GEROLAMO ROVETTA

CASTA DIVA

MILANO Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C. Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80 — 1909

PROPRIETÀ LETTERARIA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i Paesi, compresi il Regno di Svezia e Norvegia.

MILANO — TIP PIROLA & CELLA DI P. CELLA

INDICE

Casta Diva Pag. 1

Fernanda 103

Canto di Montagna 141

Il pranzo della Barcaccia 205

A rovescio! 257

In extremis 287

Casta diva

I.

— Opportunisti irresoluti, ambiziosi e... paurosi!... Nient'altro che interesse, vanità e paura! Hai capito?

— Sissignore.

— Il partito, il paese, l'ordine, le istituzioni! Hanno tutto sotto la suola delle scarpe quella gente là! Hai capito?

— Sissignore.

Chi si arrabbia e grida è l'onorevole, cioè no, Sua Eccellenza, o meglio l'ex S. E. Gerardo Parvis, appena arrivato da Roma col diretto della notte.

Ha «offerte» le proprie dimissioni da Ministro delle Poste e Telegrafi, nauseato della debolezza dei suoi colleghi che non hanno avuto nè il coraggio di tener testa all'ostruzionismo, nè l'abilità di disarmarlo.

— Mille volte meglio quegli indemoniati dell'Estrema Sinistra! Sinceri non sono nemmeno quelli là... accozzaglia di idee e di ideali che fanno a pugni. Tutt'insieme, non andrebbero d'accordo neanche loro nel proclamare ciò che vogliono, ma sanno però quello che non vogliono! Contro l'ordine, contro lo stato presente, contro le Istituzioni sono d'accordissimo sempre, tutti, come un uomo solo! E qualche volta riescono persino simpatici per la loro audacia, e hanno ragione di rider di noi e di non lasciarci più nemmeno il diritto di parlare! A che cosa siam ridotti noi? A un branco di pecore, di nullità, gonfi di quattrini, di boria e d'ignoranza. Dall'altra parte anche quelli che non hanno ingegno si affermano con la loro combattività... Dove manca il carattere, la coltura, abbonda la sfacciataggine e la violenza... È vero sì o no?

— Sissignore.

Chi risponde all'ex-Eccellenza è il suo vecchio servitore che gli disfa le valigie, mentre dal gabinetto attiguo alla camera da letto si sente il rumore dell'acqua che riempie la vasca del bagno.

— Furboni, sai, quegli Estremi, con tutta la loro retorica! Furbi e scettici... Gente di poca fede!... Sono i primi loro a ridere dei paroloni coi quali accendono la testa alla folla, ma almeno capiscono i tempi e nel cacciarsi avanti per conto loro, per le loro mire, cacciano avanti anche le loro idee, il loro partito...

— Sissignore.

Prospero, il servitore, è taciturno, quanto il padrone è verboso. Non risponde mai più che «sissignore» o «nossignore» e soltanto quando non può farne a meno. Ogni volta che il padrone arriva da Roma lo accoglie con un: «Ha fatto buon viaggio?» del quale si sente appena: «fat... bon... viag...» perchè il resto delle quattro parole si perde fra le labbra grosse e le rughe del faccione sbarbato, mentre un tenero luccichio degli occhi rivela un affetto intenso per il padrone, il piacere vivo di rivederlo.

— E così, capisci... L'onorevole Parvis, che si è levata la giacca e la sottoveste, siede sulla bassa poltroncina accanto al letto, mentre il servo gli leva le scarpe. — E così; quattro ossessi, ostinati, prepotenti, a furia di parole, di urli e di scenate, sono riusciti a metterci in un sacco e a violare la Camera nel suo diritto sacrosanto, che è poi anche il suo dovere: quello di fare le leggi! Basta, per Dio! Da parte mia, capirai bene, li ho piantati là e non mi ci pigliano altro! A Roma, capisci, non torno più!

— Non torna più a Roma? E il Governo da... comandare?

Prospero non dice queste parole, ma alza il capo, e fermo, colle scarpe fra le mani, guarda il padrone che gli legge la domanda negli occhi. Era avvezzo alle sfuriate del padrone e non udiva nè capiva tutto quanto egli diceva. Era forse anche per questo che l'onorevole Parvis si sfogava così, le sue parole si spegnevano, una dopo l'altra, come tanti fiammiferi buttati nell'acqua. Ma quella dichiarazione di non voler più tornare a Roma, ha fatto al vecchio Prospero una straordinaria impressione. E l'ex-ministro delle «Poste e Telegrafi» — gli avevano dato quel portafogli secondario, perchè in Italia, dove tutto va innanzi per anzianità, egli era parso troppo giovane per un ministero più importante — si sente lusingato constatando che il fatto veramente enorme del suo ritrarsi sull'Aventino, stupisce anche uno zotico testone come il suo servitore.

— Precisamente così! Li ho piantati con tanto di naso! Avranno capito adesso che non facevo per burla, allorchè ripetevo loro che io con i timidi, con i conigli non ci sto, assolutamente non ci sto!

Gerardo Parvis continua per un bel pezzo ancora, ma il vecchio — svanito quel lampo fugace di maraviglia — è ritornato impassibile ed accudisce metodicamente alle sue incombenze, prepara la biancheria calda e fredda, le spugne, le babbucce, tutto l'occorrente per il bagno.

Ad un tratto gli sfoghi dell'ex-ministro contro i colleghi e il silenzio rispettoso e affaccendato del servo, sono interrotti da un abbaiare festoso, poi da un quattire affannoso all'uscio, finché un bolide vivo si slancia contro le imposte a vetri e le spalanca... E un cagnolino lungo lungo, basso basso, dal bel pelo lustro, color marrone, dagli aurei riflessi di scarabeo al sole. Il cane si precipita addosso all'onorevole, gli salta sulle ginocchia e continua ad abbaiare e a quattire torcendosi e allungandosi per arrivare a lambirgli il volto.

— Teo! — esclama Prospero fermandosi ritto. E la luce che gli brilla negli occhi sembra gli spiani le rughe fonde della vecchia faccia. — Teo! Giù! Teo! Qui! Vieni qui!... Teo!

Ma tutto è inutile e anche il padrone tenta invano, con la voce, con le mani di sottrarre il volto alle leccate della bestiola che salta, si arrotola, si allunga e smania sempre più.

Il servitore continua a guardare il cane, poi si volta al padrone:

— Ha sentito subito la sua voce! Lo ha conosciuto subito! Teo! Bravo Teo! Povero Teo!

Teo, — diminutivo del vero nome, — Matteo, — salta fra i piedi del servitore abbaiando, dimenando la coda, dimenandosi tutto, piegando con mille vezzi il lungo testone intelligente dall'espressione umana, come per metter il vecchio a parte della sua gioia. Ma poi subito si volta, corre, si slancia verso il padrone e per raggiungere lo scopo salta sullo schienale della poltroncina e lo lecca sul collo e riesce, finalmente, a lambirgli la faccia.

— Basta! Fermo! Giù! — grida Gerardo un po' infastidito e nondimeno maravigliato e lusingato di tanta festa. Lusingato e commosso.

Quella sua casa d'uomo importante e influente, d'uomo politico e d'uomo di Governo, così piena di gente seccante, noiosa e interessata non appena è noto il suo arrivo, è altrettanto vuota e melanconica ogni volta ch'egli vi capita quasi improvvisamente, come appunto quella mattina.

Il: «ha... fat... bon... viag...» del vecchio servitore, e nient'altro.

— Teo! Teo! — Quel povero Teo! Quanta festa gli faceva e con quanta sincerità! Come gli riempiva il cuore e la casa di affetto e di allegria.

— Sta fermo, dunque! Giù, giù! Basta, Teo! Adesso basta!

... Ma le labbra sorridono, come continuano a sorridere gli occhi del vecchio Prospero che ripete sotto voce:

— Teo! Povero Teo! Ha conosciuto subito la voce!

— Ma se quando sono partito per Roma era un cucciolo di tre o quattro mesi appena?... Davvero! Io non mi ricordavo nemmeno più d'averlo!

— La povera bestiola no, invece!... Quando io mettevo mano agli abiti del signor padrone, Teo vi si sdraiava vicino, vi metteva il muso sopra... e mi guardava come se volesse domandarmi qualche cosa.

Teo capisce che si parla di lui: fermo, attento, fissa il padrone con gli occhi lucentissimi e piegando un po' la testina in atto di dolcezza affettuosa.

Il servo è andato a chiudere il rubinetto del bagno.

— Pronto!

— Vengo!

Ma Gerardo non si muove; accende una sigaretta e sempre sdraiato nella poltroncina accarezza le orecchie del cane che gli si è avvicinato e che messogli il muso sopra una gamba, socchiude gli occhi e sbatte le labbra, con un senso di delizia soddisfatta.

Il giovane ex-ministro, per altro, non pensa già più a Matteo. Quella festa, quell'accoglienza lo portano col pensiero a ricordi lontani, ma che erano sempre i più cari e i più vivi nel suo cuore.

Quasi ancora ragazzo era rimasto senza parenti, e gli anni dell'ardore e della bontà, li aveva dati ad una donna, — non la prima, ma la sola ch'egli avesse amato davvero, — una donna che ben meritava quell'omaggio assoluto di devozione e di passione, una creatura fatta di grazia, di bontà e d'intelligenza, una mente eletta ed un'anima grande, un cuore dolce, affettuoso, sapiente e indulgente, un cuore di donna innamorata.

La cara e fida e buona amica era morta da tre anni e il cuore del Parvis, dopo tre anni, era ancora pieno di ricordi e vuoto di persone. Soltanto il lavoro, un grande lavoro assorbente, e poi gli odi e gli amori, le passioni, le cure e le lotte della politica, lo avevano occupato, agitato e stordito.

Nient'altro!... Nessuna donna, mai. Nè la civetta che si offre, nè la bellezza che si vende.

Giovane ancora, nè la sua anima nè il suo sangue avevano mai avuto un fremito. Lei ancora, sempre Flaviana, soltanto Flaviana riappariva ai suoi occhi nelle brevi soste della stanchezza, ritornava a lui nel sogno.

Com'era stata bella, com'era stata buona! Bella, buona e sicura.

Egli era vissuto, a sua volta, sicuro dell'amore di lei, come di nessun'altra cosa al mondo; sicuro dell'amore, sicuro della fedeltà... E che gioia poter essere sicuro della donna che si ama... e che tormento dover sempre dubitare, sospettare, temere.

Oh, egli aveva saputo amarla in ragione di quanto aveva potuto crederle!... Allorchè si dubita, si disprezza, o si odia: si desidera ancora, forse, con tutto l'ardore, con tutta l'ansia, ma «amare», no; non si ama più.

Ed egli, invece, aveva potuto amare... aveva potuto amarla, sempre, senza una nube, senza una bugia mai, sino alla fine!... Buona, tanto, e bella!... Come rivedeva quel volto classico, pallido, nel quale ardevano i grandi occhi neri pieni d'amore e di devozione... Quanto il suo cuore, quegli occhi e quelle labbra erano stati sicuri! E come era intelligente e lieta e cara e pensosa... e come le sue ansie e le sue gioie, la sua anima e i suoi nervi rispondevano sempre al desiderio, al sogno, al «momento» dell'uomo amante...

— Cara!...

Come gli aveva riempito di sè il cuore e la giovinezza, senza mai attraversargli la via, senza mai essergli d'inciampo, senza mai dargli una pena!... Ed egli — allora! — a' suoi improvvisi ritorni da Roma, come saliva di corsa quelle scale, ansioso...

— C'è la marchesa?

C'era sempre! Il cuore di lei aveva immancabilmente il presagio del suo ritorno; e che festa d'amore quel rivedersi, che luce ne' suoi occhi e che baci per l'improvvisa gioia!

Teo sospira forte scuotendo il muso umido e fresco sulle ginocchia di Gerardo, che torna a fissare il cane, ma con una grande mestizia negli occhi umidi.

— Più!... Non c'è più! E da allora... sei tu, sei proprio tu il primo che mi fa un po' di festa, sincera, soltanto per me! Teo!... Povero Teo! — e Gerardo, scrollando il capo gli accarezza le orecchione calde e morbide come il velluto. — Anche di te posso essere sicuro?

— L'acqua del bagno diventa fredda.

— Eccomi! Vengo subito!

Gerardo si alza vivamente e finisce in fretta di svestirsi, mentre Matteo, preso da una smania di gioia, corre per le camere, gira su se stesso, torcendosi a semicerchio, attraversando a salti, innanzi e indietro, e il letto basso e la poltroncina, e mordendo per ischerzo, delicatamente, i piedi scalzi del padrone.

II.

— Viene anche il Teo, all'Abetone?

— Il Teo?

L'onorevole Parvis guarda Prospero con aria stupita e la bestiola capisce che si parla di lei. Teo, seduto sulle gambe di dietro e ritto su quelle davanti, corte e storte, a roncolo, con gli occhi gialli, d'ambra lucida, fissi, guarda a sua volta il padrone ed il servitore, piega, ora verso l'uno, ora verso l'altro, la testolina con un'espressione d'ansia, con un atto fra interrogativo e supplichevole.

— Prendere anche il Teo, con noi? Diventi matto?

— Perchè?

— Un cane? In viaggio? Figurati che seccatura!

— Durante tutto il viaggio lo terrò con me. Lei non ci pensi; non se ne accorgerà neppure!

Teo, che per quanto inglese puro sangue, capisce benissimo l'italiano di Prospero, gli si avvicina, rizzandosi, tenendosi appoggiato con le grosse zampe alla gamba del suo protettore e leccandogli la mano.

— In viaggio, sta bene... — continua il Parvis. — Ma poi lassù, all'Abetone, all'albergo? Con tanta gente, con tanti forestieri?... No, no, è impossibile! Diventi matto, ti ripeto!

— Anche all'albergo, starà sempre con me. Dormirà con me. Gli darò io da mangiare, lo condurrò io a passeggiare. Lei non ci pensi neppure!

Trattandosi di intercedere per Matteo, per l'amico fedele che sa dire, come lui, tante cose senza parlare, il vecchio Prospero diventa persino loquace.

Ma l'onorevole è insofferente di contraddizioni. Non vuol saperne di cani in viaggio, all'albergo: e siccome l'altro insiste, egli perde la pazienza, si arrabbia, alza la voce, e Prospero, subito, allunga il broncio.

— Allora, mi dirà lei, dove e a chi lo dovrò lasciare! Lo avverto, però, che in un'altra casa non ci sta, certo, nemmeno dipinto!... E poi, quando non vedrà più nè me, nè lei, creperà, magari, anche di fame!

Dopo questo aut aut, e quasi affermando la gravità del problema, Teo torna a fissare il padrone, tenendo la coda bassa e dimenandola lentamente, come aspettando che venga decisa la sua sorte.

— Si potrebbe lasciarlo alla portinaia!

Prospero non si degna nemmeno di rispondere, di voltarsi. Continua a chiudere bauli e valigie.

— Oh Dio! — pensa Parvis, sbuffando. — Ci siamo! — Infatti, quando Prospero si imbroncia ce n'è per un bel pezzo... — Perchè poi, domando io, non si potrebbe lasciarlo alla portinaia?

— Perchè dalla portinaia non ci sta.

Teo dimena la coda più forte. Dice anche lui che dalla portinaia non ci sta. Egli aveva una precisa antipatia contro quella donna per certe vivissime impressioni ricevute sotto l'atrio e lungo le scale, durante la sua prima gioventù.

Gerardo non vuol troppo inquietarsi; s'è inquietato abbastanza a Roma, per cose più serie, e finisce col sorridere a Teo e coll'accarezzarlo, per rappacificarsi col servitore. Riflette, intanto, quale possa essere la maggiore delle sue seccature: viaggiare col cane, oppure col broncio di Prospero che è capacissimo di farglielo godere per tutto il tempo della villeggiatura...

— Starò lassù un paio di settimane, per riposare, camminare, prendere il fresco e per scrivere un paio di articoli sulle condizioni politiche dell'Italia al Daily Express... Poi, basta Abetone! Tornerò a Roma per una settimana. A Roma ci posso andare senza Prospero e Prospero, invece, potrà tornare a Milano con Matteo!

Il muso di Prospero ha dunque ottenuto l'effetto voluto. Gerardo Parvis è ormai disposto a cedere. Adesso, cerca soltanto di salvare l'onore delle armi e quindi continua a guardare e ad accarezzare il cane, mentre domanda al servitore:

— E se poi disturbasse i forestieri?

Prospero, sempre zitto. Ha finito di chiudere i bauli e tutte le valigie e comincia ad arrotolare il plaid.

— Se poi, qualche notte, si mettesse ad abbaiare?

Silenzio perfetto.

— Basta! Sarà quel che sarà! Condurremo anche Teo in montagna! Ma ricordati, Prospero, ci penserai tu!

— Sissignore!

La faccia del vecchio ha un lampo di sorriso, e Teo, dalla gioia, comincia a squittire frenetico, a correre di nuovo in giro per la stanza, a tirare, a mordere la giacca e i pantaloni del padrone; poi afferra colla bocca una babbuccia di pelle e se la porta via scappando sotto le seggiole e il canapè, inseguito dalle grida e dalle minacce di Prospero.

L'onorevole Parvis ha fatto conto di fermarsi a Pracchia e di salire all'Abetone in carrozza, la mattina presto, col fresco, e così prende l'ultimo diretto, quello della notte per Firenze.

Come tutti gli uomini politici e gli uomini d'affari che viaggiano molto e non hanno tempo da perdere, l'onorevole Parvis legge, scrive, lavora anche in treno, nel suo scompartimento. Un ministro, anche dimissionario, trova facilmente il modo di rimaner solo.

Appena il treno è in moto, egli apre la sua valigetta particolare, leva la cartella, il calamaio, poi un fascio di lettere e di carte. Ne sfoglia, ne esamina alcune attentamente, poi le mette da parte e comincia a scrivere. Sente di dover inviare una lettera al suo sotto-segretario, l'onorevole Donadei. Bisogna persuaderlo che non è il caso ch'egli pure dia le dimissioni, e ciò non soltanto per atto di cortesia, abituale in simili casi, ma altresì perchè al Parvis, preme realmente che il suo collaboratore rimanga qualche tempo ancora sulla breccia a sostenere l'urto delle opposizioni postume ed anche delle postume invettive.

La lettera non è facile a scrivere, neppure per un diplomatico fine e consumato come Gerardo Parvis. Ma il rullio del treno, che non gli permette di scrivere in fretta, gli lascia il tempo necessario di meditare sulle frasi. E non c'è male: certe lettere, quando meno ci si pensa, si vedono poi comparire, al solito momento più inopportuno, su questo e su quel giornale.

Le lettere degli uomini politici, come quelle delle donne che hanno più di un innamorato, non sono mai prudenti abbastanza...

« Onorevole amico,

«Se ho avuto qualche perplessità nel risolvermi ad abbandonare le cure e le responsabilità del Governo e se ora ne provo qualche rimpianto, è soltanto pel rammarico di separarmi da lei, di interrompere un'opera con tanta fiducia iniziata insieme e, mercè la sua intelligente e provvida collaborazione, proseguita in mezzo a contrarie fortune, non senza onore ed utilità.

«Ma questo rimpianto si farebbe in me assai più grave e doloroso, e mi indurrebbe quasi a temere di aver recato danno colla mia risoluzione agli interessi del Paese e delle Istituzioni, ove dovessi apprendere, che per eccessiva delicatezza nell'intendere l'obbligo morale di un'antica e fida solidarietà ella intendesse di ritirarsi a sua volta.

«Il Ministero del quale oggidì Ella regge interinalmente e così degnamente le sorti, è d'indole affatto amministrativa, ed in un paese ove le forme rappresentative fossero più progredite, dovrebbe al pari dei dicasteri dell' Agricoltura, del Commercio, dei Lavori Pubblici e così via — essere sottratto alle vicende troppo di frequente mutabili della politica parlamentare. A questo carattere imperfetto del nostro ordinamento, procuriamo di riparare, anche a costo di personali sacrifici, noi tutti, uomini d'ordine, zelanti del bene pubblico; ed Ella, ne offra l'esempio col rimanere...»

A questo punto, il treno rallenta, poi si ferma nella stazione di Lodi.

Il Parvis sente, tra il fragore del convoglio, il trepestìo dei passeggieri e il gridare dei conduttori, un abbaiare furioso; è la voce di Matteo!

— Bravo!... Cominciamo bene!

Poco dopo aprono lo sportello dello scompartimento. L'Onorevole si volta, guarda... È Prospero, confuso, impacciato, che tiene Teo fra le braccia, Teo che si agita, si dibatte nervoso, furioso, inquieto.

— Che vuoi?... Cosa c'è con quel cane?

— Sa che lei è qui vicino, e non vuol più stare con me!... Non ha fatto altro che abbaiare e smaniare tutto il tempo!

— Te lo avevo detto io!... Avevo preveduto che sarebbe stata una seccatura! «Lei non ci pensi! Lei non ci pensi!» E poi subito, tanto di muso, ostinato, testardo!

Ma più del vecchio servitore, che rimane a testa bassa, l'ostinato e il testardo è Teo, che si divincola, si torce più che mai per sfuggire dalle braccia di Prospero, e ringhia al conduttore, che tenendo con una mano lo sportello, coll'altra cerca di accarezzarlo.

— E adesso che facciamo?

— Lo tenga con lei...

La campanella, il fischio...

— Partenza!...

Teo fa il diavolo a quattro e Prospero non riesce più a trattenerlo.

— Dà qui! E ricordati: se non sta tranquillo, alla prima stazione vi lascio a terra: te e la tua bestia! Tutti e due!

Il cane è già saltato sul sedile, sulle ginocchia di Gerardo, che lo accoglie con uno spintone e uno scappellotto. Ma Teo, in questa circostanza, non si mostra permaloso. Scuote, pieno di allegrezza, le orecchie e la coda, e poi corre a rizzarsi sul finestrino per guardare fuori.

— Fermo! E quieto! — impone Gerardo con voce aspra e alzando la mano in aria di minaccia.

Teo capisce... e non capisce. Si acquatta di colpo, si stende sulle quattro zampe. Ma poi, alzando gli occhi, senza alzare la testa, fissa il padrone attentamente, e lo studia, ancora poco persuaso che quel tono di minaccia non sia uno scherzo.

Prospero frattanto è scomparso; il treno si ripone in moto e l'onorevole Parvis ricomincia a scrivere e continua la sua lettera all'onorevole Donadei.

Matteo, queto queto, stirandosi sul cuscino, si avvicina al padrone e pone la punta del musetto, lustro ed umido, sulle ginocchia di lui, senza muoversi più. Solo, di tanto in tanto, apre ed alza gli occhi, sempre senza alzar la testa, e guarda Gerardo con una lunga occhiata affettuosa; poi sbatte le labbra mandando sospironi di soddisfazione.

Quando il treno giunge a Pracchia, comincia ad albeggiare. Fra le varie carrozze che attendono presso la stazione, Matteo distingue subito il più bel landò a due cavalli, e mentre i facchini scaricano i bauli e le valigie, egli salta in carrozza, rimanendo appoggiato accanto allo sportello aperto, sempre guardando il padrone e dimenando la coda a Prospero, quando il vecchio servo si avvicina, per far caricare il bagaglio nella carrozza.

E per tutto il viaggio, per tutta la salita, Teo non fa altro che passare da un capo all'altro del sedile, in faccia al padrone, allungandosi quasi ad aspirare con delizia i buoni odori della campagna, fiutando Prospero per accertarsi che sia sempre ben lui l'uomo che siede a cassetta presso il cocchiere; poi di nuovo, di qua e di là, spingendosi molto all'infuori dello sportello, quando sulla strada passa qualche mucca o qualche pecora, balzando fin sul mantice del landò quando la vettura s'incontra in un qualche cagnaccio ringhioso che le corre dietro latrando.

L'onorevole Parvis sorride a Teo, sorride a quella gioia quasi bambinesca e involontariamente apre l'animo alla stessa allegrezza, si sente preso dallo stesso ingenuo benessere.

A mano a mano che la strada sale e l'aria si fa più pura ed elastica, e dalla foresta, che si stende verde e cupa a ridosso della montagna, esalano più forti i profumi delle resine sotto il sole, anche i pensieri dell'ex-ministro sembrano sollevarsi, farsi più tenui, più languidi. Quei buoni aromi del monte gli penetrano nel cervello, come un blando narcotico, e lo inducono a una lieve sonnolenza cullata dal moto della carrozza, che i cavalli oramai trascinano al passo, su per l'erta, sostando tratto tratto, per riprender fiato. E di quelle fermate, Gerardo Parvis non si indispettisce; tutt'altro! Per la prima volta, dopo tanto tempo, non ha nessuna fretta di arrivare: non ha più nulla che lo stimoli, che lo urga a fare o a dire: non aspetta nessuno, non si prepara a parlare con nessuno, comincia a non pensare più a niente, o quasi!

— Che silenzio!... Che delizia!

Poi quell'odor forte della resina che lacrima attraverso la scorza bruna degli abeti, gli richiama la fragranza dell'incenso, che fanciullo aspirava con avidità, nella lunga noia delle cerimonie religiose, al suo paese, nella cappella della ampia e melanconica villa paterna.

— Quanto tempo è passato! Quante cose, quanti dolori, quanti amici, quanti nemici!

Ma è inutile. Anche il cumulo delle memorie non vale a rattristarlo sotto quel bel sole, in mezzo a quel verde, a quel silenzio, a quella solitudine! Il silenzio! La solitudine! Che ristoro, che carezza, che pace, che vita nuova! Non par vero che lui, proprio lui, è lì, su quella strada, solo con Prospero, con Teo, col vetturale e non è obbligato nè ad ascoltare, nè a dire, nè a pensare niente, proprio niente, più niente! I soli rumori che ode sono anch'essi discreti, diversi dai rumori soliti: il passo dei cavalli, ogni tanto la musica argentina delle sonagliere scosse, od un sommesso squittire di Teo, che sembra matto di gioia e di piacere, od il ronzìo di un moscone che batte contro il cuoio del mantice e se ne va, o il fruscio d'ali d'uno scarabeo che fende l'aria luminosa con un barbaglio d'oro e scompare...

Più niente, più nessuno!... Riposo, riposo e pace; la pace profonda, immensa che ha sospirato tante volte, con una nostalgia da studente e da innamorato, in mezzo ai fastidi, alle cure, ai disinganni, alle ire represse, alle ipocrisie forzate della sua vita occupata, preoccupata, eccitata, tutta per gli altri... Come si sente bene, anche di nervi e di stomaco!... Non prova neppure più il bisogno di accendere sigarette, una dopo l'altra, come poche ore innanzi, in treno... Forse è una illusione, ma gli sembra già di avere appetito... Appetito, di quello buono, che fa pensare all'odore del pan fresco e del formaggio, non già quel languore, quegli stiramenti del ventricolo, a bocca amara, che lo avvisavano di aver lasciata passare l'ora del pranzo o della colazione, per sbrigare tutto quello che a sbrigare non si arriva mai!... Più niente! Più nessuno!

La strada sale continuamente e i villaggi, i casolari, giù nelle vallate ridenti, si fanno sempre più piccoli. Come si fanno piccine anche le impressioni, le cose, le battaglie che fino alla vigilia ingombravano la sua mente, agitavano la sua vita! Come appare meschina e perfida la grande politica di Stato, di fronte a quel cielo così vasto e così puro! Ed anche la sua missione di salvatore della patria e della umanità, quella persuasione intima, inavvertita di essere indispensabile al bene degli altri, non è una fisima, una vanità? Il Parvis comincia a dubitarne, vedendo come tutto intorno fiorisca e gioisca la vita, in un distacco assoluto, in una perfetta ignoranza di tutto quanto si agita e si trascina al basso, nei grandi centri del cosidetto mondo civile... Anche gli uomini — quei pochi uomini che appaiono a rari intervalli sulla via e che la carrozza si lascia dietro — gli sembrano uomini di un'altra razza: più fieri e più onesti nei loro poveri panni, di tutti i suoi colleghi e clienti e adulatori e denigratori di Roma e di Milano, in frak e cravatta bianca... Quasi quasi gli spiace di arrivare anche all'Abetone... Vorrebbe passare la sua vacanza, tutta intera, in quel bel deserto verde, fatto di frescura e di silenzio.

All'Abetone, fra la folla elegante, sempre a caccia del più piccolo incidente atto a rompere la monotonia della vita, la venuta dell'ex-Eccellenza delle cui dimissioni avevano tanto parlato i giornali, fu un avvenimento vero, importante.

Era stato consultato l'orario e fatti i calcoli. Si sapeva che l'onorevole Parvis sarebbe arrivato in landò a due cavalli e che quei due cavalli impiegavano nella salita tre ore e mezzo. L'onorevole Parvis doveva dunque giungere all'Abetone verso le dieci.

E verso le dieci, la larga strada fiancheggiata ai due lati, dalla locanda e dalla Succursale, formicolava di villeggianti incuriositi.

Quando, sullo stradone, allo svolto ove finiva il bosco d'abeti, spuntò la carrozza, vi fu un mormorìo.

— È venuto col Narducci!

Il Narducci era il più bravo vetturale, quello che aveva il più bel landò e i migliori cavalli, dell'Abetone e di tutto Boscolungo.

Poi, quando il landò fu vicino alla locanda, chi attirò l'attenzione generale fu Teo, sempre appoggiato colle zampe allo sportello, Teo che guardava a sua volta e fiutava curiosamente quei signori e quelle signore.

Al Parvis la vista di quella folla, il «bel mondo» di Firenze, di Napoli, di Palermo, riunita dalla indiscrezione e dalla smania del pettegolezzo intorno alla sua carrozza, dà un senso di uggia invincibile. Addio buon umore, addio serenità di spirito, addio godimento ingenuo e profondo della campagna, della montagna! Egli ha sperato invano in un altro paese; il paese è sempre quello! L'uomo, come la formica, s'illude inutilmente di trovare la solitudine: gira e rigira, quando meno se lo crede, si trova di nuovo in mezzo al formicaio.

— Piccolo caaro!

L'albergatore accorre, tutto ossequioso, apre lo sportello della carrozza e il Parvis sta per scendere, quando lo scuote il «piccolo caaro » pronunciato con voce tenera e armoniosa, il languore del doppio a, strascicato. Mette piede a terra e si volge.

È uno splendore di ragazza, tutta vestita di bianco, ritta in mezzo ad un gruppo di altre signorine, ma di tutte più alta, più bella, più viva.

Sotto l'enorme cappellone di trine e di nastri rosa, le si avvolge confusamente la massa ondulata dei capelli neri, e luccicano gli occhi pure neri, nerissimi, di un nero lucente: di fuoco.

— Bella creatura!

Per l'onorevole Parvis la «bella creatura» ha anche il merito di non occuparsi di lui, ma di Teo, e Teo, riconoscente, appena balzato di carrozza, le fa festa intorno, poi subito segue il padrone, fiutando di qua e di là, fiutando lungo le scale, nella camera, intorno ai bauli, alle valigie, sotto il letto, come per una prima ricognizione ed una presa di possesso dei luoghi e delle cose.

Le camere sono al primo piano, le finestre sono aperte e dalla strada sale un brusìo di voci fresche ed allegre, e fra tutte, più fresca, più allegra, come una risata, la voce già nota del «piccolo caaro ». Il Parvis vuol restare solo e Teo deve andarsene con Prospero. Ma quando il padrone ha finito la sua toletta, prima ancora che richiami Prospero, ecco Teo, — il quale ha già imparato la strada, — precipitarsi contro l'uscio ed entrare nella camera come una bomba: Prospero, lo segue, con la faccia soddisfatta.

— Teo ha già fatte amicizie!

— C'è qualche altro cane, all' Hôtel?

— No, no! Amicizia... con una bella signorina! E Prospero accarezza la bestiola, come approvando il suo buon gusto nella scelta.

Il Parvis non dubita neppure chi sia la bella signorina. Rivede la figura bianca, gli occhioni neri sotto il grande cappellone rosa, e di nuovo sente la melodia, l'incanto del doppio a, di quel caaro...

— Ha fatto amicizia, povero Teo!

Mentre Prospero continua ad accarezzare il fido amico, Gerardo si avvede che anche sul viso di limone del vecchio servitore, quella apparizione di donna giovane e fiorente ha gettato come un raggio di calore e di luce.

— Piccolo caaro!

III.

Gerardo Parvis era un polemista ed un oratore violento e, certe volte, persino aggressivo. Sul terreno, in quegli anni in cui i duelli erano ancora di moda, era stato un avversario pronto e assai temibile; tuttavia nel suo carattere c'era un fondo di timidezza che pure nelle lotte della tribuna parlamentare e nelle vicende rumorose della vita pubblica non era ancora riuscito a vincere interamente. Anzi, questa sua timidezza, non scemava punto, ma, al contrario, si faceva più viva, a grado a grado che aumentavano la sua fama e la popolarità del suo nome.

Al primo presentarsi in un teatro o in una sala o in qualunque altro luogo, in mezzo alla gente, egli rimaneva un istante confuso, impacciato da tutti gli sguardi curiosi che gli si fissavano addosso. Egli doveva sempre fare uno sforzo per vincersi, per mostrarsi sicuro e disinvolto; ma questo sforzo non sempre gli riusciva e allora il Parvis nascondeva la propria timidezza sotto una apparenza seria, quasi dura, pronunciando poche parole tronche e imperiose.

Quel primo giorno, in montagna, entrando per far colazione nella grande sala, lunga, bassa e così affollata e rumorosa della locanda, egli si sentì ancor più viva e più fastidiosa l'impressione di debolezza che lo turbava e lo impacciava.

Le due lunghe tavole erano piene. Non un posto vuoto. Subito al suo presentarsi, era cessato per un istante il cicalìo e il risonare delle posate e dei cristalli; tutti gli sguardi si erano alzati e fermati sopra l'onorevole Parvis.

«Per un ex-ministro era ancora giovane! E molto elegante!... Aveva un aspetto simpatico!... — Doveva avere del talento! — Certo, per arrivare, sia pure soltanto alle «Poste e Telegrafi», di talento ce ne vuole!

Lo fissavano con ostinata curiosità anche gli occhi neri, nerissimi, della bella signorina del grande cappellone tutto bianco e tutto rosa.

Gerardo, aveva veduta l'amica di Teo, prima di guardarla; anzi, più che averla vista, l'aveva sentita.

— Che combinazione! Era lì, proprio lì, dinanzi, in faccia al suo tavolino!

Per restar solo, per non conoscere nessuno, l'onorevole aveva ordinato per sè un tavolino a parte, e glielo avevano tenuto e preparato proprio in faccia all'amica di Teo!

Il primo cameriere, in atto di grande deferenza, aspettava i suoi ordini, porgendogli la lista del giorno.

Gerardo la guardò un momento.

— Devo ordinare, invece, per sua Eccellenza, una costoletta alla milanese con patate soufflées? Oppure un buon chateaubriand au beurre d'anchois?

— Come volete. Quello che c'è. Purchè si faccia presto!

— E vino, Eccellenza?

— Niente Eccellenza e niente vino! Soda e cognac.

Gerardo ha fra le mani la Tribuna, e mentre aspetta che gli portino la colazione comincia a scorrerla lanciando occhiate in giro, senza parere.

Varie di quelle facce non gli riuscivano del tutto nuove.

— Quanta fatica dovrò fare per impedire le conoscenze, i riconoscimenti e i complimenti!

Nella sala erano ricominciate le conversazioni e a mano a mano diventavano più animate e rumorose. Le pronunzie delle varie regioni spiccavano più nettamente fra quel brusìo festevole e cerimonioso. L'accento piemontese rispondeva al toscano, il napoletano e il siciliano al milanese, e la parlata veneta rumorosa alla romana aggraziata e melodica. Ma ben chiara, scolpita, fra quelle mille voci diverse e stonate, giungeva al suo orecchio la voce fresca di quella tal signorina — l'amica di Teo.

— Piccolo caaro!

Parlava benissimo; senza tradire nessun dialetto. Doveva essere dell'alta Italia... milanese no. L'avrebbe veduta qualche volta a Milano.

— Signorina? — Perchè signorina?... — Che cosa ne sapeva Prospero? — Poteva essere benissimo anche una signora.

Gerardo, colla scusa di voltare la pagina della Tribuna, lanciò un'altra occhiata.

— Signorina! È ancora signorina...: Pure, per essere una signorina, è molto disinvolta! Troppo disinvolta!

Seduta in mezzo a due giovanotti, che sembravano piuttosto due giovinetti, col viso sbarbato e smorto, rimpicciolito dall'abbondante e folta capigliatura, ella parlava molto, rideva molto, si moveva molto.

— Signorina, sì; ma già un po' civetta!

Ecco il cameriere col chateaubriand, l'onorevole ripone la Tribuna, e intanto guarda ancora il cappellone rosa e i due vicini.

Dalle giacche bigie, larghissime, spuntavano i colli impiccati negli alti solini rigidi.

— Che caricature... Con la marca autentica dell'imbecillità fatua e pretenziosa!

— Pure, bisogna essere così per piacere alle donne!

E al Parvis, sfugge un sospiro. È forse il rammarico di essere diverso!

— Com'è più viva e radiosa lei, di quei due lì,

Pareva un caldo fiore dell'Oriente, un sole di luce, in mezzo a due candele spente!

— Eh! Se io fossi ancora giovane! Mah!... Potrò diventare presidente del Consiglio, ma giovane non lo ritorno più, pur troppo!

E l'onorevole, per la prima volta, sospira alla bella gioventù sparita, sparita per sempre, senza che egli nemmeno se ne sia accorto!

All'Abetone, le noie della celebrità furono, per fortuna, di breve durata. Quel giorno stesso all'ora di pranzo, la sua entrata nella sala non fece più voltar la testa a nessuno.

Come mai?... La bella amica di Teo è partita?

Così pensa Gerardo mettendosi a sedere, ma poi la vede al suo posto, fra i due soliti cavalierini rigidi, impettiti e angolosi, come due cavallette nell'abito di sera.

— C'è! C'è!

Ma non c'è più il cappellone!... Peccato!

Nessuna signora aveva il cappello. Gli uomini in smoking o in frak, le signore in toilette; non c'era più nella sala l'allegria espansiva della mattina; correva invece per le due lunghe tavolate un'aria compassata di grande sussiego e di musoneria.

— Peccato! Stava così bene con quel grande cappello alla moschettiera!

Mentre l'onorevole pensa al cappellone, il signor Vincenzo — il primo cameriere, — aspetta i suoi ordini.

— Date anche a me il pranzo del giorno!... Il solito della pensione.

L'inchino del signor Vincenzo si fa, involontariamente meno profondo. Tante raccomandazioni e tanto strepito per un ministro... che non ordina nemmeno un extra e beve la soda!

Bel ministro e bel Governo «da carovana!»

Il Parvis si accorge d'essere un po' in ribasso nella considerazione del signor Vincenzo e nota pure di non destare più nessuna curiosità nell'amica di Teo, la quale mangia di buon appetito e come alla mattina parla, ride, scherza... ma senza occuparsi affatto di Sua Eccellenza!

— Ha un tipo espressivo; tuttavia dev'essere una ragazza inconcludente! Come può divertirsi tanto ai discorsi di que' due scimuniti?... — Perchè sono due scimuniti!... Positivo!... — Senza cappello ci perde moltissimo! È molto meno bella; non sembra più lei!

— Desidera senape inglese, o worcester sauce! — domanda il signor Vincenzo passandogli vicino.

— Datemi il Secolo e il Corriere della Sera.

E fra un boccone e l'altro comincia a leggere i due giornali.

Dio, la politica!... Sembra una cosa tanto grande e non è che un pettegolezzo così piccolo! — Baruffe chiozzotte! — Invidie e gelosie, ambizione e volgarità! È l'interesse proprio, colla scusa di fare quello degli altri.

L'amica di Teo aveva però una voce ben singolare! Che voce strana! Non era forte, eppure come la si sentiva bene, anche da lontano! Che bella voce, calda, penetrante!

— Una bella voce è una gran bella cosa! Deve avere anche dello spirito, la signorina. Quelle due mummiette vive sono condotte per il naso — si vede — che è un piacere! — Come ride di gusto e come ride bene! — Sfido io a non rider bene con quei denti! Che bianchezza! È una bocca abbagliante!

— I bei denti sono una gran bella cosa! — Che età potrà avere? Non deve essere più giovanissima!...

L'onorevole Parvis l'osserva, questa volta con coraggio, attentamente.

La giovinezza trionfava in lei, in tutto il suo pieno rigoglio: ogni linea, ogni contorno era vivente e fiorente, mentre il volume enorme e capriccioso dei capelli nerissimi sembrava dare alla sua carnagione un brunito di sodezza e di forza.

— E pensare che con tante belle ragazze e con tante belle donne che ci sono al mondo, io ho speso le ore migliori della mia vita con Saracco... e con Zanardelli! — Al diavolo il Governo e la politica, la Camera e il Senato! — E sua madre? — Ci sarà la mamma, certo. — Dov'è? — La vecchia gialla che le sta di faccia? — No! No!... Non le somiglia affatto! Più che altro, ha l'aria di essere un'istitutrice. — Ad ogni modo, madre o istitutrice, perchè non le sta accanto? Una ragazza seduta in mezzo a due giovanotti, che le fanno la corte... Come sono cambiati i costumi e gli usi del mondo! A' miei tempi...

Ma a questo punto, mentre l'onorevole Parvis, occupato da così gravi pensieri, si serve distrattamente dell'arrosto e dell'insalata, è richiamato d'improvviso alle piccole realtà della vita e dell'Abetone da una gravissima disobbedienza commessa da Teo.

... Com'è stufo il povero Teo di passeggiare su e giù dinanzi alla locanda, legato e tenuto al guinzaglio dal vecchio Prospero! Ogni tanto dà una grande strappata e tenta di mordere il laccio. Peggio ancora quando passa vicino al portone dell'albergo: si ferma, puntando le quattro zampe, s'allunga prodigiosamente. Ma non c'è verso! — Prospero continua passo passo, trascinandoselo dietro inesorabile e muto come il destino.

Teo si arrabbia, brontola riottoso, ma intanto medita il colpo, e sta attento.

Un po' innanzi, passato l'albergo, la valle si apre spaziosa e libera, tutta verde di abeti; e in fondo alta, nuda, rocciosa la vetta del monte Cimone prende, in quell'ora del crepuscolo estivo e dopo l'ultima doratura infocata del sole, una tinta arancia, poi violacea, poi quasi rosea, in sullo sfondo, limpido e terso, del cielo azzurrino.

La giornata non era stata mai tanto bella, nè il tramonto tanto maraviglioso. Prospero contempla a bocca aperta, e Teo, che lo vede in estasi, non perde l'occasione: una terribile strappata e via come una saetta! Infila la porta dell'albergo, infila l'uscio della sala da pranzo e sempre a tutta carriera e sempre tirandosi dietro il guinzaglio passa sotto le tavole, fra le gambe della gente, fra le sottane delle signore, fiutando, annusando, frugando di qua e di là, in cerca del padrone di cui sente l'odore, ma non trova ancora la traccia.

Il monotono sussiego della table d'hôte è rotto come per incanto: due vecchie inglesi — detestate alla lor volta dai villeggianti, per l'odio che portano alla sigaretta — si alzano spaventate e inorridite, sbattendo i tovaglioli per difendersi. Teo, credendo l'atto uno scherzo e un incitamento, corre loro addosso saltando e abbaiando. Tutti ridono e molti gridano per far del chiasso.

— Teo! Qui! Teo!...

— Piccolo caaro! — esclama l'amica, colla sua voce più languida e più tenera e con un accento di ammirazione e di protezione.

Caaro! Caaro! Piccolo caaro!

— Teo! Teo! — L'onorevole è furioso. Quel piccolo caaro gli rimescola il sangue più dell'ira ridicola delle due vecchie inglesi.

— Teo! Qui! Subito!

Teo comprende al tono che non è il momento di scherzare. Prima si rimpiatta sotto la tavola, poi esce fuori quatto quatto, tutto basso, tutto lungo, tutto storto, la coda fra le gambe e sbirciando il padrone.

Gerardo afferra il guinzaglio e di colpo, sollevandolo mezzo da terra, lancia il povero Teo fra le gambe di Prospero che aspettava timoroso sull'uscio e che a sua volta acchiappa il cane e scompare.

— Povero piiccolo... Che cattiveria!

L'onorevole sente appena queste parole volare nell'aria, sente il lamento, il rimprovero che gli è diretto e torna a sedere al suo tavolino con una faccia così seria e torva, come se non si trovasse dinanzi ai quarti di un pollo arrosto, ma di fronte ad una schiera di ostruzionisti!

