I BARBARÒ.

I.

DEL MEDESIMO AUTORE:

ROMANZI E RACCONTI.

Mater Dolorosa (quinta edizione).—Milano, Treves. Sott'acqua (terza edizione).—Milano, Treves. Tiranni Minimi.—Milano, Treves. Montegù (seconda edizione).—Milano, Galli. Ninnoli (terza edizione).

TEATRO.

Gli uomini pratici, comm. in 3 atti.—Milano, Treves. Collera cieca, commedia in 2 atti.—Milano, Treves. Scellerata! commedia in un atto.—Milano, Treves. Un volo dal nido, commedia in 4 atti.—Verona, Munster. La moglie di Don Giovanni, dramma in 4 atti.—Verona, Munster. In sogno, commedia in 4 atti.—Verona, Munster. La Contessa Maria, dramma in 4 atti.—Milano, Barbini.

GEROLAMO ROVETTA

I BARBARÒ

o

Le lagrime del prossimo

ROMANZO

Volume I.

TERZA EDIZIONE

MILANO

FRATELLI TREVES, EDITORI 1890

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Tutti i diritti riservati.

Milano, Tip. Fratelli Treves.

all'amico Augusto Franchetti con affettuosa gratitudine

Gerolamo Rovetta.

INDICE

PARTE PRIMA

CAP. PAG.

I. 3

II. 7

III. 23

IV. 30

V. 52

VI. 69

VII. 76

PARTE SECONDA

I. 101

II. 115

III. 147

IV. 168

V. 184

VI. 189

VII. 208

VIII. 220

IX. 242

X. 263

XI. 278

XII. 291

XIII. 313

XIV. 318

XV. 336

XVI. 351

XVII. 364

XVIII. 372

XIX. 382

PARTE PRIMA

I DANARI.

c11

I.

Era la mattina dell'ultimo di gennaio del 1842, o del 1843, salvo il vero, e Milano, come quasi sempre le succede in quel torno, era tutta avvolta nella nebbia; una nebbia bigiognola, bassa, fitta fitta, proprio (si diceva così anche allora) da tagliar col coltello.

Tuttavia, nemmeno col freddo nè col tempaccio, Pompeo Barbetta, che per colazione s'era ben bene impinzato di panna e di burro, non avea voluto rinunziare alla sua passeggiata per fare il chilo, e mentre l'orologio della torre dei Mercanti batteva le dieci e mezzo, egli, lemme lemme, sbucava, tutto inferraiolato e col naso sepolto nel bavero, da una delle tante stradette che facevano capo in Piazza del Duomo.

Pompeo Barbetta, in quel tempo, era un ragazzotto che dovea toccare i vent'anni; e fin d'allora si godeva il papato, senza far nulla, quantunque i suoi fossero gente di bassa condizione. Ma aveva il babbo che faceva il cuoco; la mamma era stata bella e quindi tutti e due i coniugi Barbetta, spesso si trovavano qualche sommetta ed eran beati di spenderla per quel loro unico rampollo; giacchè, oltre al bene che gli volevano, aveano messo ogni loro vanità nell'allevarlo, nel mantenerlo e nel mandarlo attorno pulito, grasso e fannullone, come se, proprio, fosse stato il figliuolo d'un signore!

—Acciderba! Che freddo cane!—bestemmiava intanto fra sè e sè il giovinotto, il quale era arrivato in mezzo alla piazza, dove soffiava una sizza diaccia di tramontana che gli tagliava la punta delle orecchie; e scotendosi con un brivido, e pestando i piedi per riscaldarli, si avviò verso il Coperto dei Figini.

Si chiamava con tal nome, da quello appunto del fondatore (Pietro Figini, patrizio milanese), un vecchio porticato basso, angusto, tutto ingombro di botteghe dalle mostre vistose, che si stendeva in faccia al fianco settentrionale del Duomo; consueto ritrovo di ciceroni, di lustrini e di merciai ambulanti.

Ma mentre Pompeo vi si avvicinava scotendo bruscamente il capo per schermirsi dagli importuni che gli correvano incontro offrendogli i loro servigi o la loro roba, sentì all'improvviso di sotto il Coperto un vociare, un correre, un accalcarsi confuso di gente, e poi, più distinte e più forti, in mezzo al subbuglio, le grida di una donna e gli strilli di un bambino.

—Che è?... Che c'è?... Che cosa succede?

In un attimo tutta la gente ch'era sulla piazza s'avviò di corsa fin sotto il Coperto e ingrossò la folla, che già faceva ressa dinanzi a una bottega di oreficeria; e gli ultimi arrivati pigiando i primi e rizzandosi sulla punta dei piedi, allungavano il collo a destra o a sinistra per cercar di scoprire fra le teste e i cappelli la ragione di quello strepito.

Pompeo, uditi appena i primi gridi e veduto il corri corri, si era fermato di botto, in mezzo della strada; poi più lentamente avea continuato ad avvicinarsi al luogo del baccano; ma si teneva sempre alla larga, non avendo voglia di arrischiar le costole per sapere che cosa fosse accaduto.

—.... Si picchiano?—domandò poi a un ragazzotto il quale, forse per riguadagnare il tempo perso a star a guardare, veniva giù di corsa dagli scalini del Coperto.

—No, no! Ci sono i poliziotti! Menano in gabbia l'orefice del Gobbo d'oro!...

—Avrà sentito due messe, il galantuomo—brontolò Pompeo avviandosi, ormai rassicurato, al luogo dello scompiglio.

Le grida si facevano più vive, più strazianti; il piangere e lo strillare più acuti. Poi la folla ricominciò a rimescolarsi; ad un tratto i più vicini alla scesa si voltarono tirandosi in fretta da parte, e allora uscirono di mezzo alla gente due guardie (due brutti ceffi!) che menavano un uomo giù verso la piazza. Dall'aspetto pareva una persona per bene. Era tremante, livido in volto, colla testa bassa. Dietro a lui, una povera donna (si capiva alla prima che dovea essere sua moglie) piangeva, urlava, smaniava, implorando e imprecando, mentre un bambinello che le si teneva aggrappato, strillava per lo spavento e per gli urli della mamma.

Quella scena di dolore, quei gemiti avevano fatto correre tra la gente un senso di pietà.

—Ha rubato?—domandò Pompeo a un mercante, che avea pure la sua bottega sotto il Coperto dei Figini, e che si era scostato, crollando il capo, dalla turba che, ingrossandosi, andava dietro gli sbirri, scesi al largo, sulla piazza.

—Ha rubato?

Pompeo si sentiva anche lui un po' commosso, e cercava, istintivamente, di trovare nella colpa dell'orefice una ragione per vincere la molestia di quel suo turbamento.

—Rubato? Chè! È l'orefice del Gobbo d'oro.... Un fior di galantuomo,—rispose il mercante.

—E allora, diavolo, perchè lo mettono dentro?

—Perchè?... perchè non c'è giustizia per i minchioni! Quel bonuomo è stato la vittima di certe canaglie di cui per disgrazia s'era troppo fidato: imbroglioni, usurai, strozzini; ma, sa, di quelli che marciano in carrozza! Gli hanno mangiato tutto il suo e anche la dote della moglie, e adesso, dopo averlo costretto a fallire, lo mettono al fresco in gattabuia.

—Per altro, bisognerà vedere....

—C'è poco da vedere, giovinotto! Il mondo, oggi, cammina alla rovescia, e sono i ladri quelli che fanno mettere in prigione i galantuomini.

—Ma....

—Ossia, i galantuomini son coloro che sanno rubare molto e bene.

Intanto gli strilli ed il rumore non si udivano più: le guardie, coll'orefice, la donna, il bambino e tutta la folla erano sparite dalla piazza.

Ma pure l'impressione di quel tristo spettacolo rimaneva viva nell'animo di Pompeo. Più che esser commosso per le disgrazie dell'orefice del Gobbo d'oro, egli provava dentro di sè un senso nuovo, indefinibile, di malessere; come la paura vaga che in un avvenire lontano gli potesse accadere qualche cosa di simile.

Se un giorno avessero legato e messo al fresco anche lui, come quel minchione d'orefice?

E così tutta la mattina stette coll'uggia addosso, e gli pareva che il burro e la panna gli facessero peso sullo stomaco.

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II.

Il padre di Pompeo Barbetta era un cuoco rinomato: un artista, com'egli diceva di sè con molta gravità, non senza una certa amarezza da genio incompreso.

Non si era mai impiegato se non in famiglie ragguardevoli; si mostrava molto schifiltoso nella scelta, e nei patti. Il mondo, sempre pronto a lasciarsi infinocchiare, gli faceva di cappello, e più egli si dava aria, più lo pagava caro.

I suoi padroni lo tenevano di conto, come se l'avere il Barbetta a capo cuoco fosse una piccola gloria di famiglia; e oltre il grasso salario, gli prodigavano un'infinità di garbatezze, e regalavano il suo bambino di vestitini e di balocchi, e gli permettevano di menarselo dietro quando andavano in campagna, dove Pompeo poteva fare il chiasso coi signorini.

Per tal modo il figliuolo del cuoco aveva preso gusti e tendenze che, certo, non convenivano alla sua condizione, e quando poi divenne un giovinetto si trovò fuori di posto e senza avviamento alcuno. Era stato avvezzato troppo bene per poter adattarsi a fare un mestiere qualunque, e intanto passava in ozio i mesi e gli anni, rimpiangendo i piaceri che non poteva più godere, invidiando coloro che li godevano ancora, sempre stizzoso e sornione; sempre malcontento di sè, malcontento de' suoi, malcontento di tutti. Amici non ne aveva: scansava egli stesso i giovanetti della sua condizione, per una certa alterigia di zotico rincivilito, e i signorini, passati già nelle mani dei precettori, lo salutavano appena con un'aria contegnosa.

Pompeo, del resto, non li amava punto questi compagni de' suoi primi anni, dai quali era sempre stato trattato come i cani, a zuccherini e a bastonate. Ma, pur non amandoli, la sua mente era sempre là, fissa in loro, e avrebbe voluto rientrare in quel mondo così pieno di lusso e di delizie, per poter ancora mettersi alla pari co' suoi padroncini e vincere la loro superbia con la sua.

Pure, per parecchio tempo, tutti questi impeti di rabbia, queste smanie di lusso e di grandezza non facevano capo altro che ad un'apatica rassegnazione.

—Ah perchè la fortuna non mi ha fatto nascere un conte!—sospirava di tanto in tanto, incontrando qualche suo antico camerata, a cavallo o in carrozza; e così sfogava tutta la stizza e l'odio suo; e perchè gli pareva che certe distinzioni di caste non si potessero superare, cercava di vivere il meglio possibile, impinzandosi di leccornie e facendo la vita del Michelaccio alle spalle del babbo e della mamma.

Ma, dopo essere stato presente all'arresto dell'orefice fallito, e dopo ciò che gli aveva detto il mercante filosofo, cominciarono a bollirgli in capo pensieri e desideri nuovi. Pochi mesi lo mutarono come fossero trascorsi parecchi anni, e sentiva che non gli bastavano più nella vita nè le dolcezze dei pasticcini paterni, nè i pochi quattrinelli che cavava di tasca alla mamma.

—I galantuomini sono coloro che san rubar molto e bene.... Dunque—pensava Pompeo—tanti che sfoggiano lusso da gran signori e che si vedono riveriti e stimati, non sarebbero altro che birbe e imbroglioni fortunati?

Allora si mise a discutere sull'origine delle grandi fortune; e specialmente di quell'aristocrazia recente, che, per l'irresistibile potenza del danaro, era quasi sul punto di sopraffare l'antica. E il figliuolo del cuoco, che aveva sempre servito nelle case grandi e che non avrebbe potuto concepire da solo (nel 1842, o nel 1843) l'idea di una vistosa fortuna disgiunta da un qualche titolo di nobiltà, provò una piacevole sorpresa quando vide, osservando bene, che non erano i danari la conseguenza dell'esser nobile e titolato, ma che invece, per lo più, la nobiltà e i titoli erano la conseguenza... del conquibus!

—Dunque anch'io—concludeva Pompeo—potrei farmi un riccone, e metter su casa e carrozza e superbia?...—Non era poi vero che i padroni del mondo fossero gente di un'altra razza e di un altro sangue!... Tutto stava nel saper scegliere la buona strada e nel pigliar la fortuna per il ciuffo!

—Ma, come fare?... Da che parte incominciare?

Lì stava il difficile: da che parte incominciare!

Gli era venuto in mente, sul principio, di avviarsi agli impieghi, oppure di dedicarsi agli studi, ma codeste fisime durarono poco.

—Per avanzar negli impieghi—pensava Pompeo—bisogna trovare validi aiuti, e per gli studi non ci ho gamba. E poi, anche a farla grassa, come impiegato resterei sempre pitocco, e colle professioni d'avvocato, o di legale, che sono le più lucrose, ci vuol troppo tempo e si risica di crepare prima di arrivare in porto.... Certo, tutto ben ponderato, il miglior partito sarebbe quello di mettermi negli affari, ma in questo caso mi ci vorrebbe una buona scorta di quattrini per non capitar nelle mani degli usurai, come l'orefice del Gobbo d'oro. Ah! se potessi riuscire a mettere insieme un capitaletto! Potrei tentar la sorte di qualche speculazione!...

Fatto questo disegno, ci s'impuntò con tutte le forze. Era l'idea più pratica, e quella che meglio si confaceva all'indole sua. Non avrebbe dovuto far di cappello, nè stare agli ordini d'alcuno. Avrebbe impinguato giorno per giorno il suo borsellino; e poi o dentro o fuori: o sarebbe diventato ricco, o avrebbe preso in santa pace il suo destino.

Da quel momento Pompeo fece risparmio d'ogni superfluo; e quindi, a poco a poco, senza accorgersene, diventò avaro; e di un'avarizia così sordida, da non aver riscontro in nessun altro giovane. Vendeva di nascosto la roba di casa per far quattrini, e usava tutti i modi, tutti gli espedienti, fin anco le garbatezze, per mungere le tasche del babbo e della mamma. Avrebbe dannata l'anima per il becco di un quattrino. Aveva rinunziato alle ambizioncelle di zerbinotto, ai vizi e sino agli svaghi che potevano costargli qualche soldo; e rinunziò pur anco all'amore, che per lui, non gentile d'animo, nè d'aspetto, non era mai stato un dono della fortuna.

Pompeo, colla faccia olivastra, secca, senza barba; col naso schiacciato e storto, e cogli occhietti piccoli e un po' loschi, somigliava più al babbo che alla mamma; ma aveva meno cuore dell'uno e dell'altra. In casa era sempre lunatico e irascibile; fuori, quando gli faceva comodo, sapeva prendere i tratti e le maniere di persona per bene, e quantunque ignorante, tirava dritto a parlar di tutto e a dir male di tutti, compiacendosene con certe sghignazzate sue proprie, che risuonavano come uno schiocco di frusta. Fiacco di tempra, non avrebbe resistito a nessuna fatica nè morale, nè materiale, ed ora lo manteneva saldo ne' rigorosi propositi soltanto la fede ne' suoi sogni fantastici di lusso, di godimenti e di prepotenza.

Tutto il giorno, quando passeggiava solo per le vie di Milano, e la sera, appena entrato a letto, egli continuava a fabbricare e a rifabbricare il suo bel palazzone che avrebbe comperato, facendo un affar d'oro, da qualche nobile spiantato. E già lo addobbava nella sua mente con un fasto principesco; e comandava a bacchetta al servitorame. Poi, quando il ragazzaccio era tentato dagli stimoli dell'amore, anche allora teneva duro, pensando al giorno in cui avrebbe avuto per amante, o per moglie, una gran dama, proprio una Venere dell'Olimpo, simile a una di quelle belle signore che aveva vedute, da fanciullo, capitare alcune volte in giardino in mezzo ai signorini per portar loro dolci e balocchi, per coprirli di baci e di carezze, spandendo attorno dai capelli e da tutta la vaga persona un profumo nuovo, penetrante più del profumo stesso dei fiori.... Sì; voleva avere una di quelle donne pallide, delicate che, mentre prodigavano tante moine a' suoi compagni, non degnavano nemmeno di guardarlo, lui, il figliuolo del cuoco!... Sì, la voleva; ma la voleva per vendicarsi, per trattarla da padrone, per farle scontare lo sprezzo e l'alterigia delle sue compagne!

Passato qualche tempo aveva pensato bene, per certi riflessi, di vincere la sua salvatichezza burbanzosa, e aveva cominciato a fare amicizia con alcuni giovinotti ch'erano fra' suoi casigliani. I Barbetta abitavano proprio nel cuore della città, vicino a Piazza Mercanti, in una di quelle tante stradicciuole strette, abbuiate da altissimi tetti; piene di gente, di fracasso, e di sudiciume, che c'erano allora, appunto fra Piazza Mercanti e la via di Santa Margherita. La sua viuzza, più che altro, pareva un andito tortuoso, girante fra mezzo a portichetti e a cortili di case, aperti al pubblico.

In principio, dalla parte di Santa Margherita, c'era una vôlta bassa, lunga, dove l'oscurità era così fitta, che anche di giorno, per sicurezza, vi mantenevano acceso un lampioncino ad olio. Sotto a quella vôlta, oggi demolita, e che fin d'allora era chiamata dell'Arco Vecchio, si vedeva, solitamente aperta, una porticina, di stile gotico, da cui si entrava in una cortaccia che pareva la gola di un pozzo tanto era angusta e tetra. Vicino a ogni angolo di quel buco, sempre ingombro di casse e di ceste vuote e dove le pareti, annerite, tramandavano un tanfo di mucido, c'era una scaluccia a chiocciola, sudicia e buia, come tutto il resto: di là si saliva al quartiere del cuoco Barbetta.

In quella vecchia casa stava la gente ammonticchiata come le acciughe, ed era tanta da bastare a popolare un piccolo paese. Però, Pompeo, non si spinse a far amicizia con tutti i pigionali dello stabile, ma invece scelse, fra i pari suoi, chi potesse un giorno essergli utile. Erano figliuoli di piccoli merciai che stavano in bottega col babbo, o giovani praticanti di qualche cavalocchio, o commessi di negozio.

Abitava pure, in quella casa, un personaggio singolare, che aveva attirato subito l'attenzione di Pompeo: era un vecchio dall'aspetto rispettabile, tutto lindo e sempre vestito di nero come un curiale, che aveva a pigione due piccole stanzette al terzo piano. Chi fosse non si sapeva bene: sull'uscio del suo quartierino vedevasi soltanto, attaccato ad una borchia d'ottone, un cartello bianco, rettangolare, con su scritto a mano, in carattere gotico, grosso: Mediatore; senz'altro.

Nessuno ricordava il nome di famiglia del personaggio, perchè nella casa, da tempo immemorabile, era invalso l'uso di chiamarlo Don Miao, imitando la voce del gatto. E davvero come i gatti, egli capitava addosso alla gente all'improvviso grazie alle scarpe di cencio, che usava anche d'estate; e andava attorno adagio adagio, rasente le pareti, e aveva poi certi occhiali d'oro che quando egli appariva tra l'oscurità delle scale e degli anditi, gli luccicavano sulla faccia rotonda, pelata, rossiccia, come fanno al buio gli occhi del gatto.

Nel complesso Don Miao conservava alcunchè di misterioso, quantunque co' casigliani si mostrasse sempre pieno di complimenti, di garbatezze e di storielle. Ma la sua cortesia, con tutti uniforme, non dava adito a confidenze; nè si sapeva nulla della famiglia sua, nè della clientela, nè della gente che praticava. Per altro, non destando egli grandi curiosità, e non recando poi fastidio a nessuno, anche gl'inquilini dell' Arco Vecchio finirono col non curarsi di saperne di più e col lasciarlo vivere in santa pace. Gentile e paziente, mostrava molta predilezione verso i bamberottoli del casamento, e con loro amava intrattenersi lungamente, facendoli chiacchierare; e spesso li baciucchiava e li regalava di chicche; ma i maligni anche in ciò trovavano da ridire, sussurrando che fossero tutte lustre per cattivarsi l'animo delle bambinaie e delle donne di servizio colle quali, per dir vero, egli era proprio di una galanteria sopraffina.

Anche Pompeo, come le serve della casa, aveva subìto il fascino dell'abito nero, degli occhiali d'oro, e della grande considerazione in cui il vecchietto era tenuto. Ma più che altro, appunto per l'aria di mistero che gli spirava d'attorno, egli lo aveva giudicato un furbacchione di quelli che san condur bene i propri affari, senza render conti a nessuno, e che poi un bel giorno, magari quando crepano, si sente dire che erano milionari!—A ogni modo,—pensava il giovinotto,—anche se Don Miao non nasconde il morto sotto il letto, deve certo trattar con ricconi, con banchieri, con casse forti, chè non gli si vede mai alle costole quella gentucola che usa bazzicare co' mediatori di piazza!—E subito cominciò a salutarlo con gran rispetto, e tentò ogni mezzo per avvicinarlo un po' più degli altri e per entrargli in grazia....—Ma chè!... La simpatia pareva non fosse reciproca. A Pompeo, per quanto facesse, non gli fu possibile di varcare i limiti dei complimenti comuni o delle solite chiacchiere sul più o sul meno. Don Miao gli sorrideva, cortese; gli contraccambiava gl'inchini rispettosi con un "buon giorno, caro" affabilissimo, accompagnando il saluto con cenni ripetuti di mano e strisciando sull'erre grassa con una mellifluità piena di protezioni; ma dopo quel sorriso e quel fare garbato, se l'altro cercava andare più innanzi, si sentiva fermato a mezzo delle sue espansioni, come da un muro di ghiaccio.

In sulle prime Pompeo non si perdette d'animo.

—Se Don Miao —pensava—mi volesse aiutare, potrei avviare le cose mie, e, se non altro, far crescere il mio peculio!—E con tale idea fissa in capo, si fece ancora più cerimonioso, più umile e insinuante col vecchietto, e sembrò che gli si volesse proprio attaccare alle falde, tanto che quegli, seccato e insospettito, e non indovinando certo il perchè di quell'insistenza, senza smettere punto i sorrisi e le maniere gentili, cominciò a schivarlo e a tenerselo lontano, finchè Pompeo, vedendo riuscir vani i suoi sforzi, perdette la pazienza, insieme colla speranza, e:—Pitocco maledetto!—gli borbottò dietro, tutto stizzito,—non dovevi alloggiare in una stamberga del terzo piano se volevi far tanto il superbo!

Poi, a sfogo di bile, cominciò a dirne male e a metterlo in sospetto presso gli altri pigionali.

—Chi era, alla fin fine, quel vecchio tenebroso? quali erano le sue aderenze? Perchè viveva sempre solo? Chè! Chè! Bisognava star in guardia; non fidarsene punto. Vattelapesca chi era! poteva essere un farabutto; un mercante fallito, un pezzo da galera!

Data la spinta, successe in quel subito un po' di sussurro, e tornarono a galla le curiosità, i discorsi e i commenti di una volta; ma il pettegolezzo non durò a lungo. Don Miao si era assentato per qualche giorno da Milano, andando in campagna, e allora i pigionali non trovandoselo più tra' piedi lo dimenticarono e anche a Pompeo passò un poco la stizza.

Da questo fatto, per altro, parrebbe che il figliuolo del cuoco godesse di un certo credito al Vôlto dell'Arco Vecchio; e in parte la cosa era vera.

Sulle prime, quand'egli cominciò a perdere la salvatichezza e ad accompagnarsi co' suoi casigliani, questi stettero un po' titubanti, perchè vedendogli stillare il quattrino, dubitavano ne avesse pochi da spendere; ma poi, quando si accorsero che la sua era avarizia e non miseria, lo presero subito in una certa stima. Dietro le spalle gli davano dello spilorcio, e mettevano in burletta la sua grettezza, ma poi, sul muso, gli facevano tutti il bel bellino, se lo tenevano caro, gli pagavano da bere e volevano che prendesse parte alle loro festicciuole, quantunque sapessero che non era suo costume contraccambiare gl'inviti.

Pompeo, cominciando così ad accorgersi anche per scienza propria della verità del proverbio che: "chi ha è, e chi non ha non è," si attaccò vie più al danaro e ogni giorno sentiva crescere la bramosia, la febbre di diventar ricco; ma, sgraziatamente, il tesoretto non aumentava in proporzione dei desideri; ed egli vedendo che a quel modo avrebbe dovuto stentar tutta la vita senza costrutto, si addolorava e si avviliva e gli pareva adesso di essere anche più pitocco di prima, perchè il danaro è come il sapere: bisogna averne un poco, per capire di non averne punto.

La fretta stessa dell'arrivare gli metteva in corpo mille inquietudini che lo rendevano un po' incerto nella presa risoluzione e gli toglievano fiducia della buona riuscita. Anche i cari sogni della fantasia, appunto per esser sempre quelli e non altro, cominciarono a perdere delle loro attrattive. Egli si era già fabbricati in testa tanti palazzi da rifar mezza Milano, e ormai si era già date per amanti tutte le più belle signorine che incontrava per istrada; ma quando si chiudeva in camera e tornava a contare per la millesima volta i suoi danari s'avvedeva che sarebbero bastati appena per metter su bottega di tortelli!...

Co' suoi vecchi era diventato a poco a poco sempre più rapace e più scontroso; il suo umore bisbetico amareggiava gli ultimi giorni di quella povera gente. S'era messo in testa che il babbo e la mamma gli nascondessero il morto e però li tormentava in mille modi, parendogli che colla loro avarizia fossero di impedimento alla sua fortuna. Ma la verità era che la mamma aveva finito i quattrini; e da un'altra parte il cuoco Barbetta, per quanto affezionatissimo al figliuolo e condiscendente ai suoi capricci, doveva pure dar qualche cosa da mangiare ai padroni!...

Invaso dalla smania di arricchire e con mille ghiribizzi che gli frullavano nel cervello, Pompeo andò allora a consigliarsi, di sottecchi, or coll'uno, or coll'altro de' suoi amici. Ma i loro pareri non facevano per lui. Uno gl'insegnava la via di mettere il danaro a usura, in barba alla legge; un altro proponeva certe speculazioni colle quali, in un paio d'anni, si poteva raddoppiare il capitale: insomma, tutte chiacchiere!... Pompeo voleva centuplicarlo il suo danaro, e subito, e poi centuplicarlo ancora!

—Ah se quella gatta melliflua di Don Miao avesse voluto aiutarmi!—E il giovanotto avvezzo sempre a lavorare di fantasia, aveva finito con credere, come un articolo di fede, che Don Miao fosse proprio l'uomo dei miracoli; onde, rammaricandosi del contegno riserbato del vecchio, tanto più s'irritava contro l'avverso destino.

Come avevano fatto e come avevan cominciato coloro ch'eran riusciti ad acciuffar la fortuna?... Aveva sentito dire che bisognava essere audaci.... Ebbene, lui, nel caso, sarebbe stato pronto a tutto!... Che si doveva bandire gli scrupoli: e lui non ne aveva mai avuti!... Del resto, anche se fosse stato costretto a recar danno agli altri, una volta ricco avrebbe potuto riparare il male, e largamente!... Non era più il secolo delle pecore; ma bisognava farsi lupo, chè, a restar pecora, c'era da farsi mangiare, come l'orefice del Gobbo d'oro.... Dunque?... Ma già lui, che era la calamita delle disdette, sarebbe stato costretto a restar galantuomo per forza!

Con quella smania addosso, pur di fare qualche cosa, si lasciò vincere dalla tentazione, e una volta che i suoi compagni giocavano a sette e mezzo, domandò una carta.

Erano più e più sere che stava là chiuso in una stanzuccia d'un caffeino a vederli giuocare senza puntar mai. Stava vicino al tavolino allungando il collo e cacciando la testa fra le teste dei giocatori, tutto attento, assorto, fisso cogli occhi anche lui sulle carte. Intanto, colla mano in una tasca dei calzoni, faceva girare e rigirare una svanzica fra le dita convulse, senza mai osare di tirarla fuori. Ma per altro, fra sè, fingeva ad ogni partita d'averla puntata sulla carta di questo o di quell'altro giuocatore, e si rallegrava tutto, quando vedeva che avrebbe perduto; e, viceversa, si rodeva l'anima, quando vedeva che avrebbe vinto. Così, provava, senza arrischiar nulla, tutte le commozioni del gioco, e a quel modo passava le sere e gran parte delle notti.

Ma quella volta, non si sa come, giocò. Chiese la carta con voce rauca, levandosi in piedi di scatto. Tutti si misero a guardarlo maravigliati, e qualcheduno, celiando, gli domandò se voleva morire. Pompeo non rispose nulla: guardò la sua carta e vi puntò la svanzica che gli bruciava fra le dita. Dopo puntata l'avrebbe voluta ritirare; ma non era più in tempo, e provò un'angoscia affannosa in quel minuto in cui chi teneva banco guardava la sua per risolvere sul da farsi. Era una partita d'impegno perchè, di solito, non si vedevano girare altro che monete di rame.

Il giocatore non rimase molto in sospeso. Con una rapida occhiata fece il conto di tutte le puntate degli altri e vide subito che, sommate insieme, restavano al di sotto della svanzica.... La sua carta era il sei, ma quella di Pompeo doveva essere il sette, altrimenti egli non ci avrebbe puntato, e tanto meno poi così grosso!

—Stai fermo?—domandò Pompeo con voce strozzata.

—No; prendo carte,—rispose l'altro:—ne scoprì una; era il fante di spade.

—Sei e mezzo!—esclamarono tutti insieme i giocatori.

Le guance livide del Barbetta arrossirono a un tratto e le labbra gli tremarono dal piacere.

—Bisogna che ne prenda un'altra,—osservò con aria grave, ma tranquilla, il suo competitore.—Pompeo ha un sette di certo. Del resto...—e guardò le carte in giro,—figure ne son uscite poche.

Scoprì un'altra carta (i giocatori stavano attenti, muti, senza neppur fiatare): era il re di danari.

—Sette!—esclamò a una voce tutta la brigata levandosi in piedi.

—Sto fermo,—dichiarò subito il banchiere.

Pompeo aveva perduto; buttò con ira la sua svanzica sul tavolino brontolando che l'altro doveva conoscere le carte. Poco mancò non leticassero; ma Barbetta s'acquetò subito, premendogli di correr dietro a quella prima svanzica, e giocò tutta notte, e tutta notte perdette.

Egli variava le puntate, dai tre centesimi ai cinque; dal quarto di svanzica alla mezza svanzica e alla svanzica intera; ma non ne azzeccava una: se puntava poco, vinceva: se puntava molto, era sicuro di perdere.

Aveva la faccia livida, gli occhi loschi, stranamente infossati. Tracannava i bicchieri d'un fiato, ma non riusciva a stordirsi. Intanto si faceva tardi e i suoi compagni volevano andarsene; ma Pompeo, fuori di sè per quella febbre indemoniata, teneva duro ad ogni costo, e gridava, smaniando, che era più presto del solito; che non avrebbero dovuto andar via colle tasche piene, senza lasciargli tempo di prender la rivincita; che quello si chiamava bruciare, e che gli facevano una porcheria. Poi vedendo che colla prepotenza non otteneva nulla, li pigliava colle buone e si faceva umile, e li supplicava, colle lacrime agli occhi, di trattenersi ancora. Finalmente, quando tutti si alzarono dal tavolino stanchi e proprio risoluti ad andarsene, Pompeo, col mazzo di carte in una mano, afferrò coll'altra, per il panciotto, un giocatore che pareva meno ostinato, promettendo e giurando che sarebbe l'ultimo colpo, così fra loro; ma proprio l'ultimo davvero!—Il paziente lo accontentò brontolando, e tornarono a giocare, ma frettolosamente, in piedi, col cappello in testa e quasi al buio, perchè il cameriere uggito e insonnolito aveva già cominciato a spegnere i lumi.

Ma non c'era verso: Pompeo continuava a perdere.

—Anche i santi mi farebbero le corna; anche i santi!—borbottò nell'uscire del caffeino, e per rimettersi diè in una sghignazzata, ancor più stridente delle sue solite; pareva insieme una sfida e una bestemmia.

Perdeva all'incirca una settantina di svanziche; meno di tre marenghi; ma arrivato a casa sbalordito non potè chiuder occhio. Entrato a letto gli pareva che tutta la sua cameretta gli ballasse intorno la monferrina. Si sentiva nelle orecchie un ronzìo molesto, continuo, come se avesse la testa piena di mosconi; e il vino bevuto gli pesava sullo stomaco, crescendogli insieme colla smania l'arsura in gola e l'amariccio in bocca.

All'alba si appisolò; ma subito si destò ad un tratto, col pensiero della perdita fatta: allora, collo stomaco vuoto e illanguidito, sentì il peso dell'angoscia anche più grave e profondo. In fin dei conti non aveva perduto se non una piccola parte del tesoretto, ma ormai, con quella buca di settanta svanziche gli pareva di non aver più nulla.

Che fare?... Giocare un'altra volta; tentar la rivincita? Ma avrebbe potuto perdere dell'altro e si sarebbe poi roso dalla rabbia nel vedere i quattrini suoi passare nelle tasche di que' ciaccheri.... No, no; piuttosto avrebbe preferito buttarli nel Naviglio: così almeno nessuno se li sarebbe goduti.

Pure qualche ripiego bisognava trovare; ci pensò alcuni giorni: poi, stimolato dal vizio che ormai gli era entrato nel sangue, cominciò a giocare al lotto. Andava di nascosto, in un botteghino lontano da casa sua, in un quartiere dove non era conosciuto. Dato il caso che il diavolo, una volta o l'altra gli mandasse un buon terno, Pompeo voleva che non lo sapesse anima viva e meno che mai que' due vecchi spilorci, che da un pezzetto s'eran messi a pianger miseria, per paura d'esser toccati nella borsa!...

Giocò; per sua disgrazia vinse subito un paio d'ambi. Ne fu beato e gli parve d'avere scoperta la vena d'oro. Ma invece, dopo quegli ambi, non gli sortì più nemmeno un numero solo! Studiò il libro de' sogni e le sibille dei lunari; si mise a cercar la fortuna con certi giochi di carte che usano le vecchie mezzane, e si sprofondò nella scienza cabalistica; ma tutto inutilmente; e intanto continuava a far grosse giocate e fin dieci, dodici alla volta! Insomma, in poche settimane, tutto il suo tesoretto passò nelle granfie del governo ladro.

E siccome una disgrazia non vien mai sola, così mentre egli stava mangiando bile per quella disfatta, fu colpito da un altro disinganno e fierissimo: in breve tempo gli morirono il babbo e la mamma, e per quanto frugasse tutta la casa, non riuscì a trovare un soldo.

Questa volta non era soltanto rabbia la sua: era proprio disperazione!

—Ma per Dio,—pensava,—se ci fossero stati i danari, non avrebbero potuto portarseli dietro! Dunque vuol dire che non possedevano proprio nulla, che non sono stati buoni, in tutta la vita, altro che a piangere e a mangiare!... E in tal caso perchè non mi hanno messo un mestiere in mano? Perchè?... A che pro que' due vecchi mi hanno tradito?

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III.

Allora cominciarono per Pompeo Barbetta i giorni neri. Sulle prime campò alla meglio, con la gratificazione che gli era stata largita dagli Alamanni (i padroni dove era di servizio suo padre, quando venne a morire); ma poi, finiti anche que' pochi, non sapeva più come fare per tirare avanti.

—Cani di signori!—brontolava tra sè,—non c'era pericolo, no, che si rovinassero per i quattrini che gli avevano dato!—Avaracci sudici!... E dire che il babbo li serviva come fossero tanti re di corona!

Ma nemmeno da questi lamenti poteva cavare profitto, e però se li teneva dentro, senza sfogarsi, e co' padroni si mostrava invece umile, rispettoso, pieno di riconoscenza e di bei complimenti e anche colla portinaia e colle altre persone di servizio, ch'egli sapeva affezionate alla casa, lodava di continuo la loro generosità e bontà d'animo.

Intanto la miseria ed i debiti gli crescevano attorno un dì più dell'altro.

Que' due vecchi, pensava, non potevano crepare in peggior momento. Proprio quando egli aveva dato fondo a' suoi risparmi; quando si trovava coll'acqua alla gola... E per poco non faceva loro un addebito anche d'esser morti!

Cominciò a vendere, capo per capo, tutti i mobili di casa; e fin gli utensili più necessarii. Non aveva trovata un'anima pietosa che gl'imprestasse il becco di un quattrino. Non aveva più amici, nè conoscenti: tutti lo sfuggivano e fingevano di non vederlo per non aver la noia di salutarlo.

Almeno (gli avrebbe fatto tanto comodo) lo avessero invitato qualche volta a pranzo!... Quand'era pieno di quattrini e mangiava bene a casa sua, tutti facevano a gara per averlo alla propria tavola e lo imbeccavano come un passerotto... adesso che pativa la fame, non c'era più un cane che lo volesse!

E tutti, adesso, lo biasimavano severamente per l'avarizia, il fare bisbetico e l'alterigia di una volta....—Il figliuolo di un cuoco!—e si mettevano a ridere—era stato pure un gran buffone!

Poi tiravano in ballo l'egoismo ed i mali trattamenti verso i genitori, mormorando ch'era stato lui, che avea fatto morire que' due poveri vecchi di stenti e di crepacuore.—Chè! chè!... Era un cattivo arnese quel Barbetta! Aveva avuto ragione Don Miao di non volerselo tra i piedi!

Pompeo, che si vedeva schivato da tutti e si sentiva ronzare intorno le chiacchiere, a volte schiantava dalla bile, e a volte rimaneva avvilito, col cuore affranto, sotto quel cumulo d'ingiurie e di maldicenze.

—Ah se un giorno, a costo di mettermi a fare qualunque cosa, anche il boia! potessi diventar ricco e vendicarmi di tutta questa canaglia ipocrita e vigliacca.

—Non c'è proprio al mondo altro che il danaro—quello solo!—e da quello si giudicano le azioni.... Quando avevo il gruzzolo ero per tutti un uomo onesto e rispettabile; adesso che non ho fatto nulla di male, altro che dar fondo ai quattrini miei, son diventato un mariuolo. Ah, se un giorno o l'altro potessi agguantare la fortuna! Non me ne starei, dovessi barattar l'anima col diavolo!

Ma era passato il tempo di fabbricar castelli in aria: adesso bisognava tenersi giù, terra terra, anche coi pensieri, e trovar modo invece di pagar la pigione al padron di casa!

Questo galantuomo era già salito parecchie volte al terzo piano, in cerca del suo pigionale; ma sempre inutilmente. Pompeo aveva buon naso e gli scappava di sotto. Il creditore, non trovandolo, ridiscendeva sempre le scale brontolando, ma continuava a pazientare.

—Nella peggior ipotesi—pensava—potrò mettermi al sicuro col sequestro dei mobili!

Figurarsi dunque le furie del brav'uomo, quando venne a sapere che il Barbetta aveva già fatto repulisti del meglio. Oltre al danno, s'ebbe a male d'essere canzonato. Gli fece la posta senza stancarsi, e aspetta un giorno, aspettane due, tre, finalmente lo agguantò mentre l'altro cercava di svignarsela sotto il Vôlto dell'Arco Vecchio. Allora acchiappatolo per il bavero, cominciò a ingiuriarlo, smaniando e gridando in modo da far correre tutta la gente del casamento:—Se non mi paghi e subito—era il solito ritornello—ti manderò ad alloggiare gratis sotto chiave!... Furfante, fannullone!—e continuò per un pezzo quella scenata, finchè stanco e rauco rallentò gli artigli e Pompeo potè sfuggirgli di sotto correndo via, come un cervo ferito, lontano, lontano, dove non c'era alcuno che lo potesse conoscere. Era livido, batteva i denti come un febbricitante.

—In prigione.... in prigione....—Lo avrebbero messo in prigione come l'orefice del Gobbo d'oro!... Ma dunque.... era proprio vero? In prigione ci andava tanto il ladro quanto il galantuomo?! E in tal caso.... In tal caso meglio sarebbe stato andarci per ladro!... Almeno si poteva prima arrischiare di far quattrini!... Già la povera gente non godeva più nessuna libertà.... Era stato fermato per la strada... insultato... percosso... e tutti stavano a veder lo spettacolo ridendo!... Sarebbe stato cacciato in prigione... e tutti avrebbero applaudito!—Già... già... già!—e i denti gli tremavan tanto da scricchiolare, e andava attorno stordito come un ubbriaco:—Già... già... già... la miseria è la schiavitù dei bianchi! Bisogna affrancarsi... o curvar la schiena sotto le bastonate.... Affrancarsi o curvar la schiena!

E per tutto quel giorno e per molti altri ancora Pompeo Barbetta durò a lamentarsi e a filosofare in quel modo: e avrebbe pur continuato per un pezzo anche a digiunare, se una buona figliuola, vedendolo sempre tristo nell'aspetto, umile e rassegnato, e credendolo di animo gentile come con lei si mostrava a parole, non si fosse presa di compassione per il poveretto; poi la compassione si mutò in simpatia, tanto che, dopo aver cominciato col soccorrerlo, finì col volergli bene.

Questa caritatevole creatura era la portinaia degli Alamanni, gli ultimi padroni del cuoco Barbetta.

Era nata e avea vissuto in quella casa e propriamente nelle due stanzucce terrene della porteria, dove anche i genitori di lei erano invecchiati e morti, sempre fidatissimi e sempre al servizio degli Alamanni.

La Betta, così chiamavasi la povera ragazza, rimasta orfana, aveva continuato a far la portinaia in quella casa, e vi era tenuta in conto quasi d'una figliuola.

Ma, salvo la fortuna d'avere un discreto impieguccio e qualche quattrino messo in serbo da' suoi parenti, la Betta poteva dirsi proprio disgraziata.

Piccolina, magrolina, tisicuzza era, sebbene ancor giovane, senza bellezza e senza salute. La testa grossa, co' capelli biondi, fini fini e radi, portava un po' piegata fra le spallucce ricurve, come se il collo sottile fosse un picciuolo troppo debole per tenerla ritta. Ma pure nel sorriso e negli occhi aveva un'espressione così mite di soavità rassegnata e affettuosa che la rendeva subito simpatica al primo vederla; un'espressione a volte indefinibile e con la quale pareva, in certo modo, volesse domandar perdono della sua bruttezza.

La Betta era uno di quegli esseri privilegiati e infelici che non sanno far altro al mondo che voler bene. Dopo la signora Lucia, la padrona, per la quale la Betta sentiva una vera adorazione, dopo gli altri della famiglia, dopo le stanzucce dov'era nata e che non abbandonava mai fuorchè per recarsi alla chiesa vicina, essa voleva bene a tutti; si dava intera a quelli che avevano bisogno di lei con un trasporto ch'era la sola voluttà della sua personcina ammalata. Le sofferenze, le beffe e la stessa ingratitudine non le avevano mai strappato di bocca un lamento, nè una parola cattiva.

Quando le morì il babbo, e poi la mamma, essa si ammalò tutte due le volte; ma, neppure allora, non mutò natura: non s'inasprì la sua dolcezza, non fu smossa la sua fede, e la preghiera sua non le uscì meno calda e fervorosa dal cuore angosciato.

Pure, sapendo di non esser bella, essa non si era mai innamorata, e perciò appunto sentiva come il bisogno di diffondere intorno a sè, in una tenerezza tranquilla e perenne, l'affettuosità appassionata che le traboccava dall'anima. Voleva, non potendo dare il suo cuore a una persona sola, almeno dividerlo fra tutti coloro che la circondavano.

E lo stesso Pompeo non l'aveva vinta colle seduzioni dell'amore, ma soltanto colla grande pietà che, insinuandosi a poco a poco nel suo animo, avea saputo ispirarle.

Quell'improvviso mutamento di fortuna, quel vederselo capitar dinanzi smunto e lacero, dopo averlo conosciuto lindo come un damerino, e la fame che aveva scritta in viso, e la sua aria di rassegnazione e le sue lacrime per non aver potuto seppellir degnamente i suoi poveri morti, e la gratitudine verso gli Alamanni e infine l'entusiasmo con cui parlava sempre della signora padrona avevano acceso lo spirito di carità nella fanciulla e in pari tempo esaltata la sua fantasia. Essa così s'indusse ad amare Pompeo; e lo amò appunto perchè lo credeva buono e infelice, lo amò come poteva amar lei, non per altro che per far del bene.

Non ebbe quindi i turbamenti e i languori delle fanciulle innamorate. Il suo volto pallido non arrossì mai per alcuna commozione, e i suoi occhi buoni, non mandarono guizzi di foco, ma rimase inalterata la tranquilla e serena espressione del suo sorriso. La Betta, mentre donava tutta sè stessa ad un uomo, non pensava se non a restituirgli la famiglia perduta, nè si aspettava altro gaudio che quello di dividere la sua casa e il suo pane con uno sventurato, privo di soccorsi e troppo altero per stendere la mano. E se pure una simpatia più nuova per il suo cuore, e più viva, entrava per qualche cosa nell'impeto di carità che l'aveva spinta a quel passo inconsiderato, era la simpatia mesta e profonda che nasce dalla corrispondenza dei comuni dolori. Anche Pompeo era rimasto orfano come la Betta; come lei aveva perduto in poco tempo il babbo e la mamma, e così le loro lacrime avrebbero potuto confondersi in un solo pianto e le loro speranze e i loro affetti in una sola preghiera.

Tutto ciò formava l'amore della povera giovane: troppo alto e puro perchè chi ne era l'oggetto potesse contraccambiarlo od intenderlo.

Anche dopo il matrimonio, la portinaia degli Alamanni continuò a rivolgere al cielo, come in cerca di pace, gli occhi dolci e rassegnati; ma spesso si vedevano pieni di lacrime, e s'era fatto più mesto il loro sorriso. Vestiva ancora, tutta linda, lo stesso abito di rigatino che aveva da ragazza; ma non le stava più bene; era diventato troppo largo per il suo corpicciuolo che dimagrava ogni giorno più; mentre invece il sor Barbetta si dava le arie di aver fatto, sposando la portinaia, un matrimonio morganatico e tornava a star sulle sue, ripigliando un'aria florida e prepotente.

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IV.

Pompeo credeva di aver concluso un miglior affare. Egli aveva sperato che il gruzzolo della gobbetta fosse più grosso.

Nei primi giorni del suo matrimonio, trovandosi con tutti i comodi e ben pasciuto nelle due stanzucce della porteria, tepide, pulite, e piene zeppe di roba, gli pareva d'essere, addirittura, in paradiso. Poi nella camera degli sposi, proprio di contro al letto ampio e alto, facea bella mostra di sè, l'altare di tutti i voti e di tutte le devozioni di Pompeo: il cassettone dove stava riposto lo scrignetto.

Era un cassettone antico, di noce, e nella sua severità massiccia di un aspetto straordinariamente simpatico agli occhi e assai consolante al cuore di Pompeo.

Durante le lunghe serate in cui, nella qualità di promesso sposo, teneva compagnia alla Betta, per far l'ora di chiudere la porta, Pompeo più che colla fidanzata, faceva all'amore col cassettone. A volte, alla luce fioca di una candela di sego, il cui lucignolo fumoso ardeva crepitando, il vecchio mobile di noce, tirato a lustro, avea certi chiarori, certi riflessi fantastici e pareva ancor più grande per le ombre circostanti. E per tutto il tempo che rimaneva seduto in silenzio accanto alla Betta che cuciva o ricamava, alzando ogni tanto gli occhi dal tombolo per sorridergli, egli faceva e rifaceva il conto di tutti gli anni ch'eran vissuti i vecchi della sua sposa; e di quanto avevan guadagnato e speso, e di quanto, a un dipresso, avevano potuto metter da parte.

La somma totale di questi risparmi, dal più al meno, era sempre considerevole. Però, gli occhietti di Pompeo, guardando verso il cassettone, si facevano luccicanti, e con quella sua testaccia così facile ad esaltarsi, si teneva sicuro d'aver trovato il tesoro e già ci faceva sopra di bei disegni quando, giunto l'istante di por la mano sul sacchetto, s'accorse d'aver sbagliato all'ingrosso. In un attimo il paradiso si tramutò per Pompeo in un inferno; dal dolore e dalla rabbia gli parve di essere stato frodato e canzonato.

—Duemila settecento svanziche?!—mormorava fra sè, strappandosi coi denti i baffettini radi:—Duemila e settecento svanziche?! Possibile che in vent'anni e più di economie quella gente che viveva come le talpe, abbia messo da parte così poco?... Chè! Chè! Non è possibile!... Chi sa quanti ne avrà sprecati dei quattrini quella brutta civetta che può proprio vantarsi d'avermi chiappato alla pania. Costei ha proprio le mani bucate!

Fisso in quest'idea, coll'ostinazione propria dei ragazzacci viziati. Pompeo non dette più pace a sua moglie. Cominciò a sgridarla e a maltrattarla, perchè era una sciupona e perchè non conosceva il valore del danaro e lo buttava via senza pensar all'avvenire. Poi regolò la casa in maniera che la Betta gli doveva render conto di tutto, fino all'ultimo pezzetto di pane.

Pompeo teneva le chiavi e misurava la legna, l'olio per la lucerna, il filo per cucire. Era lui che andava a fare la spesa, ed a riscuotere il salario dal ragioniere. I giorni delle mance non abbandonava mai la porteria, e stava addosso alla moglie, con tanto d'occhi, strappandole subito di mano quanto le veniva regalato; e la sera, quando la poveretta era in letto, frugava dappertutto; e le scoteva la veste, per sentire se aveva nascosto qualche quattrinello; perchè "quella sorniona" diceva lui "era capacissima di levar di bocca il pane a suo marito, per ingrassare gli oziosi e i vagabondi." Poi, a poco a poco, le rifiutò anche il danaro per le medicine, sostenendo che, col suo fisico, non poteva pretendere di star bene.—Quando alla macchina manca una ruota,—le diceva, a mo' di conforto,—si ha un bell'ungerla, non può girare. Stare in dieta, tenersi riparata dall'aria, e accontentarsi di andare innanzi alla meglio, senza intrugliarsi lo stomaco: non c'era da far altro. E un giorno, finalmente, avendo la Betta preteso di fargli qualche osservazione, Pompeo esclamò alzando la voce che, se avesse dato retta a' suoi grilli, alla sua manìa spendereccia, sarebbe andato presto in malora!

—Duemila settecento lire!—ripeteva fra sè.—Proprio una miseria! Fossero state almeno tremila, la cifra tonda! Basta; queste per ora le metteremo a dormire e a mano a mano che ne verranno altre, andranno a tener loro compagnia!—E così, ritornato al possesso di qualche soldo, Pompeo si rifece avaro. Non aveva più le matte illusioni di una volta, ma si godeva il piacere che dà il danaro per sè stesso, e la soddisfazione di vederselo crescere a poco a poco. Per altro non voleva accumulare a proprie spese, assoggettandosi a stenti e a privazioni, no; risparmiava soltanto sui bisogni della Betta. Lui voleva godersi il papato: toccava a sua moglie a servirlo in ogni cosa e a stentare!

In casa Barbetta si desinava con una scodella di minestra e una fettina di carne lessa; ma Pompeo era sempre il primo a servirsi e a mangiare, perchè la moglie doveva cucinare e mettere in tavola; e pensava a saziarsi lui, senza tanti complimenti. Già aveva per massima che la Betta meno mangiava, meglio stava. Poi, ogni tanto, egli si faceva fare, cogli avanzi della cucina dei padroni, qualche manicaretto, che sua moglie preparava, ma che non doveva nemmeno assaggiare, perchè "con quel suo stomacuzzo rovinato" le avrebbe fatto male di sicuro. Vino, nemmeno per idea!, non se ne comprava mai! E le bottiglie, che la signora Lucia mandava di tanto in tanto a regalare alla Betta, Pompeo le metteva subito sotto chiave e poi, a desinare, ne versava un dito alla moglie e ne beveva un buon bicchiere per sè:—A farti bere di più sarebbe la tua morte!

Ma le premure di Pompeo per la salute della moglie finivano tutte lì. Del resto, la povera donna era costretta a sfaccendare giorno e notte. Tutto lei doveva fare, anche la pulizia del loggiato e della corte. Soltanto quando passavano i padroni e il ragioniere di casa, Pompeo veniva fuori e strappando la granata di mano alla moglie, si faceva vedere pieno di zelo per il suo servizio.

E già, in ogni incontro, egli aveva saputo fingere con loro un'aria così umile e da buon ragazzo, e aveva saputo arrossire così bene per la confusione e per il piacere, quando gli domandavano notizie della salute della Betta, e s'era mostrato sempre così attento e sollecito nell'eseguire gli ordini ricevuti che gli Alamanni lo avevano preso a benvolere; tanto più che su questo punto erano ingannati anche dalla Betta, la quale sarebbe morta di fatica piuttosto che fare scomparire il su' omo presso i padroni. Essi perciò lo credevano una perla, e se lo tenevano caro, affidandogli anche incombenze delicate.

Ma nelle stanzette della porteria le cose andavano diversamente, e subito dopo le nozze il marito teneva la Betta in una specie di continuo sbalordimento. E lui si godeva a imporsi, a comandare; faceva ballar la sua donna sur un quattrino, e guai se fiatava!

Le ordinava tutto a cenni, senza dire una parola, come ad un cane ammaestrato. Betta non doveva mai fermarsi sulla porta, non doveva vedere, non doveva discorrere con nessuna amica. Le aveva proibito anche di andare in chiesa, fuorchè alla festa, perchè non voleva pettegolezzi e confidenze colle tonache. La mattina, d'inverno, essa si levava molto prima di lui, per accendergli il fuoco e scaldargli l'acqua; la sera andava a letto molto più tardi, perchè gli doveva pulire e rassettare i panni, e prima di andarci lui se la faceva inginocchiare davanti e le metteva nelle mani, magre e giallognole, gli stivali pieni di mota, perchè glieli levasse; e a volte, quando erano umidi, le dava tali scossoni da tirarsela dietro. E non le risparmiava nessun servizio, per quanto umile e ributtante.

Nè Pompeo aveva coscienza di tutto il male che andava facendo. Anzi, gli pareva in fondo al cuore di aver fatta una gran buona azione sposando la gobba e di essere meritevole di ammirazione e di compassione insieme, e da ciò traeva una specie di conforto, che bastava a vincere ogni scrupolo, se per caso gli fosse venuto.

Per la gobba non era stata una bella fortuna quella d'aver trovato un marito?... E, per di più, un marito giovane, senza difetti, senza vizi, e di buona famiglia?

E così, secondo la logica di Pompeo, in casa sua tutto era ripartito con giustizia. A lui toccava di vivere con quel canchero accanto: la Betta doveva aver cura della casa e del marito....—Ciò che, alla fin fine, facevano tutte le altre mogli, le quali, poi, anzichè fare schifo come lei, erano belle e sane.

Betta, a cui non venivano mai risparmiati tali confronti, chiudeva tutto in core: lo serviva, l'ubbidiva tremando, impaurita e istupidita sotto la sferza di quel ragazzo villano, che aveva gli istinti del tirannello. La disgraziata osava appena piangere la notte tardi, a letto, quando suo marito russava, e anche allora soffocando i singhiozzi sotto le lenzuola.

Una volta soltanto trovò la forza di ribellarsi. Pompeo voleva, a ogni costo, che la moglie approfittasse per loro uso, dell'olio che i padroni le affidavano, e che doveva servire per i lampioni del loggiato e delle scale.

—Sei pur grulla colle tue fisime!—le diceva colla solita voce arrogante.—Non ci sono portinai, scommetto, in tutta Milano che, come noi, facciano la scioccheria di comperar l'olio a once avendone una damigiana intera a disposizione.

—Fo sempre tutto quello che vuoi, ma ladra... non sarò mai!

—Stupida!... Che voglio forse insegnarti a rubare io?!

La Betta seguitò a scuotere il capo e, quasi parlando a sè stessa, come volesse trovare nelle proprie parole la forza di cui aveva bisogno, tornò a ripetere con orrore:—Ladra, mai!

—E dagliela!... Se tu fossi una ladra, sarei io il primo a mandarti in galera! Quello che ti dico di fare, lo fan tutti: è passato in uso, e anche i padroni lo sanno e chiudono un occhio!... Già... per il bel salario che dànno ai portinai!

La Betta lo lasciava brontolare e, come al solito, stava zitta. Aveva disteso un panno bianco sulla tavola, dalla parte opposta a quella dov'era seduto Pompeo e s'era messa a stirare. Ma si vedeva che quel lavoro la stancava assai e le faceva male, perchè sulle guance scialbe, scarne, le apparivano due macchie di un rosso acceso.

Pompeo, seduto, canterellava dondolandosi sulla seggiola. Era irritato per l'ostinazione e per il silenzio della moglie. Egli voleva trovar la via di leticare per poi farle fare a modo suo, a furia di urlacci.

—Andiamo, rispondi: smetti di far la muta! Per tormentarmi ti fai venire anche gli scrupoli dell'onestà; e poi non badi alle spese di casa!

Betta, senza aprir bocca, tirava via a stirare, tutta piegata colle ossa protuberanti sotto il vestito di rigatino sbiadito. Pompeo si fermò di botto colla seggiola, e dando un gran pugno sul tavolino:—Ohè, dico,—mormorò con voce sorda, strozzata, per non essere udito di fuori, nel cortile,—sciogli lo scilinguagnolo, hai capito? o ti dò un par di ceffoni da farti gonfiare il viso.

Betta, tutta tremante, si scostò dal tavolino alzando gli occhi dolcissimi, pieni di spavento in faccia al marito: non poteva parlare, perchè le lacrime le facevan nodo alla gola.

—Devi tacere sempre,—continuò l'altro che s'era alzato per avvicinarsele:—sì, devi tacere sempre, perchè non voglio essere seccato dai tuoi lagni e dalle tue ciance; ma adesso, invece, ti ordino di parlare; te lo comando!

La povera donna indietreggiava ancora, e tentando di trar fuori la voce, si stringeva la gola colla mano scarna di tisica.

Pompeo le si strinse addosso coi pugni chiusi, cogli occhi torvi che l'ira rendeva anche più loschi, mentre i capelli folti, neri, tagliati ritti a spazzola, gli si movevano sul capo, per una tensione nervosa, come il pelo dei gatti.

—Hai capito, gobba?!

La Betta si sforzò, e mettendo fuori la voce con un singulto, balbettò daccapo le stesse parole con un'espressione piena di terrore e d'angoscia, che pareva insieme un lamento e una preghiera.

—Tutto ciò che vuoi... morir di fame... di fatica... ma rubare... ladra... mai!

—Io sono più onesto di te, birbona!—e Pompeo, sulla cui faccia scura, olivastra era corsa una vampa rossa di bile, afferrato uno zoccolo ch'era stato messo accanto al fuoco, ad asciugare, glielo tirò in viso, e la colpì così forte sull'occhio, che venne fuori il sangue.

Betta non gridò, non proferì una parola, non fece un lamento, smise perfino di piangere. Cercò nelle tasche, dove aveva il fazzoletto, e con quello si coprì la ferita.

Ma Pompeo alla vista del sangue fu tutto sossopra, e le corse subito appresso, accarezzandola, domandandole perdono, giurandole che non aveva mirato a lei, che aveva voluto soltanto farle paura....

—Già egli era fatto così, che a contraddirlo montava in bestia. E poi quel giorno non si sentiva bene, aveva il sangue caldo, non sapeva quel che faceva.

—Non è nulla.... non è nulla,—mormorava intanto la Betta, ripiegando il fazzoletto che da una parte era già tutto rosso.

Pompeo era proprio pentito d'essersi lasciato trasportare a quell'eccesso e poi era molto spaventato dalle conseguenze che ne potevano nascere....—Se arrivava agli orecchi dei padroni ch'egli maltrattava la moglie, e a quel modo, era bell'e fritto!

Volle per forza, che la Betta si bagnasse subito con acqua e aceto e le medicò lui stesso la ferita con ogni cura e colla maggior delicatezza. Ma dopo, quando si persuase che era una cosa da poco, e dopo specialmente che udì la Betta raccontare a tutti ch'era sdrucciolata nel sottoscala, egli tornò daccapo, col solito umore, ed anzi a cena ordinò alla moglie, brontolando, che si coprisse il muso con una benda, perchè "con quella ammaccatura gli faceva anche più schifo di prima."

Ma l'odio più feroce di Pompeo era contro i padroni: un odio che gli si accumulava nell'animo giorno per giorno, sordamente, con nessun altro sfogo tranne quello di dirne plagas colla Betta, che non aveva coraggio di difenderli contro di lui.

Il lusso dei padroni stizziva Pompeo; la loro felicità gli faceva male; l'affezione rispettosa dalla quale li vedeva circondati gli pareva "pecoraggine da plebei". Lui doveva sudare e stentar la vita per mesi e mesi, prima di riuscire a mettere in serbo cento svanziche e quei "cani di signori" che stavano lì tutto il giorno a non fare altro che guardare in aria, avevano un mucchio di fittaioli che venivano al palazzo a portare i marenghi a sacca!

Era forse giustizia, codesta?!

E ogni volta che gli Alamanni uscivano in carrozza e che Pompeo al fischio del cocchiere doveva correre a spalancare il cancello, intanto ch'egli si attaccava rasente alle pareti, inchinandosi, col berretto in mano, faceva il conto che soltanto quell'equipaggio valeva dieci volte più di tutti i suoi averi: e quel confronto lo sgomentava diminuendo grandemente, a' suoi occhi, il valore del tesoretto; sicchè sentiva sfumare, in un attimo, tutte le rosee speranze.

—Giù, una ribaltatura da fiaccarvi il collo!—mormorava poi, ghignando, nel richiudere il cancello, mentre i cavalli, facendo la voltata, s'impennavano sull'acciottolato della strada.

E non era questa la sola idea che lo tormentava; ma era tutta l'umile oscurità della sua vita di servo messa a confronto col fasto e coi godimenti dei padroni. E Pompeo sentiva meglio di ogni altro la grande amarezza di così enorme disparità di fortuna, appunto perchè egli, da ragazzo, era stato ammesso a vedere, e a godere anche, in parte, le delizie dei ricchi, le quali gli avevano lasciato nella mente come un raggio d'oro sfolgorante, che serviva a inasprire le sue invidie e le sue afflizioni.

Quante volte mettendosi solo solo a mangiar la broda che gli preparava la Betta sopra un angolo della tavola da stirare, egli pensava ai signori del primo piano, alla loro mensa su cui scintillavano i cristalli e le argenterie, e dove i camerieri e i servitori, seri e composti, servivano da' piatti ricolmi i cibi succolenti e i pasticcini e le leccornie manipolate dal successore di suo padre!... E quante volte di notte, tardi, andando a dormire dopo che i padroni erano ritornati dal teatro o da una festa, trovandosi nella sua cameretta bassa, angusta, piena di robaccia vecchia e grossolana, in quel lettone duro, e così alto, che bisognava prender lo slancio per montarvi su, egli correva coi desideri alla camera "di sopra" grande e chiara, tutta a stucchi, a dorature e a dipinti, dove il letto, coperto da un drappo, spariva con amoroso mistero tra le tende e le trine. E Pompeo pensava alla giovine sposa del suo padrone, che gli era apparsa tanto bella mentre scendeva di carrozza, col piedino chiuso in una scarpina da fata, coi capelli nerissimi, luccicanti di gemme, colle braccia e le spalle nude. La vedeva ancora quando saliva le scale, appoggiata con languida tenerezza al braccio del marito; e la voce di lei, e il riso fresco e squillante, e il profumo di violetta delle sue vesti, pareva diffondersi nella fredda stanzuccia del portinaio, che si sentiva prendere da un impeto di rabbia; e guardando la Betta addormentata gli veniva voglia di strozzarla per la sua bruttezza... come avrebbe voluto strozzare quell'altro "di sopra" per le gioie che godeva!

—Ma dunque, il padrone doveva avere tutti i beni e le delizie della terra, e lui niente?... Con qual diritto?! Tutt'e due non erano uomini fatti allo stesso modo, di carne e di sangue? O perchè, allora, si facevano le rivoluzioni?!...—E intanto bestemmiava senza poter pigliar sonno; si voltava e rivoltava nel letto, mormorando che "ci sarebbe stato bisogno d'un Robespir (lui lo chiamava così) anche a Milano!"

In quel tempo, per altro, meno male!, gli rimaneva ancora qualche conforto. I giorni, si sa, non sono tutti compagni, ed anche per Pompeo ce n'era di quelli, se non affatto sereni, almeno senza burrasca. Aveva ore di quiete in cui il suo spirito pareva disposto a ricevere più miti impressioni, oppure un buon bicchier di vino gli faceva nuovamente frullar pel capo le rosee speranze. Ma, in fondo, era sempre il danaro che, come la lancia della favola, lo feriva, e lo risanava ad un tempo; era sempre l'idea del suo piccolo capitaletto che a volte lo avviliva e lo rendeva disperato, e a volte invece gli procurava il balsamo d'illusioni dolcissime. Il suo avvenire egli lo vedeva prepararsi e distendersi a poco a poco in quella borsaccia di pelle, unta e bisunta, dove, insieme col cuore, aveva chiuso il libretto della Cassa di Risparmio. E già egli aveva avuta la gioia di raggiungere e poi anche di sorpassare la cifra rotonda delle tremila svanziche; già gli pareva che sarebbe arrivato all'apice della felicità il giorno in cui gli fosse dato di poter toccare l'altra cifra, più grossa, delle cinque mila, e risparmiava su tutto, e faceva digiunare sua moglie, e ricominciava lui pure a tenersi a stecchetto, mirando solo a quell'unico fine, quando un avvenimento impreveduto venne a sconvolgere i suoi bei disegni e a minacciare l'esistenza del tesoro.

La Betta era incinta!

In sulle prime, quando essa gli svelò, arrossendo e tremando (tremando di gioia questa volta) il suo caro segreto, Pompeo non lo voleva credere in nessun modo.

—Se non ricordo il tempo che t'ho presa in isbaglio per una donna!—le disse dando in una delle sue sghignazzate.

Poi dichiarò che doveva essersi ingannata, e seguitò così finchè non fu scomparso ogni dubbio sullo stato della Betta. Allora peggio che mai: andò in furia come un matto, ingiuriandola e maltrattandola, quasi che ne avesse colpa lei!

—Bel gusto: mettere al mondo un mostriciattolo, un infermo o un rachitico, perchè già, col suo fisico, non c'era da aspettarsi altro!—E poi dalla stizza passava a una maraviglia piena di desolazione:

—Chi si sarebbe mai immaginato che uno sgorbio, che avea più del ragno che della donna, potesse mettersi a far figliuoli!—

E perciò, appunto, si figurava che la "gobba" dovesse insuperbirsi del fatto; e faceva di tutto per isvergognarla, per avvilirla, dicendole, fra le altre cose, che "avrebbe dovuto contentarsi del baule che portava sulle spalle."

Tutta quell'ira, tutta quella disperazione di Pompeo, provenivano dal suo modo di sentire la paternità. Nel figliuolo che stava per nascergli non scorgeva altro che una bocca di più da mantenere e una rovina pel suo peculio, che vedeva sfumare dietro ai medici, alle medicine, ai sciroppi e alle balie; e più sarebbe cresciuto il bamboccio e più, pensava, sarebbero cresciute le spese...

—Addio bei disegni, addio speranze, addio sogni, addio tutto! Era finita! Questa volta la fortuna gli aveva proprio voltate le spalle!—Allora, prima che i suoi quattrini fossero mangiati "dagli altri" volle mettersi lui a farli girare.

—In fine son danari di una gobba, e chi sa che non abbiano a farmi buon gioco!—E pensò subito al modo d'impiegarli, e quali speculazioni sarebbero state da tentare; e frattanto diventava sempre più cupo ed irascibile.

Ma la Betta, adesso, si affliggeva molto meno per i maltrattamenti del marito. Una gioia nuova e piena, le traboccava dall'anima, e non sentiva più nè le privazioni, nè le angosce. Quella creaturina non ancora perfetta, ma che si moveva e si agitava nel suo seno, era già viva, era già sua, come fosse nata, e già le pareva di stringersela amorosamente fra le braccia! Un'immensa pace spirava da' suoi occhi grandi, d'un grigio chiaro, celeste, così vivo alle volte, e scintillante per la contentezza, che non era più colore, ma pareva luce. Le sue preghiere erano state ascoltate; il buon Dio, la Santa Vergine, le avevano mandato ciò che doveva essere per lei amore e conforto, e di quel bambino che aspettava s'era già formata la sua consolazione e la sua difesa. L'uomo, che prima le incuteva tanta paura, adesso non lo temeva più, e le riusciva indifferente... No... alla sua creaturina nulla le doveva mancare e non le sarebbe mancato nulla. Per essa sentiva dentro di sè, nello spirito e nel sangue, una forza di volontà, un'energia ignota fino allora: era già un'altra donna con nuovi affetti, con nuovi doveri e con un nuovo coraggio... era la madre!

Barbetta aveva notato subito lo strano mutamento di sua moglie. Avvertiva bene che adesso c'era qualche cosa in quell'essere debole e malatticcio; qualche cosa che gli sfuggiva e su cui non poteva dettar legge e far da padrone; ma non arrivava a capirlo e lo spiegava a modo suo: "Per i suoi affari egli non poteva più restar tanto in casa a invigilare la moglie, ed essa cominciava già ad alzare la cresta!"

Pompeo aveva aperta una latteria, affidandone la direzione a un antico sguattero ch'era stato a servizio sotto suo padre, ma che non era andato molto innanzi nell'arte culinaria, perchè aveva troppo il vizio d'ubriacarsi.

—Finchè beve vino, non berrà latte,—pensava Barbetta fra sè.

Quello sguattero smesso, gli andava a genio; lo aveva adoperato in varie occorrenze anche quando era vivo e celebre suo padre. Uomo da fatica, forte, tarchiato, era avvezzo ad ubbidire senza rifiatare. Lo chiamavano Sbornia, e non se ne aveva a male.

Del resto Pompeo non avea fatto lussi nelle spese d'impianto: aveva preso a pigione una botteguccia, in via Santa Radegonda, e l'aveva fornita coi mobili della Betta. Non voleva fare il passo più lungo della gamba lui; non voleva aver bisogno di ricorrere a prestiti; non voleva finire come l'orefice del Coperto dei Figini.

Erano già scorsi due o tre anni da quel tempo, ma aveva sempre viva dinanzi agli occhi la brutta scena, e gli veniva freddo al solo pensarci!...

Tuttavia quel suo stambugio con un catino giallo ricolmo di panna montata, dipinto sull'uscio a vetri, gli riempiva l'anima di soddisfazione. Era roba sua; ideata e messa su da lui solo; e perciò sentiva per la botteguccia un po' di quella compiacenza amorosa che provava la Betta per il figliuolo che aveva da nascere.

—Ah!—pensava fra sè, abbandonandosi all'esaltazione solita in chi, da giovane, si mette in una prima impresa—ah se questa volta avessi trovata davvero la via di far quattrini!

Diamine; era tanto facile allungar il latte coll'acqua fresca e montar la panna colla chiara d'ovo!

E allora, in grazia del buon avviamento del suo commercio, si astenne per qualche tempo anche dal maltrattare la moglie.

La Betta, a mano a mano che s'inoltrava nella gravidanza, peggiorava in modo da incutere le più serie apprensioni, e una disgrazia che fosse successa in quei primi giorni ch'era stata aperta la latteria avrebbe sconvolto i disegni di Pompeo. I suoi capitali, ormai, egli li aveva tutti impiegati, e faceva assegnamento, per le spese di famiglia, sulla pensioncella che gli Alamanni largivano alla moglie, e sui regali che aspettava in occasione del parto della signora Lucia.

Ma la Betta, appunto per la pace lasciatale dal marito e per la gioia e la felicità che si sentiva in cuore, sbugiardò completamente i cattivi pronostici, e non solo superò la crisi dando alla luce un maschiettino, al quale fa messo nome Giulio, in onor del padrone; ma presto si rimise in forze stando quasi meglio di prima.

A cose finite, Pompeo, senza punto impazzire per la gioia d'essere padre, intascò tutti i regali ch'erano stati fatti alla moglie; trincò due bottiglie di barbèra e fece bravamente la sua zuppa nelle scodelle di brodo sostanzioso che i padroni avevano dato ordine fossero inviate alla puerpera, e poi, appena questa fu in piedi, le spiattellò tondo tondo che, "siccome gli affari non andavano troppo bene, non poteva spendere nemmeno un soldo per la balia di Giulietto. D'altra parte era affar suo, codesto.—Chi deve allattare non è mica il marito!... Se lei non poteva fare il proprio dovere, s'ingegnasse." E giacchè ora Pompeo vedeva di potere ricavar profitto dalla salute della moglie sosteneva, al contrario di prima, che la Betta era di ferro, e finiva anche col persuadersene.

—S'è visto alla prova—diceva alla moglie—che tutti i tuoi malucci d'una volta non erano altro che pretesti e smorfie da scansafatiche. Quando una donna mette al mondo i figliuoli come niente fosse, vuol dire che la macchina è in ottimo stato. Dunque ungi la gobba con un po' di buona volontà e tira via! Sudo anch'io, come un cane, per far buona figura e per mandare avanti la baracca!

E la Betta, dopo aver servito Pompeo, fatte tutte le faccende di casa, spazzato le scale, l'atrio e il loggiato, doveva anche rovinarsi gli occhi a cucire e ricamare di bianco la sera e buona parte della notte, per mantenere a balia la sua creaturina.

Ma ora che cosa importavano a lei le fatiche e le privazioni?... Viveva tutta col pensiero in una casuccia vicino a Sesto, dov'era il neonato. E tutte le feste andava là a piedi, e godeva gioie che non aveva mai provato nè immaginato.

Appena arrivata prendeva subito in collo il suo bambinello e se lo portava via e correva a sedersi sola sola con lui, dietro la casa, sul margine di un vasto campo di trifoglio, contenta, giuliva, che il piccino non si fosse messo a piangere vedendosi levare a un tratto dalle braccia della balia. Allora lo spogliava tutto e lo copriva tutto di baci, diventando rossa, cogli occhi luccicanti dal piacere. Non aveva più freno in quelle sue smanie di carezze; e baciandolo e stringendolo e ribaciandolo non gli sapeva dir altro che mio, mio, mio! e tutto il suo cuore traboccava in quella sola parola. Il bimbo, co' primi moti istintivi delle manine grassocce le stringeva e le graffiava le guance, il naso, le orecchie; le strappava i capelli, e lei lo lasciava fare, beata che avesse dimenticata la balia, beata che se la godesse a star solo con lei, beata di quelle piccole strida di allegrezza, colle quali il piccino, quand'ella se lo teneva in piedi sulle ginocchia, accompagnava le mosse e gli sforzi che faceva colle gambucce e coi braccini per arrivare ad afferrarle la faccia. E la Betta colle sue illusioni di mamma era convinta che il bambino la conoscesse e che le volesse già bene; le pareva che guardasse lei diversamente dalla balia, e per ciò tornava a baciarlo sulle manine e sui piedini con passione, con adorazione, con gratitudine infinita.

Erano quelle le ore che la risanavano; che davano al suo corpo debole e malato la forza di lavorare e di sfacchinare da mattina a sera; era una provvista di felicità per tutto il resto della settimana.

Pompeo non accompagnava mai la moglie in quelle gite:—aveva da badare alla bottega lui; altro che andare in campagna a divertirsi!—E difatti, se prima aveva finto colla Betta che i suoi affari gli andassero poco bene, per risparmiare i quattrini del baliatico, adesso la latteria si metteva maluccio, proprio per davvero. Egli aveva abusato un po' troppo del latte artificiale, e gli avventori, giorno per giorno, avevano finito col disgustarsi, e coll'abbandonare la botteguccia di Santa Radegonda. Pompeo dava colpa di quello sviamento allo Sbornia, che non aveva maniera colla gente, e che era sempre briaco fradicio. L'altro lo lasciava dire, e a volte, nei momenti di malumore, si buscava anche qualche pedata senza rispondere nè rifiatare. Sgobbava come un negro, sempre in ciabatte, col grembiule sudicio, col faccione dimesso, umile e devoto al padrone, non per tornaconto nè per altra ragione particolare, ma solo per istinto, come una bestia.

—Non c'è Cristo che tenga!... Tutto mi va alla maledetta,—brontolava Pompeo, rodendosi le unghie fino alla carne.—E ho sulle spalle anche due scimmiotti da mantenere!

Il bambino, sopraggiunto l'inverno, era stato divezzato e lo avevano ripreso in casa.

Pompeo, chiusa la bottega, tornò dunque a stare giorno e notte ozioso e col muso lungo, sempre alle costole della moglie. E quando non la poteva torturare in altro modo, la metteva in croce per il piccolo Giulio, borbottando ch'era un bimbo rachitico, che non poteva campare; ostinandosi a strapparglielo dalle braccia, per farlo camminare prima del tempo, e poi mettendosi a gridare che era uno zuccone, perchè nascondeva il visino e si stringeva colle braccine al collo della mamma, e cominciava a strillare appena lui gli s'accostava, senza aver ancora capito ch'egli era suo padre!

Ah se non avesse avuto l'impiccio della famiglia! Allora sì; o di riffe o di raffe l'avrebbe spuntata!... Sarebbe andato in Dalmazia, o in Ungheria, a coltivare il seme da bachi, oppure in Sardegna, nelle miniere; o, meglio di tutto, in America! I quattrini di certo, non eran mai piovuti in tasca alla gente; bisognava mettersi a girare il mondo: chi viveva in un guscio di noce non poteva far altro che morir d'inedia!

Ragionando in questo modo, senza ricordarsi punto che prima di sposar la Betta pativa la fame, e che da solo non era stato buono di guadagnarsi un soldo, gli pareva che la famiglia fosse d'inciampo al suo genio industriale. E nelle notti insonni (dormiva poco perchè restava ozioso, in casa, tutto il giorno) smaniava rivoltandosi nel letto, e correndo dietro col cervello a speculazioni fantastiche. E il respiro grosso della moglie e quello più lieve del bimbo lo infastidivano, e se Giulio, che dormiva in una culla vicino al letto dei genitori, si moveva appena, Pompeo cominciava subito a sbuffare, brontolando che non lo lasciavano nemmeno riposare in pace. Al rumore la Betta si destava di soprassalto; il piccino, spaventato, si metteva a strillare, e Pompeo, sempre più stizzito da quella "maledetta sinfonia," tirava calci come un mulo.

La Betta, allora, aspettava che si calmassero le furie del marito; poi scivolava giù adagio adagio dal letto, correva dal suo bimbo, gli ravviava le coperte nella culla, e lo riaddormentava premendo la faccia sul suo visino e riscaldandolo co' suoi baci e col suo fiato caldo di lacrime.

Intanto una nuova e grande sventura si preparava a questa poveretta: la padrona, la signora Lucia, così buona con lei, essa in cui aveva riposte tante speranze per l'avvenire del piccolo Giulio, le veniva a mancare improvvisamente. La giovane signora moriva presso all'apice della felicità, proprio nel punto di diventar madre.

