La moglie di Sua Eccellenza
GEROLAMO ROVETTA
La moglie di Sua Eccellenza
ROMANZO
Edizione XIII.
MILANO Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C. Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80 1910
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tutti i diritti di traduzione e di riproduzione riservati all'autore
Poligrafia Italiana (Soc. An.), Milano, Via Stella, 9.
PARTE PRIMA.
I.
Piove. Il biondo e rubicondo signor Trüb, seniore, il socio gerente della Tête-pointue a Villars-Ollon, attraversa frettoloso, con i soliti inchini, sgambetti e saltetti, l'atrio oscuro e basso dell'albergo, in quell'ora mattutina già brulicante di forestieri; si ferma sul portone, alza gli occhi verso il cielo bigio... poi si avanza fin a mezzo all'alta terrazza, stendendo le mani aperte: piove.
— Tempo ladro!
Il signor Trüb si tira giù con due dita e si ferma sul naso gli occhiali d'oro, che porta in mezzo alla fronte, e continua, borbottando, le osservazioni meteorologiche.
— Acqua!... Presto!... A catinelle!
Infatti le tre punte della Dent du Midi sono coperte da un'enorme cappa di piombo e il dorso della grande montagna nera e rocciosa è sparso, qua e là, di bianchi nuvoloni che si rincorrono spinti dal vento, si allungano, si assottigliano, sembrano quasi dileguarsi; ma poi ritornano e si riallacciano accavallandosi, più densi e più gonfi.
— Tempo ladro! Ti domandavo un po' di sole, soltanto per oggi e per domani!
Il largo piano della valle sottostante, attraversato dalla striscia torbida del Rodano, i bianchi villaggi delle due rive, i Châlets disseminati sul pendio dei monti raggruppati lungo la curva delle colline, tutto, insomma, il vasto paesaggio così verde, così vario e così colorito, sparisce a mano a mano sotto la nebbia fumicosa che si avanza e si diffonde, mentre le prime gocce cominciano a crepitare qua e là sulla terrazza.
— Non ti domando, Giove cane, altro che un po' di sole oggi e domani! Per rimpolpettarmi le ossa! Una grande famiglia di prim'ordine! Otto signori e dieci persone di servizio!
L'albergatore volge gli occhi dalla parte di Ginevra: buio; ancora più buio!
— Ahi! Ahi!... Quando la burrasca viene dal lago, ce n'è per una settimana!
Ad un tratto, per quanto il cielo continui a rabbuiarsi, la faccia del signor Trüb si rischiara.
È uscito sulla terrazza un cliente del primo piano, — camera d'angolo con salotto; — il barone Marco Danova.
— Signor barone, buon giorno! I miei rispetti, signor barone!
Ma il signor barone, un ex veneziano che in Alessandria d'Egitto a furia di rubare milioni ha perduto persino la pronunzia, non risponde ai profondi salamelecchi. È furente: il naso adunco sembra un becco minaccioso; il viso tondo, circondato dalla corta barbetta nera — troppo nera! — non è più giallo, ma verde.
— Al diavolo voi, e i vostri prognostici! Piove!... Non vedete? Piove! — Il terribile barone aggrotta le ciglia fissando il povero albergatore e incrocia le braccia sul petto. Rispondete, uomo barometro. Piove, sì o no?
— Quattro goccet...tine! — Il signor Trüb sorride amabile e rimane curvo a mezzo inchino. — Quattro goccettine, ma non fa niente!
— Come «non fa niente?»
— Voglio dire, signor barone, una piccola burraschet...tina di passaggio! Domani...
L'egizio venezian diventa ancora più verde.
— Domani? È una settimana che dite sempre domani, e diventa persino una indecenza! Diciotto ore di ferrovia da Milano, cinque ore di carrozza e salire mille trecento metri... per annegare!
Il rubicondo Trüb, all'uscita tanto arguta del briosissimo signor barone, dà in una risata formidabile, rialzandosi gli occhiali sulla fronte.
— C'è poco da ridere! C'è da fare le valige e scappare, magari in barca!
L'albergatore si caccia le mani, disperato, nei capelli folti e crespi.
— Partire? Adesso? Quando comincia il bel tempo?
— Comincia? — La voce del signor barone sembra un ruggito e un grugnito. — Comincia?
— È... è la coda! È la fine! Tutte le previsioni sono più che favorevolissime! Il barometro si alza! La corda del lift è molle, molle, molle...
— Finitela! Non avete mai detto una volta che la corda è dura, e piove sempre!
— Si persuada, signor barone! E poi... Senta, signor barone: le voglio dire una cosa sola. Se non la smette questo Giove cane, sarebbe un assassinio! No! No! Impossibile! Io sono sempre stato fortunato e porto fortuna ai miei forestieri! Anche l'anno scorso...
— Avanti, avanti! Che cosa devo sentire?
— Ho ricevuto stamattina un telegramma... Devo averlo qui! — L'albergatore lo cerca, ma non lo trova. — Si tratta di una grande famiglia italiana! Un mazzetto, proprio chic, di signore giovani, bellissime.
Il naso-becco del barone Danova ha una vampa e un tremolìo. Di signore giovani e belle egli aveva già notata e deplorata la mancanza alla Tête-pointue. L'altro, continua imperturbabile:
— Prenderebbero tutto il grande appartamento della balconata, al primo piano, con due balconi, e un altro appartamento al secondo. Otto signori e dieci servitori che mi riempirebbero appunto anche il terzo e quarto piano! — Sette od ottocento franchi al giorno! Capirà, signor barone, se piove oggi o domani, quando la comitiva è a Bex, invece di scendere dal treno, tira diritto! Garantisco, garantisco io: per domani una splendida giornata!... Vede? Vede? Si volti! Guardi le punte dei Diablerets: cominciano a scoprirsi!
— Non bisogna guardare la Dent du Midi?
— La sera; ma la mattina il grande oroscopo, infallibile... sono i Diablerets.
Marco Danova rimane scosso da tanta sicurezza.
— Allora, finalmente, potrò fare questa famosa gita al Chamossaire?
— Sicuro! — Il signor Trüb si offende quasi al minimo dubbio. — Lei, signor barone, vada tranquillo a fare la sua brava colazione e per domani penso io: sveglia alle sei, — basta alle sei, — e alle sei e mezzo, tutto pronto: cavalcatura, guida e un bel sole... di prim'ordine!
La promessa d'un bel sereno per il giorno dopo è sempre, anche quando ci si è abituati, uno dei pochi godimenti che offra la montagna quando piove. Marco Danova, rabbonito, apre l'ombrello e, dopo aver raccomandato al signor Trüb che il mulo sia tranquillo e la guida sicura, se ne va con passo quasi automatico, alzando una dopo l'altra le gambette ad arco e dondolandosi, tutto pancetta.
La nebbia, continua a salire a salire, a correre, ad addensarsi più rapidamente. Ad un tratto, un raggio di sole pallido, obliquo, attraversa e rompe il fitto tendone: appare in una tinta giallastra la curva di una collina... poi la punta di una roccia e subito un rovescione, con una raffica di vento così impetuosa che porta il signor Trüb, come di volo, dentro l'albergo.
Grida, strilli e le più furiose e varie invettive internazionali echeggiano sotto l'atrio. Le signore hanno paura del temporale: si chiudono le finestre, si accende la luce elettrica. Il signor Trüb, mogio, mogio, sgambetti, saltetti e via di corsa per rifugiarsi nel bureau! Ma lì, proprio sull'uscio, mentre si asciuga con il fazzoletto le mani e l'abito, ecco quella strega verde e brontolona di missis Eyre:
— Bella ciornata, signor Trüb!
Missis Eyre, — terzo piano, camera di dietro, senza balcone, — riceve un inchino, niente più del necessario.
— Scusi; sono in ritardo; ho la corrispondenza ancora da guardare...
Il signor Trüb, si avvicina alla scrivania, e comincia ad aprire, a sfogliare le lettere che vi sono ammucchiate.
Missis Eyre, tien duro.
— E così?... I D'Orea e i Moncavallo, verranno da Aigle o da Bex?
— Vedremo. Secondo... il tempo.
— Vedere?... Piove che Dio la manda! Che cosa volete vedere? Il Diluvio universale?
— Che diluvio? Domani, sole! Garantito!
— Cià. A Villars sempre così. Piove oggi, e fa bel tempo... domani!
Brontola, brontola, ma a missis Eyre, poco importa della pioggia o del bel tempo. Ella, invece, vuol sapere se i D'Orea e i Moncavallo faranno la salita da Aigle, in carrozza, e con quanti landò, oppure da Bex in ferrovia elettrica, con un treno espresso, o con l'ordinario. Vuol sapere il numero delle persone di servizio, il numero dei bauli, e se i D'Orea e i Moncavallo pranzeranno à table d'hôte o al restaurant, a pensione o alla carta. Vuol sapere, se a quella grande «baraonda italiana» è stato fissato il solo appartamento del primo piano, oppure anche le camere disponibili del secondo. Vuol sapere, ed è questo che più le preme, se la «marmaglia del servidorame» sarà mandata su, al quarto piano, come è l'uso e la convenienza, oppure se quel vero oste esoso e volgare del signor Trüb matura nell'animo l'indelicatezza e la prepotenza di cacciarne una parte anche al terzo e persino... nel suo corridoio!
È tutto questo che la turba, che l'agita, che la tiene in ansia e in curiosità. Ed è così tutti i giorni e tutto l'anno: il suo divertimento, i suoi discorsi, le sue dispute, le sue scommesse, sempre lì! Chi arriva e chi parte dall'albergo. Il suo mondo, d'estate, è la Tête-pointue; d'autunno, Villa d'Este, sul lago di Como; d'inverno, l' hôtel-Royal a San Remo. E la sua occupazione costante di tutto l'anno e in tutti gli alberghi, è quella di far valere, per sè, tutti i diritti e i vantaggi che le accorda la pensione, e di far osservare agli altri, scrupolosamente, tutte le leggi e le prescrizioni e le interdizioni della sala di lettura, della sala di conversazione, della sala di musica e di ballo. Se appena appena missis Eyre vede accendere una sigaretta fuori dal fumatoio — subito pronto — manda un cameriere a farla spegnere. Se manca un giornale, per un momento, nella sala di lettura, si precipita dal portiere a gridare e a strepitare; se alle undici in punto il pianoforte non si ferma a mezzo della battuta, la mattina dopo, prima del caffè e latte, ecco tanto di reclamo «specificato» nella sala della direzione. Il grido della sua anima è uno e trino: proibito-defendu-verboten.
Che importa a missis Eyre della pioggia o del bel tempo?... Non fa mai una escursione perchè soffre «di giramento»; non va mai in carrozza per economia, non esce mai dall'albergo, certo per il timore che qualche «ineducatissimo» colga l'occasione per impadronirsi della sua poltroncina, del suo tavolino, del suo giornale o del suo solito posto al suo solito balcone della veranda. Acqua o sole... non ne prende mai. Missis Eyre si gode il lago, il mare, la montagna, sempre dalla finestra!
— L'autunno scorso, a Villa d'Este, per soli quindici ciorni, quella gente aveva portato cinquantotto bauli! Non si poteva più camminare nel corridoio! Tutto pieno!
Il signor Trüb, non potendo liberarsi della vecchia, pensa di ottenerne, almeno, qualche utile informazione.
— Gente... che spende?
— Gente disordinata! Confusione, gridamento, rivoluzione! Portieri, camerieri, giornali, biliardo, pianoforte, tennis, tutto per loro! I forestieri s'indispettiscono e partono!
Il signor Trüb non s'inquieta:
— Grande famiglia?... Titolata?
— I Moncavallo sono di Napoli! Funiculì-Funiculà! Molti titoli: duchi, principi, marchesi, ma niente capitali. I D'Orea sono di Bologna. Molti capitali, ma niente titoli. Molini e mortadella. Una Moncavallo, bellissima, ha sposato il cavalier Luciano D'Orea che spende tesori per la Fanfan Trécoeur, la celebre canzonettista delle Folies Parisiennes, dalle gambe irresistibili! Ve la farò vedere.
— È qui?...
— No. Vi farò vedere la cartolina. Adesso la Fanfan vuol andare in Italia a studiare. Vuol far carriera. Vuol arrivare alla Scala di Milano! Ha però, di buono, che è tisica. Per questo i Moncavallo, vivono in speranze e intanto... — pazienza e tutti cito — come dicevano a Villa d'Este!
Suonano le dieci, l'ora della posta. Missis Eyre si alza: deve andare per essere la prima ad impadronirsi del Times.
— E la carovana della servitù? Avrete posto per tutti, al quarto piano?
L'albergatore capisce l'antifona, ma non si sgomenta.
— All'occorrenza ci sono molte camere libere anche al terzo!
Ecco! Proprio vero! Quell'oste esoso e spilorcio, non ha nessun ritegno!
— Spero bene, che in questo caso, ci saranno ordini severissimi. Niente chiasso nel corridoio!
— Non dubiti.
— Proibitissimo alla mattina di pulire i panni e alla sera di farvi conversazione! Siamo intesi.
— Non dubiti.
L'aristocratica missis non è tranquilla. Si avvia verso l'uscio con le ciglia aggrottate, poi si ferma e si volta dura, diritta, come un palo.
— Oggi è giovedì?
— Oggi... è giovedì.
— Favoritemi carta e busta.
— A lei!
— Vado a scrivere al colonnello, a mio marito. La lettera impostata il giovedì, trova le coincidenze e arriva a Calcutta in soli venti ciorni. Adesso si fa presto!
Il colonnello Eyre ha percorsa tutta la sua lunga carriera, rimanendo sempre alla distanza... di una ventina di giorni da sua moglie. In quanto a missis Eyre, che gli è sempre stata fedele, senza nemmeno accorgersene, richiama l'immagine del consorte guerriero quando solo la crede necessaria per far ben valere la propria autorità.
— Ricordarsi anche questo, signor Trüb! Non voglio sentire odor di sigaro. Buon ciorno!
— Buon giorno.
Ma, ancora, non è l'ultimo saluto. Si ferma sulla soglia:
— Altra cosa. A Villa d'Este quella.. compagnia di gente, aveva due cani, orribili, che entravano da per tutto, correndo, saltando, abbaiando, facendo la ciostra. Qui, tener cani, proibitissimo!
Missis Eyre, volendo dar più forza al comando, sbatte l'uscio con violenza e se ne va impettita, alla militare, come il consorte colonnello.
— Al diavolo, carcassa ruminante! Pensione di favore, mai un extra e tutte le pretese!
Va, sbuffando, alla finestra: non ci si vede un palmo di là dal naso! Acqua, acqua, un'acqua fitta che vien giù a dirotto, ma senza vento.
— Due giorni così, e non ho più che la vecchia nell'albergo.
Driiin!
Il signor Trüb è chiamato al telefono: comunicazione con Bex.
— Pronti!
.... — Domandano da Bex, se su, a Villars, piove.
— Va rischiarandosi!... Sì!... Avremo bellissimo tempo!... Garantisco!... Con chi parlo?
.... Gli vien risposto un nome che subito non ricorda:
— Zaccarella?... Chi è questo Zaccarella?
— Avete detto Zaccarella?... Va bene; ho capito!... Sì!... Avete già scritto per fissare le camere?
.... La risposta è tale che il signor Trüb fa un saltetto di gioia.
Sono loro! Sono a Bex! Sono fermi a Bex per salire a Villars! Zaccarella è il corriere, il maggiordomo o il... procuratore della grande famiglia italiana!
Ormai ci sono, e non scappano più!
— Benissimo!... Sì! alle tre e cinquanta!... — Benissimo!... — Il signor Trüb, distrattamente, si è tirato gli occhiali sul naso per sentir meglio, la sua voce si è fatta più graziosa e, ascoltando e rispondendo, continua a fare inchini, come se lì, al posto del telefono, fossero schierati i Moncavallo e i D'Orea, tutti gli otto signori e i dieci servitori.
.... — Al restaurant?... — Benissimo!
.... — Alle sette?... — Benissimo! Grazie! Profondi rispetti! Grazie!
Driiin!
La comunicazione è tolta e il signor Trüb corre a sonare alla tabella dei campanelli elettrici, vicino alla scrivania. Chiama il segretario, il portiere, il direttore dell'albergo, il capo cameriere del restaurant e dà tutti gli ordini necessari, con grandi raccomandazioni e con un certo tono di solennità.
— Il pranzo alle sette. E rispondere che al quarto piano, non c'è più posto. Le persone di servizio, tutte al terzo. È assai più comodo per i padroni e si può far pagare doppia pensione. È gente che non bada a spendere! Sono due famiglie di primissimo ordine! Basta servirle bene!
Il biondo e rubicondo signor Trüb è gongolante. Egli s'infischia adesso del tempo ladro e anche delle saette! Ormai ci sono e non scappano più!
— Finchè piove vorranno certo fermarsi, per aspettare il sereno!
Nella veranda quasi deserta, missis Eyre, sdraiata sulla sua poltrona, nel vano del suo balcone, e col suo Times non ancora aperto sulle ginocchia, è beatamente assorta nella contemplazione dell'acqua che sbatte furiosamente e corre in grossi e spessi goccioloni lungo i cristalli:
— Diluvia! Diluvia!
Missis Eyre lo sa per esperienza, si sta veramente bene in un albergo, soltanto quando è mezzo vuoto, e persistendo l'orribile tempaccio, anche «la baraonda italiana» sarebbe passata da Bex senza fermarsi! Certissimo!
— Diluvia! Diluvia!
II.
— A Bex? Dobbiamo restare a Bex fino alle tre?
— Con la pioggia e col vento?
— Tutto il giorno fermi in stazione?
— Dio che noia! Ma c'è da morïre di noia!
— Signor Zaccarella!... Signor Zaccarella! — gridano insieme varie voci infuriate.
Il signor Zaccarella non risponde; forse non può sentire. Lo si vede scalmanarsi in fondo alla tettoia, in mezzo al fracasso, tra i facchini e i servitori che hanno appena due minuti di fermata per trasportare tutto il bagaglio; sessanta colli di bagaglio!
— O Rosalì! — La vecchia duchessa di Moncavallo si volta verso suo fratello, il principe Rosalino di Sant'Enodio, che vede sempre intento a studiare l'orario. — O Rosalì! Un'altra corsa non c'è? Non si può partire più presto per Villars?
— Non c'è. Cristina cara; non c'è!... Abbiamo perduta la coincidenza!... Sai che gli orari in Isvizzera sono fatti apposta dagli albergatori per far perdere le coincidenze!
— E colazione?
— Dove si fa colazione?... In questo piccolo buco di caffè?
— Hanno il coraggio di chiamarlo Le grand restaurant de la gare!
— È un orrore, zio Rosalì!
— È impossibile!
Si torna a chiamare, a invocare il signor Zaccarella. Questi fa cenno con la mano di aspettare, di aver pazienza.
— Vengo subito!
Il signor Zaccarella sudato, trafelato, si arrabbia e gesticola come un ossesso.
— Non basta far presto a scaricare! Bisogna far presto anche a portar la roba al riparo, all'asciutto, o va alla malora! E le bollette?... Presto! Le bollette! Bisogna riscontrare il numero delle bollette!
Con tutta quella roba, con tutto quel da fare, c'è un solo impiegato rintontito che non sa spiegarsi in nessuna lingua, e un capo-stazione mutria, sempre fermo e che non fiata!
Il signor Zaccarella grida, continua a gridare ingarbugliando il francese, il tedesco e l'italiano. Come lui e attorno a lui, gridano tutti. I servitori con i facchini, i facchini con i servitori: e le cameriere, — che hanno perduto «il sacco rosso con il nécessaire di donna Maria Grazia» e «l'astuccio più grande con i colori e i pennelli della duchessina Remigia» — strepitano a loro volta fermando i duri e arcigni conduttori del treno che stizziti da quella confusione babelica le piantano bestemmiando e sbattendo gli sportelli. E con tanto baccano, con tanto disordine, con tanta furia di far presto, sempre l'acqua che viene a dirotto... e sempre, fra le gambe, due piccoli barboncini neri, legati insieme con una catenella d'argento, che corrono di qua di là, annusando, cercando i padroni, sempre abbaiando, abbaiando disperatamente, finchè i viaggiatori sono tutti a posto, finchè tutto è chiuso, pronto per la partenza, finchè batte a campanella, il mostro fischia e il treno riparte, finalmente, ansando, sbuffando, lasciando dietro di sè grandi nuvole di fumo... poi la quiete e il silenzio nel bigio uniforme della campagna triste e deserta.
— Eccomi! — Il bagaglio è tutto a posto sotto la tettoia e il signor Zaccarella corre vicino al gruppo delle signore e dei signori. — Eccomi, donna Maria! Domando scusa, signora duchessa! Con queste marmotte di svizzeri, c'è da perdere la testa!
— E colazione? Avete pensato dove si fa colazione? — ripetono insieme la duchessa e il principe Rosalino. La bellissima donna Maria Grazia D'Orea, la figlia maggiore della Moncavallo, appoggiata con un braccio al suo alto ombrellino da passeggio, non dice più una parola; non ascolta, non bada agli altri. I suoi grandi occhi neri e pensosi guardano lontano; il quadro di mestizia che la circonda, è penetrato anche nella sua anima.
— Si fa colazione al grand hôtel de Bex! — risponde il signor Zaccarella. — Ho fissato due landò...
— Pronti, capitano! — interrompe Pasquale, il maggiordomo. — Vengono adesso!... Dall'altra parte della stazione!
— Per far presto, ho telegrafato da Losanna!
— Benissimo!
— Bravo!
Donna Maria Grazia si riscote con un brivido: quel freddo improvviso della burrasca in montagna l'ha intirizzita.
— Per me, non c'era niente a Losanna, signor Zaccarella?
— No, donna Maria.
— E qui, all'ufficio del telegrafo?... — La voce di donna Maria non è alta, ma chiara: accarezza l'orecchio con una lenta cadenza musicale — È stato a vedere?
— No!..
— Subito! Faccia presto! Lucïano può aver già telefonato da Parïgi se arriverà da Bex o da Aigle!
Anche i due ï di Luciano e di Parigi sono accarezzanti dolcemente mentre vengono pronunziati. Eppure, a donna Maria Grazia, i dispacci del marito, — lettere egli non ne scrive mai, — sono più cagione di timore che di speranza.
— Faccia presto! La prego! E si ricordi: bisogna lasciare il nostro indirizzo di Villars!
— Non dubiti!
Il signor Zaccarella è già alla ricerca dell'ufficio telegrafico. Più della preghiera della signora, è il nome del padrone che lo fa correre.
— Per di qua, capitano!
Il signor Zaccarella, comandante onorario delle guardie forestali e campestri della nobile famiglia, è chiamato capitano, per adulazione, ma soltanto dai servitori.
— L'uscio laggiù!... A sinistra, capitano!
Il capitano continua a correre, sparisce in fondo alla stazione, e ritorna in un attimo.
— Niente! Non c'è niente, donna Maria!
— E per me? E per me? — domandano gli altri in una volta.
— Niente per nessuno! Andiamo! Presto! In carrozza! — Il signor Zaccarella, prende un tono risoluto, da vero capitano. Quando c'è fretta, non fa complimenti.
— La colazione l'ho ordinata per mezzogiorno, preciso! Nei due landò c'è posto per le signore, il signor principe, il marchesino e mademoiselle! Io e le cameriere, in omnibus. Pasquale, i servitori, tutti qui e mangeranno qui. Io non voglio lasciare più di sessanta colli e tutto il piccolo bagaglio a mano, senza nessuno!
— Bravo! Benissimo!
— Ha fatto benissimo!
Il signor Zaccarella corre avanti e chiama il cocchiere del primo landò. Il capitano non si mostra molto sensibile alle lodi e alle approvazioni della duchessa Cristina e del principe Rosalino. Egli sa, per prova, che tutta quella gente — signori e servitori — deve, poco o tanto, dipendere da lui. È in lui, in fatti, nel signor Zaccarella, che è trasmessa la volontà e il governo della cassa forte, del resto sempre aperta, del vero, del solo assoluto padrone, — perchè è il solo che abbia i milioni, — di don Luciano D'Orea.
La duchessa Cristina e donna Maria sono già in carrozza. La madre, Cristina Moncavallo di Sant'Enodio di Carpino — duchessa, principessa e marchesa — pur nella sua florida maturità conserva i tratti delicati, finissimi della figliuola; i capelli bianchi ondeggiati, — bianchi d'argento, come la bella e lunga barba del principe Rosalino, — risaltano maggiormente per la rosea freschezza del viso, per il nero del vestito e raddolciscono la sua aria di signorilità severa, quasi regale.
— E Remigia?... Dov'è?
— Era qui adesso; in questo punto! — risponde lo zio Rosalino, ritto di fianco alla carrozza, con l'ombrello aperto.
— Idola! Idola mia! — chiama forte la duchessa.
— Totò! Mademoiselle! La Pïccola? Non avete veduto la Pïccola? — Donna Maria spinge il capo dallo sportello verso la seconda carrozza.
— Era qui, adesso! — Totò, il figlio del principe Rosalino, risponde come il babbo, ma con più flemma.
È un ragazzotto lungo, smilzo, biondo, per fortuna sua, e perfettamente sbarbato come i servitori. In knickerbockers color nocciuola, fermo, impassibile dinanzi alle carrozze, prende anche tutta l'acqua, pur di essere scambiato per un inglese puro sangue.
— È in caffè, la duchessina Remigia! È in caffè! — accenna appunto la signora che era stata chiamata mademoiselle da donna Maria. — È andata con la contessina Mimì a dar da bere a Din e a Don.
I due piccoli barboncini neri, sempre legati insieme con la catenella d'argento, si chiamano così: l'uno Din e l'altro Don: Din-Don.
— Si poteva... all'albergo... dar da bere ai cani! — borbotta lo Zaccarella, abbastanza forte per essere inteso.
— Idola! Idola mia! Fa presto!
— Andiamo Pïccola! Da brava! Non farti sempre aspettare!
— Va pure, — mammà! Andate pure a Bex!... — strilla un voce dal caffè. — Io resto qui!
— Come, resti qui? — La duchessa è inquieta e sorpresa.
— Non far capricci! — insiste donna Maria. — Non vedi? Lo zio Rosalì è da mezz'ora che sta prendendo l'acqua per te!
— Andate pure! Ho detto di an-daa-re! — ripete cantarellando la duchessina che si affaccia sotto la tettoia. — Io resto qui!
Din e Don, sempre legati insieme, s'intende, sbucano, intanto, tra le casse e i bauli e si mettono a correre dall'una all'altra delle due carrozze, mugolando, scodinzolando e diguazzando nella mota, facendo salti e capriole per poter salire.
— Pasquale! Prendete queste due bestiacce!... Su! Cacciatele sull'omnibus!
Il signor Zaccarella è furibondo. Ha tutto l'abito insudiciato da Din e Don.
— Questo poi no! Niente affatto signor... capitano! I miei tesori restano con me!
La duchessina Remigia, l'Idola della Moncavallo, la Piccola di Maria Grazia, esce dal caffè e si avanza passo passo sotto la tettoia, sbocconcellando un grosso pane da una mano, e una larga fetta di prosciutto che tiene sollevata con l'altra, fra due ditini soli, delicatamente.
Nell'abito blù, corto, d'alpinista, con un grande panama puntato un po' di traverso sulla massa avviluppata e spettinata dei capelli biondi e con un alpenstok lunghissimo, che avendo le mani impedite stringe sotto il braccio e strascica per terra, la giovinetta così ardita e ostinata, più assai che della «signora duchessina» ha della bimba e del monello. Le tien dietro, a poca distanza, facendo risonare gli scarponi ferrati, una specie di montanaro curvo e barbuto, che porta un paio d'occhiali neri infilati sul cappello fra una ghirlandetta di edelweis e di roselline delle Alpi. È una vecchia guida dei dintorni.
— Idola mia, sii buona! Vieni con noi! E non mangiare adesso! Non avrai più appetito a colazione!
— Ho detto di no! Di no! Ho detto di no!... Io vado a vedere l'innondazione del Rodano! Vado con questa guida, che mi farà da nocchiero! Ma pensa, bella mammà, invece delle noiosissime montagne, trovare in Isvizzera un po' di mare! «In mare luccica, l'astro d'argento!» Pensa che gioia! È tutto sott'acqua! Case, contrade, villaggi interi!... Tutto sott'acqua! È una bellezza da vedere!... Mimì! Mimì! Vieni, sì o no?
— Eccomi! Eccomi! — risponde dalla sala d'aspetto la contessina Mimì Carfo. Sta frugando con una cameriera, tra le valigie e i plaids, in cerca degli impermeabili e delle calosce.
— E Totò? Vieni anche tu con noi, Totò?
Totò non risponde. Egli ha per principio che gli inglesi veri, non usano rispondere. Ma leva di tasca e accende la pipa, il che vuol dire che prende parte all'impresa.
Mademoiselle è già smontata dalla carrozza, è già andata lei pure a cercare impermeabile e soprascarpe.
— E così?... Noi adesso che facciamo, signori miei?... Si parte per Bex o non si parte? — Il signor Zaccarella sta prendendo tutta l'acqua e ha i piedi nella mota.
Ma la povera duchessa non può rassegnarsi:
— Sii ragionevole, Idola cara! Non pigliar freddo! E poi? Se c'è pericolo!
— Pericolo di che? Nessun pericolo! — ribatte lo Zaccarella per farla finita.
— Stia sicura, di buon animo, duchessa, e andiamo a Bex, che si fa tardi. Farò accompagnare la duchessina da Pasquale, e Pasquale è un uomo prudente. C'è da fidarsi. Su, su! Signor principe! Chiuda l'ombrello! In carrozza e andiamo!
La Moncavallo, anche quando la carrozza si muove, continua a sospirare, a gemere, a fare raccomandazioni alla figliuola. Donna Maria e il principe Rosalino si guardano solo negli occhi, scrollando il capo: — quella piccola è tutto un capriccio!
In quanto a Totò, a Mimì e a mademoiselle, qualsiasi raccomandazione è perfettamente inutile. Sempre ligi agli ordini e ai ghiribizzi di Remigia. A loro non è permesso di dire la piccola. Non è permesso nessun diminutivo, nessun vezzeggiativo. Molto per amore e un po' per forza, ella sa tenerli legati alla catena come Din e Don. Per amore la Mimì: adora Remigia. Per amore, — in segreto, — anche Totò; per forza, mademoiselle. Sapeva che già erano state cambiate tre governanti: la prima era troppo vecchia, la seconda troppo brutta, la terza... antipatica. Mademoiselle Jenny, per non perdere il posto... sommissione e sempre in ammirazione!
— Addio, mammà! Addio, gioia! Addio zio Rosalì!
— E badiamo, duchessina Remigia, di non farsi aspettare! — ammonisce lo Zaccarella col suo tono di padronanza. — Bisogna essere di ritorno prima delle tre. Non si vorrebbe perdere la corsa per lei, possibilmente!
— Non dubiti, capitano! Alle due e tre quarti, pronti al comando, capitano!
Quel demonietto di donnina saluta mettendosi ritta, in posizione militare, con l' alpenstok a mo' di fucile e la mano al cappello.
— Maledetta piccola! — borbotta il signor Zaccarella, sdraiandosi nella carrozza dov'è rimasto solo, e che parte al trotto, seguendo il landò della duchessa. — Maledetta piccola! — Non la può soffrire perchè lo chiama capitano, per pigliarlo in giro, e perchè ella se ne infischia allegramente di ogni sua autorità. Nessuno, del resto, incute a Remigia soggezione e rispetto. Nessuno; nemmeno sua madre. La duchessa Cristina, che era sempre stata ed è tutt'ora assai severa, fin meticolosa verso donna Maria, non avrebbe mai osato di fare la minima osservazione all'Idola, che, del resto, è proprio il suo idolo! E nemmeno don Luciano! Don Luciano, quanto è largo di quattrini con sua moglie e con tutti i parenti di sua moglie, altrettanto è facile agli sgarbi, alle scenate, agli atti di prepotenza: ma contro la cognatina, non c'è verso di poterla spuntare!
— Maledetta piccola! — borbottava Luciano con il fido Zaccarella. — Ci vorrebbe un altro sistema di educazione! Il sistema adottato per Din e Don: zucchero e... frusta! — Ma la frusta resta, naturalmente, una figura rettorica e così la piccola finisce per avere anche da «quell'odiosissimo» di suo cognato, soltanto lo zucchero!
— Se credi di farmi piangere come mia sorella, ti sbagli, sai! — aveva detto Remigia a don Luciano, la prima volta che si erano accapigliati. — A me non fai paura, perchè ti conosco bene!
Gli occhietti dell'Idolo non ridevano più, azzurri e sfavillanti: lo fissavano impavidi, con una durezza, con una freddezza d'acciaio. L'altro sentì scendere nell'animo cattivo quell'occhiata cattiva. Ne rimase sconcertato e voltò la cosa in ridere.
— Chi dovrà godersela costei starà fresco!... Meglio, molto meglio sua sorella, con tutte le sue nenie! Con sua sorella, con mia moglie, comando io! Che diversità dall'una all'altra!... Come tra una bottiglia d'inchiostro... e un bicchiere di champagne!
— Don Luciano ha ragione!
Remigia è bionda e piccola, rosea e magrolina; è tutta un sorriso e un argento vivo. Maria Grazia, alta, forse troppo alta della persona flessuosa e gentile, ma di un'eleganza armonica, ha i capelli neri bruniti, lucenti; e gli occhi nerissimi, i begli occhi nerissimi e profondi, sono pieni di pensieri e di malinconia. C'è più di un'anima in quegli occhi; c'è la poesia del dolore.
La D'Orea non ha ancora ventisette anni e ne dimostra trenta; l'Idola ne ha venti e in certi giorni di maggior vivacità e turbolenza ne dimostra quindici!
Insomma il contrasto tra le due sorelle è così vivo e così strano, che i pochi fedeli adoratori i quali assolutamente non permetterebbero un dubbio sulla rigida virtù della duchessa Moncavallo spiegano il prodigio assicurando che donna Maria Grazia assomiglia alla madre, quanto Remigia assomiglia al padre... morto, da vari anni, di paralisi progressiva, ma che, per altro, non era mai stato, in vita sua, nè piccolo, nè biondo, nè prepotente.
III.
Al Grand hôtel di Bex, la colazione, ordinata per le dodici, non è ancora pronta alle dodici e mezzo. Si comincia con un brodetto cosparso di qualche lacrima insipida; un altro quarto d'ora d'aspetto, e finalmente, accolto con viva gioia, ecco l'apparizione di un bel rosbiffe, rosolato e fumante.
Ma, subito, un nuovo incidente e un nuovo ritardo. Il principe di Sant'Enodio e il signor Zaccarella hanno appena il tempo di emettere un lungo — ah! — di soddisfazione, che già echeggia nel corridoio un festante latrato, e Din e Don, come due saette, sciolti dalla catenella e inzuppati d'acqua e di mota, precipitano nella sala, saltano sulle ginocchia, sulle sedie, persino sulla tavola, ormai fatti indocili e indomabili dalla fame e dall'odore del bove arrosto.
L'Idola è di ritorno con tutta la sua corte. Grande gioia della madre, gioia più tranquilla dello zio, un sorriso di Maria Grazia e fremiti d'ira a stento frenati dal povero Zaccarella, che deve alzarsi, cambiar di seggiola, fare cerimonie, dare nuovi ordini, e quindi sospendere il pasto, proprio nel momento di incominciarlo!
— I cani!... Giù! Giù! Fuori i cani! Fuori!
Il signor Zaccarella non può sfogarsi nemmeno contro i cani! La contessina Mimì ha preso Din per il collarino, mademoiselle ha pigliato Don, le cameriere portano spugne, asciugamani, spazzole, pettini, acqua di Colonia e incomincia la toeletta.
— Zio Rosalì, amore, dammi una fetta di rosbiff! Anzi, due grandi! — Remigia è già seduta a tavola.
— Prima una tazza di consumé!... Prendi una tazza di consumé, Idola!
— Ma che! Ma che! Figurati! Ho fame di rosbiffe!... Mi dà le patate signor Zaccarella? Maria, gioia, dammi la senape! — Tutti la servono e l'Idola divora. — Ho una fame, mammà! Una fame! Una fame!
— Brava!... Così, vedi, mi fai contenta, felice!... Per altro, anche una tazza di brodo ben caldo!... — Ogni boccone che ingolla la figliuola è un raggio di gioia negli occhi materni!
— Squisito!... Eccellente, questo rosbiffe! Non è vero, Totò?
Totò, che pure non ha perduto tempo, è seduto accanto a papà, e dinanzi a quel roastbeef si sente inglese più che mai. Annuisce con un cenno dignitoso del capo.
— Bravo Totò, il britanno! Signor Zaccarella, ancora patatine! Mimì! Mademoiselle! Asciugate bene bene e fregate forte forte! Povero Din e povero Don!... Che non prendano la tosse!... Tesöri!... O mammà! Che bellezza vederli a nuotare!
— Adagio, mangia adagio, non così in fretta, cara! Sei stata buona a ritornar presto! Non hai preso freddo, spero. Non ti sei bagnata?
— Ma che! È un'innondazione artificiale!... Tutto in Isvizzera si fa artificialmente! L'innondazione, come il ghiaccio del Rodano con la grotta azzurra! Pur di mungere le borse al misero viandante! Esempio: io, Mimì, Totò, non abbiamo più un soldo! Signor Zaccarella gentile e buono, ancora un po' di senape! Grazie.
— Come? Non ti sei divertita, Idola mia? — La madre è adesso inquieta per un altro verso.
— No. Non c'era niente di bello da vedere! Un mare?... Che! Un lago morto; non è vero, Totò? Un lago caffè-latte, dal quale non spuntavano qua e là, altro che le cime di qualche alberello, e più giù, mezzo campanile! Zio Rosalì, amore, leggi il menù, con alta e chiara voce!
— Poulard de Bress aux champignons.
— Benissimo! Bravo! Evviva i champignons! Sai, mammà? Un'innondazione senza innondati! A nuoto, soltanto Din e Don!... Brutta gentaglia sudicia; certi visi sparuti che frignano miseria per spillare quattrini! Ha finito mademoiselle? Allora faccia il favore, metta a Din il nastro giallo, e a Don il rosso!
Il signor Zaccarella, che ormai s'è calmato avendo calmato anche l'appetito, pensa lui perchè ci sia ancora da far colazione per la contessina Mimì Carfo, per mademoiselle Jenny, e anche per le due insopportabili bestiacce.
— Con tanto amore per i suoi tesori, duchessina Remigia, ella pensa alla loro toeletta, all'acqua di Colonia, al nastro giallo e al nastro rosso, ma se non ci fossi io... creperebbero di fame!
— Magnanimo capitano, grazie! Mi raccomando: zuppa soltanto, pochina e niente carne! Non posso soffrire che Din e Don diventino grassi! Odio la gente grassa!
Il signor Zaccarella, oltre ad avere la faccetta secca, gialla, da giovine vecchio, senza nemmeno un'ombra di peluria, è magro, più di un angolo in croce. Egli interpreta l'odio della duchessina contro i grassi, come un complimento a lui diretto e questa volta le perdona l'ironia del capitano.
— Sa fare, la piccola!
Il ritardo prima di mettersi a tavola, l'interruzione per l'improvvisa comparsa della duchessina, il caffè, il kirsch, poi di nuovo il thè... è venuta l'ora della partenza. In fatti i due soliti landò e l'omnibus aspettano già pronti dinanzi all'albergo, quando entra in sala il portiere con un telegramma.
— Luciano! — mormora sottovoce donna Maria prendendo il dispaccio. — Grazie.
Ella lo apre senza il più lieve sussulto, senza nemmeno un atto di curiosità. È sicura che non ci può essere per lei nessuna notizia gradevole e alle noie e alle contrarietà, ormai c'è tanto avvezza!
Legge, poi si rivolge alla madre:
— Andate voi soli a Villars. Io aspetto Luciano a Bex. — Dà il telegramma aperto al signor Zaccarella che, a sua volta, lo legge prima piano, poi ad alta voce.
— «Preso automobile». — La scusa della sua partenza improvvisa da Lucerna per Parigi, questa volta, era stata l'acquisto di un'automobile. — «Presa automobile. Una Mercedes-Janko. Tu aspettami a Bex col signor Zaccarella. Tua madre, famiglia, proseguano Villars. Saluti».
È chiaro che arrivando a Bex, Luciano D'Orea, vuol trovarsi solo con sua moglie. È chiaro, esplicito, e per la famiglia riesce tutt'altro che spiacevole quell'ordine. Quando ritorna da Parigi il caro Luciano, non è punto divertente! Musi e spostature. O non guarda nemmeno in faccia, o strapazza tutti.
Però, in quel momento, nessuno fiata: non c'è nè una parola di protesta, nè una manifestazione qualunque di dispiacere. Le carrozze aspettano sempre: le signore devono vestirsi, mettersi il cappellino e far presto per non perdere la corsa.
Il principe Rosalì è già pronto. Egli sta ammirandosi nello specchio grande che occupa una parete e continua ad ammirarsi.
— Con quella barba magnifica ha proprio una bella testa da cavaliere antico! E la persona alta, — erano tutti alti, maestosi i Sant'Enodio, — come si conserva elegante e ben formata! Eppure... i sessanta erano sonati, ma così leggermente che nessuno se n'è accorto e lui, meno di tutti.
— Buon viaggio, zio Rosalì! Arrivederci a Villars!
Il principe sorride ancora baciando in fronte con l'usata galanteria, la «pallidona sensitiva» e il sorriso, prima di compiacenza, adesso diventa arguto, maliziosetto: è lo spirito di Voltaire che rivive nell'uomo del gran mondo.
— A Parigi, hanno fatto prestissimo, questa volta, a comperare l'automobile! C'è da congratularsi... con l'Italia!... Ricordati, o soave Maria, gratia plena: a marito che torna, ponti d'oro!
Sopraggiunge la madre: sta un momento sopra pensiero, poi si decide. Si fa prestare dalla cara Maria la sua mantelletta di lontra, per le spallucce dell'Idola.
— Tu qui, puoi goderti ancora un po' di caldo! Lassù, a milletrecento metri e con questo ventaccio, ho in mente che troveremo la Siberia! — Poi diventa seria. Anche la duchessa accompagna le raccomandazioni alle affettuose tenerezze. — Salutami Luciano. Ricordati che puoi farne sempre ciò che vuoi! Basta non contradirlo! Eh, sicuro che qualche volta il caratterino è difficiletto! Ma come si fa? Il buon Dio ha dato a tutti la nostra croce da portare e io mi conforto pensando che la mia, — non per dir male di tuo padre, poveraccio, quand'era vivo, — ma è stata molto più pesante della tua. E così, sempre sia! — Le dà due baci forti, che scoccano, uno per guancia. Vede che gli occhi della figliuola sono addolorati, pieni di lacrime; allora la stringe al cuore, sospira pateticamente e se ne va, presto presto, per non sentirsi troppo commossa, fermandosi solo un momento, prima di salire in landò per cercare nella piccola borsetta, appesa alla cintura, se non ha dimenticato l'astuccino delle pastiglie.
— Addio, gioia! Addio! — Remigia saluta la sorella da lontano, in fondo alla discesa. È corsa innanzi, a piedi, con Totò e con Mimì Carfo; è corsa dietro a Din e a Don, — i ghiottoni tanto disubbidienti! — Hanno subito trovato l'usta della cucina e delle ossa e adesso non si lasciano prendere per paura del castigo!
— Addio, gioia! Vieni presto a Villars!... Din!.. Diin!... Doon!... Qui! Subito qui!
Maria Grazia rimane sola, sul grande portone dell'albergo, a vederli partire. Anche il signor Zaccarella è andato alla stazione per i biglietti, per tutto quello che c'è da fare. Quando non vede più le due carrozze seguite dall'omnibus, ella rimane ancora lungamente ritta, immobile, gli occhi pensosi a guardare lungo la strada solitaria.
Che vuoto! Che vuoto! Dio! Dio! Che vuoto intorno a lei!
Il cielo è ancora fosco, tutto coperto; ma la pioggia è quasi cessata. Maria fa qualche passo macchinalmente: non piove più. Ella continua a camminare a caso, adagio adagio, assorta, distratta. Vede una chiesuola in fondo a un prato verde, circondato da un muricciuolo... è aperta; entra. La chiesa è deserta. Un solo lumicino acceso a' piè d'una Madonna posta sul piccolo altar maggiore, nudo, con il dorsale della tovaglietta ripiegato.
La giovane signora osserva quella Madonna scolpita goffamente nel legno e goffamente dipinta: eppure ne sente il mistico fascino e la soave poesia. La guarda... siede sulla prima panca, in fondo alla chiesa, e continua a guardarla... così, senza pregare.
Pregare? Che cosa avrebbe potuto chiedere? Nulla. Che cosa avrebbe potuto sperare? Nulla.
Maria continua a guardare, a fissare la rozza immagine della Madonna, sola con lei, in quel giorno, sola come lei, nella chiesa deserta; come lei, in quel momento, abbandonata da tutti.
— Povera e cara Madonnina di Bex! Povera, sì, molto povera quella Madonnina... e brutta!
Il manto azzurro e il vestito rosso di seta, sono miseri e stinti... Non ha corona quella regina dei cieli, non ha gioielli, non ha ornamenti...
Maria sospira: sente che si dilegua anche quel po' di conforto che le era penetrato nel cuore. Le sembra, che persino la rozza immagine di legno, ripeta a lei, così bella e così ricca, quelle parole fredde, terribili, che tutti le dicono, che tutti le sussurrano in famiglia, nel mondo, come un rimprovero e come un ammonimento, quelle parole che le tolgono persino il diritto di soffrire, e di piangere:
— Di che ti lamenti?.. No, tu non puoi lamentarti! Hai la ricchezza, il lusso, lo sfarzo; hai la gioventù e la bellezza. Basta una parola tua e ottieni tutto quello che vuoi. I milioni di tuo marito sono inesauribili e la sua cassa è sempre aperta! Se non ti basta e ti credi infelice, sei ingiusta e sei ingrata! Asciuga, asciuga le tue lacrime!
.... Sente, dietro di lei, un lieve suono di passi, il rumore di una seggiola appena smossa.
Ella non si volta nemmeno. Sa benissimo chi è entrato in chiesa. È il signor Zaccarella il quale ha l'ordine preciso, dal padrone, di non lasciarla mai, di sorvegliarla sempre, di riferire tutto ciò che fa.
IV.
Don Luciano, dopo il telegramma che annunzia il suo arrivo a Bex, non dà più segno di vita.
Passano vari giorni, Maria è sempre sola e aspetta rassegnata, inerte.
Il signor Zaccarella è assai più inquieto di lei.
Con donna Maria si mostra impassibile, impenetrabile e più che mai ligio agli ordini ricevuti, ma in cuor suo disapprova la condotta del padrone.
Col pretesto degli affari, guardandosi bene dal dirlo a donna Maria, egli ha già telegrafato a don Luciano, all' hôtel Bristol: niente, nessuna risposta.
— Che il padrone non sia più a Parigi?
Il signor Zaccarella, borbotta fra sè, scotendo il capo:
— Perchè mò condannare donna Maria in questo forno, a servire di pasto alle mosche o alle zanzare? Con poca fatica, soltanto con un altro telegramma, potrebbe mandarla a Villars a raggiungere sua madre e gli altri! E lui, messa a posto la moglie, padronissimo di fermarsi dietro strada a studiare il bel canto!
Certe volte il fido Zaccarella non ha il coraggio di guardare in faccia la signora. Si vergogna lui per don Luciano. Tuttavia, con gli altri, tien duro e lo difende a spada tratta, specie con la Nunziatina, che l'ha a morte con il padrone.
La Nunziatina, rimasta a Bex, non fa altro che brontolare tutto il giorno. Brontola per il caldo, brontola per le mosche.
In questi brontolamenti ha la sua parte anche la lontananza di Eduardiello, il bel servitorino di Totò.
— Che si fa, signora? Come si fa? Non c'è più roba, non c'è più biancheria! Se crede, io potrei fare una corsa fino a Villars? Prendo un paio di vestiti e tutto il resto che occorre!
— Aspettiamo... Aspettiamo ancora un giorno... Poi si vedrà.
Questa è la sola risposta che dà sempre donna Maria col suo tono dolcissimo, malinconico e la lenta cadenza musicale.
Anche su, a Villars, ci sono mosche; ma a Villars fa fresco e alla Tête-pointue i giorni volano allegramente. L'Idola si diverte, tutta la sua corte, quindi, si diverte e la madre è raggiante. Il principe Rosalino trova ottimo il cuoco, buono l'albergo e il clima delizioso. — Chi sta bene, dunque, non si muova! — E quella gente beata ha soltanto paura di muoversi! Però, sono tutti d'accordo in questo: nel fare sfoggio di grande saggezza per ripararvi sotto la cura gelosa del loro benessere e delle loro comodità. Cercano e trovano sempre in qualche proverbio, non solo la giustificazione, ma anzi il conforto dell'antico buon senso a non muoversi, a non disturbarsi. Il proverbio che corre in questi giorni a Villars-Ollon è prudentissimo: «Fra moglie e marito non ci va messo un dito». Non si telefona, dunque, non si telegrafa, non si scrive a Bex, altro che «saluti e tenerezze». Mai nessuna domanda intorno a Luciano, mai nessuna maraviglia, nessun commento, nessun rimprovero per quello strano procedere, mai nessuna parola che esprima a Maria il rammarico per la forzata lontananza, il dispiacere di saperla sola, laggiù, e sola in quel modo.
— Driiin!
È la madre che telefona.
— .... Sei tu Maria?... Come stai?... — Anche noi benino! L'Idola si diverte! Piace assai!.. — Anche a Bex fa caldo?... — Il signor Trüb assicura che adesso avremo bel tempo per tutto il mese! Addio, cara! Saluti e tenerezze, anche dallo zio Rosalì.
Un altro — Driiin! — e basta.
Ormai è più di una settimana che Maria è ferma a Bex, aspettando il marito; passa i giorni girando attorno all'albergo, sempre in vista dell'albergo. Luciano potrebbe capitare da un'ora all'altra e se sua moglie, per caso, non fosse lì pronta a riceverlo, guai, cascherebbe il mondo!
Il signor Zaccarella non ha più parole; la Nunziatina strepita.
Aspetta, aspetta, sono già due settimane che lo si aspetta... finalmente una sera, dopo le dieci, quando proprio nessuno ci pensa — téé-téé-téé — tuff-tuff-tuff — è don Luciano che arriva con la macchina sconquassata perchè vicino ad Aigle ha urtato contro un paracarro.
Don Luciano è furibondo. Appena messo piede a terra, nello sprazzo di luce elettrica, tutto bianco di polvere, con l'ampio regland di pelle e l'enorme berrettone, gesticolando, la voce rauca, sembra un orribile mostro della notte. Prima ancora di entrare nell'albergo, prima di salutare Maria, grida col povero chauffeur, che non ha nessuna colpa dell'accaduto e, sempre per la macchina, impartisce ordini sopra ordini, allo spaurito Zaccarella.
— Canaglia!
Con chi l'ha don Luciano?...
Forse con un vetturino, forse con un carrettiere incontrato lungo la strada e che non è stato pronto a cedere il passo. In ogni modo sono queste le prime parole che il marito rivolge alla moglie dandole appena la mano per salutarla. Poi nuove ire e brontolamenti, perchè non è arrivato un certo telegramma che aspetta. Trova, per conseguenza, l'albergo oscuro, le camere incomode, la cena cattiva, il servizio pessimo e in mezz'ora ha già strapazzato padrone, camerieri e portiere. Senza voler prendere il caffè — «in Isvizzera è veleno!» — entra nella sua camera, dove c'è Andrea, il servitore, con l'acqua calda e l'acqua fredda e chiude l'uscio in faccia a Maria.
Donna Maria non sa che cosa fare. Deve aspettare in piedi?... Può andare a letto?...
È già sonata mezzanotte, quando Andrea esce dalla camera del padrone. Ella, sottovoce, lo chiama dall'uscio del salotto, per sapere qualche cosa.
— Il signore è andato a letto. Mi ha ordinato di non entrare in camera domattina e di non svegliarlo assolutamente; nemmeno se arrivassero dispacci. Domani, vuol dormire tutto il giorno.
— Allora... buona notte!
— Buona notte, signora. — Andrea s'inchina profondamente e sparisce in punta di piedi, nel corridoio deserto e buio.
Invece, la mattina dopo, don Luciano è in piedi prestissimo. Lindo, profumato, tutto bianco nell'abito di tela, e con il piccolo panama dall'ala calata sugli occhi, non è più il mostro della notte. — Anzi, don Luciano, pallido, coi piccoli baffetti biondi, rivolti in su, è piuttosto un bel giovinotto, sebbene calvo. Della sera avanti non gli è rimasto altro che il cattivo umore.
Donna Maria, per buona prudenza, s'è alzata presto anche lei. Lo trova che brontola col portiere per le zanzare, le mosche e per il pessimo servizio telegrafico.
— C'est détestable! Assurément, vraiment détestable!
Poi, subito, appena si è impinzato rabbiosamente di burro, di miele, di pane tosto e s'è gonfiato di latte e cioccolatta, comincia le scene di gelosia.
La gelosia di don Luciano è una gelosia... in cui l'amore non c'entra affatto. C'entra la vanità, il capriccio, la boria di poter dire «a me non la si fa», ma c'entra, soprattutto, il sentimento dispotico, arrogante del padrone, il vanto di poter avere e godere lui solo, quello che gli altri desiderano e invidiano. Don Luciano è geloso dei suoi cavalli, del suo cocchiere, del suo chauffeur e di sua moglie: anche questa proprietà sua, roba sua.
Quando torna da Parigi, peggio che mai: è geloso frenetico. Egli riversa e fa scontare alla moglie anche tutta la gelosia atroce che gli ha fatto e gli fa soffrire Fanfan, ma che è costretto a dominare. Fanfan, è vero, gli costa più che non gli sia costata la duchessina Moncavallo, ma per questo non ha mai voluto essere «roba sua». Oh, con Fanfan non si fanno scene! Con Fanfan non si fa l'Otello! Guai! Si provi una volta sola don Luciano, a fare il prepotente e il noioso: è già bell'e pronto il miliardario americano mister Kennet, il re della glicerina, che aspira a un posto di successore nel gran cuore della Trécoeur!... Così, la moglie virtuosa, paga anche per l'amante irresistibile, ma poco resistente!
Maria Grazia, non dà mai il più piccolo motivo di gelosia; ma questo non vuol dire che a Luciano manchino i pretesti. A Bex, il pretesto è un povero giovane tisico, in viaggio per il sanatorio del Mont Blanc, a Leysin.
Donna Maria ha soltanto scambiata con lui qualche parola, a distanza, da una poltrona all'altra della veranda, e presente, s'intende, l'oculato Zaccarella. In quella giovane signora dai nerissimi capelli, dagli occhi nerissimi, pensosi e profondi, l'infelice sogna Napoli, Roma, Venezia; l'Italia, della quale è innamorato, sebbene non abbia mai potuto fermarsi che a San Remo e a Bordighera. Il viaggio in Italia è il sospiro suo per quando sarà guarito, e intanto rivolge a Donna Maria sempre le stesse interrogazioni sul Ponte dei Sospiri, i Piombi e i migliori alberghi di Venezia, su Pompei, il Vesuvio e la Funicolare, sulla casa di Dante e di Giulietta e Romeo, e domanda che cosa vuol dire piedigrotto o piedigrotta.
Quella mattina, appunto, mentre i D'Orea fanno colazione, il giovane inglese pallido, sparuto, si avvicina a Maria Grazia per congedarsi: parte in quel momento per Leysin.
Don Luciano lo guarda bieco, risponde al saluto, senza nemmeno alzarsi, poi, appena l'altro volta le spalle, assale di domande la moglie per sapere come, quando, in che modo ha conosciuto quell'importuno; e appena di sopra, soli, dà in escandescenze. Maria non risponde, non dice più una parola; ma Luciano non si calma, tutt'altro.
— Avvertite il direttore, — ordina al signor Zaccarella — da oggi in poi, colazione e pranzo qui, nel mio appartamento.
E continua tutto il giorno a gridare, a interrogare, a far scene, a far processi. Siano presenti il signor Zaccarella, la Nunziatina, anche il servitore e i camerieri poco monta, egli continua lo stesso, anzi, quando c'è gente si riscalda di più. Continua tutto il giorno, tutto il giorno!
Maria, pallidissima, non risponde, non dice mai una parola. Soltanto la sera, a pranzo, quando Luciano, che divora come una belva, comincia a tacere, le si riempiono gli occhi di lacrime. Non è dolore; è oppressione, è stanchezza. Stanchezza dei nervi. Sono i suoi nervi che non ne possono più, proprio più!
Dolore no. Il dolore, come l'amore, e ciò che un'anima nobile, squisita, ha di più bello, di più alto e di più puro. Dolore no. È troppo fiera per sentir dolore di quell'ingiustizia sciocca e vile, vile e sciocca. Suo marito è un ragazzo viziato e malato, un pazzo. Ella ne sente compassione; non vuol ancora disprezzarlo. Ma che stanchezza! Come si sente stanca, affranta, moralmente e materialmente.
È orribile quella vita; e non potersi sfogare con nessuno!
Sa già che cosa le avrebbero risposto sua madre e lo zio Rosalì.
— Luciano, cara figliuola, non è cattivo; è soltanto geloso, e ciò, da un certo punto di vista, dovrebbe farti piacere: «Amore e gelosia nacquero insieme!» Non si può avere proprio tutto, tutto a questo mondo e tu sei fra le donne più invidiate e fortunate! Luciano, è vero, monta in collera facilmente, ma anche presto gli passa.
Presto no, ma sulla fine del pranzo, anche per merito di un Mumm cordon rouge squisito, gli passa anche quel giorno.
Con gli occhi lustri, annunzia al signor Zaccarella una prossima gita di un paio di giorni a Losanna e sorbendo il pessimo caffè, comincia a canterellare.
— La musica! L'arte del canto! Arte divina!
Forse a Luciano, nella sua vanità persino morbosa, non dispiace di lasciar trapelare anche a Maria, le proprie avventure galanti; certo, non si dà molta pena per nasconderle.
— L'arte del canto! Arte divina!
Luciano domanda a Maria, alla quale si prepara così un nuovo tormento, se da basso, nella sala, c'è un buon pianoforte.
— Credo...
— Andiamo a provare.
Luciano ha una voce che egli vanta di tenore, ma che, invece, è di pecora, di vitello, di vari animali insieme. Nei giorni lieti canta per ore e ore e Maria deve accompagnarlo, applaudirlo e divertirsi. Fedele, in musica, quando comincia con un'aria, canta sempre quella per tutta la stagione. Adesso, forse in omaggio a Fanfan, il suo cavallo di battaglia è l'aria, anzi il duetto della Traviata: «Un dì felice, eterea — mi balenasti innante...» E fa tutto lui, anche il soprano, pur di arrivare a sfogarsi e a sgolarsi a «quell'amor ch'è palpito!»
Lì, a Bex quella sera, due o tre vecchie inglesi dell'albergo, vanno addirittura in estasi al «di quell'amor...» Il D'Orea è gongolante, è felice. Gli applausi, come il suono dell'arpa davidica, mettono in fuga gli spiriti maligni, ma quando il trionfo è più strepitoso, arriva dalla stazione un telegramma d'urgenza a rompere in un attimo il benefico incanto.
« Luciano D'Orea — Grand hôtel de Bex ».
«Après succès Joujou, éclantant, inoubliable, unanimement constaté, engagée pour créer le rôle de Germaine, dans Le corset envolé. Pour ma petite course à Lausanne il faut attendre la semaine prochaine. Tous mes regrets, tous mes adieux.
Fanfan ».
Luciano, dietro quel dispaccio, vede apparire il fantasma del re della glicerina. Pianta lì il suo pubblico, maravigliato, e se ne va via di colpo. Sua moglie, il signor Zaccarella, lo seguono inquieti, arrischiando appena qualche domanda.
Don Luciano soffia, sbuffa, poi risponde che non vuol nessuno.
— Via tutti!... Tutti a dormire!... Sarò padrone, almeno una volta, di restar solo!... Di poter respirare! Non sono uno schiavo, finalmente!... Via tutti!... A dormire! Che vita! Che vita! Che inferno!
Corre solo, a piedi, alla stazione. Strepita con l'impiegato che a quell'ora, di notte, non vuol aprire l'ufficio, e telegrafa. Telegrafa prima ordini e minacce, poi, quasi subito, telegrafa di nuovo, chiedendo perdono, concedendo tutto, supplicando.
Maria lo vede capitare in camera sua, stravolto, mentre sta per andare a letto.
Che notte! Che notte orribile! Nessun rispetto, nessun ritegno. Baci furiosi e rimproveri atroci. Accusa Maria di non aver cuore, di non aver mai avuto cuore! È una donna fredda, di ghiaccio! Egoista, superba e niente altro! Non sa voler bene, non gli vuol bene! Ha voluto un marito, s'è venduta a un marito, per farsi mantenere lei, e tutta la sua famiglia!
Poi Luciano sospira, si dispera.
— È il mio destino! È il mio destino infame, di non essere amato da nessuno, da nessuno!
Si rivolta nel letto smaniando, gemendo, e finisce con lo scoppiare in lacrime. Sono lacrime vere.
Maria ne sente prima ribrezzo, terrore, sdegno. Poi, quando lo vede piangere, disperarsi a quel modo... finisce ancora per sentirne compassione e pietà.
V.
Passano così, non allegramente, vari giorni, e Luciano D'Orea non accenna nemmeno alla partenza per Villars. E se non ne parla lui, gli altri, naturalmente, non fiatano. Qualche volta Maria Grazia, per tastare il terreno alla lontana, gli comunica i saluti della madre o dello zio: Luciano cambia subito discorso.
Che cosa pensa di fare?... Rimanere a Bex tutta l'estate? Chi sa!
Continuano le strapazzate, le furie gelose e la sera «l'amor ch'è palpito...» Poi Luciano, d'un tratto, muta d'umore. Non grida più, non strapazza più, non canta più, ma forse si sta peggio di prima! Egli è diventato muto; — tutti muti! Se per forza gli si deve domandare qualche cosa, non risponde. Bisogna sempre indovinare, e non si indovina mai! Non ha fame, non vuol mangiare: a tavola respinge i piatti e li fa portar via con un atto di collera, prima ancora che gli altri abbiano potuto servirsi. La Traviata, s'intende, è messa da parte.
Donna Maria e il signor Zaccarella passano tutta la sera in giardino, dove si soffoca, a sentirlo soffiare e sospirare.
Che cosa mai è accaduto di nuovo?... Che cosa c'è di nuovo?
Donna Maria e il signor Zaccarella, cercano di indovinare, corrono direttamente, col pensiero, fino a Parigi. Ma s'ingannano tutti e due.
La cattiva luna spunta, questa volta, dalla parte di Bologna. Il primo a saperlo, s'intende, è sempre il fido Zaccarella, il quale, in tutta fretta, comunica l'importante notizia alla signora.
— A giorni, deve arrivare Sua Eccellenza.
— A Bex?
— A Bex, per venire con noi a Villars. Anche Sua Eccellenza ha scelto Villars per passarvi l'estate. Don Luciano — non c'è nessuno, ma il signor Zaccarella abbassa la voce — don Luciano avrà certo paura di qualche osservazione, di qualche contrasto... Ecco spiegato il suo cattivo umore!
— Già, sicuro! Ecco spiegato il suo cattivo umore! — ripete Maria com'un'eco. Ma in cuor suo, prova un senso di sollievo. Vede avvicinarsi qualche ora di tregua, se non di pace.
Giacomo D'Orea, — o Sua Eccellenza come lo chiama rispettosamente il signor Zaccarella, — è l'unico fratello di Luciano: fratello maggiore di una decina d'anni. È stato un po' il suo tutore, gli ha fatto un po' anche da padre. Ha cercato di educare Luciano con idee moderne, di abituarlo allo studio, al lavoro, di innamorarlo, di appassionarlo alle cose belle... inutilmente. Il ragazzo rompe il freno e gli scappa di mano prima del tempo. Niente studio, niente lavoro: le sole cose belle che lo innamorano sono le belle donne e lo appassionano quelle, specialmente, che costano molto.
Don Luciano, tuttavia, anche diventato uomo e libero di sè, ha sempre un certo timore di suo fratello. Se non per amore, per forza, lo sopporta e lo rispetta.
Giacomo, in fatti, è per tutti, ed anche per Luciano il capo visibile ed invisibile della grande Casa.
Si è imposto con l'autorità dell'intelligenza e del lavoro; con la rettitudine e la semplicità della vita. Si sarebbe detto che in quell'uomo mingherlino, dalla barbetta rada e già brizzolata, che in quella testa quadra di lavoratore, si fosse accumulata l'energia produttiva di secolari generazioni, che in lui fosse però scomparsa ogni rozzezza atavica, ogni lievito di grettezza e di cupidigia. Egli è il nepote di una schiatta forte e utile, che anzichè degenerare, procede con lui e per lui verso una perfezione armonica e vittoriosa. Egli ha compresa l'età sua nelle caratteristiche buone e cattive, nello spirito egualitario e sovvertitore, nelle energie e nelle audacie. Egli ha intuito quell'assioma economico che i finanzieri del nord-america respirano nell'aria del loro paese; cioè, che il possedere molto danaro è una gran buona cosa, che il possederne moltissimo è una cosa ancora più buona e più bella, ma che, d'altra parte, i milioni e i miliardi non valgono un dollaro e nemmeno un penny, se nella fatica angosciosa di accumularli non si mette da parte quel tanto di tempo, d'ingegno e di salute, che occorre per saperli godere.
Nel salire al trono... di casa sua, Giacomo D'Orea ha tutto saputo, tutto veduto e quindi tutto rinnovato e migliorato. Nelle sue molte aziende rurali, egli ha recato i criteri suoi e lo spirito di previdenza, di assistenza e di cooperazione proprio dei nuovi tempi.
Industriale di ampie vedute e anche un po' artista, ha sempre posto in tutto quello che ha fatto e creato, uno schietto sentimento di armonia e di bellezza. Ha dato il suo consenso e il suo nome alle imprese più simpatiche e originali, mantenendosi nei rapporti nuovi, complessi e difficili lo stesso uomo fiero e forte, sotto un'apparenza mite e quasi timida, semplice e serio, conoscitore pronto ed arguto di sè stesso e degli altri.
Senza spiccate predilezioni per la politica, ha però dovuto dedicarvisi. Onestamente liberale in tempi in cui molti lo sono disonestamente, è presto eletto deputato e dopo un paio di legislature, in uno degli ultimi ministeri della destra rosea, il portafoglio delle finanze gli è inflitto come un dovere verso il partito e verso il paese.
Non è certo la coltura, non è l'intuito, non è l'energia che gli facciano difetto. Gli manca, invece, quella virtù o vizio — secondo i casi — che lo Spencer chiama «l'adattabilità agli ambienti».
Alla mancanza di sincerità e di probità politica egli non ha voluto, nè saputo piegare. Dopo pochi mesi di governo, mentre è tutto infervorato in un piano di riforme nel quale vede un rinnovamento economico del paese, si trova di fronte alla necessità politica di tergiversare, di rinunciare al meglio delle sue idee per manipolare una delle solite «esposizioni finanziarie» a base di transazioni, di lustre, di ipocrisia e di falsità. È preso da un impeto di sdegno. Tutto il suo orgoglio di galantuomo si ribella alle pretese dell'affarismo e dell' arrivismo che gli si stringono d'attorno ed infischiandosene della crisi e dello scandalo, lascia il governo per tornare ai suoi stabilimenti industriali, a' suoi poderi e alle sue imprese.
Vi torna senza rimpianti e senza amarezze, ma più istruito e più cauto. Del suo intermezzo politico parla il meno possibile e con una discrezione degna del sapiente antico. Della gloria del potere non gli è rimasto che il titolo «Sua Eccellenza» e soltanto nella spagnolesca e fastosa espansione meridionale dei parenti e dei clienti di sua cognata: e nemmeno, ben inteso, in presenza sua.
Egli si chiama e vuol essere chiamato semplicemente Giacomo D'Orea, — anzi Dorea — senza apostrofe. Non nasconde, ricorda compiacendosene, le origini umili, bottegaie della sua famiglia. «Molini e mortadella» come diceva sdegnosamente missis Eyre al signor Trüb. L'apostrofe, il don sono innovazioni di quel sempiterno ragazzaccio di Luciano! Giacomo ha cominciato coll'arrabbiarsene, e ha finito per riderne... e ne ride, specialmente, con la zia Gioconda, una vecchietta vicina agli ottanta, ancora piena di salute, di buon senso e di brio che vive in campagna, perchè non ha mai saputo risolversi a mettersi il cappellino, come le contesse, e che manda saluti, auguri e regali a tutti quei «vicerè spodestati dalla nuova corte di Nannetto», dai quali non ha mai voluto e non vuol lasciarsi vedere... per paura di farli arrossire!
A proposito di quel « don » nuovo di zecca di Luciano, la zia Gioconda diceva scherzando a Giacomo, per metter pace:
— Fra tanti titoli e blasoni, duchee, marchesati e principati che Nannetto ha fatto perdere a sua moglie, sposandola, ha trovato, in camera da letto, quel piccolo don e lo ha tenuto per sè!
Giacomo, del resto, s'è opposto quanto ha potuto al matrimonio di Luciano con la duchessina Moncavallo.
— Troppa nobiltà, troppa diversità di razza e troppo fumo! E poi Luciano, ancora, non è maturo per il matrimonio!
Ma non c'è stato verso! A quell'altro, il fumo è andato alla testa. Tutti quei titoli, quei palazzi, quei castelli dei quali si vedono le dorature e i merli, e non si vedono le ipoteche, fomentano la sua vanità, la sua superbia, mentre il suo capriccio, la sua passione per Maria diventa tanto più furibonda quanto più sorgono e si frappongono ostacoli.
Le nozze Moncavallo D'Orea sono alla fine concluse, celebrate e Giacomo, da uomo savio e pratico, accetta cordialmente il fatto compiuto. Il patrimonio dei Moncavallo e dei Sant'Edodio, che fa le crepe da ogni parte, è assai vicino alla rovina; Giacomo ne assume direttamente l'amministrazione. Un'amministrazione che finisce per risolversi in un'abile, opportuna ed anche generosa liquidazione, perchè Giacomo, pur di salvare il decoro dei parenti di Luciano, ci rimette, volentieri, anche del proprio.
I milioni di casa D'Orea sono molti: quasi non si contano più! Ce n'è per tutti, in abbondanza... ed anche per i continui capricci di Luciano! Per i capricci, per altro: purchè rimangano soltanto capricci, se non del tutto scusabili, almeno perdonabili. Ma, adagio! Oltre certi limiti non si deve andare. Giacomo è buono una volta, e buono per dieci, ma due volte buono, no. Chiudere un occhio, sta bene, e vista l'indole di Luciano, chiuderli anche tutti e due, ma quando sia conveniente e prudente di farlo. Che se invece il buon nome, l'onore dei D'Orea, avessero corso pericolo non di una macchia, ma di un'ombra soltanto, allora egli avrebbe fatto immediatamente ed energicamente il proprio dovere. Avrebbe parlato chiaro; occorrendo, avrebbe alzata la voce.
E appunto Giacomo, crede adesso e pensa, che il giorno di alzar la voce e di comandare sia venuto.
— Che cosa è questa Fanfan Trécoeur? A Parigi, a Nizza, a Montecarlo, sempre con questa Fanfan Trécoeur?... Una relazione, un legame simile, una tresca?... E pubblicamente?... Con una chanteuse? Lui, un uomo ammogliato?... Ah, no! Fino a questo punto, no! Con o senza apostrofe, ma il nome dei D'Orea deve essere rispettato da tutti, in Italia e fuori.
— Il patrimonio in comune, sta bene: lui ha famiglia, io no. Spendere e spandere, senza fare i conti del mio e del tuo... tiriamo pure innanzi!... Finchè si tratta della casa, della famiglia, dei parenti della moglie, del lusso, delle corse, delle scommesse, del giuoco, — io lavoro anche per lui, risparmio anche per lui, — tiriamo pure innanzi!... Ma cinquecento settanta mila lire in meno di tre mesi per la signorina Fanfan... Ah, no! Questo poi no!
— Che cosa fare?... Scrivere?... — Poco efficace. — Chiamare Luciano a Bologna?... — Troppo pericoloso!
Giacomo, un po' contro genio, risolve alla fine di andare anche lui a Villars col fratello e con la cognata. La villeggiatura, certamente, non sarebbe stata molto gradevole e piacevole, ma, d'altra parte, non vede provvedimento migliore.
— Coraggio, e andiamo a passare un mese fra i vicerè!
Per fortuna, fra tanta gente noiosa, insopportabile fa eccezione Maria Grazia. Avrebbe fatto delle buone chiacchiere con la cognata. Donna un po' fredda, anch'ella un po' vice-regina, nella compostezza pacata dei modi, delle parole, ma intelligente, giudiziosa e buona. — Molto buona e, certo... non troppo felice!
Ma gli altri!... — Dio che peso! — Quella duchessa madre che ha l'aria di scendere dal trono per sua grande degnazione e per fare spargimento di grazie ed esercizio di mansuetudine! Quel principe Rosalino, una continua ostentazione di galanteria convenzionale e di cavalleria... pedestre. Che peso, che peso, tutta quella gente con la loro retorica dei nobili principii, dei sentimenti di famiglia, e il vuoto nella testa e nel cuore! Mai un momento di sincerità, di vera cordialità! Sempre in etichetta, e in frac tutte le sere!
— Che noia!
Pure, bisogna proprio andare a Villars!
— Maledetta Fanfan e... maledetto ragazzaccio!
A Bex, intanto, la nuova fase della luna cattiva e muta, con persistente inappetenza, continua fino alla vigila dell'arrivo di Giacomo: proprio quel giorno, come per incanto, Luciano riacquista la parola e l'appetito.
— Giacomo... a Villars?... Con mia suocera? Che abbia sentito parlare di Fanfan e voglia venir lassù a predicare la morale e l'economia?... Certo, in questa sua risoluzione, qualche cosa di nuovo ci deve essere!... E in questo «qualche cosa» per un verso o per l'altro ci deve entrare Fanfan!
Don Luciano, s'intende, anche sforzandosi e simulando indifferenza e buon umore, non ha riacquistato la parola altro che per brontolare; ma adesso, pur seguitando a brontolare con Maria e col signor Zaccarella, chi è preso di mira è Giacomo! Anzi, co' suoi sfoghi, egli cerca di farsi alleati la moglie e il segretario, contro il fratello:
— Noioso e pedante!... Puritano per ostentazione! Caparbio e ostinato! E «la modesta semplicità della vita operosa» che decantano i suoi giornali? Niente altro che avarizia! — Non ho ragione, signor Zaccarella?... Ride? Rida, rida! Io parlo poco, ma colpisco giusto! Tutta avarizia e diffidenza. Lavora, fa tutto lui, perchè non si fida di nessuno! Ma... — qui un grande sospirone — dal momento che si deve vivere insieme per un mese, che ti pare, Maria? È meglio essere in bona! Io non posso soffrire i malumori e non amo i litigi in famiglia!
Questo, gli preme soprattutto: essere in bona con suo fratello. Se Giacomo ha timore di prendere troppo di fronte Luciano, Luciano, al presente, avrebbe ancor più paura di romperla con Giacomo.
Cinquecentosettantamila lire erano state pagate a Parigi per Fanfan! Ma... e il resto che rimaneva ancora da pagare?
Luciano D'Orea, non ne sa un'acca di amministrazione, pure sa benissimo che lui, con la sua generosità non ha fatto altro che spendere, mentre il fratello, con la sua avarizia, non ha fatto altro che lavorare e guadagnare. Se si venisse alle strette? Se si dovessero fare i conti del mio e del tuo?... Non sarebbe il momento! Con mezzo milione ancora da pagare a Parigi? Con Fanfan che, finalmente arriverà fra tre o quattro giorni a Losanna? Con Fanfan che vuol fare una brillante carriera, sempre piena di successi e che vuol riuscire assolutamente a cantare alla Scala?... Con Fanfan che ha sempre lì, pronto, se lui si ritira, il re della glicerina?... No, no!... Bisogna portare pazienza, chinare il capo e sopportare anche le osservazioni e le prediche... per amore di Fanfan e per poter tener testa a mister Kennett!
Il povero don Luciano, con tanti milioni, si trova ridotto al punto di dover piangere la propria miseria.
— Ma! — sospira. — Quando non ci sono quattrini abbastanza, bisogna sacrificare anche l'amor proprio, il proprio carattere franco, leale, indipendente... e fare lo scherzoso e l'amabile persino con la moglie lunatica, perchè Giacomo, arrivando a Bex, non la veda con gli occhi rossi!
— Io mi guardo bene dal darti la più piccola seccatura! Non è vero, cara? Io ti lascio libera di fare, di disfare, io ti lascio sempre padrona di tutto! Non è vero, cara?
— Sì, Luciano...
— Soltanto per questi giorni, — pochi, si spera, — che Giacomo resterà con noi, io ti prego di non fare il muso e di mostrarti, come sei, contenta e felice! Mi raccomando.
— Sì, Luciano. Del resto, Giacomo è buono. È sempre stato gentile e affettuoso con me!
Il marito ha uno scatto vivace, ma si frena, per i suoi fini diplomatici e inghiotte l'amaro di quel «buono» pel timore degli occhi rossi. Ma per essere scherzoso e per divertire la moglie, e insieme anche per sfogarsi continua durante tutta l'ora del pranzo, a ridere alle spalle del fratello.
— Buono? Tu dici, Maria, che Giacomo è buono? Ma è buono perchè gli manca la capacità di poter essere cattivo! È un uomo, Giacomo, che deve tutta la sua gloria e la sua fortuna, alle qualità che gli mancano. Non sa spendere?... Un altro passerebbe per un avaro: lui, no; ne fanno un grande finanziere! Non sa vestire, è inelegante, sembra un notaio in abito di testamento?... Acquista, per questo, nell'opinione pubblica, in serietà, in gravità, in superiorità! È sempre stato un giovane vecchio, timido, senza un'ombra di spirito con le signore. Un altro, sarebbe spacciato, ridicolo. Lui, no: è un esempio di austerità e di moralità! Ride?... Rida, rida, signor Zaccarella!
Il signor Zaccarella, che nutre in cuore un profondo rispetto per Sua Eccellenza e i suoi milioni, si sforza e ride rumorosamente per compiacere il padrone.
Luciano si sente in vena, pieno di brio e continua divertendosi:
— Aver paura è sempre stato il grande coraggio di mio fratello! — Un esempio? — Ecco: lo fanno ministro. Gli altri, al suo posto, tengono duro, finchè li mandano via con la testa rotta. Lui ha paura, scappa e si crea la fama di uomo forte, energico, «tempra adamantina!». Fosse rimasto al Ministero, sarebbe diventato un asino anche lui: scappa e acquista il coraggio delle proprie opinioni e il genio della politica! Non ho ragione, signor Zaccarella?
Il signor Zaccarella inghiotte, annuendo col capo. Maria rimane silenziosa, seria: non approva il marito, non difende il cognato.
Soltanto a quella parola «asino» lanciata con tanta brutalità e volgarità, presente il signor Zaccarella, ha un istintivo moto di disgusto; ma è un lampo. Luciano, tuttavia, se ne accorge e quindi insiste e ribatte sull'asino.
— Asino! Asino! Asino! Del resto non è il solo che sia un asino e che sia diventato ministro! Dica lei, signor Zaccarella!
Questa volta l'ossequioso Zaccarella non ha scrupoli e risponde, sprofondando quasi la testa nel piatto con un inchino:
— Verissimo!
— La politica? Buffoni e asini!
Don Luciano si ostina, continua a ripetere l'odiosa parola, ma ormai non irrita più, non fa più nessun effetto.
— Tu credi, Maria, che occorra un briciolo di talento per farsi un nome in politica? Rispondi, Maria: lo credi proprio?
Alla insistente interrogazione di Luciano, Maria alza su di lui gli occhi dolcissimi, neri neri, ancora più neri e profondi sotto l'ombra delle lunghe ciglia vellutate: ma non risponde altro che così.
— La politica?.. Peuh! Io lo dichiaro apertamente: abborro, odio la politica! Invece di fare della politica, io faccio dello sport: rinforzando il corpo, so di rinforzare lo spirito. Sentite! Toccate! — Così dicendo allunga e stende il braccio con forza, ne fa toccare i muscoli alla moglie e al signor Zaccarella che fa le più alte maraviglie:
— Di marmo!... Di bronzo!... Vero bronzo!
— Io ammiro le arti! Le lettere! Si diventa ministri, ma si nasce poeti, pittori! Io ammiro e coltivo la musica... — E si ferma con particolare compiacenza a vantare sopra tutte le altre la divina arte della musica, la divina arte del canto! — Si diventa ministro, ma tenore, si nasce! Oh, la musica, il canto, consola, ingentilisce il cuore! Fa bene all'anima, un po' di musica!
Il signor Zaccarella sta sulle spine: — Se donna Maria sospetta di quella certa Fanfan?
Ma, intanto, Luciano si alza, scende, va nella sala di musica, apre il pianoforte, chiama Maria, comincia la Traviata e continua tutta sera con la Traviata:
«Un dì felice eterea, mi balenasti innante...»
La mattina dopo, a colazione, quando ha ben ripetuto che Giacomo è un avaro, un pedante e un asino, — annunzia alla moglie che gli sarebbero andati incontro tutti due fino a Montreux, in automobile.
— Ti raccomando, Maria. Niente lune. Mostrati come sei, contenta e felice!
VI.
Appena quelli di Villars sanno dalla «cara Maria» che don Luciano è finalmente arrivato a Bex, mandano anche a lui, in un mazzo, per telefono, «saluti e tenerezze» e poi basta: silenzio prudentissimo.
I giorni passano senza altre notizie, e quelli di Villars li lasciano passare senza chiederne: «nessuna nuova, buona nuova».
Di tanto in tanto, la duchessa madre e il principe Rosalino si scambiano con gli occhi, soltanto con gli occhi, qualche interrogazione:
— Come mai?... Il nostro Luciano e la cara Maria Grazia, non annunziano ancora il loro arrivo quassù?... Ancora non ne parlano?... Ancora non si fanno vivi?
Sssst!... Tutti cito! «Fra moglie e marito non ci va messo un dito!»
Tutti cito, e tutti allegri!
Per la duchessa Cristina e per il principe Rosalino, ogni giorno che passa senza la presenza di Luciano è un giorno guadagnato, un giorno di più di sollievo, di piena libertà e di pompa magna senza il cruccio delle spostature, dei musi, delle continue contradizioni. Per Remigia, ogni giorno che passa senza Maria è un giorno guadagnato per le sue conquiste e per le sue vittorie. La duchessina rimane oscurata dall'immediato confronto con la sorella Maria. Quando è presente la bellissima D'Orea Moncavallo, la povera Piccola, non è più che una bimba allegra, un giocattolo divertente! Punto primo, la signora D'Orea è maritata, Remigia, ancora signorina: Maria è la grazia, la soavità, l'amore: lei il capriccio, il diavolo a quattro!... E poi i capelli neri, quando sono così neri, vincono sempre i capelli biondi e la poesia, la dolce e malinconica poesia degli occhi di giavazzo, dalle ondate di luce tenera e languida vince il sorriso e l'arguzia degli occhi ceruli e giocondi!
Sì, sì! Rimanga a Bex! Che Maria Grazia rimanga ancora a Bex, finchè anche lei possa aver trovato un don Luciano... magari vecchio e brutto come il barone Danova. Non importa! Sarà in tal caso più buono e più docile.
Il solo che si mostri inquieto, in tanta pace, è il signor Trüb.
In que' giorni a Villars c'è un tempo splendido! Fin troppo splendido e troppo caldo!... Il meteorologo signor Trüb prevede non lontana una nuova burrasca e teme che i rimasti a Bex, invece di salire, facciano scendere anche gli altri! Il signor Trüb si aspetta sempre una qualche spiacevole improvvisata dalla volubilità degli italiani e il suo cuore non sarà soddisfatto e sicuro, finchè la grande famiglia di prim'ordine non sarà tutta riunita alla Tête-pointue.
— E così, signor principe?...
È col principe Rosalì, che il signor Trüb può sfogarsi a parlare. La duchessina è gentilissima, affabile, ma scherza sempre, non gli dà retta; egli comincia a sospettare che lo prenda un po' in giro. Gli altri sono molto sostenuti. Rispondono ai suoi inchini, saltetti e sgambetti con un cenno di testa e non tutti i giorni. Col maggiordomo, con i servitori, non c'è verso di poter dire due parole senza stappare una bottiglia!
— E così, signor principe?... Ha ricevuto qualche notizia?... Si sa quando arrivano il signor duca e la signora duchessa D'Orea? — In tanta confusione di titoli, il prudente locandiere li crea tutti duchi per non sbagliare.
— Ancora non hanno scritto niente! Vuol dire che laggiù si trovano bene!
— Impossibile, signor principe! Con questo caldo?
— Eppure... vorrà dire che a Bex, farà fresco!
Il rubicondo Trüb fa un inchino, un saltetto, scoppiando in una sonora risata: scherza sempre, è sempre pieno di brio, il signor principe!
— Ah! Ah! Ah!... Fresco a Bex! Ci sono trenta gradi! Scappano tutti!... Ogni giorno mi arriva un monte di telegrammi!... Famiglie di prim'ordine, titolate, dall'America, persino dall'Australia, che vorrebbero fermarsi alla Tête-pointue, tutta la stagione! Io non fo altro che rimandar gente! Sono venuti a sapere che le più belle camere con i due saloni del primo piano tenuti a disposizione del signor duca e della signora duchessa D'Orea, sono tutt'ora vuoti, e mi tormentano!
— E voi rispondete che sono pieni, e vi lascieranno in pace! Finchè mia nipote non viene quassù, vuol dire che giù si trova bene, ed è inutile scrivere, telefonare, voler sapere... Sapere che cosa?... «Chi sta bene non si muove!» Eh! Mi par naturale!
Dalla grande terrazza dell'albergo, in certe sere chiare di luna, profumate dal tepido odor di pino, si scorgono laggiù, in fondo in fondo, nella parte più bassa e più buia della valle, alcuni punti di luce giallastra: è la cittadina di Bex.
Che caldo, che soffoco, deve fare in quella pianura arsa, cocente, se a Villars, a mille trecento metri, non c'è un filo d'aria!... E che tormento deve essere Luciano... retour de Paris!... Che musi! Che scene!...
Ma la madre non vuol lasciarsi vincere dai tristi pensieri, e interrompe il beato silenzio del fratello che sonnecchia, nell'ora placida della digestione, al chiaro di luna.
— Chi sa, anche questa volta, che bel regalo!
— Regalo?
— Che bel regalo avrà portato Luciano da Parigi alla mia cara Maria!
— Eh!... Certo!
— L'altra volta le ha regalato un filo di perle, del valore di sessanta mila lire!... Regali, bisogna proprio dire, gliene fa molti, sempre magnifici e di buon gusto!
— Eh!... Certo!
— Maria, in fondo, siamo giusti, non ha che da parlare e ha tutto ciò che vuole!
— Tutto!...
— Quante ragazze si augurerebbero di essere la mia Maria! Si sa, a questo mondo, ogni rosa ha la sua spina!
— Eh! Si sa! Ogni magione ha la sua passione!
Così, il cuore della madre si mette in pace, e può quindi gioire senza scrupoli vedendo l'Idola a scherzare, a ballare e a divertirsi.
Appena arrivata, appena scesa alla Tête-pointue, la duchessina Remigia col panama dalla larga tesa messo alla birichina, con la sua scioltezza disinvolta e la sua aria signorile, ha subito fatto colpo sui primi forestieri nei quali si imbatte e che stanno a crocchio davanti al portone dell'albergo.
Din e Don non vogliono lasciarsi prendere, non vogliono lasciarsi legare al guinzaglio e Remigia approfitta subito della loro disubbidienza per farsi ammirare. Li insegue correndo, con movenze agili eleganti; si finge crucciata e li chiama forte, battendo i piedini, frullando, trillando come una lodoletta, con la sua voce fresca, d'argento.
— Din! Don! Subito qui!... Qui subito!... Qui! Da bravo! Così, bravo il mio Don! È un tesoro il mio Don!... Anche Din! Sì! Sì! È obbediente anche Din. Anche il mio povero Din, caro, caro, caro!
— Che bel piedino! Che bel vitino!.. E che ginger la biondina! — Il barone Marco Danova è incantato. — Congratulazioni, signor Trüb!