Passata la collera, gli resta in corpo la stizza. Va presto su, nella sua stanza per dormire. Lo ha preso la stanchezza delle due notti passate in ferrovia e più ancora dell'aria diversa della montagna. Ma prima di coricarsi, dà una lavata di testa sonora, al povero Prospero, che lascia passare la burrasca senza fiatare e questa volta senza metter muso, perchè riconosce il proprio torto.

— Dov'è quella bestiaccia maledetta?

— Lì.

Prospero indica una poltrona in fondo alla camera sulla quale c'è una coperta e sulla coperta Teo, raggomitolato, ma che è stato attento, senza parere, a tutta la grande sfuriata.

— Se lo fai un'altra volta! Se vieni in sala un'altra volta, stai fresco! — E Gerardo, che ormai s'è sfogato, alza ancora la mano, ma nell'atto, più che una minaccia, c'è adesso un invito... Teo non si muove: gli occhi bassi, socchiusi, guardano da un'altra parte; invece di Prospero è lui, questa volta, che tiene il muso al padrone.

— Bravo Teo! Hai più fierezza e più carattere di molti miei colleghi!

Gerardo, ridendo, si avvicina al povero Teo per accarezzarlo e far la pace, ma a un tratto si ferma sospeso e sorpreso...

Dalla sala terrena della Succursale di faccia — la sala dell'albergo riservata al ballo, alla musica e alla conversazione — dopo i primi accordi incerti del pianoforte, si è levata e sale nell'aria una bella voce di soprano, limpida e squillante, un canto largo e pieno che riempie tutta la strada e tutta la valle.

È una romanza del Massenet che ripete ad ogni ritornello in tutti i toni, con tutte le cadenze, e con l'estasi più appassionata le parole: Je t'adoore!...

— È la signorina! — borbotta Prospero vedendo il padrone come incantato.

— Quale signorina?

— Quella del Teo!

Non c'era dubbio: i due oo del t'adoore, avevano la stessa intonazione dei due aa del «piccolo caaro! »

— È una signorina di famiglia molto nobile; ma vuol darsi al teatro lo stesso, perchè non ha più nè padre, nè madre e ha pochi soldi.

— Come lo sai?... Chi te l'ha detto?

— La signora Clotilde.

— E chi è questa signora Clotilde?

— La cameriera della signorina. Siamo vicini di tavola. — La signorina è una marchesa. Marchesa D'Albaro di Genova.

Gerardo fissa il servitore stupito.

... Oh bella! Quella mutria taciturna del signor Prospero che all'Abetone diventa loquace e pettegolo!

IV.

L'onorevole Parvis non dormì bene quella prima notte; anzi, non dormì affatto. Era troppo stanco e troppo agitato. E poi non era ancora abituato all'aria, al clima, alla montagna alta.

Non potendo dormire, era rimasto tutta notte in preda al «Je t'adoore!», anche dopo che la marchesina D'Albaro, ricevuta una duplice salva di applausi, si era ritirata con la sua istitutrice ed era andata a dormire.

Il Parvis aveva sentito i complimenti che le erano stati fatti giù in strada, i saluti e il ricambio della buona notte.

— Al teatro!... Sarebbe andata a finir male!

L'onorevole Parvis, che in vita sua era stato assai poco a teatro e che non era forse mai salito sopra un palcoscenico, aveva tutti i pregiudizi comuni a chi vede da lontano le quinte e i camerini.

— Sola e libera? Sul teatro!

Gerardo era contrariato e indispettito. L'onda di simpatia era svanita. Egli, ad un tratto, provava quasi del risentimento contro la marchesina. E lì, nel buio, dalla Gilda alla Tosca, tutte le eroine delle poche opere che ricordava, gli passavano innanzi nella loro posa più provocante... ma tutte col viso, colla bocca e con gli occhi della giovane e bella amica di Teo.

— Farà certo fortuna con quella sua bellezza! E anche con quell'espressione che sa dare al caaro e al «Je t'adoore!».

— Auf!... Non si può dormire all'Abetone!...

Era venuto per godere il fresco e invece soffriva un caldo, un'afa, che gli mettevano la smania addosso!

— Che letto incomodo!... E quanta gente antipatica, odiosa!

Ma a lui che cosa importava della gente? Era venuto all'Abetone per passeggiare e per riposare con la testa e con lo spirito. Avrebbe fatto una vita assolutamente solitaria. Poi aveva tante cose da leggere e tante lettere e tanti articoli da scrivere!

— Non voglio conoscere nessuno e non voglio parlare con nessuno. Lunghe escursioni, faticare tanto da poter dormire e poi a tavolino!... E se qui non mi sentirò sicuro, cambierò locanda... e se occorre, anche paese!

La mattina dopo, si alza prestissimo, gira nel bosco per un paio d'ore e poi, evitando la gente, ritorna all'albergo e sale in camera sua, dove trova Teo che gli fa quattro salti e una corsa in giro, ma che torna subito ad accucciolarsi, avvolgendosi in sè stesso sulla poltrona.

— Ha sonno! È stanco, povero piccolo!...

Gerardo non s'è accorto di chiamarlo piccolo, «povero piccolo» come l'ha chiamato la signorina del cappellone.

— Povero piccolo!... Tu dormi ed io mi metto a lavorare.

Infatti, siede al tavolino e comincia il suo primo articolo al Daily Express.

Ma quando si dorme male, non si può poi scrivere bene. È impossibile! — L'onorevole Parvis quella mattina non è di lena.

... E il pianoforte della Succursale che non tace mai!

— È un'ira di Dio!... È proprio la terra dei suoni e dei canti, l'Abetone!

Ma non sono gli accordi della sera innanzi! Non sono gli accordi della romanza di Massenet; non è il Je t'adoore!

Il Parvis resta per una buona mezz'ora assorto e pensoso... e la carta che ha dinanzi, per quella mattina, rimane bianca e intatta.

— Andiamo, Teo! Andiamo a fare un'altra passeggiata! L'articolo al Daily Express lo scriveremo dopo colazione.

Si era di piena estate, eppure lassù si respirava un'aria fresca di primavera! Il verde ancora tenue sotto il verde carico e cupo dei vecchi abeti; nei prati le margherite e i vergiss, nelle rive ombrose fra il murmure del rio e lo spionciare delle cingallegre, le violette e le fragole. La primavera! La primavera!

Come consola gli occhi, come accarezza il viso e penetra nel sangue ed anche nel cuore con un infinito e dolce benessere!

— Mi sento più giovane in montagna! — Andiamo Teo! Andiamo a fare una bella passeggiata! Siam qui per riposare e non per lavorare! Ci divertiremo, mangeremo di buon appetito e ci faremo buona compagnia!... Noi soli, sempre soli!... E tu, bravo Teo, sta attento e fa la guardia! Se vedi un seccatore da lontano, abbaia! E se ti viene vicino, ringhia e mordi! Qui non sei costretto a portare la museruola; all'occorrenza approfittane!

Teo, che ha ascoltato il lungo discorso, standosene attento con una gamba davanti ripiegata e sospesa, con la testa inclinata da un lato, alzando, allargando le orecchie, fissando, dilatando le pupille, fa un atto di assenso con un piccolo starnuto e via come il vento, giù dalle scale, guaiolando prima, non di dolore ma di gioia, e poi fuori all'aperto, innalzando lui pure il suo inno alla primavera e alla montagna con festevoli latrati che echeggiano risonanti nel silenzio della valle!

Ma in quanto al non fare conoscenze, il signor Matteo è di tutt'altro avviso e di tutt'altri gusti dell'onorevole Parvis! All'Abetone lui vuol vivere nel bel mondo, giuocare con tutti, divertirsi con tutti! E specialmente con le signore! Quando ne vede una in distanza si acquatta, prima, allungandosi e poi prende la corsa saltandole addosso.

— Teo! Qui, Teo!

Il grande stradone fiancheggiato dagli abeti comincia a popolarsi. Dai boschi spuntano le signore nelle bianche toilettes mattinali, circondate, seguìte dagli eleganti cavalieri. E Teo, ormai reso popolare dalla scena del giorno innanzi con le due vecchie stizzose, riceve da tutti saluti e carezze, che gli sono prodigate anche per ingraziarsi il padrone.

— Teo! Qui!... Teo!

Teo si volta un momento con la testa, sbatte le orecchione ricadenti come foglie di lattuga appassita, e poi di nuovo salti, giravolte, cerimonie, di qua e di là, con tutti quelli che incontra, purchè sia gente ben vestita.

A un certo punto, dove la strada si biforca nel bosco, l'occhio di Gerardo si fa torbido, il viso accigliato:

— Teo! Qui! Teo!

Ha visto sbucare dal verde folto il grande cappellone a trine bianche e a nastri rosa, seguìto dai due soliti giovinotti o giovinetti, vestiti pure di chiaro, il berretto bigio, e con in mano le racchette e la reticella, con le palle del tennis.

— Teo! Qui! Teo!

Ma che!... Teo si è già abbassato, allungato e all'invito di un — piccolo caaro! caaro! caaro! — si precipita incontro alla sua amica del dì innanzi, le salta addosso, riesce a leccarle la faccia, poi, sempre di corsa, torna indietro a far festa al padrone, e poi di nuovo alla signorina, e poi di nuovo, al padrone, come per far capire all'una e all'altro che ormai devono essere amici tutti e tre!

La bella marchesina saluta l'onorevole Parvis con un cenno grazioso e signorile del capo: i due giovanotti o giovanetti si fermano a due passi di distanza, diritti, come due aiutanti di campo, scoprendosi rispettosamente.

Non c'è verso! L'onorevole deve salutare, deve fermarsi, deve parlare...

— È una grande seccatura questa mia bestiola! Si permette troppe confidenze, e si prende troppe libertà!...

— È tanto caaro!

— Il mio servitore... È stata un'idea infelice del mio servitore, quella di tirarselo dietro, fin quassù! Giù! Fermo! Bestiaccia sconveniente!

— Teo, una bestiaccia?! Oh, povero piiccolo!

Teo, con il petto giallo sporgente e le gambette anteriori puntate ad arco, scrolla la testa e starnuta di nuovo con l'atto di dire anche lui di no, che non è una bestiaccia.

— È carino, carino, carino! È un tesooro, lui; è un amoore! Soltanto l'intelligenza che ha dimostrato ieri sera!

— Già, interloquisce uno dei due pallidi cavalieri. Quando voleva mangiare il naso a miss Kean e a mrs Brand!

La marchesina ride, con tutti i suoi bei denti luccicanti e chinandosi e tenendo Teo per le zampe gli scocca due bacioni sulla grossa testa di raso.

Caaro! Caaro! Tesooro!

Gerardo ha un barbaglio agli occhi e sente una scossa in tutto il corpo: il barbaglio di quella bocca, di quei capelli.... Ha la scossa dei due baci sonanti.

Si parla del tempo, del fresco, del buon odore di resina.

— Ritorna all'albergo, marchesina?

— Vicino all'albergo, al tennis. Facciamo due ore di tennis tutti i giorni, prima di colazione. Lei giuoca al tennis?

— Giuocavo!...

L'onorevole Parvis, guardando la marchesina, mette involontariamente un sospiro, un rimpianto in quel verbo giuocare al tempo passato.

La marchesina è molto intelligente, coglie al volo la mesta intonazione.

— Adesso, non giuoca più?... È naturale! A Roma! La Camera! Tante occupazioni! Tanto lavooro! Ma qui vorrà ben riposare un po'! Farà qualche partita con noi? Accetta una sfida?

E si volge, senza aspettare risposta, ai due giovinotti rimasti fermi, impalati e li chiama per presentarli:

— Se permette, Eccellenza....

— Non sono più un'Eccellenza!

— Come devo dire, allora?... Onorevole?... Se permette, onorevole, le presento il conte Annibale e il conte Cesare Mattioli, miei cugini.

L'onorevole Parvis saluta l'uno e l'altro, con una stretta di mano, e tutti insieme ritornano fin al campo del tennis, che è giù, basso, in una conca verde, proprio sotto l'albergo.

L'onorevole cammina al fianco della marchesina D'Albaro, con Teo che gli passa fra le gambe: Cesare e Annibale, che non hanno dei due grandi conquistatori altro che il nome, rimangono dietro, sempre a due passi di distanza.

La marchesina parla e fa ammirare il paesaggio: l'onorevole tace e ammira la marchesina. — Come sa essere amabile e vivace, pur rimanendo sempre... bambina! Non è civetteria, è schiettezza, è naturalezza giovanile la sua!... Ha bandite — si vede — tutte le stupide formalità, tutte le ipocrisie del suo ambiente, ma per altro, ne conserva tutta la grazia signorile. È proprio «marchesina» fino alla punta dei capelli! — Che capelli meravigliosi!... E che occhi! Neri, neri, nerissimi! Da perdervi dentro, l'anima e il corpo!

— Teo, Teo! Finiamola!

Teo diventava troppo insopportabile!... Aveva visto da lontano le due vecchie quacquere, e s'era messo a correre per saltar loro addosso!

— Teo, qui!

Teo si ferma sulle tre gambe: dall'aria birichina, lo si vede, non c'è da fidarsi! La bella fanciulla, ridendo, lo piglia in braccio, accarezzandolo e baciandolo di nuovo, finchè le due vecchie non sono sparite.

— Caro, caro, caaro!

Gerardo ne è ormai più che persuaso: bisogna rinunziare, da quel momento, ad ogni speranza di solitudine, ad ogni proposito di non voler fare conoscenze. La signorina D'Albaro, prima ancora di arrivare al tennis, è circondata da una frotta di villeggianti, che approfittano dell'occasione per essere presentati all'onorevole. Molti, anzi, dichiarano di averlo già visto, già conosciuto altre volte e citano luoghi, date, particolari.

Di qualcuno, il Parvis si ricorda davvero: di un vecchio generale, fra gli altri: il generale Bonferreri, messo da parecchi anni in posizione ausiliaria dalla gotta e dai reumatismi.

Addio solitudine! Addio quiete! Addio pace!

Giunti vicino al tennis, la marchesina ripete l'invito: il Parvis crolla il capo, ringraziandola con un inchino.

— Oggi no? Proprio no?... Ma domani?... Domani sì?... Promette?

— Giuocare al tennis? Io?... Ma io non sono più un giovanotto! Sono vecchio, marchesina!

— Vecchio? Leei!

Quanti e, in quel lei! E tutti, uno più delizioso dell'altro!

— Bella ragazza! — esclama il generale Bonferreri, rimasto solo coll'onorevole. L'onorevole lo guarda: il generale, lungo lungo, secco secco, un po' dondolante sulle gambe malferme, ha i capelli e i grossi baffi d'un bianco d'argento, che dànno risalto al rosso vivo della faccia. Quell'ammirazione per la marchesina è tutta paterna. — Bella ragazza... e buona! Le piace scherzare, divertirsi, ma non c'è nulla da dire sul conto suo!

Il Parvis ha uno slancio di simpatia per il generale e lo piglia sotto braccio... senza appoggiarsi troppo.

— Quando l'avete conosciuta, onorevole?

— Stamattina; un momento fa. È stato Teo a presentarmi.

— La signorina D'Albaro viene all'Abetone tutti gli anni. Conosce tutti! Qui, è come un po' la padroncina di casa.

— Ed è... sola?

— La signora De Paolis, la sua antica governante o istitutrice, adesso è la sua dama di compagnia. Bisogna sentirla cantare! Come canta! È una Patti! Una Stoltz!

— La signora De Paolis?

— No, che! La marchesina Sofia! La faremo cantare! Sentirete!... Una voce! Un talento! Straordinario! Ha intenzione di darsi al teatro e farà bene.

— Farà male. Giovane, bella e sola.

— Non c'è pericolo! È una donnina piena di giudizio! Saprebbe tener testa a un reggimento! Oh, sono molti anni che la conosco. E poi è d'un carattere calmo, freddo, positivo. Sapete come la chiamo io, per farla arrabbiare?... Notte di gelo! E poi, per farla ridere, la casta diva!

Così discorrendo, sono giunti, passo passo, fin sulla soglia dell'albergo. L'onorevole Parvis, salutando il generale, gli stringe la mano con grande e sentita effusione.

— Sono contento, contentissimo di avervi trovato quassù, caro generale! Spero che ci vedremo spesso e ci faremo buona compagnia.

... Che mattina deliziosa! Che aria balsamica!

Il Parvis, messo di buon umore dall'aria e dal cielo, fa le scale cantarellando. Appena in camera, chiude la finestra in faccia alla Succursale, — vi entrava troppo sole, — e apre l'altra di fianco, dalla quale si domina tutta la vallata e si vede, proprio, sotto, il giuoco del tennis.

Egli rimane a lungo alla finestra, ma tenendosi nascosto dietro le persiane.

— Che bel verde! Che bel cielo limpido! E che fragranza, che buon odore di pino!

Teo, visto che il padrone non si occupa di lui, è sparito. È andato in cerca di Prospero e della colazione.

V.

In due o tre giorni, Gerardo Parvis ha fatto conoscenza con tutti gli abitanti di Boscolungo.

— Buona gente, in fondo; abbastanza simpatica!

Gli dimostrano molta deferenza, molta stima e molta ammirazione; tutte cose che in faccia alla marchesina D'Albaro lusingano il suo amor proprio e la sua vanità. Ma non fa il grand'uomo per ciò; non sta in sussiego. È semplice, alla mano; è allegro e pieno di brio. Si diverte sopratutto a punzecchiare, come fa il generale, la marchesina Sofia.

— Sofia!... Che bel nome!

Ha preso passione alla musica — proprio lui, l'onorevole Parvis, — che non ne capisce niente! È vero, tuttavia, che Massenet non è Wagner... e che si finisce sempre colla romanza del Massenet: Je t'adoore!

Questa romanza, adesso, la marchesina la canta soltanto per l'onorevole e cantandola, lo guarda, lo fissa co' suoi occhi neri, neri, nerissimi... Je t'adoore!

Finita la romanza, mentre il pubblico applaude, la marchesina si avvicina all'onorevole Parvis e sorridendo con dolcezza, con soavità, con bontà, gli domanda sempre:

— È contento, signor Parvis?

Il Parvis risponde:

— Sì, grazie... — e rimane incantato ed esitante, e studia e pensa per ben capire il significato di quella bontà, di quella soavità...

— Giudizio, Gerardo mio! Giudizio! Potresti essere suo padre! Domani, niente passeggiata! Scenderò soltanto a colazione e forse nemmeno a colazione! Ho da lavorare; ho da rispondere a un mucchio di lettere.

E mantiene la parola data a sè stesso. Il giorno dopo, appena alzato, si mette subito al lavoro. Teo, che vuol uscire, gli annaspa con le zampe contro le gambe. Gerardo gli tira un po' le orecchie accarezzandolo e lo manda a passeggiare con Prospero.

— Giudizio! Giudizio! Non bisogna perdere la testa! Posso essere suo padre!

Se avesse una figliuola così bella e così buona, come le vorrebbe bene! E se ci fosse ancora la povera Flaviana, come ne sarebbe gelosa!

— Povera Flaviana, non ci sei più, proprio più!

Lavora, lavora in fretta, e per un po' di tempo riesce a non pensare ad altro. In un paio d'ore risponde a tutte le lettere e comincia a scrivere al Daily Express, quando, a un tratto, sente bussare...

— Toc, toc, toc...

Si volta: è Teo, sulla soglia, che dimenando la coda, la batte contro l'uscio.

— Toc, toc, toc...

— Teo!... vieni qui! Teo!

Ma Teo, accertatosi che il padrone è ancora lì, in camera, che non è andato via, invece di entrare sparisce di nuovo, e dopo un momento lo si sente abbaiare giù, dietro l'albergo.

Il Parvis va alla finestra:

— Eccolo là, il cappellone rosa!

La marchesina giuocava al tennis e Teo, abbaiando, correva dietro alle palle. La marchesina vede l'onorevole alla finestra:

— Basta! Non si lavora più! Venga giù! Venga a sgridare il suo Teo!... Non ci lascia giuocare!

Gerardo scende di corsa e poi, quando la partita è finita e gli altri si fermano a raccogliere le palle e le racchette, egli invita la marchesina a fare «due passi» nel bosco, all'ombra, come raccomanda l'igiene. Teo li segue, dando la caccia ai grilli e alle cavallette.

— Com'è accesa in volto! Com'è riscaldata!... Si stanca troppo!

— Non è vero! Mi sento così bene! — Ho forse brutta cera?

La marchesina lo guarda sorridendo; sa anche troppo di averla buonissima la cera!

— Io ho diritto di farle la predica, signorina!

— Perchè... diritto?

— Perchè... potrei essere suo padre!

— Avrei un papà giovane e un bel papà!

— Le farebbe piacere... se io fossi suo padre?

Moolto!

Quanta tenerezza e quanta grazia! La marchesina Sofia guarda fissa negli occhi l'onorevole ed è lui questa volta, il forte parlamentare, che abbassa i suoi.

Lì presso, c'è un piccolo muricciuolo.

— Mi siedo qui. Permette, signor papà?

— Si copra; se piglia freddo le farà male. Si metta la giacca.

— Obbedisco... papà!

Il Parvis resta in piedi e Teo si allunga annaspando contro la veste della marchesina per farsi accarezzare.

— Mi dica proprio la verità, marchesina.

— La dico sempre la verità,

Gerardo esita, poi dopo un momento ripiglia con un leggero tremito nella voce:

— Ha veramente l'intenzione di darsi al teatro?

La marchesina lo guarda un istante, poi abbassa a sua volta gli occhi e ha un lampo di rossore che le corre fin sulla fronte.

— Risponda... Sia buona... Risponda...

— Adesso... non l'ho più.

Il cuore dell'onorevole batte violentemente.

— È molto tempo che non l'ha più?

La marchesina lo guarda... abbassa ancora gli occhi e risponde di «no», ma soltanto con un cenno del capo.

Rimangono tutti e due silenziosi, poi è lei, la prima a parlare:

— Che ora è?

— Le undici e mezzo.

— Bisogna ritornare, o facciamo troppo tardi per la colazione.

— Ritorniamo.

E di nuovo, per quasi tutta la strada, non parlano più nè l'uno, nè l'altra: sembrano solo intenti a guardare Teo, che ha ripresa la sua caccia facendo dei piccoli saltetti graziosi e comicissimi.

Gerardo Parvis pensa alle ultime parole, soprattutto a quell'ultimo no della marchesina: questa, invece, deve avere tutt'altro in mente, perchè giunta vicino all'albergo esclama con un sospiro:

— All'Abetone, però, c'è un grande inconveniente: la posta una volta sola al giorno... e non arriva mai!

VI.

Il generale Bonferreri, che i veneti della colonia chiamavano «general gambe de pano,» se appunto stava male in gambe, era altrettanto forte anzi duro di testa. Di solito, non gli venivano in mente più di due idee all'anno, una d'estate e l'altra d'inverno, ma poi l'idea gli restava dentro fissa, come un chiodo nel muro, per tutta la stagione. In quell'anno, a Boscolungo, l'idea estiva era il matrimonio dell'onorevole Parvis con la marchesina D'Albaro: due bei nomi, uno vecchio e uno nuovo, — per tutti i gusti, — e anche due belle persone. C'era, evidentemente, molta simpatia, perchè si trovavano insieme spesso e volentieri... — Lui sembrava appassionato per la musica, lei... per i cani. — Dunque, un bel matrimonio!... Un bellissimo matrimonio!

Pensandoci sopra, queste nozze sarebbero state appunto convenientissime, almeno per il generale, sotto tutti gli aspetti. Egli era un vecchio amico della marchesina e all'Abetone avrebbe avuto campo di diventarlo anche dell'onorevole. Lui pure, il generale, — perchè no! — si sarebbe stabilito a Milano. Sarebbe andato in villa da Parvis a passare l'autunno; poi in città, in casa Parvis, a pranzare la domenica... e qualche altro giorno della settimana. A teatro, avrebbe avuto il palchetto dei Parvis dove avrebbe fatto da cavaliere alla marchesa... cioè a donna Sofia, quando l'onorevole sarebbe stato a Roma.

— Sì! sì! Il matrimonio è più che conveniente, è necessario!

Oramai «Gambe de pano» sente il bisogno di avere una famiglia... altrui.

Egli comincia col decantare e col far ammirare la ragazza all'onorevole, come fosse «un puro sangue» di cui volesse proporre l'acquisto.

— Guardate, onorevole, che bella incollatura.

— Bellissima!

— Che portamento superbo!... E che ginger! Ma nello stesso tempo di bocca gentile! Garantisco: parola d'onore! Niente morso, niente briglie! Si lascia guidare con un filo di seta rosa!

Nella foga dell'entusiasmo, «Gambe de pano» sa trovare anche l'immagine poetica; ma pure, non perde tempo in chiacchiere e viene subito e diritto all'assalto.

Sono otto giorni, in punto, da che il Parvis è arrivato all'Abetone. È appena finito il pranzo e passeggia su e giù col Bonferreri dinanzi alla Succursale. La sera è dolce e tepida: una di quelle due tre sere primaverili, che l'Agosto concede alla montagna. La luna immobile — inonda l'etere — e dall'orizzonte pallido e luminoso la catena dei monti e il profilo frastagliato della pineta sembrano avvicinarsi, sembrano unirsi in un'intimità consapevole ed affettuosa.

Ma Gerardo non vede nè la luna d'argento, nè le stelle d'oro, nè il cielo bianco, nè la terra nera. Sofia canta; egli non vede: ascolta. La sua anima e i suoi sensi provano il fascino, il languore di tutti gli ooo del Je t'adooore!

— Onorevole, una buona idea.

Il Parvis ha una scossa.

— Voi, generale?... Sentiamo.

— Dovete prender moglie.

— Prendere moglie?

— Penso io a tutto!

— Grazie; troppo buono, generale. Trovatemi intanto la moglie, poi ne discorreremo.

— Già trovata.

Il Parvis si ferma serio, inquieto.

— E... sarebbe?

— La... casta diva.

Gerardo aspettava il colpo e però risponde ancora più arrabbiato, con un'alzata di spalle.

— Diventate matto!

Ma l'altro replica spiccando le sillabe:

La ca-sta di-va! Ed è davvero una creatura da far diventare matti! Vorrei esser in voi per una cosa sola, garantisco: per sposarla io!

— Scherzate; avete voglia di scherzare!

— Che cosa c'è di strano? La ragazza vi piace. Non negatelo, vi piace molto: si vede ad occhio nudo.

Il canto è cessato: vien gente in istrada.

— Parlate sottovoce!

— E voi... — Gerardo sente i baffoni bianchi ed ispidi del generale che gli sfiorano l'orecchio: — e voi, piacete a lei.

— Basta! Cambiamo discorso!

— Vi guarda in un certo modo!... Quando voi la punzecchiate finge di arrabbiarsi, ma le ridono gli occhi! E poi, volete una prova? In tanti anni non è mai andata sola a passeggiare, con nessuno, e con voi sì.

— Due volte!

— Come ve ne ricordate! — Il generale molto soddisfatto di poter cogliere in trappola un'Eccellenza, scoppia in una risata rumorosa.

Gerardo diventa ancora più serio, quasi torvo vuol mettere fine allo scherzo.

— Se è venuta a passeggiare con me... lo poteva fare. Non sono più un ragazzo. Potrei essere suo padre.

Il generale si scosta un attimo fissandolo attentamente con l'aria di fare una stima.

— Quanti anni avete?

— Sono... dopo i quaranta, da un pezzo.

— L'uomo, fino a che non ne ha cinquanta, e molte volte anche dopo, ne ha sempre quaranta.

— Sia pure; ma la signorina D'Albaro ne avrà venti, ventidue! Quanti ne ha, generale?

— Ventidue che vanno per i ventitrè. È più vecchia lei, come ragazza, di voi, come ex-ministro. L'età è relativa, secondo la condizione dell'individuo. Mettete in capo a un uomo di quarant'anni un berretto da capitano e avrete un vecchio obeso: metteteci quello coi distintivi di colonnello e avrete un uomo fresco e vegeto.

— E allora voi, che siete... generale? — Il Parvis comincia quasi a divertirsi agli aforismi dell'amico. Ma «Gambe de pano» risponde con un doloroso sospiro:

— Vicino ai sessanta, si hanno sempre più anni, in realtà, di quelli che si dimostrano!

A questo punto, quasi conferma dell'asserzione, il Bonferreri ha una specie di traballamento. È Teo, il signor Teo, che gli è piombato addosso improvvisamente, con tutto l'impeto.

Saper... lotte! Fermo... Giù!

Ma Teo, invece di quietarsi, continua con le feste e con i salti indiavolati.

Il generale rinuncerebbe assai volentieri a tante e così affettuose espansioni. Le zampe del cane gli insudiciano le falde del soprabito nero; un nero un po' lustro, che tradisce la pensione.

— Grazie, caro; grazie! Adesso basta! Basta complimenti!

Teo spicca un altro salto: gli strappa quasi un bottone della sottoveste.

— Giù... E finiamola!

Alla voce minacciosa del padrone, Teo si acquatta, sbirciandolo di soppiatto, mentre, per rabbonirlo, gli passa fra le gambe scodinzolando.

— Dove siete stato finora? — Prospero dov'è?

Teo gli esce di fra le gambe, allungandosi, strisciando, terra terra.

— Dove siete stato?

Teo si torce e si avvoltola rimanendo diritto, disteso sul dorso, con le gambette corte, ripiegate.

— Rispondete! Si risponde! Dove siete stato?

Teo si raddrizza, si alza, squassa le orecchie, e allunga e spinge il musetto contro il padrone: gli risponde come può, in tutti i modi, sforzandosi quasi per trovare la parola che non ha.

Ma intanto ecco Prospero che sopraggiunge. Prospero minaccioso a sua volta, e in atto d'accusatore. Teo corre di nuovo a mettersi vicino al padrone e lo guarda.

— Perchè non lo tieni con te, questo cane?

Prospero mastica una mezza frase che non si capisce, poi conclude più intelligibilmente:

— Cerca Mimì; scappa.

— Chi è questa Mimì?

Il vecchio resta muto un momento: si ode il leggero tintinnìo di una piccola bubbolina. Teo rizza il muso, fissa gli occhi, gli si gonfiano le orecchie.

— Eccola là!

Una bestiola bigia, arruffata, tonda tonda, mezzo cane e mezzo gatto, con un grande collarone d'argento, esce in quel punto dall'albergo: per un tratto di strada, fin che dura la luce dei lampioni, la si vede camminare di sghembo su tre gambe, che sembrano due, dietro una vecchia americana.

La brutta bestiola è Mimì: Teo la fissa, ritto, immobile, finchè può vederla; poi quando sparisce nel buio, via come un lampo per raggiungere Mimì.

— Teo! Teo! Teo! Qui Teo! — grida Prospero, mettendosi egli pure a correre.

Si diffonde rapidamente la grande notizia: Teo è innamorato, innamoratissimo di Mimì, arrivata quel giorno stesso da Cutigliano.

Caaro il suo Teo! Com'è facilmente infiammabile! Caaro! — È la marchesina che si affaccia ad un tratto sulla soglia della succursale.

È imbacuccata in un mantello rosso e sotto il riverbero del lampione appare in un contrasto fantastico di luci e di ombre. Che bel diavoletto con quei capelli neri, con quegli occhi neri, fiammeggianti! Più bello di qualunque angelo biondo!

— Ancora non ha finito il suo sigaro?

Sofia, sorridendo, guarda il Parvis e lo fissa sicura: il Parvis, invece, non può sostenere quello sguardo; è intimidito per il discorso di poco prima del generale.

— Eravamo qui... intenti a sentirla cantare!

— Lo sapevo; e per farle piacere ho cantato la sua romanza!

La bella fanciulla risponde forte, persino un po' ardita.

L'onorevole ha la voce bassa e alterata.

— Venga con noi! Venga a giuocare! Miss Kean e Mrs Brand sono partite! La sigaretta è permessa e, se vuole... anche il sigaro! Faremo un'eccezione per lei! Ma venga a giuocare! Giuoco anch'io stasera, perchè la chouette è a scopo di beneficenza!

— Cioè?

— Si fa così: chi perde perde e la vincita è destinata al povero burattinaio di Boscolungo. È il solito che viene quassù tutti gli anni. Pensi, gli è appena morta la moglie. È rimasto solo con tre figliuoli. Una ragazzina di dodici anni, con un visino pallido pallido, tanto intelligente, e due bimbi piccini piccini, biondi bioondi, due amoori di piiccoli, due tenerezze caare...

L'onorevole attratto da tante vocali d'oro segue la marchesina nella sala dove si giuoca, disposto a perdere tutto il suo patrimonio, se occorre... e anche la testa per sopramercato. La marchesina è allegra e felice: per amore del burattinaio, suo protetto, si fa un giuoco d'inferno e Sua Eccellenza perde più di tutti e con grande piacere. Sofia lo ha voluto accanto, al tavolino di giuoco, e gli ride proprio sotto il naso, con quei denti bianchi, e con quella bocca da baci. Lo guarda, lo fissa, e gli dice tante cose, col solo guardarlo: sono risposte, osservazioni, arguzie, che si riferiscono a questo, o a quello, alla parsimonia del generale, alla goffa prodigalità di Cesare e di Annibale, gelosi l'uno dell'altro, e che, pare, cominciano ad esserlo un po' tutti e due, di Sua Eccellenza.

Il Parvis è beato; si diverte a stuzzicare la marchesina, ma il frizzo non punge e gli occhi rimangono incatenati.

Una volta, nel passarle il mazzo delle carte, irresistibilmente le stringe la mano, ed ella risponde alla sua stretta guardandolo calma, tranquilla.

Intanto, c'è chi fa la proposta di una rappresentazione del burattinaio dinanzi all'albergo. La proposta è accolta con entusiasmo e subito Sofia invita l'onorevole ad essere il suo compagno di questua.

Gerardo starebbe ancora più volontieri lì, accanto alla marchesina e sarebbe completamente felice se lì, non ci fosse anche il generale. Ma il buon vecchio è distratto, indifferente. Lanciata la bomba, «Gambe de pano» spiega una straordinaria diplomazia.

E la marchesina?

Gerardo non capisce più niente: tanta amabilità, tanta confidenza, tanta simpatia? E insieme tanta sicurezza?

Ingenuità o civetteria? Che cos'è? Cos'è? Ma che cos'è?... Fosse vero?... Davvero una grande simpatia... per lui?

Quella stretta di mano in risposta alla sua?... Che cosa ha voluto esprimere quella stretta di mano?

L'ex ministro, mentre è beato, lì, vicino a Sofia, mentre non darebbe quel posto per nessun altro, neppure a capo del Ministero, si sfoga fra sè in buoni proponimenti.

— Bisogna usare prudenza; bisogna lavorare, rimanere in camera tutto il mattino, tutto il giorno, per non compromettersi, per non compromettere la marchesina, per evitare le chiacchiere, i pettegolezzi, i commenti! — Pensa persino di partire!

— Sì, se il generale torna da capo con quel discorso stupido, si fanno i bauli e si parte! — Ma intanto che matura in mente così fieri propositi non si accorge di dare importanza al più piccolo atto di Sofia, ad ogni sua parola, ad ogni suo sguardo, a tutto di lei. Non vede che lei, non sente che lei!

E quella stretta di mano?... Come, a poco a poco, diventa importante e grave il piccolo episodietto!

La stretta di mano della sincera, della allegra fanciulla, diventa quasi una promessa. — Oppure è una civetteria... Una grande civetteria!

Altro che riposare! altro che dormire! Egli era molto più tranquillo e dormiva meglio a Roma, dopo le sedute più tempestose in Parlamento!

Anche quella notte rimase un pezzo alla finestra: l'afa era insopportabile... e dalla sua finestra vedeva quella di Sofia.

La stanzetta era illuminata. A un tratto, pure Sofia venne alla finestra.

Il cuore del Parvis battè con violenza.

— Veniva per lui?

No. La fanciulla lasciò la finestra aperta e si sedette a un tavolino. A leggere o a scrivere?

— Scriveva?.... A chi scriveva?.... Di notte?.... Tutta notte?

Gli occhi di Gerardo diventarono serî, poi torvi...

A chi scrive? A chi continua a scrivere?...

Finalmente Sofia si alza, chiude la finestra, e dopo un momento anche il lume si spegne.

Gerardo respira! Prova un senso di sollievo: chiude a sua volta la finestra e si corica. Ma non vuol più restare in camera la mattina dopo, a lavorare. Tutt'altro!

Ha la smania che sia giorno, per correre giù, in cerca della marchesina e sapere, — scherzando, ridendo, punzecchiandola, — a chi ha scritto così a lungo, durante la notte.

VII.

Il generale non disse più una parola a Gerardo Parvis intorno al suo matrimonio; anzi cercava di nominare la marchesina il meno possibile Pure stava attentissimo, osservava, spiava ogni più piccolo incidente ed era molto soddisfatto del come procedevano le cose. Prima di colazione, dopo il tennis, passeggiata igienica della marchesina coll'onorevole... e dopo colazione, musica. Dopo pranzo, altra passeggiata — tutti i giorni un po' più lunga, — o su, arrampicandosi in mezzo al bosco, sotto i vecchi abeti del viale Elena, o giù per la strada provinciale verso Fiumalbo; e la sera, di nuovo musica. Al «Je t'adoore» adesso, si erano aggiunti: l'adieu de l'hôtesse Arabe e la serenade Espagnole, e l'onorevole, che sedeva accanto a lei al pianoforte, cominciava a capire la musica tanto da saper voltare le pagine al momento giusto.

E Teo?... Sicuro, anche Teo faceva la sua parte! Come il leardo pomellato della Tavola rotonda, girava attorno per Boscolungo con i colori della bella: un nastro rosa, — uguale ai nastri del cappellone, — con un magnifico fiocco e i bubbolini d'argento: il tutto ricamato e regalato dalla casta diva.

«Gambe de pano» gongolava! Soltanto quando sentiva i sonaglini si oscurava in viso:

— Maledetto cane e maledetti bubboli!... Frastornano la testa!

E tornava per la millesima volta a esaminare, a studiare e a fregare col dito, come per farlo sparire, un ricordo dei dentini di Teo, che era rimasto indelebile in fondo alla falda del soprabito, con la forma di un piccolo sette.

Intanto ferve il lavoro per la rappresentazione dei burattini: e all'Abetone non si parla d'altro. È stata scelta la commedia Stenterello cuoco e generale in capo alla corte della bella Ircana. Tutto il mondo aristocratico è affaccendato in preparativi; Cesare e Achille, pittori dilettanti, dipingono gli scenarî e gli avvisi illustrati, la marchesina prepara una nuova toilette sfolgorante per la bella Ircana, e per le damigelle d'onore. Sua Eccellenza loda il talento artistico dei rivali suoi, oramai pienamente sconfitti ed anche rassegnati, e ammira la grazia, la bravura e più di tutto le manine della marchesina. Due mani bianche e morbide, lunghe, sottili, con le unghiette lucenti come il cristallo.

— Che bella mano, la sua! Con l'espressione del carattere e dell'intelligenza!

Oooh!... Ma che cosa dice, signor Parvis!... Un'espressione intelligente, le mani? Le mani non hanno occhi, e l'intelligenza è espressa dagli occhi!

— Sì, appunto! Queste sue manine hanno bene gli occhi: due occhiettini furbissimi.

— Dove sono?

— Lì, guardi lì! — Le indica le due fossettine della mano. — Eccoli lì, e come ridono!

Sofia si diverte guardando la mano, alzandola, allungandola, facendo sparire le fossette, o facendole riapparire più fonde.

— Ridere? Di che cosa dovrebbero ridere?

— Di me. — Il Parvis si corregge subito. — Del papà!

— Perchè?

— Non so...

— Perchè è un papà troppo giovane? Poi... sarebbe forse un papà troppo indulgente!

E si finisce sempre che il papà bacia la manina che la figliuola gli offre scherzando.

Il giorno della rappresentazione, — la rappresentazione deve aver principio alle ore due, in punto, — è l'onorevole che sceglie il posto più adatto nel bosco dietro l'albergo, e che presiede all'impianto del teatro e alla divisione dei posti di platea. Nella prima fila i bambini, nella seconda le signore, in fondo gli uomini.

E Teo?... Il signor Matteo, dove lo si mette? Fra i piccini o fra gli uomini grandi? E se non starà fermo?... Se abbaierà? Teo avrebbe certo messo in pericolo il buon successo della rappresentazione. Era già colpevole di un grave reato: mentre si stava innalzando la baracca, aveva rubato il sire di Trebisonda, padre d'Ircana; era fuggito, scappato a nascondersi in un cespuglio e gli aveva strappato la corona, la barba e divorato il naso!... A tanto strazio, figurarsi il dolore e gli strilli di tutti i bimbi che riempivano il bosco e lo animavano con le loro vocine e lo picchiettavano di bianco e di rosso con i loro vestitini; angeli ed uccelletti insieme.

Il generale, energicamente, propone di chiudere Teo nella rimessa dell'albergo: Prospero si offre di condurlo a passeggiare finchè dura la recita; ma Sofia legge fra le rughe del faccione ingenuo e buono il rammarico di perdere il trattenimento e allora dichiara senz'altro che Teo resterà con lei, sopra una seggiola accanto a lei!

— Sarai buono? Prometti che sarai buono, buono, buooono?

Il generale scrolla il capo, borbotta che è un capriccio, una pazzia, ma Teo, invece, che è stato attento al dibattito dimenando la coda, risponde di sì, che sarà buono, con uno starnuto ed un saltetto di gioia.

E infatti per tutto il tempo che dura la commedia, Teo rimane immobile, sulla seggiola accanto alla marchesina, intento alla baracca e ai burattini.

Quando Stenterello, con il manico della scopa, bastona gli sguatteri che non fanno il loro dovere, sollevando l'entusiasmo dei bambini, Teo con gli occhi fissi, allunga il muso, odorando col nasetto lustro e umido verso la baracca, ma non abbaia nemmeno allo sparo dei petardi che annunziano l'ingresso solenne di Stenterello, creato generalissimo, alla corte della bella Ircana; spari indiavolati, che portano lo spavento e lo scompiglio fra le testine rotonde e ricciolute della prima fila.

Furono trecentocinquantatrè lire d'incasso che il Parvis fece diventare cinquecento. Una vera ricchezza!

La marchesina Sofia ripone la somma in una busta, mentre il generale parla di interessi, di libretti, di cassa di risparmio.

— No, no! Bisogna portar subito il danaro alla povera piccina pallida, dagli occhi tanto buoni e tanto intelligenti! Caara!.... Tesooro!

Il burattinaio e la sua famigliuola — la figliuoletta e i due bambini — due poveri esseri mezzo rachitici, con un enorme testone, sudici e mocciosi, abitavano nel loro carro-omnibus, o meglio, nella loro casa di legno, ambulante.

Quando l'onorevole e la marchesina giunsero al largo erboso, dietro gli alberi, alla fine dell'abitato, ove il burattinaio aveva piantate le tende, dal breve fumaiolo di lamiera che sovrastava al tetto del carro usciva un pennacchietto di fumo azzurrognolo; ma tosto non lo si distingueva più; svaniva sul fondo del cielo, reso di un azzurro languido, nella grande luce ultima, prima del tramonto.

La fanciulletta pallida dagli occhi intelligenti accoccolata presso l'usciolino del carro-omnibus faceva cuocere un po' di cena in un vecchio tegame sopra un fornelletto di ghisa; e le cipolle, friggendo, mandavano intorno certe zaffate grasse, di stantio, che sembravano più acri e più nauseanti fra i miti profumi dei prati in fiore e la fragranza della vicina pineta.

Il burattinaio era seduto sopra un muricciuolo, masticando tabacco per ingannare l'appetito, e sembrava assorto nel rabberciare il cranio nero di un Matamoro, sul quale la spatola di Arlecchino aveva picchiato troppo forte per ordine di Stenterello. Il capocomico vagabondo delle teste di legno, quando era nascosto nella sua baracca e stava infondendo una parolina di vita ne' suoi fantocci, poteva essere immaginato un uomo simpatico, allegro ed anche geniale. Ma lì, visto in quell'atteggiamento, alla luce del giorno, appariva soltanto quello che era in realtà: un villano, tra lo scaltro e l'assonnato; un mezzo bruto dal viso gonfio e livido e dallo sguardo spento dall'acquavite.

All'estremità di una delle stanghe del carro, legato con un cencio di corda, stava il vecchio asino del burattinaio, magro, spellato, malinconioso, sintesi moribonda, o quasi, di tutte le tristezze e di tutti gli stenti, le fatiche, i patimenti raccolti intorno a quel povero disgraziato che portava attorno la commedia della fame e della miseria.

Quando Teo vide la brutta bestiaccia, non ne riconobbe subito la razza, si fermò sospettoso, fiutando alla lontana, non arrischiando di avvicinarsi... e l'asino, a sua volta, chinò il testone canuto verso l'aristocratico Teo, così lustro, così elegante, col bel nastro rosa dal largo fiocco, il dono di Sofia. Fiutava anche il ciuco per riconoscere Teo, ma più che fiuto, il suo pareva sospiro: un sospiro che usciva dalla povera e martoriata carcassa, tatuata di piaghe e di guidaleschi.