La Alamanni, per altro, pareva avesse preveduta la sua misera fine. Era stata molto malinconica e abbattuta negli ultimi mesi, e aveva preparato una lettera al marito in cui, colle supreme tenerezze dell'amore, gli faceva palesi alcuni suoi desideri pel caso che venisse a morire. Erano ricordi alle amiche, erano soccorsi, elemosine, opere di carità; insomma era tutto il suo cuore che voleva espandersi ancora dopo la morte, come alcuni fiori delicati continuano a diffondere intorno, anche inariditi, la loro soave fragranza.

La Betta pure era stata ricordata in quella lettera, e la signora Lucia, volendo riparare in parte alle perdite sofferte dalla famigliuola colla botteguccia di Santa Radegonda, le aveva fatto un lascito d'un migliaio di svanziche.

Quando la portinaia venne a sapere di questa nuova munificenza che la concerneva, era ancora in lacrime per la padrona, nè quella notizia valse a consolarla, anzi l'addolorò maggiormente.

—Si è ricordata anche di me! Si è ricordata anche di me, la mia buona signora!—E la poverina proruppe in un altro scroscio di pianto.

—Chètati, grulla!—le sussurrò allora Pompeo infastidito.—Se tutte ci avessero a lasciar mille lire, bisognerebbe che ne crepasse una al giorno delle padrone!

La Betta, dopo tante amarezze, al nuovo insulto di quel tristo che la colpiva nel vivo de' suoi affetti e della sua gratitudine, si riscosse a un tratto, indignata; e rimangiandosi le lacrime, fattasi rossa, di fuoco, gli gridò contro con voce sorda, ma con impeto, e fissandolo bene in faccia:

—Mostro!

Pompeo stupì a tanta audacia, poi si avvicinò d'un passo alla moglie, levando la mano in atto di misurarle un ceffone:

—Ripeti un po', gobba, quello che hai detto?!

La Betta afferrò Giulio, che avea lì vicino, per un braccio; lo nascose in un attimo, dietro di sè, per ripararlo dall'ira del marito, e poi con tutto un sussulto dell'esile corpicciuolo e sfidandolo cogli occhi, solitamente così dolci, ma in quel punto pieni di sdegno, tornò a ripetere, mezzo soffocata da un urto di tosse:

—Mostro!... Mostro!

Pompeo le si avvicinò ancora un altro passo; sempre con la mano alzata: la guardò, fece una mossa di scherno colle labbra; ma, sorpreso e impacciato, non osò toccarla.

—Se la tua padrona ti voleva far del bene,—soggiunse infine, alzando le spalle,—poteva lasciarti molto più, senza scomodarsi. Già, i suoi quattrini non poteva portarseli dietro... in viaggio!

Ciò detto, Pompeo uscì nel cortile e terminò il discorso con una risataccia che la povera donna sentì ripercuotersi in viso, come se in quel punto la colpisse lo schiaffo che l'avea prima minacciata.

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V.

Giulio Alamanni, quando gli morì la moglie, n'era sempre innamorato. Lucia in fatti possedeva per maravigliosa intuizione l'arte tanto difficile di saper voler bene. Essa amava col cuore e coll'intelligenza e però conservava sempre desta, anche in mezzo ai trasporti più appassionati, la felice vivacità del suo spirito, e riusciva sempre a trasformarsi, con un senso squisito di opportunità, a seconda delle varie disposizioni d'animo o d'umore del marito. Così che l'Alamanni a volte trovava in lei un'amante appassionata, a volte una piacevole compagna dalle arguzie eleganti, e a volte invece, quando sentiva il bisogno di comunicare i più arditi concetti della propria intelligenza, o di espandere le più intime aspirazioni del cuore, era essa l'amica fidata, che meglio di tutti lo sapeva intendere ed apprezzare, e in due pupille nere, lucenti, che lo guardavano con amorosa attenzione, egli vedeva sempre riflessi i suoi affetti e i suoi entusiasmi.

Colla fortuna di una tal compagna nella vita all'Alamanni poco o nulla restava da desiderare. Viveva contento, felice, tutto chiuso nella sua casa, e però, di primo acchito, sentì di non poter amare, d'odiar quasi quella creaturina che veniva al mondo per distruggergli a un tratto ogni felicità, per strapparlo brutalmente dalle braccia della sposa, dell'amante, dell'amica diletta, per lasciarlo solo e misero a sopravvivere ai propri affetti, privo di ogni speranza.

Chiamò allora presso di sè una sua parente vedova e non ricca; le affidò la neonata, volle che la portasse via subito, che pensasse lei ad allevarla; insomma che le facesse da madre. Gliel'avrebbe ricondotta più tardi, quando il tempo, che non doveva certo mitigare l'acerbità della sua sventura, gli avesse almeno data la forza di soffrire con più coraggio.

Ma la tempra di Giulio Alamanni era vigorosa, e il dolore, per quanto forte, non poteva abbatterla. Egli aveva troppe e troppo care memorie, aveva troppo alta poesia nell'animo per abbandonarsi ad un'inerzia vergognosa; e però dopo quell'urto che lo avea violentemente scosso si riebbe col cuore sanguinante, ma con una energica risoluzione, e dedicò la vita e l'ingegno al trionfo di un ideale che ricominciava allora a infiammare potentemente gli animi: la libertà della patria.

Già un suo fratello, di poco più giovane, Francesco Alamanni, discepolo e strumento segreto e validissimo di Giuseppe Mazzini, caduto in gravi sospetti della polizia, avea dovuto esulare sotto altro nome in Piemonte. Giulio Alamanni, inscrittosi pure nella Giovane Italia, continuò allora a Milano, con pari animo e gagliardia, l'opera del fratello, finchè non si ritrovarono uniti, prima per combattere insieme durante le Cinque Giornate, e poi per arruolarsi nei Bersaglieri Lombardi e accorrere alla difesa di Roma.

Perciò quando pochi mesi dopo i Tedeschi tornati a Milano incrudelirono nelle rappresaglie, il palazzo degli Alamanni fu subito preso di mira e sorvegliato e perquisito, mentre la polizia si adoperava a tutta possa per aver nelle mani i due fratelli.

I pochi servitori ch'erano rimasti in casa venivano chiamati un giorno sì un giorno no, dal Commissario per essere sottoposti a lunghi interrogatori sul conto dei padroni. Si voleva sapere se mai ne avessero sentito a parlare, se ne erano giunte notizie a qualche parente, a qualche amico; e secondo l'umor della bestia, a volte erano minacciati di fieri gastighi, a volte blanditi e lusingati da seducenti promesse. Ma tuttavia, anche volendolo, essi non avrebbero potuto riferir nulla di rilevante: i padroni non si facevano vivi con alcuno.

Pompeo, nei primi momenti, ebbe pur egli una chiamata dal Commissario, e sebbene si affrettasse a rispondere all'invito, vi andò tutto tremante dalla paura.

Non già che si fosse compromesso durante la rivoluzione. Egli non era corso alle barricate; non aveva gridato per le strade: "Viva l'Italia e Viva Pio Nono!" non avea mai cantato l'inno fatidico di Mameli, nè, in ultimo, applaudito alle satire contro il papa spergiuro ed il re bigotto. Per tutte le cinque giornate era rimasto chiuso nel suo bugigattolo, pauroso, tremante, bestemmiando contro quei fanatici senza cervello, che avrebbero finito col far saccheggiare e incendiar Milano. E dopo fuggiti i Tedeschi, continuò a ringhiare contro ogni novità; e appena ritornarono, si affrettò a chiamarli per soprannome i gastigamatti, dichiarando che avrebbe dato chi sa cosa pur di non trovarsi in que' frangenti al servizio di due persone, come gli Alamanni, tanto pregiudicate col governo legittimo.

"In che modo avrebbe potuto levarsi d'impaccio?... Certo, anche lui sarebbe caduto in sospetto; e in quei giorni bastava un sospetto per far impiccare un galantuomo!... Dio, Dio, Dio! perchè era entrato in quella casa maledetta? perchè s'era messo in quelle peste?" E un giorno che sua moglie osò domandare, se si avevano notizie del signor Giulio, Pompeo montò su tutte le furie, rispondendole che era una imprudente, una matta, una fanatica; ch'era sempre stata la sua disgrazia, e che avrebbe finito col farlo mandare sulla forca.

Ma poi, subito dopo la visita fatta al Commissario, sembrò che un poco si tranquillasse. Appariva più sereno, non avea più tanta paura nel discorrere di tirar in ballo la politica, e sovente lui stesso, per il primo, intratteneva la Betta sul conto dei padroni, dimostrando per essi una devozione insolita. Figurarsi! arrivò al punto, colle sue premure, di mandar la Betta ogni due giorni da Donna Lucrezia, la parente cui era stata affidata la bimba Alamanni, per scovare notizie del signor Giulio e del signor Francesco. E quando la Betta tornava a casa dopo essere stata dalla vedova, Pompeo non la finiva più colle interrogazioni, e si mostrava persino amabile colla moglie; si prendeva il piccino sulle ginocchia e lo faceva trottare per un pezzo, a cavalcioni.

La Betta era tutta consolata e diceva ch'era stata la Madonna che aveva toccato il cuore del su'omo!

Questi, intanto, avea preso l'abitudine di andare a spasso quasi tutte le sere. Girava qua e là, a caso. per vie diverse; ma poi, capitava sempre nelle vicinanze di Piazza dei Mercanti o di Santa Margherita, imboccava il volto dell' Arco Vecchio, e sgattaiolando dalla porta attraversava lesto lesto la corte della sua antica abitazione; infilava di corsa una delle tante scalucce, a quell'ora buie e deserte, e si fermava ansante al terzo piano, dinanzi all'uscio su cui era scritto Mediatore.

—In fin dei conti—pensava Pompeo fra sè ogni volta che ritornava da quelle visite notturne—in fin dei conti io salvo la pelle, e non fo male ad alcuno. Già, i padroni non vorranno essere tanto grulli da tornare a Milano per cader in trappola! D'altronde io non ho mai fatto il rivoluzionario; non ho mai portato coccarde; non sono corso dietro a Garibaldi come quel bestione dello Sbornia!... Se gli altri vogliono tener mano agl'Italiani io credo d'essere libero di parteggiare per i Tedeschi. In fin dei conti è chiaro che le rivoluzioni non si fanno altro che per i signori. Sotto i Tedeschi o sotto gl'Italiani la povera gente farà quaresima allo stesso modo, e in quanto a me dovrò sempre servire, sgobbare e spazzar le scale anche in onore del Popolo Sovrano!... Chè!... chè!... per mio conto, viva l'Austria e il quieto vivere! E poi io non posso scherzare, non posso fare il matto come gli altri. Io ho i miei doveri: sono padre di famiglia!

Con tali ragionamenti Pompeo si metteva in pace la coscienza; ma non potè durarla a lungo.

Un giorno, nel tempo appunto che succedevano que' suoi colloqui segreti con Don Miao, egli se ne stava solo solo in porteria, seduto vicino al fuoco mezzo spento, quando a un tratto si sentì chiamar piano dietro le spalle da una voce che lo fe' trasalire. Si voltò, balzando in piedi, e rimase maravigliato trovandosi dinanzi un contadino lacero, smunto, che lo fissava senza dir motto, come aspettando che lo riconoscesse; ma poi, a poco a poco, alla sua maraviglia si aggiunse un'inquietudine strana, vivissima. Guardando la faccia tutta rasa dello sconosciuto, sentiva come una vaga reminiscenza, poi a poco a poco riconobbe i tratti di persona a lui ben nota. Allora, per un intimo turbamento, non potè più sostenere lo sguardo che lo fissava; abbassò gli occhi e mormorò:

—Mio Dio, il padrone!

Giulio Alamanni (era proprio lui, travestito in quel modo) si pose l'indice della mano sulla bocca, accennando a Pompeo di tacere; poi, guardando in giro con diffidenza:—La Betta—domandò, parlando sempre a bassa voce—è uscita?

—Sì... signor padrone....

—E... starà molto fuori?

—Non so... non credo.

—Allora aprimi subito la porta della scala e fammi passare: che nessuno mi veda!

—Sì... si...gnore....

—E gli altri della casa?

—Le donne sono in chiesa... il cocchiere dev'essere in scuderia.... in corte non c'è anima viva.

—Andiamo... sbrighiamoci!

—Sissignore....

Pompeo, tutto sconvolto, si avviò verso la tavoletta delle chiavi, staccò le due prime che vi erano appese, poi in fretta, seguìto dal padrone, attraversò l'atrio, aprì le imposte a vetri che davano adito alla scala, e quando furon essi dentro tutti e due, tornò a richiuderle con un doppio giro di chiave.

—Ora ci siamo!—esclamò l'Alamanni con un sospirone di sollievo.—È andata meglio che non sperassi. Ma e poi?—soggiunse rivolgendosi a Pompeo.—Se torna tua moglie e non ti trova in porteria?

—Figurerò d'essere salito su per aprir le finestre e dar aria alle sale,—rispose Barbetta sforzando la voce, che non gli voleva uscir chiara dalla gola.

—Hai presa la chiave del quartiere?

—Sì, signor padrone: ho presa la chiave dell'anticamera; tutte le altre son dentro.

Allora Pompeo e l'Alamanni cominciarono a salire le scale.

—C'è stata la polizia a farmi visita, non è vero?

—Una volta, signor padrone,—rispose il portinaio, che si sentì gelare il sangue e salì più in fretta gli scalini, come per sfuggire a quell'interrogazione.

—Avrà messo tutto sossopra?...

—Sissignore; ma non ha trovato nulla.... Almeno così ho sentito dire.

—Lo so, lo so. E la Betta?—continuò l'Alamanni colla sua solita affabilità.

—Benino al solito; grazie, signor padrone.

—Povera figliuola!—e Giulio Alamanni, pensando in quel punto quanto la Betta fosse stata affezionata alla sua Lucia, sospirò profondamente. Frattanto erano giunti nell'anticamera.

—Da che parte, signor padrone?—domandò Pompeo fermandosi nel mezzo, perchè sull'anticamera davano due appartamenti.

—Per di qua:—e l'Alamanni accennò a sinistra.—Aprimi la camera da letto... Di' la verità,—soggiunse poi, notando la confusione e la faccia stralunata del portinaio,—questa mia apparizione ti ha messo in corpo una gran paura?

—No... cioè... temo per lei, signor padrone!... Se mai la polizia venisse a sapere....

—Chi mai potrebbe riconoscermi così trasfigurato? E poi non uscirò certo di casa in tutto il giorno, e stanotte lascierò Milano per sempre.

—E... e il signor Francesco?

—Egli è già in sicuro.

Il portinaio non rispose verbo, ma alzò gli occhi al cielo quasi volesse ringraziare la divina Provvidenza.

Dopo aver attraversata adagio adagio, al buio, una lunga fila di sale grandi e fredde, dove i tappeti ammorzavano anche il rumore dei passi, i due erano entrati in una stanza più rischiarata in cui distinsero subito, come nuvola bianca, l'alcova e i cortinaggi di un letto matrimoniale.

Giulio Alamanni, che si era fatto pallidissimo, ordinò allora a Pompeo di aprire gli scuri delle finestre.

Il portinaio si affrettò a ubbidire. Le finestre prendevano luce dal piccolo giardino della casa e non c'era pericolo che alcuno, di là, potesse spiare nella stanza; ma tuttavia Giulio Alamanni non pensava certo in quel momento alla propria sicurezza; ben altri sentimenti gli agitavano l'animo.

Erano i ricordi più dolci e più dolorosi della sua vita; erano le gioie dell'amore ed era insieme l'ultimo grido di Lucia agonizzante, che si ripercuoteva ancora fra quelle pareti.

Egli era ritornato là dove avea tanto amato e tanto sofferto!... dove la sua Lucia gli aveva dato tutto il suo amore, e dove nell'ultima ora avea risposto con un rantolo ai suoi baci e alle sue carezze.

Ma la morte, col lugubre accompagnamento di lacrime e di disperazione, era passata per quella camera, senza lasciarvi alcuna traccia.... I rosei putti del soffitto danzavano sempre giocondi attorno ad un'Aurora tutta candida e soave nella sua nudità immacolata; e gli stucchi nitidi, e i fregi dorati, e i larghi fiori degli arazzi splendevano al sole, come il primo giorno in cui egli vi era entrato stretto al fianco della sua sposa, che gli sorrideva tremando.

Subito era corso collo sguardo al capezzale dove, sui guanciali affondati, avea veduto per tante ore, quasi immobile, il viso scarno, pallido pallido, di Lucia... ma adesso una ricca coltre di damasco antico dai vivi colori copriva tutto il letto morbido, ravviato che non faceva una grinza.

Sul tavolino accanto, in luogo delle boccette e dei medicamenti, ch'egli guardava in que' giorni con un senso supremo di speranza, si vedeano, disposti in bell'ordine, i gingilli eleganti e le figurine graziose di porcellana.... Tutto, insomma, era stato ripulito, mutato, rimesso a nuovo: e l'Alamanni cercandovi invano una traccia del suo gran dolore, a poco a poco si sentì come un estraneo in casa, in camera sua, quasi al pari che nel suo luogo di esilio.

—No, le cose non hanno lacrime,—mormorò fra sè con profonda angoscia. Ma poi, veduto Pompeo che gli si teneva vicino, umile, col berretto in mano, volle vincere per un nobile sentimento di fierezza la propria commozione; e usò di tutto il suo coraggio per mostrarsi forte, e ricordarsi di ciò per cui era venuto.

Con la voce spezzata dall'affanno ordinò subito al portinaio che accendesse il fuoco nel piccolo caminetto della stanza.

Pompeo era già troppo sbalordito perchè un ordine così inaspettato e, in quel momento, così strano, lo potesse maravigliare. Invece, tutto premuroso, levò il paravento, cercò la legna che trovò subito in un mobiletto di mogano accanto al caminetto, e l'accomodò sugli alari. L'Alamanni, intanto, lo seguiva cogli occhi aspettando impassibile che il fuoco fosse acceso; e poi, quando vide levarsi la fiamma dinanzi a Pompeo che inginocchiato soffiava sotto ai fastelli:—Ora—gli disse—bisogna vedere se ci riesce di staccare un po' quell'armadio dalla parete.

Questa volta Pompeo guardò fisso il padrone: non aveva capito bene che cosa dovesse fare.

L'armadio indicato, grande, pesante, a fregi e intarsiature, sullo stile degli altri mobili della camera, pareva infisso nella parete di faccia al letto e tutto chiuso fra la cornice dell'arazzo.

—Sì, lo potremo smuovere facilmente,—soggiunse l'Alamanni rispondendo alla muta interrogazione di Pompeo; e allora servendosi di una mano sola, che l'altra, la destra, la teneva sempre nascosta sotto la giacca di frustagno, riuscì a staccare dal muro una parte dell'arazzo, mostrando in tal modo che l'armadio vi era appena accostato.

—È forse ferito?—domandò Pompeo al padrone, avendo notato come non si fosse servito altro che della mano sinistra.

—Sì; ma è cosa da nulla.

Pompeo da solo giunse appena con molta fatica a scostare di tanto l'armadio che tra la parte di dietro e il muro potesse penetrare una persona.

—Mi ci vorrebbe un arnese di ferro; un martello, una spranga,—disse l'Alamanni guardando in giro per la stanza. Ma non trovò altro che le molle del caminetto: avevano un manico d'ottone fuso; grosso, massiccio. Le additò a Pompeo e gli diè ordine di battere con quelle, e con tutta forza, sopra un punto dove la parete si vedeva murata di fresco. Il tramezzo cedette subito ai primi colpi, per un largo tratto rettangolare, e dietro apparve agli occhi maravigliati del portinaio una grande cassa di ferro.

—Il pover'uomo che mi aveva murata questa buca, è stato ucciso dai Tedeschi alla barricata di San Celso!—mormorò il proscritto con un sospiro. Poi fatto ritornare il servo ad attizzare il fuoco aprì lo scrigno, mediante una chiave che portava con sè, e ne tolse alcuni fasci di carte che buttò sulla fiamma rimanendo muto, accigliato a vederli bruciare.

—Sai,—disse poi rivolgendosi a Pompeo quando di tutti quei fogli non rimase più altro che un mucchio di cenere nera, a falde, alcune delle quali svolazzavano qua e là su pel camino,—se i Tedeschi fossero riusciti a metter le mani su quelle lettere, c'era tanto da porre in pericolo mezza Milano.

—Ma per fortuna, signor padrone, i poliziotti non sarebbero mai venuti a capo di scoprirle, tanto bene erano nascoste.

—Eh, non si sa mai!... Alle volte si trova la spia dove meno si crederebbe....

Pompeo impallidì, e non potè rispondere altro che qualche parola inintelligibile.

—Ma ad ogni modo,—continuò l'Alamanni,—adesso sono più tranquillo. Anche se fossi preso, avrebbero me solo nelle granfie!

E così dicendo il proscritto si guardava attorno nella camera con un senso profondo di mestizia: pareva chiamasse tutte le memorie di Lucia a testimonio del disgusto e dell'amarezza che sentiva della vita. Però tacque lungamente, ritornato in preda alla più viva commozione. Poi di nuovo, sebben cogli occhi pieni di lacrime, riuscì a vincersi, e rivoltosi daccapo a Pompeo:

—Ora,—gli disse,—scenderai subito in porteria.

—Sì, signor padrone.

—Se la Betta fosse tornata, trova modo di rimandarla via. Non ti mancherà certo qualche scusa, qualche pretesto. Occorre che stia fuori di casa almeno due o tre ore.

—S'ella crede, potrei mandare mia moglie da donna Lucrezia. Così, prima di partire, ella avrebbe anche le notizie della padroncina.

—Oh, l'ho già veduta la mia bimba... povera bimba!

Il Barbetta non fu punto commosso da queste parole, nè dal sospiro con cui furono accompagnate. Invece provò dentro di sè una gran contentezza, accorgendosi di non esser solo a conoscere quel viaggio misterioso del padrone.

—So che ci vai spesso a salutare mia figlia; so che ci va pure anche la Betta, e ve ne ringrazio. Fra qualche giorno, quando mi troverò al sicuro, ho già disposto perchè la bimba venga a raggiungermi con Donna Lucrezia.... Ma, per oggi, è meglio che tua moglie non si faccia vedere da quelle parti. Non mi parrebbe prudente. Si fa presto a ciarlare!

—Come vuole, signor padrone. Allora manderò la Betta dalla lavandaia. Oh, non dubiti! è una buona passeggiata! Sta laggiù, alla Barona, fuori di porta Ticinese.

—Va bene. Appena resti solo, torna su da me. Ti darò una somma di danaro e una mia lettera: porterai l'una e l'altra dal banchiere Nicola Mazza. Sai dove abita, non è vero?

—È quello che ha bottega di cambia-valute sull'angolo di via Orefici?

—Quello, per l'appunto. Egli, poi, ti consegnerà una tratta a mio favore su Londra.

—Sì, signore.

—Intanto io ti preparerò tutta la somma in rotoli di napoleoni d'oro, così ti sarà più agevole il trasportarla. Ma prima è necessario che tu vada dal Mazza per metterti d'accordo con lui circa all'ora e al modo di fargli avere il danaro. Bada che non lo potrai portare tutto in una volta; perciò sarà bene prepararlo, e nasconderlo giù in camera tua finchè sei solo in casa, così la Betta e gli altri non ti vedranno salire e poi riscendere colle tasche gonfie.

—Sì, signore.

—Ci avrai pure qualche ripostiglio sicuro?

—Ho... ho un cassettone che ha una serratura forte,—rispose Pompeo con un tremito strano nella voce e senza guardare in faccia l'Alamanni.

Nicola Mazza, il banchiere sull'angolo di via Orefici, appena sentita l'imbasciata, rispose subito che i danari, per maggior prudenza, bisognava aspettare a trasportarli di notte e... e perciò in tutto quel lunghissimo giorno la grossa somma (cinquanta mila svanziche in tanti rotoli di napoleoni d'oro) rimase nascosta nel cassettone del portinaio.

—Questa volta, se la polizia agguanta il padrone, impiccano anche me!—pensava Pompeo, rannicchiato accanto al fuoco spento col capo fra le mani.

A momenti era assalito da brividi; lo prendeva una smania nervosa, e allora inveiva senza ragione contro la Betta e scapaccionava il povero bambino, che correva a rifugiarsi dietro le sottane della mamma.

—Cinquanta mila lire?!...

Ma non ci voleva pensare a quella somma, e sebbene attratto da una specie di fascino a guardare verso il cassettone, pure rimaneva duro e non si voltava mai da quella parte.

Voleva persuadersi che delle cinquanta mila lire non gliene importava nulla e che le sue inquietudini, le sue incertezze provenivano soltanto dal grave pericolo al quale andava esponendo sè e tutti i suoi. Fosse stato solo, allora avrebbe anche potuto darsi l'aria di un eroe; ma invece, era padre di famiglia, e dovea pensarci due volte prima di fare uno sproposito!... E i danari? E le cinquanta mila lire ch'erano lì nel cassettone?... Chè! Non se ne curava punto! Non erano i danari certamente che avvrebbero potuto indurlo... che avrebbero potuto trascinarlo... Oibò!... Non era sempre stato galantuomo? Anche quando avea dovuto chiuder bottega non avrebbe potuto dichiarare il fallimento e tenersi i quattrini se fosse stato disonesto? Invece avea pagato i suoi creditori fino all'ultimo soldo!... Dunque? Dunque anche adesso non era certo per un po' di danaro che si sentiva turbato. Non ci pensava nemmeno!... Voleva anzi dimenticare che fosse nascosto in camera sua... Aveva ben altro pel capo... Non se ne ricordava già più!... Era la famiglia quella che gli premeva!...—E Pompeo arrivato a questo punto co' suoi pensieri, per convincersi meglio che in ogni caso avrebbe avuto solo di mira il benessere della moglie e del figliuolo suo, fece uno sforzo per rivolgere qualche buona parola alla Betta, e prendendosi il bimbo sulle ginocchia cominciò a farlo trottare:

Op, là là! op, op, là là!

Ma poi, a poco a poco, tornava cupo e pensieroso: e allora, senza accorgersene, affrettava il su e giù nervoso delle gambe, dimenticando il figliuolo che gli ballonzolava davanti col visino smorto, pieno di lacrime. Ma la Betta, che conosceva l'umore bizzarro del marito, non perdeva di vista il bambino, e appena poteva, fattosi animo, glielo toglieva di mano.

—E se in casa ci fosse nascosto un qualche arnese di polizia?... Allora agguantano il padrone ugualmente, e per giunta mandano anche me sulla forca. Quel balordo non si era fatto vedere da Donna Lucrezia?!... Una fanatica senza giudizio, che non sarebbe stata zitta nemmeno a tagliarle la lingua!

Ma, subito, questo dubbio ch'egli era andato a cercare soltanto per mettersi in pace colla coscienza, lo atterrì.

—Non poteva, proprio per davvero, esserci qualcuno che avesse avuto l'ingiunzione di sorvegliar lui, come lui avea avuto l'ordine di sorvegliare gli altri?

Pompeo fu preso da un brivido, mentre un sudore freddo gli stillava dalla fronte. Si alzò in piedi a un tratto, e si guardò attorno per la camera, come smarrito, respirando con fatica.

—... Sicuro; se in casa ci fosse la spia e avesse già riferito al commissario l'arrivo del padrone?... Sarei bello e spacciato!

Don Miao glielo avea detto chiaro fino dal principio: Badate che se vi si trova in fallo, non vi sarà usata misericordia!

Per Dio! Si trattava di salvar la pelle, altro che la tentazione di una manciata di marenghi!

Ma alla paura di Pompeo, sebben grande e sincera, si mescolava in fondo al cuore, per una contradizione strana, un senso indefinibile di contentezza, una speranza che gli sorrideva nell'avvenire lontano; invano cercava di seppellirla sotto una fitta di pensieri svariati e tormentosi; a ogni poco ritornava a galla riapparendogli più bella e più lusinghiera.

L'immagine terribile del capestro, che lo faceva fremere e tremare, non era forse una valida giustificazione per la sua coscienza?... E parimente, anche dopo, davanti al giudizio, così fallace, della pubblica opinione?... Dopo molti anni, scomparso ogni pericolo, egli avrebbe ritrovato nel cassettone, e con sua grande maraviglia, le cinquanta mila lire, che sotto la minaccia continua della prigione e della forca era naturale, naturalissimo, avesse del tutto dimenticate!...

Ma intanto bisognava risolversi. Allora tornò a sedersi e rimase lungamente colla testa bassa, voltando le spalle al cassettone.

—Povero figliuolo mio, povera moglie mia, se m'impiccassero! Non resterebbe loro altro che morir di fame.... Il signor Giulio in galera; il signor Francesco in esilio; e Donna Lucrezia che si trova al verde.... È un bel matto, del resto, anche il mio padrone!... Dopo rimasto vedovo la vita gli viene a noia, vuol crepare ad ogni costo, si ficca nelle congiure, corre alla guerra e ne fa di tutti i colori senza badare, intanto, a quali pericoli espone un povero cristiano, che è l'unico sostegno della famiglia, e che non ha punta voglia di sentirsi la corda al collo!... Certo il signor Giulio non aveva usata alcuna prudenza. Ci voleva ben altro che i travestimenti per sfuggire alla polizia! Doveva tenersi al largo e non tornare a Milano col rischio di cadere in trappola.... Se i quattrini erano finiti, ebbene, poteva far debiti!... Era vero, per altro, che il signor Giulio correva meno pericoli di suo fratello, il signor Francesco.... Quello sì, se fosse caduto in mano ai Tedeschi, era sicuro di morire sulla forca.... Ma il signor Giulio?... Oibò! Gli avrebbero fatta una paternale e, tutt'al più, lo avrebbero tenuto dentro fin che non gli fosse passato il grillo dell'Italia libera!... Si sapeva bene, che era un poeta, un matto....

—Ed io—continuava a dire Pompeo fra sè—dovrei sfidare la pelle, quando il padrone, a buon conto, non arrischia altro che di metter giudizio?....

—In tal caso,—concluse poi, dopo qualche tempo di profonda meditazione, e senza nemmeno accorgersi che i suoi pensieri ormai gli avevano tolta la mano e correvano tutti là dove lo portava il cuore,—in tal caso, mi terrei io i danari, perchè non venissero confiscati, e li renderei al padrone appena fosse rimesso in libertà.... Certo... certo.... Glieli renderei fino all'ultima svanzica. Sono sempre stato un galantuomo, io!

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VI.

La donna avea già scodellata la minestra sul tovagliuolo disteso nel solito cantuccio del deschetto; ma Pompeo, assorto nei suoi pensieri, non si moveva per mettersi a mangiare. Da più di un'ora stava là ritto in piedi, muto, immobile, colla faccia bianca, smorta, e gli occhietti loschi, infossati. Ma anche da quella sua cupa impassibilità, traspariva, a guardarci bene, l'inquietudine, e la lotta interna del suo animo. Le labbra sottili avevano un tremito quasi impercettibile e colle unghie rabbiose si graffiava le mani che teneva incrociate dietro la schiena.

Giulio avea fame, e lo diceva pianino alla mamma, la quale, non arrischiandosi a parlare, moveva però a ogni poco i piatti e le posate di ferro, perchè l'altro dovesse accorgersi che il desinare era pronto.

Ma Pompeo rimaneva impassibile deludendo tutti gli espedienti messi in opera per iscuoterlo. E durò così ancora un buon pezzo, finchè la Betta, pensando che il riso si sciupava, si fe' animo, e a mezza voce, passandogli vicina, lo avvertì che avea messo in tavola.

La povera donna si aspettava certo uno sgarbo un rabbuffo, ma in vece, con grande sua maraviglia, il marito le rispose garbatamente che incominciasse lei a mangiare col bambino.

—Io non ho fame,—aggiunse poi, battendosi forte col pugno sullo stomaco.—Sento ancora il peso delle aringhe e delle cipolle di stamattina... Bisognerà... proverò... a far due passi...—E guardò l'uscio, ma non si mosse.

—Vuoi una scodella di brodo e vino? Ti farà bene se hai un po' d'imbarazzo—suggerì la moglie con sollecitudine.

—No... no... Mi dà disgusto!... Farò due passi... farò due passi—ripetè, e cercò coll'occhio il cappello, guardando ancora verso l'uscio; ma come prima, alla sfuggita, e senza muoversi.

La Betta si rincantucciò nell'angolo della tavola, si fece il segno della croce, e preso il bimbo sulle ginocchia, cominciò a mangiar la minestra adagio adagio, senza più dire una parola, studiandosi di non toccar la scodella col cucchiaio, per non dar molestia al marito.

Questi, dopo un altro poco, si mosse girando lentamente su e giù per la stanza. Poi si fermò dinanzi alla seggiola dov'era il suo cappello. Lo spazzolò ben bene, a lungo, gli lisciò la tesa fregandola contro il gomito, gli aggiustò il nastrino, e in fine se lo cacciò in capo risolutamente con un lattone; ma ancora non ebbe il coraggio di andarsene e tornò daccapo a passeggiare quasi non sapendo trovar la parola solita per dire addio.

—Che ora è?—domandò finalmente, dopo essersi schiarita la voce che gli usciva soffocata dalla strozza, e senza guardare in faccia la Betta.

—Le sei, credo.

—Chè, chè! Ti gira?!... dev'esser molto più tardi....

La Betta non fiatò.

—Saranno almeno le sei e mezzo,—riprese Pompeo dopo una lunga pausa.

Perchè sua moglie non gli diceva lei di uscire, di muoversi, di andare a prendere una boccata d'aria?... Così, da solo, non sapeva risolversi a fare quel primo passo. Aveva bisogno che qualcuno gli desse una spinta.

—Auf, si soffoca qui dentro!

Ma la Betta, cheta cheta, continuava a mangiare col suo bambino, senza dir verbo.

—Perdio! leccate anche i piatti stasera; che non la smettete più?—brontolò alla fine il portinaio, tutto stizzito, per quel silenzio che lo impacciava.

Betta, subito, mise il bimbo in terra, gli pulì la bocca con una cocca del tovagliuolo disteso sul desco, poi cominciò a sparecchiare.

A un tratto dalla chiesa vicina si udì suonare l' Ave Maria.

—Sono le sette,—esclamò Pompeo. L'ora già tarda, e il rintocco delle campane, echeggiando nel cortile e nella stanza gli dette animo e lo fece risolvere. Si avviò prestamente verso la porta; ma poi quando fu nell'andito si fermò di botto preso da una nuova inquietudine.... Se fosse uscita anche la donna per andare in chiesa, chi sarebbe rimasto a far la guardia al cassettone?... Ma in un attimo si rimise in cammino e tirò dritto, contento di poter provare a sè stesso che nel supremo momento non si era dato alcun pensiero del danaro affidatogli.

Quella sera egli non si perdette a girar per le strade. Andò dritto all' Arco Vecchio, e quando fu per infilare la porta della sua antica abitazione, non si voltò neppure, come faceva di solito, per vedere se aveva dietro qualcuno che lo spiasse.

L'enormità del suo delitto, gli aveva messo addosso, nel momento di compierlo, uno sgomento così nuovo e così strano, una agitazione, un orgasmo, da farlo traballare come un ubbriaco. La corte era deserta; ma quelle ombre oscure che Pompeo, senza osare di girar la testa, vedeva colla coda dell'occhio, gli parevan piene di gente che stesse là in agguato per saltargli addosso e pigliarlo alla gola. Ansava nel montar la scala, e sudava, e tremava, ma non si fermò: ormai era troppo tardi.

Quando fu giunto dinanzi alla porta del Mediatore era livido, e mentre picchiava all'uscio adagio adagio, chiudeva gli occhi, e si sentiva girar la testa come se fosse sul punto di buttarsi giù da un precipizio.... Avrebbe voluto esser ancora a casa sua, accanto al fuoco, a riflettere. In quell'attimo rivide la stanzuccia bassa, scura, piena di mobili e di roba.... Rivide pur anco il cassettone, e in mezzo al turbamento, provò un intimo senso di contentezza udendo lo strisciare dei passi di Don Miao, che veniva ad aprire.

Il dato era tratto.

Ritornò a casa prestissimo: aveva le gote accese e appariva così agitato e sconvolto che la Betta gli domandò se si sentiva male.

—No. Ho caldo. Mi sento soffocare.

Si era levato il cappello, ma non trovava dove posarlo, e tornò a cacciarselo in testa; voleva sedersi a tavola, ma non vedeva la seggiola che avea lì davanti. Colla Betta poi, era ancor più trattabile di prima; non si era mai mostrato tanto cortese. Pareva proprio che avesse bisogno di qualcheduno che gli stesse sempre vicino e che gli fosse affezionato. Domandò di Giulio, lo voleva vedere, ma era già a letto. Allora sospirò e giurò a sè stesso che, se non avesse avuto famiglia, non avrebbe fatto quello che avea fatto....—Chè! mai, mai! Se non avesse avuto moglie e figliuolo, sarebbe corso anche lui alla guerra, come lo Sbornia!

Ma si faceva tardi, e bisognava trovare il modo di liberarsi della Betta. Non la voleva presente all'arresto del padrone. Pensò di mandarla a prendere un fiasco di vino in una bettola lontana da casa Alamanni, in via dei Tre Alberghi.

Ma la donna fece la strada in fretta e ritornò più presto di quanto Pompeo avesse pensato.

Essa lo cercò nella prima stanza... non lo vide. Posò il fiasco sulla tavola, prese la candela, e passò nell'altra camera: non v'era nemmeno là. Allora, maravigliata, si mise a chiamare:

—Pompeo! Pompeo!

—Son qui!—rispose una voce bassa, soffocata, dal fondo della camera. La Betta alzò il lume per vedere di dove veniva la voce, e scoprì Pompeo rannicchiato, nascosto fra il letto e la parete.

—Che hai?!... Ti senti male?—domandò spaventata.

—No. Ti aspettava....—e così dicendo Pompeo si alzò in piedi: tremava come una foglia.

—Oh povera me! Tu sei malato!

—No.... no.... Dammi un bicchier di vino.

Ma la Betta non ebbe tempo di passare nell'altra stanza a prendere la bottiglia; un rumore confuso di voci, di passi pesanti, di sciabole e di fucili risuonò a un tratto sotto l'atrio della casa.

—Vergine santa! I gendarmi!...—gridò la Betta nascondendosi il capo fra le mani.

Pompeo non si mosse, non disse verbo; allibì.

Soltanto quando la Betta fece l'atto di uscire le afferrò un braccio e se la tirò vicina, addosso, come se volesse ripararsi dietro a lei.

—Gesummaria, vengono ad arrestarti!—mormorò la povera donna che non sapeva spiegarsi altrimenti il tremito del marito.

No... no.... Li senti?...—rispose Pompeo, e tese l'orecchio con ansia.—Si mettono in ordine.... Vanno via.

I gendarmi si avviarono in fatti verso la porta di strada; ma il cancello sotto l'atrio era chiuso e però dovettero passare per l'andito angusto della porteria.

La Betta, sbigottita, gli vedeva sfilare a due a due dalla finestrina a cristalli in fondo alla camera, quando si spalancò all'improvviso la piccola imposta, sbatacchiata violentemente, e dal breve pertugio si affacciò come spettro, una figura pallida, sbiancata; cercò, fissò Pompeo con due occhi di foco e gli gridò contro, come una maledizione:

Spia!

—Il padrone!—urlò la Betta esterrefatta. Più che al viso, lo avea riconosciuto alla voce.

I gendarmi cacciarono innanzi l'Alamanni col calcio dei fucili; quindi si udì aprire e poi chiudere la porta con gran fracasso.

—Tu.... Sei stato tu, che hai fatto la spia al padrone?!—proruppe la Betta con voce soffocata ma terribile, mentre il passo misurato dei soldati risuonava allontanandosi a poco a poco por la strada.

—Sta zitta.... Sapevano tutto!—rispose Pompeo intimidito, umile dinanzi alla moglie, senza accorgersi che con quelle parole invece di negare, si accusava da sè.

—Tu?!... Tu?!... Spia!... E la padrona... la padrona prima di morire...—Ma la Betta non potè dir altro: cadde giù, bocconi, sulla sponda del letto, scoppiando in gemiti e singhiozzi.

—Calmati... calmati... Sta zitta,—mormorò Pompeo dopo un poco, avvicinandosi, ma senza osare di toccarla.—Calmati.... Sveglierai Giulio... che dorme!

Ma la Betta non lo udiva nemmeno. Continuava a singhiozzare, mentre un tremito convulso di tutta la persona le faceva battere i denti.

In breve le stanzucce dei portinai si empirono di gente. Erano lo persone addette alla casa, che correvano là ansiose di raccogliere informazioni intorno all'arresto del padrone.

—Come mai, e da quando il signor Giulio era ritornato a Milano?... Come aveva fatto per entrare in casa?... Chi lo aveva veduto?... In che modo era stato scoperto dalla polizia?

Ma nessuno sapeva spiegare quell'arcano, e Pompeo pareva più sorpreso di tutti. Parlavano tutti insieme, sommessamente, e chi diceva una cosa, chi un'altra. Le donne si facevano ogni momento il segno della croce e intanto il fiasco di vino, portato dalla Betta, andava in giro rincorando gli afflitti.

A un tratto rimbombò sotto l'atrio un gran colpo: picchiavano alla porta; quelli di dentro ammutolirono e si guardarono in viso spaventati. Poi, come Pompeo non si moveva, il mozzo di stalla, fattosi animo, andò lui ad aprire.

Ma appena visto chi entrava, si sentirono sollevati; era il ragioniere, che dormiva in casa.

Il pover'uomo non sapeva ancora nulla dell'accaduto, e strabiliando si faceva raccontare da tutti, e ripetere quella sola cosa che gli potevano dire; che cioè, il padrone, il signor Giulio, era stato preso dai gendarmi!

Anche lui fece le medesime domande che poco prima avean fatto gli altri. "Come mai il signor Giulio era ritornato a Milano?... Chi lo avea veduto?... In che modo era stato scoperto?..." ma neppur lui ottenne alcuna risposta soddisfacente, e allora raccontò alla sua volta che quella stessa sera la polizia aveva messo dentro anche il banchiere Nicola Mazza, quello sull'angolo di Via Orefici.

—Diavolo! che retata!—esclamò il cocchiere; ma nessuno fiatò, nè proruppe nelle solite invettive contro i Tedeschi.

Tutta quella gente pensava fra sè e sè che lì nella stessa camera, in mezzo a loro, ci poteva essere la spia; ma nessuno avrebbe mai sospettato nemmen per ombra del "signor Pompeo".

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VII.

Frattanto la brigatella riunita nella porteria non sapeva risolversi d'andar a letto; e appena il ragioniere fu uscito, il mozzo di stalla dovette correre a prendere un altro fiasco di vino.

Le donne, in ispecie, impressionate dall'arresto del padrone e dai discorsi fatti di carcere e di forca, si sentivano addosso una certa pauretta all'idea di trovarsi sole nelle camere lontane, su, all'ultimo piano di quel palazzone. Tutta la notte non avrebbero sognato altro che gendarmi e spie e impiccati con tanto di lingua fuori!... Brrr.... venivano i brividi solo a pensarci!

Ma poi un caso inaspettato sopraggiunse a protrarre la veglia di alcune ore. La Betta cominciò a sentirsi male, e allora il mozzo di stalla fu mandato fuori un'altra volta in cerca del medico.

Questi si fece aspettare parecchio; poi, siccome era il medico di casa, invece di entrare subito nella camera dell'ammalata si fermò a lungo nella prima stanza a discorrere coi servitori dell'arresto del signor Giulio e degli altri avvenimenti di quella sera memorabile, e seguitava sempre a parlare quando, infine, passò dalla Betta, tutto lustro nell'abito nero, il cappello a cilindro in testa e il sigaro in bocca. S'accostò adagio al letto, prese in mano la candela ch'era sul tavolino da notte, e si chinò per veder meglio in faccia la donna. Betta avea le gote rosse, accese, e gli occhi immobili, spalancati. Allora il dottore assunse un contegno grave; e levandosi il sigaro di bocca, lo posò accanto al letto, sul piattellino del candeliere; poi tastò sotto le coperte il polso all'ammalata.

—Ha un febbrone da cavallo!—esclamò dopo un istante, cercando cogli occhi Pompeo, rimasto in fondo alla camera muto e preoccupato.

Il dottore, tenendo sempre con una mano il polso della Betta, coll'altra che avea libera cavò dalla tasca del panciotto un grosso orologio d'argento per misurare le pulsazioni.

—Corbezzoli!... Occorre un salasso, subito!

—È cosa grave?—domandò pianino una delle donne che erano entrate nella camera, dietro al dottore, e stavano in silenzio appiè del letto.

Il medico non rispose; ma invece di aspettare il chirurgo, come s'usava allora, tolse da una busta di pelle, che portava sempre con sè, tutto l'occorrente, e si dispose egli stesso a fare il salasso.

La Betta non si mosse, e non fiatò. Continuò a guardare Pompeo cogli occhi spalancati, che pel subitaneo pallore del viso parevano più grandi.

Il dottore, fasciato il braccio all'ammalata, si lavò le mani in un catino che gli teneva una delle donne; pulì e ripulì la lancetta col fazzoletto bianco; e rimessala nella busta, ne levò fuori un fogliolino di carta, vi scrisse col lapis qualche parola, chiamando poi a sè Pompeo con un cenno:

—Tieni,—e gli dette la ricetta;—che prenda di questa medicina un cucchiaio da tavola ogni ora. Se le sopraggiunge il delirio, non importa, continui lo stesso. Ma mi raccomando!—e guardò le donne che si erano aggruppate a discorrere sommessamente;—l'ammalata ha bisogno di quiete e di riposo, e in camera non si fa conversazione!

—Il delirio!—ripeteva intanto tra sè il portinaio, che stava sempre in apprensione.—Potrebbe parlare nel delirio!...—Oh, avrebbe pensato lui a sciogliere la compagnia e a far in modo che la Betta rimanesse quieta... e sola!

Anche per la medicina fu mandato in giro, al solito, il povero mozzo di stalla, e mentre Pompeo l'aspettava, persuase lo donne e gli altri a non fare, complimenti e andar a letto.—Era già tardi; e del resto avevano sentito il medico: la Betta avea bisogno di riposo... Invece, se una delle donne avesse voluto prendersi Giulio con sè, gli avrebbe fatto proprio una carità fiorita. Il piccino, alle volte, poteva svegliarsi nella notte, e piangere e strillare; insomma disturbare la povera ammalata!...

—Ma s'immagini, signor Pompeo! Di tutto cuore!...—risposero insieme le donne. E il bimbo fu levato dal lettino senza che nemmeno si destasse. Sospirò, con un piccolo gemito, quando fu preso in braccio; poi subito piegò la testolina appoggiandola contro la spalla della cameriera che lo portava, e continuò a dormire.

—Povera creaturina! Sembrava un angelo del Paradiso!

Gli occhi della Betta, ch'erano sempre rimasti fissi, immobili addosso a Pompeo, si volsero allora e seguirono la donna che usciva dalla camera in punta di piedi, tenendosi fra le braccia il figliuolino addormentato. In quel momento il respiro dell'inferma sembrò farsi più affannoso e le labbra si mossero lievemente come se mormorassero una preghiera.

—Apri la bocca!—esclamò Pompeo con rabbia, quando fu solo presso la moglie. In piedi, accanto al lotto, studiava di tener fermo il cucchiaio di ferro colla medicina.

—Apri la bocca!...—La moglie lo fissava, lo fissava sempre ed egli si sentiva inquieto e sgomento.

La Betta aprì la bocca; Pompeo piano piano, per non versare la medicina, le avvicinò il cucchiaio alle labbra, mentre i denti dell'ammalata battevano contro il ferro.

Frattanto la Betta seguitava a guardar fissa il marito, e quello sguardo spietato gli penetrava in fondo all'animo.

Pompeo rabbrividiva: la luce fumosa della candela gittava incerti riflessi sul viso dell'inferma; il lettone alto, grande si perdeva fra le ombre circostanti come un immenso cataletto. E all'infuori di quel viso contraffatto e di quegli occhi che non lo abbandonavano mai, nella camera era tutto buio, tutto silenzio. Volle provare a muoversi, per farsi coraggio: anche lo scricchiolare delle scarpe gli faceva paura. Ma, a un tratto, sentì un mormorìo dolore che si manifestava così semplicemente, colle lacrime, distrusse tutto il mistero fantastico che i rimorsi gli avevano suscitato nella coscienza.

—Ma non era altro che la Betta, sua moglie; la Betta che singhiozzava, quella che conosceva il segreto!... E dunque? Animo! Su! Perchè tanto sgomentarsi? Non avea forse in suo potere colei che avrebbe potuto disonorarlo e perderlo?... Perderlo?... Sì; ci voleva altro, colla polizia ch'era dalla sua!... Disonorarlo? Perchè?... A buon conto avea fatto il suo dovere!... Se i matti cospiravano per il gusto di farsi impiccare, o che non era padrone lui di essere un suddito devoto... per salvar la pelle?... E poi l'onore era roba di lusso, roba buona pei signori che non avevano bisogno di faticare a mantener la famiglia!... Spia?!... No... Lui non era una spia; lui non era andato di sua spontanea volontà la prima volta dal commissario!... Chè!... Lo avevano minacciato della forca— della forca —zizzole!... Non ora un eroe, lui, ecco; questo era prontissimo anche a confessarlo; ma la sua colpa stava tutta lì... Spia?... Le spie si pagavano, e Pompeo Barbetta—vero, com'era vero ch'era stato battezzato—non aveva, nè avrebbe mai preso un soldo dai Tedeschi!

Per altro quella zuccona testarda e ignorante della Betta non avrebbe voluto capirle tutte le buone ragioni; e con lei, sicuro, anche perchè non s'inquietasse di più, era meglio cercar di scusarsi e nascondere la verità, almeno per quanto fosse possibile.

Allora Pompeo le si accostò e chinandosi le parlò piano, così vicino, che sentiva sul viso il fiato caldo dell'ammalata.

Le disse che avea avuto, in quello stesso giorno, un'altra chiamata dal Commissario, e che alla polizia si sapeva già, per filo e per segno, l'arrivo a Milano del signor Giulio e la sua visita a Donna Lucrezia, e infine dov'era andato a nascondersi "quel minchione!" per aspettare il momento buono di rimettersi in viaggio!... Chi avea spifferato ogni cosa? Egli no, di sicuro, perchè sentiva allora quelle notizie per la prima volta. Ma forse, chi sa, Donna Lucrezia, chiacchierona esaltata, avrebbe potuto confidare ad altri quel segreto, tanto per darsi l'aria di metterci lo zampino anche lei nelle rivoluzioni!... Dal canto suo, non avea fatto altro che aprir la porta ai gendarmi come gli era stato ingiunto dal Commissario, sotto pena, in caso di disubbidienza, o di un qualche avviso dato al padrone, d'essere mandato in galera ad aspettare che restasse tempo al boia d'impiccarlo.—Ma la spia—concluse accalorandosi—la spia, io non l'ho fatta; te lo giuro, e poi guarda—soggiunse facendosi il segno della croce—che possa morir subito!... Dunque... vedi bene... non c'è ragione di disperarsi; invece devi metterti in quiete e pensare a guarire, e... e non dir nulla di nulla su quanto è accaduto!

La Betta non rispose: avea il viso rosso, enfiato; le labbra semi-aperte, aride, assetate; e la misera treccia di capelli biondi, che le si era spuntata dal capo, le ricadeva intorno e sul guanciale. Ma gli occhi suoi, già così dolci e umili, facevano sempre paura a Pompeo. Adesso non guardavano più il marito, ma erano fissi là, dinanzi al letto, nel fondo buio della camera dalla parte del cassettone...

—Che mi abbia veduto nascondere i danari?—pensò il portinaio ripreso dallo sgomento.

—Ma in somma!—esclamò infastidito,—che hai? perchè mi tieni sempre gli occhi addosso con quell'aria di minaccia?... Su!... via, parla una buona volta!... Pretenderesti farmi paura?... Chi sa la febbre quali sognacci strani ti ha fatto fare!... Pensa a tuo figlio, piuttosto, e ricordati che se mi toccasse qualche malanno, ne soffrirebbe lui!

Allora la Betta aprì la bocca per la prima volta, dopo quella scena tremenda. Erano parole tronche, confuse, soffocate.... Pompeo tese l'orecchio, ma più che sentire, indovinò quel ch'essa diceva.

—Il padrone... il padrone... i danari... la padroncina...

—I danari?... Che danari?

—Sono... laggiù,—rispose l'inferma, guardando ancora nel buio, di faccia al letto.

—Il padrone mi aveva ordinato di nasconderli....

Pompeo si sentiva diacciare il sangue nelle vene, tanto la sicurezza della moglie gli pareva soprannaturale.

—La... padroncina... i danari....

—Sì... sì...—ripetè l'altro guardando fisso l'ammalata per capire il suo pensiero e per rassicurarla,—i danari che mi ha dato il padrone li terrò in serbo per la padroncina.

—Giura... su... nostro....

—Sì, sì; lo giuro sul capo del nostro figliuolo!

—Per la tua salute eter....

—Per la mia salute eterna!... Sì; lo giuro!—e Pompeo stese la mano verso l'immagine della Madonna, ch'era appesa a capo al letto.

L'ammalata gli rivolse un ultimo sguardo, come per ricevere solennemente quella promessa; poi stanca, chiuse gli occhi, e senza più parlare si assopì.

—Come ha potuto indovinare, la maledetta, che avevo il morto nel cassettone?!—pensò Pompeo ormai interamente tranquillo.—È proprio vero che i gobbi sono maliziosi!...

La mattina dopo il medico ritornò prestissimo, ma non diede buone notizie.

—È un precipizio!—diceva egli a Pompeo, che, finita la visita, lo avea accompagnato fino sul portone di casa.—È un precipizio!—e scoteva il capo, stringendo le labbra in segno di malcontento mentre colla mano ornata del grosso anello dottorale, si lisciava gravemente le guance rase.—Già da un pezzo, era dimolto malandata, e la commozione, la paura le hanno cagionata una scossa grave!... Sicuro, sicuro.... Del resto puoi sentire qualche altro parere: io, per me la dichiaro una febbre violenta di consunzione. Adesso attraversa un periodo di tregua... ma temo che passerà presto allo stadio acuto. In ogni caso, vieni a chiamarmi liberamente, e coraggio!—Il medico fe' un saluto colla mano e se ne andò.

La Betta, un po' più pallida in viso, quando vide il marito che rientrava nella camera, lo chiamò con voce debole, accanto al letto. Pompeo accorse premuroso.

—Che cosa ti diceva il dottore?—chiese l'inferma con molta fatica.

—Mi diceva che ti ha trovata benino e che guarirai... presto.

La donna scrollò il capo sul guanciale con quell'irritazione propria degli ammalati quando vengono contradetti.

—No... è finita.... Chiamami il signor... curato.

Pompeo la guardò accigliato, con una certa inquietudine in corpo.

—Ti ricordi,—riprese la Betta, che avea indovinato il perchè di quel turbamento,—ti ricordi... di stanotte... del tuo giuramento?

—Sì, sì!

—Va... chiamami il signor curato... e non aver paura.

—E Giulio?... lo vuoi vedere?—le domandò Pompeo che per prudenza pensò bene di ricordarle il figliuolo, prima che rimanesse sola a spassionarsi col prete.

—No! no!—rispose Betta vivamente, rifacendosi rossa.

Pompeo, che si sentiva rianimato e sicuro, ebbe allora un sentimento di gratitudine verso quella donna che gli moriva così in buon punto e, forse per la prima volta da che erano marito e moglie, la baciò leggermente sulla fronte madida, sussurrandole piano, a mo' di conforto:—Ti farò dir tante messe!

Quando uscì dalla camera, era proprio commosso per quel suo atto di bontà, e incontrata una delle vecchie donne di casa, sospirando e facendosi compassionare la pregò volesse tener un po' di compagnia alla sua povera moglie nel tempo che lui per contentarla andava a cercare il signor curato; e così dicendo cominciò a piangere per davvero.

Ed anche strada facendo, ormai avea preso l'aire, continuava a fare i lucciconi; ma camminava lesto lesto, e sentiva che quella brezza mattutina gli metteva appetito.

—Che disgrazia!—mormorava fra sè, mentre gli veniva quasi la voglia di spiccare un salto.—Una donna come la Betta non la troverebbe mai più!... Dio, Dio, che disgrazia! Sarebbe rimasto solo, col suo bimbo fra le braccia.... e per farsi animo entrò da un liquorista a bevere un bicchierino di zozza.

...E i rimorsi!... Che rimorsi! Non si era mai sentito tanto in pace colla sua coscienza. Avrebbe tenuto in serbo le cinquanta mila lire e le avrebbe consegnate al padrone, oppure alla padroncina quando fosse uscita di minorità...—Lo aveva giurato ed era un galantuomo!

—E se invece di tenere quel capitale infruttifero per tanti anni avesse trovato modo d'impiegarlo bene?

Il curato arrivò con gran fretta: era ancora come Pompeo lo avea trovato in sacristia, in sottana lunga, senza nicchio nè mantelletta. Salutò le donne riunite nella prima stanza, toccandosi appena la papalina, o passò dall'ammalata, accostandosi al letto leggero come un'ombra, senz'altro rumore che il fruscìo della veste.

Gli bastò un'occhiata per capir subito che la donna non era ancora agli estremi, e si mise di malumore perchè gli avevano fatto furia inutilmente.

—Sempre così,—pensava benedicendo l'inferma alla lesta,—i pitocchi sono i più solleciti a farsi servire!

Poi, curvandosi per ascoltare la confessione, appressò la sua faccia pallida, fredda, impassibile al viso scarno e acceso della Betta soavemente irradiato, in quel punto, d'innocenza e di fede.

Era lei che moriva; era lei che espiava! La Vergine Santa dei dolori avrebbe esaudita la sua invocazione suprema, liberato il prigioniero, toccato il cuore di Pompeo; essa, Regina degli afflitti, avrebbe soccorso, protetto il bambinello suo, che rimaneva senza la mamma.... La febbre le allietava la mente di care visioni e la speranza, l'eterna lusinghiera, concedeva alla martire quell'ora di calma e di pace.

La confessione fu breve, e il portinaio, il quale dietro l'uscio spiava ansioso la faccia del prete, non ebbe tempo di apprensionirsi; lo vide presto rialzarsi su, sempre freddo e impassibile, mentre l'inferma, che avea fatto uno sforzo penoso per sollevarsi sui gomiti, ricadeva spossata, affondando il capo nel guanciale. Pompeo allora respirò più libero, pur continuando a osservare.

Il prete trinciò un'altra benedizione colla mano allungata, che si moveva svelta, in tre tempi, come fosse regolata da una macchina; poi si levò la papalina, la tenne stretta fra le mani giunte, e socchiudendo gli occhi sotto le ciglia irsute, bisbigliò una breve orazione accompagnandosi con un leggero dondolìo del capo. Indi sbottonatasi la sottana sul petto, cavò fuori da una tasca interna un crocifisso d'argento, e lo avvicinò alle labbra della Betta che lo baciò devotamente. Infine, ripulito il crocifisso col fazzoletto bianco, e mormorando all'inferma:—Coraggio; confidiamo nella bontà del Signore!—si rimise la papalina, disponendosi ad andar via.

Pompeo che aspettava quel momento si fe' innanzi e con faccia compunta condusse il curato in un angolo mezzo buio della cameretta.

Non era il caso di farmi tanta furia!—brontolò subito il prete a mezza voce.—Si poteva aspettare, senza pericolo, un'altra settimana!

Pompeo non disse verbo; ma prese fra le sue la mano lunga, pelosa del prete, e stringendogliela, come per effondersi in ringraziamenti, gli fece scivolare nella palma un piccolo cartoccetto rotondo.

Se vorrà dire una messa, Don Vincenzo—balbettò il portinaio—per la salute della mia povera moglie e... secondo la mia intenzione...

—Certo, certo! Domattina; alla beata Vergine miracolosa del Santo Rosario!

Il prete alla forma, al volume e al peso dell'involtino avea indovinato dovesse contenere almeno un mezzo marengo.

—Sarei venuto egualmente... Certo, certissimo!... Soltanto, forse un pochino più tardi!—soggiunse poi facendosi espansivo.—Siamo in un momento, figliuol caro, in cui a Milano c'è carestia di preti!... Hanno messo in prigione anche il mio coadiutore!... Già era una testa matta... un mazziniano!... E così mi è rimasta la parrocchia sulle spalle!... Del resto l'ho detto appunto per farti cuore; non vedo un pericolo imminente!... ma, per altro, hai fatto bene. È sempre da buon cristiano il premunirsi contro ogni evenienza!—Ciò detto, il prete ritornò vicino all'ammalata.

—Da brava, da brava!... Devi farti coraggio e confidare nella bontà infinita di Gesù, nostro Signore.—Don Vincenzo si toccò devotamente la papalina,—e della beatissima Vergine del Santo Rosario!... Io ti ho trovata benino; benino proprio davvero; e lo diceva qui adesso a tuo marito... Che cosa ti ha ordinato il dottore?

Pompeo gli mostrò la boccettina della pozione, e gli raccontò che il medico, la sera innanzi, le avea fatto un salasso.

Don Vincenzo approvò la cura, volle sentire il polso della Betta, e ripetendo che non c'era punto da spaventarsi, soggiunse che, tuttavia, se desiderava comunicarsi, come atto da buona cristiana poteva farlo, e che perciò sarebbe ripassato di là un altro giorno, presto.

Andandosene, salutò affabilmente, nell'attraversare l'altra stanza, le persone di servizio, che stavano tutto il giorno in conversazione dal portinaio; e assicurò anche quella buona gente, che per il momento non c'era pericolo di una catastrofe. Le donne e i servitori s'erano fatto il caffè e lo tenevano nei bicchieri, non avendo chicchere sotto mano, e ne offrirono subito anche al signor curato. Ma questi ringraziò, e scappò via di furia, perchè avea tre altri moribondi da visitare, prima d'andar a pranzo.

—Guarda mo—pensava intanto Pompeo—come il curato s'è fatto tenero di cuore!... Il danaro sempre il danaro, solo il danaro; così in cielo come in terra!—e a questo punto, ghignando con le labbra stirate che gli mettevano in mostra i denti cariati, non potè trattenersi dal lanciare un'occhiata rapida nell'altra stanza, dov'era il cassettone.

Adesso permetteva che le donne di casa entrassero liberamente dalla Betta; e anch'egli di continuo entrava ed usciva, mostrandosi mesto e sospiroso. Spesso si accostava, in punta di piedi, all'ammalata, e trattenendo sino il respiro per non far rumore le metteva fra le labbra aride qualche pezzettino di ghiaccio, le accomodava il guanciale, o le rincalzava il lenzuolo e le coperte.

La Betta lo lasciava fare guardandolo fissa con quei suoi occhioni grandi e buoni che non incutevano più alcun timore al marito, ma parevano interrogarlo ansiosamente. Pompeo capiva che cosa gli volea domandare la Betta, e chinandosi, le diceva all'orecchio a nome del Commissario—che il signor padrone se la sarebbe cavata con poco; che presto sarebbe stato lasciato in libertà, e che anche per il banchiere Nicola Mazza le cose si mettevano benino.

—Era il signor Francesco Alamanni quello che volevano agguantare!... Lui sì, che correva rischio di non morir nel suo letto!... Ma il signor Giulio non era altro che uno stravagante lunatico e certo non faceva ombra alla polizia!

La Betta a quelle parole si calmava un poco, e chiudendo gli occhi riusciva ad appisolarsi.

Frattanto le donne di servizio rimanevano incantate e non avevano altro che lodi per "il signor Pompeo"; per le premure, per le attenzioni che prodigava alla moglie, e per quel suo dolore così profondo e sincero.

Pareva un tanghero—dicevano—ma all'atto pratico si vedeva ch'era pieno di cuore.

E lo rimbrottavano dolcemente, a mo' di conforto, ricordandogli che era padre e che dovea pensare al suo figliuolo, il quale, poverino, non avrebbe avuto al mondo altri che lui.

A tali parole i sospiri di Pompeo diventano gemiti:

—Ah! se non avesse avuto un figliuolo!—Poi diceva alla gente che "quel cencio di donnina" era tutto per lui. Andavano così bene d'accordo! Si sa, alle volte c'era qualche burrasca; ma erano burrasche d'estate, che non fanno altro che rinfrescar l'aria!... Del resto, chi poteva dire d'averlo mai veduto bazzicare per le osterie? Chi aveva mai sentito che avesse fatto un torto a sua moglie? Tutto il giorno e la sera non si moveva mai da quelle due stanzucce a terreno.... Ah, se non avesse avuto un figliuolo, avrebbe commesso uno sproposito!

Un giorno il medico, intenerito anche lui dal dolore del portinaio, volle provarsi a confortarlo.

—Oggi va benino,—gli disse piano sulla porta, dopo la visita,—proprio benino...

Pompeo, a tali parole, mutando d'improvviso l'espressione mestissima del volto in una serietà ansiosa, guardò fisso il medico, balbettando:

—Davvero? Si mette bene? Potrà alzarsi ancora? Potrà guarire?

—Alzarsi... forse... sì!

—E guarire?... Potrà guarire?.. Guarir del tutto?...

Il dottore colpito da quel precipizio di domande, che gli toglievano il respiro, non volendo per troppa pietà mettere in pericolo la propria riputazione, stimò prudente di non dare soverchie speranze, e soggiunse che "nella migliore ipotesi" sarebbe stata sempre una guarigione relativa. La Betta aveva sentita una scossa troppo forte, per quel suo organismo debole come una foglia. Continuando benino avrebbe potuto tirar innanzi... magari anche per qualche mese; ma non più... a meno d'un miracolo!

Pompeo tornò a sospirare e a far i lucciconi, ma volle ad ogni costo che il dottore accettasse una chicchera di caffè e corse fino alla pasticceria delle Tre Corone a prendergli una fetta di panettone fresco.

Tuttavia anche quel miglioramento fu di breve durata. Pochi giorni appresso, il dottore, che continuava ad essere contento dello stato dell'ammalata, s'era fermato un poco, dopo la sua visita mattutina, a discorrere in fondo alla, camera con Pompeo e coll'Assunta, la più vecchia delle cameriere di casa Alamanni.

Quella notte erano successi a Milano gravissimi avvenimenti; e il medico appunto nominava molte persone insigni o note; ricchi e patrizi, poveri e plebei, donne e preti, ch'erano stati arrestati, o presi in ostaggio. E raccontava di nuove minacce e di rigori, e di condanne per parte dell'Austria che voleva soffocare nel sangue ogni spirito di rivoluzione, ogni palpito di libertà.

—Gesù Maria!... E il signor padrone?!—esclamò a un tratto l'Assunta, tutta spaventata.

—Il signor Alamanni e il banchiere Nicola Mazza—rispose il medico—furono mandati a Mantova. Là si farà loro il processo, e si ha ragione di temere una condanna capitale.

Pompeo si fe' pallido e non ebbe coraggio di dire una parola.

—Ah Gesù Maria! Povero il nostro padrone!... Povera padroncina!—riprese gemendo la vecchia.

—Oh quella bimba, è propria disgraziata!—soggiunse il medico tristo tristo.—Pare che essendo colpito dalla proscrizione anche il signor Francesco, ci sarà la confisca di tutti i beni degli Alamanni.

—La confisca?... E noi allora? O come camperemo?—domandò l'Assunta guardando Pompeo, istupidito, per avere un conforto da quell'altro suo compagno di sventura. Ma subito fu commossa da un sentimento più generoso di pietà per il signor padrone così buono, e per la padroncina e la signora Lucrezia, che sarebbero rimaste nella più squallida miseria.

—Ma come mai quella santa della signora Lucia, che dovea essere in Paradiso di sicuro, permetteva che accadessero tante disgrazie nella sua famiglia?

—Morta lei, non c'è stato più bene in questa casa,—osservò il dottore.

Ma la vecchia era passata dalla pietà al furore, e alzando le mani con le dita lunghe, irrigidite, e piegandole come artigli, esclamò:

—Se fossi un uomo e mi capitasse sotto le unghie quel maledetto che ha venduto il padrone, lo scorticherei vivo, gli caverei gli occhi, mostro infame!

—E sarebbe giustizia!—replicò il dottore.—Una volta scoperto, nemmeno i gendarmi gli salverebbero la pelle! I carbonari, i frammassoni, non perdonano alle spie. La settimana scorsa, non lo sapevate? fu ucciso con un colpo di stile quel giuda del Grossi che aveva rapportato dove s'era nascosto il De-Cristofari! Oh, andate pur là, buona donna; presto o tardi... Dio non paga il sabato!

—Ucciderlo è poco,—seguitava la vecchia:—scorticarlo vivo, bisognerebbe!... Cavargli gli occhi!... Non è vero, signor Pompeo?

Pompeo volle sorridere, ma non riuscì a fare altro che una smorfia.—Sicuro... certo... certamente!...—e non poteva dire di più. Il medico lo levò d'impaccio ritornando vicino al letto dell'ammalata per salutarla prima d'andarsene, con un'ultima parola di conforto. In que' giorni di lutto, di sventura, di ansietà continua e di continui pericoli era come invalsa una nuova dimestichezza che affratellava le persone anche di diverso stato. In que' giorni pareva non ci fosse più altro, fra la gente buona, che una sola distinzione: l'oppressore e l'oppresso—l'italiano e il tedesco.

—Se durerai a sentirti benino,—diceva frattanto il dottore avvicinandosi alla Betta,—domani potrai alzarti per qualche ora, e...—ma non finì ciò che voleva soggiungere e turbato e maravigliato prese il braccio dell'inferma per sentirle il polso, mormorando:

—Sta male!... Sta male di molto!... L'è tornata la febbre!... e più forte di prima!

La Betta, inquietissima, agitava il capo sul guanciale convulsamente: aveva il petto ansante, la faccia rossa, sudata; gli occhi lucenti.

—Presto!... Presto! Un catino! Ci vuole un altro salasso!

L'Assunta di corsa prese quanto abbisognava, e si avvicinò al dottore. Pompeo fece un passo, poi si fermò, esitante.

Ma il salasso, questa volta, non produsse alcun effetto. L'ammalata continuò a peggiorare e quando, sfinita di forze, riusciva un poco ad assopirsi, era subito presa dal delirio.

Pompeo quindi ricominciò a valersi dell'autorità del signor dottore per mandar via la gente e restar lui solo a guardia della moglie.

Ma la Betta quando era in sè tornava a fissarlo con quegli occhi sbarrati che gli trapassavano l'anima, e che gli mettevano addosso lo spasimo e il rimorso; e quando essa era presa dal delirio, le sue parole gli facevano paura.

—Se qualcuno fosse nascosto in camera... o dietro l'uscio ad ascoltare?... Egli sarebbe perduto!—E Pompeo vedeva levarsi contro il suo petto, come fantasma minaccioso, il pugnale che dovea vendicare il signor Giulio, il suo padrone, il suo benefattore.

—Benefattore?...—No, no! Egli non gli doveva nulla! Sua moglie avea ricevuto qualche regalo; lui no, mai!... Aveva servito, lo aveano pagato; erano pari e patta!

Ma nel buio della cameretta illuminata appena dal chiaror fioco della candela crepitante, le parole del medico " carbonari, frammassoni " gli si affacciavano terribili dinanzi alla mente. Anche Pompeo aveva la febbre, e gli pareva di sentirsi dietro le spalle un uomo dal viso pallido, colla barba nera, col cappello a cencio calato sugli occhi, che gli si avvicinava piano piano, col braccio levato, per colpirlo. E la sua fantasia sconvolta riempiva di spettri ogni angolo della sua stanza, e vedeva figure terribili appiattate sotto il lettone alto, dove la Betta stava morendo.

Come sospirava il mattino, un bel giorno di sole! Sentiva che col sole sarebbe stato tranquillo.

—A Mantova!... A Mantova!...—Perchè lo conducevano a Mantova,—pensava per farsi animo,—non è decretato che lo debbano impiccare!... Ma una cosa è certa, che io con quelle cinquanta mila svanziche sarò la provvidenza per la signorina!

In quel punto si udì nella camera un gemito soffocato, poi un grido acuto, poi alcune parole balbettate, rotte dal tremito della febbre.

—Spia... spia... il padrone... Mantova... la signora... la mia buona signora...

Pompeo, oppresso, agitato si rodeva l'unghia del pollice coi denti. Ma a un tratto gli sembrò di udire qualcuno muoversi nella stanza vicina. Allora trasalì e accostandosi tremante alla Betta:—Zitta, zitta,—le gridò con voce bassa, ma vibrata, curvandosele addosso.—Sta zitta!

—Spia... Spia... Assassino!...—continuò a mormorare delirando.

—Chètati,—replicò Pompeo sempre più spaventato, nello stesso tempo acceso d'odio e di collera contro quell'essere debole, che gli si era sempre piegato dinanzi, ma che in quel punto sfuggendo al suo dominio, lo condannava con una parola infame:—Chètati.

—Spia!... Spia!... Assassino!...—e l'inferma, sempre delirando, spalancò a un tratto gli occhi.

Pompeo perdette il lume della ragione, stese la mano irrigidita dallo spavento e dall'ira, e chiuse, soffocò quella bocca ostinata, affondando contro il guanciale il capo della donna.

—Chètati!... maledetta!

Il misero corpicciuolo diè un sobbalzo di sotto alle coperte, poi non si mosse più.

In quel momento fu bussato piano all'uscio della camera. Pompeo si alzò a un tratto, indietreggiando sbigottito, e tese l'orecchio: sperava di essersi ingannato; ma dopo un poco udì picchiare di nuovo e più forte.

—Chi è là! Aiuto!—gridò allora, tutto tremante.

—Sono io, signor Pompeo,—- rispose una vocetta stridula, sottile.

Era l'Assunta, scesa poco prima per offrire i suoi servigi in caso di bisogno.

—La Betta sta male!... Sta male di molto! Ha avuto il delirio!... le convulsioni!... L'ho dovuta tenere con fatica... ma non ci potevo più reggere... e mi ero messo a chiamare... a chiamar aiuto.... Adesso per altro s'è calmata... s'è calmata un poco!

—Gesù Maria, non si muove più! È morta!—sclamò l'Assunta vedendo la portinaia livida, stecchita; ma subito le si accostò sollecita, e sentì che respirava ancora.

—Corra, corra in fretta a chiamare il dottore, signor Pompeo, e anche il curato!

Pompeo obbedì, e corse via a precipizio. In quel momento non era più padrone di sè. Andò difilato dal medico; non lo trovò in casa; allora andò dal curato, gli disse che la Betta stava male, e ritornò indietro con lui senza far parola durante tutta la strada.

Quando entrò, seguendo il prete, nella camera della moglie, vide tutte le donne di casa inginocchiate attorno al letto. Il curato muto, sollecito, si appressò alla Betta, si chinò per osservar meglio quel viso giallo, contraffatto, cogli occhi vitrei e la bocca spalancata; poi freddo, senza alcuna emozione, si rivolse con lo sguardo a Pompeo dicendo a mezza voce:

—Il Signore l'ha chiamata in Paradiso!—Ciò detto si scoprì e benedì la morta, indi congiunse le mani, socchiuse gli occhi e bisbigliò una prece, a cui le donne risposero in coro, sommessamente:— Amen, amen.

Pompeo, anch'egli inginocchiato, ma in disparte, si teneva il capo fra le mani.

A un tratto, in mezzo a quelle preci, a quel lugubre raccoglimento, si udì uno strillo acuto, poi una vocina infantile che chiamava:

—Mamma! mamma!

Era Giulio, il bambino della povera Betta. In quel momento egli era riuscito a deludere la sorveglianza dello sue custodi, ed entrato in camera piano piano, tentava di arrampicarsi sulla sponda alta del letto, singhiozzando e chiamando sempre più forte:

—Mamma! Mamma!

PARTE SECONDA

GLI AFFARI.

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c21

I.

—Chè! Chè! Le fiamminghe in giornata sono diminuite di prezzo!—esclamò la florida signora Veronica che stava ritta, dietro il suo banco di pegni, esaminando al lume di una lucernina di canfino una piccola miniatura legata in oro e contornata di diamanti.

Dall'altra parte del banco una squallida vecchietta in capelli, con una sottana di lana scura tutta lisa, e uno scialle bigio, stretto attorno al magro corpicciuolo, rimaneva attonita e muta nell'udire quelle parole.

—Sicuro, cara la mia donna!—continuò la signora Veronica senza punto commuoversi dinanzi al dolore della nuova cliente.—In Merica hanno trovato una cava di diamanti grossi come nocciuole, e ne arrivano, tutti i giorni, bastimenti pieni!

—Ma pure... c'è dell'oro—soggiunse la vecchia, timidamente.

—Non tanto... non tanto: la montatura è sottilina.

—La mia signora avea detto che la miniatura sola valeva un occhio della testa.

—Sarà benissimo... ma è un ritratto di famiglia, e in commercio, capite, non ha valore... Fosse un Vittorio Emanuele, o un Garibaldi, o un Napoleone, tanto si potrebbe trovar l'amatore, ma un ritratto qualunque chi volete che lo pigli?—Così dicendo la signora Veronica stringeva le labbra sprezzantemente, e allungando il braccio, faceva l'atto di restituire la miniatura. Ma la vecchia non volle riprenderla e continuò a tener le mani nascoste sotto lo scialle, sicchè l'altra mise il medaglioncino sul banco.

Realmente il ritratto, a parte la montatura, non poteva aver nessun pregio per la signora Veronica Micotti, che teneva un'agenzia di prestiti sopra pegni in Via del Pesce. La squisita miniatura non rappresentava un personaggio illustre, ma invece era un'immagine soave di donna giovane e bella, coi capelli nerissimi e le braccia e le spalle nude.

—Fosse almeno un'anticaglia!—esclamò la padrona del banco, vedendo che l'altra rimaneva lì ferma, intontita, senza risolver nulla.

—Oh per questo la mia signora mi diceva che le era stato regalato prima del quarantotto!

—Bell'affare! Non sapete, cara voi, che ci vogliono secoli e seculorum prima che gli oggetti acquistino pregio?—Poi la signora Veronica appoggiando le mani sul banco si alzò in punta di piedi e dondolando la maestosa persona esclamò coll'aria solenne di chi pronuncia una sentenza inappellabile:—Sopra questo pegno non posso prestare più di quindici fiorini.

—Vergine santissima! Da Gesù pietoso me ne darebbero trenta, a dir poco.

—E voi, allora, perchè non andate a metterlo al Monte?

L'altra chinò il capo, sconcertata.

—Risolvete dunque: sì o no. È tardi, sono le otto sonate, e devo chiudere.