Il signor Trüb non sente nemmeno il complimento sussurrato a mezza voce. Inchini, sgambetti, saltetti; nel ricevere la grande famiglia italiana di prim'ordine sembra addirittura un maestro di ballo!
La duchessina è come un piccolo generale: sente l'odore della battaglia, e assapora la gioia del trionfo! Villars, sarebbe stato il suo regno e il luogo di delizie di Din e Don!
Che fortuna per lei che Maria Grazia sia rimasta a Bex!
Un'occhiata fra le signore sparse nel giardino, una occhiata fra le altre che leggono o passeggiano sotto l'atrio e Remigia ha subito capito il genere: Le francesi sono di Ginevra, le inglesi, Cook e C o; sono in maggioranza le tedesche e però nessun buon gusto, anche in chi vuol fare del lusso, e invece una grande varietà in camicette, dai colori più pappagalleschi.
È vero, per altro, che anche fra gli uomini, un «don Luciano» ancora non s'è visto.
Quella prima sera, la nobile famiglia italiana pranza tardissimo, al restaurant. Si ferma, dopo, appena una mezz'oretta sotto l'atrio, e si ritira assai presto. Sono tutti stanchi dal viaggio, dalla giornata di pioggia, dal cambiamento d'aria. Totò solamente, sebbene sia più stanco e abbia più sonno degli altri, si ferma ancora, saluta le signore, per la fumata d'obbligo, con la classica pipa di radica. In tutto punto nello smoking di Pôole e col berrettino grigio di White, gira su e giù col passo lungo da scavalcar le montagne, il viso arcigno, seccatissimo, annoiatissimo.
Eppure, in cuor suo — altro che noia! — è invece assai agitato. Guarda e osserva a sua volta con le lenti dell'amore e della gelosia, gli ospiti di Villars. Remigia avrebbe dovuto constatare che è molto più inglese lui, di tutti gli inglesi autentici che ci sono alla Tête-pointue: ma Remigia, è tanto dispettosa e civetta!
L'Idola, in quel tempo, ha avuto altro da fare che badare a Totò! Passeggiando seria e contegnosa al braccio della madre, — non ci sono nell'atrio Din e Don e non è l'ora di fare il chiasso, — senza mai guardare in giro, senza nemmeno alzar gli occhi ha già notato che i giovinotti e i giovinetti, quelli che devono essere i campioni della sala da ballo e del tennis la seguono insistentemente con la coda dell'occhio e parlano fra di loro, — e certo di lei, — con grandissima animazione. Ha notato che anche gli uomini seri e gravi, gli uomini maturi, fanno, senza parere, dei giretti e delle fermatine premeditate per vederla più da vicino. Uno, specialmente, con una barbaccia al lucido Nubian. Quello che al primo vederla, ha esclamato, rapito in estasi, col signor Trüb: — «Che bel piedino! Che bel vitino!»
La duchessina Remigia, con Mimì Carfo e con mademoiselle, sono tutte tre al secondo piano. Le camere delle ragazze sono attigue e l'uscio di comunicazione è sempre aperto. Dopo la camera di Remigia, dall'altra parte, c'è un salottino, poi la camera di mademoiselle.
— Sai, Remigia, chi c'è a Villars? — dice Mimì all'amica, mentre ciascuna si spoglia nella propria camera.
— Chi? — domanda Remigia affacciandosi all'uscio, tutta bionda e tutta rosea, in busto e sottanino. — Chi?
— Indovina.
— Qualche cosa di bello o di brutto?... Un adoratore?... Per me o per te?
— Indovina!
La Mimì, già in camicia, un camicione lungo lungo, perchè è alta e ricca della persona, sta rimboccando le coperte del letto. I capelli pur biondi, ma di un biondo assai più scuro dei capelli di Remigia, le cascano come un largo flutto lucente, odoroso, giù per le spalle, per la vita e le anche.
— Chi è questo nostro timido adoratore?
Remigia s'è slacciato il busto e lo ha gettato sul canapè, nella sua camera. Così, mostrando gli ossicini delle spalle e con le braccine nude sottili sottili, la piccola sembra ancora più piccola e più minuta.
— Ahimè! — sospira comicamente. — I nostri adoratori sono molto timidi! Vorrebbero tutto e non hanno il coraggio di domandarci nemmeno... la mano!
Mimì dà in una risata e salta nel letto. Resta seduta, appoggiata un po' di fianco ai cuscini, si prende tutti i capelli con le due mani, lisciandoli, torcendoli, avvolgendoli e fermandoli sulla nuca.
Remigia insiste, battendo i piedi per terra.
— Rispondi, Mimì! Per te o per me? Adoratore tuo o mio?
— Non ho detto nemmeno che sia un adoratore!
— Oh, e allora? — L'Idola fa un'alzata di spalle.
— Mah! Ti divertirai lo stesso! Forse molto di più!... L'ho saputo adesso, dalla Rosa. — La Rosa è la cameriera della duchessa Cristina. — Ne ha visto il naso verde spuntare minaccioso in fondo al corridoio del terzo piano!
— Missis Eyre! — esclama Remigia con un grido di gioia. Quella notizia le basta per far del chiasso, per sfogare l'argento vivo che ha nel sangue. Salta sul letto, salta addosso a Mimì, la bacia furiosamente, tirandole i capelli. Mimì si caccia fin con la testa sotto le coperte... e Remigia a batterla, a farle il solletico, a pizzicarla, continuando a gridare di tutta foga: — Missis Eyre a Villars! O gioia! O gioia! O gioia!
— Lasciami respirare... Non ne posso più... — Mimì, mezzo soffocata, butta via le coperte e cerca con le due mani di allontanare l'Idola che, tutta capelli e voce, pare impazzita. — Non ne posso più... Dio, Dio che caldo!... Lasciami respirare!
Remigia si ferma un istante: ha sentito aprire la camera dopo il salotto.
— Mademoiselle?
È proprio mademoiselle.
— Si può, duchessina Remigia?
— Venga! Venga!... Sono qui!
Anche l'istitutrice ha la grande notizia.
— Sa chi c'è a Villars?... Indovini.
— Missis Eyre! Missis Eyre! Quella gioia di missis Eyre! — L'Idola ricomincia a strillare, saltando per la camera, saltando sulle poltrone e sul canapè.
Mademoiselle guarda la duchessina e sorride; ma soltanto con le labbra. I suoi occhi mansueti e smorti, non brillano mai, non hanno mai nè sorrisi, nè lampi.
— Ha già cominciato col proibitissimo! L'ho lasciata alle prese con la Carolina!
— Patapum!... Pum! Pum! — Remigia gonfia la bocca, per fare il rimbombo del cannone. — Pum! Pum! La colonnellessa Facanapia di Sbirlingonia ha aperto il fuoco!
— Sempre come alla villa d'Este! — continua mademoiselle. — Le solite ire contro Din e Don! Non devono dormire nella camera della Carolina! Shocking! Proibitissimo! Ha già dichiarato che domattina farà subito il suo bravo reclamo al bureau!
— Oh bella! E che cosa importa alla colonnellessa Facanapia che i miei cani dormano con la mia cameriera?
— Perchè la stanza della cameriera è vicina a quella di miss Eyre! Abbaiano! Fanno la ciostra! Con questa compagnia di gente e di cani, l' hôtel non è più un hôtel, è una piazza, una fiera!
— Senti, Mimì! Guerra dichiarata fra l'Italia e la Sbirlingonia! E non si dà quartiere! Domattina, prima cosa, impadronirsi del Times! Totò, fuori la pipa, e pipa a tutto andare! Nelle ore del caldo e delle dormitine pomeridiane, corse e ludi ginnici nel corridoio del terzo piano. Dichiarare all'inchinevolissimo signor Trüb che al primo pronunciamento delle parole «proibito o défendu » tutta l'Italia parte in massa per Glion o per Caux! E tutte le sere festa da ballo a piena orchestra fino alla mezzanotte et ultra! Ben inteso: a Din e Don camera al terzo piano con pensione e libero accesso nell'atrio e nella veranda!
— Tutte le sere, festa da ballo? — osserva Mimì, sempre giudiziosa e riflessiva. — Uhm! Ne dubito. E i ballerini?... A Villars, abbondanza di giovinetti e grande scarsità di giovanotti!
— Lo hai notato anche tu, Mimì? E quei pochi devono essere francesi di Ginevra, come le signore.
— Niente chic! Niente esprit! Pedanteria e conferenze! Che noia! Che noia! Uff! Nascono tutti professori, a Ginevra; anche le donne!
— Ma come fa, Dio mio? Come può osservare tutto, lei? E sta lì, così seria, raccolta... Sembra, certe volte, che non osi nemmeno di alzar gli occhi! — Mademoiselle guarda la duchessina, battendo palma a palma in rapimento estatico.
— Mah! Come gli ufficiali hanno la sciarpa e le spalline, noi, quando siamo in parata, dobbiamo avere il pudore d'ordinanza!
— Stasera, sotto l'atrio, non ho visto che un solo ballerino possibile! — È Mimì che crede di aver fatto la scoperta. — Un giovinotto biondo, elegante, con un garofano bianco all'occhiello e la lente nell'occhio?... — Quello è inglese, certissimo!
— L'ho visto anch'io, tò! Ma anche la tua fenice porta lo smoking con la cravatta bianca! C'est un crime, mia cara! — Remigia diventa seria e scrolla il capo. — Io non so che strana idea è saltata in testa a quella buona donna di mammà...
Mademoiselle capisce dall'antifona che l'Idola l'ha con la duchessa Cristina e, per cavarsela prudentemente, adduce di sentirsi molto stanca, augura la buona notte e si ritira.
Remigia, torna a saltare sul letto di Mimì.
— Davvero, sai? Mia madre io non la capisco! Se vuol farmi trovare il mio don Luciano perchè non mi porta a Saint-Moritz o ad Ostenda? Anche Villars-Ollon non mi pare la villeggiatura del coup de foudre, ma quella di una buona dote! Villeggiatura di rampolli con l'angelo custode; con accanto papà e mammà e dieci punti in condotta.
Gli occhi affettuosi dell'amica, si riempiono di lacrime. Sempre così, povera Mimì Carfo, quando Remigia tocca quel tasto doloroso del suo matrimonio.
— C'è tempo! C'è tempo! Consolati! — Ma dopo aver consolata Mimì, l'Idola sospira e diventa seria. C'è tempo... E poi, chi sa?... Lo troverò?... Ci sarà anche per me un don Luciano, numero due? Perchè, giovane o vecchio, non importa...
— Vecchio, no! Brutto no! Ti prego, ti supplico!.. — Mimì geme, per conto dell'amica.
— Vecchio o brutto, per me è indifferente! Ma non farò certo un matrimonio inferiore a quello di mia sorella! Oh, no; giammai! Piuttosto mi voto a Dio!
L'Idola, che passa con una volubilità straordinaria dai sospiri al buon umore, alza le braccia sottili e trasparenti verso l'immagine a cap'al letto di Mimì.
— Oh, sì, lo troverai certo, presto, il tuo don Luciano, e più bello, più buono di quello di Maria Grazia, e allora la povera Mimì Carfo...
— Allora?... La povera Mimì Carfo? — Remigia avvicina il viso al viso dell'amica godendo anche il dolore e le lacrime di quell'adorazione così tenera e devota. — Allora, la povera Mimì?
— La povera Mimì resterà sola, abbandonata...
— Sola, abbandonata?... In Trinacria? Mainò!
Remigia scherza, ma la Carfo dice sul serio e teme sul serio, non soltanto l'abbandono, ma pure l'oblìo.
— Giura questo, almeno: anche quando avrai trovato il tuo don Luciano e saremo tanto lontane l'una dall'altra, non mi dimenticherai?
— Giuro.
— Mi vorrai bene sempre sempre: giura.
— Giuro.
— L'amore non ti farà mai obliare l'amicizia: giura.
— Giuro! Giuro! Giuro! — L'Idola salta dal letto, torna a saltare per la camera come una matta. Sembra che abbia dell'amore un'idea tutta da ridere.
— Sai pure. Mimì, che l'amore è per me la parte noiosa della festa: dato che il matrimonio sia una festa. Innamorata, io? No! No! Giuro! Giuro! Giuro! Tu sì, che t'innamorerai subito, alla prima occasione! Io... ho un cuore senza combustibile. Flirto, qualche volta, per non far disperare mammà nelle sue mire di collocamento. Ma appena maritata... se ci arriverò... non la darò più ad intendere nemmeno a mio marito!
Mimì non risponde: l'amica sua ha colpito nel vivo. « — Tu sì, che t'innamorerai subito, alla prima occasione!» Come anch'ella sentiva che era vero questo, che avrebbe messo tutta la sua vita, tutta la sua felicità, tutta se stessa nell'amore... fosse pure dolore e sacrificio soltanto!
Ma... l'occasione, sarebbe poi venuta? Mimì Carfo non ha alcuna speranza. È povera, senza essere stata mai ricca, senza il lustro di un grande nome, senza le aderenze e i ricordi fastosi di una grande famiglia. Il babbo di Mimì era un maggiore di fanteria ed è morto in Africa. La mamma, sola a Catania, riesce appena a strappar la vita con la piccola pensione: e fortuna che la duchessa Moncavallo — una delle sue tante cugine in grado infinitesimo — le fa risparmiare la spesa di Mimì, che, per far piacere all'Idola, tiene sempre con sè e fa viaggiare quasi tutto l'anno.
In questo stato di cose che occasioni d'innamorarsi le possono mai capitare?
Mimì Carfo, affettuosa, appassionata per indole, è retta di mente, è onesta, è religiosissima. E se l'amore è ardore e poesia per la bella fanciulla siciliana l'occasione d'innamorarsi non può avere altro aspetto che quello del matrimonio.
— Che hai, Mimì? A che cosa pensi?
— A tutto e a niente. Sono un po' stanca.
— Anch'io; ho sonno!
Le due amiche si scambiano un ultimo bacio.
— Addio, cara.
— Addio, gioia.
— Buona notte!
— Buona notte!
Quando Remigia è in camera sua, va dinanzi allo specchio, preme il bottone della luce elettrica, si slaccia e lascia cadere il sottanino: rimane così nella bianca e molle camicia di batista a guardarsi nello specchio... Ad un tratto libera i capelli dalle forcine di diamanti e con una forte scrollata di testa li scioglie tutti e se li fa tutti cadere sulle spalle. È una nuvola d'oro lucente, fluente, profumata; è una maraviglia, un incanto... Ma poi... non c'è altro! Capelli e capelli! Bellissimi capelli, capelli lunghissimi che la coprono quasi, che quasi sembran pesare con la loro massa folta, ondulata, sulla piccola e magra personcina. Begli occhi ceruli, vivi... Bella bocca, bei denti... una bella testina... Ma poi non c'è altro per poter piacere agli uomini!
Remigia si guarda, continua a guardarsi nello specchio e a mano a mano, l'espressione del suo viso diventa più seria, quasi truce... Si abbassa la camicia, — il cappio azzurro è già sciolto — un po' giù dalle spalle...
— Niente di niente e ormai non ho più speranza. I vent'anni sono sonati da tre mesi!
Come invidia, in quel momento, la bella taglia e le belle forme di Mimì!
Spegne con impeto la luce elettrica, si caccia in letto, al buio, e si volta bocconi con mezza la testa sotto il cuscino, come fa sempre quando è arrabbiatissima.
— Sei già a letto? — domanda Mimì dall'altra stanza.
— Sì, e dormo!
Mimì Carfo non fiata più, non osa più!
L'Idola, instabile e variabilissima com'è, è stata presa da un senso profondo, amaro di delusione, di sconforto, d'infelicità. L'effervescenza è finita, l'argento vivo è consumato; ella vede le cose come sono e la sua condizione qual'è realmente.
— Ah, Mon Dieu! Mon Dieu! Non mi capita più la fortuna di un don Luciano che perda la testa per me! Impossibile! Sono troppo piccola e troppo magra per il coup de foudre!... Una povera ragazza di condizione onesta, costretta a trovarsi un marito a furia di occhi bassi e di timidi rossori deve avere, necessariamente, come mia sorella, tutti gli altri vantaggi dell'appariscenza! Alla rosa mistica senza dote, e che deve esprimersi senza parole, occorrono, in compenso, le doti e l'eloquenza del quadro plastico!... — E, intanto, cerca cerca, aspetta aspetta... «Aspettare e non venire è una cosa da morire!» Uff! Che caldo!... — Evviva le grandi cocottes!... Esse non hanno bisogno di dote nè di doti per mettersi a posto! La Fanfan di Luciano, per esempio, è magrissima! Anzi, se non è una frottola inventata per consolare mammà, è persino tisica, eppure... — La fanciulla s'interrompe e sospira. — Ma quella Fanfan non ha parenti tra i piedi che le fanno la predica! Capelli e capelli! Capelli e nient'altro! Maledetti capelli! Agli uomini, devo far l'effetto piacevole di una parrucca! Uff! — Un secondo sospiro. — Giro i laghi, i monti, i mari... e finirò col dovermi accontentare del matrimonio d'amore! Ancora un anno o due e poi, svanita la speranza, far presto a sposare Totò... per non arrischiare di perdere anche Totò! — Ah, mio Dio! Per tutta la vita natural durante, appartenere al seguito di donna Maria Grazia D'Orea, come una contessina Carfo, qualunque! — Un altro sospiro e più forte.
— Che hai Remigia? — domanda Mimì.
— Dormo.
— Ti sento sospirare!
— Dormo.
Totò, Antonio, marchese di Villabianca, aspettando di diventare principe di Sant'Enodio alla morte del genitore, è assai ben provvisto, ma di titoli nobiliari.
— Una capanna e il tuo cuore: sposeremo Totò e così sia! Basta soltanto che non mi secchi per troppo innamoramento! In tal caso, sposo invece lo zio Rosalì!
Remigia ride. Pensa alla faccia che farebbe Totò, il britanno, al vedersi l'Idola rapita dal genitore; continua a ridere, dimenticando i suoi guai e si addormenta ridendo.
Mimì, invece, è ancora svegliata, e tarda assai prima di poter pigliar sonno. È il cruccio di Remigia che le fa pena, che la tiene inquieta. Mimì ha letto e legge nel cuore dell'Idola, e con ardore, con gioia sacrificherebbe tutto e si sacrificherebbe tutta per saperla felice! La fanciulla povera ha riposto nella dolce e cara parola «amica» tutta la tenerezza del suo cuore, tutto quel suo grande prepotente bisogno di espandersi, di voler bene!
Nella sua innocente purezza e nella sua fede cieca e illimitata, Mimì innalza Remigia al settimo cielo e la immagina e la vede, come in realtà non è. Remigia, per Mimì è un angelo; un angelo di bontà e un angelo di bellezza. Anzi, sono gli angeli stessi, che per essere veramente angeli furono creati a imagine di Remigia. Mimì adora la sua amica e le pare che tutti debbano adorarla in ginocchio; Mimì l'ammira e le pare che tutti debbano ammirarla incantati. E come la rende un essere ideale, così nel suo sogno pinge con i più smaglianti colori, e adorna delle più belle e più rare virtù quell'essere straordinario, soprannaturale, che sarà assunto alla felicità beata dell'amore e delle nozze di Remigia. E l'atteso nel concretarsi, nella feconda fantasia di Mimì, nel farsi uomo di questa terra, prende le sembianze del giovine e forte Sigfrido, ingentilito con l'animo mistico, malinconico di Lohengrin. E siccome il principe incantevole e celestiale, tarda a scendere dalle nuvole rutilanti o a varcare i mari con il candido nocchiero e Remigia, con la sua prosa birichina ne attribuisce il ritardo all'essere troppo piccola e specialmente troppo magra, la Mimì, la devota, la sommessa Mimì, come le avrebbe offerto volentieri, subito, in affettuoso omaggio, tutti i gigli e le rose della sua fiorente giovinezza!
Chi s'è addormentata subito, anche quella sera, — soltanto le zanzare riescono qualche volta a tenerla desta, — è mademoiselle. Ella dorme da un pezzo e sogna: sogna Din e Don che fuggono nuotando in una vasta latitudine allagata, e lei dietro inseguendoli, pure a nuoto. La duchessina è in barca, grida, ride, si arrabbia, stimolandola, incitandola strapazzandola. Mademoiselle nuota, continua a nuotare faticosamente. Din e Don son sempre lì vicini, alla medesima distanza, ma anche lei, nuota, nuota e rimane sempre allo stesso punto... Un solo colpo forte e Din e Don sono presi... ma non può, non può più allungarsi, non può più stendere le braccia, quell'acqua torbida si fa pesante, le impedisce ogni movimento, la soffoca...
VII.
L'Idola è furente contro Totò!... Totò, invece di mostrarsi amabile, invece di essere «entrante e discorsivo» con i giovinetti e con i giovinotti della sala da ballo e del tennis, rimane duro, impettito, non parla con nessuno, non si lascia avvicinare da nessuno!
— Sei noioso! Sei impossibile! — borbotta. Poi dà un'alzata di spalle e se ne ride. — Noiosissimo ed anche cretino!
Totò è geloso. Sotto l'anglico aspetto, batte un cuore meridionale, sensibilissimo. La classica musoneria di Totò, adesso non è più una posa elegante; è uno stratagemma d'amore. Tenendo tutti a distanza, spera di tener tutti distanti da Remigia.
Lì, a Villars, ha paura più che mai e, per conseguenza, è più che mai geloso, sospettoso, imbronciato. Nelle sue inquietudini c'entra anche il numero tredici. Come tutti gli innamorati e i disgraziati, anche Totò è diventato superstizioso e teme la jettatura. Nella spedizione del bagaglio, il suo baule è toccato il numero tredici! All'albergo gli hanno dato la camera numero sessantasette: sei e sette, tredici!
Villars gli deve portar sfortuna!
Anche Totò aveva subito notato, con un respiro di soddisfazione, che alla Tête-pointue il don Luciano numero due, non c'era. Ma poi il respiro s'è fermato a mezzo:
— Se ancora non c'è, può capitare da un momento all'altro!
Con la faccia marmorea impassibile dietro la pipa di radica, fra una boccata e l'altra di fumo, indifferente e distratto in apparenza, ma con il cuore stretto dall'ansietà, egli interroga ogni giorno il signor Trüb e il segretario sul movimento dei forestieri: ad ogni arrivo è un'inquietudine... Ad ogni partenza un sollievo.
Poi, anche senza il don Luciano numero due, può forse sperare il misero Totò, in un'ora di pace?
Con Remigia?... Innamorato di Remigia?... La pace?... — Mai!
Quando lui e lei si trovano soli, — cioè soltanto con mammà, papà e compagnia, — quando viaggiano in carrozza o nel vagone riservato, allora, ma allora soltanto, gli concede Remigia, qualche buon quarto d'ora. Lui ne approfitta subito per fare raccomandazioni, recriminazioni, prediche; per sospirare, supplicare e ottenere promesse inverosimili di serietà e di docilità... Remigia, lì, mentre sono soli, lo ascolta senza collera, quasi con sommissione... Non ride, ma sorride tenera, affettuosa e sembra promettere e sembra concedere... — Ma appena arriva gente, di qualunque razza, — uomini s'intende, — l'incanto è rotto, Remigia si agita, parla forte, ride forte, gli occhi guizzano, lampeggiano... E l'Idola gli sfugge, non è più sua, è un'altra, è tutta per gli altri!
È una febbre, una smania che ha addosso quella civetta, di piacere, di far colpo!... Chi si sia, non importa! Persino vuol far colpo sul signor Trüb; se non c'è di meglio... persino sul portiere!
— Che disperazione, che inferno!... Proprio che inferno, — borbotta Totò — voler bene... così, a una donna, ad un essere... così!
A Villars egli non fa altro che ripetere, con Mimì, con la duchessa Cristina e con papà — con la Remigia non osa: — Fra tanta gente, non vedo ancora una persona per bene! Non c'è chic! Ho scorso il libro dei forestieri, — non c'è niente; non c'è un nome noto. Per ora non c'è da fidarsi. Non voglio far conoscenze per non correre il rischio di dover fare presentazioni. Per il tennis siamo già in quattro, con mademoiselle: si giuoca fra di noi!
Niente conoscenze, dunque; niente presentazioni!... — Così il buon Totò, crede e spera, ma poveretto si è troppo dimenticato del numero tredici, e ha fatto i conti senza Din e senza Don!
I due neri barboncini sono altrettanto amabili e socievoli, quanto l'orso innamorato è selvatico e feroce. Essi ruzzolano festevolmente fra le gambe dei forestieri e rispondono alle carezze frullando il codino monco dalla nappina lanosa.
Adesso, finito lo scompiglio dei primi giorni, Din e Don fanno regolarmente i loro pasti quotidiani, subito dopo la colazione e dopo il pranzo dei padroni, ed è lo stesso signor Trüb in persona, con le falde del lungo abito nero spiegate al vento, che porta sulla terrazza le due scodelle di zuppa. Il rubicondo e gongolante signor Trüb sfida ormai le occhiatacce di missis Eyre.
— Shocking!
La schifiltosa e superba colonnellessa è scandalizzata e indignata contro il «taverniere», il «bettoliere lustrascarpe». — Ecco il vero coco, — non le riesce di dir cuoco, — il vero coco dei cani!
L'Idola, si sa, non manca mai al pasto dei tesöri «cari cari!» Vi assiste circondata da tutta la sua corte con quel carabiniere mutria di Totò, che fa la guardia a due passi di distanza.
Specialmente quando c'è gente e si vede osservata, ella si mostra piena di tenerezze, di moine e di premure per i suoi barboncini.
— Mon Dieu! Mon Dieu! Se a Villars mi prendessero il cimurro! Che disperazione! Ho sempre paura, signor Trüb! Tanta paura!
Il signor Trüb, sgambetti e saltetti, la rassicura.
— A Villars?... Con questo clima?... Con quest'aria balsamica?... Finchè i suoi morettini restano alla Tête-pointue, garantisco io! E poi io me ne intendo; è la mia specialità! Tocchi, signora duchessina: hanno il naso fresco e le orecchie calde. Segno infallibile; stanno benone!
— È sicuro che non c'è il più piccolo ossicino nella zuppa?
— Sicurissimo! L'ho fatta preparare io stesso, sotto i miei occhi!
— Il brodo? Ha allungato il brodo?
— Due terzi di brodo e un terzo di acqua! Non dubiti, signora duchessina! Si fidi di me! Io ho sempre avuto passione pei barboncini!
— Dio! Dio! — Remigia è mezzo spaventata e mezzo in collera. — Ma signor Trüb! Caro signor Trüb! Questa zuppa scotta; scotta terribilmente!
Il signor Trüb protesta, poi si scusa.
— Non è possibile! Garantisco! È tiepida! Appena tiepida! — Alza gli occhiali in mezzo alla fronte, gonfia le gote e col faccione che gli diventa rosso e tondo come la luna, soffia e risoffia sul brodetto, mentre la duchessina, ritta in punta di piedi, alza e tende le braccia, adagio adagio, con le due scodelle colme, per allontanarle dai musetti avidi, bramosi delle affamate bestiole che spiccano, latrando, salti e volate.
— Giù! Giù!... Adesso no! Ho detto di no!... Obbedienza!... Bravo Din! Sì, sì!... Anche il mio Don è bravo, è buono!... Amöre! Tesöro!... Tanto bene io! Tanto bene a tutti e due, ma adesso ancora no! Ancora non si può! Aspettare! Aspettare!.. Pazienza e aspettare!
La piccola bionda, la piccola rosea, è la grazia, la vivacità, la giovinezza. La sua voce armoniosa, melodica, è un canto... un invito.
La schiera dei giovinetti e dei giovinotti, fra i quali primeggia il campione del tennis, — l'inglesino dalla lente e dal garofano già notato da Mimì e da Remigia, — si avvicina irresistibilmente. — E anche la barba al lucido Nubian; anche l'ammiratore del bel piedino e del bel vitino!
« — Des barbets superbes!
— Qu'ils sont beaux, ces petits chiens! »
Il Danova, dimenando i fianchi, si avanza un passo più degli altri:
— Magnifici cani! È la gran moda, adesso, a Parigi, i barboni neri! Due cani così, sono capacissimi, quei ladri, di farli pagare anche tre o quattro mila lire!
— Je crois bien; ils sont de race!
Ma per quel giorno, basta; tanto più che la duchessa madre, al braccio del principe fratello, è lì che ascolta e osserva, girando attorno alla figliuola. Restano tutti muti, in circolo, ad ammirare i due cani che slappano avidamente con il muso affondato nella scodella e la duchessina che continua a vezzeggiare, a garrire amorosa i suoi tesori, a ridere, a scherzare, spiegando con ogni parola, con ogni gesto, con ogni atteggiamento, nuove grazie e nuove attrattive.
— E così Idola, cara?... — domanda la madre con un'espressione subitanea di dolcezza e di compiacenza che le illumina il bel viso severo. — I tuoi morettini hanno buon appetito?
— Eccellente, mammà! — Remigia risponde con un trillo di gioia.
— Divorato tutto, anche le posate, signora duchessa!... A Villars?... L'aria di Villars?... È prodigiosa per la salute degli uomini e delle..
Il signor Trüb s'interrompe: sgambetti e saltetti. Non osa, dinanzi alla duchessa e alla duchessina, di chiamar bestia quei due... «amori» quei due «tesori» che costano tre o quattro mila lire. Fa cenno al portiere, fa portar via i piatti vuoti e, inchinandosi, se ne va lesto, di volo, strisciando e scivolando sul terrazzo lucido.
Il giorno dopo, — occorre dirlo?... — appena il signor Trüb si presenta con la zuppa, ecco apparire un primo giovinetto, poi un secondo «... com'augel per suo richiamo». Ecco fra i giovinotti il garofano bianco... ed ecco la barba inverosimile del barone Danova.
Guardano verso il restaurant; aspettano e scherzano con l'albergatore.
— Mi raccomando, occhio agli ossicini!
— Scotta la zuppa?... Scotta?...
Un istante ancora d'attesa, poi, finalmente, sull'alto della gradinata si spalancano i battenti a vetri: sono i due barboncini che si slanciano d'un salto, abbaiando di gioia e di fame, addosso al signor Trüb, e l'Idola, bianca e bella come un fiore, allegra e vispa come un uccellino, scende a volo sul terrazzo.
— Eccomi! Eccomi, signor Trüb!... Com'è buono! Com'è bravo!... Caro, caro il signor Trüb!...
Marco Danova ha una scossa; una voglia intensa gli corre per le vene.
— Che bel vitino! Che bel piedino!... Che capelli!... Che bocca!... Soprattutto che bocca... maravigliosa!... Con tanti danari buttati al diavolo, non ho mai avuto niente di simile!
Gli occhietti umidi e loschi scintillano, il naso a becco divampa con un tremito più vivo.
Remigia ha subito notato la smania, il turbamento del barone Nubian, ma finge di non badare altro che al pasto dei cagnolini.
— Buona la pappa?... Adagio, adagio!... Non bisogna mangiare troppo in fretta!
— Piccante!... Piccantissima! Straordinaria!
Marco Danova si avvicina a Remigia di un altro passo, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, dondolando la pancetta arrotondata dal gilet bianco. Ha un'aria di padronanza mentre la fissa ostinatamente.
— Perchè no? — pensa fra sè — Le donne belle sono fatte per gli uomini ricchi!... Pagare o sposare è sempre comprare. Ha una voce che fa un effetto strano!... È un soffio di primavera! Fa diventar giovani!... — Perchè no?
Il milionario si sente forte anche dinanzi a quella giovinezza, a quel candore, a quel vergine nobilissimo sangue discendente dai reali di Napoli e di Sicilia.
Non esita più: la duchessa, il principe Rosalino stanno bevendo il caffè, in fondo al terrazzo. Non c'è che Totò, il quale fuma e freme. Marco Danova si rivolge direttamente alla duchessina:
— E il nome?... Vorrei sapere il nome di questi due «amoretti» «tesoretti!».
Lo ha sentito gridare cento volte, ma finge, naturalmente, d'ignorarlo. — Si chiamano?...
Un istante di silenzio e di ansietà...
— Come si chiamano? — domanda più risoluto, rivolto al signor Trüb.
Remigia risponde. Risponde abbassando il bel viso e arrossendo pudibonda.
— Uno, — questo, — si chiama Din; l'altro si chiama Don!
— Din e Don?... — Il barone scoppia in una risata larga, fragorosa che mostra i bei denti nuovi, di smalto, tra i rabeschi d'oro.
La piccola rialza il capo, e mentre con la forte e caratteristica scrollatina di capo, che l'è abituale, rimette a posto i riccioli biondi, lancia sull'egiziano un'occhiata rapida, espressiva. Ella non vede in quell'uomo nè il naso a becco, nè la barbaccia ritinta: non vede in lui altro che un possibile... don Luciano, numero due!
— Din e Don?... Allora... din-don!
Il Danova si riscalda, dondola il capo, imita il suono e il tocco della campana e facendo la rota attorno a Remigia, continua a ripetere: — Din-don! Din-don!... Spiritosissimo! È una trovata!
— Din-don! — esclama a sua volta il signor Trüb, in tono baritonale.
— Din-don! — squilla allegramente la voce della fanciulla.
Dondolano pure le testoline ben pettinate dei giovinetti e dei giovinotti che si avvicinano più disinvolti:
— Din-don? Oh, very funny!
— Din-don? Oh, que c'est drôle!
— Din-don, les petits diablotins? Din-don?
Il ghiaccio è rotto; tutti circondano animatamente la duchessina:
— Din-don? C'est bien gentil!
— C'est charmant!
— È una trovata! Spiritosissima! — Din-don! Din-don! Din-don!
Il Danova ride e grida più di tutti.
Il solo Totò rimane in disparte, immobile, come impalato al suo posto: la pipa di radica non tira più!
Anche il biondo dal garofano, senza sprecare il fiato e senza perdere il sussiego, cantarella dondolando adagio, con grazia, la testolina rotonda, ben pettinata. — Din-don! Din-don! — Ma ad un tratto la lente gli cade dall'occhio e si arresta sorpreso sul Din...
Tutti ridono, tutti scherzano e si affollano attorno alla bella duchessina italiana. È il trionfo — un vero trionfo, — dell'Idola!
Dal terrazzo alto, l'allegra folata di voci e di note, unita ai latrati echeggianti e persistenti dei «due tesori» incitati dal chiasso, rompe il silenzio della valle ampia e muta e il canto e gli amori agli augelletti spauriti.
— Idola! Cara!... Ti diverti?
La duchessa, al braccio del principe Rosalino, si avvicina con lento passo e l'aria regale, sorridendo.
— Tanto, mammà! Tanto, tanto!... Villars è un paradiso e il signor Trüb, un angelo!
L'angelo albergatore, invece di volare, fa un giretto, un balletto attorno alla pomposa coppia di prim'ordine, per esprimer il suo ossequio profondo.
— Come la granduchessa di Mecklemburgo! Come Nessim bei! Come Casimir Perier!... Tutti incantati di Villars!
Nell'andarsene, passando dinanzi a Totò, sempre impalato, vede che la pipa non fuma e gli schianta un fiammifero sotto il naso.
— Permette, marchesino?
Totò lo manda al diavolo, con un'occhiata furibonda.
Il buon ragazzo non può più resistere dalla gelosia e dalla rabbia. Anche la duchessa Cristina, anche papà, non sanno stare al proprio posto!... E Remigia?... Che civetta!... Persino con quella brutta gente di Villars!... Non ha un briciolo di cuore e nemmeno d'orgoglio!
A un tratto si risolve, affronta Remigia:
— Io vado... ad Aigle!
— Bravo Totò!... Mi porterai delle pesche e anche un bel popone, se c'è!
Il principe Rosalino e la duchessa Cristina gli danno un monte di commissioni: sigarette, lana bianca, lana rossa, acqua di Colonia...
Mademoiselle, con le solite scuse e complimenti, gli dà due lettere da impostare ad Aigle. — Così arrivano più presto!
L'istitutrice ha sempre le saccocce piene di lettere da spedire a due o tre membri della sua famiglia.
Totò se ne va, con nelle orecchie la voce allegra di Remigia che lo irrita.
— Non torno più a Villars! Non ci torno più!... — Invece è già pentito, in cuor suo, di quella bravata!
Sulla terrazza, l'allegria si fa più viva, il conversare più cordiale ed espansivo.
— Vouz permettez, mademoiselle?
È il biondo dal garofano che si presenta alla duchessina, facendo una smorfia per tener la lente ben ferma nell'occhio.
— Per... mette?
Ha una pallina di zucchero stretta con grazia fra l'indice e il pollice.
Din e Don, appena visto lo zucchero, si alzano insieme di scatto, e si tengono ritti sporgendo il musetto umido, bramoso e annaspando, invitando con le zampe anteriori.
Remigia risponde arrossendo, con un cenno affermativo e abbassando gli occhi. Poi, subito la forte scrollata di testa per rimettere a posto i capelli. Ma il bell'inglesino, la fenice di Mimì Carfo, non ottiene nè un sorriso, nè un'occhiata. Remigia, sulle prime, si mostra sempre molto riservata e prudente con i giovani. I giovani ardono meglio a foco lento.
Ella non si rivolge all'inglesino per ringraziarlo, ma cerca di nascondere il rossore e di vincere il timido turbamento continuando ad ammaestrare Din e Don.
— Su! Su! In piedi!... Si resta in piedi!... Si fa l'ometto e si ringrazia!
I due cani, ritti ritti, continuano ad annaspare con le zampe riscotendo applausi e destando l'ammirazione generale.
— Don!... Su! Su! Da bravo! Adesso si dà la mano!
Don, che si era messo a riposare su tre gambe, si rialza di nuovo, sebbene di malavoglia, e annaspa con la zampa destra verso Marco Danova.
Questi afferra subito la zampetta del cane e la stringe ripetutamente, da buon camerata.
— Amici, caro Don, din-don! Tesoretto caro! Sempre amici in vita e in morte! — Stringe la zampa anche a Din, costretto pure a rizzarsi di nuovo.
— Benissimo! Bravissimo! Son due gentiluomini perfetti!
Marco Danova, inaugurati così i buoni rapporti, si sente quasi ammesso nell'intimità della famiglia. Fa una rapida piroetta sulle gambette a roncolo e si rivolge con molta disinvoltura alla duchessa Cristina salutandola con una scappellata: la sommità del capo spunta, completamente calva, come una pera, dalla corolla dei capelli tinti.
— Ho conosciuto a Bologna e sono in relazione d'affari col deputato Giacomo D'Orea; l'ex ministro. Sarebbe, forse, il suo signor genero, che aspettiamo a Villars?
— No, — La duchessa accenna col capo a un saluto, guardando il barone affabilmente con l'occhialino. — No. Giacomo è il fratello di mio genero.
Il Danova, che s'è subito ricoperto per via della pera, alza la voce, le braccia e dondola la pancetta con evidente soddisfazione.
— Uomo straordinario! Grande talento, attività e gentiluomo... tipico. La sua parola vale quanto la sua firma! Uomo... straordinario!
La magnifica barba del principe di Sant'Enodio si gonfia e si muove con una leggera ondulazione. Egli parla:
— Appunto, precisamente. Giacomo è il fratello di Luciano, mio nipote. Cioè il fratello di Luciano, che è poi marito di mia nipote. Precisamente. — Il principe stende al barone la bella mano bianca e morbida. — Diremo dunque: les amis des nos amis...
— Anzi diremo i parenti! — interrompe il Danova. — «I parenti dei nostri amici...» Ho scritto appunto anche ieri, all'amico Giacomo! Se permettono, signori, mi presento da me: Marco Danova. A più di mille e trecento metri, si è superiori anche alle restrizioni dell'etichetta!
Marco Danova continua a piroettare e a dondolare dandosi l'aria d'essere il padrone di Villars e continua a parlare di Bologna, di Giacomo, di milioni e dei molini, intercalando al discorso quelle sue frequenti e grosse risate che prorompono ad un tratto, anche senza ragione, con uno scoppio fragoroso. Ma, intanto, non perde mai d'occhio la duchessina. — Che vitino! Che voce! Che ginger!
Poi ricomincia col din-don.
— Ah! Ah! Ah!... La duchessina dunque si diverte in questo nostro povero e pastorale Villars?
Remigia arrossisce ma non abbassa gli occhi. Anzi il barone riceve «in pieno» un'occhiatina tra il furbetto e il languidetto che lo fa andare in visibilio.
— Tanto!... Mi piace tanto, tanto!
— Villars non è Saint-Moritz, questo si sa, ma il clima è eccellente e l' hôtel buonissimo.
Approva la duchessa, approva il principe Rosalino. Il barone continua col vento in poppa.
— Si possono fare delle gite divertentissime; ci sono due o tre escursioni alla Chamossaire, al lago di Chavanne, molto interessanti. E poi il tennis! Alla Tête-pointue abbiamo un tennis bellissimo! Giuoca al tennis, la duchessina?...
Remigia risponde battendo le mani con un grido di gioia.
— Ma allora la duchessina avrà qui da divertirsi! Potrà fare a Villars delle partite veramente classiche! Se la duchessa me lo permette, le presento un mio amico, vincitore del campionato di Maloia!
La duchessa Cristina acconsente e Marco Danova, con la mano si chiama vicino il biondo dal garofano:
— Sir Arthur Wood! — Il campione di Villars! Un giuocatore... straordinario! Ha un colpo di racchetta di uno stile perfetto! Elegantissimo!
Fatta così la presentazione, col gradimento della madre, seguono le altre.
— La sera, che non si può più giocare al tennis, si balla... disperatamente! E ballo anch'io! — Le presento Monsieur Henri Malot — parigino puro sangue — ballerino instancabile! E anche il mio giovane amico Lothar Schmidt, di Francoforte!
Così, via via, uno dopo l'altro, sfilano dinanzi alla duchessa, alla duchessina e al principe Rosalino tutti i giovinetti e tutti i giovinotti, tutti i ballerini e tutti i giocatori di tennis della Tête-pointue!
Marco Danova sembra, ormai, che sia amico da dieci anni di tutti i Moncavallo e i D'Orea vicini e lontani.
— Perchè la duchessa non scrive, non telefona a Bex, a sua figlia donna Maria Grazia, di venire a Villars, ad aspettare don Luciano? Ha torto, molto torto! Si mettono le vedette lungo la strada e appena l'automobile di don Luciano è segnalata a Montreux, discende a Bex e si trova pronta a ricevere il marito!
Scherza con Mimì Carfo e con mademoiselle alle spalle di missis Eyre e fa ridere la duchessina e tutta la sua corte imitando i saltetti e gli sgambetti del signor Trüb, uomo barometro!
Remigia ha l'allegrezza, la gioia negli occhi, nel sorriso! Si diverte mezzo mondo alle spiritosaggini, ai lazzi del barone, e il barone, a sua volta, è sempre più incantato di quel «bel folletto» di quel «bel diavoletto» e sempre di più si accende.
Marco Danova ha una fiera passione per la donna magra ch'egli nel suo gergo brutale e volgare di apprezzatore che può spendere, ma che sa spendere, definisce «vulcano e terremoto». E una massa di capelli, di bei capelli, — ma biondi, li vuol sempre biondi, — lo fa diventar matto e co' suoi amici bei, ne spiega anche il perchè: — Mi pare di affondar le mani nell'oro, in un oro caldo e vivo!
— Che capelli maravigliosi, proprio d'oro, vero oro, i capelli di quel folletto... del Vesuvio! E che bocca! Soprattutto la bocca! Ci sarebbe da accontentarsi dovendola pagare anche mezzo milione!
Mimì Carfo vede gli occhiacci dell'egizio che divorano l'Idola e n'è rivoltata e persino sbigottita.
— Non tenertelo tanto vicino quel grosso pascià! Ti fissa in un modo sfacciato, odioso! Sembra... che voglia mangiarti con gli occhi!
Remigia risponde con un'alzata di spalle:
— Buon appetito!
Mimì si spaventa.
— Ma di', gioia, amore, ti lascieresti far la corte anche da quel... brutto coso? No! No! Prometti, giura, no!
Remigia non giura e non promette.
— Brutto?... Perchè?... Un uomo non è mai brutto! Basta guardarlo sotto il suo punto di vista favorevole. Quello lì, preso come un re Faraone in borghese, è bellissimo!
— È orribile!
— Mi fa ridere! È divertentissimo!
— Con quella barbaccia tinta!
— Che importa!... Un po' di colore! E poi, per me, sia bello, sia brutto...
L'Idola finisce di esprimere il suo concetto con una altra alzata di spalle.
Quando Totò ritorna da Aigle con le pesche, il popone e con la testa piena dei più coraggiosi e fieri proponimenti contro la leggerezza e la civetteria di Remigia, sente da lontano la voce alta, squillante della fanciulla che lo fa trasalire e impallidire. La voce tanto bella, la voce tanto cara, quella voce a cui non sa resistere, viene — ahimè! — dal campo del tennis!
— Play!
— Out!
È impegnata una seria partita: Remigia e Sir Wood contro Mimì Carfo e monsieur Malot.
— Play!
— Out!
Marco Danova ha fissato l'ora e il convegno; è andato lui stesso in cerca dei ragazzetti che raccattano le palle, e adesso sta rosolando al sole, seduto sull'alto sgabello del giudice di campo.
— Play!
— Out!
Totò abbandona in fretta al portiere le pesche e il popone, salta nel lift, corre in camera sua e si butta sul letto, bocconi.
— Il tredici! Maledetto tredici e maledetto Villars!... Con quell'egiziano! Con quell'jettatore tremendo!
Anche lì, arriva la voce di Remigia!
— Play!
— Out!
— Civetta! Civetta!... Che civetta!... Poterla dimenticare... o poter morire!... Finirla!... Finirla di voler bene a Remigia, — a quella civetta! — e finirla con la vita!
— Play!
— Out!
Totò scende tardi a pranzo; alla seconda portata. Si presenta ben pettinato, irreprensibile nell'abito di sera, ma è pallido, stravolto. Non parla altro che per inveire contro Villars, e contro la gentaglia ineducata e chiassosa che lo abita.
— Io, per me, lo dichiaro assolutissimamente. Non gioco e non ballo. In questo brutto paese e in questo pessimo albergo non voglio conoscere un... cane!
L'Idola lo lascia sfogare e gli permette di tenere il muso per mezza serata; ma poi, quando l'orchestrina comincia i primi accordi lo ferma, risolutamente, sull'uscio della veranda.
— Non comincerai anche tu a fare il don Luciano. Bada che non te lo permetto io e tanto meno te lo permetterebbe mammà!
Totò, a un simile esordio, Totò che aveva sperato con il fiero cipiglio d'incutere timore e soggezione all'Idola, Totò perde di botto tutto il coraggio; tenta ancora uno sforzo; ma gli trema la voce.
— Credo di essere padrone del mio umore... buono o cattivo!
— Ma non di fare il geloso; non di compromettermi in faccia alla gente. Questo, se anche te lo permettessi io, non te lo permetterebbe certo mammà! Bada, te ne avverto, perchè sai che ti voglio bene...
Alle parole «ti voglio bene» gli occhi del povero ragazzo si riempiono di lacrime.
— Non dirlo! Non dirlo, almeno, che mi vuoi bene! — geme sottovoce.
L'espressione, il tono di Remigia, diventano più affettuosi.
— Mammà s'è già accorta di qualche cosa; e ha già domandato due volte allo zio Rosalì, perchè tieni il muso e perchè sei sgarbato.
— E papà, che cos'ha risposto? — domanda inquieto Totò.
— Zio Rosalì non ha risposto nulla, ma ha fatto certi occhi!... Pensa, — sai che papà non fa complimenti. — è capacissimo di mandarti via da Villars?
— E tu questo lo desideri!... Lo vuoi!
— Io non lo voglio! No, non lo voglio! Tanto è vero che ti avverto del pericolo. Ma sicuro che se ti fai capire da mammà... è finita. Sai che mammà ha le sue idee, il suo piano. E' sempre in traccia anche per me... — Uff! — di questo divertentissimo don Luciano numero due. Qui non c'è: fra questa gente, fra questi ginevrini, fra questi ottimi figliuoli di buona famiglia, il mio don Luciano non c'è... e tu, invece di essere contentissimo, di essere amabile con tutti, fai il rabbioso, fai l'orso! Davvero che io non ti capisco!
Totò, s'è un po' tranquillato; ma non interamente.
— Però... quel biondo dal garofano!
— Figurati!... Studia per diventare ingegnere elettricista!.... Capirai, che non è certo l'ideale di mammà!
— E... quel... Danova?
Totò fissa Remigia negli occhi: ma la fanciulla ha uno scoppio di risa.
— Re Faraone al lucido Nubian?... Sei geloso di Re Faraone?
Il povero ragazzo ride anche lui, si sente consolare.
— Sai perchè sei così... cattivo?
— Perchè...
— Perchè non ti fidi di me. Fidati di me! — Remigia lo fissa con una dolcezza languida, affettuosa e muove le labbra quasi impercettibilmente, come per dare e per ricevere un bacio. — Sii gentile, molto gentile con tutti. Lasciati presentare a Re Faraone, al giovane povero ed elettricista e a tutti gli altri. E non voler ballare soltanto con me: fa ballare anche Mimì e mademoiselle, così mammà, anche se ha avuto qualche sospetto, non ci pensa più! — Remigia fissa ancora il giovane intensamente: — Fidati di me.
Totò legge anche negli occhi il piccolo bacio che trema sulla bocca dell'amata...
— Sì, ma e poi?... Se il tuo don Luciano non c'è... può arrivare da un momento all'altro...
Remigia si alza, un attimo, in punta di piedi per essergli più vicino con gli occhi e con le labbra:
— Fidati di me.
VIII.
Maria Grazia ha scritto alla madre annunziandole il prossimo arrivo del cognato alla Tête-pointue.
Il capitano Zaccarella, a sua volta, ha telefonato all'albergo, fissando camere e salotto per Sua Eccellenza Giacomo D'Orea.
Piove, c'è la nebbia, ma non importa. Ormai per il gongolante signor Trüb il cielo della Tête-pointue è sempre sereno, anzi serenissimo!
— Aspetto un grande personaggio, — racconta gonfiandosi, ai suoi clienti a pensione. — Il ministro delle finanze — nientemeno! — del Regno d'Italia! È il cognato, precisamente, della duchessa D'Orea Moncavallo, che è stata dichiarata la più bella donna di Napoli e di Roma! — In bureau col segretario, continua a fregarsi allegramente le mani:
— Guai se non mi fosse capitata tutta questa baracca, per rimpolpettarmi! — Si ricordi: champagne di dodici franchi, non ce n'è più: finito ieri. Non abbiamo altro che champagne Irroy di diciotto, — anzi lo metta venti. Tanto non spendono del loro. Duchesse e principi, son tutta gente spiantata. Chi paga, sono i D'Orea, antichi salumieri. Hanno fatto i milioni con la mortadella!
— Già, — soggiunge il segretario. — Molini e mortadella. Missis Eyre lo conta a tutti, per vendicarsi dei cani!
— Con quella vecchia, ricordarsi: d'ora in poi, nessuna soddisfazione, nessuna preferenza! Se non può sopportare al terzo piano la «baraonda della servitù» liberissima di andarsene anche subito! Tanto, resta fissato: l'anno venturo per missis Eyre, non ci sono camere!
Sfogato il malumore contro la vecchia cliente, l'albergatore torna a stropicciarsi le mani... Ma la sua gioia, in que' giorni, non è condivisa dalla nobile famiglia italiana.
Maria Cristina interroga sovente, con gli occhi inquieti, quell'oracolo bianco-barbuto del fratello Rosalì:
— Quassù, con noi, anche il... mercante? Che ci viene a fare?
L'oracolo tentenna il capo sospirando. È l'ora dei tristi presagi:
— Mah!
La duchessa si turba maggiormente; poi sospira a sua volta:
— Era di troppo anche un Luciano solo... e adesso, averne due da sopportare!
— E questo, con la tirchieria, con l'avarizia, per soprappiù!
— Chi sa come il signor Zaccarella ci terrà a mostrarsi economo, zelante, sempre ligio agli ordini di Sua Eccellenza!
— Mah!...
Dopo un altro sospiro, il Sant'Enodio lisciandosi, accarezzandosi la barba, trova la parola del conforto:
— Speriamo!... Speriamo che Luciano e Giacomo comincino presto a bisticciarsi fra di loro! In tal caso, fra i due litiganti...
L'uomo savio interrompe il proverbio e la duchessa ripete, a sua volta, alzando gli occhi al cielo:
— Speriamo!
Remigia non vuol parere, ma l'annunzio di tutti i prossimi arrivi, — specialmente quello della sorella, — la rende nervosa.
Balla tutta sera sfrenatamente, gioca al tennis, stancando i più forti campioni di Villars, ma non ha più nessuna paroletta dolce per Totò: lo tiene in riga con occhiate minacciose, e co' suoi sgarbi e malumori ha già fatto piangere due volte, con la conseguenza di terribili emicranie, la povera mademoiselle.
Mimì Carfo, sempre buona e dolce, vorrebbe difendere l'istitutrice; Remigia strapazza anche Mimì:
— Non seccarmi! Io non sono fatta come te, che invece di nervi e sangue, sei tutta pasta reale e sciroppo!... Mademoiselle mi urta a vederla sempre con quella stessa faccia atona, da pan molle!
Co' suoi adoratori, per altro, la Remigia è sempre amabile; anzi, lo diventa di più ogni giorno.
La mattina presto, per allenarsi, gioca al tennis con sir Wood e durante il riposo si fa insegnare a portar la lente nell'occhio. La sera, infila sempre alla cintola i fiori che il Malot raccoglie per lei durante le passeggiate. A Lothar Schmidt, che si picca di letterato, ha già dato il suo album, quello riservato agli amici più simpatici, i prescelti. Lothar Schmidt, vi ha scritto una dichiarazione in versi tedeschi: Remigia, che non sa il tedesco lascia che il poeta gliela traduca in italiano... almeno una volta al giorno e la sera quando c'è la luna e anche quando la luna non c'è! Ma la corte, la vera corte assidua, insistente, chi gliela fa, proprio sul serio, è Marco Danova. L'Idola se l'è sempre lasciata fare, ma dopo la notizia dell'imminente arrivo di sua sorella e di Giacomo D'Orea, sembra voglia spingere le cose in modo da obbligare il Danova ad un'esplicita dichiarazione. Per calmare le inquietudini dei giovinetti e dei giovinotti, ormai tutti pronti a' suoi capricci ella, — quando l'egizio, ben inteso, non è presente, — lo chiama non più re, ma «papà Faraone». Lo imita come dondola passeggiando e come fa la rota, e con la punta dell' alpenstock, sulla ghiaia del giardino o sul terriccio polveroso, ne schizza la caricatura, con due tratti felicissimi e sicuri, della testa a pera, del naso a becco, della pancetta alla Mongolfier.
Ma lui presente, tutt'altra cosa! Il «gran pascià del Nubian» diventa il «baröne, simpaticöne» con tutte le dieresi più risonanti e più tenere: e con la scusa dell'età, in pienissima maturanza, e dei sentimenti paterni, egli gode i privilegi più prelibati. Durante le escursioni, nei passaggi difficili, Remigia gli dà la mano e con la mano si lascia prendere anche il braccio e premere il vitino. Quando — «Oh, mon Dieu! Mon Dieu! » — le si slaccia a mezza strada la stringa di una scarpetta, è sempre il barone che ne rifà il nodo, mentre stringe, sdilinquendosi in cocolezzi, anche il « bel penin... piccinin, piccinin!...»
La sera, tra i vortici del ballo lancia al Danova, che non la perde mai di vista, occhiate languide, tenerissime, che vogliono dire... « — nel mio pensiero ballo con te, baröne, simpaticöne! — »Sta sempre attenta alla faccia del Danova, specialmente quando balla con sir Wood, il ballerino da lei preferito e che le dà più piacere, e, appena la vede rabbuiarsi, interrompe ad un tratto la danza, si stacca dal bel cavaliere e corre a buttarsi ansante sur una poltrona a sdraio, in un angolo appartato della veranda.
— Sono stanca! Stanca! Stanca!... Domando dieci minuti di riposo!
Re Faraone, che comincia anche lui a diventar geloso come Totò, e, quel ch'è peggio, senza accorgersene, le siede accanto e brontola con la voce roca:
— Tutto il santo giorno, tennis!... Tutta la santa sera, salti!... È un'esagerazione!... Una fatica... malsana! Così perderete tutti i vantaggi del clima, della montagna...
Remigia, facendosi vento mollemente, cantarella sottovoce, fissandolo:
— Papà baröne... Simpaticöne...
L'altro non resiste; lancia in giro un'occhiata, la duchessa Cristina non c'è; barba-bianca non c'è. C'è soltanto Totò che spia, ma quello non conta... Il Danova, pone la mano sulle ginocchia della duchessina e preme leggermente:
— Siete rossa rossa... accesa e tutta spettinata!
— Devo essere brutta!... Un orröre!...
Il Danova passa dal dispetto geloso all'esaltamento, e si sfoga con immagini e similitudini addirittura mussulmane:
— Siete tutta una rosa, viva, animata... — Avvicina il naso fiutando, — profumata!... E che bocca! Il paradiso di Maometto!... Tutto il paradiso di Maometto!... Ditemi, da brava, dove potrei trovare una bocca simile, come la vostra?... La pagherei... mezzo milione!
L'Idola ride: un riso che sembra un invito ai baci.
— Anche un milione! Anche due!... Pronti contanti!
La duchessina torna a cantarellare con la sua nenia affettuosa:
— Niente miliöni!... Niente miliöni!
— Come, niente milioni?
— Proprio no. Per me i milioni non contano.
Re Faraone s'indispettisce:
— Non contano?...
— Proprio no! Proprio no! I milioni non contano! Proprio no! No! No!
Il naso-becco sembra volerla divorare:
— Che cos'è allora che conta per voi?... Sentiamo!... La lente nell'occhio?...
La fanciulla diventa seria, quasi malinconica... sospira. È addirittura incantevole.
— Voler bene tanto... da farsi voler bene sempre!
Il naso-becco batte in ritirata.
Tutto quel giro di parole «voler bene, farsi voler bene» vuol dire in conclusione: «sposatemi». Marco Danova ha scritto, ha preso informazioni: la ragazza non porta in dote altro che i suoi parenti.
Cattiva speculazione!... Pure, diventare quasi cognato di Giacomo D'Orea, potrebbe presentare molti vantaggi morali e anche materiali. Darebbe una ripulita a certe sue marachelle egiziane... Quasi cognato di Giacomo D'Orea, potrebbe aspirare alla vita pubblica, avvicinare gli uomini che sono al Governo, concludere grossi affari di ferrovie, di cambi, di valori nazionali...
Marco Danova continua a fissare la duchessina, ma, adesso, con l'aria di volerla stimare al suo giusto valore.
— Vorrei avere... quei vostri capelli! Quanti capelli!
L'Idola, fa l'innocentina:
— Vi piacerebbe... essere biondo?
« — Vorrei avere i vostri capelli, — vostri, di voi, — con voi!»
IX.
L'arrivo dei D'Orea a Villars è già stato telefonato solennemente da Bex, dal capitano Zaccarella «per il prossimo giovedì: dopodomani»... Remigia è più che mai nervosa e Mimì comincia a sentirsi molto inquieta. Ha osservato che l'Idola è... troppo diversa dal solito. Fa il chiasso, vuol mostrarsi allegra, ma s'è accorta che quell'allegria non è naturale.
Soprattutto, la sensibile e romantica Mimì è inquieta per un altro verso:
— Perchè Remigia si tien sempre vicino quell'egiziano inverniciato, odiosissimo?...
È sera tardi: Mimì Carfo è già a letto e aspetta che l'amica sua venga a salutarla e a fare le solite chiacchiere. Addossata ai guanciali, sta sciogliendosi i capelli, lisciandoli, acconciandoli per la notte e intanto sospira e tien fissi gli occhi sull'uscio aperto, tra la sua camera e la camera dell'amica.
— Perchè Remigia, stasera, tarda tanto a venire?...
Un'idea molto brutta, le gira per la testa. È un'oppressione, un incubo angoscioso.
— Perchè tarda tanto, stasera?... Che cosa fa?
Mimì aspetta ancora un momento, poi chiama forte:
— Remigia!
— Gioia!
— Non vieni a salutarmi?
Si sente, dall'altra stanza, il rumore di una finestra che si chiude, poi Remigia appare nel vano dell'uscio: sta sciogliendosi la larga cintura di seta bianca moarè, che le fa un vitino lungo e sottile, da vespa.
— Com'è che sei ancora vestita?
— Non ho sonno stasera!... Non ho voglia di andare a letto! Non sono una talpa come mademoiselle! A quest'ora dorme e russa col fischiettino!
— Vieni qui!...
— Aspetta!
Remigia finisce di spogliarsi, andando innanzi e indietro da una stanza all'altra, sempre chiacchierando. Sparisce, e ritorna in gonnellino. Sparisce ancora, poi eccola di nuovo: ha i capelli sciolti sulle spalle, e un cortissimo giubbettino rosso scarlatto, sulla sola camicia da notte.
— Vieni qui!
Remigia siede sul letto: le due amiche si abbracciano baciandosi.
— Sei stata alla finestra, fin ora? — domanda Mimì Carfo.
— Sì.
La piccola getta via di colpo le babbucce e si accarezza l'un l'altro, incrociandoli, i piedini nudi, cantarellando sottovoce: « — La luna immobile — Inonda l'etere — D'un raggio pallido!»
— E chi c'era con te, a sospirare alla luna?
Remigia ride:
— C'erano... tutti e tre. La sigaretta sul terrazzo...
— Sir Wood, commenta Mimì.
— La pipa di radica alla finestra del terzo piano.
— Numero sessantasette: sei e sette tredici, — povero Totò.
— E al primo piano, al balcone d'angolo, la pipa turca!
— No! No! — supplica Mimì. — No! No! Il Danova, no! — Ha la voce velata di lacrime.
Remigia diventa seria: dà la solita scrollatina di capo, con la quale sembra mettere a posto i riccioli e le idee.
— Cara gioia, ragioniamo. Bisogna, sai, ragionare! Domani arrivano a Villars mia sorella, mio cognato e l'uomo di maggior... peso della famiglia Sua Eccellenza!
La piccola, che ha sottolineato il peso, chiama Giacomo «Sua Eccellenza» con lo stesso tono che dà al «capitano» del signor Zaccarella.
— E per questo?... Che ti fa?...
— Che mi fa?... Mi fa che quando c'è lei, tutto per lei!... E io non sono più nulla!
— A Villars, non sarà così! Vedrai!
— E poi Sua Eccellenza!... Quel caro Giacomino! Pieno di brio, esilarante... come il precipitato di piombo! Quello lì, non si muove mai senza un occulto pensiero che si manifesta poi sempre in una operazione aritmetica: la sottrazione! Luciano spende troppo e Giacomo viene a Villars, vedrai, per predicare l'economia. — Economia! Economia! Bisogna fare economia! Bisogna ridurre le spese gravose! — Fanfan, s'intende, non è una spesa gravosa. I gravosi, sul bilancio D'Orea, siamo noi: io, mammà, lo zio Rosalì, tutti noi! — Remigia soffia, sbuffa; è irata contro il destino — Uff! Sono stufa! Stufa!... Sono stufa di essere mantenuta da questi bottegai! Sono stufa di dover essere continuamente al seguito di donna Maria Grazia, sono stufa del rancio che vien distribuito alla compagnia, e non sempre con molta grazia, dal capitano Zaccarella! Sono stufa, stufa, stufissima!
L'ira, il dispetto sono vinti dal dolore. Ella raggrotta le ciglia e si morde le labbra per non piangere.
Mimì l'abbraccia angosciosamente.
— Porta pazienza!... Porta pazienza ancora un po'! Sei tanto, tanto bella! Sei tanto cara! Aspetta e vedrai! Io prego tutti i giorni la Madonna...
L'Idola interrompe Mimì con un'eretica alzata di spalle:
— Ma che Madonna d'Egitto!
— No! No! Non bestemmiare! — Mimì, spaventata, si fa il segno della croce.
Remigia ride: il dolore e l'ira sono già spariti.
— Ma no, gioia, non scandolizzarti! Voglio dire appunto che la mia Madonna, quella che mi protegge, quella che mi ha ispirato di tentare il gran colpo, è la Madonna... d'Egitto.
Mimì non si mette a ridere come l'amica: Mimì continua ad affannarsi.
— Quale?... Quale scopo vuoi tentare? — Pur troppo ella sospetta la verità.
— I D'Orea non hanno fatto la loro fortuna con la mortadella? E io farò la mia col lucido Nubian!... Milioni! Milioni! Milioni! Io voglio tanti milioni!
Mentre Mimì Carfo si dispera, l'Idola salta dal letto e salta per la stanza a piedi nudi, esclamando allegramente:
— Milioni! Milioni! Evviva i milioni!
— Vieni qui! Vieni qui! Ascoltami! — supplica ancora la desolata Mimì.
Remigia, d'un salto, torna a sedere sul letto, facendo risonare l'elastico:
— Eccomi, parla, ma io non ti ascolto! — Comicamente si tappa le orecchie con l'indice delle mani.
Mimì, abbracciandola con grande tenerezza, cerca di toglierle una mano dall'orecchio.
— Ma pensa, Remigia! Pensa!... Quell'uomo così brutto, così volgare, vecchio.
Mimì diventa rossa mormorando una parola sulle labbra dell'amica.
— La dentiera?... Cara mia, porteremo in comune con Re Faraone, le gioie, la gloria e le fatiche del regno, ma la dentiera continuerà a portarsela lui solo!
Mimì, sempre rossa rossa, sempre con la bocca quasi sulla bocca di Remigia, riprende ancor più sottovoce con un tremito di angoscia e di terrore:
— Tuo... marito, Remigia!... Tuo marito! Ma pensa, pensa, che cosa vuol dire ma-ri-to...
— Appunto, perchè non mi faccia cattiva impressione, lo sposerò senza pensarci.
— Che orrore! Che orrore! I baci di quell'uomo!... Un bacio solo di quell'uomo!... C'è da morire di ribrezzo! C'è da morir soffocata!
Remigia scrolla ancora la testa poi risponde:
— Sai come si fa? Si chiudono gli occhi... — Remigia fa seguir l'atto alle parole — e si tiene il fiato: — resti come morta e non senti niente. Io fo così, quando mi bacia lo zio!... E anche quando mi bacia Totò! L'uno, o l'altro... — L'Idola fa un'alzata di spalle. — È la stessa cosa e lo stesso odore! Tu sì, gioia, che hai il profumo fresco e delicato di un mazzolino di mughetti! Cara! Cara! Cara! Gioia! — La fanciulla bacia Mimì con impeto. — Ma quegli orribili omacci?... A me sembra di baciare o di essere baciata da una pipa! Ah, mon Dieu! Che penitenza, il matrimonio! — Qui, Remigia fa un sospirone tra il serio e il comico. — Sempre la pipa sotto il naso! Giorno e notte! Notte e giorno! Ma anch'io, sai, come quel tesoro di missis Eyre farò grande uso di — Proibitissimo! — Defendu! Tutto defendu! E farò mancare spessissimo il tabacco e i fiammiferi! Cara! Cara! Cara! Il mio fiore! La mia rosa! La mia mammoletta!... — Remigia continua a baciare Mimì con foga, con furia, ma senza trasporto, senza passione, non per altro, al solito, che per far la matta e far del chiasso.
La Carfo si difende; fa forza per allontanarla:
— Non soffocarmi!... Ti supplico!...
Si tira più su, a sedere contro i guanciali. Vuol far ragionare l'amica; vuol persuaderla.
— Senti, cara... Sta quieta, un momento! Ascoltami! Lasciami parlare!
— Parla, bella viola del pensiero!
— Anche se tutti gli uomini, proprio tutti, ti fanno l'effetto di una pipa...
— Pipa, e tabacco caporal!
— Concederai, per altro, che anche tra pipa e pipa ci può essere una bella differenza!... E tu vorresti scegliere proprio la più... — Mimì non dice la brutta parola, ma esprime il proprio disgusto con un brivido e storcendo le labbra. — Peuh! Quel Danova...
— Il Danova, intanto, non è una pipa, ma un narghillè. Oggetto prezioso e di gran lusso! E come Re Faraone, ti ripeto, mi piace di più del tuo sir Arturo, del tuo bell'Apollo, con le orecchie d'asino! Non hai mai osservato, le orecchie di sir Wood? Guardalo di dietro, quando ti volta le spalle e si allontana con l'aria soddisfatta e il passo lento da conquistatore... che ha conquistato. Vedrai che vele! Sembrano le anse dell'orcio! Pipa banale e volgare il tuo bell'Apollo! Molto più chic il mio pascià. E più art noveau!
— Dio mio, è orribile! Orribile... repulsivo!
— E a me piace: art nouveau! E mi piace il suo carattere! La sua aria di meneinfischio! Di padrone del mondo! Non ha soggezione di nessuno, nemmeno di mammà; e non fa complimenti con nessuno, nemmeno con lo zio Rosalì! Prepotentissimo e impertinentissimo... Tranne con me, s'intende! Con me è un altro Din, un altro Don, din-don! Mogio mogio, quatto quatto, docile assai, basta una mia occhiata per fargli cambiar di colore: tranne la barba, s'intende! — La piccola torna seria; fa un'altra alzata di spalle, ma questa volta di dispetto e d'ira. — E poi a me che importa l'uomo... omo? Non dipenderò più da casa D'Orea! Non sarò più al seguito di mia sorella! Avrò io più milioni di mia sorella! E questa gente, l'avrò tutta supplice a' miei piedi, anche mammà, anche lo zio Rosalì!
La Carfo sospira, dolorosamente:
— Tua sorella! Appunto... Ti dovrebbe ammaestrare l'esempio di tua sorella!... Pensa quante lacrime le costano i suoi milioni!
— Perchè mia sorella è una sciocca. Ma io?... Con Re Faraone? Vedrai che diversità di trattamento! Guarda Fanfan!... Come Fanfan! Quella sa tenerlo in riga mio cognato! È dalla signorina Fanfan che bisogna imparare!
Mimì Carfo, non ha più che una speranza.
— Ma... e da parte... del Danova?... Sei sicura che quel brutto orco faccia sul serio?
— È innamoratissimo! — La fanciulla ride. — E le sue proteste d'amore? Tutte a base di milioni!... Anche questa, sai, è una bella novità e un piacevole diversivo, dopo tanta indigestione di cuore, di anima, di cielo o di angeli, al chiaro della luna e delle stelle. Il mio pascià è positivo e pratico: tutto ciò che gli piace, lo paga un milione «pronti contanti». I miei capelli? Un milione! I miei occhi? Un milione! I «bei penin piccinin?» Un milione. La bocca, due milioni, anzi, adesso, siamo già sui tre. Ma siccome io non vendo a ritaglio, capo per capo, e lo sa, così fa tutto un blocco e ci vorrà tutta la cassa! Mi ha quasi offerto di sposarmi stasera. Me l'ha offerto digrignando i denti, come un orso preso al laccio. Domani mattina mi offrirà la sua mano con bella maniera. Andiamo insieme al lago di Chavanne. Al ritorno, prima che mia sorella sia arrivata a Villars, il barone Danova avrà già parlato e fatto la sua domanda «alla duchessa madre» in piena regola.
Mimì si dispera: ha gli occhi gonfi di lacrime.
— Aspetta! Aspetta! Ti prego! Ti supplico! Pensaci ancora!... Aspetta!
— Ho vent'anni, mammoletta, mammolona! Non ho più tempo di aspettare!
— Ti prego! Ti supplico! Te lo domando in grazia! Domani no! Domattina no! Aspetta ancora un giorno, almeno un giorno...
— Ho vent'anni!... Anzi, presto, ventuno!
Mimì non può più resistere e scoppia in un pianto dirotto.
L'Idola, ancora seduta sul letto, si volta a guardarla diventando seria, mentre continua ad accarezzarsi i piedini l'uno contro l'altro, incrociandoli:
— Non piangere! Basta! Non voglio che tu pianga! Rispondi invece: tu saresti contenta se io sposassi l'elettricista povero?
— Sì.
— Anche se sposassi Totò!
— Sì, sì! Ma il Danova no! lì Danova no!
— Che importa per te, il Danova o un altro, quando per me... fosse anche Paride in persona, mio marito, sarà sempre tanto poco... mio marito? Intanto punto primo: niente figliuoli. Io non voglio figliuoli. Non voglio sforzarmi e poi... ho paura. Non voglio arrischiar di morire io, per il gusto di mettere al mondo un... beì! No, no! Mainò! Se Re Faraone vorrà un principe ereditario, se lo farà da sè! Non piangere! Finiscila! Pensa, invece, come sarebbe buffo Re Faraone, in istato interessante! Ridi! Ridi! Ridi!
L'Idola batte, pizzica, fa il solletico a Mimì finchè riesce a farla ridere fra le lacrime.
— Adesso, ascoltami bene. — Remigia fissa torva Mimì, e fa un'altra voce risoluta e dura. — Ascoltami bene: guai se tu mi compiangi o mi fai compiangere da mia sorella. Devi mostrarti incantata del Danova; devi trovarlo ultra simpaticissimo e piacente, e devi mostrarti entusiasta del mio matrimonio...
— Impossibile! Questo è impossibile! Impossibile!
— Lo voglio... o non mi vedi più!... Bada: mi diventeresti antipatica, non potrei più soffrirti!
Mimì abbassa la testa: si capisce che finirà per fare tutto ciò che le comanda l'amica sua, ma è un grande dolore per lei, un vero strazio!...
— Se invece... ti lasciassi guidare, consigliare da tua sorella?... Tu non vuoi persuaderti ma pure è tanto buona! Senti almeno dal signor Giacomo, chi è, che cos'è questo egiziano!
— Non parlarmi di Sua Eccellenza. Sai che non lo posso soffrire.
— Che cosa ti ha fatto?
— Niente, ma non lo posso soffrire. Con quella barbetta, con quel ciuffetto di capelli troppo lunghi... ha un viso da capra.
— Ha un'espressione così intelligente, così dolce...
— Ma ha un viso da capra.
— Cento volte meglio del Danova, per altro. Il Danova è... orribile, e il signor Giacomo non è brutto! Poi, è più giovane.
— Sia pure, ma il Danova è pronto a sposarmi e Sua Eccellenza non ci pensa nemmeno!
— Perchè no, se tu vuoi?
— Sua Eccellenza Giacomina?... Non mi ha mai fatto l'onore di prendermi in considerazione!
— Perchè non hai mai voluto essere gentile, amabile con lui!... Provati soltanto, e vedrai!
Remigia, dubita:
— Uhm!... Mi pare, piuttosto, che abbia del debole per mia sorella!
Mimì, che da queste parole, vede balenare pur da lontano un raggio di speranza, insiste più che mai:
— Tua sorella gli fa compassione, tu gli piacerai, se ti ci metti!... Dovrà finire anche lui come gli altri!... Tutti s'innamorano di te, se ti ci metti! Non precipitare niente, aspetta! Domattina, non andare al lago di Chavanne!.. Il Danova, tanto, non ti scappa!
L'Idola fa un sorrisetto serio, malizioso.
— No; quello lì... credo di no!
— Tienlo per un caso disperato! Dio mio, finchè c'è vita, c'è speranza!
Remigia dondola la testa e torna a cantarellare:
— Per me tutti gli uomini, tutti brutti, tutti uguali, tutti un peso, un gran peso... e una pipa!
— Ma pensa, cara, alla sua condizione...
— Finanziaria? — esclama subito Remigia. — Oh per questo sì! Di milioni ne ha di più Giacomo, anche del Danova!
— La sua condizione morale, sociale. È un uomo di talento...
— Per talento, anche il mio Re Faraone, è tutt'altro che uno stupido!
— Può ritornare... ministro!
— E in tal caso io sarei... ministressa! Governerei lo stato! Tutti i socialisti, in prigione!... Comanderei io, anche a Luciano. — «Bisogna subito piantare Fanfan! Più un soldo per Fanfan!» — Mammà con me, tu, gioia, con me: lo zio Rosalì e Totò, in Trinacria!
Tutto questo, la fanciulla lo dice ridendo, per ischerzo, ma poi, a mano a mano diventa seria. Ci pensa alla possibilità di poter conquistare... Giacomo D'Orea, e nel suo cervellino capriccioso e mobile la barba di Re Faraone perde di colore e svanisce a poco a poco. Sarebbe lei la padrona di sua sorella; la padrona di tutti!
Le braccia allungate, le mani tese, posate sul letto, gli occhi fissi fissi, sembrano guardare un punto lontano... Continua ad accarezzarsi, incrociandoli, i piedini nudi... Ad un tratto scoppia in una risata:
— E il capitano Zaccarella?... Per prima cosa, quando fossi diventata la moglie di Sua Eccellenza, il capitano Zaccarella a riposo, e senza pensione!
PARTE SECONDA.
CAPITOLO I.
Giacomo D'Orea, deve fermarsi qualche giorno a Bex, prima di salire alla Tête-pointue.
Deve farsi al clima e all'aria. Il lavoro eccessivo l'ha un po' logorato, e basta la più piccola imprudenza a dargli i crampi allo stomaco e l'emicrania.
A Bex, i due fratelli vivono abbastanza in buona armonia: l'uno e l'altro giocano di abile prudenza, per non urtarsi reciprocamente. Luciano sente che Giacomo è venuto lì con uno scopo preciso: far la predica; e dispone l'orario della giornata e inventa mille pretesti per non trovarsi mai solo con lui e per non offrirgli l'occasione d'incominciare. Giacomo, a sua volta, sicurissimo che da un momento all'altro, quest'occasione si sarebbe presentata da sè, non ha nessuna fretta di andarla a cercare.
Luciano, adesso che gli fa comodo, non è geloso di Maria; e siccome ha bisogno di Maria per occupare Giacomo e per tenerlo di buon umore, si mostra gentile con lei e pieno di riguardi. Sempre con la scusa di un nuovo automobile da provare, da cambiare, da comperare, non si lascia vedere altro che a colazione ed a pranzo, ma in quei pochi momenti, almeno, è di buon umore, non vanta la musica, nè l'arte divina del canto. La sera, è stanco e si ritira prestissimo, ben inteso lasciando lì, con sua moglie e Giacomo, il fido Zaccarella a far la spia.
— Ho il sospetto che mia moglie e mio fratello si mettano su, a vicenda, contro di me. Lei stia attento, senza averne l'aria, a tutti i loro discorsi.
Sempre insieme nelle brevi passeggiate all'ombra, e nelle lunghe conversazioni, di giorno e di sera, nel giardino dell'albergo, Giacomo e Maria hanno finito con l'affiatarsi fra di loro benissimo; si sono anzi uniti in un'affettuosa intimità.
Giacomo ha sempre nutrito per la cognata un senso di malinconica simpatia. — La giovane e bella signora deve essere tanto infelice con Luciano! — Imparando a conoscerla bene, in quelle ore di vita in comune, la simpatia diventa stima profonda, vivissima ammirazione.
— Com'è buona! Com'è giudiziosa, colta e intelligente! Come sa ragionare con lucidità e con finezza! E come parla bene, con quella sua pronunzia lenta, musicale, con quella cadenza soave e languida. E la voce? Che voce! Un incanto! Accarezza l'orecchio e penetra nell'anima.
Certe volte, mentre Maria parla, Giacomo, non segue più le parole, sente solo il suono della voce. Vorrebbe allora, poter chiudere gli occhi e sognare.
E come Maria sa raccontare: ha una evidenza, un'efficacia, nella sua semplicità, straordinarie.
Naturalmente, parlano spesso d'arte, di letteratura. Giacomo ha letto poco di romanzi, Maria ha letto tutto. Giacomo se ne fa raccontare la tela, lo svolgimento, i caratteri e sta a sentirla godendosi e commovendosi.
S'è commosso, soprattutto al racconto di «Fort comme la mort» di Guy De Maupassant.
Com'è vero!... Come Giacomo sente tutta la profonda e inesorabile e dolorosa verità di quella passione che nasce inavvertita in un cuore non più giovane, e cresce cresce, finchè divampa repentinamente disperata e forte... forte come la morte! Eppure quello di Oliviero Bertin per Antonietta de Guilleroy non era il primo, era il rifiorire di un nuovo, di un secondo amore. Era il ritorno della giovinezza, era il richiamo di sensazioni provate, di gioie godute.
Mentre la bella voce di Maria Grazia si vela di lacrime al tragico epilogo di quella passione disperata, Giacomo sospira con un senso profondo di amarezza. Per la prima volta egli pensa ai suoi anni perduti, alla sua vita sciupata, invecchiata senza amore.
— Forte come la morte! — ripete a lui, la sua anima.
Anche il signor Zaccarella è preso nell'incanto della bella voce, nel fascino e nella commozione del racconto. Poi, certe volte, sente rossore di sè stesso; ha vergogna del suo mestiere, d'essere «comandato», di star lì a «far la spia». Si alza e si allontana fra le ombre del giardino, non senza aver guardato prima cautamente, se il padrone non sia alla finestra e lo possa vedere:
— Invece di quell'orso rabbioso e ringhioso come servirei più volentieri Donna Maria Grazia e Sua Eccellenza!
Alla Tête-pointue, come a Bex: pei primi giorni, armonia e buon umore. Tutti i Moncalvo, si trovano a Grjon, — la stazione prima di Villars, — ad incontrare i D'Orea. Grandi esclamazioni di gioia e grandi abbracci e tenerezze.
Giacomo trova la duchessa amabilissima, il principe Rosalino assai deferente e nota subito che quella monella dell'Idola s'è molto mutata con lui: è assai più gentile ed espansiva. In fatti, appena entrato nel salotto del suo appartamento, egli vede sullo scrittoio un grande mazzo di rododendri. Interroga il servitore: è la duchessina che li ha portati e messi a quel posto.
Giacomo ringrazia subito Remigia, sotto l'atrio, mentre, già sonata la campana, si aspetta, perchè gli altri aspettano, di andare a pranzo.
— Ho trovato dei fiori magnifici sul mio scrittoio. È stata un'improvvisata, lieta e cara come un buon augurio.
— È il saluto della montagna: sono roselline delle Alpi. Le ho raccolte io stessa, stamattina a duemila metri: alla Chamossaire...
Il Danova che continua a ficcarsi tra la duchessina e l'onorevole D'Orea, la interrompe con una sghignazzata:
— Cioè, cioè, cioè! Dica noi! Le abbiamo raccolte noi! La verità, duchessina, sempre la verità, quando non si tratta di affari d'importanza!
Un'altra risata: Giacomo ringrazia anche il barone, poi offre il braccio a donna Maria e mentre l'accompagna nella sala da pranzo, le esprime la sua contentezza per l'allegria di Luciano e le festose accoglienze di Remigia.
— L'Idola s'è fatta più bella e si è fatta assai carina... Una volta non mi poteva vedere e me lo faceva anche capire!
Maria, per tutta risposta, sorride crollando il capo e fissando Giacomo con dolcezza. C'è tanta malinconia nel suo sorriso! Ella non ha la fiducia di Giacomo. La Piccola, come Luciano, possono commettere una cattiveria senza un secondo fine: un'amabilità no, o assai di rado.
Qual'era lo scopo vero e recondito di quel mazzo di rododendri?
Luciano, a sua volta, osserva la corte che fa la cara cognatina a Sua Eccellenza; ne ride con sua moglie, con lo Zaccarella, ma ne soffre, come soffre dovendo notare la grande considerazione che gode l'onorevole D'Orea a Villars. Per la presenza di suo fratello egli si sente messo in seconda linea, persino dinanzi ai saltetti e agli sgambetti del signor Trüb. Lui, con le sue tre o quattro toilettes al giorno, e il suo automobile rimane nell'ombra; per la sua arte canora a Villars-Ollon, non c'è pubblico. Egli continua a volersi mostrare brioso e indifferente, ma si lascia veder poco e si sfoga, quando è solo con loro, strapazzando il signor Zaccarella e ricominciando a far scenate a Maria. Dopo di averla obbligata ad essere molto gentile con Giacomo, adesso trova che esagera anche lei nel fare «una corte ridicola e stupida a quell'asino-grand'uomo!...» Poi, ad un tratto, la tempesta che non può più tardare scoppia improvvisa tra i due fratelli.
Giacomo D'Orea, sfogliando il Figaro vi legge una notizia artistica, nella rubrica degli spettacoli, che lo mette un po' soprapensiero: è l'annunzio del grande successo di «mademoiselle Fanfan Trécoeur» nella sua nuova creazione « le rôle de Germaine dans le Corset envolé ».
— E Luciano?... Che cosa farà, adesso, quel matto di Luciano?
Giacomo, senza parere, sta attento e osserva: Luciano diventa con sua moglie persino affettuoso: offre una gita in automobile fino a Pont de Nant alla suocera e allo zio Rosalì; ride e scherza con la cognatina e con la Carfo a proposito del Danova, di sir Wood e delle gelosie di Totò; sguinzaglia Din e Don sulle tracce di missis Eyre e suona per chiasso la cornetta dell'automobile sotto la finestra di mademoiselle, la quale a Villars non fa altro che dormire. Ma intanto Giacomo osserva che Luciano spedisce e riceve continui telegrammi, e mentre vuol sembrare allegro e calmissimo, ha scatti d'ira, fuori di proposito, contro i camerieri, i servitori, e contro il signor Zaccarella che appare confuso, impacciato e che non osa di guardare in faccia donna Maria: segno evidente che il padrone sta per farne una delle sue.
— Quel matto, scommetterei, medita di piantar qui la moglie per correre a Parigi! — pensa Giacomo fra sè.
In fatti, due giorni dopo la notizia del Figaro, Luciano, a colazione, annunzia, parlando a bocca stretta, la sua partenza non addirittura per Parigi, ma per Losanna e forse per Ginevra...
Nessuno domanda nè la ragione, nè la durata del viaggio. Ciò significa: tutti sapevano il grande successo di Fanfan e tutti prevedevano che Luciano se la sarebbe presto svignata.
— Da Losanna a Ginevra, gran bel tratto di paese! — sentenzia, gravemente, lo zio Rosalì. — Clima assai più costante.
Tutti cito, e il principe continua, dopo un altro momento di silenzio, sentendosi obbligato a fare gli onori della conversazione:
— Qui piove, per esempio, e sul lago fa bel tempo! — Ancora, silenzio. — Non è vero, Cristina?
— Loda il monte e tienti al piano! — risponde la duchessa; e con questo ha finito.
Luciano trova il vino cattivo: si fa cambiare la bottiglia strapazzando il cameriere, poi riprende a parlare del suo viaggio.
— C'è una riunione a Losanna, di vari soci del Club automobilistico di Parigi: c'è la scommessa di raggiungere i novanta chilometri all'ora.
— E anche di rompersi l'osso del collo? — domanda Giacomo.
Don Luciano, non si degna nemmeno di rispondere, ma approfitta dell'interruzione accolta dal pieno assentimento della duchessa Cristina e del principe Rosalino, per aggiungere, rivolto a Maria, ciò che più temeva di far sapere al fratello:
— Tutto compreso... non resterò assente... credo, più di una settimana.
— Novanta chilometri! — esclama Remigia. — Non è più correre; è volare! — E ripete «volare... volare...» con un'espressione languida, quasi voluttuosa, fissando Giacomo, il quale non le bada affatto, e continua invece a osservare Maria, diventata un po' più pallida dopo l'annunzio di quella partenza, e il capitano Zaccarella, che mangia con la testa bassa, quasi sul piatto.
Dopo colazione, Luciano si ferma giù, dando ordini e disposizioni per la sua partenza: adesso che questa sua partenza e già stata annunziata, egli è contento ed è davvero di buon umore. Chiama il chauffeur, vanno insieme al garage a vedere la macchina, poi rientra nell'albergo e cantarellando «un dì felice eterea...» sale svelto, leggero, al suo appartamento, dove c'è già Andrea che lo aspetta per preparar le valige.
— Tutto quanto mi può occorrere per quindici gior...
Sente bussare all'uscio; non finisce la parola e si volta:
— Chi è?...
— Sono io.
È la voce di Giacomo.
Luciano aggrotta le ciglia; diventa pallidissimo. Tutto il suo buon umore è svanito.
— Avanti.
Rimane fermo, ritto in mezzo alla stanza, mentre Andrea corre ad aprir l'uscio e s'inchina rispettosamente dinanzi a Sua Eccellenza.
Luciano interroga muto il fratello, squadrandolo con un'occhiata bieca, sospettosa.
— Ho da parlarti.
— Adesso? — Luciano si mostra assai contrariato e seccato. — Proprio adesso?
— Subito!
