lei; ed ogni suo desiderio, ogni sua più grave cura ripose nell’amare questa fanciulla per tutta la vita.

Ma fino dal giorno della sua nascita le stelle avevano scritto in quel gran libro che gli uomini chiamano il cielo, ch’egli, ahimè, doveva morire per amore. Poichè nelle stelle (e Dio sa se è vero) c’è scritto a chiare note (per chi vi sa leggere) il destino di ogni uomo.

Molti anni prima che avvenisse, era scritta nelle stelle la morte di Ettore, di Achille, di Pompeo, di Cesare, la guerra di Tebe, la morte di Ercole, di Sansone, di Turno, e di Socrate. Ma gli uomini hanno un’intelligenza così corta, che nessuno di loro in quel libro ci sa leggere chiaro.

Il Sultano, dunque, fece radunare il suo consiglio privato, e per esaurire in poche parole l’argomento, manifestò, senza altro, il suo desiderio, e disse che se non gli fosse concesso di possedere subito Costanza, non gli resterebbe che morire: lasciava a loro di trovare un rimedio per la sua vita.

Ognuno allora disse la sua: furono fatte e ribattute molte proposte, molte ragioni furono addotte, giustamente, da una parte e dall’altra; si parlò di magia, di inganni, e finalmente per venire ad una conclusione, tutti non videro altro mezzo, non trovarono altra via che il matrimonio.

Ma con ragione videro subito una grave difficoltà: naturalmente i loro riti erano così diversi da quelli del popolo di Cristo, che (dicevano essi) «nessun principe cristiano sarebbe contento di mandare a nozze col Sultano una figlia, facendole accettare i dolci riti del loro profeta Maometto».

Ed egli rispose: «Piuttosto che rinunziare a Costanza, io son disposto, decisamente, a farmi cristiano. Io debbo essere suo, e non posso fare diversamente, perciò, ve ne prego, risparmiatevi qualunque osservazione di questo genere; pensate piuttosto a salvarmi, e cercate con ogni mezzo di farmi avere colei, dalla quale dipende la mia vita: poichè io sento che non posso vivere molto in mezzo a tanto dolore».

Perchè andare ancora per le lunghe? Per mezzo di trattative e di una ambasceria, con la mediazione del papa e di tutta la Chiesa, e con l’approvazione di tutta la nobiltà, fu stabilito, a dànno della religione maomettana e con vantaggio della cara legge di Cristo, quanto sentirete.

Fu stabilito, cioè, che il Sultano, tutti i suoi baroni e tutti i suoi sudditi, si farebbero cristiani, ed egli sposerebbe Costanza (con non so quanto di dote, ma certo una bella somma), e così la sua vita sarebbe salva. Così fu convenuto e giurato da ambo le parti: ed ora, bella Costanza, Dio onnipotente ti accompagni.

Qualcuno ora s’aspetterebbe forse che io raccontassi, per filo e per segno, tutti i preparativi che l’Imperatore e la sua corte fecero per le nozze di Costanza. Ma ognun di voi s’immagina bene che non sarebbe possibile raccontare, in quattro e quattr’otto, tutto ciò che si fece nell’occasione di un avvenimento così grande.

Vescovi, conti, contesse, cavalieri di gran nome, ed altri personaggi, in una parola, furono mandati, ad accompagnarla. E fu annunziato a tutta la città che ognuno pregasse devotamente Cristo, affinchè volesse proteggere questo matrimonio, e accompagnasse per viaggio la spedizione.

Venne il giorno della partenza (il triste, fatale giorno, aggiungo io), chè ormai non v’era più da aspettare, e tutti erano pronti. Costanza, straziata dal dolore, si levò pallida dal letto, e si vesti preparandosi a partire, vedendo bene che non le restava altro da fare.

Ahimè! Qual meraviglia ch’ella piangesse? Lei che da quelli stessi i quali l’avevano tenuta fin allora così caramente, era mandata ora in un paese straniero, legata e soggetta ad un uomo che non aveva mai visto nè conosciuto? Io non voglio dire altro: ma so che in generale riescono sempre buoni mariti coloro che hanno conosciuto per tempo la loro moglie.

«O babbo, diceva lei al momento di partire, la tua sventurata Costanza, la tua giovine figliuola, che con tanto amore hai visto crescere; o mamma mia, che dopo Cristo, il quale sta su nel cielo, sei la cosa a me più cara nel mondo, Costanza, la figliuola vostra, si raccomanda a voi. Pensate che essa deve andare in Siria e forse non vi rivedrà più.

Ahimè, io devo andare in quel barbaro paese, perchè voi lo volete. Cristo che morì per la nostra redenzione mi conceda almeno la forza di poter fare la sua volontà. Io, disgraziata donna, non mi curo di morire: noi siamo nate per essere schiave e per fare penitenza sotto il dominio dell’uomo.»

Io ci scommetto, vedete, che nemmeno quando Pirro abbattè le mura di Troia e Ilio andò in fiamme, o quando cadde Tebe, e neppure a Roma in mezzo alle stragi di Annibale che vinse per tre volte i Romani, si sentì un pianto così commovente e pietoso come in camera di Costanza al momento della sua partenza. Ma o piangendo o ridendo la poveretta dovè partire a tutti i costi.

O crudele firmamento, tu nel tuo primo moto[1] quotidiano accozzi e trascini insieme, girando da oriente ad occidente, tutto ciò che da natura avrebbe avuto un altro indirizzo. I tuoi giri disposero le stelle in modo che, fin dal principio del doloroso viaggio, Marte distrusse questo matrimonio.

Malaugurato oroscopo, per l’obliquo moto del quale il signore[2] è caduto, irremissibilmente, nel buio più profondo! O Marte, in questo momento tu sei Atyzar[3]! O pallida luna, il tuo cammino è sventurato; poichè tu volgi il corso colà dove nessuno ti vuole, ed hai abbandonato quel luogo dove stavi benissimo.

Ahimè, stolto Imperatore di Roma! Non c’era proprio un astrologo in tutta la tua città? Non potevi scegliere, almeno, un tempo migliore di questo per il viaggio di nozze? Specialmente alle persone della tua condizione manca forse il tempo di scegliere una bella giornata, e di consultare l’oroscopo, prima di mettersi in mare? Ma la questione, ahimè, è che noi siamo troppo ignoranti e troppo corti di cervello.

La bella fanciulla, dunque, tutta addolorata, fu accompagnata da un gran seguito, e con tutti gli onori, sulla nave, e prima che questa si allontanasse disse: «Ora, Gesù Cristo sia con voi». E così, bella Costanza, buon viaggio; giacchè non c’è rimedio. La povera fanciulla faceva di tutto per non tradire il suo dolore; ma lasciamola navigare e andiamo avanti.

La madre del Sultano, che era un vero pozzo di vizi, aveva spiato tutto, e s’era accorta del proponimento fatto da suo figlio di abbandonare l’antica religione di Maometto; e subito adunò il consiglio, e quando tutti furono presenti per sentire che cosa aveva da comunicare, si assise, e disse così:

«Signori, voi tutti saprete che mio figlio sta per abbandonare le sante leggi del nostro Corano, datoci da Maometto messaggio di Dio. Ebbene, io faccio voto all’altissimo Signor nostro di perdere la vita, prima di rinnegare la religione di Maometto.

Che vantaggio può venirne a noi da questa nuova religione, se non servaggio e sofferenze, e d’essere trascinati all’inferno per avere rinnegato Maometto il nostro creatore? Signori, dunque, mi assicurate di approvare il mio consiglio? Se lo approverete, io vi salverò in eterno».

Tutti approvarono, e giurarono di vivere o morire con lei, e di non abbandonarla. E ciascuno prese l’impegno di fare il possibile perchè i propri amici prestassero l’opera loro. La Sultana allora si mise all’impresa nel modo che sentirete, e disse a tutti queste precise parole.

«Noi fingeremo da principio di andare lieti al battesimo: tanto un po’ d’acqua fresca non ci potrà fare un gran male; ed io farò preparare tali feste e in mezzo a tanta allegria, che il Sultano, certamente, non sospetterà di nulla. Dicono che sua moglie sia la più pura e più bianca creatura battezzata: ed io vi prometto che essa non riuscirà a lavare tutto il rosso del sangue che la bagnerà, quand’anche portasse con sè una fontana».

O Sultana iniqua, nuova Semiramide, serpente dall’aspetto di donna, donna simile al serpente che sta giù nel profondo dell’inferno, femmina ingannatrice, in te, nido d’ogni vizio, si accoglie tutto ciò che corrompe la virtù e l’innocenza per mezzo della malizia.

E tu, o Satana maledetto, dal giorno che fosti cacciato dal nostro regno, ben ritrovasti subito la via di tornare fra noi per mezzo della donna. Tu facesti sì che Eva ci trascinasse nella schiavitù, e tu ora sconcludi questo matrimonio cristiano. Quando non vuoi comparire, ahimè, tu ti servi, pei tuoi malvagi fini, della donna.

La Sultana che io rimprovero e maltratto in questo modo, lasciò maturare a poco per volta il suo disegno preparandogli la strada; e senza farla tanto lunga ecco che cosa fece. Un giorno, montata a cavallo, se ne andò dal Sultano, e gli disse che aveva deciso di rinnegare la fede maomettana, e voleva ricevere il battesimo dalla mano del prete, pentita di essere rimasta tanto tempo pagana.

E lo scongiurò di concederle l’onore di festeggiare il popolo cristiano al suo arrivo nella Siria dicendo: «Io farò tutto quello che potrò per fargli onore». E il Sultano rispose: «Farò tutto ciò che vorrete, madre mia». E in ginocchio la ringraziava della sua domanda, e non sapeva più che cosa dire dalla contentezza. La Sultana allora lasciato suo figlio se ne ritornò a casa.

Intanto i cristiani toccarono terra, e giunsero in Siria accompagnati da un grande seguito. Allora il Sultano mandò un messo a sua madre e attorno per tutto il regno, annunziando che sua moglie era finalmente arrivata, e pregando tutti di volere andare incontro alla regina, per tenere alto il decoro del regno.

La folla dei Sirii e dei Romani era immensa, e tutti erano splendidamente vestiti. La madre del Sultano, riccamente abbigliata, con molta festa ricevè la sposa, e con tutta la gioia con cui una mamma accoglierebbe la propria figliuola. Quindi il corteo, montato a cavallo, si avviò solennemente alla città, che era poco lontana dal mare.

Il trionfo di Giulio Cesare, che Lucano leva fino alle stelle, non fu certo più splendido e maraviglioso di quello che questa festante turba celebrò. Ma quel velenoso scorpione della Sultana, col suo maligno spirito, sotto sotto meditava il morso mortale.

Quando la comitiva fu giunta al palazzo, il Sultano, nella sua splendida divisa, andò, esultante e pieno di gioia, a riverire la sposa. Lasciamoli lì ora in mezzo al tripudio, e veniamo al momento in cui tutti pensarono che era ora di finire la veglia, e di andarsene a riposare.

Intanto venne il giorno in cui la vecchia Sultana aveva stabilito di festeggiare, come ho già detto, il popolo cristiano, e tutti i figli di Cristo si erano preparati per la cerimonia. Bisognava vedere che cosa fu in quella occasione: il lusso e lo splendore uno non se l’immagina nemmeno; ma prima di alzarsi da tavola la pagarono salata.

O improvviso e inaspettato dolore, tu succedi a ogni mondana gioia, che deve essere sempre bagnata dal pianto. Ogni nostra felicità ha per fine le lacrime. Non dimenticate mai questo consiglio pel vostro bene: ogni volta che vi pare d’essere felici, abbiate sempre davanti agli occhi il dolore e la sventura, che non tarderanno a raggiungervi.

Per farvela corta, dunque, il Sultano e tutti i cristiani furono tagliati a pezzi mentre stavano a tavola, e la sola Costanza scampò all’eccidio. La maledetta vecchia con l’aiuto dei suoi riuscì a compiere questo esecrando delitto, per diventar lei imperatrice.

Non vi fu cittadino della Siria, convertito al cristianesimo, che sorpreso dai consiglieri della Sultana non venisse trucidato prima che potesse scappare. Quindi presa la povera Costanza, la misero, in fretta, sopra una nave senza timone, alla mercè di Dio, e le dissero che, se era buona, se ne ritornasse dalla Siria in Italia.

Le restituirono il piccolo tesoro che aveva portato come dote, le dettero una abbondante quantità di roba per mangiare, misero sulla nave delle vesti, quindi spiegarono le vele e la nave fu spinta nell’alto. Povera, buona Costanza, giovane e onesta figlia dell’Imperatore. Colui che ha in mano la fortuna e il destino di tutti sia ora il tuo timone.

Prima che la nave si allontanasse dalla riva essa benedì tutti, poi rivolgendosi alla croce di Cristo disse: «O croce benedetta, pura fonte di felicità, bagnata del sangue del pietoso agnello che purificò il mondo delle sue antiche colpe, il giorno in cui io dovrò morire affogata in fondo al mare, salvami dalle unghie del diavolo.

Albero glorioso, scudo dei fedeli, che solo fosti degno di portare il re del cielo sanguinante di ferite, il candido agnello trafitto a colpi di lancia; tu che metti in fuga il diavolo e lo allontani da tutti coloro che sono protetti amorosamente dai tuoi rami, salvami e dammi la forza di redimermi.»

Passarono i giorni, passarono gli anni, e la povera Costanza spinta con la nave pel mare di Grecia arrivò, finalmente, per caso, allo stretto del Marocco; ma prima che le onde selvagge la portassero al suo destino, troppi amari bocconi dovè ancora mandar giù, per non morire di fame, sempre con la morte davanti agli occhi.

Qualcuno di voi mi potrebbe domandare: «Come mai non fu uccisa anche lei insieme con gli altri cristiani? Chi la salvò dall’eccidio il giorno della festa?» Io vi risponderò allora con queste altre dimande: «Chi salvò Daniele nell’orribile spelonca dei leoni, dove tutti quelli che entrarono prima di lui, d’ogni condizione, furono divorati senza poter fuggire in nessun modo? Nessun altro che Dio lo salvò, Dio che egli portava nel cuore.

A Dio piace mostrare in questo modo i suoi miracoli meravigliosi, affinchè noi possiamo vedere quanto è grande la sua potenza. Cristo il quale è il rimedio a tutti i mali, spesso con mezzi che solo i Sapienti conoscono, fa delle cose per un fine che la mente nostra non arriva a comprendere, cosicchè noi, per l’ignoranza nostra, non possiamo farci un’idea di quanto sia savia la sua provvidenza.

Or dunque, poichè Costanza non fu uccisa il giorno della festa, chi fu che la salvò anche dal fondo del mare? Chi fu che salvò Giona nello stomaco del pesce che lo rigettò vivo a Ninive? Ben sa ognuno che fu precisamente Colui, il quale salvò il popolo Ebreo quando attraversò il mare a piedi asciutti.

Chi ordinò ai quattro punti cardinali, spiriti della tempesta i quali hanno potere di mettere sotto sopra la terra e il mare, di non turbare la calma del mare della terra e degli alberi? Certo fu Colui il quale protesse sempre dalla tempesta questa donna giorno e notte.

Dove mai, questa donna, potè trovare da mangiare e da bere? Come le potè bastare per tre anni e più la provvista che aveva nella nave? Chi nutrì Maria Egiziaca nelle spelonche del deserto? Nessun altro che Cristo, senza dubbio! Fu una cosa veramente meravigliosa sfamare cinquemila persone con cinque pani e due pesci: Dio mandò la sua abbondanza al gran bisogno di lei.

Essa navigò dentro il nostro Oceano attraversando il nostro vasto mare, finchè, finalmente, l’onda la gettò sotto un castello, del quale ora non ricordo il nome, nel lontano regno di Northumberland. E il bastimento si incagliò così fortemente nella rena, che non si mosse di lì per tutto il tempo di una marea: era volere di Cristo che Costanza restasse ferma in quel luogo.

Il Castellano scese giù a vedere questo avanzo di naufragio, e girato tutto il bastimento trovò la povera donna sfinita dal dolore, e vide anche il tesoro che essa portava con sè sulla nave. Allora Costanza, nella sua lingua, domandò per misericordia che le si togliesse la vita, per liberarsi dal dolore in mezzo al quale si trovava.

Essa parlava un latino alquanto corrotto, tuttavia riuscì a farsi capire. Il guardiano, quando fu stanco di cercare per tutta la nave, portò con sè a terra questa povera donna. La quale cadde in ginocchio, e ringraziò il messaggio di Dio. Ma non volle dire a nessuno chi era, nè colle buone nè colle cattive, a costo di morire.

Diceva che il mare l’aveva tanto stordita, che aveva perso la memoria, e che questa era la verità. Il guardiano e sua moglie ebbero tanta compassione di lei, che piansero commossi. E Costanza si dimostrò subito così accurata e sollecita a servire e far piacere a tutti, che chi la vedeva se ne innamorava subito.

Il Castellano e madonna Ermenegilda, sua moglie, erano pagani, e tutto il paese era pagano; ma Ermenegilda voleva bene a Costanza come alla sua vita. Costanza intanto durante il suo soggiorno in questo luogo, con amare lagrime pregava sempre il Signore, finchè Gesù convertì la moglie del Castellano.

In tutta quella terra nessun cristiano aveva osato mai mettere piede; i cristiani erano stati cacciati di là dai pagani, che conquistarono tutto il Nord per mare e per terra. I cristiani fuggirono tutti a Wales, rimanendo in quest’isola, dove per qualche tempo trovarono un sicuro asilo.

Ma ancora i Brettoni cristiani non erano stati espulsi così radicalmente, che non si trovasse qualcuno il quale in cuor suo venerasse Cristo, ingannando la gente pagana. E proprio vicino al castello ve ne erano tre, uno dei quali era cieco, e non vedeva altro che con gli occhi della mente, i soli occhi che restano ai ciechi per vedere.

Il sole risplendeva come in un giorno d’estate. Il Castellano e sua moglie insieme con Costanza, presero la via dritta al mare, per circa un quarto di miglio, girando per diporto qua e là, quando per caso incontrarono quel povero cristiano cieco, e curvo dagli anni.

«Nel nome di Cristo (disse il vecchio Brettone), madonna Ermenegilda, fate ch’io riacquisti la vista.» La moglie del Castellano si spaventò a queste parole, per timore che il marito, sentendo che si era fatta cristiana, volesse ucciderla. Allora Costanza le fece coraggio, e le ordinò di fare la volontà di Cristo, come figlia della santa chiesa.

Il Castellano non raccapezzando che cosa succedesse in quel momento domandò: «Ma come va questa faccenda?» E Costanza rispose: «Signore, è la potenza di Cristo, che salva gli uomini dalle insidie del demonio!». E preso a recitare il nostro credo, prima che fosse sera ebbe convertito anche il Castellano, il quale cominciò a credere in Cristo.

Costui non era però il signore di questo luogo, dove aveva trovato Costanza; ma lo governava semplicemente, da molti anni, sotto il regno di Alla, re di Northumberland, uomo molto savio e dabbene come sentirete, e potente nemico degli Scozzesi. Ma ritorniamo al nostro racconto.

Satana che sta sempre pronto per ingannarci, vide tutta la perfezione di Costanza, e cercò subito il modo di farle scontare l’opera buona da lei compiuta. E fece sì che un giovine cavaliere che abitava in quella città, si innamorò di lei così sensualmente, che egli sentiva che sarebbe morto se non riuscisse a sfogare le sue sozze voglie.

Egli dunque le si mise intorno, ma non riuscì a nulla, perchè Costanza non volle peccare a nessun costo: allora, indispettito, pensò, per vendicarsi, di farla morire vergognosamente. Aspettò infatti che il Castellano fosse fuori del paese, e di nascosto, una notte, entrò nella camera dove dormivano Ermenegilda e Costanza.

Stanca per aver a lungo vegliato nelle sue orazioni, Costanza riposava tranquillamente, ed Ermenegilda lo stesso. Il cavaliere allora, tentato da Satana, si avvicinò piano piano al letto, e in un momento tagliò la gola ad Ermenegilda; e lasciato il coltello insanguinato vicino a Costanza, fuggì via, che Dio gli dia del male!

Poco dopo ritornò il Castellano insieme con Alla re di questa terra, e trovata sua moglie così barbaramente uccisa, cominciò a piangere e a torcersi le mani dalla disperazione. Quando ad un tratto, ahimè, vide vicino a Costanza il coltello sanguinoso! Che cosa poteva dire la disgraziata? Dal gran dolore svenne.

Il triste fatto fu subito riferito ad Alla. Il quale udito quando e come la povera Costanza era stata trovata nel bastimento, ebbe un senso di compassione, per una creatura così buona, caduta in tanto dolore e tanta sventura.

Poichè quell’innocente andò davanti al re, come l’agnello che è condotto alla morte. Il cavaliere mentitore che aveva commesso il delitto l’accusava dicendo che lei sola, manifestamente, aveva assassinato Ermenegilda! Ma nonostante, sorse un grande mormorio fra il popolo, e tutti dicevano che non potevano immaginarsi come Costanza avesse potuto commettere una sì grande malvagità. Poichè l’avevano sempre veduta virtuosa, e affezionata a Ermenegilda quanto alla propria vita: e di ciò tutti facevano testimonianza, eccetto colui che aveva ucciso Ermenegilda col suo coltello. Questo gentile re tenne molto conto di queste deposizioni, e pensò di studiare a fondo la cosa, per riuscire a scoprire la verità.

Ahi! povera Costanza, tu non hai un campione, e non puoi combattere da te! Ma Colui che morì per la nostra redenzione, e vinse Satana, Colui che porta pace dovunque con la sua presenza, sia oggi il tuo forte campione. Poichè se Cristo non fa, per te, un miracolo, tu, senza colpa alcuna, sarai tosto uccisa.

Essa dunque si gettò in ginocchio e disse: «O Dio immortale che salvasti Susanna dalla calunnia, o pietosissima vergine Maria, figlia di S. Anna, tu il cui figlio è salutato dall’Osanna degli angeli: se io sono innocente soccorretemi, o io morrò.»

Avete mai veduto, in mezzo ad una folla di gente, un uomo condotto al supplizio, senza speranza di grazia? È così pallido, che chiunque, appena lo vede, capisce anche fra mille persone, che quello è il condannato a morte. Tale era appunto l’aspetto di Costanza, mentre smarrita si guardava attorno.

O regine che vivete beatamente nella vostra reggia, o duchesse e voi altre tutte, nobili dame, abbiate pietà della sventurata Costanza: la figlia di un imperatore si trova in tal modo abbandonata, senza che ci sia un’anima pietosa, alla quale possa chiedere aiuto. Ahi, tu figlia di sangue reale, in mezzo a tanto spavento e a tanto pericolo, non hai vicino un solo amico!