La povera vecchietta prima di rispondere guardò in giro, sospirando, la botteguccia angusta, coi grandi scaffali di legno tarlato, disposti tutt'intorno alle pareti, e pieni di sacche di tela greggia, rigonfie, segnate da un cartellino col numero progressivo. Pareva quasi ch'ella volesse chiedere consiglio a tutta quella roba ch'era là ammucchiata, muta testimonianza di altre miserie e di altri dolori.

—E così?—ripetè la padrona, infastidita dal lungo indugio.

—Via... si lasci smuovere... aggiunga qualche cosa... qualche spicciolo, almeno!

—Anche se si restasse qui fino a domani, non vi potrei dare un soldo di più!

—Eppure chi mi ha diretta a quest'Agenzia mi aveva consigliato di parlare col signor Barbarò, assicurandomi ch'egli mi avrebbe fatto ottenere le maggiori facilitazioni.

—Il signor Barbarò non c'entra con noi!—esclamò la Veronica, arrossendo leggermente.

—Ma per altro, se lo dicessi il nome della mia signora,—soggiunse la donnicciuola titubante, e abbassando la voce,—forse... anche lei, non sarebbe tanto ostinata!

—E ditemi, alla malora, chi è questa vostra signora, e spicciatevi!

Erano sole nell'Agenzia, ma pure la vecchietta si sentì presa da tanta vergogna nel dover proferire quel nome in un luogo sì abietto, che allungò il collo quanto più potè sopra il banco, per dirlo in un orecchio alla signora Veronica. Questa, uditolo appena, trasalì con un moto di maraviglia e di contentezza, e presa tosto la miniatura, la nascose in un cassetto del banco che chiuse a chiave.

—Perchè non dirlo subito,—esclamò,—benedetta donna!—Poi le domandò piano, ma con un fare più garbato:—Siete contenta di trenta fiorini?

—Faccia lei... come crede!—rispose l'altra sbalordita dall'effetto ottenuto e che superava di molto anche la sua aspettazione.

La signora Veronica tirò fuori da un altro cassetto, pure chiuso a chiave, una ciotola di bossolo piena di monete; contò i trenta fiorini, facendone tre gruppetti che posò dinanzi alla vecchia. Indi preso un grosso libraccio, ch'era in fondo al banco, lo aprì, ne levò la carta sugante, intinse più volte in un calamaio di legno nero rotto e smozzicato la penna d'oca, e cominciò a scrivere adagio la data di quel giorno, con una scritturaccia grossa e stentata: " Milano, li venticincue Febrajo 1859: " poi si fermò a un tratto e alzando gli occhi domandò se doveva mettere il nome della signora.

—No, no!—rispose la donna vivacemente.—Metta il mio; metta il mio. Filomena Beltrami!

La florida signora Veronica seguitò a scrivere, accompagnando con una smorfia della bocca gli sforzi delle dita aggranchite. Quindi strappò dal registro la polizza, ci buttò sopra il polverino la piegò e la consegnò alla Filomena che, intascati i bei fiorini nuovi, se ne andò via difilato senza fare altre chiacchiere. Ma scesa la scalaccia buia (l'Agenzia era al primo piano) e passata appena la soglia di quella casa sospetta, si voltò indietro paurosa, quasi dubitasse d'essere spiata.

Poco dopo che la Filomena fu uscita dall'Agenzia vi entrò un omiciattolo dall'aspetto tra il sensale e il cavalocchio, ed anche lui, colla sua aria sospettosa, dava a divedere chiaramente che non desiderava punto di essere osservato mentre infilava il portone di quella casa. Egli, per altro, non salì al primo piano, ma invece attraversò il piccolo cortile buio, a cui non giungeva nemmeno la fioca luce del lampioncino appeso a piè della scala; si fermò dinanzi a un uscio coll'imposta a vetri; cavò una chiave di tasca, lo aprì, lo richiuse, e curvandosi cercò a tastoni, presso la porta, la scatola dei zolfanelli e il candeliere con un mozzicone di stearica. Lo accese, e lo posò sopra un vecchio scrittoio che era lì presso, tutto ingombro di libri vecchi e di cartacce unte e polverose.

—Ohè! la Veronica deve far affari stasera,—mormorò levando dal taschino del panciotto un oriuolo a cilindro attaccato a un grosso catenone d'oro con un gran mazzo di ciondoli che tintinnavano ad ogni suo movimento.—Son le otto e mezzo, e non è ancora scesa!

Allora si sdraiò in un seggiolone ch'era accanto allo scrittoio, coperto di stoffa rossa così logora, che ne usciva la stoppa della imbottitura. Egli pareva stanco e si alzò un poco il cappello a tuba sulla fronte, ma non se lo levò: nella stanza si sentiva il frescolino umido dell'aria colata.

L'omiciattolo, dopo aver aspettato un poco, prese un lapis, fece un conticino in fretta in un angolo d'un di que' libracci affastellati sullo scrittoio, poi tornò a sdraiarsi sulla poltrona e continuò a fare de' conti mentalmente, rodendosi, coi denti guasti e radi, l'unghia del pollice.

Quello stanzone era il magazzino di deposito, e insieme l'ufficio interno dell'Agenzia. Anch'esso aveva le pareti guarnite di scaffali di legno tinto, pieni di sacchetti coi cartellini numerati, come nella bottega del primo piano; e allo scarso lume della candela, e fra un'enorme quantità di roba accatastata, apparivano qua e là, di mezzo al buio, l'angolo dorato di un mobile antico, o il fondo lustro di una casserola di rame o il bianco sudicio d'un monte di coperte di lana.

Ma l'omiciattolo doveva conoscere bene tutta quella roba, perchè non fermava punto l'occhio ed invece, finito ch'ebbe d'almanaccare co' suoi conti, tornò a guardare l'orologio.

—Per bacco! Son quasi le nove!—e fece atto d'alzarsi; ma subito si riadagiò sulla poltrona esclamando:—Finalmente!... Eccola che viene!

In fatti dall'altro uscio, pure colle imposte a vetri, ch'era in fondo allo stanzone, si udiva, sempre più vicino, il rumore di un passo pesante che scendeva per una scala interna; poi i cristalli si rischiararono a un tratto e una striscia larga di luce penetrò nel magazzino: l'imposta fu aperta con una pedata e apparve, nel vano della porta, la florida signora Veronica, tenendo la lucernetta di canfino da una mano, dall'altra una delle solite sacchette, e sotto il braccio i registri dell'Agenzia.

—È un pezzo che è qui ad aspettare, signor padrone?—chiese subito la donna dimostrando dinanzi a quell'omo una soggezione grande, che contrastava assai coll'imponenza della sua forte persona e con un certo piglio di arroganza che le conferivano i capelli neri, lucenti, pettinati colla divisa da parte e rialzati sulla fronte.

—Aspetto da un'ora, ma non importa,—rispose l'altro guardando cupidamente cogli occhiettini loschi i registri e la sacchetta.—La giornata è stata buona?

—Non c'è malaccio. Siamo alla fine del mese, e, si sa, c'è sempre maggiore ricerca di danaro.

—Allora bisogna tener basse le stime e aumentare gl'interessi!... Diavolo! Se non approfittiamo dei momenti buoni, si può chiuder bottega.... Metti giù quella roba e dammi il bollettario.

La signora Veronica ascoltò rispettosamente la lezioncina senza muoversi, nè aprir bocca; poi buttò la sacchetta sopra un divano (di stile dell'Impero, tutto bianco a fregi dorati) e posò la lucerna coi registri in mezzo allo scrittoio.

L'omiciattolo cominciò a sfogliare il bollettario, ma a mano a mano che procedeva in quell'esame si faceva sempre più accigliato e brontolone.

—Il calzolaio Martinetti s'è messo in regola?

—Ha mandato la moglie, con un acconto di sei svanziche.

—Troppo poco: ne deve quarantasette!

—Ha chiesto un respiro breve, di otto giorni soltanto.

—Non è una buona ragione; non glieli dovevi concedere. In otto giorni può scappare otto volte e mezza. Adesso, colla scusa della patria da liberare, si passa il confine allegramente, in barba ai Tedeschi... e ai creditori!

—La povera donna piangeva e strillava in modo da far fermar la gente sotto le finestre.

—Lacrime e non altro che lacrime! Sono lo spediente dei disperati! Chi ha le tasche vuote di quattrini ha sempre gli occhi pieni di lacrime!

—Il suo figliuolo, che lavorava in bottega, si è ammalato.

—E che c'entro io? Vada a lagnarsene col Padre Eterno!...

—Per questi otto giorni ha firmato un altro biglietto di tre fiorini....

—Be', be':—l'omicciattolo pareva rabbonirsi un poco;—alla scadenza, se non pagano, un buon protesto in piena regola!

—Sissignore.

—Lo stipendio del cavalier Trucker è stato sequestrato?

—Ho mandate tutte le carte che occorrevano al notaio Strazza, e gli ho fatto premura.

—Va bene.... va benissimo!—e continuò a sfogliare il registro attentamente. Poi, dopo un poco, tornò a domandare:—È stato spiccato l'ordine d'arresto contro la Livia Bernasconi?

—Non ancora perchè....

—Perchè vuoi sempre fare a tuo modo e non sono ubbidito!—esclamò il padrone riscaldandosi assai, quantunque moderasse il tono della voce, per non esser udito di fuori.

—Ha portato un'altra pentola e un'altra materassa....

—Avesse portato anche il tesoro della Mecca tu dovevi andare dall'avvocato, e fare quello che t'ho detto! Sei anche tu come quell'animale dello Sbornia: tutti e due ignoranti e cocciuti. Ma se continuerete a voler fare di testa vostra, vi scaccerò a calci fuori dalla porta!

La signora Veronica ci pareva avvezza a que' complimenti, però si fece animo e rispose a mezza voce:—Ha la mamma... in fin di vita....

—E che crepi! È una bocca inutile!... Tu, ancora, non l'hai voluta intendere per il suo verso questa faccenda: fra capitale e interessi la Bernasconi mi deve, ormai, più di settanta fiorini, che non potrà rendermi mai, e che è pronto a pagare in vece sua il vecchietto Migliavacca, solo che la ragazza si adatti a... a lasciar correre una buona parola. Ma la Livia è ostinata e non vuole, perchè ha de' grilli per il capo, perchè ha l'amante, o che so io!... Per altro una volta messa in chiusa, come gli uccelletti, farà giudizio e canterà, non ne dubito.... E a buon conto io non devo lasciare che il vecchio si raffreddi, se non voglio essere truffato del danaro mio! Hai capito?

—Sissignore.

—Oh, Laus Deo!

Ci fu un momento di silenzio: la signora Veronica pareva impacciata e timorosa, l'altro continuava a sbuffare.

—E al conte Kanizsa—ripigliò sempre con voce stizzosa—hai fatto scrivere che se non gli riesce di fare il saldo per il primo di marzo, l'Agenzia manderà le cambiali al suo colonnello?

—Sì, signor padrone.

—Con questo damerino bisogna andar per le corte. Pare proprio che debba scoppiare la guerra da un giorno all'altro (me lo scrive anche lo Sbornia da Verona), e se il reggimento parte da Milano sto fresco io, a corrergli dietro.... Diavolo! Se mi lasciassi mangiare il fatto mio dai Tedeschi, oltre al danno, passerei anche per un codino!—E l'omiciattolo accompagnò queste parole con una cinica risataccia.

La soggezione che la signora Veronica provava sempre in presenza del padrone, era accresciuta in quel momento da una segreta inquietudine: i trenta fiorini che avea dato sul pegno del medaglioncino. Era vero ch'essa, in quell'incontro, s'era tenuta stretta agli ordini ricevuti; era vero che il padrone, già da molto tempo, e chi sa per quali viste, voleva attirare all'Agenzia quella nuova cliente; era vero che le avea ordinato, caso mai le fosse capitata sotto mano, di largheggiare nella stima se si fosse trattato di un prestito sopra pegno, o di accettare anche la semplice firma della signora, se avesse offerto una cambiale.... Ma "trenta fiorini" per una miniatura, non era forse andata troppo oltre?...

E aspettava timorosa che il padrone arrivasse all'ultima pagina del registro e le domandasse informazioni intorno al prestito fatto alla Filomena Beltrami.

Ma quando la domanda che l'impauriva era proprio lì lì per venir fuori ci fu un incidente che la ritardò un altro poco. L'uscio a cristalli, in fondo allo stanzone, si riaprì a un tratto rumorosamente, e un ragazzetto corse precipitoso a ficcarsi fra le gambe dell'omiciattolo, esclamando:

—Padrino Barbarò, dammi il soldino! Voglio il soldino, padrino Barbarò!

—Seccatore maledetto!—grugnì l'altro fra i denti, e con piglio infastidito si mise a frugare in fretta colle dita cariche di anelloni d'oro nel taschino del panciotto.

Mentre il viso dell'uomo si chinava verso quello del ragazzo, e quello del ragazzo si alzava verso quello dell'uomo, tutti e due mostravano la stessa espressione di cupidigia negli occhiettini loschi e falsi che parevano di vetro; e l'istessa tinta olivastra appariva sulla faccia da vecchietto del bimbo, come su quella dell'uomo vizza e rugosa, senz'ombra di barba, tranne alcuni peli neri sul labbro superiore, grossi come le setole e così radi da potersi contare.

La signora Veronica frattanto rimproverava il monello per la sua sfacciataggine, ma con un tono che ad onta della severità apparente tradiva l'indulgenza e la debolezza materna:

—Andiamo... su... da bravo! Non se' più un bambino, ormai, d'aver ancora quelle manieracce! Dove hai imparata l'educazione?

—Al collegio degli sguatteri!—borbottò il padrino dandogli un soldo e uno scappellotto.

—Da' un bacio e la buona notte al signore, e ringrazialo tanto!—suggerì la mamma al figliuolo.

—Che baci d'Egitto!... Dovresti invece lavargli il muso.

La signora Veronica chinò il capo mortificata. Ma il ragazzo, quand'ebbe presa la moneta, non badò ad altro, e senza nemmeno ringraziare il padrino Barbarò, scappò via correndo a precipizio com'era venuto.

La mamma lo seguì cogli occhi; ma uno sfogo era necessario alla sua indole impetuosa, rimasta troppo a lungo soffocata per la presenza e per la soggezione in cui la teneva il padrone: andò fin sull'uscio della scaletta, e mentre il figliuolo la montava a salti con una gamba sola:—O Gostina,—gridò con tutta la voce sua forte e vibrata,—fa lume! Vuoi che il mio Beppe si rompa il collo, stupidaccia, infingarda?—Poi, dopo quel po' di sollievo, ritornò ancora umile e sottomessa ad avvicinarsi allo scrittoio.

—Un'altra volta, quando vengo io, devi dire alla serva che lo metta a cuccia quel tuo scimmiotto!

La signora Veronica non fiatò.

—Sai bene che non amo le smorfie, e che i ragazzi non mi piacciono.

—Credevo che... quello lì... almeno una volta tanto....

—Quante storie! Quello lì come gli altri; e finiamola!... Sai bene che la tua è una fissazione... una scioccheria senz'ombra di fondamento!... E poi, anche se fosse, te l'ho detto cento volte: io non c'entro. Suo padre è... tuo marito; e te l'ho fatto sposare apposta. È il registro della parrocchia quello che stabilisce la paternità; se no, ci vorrebbe altro: sarebbe una confusione del diavolo!... Credevo poi di averne fatto abbastanza dei sacrifici. Tuo marito da sguattero, che era prima, l'ho messo quasi alla direzione dei miei affari.... Tu non eri altro che la mia serva e adesso fai, si può dire, la vita del Michelaccio: sei linda, e rosea, e fresca, come una fattoressa! Io vesto, io mantengo, io mando a scuola il tuo figliuolo e non sei ancora contenta?... Ma—e qui l'omiciattolo sbuffò—è sempre stato il mio destino, di seminar benefizi e raccogliere ingratitudine.

La donna stava a sentire que' rimproveri colla testa bassa; ma pensava intanto ai trenta fiorini prestati sul medaglione, quando appunto il Barbarò che, sempre brontolando era giunto alla nota della Beltrami, diè un salto sul seggiolone con un grande tintinnìo di ciondoli, e tirandosi indietro, e alzandosi anche più il cappello sulla fronte per fissare meglio in faccia la donna domandò:—Come sta quest'affare? Trenta fiorini di pegno per una miniatura?... Fammela un po' vedere!

La signora Veronica si accostò al divano, frugò nella sacchetta che aveva portata con sè, trovò la miniatura e mostrandola al padrone balbettò, con voce non molto ferma:—Mi aveva ordinato lei di essere piuttosto andante nella stima, se mi capitava sotto mano la signora Balladoro....

—Certo, certo, sicuramente!—esclamò il Barbarò cogli occhietti che gli sfavillavano di gioia:—dunque è venuta?... È nostra, finalmente?!

—Non è venuta lei, ma ha mandato una vecchietta col pegno: la serva, si capisce.

—Fa lo stesso! Dammi qua!—e colle dita un po' tremanti, le strappò di mano la miniatura, e alzò un poco il lucignolo della lucernetta, per guardarla meglio.

Allora la donna, accostandosi al padrone con più sicurezza, gli raccontò minutamente il colloquio avuto colla Filomena, diffondendosi nei particolari che valevano a dimostrare il suo grande ingegno diplomatico. Ma il Barbarò non le badava punto. Era assorto nella contemplazione di quel ritratto e borbottava tra i denti:—Tutta lei!... Tutta lei... con quel collo, con quelle labbra che mi mettevano la febbre!... Con quegli occhi... indiavolati... che si degnavano appena di guardarmi con aria di compassione!—E continuando a fissare il ritratto, il signor Barbarò pensava fra sè, ch'era una di quelle donne lì ch'egli avrebbe voluto avere per moglie....

—Chi sa, chi sa.... Se gli affari seguiteranno di questo passo... un giorno o l'altro, forse, potrò farla vedere in barba a chi mi dà del ladro... dell'usuraio!—E a questo punto un lampo sinistro brillò negli occhiettini dell'omiciattolo. Rimase ancora così assorto per qualche istante, poi infine scotendosi, involtò la miniatura in un pezzetto di carta, la mise nel portafoglio, e ordinò alla Veronica di portargli l'occorrente per scrivere.

Subito la donna fece un po' di posto sullo scrittoio, gli portò tutto ciò di cui abbisognava e il Barbarò cominciò, con grande attenzione e raccoglimento, a scrivere una lettera.

Ma la cosa non gli riusciva facile: cominciò la lettera due o tre volte: poi la riempì di correzioni e di aggiunte e infine la copiò diligentemente. Dopo finito pose l'abbozzo nel portafoglio, e la copia pulita in una busta sulla quale fece la soprascritta:

Alla Pregiatissima e Nobile Signora—La Signora Donna Lucrezia Balladoro—Via della Spiga, n. 7, p. 3º, Città.

—Domattina—disse alla Veronica indicandole la lettera che lasciava sullo scrittoio ad asciugare—la manderai, in ora debita, al suo indirizzo, e lo ripetè:—Via della Spiga, numero sette, piano terzo.

—Come comanda, signor padrone.... E... stasera... devo... devo lasciar aperto il catenaccio?—gli domandò, mentre l'omiciattolo stava per andarsene.

—No.... Chiudi pure.... Stasera dormo a casa mia. Il tuo omo può capitare da un momento all'altro.

—Non ha combinato nulla a Verona?

—Anzi, ha combinato tutto. Avrò la fornitura pel foraggio e viveri di due Divisioni. Ed ora speriamo nella guerra e che la vada!—esclamò ghignando il signor Barbarò; e tornato di buon umore abbracciò la donna al suono dei ciondoli, e le strinse con un piccolo morso la bocca piacente, adombrata di baffettini neri, mentre essa, umile e passiva, accoglieva anche quelle carezze col dovuto rispetto: per lei il Barbarò era sempre in ogni incontro il signor padrone!

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II.

La mattina dopo, nel tempo che la Veronica aspettava in via del Pesce un suo commesso di fiducia per far recapitare la lettera del principale. Donna Lucrezia era in grandi faccende. Quel giorno, un mercoledì, in casa Balladoro c'era ricevimento.

Il salotto giallo era in pieno disordine e dalle finestre spalancate entrava una nebbiarella diaccia che si confondeva colla polvere sollevata nella stanza. Le poltroncine e le seggiole si vedevano ammucchiate col canapè attorno al tavolino di noce, sul quale la Filomena avea distesa, pel momento, una certa tenda logora e stinta che dopo le faccende di casa serviva poi alla padrona anche da accappatoio.

Donna Lucrezia, quantunque fosse ancora in sottana, non sentiva punto il freddo. Spazzava, fregava, lustrava, sbatteva le tende, smuoveva i mobili, e dava la caccia colla granata a qualche ragno che fuggiva spaventato da quel grande tramenìo settimanale. Aveva un fazzoletto bianco legato attorno alla faccia ossuta, tutta fronte e mento, con un naso superbo da imperatore romano sempre raffreddato in modo formidabile, e un ciuffo di capelli grigi che le scappava fuori sotto il chignon; e così com'era senza crinolino, pareva ancora più magra, ancora più lunga e angolosa. Vestiva una sottana rattoppata, con una balza di taffetà, e quantunque ansante, scalmanata, non si chetava un minuto, nemmeno per ripigliar fiato; nemmeno quando starnutiva, o accendeva un sigaro di Virginia.

—Filomena, ti sei ricordata di comperare i fiori per la giardiniera?

—Sissignora!... Un mazzo di foglie di giranio, quattro rosette, un ramettino di vaniglia, e mi han fatto pagare, que' ladri, trentacinque soldi!

La Filomena rispondeva alla padrona dalla stanza della Mary, accanto al salotto, la quale il mercoledì serviva da anticamera col lettuccio della fanciullina rifatto a divano.

—E la legna, l'hai ordinata?

—La portano a momenti; ma ho dovuto dare un acconto al carbonaio, se no, m'ha detto sua moglie (perchè lui non c'era in bottega) che avea lasciato l'ordine di non mandare a casa nemanco un fascinotto!

—Che vada a farsi friggere, quel muso da cane!—esclamò stizzita Donna Lucrezia che conservava purissima la parlata veneta, quantunque dall'epoca del suo matrimonio fosse sempre rimasta all'ombra del Duomo.—E d'ora in avanti, ricordatelo bene, non devi mettere più i piedi nella bottegaccia di quello svizzero senza creanza!... Mai più; mai più; mai più!—E siccome in quel punto Donna Lucrezia levava la polvere con una bacchetta da una seggiola, diede tre colpi così furiosi, borbottando quei tre "mai più!" come se lì sotto, invece dell'innocente lana gialla damascata, ci fosse stata la pelle del rozzo carbonaio.

—E bada di accendere presto le stufe, e di mantenerle calde tutto il giorno; anche quella dell'anticamera; perchè le visite, appena dentro, devono subito sentirsi riavere. È una pitoccheria il fare come certuni che riscaldano il salotto solamente. Ma con te, quando una cosa non t'entra, è come cantare ai sordi!... Invoco di essere in casa di una signora dovevi andare a far la serva a un bottegaio arricchito!

La Filomena, zitta zitta, la lasciava dire.

—Hai inteso, pampalùga!

—Sissignora, sarà servita!—E la vecchiarella, sospirando, continuava a pensare fra sè, che invece di cuocere al mercoledì come in un forno sarebbe stato meglio assai avere un po' di calduccino tutti i giorni; così almeno la famiglia non sarebbe stata raffreddata tutto l'inverno.

Donna Lucrezia, preso uno strofinacciolo, e sbrigando ogni faccenda colla sua sveltezza maravigliosa, aveva cominciato a spolverare i mobili, e a mano a mano ch'erano puliti li rimetteva a posto. Quand'ebbe finito si rialzò, stirandosi la vita che le doleva, per essere stata curva troppo tempo, e dopo aver mormorato con un respiro di sollievo:—Oh, se Dio vuole, anche questa è fatta!—chiamò la Filomena, che sentiva sempre trafficare nell'anticamera.

—Ohi, papatàsi! Vieni a darmi una mano per rimettere il canapè.

Ma appena il canapè fu rimesso al suo posto (fra la parete e il tavolino di noce), Donna Lucrezia si fermò a guardarlo meditabonda, mentre accendeva e stringeva tra le labbra il sigaro che non volea tirare.

—Misericordia, come cresce quel patacon!

In fatti sopra una spalliera del canapè, pure di lana gialla damascata, si scorgeva, dove le visite dovevano aver appoggiato il capo, una larga chiosa d'unto.

—È stato il professore,—brontolò la Filomena, che pure era rimasta attonita e dolente, dinanzi a quel disastro del salotto giallo.—È stato il professore, che ha sempre la zazzera unta, bisunta!

—Taci là, piavola! —esclamò Donna Lucrezia diventando rossa per la stizza.—I capelli del professore Zodenigo hanno una lucidezza naturale che è uno splendore!... E poi sta a vedere, adesso, che la gente non dovrà appoggiare il capo sulla spalliera! Benzina ci vuole, cara la mia vecchia; benzina e fregamento.—Ma, a proposito, quando hai accompagnato la Mary a scuola, le hai consegnato l'onorario per il Professore?

—Sissignora!—rispose la Filomena sospirando come avea fatto poco prima per lo sciupìo della legna.

—Non bisogna mai aspettare il primo del mese a fare il proprio dovere. Non è da gente di garbo. E ti sei ricordata di involtare i fiorini in un bel pezzo di carta bianca, e di unirvi il mio biglietto di visita?

—Per l'appunto; e siccome di carta bianca, pulita, non ne avevo, me la son fatta prestare dalla Rosetta. Figurarsi! quando ha sentito che dovea servire pel professore mi avrebbe data anche l'anima sua!

—Sciocca, balorda e rimbambita! Quante volte ho da ripetere che non voglio assoluta...—ma a questo punto Donna Lucrezia dovette fermarsi: la bile le avea fatto andare in gola il fumo del sigaro. Cominciò a tossire, a starnutire e pareva che gli occhi le schizzassero dalla testa. Finalmente ancora mezzo soffocata dall'affanno:—quante volte avrò da dire—ripigliò—che assolutamente non voglio confidenze con quella pandolòna che per la smania di scimiottarmi s'è messa a far la sentimentale col Professore?!... Col poeta celebre del Ponte dei Sospiri! Lei, figurarsi! una plebea, un'ignorantaccia che non sa scrivere il suo nome: la figlia della mia Pipelet!

La Filomena, zitta zitta, continuava a meditare sulla macchia del sofà.

—Ho paura, se la levo adesso colla benzina, che ci resti il puzzo nella stanza per tutto il giorno.

—Sicuro!—rispose la Balladoro rabbonendosi subito,—e le visite potrebbero andar via col mal di capo.

La padrona e la serva tornaron mute e meditabonde a contemplare la macchia d'unto che pareva allargarsi sotto i loro occhi prendendo strane forme. Infine Donna Lucrezia svelò i pensieri che le mulinavano in testa.

—Subito che i Patatuchi avranno preso il largo voglio mutare la tappezzeria e le stoffe del mio salotto e addobbarlo all'italiana: tutto in bianco, rosso e verde!

—Ma intanto, per oggi, come si rimedia?—osservò Filomena.

La Signora tornò a pensarci un poco.—Sicuro... sicuro...—Poi a un tratto esclamò, battendosi la fronte colla mano:—L'ho trovata; corocochè!—esclamazione colla quale Donna Lucrezia, fin dalla più tenera infanzia, esprimeva la propria allegrezza.—Già ho un gran genio io, per gli espedienti! Lo dice sempre anche quel caro... anche un'altra persona dice che qua dentro c'è qualche cosa!... Va di là, in camera, prendimi lo scialle turco che m'ha regalato mia cugina la marchesa di Collalto, portamelo qui e vedrai: copro la macchia collo scialle; ma in modo ch'esso deve parere buttato là a caso, con artistica trascuranza!... Andiamo; muoviti, spicciati, trottolona benedetta!

Filomena zoppicando uscì dalla stanza e rientrò quasi subito collo scialle indicatole dalla padrona. Questa lo prese e lo accomodò sul sofà dov'era la macchia d'unto; ma ce ne volle prima che le pieghe avessero raggiunta la desiderata naturalezza!

—Oh, così!... Adesso dovrebbe stare a perfezione. Prova un po', Filomena, a sederti sul canapè per vedere l'effetto che fa.

Ma la povera Filomena non s'era ancora seduta che una forte scampanellata la fece alzare di scatto.

—Misericordia, visite!

—Alle dieci del mattino, vuoi che vengano le visite, mammalucca!

Filomena si acquetò, e dopo aver infilate le ciabatte che avea lasciato in mezzo alla stanza per non insudiciare il tappeto a piè del divano, si avviò tentennando verso la porta.

Intanto la Balladoro, preso di nuovo lo strofinacciolo, si disponeva a dare l'ultima ripulita ai mobili, quando udì la vecchia che bisticciava con qualcuno nell'anticamera.

—Che c'è, che c'è, che c'è?... Le solite prepotenze?!—mormorò Donna Lucrezia avvicinandosi all'uscio e mettendosi in ascolto presso la toppa.

—È un agire da screanzati!—gridava la Filomena.

—Io sto agli ordini del mio padrone, e in quanto a lei dovrebbe imparare a tener la lingua a casa!—rispondeva il suo interlocutore che dalla voce pareva un ragazzo.

La Filomena, strillando sempre più forte, si mosse per rientrare in salotto; e Donna Lucrezia ebbe appena il tempo di ritirarsi per non far vedere a quell'altro ch'essa stava in ascolto.

—Che c'è?—domandò poi a bassa voce appena la vecchia fu rientrata in salotto.

—È quel rusticone villano del carbonaio,—rispose la vecchia col viso pallido dalla rabbia,—che non vuol mandar la legna, se prima non gli si paga tutto il debito!

—Che debito, che debito d'Egitto! Sempre quel tuo frasario da mercato!

—Finchè non gli si paga tutto il conto!—riprese Filomena.

—E... i danari che hai dato stamattina a sua moglie?

—Ha mandato a dire che sono pochi.

—Quella gentaccia dunque ti manca di parola?

—Son birbaccioni, signora; son birbaccioni!

—E tu pagali subito fino all'ultimo centesimo!

—Ma, allora...—la vecchia rimase interdetta. Ci sarebbe stata un'osservazione da fare; essa l'aveva lì, proprio, sulla punta della lingua; ma si sentì impacciata sotto lo sguardo terribile della padrona, non ebbe più coraggio di andar avanti e ripetè appena, sommessamente, il timido ma di prima.

—Che ma! non ne voglio sapere nè di ma, nè di se! Vai, vai; e paga quei ladri fino all'ultimo soldo.

La vecchiarella uscì a testa bassa, lentamente, zoppicando più del solito; e poco dopo si udì la sua voce contare, brontolando, le monete che risonavano sulla mano del garzoncello.

Donna Lucrezia, col sangue che le ribolliva nelle vene, s'era messa a fregare il tavolo di noce, ma con tanto impeto e stizza da intaccare la vernice. Poi, a un tratto, non potè più contenersi e spalancando l'uscio del salotto, mentre il ragazzo del carbonaio stava per andarsene, gli gridò furibonda:—Dirai a nome mio a quello zotico spilorcio del tuo padrone che è un pezzo d'asino, un croato, un... un... un Bucefalo!

—Scusi, illustriss...—cominciò a dire il ragazzo voltandosi; e rimase sbalordito, a bocca aperta, vedendo quella perticona spiritata.

—E gli devi dire che non sa come si tratta colle mie pari; e che non mi conosce; e che sono imparentata coi primi signori di Milano e di Venezia; e che gli farò pagar cara la sua impertinenza; pezzo d'asino, croato... Bucefalo!

—Scusi, illustriss...—si provò a replicare il ragazzo, quando la Filomena, volendo evitare una scenata che potesse far accorrere i vicini, lo cacciò con uno spintone sul pianerottolo e gli chiuse l'uscio in faccia. Il monello rimasto fuori fece un gesto poco pulito all'indirizzo di Donna Lucrezia; stette un momento incerto se doveva sonar di nuovo il campanello per dire il fatto suo a quella "illustrissima sbrindellona," ma poi diede una spallucciata, e corse giù per le scale a precipizio.

—Mi sento un nodo alla gola! Mi sento soffocare!... Dammi un bicchier d'acqua!...—mormorò Donna Lucrezia tutta tremante.

—Verrà il Dio vendicatore,—esclamò con aria profetica quando ebbe bevuto e cominciò a rifiatare:—e se Re Vittorio mi renderà giust...—ma a questo punto starnutì e insieme con lei anche la Filomena parimente raffreddata.

—Ah!... se l'Italia frangere... potrà le sue ritorte! —declamò poi con enfasi confondendo nelle proprie aspirazioni liberali Tedeschi e creditori. Ma que' versi dello Zodenigo le richiamarono in mente un altro pensiero e domandò alla donna se aveva preso i filetti e i tartufi per fare il contorno alle costolette.—Sai bene che oggi ho invitato a pranzo il Professore!

La vecchia rispose appena con un cenno affermativo.

—Ah, che caro giovane!—esclamò con un sospiro Donna Lucrezia accomodando nella giardiniera le rosette, il giranio e la vaniglia.—Tutto cuore, tutto sentimento e tutto genio; tanto è vero che è tisico finito!... Maledette! come bucano queste rose!...—E qui interruppe il suo inno di lode per succiarsi un dito.—Del resto, vecchia mia, sei stata molto tirchia nel comperare i fiori!... Almeno prendere un pochin di verdura. Oh, Dio! si respira meglio con un briciolo di verde! Par di sentire il soffio primaverile!

—Volevano due soldi per un mazzetto di ramerino!

—Li dovevi dare; tanto più che il ramerino dura un pezzo; si mantiene fresco per un paio di mercoledì, e poi si mette a cuocere col capretto!... Oh... ecco fatto! Se Dio vuole anche la giardiniera è in ordine! Adesso fuoco alle stufe e vieni a vestirmi.

—E... e la legna, padrona?

—La legna? Sicuro; e la legna?! Non ci hai pensato!

—Ci avevo pensato certamente; ma ha sentito il carbonaio cos'ha mandato a dire!

—E per colpa di quel tanghero vuoi farmi gelare le visite come sorbetti?...

—Nossignora, ma...—la vecchierella teneva la testa bassa come se volesse contare i mattoni del pavimento.

—E non ti muovi?... Viscere care delle mie pantofole... bisogna correre a comprarla da un altro!

—Ma... i danari, signora padrona?

—I danari?... E i trenta fiorini che hai avuto ier sera?

Filomena stese la palma della mano e fe' l'atto di soffiarci sopra.

—Spariti?... Spariti in un baleno?! Oh, santi numi!—esclamò Donna Lucrezia, mettendosi in tasca il mozzicone spento.

—Due fiorini...—cominciò la serva contando ogni numero sulle dita nere e ossute,—due fiorini gli ho resi alla portinaia. Me li ero fatti prestare colla scusa d'aver dimenticato i quattrini della spesa e che mi pesava di rifar le scale....

—Ne restano ventotto! tiriamo innanzi!

—Dodici fiorini al professore Zodenigo: dodici e due quattordici....

—Per arrivare a trenta ce ne mancano sedici!—interruppe la Balladoro, che in aritmetica era più pronta assai della Filomena.

—E le spese di stamattina? E i tartufi, e i filetti, e i ravioli, e i fiori, e il canfino, e finalmente i nove fiorini che ho dovuto snocciolare al carbonaio?...

—Colpa tua! Dovevi tenerti in mano qualche spicciolo!... Dovevi levartelo d'attorno con un acconto, quel ladro d'un croato!...

—Vergine Santa, è stata lei a gridare che fosse pagato fino all'ultimo centesimo!

—Taci là, pampalùga!... Non si risponde alla padrona!... Chi li tiene i danari?... Te!... A chi li affido io, senza manco contarli? A te!... Dunque tu sola potevi sapere quanti ancora ne rimanevano da spendere e dovevi regolarti!... Ma siccome vedo che hai le mani bucate... vuol dire... vuol dire che penseremo a metterci riparo!

La vecchietta chinò il capo mortificata, e si asciugò nel grembialuccio tutto toppe, gli occhi e il naso. Era proprio lei che aveva la cassa; e questa era una piccola astuzia della Balladoro, la quale colla scusa della fiducia illimitata non voleva saperne di rendiconto e però non era mai obbligata di pagarle il salario. Restava come sottinteso che la Filomena se lo sarebbe ritenuto sulle varie somme che a mano a mano le venivano affidate; ma siccome queste non bastavano mai nemmeno per la spesa, così la serva restava sempre in credito del suo mensile senza che l'altra dovesse rimetterci della dignità facendo vedere di essersene accorta.

Donna Lucrezia pareva come accasciata da quel colpo impreveduto. Buttatasi sopra una poltroncina si guardava attorno smarrita, e i suoi sternuti avevano preso alcunchè di flebile, di gemebondo, che spezzava il cuore alla povera Filomena.

—Non c'è versi!... Per oggi non si potrà ricevere!... Chi sa, chi sa che cosa dirà la gente!... Un altro mercoledì mi pianteranno in asso; il mio salotto giallo rimarrà deserto, ed io sarò come bandita dalla società!... E se ricevo e pigliano un'infreddatura... peggio che mai! No, no; bisogna trovare una scusa, una scusa plausibile.... Dirai che sono ammalata molto ammalata; che ho presa la morfina, e che dormo!

Ma a questo punto un altro pensiero e più terribile finì col mettere Donna Lucrezia alla disperazione!... E il professore Zodenigo?... Avrebbe dovuto rinunziare, per quattro fascinotti, anche al suo poeta, al poeta celebre del Ponte dei Sospiri?... Chi sa la Rosetta, quella smorfiosa, che gusto ci avrebbe avuto!

Donna Lucrezia all'idea della Rosetta gongolante, e che magari colle sue moine avrebbe trattenuto il poeta a chiacchierare sulle scale, non potè più resistere: si alzò con impeto e buttandosi addosso alla Filomena l'abbracciò e la baciò con un monte di carezze.

—Senti, tesoro mio benedetto, devi proprio aiutarmi anche per questa volta! Lo so, lo so, che tu mi vuoi bene, e che sei una perla per cuore e per fedeltà, e se verrà il giorno della redenzione... non temere che avrai la tua parte. Ma, adesso, in un modo o nell'altro bisogna trovare i soldi per la legna.... Piuttosto, pensa, sto a digiuno per un mese!... Senti, vecchia mia, siamo proprio ridotte al verde? completamente al verde?

Filomena, sempre colle lacrime agli occhi, si frugò nella saccoccia del grembiule.—Mi rimangono... cinque soldini....

—Oh Dio... che spasimi!—mormorò la Balladoro cadendo come sfinita sulla poltrona.

In quel momento si udì sonare di nuovo il campanello dell'anticamera; ma questa volta era stata una tiratina leggera assai.

—Santi numi!... Sarà un altro che vuol quattrini!—esclamò Donna Lucrezia spaurita.—Ho presa la morfina, sai. Filomena, e dormo!—E mentre la vecchia, anch'essa un po' turbata, passava nell'anticamera, si buttò sul canapè chiudendo gli occhi.

Filomena rientrò quasi subito portando una lettera colla busta di color giallo.

—Un conto!... Vedi se me lo diceva il cuore?... Ma oggi non è giornata di conti,—soggiunse alzando la voce per essere udita nell'altra stanza.—Oggi è mercoledì, e non ho tempo per badare a queste miserie!

—Ma, signora padrona, l'uomo che ha portata la lettera,—e la Filomena stendeva il braccio per dargliela,—se n'è già andato!

—Ah, se n'è andato?—rispose la Balladoro calmandosi a un tratto, e sbirciando la lettera, senza però prenderla in mano, con un'occhiata sospettosa.

—E non hai potuto indovinare chi la manda?

—Nossignora: mi pareva un commesso, ma era pulito e garbato dimolto.

—Uhm.... Caso raro!—Donna Lucrezia si fece coraggio: prese la lettera, l'apri lentamente, e messi gli occhiali andò subito a guardare la firma: allora fu invasa nuovamente da un impeto di collera e facendosi in viso rossa scarlatta cominciò a gridare furibonda:—Che vuole da me questa spia infame! questo ladro, questo birbaccione?!—Ma poi, a mano a mano che tirava innanzi a leggere, la collera si dissipò come per incanto; la sua faccia angolosa riprese la solita tinta giallognola, esprimendo prima un grande stupore, poi una commozione e una certa contentezza, mista ad inquietudine.

—A buon conto,—pensava tra sè Donna Lucrezia,—costui non farebbe altro, nè più nè meno, che il proprio dovere.... I primi quattrini suoi come gli ebbe?... Dalla sua pôra moglie!... E la sua pôra moglie dove li ha raggranellati? In casa mia; cioè della Mary, che è poi tutt'uno!... Anzi, per dire la verità, da questo suo procedere... doveroso... parrebbe quasi ch'egli non dovesse essere tutta quella canagl... tutto quel grande spilorcio come lo vogliono dipingere. In ogni modo, se si trattasse solamente di me, risponderei con un bel no, sicuro; con un bel no, tondo tondo! Ma a pensarci bene, io non ho diritto di rifiutare la sua offerta perchè... appunto per via della Mary! Non debbo farle perdere una fortuna per le mie antipatie, e per i miei scrupoli!

La faccia della Balladoro si colorì nuovamente, ma questa volta per una gioia schietta a cui s'abbandonava liberamente.

—Presto! Presto, Filomena! Lo scialle! Il cappello! Il manicotto!—gridò correndo nella sua camera.

La buona vecchietta la seguì trascinandosi: essa cominciava a dubitare che la padrona diventasse matta. Donna Lucrezia in fretta e in furia si mise il cappello di paglia nera coi nastri di velluto; si buttò addosso lo scialle bigio e stava già per infilare la porta, quando Filomena, che era rimasta sempre calma,—Vergine Santa,—brontolò,—vuol uscire in quello stato?!

—Non ho più testa! Dio mio, non ho più testa! Se non c'eri tu, uscivo in sottana a rischio di farmi fischiare dai monelli! Fa presto, dammi il vestito nero... moiré!

Filomena fece presto perchè non c'era da scegliere. Ma la padrona, con tutta la sua furia, non trovava il verso d'infilare il vestito; e intanto pestava i piedi, e smaniava, e invocava i santi Numi e la Madonna Benedetta; le cascavano i guanti, perdeva il fazzoletto e non sapea dove riporre quella lettera famosa, origine di tante commozioni: la metteva in una tasca, poi la levava e la metteva in quell'altra; poi nel manicotto. Finalmente pensò di nasconderla in seno.

Quando, dopo tanto affaccendarsi, era già sul pianerottolo, tornò indietro per dare nuove istruzioni alla Filomena.

—Va all'angolo del Gesù; c'è' una bottega di legna da ardere: ne farai portare una carretta; va subito, in due salti!

Filomena, sempre più maravigliata, stava per aprire la bocca; ma Donna Lucrezia glielo impedì soggiungendo:—E dirai al facchino di aspettarmi qui, che appena torno sarà pagato.

—Ma....

—Così pure passerai dal ristoratore Alle Colonne e ordinerai un dolce alla crema per quattro persone....

—Ma dica....

—Ti darò i danari, e devi pagarlo subito. Non voglio più saperne di lasciar conti in giro con questa gentaglia affamata e che manca sempre di rispetto!

—Ma dica un po', Donna Lucrezia,—proruppe la Filomena che, ormai rassicurata, avea gli occhietti lustri per la contentezza,—in quella lettera benedetta le dànno forse la notizia che ha vinto un terno al lotto?

—Non dire scioccherie, piavola; e fa quel che t'ho detto.

Ma quando la Balladoro fu a mezza scala, chiamò daccapo:

—Filomena! Filomena!—con quanto fiato aveva in corpo, e finchè non vide affacciarsi alla ringhiera della scala la sua vecchiarella.

—Ricordati prima di andare ad ordinare il dolce, di accendere le stufe!—E siccome in quel momento c'era una casigliana che saliva le scale, si mise a gridare più forte:

—E se viene mia cugina, la marchesa di Collalto, che aspetti, che le ho da parlare!—Poi scese a precipizio, guardando dall'alto in basso quella che saliva, e uscì superba e impettita nel suo vestito nero moiré, che dovea significare il lutto per la patria.

In quello spazio di tempo dal 1848 al 1859 il patrimonio degli Alamanni era andato in rovina. L'Austria aveva confiscato tutti i loro beni. Giulio Alamanni, condannato a morte e graziato sul palco, dopo aver assistito al supplizio de' suoi compagni di eroismo, era morto allo Spielberg. Francesco Alamanni, rimasto a Londra fino al 1857, era tornato in Italia per prender parte alla gloriosa e infelice spedizione di Carlo Pisacane; e adesso viveva a Torino. Anche Francesco Alamanni (come intendeva fare il fratello suo) prevedendo la confisca si era provvisto, prima di esulare, di una forte somma di danaro. Ma i soccorsi da lui prestati, con vera larghezza di cuore, ad altri esuli più bisognosi, e le sovvenzioni ai comitati rivoluzionari lo avevano ridotto ben presto a dover vivere del proprio lavoro. A Londra aveva dato lezioni d'italiano, ora a Torino le dava d'inglese; e colla sua operosità, oltrechè a provvedere al proprio sostentamento, riusciva a mandare ogni mese a Milano qualche soccorso per la sua nipotina, la figliuola di Giulio e di Lucia.

Il governo austriaco, appena confiscato il patrimonio degli Alamanni e messovi un curatore nella persona dell'I. R. consigliere Carlo Spinelli, aveva concessa all'orfana una tenue pensione; ma, quando quella sostanza amministrata come si usava in tali casi, si andò caricando di debiti e i fondi finirono coll'esser messi all'asta, la pensione venne subito sospesa, e Donna Lucrezia non riusciva più a ottener nulla dallo Spinelli. Allora dovette adattarsi a tirare innanzi alla meglio aspettando i soccorsi che il proscritto le mandava da Torino, e sovvenuta, anche da certi suoi cugini ricchi e buoni, i quali, ad onta delle disgrazie e della miseria della vedova, seguitavano a mantenere viva l'amicizia con lei e a voler bene alla piccola Mary. Quest'ultima viveva con la Balladoro chiamandola zia in segno d'affetto, ancorchè fosse soltanto una lontana parente.

E la rabbia di Donna Lucrezia contro il curatore si risvegliava specialmente dopo i deliziosi pranzetti che faceva di tanto in tanto col poeta del Ponte dei Sospiri. Rossa, eccitata dalla passione, dalla digestione e dal caldo del salotto essa evocava, mentre il suo caro tisicuccio sorbiva il punch, le memorie e gli splendori di Casa Balladoro, e enumerava le afflizioni e i patimenti del presente martirio. Così infiammandosi a vicenda finivano poi sempre col fare un brindisi all'Italia libera e coll'inveire insieme contro qualche nuova angheria commessa dal governo a danno della piccola Mary; angheria contro la quale ci sarebbe stato da protestare giudizialmente.

—Andrò domattina! Andrò domattina da quello scimmiotto incravattato, e gli dirò il fatto mio fuor de' denti!...—Cosa che, del resto, dovea riuscire assai facile alla Signora che di denti ne avea pochini assai.

Per lo Spinelli erano una vera calamità le visite della vedova brontolona, e se le cose non fossero cominciate ad andar male per chi, come lui, mangiava il pane del rinnegato, l'avrebbe mandata, senza tanti complimenti, a carte quarantotto. Ma invece l'alleanza della Francia col Piemonte e la minaccia della guerra vicina gli mettevano la paura addosso, e però soffocava la stizza cercando di amicarsi quelle persone che in caso di rivolgimenti gli avrebbero potuto giovare. E con Donna Lucrezia, la parente degli Alamanni, la tutrice della piccola Mary che avea perduto il babbo allo Spielberg, si mostrava singolarmente affabile e buono, e se non le dava quattrini, erale largo almeno di consigli e di profferte.

Quella mattina in cui la Balladoro, dopo aver ordinato alla Filomena il dolce di crema, era andata dallo Spinelli, questi era turbato assai. Aveva appunto allora finito di leggere la Gazzetta di Milano e le ultime notizie gli avevan messo un grande sgomento addosso.

L'Imperial Regio Consigliere era solo nel suo studio; e buttata la Gazzetta, con dispetto, sullo scrittoio, passeggiava in su e in giù brontolando, cogli occhiali d'argento rialzati sulla fronte, colla lunga palandrana di panno turchino che gli ciondolava sulle gambe e col cravattone bianco tutto storto, altro indizio di gran burrasca.

—Se facessi un viaggetto fuori d'Italia? Se andassi un po' a Vienna per star a vedere come si mettono le cose?—e intanto si lisciava colle dita tremanti le basette bigie.—A Vienna?... E i miei affari? E lo studio? E la clientela?... Maledetti anche i Francesi che hanno sempre il diavolo in corpo!... E poi, se si desse il caso che i Tedeschi avessero la peggio, io trovandomi fuori, starei fresco! Non potrei più ritornare a Milano!... E se invece tengo duro e rimango, chi mi assicura che ai primi schiamazzi, quando ricompariscono le coccarde tricolori, non mi facciano la pelle?... È vero, per altro, che ho sempre cercato di tenermi in buone relazioni anche coi capi scarichi; mi sono sempre mostrato dolce, cortese, servizievole... ma, ma, ma... si sa bene; l'uomo è una bestia irragionevole.... Sono un austriacante?... Niente affatto! Ho servito il Governo, ma in via amministrativa; come un altro cliente qualunque; come servirei un Turco, un Ottentoto, che venisse a chiedere i miei servigi!

Ma invece di un Ottentoto, gli capitò allora nello studio Donna Lucrezia, col naso più rosso del solito per il freddo, e ansante in modo che sulle prime non riusciva a parlare.

—Oh guarda un po'! La nostra cara Dogaressa! —esclamò il Consigliere andandole incontro, con un'effusione straordinaria. Se non ci fosse stato quel naso rosso e rugiadoso, tale da incutere rispetto anche ai più audaci, l'avrebbe forse abbracciata. Invece si contentò di farla sedere sulla poltroncina di cuoio, vicino al caminetto, e si chinò premuroso per attizzare il fuoco.

—Che buon vento!... Che buon vento l'ha menata da queste parti?

—Un vento... un vento sbalorditoio!—Donna Lucrezia starnutò; ma quando fu per soffiarsi il naso si trovò tra le mani lo strofinacciolo che nella confusione aveva cacciato nel manicotto, invece del fazzoletto.

—Sempre infreddata?

—Sempre, sempre; è un gran destino! Ma quella talpa della Filomena, che deve essere gelata come il naso di un gatto, riscalda tanto le stufe che par d'essere in un forno! Poi, quando si esce, sfido io a non infreddarsi!

—Tutti non hanno il sangue caldo come Donna Lucrezia!—esclamò il galante Consigliere, e poi subito pensò tra sè:—Brava, brava! La vecchia fa grandezzate: allora non è venuta per chiedere quattrini!—e istintivamente avvicinò ancora di più la propria seggiola alla poltrona della Balladoro:—Dunque che cosa abbiamo di nuovo?

—Ecco: son qui per... per avere un consiglio da lei.

—Sto a sentire.

—Ma si tratta di un consiglio molto delicato.

—Parli pure, parli pure; con tutta confidenza.

—Posso fidarmi, non è vero? Da donna di cuore a uomo di cuore.

—Diamine, non ci conosciamo da ieri.

—E in tutti i casi, mi fa giuramento di mantenere il segreto!

—Faccia conto d'essere in chiesa, dal suo confessore.

—Gli è, vede, che ai preti ci credo poco.

—Nemmeno io, nemmeno io! Ma dicevo così per dire!

—Senta dunque che cosa mi capita!—E Donna Lucrezia si tirò avanti sulla poltrona avvicinandosi allo Spinelli, che con due dita si accomodava gli occhiali sul naso per guardare in viso più attentamente la sua interlocutrice.

—Mi è stata fatta una proposta che, sotto un certo aspetto, potrebbe essere una fortuna... per la Mary.

—Dica, dica! Quella bambina l'ho sempre a cuore!—e il Consigliere sospirò.

—Avrei da farle leggere una... una lettera, che mi è arrivata....

—Vediamola.

—Prima per altro si ricorda che mi ha fatto giuramento....

—Di mantenerle il segreto.—E lo Spinelli per dar più forza alla sua promessa prese la mano della Balladoro e la strinse con calore.

Questa, frattanto, cominciò a frugarsi nelle tasche per trovare la lettera famosa; poi cercò nel manicotto, ma inutilmente: non la trovava più.

—E sì, presa, l'ho presa di sicuro!—borbottava Donna Lucrezia a mezza voce cominciando a perdere la pazienza.

—Pensi un po' se non l'avesse dimenticata a casa.

—Chè! Chè! Mi ricordo bene d'averla presa; e son venuta qui direttamente!

—Provi a guardare un'altra volta nel manicotto!

—Non c'è; le dico che non c'è!—E Donna Lucrezia sbuffava e dava in smanie. A un tratto si alzò da sedere, e tirò fuori e buttò sulla poltrona tutto quello che aveva nelle tasche e nel manicotto; meno, s'intende, lo strofinacciolo.

—Santi Numi!... Sta a vedere che l'ho perduta!... È sicuro, sicurissimo che l'ho perduta! Oh santi Numi, santi Numi, santi Numi!

Il Consigliere voleva farsi dire a voce che cosa le avevano scritto; ma la Balladoro non gli badava. Tornava a vuotarsi le tasche, in cui aveva già rimessa la roba, e le rovesciava, e gemeva, e gridava. e pestava i piedi quando all'improvviso le balenò in mente dove l'aveva messa, e allora, aprendosi il vestito:— Sia malignaza! —esclamò, calmandosi e sorridendo, e la tirò fuori con aria trionfante.

Il Consigliere la prese e cominciò a leggerla a mezza voce, fermandosi, come per riflettere, sui punti più importanti, e la Balladoro, seria, impettita, prendeva un'aria di maggior sussiego a mano a mano che in quell'altro vedeva crescere la maraviglia.

—Per bacco, cara la mia Dogaressa!—esclamò lo Spinelli appena ebbe finito di leggere,—è proprio una fortuna che le piove dal Cielo!

—Oh in quanto a me...—soggiunse Donna Lucrezia con un certo tono, come avendosene a male.

—Cioè, volevo dire una fortuna che capita alla signorina Alamanni.

—Crede?

Il Consigliere chinò il capo gravemente in seguo affermativo, e tornò a leggere la lettera a voce alta e calcando le parole:

Nobile signora, la Signora Donna Lucrezia Balladoro.

Non è certo senza un longo riflesso che mi fo lecito, Nobile Signora, di scrivergli questa mia; ma quantuncue vituperato dai malevoli invidiosi dei buoni risultamenti del mio lavoro e fatiche di molti anni, ho cuore e memoria meglio di tanti per non incurarmi dei miei primi benefattori.

—Non si poteva cominciar meglio!—osservò il Consigliere interrompendo la lettura per guardare Donna Lucrezia.

—Certo: scrive come un cane, è naturale; ma le idee sono buone.

Se come sono senza vergognarmi di umile estrazione e povero sono riuscito non solo a portarla fuori negli affari, ma pure a procurarmi un qualche comodo, non scorderò di aver fatto i primi passi coi pochi risparmi della defunta e compianta mia consorte e non posso scordarmi dell'affezione della medesima in riguardo alla Nobile Signora Lucia.

Ragionato e curatore per conto di alcuni minori interessati nella Agenzia Micotti e Comp. sita in Milano in Via del Pesce, mi sono trovato in delle mani nel bilancio settimanale di mia spettanza, un'oggeto di valore che non mi lasciò dubbio in quanto alla provenienza, e che rifusa la cassa sociale, detengo fin dora a suoi riveriti comandi.

—Avevo da pagare le lezioni della Mary, il salario alla Filomena, e poi varie altre spese; chè non mi piace di lasciar debiti in giro.... E capirà che ho dovuto umiliarmi, e subire anche questa mortificazione: io; una Balladoro!

Donna Lucrezia, così dicendo, s'era messa a singhiozzare; ma ricordandosi che aveva preso lo strofinacciolo invece del fazzoletto, si asciugò in fretta gli occhi col manicotto, mentre il Consigliere seguitava la lettura.

Facendo voti perchè la Signoria Vostra Illustrissima e la Nobile Signorina Maria sua degna nipote venghino reintegrate nei loro Averi, io mi dichiaro pronto intrattanto ad addivenire ad un'accordo previo il Di Lei assenzo e consenso.

Metto al disposto della Nobile S. V. per ragione e conto della Nobile Signorina Maria Alamanni la somma annua di lire austriache 6000 (dico sei mila) e ciò fino alla liquidazione totale dela sostanza dela prellodata Signorina Minore, previo l'Interesse posticipato e graduale del cinque per cento....

—Troppo giusto!—esclamò interrompendosi il Consigliere.

—Nè, da parte nostra, si vorrebbe accettare, come si dice, un prestito gratuito.

....e alla condizione,—seguitò a leggere lo Spinelli,— che il sottoscritto venghi investito di mandato legale onde rappresentare la Tutela della prellodata Nobile Minorenne Maria Alamanni e ciò al fine di prestare la propria esperiensa al servizio della Casa e di contare i propri esborsi di capitale e Interessi.

Della Vostra Signoria Illustrissima—Il suo devotissimo obbligatissimo servitore — P. Barbetta-Barbarò.

P. S. Dalle undeci ant. e alle quattro di ciascun giorno eccettuati i festivi sono reperibile nel mio studio sito sul Corso Francesco 43—dove detengo in'oltre la Miniatura all'ordini sempre della V. S. Illustriss. —c. s. ds. P. B.-B.

—Dunque che mi consiglia di fare?—domandò Donna Lucrezia appena lo Spinelli ebbe finito di leggere.

—Accettare, cara mia! Accettare a occhi chiusi, e subito!

—Adagio un po'; adagio un po' e non precipitiamo; perchè deve sapere che questo tale è stato portinaio in casa nostra.

—Portinaio?... In casa sua? Questo signor...—e il Consigliere rilesse la firma,—questo signor Barbetta-Barbarò?

—Per l'appunto: nostro portinaio.

—E come ha fatto a mettere insieme un patrimonio?—esclamò il Consigliere cogli occhiettini miopi pieni di maraviglia e di ammirazione.

—Mah!... Se ne dicono tante... tante... tante, che non stanno nè in ciel nè in terra!

—Eh via, i cani si lasciano abbaiare. Ma lei, dal momento che è stato suo portinaio, dovrebbe conoscerlo bene?

—Ecco... veramente, era portinaio del babbo della Mary; che è poi lo stesso.

—Appunto.

—Bisogna risalire un dieci o dodici anni addietro, egli non aveva altro che un nome solo: Barbetta.... Si chiamava Pompeo Barbetta tout court.... Adesso si è appiccicato quel Barbarò, che era il cognome della sua povera moglie: perchè poi, Dio lo sa!... Forse per darsi aria e vedere di ficcarsi tra i nostri pari!

—Sia pure; non sarebbe altro che una debolezza... scusabile anche sotto un certo aspetto.

—Ma la mia condizione... capirà... ho dei parenti a Venezia... a Milano. I Badoero... i Collalto... che la guardano per la sottile... in certi argomenti.

—I suoi parenti, punto primo, non dovrebbero saper nulla di questo affare.

—Sicuro: non ci pensavo. È un'osservazione giustissima.

—Eppoi nello stato in cui si trovano... in cui si trova la signorina Alamanni, non si deve sofisticare sulle origini di chi, in certo modo, viene a rappresentare la parte della Provvidenza.

—Così ho subito pensato anch'io, nel leggere quella lettera: non ho diritto di far perdere una fortuna alla mia pupilla, per le mie idee, per i miei sentimenti personali.

—Benissimo, dunque, su questo punto andiamo d'accordo.

—Perfettamente.

—E ora mi dica tutto quel che sa di questo Barbetta e se le pare uomo da potersene fidare.

—Qui sta il busillis! —e Donna Lucrezia che non voleva dir troppo, per non mettere in pericolo l'affare che le andava molto a genio, e che d'altra parte non poteva assumersi tutto il peso di una risoluzione così grave, tossì per prender tempo.—Dovevo andare più adagio—pensò—e riflettere per la strada al caso mio!

—E dunque? che cosa ne sappiamo!..—riprese il Consigliere allungandosi sulla seggiola e spingendo i tizzoni verso la fiamma colla punta delle scarpe.

—Ecco, dirò, quand'era in casa nostra, passava per un fior di galantuomo.... Un po' tirato ma onesto e fedele a tutta prova. La sua pôra moglie, alla quale, per dire la verità, aveva sempre fatto buonissima compagnia, quantunque... basta, c'era poco da stare allegri, morendo gli deve aver lasciato un qualche migliaio di svanziche. Poca roba,—soggiunse la Balladoro facendo boccuccia,—ma per quella gente lì, si sa, può essere una fortuna.

—Ma come aveva fatto sua moglie ad avere questo danaro?

—Oh Consigliere mio benedettissimo, come fanno tutti coloro che, pur di risparmiare, vivono come dice il nostro popolino: de pan e spuazza!... Era sempre stata una donnetta economa; figlia di gente buona che l'aveva allevata colle fregole di casa Alamanni... La povera Lucia, che le voleva bene, la ricordò anche nel suo testamento. E poi tutti noi insomma, le si regalava sempre qualche cosa. Anch'io, non fo per dire, ma ogni momento le donava e danari e vestiti e biancheria, perchè era proprio una buona creatura; seria, onesta, che badava a' fatti suoi, e non come quella smorfiosa, sfacciata, pezzente che...—ma a questo punto Donna Lucrezia si fermò, sebbene sulle gote giallognole fossero salite a un tratto le fiamme della stizza.

—Fin qui—osservò il Consigliere che faceva di tutto perchè la sua cliente non uscisse dal seminato—fin qui non vedo nulla che possa offendere l'onoratezza del Barbetta.

—E lo dico anch'io, ma ci sono altre voci....

—Ebbene?...

—C'è chi pretende che abbia fatta fortuna col... col... col negoziare in cravatte!

E Donna Lucrezia, allungando il suo collo di cicogna, fe' il gesto favorito di mastro impicca.

—E le prove?... Le prove ci vogliono, cara signora mia!—esclamò il Consigliere al quale non pareva vero di levarsi d'attorno quella mignatta della Balladoro, e però si sentiva molto disposto a difendere il Barbetta.—Intanto l'affare che adesso le propone—continuò—non è certo da usuraio!

—No, no, per dire la verità!...

—Dunque?

—Ma... c'è dell'altro!

—Che cosa c'è? sentiamo.

—Dicono....

—Dicono?

—È un'accusa molto... molto grave. Scommetterei anch'io, giuocherei la testa che sono calunnie; ma intanto la voce corre e... e capirà, Consigliere, il solo dubbio in questo caso mi metterebbe in un brutto impiccio e... ma devono essere calunnie, tutte calunnie!

—Intanto non m'ha detto ancora di che si tratta....

—Scusi, Consigliere benedetto, scusi anche lei; ma sono cose... cose che mi fanno rimescolare il sangue soltanto a pensarci.

—Si faccia coraggio, e sentiamo; da brava!

Il Consigliere si avvicinò daccapo alla Balladoro, che appariva sempre più impacciata ed esitante. Se per caso quel che stava per dire facesse mutare d'opinione allo Spinelli? S'egli le avesse a dichiarare che le proposte dell'ex-portinaio non erano accettabili a nessun patto, allora, ritornando a casa, come avrebbe fatto a pagar la legna da ardere e il dolce di crema?

....Veramente... veramente aveva precipitato un po' troppo nel dare gli ordini alla Filomena!

—E dunque?

In fine non poteva tacere: lo Spinelli, pur troppo, era il curatore della Mary... e quell'altro aveva messo la condizione di rappresentare la minorenne.... Si tirò ancora più innanzi sulla poltrona, e siccome il Consigliere cercava di non guardarla in faccia perchè potesse parlare più liberamente, e tutto curvo attizzava il fuoco con le molle, essa gli si accostò tanto da sfiorargli con la bocca le basette brizzolate, bisbigliandogli nell'orecchio alcune parole.

—Oibò!—proruppe il Consigliere alzandosi inorridito.—Calunnie! calunnie! calunnie!

—Benedetta sempre sia la bocca della Giustizia!—esclamò Donna Lucrezia, alzandosi alla sua volta, e non potendo più oltre trattenere un gran sospiro di sollievo.—L'ho sempre detto, l'ho sempre ripetuto anch'io che non potevano essere altro che calunnie!

—Ma, cara signora, non sa che adesso, quando si vuol rovinare un uomo è presto fatto?... Gli si dà dell'austriacante e della spia! Ma non bisogna badare alle chiacchiere dei tristi, bisogna guardare alle azioni della gente!

—Sicuro, sicurissimo!... Io mi vanto di non aver mai guardato altro che alle azioni!... Alle nobili azioni!

—Crede forse che non diranno anche di me, che sono un austriacante, un codino?

—Eh, eh! se lo dicono!—rispose Donna Lucrezia, alzando le mani per dar più forza all'esclamazione. Ma non c'era bisogno di tanto strepito; il Consigliere, che aveva voluto tastare il terreno, si era già fatto livido.

—Eppure...—balbettò....—Eppure, quando s'è trattato di far del bene a qualcuno, non ho mai badato alle sue opinioni politiche....

—Evviva la faccia di chi può dir così.... Mentre invece vi sono certi tomi, che se ha da spuntare davvero il giorno della Reden.... Basta... non dico altro! Dovranno impallidire anche se, puta caso, avessero il muso nero come un carbon... come uno spazzacamino!

Adesso, per altro, che capiva di avere il Consigliere dalla sua, sicura che la pensioncella non le scappava più, voleva farsi un po' pregare prima di accettarla, mettendo innanzi una lunga sequela di dubbi, di scrupoli e di delicatezze. E intanto il Consigliere volpone, che conosceva bene i suoi polli, si affannava e fingeva anche lui di arrabbiarsi perchè "quella cara Dogaressa" non voleva intendere le cose "pel loro verso!"

—Ma ragioniamo un po', bella signora mia; ragioniamo un po': se fosse proprio vero ciò che dicono del Barbetta, crede lei che l'Alamanni non avrebbe trovato il modo di farlo sapere alla sua famiglia e a' suoi amici per smascherarlo e metterli in guardia?

—Pare anche a me!

—Crede lei che in tanti anni non sarebbe venuta fuori qualche prova di fatto?

—Pare anche a me!... Pare anche a me, tesoro mio!...—continuava intanto a rispondere Donna Lucrezia, alla quale pareva infatti che quelle cinquecento lirette al mese fossero proprio irresistibili.

—Dunque sono riuscito a convincerla?—conchiuse lo Spinelli dopo un'altra mezz'oretta di chiacchiere.

—Ah, se si trattasse di un interesse mio e potessi dare ascolto soltanto alla mia delicatezza... perchè, senta, Consigliere, quando mi toccano certi tasti io divento come una sensitiva.... Ebbene, piuttosto di accettare i servigi di un... Barbetta, piuttosto, dico, mi adatterei a vivere di polenta e torsoli di cavolo!... Io, capisce? una Balladoro, che sono stata allevata, si può dire, col nèttare degli Dei! Ma... visto e considerato che non devo sacrificare mia nipote, subirò questa umiliazione... e farò... e farò quanto lei mi dirà di fare.

—Brava, brava! molto brava!—esclamò lo Spinelli, tossendo e raschiandosi la gola asciutta pel gran discorrere che avea fatto. La nostra cara Dogaressa ha sempre mostrato di aver cuore, e lo prova esuberantemente anche in questa circostanza.

Donna Lucrezia credette proprio che il Consigliere fosse in buona fede; e rimase tanto convinta di ciò che egli le aveva detto, da sentirsi commossa per la propria bontà e per il proprio buon cuore.

—Basta!—mormorò con un sospiro, ammirando l'effetto della sua mesta rassegnazione nello specchio del caminetto.—Sia fatta la volontà del Cielo... per altro è un gran passo doloroso questo che lei mi obbliga a fare!... ascendo, si può dire, sul mio Calvario!

—Senta un po', Donna Lucrezia—soggiunse allora il Consigliere, dopo di aver sospirato anche lui levando gli occhi al soffitto.—Senta un po': s'ella credesse mai che la mia compagnia le fosse per riuscire di qualche sollievo, si potrebbe combinare di andarci insieme da questo signor Barbetta. Oggi no, perchè ho da fare tutto il giorno in tribunale, ma domani sono a sua disposizione.

—Domani?!... no, no!... Ci vado io sola; ci corro subito, all'istante! Ma le pare, Consigliere benedetto? Dal momento che devo bere l'amaro calice, non voglio lasciare un minuto di più in quelle manacce... sporche, il ritratto, la reliquia, della mia povera Lucia!

Ciò detto aggiustò il fiocco del cappello, e un'ultima volta (durante l'intenerimento dell'addio) si fregò il naso sul manicotto. Poi abbandonò la mano del Consigliere, abbassò la veletta, sussurrò con un gemito represso:—Mio Dio, mio Dio che spasimi!—e si precipitò di corsa, e sempre scodinzolando, sulla via del suo Calvario.

Ma quando ne discese aveva le gote rosse, gli occhi sfavillanti; e ci fu un momento, appena uscita dallo studio del Barbarò, in cui non capiva più nella pelle, e allora strinse il manicotto contro il petto, mormorando con un grido represso di gioia:—corocochè!

Quando invece, un po' più tardi, infilò la porta di casa, riprese, e più che mai, la sua aria di sussiego. Era tutta piena di scatole e di involti, e aveva dietro un fattorino anch'esso carico di roba.

L'occhiata che lanciò nello stanzino della portinaia, fu quel giorno sprezzante in sommo grado, e sebbene ci fosse la mamma al finestrino, pure volle dare i suoi ordini proprio alla Rosetta, per umiliarla e per farle dispetto:

—Oggi ricevo: suonerete il campanello ad ogni visita.

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III.

—Filomena! Filomena!

—Comandi, signora padrona!—rispose la vecchiarella affaticandosi a tener dietro alla Balladoro che entrava gloriosa e trionfante, con tutto il suo bagaglio, nella camera da letto.

Essa aveva pagato al carbonaio del Gesù, a pronti contanti, la carretta della legna da ardere; aveva anticipato una bàvara alla Filomena perchè pagasse pure illico ed immediato il dolce di crema, regalando poi otto soldi al fattorino che le avea portata la roba.

In quanto alla Filomena, continuava a credere al miracolo. Essa guardava la padrona a bocca aperta, senza nemmeno darle una mano (tanto grande era il suo sbalordimento), mentre questa metteva giù alla rinfusa scatole e involti sul letto, sul cassettone, dappertutto.

Donna Lucrezia appariva alla serva in uno splendore mai più veduto!

Aveva un cappellino nuovo con due gale rosse scarlatte; poi una bella rotonda di panno scuro cogli alamari di giavazzo; poi, finalmente, attorno al collo un boa di color bigio che le scendeva quasi fino a terra. Ma non era tutto: levatosi il boa, Donna Lucrezia slacciò lentamente gli alamari, mostrando, alla Filomena stupefatta, che la rotonda era tutta foderata di astracan.

—Vergine santissima!... E dove ha rubato i danari per fare tante spese?

—Mi sono ordinata anche un bel vestito di grò fleur de thé... un verdolino pisello.... Vedrai, vedrai, piavola, che metamorfosi!... Ma adesso ti raccomando; quando mi verrai intorno, devi aver sempre le mani pulite.

—Non dubiti, non dubiti, padrona!

—Il verde, vecchia mia, è il colore della speranza. Viva l'Italia!... Ormai la giornata dei tiranni "è giunta a sera!" E il lutto, sai, lo dovranno portare gli austriacanti e gli usurai! Bisognava vedere quel cane dello Spinelli: tremava ad un mio cenno!... Fa presto, dammi un fazzoletto da naso perchè ho sofferto l'impossibile!... Guarda, che cosa mi sono trovata nel manicotto!—e le mostrò lo strofinacciolo, che tirò fuori con due dita da una tasca della sottana, e che le buttò tra le mani.

—Oh finalmente, sia lodato Dio!... E ora sta attenta perchè hai da vedere ancora delle cose.... delle cose straordinarie.

Donna Lucrezia si levò il cappello e la rotonda che distese sul letto senza lasciarla toccare dalla Filomena, e incominciò l'esposizione dei vari oggetti, che avea portato a casa insieme col fattorino. Ma prima di farli vedere voleva, per divertirsi, che la donna tirasse a indovinare.

—Che cosa credi che ci debba essere in questa scatoletta?... E in quest'altra?... E in questo involtino?... E in questa cassetta di legno?...

La Filomena rimaneva come incantata: si sforzava per cogliere nel segno, ma non ci riesciva mai. E la padrona a ridere e a canzonarla mentre schierava sul cassettone tutto un bazzarre di roba. Guanti, collane, ninnoli di similoro, pettini, profumerie, saponi "al muschio" involti in carta dorata; e tutto ciò mentre la vecchietta esclamava capo per capo, colla monotonia di un ritornello:

—Oh Vergine santissima! Dove ha rubato i danari per comperare tanta bella roba?!

Il cassettone era tutto pieno, quando Donna Lucrezia prese di sopra a una seggiola un'altra scatola grande di cartone bianco legata con un nastrino rosso e la posò adagio sopra un tavolino ch'era vicino al letto.

—Questa volta se non indovini da te non ti dico nulla!

—Che può mai essere?

—Devi indovinare.

La Filomena ci pensò un pochino: poi esclamò:—È un cappellino per la signorina!

—No. Ho lasciato il mio alla modista, e lo ridurrà per la Mary.

Ci fu un altro momento di silenzio.

—Se non indovini tu, io non ti dico nulla.

—Sarà... sarà un manicotto per la signorina!

—Chè! Non avrà il mio?... Mutata la fodera è come nuovo!

—Insomma, padrona, se non me lo dice lei, non indovinerò in cent'anni!

—Allora guarda, mammalucca!

Donna Lucrezia sciolse delicatamente il nastrino rosso, movendo le dita e tenendo il mignolo alzato, con una grazia quasi rispettosa. Poi tirò fuori un oggetto pesante involto con molta carta velina; levò la carta, lo posò sul tavolino: era un bellissimo calamaio da scrivania, di bronzo dorato, con un busto di Petrarca nel mezzo.

—Ti piace? È Francesco Petrarca; un gran poeta!

—Oh, com'è grasso. Madonna Santa!—osservò la Filomena, che lì per lì non potè celare un certo malumore.

—Eppure è lui tal e quale: io l'ho visto, in un ritratto a stampa, e lo posso dire. Quando saremo alle frutta, subito dopo il dolce di crema—continuò Donna Lucrezia indicando il calamaio—lo porterai in sala e... stammi attenta, piavola, e non far quel muso da addormentata!... e lo devi mettere con garbo, ma senza dire una parola, dinanzi al professore. Ti darò anche un mio biglietto di visita: ho pensato di scriverci sopra "al Cigno di Rialto " e basta!... Vorrei un po' vedere se quell'antipatica della Rosetta e quella grassonaccia malignaza della sua padrona—(l'affittacamere del professore, che era un'altra spina al cuore per la vedova)—sarebbero capaci d'un pensiero così gentile e nobile nello stesso tempo. Oibò, oibò! Avessero anche i danari che ci ho io, tanto e tanto non saprebbero pensarle certe cose: il sangue non è acqua, e la botte dà del vino che ha!

Ma la vecchina stava sempre muta, colla testa bassa, senza più dire una parola.

—Stasera—soggiunse poi Donna Lucrezia andando su e giù per la camera, affrettandosi a metter la roba a posto nell'armadio e nel cassettone—stasera aggiusterò i miei conticini anche con te!

—Faccia il suo comodo, padrona... Io non le ho ancora domandato nulla!—rispose la Filomena, un po' mortificata e anche impermalita per quelle parole.

—Non avertene a male, viscere mie, ma d'ora in poi li terrò io i danari, chè non voglio abbia da ripetersi il brutto caso di stamattina, che mi son trovata asciutta asciutta senza saperlo!

—Come vuole, padrona!

—Farò anche uno spoglio di tutto il mio guardaroba, e i vestiti che non sarà conveniente ridurre per la Mary gli avrai tu, in regalo.... Voglio che tu ti vesta a garbo, diamine!... Si deve subito capire che sei la mia cameriera e non una serva qualunque!

—Sissignora... sissignora: cercherò di contentarla!

La Filomena non ne capiva niente di tutte quelle ricchezze.—Che la sua padrona avesse avuta un'eredità?... Oppure che ci fosse proprio la vincita di un terno al lotto, come aveva dubitato in principio? Quella famosa lettera gialla doveva pure aver portato una notizia straordinaria assai!—Ma siccome poi, alla fin dei conti qualunque fosse, l'avvenimento pareva propizio per la sua padrona, la buona donna si sentiva più che disposta ad accettare la provvidenza ad occhi chiusi.

—Le robe frattanto erano state messe tutte a posto: il calamaio solamente rimaneva in mostra sul cassettone.

—Ed ora lesti lesti a far toilette!... Dio mio, è il tocco e mezzo! Presto comincieranno le visite!

Ma mentre Donna Lucrezia in accappatoio (quello appunto che aveva servito per riparare dalla polvere il tavolino di noce) stava pettinandosi seduta dinanzi allo specchio, indirizzò una domanda alla Filomena, che, se questa fosse stata meno semplice, avrebbe potuto metterla sulla buona via per iscoprire il segreto.

—Chi è stato a darti l'indirizzo dell'agenzia Micotti... non tirarmi i capelli, bada!... e a permetterti di palesare il mio nome?

—Ma....

—Che ma! E perchè diventi rossa?

—M'è stato tanto raccomandato... di non dirle nulla....

—Animo, animo, di' su; e spicciati.

—Una mia parente, la quale per l'appunto si trova al servizio di un riccone, che è il padrone de' padroni di quell'agenzia.

—E chi t'ha dato il permesso di andar in giro a spifferare le mie faccen... Sancta sanctorum, visite; e non sono ancora vestita!—esclamò la Balladoro, interrompendosi a un tratto e con un accento quasi di disperazione.

In fatti una forte scampanellata aveva risuonato nell'anticamera.

—Ah, Gesù benedetto, fate almeno che non sia mia cugina la marchesa!... Dio, Dio, se le fo fare anticamera, quella lì è capacissima di non tornarci più. Corri, Filomena, corri ad aprire, e sia lei o chiunque altro, di' loro che si accomodino e che io vengo subito, subito, subito! Ma guarda di far le cose per bene, mi raccomando!... Andiamo, corri dunque!... No, aspetta un momento!... Pulisciti prima il grembiule.... Ma guarda, beata Vergine, come sei tutta spettinata!... Vien qui che ti aggiusto un poco!—e la Balladoro ravviò col suo pettine le ciocche bianche della vecchina.—Oh così... puzzi di cipolla come una frittata, santi numi!... Va', va' lesta, muoviti, tartaruga!... E mi raccomando: educazione, legna nelle stufe, e cammina diritta!