— Son qui che ti ascolto: ma fa' presto!
Giacomo fa cenno ad Andrea di andarsene: Andrea si affretta ad ubbidire, ma giunto sulla soglia è trattenuto dalla voce aspra del padrone.
— Non allontanatevi. State attento, pronto appena vi chiamo. È già tardi e c'è ancora tutto da preparare.
Andrea se ne va chiudendo l'uscio, senza far rumore, e Luciano corre all'armadio, lo apre, e con l'aria di non volersi occupare di Giacomo e di non aver tempo da perdere leva in fretta tutti gli abiti che devono essere messi nelle valige, e li butta uno dietro l'altro sul canapè.
Giacomo non si lascia intimorire da quelle furie.
Gli tien testa bravamente.
— Tu non vai nè a Losanna, nè a Ginevra. Tu vai... a Parigi.
Luciano si ferma, si volta, fissa il fratello:
— Vado a Losanna e vado a Ginevra, e andrò anche a... Parigi, se mi accomoda. Non ho padroni, e dei fatti miei, non devo render conto a nessuno.
Giacomo siede tranquillamente per dimostrare che se Luciano ha fretta, lui non ne ha punto, poi risponde con grande pacatezza:
— Dei fatti tuoi, intanto, dovresti render conto a tua moglie.
— A mia moglie?
— Precisamente; a tua moglie. E ricordati bene, per poter vantarsi di non aver padroni bisogna non dover niente a nessuno.
L'altro, perde le staffe.
— Va bene! Va bene!... Giacchè ci siamo, finiamola! Tu sei venuto qui, non per la villeggiatura, ma con propositi... prestabiliti. Vuoi che facciamo un po' di bilancio tra il dare e l' avere?
Siede anche Luciano, dall'altro lato del tavolino, in faccia a Giacomo, che gli risponde sempre pacato:
— Un po' di bilancio? Tu credi che io alluda al moltissimo danaro che tu hai speso e spendi più di me?... No, io non penso in questo momento a... proteggere il nostro patrimonio, ancora indiviso. Ci penserò, forse, più tardi, se sarà assolutamente necessario. No, no. Dicendoti che «per vantarsi di non aver padroni bisogna non dover niente a nessuno» io penso a tua moglie, soltanto a tua moglie!
— Lascia stare mia moglie!... Maria non c'entra.
— Al contrario, c'entra a tuo dispetto!... Ha il diritto di entrarci ed io ho il dovere di farcela entrare! Tu devi moltissimo a tua moglie; ricordati. Tu devi a lei, a lei sola, alla sua prudenza, alla sua pazienza, alla sua bontà, se hai ancora una famiglia, e se non hai perduto la stima della gente!
— Tu... parli così?... A me?
— Sì, a te; parlo così. Tu non hai in mente altro che il danaro, soltanto il danaro che abbiamo in comune! Io so, invece, pur troppo, che abbiamo in comune anche il nome, e il nostro nome non posso e non voglio lasciartelo sporcare!
Luciano balza in piedi; si alza ritto anche Giacomo.
— Sì, «sporcare!» È la parola vera; sporcare!
Luciano batte forte col pugno sul tavolino:
— Basta! Basta, così!
— No! Non basta!
— Dirò al signor Zaccarella...
— Che cosa vorresti mai dire a quel tuo infelice signor Zaccarella?
— Di preparare, subito, oggi stesso, tutti i nostri conti...
— Ma che conti! — Giacomo dà un'alzata di spalle.
— Gli ho già fatti io, i conti!... Ho una raccolta, un mucchio di cambiali tue; cambiali in bianco, scontate dai più noti strozzini internazionali! Lasciamo in pace il già travagliato signor Zaccarella! Ho tanto in mano io, da farti inabilitare anche domani. E lo farò, bada, lo farò, se sarà necessario, per salvare non il nostro patrimonio, ma il nostro onore.
Luciano ha paura. Spinto dall'avarizia e dalla sua pudibonda bigotteria, di timido provinciale, Giacomo è capace di qualunque eccesso!
Egli però si rimette in carreggiata e ripiglia con ostentata indifferenza:
— Va bene: Inabilitarmi. È un... modo di dire...
— E di fare.
— Ma devo entrarci anch'io, con le mie buone ragioni, e saprei difendermi. In ogni modo, la minaccia per sè stessa, prova già abbastanza il tuo stato d'animo a mio riguardo. Potrei sapere il motivo, — vero, — della tua indignazione? Il motivo, — vero, — del tuo viaggio fino a Villars-Ollon? Vorrai dirmi, almeno, di che cosa adesso «proprio adesso» desideri parlarmi con tanta fretta?
— Subito. Sono venuto a Villars per dirti questo esplicitamente e categoricamente: bisogna piantare, una buona volta quella... donna che tu hai a Parigi, — e per la quale hai già speso a quest'ora.... — Giacomo s'interrompe. — Lo sai?... No?... — Hai già speso un paio di milioncini! Bisogna piantare quella... Fanfan Trécoeur!
Luciano, con impeto, tende la mano aperta verso la bocca di Giacomo:
— Tu, adesso, vuoi entrare nella mia vita privata! Non te lo permetto!
— Ma che vita privata! È la tua vita pubblica! È tutto il mondo che lo sa e che ride alle tue spalle, alle mie... e alle spalle di tua moglie!... Ridere o compiangere, in questi casi è la stessa smorfia!
Luciano, stravolto, cammina su e giù per calmare i nervi.
Poichè Giacomo, — vero plebeo! vero mercante! — ha pronunziato così, senza nessuna delicatezza, il nome di Fanfan, si sente lui costretto a doversi reprimere.
Ancora un paio di giri furiosi in su e in giù per la stanza, — vero plebeo!... vero mercante! — poi, d'un tratto, gli balena un'idea e si ferma in faccia a Giacomo:
— Scusa, una domanda prima, per intenderci bene.
— Anche due; anche dieci!
— È stata mia suocera a spingerti... a questo passo?
— No. Non ho mai parlato di te con tua suocera...
— Allora... è stata mia moglie?
Passa come un guizzo, una fiamma, sul viso smorto e scarno di Giacomo: è un lampo, ma basta a Luciano per fargli intendere dove deve mirare, se vuol colpire a sua volta e colpir giusto.
— Certo, certo! È stata mia moglie!
— Non è vero!
— È stata mia moglie, nei vostri lunghi ed intimi colloqui a Bex!
— No! È stata la zia Gioconda! — risponde Giacomo con troppa precipitazione.
L'altro scoppia in una risata:
— La zia Gioconda?... In campagna?... A Fiumicino?... Uhm! Non credo! È stata mia moglie!... Forse ti ha scritto lei stessa, anche per farti venire a Villars?
— È falso! È una falsità!
— Non gridare! Perchè gridare?
Luciano si diverte sghignazzando sguaiatamente.
— La zia Gioconda?... A Fiumicino?... Perduta tra i pampini e le biade?... Uhm!... Sarà, ma non lo credo!
— È proprio così! — Giacomo si sforza e risponde pure con un tono sarcastico: — Les échos parisiens, caro mio! Il Gil Blas e il Figaro, sono arrivati fin laggiù, a Fiumicino!
— Ma la zia Gioconda non sa il francese!... Chi li ha tradotti alla zia Gioconda?... Tu, o mia moglie?
— Ragazzo! Ragazzaccio! — borbotta Giacomo tra' denti. È disgustato, ma più ancora è conturbato e inquieto per la brutta piega, che va prendendo il discorso.
— Sul mio onore: tua moglie non mi ha mai detto una parola in proposito!... È troppo fiera, troppo dignitosa e ti vuol anche troppo bene!
— Fiera e superba! — interrompe Luciano. — Il «troppo bene» è un di più!
— Sarebbe capace di soffrire e di morire, ma non direbbe mai una parola contro di te!
— Criss...ti! La conosci a memoria!... Par coeur!
— Non voler essere ironico e non voler essere cattivo! Non è il momento, e non si scherza! Io parlo e predico per il bene tuo e il bene di tutti noi! Siamo sempre stati uniti, restiamo ancora uniti e d'accordo!
Giacomo non è più irato, minaccioso: consiglia, invece, e cerca di smuovere, di persuadere il fratello, con le buone ragioni e toccandogli il cuore.
No, Luciano non deve più continuare con quella... donna di Parigi. A parte che Luciano, essendo ammogliato, il capriccio e la leggerezza diventano una colpa, quella... donna è tra le più pericolose! Egli ha assunto informazioni sicure, precise, e può dire di conoscerla bene. È una donna che rende ridicoli i propri amanti, mentre li conduce fatalmente alla rovina!
Luciano diventa verde; Giacomo, per forza gli afferra una mano e gliela stringe con effusione. Gli parla del babbo che Luciano ha appena conosciuto, gli parla della loro mamma, — povera mamma! — Così semplice e così buona!
— Ti ricordi?... Le ho promesso che ti avrei fatto da padre! Non andare a Parigi! In questo momento, piantar qui tua moglie, piantar qui tutti, sarebbe una pazzia e uno scandalo!
— Intanto, — ripete Luciano, non addolorato, nè commosso, ma sempre più inasprito, — intanto io vado a Losanna e non vado, almeno per il momento, a Parigi.
— Tu vai a Losanna, per andare subito — su-bi-to — a Parigi.
— Io, oggi, vado a Losanna e forse fino a Ginevra, come ho già detto, per la riunione del Club automobilistico. Se poi, prima di tornare a Villars, dovrò recarmi anche in qualche altro posto, ciò dipenderà dalle circostanze, e io farò sempre ciò che dovrò fare senza mai preoccuparmi dei commenti pettegoli e interessati e senza aver paura... delle mie spie!
— Oh, so, che in certe cose hai un coraggio da vero leone!
Giacomo è lì lì per prorompere; tuttavia riesce ancora a dominarsi.
— Qui non ci sono spie. Qui hai la tua famiglia, hai le sole persone che veramente ti vogliono bene. — Giacomo spiana la fronte e preso il fratello a braccetto, lo spinge verso la finestra spalancata. — Che buon'aria! Deliziosa, veramente balsamica!... Ha ragione il signor Trüb di vantarsene e di farla pagar cara!... Ti seccano le prediche del «putativo genitore?» Ti parlerò anch'io da uomo spregiudicato, moderno. Hai avuto un capriccio per questa donna magra, ossuta e lunga come la noia? Ebbene, te la sei goduta per due anni, ne hai preso per due milioni, dunque basta, se non vuoi finire con l'essere black-boulé dalla gente di spirito! Prendere sul serio, e prendere per tutta la vita Margherita Gauthier? È roba del quaranta! Dopo il novecento il giovane Armando, anche se non fa giudizio, fa i suoi comodi. A Parigi, in questo mese, con il termometro a trentasei gradi Reaumur? Diventi matto? Peggio, vuoi diventare un provinciale ridicolo? Tu resta a Villars e manda a Parigi, in vece tua al caldo, il bravo capitano Zaccarella con pieni poteri, con la borsa piena e con l'incarico di liquidare!
L'idea colpisce Luciano:
— Liquidare!... La borsa piena!... Ottima la scusa di voler liquidare! Ma, s'intende, non «mandare», andar lui, a Parigi e così, con la borsa piena, sbaragliare, mettere in fuga il re della glicerina!
Giacomo, vede che l'altro è rimasto scosso, pensieroso, spera bene e continua a cercare argomenti, anche speciosi, pur di riuscire nell'intento.
— Io ti conosco; non sei tomo d'innamorarti scioccamente delle grazie faisandés e degli acuti stonati di una qualunque mademoiselle Fanfan! Tu ci tieni per vanità, anzi, per amor proprio, come ad un oggetto di gran lusso!... Non si deve dire a Parigi, ad Ostenda, a Montecarlo, che non hai più milioni da spendere per mantenere la Trécoeur! E ci tieni anche, per gelosia di possesso: perchè sai che dietro di te ce n'è un altro, o dieci altri, che aspettano di ricevere o di dividersi la tua successione! È una forma di gelosia che non ha niente di comune con l'amore e con la stima; pure è questa la gelosia che spinge a commettere i più grossi spropositi! Recipe infallibile, purchè sia pronto: liquidare brillantemente con la signorina Fanfan e brillantemente piantarla. Mostrarsi, con un bel gesto, grande signore e uomo pratico!... Vedrai, subito, i tuoi rivali! Quelli che più ti danno ombra!... Ci perdono l'uzzolo, sul momento!... Con che gusto contendersi fra di loro le corset, quando non è più envolé?... È la concorrenza della vostra reciproca minchioneria che fa quotare così alto le azioni, mimiche, di mademoiselle Trécoeur! Sei tu, il milionario inesauribile, la più grande attrattiva e il suo fascino maggiore! Le tue pazzie, soltanto, danno forma e colorito a quattro ossa giallognole e bacate!
Luciano crolla il capo, Giacomo riprende allegramente:
— È così; e bisogna far così: piantarla con una buona uscita. Per allontanare i propri amici dalla propria amante, non c'è che un modo, sicuro: piantarla!
Luciano soffre, si rode. Vorrebbe rispondere a quel mezzo-uomo e mezzo-prete « — che cosa ne puoi saper tu delle attrattive e dei fascini di certe donne, come Fanfan? Tu... accontentati di lisciare e di fiutare le sottane della famiglia!» Ma non può. Per seguire il piano che ormai ha ben fisso in mente egli deve contenersi e fingere di accettare, in massima, i consigli del fratello.
— Non dico di no. Una liquidazione brillantissima potrebbe essere anche il mio desiderio e lo scopo del mio viaggio a Parigi; dato il caso che io vada proprio a Parigi. Ma, intendiamoci: senza l'intervento di nessun Zaccarella! Non voglio far la figura... di essere inabilitato, prima del tempo!
Giacomo lascia correre; finge di non aver sentito la botta. L'altro continua imperturbabile:
— Certi affari miei, di mia sola pertinenza, li tratto da me. E per questi affari, vado e non mando.
Giacomo, si mostra conciliantissimo.
— Precisamente. Sei tu, solo, che tratti i tuoi affari; ma non vai proprio, tu, in persona. Sei tu, che mandi, ed è lo stesso!
— No, no! Vado. Dato il caso, vado e non mando!
— Mandi... e non vai. — Non vai, perchè in questi mesi Parigi è vuota e spopolata e soprattutto perchè quando fa caldo, ami di stare al fresco!
— Fresco o caldo, vado io. Certi affari di mia sola pertinenza, li tratto da me.
Giacomo ha uno scatto che non può reprimere:
— E tua moglie, non è di tua pertinenza?... A lei non ci pensi?
— Moltissimo ci penso! Oh, se ci penso! Ma anche fra me e la mia cara signora moglie, non ci si deve frammischiare nessun... Zaccarella!... Voglio pensarci io! Soltanto io! Me lo permetti?
— Altro che! Te lo permetto e, di più, te lo impongo!
Dinanzi a tanto cinismo e a tanta improntitudine, Giacomo non si frena più.
— È ora e tempo di mettere giudizio, è ora e tempo, vivaddio, di vivere un po' anche per tua moglie, per quella povera... martire, che per la sua bontà, e la sua forza di soffrire e tacere, merita tutto il nostro affetto e tutta la nostra ammirazione!
Luciano, pronto, coglie la parola al volo:
— Ammirazione?... Ah! Ah! Straordinaria ammirazione! Me ne sono accorto da un pezzo!
— Che cosa?... Ti sei accorto di che cosa? — Giacomo si avvicina d'un passo al fratello, fissandolo: — Ti sei accorto... di che cosa?...
Ma l'altro non ha paura. Si sente forte della sua propria cattiveria.
— Voglio dire... niente. Che me n'ero accorto da un pezzo di questa vostra e specialmente tua... ammirazione!
Giacomo alza le due mani tremanti, poi le sbatte, palma a palma, in atto di dolorosa maraviglia:
— Ragazzo... ragazzaccio! Cattivo e bugiardo!
Luciano, rimane imperterrito. Fissa Giacomo a sua volta; parla alto, borioso e sprezzante. È lui, il giusto; è lui, il giudice.
— No. Nè bugiardo, nè cattivo, nè ragazzo. Oh, tutt'altro che un ragazzo. Osservo, da tempo, e noto. Intanto, intendiamoci: non permetterò mai, mai, alla mia... cara signora moglie di cercarsi protettori, nemmeno in famiglia, per metterli su, contro di me. Non permetterò mai a nessuno, nemmeno... — Luciano fa una reticenza con un'altra smorfia piena di sarcasmo, — nemmeno alla zia Gioconda, di voler sentenziare fra me e mia moglie. Con mia moglie poi a suo tempo... — Non vuol dire di più; ma le pupille hanno un tremolio sinistro, che fa trasalire il povero Giacomo. L'altro se ne avvede, indovina l'inquietudine del fratello per la cognata, e ne gioisce in cuor suo.
Ah! Ah!... Ormai è libero! È lui il padrone! Padrone di fare tutto ciò che gli accomoda; padrone di andare, di stare a Parigi quanto vuole; padrone di spendere e di spandere a suo capriccio!... — Accendersi per la cognata! — Ride, poi riprende, guatando Giacomo tra il serio e il comico:
— Ah! Ah!... La dolcissima e soave Maria Grazia! La povera martire! Impiegare tutto il suo tempo a Bex, per destare la tua ammirazione, e per seminare la zizzania tra di noi!... Altro che la forza di soffrire e tacere! Persino la minaccia di farmi inabilitare!
Giacomo, sorpreso da tanta perfidia, non sa che rispondere: Luciano, alza la voce.
— Oggi, subito, parto, finchè non sono ancora inabilitato; ma quando torno, e tornerò prestissimo darò alla... povera martire, l'ammirazione che si merita!
L'ironia scompare a un tratto: è l'odio, è il veleno, che prorompono dalle sue labbra livide e affilate.
— Sposata, senza un soldo! Mantenuta come una regina! E con lei, mantenuta tutta un'orda di nobilastri parassiti, che non hanno salvato dalla malora altro che le barbe e le parrucche! Per questo sì, davvero, bisogna inabilitarmi! Bisogna interdirmi! È questa genia di spiantati, sono i capricci, è il lusso sfrenato di mia moglie che mi hanno costretto a spendere, a sprecare, a rovinarmi! Ma quando si tratta... di mia moglie, quando si tratta della povera martire, tu, proprio tu, dimentichi anche l'avarizia e non mi fai più la predica! Per te? Per la tua ammirazione?... S'intende! Io ho sempre pagato troppo poco i grandi meriti di mia moglie!
— Abbassa la voce! Abbassa la voce! — Giacomo è spaventato. Possono sentire nel corridoio, in tutto l'albergo! — Abbassa la voce! Ti supplico! — Ma più Giacomo ha paura e cede, più Luciano si monta e grida: a forza di arrabbiarsi per progetto, finisce con l'arrabbiarsi e col diventar geloso sul serio.
— Mia moglie dovrà parlare! Oh se dovrà parlare! Se dovrà confessare! Che cosa ti ha detto? Che cosa ha fatto?... Con quante moine ha potuto cambiarti così? Cambiarti... completamente?... Prima, non me lo vorrai negare, tu Maria, non la potevi soffrire! Ti sei opposto fino all'ultimo! Hai fatto il possibile e l'impossibile per impedire il mio matrimonio! Oh, senza essere un grand'uomo, e non me ne importa affatto, io, per altro, ho buona memoria! E se ne accorgerà mia moglie quando torno! Appena torno!... Quella ipocrita, falsa, bugiarda! È lei, la bugiarda e non io! La bugiarda e l'ingrata!
Giacomo capisce che, lui presente, la furia del fratello non farà che divampare sempre più: si caccia le mani nei capelli e fugge via con un singulto che gli rompe il petto. Sapeva che suo fratello era cattivo, ma cattivo fino a quel punto, fino al punto di far paura, questo no!
— Povera donna! Povera donna!...
Giacomo, non pensa più a trattenere Luciano. Guai se Luciano, restasse a Villars!
— Vada! Vada! lontano, a Parigi, all'inferno!
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
È Luciano che parte in automobile, un'ora dopo la scena col fratello.
Non ha voluto veder nessuno; non ha salutata sua moglie. Sua moglie la vedrà al ritorno e la... saluterà al ritorno! Adesso vuol partire tranquillo, senza guastarsi il sangue!
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
— Ah! Ah! La dolce, la soave Maria Grazia! La donna perfetta!... Impeccabile!... Mio fratello!... Paolo e Francesca!
Luciano, questo, lo borbotta fra sè: per convincere sè stesso. Ma non lo crede e non lo pensa. E per ciò, appunto, perchè non lo pensa e non lo crede in cuor suo, è contentissimo di poter dar corpo a quelle ombre, per convincerne sè stesso e più gli altri. Così, sua moglie, avrà finito di darsi le arie e il sussiego della donna perfetta, della donna superiore! Ah! Ah!... In faccia sua, anche sua moglie dovrà abbassare gli occhi e la testa!
Geloso di tutti, e invidioso, geloso di tutto, Luciano aveva finito col rodersi in cuor suo anche per i pregi e per le virtù e soprattutto per la grande stima che godeva sua moglie e che tanto la innalzava, al suo confronto, nell'opinione della gente.
— Giù! Giù! Anche lei! Giù! Adesso giù! Come tutte le altre!... Basta, l'ammirazione! Non più panegirici, non più inni, ma tragedie: Paolo e Francesca!
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
L'automobile ha fatto tutta la ripida e contorta discesa da Villars fino ad Aigle, in un attimo, ed ora, sempre di volo, sempre in discesa, infila la strada polverosa, diritta che si snoda tra le colline verdi e il lago azzurro, mentre alto e lontano si profila candido e immoto dominatore dello spazio, il monte Bianco.
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
Luciano ride di gioia... Ah! Ah! Paolo, non può più farmi da tutore e Francesca da spia! Posso andare a Parigi! — evviva Parigi! — e divertirmi!
— Divertirmi?...
Luciano torna a rabbuiarsi.
— Con Fanfan, c'è poco da divertirsi! Chi sa quanti nuovi capricci! E poi sempre con la voce da non mettere a repentaglio!... Tutti i riguardi, tutte le privazioni e le astinenze, per la voce!... Quasi sempre no, per paura della voce!... Quando canta, perchè canta, quando non canta... perchè ha da cantare!... Uff!... Certe volte, per ottenere un giorno di mezza quaresima, bisogna discutere e venire a patti, con il maestro, con l'impresario e con la pettinatrice!... E poi, l'ombra di Banco; anzi, della Banca: mister Kennett, il re della glicerina!
Luciano ride di gioia... Ah! Ah! Paolo, non può torna da capo a consolarsi.
— Ah! Ah!... Ma questa volta, almeno, se avrò da avvelenarmi il sangue a Parigi, mi potrò sfogare al ritorno! Ah! Ah!... Paolo e Francesca!...
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
E così, in quella corsa precipitosa, vertiginosa, tra la luce del sole sfolgorante e la maraviglia ridente dei colori, tra la limpidezza tranquilla del cielo e lo specchio nitido dell'acqua cristallina, fra la bellezza e la calma del luminoso pomeriggio, Luciano continua ad accumulare nell'animo con la smania e la promessa vicina di scene e di vendette, i pensieri più tristi e più foschi.
— Téé! Téé! Téé! Tuff! Tuff! Tuff!
II.
Giacomo, piantato lì il fratello a mezzo di quella veemente invettiva, corre nelle sue stanze, come a cercarvi rifugio.
Con le mani si tien chiuse le orecchie disperatamente per non sentir l'eco di quelle ingiurie.
Siede affranto dinanzi alla scrivania; è angosciato e disperato.
— E adesso Luciano, che cosa farà?... Liti, scandali, partirà come ha detto?... E Maria?...
Che ora lunga d'incertezza, di inquietudini, di pena!
Ad un tratto sente stridere e sbuffare l'automobile: si alza, si avvicina alla finestra e spia dietro le cortine calate.
— Ah, Dio sia lodato! — Manda un grande sospiro di sollievo. — Luciano è partito!
— Va! Va!... A Parigi! Dove vuoi! In capo al mondo!
È forte, però, il suo capriccio per quella Fanfan!
Più forte della sua stessa cattiveria! Ma poi al ritorno?
Giacomo si allontana dalla finestra scrollando il capo.
— Quando ritornerà?... Povera Maria!
Egli comincia a spogliarsi lentamente. — Presto sarà ora di pranzo! — Non chiama il cameriere, si veste solo e intanto continua a pensare a Maria... e a Luciano.
— Che razza d'uomo!... Non sembra nemmeno uno dei nostri. È un frutto guasto dai suoi stessi vizi! E così, travisandoli, deturpa e avvelena affetti e sentimenti! Osare, persino, di dubitare di me, di Maria?... — Giacomo dà un'alzata di spalle. — Che! Che! Dubitare! Se lui stesso è il più convinto della sua propria falsità!... Inventa e sa d'inventare! È una perfidia atroce, ma gli fa comodo!... Che cattiva bestia! Cioè no. Cattivo sì, ma non bestia! Tutt'altro!
Giacomo ha capito subito, alla prima, il triste giuoco del fratello. L'insinuazione calunniosa è un'arma a due tagli: contro la moglie e contro di lui. Con quell'arma in mano, pronto a colpire senza scrupoli e a tradimento, Luciano si sente fortissimo; può commettere qualunque eccesso per quella Fanfan e qualunque infamia contro sua moglie!
— Sicuramente! Se io gli tengo testa, è capace, capacissimo, di gridare ai quattro venti che sono l'amante di Maria!
— Che canaglia!
A questo nome «Maria», a queste parole «l'amante di Maria», che gli si affacciano al pensiero per la prima volta così precise e chiare, egli si ferma dinnanzi allo specchio, attonito, con i due capi della cravatta fra le mani...
— Che falsità! Che canaglia!
Deve fare, disfare il cappio: non gli riesce.
Non si sente più sicuro, libero di sè, come prima. Soffre, — è proprio la parola, — soffre un tormento nuovo: un senso strano e nuovo di timidezza.
Quando, sotto l'atrio, s'incontra con Maria, prima di pranzo, arrossisce suo malgrado, e non può, lì per lì, fissarla in faccia.
Maria Grazia, nota subito il turbamento del cognato, ma lo spiega a suo modo: lo crede così mortificato e impacciato, perchè non è riuscito a trattenere Luciano. Ella lo guarda con i grandi occhi neri, pensierosi e gli sorride malinconicamente: lei stessa, si fa offrire e gli prende il braccio, per entrare insieme nella sala da pranzo.
— Lucïano è proprio partito?... E proprio per Parïgi?
Le tenere e armoniose dieresi, sono piene di lacrime.
Giacomo, le risponde appena, stringendole il braccio, sotto il suo:
— Coraggio...
— Ne ho; tanto!... Sai?... Non è venuto nemmeno a salutarmi! — Cerca, quasi, di scusare il marito. — Forse, non ha osato!
— «Oh...» — Giacomo s'interrompe e pensa in cuor suo: — Sapesse, povera donna, che cosa è capace di osare... quello là!
Ma, alla cognata, egli non dice nulla della scena successa. Durante la serata, mentre Giacomo sembra quasi sfuggirla, Maria lo interroga con i begli occhi ansiosi: Giacomo non le risponde altro che scrollando il capo.
Nei giorni seguenti, egli schiva le facili occasioni di trovarsi solo con lei. E per poter fare ciò, naturalmente, egli si accompagna e comincia a stare di più con Remigia.
Dopo colazione, mentre la cognata si avvia lentamente in giardino, verso il suo solito posto tranquillo e appartato, Giacomo, invece di seguirla con il fascio dei giornali, si unisce alla corte allegra e rumorosa della duchessina, assiste ai pasti di Din e Don e riceve pazientemente gli enfatici salamelecchi del signor Trüb.
Poi, mentre con la coda dell'occhio, spia di lontano la macchia folta degli abeti che riparano Maria sotto l'ombra solitaria, egli si fa spiegare da Remigia le regole del tennis e resta lì, fuori della rete, a veder giuocare.
— Bravissima, la Pïccola!
Pronunzia la Piccola con la lunga dieresi, come fa Maria, e ne riceve un'intima sensazione di gioia.
Anche alla sera, tardi, quando tutti gli ospiti rientrano nell'albergo, Giacomo invece di fermarsi con Maria, come faceva prima, nella veranda a discorrere e a discutere di romanzieri e di poeti, entra con Remigia nella sala da ballo, e si ferma a vederla ballare. Ride con lei e con la Carfo a proposito dei suoi adoratori «internazionali». Scherza alle spalle di monsieur Malot, il parigino puro sangue, il ballerino di forza e di grazia; scherza a proposito dei voli letterari di Lothar Schmidt e anche Giacomo si mette a chiamare il Danova «Re Faraone» e sir Wood «il bell'Apollo della caramella!».
Maria Grazia, le poche volte che può trovarsi faccia a faccia col cognato, lo interroga muta, con gli occhi soltanto.
— Perchè?
Sembra dire, dolorosamente: — Devo perdere anche questo mio solo conforto? La tua amicizia buona e cara?
Giacomo le risponde arrossendo leggermente, crollando il capo e si allontana.
— Perchè? Perchè?... — ripete Maria in cuor suo.
Ma il cuore finisce per intuire, per indovinare vagamente, in tutto o in parte, la verità, e allora è lei pure che arrossisce se per caso incontra gli occhi di Giacomo.
I due buoni hanno finito per capire, per intendersi. E così, mentre sembrano allontanarsi l'uno dall'altra, tutto quel mistero, la nuova odiosa cattiveria di Luciano, conosciuta da Giacomo soltanto, ma quasi intravvista da Maria, unisce più strettamente le loro due anime.
Giacomo non confessa a sè stesso, che anche la simpatia si fa più viva; forse non se ne rende conto. Tutto confonde e tutto spiega in cuor suo, col sentimento della giustizia e di una grande pietà.
Ma una notte... Ebbe tutta una notte insonne e pensò di partire.
— Andarmene, sì, sì!... Bisogna risolversi e partire. Luciano, al suo ritorno, non deve trovarmi più a Villars. Sarà così evidente tutta l'assurdità dell'odiosa insinuazione!
Ma Villars, in quel punto, come gli appare verde e incantevole! Non avrebbe trovato in nessun'altra parte del mondo un luogo così bello!
— No! Anzi non devo partire, devo rimanere! Luciano direbbe che io mi sono allontanato apposta per salvare le apparenze! Sarebbe «una prova» secondo lui e andandomene lo lascerei libero di inventare anche di peggio! E poi, Maria? Lasciata qui senza difesa?... Devo restare!
L'idea della partenza è dunque abbandonata.
— Resto! Appunto, precisamente: per difenderla e per proteggerla! È mia cognata. Oggi è una D'Orea; è dei nostri. Sono io, per autorità, il capo riconosciuto in questa casa. Qui comando io; e farò rigar diritto quel... buffone!
Per altro, non bisogna mai dare il più piccolo appiglio a Luciano; e bisogna ricordare com'è pronto e scaltro nella perversità.
Giacomo non si trova più solo con Maria e si vedono e si parlano soltanto a colazione e a pranzo. Egli è venuto, dice lui, e resta a Villars, non per altro, che per riposare e per diventar giovane!
Sta tutto il giorno e tutta la sera con Remigia; con la Piccola!
.... Quante volte ripete «la piccola!»
Questa tattica abile e prudente, se gli è consigliata dal bene di Maria, non lo annoia per altro, e non lo stanca. Remigia è sempre allegra, divertentissima! Con questo grande vantaggio, che non vuol parere altro che quello che è, cioè una bambina. Bambina per indole, per vivacità e per... innocenza! Non pensa altro che a saltare, a giocare al tennis e a ballare; preferisce ancora le passeggiate col bel sole, ai colloqui con la bianca luna, i dolci e i cioccolattini del Danova, ai fiori di monsieur Malot e non vuol bene, davvero, altro che a Din e a Don!
— I vent'anni sono al varco!... Eppure, nessuno lo direbbe! Del resto, anche con vent'anni, e sonati, potrebbe sempre essere mia figlia!
Però, con la Piccola, egli non deve pensare ai riguardi, alle apparenze!
Può fare la sua corte innocente. Non c'è pericolo di dar ombra a sir Wood... e nemmeno a Totò!
— Povero Totò! È innamorato sul serio!... Ma perchè non si sposano, Remigia e Totò?
Quell'argento vivo... e biondo, che ride sempre, che parla sempre, che non fa mai domande e, se ne fa, non aspetta risposta, è un grande riposo per Giacomo, facile all'emicrania, stanco di nervi, e con i begli occhi di Maria sempre fissi in mente. Anzi, vicino a quel demonietto in continuo moto e in continue chiacchiere, egli prova il grande sollievo di poter tacere pensando a tutt'altro! È un uccellino grazioso dai bei colori vivi e dalla testina d'oro, che gli vola attorno piacevolmente e che piacevolmente riempie l'aria con il suo armonioso e festevole pi-pi-pi!
Egli può tacere, tacere!... la gioia di poter tacere e di poter pensare a... tutt'altro, mentre la cingallegra spensierata e innocente continua a volare cantando e bisbigliando pi-pi-pi!
Egli può tacere, tacere!... E intanto spiare di lontano, in fondo al giardino, un punto bianco, immobile, che spicca tra il verde dei fogliami: è Maria che legge, seduta all'ombra nel suo solito posto appartato.
— Povera Maria!... Meriterebbe tanto di essere felice... e amata!
Questo pensiero, un giorno, fa sospirare Giacomo più forte. Remigia che sta raccontandogli, ridendo, la corte che pretendeva di farle quel «bruttissimo Re Faraone» si ferma di botto.
— A che cosa pensate, Giacomo?
— A niente. Non penso a niente: ascolto soltanto.
— Non dite bugia, Eccellenza! Questa è una grossa bugia!
— Perchè?
— Perchè se aveste ascoltata me vi sareste messo a ridere: invece vi siete messo a sospirare!
Remigia dà una risatina arguta, maliziosetta:
— Forse, chi sa? È stato il sospiro dell'anima!
Suonar nel mio segreto odo una voce
Che a sè mi tiene dubitando inteso...
Giacomo, per deviare l'attenzione della fanciulla, sospira più profondamente, continuando:
E non sento l'età fuggir veloce
In quella nota attonito e sospeso!
— È la nota giovane squillante e affascinante del vostro allegro pi-pi-pi, cara Remigia!
— Per me, sospirate? — La graziosa birichina si mostra incredula. — Uhm!
— Sospiro... alla gioventù! Il più grande dei tesori, che si comincia ad apprezzare soltanto... quando lo abbiamo tutto consumato!
La duchessina si stringe comicamente nelle spalle.
— Allora... dovrà apprezzarlo moltissimo Re Faraone!
— Certamente! Anche Re Faraone!
— Ma pure egli ha trovato un rimedio, per riacquistare la perduta gioventù: il lucido Nubian!
Remigia ride allegramente e Giacomo è sicuro che non ha più in mente nè i suoi silenzi, nè i suoi sospiri.
In fatti ella riprende subito, con tutt'altro tono:
— Giacchè siamo in vena di poesia, ricordatevi, Giacomo, questo è il giorno.
— Il giorno?... Quale?
— Il giorno in cui dovete scrivere sul mio album. No, no! Non si dice di no; avete promesso!
— Non so scrivere versi!
— Scrivete prosa.
— Non so scrivere prosa, che sia degna del vostro album. Io non sono un letterato, ma un umile finanziere! Non so scrivere altro che cifre!
— E, allora, basterà la vostra firma, Eccellenza! È l'autografo, che conta! — Mimì! — grida forte Remigia, chiamando, — Mimì!
— Eccomi, cara!
La contessina Carfo, sta giocando al croquet lì vicino, con Totò. Ella che ha sempre un grande ribrezzo per il Re Faraone, e che spera solo nel matrimonio di Giacomo con Remigia, quando i due sono insieme, non li perde mai di vista.
— Finitela con quel croquet stupidissimo e irritante! Venite qui con noi! È fresco fresco! Una delizia!
Remigia si sdraia sopra una larga poltrona di vimini, dondolandosi mollemente.
— Ah, che gioia!... E che buone poltrone elastiche e comode, da far invidia alla Sbirlingonia!
Mimì e Totò, giuocano in fretta, tanto per arrivare in fine alla partita. Remigia si irrita.
— Finitela! Non avete capito?
Mimì dà un'occhiata a Totò e butta via la mazzetta.
— Eccomi, cara!
— Portate qui la mia cesta da lavoro! — La duchessina continua a dondolarsi sulla poltrona. — La mia cartella, i miei albums, i miei libri, tutta la roba mia!
Giacomo la guarda sorridendo e la chiama pïccola tiranna!
Sorride anche Remigia, ma dolcemente.
— Sono piena di difetti, non è vero?
— Oh, l'impero, la tirannia, non son difetti per chi li esercita; anzi, sono l'espressione della forza, del carattere. Sono invece una colpa, qualche volta, per chi vi si assoggetta, e quando invece di una tiranna piccola e bionda, esercita l'impero un brutto tiranno... uomo.
— Brrr! Quanta difficile filosofia! In conclusione, se questi non sono difetti, vuol dire che ne avrò degli altri. Vi prego! Vi prego, Giacomo! Sì! Sì! Voglio sapere tutti i difetti miei! Tutte le imperfezioni mie! — continua a supplicare nel tono più dolce. — Caro! Buono! Simpaticone! — Poi si arrabbia. — Dite subito tutti i difetti miei, almeno i più grossi o vi chiamo Eccellenza!
Giacomo ride e si diverte.
— Fin'ora — apprezzate la mia prudenza e la mia sincerità, — dico fin'ora...
— Ho capito! Avanti!
— Fin'ora vi riconosco un solo difetto.
— Grosso?...
— ... Non piccolo! Quello di possedere anche voi, per quanto non comune, anzi in tutto una ragazza originale... un album di autografi!
— La mia originalità sta in questo: invece di un album solo, ne possiedo due.
— Due?
Giacomo fa una faccia spaventata. Egli si diverte sempre di più a questi giuochi innocenti. Ha sempre avuto passione per i ragazzi e per i bambini.
— Ne possiedo due.
Si avvicina Mimì portando la cartella e i libri. Si avvicina Totò portando la grande cesta foderata di tela pompadour e ornata di nastri di seta rosa con l'astuccio dei colori, i pennelli e con tutti i «lavori diversi» della duchessina: lavori all'uncinetto, lavori a maglia, trapunti, ricami che girano da anni i laghi, i monti e i mari... sempre allo stesso punto.
Remigia fa mettere tutto a' suoi piedi, sull'erba, e si fa dare gli album da Mimì.
— Due album? — ripete Giacomo esterrefatto.
— Due. Uno per gli illustri della patria; — questo, guardate: la firma di Garibaldi, una lettera di Mazzini, una poesia dell'onorevole Testasecca, — è il deputato del nostro collegio, — e poi autografi di Biancheri, di Zanardelli e uno anche del figlio di Totò.
Giacomo inarca le ciglia fissando il marchesino di Villabianca, e la Piccola scoppia in una risata:
— Non del nostro Totò!... Del nostro caro Totò, tesöro! È un autografo del figlio di Sua Eccellenza Totò!
— Ho capito. È un autografo dell'onorevole Carlo di Rudinì. Datemi l'album! Mi fo coraggio! Col papà, siamo stati nello stesso ministero!
— No, invece! — Ritira l'album scostandosi, piegandosi sulla poltrona con un atto grazioso di rifiuto. — Voi scriverete su questo. — Apre l'altro album che tiene sulle ginocchia e lo sfoglia lentamente tornando ad allungarsi sulla poltrona. — Mimì, gioia! — Spingimi adagio adagio... — Mimì coi piedi, con le due mani fa dondolare la poltrona, lieve lieve. — Ah, brava! Così!... Delizioso!... Fammi fresco, Totò! Alto!... Alto!... Sul capo!... Totò, pure in piedi, accanto alla poltrona, apre un ventaglio grande giapponese che ha preso nel cestino e continua, tenendo il braccio ritto, a sventolare adagio, la faccia impassibile e gli occhi innamorati.
— Voi, Giacomo, scriverete qui, — ripiglia Remigia. — Su questo album più piccolo e chiuso a chiave, perchè è l'album degli illustri simpaticoni. Guardate, leggete: Gabriele D'Annunzio, Rostand...
— Basta! Bastano questi due nomi! Io non ci posso più scrivere!
— Lo voglio! Lo voglio! vi chiamerò sempre onorevole, commendatore, grande ufficiale, Eccellenza!
Insiste anche Mimì, e dichiarando che la sua Remigia quel giorno è proprio una bellezza, prende dalla cartella un piccolo calamaio e una penna.
— Da bravo, signor D'Orea! Non si faccia tanto pregare! Ha osservato oggi come sono d'oro i capelli di Remigia?
Totò non fiata, muso duro. Trova che comincia a diventare un po' urtante anche quel Giacomo lì.
Lui... non è mai stato invitato da Remigia a scrivere sull'album dei simpaticoni!
— Civetta! Che civetta! Persino con Sua Eccellenza! — Continua a far vento, ma troppo adagio, con la faccia che gli si accende per la fatica.
— Oh Totò!... Non addormentarti! Più forza!
Remigia si rivolge di nuovo a Giacomo:
— Basta un pensiero; una parola sola e la firma.
Giacomo si decide, prende l'album dalle mani di Remigia, la penna che gli offre Mimì e scrive due righe in fretta:
— A voi! — Restituisce l'album. — E scusatemi se proprio, non so scrivere altro che cifre!
Remigia, letto appena, salta in piedi rossa di gioia e mentre Totò rimane immobile col braccio alzato e il ventaglio aperto, corre a stringere la mano di Giacomo, con trasporto, con effusione:
— Buono! Buono! Quanto siete buono!
Giacomo aveva scritto sull'album:
«Mi obbligo a versare 5000 lire per i poveri della duchessina Remigia, detta la Piccola.
« Giacomo D'Orea. »
Mimì ha gli occhi pieni di gioia:
— Dio! Dio! Come il signor Giacomo sarebbe proprio degno di far felice la mia Remigia!
III.
Remigia, con Giacomo, non scherza e non ride soltanto. I suoi occhi ceruli e giocondi, hanno pure riflessi bigi, freddi come d'acciaio: osservano e studiano. Remigia, conosce già profondamente il carattere di Giacomo; ne conosce i gusti, le inclinazioni, le predilezioni e lo seconda in tutto, abilmente, senza mai parere, senza mai scoprirsi. L'aristocratica duchessina ha notato, per esempio, che sua eccellenza Molinella — lo chiama così con Marco Danova per allontanare sospetti e gelosie, — ha vivissimo, come tutta «la gentetta», il sentimento della famiglia e l'attaccamento alla parentela, ed ella non perde occasione di accarezzarlo e di lusingarlo anche in questo suo debole.
Ogni giorno, verso le quattro, la nobile famiglia italiana, con Marco Danova, sir Wood e tutto il seguito fanno una passeggiata o su, fino a les Ecovets, o giù fino ad Arveye o a Chesières, con la scusa di andar a prendere il tè. Giacomo, che lavora anche in montagna, si fa sempre aspettare, e Remigia, impazientandosi lo chiama sotto la finestra che dà sul giardino:
— Onorevole, Commendatore! Grande Ufficiale! Eccellenza!... Fate presto!
— Eccomi! Signorina Piccola!
Un giorno che si deve andare più lontano, fino a Gryon, Remigia, passando dallo studio di Giacomo, prima di scendere lo chiama, bussando all'uscio: tòc! tòc!
— Sono io, Eccellenza! Si può?...
— Avanti!
Remigia apre l'uscio e rimane ferma sulla soglia:
— Non fatevi aspettare anche oggi! Mi raccomando! — Poi entra, risolutamente.
Che male c'è? Perchè non potrebbe entrare nello studio del cognato di sua sorella?... Un cognato mezzo-papà e già... ex-ministro?
Ella si avvicina alla scrivania:
— Che cosa fate?
Anche Giacomo, al primo vedere la fanciulla affacciarsi all'uscio, è rimasto un attimo sorpreso; ma un attimo soltanto. È una vera bambina, affatto ingenua e ancora senza conseguenza!
— Scrivo la mia relazione sul dazio protettore degli agrumi, da presentare alla Camera, in novembre. Niente di bello, e specialmente niente d'interessante per la nostra Piccola!
— Allora, tanto più! Non fatevi aspettare! Oggi si va fino a Gryon!
— Sono pronto!
Giacomo raccoglie i fogli sparsi sulla scrivania e li ripone, in ordine, nella cartella. Remigia si guarda attorno, osserva tutto.
— Quanti libri e quanti giornali!... Si può dire che la posta viene soltanto per voi a Villars! A me, invece, appena qualche cartolina illustrata!... E avrei così piacere di ricevere tanta posta!
— E la fatica?... La noia di dover rispondere?
Remigia non lo ascolta più. È tutta assorta, fissando un ritratto sulla scrivania, in una larga cornice d'ebano. È la vecchia fotografia di una donnetta dal viso lungo e scarno, — somiglia molto a Sua Eccellenza, — dall'aspetto semplice e modesto. È in capelli, vestita di nero. Ha una grossa catena d'oro attorno al collo, e puntato in mezzo al petto un grande spillone, con un ritratto, che dev'essere del marito.
— È la madre! — Remigia ha indovinato. — È la salumiera! — Poi esclama con la voce armoniosa e dolce, che somiglia certe volte, a quella di Maria: — Che bella signora! Glie espressione simpatica, dolce!... È la vostra mammà?
— Sì, risponde Giacomo colpito. — È la mia povera mamma. Come avete fatto a indovinare?
— Vi assomiglia tanto! — Remigia lo guarda, arrossisce leggermente e ripete tanto... con la voce di Maria, tal e quale.
— Cara bambina! — pensa Giacomo fra sè... — Molti capricci; un demonietto sfrenato e non sempre ragionevole, ma poi, nelle cose serie, ha il sentimento e si esprime con la grazia affettuosa di sua sorella. Non si assomigliano affatto Maria e Remigia, ma pure si capisce subito che sono sorelle. Dalla voce, soprattutto! La bella voce... è una gran bella cosa!
— Andiamo, signora Piccola!.. Sono a' suoi ordini!
Remigia non si muove; fissa sempre il ritratto, poi fissa Giacomo, seria questa volta, sospirando:
— Certo, dovete aver voluto un gran bene voi, alla vostra mammà!
Da quel giorno si rinnova spesso per Giacomo la sorpresa avuta al suo primo arrivo a Villars: sulla scrivania, dinanzi al ritratto di sua madre, c'è un bel mazzo di fiori.
— Bambina cara!
Giacomo crolla il capo sorridendo e pensa:
— A volte, si provano antipatie ingiuste! No; non bisogna mai dar retta alle simpatie e alle antipatie! Le persone bisogna conoscerle bene, a fondo, prima di giudicarle!... Persino la duchessa Cristina, con la sua imponenza da matrona di melodramma, nella famiglia, nell'intimità, diventa tutt'altra cosa!... Ha la bella persona e il bel viso di Maria. Gli occhi no; sono neri ugualmente, ma sono diversi: freddi, quasi duri!... Anche il principe Rosalino!... Suprema importanza, ma un bon uomo, in fondo... E Remigia?... — Giacomo sorride. — Povera Piccola! Non la potevo patire!
Conclude trovando che tutti i Moncavallo sono gente finissima di sentimenti, di gusti, di abitudini. — Ci sarà in loro del fumo aristocratico, ma quando sono gentili, sanno esserlo assai di più e in un modo diverso da tutta l'altra gente! — Fa un lungo sospiro. — Pare impossibile che mio fratello, vivendo in mezzo a loro, sia rimasto... quello che è!... Mah!.. Luciano non è nato uomo, è nato bestia!
I bei fiori freschi, dinanzi al ritratto della mamma, fermano il suo pensiero su Remigia.
— Ma perchè aspetta tanto a prendere marito?... Le occasioni, pare non le manchino! Quel Danova, per esempio? Remigia non lo vuole: lo trova brutto, vecchio e odioso, — me l'ha detto lei, — e non ha torto. Anche dal lato morale, quel Danova, non è certo gran cosa! E sir Wood? È una ragazza intelligente e lo trova troppo ridicolo e fatuo con le sue pretensioni di bell'Apollo! Ma perchè non sposa Totò?... Non le piace nemmeno Totò, o non ci sono quattrini abbastanza?... Quattrini?... Uhm! Non ce ne devono essere affatto!...
Giacomo, che è generoso, non forse nelle piccole, ma certo nelle grandi cose, si sentirebbe disposto, se la Piccola amasse Totò, di provvedere alla dote.
— Remigia è quasi una parente. È sorella di una D'Orea! E sorella di mia cognata!
Come Giacomo D'Orea riconosce volentieri che i Moncavallo sono assai migliori veduti da vicino, così i Moncavallo a loro volta, trovano che a Villars il «satrapo mercante» ha fatto progressi.
— Quel... Giacomo, si fa! — osserva la duchessa, durante i colloqui del dopo pranzo, sulla terrazza, al fratello Rosalì, che sonnecchia, seduto al fresco, in una placida grandiosità monumentale. — A poco a poco, si fa! Diventa un uomo di questo mondo!
— Si fa! — ripete il principe sollevando la lunga barba, con un leggero rumore fra il sospirare e il russare, — Si fa, vivendo con noi. L'uso diventa natura!
— Pare... ci prenda simpatia a stare con l'Idola! — Pausa. Poi la duchessa ripiglia, sempre riferendosi a Giacomo: — Quanti anni avrà, precisamente?
— Precisamente, non saprei. Certo, ha già varcata la quarantina!
— Non si direbbe! È uno di quegli uomini... che non hanno età, ma che possono interessare e anche piacere moltissimo, per il loro talento!
Il bell'uomo partenopeo sorride e sembra misurare la piccola e misera eccellenza, dall'alto della propria persona:
— Quattro ossicini in croce e quattro nervi! Ecco tutto il grande ometto!
— Adesso, però, è assai migliorato in salute!.. Non è vero, Rosalì?
Rosalì non risponde.
— In ogni modo... volesse prender moglie, sarebbe sempre un ottimo partito! È ricchissimo! Dicono, quasi un milione di rendita!
Rosalì, lentamente, sempre mezzo russando e mezzo sospirando, ammonisce la sorella:
— Danari e santità, metà della metà!
— E va bene! — La duchessa stizzita dalla sonnolenza del Sant'Enodio, fa un atto nervoso. — Anche metà della metà è sempre una bella rendita!
Succede un lungo silenzio. La duchessa ha caldo.
Prende il fazzoletto dalla piccola borsa scintillante di lustrini d'oro e si asciuga le gote e il collo. Apre il ventaglio: si fa vento. Giacomo le ha fatto venire in memoria l'altro D'Orea, — quella cara gioia di suo genero!... — Soffia — Uff! — Stasera non se ne può più! Si soffoca!
Povera duchessa Cristina! Il solo pensiero di Luciano le aumenta il caldo e le dà le smanie.
— Certo che dei due fratelli...
Rosalì s'interrompe con gli occhi aggravati dal sonno, poi riprende... — Mentre l'uno si fa, l'altro si disfà! Mah!
— Mah!... — fa eco la duchessa, che è completamente sveglia. — ... Bisogna goderselo in santa pace! Amici a scelta e parenti come sono!
Il principe pure, apre gli occhi.
Quando è in ballo Luciano, il discorso si fa sempre interessante:
— Non ha scritto, ancora? Non ha telegrafato?
— Niente! Nemmeno al signor Zaccarella!
— Quanti giorni sono, ormai, dacchè è partito?
— Otto giorni... ieri.
— Allora... è già a Parigi!
A questo pensiero Rosalì si mette in quieto. Allunga le gambe e richiude le palpebre, mormorando:
— Dopo tutto, se quella Fanfan non ci fosse, sarebbe quasi da inventare!... Dobbiamo soltanto a lei i nostri dieci minuti di riposo!
La duchessa tace, ma non è dello stesso parere.
— Se Luciano finisce col rovinarsi? Dicono che... sia tisica? Ma ormai con i tisici non c'è da fidarsi! Vivono più degli altri!... E l'Idola?... — Continua a farsi vento.
La notte è serena, ma buia; il silenzio è profondo. Un grillo solo canta in un prato sottostante e qua e là sul terrazzo si odono appena alcune voci senza poter intendere le parole.
Il pensiero dell'Idola, di un buon marito per l'Idola, preoccupa assai la duchessa.
— Bisogna trovare! Bisogna trovare! ha ormai toccato i vent'anni!
Il cielo, a ponente, si fa più chiaro; le cime delle montagne che chiudono la valle come una grande macchia nera, si illuminano con una striscia di luce pallida.
La duchessa Cristina ritorna a profondarsi in meditazioni:
— Anche metà della metà!... Sarebbe sempre un buonissimo partito!
Tutto tace, mentre lentamente spunta la luna: tacciono anche le voci che si udivano qua e là sul terrazzo. Il grillo solo canta più forte.
A un tratto si sente il rumore di uno schiaffo. È stato il principe Rosalino che lo ha tirato a sè stesso.
— Maledette zanzare!... Andate dal signor Trüb che non ci vuol credere!
IV.
È mattina; sono presto le nove. Giacomo è già da un'ora al tavolino da lavoro, quando sente bussare all'uscio, pianino: — toc! toc! — Si può?
— Avanti!
— Posso entrare?... Sono io! — Remigia è già dentro.
— Buon dì, signora Piccola!
Giacomo è ormai abituato alle visite della cognatina seconda. Quando Remigia passa dallo studio del D'Orea alla mattina, per scendere, lo chiama ed entra così, interrompendo la relazione sul dazio protettore degli agrumi, per condurre l'onorevole al giuoco del tennis. Gl'insegna a giocare in quelle ore, appunto, in cui il campo è libero e deserto.
— Non avremo pubblico, spero?... Non vorrei diventare ridicolo con le mie giravolte e i miei saltetti degni del signor Trüb!
— Chi volete che ci sia dalle nove alle dieci? I nostri competitori e nessun altro: Mimì Carfo, Mademoiselle e Totò!
— Non vorrei che finissero... per seccarsi! Giocare con uno che non sa, non è divertente!
— Questo non è. Voi intanto cominciate a giocare benino!
— Piccola! Piccola! Non fate l'adulatrice!... Io non giuoco! Fo del moto per salute! Esercito i miei poveri muscoli arrugginiti e fo respirare i polmoni attossicati, all'aria aperta! Ma non vorrei abusare della pazienza vostra e di quella delle signorine! E passi per Totò! Quando io perdo il colpo, o mi scappa di mano la racchetta, Totò riceve da voi una furtiva occhiata, e si consola!
Remigia, arrossisce leggermente. Ella, in fatti, scambia di nascosto fuggevoli risatine col cuginetto quando Sua Eccellenza si contorce goffamente e traballa, per poter riuscire a ribattere in tempo.
— Totò si crede un grande giocatore! E non è che presunzione! — Remigia s'è rimessa subito e non mostra di aver capita l'allusione. — Manca di calma e manca di stile! Totò, al tennis, ve lo dico io, — la ragazza scoppia in una risata, — è un vero e grande schiappino!
— Povero britanno! Perchè lo trattate sempre così male? Lui, invece, sarei per scommettere...
Giacomo s'interrompe; continua Remigia:
— Che ci devo fare, se non mi piace? — No! No! — E vi prego: non ditelo a mammà e tanto meno allo zio Rosalì! Ci sperano tutt'e due! Ma come si fa? Ah, mon Dieu! Come mi potrebbe piacere nel senso che intendete voi? L'ho sempre visto! Siamo venuti su insieme! E poi, via, per me, è troppo ragazzo!
— Allora... Marco Danova! Quello non è più un ragazzo!
— Quello... è un antenato! L'antenato dell' Aida!
Remigia cammina su e giù battendo i piedi a tempo di marcia e sonando la trombetta con la mano alla bocca: — Teè, tè, teretetèe, tetè!... È un antenato e un Tintoretto!
La Piccola ride, poi ricomincia a girare e a sonare la marcia dell' Aida.
— Allora... il grande campione del Maloja! Sir Wood, l'irresistibile!
Remigia si ferma ritta, di colpo, dinanzi a Giacomo. Non ride più; si arrabbia:
— Mi seccate, — capite? — con la vostra smania di maritarmi! Siete peggio di mammà! Io secco voi?.. No, vero?... Dunque, lasciatemi in pace!
Giacomo si scusa:
— Non interpretate così male le mie parole, e soprattutto, la simpatia, il bene che realmente vi voglio. Io non desidero che la vostra felicità, e vorrei renderla possibile, anche per quanto sta in me, secondando il vostro cuore, i vostri desideri.
— Volete secondare i miei desideri? Proprio?... Fate una cosa sola: discorsi di matrimonio, più! E capitemi, cioè — si corregge subito, quasi spaventata — credetemi; credetemi quando vi dico questo: — la fanciulla seria, risoluta, aggrotta le ciglia. — Io non darò mai, mai a mammà la grande consolazione di vedermi impalmata! — Ciò detto, un'altra risata, e si rimette in marcia. — Tereteteè, tetè! — Andiamo; al tennis!
Giacomo prende il cappello e fa per avviarsi. Remigia si ferma di nuovo.
— E la zia Gioconda?... Fatemi vedere il ritratto.
— Volentieri, ma a Bologna, o a Roma. Qui non l'ho.
— Mi avete tanto divertita ieri sera con le originalità della zia Gioconda! Che brava donna, per altro! Piena di talento e di bontà!... Quanta rettitudine e insieme quanto spirito!
Il D'Orea sorride di compiacenza:
— Forse, tutta la sua originalità non è altro che bontà; e tutto il suo talento e il suo spirito consistono... nell'essere sempre rimasta quello che è sempre stata!... — Andiamo al tennis, signorina Pïccola!
Remigia alza le spalle con un attuccio dispettosetto:
— Non ditemi più piccola, con tanti i!
— Perchè?
— Avete sempre l'aria di ridere di me, di scherzare, di non prendermi sul serio!
Giacomo le stringe una mano affettuosamente:
— Non rido di voi: tutt'altro! Vi dico piccola, invece, perchè a Villars ho cominciato a conoscervi e a volervi bene: proprio così. Vi dico piccola, come vi direi cara. Come un babbo direbbe cära, con il vostro bell'accento musicale, alla sua figliuola...
Remigia lo guarda: gli occhi cerulei diventano dolcissimi.
— Vi piace dirmi piccola?
— Sì; tanto!
Ella continua a guardarlo e a sorridere:
— Allora così sia!... Ditemi pïccola quanto volete!
Il pubblico, alle prime lezioni di tennis, date dalla duchessina Moncavallo a Sua Eccellenza D'Orea, è piuttosto scarso. Anzi, oltre i giuocatori, c'è solo, puntualissimo, Marco Danova, il quale fa la corte nello stesso tempo e quasi nello stesso modo, a Giacomo per interesse e a Remigia per amore; e c'è il signor Trüb!... Trattandosi di rendere omaggio al primo ministro del regno d'Italia, il «bettoliere lustrascarpe» guida lui stesso trafelato e sudante, in abito nero e con gli occhiali sulla fronte, il servizio dei raccattapalle.
Poco numeroso, ma, in compenso, pubblico entusiasta! Se al D'Orea curvo, non bene in gambe — tiene la racchetta come un tamburello, — riesce una volta di pigliare la palla e di ribatterla facendo fallo, il barone e l'albergatore battono le mani strepitosamente.
— Evviva, onorevole!... Bravissimo!
— Benissimo, Eccellenza!
— La palla è caduta nella rete, ma non importa. È stata una disgrazia!
— Il colpo era straordinario! Fate progressi!
— La bella maestrina, — il barone, intanto, strizza l'occhio maliziosamente a Remigia, — deve essere molto fiera del suo allievo!
— Se vostra Eccellenza si ferma a Villars tutto il settembre, — esclama il signor Trüb, — vostra Eccellenza diventa un giuocatore di prima forza! Il campione della Tête-pointue!
Giacomo, ansante, stanco, asciugandosi i goccioloni dalla fronte, ha appena il fiato da poter rispondere:
— Vi ho detto cento volte, signor Trüb, di non chiamarmi eccellenza!... Non sono più eccellenza per la grazia di Dio e per volontà della Nazione!
La bella duchessina italiana è sempre una grande attrattiva; l'onorevole D'Orea è affabile, alla mano: i giovinetti e i giovinotti si fanno coraggio e di giorno in giorno il pubblico aumenta.
Sir Wood è invitato da Remigia stessa:
— Venga al tennis, domattina! Venga a vedere, la prego! Mi dirà se so insegnare secondo le precise regole! È tanto un giuocatore famoso, lei! Verrà? Sì?... Allora domattina alle nove... Si ricordi!... Se ne ricorderà?
Altro che ricordarsene! La mattina dopo, allo scoccare delle nove, l'elegante e vigoroso sir Wood, si appressa alla conquista del tennis col suo passo misurato e sicuro.
Remigia, appena lo scorge da lontano, batte i piedini e sbuffa, mormorando all'orecchio del baröne simpaticöne:
— Ah, mon Dieu! Mon Dieu!... Anche il bell'Apollo! Non si può più vivere un momento soli, in pace, nemmeno nelle ore antelucane!... È una persecuzione feröce!
Il Danova, che già aveva aggrottate le ciglia ispide e folte, si acqueta e si consola. Ma poi, la mattina dopo si torna da capo:
— Ah mon Dieu! Mon Dieu! — Ecco monsieur Malot con la scorta dei fiori alpestri, ecco Lothar Schmidt, con la raccolta delle poesie tedesche e, a mano a mano, — Ah, mon Dieu! Mon Dieu! — ecco prender posto sulle panchine verdi e affollarsi attorno alla rete del tennis tutto il rumoroso coro dei giovinetti e dei giovinotti aggraziatini e impomatati.
Remigia, al solito, per il quieto vivere comune, li prende in canzonella a uno a uno e si diverte un mondo! Con uno sguardo languidetto a sir Wood, con un furbo sorrisetto a monsieur Malot, un complimento lusinghiero a Lothar Schmidt, un'occhiataccia minacciosa a Totò e, finalmente, lasciandosi stringere quando capita e anche pizzicare da papà Faraone, riesce a tenerli fedeli, sul proprio altare, tutti in riga come moccoli e tutti accesi.
E sta sempre in guardia, preparata per qualunque evento. Un bel giorno — che è? che non è? — un principio di ammutinamento. I corteggiatori della duchessina non sono più gelosi l'uno dell'altro, ma tutti insieme sono gelosi di Sua Eccellenza.
Remigia non ride, non sospira, non si arrabbia. Cambiamento di tattica. Il suo occhio diventa serio, profondo, pieno di misteri.
— Non avete ancora capito? Non avete capito niente?... Possibile?...
Quel «peso morto» del cognato-eccellenza, le è imposto da sua sorella!
— Oh, le grandi perfezioni!... Le vittime quotidiane!... Ma basta! Cito! Cito! — Remigia alza gli occhi al cielo e chiude la bocca fresca e rosea, con la manina innocente.
Anche la madre, ogni mattina, a braccio del fratello Rosalì, fa il suo giro di ispezione attorno alla rete.
— Ti diverti, Idola?
Remigia risponde continuando a giocare:
— Tanto, tanto, mammà!
— Non prendere troppo sole, cara! Non stancarti troppo!
Lo zio Rosalì, fa eco alle ammonizioni materne:
— Ogni cosa, vuol misura!
Poi la coppia vicereale passa lentamente e se ne va fra gli ossequi e le scappellate più rispettose.
— E dunque, Rosalì?
— Si va piano, ma si va bene.
— La stagione è troppo inoltrata! la gente comincia a partire!... — La duchessa sospira. — Se dovremo partire anche noi... Uno di qua, uno di là, l'incanto è rotto!
Il principe di Sant'Enodio, continua a trovarsi bene a Villars; la cucina, oltre ad essere buona, è anche abbastanza variata. Egli non ha nessun desiderio di andarsene.
— C'è tempo!... Non siamo ancora in settembre e il signor Trüb assicura che le due settimane più deliziose di Villars sono le due prime settimane di ottobre!
— Sì, ma... e quell'altro?... Il guastamestieri? Se Luciano ritornasse improvvisamente o ci telegrafasse di scendere?
— Non telegrafa altro che al signor Zaccarella, per aver danaro. — Un risolino arguto corre fra la bella barba bianca. — Speriamo, Cristina, che a Parigi continui a trovarsi... molto bene!
Si avvicinano, sempre passo passo, all'albergo. La duchessa guarda con l'occhialino: è proprio Totò che è seduto di fuori, accanto alla porta, con in bocca la pipa spenta. Totò, da due giorni, non vuol più giocare al tennis.
Cristina stringe il braccio del fratello sotto il suo:
— Senti, Rosalì; un'idea.
— Quale?
Cristina, prima di rispondere, chiude l'occhialino e lo infila nella cintura della veste.
— Sarebbe forse prudente di allontanare Totò, per qualche giorno. Ma con che scusa?
Rosalino pensa, ci pensa molto, poi trova il pretesto:
— Mademoiselle. Dovrà accompagnare Mademoiselle da... una parente.
— Già; faremo così! — Cristina cambia subito discorso. — Al nostro Giacomo ha fatto benissimo la montagna! Diventa ogni giorno più vegeto e più giovane. A vederlo vicino alla mia Idola, una grande sproporzione non c'è!
— Non c'è. E poi, gli uomini hanno gli anni che sentono! Sono le donne che hanno quelli che dimostrano!
Giacomo, fa progressi davvero. Se non al tennis, nella salute e nella forza.
Il suo viso, non è più così smunto, sparuto, anzi, col sole, comincia un po' a rosolarsi. Dopo aver giocato non sente più dolori alle braccia, alle gambe, cammina per ore, senza stancarsi. In quanto al tennis, certo, non imparerà mai a giocare, nè ci tiene, ma non traballa più, tiene in mano la racchetta secondo le regole e qualche volta gli riesce, non solo di pigliare la palla, ma di ribattere, facendo un buon colpo.
Sì, gli fa molto bene quell'esercizio all'aria aperta e sotto il sole! È la sua salute! Soltanto, certe volte, mentre giuoca, è preso da una strana inquietudine: quando la figura bianca, alta e sottile, con il grande ombrellone rosso, gira attorno, nel giardino. Ha timore che si avvicini alla rete, per assistere alla partita. Non vuol mostrarsi a sua cognata in quel giuoco in cui si richiedono gioventù, forza, destrezza, — gioventù soprattutto, — goffo e impacciato!
Maria Grazia, sembra quasi indovinare le segrete angosce: ogni mattina, gira attorno o siede, leggendo in vista del tennis, ma alla rete non si avvicina mai.
Remigia, di tutto ciò, qualche cosa indovina, intuisce.
— Appena mia sorella spunta sull'orizzonte, non c'è verso! — fa notare a Mimì Carfo e a quel geloso di Re Faraone, — più geloso e più furbo degli altri. — Sua Eccellenza Molinella, non piglia più nemmeno le palle!
Un giorno per provare che è vero, appena vede Maria, la chiama ad alta voce:
— Maria Grazia!... Gioia! Vieni a vedere tuo cognato, che diventa famosissimo!
— No! Non seccate! — esclama Giacomo con un tono e con una violenza insolite. — Avete sempre la smania di far venir qui tutta la gente per rendermi ridicolo!
Remigia, dopo un'occhiata al Danova, gongolante persino con la pancetta, si difende e si scusa:
— Perdonate, Giacomo!... Siete ingiusto! Si tratta di mia sorella! Di vostra cognata! — Torna a chiamare, più forte: — Maria! Maria!
— No! No! C'è troppo sole! — risponde Maria allontanandosi tranquillamente.
— Addio, gioia!
— Addio, Pïccola!
Il pericolo è passato; Giacomo ritorna a giocare e a fare fallo, allegramente. Egli non sente più che il piacere, il fascino di quell'«addio Pïccola» che riempie di amore e di soavità tutto il giardino e non dubita un momento della malizia di Remigia.
V.
Una mattina, si presenta al tennis un nuovo e importante personaggio, che leva il campo a rumore. Il personaggio siede solo, imbronciato, sopra una panchina lontana dalla gente. Non guarda in faccia a nessuno; si degna, appena, di salutare Giacomo D'Orea, durante l' alt.
— Buon ciorno, onorevole!
— Buon giorno, missis Eyre!
È proprio quella strega verde, ruminante di missis Eyre!
— Continui progressi, onorevole!.. Oh, molto bene!
Giacomo fa un cenno per scusarsi un momento co' suoi competitori e corre ad ossequiare l'angolosa missis con evidente soddisfazione di lei, e con grandissimo divertimento della duchessina Remigia. Ella guarda i due sottecchi, e fa ammirare e godere la scenetta al Danova, a sir Wood e a Totò, ripetendo sottovoce:
— La colonnellessa Facanapia!... È innamoratissima di Sua Eccellenza Molinella!
Nessuno ci vuol credere! È uno scherzo! Remigia assicura, giura, con gli occhietti birichini che scintillano, gonfiando le gote per trattenere le risa:
— Sì! Sì! È proprio vero! È un pezzo che me ne sono accorta! Vi dico di sì! — Poi pesta i piedini per dar più forza all'asserzione: — Innamoratissima! Furiosa!... Ma sì!
Tutte calunnie! Missis Eyre è fedele e resterà sempre fedele anche se i venti giorni di continua distanza dal legittimo consorte, diventassero quaranta! Soltanto riconosce, per debito di pura sincerità, che di tutta quella baraonda italiana — padroni, servitori e cani, — l'unica persona di un qualche riguardo è il deputato, l'onorevole D'Orea!
Lo annunzia, un giorno, anche al signor Trüb, guardandolo dall'alto, con un tono superbo e minaccioso, dopo un paio di settimane e più dacchè non si degnava nemmeno di lasciarsi salutare da quel putrido taverniere esoso e villano:
— Sapete, signor Trüb? — Lo affronta e lo ferma sull'uscio del bureau per farsi sentire anche da quel tirapiedi del segretario... — Il vostro famoso ministro, che non è più ministro niente affatto, ma soltanto deputato, mi ha fatto chiedere l'onore di essermi presentato! Appunto!
Missis Eyre alza ancora di più la voce e il capo.
— Mi ha fatto chiedere l'onore di essermi presentato, da quel vostro barone fallito a Venezia, prima di diventare milionario al Cairo! Il vostro ministro, che non è ministro, è per altro una persona educata. Me ne intendo e posso dirlo con cognizione: di tutta la baraonda italiana, — padroni, servitori e cani,-è l'unica persona di riguardo! — Capito, caro signor Trüb?
È verissimo il fatto della presentazione; pure è stata lei stessa, missis Eyre, a muovere il primo passo, per i suoi fini particolari. Un giorno legge sul Times — proprio sul Times! — una «nota estera» assai lusinghiera per l'ex Ministro D'Orea, come finanziere e industriale, come uomo di Stato e come uomo privato. Missis Eyre può ridere, e magari anche arrabbiarsi degli elogi sperticati e venali prodigati dal signor Trüb; ma non può certo rimanere indifferente alle lodi del Times... proprio del Times!
— Ah, oh! Molini e mortadella, ma ci vuol anche talento!... «grande e probo lavoratore, spirito elevato e moderno, l'onorevole D'Orea non esitò un istante ad abbandonare il potere e a perdere il favor popolare, pur di seguire, intemerato e coerente un suo ideale di giustizia...» Ciustizia? — La vecchia, interrompe la lettura della «nota estera» e aggrotta le ciglia per meglio riflettere al proprio caso... Bisogna cercare di conoscere il deputato D'Orea. Bisogna entrare prima in buoni rapporti amichevoli e, a tempo opportuno, chiedere ciustizia contro quella ragazza pestifera, contro i suoi cani e contro la ciostra a tutte le ore! Peuh! Vergogna! In tutti gli hôtels di riguardo, proibitissimo!
Trovata la convenienza, missis Eyre trova subito anche l'espediente per entrare in relazione. Prende il Times, segna col lapis la «nota estera», e lo manda, con un suo biglietto da visita, all'onorevole D'Orea. Giacomo, trattandosi di una signora, e di una vecchia signora, si fa subito presentare per ringraziarla direttamente dell'atto gentile. Così si iniziano quei buoni rapporti di amicizia che missis Eyre tien vivi e cerca di rendere più stretti a modo suo; cioè, chiedendo ad ogni momento all'autorevole deputato italiano, informazioni e raccomandazioni e sfogandosi con lui contro il pessimo trattamento della Tête-pointue... «diventata oramai una locanda di terz'ordine, tranne nel farsi pagare!».
— Onorevole, scusate!... Una parola!
— Eccomi, missis Eyre!
— Avete sentito anche voi?
— Che cosa?
— Il pesce, stamattina, a colazione? Quelle conchiglie di trota cadaverica, alla maionese! Che puzzo! Peuh! Ci vorrebbe una legge, una commissione igienica! Dovrebbe essere proibitissimo!
Oppure:
— Datemi una precisa informazione, caro onorevole. Vi garantisco discrezione a tutta prova! Io ho conosciuto a Villa d'Este la contessa Alinelli, appunto di Bologna. È vedova, proprio davvero?...
E un altro giorno:
— Caro commendatore, io ho assoluto bisogno di una vostra raccomandazione per il capo traffico della Mediterranea. Da otto ciorni mi è stata spedita una scatola di pik-nik da San Remo e non l'ho ancora ricevuta!
Mentre parla con l'onorevole e lo tiene fermo sotto l'atrio, fra lei e il muro, missis Eyre che sente crescere da quei lunghi colloqui la propria importanza, guarda in giro, soddisfatta, gli ospiti della Tête-pointue e, insieme, lancia occhiate di sprezzo al bettoliere e a quella ragazza così pestifera con l'aria di voler ben significare all'uno e all'altra:
— Con questo signore qui, che ormai tengo in mio potere, vi farò mettere ciudizio!
Il signor Trüb, qualche inchino di più, qualche notizia meteorologica, passando via senza fermarsi, per timore di rimaner preso, e del resto se ne infischia. Remigia, prima ne ride con Mimì, con Mademoiselle, con Totò, e con tutta la sua corte, poi di colpo s'impermalisce, si arrabbia, piglia Giacomo a quattr'occhi, e si fa sentire:
— Onorevole, commendatore, eccellenza! D'ora in poi, sempre eccellenza!... O Grand'ufficiale!
— Cos'è successo di nuovo?
Giacomo capisce, ma finge di non capire.
— Perchè, tanti titoli?...
— Perchè fate il cascamorto con la Sbirlingonia!
— Cascamorto, no!... — Giacomo sorride più che per le parole, per la fiera collera che esprime il bel musetto profumato e fresco, proprio come una rosa. — Sono gentile, come devo esserlo e niente di più!
Remigia batte i piedini, furiosa:
— Di più! Di più! Assai di più!
— È una signora...
— No, invece! È una brutta donna!
— È una signora vecchia!...
— È una brutta donna, antipatica!
Negli occhietti vivi, l'ira lampeggia tra le lacrime. Giacomo, per calmarla, cerca di mettere la cosa in ischerzo:
— Piccola cattiva!... Cattivissima!
— Non vi permetto più di dirmi piccola! Mai più! Capite? — Fa una smorfia e parla nel naso, per imitare missis Eyre. — Proibitissimo! Defendu! Werboten... e Forbidded!
Giacomo vuol trattenerla, ma Remigia se ne va, voltandogli le spalle furiosamente:
— Antipaticissimo, Grand'ufficiale!
Il D'Orea continua a scherzare, a far la burletta, ma, assolutamente, non vuol cedere all'antipatia, al capriccio di Remigia. Anzi, vedendo missis Eyre fatta segno con maggiore accanimento ai dispetti e al ridicolo dalla duchessina e dai suoi amici, si sente lui in obbligo di mostrarsi, con la vecchia signora, sempre più amabile e rispettoso.
La duchessina, così viziata dalla madre e dalla sua corte, al sentirsi per la prima volta contrariata, s'impunta sul serio, e sul serio e non per ischerzo, finisce con l'odiare «la vecchia strega antipaticissima!» — tanto più, poi, che missis Eyre, a sua volta vendicativa e imprudente, abusa della vittoria con l'esagerare le arie d'importanza quando parla troppo ad alta voce col suo «caro onorevole» e le occhiate di sfida e di disprezzo.
L'Idola freme. Freme da sola e freme in mezzo a' suoi sudditi, ch'ella chiama a raccolta per sfogarsi, dicendone di cotte e di crude contro Sua Eccellenza, non più Molinella, ma peggio, Eccellenza Mortadella!
È rabbia, è dispetto, ed è, insieme, amarezza e dolore. Non è solo per missis Eyre che Remigia soffre e vorrebbe spuntarla; è per tutto il resto... assai più importante! Ella comincia a temere di aver perduto tutto con Giacomo, anche la speranza di un don Luciano secondo!
Certo! Certissimo! S'ella non riesce ad avere il D'Orea dalla sua, nemmeno di fronte a una qualunque vecchia stracciona, è chiaro che tutta la sua tattica, — e le lezioni di tennis compreso — hanno fatto fiasco!
— Mia sorella?... Che Sua Eccellenza sia innamorato, sul serio, di mia sorella?... In tal caso, addio! Abbasso Sua Eccellenza! Evviva Totò!
— Ah, mon Dieu! Mon Dieu!... Tornar da capo a girare i mari, i monti, i laghi!
E Re Faraone?...
Marco Danova si sfoga, adesso, con Mimì Carfo. — La vostra amica è cattiva, leggera, civetta... — Anche il barone la chiama civetta... proprio come il buon Totò! Ma il barone, per altro, è sempre lì, fermo: ringhia, ma aspetta. Minaccia tutte le mattine di voler partire la sera e viceversa, ma non si muove! Sir Wood se n'è già andato con le sue racchette, Lothar Schmidt col suo album, monsieur Malot col suo mazzolino di edelweiss, tutti e tre sorridendo a denti stretti e indirizzando alla duchessina «futura ministressa» congratulazioni e felicitazioni ironiche... Ma il barone non si muove. Resta a Villars bestemmiando contro i barometri falsificati quando piove, e strapazzando il signor Trüb per il freddo quando fa bel tempo!
— Se proprio proprio fosse un bel fiasco? — pensa Remigia fra sè. Ad ogni modo da cosa nasce cosa e bisogna venire ad una spiegazione con Sua Eccellenza prima che anche Re Faraone batta in ritirata!... — Con le cattive non si riesce a vincere la Sbirlingonia?... Tentiamo con le buone!
Vincere, questo è l'importante! Remigia sente che in quella piccola scaramuccia contro missis Eyre ella ha già ingaggiata anche la sua grande battaglia contro Maria.
— Contro mia sorella?... Che Sua Eccellenza sia proprio innamorato di Maria?...
Giacomo, da qualche giorno, assiste solo, con Remigia e col signor Trüb, ai pasti di Din e Don. Oltre al Bell'Apollo, a monsieur Malot e a Lothar Schmidt, molti altri giovinotti e giovinetti, hanno ormai abbandonato Villars; e i pochi rimasti, seguono l'esempio del barone Danova: per vendicarsi della duchessina italiana, che sta sempre col deputato e che non si occupa più di nessuno, altro che del deputato, fanno tutti una grande corte a Mimì Carfo... e, persino, a Mademoiselle!
Soltanto il povero Totò, diventando più pallido ogni giorno, e più stravolto, rimane fedele anche vedendosi trascurato e dubitando di essere tradito. Soffre solo e in disparte, seduto a digerir le lune, su di una panchina solitaria. Non parla, non mangia, non beve, e con la pipa, sempre stretta fra i denti, non fuma.
Mentre Din e Don slappano allegramente, il signor Trüb vanta il clima di Villars e non più il fresco delizioso, ma il tepore ricreante della miglior epoca della stagione, dal quindici di settembre al quindici di ottobre, poi, finito il pasto se ne va, e Giacomo e Remigia conducono i due cani a fare il solito giro in giardino.
Remigia è malinconica; ha l'aria mortificata. Cammina adagio, a testa bassa e sospira.
— Partiremo presto da Villars? — domanda a un tratto, con un fil di voce, senza alzare il capo.
— Non so, risponde Giacomo. Luciano non si fa vivo! Il signor Zaccarella gli ha scritto apposta per domandargli in proposito le sue istruzioni e potersi regolare. Ha risposto chiedendo ancora danaro e niente altro.
Remigia, dopo qualche passo in silenzio, fa un nuovo sospiro.
— Ormai... desidero, quasi, di partire da Villars.
— Perchè?...
— Così!... — Dà una lieve alzata di spalle e si ferma su due piedi, guardando lontano Din e Don, che si rincorrono a salti e fanno le capriole nell'erba alta e folta.
— Perchè così? — insiste Giacomo. — Che cosa volete dire?
Remigia dà un'altra alzata di spalle e aggrotta le ciglia, continuando a guardare Din e Don. Ha un'espressione tanto graziosa e birichina, quando vuol tenere il broncio!... Giacomo, la piglia lui sotto braccio:
— Si fa la pace?...
Riprendono a camminare passo passo attorno alle aiuole del giardino, lui guardandola sorridendo, lei sempre a capo chino e seguendo con gli occhi obliqui la corsa disperata di Din e Don.
— La Piccola carina, la Pïccola simpatica, è in collera con chi vorrebbe diventare il suo vice-papà?..
— Non dite che sono carina e soprattutto non dite che vi sono simpatica! Non è vero!
La voce non è irata; è tenera con un velo di lacrime... È la stessa voce di Maria!
Giacomo chiude un istante gli occhi, per illudersi e, irresistibilmente, stringe sotto il suo il braccio della fanciulla.
— ..... Si fa la pace?
Remigia volge su di lui gli occhi lucenti:
— Siete stato cattivo, cattivo! Tänto cattivo!
— E voi, forse, non siete stata altrettanto crudele, — Giacomo per burlare Remigia fa pure una lunghissima dieresi, — tanto crudële con la povera missis Eyre?
— Ma, in compenso, ha la vostra protezione! È nelle vostre buone grazie! È un onore che la rende più insolente e prepotente!
— Con missis Eyre, io non sono altro che... educato! Quando mi parla, rispondo.
— Con un'effusione! Con un'amorevolezza!...
Giacomo scoppia in una risata perchè vede che alla Piccola cominciano a spuntare le lacrime.
Remigia si ferma dinanzi a Giacomo, faccia a faccia, e afferrandogli una mano, gliela stringe supplicandolo:
— Cessate i vostri lunghi e teneri colloqui con quella bruttissima donna! Prego! Prego!... Vi prego!
— E voi, in compenso?...
— Prometto: inviolato il Times, incontrastato il possesso della sua poltrona, indisturbata la siesta e i pisoletti...
— E Din e Don?
— Più ciostra al terzo piano! Prometto e giuro!
Il D'Orea sorride mormorando:
— Piccola birichina! Idola... guastata!
Incomincia, tra il serio e il faceto, a fare la sua brava paternale, avviandosi, sempre passo passo, verso la parte più ombrosa del giardino, che si unisce al bosco e dove c'è un piccolo capanno alla rustica, nascosto fra gli abeti. Il sole che rompe la nuvolaglia spessa è scottante; l'aria pesantissima.
— Mon Dieu! Mon Dieu! Con questo caldo, sentir la predica per gli omaggi dovuti a missis Eyre! Almeno andiamo all'ombra!
— Andiamo pure all'ombra e sarà bene; ma dovete ascoltare la mia predica, ispirata da carità del prossimo. Pensate che la vostra vittima è una povera vecchia, sola, senza difesa, ridicola quanto volete...
— Antipatica! — interrompe Remigia. — Odiosissima!
— Antipatica sia pure!... Ma perchè, anche odiosissima?
— Perchè, perchè, perchè?... — Un lungo sospiro e un abbassar d'occhi peritoso. — Si può, forse, comandare ai sentimenti del proprio cuore? — La fanciulla, con una scrollata di testa che spande una ondata di profumo e dà un barbaglio di luce bionda, si fa forte e scaccia i pensieri che la turbano. — Entriamo un minuto a riposare? — Indica la capannuccia all'ombra degli abeti.
— Vuol piovere, per quanto il signor Trüb dica di no! — Giacomo segue Remigia tra gli abeti, entra nel chiosco dietro di lei e le siede accanto traendo un respiro.
— Ah! Si rivive!... Si riposa un po' anche la vista!
Din e Don arrivano di corsa, schivando appena, sfiorando, il fusto degli abeti, e si lascian cadere di peso lungo distesi dinanzi al piccolo usciolo, ansimando in fretta, con la lingua fuori, penzoloni.
— Povere bestie! — esclama il D'Orea. — Hanno fatto il chiasso come due monelli!... Non ne possono più!
Remigia non risponde. Osserva un rozzo e curioso geroglifico inciso sul troncone di cerro che sostiene, nel mezzo, il tetto della capanna: due cuori trafitti da una freccia e sotto un'iscrizione:
« C'est de Dieu qu'il sort, à lui qu'il remonte. ».
Remigia legge lo scritto, a mezza voce, poi si rivolge a Giacomo:
— Che cosa vuol dire?
L'altro osserva a sua volta l'incisione e l'epigrafe:
— Vuol dire... l'amore! È chiaro! Due cuori attraversati da una freccia! Amore! Amore! — Poi, per mitigare la vivacità delle sue parole, e in omaggio al candore della fanciulla, si crede in obbligo di soggiungere, prudentemente: — È il ricordo di una passeggiata poetica di due giovani sposi.
Remigia, rimasta pensierosa, rilegge l'iscrizione con un tono più lento e più languido.
— C'est de Dieu qu'il sort, à lui qu'il remonte. — Conclude ripetendo con un lungo sospiro e una lunga dieresi la grande parola: — Amöre!
Intanto, gli occhi e il pensiero di Giacomo, involontariamente escono dalla capanna e cercano fra i tronchi e i rami la bella figura bianca, alta e gentile...
— Ah mon Dieu! — esclama Remigia a un tratto spaventata, correndo a nascondersi, a rannicchiarsi nell'angolo più buio della capanna: — Re Faraone!
— Perchè vi spaventate e perchè vi nascondete? — osserva il D'Orea, pur chinandosi a sua volta, con un moto istintivo.
— Se ci vede?... Se ci vede nella capanna?... Noi due insieme?... Soli?...
— Anche se ci vede, che importa? — ribatte Giacomo vivamente.
Ma Remigia, invece di calmarsi, è sempre più spaventata:
— Ci ha visti! Ci ha visti! Sono sicura! — Si tiene giù, acquattata, per terra.
L'altro comincia a seccarsi di tutta quella paura sciocca.
— Che importa, ripeto, anche se ci vede?... Che male c'è?
Marco Danova, scorta la Remigia in fondo al piccolo sentiero che attraversa il bosco, si avvicina alla capanna, diritto e duro.
In quel punto non c'è altra strada, per tornare alla Tête-pointue! E anche Din e Don, sempre festevoli e mansueti, si mettono, proprio quel giorno, a fare il cane da guardia! Mentre il Danova passa dinanzi all'uscio, guardando con evidente sforzo da un'altra parte, si rizzano ringhiando: quando è passato, gli corrono dietro alle calcagno, abbaiando. Ma il Danova continua a camminare diritto, duro, senza voltarsi. Il suo collo sembra diventato di legno.
— Che balordo! — borbotta Giacomo furioso, mentre Remigia ripete costernata: — Ci ha visti! Ci ha visti!.
— Che importa?... Avete fatto malissimo a nascondervi! Ecco tutto!
Giacomo è rimasto irritatissimo dal contegno del Danova, dallo spavento di Remigia, da tutta quella scena. Esce dalla capanna, chiama Din e Don con quanto fiato ha in corpo: Din e Don ritornano, frullando il codino monco, ma il Danova, sparisce, sempre senza voltarsi.
— Che balordo!... E che villano!
Perchè quell'affettazione di non voler salutare, di non voltarsi, di non voler vedere?... Non voler vedere che cosa?... E che cosa possono mai supporre... di male, fra lui e la sorella di sua cognata?... Fra lui, uomo serio, uomo vecchio e quella... bimba, che può essere sua figlia? Che considera come sua figlia?...
— Ah mon Dieu! Mon Dieu!
— Finitela! — Giacomo, non potendo sfogarsi anche contro il Danova, si sfoga con Remigia sola, per tutti e due. — Finitela di fingere spaventi ridicoli, che non hanno senso!... Sempre giuocare! Sempre fare il chiasso, senza pensare che le... sciocchezze possono servire di pretesto... alla cattiveria! Su, alzatevi! Venite fuori; legate i vostri cani e torniamo subito all'albergo! Facciamo presto!
Remigia obbedisce senza più fiatare. Scioglie il guinzaglio che s'era avvolto attorno alla vita e lega Din e Don che fiutano la burrasca e interrogano la padroncina con gli occhi inquieti.