Il re Alla sentiva tanta compassione (giacchè un cuore gentile è sempre pietoso), che piangeva dirottamente. «Or via, disse ad un tratto, andate in cerca di una bibbia, e se questo cavaliere giurerà che fu proprio costei che uccise la donna, allora decideremo in qual modo dovremo fare giustizia.»

Fu portata una bibbia che conteneva gli Evangeli scritti in lingua brettone, ed il cavaliere giurò sul sacro libro che Costanza era rea. Ma improvvisamente una mano misteriosa lo colpì fra il capo e il collo con tanta forza, ch’egli cadde a terra come una pietra, e gli occhi gli schizzarono via dalla testa in presenza di tutti quelli che erano lì.

Nello stesso tempo si senti una voce che disse: «Tu hai calunniato davanti a Dio la innocente figlia della santa Chiesa. Tanto hai osato: non dico altro.» La folla rimase stupefatta di questo miracolo, e tutti, fatta eccezione di Costanza, rimasero come sbalorditi per paura della vendetta divina.

Grande fu il timore e il pentimento di quanti avevano indegnamente sospettato della povera, innocente Costanza. E finì che dopo questo miracolo, e per opera di Costanza, il re e molti altri del paese (la bontà di Cristo sia lodata!) si convertirono subito al Cristianesimo.

Il cavaliere spergiuro giudicato lì per lì da Alla, fu ucciso per la sua indegna falsità. Costanza, tuttavia, sentì molta compassione della sua morte. Dopo questo miracolo Gesù, colla sua bontà, fece sì che il re Alla sposasse solennemente questa santa donna, così buona e bella, la quale per opera di Cristo divenne una regina.

Chi non gioì di questo avventurato matrimonio? Donegilda la madre del re, lei sola che era trista e malvagia. Il pensiero di quanto era avvenuto, spezzò il cuore maledetto di quella cattiva donna, la quale non voleva che il figlio, a suo dispetto, avesse preso per moglie una straniera che nessuno conosceva.

Ed ora, siccome non mi piace farla tanto lunga, vi risparmio la descrizione delle feste. Perchè dovrei stare a raccontarvi lo splendore con cui furono celebrate le nozze, e dirvi, per esempio, chi giunse primo nelle corse che ebbero luogo, e magari chi suonava la tromba e chi il corno? Tanto, si sa, le novelle finiscono sempre ad un modo: tutti mangiarono e bevvero allegramente, ballarono, cantarono, si divertirono, e gli sposi finalmente se ne andarono a letto.

E infatti anche i nostri sposi ci andarono, e ne avevano, d’altronde, tutto il diritto. È vero che il candore di una sposa è una cosa santa: ma, come si fa? Vien la notte in cui essa deve piegare la testa davanti a certe piccole necessità, che piacciono a chi le ha dato l’anello di sposa; e allora non c’è rimedio: per un poco bisogna mettere da una parte la santità.

Dopo qualche tempo Costanza rimase incinta, e Alla, dovendo andare a combattere contro la Scozia, affidò la moglie al suo Castellano e alle cure di un vescovo. La bella Costanza, la moglie umile ed affabile del re, andò innanzi con la sua gravidanza, finchè un giorno, aspettando il volere di Cristo, si mise in letto coi dolori.

Venne il momento, ed essa partorì un maschio che fu battezzato col nome di Maurizio. Il Castellano mandò subito un messaggio, e scrisse al re Alla, dandogli la fausta novella insieme ad altre notizie. Il messo prende la lettera, e se ne va per la sua strada.

E con la speranza di guadagnare qualche cosa, va in fretta e in furia dalla madre del re, e dopo averla salutata cortesemente, le dice: «Signora, potete bene essere felice e contenta, e ringraziare mille e mille volte Dio: la regina ha partorito un maschio, che senza dubbio sarà la gioia e la benedizione di tutto il regno.»

Ho qui la lettera sigillata che devo portare al re al più presto possibile: se desiderate qualche cosa per vostro figlio, io sono a vostra disposizione giorno e notte.» Donegilda rispose: «Per ora non ho bisogno di nulla: voglio solo, che tu passi qui la notte per riposare. Se avrò da darti qualche ordine, te lo darò domani.»

Il servo prima di andare a letto si bevve birra e vino senza discrezione, e mentre dormiva, briaco, gli fu rubata la lettera dalla tasca. Fu astutamente scritta un’altra lettera, imitando il carattere del Castellano, la quale dava al re una notizia ben diversa, come sentirete.

Questa lettera diceva dunque: «che la regina si era sgravata di una creatura così orribile e mostruosa che nessuno nel castello aveva il coraggio di guardarla solo per un momento. La madre che l’aveva partorita doveva essere certo una strega capitata là per qualche incantesimo o per qualche stregoneria, e nessuno la poteva soffrire.»

Il re provò un grande dolore, quando lesse questa lettera, ma non manifestò a nessuno la ragione del suo grave dispiacere, e rispose di proprio pugno: «Sia ben venuto per sempre ciò che Cristo ha mandato a me che professo ormai la sua dottrina. Signore, sia ben venuto il tuo volere, e ciò che a te piace: io sottopongo ai tuoi ordini ogni mio desiderio. Abbiate cura di questo fanciullo, bello o brutto che sia, ed anche di mia moglie finchè io ritorni; Cristo, ove gli piaccia, potrà mandarmi un erede che mi sia più caro di questo.» Egli suggellò la lettera, piangendo di nascosto, e la fece consegnare subito al messo il quale, senz’altro, se ne tornò via.

O messaggio briacone, il tuo respiro è affannoso, le gambe non ti reggono più e tu tradirai ogni segreto. La mente è svanita, tu balbetti come una gazza, il tuo viso ha cambiato colore. Quando c’è l’ubriachezza, non ci sono più segreti davvero.

O Donegilda, l’inglese nel quale io parlo non può descrivere la tua cattiveria e la tua tirannia: e perciò ti abbandono al tuo demonio, il quale penserà lui a far conoscere il tuo infame tradimento. E tu sei un essere umano? No, affè di Dio, io mento: tu sei uno spirito diabolico, io oso dire che sebbene tu cammini in questo mondo, l’anima tua è giù nell’inferno.

Il messaggio, dunque, si congeda dal re, e si ferma, anche al ritorno, alla corte della madre di lui, la quale ne fu molto contenta, e cercava soddisfarlo in tutto quel che poteva. Egli bevve, e si rimpinzò bene la pancia, e quindi cominciò a dormire e a russare, da pari suo, tutta la notte, fino a che si levò il sole.

Anche questa volta gli fu rubata la lettera del re, che fu sostituita da una contraffatta, nella quale il re domandava al Castellano, sotto la pena di impiccarlo per punizione, che non permettesse a Costanza di rimanere nel suo regno più di tre giorni e la quarta parte di una marea.

Aggiungeva che la mettesse, col bambino e con tutta la sua roba, nello stesso bastimento in cui era stata trovata, e la spingesse lungi da terra, ordinandole di non farsi più vedere.—O mia Costanza, ben doveva l’animo tuo sentir paura e soffrire sognando, allorchè Donegilda macchinò quest’infamia.

Il messaggio la mattina svegliatosi prese la via pel castello, e portò la lettera al Castellano, il quale quando la lesse non potè fare a meno di dire: «Ahimè, ahimè! Cristo Signor nostro, come può durare questo mondo con gente così piena di malvagità?

Dio possente, se questo è il tuo volere, poichè tu sei giudice infallibile, come puoi tu permettere che muoia l’innocenza, e la gente malvagia regni in prosperità?—O buona Costanza, ahimè, povero me, io debbo essere il tuo carnefice, o morire di una vergognosa morte, senza scampo.»

Tutti, giovani e vecchi, quando seppero che il re aveva mandato quella maledetta lettera, si misero a piangere: Costanza con la faccia pallida come quella di un morto, il quarto giorno si avviò verso il bastimento. E nonostante il suo dolore sopportò di buon animo il volere di Cristo, e inginocchiatasi sulla spiaggia, disse: «Signore, sia sempre ben venuto ciò che tu mi mandi.

Colui che mi salvò dalla falsa accusa mentre ero qui fra voi in questa terra, mi può proteggere dal male e dalla vergogna in mezzo al mare salato, sebbene a me non sia dato ora di vedere come potrà salvarmi. Ma Egli è ancora potente come è stato sempre, ed io ho fede in Lui e nella sua cara Madre. Egli è la mia vela e il mio timone.»

Il bambino le piangeva fra le braccia; allora lei inginocchiatasi, amorosamente gli disse: «Taci, figliolino mio, io non ti farò alcun male.» Indi si levò di testa il fazzoletto, e con quello gli coprì il viso, e cominciò a cullarlo tra le braccia, in fretta, levando gli occhi al cielo.

Poi disse: «Madre, vergine santa Maria, per colpa purtroppo della donna, il genere umano fu perduto e condannato a morte, e per questo il figlio tuo fu messo in croce. Gli occhi tuoi benedetti videro tutto il suo tormento: perciò non c’è paragone fra il tuo dolore e quello che qualunque donna può sopportare.

Tu ti vedesti uccidere il figlio davanti gli occhi: invece il figlio mio, il mio bambino, se Dio vuole, è ancora vivo: dunque, Vergine santa, a cui si raccomandano tutti gli addolorati, tu gloria di tutte le donne, tu Vergine bella, tu cielo di rifugio, tu splendida stella del giorno, abbi compassione del mio bambino, tu che col tuo cuore gentile senti pietà di ogni sofferente.»

Poi soggiungeva: «Povero bambino, ahimè! che cosa hai tu fatto, tu che fino ad ora, affè di Dio, non commettesti alcun peccato! Perchè il crudele tuo padre ti vuole morto? Oh, abbiate compassione, caro Castellano: lasciate che il mio bambino resti con voi; e se non osate salvarlo, almeno baciatelo una volta in nome di suo padre.»

E volgendo lo sguardo alla città disse: «Addio marito spietato!» Quindi si alzò, e camminò lungo la riva verso la nave, dove l’accompagnò tutta la folla. E sempre cercava di quetare il bambino, poi salutò tutti, e col pensiero di una santa benedì tutti e salì nella nave.

La nave fu caricata di viveri abbondantemente, e in modo che durassero per lungo spazio: ed altre cose necessarie di cui aveva bisogno le furono questa volta concesse, per favore di Dio. Infatti Dio onnipotente le mandò un aiuto e un tempo favorevole. Non posso dirvi se il vento la riconduceva a casa: ma il fatto è che la nave filava dritta a vele gonfie nel mare.

Subito dopo questo fatto, il re Alla ritorna al Castello, e domanda della moglie e del figlio. Il Castellano si sentì ghiacciare il sangue; e tosto raccontò tutto quello che era successo (voi lo sapete senza ch’io lo ripeta), e mostrò al re il suo sigillo e la sua lettera.

«Sire, egli disse, io ho fatto senza dubbio quello che voi mi comandaste di fare sotto pena di morte.» Allora fu messo alla tortura il messaggio, e costretto a confessare, e a dire recisamente e senza bugie, dove si era fermato a dormire notte per notte. Così a forza di indagini e accurate ricerche, si potè raccapezzare chi era stato la causa di tanto male.

Fu riconosciuta non so in qual modo la mano che aveva scritta la lettera, e tutto il veleno di questa opera infame. La fine però fu questa: il re Alla uccise sua madre, perchè aveva tradito la sua fede; così Donegilda andò a finire male come si meritava.

Il dolore al quale Alla si abbandonava notte e giorno, per la moglie e pel figlio suo, nessuna lingua può ridirlo. Ma ritorniamo a Costanza, che errò pel mare afflitta e addolorata, per cinque anni e più, come piacque a Cristo, prima di toccare terra.

Finalmente il mare la gettò insieme col figlio suo ai piedi di un castello pagano, di cui non ricordo il nome. Dio potente, che salvò tutto il genere umano, non li abbandoni ora che sono andati a cadere in mano dei pagani e stanno per lasciarci la vita.

Giù dal castello vengono molte persone a vedere il bastimento e Costanza: e poco dopo, una notte, scese giù anche il maggiordomo del padrone (Dio gli dia male), un ladrone che aveva rinnegato la nostra fede, il quale, entrato solo nella nave, disse a Costanza che voleva, ad ogni costo, essere il suo amante.

Così la povera donna cominciò da capo col dolore: il bambino suo piangeva, ed anche lei piangeva in modo da fare pietà. Maria benedetta allora le corse in aiuto, e per opera del suo forte volere e della sua potenza, il ladrone cadde improvvisamente dalla nave, ed affogò, per vendetta del cielo. In tal modo Cristo mantenne Costanza immacolata.

O sozzo desiderio della lussuria, ecco quale è la tua fine: tu non solo consumi la mente dell’uomo, ma ne distruggi anche il corpo. L’ effetto dell’opera tua, o per meglio dire, della tua cieca libidine, è triste: quanti uomini non per altra ragione che per essere caduti in questo peccato sono stati uccisi, od hanno fatto una brutta fine!

Questa povera donna, debole com’era, come poteva avere la forza di difendersi da se sola contro quel rinnegato?—O Golia, gigante smisurato, come potè annientarti Davide? Come potè egli, così giovane e senza armi, avere solamente coraggio di guardarti in faccia?—- Ognuno capisce bene che fu per grazia di Dio.

Chi dette a Giuditta il coraggio e l’ardire di uccidere Oloferne nella sua tenda, salvando dalla sventura il popolo di Dio? Io dico che, come Dio mandò loro forza e coraggio salvandoli dal male, così mandò forza e coraggio a Costanza.

Il suo bastimento, dunque, spinto dalle onde, si rimise in cammino, e uscì per lo stretto di Gibilterra e per Ceuta, andando sempre senza direzione ora ad Occidente ora a Nord e a Sud, e ora ad Oriente, per molti lunghi giorni, finchè la madre di Cristo (che sia sempre benedetta) pensò colla sua infinita bontà, di mettere un fine alle pene di Costanza.

Ma lasciamo andare per un poco Costanza, e torniamo all’Imperatore di Roma, il quale apprese, per mezzo di lettere dalla Siria, la strage del popolo cristiano, e l’obbrobrio fatto a sua figlia da una vile traditrice, voglio dire la maledetta infame Sultana, che alla festa aveva fatto uccidere tutti i cristiani fino ad uno.

Per questo fatto, dunque, l’Imperatore mandò subito uno dei suoi senatori con un seguito regale, e molti altri signori (Dio sa quanti) in Siria, a fare vendetta: e costoro infatti bruciarono, uccisero, e torturarono per quindici giorni di seguito il popolo di Siria e quindi, per non farla tanto lunga, si prepararono a tornare a Roma.

Mentre il senatore, ritornava vittorioso a Roma, veleggiando con gran pompa, s’imbattè nella nave, che scorreva pel mare, come già sapete, e nella quale stava tutta afflitta la povera Costanza. Egli ignorava chi essa fosse, e per quale ragione si trovasse in quello stato. E Costanza non volle dire nulla, a costo di morire.

Egli però la portò a Roma, e la consegnò col piccolo bambino alla moglie, con la quale ella visse per qualche tempo.

In questo modo nostra Signora la Madonna, levò di mezzo ai dolori la povera Costanza; e, come lei, può liberarne molte altre ancora. Per molto tempo dunque ella rimase in quel luogo, sempre dedicata alle opere pietose, come era suo piacere.

La moglie del senatore era zia di Costanza, ma non per questo la riconobbe. Io non voglio andare ancora molto per le lunghe, e ritornerò senz’altro al re Alla, del quale ho parlato molto prima, che ancora piange e si dispera per la moglie; lasciamo dunque Costanza sotto la protezione del senatore.

Il re Alla, che aveva ucciso la madre, fu preso un giorno da tale pentimento, che sentì il bisogno di andare a Roma per fare penitenza, umiliandosi al papa e pregando ardentemente Gesù Cristo di perdonargli il turpe misfatto.

Intanto corse la voce per tutta la città che Alla sarebbe venuto a Roma in pellegrinaggio; e la notizia si sparse per mezzo della sua gente che lo precedette per procurargli l’alloggio. Il senatore, saputo di questo arrivo, gli andò incontro a cavallo, come era uso, insieme con molti della corte, per mostrargli la sua alta stima, e per il rispetto dovuto ad un re.

Egli accolse con molta festa il re Alla, che se ne mostrò lietissimo, e tutti fecero a gara per onorarlo. Ora accadde, dopo qualche giorno, che il senatore andò, insieme col figlio di Costanza, ad una festa data al re Alla.

Alcuni dicono, che egli portasse con sè alla festa il bambino per preghiera di Costanza; io non posso accertare ogni particolare, ma, comunque sia, il fatto è che il bambino vi si trovò e che, sempre per desiderio di sua madre, durante il pranzo sedeva di fronte al re.

Il re Alla guardava con grande ammirazione il figliuolo di Costanza, e disse ad un tratto al senatore: «Di chi è quel bel bambino lì seduto?» «Io non lo so davvero per Dio e per S. Giovanni; ha la madre, ma non ha padre ch’io sappia.» E in poche parole raccontò ad Alla tutta la storia del fanciullo. «Dio sa, soggiunse il senatore, se io ho mai veduto in tutta la mia vita una creatura virtuosa come quella, o se ho mai sentito parlare in questo mondo di altre donne, ragazze, maritate o vedove, che avessero tanta virtù. Io sono sicuro che essa preferirebbe una coltellata nel petto, prima di venir meno all’onestà, al quale passo nessuno potrebbe indurla, a nessun costo.»

Il fanciullo somigliava alla madre quanto è possibile ad un figlio somigliarla: cosicchè il re Alla guardandolo rivedeva nella sua mente la sua Costanza, e con grande tristezza pensava se per avventura la madre del bambino non fosse la moglie sua. E di nascosto sospirando, ad un tratto si alzò da tavola per dare libero sfogo al suo dolore.

«Per bacco, egli pensava, mi viene in mente una cosa: è vero che io dovrei con ragione pensare che mia moglie fosse morta nelle acque del mare: ma chi sa che Cristo non l’abbia condotta qui, come prima, abbandonata in mezzo al mare, la condusse nel mio paese?»

La sera, dopo pranzo, Alla se ne andò a trovare il senatore, per esaminare un po’ meglio il suo caso meraviglioso. Questi, per fare onore ad Alla, dette una gran festa, e subito mandò a chiamare Costanza: ma ognuno capisce che la disgraziata non aveva certo voglia di ballare. E quando sentì che la volevano ad una festa, non ebbe più la forza di reggersi in piedi.

Alla appena la vide la salutò cortesemente, e non potè trattenere le lacrime dalla commozione, poichè al primo sguardo che gittò su di lei la riconobbe subito. Costanza, riconosciutolo, rimase muta come un albero, tanto il cuor suo fu sopraffatto dal dolore al pensiero della crudeltà con cui egli l’aveva trattata.

Due volte svenne davanti a lui che piangeva e cercava di giustificarsi dicendo: «Dio e tutti i santi del cielo abbiano pietà dell’anima mia, se è vero che io sono innocente, del male che tu soffristi, come Maurizio, il figliolino mio, che tanto ti somiglia. Se non è vero, il diavolo mi porti via subito di qui.»

Lungo fu il singhiozzare, e amaramente soffrirono tutti e due, prima che il loro cuore addolorato si calmasse. I loro lamenti e i loro pianti facevano pietà. Vi prego quindi di dispensarmi dal racconto di questa scena dolorosa, poichè per oggi io sono ormai stanco di cose tristi.

Finalmente riconosciutasi la verità e l’innocenza di Alla, moglie e marito si baciarono almeno un centinaio di volte, e tutti e due furono così felici, che la loro felicità è paragonabile solo alla gioia eterna del paradiso, che fino ad ora nessuno ha visto e goduto in questo mondo.

Costanza poi pregò il marito, in ricompensa della gran pena che le aveva innocentemente cagionato, a voler domandare, come speciale grazia, all’Imperatore che volesse degnarsi di desinare un giorno con loro; e lo pregò anche di non dirgli nulla di lei.

Alcuni dicono, che l’invito lo portasse al babbo di Costanza lo stesso Maurizio: ma io credo che Alla non fosse così sciocco da mandare un bambino ad un personaggio così grande, come colui che era il fiore dei cristiani. Però è più probabile che Alla vi andasse da sè.

L’Imperatore promise, gentilmente, di fare quanto il re Alla desiderava: ed io penso che egli guardasse con un certo interesse il piccolo Maurizio pensando alla sua Costanza. Alla intanto andò a far preparare tutto per bene e più inappuntabilmente che gli riuscì.

Venuto il giorno stabilito, Alla e sua moglie si prepararono per andare a ricevere l’Imperatore: e in gran festa e pieni di gioia uscirono a cavallo. Costanza, appena rivide, finalmente, suo padre che veniva nella via, saltò giù da cavallo e gli cadde ai piedi. «Babbo, diss’ella, la tua giovane Costanza, dunque, non la riconosci più, e l’hai dimenticata?

Io sono la figlia tua, la tua Costanza che tanto tempo fa tu mandasti in Siria; io sono colei che fu abbandonata in mezzo al mare, e condannata a morte. Ora, padre mio, per pietà non mandarmi più in nessuna città di pagani, e ringrazia questo signore, il quale è mio marito, della sua bontà.»

Chi può ridire la gioia di tutti e tre al loro primo incontro? Ma è ora che io venga alla fine della mia novella, giacchè il giorno passa rapidamente, ed io non voglio seccarvi più a lungo. Lasciamoli dunque, tutti a pranzo, felici e contenti mille volte più di quello che io potrei dire, e andiamo avanti.

Il piccolo Maurizio, in seguito, fu fatto Imperatore dal papa, e visse da cristiano, onorando devotamente la santa chiesa. Ma io non voglio occuparmi di lui: la mia novella racconta solamente di Costanza. La storia della vita di Maurizio, chi la vuole sapere, la può trovare nelle antiche Gesta Romanorum; io non me la ricordo più.

Il re Alla, quando gli parve opportuno, prese la via per l’Inghilterra con la sua buona e diletta moglie, e là vissero tranquilli e contenti. Ma, credete a me, la gioia di questo mondo dura poco: si cambia dalla mattina alla sera, come il mare.

Chi mai è vissuto, un giorno solo, in una felicità così completa, che per un momento non gli abbia turbato l’animo o l’ira, o un desiderio, o un altro stimolo qualunque come l’invidia, l’orgoglio, una passione, o una offesa? E tutto questo lo dico perchè appunto anche la gioia di Alla con Costanza non durò che poco tempo.

Poichè la morte che fa i conti con tutti ugualmente, grandi e piccoli, e da tutti, a scadenza fissa, riscuote il frutto e il capitale, dopo circa un anno (se io non erro) tolse da questo mondo Alla; di che Costanza ebbe grandissimo dolore. E giacchè Alla è morto, preghiamo Dio che voglia benedire l’anima sua. Costanza, per venire alla fine, se ne ritornò a Roma.