Rimasta sola, Donna Lucrezia continuò a gemere contro l'avverso destino che le mandava le visite prima ancora ch'ella avesse finito di abbigliarsi.—Tutti gli affari, tutti gl'impicci mi devono sempre capitare al mercoledì!... Ci sono sette giorni nella settimana; ma signori no; è sempre al mercoledì che mi levano il fiato!... Dove ho messa la retina del chignon?... Oh, celesti numi, non la trovo più! Chi sa dove me l'avrà ficcata quella mammalucca della Filomena!... Oh, eccola qui!

Messo a posto il chignon, impomatato il ricciolo in mezzo alla fronte, si preparava a darsi la cipria, quando ritornò la Filomena.

—Chi è?—domandò la Balladoro col piumino alzato, a voce bassa, trattenendo il respiro.

Non era la marchesa di Collalto, ma quasi: erano il conte Prampero di Castelnovo, colla sua figliuola. Allora la stessa gravità del caso le diè coraggio per compiere un'eroica risoluzione: infilò in fretta e in furia la rotonda nuova, e si presentò sull'uscio ai suoi visitatori col viso ancora impolverato di cipria, come un pesce da friggere, e spandendo nel salotto un odore acutissimo di acqua di Felsina.

—Non ho potuto resistere!... Scusatemi, conte mio, se mi presento in disabigliè; scusami tanto, Angelica cara, ma proprio non ho potuto resistere!... Quando ho sentito annunciare il vostro nome, ho indossato la pelliccia... qui fa un freddo da Siberia.... Filomena, metti legna nelle stufe!... e sono corsa da voi isso-fatto!

Il conte Prampero per poco non ebbe la mano storpiata in quelle prime effusioni, e Angelica, abbracciata e baciata con gran trasporto dall'ardente cugina, rimase con le guance e il giubboncino di panno scuro sparsi di cipria. Ella sorrise, arrossì un poco e ricambiò le carezze con un'amorevolezza tranquilla e aggraziata. Era una figura soave di fanciulla bionda: alta, pallida, flessuosa. A chi la vedeva per la prima volta pareva quasi un'apparizione, e dopo non la dimenticava più. Il conte Prampero dalla persona svelta, asciutta, elegante e dai lineamenti del viso dava subito a vedere di essere suo padre, ma pure lo sguardo freddo, altezzoso e i sorrisi brevi, finissimi, i quali facevano l'effetto come di altrettante punture che penetrassero uggiose nell'anima, dicevano chiaro che la rassomiglianza tra il babbo e la figliuola era solamente esteriore: finiva tutta al viso e alla persona.

—Non v'incomodate e non fate cerimonie, Donna Lucrezia. Sono venuto con Angelica, volendo adempiere ad un dovere, ma ci sbrigheremo in due parole...

—No, no; mai, mai! Non vi lascio andare così subito; neppure per idea!... Volete farmi dire: "Non prima vidi il sol che ne fui priva?" E sei proprio un sole, Angelica mia cara!... Un sole di bellezza e di eleganza!

E Donna Lucrezia ritornò daccapo a baciare ed abbracciare la leggiadra fanciulla, che sempre composta e silenziosa tratteneva il fiato e chiudeva le palpebre, come soffocata da quella foga di carezze.

—Vi partecipo,—disse infine il conte Prampero colla sua voce arida, secca,—ho l'onore di parteciparvi il matrimonio di mia figlia con nostro cugino, il marchese Alberto di Collalto.

Donna Lucrezia si alzò in piedi; prese tutte e due le mani del conte, se le strinse sul cuore, e cercò, cercò le parole che fossero proprio degne della circostanza; ma non trovò altro da dire che:—Le mie più vive... le mie più vivissime felicitazioni;—ed anche questo complimento banale le rimase strozzato per via del raffreddore.

Angelica, pallida pallida, abbassava intanto gli occhi azzurri, che avevano sempre un'espressione mesta, come di preghiera, e ch'ella non ardiva mai di tener alzati in volto a suo padre.

—Oh, ma che bella notizia, conte mio garbatissimo!... Che bella notizia!... È un connubio degno dell'Olimpo. È un... è un poema; un poema d'amore!... Ah, chini il capo, gioia mia?! Su, su, chè voglio vederti in tutta la tua felicità e voglio darti un altro bacio perchè m'hai proprio consolata! Hai portato la luce, la primavera; ecco, la primavera nel mio salotto giallo.

Ma la fanciulla non alzò il viso gentile e non ricambiò quel bacio; invece rispose con un tremito, un tremito angoscioso dell'anima sua, alla parola amore.

Donna Lucrezia, preso l'aire, non si fermava più. Portava fino al settimo cielo i meriti sommi dello sposo e la bellezza e le virtù della sposina, e passava in rassegna i più illustri parentadi successi nelle grandi case Bodoero, Collalto e Castelnovo, ma non riusciva a trovare "una coppia migliore (che migliore!) neppure da reggere al confronto col poema, proprio col poema, che formavano insieme suo cugino Alberto e sua cugina Angelica, dimodochè lei veniva ad essere, come per dire, cugina doppia di tutti e due!" E poi faceva gli occhietti dolci, e diventava rossa, fra le chiazze della cipria, figurandosi l'amore e la felicità dei fidanzati, e ritornava seria, impettita quando parlava della soddisfazione vivissima di tutto il parentado; e sdilinquiva dondolandosi sul canapè a proposito della gioia dei genitori. E tutto ciò senza un momento di respiro, come fosse una macchina montata: ora soffiandosi il naso, od asciugandosi gli occhi; ora baciando Angelica e premendosela al cuore; ora alzandosi all'improvviso per stringere un'altra volta la mano al conte Prampero; ed ora lagnandosi del freddo da Siberia, quantunque la sua rotonda fosse foderata d'astracan.

Angelica si sentiva oppressa. Aveva tentato d'interrompere Donna Lucrezia per chiederle notizie della piccola Mary, ma non le era stato possibile. Il conte, seccato, cominciava a fare il broncio, e aspettava impaziente che la figliuola lo guardasse un poco per farle cenno di accommiatarsi e di andar via.

Ma quel giorno doveva essere proprio tra i più felici della Balladoro. Quando già i suoi ospiti si erano alzati e stavano per salutarla, si udì nell'anticamera un'altra forte scampanellata ed entrò nel salotto la piccola Mary seguita dal professore Zodenigo, che avea voluto accompagnarla in persona a casa, per fare la sua visita del mercoledì.

Donna Lucrezia non capiva più nella pelle, gongolando di mostrarsi al caro poeta nel pieno splendore della sua illustre parentela. Essa era tanto confusa che tirava via la poltroncina al conte Prampero per offrirla al professore; poi, visto lo sbaglio, s'affrettava a cedere la propria e la spingeva innanzi, e in fine avrebbe voluto che tutti si mettessero a sedere sul canapè. Ma per altro, cessato appena quel primo sbalordimento, cominciò subito le presentazioni con un gesto ed un inchino cerimonioso.

—Il professore Eugenio Zodenigo, di Venezia!—Poi, chinandosi all'orecchio di Angelica, le disse a mezza voce:—È un celebre poeta!—e subito soggiunse più piano ancora, ma sempre coll'aria di metterla a parte di un altro grande pregio del professore:—Tisico spedito!—Quindi, a voce forte ripigliò:—Mia cugina la contessina Prampero di Castelnovo, che si fa sposa a mio cugino il marchese Alberto di Collalto, i quali, si diceva adesso, diventano, per questa bellissima unione, miei cugini due volte!... Il conte Prampero di Castelnovo, il padre, l'artefice di questo capolavoro di grazia e di bellezza!... Ma accomodatevi, cari miei: accomodatevi come potete. Il mio salottino giallo è un po' ristretto, ma c'è posto per tutti!

Il professore, col fare distratto e con un gran sussiego, salutò chinando il capo circondato da una zazzera enorme, che faceva sembrare il suo visetto ancora più piccolo e sparuto. Invece il conte Prampero, senza muoversi punto, si cacciò le lenti sul naso e cominciò a guardarlo coll'aria di chi sta a vedere una bestiola curiosa assai.

La Balladoro, da signora che sa ricevere, fece subito gli elogi del poeta, citando la lirica: Il Ponte dei Sospiri, e concludendo che appunto in occasione di quel fausto imeneo avrebbe dovuto inspirarsi per un'altra bella poesia da far epoca.

Il poeta, per mostrarsi disinvolto, si arricciava i baffettini incipienti, ma rimaneva muto e nel suo interno si sentiva un poco sconcertato. Capiva di non aver fatto alcuna impressione sull'animo della contessina di Castelnovo e già cominciava a meditare un canto libero contro la stoltezza dei blasoni.

Angelica si teneva abbracciata alla piccola Mary; discorreva, rideva con essa, e proprio non gli badava punto.

Il bel ricciolo nero, impomatato, che il poeta portava in mezzo alla fronte, come la foglia ripiegata di una arancia, e che veniva amorosamente imitato dalla sua padrona di casa, da Donna Lucrezia e dalla figliuola della portinaia, non otteneva nessuna ammirazione da parte della contessina. Essa era tutta affaccendata dietro alla cuginetta; le accarezzava i lunghi capelli ondati, e le baciava il viso gentile e delicato, non ancor bello, ma che prometteva di farsi tale, e che già inspirava simpatia. Anche la bimba aveva il suo povero nasino rosso, gonfio pel raffreddore, e le manucce screpolate dai geloni; però, come vergognandosi, le teneva nascoste sotto la mantellina, e guardava Angelica senza osare di toccarla, e rispondeva alle carezze di lei con uno sguardo affettuoso de' suoi occhi neri neri, che parevano ancora più grandi e profondi in quel viso palliduccio.

—Ma io lo pregherò tanto,—continuò donna Lucrezia insistendo sempre nel suo primo pensiero,—che te lo dovrà proprio fare, sai, Angelica, un bel sonetto.... Sì, sì, professore; glielo dovete fare. Già voi avete l'estro facile. Non siete come quegli sgobboni, santo cielo, che sudano tre giorni prima di trovare una rima!

Non c'era versi: bisognava risolversi e rispondere qualche cosa. Allora lo Zodenigo sospirando, crollando mestamente il capo e mangiando l'erre in un modo che gli faceva dire patia invece di patria e cetaa invece di cetra, mormorò che, " duante il lutto della patia l'esule cetaa imaneva muta."

Il conte Prampero tornò a mettersi le lenti sul naso e tornò a guardare fisso il poeta, mentre Angelica nascondeva il viso dietro la testina della Mary. Anche Donna Lucrezia sentì in quel momento che lo Zodenigo non veniva apprezzato secondo il merito, e però, per fargli onore, voleva ad ogni costo che la bimba si provasse a recitare una poesia del professore, Memorie e lacrime. Ma la bimba, a quell'invito, arrossiva e minacciava di fare i lucciconi, mentre lo Zodenigo con una vivacità che contrastava assai col fare dignitoso di prima:—Non pemetto! non pemetto! —gridò subito come spaventato:—non pemetto assolutamente!

—Modestia, professore; tutta modestia!—La Balladoro non si diede per vinta, e vedendo che la Mary faceva l'ostinata cominciò lei a recitare le prime strofe, senza lasciarsi intimorire dall'autore:

Io canterò. Su quell'avel ti siedi, Su quell'avel ti sederò d'accanto:

—Smetta, Donna Luchezia, smetta! Sono fanciullaggini!—gridava lo Zodenigo facendosi sempre più rosso e tentando invano d'interrompere la Balladoro che continuava a declamare, dondolandosi:

Ai dì che fûro con la mente riedi; Cerchiamo un delicato estro nel pian...

Ma finalmente uno sternuto e un po' di tosse vennero in aiuto del professore e le Memorie e lacrime finirono lì.

All'udire que' versi il conte Prampero aveva fatto un movimento drizzando il capo e stringendo le palpebre, come se avesse voluto ricordarsi di un ronzìo che non riusciva nuovo al suo orecchio. Ma Angelica, invece, avea subito capito donde proveniva l'inquietudine del professore; però, buona com'era, ne sentiva pena per lui e volendo aiutarlo a levarsi d'impiccio le domandò di Venezia, e se l'aveva lasciata da molto tempo.

Lo Zodenigo era lì lì per aprir bocca: ma Donna Lucrezia gli tolse la parola, affrettandosi a rispondere in vece sua.

Essa era convinta che que' pochi versi dovevano aver colpito Angelica fortemente, visto che la fanciulla, abbandonata la propria naturale ritrosia, si era subito messa a discorrere con lui. E però le premeva di mostrarsi benissimo informata di tutte le faccende del professore, e di far vedere che la loro amicizia, la loro intimità, erano proprio straordinarie. Poi, a poco a poco, a proposito di Venezia e dei Canti patrii dello Zodenigo, Donna Lucrezia venne a cadere col discorso anche sulla guerra che si sperava vicina, entusiasmandosi per Garibaldi, per Vittorio Emanuele, per Napoleone III e per tutti que' bravi giovanotti che passavano a frotte il confine, e correvano in Piemonte ad arruolarsi.

A questo punto il conte Prampero tornò a fissare la figliuola attentamente, duramente, come se volesse comprimerle con quello sguardo anche i moti dell'anima. Angelica, pallida pallida, abbassava gli occhi, e il respiro del suo petto si faceva più affannoso sotto il giubettino attillato.

Ma Donna Lucrezia era stordita dalle sue stesse chiacchiere, e senza badare ad altro, chinandosi all'orecchio della cugina le sussurrava piano indicandole il professore, che ricominciava ad arricciarsi i baffettini:—Poveraccio, anche lui sognava di arruolarsi, ma io non ho voluto. È tisico spedito!—E così seguitò a chiacchierare, a chiacchierar sempre... e le angosce di Angelica crescevano ad ogni momento. Col sicuro istinto del cuore essa aspettava un nome che doveva allora essere pronunciato, e che rendeva minaccioso l'occhio di suo padre, sempre fisso sopra di lei. Lo aspettava agitata, tremante, ma pure nel tremito suo, insieme colla timida soggezione e collo sgomento, c' era l'ansia segreta di tutto il cuore, dell'anima tutta!... Più la facevano soffrire e la tormentavano per quel nome, e più essa lo amava!

L'amore è dolore: lo sapeva già, lo sapeva bene, la povera fanciulla!

—Insomma: Italia libera e Dio lo vuole! ecco, è proprio così—esclamava con enfasi la Balladoro:—ed è appunto perchè Dio lo vuole, che ogni giorno si vedono cose che paiono miracoli! Finchè, per esempio, corrono ad arruolarsi i giovani del popolo, si capisce: sono abituati agli stenti e alla vita da cani. Ma tutte quelle pòre creature del nostro sangue, cresciute fra gli agi e il lusso e che si mettono a fare il soldato, ma proprio il soldato semplice?... E mi dicono che devono spazzare anche le caserme?!... Figuriamoci che stomaco, Gesù bambino! Eppure scappano via allegri e contenti come se andassero a nozze. E ogni giorno ce n'è una filza di nuovi, e ogni giorno c'è sempre il nome del tale o del tal altro, tutte persone di nostra conoscenza!...

Angelica ebbe un sussulto che sembrò le arrestasse per alcuni momenti i battiti del cuore.

—Lo saprete certo, cugino caro, che è fuggito in Piemonte, per arruolarsi, anche Andrea Martinengo?...

—Già, già; me l'hanno detto... l'ho sentito dire... alcuni giorni fa!—rispose il conte Prampero, alzandosi, senza aspettare che fosse Angelica la prima a muoversi.

Essa celava il viso accarezzando colla sua guancia, che bruciava, la guancia morbida della piccola Mary.

—Noi vi salutiamo, Lucrezia: abbiamo ancora parecchie visite da fare. Quando scrivete a Francesco Alamanni ditegli che speriamo... speriamo di vederlo presto!

—Oh, gli scrivo tutti i giorni, tutti i giorni!—E Donna Lucrezia e la Mary accompagnarono i Castelnovo nell'anticamera.—Dio, Dio, che freddo!... Filomena, la porta!

Supebiosi, antipatici!—mormorò fra sè lo Zodenigo, rimasto solo un momento. I Castelnovo lo aveano appena salutato con un cenno del capo, senza guardarlo. Pure, ad onta del suo disprezzo, si sentiva più libero assai, adesso che que' due se n'erano andati. Buttò il cappello sopra una seggiola, si sbottonò il soprabito nero e con una mano si aggiustò la zazzera.

Donna Lucrezia ritornò sola perchè la Mary era corsa in cucina colla Filomena.

—Santi numi, santi numi, ho proprio paura di averla fatta grossa, ma grossa come una balena!

—Perchè?

—Ho perduta la testa!... Sono andata a parlare coi Castelnovo di Andrea Martinengo!

—E dunque?

—Caspita! Dicono che ci fosse del tenero fra il Martinengo e l'Angelica!

—O come? Ma se sposa quel maachese... quel maachese...

—Il marchese di Collalto, mio cugino... Sicuro! Ma sarà stato Prampero a combinare questo matrimonio, e con Prampero non c'è da scherzare: quel che vuole vuole! Ma dopo tutto non ho detto nulla di grave; nulla che li potesse offendere, dunque?... "Non ci curiam di loro!" Venite qui, venite qui, tesoro mio; venite qui vicino a me!—E Donna Lucrezia si tirò accanto lo Zodenigo sul sofà.—Come siete bello, oggi!... Come siete elegante!—Così dicendo gli toccava appena colla punta delle dita tremanti, e come per volerlo aggiustare, il ricciolo alla rubacori.—Ed è tutto per me questo lusso? E sono tutte per me queste bellezze?... Sentite, Eugenio, mi dovete proprio concedere che per oggi, giacchè ormai mi avete veduta così, possa restarmene come sono. Mi seccherebbe tanto di dovervi lasciare per ritornar di là a finire la mia toilette!... E poi questa rotonda è tutta foderata di astracan vero...—e ne sollevò un lembo per fargliela vedere di sotto:—e ci sto dentro così bene, calduccia, calduccia!

Lo Zodenigo le concesse il favore richiesto, ma per altro le fece, per suo conto, dei gravi rimproveri. "Non voleva assolutamente ch'ella facesse imparare alla Mary i versi suoi, e tanto meno che li facesse recitare quando c'era gente... Ne andava del suo amor proprio, diamine; ed anche del suo nome d'artista! E poi lei non sapeva scegliere! Si metteva a declamare poesie giovanili... scritte magari al caffè... insieme con qualche amico, con qualche confratello, ed in cui egli non ci aveva messo di suo altro che le idee... perchè già lui era insoffeente di lima! "

—Benedetto da Dio! Benedetto da Dio! Quanta umiltà in questo tesoretto caro, caro, caro!—E la Balladoro gli si accostava sempre più e gli si stringeva addosso, facendo smorfie e leziosaggini. Il suo viso diventava acceso, le narici rosse e piene del naso intasato avevano tremiti nervosi e sulle labbra che si assottigliavano stirandosi e scoprendo le gengive pallide e sdentate pareva errassero ancora quelle parole caro, caro, caro, che non osava ripetere, ma che le prorompevano dal sangue e le sfavillavano dagli occhietti lustri.

—" Cerchiamo un delicato estro nel pianto!..." Quanta malinconia e quanta passione in quattro parolette: un delicato estro nel pianto!... Lasciate che ve lo dica, Eugenio, lasciate che ve lo dica, ma quando volete proprio toccare la nostra corda sensibile, siete un gran mostro!

Lo Zodenigo non disse di no; ma continuò a tenersi in un riserbo pieno di sussiego. Egli voleva rifarsi coll'alterigia sua propria della freddezza del Castelnovo, tanto più avendo avuto una prova chiara e lampante che il suo nome cominciava a godere un certo credito. I biglietti di visita che aveva distribuiti in giro ai librai e ai parrucchieri ottenevano il loro effetto; e per l'appunto in que' giorni avea ricevuto la visita di un ricco signore (con una catena d'oro grossa un dito e un mazzetto di ciondoli che tintinnavano come i sonaglioli de' cagnolini) il quale, senza lesinare sull'onorario, lo aveva subito preso come ripetitore per il suo figliuolo.

E però tutte le donnicciuole che vennero dopo il Castelnovo a visitare la Balladoro furono guardate dall'alto in basso dallo scontroso poeta, precisamente come "quell'antipatico del conte Prampeo " aveva fatto con lui. Ma erano compensate dalla padrona di casa, ancora più espansiva del solito. Essa era felice di poter mostrare e presentare alle sue amiche e protette il famoso "Cigno di Rialto, tisico spedito." Era beata di potersi scusare con tutte loro per il disabigliè in cui si trovava, per la rotonda "tutta foderata di vero astracan" che si era buttata addosso, essendo stata sorpresa, mentre ancora faceva toilette, da suo cugino il conte Prampero, venuto colla figliuola per partecipare, prima a lei che ad ogni altro, il matrimonio della contessina di Castelnovo col marchese Alberto di Collalto, "i quali venivano in tal modo a essere due volte suoi cugini!"

Il professore ascoltò tutto il giorno, senza muoversi mai dal suo posto, la continua ripetizione di que' medesimi discorsi. Poi, quando Donna Lucrezia (verso le cinque, dopo una mezz'oretta che non c'era più gente) gridò alla Filomena che avea finito di ricevere, perchè anche lei, infine, sebbene fosse mercoledì, aveva diritto di fiatare, lo Zodenigo, che conosceva le abitudini della casa, si alzò e andò vicino alla stufa a riscaldarsi le mani.

Allora succedeva sempre un altro po' di tramenìo nel salotto giallo, che veniva mutato in sala da pranzo. Gli album, le strenne e i ritratti di tutti i nobili parenti andavano a finire dietro al canapè; la Filomena capitava tutta frettolosa colla paletta a levare la brace dalla stufa, che portava in cucina per metterla sotto la casseruola. Donna Lucrezia andava e veniva, anche lei tutta in faccende: dava un'occhiatina ai preparativi del pranzo; assaggiava il brodo col mestolo, faceva qualche raccomandazione alla Filomena, annusava lo stufatino e preparava il piatto dell'antipasto, ammucchiando con garbo il salame e il prosciutto sopra un limone col burro intorno e con qualche fiorellino fresco. Quel giorno, dopo essere, stata in cucina, passò in camera sua; cambiò il fazzoletto da naso, scrisse il bigliettino che andava messo dinanzi al busto di Petrarca, tornò a guardarsi bene la rotonda, alla quale in tutte quelle ore non aveva potuto dare se non qualche occhiata furtiva; si provò il cappellino nuovo, trovò che le stava d'incanto, si sparse il viso di cipria, e poi, udendo il poeta che fischiettava, si sentì felice appieno, e in un impeto di contentezza non potè trattenersi dal mormorare ancora, con una fregatina di mani, corocochè, corocochè!

Alla fine del pranzo fu presentato il calamaio al professore dalla piccola Mary. La Filomena, cocciuta, colla scusa che aveva da preparare il caffè, volle spuntarla col non esser lei che portava il regalo "a quel tisico da commedia!" Ma il pensiero gentile, il bigliettino e il benessere che si sentiva intorno per quel desinaretto gustoso, finirono col commuovere il professore, il quale, smessa la boria, cominciò a sorridere, a ravviarsi i capelli ed a mettere a parte Donna Lucrezia delle sue glorie letterarie. Fra le altre raccontò la visita ricevuta del ricco signore, e ne disse il nome.

—È uno dei signooni di Milano!—aggiunse poi, dondolandosi sempre sulla seggiola e guardando Francesco Petrarca con uno sguardo benigno, da collega non invidioso:

—E volete che io non lo conosca? Ma non è un signore: no; bisogna fare la distinzione, tesoro mio: è un ricco, un riccone e niente più. E sapete, Eugenio, chi glieli ha dati i primi quattrini?... Sono stata io.... Figuratevi, era il mio portinaio!

Il poeta guardò la Balladoro, e per la prima volta gli sembrò una donna maravigliosa.

—Oh, per me ha sempre avuto grande reverenza. Trema ancora, si può dire, ad un mio cenno!...

Intanto la piccola Mary passava in cucina tutta la serata, aspettando per andare a dormire che, partito il professore, le riducessero a uso di lettino il divano dell'anticamera. La Filomena le puliva col grembiule un canto della tavola, e la fanciullina vi si metteva co' suoi libri a studiare. Ma poi quando l'altra, finito di rigovernare, le si sedeva vicina rattoppando qualche straccio suo o della padrona, la Mary alzava dal libro la testina palliduccia e voleva sempre che le parlasse della mamma, che la vecchia avea veduta tante volte alla messa.

E la Filomena, sonnecchiando, ripeteva tutte le sere le medesime cose colle medesime parole, e tutte le sere, vedendo la bimba che la guardava ansiosa, senza mai perdere una sillaba, finiva sempre dicendole così:—Era buona come una santa, era bella come una madonna, e aveva gli occhioni neri neri... e dolci dolci... proprio come i tuoi!

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IV.

Il signor Barbarò (i suoi dipendenti per andargli a genio lo chiamavano con questo nome, perchè da lui preferito), il signor Barbarò non nascondeva il disprezzo olimpico che sentiva per lo Sbornia.

"Figurarsi! Un ubriacone incretinito che voleva mettersi anche lui a fare l'Italia!... Non ne aveva buscate a dovere quando, insieme con quell'altro bel matto del Garibaldi, era corso a difendere la rep... pubblica Romana?" E nel pronunciare questa parolaccia, repubblica, il signor Barbarò, batteva doppio il pi, gonfiando le labbra e ghignando. "Allora, a Villa Corsini, gli era toccato un colpo di baionetta che per poco non lo mandava all'altro mondo, senza il passaporto! Ma la lezione non aveva giovato; lo Sbornia non era uomo: era un otre ripieno di vino e di acquavite!" E il Barbarò rimbrottava aspramente e teneva muso alla Veronica, perchè non sapeva comandare al marito. "Già, era sempre stata una fannullona non buona ad altro, che a mangiare e bere."

Tuttavia non bisogna credere che Pompeo ci si scalmanasse per affetto: oibò! Si arrabbiava e gridava perchè non volea perdere lo Sbornia che gli era divenuto più che mai necessario.

—Dove trovare un altro uomo di fiducia che fosse sicuro come il Micotti? Un altro bestione così ignorante e così devoto, onesto fino allo scrupolo verso il suo principale e nello stesso tempo pronto a sfidare anche la galera, pur di eseguire ciecamente un ordine ricevuto?

Lo Sbornia era bravissimo pei conti, e fuori dei conti non capiva un'acca: non parlava mai, discuteva ancora meno, e lasciava ragionare al padrone. No, no!... non si poteva trovarne un altro a meno di non farselo fare apposta dal Padre Eterno!... E le preziose doti che ornavano un tal uomo si erano svelate appunto anche in que' giorni coll'appalto delle forniture militari concluso a Verona, tra il feldmaresciallo Ignazio Teimer (per conto del governo austriaco) e la ditta Micotti e C. In quella circostanza poco mancò che lo Sbornia non fosse processato; e le truffe commesse dai fornitori furono così numerose e incredibili da diventare quasi leggendarie fra le gesta dei birbaccioni.

Il Barbarò, sempre tenendosi al sicuro dietro lo Sbornia, che egli faceva girare e muovere con lunghi fili, come i burattini, era riuscito a corrompere mediante raggiri e grosse mance alcuni impiegati addetti alle sussistenze militari; in tal modo le ruberie si commettevano a man salva e quel negozio delle forniture fruttò tesori alla ditta Micotti e C. Ma il rischio era tutto del Micotti e i quattrini entravano nelle tasche del compagno. Perciò premeva molto al principale di non perdere il suo gerente, e temendo che all'aprirsi della guerra coll'Austria egli volesse ritornare con Garibaldi, ogni volta che si trovavano insieme, si metteva a predicare contro gli esaltati, che rovinavano la famiglia per scappare in Piemonte a farsi bastonare.

È chiaro come la luce del sole: l'Austria lo sonerà ben bene l'esercito alleato! E l'uomo di proposito, caro mio, non dimentica mai che i primi e sacrosanti doveri sono verso la famiglia. Uno scapolo, può ancora fare il matto, se gli gira. Ma un padre di famiglia che si lascia attirare da simili pagliacciate?... Chè! Merita di essere impiccato, senza processo.

Un giorno, verso la fine di aprile del 1859, il Barbarò passando da Verona avea invitato a pranzo lo Sbornia alla Regina d'Ungheria, e in tutto il tempo non avea fatto altro che dir roba da chiodi dei volontari, di Garibaldi e del Re di Sardegna. Lo Sbornia, come al solito, rimaneva muto, a capo basso. Ma pure, certe volte, pareva distratto: disegnava sgorbi e cifre sul piatto con uno stecchino, e allontanava il bicchiere quando l'altro gli voleva versar da bere. Simili novità non isfuggivano punto all'occhio sagace del padrone il quale, perduta la pazienza, cominciò anche a minacciarlo direttamente:

—E ricordatelo bene: se ti frullasse nella zucca di tornar da capo colle quarantottate, io butto la Veronica e il tuo scimmiotto in mezzo alla strada!

Lo Sbornia, sempre assorto ne' suoi pensieri, continuava a disegnare le sue figurine.

—Hai capito? Alza il muso quando parlo.... Hai capito?

—Sì, signor padrone!

Ma Pompeo non si chetò: anzi gridò ancora più forte e quando, finito il pranzo, andarono al passeggio lungo il Listone di Piazza Brà, continuò a brontolare e a minacciare, fermandosi ogni tanto per dar più forza alle parole; e il predicozzo durava ancora, che arrivavano alla locanda; e seguitò lungo le scale, e quando il Barbarò fu sull'uscio di camera sua, dove il Micotti lo aveva accompagnato, gli ripetè a mo' di conclusione:—Non ho ragione, bestiaccia!

—Sì... signor padrone.

—E ricordati che parlo pel tuo bene!

—Sì, signor padrone! La ringrazio e... buona notte, signor padrone!... Buona notte!

Pompeo entrò in camera e sbattè l'uscio in faccia allo Sbornia. L'altro, mentre il Barbarò spariva, alzò il capo e lo guardò cogli occhi imbambolati, in cui c'era la mestizia affettuosa d'un can barbone che abbia ricevuto dal padrone un calcio immeritato.

La mattina dopo, quando Pompeo si svegliò, credeva fosse ancora presto e si voltò nel letto per riaddormentarsi.

Il Micotti, appena arrivata la prima posta, soleva venire a destare il padrone, battendo all'uscio della camera, e a portargli la corrispondenza.

Pompeo si voltò e si rivoltò nel letto, ma non gli riusciva di ripigliar sonno. Aprì del tutto gli occhi e s'accorse che era giorno ben chiaro; il sole traspariva giallo e lucente dietro le persiane. Si drizzò per guardar l'orologio che aveva sul tavolino accanto:

—Per Dio!...

Erano le nove!

—Sta a vedere che quell'animale me l'ha fatta, ed è scappato via coi miei danari.

Tutto sconvolto, suonò strappando quasi il campanello.

—Sono stato una gran bestia!... Non mi dovevo fidare!...

Saltò fuori del letto per aprire l'uscio al cameriere, poi si ficcò di nuovo sotto le coperte.

Il cameriere entrò, e spalancate le finestre gli consegnò una lettera.

—Chi l'ha portata?

—Il signor Micotti.

Pompeo, presa la lettera in fretta, la scorse tutta con un'occhiata.

"Illustrissimo signor principale,

"Lui a ragione da vendere ma io sono una bestia e o il bruciore che non posso più e parto domandandole perdono e assicurandolo che se torno indietro sarò sempre suo umilissimo servo e intratanto l'avverto di aver passato all'Amministrazione la ricevuta del vaglia bancario per quelli dinari che o spedito, come da suo ordine a Milano.

"Stii bene come sempre li ugura.

Verona li 30-4-1859.

" Suo devotis. e umiliss. servo

" Micotti. "

—Meno male che non è scappato coi soldi!—pensò subito il Barbarò consolandosi un poco.—Ma è sempre una canaglia! Piantarmi in asso proprio in questo momento!... Con tanti affari che ho sulle braccia!... Canaglia, canaglia, canaglia!... Mah!—e Pompeo sospirò mettendo la ricevuta nel portafoglio:—è sempre stato il mio destino, di seminar benefizi e raccogliere ingratitudine... Pezzo d'asino!—borbottò poi rileggendo la lettera più attentamente—non mi raccomanda nemmeno il suo figliuolo come se fossi obbligato di mantenerlo!... Pezzo d'asino!... Se torna indietro davvero gli farò ripassare il confine a suon di calci!

Ma invece, appena giunsero le prime notizie della guerra, la collera del Barbarò parve acquetarsi; a mano a mano, le vittorie di Palestro, di Magenta, di Varese, di Solferino gli riempirono il cuore di patriottica gioia, e i Francesi e i Piemontesi non erano ancora arrivati a Milano, che già splendeva all'occhiello del suo abito una bella coccarda tricolore. Era un presente della Balladoro che ne aveva fatte tre "colle sue proprie mani." Una per Francesco Alamanni, un'altra per il professore Zodenigo ed una terza per l'avvocato Spinelli.

Ma l'Alamanni era partito anche lui con Garibaldi, e Donna Lucrezia non sapendo come fargli avere la coccarda e avendo bisogno di una piccola sovvenzione, pensò di farne un presente al Barbarò, sebbene quella vecchia testarda della Filomena brontolasse assai per il cambio.

—Taci là, piavola! La verità innanzi tutto, e la proclamo altamente!... Quel bonomo del Barbarò (adesso non lo chiamava più Barbetta nemmeno la Balladoro) è sempre pieno di attenzioni e di premure per la Mary, ed io che non ho una patata al posto del cuore, non posso non mostrarmene sensibilissima!

La coccarda fu accettata con piacere e anche l'anticipazione fu concessa.

In quei giorni gli affari del Barbarò andavano a gonfie vele.

—Mi ci vorrebbe una guerra ogni tre anni!—mormorava spesso fregandosi le mani.

La sconfitta degli Austriaci gli era stata assai vantaggiosa. A cagione del precipizio della ritirata, i magazzeni erano rimasti pieni di foraggi e di viveri che la ditta Micotti e Compagno, dopo aver venduti al governo austriaco, non si sa bene con quali frodi, riuscì a rivendere all'esercito alleato.

E non solo intascò molti quattrini, ma anche, in quell'occasione, Pompeo Barbarò cominciò a gustare il profumo degli onori.

Trovandosi a Brescia per sorvegliare, senza troppo dar nell'occhio, i suoi affari, avea fatto distribuire negli ospedali dove giacevano i feriti parecchie casse di limoni guasti che erano state protestate alla ditta Micotti dall'Intendenza Militare.... Pochi giorni dopo questo fatto, gli capita da Milano una gazzetta sotto fascia: l'apre, la spiega, e trova una corrispondenza da Brescia segnata in rosso e firmata p. E. Z. In essa egli veniva elogiato e segnalato come esempio di filantropia e di patriottismo per l'elargizione fatta delle casse di limoni.

—È il poeta, non v'ha dubbio, è il poeta della vecchia matta che ha voluto scrivere questa buffonata! p. E. Z. Sicuro!... professor Eugenio Zodenigo!... È un tiro birbone!... Proprio, un tiro birbone!

Ma per altro non se n'ebbe a male, anzi quell'improvvisata di vedersi stampato sulle gazzette gli colorì di rosso per un attimo le guance olivastre. Lesse più di una volta gli elogi fatti al suo bel cuore, e la sera scrisse ai gerenti della ditta Micotti per sapere se nei magazzeni vi fosse nient'altro di guasto da regalare ai martiri della patria.

—Non occorre farsi sbudellare—pensava con soddisfazione—per compiere azioni patriottiche!—E il giornale lo chiuse a chiave in un cassetto, iniziando così, forse senza nemmeno pensarci, l'archivio storico di casa Barbarò.

Intanto era successa all'armistizio l'inattesa pace di Villafranca; Garibaldi, soffocando nella grande anima gl'impeti generosi, avea sciolto il giovane esercito dei Cacciatori delle Alpi, vittorioso a Varese, a Como, ovunque si era battuto; e lo Sbornia ritornava a Milano con un braccio al collo, e si presentava smagrito, affranto e a capo chino, come un colpevole, dinanzi al signor padrone.

Il pover'omo, che era rimasto tranquillo e freddo in mezzo alle fucilate, in quel punto avea paura: si aspettava una sfuriata terribile; temeva di essere scacciato. Ma invece, con suo grande sbalordimento, il principale gli si precipitò nelle braccia, piangendo di tenerezza e di gioia!—Sono qui, signor padrone—balbettò lo Sbornia che aveva sempre la sua faccia assonnacchiata:—sono qui per... per domandarle perdono anche stavolta, e se ha da comandarmi la servirò in modo da rifarla del tempo perduto.

—Tempo perduto il combattere per l'Italia?—esclamò il Barbarò scandalizzato:—ma tu mi ritorni bestia, come quando sei partito?!

Pure si rabbonì subito e volle accompagnarlo in persona in Via del Pesce, godendo di farsi vedere in giro col garibaldino ferito.

Già in ogni cosa Pompeo sembrava molto mutato. Era diventato un gran politicante, aborriva lo straniero, e anche in cuor suo, non sapeva perdonare a "quei cani di Tedeschi" la misera fine di Giulio Alamanni.

"Un agnellino" pensava "a cui sarebbe bastata una paternale, e che doveva esser morto dallo spavento!... Lui sì, se non avesse avuto giudizio sarebbe stato impiccato per davvero!... A poco a poco andava sempre più persuadendosi di aver scampato il martirio soltanto per la sua furberia..." e raccontava allo Sbornia e alla signora Veronica che "a' suoi tempi era andato anche lui molto vicino alla forca." E rideva compiacendosene, ogni volta che rammentava col suo gerente le gesta della ditta Micotti e Compagno.

—Gli abbiamo conciati pel dì delle feste quegli zucconi di croati!... Ma, in fine, non è stato altro che una restituzione... Erano danari nostri, sacrosantamente nostri, che i ladroni ci aveano rubati!

Un giorno, dopo pranzo, prese dal cassetto, dove era chiusa, la Gazzetta colla corrispondenza da Brescia e la lesse allo Sbornia, senza dire per altro chi l'aveva scritta.

Io non dò peso alle lustre dei giornali; voglio soltanto farti vedere che la mia parte, in certo modo, l'ho fatta anch'io!

Ma la letizia del Barbarò non fu di lunga durata, e quando si cominciò a buccinare intorno ai moti delle Sicilie, tornò a mostrarsi di cattivo umore. "Quel Garibaldi era un matto ambizioso, che voleva rompere l'uova nel paniere a papà Camillo! "—E in quanto a te—predicava allo Sbornia—che a suo tempo hai mostrato di averci il fegato, adesso sei in dovere di insegnare la prudenza e la moderazione... Dobbiamo conservarla questa Italia, che ci costa tanto sangue e tanti milioni!... Un'altra guerra!... Bravi: come se già non fossimo scorticati abbastanza dall'esattore!

Poi si metteva a sghignazzare giocherellando colla mano nei ciondoli dell'orologio.—Bei matti!... Vogliono andare a Napoli, a Palermo, come se si trattasse di fare una gita di piacere! Ma e i Borboni?... Non li contate per niente i Borboni?... Non sapete che hanno uno zampino in tutte le corti d'Europa e che sono protetti dalla diplomazia e dallo stesso gabinetto delle Tuilliri?

Lo Sbornia come al solito non rispondeva nulla. Lo stava a sentire sempre rispettoso e mezzo intontito; poi una bella mattina volò a Genova, e di là a Quarto, dove fu imbarcato sul piroscafo il Lombardo della compagnia Rubattino.

Il Barbarò anche questa volta montò in furia.... Ma anche questa volta il buon successo dell'impresa lo acquetò, e dopo aver maledetto alla partenza il garibaldino, come un ostinato ubriacone, pericoloso per lo Stato e senza cuore per la famiglia, andò a riceverlo al ritorno proclamandolo un eroe.

Solamente una terza volta, dopo Aspromonte, il ritorno fu non meno burrascoso della partenza. Il signor Pompeo inferocito mise fuori dell'uscio il povero Sbornia; non voleva più riceverlo, non voleva più vederlo, e non lo riprese al servizio se non dopo molte preghiere e più che altro "per riguardo" diceva "verso Donna Lucrezia, che si era intromessa in favor suo."

Fra il Barbarò e la Balladoro c'era un grande screzio d'opinioni in politica, e si accapigliavano spesso; ma tuttavia quei battibecchi non guastavano punto la loro amicizia, e dopo essersene dette di cotte e di crude, il Barbarò finiva sempre coll'offrire la mano alla nobile avversaria, che la stringeva con effusione esclamando:

—Amici come prima, coinon!

In fatti, mentre Pompeo si mostrava più ministeriale degli stessi ministri, Donna Lucrezia gridava e smaniava schierandosi fra i malcontenti. Il giorno della redenzione era arrivato, ma non erano arrivati i quattrini, e però la vedova fegatosa aveva giurato che tutti i Governi erano ladri allo stesso modo, e che il comando doveva passare in altre mani, se si voleva diventare i sovrani del mondo, come i Veneziani d'una volta. "Su questo proposito ne sapeva lei più degli altri, perchè avea avuto dogi e dogaresse nella sua famiglia."

Ogni volta che fumava uno di quei fetenti sigari di Virginia lo strizzava forte fra le dita, e faceva boccacce per mostrare quanta fatica ci volesse a tenerlo acceso; e dovea confessare "per onor del vero" che gli altri erano più buoni assai.

Con Napoleone terzo l'aveva a morte: lo chiamava sempre coll'apostrofe hughiana " Napoleone il piccolo! "

—Dopo aver proclamato ai quattro venti "l'Italia libera dall'Alpi all'Adriatico" si era fermato a Villafranca, il traditore!, e a sti pôri martiri —così dicendo indicava lo Zodenigo, che sospirava— el ga interdetto il suolo natìo!

Il poeta che in que' tempi di guerra stava col collo fasciato da un fazzoletto di lana bianca a cagione del deperimento lento, ma continuo, della sua salute, accompagnava coi gemiti le sfuriate dell'amica fedele, ma per altro col volgere degli occhi e coi cenni del capo approvava sempre quanto diceva il Barbarò, mostrandosi pure assai preoccupato "dell' equilibiio euoopeo."

E oltre all'equilibrio dell'Europa, egli badava molto anche al suo proprio, e professava due politiche opposte: una in versi e l'altra in prosa. Nei versi, che facevano andare in visibilio Donna Lucrezia, e montavano la testa alla Rosetta e, una dopo l'altra, alle sue varie padrone di casa, era repubblicano; nella prosa, che scriveva per le gazzette e leggeva adagio al signor Barbarò, faceva il moderato costituzionale. Ma d'altra parte, lui non poteva perdersi a fare il dilettante, e i giornali moderati, sovvenuti sempre dalla gente danarosa, pagavano meglio degli altri. Nè una così palese contraddizione gli toglieva credito presso al Barbarò: tutt'altro! Dacchè il precettore si era fatto giornalista, Pompeo lo trattava con molta deferenza; lo invitava spesso a pranzo, calmava le gelosie di Donna Lucrezia, e spendeva molte buone parole colla Rosetta. Di rado, ma gli faceva pure qualche imprestito, sempre su cambiali che rinnovava coll'aumento dei frutti, per tenerselo legato, e non volendo rimetterci del tutto il denaro suo, si tratteneva in conto il mensile delle lezioni, e si faceva scrivere o correggere dal poeta la corrispondenza giornaliera. Poi gli apriva il cuore intorno ai propri disegni e alle proprie aspirazioni. Il Barbarò sentiva di non aver fatto abbastanza col dono delle casse di limoni, ed era disposto a maggiori sacrifici verso la patria, alla quale, più che altro, desiderava offrir l'aiuto della sua esperienza e della sua generosità. Egli, insomma, avrebbe voluto cominciare a prender parte alla cosa pubblica. E aveva creduto di mettersi in buona vista facendo figurare il suo nome ogni qual volta dai giornali venivano aperte sottoscrizioni per sovvenire ai pubblici disastri, o per erigere monumenti. Liberalità che pure lo angosciavano in segreto, e alle quali cercava di rimediare con qualche nuova strozzatura della ditta Micotti.

Ma l'opinione pubblica gli si mostrava contraria. Essa accettava il suo danaro, senza voler sapere della sua persona; e il povero Barbarò, dopo tante spese, non era mai stato eletto, nemmeno fra i membri di un comitato di Beneficenza! Questo era il guaio, non si aveva fede nelle sue ricchezze.—Dov'erano i milioni del Barbarò? Chi li avea veduti? Chi li avea contati?... E la gente diffidava di lui, lo aveva in sospetto, mormorando prudentemente:—danari e santità, metà della metà. Intanto gli invidiosi frugavano nel suo passato, sussurrando che avesse fatto la spia nel quarantotto; che avesse avuto parte nelle tenebrose operazioni della ditta Micotti nel cinquantanove: insomma che si fosse arricchito colle bricconate....—Arricchito?... Uhm!... Se pure anche le ricchezze sue non erano simulate e prese a prestito come il nome di Barbarò!

—Imbecilli!—mormorava Pompeo sogghignando, mentre accumulava nel cuore odio e disprezzo contro quella gente boriosa e timida che non lo voleva accogliere e che pur non osava di francamente respingerlo.—Imbecilli... e vigliacchi! Vuol dire che ancora non mi credono ricco abbastanza! Ma ciò non conta. Verrà il giorno che li avrò tutti ai miei piedi; verrà il giorno che sarò il padrone di Milano, e allora... Allora inalzerò una statua all'orefice del Gobbo d'oro che mi ha insegnato, per il primo, dove vanno a finire i minchioni!

Ormai egli avea trovato la buona strada e non l'avrebbe abbandonata più. Il suo passato non gli faceva paura. Egli era in pace colla coscienza e con Domeneddio e non temeva le calunnie degli sfaccendati. Non c'erano la Balladoro e la piccola Mary per difenderlo, per testimoniare in suo favore?

Egli avea mantenuto alla povera Betta "che gli era morta fra le braccia" quanto le aveva promesso, e ne' suoi disegni avvenire pensava di rendere all'Alamanni molto più di quella bagatella delle cinquanta mila lire, che infine avea avuto cura di amministrare e impiegare vantaggiosamente, per conto della povera figliuola!

Dunque la coscienza non gli rimordeva, anzi ne meritava l'approvazione. Con messer Domeneddio era in buoni termini; perchè sentiva messa tutte le domeniche in una data chiesa, vicino ad un certo altare di una Madonna miracolosissima, avendo notato che ogni qual volta avea mancato di andarci, gli era sempre toccata nella settimana, per combinazione, una qualche contrarietà. E proprio con un senso di superstizioso terrore si sentiva obbligato a soccorrere la Mary Alamanni, e a proteggerla; e voleva associarla alla sua fortuna, come fosse un talismano che gli dovesse tener lontano le disgrazie. Soltanto avea pensato al modo di riuscirvi senza spogliarsi, in tutto o in parte, dei quattrini suoi: e il modo lo avea trovato facilmente.

—Perchè la signorina Alamanni non avrebbe sposato Giulio Barbe... Barbarò? Non aveva quattrini? Pazienza; egli era un uomo di cuore, e avrebbe chiuso un occhio. Come sarebbero rimasti maravigliati alla notizia di un simile matrimonio tutti quei moralisti senza un soldo, che gli gridavano la croce addosso, e lo chiamavano "strozzino!" E poi sarebbe cresciuto il suo credito. Chi avrebbe dubitato della solidità della casa Barbarò, quando il figlio unico del principale potea darsi il lusso di un matrimonio d'amore?... E poi c'era bisogno di un po' di sangue nobile nella famiglia... e poi il nome degli Alamanni era di moda, era un nome patriottico e... e a questo punto pensava:—Sono pochi i galantuomini come me, che mantengano fino allo scrupolo i giuramenti fatti a una morente.... e senza testimoni!

"Povera Mary! Povera figliuola, se non ci fosse stato lui a tenerla d'occhio e a impedirle di morire di fame!... Sola con quella balorda della Balladoro e con quel matto dello zio Francesco avrebbe certo finito male!..."

L'Alamanni era uno dei capi del partito di azione. Aveva fatte tutte le campagne con Garibaldi, lo avea seguìto a Sarnico e ad Aspromonte, e adesso teneva viva l'agitazione per la conquista di Roma. Però non stava mai fermo in un luogo ed era stato poche volte a Milano, e sempre per pochi giorni. Aveva dato ampia procura all'avvocato Spinelli perchè le briciole che ancora potevano rimanere del patrimonio Alamanni, ormai libero dalla confisca, fossero interamente devolute alla Mary, sperando per tal modo di provvedere bastantemente ai bisogni della nipote: e bastantemente in fatti ci avrebbe provveduto, se non ci fossero stati in più i cappellini e le sciarpe della zia, e i pranzettini del poeta. Per conto suo avrebbe continuato a vivere dando lezioni d'inglese in Italia... e occorrendo d'italiano in Inghilterra.

Con Pompeo Barbetta, il suo antico portinaio, Francesco Alamanni non si era mai incontrato in casa Balladoro; e ciò per opera di Donna Lucrezia, la quale si era ben guardata anche dal metterlo a parte delle sovvenzioni ricevute.

—È inutile spifferare tutti i pettegolezzi a mio cugino Francesco—avea raccomandato la Balladoro allo Spinelli:—quel puritano senza testa non avrebbe l'abnegazione di sacrificare i propri principii all'utile di nostra nipote!... Così, per Francesco Alamanni il nome del Barbarò non figurò mai altro che come quello di un creditore nei rendiconti dell'amministrazione.

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V.

Ma se gli affari di Pompeo continuavano a prosperare, pareva sempre che i suoi disegni per l'avvenire dovessero incontrare un qualche ostacolo: tra Giulio Barbarò e la Mary Alamanni non c'era punta simpatia. I due ragazzi erano spesso insieme, perchè lo Zodenigo che doveva impartire al suo allievo anche la scienza degli usi e delle cerimonie sociali, se lo tirava dietro ogni qualvolta andava in conversazione in casa Balladoro. E il ragazzo, entrato appena nel salotto giallo per imparare a dar la mano a Donna Lucrezia, scappava poi subito in cucina in cerca della Mary e della Filomena. Ma la bimba, quando lo vedeva arrivare, si rannicchiava vicino alla vecchia fantesca e non voleva saperne di giocare con lui.

Non lo poteva proprio patire quel brutto ragazzo magro magro cogli abiti che gli facevano addosso tante grinze, coi capelli radi che gli cascavano spettinati sul viso lungo e smorto.... Egli non faceva altro che vantare la roba del suo babbo, mostrava a tutti il suo orologio d'oro, e si divertiva a mortificare la Filomena contandole il grosso salario che pagavano alla loro cuoca ed al loro servitore. Maleducato com'era, toccava tutto, voleva saper tutto, diceva parolacce, avea il vizio di menar le mani, e con lei si era subito messo, impertinentemente, a darle del tu.... No, no, non le piaceva quel brutto ragazzo! E la Mary lo stava a guardare quando faceva il chiasso, senza parlare, senza mai accostarglisi esprimendo solo una maraviglia sdegnosa dagli occhioni grandi e dal visino serio serio. Una sera Giulietto avea portato con sè un piccolo bersaglio, e voleva che la Mary si facesse prestare i soldi dalla Filomena per giocar con lui.

—La zia non vuole che si giuochi di danari—rispose la bimba sempre tutta seria:—poi il bersaglio non è un divertimento adatto per le signorine.

—Oh! oh! La signorina colle sottane corte! La signorina senza un soldo! —E il ragazzo si mise a sghignazzare e a strillare dandole la baia.

La Mary diventò rossa di collera, ma non rispose una parola.

—Fammi un po' di posto sulla tavola—mormorò con voce sorda alla Filomena:—voglio studiare!

La vecchietta tirò in un canto le stoviglie e asciugò la tavola col grembiule. La bimba andò alla credenza e, alzandosi in punta di piedi, cavò fuori da un cassetto dove teneva i suoi libri il compendio di geografia: lo portò sulla tavola, si sedette, lo aprì, e per tutta la sera non levò più gli occhi dal libro.

—Oh! oh! La signorina colle sottane corte!... Oh! oh! La signorina senza un soldo!—continuò Giulietto a borbottare per un pezzo: ma poi, vedendo che la Mary assorta nello studio non gli badava più, cominciò per distrarla e infastidirla a far correre sulla tavola un pezzo da cinque franchi nuovo, che aveva nel taschino.

La sera dopo capitò a casa Balladoro con un piccolo teatro e una compagnia di burattini sotto il braccio.

—Co' burattini—pensava il ragazzo—potranno giocare anche le signorine!

Invece la Mary non si degnò neppure di guardare que' bellissimi giocattoli, e s'indispettiva contro la buona Filomena che al vederli prorompeva in esclamazioni di meraviglia, e per farla star zitta la toccava co' piedini sotto la tavola.

Un'altra volta il ragazzo portò un giuoco di pazienza giapponese, poi la battaglia di Solferino colla musica, e Napoleone III e Vittorio Emanuele a cavallo, ma non c'era versi!... La Mary non diceva mai una parola, non alzava mai gli occhi dal suo compendio di geografia.

Giulietto, allora, infastidito, dichiarò a suo padre che si seccava troppo in casa Balladoro e che la sera non ci voleva più andare.

Il Barbarò prima tirò ben bene le orecchie al figliuolo per insegnargli che il voglio non si doveva mai dire in presenza sua, poi gli dichiarò che non intendeva di dar da mangiare ai professori per allevare un asino!

—La Mary non mi può soffrire!... non mi guarda nemmeno!—mormorò il ragazzo piagnucolando.

—Prova a regalarle uno de' tuoi burattini e ti guarderà! Coi regali si pigliano le donne!

Giulietto si arrischiò, e le offrì Napoleone III; ma la Mary non lo volle accettare; lo ripose nella scatola, e continuò a leggere a mezza voce il suo libretto.

Allora il ragazzo finì anche lui col mettersi il cuore in pace e col non curarsi più altro della piccola permalosa. Invece chiacchierava tutta la sera colla Filomena sempre vantando i molti danari e il lusso del babbo, e sperando così di pungere e di umiliare la superbia della Mary. Ma la ragazzina, assorta ne' suoi studi, pareva non prestasse nessuna attenzione al racconto di quelle grandezze; e poi a lei non piacevano i danari: essa non li aveva mai contati, non li aveva mai fatti correre sulla tavola. È vero, per altro, che Donna Lucrezia non le avea mai dato più di un soldino la domenica per far la carità durante la predica.

Ma una volta anche la Mary perdette a un tratto la pazienza.

—Oggi il babbo mio—raccontava Giulietto—ha comperato due cavalloni magnifici e una bellissima carrozza quasi nuova, e abbiamo preso un cocchiere che era prima in servizio da un conte, e gli dobbiamo dare di salario novanta franchi al mese. Tu non li prendi in un anno, Filomena, novanta franchi!

—Anche la mamma mia,—esclamò allora la fanciulletta, irritata perchè il brutto ragazzo avea umiliata la Filomena,—anche la mamma mia teneva carrozza e cavalli, ma non aveva superbia!

Il piccolo Barbarò a quell'uscita improvvisa rimase un po' sconcertato, ma poi un'altra sera, volendo rifarsi dello scorno patito, portò per far maravigliare la Filomena tutto il gruzzolo dei suoi danari.

La Mary, vedendo le monete d'oro e d'argento, strinse i labbruzzi con aria sdegnosa, ma la vecchia non potè far a meno di esclamare con un grosso sospiro:

—Quanta bella provvidenza, Gesù benedetto!... E dove li spende tutti questi danari?

—Io non li spendo,—rispose il ragazzo, mettendosi in sussiego,—non sono matto. Io lo fo fruttare il mio capitale.

La Mary alzò gli occhi dal libro e fissò Giulietto maravigliata.

—Quando sono stato bravo e son riuscito a metter da parte diciannove franchi, il babbo, in premio, me ne aggiunge un altro di tasca sua, e mi regala un bel marengo d'oro. Quando poi arrivo a poter sommare cinque marenghi, allora li dò al babbo che li mette nella sua banca e mi dà l'otto per cento.

La Mary scrollava il capo e storceva la bocca. Fece per rimettersi a leggere, ma poi vedendo che l'altro continuava a contare e a lustrare quei suoi stupidi danari, si rivolse alla vecchia domandandole lentamente, ma con voce chiara, penetrante:

—Non è vero, Filomena, anche la mamma mia era ricca?

—E come!... Ma era una santa la tua povera mamma e i capitali li metteva a frutto in Paradiso.

Il ragazzo si fermò, attonito, colle monete lustre fra le mani. Egli guardò in faccia la Mary e la Filomena: non capiva bene quel discorso.

—Vuoi dire che li metteva a frutto in Paradiso,—seguitò la piccola Alamanni,—perchè li spendeva nel far del bene?

—Già... sicuro... e l'amavano tutti, ed era benedetta da tutti, la tua povera mamma!

—Se ne avessi anch'io dei danari vorrei imitare la mia mamma: vorrei far del bene!—E la ragazza disse queste semplici parole, così soavemente, da commuovere la vecchia fino alle lacrime.

—Benedetta anche te, la mia creatura! E la baciò sulla testolina riccioluta.

Giulietto rimaneva sempre là come istuipidito, colle mani piene di danari. Poi, a un tratto, sfogò il malumore con un'alzata di spalle, e tornò a contare e a lustrare le sue monete prima di rimetterle nel borsellino. Ma pure sentiva, mal suo grado, che quel tesoro aveva perduto di attrattiva. Tornò a guardare la Filomena che s'era rimessa a rammendare una calzetta, e guardò, ma di sottecchi, anche la Mary che leggeva attenta attenta il suo libricciuolo. Aprì ancora il portamonete, lo guardò dentro, lo richiuse, tornò a metterlo in tasca, a levarlo fuori, ma poi a un tratto si fe' animo e un po' imbroncito, un po' impacciato, domandò con un sussulto nella voce:

—E come si fa, poi, a far del bene?

La vecchia sorrise: la Mary alzò la testina e lo fissò attentamente, e notò per la prima volta che "il povero ragazzo" aveva il viso pallido, affilato.

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VI.

Dopo che Giulio e la Mary ebbero stretta amicizia, il Barbarò cominciò subito a impensierirsi per certe novità che scorgeva nel suo figliuolo.

"Si lisciava e si ungeva come un topo! Strimpellava il pianoforte invece di ficcarsi nella zucca un po' di aritmetica! Non aveva più amore al danaro! Lo sciupava in elemosine e in cento cianciafruscole!—Asinaccio!"

E, a buon conto, Pompeo non gli dava più un soldo, visto che i quattrini non rientravano poi, per esser messi a frutto, nella cassa paterna!

"Asinaccio! Voleva crescere scialacquatore come sua madre!... Già le somigliava in tutto; e se non era gobbo lo doveva all'olio di merluzzo e ai bagni di mare. Gli era costato un occhio per farlo crescer diritto, e ora si storceva per un altro verso."

A rimettere il giovinetto nella buona via il babbo prudente non risparmiava ammonizioni e scappellotti, e si raccomandava allo Zodenigo perchè gl'instillasse quei precetti di economia "che soltanto potevano formare la prosperità dell'individuo unitamente con quella della Nazione." E voleva che il professore facesse in proposito acerbe paternali anche alla Mary. "La disgraziata non aveva un soldo di dote e conveniva avvezzarla per tempo al risparmio e alle privazioni. Diamine! Cominciava anch'essa a non essere più una bambina!... Bisognava aprirle gli occhi!"

Il Barbarò aveva presentito che nel mutamento del figliuolo doveva entrarci, o poco o molto, l'influenza dell'Alamanni, e gli premeva fosse corretta di quel brutto viziaccio dello spendere, e tanto più gli premeva per quel suo disegno che aveva in mente, di farsene la propria nuora. Non impedì per altro che nel trascorrere del tempo l'intrinsichezza dei due giovinetti si facesse sempre più stretta, e sapendo ormai di avere in mano, ben legata, Donna Lucrezia, mentre aspettava che gli potesse giovare nel caso di una qualche intempestiva rivelazione, egli, da uomo pratico, sapeva servirsene per le sue operazioni finanziarie.

In mezzo alla vasta e illustre parentela della vecchia vedova il " bonomo servizievole e tuto cuor " avea trovato modo di concludere parecchi affaretti eccellenti. Era riuscito, prendendoli destramente all'amo della cambiale, a spogliare i Badoero del ricchissimo stabile e della splendida villa di Panigale, nel Milanese, e pure con l'aiuto di Donna Lucrezia, non del tutto conscia di que' raggiri, aspirava di levar di dosso la pelle anche ai Collalto.

Il marchese Alberto non era molto ricco per il gran nome che portava. Tuttavia finchè era vissuta sua madre non avea fatto debiti e il patrimonio rimaneva ancora bene assestato quando, alla morte del suocero, seguita poco dopo quella della vecchia marchesa, egli ereditava la tenuta estesissima di Villagardiana, così denominata appunto perchè situata sulla riviera pittoresca del lago di Garda fra i paeselli di Padenghe e di Moniga. Ma questa ricca possessione era stata trascurata assai dal povero conte Prampero, il quale non si era mai dato altro pensiero, che di abbellire di continuo la villa splendida e il giardino di lusso. I vigneti abbisognavano di nuove piantagioni, le case dei contadini erano in rovina. Fatti gli opportuni assaggi in alcune valli, era stata scoperta la torba in abbondanza; e però volendo rendere prospera e attiva Villagardiana occorreva l'impiego di un grosso capitale, che il marchese di Collalto non aveva in cassa. Di più egli che si era dato fino allora ad una vita spensierata e galante ne sapeva assai poco di agricoltura e di amministrazione; ma pure, presuntuoso e caparbio, credeva intendersi di ogni cosa; e stimolato inoltre da uno spirito di contraddizione non comune volle mettersi a coltivare Villagardiana perchè sua moglie e il suo ragioniere gli avevano consigliato di cederne i fondi in affitto.

In breve, fidandosi soltanto della sua testa, si trovò con la cassa asciutta senza aver concluso nulla di bene. Aveva fatto venire un enologo francese; si era messo in mano di un ingegnere tedesco per la fabbrica delle case agricole, in legno e ferro fuso, e avea speso un monte di quattrini nella costruzione di un tramvai a cavalli per trasportare la torba. Ma col clima del Garda, i metodi dell'enologo francese non fecero buona prova; le case rurali erano quasi inabitabili, perchè troppo fredde l'inverno e troppo calde l'estate e, infine, la torba che si poteva raccogliere annualmente non era in tale quantità da poter nemmeno ripagare le prime spese del tramvai. Il marchese, imbizzito, sfogò la rabbia pigliandosela colla moglie e licenziando il ragioniere. Ma intanto molte partite rimanevano ancora da aggiustare e i conti dell'ingegnere tedesco non erano stati saldati.

Allora appunto, introdotto da Donna Lucrezia, Pompeo Barbarò si fece avanti e presentò al Collalto le sue proposte. Egli sarebbe entrato in società col marchese nell'amministrazione e nella condotta di Villagardiana, anticipando i capitali per pagare i debiti già incontrati e per compiere le opere incominciate. Questo capitale poi gli dovea essere rimborsato in rate annuali, trattenute dal Barbarò sulla rendita dello stabile e coll'aggiunta degl'interessi a compenso scalare. Tutta la villa e il giardino rimanevano a disposizione dei Collalto; al Barbarò era riservato solamente un piccolo quartierino del secondo piano.

Il marchese Alberto fu costretto, per togliersi d'impiccio, ad accettare una tale profferta, per sè stessa, del resto, onestissima e vantaggiosa; ma non avendo più da contraddire alla moglie nè da gridare col ragioniere e non potendo commettere pazzie a Villagardiana, perchè il Barbarò lo invigilava, egli ci perdette l'amore. Ritornò a viaggiare e a vivere molta parte dell'anno a Parigi fra i cavalli e le donne, finchè assai malandato in salute, capitò sul lago per curarsi, piangendo un po' con tutti la sua disgrazia e specialmente chiedendo conforti a sua moglie, della quale, tanto per cambiare, cominciava ad innamorarsi.

Intanto il Barbarò anticipando sempre nuove somme di danaro tirava innanzi coi restauri.

A novembre, al momento del rendimento dei conti, il marchese, e più ancora la marchesa Angelica, vedendo che le spese fatte superavano di molto l'entrata, non risparmiavano le osservazioni; ma quel bonomo tuto cuor metteva fuori per la circostanza una parlantina assai efficace e finiva sempre con aver ragione.

—Sono restauri necessari, signor marchese: opere tali che faranno rifiorire e triplicare in cinque o sei anni la rendita dello stabile!

I Collalto rispondevano allora che se la rendita di Villagardiana era tutta assorbita dai miglioramenti, ciò che rimaneva del patrimonio non poteva più bastare per la casa.

—Troppo giusto, signor marchese illustrissimo: troppo giusto! Vuol dire che anche per l'annata in corso potranno disporre per intero della rendita di Villagardiana. Le spese che ho creduto bene di fare, più per il vantaggio del signor marchese che non per il mio (perchè già il padrone rimane sempre il signor marchese, e quando volesse potrebbe mettermi alla porta con un calcio), le spese, dicevo, rimarranno a mio credito.

—La ringrazio, caro signor Pompeo,—rispondeva il marchese col suo fare altezzoso,—ma io non vo' obblighi con nessuno.

—Certo, certissimo, obbligato le sarò io, se mi permetterà di servirla! Intanto, se crede (ci ho pensato appunto volendo prevenire le obiezioni della sua nobile delicatezza), prenderò un'ipoteca su Villagardiana... Ma poi... In quanti anni?... In dieci anni al più, ella potrà, volendolo, affrancare il capitale e fare ancora un buon avanzo. Una volta che Villagardiana abbia raggiunto il pieno sviluppo, deve fruttare come la terra promessa; dev'essere la California della nobile casa Collalto.

La marchesa Angelica rimaneva più stordita che convinta da tante chiacchiere; ma invece al marchese Alberto, sempre pieno di sè, e sempre compreso del lustro singolare del suo nome, pareva proprio che la gentuccia gli dovesse essere tributaria come i vassalli del buon tempo antico. Stimava naturale che anche il signor Pompeo si pigliasse il gusto di servirlo per godere di un tanto onore; e come pensava di essere lui medesimo qualche cosa di straordinario, così non dubitava nemmeno che tutto quello che gli apparteneva non fosse privilegiato; e quando l'altro tirava in ballo la California, sorrideva non dell'idea, ma della volgarità borghese di quella metafora.

Frattanto il Barbarò, trovandosi tra la boria del marito e la bontà della moglie, conduceva a buon punto i propri affari, e mentre sperava di diventar in poco tempo e con poca spesa il solo padrone di Villagardiana pensava pure di approfittare dell'intimità che doveva nascere dalla vita comune fra lui e i Collalto per introdursi nel bel mondo e vincere le antipatie e la diffidenza che circondavano la sua persona.

—Anche a me non manca più che il punto d'appoggio per sollevare il mondo, come ad Aristotele! —mormorava Pompeo, che fra Donna Lucrezia e lo Zodenigo andava accattando, a orecchio, una certa erudizione.

Ma se il primo disegno gli riusciva bene, pel secondo, invece, doveva toccargli un fiero disinganno.

Angelica si mostrava affabile col Barbarò, ma pure nel modo stesso con cui lo chiamava signor Pompeo, v'era il tono di bontà quasi compassionevole col quale trattava le persone di condizione inferiore. E, peggio ancora, quel signor Pompeo quand'era pronunciato dal marchese Alberto aveva un'intonazione arrogante e un pochino canzonatoria. Egli lo comandava a bacchetta, e nelle discussioni gli dava sulla voce aspramente. Sparlava di lui cogli amici dipingendolo come un mezzo imbroglione, e si compiaceva di screditarlo presso i fittaiuoli e i contadini. A pranzo il signor Pompeo aveva l'ultimo posto e non era presentato a nessuno, e con tanta gente che frequentava Villagardiana egli, che avea sperato di farsi strada nell'aristocrazia, non era riuscito a far amicizia altro che coll'accordatore del pianoforte. Con tutti i suoi milioni era considerato come l'amministratore di casa Collalto, ed anche per le persone che dipendevano solamente da lui, e che egli manteneva e pagava, era sempre il signor Pompeo; nient'altro che il signor Pompeo.

Insomma dall'ultimo contadino all'arciprete (al quale il Barbarò avea conservato una piccola prebenda perchè non voleva disgustarsi colla Chiesa) tutti a Villagardiana non riconoscevano altri padroni che il signor marchese, la signora marchesa e il marchesino Stefano.

Pompeo faceva ben capire ai fittaiuoli e ai coloni che il marchese era rovinato e che lo stabile ormai era suo di fatto, ma con questi sfoghi non giungeva se non a farsi pigliare in uggia maggiormente.

—Se non fosse stato quel tirchio del signor Pompeo,—mormoravano,—il marchese Alberto gli avrebbe trattati come figliuoli!

Il Barbarò schiattava di rabbia, diventava sempre più duro coi suoi dipendenti e faceva proponimento di rispondere per le rime alla prima occasione a quel pitocco superbioso.

Ma poi, dinanzi al marchese, l'antico portinaio prendeva ancora il sopravvento sul nuovo banchiere, e quando l'altro alzava la voce, gli morivano le parole sulle labbra, e restando confuso, chiudeva in cuor suo tutta la gran collera.

Si consolava poi riflettendo che venuto il momento egli sarebbe ritornato a Milano, e avrebbe mandato il suo avvocato a regolare i conti.—Che bomba, che bomba!—esclamava sogghignando e pensando al giorno in cui si sarebbe vendicato col mettere i Collalto fuori di casa; e intanto si mostrava ancora più ossequioso col signor marchese. Se non che, quando la bomba fu in punto, e non mancava più altro che appiccarvi il fuoco, aspettò di giorno in giorno ancora una settimana, e poi un mese a farla scoppiare, e in fine non ci pensò più.

Egli si era invaghito della marchesa Angelica, e non voleva allontanarla da sè, e rinunciava alla sua vendetta, per altri e nuovi disegni e non meno malvagi che covava in cuore.

La marchesa, di primo acchito, non gli avea fatto alcuna impressione. Doveva essere, pensava, una di quelle pallide madonnine che bisognava adorare mettendosi in ginocchioni, impassibili come statue, e cogli occhi e colla testa sempre nel mondo della luna. A lui, le donne, gli piacevano propriamente donne, e le sante le lasciava ai preti! Ma poi certe volte che vedeva di lontano, in mezzo al prato verde e lungo l'ombra quieta del viale quella persona gentile che si moveva con languida mollezza sotto il grande ombrellino rosso, sfolgorante, non poteva trattenersi dal sostare e voltar il capo per ammirarla. Quando Angelica parlava colla sua lentezza garbata, l'ascoltava muto e rapito. Una mattina presto, l'incontrò col bimbo presso la riva del lago: essa aveva addosso una veste di mussolina quasi gialla, così fine che lasciava trasparire sotto le maniche il roseo delle braccia rotonde. Il bel viso, solitamente pallido, pareva animato in quell'ora da un'espressione luminosa di benessere. Aveva le labbra socchiuse e i capelli biondi rialzati e raccolti sul capo scoperto. Il Barbarò, salutandola, rimase a guardarla a bocca aperta, con desiderio voluttuoso; pur tuttavia gli pareva sempre troppo fredda in quella compostezza aggraziata. "Il marchese Alberto doveva sentir soggezione a darle un bacio!" Per altro, il profumo suo, delle sue vesti, com'era delicato e soave!... Era proprio il profumo della gran dama! Gli ricordava quello sentito molti anni addietro... quando la signora Alamanni passava dalla porteria. "Perchè mai i signori dovevano avere un odore diverso dagli altri?" Egli aveva regalato alla Veronica certi estratti sopraffini che costavano un occhio, eppure la villana sapeva sempre di burro rancido!

Se non che un giorno il signor Barbarò venne a sapere che alla magnifica statua batteva il cuore. Sentì dire che Angelica era innamorata di Andrea Martinengo! Dunque non era vero che fosse fredda e impassibile: essa era viva, proprio viva! Ma allora chi sa quanto fuoco doveva covare sotto quella superficie di neve!... Ma allora.... Ma allora voleva riscaldarsi lui a quel fuoco: lui e non altri.

Andrea Martinengo?... Chi era poi alla fin fine, questo signor Martinengo che osava alzar le mire alla marchesa di Collalto? Era uno spiantato! Un misero capitano d'artiglieria che non avea un soldo più della paga!... Balordo presuntuoso!... Ma lui, co' suoi quattrini, lo avrebbe soppiantato!... No, no, la marchesa non gli poteva sfuggir di mano!...

Come doveano esser dolci e carezzevoli le parolette d'amore che uscivano da quella bocca di miele!... Sfacciata!... Avrebbe voluto morderle le labbra mentre le profferiva! Sì, voleva averla per sè, voleva farla sua, e che il Martinengo ne morisse di gelosia e di rabbia!... Lo odiava quel pezzente bellimbusto!...

Ma la marchesa Angelica faceva la superba, la noncurante. Tutt'al più degnava di un sorriso di compatimento il signor Pompeo! Ebbene, facesse pure! Ma il giorno in cui egli l'avrebbe messa nell'alternativa o di cadere in miseria o di mutare di gusti, oh la bella signora ci avrebbe pensato due volte!... L'importante era di non lasciarsela sfuggire; poi, una volta spinta fino all'orlo dell'abisso, pur di ritornare indietro e salvarsi avrebbe trovato modo di vincere ogni sua ripugnanza verso il signor Pompeo!... Ma anche allora sarebbe sempre stata innamorata di un altro... E che per ciò?... Doveva essere un ben magro conforto per il bell'Andrea!... E il Barbarò sogghignava mentre si mordeva i peli radi e corti dei baffettini. Gli occhi della marchesa, pensava, dovevano essere ancor più belli a vederli nuotanti nelle lacrime! Egli l'avrebbe sentita gemere, pregare e supplicare colla sua voce d'oro. Avrebbe veduto il bel viso farsi pallido e spaurito per la foga dei suoi baci e delle sue carezze!... No, no, non gli poteva sfuggire! Era lui, lui solo che teneva la cassa fra tanti spiantati e dovea essere il padrone di tutto a Villagardiana, anche di quella creatura che aveva il corpo di una statua e la voce di una sirena.

Per Iddio, piuttosto di cederla al Martinengo, l'avrebbe lasciata marcire in prigione!... Sicuro, in prigione: e perchè no?... D'ora innanzi non avrebbe più dato un soldo al Collalto senza riceverne in pagamento una cambiale e avrebbe voluto, per avallo, anche la firma della marchesa!

Tuttavia, coll'andar del tempo, l'odio geloso ch'egli sentiva contro Andrea Martinengo pareva che si dovesse acquetare. Il Martinengo era di presidio a Napoli e non dava mai segno di vita a Villagardiana.

D'altra parte, che cosa avevano riferito al signor Pompeo? Che i due giovani si amavano assai quando il conte Prampero avea costretta la figlia, ad ogni costo, a sposare il Collalto. Poi, dopo le nozze non si erano mai più riveduti. Insomma era stato il solito romanzetto sentimentale che fanno tutte le ragazze col biondino spiantato, prima di rassegnarsi... al buon partito! "Certo, certo, il bell'Andrea l'aveva dimenticata!" Ma il Barbarò, non meno per ciò n'era geloso, nè lo odiava meno, nè riusciva a frenare la sua passione per la marchesa.

Tutti i suoi pensieri erano sempre rivolti ad Angelica; tutto il suo sangue era come infocato dalla sua immagine; e forse, trascinato dalla bramosia, avrebbe commesso qualche imprudenza, se il timore di perderla scoprendosi prima del tempo, prima di averla ridotta proprio all'estremo punto del precipizio, non gli avesse dato forza per tenersi in carreggiata.

Egli, fino allora, non avrebbe potuto altro che spogliare i Collalto di Villagardiana e invece, per essere sicuro del colpo, bisognava tenere sotto gli artigli tutto l'intero patrimonio.—E a buon conto,—ripeteva fra sè, spaventato che l'amore gli potesse far commettere una qualche minchioneria,—a buon conto non perdiamo di vista gli affari! Gli affari devono essere come la bussola dell'uomo: quanto più soffia la burrasca tanto più bisogna tenerla d'occhio!

Ma intanto ch'egli tendeva cautamente le sue reti la marchesa Angelica non poteva più fare un passo senza vederselo a un tratto comparire dinanzi.

Ogni volta che andava a passeggiare, o sola, o col piccolo Stefanuccio, s'imbatteva sempre nel signor Pompeo, che sbucava all'improvviso da una siepe, da un viottolino, o si mostrava di sotto ai pampani della vite. In casa, appena Angelica usciva di camera, lo incontrava sempre, o lungo i corridoi o su per le scale. E le guance stirate e olivastre del Barbarò si tingevano allora d'una fiamma rossiccia, gli occhi piccoli e loschi scintillavano iniettati di sangue, e la voce gli usciva spezzata dal petto affannoso. Ma pure egli trovava sempre qualche pretesto per fermare e intrattenere la marchesa: un giorno aveva un'istruzione o un'informazione da chiederle: un'altra volta un ordine da farle ripetere; e quando la trovava sola la conduceva lontano per mostrarle qualche nuovo restauro.

Angelica, se pareva ancora una fanciulla per la squisita purezza delle sue forme, era davvero ancora una bimba per l'ingenuità del cuore; e invece d'indovinare ciò che l'avrebbe fatta morire di ribrezzo, non attribuiva il gran turbamento del signor Pompeo, se non alla soggezione ch'essa gl'inspirava. E però si studiava di mostrarsi sempre più affabile, e sovente rideva e scherzava con lui per cercare di rinfrancarlo.

Il Barbarò certe volte credeva d'impazzire. Il sangue gli saliva alla testa, ansimava, non sapeva più quello che si dicesse, ma pure guardava sempre Angelica di sottecchi non fidandosi ancora di fissarla in volto. In sulle prime, ingannato da tanta cortesia, avea osato concepire, nella sua volgarità di villan rifatto, una goffa speranza.

—Che la biondina—pensava—abbia già messo gli occhi sopra i miei quattrini?—Ma poi, quando comprese che tutte le premure della marchesa non erano altro che affabilità e degnazione, il suo livore e la sua passione s'inasprirono maggiormente.

—Fa, fa pure la superba!—borbottava fra i denti, dopo averla accompagnata sull'uscio di casa o del salottino ed essere stato licenziato con un sorriso e un cenno del capo, senza una stretta di mano.—Fa pure la superba: sfogati finchè puoi!... Ma si avvicina il giorno nel quale dovrai smettere le smorfie! Quel giorno, marchesina bella, dovrai essere molto umile e sottomessa col signor Pompeo!... Certo, certo, non ti sembrerò un amorino come il capitano; ma sono i milioni, core mio, sono i milioni che contano, e che cantano, e lo saprai bene quando ti avrò nelle mani....—Sicuro!... In queste manacce grosse e nere, che tu sdegni di toccare!