Sofia ebbe una stretta al cuore, alla vista di quegli infelici, — la ragazzina, i due bimbi ed anche la bestia: — ma volle vedere dentro nella baracca. Dal vano aperto, un raggio di sole basso, entrava diritto nell'interno del carro... Quali tristi segreti fra quelle pareti tarlate e sconnesse! Là dentro si faceva da mangiare e si dormiva in quattro. Si accumulavano i cenci, i burattini, le scene, gli avanzi dei magri pasti, il bottino dei furtarelli campestri del burattinaio ed anche dei due marmocchi mocciosi. Sopra mensole sostenute da funicelle, vecchi libri slabbrati — il repertorio per le grandi rappresentazioni — misti a mazzi di rape e di carote, a pezzi di pane raffermo e di cacio ammuffito: e bottiglie dal collo rotto, contenenti liquidi sospetti, e vasi d'ogni forma e povere salme di burattini mutilati, decapitati, sventrati... Alle pareti, immagini sacre, il ritratto di Garibaldi, canzoni popolari illustrate: un vecchio schioppo arrugginito, con una carniera vicina, rigonfia ormai chi sa di che cosa e in un angolo un vasetto di garofani che protendeva fuori dal finestrino un bel ramo carico di bottoni con qualche fiore sbocciato, aperto, come sitibondo d'aria e di luce! Il garofano era il giardino della fanciulletta pallida dagli occhi tanto intelligenti, come suo doveva essere il giaciglio dall'altro canto, meno sudicio, meno scomposto di quello dei bimbi...

Il burattinaio dormiva certo più in fondo, laggiù sopra quel mucchio di vecchi panni, di pacchi, di stuoie. Non si vedeva bene; il sole... nemmeno il sole voleva entrare fin là!

Sembrava che in quei pochi metri di spazio, una lunga vita randagia avesse accumulato tutte le reliquie della pitoccheria incontrata su tutte le strade, in ogni paese, in ogni costa e si ostinasse a mettervene ancora, ogni giorno di più, senza rimuovere nulla, senza nulla rinnovare, in una specie di ostinazione incosciente, di compiacimento infingardo.

La fanciulletta dagli occhi intelligenti capiva tutta la bruttezza, l'orrore di quel suo antro ambulante?

Chi sa?... Quel fiore, quel garofano, messo lì, certamente da lei, vicino alla finestretta, non era forse un rimpianto, un desiderio, un anelito verso qualche cosa di bello, di gentile?

Anche l'onorevole Parvis era rimasto colpito da quel triste spettacolo. Egli ricordava le grandi e tempestose discussioni della Camera, la facondia, gli strepiti dei socialisti... A quella piccola gente lì, chi mai ci pensava? Non aveva «Camera del lavoro» non aveva «Società umanitaria!»

Oh, prima che penetrasse fin dentro a quella baracca il beneficio degli sgravi!

Come tutti gli uomini del Parlamento, anche i più avanzati, anche i più scalmanati erano lontani col loro pensiero, col loro cuore e con le loro chiacchiere, da tutta quella miseria materiale e morale!

Invece Sofia... Sofia sì. Pur così delicata e squisita nella vita e nei gusti, lei, un vero fiore fra la seta e i merletti, lei circonfusa di grazia, di soavità e di profumo, lei non mostrava nè ripugnanza, nè ribrezzo: non era e non appariva altro che profondamente commossa da una viva, da una grande pietà.

Uno dei due bimbi ha un ditino malconcio: Sofia si fa portare dell'acqua, lo lava delicatamente, lo copre col taffetà che ha sempre con sè. E nel consegnare il danaro alla sorellina maggiore, rimasta sbalordita, trasognata, incapace di dire una parola, le fa raccomandazioni e le dà consigli... Sofia sente che la sua presenza, lì, fa del bene, e non se ne andrebbe mai.

Tutto ciò che vi è di brutto e di immondo in quella grande miseria non l'ha offesa: ella non ne sente che le sofferenze e le lacrime.

— Quanti dolori, non è vero? — dice Sofia al Parvis, mentre riprendono il sentiero del bosco ritornando verso la locanda. — Quanti dolori, che nessuno vede, ai quali nessuno può provvedere!

— E questa gente non si agita e non impreca, non fa comizî, nè scioperi. E tutti, tutti noi, abbiamo la colpa di lasciar vivere e crepare tanta gente, tanti uomini, come bestie!

— Quei due piccini, poveretti...

— Erano brutti, assai!

— Non lo dica! I bambini non sono mai brutti! Sono disgraziati, sofferenti, ammalati, ma non sono mai brutti!

— Ama molto, lei, i bambini?

— Sì.

— Le piacciono molto?

— Tanto, tanto!

— E se... — il Parvis si fa forte e le domanda sorridendo: — E quando avrà un bambino suo?

La fanciulla diventa rossa; una fiamma. China gli occhi, un istante, ma poi li rialza raggianti, con una luminosità piena di dolcezza e di lacrime:

— Non è forse il perchè di tutto, nella nostra vita?

Gerardo la guarda: ella sospira e per un lungo tratto di strada rimane raccolta, tutta in sè stessa e pensierosa.

Il Parvis che le cammina accanto passo passo sente l'odore acuto della massa folta, confusa, ondulata dei capelli neri. Egli guarda, continua a guardare e sospira. Sono così neri, quei capelli, così neri e lucenti che abbruniscono la bella nuca rotonda e forte sotto il grande cappellone tutto bianco e tutto rosa.

E intanto, guardando e sospirando, i suoi propositi di saviezza, i suoi disegni di prudenza svaniscono tutti insieme, rapidamente.

Sì; il generale Bonferreri aveva colpito giusto. Sì; gli piaceva molto quella bella, quella giovane creatura così giovine e così bella! Ma voleva star a vedere qualche mese, voleva aspettare ancora, allontanarsi per qualche tempo... Voleva mettere alla prova sè stesso, il proprio cuore, la propria passione. Sì, questo bisognava fare: allontanarsi da lei a qualunque costo! Scrivere a Genova, andare a Genova, sapere, informarsi... — Ma intanto guarda, continua a guardare e a sospirare. No, no; non è nera, è bianchissima la bella nuca rotonda e forte; è la radice dei capelli folti, è la lanurie dei capelli più fini, che la rendono bruna...

Bisogna informarsi, bisogna sapere, prima, tante cose! Bisogna scrivere, bisogna andare a Genova. Genova! Genova!... Come in quell'istante la vede bella, Genova, in faccia al mare, piena di luce, piena di sole!

Che cosa ne sa lui, della marchesina D'Albaro?

— Ciò che gli ha detto il generale; nient'altro. Il generale, del resto, è un bravo uomo, un perfetto galantuomo... Egli poi, il Parvis, è riuscito anche a sapere, finalmente, ciò che più gli preme, — a chi la marchesina scrive tanto sovente e così a lungo; e adesso egli sa, finalmente, perchè aspetta con tanta ansia l'ora della posta e perchè ripete sempre, a ogni momento, che non si può vivere all'Abetone con la posta una sola volta al giorno! — La marchesina scrive alle sue amiche! Aspetta lettere e cartoline dalle sue amiche. — Ne ha molte, sparse in tutta Italia, ma sono tre, le più care; due di Genova e una di Torino: l'Ippolita, la Felicina e la Poupette.

— Com'è buona! Come vuol bene alle sue amiche!... Buona, sincera! Sopratutto sincera. Che bella cosa la sincerità!

Perchè aspettare ancora a parlare, ad aprirle il cuore? — Per informarsi, per sapere... — Sapere che cosa? informarsi di che cosa? Non lo sa che è buona, affettuosa, tenera, non lo vede che è bella, com'è bella — tanto, tanto, troppo...

— Cara... figliuola.

Sofia si ferma e lo guarda interrogandolo con gli occhi ridenti:

— Signor... papà?

Gerardo ha un tremito negli occhi, e gli trema leggermente anche la voce:

— Papà?... Risponda, marchesina. — Papà? Proprio... sempre... soltanto papà?

La fanciulla ha un sussulto e il suo viso si trasforma mentre si allontana d'un passo, istintivamente:

— Teo?... Dov'è Teo?... Dov'è andato Teo?

— Che importa adesso, di Teo?

— È rimasto indietro! S'è perduto! Non c'è più! — E Sofia chiama forte, con tutta la sua bella voce: — Teo! Teo! Teo!

Il Parvis fa un passo, la raggiunge e le afferra una mano.

— Risponda! Deve rispondere!

— Ma... Teo!

— È corso avanti! L'ho visto io! È a casa!... Non si tratta di Teo; mi guardi; si tratta di me, — di un uomo, — della felicità, dell'avvenire, della vita di un uomo!... Ma non capisce?... Non ha capito? — Il Parvis cerca di afferrarle anche l'altra mano e fa per portarsele tutt'e due alla bocca: — Non ha ancora capito?

Sofia si ritrae come spaventata, scioglie le mani da quella stretta e fissa il Parvis muta, con una grande espressione di maraviglia dolorosa.

A Gerardo si oscura la vista: sente la terra che gli manca sotto i piedi.

— Ha capito e... e mi risponde di no?... È un no?

Sofia, più che attonita, è come atterrita: fissa quel volto pallido, contraffatto dall'ansia, dall'angoscia, dal dolore... Poi è lei stessa che gli afferra una mano e gliela stringe con forza, con tutta la forza, mentre le lacrime le corrono agli occhi.

— Amico! Amico! Oh povero amico mio!

Il Parvis sente in queste parole, in questo dolore della buona fanciulla, che la sua condanna è inesorabile. Aspetta un istante, poi le domanda, con un'altra voce, una voce stranamente mutata, ma ferma e sicura:

— Nemmeno col tempo? Nessuna speranza?

Ella rimane a capo chino.

— Risponda: mai, nessuna speranza?... Mi risponda.

Sofia alza il capo lentamente e lo guarda: ha una grande, una profonda pietà negli occhi dolcissimi. Vorrebbe parlare, non sa, non ne ha il coraggio. Allora leva dalla tasca della giacchettina un telegramma arrotolato, e glielo dà.

— Legga.

Il Parvis la fissa; guarda il telegramma come per indovinare, poi apre e legge:

«Mamma contentissima — parlerà lei babbo — sono felice.

Andrea.

Tutto si ferma, per un istante: anche i due cuori non battono in quell'istante...

— A lei. — Il Parvis le ritorna il telegramma: un sorriso cattivo gli increspa le labbra. — Sia tutto come non detto. E, soltanto, mi usi la finezza di dimenticare le mie stupide parole.

Il bosco, folto in quel punto, dopo un breve tratto, diradandosi, si apre sulla strada maestra. Sofia si arresta per poter discorrere, lì, senza essere veduti.

— Signor Parvis, si fermi! Ascolti, ho anche io da parlarle! Lei non mi deve disprezzare, non mi deve giudicar male, e non mi deve odiare! Soffrirei troppo: voglio sempre essere stimata da lei! Con Andrea — con mio cugino — ci siamo fidanzati da due anni. E da un anno e mezzo non lo vedo! È in marina: ufficiale. È stato in Cina: è tornato soltanto da pochi giorni.

— Io non ho il diritto di chiederle niente; non ho diritto di saper niente!

— Sì, invece; tutto! Deve saper tutto! Voglio spiegarle tutto! Mi ha dato un grande dolore, sa, e lo merito! Lo merito, perchè senza saperlo, creda, senza saperlo, sono stata leggera con lei! Ho sbagliato; l'ho ingannato!

— No... No!

— Sì, mi lasci dire! L'ho ingannato, e ingannato me stessa nell'interpretare la mia simpatia per lei. Mi lasci dire! Mi lasci dire, mi ascolti! Non ci vedremo più, ma io voglio dirle tutto, tutto. tutto! Il sentimento, la simpatia, lo chiami come vuole, ciò che io sento per lei, è vero, è sincero, è forte! Sapesse... è proprio così. Io le voglio bene. Un bene fatto di stima, di fiducia, di confidenza! Era così bella, così buona la nostra amicizia e mi addolora tanto di doverla perdere! — Ho sbagliato, ci siamo ingannati.

— No...

— Io, io! Mi sono ingannata! Peccato! Lei scherzava quando mi chiamava «cara figliuola», io invece credevo, mi ero illusa! Fosse proprio così, proprio, come una figliuola! Lei scherzava ed io ho avuto torto di non capire, di aver preso il suo scherzo sul serio! Ridevo e scherzavo anch'io quando le dicevo «signor papà»; ma pure, nel dirlo, sentivo in me una grande tenerezza e un grande rimpianto! Pensi, io non l'ho conosciuto il mio povero babbo, e ho conosciuta appena la mia povera mamma! È un vuoto grande, sa, nella vita, non avere il papà, non avere la sua mamma! È un vuoto che nemmeno l'amore non riesce a colmare! Ho sbagliato! Non dovevo scherzare con lei, come ho scherzato! Ma... avrei mai potuto pensare, immaginare che lei, proprio lei, un uomo di tanto merito e di tanto spirito, un uomo così grande, — ne parlavano tutti con tanto rispetto, con tanta ammirazione, quando doveva arrivare quassù!... — avrei potuto mai immaginare che ella prendesse così sul serio una ragazza, come me, una ragazza frivola, che non sa niente, che non saprebbe fare un discorso con un po' di giudizio... Io credevo che lei si divertisse a star con me, appunto, perchè con me non aveva da pensare a niente! Così... un po'... come con Teo!

Gerardo scrolla il capo, vuole interromperla.

— Mi lasci dire! Mi lasci dir tutto! Poi, a poco a poco, senza accorgermene, lo scherzo per me diventava realtà... o idealità, come vuole! Lei è tanto buono, tanto diverso degli altri, tanto superiore agli altri. Dice così giuste cose che colpiscono e fanno pensare!... E io ho sognato, ho sperato... Se davvero, col tempo, diventasse proprio un amico, un buon amico, se diventasse davvero... un po' il mio papà? L'amico nostro, buono! — Sofia si corregge subito — l'amico mio, che mi avrebbe guidata, consigliata, confortata. Sì, confortata, perchè la vita non è mai senza lacrime, anche quando si crede di poter essere felici! E in cambio, di questa sua amicizia, di questo suo affetto, io sentivo e sento, che avrei potuto darle lealmente, e apertamente, una parte così buona della mia anima, della mia tenerezza! Non è possibile! Non è più possibile! Lo capisco! Lo sento! Per questo non ci vedremo più, non ci parleremo più! Ecco, le ho detto tutto! Adesso... addio! Ma pure... questo mio sentimento, questo mio grande rimpianto lo proverò sempre, sempre! — Io adesso torno indietro; è meglio che non ci vedano insieme; e poi devo avere la faccia stravolta... — Si ricordi sa, così... come le ho detto, un gran bene! Sempre, sempre! Per tutta la vita.

Sofia si volta a un tratto con la voce rotta da un singhiozzo e si allontana rapidamente, quasi correndo: il grande cappellone tutto bianco e tutto rosa, si perde, e sparisce nel buio, fra i tronchi vecchi e diritti, in fondo al lungo viale.

Il Parvis ritorna verso l'albergo, camminando in fretta, a capo chino, senza vedere nessuno, senza salutar nessuno.

— La posta, Eccellenza.

È il portiere che gli presenta il solito fascio di lettere, di giornali e di libri.

Il Parvis lo prende macchinalmente e straccia la busta della prima lettera, senza nemmeno guardarla.

— Il mio servitore dov'è?

— Era qui adesso.

— Fatelo chiamare, subito. E il mio conto, subito. E una carrozza.

Il portiere fa un atto di meraviglia:

— Parte, Eccellenza?

— Sì.

— Prende il diretto per Roma o per Milano?

— Per Roma.

— Vorrà pranzare, prima. Le ordino il pranzo?

— No. Pranzerò a San Marcello o a Pracchia.

Gerardo parla spedito, con la voce sicura, con tono risoluto. La sua faccia è la solita, di tutti gli altri giorni. Soltanto ha le labbra pallide, stirate e in mezzo alla fronte è apparsa una piccola ruga: una ruga diritta, dura e fonda, che non c'era prima.

Fa le scale tranquillamente, ma poi entrato in camera richiude l'uscio con un impeto di collera. Rapidamente, quasi macchinalmente, prende la piccola valigia a mano e la riempie di lettere, di carte, di libri: vi caccia dentro la scatola delle sigarette, i danari, le spazzole, il berretto da viaggio, l'orario. — E il portafogli? Dov'è? — Non ricorda se lo ha messo nella valigia... Lo cerca con la mano.

— Eccolo.

— Ma invece del portafogli è l'astuccio di pelle con il ritratto di Flaviana.

Lo guarda, ma senza commuoversi: freddamente.

— Sei vendicata! Come sei vendicata!

Ripone il ritratto e non pensa più al portafogli, continuando invece a cacciar roba nella valigia, tutta la roba che gli capita sotto le mani.

A un tratto si riscuote, trasalisce: qualche cosa di fresco, di umido è passato sopra la sua faccia; è il nasino nero di Teo; è Teo che è saltato sul tavolo.

— Via! Va via!

Lo caccia giù dal tavolo, d'un colpo, ma Teo ritorna all'assalto, gli corre fra le gambe, lo fa inciampare!

— Maledetta bestia!

Gli dà un altro colpo così forte, che lo fa rotolare sul pavimento.

Teo non guaisce, corre a nascondersi sotto il canapè.

— Comanda?...

È la voce di Prospero, entrato dietro a Teo, ma che il Parvis non ha veduto.

— È un'ora che aspetto, vivaddio! Mai al tuo posto! Mai!

Prospero non risponde: la sua faccia rasata, scura, sembra diventata di bronzo.

— Il mio baule, la mia roba subito. Soltanto la mia. Tu partirai domani, per Milano.

E non dice più una parola. Rimane immobile, muto, diritto, le braccia dietro il dorso, fissando il baule che Prospero riempie lentamente.

Soltanto, quando sta per salire in carrozza, non può trattenere un impeto, un moto di stizza.

È il generale che lo chiama, che lo ferma. Il generale, gli occhi sbarrati, i baffi irti, la bocca aperta, è tutto un punto d'interrogazione.

— Ritornate presto, onorevole?

— No. Non torno più.

— Come?... Non tornate più?

— Ho ricevuto un telegramma: sono chiamato a Roma d'urgenza. Affari importantissimi. Buona permanenza, generale, e sempre in buona salute!

— Ma...

La carrozza parte. «Gambe de pano» rimane fermo, in mezzo alla strada, seguendone, con l'occhio stupito, la rapida discesa.

Prospero, sempre con la faccia scura, annuvolata, ritorna subito in camera del padrone, appena questi è partito, e si china ginocchioni, guardando sotto il sofà.

— Teo! Vieni qui! Teo! — Niente: Teo non risponde, non si muove. — Teo! Vieni qui! Teo!

Dopo un momento, Teo, quatto quatto, esce di sotto il canapè, le orecchie basse, la coda nascosta fra le zampe: si avvicina a Prospero, gli odora la faccia, poi corre di nuovo ad accucciarsi nel suo nascondiglio.

Prospero scrolla il capo e se ne va chiudendo l'uscio. Prima di sera, ritorna con la zuppa di pane e di carne.

— La pappa, Teo!... Buona la pappa!

Teo riappare, odora il piatto, ma gli dà contro con il muso, rifiutandolo, e di nuovo si rifugia sotto il canapè.

— Teo!... Teo!... Povero Teo!

VIII.

Com'era vertiginosa quella discesa! Il Parvis era preso da un senso di sconforto, di oppressione, di tedio.

Quando si trovò di nuovo, improvvisamente, alla stazione di Pracchia, senza mai aver detto una sillaba al vetturino, gli parve di essersi destato da un sogno. Il solito rumore, il solito frastuono, il solito caldo, la solita polvere, il sudiciume, i saluti ossequiosi del capo-stazione, degli impiegati: il correre affaccendato dei facchini.

Come ormai erano già lontani l'Abetone, il bosco, il viale Elena! Quanto tempo era passato... un'ora sola!

Rincantucciato nell'angolo del suo scompartimento, non si muove più. Non scrive, non legge, non apre, non tocca nemmeno la valigia.

A Civitavecchia, il conduttore spalanca lo sportello:

— Desidera i giornali del mattino, Eccellenza?

— No.

Il Parvis, sempre immobile, sempre rincantucciato, richiude le palpebre, ma non può chiudere gli occhi. Il treno corre velocemente lungo la bigia e desolata campagna romana, così brulla ed arida, qua e là disseminata di ruderi, di avanzi, e di castelli diroccati: un grande cimitero di cui il vento secolare ha portato via i cippi, le statue e le croci. Ma Gerardo non vede che boschi e prati... uno spazio infinito di verde, e in fondo in fondo e poi vicino, più vicino... il cappellone... il grande cappellone tutto bianco e tutto rosa!

Lei, sempre lei, lei!... Amoore! Tesooro! Je t'adoore!...

— Sarà sempre così? Dovrò vederla sempre, così? Non potrò mai chiudere gli occhi della memoria, gli occhi dell'anima, e non vederla più, e ritornare calmo, tranquillo, felice?... — Oh Flaviana, povera la mia Flaviana cara, amata, adorata! Tu sì, tu sì, che mi volevi bene!

A Roma, l'onorevole Parvis grida con tutti, strapazza tutti: appena sceso all'albergo per le camere; poi al ristorante per la colazione, poi da Aragno per un articolo della Tribuna. Il Governo ormai è una baracca, i partiti sono una commedia: il paese è in rovina, la società in dissoluzione. È nervoso, aggressivo, violento.

— Che ha l'onorevole Parvis?

— Nevrastenia.

I più sorridono con malizia:

— Nevrastenia, prodotta dalle dimissioni date, e che furono accettate troppo presto! È il bruciore di aver perduto il potere!

— Non ha equilibrio, non ha prudenza. Gli manca la serenità, la stabilità dell'uomo di governo.

— Ha un carattere troppo impetuoso, atrabiliare! È mezzo matto!

Gerardo se ne va da Roma dopo una settimana; ha levato il saluto a tre o quattro persone ed è stato sul punto di avere un duello.

— Sono stufo di questa vita, di questa baraonda, di tutte queste liti! Manderò le mie dimissioni anche da deputato! Voglio viaggiare, viaggiare... Viaggiare in paesi lontani, nuovi, diversi dai nostri!

E pensa, in cuor suo, a un paese di ghiaccio, di neve, o scolorito, o giallo, ma senza un filo di verde! — Là, finalmente, non lo avrebbe veduto più, mai più, quel grande cappellone tutto bianco e tutto rosa!

Quando a Milano sta per entrare in casa, Prospero gli viene incontro, con la faccia stralunata, borbottando qualche parola che Gerardo non capisce bene.

— Che c'è?

— Teo ha preso il cimurro. Sta maliss...

Il resto si perde, vola per aria.

— Non hai chiamato il signor Lodetti?

Il signor Lodetti è il veterinario.

Prospero scrolla il capo, borbottando: si capisce, s'indovina che non c'è più niente da fare.

— Dov'è?

Prospero va innanzi e Gerardo lo segue.

Attraversano l'anticamera, il salotto, lo studio, la stanza da letto, il gabinetto di toilette... Nel guardaroba, sotto la finestra c'è il lettuccio del povero Teo: una cesta rotonda, e un vecchio plaid disteso sopra la paglia.

— Il padrone! Teo! il padrone!

Prospero ha un suono tremulo, un accento insolito nella voce pietosa.

— È qui il padrone, Teo...

— Teo... povero Teo, — mormora il Parvis avvicinandosi alla cuccia. Teo fa uno sforzo, si alza a stento sulle due zampe anteriori; ha il testone grosso, sformato, che non può più reggere. Eppure, barcollando... cerca, allunga il muso verso il padrone, e muove ancora adagio la coda... ma è sfinito: ricasca giù, nella cuccia, abbandonandosi, le gambe ripiegate, il respiro affannoso, come un rantolo, un lamento che continua, che continua, mentre l'occhio rimane aperto, con la pupilla vitrea, dilatata.

— Teo, povero Teo...

Gerardo si china per accarezzarlo, e allora il lamento, il rantolo si fa più sommesso...

— Teo, povero Teo...

Gerardo continua ad accarezzarlo, ad accarezzarlo... ma poi, quando fa per allontanare la mano, il rantolo, il lamento diventa più forte, più lungo, disperato, e Teo gli volge l'occhio umano, che si ravviva in quell'ultima, suprema espressione del dolore e della morte.

Prospero porta uno sgabello: Gerardo siede e rimane sempre vicino a Teo, accarezzandolo sempre, finchè il rantolo, che continua, che continua per un'ora, per due ore, si fa più affannoso, più profondo, più forte, indi, a poco a poco, più lento, più sommesso... poi finisce... non si sente più. Teo, dopo un ultimo sussulto, rimane fermo, immobile, disteso.

Gerardo ha il cuore gonfio, stretto: lì, nella cuccia, accanto al povero Teo, c'è ancora il nastro rosa, ricamato e regalato da Sofia.

... La mattina dopo, all'alba, nel piccolo giardino della casa, il portinaio sta scavando una buca. Prospero ha portato Teo, rigido, stecchito, avvolto in un panno bianco.

Gerardo è pallido, ha gli occhi stravolti.

Mentre il portinaio prepara la piccola fossa, Prospero scopre il testone di Teo, poi lo ricopre di nuovo.

— Ecco fatto! — esclama il portinaio, allegramente. — Di qua, signor Prospero!

E stende le mani per prendere il lungo involto bianco.

Prospero non dice nulla, si alza, e sotto gli occhi di Gerardo, sempre ritto, muto, pallidissimo, depone Teo, delicatamente, nella fossa, e lo copre, lo ricopre con il panno bianco, per difenderlo dalle palate di terra, umida e nera.

Il portinaio riempie la buca in fretta, poi vi distende sopra la terra, rassodandola con quattro colpi di badile ben forti, bene assestati:

— Ecco fatto!

Allora, allora soltanto dal petto del Parvis prorompe un urto di singhiozzi, uno scoppio di pianto dirotto, desolato.

Egli rientra nella sua stanza, si butta attraverso il letto, piangendo ancora, sfogandosi. Finalmente ha trovato la via delle lagrime.

— Finito! Finito! È proprio tutto finito!

Fernanda

I.

A Milano, in via Stendhal, numero 31.

Un salotto, ai mezzanini, dove la principessa Strufelzkoy, quasi cugina di Adelina Patti per via del suo primissimo marito, tiene una piccola roulette per pura condiscendenza verso gli intimissimi habitués della sera: tutte persone d'importanza straordinarissima, — la principessa usa sempre il superlativo con grande enfasi, — e della massima serietà.

— Primo, — nientemeno! — il conte Galantino di Castelpus-ter-lengo!... il «debolissimo» della poderosa e tonante Strufelzkoy, che comincia sempre col «bel contino» l'elenco dei suoi «fedeli più costanti.» — Un portento di compitezza!

Un miracolo di conservazione! Vicino alla settantina, non dimostra nemmeno cinquant'anni!

— Il Conte Galantino di Castel-pus... — e nel pronunciarne il titolo la principessa sgrana gli occhi e batte le sillabe, mentre con le due dita della mano destra continua a scuotere lentamente il pollice della sinistra, sciorinando nome, cognome e feudo.

— Secondo, il cavalier Lorenzo Scarminati, grande industriale con fabbrica di cravatte nazionali ed estere, a San Gerolamo. — L'indice resta preso fra le due dita dell'altra mano, ma cessa il movimento e la principessa, smorzando la voce, apre una parentesi nel proprio entusiasmo. — Niente di straordinario. Un permè di Gorgonzola, un ottavino di Mont'Orobio e basta per la nottata; ma sempre di buon umore e per questo appunto detto Letizia; il Cavalier Letizia.

Terzo il marchese... — le due dita della destra riprendono il movimento, stringendo il medio della sinistra — il marchese Dolfin-Cocaglio, grande diplomatico e più volte ambasciatore, al presente esonerato. Con le donne? Un Sardanapalo redivivo... Ha speso in un anno più di sessantamila lire per l'Algerina e si trova in procinto, illico ed immediate, di tornar da capo con la Waldhofstein delle Dame Viennesi.

— Quarto, il banchiere Spinazzola!... Spinazzola! — La principessa, entusiasmata, spalanca le braccia: — la massa informe del petto dopo un sobbalzo si riadagia allargandosi. Il commendatore Spinazzola!... Il padronissimo di tutta Milano! L'onnipotenza personificata!... Basta il dire che è riuscito, tanto quanto, a dispetto della Commissione, dell'impresario e del prefetto a far ballare alla Scala, per una sera, la Bianca Largomare!... — Poi... l'ex maggiore Foscarini, degli autentici di Venezia! Il ramo cadetto, più direttissimo, dei Foscari!... Un grande patriottone per quattro! È stato con Garibaldi, con Cialdini, col Pantaleo, con tutti quanti! Poi Carletto Brenta, il superuomo! — La principessa appoggia la punta dell'indice sulla punta del naso con aria di grande mistero — Citto! — Sarebbe come chi dicesse, per intendersi, una specie di... di capitalista in particolare. Il dieci per cento, forse il quindici, mai niente di più, giuro e spergiuro, tanto è vero che lo ricevo impunemente!... Cattiverie!... I soliti invidiosi! Perchè spende, spande e si diverte, senza mai intaccare il fatto suo!... Superbioso, da poco in qua, d'accordissimo! E criticone all'eccesso!... Ma ha preso un palco alla Scala, in società, fra gli altri, con un giornalista dei primi e un commediografo famoso e s'è messo anche lui a voler sentenziare di arte, di politica, di libri, del Manzotti! È stato il cavalier Letizia, per ischerzo, a chiamarlo il Superuomo... e non gli va più giù!

— Poi, immancabilissimo tutte le sere, e tiene il banco, il nobile Roderigo De-Farentes, grande gentiluomo siciliano. E poi... e poi e poi, succede sempre così!... Uno tira l'altro: presentazioni, raccomandazioni, forestieri per le corse... qualche tosa anche di contrabbando... Ma, intendiamoci, le mani a casa, e proibitissimi i discorsi sboccati! Insomma, l'educazione impone a una signora di non chiuder mai la porta in faccia a chississia, quando si presenta in abito decente. L'educazione e anche la prudenza. Non si sa mai, quando magari meno si crede, capita proprio quel tizio capacissimo, per vendicarsi, di correre in questura a inventar fandonie!

II.

In cucina, mezzo al buio; la principessa e il maggiordomo:

La principessa ( che dorme seduta in un angolo accanto alla màdia: destandosi di colpo ). Romolo!... Che ora è?

Il maggiordomo ( raschia, ma non risponde. Sotto la cappa dei fornelli a gas sta preparando una scodella di zuppa con poco brodo e molto vino ).

La principessa ( sospira, si volta sulla seggiola, russa; poi di nuovo risvegliandosi ). Romolo! Che ora è?

Il maggiordomo ( con la voce grossa, sgarbata, da servitore che spadroneggia ). Non è ancora mezzanotte, maledetta la furia!... C'è tempo!

La principessa. Già: sicuro. Stasera è anche la primissima del ballo nuovo! ( soffia, starnuta e fa un altro pisolo ).

Il maggiordomo della principessa, un Ercole infingardo e melenso, è il marito della portinaia. Nel casamento ha la mansione speciale di attendere ai caloriferi: tutto il giorno nei sotterranei, la sera sale ai mezzanini, indossando, ancora col muso e con le manacce nere di carbone, la livrea nocciuola degli Strufelzkoy, ricca di bottoni, ma scarsa di maniche.

Un'ora dopo: nella sala da giuoco, tappezzata di carta moarè color rosso cupo. Il maggiordomo in punta di piedi sullo sgabello, sta cambiando il tubo ad una delle quattro lucerne a gas, sporgenti dalle pareti. La principessa lo sostiene con equilibrio facendogli puntello alle gambe con le due mani.

Il maggiordomo ( traballando ). Forte!... Tenga forte! Se mi lascia scivolare le spacco la campana sulla testa!

La principessa ( con dolcezza insinuante ). Da bravo!... Non ti domando, in grazia, altro che un pochettin di belle maniere. Specialmente quando c'è gente!

Il maggiordomo ( che ha rimesso il tubo ed ha acceso il gas, piomba giù dallo sgabello facendo traballare la sala e sussultare la principessa ). Dov'è la spazzola?... Lo strofinaccio? Qua!... subito!... E via, marche, con lo sgabello!

La principessa, lentamente, eseguisce gli ordini ricevuti, poi ritorna con un bicchiere in mano e una bottiglia di vino sotto il braccio, e col seno gonfio, bisognoso di espansione, si avvicina ancora al maggiordomo che, brontolando, sempre seguita a spazzolare e a spolverare i mobili con molta leggerezza.

— Son qua, col nostro caro vecchio prediletto! Si fa la pace?... Ma ad un patto: brontola con me: strapazzami anche. Tra noi due, soli soletti, divento democraticissima... ed anzi mi piace. Ma coran popola, non dirmi tutte quelle brutte parole!... In presenza, specialmente, del bel contino, dell'ambasciatore, insomma delle persone del mio ceto!... Pur troppo, volendo conservare un tantinin di decoro, bisogna tener calcolo della differenza grandissima della nostra reciproca condizione!

Il maggiordomo non ascolta affatto la supplice principessa, ma con gli occhi ammammolati, fissa la vecchia bottiglia: di colpo la strappa di mano alla padrona e a due riprese, per pigliar fiato, ne tracanna una buona metà. Anche la principessa, riagguantata la bottiglia; se ne versa e ne beve un bicchiere, poi un altro:

— Ah! questo è il vero Apostolo che riconforta lo spirito e salva l'anima!... Stasera, specialmente, che mi sento un certo brividino nelle ossa!... Vuol nevicare, scommetto! ( strizzando l'occhio al maggiordomo ). Ne ho ancora una mezza dozzina di queste bottiglie, ma le ho nascoste in camera mia, dietro il letto, per nostro solo uso e consumo!

— E ieri sera?... Ohè! Bisogna star più attenti! La carne... — e il maggiordomo arriccia il nasotto camuso con muta, ma espressiva eloquenza.

La principessa ( offesa nel suo punto d'onore ). Impossibilissimo! ( poi a poco a poco, si arrende con un sospiro ) Santo Iddio, come si fa? Ciò che alle volte rimane della sera prima, deve necessariamente consumarsi la sera dopo: la mia casa non è un esercizio, ma un luogo privatissimo di pura conversazione! ( Trasalendo all'improvviso al rumore di un oggetto che cade con fracasso, rasentando la parete ) Che cos'è? Cos'hai rotto?!

— Niente!

Romolo, spolverando un trofeo di ritratti degli «intimissimi» ne ha fatto cadere uno tra i più grandi:

— Al diavolo!

La principessa corre a raccogliere e a raddrizzare gli angoli del cartone ammaccato. È la fotografia di un vecchio bell'uomo in smocking, dalla faccia scarna, dal ghigno sinistro, coi baffoni grigi, appuntati e la guardatura un po' losca:

— Oh, poveretto coccolo!... Quel mio caro De-Farentes, simpaticissimo, che s'è rotta la testa!

Il maggiordomo ( In piedi sul canapè, studiandosi di rimettere al posto il gentiluomo siciliano ). Fosse rotta davvero!

La Principessa ( Attenta al maggiordomo, per paura che faccia cadere anche tutti gli altri ritratti ). Piano... pianino... pianin!

Il Maggiordomo. Per la Casilda Maiser sarebbe un bel risparmio!

La Principessa ( con grande sussiego ). Il tortissimo, per altro, della Casilda è quello di lamentarsi sempre col terzo e col quarto! Quando una donna può procurarsi l'usbergo di una persona seria, di proposito, anche se le costa qualche sacrifizio — benissimo spesi! — Il De-Farentes sarà quel che sarà, privatamente, ma come gentiluomo è sempre più che perfettissimo!... Sempre in guanti, pulito, profumato!... Anche la Casilda, in fine, che cosa potrebbe pretendere di più?

Il campanello elettrico della portineria:

— Driinn!!

— Eccoli!... Romolo! Fa presto!

Sultano, un gattone enorme, tutto bianco e con solo un'orecchia nera, esce dall'ombra, stirandosi, e salta sul canapè. Il campanello ricomincia: driinn!!...

La Principessa ( in orgasmo ). Romolo! Romolo! Corri!... No! No! Un momento!... E le scarpe? Hai messo la livrea e non hai ancora le scarpe!

E la cravatta?

Driiinn!!...

— Vengo! Vengo! ( Al maggiordomo, in fretta, mentre si tira giù la sottana di damasco nero che ha rivoltata sotto la cintura e infila uno stretto figaro di velluto amaranto ). Ti scongiuro! Fa presto! Che la gente ti veda sempre in tutto punto! ( Precipitandosi nell'anticamera, mentre Sultano, che ha seguito in cucina il maggiordomo, salta sui fornelli, e alzando, allungando, ingrossando la coda, passa in rivista cocome e cazzarole ) Vengo! Vengo! ( Spalancando l'uscio ). Apro io, per non far aspettare; ma anche il mio maggiordomo è subito prontissimo!... Buona sera! Complimenti!... Brrr! Presto, dentro, perchè spira un'arietta tremendissima che brucia la pelle!

Il Primo Dei Due Signori che entrano:

— Infatti, portiamo la neve!

III.

Il Cavalier Letizia e Carletto Brenta, detto il superuomo, entrano nella camera da letto della principessa, che serve anche da guardaroba per gli intimissimi.

La Principessa ( Aiutandoli a levarsi il paltò ). E così?... Il ballo nuovo? Furoroni?

Letizia. A me, è piaciuto moltissimo!

Carletto Brenta. E a me, niente affatto!

Letizia. Si sa, io non sono un genio: io non ho talento! e me ne vanto! Ma il Manzotti, ha avuto un grande successo.

— Successo di sartoria.

— Tre ballabili bissati e tutti i quadri applauditissimi.

— Contrastatissimi! Un insuccesso! In fatti una melensaggine banale, volgare, idiota!... Una noiosità pretenziosa e interminabile!

— Diremo al Manzotti, un'altra volta, per divertire i... superuomini, di far ballare lo Zacconi con l'Ibsen, o con quell'altro... come si chiama?... Quello delle marionette?

— Con l'Ibsen hai detto una sciocchezza: con il Maeterlinck hai dato, forse, un giudizio molto acuto. Ben inteso, senza saperlo, perchè in arte, come in critica, appartieni agli innocenti.

Driiinnn!! ( Una sonata lunga, più lunga e più forte delle altre ).

La Principessa. Vengo!... Eccomi!... Il contino e il mio ambasciatore! Capisco subitissimo alla scampanellata! ( Passando dalla cucina, mentre si precipita nell'anticamera ). Presto, Romolo!... Mi raccomando! ( Dopo aperto l'uscio, con un grido di gioia ). Eccoli! «il palpito del cor mi fa indovina!» Buona sera signor Marchese! Sono stata oggi al grande concertone delle nostre Dame Viennesi. Che splendori quella Waldhofstein!... Evviva... Giusto in punto anche il nostro Spinazzola!... Così la terna degli eletti è completissima! Avanti! Avanti, in camera mia e tutte le pelliccie sul mio talamo; al sicuro! Con tanta gente in continuo andirivieni, non si può mai garantire! — E così, dunque, il ballo nuovo?... Fiaschissimo?

Il bel contino, allacciando con un braccio il vitone enorme della principessa, le solletica la pelle e l'amor proprio, sfiorandole la guancia coi baffettini biondi, ritinti e impomatati, mentre il galante ambasciatore, palpeggiandola per cortesia, esalta quelle sue abbondanze monumentali, ma non marmoree, con le solite espressioni del noto repertorio. Invece il banchiere non saluta, non guarda nemmeno la Strufelzkoy. Le butta sgarbatamente la pelliccia fra le braccia e passando dall'anticamera al salotto, continua a sfogarsi, non contro il decadimento dei grandi balli, famosi, della Scala, ma contro la decadenza delle ballerine.

— I ballerinn, le ballerine!... Una specialità, un'istituzione, direi quasi, ambrosiana! Ma la ballerina d'una volta, la vera, adess, adesso, non c'è più! Sott'i todesch, sotto i tedeschi, allora, l' era propi tutta lee!... Sana, allegra, spiritosa affettuosa!... Una cara popolina di famiglia, senza malizia, senza inganno e senza cotone!! Ti prendeva per amante, così, sui duu pee — sui due piedi — detto fatto — e con la sola idea di divertirsi. E nessuna spesa, anzi, la ballerina d'una volta, rappresentava una vera economia. Un paio di stivaletti, al massimo, e dopo teatro una barbajada con un chifel al Caffè dell'Accademia. Ma invece adess, adesso?... Fatturata come il Champagne svizzero, secca, tisica, schizzinosa, e anche, magari, col fradell che fa il socialista o l' anarchic!... Piena di esigenze, di capricci, impastata di nervi, d'impostura e d'emicrania come ona miee, investe i suoi benefizî in tanta rendita e parla di azioni, di obbligazioni, di prestiti mej d'on agent de cambi!

Driiinn!!

Il nobile De-Farentes e l'ex maggiore Foscarini.

Il grande gentiluomo siciliano scambia a bassa voce alcune parole con Romolo, che è corso a levargli il paltò, e con magnanimo sussiego gli ficca tra le labbra il mozzicone di un trabucos nazionale; l'ex maggiore, ancora con l' ulster dal largo bavero di coniglio, solleva la portiera e caccia nel salotto il cranio roseo, lucente, circondato da una fitta corolla di capelli bianchissimi:

— Come mai?... Non ancora al giuoco?

Poi la portiera ricade e l'ex maggiore scompare per ritornar quasi subito, stretto e impettito nel vecchio soprabito nero.

— E così?... questo ballo nuovo?... Un orrore, ho sentito?... Ma tutti quei cretini della Commissione?... È ora di finirla, vivaddio!

L'ex maggiore non mette mai piede alla Scala, per via delle cinque lire del biglietto — troppo caro! un orrore! — e in odio a Wagner, una delle solite gonfiature dei milanesi. Ma è tra i più arrabbiati demolitori di ogni spettacolo, perchè la Scala disturba le sue abitudini, lo obbliga ad annoiarsi solo solo al caffè, sin dopo la mezzanotte, e fa cominciare il giuoco troppo tardi.

Driiinn!! Driinn!! Driinn!!

Le scampanellate si seguono una dopo l'altra e, in breve, tutti gli «intimissimi» affollano il salotto.

Il De-Farentes entra con gli ultimi arrivati discutendo a proposito di Zola e di Dreyfus e mentre si dichiara antidreyfusista per l'onore della Francia e dell'esercito, prova se la ruota è in bilico e se gira regolarmente. Ad un tratto, imprimendole un moto velocissimo esclama con un tremito nella voce forte, imperiosa:

Messieurs faites le jeu!... Messieurs!

I più vicini alla roulette cominciano a puntare: gli altri si alzano e guardano il giuoco.

L'ex maggiore ( correndo a mettersi accanto al De-Farentes ). Un momento!... Un momento! Il nostro solito franchetto!... E sempre sul rosso! Fedele al rosso!

L'ambasciatore, il contino, il banchiere si alzano gli ultimi, dopo aver chiamato la principessa e ordinata la cena. Si avvicinano pure alla roulette, disponendosi a giocare, ma lentamente, fermandosi ancora su due piedi a criticare la debolezza del Governo, le incertezze della Giunta, e ormai disperando dell'uno e dell'altra.

La voce di un giocatore: Ventisei!

Un'altra voce: En plein!

L'ex maggiore: ( con un grido di giubilo ). Rosso! Gran bel colore il rosso! Lascio le due lirette sempre sul rosso.

L'Ambasciatore ( Rivolgendosi piano al contino, dopo aver puntato cento lire sul «dispari» ). Ma... quell'ex maggiore? Che roba è?

Il contino ( con un sorriso enigmatico, mostrando i bei denti fini ) Chi lo sa? Nel nostro esercito, pare, non c'è mai stato. Ho parlato con molti ufficiali: nessuno lo conosce.

L'Ambasciatore ( irritatissimo ). E allora?... Come mai si fa chiamare maggiore?... Ex maggiore? Maggiore di che?

Il banchiere ( per calmarlo ). Delle guardie notturne della principessa.

— Quattordici!

— Pari e nero!

La principessa ( spazzando il salotto, dopo aver spazzato la cucina, col lungo strascico della sottana di seta, e portando, come in trionfo, preceduta da Sultano, il vassoio con la cena ).

— Sultano, via! ffut! ffut! Non venirmi tra i piedi per farmi cadere! Faccio io stessa da primo cameriere, da tutto quel che occorre, volentierissimo, pur di schivare il pericolo dei musi nuovi!... E così, signor contino? Il filetto, ieri sera, non era famosissimo come al solito, mi ha detto il maggiordomo?... Che rabbia! Che dispetto! Ho pianto, persino, dal dispiacere!