Dove questa santa creatura ritrovò tutti i suoi amici vivi e freschi; e finalmente fu salva da tutte le sventure. Ritornata dal padre, si gettò ai suoi piedi, piangendo di gioia, e lodando centomila volte Iddio.

Così vissero tutti santamente e pieni di misericordia, e non si separarono mai più fino a che non li divise la morte. Ed ora statevi bene, chè la mia novella è finita. E Cristo, che può mandare a noi la gioia dopo il dolore, ci abbia nella sua grazia, e ci protegga tutti quanti ci troviamo qui.

NOVELLA DEL CHIERICO DI OXFORD

▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪

PROLOGO

Signor chierico di Oxford, disse il nostro oste, voi cavalcate così zitto e vergognoso, che sembrate una sposina seduta a tavola: ancora non vi ho sentito aprir bocca. Sarete, m’immagino, dietro a qualche sofisma; ma ogni cosa a suo tempo, dice Salomone. Per l’amore di Dio! state un po’ più allegro; ora non è tempo di studiare. Su, raccontateci una novella che ci metta addosso un po’ d’allegria; quando si è in ballo bisogna ballare[1]. Però non uscite fuori con una predica, come quelle che fanno i preti in quaresima, da farci scontare tutti i nostri peccati; e guardate che la vostra novella non finisca per farci addormentare.

Raccontateci qualche piacevole avventura; le vostre frasi, i vostri fronzoli, e le vostre figure rettoriche, tenetevele in serbo per quando sarà il caso di fare dello stile sublime, come quando si scrive a qualche re. Per ora, ve ne prego, parlate in modo che noi possiamo intendere quello che dite.—

Il valente chierico rispose benignamente, e disse: «Signor oste, io sono sotto la vostra autorità; noi tutti siamo affidati alle vostre mani; perciò eccomi pronto, senza dubbio, ad obbedirvi in tutto quello che posso. Vi racconterò una novella che ho imparato a Padova da un’illustre letterato, parlatore e scrittore famoso, il quale ora, Dio gli dia pace, è morto e sotterrato. Questo letterato si chiamava Francesco Petrarca; ed era precisamente il poeta laureato che con la sua dolce parola irraggiò di poesia tutta l’Italia, come Liniano[2] la illustrò con la filosofia, la legge, ed altre scienze speciali; ma la morte che non vuole lasciarci stare in questo mondo per più di un batter d’occhio, li ha uccisi tutti e due; e tutti, come loro, dobbiamo morire.

Ora, perchè sappiate qualche cosa di questo brav’uomo che mi insegnò, come vi ho detto, la novella che vi voglio raccontare, vi dirò ch’egli (prima di cominciare a scrivere il suo racconto) detta in alto stile un proemio, nel quale descrive il Piemonte e la città di Saluzzo, e parla degli alti gioghi dell’Appennino che formano i confini occidentali della Lombardia; e più particolarmente poi, del Monviso dove il Po ha le sue origini, e d’onde scaturisce da una piccola sorgente, che camminando verso levante cresce e s’ingrossa, traversando l’Emilia, Ferrara, e Venezia; ma troppo lungo sarebbe tener dietro a questo proemio. E in verità io credo, che mentre al Petrarca servì per preparare il suo racconto, ora sarebbe una cosa fuori di proposito. Ma state a sentire la novella.

NOVELLA DEL CHIERICO DI OXFORD

PARS PRIMA

Proprio nella parte occidentale dell’Italia che rimane giù alle falde del freddo Monviso, si estende una rigogliosa e fertile pianura, dove si scorgono molte città e molte torri, fondate in tempi antichissimi dai nostri padri, e donde si godono molte deliziose vedute; Saluzzo è il nome di questa nobile terra.

Della quale fu già signore un marchese, che l’aveva avuta in retaggio dai suoi illustri antenati; tutti i cittadini, chi più e chi meno, erano obbedienti e pronti al suo comando: cosicchè egli visse felicemente e per lungo tempo, amato e temuto, in mezzo ai favori della fortuna, tanto dai nobili quanto dal resto della cittadinanza.

Questo giovane signore si chiamava Gualtieri, ed era, per parlare del suo lignaggio, la più nobile persona che mai fosse nata in Lombardia; bello e forte della persona, e pieno di dignità e di cortesia, si dimostrava assai savio nel governo del suo paese; se non che in una cosa era degno di biasimo.

Ed ecco perchè: egli non si dava il menomo pensiero di ciò che in avvenire sarebbe stato di lui, ma badava solo al piacere presente, che consisteva nell’andare uccellando col falco e nel cacciare di qua e di là senza curarsi d’altro, nè (ciò che era il peggio) volendo sapere, a nessun costo, di prender moglie.

Delle quali cose tanto si affliggevano i suoi cittadini, che un giorno si presentarono a lui in gran comitiva, e uno di loro, il più saputo (se non quegli dal quale Gualtieri più di buon grado avrebbe ascoltato il desiderio del popolo, o che, in fine, fosse più adatto ad esporre la cosa come stava), disse al marchese in questo modo:

«Nobile marchese, la vostra bontà ci rassicura e c’incoraggia, ogni volta che è necessario, a confessarvi il nostro malcontento: voglia dunque la gentilezza vostra permetterci di farvi un’umile preghiera, e non vi sdegnate di dare ascolto alle mie parole.

Sebbene io non abbia più degli altri il diritto di mischiarmi in questa faccenda, tuttavia per quel favore e quella grazia che mi avete sempre dimostrato, oso domandarvi udienza, per esporvi ciò che noi desideriamo; voi poi, signor mio, farete quello che crederete.

Or dunque, signore, sappiate che noi siamo così soddisfatti di voi, di quello che fate ed avete sempre fatto, che non sapremmo, davvero, immaginare noi stessi come vivere più felicemente: se non che, il vostro popolo riposerebbe più tranquillo, se voi vi mostraste disposto a prender moglie.

Piegate il collo a quel beato giogo, che non è servile ma sovrano, il quale gli uomini chiamano sponsali o nozze; e pensate, signore, fra le altre cose savie, che i giorni o in un modo o in un altro passano: chè il tempo non aspetta nessuno, e fugge via per chi dorme, per chi veglia, per chi viaggia, e per chi cavalca.

Sebbene siate ancora nel fiore della gioventù, pensate che la vecchiaia zitta e cheta c’entra in casa, e la morte tutti minaccia, tutti colpisce, di qualunque età, di qualunque condizione, senza che alcuno le possa sfuggire. Tutti siamo così sicuri di dover morire, come incerti del giorno in cui la morte ci colpirà.

Accettate dunque da noi, che vi abbiamo sempre obbedito in tutto e per tutto, il sincero consiglio; e se vi aggrada, noi stessi vi sceglieremo al più presto una degna moglie, fra la più eletta nobiltà di questa terra, e penseremo a far cosa che onori Dio e voi.

Liberateci da questo gran pensiero, e prendete moglie, per amor del cielo: chè se dovesse accadere, Dio non voglia, che la vostra discendenza si estinguesse con voi, e un successore straniero ereditasse il vostro regno, per noi, ahimè, sarebbe meglio la morte; perciò affrettatevi, ve ne preghiamo, a prender moglie.»

La rispettosa preghiera e il loro umile aspetto mosse a compassione il marchese. «Miei cari, egli disse, voi mi costringete a fare una cosa alla quale non avrei mai pensato. Io ho goduto fino ad ora una libertà che ben di rado si trova nel matrimonio; debbo farmi schiavo mentre prima ero libero.

Tuttavia io vedo la sincerità del vostro consiglio, ed ho fiducia (e sempre l’ho avuta) nella prudenza vostra: cosicchè di mia spontanea volontà acconsento ad ammogliarmi, più presto che sarà possibile. Ma in quanto alla profferta che oggi stesso mi fate di scegliermi la moglie, ve ne dispenso, e pregovi di non darvene pena.

Poichè Dio sa quante volte i figli crescono indegni del padre loro; la bontà è un dono di Dio; e non si eredita da chi ci ha generato e messo al mondo: io ho fiducia nella bontà di Dio, e perciò a lui affido il mio matrimonio, il mio stato, e tutto il resto; sia fatta la sua volontà.

Lasciatemi libero nella scelta della moglie; io solo voglio averne la responsabilità: voi invece, vi prego, assicuratemi, e giuratelo sulla vita vostra, che qualunque sia la donna che io prenderò per moglie, l’amerete, per tutta la sua vita, con le parole e coi fatti, qui e in qualunque luogo, come se fosse la figlia di un imperatore.

E dovete giurarmi inoltre, che non avrete nulla da ridire e da opporre alla mia scelta. Giacchè io per contentarvi sacrifico la mia libertà per tutta la mia vita, intendo di sposare quella che al mio cuore piacerà: ove non vogliate accettare queste condizioni, vi prego di non parlarmene più.»

Tutti fino ad uno assentirono e giurarono; pregandolo però, prima di tornarsene, a voler fissar loro un giorno determinato, e più vicino che fosse possibile, dentro il quale si sarebbero celebrate le sue nozze. Poichè altrimenti al popolo resterebbe ancora un po’ di paura, che il marchese non si dovesse risolvere ad ammogliarsi.

Egli fissò loro un giorno, a suo piacimento, nel quale immancabilmente sarebbe andato a nozze, dicendo di volerli anche in questa cosa contentare; ed essi inginocchiatisi pieni di umiltà e di rispetto, lo ringraziarono, e, ottenuto il loro intento, se ne ritornarono a casa.

Il marchese intanto ordina ai suoi funzionari di fare i preparativi per la festa; e ne commette l’incarico a quelli dei suoi più intimi cavalieri e signori della corte, a cui più gli piace affidarsi: i quali pronti ad ogni suo comando, mettono tutto il loro impegno per fare onore alla festa.

PARS SECUNDA

Non molto lontano dal bel palazzo nel quale il marchese faceva i preparativi pel suo matrimonio, sorgeva un ameno villaggio, dove alcuni contadini avevano i loro bestiami e la loro casa, vivendo di quello che con le loro fatiche ricavavano in gran copia dalla terra.

Fra questa povera gente viveva un uomo, il quale era ritenuto per il più povero di tutti: ma talvolta sopra una misera stalla di bovi l’Altissimo fa piovere la sua grazia; nel villaggio lo chiamavano Giannucole. Egli aveva una figliola molto bella, che si chiamava Griselda.

Ma per parlare di una bellezza piena di virtù, giacchè era la più bella che esistesse sotto la cappa del sole, costei era venuta su pura quanto si può essere: senza grilli pel capo; beveva più spesso al pozzo che al tino, e perchè amava la virtù sapeva bene che cosa fosse il lavoro, e non conosceva l’ozio.

Sebbene giovanissima, racchiudeva nel virginale suo petto un animo serio e forte: stava attorno al povero vecchio di suo padre con mille cure e mille tenerezze, menava a pascere pel campo un piccolo gregge, filando; insomma non si fermava che quando dormiva.

Spesso, tornando a casa, portava cavoli ed altre erbe, che tagliava e metteva a bollire per farci il suo desinare; poi rifaceva il suo letto, tutt’altro che soffice, e attendeva al padre con tutto l’amore e tutte le cure, con cui un figliolo può venerare il proprio genitore.

Già più di una volta il marchese aveva messo gli occhi sulla povera Griselda, che per caso incontrava nel recarsi, cavalcando, alla caccia: e allorchè la poteva spiare, non la guardava con ardente cupidigia, ma ne osservava il volto con una certa mestizia, considerando in cuor suo il carattere e la virtù di lei, non comuni, insieme con tanta bellezza, in una fanciulla così giovane. E sebbene comunemente non sia facile riconoscere la virtù, egli apprezzò bene la bontà di costei, e determinò che nessun’altra donna che Griselda sposerebbe, se mai dovesse prender moglie.

Arrivò il giorno stabilito per le nozze, e nessuno sapeva ancora chi doveva essere la sposa; di che molti si meravigliavano, e dicevano fra loro: «Che il signor nostro voglia persistere ancora nella sua ostinatezza? che non voglia più ammogliarsi? Ahimè! perchè ingannare se stesso e tutti noi in questo modo?»

Ma intanto Gualtieri aveva fatto fare per Griselda gioie ed anelli di pietre preziose legate in oro e lapislazuli; e avea fatto prendere la misura dei vestiti, e degli altri ornamenti necessarii pel giorno delle nozze, sulla persona di una giovanetta che aveva presso a poco la statura di Griselda.

Si avvicinavano le nove di questo stesso giorno, stabilito per lo sposalizio, e tutto il palazzo era preparato per la festa: sale e stanze, tutte erano addobbate come meglio si conveniva. Si vedevano camere piene di squisita roba da mangiare, in così grande quantità, da bastare per quanto durasse l’Italia.

Il marchese riccamente vestito, e con lui i gentiluomini e le dame che erano stati invitati alla festa, e tutti i cavalieri del suo seguito, si incamminarono, in mezzo a suoni di variata melodia, verso il villaggio del quale ho parlato.

Griselda nulla sapendo (e Dio n’è testimone) che tutta questa festa si faceva per lei, era andata a una fonte vicina a prendere l’acqua, e tornava allora in fretta; poichè aveva sentito dire che il marchese in quel giorno sarebbe andato a nozze; e voleva vedere qualche cosa.

Camminando, infatti, pensava: anch’io starò con le altre mie compagne sull’uscio di casa, a vedere la marchesa; ma bisogna che sbrighi in un batter d’occhio tutte le mie faccende: così se per andare al castello passerà di qui, potrò vederla con tutto il mio comodo.

Mentre stava per mettere il piede sulla soglia, Gualtieri le fu vicino, e cominciò a chiamarla; essa posò allora in terra la brocca sulla soglia della stalla lì accanto, indi si lasciò cadere in ginocchio; e così stette seria seria, finchè ebbe sentito che cosa voleva il marchese.

Il quale pensoso in sembianti le rivolse poche parole, e disse: «Griselda, dov’è tuo padre?» Ed essa con rispetto e tutta umile rispose: «È qui in casa, signore.» E senz’altro, entrò e chiamò il padre.

Gualtieri allora prese per mano il pover’uomo, e trattolo in disparte gli disse: «Giannucole, io non so nè voglio tenerti più a lungo nascosto un mio desiderio; se tu vi acconsenti, qualunque cosa possa succederne, io uscendo di casa tua porterò via con me tua figlia, e la terrò come mia moglie per tutta la sua vita.

So che tu mi vuoi bene e sei il più fedele dei miei sudditi; e son sicuro che sei pronto a volere tutto quel che a me piace: però rispondimi francamente a ciò che ti ho detto, cioè se sei disposto ad accettarmi per tuo genero.»

L’inaspettata domanda colpì talmente il pover’uomo, che fattosi rosso, e tutto confuso, non potè profferire che queste parole: «Signore, il vostro volere è il mio, nè io voglio cosa che a voi non piaccia; fate dunque, anche in questo, a modo vostro.»

«Allora, soggiunse il marchese dolcemente, andiamo con Griselda in camera tua; ch’io vo’ domandarle se è contenta di divenire mia moglie, e di stare con me. Tutto deve essere stabilito in tua presenza: io non dirò parola che non sia da te sentita.»

Mentre se ne stavano in camera per combinare la faccenda, come poi sentirete, la gente si faceva dentro, ed osservava meravigliata con quanta proprietà e quanta cura la fanciulla tenesse il padre suo; ma ben poteva meravigliarsi Griselda, che non aveva mai veduto succedere simil cosa.

Ed è naturale ch’essa rimanesse stupefatta, a vedere in casa sua un avvenimento così insolito; pel quale guardavasi attorno tutta pallida. Ma per farvela corta, ecco le parole che il marchese rivolse alla buona, sincera, ed onesta fanciulla.

«Griselda, sappi che tuo padre ed io abbiamo stabilito che tu divenga mia moglie; anche tu, credo, ne sarai contenta: ma prima voglio domandarti alcune cose, alle quali, poichè tutto si concluderà in fretta e in furia, bisogna che tu mi dica subito se acconsenti.

Sei disposta a fare di buon animo ogni mio piacere, per modo che io sia padrone, a mio capriccio, di farti ridere o soffrire, senza che tu ti risenta mai; senza che tu dica di no a quello che vorrò io, o te ne mostri adirata? Giurami questo, ed io concluderò qui stesso, con giuramento, la nostra unione.»

Piena di meraviglia all’inaspettata proposta, e tutta tremante per la paura, rispose essa: «Signore, io sono indegna dell’onore che voi volete farmi, ma il vostro volere è il mio: e vi giuro che mai di mia voglia io farò, o penserò, cosa contraria alla vostra volontà; anche se voi vorrete la mia morte, sebbene mi dispiaccia di morire, io non vi disobbedirò.»

«Basta così, Griselda mia» rispose Gualtieri; e sì dicendo, tranquillamente uscì sulla porta di casa seguito da lei, e disse al popolo: «Questa qui è la moglie che mi sono scelto; abbiatela in reverenza, e amate, vi prego, lei che vuole a me tanto bene. Non ho altro da dirvi.»

E perchè nulla della sua antica roba ella portasse nella casa maritale, ordinò che lì stesso la spogliassero, tutta, alcune dame del suo seguito. Le quali non furono molto liete di dover toccare le vesti che Griselda aveva indosso: ma nondimeno vestirono tutta di nuovo, da capo a piedi, la bella fanciulla.

Le ricomposero col pettine i capelli, che senza alcuna cura le piovevano sulle spalle, indi con le gentili mani le misero la corona in testa, e adornaronla con bei fermagli. Ma perchè farvi una storia solamente del suo abbigliamento? Il popolo a mala pena la riconosceva, tanta era la sua bellezza, così riccamente vestita.

Il marchese con un anello che all’uopo aveva portato la sposò, e fattala montare sopra un cavallo bianco come la neve, e di bella ambiadura, subito, in mezzo alla gioia del popolo che la accompagnava e veniva ad incontrarla, la menò al suo palazzo. Così passarono tutto il giorno, fino alla sera, in gran festa.

Or dunque, per affrettare la novella alla sua fine, tanto arrise il cielo alla nuova marchesa, che non pareva possibile che fosse nata e cresciuta fra mezzo a contadini, in una capanna o in una stalla di buoi; ma sembrava educata alla corte di un imperatore.

E a tutti era divenuta così cara, tutti avevano per lei una venerazione così grande, che quelli stessi del villaggio ov’essa era nata, i quali l’avevano veduta crescere d’anno in anno fino da bambina, non credevano più agli occhi propri, e avrebbero giurato che non era la figlia di Giannucole, tanto la trovavano diversa da quella di prima.

Per quanto fosse stata sempre virtuosa, acquistò subito un fare così squisito, dimostrò un’indole così buona e mite, così bei modi di parlare, tanta affabilità, e a tal segno seppe cattivarsi la stima e l’affetto di tutti, che chiunque la vedeva se ne innamorava.

La fama della sua bontà non si era sparsa solamente nella città di Saluzzo; anche in molti altri luoghi non si faceva che parlarne: e si divulgò tanto, che uomini e donne, giovani e vecchi, andavano apposta a Saluzzo per vedere Griselda.

Così Gualtieri con umile matrimonio, ma virtuoso e felice, viveva tranquillo nella pace domestica, e godeva il favore della sua gente: la quale vedendo com’egli avesse conosciuto tanta virtù nascosta sotto così povere vesti, lo stimava uomo savio, e raro.

Non solo alle faccende di casa rivolgeva Griselda tutte le sue cure, ma al bisogno sapeva anche provvedere alle pubbliche cose; non c’era discordia, rancore, o querela in tutta la sua terra, ch’essa non riuscisse a quietare e comporre prontamente.

Presente o lontano il marito, se gentiluomini o altre persone del paese venivano in lite, subito sapeva mettere la pace fra di loro; tale virtù e maturità di consiglio possedeva, e tanta equità di giudizio, che ognuno pensava che il cielo l’avesse mandata per il bene del popolo, e per correggere ogni errore.

Non trascorse lungo tempo dal giorno delle nozze, che Griselda dette alla luce una bambina; tutti avrebbero preferito un bambino; pure il marchese e i suoi sudditi furono lieti del parto. Giacchè sebbene Griselda avesse cominciato con una femmina, c’era tutta la possibilità, dal momento che non era sterile, che facesse anche un maschio.

PARS TERTIA

Or accadde, quando la bambina era ancora lattante, che a Gualtieri venne così vivo desiderio nell’animo, di tentare la fermezza di sua moglie, che non seppe liberarsi da sì strana voglia; e pensò, Dio sa quanto ingiustamente, di volerle fare grande paura.

Altre volte aveva messo alla prova Griselda, e sempre ne era rimasto soddisfatto; perchè dunque tentarla ancora, e sempre con più dure prove? Per quanto alcuni trovino da lodare, in ciò, un’alzata d’ingegno, a me sembra cosa molto crudele, tormentare senza ragione una povera moglie, con angosce e paure.

Ma ecco che cosa pensò di fare; una sera si presentò a lei, e mostrandosi serio e turbato nel volto, le disse: «Griselda, non avrai dimenticato, son sicuro, che un giorno ti tolsi dalla miseria, per farti diventare una nobile signora.

L’alta posizione nella quale ti ho messo, spero che non ti abbia fatto scordare, che io ti ho levato da una condizione molto bassa: devi ben ricordarlo. Fa attenzione, ora, alle mie parole, che nessuno sentirà, poichè siamo soli.

Tu sai, come ti dicevo, in qual modo sei venuta, or non è molto, in casa mia; non ostante a me sei carissima: ma non così, per altro, ai gentiluomini della mia corte. I quali dicono che è per loro gran vergogna e dispiacere, l’essere sudditi e dipendenti di una donna del volgo.

Da quando è nata la bambina, hanno incominciato a spargere queste voci; io desidero di vivere in pace con tutti, e non posso, quindi, fare a meno di esserne preoccupato. E son costretto a fare della figlia tua, non quello che piace a me, ma quello che vogliono loro.

Dio sa quanto mi costa il dirtelo: ma d’altra parte non voglio fare cosa senza che tu lo sappia, e voglio, anzi, che tu vi acconsenta. È giunto per te il momento di mettere in opera tutta la pazienza, che mi giurasti di avere il giorno stesso che sposammo in casa tua.»

Griselda non si scosse minimamente a queste parole, e tranquilla e serena (pareva che non se ne desse alcun pensiero), rispose: «Signore, come vi piace: io e la bambina siamo cosa vostra; e di ciò che è vostro voi potete fare quello che credete.

Purchè Dio salvi l’anima mia, non c’è nulla che a voi piaccia, che possa dispiacere a me. Nessuna cosa desidero di conservare, nessuna temo di perdere fuor che voi: questo è il proponimento che ho fatto, dal quale nè il tempo nè la morte potranno rimuovere l’animo mio.»