— Andiamo, gioia!... Andiamo, tesöro!...
Remigia cammina innanzi per il piccolo sentiero tra gli alberi folti, tenendo al guinzaglio Din e Don. Giacomo la segue, sempre brontolando, e pensando all'impressione che avrebbe potuto ricevere Maria vedendo il Danova, — che balordo maleducato! — a passare in quel modo!
Ritorna a sfogarsi contro Remigia:
— Fanciullaggini! Sempre fanciullaggini! Invece di tanto spavento, bisognava chiamare il Danova, costringerlo a voltarsi e farlo entrare!
Remigia si ferma su due piedi e si volta: prende il guinzaglio con le due mani, tanto Din e Don tirano forte per trascinarla verso l'albergo.
— E voi, allora?... Perchè vi siete nascosto anche voi? Perchè non siete uscito voi, a chiamarlo e a salutarlo?...
Giacomo rimane colpito dal tono risoluto e dalla giustezza dell'osservazione; ma appunto, perchè non sa che cosa rispondere e perchè sente d'aver torto, s'irrita ancor di più, internamente, e si mostra ancor più nervoso.
— Il Danova è un balordo; questo è positivo! Un gran balordo e un grande villano!
Din e Don danno una forte strappata al guinzaglio facendo voltare Remigia: ella passo passo, si lascia trascinare dai due cani, allungando, stirando le braccia.
— Oh, povero re Faraöne! — mormora con un sorrisetto compassionevole.
Giacomo le tien dietro, imbronciato, per lo stretto sentieruolo.
A un tratto, quando gli alberi diradano e Remigia, uscendo dal bosco, entra nel giardino dell'albergo, si ode la voce della duchessa Cristina, che, scorta la figliuola da lontano, le muove incontro, chiamandola:
— Idola!... Idola cara!
— Addio, mammà!
— Finalmente!... Mademoiselle, lo zio Rosalì, ti cercano!... Dove sei stata tutto questo tempo?... Ero inquietissima!
— Sono stata nel bosco, mammà, con Din e Don a cercare i fiori di genziana! Non ne ho trovato nemmeno uno!
— È un'imprudenza, cara!... — La duchessa, raggiunta l'Idola, l'abbraccia con trasporto, come se ritornasse da un viaggio o dall'aver corso un grande pericolo. — È tutta mattina che ti cerco, gioia! Perchè sei andata così lontano?... Sola soletta?...
La parola le si ferma in gola. Giacomo, in quel punto, esce dal bosco e si avvicina lentamente, tenendo nelle mani l'ombrellino e il ventaglio che Remigia aveva dimenticato nella capanna.
La duchessa, alla vista del D'Orea, non dice una parola, non lo saluta nemmeno: rimane interdetta, esterrefatta... Lo guarda, lo fissa pallida, muta, imponente: ma i suoi occhi, la sua faccia, esprimono insieme alla maraviglia, allo stupore e alla collera, il dolore, il rimprovero di una madre... e di una tal madre!
Gli occhi dell'Idola si riempiono di lacrime. Ella si lascia sfuggire Din e Don che prendono di nuovo la corsa, legati insieme, e girano, continuano a girare vorticosamente, in mezzo al prato.
— Mammà?... Sei in collera?... Oh, mammà!...
La duchessa accoglie la figliuola fra le sue braccia, ma non risponde a quel grido disperato. Le dice soltanto con severa maestà, lanciando al D'Orea un ultimo, terribile sguardo:
— Ritorniamo all'albergo. Ne parleremo poi. Ora è troppo tardi. Bisogna che tutta la gente dell' hôtel ci vedano insieme a colazione. Andiamo.
Madre e figlia si avviano verso la Tête-pointue.
— Ma... — Giacomo vorrebbe fermarle, spiegarsi, giustificarsi. — Ma... Spiegare che cosa? Giustificarmi di che cosa? — Resta lì, su due piedi, impacciato e seccato — assai seccato — a pensare, a riflettere. — Niente... di niente. Non ho niente da spiegare, non ho niente da giustificare!... Sono andato a spasso come tutte le altre mattine con la Piccola e con i cani. Che cosa c'è?... Che male c'è? Perchè la vecchia ha fatto quella faccia? Perchè mi ha fissato con quegli occhi?... E il Danova? Perchè quel balordo del Danova ha finto di non vederci?...
VI.
L'ora della colazione, passa tutt'altro che rapida e lieta. L'Idola è afflitta e mortificata: occhi bassi e sospironi. Ha perduto, improvvisamente, la vivacità e l'appetito. La duchessa madre è addolorata e offesa: occhi fieri e continue frecciate. Barbabianca, grande sussiego e severi responsi, mentre Mimì Carfo, per amore di Remigia, ingoia più lacrime che bocconi.
Giacomo comincia a diventare nervoso, pesta i piedi sotto la tavola e si frena soltanto per Maria... Ma anche Maria, quella mattina, sebbene sempre silenziosa, sempre pacata e composta, tradisce, sogguardando il cognato alla sfuggita, l'ansia di sapere e l'inquietudine.
Giacomo, per mostrarsi indifferente e tranquillo, si sforza e mangia e parla più del solito. Ha già cercato vari argomenti di alpinismo e di meteorologia, ma non gli è riuscito di attaccar discorso. Ha tentato con Mimì Carfo il tema preferito della pittura e del paesaggio... Ha lodato gli acquarelli dell'Idola... Niente! Anzi, a questi elogi, i musi sembrano allungarsi e anche la Mimì non risponde altro che: — Onorevole, sì: Onorevole, no.
Giacomo, esasperato, dondola sulla sedia, sbuffa dal caldo e si fa vento guardandosi attorno nella sala. Si mette a discorrere con monsieur Célestin, il capo cameriere, di vini e di sigari d'Avana. Si calma di nuovo, e di nuovo si rivolge alla duchessa Cristina, facendole una domanda, ch'egli ritiene la più semplice del mondo:
— E Totò? Il nostro Totò?... Come mai oggi, a colazione, non si vede il nostro buon Totò?...
— Totò?... — La madre, batte le palpebre e sgrana gli occhi.
— Totò? — ripetè il principe Rosalino con la voce che sembra uscire da uno speco.
— Soltanto adesso, caro Giacomo, — prosegue la madre, passando dall'ira all'ironia, — vi accorgete che... Totò non c'è?
— Sì, soltanto adesso! — Il D'Orea perde la pazienza. — Oh, in fine!... Importa tanto, a lui, di Totò e di tutte quelle facce enigmatiche!
Ma Remigia diventa ancora più rossa, le labbra della madre più pallide e stirate, Mimì più inquieta.
— Che cosa vuol dire?... Che cosa c'è sotto? — Giacomo interroga Maria con gli occhi, ma ella appare intimidita, confusa, abbassa il capo... — Che cosa vuol dire?... Che cosa c'è sotto?...
Un grande sospirone della madre:
— Mah!... Così è! Abbiamo presa la scusa di Mademoiselle per allontanare Totò. Voi... non vi siete accorto nemmeno che anche Mademoiselle non c'è a colazione?
Giacomo guarda in giro:
— Sicuro... Non c'è nemmeno Mademoiselle!
— Abbiamo preso la scusa della signorina Jenny. Ella ha espresso il desiderio di vedere sua madre, ammalata, a Firenze, e noi abbiamo imposto a Totò di ritornare in Italia, per accompagnarla.
Sempre con aria grave e solenne, la duchessa tace, fissando Giacomo.
Ella aspetta una domanda, un'esclamazione di maraviglia: niente!
Giacomo, prudentissimo, sta muto come un pesce.
— Precisamente! — prosegue la duchessa, ergendosi con più fiero cipiglio. — Questa misura era più che mai necessaria. Non è vero, Rosalì?
Rosalì gira il capo e gli occhi in cerca del piatto dolce:
— Verissimo!
— Totò cominciava a perdere la testa!... E quando c'è di mezzo una ragazza, guai! Con la riputazione di una ragazza, non si scherza!
— Hai agito prudentissimamente! Brava Cristina! Caso previsto, mezzo provvisto! Il viso del Sant'Enodio si rischiara: egli vede avvicinarsi un magnifico pezzo gelato tricolore. — Caso previsto, mezzo provvisto!... Questo parfait à l'ananas dev'essere proprio... perfetto! Facciamo un evviva al signor Trüb e concludiamo: a Villars, all'ora del pranzo, fa bon tempo... anche quando piove! Non è vero, signor Zaccarella?
Ma il signor Zaccarella, invitato a ridere, non ride. Sta attento soltanto a Sua Eccellenza, pronto con la senape o con la Worcestérs sauce, con la bottiglia d'Yvorne o con l'acqua di Montreux.
Mimì Carfo, mentre la duchessa si serve del pezzo gelato, si china all'orecchio del D'Orea, mormorando:
— Povera Remigia! Ha pianto tanto!... Com'è pallida! Com'è bella! È ancora più bella! — Non può resistere, le manda un bacio e s'indispettisce contro la freddezza di Giacomo: — È un uomo... senza entusiasmo!
La povera Mimì, tra Sua Eccellenza Molinella che manca di calore, e il Re Faraone che dal suo tavolino in faccia, di tutto il pranzo, ciò che mangia di più è Remigia con gli occhi, trema per la sorte della sua amica:
— Dovesse proprio finire in quelle brutte mani!
Cerca, tuttavia, di attizzare il fuoco e soffia, soffia per farlo ardere:
— Povero Totò! — esclama con uno schianto sentimentale. — Villars gli è proprio stato funesto!... Oh, come aveva ragione di temere il numero tredici, e Marco Danova! Altro che jettatura, povero Totò!
— Jettatura arriva ove disgrazia corre!
Dopo questa grave sentenza dello zio Rosalì, il pranzo finisce in silenzio. Preso il pezzo gelato, tutti si alzano senza aspettare le frutta. Mimì corre a dare un bacio a Remigia e le due ragazze escono insieme dalla sala da pranzo. Quel giorno non si va sul terrazzo. Per ordine preciso della madre, il pasto di Din e Don ha luogo negli appartamenti superiori.
Giacomo non si ferma sotto l'atrio a prendere il caffè, già ordinato dal signor Zaccarella. È stufo di tutta quella gente! Scambia qualche parola con missis Eyre, guarda il barometro, poi, passo passo, raggiunge Maria in giardino. Ella è sola, con un libro, seduta al solito posto.
Per una volta, se Dio vuole, potrà fermarsi con sua cognata, senza destar sospetti:
— Sai, Maria, che... io non capisco tua madre!
Maria alza gli occhi dal libro e lo guarda a lungo: Giacomo si sente avvolgere da un'onda affettuosa, amorosa. Sorride, si calma, torna in pace con tutti.
— Chi sa, quella nostra buona duchessa Cristina che cosa mai s'è messa in testa!
Sorride anche Maria, ma con tristezza.
— Tu non capisci la mamma?... Ed io, scusa, non capisco te!
— Come?... Vuoi dire?...
— Ma sì!... Stai sempre con Remigia; non parli altro che con Remigia; scherzi tutto il giorno e tutta sera con Remigia... Se hai fatto nascere speranze, c'è di che!
— Speranze?... Che speranze?
Maria risponde con vivacità, arrossendo un poco, e riscaldandosi:
— Le più legittime e le più naturali, in una madre che non pensa ad altro, e giustamente, che a maritare la propria figliuola. Le più legittime e le più naturali in una figliuola che ha passato i vent'anni, e che non pensa ad altro, e giustamente, che a trovarsi un marito!
— La Piccola? — Il D'Orea si mette a ridere.
— Sì, Remigia!
— Io?... Marito?... Della Piccola?
— Di mia sorella!
Maria non scherza. Anche Giacomo diventa un momento serio, poi scoppia a ridere di nuovo, con un'alzata di spalle:
— Ma che!...
— Saresti troppo... innocente, scusa, se non ti fossi accorto di nulla!
— Mi sono sempre accorto intanto e so... che potrei essere suo padre!
— Questo è un modo di dire!... È una frase banale! Potresti esserlo, ma non lo sei e non puoi diventarlo, mentre, invece, puoi diventare suo marito! Tanto è vero che a Villars tutti lo credono, e che in casa mia tutti lo sperano!
— Proprio così?
— Proprio così!
Nel «proprio così» di Giacomo non c'è che maraviglia, una viva e grande maraviglia. Nel «proprio così!» di Maria Grazia, c'è un'espressione insolita di energia e di fermezza.
Giacomo, fa un atto di stizza, di collera.
— Non avrei mai sospettato, nemmeno lontanamente, che si potesse concepire una simile... enormità!
Maria alza ancora gli occhi dal libro che tiene aperto sulle ginocchia e di cui sta tagliando le ultime pagine.
Ella accenna col capo lentamente:
— E Totò?...
— Appunto! Perchè lo hanno imballato e rimandato in Italia?
— È innamoratissimo di Remigia! Per evitare scene, disperazioni, all'annunzio del fidanzamento di Remigia... con te!
— Non ci sarà questo pericolo! Ho sempre pensato al modo di poter combinare, invece, il matrimonio di Totò con Remigia, e ci penso ancora! Anzi... oggi più di ieri!
— E Remigia?... Non ha mai voluto dire di sì a suo cugino: oggi, sono certissima, direbbe di no!
— Ed io sono certissimo che dirà di sì... quando saprà che tutti e due potranno vivere bene, signorilmente, senza pensieri! Il primo amore non muore mai e fa presto a risorgere!
Maria torna a chinare il capo sul libro e finisce di tagliare le pagine.
Giacomo è seduto lui pure sulla panchina, accanto alla poltrona di Maria: si curva, strappa un rametto di mortella e lo sfoglia nervosamente:
— Anche tu sei contro di me?
— Io ti dico questo soltanto, per la verità: se non avevi nessuna intenzione hai agito un po' troppo... leggermente con Remigia!
Giacomo balza in piedi, poi torna a frenarsi e a sedersi.
— Non inquietarti! — ripiglia Maria con la consueta dolcezza e rimettendo a posto tutte le dieresi. — È proprio così! Le lezioni di tennis, le passeggiate romantiche, e in ultimo persino... le lezioni di ballo!
— Quando mancava il numero per i lanciers!
— Ma tu stesso hai dichiarato di non aver mai ballato in vita tua!... È vero sì o no?... Capirai, tutto ciò, e appunto perchè si tratta di un uomo — e di un uomo della tua intelligenza, del tuo valore, di un uomo importante e celebre — fa impressione e lusinga assai una ragazza!... Io stessa, te lo confesso...
— Tu... Che cosa hai creduto? — Giacomo si volta e fissa Maria attentamente.
I begli occhi neri e profondi lo guardano con indulgenza, ma con tanta malinconia.
— Io non ho creduto nulla! Soltanto... non ti capivo più!
Giacomo avrebbe potuto rispondere: — eppure io non ho mai pensato che a te e alla tua pace. Remigia non era che il ripiego per Luciano, il mio stratagemma per salvare le apparenze. — Ma questa, che è pure la verità vera e che lo giustificherebbe agli occhi di Maria, egli non la dice e non osa dirla. Risponde, invece, alzandosi di nuovo e strappando un altro ramo di mortella:
— Bene, bene! Le speranze nutrite a ragione o a torto, concepite più o meno spontaneamente, le farò svanire subito, sul momento, e del tutto. Tua sorella, io non l'ho mai considerata altro che come «la Piccola!» Un divertimento! Un giocattolo, nè più nè meno, con tutte le sue monellerie e i suoi capricci! Ho avuto torto, sì, ne convengo; ma questo è stato il solo mio torto! Mi pareva, appunto per la mia vita, per la mia condizione, per la mia età e per la mia serietà, di poter parlare, ridere e scherzare con la piccola sorella di mia cognata, come con una figliuola, come... con Din e Don! Precisamente! Senza destare sospetti e senza creare illusioni. Ho sbagliato, ma riparerò all'errore commesso. Parlerò chiaro; meglio ancora, difenderò la causa e i diritti del povero Totò e farò di tutto perchè possa raggiungere la sua felicità. E se per Totò ci son troppi ostacoli, Marco Danova.
— No, Giacomo! Quell'uomo, quel vecchio, disonesto e ributtante!... — Maria diventa rossa per sua sorella. — No, no! È indegno di te, questo che dici!
— Ebbene il cuginetto! Sia dunque il cuginetto! Faremo, ad ogni costo, la felicità del buon Totò!
— E la felicità di Remigia?... Se Remigia, davvero, e per colpa un po' tua, si fosse proprio innamorata di te?
Gli occhi di Giacomo e di Maria s'incontrano: in quelli di Maria passa improvviso un luccichio di lacrime.
Giacomo abbassa il capo. Il suo cuore non ha mai battuto con tanta violenza!
In quel punto, la duchessa esce dall'albergo seguita dal Sant'Enodio che le porta, sempre con dignitoso e nobile sussiego, lo sgabellino di vimini per i piedi.
Maria si rimette a leggere, mormorando sottovoce, con gli occhi sul libro:
— Viene la mamma! Va via! È meglio che non ti veda così... con la faccia in collera! Se vorrà sapere di che cosa si parlava... per questa volta dirò una bugia!
Giacomo si allontana fingendo di guardare i fiori del prato, di ammirare le montagne e facendo un lungo giro per non incontrare la duchessa, entra nell'albergo dalla parte del terrazzo.
Quando è nel suo piccolo salotto, continua a passeggiare su e giù, borbottando:
— Parlerò chiaro, chiarissimo e subito!... Se intanto mandassi a chiamare e mostrassi un po' i denti a quel burattino da corona del principe fratello? Che razza di gente! È un'altra razza dalla nostra! Riunisce tutte le superbie a tutte le umiliazioni! Anche quella Mimì Carfo! Romantica, sentimentale, bigotta e pudibonda come la luna! Anche lei tutti i quarti e non un soldo, e anche lei, capisco adesso, perchè mi fa ammirare la sua amica, pezzo per pezzo, e perchè viene a baciucchiarmela sotto il naso! Per spacciare l'articolo! Che gente! Che razza!... Proprio la razza... decaduta!
Ma più che tutto egli l'ha contro Remigia. Veramente, Remigia, non ha mai fatto altro che parlare, scherzare e ridere, quando lui aveva voglia di parlare, di scherzare e di ridere... Veramente, non è stata lei a cercar lui, ma è stato lui a cercar lei, per salvare le apparenze, per mettere al riparo Maria da ogni possibile cattiveria di Luciano. Ma ciò, che importa?... Più che contro gli altri, Giacomo è irritatissimo contro Remigia... Perchè... Ancora egli non sa, non vuol rendersene conto, ma sono proprio quegli occhi neri e cari ch'egli ha fissi in mente e in cuore, sono quegli occhi adorati in cui ha appena intravisto un lampo di gelosia fra un tremolio di lacrime che eccita la sua avversione, la sua collera, contro quella piccola monella che ride sempre, contro quella piccola... così piccola e bionda!
D'improvviso sente bussare all'uscio: toc-toc!...
— È lei! Remigia!... — borbotta Giacomo stizzito. Intanto le darò la prima lezione: le farò capire che non è affatto conveniente che una giovinetta, una ragazza, venga così sola a cercarmi nel mio studio...
— Toc-toc!...
— Avanti!
Si apre l'uscio; ma non è Remigia: è un cameriere del primo piano.
— Scusi, eccellenza: Missis Eyre domanda di poterle parlare un momento.
— Dov'è?
— Qui. Aspetta nel corridoio.
— Ditele di venire.
Il D'Orea avrebbe fatto a meno tanto volentieri di quella visita, tuttavia corre fin sull'uscio tenendolo aperto con la mano:
— Venga! Venga! Missis Eyre!
Si sente il passo pesante e marziale, poi la colonnellessa si presenta sulla soglia, corrusche le pupille, guerresco l'atteggiamento.
— Perdonate, onorevole, ma ogni pacienza ha un limite!
— Entrate, missis. Accomodatevi!...
Giacomo chiude l'uscio e spinge una poltroncina dinanzi alla vecchia signora.
— Grazie! — Missis Eyre resta in piedi.
Giacomo la guarda: è più verde del solito; è fremente.
— A che devo l'onore, signora, di una vostra visita?
Missis Eyre non può parlare. Le sue labbra hanno un tremito... le tremano gli zigomi sporgenti e le rughe lunghe e fonde delle guance, le tremano la punta del naso e la bazza: è il pianto che non riesce del tutto a soffocare.
— Signora!... Ma signora!... Che cosa mai le è accaduto?...
Giacomo, ad onta de' suoi nervi e delle sue collere, ha soltanto paura che gli scappi da ridere. — Si calmi; s'accomodi! — L'obbliga a sedere. — Mi dica che cosa è successo. Qualche brutta notizia?
— Brutta... azione! — risponde la missis, appena può parlare. — Non brutte notizie, grazie a Dio!... Non si può più vivere! Non si può più reggere!... Credete, onorevole, anche a volere, non si può più aver la forza di star cito!
— Dunque parli, dica!...
— Ogni ciorno una nuova invenzione. Ogni ciorno si prepara un nuovo cabalo contro...
— .... Cabala?...
— Un nuovo cabala contro di me! È una persecuzione e un' inciustizia. Voi, onorevole, siete ciusto. Oh, sì! Anche in Inghilterra si scrive questo! Parlate voi, oppure devo finire oggi stesso la mia stacione di Villars, e sarebbe terribile! Mi hanno risposto da Villa d'Este, che Cernobbio tutti arrosto; caldissimo! I pesci cocono in lago!
Giacomo non ha più paura che gli scappi da ridere; ha paura, invece, che gli cominci a scappare la pazienza.
— Spiegatevi, dunque, cara signora. Che devo fare? A chi devo parlare?
— Sapete che cosa, di nuovo, ha escogitato quella vostra giovane cognata, o giovine parente che mi ha ciurato la morte?
— Chi?... la duchessina Remigia? — domanda Giacomo, vivamente.
— Sì, la duchessina Moncavallo, che ha preso a perseguitarmi fino dall'anno passato!
— La Piccola? Oh! Oh! — Giacomo fa un risolino più meditato che spontaneo. — Se la Piccola ha commesso mancanze, la metteremo in castigo!
— Ha inventato, adesso, per farmi diventar matta, i bubbolini, e i bubboloni!.. Ha fatto venire espressamente da Aigle per i suoi cani due sonagliere, una acuta, squillante, l'altra bassa e fessa: din-din-din: don-don-don! Io non ho più quiete, non ho più riposo! Sono ammalata di emicrania e di nevrastenia! Il mio corridoio, non è più un corridoio, è la strada pubblica di Cernobbio, di Carate! Tutto il ciorno, tutta sera: din-din-din: don-don-don! Un continuo corso di carrozze!
Giacomo, contentissimo di cogliere quest'occasione per poter mostrare a tutti com'egli consideri Remigia ancora una bambina, più che una ragazza, e come la tratti ancora da vera monelluccia stordita e cattivella, esclama allegramente, stringendo la mano a missis Eyre per calmarla e per rassicurarla:
— Subito, ve lo prometto; i cani non avranno più bubbolini, nè bubboloni!
— Dite voi, che questo è proibitissimo in un hôtel! Voi siete un vero gentiluomo, perfetto e ciusto! Invece il signor Trüb è un esoso ingordo di tedesco villano, che pensa soltanto a far pagare!
Il D'Orea continua a ridere.
— La duchessina Remigia, io non la chiamo mai altro che la Piccola, perchè ha sempre dieci anni! Non è cattiva, ma è un demonietto viziato dalla mamma! Oh le idole, sempre così... Ma non dubitate, il troppo è troppo e voi avete ragione: basta din-din, basta don-don. Questa volta la faremo stare a dovere!
La colonnellessa è gongolante; la sua faccia cambia di colore: diventa quasi rosea.
— Oh, il Times ha detto bene! Siete un ideale di ciustizia! Grazie anche a nome di Mister Eyre!
Giacomo suona: si presenta il solito cameriere.
— Chiamate uno dei servitori, o meglio la cameriera della duchessina, o il maggiordomo! Insomma, qualcheduno di sopra! Subito!
Il cameriere è appena uscito, quando si presenta un nuovo personaggio:
È il capitano Zaccarella in persona. Ma dinanzi a Sua Eccellenza — e specialmente in quei giorni per la prolungata assenza del padrone e il relativo vuoto di cassa — egli non è più l'uomo del comando e del meneimpipo; diventa anche il capitano, come un altro qualunque signor Trüb, l'uomo delle riverenze. Ossequi al signor commendatore, ossequi a missis Eyre, poi, sempre ossequiosissimo, spiega la sua venuta:
— Il maggiordomo è andato a Bex con la Carolì; al momento, non c'è nessuno di sopra. Vengo io a vedere, se mai posso servire in qualche cosa il signor commendatore...
— Bravo! Lei! Proprio lei! — Giacomo non ha mai avuto in grande simpatia il signor Zaccarella, ma non lo può addirittura soffrire quando diventa umile e strisciante. — Proprio lei! Mi faccia il favore di eseguire questo mio ordine preciso: faccia levare, subito, il collare con la sonagliera ai due cani della duchessina; e se mai la duchessina si opponesse, per chiasso o per davvero, le dica che io, proprio io, desidero così, perchè l'undecimo comandamento dice: non seccare il prossimo, cioè la gente che vive nella tua stessa locanda.
— Non dubiti Eccel... — il capitano si corregge a tempo. — Non dubiti signor commendatore.
— Le idole sono la gioia, ma anche il tormento delle famiglie! — ripete Giacomo in tono di scherzo, per mitigare l'asprezza delle sue parole.
Ma nessuno più l'ascolta. Il signor Zaccarella è già sparito: quando c'è un ordine di Sua Eccellenza, egli vola come il vento; in questo caso poi è stato anche più veloce, perchè gli preme di riferire a Remigia quanto è successo. Dacchè ha potuto subodorare in lei una possibile futura ministressa, il capitano, soffocata l'antipatia e dimenticati gli affronti, si è subito schierato fra i servitori più devoti e più zelanti della piccola padroncina! E missis Eyre... Missis Eyre pure è uscita in fretta, è corsa sui passi del signor Zaccarella, dimenticando persino di rinnovare i ringraziamenti all'uomo ciusto.
Ella vuol divertirsi, vuol godersi la scena. Vuol assistere, tenendosi nascosta dietro l'uscio della sua camera, al dispetto e alla rabbia della sua nemica.
— Ah! Ah! Vien per ciascuno il suo ciorno! È venuto, finalmente, anche per quella peste, per quella diavolo!
VII.
Giacomo, rimasto solo, torna serio e triste. Si preme forte con le due mani alle tempie; inghiotte un bicchier d'acqua nel quale ha sciolto due cucchiaini colmi di bicarbonato.
— Appena un'inezia mi agita, m'inquieta, subito la testa e lo stomaco si fanno sentire!... Maledetti crampi!
Si guarda attorno nel salotto, sospirando con un senso di rimpianto:
— Stavo così bene! Non mi sono mai sentito tanto bene come in questi giorni!
Si avvicina lentamente alla scrivania: quanta roba vi si è ammucchiata!... E quanto tempo che non lavora più! Che non fa più niente!
Egli guarda quasi con ispavento tra quel monte di libri, di fascicoli, di lettere...
— Quante lettere! Mi ci vorrà una settimana soltanto per rispondere a tutte queste lettere!
Non ha più lavorato, non ha più fatto niente!... Altro che il tennis, le passeggiate, giocare, scherzare come un ragazzo!... Anche la relazione da presentare alla Camera dorme da un pezzo!
— Vivaddio! Bisogna ricominciare a far qualche cosa e bisogna ritornare un uomo serio! Ha ragione Maria! Io non ho fatto altro che perdere il mio tempo, e arrischiare magari di perdere anche un po' la mia riputazione... di uomo di Stato, facendo lo stordito con la... Piccola!
Pronunzia «la Pïccola» non pensando più a Remigia, pensando, invece, a Maria: vedendo Maria, gli occhi e il viso di Maria quando parla e quando sorride... Quando sorride con le due piccole fossettine agli angoli della bocca...
— Lavoriamo! Lavoriamo! Bisogna rimettersi a lavorare!
Siede alla scrivania, prende una lettera, la prima che gli capita sotto mano, comincia a leggerla, poi, quando sta per voltare il foglio, si ferma:
— Chi sa Remigia come risponderà alla grave ingiunzione del signor Zaccarella... Forse sono stato un po' troppo deciso... Mi sono lasciato trasportare dalla collera... Sia pure! Tanto meglio! Così avrò messo più chiaramente le cose a posto e ciò servirà di lezione per la figlia e per la madre!... Tutto questo dev'essere un giuoco della madre!... Remigia, penserà forse anche a me, come penserà forse a Totò, al bell'Apollo, a Marco Danova, come ad un marito qualunque! Remigia non pensa che a maritarsi e ha ragione! Per quanto non lo si direbbe a vederla, ha già passato i vent'anni e se ha fretta, lei, come lei, non ha torto! Ma io, come io, per altro, sono stato tirato in ballo, proprio fuori di proposito! Il cuginetto! Il cuginetto! Faremo ritornar subito a Villars, il buon Totò!
Finisce di leggere la lettera, sta per aprirne un'altra... ma si ferma guardando verso l'uscio; sente avvicinarsi il tic-tac di passettini leggeri...
La Piccola che viene infuriata a protestare?
No. Il leggero tic-tac si allontana e si perde nel corridoio.
— Forse col mio ordine perentorio al signor Zaccarella, sono stato troppo energico! Avrei forse dovuto parlar io, direttamente, pregare Remigia con le buone. Se ho sbagliato, poco male; farò le mie scuse. Per una volta tanto dev'essere perdonato a tutti un atto anche un po' impetuoso! Chi è che non perde mai la pazienza a questo mondo?... Lavorare! Lavorare! Cerchiamo di lavorare senza più pensare ad altro!
Ma lavorare... non può. I crampi si fanno sempre più forti! S'allunga sulla poltrona e intanto pensa fra sè:
— Anche la duchessa madre, con la sua grande idolatria, che madre balorda! Purchè ci siano quattrini, aguzza ansiosamente i suoi occhi di suocera, tanto su Marco Danova, emerito imbroglione, quanto su di me, un uomo quasi vecchio e malandato in salute. — E Remigia? Anch'ella, forse, o l'uno o l'altro, indifferentemente, purchè uno ci sia! Ma Remigia, chi sa? Non ha ancora un'idea netta, precisa del matrimonio. Intelligente e assai vivace, ma in certe cose io la credo ancora... pochissimo edotta! Se così non fosse, sarebbe più cauta, più guardinga e non giuocherebbe al matrimonio a occhi chiusi!
Alza il capo, passa la mano sulla fronte: è un po' inquieto.
— Chi sa che cosa avrà risposto al signor Zaccarella?.. Io l'ho proprio mandato al fuoco, il capitano!... È vero che ambasciator non porta pena! L'ira della figlia e quella della madre, specialmente, si scateneranno sopra di me! La madre, stasera: quella non si scomoda mai, nemmeno per montare in furia, e aspetterà l'ora del pranzo per assalirmi!... Ma la Piccola?... Certo! Piomberà qui come una saetta!
Giacomo continua a stare attento e a tener fissi gli occhi sull'uscio, come se dovesse spalancarsi da un momento all'altro! Invece, niente. Passa più di un'ora... niente. Nessun rumore di voci o di passi nel corridoio.
Giacomo suona, e fa venire il signor Zaccarella.
— Così?...
— Eseguito l'ordine appuntino, onorevole signor commendatore!
— Mi dica soltanto signor D'Orea! Si guadagna tempo tutti e due! La duchessina Remigia è andata in collera?
— Oh! Tutt'altro! Appena ho espresso il desiderio di vostra... signoria... Ubbidientissima, docilissima, ha levato ella stessa le sonagliere a Din e a Don. Soltanto devo aggiungere, per la verità, che missis Eyre ha voluto abusare della vittoria e ha avuto torto.
— In che modo?
— Ha detto forte dall'uscio della sua stanza ad una delle cameriere dell'albergo, e in modo di essere udita anche dalla signora duchessina: — ho parlato io con il padrone della carovana e d'ora in poi, cani e gente, cuccia lì, e tutti cito!
Giacomo s'alza di scatto:
— Vecchia stupida, villana! E la duchessina Remigia?
— Niente! Non ha risposto niente! È diventata pallidissima, è corsa subito in camera sua, senza pronunziare nemmeno una sillaba! Ma poi, dopo...
— S'è sfogata con sua madre?
— S'è messa a piangere. Ho visto adesso la contessina Carfo: — Remigia, — m'ha detto, — continua a piangere!
— Farò io le scuse alla duchessina Remigia, anche per quella vecchia insopportabile!
Giacomo, più ancora che addolorato è mortificato; sente il bisogno di giustificarsi persino col signor Zaccarella. — Ha visto anche lei! L'avevo qui da mezz'ora a farmi la testa come un cestone di ciarle, di lamentele! Io ho perso la pazienza e capisco di aver oltrepassata la misura! Ho dato... ordini, che non avevo alcun diritto di dare! — Stende la mano al signor Zaccarella. — Anche lei, scusi la mia... troppo imperiosa vivacità.
Il signor Zaccarella non osa stringere quella mano che tiene in pugno tanti milioni: la tocca, appena con due dita, religiosamente. Poi guarda Sua Eccellenza con la coda dell'occhio, riflettendo, esitando... È forse giunto il momento opportuno di dirgli ciò che gli sta in cuore da un pezzo?... Fino da... Da quando, insomma, ha visto che la barca di Don Luciano, cominciava a far acqua!
— Vorrebbe ascoltarmi, signor commendatore, un momentino?... Ecco qua: missis Eyre è stata imprudentissima verso la signora duchessina; ma anche la signora duchessina, sa distinguere benissimo le persone e i loro atti: lei rimane nel suo giudizio e nel suo cuore, quello che è, luminosamente! La signora duchessina ha per lei una grande ammirazione e un'affezione troppo ben radicata! In quanto a me, de minimis... diremo, ma io ho sempre considerato il signor commendatore come... il superiore... come il mio vero padrone e ho sempre ambito l'onore di poterla servire direttamente! Quante volte prima di eseguire certi ordini perentori, avrei voluto interrogarla, avvertirla, signor commendatore, se non altro, per scarico mio! Stamattina stessa, per esempio, io ho ricevuto una lettera da... Parigi... — Si ferma, aspetta per proseguire una parola d'incoraggiamento; ma il signor D'Orea, che ha accolto lo sfogo del capitano con molta freddezza, lo guarda... e non fiata, suonando il tamburello sulla scrivania, col tagliacarte.
Il signor Zaccarella si passa una mano sui capelli a spazzola... fa un grosso sospiro per mostrare la propria esitazione: l'altro, niente. Con la faccia sempre immobile e muta, continua a suonare il tamburello...
— Per esempio, con la posta di stamattina, io ho ricevuto una lettera di don Luciano...
— Oh! Oh! Scrive?... Mio fratello ha imparato a scrivere?... Una volta non sapeva altro che telegrafare!
— Telegrafa sempre, ha telegrafato anche ieri, quando si tratta di affari, di danari. Quando, invece, si tratta di cose delicate, cose di famiglia, riguardanti specialmente donna Maria, allora scrive...
Giacomo sussulta; diventa rosso in viso.
— E che scrive?
Il capitano, sparato il colpo, si ritira un passo indietro:
— Io non so poi... Faccio bene o male a parlare? In ogni modo, se il signor commendatore mi autorizza a farlo....
— Ah, no! — Giacomo s'è subito rimesso. — Questa autorizzazione ella non può averla da me, ma dalla sua coscienza! È la sua coscienza, soltanto, che deve imporle di parlare o di tacere!
— Allora parlo! — risponde pronto lo Zaccarella che dinanzi a tanta diplomazia non vuol perdere l'occasione. — La mia coscienza, mi dice di parlare! Sarà di me quel che sarà! Perderò la stima del signor commendatore, perderò la fiducia e la protezione di don Luciano, perderò il pane, ma il signor commendatore sarà stato avvertito di tutto, e in tempo.
Giacomo rimane impassibile, ma il suo cuore batte violentemente.
— Il Credito Lionese, ha versato a Don Luciano, in queste ultime settimane soltanto a Parigi, la somma di cento e settantamila franchi, e si chiedono nuovi fondi.
— Bisogna provvedere.
— Con l'autorizzazione del signor commendatore?
— Sì.
— E senza limiti di cifra?
— Senza limiti, per ora. Soltanto ella mi terrà informato di ogni nuova richiesta!
— Sarà fatto, scrupolosamente!
Se non fosse increanza, il capitano si darebbe una fregatina di mani sotto gli occhi stessi di Sua Eccellenza! In fatti con quell'ordine esplicito «mi terrete informato di ogni nuova richiesta» egli fa il primo passo: si mette sotto gli ordini di Sua Eccellenza, buttando a mare don Luciano!
— E d'altro, che c'è?... Che c'è di... delicato, che riguarda la famiglia? — È questo che preme di sapere a Giacomo; non gli affari del Credito Lionese!
— C'è, signor commendatore, che stando agli ordini di don Luciano io gli dovrei sempre riferire giornalmente e minutamente tutto ciò che succede... a Villars.
— Perchè non lo fa?
Il signor Zaccarella lancia un'occhiata a Sua Eccellenza.
— Non mi sarò spiegato bene. In una parola, io dovrei fare la spia a tutti... e di tutto! Alla signora duchessa, alla duchessina, a donna Maria, a lei...
— Oh! Oh! Anche a me?...
— A lei, specialmente, e a donna Maria.
Giacomo sta in guardia; si frena e soggiunge freddamente, ironicamente:
— Ella sarà molto impacciato, credo, nel disimpegno di questo... ufficio di polizia. Come trovare... argomenti interessanti, su cui poter riferire?
— Appunto! — Il capitano increspa con un ghignetto il viso giallo, sbarbato. — Io riassumo quotidianamente il mio servizio d'informazioni in due parole: niente di nuovo! Ed è per ciò che don Luciano, comincia a sospettare anche di me!
— Sospettare?... Se ha sospetti, perchè non viene lui stesso a Villars, — e sarebbe ora, — a sincerarsi?
— Mi scrive, appunto, di volerlo fare, ma quando nessuno se lo aspetterà.
— Bravissimo! E comincia, intanto, per tener la cosa segreta, col dirlo a lei!
— Vorrebbe, — si figuri, — che io gli scrivessi perchè il signor commendatore ha prolungato, per tutto questo tempo, il suo soggiorno in Isvizzera!... Che cosa ne posso saper io?
— Oh, bella! — esclama Giacomo. — Per riposare e per godere il fresco!
— Ecco precisamente! Io ho risposto e rispondo sempre così; ma don Luciano non mi crede!... D'altra parte, per fargli piacere, io non posso inventare quello che non c'è... o sapere quello che non so! Egli vede, in ogni falsa nuova, magari anche in aperta contraddizione co' suoi sospetti, una finzione e una simulazione! Immagina inganni e raggiri così artificiosi e strani, che sono difficilissimi persino da raccontare! Ma ho appunto qui, con me, l'ultima lettera di don Luciano... Vuol vederla, per capacitarsi?
— Le serva di regola: le lettere del suo padrone, non devono mai uscire dalle sue mani.
— Il signor commendatore mi ha detto di ascoltare la mia coscienza, e la mia coscienza...
Giacomo lo interrompe:
— Basta così! La sua coscienza le deve imporre una cosa sola: scrivere a mio fratello di ritornare davvero e subito a Villars e d'ora in poi, di vivere sempre vicino a sua... alla sua famiglia. Così non avrebbe sospetti e farebbe meno debiti! Ho da lavorare. Buon giorno, signor Zaccarella!
Il capitano, bruscamente licenziato, se ne va mogio mogio, ruminando tra sè:
— Ho fatto bene?... Ho fatto male?... Forse sarebbe stato meglio dir lutto, anche ciò che pensa don Luciano, riguardo alla duchessina e al matrimonio. Ma come si fa?... Mi ha chiusa la bocca!... Sarà, come dicono, una gran testa, ma quanto a carattere, anche costui... ha un gran brutto carattere!
Giacomo non ha voluto vedere la lettera, ma ne ha indovinato, o press'a poco, il contenuto.
— Come ho fatto bene a stare in guardia e a evitare di trovarmi con Maria! Meglio, molto meglio andare incontro a qualche seccatura per via della Piccola. A questi pettegolezzi, più o meno innocenti e interessati, posso rimediare provvedendo alla dote e combinando il matrimonio con Totò. In fine Remigia è la sorella di Maria, è la cognata di mio fratello, appartiene alla nostra famiglia... Dunque, più che naturale, è doveroso il provvedere per metterla a posto!
Si alza e va alla finestra.
— Che bella giornata! Ha ragione il signor Trüb! Il settembre è proprio il mese migliore per Villars! Chi sa, laggiù a Bologna, che forno e che soffoco!
Rimane lì, a lungo, pensieroso, guardando i Diablerets, il Gran Muveran, les Dents du Midi e sospirando: Addio Villars!
— Chi sa che cosa ci sarà veramente nella lettera di Luciano?... Quanta cattiveria e quanta bassezza! Mettere a parte un estraneo, quasi un servitore, di certi sospetti assurdi... iniqui...
Guarda ancora la valle ampia e popolata:
— Che bel verde limpido!... Mah!... Tutto ben ponderato, cattiveria da una parte, leggerezza e pettegolezzi dall'altra, bisogna proprio risolversi... Bel Villars, addio! Andiamo a fare le nostre scuse alla duchessina, sollecitiamo il ritorno di Totò, e poi, partenza per l'Italia! Torniamo al caldo, alle noie, al lavoro, per buscarci dell'asino e magari anche del ladro dagli avversari!... Oh quella politica!... Quella Camera!... I giornali!... Poter vivere, morire, sempre in campagna, in montagna, lontano, su su, a duemila metri da Bologna e da Roma!
L'ex ministro si sente infelice come un collegiale, l'ultimo giorno delle vacanze. Ma non è Villars, non è la bella conca verde e fiorita che egli rimpiange. Sono quegli occhi dolcissimi e profondi che lo hanno fissato sorridendo, dietro un velo di lacrime!
— Addio Villars! — dicevano le sue labbra. — Addio, Maria! — diceva il gemito del suo cuore angosciato.
Quando Giacomo D'Orea esce di camera per andare in cerca di Remigia, s'incontra nel corridoio con Mimì Carfo.
— Scusi, contessina!... Dove potrei vedere la sua piccola e dolce amica? Vorrei farle le mie scuse per essermi abbandonato — non so come — ad un impeto di eccessiva vivacità. Ma, si figuri, duchessina! Da mezz'ora io ero la vittima di missis Eyre e quella vecchia sciocca e balorda...
Giacomo s'interrompe, vedendo la faccia di Mimì, pallida, stravolta.
— Che ha?... Che c'è?
La giovane è riservatissima e timida, ma trattandosi di salvare l'amica dalle unghiacce di Re Faraone, prende tutto il suo coraggio a due mani:
— L'ho... contro di lei!
— Contro di me?
— È stato cattivo con Remigia! Molto cattivo!
Giacomo crede che Mimì si riferisca soltanto all'incidente delle sonagliere e torna a giustificarsi.
— Le dissi già che quella vecchia m'aveva fatto uscir de' gangheri! So anch'io di aver avuto torto! Andiamo da Remigia, e anche lei, da brava, invece di essere in collera mi aiuti a farmi far la pace!
— Remigia è a letto!
— È a letto?
— È stata malissimo. Basta, Dio mio, che non le venga la febbre!
Giacomo si spaventa:
— Io non ho colpa se quella vecchia... è pazza!
Mimì crolla il capo, dolorosamente:
— No, no! Missis Eyre non c'entra, o c'entra solo indirettamente. Lei, è stato cattivo, cattivo! E sapendo, volendo esserlo. Sì! Sì! Volendo esserlo! Capiva, sapeva che un simile affronto, ricevuto da lei, proprio da lei, doveva fare un gran male a Remigia per... moltissime ragioni, che si possono riassumere in una sola, la più tremenda, appunto per Remigia!
— Quale?...
Le gote della fanciulla si accendono d'improvviso, i suoi occhi supplichevoli sono pieni di fervore e di ansia; il seno è palpitante. Ella si avvicina a Giacomo congiungendo le mani. Non può quasi parlare, balbetta:
— Remigia... creda, signor D'Orea, è tanto... tanto buona! È un tesoro... un vero tesoro... di bontà, di soavità... di tenerezza!... Ride, scherza, giuoca... ma nelle cose serie, è già una vera e cara donnina! Certo che è piena di amor proprio, di orgoglio! Non sarà mai Remigia la prima a fare un passo, anche trattandosi della felicità di tutta la sua vita!... Per carità, signor D'Orea! Per carità... non me la faccia morire!
Mimì, così dicendo, si nasconde la faccia fra le mani e fugge via con un singulto di lacrime.
Giacomo rimane attonito a bocca aperta.
— Io?... Farla morire?... Ma diventano tutti matti alla Tête-pointue? Il cuginetto! Totò! Mezzo milione di dote e si telegrafa a Totò!... Bisogna parlarne assolutamente con la duchessa Cristina: le chiederò un colloquio per stasera stessa, dopo il caffè.
Scende sotto l'atrio una buona mezz'ora prima del pranzo e aspetta. Passeggia, esce in giardino, rientra... si ferma qua e là salutando le poche conoscenze rimaste ancora a Villars... Finalmente, ecco la duchessa!... È sola, quel giorno, senza nemmeno l'ombra magna dello zio Rosalì!
Giacomo le corre incontro e subito cerca di rabbonirla, lusingandola con tutto il cerimoniale di corte, ripetendole la scena avuta con missis Eyre e profondendosi in nuove scuse.
Ma la madre, più che irritata, è accorata: un profondo accoramento, dignitoso e muto. Ella ascolta Giacomo, sempre guardandolo fisso, senza pronunziare una sola parola. Giacomo, che si aspettava rimproveri e scene, resta sconcertato. Lì per lì, non osa parlare del colloquio, non osa nominare Totò; ma non sa schivare il pericolo più grave: chiede alla duchessa le notizie della sua Idola.
— È un po' indisposta, mi ha detto la buona signorina Mimì?...
La duchessa raggrotta le ciglia nere e folte, ma non risponde che con una lunga e risonante soffiata di naso. Nient'altro: musica senza parole!
Giacomo non sa più che cosa dire, nè che cosa fare; piantarla non può. Guarda l'orologio.
— Oh! Oh! È tardi! Dovrebbe essere sonata anche la seconda campana per il pranzo.
Silenzio. Si guarda attorno:
— La stagione è proprio al termine! I forestieri, — le signore specialmente, — diradano ogni giorno!
Ancora silenzio: Giacomo, esaurito, finisce col rimanere muto a sua volta dinanzi a quella madre, immobile e muta, come la statua del dolore!
Sopraggiunge, se Dio vuole, lo zio Rosalì. Giacomo, vedendolo, si sente sollevare lo spirito e lo saluta sorridendo, con grande espansione... Ma il Sant'Enodio è più che mai viceregale nell'impettita prosopopea: stende, offre la mano con un gesto largo, solenne... e nemmeno una sillaba!
Gli occhi della madre tradiscono l'interna ansietà: le labbra hanno un tremito.
— E così? — non può a meno di domandare dopo qualche istante. — L'Idola?...
— Mah! — risponde l'oracolo, dietro la barba bianca, semovente. — Purchè non le venga la febbre! — E Mimì?...
— Resta di sopra.
Un'altra soffiata di naso della madre altrettanto lunga e sonora come la precedente: ma, questa volta, la musica delle lacrime colate accompagna le parole. — Purchè, Gesù mio, non le venga la febbre!
— Mah!...
— Mah! — sospira anche Giacomo, preso in quelle strette.
Restano ancora un pezzo tutti e tre fermi, ritti, senza aprir bocca dinanzi all'uscio a vetri della grande sala da pranzo verso la quale il principe Rosalino tien sempre rivolti gli occhi severi e gravi.
Passa via missis Eyre, che tutti fingono di non vedere: entra in sala subito, in fretta, sgusciando dietro alla duchessa e corre a sedersi al suo solito tavolino, sotto una finestra d'angolo. Sa d'averla fatta grossa e d'aver perduta l'amicizia dell'Eccellenza, non più Eccellenza! Apre il Times e si tiene nascosta dietro il giornale.
Anche il signor Zaccarella è già sotto l'atrio e gira attorno ai padroni. Ha l'aria di un cane bastonato, dopo la bella ramanzina che gli è toccata. Nessuno lo chiama, e il capitano, perduto il coraggio e la spavalderia d'un tempo, gira e rigira senza osare di avvicinarsi.
Giacomo da qualche momento, vinto l'imbarazzo e passata anche la stizza, non ha più che un pensiero e un'inquietudine: Maria.
— Che Maria, come la contessina Mimì, non scenda a pranzo?
Guarda l'orologio dell'atrio; sta attento, con l'orecchio, ad ogni passo: d'un tratto sente un noto fruscio di vesti. Il suo occhio e il suo viso si ravvivano:
— È lei!
Donna Maria Grazia scende lentamente lo scalone, lentamente si avanza sotto l'atrio e si unisce al gruppo di famiglia.
— Si ha paura della febbre! — È il saluto della madre.
— Mah! — ripete lo zio Rosalì, e il sospiro si confonde con un mezzo sbadiglio. Il bell'antenato vivo, ha appetito e sta ruminando:
— Ormai ci siamo tutti! Che cosa si aspetta?... Di mangiare gli avanzi e di essere malserviti? — Si decide ed esprime il suo voto. — È già sonata anche la seconda campana. Io direi di andare. — Ha bisogno di un proverbio, non lo trova e lo inventa: — Il digiuno dei sani, pur troppo, non fa guarire gli ammalati.
Ciò detto, apre la marcia maestosamente, offrendo il braccio alla cara Cristina.
Giacomo offre il suo alla cognata e il signor Zaccarella si mette in coda... e con la coda fra le gambe.
— Ho ricevuto una lettera di Luciano che devi vedere anche tu! — mormora Maria, sdegnata, all'orecchio di Giacomo. — Dopo pranzo, vieni subito in giardino.
— Un'altra lettera? — Giacomo reprime l'inquietudine e la collera. — Ma... colui, a Parigi, non fa altro che scrivere?
Proprio così! Quando Fanfan non vuol ricevere Luciano, perchè ha le prove, o ha il maestro, — il celebre Coccardè, ex-tenore sfiatato, — o perchè aspetta mister Kennett che sta combinando con l'impresario per farle cantare la Manon in America, Luciano, geloso, furioso, si chiude nella sua camera dell' Hôtel Bristol e si sfoga, si vendica scrivendo lettere sopra lettere, alla moglie e al signor Zaccarella.
— Oh! l'ingratitudine umana, in ricambio della mia grande bontà! — È sempre questa, o press'a poco, la chiusa, tanto quando scrive alla moglie, come quando scrive al capitano.
Anche durante il pranzo, tutti silenzio! Soltanto quando il capo cameriere, in persona, presenta l'arrosto, — un bel fagiano rosolato e fumante, con la testa e la coda trafitte da una freccia d'argento, — lo zio Rosalì si sente commosso e dopo aver guardato il fagiano guarda la sorella del pari affettuosamente:
— Coraggio, Cristina mia! Facciamoci coraggio! Io sono sicuro! La febbre... non verrà!
La duchessa... un'altra soffiata di naso come per prendere commiato, uno sguardo a Giacomo, in cui c'è tutto il dolore e l'angoscia, insieme a un acerbo rimprovero, e via col passo delle pompe funebri.
— Mah!... Si serva, si serva, signor Zaccarella! Al principe, l'appetito viene mangiando e vedendo mangiare.
Anche Maria si alza quasi subito, appena uscita la madre: fissa Giacomo, come non ha fatto mai.
— Si soffoca, qui dentro! Andiamo!
Giacomo segue la cognata in giardino... e il signor Zaccarella respira due volte. Ritorna ad essere lui, e a sentirsi il capitano!
— Ah!... Finalmente, se Dio vuole!... Una breve tregua ai musi, alle malinconie e ai dolorosi sospiri! — Si china, allunga la piccola testa verso il principe e lancia la proposta: — Qui, tra di noi, facciamoci un brindisi alla nostra salute e al buon umore. — Senza aspettar risposta alza la voce e ordina:
— Monsieur Célestin!... Venga lo Champagne! Il solito! Extra secchissimo!
Rosalino di Sant'Enodio, il capo eretto sulla figura classica, nota in Roncisvalle, rimane imperturbabile. Soltanto gli occhi brillano vividi seguendo il passo quieto di Monsieur Célestin... Poi, dalla fluente, candida barba che alita al soffio delle parole, esce grave la sentenza:
— Solo all'arrosto, giudica il cuoco. Eccellente quel fagiano!
VIII.
— Eccoti la lettera di... mio marito. Leggi.
Giacomo sembra esitare.
— Leggi; devi leggere!
Maria è più pallida del solito... e più bella. Il fascino di soavità, di malinconia, soffuso intorno a lei dal suo dolore mansueto e rassegnato, è sparito. La sua espressione è risoluta, fiera, il sorriso amaro e ironico... ma è più bella. Una strana luce le illumina il viso. È ciò che teneva nascosto in fondo al cuore che le brilla, che le risplende negli occhi e che vibra in tutto il suo essere con un fremito di vita, con un impeto di sdegno e di rivolta!
— Leggi; devi leggere! Ho potuto e voluto risparmiarti la lettura di molte altre lettere simili e peggiori; ma di questa no, perchè parla anche di Remigia... E poi... perchè tutto ha un limite per le creature e per le anime, anche la bontà, anche la pazienza, anche la pietà!... Sai? Mi faceva pietà! Ero tanto sciocca e stupida da credere che quell'uomo dovesse soffrire lui stesso per la sua grande cattiveria!... Adesso no, basta! Lui continua, ma io ho finito! Adesso non mi desta più che ribrezzo, e orrore, ribrezzo e odio! Sì, odio, odio, odio! Sarò cattiva anch'io, la mia parte, che importa? Dio che mi ha sempre veduta e che mi vede nel cuore, sa che non ero fatta per essere cattiva! Mi hanno ridotta gli altri così, per forza! Ormai, peggio per loro! A te. — Maria gli dà la lettera. — Vinci lo schifo, leggi e regolati.
Il cuore di Giacomo batte violentemente, ma egli vuol conservarsi calmo e sicuro. Leva dalla busta e spiega i vari foglietti della lettera, che comincia con uno stile amabilmente scherzoso:
«Paolo e Francesca!... Precisamente: i due cognati, amanti, sono tornati di moda per opera dei poeti e degli istrioni e, in casa mia, si segue la moda!»
E continua, con altrettanto felice umorismo:
«Paolo, per altro, l'antico, il guerriero, non doveva nulla a Lancillotto; mio fratello, invece, il Paolo moderno, uomo di Stato, deve a me, il rispetto, l'affezione e la fiducia piena e cieca, della quale gli sono sempre stato prodigo. Deve a me, alla mia generosa, disinteressata e forse eccessiva acquiescenza, se è ancora lui solo, il solo e dispotico padrone della roba nostra. La prima delle Francesche, da cui proviene l'onesta discendenza, ha portato in dote a suo marito dominî e castella... Sono troppo delicato per mettere i punti sugli i. Dirò soltanto, per concludere, che il Paolo e la Francesca di mia magione, aggiungono a tutte le virtù e alle amorose gesta dei due famosi capiscola, anche la più bella e graziosa ingratitudine!»
Il confronto seguita ancora per un pezzo e sullo stesso tono, ma Giacomo, corre in fretta con l'occhio attraverso le pagine e incomincia a leggere attentamente dove vede ripetuto il suo nome:
«... perchè non c'è dubbio! Dopo il mio ultimo colloquio con Giacomo, dopo le mie spiegazioni così franche, leali e confidenziali, se Giacomo fosse davvero quell'uomo di carattere saggio e prudente che vorrebbero far credere i suoi giornali, partito io, sarebbe anche lui partito subito da Villars! La gelosia di un marito è la prova più manifesta del suo attaccamento e della sua affezione, e per ciò, anche quando per un caso diverso dall'attuale è forse ingiusta ed eccessiva, è tuttavia sempre rispettata dalle persone serie e schiette, come riesce sempre gradita e cara ad una buona moglie, veramente innamorata e fedele!»
«Ma invece di partire, invece di distruggere i sospetti, — ed ogni sospetto è legittimo e sacro quando si tratta della propria moglie e del proprio onore, — Giacomo che fa?... Prudente, saggio, e sopratutto molto delicato, non si muove più da Villars, nè dalla Tête-pointue. Con tanti uffici, con l'Italia da fare e l'Africa da disfare, l'uomo importante, il grande lavoratore. Sua Eccellenza, insomma, che aveva già dichiarato di non potersi fermare in Isvizzera più di una quindicina di giorni, senza pericolo per la compagine dello Stato e per l'assetto dell'Europa, è tuttora in villa, a far vacanza!»
«Chi sta bene non si muove!» sentenzierebbe quella cariatide piena di buon appetito dello zio Rosalì! E Giacomo ci sta bene e non si muove più da Villars, perchè tu sei una donna civetta e leggera... e a provarlo, basterebbe, fra cento altri, il solo fatto di Bex! Credi che io non abbia capito tutto? Mi fai anche l'onore di credermi un imbecille?... Ma quel falso tisico sentimentale, perchè è proprio partito... poche ore dopo che io sono arrivato?»
«Ricordati per altro, e ricordati bene: io posso tutto sopportare, ma il ridicolo, no! Spezzato il cuore, voglio che il mio onore resti intero e intatto. Costretto a partire improvvisamente per Parigi da affari gravi, che si potranno conoscere solo più tardi, farete tutti, al mio prossimo ritorno, quanto io giudicherò necessario, ispirato, come sempre, dai miei sentimenti morali e dalla rettitudine della mia coscienza, per la serietà e per la dignità del mio nome!»
«Vita nuova e bando alle commedie vecchie! Quella cara gioia di tua sorella Remigia offre in questi giorni un'altra prova della bella gratitudine dei tuoi parenti a mio riguardo, recitando da ingenua — oh, che santa ingenuità! — in una vostra commedia altrettanto vecchia quanto inverosimile! Fingere gli amoretti con la nubile, sino al punto, magari, di comprometterla e di perderla irrimediabilmente, per coprire gli amorazzi con la maritata! Oh, connu le vieux jeu! Très connu, ma chère! Non è più nemmeno del vecchio Sardou! È del nonno Scribe!...»
E così via via, sempre nello stesso tenore, la lettera di Luciano, volgare e ingiuriosa, piena di boria e di alterigia, riempie sei pagine fitte.
Figurarsi! Quando egli l'aveva scritta era appena stato messo alla porta, per tutto un giorno, da Fanfan! Il re della glicerina, aveva condotta al Bois mademoiselle Trécoeur, per farle ammirare il suo nuovo four in hand. Luciano, è vero, aveva detto e gridato «non voglio»; ma appunto per ciò, Fanfan Trécoeur gli aveva risposto tra due colpetti di tosse, non autentica:
— Non voglio?... Allora vado. Sai che il «non voglio» in casa mia, è fuori di corso!
Ed è andata! È andata al Bois in un giorno di vento! E quel ciarlatano d'un dottore, pagato venti franchi per visita, lo ha permesso! E quella celebre mummia inverosimile del maestro Coccardè, coperto di biglietti di Banca e mantenuto a brodo di Champagne, non ha protestato! La salute, la voce, quando si tratta di mister Kennet, sono a prova di bomba!
— È il mio destino! È il mio destino infame, di non essere amato da nessuno, da nessuno!
Luciano corre a rinchiudersi nella sua stanza, disperato, furente e sfoga la rabbia e la gelosia contro mister Kennet e Fanfan scrivendo a sua moglie.
— Ah, per Dio! Con mia moglie sposata senza un soldo, avrà corso il «non voglio!» e a dispetto di mio fratello!... Ah! Ah! Povera Eccellenza! A tu per tu con una donna deve essere più Giuseppe che Paolo! Ci vuol altro talento ed altro spirito per saper sedurre una donna!... Ma la simpatia, fra que' due, c'è... dunque, l'intenzione, ci sarebbe!... In famiglia! Tra cognati! Quanta immoralità! Che pervertimento!
Giacomo, quando ha finito di leggere la lettera, la ripone lentamente nella busta, poi la rende a Maria dicendole cupo, senza guardarla in faccia:
— Avevo già fissato di partire domattina da Villars.
Maria, a queste parole, è scossa da un tremito: la luce de' suoi occhi sembra spegnersi a un tratto.
— Domattina? — ella ripete con la voce rotta, alterata. — Avevi già fissato di partire domattina?
— Sì, — risponde Giacomo, sempre a testa bassa, sempre senza guardare Maria, ma con una viva espressione di dolore, con una grande e affettuosa tenerezza. — È necessario. Necessario per me, per te, per tutti. E dopo questa lettera...
— Questa lettera è una... infamità! Nient'altro! — Maria cerca di soffocare un singhiozzo disperato, premendosi le due mani alla gola.
— È un pugno di fango scagliato da un delinquente pazzo, ma che è caduto fra di noi, per separarci! — esclama Giacomo dolorosamente. A lui pure un singulto secco, senza lacrime, sembra rompere il petto. — Non posso più fermarmi qui, dove ci sei tu! Non dobbiamo più trovarci insieme.
Maria fa un passo istintivo, protende le mani come per trattenerlo... poi subito lascia ricadere le braccia, e si guarda intorno con gli occhi velati, smarriti, mentre le labbra smorte, agitate da un tremito convulso balbettano parole che non si possono afferrare.
Come sarà vuoto Villars e desolato... Come sarà vuota la sua vita... e desolata!
— Più! Mai più!
Che cosa «mai più?»... Ciò che a poco a poco, grado a grado, lentamente, ma ineluttabilmente, le aveva riempita l'anima, il cuore, la vita, senza che ella nemmeno se ne fosse accorta! Oh, adesso sì! E come se ne accorge, adesso! Come lo sente adesso, nel momento che questo suo bene immenso, che la sua felicità, l'estasi, il sogno, si cambiano in dolore!
— Più! Mai più! — balbetta ancora la povera donna, poi reclina il viso nelle mani e tace.
Restano lì, soli, lungamente, in quella parte deserta del giardino, senza parlare.
L'ombra degli alberi si fa densa e fredda; si appressa la sera; Maria, ad un tratto, alza il capo, come sorpresa e atterrita, fissa Giacomo a lungo con le pupille dilatate, poi si riscote rabbrividendo, alza il bavero, si avvolge nella mantiglia di pelliccia e si avvia per uno stretto sentierolo, che sale dolcemente la collina fra due siepi alte e folte. Giacomo le tien dietro, sempre a testa bassa.
Il silenzio è profondo. Si sente appena lo scricchiolare dei piedi sulle foglie secche e il leggero cinguettìo di due pettirossi che si rincorrono nella siepe in cerca del ramo su cui addormentarsi, vicini vicini.
— Oh, come sono liberi di volersi bene, que' due piccoli uccelletti! — pensano insieme Giacomo e Maria. — E noi, dobbiamo soffocare persino i nostri sospiri!
A un tratto Maria si ferma, risoluta a parlare e si volta: si ferma anche Giacomo: si guardano fissi; ma non osano dirsi ciò che hanno nel cuore.
Cìo cìo! Cip cip! continuano intanto nella siepe i due pettirossi, vezzeggiandosi, inseguendosi, rispondendosi l'uno all'altro: cìo cìo! Cip cip!
Maria fa un atto doloroso col capo... si volta, comincia a salire. Il suo passo è più lento, più affaticato... Giacomo le tien dietro, gli occhi fissi sulla bella persona di lei, ansando, spasimando.
Non parlano, non si dicono una sola parola, ma Giacomo e Maria, in quel punto, rivolgono a sè stessi la medesima domanda: — Se fosse possibile, se il poterlo fare stesse in me, vorrei tornare come prima... e non soffrire più?...
Tutti e due, al cuore che fa la domanda, rispondono col cuore, che prorompe palpitando — no!
E tutti i pensieri dell'uno e dell'altra sono gli stessi; sono mute le labbra, ma le anime parlano fra di loro.
« — Così ignoti, prima, l'uno all'altro, come abbiamo fatto a conoscerci?... Così lontani, l'uno dall'altro, come abbiamo fatto ad avvicinarci?... Quando è stato? Dopo la lettura di quella lettera? Dopo il loro colloquio di quella mattina stessa?... Fino da Bex?... Da Napoli?... Prima, prima! Ancora prima, fin dal primo giorno!... Ma quando fu il primo giorno?... Quando si sono conosciuti, appena si sono veduti e prima ancora, ancora!
L'ora presente, non è quella che fugge, è quella che resta nell'avvenire e che suscita nel passato colori e immagini.
Egli parte; non si vedranno, forse, mai più!...
Che importa?... Come in quell'ora e per quell'ora, si sentiranno sempre vicini, si sentiranno sempre uniti. Quando due anime si amano, il mondo non ha spazio abbastanza per tenerle tanto lontane... da non sentirsi più!
Finito il sentiero, Giacomo e Maria sono giunti sulla cima alta e rocciosa della collinetta, che spunta come uno scoglio tra il verde degli abeti.
Il sole, è appena tramontato. Sull'orizzonte, ancora una grande striscia rossa, di fuoco, la bocca accesa di un vulcano, rompe la nuvolaglia nerastra, che, a mano a mano illanguidisce, si restringe, sparisce dietro un immenso tendone nero. Il vento soffia d'improvviso e agita gli alberi sottostanti: una raffica diaccia spazza la cima sollevando un nugolo di polvere e di foglie secche. Poi la quiete profonda e di nuovo il silenzio. Più giù, in fondo alla valle, poi sul dorso delle colline, cominciano ad apparire, sparsi qua e là, i villaggi illuminati, come campi di lucciole immote. L'albergo vicino, con i vividi occhi delle sue cento finestre, sembra un'apparizione fantastica...
Maria, per la prima, rompe quel lunghissimo silenzio:
— Domani, a quest'ora, dove sarai?
— A Ginevra.
— E dopo?... A Bologna, o subito a Roma?
— A Bologna, per due giorni, poi a Roma.
— E con Remigia?... Con mammà?... Dopo quanto è successo oggi, come farai?
— Remigia, sarà contentissima di sposare Totò, e contenta l'Idola, sua madre sarà felice!
Maria fa un sospiro, riprende il sentiero e comincia la discesa: Giacomo la segue vicino vicino, più vicino: la sente, la respira, l'assorbe con l'anima e con i sensi!
Il vento ricomincia: muove le cime alte; fischia nelle siepi. I due pettirossi non si sentono più. Maria li ricorda... ci pensa. Giacomo non pensa che a Maria, non sente che Maria.
Fanno così tutta la lunga discesa senza mai fermarsi, senza mai voltarsi. Si fermano insieme, simultaneamente appena giunti al piano, in giardino; e insieme, con un moto simultaneo, si prendono, si stringono la mano convulsamente, disperatamente. Le due facce pallide, smorte, sono contratte, rigate di lacrime.
— Sempre?...
— Sempre.
Maria va difilata verso l'albergo. Giacomo s'indugia ancora nel giardino, nel bosco.
Si fa più buio; le ventate sono più frequenti e più forti.
Giacomo ha bisogno di camminare, di essere solo... e di camminare! Più che commosso, è agitato e stordito. Le lacrime non si sono ancora disseccate sulle sue guance, eppure in quel momento si sente felice e forte. Tutto il mondo è suo! Ha bisogno di essere solo, di camminare e di pensare... Di pensare, appunto, alla propria felicità.
— Com'è stato?...
Il cuore, l'amore, hanno preso in lui il sopravvento, così d'improvviso, inaspettatamente. Proprio come una forte ondata, un colpo di mare, che lo ha travolto, che lo ha portato con sè!
— Amo! Amo!... L'amo e sono amato!
Poi guarda verso l'albergo e ripete a Maria, col sorriso di un fanciullo innamorato, mentre i suoi occhi si riempiono ancora di lacrime, ma non di dolore, questa volta, lacrime di gioia e di infinita tenerezza:
— Ti voglio bene! Ti voglio bene! Cara, cara, cara!
... Si ferma sussultando: dal sogno alato, ripiomba nella realtà:
— Non la rivedrò forse più!
La lettera di Luciano gli corre tutta in mente:
— Devo partire! Non devo rivederla più!... Ma sono amato, sono amato e posso amarla!... Cara! Cara! Cara!
Oh, quella lettera, quella cattiva lettera!... Non può scacciarla dalla testa!
— Canaglia! Canaglia! È la lettera di un pazzo e di una canaglia!
Crolla il capo, dà un'alzata di spalle: non vuol vedere altro che luce, altro che Maria e la chiama ancora con tutta l'anima, con tutta la passione: — Maria! Maria! Maria! — Ma la lettera maledetta è sempre lì, dinanzi a' suoi occhi, sempre lì chiara, lampante, parola per parola!
— Paolo e Francesca!... Ebbene... Sì, è così; è vero! Paolo e Francesca! Al diavolo la lettera, mio fratello, la duchessa, tutto il mondo! Sì! Sì! Sì! Paolo e Francesca! È la mia vita, è la mia felicità!
Si volta, esce dal bosco, entra nel giardino e tra la furia del vento e un chiarore freddo e sinistro di bufera imminente, fa qualche passo verso l'albergo, cercando, tra le finestre illuminate, la finestra di Maria e guardandola, fissandola, con un desiderio che è smania, febbre, disperazione!
— Non vederti più?... Ma non dovrò vederti, proprio più?... Impossibile! Impossibile! È umanamente impossibile!
Così, il primo raggio di speranza penetra nel suo cuore e la grande sicurezza di prima, la forte, l'eroica risoluzione della coscienza cominciano a cedere.
— Chi sa... fra qualche anno?... Chi sa?... Chi può mai dire che cosa può accadere... magari domani stesso?...
La finestra di Maria è la penultima del primo piano. Ma dietro i vetri non c'è nessuno, nemmeno un'ombra...
Giacomo trae un sospiro e rientra nel bosco: c'è meno vento tra il folto degli alberi. Ritorna a pensare fra sè:
— Però Luciano, con tutta la sua cattiveria, ha indovinato tutto... Anche a proposito di Remigia. È proprio vero che io l'ho adoperata per coprire, per nascondere, persino a' miei occhi, il mio amore per Maria!
Rimane sorpreso, atterrito di sè stesso.
— Maria?... Ma è mia cognata!... È la moglie di mio fratello! Io?... Amare la moglie di mio fratello? Sperare?... Che cosa?... Sono pazzo! È la pazzia! Domani?... Che cosa può accadere, domani?... È mia cognata!... È la moglie di mio fratello!... Domani?... Come sempre! Non vederla più... e non amarla più! Vivere e morire galantuomo!
IX.
Giacomo D'Orea entra nell'albergo quando comincia a piovere dirottamente. Sotto l'atrio incontra Mimì Carfo che esce dalla sala di lettura con due grossi libroni.
— Remigia sta un pochino meglio!... Non è venuta la febbre, ringraziando Dio!...
Giacomo fissa la fanciulla con gli occhi ancora stralunati.
— Potrà alzarsi, dunque, domani?
— Si spera! Ma è assai nervosa. Non ha ancora chiuso occhio!... Sono venuta giù, apposta, a prendere questi libri di viaggio, per leggerle qualche cosa!
Mimì nota la faccia sconvolta del signor D'Orea; è assai distratto, preoccupato. Non l'ascolta nemmeno.
Giacomo, dopo un momento, sembra scuotersi:
— Mi faccia un favore: dica a Remigia, che io domani, nella mattinata, dovrei partire assolutamente; ma che non posso partire se prima non ho parlato con lei!
Ciò detto, pianta lì Mimì su due piedi e va in cerca del portiere.
— Dov'è l'orario? Ho bisogno di vedere l'orario!
Ma invece di trovare il portiere, s'incontra, faccia a faccia, con Marco Danova in abito da viaggio.
— Felicissimo, onorevole! Fortunatissimo di potervi salutare! — Marco Danova fa una smorfia che vuol essere un sorriso: gli occhietti stizzosi, biliosi, si incrociano più storti sul naso adunco. — Ho mandato in camera vostra, in questo momento, il mio biglietto di visita.
Giacomo ringrazia con un cenno del capo, senza aver ben capito.
— Il vostro... biglietto di visita?
— Pour prendre congé! Sono arrivato col diluvio e parto con l'innondazione!... Gran bel divertimento la montagna!
— Già, piove! — borbotta il D'Orea quasi macchinalmente, guardando verso il portone dell'albergo. Poi soggiunge: — Ecco l'omnibus!
— Ma è ancora presto! Non è vero, uomo barometro? Uomo infallibile? — Il Danova si rivolge al signor Trüb che lo aspetta col segretario e col direttore sull'uscio del bureau per accompagnarlo fino all'omnibus.
— Manca più di mezz'ora alla partenza! — risponde il signor Trüb, abbassando gli occhiali dalla fronte sul naso per guardare tre orologi in un istante: quello del bureau, quello dell'atrio e il suo che leva di tasca. — Il bagaglio è già stato consegnato! Ha tutto il tempo, signor barone, anche di lasciar sfogare questo nuvolo che passa!
— Andate al diavolo voi e le vostre nuvole che passano! Me ne avete servite abbastanza durante questa bella stagione!
Marco Danova sembra furibondo contro Villars e contro il signor Trüb.
Giacomo capisce di dover dire qualche cosa e di dover salutare il Danova, se vuol liberarsene.
— Allora, buon viaggio! E se tornate in Italia... a rivederci presto!
— Mi fermerò a Ginevra, un paio di giorni, all' Hôtel de la Paix, poi andrò sul lago di Como, gironzando! Sono arcistufo di questa maledettissima Svizzera! — La Svizzera, deve aver fatto qualche brutto tiro a Re Faraone. — Mentre parla, gli s'infiamma non solo la faccia, ma anche il cocuzzolo a pera. — Appena piove, si gela, appena fa sole, si brucia!.. E poi non è più un paese, è una stazione di strade ferrate! I ghiacciai sono anneriti dal fumo delle locomotive!... Ci sono più treni che fischiano che marmotte! Basta! Basta! Non è ormai altro che un panorama meccanico per il grosso pubblico delle scorribande domenicali!
— Già! Sicuro! — conclude Giacomo tanto per finirla. — Anch'io, partirò... prestissimo!
Marco Danova dondola la pancetta facendo un'altra smorfia stentata; il naso becco, morde.
— E... in buona compagnia!
— Parto solo; domani.
— Solo, ma bene accompagnato, dai pensieri più dolci e più soavi! Là, là, là, fortunato mortale! Per voi la Svizzera è sempre bella e sempre quella: il paese dove fiorisce l'idillio, col vergissmeinnicht!
Giacomo trasalisce: non ha in mente che Maria; crede tutto quel discorso un'allusione a Maria.
Il Danova diventa serio; fa un inchino tra lo scherzoso e il cerimonioso e gli stende la mano.
— Permettete, dunque?... Si può congratularsi?
— Di che? — domanda Giacomo torvo, con la voce soffocata.
— Là, là, là! Non montate in collera, onorevole! Anche se la lieta novella non è ancora, diremo, ufficialissima, mi fu data ormai come sicura, e non c'è ragione di volerne fare un mistero per gli amici, come me, di antica data!
— Cioè? Che novella?... Che notizia?
— Qua la mano!... Qua la mano!... — Giacomo gli deve dare la mano per forza. — Con molta invidia, — perchè no? lo confesso. — Con molta invidia, ma senza rancore!... È una ragazza che anche a pagarla un Perù, c'è da esserne soddisfatti e la minchioneria che fate voi, — chi sa? — forse, l'avrei fatta anch'io!
Giacomo comincia adesso... quasi a capire; ma ha paura di dover capire.
— Che scherzi... vi saltano in mente?
L'altro, risponde con enfasi, in vena di espansioni e di sincerità:
— Ho detto «minchioneria» scusate, senza la più lontana intenzione di offendervi!... Tutt'altro!... È l'epiteto che usano gli sciocchi e gli sbarbatelli, quando si tratta di un matrimonio alla nostra età! Minchioneria vera, tutto all'opposto, è maritarsi da giovani, prima di aver goduto la vita, quando ancora si è forti in gambe e agguerriti per le grandi battaglie!... Ma quando si tocca... la china!... Tirare i remi in barca, è molto savio ed altrettanto igienico. Scegliersi una ragaz...zetta — l'egizio venezian batte il sostantivo schioccando la lingua contro il palato — quel demonietto lì, deve averli tutti i requisiti! — e farsene la propria moglie e il proprio regime. Per noi, è inutile sperare nel nuovo! Alla nostra età non possiamo più essere amati, altro che dalle ragazze oneste.
Che cosa brilla negli occhietti, di cui si vede più il bianco che il nero, di papà Faraone?... Una lacrima forse? Dà una sghignazzata per non vincersi e non mostrarsi commosso.
— Ed ora... non perdiamo la corsa! Felicitazioni, onorevole, e buona permanenza... a chi resta! E congratulazioni sincere da parte mia anche alla duchessina Remigia, quantunque — glielo direte! — me l'abbia fatta grossa!...
— Siete matto! V'ingannate!... — Giacomo cerca di trattenerlo: oh, sì! Il barone è già salito sul predellino dell'omnibus ossequiato dal signor Trüb, e da tutto il servidorame dell'albergo, che gli si prostra dinanzi e di dietro.
— Meno male che non alludeva a Maria! Se Dio vuole, non si sono fatte chiacchiere! — Ma il respiro di Giacomo, si ferma a metà. — Se ne son fatte, per altro, — e come! — sul conto... di Remigia! Congratulazioni per il mio matrimonio, addirittura!... — Giacomo pensa, non sa che cosa fare: — Corrergli dietro per smentire la notizia?... Non c'è tempo di spiegarsi e non è serio!... Domani sono anch'io a Ginevra, all' Hôtel de la Paix... gli dirò domani, che non è vero, che è matto!... Matto?... No, se lo ha sentito a dire, se tutti lo dicono!...
Sospira; si preme forte la fronte con il palmo della mano:
— Matto, sono io! Mi par proprio di diventar matto!... È quella lettera!... È la lettera di mio fratello che mi perseguita!... Anche a proposito di Remigia, la cattiveria di Luciano ha colpito nel segno. Io, per coprire la maritata, ho compromessa, ho perduta irrimediabilmente la nubile!... Marco Danova sarà, più meno, come la fama lo dipinge; ma so io, positivamente che cosa è? Posso dire soltanto che è otto o dieci volte milionario, che avrebbe sposata Remigia e che «la minchioneria» non la fa più perchè io l'ho troppo compromessa! Vivaddio! — torna a premersi la fronte. — C'è proprio da diventar pazzo!
Monta lentamente le scale, entra in camera sua, ma non va a letto.
— Impossibile dormire!... Anzi, bisogna cercare di distrarsi! — Passa nel salottino che gli serve da studio. Ci sono da raccogliere, da mettere in ordine tutte le carte, tutte le lettere. Dovendo partire domattina, questo bisogna farlo subito!
— Se posso veder presto Remigia, parlare di Totò... mettere il mio cuore in pace, parto ancora alle undici!
Siede alla scrivania, guarda tra le carte, fa passare le lettere, mette da parte quelle alle quali farà rispondere dal suo segretario.
L'albergo è ormai tutto sepolto nel sonno. La luce elettrica si è fatta vivissima. Il vento ha ripreso impetuoso: fischia e mugghia tra gli alberi e soffia contro i vetri. Giacomo è scosso da un brivido di freddo.
— E dire che Maria è qui, a due passi da me... e non la rivedrò più, mai più!
Spiega un foglio, — che cos'è? — La richiesta di un gruppo di elettori per ottenere una tettoia e la fermata del diretto alla stazione di Borgo-salice.
A metà della lettura si ferma perplesso; diventa inquieto.
— E se anche Totò, per colpa mia, non la volesse più sposare?
Incrocia le braccia sul petto; abbassa il capo: gli occhi incontrano, per caso, il ritratto di sua madre.
Oh, la semplice donnina! Quanti pensieri e quanti rimorsi, suscita in quell'ora, nell'animo di Giacomo.
— Sempre i fiori di Remigia!
Gli fanno dispetto.
Che differenza, che contrasto! La sua povera madre così timida! Che rifuggiva dalla gente, da ogni parvenza di lusso; virtuosa fino agli scrupoli, pia come la zia Gioconda, più della zia Gioconda! Che contrasto il ritratto di sua madre, coi fiori di una duchessina, in mezzo allo sfarzo di quell'albergo sontuoso «da signoroni» nel quale, sua madre, viva, non sarebbe entrata nemmeno per forza! E in mezzo a tutti quei... vicerè, come sarebbe diventata rossa la buona donna cresciuta, allevata dietro il banco, in una oscura bottegaccia di droghiere... Come non ne avrebbe voluto sapere di quei nobili, di quelle usanze, di quella boria! Sarebbe scappata più lontano della zia Gioconda! Più in là di Fiumicino!
Anche lui, per altro, un tempo, non ne voleva sapere! Non voleva sentirne parlare! Oh, la lettera, — sempre la lettera! — aveva ragione anche in questo!... Come si era opposto, persino brutalmente, al matrimonio di Luciano!
Poi, a mano a mano, lui pure è stato preso dagli usi, dai gusti, dalle seduzioni di quel mondo corrotto, falso nelle sue stesse apparenze di signorilità, falso e infido persino nei rapporti, negli affetti famigliari... A mano a mano, lui pure ha cominciato a diventare un perdigiorni, un ozioso leggero, che compromette le ragazze, e ha finito con l'innamorarsi della moglie di suo fratello!
— Maria, però, com'è diversa da tutti i suoi!... L'espressione sola de' suoi occhi!... Quanta bontà! Quanta sincerità! Che incanto in quegli occhi!... Nell'affettuosa malinconia di quegli occhi!
Il cuore gli batte violentemente, dolorosamente: — È lì! Così vicina!... E non vederla più!...
— Ma non dovrò vederla mai più?...
Prende il ritratto, lo fissa, come implorando un aiuto, un conforto... Ma l'immagine rimane estranea al suo dolore... fredda, severa.
Il vento fa scrollare i vetri con impeto ed urla nella valle.
Egli ha un fremito: vicino a lui nella camera deserta, gli sembra udire la voce di sua madre, negli ultimi giorni, e quel debole filo di voce gli ripete continuamente, insistentemente:
— Non devi vederla più! Non devi amarla più! Ritorna un galantuomo come tuo padre!... Sii sempre un galantuomo come tuo padre!...
X.
Giacomo è rimasto tutta notte nel suo studio. A forza di volere è riuscito a imporsi una relativa calma e a lavorare.
Ha fatto lo spoglio di tutte le sue lettere: ha corretto qualche brano della sua relazione. Insomma egli può dire di aver ripreso, fino da quella notte, la sua vita attiva di lavoro, gli affari e la politica.
— Gli affari e la politica! Mi darò ad essi anima e corpo in modo da non aver tempo di pensare al resto!... E se vorranno i miei amici nominarmi ministro un'altra volta, accetterò!... Tutti i medici, con le loro prescrizioni di assoluto riposo per l'organismo logoro, per il cuore, tutti al diavolo! Tanto meglio se creperò presto!
Si volge verso il ritratto della madre e mormora affermando anche col capo:
— Ma creperò... galantuomo!
Con la prima luce scialba del giorno comincia a sentirsi stanco, spossato. Si butta sul letto così vestito, e si addormenta subito, pesantemente. Si sveglia dopo un'ora o due, di soprassalto, con un grido soffocato:
— Non la vedrò più!
Si alza, si sveste, torna a vestirsi, senza mai chiamare il servitore. Lo chiama più tardi e gli dà ordine di fare i bauli, mentre egli ritorna nel salottino, presso la scrivania, con la piccola valigetta solita, che porta a mano e nella quale ripone carte, giornali, libri, tutto ciò che gli occorre di leggere e che gli serve per scrivere in viaggio. A un tratto sente bussare leggermente:
— Avanti!
È Remigia. Entra, chiude e si ferma con le spalle appoggiate all'uscio.
— Voi? — esclama Giacomo stupito. — Siete dunque guarita? — Si avvicina e l'osserva: ha il viso fresco e color di rosa! Ha tutto color di rosa: il nastro che avvolge e stringe le matasse dei capelli biondi, e il vestito un po' corto di zeffir, dal quale spuntano i piedini nelle scarpette nere, verniciate. — Sì! sì! Siete proprio guarita! — Le stende la mano: l'altra, niente, non gli dà la sua. Giacomo sorride:
— Sono tanto contento! Sono contento, prima per voi... Poi anche per me! Ero... e sono tuttora pieno di rimorsi. Vi siete sentita poco bene, non è vero?... Vi siete inquietata per colpa mia?
Remigia non risponde: lo guarda restando sempre ferma, le mani dietro la vita, appoggiata contro l'uscio.
Giacomo passa un istante nella sua camera; manda via il servitore con un pretesto e torna subito. Remigia non s'è mossa. Egli torna ad avvicinarsi.
— La Mimì, — dice la fanciulla con voce grave — mi ha detto che volevate partire stamattina e che prima avevate assolutamente bisogno di parlarmi. Eccomi qui; vi ascolto.
Giacomo, con dolce violenza, le prende la mano allontanandola a forza dall'uscio e la conduce nel mezzo del salottino, dinanzi al canapè.
— Sedete, cara Remigia. Vi devo fare un lunghissimo discorso... e seriissimo!
Remigia lo guarda fisso un momento, poi siede e torna a fissarlo muta, aspettando che incominci a parlare.
Giacomo resta in piedi, accanto alla scrivania.
— Siamo due buoni amici, non è vero?... Anzi, meglio ancora, diciamo così: io sarò... il papà e voi la mia figliuola!
Remigia ha un lampo di contrarietà negli occhi; raggrotta le ciglia.
— Prima di tutto, ditemi... — continua il D'Orea. — Non siete più in collera con me, per la mia sfuriata intempestiva di ieri e per la... goffaggine di quella vecchiaccia stupida?
— No.
— Mi avete perdonato?
— Sì.
— Proprio, proprio?
— Ho detto di sì.
Le risposte di Remigia sono brevi e secche. Ella guarda Giacomo, sempre fissamente e Giacomo, sotto quegli occhi non più limpidi e giocondi, ma freddi e foschi e attentissimi, non sa come incominciare a spiegarsi, come entrare in argomento. Non è più la stessa Remigia! È diventata un'altra! Dov'è tutto l'argento vivo? Dov'è l'allegra e chiassosa maestrina del tennis?... Dov'è andata la... — Oh, come gli risuona all'orecchio la voce carezzevole, armoniosa di Maria! Come sente ripetere, in cuor suo «la piccola! la piccola!» No! No! Egli non chiamerà più così Remigia! Gli darebbe troppa tristezza! Troppo dolore!... — Si fa forte contro l'immagine così presente e così viva, torna a prendere la mano della fanciulla fra le sue e l'accarezza lievemente:
— Volete che parliamo un pochino, io e voi, di un nostro giovine amico... assente?
Remigia ritira la mano con un moto istintivo: — Di Totò? — Fa un'allegra risatina, poi si contiene, alza gli occhi al cielo e sospira malinconicamente: — Povero Totò! — Ma non è più così seria. Pronunziato appena il nome di Totò, è un lampo della maestrina del tennis che riappare.
Giacomo riprende e continua ad accarezzarle la mano:
— E se... lo facessimo tornare?
— Per me, come volete!... Ma credo che ormai, anche mammà, non resterà molto tempo a Villars!
Tanta calma e tanta indifferenza sconcertano Giacomo.
— Rispondetemi sinceramente: volete bene, voi, a Totò, sì o no?
— Sfido io; molto bene! È mio cugino! E poi, di Totò, il brittanno, in fondo, se ne fa ciò che si vuole! È così buono! Tesoro! Caro! Un caro tesöro!
Tal'e quale, come se l'innocente fanciulla parlasse di Din e Don!
— Credo, per altro, — soggiunge il D'Orea, — che Totò voglia ancora più bene a voi, che non voi a Totò!
— Questo, si sa! Sempre così, tra cugini! — Remigia balza in piedi con uno de' suoi scatti improvvisi e corre alla finestra, a vedere se il tempo si rischiara: — Pare di no! Ah, mon Dieu! Mon Dieu! Come sono menzognere le profezie del signor Trüb! — Siede sopra un'altra poltrona più alta e torna a fissare Giacomo attentamente dondolando le gambe fine, di cui si scorge fra le sottane rosa e i piedini che strisciano per terra, anche un profilo, un barlume di calzetta nera. Il discorso di Totò non è attraente.
Giacomo si china verso di lei, parlandole più sottovoce.
— Totò... è innamorato.
— Di me?
— Di voi!