Pur tuttavia, sebbene il Barbarò sprezzasse i damerini, cercava anche lui, adesso, di farsi bello. Si tingeva i capelli duri, a spazzola che cominciavano a incanutire, e faceva sfoggio di ciondoli, di catene d'oro, di bottoni e di spille di brillanti, tutta roba rimasta in casa Barbarò dopo liquidata l' Agenzia di prestiti sopra pegni di Via del Pesce. E ogni giorno aveva un abito nuovo, o troppo stretto o troppo largo—perchè—predicava sempre a quello zuccone di Giulio—bisognava essere uno stupido per farsi vestire dal sarto, quando lo stesso abito si poteva comprare a metà prezzo e bell'e fatto al bazar!

Ma se l'amore lo abbelliva, o almeno lo lustrava, era certo, per altro, che non lo ingentiliva. In casa i mostrava di un umore tristo e inquieto; ed ogni giorno si faceva più avaro volendo rifarsi in anticipazione di ciò che, col tempo, gli avrebbe potuto far perdere la marchesa. Quando capitava a Milano pe' suoi affari gridava con tutti, era sempre malcontento di tutto. Sentiva, di tratto in tratto, un impeto di avversione strana, feroce contro la florida signora Veronica, e allora la maltrattava e la batteva.

Quella "bestiaccia grassa e vecchia" gli faceva nausea!—Lo Sbornia non ne indovinava una, nemmeno per sbaglio. Aveva sempre la testa intronata per i continui rabbuffi e girava attorno balordo e addormentato colla faccia trista e spaurita.

Il Barbarò gridava che "quei due sudicioni" gli rubavano il pane!... Si erano fatti ladri e poltroni!... Avevano sempre la testa pesa per il troppo mangiare e per il troppo bere.... Affogavano nel grasso.... Lo assassinavano!

E quando alla fino del mese c'era da pagare la pensione di Beppe Micotti, che andava a non studiar niente nell' Istituto Tecnico, il Barbarò strillava tanto da farsi sentire in istrada.

—La pensione l'avrebbe pagata doppia, senza fiatare, per farlo rinchiudere fra i discoli, quel monellaccio!

Ma non parlava così davanti al figlioccio. Una volta gli aveva tirato troppo forte gli orecchi e il ragazzo s'era rivoltato addentandogli la mano. D'allora in poi il padrino, quando lo vedeva, gli faceva gli occhiacci, ma non gli diceva più nulla.

Solamente la Balladoro era rispettata in quelle furie, ed anzi se ne avvantaggiava. Per essere un po' parente della marchesa Angelica, per quel suo privilegio di poterle parlare dandole del tu, il Barbarò la teneva in maggiore considerazione. In ogni sua corsa a Milano, egli passava tutte le ore che aveva libere nel salottino giallo, testimonio muto, ma sempre più unto, della taccagna ingratitudine dei ministri italici. E lì, colla scusa dei saluti, non si faceva altro che parlare di Angelica. Il Barbarò voleva saper tutto e conoscere tutto bene: la sua vita di bimba e di fanciulla: i suoi gusti, le sue abitudini, l'amoretto col Martinengo e le lacrime sparse quando avea dovuto maritarsi contro genio. E il Barbarò lodava assai la fermezza del conte Prampero, il quale aveva fatto benissimo a non assecondare i ghiribizzi romantici della figliuola, a mandare a spasso il bell'Andrea e ad obbligarla invece a sposare il Collalto. Ma sempre, a questo punto, la discussione si riscaldava, perchè Donna Lucrezia voleva sostenere, gridando e dimenandosi, che " anche el cuor vol la sò parte! " e che "suo cugino il conte Prampero, parlando da vivo, era un bucefalo spietato!"

Ma poi, a poco a poco, il Barbarò finiva di interrogare e di contraddire, e la Balladoro continuava a parlare, a parlare, sicura che que' discorsi piacevano al suo compagno e lo disponevano bene in suo favore e nello stesso tempo sempre smaniosa e orgogliosa di provare l'intimità sua coi Collalto e i Castelnovo, e la considerazione in cui era tenuta, e l'affetto che le prodigavano. Ricordava i balocchi "splendidi" che avea regalato all'Angelica quand'era bimba; descriveva le feste e i doni "magnifici" ch'essa faceva all'Angelica quando andava a levarla dal collegio, nei giorni d'uscita, e assicurava, "non per vantarsi, ma perchè era proprio la verità," che suo cugino il conte Prampero non avrebbe mai affidato l'Angelica in altre mani, e che l'Angelica, quand'era ragazza, non voleva star altro che con lei!

Il Barbarò ascoltava tutto con una grande attenzione e gli pareva che la voce rauca e raffreddata della Balladoro si facesse limpida e insinuante per quel nome di Angelica sempre ripetuto, per quella immagine di Angelica sempre tenuta viva dinanzi. Adesso non la interrompeva, non fiatava più. Soltanto quando Donna Lucrezia lodava con la sua enfatica vivacità la "maravigliosa bellezza della cugina" e "i capelli biondi come l'oro" e "le spalle larghe e tornite, uniche al mondo" e "i piedini, che per trovarne di simili bisognava correre in China" e "gli occhioni ch'erano un poema" e "il bel personale alto, dritto, slanciato come d'una vera dea dell'Olimpo," il Barbarò si sentiva bruciare le gote e si spelava le dita nervosamente.

Ma intanto rimaneva allettato da quelle confidenze e da quelle chiacchiere, e quando ritornava a Villagardiana dopo le gite di Milano, sapeva di aver un argomento gradito per intrattenere Angelica: le notizie e i saluti della signorina Alamanni. Angelica voleva molto bene alla Mary, per ciò quando Pompeo parlava con la marchesa di quella "povera signorina" si mostrava sempre commosso.

—In quanto a me, salvo il dovuto rispetto,—esclamava mettendosi una mano sul cuore—la considero proprio come una mia figliuola!... Vedesse, signora marchesa, si è fatta grande, graziosina....

—Ed è poi tanta buona!—concludeva Angelica con quella voce incantevole che certe volte pareva le uscisse dall'anima come un sospiro.—Quando ritorna a Milano, signor Pompeo, si ricordi di farmelo sapere.

—Sempre, sempre, signora marchesa. Non mi muovo mai da Villagardiana, senza prima venire a prendere i suoi ordini.

—Ella è ben gentile, e la ringrazio.—Ed una volta soggiunse:—Le darò una lettera per Donna Lucrezia. Vorrei pregarla di venire colla Mary a passare un po' di tempo sul lago.

Il Barbarò non rispose altro che con un profondo inchino; ma due giorni dopo partiva per Milano e correva subito in via della Spiga coll'invito della marchesa Angelica. Voleva che la Balladoro e la Mary partissero subito con lui, lo stesso giorno.

—Che furia, benedetto omo, che furia!—esclamava Donna Lucrezia, alla quale sorrideva assai quella villeggiatura, ma voleva prima avvisarne il professore.—Lasciatemi tempo.... per respirare, santissimi numi! Con quella mammalucca della Filomena e con quella svanìa della Mary, bisogna che faccia tutto da me! E poi, caro mio, qualche spesetta.... sarà pur troppo necessaria. Povera, ma superba: e siccome i Balladoro in quanto a nobiltà valgono i Collalto, così non vorrei sfigurare per tutto l'oro del mondo; e se non posso farmi almeno un abito nuovo da sera e uno da mattina, piuttosto, lo dichiaro altamente, non mi muovo da Milano.

—Sono proprio stato creato e messo al mondo per far da cassiere agli spiantati!—mormorò fra sè il Barbarò nell'andarsene.—Ma una volta che Donna Lucrezia fosse a Villagardiana, saprebbe lui come fare per tenerla a stecchetto! Allora non ci sarebbero più scuse: non ci sarebbero più domande di nuovi prestiti... Allora... Ma non era questo che gli premeva... Egli credeva di avere in Donna Lucrezia una guardia sicura da poter mettere a fianco di Angelica per sorvegliarne ogni passo, e insieme una persona amica e di confidenza che gli avrebbe fatta buona compagnia in mezzo a tutti quegli aristocratici che lo guardavano d'alto in basso.

Invece, anche per questa volta, egli non avea fatto bene i suoi conti.

La Balladoro, appena arrivata a Villagardiana, si era conformata subito all'ambiente. Lodava i meriti agricoli e amministrativi "di suo cugino" il marchese Alberto; andava in estasi dinanzi "a sua cugina" la marchesa Angelica, e faceva la partita ai tarocchi coll'arciprete, chiudendo un occhio sul Potere Temporale. Ogni volta che il Barbarò andava a Milano, essa lo incaricava di un monte di commissioni: spesucce, imbasciate alla sarta, ordini per la Filomena, letterine per il Professore. Ma poi non si perdeva in ringraziamenti; gli dava spesso sulla voce; e avea imparato a chiamarlo signor Pompeo colla stessa aria arrogante e beffarda del marchese Alberto.

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VII.

Una notte Donna Lucrezia e la Mary, che a Villagardiana dormivano nella stessa camera, perchè la vedova in quel "palazzone sconfinato" avea paura degli spiriti e dei topi, furono destate all'improvviso da un rumore confuso di voci e di passi, che si udiva dal vicino corridoio.

—Santi numi del Paradiso!... I ladri di sicuro!—esclamò la Balladoro, e ficcò il capo, spaventata, sotto le lenzuola.

—No, zia mia; ho paura piuttosto che Alberto si senta male.

La Balladoro, un po' rassicurata, si rizzò a sedere sul letto guardando fissa la Mary cogli occhi imbambolati. Aveva ancora il viso smorto, pieno di sonno; e il diavolino di carta, in cui la notte avvolgeva il ricciolo alla Zodenigo, le ciondolava sulla fronte.

Vegno... Vegno... Adesso vegno anca mi!

Ma Donna Lucrezia non si moveva, e l'altra non perdette tempo ad aspettarla. Appena ebbe infilato una sottana, si buttò addosso lo scialle e corse fuori per sapere che cos'era accaduto.

La Mary aveva proprio indovinato: il marchese Alberto stava molto male. Già da vari giorni non si sentiva bene; ma in quella notte, tutto a un tratto peggiorò, in modo da spaventare Angelica che avea già mandato una carrozza a Padenghe in cerca del medico.

Questi, appena ebbe visitato il marchese, giudicò il caso gravissimo e domandò un altro medico per fare un consulto. Il Barbarò, che pure pareva assai inquieto e turbato, volle andare egli stesso a Desenzano per telegrafare subito a Padova a un professore illustre, il quale arrivò in gran pompa a Villagardiana, per dire con molta albagìa e con una filastrocca di paroloni astrusi, quanto avea già detto più semplicemente e più chiaramente il suo modesto collega.

Il marchese rimase in pericolo per vari giorni: poi cominciò a rimettersi a poco a poco, ma superata a stento la crisi, rimase condannato per tutta la vita: colpito alla spina, gli era sopravvenuta una paralisi alle gambe, dichiarata inguaribile.

Durante il periodo più acuto della malattia, il Barbarò avea dimostrato per il marchese tanta premura e sollecitudine, quanta di più non avrebbero potuto averne nè la Mary, nè la stessa Angelica. Egli, inquieto, ansioso, stava a guardia giorno e notte attorno al letto del malato e non pensava nè a riposare, nè quasi a prender cibo. Dopo le visite accompagnava sempre il dottore per avere le notizie più particolareggiate e sicure, faceva continue domande alla Mary, teneva consulto coll'arciprete, e ascoltava con attenzione anche i suggerimenti e le profezie di Donna Lucrezia. Pareva persino, in que' giorni, che anche il suo amore per Angelica si fosse calmato: Pompeo Barbarò temeva, a ragione, se il marchese moriva subito, senza più poter parlare nè scrivere, di non essere abbastanza cautelato; ma poi quando cominciò a migliorare, e gli affari furono messi in regola, allora gli parve che il Dulcamara di Padova lo avesse racconciato anche troppo bene.

—Che cosa faceva al mondo quel polipo senza gambe e senza quattrini? Soffriva lui e faceva soffrire gli altri; specialmente sua moglie, che invece di tanti impiastri e moine avrebbe fatto meglio a curarlo con due pillole di pasta badese!... Figurarsi!... quella bestia del dottore per riuscire infallibile gli aveva detto che il Collalto avrebbe potuto morire in pochi mesi, e campare magari anche dieci anni!... Ma in dieci anni, coll'appetito suo, era capacissimo di rimangiare due volte Villagardiana! A buon conto bisognava risolversi: era venuto il momento di parlar chiaro alla marchesa. L'avrebbe condotta nel suo studio, le avrebbe fatto vedere coi registri alla mano, che quasi quasi non avevano più un soldo e... le avrebbe promesso di non abbandonarla. Ma si dovevano licenziare molte persone di servizio, vendere i cavalli, insomma diminuire di molto tutte le spese. Certo, certo; non era più tempo di chiacchiere: ormai i Collalto erano costretti ad accettare il suo ultimatum... ed anche la signora Angelica avrebbe dovuto piegare il capo... e mostrarsi riconoscente!... Ma che diavolo aveva addosso quella donna?!... Diventava più bella ogni giorno!

E per ciò appunto, per questa stessa bellezza che lo impacciava, il Barbarò non sapeva mai risolversi a "parlar chiaro." D'altra parte avrebbe desiderato trovarla sola; ma sola, adesso, non la si vedeva mai. Aveva sempre fra i piedi quella mummietta del suo figliuolo, e il marchese la voleva tutto il giorno vicina: non la lasciava libera un momento! Aveva aspettato allora, quel balordo, a innamorarsene e a esserne geloso!

E ciò era proprio vero.

Alberto di Collalto, che avea corsa allegramente la cavallina senza darsi mai alcun pensiero di sua moglie, aveva cominciato ad esserne geloso ai primi assalti d'ipocondria, forieri della gravissima malattia da cui era minacciato. Poi, rimasto infermo, non potendo più abbandonarsi ad altre distrazioni e avendo sempre dinanzi agli occhi quella donna, quella bella signora, giovanissima e fiorente, così soave, così serena nella sua bontà affettuosa e instancabile, se n'era invaghito sempre più, ma a modo suo; senza il cuore; colla testa e coi sensi.

—Quando gli avevano sposati,—ripeteva sempre all'Angelica,—essa non era che una bimba di sedici anni, fredda, anemica! Non sapeva nulla; non capiva nulla!... Se fosse stata allora com'era adesso, oh! egli certo non avrebbe avuto altro pensiero che lei: l'avrebbe adorata, come un devoto, in ginocchioni!

Sapeva e confessava di averci qualche torto e le domandava perdono, ma in cambio della sincera confessione e del pentimento voleva essere amato; voleva che sua moglie cominciasse allora con lui un idillio coniugale; e perchè Angelica gli offriva il sacrificio di tutta la sua vita, ma si ribellava a quello del suo pudore, la passione dell'ammalato s'inaspriva e diventava quasi feroce. Ogni mattina il fattore di Villagardiana (un pezzo d'uomo grosso e tarchiato) saliva nella camera del marchese, lo pigliava in braccio e lo portava giù, a terreno. dov'era messo a sedere in una piccola carrozzetta: e Angelica tutto il giorno lo accompagnava per le stanze e per i viali del giardino: poi, la sera, essa lo faceva adagiare sur una poltrona colle rotelle, vicino al pianoforte, e si metteva a suonare e a cantare per isvagarlo. Finita la musica, gli leggeva le gazzette per più d'un'ora ad alta voce. Era sempre lei che lo aiutava a vestirsi, che lo faceva mangiare, che gli preparava le medicine. Se appena appena lo lasciava solo un momento, egli si metteva a gridare dimenandosi come un ossesso; ma poi, respinto ne' suoi vaneggiamenti amorosi, contraccambiava con sgarbi e con querimonie le premure più affettuose; chiamava "ipocrisia" la bontà di sua moglie, e spesso, dopo averla tormentata dalla mattina alla sera, la teneva desta anche la notte, spaventandola con gemiti e vaneggiamenti esaltati.

Certe volte, quando Alberto soffriva la malinconia di morir presto, la bellezza della moglie l'angosciava colle gelosie del futuro, e allora erano tragedie per un altro verso. Egli avrebbe voluto che Angelica diventasse tanto brutta da inspirare avversione, per essere sicuro che, lui morto, non avrebbe potuto avere altri innamorati. Non voleva quasi più nemmeno che si abbigliasse e la rimproverava con rabbia perchè le sue vesti erano troppo sfarzose. Angelica cercava di mostrarsi semplice e dimessa: ma in quella sua stessa semplicità appariva ogni giorno più attraente; e il malato allora brontolava che era "la speranza di trovarsi libera presto, che la faceva star così bene," e che proprio "bisognava essere senza cuore per darsi il gusto di piacere agli altri, mentre aveva il marito in fin di vita." La povera donna, offesa ed afflitta da quelle ingiuste accuse si metteva a piangere; ma le lacrime rendendola ancor più bella, infiammavano maggiormente la rabbia di Alberto, il quale smaniava gridando "che era una civetta, una perfida e che lo tradiva... Sì, era sicuro; glielo vedeva scritto in faccia che lo tradiva!"

Se poi il marito per caso, o perchè avesse sonno, lasciava all'Angelica un minuto di pace, Stefanuccio, la mummietta, come lo chiamava il Barbarò, era subito pronto per divertirsi lui a tormentarla.

Stefanuccio era un fanciullo lungo e malaticcio, coi dentini aguzzi come una faina ed i capelli radi come un vecchio. Dimostrava un grande amore per la mamma; pure, a guardarci bene, in tutto quell'amore non c'era altro che egoismo misto ad un senso strano d'invidia. Odiava la Mary Alamanni soltanto perchè Angelica le era affezionata e fissandola cogli occhi torvi la chiamava pitocca; odiava Giulio Barbarò perchè aveva indovinato che voleva bene alla Mary e lo chiamava plebeo. Quando abbracciava Angelica, la stringeva in modo che parea volesse fare un esercizio ginnastico, ed i suoi baci, più che per l'amore parevano dati per far dispetto alla Mary che lo ammoniva scherzosamente "di non sciupare la mamma." Anche Stefanuccio sembrava cucito alle sottane di Angelica; voleva dormire con lei; voleva pranzare seduto sulle sue ginocchia; ma poi ogni volta che essa tentava di opporsi ad un suo capriccio montava subito in furore, la percuoteva colle manine, pestava i piedini, e strillava tanto da far borbottare fra i denti al signor Pompeo:

—Evviva la barba del re Erode!

Ma appunto mentre il signor Pompeo invigilava attentamente la marchesa Angelica, aspettando di trovar l'occasione propizia per poterle fare il discorsetto che aveva già composto a mente e corretto più volte, egli cominciò a notare in lei alcunchè di nuovo e d'insolito; molti piccoli indizi che rivelavano un turbamento, un'ansia, un'irrequietezza febbrile, che lo faceva maravigliare e entrare in grave sospetto.

Angelica, da alcuni giorni, pareva distratta, nervosa; arrossiva facilmente, poi diventava pallida a un tratto, e aveva sempre secreti con Donna Lucrezia:

—Diavolo, diavolo,—pensò il Barbarò.—Che cosa succede? Qui bisogna tener d'occhio la giovane e la vecchia.

Era successo che, proprio in que' giorni, Andrea Martinengo aveva scritto per la prima volta alla marchesa di Collalto.

Quando avea saputo che la Castelnovo si era sposata al marchese Alberto (bisogna tornare addietro di parecchi anni, poco dopo la battaglia di San Martino), Andrea giaceva ferito a Brescia in un Ospedale militare. Da prima non avea creduto alla terribile notizia; poi, appena ne fu certo, imprecando contro la perfida, la spergiura che lo avea tradito, voleva morire; voleva uccidersi e in un impeto di passione e di dolore stracciò disperato le bende che lo fasciavano. Poi, soccorso a tempo, e rinvenuto, maledicendo all'amore, volle vivere per l'odio; per uccidere Alberto, per isvergognare Angelica, insomma per vendicarsi!

In fine, tutto quel suo gran furore si calmò; ma era una calma solo apparente. In fondo al cuore, durava vivo, acuto lo spasimo, e collo spasimo l'amore.

Una signora buona e pietosa, la contessa Fanti di Brescia, zia materna di Andrea, che lo visitava spesso all'Ospedale, aveva preso a difendere Angelica narrandogli e spiegandogli il segreto di quel matrimonio così precipitato.

Fra il conte Prampero di Castelnovo e la marchesa di Collalto erano già state combinate e fissate le nozze di Alberto con Angelica, mentre i due ragazzi non erano ancora usciti di collegio. E colle loro idee autocratiche non ammettevano neppure che la loro volontà potesse essere contrariata.

Quanto ad Alberto, egli sapeva che un giorno o l'altro, quando fosse piaciuto alla signora madre, avrebbe sposato sua cugina, e aspettava senza impazienza. Egli si sarebbe preparato al matrimonio, come avea fatto per gli altri sacramenti: con una buona dose d'indifferenza, e pensando a tutt'altro. Angelica, invece, si indispettiva ogni volta che ne sentiva parlare. Alberto per quel suo fare altezzoso e beffardo le era sempre stato antipatico. Poi, un giorno, poco prima che il Martinengo fuggisse in Piemonte, essa tremando, dichiarò a suo padre che tanto presto, non voleva maritarsi e che, rispetto a suo cugino, sentiva, capiva proprio, che sposandolo non sarebbe stata felice.

Il conte Prampero per tutta risposta guardò la figliuola con occhi torvi, e dopo averle intimato di rinchiudersi subito nella sua camera e di non uscirne mai più, fino a nuovo ordine, corse difilato dalla marchesa per raccontarle l'accaduto.

—Fanciullaggini—le rispose la Collalto, mostrando i bei denti, ancora bianchissimi.—Fanciullaggini, caro Prampero; le frullerà ancora nel capo la bella divisa bleu di un qualche collegialino che avrà incontrato nelle uscite del Giovedì. Cercate fra le pagine dei suoi libri di scuola, e le troverete certo un bigliettino con dei versi scritti sotto a due cuori rossi, infilzati da una freccia gialla! Fanciullaggini, caro Prampero, e sarà bene non parlarne nemmeno con Alberto.

Il conte di Castelnovo ritornò a casa più tranquillo proponendosi, per il momento, di non tornar più sull'argomento del matrimonio con Angelica, e di stare alle vedette.

Intanto la figliuola cominciava a dimagrare, non rideva più, non mangiava più; aveva spesso gli occhi gonfi.... Il conte Prampero, istigato dalla marchesa, frugò tra i libri e nei cassetti dell'Angelica, ma invece dei due cuori rossi trafitti dalla freccia gialla, vi rinvenne, nientemeno, una lettera di Andrea Martinengo!

Quella lettera, la sola che Andrea avesse scritto alla signorina di Castelnuovo, e la scriveva appunto la sera stessa in cui partiva pel Piemonte, palesava l'amore più puro e rispettoso, e insieme le più oneste intenzioni; ma con tutto ciò fu per il conte Prampero come un fulmine a ciel sereno. Maledì la figliuola che aveva disonorato la sua casa e volea correre anche lui in Piemonte a sfidare e uccidere il seduttore, l'assassino, l'infame che lo avea ingannato, che aveva tradito l'amicizia.... perchè Andrea Martinengo, quantunque minore di età, era uno degli amici del conte di Castelnovo, il quale amava ancora di menar la vita da giovanotto.

Ma dal tenerselo per compagno al prenderlo per genero, ci correva; e piuttosto che cedere il signor conte avrebbe aspettato che Angelica morisse d'amore e d'angoscia. Andrea Martinengo, punto primo e irremovibile, non avea tutti i quarti, poi non era ricco abbastanza; poi... poi la sua figliuola doveva sposare Alberto di Collalto.

Angelica, prima della terribile scoperta della lettera, si preparava a resistere, a lottare e a morire anche piuttosto di venir meno alla data fede, ma dinanzi alla catastrofe improvvisa, rimase atterrita, muta e perdette tutto il suo coraggio.

—E la povera bimba—diceva ad Andrea la contessa Fanti, dopo avergli raccontato quegli avvenimenti—accettò le nozze a cui la obbligavano per salvare l'onore della famiglia, come in quel punto si sarebbe assoggettata anche ad una condanna di morte!

—Ebbene, doveva morire!—mormorò Andrea nell'egoismo feroce del suo amore e della sua gelosia.—Doveva morire, ma non doveva tradirmi!

Tuttavia, dopo qualche tempo, quando già cominciava ad alzarsi e a uscire, Andrea assicurò alla contessa Fanti che aveva perdonato all'Angelica, anzi, alla marchesa Angelica di Collalto, come affettava di chiamarla, e che ormai l'aveva dimenticata. "Proprio non metteva conto di disperarsi. Il torto era stato suo, che avea messo il cuore in certe mani, che ancora non sapevano custodire altro che giocattoli."

Ma tutto questo perdono, tutto questo oblìo non erano veritieri, quantunque Andrea volesse convincersene. Egli non avea dimenticata Angelica, non le aveva perdonato e tutto quel suo gran disprezzo non era altro che amarezza e rammarico.

Per istordirsi, e più per un intimo desiderio di vendetta, si abbandonò senza freno a tutti i piaceri. Volle amare e fu amato.... ma le belle che gli posavano sul cuore, per contarne i palpiti, la manina candida e ingemmata, non sentivano altro che l'affannoso ansimare del suo petto.

Tuttavia quegli amori senza l'amore, quei trionfi volgari e fugaci finirono con infastidirlo. Trovò che le donne erano tutte eguali, che tutti gli uomini erano mediocri e la vita non gli parve più altro che una lunga seccatura. Allora si fece scettico di professione e misantropo. Viveva sempre solo, appartato, e se la guerra coll'Austria per la liberazione della Venezia non fosse stata vicina, avrebbe abbandonato anche l'esercito. In quegli anni, avendo quasi consumato il suo piccolo patrimonio, si era messo ad affettare una povertà stizzosa e permalosa; una povertà dinanzi alla quale avrebbe voluto che tutti, e specie i milionari, s'inchinassero col cappello in mano; e aveva poi dichiarato un odio feroce contro i pregiudizi e la boria aristocratica. Ma erano collere, erano sdegni che avevano, senza sua saputa, una sola origine: Angelica.

Non l'aveva forse perduta perchè appunto egli non era nè abbastanza nobile, nè abbastanza ricco?

Andrea credeva di aver seppellito l'amore, come fosse un cadavere, ma invece quell'amore era il seme da cui erano generati tutti i suoi dolori, e tutti i suoi sentimenti. Era la forza che lo trascinava sempre e che egli voleva sempre negare; era la causa prima di tutte le sue contradizioni strane, assurde, inesplicabili; contradizioni del suo passato col suo presente; del suo cuore colla sua testa; dei suoi gusti, delle sue abitudini, de' suoi affetti, colle sue teorie sociali e filosofiche. Si spacciava per democratico e faceva boccuccia parlando della gente bassa; voleva essere e parere cattivo e invece era buono e generoso; odiava il mondo e malediva la vita e sarebbe bastata una parola sola di Angelica per fargli ribenedire mille volte l'universo e Domeneddio!

Si capisce quindi che bastava un soffio a operare il voltafaccia: infatti, quando Andrea, invitato dalla contessa Fanti, si recò a Brescia a passare il suo tempo di permesso e quando un giorno a caso, per un momento, all'improvviso, simile a una apparizione rapida, ma abbagliante, rivide Angelica, di colpo perdette subito la testa e lasciandosi trascinare e travolgere dal cuore, le scrisse una lettera disperata, riboccante di collera e di passione; di accuse, di rimproveri e di preghiere, dicendole che in tutti quegli anni avea sofferto come un dannato, e giurando che la teneva sempre viva, possente nell'anima, come un ideale alto e puro.... Ma voleva rivederla ancora, una volta almeno, una volta sola, l'ultima, la suprema, prima della guerra, prima di farsi ammazzare: perchè non intendeva, non poteva più vivere così!

E Angelica?

Povera Angelica! Essa abbruciò la lettera, appena l'ebbe ricevuta e credette di aver fatto una gran cosa; ma invece era come niente: quella lettera la sapeva tutta a memoria.

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VIII.

Andrea aveva scritto alla marchesa senza riflettere, senza nemmeno pensarci; come un matto che si taglia la gola perchè si sente soffocare; eppure (il caso aiuta spesso gli innamorati) non avrebbe potuto scegliere un momento più propizio.

Angelica era sempre stata infelice, ma adesso per di più era stanca, abbattuta e sconfortata. Sino dal tempo della sua catastrofe infantile essa aveva sofferto col primo dolore anche il primo disinganno. Scemato lo sbigottimento subitaneo da cui era stata colta, indovinò presto che suo padre, creduto da lei sempre giusto, per quanto si mostrasse severo e inflessibile, non si era fatto scrupolo di sopraffare la sua inesperienza e di accrescere il suo terrore per sacrificarla, con un matrimonio forzato, a' propri desideri e a' propri interessi. No, no; nè la lettera, nè il suo affetto per Andrea erano di tal natura certamente da giustificare la gran collera paterna, nè da portare il disonore in famiglia; e per ciò, mentre la figura austera del conte Prampero scadeva di autorità, mentre capiva di essere stata ingannata da chi aveva il supremo dovere di proteggerla e di consolarla, sentiva pure che la disperazione e la collera di Andrea dovevano essere tanto più grandi quanto più la sua condotta gli dovea sembrare perfida, senza nemmeno una scusa!... Ma ormai la promessa era stata data; tornare indietro non si poteva e Andrea.... oh, Andrea si era rassegnato senza un lamento, senza un rimprovero!... Andrea, che avrebbe avuto il diritto di maledirla, di ucciderla anche in un impeto di dolore, Andrea non si era fatto più vivo!... Allora ella credette a chi le andava mormorando, per consolarla, che il Martinengo aveva solo fatto per chiasso, che quella sua passioncella non era stata altro che una romanticheria, una fanciullaggine; ma credendo tutto ciò, il bel sole della sua giovinezza si oscurava.... l'anima pativa l'uggia e il freddo. E quando i soliti pietosi le riferirono le avventure clamorose del galante ufficiale, il disinganno si fece più amaro e pensò che tutti gli uomini erano senza poesia e senza cuore. Di uomini veramente essa non conosceva altri che il marchese di Collalto, il quale dopo pochi mesi di matrimonio l'aveva lasciata sola, per seguire una donna-volante nelle sue peregrinazioni; ma appunto per ciò tutte le leggerezze e le colpe del marito essa le attribuiva pure ad Andrea, coll'aggravante, per quest'ultimo, di averla illusa e ingannata.

No, no; nemmeno Andrea era migliore degli altri. Nemmeno Andrea aveva indovinato il suo dolore immenso, il suo grande sacrificio! Egli si era subito consolato; l'aveva subito dimenticata.... Ma pure, in que' primi tempi, non rimase a lungo così triste e sfiduciata. Angelica ebbe presto un bambino, e allora ritornò la vita a sorriderle piena di speranze e di affetti; allora il sogno della vergine non fu più rimpianto perchè la madre aveva pure sogni nuovi e dolcissimi.... Allora la tenerezza del suo cuore, la poesia appassionata della sua anima ritrovarono la via per espandersi, e si volsero ad un nuovo culto.

Angelica si rinchiuse nella sua casa in cui adesso non si sentiva più sola; nella sua casa in cui era libera e signora, perchè dopo il primo abbandono del marito non c'erano state scene nè rimproveri; soltanto essa gli avea fatto intendere, risolutamente, che non voleva aver nulla in comune colle donne più o meno volanti, e che per ciò egli non avrebbe più avuto in lei altro che un'amica sincera e devota, altro che la madre del loro figliuolo.

E per alcuni anni la vita di Angelica, se non del tutto felice, pure scorse tranquilla. Essa divideva le ore fra le cure dedicate al piccolo Stefanuccio e gli studi prediletti. Nella musica trovava un grande sollievo e pareva sfogare la sua melanconia sentimentale. Spesse volte, dopo un notturno o una romanza di Chopin o di Schuman, si alzava dal pianoforte anelante, abbattuta, colle guance pallide, rigate di lacrime. Victor Hugo, Leopardi, Alfredo de Musset erano i suoi poeti favoriti. I dolori di Esmeralda, gli amori di Cosette e di Marius avevano un'eco nel suo cuore, e rimaneva triste per la tristezza di Rolla e di Don Paez. Ma più profondamente sentiva la melanconia amara del Leopardi, e nel piccolo volumetto che portava sempre con sè, la Ginestra, Consalvo, le Ricordanze, il Canto del Pastore, erano piene zeppe di segni e postille.

Ma dopo quei primi anni non potè più ricorrere per isvagarsi e per confortarsi altro che a questi amici del suo spirito. Dal piccolo Stefanuccio aspettava invano un ricambio di tenerezza sentita, di effusioni gentili. Egli cresceva arido di cuore, irascibile, caparbio e.... E passato ancora qualche tempo, a turbarle del tutto la pace, a renderle più amara l'esistenza, incominciarono le smanie del marchese Alberto.

Allora anche la casa che era stata il suo nido gradito, il suo rifugio, le diventò insopportabile come una prigione, e l'anima offesa, soffocata anelava di uscire, di fuggire in traccia di un aere più puro, di volare in alto, nel sereno, nella luce.

Ora appunto, mentre si sentiva fremere nel cuore l'impeto sordo della ribellione, le giunse inaspettata la lettera di Andrea; quella lettera che le svelava a un tratto quanto ella fosse stata ingiusta nelle sue accuse e come Andrea l'avesse sempre amata; quella lettera in cui sentiva parlare per la prima volta di un ideale alto e puro; quella lettera infine che faceva risorgere, e risorgere più nobile e più forte per l'eroismo stesso del lungo silenzio, il primo amore, l'unico amore della sua vita.

Angelica aveva abbruciato subito la lettera di Andrea, ma intanto ogni parola le era penetrata nell'anima per non uscirne mai più. E quando essa si sentiva oppressa e avvilita, il suo pensiero ritornava involontariamente a quell'amore così soave e rispettoso; e un giorno finì col credere, la povera illusa, che dopo aver tutto sacrificato al dovere, e la vita e la felicità e la pace, potesse ancora disporre del suo cuore, e la preghiera di Andrea la trovò scossa, debole, senza difesa....

Pure Angelica prometteva fermamente a sè stessa di perseverare nel silenzio e di non rispondere. Ma ogni giorno la sua vita diventava più penosa, e ci fu un momento in cui lo sdegno e il ribrezzo le fecero apparire quasi come una redenzione, la redenzione della sua dignità e della sua verecondia, quell' ideale alto e puro, quell'altro amore, che quando aveva lo spirito tranquillo e la pace nel cuore, le sembrava una colpa.

Poi insieme allo sconforto e allo sgomento, cominciarono anche le insidie profonde della pietà: "Per lei, per lei sola, egli era tanto infelice. Essa lo aveva tradito e lui l'amava sempre!... E se" pensava Angelica "ostinandomi nel rifiuto di rivederlo per una volta soltanto—l'ultima—la suprema—lo dovessi proprio spingere ad un atto disperato?" E con un fremito dell'anima atterrita ripeteva a sè stessa le ultime parole della lettera di Andrea: "voglio rivederla ancora prima della guerra; prima di farmi ammazzare!..."

—Dio mio, Dio mio! Bisogna salvarlo! Devo salvarlo! Sì, Sì. Devo salvarlo a costo della mia vita! Devo salvarlo!

Allora si confortò pensando che il buon Dio le leggeva nel cuore; il buon Dio che le aveva inspirato quel sentimento di pietà!

Dunque, che cosa doveva fare?... Rispondergli?... Calmarlo? Salvarlo dalla disperazione?... Sì, doveva salvarlo: essa non faceva nulla di male; non correva alcun pericolo; era sicura della propria forza e della lealtà di Andrea. E così in un contrasto atroce, fra i turbamenti, gli sconforti e le ribellioni di tutto l'essere suo, anche la coscienza della poveretta si oscurava, non distingueva più nettamente il bene dal male, tentennava angosciosa fra il dubbio e il dolore e, sola sola, pensava a chi mai avrebbe potuto rivolgersi per aiuto, per consiglio, quando la sorte la fece imbattere in chi proprio non era al caso di guidarla bene; in Donna Lucrezia.

La Balladoro, che si trovava d'incanto a Villagardiana, non aveva altro che il timore di doversene ritornar presto al suo salotto giallo così pieno di pataconi e di raffreddori. Mangiava benone; si trovava "nell'ambiente vero del suo sangue," ed era servita appuntino, così che al paragone trovava quella tartaruga della Filomena troppo insufficiente, e diceva a tutti di volerla pensionare. E oltre questi vantaggi Donna Lucrezia aveva poi anche il cuore pienamente soddisfatto. Lo Zodenigo, che si faceva sempre chiamare professore quantunque avesse abbandonato l'insegnamento per il giornalismo, e che faceva frequenti giterelle al confine per attinger notizie intorno ai preparativi della guerra, invitato dal Barbarò si recava pure a Villagardiana. E durante le sue visite Donna Lucrezia poteva godersela a beneplacito, sicura che la Rosetta non gli si metteva alla posta sulle scale.

Gli anni passavano, ma il cuore e il naso di Donna Lucrezia erano sempre giovanilmente infiammati, e quantunque il suo Eugenio le avesse dichiarato esplicitamente che aborriva la matecia e che l' amoce non doveva essere altro che spiito e contemplazione, essa, innamorata, soffriva sempre il travaglio di una grande gelosia.

—Spirito! Contemplazione! Va benissimo; tuttavia certe volte, se non aveste voi per parte vostra molto giudizio, in quanto a me mi sentirei lì lì per commettere un grossissimo spropositon. E allora penso, Eugenio, che quella vanesia analfabeta ha in suo favore, se non altro, la bellezza dell'asino e.... No, no, Eugenio, dite di no, perchè sarebbe la mia morte!

Eugenio diceva di no, e assicurava la Balladoro che dal giorno della sua partenza da Milano egli non avea più messo i piedi in Via della Spiga.

A Villagardiana dunque c'era il benessere unito colla gioia del cuore. Peccato di non poterci rimanere tutta la vita!

Di tanto in tanto, quando vedeva il marchese Alberto di buon umore, Donna Lucrezia, sospirando, cominciava a dire che bisognava risolversi e che l'ora della partenza si avvicinava; non già perchè a Milano ci avesse affari urgenti, ma perchè la sua delicatezza le gridava ogni momento:—Parti, parti, Lucrezia, e non abusare!

—Sono stata anche troppo indiscreta, ma già è il mio solito difetto quello di essere debole di cuore, e alle vostre preghiere non so proprio resistere; tanto più che vedo quella cara gioia della mia Mary rifiorire ogni giorno fra queste aure balsamiche!...

Ma presto la scusa della Mary non le potè più servire.

—Se tu hai proprio risoluto di voler ritornare a Milano, le disse un giorno la marchesa, ricordati bene che la Mary deve restar qui con noi. Oltre a essermi cara, quella buona ragazza è per me un aiuto troppo necessario finchè Alberto ha bisogno di continue cure e di assistenza!

—Ho capito—pensò allora Donna Lucrezia—ho capito,—e cercò ogni via per rendersi utile alla sua volta.

Cominciò a voler leggere lei i giornali al marchese Alberto, e ogni poco aveva qualche empiastro nuovo e miracoloso da suggerire; si mostrava affabile e servizievole con tutte le persone di casa; s'intratteneva amichevolmente e non dava più sulla voce al signor Pompeo e chiudeva un occhio sulla "corte spietata" che Giulio Barbarò faceva alla Mary. Solo ammoniva la nipote di pensarci due volte prima di perder la testa del tutto, perchè se i milioni del signor Barbarò fossero stati ipotetici non avrebbe mai acconsentito che una del suo sangue sposasse il figlio di un Barbetta, ex-portinaio, e tutt'altro che in odore di santità!

Ma poichè la padrona di casa era Angelica, ed era stata invitata ed era ancora a Villagardiana per Angelica, così rivolgeva verso la cugina le sue maggiori seduzioni, cercando più che mai di rendersele gradita e necessaria.

D'altra parte con Angelica non le potevano servire gli espedienti che adoperava di solito con profitto. Le adulazioni che, come l'arpa serafica di Davidde avevano virtù di rabbonire le furie di Alberto, irritavano invece la marchesa, e già la Balladoro avea dovuto smettere di andare in estasi per la sua bellezza e per la sua voce di contralto "che toccava l'anima, el cuor e tutti i sentimenti!" Angelica non voleva mai mischiarsi nei fatti altrui; i pettegolezzi invece di dilettarla la facevano andare in collera.

—Che cosa fare, dunque?... Che cosa fare?—E Donna Lucrezia smaniosa di riuscire, cominciò a studiar ben bene la cugina, e osservò che era sensibilissima alle premure gentili e a tutte le dimostrazioni d'affetto.

—Come me, come me: il nostro debole è nel cuore!

Infatti, Angelica sin da fanciulla era stata trattata dal conte Prampero con molta severità, e poi dal marito, quando stava bene di salute, con strana freddezza e asprezza di modi. La mamma non poteva quasi ricordarla: una signora pallida, sofferente, sdraiata sempre in una lunga poltrona, e appena la figliuoletta le entrava in camera, si metteva a chiamare quasi spaventata, lamentandosi e mormorando che la portassero via presto, perchè le faceva crescere l'emicrania. Così Angelica, che squisitamente sensibile avrebbe avuto bisogno di vivere fra il dolce tepore delle carezze, si sentiva l'animo intristire come un fiore di stufa sbocciato a caso in un terreno arido o incolto; e certe volte bastava una parola buona che le venisse rivolta per commuoverla e per empirle gli occhi di lacrime.

Trovato il punto di presa, Donna Lucrezia seppe giovarsene destramente. Si mise d'attorno alla cugina con un'assiduità singolare, e ogni volta che la vedeva pensosa non le lasciava più pace, assediandola con un monte di premure e d'interrogazioni. Poi, se Angelica era mesta, Donna Lucrezia si metteva a sospirare; voleva "saper tutto," voleva consolarla, voleva entrare a parte dei suoi dolori, de' suoi affanni, e finalmente un giorno che la vide cogli occhi rossi, le buttò le braccia al collo e cominciò a piangere anche lei.

—Aprimi il cuore, creatura benedetta! Aprimi il cuore e troverai in me una sorella, una mamma, tutto ciò che vorrai!

Angelica, sbalordita da quel torrente di parole, soffocata dai baci e dalle carezze, stretta dalle preghiere e sentendo vivo, urgente il bisogno di uno sfogo, di un consiglio, di un aiuto, pensò che, infine, Donna Lucrezia era ciarliera ma non cattiva, che non poteva averci nessuna ragione per volerle male, e che invece tutto quelle proteste di riconoscenza e di affetto dovevano essere sincere, e allora, balbettando, si lasciò sfuggire, con un tremito, il nome caro di Andrea.

La Balladoro non avrebbe potuto desiderare di meglio:— Corocoché! —era proprio a cavallo.

Punto primo, una volta diventata la confidente della marchesa era sicura che a Villagardiana ci sarebbe rimasta per un gran pezzo, e poi la sua anima sensibile trovava nei pasticcetti amorosi l'alimento prelibato.

Angelica timida, riluttante si lasciava strappare di bocca a poco a poco il geloso segreto, come se ogni parola fosse un brano del suo cuore sanguinante; l'altra sapeva fare, e l'opprimeva e la stringeva sempre con maggior calore, in modo da non concederle via di scampo; e finì coll'esser messa a parte anche della lettera ricevuta in quei giorni.

—Zizzole, che spasimi!... Bisogna calmarlo, creatura mia, bisogna calmarlo subito, con quattro parolette. Bisogna impedire una tragedia!

—Come?... Tu mi consiglieresti di rivederlo?—esclamò Angelica con un sussulto. Ma negli occhi suoi, mentre fissavano attoniti Donna Lucrezia, fra la meraviglia e il timore, c'era stato un lampo di contentezza.

—È un obbligo di coscienza, figlia mia!... Si tratta di salvar la vita di un uomo!

—Ma il mio dovere?... Il mio onore?

—Il tuo dovere è uno solo: impedire una disgrazia!—rispose Donna Lucrezia con molta prosopopea.—In quanto poi al tuo onore è sicuro come in una botte di ferro!... Che cosa ti domanda quell'anima benedetta, dopo sette anni di tortura morale? Rivederti e nient'altro.... Rivederti e poi morire, come Consalvo.... Ma tu, invece, tu, gioia mia, gli devi imporre di farsi coraggio, di vivere e di sperare.... Per diandediana, siete giovani tutt'e due e, parlo schietto, se il Padre Eterno una volta o l'altra volesse aprire il finestrino per guardare in giù, potreste ancora....

—No, no! Non dire così! Mi dai dolore,—interruppe Angelica commossa e atterrita.

—Allora acqua in bocca, e aspettiamo gli eventi! Ma intanto bisognerà pur rispondere a quel pôro toso, e senza perder tempo.

Angelica, quantunque in sulle prime si mostrasse molto titubante, dovette arrendersi dopo qualche giorno, ed accettare i consigli che le venivano dati dalla Balladoro in nome della prudenza; onde si persuase a rispondere una lettera, di due righe sole per altro, al Martinengo. Questi appena l'ebbe ricevuta scrisse di nuovo quattro pagine fitte. Allora le due righe di Angelica, sempre per quella tal prudenza, si raddoppiarono, e di rimando i foglietti di Andrea diventarono sei, otto, dieci, finchè le annunciò che era giunto al termine del suo permesso, e che colla guerra imminente non avrebbe più potuto ritornare a Brescia.

E tutte queste lettere era sempre Donna Lucrezia che andava a portarle e a riceverle, nell'ora solita delle sue passeggiate alla posta di Padenghe, sperando in tal modo di non destare sospetti; ma invece il Barbarò che "teneva d'occhio la giovane e la vecchia" e che avea saputo che il capitano era stato a fare una gita sul lago, ebbe come un barlume della verità.

—Sta a vedere—mormorò—che quella strega si è messa a far da mezzana?... Se così fosse le fo far fagotto su due piedi!—Ma poi, subito mutò pensiero e cominciò a sogghignare giocherellando col mazzettino dei ciondoli.

—Guarda, guarda... mi piove il cacio sui maccheroni, e mi lamento! La Balladoro m'appartiene anima e corpo; ne posso fare tutto quello che voglio!... Non ho da dire altro che due parole, e per mezzo suo potrò saper tutto, anche i pensieri della marchesa!... Se fosse vero che con tutte le sue smorfiette ipocrite se la intende ancora col Martinengo, per Iddio, l'avrà da fare con me! Bisogna spiegarsi e subito. Se aspetto ancora, il marchese Alberto si pappa tutto l'utile che posso ricavare da Villagardiana, e il capitano fa il comodo suo colla biondina!

Quella sera stessa non vedendo Donna Lucrezia in salotto uscì a cercarla in giardino.

Era una notte nera nera: nero il lago e muto sotto le stelle che tremolavano minute e lontanissime nel cielo nero. Neri gli alberi che, inoltrandosi nel giardino, apparivano a un tratto come fantasmi immobili di giganti. Solamente nell'orizzonte alto, dietro la cima larga e maestosa del Monte Baldo, un baglior pallido di luce annunziava il sorgere della luna.

Il signor Pompeo strinse gli occhietti aguzzandoli nel buio, e in fondo al terrazzo sul lago distinse un punto rosso di fuoco.... Era il sigaro di Donna Lucrezia.

—Ora ci batteremo noi due, vecchia scema,—borbottò fra i denti, e si avviò difilato verso il terrazzo, camminando fra le tenebre con passo sicuro.

—Non ha paura della umidità e del frescolino, Donna Lucrezia?

—Che volete, tesoro mio, raffreddata già lo sono sempre e poi.... ahuf! avevo proprio bisogno di prendere una boccata d'aria. Mio cugino, stasera, è proprio insopportabile. Brontola, grida, smania, strapazza tutti, sembra, santa pazienza, che abbia il diavolo addosso!

—Bisogna compatirlo, Donna Lucrezia. Gli affari suoi si mettono maluccio e perciò sarà di cattivo umore.

—Gli affari di mio cugino?—domandò la vedova stupita.

—Sicuro, cara signora. Il marchese di Collalto spendeva ogni anno un terzo, quasi, più della sua rendita e, dalli e dalli, tutti i nodi vengono al pettine!

—Ma e la dote?... La dote di Angelica?

—La dote è sempre stata poca cosa: il conte Prampero, sua vita natural durante, non ha mai voluto sacrificarsi per nessuno, neppure per sua figlia.

—Ma morendo, capperi, gli ha lasciato una bellissima sostanza.

—Bellissima... da vedere! Palazzi, ville, giardini; tutta roba che sarà pure ingoiata come il resto, nella voragine dei debiti, perchè la signora marchesa ha esposto la sua firma, rendendosi garante e solidale col marito.

—Misericordia che rebalton! —mormorò Donna Lucrezia sbigottita, fregando contro il parapetto del terrazzo la punta del virginia che, spento, si cacciò in tasca.

—Eh, sicuramente!... È proprio una gran disgrazia! Io per altro l'avevo preveduta da molto tempo, e non ho rimorsi. Nella mia condizione e col caratteraccio bisbetico del marchese Alberto non poteva arrischiarmi certo a dar consigli; ma tutti gli anni a novembre, ho sempre messo sotto gli occhi tanto del signor marchese quanto della signora marchesa lo stato del patrimonio col relativo disavanzo; e i libri del bilancio sono in piena regola, e pronti nel mio studio per chi li vuol vedere! Se poi i Collalto, invece di fare un passo indietro e ristringersi nelle spese, han voluto tirar di lungo a scialare e a rovinarsi, io non ne ho colpa. Una cosa sola mi restava da fare in simili frangenti; ricordarmi che avevo un figliolo, e più per lui che per me assicurarmi del capitale esposto. Non le pare, Donna Lucrezia?

—Certo, certissimo!—balbettò istupidita la Balladoro, avvicinandosi istintivamente al Barbarò, come il naufrago che cerca di attaccarsi alla tavola di salvamento.

Il signor Pompeo notò quell'atto e volendo conservare un'aria compunta, di circostanza, dovette frenarsi per non ridere.

—E non ci sarà nessuna via di scampo per queste pôre creature?

—No, non lo credo!... Eccetto che lo zio, il marchese Diego di Collalto, non li voglia aiutare!

—Buono! Un piavolon egoista, uno scettico gaudente, un... un bucefalo sotto le lustre della compitezza, peggio ancora del conte Prampero, quando era vivo!

—Allora... allora senta, Donna Lucrezia,—riprese Pompeo dopo un lungo sospiro.—Io non ho proprio avuto il coraggio di togliere a un tratto le illusioni al marchese Alberto, e non so come fare per aprir gli occhi alla marchesa, non volendo darle un colpo troppo forte. Perciò ho pensato a lei, e ho creduto bene di metterla a parte di queste brutte faccende.

—Avete fatto benissimo, caro Barbarò!... Sono a vostra disposizione!

—Se io volessi, le cose ormai sono a un punto che potrei mettere i Collalto fuori di Villagardiana anche domani, anche stasera stessa....

—Dio Dio, che cosa sento!

—E se non l'ho fatto ancora, non è certo per il marchese Alberto. Il marchese è un testardo....

—Vero.

—Un orgoglioso, superbo....

—Verissimo.

—Un ignorante presuntuoso; un uomo senza cuore, senza cervello e che si ha quello che si merita.

—Anche questo, verità sacrosanta!

—Ma ho voluto aspettare perchè, perchè forse sarei disposto a fare qualche sacrificio per la marchesa....

—Lo merita, lo merita, da bravo!—esclamò con enfasi la Balladoro.

—E poi ho pensato, sono padre anch'io, a quella mummietta uggiosa, ma molto disgraziata del suo figliuolo!

—Bravo, bravo, bravo! L'ho detto io, che siete un uomo tuto cuor!

—È sempre stato il mio difetto!—rispose il Barbarò con convinzione.

—E allora ditemi, amico mio, che cosa volete da me?

—Ecco... vorrei... ch'ella prima di tutto mettesse a parte la marchesa di queste mie buone intenzioni, facilitandomi in tal modo il colloquio che in seguito dovrò avere con lei.

—Benissimo, sarà fatto.

—Poi....

—Poi?

—Farle capire che vorrò avere nelle mie mani la direzione della casa per quanto concerne le spese.... Voglio che si vendano i cavalli; si devono licenziare quasi tutte le persone di servizio; non voglio pranzi, non voglio andirivieni di visite....

—Scusate, caro Barbarò,—interruppe la Balladoro, calmandosi a un tratto nel proprio entusiasmo;—ma le condizioni le porrete voi, e, meglio che a mia cugina, ad Alberto!

—No. Invece è proprio colla marchesa che voglio intendermela,—rispose l'altro un po' piccato.—E anzi, prima di tutto, prima di commettere forse qualche minchioneria per eccesso di buon cuore, voglio sapere una cosa da lei....

—Da me?

—Precisamente. Voglio sapere....—Pompeo si fermò guardando fisso Donna Lucrezia.

La luna, superata la cima del Monte Baldo, illuminava il lago che allora si era fatto chiarissimo, tutto sparso d'una nebbiarella cinerea, e i due potevano vedersi bene in faccia.

—Voglio sapere a qual punto sono gli amoretti col capitano.

—E a me lo domandate?

—A lei, sissignora, perchè so che ci tien mano!

—Badate a ciò che dite, signor Pompeo!—esclamò la Balladoro, scattando per la sua dignità offesa.

Per quanto potesse credere di averne bisogno, pure essa si era sempre tenuta per molto da più dell'antico portinaio, e in tutti i casi si sentiva sicura di poterlo mettere a posto con una sola parola.

—Badate a quello che dite!... Non si tratta così con una mia pari, con una Balladoro, con....

—Senta senta,—interruppe il Barbarò, affrontando la vedova con piglio risoluto,—finiamola colla superbia e coi fumi della nobiltà, e invece badiamo all'arrosto dei bezzetti! —e così dicendo alzò una mano e, sogghignando, fregò ripetutamente insieme il pollice l'indice.

—Come sarebbe a dire?

Il viso lungo e scialbo di Donna Lucrezia era sempre accigliato, ma pure alle ultime parole di Pompeo vi passò sopra come un'ombra d'inquietudine.

—Sarebbe a dire che è ormai tempo di mettere le carte in tavola e di venire fra noi due a una buona spiegazione.

—Spieghiamoci pure, ma... non capisco....

—Due parole sole, e capirà!... Quantunque il signor Francesco Alamanni....

—Che c'entra adesso mio cugino....

—Stia zitta, che c'entra moltissimo!... Quantunque il signor Francesco abbia rinunciato in favore della signorina Mary alla sua parte del piccolo capitale rimasto agli Alamanni, io continuo a pagare le cinquecento lire mensili e sempre anticipate! E noti bene, signora Lucrezia, adesso non posso più aver nessuna cauzione per garantire i danari miei. Levata la confisca e riammesso lo zio Francesco ne' suoi diritti, io sono rimasto escluso, naturalmente, dall'amministrazione della minorenne. Di più lei mi ha fatto avere il saldo dei miei primi sborsi facendomi figurare come un creditore qualunque senza nessuna nota illustrativa, sotto il mio nome, e per una simile dimenticanza tanto il signor Francesco Alamanni, come la signorina Mary devono ignorare i miei enormi sacrifici!... Ma a me piace di tenermi in disparte, all'ombra, e ho lasciato fare tutto a lei e a quella buona lana dell'avvocato Spinelli; mi son lasciato cucinare dalle loro signorie, come volevano, all'olio e al burro, e continuo a sborsare anche oggigiorno e sempre segretamente, per farle comodo, cinquecento lirette al mese, mediante la sola sua firma, colla quale, scusi, sa, Donna Lucrezia, ma sulla piazza non ne troverebbe venti! E tutto ciò, perchè?... Perchè ho veduto nascere la signorina Mary, perchè ho riposto molta amicizia, molta confidenza nella signora Balladoro; ma esigo, per Iddio, esigo... non le sembra giusto? di essere ripagato colla stessa moneta!

—Certo... certo.... Vi sarò riconoscente... obbligatissima per tutta la vita.

Donna Lucrezia impacciata e spaurita non avea osato d'interrompere il Barbarò che aveva tirato giù la ramanzina col viso rosso e colle labbra tremanti dalla collera. Ma quando tacque essa riprese animo, e volendo vendicarsi e far tremare alla sua volta quell'uomo che l'aveva umiliata e minacciata, lo fissò in volto arditamente, coll'audacia che nei casi disperati non sanno avere altro che le donne, e gli rispose lentamente, spiccando le sillabe e calcando adagio l'ultima parola come una puntura:—Certo... certo, caro signor Pompeo; ma per ricambiare la vostra amicizia e la vostra confidenza, non pretenderete già che io faccia la... la spia!

Pompeo rimase impassibile. Non appena la Balladoro aveva aperto bocca egli indovinò subito dove voleva ferire e parò il colpo, ed anzi volle mostrare la sua sicurezza, volle stravincere, ripetendo la terribile parola freddamente, senza un tremito nella voce, senza abbassare gli occhi, senza arrossire.

—No, io non voglio ch'ella faccia la spia; solamente voglio saper tutto perchè—e a questo punto sorrise malignamente—perchè così saremo in due a proteggere la marchesa e il suo amante!

La Balladoro dinanzi a simile imperturbabilità si sentì perduta. Impallidì, ebbe paura del Barbetta; paura di averlo offeso e di essere rovinata, e non pensò più ad altro che a placarlo e ad arrendersi coll'onore delle armi.

—Andrea Martinengo, a buon conto, non è il suo amante niente affatto!...

—No?... E che cos'è dunque?

—Si vogliono bene, ecco tutto!

—Scusate, ma non è poi la stessa cosa?

—Nemmen per ombra, tesoro mio! Siamo come si dice agli antipodi!

La Balladoro voleva esporre la teoria platonica dell'amore, "tutto spirito e contemplazione;" ma l'altro tagliò corto.

—Chiacchiere, chiacchiere, Donna Lucrezia!... Si potrà cominciare benissimo come dice lei, colla contemplazione, ma poi... tutte le strade conducono a Roma!

—Zitto lì, Epicureo senz'anima!—esclamò la vedova mostrandosi scandalizzata, ma pur insieme esprimendo con un sorrisetto la propria ammirazione per quel furbone del signor Pompeo.

—Del resto—continuò l'amico—per me è tutt'uno. Solamente mi spiace e mi addolora che il nome della signora marchesa corra sulle bocche di tutti, con certi commenti non troppo favorevoli alla sua riputazione.

—Invenzioni, infamie dei soliti pettegoli maldicenti! Ma fosse anche, Angelica, poveretta, non ne avrebbe una delle scuse, ma centomila, un milion!... Condannata a comprimere il proprio cuore fino dai primi anni, e a sacrificarsi con un matrimonio odioso; trascurata e maltrattata da un rospo di marito che ne ha sempre fatte di tutti i colori, per ricordarsi di aver moglie, e innamorarsene furiosamente quando per la sua vitaccia si trova ridotto in uno stato che.... Basta, non dico di più per non diventar rossa... Dio le ha dato una creatura, è vero, ma che peste d'una creatura!... E poi già, in somma delle somme, Andrea è stato il suo primo amore, e il primo amore, credetelo, nel cuor di una donna è sempre vivo!—E la Balladoro sospirò a tutta gloria dello Zodenigo.

—Va bene, cara signora, ma queste ottime ragioni—osservò il signor Pompeo—non servono al caso mio.... Capirà... se io sono disposto a fare qualche sacrificio per riguardo alla marchesa... non voglio poi che la gente possa dire... che io servo da comodino al capitano....

—Vero... vero!... Verissimo, dal vostro punto di vista!...

—D'altra parte parliamoci chiaro: anche per un riguardo alla signorina Mary devo impedire che abbiano a nascere scandali a Villagardiana!... Mio figlio.... Ma dei sentimenti di mio figlio ne discorreremo in seguito.... Ella per altro dovrà convincersi che io ho diritto di essere molto geloso del buon nome della signorina... e la sua convivenza, la sua intimità colla marchesa, continuando le chiacchiere, potrebbero pregiudicarla. Infine io non voglio che la signora marchesa per inesperienza commetta qualche grossa minchioneria, e anche lei, signora Lucrezia, se proprio le fosse affezionata....

—Figurarsi, darei non una, ma dieci volte la vita!...

—Allora bisogna dirmi tutto e cercheremo insieme ciò che si potrà fare per il bene di sua cugina.

Una scusa qualunque, anche debolissima, era sufficiente al Barbarò per velare, se non per nascondere, il vero movente che lo spingeva a fare quelle ricerche delicate; e Donna Lucrezia vedendo che non poteva avere più altra speranza che nel signor Pompeo, inquieta, spaventata per cagione dell'assegno mensile, e ormai disingannata sull'effetto che avea sperato ottenere con certi accenni al passato, doveva pur cogliere il primo pretesto che le si offriva per cattivarsi l'animo del nuovo padrone di Villagardiana, salvando in pari tempo la propria dignità.

—Se davvero si trattasse di fare il bene della mia Angelica...—mormorò con un'esitazione che appariva sempre più debole....

—Ne può dipendere tutto l'avvenire!—rispose l'altro seccamente.

—Allora dirò... confesserò ogni cosa.... Ma per altro, ad una condizione.

—Quale?

—Sotto il suggello del segreto e col solenne giuramento che... non mi nascondete qualche secondo fine....

—Lasciamo da parte i giuramenti, signora Lucrezia!... Non dobbiamo tirare in ballo Domineddio in questi affari del diavolo,—esclamò ridendo il Barbarò che non voleva giurare il falso, potendo farne senza.—Ho detto e ripeto che desidero impedire alla marchesa Angelica di commettere spropositi.... E questa è la verità!

—Povero angelo!—mormorò la Balladoro, sospirando questa volta, col pensiero rivolto a sua cugina.—Quella creatura meriterebbe proprio tutte le fortune!

Ci fu un momento di silenzio; poi il signor Pompeo domandò più a bassa voce:

—Dunque, mi dica, dove si vedono?

—Non si sono riveduti ancora....

—No?—ripetè l'altro, che non riusciva a nascondere del tutto la propria soddisfazione.—Non si sono riveduti ancora?

—No, no; pôre creature. Si scrivono qualche volta, e tutto finisce lì.

—Capisco, capisco!... Si faranno forza aspettando che il marchese levi loro l'incomodo.

—Oh Dio, lo penseranno anche, in fondo all'anima, ma non lo dicono certamente, e del resto Angelica è tanto buona che non vuol neppure sentirne discorrere.... Adesso poi il Martinengo deve ripartire....

—Sì?!... E dove va?

—Ritorna a Napoli. Molto lontano, come vedete.

—Ma... prima di andarsene, non vorrà fare una corsa da queste parti?

—Siete più furbo che santo, vecio mio,—rispose la vedova sorridendo.

—E quando deve venire a Villagardiana?—domandò il Barbarò con un tremito nella voce.

—Questo poi non so.

—Non è vero! Non vuol dirmelo....

—Non so niente; giuro com'è vero che son nata, non so niente!

Il Barbarò si fece allora più vicino a Donna Lucrezia e le disse a bassa voce, ma in un tono risoluto, che non ammetteva replica:

—Sarà bene che, per il momento, ella non riferisca nulla alla signora marchesa di questo nostro colloquio; ma si ricordi che voglio sapere quando il Martinengo verrà a Villagardiana, e voglio sapere l'ora e il luogo in cui avranno fissato d'incontrarsi, perchè m'immagino...—e qui sogghignò come un Mefistofele da strapazzo—m'immagino che la signora marchesa non vorrà riceverlo in salotto, e presentarlo a suo marito!

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IX.

Uno o due giorni dopo che il Barbarò aveva "parlato chiaro" alla Balladoro, di mattina prestissimo, Angelica con tutta l'angoscia di una grande inquietudine impressa sul viso, sola sola e quasi al buio, perchè non avea voluto aprire gli scuri nè chiamare la cameriera, stava vestendosi adagio, paurosa di fare il ben che minimo rumore. Nella camera si poteva udire il russare affannoso del marchese Alberto e il respiro tranquillo e sottile come un soffio del piccolo Stefanuccio, che dormivano ancora. E se l'uno o l'altro si moveva appena, Angelica sbarrava gli occhi, e si fermava immobile trattenendo il fiato. Quando finalmente fu vestita un'altra gran paura la colse: l'uscio non era chiuso a chiave; ma se la toppa avesse dato la sveglia?...—Si avvicinò alla porta in punta di piedi, girò la maniglia lentissimamente, ma tuttavia l'uscio nell'aprirsi cigolò un poco. Angelica trasalì; di primo colpo si sentì perduta; ma il marchese non si mosse e Stefanuccio sospirò borbottando; poi subito si voltò e continuò a dormire.

Angelica uscì con prestezza, avvicinò l'imposta senza chiudere la serratura, rimase un pochino in ascolto, poi quando fu sicura del fatto suo attraversò il corridoio, e infilata una scaletta interna scese svelta e leggiera, come se avesse avuto le ali. Giunta al pianterreno, dove già era incominciato l'andirivieni della gente di servizio, si fermò un momento per non destare sospetti, e chiamò la cameriera alla quale diede alcuni ordini concernenti il marchese e Stefanuccio.

—Se si svegliassero prima che io fossi di ritorno e ti domandassero di me, dirai loro che sono andata a passeggiare fino al lago. Ho un'emicrania fortissima.

—In fatti, si vede, signora marchesa. Ha gli occhi lividi e non è mai stata tanto pallida; ma un po' d'aria pura le farà proprio bene.

—E per ciò ho pensato di uscire.

Era la prima volta che Angelica mentiva, pure lo fece naturalmente, senza arrossire, senza nemmeno accorgersene. Finchè aveva resistito e aveva lottato contro l'amore, si era fatta scrupolo di ogni cosa, anche d'un pensiero lontano e innocente; adesso che gli si era appena abbandonata, sia pure con la scusa della prudenza, sia pure col pretesto pietoso di voler sottomettere un povero pazzo alla ragione e impedire una disgrazia, l'amore l'avea già tutta presa; pareva le avesse mutato la mente e l'anima.

Tuttavia, prima di uscire, si fermò ancora dinanzi allo specchio dell'anticamera. Era quello per Angelica il momento più angoscioso e più terribile della vita; quello da cui presentiva che poteva dipendere tutto il suo avvenire, ma pure, anche piena di spavento e di ansietà pensò di voler essere bella. Si ravviò i capelli sulla fronte; si accomodò il fiocco della larga cravatta; indossò una giacchettina di panno celeste che sul corpo attillato del suo abito di cheviot bianco le stava a pennello; prese un grande ombrellino rosso col bastone altissimo.... Dette un'ultima occhiata allo specchio.... Era bella; era in punto.... Allora, mentalmente si raccomandò l'anima a Dio, come se fosse per islanciarsi dall'alto nel vuoto d'un precipizio, ed uscì.

Ma oltrepassato appena il cancello e avviandosi nell'aperta campagna, la quiete silenziosa di quella mattina fresca e nitida le infuse in sull'attimo un nuovo vigore. Respirando, fuori dell'afa opprimente della camera, la brezza mattutina, le parve che il petto le si allargasse e la sollevasse con un libero soffio di vita, onde si sentì come spinta da un impeto di tutto l'essere suo verso la Casina delle Romilie, che era il luogo del ritrovo con Andrea.

Percorso un buon tratto della strada maestra, prese subito per una viottola, fra due siepi di biancospino e di nocciuoli selvatici, umide ancora dalla rugiada; una viottola dritta, lunga, in cui odorava acuta la menta e l'acetosella, e così stretta che rimaneva tutta chiusa dal largo ombrellino rosso e dalla veste bianca della bella mattiniera, la quale si allontanava speditamente col ritmico tic-tac del suo passo uguale e sicuro.

Quando fu presso lo sbocco incontrò un vecchio contadino che si fermò per lasciarla passare:

—Servo, sciurìa!

Angelica rispose affabile al saluto; attraversò la stradetta cui faceva capo la viottolina, e salì per una scorciatoia che, dopo una svolta, calava più ripida fra la festevole varietà degli ameni collicelli, a viti, a olivi, a gelsi, digradanti dolcemente fino alla riva del lago.

In quel punto un raggio di sole, prima debole e sbiadito, poi subito più forte, avvivò con un improvviso risalto di colori tutta la campagna circostante e la distesa del lago azzurrino e le catene bigie de' monti, ancora avvolti da una caligine cinerea, e lo sfondo vasto della pianura e delle colline veronesi come sparenti in una nebbiarella di pulviscoli d'oro. Il verde cupo dei pampani si stendeva con la simmetria dei filari sul verde giallastro dei campi di grano sparsi di margherite e di papaveri sfolgoranti; e la fronda glauca degli oliveti spiccava fra il verde ruggine delle quercie e il verde vivido dei gelsi, mentre le gocciole di rugiada scintillavano come gemme sui rami e sulle foglie.

E pure quell'allegrezza luminosa non rischiarò il viso di Angelica. Il senso di benessere e di gioia che le aveva dato animo, era subito scomparso. La vista del vecchio contadino era bastata per ricordarle a un tratto tutto il mondo che aveva troppo presto dimenticato.

—Se quell'uomo l'avesse seguita?—E non osava voltarsi a guardare.—Se si mettesse dietro a' suoi passi e poi andasse a sparlar di lei?—E il suo occhio non vedeva più altro che l'ignoto pauroso; e Sirmione invano sorrideva al sole fra le onde cristalline; e la grande serenità del cielo non penetrava, non avea più un riflesso nel suo spirito turbato.

Ma soltanto l'espressione del volto, pallido a segno che pareva terreo, tradiva la violenza di quelle sue angosce: camminava sempre spedita e risoluta e scese senza esitare un momento per tutto il ripido e tortuoso sentiero. Se fosse stata certa di essere seguita e spiata, anche se avesse saputo di trovare la morte, e peggio della morte, lo scandalo e l'ignominia dov'era Andrea, essa gli sarebbe andata incontro con la testa in fiamme e col cuore stretto, soffocato, ma senza interrompere d'un punto, o rallentare i suoi passi.

Capiva di non esser più la stessa donna; capiva di essere vinta e trascinata da una possanza nuova, che di minuto in minuto cresceva di forza, ed alla quale non poteva più resistere. Angelica credeva fosse il destino, ed era l'amore.

E per i pericoli stessi che la circondavano, per lo sgomento, per tutte le nuove pene che soffriva essa, inconsciamente, aveva cominciato a vivere con Andrea, solo con Andrea, una vita intima, misteriosa, di terrori e di lacrime, ma tuttavia più palpitante; e appunto quelle pene non lasciavano tempo e modo al rimorso di arrestarla nella corsa precipitosa e vertiginosa; al freddo e acuto rimorso che l'avrebbe presa in quel punto se fosse stata tranquilla e serena, se il colloquio che aveva concesso ad Andrea fosse stato senza pericoli.

Più assai che per le sue gioie, l'amore può sulla donna per quanto la fa soffrire. Come si sente legata al figlio suo perchè le costa lo strazio delle viscere, così lo strazio dell'anima l'avvince sempre più all'uomo che ama.

Discesa ai piedi dell'altura, Angelica s'internò per un'altra stradetta pur chiusa fra due campi di vigneti e presto arrivò in vista della Casina delle Romilie e scorse Andrea che al fruscìo della sua veste era uscito da un cespuglio folto di pruni e che rimaneva immobile ad aspettarla. Allora provò una scossa, un sussulto di tutta la persona; abbassò subito il capo come se avesse avuto gli occhi abbagliati dal sole; ma non potè affrettare il passo, e quando gli fu vicina col viso in fiamme e la voce soffocata mormorò appena:

—Dio, Dio!... Che cosa ho mai fatto!

—Grazie.... È molto buona, lei!—balbettò l'altro pallidissimo.

Ci fu un momento di silenzio. Angelica, ansante, si premeva le mani sul petto come per frenarne l'anelito; Andrea, confuso, intimidito, col cuore che gli batteva tanto forte da serrargli la gola, non era più buono di trovar parola.

—Era molto.... molto tempo che l'aspettavo!—esclamò infine, senza sapere che cosa dicesse.

Angelica gli fu grata di quella commozione, e rimettendosi alquanto gli domandò con un sorriso:

—E forse cominciava a pensare che.... che tardavo un po' troppo, non è vero?

—Oh no, no! L'avrei aspettata, contento, tutta la vita!—rispose il giovane con entusiasmo.

Il dialogo prometteva di riscaldarsi presto e Angelica che per istintiva timidezza voleva ora allontanare più che le fosse possibile il momento delle spiegazioni, quantunque fosse venuta lì con quel solo scopo, finse di non avere inteso le ultime parole di Andrea.

—Com'è bello questo luogo!—esclamò guardandosi attorno maravigliata.

La Casina delle Romilie era posta sul confine di un vasto vigneto che rimaneva un po' in alto sulla strada. Angelica puntò l'ombrellino contro la sponda e appoggiandosi forte salì sul campo, passando a stento per l'apertura della siepe, aiutata da Andrea che avea cura di allontanare da lei i rami e le fronde spinose.

—Com'è bello!—ripetè la marchesa; e una tinta di sangue le colorì le gote più piene, mentre le nari fremevano respirando la brezza odorosa.

Il lago azzurro scintillava fra i pampani e i tralci; e la riviera stendeva al sole i colli verdeggianti, popolati di case rustiche con gli ulivi sopra e d'intorno, e di paeselli e di villaggi, dove spiccavano fra i tetti neri gli antichi castelli diroccati, ma ancora superbi e minacciosi nella loro rigidità.

—Com'è bello!... non è vero?—ripetè per la terza volta Angelica.

—Sì.... proprio.... È una magnifica vista!—rispose l'altro distratto, pensando a quello che voleva dire e al coraggio che gli mancava.

—È strano,—osservò Angelica che cercava tutte lo vie per tenere il discorso su cose indifferenti:—la casina è chiusa!—e colle piccole mani ancora coperte dai guanti, spinse l'uscio vecchio di legno, che resistette fortemente.—È proprio chiusa a chiave!

—Qualche contadino ci avrà nascosto il tesoro.

—Povera gente!...—mormorò Angelica, e a quell'uscio chiuso non ci pensò più.

Non era una casina del resto; ma appena appena un casottino da ragnaia. Quel campo prima di essere coltivato a viti serviva per uccellare alle allodole, e appunto sul tronco delle romilie che circondavano il casotto e gli davano il nome venivano appesi i richiami.

Angelica si era levata di dosso la giacchetta e l'avea buttata sopra una grossa pietra presso la casina, poi, sedendosi, domandò ad Andrea:

—Qui siamo al sicuro, non è vero?

—Lo spero, marchesa.

Rimanevano nascosti dalle romilie ed il vigneto era lontano dalla strada maestra. D'altra parte nessuno avrebbe potuto avvicinarsi senz'esser visto.

—Non ha incontrato gente nel venire?

—No; soltanto qui vicino, quando sono stato in principio alla stradetta, ho veduto un uomo avviarsi verso il vigneto.

—Un contadino?...

—Non mi pareva; ma non l'ho osservato bene.

—Ah mio Dio!... Chi sarà mai?

—Non si spaventi, marchesa. Per non essere scoperto io son ritornato indietro e ho fatto un altro piccolo giro; intanto deve essersi perduto pei campi: è sparito!

—Mio Dio, mio Dio!... Se ci vedesse qualcuno?!...

Andrea non rispose. Stando sempre in piedi, vicino a lei, al suo fianco, si era appoggiato col braccio al muricciuolo, e la guardava.

Angelica sentiva oramai che non poteva tardar più oltre a spiegarsi. Stava a capo basso, muta, impacciata, non osando alzar gli occhi mentre continuava colle dita nervose a fare scattare l'elastico dell'ombrellino chiuso.

—Intanto, marchesa, colle sue paure.... non mi ha stretta ancora la mano....

Angelica alzò gli occhi un momento, e lo guardò; poi, riabbassando il capo, cavò fuori dal guanto, che avea già sbottonato, la manina bianca e morbida e la stese ad Andrea che la strinse lungamente, appassionatamente.

In quel punto una cingallegra diè un trillo improvviso e volò dalla siepe sulle romilie dove rimase saltellando fra i rami e cinguettando.

Adesso Andrea Martinengo non tremava più, non cercava più le parole; ma invece parlava commosso, accalorato, animandosi in viso, mentre Angelica tremava e sospirava col petto che le balzava sempre più forte e arrossiva, poi impallidiva, poi arrossiva di nuovo, tutta presa da un languore dolcissimo che le toglieva la forza di muoversi e di rispondere.

Che cosa le diceva Andrea?... Tutto ciò che già le aveva scritto nelle sue lettere.... che era sempre stato infelice, che l'aveva sempre amata, che l'amava e che l'avrebbe amata sempre!... Ch'essa, per lui, era più dell'amore; era la fede nel buono, era la fede dell'anima e che, in fine, non riamato, ma respinto, la vita gli riusciva uggiosa, inutile, insopportabile e che voleva morire.

Angelica a poco a poco cessò dal tremare e dall'arrossire. Era ancora pallida e palpitante, ma risoluta, e tratto tratto alzava, per guardare in viso al giovane, gli occhi dolcissimi, esprimenti a volte un rimprovero, a volte una preghiera.

Andrea parlava sempre.... e quelle sue parole calde, appassionate suscitavano in lei pensieri e sentimenti e sensazioni nuove, mutando per essa tutto il mondo da come lo avea veduto fino allora; tutte le cose da come fino allora le aveva giudicate; tutto scolorendo, tutto confondendo innanzi a lei, che non sentiva più altro che l'incanto di quella voce morbida, insinuante, più altro che quel languore profondo dell'anima e dei sensi. Allora obliandosi, ed obliando ch'essa era venuta a quel ritrovo per combattere la passione di Andrea e porre un termine al suo amore, di tante cose che avea avuto in mente gli disse soltanto quello che aveva nel cuore: che non dovea morire; che non avea diritto di morire; che lei non voleva!

—Ma se ormai le sono indifferente, se non mi può più voler bene, mi lasci almeno finirla.... finirla una volta per sempre!

—No, no; mi deve risparmiare un così grande rimorso.

—Rimorso?... Sempre il rimorso; non altro che il rimorso!—E Andrea sentì un impeto d'ira, che non riuscì interamente a frenare.

—Sì, e.... e insieme col rimorso anche un gran dolore!

—Oh! Non mi parli de' suoi dolori, lei che ha la pace, lei che è felice!—proruppe ancora il Martinengo con un sorriso d'ironia amara.—Rimorso sì, lo capisco; ne deve.... ne dovrebbe sentire un poco; ma dolore?!... No, con me, non ne parli mai; non ne ha diritto!

—Sì, sì, sì!... Dolore.... molto dolore!—rispose Angelica crucciata, disegnando nervosamente lunghe strisce sulla terra umidiccia colla punta dell'ombrellino.