Gualtieri fu tutto contento della risposta della moglie, ma fece finta di essere arrabbiato; e stette tetro e pensieroso, finchè fu fuori della stanza. Quindi uscito di casa, e allontanatosi quasi un quarto di miglio, confidò tutto il suo disegno a uno scudiere, e tosto lo mandò dalla moglie.

Questi aveva dato prova più volte di grande fedeltà in affari di grave importanza, ed amava e venerava il suo signore: ma pur troppo questa gente deve prestarsi, qualche volta, anche al male. Secondo l’ordine ricevuto, adunque, si presentò zitto e cheto in camera di Griselda.

E le disse: «Signora, perdonatemi, ma io faccio una cosa alla quale sono costretto: voi che siete tanto savia, capite meglio di me che gli ordini del marchese bisogna eseguirli appuntino; crudeli e da biasimare quanto si voglia, ma è necessario obbedire. E così farò senz’altro.

Ho avuto ordine di prendere questa bambina,» soggiunse, e subito la prese con cattiva maniera, e prima di andarsene fece atto che dovesse ucciderla. Griselda sopportava tutto senza dir nulla: e timida come un agnello se ne stava tranquillamente a sedere, lasciando che il barbaro scudiere facesse tutto ciò che voleva.

Il cattivo nome e la faccia di quell’uomo le erano sospetti; la sua parola e il momento nel quale egli faceva tutto questo le mettevano paura: ahimè! la sua bambina, alla quale voleva tanto bene, glie l’avrebbe, certamente, fatta morire. Tuttavia senza un sospiro, senza una lacrima, si sottopose alla volontà del marchese.

Finalmente ruppe il silenzio, e tutta umile (come se avesse dovuto trattare con un vero gentiluomo) pregò il servo che le permettesse di baciare la sua bambina, prima che glie la facessero morire: e presala, con grande mestizia, in collo, le dette la sua benedizione; poi cominciò a cullarla fra le sue braccia, e a baciarla.

E le disse con affetto: «Addio, figlia mia, io non ti rivedrò più, ma poichè ti ho fatto il segno della croce, sarai benedetta dal Signor nostro, che morì, per noi, crocifisso: raccomando a lui l’anima tua, mia povera piccina, giacchè stanotte, per colpa mia, dovrai morire.»

Io credo, che neppure la pietà di una balia reggerebbe a vedersi portar via il bambino: pensi quindi ciascuno, che cosa avrebbe dovuto fare la misera madre, eppure, tanta era la sua fermezza, che tutto sopportò con pazienza, e disse a quell’uomo: «Eccovi, la bambina, prendetevela.»

E consegnandogli la piccina, soggiunse: «Andate, fate ciò che il signor mio vi ha comandato di fare; solamente fatemi questa grazia, se egli non ve lo ha proibito: sotterrate il suo corpicino, in qualche luogo, affinchè le bestie e gli uccelli non lo divorino.» Ma quegli, senza nemmeno rispondere, prese la bambina e se ne andò.

E recatosi dal marchese, gli raccontò per filo e per segno, in poche parole, quello che aveva detto e fatto Griselda; indi gli consegnò la bambina. Gualtieri provò un senso di compassione, ma non si mosse dal suo proposito, come quegli che voleva fatta la sua volontà.

Ordinò al suo scudiero di fasciare, di nascosto, e coprire adagino e con ogni cura la creaturina, e di metterla dentro una cesta o avvolgerla in una veste, senza che alcuno, pena la sua testa, scoprisse donde egli veniva, e dove andava.

La portasse, così nascosta, a Bologna, in casa della sorella di lui, ch’era allora contessa di Pavia; e mettendo costei a parte di tutto, la pregasse di allevare con ogni cura la bambina, senza mai dire, a qualunque costo, di chi fosse figliuola.

Questi andò, e fece, scrupolosamente, quanto gli era stato ordinato. Ma torniamo al marchese. Egli andava sempre fantasticando, se mai potesse capire dall’aspetto, o dalle parole della moglie, ch’ella fosse cambiata. Ma la trovava sempre ugualmente affabile e gentile.

La stessa bontà, la stessa dolcezza, la sua solita attività nelle faccende domestiche, lo stesso amore per lui: insomma, in tutto e per tutto era savia come prima. Non fece mai parola della sua bambina, e non si provò neppure a nominarla. Per grandi che fossero le sue pene e le sue sventure, non mostrò alcun cambiamento.

PARS QUARTA

Passarono così quattro anni, prima che Griselda di nuovo ingravidasse; ma questa volta, come a Dio piacque, fece al suo Gualtieri un maschio, che era un miracolo di grazia e di bellezza. Di ciò non solo il padre fu lietissimo, ma il paese tutto n’ebbe sì gran gioia, che levò preghiere di ringraziamento al Signore.

Il bambino aveva due anni, e già da qualche tempo era stato divezzato, quando un giorno venne l’estro al marchese, di tentare un’altra volta la pazienza della moglie. A inutile prova era messa, ahimè! ma i mariti son senza discrezione, quando trovano una poveretta che sopporta.

«Moglie mia, le disse un giorno, sai bene che il mio popolo è sempre stato scontento del nostro matrimonio: ma dal giorno che partoristi questo maschio, le cose sono andate di male in peggio; e corrono, ora, delle voci così brutte, che sono proprio sgomento, e sento sanguinarmi il cuore.

—Dunque (dicono tutti), morto Gualtieri, gli succederà il nipote di Giannucole, e lo avremo nostro signore?—Ora, non v’ ha dubbio che io debbo darmene pensiero: poichè, sebbene nessuno osi parlare in presenza mia, la cosa mi dispiace.

Io voglio, finchè è possibile, godere la mia tranquillità; perciò sono disposto assolutamente a fare del bambino ciò che ho fatto, di notte e senza che nessuno se ne sia accorto, della sua sorella. Te ne avverto, perchè la cosa riuscendo improvvisa, non debba esserti troppo dolorosa; cerca, dunque, di aver pazienza anche questa volta.»

«Vi ho detto, rispose Griselda, e sempre ve lo ripeterò, che io non voglio, e non vorrò mai, che ciò che a voi piace: io non mi risento, se per ordine vostro mi vengono uccisi i figliuoli. Rinunzio volentieri alla gioia che avrei avuto dalle mie due creaturine: come ho sofferto per averle, soffrirò per perderle.

Voi siete il signor mio; fate quello che vi piace, e non vi curate di me: con le mie povere vesti io ho lasciato a casa la mia volontà e la mia libertà; perciò potete fare quello che volete, sicuro che vi obbedirò.

Se io potessi leggervi nell’animo, vorrei soddisfare ogni vostro desiderio prima che voi parlaste: quando poi so che cosa desiderate, immaginatevi se faccio di tutto per contentarvi. Quando sapessi che vi fosse cara la mia morte, morirei ben volentieri, per farvi piacere.

L’amore che ho per voi è più potente della morte. «Il marchese vedendo la costanza della moglie, abbassò gli occhi, meravigliandosi che una donna potesse sopportare tutto questo; e con aspetto burbero, ma invece lieto in cuor suo, uscì.

Il solito omaccio si presentò a Griselda, e nello stesso modo col quale le aveva portato via la figliuola (e più crudelmente, se fosse stato possibile) le prese anche il bellissimo fanciullo. Sempre con la stessa pazienza, e senza scomporsi, essa lo lasciò fare, baciando il suo bambino, e benedicendolo.

E come aveva fatto la prima volta, pregò costui se nulla glie lo vietasse, di voler dare sepoltura alle tenere membra del suo piccino, che erano così graziose, affinchè non rimanessero preda di qualche uccellaccio, o di qualche brutto animale. Ma anche questa volta rimase senza risposta: chè quegli di niente curandosi, e secondo gli ordini ricevuti, prese il bambino e lo portò, con ogni cura, a Bologna.

Il marchese sempre più ammirava la pazienza di Griselda; e se non fosse stato più che sicuro, che essa voleva un gran bene ai suoi figliuoli, avrebbe creduto che fosse in lei, non fermezza d’animo, ma astuzia, malizia, e cattivo cuore.

Ma invece egli sapeva bene che Griselda, dopo di lui, nulla aveva così caro al mondo, quanto i propri figli. Ditemi voi, donne, per favore, se queste prove non sarebbero state sufficienti! Che cosa avrebbe potuto ancora immaginare la rigida ostinazione di un marito, per provare la virtù e la pazienza di sua moglie?

Ma c’è, pur troppo, certa gente, che quando si ficca in capo un’idea, non se la leva più, a nessun costo: così appunto, si era ostinato Gualtieri nel proponimento fatto, di tentare la pazienza e la costanza della moglie.

Teneva sempre d’occhio Griselda, per vedere se una parola, uno sguardo, rivelasse, in lei, qualche cambiamento: ma la trovava sempre dello stesso umore, e col suo solito aspetto. Anzi, ogni giorno che passava, essa si mostrava sempre più amorosa e più piena di cure per lui.

Di guisa che sembrava che avessero un sol volere in due; piacendo a lei tutto quello che piaceva a Gualtieri. E di ciò sia lodato il Signore: giacchè così doveva essere per il bene di tutti. Pareva che i suoi affanni non fosser suoi; non aveva altra volontà che quella del marito.

Ma un bel giorno si cominciò, da per tutto, a parlare delle stranezze di Gualtieri; e a mormorare ch’egli crudelmente aveva fatto uccidere, di nascosto, i suoi bambini, pentito di avere sposato una povera contadina. Nessuno sapeva che tutti e due erano vivi.

E queste voci fecero sì, che mentre prima tutti lo amavano, cominciarono a non poterlo più vedere, sotto l’orribile accusa di assassino. Non ostante questo, egli non abbandonò, nè punto nè poco, il suo proponimento, di mettere ancora alla prova la moglie.

Allorchè la sua bambina ebbe compiuto il dodicesimo anno, mandò un suo ambasciatore alla Corte di Roma (che aveva prima informata del suo disegno), perchè gli procurasse in qualche modo delle carte, che dovevano servire al suo crudele scopo; dalle quali risultasse che il papa gli permetteva, per ristabilire la pace nel popolo di Saluzzo, di sposare un’altra donna.

Ordinò, insomma, che si falsificasse una bolla papale, nella quale si dicesse ch’egli era libero di abbandonare la prima moglie, col permesso del papa, per far cessare i malumori che erano nati fra lui e i suoi sudditi. La bolla, in questi termini precisi concepita, fu tosto pubblicata.

Il popolo, ignorante com’è, vi credè subito; Griselda ne fu, c’è da immaginarselo, addoloratissima: ma ormai con la sua solita pazienza, la poveretta era disposta a sopportare in pace l’avversa fortuna.

Le bastava di sapere sempre contento colui, al quale aveva dato il suo cuore, e tutta se stessa. Ma per farvela corta, il marchese, intanto, scrisse una lettera, in cui esponeva tutto il suo disegno; e di nascosto la spedì a Bologna al conte di Pavia, marito di sua sorella, pregandolo vivamente di riportargli, con gran pompa, i suoi due figliuoli; senza dire ad alcuno chi fosse il padre loro.

Dicesse, invece, che la fanciulla doveva sposare il marchese di Saluzzo. Così, infatti, fece il conte di Pavia; e verso sera si mosse, con gran seguito di cavalieri, alla volta di Saluzzo, per scortare la fanciulla; accanto alla quale cavalcava il giovine fratello.

La bella giovinetta, tutta adorna di pietre preziose, era vestita come se andasse veramente a nozze; anche il fratello, un fanciulletto di sette anni, era riccamente vestito e tutto elegante. Così in gran pompa e con gran festa cavalcando, si avvicinavano, di giorno in giorno, a Saluzzo.

PARS QUINTA

Intanto Gualtieri, persistendo nel suo crudele proposito di sottoporre a un’ultima e più dura prova la moglie, per essere pienamente sicuro ch’ella fosse sempre paziente come prima, un giorno, in presenza di tutti, le disse risentito:

«Griselda, io sono stato contentissimo, senza dubbio, di averti sposato, per la tua bontà, per la tua fedeltà, e per la tua obbedienza: non così però pel casato che porti, e per la tua dote. Ho dovuto convincermi, s’io non m’inganno, che la nobiltà e la potenza hanno pur molte schiavitù.

Io non posso fare come un bifolco qualunque: i miei sudditi mi costringono a prendere un’altra moglie, e il papa stesso lo permette, perchè tutto torni in pace. Ti dico dunque sinceramente, che la mia nuova moglie è già in viaggio.

Fatti coraggio, e lasciale il suo posto; ti concedo, come grazia, di riprenderti tutta la dote e tutta la roba che mi hai portato. Ritorna alla casa di tuo padre, e pensa che in questo mondo non si può sempre essere contenti. Io, per conto mio, non posso fare altro che consigliarti a sopportare di buon animo i capricci della fortuna.»

Ed essa con la sua solita pazienza rispose: «Signor mio, io lo sapevo benissimo, e sempre lo pensavo, che la mia povertà non poteva stare accanto alla vostra ricchezza; e non mi sono mai creduta degna di essere, non dico la moglie vostra, ma neppure la vostra cameriera.

E Dio può essere testimone, per l’anima mia, che io in questa casa, della quale voi mi avete fatto signora, non mi sono mai considerata nè signora nè padrona, ma sempre umile serva vostra; e tale sarò più di ogni altro finchè il cielo mi darà vita.

Della bontà che avete avuto, di tenermi per così lungo tempo in tanto onore e in tanta nobiltà; mentre io ne ero indegna, ringrazio Dio e voi, pregando che siate ricompensato. E senz’altro me ne ritorno, volentieri, a casa di mio padre, per rimanere con lui finchè vivrò.

Là ho vissuto bambina, e sono cresciuta; e là finirò, vedova e senza altri affetti, la mia vita. Poichè dal momento che ho dato a voi la mia gioventù, e sono la vostra legittima moglie, Dio mi guarderà bene dal prendere un altro marito.

Il Signore possa concedervi fortuna e prosperità con la vostra nuova moglie, alla quale io cedo, di buon animo, il mio posto, dove sono stata sempre felicissima. Giacchè vi piace che la mia felicità sia finita, e che io me ne vada, me ne andrò quando vorrete.

In quanto alla concessione che mi fate, di lasciarmi andar via con la dote che vi ho portato, capisco bene che voi intendete parlare dei miei poveri panni, che non erano niente di bello davvero: ma non ostante ben difficilmente io potrei ora ritrovarli. Buon Dio! eravate così cortese e gentile il giorno del nostro matrimonio!

Ma è ben vero quel che si dice (lo so per prova):—amore non è mai tanto vecchio, come quando è nuovo.—Siate sicuro, però, signor mio, che per amor vostro non mi sarebbe grave neppur la morte: e non sarà mai che io mi penta, in alcun modo, di avervi dato, con me stessa, tutto il mio cuore.

Vi ricorderete, signor mio, che prima di condurmi in casa vostra, mi faceste strappare di dosso le mie povere vesti, e mi regalaste voi stesso degli abiti ricchissimi; quindi io non vi portai altra dote, senza dubbio, che la mia fedeltà, la mia povertà, e la mia gioventù. Eccovi i vostri abiti e il vostro anello: ve li restituisco per sempre.

Tutte le altre gioie, posso assicurarvelo, sono in ordine in camera vostra. Io uscii nuda dalla casa di mio padre, ed è giusto che vi ritorni nuda. Son pronta a fare tutto ciò che volete: ma spero che non vorrete farmi uscire di casa vostra senza camicia.

Voi non farete una cosa tanto indegna, e non permetterete che io, tornandomene a casa, mostri nudo il corpo, che ha creato i vostri figli. Non vogliate, per pietà, cacciarmi nella strada come un cane: pensate che per quanto indegnamente, io sono stata la moglie vostra.

In ricompensa della verginità che pur vi ho portato, e non mi è concesso riportar via, lasciatemi almeno la camicia che ho indosso; affinchè possa coprirne il corpo di colei, che fu vostra moglie: ed ora, signor mio, me ne vado, perchè non vi abbiate a seccare.»

«La camicia che hai indosso, rispose Gualtieri, lasciatela pure, e portala via con te.» E tosto uscì dalla stanza, perchè la pietà e la compassione gli impedivano quasi di parlare. Griselda lì stesso si spogliò, e in camicia, scalza e senza niente in capo, s’incamminò verso la casa di suo padre.

La gente la seguiva, con le lagrime agli occhi, lungo la via, e imprecava, andando, al destino. Ma essa non piangeva e non parlava. Il padre, che ne fu subito avvisato, malediva il giorno e l’ora in cui egli era venuto al mondo.

Il povero vecchio aveva sempre sospettato di questo matrimonio; e pensò sempre, fin da principio, che il marchese, soddisfatto il suo capriccio, avrebbe considerato la sconvenienza di essere sceso così in basso, e un bel giorno all’improvviso l’avrebbe mandata via.

Avendo sentito che la sua figliuola ritornava a casa in camicia, in fretta in fretta le andò incontro, portando seco la vecchia veste che essa aveva lasciato, e piangendo amaramente, cercava di coprirla, alla meglio, con quella; ma non potè mettergliela indosso: che era troppo mal ridotta pel molto tempo trascorso, dal giorno che Griselda era andata a nozze.

Questo fiore di vera pazienza, ritornata per qualche tempo col padre suo, in tal modo si diportò, che mai, nè in presenza d’altri nè sola, mostrò di sentirsi offesa; e non disse mai parola, non fece mai cenno, che ricordasse il suo antico stato.

E non c’è da meravigliarsene, poichè in mezzo alla nobiltà e alle ricchezze si mostrò sempre umilissima: ghiottonerie, raffinatezze, lusso, magnificenza, non seppe mai che cosa fossero. E fu sempre buona, paziente, modesta, rispettosa, e sempre sottoposta e obbediente al marito.

Tutti parlano di Giobbe e della sua pazienza, perchè i dotti scrivono degli uomini quello che vogliono; ma in realtà, per quanto ai dotti piacciano poco le donne, non c’è uomo che abbia la pazienza di una donna; ed è un caso proprio raro, trovare uno che abbia solo la metà della costanza femminile.

PARS SEXTA

Il conte di Pavia giungeva ormai da Bologna, e già si era sparsa da per tutto la notizia del suo arrivo: e tutti sapevano, anche, ch’egli portava con sè la nuova marchesa di Saluzzo, con una pompa così splendida, che nessuno aveva mai visto l’uguale in tutto l’occidente della Lombardia.

Gualtieri che aveva preparato tutto questo, e sapeva tutto, prima che arrivasse il Conte, mandò a chiamare la povera e semplice Griselda, che subito venne, ed umile e con volto sereno, senza alcun rancore nell’animo, s’inginocchiò davanti a lui, salutandolo rispettosamente e con bel garbo.

«Griselda, le disse egli, io voglio che la giovinetta che dovrà essere unita in matrimonio con me, domani sia ricevuta in casa mia più splendidamente che sia possibile: e desidero che ognuno, secondo il suo grado, sia trattato e servito come si deve, e in modo da restarne soddisfatto.

Certamente le donne che ho non mi bastano per mettere in ordine le stanze a modo mio; perciò vorrei che a tutto questo ci pensassi tu, che sai da molto tempo, come io voglio fatte le cose. Il tuo abbigliamento è brutto e poco conveniente, ma non vuol dir nulla, purchè tu faccia il tuo dovere.»

«Signore, rispose Griselda, io non solo sono contenta di fare cosa grata a voi, ma desidero di servirvi sempre con tutta la mia volontà, in quello che posso: e non mai, per nessuna ragione, cesserò di amarvi con tutta la sincerità e tutta la passione dell’anima mia.»

Ciò detto cominciò ad ornare la casa, a preparare le tavole, e rifare i letti, e con tutto l’impegno cercò di fare del suo meglio; raccomandandosi ai servi che per lo amore di Dio facessero presto, e senza perder tempo spazzassero e spolverassero. E lei stessa dandosi da fare più di tutti, mise in ordine le stanze e la sala.

Verso le nove il conte di Pavia, arrivato coi due ragazzi, scendeva con essi da cavallo, e tutti correvano a vedere il loro ricco e splendido abbigliamento: e dicevano che Gualtieri non l’aveva pensata male a cambiare moglie, giacchè il cambio non era cattivo.

Questa, secondo il giudizio di tutti, era più bella e più giovane di Griselda, e avrebbe messo al mondo dei figliuoli più belli e più cari a tutti per l’alto suo lignaggio. Anche il fratello che l’accompagnava era così bello che tutti lo guardavano con piacere, approvando la risoluzione di Gualtieri.

«O popolo irrequieto, incostante e sempre infido, scontento e volubile come una banderuola, sempre amante del torbido e del nuovo! Tu fai come la luna che cresce e cala: sempre largo di applausi che non valgono un soldo; il tuo giudizio è falso, la tua costanza non regge alla prova, ed è un gran pazzo chi si affida a te.»

Così dicevano alcuni assennati cittadini, guardando meravigliati la gente che correva di qua e di là, tutta contenta solamente all’idea di avere una nuova signora. Ma torniamo a dire di Griselda, e della sua pazienza.

Essa era tutta affaccendata a preparare per la festa, e senza punto vergognarsi delle sue povere vesti, che in qualche posto erano anche stracciate, corse insieme con gli altri alla porta, allegra e contenta, a salutare la marchesa; poi se ne ritornò alle sue faccende.

Con tutta serenità di animo riceveva gli ordini di Gualtieri, e con tanta sollecitudine li eseguiva, che non c’era mai nulla da ridire; e tutti si meravigliavano come mai potesse essere vestita tanto poveramente, mentre dimostrava un fare così nobile e tanta educazione; e non potevano fare a meno di lodare la sua virtù.

Griselda intanto non finiva mai di ammirare, con tutta la schiettezza dell’animo suo, la giovinetta e il fratello; e le lodi che ne faceva erano così sincere, che tutti le trovavano giuste. Finalmente, giunta l’ora di andare a tavola, Gualtieri fece chiamare Griselda, che era tutta affaccendata nel salotto.

E le disse, quasi motteggiando: «Griselda, che te ne pare di questa mia nuova moglie; è bella?» «È bellissima, signor mio, rispose: in fede mia io non ho mai visto un’altra più bella di lei. Dio possa farvi felici e contenti per tutta la vita.

Ma una cosa vorrei chiedervi e consigliarvi: non fate soffrire, coi tormenti che avete inflitto a me, anche questa giovinetta; essa è abituata più delicatamente, e forse non potrebbe sopportare la sventura, come una disgraziata cresciuta nella miseria.»

Gualtieri, conosciuta ormai la pazienza, la serenità, e la semplicità di Griselda, e convinto che per quanto egli faceva la poveretta, con la sua solita innocenza, obbediva senza ribellarsi, cominciò a sentire compassione di tanta femminile fermezza.