— Bella novità! Sono sempre stata la sua fissazione! Deve aver trovato qualche cosa di simile, una miss con i miei connotati, in un romanzo inglese! — Dopo aver riso un attimo, si mostra seccata: — Non sarà di Totò, spero, che volevate parlarmi assolutamente, stamattina, prima di partire, come mi ha detto Mimì?...
— Invece sì! Volevo parlarvi proprio di Totò... e di voi. Della felicità di Totò e della vostra. Egli vi ama e voi gli volete bene; è buono, è giovane, è anche un bel giovane...
— Basta così! — Remigia balza in piedi di nuovo, ma questa volta con un atto di dispetto e diventando rossa. — Ciò che dite voi, non sarà mai! L'ho dichiarato risolutamente anche a mammà, anche allo zio Rosalì, e per questo, per evitar scene, lo hanno mandato in Italia. Sono stata io, — proprio io, — sì, sì, sì!... Mi seccava co' suoi dispetti, co' suoi rimproveri, con la sua gelosia! Gli voglio bene, ma non lo amerò mai; e la differenza è grandissima! Gli voglio bene, ma non lo sposerò mai! Amico sì, marito no e basta; non se ne parli più! Eccellenza, fate buon viaggio!
Remigia corre verso l'uscio; Giacomo riesce a fermarla.
— Ascoltate...
— No, lasciatemi stare! — La fanciulla, crucciata, corre a rifugiarsi nel vano della finestra, e appoggia la fronte contro i vetri.
— Ebbene... — Giacomo perde, un momento, la pazienza... — Se non mi volete lasciar parlare, non se ne parli più! Ma avete torto.
Remigia non risponde, non si muove. Giacomo si sfoga camminando, pestando i piedi e pensa fra sè:
— Non lo amerò mai! Non lo sposerò mai!... Perchè crede, certo, di doverlo sposare così... lui, senza un soldo e lei... anche! Ma, d'altra parte, come spiegarle le mie idee, le mie intenzioni, senza offendere la sua permalosità, il suo amor proprio, il suo orgoglio? Non posso dirle... su due piedi: — prima di rispondere che non lo amerete mai, che non lo sposerete mai, aspettate di sapere che voi, avrete mezzo milione di dote e Totò, un buon impiego, senza far niente, in Casa D'Orea! È certo che se potesse immaginare tante belle cose, direbbe subito di sì!... Forse avrei fatto meglio a parlarne prima con la madre! — Gli passano nella mente le occhiate e i sospiri della duchessa, in que' giorni, e insieme i dubbi di Maria, le felicitazioni di Marco Danova... e la lettera, quella lettera di Luciano. Tutto ciò accresce la sua irritazione. — Se può entrare nelle viste della madre il farlo credere e se anche Maria, per il bene che mi vuole, può trovar la cosa verosimile, io... non avrò mai di questi timori!... Se, invece, fosse vero?... Una simpatia?... Un'affezione? — Dà un'alzata di spalle. — Ma che! Ma che! — Si avvicina alla finestra dov'è sempre la fanciulla con la fronte appoggiata ai vetri, e le parla più franco, risolutamente:
— Spieghiamoci chiaro: che c'è d'andar tanto in collera?... Potreste aver ragione, se vostro cugino vi fosse antipatico; questo non è, tutt'altro; confessate anzi, voi stessa, di volergli bene! In quanto poi al... al positivo... Io sono vecchio, potrei essere abbondantemente vostro padre e nel matrimonio... guardo anche al di là, o al di qua, della poesia. Parlando appunto di ciò, con vostra sorella...
Remigia, si volta con un impeto d'ira:
— Non voglio nulla e non accetterò mai nulla da mia sorella. Ricordatelo bene voi e lei, tutti e due... voi due!
Giacomo rimane sorpreso dal modo con cui Remigia ha detto voi due; non può reggere a quello sguardo diritto come una lama: devia un attimo gli occhi pensando fra sè con un brivido: — Ha forse indovinato?....
Remigia continua pallida, bieca:
— Mia sorella... so io, perchè vorrebbe farmi sposare Totò!... È lei, che vi ha messo in mente di farmi sposare Totò! Lei, lei, è sempre lei, la cara gioia della sorellina mia... perchè... So io perchè!
Giacomo, temendo per Maria, si fa forte e riprende con calma:
— Allora, se lo sapete voi, vorreste farlo conoscere a me pure, questo recondito perchè? Ne ho un pochino il diritto! Sono stato io a mettervi, a trascinarvi, per forza, su questo punto del discorso.
— A voi?... Proprio a voi, non lo dirò mai!
— A me?... Proprio a me, non lo direte mai?... E non potrò nemmeno sapere a che devo attribuire, proprio, io specialmente, questo vostro rifiuto e la vostra collera? — Giacomo è nervosissimo; non sa più oltre dissimulare. Si mette risoluto in faccia a Remigia; alza la voce:
— Io non sono l'uomo degli equivoci, nè dei sottintesi. Li detesto, e abborro chi ne usa. Vi ho già detto: spieghiamoci chiaro. Ve ne prego ancora; anzi, adesso ve lo impongo!
Remigia, risoluta a sua volta, alza pure la voce, velata da un leggero tremito:
— Impongo?... Imporre a me, voi?... Con qual diritto?... Io non vi faccio colpa di niente e non vi domando niente.
— Farmi colpa di che cosa? — risponde Giacomo, più sottovoce.
Remigia non s'interrompe, continua con uno scoppio violento:
— Basta che sappiate ciò, voi! Io non sposerò nè mio cugino, nè nessuno! Questo è parlar chiaro? Io voglio subito ritornare a Napoli e da Napoli, subito in campagna mia! Voglio restar là, sempre, chiusa, sepolta! Voglio morir là, sola, senza più vedere anima viva, soltanto mammà! E questo, vi pare o no parlar chiaro?
.... Comincia ad essere troppo chiaro per Giacomo, per la coscienza di Giacomo! Egli si sente più inquieto, sempre più turbato. Pensa, si rode, si sgomenta, spera ancora: — È impossibile! Non è possibile! Fosse anche, non può essere altro che un capriccio, una ragazzata!... Poi, di nuovo, trema per Maria. — Se Remigia capricciosa, impetuosa, dubitasse davvero di qualche cosa, tra me e sua sorella?...
Un lungo silenzio... poi Giacomo riprende con voce non ben sicura, interrompendosi spesso, come chi cerca non solo le parole, ma anche la via del discorso:
— Sentite, Remigia: siate ragionevole e ascoltatemi, con amicizia, con bontà, senza irritarvi e soprattutto volendovi ben persuadere... che io sono diventato vecchio rimanendo un ingenuo e che perciò non dico mai altro che la verità, proprio la verità più semplice e... più vera! Vi ho detto di considerarvi come una mia figliuola, e sento che potrei proprio volervi bene... come a una figliuola! Pensate: ho ventidue o ventitrè anni più di voi: quasi un quarto di secolo!... E sono ancora più vecchio della mia età, perchè sono molto ammalato e molto stanco. La mia vita, senza gioie, senza allettamenti, va spegnendosi nel freddo, nel buio... La vostra, invece, comincia adesso, proprio come una rosa sbocciata all'alba e che si apre al sole!... Ascoltatemi!... Ascoltatemi, per amor di Dio!... Per un capriccio, per un'ostinazione, per un'illusione, non fabbricatevi voi stessa... con la vostra ignoranza delle cose, del mondo, della vita il romanzo della vostra infelicità!... Ma che! Parlare voi di sepoltura e di morte!... Amore! Amore, figliuola mia!... L'amore di un giovane che vi adora... E sappiatelo e ricordatelo perchè è proprio così: l'amore non è felicità che quando è giovinezza...
Remigia esita mettendosi le due mani sul cuore che palpita, poi prorompe a un tratto:
— E voi? Che ne sapete voi? Chi non dice a voi... che... io... — È spaventata di ciò che sta per dire. — No! No! No! Voi non mi avete capita, non mi capite e non mi capirete mai!
— Dev'essere, allora, una cosa ben inverosimile, strana, pazza! — Giacomo è fuori di sè.
La fanciulla trema dinanzi a quella collera; i suoi occhi si riempiono di lacrime.
— A voi, — balbetta chinando il capo, — non preme altro... che la felicità di Totò!
— E la vostra!
— Oh, la mia felicità!... Voi non pensate che a maritarmi in qualunque modo... per liberarvi di me... A darmi uno stato... perchè sono la sorella di mia sorella... Del resto a voi, proprio a voi, non importa niente niente di me, nè della mia felicità!... Vedete se ho ragione?... Tacete!... Non sapete trovare le parole... — Si volta, nascondendosi la faccia con un braccio e si appoggia così contro i vetri chiusi della finestra: — Non saprete mai trovarla, voi, la parola!
Dopo un momento, restando sempre voltata e appoggiata ai vetri, cerca con la mano che ha libera il fazzoletto dentro alla cintura e se lo porta agli occhi.
— Piange! — Giacomo si lascia cadere sopra una seggiola e rimane lì a guardarla muto, fisso, con gli occhi esterrefatti. Non osa più interrogarla, non osa più dir niente: ha paura di parlare, come ha paura di quelle lacrime.
Ella continua a piangere e piange più forte. L'urto dei singhiozzi scuote le spallucce esili, scioglie uno dei nastri rosa, i capelli biondi si snodano, e a grado a grado che i singhiozzi si fanno frequenti, le cadono giù, lungo la vita...
— Signorina!... — chiama Giacomo a un tratto; poi tace di nuovo. Che cosa dirle?... Non può già dirle, brutalmente: — Va via! Io non credo alle tue lacrime. È tutta una commedia, come quella di tua madre!... — E se non fosse una commedia?... Se quelle lacrime... quel dolore... fossero sinceri... Per colpa sua!
Remigia continua a piangere; i capelli biondi le coprono le spalle, la vita e sussultano come una massa d'oro.
Sembra ancora più piccina, più gracile a vederla piangere così, disperatamente! Fa pietà!... Gli occhi di Giacomo s'inumidiscono.
Oh! Le pene del cuore!... Egli sa per prova quanto sono dolorose. Pure, quella bimba innocente, ha diritto, è padrona di quelle sue lacrime... e lui no.
— Signorina!... Signorina Remigia...
Remigia non risponde: piange sempre e non lo sente. Giacomo non ha più coraggio di chiamarla...
— Così allegra, così viva, così bambina!... Se io dovessi essere proprio la sua infelicità?
In quel momento si ode un rumore di passi nel corridoio, poi si sente la voce della duchessa che chiama forte. Sembra irritata e inquieta:
— Idola! Idola dove sei!... Dov'è andata!
— Dio! Mammà! — esclama Remigia voltandosi spaventata, ancora tutta in lacrime... — Guai se mammà sapesse che io sono qui!
— Ci siete stata ancora e vostra madre lo sapeva!
— Me lo ha proibito quando siamo ritornati insieme dal bosco! Mi ha tanto sgridata! Dio! Dio! Che scena! — Remigia si rannicchia istintivamente, tanta è la paura che mammà la sappia lì, nel vano della finestra, dietro le tende.
La duchessa intanto, continua a chiamare nel corridoio:
— Dov'è andata?... Vorrei proprio sapere dov'è andata!... Mimì! Oh Mimì! Sai tu dove s'è cacciata Remigia? Al tennis non c'è! Nelle sale non c'è!
— Sarà andata a Gryon!... Col principe Rosalino! — risponde Mimì, dal terrazzo.
— Brava! — mormora Remigia. — Cara gioia!... Mi hai salvata in questo momento!
Giacomo fissa bene Remigia senza parlare: è uno sguardo scrutatore e diffidente. Remigia se ne accorge, ma aspetta che sua madre si sia allontanata, che sia tutto quieto nel corridoio.
— Addio! Scendo dalla scala di servizio, esco dalla piccola porta; in cinque minuti sono sul ponte di Gryon prima di mammà. — I suoi occhi sono ancora pieni di lacrime, pure si fa forza, e sorride. — Addio! — ripete ancora, ma con un'espressione ben triste e dolorosa. — Ho avuto tanta paura di mammà; non per me, sapete, oh, no, cara mammà, gioia! Ho avuto paura per voi. Non voglio che voi abbiate seccature per colpa mia! Partite... ve ne prego anch'io, adesso! E non pensate a quello che vi ho detto. Se il mio ricordo può turbarvi... dimenticatemi. E se vi fa piacere, se vi può tranquillare, pensate... che dimenticherò anch'io. — Grossi goccioloni le rigano le guance, ma continua a sforzarsi, a sorridere. — Guarirò! Vi fa piacere che dica così? Partirete tranquillo?... Senza nessuna inquietudine? Guarirò... ve lo prometto!... o almeno, farò tutto il possibile, ve lo giuro! Corre sull'uscio, si volta: protende il viso... Le labbra spirano un addio, un sospiro, un bacio... e sparisce.
Giacomo D'Orea parte subito per Ginevra: ma due giorni dopo, ancora da Ginevra, ritorna il suo servitore con una lettera assai voluminosa, che deve consegnare nelle proprie mani, segretamente, a donna Maria Grazia.
Maria, prima di aprirla, si chiude sola nella sua camera... e aspetta ad aprirla, di averne il coraggio. Poi, leggendola, diventa pallida più che una morta.
«Abbrucia subito questo mio sfogo pazzo, disperato, questo mio delirio di amore, di dolore, di rimorsi. Te ne prego, te ne scongiuro. Senti ancora la mia voce?... Te lo impongo.
«Maria! Maria! Oh, Maria!...»
Così, con queste ultime parole, finisce la lettera di Giacomo.
Ella, con una calma quasi solenne, religiosa, come mossa da uno spirito di sommissione e di devozione, abbrucia lentamente, al fornellino d'argento della specchiera, tutti que' vari foglietti sottili, trasparenti, dalla scrittura minuta, dalle righe fitte e li guarda sollevarsi in cenere come falde leggerissime, volare intorno, disperdersi... sparire.
— Più!... Mai più!
Nella sua lettera, Giacomo ne aveva chiusa un'altra: un biglietto di poche righe, ugualmente dirette a Maria e che Maria doveva conservare per mostrare a sua madre: Giacomo D'Orea, con quel biglietto, pregava la cognata di chiedere per lui, alla duchessa, la mano di Remigia.
PARTE TERZA.
I.
Il signor Zaccarella, cambiando di padrone, cioè entrando al servizio particolare di donna Remigia, se ha perduto il titolo di capitano, non ha perduto il potere; anzi, tutto al contrario! Adesso, potrebbe venir chiamato governatore! Governatore di Pontereno, la grande, magnifica villa che apparteneva in origine ai Conti Bernabei. Andata a mano a mano in rovina, mentre andavano in rovina anche i suoi nobili proprietari, era stata comperata all'asta dal capostipite dei D'Orea, — il padre di Sua Eccellenza e di don Luciano, — il signor Vitale, in quel tempo in pieno furore di mortadella e lontano le mille miglia dal D'Orea con l'apostrofe!
Il bravo signor Vitale, si era affezionato a Pontereno perchè, acquistandolo, aveva fatto un eccellente affare. Diceva sempre, compiacendosene:
— L'ho avuto per una presa di tabacco! Tutti i fondi con i diritti in piena regola di acque e di decime, con le cascine, i rustici, e con la villa per soprappiù!... Una villa?... Un palazzone!... Una reggia!
E quella reggia, smantellata dai venti, sfasciata, sgretolata egli cominciò a puntellarla qua e là, a rattopparne il tetto con qualche scriminatura di tegoli nuovi, a rinzaffare alla meglio qualche tratto di muro, ma sempre senza voler spendere, anno per anno. Più tardi, però, dopo morto il signor Vitale, Giacomo D'Orea demolisce tutto Pontereno, la parte ancora in rovina, e la rimpellata, lo rifabbrica, e lo ricostruisce com'era ab antiquo fin nei più piccoli fregi, compiendo una vera opera d'arte.
Pontereno diviene in tal modo quasi la capitale del regno di casa D'Orea, finchè salita al trono la duchessina Remigia Moncavallo, questa la sceglie come residenza e ne fa, in breve, con il suo fine accorgimento e il buon gusto di razza, la propria Versailles.
Da Pontereno si è subito a Bologna: in men di un'ora, in carrozza, e con il tram, in venti minuti. È come se Remigia fosse in città, per le visite e i pranzi, per le feste e per i teatri, mentre per tutto ciò che le può occorrere, manda innanzi e indietro il signor Zaccarella. E c'è questo grande vantaggio, che la distanza, per quanto breve, tiene a distanza i sudditi e anche la folla dei cortigiani, dalla reggia; accresce l'autorità, l'influenza e concede maggior libertà ai sovrani, anzi alla sovrana. Giacomo, per via della Camera quando è aperta e per i suoi affari quando la Camera è chiusa, non può mai fermarsi a Pontereno, dacchè è ammogliato, più di due o tre giorni di seguito.
Pontereno, fuori dall'ombra di San Petronio, vive così, in piena luce; riempie tutta Bologna del suo sfarzo e dei suoi ricevimenti. A Bologna col dire: — Io vado a Pontereno — io sono invitato a Pontereno — si distinguono i nobili e loro affini, il buon genere, insomma, ed il bon ton dall'intruglio cittadino. Il signor Zaccarella, quando gira in fretta e in furia per le botteghe, sotto i portici del Pavaglione, seguito sempre da Din e Don, riceve continui ossequi e riverenze come se quei buoni mercanti fossero stati a Villars, a prendere lezione di sgambetti e di saltetti, dal signor Trüb! Le dame e i cavalieri che sono in tale dimestichezza con Pontereno da poter fermare il signor Zaccarella per accarezzare i barboncini e per chiedere ad alta voce le notizie di donna Remigia, hanno quasi l'aria di voler dire all'altra gente: «Tiratevi in là, ch'io son uno della crème! » E lo stesso capitano, impettito coi plebei, asciutto coi nobilucci, dignitoso con tutti, fa sentire, anche da lontano, che la Versailles bolognese, per quanto fresca fresca, non è punto democratica.
La regina della nuova monarchia, Remigia Iª, vuol essere assoluta e sola nell'impero e ci riesce: Maria non si fa più vedere. Vive sempre ritirata nella villa di Fiumicino-Superiore, distante due o tre chilometri da Fiumicino-Inferiore, dov'è la casetta della signora Gioconda. Con la scusa di non voler accollare i propri parenti a Jack, — mon Dieu! mon Dieu! com'è odioso quel nome di Giacomo! — Remigia si libera di mammà, — gioia cara! — e dello zio Rosalì, — tesöro! — costringendo i suoi due vecchi, di cui è l'idolo e l'orgoglio, a seppellirsi, davvero, loro, in una campagna del napoletano, soli soli e senza più neppur l'ombra del vicereame!... Con la scusa degli scrupoli e dei riguardi a cagione della piccola passioncella ante nuptias, ella ha fatto proibire a Totò, assolutissimamente, di varcare i confini dell'Emilia.
Oh, ne ha avuto abbastanza da ragazza di quella vita in carovana! Ha sofferto abbastanza da ragazza, la mortificazione e l'umiliazione di far vedere a tutto il mondo che i Moncavallo vivevano alle spalle dei D'Orea!
— Basta! Adesso basta!... Non voglio essere stupida, per il gusto di far la martire, come mia sorella!
— Più parenti, più seccature! Della gente di una volta, soltanto Mimì Carfo... e il signor Zaccarella!
A Mimì, forse forse, e a modo suo beninteso, l'Idola è anche un pochino affezionata.
Come no?
Mimì Carfo, è sempre la stessa di una volta: la Mimì che piange quando Remigia ha le lune e che ride quando Remigia è di buon umore. Remigia, per Mimì, è sempre tutta una perfezione di bellezza, anima e corpo; è sempre la più geniale e la più cara, la più pura e la più santa delle creature della terra... anzi del cielo!
Donna Remigia se ne compiace; ella ormai ha l'abitudine, ha il bisogno di questo calore, di questo fervore, di questa ammirazione cieca, illimitata.
— Mimì sì, che mi vuol bene! — esclama la sovrana di Pontereno; e questo bene, tanto straordinario, le serve come di confronto per misurare, per vagliare il bene degli altri. Quello, specialmente, «senza slanci, insulso» di sua sorella.
Col dire, — Mimì sì, che mi vuol bene — esprime certe volte: Mimì sì che ha cuore, gli altri no!
Poi c'è questo, ed è forse il più, per tener Mimì a Versailles: come dama d'onore la contessina Carfo ha tutte le qualità oltre la bella e signorile presenza.
In quanto allo Zaccarella, donna Remigia ha voluto averlo sotto i propri ordini, perchè, modificate le prime impressioni, ha capito e capisce ogni giorno, che un altro servitore così servitore come quel despota di un capitano, non sarebbe facile trovarlo; e lo ha voluto sotto di sè anche per il gusto di poter comandare lei — e lei sola! — al burbero condottiero, che aveva fatto da padrone, per tanto tempo, a tutta la carovana... compresa sua sorella!
Il capitano, appena combinato il matrimonio di Giacomo D'Orea con Remigia Moncavallo, era stato subito destituito e messo alla porta dal suo principale. Don Luciano, in primo luogo, era furiosissimo contro lo Zaccarella, per non essere stato avvertito in tempo da poter impedire quella madornale bestialità: — la turlupinatura di un rammollito, — come aveva sentenziato Fanfan. In secondo luogo, questo fatto, veniva naturalmente a porre un certo limite alla facoltà de' suoi atti... di amministrazione! Bisognava, insomma, spendere meno; e non volendo affatto restringere le spese per Fanfan, Don Luciano aveva ridotte, fino alla tirchieria, le spese per la casa e per la moglie. Ogni giorno licenziava servitori e vendeva cavalli; chiamava, strepitando, ladra la sarta di Maria.
Giacomo, del capitano, non avrebbe voluto saperne; ma, — come si fa? — Anche questa volta ha finito per cedere. Giacomo — Jack, è usato soltanto da Remigia e quando il marito non è presente, — Giacomo cede sempre a sua moglie. Cede, ben inteso, in ciò che ha importanza... soltanto per sua moglie! E non è la sua, la debolezza di un marito tenero e cieco; è piuttosto la fretta di un padre affaccendato che non ha tempo da perdere in chiacchiere per combattere e vincere i piccoli capricci della figliola.
In fatti era un marito... così sempre di passaggio!
Più che la duchessina Moncavallo, pare abbia sposata la ferrovia!
Sua Maestà Remigia Iª constatando il fatto con la sua damigella d'onore, non se ne lagna niente affatto. Ella riassume così, sinteticamente, le più varie espressioni del suo affetto coniugale:
— Vicino lontano, io, a mio marito, voglio sempre bene lo stesso!
Ed è la verità: tanto più che «lo stesso bene» non vuol dire «molto bene».
Anche vicino, — è vero, — Giacomo fa sentire pochissimo la sua presenza alla moglie; ma Remigia, tanto e tanto, si sente più sollevata, più liberamente di buon umore, quando Jack non c'è!
— Mon Dieu! Mon Dieu! — sospira con Mimì. — Jack, lo riconosco, sembra proprio fatto apposta per me! Un marito, meno di così, non è possibile!... Ma Pontereno, senza Jack... Ah! Mi pare più bello, più grande, più mio!
Mimì, cerca di difendere il signor D'Orea: — È tanto buono, tanto accondiscendente...
— Ma tanto brutto! Gli occhi, ricordati, Mimì, sono la via del cuore! Se tu fossi brutta, non vorrei bene, — giuro, — nemmeno a te! Impossibile! Del resto, poco più poco meno, rammenti che cosa ti dicevo, i nostri discorsi a proposito del re del Nubian?... Per me, l'uomo è il più brutto animale della creazione! Vuoi mettere, per esempio, quanto è più bello un bel cavallo?...
Queste confidenze, ben inteso, sono particolari e riservate a Mimì, sola solissima! Con tutti gli altri?.. Figurarsi! Di mogli tenere, affettuose, non c'è che lei! Quando poi si tratta di mettersi lei in confronto di sua sorella, come moglie modello, allora si professa addirittura innamoratissima di suo marito.
— Oh, il mio Jack! — Non può vivere senza il suo Jack, a parole, e sfoga tutto l'amore in telegrammi, — almeno uno al giorno, — sempre firmato tua, senz'altro: tua.
Il bisogno di vederlo, di andarlo a trovare, lo sente qualche volta, quando suo marito è a Roma, e ci sono feste. Allora sì!
— Il mio Jack! Tesöro! Caro! — Parte per Roma con un monte di bauli e almeno dodici cappellini.
A Roma, del resto, le piacerebbe di passare tutto l'inverno; ma non all'albergo, in quattro stanze; in casa sua; coi suoi cavalli!
Adesso che può averne quanti ne vuole, Remigia ha una passione pazza per i cavalli. Ne ha sedici in scuderia di tutte le razze e tutti di razza.
— Bellissima Roma, con un villino al Maccao e i suoi cavalli!... Almeno Febo e Desir!
Febo e Desir, assai più inglesi veri del povero Totò, hanno preso il posto di Din e Don, nel cuore di Remigia. I barboncini, non più profumati all'acqua di Colonia, sono abbandonati oramai — amöre! due amöri! — alle sole cure del signor Zaccarella.
— Bellissima Roma!... Poter essere un po' padrona di Roma!... Che gioia!
Ma finchè non si butta giù l'attuale Ministero, impossibile! Jack, — questo si sa, — non può accettare un portafoglio altro che da gente del suo colore!
— Ah, mon Dieu!... Che cosa aspettano a buttarlo giù? E un ministero decrepito, che dura già da un anno!
... Regina a Pontereno e ministressa a Roma!... Ecco la vita!
II.
Sua Maestà Remigia Iª vuol regnare sola, ma non le piace regnare in solitudine. Pontereno è sempre pieno di gente: tutto il bel mondo della media e della bassa Italia!
Per gli uomini, nessuna scelta: porta aperta. Basta che il frac non abbia macchie. Per le signore si agita il vaglio con circospezione oculatissima: non deve aver macchie la virtù.
Donna Remigia, sul punto della fedeltà coniugale, è di fronte al proprio sesso, di manica strettissima. E si capisce! Non può sopportare nemmeno un uomo solo, purificato dalla Chiesa, autorizzato dal sindaco; in qual concetto può mai avere quelle... tali che sono capaci non solo, di sopportarne, ma di amarne due, magari nello stesso giorno?...
— Che orrore!...
E tanto più, quanto più sono belle e ammirate. Certe signore, in voce di aver buon cuore, non solo non possono oltrepassare la cancellata della Versailles bolognese, ma sono colpite, da donna Remigia D'Orea con certi decreti di proscrizione che hanno vigore in Bologna, in Firenze e più in là.
Pure, anche tra il genere mascolino, se si fa una sola distinzione assai superficiale di forme e di sartoria, ci sono le specie preferite e favorite: la specie sport e la politica. Politica ortodossa, s'intende!
Donna Remigia, piena di salute, tutta nervi e senza nemmeno una fibrilla di adipe, ha bisogno, per star bene, di ridursi alla sera stanca morta a furia di divertirsi. La sua vitalità, il suo fervore di donna giovine e forte devono stemperarsi in sudore, dunque i cavalli, dunque le caccie, il tennis, il ballo... Dunque avanti, a Versailles, a corte, tutti gli sportsmen autentici e ben qualificati, o ancora semplici aspiranti alle glorie del turf.
Donna Remigia, mira al portafogli: e per questo sono assai ricercati e accarezzati a Pontereno tutti coloro che, secondo lei, possono spianare la via del Campidoglio!
Chi sa?... Il gran giorno è forse vicino!
«Il ministero non può reggere!... Il ministero ha ormai i giorni contati!... Alla prima votazione il ministero è spacciato!» Ecco l'ultimo bollettino politico degli amici, dei clienti di Pontereno.
Le votazioni si seguono, il ministero è sempre in maggioranza, ma ciò non altera le «recentissime» dei Machiavelli di casa D'Orea. E i più autorevoli personaggi, compreso il signor Zaccarella, precisano anche la data, in cui il morituro morirà.
Donna Remigia vuol parer calma, se non indifferente, ma è sempre in giro con la carrozza, sempre in visite e più espansiva, amabile, più alla mano con tutti. Gli sportsmen, intanto, passano in seconda linea, e gli uomini politici hanno il sopravvento.
— Presto, dunque... a Roma? — è il saluto che vien rivolto, in generale, alla Sovrana di Versailles. Dacchè, secondo le sue gazzette, il Ministero pencola, donna Remigia va più spesso a Bologna a confessarsi, e a Bologna il saluto e l'augurio: — Presto, dunque... a Roma? — glielo fa anche l'arcivescovo, di cui è la penitente, sebbene con una leggera punta d'ironia, per non compromettere il non expedit. — Dunque a Roma, donna Remigia, illustrissima! Alla famosa capitale! — grida con il suo bel vocione da Tedeum, quando s'incontrano dopo la messa, l'arciprete di Pontereno, di cui ella è la generosa protettrice.
L'avvocato Ciro Berlendis, consigliere comunale, consigliere provinciale, grande elettore, grande fondatore di giornali con i danari degli altri, è invitato a pranzo a Versailles, non soltanto la domenica, ma adesso anche il giovedì.
— A Giugno, sicurissimo, si fa casa nova! — esclama soffiando, gonfiandosi le gote, prima di mettersi a tavola. — Questa volta, duchessa Remigia, tocca a lei: se l'onorevole D'Orea, volesse fare ancora l'ostinato, da brava, una tiratina d'orecchi!
E il conte Narciso Gambara, vice-presidente del circolo monarchico, innamorato un giorno sì e l'altro no, a vicenda, della regina e della dama d'onore, e il cavalier Marco Bragotto portabandiera dei Nuovi Veterani di S. M., e autore di versi patriottici a rime obbligate, che parole mormorano, sospirando, tenendole stretta la mano?... — Queste:
— Ah!... Siamo alla vigilia di perderla, duchessa Remigia!
Persino il colonnello Baldassare De' Taddei!.... Messo da un anno e mezzo a riposo, con la scusa dei limiti d'età, mentre si sente ancora così giovane e forte... di stomaco, da divorare l'Italia in un boccone, tanto è il suo dispetto di averla fatta per uso e consumo di quei camorristi dello Stato Maggiore, lo stesso colonnello Baldassare De' Taddei, che giura e spergiura di non aprir più bocca a proposito di politica, perchè quella che si fa da un anno e mezzo in Italia, è una schifezza, esclama digrignando gli occhi, — denti non ne ha più:
— È ora di finirla!... Allons! Marche, la camorra!... Piazza pulita!
Il Maggio infocato più del Giugno da un sole che brucia fino alle nove di sera, volge intanto alla fine con una nitida e immota serenità di cielo... Ma è laggiù, nelle Puglie, che si addensano grossi nuvoloni di scioperi e mugge il temporale. A buttar giù davvero il Ministero, a Roma, a Montecitorio, non ci pensa ancora nessuno. È proprio lo stesso Ministero che si butta giù da sè... per voler stare troppo ben su!
Scoppiati i primi disordini, cerca barcamenarsi tra i partiti: appoggiandosi di qua, appoggiandosi di là, troppo debole prima, poi troppo forte, perde l'equilibrio e va con le gambe all'aria!
Remigia lo sa per la prima, quando ancora non lo si sa nemmeno a Bologna, da un telegramma di suo marito:
«Ministero battuto. Sollecitato amici devo assolutamente fermarmi Roma. Crisi prevedesi lunga, laboriosa. — Abbraccioti saluti Mimì.
« Giacomo.»
Remigia è con la Carolina, proprio sul punto di abbigliarsi per il pranzo, quando riceve il telegramma: appena letto, dà un grido di gioia e fa subito chiamare il signor Zaccarella.
— Il ministero è battuto! — esclama appena lo vede comparire sull'uscio del gabinetto.
— Ah! Se Dio vuole!... Questa volta Sua Eccellenza non potrà...
Remigia non lo lascia finire:
— Lei deve andare a Bologna, subito subito!
— Ma il tram?...
— Se non c'è il tram, prenda la carrozza. Mi porti tutti i giornali della sera e dica al conte Narciso Gambara e all'avvocato Berlendis che li aspetto!
— Speriamo che questa volta Sua Eccellenza non sarà quello degli scrupoli, ma...
— Faccia presto! Mi mandi la contessina Carfo!
Lo Zaccarella con mezza la sua proposizione ancora in gola, corre in fretta a far attaccare e manda in cerca della contessina. Ma la Mimì, che ha visto dalla finestra arrivare un telegramma a quell'ora insolita, è già da Remigia.
— Buone notizie?
— Splendide! Il Ministero è battuto. Leggi. — Le dà il telegramma. — Io, adesso, rispondo subito a Jack quello che mi ha detto l'avvocato Berlendis: non fare, come al solito, l'incontentabile tira-molla.
Mimì legge seria il telegramma, e lo ripone sulla toeletta.
— Per dispaccio?... No...
— Perchè, no?
— Perchè non ti conviene, cara, arrischiare consigli col signor D'Orea e di questo genere. Un uomo serio, scrupoloso...
Remigia allunga i labbruzzi comicamente:
— Me-ti-co-loso!
— Potrebbe aversene per male!
— E allora... rispondo? Che cosa?
Sul visino fresco e roseo passa una nube.
Remigia, aiutata dalla Carolina, s'è levato il vestito. È dinanzi allo specchio grande dello spogliatoio: si guarda... Tal'e quale come a Villars!... Capelli, molti capelli, magnifici capelli; ma nient'altro che capelli!
— Ah! Mon Dieu! Mon Dieu! — Nello specchio si riflette anche, dietro di lei, la bella persona alta, elegante, in fiore, della contessina Carfo. — Come fa poi quella lì a diventar grassa tutti i giorni? Mah! — Dunque?... — ripiglia forte, un po' nervosetta... — Sentiamo, donna di consiglio! Che cosa si telegrafa?
Mimì risponde in inglese e la conversazione continua in inglese per via della cameriera.
— Io gli manderei subito un telegramma affettuoso: Addoloratissima tuo ritardo...
— Addoloratissima, no!... Non l'ho abituato ai superlativi!
— Addolorata tuo ritardo, affretto ora...
Remigia interrompe Mimì con un'alzata di spalle:
— ... e il minuto tuo ritorno. Caso contrario, verrò io stessa a Roma. Uff!... come non mi sento fatta per le corrispondenze coniugali! Fa tu un bel telegramma e mandalo subito dopo pranzo. Ricordati di chiudere così: « tenerezze — tua ». Poi gli scriverò io di non fare sciocchezze, che non ci devono essere puntigli di Centro, di Estrema nel momento in cui il Paese e il Re hanno bisogno di uomini... precisamente come mio marito!
— Scrivere, risponde sempre seria Mimì, puoi scrivere ciò che vuoi. Però, senti prima anche l'avvocato Berlendis. Verrà stasera?
— Certissimo! Ho mandato apposta il signor Zaccarella a Bologna, a cercarlo! E anche il giovane e bollente crociato che ti adora: Narciso Gambara.
Mimì ride:
— Mi adora?... Ci adora!
— Sì! sì! Tutt'e due! Un po' per uno, non fa male a nessuno!
Remigia, seduta dinanzi allo specchio, salta di gioia sulla seggiola. È tornata di buonissimo umore. Nel bianco accappatoio, con tutti i capelli biondi, sciolti, che l'avvolgono, la coprono, e dai quali non spunta che il visino fresco, roseo, scintillante, è una bellezza, uno splendore, un amore. Sempre saltando sulla seggiola si mette a cantare:
— Battuto! Battuto! Battuto!.. Il ministero è stato battuto! — Ritorna seria a un tratto: — Mimì, devi pregare tanto per me. Ascolta una messa di più e prega secondo la mia intenzione.
— Sì, cara! Sì, certo! — risponde Mimì accesa del suo grande fervore.
— Prega, che lo facciano ministro degli Esteri. Se gli danno gli Esteri, io sono felice! — Torna a saltare sulla seggiolina: — Felice! Felice! Completamente felice!
L'avvocato Ciro Berlendis e il conte Narciso Gambara, arrivano tutti e due, in punto per il caffè. Remigia e Mimì Carfo sono in giardino: hanno appena finito di pranzare.
— Il conte Narciso è stato tanto amabile da offrirmi un posto nella sua carrozza; posso dire con esattezza: son venuto volando.
L'avvocato, sempre stile régence con le signore, bacia prima la mano alla duchessa Remigia, poi stringe lungamente quella della contessina Carfo, accarezzandola. Il conte Narciso Gambara ha portato un superbo mazzo di fiori, che divide fra le due signore.
Il conte Gambara e l'avvocato Berlendis stanno bene insieme, tanto sono diversi l'un dall'altro. L'avvocato, piccolo, tombolotto, con un faccione tondo, rossiccio, lentigginoso, la barba sotto il mento e gli occhiali alla Cavour, somiglia in caricatura, un po' a Cavour, e suda, suda, estate e inverno, sempre vestito di nero, sempre con la cravattina bianca di sbieco e le scarpe coperte di polvere o di mota. Il conte Gambara, elegantissimo, in tutto punto, secco secco, ha un nasone enorme, aquilino, che gli taglia mezza la faccia, dalla radice della scriminatura fonda, fra due ali lucenti di corvo e i baffetti irti. Guardata davanti, di profilo e anche di dietro, di questa testa non si vede che il naso: di questo bel giovane e fremente monarchico, non resta impresso che il naso.
— Dunque ci siamo! — esclama l'avvocato.
— Battutissimo! — strilla il conte Narciso.
Donna Remigia sembra un po' titubante. Indica, all'avvocato, tutti i giornali portati da Bologna dal signor Zaccarella sfogliati e buttati, ancora aperti, sulle seggiole, sul tavolino, per terra.
— Ho cercato... Ancora non c'è niente!
— Battutissimo!.. Battutissimo!.. — ripete l'avvocato, per distruggere la leggera nube. — Nel venir qui ci siamo fermati un momento all'ufficio del Vespertino. — È il suo ultimo nato. — Avevano appena appena ricevuto il telegramma da Roma e andavano in macchina: Novantotto voti sopra circa quattrocento votanti: una catastrofe!
— Sadowa! Donna Remigia! — Sadowa! — Il conte Narciso ha una bella vocina che avrebbe mandato in visibilio il maestro Mustafà. — Sadowa! Sédan!
L'avvocato diventa serio e grave, come richiede il grave momento. Si leva un piccolo fazzoletto bianco sudicio dalle tasche dei calzoni e tenendolo stretto, raggomitolato nella mano grossa, pelosa, se lo passa più volte in giro sulla faccia gocciolante.
— Adesso, ci siamo. Tocca a lei, duchessa Remigia!
— Sì! Sì! Sì! Tocca a lei, donna Remigia! Ma sì! Ma sì! Precisamente a lei! — Il conte Narciso puntando forte un piede per terra, solleva un po' la seggiola da una parte, vi si allunga sopra piegandosi e avvicinandosi verso Mimì. — Non è vero, contessina? Non le pare, contessina? Ma sì! Ma sì! Proprio così! Adesso tocca a donna Remigia!
— Lei deve persuadere suo marito che oramai... non è più padrone di sè. Non può più schermirsi, nè tergiversare! — L'avvocato suda più di prima; si caccia in tasca il fazzoletto e si asciuga con il dorso della mano. — Come i suoi amici, il partito, il paese, hanno diritto di fare sicuro assegnamento sulla sua partecipazione al Governo, sulla sua esperienza, sulla sua intelligenza; egli ha il dovere imprescindibile di non mancare alla chiamata!
— Non ci sono più scuse nè pretesti: bisogno di riposo, la salute...
— Mio marito sta benissimo! — dichiara pronta Remigia. — Non è mai stato tanto bene!
— Non ci devono essere delicatezze spinte, esagerate, nè verso... le idee, nè verso i colleghi. E sopratutto bando, — permette donna Remigia che io parli chiaro e franco? — bando ai puntigli, alle schifiltosità e all'intransigenza. Oggi è venuto il momento nel quale il partito dell'ordine non deve espellere, ma assorbire!
— Ma sì! Ma sì! Proprio così! Non è vero, contessina? — Il conte Narciso diventa più tenero, le modulazioni della sua voce, più improvviso. — Dica, parli, santo Guìo! Perchè non parla, cattivina, cattivona?!...
Ma questa volta, in tutta la serata, il conte Narciso non fa la corte nè a donna Remigia, nè alla contessina Mimì. Non è tempo di sdilinquirsi in complimenti. La Patria, il Re e l'Ordine, dànno ben altro da fare. Si tratta di comporre la lettera che la duchessa Remigia deve scrivere a Giacomo: il momento è solenne; il Jack, non usa più. Remigia, docile, assai remissiva, ascolta con il bel visino attento, serio serio, i consigli e i suggerimenti dell'avvocato, le osservazioni e le raccomandazioni, sempre opportune e giudiziose di Mimì, le approvazioni e le disapprovazioni, i «Sì! Sì! Sì!» e i «No! No! No!» del conte Gambara. Si tratta di salvare l'Italia, e anche il conte Gambara ha diritto di dir la sua!
La parte della lettera che viene elaborata e discussa è, s'intende, la parte sostanziale, quella che riflette le condizioni politiche e gli obblighi dell'uomo di Stato.
— Lei, poi, donna Remigia, — soggiunge l'avvocato Berlendis con un sorrisetto salace che gli accende ancor di più il viso lustro, e sgranando gli occhiacci ingranditi dalle lenti, — lei poi... al resto, tocca a lei. Le paroline tenere tenere, le paroline che persuadono, che commuovono, che... conquidono, che... promettono... Tocca a lei!
Il conte Narciso s'immagina queste parolette e va in solluchero. — Chi sa! Chi sa! — Poi diventa geloso. — Cattivina, Cattivona!
Oltre al bene inseparabile della Patria e delle Istituzioni, c'è pure il bene loro, altrettanto inseparabile, che spinge lo zelo politico dell'avvocato Berlendis e del conte Narciso. Ministro Giacomo D'Orea, Ciro Berlendis è sicuro di ottenere nuovi fondi per il Vespertino, di cui è stato il fondatore, ma rimane il gerente e l'amministratore invisibile; ed è sicurissimo, per parte di donna Remigia, di poter ficcare lo zampino nel Ministero e così avvantaggiare il proprio studio di avvocato e spadroneggiare su Bologna. Il conte Gambara, con donna Remigia ministressa, non dubita nemmeno di non dover essere alle prime elezioni il candidato del Governo a Regolina, il suo collegio, come dice lui «nativo di padre in figlio e di competenza». Con donna Remigia ministressa, a Roma, lui pure è in prima linea nel mondo politico e nel mondo elegante. Sente già un piacevole ronzìo nelle orecchie:
— Chi è? Chi è? Ma chi è quel bel giovane bruno?... È... sst... l'amico intimo della moglie di Sua Eccellenza! — E spera. Chi sa? Una volta raggiunto il potere lei... — in una grande città, lungi dagli occhi dei Ponterenesi, — perchè non potrebbe averla in suo potere, lui!
— Carina! Carina! È oltremodo stimolante!... Anche la Mimì Carfo, però però!.. Anzi, più appetitosa assai e più resistente per il consumo quotidiano! Ma, ma, ma! Con le ragazze non si arriva che per via del matrimonio; al matrimonio non si arriva che per via della dote... Come si fa, santo Guìo! Come si fa?
La lettera di donna Remigia è già partita per Roma; si attende la risposta d'ora in ora, con ansia; niente. Giacomo lascia passare due o tre giorni, senza mandare nemmeno il solito telegramma. Il fatto, per altro, non desta inquietudini nell'animo dell'avvocato, e, per conseguenza, nemmeno in Narciso Gambara. Tutti e due cercano di tranquillare donna Remigia:
— Durante la crisi, a Roma?... Un uomo come l'onorevole D'Orea? Chi sa che baraonda, che trambusto! D'altra parte, prima di rispondere, vorrà poter mandare qualche notizia sicura!
— Ma sì! Ma sì! Proprio così, donna Remigia!
Invece Mimì è inquieta, e quando è sola con l'amica esprime i suoi dubbi:
— Forse quella lettera aveva troppa l'aria di volergli fare la lezione...
— La colpa è dell'avvocato! Dirò a Giacomo che io ho scritto senza sapere tutto quello che l'avvocato... mi ha fatto scrivere quasi per forza!
III.
Remigia, ormai, non ha più altro in mente che Roma e il Ministero. La sua vanità e il suo orgoglio, la sua smania di prevalere e di dominare, sono attizzati in lei dal corso stesso degli avvenimenti, più ancora che dall'eloquenza e dall'abilità di Ciro Berlendis. «Ottenere ciò che più si desidera e desiderare ciò che è più difficile ottenere» potrebbe essere la sua divisa. Certo, il raggiungere l'impossibile è sempre stata la sua mira. Ma, d'altra parte, ha ormai capito che nelle cose serie, il voler indurre suo marito a fare a modo degli altri è impossibile... e resta impossibile per tutti e anche per lei... Specialmente per lei! Da ciò, incertezze, timori, che nel caso presente rendono più vivo e sfrenato il suo desiderio di andare a Roma ministressa. Fin da quando Mimì a Villars, le ha fatto balenare la prima idea di diventare la moglie di Sua Eccellenza, ella si è subito veduta a Roma, a Corte, moglie di un uomo che è ministro e potente perchè lei possa fare, disfare, a diritto, a rovescio, elargire favori, grazie e... segnare condanne. Appena sposa, appena padrona di sè, libera e ricca, il nuovo regno, la Versailles di Pontereno, l'hanno soddisfatta, lusingata. Ma tutto ciò non l'ha allontanata, anzi l'ha condotta a mezza strada da Roma. Finchè il Ministero aveva navigato in acque tranquille e non c'erano state crisi in prospettiva, nessuno pensava a diventar ministro... e nemmeno lei! Ma adesso che non si parla d'altro, adesso che tutto scompare, che i giornali sono pieni di ministri probabili e improbabili, adesso che tutti gli occhi sono rivolti a Roma, adesso che tutti la preconizzano ministressa, — comincia persino a giungere qualche supplica, — adesso, lì, proprio lì, nel suo regno di Pontereno, che cosa sarebbe diventata se Giacomo non avesse avuto un portafoglio?... Addio primato, addio influenza su Bologna, addio Versailles!... Altro che regina! Le sembrerebbe d'essere diventata la mogliera... del sindaco!
— Ah! mon Dieu! Mon Dieu! — Continua a far pregare Mimì, secondo la sua intenzione.
E Giacomo?... Giacomo persiste a non rispondere, o risponde soltanto per ricambiare i saluti. Remigia scrive, riscrive, premurosa, affettuosa, tenera... ma non può ottenere nessuna notizia precisa. Dipenderà dal colore del Ministero. Dipenderà dalla sua salute.
— Sempre la salute e sta sempre benone!
La smania di Remigia diventa febbre e cresce ogni giorno di grado. Con tutti gli altri, persino con l'avvocato Berlendis e con Narciso Gambara riesce ancora a contenersi abbastanza, ma sola con Mimì, dà in escandescenze:
— Lo fa apposta, quel... Giacomo, per farmi rabbia! Scommetto che c'è sotto mia sorella!
— Che ti salta in mente! — Mimì, è sconvolta, affannata per l'amica sua. — Che ti salta in mente?
— Sì! Sì! Non mi scrive nulla per farmi dispetto e c'è sotto mia sorella! Oppure, prima di decidersi in qualche cosa, invece di scrivere a me, scriverà a lei per consigliarsi e anche quell'ipocrita tirerà in ballo la salute!
— No, no! Remigia! non è possibile!
Mimì, non trattiene più le lacrime: le versa abbondantemente.
— Possibilissimo! Va là! Va là!... Io ne so più di tutti!... «L'acqua cheta rompe i ponti» direbbe lo zio Rosalì! E mammà, cara gioia, risponderebbe: «Acqua minuta, bagna e non è creduta!» Per fortuna, però, io, adesso, tengo Luciano nelle mie mani!
Ma ben presto Donna Maria Grazia è dimenticata e le ire contro di lei svanite. Anche se Giacomo non risponde a sua moglie per rassicurarla, questa è sicura, ormai, ch'egli sarà ministro. È stato chiamato anche Giacomo D'Orea al Quirinale per essere interrogato intorno alla crisi e al modo migliore e più costituzionale per risolverla, e i giornali, amici e avversari, gli attribuiscono una di quelle frasi che dicono molto, e per tutti i gusti, appunto perchè non dicono nulla: È il momento per gli uomini di buona volontà, di averne una. L'onorevole D'Orea sarà ministro. Adesso le inquietudini di donna Remigia sono soltanto per il portafoglio.
Quale sarà?
Ogni giorno le «ultime notizie» recano una nuova ricomposizone del Ministero; il nome dell'onorevole D'Orea c'è sempre, in tutte le liste, e ci rimane; soltanto, ogni giorno cambia di posto. Lo mandano dalle Finanze al Tesoro, dal Tesoro ai Lavori Pubblici, all' Agricoltura, Industria e Commercio, per rimandarlo da capo al Tesoro o alle Finanze.
— Ah, mon Dieu! Mon Dieu! — sospira Remigia con la Mimì. Purchè non si vada all' Istruzione Pubblica! — Per gli Esteri, ella ha capito che non ci sono speranze. — Un ministro dell'Istruzione, sempre con tutti que' maestri, ha troppo del professore... e sua moglie, della professora. No, no! Piuttosto, accetto le Poste e Telegrafi!
In queste sere Pontereno è più affollato del solito e di una folla assai più rumorosa e gesticolante. Il tè, lo sherry-cobbler, sono stati sostituiti dal vino bianco, gramolate e paste. Tutti discutono, tutti gridano, propongono nuove leggi, fanno e rifanno il Ministero che non è ancor fatto; ristabiliscono l'ordine anche dove non c'è disordine, salvano le finanze dello Stato e lo Stato dalle finanze! Sembra di essere in un piccolo Montecitorio, dove tutti gridano di più per farsi intendere che sono della stessa opinione e dove il signor Zaccarella, usciere della Presidenza, guida con un'occhiata vassoi e servitori, sta attento alla luce elettrica e passa dalle sale in giardino e dal giardino rientra nelle sale, sempre attento ai cenni di Donna Remigia, sempre sostenuto e impettito.
Fra quella gentaglia si sente fuori di posto. Tranne il conte Gambara, il colonnello De' Taddei, l'avvocato Berlendis e un po' l'arciprete, del resto non ci tiene conoscenze. Il suo mondo naturale è quello degli sportsmen.
Il povero capitano, oramai, non solo può dire che s'è trovato al foco, ma può vantarsi di essere stato messo da donna Remigia a prova di bomba!
— Ma!... Con donna Maria Grazia, sarebbe tutt'altra cosa!... Questa maledetta piccola è proprio fatta per andar d'accordo con quel cane di don Luciano!
In una, appunto, di queste sere, arriva la grande notizia ufficiale: è il portafoglio dei Lavori Pubblici. In fatti, da un paio di giorni, il nome di Giacomo D'Orea è nelle varie liste del nuovo ministero, sempre allo stesso posto: ai Lavori Pubblici.
Giacomo D'Orea, dovendosi adattare, anche per insistenze venute dall'alto, ad entrare in quel Gabinetto riuscito incolore per averci tutti i colori, avrebbe preferito di andare ancora alle Finanze o al Tesoro; ma alle Finanze bisognava mettere un lombardo, al Tesoro un piemontese, per via dell'equilibrio regionale: non c'è proprio che i Lavori Pubblici. Giacomo esprime ancora qualche incertezza, mette nuove condizioni, poi finisce con l'accettare... o quasi.
Gli costa assai il dover proprio dire quel sì!
Anche il suo dottore, — il dottor Davos, — che cosa non gli ha detto e predetto?
Ma questo poco male; anzi!
Perchè affannarsi e seccarsi per tirare innanzi? Perchè e per chi?... Non ha nessuno al mondo; più nessun affetto e nessuna idealità. Lavorare, servire il Paese, a che scopo, con che gusto?... Non c'è più onestà, non c'è più fierezza. È il momento di chi è più buffone, più ciarlatano e più prepotente!... Che cosa ci sta a fare lui, a Roma?... E al mondo?... Che cosa ci fa?
È l'avvocato Berlendis che porta il dispaccio ufficiale a Donna Remigia. L'avvocato lo ha avuto alla redazione del Vespertino.
— I Lavori Pubblici? — Remigia resta pensierosa un istante... poi pensa che gli poteva capitare l' Istruzione, che ormai... — non c'è più dubbio, — ministressa lo è e a Roma ci va: ha uno scoppio improvviso, nervoso, per Jack, per Giacomo, per suo marito — tesöro — e gli vuol telegrafare immediatamente.
Tutti approvano l'idea: la folla, battendo le mani rumorosamente, l'avvocato e Narciso Gambara coi cenni del capo. Il signor Zaccarella porta in persona l'occorrente per iscrivere e lo presenta a donna Remigia con un fare così burocratico e spedito, come se lui, ai Lavori Pubblici, ci fosse da un mese!
Ognuno dei presenti, ha la sua brava frase da suggerire: ma poi, Ciro Berlendis, dopo essersi asciugato il sudore col piccolo tovagliolino del gelato, in piedi, una mano sulla spalliera della seggiola e l'altra sul fianco, principia a dettare:
«Nostro Berlendis... recami ora notizia ufficiale... tua nomina Lavori Pubblici... comunicata redazione Vespertino. Impressione favorevolissima... intera cittadinanza. Amici esultanti...»
L'avvocato si ferma, guarda Remigia, che continua a scrivere, dicendo forte le parole:
«... commossa abbraccioti, desiderosa vederti, esserti vicina, arriverò... domani sera a Roma.»
«Tenerezze.
«Tua.»
Un nuovo scoppio d'applausi più fragoroso del primo. Il signor Zaccarella prende il dispaccio e scompare.
— E i bauli? — Donna Remigia diventa seria a un tratto, fissando Mimì. — E tutti i bauli?
— Ci penso io! — risponde Mimì abbracciando l'amica stretta, stretta, già presa dall'affanno per doverla lasciare.
Il signor Zaccarella ritorna subito: da bravo capitano ordina i primi spari dello Champagne.
I visi si accendono e i discorsi. Soltanto l'avvocato Berlendis, sdraiato sopra un canapè, beve gelati, beve Champagne, e torna a bere gelati. Soffia, sbuffa, cola sudore da tutte le parti, ma lo lascia colare e tace.
Quando c'è folla, il Cavour di Pontereno risparmia la propria facondia. Tanto quella gente lo sa che è un grande uomo e che donna Remigia non move passo senza consultarlo. E anche il conte Gambara, non vuol confondersi. Solo solo, ritto in piedi accanto all'uscio che mette in giardino, ingolla cognac, fuma sigarette e fa l'occhio di triglia, come capita capita, a Remigia o alla Mimì.
L'arciprete tutto in ghingheri con la larga fascia di seta moarè e lo zucchetto di raso, doni di Sua Maestà la Regina di Pontereno, diventa espansivo. Anche lui ha contribuito a quel fausto giorno!... Anche lui ha preparato — e come! — l'avvento di donna Remigia al potere!... Ma non si arrischia di dire tutto ciò esplicitamente. Si sa che un prete non deve immischiarsi con la politica: ma lo fa capire con strizzatine d'occhio eloquenti, con abili reticenze: — Per diana! — Se lui a votare non ci va, è lui che manda a votare gli altri!
Il colonnello Baldassare De' Taddei, rosso di collera, ferma a un tratto donna Remigia, facendole un'intimazione:
— Si guardi dai Boeri! Simpatie per i Boeri? Guai! Si ricordi, a Roma, che l'Inghilterra sarà sempre l'Inghilterra!
Fervono i brindisi al nuovo ministro dei Lavori Pubblici, al nuovo Gabinetto, all'Italia, alle loro Maestà, ma i più entusiastici e i più frequenti sono rivolti a donna Remigia «alla nostra duchessa Remigia; alla più bella delle ministresse!»
L'avvocato si tira su in tre tempi, puntando il braccio:
— Alla moglie di Sua Eccellenza... a Roma!... Ma sempre alla nostra Regina... a Pontereno!
Beve un altro bicchiere fra un subisso di applausi, poi ricasca di peso, gocciolante, sul canapè.
— Auf! Che caldo!
Anche Narciso Gambara fa un brindisi a Remigia sotto voce, alzando appena verso di lei la coppa spumeggiante, con un'espressione piena di sottintesi, di rimproveri e di carezze:
— Cattivina! Cattivona!
Remigia lo consola con gli occhi vivaci, pieni di promesse... assai lontane:
— Verrà anche lei a Roma!
Narciso s'inquieta:
— Ma sì! Ma sì! Ma intanto no!... Sono sempre tutti lì, con gli occhi aperti! Come si fa, santo Guìo! Come si fa? — Rialza di nuovo il bicchiere per giustificare il troppo lungo discorso a bassa voce: — E a Roma, anche a Roma sarà sempre così... — la vocina ha un improvviso salto di chiave... — così cattivona?...
In questa circostanza, chi mai lo avrebbe preveduto? L'inesauribile, il più fecondo improvvisatore di brindisi di tutto il reame di Pontereno e stati limitrofi, Marco Bragotto, ha dato negli scogli. Ha già fatto un brindisi, bellissimo, a Sua Eccellenza, sulle rime date dall'arciprete: Italia — Religione — Battaglia — Conciliazione; ed è stato applauditissimo. Adesso vuol farne un altro per donna Remigia, ma pensato con rime sue, e non ci riesce:
A te Signora, in questo dì solenne
Devoto il mio pensier volge le penne
A te di Ponteren... alma... regina...
No. Il concetto c'è; anche la rima «inchina», ma il verso non va. Il cavaliere Marco Bragotto si rode, si arrabbia, non beve più, non parla più: tutta la serata gli è andata di traverso e non si scuote nemmeno agli spari dei petardi lanciati in aria dal capitano Zaccarella, che mormora sdegnosamente all'orecchio del colonnello:
— Ci vuole di questa roba, per i villani!
Remigia è felice, radiosa; strillando, si tappa le orecchie con le bianche mani ingemmate quando scoppiano i fuochi artificiali e finge di spaventarsi. A forza di dover rispondere ai brindisi, è anche lei un po' accesa; le sue parole, i suoi gesti, le sue risate sono più vivaci del solito. La sovrana assoluta è diventata una reginetta un po' più liberale, chè, lei felice, vorrebbe rendere felice anche tutto il suo reame.
Al colonnello De' Taddei, promette che parlerà subito al ministro della Guerra perchè ripari le ingiustizie e gli procuri un buon posticino... sedentario. All'arciprete fa balenare il regalo di tutti i paramenti nuovi e i tendoni per il Corpus Domini; assicura l'avvocato, a proposito del Vespertino, e tra due cedri del Libano, fuori dal raggio della luce elettrica, riceve un bacetto dal conte Narciso, ma soltanto sulla guancia, di volo.
Lo Champagne, Mumm extra dry, che lo Zaccarella fa distribuire soltanto a chi vuol lui, lo ha fatto diventare birichino, birichino.
Remigia, ride, scherza, corre di qua e di là, ma non dimentica gli affari. Ogni tanto, ferma la Carfo:
— Non dimenticarti i miei tre cappelli grandi, con le penne! Le toques, con i fiori!
Oppure:
— Ricorda alla Carolina il vestito tailleur di drap bianco!
Un'altra volta pianta lì il povero Marco Bragotto mentre le confida le sue pene poetiche e le recita que' due primi versi che gli son venuti così bene e così subito: — «A te signora in questo dì solenne — Devoto il mio pensier volge le penne», — per correre in gran fretta a dire a Mimì:
— Tutti i miei bijoux e anche tutti i miei ombrellini e i miei ventagli! Non ti pare?... Si sa mai!
La mattina dopo, verso le dieci, Remigia dorme ancora placidamente e sogna di dare il suo primo gran ballo intimo a Roma, a tutte le mogli degli ambasciatori: Mimì, invece, con la Carolina è già da due ore in faccende per la roba e i bauli, quando portano un dispaccio. Mimì e la cameriera si consultano in silenzio fissandosi negli occhi: il dispaccio viene da Roma, non può essere altro che del signor D'Orea. Il caso è troppo importante: l'Idola non ha ancora sonato... ma anche se dorme bisogna svegliarla!
La Carfo, leggera come un'ombra, entra nella camera buia in cui si sente un respiro lieve e quieto di bambino e un forte profumo d'ireos... Apre le finestre... Remigia si sveglia di soprassalto.
— Chi è?... Perchè? Non ho ancora sonato!
— È arrivato adesso un dispaccio...
— Un dispaccio?... Sarà il suo! Dammelo!
Remigia si alza a sedere sul letto: la camicia scivola da una parte, ma i capelli cadendo addosso, la coprono tutta.
— Ah, Mon dieu! Mon dieu! Con questi capelli!
Mimì glieli prende lei, delicatamente, con le due mani, per liberarle la faccia.
Remigia apre il dispaccio e legge:
«Ti consiglio, per ora, restare Bologna. Giorni di gravi preoccupazioni non di esultanza. Spero ancora non accettandosi mie ultime condizioni restarmene fuori saluti affettuosissimi ringrazioti.
« Giacomo.»
— Ecco! — esclama Remigia, diventando bianca dalla collera. — Ecco! il vero tira-molla incontentabile! Ma sai che quest'uomo ha proprio fissato di farmi diventar matta?
— No, cara, pensa invece...
— Non difenderlo! Te lo proibisco! — Remigia dà un balzo sul letto come una furia. — Tu vuoi sempre difendere tutti quelli che mi fanno dispetto, che mi odiano!
Mimì pallida, impietrita, non osa più dire una parola; non sa più scusare nemmeno sè stessa.
L'Idola, a poco a poco si calma. Torna a cercare di liberarsi dai capelli, non può. Mimì glieli avvolge, glieli torce sul capo fermandoli con gli spilloni.
— Ma sì!.. Restarmene fuori!... Per far ridere tutte le mie care amiche e nemiche di Bologna. Ultime condizioni! Ma che cosa crede di essere, per farsi tanto pregare? Gli Esteri, già, non glieli hanno mica voluti dare perchè non si fidano. Ma parla! Rispondi! Non far la mummia! — Remigia torna ad arrabbiarsi. — Hai proprio fissato anche tu, di farmi star male? Di farmi piangere?
Mimì copre l'amica di baci, sui capelli, sulle mani: c'è tanto amore, tanta sommissione e tanta umiltà nelle sue carezze!
— Io... vado a Roma lo stesso!
— Però lo avverti, prima, che vai!
Remigia riprende il dispaccio che ha stracciato e buttato sul letto. Unisce i due pezzi e lo rilegge attentamente.
... «Ti consiglio, per ora, di restare Bologna. — Giorni di gravi preoccupazioni, non di esultanza — Spero ancora — non accettandosi mie ultime condizioni — starmene fuori — saluti affettuosissimi — ringrazioti» — Non dice, non voglio; dice: ti consiglio per ora. Che te ne pare?...
— Manda subito, al signor D'Orea, un bel telegramma affettuoso...
— E gli dico che vado. In fin dei conti è o non è mio marito? Dove c'è lui, ho diritto di starci anch'io, perchè... voglio essere una buona moglie.
— In questo hai ragione.
— E perchè non devo essere libera di vedere mio marito quando voglio?... Non l'ho mica sposato per star sempre sola! Lui, a Roma, ed io relegata in questo brutto, noioso, antipaticissimo Pontereno! Sono stufa delle gioie agresti! Sono stufa, stufa, stufa di avere sempre nelle orecchie, giorno e notte, l'inno delle cicale e delle rane al Messidoro! Sentile: quà, quà, quà! Hanno già cominciato! Dammi da scrivere!
Mimì va a prendere la cartella col calamaio sul tavolino, la porta sul letto e l'apre. Remigia pensa, poi scrive:
«Certissima bene supremo nostra cara patria finirai cedere insistenti preghiere amici desiderosissima vederti abbracciarti parto lo stesso.
«Tua.»
— Va bene?
La Carfo legge il dispaccio attentamente. Non trova altro che una piccola correzione da fare:
— Invece di parto, dovresti scrivere partirei domani sera.
Remigia accetta e fa la correzione. Due ore dopo, arriva la risposta di Giacomo:
«Vieni pure domani sera ma conduci teco signorina Mimì. Prevedo temo avrò poco tempo disponibile farti compagnia. Saluti affettuosi.»
« Giacomo.»
Remigia nel dare il dispaccio da leggere alla Carfo salta dalla gioia e l'abbraccia ripetutamente:
— Sono felice! Sono felice! Sono felice!
Mimì ha gli occhi pieni di lacrime, tanta è la gioia di non dover lasciare l'amica.
— Vedi com'è buono?... È tanto buono il signor D'Orea!
— Buonissimo! — risponde Remigia con entusiasmo. — E poi, così, c'è più tempo per tutto!... Anche di scrivere a Milano per la mia mantelletta di chinchillà e il renard bianco. A Villa Borghese e al Pincio farà fresco, qualche sera!
IV.
La partenza di donna Remigia da Pontereno e da Bologna è una doppia festa trionfale. A Pontereno il sindaco ha fatto suonare la banda civica in onor suo, e l'arciprete, le campane; a Bologna, alla stazione, la moglie di Sua Eccellenza il ministro dei Lavori Pubblici, è ossequiata dalle autorità e salutata dagli amici, per l'occasione più che mai numerosi ed espansivi. C'è tutta la politica, ma il signor Zaccarella nota con soddisfazione che c'è anche tutto lo sport.
Mentre con Mimì Carfo, Remigia attraversa i binari, sotto la tettoia ben illuminata, per raggiungere il vagone-salon, si forma una folla di curiosi che la seguono, la circondano, urtandosi, spingendosi per poterla vedere:
— Qual'è delle due bionde, la ministressa?... La più alta?
— No! È la più piccola!
— Carina assai anche la piccola!
— Questo è davvero un bel Gabinetto!
— Vorrei entrarci anch'io!
— Evviva le bionde al potere!
— Evviva!
Qualcheduno comincia anche a battere le mani.
Donna Remigia, salita sul vagone, resta di fuori con Mimì, sul terrazzino, rischiarato da un fascio di luce elettrica, per farsi vedere e per ricevere i complimenti. Veste un abito grigio chiaro, attillatissimo, con un grande cappellone di paglia, tutto coperto di ciliege. Ella si volta di qua, di là, salutando, sorridendo, parlando con tutti animatamente. Ha gli occhi scintillanti e il viso acceso; è felice, raggiante, è eccitata, inebbriata, sentendosi ammirata, desiderata da tutti quegli occhi, da tutti quegli uomini.
Cara Bologna!... Ha sempre voluto molto bene a Bologna!... E i Bolognesi? Simpaticöni!
Il conte Narciso Gambara, in piedi sul primo predellino del carrozzone, sdilinquisce in tenerezza per la contessina Carfo, comprendendo bene come, in quel momento, gli sarebbe stato impossibile di attirare l'attenzione di donna Remigia. Egli ha riempito di fiori il vagone-salon per la Regina e di dolci e di pasticcini per la dama d'onore; e se sospira e geme, a cagione di quella partenza con la sola Mimì, continua per altro a mormorare: «Cattivine! Cattivone!» abbracciandole in ispirito, tutte e due.
L'avvocato Ciro Berlendis, montato anche lui sul treno, sbuffando ed asciugandosi la pappagorgia col moccichino, seguita a fare presentazioni. Presenta alla duchessa D'Orea Moncavallo e alla contessina Mimì Carfo, tre o quattro commendatori, un capo-traffico, un ispettore, poi il capo-stazione, poi il capitano dei carabinieri, poi, uno dietro l'altro tutti quelli che gli capitano sott'occhio, facendoli salire da una parte, attraversare il terrazzino dinanzi alle signore, — un bell'inchino, — e scendere dall'altra.
Donna Remigia ha per tutti una stretta di mano e un complimento. In quel suo gran da fare non dimentica nessuno, nemmeno Narciso Gambara che, quando meno se l'aspetta, riceve un'occhiatina così languida che lo fa saltare dal predellino più basso al predellino più alto.
— Ma sì! Ma sì! Vengo anch'io a Roma! Proprio così!... Voglio un posticino al Ministero! Vicinissimo a donna Remigia! Ma sì! Ma sì! Da brava!... Anche senza stipendio!
I pennacchi dei carabinieri ondeggiano in mezzo alla folla: passa il prefetto.
L'avvocato Berlendis agita la vecchia tuba con un sorriso amicale e si sporge dalla scaletta con la mano tesa e il moccichino spremuto, per aiutarlo a salire.
Donna Remigia ringrazia affabilmente, ma sta in guardia, per non compromettere il Ministero, serbando le distanze da superiora a inferiora.
Di nuovo cresce il brusio e il tramestio: più autorevole delle autorità è il signor Zaccarella che si avanza, pieno di boria, accigliato e minaccioso. Il Governo, è lui: lo sente in sè stesso! Egli ha già alzato la voce con il sottocapo stazione, con gli impiegati e con le guardie. Tutti si scusano umilmente e gli porgono omaggio: lui, non saluta nemmeno. Gli danno del cavaliere; lui, se lo prende, e tira via!
— Indietro, signori!... Partenza!
Il conte Gambara salta dal predellino, rimanendo in bilico sulla punta del piede destro; si rinnovano, con maggiore animazione saluti e auguri e il treno parte.
Remigia, stanca, si lascia cadere sopra una poltroncina:
— Chi sa, a Roma!
— Chi sa! — ripete Mimì, immaginandosi pure accoglienze e feste straordinarie.
— Basta che non arrivi troppo spettinata!
Remigia, così dicendo, appoggia il capo alla poltrona e resta lì tutta notte, seduta scomoda e senza quasi poter dormire, per non arrivare a Roma con i capelli scompigliati.
Invece a Roma... È una bella delusione!
Il treno non si è ancora fermato e già Remigia sporge il capo dal finestrino sicurissima di scorgere Jack — tesöro! — sotto la tettoia, in compagnia de' suoi colleghi... Già le sembra di udire, lontano, un tararan, tararan di marcia reale... Invece, nessuno! Fra tanta gente, nessuna conoscenza!
— Mimì!... Giacomo non c'è!
— Impossibile!...
Anche Mimì guarda fuori: i forestieri, scesi dai vari scompartimenti si allontanano a frotte, con i facchini. Dinanzi al loro vagone non c'è che la Carolina appoggiata alla sacca delle ombrelle, vicino a un grande scatolone posato per terra.
È uno dei tanti cappellini di Remigia arrivato da Milano all'ultimo momento.
— Dov'è andato il signor Zaccarella? — domanda la Carfo alla cameriera.
— A fissare le carrozze e a cercare i facchini!... Si chiamano e non si degnano nemmeno di rispondere! — La Carolina è di malumore; ancora tutta piena di sonno, ha la paglietta storta e la faccia nera di polvere.
Remigia rientra nel vagone: non può credere a sè stessa.
— Forse Giacomo si sarà sbagliato! Crederà che io arrivi con un'altra corsa!
Mimì resta un istante pensierosa:
— No, non può essere; non c'è che questo treno diretto, che arriva a Roma da Bologna, alla mattina.
— E allora?... Gli hai telegrafato ben chiaro?
— Chiarissimo!
« Parto fra un'ora felice, beata — pensando potrò finalmente abbracciarti domattina — tenerezze infinite. — Tua ».
Remigia passa dall'avvilimento alla collera.
— Gli hai telegrafato proprio così?... Con tanta espansione?.... E non si muove nemmeno per venirmi incontro?...
— Certo... ci sarà stato qualche grave impedimento!
— Se non poteva venire, doveva mandare! Oh, se si fosse trattato di mia sorella...
Remigia è interrotta dalla Carolina che si mette a gridare:
— Ecco! Ecco!
— Chi?...
— Il signor Gaudenzio!
Ma la comparsa del signor Gaudenzio, se ha fatto emettere un grido di allegrezza alla cameriera, rende la padrona addirittura furibonda.
— Andiamo, Mimì! Scendiamo!
— Aspetta, Idola, che ti aggiusti la veletta!
L'Idola, seccata, l'allontana con una spinta:
— Anche tu! Lasciami stare!
Strappa la veletta dal cappello dispettosamente e la caccia nella borsettina rossa.
Valeva proprio la pena, per essere ricevuta a Roma dal signor Gaudenzio di non dormire tutta notte e di fare un'ora di toeletta dopo Orbetello!
Questo signor Gaudenzio, è un vecchietto con i baffi, la cravattina colorata e con un piccolo bastoncino sempre fra le mani. Ha l'aria più di un sensale che di un servitore. Donna Remigia non lo può soffrire: sa di pizzicheria! In fatti, egli è da più di trentanni in casa D'Orea. Ha cominciato facchino di studio, poi fattorino, e al presente, mezzo servitore e mezzo segretario, è il vero factotum di Sua Eccellenza!
Il signor Gaudenzio è sempre faceto, anche alla mattina presto, e si mette subito a raccontare ridendo, alla signorina Remigia, l'avventura che gli è toccata:
— È tutto un viavai di treni, lunghi come contrade, in questa stazione! E io, mi ci perdo!... Anche stamattina, invece di prendere la strada di Bologna, ho preso quella di Napoli!... Aspetta, aspetta, aspetta!... Credo, io, che non le vedevo arrivare!
— Sua Eccellenza?... Perchè non è venuto?... — Remigia è tanto più irritata perchè quella stupida della Carolì si mette a ridere.
— Il signor Giacomo non ha più tempo oramai, nè per dormire, nè per mangiare, nè per tirare il fiato. Verrà a salutarla all'albergo quando potrà; ma non bisogna aspettarlo nemmeno a colazione! Glielo dica anche lei, signora Remigia! Con la salute che ha e con quel temperamento è stato un gran minchione a lasciarsi fare ministro!
Remigia corre avanti, sola. Che volgarità! E come gli urta i nervi quel «signor Giacomo» quella «signora Remigia!» Per tutto il tempo non lo guarda più in faccia.
Ma il signor Gaudenzio nemmeno se ne accorge, continua a scherzare con la Carolina, finchè donna Remigia comanda alla cameriera di andare innanzi all'albergo, per preparare il bagno e la toeletta.
— Vado anch'io con la Carolina! Le farò da Cicerone!
Il vecchietto, col suo bastoncino stretto in pugno, monta in botte accanto alla ragazza.
— Si ricordi bene, signor Zaccarella: quell'... individuo lì, io non lo voglio mai vedere, assolutamente!
— Non dubiti, signora duchessa!
— E se ci resterò, in questa antipatica Roma, farà venir subito Giovanni, da Pontereno!
Il signor Zaccarella tiene aperto lo sportello del landò, ma donna Remigia vuol prendere prima il caffè al ristorante della stazione.
— Vieni, Mimì.
Mentre prendono il caffè, Remigia continua a brontolare:
— Spero che questa volta, almeno, non avrai il tuppè di voler sempre difendere quel tuo — ci pensa, poi trova la parola — quel tuo apata così bene educato!... Dovrei proprio convincermi che lo fai apposta... perchè mi odî!
Gli occhi della fanciulla si riempiono di lacrime e per questo Remigia si arrabbia ancora di più.
— Sei diventata impossibile!... Bisognerà che ti nasconda anche i miei dispiaceri...
— No... Scusa!... — Mimì è disperata.
— Sì, invece!... Del resto questa volta, è tutta colpa tua!
— Colpa mia?
— Non farmi quella faccia trasognata, da stupida, per amor del cielo! Tua, tua, colpa tua! Dovevi dirmelo di non venire a Roma così a precipizio! Ma già, è inutile; sei fatta... come le tedesche! Famosissima per predicare, e poi, all'atto pratico, incapace di un buon consiglio!
Appena all'albergo, aut aut!
— O mi date l'appartamento col balcone grande che dà sul Corso, o vado all' Hôtel de Russie!
— Ma è stato Sua Eccellenza...
— In queste camere di Sua Eccellenza, non ci sto nemmeno dipinta!
Ha l'appartamento, ha il balcone grande che dà sul Corso; ha tutto ciò che vuole, ma non è contenta.
— Ah, il mio Pontereno caro, caro!... Sono così soddisfatta di trovarmi a Roma, che non vedo l'ora di essere di ritorno a Bologna!
E alla sua Bologna, al suo Pontereno, al suo Paradiso pensa ancora con trasporto e con rimpianto mentre si tuffa nell'acqua tepida e lattea del bagno d'amido, alla violetta.
— Ah!... Deliziosa la mia Bologna! E i miei Bolognesi... Simpaticöni! Vi voglio un gran bene! — Per vendicarsi di Jack e dei Romani che non erano andati alla stazione, imprime un bacio, forte forte, sulla punta delle dita e lo manda con un soffio: — Prendi! — To'! a un bolognese qualunque: magari all'avvocato Berlendis, od anche al Prefetto.
Con la piccola mano trasparente fa scorrere l'acqua color perla, profumata, in tremule onde circolari e ripensa a quel bel momento trionfale della sua partenza da Bologna, ripensa alla folla, al saluto così espansivo. Li rivede ancora, messi in fila, agitare i cappelli mentre il treno si muove... Rivede tutti, l'avvocato Ciro Berlendis, il colonnello De' Taddei, Marco Bragotto... e rivede Narciso Gambara...
Sorride pensando al giovane crociato, e fa scorrere l'acqua con la mano, più lentamente.
— Oh, fosse stato lui ministro, invece di quel... apata. Fosse stato anche il Presidente dei Ministri, lui avrebbe piantato lì qualunque affare di Stato, per venirmi incontro alla stazione, chi sa con quanti fiori e con quanta gente!... Gli scriverò oggi stesso... — alza l'acqua nel cavo della mano e la rovescia a goccia a goccia — ... una lunghissima lettera!... E voglio telegrafare a mammà di venir subito a Roma, con lo zio Rosalì... e con Totò! Sì, anche il mio Totò, che vuol andare al Cairo lui... a morir di passione!
Si allunga scivolando nella vasca di marmo, si tuffa, si risospinge a fior d'acqua e di nuovo si lascia andar giù sprofondandosi dolcemente, chiudendo gli occhi e mormorando con un languore tenerissimo:
— Mammà! La mia mammà! Cara! Tesöro!... Amöre! Ah, che delizia un buon bagno tiepido dopo tutta una notte passata in ferrovia!... Ah, che piacere!... Non c'è al mondo un piacere... una più grande... voluttà...
Dopo il bagno, fatto toeletta e preso il caffè e latte donna Remigia va sul balcone a respirare, mentre Mimì, il signor Zaccarella e persino il segretario dell'albergo, sono tutti in moto con i facchini, per mettere in ordine il salotto, come vuol lei.
— Via! via! Quella Beatrice Cenci! — grida dal balcone. — E anche quell'orribile Colosseo!... Sembra dipinto da un cuoco famoso per i croccanti!
Tutti ridono: Mimì è beata vedendo le nubi sparire a poco a poco.
Remigia guarda in istrada; quelli che passano si voltano in su: c'è da far passare il tempo.
— È allegro il Corso, alla mattina!
Viene Mimì sul balcone, con una lettera.
— L'ha portata Gaudenzio. Domanda se c'è risposta.
— Ricordatevi! Non voglio vederlo! Se ci sarà risposta, manderò il signor Zaccarella!
La contessina sparisce in un lampo. Remigia, appoggiata in piedi al balcone voltando le spalle alla strada, ma continuando a sbirciare, a destra e a sinistra, quelli che passano e guardano in su, rompe la busta e legge:
— Che c'è?... Un bigliettino di Giacomo?... Una lettera di mammà?...
Legge prima il bigliettino, perchè è più corto.
«Scusa, cara; non posso venire nemmeno a colazione! Verrò certissimo a pranzo e cercherò il modo, se sarà possibile, di poter aver libera la serata. Intanto, per farti piacere, ti mando con i miei più affettuosi saluti, una letterina molto gentile e buona, che ricevo in questo punto dalla tua mamma.
« Giacomo ».
— Ah, mon Dieu!... Stasera sarà stanco, e con la scusa dell'emicrania, la solita callotta di piombo, si resterà in casa a far venire le dieci, per andare a letto! E questa benedetta mammà, tanto farmi girare per maritarmi!... Che bel divertimento! Basta, leggiamo che cosa c'è di gentile e di buono.
La duchessa Cristina si congratula impiegando quattro paginette fitte fitte, per l'assunzione al potere del «genero amatissimo», del «figliuolo dilettissimo», sciorinando elogi e complimenti con la più colorita e calda espansione.
«.... Voglio, sento il bisogno di dirlo e di ripeterlo a te e a tutti, figlio mio: la tua grande modestia non potrà mai soffocare il mio orgoglio legittimo, di madre. In quest'ora difficilissima, la Patria ha bisogno de' suoi uomini migliori e tu non potevi ritirarti, non potevi esitare. Ma io che ti conosco, io comprendo benissimo tutto il tuo grande sacrificio e perciò ti lodo e ti ammiro sempre di più. Io sono fiera per te e sono felice per la mia Idola. Tu lo sai bene, carissimo Giacomo; Remigia è sempre stata la mia gioia prediletta. Con lei, ti sei preso il mio cuore. Ella è la mia superba compiacenza, è la consolazione, il conforto de' miei capelli bianchi...»
Remigia sorride. Sono quasi le stesse parole che prima del suo matrimonio con Giacomo D'Orea, mammà scriveva... a Luciano. Era lui, allora, Luciano, anche senza salvare la patria, anche senza essere ministro, il genero amatissimo, il figliuolo dilettissimo, il suo legittimo orgoglio. E se lei Remigia, è sempre stata davvero l'Idolo prediletto per il cuore materno, è però altrettanto vero che nelle lettere di mammà a Luciano, era allora Maria Grazia, la superba compiacenza, la consolazione e il conforto dei capelli bianchi!
Remigia continua a sorridere terminando di leggere la lettera e riponendola nella busta.
— Che cambiamento, ha fatto mammà!
E Giacomo?... Prima di diventare «il genero amatissimo» non era ascritto certamente fra gli uomini migliori della patria!...
— Bum!
Eccellenza Molinella, o anche peggio, Eccellenza Mortadella, egli era, invece, secondo l'opinione di mammà e dello zio Rosalì, uno degli uomini famosi... per egoismo e per tirchieria! E quando Luciano dava semplicemente dell'asino al fratello Giacomo tutta la famiglia approvava e lo zio Rosalì faceva eco, mormorando: — Mah!.. La croce non fa il cavaliere... e nemmeno la commenda!
— Adesso, invece? Adesso l'orso, l'istrice, l'asino, e ogni altra bestia più bestia, è mio cognato Luciano!
Remigia, ripensandoci, sbotta a ridere.
— Subito, subito!... Il giorno stesso che Giacomo ha domandato la mia mano!... Che cambiamento di scena! Povero Luciano! Detronizzato come il doge Francesco Foscari! E quando è capitato a Villars con la cattiva idea di opporsi al mio matrimonio?... Le furie di mammà!... «Mi avete messa in croce una figliuola, vorreste farmi morire anche l'altra?...» E il profondo disprezzo dello zio Rosalì?... «Chi pazzo è nato, muore matto!...» Persino il voltafaccia, il relativo pronunciamento del capitano, e per colmo di sventura, mia sorella a letto, ammalata!... Non poteva nemmeno gridare e sfogarsi sopra di lei!... Soltanto l'umilissimo e ossequiosissimo signor Trüb!... — A Remigia sfugge un'altra risata. — Com'era buffo quel signor Trüb co' suoi scodinzolii e co' suoi occhiali in mezzo alla fronte! Pareva una foca!
Il pensiero della giovane signora si allontana nel passato: i ricordi succedono ai ricordi.
— La Tête-pointue!... Villars! Che bel paese!... Incantevole!... Simpaticone assai, il bell'Apollo!... E come ballava bene! Altro che Narciso Gambara!
Rivede gli occhi languidi e la pancetta in sussulto di Re Faraone innamorato... Rivede gli occhiacci di missis Eyre furibondi contro Din e Don... Poi, a un tratto, si scuote, si volta, e guarda giù in istrada:
— Téé! Téé! Téé!... Tuff! Tuff! Tuff!
È un automobile. Si ferma dinanzi all'albergo.
— Chi è?... È Luciano!... Proprio Luciano!...
Remigia dà un grido di gioia.
— Mimì! Mimì! Luciano! È qui Luciano!
Remigia non è più sola! Con suo cognato, potrà girare tutta Roma, i teatri e divertirsi!
— Che bravo! Che bella improvvisata!
Remigia, di suo cognato, ne fa adesso tutto ciò che vuole; i loro rapporti sono cordialissimi. Luciano, è vero, è molto cattivo con sua moglie, che è poi la sorella di Remigia, ma questo a Remigia, poco preme. Egli ha relegato Maria a Fiumicino per la consueta gelosia ingenita e per poter risparmiare sulla moglie ciò che spreca, stupidamente, con l'amante; ma questo, a Remigia, che fa, che importa? Anzi, «la piccola peste» s'è messa a proteggere e a difendere il cognato contro la sorella: Maria è una esagerata, una donna troppo eccessiva e... opprimente.
— Ah, mon Dieu! Che tragediografa!
In quanto a don Luciano, egli s'è messo a corteggiare la cognatina perchè, davvero, la trova molto chic e poi... per ingelosire e far dispetto al fratello e alla moglie.
— Paolo e Francesca... Sta bene; ma un po' per uno. E con questa Franceschina qui, forse... chi sa?
.... Remigia, è corsa incontro a Luciano fin nell'antisala: i cognati si abbracciano festevolmente e tornano insieme sul balcone.
— Restiamo qui; il mio appartamento è ancora sossopra.
— Perchè non sei venuta al Grand hôtel?
— Jack vien sempre al Roma!
— Ah, già, sicuro! — Luciano fa una smorfia da miliardario. — Per spendere meno. Sempre l'uomo di carattere: moderato in politica, moderato nelle spese! Del resto, lui poteva restare al Roma e tu venire al Grand hôtel. Questo, adesso, si usa. È assai più comodo tanto per il marito, come per la moglie.
Luciano accende una sigaretta e fissa la cognatina con un ghignetto canzonatorio:
— Dunque, siamo... al potere?... Ministressa!
— Finalmente! Le fai sospirare le tue congratulazioni!
— Congratulazioni?... Io?... Per me scemi di grado. Ministressa? — Le prende una mano e gliela bacia. — Regina, for ever!
— Bravo! — Remigia è soddisfatta. — Con me te la sei cavata abbastanza bene. Ma, e con Jack?... Gli hai mandato, almeno, un telegramma?
I baffettini di Luciano si rizzano irti, per l'altezzoso disprezzo:
— Oh, mainò!... Sono disgrazie che capitano così all'individuo, come alla Nazione!
Remigia finge di non aver capito e si volta verso il salotto.
— Signor Zaccarella! Per favore! Faccia portare due sedie!
Il signor Zaccarella, le porta lui stesso, in persona.
Don Luciano lo squadra in cagnesco:
— E... come va la vitaccia, caro capitano?
— Benissimo!... Fosse andata sempre così! Mi comanda altro, duchessa?
— No, grazie. Quando tutto è finito, me lo faccia sapere.
Risponde Mimì, che ha già salutato Luciano, di passaggio nel salotto:
— Facciamo presto! Non dubitare!
— Come hai saputo che arrivavo stamattina?... — domanda Remigia a Luciano appena seduti.
— Oh, diavolo! Ormai, sei diventata una donna illustre... Pubblica! L'ho letto sul Fracassa!
— Sul Fracassa? — Remigia diventa rossa dalla gioia. Che c'è sul Fracassa? — Chiama di nuovo il signor Zaccarella. — Mandi a prendere il Fracassa di stamattina! Subito!
— Non occorre! L'ho io! — Luciano leva la gazzetta di tasca e la porge alla cognata. — C'è un telegramma con la tua partenza da Bologna.
Remigia sfoglia ansiosa il giornale:
— Dove?
— In terza pagina...
— Ecco! Trovato! — Remigia legge a mezza voce: «Ieri sera, sotto la tettoia della stazione, alla partenza del direttissimo per Roma, notavansi, in gruppo, le più cospicue personalità cittadine, nella politica, nelle lettere, nelle arti, nell'aristocrazia e nell'alta finanza. Era una eletta rappresentanza della nostra Bologna, memore e grata, convenuta per presentare gli ossequi del commiato a quella intellettuale signora che è la duchessa Remigia D'Orea Moncavallo, moglie di Sua Eccellenza il Ministro dei Lavori Pubblici. Ella si reca alla Capitale, a raggiungere il marito, cui sarà di conforto, fra le gravi cure del suo dicastero l'aver presso di sè l'esimia donna, fida consigliera e compagna.
«L'alta società bolognese rimpiange la regina dello spirito e della eleganza che migra ai saloni della terza Roma, ove Ella saprà diffondere il fascino delle sue grazie e del suo ingegno, nell'aure sature di politica e di diplomazia». — Mimì! Mimì!