De-Farentes. Messieurs faites le jeu! Messieurs!

Il grande gentiluomo siciliano sorride amabilmente; la sua voce è tornata calma, sicura. Il giuoco ha ormai ripreso il solito interesse, la solita animazione di tutte le sere. Dall'uscio della cucina, quando rimane socchiuso, si scorge la principessa che torna a sonnecchiare seduta accanto alla madia, con in bocca il suo bravo sigaro di virginia e il maggiordomo che beve il fondo dei bicchieri e dei piccoli fiaschettini di Mont'Orobio.

Messieurs, faites le jeu, messieurs!

Si annunziano grosse perdite: perde molto l'ambasciatore e perde molto il bel contino.

— Nove!

— Dispari!

— Nero!

Carletto Brenta e il cavalier Letizia strepitano contro la jettatura. Avevano vinto due scudi a testa e li hanno perduti in un sol colpo! L'ex maggiore continua a ridere, a scherzare e a parlare, compiangendo chi è in sfortuna, esaltando chi è in vena, ammaestrando gli inesperti sui grandi misteri del rosso e del nero, e, frattanto, abilmente, sottraendo se perde o aggiungendo se vince, qualche soldo alla puntata, riesce a guadagnare la piccola sommetta che forma tutta la sua rendita giornaliera. Il grande gentiluomo, sempre attento, vede tutto, ma chiude un occhio, come per un patto tacitamente concluso: anche l'ex maggiore, all'occorrenza, gli fa da compare.

Messieurs, faites le jeu!..... Messieurs!.... Rien ne va plus!

IV.

Due donne, strane e tipiche figure, entrano quasi inosservate nella sala.

— Buona sera!

— Buona sera!

Sono rauche, non hanno più voce.

— Buona sera!

— Buona sera!

Nessuno risponde al saluto, nessuno le guarda, nessuno si volta.

— Ciao, Letizia.

— Ciao, bel siciliano!

De-Farentes ( più forte ). Faites votre jeu, messieurs!

... Le facce delle due donne appaiono stanche e livide sotto le macchie nere degli occhi e il rossetto delle guance. La più alta, è una virago; ha un bolèro in testa e in dosso uno sfarzoso abito d'estate chiarissimo, scollato. È appena coperta d'una corta mantelletta foderata di vecchio ermellino. L'altra, piccola, magra, con una giacca verdognola e un cappellino a punta, alla tirolese, ha un viso scarno, ossuto, cattivo, da strega giovine. È tutta occhi e tutta capelli neri, crespi, arruffati.

Sono due tristi maschere della miseria e del vizio, che portano dalla strada una ventata fredda di neve. Continuano a camminare nella sala, interrogandosi con un'occhiata incerta, ma non sono nè intimidite, nè sorprese da quella fredda accoglienza. Dopo un momento si avvicinano al tavolino, dove stanno ancora cenando il bel contino e l'ambasciatore.

— Buona sera!

— Buona sera, carine!... — risponde il Castelpusterlengo sempre amabilmente vieux-regime. L'ambasciatore un po' miope, colpito lì per lì dal voluminoso bolèro, si ficca la lente nell'occhio per vedere come alla quantità corrisponda la qualità:

— Buona sera, signorine belle!

Le «signorine belle» sentendosi incoraggiate, si slanciano, l'una, il bolèro, addosso all'ambasciatore, l'altra, la tirolese, sulle ginocchia del bel contino.

— Aristocratico simpaticone!

— Ciao, bel biondo!

E scoccano i baci.

L'Ambasciatore ( cercando di allontanare le mani dal bolèro per difendere la simmetria dei radi ricciolini messi in fila attorno alla fronte ). Adagio! Adagio! Troppa espansione!

Il bel contino ( difendendosi a sua volta dall'assalto del Tirolo ).

— .... Da brave! Rispettate il nostro candore!

A un tratto, una vocina fioca, sottile, che sembra uscire tra il falpalà e gli svolazzi molticolori del gran bolèro:

— Complimenti!... Complimenti!

Dietro alla vocina, in fondo ad un cappellone di paglia dalle rose stinte e gualcite, appare un povero visino di malatina, smunto, affilato, con grandi occhi cerulei che fissano «i signori» con un tremolio incerto fra il sorriso e le lacrime.

L'ambasciatore, dopo aver guardata la bimba un istante, lascia cader la lente facendo un atto di disgusto.

Il bel contino ( infastidito ). Che! Che! I bimbi si mandano a letto!

Dagli occhi della piccina, che non ha ancora cenato, sparisce a un tratto ogni luce di sorriso e non vi restan più che le lacrime.

Il bolero ( Aggrottando le ciglia, con la voce più ròca, più aspra ). È una mocciosa, che ci serve di compagnia.

La tirolese ( Lanciando sulla bimba un'occhiata bieca, torva ). Per le guardie. È meglio non essere del tutto sole.

L'ex maggiore ( Allontanandosi dal tavolo della ROULETTE: ha guadagnato le sue dieci lirette e ha capito da un'occhiata del De-Farentes che per quella sera, basta ). Signore?... Oh! Oh! Abbiamo la visita di due signore!

— Buona sera!

— Buona sera!

La bimba. — Complimenti!

L'ex maggiore. — Oh! Oh! Anche l'infanzia abbandonata! ( Siede pure al tavolino e prende da uno dei piatti del DESSERT dell'ambasciatore un savoiardo per la bimba e un cannoncino alla crema, per sè ).

La tirolese ( dando un pizzicotto rabbioso alla piccina che divora, con la bocca, il savoiardo e con gli occhi il cannoncino ). Ringrazia, villana!

La bimba ( trasalendo per il dolore improvviso ma sorridendo e inchinandosi amabilmente ). Grazie, signore! Tante grazie! Complimenti!

L'ex maggiore ( Ingolla d'un colpo il cannoncino per non imbrattarsi di crema ). Brava! Una buona educazione è il condimento della virtù! E un marron glacé, sarebbe aggradito, signorina?

La bimba, che si era aggrappata con una mano alla veste del bolèro, è spinta per un braccio dinanzi al tavolino dei tre signori, e ripete i complimenti e i ringraziamenti con un inchino e un sorriso ardito che ha già perduta la bella timidezza, ma non tutta ancora la soavità infantile, e che illumina, fugacemente, il pallido visino per lasciarlo, dopo, più smunto e più avvizzito.

La bimba ha fame e ha freddo. Lì, nel salotto, si soffoca; ma essa ha portato con sè, dentro di sè, tanto freddo dalla strada!

Quanto girare quella sera!... Su e giù! Su e giù! Quanto girare!

Dalla scollatura del corto vestitino di seta rosa, spuntano le esili spalluccie e il collo fino fino, trasparente, con una riga nerognola sotto la grossa collana di perle azzurre. Ha le gambine nude screpolate dal gelo, inzaccherate, come le calzette di lana e gli scarpini gialli, di neve motosa.

L'ex maggiore. ( Scherzando sempre con la bimba e offrendole, dopo il marron glacé, una susina di Marsiglia ). A lei, madamigella! Anche una prugna secca!... Vedo che l'appetito le serve!

La tirolese ( ingolosita adocchiando i dolci del dessert ). — È una ghiottona! Non è mai sazia!

L'ex maggiore. — Abito décolleté! E anche le perle! Che lusso!

L'ex maggiore continua a scherzare e a divertirsi con la piccina: le regala un altro mezzo biscotto, uno spicchio di mandarino e intanto approfitta dell'occasione per fare gratis la sua piccola cenetta dopo la partita. Quattro mandorle spaccarelle, un pezzetto di grana, per assicurarsi se la principessa lo abbia fatto venire direttamente da Parma seguendo il suo consiglio; poi una fetta di panettone... poi, in fine, deve chiedere al contino un bicchiere di bordò, perchè gli è rimasto, — e fa le boccacce, — quel maledetto sapore di formaggio!

— Desidera ancora qualche cosa, la signorina? Un grappolo d'uva? Signorina... — E il nome? Come ti chiami?

Il bolero. Non hai sentito?... Rispondi!

La bimba, interroga il bolèro con gli occhi intimoriti: non ricorda più il nome che le hanno dato per quella sera.

La tirolese ( scotendola forte ). Non far la stupida!

La bimba ( sempre più smarrita ). Mercedes... Iolanda... ( ricordandosi: con un piccolo grido ). Fernanda!... Fernanda!... Mi chiamo Fernanda!

L'ex maggiore. Fernanda!... Nientemeno! La Fernanda di Sardou? E di queste due signore chi è la tua genitrice?

La bimba ( lanciando uno sguardo tenero al bolero e alla tirolese per rabbonirle ). Sono la mia mamma... tutte e due!

Il bolero. Che bestia!

L'ex maggiore ( amabilmente ). Se queste signore sono «la tua mamma tutte e due» a casa, vuol dire, ne avrai anche un'altra?... La vera?

La bimba ( accompagnandosi con un gesto espressivo della manina ). Oh, tante!... Ho ancora tante mamme a casa!

L'ex Maggiore. Allora, se hai tante mamme, avrai anche... molti papà?

La Bimba. ( con un inchino e un'occhiata affettuosa, carezzevole ). Tutti i buoni signori, sono tutti i miei papà!

Si ride a questa risposta. Ridono anche il bel contino e l'ambasciatore e subito il bolèro e la tirolese approfittano del buon successo che ottiene la piccina, per riattaccare conversazione.

Il Bolero. L'ha avuta una nostra compagna, la Goriziana, ma non le ha portato fortuna: lo stesso anno ha fatto un vaiòlo tremendo che l'ha rovinata, tanto che non ha più potuto andar fuori. Adesso ci fa da cuoca, e quando una di noi vuol prendersi la bimba in compagnia, si paga un franco.

La Tirolese. È un'infingarda, una bugiarda, una golosa! Fosse mia, l'avrei pestata di botte!

De-Farentes ( Più forte ). Messieurs! Faites le jeu!

Egli vede con indifferenza allontanarsi dalla roulette Carletto Brenta e il cavalier Letizia, ma è seccato che il banchiere, il quale punta anche per conto del contino e del marchese, abbandoni il giuoco per avvicinarsi alle due donne.

Faites le jeu!

Rien ne va plus!

— Ventisei!

— Rosso!

En plein!

De-Farentes ( lanciando un'occhiata alla principessa che passa in quel punto col caffè e con i liquori, per farle capire di mandar via quelle baldracche ). Non ci sono giuocatori stasera! Non c'è il numero sufficiente! Così non è possibile continuare! — ( Con impeto: con ira: ) Messieurs! Faites le jeu!... Messieurs!

La roulette, torna a girare e a stridere.

Il Banchiere ( avvicinandosi, soffiando e brontolando, al contino e al marchese ). Quel De-Farentes ha una fortuna vergognosa! Abbiamo perduto l'impossibile! ( Vedendo la bimba sfoga il suo malumore ). Che roba è? ( Alla principessa ). Ormai, qui, è porta aperta? Si lascia passar di tutto! È una vergogna! Una immoralità!

La Bimba ( pallida, intimorita, ma pur fissando il banchiere con gli occhi carezzevoli e facendo un inchino ). Complimenti! Complimenti! Buona sera!

Il Banchiere. ( Sempre rivolto alla principessa che versa il cognac al bel contino e all'ambasciatore ). A dormire! I ragazzi si mandano a dormire! E poi... si votano leggi sul lavoro dei fanciulli!... E poi si spoglia la gente per gli asili, per i ricoveri, per le scuole! — Bella scuola!

La Principessa ( Senza nemmeno guardare le donne, con un'espressione schifiltosa di grande sussiego e di pudore offeso ). Subitissimo! Dico adesso al maggiordomo di metterle alla porta!

La piccina spaventata al pensiero di dover tornar fuori, di dover tornare a girar su e giù, su e giù, sotto il rovaio, afferra la sottana del bolèro come per trattenerlo.

Il bolèro e la tirolese, insieme, con un atto di ribellione e di disperazione in faccia al pericolo di andare a letto senza cena:

— Alla porta?

— Come sarebbe a dire?

— Se siamo venute è perchè siamo state invitate!

— Siamo state pregate!

La Principessa ( Sempre senza guardar le donne, per non sporcarsi la vista, ma con grande autorità, imponendo silenzio e indicando l'uscio ). Sst! Fuori! Fuori! Fuori! Subitissimo fuori!

Il Bolero ( Ancora più rauco ). Non si tratta così con le ragazze educate! Perchè noi siamo ragazze educate!

La Tirolese. Farci perdere tutto il tempo! farci perdere tutta la notte! ( Chiamando il cavalier Letizia ). Siamo state invitate sì, o no?

La Principessa ( Sempre più imponente e maestosa e sempre senza guardarle in faccia ). Sst! Niente affattissimo! Fuori! Fuori! Fuori!

Le due donne, inviperite, fanno per lanciarsi contro il cavaliere:

— Ci hai invitate, sì, o no?

La Principessa ( frapponendosi ). Nella mia società invito io, comando io, e la sola, padronissima, sono io!

Carletto Brenta ( sbocconcellando un panino gravido in onore del simbolismo e rivolgendosi al grande industriale ). Come?... Sono tue conquiste?

L'ex Maggiore ( Al contino, indicando il bolèro ). Quel donnone, per altro, non è del tutto disprezzabile!

Letizia ( Borbotta, sorridendo, qualche parola all'orecchio di Carletto Brenta ).

Carletto Brenta ( con entusiasmo ). La tirolese! Vi raccomando la tirolese!

L'ex Maggiore ( divertendosi ). Il bolèro! Evviva il bolèro!

De-Farentes ( gridando sempre più forte, per richiamare i giuocatori alla roulette ). Messieurs faites le jeu!... Messieurs!

— Diciassette!

— Nero!

Letizia ( che ha calmato le ire della comitiva e venendo a patti, sottovoce, con le due donne ). Sentite, noi siamo anche disposti ad offrirvi una modesta sì, ma sostanziosa cenetta; ben inteso senza Sciampagna.

La Principessa ( mostrandosi arrendevole e conciliante pur di assecondare il desiderio della «società»). Per lo Sciampagna, al caso, ci penso io! ( Stringendo l'occhio con intelligenza al cavalier Letizia ). Ho io, per l'appunto, una marca famosissima!

Il Banchiere ( Ancora brontolando, sotto voce, contro la piccina ). Impossibile! Per me è impossibile! Con quella roba lì, sotto gli occhi! Mi disgusta, mi rivolta! Non mi diverto più! Perdo l'appetito!

«I signori» restano sospesi, esitanti fissando la piccina, che nella sua disperazione lancia uno sguardo supplichevole all'ex maggiore, il quale, dopo essersi fatto offrire un mezzo bicchierino di cognac, ingolla un africano di cioccolata.

La Tirolese ( al banchiere, indicando la bimba ). Questa marmotta?... Giuro, non dà nessun fastidio!

Il Bolero. Si mette a dormire!... Subito a dormire!

La Bimba ( ha un tremito, le si riempiono gli occhi di lacrime, ma non osa fiatare ).

La Tirolese ( chiamandola, come se comandasse ad un cane ). Qui!... Qui!... Subito! Qui! ( Si guarda attorno, cercando con gli occhi, poi corre in fondo alla sala, dove ha veduto un tavolino coperto da un tappeto vecchio di lana a fiorami rosso e nero: al bolèro ). Presto, la marmotta!

Il Bolero ( tirandosi dietro la bimba per un braccio, poi sollevandola di peso, la butta sul tavolino ). E non si piange! Hai capito?

La Tirolese. Giù!

La bimba si inginocchia.

La Tirolese. Giù! Giù! Più giù, distesa!

( La piccina ubbidisce, tremando ).

Il Bolero ( minacciandola con l'indice teso ). E si dorme!

La Tirolese ( minacciandola sulla faccia, con tutta la mano ). Si dorme, o guai!

La Bimba ( balbettando, col visino tutto molle di lacrime ). Buona notte!... Buona notte alle mamme!... Tante buone notti... ai signori papà!... E buon appetito!

Ma la misera creaturina non può finire: è avvolta, rotolata nel vecchio tappeto polveroso e portata, cacciata nell'angolo d'un sofà, in fondo alla sala.

— Dormi! Si dorme!

— Fino a domani!

Il grosso involto fa ancora un movimento: si sente un lungo gemito sotto il tappeto... poi più niente.

Il Bolèro ( correndo a buttarsi fra le braccia dell'ambasciatore ). Anche se bruciasse la casa, non si sveglia!

La Tirolese ( saltando sulle ginocchia del bel contino ). Dorme come una talpa!

— Aristocratico simpaticone!

— Caro, biondino bello!

Scoppiano urli e risate.

De-Farentes ( dinanzi alla roulette, dissimulando il dispetto, da vero gentiluomo ). Signor Contino! Signor Spinazzola! Non volete tentar la rivincita?... Adesso il banco non è più in fortuna!

Messieurs, faites le jeu! Messieurs!

V.

Un'ora dopo: un campanello elettrico, diverso dal solito, acuto, sottile, comincia a suonare senza più smettere. Sultano attraversa di corsa il salotto e sparisce.

La principessa ( con un grido tutt'affatto plebeo ). Maria Vergine Santissima! La questura!

De-Farentes ( cacciandosi il denaro in tasca ). Presto! Tutti ai tavolini!... A discorrere, a cenare, a fumare!

Il maggiordomo ( In fretta, fa per buttare un tappeto sulla roulette, ma intanto due signori si precipitano dall'anticamera in sala, seguiti dal fracasso di una portina a vetri, mandata in frantumi ). Fermi tutti!

Dietro ai due delegati, e in fondo al salotto, appariscono altre facce risolute di questurini in borghese.

La principessa ( strillando come un'indemoniata, mentre tutti gli altri, compreso l'ex-maggiore, sono rimasti muti, allibbiti ). Mi protesto innocentissima! La mia casa, come tutta la mia parentela, è onorata e rispettatissima da secoli a Milano e fuori di Milano! Sarà stata certo qualche... donnaccia a far la spia! Per il dispetto di non poterci entrare!... Si giuoca per puro divertimento! A giuochi... di pura società, perchè la mia società, la mia conversazione può stare a pari delle più aristocraticissime di tutto il mondo! Presento il marchese Dolfin-Cocaglio! Il Conte Galantino di Castelpusterlengo, e il commendatore Spinazzola, nientemeno, tutti intimissimi! ( Rivolgendosi al bolèro e alla Tirolese che continuano imperterrite a cenare ).

— Siete state voi due? Spione?

Uno dei delegati ( con viso torvo, al bel contino, all'ambasciatore e al banchiere ). Con me, lor signori!

Li fa passar in fretta nella camera da letto della principessa, poi, scambiata appena una rapida occhiata, apre loro l'uscietto della gabbia e i tre privilegiati piccioni pigliano il volo, prontissimi a dichiarare, alla prima occasione, che «con questo Governo» c'è troppa eguaglianza e libertà!

Frattanto di là, nella grande sala, mentre l'altro delegato e le guardie procedono alla perquisizione ed al sequestro di vari mazzi di carte, e di un'altra piccola roulette, la lite fra la principessa, il bolèro e la tirolese si fa più arrabbiata, le voci più assordanti, e il De-Farentes, per sfogarsi, finisce col dare uno schiaffo al bolèro che si rivolta, si dibatte, cerca di graffiarlo e strepita e piange, mentre gli scaraventa addosso le peggiori ingiurie:

— Ladro!... Schifoso!... Ladro!

Il delegato. Silenzio! ( fissando il bolèro ). Ma brava!... la Teresa Rossetti?... La Bolognese!... Tu hai avuto il foglio di via e sei tornata a Milano a batter la frusta? In arresto!... ( indicando la tirolese ). E tu pure! Verrai con noi! Farai vedere le tue carte in questura! E anche la padrona del locale, e il nostro bravo signor De-Farentes che teneva il banco! E anche quello là ( indicando l'ex-maggiore ). Arrestati!

L'ex maggiore ( Senza più fiato in corpo ). Ma io... è stato un caso... un puro accidente...

Il delegato. Arrestati: tutti gli altri in contravvenzione. — Lei? — comincia indicando il cavalier Letizia che balbetta nome cognome professione indirizzo. — Lei?... — ( continua rivolgendosi a Carlo Brenta che fa altrettanto ) — Lei?...

La principessa ( fra le guardie ). Almeno il brum! La carrozza! Una carrozza! E manderò i miei reclami in alto!... Molto in alto! Perchè io sono intimissima con deputati, senatori, ministri! Con tutti i nobili di Milano!... Con tutti i grandi personaggi più influentissimi!

Una guardia in borghese che continua nella perquisizione, ad uno dei compagni, indicando il fagotto nell'angolo del canapè:

— E qui?... Che ci sta?

L'altra guardia ( sollevando il fagotto ). Chiò, el se move!

La prima guardia ( aprendo il fagotto con un grido di maraviglia ). Na piccirilla!

La seconda guardia. La sarà la fia de la parona.

La prima guardia ( Toglie la bimba ancora addormentata dal tappeto ). Dorme!

La seconda guardia ( prendendola in braccio e scotendola ). Chiò piccola! Sveiete!

La prima guardia. Non fingere di dormire! Chi sei? Come ti chiami?

La bimba ( apre a stento gli occhi, pallida pallida, tutta madida di sudore ).

— Parla!

— Piccola, che nome ghetu?

La bimba. Celestina... ( correggendosi ) Mercede.

— O Mercede o Celestina!

— La verità! Se dise la verità!

La bimba ( li crede due «bei signori» in visita dalle sue mamme. Svegliandosi completamente, fissa le due facce minacciose e nuove per lei, ma senza punto spaventarsi: poi, dopo un momento, ricordandosi del nome che le è stato imposto la sera innanzi e sorridendo graziosamente ).

— Fernanda! Mi chiamo Fernanda!... Buon giorno! ( Allunga il collo per offrire un bacio sorridendo e continua con la vocina tenera, insinuante, volendo mostrarsi compita con tutti e due ). No, buon giorno!... Buon giorni!... Buon giorni! Signori papà!

Canto di Montagna

Troppo grasso... e troppo grassi!

Quel gran cuoco del Kurhaus — benchè cavaliere e malgrado tutte le sue stagioni di Vichy — aveva respirato troppo fumo di tedescheria e col lezzo pesante delle sue cucine ammorbava anche l'aria della pineta.

Ecco!... Le zaffate di goulasch e di plumcake — compresi ogni giorno nel ménu per gli stomachi... deboli — arrivavano sin là, alla sua panchina prediletta, dietro la chiesuola luterana, dove anche quel giorno la marchesa Felicita avea riparato verso le cinque, mentre il lungo servente dei grassi e delle grasse cominciava a snodarsi lungo il viale della Trinkhalle. Com'era diventata opprimente e schiacciante quella turba di pingui, in mezzo alla quale viveva da due settimane!

Ed era stata proprio lei ad insistere, perchè il dottore convenisse nel dire che un po' di cura per dimagrare le era necessaria, e le avrebbe fatto meglio del mare! Come l'aveva colta la paura di essere ingrassata, di dover ingrassare?

La marchesa sorrise. Quella tremenda paura l'aveva presa una mattina di maggio — era un giovedì — nel «gabinetto degli specchi» negli ammezzati del Ventura.

Vi si era indugiata, in corsè, a riprovare l'amazzone per Castelletto.

A un tratto, sulla grande lastra di fianco, era apparsa e scomparsa via come un fantasma, la figura mefistofelica del cavalier Febo, esile esile, nero, nero, nel suo eterno lutto misterioso, e il sorriso freddo ed arguto dello scapolo maturo, quel suo sguardo vivo ed intelligente, l'avevano tutta rapidamente ravvolta e sapientemente accarezzata così come ella si trovava in quel punto.

Soltanto Febo era capace di penetrare in un luogo simile, in un momento simile, in uno specchio così riservato!

Rinetto, per esempio, non avrebbe mai osato farlo, e forse non sarebbe mai arrivato nemmeno e pensarlo! Un ragazzo, nient'altro che un ragazzo, quel povero Rinetto!... Tante volte l'aveva accompagnata sospirando, fin sulla soglia del Ventura! Ma solo per far ridere alle sue spalle tutte le madamine addette alla sartoria, mentre col visetto tondo volto in su, il nasino schiacciato volto in su, l'aspettava gironzando sul Corso.

E nemmeno suo marito avrebbe mai avuto il coraggio di ficcarsi lì dentro e di apparire in quello specchio! Suo marito che avrebbe tanto desiderato di poterlo fare quando dal Ventura, in corsè, c'era la contessa Ersilia!

In quello sguardo del cavalier Febo ella aveva letto una quantità di restrizioni sulla bellezza troppo appariscente delle rose in pieno sboccio, dalle foglie troppo spesse e carnose, di cui le aveva già parlato una volta. Ella aveva sentito che la linea del suo corpo minacciava di perder la purezza statuaria e, con quel pensiero molesto, un altro ancora, anzi un vero brivido di malinconia, l'aveva scossa tutta... Il pensiero degli anni, di quell'implacabile diciassette d'agosto un'altra volta imminente. Così si era decisa per «il paese dei grassi» e aveva gustato sin dai primi giorni la consolazione, la voluttà di essersi ingannata, di doversi ricredere. Non si era mai sentita tanto giovine, tanto flessuosa, tanto agile e fresca come in mezzo a quelle opulenti dame esotiche, infagottate di seta come le «donne fenomeno» delle fiere, tutte ciondolanti di gioielli come le Madonne della Riviera, e sempre asmatiche, lustre, gocciolanti, preoccupate solo di non riportare a casa tali e quali i loro novanta o cento chilogrammi di peso.

E pazienza ancora le donne, elemento di contrasto e quindi di conforto!... Ma gli uomini!? Non ne poteva più!

La Germania intera aveva dunque rovesciato in riva a quel fiume, in quella conca verde, tutti i campioni della sua pinguedine, i suoi colossi di gelatina tremolante, impastati di birra e di patate?

Da qualche giorno ogni diligenza che arrivava ne rotolava giù al Kurhaus un'altra dozzina.

E sempre quei ventri enormi che sembravano scappare fuori dalla cintola dell'immancabile blusa di panno color ramarro, sempre quegli occhiali d'oro, quei baffi color di stoppa, sempre quegli orribili capelli a pan di zucchero, coll'antipatica piuma di fagiano piantata dietro!

Per qualche tempo la marchesa si era divertita col cavalier Febo e con Rinetto, a godersi la sfilata dei tipi, e anzi soleva dire ridendo: «Andiamo a sfogliare l'ultimo numero dei Fliegend Blätter!» Ma ormai gente e luoghi, e quel continuo ja! ja! so! so! nelle orecchie le erano venuti a noia.. Non ne poteva più! Guai se non ci fossero stati — soli italiani, soli magri e soli amici — quel povero Rinetto.... e il cavalier Febo!

* * *

Dopo un meriggio caldo, quasi come in pianura, lassù a quell'altezza si diffondeva verso le cinque la deliziosa frescura delle Alpi e correvano per la selva i primi aliti della brezza. Giù dai prati scendeva l'odor forte del fieno e oltre il fiume e la valle, pel grande anfiteatro dirimpetto, avvicendato di pinete, di frane, di immense pareti granitiche, di nevai e di vette, cominciava a distendersi l'armonia delle penombre, la delicata e morbida grazia dei violetti, degli ori pallidi, quello spettacolo del tramonto, che la marchesa Felicita aveva molte volte ammirato, come un grande quadro del Manzotti alla Scala, ma senza alcuna persuasione, senza alcun intimo commovimento... E nemmeno in quell'ora l'anima della bella signora s'apriva ai fascini della splendida egloga vespertina. Ella pensava che non sarebbe scesa alla Trinkhalle, tanto era stufa e infastidita della solita processione, pensava al modo di sottrarsi, per quel giorno almeno, a quell'altra noia ineffabile della table d'hôte, nel salone semibuio e triste come una chiesa, dove soltanto in fin di tavola, al silenzio scontroso e all'ipocrita parlar sommesso fra i commensali, succedeva un momento di frastuono, il volgare acciottolìo delle tazze e delle posate, con qualche nota aspra, qualche strappo di frase rauca, di tedeschi un po' alticci.... E poi, la sera!.... I soliti cento passi lungo il fiume, che sembrava correre ancor più livido ed iracondo nel buio, ed il solito esame delle sue mantelle ed anche delle sue sottane di pizzo, da parte delle grasse più curiose e più sfacciate... per finire poi dinanzi al chiosco, a godere, sin verso le undici, il primo quarto di luna e il miagolìo dell'orchestrina, che di milanese non aveva più che il nome e i triangoli!... Ah, bisognava pur rompere il pigro ritmo di quella vita! La splendida valle non finiva lì! Oltre quelle montagne s'aprivano altre conche, altri incanti, dietro quella millenaria muraglia di pietre era il mondo, il gran mondo.... Ella non aveva affatto bisogno di mummificarsi intorno a quella fonte... Dunque?

* * *

— È arrivata! Non ha sentito il tuff tuff?

Rinetto era comparso a capo del viale e si riposava della dolce e breve salita, poggiandosi come un vecchietto, con le due mani inguantate di bianco, sul bastoncino puntato innanzi.

Si era messe anche le scarpe di melton tutte bianche, e le mani e i piedi dell'elegantissimo ragazzone sembravano fatti di gesso ed appiccicati alle braccia e alle gambe di quella sua lunga persona dinoccolata e un po' fantocciesca, insaccata nell'abitone estivo di seta color pulce. Nemmeno l'aria e nemmeno il sole delle alpi erano riusciti a dare un po' di colorito e un po' di solidità alle guance flosce e smorte di quel viso sempre volto in su, sovra il collo fasciato del grande cravattone a tre giri, come nei ritratti di famiglia. Si sarebbe detto che il buon genio del monte non volesse sciupar nulla della sua tavolozza intorno al giovane prototipo dello snobismo cittadino, ben sapendo che di ritorno al piano sarebbe bastata una settimana di veglie buttate via fra le ragazze dell'Eden, per ridurlo di nuovo cascante, imbambolato ed assonnato, come del resto egli godeva di mostrarsi.

Di fronte alla comica e bolsa virilità del giovinetto, la femminilità forte e rigogliosa della marchesa trionfava ancor più nella sua rosea e bionda bellezza, sullo sfondo verde cupo del bosco, nel molle abbandono del riposo, sovra la rustica panca. Ogni volta che Rinetto le compariva dinnanzi in una toeletta nuova, modestamente pretenzioso come un artista sicuro di sè, la marchesa non poteva a meno di ridere, e Rinetto ormai si era persuaso che era quella l'espressione irresistibile della sua ammirazione. Ma quella sera neppur Rinetto, così bello e così affascinante, riuscì a divertirla. Anzi, seccata, gli chiese, quasi strapazzandolo, chi mai fosse arrivato.

— Come? Non si ricorda? Eureka, la nuova automobile di Febo.

— Ah! Sì! Arrivata? E dov'è?

— Alla villa del dottore, presso la «curva del latte». Di qui non la si vede, ma credevo l'avesse scorta, quando Febo, poco fa, la manovrava sullo stradone, laggiù... Immagini che ha mangiato quasi di volata le due salite sino al Waldhaus. Una bella macchina, non c'è che dire.

— Di che forma?

— Una vittoria, una vera vittoria.

— Il colore?

— Grigio-piombo, filettata di turchino. Molto seria, forse un po' troppo.

— Sarà goffa e pesante come le altre.

— Un po' meno; si progredisce. Anche il rombo non è così seccante come nelle ultime provate a Milano. Farà un magnifico viaggio l'amico Febo!

Rinetto aveva insistito su quest'ultima frase, con un'intonazione così fatua, che pareva avesse voluto dire alla marchesa: «Fra un paio di giorni, presso di voi, rimango... io solo!»

Felicita lo guardò e questa volta rise di cuore, abbandonandosi indietro, sulla spalliera della panca, sin quasi a celare la massa dei capegli biondi tra i dardi verdi dei pini, mentre la bella gola ampia e candida le sussultava nel riso aperto, traverso la tenue camicietta, slacciata prima pel caldo.

Rinetto si provò a ridere anch'egli ma ebbe invece un momento di stizza; di pallido si fece verdognolo. E dire che per lei aveva mancato al patto, si era ridotto alla più insigne e bottegaia delle volgarità, quella di andarsene da Milano in pieno luglio, e che da due settimane si struggeva in mezzo a quei tedeschi, a quelle piante, a quelle capre, mentre gli altri erano rimasti laggiù imperterriti sulla soglia del bar, padroni del Corso, pieno di sole e vuoto di gente, difendendo l'onore del gruppo! E dire che gli amici passavano serate deliziose al Savini, mentre la gran folla borghese era scappata dai trenta gradi di caldo, cosicchè essi soli avrebbero potuto dire con tutta semplicità: «Non ci siam mossi un giorno da Milano!»

E per che cosa poi? Per vederla ridere?

Ridere... o flirtare con Febo!

Allora, perchè la marchesa gli aveva fatto così chiaramente capire che lo avrebbe avuto caro, con lei, in montagna?... E perchè qualche volta, di tempo in tempo, quando egli osava dirle tante cose con un'occhiata, ella non rideva più?

La marchesa scendeva lentamente lungo il viale, buttando via con la punta del parasole scarlatto i rari sassolini bianchi fra la sabbia. Prima di infilare il grande viale del Kurhaus, si volse d'improvviso a Rinetto e quasi seriamente gli chiese:

— Quanti giorni durerà il viaggio del cavalier Febo?

— Non so bene... Otto o dieci giorni, credo. Non ricorda il famoso itinerario? Cinque valichi alpini, dei quali due oltre i duemilaquattrocento metri, quindi in mezzo alla neve, e per ultimo ritorno in Italia dal Sempione. Un record... ed una pazzia!

— Vi pare? E di quanti posti è la nuova automobile, Oscar?

Quando la marchesa lo chiamava Oscar, invece di Oscarinetto o Rinetto, c'era da sperare. Era segno che parlava quasi sul serio.

— Quanti posti? Ma tre, quattro, credo. Job la dirige stando a cassetta: è una vittoria, tal quale una vittoria di cavalli!

— Dunque, se io mi unissi al cavalier Febo, nel suo record, ci potreste venire anche voi?

— Come?... Si andrebbe?

— Tutti e tre, come siamo stati qui, insieme, fino adesso, da buoni amici.

Rinetto era rimasto di gesso — tutt'intero come le mani e i piedi! — e il rapido sguardo rivolto al suo io, non appena udita la proposta della marchesa, rivelò subito la prima, la precipua preoccupazione passatagli in mente.

— Per gita alpina in automobile, disse Felicita — credo correttissimi i costumi soliti di montagna. Anch'io dovrò acconciarmi alla meglio.

E la marchesa tirò via verso il Kurhaus senza aprir più bocca.

* * *

Fu Rinetto stesso che appena scorse Febo, ancora affaccendato intorno ad Eureka, lo informò del capriccio della marchesa, come di una cosa molto strana ed anche — via! — molto arrischiata. Febo, chino a serrare le viti d'uno stantuffo, non si alzò, non si volse neppure. Sorrise, più con lo sguardo che con le labbra, e con tutta flemma consolò Rinetto.

— È un'idea come un'altra. Che qui ci si diverta, non è cosa sicura, ti pare? Per me non vedevo l'ora che Job arrivasse colla macchina per cambiare aria.

— Tu... tu. Credevo appunto fossi soltanto tu!

— Già, capisco! L'idea della marchesa è un po' bizzarra; ma che vuoi farci? Non è da oggi che la conosciamo, e poichè il viaggio le sorride e lei si è invitata... io invito anche te, naturalmente, e la cosa va via liscia.

— Già, come l'automobile.

— Speriamo bene! Ti dispiace forse il progetto? Non ti trovi bene con me?

— Con te? Con te è un altro conto!...

— Ma ti troverai benissimo anche... con noi. In viaggio, come qui! Via, non sei un ragazzo; devi capire che se la marchesa ci tiene allo svago non potrebbe permetterselo nè con te, nè con me...

— Presi ad uno ad uno, nevvero?

— Precisamente. Cosicchè, senz'altro, posdomani mattina, tuff, tuff, tuff.... In viaggio tutti e tre.... Sei contento?

E Febo tornò a chinarsi sugli stantuffi, fingendosi più che mai assorto nel verificare la solidità delle viti. Ma si era fatto serio. L'occhio gli scintillava ancor più fra le molte rughe sottili delle tempie già un po' calve; su tutto quel viso d'uomo arguto pareva che una lunga tensione di propositi e di desideri si allentasse nella certezza di una grande soddisfazione imminente.

* * *

Dopo una serata di cortesi e significanti insistenze — sottolineate, al momento di separarsi, da un'occhiata di invocazione, quasi imperativa — il cavalier Febo, il dì dopo, non aveva aggiunto parola, certo che la marchesa era omai decisa. Nel pomeriggio, infatti, comunicazione ufficiale: un lungo telegramma esplicativo alla mamma, in Brianza, un altro molto più breve e molto più abile al marito, ancora a Roma, ed in fretta e in furia, ed un po' anche di nascosto, i preparativi per la partenza, la mattina seguente, prestissimo.

Avevano lasciato il Kurhaus ch'erano appena scoccate le cinque, quasi di soppiatto, mentre tutti dormivano ancora, ed Eureka correva da un'ora sulla magnifica strada piana verso quel paese romancio, che la marchesa desiderava tanto di ammirare anche per tutto quello che gliene aveva narrato Febo.

Il paesaggio era divinamente bello e vario così da rapire per qualche tempo anche lo spirito poco infervorabile di Felicita. L'essersi alzata così per tempo, dava alla marchesa un'eccitazione nuova, quasi voluttuosa, ma buona, infantile.

Rassegnata ad ogni disastro della carnagione, si era tolta anche la veletta, perchè l'aria viva della mattina le sferzasse forte le gote e la fronte nella corsa rapida dell'automobile, una corsa bizzarra, deliziosa verso il nuovo, verso l'alto... si sarebbe detto verso il cielo. — Nello scompiglio dei riccioli biondi, nel fuggevole rabbrividire per le improvvise sensazioni di freddo, ella era e si sentiva ancor più leggiadra e più desiderata, ma ne aveva a volte un senso lieve di turbamento, la intimidiva, di tanto in tanto, così il desiderio ardente che scattava da certi sguardi quasi corrucciati di Febo, come l'adorazione di Rinetto che nella sua sonnolenza invincibile per l'ora mattutina diventava ancor più sentimentale.

* * *

Nell'automobile ci stavano tutti, benissimo.

Rinetto di fronte alla marchesa e a Febo, e Job a cassetta. Ma ella ci si sarebbe trovata mille volte meglio sola, per allora almeno, senza sguardi che la fissassero, senza alcuno che le chiedesse ad ogni momento, come si sentiva, se si trovava bene, se le piaceva il paese. E siccome, ad onta di ogni sforzo, un senso nuovo di benessere e di ammirazione le chiudeva la bocca, anche Rinetto, intimidito, non osava più parlare; si preoccupava di tenersi sveglio e delle poche valigie ch'erano state chiuse negli ampi fianchi di Eureka, mentre il grosso dei bagaglio avrebbe viaggiato di tappa in tappa, con le diligenze federali: Febo capiva ed aspettava, tacendo. Tutt'al più scambiava qualche frase con Job, sulla manovra della macchina o sulla direzione della corsa.

Job non era passato altre volte, come Febo, per quella strada, ma in un'ora non aveva già più bisogno nè d'indicazione, nè di consigli.

Quel magnifico tipo incrociato di starter e di master che Febo prima di lasciar per sempre l'Inghilterra e la diplomazia, era riuscito a scritturare per sè, e che in breve lo aveva... sublimato in tutti i rami dello sport, dall'ippica al lawn-tennis, dal foot-ball all'automobilismo, s'era insediato a cassetta di Eureka, come un capitano di nave sul ponte di comando, ed era già, a bordo, il padrone dopo Dio, dignitoso e corretto, senza una parola oltre l'indispensabile, sicuro e pronto negli incidenti della strada, disinvolto e imperioso nel suo gergo fatto di tutte le lingue, quando Eureka sostava alle porte dei grandi alberghi, per la colazione, pel pranzo, per gli alloggi.

* * *

Il sole, il grande sole di luglio, aveva inondato la valle. La strada saliva e la carrozza procedeva lenta, ansimando, con qualche stridore a intervalli. Febo era disceso e camminava a lato, e poichè Rinetto, acciecato dal sole, si era tirato sugli occhi il berretto bianco di marinaio, e cedeva al sonno lasciando ballonzolare la grossa testa, Febo stringeva con la sinistra il polso della marchesa, nervosamente, perchè non le sfuggisse nulla di quanto il paese offriva di interessante, ma senza guardarla, soggiogandola, con quella espressione quasi brutale della sua vicinanza e dei suoi desideri.... Venivano incontro e passavano scendendo la china al gran trotto fragoroso dei loro cinque cavalli, fra nembi di polvere e schioccar di frusta le enormi diligenze gialle, alte e traballanti come navi, e dall'alto era un volgersi di visi esotici, maravigliati e sorridenti verso Eureka e verso la bella, elegantissima signora bionda, che si sentiva ravvolta e seguita da una vampa di ammirazione e di cupidigie.

A quegli incontri, anche Rinetto apriva gli occhi, si scoteva, sorrideva, si dava un contegno, godeva egli pure un po' dell'invidia lasciata dietro per via, ma poi il sonno — quel sonno invincibile della mattina per chi suole dormire tardissimo — lo riafferrava alla gola e non c'era verso... Febo poteva tornarsene a fianco della carrozza, e stringere forte, con la mano scarna e nervosa, il polso tondo e ignudo della marchesa, perchè non le sfuggisse nulla del paesaggio...

— Ecco lassù, più in alto... Appare adesso... È il primo lembo di ghiacciaio che il panorama ci offre.... Vedete quanto è bruno e livido in confronto dei nevai, bianchissimi, più sotto? Domani sera, saremo ai piedi di quella grande muraglia che sembra lo sorregga... Chi direbbe che si può arrivare sin quasi lassù, in automobile?

* * *

Entravano in un villaggio. Che silenzio! Non giungeva all'orecchio altro che il martellare argentino di un vecchio contadino seduto su di un tronco d'albero, serio ed assorto come un filosofo, che affilava la falce picchiandola a colpi uguali sopra un'incudine piantata nel ceppo. Qualche donna vestita di nero, con una cuffietta di lana bianca annodata sul capo, attraversava la strada frettolosa, senza quasi voltarsi a guardare chi arrivasse e spariva in uno dei soliti chalets.... Altri visi di donna — visi affaticati e invecchiati anzi tempo — comparivano ai vetri delle finestrelle, chiuse, chi sa perchè, anche con quel caldo.... Uno sciame di bimbi, tutti puliti, con le grosse scarpe a chiodi, sbarravano tanto d'occhi all'arrivo di quella strana carrozza senza cavalli, che aveva le ruote cerchiate di gomma e si lasciava dietro un forte odor di benzina, e la seguivano a distanza, ficcandosi un dito in bocca, scambiandosi le loro impressioni in un linguaggio breve e dolce, che a Felicita ricordava la canzone provenzale di Magalì nella Sapho del Massenet.

I piccoli indigeni si decidevano a fermarsi in crocchio dinanzi alla solita botteguccia dei conditorei co' suoi immancabili automi di cartone, in vetrina, per la rèclame del Maestrani: altri se ne incontravano pure sui gradini della chesa comunela, il Municipio del paese, il solo edificio oltre gli alberghi e le due chiese, la cattolica e la protestante, che non fosse di legno e in forma di chalet.

— Sente come parlano? — le diceva Febo. — Questo non è ancora precisamente il romancio; è ladino. Niente di tedesco, molto di voci nostre e di vecchio francese. — Poi, sommesso, chinandosi su di lei: — Ditemi, Felicita, che vi sentite lieta, così, qui... — E d'un tratto: — Mi siete più cara che mai!

Ella volgeva il viso dall'altra parte, puntando il binoccolo sui pascoli della montagna, di là della valle.

— Pecore ancora, lassù tanto in alto?... E qualche cosa gira presso quei chalets... Ah! una cascatella... Un molino, forse.... Nemmeno voi, scommetto, senza cannocchiale, non lo vedreste!

— L'ho già visto e ne ho già scoperto il nome, nel Bäedeker; guardate qui; Immersäge! Immer, capite? Sempre! Nell'eternità... E vi è morto un famoso cacciator di camosci... v'è tutta una leggenda d'amore intorno...

— Mettetela in versi!

— E perchè no? Ancora qualche mattina come questa quassù, con voi, così cara, così buona...

— E sarete poeta! Per fortuna siamo nelle mani di Job!...