«Basta, Griselda mia, egli disse, lascia ogni dolore, e sii alfine ricompensata; tu mi hai dato prova che la tua fedeltà e la tua bontà, in qualunque condizione tu sia, sono quali nessun’altra donna ebbe mai; vedo bene, cara moglie, quanto è grande la tua costanza.» E stringendola fra le braccia, cominciò a baciarla.

Griselda, mezza trasecolata, non sentiva e non raccapezzava più nulla: le pareva come di destarsi, ad un tratto, da un lungo sonno; fin che a poco per volta, si scosse dal suo stupore. «Griselda, soggiunse Gualtieri, per quel Dio che morì per noi, ti giuro che tu sei la moglie mia; e che io non ne ho, e non ne ho mai avuta (salvi il Signore l’anima mia, se è vero) nessun’altra.

Questa che tu hai creduto mia moglie, è la tua figliuola; questo fanciullo è il mio vero erede, l’una e l’altro sono frutto del nostro amore: io li ho fatti allevare a Bologna, nascostamente. Riprendili con te, che non hai perduto nessun dei due.

Sappiano coloro che mi hanno accusato, che io non ho fatto questo a fine di male, o per crudeltà, ma solamente per conoscere la tua virtù: sappiano che io non ho fatto uccidere (Dio me ne liberi) i miei figliuoli, ma li ho tenuti nascosti, per poter conoscere il tuo carattere e la tua volontà.»

Griselda sentendo questo, venne meno dalla commozione e dalla gioia, indi riavutasi un poco, chiamò a sè i suoi figliuoli, e in gran pianto li abbracciava, e li baciava, con quella tenerezza che è propria di una madre, bagnando loro di amare lagrime, il volto e i capelli.

Oh scena veramente pietosa, vederla cadere priva di sensi, e sentire la sua voce sommessa! «Grazie, diceva al marito, grazie, signor mio: Iddio possa ricompensarvi di avermi lasciato i miei figliuoli; or non mi curo più di morire, poichè mi è ridonato il vostro affetto e il vostro amore. Nessuna morte mi fa paura.

Cari, teneri, bei figliuoli miei, la vostra povera mamma vi aveva creduti morti, divorati da rabbiosi cani o da qualche brutto animale; ma Dio misericordioso, e il vostro amoroso babbo, vi hanno lasciati a me.» E sì dicendo cadeva di nuovo in abbandono.

E abbracciando nel deliquio i suoi figliuoli, con tanta passione li stringeva, che ci volle del buono e del bello, per levarglieli dalle braccia. Quante anime pietose, in quel momento, dovettero piangere di compassione! quanti furono costretti a farsi forza, per poter rimanere vicino a Griselda!

Mentre Gualtieri cercava di calmarla e di farle dimenticare il suo dolore, essa si alzò tutta confusa; e in mezzo alla gioia e alle feste di tutti ritornò in sè. Fu allora una cosa, davvero, commovente, vedere i modi affettuosi di Gualtieri, e la felicità che dimostravano tutti e due, per essere ritornati insieme.

Le dame di corte le furono subito attorno, e la portarono in camera; e spogliatala dei suoi poveri panni, le misero indosso un vestito tutto d’oro che risplendeva come il sole. Indi con una corona di pietre preziose in testa, la condussero nella sala, dove tutti con grande onore l’ossequiarono.

Così finì in mezzo alla gioia questo pietoso giorno; e ognuno fece del suo meglio per passarlo più lietamente che fosse possibile, fin che le stelle cominciarono a brillare in cielo. Tutti trovarono questa festa più bella e più splendida, di quella con la quale era stato celebrato il matrimonio di Griselda.

Molti e molti anni felici passarono insieme Gualtieri e Griselda, sempre d’amore e d’accordo; e Gualtieri, maritata la figlia a uno de’ più ricchi e nobili signori d’Italia, prese con sè alla sua corte il vecchio Giannucole, perchè vi passasse tranquillo e contento il resto della sua vita.

Morto Gualtieri, gli successe il figlio, il quale regnò in mezzo alla pace e alla concordia; e fu fortunato nel suo matrimonio, anche senza sperimentare la pazienza di sua moglie. Oggi il mondo non è più quello di prima. Al quale proposito sentite che cosa dice l’autore della novella.

Questa novella non è raccontata per mostrare che le mogli dovrebbero avere la pazienza di Griselda, poichè non basterebbe tutta la loro volontà per riuscirvi: ma per far vedere che ciascuno, nella propria condizione, dovrebbe, come Griselda, saper sopportare fermamente la sventura. Solo per questo dettò il Petrarca, in alto stile, la sua novella.

Chè se Griselda ebbe tanta pazienza con un uomo, tanto più noi uomini dobbiamo sopportare in pace quello che ci viene da Dio. Il quale ha tutto il diritto di sperimentare ciò che ha creato; e non tenta, infatti, come dice S. Giacomo nella sua epistola, se non gli uomini ch’egli ha messo al mondo; e tutto il giorno, senza dubbio, ne mette alla prova qualcuno.

Egli ci affligge colle più grandi sventure, per abituarci alla sofferenza, e per farci, in qualche modo, migliori. Nè lo fa, certamente, per conoscere la volontà nostra; poichè la nostra debolezza gli è nota prima che noi veniamo al mondo. Giacchè adunque tutto egli fa pel nostro bene, viviamo per sopportare virtuosamente.

Ed ora, signori miei, un’altra parola e ho finito: sarebbe ben difficile, oggi, trovare in tutta una città due o tre donne che avessero la pazienza di Griselda; poichè l’oro del quale esse rilucono, è di così cattiva lega, che messo alla prova si spezzerebbe subito in due parti.

E giacchè è così, io, per amore della donna di Bath[1] (che Dio salvi lei e tutta la sua discendenza, poichè la sua morte sarebbe una gran perdita), vi dirò allegramente, e con tutta la mia vena, una canzone che vi metterà, se non m’inganno, di buon umore. Lasciamo, dunque, ogni argomento serio, e state a sentire la mia canzone, che incomincia così.

Griselda è morta, e con lei anche la sua pazienza: l’una e l’altra giacciono sepolte in Italia: perciò, lo dico a tutti, a nessun marito venga in mente di sperimentare la pazienza di sua moglie, nella speranza di trovarla una Griselda: chè certamente resterebbe deluso.

E voi, signore mogli, se siete davvero prudenti, non lasciate che l’umiltà vi inchiodi la lingua: e non fate che un letterato debba scrivere anche di voi una storia così meravigliosa, come quella della buona e paziente Griselda; altrimenti finirete in bocca a Chichevache[2].

Fate come l’eco, che ha sempre pronta la risposta: guardate di non essere vittime della vostra innocenza, e sappiate farvi valere con energia: questa lezione, imparatevela a mente pel bene vostro, giacchè potrà esservi utile.

Se la vostra condizione è tale da rendervi forti al pari di un cammello, difendetevi, e non sopportate offese. Se siete deboli per sostenere la battaglia, mostrate i denti come una tigre delle Indie: e strepitate, ve lo consiglio, come un buratto.

Non abbiate paura del marito, non vi lasciate imporre: anche s’egli sarà chiuso in un’armatura di ferro, la punta della vostra aspra parola gli passerà il petto e anche la testa. Lo volete mansueto come un agnello? Stringetelo nei nodi della gelosia.

Se siete belle, mostratevi in società, e fate sfoggio dei vostri abbigliamenti; chi è brutta, sia di manica larga, e cerchi di farsi delle amicizie. Non vi abbandoni mai il buon umore: lasciate che il marito si secchi, pianga, si arrabbi, e brontoli a piacer suo.

NOVELLA DEL MERCANTE D’INDULGENZE

▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪

PROLOGO

Il nostro oste si mise a gridare come un matto: «Capperi! Per i chiodi della croce, e pel sangue del nostro Signore, che razza d’imbroglione era quel giudice! Potessero morire arrabbiati i giudici come quello, insieme con tutti i loro avvocati! Insomma quella povera innocente fu ammazzata[1]! La pagò salata la sua bellezza. Ma non lo dico sempre io? I doni del caso e della natura tutti i giorni costano la vita a qualcheduno. Fu proprio la sua bellezza che l’ammazzò, non c’è che dire. Poverina! Che brutta fine fece! S’ha un bel dire: quei doni che dicevo dianzi, sono più un male che un bene.

Padron mio carissimo, la tua è stata davvero una pietosa storia. Basta, non c’è che fare: tiriamo avanti. Dunque, caro dottore, io prego Dio che ti conservi la salute, e protegga, insieme col tuo Ippocrate e il tuo Galeno, anche le tue boccette d’orina e i tuoi barattoli. Prego Dio e Maria Vergine che s’abbiano in gloria tutte le tue scatole di pillole. La mia osteria faccia affari d’oro, quant’è vero che tu sei una persona proprio come si deve, e alla pari di un prelato, per S. Roniano[2].

Dico bene! Compatiscimi, sono un povero oste, e parlo come so: volevo dire, insomma, che la tua novella mi ha fatto proprio male. Mi sento un non so che qui al cuore. Corpus Domini, se non ci rimedio con un buon bicchiere di birra, e se qualcuno non racconta subito una novella un po’ più allegra, va a finire che mi viene il crepacuore per quella povera ragazza. Mio bel amy, mercante di indulgenze, questa volta tocca a te. Da bravo: raccontaci qualche barzelletta che ci metta un po’ di allegria.»

«Subito, per S. Roniano. Ma prima permettetemi di bere, a questa birreria, un bicchiere di birra e di mandar giù un boccone di schiacciata.»

«Oh, intendiamoci, signor mercante: non vogliamo sentir sguaiataggini. Vogliamo un po’ di morale: una novella dalla quale si possa imparare qualche cosa. Allora sì che staremo tutt’orecchi.» «Va bene (rispose), vi contenterò: lasciatemici pensare mentre bevo.»

NOVELLA

DEL MERCANTE DI INDULGENZE

Signori (cominciò egli a dire), dovete sapere, prima di tutto, che io, quando predico in chiesa, cerco di farmi sentire più che posso, e la mia parola vibra piena e sonora, come una campana; perchè oramai quello che dico lo so tutto a memoria. L’argomento delle mie prediche è, ed è sempre stato, questo qui: radix malorum est cupiditas.

Appena salito il pulpito, comincio col dire ai miei fedeli da qual luogo vengo: poi faccio vedere che ho tutte le mie carte in regola, e che la mia patente porta il bollo del nostro augusto sovrano. Lo faccio, s’intende, per salvarmi le spalle, caso mai qualche chierico si credesse di potermi disturbare nella sacra funzione di Cristo. Quindi vuoto il sacco delle mie solite storielle. Tiro fuori bolle di papi, di cardinali, di patriarchi e di vescovi, borbottando ogni tanto qualche parola in latino, perchè la mia predica sia più saporita, e induca più facilmente gli uomini alla devozione. Poi metto fuori i miei scatoloni di vetro pieni di stracci e d’ossa, che passano per reliquie. Prendo in mano un mozzicone di metallo a forma di scapola, e battezzandolo per la spalla di una pecora che appartenne ad un giudeo divenuto santo, comincio a dire: «Buona gente, fate attenzione alle mie parole. Vedete quest’osso? Chiunque di voi ha una vacca, un vitello, una pecora, un bue, con la pancia gonfia per aver mangiato, nell’erba, qualche verme velenoso o per esserne stato morso, basta che tuffi quest’osso in una fonte e lavi la lingua alla sua bestia con un po’ di quell’acqua, e la bestia è bell’e guarita. Ma questo è poco: qualunque persona beverà a quella fonte, guarirà subito del vaiolo, della tigna, e di ogni altra malattia. State bene attenti, che non è mica finito!

Se chi ha del bestiame, tutte le settimane prima che il gallo faccia chicchirichì beve, a digiuno, un sorso di quell’acqua miracolosa, in capo all’anno avrà le stalle piene ed i granai zeppi. E queste non sono frottole: fu quel santo giudeo che l’insegnò ai nostri nonni. Finalmente, signori, quell’acqua ha un’altra virtù: è un rimedio contro la gelosia. L’uomo per natura più pazzamente geloso bevendo di quell’acqua non avrà mai alcun sospetto della moglie, quand’anche sia sicuro che lei quel difettaccio ce l’ha. Lascerà che essa bazzichi magari due o tre fratacchiotti, senza farci nemmeno caso.

Però vi debbo avvertire di una cosa: se per caso qui fra voi c’è qualcuno che ha sulla coscienza uno di quei peccatacci che la vergogna impedisce di confessare; se fra quante siete qui giovini e vecchie c’è qualche cattiva moglie che ha fatto al marito ... quel brutto scherzo, se ne può andare. Poichè a gente come quella io non permetto di venire qua a fare offerte alle mie reliquie. Chi ha la coscienza tranquilla si faccia pure avanti, e venga su ad offrire nel nome di Dio, che lo assolverò di tutti i suoi peccati, con quella facoltà che mi è concessa dalle carte che dianzi vi ho mostrato.»

Con questo gioco, da che faccio il mercante d’indulgenze, mi sono sempre guadagnato cento marchi all’anno. Me ne sto bravamente nel mio pulpito come un chierico, e quando vedo che la folla ha preso posto, faccio la mia predica in quel modo che vi ho detto, infilzando almeno un altro centinaio di frottole. Mentre parlo allungo il collo più che posso fuori del pulpito, e accenno ora a questo ora a quello con la testa, dimenandola a destra e a sinistra come fanno i colombi quando tubano sul tetto del granaio. Le mie mani intanto volano per l’aria gesticolando, e la lingua non canzona. Credete a me, dev’essere proprio una bella scena vedermi almanaccare a quel modo! La mia predica non tratta che del maledetto peccato dell’avarizia, per indurre i fedeli ad essere liberali col prossimo, e prima di tutto con me. Poichè il mio scopo non è quello di salvare gli uomini dal pericolo, ma quello di far quattrini. Che cosa me ne importa a me, se quando sono morti l’animaccia loro se ne va al diavolo!

Certo le mie prediche hanno spesso un fine che non è troppo santo: alcune, per esempio, sono fatte per dare nel gusto alla gente, per lusingarla e approfittarne a forza d’ipocrisia; altre per vanagloria, ed altre in fine per odio. Poichè quando non posso vendicarmi con altre armi, di chi ha offeso me e i miei confratelli, adopero la lingua, e nelle mie prediche gli affibbio certe bottate che arrivano fino all’osso. State sicuri che non può sfuggire ad una pubblica diffamazione. Senza nominare alcuno io so toccare certi tasti, che tutti capiscono subito, di chi parlo. Così sono solito pagare chi ci dà noia; e santamente sputo il veleno che ho in corpo, senza compromettermi. Insomma, ve lo ripeto, le mie prediche sono tutte figlie della cupidigia, e perciò il mio tema è sempre quello: rad ix malorum est cupiditas.

Io predico come vedete, contro l’avidità, cioè contro il peccato che tutti i giorni commetto. Ma per quanto grande peccatore mi sia, posso distogliere gli altri dalla colpa, e farli pentire amaramente di averla commessa. S’intende che non ne ho nessun merito, perchè io non parlo che per cupidigia. Ma di questo, ormai, ne avrete abbastanza: andiamo avanti.

Dunque, dicevo, la mia predica finisce sempre con una filza di esempi, presi dalla storia dei tempi antichi. Perchè alla gente ignorante piace sentir raccontare cose successe Dio sa quando; e se le ripetono e le imparano a memoria con grande piacere. Ah! Credevate che io mi volessi condannare, proprio da me, alla miseria, mentre posso guadagnarmi da vivere onestamente insegnando agli altri? No, no, non mi è passato mai neppur per la contraccassa del cervello. Io predico, e domando qualche cosa qua e là dove vado, perchè per campare non ho voglia di adoperare le mani, e di mettermi a far canestri. Non vado mica attorno per nulla, come facevano gli Apostoli: vogliono essere quattrini, lana, cacio, e grano, anche dal più povero servo, e dalla vedova più miserabile di tutto il villaggio. Nè debbo sapere se i suoi figliuoli muoiono dalla fame. Dovunque vado voglio trovare del buon vino, e una donnetta che mi tenga allegro.

Ma veniamo alla conclusione, signori miei. Voi desiderate che vi racconti una novella? Ebbene, ora che ho mandato giù un bel bicchiere di birra, di quella forte, spero di raccontarvi un fatto, per Dio, che vi piacerà di certo. Appunto perchè io sono un uomo pieno di vizi, voglio raccontarvi una storia molto morale, che di solito ficco in tutte le mie prediche per fare più effetto. Ed ora state zitti, che comincio.

Una volta c’era nelle Fiandre una combriccola di giovinastri i quali passavano la vita in una continua baldoria, dandosi al gioco e alla crapula, e frequentando il bordello e la taverna, dove stavano dalla mattina alla sera a ballare al suono di arpe e di liuti, o a giocare ai dadi, o a gozzovigliare e a bere senza vedere mai il fondo. E in questo modo, abbandonati ad un turpe stravizio, sacrificavano maledettamente al diavolo, nel tempio del diavolo, tirando dei moccoli così grossi ed infernali che facevano paura. Straziavano, con le loro bestemmie, il corpo del nostro Signore benedetto, come se non lo avessero straziato abbastanza i giudei; e più uno le diceva grosse, più gli altri ridevano.

Ad un tratto venivano le ballerine, tutte ragazze ben fatte e dalla vita snella, e insieme con esse entravano cantanti con le loro arpe, ruffiane e venditori ambulanti di schiacciate. Tutta gente mandata dal diavolo ad accendere il fuoco della lussuria e a soffiarvi dentro, giacchè la lussuria è sempre compagna della crapula e del vino, come ci insegna anche la sacra scrittura.

Basti l’esempio di Loth, il quale, ubriaco fradicio, giacque inconsciamente con le due figliuole, commettendo un incesto.

Chiunque ha studiato bene la storia, sa che Erode, stando a banchetto, pieno di vino fino agli occhi, ordinò prima di alzarsi da tavola, che fosse ucciso Giovan Battista, il quale era innocentissimo.

Seneca ha ragione davvero quando dice che egli fra un uomo che ha perduto il cervello ed uno che è ubriaco non vede altra differenza che questa: che la pazzia, quando coglie un disgraziato, dura più a lungo della ubriachezza[3].

O maledetta gola, tu fosti la prima causa della nostra rovina, tu fosti l’origine della nostra dannazione, finchè Cristo ci riscattò col suo sangue. Guardate un po’, per farla corta, come ci costò salata la maledetta colpa di Adamo, per causa della quale tutto il mondo fu corrotto.

Il padre nostro Adamo fu cacciato insieme con sua moglie dal paradiso, e costretto a lavorare e a soffrire, proprio per la gola che lo vinse. Perchè fino al giorno in cui restò digiuno, egli rimase in paradiso; e ne fu cacciato, per andare in mezzo ai guai e alle pene, solo quando assaggiò il frutto proibito di quel tale albero. O ingordigia, non senza ragione gli uomini dovrebbero lamentarsi di te!

Se essi sapessero di quanti mali sono cagione l’intemperanza e la crapula, a tavola misurerebbero un po’ più l’appetito. Ma purtroppo il gozzo e il palato li spingono a girare da un capo all’altro del mondo, per terra, per mare, per aria, in cerca di un boccone ghiotto e di una bevanda squisita. E tu ne sai qualche cosa, o S. Paolo! Egli dice infatti: «Dio distruggerà il cibo del ventre e il ventre del cibo.» Ah! Fa proprio ribrezzo, in fede mia, il pensare che l’uomo beve, del bianco e del rosso, fino al punto da fare della gola uno strumento di turpe stravizio. Sentite che cosa dice l’Apostolo, piangendo: «Passeggiano molti su questa terra, come vi dicevo (e parlandone, ora mi viene da piangere), che sono nemici della croce di Cristo: fine dei quali è la morte, e Dio il ventre[4] ». O ventre, o pancia, tu sei un fetido sacco pieno di sterco e di putridume. Da ogni tua parte non si sprigiona che un rumore schifoso. Quanta fatica e quanto denaro ci vuole per trovare il tuo fondo! Povero cuoco, quanto deve affaccendarsi a pestare, spremere, tritare, per ridurre e trasformare la sostanza che deve saziare il tuo ingordo appetito! A forza di colpi fa uscire il midollo dai duri ossi (poichè il cuoco non butta via nulla), e con quell’unto fa sì che il boccone sgusci dolcemente giù per la strozza. E per stuzzicarti sempre più l’appetito, bisogna che cacci nella salsa spezie, odori, e radici di ogni genere, che la rendono piccante. Ma chi va in cerca di tante leccornie, è lo stesso che sia morto, poichè vive nel vizio.

Il vino è un pericoloso eccitante, e l’ubriachezza è causa di molte colpe e di molte sciagure. O briacone, la tua faccia è stravolta, il tuo respiro è affannoso, sei un essere che fa schifo. Dal tuo naso, rosso come un peperone, ronfa un suono che par tu voglia dire: Sansone, Sansone. Mentre Dio sa se Sansone bevve mai una goccia di vino. Tu traballi, e cadi per terra come un maiale ferito. Non hai più la lingua per parlare, ed hai perduto il pudore, poichè l’ubriachezza è la sepoltura dell’intelletto e dell’onestà. Chi si fa schiavo del vino perde assolutamente il giudizio: perciò guardatevi tanto dal bianco quanto dal rosso, e più di tutti da quello bianco di Lepe[5] che si vende in Via del Pesce e in Chepe[6]. Perchè dovete sapere che la vite che produce questa qualità di vino spagnuolo, striscia piano piano accanto alle altre viti più vicine; e l’uva per causa di quel contatto fa un vino così generoso, che sale subito alla testa. Immaginatevi che bastano tre bicchieri, di quel vino, perchè un disgraziato il quale crede di tornare a casa sua in Chepe, a forza di viaggiare colla testa arrivi nella Spagna, e si trovi proprio nella città di Lepe invece che a Rochelle o a Bordeaux. E intanto dagli, col naso, a ronfare: Sansone, Sansone.

Ma, Signori, abbiate la compiacenza di ascoltarmi ancora un altro poco. Tutti gli atti più belli e gloriosi di cui si legge nel vecchio Testamento, come furono compiuti? Con l’aiuto di Dio onnipotente, furono compiuti per mezzo dell’astinenza e della preghiera. Leggete la Bibbia e ve lo imparerete.

Sapete voi come finì Attila il famoso conquistatore? Morì in modo vergognoso e turpe, soffocato da un travaso di sangue mentre era ubriaco. Un capitano, veramente, avrebbe dovuto essere più sobrio.