Invece di Mimì, si presenta ancora, nel vano della finestra, il signor Zaccarella.
— La contessina è andata con la Carolina a disfare i bauli. Devo chiamarla?
— No; prenda. — Gli dà il Fracassa. — Lo porti alla contessina Carfo. Le dica di leggere qui, — segna il punto con il dito, — questo dispaccio da Bologna.
Il signor Zaccarella se ne va col giornale leggendo la corrispondenza telegrafica pieno d'unzione rispettosa.
— Perchè non mi sei venuto incontro?
— Oh bella! Se ho letto la notizia mezz'ora fa? E poi, figurati! Immischiarmi con il mondo politico, ufficiale e... forcaiolo?... Peuh!
Donna Remigia lascia correre: non vuol far sapere al cognato che tutto il mondo politico ufficiale e forcaiolo, era rappresentato... dal signor Gaudenzio!
— Jack non t'ha detto ch'io sarei arrivata stamattina?
— Mio fratello... cerco di vederlo il meno possibile. È un metodo di cura preventiva, contro il mal di fegato.
Remigia ride, poi domanda:
— E mia sorella? È qui?
— Oh, no, per grazia di Dio e volontà di chi comanda! È a Fiumicino, a far la cura dell'aceto e a sobillare la zia Gioconda!... A metterla su contro me!
— La zia Gioconda? — Remigia è assai maravigliata.
— Fiumicino superiore e Fiumicino inferiore, sono ormai un Fiumicino solo!... Immagini tu, Maria, con la sua superbia e le sue ridicole schifiltosità, sempre insieme e in lega con la zia Gioconda?
L'Idola si fa seria: — Certo, certissimo! È per amore di Giacomo che quell'ipocrita lacrimosa di sua sorella ha voluto conquistare la zia Gioconda! — Ma resta pensierosa un attimo soltanto, rasserenandosi subito con una scrollatina di testa. — Facciano un po' quello che vogliono! Lei è a Roma per divertirsi!... E lei, e non sua sorella, è la moglie dell'onorevole D'Orea, del ministro!
Si china sulla seggiola sporgendo verso Luciano il visetto arguto:
— Tu, allora... si capisce! Sei qui per la divina arte canora!
Don Luciano arrossisce leggermente facendo un sorriso da fatuo, senza dire nè sì, nè no.
— Già, già, già! — continua la maliziosetta. — Teatro Costanzi: La Manon!... Oh, bella! Diventi rosso?... Ancora? Ma sì! Rosso! Rossissimo, sino alla radice dei capelli... che non hai!... Bravo cognatino! Perduto il pelo, ma conservato il pudore! — Poi soggiunge sottovoce, risolutamente: — Ricordati: questa volta, voglio proprio vederla!
— Vieni alla prima della Manon.
— Certissimo! — Riflette un istante, poi soggiunge con un'alzata di spalle, — Giacomo non lo saprà nemmeno.
— Allora bisognerà fissare un palco, oggi stesso. — Don Luciano assume un'aria di grande importanza. — È già venduto più di mezzo teatro!
In fatti Fanfan Trécoeur era stata preceduta a Roma dall'eco clamorosa del grande successo a Milano, al Dal Verme. Tre sere di trionfo e tre piene, costate a don Luciano, complessivamente, una cinquantina di mille lire. Ma la gloria... è cara; e per dare la scalata alla Scala, bisogna cominciare col Dal Verme e passare dal Costanzi e dalla Pergola. — Dunque intesi! Mi prendi un palco e andiamo insieme!
Il cognatino rimane esitante: l'altra capisce a volo.
— Sicuro! Quella sera, sarai impegnatissimo! Avrai da dirigere, da guidare la claque! Vuoi che per l'occasione ti ceda il capitano? Senza complimenti! — Remigia è indispettita. — Andrò al Costanzi con Mimì!
— Perchè, con Mimì? — Luciano cerca di rasserenarla. — Ne troverai, qui, di amiche e di conoscenti, quante ne vuoi! Intanto, la marchesa della Gancia!
— Quanita? — esclama Remigia con gioia.
— Un'idea! Stamattina, visto che non sei ancora in ordine, t'invito io a colazione, e vado a invitarti anche i della Gancia.
— Al Grand hôtel?
— Al Grand hôtel!
— Accettato!
— Ma... — Luciano abbassa un po' la voce. — Se si potesse risparmiarci l'incomodo della signorina Mimì?
— Mimì?... Figurati! Ha dodici bauli da mettermi a posto!
— Ah! — Luciano fa un largo sospiro di sollievo. — In premio ti offro un giretto in automobile, per farti venire appetito!
A Remigia, la proposta sorride moltissimo: tuttavia rimane un po' dubbiosa.
— E poi?.. Jack?... Che cosa dirà?
— Ci sei stata altre volte con me, in automobile, a Bologna, a Milano e l'orso non ti ha graffiata!
— Va bene, ma... oggi è diverso! E... proprio a Roma!
— Oggi è diverso? — Luciano rifà il solito ghignetto. — Perchè sei diventata Sua Eccellenza la Ministressa?
Remigia si arrabbia:
— Non fare l'antipatico! Sai, che mi dà ai nervi!
— Pardon, signora Eccellenza! Ti farò soltanto osservare che la grande stagione della politica è agli sgoccioli, motivo per cui, puoi prenderti qualche piccolo svago anche essendo al Governo! Il Re, ieri sera dopo la presentazione e il giuramento dei ministri è partito per Venezia, e a Roma a rivederci a novembre! Oggi stesso, fatta la presentazione del nuovo gabinetto, o domani al più tardi, sarà chiusa anche la Camera. Non solo dunque puoi fare un giretto in automobile stamattina, ma dopo colazione, ti propongo una volata fino a Porto d'Anzio, con la della Gancia, per vedermi a nuotare.
— No! No! — Remigia scrolla il capo vivamente. — Oggi voglio proprio andarci alla Camera! Tanto più se si deve chiudere così subito! Che peccato! E poi? E Jack?... E mio marito? Pensa, non l'ho ancora veduto!
— Oh Dio! Quale orribile sventura!...
— No! No! Facciamo adesso un bel giretto, dicendo che si va al Grand hôtel e, per oggi... basta, tuff, tuff! — Si alza chiamando forte: — Mimì! Ti saluto! Luciano mi ha invitata a colazione! Carolì! Fa presto! Vieni a mettermi il cappello!
Fa per correr via, ma l'altro la ferma.
— Devo prima avvertirti... di una cosa.
— Quale? — Ella lo fissa attentamente. I baffettini all'insù, alla russa, il cognatino è di una serietà quasi solenne. — Che c'è?
— Ti avverto che io sono... socialista.
— Tu? — Remigia dà una grande risata. — Tu?
— Sì, io; persona prima. Sono socialista e mi-li-tante.
— Col permesso... di Manon?
— Ridi pure. È cosa lecita alle signore, quando hanno, come te, bellissimi denti!
Fa, scherzando, per darle un bacio; Remigia si tira indietro.
— L'Estrema con la Destra?... Che ibridissimo connubio!
— Ridi! Ridi! Ma quando lo saprà, a Camera nuova, se ne accorgerà e non riderà mio fratello!
— Quando saprà... che sei socialista?
— Che sono socialista.
Remigia lancia sul cognato un'altra occhiatina ironica.
La sovrana di Pontereno, con tutta la sua politica e con tutti i suoi giornali, in fatto di socialismo è ancora alle prime nozioni confuse e sbagliate. Ella crede dunque, che Giacomo debba essersene di già accorto, e molto, del socialismo del fratello, senza aspettare la Camera nuova, dai conti di cassa dell'amministrazione D'Orea. Ma di ciò, adesso... cito. Le fa troppo comodo la compagnia di suo cognato. Adesso non vuol leticare. Sarà per un'altra volta; per il primo giorno di lune! Oh, allora, senza voler entrare in certi argomenti, ma lo dovrà scontare il socialismo!.. Altrochè!
V.
Giacomo D'Orea, dopo aver prese con il Presidente del Consiglio e con gli altri suoi colleghi tutte le disposizioni necessarie per le sedute della Camera e del Senato, trova ancora una mezz'oretta di tempo e fa una scappata all'albergo di Roma, a salutare sua moglie.
Più che un piacere, è per Giacomo uno scrupolo di compitezza e forse, chi sa?... anche di coscienza, tant'è vero che quando sente da Mimì che Remigia non c'è, prova un senso di sollievo.
— Non c'è?... Come mai?... Dov'è andata?
— È venuto don Luciano, e l'ha condotta a colazione al Grand hôtel!
Mimì Carfo, si accorge che a udire il nome del fratello, il signor D'Orea si rannuvola e si affretta a difendere l'amica.
— Don Luciano ha tanto insistito... e anch'io! Con le camere sossopra, non aveva nemmeno un posto da sedere. Don Luciano, voleva condurla in automobile fino a Porto d'Anzio, ma Remigia s'è perfino arrabbiata! Desidera tanto di vederla e d'abbracciarla, signor D'Orea!
Il salotto è messo in bell'ordine: i ritratti di famiglia, quello di Giacomo, della duchessa Cristina, del principe di Sant'Enodio, di Maria Grazia sono tutti a posto. Giacomo si lascia cadere, come affranto, sopra una poltrona e i suoi occhi, involontariamente, si fermano sul ritratto di Maria.
La contessina Carfo, ancora un po' rossa per tutte le bugie che ha detto, si avvicina a Giacomo, gli prende la mano e gliela stringe forte, replicatamente.
— Dunque, Eccellenza, posso anch'io congratularmi? Con tutto il cuore e con tutta l'ammirazione che sento per lei?...
Giacomo si scuote, balzando in piedi.
— Di grazia, contessina Mimì! Risparmi le felicitazioni e l'eccellenza! Mi dia invece dell'imbecille e mi faccia le condoglianze! — Si apre l'uscio; si volta: — Oh, bravo, il caffè!
Siede di nuovo sulla poltrona pallido, ansante per l'improvviso accesso d'irritazione, aspettando muto, gli occhi fissi, che il cameriere deponga il vassoio sopra un tavolino e se ne vada. Il caffè lo ha ordinato nel salire. Subito che Mimì glielo versa, ne ingoia due tazze, avidamente.
— Vede, buona e cara signorina?,.. Sto in piedi a forza di caffè e di tè. Ma sono... galvanizzazioni usuraie, come dice, ammonendomi, il dottor Davos!
Mimì, intanto, l'osserva con una stretta al cuore: è pallido, smunto, ma con gli zigomi accesi e con la fronte madida di sudore. Ha le occhiaie gonfie, con le borse; le tempie vuote.
— Come mi trova? — domanda vedendosi osservato. — Molto giù, non è vero?
— No! No! — La giovine, ha nuove vampe di rossore. — Si vede soltanto, che è molto stanco! Si capisce, del resto, col grande lavoro di questi giorni! Ma, fortunatamente, la Camera si chiude, non è vero? Ella potrà prendersi un po' di vacanza e si rimetterà presto. E poi, deve far bene anche sentirsi l'animo contento, avere il cuore pieno di soddisfazioni!
— Oh, contentissimo! E le mie soddisfazioni... — Giacomo s'interrompe con un sorriso amaro; — oh! le mie soddisfazioni sono addirittura straordinarie!
— Signor D'Orea! — replica Mimì vivamente. — Non dica così! Non sia tanto ingiusto con sè stesso e con gli altri! Non è una soddisfazione grandissima il vedere come tutti le vogliono bene e come tutti la stimano?
Giacomo scatta di nuovo alzandosi, pestando i piedi.
— Mi stimano un minchione!... — Oh, scusi, signorina, ma a brutte cose, brutte parole! — E la prova di essere ciò che sono, l'ho data io stesso, accettando un portafoglio, al quale neanche sono adatto, in questo momento, in queste condizioni e con questi uomini! — Giacomo finisce con l'alzar troppo la voce, diventando a mano a mano sempre più concitato e più nervoso. — Che cosa sono io?... Vuole che glielo dica?... Io sono l'uomo «che non sa più dir di no!» E non lo ero! Non sono nato imbecille!... Ero un uomo forte, tenace, persino testardo! Io avevo una volontà e arrivavo a qualunque costo dove volevo e dovevo arrivare! Sì, sì! Ero proprio così! Sembravo un timido, ma ero timido soltanto in società; con le signore!
— Si calmi!.. Si calmi!... — balbetta la Carfo inquieta, quasi impaurita. Non ha mai veduto il signor D'Orea infuriarsi, diventare così pallido e stravolto. Ma Giacomo non l'ascolta nemmeno. Continua a girare su e giù, a pestare i piedi, a gridare.
— Non ero timido con gli uomini, con i miei colleghi, con i miei avversari!... E con le canaglie, sono sempre stato forte, persino violento! Doveva sentirmi allora, signorina, alla Camera, negli Uffici, in Consiglio!... Allora sì, ho avuto la forza e il coraggio di piantare in asso il Governo e di mandare il Ministero a gambe all'aria piuttosto di cedere e di piegarmi a transazioni! Ma oggi... oggi sarà l'anemia, la nevrastenia, sarà il cuore che funziona male, oggi... sono un debole.
— Non dica così! — La contessina Carfo gli torna a prendere la mano, a stringerla fortemente. — Non dica così!
— Mi lasci sfogare!... Sto meglio dopo; mi fa bene! Lei, vede, lei signorina, mi ha conosciuto tardi, quando non ero più io, quando ero già diventato l'uomo «che non sa dir di no»!... A Villars? Si ricorda?... Non sapevo dir di no alla sua amica per il giuoco del tennis... e a Roma, non ho saputo dir di no al Quirinale!
Mimì chiude anche il secondo uscio del salotto e cala la portiera. Giacomo capisce di essersi lasciato trasportare e torna a buttarsi sulla poltrona avvilito e spossato.
— In questi giorni, quanti me ne hanno fatto ingoiare di bocconi amari!... Per ciò, l'irritazione che ho addosso! — Giacomo, così dicendo, si contorce dolorosamente, come se la sentisse serpeggiare e correre lungo la spina dorsale. — Quanti bocconi amari, infilati tutti sulla grande forchetta del bene indissolubile della Patria e delle Istituzioni!
— Lei ha dato un nobile esempio di abnegazione...
— Ho dato un esempio pessimo di mancanza di carattere!
— Ma non sa...
— Che cosa non so?... È lei che non sa niente e vuol parlare! Sempre parlare!
Giacomo, nell'impeto, sembra quasi investirla: Mimì indietreggia muta, tendendo le mani giunte, supplichevoli.
— Lei non sa chi mi hanno costretto ad accettare come sotto segretario di Stato ai Lavori Pubblici?... L'avvocato Leonida Staffa! Un uomo che ha ottenuto lutti gli impieghi e tutti gli onori dalla monarchia a furia di fare il repubblicano! Un feroce rivoluzionario addomesticato dallo stipendio, che della sua fede e dei suoi ideali non conserva più che un simbolo nel grande cappellone a cencio! Un carattere adamantino che mostra tutta la sua fermezza democratica e la sua energia radicale nel coraggio di non volersi mettere il frac... nemmeno a Corte!
Giacomo ride: Mimì si sforza, ma non può.
— Costui, vede, signorina, questo Leonida col cappellone, merita di essere chiamato Eccellenza! Costui, accetta di gran cuore felicitazioni ed omaggi. Io, niente! Io sono un imbecille! Un vero imbecille che non sa più dir di no!
Giacomo ride ancora nervosamente, poi, d'un tratto, si ferma dinanzi a Mimì, seriissimo, torvo:
— E mia moglie?... Che cosa crede di essere venuta a fare a Roma?... La ministressa? La donna politica, inframmettente?... Se lo levi dalla testa!
— Che cosa pensa? Che cosa dice mai? Signor D'Orea! Signor D'Orea, — balbetta la povera Mimì, con voce mezza di pianto e mezza di rimprovero.
Giacomo, per frenarsi e calmarsi, con la mano si stringe la fronte, si preme gli occhi: dopo torna a fissare la giovine e riprende, parlando piano, ma risolutamente:
— Mi ascolti bene, contessina Mimì: lei è amica di mia moglie, amica sincera e buona. Per la quiete di Remigia e per la mia, volendo evitare seccature e dispiaceri, le faccia capir questo, ma ben chiaro: io le lascio la pienissima libertà di divertirsi a Roma, quanto vuole. Giri tutti i teatri, frequenti la società che più le piace, sia la bianca oppure la nera; vada anche a colazione e a pranzo, vada anche tutto il giorno in automobile con suo cognato, senza un pensiero, senza un riguardo, senza uno scrupolo nè per me, nè per la sua povera sorella, nè per nessuno al mondo! Ma, per amor del cielo, non si ricordi mai, mai, che, disgraziatamente, io sono ministro!
Il D'Orea, così dicendo, si fa più torvo, più minaccioso: le sue labbra smorte, tremano convulse.
Mimì, trasecolata, non ha più una goccia di sangue nelle vene!
— A Pontereno... so che mia moglie giocava a fare la donna influente, la donna importante: qui, no! A Roma, tutti i giuochi sono permessi, tranne questo; guai! Non voglio saperne di incoraggiamenti, di approvazioni, di disapprovazioni!... E guai se l'avvocato Berlendis o un altro qualunque dei suoi devoti lustrascarpe, mi capita tra' piedi! Non una raccomandazione, non una sollecitazione! Se questo avesse a succedere, parola d'onore, signorina Mimì, l'uomo che non sa più dir di no, torna, per una volta, quello di prima: manda sua moglie ipso facto a Pontereno o anche molto più in là!
... Chi è?... Chi c'è?... Si ode uno sbattere di usci, un fruscio di vesti...
— Giacomo! Giacomo! Amore! Tesöro! — È Remigia che entra di furia nel salotto e si precipita al collo del marito. — Come sono contenta, felice, beata!
— Di che cosa?
Giacomo è rimasto sorpreso e sconcertato dall'improvvisa e insolita espansione.
— Di vederti! Sono felice, beata di vederti!
— Oh, anch'io, grazie! Sono proprio contentissimo!
Giacomo ha paura che sua moglie incominci con le felicitazioni e i complimenti; però, soggiunge, per cambiar discorso:
— Dunque, hai fatto colazione al Grand hôtel con Luciano? Io ho avuto appena il tempo di bere un po' di tè e mi scuserai se non ti sono venuto incontro. Del resto, che io sarei stato molto occupato in questi giorni, lo sapevi già.
— E io non ti ho fatto nessun rimprovero. Ho trovata la cosa naturalissima; non è vero, Mimì?
— Certamente, naturalissima! — risponde l'eco sicura.
— Chi è al sommo... della cosa pubblica... Chi ha da reggere... il timone dello Stato...
Sua Maestà Remigia Iª avrebbe in animo di fare un bel discorsetto, ma Giacomo l'interrompe.
— Hai trovato qualche persona di conoscenza al Grand hôtel?
— Sì! C'erano moltissimi amici nostri.
Giacomo la fissa, scrollando il capo.
— No, no, amici nostri! Quando parli di moltissimi amici, devi dire miei, cioè tuoi! Io ne ho avuti due soli, in vita. Uno è morto e l'altro è al Transvaal!
Mimì vede che Remigia comincia a spazientirsi e la tocca pianino nel gomito.
— Ho fatto colazione con Quanita.
— Quanita?... Chi è?
— La della Gancia.
— Ah! Ah! La dama d'onore della Regina. E c'era anche il marito fedele... ai Borboni?
— Sì.
La buona Carfo continua a guardarla, a supplicarla, e Remigia si fa forza.
— Oggi abbiamo combinato di andare alla Camera.
— Alla Camera?
— Quanita, per poter stare insieme, invece di andare nella tribuna di Corte verrà con me in quella del Corpo diplomatico.
— A che fare alla Camera?
— A sentirti parlare!
— Io non parlo, — borbotta Giacomo stizzito.
— Allora... per vederti tacere! — Remigia scatta con impeto. Non ne può più! — Ma che hai? Che cosa ti ho fatto?... Si può almeno saperlo? — Gli occhi dell'Idola si riempiono di lacrime, e di riscontro anche quelli di Mimì.
Giacomo prende in mano il cappello a cilindro, che ha messo sopra una seggiola, e comincia a lustrarlo con la manica.
— Niente, mi hai fatto! Che cosa vorresti avermi fatto?
— Ma sì! Mi parli... soltanto per contraddirmi e per strapazzarmi! Fai certi occhi, guardandomi, come se mi volessi mangiare! Vorrei almeno sapere che grave colpa ho commessa! Forse perchè sono andata a colazione con Luciano?... Di' la verità: ti ha fatto dispiacere?
— A me? — Giacomo si stringe nelle spalle. — Nè piacere, nè dispiacere. È cosa, del resto, che tocca più te che me e le cose vanno prese... come si sentono. Luciano, marito di tua sorella, è saputo e risaputo, che è a Roma per... Sai bene per chi, e tu trovi la cosa indifferentissima! Anzi, Luciano ti diventa sempre più simpatico! Accetti i suoi inviti; dividi con lui le emozioni automobilistiche... Benissimo! Ciò è affar tuo, ti riguarda, e risponde perfettamente al tuo modo di sentire.
Il cappello è diventato lucido come uno specchio, ma Giacomo continua a fregarlo e a lustrarlo, mentre dagli occhi irati di Remigia spariscono le lacrime. Mimì cerca di abbracciarla, di accarezzarla. Ella non ne vuol sapere:
— Lasciami stare! — Si avvicina a Giacomo, gli strappa il cappello di mano e lo butta sul canapè. — Ho capito! Si sa! Doveva entrarci mia sorella! Sempre mia sorella!
— Remigia! Remigia! — mormora sottovoce la Carfo spaventata. Ma Remigia non l'ascolta più e continua, ironica a sua volta:
— Del resto, mia sorella non è sola a Fiumicino! Ha la buona, ha la cara compagnia della zia Gioconda, con la quale se la intende... a meraviglia!
Giacomo fa un passo, lanciando contro la moglie un'occhiata terribile:
— E con ciò, che cosa vorresti dire?... Che cosa vorresti insinuare? Se mia cognata ha dell'affetto ed è piena di riguardi per nostra zia, tu, invece di... fare come fai, dovresti cercare d'imitarla!
— Già! Già! — ribatte Remigia più forte. — Il grande modello! Dovrei imitare il grande modello! Ma... come si fa?... Tutti non possono avere le doti, le virtù, la grazia, la soavità di una così perfettissima... perfezione!
— Senti, Remigia. — Le labbra umide di Giacomo battono convulsamente. — Io ho bisogno, almeno in casa mia, di tutta la quiete possibile. Spero... Voglio sperare che non sarai venuta a Roma per tormentarmi, per avvelenare anche i pochi momenti che posso avere di riposo... Sarebbe troppo! Ah, vivaddio, sarebbe troppo!
Remigia ha uno scoppio di pianto. Non per paura, nè per dolore; anche lei per dispetto e per ira.
Giacomo, alla vista delle lacrime, corre a prendere il cappello afferrandolo furiosamente per andarsene; poi torna vicino alla moglie squadrandola bieco. Mimì, sbigottita, cerca di frapporsi; egli l'allontana con la mano, mentre si curva su Remigia parlandole quasi all'orecchio:
— Ho sempre creduto poco alle tue lacrime. Oggi, non ci credo più. Puoi risparmiarle. Sarà tanto di guadagnato per tutti e due! Ti saluto! — Quando passa dinanzi a Mimì, le dice — buon giorno! — senza fermarsi e se ne va sbattendo l'uscio. Ma rimane assente solo pochi minuti. Ha capito di essersi lasciato trasportare, di aver avuto torto ed è pentito. Entra, e si ferma sulla soglia dell'uscio un po' confuso, guardando le due giovani signore e scrollando il capo con tristezza grande. Mimì continua ancora a singhiozzare. Remigia pallida, con gli occhi torvi, è tutta fremente e vibrante di collera.
Giacomo si avanza lento, passo passo, e si ferma dinanzi alla moglie, curvo, le braccia penzoloni, in atteggiamento umile, di scusa:
— Perdonami, Remigia. Non sono più io, certe volte; non so più quello che mi dica. È il lavorar troppo, senza nessuna soddisfazione, nemmeno quella della propria coscienza; è il sentirsi sempre male che mi rende così nervoso e stizzoso. La più piccola contrarietà, il più piccolo urto... Basta una mosca che vola per eccitarmi, per farmi montare il sangue alla testa!... In certi momenti, mi pare di diventar matto! Scusami, Remigia, e non badare alle mie furie. Tutto passerà; speriamo. Bisogna per altro che io mi risolva. Chiamerò il dottor Davos e sentirò che cosa si deve fare. Intanto ho bisogno di un calmante, bromuro, cloralio, qualche rimedio che mi faccia dormire. Le mie notti sono terribili; non le augurerei al mio peggior nemico! Pensa... — Si rivolge anche a Mimì. — Pensi, cara signorina, che io non dormo più... più! Vado a letto la sera stanco, spossato, e al mattino, dopo un'insonnia irrequieta, smaniosa, dopo dormiveglie dense di incubi, mi trovo ancora più stanco di quando sono andato a letto, mi sento pesto, ammaccato, estenuato! — Giacomo si stringe nelle spalle, crolla ancora la testa. — Sentirò il dottor Davos; così, non si va avanti!
Mimì Carfo, non ricorda già più le scene di prima, le escandescenze di Giacomo. Ella è rimasta colpita da quell'accento così sincero e doloroso. Approva e insiste perchè chiami subito il dottore.
— Vedrà, vedrà! Lo farà guarire in pochi giorni. Basta ch'ella si attenga davvero a tutte le prescrizioni del medico e al regime di vita che le verrà raccomandato.
— Obbedirò! — risponde Giacomo con un mesto sorriso che gli sfiora appena le labbra. Poi stende la mano a Remigia mormorando con la voce rotta da un'improvvisa commozione, con una grande malinconia dalla quale spira una dolcezza affettuosa, indulgente, più da babbo che da marito: — Scusami, cara... Vedrai, il dottor Davos saprà trovare un rimedio contro la mia... cattiveria!
Remigia rimane un po' titubante: guarda Mimì che con gli occhi e con i gesti le fa segno di cedere, di perdonare... e finisce col rasserenarsi. Non ha l'animo disposto e non è giorno opportuno per le tragedie. Avrebbe dovuto mandare a monte tutto ciò ch'era stato combinato a colazione con i della Gancia. Si asciuga un momentino gli occhi, poi si butta di nuovo al collo del marito. La pace è fatta.
— Potrò, per altro, venire alla seduta della Camera, con Quanita?
— Sì, sì; fa come vuoi! Soltanto, non credo che sarà un grande divertimento!
VI.
— Ah! Mon Dieu, mon Dieu! Quante teste pelate!
È l'esclamazione di donna Remigia appena si sporge dal parapetto della tribuna diplomatica, e gira gli occhi in fondo all'aula di Montecitorio.
— Ah! Mon Dieu, mon Dieu! Com'è brutto qui! — Si era immaginata la Camera dei Deputati, assai più grande, più bella e più sfarzosa.
La marchesa della Gancia la guarda sorridendo:
— Ma come?... Non c'eri mai stata?
— Mai! Quando dico a Jack di condurmi in qualche posto, o non può, o se può... sta poco bene! Ma adesso ho preso il mio partito: andrò dappertutto senza di lui!
— E farai benissimo!
Approva anche il marchese Pio della Gancia, il marito di Quanita.
Remigia torna a sporgere il capo e a guardar giù. L'aula va sempre più affollandosi. Alcuni onorevoli, non teste pelate, ma arruffate, in piedi o sdraiati dietro i lor banchi, parlano fra di loro, gesticolando animatamente. Remigia, sta un po' osservandoli, poi domanda, con aria scandalizzata, facendoli notare anche al marchese:
— Come mai?... Tutti i deputati non sono in abito nero?
Il della Gancia allunga il collo, guardando lui pure giù «nella bolgia» come la chiama, piacevolmente. Ma poi, in fretta, si tira indietro, e sporge le labbra nauseato:
— Ah! Ah! Quelli sono i Rabbagasse dell'Estrema Sinistra! — Il marchese, che parla con uno spiccato accento napoletano, pronunzia Rabbagasse con due bi e facendo sentire la e.
— È una mancanza di rispetto al Parlamento! Il frac dovrebbe essere di rigore!
— Dovrebbe essere! Invece... — Il marchese Pio fa un gemito che sembra quasi un muggito. — Ma! Se l'abito non fa il monaco, fa il democratico! Non è vero, Quanita?
— Già... appunto!
La marchesa è distratta e irrequieta. Si volta di qua, di là, risponde chinando il capo con la vivacità meridionale, alle profonde riverenze che le rivolgono, dai loro banchi, alcuni onorevoli di destra e del centro, ricambia sorrisi e saluti con le signore della tribuna di Corte, ma intanto continua con l'occhialetto a guardare in giro ansiosamente e a cercare, a cercare... qualcheduno che non c'è. A un tratto, l'occhialetto si ferma, puntato diritto alla tribuna della stampa. Vi è appena giunto, rimanendo fermo, in piedi, proprio nel mezzo, un bel giovinotto alto, segaligno, con la barbetta rossiccia, la cravatta sgargiante e l'aria spavalda. Anche il bel giovinotto punta subito gli occhi verso la tribuna della diplomazia, poi, scambiato con la marchesa un cenno quasi impercettibile, va in cerca di un posto per sedere.
La marchesa chiude l'occhialetto quietamente e si rivolge con un sorriso al marito che continua a far la predica: lo ascolta e lo approva del capo.
— La democrazia monta e quando si dice democrazia intendi furfanteria e soprattutto volgarità!... Ormai, tornare indietro non si può! Bisogna andare fatalmente fino alla rivoluzione, per poter poi tornare indietro... dopo. Ma dopo, questo è il male, saremo in pochi... i rimasti, i superstiti!
Il marchese, cupamente preoccupato, chiude le palpebre per non vedersi dinanzi la propria effige penzoloni a una lanterna. — Mah!
Anche le due signore, restano lì, per un momento, soprapensiero. Poi Remigia torna a guardar giù, nell'aula, per vedere se i deputati cominciano a guardar su, e Quanita gira intorno gli occhi avendo sempre di mira la tribuna della stampa.
Il marchese della Gancia, tenuto al fonte battesimale da Ferdinando II, ne ricorda il figlio, stranamente, — l'ex re Francesco, — nel fisico e nel morale: nel viso giallognolo, dal grande naso aquilino e dai baffi spioventi; nel tipo da bacchettone, nell'indole da lasagnone. Del resto, a parte la spaghite di dover passare un'altra volta per la ghigliottina, egli è inconcusso nella sua fede. L'Italia attuale, non è per lui altro che un affastellamento di nordici e di meridioni, affatto precario. In fondo al suo cuore, ed è per questo che non li aborre, ma li compiange simpaticamente, è ben convinto che i Sovrani piemontesi sono a Roma per forza e ci rimangono di contraggenio, sospirando il momento di ritornare a Torino e, magari, addirittura in Sardegna. Quando sua moglie è stata prescelta come dama d'onore della Regina, conseguenza logica dell'essere stata sua madre dama d'onore della seconda moglie di Re Ferdinando e sua nonna della prima, il marchese Pio, non ha detto sì, non ha detto no. Ha chiuso gli occhi... dopo, per altro, di aver avuto l'assicurazione da suo cognato, Esente della Guardia Nobile, che avrebbero chiusi gli occhi anche in Vaticano.
Remigia si leva un guanto e con la bellissima mano ingemmata aggiusta e rimette a posto alcuni fili di capelli biondi: l'aula è gremita ed ella ci tiene a far colpo. L'Estrema Sinistra, la Sinistra e i Centri sono affollati. Soltanto nei settori di Destra c'è del vuoto. La tribuna degli ex deputati, la tribuna della Real Corte e della Presidenza, sono rigurgitanti di signore, tutte vestite di chiaro, sfarzosamente, tutte circonfuse dallo sventolìo incessante, affannoso dei ventagli. Perchè lassù, sotto le vetrate, il calore e l'afa, nel cuore del pomeriggio romano, diventano insopportabili.
— Duchessa Remigia!
Il marchese la chiama, toccandola appena, leggermente, sul braccio. Si offre per indicarle tutte le più spiccate notabilità della Camera.
— Sì! sì!... Bravo!
Remigia è contenta: gli si fa più vicina per sentire. Il marchese sta fermo, assapora quell'odore di biondo, lui che ha la moglie nera come l'inchiostro, e gongola. Ha una grande simpatia per Remigia. Prima di tutto, per quanto costretta dalle conseguenze... della rivoluzione, a doversi imborghesare morganaticamente con un D'Orea, è sempre una duchessa Moncavallo; e in quanto al fisico, — oh, madonna del Carmine benedetta! — è sempre stata la sua passione il genere magrolino, tenerino; il tipo infantile, acerbo, che ha ancora... del guaglioncello!
— Vede, donna Remigia, nella tribuna della Real Corte, quella vecchia signora con quell'enorme tuppè di capelli bianchi? È una delle più intriganti collaresse...
Ma donna Remigia non gli bada. Non ha tempo di occuparsi delle vecchie signore. Sbircia con la coda dell'occhio molte teste pelate di onorevoli che si agitano indicandola l'uno all'altro.
— Domani mattina, presto, bisogna mandare il signor Zaccarella a prendere il Fracassa!
Continua con la bellissima mano a lisciarsi i capelli e a guardar giù, senza averne l'aria, fingendo di star attenta ai discorsi del marchese che si fa sempre più accosto, ed ansima.
Ah! ah!.. Non soltanto le teste pelate, anche le arruffate cominciano a voltarsi in su.
— C'è del fermento tra i Rabbagasse! — pensa Remigia sorridendo e sporgendosi alla tribuna per farsi meglio vedere.
— Carina! Carina assai!... Chi è quella bella signora bionda con quel grande cappellone a piume bianche nella tribuna del corpo diplomatico?
— È la D'Orea!
— Oh, oh! La moglie di Sua Eccellenza?
— Sicuro! La moglie del ministro dei Lavori Pubblici!
— Accidenti! Preferirei ottenere il portafoglio dei suoi lavori privati!
— E l'altra?...
— Quale?
— L'altra signora, vicino alla D'Orea! Quella vestita di nero!
L'interrogato si pulisce in fretta le lenti col fazzoletto, se le inforca di nuovo sul naso e torna a guardar su.
— Non so il nome; ma dev'essere una dama d'onore della Regina.
— Simpatica brunotta, per quanto un po' stagionatella!
— Stagionatella sia pure! Ma ha una bocca saporosa assai! Con quei baffettini neri!
— E che occhi! Che carboni grigi! Brillano più dei diamanti che ha nelle orecchie!
— Concludendo, bella la bionda e magnifica la bruna!
Le due signore, in fatti, stanno benissimo insieme, risaltando, per il contrasto, anche maggiormente. La della Gancia, nella soda e fiorente maturità della quarantina, è un tipo di bellezza affatto opposto a quello delicato e capriccioso di Remigia D'Orea, e a quello vagheggiato e tutto innocenza, da suo marito. Anche la marchesa vede, sente di piacere, di essere ammirata e, come un cavallo pien d'ardore, non sa più tenersi in freno, continua a muoversi, a salutare, a ridere e volge più spesso verso la tribuna della stampa la bella faccia bruna, mobilissima, nella quale sfavillano gli occhi grigi e luccicano i denti bianchi.
Il bel giovinotto dalla barba rossiccia è seduto solo, appartato, in un angolo. Lì, fra quelli della stampa, egli non è conosciuto da nessuno.
Tutti lo guardano per la cravatta, e per quell'aria di letichino prepotente, che non può passare inosservata.
— Chi è?
— Mah!...
— Sarà un qualche avventizio della provincia!
— Un ponza-novelle domenicale!
— Giornalista no, di sicuro! Si sarebbe fatto conoscere!
— Basta! El tegnaremm d'œcc! — esclama, sforzando la pronunzia, un ammiratore di Ferravilla.
— Fogo in manega, lustrissimo! — E nessuno ci bada più. Brontolano, invece, contro il Governo incivile che si fa troppo aspettare.
— Il Ministero deve presentarsi prima al Senato!
— Ma che Senato! — Tutti insorgono, protestando in difesa delle proprie prerogative. — Prima la Camera!
— Taci, ufficioso venduto!
— Servo della greppia!... Il tuo Governo di decrepiti istrioni aspetta che l'aula sia au complet per l'applauso di sortita.
Mentre si ride, un altro giornalista giovanissimo, che si tien giù, basso, lungo disteso sopra una delle panche, si mette a urlare con quanto fiato ha in corpo: — Fuori!... Musicaa!... Fuori i lumi!
— Ecco, duchessina! — esclama il marchese, accarezzando Remigia con gli occhi e col diminutivo e tirandosi, cacciandosi ancora più sotto al cappellone, all'ombra profumata delle piume bianche. — Ecco il ministro della Pubblica Istruzione!
Remigia segue con le lenti l'indicazione del marchese e vede un omettino tondo, grassotto, col cranio rosso, congestionato, avvicinarsi al banco del Governo dispensando sorrisi, saluti, strette di mano, con tutti deferente, supplice quasi, con l'aria più di chiedere protezione che di accordarla.
— È un frate sfratato!... Lui e sua moglie dicono di no e si arrabbiano, ma c'è chi giura di averlo visto, prima del settanta, con la tonsura!
Remigia ripone le lenti, aggrottando le ciglia: — Accettare nel Ministero, persino un frate! — Lì per lì le corrono in mente tutti i torti e tutti gli odiosi difetti di suo marito: la nessuna nobiltà, la nessuna sostenutezza, la sfuriata di poco prima, e con i baffi del signor Gaudenzio persino un barlume di pizzicheria!... — Si dà una scrollatina di testa per non diventare di cattivo umore e domanda al della Gancia:
— Ma il mio Jack, tesöro, perchè non si vede ancora!
Quel tesöro serpeggia nelle vene per quanto un po' sclerotiche, del marchese Pio:
— Pazienza, un po' di pazienza, bella duchessina cara, come a teatro! Le prime parti, si fanno sempre aspettare! Manca ancora il Presidente della Camera, il Presidente del Consiglio, il ministro degli Interni, quello del Tesöro! — E anche il marchese allunga la o fissando il bel collino delicato e la nuca ricciutella.
— Fatemi vedere il ministro degli esteri!
— Non c'è!
— Come non c'è?...
— Il presidente del Consiglio ha assunto anche l' interim del ministero degli Esteri!
— Ah, sì! Sì! — esclama Remigia dopo averci pensato un momento. — Sicuro!
Quanita ride.
— Una Ministressa?.. Dimenticare gli interim del Presidente del Consiglio?... È grossa, assai!
Il marchese lancia una frecciata ironica, piena di gelosia:
— Con tutta la politica fatta a Pontereno... col conte Gambara!
— Oh! povero Gambara!... Anche lui, come dell' interim! Sparito dal pensiero e dal cuore!... — Donna Remigia, dice così scherzando, per far piacere al marchese Pio; ma forse, può essere anche vero.
— Fatemi vedere il sottosegretario di mio marito.
— Il sottosegretario ai Lavori Pubblici? Il Rabbagasse dal cappellone?... Ancora non si vede.
— E il ministro della Guerra?
— Eccolo!... Eccolo là! — rispondono quasi insieme Quanita e il marito. — Entra adesso dal corridoio di sinistra, col ministro della Marina! — La marchesa, lo saluta assai cordialmente con i cenni vivissimi del capo.
Il conte Martino D'Entracques, è ancora giovanissimo per essere senatore e ministro. Alto, secco, rivela sotto l'elegante soprabito nero la figura svelta e snella dell'ufficiale di cavalleria. Ha una bella testa espressiva con i capelli folti e crespi, quasi bianchi e i baffi neri diritti, in punta. Appena entrato nell'aula leva una lente dal taschino della sottoveste e se la ficca nell'occhio, come il bell'Apollo di Villars, guardando verso la tribuna del corpo diplomatico e rispondendo del pari vivamente ai saluti della marchesa.
Invece il ministro della Marina, esile, traballante, si avvicina al suo posto e siede subito come affranto, sulla poltrona, buttandosi dinanzi, sul banco, il grosso portafogli nero, gonfio di carte. È così sparuto e giallo in viso, come se avesse passato quarant'anni in un paese di malaria, anzichè sul mare, arrivando da cadetto, al grado di contrammiraglio.
Le piume bianche, i capelli biondi, il fresco visetto di Remigia hanno dato nell'occhio al ministro della Guerra. Vuol subito sapere chi è.
— È una vostra collega! — risponde un deputato che sta discorrendo col ministro dell'Istruzione. — È la moglie di Sua Eccellenza D'Orea.
Il generale D'Entracques, torna a ficcarsi la lente nell'occhio e a fissare in alto.
Remigia nota, capisce che al banco dei Ministri si parla di lei; osserva le occhiate di sua Eccellenza D'Entracques; lo guarda a sua volta, poi rizzandosi bene sulla vita e piegando vezzosamente la testina ricomincia a lisciare i capelli e ad attorcigliare i fili d'oro dietro la nuca.
Intanto il marchese e la marchesa raccontano vita e miracoli del generale, che Remigia conoscerà quel giorno stesso a pranzo.
— È un nostro amico carissimo!
— Assai simpatico!
— È già la seconda volta che è ministro!
— Dice lui stesso di essere condannato... ai ministeri forzati!
— Ci sto... perchè ci sono comandato!
Questa, in fatti, è la frase solita del generale d'Entracques, ed il volersene sempre andare è la sua vera forza di resistenza come ministro.
Per Sua Eccellenza D'Entracques, ministero di Destra o ministero di Sinistra, ministero Liberale o ministero Conservatore, è tutto «un servizio».
— Sono di picchetto e ci sto, fermo al fuoco, perchè ci sono comandato!
C'è un movimento nell'aula, si sente un mormorio confuso: entrano quasi contemporaneamente, ma da opposti lati, il Presidente della Camera, seguito da due o tre deputati, e il Presidente del Consiglio con gli altri ministri e i sottosegretarii.
— Ecco il mio Jack! — esclama Remigia. Sorride con un cenno al marito e intanto lancia un'altra occhiatina al ministro della Guerra.
La marchesa le ha appena indicato nella tribuna vicina una signora americana, missis Britton, che se non è più al suo primo mattino rappresenta tuttavia un fulgido meriggio.
— Ha fatto pazzie per il D'Entracques ed è sempre innamorata di lui, ferocemente!
— Il cappellone! Il cappellone! — bisbiglia plano il marchese Pio, premendo il braccio a Remigia e parlandole così vicino, da sfiorarle quasi l'orecchio.
— Dov'è?...
— Guardate, quella zazzera, con quel pizzo da tenore, che parla appunto con vostro marito!
— Oh! Oh! Curiosa!... — Esclama, ridendo, la marchesa Quanita. — Il potere gli ha fatto allungare la giacca!... Può passare per una mezza radingotte!
— Ssst! — corre nell'aula un vociare più forte, al quale segue un bisbiglio sommesso. — Ssst!
Il Presidente della Camera, in piedi, dall'alto del seggio, dice alcune parole che non arrivano fin su, alle tribune, poi siede di nuovo e quasi subito il Presidente del Consiglio, si alza.
Degli altri ministri, alcuni restano sdraiati nella poltrona con gli occhi socchiusi, altri si curvano su fasci di carte e cominciano in fretta a buttar giù firme.
Il Presidente del Consiglio rimane un istante fermo, impettito. Il suo viso è impassibile, lo sguardo freddo, senza espressione. Un risolino, tra il cortese e l'ironico, sfiora i baffi bigi, tagliati corti.
Si fa silenzio. Dall'alto piove una luce scialba, rossastra: l'aria è accesa, piena di ronzii.
La Camera, attentissima, diventa imponente. Alcuni deputati, in ritardo, si affrettano a raggiungere in punta di piedi, i loro scanni. Il Presidente aspetta ancora qualche secondo guardando a destra, a sinistra... Con la sua voce chiara, metallica, incisiva egli dice:
— Mi onoro... — Il silenzio si fa ancora più profondo. — Mi onoro di partecipare alla Camera che Sua Maestà il Re, mi ha affidato l'alto mandato di comporre il Ministero e che ad esso ho potuto corrispondere mercè il buon volere e lo spirito di abnegazione degli Onorevoli Colleghi... — qui legge sottovoce e confusamente una filza di nomi... — ai quali mi sono rivolto consigliato dalle necessità amministrative e politiche del momento.
I ministri, che tengono chiusi gli occhi, li aprono e stanno attenti; quelli che scrivono, si fermano ed alzano il capo: nessun applauso... e nemmeno alla fine del discorso. La Camera accoglie le «comunicazioni» con un atteggiamento quasi ostile. Si attendono i commenti. Questi seguono brevissimi, abili, cauti, insignificanti e finiscono in un mormorio eloquente, ma cauto del pari, che si alza dai vari settori. Dopo un momento risuona dall'Estrema Sinistra una sghignazzatina tosto repressa: si guarda, ed anche da altri punti si ride.
— La patria è salva, ed anche Menelich! — grida una voce dalla tribuna della stampa. — Fuori i lumi!
Il Presidente della Camera si scote nell'alto seggiolone e stralunando gli occhi aggravati dall'ora afosa, afferra macchinalmente il campanello.
— Ssst!
Di nuovo s'impone il silenzio, ma senza ottenerlo, e tra le proteste, i bravo! e le risate, si alza, dal primo settore di Sinistra, uno dei più eleganti e giovani deputati, legislatore autorevolissimo fra gli sportsmen. — Peccato! Non si vede di lui che la bellissima, perfetta pettinatura. Presa la parola, e impappinandosi frequentemente, egli tien sempre il capo basso e gli occhi rivolti verso un paio di cartelle che ha spiegate sul banco. L'oratore — «di fronte alla situazione parlamentare creata dagli ultimi eventi, di fronte alla palese inopportunità di procedere nelle condizioni del momento alla discussione dei progetti di legge che... furono... abbiamo... sono alle viste, propone» — si ferma, si fa coraggio — «propone che la Camera anticipi le vacanze e venga riunita a novembre.»
Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio dei ministri, si alza subito a sua volta per dichiararsi d'accordo con l'onorevole preopinante: raddoppiano gli urli che fluiscono in un'omerica risata su tutti i banchi.
— Compare! Compare!
— Musicaa!
Ma la proposta, più che approvata, è messa in pratica: tutti si alzano e si affrettano alle uscite, ridendo, gesticolando e buffoneggiando.
Su, nella tribuna del corpo diplomatico, anche la marchesa della Gancia si alza, con gli altri, per uscire. Ma ella rimane un istante ritta in piedi, vicino al parapetto, e fissa gli occhi un'ultima volta verso la tribuna della stampa: Barbetta-rossa è in piedi, attento. Ella apre e chiude il ventaglio due volte, lentamente, poi lo batte con un piccolo colpo della mano.
— È ancora presto! — dice subito a Remigia, avviandosi verso l'uscio della scala e parlando forte, con la sua bella voce rotonda, risonante. — Faccio una visita, e passerò anche da mia madre, che non vedo da due giorni. Dove vuoi che ti accompagni con la carrozza?
— All' hôtel. Ho anch'io da scrivere a mammà!
— Pio verrà a prenderti per il pranzo, o anche prima, se vuoi; siamo intesi.
— Ma... — Remigia si mostra titubante.
— Che ma?...
— Che ma! Che ma! Non ci sono ma! — strilla il marchese, felicissimo per quella fortunata combinazione.
— E Jack?... Ha detto di voler passare la serata con me.
— E non passa la serata con te, anche pranzando da noi?
— Non gli ho detto nulla. Forse è stanco; forse sta poco bene. Sapessi! — Un lunghissimo sospiro. — Io non posso mai fissar niente a un'ora di distanza.
— Cerchiamo adesso di vederlo e di potergli parlare. Io ti voglio a pranzo ad ogni modo!
— E se vostro marito avrà sonno, lo manderemo a dormire! — Così dicendo, il marchese Pio stringe forte sotto il suo braccio il braccio di Remigia.
— E ricordati: vieni con Mimì. Ci farà tanto piacere!
— No, scusa; Mimì no! — risponde Remigia seccamente. — Non voglio cominciare fin dal primo giorno a tirarmela dietro ad ogni passo!
— Non so darvi torto, — afferma il marchese, premendole il braccio di nuovo. — Non bisogna mai che una cortesia, diventi una consuetudine. — Egli ha troppo paura di perdere il tu per tu, in carrozza, con la cara piccolina.
— Ecco il generale! Ecco D'Entracques! D'Entracques! — chiama forte la marchesa, vedendo Sua Eccellenza il ministro della Guerra, affacciarsi a un usciolino a vetri, a metà della scaletta. — Il D'Orea è con voi?
— No, marchesa!
— E dove sarà?... Gli vorrei tanto parlare! — Si volta subito verso Remigia: — Ti presento il conte Martino D'Entracques, generale, senatore, ministro, ma con le signore, sempre un amabilissimo capitano di cavalleria!
Il D'Entracques sorride e sospira.
— È troppo capitano?... Volete tenente?
— Non scherzate, marchesa! Ormai si passa di promozione in promozione, con una rapidità straordinaria... anche in tempo di pace.
Il generale stava proprio lì, in agguato, sul piccolo uscio a mezza scala, per poter vedere la D'Orea più da vicino. Remigia, che ha subito indovinata la mossa dell'abile stratega, diventa rossa rossa, mentre succedono le presentazioni.
È strano, ma è proprio vero: il giovane generale, che ha per amante la formosa e biondissima missis Britton, sta per vincere una battaglia!
Il D'Entracques si affretta a dare precise informazioni sul conto del collega.
— L'ho lasciato alle prese con due o tre deputati del Mezzogiorno! Ma adesso, lo troveremo, certissimo, in biblioteca!
Per l'uscio a vetri, dove stava di guardia, egli fa passare la comitiva in un oscuro corridoio, poi la fa risalire per un'altra scala, poi ancora un altro corridoio da attraversare e, finalmente, ecco le prime sale della biblioteca. Durante tutti questi giri e rigiri il marchese deve lasciare il braccio della duchessina e mettersi in coda. È il generale che si trova accanto a Remigia e, lungo com'è, deve chinarsi assai mentre le parla: Remigia, per ascoltarlo, si tira su, ritta, e alza verso di lui il viso colorito dalla corsa, dal caldo, dall'emozione. Ella si sente più gaia, più leggera; le sembra di volare!
— Posso dire di essere due volte collega di suo marito! L'onorevole D'Orea, la pensa come me ed è nelle stesse mie condizioni. In questo Ministero anche lui ci sta, perchè c'è comandato!
Cercano dappertutto, ma l'onorevole D'Orea non si trova. La marchesa Quanita dovendo aspettare, sembra sulle spine e però il D'Entracques manda alla ricerca due uscieri.
— Da qui, se c'è, dovrebbe passare di sicuro! Si tratta di pochi minuti! Dunque, — domanda il generale rivolgendosi di nuovo a Remigia, — della nostra Camera non è rimasta incantata?
— Incantata?... — Remigia fissa il giovane generale e giovanissimo senatore co' suoi occhietti lustri e frizzanti, mentre un sorriso arguto rende più fonde le due piccole fossettine agli angoli della bocca freschissima, fremente e fragrante. — Incantata?... Non è certo la parola adatta! Da lontano, quando si leggono i giornali... Ah, Mon Dieu, s'immagina con la fantasia tutt'altra cosa!
— Oggi, bisogna poi notare, è stata una seduta di pura formalità; senza nessuna battaglia. Oggi alla Camera, non c'era altro che un partito; quello delle vacanze.
— Sì, sì, sì... ma pure, da lontano... è proprio tutt'altra cosa! — Remigia vede che il tutt'altra cosa, e il modo come lo dice, piace molto al D'Entracques: lo ripete ancora, scrollando il capo graziosamente e poi soggiunge con enfasi, credendo di lusingarlo: — Sono stata invece parecchie volte in Senato! Oh, là sì!... Quanta grandiosità... Quanta solennità!
— Cioè quanta sonnolennità!
Ride Remigia, gustosamente, ride Quanita, il marchese, e ride egli stesso, il D'Entracques: ridono tutti, quando Giacomo D'Orea, con un grosso fascio di carte sotto il braccio si presenta sull'uscio, pure spalancato, dell'altra sala, e si avanza curvo, strascicando i piedi, affranto dal caldo e dalla fatica. Si ferma muto, ansante, con il cappello in mano dinanzi alla marchesa; guarda tutti con aria trasognata. Appena sente di che cosa gli vogliono parlare, cioè di un invito a pranzo per Remigia, il suo occhio si rianima, ed egli diventa persino espansivo.
— Sì, cara, sì, sì; io non posso venire e la nostra buona marchesa mi vorrà scusare, ma tu va, Remigia, va! Ne sono anzi contentissimo! Ti scrivevo adesso, figurati, per avvertirti che mi sopraggiunge l'inaspettato divertimento di due commissioni, una dietro l'altra, che non mi lasceranno quasi il tempo di pranzare e che mi porteranno via tutta la serata!
Remigia, è lietissima in cuor suo di questa circostanza, ma non lo fa capire...
— Devi pensare anche a te! Alla tua salute! Ti affatichi troppo, gioia, e io resto inquieta!
VII.
Remigia torna all'albergo allegrissima, con la testa montata dall'invito a pranzo e da Sua Eccellenza D'Entracques.
— Fanno un bel risalto i baffi neri, con i capelli bianchi. Rendono la fisonomia più giovane e più ardita. Quella missis Britton le fa dispetto.
— Innamorata ferocemente!
La trova troppo... genere americano. Niente finezza e troppo grassa.
— E poi è rossa, non è bionda!
Mimì Carfo, intanto, ha impiegate tutte quelle ore nell'aggiustare, nel mettere a posto anche la camera da letto di Remigia, lo spogliatoio, il gabinetto di toeletta. Mimì, ha posto ogni cura per togliere all'appartamento l'uggia dell'albergo e le fa ritrovare un po' del suo caro Pontereno, ch'ella crede, per tutti i sospiri e i brontolamenti di quella mattina, ancora desiderato e assai rimpianto. La buona figliuola c'è riuscita; a furia di picchiarsi le dita conficcando chiodi e chiodetti nelle pareti, le ha tappezzate di nuovo, con i mezzari, le stoffe, le stampe, con i mille gingilli, portati apposta da Bologna, e ha cambiato faccia a tutto.
Remigia, entrata di volo nella camera, senza nemmeno fermarsi nel salotto, si trova dinanzi agli occhi i ricordi, gli oggetti a cui è più affezionata, e ha lì sottomano tutto ciò che le occorre. Ma ella non grida al miracolo, e nemmeno si perde in ringraziamenti.
— Come siete state brave! — dice soltanto, comprendendo, in una sola approvazione, l'amica e la cameriera.
Subito annunzia l'invito a pranzo, ricevuto da Quanita, per quel giorno stesso e sedendosi sul taburè, ancora con in testa il grande cappellone di piume, raduna, d'urgenza, il Consiglio di stato:
— Che vestito devo mettermi per stasera?
— Quello celeste à paillettes!... — consiglia la cameriera.
— No! No! Quello bianco, à point d'Alençon, ricamato in oro!
L'Idola approva Mimì.
— Il bianco! Il bianco! E il trasparente rosa!... Sai, — dice alla Carfo appena rimangono sole, — Quanita, voleva invitare anche te; ma io ho risposto di no!... Me l'ha detto tardi e senza entusiasmo! E che vuoi? Avrò torto, ma quando si tratta di te, io divento fierissima...! Ho fatto male?
Remigia accompagna la domanda con un bacio e l'amorosa fanciulla la ringrazia, beata, commossa da quella straordinaria prova di affetto!
— Hai avuto ben ragione. Mimì cara, anche di non venire alla Camera!
— Volevo prepararti l'improvvisata di questa trasformazione...
— Che! La trasformazione poteva prepararla la Carolì!... Ti saresti seccata a morte! — Comincia a svestirsi. — Non puoi credere, mio Dio, come sono noiosi i nostri legislatori! Levami il cappello... Ti raccomando, gioia, di spettinarmi il meno possibile!
Mimì trattiene persino il fiato, poi, levato il cappello, torna a respirare.
— Hai conosciuto alla Camera qualche personaggio importante?
— No!... Cioè, sì! Uno solo! Ho conosciuto il ministro della Guerra. Ben inteso, non me l'ha presentato Jack! Lui, non ha tempo per queste cose! Anzi, quando si tratta di me, non ha mai tempo per nessuna cosa!... Scusa, Mimì cara, slacciami il nastro di questa scarpetta, io non ci riesco, — uff! — e divento nervosa!
Mimì prova e si rompe un'unghia. S'inginocchia per terra, e mentre Remigia continua ad arrabbiarsi e a pestare l'altro piede furiosamente, finisce a sciogliere il nodo aiutandosi un po' anche con i denti.
La Carolina entra intanto col vestito bianco e portandolo sollevato, alto da terra, lo distende sul letto.
— È simpatico?...
— Simpatico, chi?
— Il ministro della Guerra!
— Abbastanza! Ben inteso, per quanto può esserlo un senatore! Lungo lungo, è più magro di don Quisciotte, con i capelli tutti bianchi!
La Carolina prepara l'acqua nel gabinetto di toeletta e Remigia seduta, mentre Mimì le cambia le calzette, continua a canterellare sottovoce:
Eccellenza! troppo onor;
Io non merto un senator!
Il marchese Pio ha detto alla duchessina che sarebbe passato dall' hôtel con la carrozza, prima delle sette; ma già prima delle sei ella è pronta col piccolo cappellino di sera, sfavillante di miche e di lustrini, tra la gloria dei capelli biondi.
— E adesso che si fa?... Ah, mon Dieu! Mon Dieu! Mi sono vestita troppo presto!
Va sul balcone e guarda giù: il corso delle carrozze è poco animato: soprattutto poco elegante. Non ci sono nè belle signore, nè bei cavalli.
— Oh! il mio Febo e il mio Desir! Tesori!... Chi sa se mi ricordano?
Dopo un momento rientra nel salotto. Si secca e comincia a imbronciarsi.
— Hai telegrafato a mammà? — domanda la Carfo per offrirle un'occupazione.
— No! — Il bel visetto si ravviva. — Giacchè ho tutto il tempo, invece di telegrafare, le scrivo. Gioia, dammi la mia cartella!
— Eccola! — La Carfo è raggiante; anche questa volta ha dissipate le nubi che si avanzavano.
— Mammà! Mammà! La mia bella mammà, tesöro!
Si leva i guanti, e seduta a mezzo sopra un panchettino, per non sciupare le pieghe del vestito bianco à point d'Alençon, si mette a scrivere alla madre cominciando con uno sfogo di tenerezze, di carezze, di moine straordinario, e continuando facendosi compiangere per il capriccio di Jack, di volerla a Roma, con quel caldo! — «Poteva lasciarmi tranquilla e in pace nel mio Pontereno caro!» — Finalmente, ed è questo il motivo occulto, ma determinante della lettera, le scrive con bel modo, per scongiurare il pericolo di una intempestiva improvvisata. Napoli è tanto vicina a Roma! In quel momento, un probabile arrivo della carovana, la spaventa: tutto il giorno con mammà? Tutto il giorno con lo zio Rosalì a far la raccolta dei proverbi?... Grazie del divertimento!
«....... Sono appena arrivata e ho voluto scriverti subito, ancora sossopra e stanca stanca. Vedessi il disordine delle mie camere! Ti farebbe spavento, perchè io faccio cambiar tutto, persino i mobili! Sai come detesto lo stile uniforme, art-nouveau e oleografia, delle camere d'albergo! Jack sta benissimo di salute, per quanto più che mai abbia la fissazione — è il suo tic — di voler essere giù di corda. Sarà un po' di stanchezza? Saranno gli affari di Stato?... Attraversiamo, — mi pare, — un periodo di luna crescente, con molte tenerezze per la zia Gioconda! Ed io, intanto, che non ne ho nessuna voglia, rimango con la graziosa prospettiva di dovermi seccare in tutti questi giorni facendo visite sopra visite alle rispettive signore dei funzionari alti e bassi! Ma, appena a posto, appena esauriti i miei incumbenti... burocratici e appena sorgerà il sole, dove adesso la luna brilla, ti scriverò e tu verrai subito subito a Roma per un paio di giorni...! Pensa, la tua Idola, come ti sospira!»
«Tanti baci per lo zio Rosalì, bello e caro, e tu ricordati che la tua piccola Idola adorata, non adora che la sua Mammà!...»
«P. S.»
«Totò vuol andare al Cairo? A che cosa fare? A perseguire Re Faraone?»
Chiusa la lettera, scritto l'indirizzo con la calligrafia di moda, alta, in piedi, ad angoli diritti, fa chiamare il signor Zaccarella:
— Mi raccomando! È una lettera per Mammà! Alla posta grande!
— Non dubiti, signora duchessa!
Quando Giacomo non è presente è sempre il «Signora duchessa» che corre, anche in famiglia.
— E Giovanni...? Ha scritto per farlo venire?
— Aspettavo che la signora duchessa, mi confermasse l'ordine...
— Scriva, scriva! E che quell'antipatico Gaudenzio non si faccia più vedere!
A Roma, la marchesa della Gancia, non dà feste e pranzi splendidi, come usa a Napoli, nel suo palazzo. A Roma, nel piccolo appartamento di via della Mercede, bello, simpatico, ma ristretto assai, — il suo pied-à-terre, — com'ella stessa lo chiama, non riceve altro che gli amici, proprio i più intimi, e non può riceverne che pochi alla volta: a pranzo, tra padroni di casa e convitati, non si deve mai oltrepassare il numero di otto.
Quel giorno, oltre a donna Remigia D'Orea, non c'è di signore altro che la principessa Guendalina Capodimare, — la sorella del marchese Pio, — e sola, senza il marito, di servizio ai Vaticano. Di uomini, Sua Eccellenza il conte D'Entracques e il cavaliere Paparigopulos, figlio di papà... Paparigopulos, il più grosso Nabab, tra i banchieri greci, quotato alle Borse di Trieste e di Vienna, per cento milioni di fiorini!
Al pranzo, dalla marchesa Quanita, mancano due commensali, che dovevano appunto formare il prescritto numero otto e che si sono scusati all'ultimo momento: don Luciano D'Orea per un'improvvisa indisposizione, dichiarata dalla marchesa, ai suoi invitati, una manonlite acuta, e il conte Cincino d'Ermoli, fratello minore del marchese Pio, a motivo di un convegno con il direttore della casa Edison-Schmid di Stuttgart.
— Ma verrà più tardi, certamente! — assicura la Capodimare, rivolgendosi a Remigia. — Mi ha detto tanto che desidera salutarvi!
Il della Gancia è abbastanza ricco per il maggiorasco e per l'eredità di uno zio, ma Cincino d'Ermoli ne ha sempre avuti pochini e ne ha sempre spesi assai, fin da quando era studente a Milano, al Politecnico. Da un anno, sollecitato, spinto dalla famiglia, ha preso il diploma di ingegnere elettricista, e comincia anche ad esercitare la professione, un giorno sì e l'altro no, fra una partita al club, e una giornata di corse.
Il pranzo, appunto perchè ristretto ed intimo, comincia senza freddezze e sussieghi e procede animatissimo. La Capodimare e la D'Orea, si sono date subito del tu, fino dal primo incontro. Non si erano ancora mai trovate insieme, sebbene fra le rispettive famiglie, oltre all'amicizia ci fosse persino un po' di lontana parentela.
— Che combinazione!
— Proprio una stranezza! Ma quand'ero ragazza, con mammà, ci sono stata pochissimo a Roma e pochissimo anche a Napoli. In campagna, oppure — e Remigia pronunzia la parola lunghissima e difficile facendo le più graziose boccucce e strizzando gli occhi — oppure, in continua locomobilizzazione. Ah, mon Dieu! Quanti monti, quanto mare e quanti laghi, nei ricordi della mia tenera infanzia!
Fra le due giovani signore, nasce subitanea la più gioconda e viva simpatia. Proprio davvero: anche la simpatia di Remigia per la Capodimare è vivissima e sincera.
— Che cara gioia!... E com'è bella!
Donna Remigia, fatto appena il suo ingresso nel grazioso salottino in via della Mercede, si sente come oppressa e depressa. Sono le magnifiche spalle, è tutta la fiorente e aulente esposizione del seno superbo di Quanita, che la soffocano, la umiliano e le fanno dispetto, tanto più col D'Entracques, lì presente, e che ammira con la caramella fissa nell'occhio.
— Dio, che maturanza! Se fossi costretta, nella mia vecchiaia ad espormi così, ai quattro venti, morirei di vergogna!
In quel punto il servitore annunzia la principessa Guendalina Capodimare. Remigia si volta...
— Ah, che respiro! Che sollievo!
La Capodimare è molto, ma molto più magra di lei; non è una donna, è un sospiro, un soffio, un'illusione di donna.
Remigia le va incontro, gaia, sorridente, dicendole già con gli occhi, prima ancora che con le parole:
— Oh, cara gioia!... Come sei bella!
In fatti la Capodimare sembra ancora più alta, tanto è snella, sottile, con un vitino da stringersi e, trac, da potersi anche spezzare con due dita. Molto più giovane di suo fratello, il marchese Pio, non gli somiglia affatto. È invece il ritratto parlante del conte d'Ermoli, persino nella singolarità dei capelli bianchi. La Capodimare ha varcato appena la trentina, ed è tutta bianca da sembrare incipriata! E ciò, non le nuoce; anzi, le accresce finezza e freschezza, mentre i grandi occhi bruni e le folte sopracciglia nere, spargendovi ombre e trasparenze, danno pensiero e danno poesia a quel suo visino ovale, d'avorio, così liscio e così levigato.
— Che meraviglia! Che splendore!
Ma ciò che più colpisce Remigia piacevolmente, non sono nè gli occhi, nè i capelli. È la verecondia che non ha nulla da temere. Anche Guendalina è scollata altrettanto e forse più di Quanita, ma sotto sei fila di grosse perle, tra le più belle di Roma, si nasconde e si scopre il petto liscio, levigato di un grazioso giovinetto magro, di quindici anni.
— Com'è bella Guendalina! — Remigia e il generale parlano insieme, sottovoce, tra il susurrio brioso della tavola. — È un'apparizione! Un sogno!
— Già! Un'apparizione... inafferrabile! — risponde il D'Entracques, ridendo.
Remigia nota che per quanto generale e senatore ha ancora dei bellissimi denti ed esclama con un lungo sospiro tra il serio e il comico:
— Ah, mon Dieu, come sono... cretina!
— Lei?... Duchessa?...
— Io, precisamente. Ho dimenticato che Vostra Eccellenza non è un serafico preraffaellita, ma un grande amatore della scuola di Rubens. Colore e forma. Forma, soprattutto: esuberante, straripante!
Si guardano sorridendo. Senza essere pronunziato, passa un nome fra loro due: quello di missis Britton.
— Sappiamo, sappiamo, caro D'Entracques! — mormora Remigia con un filo di voce.
Il generale si ficca la caramella nell'occhio. Vuol arrivare a leggerle proprio in fondo all'anima.
— Sappiamo... Sappiamo... — il musetto roseo e biondo, così birichino, pizzica forte il generale.
— Vuole, duchessa?...
— Che cosa?
— Vuol proprio conoscere i miei gusti... in arte? La bellezza che più ammiro?...
— In arte?... Sentiamo.
— In arte e in... E fuori dell'arte? È la sua!
— La mia?... Ah, mon Dieu! Se ho la sventura di essere... ancora meno afferrabile di Guendalina?
Il generale, che ha preso fuoco, divampa.
— Ma lei è un bellissimo fiore delicato, profumato, fragrante!... Quell'altra è una spiga lunga e vuota!
Remigia non può frenarsi, scoppia in una risata. Il D'Entracques le fa un rapido cenno con l'occhio indicandole il Paparigopulos seduto quasi in faccia.
Il giovane banchiere, colpito dalla risata improvvisa e, forse, dal nome della principessa, guata di sbieco la signora D'Orea alzando e rigirando, come un baco da seta, il grosso testone calvo e giallo, dalla lunga barba nerissima.
— Cambiamo discorso! — bisbiglia il generale. — Il figlio di Nabab è in sospetto.
— Papa... rigopulos? — Gli occhietti lustri e sfavillanti si fermano attoniti e interrogativi.
— Appunto! Che è quel greco che guarda e... sospira.
Negli occhietti lustri della duchessina sfavilla un sorriso furbissimo.
— Papa... rigopulos?... Capito e cito!
Non parlano più sottovoce tra di loro, ma si uniscono alla conversazione generale. Il Paparigopulos, sempre muto e con lo sguardo obliquo che sfugge l'occhio altrui, torna a sorridere deferente, ossequioso, approvando sempre, approvando tutti con i continui profondi inchini del grosso testone che sembra premere sopra l'esile corpiciattolo senza sagoma, che riempie di angoli il frac.
— Capito e cito! — Capito... che cosa?... — Che il figlio di Nabab guarda e sospira innamoratissimo dell'aerea principessa. Capito questo, ma... alto là: innamoratissimo lui. In quanto a lei, la principessa, irreprensibile e monda come l'ermellino!
Così almeno, anche se non ci si crede, è detto e fermamente sostenuto da quelle dieci o dodici, — fra principesse e duchesse, — sempre unite e tra di loro solidali nella difesa e nell'offesa, che costituiscono la cerchia più ristretta, più alta e inaccessibile dell'autentica aristocrazia romana. Padronissime poi, quelle altre che non contano, d'inventare che il piccolo Paparigopulos è insieme, l'amante e il banchiere e anche, magari, che le grosse, magnifiche perle della Capodimare, sono di provenienza greca e non romana. Che importa di quelle altre? Fresca nobiltà venuta di fuori, fastosa borghesia risalita di dentro, con la Capitale... Chi ci crede, chi ci bada e da chi sono ricevute?...
Remigia, quella sera, vuol piacere, vuol farsi adorare e ci riesce. È affettuosa con Quanita ed ha vivi accenti di ammirazione per Guendalina.
— Lascia che ti veda, gioia! Sei tanto bella! Sento che ti voglio già bene!
Là, in quel piccolo Olimpo dai posti numerati e riservati, ella si guarda bene dall'assumere la prosopopea di Remigia Iª regina di Pontereno: è così avveduta e scaltra, da ritornare in sull'attimo, la duchessina, semplicemente, «la piccola» di Villars.
Sparite le prime nubi addensate dalla florida e accesa bellezza di Quanita, ella è allegra, briosa, amabile con tutti... anche col rugiadoso, ma temerario marchese Pio, al quale poco prima, in carrozza, ha fatto perdere il colore e il fiato, con la punta del piedino e con due parole sole, ma secche secche!
Con lo Champagne, crescono d'un tono, le voci e le risa. Portando il bicchiere alle labbra, Remigia guarda a lungo il D'Entracques, come sa lei, in fondo agli occhi, mormorando pianino:
— Alla salute di chi governa!
La marchesa si alza con un cenno gentile del capo; si alzano tutti. Si va in un altro salottino, più fresco, — ha un grande balcone aperto che dà sulla strada, — a prendere il caffè. Passando la soglia, il giovane senatore che si curva assai per poter parlare sottovoce a donna Remigia, la sfiora un attimo, perde il passo, e le pesta lo strascico.
— Pardon!
Ella alza gli occhi, lo guarda, sorride. È rossa rossa... Perchè?
È lo Champagne?... È il D'Entracques?... Sono... tutt'e due?
Lì, attorno al tavolino del caffè, i commensali si raggruppano. L'intimità si fa più cordiale e più espansiva. Soltanto il timido Paparigopulos, al quale la principessa Capodimare non rivolge quasi mai la parola, altro che per contradirlo o per strapazzarlo, «sen va bighellonando» solo solo, attorno al salotto guardando, toccando, voltando le figurine di Saxe nei palchettini, osservando i quadri appesi alle pareti e che da un pezzo sa a memoria.
Remigia ha abbracciato due volte Guendalina; adesso va in estasi per le sue perle:
— Che splendore!... Che meraviglia! — Le guarda, le tocca, ne solleva i fili e si accerta con compiacenza che sotto quelle gioie, non ci sono altre gioie più vive.
— George!
Paparigopulos, alla voce che lo chiama, si precipita scivolando di sghembo fra le poltroncine e i tavolini, portando il suo barbone dinanzi alla principessa.
— Donnez moi une cigarette!... Tu fumi, Remigia?
— Stasera sì! Una anche a me!
— Le sigarette di Paparigopulos, — esclama Quanita dal balcone, — sono deliziose!
— Je crois bien; vous ne les trouverez nulle part. C'est du tabac des mes propriétés.
Remigia si adagia sopra un panchettino ai piedi della poltrona di Guendalina, ponendo il capo sulle ginocchia sottili e puntute dell'amica. Ma il gioco dei labbruzzi rosa e dei bei dentini bianchi nel far uscire il fumo a spirale è dedicato a Sua Eccellenza d'Entracques che è sempre vicino a Remigia, che non guarda che Remigia e che ormai, con gli occhi accesi e le fiamme alle guance, vede tutto biondo!
— Ecco Cincino! — esclama la marchesa Quanita di cui si vede, sul balcone, la sigaretta accesa.
Il conte D'Ermoli, calmo e sorridente, dopo i saluti e le strette di mano, reca placidamente una notizia che suscita lo scompiglio e la tempesta in quell'ambiente così omogeneo, e fino allora, così sereno.
— Il prefetto e il questore, con la solita scusa dell'ordine pubblico, l'hanno data vinta alla piazza e alla massoneria: hanno fatta chiudere la chiesa della Madonna a Ponte di Ripetta!
Le signore s'infuriano, il marchese Pio soffia, sbuffa, poi passando dalla collera alla disperazione geme piagnucolando, mentre il Paparigopulos, approvando a collo storto, guarda di sottecchi la Capodimare per ben capire quale dev'essere la sua opinione.
Proprio in quei giorni, in una piccola chiesa vicina al ponte di Ripetta, una Madonna, ch'era sempre stata tranquilla e giudiziosa sul suo altare, si era messa improvvisamente, a girar gli occhi. — Miracolo! Miracolo! — comincia a gridare il popolino. La folla, donne, uomini, ragazzi, si pigia nella chiesa e in tutta la piazzetta circostante, dall'alba alla sera. La Madonna, intanto, preso gusto a far miracoli, non si ferma al primo: ne fa di nuovi tutti i giorni. Ridà la vista a un cieco, ridà la forza e l'uso delle gambe a un paralitico, e ad una povera donna, venuta apposta fin da Cava Salara, cambia un cattivo tumore in una buona gravidanza.
Si fa un gran parlare della Madonna, del miracolo, della fede... della mistificazione e della superstizione. Dalla cronaca del Messaggero, la notizia si diffonde negli altri giornali di Roma, anche i più gravi. Chi discute il fenomeno, chi tira in ballo il misticismo, l'ipnotismo e chi la bestia umana. Poi si comincia a gridare, a strepitare pro e contro. La folla lascia dire, sbraitare, scrivere, e continua ad addensarsi sempre più fitta, più infervorata nella chiesa, nella piazzetta, tutt'intorno, quando una sera, tre quattro anticlericali del circolo «Arnaldo» si cacciano in quella fiumana, fischiano, sghignazzano, urlano: — Se la Madonna muove gli occhi è perchè i preti tirano i fili!
Dietro i fischi segue qualche pugno, qualche sassata, poi giù, botte da orbi, finchè arrivano i carabinieri, le nappine azzurre e dopo i tre squilli soliti, e che al solito si odono e non si odono, tra i più scalmanati vengono acciuffati sette o otto e dentro, in guardina! — Il giorno dopo sono rimessi tutti in libertà, e chi non ha avuto la testa troppo rotta, se la riporta a casa. Ma poi, la sera, si torna da capo: fischi, botte, squilli e arresti.
Intanto nei circoli clericali e anticlericali, cominciano le assemblee, gli ordini del giorno, le proteste e per la domenica prossima sono indetti due grandi comizi, uno degli anticlericali, contro la superstizione che agli albori del secolo ventesimo, reca offesa a Roma intangibile; l'altro dei clericali contro i nemici della Religione e della libertà della Chiesa nella Roma cattolica.
Le scene, le dimostrazioni continuano. Siamo al sabato sera. Prefetto e questore, visto che la Madonna si ostina a far d'occhietti, per «misura d'ordine pubblico» fanno chiudere la chiesa e mettono un cordone di carabinieri e di guardie, per impedire l'accesso alla piazzetta.
— È un'indegnità! È un darla vinta ai nostri nemici, che sono poi anche i vostri! I nemici della Religione, sono i nemici delle Istituzioni! — strilla la marchesa Quanita con tutta la potenza delle sue belle note di petto, e con tutta la foga e l'impeto meridionali.
La Capodimare cambia faccia, colore, cambia l'espressione degli occhi e cambia la voce. Tutt'e due, le signore, sono infuriate contro Sua Eccellenza, il generale D'Entracques, il quale, in mezzo a due fuochi, resta fermo, a cavallo, tra la galanteria e la politica. Tranquillo, sorridente, non getta a mare il Prefetto e il Questore e nemmeno li difende. Egli cerca, con qualche mezza parola, di far intendere la ragione, non alla marchesa, nè alla principessa, — cosa impossibile, — ma a donna Remigia.
Remigia, in fatti, sente in questo momento la responsabilità della donna al Potere, della Ministressa. Si tiene, con tatto e con prudenza, al di fuori della mischia, e mentre il marchese Pio continua a mormorare con la voce strozzata dalla bile, — Rabbagasse! Rabbagasse! — ella fa un po' come il Paparigopulos, che senza mai guardare in faccia nessuno, continua a spalancar la bocca maravigliata e a far profondi inchini di consenso e alle signore che accusano e al generale che si difende.
— Dite che è una delle solite prepotenze che vi vengono imposte da chi vi ha presa la mano e finiamola! — grida la Capodimare.
— No, principessa! — risponde il generale con un arguto risolino che ha per obiettivo Remigia. — È semplicemente una misura d'ordine, che ci è stata imposta dalla necessità!
— E la religione? E il diritto dei cattolici?
— E il Governo... che deve pur governare, marchesa mia? E il diritto dei cittadini alla tranquillità e alla sicurezza?
— Tutto dipende perchè, anche voi, non volete capire una cosa, caro D'Entracques!
— Quale?...
— Che Roma non si cambia, non si trasforma. Sarà sempre la capitale della Fede, del Cattolicismo!
— Mille perdoni, principessa Guendalina, ma per il momento, è anche un po' la capitale del Regno d'Italia!
— Per il momento, speriamo! — afferma la principessa.
— Speriamo! — ripete il principe Pio giungendo le palme devotamente e sfidando un'occhiata ammonitrice della moglie.
— Queste, pardon! — il generale scatta in piedi seccato, — sono esagerazioni!
— Queste sono verità!
— Ssst!... Silenzio! — Cincino D'Ermoli, si avanza dal balcone nel salotto. — Se continuate così, vi farete sentire anche in istrada!
Bisogna calmarsi, bisogna cambiar discorso, anche perchè entrano i servitori che portano il tavolino del tè e quello delle ghiacciate.
VIII.
I gelati e il tè, rimettono la calma nel mare procelloso.
La marchesa Quanita, che quella sera soffre oltremodo il caldo, ritorna sul balcone a fumare sigarette, a sventolarsi e a ridere saporitamente, con certe risatine tremolanti, da solletico, mentre Cincino in francese, in inglese e, quando gli occorre d'esser più pittoresco, in pretto romano, fa un accurato inventario di tutte le bellezze esposte e mal nascoste.
A un certo punto, per altro, appena ella vede apparire una carrozzella in fondo alla strada, manda in fretta Cincino in cerca del fazzoletto: nella carrozzella che passa di corsa si scorge mezzo in ombra e mezzo illuminato dallo sprazzo dei fanali, il bel giovanotto dalla barbetta rossa che guarda in su, verso il balcone, sorride e non saluta...
— Grazie, Cincino!
Il D'Ermoli si avvicina con il fazzoletto e ricomincia, tra l'annoiato e l'insolente, a dire «spiritose sconcezze» alla cognata, mentre nel salottino i rimasti, tra la conversazione che langue e le occhiate che diventano più espressive, si appartano e si riuniscono a due a due, secondo l'attrazione. Ma... sono in cinque: la principessa e il Paparigopulos; Remigia e il D'Entracques... Al povero marchese, per appartarsi in buona compagnia, non resta che l' Italie.
La conversazione tra la Capodimare e il cavalier Paparigopulos, procede in un modo curioso: qualche parola forte, il nome d'un romanzo recente, di un'opera di musica, oppure «Sua Santità» — «Vaticano» e tutto il resto del discorso bisbigliato pianissimo.
Remigia, parlando con il generale, sorride, rossa, animata: il generale, invece, diventa sempre più pallido, e mentre donna Remigia alza il tono della voce, egli lo abbassa.
Il marchese Pio, che non si cura della sorella, e tanto meno della moglie, tien d'occhio la duchessina, guardando di sopra, guardando di sotto all' Italie. Pensando all'atto ardito con il quale egli ha fatto fiasco in carrozza, più che geloso, si sente invidioso del D'Entracques.
— Vecchio fauno!... Come fa quel vecchio fauno a darla ancora ad intendere alle donnine?
Invece, tutto il contrario; è Remigia che la dà «ad intendere» al generale. Questi, comincia davvero a perdere la testa; Remigia, adopera la sua molto bene.
Il generale a lei piace... e piace assai. Ma è una simpatia, se non ispirata, certo confortata e mossa dal ragionamento.
— Ci sto, perchè ci sono comandato! — è la divisa di quel generale-ministro. E quando avesse comandato lei, da sovrana, quel ministro-generale non sarebbe sempre stato a' suoi ordini?
Questo, per il morale della cosa. Per il resto... che desìo, poterla far tenere a quelle antipatiche grassone, così superbe e sbuffanti!
— Invece sì, generale! Chi sa quante volte ella mi ha incontrata, vista, m'è passato vicino... senza accorgersene.
— Non è possibile!
— Ma se ci sono stata tante volte a Roma, con mio marito!
— Eppure, l'ho vista oggi alla Camera, per la prima volta.
— Cioè, oggi, alla Camera, per la prima volta, ha badato a me!... È così, vero?
Martino D'Entracques, per quanto sia lì lì per cominciare a innamorarsi, non è uno stupido e fissa Remigia:
— È proprio ingenuità o è civetteria consumata?
— Vede, Eccellenza?... Ho ragione io!... Chi tace, conferma!
— Chi tace, non dice niente di ciò che pensa, perchè...
— Perchè?... — Gli occhietti si fanno intensi e acuti, quasi armati per pungere.
— Perchè ha paura di dire ciò che sente; la verità.
— Un generale?... Paura? — La Piccola è tutta furberia e insieme tutto candore. — Paura?... Il ministro della Guerra?... Ah, povera Patria italiana!
La marchesa Quanita e Cicino D'Ermoli rientrano insieme dal balcone:
— E domani, Remigetta bella, quando ci vediamo?
— Quando vuoi!
— E che cosa si farà?
— Ciò che volete! Di' tu, Guendalina!
— È inutile voler fissare adesso, per domani! — In tutto quel tempo, non ha quasi mai parlato altro che il Paparigopulos, ma anche alla Capodimare è rimasta la voce un po' velata. Tossisce per renderla chiara: — Troviamoci qui da mia cognata e abbandoniamoci alle sorprese dell'ignoto.
Tutti approvano, anche il Paparigopulos; ma costui, tenendo le spalle voltate alla conversazione. Ricomparsa Quanita, egli si è subito alzato e allontanato dalla principessa, ricominciando a guardare i quadri e ad allineare le figurine di porcellana.
— A che ora, mi trovo da te? — domanda Remigia a Quanita.
— Verso le quattro.
Il generale alle quattro non può.
— E il Ministero?... E il Governo?... Verrò più tardi!
Remigia torce il bel musetto indispettita, mentre le altre due signore si divertono a strapazzarlo furiosamente.
— Il Governo? Il Ministero? Tutti pretesti!
— Ben altri... doveri!
Non si fa il nome, ma si allude a missis Britton. Poi, la Capodimare domanda ad un tratto:
— E la prima della Manon?... Quando sarà?
— A giorni, si crede! Ma per più sicure e precise informazioni bisognerebbe rivolgersi a chi è in istretti rapporti... con l'impresario.
Il Paparigopulos si volta di colpo, attonito, rimanendo a bocca aperta. C'è un momento d'inquietudine per quell'impertinente di Cincino; ma poi Remigia, dopo essersi invano sforzata di restar seria, scoppia in una risata.
— Precisamente, ancora non si sa, ma abbiamo già venduto più di mezzo teatro! — Si stringe fra Guendalina e Quanita, abbracciandole per la vita e soggiunge a bassa voce: — Sarò colpevolissima, ma io muoio dalla smania di conoscere questa Fanfan!
— E allora vieni al Costanzi, con noi, alla prima della Manon!
— E dopo? Se ho dispiaceri in... famiglia?
— Vieni con noi! Per non farti vedere resterai in fondo al palco!
— Uhm!... Temo di far male...
— Perchè?
— Parliamoci chiaro: tua sorella, intanto, non lo saprà!
— Lo sapesse anche, non è a Roma!
— E poi si tratta del Costanzi, e di una stagione senza etichetta e senza formalità.
Remigia non vuol altro che farsi un po' pregare e lasciarsi persuadere; trova ottime per ciò tutte le ragioni e mentre il marchese Pio continua a bisbigliare come se recitasse una giaculatoria, «non si fa male che a far del male», ella rivolge al D'Entracques un sorrisetto tenero e un'occhiata espressiva:
— Ma... cito, mi raccomando, col suo collega dei Lavori Pubblici!
La Capodimare, che libri e teatri vuol sempre goderli gratis, lascia a Remigia anche la cura di prendere il palco.
Grandi abbracciamenti, nuove espansioni, tenerezze. Remigia, che comincia a sentirsi stanca, trova la scusa solita di Giacomo.
— Forse è già a letto!... Forse invece m'aspetta!... Ah, mon Dieu! Caro generale! Sapesse come il suo collega è difficile da indovinare!
Guendalina offre la sua carrozza.
— Ti accompagno io, Remigetta. E avviso agli aspiranti: ho la vittoria e non ci sono altri posti disponibili; nè per voi, generale, nè per Cincino.
Il cavalier Paparigopulos se n'è già andato. Egli ha la prudente abitudine di arrivare e di ritirarsi sempre per il primo.
Appena in carrozza, la Capodimare, diventa seria.
— Ho voluto che fossimo un momentino sole, perchè ho da parlarti. Si tratta di un favore grandissimo, che vorrei da te.
— Dimmi, gioia! — Remigia le prende e le stringe una mano.
— Sta ben attenta, — la Capodimare sorride, — perchè entriamo nel difficile! Devi sapere che il ministero dei Lavori Pubblici, d'accordo con quello delle Poste e Telegrafi, ha deciso l'invio di una Commissione tecnica agli Stati Uniti per gli studi relativi e l'impianto delle future stazioni della telegrafia senza fili!
— La scoperta di Marconi?
— Appunto! E si tratta anche di fissare tutti gli accordi d'indole scientifica con quel governo. Mio fratello...
— Cincino D'Ermoli?...
— Cincino, avrebbe il desiderio, la smania di essere prescelto dal governo italiano fra i tre o quattro ingegneri che verranno eletti a questa commissione...
— Ho capito.
— Hai capito?
— Sì. Penso io.
— Basterebbe una sola parola di tuo marito...
— Non dubitare; penso io.
Guendalina continua con voce tenera e lamentosa:
— Cincino, comincia appena a mettere giudizio. Ma fin che si trova a Roma, povero ragazzo, che cosa può fare?
— Troppe distrazioni!
— Tuo marito, farebbe una vera opera buona!
— Parlo con Jack, domattina, subito. È la prima cosa che gli domando dacchè sono sua moglie: voglio vedere se mi dirà di no! — Negli occhi dell'Idola, che non ridono più, passa un lampo di minaccia.
I cavalli si arrestano dinanzi al portone dell'albergo.
— Di già!
Si abbracciano di nuovo, poi la D'Orea salta a terra.
— Addio, Remigia!
— Addio, cara! A domani, dunque! Alle quattro!
— Alle quattro?... Ora che ci penso! Domani è giovedì e ho anche le figliuole! Se non vado a trovarle in collegio si disperano!
— Figliuole?... Tue? — Ella guarda, osserva l'amica assai meravigliata.
— Mie!... Pur troppo! — Guendalina si stende mollemente nella carrozza. Sembra ancora stanca e seccata dalle fatiche del parto. — Ne ho due. Una di dieci e l'altra di otto anni. E tu?... Niente per ora?