Rinetto, poverino, pisolando più sodo, si era messo a fischiare, leggermente, ma in modo insopportabile e Febo, sebbene a malincuore, per l'onore del sesso, lo dovette svegliare, gridandogli con paterna commiserazione:

— Sta desto se puoi! Guardati intorno ed ammira, disgraziato! Tra venti minuti si smonta, si fa colazione, e ti concederemo anche un po' di siesta...

* * *

Ritta in piedi su quello strano blocco di neve immacolato, ravvolta, anzi fasciata da quel suo costume morbido e fine a riflessi di bronzo, che non turbava una sola delle grazie rigogliose della bella persona. Felicita si poggiava all'alto alpenstok cui aveva legato in cima un fascio di rododendri; e il mazzo delle roselline delle Alpi spiccava come una gran macchia di sangue sul fondo cupo e quasi verdastro del cielo.

Sostava così ansante e commossa ad ammirare la distesa melanconica del ghiaccio e siccome si era riempita anche tutta la cintola di fiori dell'Alpi — raccolti con ostinata abnegazione pur nei momenti più scabrosi della salita — così sembrava sbocciasse col busto forte ed eretto e la testa superba, di mezzo ad una festa bizzarra di violaciocche, di tulipani, di verbene, di anemoni, di petunie e di calceolarie... La si sarebbe detta, tutt'insieme, la statua di un'iddia dolce e fiera della montagna, ergentesi sopra un rozzo basamento di marmo purissimo, alla quale il prodigio di una nuovissima gioia avesse infuso vita e calore. Felicita, infatti, era tutta rapita e vibrante di fatica, d'ansia, di curiosità e si sentiva sinceramente grata a Febo che le aveva procurato un così strano piacere. Egli non l'aveva obliata un minuto solo, dacchè erano scesi di carrozza per salire a piedi il ghiacciaio, e la marchesa, per oltre due ore, in quella immensa e suggestiva solitudine alpina, si era sentita in balìa di quell'uomo quasi protervo che pur sapeva con squisita sapienza dirle troppo in mille modi, ma senza dir mai tanto ch'ella potesse bruscamente punirlo.

In quello sforzo assiduo di forza e di resistenza fisica, ed in pari tempo di coltura e di genialità dello spirito, l'ostinato amore si rivelava con tutte le seduzioni, con tutte le arti e con tutte le armi di una seconda o terza gioventù, intraprendente ed esperta. Chi lo avrebbe mai detto, conoscendolo solo come un impenitente viveur cittadino? Agile, destro, prontissimo, audace e discreto, egli l'aveva per così dire portata lassù e quasi senza un battito più frequente dei polsi, senza un più affannoso respiro, nè una stilla di sudore; aveva larvato per lei la fatica e i timori della salita, narrandole le cose più varie, insegnandogliene una quantità d'altre, tutte curiose ed interessanti. Ora ella, lo sentiva ancora tranquillamente seduto, lì su di un greppo, sotto di lei e chi sa perchè, proprio in quel punto, di fronte alla scena nuova e nella nuova commozione, le passavano dinanzi come mortificate e piccine, le figure del marito e di Rinetto... quel povero Rinetto che con cento pretesti, fino lassù, al ghiacciaio, non c'era voluto venire...

* * *

Una nube bianca e soffice passava sopra il disco del sole e tosto si smorzò tutto lo scintillio di quell'immenso mare immobile di ghiacci, si spensero le vive luci abbaglianti che venivano prima dai nevai. Sulla scena desolata corse come un brivido di morte: tutto all'intorno si fece squallido, livido, sinistro e Felicita n'ebbe un senso improvviso di raccapriccio, di terrore: le parve che anche i suoi fiori declinassero ad un tratto, improvvisamente avvizziti, si sentì sola, come una bimba persa, nell'orrore di quel paesaggio spettrale, e fattasi smorta, si lasciò scivolare dal suo piedestallo di neve, si lasciò prendere sotto le braccia di Febo e stringere, quasi rabbiosamente, da lui...

Ma nel mentre egli stava forse per osare, la nube stopposa, veleggiando e sfasciandosi a fiocchi, lasciò sgorgare ad un tratto la grande luce del sole... Tutto si riaccese: un senso di tepore e di conforto rianimò la bella smarrita... le sembrò che la vaniglia bruna di cui aveva tutto ingombro il corsetto la richiamasse, con un alito repentino della sua forte fragranza, ai sensi e al pericolo, cosicchè sorrise, si scosse, dolcemente si sciolse, tentò col piede il terreno e arditamente cominciò a discendere verso la strada che serpeggiava laggiù tra i larici estremi, senza più volgersi indietro, senza parlare.

* * *

L'itinerario di viaggio ideato dal cavalier Febo, era un capolavoro del genere. Non un'ora sprecata, non un chilometro di strada che non offrisse un'attrattiva, un godimento speciale; ed in pari tempo una studiosa cura di evitare quei luoghi sciupati nella loro bellezza dalla moda borghese, dalla réclame più fastidiosa. La si sarebbe detta una peregrinazione in paese ignoto, un viaggio di scoperta, fra genti primitive e caratteristiche, disseminate nei recessi delle valli più quiete.

L'interno morbido ed elegante dell'automobile in quella vita zingaresca e un po' selvaggia, era divenuto come la cabina comune di un bastimento in rotta attraverso un gran mare di verde. La marchesa vi si era fatto il suo cantuccio, vi aveva disposte le sue piccole cose, e ridendo diceva che vi riceveva le sue visite, quando Febo e Rinetto dopo qualche tratto a piedi chiedevano licenza di risalire. Job, sempre taciturno, sempre vigile, rallentava a tempo, quando il paesaggio rivelava improvvisamente inattesi splendori, o quando, senza neppur voltarsi, avvertiva che un incidente qualunque — uno stormo di corvi gracchianti nel prato, un falco che s'aggirasse stridendo nell'azzurro, od uno scoiattolino saltellante fra gli alberi — avesse destato la curiosità della grande e bella bambina bionda che quei due dietro a lui — il cavaliere ed il giovinetto — sembravano mangiarsi cogli occhi.

Rinetto — nella famigliarità di quella vita a tre, nell'abbandono quasi studentesco che per forza di cose si era stabilito fra loro, durante i pasti, spesso frugali, nei piccoli gasthaus ove la marchesa aveva vaghezza di soffermarsi, — smarriva tutta la sua spavalderia, il suo snobismo artificiale, ritornava un buon bambinone, senza alcuno dei piccoli ardimenti che la vita della città e dello stabilimento gli avevano ispirato in quegli ultimi tempi, verso la marchesa.

La sua «cotta per la bella bionda» come una volta, un po' brillo, si era permesso di definire la sua passione, in un certo ritrovo, si era purificata, si era elevata sino a duemila metri sopra... le volgarità del loro mondo. Ogni sera, separandosi da lei per coricarsi in un luogo diverso, in un letto nuovo, si sentiva innamorato più che mai... ma sempre più idealmente.

Egli stesso non si conosceva più. Per non farsi aspettare al mattino, non si radeva più barba e baffi con quella scrupolosa cura che rendeva un tempo tutto il suo viso mondo di ogni virile peluria... Qualche mattina anzi era sceso con più di uno sberleffe del rasoio e qualche aiuola rossastra qua e là. Si occupava molto meno delle cravatte, delle calze e degli altri accessori della sua toletta, e molto più del paese, delle cose nuove e belle che gli si offrivano dinanzi, in quel su e giù sulle «montagne russe» inventate — come diceva lui — da Febo... per i suoi fini.

* * *

Ed anche intorno ai fini... insidiosi del vecchio Febo, il buon Rinetto aveva smesso omai ogni gelosia. Capiva che la marchesa non voleva nè la felicità nè l'infelicità di alcuno dei due. Il dì prima, ella si era fermata a tracciare con la punta dell' alpenstock il suo nome nella parete di un grosso blocco di neve che fiancheggiava la strada come la bianca muraglia di un giardino invisibile. Rinetto, seduto su di un paracarro vicino, compitava melanconicamente le sillabe a mano a mano che comparivano incise sulla neve: Fe-li-ci-ta...

— Passerà qualcuno, — osservò ad un tratto timidamente, — e leggerà male; crederà sia arrivata davvero quassù la felicità e che vi abbia lasciato il suo nome...

La marchesa si volse e con la sua smorfietta di rimprovero:

— Non è forse così?

— Ahimè! È passata la bellezza, la grazia... ma la felicità no... Manca sempre l'accento.

E fece atto di bucare la neve, col suo bastone ferrato sovra l'innocente a finale... La marchesa gli trattenne il braccio e ridendo, ma con una intonazione seria e recisa, concluse:

— Nè voi, nè altri... Resta così, senza accento!

Quel «nè altri» aveva consolato il povero ragazzo. Che donna straordinaria la marchesa! Che spirito! Che tatto!

Egli ormai aveva preso tutte le abitudini di lei, tutti i suoi gusti. Si gonfiava ogni mattina di latte appena munto, di miele odoroso, di carne secca. Non si lagnava più di nulla, non sentiva più alcuno dei piccoli disagi del viaggio, imparava da Febo i nomi dei fiori per sfoggiare poi, egli pure, un po' di conoscenza della flora dell'Alpi e poichè la marchesa s'era innamorata di quel delizioso linguaggio romancio, copiava per lei i detti e le sentenze alle porte delle chiese, le epigrafi nei piccoli cimiteri e appena si giungeva ad un villaggio correva a fare incetta delle fotografie e delle cartoline illustrate del luogo, riuscendo ad emulare, pel futuro album dei ricordi, lo stesso Febo che con il poket kodak avrebbe fotografato ogni pianta, ogni sasso della montagna, e la marchesa poi ad ogni minuto della giornata, in tutti gli atteggiamenti, in tutte le luci.

* * *

Quel giorno avevano sostato a lungo allo strano albergo che sembrava fatto soltanto di ferro e di vetro, eretto poco lungi dalla vecchia cantoniera al sommo dell'ultimo valico. Il record volgeva alla fine. La marchesa, con la fronte appoggiata ai cristalli della veranda, fissava la superficie immobile e fosca del piccolo lago alpino che si stendeva sotto quel bizzarro edificio e nel quale si specchiavano le nevi delle montagne ignude e tristi, che circondavano ad anfiteatro lo speco. Altre nevi, che i calori estivi avevano staccate dalla riva, galleggiavano lente verso il mezzo, dando alla scena l'aspetto fantastico di un paesaggio polare. Da quei luoghi ermi e deserti, il pensiero della marchesa scendeva alla pianura; le si riaffacciava alla mente l'animazione dell'inverno cittadino, rivedeva i teatri, le feste, i ritrovi, le amiche, la casa, il marito, e alla voluttà del nuovo che l'aveva sino allora soggiogata, cominciava a succedere il desiderio dell'antica vita, degli agi, delle mollezze, delle femminilità, alle quali da una settimana aveva pressochè rinunziato.

* * *

Si scosse... Era rimasta sola nella veranda chiusa e tepida come una serra, che delle serre aveva anche la luce bianca ed i fiori forzati. Sfogliò l'albo in cui c'erano i nomi di chi era passato prima di lei... Tutti tedeschi, inglesi, americani del nord. Qualche raro nome italiano, ma sconosciuto; qualche altro nome letto già, il dì prima, in un altro albergo lungo la via; qualche accenno gentile, qua e là, ad una persona amata, ad una patria lontana, ma nel complesso elogi banali al menu, ostentazioni di titoli, firme presuntuose, evidentemente di semi-analfabeti, diventati milionari... Dinanzi a quel lago ghiacciato, una finlandese, una signorina indubbiamente, aveva evocato con due melanconici versi tedeschi i suoi fjords. Un prete bretone aveva trovato modo d'imprecare a Dreyfus, inneggiando au drapeau de la France nel bianco delle nevi, nel rosso dei rododendri, nell'azzurro dei cieli.

Ad un tratto Felicita, alzando gli occhi dal libro, sentì Febo dietro di sè. Egli le prese un po' per forza le mani, gliele tirò indietro, stringendole fra le sue che scottavano, e chinandosi come per leggere nell'albo, cominciò a dirle che lassù si viveva benissimo, anche nel cuore dell'inverno.

— Io ci sono passato, tre anni fa, con le slitte... Tutto bianco intorno... E come vi pensavo sin d'allora! Ci conoscevamo assai poco, nevvero? Eppure mi ero giurato che sarei tornato con voi... Con voi, Felicita, qui e dappertutto, con voi e per voi...

Ella strappò le mani da quelle tenaglie, chiuse rumorosamente l'albo, si avviluppò tutta nel plaid ed uscì a dar del pane, rompendolo ella stessa a grossi pezzi, ad un povero cavalluccio giunto sin lassù, dietro di loro, con una carriuola sconquassata, e che si riposava ora in un angolo, ma si guardava intorno, come esterrefatto di tutti quei sassi, di tutta quella neve senza un arboscello, senza un filo d'erba! Febo, passandole vicino, per raggiungere Job che scaldava l'automobile, la guardò prima fieramente, poi le disse, con una scrollata di spalle:

— Meglio così! L'elemosina a tutti! Al cavallo come ieri al cane, come domani a Rinetto... A me nulla!... — E premendo stizzosamente la palla di gomma dell'automobile, ruppe il divino silenzio delle Alpi, con lo stridulo, insistente què, què, què, della cornetta, che fece accorrere in furia Rinetto, dal vicino ufficio postale.

Felicita, frattanto, deposta la manciata dei suoi anelli nel lieve cavo di un sasso e rimboccate alquanto le maniche, si lavava energicamente le manine fatte violacee dal freddo, voltandole e rivoltandole sotto lo zampillo gelido che canticchiava da un tronco, di fronte alla porta dell'albergo.

Carmen bionda, nel terzo atto! — esclamò Rinetto rapito.

Ella era adorabile davvero anche così, e Febo ebbe di nuovo un sussulto come stesse per commettere una sciocchezza, come volesse lanciarsi verso di lei... La bella capì, e crudele nella vittoria, lo pregò che le infilasse gli anelli, ad uno ad uno, e le riallacciasse i polsini, dicendogli ad ogni momento:

— Così, da bravo, les petits services... mantengono le grandi amicizie!

* * *

— Vedete quei culmini ultimi, lassù? Li vedete ancora? Lassù è appollaiato il villaggio, il più alto di tutta l'Europa ove crescono ancora le biade, l'ultimo ove si parli ancora il bel dialetto romancio... Domattina, ridiscendendo al di là, non udremo parlare altro che il francese e vedremo la catena dietro la quale è l'Italia... Fra tre giorni al più saremo a casa... È finita.

Per la prima volta nella voce di Febo, vibrava una nota di tristezza sincera. Imbruniva. Ella avea finalmente accettato il suo braccio, e salivano lentamente lungo la strada silenziosa, deserta, tagliata lungo un abisso profondo, tutto verde, sopra il quale sembrava calassero più frettolose che alle sommità, le ombre della sera, una sera indicibile, purissima. Lungo l'altro margine della strada, erano schierati, come i militi di un esercito sterminato, immobili e silenziosi, gli immensi pini bruni, con le guglie diritte ed acute a forar quasi la vôlta azzurra del cielo, nella quale si andavano accendendo le prime stelle... Qualche fremito misterioso tra le forre, a piè degli alberi, qualche fuggevole stormire nei rami, — uccelletti che mutavano di posto — e null'altro. Non una casa, più, non un fuoco sulla montagna... nulla... nessuno. Loro due ed il popolo muto delle piante, delle erbe che si addormiva, in una calma magnifica.

— Vi duole che ci siamo incamminati così tardi? — le chiese Febo.

Ella scosse il capo dolcemente ed a lui parve che il morbido e tepido braccio di Felicita tremasse contro il suo petto.

Eureka aveva preparato una incresciosa sorpresa ai viaggiatori. A cinque chilometri dall'ultima borgata, un guasto improvviso! Inutilmente, fra il cavalier Febo e Job si era cercato di ripararvi: senza un fabbro, senza arnesi, senza un gancio di ricambio, non era possibile. Che fare? Tornare indietro, scompigliando tutto l'itinerario? Si era quasi a mezza via per quel giorno, altri sei chilometri di salita, ed il dì dopo, anche prima della riparazione, Eureka, in continua discesa, li avrebbe portati abbasso, alla gran valle... la valle ultima del pellegrinaggio. Job riuscì a persuadere due mandriani diretti essi pure lassù, ad associarsi a lui nello spingere innanzi l'automobile, e Rinetto, un po' a malincuore, ma lieto nondimeno di compiacere Felicita, che si era mostrata seccatissima all'idea di dover tornarsene indietro, aveva a mano a mano affrettato il passo per vigilare davvicino la spedizione... e, al bisogno, spingere un pochino anche lui. Così Febo e la marchesa erano rimasti addietro assai, nè ella mostrava ora di volere affrettarsi molto, presa dal fascino di quel silenzio, di quella solitudine, di quella tenebra luminosa.

* * *

Come mai erano cascati a parlare di Milano, di tante cose tristi ed uggiose in un'ora simile? E perchè Febo, già per la seconda volta, le aveva indirettamente richiamato il ricordo di donna Ersilia e di suo marito e di quell'orribile scenata di Roma, di cui appena si era smorzato il pettegolezzo?

Forse aveva avuto ragione Febo, un momento prima:

— Tutto è divinamente bello nel creato; tutto quello che noi vediamo qui, ora, è sovranamente grande; ma i luoghi e le cose non dicono niente alle anime, se le anime dormono...

— La mia anima dorme? — aveva chiesto Felicita.

— Sì, mentre la mia soffre... E per questo, entrambe le nostre anime, non sono qui. Se l'anima vostra si destasse, la mia cesserebbe di soffrire e noi godremmo insieme... l'attimo che forse non tornerà più, nè per me nè per voi! Essere soli, in mezzo ad un mondo silenzioso e deserto e sentirsi felici di esservi...

Ella chinò il capo. L'ora era grave. La voce di Febo non sembrava la stessa e Felicita pensò se doveva pentirsi d'essersi indugiata tanto con lui.

Ad uno svolto brusco della strada, la pineta si apriva ad un tratto verso il monte e a pochi passi biancheggiava una cava diruta, nel cui fondo brillava una fiamma.

— C'è qualcuno? — chiese Felicita vivamente.

— Può darsi; siete stanca? Volete fermarvi?

— No, soltanto vedere.

Presso un focherello di sterpi che ardeva tra i sassi, fumigando di resina, sulla soglia nera di un capanno fatto di ardesie e di tavole d'abete, piccolo ed informe come l'abitazione d'un troglodita, un vecchio irsuto, monco di una gamba, raspava in un paiuolo, e vicino a lui, un ragazzo dalla testa enorme, gozzuto e sbilenco, mungeva, in una ciotola, una caprettina stecchita, che per la prima avvertì gli stranieri e cercò di ritirarsi belando dolorosamente.

Il vecchio aveva perduto la gamba sotto un macigno.

— Quanti anni fa?

— Oh! molti. — Non se ne ricordava più, ma qualche volta ne soffriva ancora.

Viveva in quell'abituro fino al calar delle nevi, picchiando nel sasso dalla mattina alla sera. Il ragazzo gli recava le pietre e gli scalpelli, poi gli dava da mangiare, giacchè lui non poteva quasi muoversi sul terreno ingombro della cava. Quel fanciullo era l'ultimo di otto: tutti suoi nipotini, figli di una figliuola ch'era morta. Il padre, stanco di vederli patire la fame, era andato in America e non se n'era saputo più niente. Gli altri più grandi erano sparsi «pel mondo» a lavorare e l'ultimo gli era rimasto vicino, attaccato a lui, come la rozza gamba di legno alla sua coscia.

Il vecchio aveva detto la sua miseria, tranquillamente, sorridendo, parlando piano, in quel romancio di cui poco ormai sfuggiva all'orecchio musicale di Felicita; e intanto il ragazzo scemo e la capretta arguta guardavano i due, ma senza curiosità.

Neppure il vecchio sembrava stupito della apparizione di quella coppia signorile, a quell'ora, a quell'altezza....

— Oggi sono passate in su molte carrozze, con molti signori.

— E qualcuno si è fermato a discorrere con voi?

Il vecchio alzò gli occhi dal paiuolo, sorridendo di più.

— Di giorno il sole batte forte sulla cava. Non si ferma nessuno qui. Io non parlo mai... Quasi mai. — Non un lagno in quella voce, nè il menomo accento d'invidia o di rancore per quei signori che gli passavano dinanzi, in carrozza, senza fermarsi, mentr'egli viveva così, inchiodato dalla sventura e dalla miseria ai macigni della sua montagna, ignaro della suprema bellezza della scena che ogni giorno gli si apriva dinanzi, quando all'alba usciva carponi come una povera bestia dal covo, e riprendeva a martellare sul sasso...

— Siete cattolici o protestanti qui? — gli domandò Febo.

— Cattolici. Il villaggio dove arriverete fra mezz'ora, è il primo della valle, abitato tutto da cattolici. Vedrete che bella chiesa!... Ci vado anch'io alla domenica.

* * *

Quando Felicita e Febo furono di nuovo sulla strada, era già sera. Il discorso cadeva. Ascoltavano, entrambi, le mille voci di quel silenzio più profondo e più canoro ad un tempo, d'ogni silenzio udito mai.

Ma si levava il vento freddo delle vette, e Felicita, anche pel contrasto col tepore del focherello presso il quale si era indugiata parlando, rabbrividiva e cercava di ravvilupparsi quanto era possibile nel plaid. Febo, un po' preoccupato di quel vento rigido e dell'ora tarda, preso come da una smania stizzosa d'arrivare, le serrava il braccio sotto il suo, affrettava il passo, la trascinava quasi, sempre tacendo, fissando i fuochi del villaggetto ch'erano comparsi ad uno svolto della strada, che ora si avvicinavano, ora sembravano allontanarsi, quasi burlandosi delle sue ansie, ma che brillavano sempre come un dolce richiamo, come un invito, come una promessa... Giunsero alle prime case del paese, quasi senza avvedersene.

Tutto silenzioso, tutto cheto... Qualche lume dietro i doppi vetri delle solite finestruole, delle solite casette, qualche lieve rumore appena...

Ad un tratto si udì la voce di Rinetto e quasi subito un fascio di luce si precipitò sulla strada.

Rinetto veniva loro incontro, in compagnia di Job che aveva staccato il lampione dell'automobile.

— Amici! — gridò Rinetto con enfasi, ancor da lontano — Siamo fritti! L'unico albergo del paese, pieno come un ovo!

E avvicinandosi, scrutando un po' inquieto i volti della marchesa e di Febo, continuò:

— Non un letto a pagarlo un milione! Sembra una casa presa d'assalto! Ci si è fermata mezza Boston e mezza Filadelfia! Una specie d'invasione di quaccheri, che salgono domani ai ghiacciai...

— Possibile? Neppure qualche camera?

— Ma che! Sarà molto se ci avranno avanzato un po' di cena! Vi sono letti anche nella sala da biliardo, nei tre camerini da bagno dell'albergo, dappertutto!

— E nondimeno, una camera per la marchesa, bisognerà pure che ce la diano! — esclamò Febo, in furia, contrariato, seccatissimo, riprendendo a trascinare rapidamente Felicita verso l'albergo, del quale apparivano, nel buio, le finestre illuminate in fondo all'unica via del villaggio.

— Caro mio — proseguì Rinetto, egli pure di pessimo umore, tenendo dietro, e badando alla strada — puoi credere se ho tempestato per una camera, almeno una, per la marchesa!... È tempo perso! Ti rispondono appena: «Tutto occupato!» Non c'è altro che accettare la proposta dello stesso proprietario dell'albergo, l'unica tavola di salvezza, del resto...

— E cioè? — fece Febo.

Chez monsieur le curé, s'il vous plaît, messieurs.

— In casa del curato?

— Già. La casa laggiù, quasi in faccia all'albergo. Pare che la casa del ministro di Dio, sia una specie di dépendance, al bisogno!

La marchesa non aveva aperto bocca, ma era più infastidita di tutti per quel contrattempo. Si sentiva fisicamente stanca. Durante l'ultimo pezzo di strada, a passo affrettato, non aveva sognato altro che una bella camera con un bel fuoco e molto spazio per tuffare le mani nelle valigie... anzi tutto; poi, prima ancora, della cena, del fuoco, del letto, aveva bisogno, materialmente bisogno di un buon bagno tiepido... di un lungo bagno riparatore. Tutti i suoi istinti, le sue abitudini, le sue raffinatezze, fatte tacere in quei giorni fra le distrazioni del nuovo, riprendevano ora il sopravvento di fronte all'impossibilità di appagarle, e il dispetto, la stanchezza, il freddo, la prospettiva di una cattiva notte, le davano un senso di amarezza indefinita, quasi quasi la voglia di prendersela con Febo e con Rinetto, o di mettersi a piangere...

In casa del curato! Che sciocchezza, che seccatura! Dover magari dar conto... spiegare... far delle presentazioni! Il suo entusiasmo per i piccoli chalet svizzeri, visti dal di fuori, si era molto smorzato da quando aveva avuto occasione, in que' giorni, di mettere la testa dentro a qualcuno di essi. Puliti sì e ordinati, ma afosi: vere scatole opprimenti.

Capitare di notte in un luogo simile, a quell'altezza, e trovare un solo albergo, senza una camera vuota... Era la prima contrarietà del viaggio, ma fastidiosissima!

* * *

L'albergo era pieno infatti, pur nondimeno quieto e silenzioso. Finiva la cena. Uomini enormi, dai piedi enormi, dalle mani enormi, signore e signorine che sembravano uomini, tutti dall'aria stanca e severa, occupavano sino all'ultimo posto della table d'hôte e sbucciavano gravemente delle mele e delle pere, senza quasi guardarsi l'un l'altro, scambiando appena qualche parola.

Scialli, plaid, zaini, binoccoli e Bädeker dappertutto; in ogni angolo fasci di alpenstok giganteschi, delle piccozze nelle custodie di cuoio, e sopra ogni mobile mazzi di edelweiss e di alpen-rose. L'irruzione rumorosa della bella marchesa e dei due amici, la disinvoltura con la quale i tre italiani sedettero ad un tavolino d'angolo e assediarono di domande in tutte le lingue il maître d'hôtel e i camerieri, per la cena e per le camere, parvero scandalizzare quegli sbarbati indigeni delle rive del Michigan.

Dopo qualche minuto, come spinti da una molla si alzarono tutt'insieme uomini e donne, e presa la loro roba, quasi furtivamente, con un lieve abbassar del capo, uno dopo l'altro, infilarono l'uscio e sparirono come ombre. Non rimasero a tavola, sparsi qua e là, che due o tre commensali, in smoking e in cravatta bianca.

Mentre la marchesa, Rinetto e Febo finivano di cenare, comparve sull'uscio un bel pretone, forte, tarchiato, dal viso rubicondo, con grossi riccioli bianchi alle tempie ed un fare, fra il furbo ed il gioviale, da prete italiano che finì d'indisporre, con la volgarità, i suoi ospiti forzati.

Il prete però non era affatto italiano: svizzero puro sangue e precisamente, grigione, dell' Oberalpstein, da oltre trent'anni curato fra quelle casupole, «l'ultima tappa verso il Paradiso». Il brav'uomo, del quale ogni gesto, ogni parola, rivelava l'atavismo forse dell'albergatore anzichè la vocazione ecclesiastica, s'era presentato da sè, parlando mezzo francese e mezzo romancio con qualche storpiatura, qua e là, d'italiano. Si era già molto bene informato: qualche cosa sul conto dei signori risultava dalla dichiarazione scritta da Job sul Fremdenbuch; quanto al resto, il prete furbo lo aveva indovinato, e pareva arcicontento di poter dar ricetto nella sua povera casetta a «così nobile compagnia».

— Anzi se la signora vuol favorire anche subito, mi permetterò di presentarle mio nipote, don Arcangelo, il quale parla molto bene l'italiano perchè ha studiato teologia per quattro anni, nel Seminario di Milano, ed è stato ordinato prete dall'arcivescovo che c'era allora, monsignor Calabiana!

Febo e la marchesa non rispondevano, sempre più infastiditi, e Rinetto dovette pur mettere fuori qualche parola, per tutti.

— Come mai, un suo nipote, svizzero m'immagino... è andato a farsi prete a Milano?

— Sa, è un antico privilegio della nostra diocesi di Coira, di poter mandare venticinque chierici per gli ordini, al loro insigne Seminario di Milano. Una concessione che risale al medio evo!

* * *

Nell'attraversare la strada per passare dall'albergo alla casa del curato, tutt'e tre avvertirono che il vento si era fatto ancor più forte e più freddo, ed appena posto piede nella piccola anticamera, Felicita provò un senso di tepore e di conforto che dissipò quasi le cattive prevenzioni. L'aria in quella specie di cassa di tavole d'abete e di larice, era poca infatti, ma aveva lo stesso profumo della pineta.

Il cuculo, mettendo fuori la testina dal vecchio oriolo sospeso in un angolo dava il benvenuto agli ospiti co' suoi dieci dan-cucù, quasi festosi... La vecchia Perpetua, ch'era accorsa con la lucernetta, si faceva in quattro per sbarazzare i nuovi arrivati dei mantelli e di tutto quanto avevano in mano, ed un cagnolino bianco, brutto, ma con un'aria buona e ospitale, s'era messo a scodinzolare, curvo e festoso dinanzi alla marchesa.... Alle sollecitazioni del curato, Felicita si fece innanzi nel breve corridoio, a mezzo del quale brillava lo spiraglio di luce di un uscio socchiuso: spinse ed entrò. La prima cosa che le colpì lo sguardo nel salottino lindo e gaio, fu un harmonium di legno nero, aperto in un angolo, e fasci di musica tutt'intorno, sui mobili e per terra.... Felicita ad un lieve grido, come un singulto, si volse e scorse un giovane prete, il nipote del signor curato.

Questi entrando e scostando le seggiole perchè gli ospiti sedessero, fece in fretta e con molta disinvoltura un po' di presentazione.

— Questi signori... tutti di Milano, e don Arcangelo, mio nipote e mio coadiutore alla parrocchia, un po' milanese anche lui... come ho già spiegato.

Don Arcangelo era lì, ritto presso la tavola, fissando la marchesa, in atto quasi di tenderle le mani, e nel suo sguardo spirava la sorpresa, la soggezione, il timore, ma più ancora una gioia, una grande gioia, quasi infantile.

Era un giovine di media statura, esile, dal volto pallido e un po' scarno, dagli occhi grandi e azzurri, dall'espressione dignitosa e nobile. Sulla fronte ampia, pallida, un gran disordine di capelli castagni; una selva. Quelle due mani protese per un momento verso di lei erano pure apparse a Felicita esili e nobili, come tutta la sua figura e bianche poi come i tasti dell' harmonium: in quell'atto, avevano tremato nelle ampie maniche della veste nera....

Durava fra loro un silenzio imbarazzante. Il curato disponeva sulla tavola un grande piatto di fragole di monte, odorosissime e piccine, e faceva star ritto, in un curioso vaso di terra bruna, un bel mazzo di ciclamini smorti, ma essi pure, profumatissimi.

La vecchia fantesca aveva recato anche una bottiglia di vecchio vino di Valtellina, rosso come il rubino, ed il signor curato ne riempiva certi bicchieri dipinti a rabeschi, insistendo perchè tutti bevessero, ma bevendo lui per primo, a piccoli sorsi, da vecchio innamorato. La marchesa, per non fissare il pretino, si guardava intorno, esaminava tutte le strane cose accumulate in quel piccolo salotto, dall'immensa stufa di muro che ne occupava la quarta parte al piccolo nido appiccicato sopra lo stipite dell'uscio e che — spiegava il curato — da sette anni le rondini venivano a rifare, proprio lì dentro, entrando or dalla finestra or dal corridoio, come se fossero in casa loro

Dopo aver riempito e vuotato più volte il bicchiere, il curato giovialone chiese il permesso di ritirarsi.

Il dì dopo era domenica, e per le sei egli doveva salire a dir la prima messa nell'oratorio dei pastori; quasi un'ora di sentiero erto, faticoso... un luogo da capre. Ma durante l'estate, una messa anche per quei poveretti confinati lassù, almeno alla domenica bisognava pur dirla!

— Anche loro signori saranno stanchi; vorranno levarsi presto. Però, come loro garba meglio. E ad ogni modo, un altro gocciolo, signora! Permetta; in questi paesi, il vino è sangue! Arcangelo magari, non ne vuol quasi sapere; ma lui, lui, è più santo di me! E poi... ha la musica, lui!

Quando il vecchio chiacchierone se ne fu andato, dopo gli ultimi ordini impartiti alla fantesca perchè accompagnasse gli ospiti alle loro camere, Felicita, temendo si rinnovasse l'increscioso silenzio del primo momento, si volse subito al pretino e gli chiese, volgendo un'occhiata all' harmonium:

— Musicista?

— Sì, — rispose il giovine prete. E quel sì, fu detto quasi fieramente, tanto ch'egli stesso sentì di dover aggiungere in tono più dimesso: — O almeno, appassionato tanto della musica!

Subito, come per prevenire la banalità dell'invito, si avvicinò all' harmonium, sedette, e pose le mani sulla tastiera. Senza musica dinanzi, senza guardare in viso ad alcuno, come parlando fra sè, mentre sfiorava appena la tastiera, soggiunse:

— Mi sono provato oggi a musicare il poeta più umile e più profondo della Bibbia: Giobbe, nel suo libro dei morti. Ma non c'è ancora tutta la sua melanconia, e non c'è tutta la sua rassegnazione!

La voce dell' harmonium, in quella piccola stanza foderata di legno, aveva squilli e sonorità strane che si smorzavano in più strani languori.

Il giovine prete accennava ai versetti del Salmo a mezza voce, nel vecchio linguaggio romancio della vallata e le mani esili e bianche traevano dallo strumento voci di dolori ineffabili, senza disperazione, in un ritmo originalissimo, che non ricordava nessuna musica, nessuna scuola:

L'uman, nad dalla donna vis da court età

e vegni impli de diversas miserias. El comparà

sco üna fluor, vegn taglià jo e svanisca,

sco la sumbriva....

L'immagine ultima del fiore reciso, che scompare come l'ombra, aveva ispirato al musicista una elegia ampia e magniloquente, che si risolveva però subito in una perorazione intima e semplice. Nella frase estrema esultava la canzone della montagna; quelle note ne raccoglievano i suoni, ne esalavano le fragranze, sembrava distruggessero col loro soffio le pareti della stanzetta e sollevassero gli spiriti alla maestà delle vette inaccessibili....

L'artista fissava la marchesa coi grandi occhi cerulei, sfavillanti; pareva le fosse amico, le fosse intimo da tempo, pareva le rivelasse con quell'esplosione magnifica di melodie prorompenti dall'animo, tutte le ansie dei suoi sogni di adolescente, tutte le intime lotte ignorate e la lunga attesa ed il gaudio di quell'ora creata da un capriccio del caso... Però, in quell'ebbrezza di una grande gioia e di un completo abbandono d'artista, cessato di cantare ed accennando appena sulla tastiera alla frase ultima del suo salmo, il giovine prete diceva ora a Felicita, che le stava vicino, in piedi, presso l' harmonium, il segreto della sorpresa, del suo turbamento, nel vederla.

— Non è la prima volta che noi c'incontriamo!

— Davvero? Ma dove? Quando?

— Oh! È impossibile che lei si sia mai accorta di me! Ma io... io la ricordavo; e l'ho riconosciuta. Ella da fanciulla, era contessina di C..., nevvero?

— Sicuro! E come lo sa?

— Abitava colla mamma l'antico palazzo sul Corso, quasi dirimpetto al Seminario?...

— Ma certo! certo! Casa mia, da ragazza!

— Ebbene.... Io la vedevo di frequente, allora. Sono cose... che si ricordano per tutta la vita! Ella qualche volta era al balcone, oppure usciva in carrozza, colla mamma, ed io, due volte la settimana, con i compagni.

La marchesa si picchiò la fronte coll'indice e uscì fuori, quasi ridendo a esclamare:

— Ah! Ecco finalmente! Ci siamo!

Rivedeva infatti, come se si fosse trovata dieci anni innanzi, al suo balcone del Corso, la lunga fila nera dei giovinetti chierici, a due a due, uscire dal gran portone barocco del Seminario e voltare, ora verso i giardini pubblici, per la passeggiata, ora verso la chiesa di San Babila, per le funzioni. E ricordava, quegli spirlongoni, tutti cascanti e goffi nelle ampie veste nere svolazzanti e certi visi smorti, quasi terrei, emaciati, con i pomelli rossi, e certi sguardi arditi, sfavillanti, gettati di traverso alle donne in istrada, ed anche in direzione del suo poggiolo, frenati tosto da un rapido e compunto abbassar di palpebre. Molte volte, la carrozza, dov'ella sedeva con la mamma, doveva fermarsi perchè finisse di passare la sfilata.... Oh, allora non poteva divertirsi a celiare e a sorridere alle spalle di quei poveri ragazzi, come quando, invece, era al balcone con la cugina Emma!... Con la mamma bisognava star seria e sopportare, senza una smorfia, il fuoco di fila di tutti quegli sguardi. Ma allora appunto, fra tutte quelle facce che dall'alto sembravano uguali, ne distingueva alcune o più brutte o più belle delle altre, e adesso il viso del giovine prete, ancor più pallido per la intensa commozione, non le tornava affatto nuovo. Sentiva che quegli occhi l'avevano già molte altre volte cercata e fissata così, a lungo.... Fu un istante solo, ma di grande e profondo turbamento per entrambi: ella, come lui, non erano più in quella stanzetta, in quella casa perduta tra i monti; non c'era più nessuno presso di loro, tutti quegli anni non erano passati ed una folla d'ansie, di curiosità, di domande pareva dovesse prorompere dalle labbra dell'uno o dell'altra. Ma siccome Febo con qualche punta d'ironia e Rinetto con ammirazione sincera insistevano nel chiedere come mai scrivendo della musica simile non la facesse conoscere e vivesse lassù, fuori del mondo, così l'artista, come svegliandosi da un sogno e ridiventando tutto prete, si alzò e tornò verso la tavola.

— La mia povera musica è per me e per i miei montanari, ed il mio posto è qui, fra di loro.

— E ci sta tutto l'anno? — chiese Felicita.

Egli la tornò a guardare più calmo ed accennò di sì.

— Chi sa che freddo d'inverno! — esclamò Rinetto.

Il pretino sorrise.

— Freddo, sicuro.... Molto freddo... sino a 17, o a 18 gradi sotto zero.... E l'inverno dura otto mesi... Da ottobre a maggio: la posta passa soltanto due volte la settimana, con le slitte.

— E allora? — fece quasi con ansia Felicita, avvicinandosi.

Egli la guardò, così alta, così bella nel chiarore della lucernetta che ardeva ancora sull' harmonium ed ebbe di nuovo una fiamma alla fronte ed un tremito ai polsi. Ma proseguì con la voce pacata:

— Allora qui si lavora, si pensa. Molta gente migra lontano. Io tengo la scuola. — Dove? Qui, a casa?

— No! No! È un po' lontana, la scuola; oltre la chiesa. E quando la neve è alta si pena un po' ad andarvi. Ma è anche nel posto più sicuro pei ragazzi.

— Sicuro per che cosa?

— Per la valanga.

E in questa sola parola, detta con la consueta semplicità, c'era tutta una evocazione di memorie lugubri, di tragici casi.

Stretto dalle domande, don Arcangelo dovette pur dire della sua vita di stenti e di fatiche in quegli eterni mesi d'inverno.

Ma poi, come temendo di sembrarle pusillanime, soggiunse:

— Una volta all'anno però, prima delle nevi, scendo al nostro paese, nella vallata dell'Albula, oltre Thusis, dove c'è ancora la mamma....

E proseguiva a parlare, fissando quasi sempre Felicita con dignitosa tenerezza, e magnificava i conforti della sua vita, la gratitudine di quella povera gente, la gioia del sentirsi così vicino anche materialmente a Dio, in un piccolo mondo fatto tutto di umili e di buoni, e di pregarlo, di onorarlo, in quella chiesuola, la più alta forse di tutte le Alpi.

— E... la montagna, la selva e la musica.... Vede? Quante cose, quante ricchezze, nella nostra povertà!... Anzi, per me, la montagna, la foresta e la musica sono ormai una cosa sola, una felicità sola, che io amo, amando il Signore che me le ha concesse. Mi capisce? Sente, non è vero, ciò che io le voglio dire, con queste mie parole? La montagna è come una religione, una poesia, una musica per sè stessa... Beato chi riesce a capirla! Ma forse non basta passarvi qualche settimana, così di sfuggita, come hanno fatto loro. È d'uopo viverci, farsi degli amici negli alberi, nei sassi, negli insetti. Da questa finestra, io scorgo forse un centinaio di vette di pini... e li conosco quasi tutti, anzi potrei quasi mettere un nome a ciascuno di loro, come alle cime dei monti; e così, proprio soli, non si è mai... mai.

Ad un tratto, si accorse che parlava da troppo tempo e si alzò, tutto in soggezione, chiedendo scusa della sua grande indiscretezza. Ma aveva ancora sul cuore troppe cose per lei... per lei sola.

Nel trasmestìo, allorchè furono tutti in piedi, impacciandosi a vicenda nell'angustia della saletta, egli si trovò vicino alla marchesa e prendendole la mano fra le sue, che non tremavano più le chiese sommessamente:

— Felice?...

Ella sorrise e scosse il capo.

— Ha bambini?

Ella accennò di no, scotendo ancora la testa.

— Non importa.... Deve essere felice lo stesso, signora.... Ella lo può; deve esserlo!

* * *

Alla marchesa avevano destinato la camera migliore, un po' grande, con un lettone altissimo dai materassi di piume.

Febo e Rinetto avevano dovuto allogarsi insieme, in una stanza vicina e la marchesa, che aveva dato una capatina per curiosità, sorrideva ora pensando alla lugubre compagnia che era toccata a' suoi compagni.

A' piedi del canterano v'era un grande sarcofago di vetro, nel quale stava disteso, immobile, livido, sanguinoso, con l'occhio spento, un immenso Gesù Cristo di cera: sembrava una figura patologica da museo, ed anche Febo e Rinetto avevano tentato inutilmente di nascondere, celiando, la prima impressione, di aver vicino quella salma. Tutta la casa, del resto, era un po' anche una sagrestia. Aprendo gli armadi e i cassettoni esalava un odore misto di lavanda e di incenso, s'intravedevano cotte e pianete, e nel corridoio, lungo le pareti, luccicavano i papi e i candelabri degli altari.

— La chiesa è così piccola!... — aveva detto la fantesca.

La marchesa cominciò a spogliarsi.

Com'era stanca! Quante strane impressioni! Sopratutto quella musica, quegli occhi ed il suo balcone del Corso, le sue birichinerie di ragazza, sua cugina Emma e la biscia nera dei chierici che usciva dal portone del Seminario....

Bisognava far tutto piano in quella casa. Ci si sentiva da una stanza all'altra, come se non ci fossero state le pareti. In quella commessura di tavole era un succedersi di colpi secchi, di tonfi cupi e adesso la marchesa sentiva Rinetto che parlava di quegli «spiriti» con Febo, il quale gli rispondeva appena, evidentemente di pessimo umore.

Quante cose le mancavano! Non aveva potuto metter mano a tutte le valigie! Ed il rimpianto del bagno?... Continuando a svestirsi, le sembrò che tutti i santi e le sante inchiodate o sospese alle pareti, in cornicette di scorza d'albero, la guardassero molto stupiti e un po' anche scandalizzati... Dirimpetto all'uscio, fra le due finestruole, verso il monte, era appesa una fotografia di lui, in piedi, vestito mezzo da prete e mezzo da montanaro, sopra un fondo di neve, con un grosso bastone nella destra ed il brutto cagnolino bianco ai piedi. Quel volto mite e fiero la fissava come un momento prima, nel chiederle se fosse felice, nel comandarle di essere felice. La marchesa si avvicinò col lume al ritratto e lesse i quattro versi scritti in tedesco e in italiano, da mano femminile, — la mamma od una sorella forse, — al basso della fotografia, sulla neve:

Wo Liebe da Friede

Wo Friede da Segen

Wo Segen da Gott

Wo Gott keine Noth.

Dov'è amore è pace

Dov'è pace è benedizione

Dov'è benedizione è Dio

Dov'è Dio nessun bisogno.

Nessun bisogno? Nessun desiderio? L'antica quartina della poesia popolare tedesca, col trionfo della fiducia in Dio, poteva essere il motto di quell'uomo intelligente e forte, artista ed... innamorato di una memoria? La pia mano non aveva scritto quei versi sotto il ritratto, come un'invocazione, come un augurio, come l'espressione del desiderio che si acquetasse in lui la moltitudine dei desideri che lo tormentavano?