Guardate, soprattutto che cosa fu comandato a Lamuele[7]. Dico Lamuele, state attenti, non Samuele. Leggete la Bibbia, e vi troverete qualche cosa a proposito del dare a bere il vino ai giudici che devono amministrare la giustizia[8]. Ma basta oramai di questo, perchè ne ho parlato anche troppo.

Ora che vi ho detto dell’ingordigia, vi metterò in guardia contro il giuoco. Il giuoco è il vero padre della menzogna e dell’inganno; insegna il turpiloquio e a bestemmiare Cristo. Spinge all’omicidio, e fa perdere denari e tempo: senza contare, poi, che l’essere tenuto per un volgare giocatore è cosa riprovevole e disonorante. E quanto più uno è di elevata condizione, tanto più sciagurato diventa agli occhi di tutti. Un principe il quale ha il vizio del giuoco, perde, nell’opinione pubblica, il suo prestigio di regnante e di uomo politico.

Stilbone[9] il quale era una persona savia, mandato da Sparta, con onorevole incarico, ambasciatore a Corinto per trattare la pace, avendo trovato tutti i primi cittadini della città intenti a giocare turpemente, se ne ritornò subito a Sparta, e disse ai suoi concittadini: «Io non voglio macchiare il mio nome col disonore di farvi stringere alleanza con un popolo di volgari giocatori. Non sarà mai detto che voi, i quali avete un nome così glorioso e rispettato, per mia volontà e per opera mia siate alleati di una gente dedita al giuoco». Queste furono le parole di quel saggio filosofo.

Ricordatevi anche del re dei Parti, il quale, come racconta la storia, sapendo che il re Demetrio aveva avuto la passione del giuoco, gli mandò, per ischerno, in regalo un paio di dadi d’oro, mostrando di non fare alcun conto della gloria e del nome di lui. Le persone che stanno in alto dovrebbero trovare qualche modo più onesto di passare la giornata.

Ora vi dirò due parole di ciò che dicono i libri a proposito della bestemmia e dello spergiuro. La bestemmia è una cosa abbominevole, ma il falso giuramento è ancora peggio. Dio proibì assolutamente ogni spergiuro, e n’è testimone S. Matteo; ma in modo speciale ne parla Geremia, il quale dice: «Giura il vero, e non giurar mai il falso. Non giurare a caso, ma sempre pensatamente, poichè giurare per cosa da nulla è peccato».

Non dimenticate i sacri comandamenti di Dio nella prima comunione, e troverete, appunto, che il secondo è questo. «Non pronunziate il mio nome in vano». Vedete, egli proibisce più severamente tali spergiuri, dell’omicidio stesso e di tante altre colpe. E che questo sia proprio il secondo dei comandamenti di Dio, se ne può persuadere chiunque conosce gli altri. Vi dico poi, chiaro e tondo, che la vendetta del cielo colpisce, prima e poi, la casa di chi offende Dio le sue bestemmie. Eccoli i frutti del giuoco: «Pel sacro cuore di Dio, pei chiodi coi quali fu crocifisso, pel sangue di Cristo in Hailes[10], io ho fatto sette e tu cinque e tre. Se giuochi da imbroglione ti spacco il cuore con una pugnalata!» Questo è il frutto di chi passa la giornata con quei due pezzacci di osso: bestemmie, ira, menzogna, omicidio.

Dunque per amore di Cristo che morì per noi sulla croce, guardatevi tutti, grandi e piccoli, dalla bestemmia. Ma signori, è tempo ormai che io riprenda la mia novella.

Quei tre scapestrati, dei quali vi parlavo, un giorno, prima assai che le campane annunziassero l’alba, se ne stavano a bere in una taverna: quando ad un tratto, mentre erano seduti a tavola, sentirono un campanello nella strada, il quale annunziava il passaggio di un morto che veniva portato al cimitero. Uno di loro, allora disse al garzone: «Presto, va’ a domandare chi è il morto che passa. Sappici dire, per bene, il suo nome».

«Signore, rispose il ragazzo, non c’è bisogno che io vada a domandarlo: me l’hanno detto due ore prima che voi tre veniste qua. Il morto, per Dio, era un vostro antico compagno. È stato ucciso improvvisamente stanotte. Il disgraziato se ne stava seduto, mezzo ubriaco, su di una panca, quando un ladro, chiamato per soprannome “Morte” il quale uccide chiunque gli capita fra le mani, gli è saltato addosso all’improvviso con la sua lancia, e dopo avergli fatto il cuore in due pezzi, se ne è andato zitto e cheto. Quest’uomo tremendo ha ucciso, qui in paese, un centinaio di persone: credete pure, signor mio, che bisogna stare bene attenti di non capitargli davanti senza saperlo. State in guardia, che non l’aveste ad incontrare. Così, almeno, mi è stato detto dalla mia padrona».

«Per Maria santissima, soggiunse il padrone della taverna, il ragazzo non dice bugie: quest’anno, in un grosso villaggio a più di un miglio di qui, costui ha ucciso moglie, marito, il bambino, il servitore e il garzone. Credo che di casa stia laggiù. È prudenza stare in guardia e prevenirlo prima che ci abbia a fare qualche brutto scherzo.»

«Per le braccia di Dio, disse allora il giovinastro accattabrighe, ma è proprio un pericolo così grande incontrarsi con costui? Ebbene, io non ho paura, e lo anderò a cercare per la campagna, per la città, dovunque egli sia. Lo giuro sulle sacre ossa di Dio. Sentite, amici, soggiunse ai suoi compagni, noi tre siamo stati sempre d’accordo; diamoci ora la mano, e mettiamoci, da buoni fratelli, all’opera: vedrete che non tarderemo ad uccidere questo vigliacco che si fa chiamare “la Morte.” Sull’onore di Dio, lui che ha ucciso tanta gente, prima di notte cadrà morto.»

Dopo aver giurato, tutti e tre, di aiutarsi come fratelli e di non separarsi mai, vivi o morti, si alzarono per andarsene. E briachi e furibondi si avviarono verso il villaggio, del quale, poco prima, aveva parlato il padrone della bettola; e per via non fecero che lacerare il povero corpo di Cristo con orribili bestemmie. «Se possiamo agguantarlo non ci scapperà vivo dalle mani.»

Avevano fatto quasi mezzo miglio di strada, quando, mentre stavano per passare una siepe, s’imbatterono in un povero vecchio, il quale salutandoli garbatamente disse: «Dio vi accompagni, signori.»

Il più prepotente di quei tre soggettacci rispose: «Che? Brutto straccione, perchè sei tutto imbacuccato a cotesto modo, che ti si vede appena il viso? Com’è che non ti vergogni a vivere ancora, così vecchio come sei?»

«Egli è, rispose il vecchio guardandolo in faccia, che per quanto abbia girato tutto il mondo, perfino l’India, non posso trovare un cane, in nessun villaggio, il quale voglia cambiare la sua gioventù con la mia vecchiaia. E devo tenermela fin che piacerà a Dio, e finchè la Morte, ahimè, non mi venga a prendere! Così povero disgraziato, me ne vo girando pel mondo, e mattina e sera batto col mio bastone la terra, che è la porta la quale chiude mia madre, e dico:

—Madre mia, aprimi. Non vedi che ogni giorno mi consumo sempre di più e la carne se ne va col sangue e con la pelle? Ahimè, quando avranno pace le mie ossa? Madre mia, quanto volentieri cambierei con te la cassetta dei miei risparmi, così a lungo custodita nella mia camera, per quel panno che ti avvolge sotterra!—Ma lei non mi vuol far questa grazia, e la mia faccia si fa sempre più pallida e smunta.

Ma a voi, signori, non fa onore offendere in questo modo un povero vecchio, il quale non vi ha offeso nè con parole nè con atti. Ricordatevi di quello che dice la bibbia: “Davanti a un vecchio canuto alzatevi in piedi.” Perciò io vi consiglio a non voler fare del male a un povero vecchio quale sono io, come voi non vorreste fosse fatto a voi un giorno, se vi sarà dato di campare tanto.»

«No, vecchio straccione, rispose tosto l’altro giocatore; non sarà detto che tu la passi così liscia per S. Giovanni. Dianzi tu parlavi di quel vile traditore soprannominato “la Morte” che uccide in paese tutti gli amici nostri: ci scommetto che tu sei una sua spia. Di’ dunque, dove si trova, o per Dio e pel santissimo Sacramento tu ce la pagherai. Poichè certo tu sei d’accordo con lui, traditore ladro, nel dare la caccia a noi per ucciderci.»

«Se non desiderate che questo, signori miei, cioè di trovare “la Morte” rispose il vecchio, vi contento subito. Voltate per questa strada: l’uomo che voi cercate io l’ho lasciato, in fede mia, in quel bosco laggiù sotto un albero. Andate che ve lo troverete, e vedrete che non avrà paura di voi. Vedete quella quercia? È proprio là. Andate, e Dio il quale ci ha redenti dai nostri peccati, vi accompagni e vi faccia migliori.» Così disse il vecchio.

E tutti e tre quei manigoldi si misero a correre finchè giunsero alla quercia, ai piedi della quale trovarono circa otto staia di fiorini d’oro coniati splendidamente. Allora non si curarono più di andare in cerca di “Morte”; ma fu tale la loro gioia nel vedere tutte quelle belle monete luccicanti, che restarono atterriti davanti al prezioso tesoro. Il primo a parlare fu il più malvagio.

«Fratelli, disse, sentite quello che vi dico. È vero che mi piace scherzare e fare il chiasso, ma in fondo un po’ di testa ce l’ho anch’io. Con questo tesoro che ci ha dato la fortuna noi ce la potremo passare allegramente per tutta la vita, spendendo senza risparmio giacchè a noi questo danaro non ci costa nulla. Stamattina, per Iddio immortale, chi di noi avrebbe pensato a tanta fortuna? Per potercelo godere in pace, tutto quest’oro, bisognerebbe portarlo via di quì, in casa mia o in casa vostra, giacchè è nostro: ma come si fa a portarlo via di giorno? Se ci vedessero ci prenderebbero per ladri, e anche di quelli grossi, e il nostro tesoro finirebbe per mandarci alla forca. Però bisogna portarlo via di notte e con la più grande accortezza e precauzione. Io proporrei, quindi, che si tirasse alla paglia più corta,[11] per vedere chi di noi debba andare in fretta in città a comprare (senza dar nell’occhio alla gente) del pane e del vino per tutti. Gli altri due intanto resteranno a guardia del tesoro, e se colui che va in città si sbrigherà presto, giunta la sera porteremo via il tesoro, e lo nasconderemo, d’amore e d’accordo, dove crederemo meglio».

Così dicendo strinse egli stesso nel pugno tre fili di paglia, e fece tirare agli altri due per vedere su chi cadeva la sorte. Toccò al più piccolo, il quale andò subito in città. Appena si fu allontanato un poco, uno degli altri due rimasti a guardia del tesoro disse: «Senti, tu hai giurato di essermi fratello, perciò io ti voglio fare una proposta che sarà utile anche a te. Il nostro compagno se n’è andato, e ci ha lasciati qui con tutto quest’oro, che dovrebbe essere diviso in tre parti: se io avessi trovato il modo di dividerlo, invece, fra noi due soli, non ti pare che ti avrei reso un servizio proprio da amico?».

L’altro rispose: «Io non vedo come tu possa far questo. Poichè egli sa bene che l’oro l’abbiamo in consegna noi: quindi che cosa potremo fare? Come ce la caveremo?» «Mi posso fidare, soggiunse allora il primo malandrino? Se me lo prometti, ti dirò in poche parole quello che dovremo fare e che condurremo, senza dubbio, a buon fine». «Ti giuro sulla mia parola, rispose l’altro, che io non ti tradirò mai davvero».

«Or bene, riprese il primo, noi siamo in due: due hanno più forza di uno solo. Tu dunque sta attento appena egli si sarà messo a sedere in terra per mangiare: allora alzati in piedi, e vagli addosso come per fare uno scherzo, ch’io intanto lo colpirò con la mia spada ai fianchi. Tu poi, fingendo sempre di scherzare, tienlo fermo a terra, e cerca di colpirlo anche tu con la spada, e vedrai, mio caro amico, che tutto quest’oro ce lo divideremo fra noi due. Allora sì che potremo godercela davvero, e levarci la voglia di giuocare ai dadi.» Così i due malandrini si misero d’accordo per uccidere il loro compagno.

Il più giovane, intanto, il quale si era recato in città, per la strada non faceva che pensare alla bellezza di tutti quei fiorini nuovi di zecca e luccicanti, e fra sè pensava: «Dio, se potessi diventar padrone io solo di tutto quell’oro, non ci sarebbe al mondo persona più felice di me!» E andò a finire che il diavolo, nemico e tentatore del genere umano, gli mise in testa di comprare del veleno per avvelenare gli altri due. Il diavolo il quale non desiderava che che questo, colse subito l’occasione favorevole, vedendolo così ben disposto, per condurlo alla sventura. Ed infatti lo sciagurato decise risolutamente di uccidere i suoi compagni, senza pietà.

Quindi, senza por tempo in mezzo, giunse in città, e recatosi da uno speziale, lo pregò di volergli vendere del veleno, per uccidere certi topi che lo molestavano in casa, e una faina che gli aveva ucciso i capponi in una sua cascina. Così, se gli riuscisse, avrebbe la soddisfazione di vendicarsi di quegli animalacci distruggendoli in una notte.

Lo speziale gli rispose: «Lascia fare a me: ti darò una certa cosa io, che (Dio mi salvi l’anima se è vero) chiunque ne assaggi solo quanto un chicco di grano, muore in pochi minuti. Il mio specifico è così potente ed efficace, che farà più presto chi ne ha mangiato a andare all’altro mondo, che tu a fare nemmeno un miglio di strada.»

Quello sciagurato prese il veleno, chiuso dentro una scatola, e corse nella strada vicina da un tale a farsi prestare tre grosse bottiglie. In due vi mise dentro il vino avvelenato, la terza la lasciò vuota per metterci da bere per sè, poichè prevedeva che nella notte avrebbe avuto un gran da fare a portar via di là tutto quell’oro. Sistemate per bene le tre bottiglie, lo sciagurato furfante tornò dai suoi amici.

Ma perchè farla ancora più lunga? I due che erano rimasti a guardare il tesoro ed avevano deciso la morte del compagno, lo uccisero senz’altro; e poichè l’ebbero morto uno di loro disse: «Ora mettiamoci a sedere e beviamo allegramente, poi penseremo a seppellire il cadavere.» E presa per caso una delle due bottiglie di vino col veleno, trincò e fece trincare anche all’altro, e poco dopo morirono tutti e due avvelenati.

Sbaglierò, ma io credo fermamente che Avicenna in nessuna parte del suo « Canone » abbia mai descritto sintomi di avvelenamento più tremendi di quelli che ebbero quei disgraziati prima di morire. Così, dunque, morirono i due omicidi e il traditore che voleva avvelenarli.

O scelleraggine delle scelleraggini! O traditori omicidi! O malvagità umana! O avidità dell’oro, libidine del piacere, vizio del giuoco! O tu che offendi Dio con orribili bestemmie e prepotente orgoglio! O uomini sciagurati, come avviene che voi siate così malvagi e villani col vostro creatore, con Colui che vi ha fatti, e riscattati col suo sangue?

Ora, miei buoni amici, Dio vi perdoni le vostre colpe, e vi guardi dal peccato della cupidigia. Il mio santo perdono è qua per liberarvi tutti dai peccati vostri, purchè, s’intende, vogliate offrire qualche cosa: nobili[12], sterline, fermagli d’argento, cucchiai, anelli, tutto è buono. Ecco qua una Bolla santa, chinate la testa peccatori! Avanti, donne, offrite un po’ di lana, ed io segnerò subito il nome vostro qui nel mio registro per mandarvi a godere la beatitudine del cielo. Quanti verranno qua ad offrire, io li assolverò con la mia alta potenza, e se ne potranno tornare a casa con l’anima candida come quando vennero al mondo. Eccovi, signori miei, la mia predica. Ora Gesù Cristo che è il medico dell’anima nostra, possa concedervi di ricevere il suo perdono, poichè, ve le dico senza inganni, questa è la miglior cosa del mondo.

A proposito, signori, la mia novella mi faceva dimenticare una cosa. Io ho qui nella mia sacca una provvista di reliquie e indulgenze, consegnatemi dal Papa stesso, preziose come solo in Inghilterra si potrebbero trovare. Se c’è qualcuno di voi, il quale vuole offrire devotamente qualche cosa per avere la mia assoluzione, venga qua, s’inginocchi e riceverà la santa remissione dei peccati. O piuttosto se vi pare meglio, strada facendo rinnovate tutti il perdono ad ogni paese che ci lasciamo indietro. Così si rinnoverà anche l’offerta: nobili e monete fanno sempre comodo. Del resto è una bella fortuna per voi avere qui a vostra disposizione un mercante d’indulgenze, il quale vi può assolvere dai vostri peccati, per ogni caso che vi dovesse succedere mentre cavalcate per la campagna. Qualcuno di voi, per esempio potrebbe cascare da cavallo e rompersi il collo. Vedete dunque che per la vostra tranquillità è una vera fortuna che io sia capitato qui con voi, giacchè tutti, ricchi e poveri, io vi posso assolvere nel momento in cui l’anima vostra volerà via dal corpo. Io consiglio il nostro oste ad esser lui il primo a prendere l’assoluzione, come quegli che ha sulla coscienza più peccati di tutti gli altri. Qua, dunque, mio caro signor oste, tu sarai il primo ad offrire qualche cosa, ed io per soli quattro soldi ti farò baciare tutte le mie reliquie. Coraggio, apri la borsa.

«Io? No, no, lascia pure che Cristo mi maledica (rispose l’oste): magari fossi sicuro dei miei interessi, come sono sicuro che non mi coglierà la maledizione! Mi vorresti proprio far baciare le tue brache vecchie, spacciandole per reliquie di un santo mentre portano ancora, bella tonda, l’impronta del tuo c...? Per la croce trovata da S. Elisabetta, altro che reliquie e santuari: vorrei avere nelle mie mani i tuoi c.......i! Tagliateli, che ti aiuterò a portarli via, e li faremo conservare come reliquie nello sterco di maiale.»

Il povero mercante d’indulgenze non fiatò nemmeno. Rimase così male, che non rispose mezza parola. L’oste accortosene disse: «Quand’è così, con te, e con chiunque prende il cappello come te, io non ci scherzo più.»

Allora il nostro bravo cavaliere vedendo che tutti ridevano disse: «Via, via, basta signor mercante, noi non vogliamo musi lunghi. Venite qua, mio carissimo oste, ve ne prego, date un bacio al mercante d’indulgenze e fatela finita. Qua, signor mercante, fate la pace, e torniamo a ridere e a scherzare come prima.» Si baciarono e la brigata riprese allegramente il suo cammino.

IL CANTARE DI SER THOPAS

▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪

PROLOGO.

Finito il racconto di questo miracolo[1] fecero tutti un viso così serio, che il nostro oste cominciò a scherzare, e si rivolse subito a me[2], dicendo: «Ma che fai? Sogni forse d’essere alla caccia del lepre? Ti vedo cercare per terra con tanto d’occhi, che pare proprio che tu lo voglia scovare.

Vieni qua, allegro! Signori fate attenzione, e lasciategli un po’ di posto. Guardatelo: non faccio per vantarmi, ma ha una vitina proprio ben fatta come la mia. Con quel bel visetto chi sa quante donne lo prenderebbero volentieri in braccio come una bambola! A giudicarlo dal suo modo di fare par che sia un po’ scontrosetto: vedete, non scherza con nessuno?

Via raccontaci qualche cosa anche tu, come hanno fatto gli altri. Vogliamo subito una novella che ci metta di buon umore.» «Mio caro oste, risposi, io non vi renderò certo pan per focaccia, poichè novelle non ne so, e non posso dirvi altro che un cantare, che ho imparato molti anni fa.» «Benissimo, tu m’hai l’aria di volerci far sentire proprio qualche gran bella cosa.»

IL CANTARE DI SER THOPAS

Signori, state bene attenti, che io vi racconterò davvero una storia allegra e divertente. Si tratta di un bel cavaliere chiamato Ser Thopas, illustre eroe di battaglie e tornei.

Egli era nato in una lontana terra delle Fiandre, di là dal mare, in un borgo che ha nome Poppering. Suo padre, uomo di liberalissimo animo, era per grazia di Dio signore di quel luogo.

Ser Thopas era un giovinetto ardito, dalla faccia bianca come il pane di Maine[3] e le labbra color di rosa. Avea carnagione vermiglia, e un naso che gli stava proprio a pennello.

La barba e i capelli, che gli scendevano giù fino alla cintola, erano colore zafferano. Portava stivali di Cordova, calzoni scuri di Bruges, ed una veste di stoffa orientale che costava parecchie genovine[4].

Sapeva con ugual destrezza dar la caccia al cervo nella selva, e agli uccelli acquatici, cavalcando lungo il fiume col falco grigio appollaiato sopra una mano. Era inoltre un eccellente arciere, e senza rivali quando si trattava di disputarsi un montone alla lotta.

Più d’una bella, nella propria cameretta, spasimava d’amore per lui invece di dormire. Ma Ser Thopas non era un damerino: era un’anima casta e gentile come il fior di spino dalle bacche rosse.

Un giorno egli ebbe desio di uscire fuori a cavallo, e inforcato il suo destriero grigio, uscì con una lunga lancia in mano ed uno sciabolone al fianco.

Si avviò, quindi, verso una bella foresta ricca di daini, lepri, ed altra selvaggina; e mentre girava, attraversandola tutta da un capo all’altro, fu preso da un senso di profonda tristezza.

Pel bosco germogliavano, dovunque, erbe e piante d’ogni specie: la liquirizia, la valeriana, il garofano, la noce moscada che si mette nella birra quando è nuova o un po’ stantia, e si conserva anche nel cassettone[5].

Dovunque era un allegro cinguettare di uccelli: qua lo sparviero e il pappagallo, là cantava la sua canzone il tordo; ed il colombo mandava di sulla frasca un canto limpido e sonoro.

I primi accenti del tordo destarono nell’animo di Ser Thopas un forte desio d’amore, il quale si fece, ad un tratto, così prepotente, che il cavaliere si diè come un pazzo a menar di sprone. E il suo bel cavallo nella corsa sfrenata grondava di sudore[6] e filava sangue dai fianchi.

La foga del prode Ser Thopas era tanta, che anch’egli fu presto stanco del suo veloce cavalcare sulla molle erbetta del bosco; e si mise a riposare, lì in quel luogo stesso, lasciando che il cavallo, al quale dette del buon foraggio, riprendesse un po’ di fiato.

«Maria santa, benedicite, ma che è mai questo amore che mi opprime l’animo e mi fa soffrire così? Io ho sognato tutta la notte che una regina delle fate sarà la mia bella e dormirà, un giorno, nel mio letto.