— Per ora e per sempre! No! No! No!
Guendalina approva.
— Anch'io dopo Lillì, la mia seconda, ho detto basta! E anche questa, ti giuro... inaspettata!
— Per me... non corro pericoli. L'esercizio della maternità mi spaventa, prima, durante, dopo; no, no, no! — Scappa via ridendo.
— Ricordati di Cincino! Ti raccomando!
— Adieu! Adieu!
Nel corridoio incontra la Carolina, immusita, con la faccia pallida, piena di sonno.
— La contessina Mimì è ancora in piedi?
— Certo! È stanca morta anche lei, ma non ha voluto andar a letto per aspettarla. C'è anche Sua Eccellenza.
— Giacomo?... — Remigia fa un piccolo grido di gioia. — Che bravo! — Gli avrebbe fatto subito la raccomandazione per Cincino. Si precipita nel salotto e gli si butta al collo: — Che bravo! Tesoro! — È tutta per il marito in quel momento, niente per la Carfo. — È un po' che sei qui?
— No, no!
— Sono proprio seccatissima!... Un caldo!... Una noia!... Non ne potevo più! Ma ho dovuto aspettare Guendalina per farmi accompagnare.
— Guendalina?... Chi è?
Anche Mimì, — sta ricamando appoggiata al tavolo, — alza dal piccolo telaio gli occhi interrogativi.
— È un amore! Una bellezza! — risponde Remigia sempre rivolta a Giacomo e senza degnare Mimì di uno sguardo. — Così buona! Intelligentissima! Ci vogliamo un gran bene!
— Perbacco!... Un gran bene? È proprio una simpatia... fulminea! — Giacomo non è ironico ma è pieno di affabilità bonaria. Sente ancora rimorso e amarezza per la scena di quella mattina: non vuol arrabbiarsi con sua moglie, non vuol più diventare nervoso. Tant'è, ci vuol calma e pazienza. Le cose... sono come sono e non si possono cambiare! — Io, per esempio, — soggiunge accarezzando la mano della moglie, — questa così straordinaria signora Guendalina non l'ho mai sentita nominare.
— Siamo persino parenti. È cugina mia e perciò anche tua.
— Grazie dell'improvvisata!
A Mimì scappa da ridere: in quel momento Remigia la detesta.
— Guendalina nasce della Gancia. È cognata di Quanita ed ha sposato il principe Capodimare. Per questo è nostra parente strettissima.
Anche Giacomo non può a meno di ridere.
— Insomma... la famiglia è cresciuta.
Remigia, con le belle ditine affusolate, liscia la barba del marito, poi gli aggiusta il nodo della cravatta.
— Sei di buon umore? Ti senti proprio bene? Oh, che beatitudine! Come sono felice! — Vede sul tavolo il servizio del tè, una bottiglia di Marsala e un piatto di tartine. — Oh! Oh! che trattamento! Mi servo, sebbene non invitata!
Prende una tartina, la guarda, comincia a mangiarla adagio, delicatamente:
— Uhm! Che bontà!
— Oggi non ho pranzato affatto. Ho preso un tè alle dieci, con un biscotto.
Mimì si sente serrar la gola. — Remigia l'ha proprio su contro di lei! Si sforza tuttavia di parlare per ottenere una risposta, uno sguardo.
— Ho tanto insistito col signor D'Orea perchè si facesse portare almeno un'ala di pollo, una tazza di consumè! Non c'è stato verso!
— Hai fatto benissimo! — esclama la piccola dispettosa, sempre rivolgendosi a Giacomo soltanto. — Mangiare e poi andar subito a dormire? Ohibò! — Vicino alla teiera c'è un altro vassoio d'argento. — Biglietti da visita? — domanda. — Ve ne sono quattro, piegati a due a due. — Per me?
— Sì: li hanno portati... — Alla povera Mimì si spezza la voce, — ... prima di pranzo! — Ella spinge il vassoio dinanzi all'Idola con la piccola mano tenera e bianca agitata da un tremito.
Remigia prende i primi due, a caso, e legge a mezza voce:
— Il conte Martino D'Entracques. — Li lascia cadere di nuovo, con grande indifferenza, nel vassoio. — Sai, Giacomo, tesöro, che è ben ridicolo questo tuo collega della Guerra?
— Ridicolo?... Perchè?
— Ma sì! È brutto come Don Chisciotte! È vecchio, ed è ancora pieno di pasticci con le donne!... Con un'americana, mi ha detto Quanita!
Giacomo si mette a ridere.
— Se ha pasticci con le americane, fa male... e gli faranno male! Ma... vecchio? Adagio; ha la mia età!
Remigia, stupefatta, batte forte le mani palma a palma:
— Possibile? Sembra quasi il tuo papà! — Raddrizza il canto piegato e legge il nome degli altri biglietti: — Avvocato Leonida Staffa, Deputato al Parlamento, Sottosegretario di Stato al Ministero dei Lavori Pubblici. — Un grido di sorpresa allegrissimo: — Il Leonida dal cappellone?
Giacomo D'Orea si fa serio.
— Il Leonida dal cappellone?... — ripete Remigia, ma, adesso, con un accento sdegnoso e irritato. — Che cos'è venuto a fare da me? perchè mi ha portato i biglietti?
Giacomo è pure seccato, ma come si fa?... Ormai è un suo collega e bisogna rassegnarsi.
— Mi ha detto oggi alla Camera, di averti conosciuta a Toblach e di aver ballato con te!
— A Toblach?... Ci sono stata... dieci anni fa. Ero ancora una bimba!
— Insomma, dice di conoscerti e vuol venirti a salutare.
— Rabbagasse?
— Proprio... Tutto lui! Dopo essere stato a Corte gli è venuta la smania di frequentare le signore dell'alta società. D'altra parte è un mio collega, è con me ai Lavori Pubblici, non gli si può chiudere l'uscio in faccia! Anzi, ti prego, quando lo vedrai, fa di tutto per essere gentile. Sono gli incerti del mestiere!... Porta pazienza, cara mia: sarà per pochi mesi, e ritorneremo liberi cittadini in libera... casa nostra!
— Passi dunque anche Leonida e il suo cappellone! — Se Giacomo, con questo discorso, ha perduto un po' del suo buon umore, non l'ha perduto Remigia. Anzi, è diventata ancora più allegra, più espansiva e giuoca facendo le treccine con la barba brizzolata del marito. — Io sarò gentilissima con Rabbagasse, te lo prometto, ma anche tu, non devi dirmi di no...
Giacomo lancia un'occhiata a Mimì.
— Non devo dirti di no?... A che proposito?
— Di un grandissimo favore che mi devi fare!
— Sentiamo.
— Prima giura.
— Che cosa?
— Di non dirmi di no.
— Giurare?... Alla cieca? — abbozza un sorriso. — È troppo pretendere dalla mia coscienza, per quanto elastica!
Remigia lascia stare la barba, e gli torna a mettere le braccia al collo.
— È un piacere, grande grande, che fai a me e a Guendalina! Pensa: si tratta di ottenere che suo fratello Cincino D'Ermoli, metta giudizio, ma proprio per sempre!
— In tutto questo, scusa, che c'entro io?...
— C'entri, perchè a fare il miracolo basta una tua parola!
Remigia, più o meno esattamente, ripete tutto il discorso fattole dalla Capodimare: la commissione tecnica, la telegrafia senza fili, l'impianto delle future stazioni, la nomina ambita da Cincino D'Ermoli e conclude:
— Questo favore piccolo piccolo, è il primo che ti domando da che siamo marito e moglie; non puoi proprio dirmi di no!
La povera Mimì non fa che diventar rossa e pallida, passando da un'inquietudine a un'altra e non le riesce di fare una gugliata senza aggrovigliare il filo o pungersi le dita. Ma il signor D'Orea ha promesso a sè stesso fermamente di non volersi inquietare e ci riesce.
— Senti, cara: proprio stamattina, io ho detto alla tua buona Mimì che odio le raccomandazioni. Per me, ogni raccomandazione è un sinonimo d'ingiustizia e non ottiene che un effetto negativo. Invece di prendere il raccomandato in considerazione io lo prendo in sospetto.
Remigia, quasi, comincia lei ad arrabbiarsi:
— Raccomandazioni? Mai più! È un favore che tu fai a me e a nessun altro!
— Brava! Sicuro! — esclama Giacomo scherzando. — Ha sentito, signorina Mimì?... La differenza... è enorme! Dimmi, intanto, questo Cincino D'Ermoli, che roba è?
— È il fratello di Guendalina.
— E che cosa ha fatto?
— Niente. E siccome desidera appunto di mettersi a fare qualche cosa, vorrebbe approfittare di quest'occasione, per andare lontano da Roma, dagli amici, da tutte le tentazioni!
— Bravo! Bravo ragazzo! Ma tu, per altro, non sai che questa commissione, non sarà molto numerosa. Quattro o cinque ingegneri al più. E... non giovanotti che devono essere incoraggiati... a mettere giudizio! Alte personalità competenti in materia! Uomini... maturi, che già fanno parte del Ministero dei Lavori Pubblici o del Ministero delle Poste e Telegrafi e che da un pezzo lavorano, fanno onore a sè e al paese, hanno già dato prove, scritto studi e memorie in argomento. Il tuo... come si chiama?
— Ingegnere Cincino D'Ermoli.
— Il tuo ingegnere Cincino D'Ermoli, merita lode per i suoi buoni proponimenti, ma non è giusto che gli altri perdano per cagion sua una nomina, un onore, cui hanno diritto. Ti pare?
— Allora... Fate così! — Remigia ci pensa un momento, poi esprime la sua idea. — Invece di mandare quattro o cinque ingegneri soltanto, mandatene addirittura sei; Cincino D'Ermoli in più. Così non commetti ingiustizie e mi fai tanto contenta!
Mimì non può resistere a una così deliziosa ingenuità; si alza e corre a baciare l'amica:
— Cara! Non sei in collera con me?
— Perchè?... Diventi matta? — Remigia, risponde seccamente.
Giacomo osserva le due giovani signore, soffocando in sè stesso le proprie osservazione e i propri dubbi. — Quanto sarà sincera... la bambina? — Pure, seconda il gioco, e come si fa appunto, qualche volta, con le bambine riottose, finge di cedere e di acconsentire, pur di evitar capricci e noie.
— Domani, fammi sapere nome, cognome, titoli accademici, se ne ha; ciò che ha fatto e ciò che precisamente vorrebbe fare il tuo protetto.
— Mi giuri che avrà la nomina?
— Non giuro mai!
— Me lo prometti?
— Non posso promettere ciò che non dipende dalla mia sola volontà; ma quando vedrai la tua amica Guendalina le dirai che la domanda di suo fratello sarà presa, certamente, nella dovuta considerazione. — Si sente stanco, si alza per andare a letto. — Anche domattina devo essere al Ministero prima delle sette!
— E... la salute? — Mimì Carfo, così dicendo, avvolge il signor D'Orea, con la grande tenerezza de' suoi occhi azzurri, in un'ondata di luce dolcissima, affettuosa.
Giacomo guarda la fanciulla con malinconia, con tristezza.
— Penseremo anche alla salute... A suo tempo!
Stringe la mano a Mimì, stringe e bacia la mano a Remigia e se ne va solo, mormorando la buona notte.
Uscito Giacomo, Remigia rimane un istante seria, a riflettere, con le ciglia aggrottate: dal suo volto sono spariti il sorriso e la fresca ingenuità della bimba. Sembra invecchiata di dieci anni; è la donna irritata. Ad un tratto si scuote e scrolla la testa furiosamente.
— Scommetto che quell'... apata lì, non farà un bel niente di niente! Figuriamoci se vuol scomodarsi per me! Non sono mia sorella!
— Per amor del cielo!... Può sentire! — mormora la Carfo spaventata.
— Senta pure! Tanto... per il bene che ci vogliamo! Antipatico e... apata. Apata! Apata!... È il primo favore che gli domando, niente! E sa che si tratta della mia amica più buona e più cara! — Questa è una pugnalata che trafigge il cuore di Mimì, ma è tirata apposta. — Che importa a lui delle mie amiche, di mammà?... Di tutte le persone alle quali io voglio bene?... Niente! Anzi, le detesta!
— Questo poi no! Hai torto! È così buono invece... — Mimì vorrebbe difenderlo, ma Remigia l'interrompe con una sghignazzatina ironica.
— Buono... con te? Ah! Ah! Ma forse adesso... Può darsi!... Gli fai una corte sperticata!...
Mimì non risponde: diventa pallida pallida, le spuntano subito le solite lacrimone.
— Se tu sapessi, — continua Remigia, — che cosa, in altri tempi, diceva anche di te!... Ma no; cito, cito! — Con la mano si chiude la bocca.
Mimì piange dirottamente.
— Ecco! Ci siamo! Ah, mon Dieu, che bel divertimento! — Si mette con i pugni sui fianchi e gira su e giù canterellando a mezza voce: — Ci siamo! Ci siamo!
La lascia sfogare un poco, poi le si ferma dinanzi.
— Vuoi farmi un piacere?... Uno solo, ma grande?... Rispondi!
Mimì alza gli occhi in cui c'è tutto il bene dell'anima sua, e la fissa timidamente.
— Non guardarmi, soltanto! Rispondi!
— Sì...
— Allora non piangere sempre, quando ti fa comodo, per mettermi dalla parte del torto! Tu, a furia di rabbonirlo e di lisciarlo a fin di bene, — questo volevo dire — ti lasci raggirare!... Lui si vale di te per sorvegliarmi e per spiarmi.
A questo punto Mimì si ribella:
— No! Mai! Tu offendi lui e offendi me!
Remigia, alla prima e inaspettata rivolta, si raddolcisce subito.
— Io non so spiegarmi, scusa, o tu non mi vuoi capire. Non è colpa tua se «quello là» con tutta la sua politica, riesce, come t'ho detto, a raggirarti bravamente. Te ne supplico, gioia, sono tanto nervosa io e infelice! Non diventare nervosa anche tu... o non posso più vivere! Più, più, proprio più! — Le dà un bacio e l'altra se la stringe al cuore.
C'è un breve silenzio, poi Remigia domanda pianino: — Di che cosa avete parlato, tutta la sera?
La Carfo risponde balbettando:
— Abbiamo parlato... così... un po' di tutto!... Persino di politica!
— Oh! Oh!
— E abbiamo parlato moltissimo di te.
— Di me? Che cosa avete detto? Ecco precisamente ciò che desidererei sapere.
— Ho detto che sei molto buona, che gli vuoi molto bene; gli ho detto le feste che ti hanno fatto a Pontereno e a Bologna e il tuo dispiacere per non averlo veduto stamattina alla stazione.
— E poi?
— Abbiamo parlato della marchesa della Gancia...
— A proposito di che?
— Della sua età, della sua serietà. Non essendo più tanto giovine...
— Ha un figlio ufficiale di marina!
— Appunto; il signor D'Orea crede che sarà anche per te un'amica e una compagna buona e sicura.
— Poi?
— ... Non ricordo altro! — Mimì sta un momento pensierosa. — Ah! Ecco! Mi ha domandato se suo fratello, al solito, ha sparlato di lui.
— Vedi, vedi, come senza che tu te ne accorga ti fa fare la spia?
— Ma no...
— Ma sì!
— Fosse anche, io gli ho detto, — com'è vero, — che l'ho appena intravvisto un momento, alla sfuggita!
Remigia si fa seria, serissima. Il viso le diventa affilato.
— Ricordati bene: tu mi dovrai sempre riferire, parola per parola, tutti i discorsi di Giacomo; e gli dirai soltanto... ciò che voglio io!
— Ma anche tu, cara, ascolta un mio consiglio. — Mimì prega a mani giunte. — Non gli fare raccomandazioni. Lo inquieta, lo irrita!
— Ti ha detto lui, anche questo?
— Sì; stamattina e poi ancora stasera.
Remigia ricomincia a cantarellare, a camminare su e giù, facendo un cipiglio strano, mulinando chi sa che cosa. A un tratto, le passa dinanzi, come un baleno, l'alta e secca figura del D'Entracques: dà una forte scrollata di testa; la massa d'oro si solleva scompigliata, poi i riccioli biondi tornano a posto ed ella ride allegramente.
— Prometto e giuro! — Fa un grande respirone. — Ah!... Non dovrò più graffiarmi e pungermi per accarezzare quell'istrice! — Devi sapere... — Afferra le due mani di Mimì, la fissa negli occhi, fa per parlare, poi si pente. — No. Ti basti questo; io sarò in-flu-en-tissima! E intanto, — prima prova del mio potere, — Cincino D'Ermoli otterrà la sua brava nomina! Ah! Ah! — La bionda lodoletta trilla allegramente. — Sono in dieci i ministri, cara mia, e lui, il signor... Catone tira-molla, non è nemmeno tra i più autorevoli!
Donna Remigia conta evidentemente sopra Sua Eccellenza D'Entracques, ministro della Guerra; invece, — chi mai lo avrebbe immaginato? È l'altra Eccellenza, è la sotto-eccellenza, è Leonida dal cappellone, è proprio il Rabbagasse che riesce a far pervenire la nomina ambita al conte Cincino D'Ermoli!
Dopo un paio di giorni, quando Remigia è ben sicura che da Jack non si ottiene niente, scrive alla Capodimare per metterla a parte dei suoi dubbi e delle sue nuove speranze.
La principessa, appena ricevuta la lettera, si fa portare con la carrozza all'albergo di Roma.
— Che, che! Impossibile!... — esclama addolorata, alle prime parole di Remigia. — Vuoi raccomandarti al D'Entracques?... Non può far niente.
— È ministro anche lui; anzi è di più, perchè è ministro della guerra!
— Ma in questo caso non potrebbe altro che raccomandare Cincino al suo collega, il ministro dei lavori pubblici!
Guendalina si mostra assai contrariata e Remigia è furibonda contro Jack, non più tesöro, ma sgarbatissimo e caparbio. Tutte e due si guardano mortificate e afflitte.
— E allora?
— Che cosa si può fare?
— ... Non c'è proprio un raggio di speranza!
Sospira l'una, sospira l'altra, quando Giovanni, il servitore venuto da Pontereno, entra nel salotto annunziando una visita:
— Sua Eccellenza Leonida Staffa!
— Dov'è?
— Giù. Nella sala di lettura. Ha mandato il liftiè per sapere se la signora duchessa riceve.
— No! Ho il mal di testa! — Remigia è contenta di poter fare, con quella sgarbatezza al sottosegretario, un dispetto a suo marito. Ma Guendalina le parla piano all'orecchio e Remigia, in fretta, chiama indietro il servitore.
— Ricevo! Ricevo! Andate ad incontrare Sua Eccellenza e conducetelo qui!
— Ma è il solo uomo, cara mia, — esclama la principessa, quando Giovanni è uscito, — è il solo uomo, dopo tuo marito, che possa far mettere Cincino nella Commissione!
— Davvero? — Gli occhietti di Remigia sfavillano. — Dici davvero?
— Certissimo!
— Ma Giacomo, quando lo verrà a sapere, non si opporrà?
— Appunto per questo. — Anche gli occhi della Capodimare sono pieni di furbizia. — Prima, non deve saper niente; dopo, che importa?... Tutto sta che questo Leonida sia un uomo sensibile e seducibile!
— Tentiamo insieme!
— Tentiamo.
Le due signore si abbracciano ridendo. Non sono più addolorate e non sospirano più. L'idea di avere un ottimo pretesto, quello della salvezza morale e dell'utile materiale di Cincino, per poter spiegare tutta la loro civetteria, le diverte assai; specialmente Remigia.
— E... Mimì Carfo? — domanda la Capodimare con aria sospettosa.
— Non sa niente e non saprà niente! Ti aspettavo oggi! Il cor me lo dicea! — Un piccolo saltetto di gioia e un altro abbraccio di Remigia a Guendalina. — Per essere libera l'ho mandata in giro, con il signor Zaccarella, in cerca di moltissime cose... che non farà presto a trovare!
Si sente un rumore di passi nel corridoio: Leonida s'avanza.
— Eccolo!
— Il Rabbagasse!
Le due signore siedono, con molle abbandono, una sulla poltrona, l'altra sul canapè e tutt'e due, istintivamente, guardano verso l'uscio con l'espressione felina di due giovani pantere in agguato, che sentono l'avvicinarsi della carovana. Mostrano pure i denti bianchissimi, sempre pronti... al sorriso.
È vero ciò che ha detto Giacomo a Remigia e a Mimì Carfo: il suo sottosegretario di Stato ha la smania delle signore! Belle o brutte, vecchie o giovani, non importa, purchè siano della più alta aristocrazia. Soddisfatta l'ambizione, Sua Eccellenza Leonida Staffa si sente preso dalla vanità. Cosa naturale: placata la fame, si comincia a soffrire la sete.
Le signore, anzi le dame! Le vere, le gran dame! Quelle proprio di Roma, le classiche, i nomi storici, le prime del mondo!
— Che splendore! Che fascino! E che desiderio, che ansia di poter penetrare in quel tempio, sacro alla storia!
— Le principesse romane!... Che cosa grande!
Belle o brutte, giovani o vecchie, egli le sbircia, le occhieggia da tanto tempo, e — ahimè! — sempre da lontano! Si può dire che egli è nato con quella voglia in corpo!
Giovanissimo, quando ancora faceva le prime armi repubblicane, scaraventando dalla Bandiera bottiglie d'inchiostro rosso, di un bel rosso puro, prettamente plebeo, contro i favoriti e le Favorite, — con la effe maiuscola, — della lista civile, egli mandava pure alla Bizantina gli «asterischi del contino Ipsilon» che scriveva di straforo, tingendo la penna nel più azzurro e araldico giulebbe e lardellando la sua nobile prosa di eburnee spalle regali, di incessi sovrani, di maestà matronali, di crême, di fine-fleur e di high-life. Con gli anni, evolvendosi ed elevandosi, diventato a mano a mano direttore di giornali e di riviste, democratico in politica e aristocratico in letteratura, creato segretario o presidente di tutte le missioni e di tutte le Commissioni, nominato all'Università professore ordinario, per un caso straordinario e, finalmente, eletto deputato, il contino Ipsilon comincia a poter vedere le gran dame, quelle della vera haute di Roma, un po' più a suo agio, alla Camera, ai Lincei, alla Palombella.
— Che cosa grande!... Tutte le altre, le signore della provincia, non sono che donnine e donnette in confronto della vera donna Romana! Saranno carine, eleganti, avranno il gusto, lo chic parigino; ma la signorilità principesca delle romane?
— Tutto diverso!... Il modo di parlare, di guardare, di salutare, di sedersi in carrozza, di camminare! Tutto diverso! Cosa grande! È un'atmosfera diversa! Un profumo diverso!
Il suo naso, naso ex-repubblicano e ancora quasi radicale, non è mai stato veramente così vicino a nessuna principessa, da sentirne l'odore. Ma non importa! Lo intuisce e lo pregusta.
Salito al Potere e diventato Eccellenza, a quella prima ed ultima seduta della Camera, Leonida Staffa ha alzato l'occhio più sicuro e più fermo sulla tribuna della Corte e sulla tribuna del Corpo diplomatico. Sente parlare della D'Orea... — Una duchessa Moncavallo?... Se la fa indicare...
Mentre la fissa e l'osserva, comincia a ricordarsi di Toblach, di un gran barbone di lusso, che si chiamava principe Rosalino, di una gran dama molto superba che lo salutava appena con la testa, senza mai stringergli la mano...
— Bellina la biondinetta!... Oh! Oh! È con una dama d'onore! La cognata della principessa Capodimare!
Siede, si volta chinandosi all'orecchio del suo collega ai Lavori Pubblici:
— Ho avuto l'onore di conoscere la signora D'Orea a Toblach!... Era ancora una ragazzina! Ho conosciuto moltissimo la madre, la duchessa Moncavallo! Gran dama, veramente!... Anche il principe Rosalino!... Bellissimo uom... Bellissimo gentiluomo!
Lo stesso giorno, dopo la seduta, egli porta i biglietti di visita, borbottando con stizza nel piegarne gli angoli:
— Staremo a vedere se anche la signora D'Orea, spiegherà la burbanza di sua madre...
Sopra la moglie del ministro del quale egli è il sottosegretario di Stato, Sua Eccellenza Leonida Staffa sente di poter vantare tutti i diritti della colleganza politica.
— Staremo a vedere!
Il D'Orea, ricambia subito i biglietti e Leonida si mette in marcia alla conquista dell' hôtel de Rome, sospettoso, minaccioso, armato di tutta la sua fierezza ex-repubblicana e ancora... quasi radicale.
Sua Eccellenza domanda al portiere se la signora D'Orea riceve con più burbanza, certo, di quello che avrebbe spiegato la stessa vecchia Moncavallo; ma aspettando la risposta nel salone terreno, lancia un'occhiata nello specchio: tutto va bene! La zazzera spruzzata di fresco è olezzante; i baffi e il pizzo arricciati e rilucenti di brillantina.
— Staremo a vedere!
Quando si presenta Giovanni, il servitore, egli lo accoglie di piè fermo, come l'araldo di una potenza nemica. Lo ascolta senza batter ciglio, imperterrito e muto e lo segue impettito. Giunto in anticamera, sempre senza una parola, gli consegna il cappellone. Ma lì, proprio lì, sul punto di varcare la soglia del salotto è colto da un senso stranissimo di timidezza. Per ciò, per vincersi, si presenta ancora più sostenuto, aggrottando la fronte luminosa... Ma quando esce, un'ora dopo, è inebriato, entusiasmato; è in estasi!... È vinto.
— Cosa grande!
Donna Remigia è stata amabile, briosissima, ma la Capodimare, — la principessa, — è stata addirittura incantevole! Quanta nobiltà! Quanta signorilità! Che grazia! Che finezza!
— Cosa grande!
Nè l'una, nè l'altra, ben inteso, hanno parlato di radiotelegrafia o di Cincino D'Ermoli. Non si parlò del ministero e nemmeno di politica. Ma invece di arte, di letteratura, del paesaggio Romano e della conferenza per il giorno dopo ai Lincei, tenuta da Kristian Höye, uno dei compagni di Nansen. Le signore ci vanno, ci va anche lui e riesce a sedersi dietro le loro seggiole.
— Stasera che fai, Guendalina? — domanda Remigia all'amica, durante una pausa del conferenziere.
— Non so; vuoi che andiamo al Costanzi? All' Iris?
La Manon era stata rimandata per una delle solite indisposizioni réclame, di Fanfan Trécoeur.
— Sì, gioia; benissimo! Andiamo all' Iris. — E così resta fissato.
Leonida che sta con l'orecchio all'erta e che ha sentito tutto il discorso, va lui pure, la sera, al Costanzi; domanda al camerino del teatro il numero del palchetto della moglie di Sua Eccellenza D'Orea e trova il modo di avere una poltrona proprio sotto.
Il saluto che riceve dalle due signore è assai lusinghiero: è quasi l'invito per una visita.
— Ci vado?... Non ci vado?... — Questo è il problema che occupa per tutto il primo atto lo spirito di Leonida Staffa. Quando cala la tela si risolve, si alza.
— Staremo a vedere se anche in pubblico, sono quelle stesse di ieri.
Per mantenere l'equilibrio tra la etichetta e la democrazia, Sua Eccellenza Leonida Staffa si è vestito, quella sera, con una giacca che può passare per uno smoking, ovverosia con uno smoking che può passare per una giacca. Dà un colpo forte al cappellone, lo schiaccia, lo tiene sotto il braccio come un gibus, entra pianino nel palchetto ed eccolo seduto, finalmente, in faccia alla duchessa e di fianco alla principessa.
È lì, al Costanzi, mentre Iris spiega le sue belle maglie rosa alla gran luce del Joshiwara, che la principessa raccomanda Cincino a Sua Eccellenza.
— Se la cosa fosse possibile... Se lei volesse, gliene sarei tanto, tanto, tanto riconoscente!
Che musica!... Non quella dell' Iris, che Leonida Staffa non ascolta nemmeno, ma la musica di quei «tanto tanto» modulati, sospirati al soffio leggero di un alito dolcissimo, profumato, voluttuoso.
Remigia unisce le sue raccomandazioni a quelle dell'amica e ne aggiunge un'altra particolare.
— Che mio marito non sappia niente, o manda tutto a monte! Ha certe idee!... — E le spiega.
Leonida Staffa non è dell'opinione del collega; tutt'altro!
— Ah no! Questo poi no! Le solite persone competenti? Le solite persone tecniche? Io diffido, per massima, dei tecnici e dei competenti! Vecchi sistemi e vieti pregiudizi! Rinnovare, bisogna! Rinnovare e ringiovanire! La maravigliosa invenzione di Marconi è l'invenzione di un giovane! La radiotelegrafia? L'elettromagnetismo? Il mistero delle onde hertziane? Scoperte giovani! Scienze giovani! Forze giovani, che appartengono di diritto... ai giovani!
IX.
— Dunque, siamo intesi! — esclama Remigia alzandosi e abbracciando Quanita. — Alle sette venite a pranzo da me e poi si va alla Manon, dove troveremo Guendalina e forse — chi sa? — anche il cavalier Paparigopulos!
La marchesa non rileva lo scherzo. Ella teme soltanto che all'ultimo momento venga fuori la solita striscia verde con un altro riposo. Alla marchesa occorre sempre di sapere di sicuro, prima delle tre, se c'è teatro sì o no!
— Ci sarà poi, questa Manon, o non avremo un'altra indisposizione?
— Speriamo di no; sarebbe la quarta!... Il povero Luciano si dispera.
— Ma... è proprio innamorato sul serio o lo fa per moda?
— È innamorato sul serio perchè è di moda.
— E sua moglie?
— Mia sorella?...
— Non ne soffre?
— Credo che, viceversa, sia questa l'unica cosa di suo marito che ancora può soffrire.
— Luciano dev'essere noiosetto in famiglia?
— Noioso lui e noiosa lei. Tragedia e musica!
Le due signore continuano a chiacchierare e a ridere fin sulla soglia dell'anticamera, dove Quanita accompagna Remigia, e dove si abbracciano un'ultima volta.
Remigia parla sottovoce per non farsi udire dai due servitori che stanno presso l'uscio, impalati.
— Stasera posso venire anch'io alla prima della Manon perchè Jack ha i sindaci della Basilicata a banchetto! Ma se fosse ancora rimandata e cadesse in una sera in cui lui resta in casa... impossibile!
— Perchè?... Tuo marito non è geloso; non ti secca mai!
— Quando si tratta di me. Con Fanfan di mezzo... si tratta di mia sorella!
Quanita legge negli occhietti furbi molte cose di cui sarebbe curiosissima di avere la spiegazione. Fa per trattenerla ancora, sull'uscio, tenendole una mano.
Remigia non può.
— Un altro giorno! Ho fatto anche troppo tardi! Lasciami andare! Ho due bolognesi simpaticoni che conoscerai oggi a pranzo e che mi aspettano all' hôtel.
— Due adoratori?
— Uno sì e l'altro... quasi!
— Allora non lo diremo a Sua Eccellenza!
— A mio marito?
— A Sua Eccellenza... D'Entracques! — La marchesa si tira Remigia più vicina mormorando, sempre sottovoce, assai maravigliata: — Diventi rossa?... Come, come, come?... Diventi rossa?
Remigia che si sente bruciar davvero fa una grande risata per rimettersi, mentre alzandosi in punta di piedi bisbiglia all'orecchio dell'amica:
— Retour de jeunesse et retour d'Amerique?... Ah no, mia cara! Quale scusa potrei avere per mio marito? — Scioglie la mano e scappa via, infilando lo scalone.
L'avvocato Ciro Berlendis e il conte Narciso Gambara aspettano la duchessa Remigia da oltre un'ora. L'avvocato intanto, — lestezza e pulizia, — si leva la polvere e il nero del carbone dalle scarpe, dall'abito e dalla faccia, con lo stesso fazzoletto; e il contino Gambara guaisce con Mimì Carfo.
— Ma sì! Ma sì! La nostra duchessa Remigia non ci vuol più bene! Cattivina, cattivona, cattivaccia! Ma sì, ma sì, santo Guìo! Aspettare e non venire! Lei, invece, è un angelo, contessina! Proprio così!
— Remigia! Remigia! — La Carfo sente battere con gioia il tic tac dei passettini veloci. Ella è in pena per quel ritardo che può far sembrare la sovrana di Pontereno poco premurosa verso i suoi buoni amici di Bologna.
Remigia entra sorridendo.
— Eccomi! A voi! E tutta vostra, finalmente! — Così dicendo stende le due mani che il Berlendis ed il Gambara si affrettano ad afferrare, una per ciascuno, e a baciare replicatamente.
— L'ho detto io che sarebbe venuta subito! — esclama Mimì dandole un bacio nel levarle il cappellino.
— Subito, subitissimo... dopo un'ora! — Il Gambara abbassa il bel nasone fino a premerlo quasi contro il petto, mentre raggrotta la fronte e fa il verso d'un bambino imbronciato. — Oh, vergogna, vergogna!
Cavour mette pace:
— Impazienza legittima, dato il legittimo desiderio di rivedere la nostra bella, la nostra cara duchessa!
Remigia sospira, geme, sbuffa.
— Sapeste, quanto da fare! Non esagero, Berlendis: ho da fare più io di mio marito!
Il bianco nasone vola per aria facendo le grandi maraviglie, ma l'avvocato trova la cosa affatto naturale.
— Al marito il dicastero, alla moglie la rappresentanza!
— Tutte... le rappresentanze! Il mio Jack non si muove mai, e chi è sempre in giro sono io!... Di qua, di là, esposizioni, inaugurazioni, conferenze, comitati...
— Gli asili, le scuole, le visite! — aggiunge Mimì.
— I ricevimenti ufficiali e non ufficiali! Credetelo, sogno, oh, come sogno un po' del mio delizioso Pontereno! Pensate che qui a Roma, per poter dedicarvi un'oretta e per poter disporre della serata, ho dovuto fare... miracoli!... Mimì lo sa, ma intanto... Adesso, si sta un po' insieme, si pranza insieme e si sta insieme anche dopo. Siete contenti?
L'avvocato è contento; il conte Gambara niente affatto. A Roma, aveva sperato... tutt'altra cosa! E aveva fatto il viaggio con quell'ansia e quel bruciore addosso. Invece la cattivona, glielo fa capir subito, senza complimenti: a Roma... niente di niente, anzi, ancora meno di Pontereno!
Ha un impeto di dispetto e di collera. Si volta di colpo, prende, stringe la mano della Carfo, la bacia e la ribacia furiosamente: — A Roma vi trovo ancora più deliziosa, deliziosissima!...
Remigia, per calmarlo, geme più forte: — Non ho potuto avere un giorno libero, nemmeno per la mia mammà! E sospiro l'ora, il minuto di vederla, di poterle telegrafare: vieni a Roma! Oh, mammà, la mia mammà, gioia, tesöro!
— Ma sì! Ma sì! Deliziosissima! — continua a ripetere il conte Narciso sempre rivolto, ostinatamente, a Mimì Carfo e passando, con gorgheggi e falsetti dalle note di petto alle note di testa. Poi si guarda nello specchio, — oh, santo Guìo! — Si trova orribile, orrendo! — Corro, volo a far toeletta!
È un pretesto. Vuol punire la crudele, che abborre, con l'immediato abbandono! Fa un bell'inchino, piegando il collo con un attuccio vezzoso e premendosi la paglietta sul petto con tutta la mano aperta, se ne va scivolando a passo di valtzer, senza nemmeno rispondere a donna Remigia che gli grida dietro con affettuosa insistenza:
— Alle sette precise!... Si ricordi!... Anche prima.
Infila le scale, infila il portone dell'albergo; passa una carrozza vuota, ci salta dentro gridando al cocchiere:
— Hôtel Milan! — Poi pensa fra sè: — Torno a Bologna, certo, certissimo, con la prima corsa!... Niente pranzo, alle sette! Scrivo due righe asciutte e non ci vado. No, no, e poi no! Faccio proprio così!
Per suo maggior tormento, a Roma, donna Remigia gli sembra molto più bella!... Bellissima! Mostro!
— Forse, chi sa? Chi sa? Ho avuto torto! Ho preso tutto troppo alla lettera, senza riflettere che c'erano presenti Mimì Carfo e il Berlendis!
Arrivato sul portone dell'albergo, ha già deciso: resta.
— Resto, perchè mi veda indifferentissimo! — C'è un'altra riflessione: se ritorna a Bologna troppo presto nessuno crederà più ch'egli sia l'amante della duchessa Remigia.
Esserlo... magari! Ma non essendolo... almeno parerlo!
Poi... la politica?... Il collegio?... La deputazione?..
La partenza precipitosa del conte Gambara, se ha destato l'ilarità di Remigia e la compassione di Mimì, ha fatto molto piacere a Ciro Berlendis. Favorisce il suo piano. Egli non è venuto a Roma per i begli occhi della duchessa.... o della contessina, ma per affari; per un grosso affare di parecchi milioni. Si tratta di ottenere dal Ministero dei Lavori Pubblici la concessione del diritto di fruire dell'acqua di alcuni laghi nel Cadore, per la produzione di energia elettrica. L'utilità pubblica, e il vantaggio che ne devono derivare, sono palesi, ma i sollecitatori tentano di far passare sotto questa bandiera il contrabbando di una speculazione leonina, nella quale essi soli avrebbero il grosso del boccone e l'erario, i soli rischi dell'impresa. Urge, dunque, di ottenere la chiesta concessione senza che al ministero dei Lavori Pubblici si perda tempo, e si faccia perder tempo, in sottigliezze pedantesche, in lungaggini burocratiche... E per ottener questo, per far viaggiare le pratiche a vapore, il Berlendis ha pensato di rivolgersi alla buona, alla cara duchessa Remigia ed ha combinato la gita a Roma con il conte Gambara... per meglio darla ad intendere.
— Sapete, duchessa, di chi vi porto i saluti? — comincia l'avvocato, a mo' d'esordio, quando anche la contessina Mimì è uscita in cerca di Carolina. — Indovinate!
Remigia, sdraiata sulla poltrona accanto alla finestra aperta, guarda l'avvocato sorridendo... e aspetta.
Ciro Berlendis resta in piedi, per aver più fresco, e con un giornale si sventola il faccione rotondo, sul quale il lustro del sudore fa risaltare le lentiggini. Egli parta con voce alta, da predicatore.
— Un egregio gentiluomo; una bravissima persona. Un mio prezioso cliente di vecchia data, che la signora duchessa ha conosciuto, quand'era ancora signorina, a Villars!
— A Villars?... Quand'ero ragazza?
— Precisamente!
— Chi è?
— Oh, mi ha parlato tanto di lei con un entusiasmo che, del resto, non solo si comprende, ma del quale siamo tutti partecipi! È il barone Marco Danova!
— Re Faraone! — Remigia rompe in una risata. — Re Faraone al lucido Nubian! Sa, caro Berlendis, che è stato un mio accanito adoratore?
Il Berlendis accenna col capo affermativamente e sospira per conto di Marco Danova.
— Innamoratissimo!... Una grande passione!... Brucia ancora!
— Troppo brutto! Troppo brutto!... Remigia rabbrividisce. — Un orrore!
— Ah! — L'avvocato fa un altro grosso sospirone; non per il Danova, ma per sè. — La propria bruttezza... non rende insensibili al fascino del bello. Io... capisco e sento di doverlo molto compiangere quel povero barone!
— Avvocato! Avvocato! — ammonisce Remigia dondolandosi, sempre sdraiata sulla lunga poltrona. — Proibite le dichiarazioni!
— Allora... — Il Berlendis sembra fare un grande sforzo per vincere sè stesso. — Allora, per non cadere in tentazione... parliamo d'affari! Il nostro amico, il buon Danova, che a Villars non ha potuto ottenere grazia dal vostro cuore, vi domanderebbe oggi, per mio mezzo, un piccolissimo favore.
— Non si tratta di una raccomandazione? — Remigia, ferma la poltrona di colpo e si rizza a sedere. — Non accetto raccomandazioni! Jack non ne vuole; io non ne voglio assolutamente!
— Ed io?... Sono forse l'uomo... delle raccomandazioni? — L'avvocato gonfia le gote, gonfia il petto, diventa più acceso in volto e mugge: — Nessuna raccomandazione, mai, per principio e per fiera dignità di me stesso. Qui non si tratterebbe, da parte vostra, altro che di dare un ordine, semplicemente. L'ordine di far presto!
L'avvocato Berlendis, passeggiando su e giù, si caccia le mani in tasca e mette muso.
Remigia ha paura di averlo offeso e gliene duole. È un permaloso vendicativo! Chi sa che cosa può inventare quando torna a Bologna!
— Non ho detto questo per lei che è un mio buon amico, ma per quel Danova che mi è sempre stato antipatico, — fa un altro brivido, — odiosissimo!
Ciro Berlendis siede a sua volta accanto alla poltrona della duchessa Remigia, le prende una mano, la stringe, l'accarezza, la bacia. La pace è fatta.
— Mettiamo il Danova da parte. Re Faraone, scartato. Il piccolo favore, — piccolissimo, — lo domando io, per me. E lo ripeto ancora solennemente: non voglio e non vogliamo raccomandazioni. Basta dire soltanto a chi ha del tempo da perdere: fate presto, perchè per i galantuomini che lavorano, il tempo è danaro!... E si tratta, — questo per l'intima soddisfazione, — di una geniale iniziativa di utilità nazionale, con sicuro vantaggio per l'erario! Si tratta, insomma, di un'opera grandiosa, ciclopica, la quale farà onore al paese ed al governo!
Alla parola — governo — donna Remigia che aveva ricominciato a dondolare, si ferma di nuovo ergendosi impettita sulla poltrona, con grande serietà ed importanza.
— Ecco tutto in due parole: un ottimo affare in carbone bianco, proposto da un gruppo cospicuo di egregi... gentiluomini, industriali e capitalisti, italosvizzeri. — L'avvocato alza la mano corta, grassa e pelosa e la gira in aria con tre dita tese: il pollice, l'indice e il medio.
— Tre! Tre milioni di capitale; due già versati. Studi e progetti, tutto pronto! Compartecipazione del quattro per cento al governo per un ventennio; facoltà di prelazione per un decennio, pure al governo, nel riscatto delle energie attivate!
Giro Berlendis, che tiene sempre la mano alzata e le tre dita tese, si alza anche in piedi, si riscalda, ansima, suda, ma andando quasi addosso alla cara duchessa, abbassa misteriosamente il tono della voce.
— Un programma di lavoro! Un programma di trasformazione della regione intera, un programma nuovo, moderno, magnifico, un programma che sarà un successo nostro e del ministero liberale che lo avrà sanzionato!
Tanta eloquenza introna a Remigia le orecchie e il cervello; ma non ha capito un ette.
— Scusi, avvocato; che cos'è questo... carbone bianco?
Il sorriso del Berlendis diventa ineffabile. L'occhio, la voce, il gesto, spirano poesia:
— ... « Chiare, fresche e dolci acque! » Non più il carbone fossile, il nero carbone che sporca e affumica, la ricchezza, già stremata, che gli inglesi e i belga ricavano dalle viscere del loro suolo. Su, su, in alto, sempre in alto la stella d'Italia! Le Alpi del Cadore, sono tra le più ricche di laghi, di corsi di acqua imponenti, anche ad altezze considerevoli. Ebbene, noi vogliamo far... procombere al piano l'acqua di quei laghi e di quei fiumi, senza dispersioni, raccogliendo energie formidabili!
— Capisco; ho capito! — Non ha capito, ma Remigia vorrebbe tagliar corto perchè non si diverte. — Io, dunque, dovrei...
— Ecco il carbone bianco! Ecco «la forza indomita dell'avvenire!» — seguita imperterrito l'avvocato, passeggiando e declamando. Ma il tempo urge. L'industria nazionale ha bisogno di un forte incremento; il paese ha bisogno di risveglio, di lavoro; bisogna far presto. Il domani è il nemico, l'insidiatore dell'oggi! Non già che si possano temere concorrenti; impossibile, assurdo! Nessun può proporre condizioni vantaggiose, nè offrire garanzie, non dico superiori, ma pari alle nostre!
— Io dunque dovrei dire a mio marito...
— A suo marito? al ministro? Niente. Ella è in ottime relazioni, con il sottosegretario ai Lavori Pubblici? Con Sua Eccellenza Leonida Staffa?
— Come a Bologna si sa sempre tutto! — pensa Remigia prima di rispondere.
— Ebbene: basta il sottosegretario! Ella mi dà due righe di introduzione esprimendo la sua simpatia per il carbone bianco, e tutto il resto... è tanto semplice... che va da sè. Io ho soltanto da dir questo, all'onorevole Staffa: Eccellenza: al ministero dei Lavori Pubblici, Sezione terza, giace e forse, ahimè! non ancora aperta, la nostra proposta... così e così, etcetera, etcetera. Ebbene, si prega, e con qualche diritto, che la pratica venga esaminata con sollecitudine. Nient'altro; basta! Non si domanda di più! — L'avvocato torna a gridare, a inquietarsi, a offendersi, ma in quel punto, a interromperlo improvvisamente, entra nel salotto un altro suo amico, il caro Zaccarella.
— Scusi, signora duchessa! La chiamano al telefono!
Remigia salta in piedi, lasciando dondolare la poltrona vuota.
— Sarà mio marito!
— No, signora duchessa. È Sua Eccellenza l'onorevole Staffa.
— Permette, avvocato?
— Faccia! Faccia!
— Torno subito!
— Faccia! Faccia! Faccia!
Remigia vola via leggera come una farfalla seguita dal grave signor Zaccarella, al quale l'avvocato stringe un'altra volta la mano.
— Carissimo il nostro... cavaliere!
Il Berlendis ride e gongola.
— Ah! Ah! Proprio vero! Sono stato informato esattissimamente! Leonida Staffa è ai piedi della duchessa D'Orea!... Piedini, veramente maravigliosi con i quali anche i nostri affari, speriamo, marceranno egregiamente! La donna, la bella donna, la bella donna civetta, ecco la più provvida delle istituzioni!... Basta non fare la sciocchezza d'innamorarsi!... Deve essere la nostra forza; non la nostra debolezza! — Sorridendo torna ad asciugarsi il collo, il mento, la fronte, le mani.
— Benissimo!
Si leva gli occhiali per ripulire anche le lenti intorbidite, ma con quel moccichino, le sporca di più!
— Benissimo! Se riesco a strappare la concessione evitando i soliti procedimenti meticolosi, che bel colpo per quel ladro del Danova... ed anche per me!
Donna Remigia rientra nel salotto; è raggiante.
L'avvocato la fissa attentamente.
— Ella ha ricevuta una notizia che le fa molto piacere.
— Sì! Moltissimo piacere!
— Le si legge in fronte!
— Son felice! Non per me, ma per la mia amica più buona, più cara!
— Già. La nostra dolcissima, soave contessina Mimì!
— No! No! Sono felice per Guendalina!
Cavour apre la bocca, e inarca le ciglia dietro gli occhiali.
— La principessa Capodimare! Suo fratello, il conte Cincino D'Ermoli, ha ottenuto di far parte di una commissione di... studi scientifici, che parte a giorni per gli Stati Uniti. Guendalina lo desiderava tanto! Ho già ordinata la carrozza; voglio portarle io stessa la bella notizia. Mi scuserà, avvocato; faccio una corsa; cinque minuti appena! Oggi devo anche vestirmi più presto; si pranza in punto alle sette, perchè stasera si va tutti insieme al Costanzi. Che cosa le dicevo, avvocato? È vero sì o no? E il Gambara se n'ha avuto per male! Un minuto solo, mio, non posso averlo mai!... O il telefono, o il telegrafo, o un usciere del ministero! Ah, mon Dieu! Mon Dieu!
— Le fatiche del potere!
— Tutto io! Sempre io! Mah, — sospira. — Quando si ha un benedetto marito che non fa niente, mai niente, per gli altri!
Remigia scappa via, ma l'avvocato la ferma:
— E... le due righette di... simpatica introduzione?
— Vada subito al Ministero dei Lavori Pubblici; Sua Eccellenza Leonida Staffa lo aspetta. Adesso, al telefono, gli ho parlato anche di lei. Sa che l'avvocato Berlendis è persona di mia piena fiducia e mio grande amico.
— Però... anche un semplice bigliettino suo...
Remigia, in fretta apre la cartella, trova un biglietto di visita, vi scrive sopra col lapis: «Eccole, caro Staffa, il primo e il più amato dei miei simpaticoni di Bologna...» e lo dà al Berlendis.
— A lei, prenda; come passe-partout!
X.
Il pranzo è squisito e sotto l'occhio vigile del signor Zaccarella che sorveglia camerieri e servitori, tutto procede con buon ordine e speditezza.
Donna Remigia è allegrissima, al contrario del generale D'Entracques e del conte Gambara che sembrano, l'un contro l'altro armati... di sussiego e che allungano il muso a vista d'occhio.
Il marchese Pio, invece, osserva i rivali di nascosto, sorride e gusta maggiormente i bocconi ghiotti. Egli ormai s'è messo il cuore in pace. Fa sempre, quando può e come può, la sua corte umile e devota alla bella duchessina «così tenera e magrolina»; ma dopo il colpo di piedino negli stinchi e il rabbuffo toccatogli in carrozza, è cauto, guardingo, prudentissimo e, persuaso di non ottenere di più, si accontenta delle «bricioline». Bacetti sulle manine, parolette nelle orecchine rosee, trasparenti, parolette soffiate sul collino sparso di pellolino biondo, il collino ideale, gracile, di una adolescente; toccarle, quando capita, ma toccarle appena, come una reliquia, le braccine ignude... e basta. Il resto... indovinare, immaginare e ruminare!
Ha capito che è stato quel vecchio don Giovanni pietrificato del D'Entracques a dargli il gambetto e gioisce vedendolo imbronciato e tormentato dalla gelosia.
È stato lui stesso, il rugiadoso Jago a piantargli il pugnale nel cuore.
Prima di pranzo, mentre nel salotto si aspettava l'annunzio di andare a tavola, il marchese Pio ha trovato il momento di sussurrare all'orecchio del conte Martino: — Vedi, quel bel giovane?
— Non vedo altro che un bel naso!
— Dicono... dicono veh! ci sia molto del tenero con la duchessina D'Orea.
Il generale trasalisce e impallidisce, ciò che non gli è mai successo all'improvviso scoppio delle artiglierie.
— A Pontereno, furono visti, dicono, a baciarsi in giardino!
— Sono tutte falsità, infamità, e mi meraviglio che tu...
— Io?... — protesta il Della Gancia interrompendolo. — Io non ho mai creduto niente!... Non la lascio sempre con mia moglie? — Leva gli occhi al cielo come vittima innocente e congiunge le palme in atto di compiere mentalmente il segno della santa croce.
Il generale è convinto dell'innocenza di Remigia, è sicurissimo che si tratta di una delle solite calunnie, ma il pranzo gli è andato di traverso, prima ancora di mettersi a tavola.
Al generale, come Eccellenza, è destinato il posto d'onore, fra le due signore: la padrona di casa e la marchesa Della Gancia. Egli si sforza di mostrarsi indifferente per essere brioso, ma la caramella non gli sta ben fissa nell'occhio e dalla gola non passa il più piccolo boccone; non può che bere, e beve. Con donna Remigia, scambia appena qualche parola, senza mai guardarla. Invece è amabilissimo con la marchesa e con gli occhi, i veri e quello di cristallo, divaga piacevolmente e ostentatamente tra i non simulati richiami dell'ampia scollatura. Vuol far dispetto, vuol far ingelosire la duchessa Remigia... invece la diverte. Ella ha subito indovinato la gelosia e capito il giuoco. La donna è soltanto astuta e l'uomo è intelligente; ma l'astuzia della donna è sempre più forte dell'intelligenza dell'uomo! Per altro, non vuol essere troppo crudele. Il D'Entracques le piace e le piace anche di vederselo innamorato. Ella non sente in lui un pericolo... ma un appoggio... sicuro. Sente che la sua reputazione non avrà nulla da temere, mentre la sua vanità, che è poi l'orgoglio della donna, avrà tutto, invece, da guadagnare.
Vuol calmarlo, vuol rassicurarlo, vuol farlo tornare di buon umore. Sporge verso di lui il fresco visetto e sorride mormorando sottovoce: — Che c'è di nuovo? Perchè sempre e tutto da quella parte?... Perchè solo dedito... all'alpinismo?
Il generale parla pure sottovoce, ma senza guardarla:
— Non osavo sperare ch'ella potesse occuparsi di me, dopo gli ultimi arrivi da Bologna!
Remigia non può frenare un'allegra risatina, che consola subito il generale.
— Ah, no, poi! Accollarmi quel Narciso, che è anche tulipano! Questo no! È proprio troppo e mi ribello!... Preferisco, trecento volte, ch'ella sia ancora geloso della zazzera di Leonida! Mi guardi.
Il generale si volta e la guarda.
— Mi guardi bene!
Gli occhietti ceruli sembrano diventati più grandi e più profondi: non sorridono più. Sono umidi e languidi, spirano fiducia, amore e tanta sincerità!
Il generale non sente più che il dolore e il rimorso di averla fatta quasi piangere.
— Mi perdoni. Non sono mai stato un ragazzo! Comincio ad esserlo adesso, che divento vecchio!
— Mi fa tanto dispiacere per lei che ella sia geloso e così ingiustamente. Per lei è un grande dolore inutile. Per me... è una grande amarezza immeritata!
— Mi perdoni...
Gli occhi di Remigia si riempiono di lacrime: proprio di lacrime vere!
Dà una forte scrollata di testa; gli occhi tornano a ridere e a sfavillare: — L'uno e l'altro, l'avvocato e... il tulipano, sono i soliti regali di mio marito; sono i suoi grandi elettori. Del resto, le annunzio che ripartono subito, domani. Sono venuti qui, al solito, per una raccomandazione ed io li ho fatti subito recapitare a Rabbagasse! Le fa piacere che il conte Narciso e anche Gambara, non si fermi a Roma?... Sì... Ebbene, ciò farà dispiacere, invece, a Mimì Carfo! — Torna a parlare con voce più forte. — Stia attento e se ne persuaderà! Ah, mon Dieu! Come farà mai a vincere le battaglie un generale, così privo di colpo d'occhio!
La marchesa Quanita, le gote accese e umide, mangia e ride saporitamente mostrando più vivo il luccicare de' denti bianchissimi tra le labbra carnose dai bei baffetti. Alza la voce argentina, squillante:
— Privo di colpo d'occhio? Il generale?... Se ha un occhio di lince! Vede la preda... — si diverte a mettere il D'Entracques in imbarazzo quando c'è Remigia, — vede, mira e coglie in pieno dal di qua al di là dell'Oceano!
— Non interloquire! — strilla a sua volta Remigia. — Non difendere il generale! Anzi, mi correggo! Devi, sei obbligata a difendere Sua Eccellenza! È il vivo chiarore delle tue bellezze che lo ha abbacinato!
L'avvocato Berlendis, giallo e rosso, acceso e lustro, più che un Cavour, è un pomodoro. Guarda e ammira la marchesa, guarda e approva la duchessa e si diverte al grazioso e spiritoso «dibattito», mentre col tovagliolo infilato nel panciotto si asciuga la bocca e il mento che cola sudore e salsa.
Si ride; il marchese Pio ne approfitta per sussurrare qualche paroletta all'orecchio di Remigia, un confronto che deve lusingarla assai perchè, in compenso, non ritira il piedino ch'egli preme col suo sotto la tavola.
Chi non ride, ma squarta e divora, pallido, torvo, come se invece di quaglie fossero amanti di Remigia en belle vue, è il conte Gambara.
Anche a bocca piena, ma sempre amara, fa dichiarazioni su dichiarazioni a Mimì Carfo che le riceve rassegnata per far piacere all'Idola. Ma sono sempre le medesime, mentre la voce del giovane Otello diventa roca perdendo ogni leggiadria di variazioni.
— Un generale! Un senatore! — pensa tra sè. — Vergogna! Vergogna! — Ah, se la Carfo avesse avuto una dote appena discreta! L'avrebbe sposata lì, ma proprio lì, su due piedi!
Donna Remigia l'osserva e subito dopo pranzo, prudentemente, se lo fa venire vicino con la scusa di offrirgli il caffè.
— Molto zucchero, conte Gambara?
Il geloso finge di non aver sentito.
— Conte Gambara! — ripete Remigia più forte, ma sempre dolcemente. — Molto zucchero?
— No, grazie... Senza zucchero!
Sono in piedi dinanzi al tavolino del caffè e dei liquori. Il D'Entracques è sul balcone con la marchesa, il marchese Pio e l'avvocato Berlendis. Lì, nel salotto, c'è lo Zaccarella soltanto e Mimì che distribuisce le tazze del caffè, versato da Remigia, e i liquori.
— Sempre così amaro? — domanda Remigia sottovoce al giovinotto.
— Ama... marissimo! Tossico! Tossico! Parto stasera, o parto domani!
Remigia lo guarda affettuosamente.
— Parta... domani.
— Come? — Narciso si sente venir freddo. Invece di opporsi, lo lascia partire... proprio, ma proprio?
Donna Remigia fa versare i bicchierini di cognac al signor Zaccarella, riempie un'altra tazza di caffè, con molto zucchero che fa portare da Mimì all'avvocato Berlendis, poi soggiunge sottovoce, intercalando alle parole gli sguardi teneri, espressivi:
— Mio marito è venuto all'albergo, prima del suo pranzo, per vestirsi. — Una pausa e un'occhiatina. — Quando ha sentito che lei era a Roma, non si è mostrato molto soddisfatto!
— Come, come? — Il conte Narciso e il suo naso, diventano un punto d'interrogazione.
— Non che sia geloso, ma tutto gli dà ombra... sempre per quei socialisti! «Ricordati, — mi ha detto, — finchè sono al Governo e siamo a Roma, tutto serve per i nemici delle Istituzioni... Specialmente, la moglie, quando si tratta di mettere in ridicolo il Ministro...»
— Ma io sono qui per affari, proprio così, insieme all'avvocato Berlendis?
— L'avvocato Berlendis parte domani; domani deve partire anche lei. Il mio Jack, tesoro, non è cattivo e non è sospettoso, ma è molto meglio per noi, — il per noi è detto in modo da far ritornare un po' di caldo al giovane innamorato, — che l'osservazione non si ripeta. Creda a me, non è bene, non è prudente che mio marito, ci ritorni sopra un'altra volta. Pensi... noi restiamo qui ancora pochi giorni, poi le noie, le fatiche di Napoli, della Spezia, di Venezia e finalmente a Pontereno, per tanti, tanti mesi e sola! Ritorni adesso a far la corte, molta corte, a Mimì Carfo. Sarebbe un vero peccato compromettere tutto... per niente!
Il povero Narciso non sa se rallegrarsi, se dolersi; nell'incertezza geme.
— Ma quello là?... Quello là?... Quel generale là?
Remigia scrolla la testa e compatisce il povero Gambara che diventa matto!
— Il D'Entracques?... È l'amante, cosa ormai passata in giudicato, di missis Britton! Gliela farò vedere stasera al Costanzi! Vedrà che per un generale e senatore, ce n'è abbastanza! Io non lo posso soffrire, appunto perchè con la sua pertinacia in galanteria è un anacronismo, ma devo mostrarmi amabile, quanto è necessario: così vuole il mio signor marito. Oltre che suo collega nel gabinetto è il suo più grande amico! Sa che Jack è eccessivo in tutto, nelle antipatie e nelle simpatie! Perchè gli ho detto un giorno che il suo D'Entracques si tinge i baffi, credo che volesse levarmi gli occhi! — Da bravo, un inchino diplomatico e si allontani! Vada a sorbire il caffè... e i begli occhi sentimentali della contessina Mimì, poi sparisca alla che-ti-chella! — Trova buffa la parola e ride. — Si ricordi: le proibisco di fermarsi in ammirazione dinanzi alla mostra di Quanita! Ahimè! Al confronto di quell'ammasso tremolante di delicatessen come direbbe un tedesco, io devo rimanere una ben misera cosa!
— Vengo però, in teatro, in palco? — supplica il Gambara con note di violino e flauto.
— Sì, un momento; sul tardi. E da Bologna si ricordi, faccia subito una corsa a Pontereno! Vada a salutare e a dare un bacio per me a Febo e a Desir! Ah, mon Dieu! Dire che li amo tanto, — cari, tesöri, — e che qui a Roma, per colpa di Jack che non mi dà pace, persino... li dimentico!
Il D'Entracques, da qualche momento, sta osservando i due dal balcone, e ritorna ad oscurarsi. Appena il giovanotto si allontana, si avvicina lui chiedendo una goccia di cognac. Remigia lo rasserena, nel momento stesso che gli offre il bicchierino.
— Quanta fatica, per maritare Mimì! Ma spero tanto di poter riuscire e sarei così felice! — Poi soggiunge ancora più sottovoce: — Quando si va a teatro, faccia presto a salire in carrozza con me! Lasciamo a Quanita di far gli onori di Roma ai bolognesi! Lei si perde troppo in complimenti. Generale valorosissimo, ma non sempre abile e pronto nelle piccole manovre! — Si volta, verso il balcone:
— Badate! Non facciamo troppo tardi per la Manon! — C'è tempo?
— C'è così tempo! — rispondono insieme la marchesa e il marchese Pio.
— Comincia alle nove e mezzo, — osserva l'avvocato, guardando l'orologio.
— Basta essere al Costanzi alle dieci!
— No! No! — esclama Remigia. — Voglio esserci da bel principio per una garbata attenzione verso mio cognato!
Tutti ridono, ma in questo punto si sente una carrozza fermarsi dinanzi all'albergo, e il signor Zaccarella, che stava prendendo il fresco alla finestra di una stanza vicina, corre nel salotto:
— Signora duchessa!... Sua Eccellenza! È qui Sua Eccellenza!
— Impossibile!
— È qui in carrozza con due altri signori!
Tutti corrono sul balcone, a guardar giù:
— È proprio lui!
— Con chi è?
Ma i due signori che avevano accompagnato Giacomo all'albergo, risalgono subito in vettura, gridando al D'Orea che li saluta con la mano:
— Per qualche giorno si abbia riguardo, Eccellenza! Domani, non abbia fretta d'alzarsi, Eccellenza!
Remigia si precipita nel salotto:
— Ah, Mimì! Gioia! Che cosa sarà successo? — Come sempre, quando si sente inquieta, ha uno slancio di tenerezza per l'amica e l'abbraccia.
Il signor Zaccarella, invece, diventa più grave e più autorevole.
— Vado io a vedere! — Esce in fretta, in punta di piedi.
Rimangono muti un istante, interrogandosi l'un l'altro con gli occhi.
— Ho paura che si sia sentito male! — mormora la Carfo.
— Certo! Si è sentito male! — ripete Remigia sottovoce. — Per amor del cielo! Silenzio della Manon!
— Noi, per altro, si va lo stesso! — bisbiglia la marchesa al marito, in tono risoluto.
In quel punto Giacomo D'Orea appare sull'uscio ed entra, sciogliendosi dal braccio del signor Zaccarella.
Sembra più magro, gli occhi e le gote infossate; sembra invecchiato. Cammina a rilento, sforzandosi a sorridere per tranquillare sua moglie e Mimì Carfo che gli erano corse incontro con l'aria spaventata. Saluta, dà la mano a tutti.
— Cara marchesa!... Caro D'Entracques! — Balbetta leggermente alle prime parole, poi a mano a mano parla più spedito. — Oh, il nostro egregio avvocato Berlendis!
Il conte Gambara non c'è più; è sparito appena il signor Zaccarella ha dato l'annuncio dell'arrivo di Sua Eccellenza.
— Come mai? — domanda Remigia una seconda volta, senza lasciargli finire i saluti. — A quest'ora?
— E il vostro pranzo?... — chiede a sua volta il D'Entracques.
— Mi sono fatto scusare dall'onorevole Staffa, con quei buoni signori della Basilicata!
— Ma allora... ti sei sentito poco bene?
— Niente di serio, cara Remigia! — Si rivolge agli altri. — Niente che possa disturbarvi l'ora del caffè!
Mimì gli fa scivolare dinanzi una poltrona.
Giacomo vi si lascia cadere come affranto, ringraziandola con un cenno del capo e della mano.
Gli sono tutti attorno, quasi addosso:
— Che cos'è stato?
— Ah, mio Dio, tesoro, che hai avuto?
— Un po' di malessere... soltanto. — Tanta gente lo soffoca, tante domande lo irritano. — Ti prego, Remigia, non esagerare... le cose. Un malessere momentaneo, ti ripeto!
— Perchè non mandarmi a chiamare?
Il D'Orea, scrolla le spalle vivamente.
— Non ho voluto nemmeno che andassero a chiamare il dottore!
— Mah!... Avete bisogno di riposo! — intona il marchese Pio, come un salmo. E tutti, a ripetere in coro, meno il signor Zaccarella e Mimì Carfo che si scambiano un'occhiata ansiosa.
— Riposo, caro D'Orea!
— Per qualche giorno, bisogna dimenticare la politica, il ministero, gli affari!
— Il riposo, è come l'olio per la nostra macchina!
— Riposo! Riposo!
— Riposo assoluto!
Giacomo, si alza incollerito.
— Ma sì! Riposo! Riposo! Va bene! Siamo intesi! Ho capito! E per riposare vi domando scusa e me ne vado a letto!
Capisce di essere stato troppo violento, tentenna il capo e torna a sorridere:
— Oggi, cioè... — pensa, non gli riesce di dire stasera; non trova la parola. — Oggi... due ore fa, al ministero, mentre sbrigate le ultime firme, stavo per alzarmi e per recarmi al pranzo, mi sono sentito come un senso di... di... freddo, di nausea... Un ronzìo alle orecchie... Mi si annebbiò la vista e... giù, come un morto, in deliquio!
— Ah mio Dio, perchè non... — Remigia si ferma per un cenno di Mimì.
— .... È durato pochissimo; nemmeno un quarto d'ora. Ho ripreso conoscenza... poi a poco a poco... i movimenti e ora mi sento rimesso completamente. Potrei andare a trovare i miei sindaci... Invece vado a letto, per seguire... i consigli anche vostri. Sono stato io, assolutamente, che non ho voluto che chiamassero il dottore! È stato... niente! La colazione che mi ha fatto peso! Non voglio che domani i giornali, a corto di notizie, ne facciano un caso grave!... Per questo, vi prego: io vado a letto subito per accontentarvi, e, in premio, accontentatemi anche voi! — Si rivolge a Remigia, con amorevolezza: — Tu... non cambiar niente. Impiega la tua sera, come avevi fissato...
— Si andava adesso, tutti insieme, da Guendalina.
— Brava! Benissimo! Andate adesso, tutti insieme, dalla Principessa! — L'idea che sua moglie e gli altri non rimangano all'albergo, sembra quasi rallegrarlo. — Saluterai anche a nome mio, la principessa Capodimare. Anzi, le darai, per la prima, una notizia che le farà molto piacere, e che certo deve far piacere anche a voi, caro marchese. Vostro fratello è stato aggregato alla Commissione governativa internazionale per l'impianto agli Stati Uniti delle... delle... — La parola gli sfugge di nuovo, non riesce a riafferrarla: — Delle... Delle... — No! No! Marchese, non ringraziatemi! E nemmeno la principessa Capodimare! Vi assicuro, che se vostro fratello è stato nominato, vuol dire... che lo ha meritato!
Mimì diventa rossa per Remigia che strizza l'occhio a Quanita.
Giacomo continua sempre sorridendo in modo affabile, ma con un certo orgoglio di sè:
— Anzi, può vantarsi di essere stato nominato ad onta delle raccomandazioni di mia moglie, che per il mio naturale istinto mi avevano mal prevenuto contro di lui! E... sarà sempre così. Finchè io sarò ministro, nel mio ministero... sarà sempre così! Si prenderanno in considerazione gli studi fatti, i titoli, la capacità e in quanto alle raccomandazioni... torna indietro!
Tranne Mimì che soffre, tutti gli altri, compreso l'avvocato Berlendis, sorridono e approvano. Chi non ama... la giustizia? Chi non accetta le savie massime?
Giacomo si ritira festeggiatissimo, dopo aver fatto dolce violenza a sua moglie perchè non lasciasse soli gli amici per accompagnarlo.
Uscito il D'Orea, nel salotto sembra correre un'aria più leggera: fa meno soffoco, meno caldo.
Ciro Berlendis si sventola la faccia col fascicolo di una Rivista, ma si mostra ilare, soddisfatto.
— Così, tutti i nostri uomini! Gli uomini autentici del nostro vecchio-giovane partito! Tutti così, dai Lanza, ai Sella, ai D'Orea!
Soltanto Remigia e Mimì Carfo, sembrano ancora un po' inquiete. Mimì lo è davvero. Remigia... per essere rassicurata.
Ella chiede al D'Entracques, fissandolo, come per ottenere da lui consiglio e protezione:
— Che cosa può essere?... Che proprio, ci sia dia impensierirsi?
La marchesa Quanita, già sulle spine perchè si fa tardi per il Costanzi, risponde lei con la sua foga abbondante:
— La colazione!... Non hai sentito?... La colazione! Tuo marito starebbe benissimo se non avesse il vizio di mangiare in fretta!
— A precipizio! È un precipizio! — finisce il marchese Pio. — Il riposo, il sonno ristoratore della notte e tutto passa!
Ciro Berlendis continua a sventolarsi sotto il mento, sulla nuca, dietro le orecchie:
— Il mangiare troppo in fretta è assai micidiale! Micidialissimo!
— È però un uomo molto affaticato; è logoro dal lavoro. — Il D'Entracques non vuol dire di più.
Mimì accarezza i capelli a Remigia e le dà un bacio dicendole piano:
— Non andare al Costanzi...
La marchesa sente ciò che dice la Carfo e si oppone vivamente:
— Ma che!... È una ragione di più! Sarebbe anzi il caso di andarci se prima non ci fosse stata l'intenzione!
Remigia si stacca da Mimì e corre vicino a Quanita allacciandole la vita con un braccio:
— Credi?... Davvero?
— Certamente!... Se la notizia è diffusa, vedendoti in teatro si taglia corto alle esagerazioni!
— Diamine! Diamine! — fa eco il marchese Pio. — Bisogna tagliar corto!
Anche l'avvocato è dello stesso parere.
— Ha sentito Sua Eccellenza, cara duchessa! La tema dei giornali alla caccia di notizie!... Io opinerei ch'ella, stasera, si facesse vedere il più possibile... a teatro... dappertutto!...
Quando Remigia è già sulla scala, per uscire e andare al Costanzi è raggiunta dal signor Zaccarella:
— Sua Eccellenza, mi ha fatto chiamare il dottor Davos, ma mi ha ordinato di non dir niente a nessuno, specialmente a lei!
— Torna a sentirsi male?...
— No, no! Soltanto per precauzione... per prudenza...
— E allora?... Perchè dice sempre le cose, con quella faccia così... spettrale?... Non è buono, lei, di ridere o almeno di sorridere?
Il signor Zaccarella increspa, compiacentemente, il viso secco, poi soggiunge:
— Al telefono mi hanno risposto che il dottor Davos è fuori di Roma, e che non potrà essere all'albergo prima delle undici. Dopo la visita... lo faccio aspettare?
— Perchè?...
— Se anche la signora duchessa... volesse sentire...
— Sì! sì!... E dica al dottore, — come lei, — di non spaventarmi senza motivo. Sono già tanto, ma tanto inquieta!
XI.
La della Gancia chiama l'avvocato Berlendis e lo fa salire nella propria carrozza e così, con un cenno assai espressivo, anche il marito.
— Bisogna essere compiacenti con gli amici che lo meritano! — bisbiglia sorridendo.
In fatti Remigia aspetta a fare le sue rimostranze che il marchese sia ben seduto nel landò, in faccia a sua moglie.
— Marchese Pio!... Marchese Pio!... Non vi permetto di abbandonarmi!
— Rassegnati, cara! — risponde Quanita. — Per questa volta siamo già tutti a posto!
— Il marito con la moglie?... Non ci sta! Non è conveniente!
— È così breve il tragitto! Non daremo scandalo! Al Costanzi! — ordina la marchesa, alzando il capo verso il cocchiere.
— Al Costanzi! — ripete il generale, più basso e più in fretta, al servitore di donna Remigia che chiude lo sportello.
I cavalli della marchesa nitriscono e scalpitano: le due carrozze partono al trotto.
— Ah, mon Dieu!... Quanita, ha capito tutto!
Il generale, seduto accanto a Remigia, la fissa con malinconia e con amarezza:
— Capito?... Che cosa?
Remigia accenna ripetutamente di sì, abbassando gli occhi sul ventaglio che tiene chiuso fra le mani:
— Capito!... Capito!...
Il D'Entracques fa un sospiro doloroso:
— Può aver capito... di me; cioè che io sono perdutamente inn... — S'interrompe e prosegue con un sorriso ironico. — Un imbecille! Ma di lei?... Niente. Oppure che si diverta a prendere in giro giovani... e non più giovani!
Remigia s'imbroncia, ma il visetto diventa ancora più delizioso.
— Se è una confessione, non è certo un complimento!
— Alla mia età innamorarmi... Sono matto! Sono diventato matto! Al Ministero non fo quasi più niente, altro che strapazzare!
— Questo... perchè?
— Perchè è da matto un amore senza speranze e pieno di gelosia!
Remigia abbassa il capo e rimane muta, immobile, come trafitta da quelle parole. Poi con la piccola mano inguantata si nasconde e si preme forte gli occhi:
— Ah! Mio Dio! Mio Dio!
Il generale la guarda.
— Piange?
Remigia preme più nervosamente la mano sugli occhi, poi la lascia cadere abbandonata sulle ginocchia.
I suoi occhi luccicano nell'ombra.
— Piange?...
— Mi ha dato un gran dolore! Potevo illudermi, ora no, più. Ora no, più, tutto l'incanto è rotto!
Il generale non capisce bene, ma si sente commosso ed è pentito di aver parlato. Quella donnina, così giovine e fragile, lo turba con tutto ciò che ha di ignoto e di arcano l'innocenza e la verecondia.
Ella, sempre china, continua con la voce dolorosa e tenera che, a poco a poco, dal cuore, penetra nei sensi del D'Entracques:
— Ero così felice!... Beata!... Speravo, credevo di aver trovato ciò che tanto sognavo! Un'amicizia a cui avrei potuto affidare e confidare tutto dei miei pensieri e de' miei dolori, delle mie debolezze... e anche delle mie buone qualità! Un'amicizia fatta di tanta bontà e di tanta tenerezza! Un'affezione sincera, grande e una protezione, una sicurezza, per me, quando, pur troppo... devo guardare dinanzi a me, nella mia vita! E anche oggi... Sola sola! Mio marito?... Sono così poca cosa io per mio marito!... Mammà?... Lo zio Rosalì?... — Voglio illudermi, ma non posso sempre illudermi! Sono buoni, due tesori, mi adorano... ma sono esseri... — sospira, abbassa ancor più la testolina malinconica mentre giuoca nervosamente col piccolo ventaglio luccicante di miche. — Sono esseri superficiali, figure, all'atto pratico, semplicemente... decorative! Mia sorella?... Sarà colpa sua, sarà colpa mia, o colpa di tutte e due, ma non andiamo d'accordo. Dunque... subito, appena l'ho veduto, appena l'ho conosciuto, mi sono attaccata a lei... — Alza gli occhi e lo guarda dolcemente. — Sì... lei... tutto... e tutta l'anima, ma nel bene! Per consigliarmi, per difendermi... per trattenermi... Dio mio, ma che il bene... sia proprio un sogno inafferrabile?
La carrozza comincia la salita di Via Nazionale; il Costanzi è vicino: bisogna far presto. — Sì... balbetta rauco il D'Entracques, commosso, sincero. — Dimentichi... tutto ciò che ho detto! Avrò per lei un'affezione grande, eterna, ma sicura, leale... Sì, sì, anche della mia pazzia... guarirò! In me, lei avrà sempre, ciò che ha desiderato, sognato: amicizia, protezione, difesa... È contenta?
Pare di no. Remigia fa un altro sospiro: un grosso sospiro che sembra le venga dall'anima oppressa. Ella mormora con le parole rotte da un singulto:
— No! No! Non è bella la vita... e non è facile!
In quel punto la carrozza, che segue sempre il landò della marchesa, svolta in vista del Costanzi illuminato.
La carrozza della marchesa si ferma dinanzi al portone del teatro: si arresta subito anche quella di Remigia.
Il generale salta a terra, prima ancora del servitore. È pallidissimo, stravolto. Remigia preme la mano ch'egli le porge, assai marcatamente, con un rapido sguardo di tristezza e d'angoscia, poi subito, bianca e leggerissima, vaporosa, alzando la voce allegra e festante come un canto di primavera, si avvicina agli altri che l'aspettano fermi dinanzi al teatro.
— Grazie, marchese Pio! Bravissimo caro avvocäto! Si scrive e si dice di venire a Roma soltanto per me e alla prima occasione mi siete infedele. Dirò anch'io come il conte Gambara, cattivino, cattivone!
Tutti ridono, meno il D'Entracques, ed entrano insieme in teatro.
La sala è affollata, ma sta per finire il primo atto, e nel vestibolo, per le scale, nei corridoi, non ci sono che i portieri e gli inservienti.
Il D'Entracques accompagna le signore fino al palchetto dove le ringrazia e le saluta, promettendo di ritornare più tardi. Egli, quando il custode ha aperto l'uscio del palco, s'è tenuto indietro per non essere visto da quelli di faccia.
Missis Britton, è in teatro: il D'Entracques, per poter tardare, aveva addotto la solita scusa del Ministero. Aspetta girando su e giù nei corridoi che l'atto finisca prima di presentarsi a lei, che già sarà indispettita e nervosa per quel ritardo.
Ripensa a donna Remigia: che strana creatura!... È buona? È cattiva? Ora ha tanta espressione, tanta tenerezza negli occhi... Ed ora tanta spensieratezza, tanta leggerezza!... Rivede il suo viso melanconico, sente le sue parole dolorose: — No!... Non è bella la vita e non è facile!... — Poi soggiunge, mentalmente: — Non è facile e non bella per me! Diventar matto è sempre una disgrazia!... Diventar matto per una donna è una disgrazia ed è una colpa!
— Quella vita di piccole menzogne, di continui sotterfugi è così penosa per il suo carattere e per la sua coscienza!
— Devo sempre inventare, trovare scuse, pretesti, come una cocotte che ha un amante da tener nascosto al suo protettore!
E lo stanca e lo angoscia l'intima lotta che deve sopportare dentro di sè tra la nuova passione che lo turba e lo travolge e l'antico amore non ancora del tutto sopito e che si ridesta nel rimpianto e nel rimorso, quando è solo e quando dubita.
Remigia, appena nel palchetto, abbraccia Guendalina, — cara, tesoro, amöre! — e stringe la mano al Paparigopulos, che ha dovuto accompagnare la principessa perchè il principe è a letto con la lombaggine, causa le esercitazioni militari. Poi esclama subito, prima ancora di guardare Fanfan:
— Ah, mon Dieu! Com'è bella!
Remigia non vuol sedersi avanti; fa passare Quanita al parapetto. Ella resta in piedi in mezzo al palco per meglio vedere e farsi vedere. Si muove, parla, ride, gestisce con grazia, cerca fra le poltrone, trova subito il naso del Gambara, che l'ha già presa di mira, e in quel momento che il D'Entracques non può vederla, e con la scusa di accomodarsi il cappellino, gli concede una lunghissima e tenera occhiata di consolazione.
Si fa dare il cannocchiale; si mette davvero a fissare Fanfan.
— È proprio bella!... È una bellissima Manon... E canta anche benis...
Ahi! Manon cresce, per troppa anima, nell'ultimo grido di amore e di speranza e l'atto finisce con una grande stonata e fra un subisso di applausi.
Il pubblico della platea e delle gallerie applaude Fanfan perchè rinfrescata dal belletto e nel graziosissimo costume di Manon è assai bella e sembra ancora giovanissima. Le signore dai palchi e i frac delle poltrone, applaudono perchè ciò è molto chic e dinota che si appartiene all'aristocrazia, essendo Fanfan l'amante di don Luciano D'Orea.
— Canta anche benino!
Il Paparigopulos approva in silenzio, aprendo la bocca e chiudendo gli occhi.
L'avvocato ripete la solita spiritosità molto nota a Bologna:
— Diremo, per essere precisi, che canta... bellissimo!
Guendalina, non bada alla scena: languida e stanca non fa che rosicchiare i cioccolatini di mandorla e odorare i fiori che le ha portato Paparigopulos. Quanita pure: ha altro in mente che Manon e Fanfan! Ella cerca e cerca con l'occhialetto e col cannocchiale in tutto il teatro, ma non trova! È assai inquieta, non parla... A un tratto diventa di buon umore, non sta più ferma e si mette anche lei a rosicchiare cioccolatini. Il bel giovanotto dalla barbetta rossa, con una magnifica cravatta arancione, è entrato in quel punto nelle file dei posti riservati. Passa diritto senza salutare nessuno, urta chi gli capita contro i gomiti, e arrivato alla sua poltroncina, dà un colpo al sedile buttandolo giù con fracasso e vi si sdraia boriosamente.
Fanfan, intanto, è uscita a salutare una prima volta con gli artisti, poi una seconda volta con gli artisti e il maestro, poi sola, finalmente, tra un maggiore entusiasmo. Il pubblico la richiama ancora tre, quattro volte perchè ci prende gusto a vederla commossa a mandar baci, non più inchinandosi, ma allargando le braccia e stringendosele al seno con l'atto di abbracciar tutti, appoggiandosi al telone, quasi languente di felicità.
Remigia finisce col battere le mani anche lei. In quel momento non pensa più a Narciso Gambara e nemmeno al D'Entracques! Il suo pensiero corre da quel teatro, da quella donna raggiante, che trionfa, alla quiete silenziosa e buia di Fiumicino, a due donne così lontane da quel mondo, così sole e abbandonate. Una di esse è tanto infelice, eppure il suo ricordo basta ad infastidire Remigia.
— Com'è bella la Trécoeur! Bellissima! — Poi trova l'elogio nel quale tutti convengono, anche l'avvocato. — Intanto, dev'essere intelligentissima per fare quello che fa... dopo quello che ha fatto!
— Sua Eccellenza Leonida Staffa — bisbiglia il Berlendis sottovoce a donna Remigia, — è stato oltremodo gentile. Gran brava persona! Lavoratore!... Non aveva altro che un difetto: la repubblica! Utopie! Quarantottate! Anacronismo storico! — L'avvocato si fa più vicino all'orecchio della Duchessa, dandosi l'aria di essere addentro nelle segrete confidenze: — Leonida Staffa era addoloratissimo di non poter venire al Costanzi.. Mi ha detto di presentarle i suo omaggi, i suoi... — S'interrompe, si volta.
Narciso Gambara, che non ha avuto la forza di aspettare il terzo atto per farsi vedere nel palchetto con la moglie di Sua Eccellenza, apre l'uscio ed esita incerto, se debba entrare sì o no.
— Venga! Venga! Conte Gambara! — esclama Remigia allegramente. Missis Britton era proprio in un palchetto di faccia e da poco vi era entrato il D'Entracques.
L'avvocato si alza e cede il posto al giovinotto ringalluzzito, congedandosi dalla duchessa Remigia e dalle signore.
— Sono stanco e vado a letto! La ferrovia, il caldo specialmente, mi ammazza...
Narciso si volta, il naso si alza e lancia un motto spiritoso:
— Cioè, cioè! Vi liquida! Vi liquefa! Ma sì! Ma sì! Proprio così!
L'avvocato esce dopo essersi sprofondato in un inchino; Remigia ride, scherza col Gambara, si alza, vuol cambiare di posto, resta in piedi. Tutto ciò per il palco di faccia, nel quale finge di non guardar mai. Ad un tratto domanda ad alta voce:
— Sapete dirmi chi è quel giovane, troppo bel giovane, rosso... Ha un'enorme cravatta gialla...
Il Paparigopulos resta immobile, di sasso, compresa la barba. La Capodimare socchiude un momento gli occhi affaticati dalla troppa luce. Il silenzio è così profondo che si sente il fischiettìo leggero del marchese, che pisola in fondo al palco, tra le sciarpe e le mantiglie.
Remigia continua a fissare nella poltrona col cannocchiale e il Gambara diventa intempestivamente geloso.
— Dov'è? Dov'è?... Chi è?
— Nella terza fila delle poltrone!... Quasi nel mezzo... Io lo credo un mio segreto adoratore!... «Dovunque il guardo io giro...» me lo trovo dinanzi!
Narciso geme e fa una smorfietta di dolce rimprovero sfogandosi contro l'orribile cravatta; ma Quanita, invece, domanda a Remigia, distrattamente, con un piccolo sbadiglio:
— Chi guardi? Di chi parli?
Remigia le indica il giovinotto: la marchesa non riesce a vederlo. La Capodimare, dopo un'occhiata al Paparigopulos, si alza per cambiare di posto e far cambiare il discorso. Quanita vede delle amiche in un palchetto, le saluta, e continua a mandar loro dei sorrisi e dei cenni... Intanto missis Britton si fa venire il D'Entracques più vicino, gli dice, chinandosi, qualche parola all'orecchio... e anche Remigia non pensa più a Barbetta rossa!
— A lei, per sua quiete! — dice al Gambara sottovoce. — Guardi in faccia a noi. Quella signora così inverosimilmente bionda?... È l'America abbondantissima, scoperta da Sua Eccellenza D'Entracques! Con la scusa di indicarla a Narciso Gambara, punta lei stessa il cannocchiale e lo tiene ostinatamente fisso su missis Britton.
Nel palchetto, oltre a missis Britton, c'è un'altra signora assai più attempata, anch'essa dall'aria esotica. Sono accompagnate da un vecchio, — deve essere un diplomatico; certo un personaggio d'importanza, — con la faccia rasa, marmorea e pensosa che ricorda quella di Napoleone I.
Accanto a missis Britton, ma da essa un po' discosto, è seduto il generale D'Entracques, con gli occhi sempre rivolti verso Remigia. Ha l'aria cupa e sembra invecchiato.
— Bionda... inverosimilmente?... Perchè? Ma perchè? — gorgheggia il rorido Narciso, tenendo il binoccolo a cavallo del naso. — Io la trovo elegantissima!... Bellissima!
— Bella di sera! — L'Idola è seccata dall'entusiasmo di quel provinciale. — Di giorno è orribile! Una pittura a pastello! — Comincia il secondo atto; ella non sta più attenta alla Manon, ma, invece, sempre al palchetto dov'è il D'Entracques.
Anche missis Britton, ad onta della sua calma, della sua freddezza matronale ha osservato ed osserva la D'Orea... Si volta verso il generale, lo chiama vicino, gli parla ancora sottovoce, all'orecchio: il generale, che s'è avvicinato di malavoglia, risponde con un'alzata di spalle allontanandosi di nuovo.
Evidentemente missis Britton è gelosa e il D'Entracques è seccato. Remigia, felice, per attizzare il malumore nel palchetto di faccia, si mette a ridere, a far l'amabile col Gambara. L'uscio si schiude appena: si mostra Luciano dalla fessura.
— Vieni! Vieni!... Congratulazioni!
Luciano non vuol entrare, non vuol farsi vedere dalla sala del teatro in quella sera di trionfo: per modestia.
Remigia corre lei sull'uscio del palchetto:
— È deliziosa! Un amore! E anche l'espressione, la passione, la scena, ben...nissimo! Come ha fatto?... È un miracolo!
Don Luciano sempre serio, ma con un velo di dolce compiacimento, approva e ringrazia. È convinto del miracolo, ed è altrettanto convinto di averlo operato lui!
La Capodimare, la della Gancia si voltano verso il D'Orea e l'una sentimentale, l'altra vivacissima, fanno pure i loro rallegramenti.
— Sa e sente ciò che dice!
— A me piace moltissimo! Sarà, non sarà una grande artista, a me piace moltissimo!
Il cavalier Paparigopulos, dal suo sedile, continua a inviare inchini gratulatorî al D'Orea, alzando e abbassando il capo, aprendo e stringendo le labbra, mentre il marchese Pio, svegliatosi allora, gli dà la mano esclamando:
— In gonnellino corto!... Con la parrucca bianca! È un capolavoro!
— E che bijoux! Uno splendore!
Anche Remigia torna al parapetto del palco, e dopo un rapido giro d'occhi per osservar D'Entracques e missis Britton, torna a puntare il canocchiale su Fanfan.
— ... Bella toilette! Una meraviglia!