La marchesa ritta in piedi a rileggere, a pensare, ad un tratto, istintivamente — era un senso di freddo o di pudore? — raccolse intorno al collo il morbido saut du lit di crépe de Chine che le era scivolato dalle spalle... Un momento dopo, al buio, porgendo orecchio ai mille rumori di quella casa che sembrava la cassa armonica di un violoncello, rivedeva ancora lui, udiva l'estrema frase, dolorosa e sublime del salmo, e pensava. Ma poi, crogiolandosi nel tepore delle piume, che sembravano accavallarsi quasi per accarezzare tutta la nuova, bellissima ospite, la marchesa cedette alla stanchezza ed al sonno, ripetendo a fior di labbra, come una preghiera:

Wo Liebe, da Friede...

* * *

E don Arcangelo?... Che cosa aveva fatto in quelle ore, mentre ella dormiva vicina, a pochi passi? Quale stranezza! Il caso solo non ne era stato capace. Il buon Dio lo aveva voluto!... E perchè? Perchè aveva voluto lì, così vicina a lui, quella donna la cui immagine era andata da anni idealizzandosi nel vivo, melanconico rimpianto, colei che aveva animate, agitate le notti dolorose ed ardenti di un tempo, prima delle tragiche vittorie dell'anima sopra le ribellioni della mente e dei sensi? Che cosa aveva egli fatto durante quelle ore insonni? Non lo ricordava: pregato e pianto indubbiamente. Pregato per lei, pianto per lei e per sè.

... Non appena il primissimo albore sbiancò il cielo ad oriente, don Arcangelo scese affranto, cauto, silenzioso, ed uscì alla montagna, porgendo la fronte alla brezza aspra che stracciava e metteva in fuga le brume, svelando tutta una gloria di nevi e di vette... Mosse lento su per l'erta verso la chiesuola luminosa che le betulle si chinavano ad abbracciare, dai gradini al tetto, a' piedi della selva estrema dopo la quale non v'era più niente, tranne il cielo e Dio... E la selva si svegliava!... Andava intonandosi, tra il verde, la sinfonia eterna, ispiratrice della sua musica santa che nessuno avrebbe udito, tranne quei poveri mandriani poco dissimili dalle bestie, ma che lei, lei, lei aveva udita e capita!... I fringuelli bisbigliavano nella boscaglia, la cingallegra verde saltellava tra le fronde verdi, una gazza batteva l'ala negra d'abete, in abete, ed un rigolo fischiava sommesso, mentre il picchio cominciava a battere il tempo...

* * *

Job, ad un cenno di Febo, mise in moto la macchina riaggiustata ed Eureka cominciò a scivolare verso la valle, lasciandosi indietro un forte odor di benzina.

Il vento gonfiava la veletta bianca intorno al visino di Felicita, come una piccola vela, ed ella si era già voltata più volte, inutilmente, a guardare verso la chiesa. Era seria, tranquilla, un po' triste.

Le impressioni, le evocazioni della sera le risalivano dal fondo dell'anima. Per la prima volta dopo tanti anni, si sentiva turbata dai mistici fervori di fanciulla, svaniti nei fastidi e nei piaceri della sua vita ardente e vuota. Sentiva che quell'umile pretino di montagna, il quale non si era lasciato più vedere, che ella non avrebbe visto più mai, aveva adorata la sua immagine nel segreto, nella solitudine, nel sagrificio, e gli appariva moralmente più grande e più bello di tutti gli uomini che fin'allora le avevano detto di amarla, e che l'avevano esaltata nell'universale volgarità del desiderio.

Strano! Pensava alla Madonna, di cui un tempo era stata divota, pensava alla mamma morta, che era stata bella e desiderata quanto lei e che nondimeno si era serbata buona sempre, in mezzo a gioie e a dolori molto simili ai suoi....

Sentì che Febo la fissava, ardito e tenace, indovinando e disperando, ed ella allora gli si volse, risolutamente, con un'espressione di sfida tranquilla e superba, per sorridere poscia a Rinetto, fuggevolmente, quasi in atto di sconforto materno, in una improvvisa, irrevocabile dissoluzione d'ogni equivoco, fra tutti e tre.

Una mandria, allo svolto, fuor del villaggio, ingombrava la via e mentre Job frenava, Febo stizzoso cominciò a premere la palla di gomma dell'automobile, sfogando con quel rabbioso tè — tè — tè — d'allarme, il dispetto che gli faceva nodo alla gola. Ma dall'alto, dalla chiesuola aprica, ove don Arcangelo inginocchiato pregava ancora, un altro squillo scendeva invece discreto, argentino, lo squillo dell'unica campanina, lassù tra i pini della selva estrema... dopo la quale non vi era più niente, tranne il cielo e Dio!

Il pranzo della barcaccia

Donna Rosana, dopo aver pranzato in cinque minuti, mangiando poco, divorando in fretta, non bevendo altro che due gocce d'acqua calda, attraversa quasi di corsa le sale riscaldate a 16 gradi reaumur ed entra nel suo piccolo salottino, esclamando con un brivido di freddo:

— Presto, Fabrizio! Accendete il fuoco!

Sta ritta, immobile dinanzi al caminetto ad aspettar la fiammata; e, così alta e sottile, tutta bianca nella morbida veste da camera dalle pieghe ondeggianti, sembra quasi una statua ergentesi sopra uno sfondo di arazzi dalle scolorite allegorie amarantine, in mezzo alle dorature, alle rarità artistiche, agli sparsi gruppettini di vieux-saxe dagli atteggiamenti languidetti e voluttuosi.

— Presto! Presto, Fabrizio!... Brrr!

Fabrizio, in falda, rigido ed ossequioso, si china un istante sotto l'ampia cappa del caminetto sontuoso e subito i fastelli di pino divampano crepitando e illuminando il salotto d'una luce rossastra.

— Comanda altro?

— Portate il caffè.

Fabrizio, già lontano, sparisce dietro una portiera come un'ombra.

Donna Rosana dà un'occhiata all'orologio, poi spinge una poltroncina dinanzi al fuoco, siede, si sdraia con un sospiro, e mentre stende le mani per riscaldarle e per ripararsi la faccia, verso la fiamma troppo viva, guarda l'ora un'altra volta.

— Sono le otto. Prima delle otto e mezzo non verrà di certo.

Chiusi gli occhi, si allunga dell'altro, e mettendosi un po' di fianco, appoggia il capo sulla poltroncina, e rigira le mani dinanzi alla fiamma che ne fa scintillare gli anelli, che le fa diventare trasparenti e rosee come conchiglie.

Ad un tratto si riscuote trasalendo e si rizza a sedere. Voleva cercare di addormentarsi, voleva fingere di essere tranquilla, indifferente, ma non può. Non può fingere, non può mentire nemmeno con sè stessa, e allora si abbandona interamente a quel pensiero che la turba, che la inquieta e che le imprime in mezzo alla fronte piana e luminosa, una ruga profonda.

— Doveva finire... proprio così. Tutto deve finire a questo mondo!

Ma poi, adagio adagio, la collera si calma, sparisce la ruga e il volto sempre pallido di donna Rosana, quel volto che per le commozioni, la fatica e la gioia non si accende di subitanee vampe, ma si fa più pallido ancora e ha trasparenze quasi brune, sorride appena con ironia amara; e i grandi occhi neri come carboni, lucidi come diamanti, hanno il tremolio delle lacrime.

— Doveva finire... e proprio così Mah! Tutto deve finire a questo mondo!

La portiera si alza e riappare Fabrizio col caffè.

— Mettete due altri fascinotti sul fuoco, — gli ordina donna Rosana senza voltarsi: — Versate pure il caffè. Datemi quel libro lì, piccolo, legato in pergamena. Guardate lì, sulla scrivania!

Fabrizio va, porta il libro e torna a sparire, in punta di piedi. Nella stanzetta si ode soltanto lo scoppiettìo sempre più interrotto del fuoco che si va spegnendo.

Intanto, donna Rosana, ha aperto macchinalmente il volumetto e macchinalmente comincia a leggere:

«Amour, fléau du monde, exécrable folie...»

Alza gli occhi dal libro, e guarda un'altra volta l'orologio:

— Le otto e mezzo!

Lelio, quel giorno, dalla marchesa Ippolita, le aveva detto sottovoce, in fretta: — Mi permettete di venire da voi stasera, un momento solo, ma subito dopo pranzo? Ho da parlarvi! — Sono le otto e mezzo; non può tardare. — A donna Rosana sembra già di sentire quel maledetto campanello elettrico del portiere che annunzia le visite...

«Amour, fléau du monde, exécrable folie,

«Toi qu'un lien si frêle à la volupté lie,

«Quand par tant d'autres noeuds tu tiens à la douleur»

... ma gli occhi soli continuano a leggere; il pensiero di donna Rosana si allontana da Don Paez e si ferma ostinatamente sul contino Lelio Vigodarzo.

— Sapeva egli che quella sera, Ottavio (Ottavio di San Severo, marito di lei) non avrebbe pranzato in casa? Che sarebbe andato al Falcone per il solito pranzo inaugurale dei soci della barcaccia?... — Altro se lo sapeva! Lelio non era con lei, era sempre con... lui! — Subito, dopo pranzo, ho da parlarvi? — Subito? — Evidentemente per trovarla sola!... — Ed erano tanti giorni che donna Rosana, invece, faceva di tutto per non trovarsi mai sola con Lelio!

Ahimè! Da certi sospiri, da certi dispetti gelosi, da certe occhiate or furibonde or troppo tenere, ella ha capito che l'istante temuto e preveduto si avvicinava.

Posso venire, subito dopo pranzo?... — Perchè tanto mistero, tanta trepidazione? Perchè chiedere il permesso? Quando si chiede il permesso per fare una cosa lecita, vuol dire che quella cosa non è più lecita. Cioè che è diventata non più lecita... cioè... Auf! — Non le riesce di cogliere la forma del bisticcio che pur sente nella sostanza così vero: fa un atto di dispetto e torna con la mente dov'è rimasta cogli occhi:

«.... je songeais qu'une femme

Qui trahit son amour, Juana, doit avoir l'âme

Fait de ce métal faux dont sont fabriqués

La mauvaise monnaie et les écus marqués».

Son amour... — pensa donna Rosana, questa volta chiudendo il volumetto e buttandolo sopra un seggiolino lontano. — Son amour, secondo le buone regole, dovrebbe essere il proprio marito: e una moglie che tradisce il proprio marito fa peggio ancora di Juana!... Questo, il signor Lelio, dovrebbe sapere; e in tal caso, che concetto si è formato di me? Proprio carino! Tante grazie! Se facessi dire alla porta che stasera non ricevo? — No; domani mi troverei allo stesso punto! È meglio parlar chiaro e finirla subito, così com'era destino che dovesse finire!

— Destarsi, aprir gli occhi, non sognare mai più... e amen!

— Peccato! Era un sogno così bello e senza inquietudini, senza turbamenti! Volersi bene sempre e non dirselo mai! Tutto il cuore preso, tutta la giornata occupatissima e la coscienza libera. Leggere negli occhi di Lelio attraverso un guizzo di gelosia ed un lampo di collera, la passione più ardente: ma non dover mai ascoltare e, per conseguenza, non dover mai rispondere ad una dichiarazione esplicita, compromettente. Vedere e non vedere; capire, e all'occorrenza, quando sarebbe stato il caso di dover andare in collera, poter anche non capire... Rispondere pure... ma agli occhi soltanto e soltanto con gli occhi, ora quasi un sì, ora quasi un no. Insomma, poter trovare il proprio «ideale» nella vita senza mancare ai propri doveri e senza dar adito alle malignità della marchesa Ippolita!... Un «ideale» elegante, simpatico, apprezzato nel proprio mondo, al quale poter dedicare l'orario delle giornate così eterne, le acconciature, le visite, le passeggiate a piedi della mattina e quelle in carrozza del pomeriggio... Un «perchè» insomma nella vita! Il «perchè» di andare ancora alle cacce a cavallo, alla Scala, al Manzoni e a quelle monotone feste da ballo, sempre in mezzo alle stesse persone che cambiano soltanto per diventare più vecchie e più brutte! No, no, certo! Non l'acre e disgustoso sapore del peccato, ma soltanto il lontano profumo del frutto proibito!... Un peccato, forse, sì, un peccato anche questo; ma così veniale, da far sorridere il confessore... ed anche Ottavio!

— Invece, tutto è andato a monte! Com'è noiosa, Dio mio, questa nostra esistenza! E come tutto ciò che deve accadere, accade inesorabilmente ad ora fissata, con monotona precisione!

In fatti mancava poco alle nove, e per le nove il conte Lelio Vigodarzo sarebbe venuto di sicuro!

— ... Come?... Da che parte avrebbe incominciato il suo discorso?... Mah!... — Gira, rigira e poi a donna Rosana pareva già di sentirlo esclamare:

— È più forte di me, è più forte della mia volontà, della mia ragione! Ormai non posso più frenarmi; non posso più dissimulare, tacere... vi amo!

Così, indubbiamente, avrebbe finito Lelio, e così indubbiamente, avrebbe dovuto finire anche lei... col metterlo alla porta!

— Non voglio fare anch'io come Ippolita, ah, no! per quanto l'a...mico d'Ippolita, ormai, ammesso e riconosciuto, col suo tatto, con le sue aderenze, le faccia più bene che male anche nella pubblica stima! Ma Ippolita, — grazie! — , è molto leggera e sventata; ha bisogno della guida, del freno di un a...mico. Io, invece, no: saprò sempre condurmi da sola, anche per un riguardo a Ottavio. Povero Ottavio! — Donna Rosana ha un sussulto, dà un balzo sulla poltroncina, ma poi si calma subito: è l'orologio del caminetto che comincia a battere le nove.

— Così tardi? che non venga più?... Io, veramente, non gli ho risposto — sì — che poteva venire: non gli ho risposto nulla. L'ho fissato soltanto, con molto stupore. — Le nove? Ormai posso anche far rispondere alla porta, che non ricevo più: far attaccare e andare dalla zia.

Per qualche sera ancora c'era la Scala, il Manzoni, casa Resi e la Lina Suardo. Il suo «ideale» avrebbe, così potuto durare in vita un'altra settimana. Ma, ad un tratto, corrugò ancora la fronte: gli occhi nerissimi e cupi ebbero un lampo.

— No! Potrebbe sorprendermi, farmi una scena! Bisogna parlar chiaro, adesso che lo aspetto, che sono preparata: bisogna finirla! Forse, ho già aspettato troppo!... Ippolita ha certi sorrisi... E poi, ha troppa cura di farci trovar insieme a pranzo o in teatro, per non aver capito, o supposto, di farci molto piacere. E se ha capito Ippolita, hanno già capito in tre: Ippolita, il marito di Ippolita e l'a...mico d'Ippolita: l'uomo perfetto!

— E Ottavio? — Rosana fa un lungo sospiro. — Chi sa? Alle volte avrebbe potuto anche darsi il caso che Ottavio pure sospettasse di qualche cosa... In tal caso, potrebbero succeder guai... Certo, ci sarebbero malumori. Per quanto Ottavio si studii molto di non farsi scorgere, anzi, di mostrare tutto il contrario, in fondo... è geloso! — A questo punto donna Rosana sorrise e continuò a sorridere, pensando:

— Come il mondo è fatto di strane contradizioni! Se io fossi la moglie di Lelio, mi piacerebbe moltissimo che Ottavio mi facesse la corte!... Se io fossi la contessa Vigodarzo, indubbiamente sarebbe don Ottavio il mio ideale e forse anch'io, — altro che ideale! — sarei la grande passione di don Ottavio! Quante stranezze, quante contradizioni nella vita, mentre sarebbe così naturale e così semplice... essere felici!

Ormai preso l'aire, sempre sdraiata dinanzi al fuoco semispento, ella continua a sprofondarsi nel nuovo sogno: riunire in un uomo solo il reale e l'ideale, il marito e l'a...mico. Lei e Ottavio, in fondo, si volevano bene. Perchè, con una piccola spinta, non avrebbero anche potuto amarsi? Di ostacoli gravi, ne vede uno solo: l'essere, precisamente, marito e moglie. Tutta la poesia di cui il suo cuore e la sua intelligenza sentono il bisogno, perchè non chiederla al cuore e all'intelligenza di suo marito?

— Quando sono stata ammalata, così gravemente, Ottavio è stato sempre, giorno e notte, accanto al mio letto. Sorrideva per farmi coraggio, ma con gli occhi pieni di lacrime! È buono; nascosto in fondo al suo cuore c'è un tesoro di bontà, e la bontà non è la più vera, la più alta poesia? Sì, ma... siamo, pur troppo, marito e moglie! Che peccato!

A turbare il bel sogno di donna Rosana ecco apparire d'improvviso le tre facce ironiche d'Ippolita, del marito d'Ippolita e dell'a...mico d'Ippolita che ridono e che fanno ridere alle loro spalle inventando mille storielle sciocche e cattive!

Il «marito amante della moglie» e viceversa, dopo tre anni e più di matrimonio?... Dio! Dio. Avrebbero finito, tutti e due, lei e Ottavio, con l'essere soggetto di scandalo... anche per le ragazze!

E dare un bel saluto al mondo noioso e maligno, popolato solo di Ippolite, con altrettanti mariti grotteschi e relativi a...mici perfetti? D'inverno il mare, d'estate la montagna e il resto dell'anno a San Severo? Divertirsi da soli, loro due, invece di annoiarsi tutti insieme in mezzo alla gente? Oh, essere un po' liberi, alla fine, liberi da ogni pregiudizio, da ogni rispetto sociale, liberi al punto di potersi anche amare... pur essendo marito e moglie!

— La felicità — continua a pensare fra sè donna Rosana — la vera felicità è una sola: amare, Dio! Potersi amare con tutta la passione del cuore, e con la coscienza in pace! Certo, è il lieto fine della commediuccia borghese, un po' volgare, terra terra, senza le emozioni, le ansie, i turbamenti del dramma; ma il dramma, non c'è caso, va quasi sempre a finir male!

— Ottavio far la corte a me?... Che idee!... Eppure, se io proprio volessi che gli saltasse in testa un'idea simile? Se quel tanto di «mio», che ci ho messo fin qui e che è bastato ad innamorare Lelio, lo impiegassi d'ora in poi per... conquidere Ottavio! Se proprio proprio volessi mettermi di buon proposito?... — Rosana apre gli occhi e torna a sorridere con una certa malizietta birichina e tutta particolare. Pensa che con Ottavio le sarebbe stato anche più facile; avrebbe potuto spingere la propria civetteria molto più innanzi! Ella si allunga di nuovo, si allunga di più sulla poltrona, stirando le braccia con un sospiro, con un fremito... poi torna a chiudere gli occhi, ma adesso, continua a sorridere.

Il bellissimo sogno non accende soltanto la fantasia un po' romantica della donna giovine e sensibile, ma ne accarezza, ne ravviva le fibre più nascoste e penetra nell'anima.... Ottavio si affina idealizzandosi. Non è più il marito un po' bisbetico e svogliato, irrisore sistematico di ogni più delicata sentimentalità; è un amico migliore assai dell'altro, di Lelio, del corteggiatore assiduo ed astuto, abile nell'appagare la sua vanità, ma inetto a vincere il suo cuore. Ottavio, a poco a poco, va acquistando con l'aiuto della fantasia di sua moglie tutte le migliori qualità positive e poetiche. È lui, proprio lui, Ottavio, l'ignoto... tanto aspettato! Egli non è più il marito, è lo sposo, è l'amante al quale potrà abbandonarsi, finalmente, con tutto il cuore, con tutto il trasporto della sua grande tenerezza che ha tanto bisogno di prorompere! È lui, è lui, è Ottavio, l'amante caro, l'amante appassionato al quale potrà concedere tutti i tesori della sua bontà, tutti gli incanti della sua bellezza, tutti i suoi baci e tutte le sue carezze, senza esitazioni, senza restrizioni e con l'animo tranquillo: senza rimorsi e senza... spaventi!

— Amore, amore, amor mio!... — bisbiglia donna Rosana. Si alza ad un tratto, spalanca gli occhi e cammina su e giù premendosi la fronte, battendo i piedi per cercar di calmarsi.

— Son quasi le nove e mezzo! Non ricevo più, chiamo Fabrizio, ordino di attaccare e mi faccio condurre dalla zia! Domani mattina, niente passeggiata! Anche più tardi, resterò in casa e non andrò da Ippolita per due o tre giorni. Se Lelio vorrà capire, capirà, se no, peggio per lui! — E con questa minaccia contro il povero Lelio, stendendo il braccio si appoggia con abbandono quasi voluttuoso e preme sul bottoncino del campanello elettrico; ma in quel punto il campanello del salotto si unisce e si fonde con l'altro della portineria che annunzia una visita.

— Eccolo! — esclama donna Rosana con dispetto. — Sta fresco!

C'è ancora il caffè, già versato nella chicchera; ella lo inghiotte d'un sol colpo così freddo e amaro. Poi, quando sente che Fabrizio si avvicina con quell'altro, volta le spalle all'uscio con una mossa di stizza, afferra le molle e chinatasi dinanzi al caminetto, picchia e ripicchia contro un lungo tizzone, facendo sprizzar le scintille fin sopra i tappeti. Tutti quei colpi sono diretti, in cuor suo, contro Lelio di Vigodarzo; le fa dispetto che sia innamorato di lei, e le fa ancora più dispetto il pensare che, in questo, anche lei ne ha avuto un po' di colpa.

— Che cosa crede? Crede forse di poter vantare qualche diritto?

Adesso, più che mai, tutti i diritti sono di Ottavio!

Fabrizio alza la portiera, annunziando:

— Il conte Vigodarzo!

Donna Rosana indica al servitore il vassoio del caffè, ma quasi senza voltarsi e picchiando sul tizzone con più forza: — Portate via!

Entra Lelio: tre teste sopra un abito tutto chiuso, lunghissimo: la sua, dai capelli neri lucenti, ben pettinati; quella bianca del garofano all'occhiello; quella d'oro, appuntata alla cravatta monumentale. Egli si avvicina a Rosana per darle la mano con passo lento e grave, da uomo fatale.

Donna Rosana continua a picchiare sul tizzone:

— Buona sera.

Il conte Lelio non si scompone: aspetta che Fabrizio sia uscito, poi le chiede sommessamente, scrollando il capo:

— Perchè?... Siete in collera?... Perchè?

Rosana butta le molle in un angolo e torna a sdraiarsi sopra la poltroncina dinanzi al fuoco sforzandosi di parer tranquilla, ma facendo saltare i candidi merletti de' falpalà colle punte dei piedini irrequieti.

Lelio, dopo essersi seduto a sua volta nell'angolo del canapè, accanto al caminetto, mormora dolcemente:

— Perdonatemi.

— Perdonarvi? Di che?... Io non sono in collera! — Donna Rosana dà in una risatina troppo lunga, che lo resta in gola. — Soltanto, fa un po' freddo qui, non vi pare?

— Non mi pare, anzi, tutt'altro!

— Sapete? Stasera devo andare da mia zia.

Rosana comincia a parlare, e continua a parlare a parlare, saltando di palo in frasca, con grande volubilità, e sempre a voce alta; troppo alta. È seccata, è inquieta. Non vuol lasciar tempo al Vigodarzo di cominciar lui quel suo bel discorso!

Ma Lelio... non ci pensa nemmeno! Sta tanto bene lì, così, e sta zitto volentieri. Seduto comodamente, come raccolto in un'estasi malinconica, se la gode alla vista delle grazie eleganti della giovine signora e al suono della bella voce armoniosa. Sta tanto bene lì, così, nel dolce riposo del dopo pranzo, nel tepore profumato di quel salottino delizioso!

Rosana, tira diritto per un pezzo, ma finisce a stancarsi, nè trova più nuovi argomenti. Allora, per evitare un silenzio pericoloso, vuol far parlare quell'altro:

— Come mai non siete andato anche voi al Falcone, al famoso pranzo della barcaccia?

Lelio strizza gli occhi e le labbra con un'indicibile espressione di noia e di disgusto. Dopo un momento, quasi faticando a parlare, bisbiglia a fior di labbra:

Les escargots à la Perigord?... L'ultimo grande successo della gastronomia che Ottavio ha portato trionfalmente da Parigi a Milano? Non avendo nè il coraggio, nè lo stomaco di vostro marito, voglio morire per una causa migliore.... che non sia un'indigestione!

— Prego! Prego! Non fate il sentimentale, l'uomo che vive soltanto di poesia... dopo il caffè! Al club siete citato anche voi come esempio di buon appetito e maestro nell'arte squisita di comporre il menu! Ditemi, piuttosto, dove avete pranzato oggi e che cosa avete mangiato di buono?

Rosana, tuffandosi in tanta prosa, spera di allontanare e, forse, di scansare il pericolo.

— Da mia sorella, — risponde il contino Lelio, ma subito arrossisce visibilmente.

In fatti egli è stato invitato a pranzo da sua sorella, la marchesa Tarvis, ma non c'è andato. Temeva di far troppo tardi per la sua visita a donna Rosana della quale, da un paio di giorni, è innamoratissimo. Tre o quattro duchi e principi romani e napoletani, venuti a Milano per le corse, hanno ammirata donna Rosana dicendola bellissima, elegantissima, tout ce qu'il y a de plus parisien, e il grande entusiasmo degli amici gli ha montata la testa, e ha spinto al massimo bollore quel suo tepido affetto sino allora scaldato a bagnomaria.

Lelio ha pranzato, solo solo, all'hôtel de la Ville facendosi servire un pranzettino sostanzioso, ma leggero. La serata poteva riuscire molto drammatica: sarebbe stata certo agitatissima. Ad ogni modo, con le donne, non si sa mai: è sempre prudenza prevedere... anche l'imprevedibile! Di una cosa però si trova pentito, nell'attraversare le sale troppo riscaldate del palazzo di San Severo: di aver pasteggiato con lo Champagne Schröderer, secco. Lo Champagne gli produce un effetto strano: lo rende sensibilissimo. Quanto più secco è stato lo Champagne, tanto più gli occhi gli s'inumidiscono facilmente.

— Rosana!... Rosana!... — Oh, in quel momento come l'avrebbe teneramente abbracciata! E quando Rosana gli domanda, certo per burlarsi de' suoi sguardi appassionati: — A pranzo, che cosa avete mangiato di buono? — Lelio non si sente offeso, niente affatto!

Anche ironico, quel sorriso mostra una bocca... deliziosissima!

— Che dentini, saperlotte!

Egli la guarda e continua a guardarla con tenera mestizia:

— Ho da chiedervi un consiglio.

— A me?

— Sì; a voi. Pippo Sardis, Castelsillia e Niccolino de Rolland, partono irrevocabilmente, al primo del mese.

— Per la Cina?

— Per il loro viaggio, attraverso la Cina! — Lelio ha la voce profonda. — Resteranno assenti un paio d'anni per lo meno. Doveva essere della brigata anche Fabio Spinola, ma Fabio, all'ultimo momento, preoccupato dalla distanza, dalla lunga assenza e dai pericoli del viaggio, adduce la scusa di sua madre, e si ritira. Pippo Sardis, Castelsillia e De Rolland, rimasti in tre, mi offrono di prendere il posto di Fabio Spinola. Io... non ho madre, sono solo, non ho nessuno al mondo, che mi voglia bene. Ditemi voi se... se devo accettare.

— Lo domandate a me? Perchè lo domandate a me?

— Perchè se voi mi dite di andare, allora vado.

— Ma, scusate, e vostra sorella? Avete una sorella, la marchesa Tarvis!... Perchè non andate a chiedere alla marchesa Tarvis un simile consiglio? — Rosana, così dicendo, afferra di nuovo le molle e ricomincia a picchiare, a tartassare, a scheggiare il povero tizzone fumoso che sembra gemere sotto i colpi, con un gorgoglio di bollicine d'aria.

— Dio, Dio! Ci siamo! — pensa in cuor suo. Ma come mai avrebbe ella potuto prevedere che la dichiarazione amorosa di Lelio facesse un viaggio così straordinario?... Dovesse arrivare, nientemeno, fin dalla Cina?

— Non avete nessuno al mondo che vi voglia bene? — ripiglia dopo un momento. — E la marchesa Tarvis? Povera marchesa! Avete dimenticato vostra sorella!

— Oh le sorelle... Sono come i fratelli! — esclama il giovinotto scrollando il capo gravemente, come se queste parole che non dicono nulla, nascondessero un concetto profondo e doloroso. Un lungo silenzio, poi ricomincia con accento prima umile, supplichevole, ma che a mano a mano diventa risoluto, imperioso:

— Voi sola dovete decidere; mi dovete dire sì o no. Vi prego, vi prego... Vi prego! Sì o no? Devo andare?... Devo andare?

— Ma sì! Andate! Tanto più se credete di divertirvi! — risponde Rosana con impazienza, quasi con ira.

Com'è insistente, quel Lelio! È opprimente! Ma d'altra parte, finchè non c'è in ballo altro che la Cina, deve fingere di non capire e non può offendersi!

Ella si rimette a sedere, ma i piedini fanno saltare sempre più nervosamente i merletti del falpalà. Ad un tratto, con uno scatto improvviso, si alza di nuovo per suonare e per chiamare Fabrizio.

Si alza subito anche Lelio, ma senza scostarsi dal canapè. Fissa Rosana, prima attonito, sbalordito; poi diventando serio, assume un'aria quasi di rimprovero.

— Decidete. Dovete decidere.

Ella rimane un po' scossa:

— Vi ho già detto che stasera devo andare asso-lu-tis-simamente da mia zia.

— Prima mi dovete dire, sì o no!

Lelio si ferma, ascolta: sente il passo del servitore. La fretta, l'ansia del momento gli raddoppia il coraggio.

o no? Se vado via, è per voi! Per disperazione!

— Cosa?... Che cosa? Non... non capisco! — balbetta Rosana sottovoce; poi, più sottovoce ancora, indicando l'uscio:

— Per amor del cielo!... Viene Fabrizio!

o no? Bisogna decidere fra la morte o la vita per me!... Fra la morte o la vita...

Fabrizio si presenta all'uscio, e la decisione, per il momento, rimane sospesa.

— Dite a Giacomo di attaccare, — ordina Rosana al servitore, con voce alterata.

— Giacomo è uscito con la carrozza. È andato a prendere il signor padrone.

— Va bene. Appena ritorna gli direte di non staccare e verrete ad avvertirmi.

Fabrizio s'inchina, fa per andarsene, ma è ancora trattenuto.

— Portate qui la scatoletta delle sigarette. — Guardate il fuoco; mettete legna nel caminetto..

Lelio indovina che donna Rosana non vuol restar sola con lui; la vede inquieta, nervosa... È contentissimo!

Ha fatto bene a spiegarsi! Perchè non ha parlato anche prima? Di che mai aveva paura? Oh, come egli sente di amarla quella donna!... Stringerla fra le braccia! Coprir di baci gli occhioni ardenti di fuoco lavorato, la bella faccia così pallida!

Rosana, sempre in piedi, irrequieta, dinanzi al caminetto, si china, si rizza, si volta di qua, di là, stende ora le mani, ora un piedino verso la fiamma... e Lelio si sente sempre più commosso anche dalle grazie leggiadre della bella persona.

— Sembra quasi magra, tanto è perfetta la sua alta e svelta eleganza! E invece... Che splendore di... movimenti! Anima mia! Tesoro! Che tesori!

Lelio, oramai, è più che sicurissimo di... non andare in Cina!

Come gli era saltato in testa quell'ottima trovata della Cina?... Mah! Un lampo di genio! In Cina, no; pure, come si sentirebbe disposto dalla dolcezza profonda della sua stessa commozione a compiere ogni doloroso sacrifizio per quel tesoro di creatura! — E magari anche... sì, perchè no? Anche in Cina, se lo avesse imposto lei stessa, come una condizione, con la sua voce armoniosa, così calda e penetrante... Il suo cuore, la sua vita, la sua felicità, sono ormai nelle mani di donna Rosana! Che manine!... E che piedini! E che... Tutto in lei è meraviglioso!... Altro che la Cina! Si sente pronto a giuocare la vita per una donna simile! Anche morire!

— «Morir... per te d'amore!»

Morire, chiuder gli occhi dolcemente, al caldo... senza muoversi da quel delizioso cantuccio del canapè!

— Cara! — Si sprofonda tutto nella nuova estasi, finchè è riscosso dalla voce di Rosana:

— Voi avete ragione, sì; avete ragione.

Egli spalanca gli occhi e cerca Fabrizio nel salottino: Fabrizio se n'è già andato tranquillamente.

— Avete ragione, sì; avete ragione, — continua Rosana, non più sdraiata, ma seduta sulla poltroncina e chinata in avanti, curva, con la testa bassa, con gli occhi fissi sopra un fiore del tappeto e battendo, tratto tratto, l'una contro l'altra le palme delle mani. — Avete ragione di trattarmi così; di non stimarmi, di disprezzarmi...

— Oh!... — geme Lelio dal canapè.

— Sono stata leggera e cattiva! Voi mi avete data la lezione che mi merito. Mi sta bene; non ho nessun diritto di offendermi.

— Oh!... — Il gemito si ripete più lungo e più tremulo.

— Ho avuto torto! Ho creduto, forse, anche di poter ispirare un sentimento puro, sincero di amicizia e di devozione. Sono stata una sciocca credendo possibile... l'impossibile, e voi mi avete aperto gli occhi!

— Se vi ho dato un dispiacere... — risponde Lelio balbettando, e non può più proseguire.

Rosana continua a battere nervosamente le palme delle mani, poi si rivolge di nuovo a Lelio ma con un'intonazione più calma e più cordiale:

— Si fa la pace? Io sono stata un po' civetta... e voi un po'... leggero nel giudicarmi. Facciamo la pace e amici come prima. Anzi, più di prima! Ora ci conosciamo meglio e ci stimeremo anche di più. È... inutile il viaggiare; restate pure a Milano. Soltanto, basta con le nostre passeggiate mattutine e coi nostri ritrovi quotidiani da donna Ippolita. — Via, da bravo, si fa la pace? Volete?

Così dicendo ella stende la mano e si volta verso Lelio, ma Lelio rimane immobile, muto, a testa bassa, mentre due lacrime silenziose gli colano lungo le guancie paffutelle.

Rosana balza in piedi sbuffando. Un'altra cosa che non aveva previsto! Dopo la Cina... le lacrime!

— Infine poi... spieghiamoci! — esclama vivamente. — Che cosa pretendete da me?

Lelio non risponde: le due grosse lacrime gocciolano sul cravattone nero.

Che dispetto le fa quell'uomo! Rabbia e dispetto! Eppure... piange. Per piangere, un uomo, — anche donna Rosana ha il pregiudizio che l'uomo sia un animale molto forte, — per piangere, deve soffrire assai!

Se soffre, peggio per lui! Peggio per lui, sì: ma per altro è anche un po' colpa mia! È colpa mia! Soffre... per me!

Povero giovine!

In certe donne nervose, troppo sensibili e portate all'analisi, tutto diventa complicato e pericoloso; anche la coscienza che, ad ascoltarla troppo, finisce magari col suggerire più il male che il bene.

— Basta!... Non voglio così... Basta! Rosana non osa guardare Lelio in faccia.

— Mi date un grande dispiacere!... Non me lo perdonerò mai!

L'altro risponde appena scrollando il capo.

— No! Mai! Voi potete perdonarmi perchè siete buono, molto buono, ma io non perdonerò mai a me stessa di avervi dato tanto... dispiacere!

Quel «buono, molto buono» aumenta la commozione, le lacrime di Lelio.

— Non fate così! — supplica Rosana sottovoce. — Può entrare Fabrizio e se vi vede a piangere?... Anch'io ho le mani gelate! Devo avere la faccia stravolta! Ebbene, sentite, se proprio è così... il consiglio che mi avete chiesto poco fa... Andate via.

Lelio la fissa, attonito; non ha capito bene.

— Sì; andate via! Partite! Ma non andate in Cina! No, no; non ci sarà bisogno, vedrete, di un viaggio così lontano!

Rosana gli sorride con arguta finezza e insieme con una dolcezza quasi materna.

— Sarà un'assenza brevissima, anzi, speriamo, di qualche giorno soltanto! E appena... guarito, verrete subito a trovarmi e avrete in me un'amica sincera e affettuosa.

— Foste almeno felice!... — sospira l'innamorato, scrollando il capo con grande sconforto. — Nel mio sacrificio immenso, nel mio esilio doloroso, eterno, potessi, almeno, avere la consolazione di sapervi felice! Invece... no!

Rosana, a questo punto, pacatamente, ma risolutamente, cerca di farlo ben persuaso che credendola infelice si è molto ingannato.

— No, no, no! — replica Lelio con più forza. — Voi non dite la verità! Il vostro è «un eroismo sublime di virtù» ma voi non dite la verità! Voi non siete felice.

I piedini di donna Rosana tornano a guizzare vivamente fra i merletti bianchi.

— Scusate, conte Lelio; devo saperlo io più di voi. Del resto... ciò non vi riguarda.

— Mi riguarda, precisamente: la vostra infelicità è la mia scusa, anzi la mia giustificazione.

Rosana aggrotta le ciglia, Lelio continua a gemere e a sospirare.

— Oh, credete, signora, io non vi amo con gli occhi, vi amo col cuore! Vi amo e vi ho sempre amata non già perchè siete bella, — bellissima! — ma perchè siete infelice. Sorridete, deridetemi pure! Non è per il vostro sorriso che io vi amo tanto; è per le vostre lacrime!

— Sì?... Allora tanto meglio! Allora dovete guarir subito! Per vostra regola, non piango mai! Io odio le lacrime!

— Voi dovete rispondermi così per... per... «un eroismo sublime di virtù», ma io so molto bene, e me lo ha detto anche la marchesa Ippolita, che voi siete infelice, infelicissima!

— La marchesa è... troppo gentile! Avrà detto così per farvi piacere!

— Oh... ci sono lacrime, le più amare, forse che non si vedono! Restano giù, giù!

— Ma per poter vedere le lacrime che... restano giù, scusate, caro conte, bisognerebbe conoscermi di più e meglio.

— Oh!... — Lelio, ha bisogno di parlare, di tirar fuori le parole con un sospirone, lungo come la corda del pozzo. — Oh, conosco Ottavio intimamente! E basta. Sono troppo amico di vostro marito per potermi ingannare. Con quell'uomo così... terra terra, voi così... in alto? Ma come potreste essere felice?

— Eppure lo sono.

— No!

— Sì! Certo molto più, in ogni caso, che non sia stato felice mio marito nella scelta dei suoi amici... intimi!

— È colpa mia se ho cominciato col voler bene a lui, e se ho finito, invece, col voler bene a voi?... Del resto che cosa vi domando, io? Vi domando, forse, di ricambiare la... tenerezza del mio cuore? No! Dunque, se vi fo arrabbiare perchè non credo alla vostra felicità, perdonatemi. Oh! — Lelio torna a commuoversi profondamente, al pensiero del proprio sacrificio, della propria partenza. — Perdonatemi; vi fo arrabbiare per l'ultima volta. Parto domani mattina, prestissimo. Soltanto prima dovete confessare che voi siete infelice; molto infelice!

— Ma...

— Molto infelice! — continua a ripetere Lelio con un'ostinazione molto strana in lui, di solito sempre garbato e remissivo.

— Sentite, donna Rosana: qui fa caldo, un caldo, da togliere il fiato. Ebbene, se voi mi diceste — qui fa freddo — io vi crederei subito e sarei capacissimo anche di gelare. Ma voi, felice con Ottavio?... No, no; conosco Ottavio troppo bene; siamo troppo amici! È impossibile!

— Ah! ah! ah! — Rosana finisce col ridere allegramente; e il suo riso è tutto un tesoro di arguzia e di grazia, è una visione di amoroso abbandono per Ottavio e di canzonatura atroce per il povero Vigodarzo. Ella ormai non è più irritata, non è più nervosa; Lelio non le desta più nè compassione nè pietà, e quindi non le fa più nè rabbia nè paura: Lelio, adesso, la diverte!

Infatti egli non è stato abile. In generale, attaccare il marito per sedurre la moglie, è sempre una mossa sbagliata: nel caso particolare poi, con donna Rosana, peggio che peggio! Quella goffa e presuntuosa insistenza ha urtato la sua delicata sentimentalità e l'ha punta nella sua fierezza di donna, e per ciò, scomparsa dal suo animo ogni impressione del viaggio in Cina e delle lacrime di Lelio, non vi resta altro «ideale» che Ottavio; Ottavio, lo sposo, l'amante accarezzato, adorato dal suo sogno.

— Ah! ah! ah! Ma voi credete, caro Vigodarzo, che il mio Ottavio sia lo stesso Ottavio che conoscete voi? Che conoscono i suoi amici... amici buoni, come voi? Ah! ah! ah! No; nè punto nè poco! Mentre molti fingono di sentire anche ciò che non sentono in realtà, il mio Ottavio finge invece di non sentire ciò che sente davvero e con tutto il trasporto della passione! Ma bisogna far così; anch'io voglio che Ottavio faccia così! Un marito innamorato di sua moglie? — Lelio si volta, la guarda, sorride leggermente, ma Rosana continua senza fermarsi, sempre con più calore e con più esaltazione: — Un marito amante di sua moglie? È come una moglie innamorata di suo marito! In pubblico, in società, bisogna fingere tutto il contrario o si diventa ridicoli! Abbiamo poi tutto il tempo, tanto tempo per volerci bene... a casa nostra!

— Innamorato Ottavio?... — Risolino di Lelio, ma leggero leggero...

— Vi ripeto che mio marito non ama far pompa dei suoi sentimenti. È troppo geloso e orgoglioso della bontà, della nobiltà, della delicatezza, della poesia che chiude nella sua anima e che io sola posso conoscere ed apprezzare!

— Poesia? — Il risolino si fa più visibile e più vivace. — Poesia? Quello là?

— Ottavio; — prego.

— Poesia, quell'Ottavio là? Ma se è la negazione di ogni poesia! Se non l'apprezza la poesia, se non la capisce nemmeno!

— Basta! Finitela! Non vi permetto di continuare su questo tono!

— Se non ha mai capito voi!... Voi che siete davvero la più bella, la più splendida poesia della terra! Oh, se vi avesse capito vi adorerebbe in ginocchio, umilmente, devotamente, teneramente! — Ottavio... — No! No! Voi volete difenderlo con me, esaltarlo, perchè... Perchè voi siete «un eroismo sublime di virtù!»

— Il mio Ottavio... altro che adorarmi in ginocchio! Quando sono stata tanto ammalata è rimasto giorno e notte a vegliarmi presso il capezzale del mio letto! Ha avuto per me, allora, tutte le cure, le delicatezze più affettuose! Era un innamorato vero, un fratello, un babbo, era tutto per me! Quanto ha sofferto, povero Ottavio! — Certe volte, quando mi destavo, dopo un lungo assopimento, vedevo i suoi occhi stanchi e infossati, che mi fissavano ansiosi. Come ascoltava attento, inquieto, ogni parola del dottore!... E che grido di gioia, che baci, la prima volta che il dottore dichiarò sicura la guarigione! E durante tutta la convalescenza? — Ottavio è sempre stato con me, vicino a me, tenendomi stretta la mano. Credete ancora, adesso, che Ottavio non mi abbia capita?... Vi fa ancora ridere l'idea di un Ottavio innamorato? — Rosana ha uno sguardo di trionfo, poi soggiunge, con una lentezza più languida: — Vedete quel libro?

Lelio alza il capo, ma non vede niente. Sconvolto da quella descrizione così viva, da quella voce lenta, carezzevole, ha la testa in fiamme, e lo sguardo smarrito. Egli non vede che quegli occhioni neri neri, grandi grandi, che diventano sempre più neri e sempre più grandi.

— Vedete quel libro?

— Quale? — Lelio segue l'indicazione della manina bianca: sulla poltrona di faccia, dall'altra parte del caminetto c'è il piccolo libro legato in pergamena: — Quello lì?

— Sì. Le poesie del De Musset. Durante la mia convalescenza lo abbiamo letto e riletto! E ne abbiamo imparato a mente tante pagine! Com'era buono, povero Ottavio! E com'è buono sempre! Soltanto... bisogna conoscerlo a fondo... come me!

Lelio china il capo mortificato, vinto. Ottavio ha persino imparato a memoria le poesie del De Musset?

— Perdonatemi; avete ragione. Sono stato ingiusto con Ottavio; perdonatemi.

Rosana lo guarda: rimane colpita da quella faccia, da quell'accento.

— Perdonarvi? Il torto è mio! La colpa è mia! Nella nostra vita così vuota, eppur così rapida e affannata, diventiamo distratti, smemorati: si dimentica tutto; e questo è male. Anch'io ho avuto il torto di dimenticare troppo e troppe cose! Il torto è mio! La colpa è mia! Sono stata io, leggera, molto leggera, troppo leggera!