Oh sì! Io voglio amare, davvero, una regina delle fate, poichè in tutto il mondo non c’è una dama degna di essere la compagna della mia vita. Io dimenticherò tutte le altre donne, e anderò per monti e per valli a trovare una regina delle fate.»

E sì dicendo, fu di nuovo in arcione, e saltando steccati e pietre si diè a cavalcare in cerca della sua bella; e tant’oltre andò col cavallo, finchè in un remoto borgo trovò il paese delle fate.

Allora si mise a cercare e ad esplorare ogni luogo, da nord a sud, attraverso a selve e a boschi foltissimi, senza mai incontrare anima viva; perchè uomini, donne, bambini, nessuno del paese osava, nè a piedi nè a cavallo, andare incontro a lui.

Finalmente un giorno si vide comparire davanti un gigante smisurato, che avea nome Ser Elefante, ed era un uomo terribile. Il quale vedutolo gli disse: «Ragazzo, per il Dio Termagante[7], se non te ne vai subito via da questi luoghi, dove io capito spesso, ti ammazzo il cavallo con una randellata. Sappi che qui fra i suoni delle arpe e della zampogna, in mezzo ad una vera sinfonia di strumenti, abita la regina delle fate.»

Il cavaliere rispose: «Il cielo mi assista, e domani io tornerò qui armato per misurarmi con te: e par ma foy la mia lancia non te la farà passare tanto liscia. Poichè non sarà trascorso il primo quarto del giorno, che io ti avrò passato lo stomaco da parte a parte, e tu cadrai morto in questo luogo stesso».

Ciò detto, ser Thopas fuggì via, mentre il gigante con una terribile fionda gli scagliava dietro delle pietre per ucciderlo: ma egli con l’aiuto di Dio e con la sua destrezza si salvò.

Ed ora, signori, fate bene attenzione alla mia storia, che è più gaia del canto dell’usignuolo. Poichè ora sentirete come Ser Thopas, chino sul suo cavallo e stringendosi nelle spalle per evitare i sassi del gigante, tornò, attraverso valli e colline, nel suo regno.

Appena giunto, chiamò, in mezzo alla gioia universale, la sua gente, e ordinò che si preparassero subito grandi feste con giuochi e musica, per celebrare un avvenimento straordinario.—Egli doveva misurarsi con un gigante a tre teste, e battersi con lui per fare cortesia ad una splendida stella, alla quale dedicava l’amor suo.—

«Presto (indi soggiunse), quanti menestrelli e cantori di geste[8] sono qui, mi raccontino, mentre indosso le mie armi, fatti e avventure di re, di papi, di cardinali, e qualche storia d’amore.»

Gli portarono per prima cosa il dolce vino, poi gli porsero in una coppa un aromatico miscuglio di panforte finissimo, liquirizia, e semi di comino con zucchero raffinato[9].

Quindi il prode cavaliere si vestì coprendo le sue bianche carni con una camicia e un paio di calzoni di stoffa finissima. Poi indossò una casacca, e si cinse, a difesa del cuore, di una maglia di acciaio.

Sopra la maglia mise una solida corazza, prezioso lavoro di un giudeo, e finalmente indossò la sua cotta d’armi, candida come un giglio, con la quale egli dovea andare in battaglia contro Ser Elefante.

Il suo scudo era sfolgorante d’oro, con una testa di cinghiale nel mezzo, accanto alla quale brillava un carbonchio. Mentre si vestiva giurò, solennemente, sopra la birra e il pane, che il gigante sarebbe morto sotto i suoi colpi, a qualunque costo.

Aveva un paio di stivali di pelle conciata nell’acqua bollente, ed una sciabola con la guaina d’avorio; l’elmo era di ottone lucido. La sella era bellissima[10], e la briglia avea fulgori di sole e di luna.

La sua lancia, nemica della pace e apportatrice di guerra, era di cipresso fino con la punta ben affilata. Il cavallo, dal mantello pomellato, aveva un’andatura semplice e tranquilla. E qui, signori miei, è finita la prima parte del mio cantare[11]. Se ne avete voglia ancora, cercherò di contentarvi.

Dunque, pour charité, signore e signori gentilissimi, non aprite bocca, e state attenti, che ora si parla di armi, di cavalieri, di donne, di cortesie e di amori.

Che cosa sono i famosi cantari del giovine Horn, di Ipotis, di Bevis, di Ser Guy, di Ser Libeux, e di Pleindamour[12], in confronto a quello di Ser Thopas, che era il vero fiore della cavalleria?

Egli, dunque, inforcato il suo bravo destriero, guizzò d’un salto sulla via, come una favilla guizza in aria da un tizzo ardente. Sull’elmo che gli copriva la testa spiccava per cimiero una torre con un fiore di giglio in cima. Ed ora Dio salvi dalla morte il corpo di Ser Thopas.

Da pro’ cavaliere errante, la notte non volle mai dormire al coperto: suo letto era la terra, suo tetto il cappuccio, e per guanciale avea l’elmo risplendente. Vicino a lui intanto il suo destriero morsicchiava le dolci erbette del prato.

Anche egli, come si legge del prode Ser Percival[13] quando indossava lo splendido costume di cavaliere, non bevve mai altra bevanda che l’acqua della fonte. Finalmente un giorno.......

«Basta, basta, per l’amor di Dio, interruppe il nostro oste: non ne posso più delle tue chiacchiere! Dio mi salvi, quanto è vero che mi fanno perfino male gli orecchi! Al diavolo il tuo cantare: è proprio roba da chiodi!»

«Perchè, risposi io? Perchè non vuoi che anche io finisca, come gli altri, il mio racconto? Questo è il più bel cantare che io mi sappia.»

«Per Dio, riprese l’oste, te lo dico subito il perchè: perchè il tuo famoso cantare non vale un soldo, e tu sprechi il tempo inutilmente a farcelo sentire. Insomma, signore mio, ti proibisco di seguitare in questo modo. Vediamo un po’ se sei buono a raccontarci una bella avventura, o se sai dirci, in prosa, una novella che almeno ci diverta o ci insegni qualche cosa.»

«Per la passione di Cristo, risposi, ben volentieri. Vi racconterò una cosetta in prosa che, se non vorrete essere proprio incontentabili vi piacerà di certo. È una storia morale e piena di virtuosi ammaestramenti, che già altri hanno raccontata in diversi modi. E ciò non vi deve fare meraviglia, perchè voi sapete bene, per esempio, che ognuno degli Evangelisti racconta la passione di Gesù in un modo differente: eppure nonostante tutte le differenze, è sempre vera ugualmente, e la storia è sempre quella. Raccontata da S. Marco o da S. Matteo, da S. Luca o da S. Giovanni, la pietosa passione è sempre, più o meno, la stessa cosa. Però, signori miei, se la mia storia vi sembrerà diversa da quella che avete sentito altre volte, specialmente per i proverbi con cui io cerco di rendere più interessante questo trattatello di morale, non vogliate vi prego gridarmi la croce addosso. Vedrete che il mio racconto segue, in sostanza, il piccolo trattato onde l’ho tolto[14]. State dunque a sentire, e questa volta, mi raccomando, lasciatemi andare fino in fondo.

NOTE

PROLOGO

[1] Il testo ha palmeres: palmieri; ma evidentemente, come nota il Tyrwhitt, il poeta ha adoperato qui la parola in senso generale, e non secondo la particolare distinzione fatta anche da Dante ( Vita Nuova, XLI).

[2] Leggo: to ferne halwes (invece che to serve halwes col Tyrwhitt), secondo la lezione ristabilita dal Wright ed accettata dall’Hertzberg, dal Bell e da altri.

[3] Alessandria d’Egitto, conquistata nel 1365 da Pierre de Lusignan, re di Cipro.

[4] Il nostro cavaliere era una persona, come si dice, di riguardo: i signori alla corte dei quali egli si trovò, girando il mondo in cerca di guerra, a tavola gli assegnarono spesso il posto d’onore in omaggio alla sua prodezza. Il Chaucer, che nell’originalissimo prologo ci fa un quadro pieno di vita e di colori della società inglese del tempo suo, ci presenta, in questo caratteristico personaggio uno di quegli uomini di guerra che allora correvano il mondo per servire con le armi presso qualche signore. E non pochi furono questi cavalieri erranti durante il regno di Edoardo III, che è memorabile nella storia della cavalleria inglese. Il Tyrwhitt riferisce, a illustrazione di questa figura di cavaliere descritta dal Chaucer, un antico epitaffio francese (Cfr. Leland, Itin. III. pag. 91) nel quale sono così ricordate le gesta di uno di questi cavalieri, contemporaneo del poeta e morto nel 1406: « Icy gist le noble et vaillant Chivaler Matheu de Gourney etc.— qui en sa vie fu a la bataille de Benamaryn, et ala apres a la siege d’Algezire sur les Sarazines et aussi a les batailles de l’Escluse, de Cressy etc. »

[5] In Affrica.

[6] Satalia (l’antica Attalia) e Layas (Lieys in Armenia) furono tolte ai Turchi da Pierre de Lusignan, rispettivamente, nel 1352-1367.

[7] Che cosa precisamente il Chaucer intenda con questa designazione vaga, non è troppo chiaro. Forse si tratta di quella parte del Mediterraneo che si estende fra la Sicilia e l’isola di Cipro, e bagna le coste della Palestina.

[8] In Affrica.

[9] Nell’Anatolia.

[10] Letteralmente: come se fossero stati messi in una pressa ( as they were layde in presse ).

[11] La monaca, affettando anche in questo una educazione raffinata e alla moda, parlava in francese: ma un francese bastardo e corrotto, come quello parlato dal basso popolo di Stratford.

[12] Confesso che l’espressione: «una monaca che faceva da cappellano» mi piace assai poco. E non mi pare molto chiaro l’ufficio di questa monaca presso suora Eglantina, la quale per ogni buon fine aveva condotto con sè anche tre preti. Ma d’altra parte il testo dice proprio così: That was hire chapelleyn.

[13] La lezione è molto incerta. Intendo il rekkeles del testo secondo la congettura del Tyrwhitt, il quale sospetta che il Chaucer avesse scritto reghelles. La variante cloysterless (senza chiostro) accolta, sulla scorta di un codice di Cambridge, dal Wright, dal Bell e da altri, porterebbe ad una inutile ripetizione, e non mi pare accettabile. L’espressione è tradotta letteralmente da un testo latino, citato dal Tyrwhitt, il quale dice: Sicut piscis sine aqua caret vita, ita sine monasterio monachus.

[14] Letteralmente: di questo testo non avrebbe dato una gallina pelata ( he gaf nat a pulled hen ). Ho creduto meglio rendere l’espressione inglese, senza dubbio popolare, con un modo popolare nostro.

[15] An oystre: un’ostrica (V. la nota precedente).

[16] Amore deve essere inteso, qui, nel senso cristiano di carità, come nel motto inciso sul medaglione della monaca (v. p. 10).

[17] Ho cercato di attenuare, in qualche modo, la grottesca espressione del poeta, la quale suona così: fumava come una fornace dove si liquefà il piombo ( stemed as a forneys of a leed ).

[18] L’uso galante di offrire, ad una signora che lo domanda, uno spillo, è ancora vivo: ma quello abbastanza strano di offrire dei coltelli o temperini ( knyfes ) non ha, che io mi sappia, alcun riscontro.

[19] Il testo dice: of yeddynges he bar utturly the prys. La lezione è incerta ed il significato di yeddynges è oscuro: io ho accettato, col Bell, la congettura del Tyrwhitt, il quale riconduce questo vocabolo al sassone geddian o giddian: cantare. Altri intende, come il Wright e l’Hertzberg: raccontare storie.

[20] Espungo col Wright i due seguenti versi:

And gave a certaine ferme for the grant, Non of his bretheren cam in his haunt

che qui non danno alcun senso, e sono certo interpolati. L’Hertzberg li accetta, e dichiara che egli li ritiene decisamente genuini, pur confessando che non si capisce affatto che relazione abbiano col resto. Non so, poi, quanto sia plausibile la spiegazione che egli ne dà: «pagava della casa un fitto così alto, che nessun altro dei suoi confratelli andava nella sua contrada.»

[21] Hadde but oo schoo: non aveva che una scarpa sola.

[22] Il Chaucer dice precisamente: rounded as a belle out of presse «rotonda come una campana appena levata dalla forma in cui è stata fusa.» Ho semplificato l’espressione, perchè mi è sembrato che l’immagine, in italiano, non ci guadagnasse molto, traducendo alla lettera.

[23] Then robus riche, or fithul, or sawtrie: «piuttosto che roba di prezzo, o un violino, o un salterio.»

[24] Sergeant of lawe (sergente della legge). Non so quanto esattamente risponda la mia traduzione (impiegato del tribunale) all’espressione inglese: confesso che non ho saputo trovare un modo più determinato e sicuro. L’Hertzberg traduce «Iustitiarius» e dice ( Op. cit. nota al v. 311) che: Sergeant of lawe equivaleva, nel sec. XIV e XV, presso a poco a «Dottore in legge» (dem Stande eines Doktors der Rechte gleich kam). Cfr. in proposito l’opera del Crabbe, Storia del Diritto Inglese, alla quale rimanda l’Hertzberg.

[25] That often hadde ben atte parvys. (Il quale era stato spesso sotto il portico della chiesa). La voce parvys, che è manifestamente il parvis dei francesi, significa: portico o piazza davanti a una chiesa.—Nel medio evo era costume degli avvocati, e di tutta la gente del foro in generale, ritrovarsi in certe ore del giorno, quando i tribunali erano chiusi, sotto il portico di una delle chiese principali della città, per parlare e discutere di leggi e di diritto. A quale di questi portici abbia inteso precisamente di alludere il Chaucer non è facile dire: io ho messo il nome di Westminster non tanto perchè uno dei più probabili, quanto per rendere, in qualche modo, meno indeterminata l’espressione del poeta.

Il Tyrwhitt riferisce in proposito il seguente passo ( V. Fortescue, De laud. leg. Angl., C. 51): Post meridiem curiae non tenentur; sed placitantes tunc se divertunt ad pervisum et alibi, consulentes cum servientibus ad legem (sergeant of lawe) et aliis consiliariis suis.

[26] Letteralmente per la patente (di avvocato?) e per mezzo di una intera commissione ( by patent, and by pleyn commissioun ). La patente glie ne dava il diritto legale, la commissione lo invitava a presiedere, come giudice, in omaggio alla sua dottrina in fatto di materie giuridiche.

[27] Guglielmo il Conquistatore.

[28] In italiano non c’è una parola che corrisponda precisamente al Frankeleyn del testo. Ho tradotto possidente sulla definizione del Fortescue ( De Laud. leg. Angl. C. 29) citata dal Tyrwhitt, secondo la quale per Frankeleyn si intende: pater familias magnis ditatus possessionibus. Vedi la lunga nota dell’Hertzberg ( Op. cit., n. al v. 333) il quale traduce: Gutsherr.

[29] Cioè: la sua casa era aperta a quanti amici e conoscenti avevano occasione di passare dal suo paese, i quali erano sicuri di trovare presso di lui la più cordiale ospitalità.

Secondo la leggenda S. Giuliano avendo ucciso per disgrazia i suoi genitori, per purgarsi, in qualche modo, del suo involontario delitto con una buona azione, mantenne a sue spese un albergo, lungo una via piena di pericoli e di disagi, dove i viandanti trovavano vitto e alloggio gratis. Di qui ebbe origine la tradizione che fece di S. Giuliano l’ospitaliere, il protettore dei viandanti, i quali lo invocavano per via e ne recitavano il miracoloso Paternostro. Anche il Boccaccio ( Dec. II. 2.) dice: «ne’ quali (paesi) chi non ha detto il Paternostro di S. Giuliano, ancora che abbia buon letto, alberga male». Intorno alle varie trasformazioni e modificazioni che subì la leggenda di questo santo, che divenne perfino protettore dei facili amori e dei lenoni, puoi vedere l’interessante scritto di A. Graf, S. Giuliano nel Decamerone e altrove,—in: Miti, leggende, e superstizioni del Medio Evo Torino, Loescher 1892-93. V. anche, Brand, Antiquities (V. I. pag. 359. Ediz. H. Ellis).

[30] Was alway after oon: era sempre della stessa qualità. La quale, trattandosi di un ricco possidente, è naturale che fosse anche la migliore. Altri, meno bene e poco chiaramente, intende: era sempre dopo l’una ( after one o’clock ).

[31] Quale fosse precisamente l’ufficio del counter, qui ricordato dal Chaucer, non ho potuto capire, e non so quale e quanta relazione avesse, in verità, con quello del nostro ragioniere. L’Hertzberg traduce, non credo in modo più felice ed esatto, Landvoigt (prefetto, podestà). Qualunque sia il vero significato di questa parola, mi sembra che non debba, ad ogni modo, essergli estraneo il concetto dei numeri e dell’aritmetica, stando all’etimo.

[32] Letteralmente: avrebbe potuto sedere, in una sala dorata, alla tavola situata sulla piattaforma ( on the deys ). Secondo un uso molto comune in Inghilterra nel Medio Evo, i signori in fondo ad uno dei lati della sala da pranzo, che era sempre molto vasta, facevano costruire una piattaforma in legno, sulla quale veniva apparecchiata la tavola per gli ospiti (come oggi si direbbe) illustri o degni di un certo riguardo.

[33] Radice aromatica di sapore amarognolo.

[34] Ignorando completamente a quale pietanza della nostra cucina moderna corrisponda, in qualche modo, il blankmanger del cuoco chauceriano, ho tradotto «cappone in galantina» per la ragione che stando a quanto riferisce in proposito il Tyrwhitt, pare che uno dei principali ingredienti fosse la polpa del cappone ( the brawne of a capon ).

[35] Ho lasciato il seguente distico:

« If that he foughte, and hadde the heigher hand, By water he sente hem hoom to every land. »

il quale non dà qui un senso possibile. Il Wright e il Bell accolgono, senza discussione, i due versi secondo il testo del Tyrwhitt. È strano che nessuno di loro tre, neppure il Tyrwhitt, che con sì larga messe di note ha illustrato la sua edizione, abbia accennato anche lontanamente alla oscurità del senso, che non può essere loro sfuggita. L’Hertzberg espunge il distico intero osservando, molto giustamente, che se non si può sospettare una interpolazione, bisogna ammettere che prima di questi due versi ci sia una lacuna.

[36] Hull era anche a’ tempi del Chaucer uno dei porti più importanti dell’Inghilterra.

[37] Leggo col Wright e col Bell wys to undertake invece che I undertake, perchè mi pare che in questo modo venga meglio spiegato il significato dell’aggettivo wys che qui, evidentemente, significa: accorto, prudente, in antitesi all’altro hardy (coraggioso, ardito).

[38] Il Gotland è una regione della Svezia: ma qui l’indicazione del Chaucer non è chiaramente determinata.

[39] L’astrologia era nel medio evo una delle fonti a cui più spesso ricorrevano i medici per i loro malati. Si credeva che una medicina fosse più o meno efficace, secondo che veniva somministrata all’ammalato sotto una costellazione piuttosto che sotto una altra. Il Chaucer il quale dimostra nelle sue opere una conoscenza certo notevole, per il suo tempo, di astrologia, coltivò con molto interesse tutta quella letteratura scientifica che da essa ne derivò. Egli stesso scrisse un libro, rimasto incompiuto, intitolato « The Astrolabe » nel quale tratta della costruzione e dell’uso dell’Astrolabio.

[40] I nomi di Esculapio, Galeno, Avicenna, Ippocrate, Dioscoride, sono noti a tutti. Rufo era un medico di Efeso contemporaneo di Traiano. Hali (o Haly) era un astronomo arabo, noto anche come medico, il quale fu contemporaneo di Avicenna, e commentò gli scritti di Galeno, Serapion, anche egli arabo e contemporaneo di Avicenna, scrisse di medicina ed ebbe nome di erudito nel secolo XI. Rasis, dottore asiatico del X secolo, esercitò medicina nella Spagna, e scrisse un’opera che lo levò in gran fama, intitolata Continens. Averrois, filosofo ed erudito del XII secolo nato a Cordova di famiglia araba, scrisse un commento alle opere di Aristotele, e tenne scuola in Marocco dove morì. Giovanni Damasceno fu uno scienzato di origine araba, il quale ebbe molta e varia cultura, e visse in tempi assai più remoti, prima anche della venuta degli Arabi in Europa. Costantino (Constantius Afer) era un frate benedettino di Monte Cassino nato a Cartagine e vissuto verso la fine del secolo XI. Fu uno dei fondatori della scuola di Salerno. Bernardo (Bernardus Gordonius) contemporaneo del Chaucer scrisse molti trattati di medicina e fu professore a Montpellier. Giovanni Gatisdeno, della prima metà del secolo XIV, tenne scuola di medicina ad Oxford. Gilbertino sarebbe secondo l’opinione più probabile un tale Gilbertus Anglicus fiorito nel secolo XIII, autore di un compendio di medicina popolarmente noto ai suoi tempi. ( V. Warton, Op. cit., pp. 292-293).

[41] È probabile, come osserva il Wright, che il poeta alluda qui alla famosa pestilenza del 1348 descritta anche dal Boccaccio nel principio del Decamerone.

[42] Le piazze più rinomate, nel continente, pei mercati di stoffe di ogni genere.

[43] Leggo col Wright col Bell e con l’Hertzberg: ten pounde. Il Chaucer, esagerando, mette in caricatura l’uso barocco del suo tempo, secondo il quale le donne portavano in testa dei fazzoletti molto pesanti imbottiti di ovatta.

[44] Letteralmente: aveva avuto sulla porta della chiesa cinque mariti. ( Housbondes atte chirche dore hadde sche had fyfe ). La parte più importante della sacra funzione anticamente, in Inghilterra, si compieva sulla porta della chiesa, dove lo sposo impalmava la mano della sposa, per andare poi all’altare a ricevere la comunione.

[45] Il testo è molto incerto, e presenta nelle sue varie lezioni una parola assai difficile a spiegarsi. Il Tyrwhitt legge: gattothud, e confessa di non intendere che cosa abbia voluto dire, precisamente, il Chaucer.

La lezione del Tyrwhitt, accettata dal Wright dal Bell e dall’Hertzberg, a me sembra la più probabile, intesa e spiegata per goat-toothed (dai denti di capra) che significa in senso traslato: ghiotto, ingordo. Qui per altro ghiotta va inteso, con valore suggestivo, per lasciva, libidinosa. A questa interpetrazione conforterebbe, se non m’inganno, un passo del prologo della novella raccontata appunto dalla donna di Bath, nel quale parlando di se stessa costei dice: «Io avevo quaranta anni, se debbo dire la verità, ma mi piaceva sempre scherzare come una puledra. Ero gattothud, e ciò non mi faceva torto, poichè oramai aveva il bollo del sigillo di Venere.»