—Allora.... allora devo ringraziarla della sua compassione.... della compassione ch'ella sente per me!

All'ira era subentrata una grande tristezza, e la voce del giovanotto si era fatta tremante. Egli non guardò più la marchesa, poi, a un tratto, voltò la testa dall'altra parte. Angelica, allungando la mano, gli toccò un braccio e, premendolo con dolce violenza, lo costrinse a guardarla, sicchè vedesse che anche i suoi occhi erano pieni di lacrime.

—Morrei.... anch'io, sa?—e non disse più altro. Abbassò il capo di nuovo, e ricominciò a fare i suoi disegni coll'ombrellino, ma ora più lentamente.

La cingallegra, cantando, era discesa fino all'ultimo ramoscello della romilia, e di là era volata sulla siepe. Si vedeva saltellare e beccare sbattendo le alette, vispa e sicura.

Andrea avea presa la manina bianca di Angelica, e la stringeva amorosamente; essa, sempre colla testa china, sospirava senza parlare.

—Allora posso.... mi lascia vivere ancora.... per lei?

La marchesa non rispose subito altro che con un fremito che il giovanotto sentì dalla mano, e allora stringendola ancora più forte, rinnovò la sua domanda, ma con un'espressione intensa di preghiera nella voce commossa:

—Mi lascia vivere.... per lei?

Angelica lo fissò un attimo, poi chinò gli occhi e rispose con un singulto, fra le parole spezzate:

—Senza.... più.... cercare.... di vedermi?

—Se vorrà, proprio.... senza più vederla....

—Me lo promette?

—Lo prometto.... Saprò che lei mi vuol.... che lei penserà a me qualche volta e....

—Sempre!—interruppe Angelica con un filo di voce che pareva un sospiro.

—....e sentirò di vivere per lei e vivrò con lei anche non vedendola, anche da lontano!

—Oh sì, sì!—esclamò la buona e ingenua creatura, con tutto l'entusiasmo del cuore che le traspariva dagli occhi scintillanti.—E lei, allora, mi promette di vivere e di perdonarmi?

—Sì, Angelica.

Essa lo guardò lungamente e gli sorrise sicura, senza più arrossire. In quel punto pensò che avea fatto bene a concedere il colloquio ad Andrea. Aveva ottenuto il suo intento. Gli aveva ridata la pace, la calma.... E non sapeva ch'era lei adesso, che la calma e la pace le perdeva per sempre.

Angelica, in compenso della leale promessa di Andrea, gli confidò quanto già egli aveva udito dalla contessa Fanti.

Ma della sua infelicità non incolpò nessuno; nè il babbo, nè Alberto. Anzi, quest'ultimo volle scusarlo, dicendo che erano ambedue così diversi d'indole e di carattere, che non si potevano intendere, e che suo marito era stato pure sacrificato quando gliel'avevano fatta sposare e che, adesso, se qualche volta sembrava ingiusto e la faceva soffrire non era proprio per cattivo animo, ma perchè era ammalato, molto ammalato. Ma a questo punto le passò in mente, e le scese fredda nel cuore, l'insinuazione che, quasi sotto forma d'augurio, le era stata fatta dalla Balladoro e, alzandosi di scatto:

—Mi deve giurare—esclamò con una viva espressione di angoscia e quasi di terrore—mi deve giurare che.... che non sarà mai indotto a desiderare la.... il male di qualcun altro....

—Lo giuro,—rispose Andrea, non senza arrossire un poco.—Lo giuro per tutto il bene che le voglio!

Poi, quando la marchesa si fu di nuovo seduta, egli, che le era sempre vicino, al suo fianco, appoggiato al muricciuolo della casuccia, le domandò piano:

—E lei.... non mi promette, non vuol dirmi nulla?

Angelica chinò il viso e tutta la persona, e anche più in fretta di prima ricominciò a far rabeschi in terra coll'ombrellino.

—Non vuol dirmi nulla?

Angelica, quasi istintivamente, gli rispose con una rapida occhiata: fu un lampo che le illuminò il viso e diceva tutto.

—Dunque?—insistè l'altro per ottenere proprio una promessa precisa.—Dunque?

Angelica guardò di nuovo Andrea, ma lungamente questa volta, e leggendogli negli occhi ciò che le domandava, ciò di cui la supplicava, arrossendo e sorridendo, rispose appena con un filo di voce:—Sì.... un poco....—e disse queste semplici parole così dolcemente, così teneramente che Andrea ne sentì l'impressione come d'un soffio, come d'una carezza. Commosso, pallidissimo e tremando alla sua volta, le prese daccapo una mano, poi l'altra, e a un tratto, sollevò Angelica come per attirarsela sul petto anelante; ma in quel punto sentì le mani, il braccio di lei irrigidirsi, mentre i begli occhi lo fissavano attoniti con un'espressione indefinibile di sgomento e di dolore.

—Perdono, marchesa,—balbettò,—perdono, non a me, ma al mio cuore....

Angelica non rispose, tornò a sorridergli affabilmente, e prese fra le sue mani piccole e delicate le mani forti di Andrea, le accarezzò colla guancia infocata.

—Sempre.... sempre la bimba, la mia bimba cara e adorata di sedici anni!—esclamò il Martinengo intenerito.

—No, non ero più la stessa!... È lei che mi ha fatto ritornare come allora!... Ho tanto bisogno di credere in lei, e di poter pensare a lei, senza dover arrossire, proprio come al mio ideale alto e puro. Sono parole sue; le ricorda? Le ha scritte in una lettera cattiva, ma che io le perdono, le ho perdonato, appunto per queste parole, le sole buone.... ma tanto, tanto buone!... Oh davvero, fossi ancora una bambina; fossi padrona di me! Adesso sì, mi sentirei la forza, il coraggio di lottare!... Ma ciò di cui posso disporre, ciò che è ancora mio.... l'anima.... gliela dò intera!...—E Angelica strinse la mano di Andrea con uno slancio vivo di passione; poi, subito, si fe' muta e lo fissò di nuovo cogli occhi smarriti.

—Che ha?... A che pensa adesso?...

—A.... a nulla.

—No, no, non è vero!... Mi dica; la prego, la supplico, mi dica tutto: voglio saperlo.

—Penso... che nemmeno dell'anima non ho il diritto di disporre!—rispose infine Angelica con voce fioca e colle parole rotte da un singhiozzo che si sforzava di soffocare.—No, nemmeno dell'anima!

—Perchè, Angelica?

—Perchè.... perchè ho un figliuolo, e la mia anima è sua: gli appartiene. E pure, che vuole?... Questi due sentimenti così opposti, dei quali l'uno è santo e l'altro.... oh l'altro no, Andrea! questi due affetti che dovrebbero essere in urto fra loro, si confondono invece nel mio cuore, e si dividono ogni mio pensiero. Ma tuttavia non mendico scuse, nè voglio farmi illusioni. Sentendo così, e parlando a lei così so di esser molto colpevole. So che uno solo di questi due affetti avrebbe dovuto bastarmi; avrebbe dovuto infondermi tutta la forza, tutto il coraggio di vivere, e che è per colpa mia, solo per colpa mia, e non d'altri, se l'affetto del mio figliuolo non basta per rendermi felice, non basta per rendermi sopportabile l'esistenza.

—Non dica così,—interruppe Andrea vivamente,—non confonda la rettorica colla realtà della vita!

—Non confondo, no; ragiono bene,—continuò Angelica; e nella sua voce limpida, melodiosa traspariva un'amarezza profonda.—Tutte queste cose me le son dette e ripetute le mille volte, e le sentivo giuste e vere nella mia coscienza quando credevo di poter esser più forte contro di lei; e adesso mi turbano ancora, come un rimprovero e.... e lei stesso, vede, in questo punto pensa, cerca qualche argomento a mia difesa; ma onesto e leale, neppur lei non può, non sa trovar nulla!

—No, non è vero; non dica così!—ripetè Andrea un po' sconcertato.

—Vede, vede, che non c'è scuse per me?

—No, non è vero!—ripetè ancora Andrea accalorandosi—non è vero, perchè il mio cuore non solo la difende e la giustifica, ma l'onora e l'ammira!

—Il suo cuore, solamente il suo cuore,—balbettò Angelica tristamente,—ma il giorno che il suo cuore fosse muto per me....

—Ciò non sarà mai!

—Mio Dio, che non sia mai davvero,—interruppe la marchesa con un sospiro,—perchè il giorno che non mi volesse un po' di bene, non mi stimerebbe nemmeno più!

—Queste ch'ella dice sono tutte eresie!—esclamò Andrea, il quale, scosso per un momento dalle parole della marchesa, tornava alle esaltazioni dell'amore.—Sono tutte eresie; e se mi manca la eloquenza per ribattere le sue accuse, non vuol dire che mi manchino anche le ragioni. Lei ha più ingegno, molto più ingegno di me, e però mi confonde, mi sbalordisce, anche quando non riesce a convincermi. Io sento che esagera molto i suoi scrupoli; io sento che ha torto quando parla di rimorsi perchè noi non ci rivedremo più; perchè il suo cuore me l'aveva già dato quando era padrona di disporne; perchè l'hanno ingannata e sacrificata!

—Ma dice anche lei che ci vorrebbe eloquenza per difendere la mia causa,—ribattè la marchesa con un'ostinazione che turbava il Martinengo.—Dice anche lei che non mi può servire la franchezza del soldato, ma che ci vorrebbero invece i sofismi del causidico.... No, non si arrabbi,—soggiunse poi, vedendo che l'altro non poteva trattenere un moto d'impazienza,—so che faccio male a dirle queste cose. Quando si sentono dentro di sè, e non si ha poi la forza di fare quel che si dovrebbe, il parlarne è peggio, perchè non si riesce ad altro che a provare la propria debolezza. Ma, per quanto ci pensi, non saprei dire quando ho cominciato a essere debole, a transigere, a cedere. Ecco, questo non so; e questo solo è forse un po' la mia scusa. Venendo qui non intendevo certamente di accondiscendere a un suo desiderio; credevo, m'imaginava di compiere un dovere. A malincuore ho risposto alla sua prima lettera, e ho risposto soltanto perchè così mi consigliava la prudenza. Non le ho scritto intenerita dalle sue preghiere e dalle sue lacrime, ma solo spaventata dalle sue minacce.

—Non per altro, proprio?

—No, non per altro!—rispose Angelica con più forza.—Non posso ricordare in che modo, come, quando, ha cominciato questo strano mutamento del mio cuore.... e anche un po' della mia testa. Ieri sera ancora tremavo tanto all'idea di dovere venir qui; era tale il mio orgasmo, che non mi sarebbe stato possibile di calmarmi per interrogare me stessa, nè per riflettere se facevo bene o male. Questa notte non ho potuto chiudere occhio; ero agitata, convulsa per lo spavento, per l'angoscia di ciò che stavo per fare: tremavo di essere scoperta, eppure sono venuta!... Ma, sa, credevo proprio di venire, di dover venire, per pregarla e anche per imporle di non pensare più a me, di dimenticarmi.... e invece....

La poveretta s'interruppe, le lacrime la soffocavano, e allora premendo il fazzoletto sugli occhi non potè più frenarsi, e cominciò a singhiozzare.

Andrea, commosso, ma dolcemente commosso, cercava di riprenderle la mano per vedere gli occhi cari che piangevano per lui, e:

—Quanti che si credono onesti e forti—esclamò—solamente perchè sono felici, non valgono, con tutta la loro facile virtù, una sola di queste sue lacrime!...

Intanto la cingallegra continuava a saltellare sui ramoscelli alti della siepe, ma non cantava più. Pareva volesse sentire anch'essa ciò che diceva il bel giovane bruno colla bella signora bionda.

—Pensi a questo, marchesa, che volendomi un po' di bene fa un'opera buona.

—Un'opera buona?—domandò Angelica, maravigliata, alzando il visetto incantevole ancora tutto rosso e sparso di lacrime.

—Sì, un'opera buona,—ripetè Andrea accarezzadole le mani che teneva unite fra le sue.—Ero scettico, sfiduciato, e lei mi ha ridata la fede: la fede nel dolore e nell'amore.—Ero misantropo e tristo, e lei ha ridestato in me la soave poesia della vita. Il mio cuore arido non aveva più palpiti, ed ora senta, senta, marchesa, come batte forte sotto la sua mano!... Pensi che la mia anima è sua; e pensi ch'ella potrebbe farne anche l'anima d'un dannato! Io per me, per sola forza mia, non sono nulla, nè posso essere nulla. È lei, sempre lei, che mi fa e mi rifà come vuole. Ero cattivo perchè lei mi aveva fatto cattivo col suo abbandono; adesso ritorno buono perchè lei mi vuol bene ancora. E così sarà sempre; sempre così!... Una madre dà la vita materiale, la donna che ci vuol bene, creda, marchesa Angelica, ci ridà anche la vita dello spirito; e però non soltanto il nostro cuore, ma anche la nostra coscienza è nelle sue mani. Pensi che per cagion sua, un giorno, ho maledetto ogni cosa del mondo; pensi che non volevo più vivere.... ed oggi invece, sempre per lei e solamente per lei, ho cara l'esistenza, e trovo il mio primo giorno di felicità. Sì, è proprio vero. Quantunque sia questo il momento in cui dobbiamo dirci addio e, chi sa, forse per sempre, pure è il momento più felice, creda, marchesa Angelica, il solo veramente felice di tutta la mia vita!

Più che ascoltare le parole di Andrea, Angelica le aspirava coll'anima ammaliata, e le sentiva scendere nel profondo del cuore e diffondersi per tutto l'essere suo, soavi, benefiche; poi dopo un lungo silenzio a cui si era abbandonata, vinta da quel rapimento, mormorò con l'amore che le prorompeva dagli occhi, e le scoloriva le labbra e le gote:

—Anch'io, sa, ad onta delle mie lacrime e dei miei rimorsi.... perchè non dovrei dirlo? è la verità.... ad onta anche de' miei rimorsi, sento che è questo il primo giorno, il primo momento in cui sono felice!

Il sole alto oramai cominciava a dardeggiare. Montebaldo nell'orizzonte lontano non era più avvolto dalla caligine vaporosa, nè la cima superba si perdeva dentro un velo bigio di nubi, ma appariva chiara e nitida nel sereno profondo. Manerba distesa ai piè della rocca odorante di muschio, dove ancora vagano i canti di Catullo fra il sussurro del vento che le porta tepido un profumo di cedri; Manerba, con la sua candida chiesa, splendeva di luce viva; e dall'azzurro cristallino delle acque, dov'è più verde e amena la riviera, sorgeva Moniga, romanticamente leggiadra fra la sollazzevole allegria dei vigneti, ergendo in mezzo al cielo turchino la torre bianca del castello feudale.

Bisognava scambiarsi gli ultimi saluti; bisognava separarsi per sempre. Tuttavia anche nel momento del doloroso distacco il viso di Angelica esprimeva, pur fra le lacrime, una vivezza insolita; pareva che un raggio di quel bel sole le fosse sceso nel cuore.

Non si sarebbero riveduti più, ma promisero di scriversi. E allora, in quell'ultimo istante, uniti dal comune dolore, si abbandonarono alla più dolce intimità, e combinarono insieme i loro disegni. Come, dove, quando avrebbero dovuto scrivere per essere più sicuri?

Angelica raccomandò al Martinengo di spedire sempre le lettere a Padenghe, dirette alla Balladoro.

—Ma saremo poi sicuri veramente con questa signora?—domandò Andrea.

—Spero; spero di sì,—rispose la marchesa.—Non avrebbe nessun motivo per tradirmi, per farmi del male. In ogni modo bisogna rassegnarci. Se mi vuol scrivere non c'è altra via. Mandare le lettere a me direttamente è impossibile; io non potrei, neppur per sogno, andare a prenderle alla posta, e non ho un'altra persona di cui potermi fidare. Poi Donna Lucrezia è una chiacchierona, un po' frivola, un po' leggera, ma ha molto cuore, e a me ha dimostrata sempre una grande affezione. Di più è stata lei la prima ad offrirsi e, capirà, anche questa è una prova di amicizia, e mi ha risparmiato una gran pena.... Io certo non mi sarei sentito il coraggio di confidarmi per la prima, e di pregarla di farmi un simile favore....

Andrea si mostrò pago di queste ragioni. Egli, d'altra parte, se aveva maggior esperienza del mondo e se non si abbandonava ciecamente alla fiducia di Angelica, non conosceva punto Donna Lucrezia, nè poteva avere alcun sospetto.

Bisognava proprio partire. Ancora una stretta di mano, ancora un addio, una preghiera rotta dalla commozione, e poi.... non rivedersi più!

—Ma se proprio avremo la guerra, e....

—Morrei anch'io!—rispose Angelica, che avea indovinato, con una stretta al cuore, il pensiero di Andrea.

Poco dopo che la marchesa e il Martinengo si erano allontanati dalla Casina delle Romilie l'uscio si aprì pian pianino, e il signor Pompeo mise fuori la testa. Alzò la faccia, ancora verde di bile, girò attorno gli occhietti loschi, spiando se più nessuno non lo poteva vedere, poi rassicurato uscì dal casottino, e si avviò difilato verso Villagardiana.

—Ah! ah!—mormorò fra sè, stirando le labbra con un ghigno sinistro—è il tuo primo giorno di felicità?... Aspetta stasera a dirlo, ipocrita, sfacciata!... Si fa presto a essere forti, e a giurare di non più rivedersi, quando si ha nel cuore la bella speranza che crepi presto chi ci è d'incomodo!

Appena il signor Pompeo era uscito dalla casina la cingallegra con uno strido era fuggita via spaventata, fendendo l'aria, pei campi lontani.

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X.

Angelica, ritornata a Villagardiana, s'ebbe molti e fieri rabbuffi, che sopportò pallida e muta, tutta chiusa nel dolore. Il marchese Alberto era sulle furie; avea mandato gente a cercarla e non l'avevano trovata, mentre avea detto alla cameriera che andava a passeggiare verso la riva; invece Stefanuccio per il gran dolore di non veder la mamma s'era messo a strillare e non s'era lasciato lavare; ma poi, sempre ingrugnato, aveva versata tutta la zuccheriera nel caffè e latte, inzuppandovi tante fette di torta da farsi venire un'indigestione. E però se l'ira e i sospetti del marito acquietarono un poco, per naturale reazione, i rimorsi di Angelica, le si ravvivarono alla vista del figliuolo, col muso imbrodolato di lacrime e di latte.

A colazione essa toccò appena il cibo, senza nemmeno rompere il pane. Aveva il petto oppresso, la gola stretta; faceva fatica a inghiottire anche una goccia d'acqua.

Finita la colazione, il marchese Alberto volle essere condotto a prendere il caffè, come di solito, all'ombra di un grosso castagno d'India sul terrazzo. C'erano tutti attorno alla carrozzetta: Angelica, Stefanuccio, la Mary, Giulio Barbarò; tutti, meno Donna Lucrezia. La rispettabile signora quella mattina non si era fatta vedere. Aveva detto alla cameriera di scusarla coi padroni se non scendeva a colazione, perchè "spasimava dal mal di denti." Ma invece del mal di denti aveva un altro male addosso: era inquieta, era arrabbiata di ciò che avea dovuto riferire al Barbarò; e si sentiva sossopra per il colpo terribile che da un momento all'altro doveva rimbombare nella casa.

—Ah, santi numi, santi numi!... Perchè non sono libera e ricca?... Allora, invece di star soggetta a quel muso da cane, gli risponderei per le rime!... E fantasticava un bel giorno di repubblica in cui lo Zodenigo (del Consiglio dei Dieci ) gli avrebbe fatto impiccare il Barbetta per farle piacere.

Intanto il marchese Alberto, tutto rattrappito nella carrozzella, colle gote accese, perchè mangiava e beveva molto, continuava a brontolare rabbiosamente con Angelica. Adesso s'irritava perchè rimaneva muta e aveva la faccia intontita.—L'emicrania—borbottava—era stata una scusa. Non era per lui certamente, per il dolore della sua prossima fine che si era vestita di bianco e si era fatti i ricciolini!—Stefanuccio voleva le caramelle col rosolio, e strillava. Un po' più lontano, seduta sul muricciolo del terrazzo, la Mary discorreva piano con Giulio Barbarò che rimaneva in piedi, dinanzi a lei. I due giovani, un po' anche perchè ci erano avvezzi, non badavano a quelle scene. Giulio era ritornato allora da Brescia, e aveva portato alla signorina certa musica e alcuni libri, di che essa lo aveva pregato. E sfogliando i libri e la musica più di una volta era successo che le dita del giovane avevano incontrato la mano della fanciulla; e più di una volta alzando la testina dai bei capelli castagni ondeggiati, la Mary avea sorriso amorosamente all'amico suo che, sempre un po' timido, non la poteva guardare senza arrossire.

Giulio Barbarò non si era fatto un bel giovane. Aveva il viso palliduccio, la figura esile e sembrava più piccolo della Mary; ma quando la fanciulla lo guardava co' suoi occhioni che avevano la lucentezza morbida del velluto, egli pareva trasformarsi; pareva che un nuovo calore, una nuova vita si diffondesse in lui e il suo viso diventava piacente, tanto era l'amore profondo e la docile bontà che allora esprimeva.

I due giovani continuarono così molto tempo a sfogliare i libri e a discorrere quietamente, e il marchese Alberto, addormentatosi, avea finito di brontolare, quando si udì un rumore di passi: Stefanuccio, seduto sulle ginocchia della mamma, si fermò subito dal succhiare la caramella e come un cane di guardia puntò chi si avvicinava.

Era il signor Pompeo, umile e cerimonioso, che veniva a informarsi della salute del marchese Alberto e a presentare i suoi omaggi alla marchesa Angelica.

Il Collalto si destò subito e, sbadigliando, guardò in giro cogli occhi pesi.

—Oh bon dì, sor Pompeo!

—Sono dispiacentissimo!... Ella riposava un poco, e io l'ho disturbato....

—Chè! Non dormivo; non dormo mai!... Ho troppi pensieri; troppi dolori.... E poi, presto, avrò tanto tempo da dormire!...

—Che cosa dice, che cosa dice mai, signor marchese!... Questi, scusi, sa, sono brutti pensieri che bisogna bandir dalla mente. Ella è giovane; la gioventù è un gran rimedio e vivrà, diamine, vivrà lungamente, per tutti coloro che le vogliono bene!...

—Allora potrei crepar domani,—borbottò il Collalto a mezza voce; poi con un cenno di mano si chiamò vicino il signor Pompeo, che si curvò sulla carrozzella, e gli domandò all'orecchio:

—E così?

—Ho potuto trovare duemila lire.

—Be'.... per il momento basteranno....

—Dopo giri e rigiri—continuò il Barbarò sempre a bassa voce—le ho avute a Desenzano, da un mio amico.....

—Bravo bravo, signor Pompeo!

—Ma....

—Ma?

—Ho un dispiacere, signor marchese....—Il Collalto guardò Pompeo con piglio diffidente.—Dovrò forse farla andar in collera....

—Che c'è di nuovo?

—No, no; niente di nuovo; ma, come al solito, dovremo ricorrere alla firma della signora marchesa....

—Usurai villani!—grugnì il Collalto stizzito.—La mia firma è stata sempre onorata a Vienna, a Parigi, a Londra, e non deve bastare a Desenzano!

—Pur troppo, signor marchese; pur troppo non basta più e, come ho avuto il dolore di doverle dire altre volte.... il trovar danaro mi riesce ogni giorno più difficile.... Sarebbe proprio necessario, signor marchese....

—Va bene, va bene; ho capito.

—Ma....

—Ne discorreremo un altro giorno, quando mi sentirò meglio....

—E se fosso troppo tardi, signor marchese?...

Il Collalto guardò per un momento il Barbarò con apprensione, ma parendogli di scorgere un sorrisetto balenare negli ocelli furbi si riconfortò, e sdraiandosi nella carrozzella mormorò quasi piagnucolando:—Mi sento tanto male.... ho la vita rotta dai dolori!—poi, rivolgendosi alla moglie:—Angelica—le disse—il signor Barbarò avrà da parlarti.

Angelica guardò con inquietudine Pompeo che le si era avvicinato, e gli domandò:

—Ancora?

L'altro abbassò il capo sospirando e soggiunse piano:

—Devo parlarle, signora marchesa: è assolutamente necessario che le parli.

—Mio Dio!... Lei mi spaventa, signor Pompeo!

—Mah!...—rispose il Barbarò e, sospirando una seconda volta, indicò il marchese col volgere degli occhi—non mi ha mai voluto ascoltare!...

—Ebbene, fra un quarto d'ora torneremo in casa; se vuol venire l'aspetterò nel mio salottino.

—Grazie, signora marchesa,—balbettò Pompeo con voce sorda.

Sulle gote verdognole gli passò un guizzo di foco, ma non osò guardare in viso Angelica. Si avvicinò invece alla carrozzella e inchinandosi per salutare Alberto gli disse sommessamente:

—Vado e torno; consegnerò il danaro alla signora marchesa.

Bon dì, sor Pompeo!—rispose il Collalto senza nemmeno voltarsi, e continuando col cannocchiale a guardare Garda, Sirmione, Solferino, e a cercare i paeselli della riva veronese.

Pompeo era così confuso che andò via senza pensare di salutar la Mary. Il colloquio, cui era stato volontario spettatore, aveva attizzato d'odio e di gelosia la sua passione brutale; era in trepidazione aspettando il momento di trovarsi con Angelica; le mani gli tremavano, gli ballavano le gambe, aveva le fiamme in viso, non sapea più che cosa si facesse. Ogni poco guardava l'orologio, ma la mezz'ora d'indugio che per convenienza si era assegnata, non passava mai; si spazzolò l'abito, spolverò le scarpe, ravviò i capelli lustrandoli con due colpi del cerone nero e poi guardò di nuovo l'orologio.... La mezz'oretta era trascorsa. Allora, invece di essere contento, sentì crescere l'agitazione.

—Ma se poi la marchesa non avesse voluto accettare le sue proposte? In tal caso.... tanto meglio!... Tutti quattrini risparmiati!—pensò il Barbarò che voleva premunirsi in caso di sconfitta.—Tutti risparmiati; e se la marchesa non vorrà pensare al suo interesse, io farò il mio!... Ma non è possibile; non le resta più, quasi, da vivere e sullo zio Diego non c'è da fare assegnamento. Buone parole e complimenti assai, ma fastidi non se ne piglia per nessuno! Non credo che per un capriccetto sia poi disposta a stentare e a sacrificare suo marito e la sua mummietta....

Quanto a sè, il signor Barbarò aveva la coscienza di non poter essere più generoso. Erano rari i "minchioni" che per i begli occhi di una donnina sarebbero stati disposti a sobbarcarsi a tanti sacrifici. E poi, alla fine, egli giocava a carte scoperte; non faceva il gesuita; non adoperava sotterfugi; e la marchesa doveva riflettere quietamente a ciò che meglio le convenisse di fare.

Guardò un'altra volta l'orologio: poteva aspettare ancora cinque minuti.

"Era proprio vero che l'amore lo rendeva un gran minchione!" E intanto colla cocca del fazzoletto di tela grossa colorata, bagnata di saliva, si lustrava gli anelli delle dita. "Minchione...." ma non al punto, per altro, che una volta accettati i suoi patti la biondina potesse sperare d'ingannarlo. Oh i cancelli di Villagardiana sarebbero stati chiusi per tutti, e avrebbe pensato lui a tenerla d'occhio e a impedire le passeggiate mattutine! Non ci sarebbero state più lettere: col capitano doveva finire ogni corrispondenza. E se al bel damerino spiantato la pillola sembrava amara, li mettesse fuori lui i quattrini. A buon conto, quell'altro non aveva che chiacchiere, mentre lui si faceva avanti coi fatti!... Se la marchesa aveva un po' di testa doveva capire che "quel bonomo del signor Pompeo" era una provvidenza per lei!... A Villagardiana avrebbe sempre figurato di esser lei la padrona!... E mediante la cessione da parte dei Collalto di tutto il loro patrimonio, egli avrebbe fissato al marchese un assegno vitalizio col quale avrebbero potuto vivere comodamente, e con decoro.... Poi, era un galantuomo e, morto il marito, l'avrebbe sposata. Il marchese poteva morire fra qualche mese, gli aveva detto il medico, e poteva campare anche dieci anni.... ma al modo onde intendeva regolar le cose avrebbe potuto aspettare. Intanto non avrebbe perduto tempo e.... avrebbe abituata la marchesa ad essere economa, e a condursi come piaceva a lui....

—Morrei!... morrei!...—ripetè poscia fra sè pensando all'addio che aveva dato Angelica al Martinengo.—Tutte smorfie.... Un po' di lucciconi in sulle prime, e poi colla vita quieta si farà più grassa!...

Ma quando, preceduto dal cameriere che gli aprì l'uscio, e sparve subito, il signor Pompeo entrò nel salottino della marchesa, non era più tanto sicuro.

Colle persiane socchiuse e le tendine calate, il salottino era avvolto in un'oscurità piacevole e tranquilla, e odorava del profumo proprio della marchesa: quel profumo che spirava dalle sue vesti, dalla sua persona, da tutte le cose sue....

E ogni oggetto raccolto nella elegante stanzetta, dai ritratti dei parenti e degli amici; dalle preziose anticaglie, dai gingilli, dalle galanterie che riempivano gli scaffali e i palchettini dorati, fino ai ninnoli, ai fiori, ai libri riccamente rilegati della piccola scrivania, tutto, si capiva subito, era stato scelto e messo a posto dalla marchesa; tutto, là dentro, apparteneva a lei esclusivamente; e pareva proprio che le mani gentili che toccavano sole quegli oggetti e la predilezione un po' gelosa che aveva Angelica per le cose sue, infondessero nell'armonico complesso come una fisonomia particolare.

Il Barbarò, in quella semi-oscurità, distinse solo la marchesa per il suo abito bianco, e si avvicinò alla scrivania dov'era seduta, urtando in una poltroncina.

—Oh, come son balordo!... Perdoni, signora marchesa.

—S'accomodi, signor Pompeo!... È forse troppo buio, non è vero?...

—No, no!... Ci si vede benissimo! Soltanto venendo dalla strada, al primo momento si resta un po' confusi....

—S'accomodi.—E Angelica gl'indicò la poltroncina presso la scrivania; quella che gli era andata fra le gambe.

—Grazie, obbligatissimo!—rispose il Barbarò sedendosi e cercando il posto dove mettere il cappello, che finì poi per tenere sulle ginocchia mentre frugava nella tasca interna dell'abito e tirava fuori il portafoglio grosso di bulgaro. Lo aprì, ci ficcò dentro gli occhietti storti, e con due dita prese una cambiale e due biglietti di banca che pose sulla scrivania, dinanzi alla marchesa.

—Devo ancora firmare?—domandò Angelica, guardando il Barbarò con viva inquietudine.

—Se la bontà sua vuole farmi questa grazia....

—Ma senta, signor Pompeo, ella desiderava spiegarsi con me; poco fa mi ha detto, anzi, che ciò era assolutamente necessario. Parli dunque, la prego; mi dica tutto.

—Ecco.... per.... ecco....—Il Barbarò, impacciato, non sapeva da che parte incominciare.—Il signor marchese non ha mai voluto farmi l'onore di ascoltare i miei consigli e siamo arrivati al punto.... Sicuro, tutte le volte che mi credevo in obbligo di accennare allo stato deplorabile del suo patrimonio....

—Stato deplorabile?—ripetè Angelica sbigottita.

—Deplorabilissimo, signora marchesa!—esclamò il Barbarò traendo un grosso sospirone e alzando gli occhi verso i putti del soffitto.

—Per carità, signor Pompeo, per carità, non mi faccia morire!...

—Diavolo; come la marchesa ha la morte facile!—pensò l'altro fra sè; poi, brevemente, facendo prima notare che i registri erano in pieno ordine e che la signora marchesa avrebbe potuto verificare l'esattezza di quanto le andava esponendo, e avendo cura di ripetere sempre che il signor marchese "quel che voleva, voleva" e non gli avea mai lasciato dire le sue ragioni, concluse colla fredda eloquenza delle cifre che l'ammontare dei debiti che aggravavano Villagardiana superava il valore del possesso, anche stimandolo assai alto.

—Ma, signor Pompeo,—esclamò Angelica colle lacrime agli occhi,—ella diceva sempre che Villagardiana doveva essere la nostra fortuna?!...

—Sicuro; Villagardiana doveva essere la fortuna della nobile casa; ma, ma, ma.... Pur troppo i ma sono parecchi!... Prima di tutto non son profeta, e non potevo certo prevedere che per tre anni consecutivi ci dovesse colpire la grandine!... Non potevo prevedere nemmeno il fallimento della ferriera di Dardanello che ci ha lasciato in asso colla torba e.... E infine, scusi, signora marchesa, non avrei potuto immaginare l'ostinazione del signor marchese nel non voler mai, mai una volta, aprire gli occhi!... Appena mi arrischiavo a toccare il tasto dell'economia, montava subito in furia e, quanto a me, oltre al rispetto e alla soggezione grandissima che ho sempre avuto per il signor marchese, ho una natura, lo confesso, piuttosto timida, e basta una parola per chiudermi la bocca!

Angelica, pallidissima, era atterrita e accasciata.

—Poi—continuò il signor Pompeo dopo un momento di silenzio in cui si era soffiato il naso e asciugato gli occhi—poi il signor marchese, poveretto, si è ammalato e allora lei stessa, marchesa, mi ricordo benissimo, mi ha detto, un giorno, che vagamente ho tentato di condurre il discorso sugli affari, mi ha detto di non infastidire il signor marchese, di non irritarlo a motivo dei suoi nervi....

—Il momento, me ne ricordo, non mi pareva opportuno, e poi anche dal tono del suo discorso, non avrei mai creduto che si potesse arrivare a una simile catastrofe.

—Catastrofe: è proprio la vera parola.

Il signor Pompeo ormai era a cavallo, e trottò via speditamente nella sua esposizione finanziaria, riuscendo nello stesso tempo a convincere Angelica che tutta la colpa di quella gran disgrazia doveva attribuirsi principalmente al signor marchese che non lo avea mai voluto lasciar parlare, e anche un pochino alla signora marchesa che non aveva dato importanza a certe mezze frasi, a certi sospiri pieni di sottintesi del signor Pompeo, che pure avrebbero dovuto essere altrettante rivelazioni. E quando tacque, finalmente, mostrandosi molto commosso e addolorato. Angelica, appoggiata coi gomiti alla scrivania, col capo fra le mani, scoppiò in un pianto dirotto.

—Povero figliuolo mio!... Povero il mio figliuolo!

E nella disgrazia che la colpiva proprio in quel giorno, vedeva adesso la collera, la punizione del cielo; e pur non potendo strapparsi dal cuore l'immagine di Andrea, che anzi fra le lacrime pareva farsi ancora più viva e vicina, sentiva diffondersi nel dolore, nella disperazione sua lo sgomento pauroso del rimorso.

Pompeo la guardava, la guardava fisso, e un bruciore gli saliva sulle gote, alle orecchie, a tutta la testa. La voce di Angelica nel piangere, nel lamentarsi, aveva intonazioni incantevoli. Così, com'era chinata, col capo fra le palme della mano, egli le vedeva la nuca bianchissima trasparire fra i capelli biondi e più giù, sotto la cravatta di trine, dentro l'abito un po' sollevato, il collo morbido che fremeva palpitante per l'urto dei singhiozzi.

Allora Pompeo col respiro grosso, affannoso; cogli occhietti accesi, si curvò per farsi più vicino, e colle dita tremanti osò toccarle un braccio.

—Coraggio.... si faccia coraggio.... signora marchesa....—borbottò con voce rauca.

—Oh per me.... lo avrei il coraggio! Fossi sola mi sentirei forte, sopporterei tutto; ma è il pensiero del mio bambino, del povero bambino mio che mi spezza il cuore!...

Pompeo sollevandosi un po' e tirando forte la poltroncina per la frangia, si fece ancora più vicino e con tutta la mano prese il braccio della marchesa che continuava a piangere e a singhiozzare.

—Io.... io ho avuto sempre molta affezione per.... lei....

—Oh so, so ch'ella è buono!... buono assai!

Pompeo alzò la mano, le sfiorò il braccio dove usciva nudo dalla manica corta, e continuò sempre balbettando, e colla voce sempre più strozzata:—Se.... se volesse ascoltarmi si potrebbe.... sarei disposto a tutto per.... per salvarla....

—Oh signor Pompeo, se ancora è possibile ci salvi, non ci abbandoni, e avrà tutta la gratitudine, la riconoscenza di una madre!—Angelica avea presa una mano del Barbarò, e lo guardava supplichevole premendola sul cuore.

Pompeo non intese bene o intese troppo a modo suo quelle parole che l'estremo della disperazione rendeva così espansive. Rosso in viso, inebriato da quella bellezza ancora più attraente nel disordine del dolore, strinse più forte il braccio di lei, poi, all'improvviso, l'attirò contro il suo petto stringendola forte fra le braccia, e la baciò violentemente sui capelli della nuca, sul collo, mormorando:

—La salverò!... Sarà padrona lei di tutto! come prima....

Angelica, sorpresa, sbigottita ed anche impaurita in sul primo momento, diè solo un urlo che le restò strozzato in gola; ma poi subito, colla forza che le dava il ribrezzo, riuscì divincolandosi a liberarsi e a respingere il Barbarò lontano da sè.

—Fuori!... Fuori!...—pallida, fremente, non poteva dir altro indicandogli l'uscio.

Pompeo, sconcertato e confuso, cercava il suo cappello, che era ruzzolato fino ai piedi di Angelica. Curvo, senza più guardarla, si avvicinò per prenderlo mentre la marchesa scostandosi rabbrividita come alla vista di un rettile, ripetè:

—Fuori!...

—Subito.... subito.... cerco.... prendo il mio cappello....

—Fuori!... Fuori!...

Ma nell'avviarsi il timore istintivo di uno scandalo vinse il turbamento di Pompeo e voltatosi mormorò:—Se parla lei, parlerò anch'io!... Stamattina.... l'ho veduta....

Era tanto il turbamento e lo sdegno di Angelica, ch'essa non badò nemmeno a quella minaccia.

—Fuori!... Fuori!...

Invece, in quei pochi istanti, Pompeo era riuscito a rimettersi.

—Diavolo! non doveva aver paura d'una donna, e il marchese non gli poteva correr dietro in carrozzetta per bastonarlo!—Allora vedendo i denari ancora sulla scrivania li prese, e cacciandoli in tasca disse alla marchesa con voce malferma e senza guardarla in viso, ma pure con un sogghignetto che già gli spuntava sulle labbra:

—Penserà lei a scusarsi col signor marchese per non aver voluto firmare.... Badi, per altro, di non tirarmi in ballo.... in tal caso.... parlerò anch'io!

—Fuori!... Fuori!...—ripetè Angelica che non capiva, non sentiva altro che l'orrore che le ispirava quell'uomo. Il Barbarò uscì, chiuse la porta, ma allora, nell'allontanarsi udì uno scoppio di pianto.

In fretta, e internamente un po' vergognoso ad onta di tutta la sua impudenza, egli andò dritto nel suo studio e vi si richiuse. Poi, per un momento, si fermò in mezzo alla stanza muto, immobile, ancora col cappello in testa, a pensare.... Il tentativo gli era andato maluccio; aveva sbagliato i suoi calcoli.... E si sentiva il petto gonfio, oppresso, e dinanzi a' suoi occhi pareva distendersi un gran buio, un grande squallore.... Ma presto riuscì a vincersi, e alzando le spalle e gettando il cappello sul sofà pensò che stava proprio per commettere una grande minchioneria.

"Quella donna infine, avrebbe imbrogliato i suoi affari! Egli, nientemeno, correva il rischio di rimetterci Villagardiana!"

Allora pensò di scrivere subito al suo avvocato e di non aver più altra mira che l'utile proprio.... Ma coll'utile proprio provvedeva anche alla sua vendetta e per ciò, risoluto a pigliar le cose allegramente, si fregò le mani, e cominciò a fischiettare.

Cavò poi di tasca il portafoglio, lo aprì, prese i due biglietti da mille lire, e mormorò sventolandoli:—Tanti risparmiati!... Tanti risparmiati, signora marchesa!... Con questa roba me la rido delle sue smorfie e posso averne delle donne quante ne voglio!... Ah, Ah!... l'aristocratica disprezza il danaro?... Non vuol capire che il danaro è tutto a questo mondo? Preferisce le parolette dolci? Stupida; me lo saprà dire più tardi!...

A questo punto gli balenò un pensiero che lo tenne nuovamente sospeso:—E se una volta che cominciasse a provare lo strettezze e le privazioni, mutasse parere? Ma non volle abbandonarsi troppo alla speranza, e tornò ad alzare le spalle.—Chè! Chè! Anche lui aveva il suo amor proprio, e non ci sarebbe ricaduto in quelle reti! Stava proprio per commettere uno sproposito grosso!

—Tornate a casa, figliuolini miei, e non vi perdete mai più dietro alle donne!—diceva poi ai due biglietti da mille lire, nell'atto di riporli nello scrigno. —È una cattiva speculazione; perchè le donne costano sempre più di quello che valgono!

E chiuso lo scrigno tornò a fischiettare e a cantarellare:—Tanti risparmiati!... Tanti risparmiati!...

Ma non c'era verso; l'allegrezza non gli voleva scendere in fondo al cuore; anche dopo avere scritto all'avvocato non era contento della sua vendetta e pensava al modo di sciogliere "quella tresca" della marchesa con Andrea Martinengo.

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XI.

Appena Angelica potè reggersi corse subito presso il marito, e febbrilmente, con parole tronche e concitate, gli raccontò quanto le era accaduto.

—Mascalzone!... Brigante!... Lo caccerò via a calci, come un cane!—esclamò il marchese, dimenticando, nel suo furore, che i piedi e le gambe non gli servivano più nemmeno per camminare.—Quanto a Villagardiana, prima che se ne impadronisca l'avrà da far con me;.... farabutto! Non sono una donna io, e non mi lascio intimorire. Chiamerò il nostro avvocato; e colui gli dovrà mostrare tutti i libri dell'amministrazione; gli farò causa, proverò che è un ladro e lo farò mettere in prigione!

—Ha in mano per più di sessantamila lire di cambiali: non c'è altro da fare che pagarlo!—rispose brevemente la marchesa, la quale vedendo come il marito continuasse nel solito metodo di pascersi d'illusioni per risparmiarsi fastidi, credeva ormai necessario di venire alle strette.—Non c'è altro da fare che pagar tutti i nostri debiti, o non rimanere un minuto di più a Villagardiana....

—Ma prima voglio vedere i conti....

—Villagardiana, se non si paga, è roba sua! Pensa se possiamo rimaner qui un minuto di più!

—Ti ha mancato di rispetto per altro!... Ha tentato di baciarti....

—Sì, ma io l'ho respinto: l'ho scacciato!...—mormorò la marchesa, che dinanzi al pudore non voleva più nemmeno ammettere di essere stata toccata.

—Prima di tutto mi dovrà rendere ragione!

—No; prima di tutto bisogna pagarlo!

—E tu credi a ciò che t'ha detto quel tartufo col proposito di spaventarti?... Non capisci che sperava approfittare della mia infermità, e della tua ignoranza?—E il marchese smaniava gridando che voleva tirare una revolverata al Barbarò. Ma poi, vedendo che non riusciva a commuovere la moglie, la quale rimaneva fredda a quelle smargiassate, cominciò a sgomentarsi anch'esso, e calmandosi a un tratto le domandò con un altro tono di voce:

—Dunque.... dunque non c'è scampo?... Siamo rovinati?

Angelica rispose appena con un cenno del capo; ma tanto eloquente per il marchese da spingerlo alla disperazione.

—Ah mio Dio! mio Dio!—esclamò gemendo e dimenandosi sulla poltrona dov'era sdraiato.—La rovina; la miseria!—e si rivoltò furioso contro Angelica rimproverandola perchè non sentiva pietà del suo stato. Se avesse avuto solo un po' di cuore, avrebbe cercato ogni via per nascondergli una così terribile disgrazia!... Per lasciarlo morire in pace! Ma poi pensando che non gli rimaneva più altro da sperare che in sua moglie, e nella subitanea esaltazione avendo paura di essere abbandonato, scoppiò in un dirotto pianto e le domandò perdono come un bambino, dicendole che era il male, il gran male che si sentiva addosso, che lo rendeva nervoso e irascibile.

—Dove andremo, mio Dio?... Dove mi condurrai?...—Sbigottito le prese le mani; e ricordando le parole di Angelica, gli parve di trovar ancora un filo di speranza, e le domandò con grande ansietà:

—Hai detto che bisogna pagare tutti i nostri debiti.... Dunque credi che, forse, si potrebbe ancora trovar il modo di.... di.... farlo?

Angelica rimase muta, pensosa.

—Cerchi un qualche ripiego?... Pensaci! Pensaci!... Hai tanto ingegno, tanto criterio!... Anche il signor Bernardi, il nostro ragioniere di una volta (quello sì che era proprio un galantuomo!) anche lui aveva molta stima di te!... Dimmi, ordina che cosa devo fare, e io ti obbedirò ciecamente!

Angelica, dopo alcuni istanti di silenzio, un po' titubante e scotendo il capo come per mostrare che, sebbene tenuissima, quella sua speranza era pur la sola che ancora restasse, disse a mezza voce:

—Non ci sarebbe altri che lo zio Diego.... Se ci volesse aiutare!...

—Oh Dio! Dio mio!—esclamò il marchese Alberto stirandosi dolorosamente.

—Pure.... ci vuole molto bene....

—Lo zio Diego vuol molto bene a tutti, quando non c'è da scomodarsi!

Angelica, quantunque non volesse abbandonarsi a troppe illusioni, tuttavia pensò e fece osservare al marito che alla fin fine non avevano alcun motivo per credere che lo zio fosse proprio senza cuore. Anche nell'occasione di quella malattia d'Alberto, egli aveva scritto per aver notizie. Non tralasciava mai di mandare un bellissimo mazzo di fiori il giorno onomastico di Angelica e un telegramma per la festa di Alberto, e diceva a tutti che Stefanuccio sarebbe stato il suo erede, il successore. Di più, lo zio Diego aveva molto a cuore il lustro della famiglia, ed anche per ciò, forse, si sarebbe lasciato indurre a fare qualche sacrificio.

—E poi—soggiunse Angelica—non avrebbe potuto pagare tutti i debiti che gravavano Villagardiana entrando, senz'altro, in possesso del fondo?... Così forse, almeno, non sarebbe perduto per Stefanuccio!...

—Sicuro; e anch'io, non è vero? ci potrei rimanere questi pochi giorni che mi restano da vivere!...

Il marchese non sperava nulla dallo zio Diego, pure fingeva di lasciarsi persuadere dalle ragioni di Angelica, per guadagnare almeno un po' di tempo.

—Bisognerebbe scrivere allo zio.... che uno di questi giorni, con suo comodo, desidererei vederlo.... a Villagardiana.

—No, no; non c'è tempo da perdere!—rispose Angelica vivamente.—Domattina colla prima corsa andrò io a Milano, e gli parlerò!

Questa proposta e la fretta di Angelica tornò a far andar in bestia il marito.

"Lei già quando si era messa in testa una cosa non c'era più bene; non voleva capire che negli affari bisogna riflettere assai, prima di muovere il primo passo!"

Ma la marchesa questa volta lo lasciò brontolare e gridare a sua posta, senza cedere d'un punto: essa gli dichiarò esplicitamente, che non dovevano aspettare un giorno di più a mettere ben in chiaro il loro stato.

—Se lo zio non ci potrà aiutare—concluse con fermezza—è per altro l'unico nostro parente e siamo in dovere, anche per non pregiudicare l'avvenire di Stefanuccio, di metterlo a parte di questo nostro disastro e domandargli un consiglio....

—Che consiglio ti vuoi aspettare da lui?!... Non è uomo da consigli lo zio Diego! Finchè tu gli parlerai delle nostre disgrazie quel vecchio ganimede non penserà ad altro che a farti la corte!—E vedendo che Angelica rimaneva ferma nel suo proposito e che voleva partire ad ogni costo, tornò da capo colla gelosia. Non voleva che la marchesa andasse a Milano sola; voleva che prendesse con sè Stefanuccio, o che si facesse accompagnare dalla Mary, o da Donna Lucrezia. Ma Angelica continuò a mostrare in questa circostanza un'energia tutta nuova, che fece colpo sul marchese. Essa gli rispose che non voleva prender con sè Stefanuccio perchè sarebbe partita troppo presto;—di mattina, all'alba, per poter essere di ritorno ancora in giornata, colla corsa delle quattro;—e voleva che la Mary rimanesse a Villagardiana per assisterlo durante la sua assenza. Donna Lucrezia era indisposta, poi nel viaggio sarebbe stata un impiccio.

Alberto a quelle risposte così risolute, e con in cuore la paura di essere rovinato, rimase confuso e quasi intimidito. Tornò a rassegnarsi, a soffocare la gelosia, a mostrarsi docile colla moglie, pregandola soltanto di non mancare alle sue promesse e di essere proprio di ritorno subito subito. Egli l'avrebbe aspettata coll'angoscia in cuore; non poteva vedersi solo, così smarrito ed oppresso, sotto l'incubo di quella catastrofe.

Alla fine, pensando come Angelica mostrasse tanta sicurezza per il convincimento di poter ottenere un buon esito dal viaggio, si abbandonò a un tratto alla speranza che prima gli era sembrata assurda, e tutto rabbonito le raccomandò più volte di dire e di ripetere allo zio Diego che "se non faceva in modo che rimanesse a Villagardiana, sarebbe morto subito di nostalgia!..."

Angelica aveva la febbre. A volte le pareva impossibile che lo zio, così orgoglioso del nome comune, non li volesse aiutare. A volte invece perdeva tutta la fede, tutto il coraggio, e vedeva distrutto per sempre l'avvenire del suo figliuolo. Ma pure in mezzo a tanta agitazione c'era un punto fisso attorno al quale correvano tutti i suoi pensieri e tutti i suoi dolori: Andrea!... L'atto villano del Barbarò le rendeva ancora più caro il segreto del suo cuore, e più strettamente la legava ad Andrea. E quando la mattina dopo, sola sola nel suo coupé, passava da Brescia, spinse il capo fuori dal finestrino e guardò con tenerezza tutta quella città addormentata e avvolta dalla luce pallida e vaporosa dell'alba.

"Che cosa faceva Andrea in quel momento? Forse dormiva ancora mentre lei gli passava tanto vicina!... Come avrebbe voluto essere invisibile per un momento.... e poter entrare inosservata nella cameretta di Andrea....—Doveva essere tanto gentile e di buon gusto quella cameretta!... E allora pensò che gli avrebbe scritto pregandolo di dirle un po' com'era messo il suo quartierino.... Voleva sapere almeno il colore delle stoffe e degli addobbi e lo stile dei mobili.... Voleva potersi figurare tutti gli oggetti che lo circondavano e che gli erano cari.... Insomma voleva colla sua mente poterlo vedere dov'era! "

Angelica arrivò a Milano che lo zio Diego era andato a letto appena da poche ore. Il marchese non aveva mai perduto il suo tempo a fare qualche cosa, e pure, alzandosi, come usava, quasi all'ora di pranzo e andando a dormire dopo l'alba, si lamentava con tutti che le giornate erano troppo corte, e al Caffè Cova, e al club, e ad ogni suo ritrovo giungeva sempre affannato e in grande tardanza. Intanto la sua toilette richiedeva molte cure e non si poteva dire fossero spese male, perchè il marchese Diego, alto della persona, magro, pallido, d'un biondo che invece d'incanutire era diventato verdognolo, riusciva ancora, veduto un po' da lontano, o in mezza luce, a sembrare quasi un giovanotto, quantunque si avvicinasse molto alla sessantina.

Angelica, dopo essergli stata annunziata, dovette aspettare assai nel salottino dello zio, prima di potergli parlare; e più volte si era presentato il cameriere per dire alla signora marchesa, con una solennità cerimoniosa, e sempre colle stesse parole e col medesimo inchino, "che il signor marchese si scusava di doverla far aspettare ancora un dieci minuti" e per domandarle se intanto abbisognasse di qualche cosa.

—No, grazie. Dite al signor marchese che faccia pure tutto il suo comodo; che non ho alcuna fretta,—rispondeva Angelica invariabilmente.

Adesso avrebbe quasi desiderato che lo zio non terminasse mai di vestirsi; e quando sentiva camminare nelle camere vicine e poi invece del marchese Diego vedeva comparire il servitore, provava in sull'attimo come un senso di sollievo.

Sola e raccolta nel cantuccio del canapè, non alzava mai gli occhi dal suo ventaglio, che continuava ad aprire e a chiudere con le dita convulse tenendovi gli occhi fissi senza guardare; e in quel punto si sentiva tanto agitata che non poteva più nemmeno pensare a ciò che avrebbe dovuto dire per commuovere lo zio.

Il salottino, che sembrava quello di una signora, o meglio di una cocotte, tanto era frivolo e mondano, tutto pieno di ninnoletti eleganti e inconcludenti, di nudità non sempre artistiche e di ritratti e di ricordi femminili messi in mostra con ridicola ostentazione, come avrebbe fatto un fantino coi premi delle corse, non aveva mai attirata la curiosità di Angelica in tutto quel tempo ch'era rimasta sola ad aspettare.

Essa non osservava, non vedeva nulla, e il cuore le batteva sempre con maggior violenza; e quando dallo scricchiolare delle scarpe indovinò che quella volta non era il cameriere, ma proprio il marchese Diego che stava per venire, fu presa da un subitaneo sconforto, da un avvilimento strano.

L'accoglienza dello zio Diego fu affettuosissima. Egli non finiva mai di scusarsi per averla fatta aspettare e mentre "valendosi dei suoi diritti" le baciava galantemente la mano, metteva immediatamente a disposizione dell'adorabile nipotina la propria casa, la propria persona ed anche il proprio cuore, "pur troppo sempre giovane, anche fra le brine e fra le nevi della cadente età!"

Ma nemmeno le cerimonie nè la parlantina espansiva del marchese ebbero virtù di rinfrancarla; e quando, in fine, dovette palesare il motivo di quel suo viaggio. Angelica si sentiva debole, confusa e non sapeva più trovare nè l'energia che fino allora l'aveva sorretta, nè gli argomenti che prima le sembravano i più efficaci. Tuttavia, un po' balbettando, un po' singhiozzando, riuscì a mettere a parte lo zio della trista condizione in cui si trovavano; e gli riferì sinceramente il colloquio avuto col Barbarò, tacendo solo dell'offesa che avea patita e che non si sarebbe degnata di ripetere.

Il marchese intanto continuava a sorridere mostrando i bei denti finti e guardando Angelica cogli occhi languidi, mentre le accarezzava una mano affettuosamente; poi,—cara mia,—le rispose, sempre colla più squisita affabilità,—tu sai bene che io non sono molto ricco; ho appena lo stretto necessario per i bisogni miei, e se dovessi pagare i debiti di tuo marito, allora capirai, bella nipotina, invece di uno, si sarebbe in due a non averne più abbastanza!

Che cosa si poteva rispondere ad una logica tanto stringente nella sua forma più amabile? Nulla; e così fece la povera Angelica. Essa chinò il capo e nascose la faccia contro il cuscino del canapè balbettando, fra i singhiozzi:—povero figliuolo mio!... povero il mio figliuolo!

Il marchese Diego la rimproverò allora dolcemente perchè si crucciava in quel modo, a rischio d'ammalarsi, e la fece star ritta col capo, perchè non le venisse l'emicrania.

—Coraggio, nipotina mia! non piangere così! Non voglio vederli colle lacrime que' tuoi occhioni belli! Pensa, cara, pensa che tutte le disgrazie di questo mondo (pur troppo parlo per esperienza) ho veduto che hanno sempre due facce come il Giano Bifronte. Bisogna dunque, se ce ne capita una, guardarla subito dalla parte buona.... e se ciò non è possibile, aspettare che si volti! Intanto ecco, per esempio, un primo conforto: il nostro nome, che giustamente ti sta molto a cuore, come a me del resto, perchè se fosse in ballo l'onore del nome ti prego credere che, occorrendo, venderei anche i cavalli, il nome dunque rimane puro da ogni macchia. Non avete da pagarlo fino all'ultimo soldo quel.... quel Barbò.... quel Barabò.... insomma quel vostro imbroglione?

—Sì.... ma.... il decoro....

—Il decoro, sta bene, ma per mantenersi con decoro non è necessario rimanere a Villagardiana, come vorrebbe farti credere tuo marito. In quanto poi all'avvenire di Stefanuccio.... Ma non ti ho domandato ancora se preferisci far colazione subito, o aspettare sino alle dodici, che dev'essere, mi pare, la tua ora solita?

Angelica rispose ch'era indifferente, che non aveva proprio bisogno di nulla, e allora il marchese suonò e ordinò al cameriere che la colazione fosse pronta per il mezzogiorno. Poi continuò a parlare girando per il salottino e prendendo qua e là dai vari vasetti alcuni fiori coi quali cominciò a fare un mazzolino per l'Angelica.

—Dicevo dunque che all'avvenire di Stefanuccio ci penserò io. Stefanuccio sarà.... il più tardi possibile, speriamo, sarà il mio erede e.... Sicuro, nipotina mia, tu che hai tanto criterio, troverai prudente che anche per questo riflesso io non debba intaccare il mio patrimonio.—Così dicendo lo zio Diego aveva unita una rosa con un ramettino di vaniglia e la mostrava all'Angelica.

—Guarda che bella rosa!

—Bellissima!—rispose la marchesa col viso ancora stravolto e pensando a tutt'altro.

—È del giardino della Ninì Airaldi. Sai, la Ninì non è più bruna; è ritornata da Parigi coi capelli chiari, quasi biondi, e ha finito tutto col Manolo Visconti. Adesso, chi le fa la corte è il Gigino d'Atri, e siccome tutti e due sono ufficiali di cavalleria, così a Milano la chiamano la bella saura!

Angelica sorrise perchè lo zio rideva, ma senza badare a ciò che aveva detto.

—Dimmi un po',—ripigliò il marchese dopo un momento, staccando alcune foglioline da un ramoscello di giranio,—e la tua dote?... la dote è inalienabile.

—Il babbo mi ha assegnato poco di dote: avrò tre.... quattromila lire all'anno.

—Male, malissimo.... Mah!—e lo zio Diego sospirò, tagliando con una piccola forbice i gambi del mazzolino—quel tuo genitore è sempre stato un famoso egoista!... Per altro di tutta la sostanza Castelnuovo dovrà rimanerti ancora qualche cosa?

—Sì.... quaranta.... cinquantamila lire....

—Ahi! Ahi!... Poco più di quanto spendevate in un anno?

—Sicuro....

Il marchese tornò a sospirare e offrì il mazzolino alla nipote che lo infilò nell'abito, mormorando a capo chino e con la voce spezzata di chi non spera più nulla:—Dunque.... devo proprio ritornare a Villagardiana senza.... senza nemmeno una parola per.... per confortare Alberto?...

—La parola, bella nipotina, che devi dire da parte mia a quel tirannello balordo di tuo marito è una sola: Asino!... e ti prego di non dimenticarla: Asino, Asino e caparbio!—soggiunse il marchese, senza riscaldarsi, colla solita flemma, sorridendo sempre, mentre tornava a sedere sul canapè, vicino all'Angelica.

Ci fu un momento di silenzio: lo zio Diego prese ancora una mano alla marchesa, l'accarezzò ninnolandosi co' suoi ditini affusolati, e la baciò.

—Allora senti, figliuola mia, che cosa si potrebbe combinare: io sarei disposto ad assumere.... l'educazione di Stefanuccio.... Quanti anni ha il nostro caro bambino?

—Sette anni.... a momenti....

—Sette anni?!—esclamò il marchese maravigliato....—Come vola il tempo, Dio buono!... Sette anni!... Hai già un figlio di sette anni?... A vederti, nessuno lo direbbe. Sembri ancora una ragazza; uno splendore di ragazza!... Dunque.... sicuro; dicevamo che fra un anno o due, si potrebbe mettere Stefanuccio in un collegio... Nel collegio militare, per esempio. La carriera militare è ancora la più conveniente al suo nome e al suo stato; ed io m'incaricherò di tutto.

—E.... adesso?—balbettò Angelica guardando ansiosamente lo zio.

—Adesso potreste andar al mare tutti insieme, per un po' di tempo. L'aria marina, chi sa, farebbe bene anche a tuo marito....

—E.... e poi?

—E poi, dopo, se ti piace, potrei mettere a vostra disposizione la mia villetta di Gallarate. Intanto cercate di andare avanti col piccolo capitale che vi rimane, facendo, s'intende, le maggiori economie.... quando poi non ce ne sarà più.... ne riparleremo.... Ma bada, figliuola mia, che, assolutamente, devi prender tu le redini della casa. Tuo marito non ha testa: hai veduto; s'è messo nelle mani d'un usuraio, d'un birbaccione che lo ha rovinato. Sai, sul conto di quel vostro Barbò.... Barabò.... Barabao.... non ricordo mai come si chiama, se ne dicono di tutti i colori. Alcuni pretendono, figurati, che abbia fatto anche la spia: queste, magari, saranno esagerazioni; ma è certo uno strozzino di prima forza; e se devo parlarti proprio chiaramente, io non venivo nemmeno più a Villagardiana per non trovarmi con.... con una canaglia come quella.

Poco dopo l'orologio del salottino suonò le dodici e comparve sull'uscio il cameriere, che dopo fatto il solito inchino, sollevò la portiera:

—Oh, senti?...—esclamò allegramente il marchese.—Suona mezzogiorno! Andiamo dunque a far colazione e bando alle malinconie!

Così dicendo offrì il braccio colla solita galanteria all'Angelica, e passarono insieme nella sala da pranzo: di affari non se ne parlò più.

Durante la colazione lo zio Diego, mentre mangiava con buonissimo appetito, riferì alla nipote che, pallida, cogli occhi rossi e col petto gonfio pur qualche volta si sforzava di sorridere, tutti i pettegolezzi del bel mondo milanese; discorrendo di mode, di cavalli, di spettacoli, proprio come se Angelica avesse fatto quel viaggio per suo divertimento. Poi fece attaccare il landò scoperto per accompagnarla in pompa magna alla stazione e volle fermarsi a tutti i costi dal Cova, col rischio di farle perdere la corsa, dove prese una bellissima scatola di dolci da "portare a Stefanuccio con tanti bacini dello zio di Milano."

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XII.

Quando Angelica ritornò a Villagardiana colla scatola di dolci e la risposta dello zio, Alberto, come al solito, si sfogò prendendosela con lei. "Era stata sempre una visionaria.... Non sapeva far altro che sciocchezze!... Non glielo aveva cantato cento volte che a voler sperare nello zio Diego era tempo perso? Ma lei no; era dura di bocca, non si poteva domare, e mentre la casa era sossopra lei pigliava una scusa qualunque per andar a viaggiare e a divertirsi!..." E vedendo che Angelica, senza rispondergli, cominciava a ordinare e a disporre i preparativi per la partenza di tutta la famiglia da Villagardiana, egli strillò ancora più forte e infuriato le tirò contro i cuscini della carrozzetta, il tappeto del tavolo, tutto quanto aveva sotto mano. "Era lui solo, che aveva il diritto di comandare! Non era in quel modo che si dovevano trattar gli affari! Voleva vedere i conti! Voleva parlare coll'avvocato!... Voleva restare a casa sua!"

La marchesa lo lasciò dire e fare, ma si mantenne inflessibile. Essa aveva già telegrafato a Brescia al loro avvocato perchè venisse subito a Villagardiana e avrebbero avuto tutto un giorno, e anche due, e anche tre, occorrendo, per potersi intender bene con lui. L'avvocato, ch'era pure un vecchio amico della famiglia, doveva poi sovvenire una piccola somma in acconto dell'attivo che sarebbe loro rimasto, per far fronte alle prime spese dello sgombero e del viaggio.... Ma si doveva partire assolutamente. "Per quanto il.... quell'uomo avesse esagerato, era certo, tuttavia, che Villagardiana non la potevano più tenere; dunque.... si doveva partire al più presto possibile!..."

Questa fermezza che al marchese Alberto pareva irragionevole e crudele, quanto costava al povero cuore di Angelica! Il dover abbandonare—e abbandonare per sempre—Villagardiana, la sua casa, dove aveva tutte le memorie soavi e dolorose della vita; dove era morta la sua mamma, dove era nato il suo bambino, dove incominciavano i primi ricordi dell'infanzia e dove.... dove c'era anche l'ultimo ricordo, quello che allontanandosi a mano a mano nel tempo, invece di dileguarsi si faceva più vivo.... dove c'era la loro stradetta tutta verde e fiorita dinanzi al bel lago azzurro.... Oh! il dover abbandonare Villagardiana era per il povero cuore di Angelica uno strazio senza nome!

Essa aveva molto sofferto, aveva molto pianto in quella casa; e il luogo che ha veduto le nostre lacrime, che ha udito i nostri singhiozzi, ci è caro come una parte di noi, ci è sacro come il santuario dell'anima nostra! E Angelica doveva abbandonarlo nelle mani del Barbarò il santuario dell'anima sua!... A questo pensiero la poveretta sentiva ancora il bruciore dei baci che la facevano rabbrividire. Essa, così gelosa, per un intimo senso di verecondia e di dignità, di tutto ciò che la circondava e che le apparteneva strettamente, vedeva il signor Pompeo passeggiare da padrone fin nella camera sua! Lo vedeva frugare con una curiosità villana in quel piccolo mondo così pieno della sua vita e della sua tenerezza; lo vedeva mutare, buttar tutto sossopra, e le pareva che le cose più care dovessero essere sensibili a quella profanazione e le guardava lungamente, intenerita e addolorata. Certo, avrebbe raccolto e portato via tutto ciò che la toccava più da vicino.... ma pure, quanta parte di sè sarebbe rimasta in quelle mani. "E il Barbarò" pensava "l'uomo abietto e maligno, l'aveva veduta con Andrea; possedeva il suo segreto!... E se per vendicarsi lo svelasse a.... a qualcuno?... Facesse pure; le azioni di quel malvagio non la toccavano."

Angelica non lo temeva; fra tanti dolori, fra tante angosce ci pensava soltanto adesso, per la prima volta, alle minacce di quell'uomo; ma non voleva curarsi di lui anche sapendo che le poteva far molto male. Non era un uomo; era un rettile schifoso. Poteva morderla perchè essa non era forte abbastanza per ischiacciarlo; ma pure non ci voleva pensare; non voleva nemmeno pregar Dio che la salvasse da lui; aborriva persino di mescolare l'immagine di quell'essere odioso alle sue orazioni.

E più della paura di Pompeo la tormentava il dubbio, che di tanto in tanto le si affacciava alla mente, di poter essere stata tradita da Donna Lucrezia. Ma era un dubbio tanto orribile e le faceva apparire il mondo tutto così tristo che lo ricacciava subito spaventata. No, no; essa voleva conservare la sua fede, le sue illusioni a costo anche di essere ancora tradita!... Fra tutti coloro che la circondavano non ci doveva essere stato altri di tristo che il Barbarò. Pure, da quel giorno funesto, non avea più riveduta Donna Lucrezia, che era stata prima a letto col dolor di denti poi, mentre Angelica aveva fatto la sua corsa a Milano per parlare collo zio Diego, in fretta e in furia era partita anch'essa con un'altra corsa, dicendo a tutti che avea ricevuta una lettera in cui l'avvertivano che la Filomena era ammalata. "Figurarsi! L'appartamento era tutto aperto; le chiavi del guardaroba e dell'argenteria erano in mano della portinaia; una pettegola smorfiosa che avrebbe approfittato dell'occasione per ficcare il naso da per tutto!" Era partita sola, affannata, senza la Mary e promettendo al marchese che sarebbe ritornata "quanto prima."

—Ebbene—pensò Angelica fra sè, per un momento, dopo che Alberto le ebbe riferito ciò che la Balladoro gli aveva detto nel salutarlo—ebbene, passando da Milano condurrò io in persona la Mary da Donna Lucrezia, e vedrò dal suo viso se proprio è stata lei che m'ha tradita!

Ma in breve tornò a pentirsi e a provare rimorso de' suoi sospetti. "Non doveva supporre la Balladoro così abietta; non ne aveva diritto!... E poi, se proprio avesse pensato di tradirla, non poteva approfittare della lettera, fingendo che l'una o l'altra si fosse smarrita?... Invece gliele aveva consegnate tutte puntualmente! E, in fine, a che pro doveva tradirla? Perchè?... Essa non aveva fatto altro che del bene a Donna Lucrezia.... No, no! Era ingiusta coi suoi sospetti! E questa persuasione alleggeriva di un gran peso l'animo fiducioso di Angelica, e subito pensava che cosa avrebbe potuto fare per Donna Lucrezia, volendo quasi compensarla dell'ingiusto suo dubbio."

—Intanto, per altro, e senza perder tempo—continuava a riflettere Angelica—avrebbe dovuto avvertire Andrea che non le mandasse più le lettere a Padenghe, e che prima di scriverle ancora, aspettasse le notizie e le istruzioni ch'essa avrebbe trovata la via di fargli giungere appena potesse.... Dio, Dio! quanti avvenimenti, quante disgrazie erano accadute proprio in quel giorno.... il primo, il solo in cui si erano riveduti!... Come già aveva dovuto scontarlo quel barlume di felicità.... E se tutto ciò non fosse altro che un avvertimento divino?... Se fosse la punizione della sua colpa?

Angelica, a tale idea, rimase un po' scossa e impaurita, ma poi stringendosi nelle spalle, alzò rassegnata al cielo i suoi occhioni dolcissimi, in cui fra la mestizia scintillava un raggio d'amore.

"Ormai aveva promesso: sempre.... sempre, a qualunque costo!"

E così, ripensando ai giuramenti fatti e ricevuti, e alle appassionate parole di Andrea, Angelica, dimentica d'ogni altra cosa, cedette all'imagine che l'attraeva e alla seduzione che le penetrava nello spirito e nel sangue con un languore invincibile. Vedeva ancora gli occhi innamorati che la fissavano sfavillanti di tenerezza, e le pareva di essere avvolta dalla loro luce, di essere riscaldata dal loro calore, mentre la cara voce, morbida e insinuante, rendeva più forte quel fascino, rendeva più soave quell'estasi. Allora, per un momento, sentì come diffondersi intorno l'infinita serenità di quella tepida mattina così piena di sole e d'amore; sentì inondarsi l'anima della grande felicità che le era apparsa in un sogno incantevole; e come i neri fantasmi della notte si dileguano al sorgere lieto dell'aurora, così tutti i suoi dolori, tutti i suoi timori si acquetavano, si allontanavano e svanivano a poco a poco....

Ma il mondo, che Angelica voleva dimenticare, si ricordava invece sempre di lei; e il giorno stesso in cui i Collalto dovevano partire da Villagardiana capitò una lettera anonima al marchese Alberto, colla quale si avvertiva che sua moglie " aveva una tresca con un capitano d'artiglieria, che veniva apposta da Brescia per trovarsi con lei nei boschetti solitari o nei casolari abbandonati. "

—Buffone!—mormorò il marchese che indovinò subito da chi gli doveva arrivare quella lettera.—Buffone!... non le sa nemmen fare le bricconate!

E il brutto tiro del signor Pompeo, perchè era proprio stato lui a fare scrivere l'anonima da uno scritturale dell'Agenzia Micotti, ottenne tutt'altro effetto da quello sperato.

La gelosia del marchese, sempre pronta ai sospetti più strani e assurdi, rimase invece indifferente, per una contradizione naturale al suo spirito debole e sconvolto, di fronte a quell'accusa troppo specificata, e il suo cuore, come se si destasse allora dopo un lungo sopore, provò, insieme a un impeto d'ira contro la calunnia ignominiosa, anche un senso di compassione per la sua povera moglie, tanto buona e tanto infelice.

—Povera donna!—e per un attimo gli si affacciò alla mente, come rischiarata, la figura di Angelica, bella e soave nella sua compostezza tranquilla; sempre così sicura di sè, così infaticabile e paziente e sempre piena di cure amorose.—Povera donna!... E mentre, sdegnato, s'infuriava contro la delazione falsa e iniqua, e contro l'enorme ingiustizia, sentiva pure, per naturale conseguenza, quanto lui stesso, e ben sovente, fosse stato ingiusto e inumano con lei, e se ne pentiva. Quelle parole " aveva una tresca " erano poi tanto volgari nella loro perfidia, che non avrebbero potuto mai, in nessun modo, suscitare la sua gelosia per quanto credula; ma soltanto offenderlo gravemente, per la grave offesa fatta a sua moglie.

—Anche questa lettera anonima è da mettere in conto per quando avrò le gambe buone!—mormorò cercando di calmarsi e immaginò che "quel turpe uomo del sor Pompeo" avendolo sentito spesso fare sfuriate di gelosia contro Angelica, e non accorgendosi che erano soltanto i nervi che lo facevano strillare, aveva pensato quel tiro vigliacco e birbone per vendicarsi di lei e della buona lezione che gli aveva data.

—E mi crede poi tanto cretino da lasciarmi infinocchiare così goffamente!—E il marchese si adirava contro "il sor Pompeo" anche perchè questi pareva lo stimasse un gonzo, un balordo; e così un senso d'amor proprio lo spingeva vie più ad essere e a mostrarsi indifferente per quella letteraccia.

Un capitano d'artiglieria! —borbottava mettendosi quasi di buon umore.—Come mai quel villan rifatto è andato a pescare un capitano d'artiglieria? Mia moglie non ne conosce neppur uno!... E poi, essa non vede mai anima viva; e poi sono proprio io quel certo tomo che le lascia il tempo di smarrirsi nei boschetti solitari, o nei casolari disabitati!... Un capitano d'artiglieria che viene apposta da Brescia!... E non sa, il gaglioffo, che Angelica ha fatto foco e fiamme per partir subito da Villagardiana, e andare il più lontano possibile!... Povera Angelica.... È proprio disgraziata!... Ma non deve saper nulla di questa lettera.... le farebbe troppo male. In questo momento poi, ha già tanti dolori, tante amarezze.... Povera Angelica!—e il marchese Alberto abbruciò la lettera senza parlarne mai con nessuno, e quando la moglie entrò in camera le disse, per la prima volta, alcune parole buone di conforto, stringendole la mano con gentile premura.

Quanto poi al viaggio che dovevano fare, il marchese Alberto aveva finito coll'esserne contentissimo. Il medico, per compiacere alla marchesa, gli aveva assicurato che l'aria marina lo avrebbe rimesso in salute e perciò, dopo aver tanto gridato e smaniato, adesso che tutti erano in lacrime per il dolore di quella partenza (compreso Stefanuccio stizzito contro la mamma, che non voleva prendere col bagaglio anche la mucca bianca del fattore) egli solo rideva e scherzava nella sua carrozzetta; e se qualche volta brontolava, era per dire che appena avesse riacquistato le gambe, sarebbe ritornato sul lago per aggiustare certi conti nei quali l'avvocato non ci aveva da entrare.

Il signor Pompeo, frattanto, nascosto dietro le persiane socchiuse di una stanza del suo quartierino, stava quasi tutto il giorno attento e ansioso a spiare i preparativi di quella partenza, e pensava all'effetto che avrebbe dovuto produrre la lettera anonima. Si rodeva di non poterne saper nulla di preciso; ma la Balladoro, "maledetta lei!" era proprio partita in que' giorni. Se fosse stata ancora a Villagardiana egli l'avrebbe istruita opportunamente, sicchè gli avrebbe potuto riferire tutte le scene che immaginava dovessero accadere fra marito e moglie. Tuttavia era sicuro di essersi vendicato bene.—Il Collalto—pensava—è geloso come una bestia, e se anche colle smorfie e i piagnistei quella fintaccia riuscirà per il momento a dargliela a bere, egli d'ora in poi starà in guardia, e madama farà presto la frittata!

—Ah, ah!... e non è tutto, cara!—borbottava fra sè, arrabbiandosi sempre più, ogni volta che vedeva Angelica uscir nel cortile per dare qualche ordine alla gente che caricava la roba.—Tu speri di sfuggirmi di mano?... T'inganni, bella mia; le mani del signor Pompeo hanno le unghie lunghe, e ti acchiapperò sempre anche se scappi in capo al mondo. Non sono contento finchè non avrò mortificata la tua superbia; finchè non ti vedrò lì, prostrata a' miei piedi, a gemere e a raccomandarti!... Buon viaggio; buon viaggio, madama!... Ma ci rivedremo ancora, sai?!... Oh, se ci rivedremo!

Tuttavia, quantunque il signor Barbarò cercasse di sfogarsi col pensiero della vendetta, que' bauli, quelle casse che vedeva ammontare sopra il carro gli mettevano addosso, in mezzo a tutto il suo gran furore, anche un senso di pena.

"Partiva.... non voleva proprio saperne di lui!... Lo aveva respinto, scacciato!... Partiva fiera, sicura, inflessibile; senza esitare, senza dire una parola, senza umiliarsi.... Anzi, pareva più superba!... Come doveva amarlo quello spiantato per sacrificargli tutta la sua vita! E come l'amore in quella donna, sotto quella corteccia fredda, impassibile, doveva essere strano, appassionato, ardente!..." e il Barbarò ricordava e ripeteva fra sè le parole dette dalla marchesa al Martinengo: Morirei!... Morirei!... "Chi sa? La matta, sarebbe forse capace di morir per davvero!... E Villagardiana?..." Figurandosela vuota come doveva restare dopo la partenza della marchesa, Villagardiana gli sembrava meno bella e meno ridente. Ma lui, non avendo più impicci, avrebbe disfatto mezzo il giardino per coltivarlo a viti, chè voleva gli fruttasse anche quello. E intanto si era fermato sopra pensiero a rodersi le unghie, quando fu scosso da un rumore di passi e dalla voce di Giulio che entrava nella stanza.

—Che vuoi?—domandò Pompeo al figliuolo, con un fare molto seccato, e senza muoversi dalla finestra.

—Volevo.... volevo parlarti....

—Chè! Adesso non è il momento; non ne ho voglia. Parlerai stasera, a tavola!

—Scusa, babbo, ma.... occorrerebbe proprio che ti parlassi ora, subito....

Sebbene la risposta fosse data colla solita timidezza rispettosa e quasi paurosa, l'ardire stesso di quell'insistenza fece colpo sul Barbarò che scostandosi dalla finestra e fissando Giulio maravigliato, gli si avvicinò domandandogli piano:

—Che c'è?

Giulio, cogli occhi bassi, un po' tremante e tossendo prima per schiarirsi la voce che non gli voleva uscire dalla strozza, balbettò in fretta, quasi col timore che l'altro lo fermasse a mezzo:

—Volevo dirti se non sarebbe il caso, visto che i Collalto sono anche parenti della signorina Mary, di cercare di.... di aiutarli.