— Oh — ricomincia a gemere Lelio ancora più forte, facendole segno di no; di non proseguire: gli fa troppo male.

— La colpa è mia! Io dovevo farvi amare e stimare Ottavio; invece con la mia leggerezza l'ho calunniato dinanzi ai vostri occhi, dinanzi al vostro cuore! Io, io stessa, sono colpevole anche verso di voi. Ho fatto soffrire anche voi; ho reso infelice anche voi. Voi che pure siete buono... molto buono!

Lelio non può più frenarsi: al ripetersi di quel «buono, molto buono» ha un singhiozzo e le lacrime ricominciano a gocciolare.

— Sono stata cattiva, cattiva, cattiva! Cattiva con Ottavio, cattiva con voi! Non merito che mi si voglia bene! Sì, sì; partite; andate lontano, e per dimenticarmi! Pensate soltanto, quanto sono cattiva! — A questo punto ella pure ha un singulto nervoso, improvviso; uno scoppio di lacrime.

— Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio! — balbetta Lelio, disperato. — Abbiate pietà di me! Non posso vedervi piangere! È uno strazio troppo forte!

— Guardate: non piango più! — Rosana si asciuga gli occhi. — Ma adesso... andate via. Sì, andate via. Diamoci la mano e andate via!

Lelio le stringe la mano, ma non può parlare. Si scosta da Rosana andando a tastoni e vacillando, verso l'uscio... Ad un tratto si ferma, si volta, come per interrogarla.

— Che cos'è?

Un lungo fischio dalla strada: una carrozza entra nel cortile.

— Chi è?

— Ottavio! — esclama Rosana vivamente.

— Ottavio! — risponde Lelio come un'eco.

— Fermatevi, adesso! Non potete andar via senza salutarlo! Asciugatevi gli occhi! Aspettate!

E in fretta, spaurita, col suo proprio fazzoletto, Rosana stessa gli asciuga le lacrime cadute sulla cravatta e sul vestito. È un attimo: quando si sente camminare nella stanza attigua, donna Rosana è già sdraiata sulla poltroncina dinanzi al fuoco, Lelio è seduto nel solito cantuccio del canapè e tutti e due discutono animatamente a proposito della Scala e dei Maestri Cantori.

II.

Don Ottavio, attraversando l'anticamera, dà un'occhiataccia di malumore ad un cappello e a un soprabito da uomo, appesi all'attaccapanni.

— Ah! Ah! Lelio non è venuto al pranzo della barcaccia per poter essere più presto da mia moglie e trovarla sola!

Egli è geloso, come tutti i mariti, che hanno una moglie che piace moltissimo agli amici di casa; ma per boria e per seguire la moda, più si sente rodere e più si fa forza, ostentando una olimpica indifferenza.

— Ah! Ah! Mia moglie che doveva andare da sua zia! Brava! E non fa altro che vantare la sua straordinaria sincerità!

Don Ottavio sta per entrare nel salotto, ma poi si ferma un istante, chinandosi e sbuffando. Egli allenta la cinghia del panciotto: ha mangiato troppo; si sente oppresso.

— Che seccatura aver moglie! È il fastidio più grande e più inutile!... Però l'amico, questa volta, ha preso fuoco davvero! Mattina, giorno e sera! Ormai, io non lo vedo più!... E mia moglie, così piena di affettazioni e di scrupoli, comincia a slanciarsi! Brava! Ma che peso, dev'essere mia moglie innamorata! Povero Lelio, ti compiango! — Ottavio si sbottona un occhiello del panciotto. Il peso di sua moglie gli fa sentir maggiormente quello del pranzo.

— Chi sa quante smorfie, quante esagerazioni e quante contradizioni! Con quegli occhi, con quella faccia sempre incantata! Dev'essere insopportabile! Maledetti gli escargots! — Si ferma di nuovo, dà un'alzata di spalle, e torna indietro.

— Da mia moglie... A far che?

Invece di andare da Rosana, entra nelle sue stanze.

— Non sono tornato a casa altro che per mettere la falda e prendere le sigarette!

Non è vero. Ottavio ha fatto quella corsa per levarsi una curiosità, che gli era venuta subito, appena si era messo a tavola e che, alla frutta, era diventata assai stimolante: sapere se Lelio, quel dopo pranzo, sarebbe andato da sua moglie e sapere se sua moglie, con tutta la sua «sincerità» sarebbe rimasta in casa invece di andare dalla zia, come aveva annunziato. — Nient'altro che questo.

Appena in camera, egli cerca le sigarette, le sue solite sigarette « Sossidi frères » marca violetta: le scatole sono tutte vuote.

— Rosana, di là, ne deve avere; ne ha sicuramente! Come si fa? Eppure.. Mi spiace interrompere i dolci colloqui, ma perchè Lelio fa la corte a mia moglie io non devo restare anche senza sigarette... Ah no!

Non pensa più ad altro, nemmeno a mettersi la falda. Va difilato da Rosana, continuando a brontolare ad alta voce contro il caldo esagerato.

— Un marito di spirito deve sempre annunziare il proprio arrivo, — pensa sogghignando, mentre alza la portiera del salottino. — Disturbo?... Prendo soltanto un po' di sigarette e me ne vado!

— Lì, nel mio cestino! — indica Rosana che ripiglia subito con Lelio a parlare di musica.

Ottavio, imbronciato, riempie il proprio astuccio di sigarette: la voce di sua moglie, il suo entusiasmo pel teatro di Wagner, gli urtano i nervi terribilmente.

— Wagner! Ma che Wagner! — barbotta fra sè. — Questa è una commedia! Un improvviso cambiamento di scena in mio onore! Ah! Ah! Benissimo! La donna perfetta! La donna sincera!

E sempre più si sente rodere dalla bile; tutta bile contro sua moglie, non già contro Lelio. È sua moglie, la civetta! Sua moglie, con quegli occhi di fuoco... spento, che sembrano due pallottole di vetro nero infisse in una faccia scialba, di midolla di pane! È sua moglie la colpevole! Lelio è nel suo pieno diritto. Lui, se si fosse trovato nei panni di Lelio, sente che avrebbe fatto altrettanto. E come, vivaddio!

— Oh! Oh! Che salti acrobatici! — esclama dopo un momento ridendo forte, ma rivolgendosi a Lelio, senza guardare Rosana. — L'anno scorso, quando mia moglie si faceva far la corte dal Tosti, altro che Maestri Cantori! Andava in estasi per l' Ideale!

Rosana, trasalendo, diventa subito serissima: — Io non mi sono mai fatta fare la corte nè dal Tosti, nè da nessuno; avverto!

— Tutto il santo giorno — continua Ottavio sempre sogghignando e sempre rivolto a Lelio, — non avevo nelle orecchie altro che la sua voce, languida e stonata:

« Io ti seguii com'iride di pace...»

E comincia lui stesso a cantare e a stonare davvero, maledettamente.

— Basta! Finiscila! — ribatte Rosana.

— Ma che! Finiscila tu, di darti l'aria di donna perfetta, così sarai, se non altro... più divertente! — Ottavio fa un'altra risataccia. — Sincerità! Sincerità! Tutti i tuoi cento cappellini, i tuoi abbigliamenti, le tue acconciature, — certe volte sei bardata più di una cavalla del Gondrand! — Per chi li metti?... Per me, no! Per piacere! Per farti far la corte!

— Finiscila!

Ottavio nota il pallore di sua moglie, ma geloso e rabbioso, con la testa accesa dal troppo caldo e dal vino rosso del Falcone e con lo stomaco gonfio degli escargots, continua a sfogarsi, diventando sempre più sguaiato e più incivile.

— Non è per piacere a me, ma per far effetto in pubblico, per piacere agli altri, per trovare chi ti faccia la corte, che stai chiusa ore e ore a miniarti, e cincischiarti nel tuo gabinetto di toilette; a farti i ricciolini, a stringerti da una parte, a gonfiarti dall'altra, a strapazzar la sarta e far piangere la cameriera! — Non ho ragione, Lelio? Gli inganni di questo genere non son per il marito; si sa che il marito, in questo, non si può ingannare! Perchè fai quella faccia?... Perchè ti arrabbi tanto?... Non sei tu la sola! Tutt'altro! Sei anche tu come le altre! Come tutte le altre!

Dopo un'altra sghignazzata, ricomincia da capo con l' Ideale:

« Io ti seguii com'iride di pace...»

Questa volta non può continuare. Si sente troppo gonfio, troppo oppresso: allarga altri due occhielli. Uff! che caldo!

Rosana, con gli occhi fissi, torvi, non dice più una parola: Lelio è sulle spine.

— Buono il pranzo? — domanda dopo un momento, tanto per dire qualche cosa.

— Squisito! — Ottavio slaccia, adagio, un altro bottoncino.

— E les Escargots?

— Ne ho mangiato quattro dozzine!

Soffia, brontola, poi, di colpo, corre a spalancare la finestra.

— È un inferno! Si soffoca!

— Diventi matto! — Il Vigodarzo balza in piedi, ma pur riceve con piacere sulle gote ardenti quella folata improvvisa di aria diaccia e frizzante.

— Vi prego, Lelio, chiudete! — esclama Rosana senza muoversi, senza scomporsi. Tutta la sua arguta vendetta di donna è in quel nome «Lelio» e in quel tono di affettuosa intimità.

Il giovinotto, preso così fra marito e moglie, sorride all'una e all'altro per restar d'accordo con tutt'e due e va lentamente a chiudere i vetri. Egli spera che il marito se ne vada; ma Ottavio, non si muove. Cantarellando, con odiosa insistenza, la solita arietta dell' Ideale, va prima a sedere sul canapè, accanto a Lelio, ci si trova incomodo; è troppo basso; non può allungar le gambe. Prova allora a mettersi sopra una seggiolina di faccia: ha la fiamma della lampada proprio negli occhi! Finalmente, trova una poltrona mezzo al buio, dall'altra parte del camino e vi si sdraia, sempre soffiando, brontolando e sbottonandosi e riabbottonandosi la sottoveste.

— Uff! Maledetto pranzo!

Ha un cerchio alla testa; gli occhi pesanti... — Maledetto pranzo!

« Io ti seguii com'iride di pa...ce...»

A mano a mano canticchia più sottovoce, con uno sforzo visibile, con riso stentato e melenso. Rosana rimane impassibile e muta mentre il conte Vigodarzo pensa come potrebbe fare a salutare e svignarsela.

... — Che cos'è?... Anche i libri, sotto le sedie? — Ottavio, chinandosi faticosamente e allungando il braccio afferra il volumetto delle poesie di De Musset che era caduto dalla poltrona. — Vedi, Lelio? Tu sei un ammiratore di mia moglie; ammira anche il bell'ordine col quale ella tiene i libri! E si tratta, nientemeno, dell'autore favorito! Dimmi la verità: quante volte non ha detto anche a te, «rapita in estasi» i bei versi innamorati del suo poeta romantico... e alcoolizzato?

Rosana, gli strappa il volumetto di mano: ha gli occhi stravolti, sfavillanti di collera.

— Mi hai graffiato! — Don Ottavio la guarda un po' inquieto e comincia a succhiarsi un dito per metter la cosa in burletta.

— Per tua regola, — prorompe Rosana appena può parlare, — per tua regola, io non tollero e non permetto in mia presenza nè questi tuoi modi, nè questo tuo spirito troppo da..... da dopo pranzo!

— Oh! oh! Che furia!... Mi hai graffiato... a sangue!

— Assolutamente no! Sia detto una volta per sempre!

— Oh! oh! — ripete Ottavio continuando a succhiarsi il dito. Lancia ancora qualche frizzo a mezza voce... finalmente allungandosi e appoggiando la testa sulla poltrona, non dice più una parola.

Don Ottavio non ha paura di nessuno, ma di sua moglie, qualche volta, quando va molto in collera... sì!

Eppure, quella sera, in quel momento, egli non è soltanto intimidito: dinanzi alla rivolta di Rosana prova un senso di sollievo, di benessere, un moto vivissimo di contentezza e di tenerezza. Egli, in fatti, pensa così: — Mia moglie si è arrabbiata; è fiera con me, più del solito: ciò vuol dire che con Lelio... non c'è niente di nuovo!

— Povero Lelio! — Don Ottavio, lo guarda fra le palpebre socchiuse: — Eh! eh! il tuo naso con la mia Rosana, deve diventar più lungo di quello di Cyrano! — Intanto, stirandosi e adagiandosi più comodamente continua a pensare:

— La mia Rosana! — Quanto tempo che non l'ho più abbracciata, che non le ho più susurrato all'orecchio queste semplici parole «la mia Rosana» che la fanno tremare e diventar più bianca... ancora più bianca, più pallida e più bella! Non le dico più «La mia Rosana cara» soltanto perchè le fa piacere. Niente di ciò che le fa piacere! Invece... tutto ciò che le fa dispetto! Sono geloso, non voglio mostrarmi geloso e mi vendico a furia di dispetti! Com'è bella anche in collera! E dire che se io voglio, quando voglio, una parola sola, e si getta fra le mie braccia sempre più innamorata, appassionata, cara... Io le dico «cara» e i suoi occhi si riempiono di lacrime e perdonano. È una sensitiva innamorata. E anche io sono innamorato... Sono geloso e soffro... perchè... perchè... vorrei essere solo persino a guardarla! Dirle «cara... perdono» e portarmela via! Portarla via a Lelio, portarla via a tutti!

.... Donna Rosana rimane immobile e muta con le ciglia aggrottate: la ferita è stata troppo profonda! E in faccia a Lelio? Proprio quella sera, proprio in quel momento! — Basta, adesso basta! — Ha sempre perdonato a suo marito finchè è stato cattivo e ineducato, ma da solo a sola, con lei! Adesso basta! Poteva farla piangere, farla soffrire, ma renderla ridicola no; ridicola anche in faccia agli altri, in faccia a Lelio, no!

Senza muoversi, senza voltarsi, senza guardarlo, ella sente sopra di sè gli occhi umidi, amorosamente devoti del povero innamorato e soffre atrocemente nel suo cuore e nel suo orgoglio.

— Basta, adesso basta! Stupido e villano! Ma Lelio, Lelio? Che cosa penserà di me? Chi sa come deve soffrire vedendomi trattata in questo modo; messa in ridicolo in questo modo! Lui che mi ama, che parte, che mi sacrifica tutta la sua vita! Ma che cosa penserà di me?... Crederà che abbia voluto mentire con lui e che l'abbia fatto per vanità?... Chi sa che cosa penserà di me!... Lelio adesso non mi crederà più! Ha diritto di non credermi più! Mi giudicherà bugiarda e ridicola... ridicola!...

A questo punto, trasalendo, si volta verso suo marito: dal cantuccio buio del caminetto, ha sentito un sibilo, un fischietto, che a mano a mano diventa il concertino sempre più rumoroso di una piccola orchestra: suo marito russa.

— Che ne dite?... Lelio? — Rosana ha il viso contraffatto da un sorriso amaro, sardonico.

Lelio rimane serissimo. Le rivolge uno sguardo appassionato, ma più che mai rispettoso e devoto. Si mostra addolorato per Ottavio e cerca di scusarlo:

Les escargots!... Povero Ottavio! Quattro dozzine! — Si alza, si avvicina in punta di piedi a donna Rosana e inchinandosi con la testa bassa mestamente, fa per salutarla, e prender commiato.

— Addio! Addio! E adesso che voi non potete più fingere con me per eroismo, per... virtù sublime, adesso con tutto il mio cuore vi auguro ancora di poter essere felice, ma veramente felice!

Il dardo è tratto: Rosana ne riceve la punta in mezzo al cuore. Che cosa fare? Non vuole, non può lasciarlo partire così, per la Cina! Senza quasi salutarlo! Senza giustificarsi! impossibile!

— Andate subito a casa vostra, o andate al Club?... Dove andate?

— Passerò un momento al Club. Debbo combinare con Pippo Sardis e con Castelsillia, per... domani.

— Vi accompagno io, con la carrozza. Devo passar di lì, andando da mia zia. Aspettatemi: in un attimo sono pronta!

Così dicendo, ella se ne va, tirando la portiera, sbattendo l'uscio senza alcun riguardo: ma Ottavio non si sveglia; cessa appena un momento dal russare, poi l'orchestrina ricomincia l'andante misurato, con tutti i vari strumenti.

Lelio, giubilante, non può più contenersi! Quando Rosana si è allontanata, si pone diritto dinanzi al povero marito, e con un'espressione di comica severità, alzando e scotendo la mano in segno di rimprovero e di minaccia, ripete sottovoce quell'aria fastidiosa dell' Ideale, che gli ronza ancora nelle orecchie, ma cambiandone le parole:

Les escargots, les escargots, mio caro!

Ad un tratto sente un profumo delizioso; si volta: donna Rosana, alta, sottile, vaporosa, tien sollevata la portiera: il suo viso non è stato mai così pallido; i suoi occhi mai così neri.

— Andiamo? — mormora appena, sottovoce.

Lelio s'inchina senza parlare, e passo passo attraversa tutte le sale seguendo l'ombra bianca e avvolto dall'onda profumata.

Don Ottavio non si sveglia; continua a fischiettare e a russare: Fabrizio ha ricevuto l'ordine dalla padrona, di lasciarlo dormire.

— Che cos'hai, stasera?... Non ti senti bene — domanda più tardi la zia a donna Rosana.

— Non è nulla. Un po' di emicrania; passerà! Ma l'emicrania ha durato un pezzo, e donna Rosana ha proprio cominciato quella sera a soffrire, ad essere infelice e a piangere tutte le lacrime che sgorgano calde come il sangue da una ferita, da quella ferita atroce dell'anima che cambia la vita in dolore e che non si rimargina più!

Lelio, in carrozza, l'ha baciata sugli occhi, sulla bocca e le ha detto che non sarebbe più partito, che ormai non voleva partir più!

... Che cosa fare? Che cosa doveva fare? Ella si sente molto, profondamente scontenta e infelice... Ma che cosa può fare?... Che cosa doveva fare?... Anche Lelio è tanto infelice e infelice per lei, per cagion sua!

Invece il conte Lelio di Vigodarzo, appena giunto al Club, offre lo Champagne agli amici e discutendo sulla virtù delle donne dichiara, col fondamento della propria esperienza, e fra le più matte risate, che tutte le donne sono conquistabili: per quelle facili, basta saper ridere; per le difficili, — per le virtuose, — basta saper piangere!

A rovescio!... COMMEDIA DI UN ATTO

PERSONAGGI.

Donna Fulvia — Il Conte Andrea — Un vecchio servitore.

La scena rappresenta un salotto ricco, elegantissimo, da giovane scapolo: il salotto precede la camera da letto: l'uscio dal salotto alla camera da letto, è a sinistra dello spettatore e rimane socchiuso: si vedrà, in iscorcio, il cortinaggio del letto. La comune è a destra. In un angolo del salotto, un tavolino con servizio di liquori e con teiera, tazze, zuccheriera. Sopra una mensola un grosso involto di pasticcini e un cartoccio di fiori freschi.

SCENA I.

Il Conte Andrea, poi il VECCHIO SERVITORE.

Andrea entra dalla comune e chiude l'uscio in fretta, per non essere osservato dalla gente sulle scale.

Andrea ( Dà un'occhiata in giro e fa un atto di sorpresa e di collera, vedendo i due involti: chiama a mezza voce, con rabbia ) Francesco! ( Più forte, ma sempre a mezza voce ) Francesco!

SCENA II.

Andrea e il VECCHIO SERVITORE.

Servitore ( Si affaccia sull'uscio della camera da letto ). Ho subito finito, signor Conte!

Andrea. Finito o non finito, via!

Servitore ( Per iscusarsi ). È ancora presto!

Andrea. Tutto doveva essere pronto per le quattro! E non dovevo più trovarvi qui!

Servitore ( Prende l'involto dei fiori per metterli a posto ). Non sono ancora le quattro!

Andrea ( strappandogli i fiori di mano, cacciandogli il cappello in testa ). Via! Fuori! E una volta per sempre, ricordatevi...

Servitore. Sissignore!

Andrea. Voglio essere obbedito quando do un ordine! Dovete essere preciso quando fisso un'ora! ( Spinge fuori il servitore dalla comune e chiude l'uscio ).

SCENA III.

Andrea solo, poi donna Fulvia.

Andrea ( Va alla finestra, guardando dietro al servitore ). Allunga il passo, tartaruga! ( Dopo un momento ) Se n'è andato! Meno male! Anche per oggi non l'ha incontrata! ( Sempre col cappello in testa, il bavero alzato, il bastone sotto il braccio, leva i pasticcini dall'involto e li mette sopra un vassoio; prende i fiori e li mette nei vasi di cristallo ). La prossima volta, se Fulvia mi dice di venire alle quattro, farò che sia pronto per le tre! ( Si ferma, con un vaso di fiori in mano, tendendo l'orecchio ). Francesco aveva ragione, le quattro sonano adesso! ( Si leva in fretta il cappello, il paltò, che porta nella camera da letto; poi dinanzi allo specchio della camera da letto, col pettine e la spazzola si accomoda i capelli e si arriccia i baffi: in fine, con lo spruzzatore dell'acqua odorosa, si asperge i capelli e i baffi. Torna a mettersi in ascolto vicino alla comune aspettando: ad un tratto il suo viso attento, ansioso, si rischiara; ha un lampo di gioia: spalanca l'uscio, che richiude subito dietro a Fulvia, la quale entra rapidamente, di colpo ).

SCENA IV.

Il Conte Andrea e Donna Fulvia.

Andrea ( con grande passione, per abbracciarla ). Finalmente!

Fulvia ( Respingendolo; agitatissima ). Mi lasci stare! Per amor di Dio, mi lasci stare!

Andrea ( Insiste per abbracciarla, non molto sorpreso, perchè si comincia sempre così, con una piccola scena ). Un altro spavento?... Anche oggi un incontro noioso?

Fulvia ( Sempre respingendolo e con più forza ). Ma no! Ma no! Ho detto di no!

Andrea. Bambina! Cara!

Fulvia. Sono nervosa! Sono nervosissima!

Andrea. Ti levo soltanto il cappellino, i guanti. Siedi qui, vicino a me!

Fulvia. Impossibile! Devo tornar via, subito! Ho fatto una corsa, — che corsa! — perchè lei non restasse qui tutto il giorno ad aspettarmi!

Andrea ( Vivamente ). Non aver sempre tante paure!

Fulvia. Paura!... Adesso no, più! Vorrei che mi vedesse tutto il mondo! Anche Alberto! Anzi il mio signor marito più di tutti! ( Affettuosamente ) Lei mi vuol bene? Mi vuol proprio bene?

Andrea. Ti amo! Ti adoro!

Fulvia. Allora... mi sia amico! Ho tanto, tanto bisogno di un amico per potermi sfogare! ( Con le lacrime agli occhi ). Senta come ho le mani gelate!

Andrea. È vero! ( Le bacia le mani e le stropiccia in fretta ). Ti preparo una buona tazza di tè, caldo caldo!

Fulvia. Dio mio! Ho già detto che devo tornar a casa, subito!

Andrea. Perchè?

Fulvia. Alberto mi aspetta.

Andrea ( inquieto ). Ti ha fatto qualche osservazione sul conto mio?

Fulvia ( Scoppiando in una risata piena di amarezza e di ironia ). Mi ha fatto — sicuro! — quello che non avrei proprio mai creduto!

Andrea. E sa che io?..

Fulvia. Ma non c'entra lei! Pensa tanto a lei... e a me, quello là! ( Con impeto e con la voce sorda ) Sono quattro mesi! Più di quattro mesi, che mio marito mi tradisce!

Andrea ( non osservato da Fulvia, si rasserena e tira il fiato ). Ah!...

Fulvia. Lui! Proprio lui! Alberto! Il grand'uomo, l'uomo d'ordine, l'uomo della compostezza, della freddezza, della moralità — sopratutto della moralità — nella famiglia e nello Stato! ( Di nuovo con impeto ). E sa con chi?... Sa con chi? con la mia migliore, con la mia più caara amica!

Andrea. La Vivaldi?

Fulvia. La Ninì! Quella patetica smorfiosa! Gneognao-merignao! Tonda, corta, goffa! Cammina dondolando, tipeto-tapete! Come una cagnetta bassè!

Andrea. Ah! Ah! Ah!

Fulvia. Non rida. Avrebbe il coraggio di ridere?

Andrea. No!

Fulvia. Falsa! Ipocrita! La mia Fulvietta, la mia bella Fulvietta. ( Con ira ) È troppo!

Andrea. Ma in fine... A me, che cosa importa?

Fulvia. Troppo! Troppo! Troppo!

Andrea ( Le leva un guanto, le accarezza e le bacia la mano per calmarla ). Non esagerare! Non inquietarti! Come lo sai, intanto?

Fulvia. Come lo so?

Andrea. Scommetto!... Non è vero niente!

Fulvia. È vero! È vero! È vero!

Andrea. Non sarà... tutto quello che credi!

Fulvia. Tutto!... Et ultra!

Andrea. Vieni qui, con me, vicino a me, amore, amor mio! ( Siede e la fa sedere sul canapè ). Mi racconterai tutto!... Ma tranquillamente! ( Con amoroso trasporto ) Dio, come sei bella! Oggi sei ancora più bella!

Fulvia. Grazie! Me l'ha già detto... anche ieri!

Andrea. Non essere cattiva! C'è tanto tempo per... per gli altri! Adesso... guardami, gioia, e non pensare che a me!

Fulvia ( Ironicamente ). Bravo!... Ecco una buona idea!

Andrea. Siamo qui soli! Io ti amo! Ti adoro! ( Abbracciandola ). Io dimentico tutto il mondo!

Fulvia ( Alzandosi e allontanandosi ). Perchè non è stato offeso lei, nel suo punto d'onore! — Fosse stata un'altra, almeno! No!... Proprio la Ninì!... Quella bombolona sentimentale!

Andrea. ( Fa per condurla con tenera violenza nell'altra camera ). Ma la Ninì, o un'altra, o cento altre...

Fulvia ( Corruga la fronte: irrigidendosi ). Che cosa fa?... Che cosa dice?

Andrea. Due dita di curaçao nell'acqua gelata?... Hai corso...

Fulvia. Non ho sete.

Andrea. Un fondant?

Fulvia. Non ho fame.

Andrea. Un fondant si mangia anche senza fame! Ridi anche tu, ridi, ridi, ridi! Ch'io veda i tuoi bei dentini! Voglio coprirti di fiori e di baci!

Fulvia. ( Scostandosi: seccamente ). Lei, almeno, ha il grande talento dell'opportunità!

Andrea ( con ira ). Anche tu, per opportunità... scusa...

Fulvia. Io le ho detto, le ho ripetuto che sono nervosa, nervosissima! ( Pausa: Fulvia apre e chiude il ventaglio nervosamente finchè lo rompe e lo butta via: Andrea cammina su e giù per calmarsi ).

Andrea ( S'incontra faccia a faccia con Fulvia: sorride e torna a prenderle la mano dolcemente ). Dunque Alberto fa la corte alla marchesa Vivaldi?

Fulvia. La corte!... Altro che corte!... Quello là... non perde il suo tempo!

Andrea. Come lo hai saputo?

Fulvia. È il mio segreto.

Andrea. Pettegolezzi! Malignità! Non ci credo!

Fulvia. Così lei dimostra... di essere anche pieno di perspicacia!

Andrea ( Vivamente ). Quando una relazione c'è — davvero — non si può mai nasconderla interamente! E noi due ( con un sospiro ) lo sappiamo per esperienza! — Io non ho mai sentito la più piccola allusione sul conto di... Sua Eccellenza e della Vivaldi.

Fulvia. Perchè Alberto è più prudente e più furbo di lei! ( Con ammirazione ). Per bacco, se è furbo! Comincio adesso a conoscerlo bene il mio signor marito e ad apprezzarlo per il suo giusto merito! È un famosissimo Don Giovanni! Ci sa mettere in un sacco tutti e due: Lei... e poi anche me!

Andrea. Ah! Ah! Ah!... Alberto? L'ex sottosegretario delle poste e telegrafi? — Lo vedo ministro, una volta o l'altra — magari degli esteri! — ma Don Giovanni, mai!

Fulvia. Io, invece, sì; ce lo vedo, e moltissimo!

Andrea ( Irato e geloso ). Risponda, dunque: lei come lo sa? Chi gliel'ha detto? Credo di avere il diritto di saperlo e voglio saperlo! Chi gliel'ha detto?

Fulvia. Nessuno.

Andrea. Chi te l'ha detto?

Fulvia. Le lettere! Le lettere! Ho le lettere!

Andrea. Sst! Abbassa la voce! Qui le pareti sono grosse un dito!

Fulvia ( Sottovoce, battendo le sillabe ). Ho tutte le lettere! — ( Cambiando tono ). Le riunioni della minoranza? Le sedute per combattere i sovversivi?... Va dalla Ninì, a sedere... e a riunirsi!

Andrea. Come hai avuto queste lettere?

Fulvia ( Con aria solenne ). La giustizia di Dio! — Perchè Dio è giusto! — Volevo comperare Flirt, il sauro della Ninì e stamattina aspettavo una risposta. Ma stamattina — si ricorda? — io dovevo uscire presto, per trovarmi con lei sul Corso...

Andrea. Appunto! Invece... niente!

Fulvia. Invece, proprio sul portone, incontro il servitore dei Vivaldi. — «Una lettera della signora Marchesa!» — Per me? — «No, per Don Alberto». — Datemela; fa lo stesso!... — Apro, leggo...

Andrea ( Severamente ). Male.

Fulvia. Il biglietto — proprio così! — mi sono sentita gelare, poi montare il sangue alla testa! — il bigliettino, era un appuntamento! Voglio saper tutto! Voglio andare in fondo a tanta... mostruosità! Corro in camera di Alberto, nello studio di Alberto e comincio a cercare...

Andrea ( Borbottando ). Ed io, intanto, su e giù, lungo il Corso, ad aspettarti!... Su e giù!

Fulvia. ... A frugare in tutti i tiretti, in tutte le carte...

Andrea. Male.

Fulvia. E finalmente, in una cassettina chiusa a chiave, trovo il pacchetto delle lettere!

Andrea. Male! Ha fatto male!

Fulvia. Auff! Non prenda quel... sussiego di predicatore! — Male! Male! — E a venir qui, allora?... Faccio bene?

Andrea. Non spostiamo la questione. Si tratta del segreto delle lettere, che deve essere inviolabile!

Fulvia. Ma che segreto! Ma che inviolabile! Si tratta di mio marito, che da me, sua moglie, è violabilissimo! — Quattro mesi! È una relazione che dura da quattro mesi! — Mio marito!... Il papà di Ettorino! ( Con le lacrime alla gola ). Che coraggio!... Ingannarmi in tal modo! ( Cambiando tono ) E sa?... Tutte le cautele e tutti i comodi! Hanno il loro nido sicuro le due colombe! ( Andrea, istintivamente, dà un'occhiata in giro ). Già: il loro appartamentino par-ti-co-la-re, dove si trovano insieme, loro due soli...

Andrea ( Teneramente, abbracciandola ). Soli... come noi... qui...

Fulvia ( Senza badare all'interruzione di Andrea ). Non crederà che io sia gelosa? Gelosa? Io? — È... è la finzione, la grande finzione di quell'uomo che mi fa orrore, che mi fa... male! Ma pensi, dopo i ritrovi teneri, nell'appartamentino ammobigliato, aveva il coraggio, il toupè di tornarsene a casa mia, a casa nostra, tranquillamente... di abbracciarmi — come se niente fosse! — di venire a pranzo con me, di sedersi lì, a tavola, con me, in faccia mia, in faccia di Ettorino! — Noi tre! — E parlava, rideva, scherzava, allegro, disinvolto, fresco come una rosa! — E mi faceva anche... dei complimenti! — Sicuro, se lo vuol proprio sapere, in questi ultimi tempi era di un'affettuosità, di un'espansione... straordinaria! — La mia muci, la mia bella mucina! — Mostro! — E ha perduto anche l'avarizia! In quindici giorni mi ha regalato tre cappellini — tre! — E, forse, anche questo.... ( Alzando gli occhi ). Sicuro! ( Se lo strappa dal capo: lo guarda ). Questo no, per fortuna! ( Lo butta sul canapè ).

Andrea ( Con ironia ). Cara donna Fulvia....

Fulvia. Che c'è?

Andrea. Non avrei mai creduto di vederla così furibonda per... per un fatto simile!

Fulvia. Ah, caro mio, scoprire di essere ingannati non fa mai piacere a nessuno! E per noi donne è molto peggio che per gli uomini! Noi non abbiamo nient'altro al mondo! Il nostro amor proprio e il nostro orgoglio è tutto lì.

Andrea. Mi giurava, anche, — più volte me lo ha giurato! — di non essere mai stata innamorata di suo marito!

Fulvia. Io no, ma lui sì!

Andrea. In fatti... c'è una bella differenza!

Fulvia. E lui ha l'obbligo di essere sempre innamorato di me!

Andrea. Hai ragione! Adesso hai ragione! Cento volte ragione! Per dimenticarti, per trascurarti, bisogna essere un vero... cretino!

Fulvia. Però, — scusi sa — non toccherebbe a lei, — proprio lei — il suo più grande amico, ad accusarlo!

Andrea. Ah, ma finalmente! Non so più che cosa dire, nè che cosa fare! Difendo Alberto, fo male; do ragione a lei, fo peggio! Non vuol essere gelosa... e smania! Non vuol essere innamorata e si dispera! Che cosa vuole? Dica, almeno, che cosa vuole?

Fulvia. Come alza la voce! Che maniera! Che modi!

Andrea. Sarà, a furia di gelosia, diventata matta, perchè non la riconosco più, non la capisco più, ma perdio!

Fulvia. Bestemmia adesso? Di bene in meglio!

Andrea. Fa diventar matti anche gli altri!

Fulvia. Già, già, già! Lei non mi riconosce più, lei non mi capisce più! Ma sa perchè?... Perchè, lei, non ha mai altro che un solo movente, una sola spinta: il suo proprio egoismo!

Andrea. Oggi il mio amore, la mia passione... si chiama egoismo!

Fulvia. Diventa egoismo! L'anima di una donna non può essere sempre la... la stessa a tutte le ore! Oggi lo slancio, l'impeto del cuore che mi ha portata qui era l'aspirazione, la speranza di un affetto, buono, nobile, alto! Oggi avevo tanto bisogno d'indulgenza e di protezione! Mi sono illusa? Non avrei dovuto illudermi? Va bene. Io avrò torto e lei avrà ragione, ma anche questo non è nè un conforto, nè un piacere per me!

Andrea. Una cosa sola, non doveva dimenticare e non aveva il diritto di dimenticare...

Fulvia. Oh, Dio mio! Si comincia coi diritti e coi doveri! Che malinconia!

Andrea. Da egoista, da profondo egoista, ma — ti amo — e anch'io divento geloso e sono geloso.

Fulvia. Geloso di Alberto?

Andrea. Sì.

Fulvia. Ma Alberto è mio marito.

Andrea. E questo ti par poco?

Fulvia. Non è un fatto nuovo! Mio marito è sempre... stato mio marito. Lo sapeva anche prima.

Andrea. Non sapevo, per altro, che tu fossi così facile a disperarti per i suoi traviamenti.

Fulvia. L'ironia no; si ricordi, l'ironia non la tollero!

Andrea. Ma allora, certi suoi dolori, intimi, perchè viene proprio a confidarli a me... qui, perchè viene a dirli proprio a me, a me, a me, e proprio qui?

Fulvia. Perchè se non vengo a dirli a lei, a chi potrei andarli a dire?... A chi? Forse a mio padre? Ah! Ah! Un marito anche lui, e un altro bel campione come sopra! Tutti gli uomini sono uguali... Tutti una risma e tutti una lega: avrebbe preso le difese di Alberto. La mamma? — Mia madre crede che le donne sieno state create e messe al mondo soltanto per far visite, far toilette e far figliuoli! — Mi avrebbe imposto la rassegnazione ed il perdono. Le mie amiche? — Oh povera Fulvietta! Oh povera la nostra Fulvietta! — Per sentirmi compiangere e vederle beate?... Dunque, vede, per confidarmi e per confortarmi, non avevo che lei! Non avevo che lei per potermi sfogare... Cioè, lo credevo e lo speravo! Invece no! Anche lei non sente che il suo risentimento, il suo orgoglio, ed io non ho nessuno, nessuno al mondo, più nessuno, al quale poter aprire la mia anima e il mio cuore, col quale potermi lamentare, gridare e piangere. ( Scoppia in un pianto dirotto di dispetto e di dolore, buttandosi sul canapè ). Sì, piangere, piangere, piangere!

Andrea ( Calmandosi a sua volta e dopo una lunga pausa, si appoggia dietro il canapè e accarezza Fulvia sui capelli ). E io? E il mio cuore? Vedendoti a piangere così per... un altro? ( Le dà un bacio ).

Fulvia ( Si alza e si allontana con un profondo sospiro ). Il torto è mio, tutto mio!

Andrea ( Conciliante ). No, no! Anch'io, forse, sarò irragionevole...

Fulvia. Il torto è mio! A questo mondo, soprattutto, bisogna sapersi risolvere. O una cosa, o un'altra...

Andrea. Ma Fulvia!

Fulvia. Sì! Sì! Io, invece, sono un complesso di indecisioni, di contradizioni e così ho fatto infelice me, faccio infelice lei..

Andrea ( Per abbracciarla ). Io infelice? Ma soltanto una tua parola...

Fulvia ( Continuando a respingerlo ). E ho fatto infelice anche il povero Alberto.

Andrea. Alberto! Alberto! Basta! Ieri, lo chiamava Sua Eccellenza anche lei! Alberto, lasciamolo dove si trova!

Fulvia. Ragioniamo!

Andrea. Ah, no! Per amor del cielo! Non c'è quanto i tuoi ragionamenti, che facciano perdere la testa!

Fulvia. Perchè sono pieni di sincerità e di verità.

Andrea. E di contradizione: lo hai detto tu stessa.

Fulvia. Ma più ancora di sincerità.

Andrea. ( Con un nuovo impeto di passione ). Ebbene sì, cara, bambina cara, capricciosissima, ma tanto cara!... Sincera, sempre sincera!

Fulvia. Sincera anche... a proposito di Alberto?

Andrea. Anche a proposito di Alberto.

Fulvia. Questo lo deve ammettere. Senza esserne mai stata proprio innamorata, però le ho sempre detto che a mio marito volevo molto bene.

Andrea ( Con ira ). Sì! Sì!

Fulvia. Può arrabbiarsi fin che vuole; ma si ricordi: quando una donna le dirà di non voler bene a suo marito, le dirà sempre una bugia. Sempre! — Tutte noi amiamo nostro marito, e se molte volte ci rendiamo infelici è appunto perchè non abbiamo il coraggio di confessare questa grande verità a noi stesse!

Andrea. Brava!

Fulvia ( Sospirando ). Certe... scoperte, come rischiarano la vista, caro mio!

Andrea. E... che cosa si comincia a vedere?

Fulvia. Che anch'io ho la mia parte di torto.

Andrea. Benissimo!

Fulvia. Sono stata eccessiva oggi nel condannare Alberto, e sono stata ingiusta prima, nell'apprezzarlo.

Andrea. Nell'apprezzarlo? Oh! Oh! Sua Eccellenza deve essere molto soddisfatto... del rialzo delle proprie azioni!

Fulvia ( Scrollando il capo e sospirando ). Oh, il Circolo monarchico, il prefetto, il presidente del Consiglio! ( Continua a scrollare il capo ). No, no, no! Non possono riempiere il cuore di un uomo, la vita di un uomo! — Avrà trovato in me della freddezza...

Andrea ( Con molta ironia ). Della freddezza? Possibile?

Fulvia. Io sono spesso lunatica, intrattabile, insopportabile. Gli ho resa la casa uggiosa, antipatica. — Se Alberto, in fine, è andato a cercarsi delle distrazioni altrove, la colpa, siamo giusti, non è anche un po' mia? Un po' di rimorso non devo averlo anch'io?

Andrea. Perchè no? Anche il rimorso è un'opinione!

Fulvia. Il rimorso, intanto, di aver trattato Alberto come l'ho trattato, anche poco fa. Io — proprio io — ero in diritto di fargli una scena così tremenda?

Andrea. Eh, cara mia, quando si ama, quando si diventa gelosi...

Fulvia. Quando si sente il proprio torto! Ecco il tormento! Una cosa sola, avrei dovuto dire in un impeto di sincerità.

Andrea. Quale?

Fulvia. Tu l'hai fatta a me, ed io l'ho fatta a te.

Andrea ( Vivamente ). Lei scherza! Non lo dica nemmeno per ischerzo!

Fulvia. Guai se la mia coscienza comincia ad alzare la voce! Guai se mi monta il sangue alla testa! In un impeto di onestà e di lealtà sarei capacissima di buttarmi fra le braccia di mio marito e di confessargli tutto!

Andrea. Ma vivaddio!

Fulvia. Glielo giuro! E farla finita, una buona volta, con tutti i sotterfugi, coi timori, con gli sgomenti! — Sì, Alberto! Sono colpevole anch'io come te: tu mi hai tradita con la mia migliore amica, io ti ho tradito col tuo migliore amico! Perdoniamoci a vicenda!

Andrea ( Fuori di sè ). Queste sono sciocchezze, fanciullaggini, balordaggini!

Fulvia ( Osservandolo ). Brr! Che spavento! Si calmi! Si calmi! ( Sorridendo ). Ha un po'.. un po' d'inquietudine — pare — per le conseguenze, che potrebbe avere... la mia sincerità?...

Andrea. Ho paura di una cosa soltanto: del ridicolo!

Fulvia. Ridicolo?

Andrea. Potrò esserlo, forse, per un momento, in faccia sua: ma in faccia a... agli altri, al mondo, no!

Fulvia. In faccia mia? Ridicolo? Mai! Sa quanta stima ho di lei!

Andrea ( Inchinandosi con affettazione ). Oh, grazie!

Fulvia. Si offende, adesso, anche della mia stima?

Andrea. La ringrazio! Se la ringrazio! Soltanto io sarò un egoista, ma lei...

Fulvia. Io sono una leggera, una civetta! È il solo, però, che può prendersi il gusto, il capriccio di dirmelo! È il solo!

Andrea. Perchè sono anche il solo — lei che vanta tanto la sua sincerità — col quale lei... non è stata sincera!

Fulvia. Ma benissimo! Sono stata io a ingannarla! Ero io che volevo partire! Ero io che volevo morire! — Un'ora! Un'ora sola e poi morire! — Quante ore! E, guarda lì, che bella cera!

Andrea. Ma lei, lei mi ha visto soffrire! Le ansie del dubbio, la febbre della gelosia, i tormenti della disperazione! Oh! lei, lei può vantarsi di avermi visto soffrire!

Fulvia. Appunto! Appunto per ciò. Una donna può resistere all'amore che prova, ma insisti, insisti, insisti, viene il giorno — santo cielo! — che non può più resistere all'amore che ispira! ( Va a prendere il cappellino: poi va dinanzi allo specchio della caminiera a metterselo ).

Andrea. Che cosa fai?

Fulvia. Non vede? Mi metto il cappello.

Andrea. Vuoi proprio andare?

Fulvia. Sicuro!

Andrea. Ti prego! Ti supplico! Rimani!

Fulvia. Impossibile! Glie l'ho detto! Impossibile! Alberto mi aspetta.

Andrea. Un bacio! Voglio un bacio! Sei qui con me, finalmente! Sei mia. Un bacio! Voglio un bacio!

Fulvia. No! La prego, la supplico, di essere buono, di essere generoso! Non mi faccia pentire di... di volerle bene!

Andrea. Bene!... Mi vuol bene? Lei a me?

Fulvia. Sì, un bene forse più tranquillo del suo, ma più sicuro — riposante...

Andrea ( Con uno scoppio di risa ). Ah! Ah! Ah! Un bene riposante!

Fulvia. Sono una povera ( cantarellando ) ammalata! Mi aiuti a curarmi e a guarire!

Andrea. Dovrei aiutarla a guarire di quel po' di bene che... non mi vuol più?

Fulvia. Guarire... di tutto ciò che può turbarmi, agitarmi. E per farmi guarire — lei, proprio lei, — dovrebbe aiutarmi a farmi dimenticare... tante cose.

Andrea. A dimenticare una cosa sola: me.

Fulvia. No, invece. A dimenticare soltanto questi ultimi mesi. Chiudere un momento gli occhi — e poi riaprirli — ah! — e trovarmi, come prima, come quest'estate... a San Moritz! Quanta gratitudine per lei! Quanta poesia per lei e per me!

Andrea. Ma scusi...

Fulvia ( Interrompendolo: con forza ). È un sacrificio! Sarà un sacrificio! — Voleva esser messo alla prova? Ecco la prova!