[46] Il testo dice veramente; «poichè era molto pratica del mestiere di questa vecchia danza» ( For of that art sche knew the olde daunce ).

[47] Letteralmente: «non c’era caso che per causa delle decime si arrabbiasse ed imprecasse» ( Ful loth were him to cursey for his tythes ). Chi si rifiutava di pagarle incorreva nella scomunica.

[48] Non so se questa espressione renda, in qualche modo, lo « spiced conscience » del testo, tutt’altro che chiaro, che il Tyrwhitt confessa di non capire assolutamente. L’Hertzberg traduce, « That mit Gewissensskrupeln nicht breit. »

[49] Per maggiore chiarezza non ho mantenuto, traducendo, l’ordine preciso con cui il poeta nomina qui gli ultimi personaggi del suo prologo: ho seguito invece quello nel quale ce li descrive poi singolarmente. Il sompnour ( summoner ), che io ho reso in italiano con cursore e usciere del tribunale ecclesiastico, era un impiegato che aveva l’ufficio di citare, come dice il nome stesso, davanti alla severa corte dell’arcidiacono, coloro che si erano resi colpevoli verso le leggi ecclesiastiche, custodi a dire il vero non troppo intemerate della pubblica morale. Questo personaggio, nel quale il Chaucer fa un’arguta satira degli usi e degli abusi religiosi del suo tempo, è una delle macchiette più riuscite e geniali della lunga schiera di cavalieri che ci sfilano davanti, gaiamente novellando, sulla via di Canterbury.

[50] Il mugnaio qui descritto dal poeta è il vero prototipo di quella classe che nel medio evo era proverbialmente nota per la consumata abilità di rubare. Secondo l’uso che anche oggi rimane in molti luoghi, il padrone del mulino, invece di denaro, si prendeva a titolo di paga, una certa misura di fiore per ogni sacco macinato. E questo dicevasi, con parola del mestiere, tollen ( toll o take toll ). Pare, quindi, che l’onesto mugnaio non contento di mettere le mani nel sacco del grano ( wel cowde he stele corn ) prima di macinarlo, si prendesse poi tre misure di farina ( tollen thries ) invece di una.

[51] Il Chaucer intende dire che il suo mugnaio, in fin dei conti, non era più ladro degli altri: aveva anche lui, come gli altri colleghi, il suo pollice d’oro. La frase è tolta probabilmente, come nota il Tyrwhitt, dall’antico proverbio inglese: « Every honest miller has a thumb of gold » col quale il popolo faceva le sue vendette.

[52] Non so se in italiano vi sia un’altra parola che meglio risponda al maunciple del testo. Mi è sembrato che fornitore, provveditore, dispensiere sarebbe stato anche peggio di economo.

[53] Il testo ha veramente: he mas ay biforn in good state: «egli era sempre il primo a trovarsi in buona condizione.» Cioè trovava sempre il modo di comprare roba buona e pagarla poco, per farla poi pagare ai suoi padroni più di quello che costava, intascandosi il di più.

[54] « a jay con clepe Watte, as wel as can the pope. » Letteralmente: una gazza può chiamare «Gualtiero» ( Watte vale Wat, forma abbreviata di Walter ) bene come il papa.

[55] L’usciere quando aveva alzato un po’ il gomito faceva sfoggio del suo latino: è naturale però che tra i fumi del vino egli si ricordasse meglio di quelle espressioni e di quelle frasi che stando in tribunale sentiva ripetere più spesso. Una di queste era appunto: Questio quid juris, che negli antichi scritti di legge ricorreva continuamente, in forma di domanda, dopo l’esposizione di un fatto giuridico qualunque.

[56] Ho tradotto con questa efficace espressione del popolo nostro l’espressione popolare inglese adoperata dal Chaucer: And prively a fynch eke cowde he pulle (sapeva anche pelare, di nascosto, un uccellino).

[57] Cioè dalla scomunica. Con questa parola cominciava la formula: Significavit nobis venerabilis pater etc., onde veniva annunciata ai colpevoli la scomunica.

[58] Il testo dice gurles ( girls ) ma qui piuttosto che nel senso determinato di ragazze, deve intendersi in senso generale: maschi e femmine. Però ho tradotto: tutta la gioventù.

[59] Si tratta, molto probabilmente, di un ritornello di qualche canzone popolare amorosa del tempo.

[60] Mi pare che storye non possa avere qui il significato di storia o racconto profano, che andrebbe poco d’accordo con lessoun (una parte della sacra scrittura che si leggeva nella messa). Il Chaucer dopo averci descritto il suo mercante di indulgenze per il miglior brigante del mondo, come avrebbe detto il Boccaccio, soggiunge con intenzione senza dubbio ironica:—Però bisogna dire la verità, in chiesa era un degno prete ( a noble ecclesiaste ), e diceva la messa con tutte le regole senza trascurarne nessuna parte.

[61] Affyle his tunge. Letteralmente: pulir la lingua.

[62] È probabile, come nota il Tyrwhitt, che la fonte diretta alla quale il Chaucer ha attinto questa espressione, piuttosto che Platone, sia Boezio ( De Consolatione, III. 12).

[63] L’abbeveratoio di S. Tommaso, secondo il Wright, si trovava a due miglia da Londra sull’antica strada di Canterbury.

[64] V. la nota 11 alla novella del mercante di indulgenze.

NOVELLA DEL CAVALIERE

[1] Il testo dice veramente: pareva la pianta del bosso, o la cenere morta e fredda ( lik was he to byholde—The box-tree, or the asschen deed and colde ).

[2] Lene he wexe, and drye as is a schaft (si ridusse magro e secco come una freccia).

[3] Il poeta allude al noto episodio di Argo, che Mercurio riusci ad uccidere dopo avergli fatto chiudere i cento occhi. Il racconto si legge anche in Ovidio ( Metam. I. 714), che fra i poeti latini è uno di quelli più spesso, direttamente o indirettamente, ricordati dal Chaucer.

[4] Nella Teseide Arcita, per non essere riconosciuto, cambia il suo nome in quello di Penteo ( Tes. IV. 3): il Chaucer, discostandosi dal Boccaccio, fa che il cavaliere tebano sostituisca il proprio con quello di Filostrato. È probabile che questo nome, che qui è molto appropriato pel suo significato etimologico ( abbattuto da amore ), il poeta inglese lo abbia tolto di peso dal poema del Boccaccio, a lui indubbiamente noto come dimostra il « Troilus and Cressida ».

[5] Hath brought him in the snare. (Lo portò nel laccio).

[6] Letteralmente: ora sulla cima del colle, ed ora giù in mezzo ai pruni della siepe ( Now in the croppe, now doun in the breres ).

[7] Mars the reede (il rosso Marte). Ho tradotto l’epiteto del Dio della guerra con la stessa parola del Boccaccio ( Tes. I. 3.) che il Chaucer manifestamente ha voluto tradurre.

[8] L’espressione del testo è questa: non ne sa più di quello che ne sappia un cuculo o una lepre ( sche woot no more, than wot a cuckoo or an hare ).

[9] La frase non troppo chiara: he may go pypen in an ivy leef (deve andare a suonare la piva in una foglia d’ellera) è tolta da qualche antico modo proverbiale. A me l’idea della piva, contenuta nel verbo pipen, ha suggerito la nostra efficace espressione popolare, che non mi sembra qui male appropriata.

[10] Il testo dice un carretto pieno d’oro ( of gold a fother ).

[11] A citole. Che per questa parola si debba intendere uno strumento è ammesso, facilmente, da tutti: ma in che cosa questo strumento consista, nessuno lo spiega. Il Tyrwhitt ( Op. cit. Gloss.) rimanda al dizionario del Du Cange alla voce Citola, e riferisce l’opinione del Hawkins ( History of Music, vol. II. p. 106 n.) secondo la quale lo strumento qui nominato sarebbe una specie di dulcimello ( Dulcimer ).

[12] La lezione è incerta e varia. È chiaro però che qui si parla di un turbine impetuoso di vento.

[13] The northern light in at the dore schon. La fantastica immagine è del Chaucer: il Boccaccio ( Tes. VII. 32) traduce, non troppo esattamente, da Stazio ( Teb. VII. 45).

[14] Alla lettera: che pesavano una tonnellata: tonne greet ( a great ton ). Altri intende: che avevano la circonferenza di una botte ( tun ).

[15] Il testo dice, con espressione vaga ed oscura: il lamento armato ( armed complaint ).

[16] Letteralmente: mille che non erano morti di malattia, ma erano stati uccisi ( a thousand, slaine, and not of qualme ystorve ).

[17] L’epiteto hoppesteres, dato qui alle navi, non sembra molto chiaro ai critici e ai commentatori del poeta. La parola non ricorre altrove, e non ha altri riscontri nella poesia del Chaucer, i quali possano recare un poco di luce. Io ho tradotto secondo l’etimo supposto dal Tyrwhitt, il quale farebbe derivare questa voce dal sassone to hoppe che significa danzare. L’immagine delle navi danzanti sulle onde, che di per sè è abbastanza poetica, qui pare poco appropriata. Ed è strano che il Chaucer, il quale in questa disordinata e barocca descrizione del tempio di Marte si è valso non poco della Teseide, traducendola qualche volta quasi letteralmente, abbia avuto l’idea poco felice di trasformare «le navi bellatrici (che il Chaucer abbia letto «ballatrici»?) del Boccaccio» e le «bellatrices carinae» di Stazio, in navi danzatrici.

[18] La spada di Damocle.

[19] Nota lo Speght ( Op. cit., Gloss.) che Puella e Rubens sono in geomanzia i nomi di due figure che rappresentano due costellazioni celesti. La prima significa Marte retrogrado, la seconda Marte diretto.

[20] Il poeta con un giuoco di parole, che traducendo non è possibile mantenere, suppone che qualcuno possa intendere male il nome pronunciato dal Cavaliere, e confondere fra Dyane (Dafni) e Dyane (Diana). Per un simile bisticcio Cfr. la «Novella del Mercante d’indulgenze» pag. 285.

[21] His eyen were cytryne (gli occhi erano del colore del cedro).

[22] Il testo dice veramente: «la terza ora disuguale dopo che etc.». Secondo il sistema astrologico con cui veniva computato il tempo, il giorno era diviso, dal sorgere del sole al tramonto, in dodici parti, le quali variavano giornalmente, e non erano uguali, in durata, alle ore della notte, se non nel periodo degli equinozi. (Cfr. Hertzberg, op. cit., n. ).

[23] La citazione è così fuori di luogo, che sembrerebbe fatta apposta per distogliere e sviare l’attenzione di chi legge dalla vera fonte. Nella Tebaide di Stazio non c’è nulla di tutto questo: invece una descrizione particolareggiata dei sacrifici onde Emilia onora Diana, si trova nel VII della Teseide (71-76), dal quale il Chaucer, fino dai primi versi in cui racconta come la cognata di Teseo si reco all’altare della dea, ha tradotto quasi alla lettera la maggior parte dell’episodio della invocazione.

NOVELLA DEL GIURECONSULTO

PROLOGO

[1] Espressione proverbiale che ricorre anche altrove. Nella visione allegorica Piers the Plowman di William Langland o Langley, contemporaneo del Chaucer, è detto che «nessun uomo desidererebbe la verginità di Malkin

NOVELLA

[1] Il Wright riferisce, a illustrazione di questo passo, questa annotazione latina che si trova in margine al manoscritto di Lansdowne: «Unde Tholomeus, libro primo, capitulo 8: Primi motus coeli duo sunt, quorum unus est qui movet totum semper ab oriente in occidentem uno modo super orbes, etc. Alter vero motus est qui movet orbem stellarum currentium centra motum primum, videlicet ab occidente in orientem super alias duos polos, etc.»

[2] Dagli astrologi era detto Signore ( Lord ) quel pianeta che secondo loro esercitava un influsso speciale sulle varie ore del giorno, che erano sotto il suo impero. Confesso candidamente che in tutte queste espressioni del gergo astrologico, di cui si compiace così spesso il Chaucer, io riesco a vederci poco chiaro. Chi volesse saperne e capirne di più, veda la lunga nota dell’Hertzberg al verso 4722, dove troverà anche spiegato che cosa sia l’ ascendent tortuous, che io ho tradotto con oroscopo.

[3] La grafia di questa barbara voce astrologica è incerta. Tanto il Tyrwhitt che legge Atyzar, quanto il Wright che scrive, secondo il ms. Harleiano, Attezare, si dichiarano incapaci di dare una lezione sicura. Lo Skeat ( op. cit. ) dice che la vera lezione è Atazir, forma arabo-spagnola che significa: triste influsso.

NOVELLA DEL CHIERICO DI OXFORD

PROLOGO

[1] Il testo dice veramente: «Perchè quando uno è entrato in un giuoco, deve stare al giuoco» ( For what man is entred unto play, He moot nedes unto that play assent ).

[2] Giovanni da Lignano, famoso giurista e filosofo milanese fiorito verso il 1378.

NOVELLA

[1] V. Prologo generale, pag. 25. Costei aveva raccontata la sua novella dopo quella del Giureconsulto.

[2] Il poeta allude ad un’antica favola popolare, probabilmente di origine francese, secondo la quale Chichevache o Chicheface era un mostro che nutrendosi di mogli buone e pazienti, moriva sempre dalla fame, ed era sempre pelle e ossa, perchè gli accadeva molto di rado di potersi sfamare con un cibo così difficile a trovarsi. Sembra che il Chaucer sia stato il primo a ricordare in Inghilterra questa favola, che lo spirito del sagace popolo inglese rese, fino dai tempi del Chaucer, più completa e significante. Accanto a Chichevache troviamo, infatti, un altro mostro chiamato Bycorn, grasso e ben pasciuto per quanto l’altro era magro e rifinito, che si cibava di mariti buoni ed obbedienti, dei quali trovava facilmente abbondante pasto. Per un’antica ballata inglese dove sono introdotti i due mostri, e per un poemetto allegorico di Lydgate intitolato «Bycorne ande Chichevache» cfr. Wright, op. cit., n.

NOVELLA DEL MERCANTE DI INDULGENZE

[1] L’oste fa i suoi commenti alla novella detta poco prima dal Dottore (cfr. Prologo gen. pag. 23);[342][343] il quale aveva raccontato la pietosa storia liviana di Virginia che è uccisa dal padre perchè non sia vittima delle disoneste voglie di Appio Claudio.

[2] Per quante ricerche abbia fatto, non ho potuto trovare notizie di S. Roniano. Forse si tratta di qualche persona che non fu canonizzata veramente, ma solo santificata, per tradizione, dal popolo.

[3] Il Tyrwhitt suppone che il poeta intenda riferirsi alla Epist. LXXXIII, nella quale Seneca dice: «Extende in plures dies illum ebrii habitum: numquid de furore dubitatis? Nunc quoque non est minor sed brevior.»

[4] Il Chaucer ha tradotto letteralmente dalla sacra scrittura: «Multi enim ambulant etc.» Cfr. Filipp. III. 18.

[5] Vicino a Cadiz.

[6] Chepe (Cheapside) era nel medio evo una delle parti del vasto territorio di Londra dove affluiva la classe più ricca della cittadinanza, e dove il commercio aveva uno sviluppo grandissimo. Cfr. Prologo gen., pag. 40.

[7] Prov. XXXI. 6.

[8] Prov. XXXI. 4.

[9] Probabilmente il Chaucer ha tolto questa storia dal Polycraticus, sive de nugis Curialium et vestigiis Philosophorum di Giovanni da Salisbury, che visse durante il regno di Enrico II, fu vescovo di Chartres nel 1176, e morì nel 1180. Il testo del Polycraticus (I, 5), nel quale però invece di Stilbone che si reca a Sparta si racconta di un tal Chilone mandato ambasciatore a Corinto, dice così: «Chilon Lacedaemonius, iungendae societatis causa missus Corinthum, duces et seniores populi ludentes invenit in alea. Infecto itaque negotio reversus est etc.» A questa stessa fonte il poeta ha attinto anche l’altro aneddoto del re dei Parti che per dileggio mandò a Demetrio ( Demetrius Nicator? Cfr, GIUSTINO, Philip. XXXVI. 1) un paio di dadi.

[10] L’abbazia di Hailes in Glaucestershire fondata da Riccardo di Cornovaglia fratello di Enrico III. Cfr. Tyrwhitt, op. cit., n.

[11] L’espressione inglese è drawing cut, ed è quella stessa che ricorre anche nel prologo generale (v. pag. 64), dove io, non essendo riuscito, allora, a capirne il significato preciso, l’ho tradotta: fare al conto. Una nota del Froissart, che pur troppo ho veduto quando il prologo era già stampato, mi ha condotto poi a quest’altra spiegazione che è, probabilmente, la vera. Drawing cut, secondo il Froissart, (cfr. Tyrwhitt, op. cit., n. ) corrisponde all’espressione francese: tirer à la longue, (o courte ) paille. È molto verisimile, infatti, che cut (tagliato) stia ad indicare la paglia tagliata in pezzetti di differente lunghezza. La sorte cadeva su colui, che dal fascetto dei pezzi di paglia tenuti stretti in una mano da uno dei presenti, tirava fuori la paglia più lunga, o più corta, secondo quello che era stato convenuto prima. Questa espressione si trova anche in una filastrocca francese che incomincia così:

Il était un petit navire, il était un petit navire, qui n’avait ja-jamais navigué, qui n’avait ja-jamais navigué...

e in cui si trova questa strofe:

On tira au sort la courte paille, on tira au sort la courte paille pour savoir qui-qui serait mangé, pour savoir qui-qui serait mangé....

[12] Antica moneta inglese.

IL CANTARE DI SER THOPAS

[1] Il miracolo al quale qui si accenna è quello con cui finisce la novella raccontata precedentemente dalla madre superiora (cfr. Prologo gen., pag. 6).

[2] Il Chaucer immagina di aver preso parte anch’egli al pellegrinaggio a Canterbury, insieme con tutti gli altri personaggi da lui descritti nel prologo (cfr. Prologo, pag. 30), quindi, venuto il suo turno, fu pregato anche lui dall’oste di fare il suo racconto.

[3] Ho tradotto la voce payndemayn del testo secondo la spiegazione proposta dal Tyrwhitt, il quale afferma che la provincia di Maine era rinomata, al tempo del Chaucer, per la finezza e bianchezza del pane. L’etimologia, da altri supposta, da panis matutinus ( pain de matin ) è dimostrata erronea dallo Skeat ( op. cit., n. ). L’Hertzberg traduce semplicemente: Semmelbrod.

[4] jane (da Janua=Genoa ). Antica moneta genovese, che non so se corrispondesse, in realtà, alla genovina.

[5] Letteralmente: o buona a conservarsi anche nel baule ( Or far to lay in cofre ).

[6] So swette, that men might him wrynge (Sudava tanto, che si poteva strizzare come un panno fradicio.)

[7] Termagante ( Termagaunt ) o Tervagante era, nella letteratura popolare del medio evo, un dio dei saraceni e dei pagani, terribile per la sua prepotente violenza. Il Bell ( op. cit., n. ) riferisce una romanza cavalieresca intitolata The King of Tars, nella quale il Soldano fattosi cristiano distrugge tutte le immagini dei suoi falsi dei, e fra le altre anche quella di Termagante. Il nome è di origine sassone ( tyr-magan ), ed è rimasto nel moderno termagant che significa, appunto, turbolento, arrogante.

[8] Gli antichi gestours (cantori di geste) qui nominati, cominciarono col cantare fatti e avventure di eroi ( gesta ) presso a poco come gli antichi rapsodi in Grecia. Poi fecero oggetto dei loro canti, insieme con i menestrelli ( mynstrales ) storie romanzesche di armi e di amori, recitando perfino delle vere epopee come quella del Buovo d’Antona. ( Bevys of Hampton ). Cfr. Tyrwhitt, op. cit., n.

[9] Leggo col Wright e col Bell:

And made him eek in a maselyn a real spicerye of gyngebred etc.

[10] Il testo dice veramente: His sadel was of royel boon. Che cosa fosse il royel boon nessuno lo spiega. Il Wright nota che ad ogni modo si deve intendere senza dubbio un materiale che serviva per fare delle selle speciali per valore e bellezza. E cita in proposito un’antica ballata: Thomas and the Elf Queen, nella quale è detto che la sella con cui cavalcava la regina delle fate era:

of reuylle bone,

Semely mas that sight to se, Stifly sette with precious stone.

[11] Il testo dice precisamente: Lo, lordes, heer is a fyt. Per l’origine e il significato della parola fyt che gli scrittori anglo sassoni adoperarono per indicare i diversi periodi metrici e musicali di questi cantari romanzeschi, vedi ciò che riferisce il Bell ( op. cit., n. )

[12] Il Chaucer ricorda qui, molto opportunamente, fra i vecchi cantari cavaliereschi, dei quali le avventure di Ser Thopas sono una spiritosa parodia, alcuni di quelli che erano più in voga, in Inghilterra, al tempo suo. La storia del giovine Horn ( Horn child ) si conserva anche in lingua anglo-normanna, ed è una delle saghe più antiche della letteratura inglese. Quella di Ipotis ( Ypotis ), piuttosto che un vero e proprio romanzo è una leggenda sacra. La materia romanzesca di ser Bevis ( Bevys ) è quella stessa della rozza epopea del Buovo d’Antona. In ser Guy ( sir Gy ) abbiamo la nota saga di Guy of Warwick, il quale combattè con un drago in Northumberland. Il romanzo di ser Libeaux cioè: «Il bello sconosciuto» ( Ly beau desconus ), appartiene al ciclo brettone del re Artù; dell’ultimo intitolato Pleyndamour o Blandamour non si ha notizia, solo lo troviamo ricordato in sir Libeaux. Per la storia e il testo di questi antichi cantari d’Inghilterra cfr. Warton, Op. cit. Ellis, Specimens of Early Eng. Romances. Ritson, Op. cit. PERCY, Essay on ancient metr. Rom., e Reliques of ant. Engl. Poetry. Bernhard Ten Brink Alte Engl. Literatur.

[13] Il romanzo di Ser Percival ( sir Percivelle ) è attribuito a Chrestien de Troyes, e fu scritto secondo il Warton prima del 1191. Per le sue relazioni con la leggenda del Graal vedi Bell, op. cit., n, e Dunlop, Hist. of Prose Fict ion, I, 160 sgg. e 172 sgg.

[14] Il trattato di cui parla il Chaucer è Le Livre de Melibée et de Dame Prudence, dal quale il poeta ha tradotto quasi letteralmente il suo secondo racconto, che è intitolato: La novella di Melibeo. La fonte originale di questa storia, non è però il testo francese di cui si valse il Chaucer, ma il Liber Consolationis et Consilii di Albertano da Brescia.