—Aiutarli?—domandò il signor Pompeo sgranando gli occhietti.—Aiutarli?... In che modo?

—Io e la signorina Mary,—rispose Giulio parlando ancora più in fretta e colla voce sempre più soffocata,—siamo disposti a tutti i sacrifici possibili per aiutare la marchesa Angelica, e occorrendo, pur di raggiungere questo fine, ti abiliterei anche a... a impiegare la mia parte del.... la mia parte di....

—La tua parte?—interruppe ancora il Barbarò che non capiva, o voleva fingere di non capire.

—La mia parte di.... del patrimonio che mi hai fissa.... che vorrai assegnarmi.—Il povero ragazzo non aveva più fiato.

—Benissimo!... Si comincia a fare i conti a babbo morto?...

—No, no; non volevo dir questo!—esclamò Giulio vivamente.

—Allora t'insegnerò, cara la mia marmotta—seguitò Pompeo riscaldandosi e senza dargli retta—t'insegnerò a non dir quattro finchè non è nel sacco; cioè ad aspettare alquanto prima d'allungar le mani sulla roba di tuo padre, perchè potresti correre il rischio di rimanere con un palmo di naso!... Non devi dimenticare che alla tua età io mi guadagnavo il pane, e che tu invece trovi sempre la minestra scodellata. Non devi dimenticare che ti ho data un'educazione che mi costa un occhio; che ti mantengo come un milordino; e che sono tanto babbeo, da chiuder un occhio sui tuoi capriccetti, benchè mirino a tirare in casa una gonnella senza un soldo di dote.... Ma, ohi, adagio, compare!... Non bisogna approfittarsene troppo della mia bontà! Aspetta, aspetta prima di reclamare la tua fetta di torta, per il gusto sciocco di cavar la fame ai disperati! Non so ancora, alla mia morte, se e quanta ce ne sarà; ma per altro quel poco che ci sarà (se ci sarà) è sangue mio; è frutto dei sudore della mia fronte; e siccome con te ho già fatto più del dovere, così sta sicuro che se continuerai in questo bel modo a darmi prova del tuo amore al risparmio, avrò premura, prima di crepare, di non lasciarti neppur il becco d'un quattrino!

—Scusami, babbo,—rispose Giulio mortificato,—sono un po' confuso, te lo confesso e non mi sarò spiegato bene!

—Ti ho fatto insegnare il greco, il latino, un monte di storie, e non sei buono a farti capire?... Per Dio, gli ho spesi bene i miei danari!

—Scusami, babbo,—ripetè Giulio facendosi coraggio,—tu un giorno hai dichiarato alla signora Balladoro che se si poteva combinare il matrimonio fra me e la signorina Mary, saresti stato disposto a fissarmi un buon assegno....

—Ho detto "un assegno conveniente"—interruppe il Barbarò di malumore—cioè proporzionato non ai fumi degli Alamanni, ma alla nostra condizione.

—Ebbene—concluse il buon ragazzo risolutamente—la signorina Mary mi ha promesso di.... di corrispondere alla mia affezione e di rinunciare a qualunque assegno, purchè si possa aiutare i Collalto.

—E tu le hai risposto?

—Che ti avrei pregato e supplicato per ottenere il tuo assenso.

—Bravo merlo!...—E con queste idee hai in animo di prender moglie, e vorresti mettere su casa e piantar famiglia? No, caro; non sarò io tanto matto da permetterlo! Va', va' a cantar poesie al sole e alla luna! Va', va' a fare lo stragavante!... Del resto—continuò sogghignando—non capisco perchè la signorina Mary, tanto prodiga coi danari miei, non pensa invece colle proprie economie a soccorrere i nobili parenti!

—Piange sempre, e si dispera, appunto per non poterlo fare.

—Oh poverina!—esclamò il Barbarò con finta compassione.

—Ma—continuò l'altro—tutta la rendita della signorina Mary è appena sufficiente, avendo essa da mantenere anche la zia Balladoro.

—Ah, ah!—soggiunse il signor Pompeo sempre con tono ironico—è dunque colle sue rendite, che la signorina Alamanni mantiene sè e la vecchia?

—Sì; e lo può fare soltanto perchè il signor Francesco Alamanni le ha ceduta anche tutta la sua parte.

—Ebbene, allora ti dirò che la tua contessina delle smorfie è in grande errore; e ne sono dispiacentissimo perchè ciò mi prova una volta di più che ha il cervello sopra la berretta; che non si cura mai della casa, e che non sa fare i conti!... Se leggesse un po' meno romanzi e badasse un po' più alla cucina e al guardaroba, capirebbe subito che i pranzetti e i cappellini suoi e della vecchia importano una spesa molto superiore alle sue rendite. E sai chi ha la dabbenaggine di buttar più di seimila lire all'anno per mantenere in lusso l'illustrissima signorina? È questo vecchio avaro che non vuol pagare col sudore della sua fronte i debiti fatti nelle bische, o colle sgualdrine dal nome in offe o in iffe....—Sì, sono io; io che lavoro giorno e notte; io, l'uomo senza cuore: ma che sacrifico seimila lire, e più, all'anno per una promessa fatta alla tua povera e santa madre,—il Barbarò alzò gli occhi al cielo,—a lei che in vita aveva adorata la signora Lucia, e che al letto di morte volle raccomandarmi di assistere la figliuola!—E siccome Giulio, a questo punto, rimaneva col capo chino, il signor Barbarò glielo fe' rialzare dandogli una manatina sotto il mento e dicendogli con enfasi:

—Guardami in faccia, e impara come son fatti i galantuomini!

—Oh babbo mio,—rispose l'altro commosso—non ho mai dubitato del tuo cuore!

—Lo credo bene, quantunque—e il signor Pompeo fece un altro sospiro—sia sempre stato il mio destino di seminare benefizi e raccogliere ingratitudine!... Ma tuttavia senti un po',—continuò facendosi più insinuante,—se credi proprio che la Mary voglia metter muso perchè non siamo disposti ad andare in malora noi, per impedire che ci vadano i suoi nobilissimi cugini, allora spiegale un po' questo imbroglio delle seimila lire e vedrai, minchioncino, vedrai che tornerà subito subito a farti il bocchin di zucchero!...

—Oh no, no!—esclamò Giulio spaventato.—Darei troppo dolore, troppa mortificazione alla signorina Mary, così fiera e disinteressata. No, no; ti prego, babbo, promettimi, giura, che non saprà mai ciò che ti deve!

—Giurare? un corno! Io non giuro quando non sono obbligato. Farò, secondo i casi, ciò che mi parrà più conveniente. E in quanto a te, invece di lasciarti pigliar per il naso da quella vanesia, tutto fumo e niente arrosto, dovresti cominciare a farti valere e a governarla a bacchetta, perchè, ricordati, guai se le donne alzano la cresta! Dovresti inspirarle un po' di amore all'economia e anche, a dirla schietta, un po' di rispetto e di gratitudine per il suo benefattore. E adesso.... non ho altro da dirti. Siamo dunque intesi, e puoi andartene pe' fatti tuoi. Ti aggiungerò, per un di più, che se anche volessi aiutare il Collalto non potrei. Siamo in rotta perchè la marchesa è una matta (e sarà bene, anche pei cattivi esempi che le potrebbe dare, che la Mary se la tenga alle larghe) e perchè il marchese Alberto è un burattino. Ormai gli affari nostri sono in mano degli avvocati, e non sono stato io il primo, lo dico a scarico di coscienza, a voler venire a questi estremi. Vattene dunque: non posso perdere dell'altro tempo perchè ho molto da fare!

—Scusa, babbo, ancora due parole sole—insistè Giulio ormai risoluto a combattere fino all'ultimo.—Tu forse non hai pensato a una cosa?

—Ahuf!... A che cosa?—domandò Pompeo sbuffando.

—La gente, che non guarda tanto pel sottile, potrebbe forse mormorare che anche tu... con una cattiva amministrazione... hai finito per mandare in rovina il Collalto.

—Non dire stupidaggini, sciocco! Sta' a vedere adesso che, per le chiacchiere della gente, dovrò buttare i danari dalla finestra, dovrò pagare i debiti degli altri!—e il signor Pompeo ricominciò a riscaldarsi.—A me, sai, i debiti, non me li ha mai pagati nessuno! E quando, ancora ragazzo quasi, fui tradito dai miei parenti, che senza curare la mia educazione, come ho fatto io per te spendendo un patrimonio, non pensavano ad altro che a mangiare e bere, e poi mi lasciarono nudo al mondo, come mi avevano fatto, credi tu che mi sia riescito d'inspirare pietà ad un cane? No, mai! Sono stato messo anch'io fuori di casa, perchè non avevo da pagare la pigione!... E il mio creditore, un giorno che non dimenticherò campassi mill'anni, mi ha insultato in mezzo di strada, mi ha preso per il collo, voleva mandarmi in galera! Capisci, poeta? Capisci, marmotta, che cosa vuol dire il non aver quattrini?!...—E il Barbarò cogli occhi torvi camminava su e giù per la camera, smaniando affannato.

Giulio, vedendolo col viso stravolto, e ingannandosi sulla causa di quella commozione, gli corse vicino come per abbracciarlo; e prendendogli una mano e stringendola con effusione:—Ebbene—gli disse, quasi piangendo—se gli altri furono malvagi, noi mostriamoci umani, e così sarà più contento il nostro cuore, e sarà più benedetto e onorato il nostro nome!

—C'è una sola contentezza a questo mondo: dominare e schiacciar gli altri sotto i piedi. C'è un solo modo per essere onorati: avere il borsellino pieno!—rispose il Barbarò sciogliendosi con uno spintone dalla stretta del figliuolo.

—La gente—soggiunse poi più calmo—troverà sempre da mormorare sul conto di chi ha fatto fortuna, perchè la gente è invidiosa; ma è molto meglio essere invidiati che compatiti, e mentre mormorano ti fanno di cappello!

—No, babbo. L'opinione pubblica sa distinguere i galantuomini.

—Finiscila, via; non sai dire altro che bestialità!—Ma passato il primo impeto d'ira, il signor Pompeo volle provarsi a convincere il figliuolo, e crollando il capo e guardandolo con aria di compassione ricominciò:—Sì, l'opinione pubblica sa distinguere i galantuomini, ma non già come credi tu, povero orbo!... Avevo la tua età, press'a poco, quando mi sono trovato testimonio a un certo fatto, che mi fece aprire gli occhi sui giudizi dell'opinione pubblica intorno ai galantuomini. Ero a Milano, e attraversavo una mattina presto la piazza del Duomo, quando a un tratto vedo venire avanti una frotta di gente e in mezzo un signore, una persona civile, fra due gendarmi (allora invece dei carabinieri c'erano i gendarmi) e seguìto da una bella giovane, ch'era poi sua moglie, e da un bambino, il suo, che strillavano con quanto fiato avevano in corpo. Era un orefice che aveva il suo negozio sotto il Coperto dei Figini... che adesso hanno demolito, colla scusa di allargare la piazza, per buttare al diavolo il pubblico danaro! "Che cosa ha fatto?" chiesi ad uno dei tanti che stavano colla bocca aperta a guardare; "ha rubato?"—"Chè," mi fu risposto, "è un fior di galantuomo!"—"E allora perchè lo mettono dentro?" esclamai maravigliato.—"Perchè? perchè i galantuomini sono coloro che sanno rubar be...." Ma il Barbarò a questo punto, sebbene trascinato dall'onda dei ricordi, si fermò, e fu in tempo a correggersi. "Perchè è un minchione" riprese; "e in galera ci sono più minchioni che ladri." Io, che non ero uno scemo come te, ho capito l'antifona e ho approfittato della lezione; e tu dovresti imitarmi; cioè, guardarti bene nello stesso tempo dall'essere un ladro, e dall'essere un balordo. Vedi, io non commetto e non commetterò mai la minchioneria di sacrificare il mio interesse per aiutare chi non lo merita; ma mi vanto per altro di essere un galantuomo, perchè i registri dell'amministrazione sono in perfetta regola, e stanno a far testimonianza del mio operato....

—Oh lo credo, lo credo, babbo mio!—esclamò Giulio vivamente.

—E allora abbi fede in tuo padre, e lascia gridare la gente. Scendi un po' dalle nuvole, e impara a conoscere il mondo nel quale devi vivere! Abbi fede in tuo padre, e cerca di aumentare sempre la roba tua; abbi fede in tuo padre, e pensa che il danaro se non è tutto al mondo, è per lo meno la base, il fondamento di tutto: della famiglia, della felicità, dell'onore, dell'amore.... Sì, anche dell'amore! E invece di fare quella faccia stranita, dovresti riflettere bene che anche la signorina Mary, con tutta la sua aristocrazia, non sposerebbe mai il figlio di un...—Pompeo s'interruppe subito prima di dire portinaio—di uno che si è fatto da sè, se non avesse forse la speranza, un giorno o l'altro, di poter marciare in carrozza!

—Oh no, babbo! Non dire così!—proruppe Giulio arrossendo, e con un lampo di collera negli occhi solitamente tanto miti e riguardosi.—Lasciami le mie illusioni, se sono tali! Le preferisco, le preferirò sempre a tutte le tue ricchezze!

—Bravo, marmotta! Così finirai all'ospedale!

—E non potrebbe illudersi invece chi crede che l'anima di tutto al mondo, della famiglia, dell'onore, dell'amore, della felicità non sia proprio altro che il danaro? In tal caso, illusioni per illusioni, preferisco le mie. Almeno, anche nel giorno del disinganno mi sentirò superiore a coloro che mi avranno tradito, e avrò il diritto di compiangerli!

—Bravo! E questa bella consolazione ti darà da sfamarti! Ma dove, e da chi hai imparate tante minchionerie? Da tuo padre no di certo; dal maestro che t'ho dato nemmeno, perchè lo Zodenigo se fa dei sonetti quando è invitato a pranzo da Donna Lucrezia, nella vita pratica sa essere un uomo di proposito. Dunque?...—E il Barbarò lo guardava fisso col desiderio di pigliarlo a scappellotti; ma poi, vedendo che il figliuolo, toccato sul vivo nel suo affetto per la Mary, si mostrava disposto a sfidare la sua collera, si contenne, non senza fatica, e mormorò col risolino beffardo:

—Ah, ah, non vuoi credere alla mia esperienza?... Non vuoi credere che il danaro sia tutto a questo mondo? L'onore, l'amore, la felicità, la famiglia?

—No, no, no!—ripetè Giulio con una violenza che lo fece diventar pallido.

—Ma apri gli occhi, stupido! Guardati attorno, e vedrai se quanto ti dice tuo padre non è verità sacrosanta!... L'onore? Ma chi ha perduto l'onore, uomo o donna, col danaro lo ritroverà sempre; o per lo meno ritroverà gli onori... che in fin de' conti sono la stessa cosa. Uno, per esempio, che abbia ru....—Pompeo, si arrestò a mezzo, fe' sonare i ciondoli colle dita, e poi scelse un altro esempio.—Mettiamo una ragazza: non ha un soldo di dote e per eccesso di buon cuore, o d'inesperienza, mette al mondo un figliuolo: se dopo trova un uomo che la sposa proprio per amore, costui è dichiarato un imbecille. Se la ragazza invece porta solo cinquantamila lire di dote, l'uomo che la sposa è un uomo che si vende, ma scapita nella buona opinione assai meno dell'altro, e al suo paese lo faranno ancora consigliere comunale. Se la damigella, poniamo, avesse trecentomila lire: il marito sarà giudicato un uomo serio, che sa combinare insieme una buona azione e il proprio interesse e, se vuole, lo faranno deputato.... Ma se poi la ragazza avesse mezzo milione, un milione!... allora, caro mio, la sposa subito e volentieri anche il cavalier Boiardo (il Barbarò non era mai esatto nei nomi storici) e l'aneddoto del cocchiere, del cavallerizzo, o del maestro di pianoforte, insomma del padre del marmocchio, diventa un si dice qualunque, a cui nessuno ha mai dato importanza, e che andrà presto nel dimenticatoio!

—Sarà come tu dici: per altro non si devono confondere gli onori col vero onore.

—Il vero onore? Benissimo... ma è necessario aver quattrini per poterlo conservare. Certe case sono piene di donne alle quali è mancato appena, in un dato momento, uno scudo o un fiorino, per poter vivere onorate. Le prigioni sono piene di ladri a cui forse in un giorno d'appetito, non mancarono altro che venti soldi o quaranta per restare galantuomini. Il mondo è popolato di debitori ai quali non è la buona volontà che difetta, ma soltanto i bezzetti (come direbbe Donna Lucrezia) per soddisfare onoratamente ai propri impegni! Questo per l'onore; in quanto poi alla famiglia, senza la cassa dei quattrini che la tiene raccolta, la vedrai subito dividersi, squagliarsi, e uno di qua, l'altro di là, andare in cerca di un altro focolare... perchè il focolare domestico è lo scrignetto, bambino mio! E poi, sta' attento, e vedrai: è il babbo che ne tien la chiave? E i figliuoli sono amorosi anche se è burbero e tiranno; rispettosi anche se è un poco di buono. È la moglie? Sta' sicuro che il marito... chiuderà gli occhi! È il marito? Avrà ragione anche quando avrà torto, e la moglie troverà sempre la forza per sopportarlo!... In fine, a voler tacere il molto che ci sarebbe ancora da dire per provarti che io ragiono praticamente e che tu sei nel mondo della luna, ti mostrerò, coi fatti alla mano, che il danaro, oltre a tutto il resto, oltre a essere la fonte d'ogni bene e d'ogni benefizio, d'ogni virtù privata e pubblica, fa pure acquistare, di punto in bianco, anche i meriti patriottici. Ridi?—Guarda, tra gli altri, il conte Lanfranchi, che è qui un nostro confinante. Nel quarantotto, ai primi segni della rivoluzione, è scappato in Isvizzera; nel cinquantasette ha dato alloggio all'imperatore e all'imperatrice d'Austria, quando son venuti in Lombardia; nel cinquantanove e nel sessanta è stato a vedere, e quando finalmente fu costituito e riconosciuto il regno d'Italia, ha speso quarantamila lire per regalare al suo comune un bel monumentino che ricordasse i "martiri di Belfiore" e... e in seguito a ciò è stato inscritto fra i benemeriti della patria, e giustissimamente—concluse Pompeo con una sghignazzata—perchè ne troverai molti che alla patria offrano il loro sangue, ma pochissimi che le regalino quarantamila lire!...

—È un paradosso, babbo!—esclamò Giulio che non poteva a meno di sorridere.

—Che hai detto? Un para...? Che cosa? Non capisco!—rispose Pompeo; e sempre più infervorato, sembrandogli di avere un po' scosso il figliuolo, e prendendolo per un braccio e trascinandolo verso la finestra, continuò,—e a te che hai sempre in bocca Garibaldi e la Democrazia, ti aggiungerò che il danaro è la vera forza democratica dei tempi moderni. Vedi quel carro? vedi quelle casse?—e indicò nel cortile la roba dei Collalto.—Ebbene, io un... uno che si è fatto da sè, mando i feudatari fuori del castello!... I tuoi socialisti non arriveranno mai a tanto!...

—Allora ti risponderò una cosa sola—balbettò Giulio confuso, oppresso e spaventato da tutti quei discorsi—il danaro non sarà mai per me la felicità.... No, mai! Vorrei essere povero per provarti che la signorina Mary mi ama per me... soltanto per me... e te lo giuro... sarei molto più contento, più felice....—Il povero ragazzo non potè più reggere, e dette in un pianto dirotto.

Il Barbarò lo guardò a lungo, crollando il capo, e mormorò a mezza voce:—E io chi sa invece... che non riesca a far mutar l'odio in amore.—Poi aggiunse forte:—Del resto, se non sono un minchione, non sono nemmeno uno spietato. Potrai assicurare la Mary che il precipizio di questa partenza non sono stato io a volerlo. Anzi, ti dirò di più che non avrei mai avuto cuore di spingere i Collalto a un tale estremo. Sono loro che vogliono andarsene: è la marchesa per la sua superbia, i suoi capricci... o per qualche altro fine occulto e non buono. Io non li mando via, ma non li posso nemmeno trattenere a forza. In ogni modo, vedi se non ho proprio il cuore di pasta frolla: quantunque insultato da quella gente, ho detto al mio avvocato di ricordarsi bene che voglio operar sempre da perfetto gentiluomo, come sono!...

E il Barbarò fe' nuovamente sonare i ciondoli, gonfiandosi tutto a questa parola: gentiluomo.

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XIII.

" Al signor Andrea Martinengo, Capitano d'artiglieria, 8º reggimento, 2º Corpo d'armata.

"Ferrara per la Mèsola.

"Non le posso scrivere altro che due righe sole e molto in fretta per mandarle, come le ho promesso, il mio indirizzo. Siamo arrivati ieri (ma son già stata alla posta e sono contenta ) e il quartierino che abbiamo preso in affitto è ancora sossopra e orribile a vedersi con quell'aria antipatica e insopportabilmente borghese delle camere ammobiliate! Ma per altro è vicino alla spiaggia, e la vista è stupenda. In due o tre giorni spero ridurlo bene. Il salotto ha poi un piccolo terrazzo, e quando lo avrò assettato a modo mio con tutti i ritratti che ho portato da Villagardiana, e con tutti i miei bibelots (non ricordo come si dice in italiano) sarà grazioso assai.

"Povera Villagardiana!... Non la rivedrò più!...

"Certo, non potrebbe figurarsi in che stato mi trovo in questi giorni. Tutta sossopra anch'io, come il mio quartierino, ma non mi sarà tanto facile di assettarmi. Io stessa non mi riconosco più; sono un'altra donna. La marchesa di Collalto è sparita: non è rimasta che la povera Angelica.... La sua Angelica... (sempre— sempre —finchè vorrà lei!). Anche in mezzo allo sbalordimento, ciò che mi agita e mi preoccupa di più sono le notizie della guerra; e non mi lasciano quasi nè il tempo, nè la testa da pensare a tutto il resto. Mi sento come intronata....—E poi tutto è successo in un modo così improvviso e precipitoso, che mi par ancora di sognare. Ricordo solamente che quando partimmo da Villagardiana piangevano tutti.... La moglie e la figlia del fattore, parevano poi come matte: io ho voluto che mi abbracciassero, povere donne! Il giardiniere, si figuri, non è stato buono di dirmi nemmeno una parola... ma mi ha riempita tutta la carrozza di fiori...—i miei fiori di Villagardiana!—e ha detto alla Mary che voleva licenziarsi, perchè senza i suoi padroni non avrebbe più potuto vedersi in que' luoghi.

"Quanto a me, se le dicessi... devo proprio dirle tutto, Andrea? Se le dicessi che... è strano... ma tutti questi cambiamenti, non mi hanno fatto il senso che dovevano farmi. Non so perchè, ma tante sventure mi hanno resa più tranquilla, per un altro verso. In fine si ha il diritto di vivere!... Non è vero, Andrea?... E poi posso piangere liberamente; posso essere triste; non devo fingere un'allegria che non provo, una tranquillità che non ho. E questo è già un bene, un gran bene, che non sapevo di trovare nel mio nuovo stato. Tutti credono che io sia malinconica e nervosa per una ragione sola; ma invece... ce n'è un'altra.... Un'altra che....—Tanto se non l'indovina, Andrea, è proprio inutile che le dica di più.

"Oggi per altro, sono assai più calma. Ho letto i giornali (pensi, Andrea, che cosa sono giunta a fare!) e dicono che forse da noi non ci sarà nemmeno la guerra, perchè l'Austria abbandonerà il Veneto, volendo concentrare tutte le sue forze contro la Prussia. Sarà vero, mio Dio?... intanto questa speranza mi fa essere quasi contenta. Vedendomi un po' serena, mi dicono che sono una donna forte. Sono i primi complimenti che ricevo; e mi hanno fatto diventar rossa rossa, perchè proprio non li merito!...

"Com'è bella Santa Margherita Ligure, e come mi fa piacere ch'ella ci sia stato! Così, mi può vedere, non è vero, a Santa Margherita Ligure? Mi vede alla Cascatella, allo scoglio della Immacolata, a Villa Tarsia?...—Com'è bella Villa Tarsia!

"Mi dica per altro se a Santa Margherita c'è stato solo. Si ricordi che voglio saperlo. E poi questo soggiorno mi piace anche perchè non si vedono tutti quegli inglesi, uggiosi e antipatici, tutti colla stessa faccia di cartapesta, che guastano tanto la bellezza di San Remo e di Nizza riducendo quella riviera come un gran giardino d'hôtel; gente intenta, che consulta il Baedecker anche per guardare il tramonto, o il levar del sole!

"Vedesse... ma già li ha veduti, e non è vero che sono meravigliosi i tramonti di questi paesi?...—Avesse visto ieri sera che cosa è stato di bello!...—Bello per me, perchè appunto non era quello che si usa dire un bel tramonto. Ma mi piaceva di più! Mi piaceva tanto!... Il cielo aveva una striscia... ma proprio come un bel nastro d'oro; il resto tutto bleu cupo. Il mare nero, furioso; e sulla spiaggia un branco di pecore, che correvano spaventate!... Ho pensato che sarebbe piaciuto molto anche a lei. Io non posso descriverlo e poi... ho sempre paura di scrivere sciocchezze (e loro signori delle armi dotte, devono essere un pochino pedanti), ma mi ha fatto tanto, tanto pensare!...—Ci sono anche gli ulivi. Gli ulivi come a Villagardiana! (E la Casina delle Romilie, si rammenta?) A me piacciono tanto gli ulivi: sembrano figure vive. Che contrasto fra quei tronchi enormi, contorti, tormentati in mille guise, straziati, si direbbe, dal dolore, e quelle foglioline pallide e gentili!

"Ed io guardando il mare, il cielo, i miei fiori di Villagardiana (sono ancora belli: si conservano belli, poveri fiori, per farmi l'ultima festa) sento un nome salirmi dal cuore alle labbra, e riempirmi gli occhi di lacrime. Lacrime non più di dolore, ma di tenerezza, di beatitudine: Andrea, Andrea.

"Quante volte, in un giorno, dirò Andrea? È più forte di me... e quando guardo il mare, il cielo, i miei poveri fiori devo dire... no, non dico Andrea, ma mi esce dall'anima inconsapevole, come un sospiro.

"Sa? Vuol ridere? Le prime volte che scrivevo Andrea, mi sentivo diventar rossa rossa.... Ma adesso non mi succede più: Andrea, Andrea, Andrea, Andrea!

"Stefanuccio è stato molto buono in questi giorni. Qui poi ha trovato altri ragazzi coi quali ha subito fatto amicizia; e si mostra molto meno salvatico che a Villagardiana. Io ho ricominciato oggi stesso le mie lezioni. Lo fo leggere, e gl'insegno a scrivere. E, guardi combinazione: la lettera che scrive meglio è l' A grande. Ma sarà perchè è la prima dell'alfabeto... la prima che ha imparata, non è vero?

"Adesso bisogna proprio che finisca: è già tardi; o mi chiamano giù, alla spiaggia. Poi bisognerà trovar il modo di correre alla posta!... È qui vicino. Che vergogna ieri, quando ci sono andata a prendere la sua lettera. Era la prima volta, pensi, che andavo alla posta! Tremavo tutta!... devo essere diventata di mille colori.... Non ho avuto il coraggio di dire il mio nome; ho mostrato il biglietto di visita. Ma è una donna qui che dispensa le lettere (una donnina giovane, con una bella faccia da buona) e ciò mi ha dato coraggio. Poi, c'era la sua lettera (l'ho veduta subito nella casellina!) e non ho pensato più ad altro.—Com'è stato buono di scrivermi! Così ho cominciato la mia vita a Santa Margherita con lei.... La prima lettera ricevuta qui è stata la sua: la prima scritta da me è questa... per lei.

"Bisogna proprio che finisca. Le scriverò più spesso che potrò... sempre!... Il più difficile sarà l'uscire per impostare le lettere, e per andarle a prendere. Sapesse che diplomazia mi ci vuole, per uscir sola!

"Sempre Andrea, sempre."

"Riapro la lettera, perchè avevo dimenticato l'indirizzo. Per ora, scriva sempre al mio nome, ferma in posta. Ma mi scriva almeno tutti i giorni, e più a lungo. L'ultima lettera era di cinque pagine sole, e scrive così largo che bastano due parole per riempire una riga!

"Io non posso vederlo lei alla Mèsola; sapesse come mi rincresce di non esserci mai stata!... Dev'essere un bel posto, per altro. È così un bel nome: la Mèsola! E poi... non so figurarmi che possa esser brutto un paese dov'è lei!...

"Bisogna che finisca. Sempre! Sempre!

"Mi dica il nome dei suoi cavalli, e che cosa fa la sera alla Mèsola. Si ricordi che voglio saperlo!"

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XIV.

Nel frattempo la ditta Micotti e Compagno aveva subìto una leggiera modificazione nel titolo: si chiamava adesso Micotti e figlio. E mentre il buon Giulietto, il figlio del signor Barbarò, era sempre tenuto allo scuro di tutti gli affari, Beppe Micotti invece, il figlio della ditta, cominciava a diventare, ancora giovanissimo, il factotum del principale. Il signor Pompeo lo chiamava spesso a Villagardiana, a preferenza dello Sbornia; lo mandava in giro per commissioni delicate, e oltre a valersi dell'opera sua, certe volte ne ascoltava anche il parere, cosa che con lo Sbornia non gli era mai accaduta. Insomma, in genere di imbrogli e bricconate, Beppe Micotti pareva proprio un piccolo portento; e appunto, come i geni, si era rivelato di colpo. Espulso dall' Istituto Tecnico, dove rubava i libri dei compagni (e per innata passione al commercio, andava a rivenderli dal tabaccaio), il signor Barbarò non sapeva più in casa che diavolo farne. Fra le tante, pensò di impiegarlo in Ragioneria, dopo aver ordinato allo Sbornia di picchiarlo ben bene, in via premonitoria. Ma subito, negli affari, il giovane Micotti manifestò un ardore di cui non avea dato nessuna prova a scuola; e in pochi mesi acquistò importanza presso il padrino che lo istruiva e lo guidava, non senza ripetergli di tratto in tratto che non doveva ingrassare mangiando il pane a ufo, come facevano suo padre e sua madre.

Lo Sbornia, sempre maltrattato dal principale, tranne in quei pochi giorni di gloria goduti nel cinquantanove e nel sessanta, dacchè poi il figliuolo era entrato nell'amministrazione della ditta era stato messo affatto da parte, colla patente di bestione rimbambito.

—L'ho giubilato—diceva il signor Pompeo.—Adesso non ha proprio più altro da pensare, che a ubriacarsi e far l'Italia.

Se non che, bandito dagli affari, lo Sbornia era stato subito preso dalla moglie, e rimesso nelle sue antiche attribuzioni di facchino e di sguattero. La florida signora Veronica, alla quale col crescere degli anni erano cresciuti anche i baffetti e ogni altra cosa, non gli parlava quasi mai altro che a cenni, e quando lo vedeva insonnolito digerire l'acquavite insieme all'amarezza di non essere più adoperato dal principale, lo faceva muovere coi pugni e gli spintoni. La signora Veronica aveva sempre disprezzato il marito guardandolo di mal occhio; ma adesso, poichè il poveraccio era stato abbandonato dal signor Barbarò, non lo poteva più soffrire. Tutte le sue tenerezze erano per Beppe, che amava ciecamente fino all'idolatria, obbligando lo Sbornia a servirlo in tutto come un padrone. Se per caso le succedeva col marito di nominare il figliuolo, essa non diceva mai "il nostro Beppe," ma "il mio Beppe," e con una cert'aria che pareva un'ammonizione. Bisognava vederla la signora Veronica quando ammirava il figliuolo tutto lustro negli abiti smessi del padrino, che gli stavano a pennello! Aveva le lacrime agli occhi e avrebbe voluto mangiarselo dai baci, se non fosse stata trattenuta dalla paura di sciuparlo e anche da una certa soggezione. Bisognava vederla quando si trovava presso il suo Beppe, mentre questi parlava d'affari serio serio, colla faccetta da vecchio mariuolo!... Allora pareva si gonfiasse per la superbia; camminava dondolandosi fiera, colle mani sui fianchi, e faceva cenno allo Sbornia di correre a spazzolargli l'abito, o a lustrargli le scarpe.

In quanto a Beppe Micotti, egli rimaneva indifferente a quella grande tenerezza della veggia. Che il desinare fosse pronto all'ora fissata; che la sua roba fosse sempre ben in ordine, e che non mancassero i bottoni alle camicie: ecco tutto quanto gli premeva, e domandava all'affetto materno. E nemmeno col genitore usava molti complimenti: non si degnava mai di guardarlo in faccia; non gli parlava altro che per dargli ordini o per strapazzarlo; gli faceva portar l'acqua, spazzare lo studio, e se sbagliava in qualche commissione gli dava dell'addormentato e della bestia. Solamente, ricordandosi gli scappellotti ricevuti in passato, lo teneva in una certa considerazione per la sua forza muscolare, e non essendo di natura molto coraggioso, si faceva accompagnare dal vecc quando si metteva in viaggio con somme di danaro; e fu pure in sua compagnia che andò la prima volta a Villagardiana a eseguire gli ordini del sciur, com'egli chiamava il Barbarò.

Partiti i Collalto, il signor Pompeo era ritornato stabilmente a Milano, e ciò per due ragioni: perchè a Villagardiana, così disabitata e vuota, non ci si poteva più vedere, e perchè i contadini avevano minacciato di volergli fare la festa.

In fatti c'era gran fermento a Villagardiana contro il nuovo padrone. Quelle famiglie di coloni e di piccoli fittaiuoli che, di padre in figlio, si trovavano già da vari secoli alle dipendenze dei Collalto o dei Castelnovo, odiavano e mormoravano contro il signor Pompeo, quel forestiere ladro e assassino, che aveva traditi e spogliati i buoni signori, non vergognandosi nemmeno di cacciarli dai loro antichi possessi.

"Ma una volta o l'altra—dicevano fra loro—con una buona schioppettata faremo le vendette del Marchese!"

Poi, oltre a questo sentimento naturale, oltre alla vecchia ruggine che nutrivano contro il Barbarò per le taccagnerie che aveva fatte appena assunta l'azienda dello stabile in società coi Collalto, erano tutti sossopra temendo le innovazioni, che certo avrebbe voluto introdurre per intascar più quattrini, adesso che era solo a comandare. E i contadini si riferivano a vicenda, spaventati, le spilorcerie e le angherie commesse dal medesimo signor Pompeo a Panigale, dove la gente gli aveva affibbiato il soprannome di mercante di pellagra.

Pompeo Barbarò non aveva amore all'agricoltura. Egli voleva solo cavare dalla terra, come dagli uomini, il maggiore interesse possibile. "E siccome la terra" diceva lui, uso a guadagnare in altre operazioni il cento per cento, "era ladra e mangiava più quattrini che non rendesse", così per rifarsi, almeno in parte, faceva digiunare chi la lavorava.

Povera gente! Per una fetta di polenta cattiva, innaffiata con acqua il più delle volte corrotta, doveva ammazzarsi sotto la sferza del sole, fra i miasmi delle risaie, lavorando giornate eterne, che cominciavano alle due, alle tre del mattino, e non terminavano che alle sei o alle sette della sera!... E non mai un momento di ristoro; non mai il conforto d'un bicchier di vino! Que' contadini magri, gialli, sfiniti battevano i denti per la febbre e morivano di pellagra; ma per il grosso debito che avevano col padrone, non erano più liberi di lasciare il suo servizio, se non per essere portati al cimitero o allo spedale.

E per gli affamati il lunario segnava sempre cattivo tempo.

—Da noi tempesta ogni anno!—mormoravano cupamente.

In fatti se l'annata era stata prospera, il padrone sequestrava tutto il raccolto per rimborsarsi del suo credito; se invece era stata cattiva, infuriava contro i contadini, come se fossero loro che potevano far la pioggia o il sereno, e rinfacciava loro il misero sacco di polenta che doveva ancora anticipare.

Ma poi, se per avventura uno dei coloni spinto dall'estremo bisogno si arrischiava di chiedere al signor Barbarò un qualche piccolo restauro alla casuccia (erano tutte catapecchie in rovina, umide e malsane), allora cascava il mondo addirittura, e Pompeo si metteva a smaniare e a gridare in mezzo alla corte: "che tutte quelle bocche non avevano nè coscienza, nè discrezione!... Erano i villani che gli divoravano il patrimonio, e poi pretendevano ancora di essere alloggiati come principi!"

"Guai se fossi stato tanto minchione da appagare una sola di quelle ridicole pretensioni!" diceva poi il Barbarò con Don Rosario, il cappellano di Panigale. "In tal caso i bisogni si sarebbero moltiplicati all'infinito. I villani erano per natura avidi, furbi e viziosi. A lasciar fare a loro, avrebbero levata anche la pelle al povero padrone!"

Don Rosario approvava sempre e subito quanto diceva il signor Barbarò, da cui riscoteva le prebende, curvandosi come di scatto a mezza vita, con una mossa sussultoria, accompagnata da una risatina acuta e squillante, che pareva il chicchirichì d'un galletto.

Era costui un pretino giovane e paffutello, con certi polpacci che avrebbero fatta la fortuna di una ballerina, e che solo pareva delegato a essere il rappresentante della buona digestione presso quel popolo di affamati. Fuorchè nell'inverno, si vedeva sempre, roseo e saltellante, passeggiar per la Cura in pantofole, senza il nicchio, e coll'ombrellino di tela bianca foderato di verde. Ma del rimanente poteva vantarsi, e si vantava in fatti, di far sempre il suo dovere. Se qualcuno stava per crepare, non rifiutava mai di andarlo a benedire, magari di notte; e le domeniche e le altre feste, sebbene non obbligato, faceva anche un po' di predica prima dell'Elevazione. Era di solito un sermoncino in cui raccomandava l'amore al lavoro, l'obbedienza e la fedeltà al padrone; e finiva esortando que' cenciosi all'elemosina (spillava loro anche il quattrinello!), assicurandoli che la vita terrena non era altro che passaggio e preparazione alla vita celeste, e che per ciò coloro "che più tribolavano di qua, dovevano consolarsi perchè il Signore li avrebbe fatti più contenti di là."

Il Barbarò, quando capitava a Panigale, era sempre arrabbiato. Di solito non si fermava mai più di un giorno, ma per tutto quel giorno non faceva altro che gridare, minacciare, strapazzare. I contadini cominciavano a spaventarsi appena scorgevano la sua carrozza, e correvano inquieti e sbigottiti a darsene l'annunzio:

El padrun!... El padrun!... Guarda, guarda che vegn el padrun!

Ma poi se il Barbarò si fermava anche a pranzo a Panigale, invitava sempre Don Rosario a tenergli compagnia: e allora dinanzi alla zuppiera fumante cominciava a calmarsi, e alle frutta diventava umanitario, e avvicinando al cappellano la bottiglia di Barolo stravecchio, si metteva a predicare contro i radicali e i liberi pensatori che volevano spingere il mondo a fare un salto nel buio:—Sono matti; matti da legare!

—Senza testa....

—E senza cuore. Don Rosario; senza cuore! Quando avranno tolto alla povera gente anche quell'ultimo briciolo di fede....

—In un avvenire migliore...—interrompeva il cappellano bevendo adagio, a centellini, e schioccando le labbra.

—....che conforto, domando io, resterà loro?

—Mah!

—Mah!... E chi allora potrà più governarli? Tenerli sotto? Farli lavorare? Dovremo spendere di tasca nostra e rovinarci per mantenerli in prigione a non far niente!

—Guai, guai! Grossi guai!—rispondeva Don Rosario sospirando; e a sua volta avvicinava adagio adagio al Barbarò la bottiglia polverosa, toccandola con rispetto e guardandola con ammirazione.

—Per me, dico la verità—continuava il signor Pompeo, diventando sempre più espansivo—dico la verità, quando sono stato così balordo da infognare i danari miei in terreni, che a stento rendono il tre, il quattro per cento, e ho comperato Panigale, ho levato molti abusi, ho introdotte grandi economie nell'amministrazione, ma il cappellano, il medico e il veterinario non li ho voluti toccare!

Allora cominciava Don Rosario a dir le lodi del buon cuore e della filantropia veramente cristiana e illuminata del signor Barbarò, il quale godendosi gli elogi fatti a fin di tavola, quando appunto l'uomo, come il coccodrillo, è più facile a intenerirsi, si sentiva quasi commosso, e persuadendosi di essere proprio un padrone umano e caritatevole, vuotava a poco a poco un'altra bottiglia nel bicchiere di Don Rosario e nel suo, lamentandosi perchè in paese lo chiamavano mercante di pellagra!

Don Rosario non sospirava più, ma soffiava, e stentando a tener aperti gli occhi (era solito a schiacciare un sonnellino durante il chilo) lo ammoniva che "non bisognava aspettarsi dagli uomini il compenso delle nostre buone azioni, ma dal Signore che le notava incancellabilmente sul suo gran registro del dare e dell'avere!"

—Sicuro!—concludeva il Barbarò, cominciando pure a sonnecchiare, mentre il caffè si raffreddava:—è sempre stato il mio destino quello di seminare benefici e raccogliere ingratitudine!

Ma appunto a Villagardiana non ne volevano sapere dei benefici del signor Pompeo. Dopo la rottura avvenuta coi Collalto, egli era diventato di giorno in giorno più aspro, più cattivo, e sempre più tirchio. Ormai che gli era fallito anche il bel disegno per entrare e spingersi nel gran mondo, non cercava più tanto nemmeno di salvare le apparenze. Aveva messo tutti i suoi pensieri, tutta la sua volontà, tutto il suo cuore negli affari, soltanto negli affari, e con una foga da disperato. "Aveva perduta la partita?... Ebbene col danaro, con molto danaro avrebbe preso la rivincita!... Che importavano i mezzi?... Era il fine che voleva, che dovea raggiungere."

Pareva sentisse insieme colla smania e colla febbre di far quattrini, anche un senso strano di rabbia e di odio contro tutto il genere umano; pareva ch'egli godesse nel danaro che ammucchiava, oltre al piacere di averlo per sè, anche il gusto di averlo tolto agli altri. Le persone ammodo lo scansavano, mormorando ch'egli era un disonesto?... Ebbene, lui se ne vendicava con un'alzata di spalle, e rispondendo, col solito ghignetto, ch'erano "una folla di spiantati e di pitocchi!"

"E la marchesa di Collalto?... Ah, ah! non era stata detta ancora l'ultima parola! Chi sa, chi sa che un giorno o l'altro non avesse trovato anche la biondina in fondo a un sacco di marenghi!"

Pompeo Barbarò aveva finito per sentire antipatia e dispetto contro Villagardiana. Borbottava sempre che l'aveva pagata troppo cara, che gli rendeva pochissimo, e intanto cercava tutti gli espedienti per cavarne il maggior frutto possibile.

Sotto i Collalto, i fondi erano in parte affittati e in parte dati a mezzeria; invece il signor Pompeo trovò più utile di tener tutto il fondo a mano. Ma un tale cambiamento nell'amministrazione importava grandi spese, e lui non voleva saperne. Allora ideò e fece il suo piccolo colpo di stato: aprì il librone dov'eran notati i debiti dei contadini, e intimò loro, su' due piedi, di saldare le partite: era un procedere nuovo e disumano; tutta quella povera gente che da un momento all'altro si vedeva ridotta in miseria, gridava disperata, invocando pietà; ma non ci fu rimedio. Il padrone, sordo alle preghiere e alle lacrime, sequestrò ai fittaiuoli e ai mezzadri il bestiame, gli attrezzi agricoli, tutte insomma le stime vive e morte, e così ebbe quanto gli occorreva per i suoi disegni senza sottomettersi a nuove spese. Una sera per altro che se ne ritornava a Brescia in carrozza fu preso a sassate mentre passava sotto il Monte del Corno, e se non lo accopparono dovette proprio esserne grato alle buone gambe dei cavalli e al suo cocchiere.

In seguito a questa piccola dimostrazioncella il Barbarò rimase parecchio tempo senza lasciarsi vedere a Villagardiana: mandava in vece sua Beppe Micotti, il quale appunto vi capitò la prima volta in compagnia del vecc; ma dopo vi andò anche solo, tranquillamente.

Appena arrivato s'era messo a dire del sciur roba da chiodi. "È un cane senza cuore! Gli s'attaglia benone quel nomaccio di mercante di pellagra!... Lo avevano pigliato a sassate? Bravissimi; meritava di peggio. Anche loro due," e con un cenno del capo indicava lo Sbornia, che senza parlare e senza ascoltare stava intontito a guardar le rondini che volavano stridendo intorno ai nidi del porticato, "anche loro due ne dovevano sopportare di tutti i colori; ma non c'era cristi: gli eran caduti nelle mani e bisognava piegare il collo! Così, per altro, non la poteva durare. Doveva venire il giorno del redderationem.... Oh, se doveva venire!" E in tal modo, dopo aver lusingato quella buona gente e essersi fatto un po' compassionare, Beppe Micotti eseguiva gli ordini ricevuti senza correre alcun rischio, nemmeno ripassando sotto il Monte del Corno.

Ma poi, oltre a questi, egli aveva cominciato a rendere al padrino altri servigi più importanti assai.

In quel frattempo la ditta Micotti e figlio aveva assunto in appalto la doppia fornitura delle scarpe e dei fucili per il corpo dei Volontari, e Beppe Micotti, istruito in proposito dal Barbarò, che viaggiava continuamente da Milano a Brescia per tenerlo d'occhio, si comportava in modo di non far perdere alla ditta la bella fama che si era già guadagnata in simili imprese durante la guerra del cinquantanove.

Tuttavia il signor Barbarò, quantunque avesse fatto concorrere i Micotti a quell'appalto, ce l'aveva sempre con Garibaldi e i Garibaldini. Brontolava, sogghignando, che "l'eroe dei due mondi" non era altro che un ciarlatano e un falso democratico, dominato dalla più sfrenata ambizione; un orgoglioso che non voleva sottomettersi a nessuno, e che avrebbe anche disfatta l'Italia, che costava a tutti tanti sacrifici, per la smania di mettersi a fare il dittatore!... Se non fosse stato più superbo di Lucifero, doveva contentarsi, come il Cialdini, di ottenere il comando d'un corpo dell'esercito regolare, senza accrescere le difficoltà al povero Lamarmora, e senza portare un nuovo colpo alle nostre finanze. Per il Barbarò l'esercito dei Volontari aveva questo solo di buono: in que' giorni difficili liberava il paese dai matti e dalla canaglia: c'eran tutti con Garibaldi! Ma il guaio serio sarebbe stato al ritorno delle bande indisciplinate e armate di tutto punto!...—Chi sa, che cosa andava a succedere!...—E forse fu per ragioni di prudenza, che i fucili forniti ai Garibaldini dalla ditta Micotti e figlio non eran altro che ferravecchi.

Pure, ad onta dello sue ire e de' suoi timori, Pompeo Barbarò fu molto contento quando seppe che suo figlio, il buon Giulietto, era partito improvvisamente da Milano, senza dir nulla nemmeno alla Mary, per raggiungere a Sarnico un reggimento di Garibaldini.

—Bene, benone!—pensava il Barbarò, rosicchiandosi le unghie.—Bene, benone! Non si sa mai che cosa debba accadere nella vita, e un giorno o l'altro mi può essere utile anche di avere un eroe in famiglia. Questo prova intanto che ho educato mio figlio con buoni principii.... E... se per caso tornasse al mondo Don Miao.... E poi intanto che il ragazzo è a Sarnico, e quando, dopo, sarà andato in Tirolo, io avrò sempre una scusa eccellente per rimanere a Brescia a tener d'occhio gli affari miei. "Non ci sono già" potrò dire "perchè abbia interessi colla ditta Micotti, ma perchè voglio essere vicino il più possibile a mio figlio.... al mio unico figlio, per bacco!"

Intanto Garibaldi era arrivato a Genova da Caprera, e da Genova correva dritto a Como, a Lecco, a Bergamo a passarvi la prima rivista dei suoi Volontari, seguìto dappertutto dai voti degli uomini liberi e dalle speranze degli oppressi... e anche dai brontolamenti del signor Pompeo. L'entusiasmo ognor crescente per Garibaldi lo infastidiva e lo irritava sempre più: finiva coll'odiarlo quell'uomo che aveva l'amore di tutto un popolo, l'ammirazione di tutto il mondo.

Il Barbarò, dopo la speranza di un grosso guadagno sulle forniture, due altre ne aveva riposte nella guerra; e cioè che Andrea Martinengo ricevesse una palla nello stomaco (magari una palla di cannone) e che a Garibaldi toccasse la peggio. La morte del Martinengo lo avrebbe reso felice; la sconfitta "dell'eroe dei due mondi" gli avrebbe ridato il buon umore.

"Era tempo di finirla con quella mascherata delle camicie rosse!"

E la sera in cui Garibaldi appunto era aspettato a Brescia, dove teneva il suo quartier generale, il Barbarò rimase solo solo e imbronciato in un cantuccio del Caffè del Duomo.

La grande sala, sempre affollata e risonante pel frastuono allegro delle voci e il continuo via vai della gente, quella sera era vuota e deserta: tutti erano alla stazione; tutti erano andati incontro a Garibaldi.

Pompeo borbottava:—Gl'Inglesi hanno ragione da vendere, quando ci chiamano la carnival nassion! Con una guerra terribile alle spalle, non si pensa ad altro che alle feste e alle luminarie. Matti; matti da legare!

Ma così solo si annoiava. Sbadigliò, fece alcuni conticini, col lapis, sul tavolino di marmo, poi pensò ch'era meglio andare a dormire, e chiamò, per pagare, il cameriere. Questi si faceva attendere: approfittando dell'occasione s'era ritirato anch'esso in un altro cantuccio, e faceva un sonnellino.

—Crist'... oforo!—gridò Pompeo, battendo stizzito sul tavolino, colla ghiera del bastone.—Sono andati con Garibaldi anche i camerieri?!...

Tommaso, il buon Tommaso del Caffè del Duomo, si svegliò allora tranquillamente, si avvicinò bel bello, e fissando il cabarè, cominciò a fare il conto ad alta voce colla sua solita cantilena:

Venticinque del caffè; cinquanta del cognac; trenta del scifone: uno e cinque per servirlaa!

Pompeo buttò una lira e due soldi sul vassoio.

—Grazie al signoree!

Ma il buon Tommaso, svegliato del tutto oramai, desiderava fare un po' di conversazione; e però mentre con una mano teneva sollevato il vassoio e coll'altra, servendosi di uno strofinaccio, asciugava il tavolino, domandò sorridendo:—Il signore è rimasto solo stasera?

Il Barbarò non rispose.

—Tutta Brescia—continuò l'altro senza scomporsi—è alla stazione per veder Garibaldi. Ci sarà in moto, dicono, un ventimila persone!... Ed io sono inchiodato qua dentro, cane d'un mestiere!... Lei però, che ci poteva andare, com'ha fatto a star fermo?

Il Barbarò guardò il cameriere di traverso, cogli occhiettini loschi, rispondendo sgarbatamente:

—Io non sono nè uno spensierato, nè un matto!

Il buon Tommaso ritto, sempre col vassoio in mano, fissò alla sua volta l'avventore, ma con un'aria sospetta e punto benevola.

—Io penso al mio povero figliuolo—continuò Pompeo sospirando—e non ho volontà di divertirmi.

—Il signore ha un figliuolo con Garibaldi?—domandò premurosamente il cameriere.

—Già; con Garibaldi. Un figlio unico.

—Unico?

—Unico e solo!—Così dicendo il signor Pompeo cercò un piccolo medaglione fra il mazzetto di ciondoli, lo aprì, e mostrò al cameriere il ritratto di Giulio Barbarò, vestito da Garibaldino.—Deve arrivare a Brescia domani o doman l'altro, e ci son venuto apposta per vederlo, e per essergli più vicino!

Il buon Tommaso che aveva guardato il ritratto, tornava a guardare il Barbarò, ma con un'espressione di simpatia.

—Non ho altro che lui al mondo!... Mia moglie, poveretta—continuò Pompeo, che aveva notato il cambiamento—è morta nel quarantanove, sicuro; in seguito allo spavento di quella notte terribile in cui erano venuti i Tedeschi in casa nostra per...—ci pensò un poco, e poi gli scappò detto—per condurmi al patibolo!—E a questo punto come se avesse paura di lasciarsi vincere dalla commozione di quei ricordi, si alzò bruscamente, esclamando forte nell'andarsene:—Buona sera!

—Buona sera, signore!—rispose il cameriere, assai rispettosamente, e senza la solita cantilena.

Appena uscito dal Caffè del Duomo, Pompeo Barbarò era lì lì per sentirsi commosso; aveva finito col crederci un po' a quanto aveva raccontato. Ma poi, giunto che fu sotto i portici, la lunga fila di portici che attraversa il cuore della città da Piazza Vecchia al Corso del Teatro, cominciò di nuovo a brontolare storpiando le parole:— Carnival nassion! Carnival nassion!

I portici erano pieni di gente di ogni età, di ogni condizione. Signore e donne in capelli, uomini del popolo e ragazzi scamiciati; e tutti si avviavano in festa verso il Corso del Teatro, animati tutti da uno stesso pensiero, Garibaldi; tutti con una sola parola sulle labbra, Garibaldi; tutti con un'ansia sola nel cuore, vedere Garibaldi!

Il Generale doveva essere arrivato, e il suo quartiere era stato fissato all' Albergo d'Italia, in faccia ai portici del Teatro; poco lungi dall' Albergo del Gambero, dove aveva preso alloggio Pompeo Barbarò. Questi per schivare l'ingombro della gente affrettò il passo: voleva ritornare all'albergo colle costole sane!... Pure, non ci fu verso; arrivato in fondo ai portici dovette fermarsi. Tutto il Corso era pieno, stipato dalla folla che chiudeva gli sbocchi come una muraglia, e che gridava acclamando ad ogni ripresa dell' Inno di Garibaldi, continuamente ripetuto da una banda ormai fiacca e stonata. Quei mille e mille occhi volevano rivedere Garibaldi al balcone dell'Albergo; quei mille e mille cuori volevano infiammarsi ancora alla sua voce, alla sua parola; volevano sentire dalla bocca stessa dell'Eroe la promessa della vittoria.

—Adesso per Garibaldi non mi è più permesso di andar a dormire!—borbottò Pompeo sbuffando.—E poi lo chiamano il campione della libertà!

Ma aveva un bell'agitarsi: non riusciva a sbucare.

—Ecco la libertà che abbiamo guadagnata!... Evviva la libertà!

Pure anche Pompeo, senza avvedersene, rimase attratto dalla commovente imponenza del nuovo spettacolo, e sempre brontolando si avviò passo passo, con un muso lungo un braccio, verso l' Albergo d'Italia.

"Poichè si trovava lì, e non era possibile di andar a dormire, voleva vederlo anche lui, questo Garibaldi!"

Camminava sempre sotto il portico e contro il muro per schivare la gente che guardava di mal occhio, quando a un tratto esclamò:

—Ah, ah, lo Sbornia! Stasera ne avrà bevuti dei bicchierini alla salute del Dittatore!

Lo Sbornia era vestito da volontario. Adesso che c'era l'aiuto di Beppe Micotti aveva potuto arruolarsi senza che gli toccassero prediche. Appoggiato a una delle colonne dei portici, cogli occhi intenti verso il terrazzo dove da un momento all'altro sarebbe apparso Garibaldi, stava immobile e muto come una cariatide. Pompeo gli si avvicinò battendogli sopra una spalla. L'altro si voltò lentamente, ma poi riconosciuto il padrone si rizzò subito toccandosi il berretto.

In quel punto, da tutta la folla, uscì un immenso evviva, un tuono, un uragano di evviva. Il vecchio volontario non pensò più al principale; lo dimenticò affatto, e agitando il berretto verso il terrazzo, mormorò colla voce cupa e rauca:—Viva il Generale!

—Taci, ubriaco!—grugnì piano Pompeo; ma intanto anche lui dovette alzare il capo e guardare Garibaldi.

In un attimo in tutta quella moltitudine rumoreggiante non ci fu più un grido, una parola, una voce: Garibaldi cominciava a parlare.

—Non si capisce niente!—borbottò Pompeo, stringendosi addosso allo Sbornia.

Invece la voce dell'Eroe, limpida e squillante, si diffondeva chiara nello spazio: le sue parole erano un saluto di amore, un inno alla libertà, una promessa di vittoria.

La folla, delirante, rispose ancora con un grido solo, ma in cui c'era la voce e il cuore di tutti:—Viva Garibaldi!

I petti balzarono; parve tremassero le case alte sotto il cielo stellato.

Garibaldi salutò sorridendo: biondo, come la leggenda cristiana immaginò il Nazzareno; sfolgorante nella camicia rossa, rischiarato dalla luce fantastica delle torce a vento, non era più un uomo, ma una apparizione, un mito. Era il simbolo della patria, era l'incarnazione della gloria.

Pompeo, soggiogato, drizzò un'altra volta gli occhiettini miopi verso il terrazzo; ma il fremito della folla non penetrava in lui. Egli era solo in mezzo a quel mare di gente. Pure un senso di sconforto e quasi di avvilimento si era fatto strada nell'animo suo. Sentiva, capiva per la prima volta che vi era al mondo qualche cosa di più potente, di più grande del danaro; qualche cosa superiore alla sua intelligenza e al suo cuore; qualche cosa di alto, di ben alto; a cui montando in piedi su tutti i suoi milioni, non avrebbe mai potuto avvicinarsi d'un punto.

—Ecco—pensava—se potessi anch'io avere una folla a' miei piedi, e farmi battere le mani, e gridare evviva!... Allora, chi sa, anche quell'orgogliosa che adesso mi disprezza, avrebbe per me un po' d'ammirazione... e... forse forse....

Ma fu un baleno. L'immagine della marchesa Angelica vinse subito il senso di abbattimento da cui era stato preso. L'odio e l'ira gli si ridestarono nel cuore e con tanta forza che, non potendo più contenersi, si sfogò contro lo Sbornia che continuava ad agitare il suo berretto:

—Diventi matto, buffone?!—gli gridò piano, fra i denti, tirandogli un pugno nella schiena.

Il Garibaldino si voltò colle guance accese, coll'occhio non più instupidito, ma scintillante; fissò in faccia il suo padrone e gridò, ma gridò forte, levando alte le braccia:—Sì!... Viva; viva il Generale!

Pompeo ghignò con un'alzata di spalle e non disse più una parola. Lo sprezzava troppo; non si voleva confondere! In quel momento avrebbe desiderato, invece, che tutta la folla fosse piena di debitori suoi, per averla in pugno e vendicarsi; oppure che capitasse improvvisamente un buon squadrone di cavalleria per caricarla e disperderla!

In quanto poi a Garibaldi, gli sarebbe piaciuto di trovarsi insieme con lui, a quattr'occhi, e domandargli:—Dica un po', signor predicatore, quando l'avrà fatta questa Italia, chi pagherà le tasse e darà da mangiare agl'Italiani?!

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XV.

La carriera dello Sbornia, dal quarantotto alla campagna del sessantasei, non era stata molto splendida: si era fermata al principio; era rimasto soldato semplice. E ciò perchè non aveva mai domandato nulla nè ai superiori, nè ai compagni, nè al governo del suo paese. Quando Garibaldi chiamava i Volontari sotto le armi, egli si presentava a un comitato di arrolamento e non faceva altro che dire il suo nome e cognome. Soltanto nel sessantasei aveva fatto valere le sue campagne, perchè al comitato si facevano difficoltà ad accettarlo, stante gli anni, che non eran pochi. E un'altra grazia domandò pure in quell'epoca ed ottenne; di entrare nello stesso reggimento e nella medesima compagnia di cui faceva parte il figlio del suo principale. Per altro Giulietto Barbarò non ne aveva mai saputo niente di tali pratiche. Una mattina, destandosi prima della sveglia (il reggimento era accampato presso Desenzano) ravvisò lo Sbornia, seduto lì a due passi, sopra un mucchio di ghiaia, che col muso basso, gli ungeva le scarpe di sego. Il buon ragazzo, al quale sembrò di vedere in quell'uomo un pezzettino di casa sua, gli fece subito grandi feste; poi cominciò colle domande e non la finiva più. L'altro si fermò a guardarlo a bocca aperta, cogli occhi melensi, rispondendo appena qualche monosillabo; e da quel momento continuò a servirlo in tutto ciò che gli poteva abbisognare, sempre muto, colla faccia sonnacchiosa, dondolandosi anche, qualche volta, ma con una puntualità e una pratica di tali faccende, degna proprio di una vecchia ordinanza.

Appunto poi nella sua tappa a Desenzano, e poche ore prima di rimettersi in marcia per Salò, un'altra e ben più cara sorpresa aspettava il giovane Garibaldino. Come tutti gl'innamorati, anche Giulio rifuggiva dal chiasso e dalle allegre brigate; però a Desenzano, dove in quei giorni era un andirivieni continuo di gente, Veneti emigrati e famiglie intere d'ogni provincia d'Italia, venuti a salutare gli amici e i congiunti che avevano nel corpo dei Volontari, egli, quantunque invitato dai compagni, non vi si era mai fatto vedere. Invece vi andò l'ultimo giorno dell'accampamento per cercare una lettera alla posta. Prima aveva mandato lo Sbornia, ma questi era ritornato colle mani vuote.

—Come?... Non ci son lettere?

L'altro fe' segno di no, col capo.

—Non è possibile!... Hai detto chiaro il mio nome?

Ci fu un nuovo cenno, ma affermativo.

—Ti sarai spiegato male!... Non ti sarai fatto capire!

Lo Sbornia non rispose più niente.

Allora il giovanotto,—la speranza è l'ultima che si perde,—volle andare alla posta in persona per accertarsi.... Ma proprio non c'era nulla.

"Come mai?... Che cos'era accaduto?"

Tristo e pensieroso, Giulietto Barbarò attraversava la piazza grande del paese per ritornarsene al campo, senza nemmen badare a tutta la gente che si accalcava sotto i portici e riempiva la piazza con un trapestìo assordante, con un brusìo allegro e cordiale, fra cui spiccavano giovanilmente balde le camicie rosse dei Volontari, quando tutto a un tratto, e in men che non si dica, udì un grido, poi chiamarsi per nome, poi una persona che gli si precipitava addosso, soffocandolo in un abbraccio.

—Eccolo qui, eccolo qui, finalmente sto moscardin benedetto!

—Oh Donna Lucrezia!—esclamò Giulio facendosi rosso in viso, perchè lì, colla zia, aveva veduta la Mary, rossa rossa anche lei, che sorrideva.

—Venivo dalla posta in questo punto—balbettò—e....

—E la letterina che aspettavate era in cerca di voi!—interruppe la Balladoro, indicandogli la fanciulla i cui occhioni neri scintillavano d'amore e di tenerezza.

Qua e là, dai crocchi vicini, si voltava la gente osservando quell'incontro così espansivo, e allora Donna Lucrezia, che se n'era accorta, scodinzolando impettita cominciò a spiegare al giovanotto com'era nato il disegno del loro viaggio.

Venivano in quel momento da Rezzato, dov'erano state a salutare "Francesco Alamanni, tenente colonnello, addetto allo Stato Maggiore di Garibaldi." E la Balladoro ripetè più volte e molto alto quel nome e quel grado; anzi nel suo fervore stringendo un poco i legami della parentela faceva tutt'uno di sè colla Mary, dicendo sempre "il colonnello nostro zio."—"Poi, partite da Rezzato" e qui la vedova abbassò la voce allontanandosi dai curiosi al braccio del Garibaldino, "partite da Rezzato e saputo da vostro padre che oggi probabilmente sareste stato ancora a Desenzano, non mi fu più possibile di trattenere quella piavolona della Mary e... eccoci qui!"

—Il babbo?... Dove lo hanno veduto?

—A Brescia, e sempre di quell'ottima!

La Mary non aveva detto ancora una parola, ma camminando al fianco della zia spingeva innanzi la bella testina per veder meglio il giovane Volontario, che rimaneva dall'altra parte, e un po' nascosto.

Giulio, dal canto suo, pareva assai impacciato e aveva il respiro affannoso, come se avesse corso. Egli sapeva già che la Mary in quei giorni doveva incontrarsi collo zio Francesco; sapeva pure che la nipote avrebbe tenuto allo zio un certo discorsetto assai importante, ed era appunto per tutto ciò che un momento prima, non avendo ricevuto lettere, si sentiva così inquieto e addolorato. Ma adesso, invece, non c'era più dubbio! La risposta doveva essere stata favorevole!... Perchè dunque non si mostrava allegro? Perchè rimaneva muto, confuso?...

Povero Giulio! era la troppa felicità che lo turbava, che gli toglieva le parole!... In fine, si fece coraggio, e allungando il collo alla sua volta per veder la Mary:—è proprio stata un'apparizione!—balbettò, ringraziandola cogli occhi.

Ma c'era là in mezzo a loro Donna Lucrezia, la quale prese per sè il complimento, e fermandosi su due piedi e sciogliendosi dal braccio del giovane gli disse lentamente con un mesto sorriso:

—Un'apparizione.... Giusto giusto, poteva essere un'apparizione perchè in tutti i modi anche morta sarei venuta coll'anima a salutarvi; ma, guardatemi bene: poco ci mancò, tesoro mio!

Giulio la guardò: aveva il cappellino rotondo alla Teresita; la camicetta rossa, di seta; ma, in complesso, era lunga stecchita, col naso gonfio e umido, tale e quale come quando l'aveva lasciata. Solamente, in mezzo alla fronte, era sparito il ricciolo alla Zodenigo.

—Scusi, Donna Lucrezia... non capisco. Sarebbe stata forse ammalata?

—Agli estremi—rispose la vedova con accento tragico.

—Come mai? Che cosa ha avuto?

—Che cosa ho avuto?... Mary—soggiunse rivolgendosi alla fanciulla—va avanti due passi!—La giovane quietamente si allontanò, e allora la Balladoro, preso ancora il braccio di Giulio e stringendoglisi più vicina.—Quel mostro—gli sussurrò all'orecchio—altro che spirito e contemplazion!... ha ingra...—e finì la parola col gesto—la Rosetta!

—Oh povera ragazza!

—Povera ragazza un corn... (non mi fate spropositare!) Poveretta me, dovete dire! Non ho potuto reggere allo strazio di tutti i miei ideali, e un dopo pranzo mi sono avvelenata!... Mary, torna pure che ho finito.... È stata lei che mi ha salvata—continuò Donna Lucrezia indicando la fanciulla—e in due modi. Primieramente arrivando in tempo col contravveleno; poi ricordandomi il giuramento fatto a suo padre di non abbandonarla mai!

La Mary sorrideva: essa non pareva molto commossa per quel terribile racconto. In fatti a rimettere la zia dalla morfina era bastato un po' di caffè carico, ch'essa ingoiò mormorando " lasseme morir! Mio Dio, che spasimi!... lasseme morir! " Ma Giulietto invece rimaneva perplesso, con una cera lugubre di circostanza, tanto che Donna Lucrezia medesima credette fosse il caso di confortarlo.

—Via, via! Rassicuratevi; sono stata una stramba, ma adesso... non ci penso, non ci voglio più nemmen pensare! Ha ragione la Filomena, nella sua ignoranza, di chiamarlo un tisico falso: con due parolette, zaffete, è fotografato!... È bensì vero che la piaga del cuor sanguina sempre, anche per l'oggetto indegno al quale sono stata posposta, ma... non uso far soffrire a chi amo i miei tormenti. Piuttosto, conduceteci in qualche alberghetto dove si possa mangiare un bocconcino un po' da cristiani. È tutto il giorno che andemo a zirandolon e scommetto che anche la Mary deve avere una fame da lupi!

Giulio Barbarò condusse subito le signore alla locanda del Mayer. Ma nelle sale terrene era tanta la confusione e la ressa della gente, che non era possibile trovar posto.

—Oh Dio, si soffoca!—esclamò la Balladoro.

—Se vogliono provare di sopra, ci sono altre sale ed anche la gran terrazza!—disse loro, tanto per liberarsene, un povero cameriere trafelato, che correva tenendo in equilibrio un monte di piatti e vivande.

La Balladoro e i due giovani salirono al primo piano e rimasero subito un po' ristorati trovandosi a respirare sopra un bel terrazzino, di prospetto al lago, tutto coperto da una folta vite. Anche lì non c'era più posto; per altro alcuni Garibaldini, amici e compagni di Giulio Barbarò, lo invitarono colle signore alla loro tavola; "si sarebbero ristretti un poco, ma avrebbero potuto pranzare tutti insieme." Colla fame che avevano, non si perdette tempo a far complimenti. Donna Lucrezia, ritta impalata, accettò il posto d'onore, e Giulio si sedette vicino alla Mary.

Tuttavia l'appetito dei due giovani durò poco; mangiavano in furia per potersi guardare, arrabbiandosi coi camerieri che aspettavano una mezz'ora fra un piatto e l'altro. Essi avevano già adocchiato un cantuccio della ringhiera dove avrebbero potuto parlarsi da soli; e la fanciulla faceva raccolta di midolla di pane per gettare ai pesci.

Dopo l'arrosto non ci fu più verso di tenerli a tavola. Si alzò prima la Mary, e si avviò tranquillamente verso la ringhiera col pane per i pesciolini; Giulio, facendosi rosso, le tenne dietro quasi subito.

Sul terrazzo c'era troppa allegria e troppo baccano, perchè la gente potesse badare ai due innamorati; e Donna Lucrezia, smesso il sussiego del primo momento, aveva cominciato a parlare del "loro zio Francesco Alamanni" che tutti i Volontari conoscevano bene, se non di persona, almeno di fama, e a mano a mano, infervorandosi nel discorrere, non pensava più ad altro.

—Guardi, signor Giulio, guardi che spettacolo incantevole!—esclamò la fanciulla ad alta voce, tanto per far credere intorno che il giovanotto le si avvicinasse per ammirare la bellezza della veduta.

Era cominciato il tramonto e Sirmione, fra le onde turchine, appariva dorata dall'ultimo raggio di sole. Era fantastica la linea rossa di fuoco, che chiudeva l'orizzonte; era maraviglioso il profilo cupo delle montagne sullo sfondo trasparente del cielo; ma i due giovani non vedevano nulla di tutto ciò: si guardavano; e tutto il mondo della Mary era negli occhi di Giulio, tutto il mondo di Giulio era negli occhi della Mary.

—E dunque?... ha parlato collo zio?—domandò il giovane piano piano alla fanciulla.

Donna Lucrezia, che da qualche tempo si mostrava molto smaniosa di veder concludere le nozze della nipote con Giulietto Barbarò, aveva fatto capire che se il mettere a parte lo zio Francesco di un tale avvenimento era un atto doveroso per la Mary, pure del suo consenso ne avrebbero potuto anche far senza.

Contenta mi, contenti tuti! —ripeteva sempre la Balladoro. Ma così non pensava la Mary. Essa adorava lo zio Francesco, e ne andava superba. Ricordava i sacrifici ch'egli aveva fatti per lei in ogni tempo, e che continuava a fare, e lo ricambiava con una tenerezza e una sommissione di figlia.

Per tutto ciò la voce di Giulio tremava un pochino, mentre faceva la sua domanda alla signorina Alamanni.

—Ha parlato col signor Francesco!

—Sì; ho colto il momento in cui non c'era la zia presente e....

—Che ha risposto? Che ha risposto?—interruppe Giulio al quale non premevano i particolari, ed era ansioso di venire alla conclusione.

—Ha risposto che, in regola generale, era sempre stato il suo più vivo desiderio quello di sapermi... di vedermi collocata.—E adesso toccò alla bella fanciulla ad arrossire; ma per nascondere il vivo turbamento, si chinò sulla ringhiera, e ricominciò a gettare le briciole di pane ai pesciolini.

—Gli ha detto proprio tutto?—insistè il giovane, avvicinandosi di più.—Gli ha detto che... che mio padre, in origine, non era... un signore?

—Sì, e lo zio mi ha risposto che non si ricordava di aver mai conosciuto, nè veduto il signor Barbarò; del resto egli non faceva caso nè della nascita, nè delle ricchezze; voleva, e gli premevano due cose soltanto: che il nome fosse di gente onorata e che io....

—E che lei?...—insistè il giovanotto, fissando la fanciulla che si era interrotta.

—Non ho più pane—esclamò la Mary mostrando al giovane le sue manine vuote.—Vado a prenderne dell'altro,—e scappò via in fretta, piantando lì il Garibaldino, un po' confuso e mortificato, che non aveva saputo trattenerla, e non osava andarle dietro.

Donna Lucrezia, nel frattempo, col viso acceso e la voce forte, aveva raccontato ai nuovi amici tutti i grandi sacrifici compiuti per la patria dagli Alamanni, dai Badoero e dai Balladoro. Poi gli aveva fatti ridere a proposito del consigliere Spinelli, un coinon, un vero bucefalo che le era stato messo alle costole dalla polizia austriaca per tenerla d'occhio e per martirizzarla; e, in fine, dal cavaliere Spinelli era passata a sfogarsi contro certi italianoni, ai quali il governo dei moderati accordava la sua grazia!... Certi tomi, capaci capacissimi di fare il tisico quando era il momento di andare a battersi, e che per la patria non avevano versato mai altro che inchiostro!...

—Avrei un'azionaccia da raccontare, un'azionaccia...—ma a questo punto la Balladoro vide la nipote che si avvicinava, e allora—acqua in bocca, Lucrezia—esclamò—e siamo prudenti!

La Mary fe' un girettino attorno alla tavola, prese alcuni pezzetti di pane, poi tranquillamente tornò ad avvicinarsi alla ringhiera dove Giulio l'aspettava, dicendogli, come per intavolare un discorso un po' diverso da quel di prima:

—Sa?... Ieri ho ricevuto lettera dall'Angelica!

—La marchesa sta bene?—domandò il giovane un po' distratto.

—Bene; e Alberto pure. Sembra proprio che l'aria marina gli sia molto propizia....

—E dunque non mi vuol ripetere tutto quello che le ha detto il signor Francesco?—riprese il giovanotto, con voce sommessa, mentre la Mary, chinata sulla ringhiera, scioglieva colle dita la midolla del pane che lasciava cadere nell'acqua.

—Non so bene.... Mi pareva di aver raccontato ogni cosa.

—No, no; mi ha detto solamente che il signor Francesco pretendeva che il nostro nome fosse onorato.... Ma l'altra condizione vorrei sapere... quella che tocca proprio lei?

La Mary sorrise; buttò ai pesci in una volta sola tutto il pane che aveva portato, e mentre la mano di Giulio si avvicinava sulla ringhiera fino a toccar la sua, mormorò guardandolo serenamente "l'altra condizione è... che io gli voglia tanto bene!" e quel tanto non era del signor Francesco; lo aveva aggiunto lei.

—Allora?...—Giulio si era fatto pallidissimo e non fissava più gli occhi, ma le labbra tremanti della fanciulla.

—Allora... dopo la guerra verrà subito a Milano... per conoscere il signor Barbarò....

—E... poi?

—E poi, e poi non so più altro!—esclamò ridendo la Mary, alla quale piaceva molto la timidità modesta dell'amico suo.

Si guardarono ancora lungamente.... Erano proprio felici!... Ma, a un tratto si affacciò il pensiero del distacco vicino, della guerra, dei mille pericoli... e allora gli occhi sereni della Mary si fecero mesti, peritosi e il bel sorriso finì fra le lacrime.

—Non ho paura, sa; no, non ho paura!—disse poi rompendo il silenzio con uno schianto dell'anima.—Stanotte ho sognato la mamma, e ciò mi ha sempre portato fortuna!

Bastò quell'idea a dissipare ogni nube: tornarono a guardarsi; tornarono a sorridere....

Poveri ragazzi!... Essi non avevano più alcun timore "dopo la guerra;" non temevano nemmeno la venuta dello zio Francesco a Milano, per assumere informazioni!

E, in fatti, che ne sapeva Giulio di suo padre?... Che ne sapeva la Mary, del signor Barbarò?... Il giovanotto allevato lontano dal mondo, senza amici, credeva che il babbo fosse un po' inflessibile, un po' troppo positivo e attaccato al guadagno, ma... ma come avrebbe potuto un figliuolo, e un figliuolo semplice e buono, dubitare dell'onestà di suo padre?... Alla signorina Alamanni avevano detto che il Barbarò era un po' avaro, ecco tutto.

Era vero che Donna Lucrezia a giorni ne diceva roba da chiodi e a giorni, invece, lo portava alle stelle; ma la fanciulla non faceva gran caso tanto dei biasimi, quanto delle esaltazioni della zia. La marchesa Angelica poi aveva capito che Giulio e la Mary si volevano bene, e per uno scrupolo delicato non avea mai voluto parlare colla cuginetta sul conto del signor Pompeo.

Non dubitavano, non temevano nulla i due ragazzi!... Eran vicini vicini, curvi addosso alla ringhiera; sempre muti, si guardavano sempre. In fine, attratti da un fascino irresistibile, si avvicinarono ancora di più: la camicia rossa del Volontario toccava l'abitino di percallo a righe bianche e azzurre e ci fu un momento in cui un soffio d'aria più forte portò un ricciolo della Mary sulla tempia di Giulio Barbarò.

Intanto si era fatto notte; sulle tavole avevano accese le lucerne, e Donna Lucrezia, cogli occhietti lustri e con in bocca il suo bravo sigaro di Virginia, si lasciava trascinar dalla foga, a raccontare tutto ciò che prima avea durato molta fatica a tacere, cioè che "quel tisico falso," il quale tirava sempre in ballo la luna e le stelle, lo spirito e la contemplazion aveva... rovinata una sua dipendente. Una beota, del resto, senza grazia nè meriti, che si tingeva gli occhi e le guance mentre lei aveva sempre avuto per principio che per conservare la bellezza di una donna c'era solo uno specifico: acqua fresca in abbondanza!—E poi—continuava levandosi il sigaro di bocca e guardandosi attorno, mentre abbassava la voce—e poi... devo dirla?...

—Dica, dica!—esclamarono tutti i Garibaldini che se la godevano con la Balladoro, come fossero alla commedia.

—Poi, la donna deve mantenere sempre di più di quel che all'occhio promette e... corocochè!

Le risa, le acclamazioni risonarono per tutto il terrazzo.

La Mary, rossa per aver pianto, si voltò, inquieta, a guardare la zia, poi subito le si accostò, seguita da Giulio, pallidissimo, cogli occhi aridi e infossati.

Donna Lucrezia, appena li vide vicini, fece la faccia seria, mormorando, con timidezza affettata:—zitto, zitto; cambiamo discorso: c'è qui il mio carabiniere!

—Allora un brindisi all'Italia!—proposero i Garibaldini alzando i bicchieri.