Andrea. Intanto, spieghiamoci chiaro. Tutto questo «dimenticare» sarebbe per qualche giorno... o per sempre?

Fulvia. Non precisiamo adesso! È inutile! Chi può mai prevedere... ciò che sarà? Chi mi avrebbe detto, soltanto questa mattina, che io, proprio oggi, le avrei fatto un simile discorso?... E per la Ninì, poi! Per colpa di quell'antipatica odiosa! Con tutto quel... ( accenna al seno ) peso! Dio, che peso!

Andrea. E per colpa di Sua Eccellenza.

Fulvia. Di Alberto. Proprio così. E tutto questo m'impone un nuovo dovere.

Andrea. Un nuovo dovere?

Fulvia. Per la mia famiglia, per Ettorino, per me stessa. Mio marito non deve perdere la testa, non deve mettersi sopra una cattiva strada, ed io devo, voglio salvarlo!

Andrea. Sua Eccellenza? — Sicuro! Salvarlo, in buona salute! Anche per lo Stato! Anche per l'Italia!

Fulvia. Ho capito stamattina che il marito è qualche cosa di più e di diverso... della mia prima idea. Nostro marito è la casa; è tutta la casa! Col marito che si perde, è il sistema della nostra vita regolata e sicura, dei nostri rapporti, delle nostre abitudini, che ne soffre... che va a soqquadro. E io stessa che cosa fo? Che cosa divento se mio marito prende l'abitudine d'ingannarmi? Quando una donna commette un piccolo errore... sa poi, anche, sacrificarsi e riparare. L'uomo, no; mai! Per un uomo le conseguenze sono ben più gravi e ricadono tutte sulla povera moglie!

Andrea. È innegabile! Dal suo punto di vista lei ragiona benissimo. Ma... e dal mio... punto di vista?

Fulvia. Lei non domandava che di vedermi: mi vedrà sempre: più di prima. Anzi, dopo domani, sabato, è la festa di Ettorino. Ci sarà con noi, a pranzo, il papà e la mia mamma. Aspetto anche lei. Si pranza alle sette. ( Dà un'occhiata all'orologio del tavolino ). Adesso, mi lasci andare.

Andrea. Adesso no!

Fulvia. Mi lasci andare. Guardi se non c'è nessuno sulle scale.

Andrea. Lei ha fatto il suo nuovo piano, ha preparata la sua nuova vita, calma, serena, dopo il grande temporale di questa mattina, e sta bene. Io, generoso e buono, farò tutto quello che lei vuole, come lei vuole; ma... cominciando da domani.

Fulvia. Sarebbe a dire?

Andrea ( Mentre dura il dialogo, Andrea l'insegue, senza parere, e Fulvia, senza parere, continua a ritirarsi ). Sì cara: sabato verrò al pranzo di famiglia, perchè la mia presenza ti occorre, perchè la mia assenza susciterebbe commenti. Sì, io mi sacrificherò alla tua riputazione, alla tua tranquillità, alla tua casa, a tuo marito ma... cominciando da domani! Oggi sei qui! Qui, dove ci siamo amati, dove sei stata mia, dove sei mia, dove l'aria è ancora piena del nostro amore, della nostra gioia, dei nostri baci...

Fulvia. Sst! Badi! Ha detto lei, che possono sentire!

Andrea. No, cara! No! Non devo essere punito io, se Alberto è colpevole! Soprattutto se il grand'uomo, se il futuro ministro, è stato così ingenuo da lasciarsi cogliere! ( Le corre dietro: Fulvia fugge ). Fulvia! Fulvia! La vendetta! La gioia della vendetta! ( Sta per afferrarla, Fulvia rovescia una seggiolina nella quale Andrea inciampa e cade ).

Fulvia ( Corre sulla comune: gira la chiave e si ferma sulla soglia tenendo l'uscio socchiuso ). Sst! C'è gente di sopra!

Andrea ( Si è alzato di colpo per inseguirla: si ferma interdetto ).

Fulvia ( Dopo un momento, sorridendo ). È stato cattivo, sa?... Molto cattivo!

Andrea. Basta! La finisca! Basta!

Fulvia. No! In collera, no! Non voglio che sia in collera! ( Gli stende la mano, poi la ritira ). No! No!... Oggi non mi fido! Vede, che cosa ha guadagnato? Non mi fido più! ( Scrollando il capo ) Più...! Addio!

Andrea ( Irato ). Addio!

Fulvia. Cioè «a rivederci» sabato alle sette: a pranzo.

Andrea. No!

Fulvia. Sì. Badi! Non le conviene, sa, di contrariarmi, di essere cattivo con me. No, proprio no! — Verrà dunque?... Promette?

Andrea ( Pestando i piedi: sbuffando ). Verrò! Verrò! Prometto!

Fulvia. Ma non con quegli occhi! Non con la luna! ( Supplichevole ) Voglio vederla con la sua bella faccia... di buon umore! La prego! La prego tanto! Arivederci! E... presto! ( Gli getta un bacio con la mano )... Se sarai buono! ( via ).

( Cala la tela ).

In extremis

Guardando giù nell'immenso giardino, tutto pieno di silenzio, di fresco e di umidità, si dimenticava di essere nel cuore di Milano, a cento passi dal Duomo e dal grande forno brulicante della Galleria. Quelle piante secolari, quei viali invasi dall'erba, quelle vecchie statue di granito dal tronco verdognolo, facevano pensare al parco di qualche villa solitaria e disabitata.

Una malinconia sonnolenta stagnava nell'aria coll'odore acuto e snervante delle magnolie che sfiorivano sopra un albero gigantesco, presso la fontana. Dall'albero cadevano a intervalli con un rumore ora secco, ora velato, le foglie lucenti e metalliche già accartocciate e ingiallite.

Quei lievi strepiti, qualche eco indistinta di voci lontane passavano soli dentro a quella pace torpida, di clausura.

Il marchese Pier Luigi, appena finito di sorbire il caffè, si era alzato ed ora indugiava sul balcone verso il giardino, le due mani nelle tasche della giacchetta chiara, aspirando grosse boccate di fumo dall'avana squisito. Una passeggiatina mattinale, — dalle dieci alle undici, — in certi quartieri della città, gli aveva dato, a colazione, il «nervoso» allo stomaco.

Era una giornata splendida di giugno, un sole caldo e giocondo, quel bel sole domenicale che non pure alla piccola gente sembra così diverso dal sole degli altri giorni.

Egli si era avventurato, ballonzolando in tempo di valtzer nel fondo della charrette, guidando egli stesso, — col groom accanto, dalle braccia al sen conserte, come un piccolo Napoleoncino in tuba, — si era avventurato nelle vie più lontane dell'antico sobborgo, nei quartieri più popolari e più popolosi dove sorgono le numerose officine, gli opifici, e le enormi case operaie, quadrate, forellate dalle spesse finestre, simili a caserme o a gabbie mastodontiche. Quivi, sulle porte, sugli usci, nelle bettole e nei caffè, così frequenti da far disgusto e quasi terrore, in quel brusìo di gente affrettata e animata, non ostante la giornata di riposo, egli aveva trovato il popolo, il popolo tanto diverso da quello che egli aveva descritto, con foga retorica — non improvvisata — a' suoi colleghi del Parlamento; il nuovo popolo delle grandi città, cui il lavoro e l'industria dànno una fisonomia così tipica.

Il marchese Pier Luigi, sempre ballonzolando nella gialla, rilucente charrette, in mezzo a quei gruppi di operai, invece della soggezione ammirativa e invidiosa, che gli mostravano i contadini delle sue tenute, raccoglieva occhiate sarcastiche e irose, capiva di attraversare quel tal mondo reale e formidabile del quale egli ed i suoi amici si ostinavano, per convenienza più che per convinzione, a negare l'esistenza.

Ma l'ultima, la più sgradevole impressione gli era toccata nel ritorno, percorrendo le strade del quartiere di Porta Garibaldi, dove erano più spessi alle cantonate certi enormi manifesti di una tinta scarlatta, ch'era di per sè una provocazione. Quegli avvisi invitavano «i cittadini» per le due di quella stessa domenica, ad un grande comizio pubblico all'Alhambra. I «Partiti popolari» avrebbero discusso del «momento politico» e oratore del comitato era il dottor Giusto Allori.

Egli lanciava contro il suo baio dei dispettosi colpetti di frusta e sogghignava:

— Ah! Ah! Il dottor Giusto Allori!

Con un colpo di frusta avrebbe voluto stracciare anche i manifesti!

— Pagliaccio! Buffone! Anche oratore nei comizi! Buffone... Pagliaccio! E ingrato! Non bastavano i giornali, gli opuscoli, tutto quel suo lavoro, quei due o tre anni di... sobillazione! Adesso anche in teatro, anche in piazza!

E Pier Luigi tornava a guardare di traverso i manifesti.

— «Il momento politico!» Sì! Lo avrebbero studiato e capito e rappresentato loro il «momento politico» quei disgraziati capaci appena di compitare la Lotta di classe!

Il marchese Pier Luigi lo aveva vissuto a Roma, lo viveva ora a Milano il «momento politico!» Ma, pur troppo, quella plebaglia che sarebbe accorsa in una baracca di legno a cianciare, a sbraitare, a batter le mani a quell'ambizioso esaltato dell'Allori, era la stessa che del momento, appunto, era l'arbitra... in caso di elezioni.

Il marchese Pier Luigi aveva affrettata la corsa verso il palazzo, ormai risoluto a non mettere piedi fuor di casa in tutto il giorno. Era rientrato prima delle undici, si era impazientito perchè donna Maria tardava a farsi vedere, arrischiando quindi di perdere la messa e la predica del mezzodì a S. Fedele, poi aveva osato — ardimento ben raro — di mandar la cameriera a farle premura, e finalmente si era seduto solo a colazione.

Donna Maria entrò quasi subito: anch'ella appariva dello stesso umore del marito. Un umore che si intonava con maravigliosa armonia al colore del luogo, alla penombra triste, ai mobili austeri, alle tappezzerie oscure, al vasellame pesante, ai grandi quadri di «natura morta» della sala da pranzo, così sfarzosa e così opprimente.

Subito dopo colazione, il marchese Pier Luigi era uscito a fumare sul terrazzino. Temeva uno sfogo della moglie per il contegno troppo debole del gruppo lombardo alla Camera. Donna Maria, ritta sul busto e armata dell'occhialetto di tartaruga che dava un'espressione ancor più severa e quasi arcigna al suo bel volto di medaglia d'avorio antico, leggeva attentamente il Neo-Guelfo di quella mattina: non era opportuno distrarla nè disturbarla.

Giù nel giardino, sembrava che la pace e il silenzio aumentassero con l'avanzare dell'ora meridiana. Appena il tic metallico delle foglie di magnolia che cadevano a terra, appena qualche eco flebile dei rumori della strada. Chi avrebbe detto che oltre quella muraglia coperta di muschio e di edera si agitasse tanta vita sonora di voci e di anime?

Il gran mare fragoroso dell'ire popolari veniva a rompere le sue ondate ai piedi di quelle mura massicce, che resistevano impassibili, incrollabili da secoli. Oh! Esse ne avevano vedute e sopportate delle burrasche... e ben più terribili!

— Un comizio più o meno? Un comizio all'Alhambra non è ancora il finimondo, la rivoluzione!... Il «momento politico?» Buffoni!

A un tratto si sentì alle spalle la marchesa e voltandosi capì subito che la lettura del Neo-Guelfo non le aveva dato le stesse impressioni di calma consolatrice trasfuse in lui dalla quiete del giardino.

— Guarda — La marchesa gli segnò con l'unghia rosea un articolo del giornale. — Il dottor Giusto Allori fa anche il tribuno!

— Già.

Pier Luigi rispose con un sorriso di scherno, ma la marchesa, invece, ebbe un impeto di collera.

— E tutto questo è in gran parte colpa tua.

— Colpa mia?

— Sì. Con la tua debolezza verso il padre, hai contribuito alla rovina morale del figliuolo.

Pier Luigi rientrò nella sala e cominciò a girellare in lungo e in largo rannuvolandosi di più ad ogni passo.

Sua moglie aveva ragione: la colpa era anche sua. Non aveva data importanza alle eccessive indulgenze del vecchio Lorenzo verso il figliuolo. Anzi, per dir la verità, lui pure si era lasciato vincere qualche volta, dalla prontezza di quel ragazzetto, così pieno di sè. Egli stesso aveva tollerato, aveva letto le prime poesiole, le prime novelline del giovine studente, appena comparse sui giornalucoli letterari.

Invece sua moglie, no. Ella aveva sentito subito che in quel monello, male infagottato negli abiti smessi, che il padrone regalava a Lorenzo, si maturava uno spirito insofferente, un ribelle, un ambizioso, un declamatore; e lo aveva anche messo in guardia più di una volta, ma inutilmente.

Debole il padrone: il padre infatuato.

Una sera anche Monsignore gli aveva parlato dello scandalo di quel rivoluzionario che cresceva proprio nel suo palazzo, che mangiava il suo pane, che dormiva sotto il suo tetto; ma neppure allora egli aveva voluto intervenire, comandare. Sua moglie aveva ragione. Il nibbio cominciava a mettere le ali e gli artigli!... Ma che andasse almeno ad annidarsi altrove, lontano da casa sua!

— Lorenzo è in casa? — domandò il marchese ad un servitore.

— Credo di sì. È tornato alle undici dalla messa e dalle funzioni.

— Che cosa gli vuoi dire? — La marchesa, rannicchiandosi nella sua poltroncina sotto una finestra, e rompendo la fascia alla rivista Les dames du bien, sorrise crollando il capo: — Adesso è troppo tardi! Il figlio è quello che è, ed il padre è il primo ad essere pentito e spaventato.

— Non è mai troppo tardi! Lascia fare.

Pier Luigi si volse di nuovo al servitore:

— Chiamate Lorenzo.

Qualche momento dopo Lorenzo entrò, e, fatti pochi passi nel salotto, chiese licenza di poter sedere, perchè quella mattina il suo mal di cuore lo tormentava e quei pochi scalini gli avevano già dato l'asma.

Il maggiordomo, costretto ormai dagli acciacchi ad un riposo assoluto, aveva infatti una bruttissima cera. Gli occhi aveva pesti, incavati, cerchiati di livido, la pelle delle guance, sbarbate di fresco, floscia e cascante, e le labbra smorte erano agitate da un fremito angoscioso, come se il malato cercasse continuamente di bere a piccoli sorsi l'aria che si sentiva mancare.

— Mi dispiace di dovervi fare dei discorsi... antipatici, tanto più perchè non vi sentite bene; ma così non si va avanti. Sapete la nuova pagliacciata? Quella d'oggi?

Lorenzo, seduto sull'orlo di una sedia, le mani scarne abbandonate sulle ginocchia, cominciò a tremare in tutta la persona, ma quel tremito non era di spavento, nè di soggezione; il pover'uomo, soffriva assai.

— Il signor Giusto Allori va a fare il predicatore al popolo!

Lorenzo accennava di sì, con la testa, dolorosamente. Poi si sforzò a gridare:

— So, so, signor marchese. Il comizio all'Alhambra! Ho supplicato Giustino anche ieri sera, con le lacrime agli occhi; almeno una pubblicità simile... non la facesse per lor signori! Gli ho ricordato tutti i benefizi ricevuti... L'ho scongiurato di aver compassione di me, così vecchio, così malandato. M'ha risposto quello che mi risponde sempre, da un anno: — «È inutile, babbo! Tu non capisci, tu non puoi capire certe cose. Quello che io faccio è il mio dovere!»

— Il suo dovere! Il suo dovere! — balzò a dire la marchesa Maria con un sussulto di sdegno e di odio nella voce. — Il suo dovere sarebbe di rispettare il nome della famiglia presso la quale suo padre ha lavorato tutta la vita, di non schierarsi con i più furibondi nemici del nostro sangue e della nostra religione! Questo sarebbe il suo dovere! Questo è il suo preciso dovere!

Il vecchio guardò la padrona, stupito e sconcertato da quell'ondata di avversione che le prorompeva dalle labbra, e non rispose. Egli accennava sempre di sì, continuamente di sì, chinando la testa grigia, respirando con fatica. Non avrebbe immaginato mai che il suo figliuolo fosse tanto odiato!

La marchesa proseguiva, implacabile, senza guardarlo:

— Dal canto mio, non ho nulla a rimproverarmi. Ho cercato di giovare materialmente e moralmente a vostro figlio, come la mia religione e il mio cuore mi consigliavano. Sì, anche il mio cuore; perchè quel... ragazzo prometteva tutt'altro: era sveglio, molto vivace, ma docile, riflessivo. Non dico già che lo si dovesse mettere in seminario... ma almeno non si doveva permettere che gli montassero la testa con tutte le empietà, con tutte le mostruosità che sono state inventate dai nemici del bene.

— Appunto, — intervenne Pier Luigi, il quale trovava opportuno lo sfogo della moglie, che sebbene un po' eccessivo, arrivava ad una conclusione. — Che cosa avete creduto di farne col seguire la vostra vanità e la sua ambizione? Sacrifici d'ogni sorta, per sette od otto anni, perchè diventasse dottore! Dottore in scienze economiche! Belle... scienze! L'ingiustizia del capitale, l'abolizione della proprietà.

L'onorevole si concitava al suono della propria voce come un vecchio cavallo di razza al suono di una fanfara. Era un pezzo che non aveva occasione di far udire in casa, a sua moglie specialmente, come il gruppo neo-guelfo avesse approfondita anche la questione sociale. E tirava via, contro l'inganno indegno dei marxisti, sostenitori di una possibile socializzazione degli arnesi del lavoro, contro l'auto-suggestione morbosa e collettiva delle masse verso un'utopia rivoluzionaria alla quale giungevano dopo essersi lasciati adescare dall'illusione «deleteria» della tattica evolutiva, da parte dei sobillatori, capaci di tutto pur di appagare le loro sfrenate ambizioni personali. Camminava in su e in giù, con le mani dietro il dorso, lo sguardo al suolo, come ascoltando attentamente le parole ed approfittando dell'occasione per immagazzinare ed ordinare un po' di materiale adatto alla sua prossima conferenza, sulla enciclica papale d'incoraggiamento ai cattolici della «vera democrazia». Ma ad un tratto, nel volgere un'occhiata a Lorenzo, lo vide così accasciato, così disfatto, così piegato in due sull'orlo della sua sedia, ch'ebbe compassione del vecchio servo fedele e pensò ch'era tempo di liberarlo da quella tortura.

— Già, ormai, sono parole inutili! Mi ricordo, quando vi è nato questo vostro unico maschio, dopo parecchi anni di matrimonio! Sembrava che vi fosse piovuta dal cielo una speciale benedizione! E anche nella scelta del nome, vi ricordate? Non avete avuto niente affatto la nostra approvazione. Chiamarlo Giusto!

— Giustino...

— Giusto! Come se non ci rintronasse abbastanza la testa con la giustizia, senza cacciarla anche nei nomi! Avete già la disgrazia di quel vostro cognome, così... bizzarro, di Allori!... Anche Giusto! Così n'è venuto fuori il Giusto Allori. Un tutt'insieme... spettacoloso, che pare proprio combinato apposta per fare del chiasso, per battere la gran cassa di tribuno e di martire!

— Ma queste cose poi, signor marchese, chi le va a pensare! — osò mormorare Lorenzo, giungendo le mani tremanti.

Donna Marianna intervenne, alzandosi ed accennando al povero vecchio ch'era finita l'udienza.

— Non si tratta di parole nè di nomi, ma di fatti. Ed il fatto... grave ormai, insopportabile, è che abiti ancora qui nella nostra casa, quello stesso individuo che fuori, nei giornali, nelle assemblee...

— No, no, scusi, signora marchesa, non si inquieti più — supplicò Lorenzo, in piedi, con una certa energia. — Credevo ne fosse già informata. Giustino, da quasi due mesi, non abita più precisamente qui, con me. Viene di tanto in tanto, a trovarmi, a sentire come sto; ha ancora qui... qualche libro, ma ha capito anche lui che non era più il caso!... Sicuro, signora padrona, anche questo dolore mi era riserbato. Non aver più vicino il mio figliuolo, alla vigilia di andarmene per sempre. E loro signori hanno tutte le ragioni! Con tanta bontà che hanno sempre dimostrato a quel ragazzo, con tanti benefici... Ah! Io capisco, capisco, e non dimentico nulla... Ma che fare? È la mia disgrazia! Il Signore ha voluto così. Non bastava la malattia, questo asma, che mi tronca il fiato... scusino, scusino tanto!... Giustino in casa, se credono non ci verrà più affatto! Andrò io a trovarlo, fuori del palazzo, finchè potrò... E poi una volta morto io... gli perdonino per me... soltanto per me!

Il vecchio si portò le mani alla gola per aprirsi il colletto: la commozione, il dolore, le lacrime gli avevano accresciuta l'asma. Uscì a ritroso, inchinandosi barcollando e annaspando con le mani. Impiegò non meno di dieci minuti a fare i tre piani della scala di servizio, per rifugiarsi nelle sue camerette dove almeno avrebbe potuto starsene solo, solo col suo struggimento, con la sua disperazione. Non sarebbe uscito neppure pei vespri. Gli era impossibile fare ancora le scale in quel giorno. Poi lassù, poteva raccogliersi e pregare con tutta la devozione, come in chiesa. Avrebbe letto tutti i vespri ed anche compieta ed un po' di salmi, guardando dalla finestruola il suo bel Duomo, così vicino, che gli pareva di poterlo toccare allungando la mano, tutto bianco e roseo ed azzurro, co' suoi terrazzi, le sue balaustre, le sue guglie, e le statue, i santi, gli angeli, le madonne! Lorenzo le guardava, le salutava più volte ogni giorno da oltre quarant'anni e le conosceva ad una ad una, aveva parlato con ciascuna, aveva rivolta a ciascuna qualche preghiera speciale, nelle disgrazie della sua vita, quando era rimasto solo col bimbo, poi quando Giustino era cresciuto così sempre mezz'ammalato, poi negli ultimi anni quando Giustino aveva manifestato quelle idee, e si era buttato come un matto a quella maledetta politica ed a lui, povero vecchio, per le paure e i dispiaceri e i rimbrotti dei padroni, si era aggravato il mal di cuore.

Dopo una lunga sosta, premendosi le due mani sul petto perchè gli pareva che il cuore gli volesse saltare in gola, salì anche l'ultima branca della scala, la più breve, ma anche la più ripida e finalmente fu al pianerottolo pieno d'aria e di luce, come le sue camerette. Prima di scendere aveva chiuso l'uscio: come mai adesso era aperto con la chiave nella toppa? Da un leggero e noto colpo di tosse nell'interno capì subito.

— A casa, a quest'ora? A far che? — pensò il vecchio sempre più angosciato all'idea di incontrarsi col figliuolo, mentre si sentiva così male.

— Animo! — Spinse l'usciolo, ed appena entrato si lasciò cadere sopra una seggiola, affranto, con un sospiro che finì in un gemito.

— Perchè hai voluto fare le scale sentendoti così male? Avevi promesso di startene tranquillo o in casa o sul terrazzo.

— Sono stato chiamato giù dai padroni.

Il giovane, a questa parola «padroni», arrossì leggermente.

— Che cosa volevano? Lo sanno pure che sei ammalato!

— Dovevano parlarmi!

Il giovane aveva trovato finalmente un fascio polveroso di opuscoli, nel quale si era messo a frugare, febbrilmente, perdendo la pazienza, arrabbiandosi, pauroso di non arrivare a tempo.

— Se non ho il riassunto del Capitale fatto da Gabriele Deville, oggi sono senza una mano. Ed era qui, in questo pacco. Dove si è cacciato?

— Io già, sai... non tocco mai niente! — mormorò il vecchio.

Giusto alzò gli occhi e lo fissò commosso, turbato da quella voce addolorata, in quel momento per lui così grave. Poi gli sorrise, mormorando:

— So, so, babbo; i miei libri tu non li tocchi; ma bisogna che io trovi questo Deville. Voglio chiudere il Comizio...

— Lascia stare il Comizio! — interruppe Lorenzo giungendo le palme in atto d'umile, ma fervida preghiera. — Non ci andare a questo Comizio! Evita almeno uno scandalo, per riguardo a tuo padre, alla famiglia che tuo padre ha sempre servito con onore, con fedeltà...

— Servito? Ah! Ah! La fedeltà, la devozione colla quale tu hai servito questi signori, dovrebbero impedire a me di servire le mie idee? Ed è per dirti queste cose che ti hanno chiamato? E chi sa contro di me, la marchesa specialmente, chi sa che accanimento!... Via, via! Non ho tempo da perdere, io! Dirai giù, ai signori, che ho anch'io i miei padroni, e i miei padroni sono i miei doveri, che valgono molto più del signor marchese e della signora marchesa.

— No, no, Giustino! Non fare, non parlare così anche tu, quest'oggi!... Non arrabbiarti, anche tu! Non darmi altri dolori. Il mondo non cambierà nemmeno co' tuoi discorsi, perchè è sempre andato e andrà sempre allo stesso modo. È il buon Dio, il solo padrone dei grandi e dei piccoli, che vuole così!

Il giovane lo interruppe, col viso intelligente, illuminato da un lampo di indulgenza e di pietà.

— Basta, basta, babbo mio, povero vecchio mio! Oggi no, oggi no, non mi stare a ripetere queste cose, oggi. Son tre, quattromila persone, operai, lavoratori che si riuniscono, ora, ed io dirò a tutti quello che da un mese mi va fermentando qui dentro... Ma abbi pazienza, mettiti quieto e prendi, leggi il tuo libro da messa... Tu, non puoi capirmi. Ecco, ecco il mio Deville! Meno male! L'ho trovato! — Il giovane dà un'occhiata all'orologio come per avere la spinta e trovare il coraggio di finirla e di andarsene. — Le due meno un quarto?... Salto in tram e via all'Alhambra! Non posso arrivar tardi! E tu pensa che io sono sempre un galantuomo, qualunque cosa ti dicano contro di me per le mie idee!

Il giovane, piegando l'alta persona secca, ossuta, angolosa, per uscire dal piccolo uscio un po' basso, fece ancora un cenno d'addio al povero Lorenzo, scese rapidamente le scale e si diede a camminare ancor più in fretta verso il tram di Porta Garibaldi, sfogliando ed annotando in margine, a grossi segni di matita azzurra, il volume del Deville. Col cappello a cencio, gli occhiali d'oro, il vestito trasandato, una grande cravatta nera mezzo disfatta, le tasche piene di giornali, i gesti rapidi, nervosi, concitati, masticando fra i denti lo spunto di qualche frase oratoria, egli passava tra la gente senza veder nessuno, osservato da tutti, conosciuto da molti, e lo seguivano sguardi di curiosità, di ammirazione, di simpatia, ma anche di compatimento, di scherno, e di avversione palese ed astiosa.

II.

Nei dintorni dell'Alhambra frotte di gente che si affrettavano, discutendo animatamente. Il teatro era già gremito, in ogni parte, sin nel vestibolo, e l'Allori dovette farsi largo vigorosamente tra la folla per non giungere tardi sul palcoscenico dove era aspettato.

La grande luce del pomeriggio estivo entrava a ondate dagli ampi finestroni spalancati e dava una crudezza lucida e sfacciata alle tinte, una volgarità sciatta e grottesca ai fregi grossolani di quell'immenso baraccone di legno, in stile pseudo-moresco. E l'ampia sala risonava tutta nell'impazienza del pubblico ansioso; risonava di mille voci, di mille rumori diversi che si fondevano in un solo fracasso assordante e somigliante al muggito del mare co' suoi alti e bassi e le sue tregue.

Il popolino minuto, che per istinto, per abitudine, era accorso mezz'ora prima, avea preso d'assalto la galleria ed ora l'affollava tutta così da offrire l'aspetto di una sola massa palpitante, in cui i colori scuri e i vivaci si confondevano. Un'altra moltitudine giù in platea, andava sempre più accalcandosi per il lento continuo insinuarsi di nuovi gruppi che venivano come ingoiati dalla massa. E questa poteva sembrare a tutta prima la folla consueta, chiassosa e insolente che, nell'aspettativa del banale spettacolo, se la gode per proprio conto, offre spettacolo di sè a sè stessa, si abbandona a tutte le licenze del grosso umorismo popolare.

Infatti correvano per l'aria grida, urli, fischi, grugniti e richiami; qua e là era uno sventolare carnevalesco di giornali, di manifesti e di ventaglietti; in un angolo, in alto, un gruppo di ragazzacci, di monelli, s'erano levati le giacche col pretesto del caldo e dirimpetto, sull'opposto lato, altri giovinastri, dall'aspetto equivoco, si erano dati a picchiare con i bastoni, dal manico di corno di cervo ricurvo, sulla ringhiera di ferro, con un crescendo infernale. L'Allori, tosto riconosciuto ed accolto da un primo moto di curiosità e d'impazienza soddisfatta, si faceva strada lungo la corsìa, dietro i palchetti del primo ordine.

Ad un tratto questi, già in parte occupati, vennero brutalmente invasi da altra gente, rozza ed audace che non avrebbe avuto alcun diritto d'entrarvi. Fu un momento di baccano orribile; s'incrociarono grida sguaiate di conquista ed altre furibonde di protesta, si videro pennacchi rossi e nappine azzurre disseminate un po' dappertutto, ondeggiare e affrettarsi verso i palchetti. Ma fu un attimo.

Sul palcoscenico la luce era più blanda, calma e dorata come una luce di tramonto in chiesa. Lassù vi era un'altra folla composta di persone meglio vestite, alcune anzi vestite di nero, col cappello a cilindro, altre con cappello piumato e con un ciondolo di medaglie al petto. Più in fondo, da un lato, un gruppo di bandiere, dall'altro lato, gruppi di antichi e più o meno autentici superstiti delle campagne garibaldine, con le camicie di flanella rossa, nuova fiammante, e col berrettino sulle ventitrè. Le sedie disseminate sul palcoscenico erano state offerte ai vecchi e ve n'erano alcuni, quasi tutti veterani, non apocrifi, delle patrie battaglie, che ostentavano con fanciullesca vanità le loro decorazioni, e si arricciavano i baffi bianchi con una certa spavalderia innocua e senile. V'erano anche delle donne, borghesi e popolane, le prime infagottate nelle vesti di seta delle grandi occasioni, ma senza roba d'oro addosso perchè nella folla «non si sa mai»; le altre, per lo più ragazze, belle ragazze dalle bocche sorridenti, dagli occhi scintillanti, liete della loro giornata di riposo e dello spettacolo gratuito del Comizio, sudate e scarmigliate, che si narravano, con grandi scoppi di risa, le loro avventure nel lungo tragitto attraverso la folla per arrivare sino sul palcoscenico e sentir bene ed essere vicine al fratello o all'innamorato, nel caso di un «quarantotto». I reporters dei giornali, stretti a gomito nella più bizzarra promiscuità dei colori politici, intorno a due tavolini, traballanti presso la ribalta, cominciavano a scrivere furiosamente, a matita, sulle piccole cartelle, guardandosi intorno sul serio, per poi «dipingere l'ambiente» con la diversa intonazione, secondo il diverso colore del giornale.

«Le più note e spiccate personalità dei partiti popolari, i rappresentanti dei sodalizi promotori, i compagni venuti a fare atto di solidarietà dalle vicine città sorelle» avevano una cert'aria decorativa e guardavano, con calma serena, gli incidenti della platea, come chi è abituato a certe cose e ne ha vedute di più gravi, e sa di aver fissi addosso gli sguardi del popolo, gli sguardi di tutta Milano, quindi di tutta Italia.

E mentre giù, nella platea, la gente tumultuava per l'assalto ai palchetti, in quei gruppi, sul palcoscenico, vi fu un breve rimescolìo, poi d'un tratto, scoppiò un applauso fragoroso che coprì ogni altro clamore, e le bandiere si agitarono, i gruppi si aprirono ed un bel vecchio, dall'aspetto simpatico e dolce, con passo sicuro, si avanzò insieme a tre o quattro altre persone di varia età, fra cui Giusto Allori, fin presso il tavolo, dinanzi alla buca del suggeritore, ch'era stata coperta. Tutto tacque repentinamente nel teatro. Poi, subito, come lo scoppio del fulmine, un grande applauso breve e secco. Un attimo soltanto di sosta e ancora lo stesso applauso, ugualmente vigoroso, ma questa volta insistente, prolungato, interminabile, risolventesi alla fine nelle grida, negli «evviva», negli «abbasso» dapprima informi e confusi, poscia determinati e diretti da voci isolate, gagliarde e squillanti.

Giusto Allori stette ad assaporare con gioia palese quello spettacolo per qualche istante, girando lo sguardo vivo dietro le lenti degli occhiali, verso ogni punto del teatro, abbasso e in alto, come a persuadersi, che dappertutto vi fossero anime vibranti e cuori aperti. Poi alzò la mano ad un gesto largo ed imperioso di calma, e quasi subito un po' di calma infatti si fece, in mezzo però a nuovi clamori, di plauso, che si ridestavano qua e là, rivolti a lui, dai più impazienti di udirlo parlare. Ed egli parlò subito, ma soltanto per invitare l'assemblea ad eleggersi un presidente; ciò che risollevò un altro uragano di grida, fra le quali cominciò però tosto a prevalere distinto un nome.

Ed allora il bel vecchio, dall'aspetto dolce e simpatico, ch'era in piedi presso al tavolo, un po' incitato e poi sospinto quasi a forza da Giusto Allori e dagli altri vicini, si fece nel mezzo, accennò ripetutamente alla folla che si chetasse e con molta energia, sbatacchiando a lungo il grosso campanello, ottenne un qualche silenzio: allora, con voce ancora robusta, ringraziò dell'onore che gli veniva fatto. Aggiunse anche altre frasi, evidentemente preparate, e spiegò lo scopo del Comizio; ma tosto si smarrì, e ripetè più volte le cose già dette, finchè trovò il coraggio di correre alla conclusione, anch'essa preparata, raccomandando la calma, il rispetto alle opinioni di tutti e la brevità dei discorsi.

Ma i primi discorsi furono tutt'altro che brevi. Dapprima parlò un antico ex-deputato, retorico e prolisso, ogni frase del quale celava un rancore. Poi il rappresentante di una confederazione di fuori, un dicitore rapido, verboso, cui l'aspetto bizzarro e l'accento spiccatamente dialettale e qualche immagine nuova avevano sul principio guadagnata l'attenzione; alla quale però erano poco dopo successi il tedio e il fastidio.

Il pubblico si impazientiva, si irritava.

Il presidente trovò modo di persuadere l'oratore, già scalmanato in viso, a chetarsi a metà di una argomentazione, e tosto Giusto Allori, mosse avanti, sino alla ribalta, represse quasi subito l'applauso che era ricominciato per lui, e prese a dire stringendo nella destra un fascicoletto di bozze, assicurandosi di frequente, con un gesto abituale della sinistra, gli occhiali d'oro e volgendosi or da un lato or da un altro, fissando per un momento gli sguardi proprio sotto di lui, poi alzandoli alla folla pigiata, lassù, in mezzo alla galleria.

III.

Tutto ciò che era stato detto fino a quel momento dagli altri nella forma più incolta e più disordinata, cominciò a fluire dalle sue labbra con una limpidezza, con una continuità, con una rapidità simile a quella d'una fresca vena d'acqua, dinanzi alla quale sia rimosso ad un tratto ogni ostacolo. Ma intorno alle vicende politiche della giornata, Giusto Allori non intendeva evidentemente di soffermarsi a lungo.

Egli voleva approfittare di quella grande riunione di gente per dire molte altre cose, che gli premevano molto di più; e subito, infatti, la sua parola illuminò ben altre idee che non quelle di una critica astiosa dei gruppi, delle persone e della politica. Con un caldo fervore di convincimento ed una eloquenza vera, vibrante sopratutto della commozione dell'artista, il giovane scioglieva un inno alla concordia degli umili fra loro, alla loro esaltazione morale verso la bontà, verso l'intelligenza, e la sua parola dava alla folla un'ebbrezza che erompeva in iscoppî d'applausi, soffocati immediatamente dal timore di non sentir bene ciò che egli avrebbe detto ancora.

E l'ebbrezza crebbe alla fine, mentre anche l'oratore si abbandonava alla lirica della perorazione e le sue mani tremavano, e gli pulsavano le tempie e il teatro pareva crollasse in una tempesta, in un delirio di grida e di battimani, ed egli, madido, affranto, doveva reggersi per un momento con la mano al tavolo, prima di ritirarsi.

Fu allora che qualcuno, facendosi largo tra i gruppi, gli si avvicinò e gli sussurrò brevi parole all'orecchio. Giusto Allori trasalì, si volse, si scosse, respinse quelli che gli si facevano intorno domandandogli che cosa fosse accaduto e lasciò rapidamente il palcoscenico, per essere al più presto possibile nella strada.

Da per tutto una muraglia di gente.

Come passare? Come farsi largo subito, egli poi, che tutti anzi stringevano in mezzo?

Un vecchio delegato di questura, fermo sul palcoscenico alla soglia d'un'uscita di servizio, aveva seguito con lo sguardo fisso l'Allori, in quel suo improvviso, angoscioso tentativo di andarsene; e quando il giovane gli fu vicino, gli disse con tono, oltrechè cortese, quasi amichevole:

— Se crede, dottore, può uscire di qui...

Giusto si fermò come trasognato, guardò, capì, e nello sguardo del vecchio che in quel momento gli parlava a quel modo, gli parve di scorgere una profonda simpatia alla sua invocazione di poco prima all'amore fra gli umili.

— Grazie, grazie — mormorò, tendendo la mano e stringendo forte quella che l'altro gli porgeva esitando. — Grazie... Sì, ho bisogno d'essere a casa subito...

Ed a quell'uomo che lo precedeva per guidarlo fuori, fra scale e corridoi, a quel funzionario della polizia prima che ad un altro, Giusto Allori confidò l'ambascia che improvvisamente gli aveva stretto il cuore:

— Sono venuti ad avvisarmi che mio padre sta male, malissimo... Presto... Grazie... Che mi veda subito!... Grazie ancora, grazie!

IV.

Le camerette splendevano come di una luce d'oro. Il sole, già basso, sembrava ardesse d'un fuoco d'incendio dietro le guglie, le statue e i trafori del Duomo. Il vecchio infermo, che già un'ora innanzi, all'aggravarsi del male aveva chiesto disperatamente, con le mani alla gola, aria, aria, aria, anche adesso, cessata la crisi, tentava ad ogni momento di sollevarsi dai guanciali del seggiolone, quasi per lanciarsi fuori dalle piccole finestre tutte aperte, verso quel mare immenso di aria e di spazio. Ed ogni tanto l'occhio stanco e imbambolato aveva ancora la consueta espressione di riverenza devota, allorchè riusciva a distinguere quelle belle statue lontane nel cielo, che egli conosceva tutte per nome, e le mani brancicanti si congiungevano nel gesto abituale della preghiera e si levavano verso la Madonnina d'oro fiammeggiante come una face, sulla guglia maggiore...

Ma quando Giustino gli fu presso, inginocchiato a lato del seggiolone, le dita scarne e tremanti del vecchio si cacciarono nei capelli del figliuolo, con un atto convulso, quasi d'impazienza e di sdegno, e sul volto smorto e chiazzato di macchie violacee non passò alcun raggio di conforto e di gioia.

— Come hanno fatto ad avvisarti... che... me ne vado? Là dentro... in quella bolgia d'inferno? Che cosa dicevi a quella gente, mentre io ero qui ad aspettarti... per morire? Oh! so, so... quello che vuoi rispondermi!... Me lo hai detto un milione di volte, sempre!... Io queste cose non le posso capire!... E così, me ne vado, là dove c'è la tua povera mamma che mi aspetta, senza aver capito mai niente di te! Cioè... sì: dopo aver capito che non ci vedremo più... nemmeno di là... perchè tu non hai voluto... tu non vuoi... Questo... ho capito... ho capito... E tu invece eri il mio Giustino buono, affettuoso, studioso. Che cosa hai detto oggi, anche oggi, a tutta quella gente?

Giusto comprese.

In quell'animo affranto, dilagava un immensa disperazione, ed egli ne era la causa.

La sua parola soltanto poteva dar pace allo spirito tormentato del padre, in un'ora così terribile. E il giovane, si accosciò a' piedi del seggiolone e cominciò ad accarezzare le mani tremule e le ginocchia del vecchio.

Lorenzo viveva in quell'ora di una vita dello spirito, affatto diversa dalla intera sua vita, più intensa, più eletta, di quanto la sua indole timida e mite, la sua modestissima coltura, prima d'allora, gli avessero mai consentito.

Giusto lo sentì, con l'intuito sapiente che dànno i grandi dolori, con l'affetto tenero e profondo che aveva allacciato la sua giovine vita fremente a quella vita ingenua, che andava estinguendosi.

E allora cominciò a parlare...

Poco prima egli era il ministro di una religione nuova che aveva accesa la passione d'una moltitudine: adesso era ancora il ministro della stessa religione che confortava con l'amore una coscienza.

— Sai che cosa ho detto poco fa, a tutta quella gente? Ascoltami bene, babbo, ascoltami bene, babbo mio! Ho detto loro che gli uomini devono vivere come fratelli e che ognuno deve fare per gli altri quello che vorrebbe fosse fatto a sè stesso.

— Ma... questo è il Vangelo che lo dice!

— Ed ognuno deve lavorare secondo le proprie forze, perchè nessuno deve vivere in ozio... Non è vero? È il tuo figliuolo che ti parla, e tu sai che non ha mai mentito. Non diceva Gesù Cristo essere più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che non un ricco per la porta del paradiso?

— Sì, ma il Vangelo comanda ai poveri la rassegnazione...

— Appunto, perchè il Vangelo non è fatto soltanto pei ricchi o pei poveri, ma per tutti gli uomini che sono uguali fra di loro. E ti pare giusto che vicino a tanti che sperperano pazzamente le loro ricchezze, vi sieno dei miseri cui manca il pane? E ti par giusto che chi ha vissuto sempre sempre, dall'infanzia alla vecchiezza, soffrendo e spasimando, debba morire in un canto di via esausto, derelitto, solo, come se non fosse anch'egli un figliuolo di Dio?

— Ma c'è la carità, c'è la beneficenza...

— Sì; ma quanto sarebbe più bello il mondo se di questa carità non vi fosse bisogno.

— È vero... è vero...

— Noi non predichiamo l'odio a nessuno: noi vogliamo che i buoni, quelli che soffrono, si uniscano, si aiutino per sollevarsi a vicenda e diventare migliori.

Lorenzo guardava il figliuolo con gli occhi sorpresi e incantati e sulla torbida angoscia di prima scendeva una blanda luce di conforto e di gioia:

— Anche Gesù l'ha detto — mormorava...

— Sì, sì, babbo, e coloro i quali affermano che il tuo Giustino insegna ad odiare e a distruggere non sanno o non vogliono sapere il vero. Tu mi parlavi dianzi di carità. Ebbene, la carità che il figliuolo di Dio predicava, non era la bella e santa carità tra fratelli?

— Sì, sì, nel Vangelo...

— E non diciamo noi, come sta scritto in quel libro della sapienza e dell'amore, che deve venire il giorno della pace e della giustizia, per tutti gli uomini di buona volontà?

— Sì, sì, sì...

Il vecchio maggiordomo, il quale non aveva mai pensato altro mondo tranne quello di cui era stato un'umile parte fedele, e che poneva in esso la sede di ogni bontà, di ogni giustizia, vedeva ora che la bontà e la giustizia avevano fuori di esso un altro aspetto. Non a lui toccava d'esser giudice; ma egli era in quel momento felice di poter ricordare i benefici dei padroni, e di poter ascoltare il figlio adorato, senza che la sua anima semplice e scrupolosa trovasse, tra la devozione e il dispetto ai primi, e l'affetto al secondo, un'inconciliabile contradizione... e gli pareva che da quel momento l'odio, il rancore, la perfidia, fossero per sempre scomparsi dalla vita. Non egli poteva cogliere il senso delle distinzioni e degli opposti principî, ma sentiva che sotto le crudeli apparenze, le rigide tradizioni o le fervorose speranze, una sola forza palpita: l'amore. L'amore dei suoi vecchi padroni gli aveva resa la vita pacata, chiara, onesta e tranquilla; l'amore che scaldava con impeti generosi lo spirito giovanile del figliuolo gli rasserenava la morte. La sua religione, che in quell'ora estrema diveniva quasi più perspicace e indulgente, sorrideva ai ricchi e ai poveri, e scopriva inconsciamente dove stava il vero in ogni conflitto delle anime e dei cuori: nella buona volontà degli uomini!

Il vecchio accarezzava ora la testa del figlio con lente mani tremanti e la bocca disse parole di benedizione.

... Gli occhi profondi guardavano nel vuoto, sorridenti, verso la Morte.

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