—Oh questo sì!—e Donna Lucrezia cominciò:

Ah se l'Italia frangere....

ma s'interruppe di colpo con una smorfia. Erano i versi dello Zodenigo.—Che frangere d'Egitto; lo farò io il brindisi!—e dopo averci pensato un istante, ripigliò fra gli applausi:

Viva l'Italia una Dall'Alpi alla laguna!

In quel punto si udì squillare la fanfara dei Volontari, che attraversava il paese. Tutti i soldati balzarono in piedi, ricambiarono in fretta i saluti, e sparirono in un lampo dal terrazzo.

Giulio e la Mary si lasciarono con una stretta di mano, senza potersi dire una parola. Dagli occhi della fanciulla le lacrime colavano grosse, silenziose.

Un'ora dopo i Garibaldini erano in marcia sulla strada che costeggiando il lago di Garda conduce da Desenzano a Salò. Era una notte chiara di plenilunio, e i canti, le allegre voci e gli evviva all'Italia, a Venezia, a Garibaldi si effondevano nel silenzio vasto delle acque pallide e tranquille, e si ripercuotevano echeggianti per le valli cupe, soffocando il sussurrio infinito degli insetti e sollevando le strida acute degli uccelli notturni. Ma poi, a poco a poco, le voci divennero più fioche, più rade, poi quasi a un tratto cessarono e per la strada lunga e bianca non si udiva più altro che il brusìo confuso, e il passo misurato della marcia.

I Garibaldini, per giungere a Salò, passavano da Padenghe, da Villagardiana, da Moniga, da Manerba; e Giulio, frattanto, salutava i luoghi così pieni per lui di memorie, così cari al suo cuore, e fra le ombre nere e al mite chiarore della luna, quei paeselli gli apparivano qua e là come amici soffermatisi sul suo passaggio che mestamente lo salutassero. Allora il buon ragazzo fu preso da un senso di malinconia dolce e soave, e rivedendo col pensiero innamorato il viso bello della sua fanciulla, ancora molle di pianto, egli pure versò qualche lacrima, ma di tenerezza, di amore, di felicità.... Pensò a suo padre, e si consolava per la certezza che sotto un'apparenza aspra e burbera c'era pure in lui molto cuore! Lo avea veduto commuoversi quando si erano salutati: lo avea veduto fiero, superbo!

—Francesco Alamanni?... Oh, avrebbe provato all'Alamanni che il cuore dei giovani valeva bene quello dei vecchi, e il nome di Giulio Barbarò non sarebbe stato solamente il nome di gente onesta, ma pur quello di un valoroso. Ah, per Dio, se avesse potuto guadagnarsi una medaglia!

—Ma... se non fosse più tornato indietro?... Povera Mary!... Era certo, però, sì, sì... era certo che non si sarebbe più maritata!

Lì accanto al figlio del suo principale, marciava pure lo Sbornia, ma senza pensare a niente. Colla testa bassa, cogli occhi socchiusi, camminava dormendo.

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XVI.

Mentre Giulietto era in marcia per Salò, la Mary si trovava in viaggio per Milano. Le due signore avevano potuto rimaner sole nello scompartimento, e Donna Lucrezia, dopo uno sternuto formidabile, (si era raffreddata a pranzar fuori, sul terrazzo) avea finito coll'addormentarsi, e così lasciava libera la nipote nel suo raccoglimento.

La Mary, appoggiato il capo presso il finestrino, fissava cogli occhi intenti la campagna, che sembrava più vasta nella notte chiarissima, e che per la grande velocità del treno pareva correre dinanzi il suo sguardo con apparizioni svariate e fantastiche... ma il pensiero e il cuore erano lontani.... Erano in marcia verso Salò. Anche la fanciulla sospirava il giorno in cui la guerra sarebbe stata finita, e lo immaginava come un sogno di beatitudine e d'amore. Pur troppo anche alla sua fantasia si affacciò involontariamente un'idea paurosa; fu un momento di angoscia crudele; si sentì diacciare il cuore e pensò che— se mai —si sarebbe fatta suora, suora di carità... per il poco tempo che gli avrebbe potuto sopravvivere.

A Milano, in que' giorni, era sempre mesta, inquieta; aveva sovente gli occhi rossi e faceva disperare la buona Filomena perchè aveva perduto l'appetito, e andar sulle furie Donna Lucrezia perchè non si vestiva più bene, perchè non voleva più uscire a far visite, nè veder gente.

—Nessuno più di me—brontolava la vedova—è al caso di comprendere e compatire le pene del cuor; ma, santi Numi, ci vuol coraggio... e distrazion!

Invece la Mary di distrazione non ne volea sapere, e il coraggio le veniva meno ogni giorno. Tutti i timori, tutte le angosce di que' momenti terribili avevano un'eco dolorosa nell'anima sua. Aspettava una lettera che le era stata promessa, e tutta la sua vita era lì, nell'attesa di quella lettera, che non arrivava mai!

E lo zio Francesco?... Anche dello zio non si avevano notizie, e questa era un'altra grande inquietudine.

La mattina, prestissimo, la Mary usciva colla Filomena per ascoltare la prima messa nella piccola chiesetta di Sant'Andrea e pregava lungamente inginocchiata presso l'altare della Vergine, col capo chino e il viso nascosto nell'uffiziuolo. Pregava, perchè arrivassero le notizie tanto desiderate, e perchè Giulio ritornasse, e ritornasse presto, insieme collo zio. Pregava, e quando rialzava gli occhi dal libro erano gonfi di lacrime.

La Filomena non poteva reggere a stare tanto tempo inginocchiata, e però rimaneva seduta presso la Mary, e diceva anche lei le orazioni facendo scorrere fra le dita tremolanti una lunga corona di cocco.

La vecchiarella, che continuava a servire la Balladoro colla promessa della pensione appena la padrona si fosse accomodata con un'altra serva che dovea aver tutti i numeri, ma che non si trovava mai, adesso zoppicava con tutt'e due le gambe. Più assecchita, pareva ancora più piccola; ma aveva sempre i bei riccioli bianchi attorno alla faccetta vispa e buona. Anche la Filomena pregava per il signor Francesco, per quella lettera benedetta, e pregava per il signor Giulio, sospirando nel guardare con tenerezza la figura elegante della fanciulla che le stava inginocchiata dinanzi. Tutte le pene e i dolori della padroncina erano pur sentiti dalla Filomena, che piangeva e temeva e sperava con essa.

Colle sue premure umili, ma insistenti, non la perdeva d'occhio un minuto, e tutto il giorno era un continuo andar su e giù della vecchiarella dalla cucina alla camera della Mary. La confortava co' suoi presentimenti sempre lieti, e con certi ragionamenti che, se non avevano un gran valore, pure ottenevano sempre un buon effetto; e quando poi le parlava della sua povera mamma, di quella santa della signora Lucia "ch'era in Paradiso di sicuro e che doveva assistere i suoi figliuoli " allora negli occhi della Mary appariva un sorriso fra le lacrime, sorriso che veniva colto a volo dalla Filomena, per far mangiare alla padroncina qualcosetta di sostanzioso.

Ma presto nemmeno la Filomena non seppe più come darle animo. La battaglia di Custoza, che dissipò tante balde speranze, aveva messo la fanciulla in uno stato di continuo sbalordimento. Pallida, smunta, non parlava più, non piangeva nemmeno più. Guardava in viso la zia, la Filomena, cogli occhi smarriti che esprimevano una domanda angosciosa, ma alla quale nessuno poteva rispondere, perchè mancavano affatto le notizie dal campo Garibaldino.

Povareta mi!... La perde tutti i sentimenti!—esclamava donna Lucrezia.

—Seguitando così, muore sfinita—sospirava la Filomena.

E davvero la povera ragazza non avrebbe potuto continuare ancora per molto tempo in quello stato; ma per fortuna la lettera tanto attesa arrivò finalmente a rimetterla in vita, e a ridarle un po' di speranza.

Giulio Barbarò aveva scritto a Milano, dal Ponte del Caffaro fino dal ventisette giugno; ma la lettera non era arrivata in via della Spiga prima del due di luglio.

La Mary, appena l'ebbe fra le mani, andò subito a rinchiudersi nella sua camera per quanto la zia le fosse corsa dietro e picchiasse all'uscio gridando che anch'essa era tuta in convulsion e che voleva saper qualcosa. Tuttavia non aspettò molto. L'altra uscì quasi subito, ancora colla lettera spiegata in mano, ma affannata e piangente.

—Santi Numi, una disgrazia?...

—S'è... s'è.... s'è battuto!

—È rimasto ferito?

—No... no....

—E allora consoliamoci senza tanti spasimi, creatura benedetta!

—Ma zia... pensa che.. poteva...—e la fanciulla si buttò sul canapè, e proruppe in un pianto dirotto.

—Bisogna compatirla—mormorò la Filomena ch'era venuta anche lei per sentire, portando un bicchiere d'acqua alla Mary:—sono scosse che fanno perdere la testa a una povera ragazza. Beva, beva un sorso d'acqua!... Vuole che ci metta anche un dito di caffè?

La Mary fece segno di no, col capo, poi andò a sedersi presso la finestra, e balbettando e singhiozzando cercò un brano della lettera che voleva leggere.

Le due donne aspettavano in piedi, con grande ansietà.

—Andiamo... comincia dal principio!

Ma invece la Mary ostinata, cominciò a leggere in fondo della prima pagina:

—"...ie... ieri... fi... finalmente."

—Santa pazienza!... Guarda, Filomena, dove ho messo gli occhiali! Leggeremo insieme o non si va più avanti!...

—..."ieri finalmente—ricominciò la giovane con voce più sicura—abbiamo avuto il primo scontro a Ponte del Caffaro...."

—Dov'è?... Dov'è questo Ponte del Caffaro?

—Sarà in Tirolo—osservò la Filomena.

—Grazie tante, siora mammalucca!

—..."eravamo in pochi: la mia compagnia e quella del capitano Egisto Bezzi, che si è battuto come un leone...."

—L'ho conosciuto questo Egisto Bezzi; sicuro, sicuro. Non ti ricordi, Mary, a Desenzano? Un bel pezzo d'omo?

—..."fummo assaliti inaspettatamente, ma quantunque i nemici fossero al doppio di numero e molto meglio armati di noi, con certe carabine che non sbagliavano d'un punto, dopo una lotta accanita, disperata, li abbiamo respinti.

—Bravi tosi; evviva l'Italia!

—"Ma—e qui la voce della Mary tornò a farsi tremante—ma pur troppo dobbiamo lamentare fra i nostri molti morti e feriti. Io poi ho perduto un compagno che mi era affezionato; un antico agente di mio padre; un bravo soldato che fino dal quarantotto aveva fatte tutte le campagne con Garibaldi...."

—Lo Sbornia—esclamò la Balladoro.—Oh povero Sbornia!... Chi sa, chi sa, il signor Pompeo! ne sarà disperato!

La Mary alzò gli occhi, guardando la zia come per interrogarla. Essa non si rammentava d'averlo conosciuto questo agente del Barbarò.

—Da parecchio tempo non si vedeva quasi più col signor Pompeo, ma una volta era il suo factotum.... Tira via....

—... "Egli è morto, si può dire, fra le mie braccia. Durante il combattimento, il Micotti...."

—Bravo; il suo nome era appunto Micotti, ma tutti lo chiamavano Sbornia per... per antonomasia, come dice quel cane d'un... del.... Tira via, tira via!

—"Durante il combattimento, il Micotti era rimasto ferito a un piede da una palla morta. Ci tenevamo tutt'e due per riparo, inginocchiati dietro il grosso tronco di un albero; anche ferito egli non aveva detto una parola; aveva continuato a far fuoco, e per ciò, non m'ero accorto di nulla. Ma poi, quando i nemici cominciarono a ritirarsi ed io mi alzai, volendo raggiungere i compagni, egli allungò il braccio, e traballando mi afferrò con una mano.—Sei ferito?—gli chiesi subito notando il suo pallore.—Non è niente—mi rispose sforzandosi per camminare. Allora cercai di aiutarlo e di reggerlo quanto più potevo, e lo condussi passo passo, verso l'ambulanza. Eravamo soli (i nostri compagni ci avevano preceduti perchè era stato sonato a raccolta) eravamo soli in fondo a una valletta angusta, chiusa fra le rocce, e che dovevamo attraversare. A un tratto, in alto, su per que' dirupi, scorgo appena due Jäger e il luccicare delle carabine, e quasi nello stesso tempo sento il fischio di una palla passarmi vicino all'orecchio; sento echeggiare nella valle il fragore delle fucilate, e il mio compagno che stramazza mormorando:—Buona notte!—Mi chinai per soccorrerlo; era morente. Una palla lo aveva colpito giusto in mezzo al petto.—Rialzai subito il capo, aguzzai l'occhio: gli Jäger si allontanavano, arrampicandosi come camosci. Presi di mira il più vicino, feci fuoco, ma che!... i nostri fucilacci sbagliano anche le montagne!... Guardai di nuovo: gli Jäger si arrampicavano ancora tutt'e due... e a un tratto sparirono per quelle gole...."

—Misericordia!... Un filo; proprio per un filo!—esclamò la Balladoro, mentre la Filomena, senza poter parlare, con le lacrime che le gocciolavano dagli occhi, tremante, avvicinava il bicchier d'acqua alla Mary, che vi bagnò appena le labbra, poi di colpo, corse via esclamando:—E lo zio Francesco?... Lo zio Francesco?!—e andò in camera nuovamente, e vi si richiuse.

—Dio, Dio, Dio, che angosce!—gemette allora Donna Lucrezia buttandosi sulla sedia, dov'era prima la nipote.—Senti il polso. Filomena!... Scommetto, non ho più sangue.... Dammi quell'acqua... no, aspetta... con una goccia di vermut.... Io già sono così; mi sforzo, per far coraggio a quella creatura; mi sforzo, mi sforzo, mi sforzo e poi non posso più reggere e soffro l'impossibile!... Dio, Dio, Dio, per un filo; proprio per un filo!...

Alcuni giorni appresso arrivava a Milano un'altra lettera di Giulio; ma diretta a suo padre, il quale dopo la battaglia di Custoza era scappato da Brescia. Questa seconda lettera conteneva pure una brutta notizia: Francesco Alamanni era stato ferito e fatto prigioniero. E Giulio pregava il babbo, se avesse creduto opportuno di comunicare la cattiva nuova alla signorina Mary, di farlo con molto garbo, preparandola a poco a poco, perchè non le cagionasse troppo dolore.

—Be'... be'!... Questa seccatura è per Donna Lucrezia. Quattro parolette, quattro smorfiette, e tutto è presto passato!

E Pompeo Barbarò, che alla notizia della morte dello Sbornia aveva esclamato colla signora Veronica "una bocca inutile di meno!" pensò adesso, in cuor suo, che se Francesco Alamanni non fosse più ritornato da quella guerra, non sarebbe stata una grave disgrazia.

—Ma invece—borbottava—pareva proprio che anche la mitraglia avesse rispetto per gli spiantati.... Anche quel Florindo del capitano Martinengo s'era trovato a Custoza, e l'avea passata liscia senza rimetterci nemmeno un pelo dei mustacchi!... Saranno state le orazioni della marchesa—continuava facendosi verde—che gli avran portato fortuna. Come sono ipocrate le donne!... Ficcano Domeneddio anche a fare il terzo coi loro amanti!...

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XVII.

Non erano scorsi molti mesi dalla morte del vecchio Micotti, quando un giorno Pompeo Barbarò, chiuso solo nel suo studio, dinanzi a certe carte, dovette convenire seco medesimo che il brav'uomo era proprio crepato a tempo. Quelle carte si riferivano a un processo che veniva intentato dal Ministero della guerra contro la Ditta Micotti e figlio, assuntrice per la fornitura delle scarpe e delle armi al Corpo dei Volontari.

Le frodi e i brogli commessi dagli appaltatori sarebbero forse rimasti inosservati o, come succede quasi sempre, lasciati nel dimenticatoio, se i ferravecchi forniti per armi ai Garibaldini non avessero sollevato il pubblico sdegno, e messo a rumore il campo del giornalismo. Tutti que' giovani pieni di vita e di valore erano andati a farsi ammazzare con macchinosi schioppettoni impotenti a resistere, impotenti a rispondere alle famose carabine degli Jäger. Le gazzette riportavano di continuo miracoli di valore rimasti senza frutto, e vittime innumerevoli dovute non alla bravura del nemico, ma alla disonestà degli speculatori, che era stata cagione di lutto e di lacrime per tante famiglie italiane. E quella indignazione che correva per tutto il paese, arrivò a farsi sentire in alto, e fu chiesto e fu istruito il processo contro la Ditta Micotti. Tuttavia se la giustizia avea potuto mettere le mani sui complici minori, "il capo e l'anima dell'impresa", narrava Il Moderatore, un nuovo giornale, come apparisce dal titolo, temperato e cauto, "era stato sottratto dalla morte al meritato gastigo."

—Chi era costui?—si domandava l'un l'altro.

—Un poco di buono; un imbroglione raffinato. Avea avuto anche la malizia di arruolarsi con Garibaldi per gettare la polvere negli occhi; ma Dio non paga il sabato. Era stato ammazzato a Ponte del Caffaro con una fucilata nella schiena, mentre fuggiva a gambe!

—Bene, per bacco!... Benone!... Ma anche il resto della compagnia—si gridava nei caffè, nei pubblici ritrovi—i soci, i ministri, i manutengoli, bisogna impiccarli tutti, senza misericordia!...

Intanto, a poco a poco, prima mormorato qua e là vagamente, come un si dice, poi pigliando la consistenza di un fatto vero, accertato, veniva messo in ballo il nome di "un certo Pompeo Barbarò" in tutte le losche operazioni della Ditta Micotti; ed anzi finì coll'essere accusato appunto "questo Pompeo Barbarò" e non più il Micotti, come la vera anima dell'impresa, il capitalista; colui insomma che disponeva dei quattrini.

—Allora bisogna impiccar lui per il primo!

—Certamente, se si potesse metterlo in gabbia!

—È scappato?...

—No; ma contro questa canaglia mancano le prove legali—rispondevano i meglio informati.—Bisognerebbe in tal caso, che i gerenti della Ditta cantassero chiaro. Se l'altro Micotti, il figlio del morto, volesse fare delle rivelazioni, allora il Barbarò sarebbe spacciato; ma tutti invece, si vede, devono trovare il proprio vantaggio nel tener nascosto il principale, perchè nessuno fiata. Anche Beppe Micotti resta muto come un pesce, e dichiara soltanto di aver eseguito sempre e ciecamente tutte le istruzioni e gli ordini di suo padre.

—Ma anche questo Pompeo Barbarò, chi è infine? Da dove diamine è sbucato?

—Chi può saperlo?... Ha sempre fatto l'affarista, l'usuraio; ma in grande. Ha rovinato mezzo mondo; i Badoero fra gli altri, ed anche il marchese di Collalto. Di sicuro, si sa una cosa sola; che ha più milioni in tasca, che capelli in testa!

—Oh oh, davvero è proprio un riccone?!—esclamavano in molti a questo punto.—Se ha tanti quattrini allora... niente paura!

—Paura, ne deve avere in ogni modo—soggiungevano i più arrabbiati.—Dovrà pur comparire alle Assise, se non altro come testimonio, e allora lo serviremo a suon di fischi e di legnate, quel cane, quel boia!...

Infatti anche Pompeo Barbarò, pensando al giorno in cui, per i suoi rapporti personali verso la Ditta Micotti, avrebbe dovuto presentarsi all'udienza per deporre sui precedenti degli imputati, si sentiva addosso la tremarella.

Era sicuro di averla fatta in barba alla legge, ma... se il pubblico, vedendolo, si fosse messo a schiamazzare?... Gli accusati erano lasciati a piede libero, e il Barbarò aveva potuto accomodar bene le sue faccende; ormai era sicuro di Beppe Micotti e degli altri, ma... ma s'egli stesso si fosse imbrogliato, confuso, tradito nel rispondere al Presidente?

Poi, passato ancora qualche tempo, due o tre sere prima che incominciassero i dibattimenti, ad accrescere la sua apprensione e le sue inquietudini, gli capitò proprio un tegolo sul capo, da dove meno avrebbe temuto.

Pompeo Barbarò era ancora a tavola a predicare, a brontolare e a sbuffare con Giulio, che lo stava a sentire ansiosamente, sul proposito dell'imminente processo. Dichiarava appunto che lui aveva sempre detto e ripetuto che quel bestione dello Sbornia gli avrebbe fatto avere dei dispiaceri, ma che del resto poteva vantarsi, e avrebbe provato di aver le mani e la coscienza nette, quando entrò nella stanza il portinaio, per avvertirlo che era venuta una donna a cercare di lui, e che gli voleva parlare subito, sul momento.

—A quest'ora?... Chi è?...—domandò Pompeo maravigliato.

—M'ha detto di annunziare "la Veronica" e che lei avrebbe capito.

Il Barbarò, sbuffando, diede un'occhiata al figliuolo come per dirgli "Capisci?... quella gente non mi dà requie neppure quando sono a pranzo"; poi tornò a domandare:

—È ancora giù?

—Sissignore.

—Be'... falla salire.

Il portinaio uscì. Pompeo, continuando a sbuffare, accese una candela e gli tenne dietro, fermandosi ad aspettare la Veronica sul pianerottolo; poi, quando fu sopra, senza salutarla, nè guardarla in faccia, la fece entrar nel suo studio, ch'era dall'altra parte della scala.

—E così?... Che c'è di nuovo?—domandò quando ebbe chiuso l'uscio, e messo il candeliere sopra lo scrittoio.

L'asma, che aveva per la pinguedine, e l'affanno per aver fatto troppo in fretta le scale, non lasciavano fiato di parlare alla signora Veronica.

—Sono stata dall'avvocato.... dall'avvocato di Beppe!—esclamò sedendosi sopra una seggiola presso lo scrittoio.

—Perchè? domando io; che sugo c'era?!... Sempre quel brutto vizio di ficcarti e di pettegolare!

—No, no, signor padrone!... Non creda proprio—rispose la donna ancora intimidita; ma poi facendosi coraggio e sforzando la voce, soggiunse:—Volevo saper tutto!

—Tutto?... tutto che cosa?

—Ciò che riguarda il mio Beppe.

—Va bene: e che t'ha detto l'avvocato?...

—M'ha detto—rispose la Veronica con un terrore e un'angoscia inesprimibili,—m'ha detto che, come s'è messa l'istruttoria, il mio Beppe non potrà cavarsela del tutto pulito.... Lo metteranno dentro!...

—È ancora minorenne!... Gli toccheranno, al più, due o tre mesi!—rispose il Barbarò alzando le spalle.

—Due o tre mesi?... Ma è come un anno, signor padrone!... Come dieci anni!... È il disonore per tutta la vita! Per sempre!...

—Chè!... La vita è lunga.... Basta saper fare....

—Ma dunque lei sembra disposto... lei potrebbe permettere, signor padrone, che mio figlio, che il... che Beppe... Beppe!... signor padrone, vada proprio in prigione?—esclamò la donna pallida, tremante, sbigottita.

—E che ci posso far io?

—Mi avevano ingannata allora!... Mi avevano promesso che mio figlio sarebbe stato assolto!

—Chi aveva promesso?... Io no, di sicuro.

—Beppe medesimo; tutti gli altri!

—E allora perchè vieni da me?

—Perchè lei può salvare il mio Beppe.

—Sei matta; io non c'entro!

—No, no, no, signor padrone!... Per carità, per amor di Dio, non dica così; la supplico in ginocchio, non dica così.

Pompeo girò su e giù per la stanza, bestemmiando fra i denti e pestando i piedi; poi si fermò crollando il capo e guardando biecamente la Veronica che si era lasciata scivolar giù dalla sedia ginocchioni. Singhiozzava e si asciugava le lacrime colla veletta.

—Su, alzati, marmotta!... Non hai parlato con Beppe?

—Sì, ma si vede che non mi ha detto tutto, che ha voluto nascondermi la verità—rispose la Veronica, rizzandosi, grassa com'era, con molta fatica. Essa piangeva sempre.

—Andiamo; smettila!... Pari un mantice!... Ti avrà detto che io sono... sono disposto a fare per lui un grande sacrificio?...

—Sì, ma credevo fosse... in cambio del silenzio; non già che il mio Beppe dovesse andar lui in prigione.

—Metti che sia andato a fare un viaggio, e breve perchè, ti ripeto, gli terranno conto dell'età.

—No, mai, mai, mai! Nemmeno un giorno!... Sapere il mio Beppe in prigione!... Dio, mi strozzerei!

—Avrai un bel fare con quella pappagorgia!

—E strozzerei anche... qualcun altro!—soggiunse la donna con voce sorda, avvicinandosi a Pompeo che indietreggiò d'un passo, istintivamente.

—Oh, oh!... Diventi matta davvero?

La Veronica pallida, colle ciglia aggrottate, colle labbra stirate e smorte sotto la riga scura de' baffi che in quel punto davano al suo viso un'espressione maschia e risoluta, tremava ancora, ma di collera e di sdegno. Non poteva più contenersi; il suo cuore era vicino a scoppiare; la rivolta, da tanti anni soffocata e domata, stava per prorompere.

Pompeo la fissava muto. Alla scarsa luce della candela fumosa quel donnone grasso e forte aveva alcunchè di terribile. Nella stanza si udiva solo l'ansimare del suo petto enorme, che a mano a mano si faceva più forte e più violento.

Tuttavia Pompeo Barbarò, più che impaurito, era maravigliato. Quella servaccia, che dinanzi a lui non osava fiatare, adesso alzava la voce e minacciava!... Eppure egli non le aveva mai dato troppa confidenza!... Ma forse, chi sa? Lo sapeva sulle spine, e voleva averci anch'essa la sua parte di provvisione, per i segreti della Ditta....—Ah, mondo ingrato!

—Senta, signor padrone,—disse in fine, balbettando la Veronica,—ho una parola sola da dirle. In prigione il mio Beppe non ci deve andare e.... a impedirlo ci pensi lei.

—Di' un po', crederesti di farmi paura.... Non ho paura di nessuno, io, e se credi di far la brava, farò metter dentro anche te.

—E che importa?... Faccia pure!... Io non voglio saper nulla! Solamente so che è ormai troppo, troppo, troppo! So che questa è un'infamia che non posso sopportare, e per dian de diana, non la sopporterò!... Lei ha sempre fatto di me, signor padrone, tutto quello che ha voluto; sissignore, scoppio, sento che scoppio, e glielo dico in faccia!... Lei si è servita a suo piacimento del mio corpo e della mia anima. Giovane mi ha cacciata nel suo letto con un pugno; vecchia, me ne ha scacciata con un calcio. Mi ha fatto mentire, mi ha fatto rubare, mi ha fatto assassinar la gente: io ho sempre taciuto, ho sempre obbedito, ho sempre fatto in tutto e per tutto ciò che lei mi comandava. Quando ha saputo che dovevo avere un figliuolo, per non trovarsi in impicci, mi ha imposto di sposare.... chi voleva lei. Un uomo che mi faceva schifo, e che aborrivo. Pure ho chinato il capo, e mi sono sacrificata. Ma la rassegnazione mia, il sacrificio mio avevano una mira. Non era per lei, sa, signor padrone, che inghiottivo tanti bocconi amari, ma per il mio Beppe!... Avevo creduto, avevo sperato di preparar la via, col mio corpo, e colla mia anima, alla fortuna di mio figlio!... Ma adesso, che per i suoi fini vorrebbe cacciarmelo in prigione, le dico no, no, no; questo poi no! Io non ci capisco molto in fatto di onori e di delicatezze: ma so bene che la prigione rovina un uomo per sempre, e in prigione mio figlio non ci deve andare, e non ci anderà. Non so che cosa gli ha promesso, che cosa hanno macchinato. Ma se il mio Beppe è tanto minchione di tacere a costo di andar dentro, per fargli servizio, badi bene, signor padrone, perchè questa volta parlerò, dirò tutto io!

—Zitta, zitta! Non far tanto rumore!... Siediti e ragioniamo.

Il Barbarò era inquietissimo, e guardava sovente verso l'uscio colla coda dell'occhio, temendo che ci potesse esser qualcuno sulle scale ad ascoltare. La Veronica, non più pallida, ma rossa in viso, col ciuffo arruffato e la grossa treccia di capelli ancor nera, che le cadeva dalla nuca sul collo, pareva in preda a una vivissima esaltazione, e si stringeva, si accomodava addosso, con strapponi convulsi, lo scialle a fiorami.

—Confessami la verità, bombolona; hai un po' bevuto questa sera?

—No, no! non ho bevuto, non bevo mai, altro che veleno. So benissimo quello che mi dico, e non c'è tanto da ragionare. Il mio Beppe non anderà in prigione, o farò io la frittata in tribunale, col signor Presidente, coi giurati!

Tuttavia lo scoppio di quel gran dolore e di quella gran collera era stato troppo violento; la Veronica non potè reggere a lungo, e di nuovo si lasciò cadere sulla seggiola, gemendo e singhiozzando. Pompeo respirò.

Dal momento che essa piangeva, non dovea poi sentirsi tanto forte... Allora le si avvicinò pian pianino, e battendole sopra una spalla, per iscuoterla, le domandò a bassa voce:

—T'ha detto Beppe che per compensarlo del danno, arrivo fino alle ventimila lire?... E non sono, bada, quel gran riccone che dicono a Milano!

—Gli poteva dare anche il doppio: è suo figlio!

—Non dire balordaggini; questa è sempre stata una tua fissazione!

—Ah una fissazione?!—tornò daccapo a gridare la Veronica alzandosi di colpo, e fissando il Barbarò con i pugni sui fianchi.—Una fissazione?

—Sia pure come dici; devi convenire per altro che, su questo punto, nè prima, nè dopo, nè mai, non ti ho lasciato alcuna illusione. Sono un galantuomo e parlo sempre schietto. Ti ho dichiarato subito, che tuo figlio non sarebbe mai stato il figlio mio, ma che invece (come si dimenticano i benefici!), invece ti avrei data una fortuna; avrei pensato io a trovare un padre, un nome per chi doveva nascere, e ti ho fatto sposare lo Sb.... il signor Micotti!

—Grazie tante! Dopo avermi chiusa la bocca promettendomi che se accettavo le sue condizioni senza mormorare, senza accampare altre pretese, avrei fatto la fortuna della mia creatura, e minacciandomi, in caso contrario, che l'avrebbe messa agli esposti, e che la mia creatura non l'avrei più veduta!

—E non sono stato di parola?—Chi ha fatto allevare tuo figlio? Chi l'ha fatto istruire? Chi lo ha instradato negli affari?

—Vorrebbe anche instradarlo verso la galera lei!

—Ecco un'altra ingiustizia! Gli ho preso un avvocatone che mi costa un occhio, oltre alle ventimila lire che mi son levato di tasca.... in questo momento di crisi. Poi, dato il caso che il processo non finisca del tutto bene, quando avrà scontato quei pochi giorni, lo terrò sempre con me.

—E sarebbe questa la sua ultima parola?

—Ma....

—Dica, dica, sarebbe proprio questa?

—Ma.... non saprei diversamente come fare!

—Allora senta anche la mia: se Beppe deve essere condannato, vuol dire che andranno dentro insieme!

Il signor Barbarò provò a minacciare, a infuriarsi, a pestar i piedi per la rabbia; poi a pregare, a supplicare colle lacrime agli occhi.... ma non ci fu verso di smuovere la Veronica, la quale fuori di sè, trasportata e trasformata dal furore e dalla disperazione, e ormai risoluta, a costo della vita, a salvare suo figlio o a vendicarlo, minacciava alla sua volta quell'uomo che non temeva più, che odiava adesso, che esecrava, e andò via ripetendo:—Si ricordi bene: se il mio Beppe sarà condannato, andranno in prigione insieme!

Partita la Veronica, Pompeo Barbarò era rimasto sbigottito; ma poi si tranquillò un poco: la mattina dopo, avrebbe visto Beppe Micotti, e insieme avrebbero trovato il modo di calmare la vecchia. Uscì un momento per prendere una boccata d'aria, ma rientrò in casa quasi subito, e si ficcò in letto. Cercava sempre più di rassicurarsi, pensando al suo colloquio con Beppe, pensando all'influenza che questi poteva avere sopra sua madre per consigliare, e, occorrendo, imporle il silenzio. Poi, riflettendo allo strano e improvviso mutamento di quella donna che, dopo essergli stata umile e sottomessa per tutta la vita, a un tratto gli si era rivoltata contro come una furia, sperò ancora che la comparsa della vecchia fosse stata una commedia, combinata d'accordo col figliuolo per carpire altro danaro, oltre alle ventimila lire.

"In tal caso bisogna tener duro e non lasciarsi spaventare!... Ma... ma se invece non fosse stata una commedia? Se proprio la vecchia si fosse esaltata all'idea che suo figlio dovesse andare in prigione?..... Così pensando, lo sbigottimento di prima tornò a farsi strada nell'animo di Pompeo, diventando a mano mano, pel silenzio e l'oscurità della notte, più vivo e affannoso....

"Se Beppe non potesse calmar la vecchia?... Se questa facesse delle pazzie?... Se spiattellasse ogni cosa e facessero il processo anche a me?... Allora.... allora andrebbero a rivangare nel mio passato e...."

Il Barbarò, a questa terribile idea che gli apparì d'improvviso si rizzò spaventato a sedere sul letto; accese il lume, e rimase un pezzo a pensare colla faccia livida, cogli occhi sbarrati, col petto oppresso. Per la prima volta tutto il passato gli si affacciò chiaramente dinanzi, nella sua nuda verità.

Le scuse, gl'infingimenti, gl'inganni che per tanto tempo avevano addormentata e acquetata la coscienza erano spariti a un tratto: la paura stessa del grande pericolo da cui si credeva minacciato, rievocava il suo delitto e le sue colpe con una schiettezza brutale. "Sì.... era vero; aveva fatto la spia a Giulio Alamanni per rubare le cinquanta mila svanziche!... Sì.... era vero; aveva soffocato sua moglie per paura di essere scoperto!..." E dietro all'Alamanni e alla Betta, sfilavano, sfilavano tutte le altre sue vittime. Era una processione che non finiva mai!...

C'erano gli avventori dell' Agenzia di prestiti sopra pegno in Via del Pesce e c'erano i più ricchi clienti spogliati d'ogni loro avere; e chi per l'ingordigia sua aveva perduta la pace, l'onore.... chi era morto di crepacuore!... E mentre gli passavano dinanzi quelle facce pallide, disperate, lo chiamavano spia, ladro, strozzino, mercante di pellagra. E fra tutta quella gente c'era pure la marchesa di Collalto, il cui viso dolce e soave guardando Pompeo fissamente diventava severo, accigliato con un sorriso di sprezzo.

Nascose il capo sotto le lenzuola; aveva paura. Ansiosamente aspettava e desiderava il mattino per alzarsi subito, e correre da Beppe....

"Dio, Dio, com'era eterna quella notte...."

Rannicchiato nel letto, non osava voltarsi, nè muoversi. Non gli riusciva di chiuder occhio; di minuto in minuto cresceva la sua agitazione, il suo orgasmo; batteva i denti; aveva la febbre!... Già si figurava che la vecchia avesse parlato, che le guardie venissero ad arrestarlo, e quantunque i gendarmi austriaci non ci fossero più, erano gli stessi che avevano condotto in prigione l'orefice del Gobbo d'oro!... Già si vedeva trascinato dinanzi ai giudici.... ma la folla rumoreggiante insorgeva fischiandolo, e voleva ammazzarlo per vendicare i Garibaldini traditi.

"Dio, Dio santo! Perchè mai era andato a cacciarsi in quell'impresa?... Perchè?!... Era già ricco, ricchissimo; poteva tenersi quietamente alle operazioni sicure.... e onorate.... Perchè?... perchè Dio non paga il sabato; perchè è proprio vero che il diavolo insegna a far la pentola, ma non il coperchio!... Dio?... Il Diavolo?... Che ci fossero proprio davvero?... Che! Tutte storie dei preti; tutte superstizioni!... Ma pure dal momento che hanno inventato il proverbio, qualcosa ci dev'essere; sarà magari il destino, sarà magari la combinazione, ma qualcosa ci dev'essere."

"E poi, continuava a pensare Pompeo atterrito, io ne sono una prova: ci sono cascato da solo in questo pasticcio, senza che nessuno mi abbia dato la spinta!"

E a questo punto si rammentò a un tratto che da molto tempo non andava più la domenica in quella certa chiesa, ad ascoltare la messa, vicino a quel certo altare che gli portava fortuna. Anche quella era una combinazione; non poteva essere altro; ma pure ecco che si ripeteva ancora!

".... E se vi avesse fatto dire una messa per combattere la jettatura?... Sì, sì; prima del processo l'avrebbe fatta dire."

Tuttavia il suo giuramento lo aveva mantenuto scrupolosamente. Aveva sempre aiutata la Mary; aveva fatto in modo che suo figlio se ne innamorasse, e gliel'avrebbe data in moglie quantunque non avesse un soldo di dote. E la Betta, la Betta, che sapeva ogni cosa, gli aveva pur perdonato, facendosi promettere soltanto che avrebbe restituite alla piccina le cinquantamila svanziche.

"Altro che cinquantamila svanziche!... Un giorno o l'altro avrebbe finito per avere tutto il suo!"

In quel punto un brum passò di corsa sotto le finestre, facendo tremare i vetri e rintronando nella camera: Pompeo respirò. Non era più solo. Pensò che anche la casa era piena di gente; che il servitore dormiva proprio sopra alla stanza sua; che Giulio era lì, poco distante.... Allora cominciò a muoversi più liberamente, ad allungar le gambe sotto le coperte, a mettersi bene per dormire. ".... Non era proprio vero che avesse soffocata la Betta; era morta.... dopo, mentre lui anzi correva in cerca del medico!... In quanto poi alla vecchia, avrebbe pensato due volte prima di aprir bocca. Che interesse aveva a perdere il padrone quando Beppe, in ogni modo, non lo poteva salvare?... Certo.... certo.... un po' colle buone, un po' colle cattive, questo calcolo le sarebbe entrato nella zucca!..."

L'alba era vicina; al brum tennero dietro altre carrozze; poi, in fine, si udì in istrada la voce e il fruscìo degli spazzini, e Pompeo si addormentò.

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XVIII.

La mattina seguente Pompeo Barbarò si mostrava preoccupato pensando a' casi propri, ma era assai più tranquillo, e dopo il colloquio che ebbe con Beppe Micotti fu del tutto rassicurato. Il figlioccio gli promise di pensarci lui a far tacere la vecchia, e ad ogni buon fine l'avvocato, accampando per la Veronica la sua condizione di madre d'uno degli accusati, avrebbe chiesto che fosse cancellata dalla lista dei testimoni.

Tuttavia il giorno in cui Pompeo dovette proprio presentarsi all'udienza, tornò a sentirsi poco bene, e quando si trovò nella stanza dei testimoni, gli pareva d'essere già messo in prigione. Sudava, era impacciato, confuso, gli tremavano le ginocchia, ma per mostrarsi disinvolto salutava tutti, sorrideva con tutti con una smorfia stentata, parlando del più e del meno. Appena l'usciere lo chiamò, gridando forte il suo nome sulla porta, si sentì soffocare. Pure rispose subito alla chiamata "Eccomi! Eccomi!" e intanto sempre più sbalordito, cercava il cappello che aveva in testa, e inciampò nello scalino che dalla stanza dei testimoni metteva nella sala dov'era la Corte. Appena fu dentro, dinanzi alla maestà delle toghe, fra il rumore del pubblico e l'afa soffocante, ebbe un po' di capogiro, ma gli passò subito.

La folla stipata, ansiosa, accolse l'importante testimonio con un lungo mormorìo; non era per altro che un semplice mormorìo di curiosità; il Barbarò se ne avvide subito, e dopo le prime domande del Presidente non era più tanto impacciato. Le cose per lui si mettevano bene. Era sicuro, oramai, che non avrebbe avuto nè fischi, nè busse.

In quegli ultimi giorni era successa realmente nell'opinione del pubblico una certa mutazione in suo favore. Il suo nome, non molto noto prima che si cominciasse a discorrere del famoso Processo dei fonitori, era diventato celebre in breve tempo, e tutti ormai a Milano sapevano che c'era al mondo il milionario Pompeo Barbarò; e mentre la litania delle sue bricconate, essendo poco più, poco meno, sempre la medesima per tutti coloro che han fatto malamente una grande fortuna, aveva finito col non divertire più nessuno; i particolari, invece, delle sue ricchezze straordinarie, delle sue ville, dei suoi immensi possessi, de' suoi capitali accumulati alle banche e, più di tutto, della somma assai notevole in moneta effettiva che aveva sempre in cassa quantunque il marengo si negoziasse allora in Borsa "a ventidue e anche a ventidue e mezzo " suscitavano molta maraviglia e moltissima curiosità.

"Gran città, Milano!... Piena di risorse!..." si andava dicendo. "Quando meno si crederebbe salta fuori un nome affatto nuovo e: Chi è? Chi non è? È un Creso che ha dieci, dodici, venti milioni!... Gran città Milano, e piena di risorse! Ci sono, sì, gli ambiziosi, i matti, gli imbecilli che vanno a gambe levate; ma ci son pure le persone pratiche e positive, che lavorano sul serio e che, senza tanto lusso e senza tanto chiasso, mettono insieme patrimoni colossali!... Anche quel Pompeo Barbarò, per esempio, viveva quieto quieto, non faceva spacconate, aveva una tavola modestissima, e tutto il suo gran lusso erano un paio di rozze e una vecchia carrozzaccia colla quale andava in campagna a curare i propri affari!"

E però la gente, in generale, faceva un merito e si mostrava grata a quel riccone che non l'offendeva colla pompa sfacciata delle proprie ricchezze. Era quel sentimento assai diffuso e complesso d'invidie, di gelosie, di desideri non soddisfatti, che procura ai ricchi avari, nel mare magno della vita quotidiana, non solo maggiore considerazione, ma anche maggiore simpatia a fronte dei ricchi prodighi, i quali finiscono coll'essere mal visti, e appena appena si tollerano per la speranza che andranno presto in malora.

E oltre a tutti questi vantaggi, un'altra ragione giovava per far ricredere il pubblico a poco a poco sul conto suo: ne aveva fatte tante, e tante se ne raccontavano, che la gente s'era stancata di sentirle e non le credeva più.... o ci faceva la tara.

"Figurarsi, che storie!... C'era stato il—tal di tale—al Caffè Martini, il quale voleva sostenere che il Barbarò aveva messi insieme i primi danari facendo la spia, all'Austria. Era proprio una linguaccia sopraffina—quel tal di tale!"

...."E un altro non si ostinava a dire che, tempo addietro, il Barbarò scannava il prossimo tenendo un banco di prestiti sopra pegni, in Via del Pesce?...

"Tempo addietro?... Ma quando?... Se nessuno era buono a ricordarsi che nemmeno ci fosse stato un ufficio simile in Via del Pesce?!"

—Adagio a dar retta alle chiacchiere—esclamavano gli uomini savi e imparziali.

".... A Panigale, chiamavano il Barbarò Mercante di pellagra... sì, questo era vero; ma d'altra parte i fondi rendevano una miseria, e gli speculatori non pensavano certo a seppellire il danaro sotto terra, quando si poteva comperare la rendita al 40 e al 41!... Poi se le annate erano cattive il Barbarò non poteva certo fare un contratto col sole o colla pioggia per favorire i raccolti e i contadini!"

Un altro appunto che gli facevano era di aver rovinato il marchese di Collalto.... "Ma se il marchese di Collalto era da dieci anni che si rovinava da sè?..." Dunque non bisognava mai precipitare nei giudizi; bisognava mettere in quarantena le ciarle dei malevoli, degli invidiosi, degli interessati. Se era proprio il figlio di un cuoco, tanto maggior onore per lui! Che talento, che occhio, che attività!....—Ma la storiella del nome?...—Non era vero che il nome l'avesse mutato; aveva aggiunto al suo quello di sua madre.... o di sua moglie.... Tutte scioccherie che non significavano nulla!... Sì, in quel pasticcio dei fornitori c'era del torbido assai, e nessuno certo voleva concludere che il Barbarò fosse candido come un agnellino; ma bisognava vedere dal processo, fino a che punto c'era entrato. Lui, in fine, da quel poco che si sapeva, non avea fatto altro che prestar danari alla Ditta Micotti.

—Il vecchio Micotti?... quello era una canaglia davvero, e hanno fatto benone ad ammazzarlo!

—Ad ammazzarlo?... Come?...

—In Tirolo.... l'hanno freddato con una fucilata mentre svaligiava i cadaveri!... Ma ha lasciato un figliuolo che non smentisce la razza!...

—Quel piccolo mariuolo cogli occhi loschi e la faccia vizza da vecchietto?

—Appunto.

—Starebbe bene in galera per tutta la vita!

Beppe Micotti, col suo contegno cinico e sfrontato, si era attirato le antipatie e gli odii del pubblico durante l'udienza; e però anche la grande canaglia dai colori incerti e fantastici del Micotti padre, ritrovava in quel farabuttino primaticcio la propria incarnazione. Tutte le furfanterie della Ditta Micotti ricadevano dal babbo morto sul figlio vivo... ed anche per questo motivo quando Pompeo si presentò nella sala del dibattimento fu accolto più bene che male, con un senso di maraviglia e di curiosità, cui non erano affatto estranei nè l'Eccellentissimo Presidente, nè il Procuratore del Re.

"Come mai?... Quell'omicciattolo da niente aveva tanti milioni? Era il Nababbo di Milano?" E, su quel subito, la volgarità dell'aspetto, dei modi, degli abiti del Barbarò, fu presa per una cert'aria di bonarietà modesta, mentre anche nel tempio magno della giustizia i molti quattrini del signor Barbarò infondevano a tutti, sebbene a tutti inconsapevolmente, un certo rispetto.

Il Presidente medesimo, dopo le prescritte formalità, invece di mandarlo al posto coll'imperativo "sedetevi!" gli si era rivolto con un "s'accomodi pure" assai garbato, e aveva poi continuato a interrogarlo dandogli del lei.

Il Procuratore del Re, s'era messo l'occhialino per guardarlo bene, e lo stava ad ascoltare, spianate le ciglia, sembrando approvare con un moto regolare del capo, mentre si lisciava le fedine nere, lucenti, colla bella mano lunga e bianchissima.

I giurati poi, appena avevano udito chiamare il Barbarò, s'eran messi a bisbigliar piano fra loro, e adesso lo mangiavano cogli occhi.

—Lei, non è vero, era in istretti rapporti col defunto Micotti?—chiese il Presidente, dopo aver fatte alcune altre domande a Pompeo.

—Sì... ecco... per l'appunto. L'ho conosciuto giovane, ancora ragazzo. Era stato al servizio di mio padre, il quale avea preso a volergli bene... e mi aveva raccomandato di aiutarlo, come avrei potuto.

Il Barbarò prendeva animo, e rispondeva sempre più spedito.

—E che uomo era questo Micotti?...

—Per dire la verità non saprei bene. In questi ultimi anni non lo vedevo quasi mai. Poco espansivo, parlava di rado, tutto dedito agli affari....

—Ma lei, questo vorrei sapere, lo riteneva un galantuomo?

—Sicuro, dal momento che gli avevo aperto un credito illimitato!

Molti giurati, come il Procuratore del Re, approvarono col capo.

—E... non sapeva di che... diremo, di che razza fossero questi affari?

—Ne sapevo pochissimo. Il danaro era al sicuro, era impiegato bene e... occupato tutto il giorno ne' miei affari particolari non avevo tempo di badar molto a quelli degli altri. E poi il Micotti era, come si direbbe, una porta di prigione. Intendo dire un uomo impenetrabile; chiuso a quattro catenacci!

Nel pubblico ci fu una risata. Era spiritoso il Nababbo!

—Favorirebbe spiegarmi—domandò allora a sua volta il Procuratore del Re, non lisciandosi più le fedine, ma invece lustrandosi le unghie lunghe e rosee con un fazzoletto di battista—favorirebbe spiegarmi come poteva essere sicuro del suo capitale dal momento che non aveva alcuna cognizione intorno alle operazioni della Ditta Micotti e figlio?

Ma a questo punto, invece del Barbarò, fu pronto a rispondere l'avvocato difensore di Beppe Micotti, il quale domandò vivamente "se si voleva fare il processo agli accusati oppure ai testimoni." Ne nacque un battibecco fra la Difesa, l'Accusa, il rappresentante la Parte Civile, e la Corte era sul punto di ritirarsi per deliberare se sì o no poteva permettere all'Accusa d'insistere nel suo interrogatorio, quando Pompeo Barbarò, con soddisfazione generale, dichiarò che non aveva nessuna difficoltà a rispondere a qualunque domanda gli venisse rivolta. In fatti egli si era tenuto sempre al corrente degli affari della Ditta e non ignorava certo che il Micotti, fra le altre cose, faceva anche il fornitore. Aveva saputo, aveva consigliato alla Ditta di concorrere all'appalto per la somministrazione delle scarpe e dei fucili al corpo dei Volontari, ma da ciò, all'esser messo a parte anche dei particolari della gestione interna, c'era un bel tratto. Dopo che aveva prestato i danari e prese le necessarie garanzie lui, per tutto il resto... si lavava le mani, come Pilato nel Credo.

Nella sala ci fu un altro bisbiglio favorevole: "Com'era furbo l'omino! Come sapeva bene levarsi d'impiccio! Senza tante chiacchiere, senza andar tanto per le lunghe, senza aver bisogno d'avvocati!....,"

Pompeo si sentiva contento, leggero: gli sembrava di essere diventato più giovane di dieci anni. La sua deposizione, ormai, era pressochè finita; non aveva più nulla da temere, credeva ogni pericolo scomparso. Credeva: perchè invece, dopo di essere stato licenziato dal Presidente, e mentre attraversava l'aula per uscire, scôrse la Veronica in piedi, in mezzo al pubblico, pallida, cogli occhi spalancati, che lo fissava ostinatamente, minacciosamente. A quella vista il Barbarò rimase come fulminato, e perdette di nuovo tutta l'audacia. Le ginocchia gli ricominciarono a tremare, prese una carrozza, e appena a casa si richiuse sbuffando nello studio.

"Dio, Dio santo!... Non dovevano mai finire le sue angosce?!... Che cosa avea fatto di male... più di tanti altri, che vivevano tranquilli, felici, onorati? Niente, proprio niente!... E perchè dunque doveva star sempre sulle spine?... Era proprio disgraziato!..." e tornava a sospirare, a gemere, ad arrabbiarsi.

"Che cosa voleva, che cosa minacciava, la vecchia?... Perchè era andata al processo?... Perchè lo fissava in quel modo?..."

E intanto attendeva con ansia inquieta, paurosa, perdendo la testa e la voce, e spellandosi le dita, il ritorno di un suo messo fidato, che doveva correre a riferirgli la sentenza, appena fosse stata pronunciata. Venne, che era già sera, ben tardi; ma il signor Barbarò lo aspettava ancora, solo nel suo studio, senza aver pranzato, senza aver veduto nessuno. Appena lo sentì per le scale, gli corse incontro sull'uscio, lo fece entrare in fretta e richiuse a chiave.

—E così?... Com'è andata?—balbettò livido, colla voce fioca.

La risposta, ch'ebbe dal messo, lo tenne un istante sopra pensiero... poi diede un'alzata di spalle e respirò più liberamente.

Ormai il pericolo era proprio passato.

Il processo si chiudeva con una condanna relativamente mite per tutti gli imputati. Il più grande colpevole, come era apparso dal processo, era sfuggito colla morte alla giustizia umana.

Beppe Micotti, che avea avuto l'attenuante dell'età, era stato condannato appena a sei mesi di reclusione; ma mentre il Presidente leggeva la parte della sentenza che lo risguardava, una donna di mezzo al pubblico sorse a imprecare contro la giustizia, contro i magistrati e contro i giurati, protestando che il suo Beppe era innocente, e che il vero ladro era il principale, il signor Pompeo, il signor Barbarò, il signor Barbetta, il mostro, il cane, l'assassino del proprio sangue!... E gridando e smaniando, voleva gettarsi in mezzo ai giudici, voleva prendere i giurati per il collo.

Ci vollero quattro uomini per tenerla; poi, dopo il medico, vennero gli infermieri; fu legata, imbavagliata, messa in un brum, e condotta allo spedale.

La Veronica era impazzita.

La gazzetta Il Moderatore, dopo aver dato il giorno appresso, per disteso, la relazione dell'importante processo, ed aver lodato l'illuminato verdetto dei Giurati, l'elaborata sentenza dei Giudici, l'imparzialità e l'acume dell'Eccellentissimo Presidente, la parola calma e ragionata della Parte Civile, la requisitoria dotta e stringente del Procuratore del re, e la calorosa ed efficacissima eloquenza degli avvocati, finiva con una noterella di cronaca.

" Episodio triste. Ieri sera, verso la fine del famoso Processo dei fornitori e, precisamente durante la lettura della sentenza, la madre d'uno degli imputati, il Micotti, uscì improvvisamente in grida e in ismanie, tanto che si dovette ricorrere alla forza, per trattenerla dal commettere qualche eccesso. La povera donna, dedita alle bevande alcooliche, ed esaltata per la condanna subìta dal figlio, era stata presa da un accesso di pazzia furiosa.

"Sappiamo poi, da buona fonte, che il signor Pompeo Barbarò, il cui padre, in altri tempi, ebbe in proprie dipendenze la famiglia Micotti, fece ricoverare la povera donna in una casa privata di salute. Simili atti filantropici dell'Egregio Gentiluomo non sono nuovi del resto. A Brescia ricordano ancora le larghezze da lui usate nel cinquantanove in pro degli spedali militari; larghezze ripetute pure nel sessantasei, mentre il suo unico figlio, Giulio Barbarò, combatteva da valoroso in Tirolo con Garibaldi."

Il nuovo giornale Il Moderatore era diretto dal professore Eugenio Zodenigo.

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XIX.

O bene o male, ormai Pompeo Barbarò aveva raggiunto la così detta notorietà. Il suo nome era molto discusso, nella sua probità non ci credeva nessuno, ma tutti credevano invece nei suoi milioni, e perciò anche i più feroci nel combatterlo dietro le spalle, sul muso gli si mostravano solleciti e cortesi. La gente per istrada si voltava indietro a guardarlo, e molti lo salutavano ch'egli neppur sapeva chi fossero. Insomma si ammiravano da tutti, se non il genere de' suoi affari, la sua avvedutezza, il suo ingegno, la sua fortuna, sicchè cominciava a passare per un ometto straordinario. Ma, si sa bene, ciò non poteva bastare nè agli stimoli della sua ambizione volgare, nè alle mire della sua grossolana furberia. Egli voleva salire per dominare, e anche per mettersi a capo o per aver parte nelle imprese o società colossali, in cui si può guadagnare molto danaro, e insieme consolidare il proprio credito, e la propria riputazione. Ma lì c'era ancora una grossa muraglia che gli sbarrava la via. Non solo il signor Pompeo Barbarò non era ricevuto in quelle grandi case che avevano fatta la fortuna e data la fama a suo padre; ma anche la ricca borghesia gli teneva chiuse le porte. Nessuno dei grandi finanzieri a cui aveva affidati i propri capitali, lo aveva accolto nell'intimità della famiglia, o invitato ai pranzi od alle feste; nessuna Banca lo aveva eletto a far parte del proprio Consiglio d'Amministrazione. Men che meno poi il suo nome avrebbe avuto probabilità di riuscita, se si fosse presentato come candidato nelle elezioni amministrative.

Lo stesso Zodenigo, che lo consigliava in proposito, gli raccomandava sempre di essere molto prudente. Bisognava prima che si fosse peepaato il teeno con qualche opera grandiosa di beneficenza, che facesse colpo sul pubblico, e gli aprisse la strada alla popolarità.

—Preparare il terreno sta benissimo,—rispondeva il Barbarò,—ma vorrei condurmi in modo da non rimetterci il mio.

Preferiva piuttosto di restare terra terra... colle tasche gonfie. Egli avrebbe voluto ideare e compiere qualcosa di notabile in vantaggio del suo paese, ma che fosse nello stesso tempo anche un buon affare. "Se per salire, per arrivare in alto arrischiava di rovinarsi, allora, diavolo, appena su, sarebbe nuovamente capitombolato al basso."

E una volta che lo Zodenigo, lodando questa sua avvedutezza, citò per esempio " il volo d'Icao " il Barbarò gli fece notare che le ali d'Icaro, si erano appunto liquefatte perchè di cera.—Se fossero state d'oro—concluse con un risolino—lo avrebbero tenuto sempre in equilibrio, e invece di struggersi al sole avrebbero sfolgorato!...

—No, no, non bisogna abbandonarsi a un colpo di testa, bisogna invece pazientare... e aspettare un colpo della fortuna.

La fortuna è capricciosa, ma spesse volte fedele, e anche il colpo desiderato capitò ben presto al signor Pompeo, che fu pronto a non lasciarselo sfuggire.

Poco dopo la guerra del sessantasei, e a cagione della medesima, Milano, come tante altre città d'Italia, ebbe ad attraversare un periodo di crisi economica e monetaria, assai funesta. Mancava il danaro, e mancava pure il numerario, e se la legge sul corso forzoso dava modo di far fronte colla carta-moneta agli affari in grande, era poi affatto insufficente ai bisogni del piccolo commercio per la scarsità del rame, e specialmente della valuta spicciola di una e di mezza lira. Allora sorsero nuove Banche e nuovi Istituti di credito, i quali per sopperire al bisogno misero in circolazione per una data somma prestabilita, altrettanti biglietti fiduciari di piccolo taglio. Ma mentre molti di questi Istituti prosperarono, altri parecchi invece, per varie cagioni, andarono all'aria, e in quest'ultimo caso, chi possedeva biglietti fiduciari delle casse in discredito o fallite temeva di non avere, o non aveva davvero più altro in mano, che cartaccia sudicia, di nessun valore. A Verona, a Napoli, a Bologna accaddero disordini gravi, in seguito appunto al fallimento di taluna di codeste Banche. I biglietti emessi non avevano più corso, e la povera gente che li aveva sudati, che non li poteva più spendere, e che non ne aveva altri per comperarsi il bisognevole, gridava, strepitava, minacciava e faceva tumulto.

Anche a Milano era sorto in quel tempo un nuovo Istituto di credito denominato la Banca degli Interessi Lombardi Provinciali, che aveva emesso per oltre un milione di carta fiduciaria. La Banca, in sulle prime, prometteva bene. Fra gli amministratori suoi figuravano i più bei nomi del patriziato e della ricca possidenza milanese. A presidente era stato eletto il marchese di Rho, gentiluomo di stampo antico, di idee conservatrici, ma il cui nome era la bandiera dell'onestà e del carattere. Tuttavia gli azionisti dovettero accorgersi in breve che se gli amministratori della Banca degli Interessi Lombardi Provinciali, erano il fiore dei galantuomini, non erano del pari gente avveduta. Gli affari che facevano erano scarsi e di scarso profitto. Largheggiavano troppo nello sconto delle cambiali, senza premunirsi colle debite cautele, e però, in un mese solo, avevan dovuto sottostare, con gravissima perdita, a tre grossi fallimenti, uno dopo l'altro, e il suo Direttore era stato costretto a dare lo dimissioni. Tutto ciò, naturalmente, aveva scosso il credito della Banca, e i biglietti fiduciari cominciarono ad essere accettati di mala voglia, poi con gran difficoltà, poi, in fine, non ebbero quasi più corso. Allora alla sfiducia successe il timor panico, e si andò, giù giù, a precipizio. Tutti i possessori dei biglietti della Banca degli Interessi Lombardi Provinciali corsero in folla per il cambio alla cassa, tanto che un giorno venendo a mancare il denaro, gli sportelli furono chiusi improvvisamente prima delle due pomeridiane, e si sparse la voce per Milano che non sarebbero stati riaperti nemmeno il giorno seguente. Nel frattempo una circolare urgentissima del Consiglio di Presidenza chiamava gli azionisti, per quella sera stessa, in Assemblea Generale.

Fra questi c'era pure il signor Pompeo Barbarò. Egli non aveva voluto affidare un grosso capitale alla Banca degl'Interessi Lombardi, perchè i reggitori, dal suo punto di vista, non gl'inspiravano molta fiducia, ma pure aveva pensato di acquistare un piccolo numero di azioni, desiderando che il suo nome figurasse in quell'accolta di persone tutte nobili ed egregie.

E quantunque ne facesse parte, aveva contribuito ugualmente a mettere in pericolo l'Istituto. Aveva fatto girare per Milano certe sue persone fidatissime le quali, spaventando il pubblico con falsi allarmi, ritiravano a poco prezzo i biglietti della Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali, che nelle botteghe e sulla piazza non si volevano più ricevere, ma che presto o tardi, il Barbarò ne era sicuro, sarebbero stati pagati fino all'ultimo soldo.

Era un buon affaretto che aveva intravveduto, e non c'era ragione che se lo lasciasse scappare o rubar di mano; ma poi, dopo di aver lavorato di giorno come doveva, per l'interesse suo, si recava la sera tranquillamente all'Assemblea, volenteroso di offrire i propri lumi, in vantaggio della Società.

Pompeo Barbarò era entrato solo nella grande aula dov'erano raccolti gli azionisti. Questi, per la maggior parte in marsina o in abito di sera elegantissimo, anche in que' momenti di agitazione e di timori non infondati, conservavano sempre negli atti e nelle parole la loro compostezza signorile e un po' altezzosa, discorrendo piano, lentamente, garbatamente senza mai irritarsi e senza mai commuoversi.

Nessuno, nella sala, si era voltato per guardare il Barbarò; nessuno lo aveva salutato; nessuno si era mosso per fargli posto. Tutti lo sprezzavano e non volevano trovarsi a contatto con lui.

Pompeo, un po' intimidito, un po' impacciato, si avanzò umile, riguardoso, tenendo il cappello in mano, verso il banco della Presidenza. Poi rimase un momento confuso, senza saper che dire nè che fare, salutando chi non lo guardava... ma a un tratto pensò che, in fine, se quegli altri avevano molta superbia, lui aveva pure delle azioni, e allora facendosi animo si avvicinò al marchese di Rho, che discorreva in mezzo a un gruppo d'amici, e alzando troppo la voce, per paura che gli mancasse, domandò "che cosa c'era di vero, nelle chiacchiere che correvano in piazza."

Il Presidente, guardando da tutt'altra parte, gli rispose che, aperta la seduta, "avrebbe esposto la situazione finanziaria" e subito si allontanò voltandogli le spalle, mentre gli altri azionisti facevano altrettanto, piantando solo il Barbarò in mezzo alla sala.

—Saprebbero forse qualcosa intorno ai biglietti della Banca che ho fatto ritirare?—pensò Pompeo.—No, non è possibile: l'operazione è stata condotta con tanta oculatezza.... E allora questi spiantati perchè fanno i superbiosi?...

Su quel subito si sentì voglia di andarsene; ma non ebbe coraggio di farlo. Gli dava noia quel tratto di cammino che gli restava da fare per arrivare all'uscio, e aveva paura di ciò che avrebbero potuto dire di lui quando fosse partito. "No, no; voleva rimanere fino alla fine," e si ritirò nel vano di una finestra. "A buon conto aveva il pieno diritto di rimanere, era in casa sua, come quegli altri " e per far valere la propria autorità, ordinò sgarbatamente a un fattorino, che gli passava accanto, di chiuder meglio la porta della sala.

Quasi subito il marchese di Rho, in piedi, al tavolo della Presidenza, sonò il campanello: si fece un gran silenzio nell'assemblea, e allora il marchese espose brevemente e chiaramente lo stato della Banca, concludendo che senza la sfiducia sorta nel pubblico, e senza quel precipizio di dover rimborsare in poche ore tutto il grosso capitale di biglietti fiduciari messo in circolazione, l'Istituto avrebbe potuto riparare in breve tempo alle perdite subìte, e rimettersi ancora sulla buona via. Ma occorreva una forte somma in moneta effettiva per la mattina dopo: era certo che alle nove antimeridiane una folla si sarebbe presentata agli sportelli per il cambio dei biglietti, e se il cambio non si poteva subito effettuare sarebbe stato inevitabile un disastro.

A queste parole corse nell'assemblea un mormorìo di sbigottimento, e il marchese di Rho, sebbene si mostrasse calmo e dignitoso, era tuttavia più pallido del solito, con due righe profonde che gli solcavano le guance sotto gli occhi.

Invece Pompeo Barbarò si sentiva in preda a un'ansia indicibile, e gli batteva forte il cuore.

"Che bel colpetto ci sarebbe stato da fare!... Con quella gente il danaro era certo al sicuro e... e se avessero accettate le sue condizioni... si sarebbe imposto a tutti, e sarebbe salito tanto alto come non aveva mai osato sperare..."

Allora si fe' animo, e con voce più sicura domandò, tenendosi fermo al suo posto, la cifra di moneta effettiva che occorreva alla Banca in quel momento, e come il Consiglio di Amministrazione aveva pensato per provvederla.

L'interrogazione era importante e già, prima che la facesse il Barbarò, era nel cuore e sulle labbra di molti; ma nessuno degli azionisti rivolse un cenno d'incoraggiamento all'oratore.

Il marchese di Rho bevette un mezzo bicchiere d'acqua zuccherata, e rispose che la somma occorrente era di ottocentocinquantamila lire, e che il Consiglio d'Amministrazione in quella fatale ristrettezza di tempo, non aveva potuto rivolgersi, per averla in prestito, altro che alla Banca Nazionale, offrendo pure, oltre a tutte le garanzie che poteva dare l'Istituto, anche la firma propria, e quella degli altri membri della Presidenza.

—Se ho avuto la malaugurata idea di voler mettermi negli affari,—concluse il marchese di Rho,—non soffrirò mai per altro, che un Istituto del quale mi trovo alla testa, debba dichiarare il fallimento. Sono disposto a perdere tutto il mio patrimonio purchè la Banca possa far fronte ai propri impegni, e anche in queste gravissime e dolorose emergenze ho almeno la compiacenza di poter far noto all'assemblea che tutto il Consiglio d'Amministrazione è concordemente risoluto nell'imporsi, occorrendo, il medesimo mio sacrificio. Sventura vuole che la crisi odierna ci abbia sprovvisti dei fondi necessari. Tutto il nostro numerario lo abbiamo già dovuto versare alla Cassa per sostenere la situazione fino ad oggi, e se la Banca Nazionale rispondesse, visto le condizioni difficili del momento, con un rifiuto, domani saremmo obbligati a... tener chiusi gli sportelli....

A questo punto si udirono improvvisamente dalla strada grida e urli minacciosi; poi una pietra lanciata a viva forza fece cadere i vetri della finestra dov'era Pompeo, che saltò spaventato in mezzo alla sala.

Tutti gli altri azionisti si voltarono appena, sorridendo sdegnosamente.

—Vogliamo il nostro danaro!... Vogliamo il sangue nostro! Cani di signori!... Ladri della povera gente!—continuava intanto a schiamazzare la folla, battendo coi pugni e coi piedi contro il portone della Banca.

Il marchese di Rho rimaneva impassibile; solamente a quella parola "ladri" la riga che gli solcava le guance sotto l'occhio, si fece ancora più livida.

Appena, in quel giorno malaugurato, la Banca degli Interessi Lombardi Provinciali avea dovuto chiudere gli sportelli senza poter continuare nel cambio dei biglietti, s'erano formati vari gruppi di persone dinanzi al palazzo, che andavano dispensando ai curiosi che capitavano in cerca di notizie, le informazioni più strampalate e inquietanti. "La Banca non avrebbe più riaperti gli sportelli: doveva dichiarare il fallimento: chi aveva avuto, aveva avuto: il marchese di Rho avrebbe pagato del suo: no, questa era una lustra per guadagnar tempo, e tener a bada la povera gente;" e così via. Intanto altri continuavano a giungere mentre i primi se ne andavano; finchè la sera i capannelli riempivano la strada e discorrevano, vociavano sempre più forte e accalorati.

Si sapeva che il Consiglio di Amministrazione aveva riunito d'urgenza l'assemblea degli azionisti, e si tenevano d'occhio le finestre illuminate del palazzo, dove appunto risiedeva la Banca.

—Son chiusi lassù a confabulare quei cani di signori!—mormorava la poveraglia coi biglietti in tasca che nessuno voleva più ricevere, altro che con un ribasso sempre maggiore; e così cominciava a sfogare il malcontento cogli urli, coi fischi, colle minacce.

Era pur corsa la voce della domanda del grosso prestito fatto alla Banca Nazionale, e chi comperava i biglietti a ribasso, faceva credere ad arte che i reggenti della medesima avessero già risposto con un rifiuto.

—Vogliamo il danaro nostro!... Il sangue nostro!... Abbasso i signori! Morte ai ladri del popolo!...

Di sopra, nella sala dell'assemblea, Pompeo Barbarò, sempre più spaventato, gridava intanto "che si barricasse il portone, che si mandasse a chiamare la forza;" ma invece gli altri soci, al vedere la paura di quell'omiciattolo, rimanevano tranquilli al loro posto, mostrando tutti una sicurezza, che alcuni forse non avevano in cuore.

—Il portone è molto solido—rispose il marchese di Rho, sorridendo colle labbra pallide.—Del resto se i dimostranti vogliono salire a farci una visita, saremo pronti a riceverli.

—Che spacconate!—pensò Pompeo fra sè.

Ma quasi subito, ad acquetarlo, si udì risonare nella strada il passo affrettato di una pattuglia e subito le grida e i fischi si rivolsero contro le guardie di questura.

L'assemblea intanto, ansiosa e inquietissima ad onta della calma apparente, attendeva la risposta della Banca Nazionale che non doveva tardar molto a venire, perchè quel Consiglio si era pure riunito d'urgenza per deliberare sollecitamente in proposito.

Pompeo Barbarò era ritornato solo in un angolo della sala, ma adesso assai lontano dalla finestra. C'eran le guardie, non aveva più tanta paura dei dimostranti, e tornava invece a pensare, a riflettere su ciò che aveva in animo di fare in quel momento. "Se si lasciava scappar l'occasione, sarebbe stato un minchione... ma se avesse corso pericolo di rimetterci del suo, sarebbe stato un più gran minchione ancora!..." Si sentiva il petto oppresso... aveva la testa in fiamme....—Che cosa doveva fare? Che cosa doveva fare?...

—Intanto aspettare anche lui la risposta della Banca Nazionale. Se fosse stata favorevole l'assemblea avrebbe fatto sapere ai tumultuanti che il giorno dopo sarebbero stati aperti gli sportelli per il cambio dei biglietti, e allora... non c'era più bisogno di lui.

—.... Ma la Banca Nazionale avrebbe voluto disporre su due piedi, in quei giorni di crisi, d'una somma così rilevante.... e per un Istituto privato già scosso nel suo credito?...—E se non si arrischiava la Banca a fare il prestito, poteva arrischiarsi lui?

Pompeo fissò gli occhiettini miopi sul marchese di Rho, sugli altri membri della Presidenza, e si sentì rassicurato.... Non c'era proprio nulla da temere.... Quella gente si sarebbe ridotta in sul lastrico, piuttosto di venir meno ai propri impegni.

Ma tuttavia era un gran momento di perplessità, di angoscia... un momento solenne!.... Tirar fuori di tasca ottocentocinquantamila lire!... E se avesse rinunciato ai suoi disegni, e si fosse invece tenuto i quattrini? Forse già, era il partito migliore!... Ma se non si trovava la via di calmare i dimostranti, come faceva a ritornare a casa?... Avrebbero bastonato anche lui!...—Maledetto il momento ch'era venuto all'assemblea!

In quel punto, fra il brusìo della folla, si udì il rumore sordo del portone che si richiudeva.

—Ecco la risposta della Banca Nazionale,—esclamò il Presidente, lisciandosi la barba appuntata, colle dita tremanti.

Poco dopo infatti entrò nella stanza un impiegato che avvicinatosi al marchese di Rho, gli consegnò una lettera suggellata. Tutti gli azionisti si erano levati in piedi; fissavano tutti quella lettera, muti, palpitanti.... Il marchese di Rho ne aprì lentamente i suggelli, poi ebbe come un sobbalzo di tutta la persona, e mormorò, con voce fioca:

—La Banca Nazionale ha rifiutato lo sconto...—e si lasciò cadere accasciato, sulla poltrona. Gli azionisti, atterriti, si avvicinarono di colpo al banco della Presidenza, e nel medesimo tempo la folla, come se fosse stata spettatrice di quella scena, rinnovò ancora con più forza le grida e le minacce.

—Per Dio,—pensò Pompeo,—sono dieci i consiglieri dell'amministrazione,—che le loro firme, dal più al meno, non debbano valere centomila lire l'una? Allora si cacciò le dita nel goletto della camicia che stirò fortemente per poter parlare (soffocava) e balbettò pallido, colla fronte bagnata di sudore:

—Domando la parola!

I soci a questo punto si voltarono tutti ansiosi a guardarlo. Il momento era supremo; più che supremo, disperato, e bisognava accettare un buon consiglio da chiunque fosse dato. Il presidente impose silenzio e fe' segno al Barbarò che poteva parlare.

—La somma,—cominciò Pompeo,—la... somma... le ottocento... cinquanta... mila lire rifiutate dalla Banca Nazionale... posso... potrei... potrò... prestarle io... alla società!...

Ci fu per tutta la sala un mormorìo, un fremito prima di sorpresa, poi di maraviglia, in fine di contentezza, e i soci istintivamente si scostarono premurosi per lasciar posto di avvicinarsi al Barbarò, e per accoglierlo in mezzo a loro.

Il ghiaccio era rotto. L'interesse, i pericoli del momento facevano superare e vincere in un attimo le prevenzioni, le antipatie, le diffidenze, lo sprezzo, e l'omiciattolo trionfava.

—Non pongo altro che una condizione,—continuò Pompeo fatto ormai più sicuro.

Tutti lo guardarono ansiosamente, senza fiatare.

—Voglio far parte del Consiglio di Amministrazione per tutelare anche il mio interesse, insieme con quello della Banca.

—Ha ragione!... È troppo giusto!—si gridò subito da ogni parte, mentre il marchese di Rho, vinto, commosso da quell'atto apparentemente generoso, si alzò dalla poltrona esclamando:—Io rinuncio la Presidenza al signor Pompeo Barbarò, e propongo che venga eletto in vece mia, per acclamazione.

—No,—fu pronto allora a rispondere Pompeo,—metto pure l'altra condizione, che rimanga in carica, come presidente della Banca, il marchese di Rho!

Si poteva essere più abili? No certo; e Pompeo, mentre cogli occhietti scintillanti e gli zigomi rossi riceveva ringraziamenti e congratulazioni, pensò che avrebbe fatto maravigliare, colla sua grande diplomazia, lo stesso Zodenigo.

Bisognava pensare adesso a calmare il furore dei dimostranti e a scioglierli pacificamente, prima che accadessero più gravi disordini.

Il delegato, dinanzi al portone della Banca aveva già fatto sonare i tre squilli di tromba, ma la folla irritata strepitava sempre più forte, quando all'improvviso il marchese di Rho, spalancate le imposte di una finestra, annunziò alla moltitudine rumoreggiante, che la Banca era in istato di far fronte ai propri impegni, e che il giorno dopo, alle nove antimeridiane, sarebbero stati riaperti gli sportelli, come il solito, per il cambio dei biglietti.

Bastarono queste parole a mutare i fischi in evviva; evviva che ebbero un'eco nell'assemblea, ma diretti a Pompeo Barbarò, che per un momento ancora, vedendosi fatto segno a tante dimostrazioni di stima, domandò a sè stesso se non era andato troppo innanzi, se proprio non aveva commesso uno sproposito.

—No, no; tutto il merito stava solo nell'averle in cassa, le ottocentocinquantamila lire!

L'assemblea non si sciolse prima di aver stabilito le norme e i preliminari del prestito, e Pompeo Barbarò, che poche ore prima era entrato alla Banca solo, e si vedeva schivato da tutti, ne usciva a fianco del marchese di Rho e degli altri membri del Consiglio.

In istrada c'era ancora molta gente. Era stato riferito che quel riccone del Barbarò aveva prestato un milione alla Banca degl'Interessi Lombardi Provinciali, intimando "ai signori di non tradire il popolo" e volevano vederlo mentre sarebbe uscito, e infatti sulla porta del palazzo una frotta di monelli lo seguì, schiamazzando sempre, e lo accompagnò sino a casa. Là si formò di nuovo la folla dei curiosi, e mentre Pompeo stava per andare a letto, udì gridare il suo nome fra gli evviva.

—Che diavolo succede?—domandò al servitore, che entrava in quel momento, anche lui tutto stupito.

—C'è la strada piena di gente! Lo vogliono vedere alla finestra, gridano: Viva Pompeo Barbarò! Viva il figlio del popolo! Viva il salvatore della povera gente!...

—Dov'è Giulio? Chiama il signor Giulio!... Che venga anche lui, a sentire!—esclamò il Barbarò, mentre tornava a vestirsi in fretta, colle mani che gli tremavano per la commozione.

—Il signor Giulio non è ancora tornato a casa.

—Fuori Pompeo Barbarò!... Evviva Pompeo Barbarò!—continuavano a strillare le voci acute dei monelli.

—Bisognerebbe dar da bere a quella gente....

—Ci vorrebbe altro, signor padrone; gli bevono anche le botti!

—Allora no,—rispose Pompeo, avvicinandosi alla finestra. Vedendo rischiararsi i vetri, gli evviva al Barbarò raddoppiarono, e quando egli sporse il capo ringraziando, scoppiarono più fragorosi.

—Anche a me come a Garibaldi!—pensò nel richiudere le imposte; poi:—Speriamo almeno che mi lascieranno dormire!—borbottò sbuffando col servitore, fingendo di esser quasi seccato di tutte quelle feste.

Si spogliò in fretta, e si cacciò in letto; ma quantunque i dimostranti se ne fossero andati, egli stentò ad addormentarsi. Aveva addosso l'irrequietudine, la smania che dà la contentezza.

I biechi fantasmi della coscienza erano svaniti; Pompeo pensò allora che se aveva lavorato tutta la vita per farsi un patrimonio, sapeva poi anche impiegare le sue ricchezze pel bene pubblico... e si sentiva commuovere all'idea di essere un vero benefattore dell'umanità.

La mattina seguente sognava ancora di aver sposata la marchesa Angelica con ottocentocinquantamila lire di dote ereditate dallo zio Diego, e sognava pure che lo avevano nominato Direttore della Banca Nazionale, quando fu destato da Giulio, all'improvviso, che gli capitò in camera disperato, piangendo e singhiozzando.

Francesco Alamanni, dopo essere stato lungo tempo infermo nello Spedale militare d'Innsbruck, ritornato da pochi giorni a Milano, aveva la sera innanzi dichiarato alla Mary, che non avrebbe mai acconsentito al suo matrimonio col figlio di Pompeo Barbarò.

FINE DEL PRIMO VOLUME.