— Madame Croisard! — Don Luciano parla lentamente, con grande importanza. — Oggi a Parigi, non si parla che di madame Croisard. Vedrete la toilette del terzo atto! La principessa di Galles, l'ha voluta, tal'e quale! — Si arrabbia guardando verso la scena e borbotta tra denti: — Animale! — Poi, in fretta, fa un saluto per andarsene.
— Scappi via?
— Vado a dare dell'asino all'elettricista. Adesso doveva abbassare la luce e non sta mai attento...
Remigia è eccitata dal teatro, dal pubblico, dalla musica, dal palco di faccia. Gli grida dietro:
— A Manön!... Rallegramenti sincëri!
Don Luciano, appena arrivato sul palcoscenico, dimentica la luce e l'elettricista. Fanfan, il viso rorido fra le chiazze del belletto, raggiante, scintillante di gioia e di gioie, rientra allora dalla scena, dopo due altre chiamate. È commossa, delirante.
Piange e ride. Abbraccia il maestro dei cori, l'impresario, il direttore di scena, abbraccia la cameriera... e in quella confusione abbraccia anche Luciano.
Giovanotti eleganti, maestri di musica, giornalisti le sono tutti d'attorno, complimentandola, ammirandola, quasi soffocandola.
Fanfan ringrazia i suoi buoni amici, ringrazia Roma, ringrazia la bella Italia.
— Oh l'Italia! l'Italia! La vostra Italia!
Don Luciano porta la constatazione del successo: un successo morale, più ancora di convincimento che di applausi.
— Le signore, poi!!... L'entusiasmo delle signore è straordinario!... La principessa Capodimare! La marchesa della Gancia, mia cognata... Mi hanno incaricato di farvi i loro rallegramenti!
— La moglie di Sua Eccellenza D'Orea? — domanda il critico del Corriere Romano, che sta scrivendo in fretta tutti quei nomi.
— Sì, la moglie di Sua Eccellenza il ministro dei Lavori Pubblici. Mio fratello.
Don Luciano, socialista, non ripudia sul palcoscenico la sua parentela con il ministro. Anzi, tutt'altro, perchè gli conferisce autorità.
Fanfan, ch'è ancora sull'uscio del camerino, rompe la folla degli adoratori, attraversa di corsa il palcoscenico, chiamandosi dietro Luciano, e si mette per guardare da una spia del telone nella sala.
— Fatemi vedere vostra cognata!
— Guardate a destra...
Fanfan si curva, mette l'occhio al piccolo foro; Don Luciano approfitta della vicinanza e col braccio leggero le circonda la vita: Fanfan si divincola con un contorcimento serpentino e uno sguardo irato.
— Fatemi vedere vostra cognata!
— Il palchetto... il quarto dalla scena... Ci sono tre signore...
— Sì! Sì! Vedo!... Una, con i capelli incipriati... Che belle perle!
— Non è incipriata. Ha i capelli bianchi, davvero!
— Così giovane? Sta benissimo! È quella vostra cognata?
— No. Quella è la principessa Capodimare. L'altra.
— La bruna? Oh!... Che magnifici solitaires!
— No! Quella è la marchesa della Gancia! Quella in mezzo! La bionda!
Fanfan fissa attentamente Remigia, poi domanda a Luciano aggrottando le ciglia:
— Somiglia a vostra moglie?
Luciano risponde di no con un'alzata di spalle assai significativa e sprezzante, che rassicura Fanfan. Ella torna a guardare dal sipario, allegramente:
— Oh! Quelle est pétillante la petite blonde!
Luciano, guarda anche lui da una fessura:
— Quello che entra adesso nel palchetto... Lo vedete?
— Ce grand monsieur?...
— È il ministro della Guerra. Il conte D'Entracques!
— È il suo amante?... Tout le monde le dit!
Luciano fa un'altra alzata di spalle, ma con più indifferenza.
— Quella lì, non avrà mai un'amante... proprio davvero. Troppo incomodo.... e nessun divertimento!
— Caro voi!... Tutto il mondo lo dice!
— Allora... sarà. Ma in tal caso, non una passione! Viceversa.... una speculazione! — Fa il solito ghignetto e soggiunge: — Per il D'Entracques affatto passiva!
Il macchinista dà la voce:
— Largo, signori! Attenti!
Fanfan corre nel camerino a vestirsi per il terzo atto e Luciano si ferma in mezzo al palcoscenico a comandare e a brontolare, sorvegliando il cambiamento di scena.
XII.
Mimì Carfo è assai inquieta. Il dottor Davos ha un altro ammalato grave e non può aspettare. Guarda l'orologio, poi si alza:
— Tornerò domattina!
Mimì insiste, lo prega di rimanere ancora un momento.
— È necessario che parli lei con Remigia, subito... stasera!
— E poi? — replica il dottore, pensando alla signora D'Orea. — Si persuaderà?
— Certo, se le dice lei, che bisogna farlo, per salvare suo marito!
Il signor Zaccarella, che dal balcone guarda giù, lungo il corso, rientra frettolosamente e attraversa il salotto di corsa.
— È qui! È qui! Ho veduto la carrozza della signora duchessa!
Mimì Carfo si alza, ma non ha il coraggio di andarle incontro; lascia che la prima notizia le sia data dal signor Zaccarella. Il dottor Davos, un po' inquieto a sua volta, fa qualche passo su e giù meditabondo, preparando in mente ciò che dovrà dire alla duchessa D'Orea, che non gli ispira nessuna confidenza e nessuna simpatia.
Il signor Zaccarella ritorna subito, con la faccia ancora più costernata e si ferma sull'uscio che tiene aperto. Remigia entra: si ferma ritta, in mezzo al salotto.
— È così, dottore? — È rossa, ansante. — È così?
— Mah! — Il dottore, un omettino piccolo, magro, assai sparuto e tutto nero, — vestito, barba, capelli, — allarga le braccia: — Mah! — Sono neri anche i pronostici.
Remigia batte ripetutamente il piedino sul pavimento:
— Si spieghi, la prego, e faccia presto. Vede, come son nervosa! Mio marito, come sta?
— Ora dorme. La crisi è superata.
— Dunque sta meglio?
Il dottore non risponde; crolla il capo.
— Non esageriamo, dottore, per carità!... — Remigia siede sbuffando mentre Mimì le leva il cappellino. Lo Zaccarella sta in guardia sull'uscio. Siede anche il dottore, accavallando una gamba sull'altra.
— Due sole parole, signora duchessa, perchè ho un'altra visita da fare. Io non esagero: dico sempre la verità, e quando lo credo necessario, come nel nostro caso, la dico senza pietose reticenze che possono essere dannose.
— Ma se sta già meglio, se riposa, se dorme, non c'è da inquietarsi!
— Invece c'è da inquietarsi... moltissimo. Il caso può rinnovarsi... più grave... fors'anche letale.
Remigia diventa pallidissima, mentre Mimì congiunge le palme alzando gli occhi al cielo con un sospiro, e il signor Zaccarella, che ormai ha indovinato i sentimenti della padrona, la fissa, mostrandole chiaro che non approva le esagerazioni del dottore.
— Allora, secondo lei...
— Secondo me, se vuol salvare suo marito, gli faccia dare le dimissioni e lo porti via da Roma, domani stesso. Si ricordi, il ritardo di un giorno, può essere un'imprudenza, ogni esitazione può riuscire fatale.
— Subito le dimissioni?... Domani?... Ma... e il ministero?
Remigia guarda il signor Zaccarella che l'approva e l'incoraggia con gli occhi e con i moti delle labbra:
— Lei non deve pensare ai ministero, ma a suo marito. I ministeri si rimpastano, e bene o male si tengono in piedi più facilmente degli uomini!
Le labbra sottili del signor Zaccarella disegnano, con un sorriso, la parola socialista, senza pronunziarla.
— Permetterà, dottore... — l'espressione di Remigia è solenne ed eroica. — Permetterà che io voglia molto bene anche alla mia patria!
Il dottore si alza e fa un profondo inchino.
— Si figuri! Soltanto, per il momento, mi pare che suo marito, corra più pericoli della patria! — Il dottor Davos anche quando è ironico, non ride mai. Si rivolge, sul punto di congedarsi, a Mimì Carfo, come continuando un discorso già incominciato e non nascondendo la propria indifferenza e la propria sfiducia verso la duchessa Remigia e il signor Zaccarella.
— Il fisico di quell'uomo è stato logorato dal lavoro e dai dispiaceri!
— Dispiaceri?... — Remigia non può trattenere una risatina. — Il mio Jack, tesoro, è sempre stato felicissimo!
— Sempre! Felicissimo! — ripete da lontano, come l'eco, il signor Zaccarella.
— L'onorevole D'Orea, — continua il dottore sempre rivolto a Mimì, è affetto da un vizio al cuore, non congenito ma acquisito, e il caso d'oggi ne è una conseguenza. Bisogna cambiar rotta. Assoluto riposo del cervello, la calma più completa del sistema nervoso. Non più politica e non più affari. Per mesi e mesi, se vuol rimettersi, deve fare una vita puramente materiale; deve vegetare, in campagna: quiete, quiete, quiete. Non ho altro consiglio da dare.
— Scusi, dottore, un momento. Parli anche con me; sono io la moglie di Sua Eccellenza, e spieghiamoci chiaro. Non crede lei, che seguendo in tutto, alla lettera, questo suo consiglio, non si vada incontro ad un altro pericolo?
— Precisamente, — mormora lo Zaccarella.
Mimì tace, sospira, il suo cuore è stretto stretto. Sente che il dottore ha ragione, ma che anche il sacrificio che s'impone a Remigia è troppo grande, e geme, muta, con tremiti angosciosi.
Remigia continua vivacemente e con convinzione:
— Non crede lei, che per un uomo come mio marito, che ha assunto obblighi e impegni verso la Nazione, il Re, e i suoi colleghi, possa essere un pensiero non di quiete ma di tormento quello di abbandonare tutto e tutti, improvvisamente, precipitosamente, senza nulla preparare, provocando... una crisi, in questo momento disastrosa?
Sopraggiunge in aiuto della signora duchessa, la voce umile, melata del signor Zaccarella:
— A poco... a poco! Bisogna andare a rilento! Nelle condizioni appunto di Sua Eccellenza! Piantare il Governo! Roma!... La notizia... un colpo così fulmineo... Credo gli sarebbe fatalissimo!... Avrebbe anche l'apparenza, quasi direi... di una fuga!
— Ma che apparenza! — Il dottore seccato da tanta diplomazia e da tanti infingimenti conclude, con una risata: — Una vera fuga, per salvar la pelle!
Remigia offesa fa un atto di collera e di disprezzo. Il dottore non se ne accorge, prende il suo cappello e se ne va, dopo aver detto questa volta, fermo, in faccia a Remigia e proprio a lei, direttamente:
— Ho parlato chiaro, senza reticenze, perchè le condizioni, per me gravissime, dell'onor. D'Orea, me ne impongono il dovere. Quello che credo si debba fare, quello che credo necessario e urgente di fare, l'ho detto e ripetuto. Ora soggiungo soltanto questo: qualunque cosa possa accadere io non avrò certo rimorsi. Facciano in modo... di non doverne avere nemmeno loro!
Appena rimasta sola, Remigia dà sfogo alla sua collera.
— Antipatico, odioso e ineducato!... Del resto è un socialista, e basta!
— Dicono per altro, che sia molto bravo... — soggiunge Mimì, assai timidamente.
— Bravo, — ripete argutamente il signor Zaccarella, ma... socialista!
Remigia ci tiene a convincere Mimì. Vuol averla tutta dalla sua.
— Che sia bravo, capirai, nessuno lo mette in dubbio. Ma in questo caso è portato naturalmente a esagerare. Pensa i socialisti come sarebbero contenti di provocare una crisi...
— Col ministero, non ben consolidato! — crede di soggiungere il signor Zaccarella, ma a torto, perchè donna Remigia gli dà un rabbuffo.
— Come non ben consolidato?... Dove trovare un ministero più ben consolidato del nostro?... Piuttosto Giacomo... che si dimette... una crisi... proprio in questo momento... con le feste di Napoli, per il passaggio dello Scià di Persia, alla Spezia per il varo dell' Invincibile, a Venezia per l'inaugurazione dell'Esposizione di merletti, sotto il patronato di Sua Maestà la Regina... Capirai, Mimì... Capirà, signor Zaccarella... anche... per me...
L'Idola non può più contenersi, ha una crisi nervosa di lacrime.
XIII.
Per quanto Remigia fosse andata a letto assai irritata contro il dottor Davos e assai inquieta per il timore di dover abbandonare tutto in un giorno, il potere, Roma e il D'Entracques, ella si addormenta quasi subito profondamente e dorme del suo buon sonno filato fino alle nove del mattino. Nè si sogna di quell'odioso socialista del dottor Davos, nè di suo marito, nè di niente che possa turbarla. Sogna, invece, di Manon e di miss Britton, che fa una scena di gelosia e di disperazione al D'Entracques.
Si sveglia, sorride, ma poi ha un sobbalzo: — Ah! Mio Dio! — Le vengono in mente il dottore e le dimissioni. Si rizza a sedere sul letto, si volta, e preme a lungo il bottone del campanello elettrico.
Entra subito Mimì, poi la cameriera che corre a spalancare le finestre!
— Buon giorno, cara!
— E così? — domanda subito Remigia rispondendo appena al tenero abbraccio dell'amica. — Giacomo come sta?... Sta male?
— No, no; ha dormito; s'è riposato. Anzi, il signor Gaudenzio dice che lo trova meglio del solito.
— Chiamalo! Chiamalo! Venga subito qui, da me! — Pare che il vecchietto, quella mattina, non abbia alcun odore di pizzicheria. — E fa chiamare il signor Zaccarella!
Mimì e la cameriera escono l'una dietro all'altra. Remigia resta seduta sul letto; infila una casacca, tutta gale, di seta rosa; si annoda al collo una sciarpa di trine, e dà una scrollata di testa. I capelli sono tutti a posto.
Rientra Mimì e la Carolina col caffè.
— Ecco Gaudenzio!
Eccolo in fatti, col suo cappello, il suo bastoncino, il suo cravattino azzurro e il solito sorriso.
Remigia si volta sul letto, si china verso di lui per parlargli. I capelli biondi scendono giù dal cuscino e la coprono tutta, le spalle e la vita.
— Dunque, Sua Eccellenza sta proprio bene? Non è stato altro che un disturbo di stomaco, affatto passeggero?... Sta benissimo! Meglio del solito?
Il vecchietto continua a sorridere, ma tentenna il capo mentre con una mano alza il cappello e con l'altra il bastoncino in segno di protesta.
— Dirò, dirò! Il disturbo, come disturbo, non ha lasciato conseguenze, tanto è vero che il signor D'Orea, se lei non lo trattiene, farà la grossa minchioneria di andare al Ministero. Ma da questo al benissimo... ci corre! — Il signor Gaudenzio stringe tanto le labbra, in segno dubitativo, da farle diventare bianche. — Uhm!... Qui, a Roma, non starà mai bene. La macchina è guasta e ha bisogno di olio e di riparazione. Cioè aria buona... e non far più niente. Glielo dica anche lei, signora Remigia: è ora di chiuder bottega e di mettersi a riposo. Pensionato!
La signora duchessa lo saluta seccamente.
— Grazie. Vada pure!
Il vecchietto, senza scomporsi, esce com'è entrato, sempre sorridendo.
— Non prendi, cara, il caffè?
Mimì, mezza ginocchioni dall'altra parte del letto, offre all'amica la tazza fumante sopra un piccolo vassoio d'argento.
L'Idola, ha un brutto cipiglio. Inghiotte il caffè in due sorsate.
— E questo signor Zaccarella, viene sì o no?
Si batte all'uscio leggermente. La cameriera non c'è; Mimì, corre a vedere: è proprio l'ex capitano. Si presenta trafelato sull'uscio, entra, e si ferma ritto, in posizione, due passi distante dal letto. In una mano ha un giornale e una lettera.
— Senta, signor Zaccarella! una mia idea!
Il signor Zaccarella non muove un passo, ma allunga il collo verso la signora duchessa.
— Questa notte, come potrà immaginare, non ho chiuso occhio pensando a mio marito... e a tante cose. Io... vorrei proprio sentire un altro medico, ma più spassionato e... spregiudicato. Non un medico politico!
— Precisamente! — Il signor Zaccarella si sprofonda in un grande inchino. — Un medico, soltanto medico!
— Che non abbia nessun interesse a esagerare!
Dopo un momento di meditazione, l'ex capitano pronunzia un nome e ne enumera i meriti con enfasi crescente: — Il professore Dolder di Zurigo! Il primo, primissimo specialista per le malattie nervose! Abile... e nello stesso tempo prudentissimo e circospetto!
Remigia, pensa mormorando:
— Da Zurigo... a Roma...
— È di Zurigo, ma sta a Roma. Mi fu suggerito e raccomandato dallo stesso albergatore.
— Allora, benissimo!... Sarà anche più facile persuadere Giacomo...
— Appunto! — Ma il signor Zaccarella non ha finito. Anzi, deve avere qualche grave comunicazione da fare, perchè fissando la signora duchessa, fa un cenno verso la contessina Carfo.
— Mimì! Gioia!... Dov'è andata la Carolina?
— Di sopra, credo; in camera sua!
— Ti prego: vuoi dirle di prepararmi il vestito... quello rosso, di foulard? — No! No! — quello di tela bianca! Si sente già, a quest'ora, che oggi deve fare un caldo tropicale!
Appena uscita Mimì, lo Zaccarella si avvicina al letto e porge alla signora duchessa la lettera e il giornale.
Remigia guarda la lettena.: — È di mammà! Tesoro! — La butta sul copripiedi. — La leggerò con comodo. — Prende, apre il giornale. — C'è qualche cosa?
Il signor Zaccarella risponde di sì, ma oscurandosi in faccia.
— Ah, mio Dio! Che cosa c'è? — Remigia, spaventata, si tira più su contro i guanciali.
— Legga, in terza pagina; lì.
Remigia legge dove l'altro le indica col dito.
— Le prime al Costanzi?
— Sì.
— «Il successo che ha sorriso ieri sera alla bellissima Fanfan Trécoeur è stato uno di quei successi che danno gioia non solo a chi li merita, ma anche a chi li decreta. Il pubblico entusiasta e commosso, sembrava volesse esprimere alla giovine e leggiadra vincitrice, non soltanto la propria ammirazione pel suo talento, ma ben anche per l'energia con la quale al suo amore per l'arte ella — l'intellettualissima, — ha saputo sacrificare le gioie ardenti di una felice e spensierata aurora della vita. Questa lode ammirativa per un così raro prodigio di abnegazione e di forza, nel volere, era specialmente palese nel plauso delle signore. Pareva che l'eletto mondo femminile, convenuto a quella festa dell'arte, mutuamente si compiacesse dell'esempio di auto-elevazione che la gloriosa affascinatrice offriva dalla scena e a lei inviasse, con i graziosi battimani, la gratulazione e il saluto augurale. In un palchetto di prima fila...» — Remigia si ferma, — oh mio Dio! — alza gli occhi inquieti nella faccia abbuiata del signor Zaccarella, che le fa cenno, gravemente, di continuare. «... In un palchetto di prima fila ove sedeva, regina di bellezza e di super-intellettualità, la duchessa D'Orea Moncavallo, era un vero fremito di approvazione per l'affascinante Manon ». — Ah, mio Dio! Mio Dio! — ripete Remigia continuando a leggere, ma con un leggero tremito nella voce «e... dalle labbra stesse della moglie di Sua Eccellenza il ministro dei Lavori Pubblici, gli ospiti fortunati raccoglievano le frasi più lusinghiere per il nuovo astro della lirica scena italiana del quale si magnificava la ormai «purissima luce!»
«Donna Remigia D'Orea, sempre nobile e squisita in ogni espressione della sua grazia e della sua bontà tutta moderna, Donna Remigia D'Orea, — raro fiore, da cui emana più raro e più soave il profumo, — ha voluto ella stessa, direttamente, dopo il secondo atto, inviare alla signorina Fanfan Trécoeur, parole così lusinghiere che fecero insieme esultare e commuovere l'orgoglio dell'artista e il cuore della donna!»
« fa diesis ».
— Cretino! Stupido! — Remigia, stringe il giornale con ira. — Se Giacomo leggesse quell'articolo... Guai!
— Guai!
— Ma non è vero niente! È tutto inventato dalla prima parola all'ultima! Glielo giuro, signor Zaccarella! Che bugiardo! Bugiardo, stupido, e cretino!
— Ma... il redattore del Corriere non poteva immaginare...
— Che redattore! Che Corriere! Luciano!... Quel bugiardo di Luciano! Ah, mio Dio, mio Dio!... — Remigia è spaventata e furente. Ha le lacrime e l'ira negli occhi. — Giacomo!... Mio marito!.. Chi sa! Chi sa! — Si protende con le mani supplici, verso il signor Zaccarella. — Lei! Lei! Così bravo! Così buono! Mi salvi lei! Trovi lei il modo! Bisognerebbe... Bisogna che mio marito, stamattina, non abbia e non veda il suo Corriere.
Il signor Zaccarella, risponde a testa alta, con un breve risolino:
— Il suo Corriere non lo vede certamente, perchè il suo... è questo qui!
Remigia lo guarda ammirata; si tira più su e si porta tutta sulla sponda del letto per essere più vicina alla sua protezione.
Il signor Zaccarella, da bravo capitano, ha già pensato e combinato il piano di difesa.
— Il Corriere non è il solo giornale di Roma. Bisogna che nessun altro, assolutamente, riporti simili... strafalcioni.
— No! No! Per l'amor del cielo!
Anche con la mano, egli rassicura e calma la signora duchessa.
— Ci penso io. Vado adesso subito, a suo nome, dal sottosegretario di Stato, l'onorevole Staffa...
— Anche a nome della principessa Capodimare! Anche a nome della marchesa Della Gancia! Erano loro che applaudivano! Io sono sempre stata tutta sera in fondo al palchetto!
— I giornalisti, — continua il signor Zaccarella, non sono gente cattiva. Anzi, in generale... tutt'altro! Con un bigliettino di autorevole raccomandazione da parte del sottosegretario Staffa, mi recherò alle varie redazioni e farò intendere quale ripercussione dolorosa, l'articolo cervellotico del Corriere Romano abbia avuto nella famiglia di Sua Eccellenza! Dirò, velatamente, dei dissapori tra...
— Tra Luciano e mio marito! Perchè è stata una cattiveria di Luciano! Ma dica lei, signor Zaccarella, com'è sempre lo stesso!
L'ex-capitano annuisce evocando il passato con un sospiro:
— I gravi dispiaceri di donna Maria!
— Certo! Certo! Povera Maria!
— E mostrerò la sconvenienza, l'assurdità della invenzione!
— Precisamente! Basta il fatto che si tratta di mia sorella!... Sarebbe stata tale una enormità...
— Non dubiti. Messe le cose in chiaro, nessun giornale farà più il nome della signora duchessa, e Sua Eccellenza non ne saprà niente.
Remigia stende il braccio che esce mezzo nudo dalle sete e dalle trine della manica ampia e questa volta dà una forte stretta di mano al signor Zaccarella:
— Lei è proprio un vero... tesöro! — È lì lì per mandar a chiedere una raccomandazione anche al D'Entracques, ma... No. È meglio che il puritano generale non ne sappia niente. Anzi, al caso, negar tutto anche con lui!
Remigia, ormai, è pienamente tranquilla. — Chi lo sa, davvero?... Nessuno. — Le sue amiche sono in ballo con lei; il Paparigopulos non conta, il marchese Pio non fiata. Narciso è a Bologna, Luciano è un bugiardo... Che pericolo c'è?
Entrano Mimì, la Carolina, ed ella gettando via le coltri salta sul letto ginocchioni, segnandosi e recitando l'Avemaria, prima d'alzarsi.
La lettera, ch'era sul copripiedi, scivola per terra. Remigia la vede ed emette un piccolo grido.
— Ah!... la mia lettera! La lettera della mia mammà cara, tesöro! dammela; fa presto!
Mimì Carfo la raccoglie e gliela porge.
La cameriera, intanto, sta preparando il bagno nell'attiguo gabinetto di toeletta. Remigia, che sente l'acqua cadere nella vasca, aspetta, sempre ginocchioni sul letto, che tutto sia pronto.
— Fresca l'acqua, anzi fredda, Carolì!
— Sì, signora duchessa!
— Brrr! Che piacere!
Apre la lettera e la scorre soltanto. Per leggerla tutta, subito, è troppo lunga. Vuol godersele adagio le lettere di mammà!
Fa sempre così; le guarda di volo, poi le ripone nella cartella e non le legge più.
— ... Sta benissimo!... Che gioia!... Anche lo zio Rosalì, bellezzone cäro! — Uno slancio di tenerezza, il salto di due pagine e si ferma alle ultime righe.
— Oh, povero Totò! Non sta bene il povero Totò! È molto giù e lo mandano per qualche tempo sul mare!
Per un momento non si sente altro che il rumore dell'acqua che scorre dal rubinetto e che si fa più cupo più si riempie la vasca del bagno.
Mimì si avvicina a Remigia con una espressione di grande ansia dolorosa negli occhi.
— Sta poco bene?
L'Idola, assume un tono di donna seria, da moglie di Sua Eccellenza.
— Quel benedetto ragazzo!... La manìa di voler fare l'inglese! La manìa dello sport!... E poi la pipa! Tutto il santo giorno... la pipa!
Cessa a un tratto il rumore dell'acqua. Si sente la voce della Carolì:
— Il bagno è pronto, signora duchessa!
Remigia resta ancora un attimo pensierosa, poi scrolla forte la testa ed esclama per non aver malinconie: — Io sono sicurissima che l'aria e la vita del mare gli faranno molto bene!
Si leva in fretta e butta via la casacca di seta e di trine che cade a piè del letto con un volo di cigno.
— Ah, mon Dieu! Che caldo oggi!... Fresca, l'acqua, Carolì?
— Freschissima!
Corre verso il gabinetto di toeletta slacciandosi i nastrini della camicia che le cade dalle spalle.
— Brrr... che piacere!
Al povero Totò non ci pensa più che Mimì Carfo. Mimì, è rimasta nella camera da letto, prepara sulla specchiera i pettini, le forcine, le piccole forbici... È assai pensierosa e mesta.
La manìa di voler far l'inglese, lo sport, la pipa! Nessuno! Nessuno! Nemmeno suo padre che pure ne ha il cuore gonfio, in tumulto, sotto la calma della gran barba bianca, ammette che ci possa essere un'altra cagione, perchè quel giovine cuore, quella giovane vita, si sieno spezzati! Mimì Carfo pensa e crede fermamente che sia stato il matrimonio di Remigia... Ma non lo dirà mai, nemmeno Mimì Carfo, per non dare, non un rimorso, — che non ne ha alcuna colpa, — ma per non rendere più vivo il dispiacere dell'Idola.
Giacomo D'Orea, dopo il deliquio avuto e la breve indisposizione, è stato relativamente bene, è ritornato al ministero e si mostra anche con la moglie allegro e buono; ma poi, da un giorno all'altro, cambia straordinariamente di faccia, di modi, di umore. Non si vede più: sempre al ministero, mai all'albergo. Stravolto, cupo, sfugge sua moglie, sfugge la Carfo.
Che cosa è successo?
Il Corriere Romano è capitato nelle mani di Giacomo proprio in que' giorni; in ritardo, perchè ritornava a Roma da Fiumicino, spedito dalla zia Gioconda e accompagnato da una breve lettera:
« Caro Mino,
«Maria ha ricevuto da Roma questo giornale che io ti rimando senza che Maria lo sappia. Io non so spiegarmi quando scrivo, ma da te medesimo, caro Mino, capirai che effetto ha avuto qui. Pensaci e fa che tua moglie sia più riguardosa, tanto più che Maria, benchè non ne voglia convenire, è assai ammalata e tutto, pur troppo, le fa molto male.
«Ti abbraccio e ti benedico nel nome di tua madre, che pare impossibile sia stata la stessa madre anche di quell'altro!... Che brutto mondo e che brutta vita!... E che amarezza dover concludere così a ottant'anni! Eppure, io mi accorgo adesso, perchè prima a queste cose non ci avevo mai badato, di aver avuto una grande fortuna, per grazia del Signore: quella di aver voluto bene a poche persone e di non essermi mai innamorata di nessuno. Morirò ragazza anche di cuore. Tuttavia non ti posso nascondere che se fossi morta tre anni fa, quando ho avuto la pleurite, sarei morta più contenta. Ma forse il Signore che ci vede più di noi ha voluto così per qualchedun altro, e sia tutto per il meglio.
« Tua zia Gioconda ».
Giacomo, al ricevere questa lettera, non ha pensato al giornale, subito non lo ha nemmeno guardato: tutta l'anima, tutto il cuore soffocati, gli sono d'impeto venuti a galla:
— Maria! Maria! Maria!
Poi scrive una lettera alla zia Gioconda, che la zia Gioconda non fa leggere a Maria, in cui c'è tutta la sua vita, tutto lo sfogo del suo amore disperato, della sua collera e del suo odio!
XIV.
Mimì Carfo diventa sempre più inquieta sul conto del signor D'Orea; Remigia, invece, diventa sempre più tranquilla sul conto del generale D'Entracques. Ella è di buon umore, attiva, vivacissima, adora Roma.
— Com'è bella Roma, anche d'estate! Così sparsa di verde è meno classica, ma è assai più poetica e pittoresca. D'inverno sento la vecchia Roma classica dei Cesari... D'estate, la Roma giovane, nostra, dell'amore e dei poeti!
Di suo marito, non si occupa più, e anche il sottosegretario Rabbagasse è stato messo al bando. Il D'Entracques ha voluto così e Remigia, siccome ormai dello Staffa non ne ha più di bisogno e non gliene importa affatto, è felicissima di compiere questo sacrificio, che va poi a pesare su missis Britton.
— Io le sacrifico i miei amici... Ma lei... Le sue amiche?... — Diventa seria, sospira, poi dà una forte scrollatina di capo, come per distrarsi.
Remigia D'Orea pare che abbia cambiato di ministero. Più che ai Lavori Pubblici, è adesso, alla Guerra. L'uniforme degli ufficiali e dei soldati, il contegno delle truppe, la scuola di Tor di Quinto, l'acquisto dei cavalli in Irlanda, le esercitazioni e le armi nuovo modello, riempiono tutti i suoi discorsi. L'esercito è la sua passione: legge persino l' Italia Militare.
Mimì, una sera, si fa coraggio.
— Ma tu, che cosa pensi... di tuo marito?... Che ha?... Non ti accorgi che tutti i giorni va peggiorando?
— Per me no; va migliorando. Non lo vedo quasi più! — Sorride; si stringe nelle spalle. — Se non lo rendo felice... colpa sua! Doveva sposarmi per me... e non per mia sorella!
— Taci! Taci!... — supplica Mimì, atterrita.
Ma da qualche tempo Remigia, ripete con insistenza questo ritornello e assai facilmente tira in ballo sua sorella... Chi sa?... È forse un calmante per tenere la coscienza in un continuo e placido sopore.
È allegrissima, ha pranzato di eccellente appetito, è già vestita e non ha che da mettersi il cappellino. Aspetta le nove e mezzo e la carrozza perchè quella sera va da Guendalina.
Che serate deliziose!... Appena in quattro, solitamente. Guendalina, lei, il D'Entracques e il Paparigopulos!
Il principe di Capodimare ha la bellissima qualità di Giacomo. Occupatissimo sempre, non si vede mai e perciò anche lui... simpaticone!... Uno, il ministero, l'altro, il Vaticano!
Sottovoce, col D'Entracques ella ride del marito di Guendalina:
— Soldato... del Papa! — Fa uno sbruffo con le labbra. — Ah, mon Dieu, che spavento!
Remigia è già stata due volte a guardare dal balcone.
— Che ora è, Mimì?
— Le nove.
— Soltanto le nove?... Il tempo, per altro, è un grande contradicente. Quando si desidera che corra, si ferma. Quando si vorrebbe fermarlo, vola!
Siede, si annoia e parla di suo marito.
— Tu lo trovi peggiorato?... Di salute, no. Sta tutto il giorno al ministero a lavorare: vuol dire che sta bene.
— Non so... ha una brutta faccia...
— Persuaditi che è proprio la sua! — Non è più nemmeno gentile...
— Questo cambiamento, presto o tardi, succede a tutti i mariti.
— Ma tu...
— Io... che cosa?
— Ne parli... con tanta indifferenza!
— Cara mia... Chi non mi vuole, non mi merita! Doveva conquistarmi, provare. Io, certamente, sarei stata molto refrattaria, ma siccome lui non s'è punto scomodato, così la ragione è tutta dalla mia parte. Se ha brutta cera... Adesso andiamo a Napoli, alla Spezia, a Venezia. Cambiar aria gli farà bene. Certo che gli farebbe meglio l'aria di Fiumicino, ma... — Remigia, passeggiando, canterella. — Non si può! Proibitissimo, direbbe missis Eyre! — Scoppia in una risala. — Te la ricordi, la Sbirlingonia?... E il suo odio per Din e Don, i miei tesöri?
In questo punto si sente nel corridoio un affrettato rumore di passi; il servitore ha appena il tempo di aprir l'uscio e di annunziarlo, che già il D'Entracques, pallido, stravolto, entra precipitosamente nel salotto.
— Domando scusa, donna Remigia, se mi presento in questo modo, a quest'ora, ma ho assolutamente bisogno di prevenirla... di parlarle. Scusi, contessina Carfo; chiedo alla sua amica appena due minuti!
Mimì fissa il D'Entracques, fissa Remigia... Esita un istante, guarda ancora il D'Entracques, non osa interrogarlo, poi esce in fretta tremando, col presentimento di qualche disgrazia che non sa immaginare.
— Che c'è? — domanda Remigia, prima ancora che la Carfo abbia rinchiuso l'uscio.
— Che cosa ha fatto?... Quello Staffa, quel Gambara, quella sua Guendalina! Che cosa ha mai fatto?
Remigia respira: non si tratta che di una scena di gelosia!
— Ah! mon Dieu! Siamo da capo! E oggi stesso, poche ore fa, mi aveva tanto promesso di credermi sempre!
— Che c'entra il credere e il non credere? Si è rovinata! Questo è: rovinata!
— Io? — Remigia diventa pallida.
— Si, lei! Per non essersi consigliata con me! Per aver fatto misteri con me! E assicurava, giurava che io ero il più grande, il suo solo amico! Che sentiva dal mio... dalla mia amicizia, un senso di sicurezza e di protezione!
— Rovinata! — ripete Remigia, non pensando ad altro, non sentendo altro.
— Uno scandalo!... Se non si riesce a riparare, a negare, andiamo incontro ad uno scandalo che rovinerà suo marito e farà cadere il ministero!
— Ed io?... Sono stata io?... Si spieghi! Parli! Dica tutto!... Ma Dio mio, vuol farmi morire?...
— Perchè non ha parlato anche con me, della nomina di Cincino D'Ermoli?
— È stata Guendalina! È stata lei a non volere, assolutamente!
— Dunque ha più fiducia nella Capodimare che non in me?... E poi tutto questo segreto sarà stato chiesto per la nomina di suo fratello D'Ermoli, ma che c'entra la Capodimare negli affari... loschi del Berlendis e del Gambara?
— Affari loschi?... Del Berlendis e del Gambara?... Ma io non ne so niente! — In fatti il viso attonito di Remigia non esprime che maraviglia e stupore.
— Non sa nemmeno di aver messo la sua firma con l'offerta di cento lire per il dono al papa della sedia gestatoria?
— Guendalina! Guendalina! È proprio stata Guendalina! — Remigia lo giura con tutte due le mani sul cuore.
— E non sapeva che era una dimostrazione clericale in espiazione del sacrilegio commesso dal Governo con la soppressione della Madonna di Ponte a Ripetta?
— No!
— Una dimostrazione, antinazionale, antiunitaria.
— No! Giuro! No! Guendalina mi ha detto soltanto che era una sottoscrizione di cattolici, nella quale non c'entrava che la religione... Per acquistare molte indulgenze!
Remigia fissa il D'Entracques diventando pallida e sedendosi di peso sopra una poltroncina, dinanzi a lui.
— La moglie di un ministro del regno d'Italia prender parte a una dimostrazione in onore... del papa-re!
— Mio marito... Mio marito... La prego... la scongiuro... — Remigia balbetta, la voce piena di lacrime, — che Giacomo... non sappia niente!
— Non sappia niente?... A quest'ora lo saprà lui, tutta Roma e domani tutta l'Italia, tutto il mondo! Ho visto adesso, al ministero dell'Interno, la copia mandata dall' Allarme, il giornale socialista, alla Procura... C'è un articolo contro di lei...
Remigia balza in piedi atterrita.
— Contro di me?
— Sì, intitolato: Ministresse nouveau jeu...
Remigia pallida, tremante, afferra le mani del D'Entracques, come aggrappandosi alla sua àncora di salvezza.
— È lei e non suo marito che regge il ministero dei Lavori Pubblici!... Lei, fa nominare nei posti più ambiti e delicati, dove occorrono capacità tecniche, capacità... giovani! È accusata di corruzione per aver fatto approvare alla lesta e alla sordina, «efficace propiziatore un altro... bel giovane bolognese» un contratto, una cessione di forza d'acque, oneroso per l'erario, e vantaggioso, al cento per cento, per gli azionisti, «una banda, non musicale, di affaristi italo-svizzeri, capitanata dal famigerato avvocato Berlendis e da un negriero delle finanze, un italo-svizzero e soprattutto egiziano, commendatore emerito, reduce... dal fallimento!
— Giacomo... Giacomo... Dio! Dio!... Non sappia niente! — Remigia ormai non vede, non teme che la collera di suo marito. Stringe più forte le mani, si stringe tutta al D'Entracques mormorando con un tremito pauroso, disperato: — Mi ammazza! Mi ammazza! Mi ammazza!...
— Apposta sono corso, per avvertirla! Per prepararla! Per salvarla, se sarà possibile!
— Faccia sopprimere tutte le copie, sequestrare l' Allarme...
— Non si può e si farebbe peggio! E poi è tardi. L' Allarme esce adesso, se non è già uscito! Domani, tutti i giornali pro o contro, per assalirci o per difenderci, propagheremo lo scandalo. Noi tenteremo di sventare il colpo, ma si riuscirà?
Il generale si leva la lente dall'occhio e la caccia nel taschino del gilet con un moto di stizza, dopo il quale riprende con più calma:
— Io sarei ben contento di andarmene, perchè se ci sto... è soltanto perchè ci sono comandato; ma andarmene, — parbleu! — di mia spontanea volontà! Non essere cacciato fuori perchè lo scandalo ha colpito il Gabinetto rosa, come chiama adesso l' Allarme, il nostro ministero! — Il D'Entracques batte energicamente il piede per terra. Il lampadario traballa, tintinnando; traballano i ninnoli sui palchettini e Remigia si butta attraverso il canapè, nascondendo la faccia contro i cuscini, scoppiando in lacrime.
Il generale... a quelle lacrime, a quella disperazione, alla vista di quelle spalle gracili che sussultando all'urto dei singhiozzi, rompono l'onda d'oro, accavallata, dei bei capelli, il generale... Sparisce il generale! Sparisce il senatore, il ministro, non resta più che il D'Entracques, l'uomo, l'innamorato!
Invece di continuare a infuriarsi, cerca le parole per consolare, per calmare Remigia e per scusare sè stesso.
Il flutto aureo dei lunghi capelli biondi ha sepolto l' Allarme, ha allontanato ogni timore di scandalo e dilegua insieme anche quella sua collera resa più furibonda dalla gelosia dello Staffa e di Narciso Gambara.
— Donna Remigia... — chiama egli, sottovoce.
Risponde l'urto dei singhiozzi, ancora più forte, il pianto più dirotto. Siede anch'egli sul canapè, vicino, chinandosi e mormorandole quasi sui capelli: — Donna Remigia... non pianga così! Non si disperi, così! Io, capisco, mi sono lasciato spaventare esageratamente... per lei! Ma sono corso qui, apposta, per consigliarla, per suggerirle, ciò che dovrà dire per difendersi, per salvare... Per salvar lei! Tutto il resto, sarà quel che sarà!
Remigia si drizza, si volta lentamente, col viso molle, bianco, rigato di lacrime. Fissa il D'Entracques... Pazza di terrore e d'angoscia gli si butta al collo, stringendosi a lui disperatamente.
Egli esita, scosso da un tremito... la sua bocca bramosa si arresta. Dopo un istante preme un bacio lungo sulla massa soffice, odorosa dei capelli. Si fa forza, irrigidisce, si scioglie con dolce violenza da quella stretta febbrile e passeggia su e giù, pallidissimo a sua volta, il viso contraffatto.
Remigia, diventa seria e attenta, sotto il velo delle lacrime, lo osserva dietro le spalle, lo spia con ansia... Quando egli si volta per avvicinarsi, torna a nascondere il viso fra le mani e ricomincia a singhiozzare.
— E Giacomo? — Ha un fremito lungo di spavento. — Dio, Dio, Dio, Giacomo!...
Il generale, torna a levare la lente dal taschino e a ficcarsela nell'occhio, accompagnando l'atto con una lieve alzata di spalle.
— Anche Giacomo, dopo aver gridato, si calmerà. Dovrà credere a quello che gli dirà lei, che gli dirò io, che gli diremo tutti d'accordo. Non ho pensato che a lei, lo confesso, e lei... faccia quello che le dirò io, e ne uscirà bene!
— Mi salvi! Mi salvi! — Remigia ha un nuovo slancio, ma di gratitudine questa volta, di tenerezza e corre a rifugiarsi e a posarsi come una colombella spaurita su quel petto generoso e valoroso che la protegge e la difende. Ella, dopo tante scosse, ha pure un impeto di abbandono e di... sincerità.
— Mi salvi! Mi salvi! Le voglio già bene... — Sul viso bianco e molle passa come una vampa; le candide ali della colombella hanno un fremito di timidezza pudibonda, mentre aggiunge con voce sommessa: — le vorrò ancora più bene!... Io non credevo di far male!... — La cara voce riacquista tutte le sue note più dolci, più soavi e penetranti. — Non ne ho parlato con lei... perchè, pure sentendomi attratta verso di lei da tanta, tanta confidenza... certe volte, perdo le parole, mi agghiaccio, provo dinanzi a lei una soggezione così forte e così strana! Ora sono tutta nelle sue mani, mi dò tutta a lei... e lei, conoscerà persino l'ultimo de' miei pensieri. — Posa la vaga testolina sul petto, proprio sul cuore del generale, ch'ella sente battere violentemente. — Qui! Sempre qui! Tutta qui! Dentro qui!... — Alza il capo, lo fissa con profonda mestizia. — Non l'amante, non è vero? Buono, generoso, ella non vorrà fare di me la sua amante, ma di più, di più, assai di più... Farà di me... io sarò la sua anima. Sempre qui, dentro qui, tutta. Io non so della vita; sono tanto giovine ancora, ma sento che la colpa non può essere gioia... La tenerezza, sì, invece, una grande gioia immensa, infinita. — La testina, sempre appoggiata sul petto del D'Entracques, chiude gli occhi un istante, poi li riapre, si scote per la prima, e domanda, tranquilla, vincendo l'estasi e la paura:
— Che cosa devo fare, dunque? Che cosa devo dire?
Il generale fa sedere Remigia sul canapè e siede a sua volta sopra una poltroncina in faccia, prendendole le mani e accarezzandole mentre parla.
— Stia ben attenta. Lei deve negare sempre, tutto! Con suo marito, specialmente, e con gli altri!
— Tutto! Tutto! — ripete Remigia, con entusiasmo e con convinzione.
— Cincino D'Ermoli, si ricordi bene, è stato raccomandato allo Staffa dalla sola Capodimare.
— È la verità!
— Il Berlendis non ha avuto da lei che un bigliettino insignificante di presentazione...
— Insignificantissimo! Due righe col lapis in fretta, mentre mi vestivo...
— Ignorando che si trattasse di speculazioni, di affari...
— Assolutamente!
— E per la sottoscrizione al papa-re, è stata ingannata; la sua buona fede è stata sorpresa dalla Capodimare!
— Sì, sì! Guendalina! Se vuol essere sincera, Guendalina stessa, non potrà dire di no!
— In quanto a noi e ai nostri giornali risponderemo all' Allarme vittoriosamente. Il caso del conte D'Ermoli, sarà dichiarato un vero e grosso granchio dei socialisti. Non sanno, — parbleu! — che c'è a Torino un vecchio e illustre professore, Giovanni Ermoli, che insegna elettro-fisica al Valentino? Era lui, è lui, la persona scelta per gli Stati Uniti!... Errore di nome! Comunicazione sbagliata da un impiegato e gonfiata dai reporters dell'opposizione!
Remigia approva e ammira, mentre il generale continua, sempre accarezzandole la mano e sorridendo:
— In politica, la verità, non è mai una sola, ma sono sempre due: quella del governo e quella dell'opposizione. La proposta Italo-Svizzera? Si presentava bene, vantaggiosa per l'erario e la si è presa in esame. Invece, vantaggiosa non è? È un carrozzino bell'e buono?... E noi stessi lo faremo ribaltare al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e sarà provato che non furono i cento occhi d'Argo dell' Allarme a fiutare il tiro. Il Ministero ci ha visto subito chiaro, pel primo!...
La giovane signora sembra ravvivarsi.
— Allora... Siamo salvi!
— Certo! Si trova sempre rimedio a tutto; purchè ci lascino in piedi il tempo necessario!
— Ah, mio Dio! Mio Dio!... Ho una gran paura di Giacomo!
— Un po' di coraggio al primo incontro, poi adesso ella sa che cosa deve dire e come deve difendersi.
— Più! Più! — Remigia guarda il D'Entracques e sorride con grazia infantile. — Non farò più nemmeno un passo, senza dirlo prima a lei. Mi tenga legata, stretta stretta, con un filo invisibile...
In questo punto, entra la Carfo quietamente nel salotto. Ella si mostra all'aspetto calma e tranquilla, mentre dice con voce leggermente alterata:
— Viene il signor D'Orea. Sale le scale in fretta. Non ha voluto aspettare il lift.
Remigia e il D'Entracques si alzano simultaneamente, tutti e due impallidendo. Poi, come la Carfo siede al tavolino riprendendo il suo ricamo, siedono di nuovo anche il generale e Remigia: Remigia raccomandandosi con gli occhi, e il generale, con gli occhi, infondendole coraggio.
Sembra lunghissimo il tempo nel silenzio, nell'ansia, nell'attesa... Finalmente si sente camminare nel corridoio... I passi si avvicinano, si fermano all'uscio... Ma non è Giacomo D'Orea, è il sorridente Gaudenzio che si presenta con un leggero e goffo inchino:
— Il signor Giacomo, chiama la signora Remigia, un momento... di là!
Sparisce subito, perchè di Sua Eccellenza il ministro della Guerra, il mite vecchietto ha un sacro terrore.
— Vada, donna Remigia. Subito. — Il D'Entracques, calmo, sereno, le infonde sicurezza con una forte stretta di mano.
— Oh Mimì! la mia Mimì! — Remigia sente di voler un gran bene a Mimì, in quel momento, e le stende le braccia tremanti. La Carfo l'abbraccia stretta, la bacia appassionatamente e ripete ella stessa con la calma del generale: — Va!
Quando Remigia entra nella stanza, Giacomo è ritto in piedi, appoggiato al tavolino. Egli la fissa un momento, prima di poter parlare. Remigia sente avvicinarsi lo scoppio di quella collera e il pericolo stesso le infonde audacia:
— Mi hai fatto chiamare, gioia?
Il D'Orea ha un sobbalzo: il suo volto scarno, emaciato, più che ira getta odio.
— Tu partirai domattina, subito, per Pontereno e non ti muoverai di là, non uscirai di là, mai più!
Remigia raggrotta le ciglia e anche i suoi occhi schizzano lampi di odio:
— Perchè?...
A Giacomo gira la testa, battono i polsi, il cuore martella e salta nel petto vuoto.
— Perchè sei falsa, senza dignità, senza cuore! Perchè non ti posso più vedere! Perchè ti odio! Perchè se mi stai ancora davanti, lì, così, vivaddio... — Si arresta, poi riprende con voce più bassa, più sorda, — vivaddio, ho paura di ammazzarti!
Remigia, imperterrita, si avanza d'un passo:
— Io no, invece. Io non ho nessuna paura. So, da molto tempo, che mi odii. Ho sbagliato! Dio mio, posso avere sbagliato, ma perchè? Perchè, appunto, a cagione del tuo odio, sono rimasta abbandonata, sola, in balìa di me stessa! Non lo nego, avrò commesso qualche leggerezza, qualche imprudenza per inesperienza, per buona fede e bontà d'animo... e di ciò la colpa è degli altri e soprattutto tua. So dell'articolo dell' Allarme. Il nostro buon amico D'Entracques è corso ad avvertirmene. Sono tutte esagerazioni e infamità. Ma tu sei capace di crederle... appunto perchè? Perchè mi odii!
— E l'altro giornale? L'altro giornale? L'altro?... — ripete Giacomo convulsamente, senza poter riuscire a ricordare a dirne il titolo. — È buona fede?... È bontà d'animo? — Le parole gli escono stentate, si sente il battere secco dei denti — A... A teatro!... Al trionfo pa... pagato... com... comperato, di quella donna... Pa... pagato... com... comperato... È buona fede? È bontà d'animo verso tua sorella?...
Remigia alza la voce con un riso ironico di vittoria:
— Ah! Ah! Ci siamo! Mia sorella! Non si tratta dunque degli... affari di Stato, del ministero, che io ho compromesso con la mia leggerezza? Si tratta che, senza saperlo, — perchè non ci volevo nemmeno andare e fui trascinata al Costanzi, — io ho urtata la suscettibilità, ho offesa la gelosia di mia sorella! Ho capito! Capisco! Non è quello che ha esagerato e inventato l' Allarme, che forma il mio delitto! È quello che ha esagerato il Corriere... Ma si sa, sappiamo, sanno tutti! Mia sorella... ancora, sempre!
Remigia si allontana ridendo, stringendosi nelle spalle.
Giacomo la fissa stravolto, sfigurato, ha la schiuma alla bocca. Fa un passo, traballa... fa un altro passo più sicuro, le afferra un braccio, la volta di colpo, faccia a faccia: — Sì! Ancora! Sempre! Tua sorella! Allora come oggi, sempre tua sorella!
— Giacomo... Giacomo... — grida Remigia spaventata. Ma l'altro la stringe sempre più forte; la sua mano è una tenaglia. Parlandole sulla faccia, contro la faccia, — balbettando, — le schizza il volto di saliva.
— Giù, giù, giù!... Giù la maschera! Tua sorella, non amo che lei, vivo e muoio per lei, l'amo, non penso che a lei, non m'importa più altro che di lei, l'amo, l'amo, l'amo, — hai capito? — e a questo mondo è tutto indifferente, è tutto niente, famiglia, leggi, patria, amicizia, ricchezze, salute, onore, è niente, non c'è che l'amore, l'amore, di grande, di vero, di forte, di buono, che valga il prezzo della vita, che valga il prezzo della morte! Sì! Sì! Non è quello che ha scritto l' Allarme! te lo avrei perdonato! È l'altro, il teatro, il Costanzi, che non ti perdonerò mai perchè... Perchè è vero! Perchè amo tua sorella! Mia cognata!... E io sono un colpevole!... La mia colpa è mostruosa per te che giuochi all'amore col D'Entracques, per le tue amiche, la Della Gancia che trova i suoi amanti per le strade e la Capodimare che sceglie i suoi nelle Banche!... Sì, son col... colpevole. La mia è una colpa; ma questa mia colpa è amore, è passione, è forza, coraggio, sincerità, e vale cento, mille volte di più, è cento, mille volte più bella e più alta della tua virtù, tutta un piccolo mosaico di calcolo, di doppiezza, di bassezza, di bugia, di prudenza, di simulazioni! Nella mia colpa, così orribile, c'è il cuore, tutto il cuore! Nella tua virtù, così levigata e lucidata, non c'è che egoismo, aridità, sterilità, cattiveria! Della mia colpa si muore! La tua virtù, fa crepare gli altri!...
Remigia, smarrita, pallida, vacillante, tenta di sciogliere la sua mano dalla stretta di Giacomo: non può. Egli continua con la voce più bassa, più rotta, più convulsa:
— Giù! Giù! Giù la maschera! Tu e gli altri! Compagnia... di virtuosi istrioni! Tuo cugino, muore tisico per te! Tu lo sai. Tutti lo sapete! Ma non si dice, non si deve dire per non darti il fastidio, l'incomodo, non di avere, ma di fingere un po' di dolore, un po' di compassione! Rimorso, no! Ri... morsi mai! Tu sei troppo illibata, troppo virtuosa, troppo innocente per avere rimorsi!
— Lasciami andare! — continua a ripetere Remigia. — Lasciami andare!... È una vigliaccheria! Lasciami andare... o chiamo!... Mi fai male!... Bada... Chiamo!...
Giacomo non la vede più, non vede più niente, i suoi occhi smarriti vagano lontano...
— La tua virtù! La tua virtù!... Dove passa la tua virtù passa il dolore... È un gelo di dolore e di morte la tua virtù!... Che cosa ti aveva fatto missis Britton!... E non lo ami il D'Entracques perchè tu non amerai mai nessuno, fingendo di voler bene a tutti, uomini e bestie! Tu ridi, scherzi, spari i fuochi artificiali de' tuoi occhi e dei tuoi sorrisi col D'Entracques e spezzi il cuore a una povera donna! Tu resti virtuosa!... E quella povera donna, dopo aver tutto sacrificato a lui, e dopo tanti anni di amore resterà sola, infelice, con la vita infranta! — Ti fa meraviglia che io sappia questo?... Io so tutto! Io vedo tutto! E anche dentro di te! Sì, per questo devi aver paura, hai ragione di aver paura! E vedo nel tuo cuore candido... e freddo come il ghiaccio! Vedo nella tua anima vuota... deserta... — La mano si rallenta, Remigia riesce a sciogliersi, ma resta lì a guardarlo immota, tanto è sfigurato. Egli balbetta più forte: — Per que... questo... ti o... dio... per... perchè ti conosco, ti co... nosco... Sei perfida... per... per... per... — Fa uno sforzo: non riesce a ripetere la parola, straluna gli occhi, gira su sè stesso e stramazza di peso per terra, privo di coscienza, di moto, di senso.
— Mimì! Mimì!
Remigia corre fuori dalla stanza, corre per il corridoio, gridando con voce forte, disperata, che si ripercuote in tutto l'albergo:
— Mimì! Mimì! Mimì!
XV.
Secondo i giornali favorevoli al ministero, Sua Eccellenza D'Orea non ha avuto che un breve deliquio, per eccesso di fatica, di lavoro, un'indisposizione, prontamente superata. «Fra un paio di giorni, l'illustre uomo sarà di nuovo al Ministero, e intanto, anche riguardato nel suo appartamento, continua con la consueta alacrità nel disbrigo degli affari più urgenti».
Per i giornali dell'opposizione, invece, per i socialisti ed i repubblicani, l'onorevole D'Orea è stato colpito da un insulto apoplettico. «Caso gravissimo, disperato: perduta la parola; tutta la parte destra del corpo, paralizzata».
Questo grave avvenimento, serve tuttavia a distrarre l'attenzione del pubblico dall'articolo dell' Allarme. Nessun altro giornale lo commenta, lo riporta: l' Allarme stesso riconosce l'attacco ormai intempestivo e non vi insiste più. Succede, al contrario, un cambiamento di giudizi, curiosissimo. A poco a poco, l'onorevole D'Orea, dato addirittura come spacciato, — è — anzi era, — per i giornali dell'opposizione, «l'unica forza, la bandiera e il timone del ministero, che per la scomparsa di un tal uomo dovrà fatalmente e inesorabilmente cadere sfasciato, tra le secche dei rimpasti». A poco a poco, per i giornali ufficiosi, il deputato di Pontereno e il ministro dei Lavori Pubblici diventano un uomo e un portafoglio di secondaria importanza. Anzi, qualcuno, arriva addirittura a far capire che «allontanandosi il D'Orea, elemento forse troppo conservatore per la fisonomia del ministero attuale, questo avrebbe potuto muovere più spedito e più agile verso tutte quelle riforme tributarie e sociali reclamate dal paese».
Remigia, intanto, legge tutti i giornali col signor Zaccarella, va sulle furie e in convulsioni. Più che contro i giornali avversi, — vanno per la loro strada! — grida e si arrabbia contro i giornali «falsi amici», i venduti, che odorano il vento dell'opportunismo, pronti alla defezione e al tramonto! Ma sfogatasi col signor Zaccarella due volte al giorno, al mattino e alla sera, — i giornali del pomeriggio non hanno una grande importanza, — ella si mostra serena, sicura, dà tutti gli ordini e fa preparare vestiti e cappellini per le feste di Napoli, della Spezia, di Venezia, alle quali assisterà col suo Jack, tesöro.
Dall' Albergo di Roma parte la parola d'ordine e tutti la mettono in giro, — la Capodimare, i della Gancia, il Paparigopulos e anche il D'Entracques, — Giacomo D'Orea sta bene. È per l'ostinazione di sua moglie che aspetta ancora un paio di giorni, prima di farsi vedere al ministero!
In quanto al signor Zaccarella, premesso che Sua Eccellenza D'Orea ormai sta benissimo e lavora tutto il giorno con i segretari, nel suo gabinetto, torce le labbra con supremo disprezzo pronunziando il nome del socialista dottor Davos e sentenzia: — per sbarazzarsi dei propri nemici, non c'è di meglio che fare... il dottore. — Poi, dopo aver riso compiacendosi del proprio spirito, torna grave, impettito, e si batte tre volte, con le dita raggruppate della mano sullo stomaco:
— In-di-gestione. Sua Eccellenza è ghiottissimo delle fragole alla panna. Una semplice indigestione.
In una cosa sola l'autorità del dottor Davos è riconosciuta e rispettata: nella prescrizione che Sua Eccellenza D'Orea, tranne i segretari, non debba nè ricevere, nè veder nessuno... ancora per un paio di giorni.
Donna Remigia stessa fa osservare scrupolosamente la consegna, ripetendo a tutti:
— Non ci lascio entrare in camera nemmeno Mimì! Io stessa, mi sacrifico e ci vado pochissimo. Lavora anche troppo co' suoi segretari «per il disbrigo degli affari» senza affaticarlo di più inutilmente.
Il «disbrigo degli affari» è una frase fatta che oramai donna Remigia va ripetendo cento volte al giorno!
Ella pure è in grandi faccende, e avrebbe bisogno di segretari se non avesse il signor Zaccarella che fa per dieci.
Il salotto dell'albergo di Roma è diventato quasi l'anticamera del ministero dei Lavori Pubblici e il signor Zaccarella dà udienza, risponde alle lettere che chiedono notizie, riceve personaggi, manda il bollettino ai giornali, ed è lui stesso che stende il telegramma della signora duchessa, in risposta a quello di Sua Maestà, che si congratula per il «sicuro miglioramento» e rinnova i voti «per la pronta completa guarigione».
«Commossa, riconoscente interessamento Maestà Vostra salute mio amato consorte, onoromi confermare alla Maestà Vostra condizioni sempre migliori. Voglia gradire Vostra Maestà profonda gratitudine, ossequi devoti, ecc. ecc...»
Questo telegramma, per altro, prima di essere spedito, deve ottenere l'approvazione anche del conte D'Entracques: «Sua Eccellenza», come lo chiama adesso, brevemente, il signor Zaccarella, parlando con la duchessa Remigia, sicuro che non viene confuso con Sua Eccellenza D'Orea.
Di buon umore fuori, l'Idola, in casa, è nervosa, inquieta e strapazza la povera Carfo continuamente, perchè sta sempre lì immusonita, perchè non è sicurissima che il signor D'Orea sia completamente guarito in un paio di giorni, e possa assistere alle feste di Napoli, della Spezia e di Venezia.
— Sempre così! Quando io ho qualche contrarietà, tu, invece di un conforto, diventi un peso!
Un giorno uscendo dalla oreficeria del Marchesani, — ah, mon Dieu! — s'incontra... nella vecchia Sbirlingonia! In missis Eyre!...
Si guardano un istante, poi Remigia le fa un saluto dignitoso, da vera ministressa.
— A Roma, missis?... Come mai?
— Di passaggio; Roma, specialmente d'estate, non la posso vedere! Vado all' Abetone. Ne ho abbastanza della Svizzera e della Tête-pointue! — Poi il viso secco diventa più verde: sta schizzando il fiele.
— Il nostro onorevole D'Orea, ho letto anche nei giornali, sempre malissimo?... Ne sono desolata.
— E io tutt'altro!... Mio marito sta tanto bene, che è già tornato al ministero. Buon giorno, missis Eyre, e buona villeggiatura! — Le volta le spalle e se ne va furiosa.
— Vecchia arpia!
A mammà ha sempre scritto e fatto telegrafare ottime notizie, tenendola in guardia, — l'espressione è del signor Zaccarella, — contro le informazioni pessimiste di fonte avversaria. Ma con tutto ciò, alla fine del terzo o del quarto paio di giorni, che occorrevano a Giacomo per rinfrancarsi pienamente e tornare al ministero, la duchessa Cristina e il principe Rosalino arrivano, senza nessun preavviso, all' Albergo di Roma. Si presentano all'Idola inquieti, ansiosi, con le lacrime agli occhi: ma l'Idola, più sorpresa e contrariata, che soddisfatta, li accoglie di malumore.
— Perchè non avete scritto o telegrafato? Sapete che io non amo le improvvisate!
Ma ormai sono lì, non può mandarli via e bisogna continuare nella solita commedia dell'indisposizione passeggera, e mentre Remigia abbraccia la mammà cara e lo zio Rosalì tesöro, il signor Zaccarella continua gravemente a battersi il petto con le dita raggruppate:
— Scherzi dello stomaco!... Le fragole con la panna!... Indigeste quanto mai!
Poco dopo, la duchessa e il principe, entrati all'albergo con la faccia costernata, ne escono in carrozza scoperta insieme all'Idola e si mostrano ilari e contentissimi. Non hanno ancora potuto vedere il caro Giacomo, occupato co' suoi segretari «nel disbrigo degli affari più urgenti», ma sono felici delle ottime notizie avute.
— Proprio vero, — sentenzia il principe di Sant'Enodio: — se vuoi sapere, vai; se non vuoi sapere, manda!
Egli saluta affabilmente dalla carrozza con le scappellate, con i cenni della mano. È sempre cortese, ha sempre il sorriso sulle labbra e il complimento opportuno, eppure soffre tanto per il suo figliuolo, lontano.
— Mah! Gli eccessi dello sport!... la pipa!... Ostinato! Caparbio!... — Egli ha finito anche per crederlo, a forza di ripeterlo. E... chi sa?... Finisce quasi per crederlo anche il povero Totò, ammalato, morente in mezzo al mare, sotto quel sole che lo abbrucia senza riuscire a riscaldarlo!
Remigia, dalla carrozza, mostra alla folla del corso, tutta la grande gioia di essere con la sua mammà. Saluta espansiva e gaia, e fa il nome alla duchessa Cristina delle signore più alla moda e dei personaggi più importanti. A un tratto si oscura in viso:
— Non guardate a destra! C'è quel cretino odioso di Luciano! Non bisogna più salutarlo! Ha inventato tante cattiverie! Che Giacomo è gravemente ammalato! Che ha fatto un colpo!
— Che uomo!...
— Che essere!
Remigia comincia a difendere sua sorella.
— È proprio stata una vittima! Povera Maria cara!
— Domanda che ora è: sono le cinque e mezzo. — Bisogna andare al tè da Guendalina. Si passa un'ora piacevolissima! Non troppa gente e tutti simpaticoni!
Quel giorno, oltre la padrona di casa, non ci sono che i della Gancia, il D'Entracques e il cavaliere Paparigopulos.
Guendalina e Quanita, nei successi avvenimenti, si erano mostrate amicissime più che mai e più che mai legate, a doppio filo, con donna Remigia D'Orea. Erano le più risolute e infervorate nel dichiarare subdole e false, — una manovra dei sovversivi, — le voci corse del colpo apoplettico. Le due signore — compreso Cincino e Paparigopulos, — assicuravano di vedere il D'Orea tutti i giorni, di averlo trovato sempre nella sua piena lucidità di mente, e, si capisce, sempre dedito con i suoi segretari «al disbrigo degli affari più urgenti».
Guendalina Capodimare, consigliata in questo e spinta anche un pochino dalla cognata, non solo ha accettato, per il momento, la sostituzione del vecchio barbuto professore di Torino, al suo giovane elegante e sbarbato fratello nella commissione marconiana, ma conviene, rassegnatamente, di aver forse peccato lei, per troppo zelo, a proposito della famosa firma e della sottoscrizione in omaggio al Sommo Pontefice.
Chi solo naviga in cattive acque e si trova stretto tra l'uscio e il muro delle dimissioni, è il malcapitato Leonida dal cappellone, ex-repubblicano... e di nuovo molto radicale!
Con le principesse romane non è riuscito a perdere la virtù, ma sta per perdere l'Eccellenza: l' Allarme tace, ma vigila. Nel consiglio dei ministri, Sua Eccellenza Staffa è già stato liquidato.
— Un vero Rabbagasse antipaticissimo! — È l'orazione funebre di tutte e tre: Quanita, Guendalina e Remigia, con la muta, ma eloquente approvazione di Paparigopulos.
Remigia entra allegra e festante nel salotto della Capodimare:
— Guendalina! Quanita! Vi conduco mammà! La mia cara mammà! E anche il mio tesorone caro! Lo zio Rosalì!... Son venuti oggi, da Napoli!... Per uno dei miei tanti onomastici e per passare qualche giorno con me e con Jack!
Si capisce che questa dev'essere la parola d'ordine per spiegare l'arrivo a Roma dei parenti.
Dopo le presentazioni, le due signore s'impossessano subito della duchessa Cristina, evocando ricordi, aneddoti, parentele, mentre il cavalier Paparigopulos, a un cenno della Capodimare, attacca conversazione, più a monosillabi e a smorfie che a parole, e intermediario l'astuccio delle sigarette, con il principe di Sant'Enodio. Questi, per la circostanza, accesa una sigaretta di Paparigopulos e soffiando il fumo dal naso, sfoggia gravemente un proverbio orientale:
— Donna bruna... e tabacco biondo!
Remigia e il generale d'Entracques, sorbendo il tè e ammirando le magnifiche incisioni all'acquaforte, — sono del Durer, nientemeno! — passano nell'attiguo gabinetto. Lì soli, Remigia cambia ad un tratto colore, voce, espressione.
— L'intelligenza si mantiene abbastanza lucida, ma non può muovere il braccio e parla stentatamente, ingarbugliandosi...
— E il dottore che cosa dice?
— Il dottor Davos prevede vicino un altro colpo e il dottor Dolder comincia a non escluderlo più...
Remigia sospira, e abbassa la voce: — È stato sempre tanto cattivo e ingiusto con me... Pure, gli ho perdonato e mi fa compassione!
Il D'Entracques la guarda con tenerezza.
— È naturale. È suo marito ed è molto ammalato!
L'Idola ha un tremito leggero che la fa tutta vibrare e gli occhi, fissando il D'Entracques, si riempiono di lacrime. Bisbiglia appena:
— Ho paura.
— Di che? — domanda ansioso il generale.
— Mi vedo sola, mi sento sola e ho paura!
Il D'Entracques le prende una mano e gliela stringe forte, mentre guarda Remigia lungamente.
— Lei capisca... ciò che io oggi non voglio, non posso dire. Felice... non so se potrà esserlo ancora. Ma... sola, no. — Si avvicina di più, si fa forza, e mentre nel salotto si sentono squillare le risa di Guendalina e di Quanita, egli le bacia la mano con devozione mormorando: — Amico... o... come vuole, tutto ciò che vuole: io le appartengo interamente.
La giovane signora lo guarda lei, adesso, a lungo, poi scrolla il capo lievemente con una grande profonda malinconia negli occhi.
— Interamente... no.
Il D'Entracques diventa pallido, quasi terreo, mentre risponde con la voce alterata:
— È partita per sempre!
XVI.
Quando Remigia torna all'albergo, trova sul portone il signor Zaccarella che l'aspetta e l'accoglie con la cera torbida delle brutte notizie.
— Sta male?...
— No. Sono arrivate donna Maria Grazia e la signora Gioconda!
Remigia, ch'era già saltata a terra, si ferma in mezzo al marciapiede, esterrefatta, mentre la duchessa Cristina, a sua volta, resta con un piede sul predellino del landò, e con la mano nella mano, che le offre il fratello di Rosalì.
Remigia si rimette prontamente dal primo stupore e, per guadagnar tempo, si arrabbia con mammà.
— Che fai, lì, a mezz'aria? È tardi! Bisogna ancora vestirsi!
Entra in fretta nell'albergo, lasciandosi dietro la madre e lo zio e domandando al sig. Zaccarella:
— Dove sono?... Con la contessina Carfo?
— No; sono entrate subito da sua Eccellenza!
Remigia scatta furibonda.
— I dottori non vogliono!... Tanto il dottor Davos che il dottor Dolder, hanno proibito che Sua Eccellenza parli, si affatichi, veda gente!
Il signor Zaccarella fa un atto di scusa.
— La signora duchessa non era in casa; io solo, non potevo oppormi... alla signora Gioconda D'Orea.
Remigia, mentre l'ascensore sale al piano nobile, resta pensierosa e perplessa in faccia allo Zaccarella. Sente che c'è lì, adesso, un'altra volontà, forte come la sua.
— Hai visto Maria? — domanda subito a Mimì Carfo, entrando con lei nel salotto.
— Com'è giù, mio Dio! — risponde la Carfo. — Com'è giù!... Fa paura!
— Fa paura? — ripete Remigia. Si cambia l'espressione del suo volto; cambia il corso dei suoi pensieri.
Entrano pure nel salotto la duchessa Cristina e il principe Rosalino. Sono ansanti e titubanti; non sanno come comportarsi con Maria Grazia, non volendo contrariare l'Idola. Si fermano, aspettando, a rispettosa distanza. L'Idola non si cura di loro. Parla sempre sottovoce con Mimì.
— Vado anch'io, da Giacomo, per salutare mia sorella e la zia Gioconda. Ti pare?...
— Così? — obietta la Carfo semplicemente, osservandola dalla testa ai piedi. — Senza prima cambiarti?
Remigia è vestita di foulard rosso scarlatto, con un cappellone a tricorno che le sta a maraviglia, ma ancora più straordinario del solito.
— Mi cambio in un attimo, senza nemmeno chiamare la Carolì. Vieni di là!
La duchessa Cristina si fa coraggio e il principe Rosalino anche. Domandano quasi insieme:
— Noi... che cosa facciamo?
— A... Maria, che cosa diciamo?
— Andate a vestirvi per il pranzo!... Maria la vedrete a pranzo e Giacomo lo saluterete domani.
La madre resta ancora a bocca aperta; Remigia gliela chiude soggiungendo:
— Ricordati, gioia! Si pranza alle sette e mezzo!
In dieci minuti, Remigia è pronta. Ha un abito semplice, scuro, attillatissimo, chiuso fin sotto al mento. Quando attraversa il corridoio con Mimì, avviandosi verso le stanze di Giacomo, incontra Maria che ne esce.
Si fermano tutt'e due. Remigia, colpita, la guarda, la fissa un istante: — Dio mio, che cambiamento! Non è più bella, non è più nemmeno giovane! Soltanto gli occhi le sono rimasti, gli occhi neri, grandissimi, che sembrano ancora più neri e più grandi.
Remigia, d'un tratto, le salta al collo, abbracciandola con straordinaria effusione. Maria rimane immota; immote le labbra, senza parole, senza sorriso. Soltanto quando la sorella si stacca da lei stende una mano alla Carfo, che la stringe e la tiene istintivamente fra le sue, come per riscaldarla, tanto la sente fredda, di ghiaccio.
Remigia parla a Maria sottovoce, in fretta, con grandissima volubilità.
— Tu, come l'hai trovato?... Che impressione ti ha fatto? Ah, mio Dio, che disgrazia! Il re mi ha già telegrafato due volte! Che ne dici? Mi dici di sperare? Io spero assai! Il dottor Davos vede nero; ma non è spassionato e non m'ispira fiducia. Invece il dottor Dolder è assai meno pessimista. Il dottor Davos pretende assolutamente che il colpo... — abbassa ancor più la voce, — perchè è proprio stato un colpo, debba ripetersi. Il dottor Dolder, no... Giacomo è ancora giovane... Certo, bisogna tenerlo sorvegliato assai. Nessuna fatica, nessuna commozione. C'è qui anche mammà e lo zio Rosalì; ma non è il caso di spaventarli perchè... non c'è da fidarsi! Due tesori, ma chiacchierano, senza saperlo, e mi hanno tanto raccomandato, anche il presidente del Consiglio, anche il ministro della Guerra, di non spargere notizie inutili, per non inquietare il paese. Guai se il ministero dovesse cadere in questo momento! E non è nemmeno il caso perchè Giacomo sta proprio meglio davvero! È rimasto in istato comatoso, — è il termine medico scientifico, — per più di tre ore. Poi ha cominciato ad aprir gli occhi, poi ha cominciato a riconoscere le persone. La prima sono stata io. Ma non poteva articolare parola, nè muoversi. Adesso, invece, parla e si muove anche un po'. Tu, in complesso, lo hai trovato benino, non è vero?
Maria cerca di sciogliere la mano dalle mani della Carfo e fa per allontanarsi.
— Vai di là?... Avrai certo bisogno di riposarti un poco? — E la zia Gioconda? Vi hanno dato, almeno, delle buone stanze?
Maria strappa la mano e fugge via singhiozzando.
Remigia guarda Mimì.
— Hai ragione! È proprio giù da far spavento!
La Carfo abbassa il capo e non risponde.
— Ma che ha, mio Dio, quella cara gioia? — Remigia, che non conosce nè l'amore, nè il dolore, non arriva a comprendere come l'amore e il dolore possano ridurre una creatura in quel misero stato. — Chi sa? Certo, dev'essere molto ammalata! Anche a Giacomo deve aver fatto un'impressione assai penosa. Ti pare?
Mimì Carfo ha perduta la parola; è rimasta come trasognata. Remigia si stringe nelle spalle, va quasi in fondo al corridoio, afferra la maniglia del penultimo uscio... È quella la stanza che precede la camera da letto di Giacomo... Si ferma, esita un istante prima di aprire.
Tutti i giorni, e anche più di una volta al giorno, Remigia visita il marito, ma senza mai restar sola con lui. Però, a mano a mano che l'occhio invetriato e spento riacquista la vita e l'intelligenza e comincia a fermarsi su di lei, ella prova un senso d'imbarazzo, di inquietudine, di collera. La scena successa, quelle smanie, quelle grida, erano i prodromi del male che lo assaliva. Erano grida, smanie, le idee confuse e pazze di una mente in convulsione. Lui non poteva ricordarle e lei doveva dimenticarle...
— Perchè gli occhi di Giacomo la fissavano irrequieti... e tornavano a diventar minacciosi come allora?...
Remigia apre, entra.
Nella prima stanza, c'è il vecchio Gaudenzio. Sta lì, che pare di guardia.
— Non c'è dubbio! È stato lui a telegrafare a Fiumicino!
Appena egli vede la signora si alza in fretta, facendole cenno con la mano di fermarsi, e, in punta di piedi, si affaccia all'uscio dell'altra camera.
— Dorme? — gli domanda Remigia sottovoce.
— No. Chiamo la signora Gioconda!
Remigia frena un impeto di collera. Come?... Dovrebbe fare anticamera prima di entrare da suo marito, e aspettare anche di esservi introdotta per grazia da questa... signora Gioconda?
— Sono io, qui, la moglie e la padrona! — Si avanza risoluta, ma in quel punto le viene incontro una vecchietta piccolina, secchina, con i lunghi ricciolini grigi e il viso bruno dalle rughe fonde e diritte, come intagliate nel legno. È vestita di scuro, assai dimessa; ha un fazzoletto nero di seta sulle spalle; ha gli orecchini d'oro e un grosso spillone d'oro in mezzo al petto.
— Oh, zia! — saluta Remigia con la voce e il tono affettuosissimi. Si danno la mano, si sorridono, ma non si abbracciano. — Oh, zia cara, come lo hai trovato il nostro Giacomo?... Benino assai, non è vero?
Il breve sorriso della zia Gioconda si restringe sulle labbra tagliuzzate e sparisce. La vecchietta, adesso, tocca gli ottanta, ma è sana, è dura, tutta di osso. Soltanto il suo vecchio capo è mosso continuamente da un leggero tremolìo che mentre ella risponde alla nipote, si fa più sensibile.
— Benino?... Speriamo! — Vuol vederlo? Salutarlo?... Anche lei, contessina, gli farà piacere! Soltanto non bisogna farlo parlare. Non bisogna stancarlo, agitarlo in nessun modo.
Remigia raggrotta le ciglia pensando fra sè:
— Come?... Questa vecchia contadina si sarebbe impossessata di mio marito, della sua camera, di tutto... in mezz'ora?.. Ah! Ah! Staremo a vedere!
I vetri della camera sono spalancati, le gelosie socchiuse: il letto bianco di Giacomo appare a poco a poco e sembra ingrandirsi nella mezza luce. Egli vi sta seduto, appoggiato a un monte di cuscini. Ha il viso acceso, gli occhi rivolti, fissi verso la finestra.
La zia Gioconda e Mimì Carfo restano presso all'uscio: Remigia sola, gli va vicina, accanto al letto.
— Come ti senti, oggi?... Benino?
La voce dell'Idola è alterata, ha perduto ogni dolcezza. Il suo volto non ha più anima, non ha più sorriso.
Giacomo risponde senza guardarla, tenendo sempre gli occhi fissi verso la finestra. Parla affastellatamente, come in orgasmo.
— Meglio, meglio! Comincio a poter muovere anche il braccio! — Così dicendo, solleva appena il braccio destro che tiene disteso, irrigidito sulla coperta. Volge gli occhi in cerca della zia Gioconda e vede Mimì Carfo. Sorride, salutandola con un cenno. — Grazie, signorina. Bene, bene, proprio bene! Comincio a poter muovere anche il braccio! — Torna ad alzarlo un poco, poi lo lascia ricadere; abbandona la testa sui cuscini, e chiude gli occhi.
Remigia, dopo un momento, in punta di piedi, si avvicina alla zia Gioconda e alla Mimì: bisbigliano insieme qualche parola sottovoce, poi Remigia e la Carfo escono pianino dalla camera.
— Uff!... Non ne posso più!... Capisco, che con tutta la mia bontà, questa zia contadina non riesco a sopportarla! No!... È superiore alle mie forze! — L'Idola è proprio in collera e si sfoga, al solito, con Mimì. — Hai visto, il tuo caro signor D'Orea? Il tuo... uomo perfetto? L'uomo infallibile? Il tuo ideale di marito? Si è finto stanco e ha chiuso gli occhi per mandarmi via! — Fa un lungo risolino stizzoso e nervoso. — Meglio così, del resto!... Molto meglio così!
Appena uscita la moglie con la contessina Carfo, Giacomo riapre gli occhi e si chiama vicino la zia Gioconda.
Egli la guarda a lungo.
— Ti prego... — Si ferma, come un bambino che vuole indovinato il suo desiderio. — Quella là... — La zia Gioconda capisce che vuol alludere a Remigia. — Il meno possibile. È meglio per tutti e due!
La vecchina, crollando il capo, gli asciuga col fazzoletto il sudore della fronte e affettuosamente, con l'atto dolce di una madre, gli aggiusta i capelli.
— Pazienza... Porta pazienza...
Giacomo accenna di sì, col capo, gravemente...
— È mia moglie!... E l'ho voluto io!... Mah!... Come certe volte si compiono i fatti più... gravi... spinti da una corrente che ci travolge... Io, oggi, guardando indietro... penso... — Si ferma, continua a guardare la vecchietta, che gli sorride buona, tremolando nel capo. — Oramai... è inutile pensarci. Non è vero, zia? Il braccio non lo posso più muovere, sai? È di piombo... di piombo. Posso alzarlo... appena... — Lo alza un momento con grande fatica, poi lo lascia subito ricadere di peso.
Maria entra nella camera. Lo sguardo di Giacomo si ravviva, tutta la sua fisonomia si rianima.
La vecchina le cede il posto, prende sul tavolino il suo lavoro a maglia, uno dei soliti giubbetti di lana per i bimbi poveri, e siede sotto la finestra, lavorando.
Gli occhi di Maria e gli occhi di Giacomo s'incontrano, si uniscono e non si lasciano più. Ella siede accanto al letto, mette leggermente le sue mani incrociate sulla mano inferma di Giacomo e sta lì, così. Si guardano... si guardano. Con gli occhi sono le due anime che si incontrano adesso e si uniscono per non lasciarsi mai più.
— Anch'io, sai... sto male... molto male. E sono contenta di sentirmi tanto ammalata... di essere sicura... che non guarirò più!
Mentre bisbiglia queste parole, dagli occhi neri neri, dolcissimi, profondi l'amore ripete la sua eterna promessa!
Remigia, più che mai occupatissima nel dover dimostrare al sospettoso mondo politico e all'Europa che sta attenta, la nessuna gravità della indisposizione del ministro dei Lavori Pubblici, non ricorda quella camera, mezzo al buio, dove la zia Gioconda impera, e sua sorella Maria reca l'assistenza e il conforto, altro che nei brevi momenti che passa all' Hôtel de Rome, arrabbiandosi con Mimì, sempre immusita, e pronta a difendere le due perfezioni, di Fiumicino!
— Ah, mon Dieu! — sospira con mammà e con lo zio Rosalì. — Le ragazze che invecchiano... ragazze!... Quanta sentimentalità ammuffita da collocare!
La duchessa Cristina approva. Segretamente ella si è sentita sempre un po' gelosa dell'amica dell'Idola: — È un fatto che quella tua Mimì è molto antipatica.
Il principe Rosalino, tace. È diventato un altro uomo; lo si capisce dall'appetito che gli viene a mancare, e dai proverbi che non trova più.
Intanto la malattia del marito, fa acquistare ogni giorno a Remigia maggiore importanza.
Il ministero per non perdere l'equilibrio ottenuto con tanta fatica e per poter reggersi in piedi, ha bisogno che, per qualche tempo ancora, il D'Orea rimanga ministro, sia pure soltanto di nome. Aprire in quel momento la successione ai Lavori Pubblici sarebbe pericoloso. Troppi appetiti stanno in agguato. C'è bisogno che faccia molto caldo, che l'estate inoltri, che tutti i corvi politici abbiano preso il volo verso i monti e verso i mari... Poter arrivare alla fine di luglio, ecco il momento opportuno per il rimpasto!... E si comincierà col rimandare alla loro repubblica Leonida... e anche il cappellone, che non servono più!
Donna Remigia D'Orea, col mostrarsi dappertutto e col mostrarsi sempre gaia e sorridente salva il ministero e salva il paese dai pericoli di una crisi extra parlamentare.
Ella, in questo, ci riesce benissimo, ma a suo tempo, sa farsi valere... Specialmente col ministro della Guerra.
— Dio! Dio! Che fatica!... Che sforzo!... Torno all'albergo affranta!... Non ne posso più! Dover fìngere, dover simulare! È tanto contrario al mio carattere! È troppo, troppo superiore alle mie forze!
Il D'Entracques le stringe, le bacia la mano facendole coraggio.
— Il suo eroismo è veramente grande, ammirabile!
Molte volte Sua Eccellenza il Presidente dei ministri viene all'albergo per trovarsi con Giacomo. — La visita è assai breve; Sua Eccellenza esce dalla camera del D'Orea scrollando il capo e allora si tiene una specie di Consiglio: il Presidente, il D'Entracques, qualche altro collega e... Donna Remigia.
Oramai ella ha imparato la fraseologia, ha preso il gesto, il contegno della ministressa.
C'è la prospettiva, per lei, di nuovi sacrifici. Alle feste di Napoli, al varo della Spezia, ci dovrà andare certissimo anche senza il marito. Anzi, tanto più, per rappresentare il continuo miglioramento, la guarigione di Sua Eccellenza, ormai data per sicura, non più fra un paio di giorni, ma fra un paio di settimane.
L'Idola sospira, destando in tutti compassione.
— Ah mio Dio! Mio Dio! Napoli, la Spezia... poi Venezia! Che pena e che stanchezza! — Alza gli occhi al cielo e a mezza strada incontra la caramella del conte D'Entracques. — Oh, se non venisse anche lei, con me! Tutta la forza e il coraggio mi vengono dal pensiero che lei mi sarà sempre vicino... — Sorridono gli occhi languidi. — Voglio sentirlo il piccolo filo invisibile che mi avvolge e ch'ella tiene nelle sue mani per guidarmi... Come il mio Febo e il mio Desir... tesöri!
Il D'Entracques si commove: sente che delle dieresi di quei tesöri, ce n'è anche per lui!
Remigia non ha più voglia, non ha più tempo di pensare, nè alla cattiveria della vecchia contadina, nè alla indelicatezza e... peggio, di sua sorella!
— E poi... che importa? Quelle due arpie non hanno altro che l'uomo, e finchè l'uomo è ammalato. — Lo spirito, la parte eletta, nobile e sana, il ministro, è in mano sua, con tutto il ministero!
Ma alla cattiveria della zia e alla condotta assai irregolare di Maria Grazia, ci pensano anche per Remigia le sue amiche, la marchesa Quanita e la principessa Guendalina.
— È una cosa assolutamente vergognosa!
— È troppo!
Tutte e due, la Della Gancia e la Capodimare si sono assai risentite e offese pel fatto che Giacomo D'Orea, ad onta delle loro premure ed insistenze, non le ha mai volute vedere e perchè Maria non le ha ricevute, non è stata a trovarle e non s'è neanche fatta scusare.
— Ma Fiumicino dov'è... In che parte del mondo? Fra gli ottentotti?
— Come?... Le due amiche più intime di Remigia sono, in certo modo, messe alla porta dal marito non solo, ma anche dalla sorella?
Ci deve essere una ragione per aver tanta smania di non farsi vedere e la ragione c'è... e molto brutta.
— Povera Remigia!
Tutta Roma, la Roma eletta, n'è stupefatta e indignata. Il marchese Pio, addirittura furibondo per la duchessina, per sua moglie, per sua sorella ed anche per sè!
— È una indelicatezza enorme, che aggrava lo scandalo! È una... — Il marchese abbassa la voce, abbassa le palpebre e gonfia le gote pronunziando la parola: — È una in-de-cenza!
— Tanto più che è fatto notorio... — la marchesa Quanita diventa rossa come alla Femme de chez Maxime — è fatto notorio che fra i due cognati esiste una... — Si ferma; non va più innanzi per gastigatezza.
La principessa Guendalina, oltre di essere sconvolta e disgustata è anche inquieta. Ha paura che prolungandosi lo scandalo, — oramai tutta Roma, la Roma vera, non parla d'altro, — suo marito, così severo e inflessibile in fatto della morale pubblica, possa proibirle di mettere i piedi all' Hôtel de Rome. Che dolore sarebbe per Remigia!
Il marchese Pio congiunge le palme in atto compunto. Il Paparigopulos — Ah! Oh! — Chiude gli occhi, apre la bocca. Poi — Oh! Ah! — Chiude la bocca, apre gli occhi: — C'est trop!
Le due signore, naturalmente, prima che con altri, parlano della brutta cosa e si confidano col D'Entracques, così buon amico, e serio, di Remigia. Ma il generale, appunto perchè molto amico di donna Remigia e collega dell'onorevole D'Orea, si tiene in un prudentissimo riserbo. Non sa che dire, non sa che consigliare; si stringe immalinconito nelle spalle. È profondamente addolorato anche per i molti commenti, per le chiacchiere... Non vorrebbe che arrivassero alle orecchie di donna Remigia... Chi sa che colpo per lei così schietta e leale... fino all'ingenuità! Ma quel... Luciano D'Orea, che roba è, propriamente? Toccherebbe a lui a provvedere, e con... energia!
Si scagliano tutti contro don Luciano, più cinico forse che cretino. E si scagliano, adesso, anche contro quella Fanfan.
— Una cagnetta francese non più giovine, imbellettata...
— E col cimurro! — prorompe Guendalina, facendo inarcare le ciglia al Paparigopulos scandalizzato.
Il gran consiglio della morale, sentito i vari pareri e dopo un'animata discussione, ha deciso. Parlarne con Remigia, no, a pieni voti. Sperare in don Luciano, inutile: anima venduta alla cassa forte del fratello. Non c'è che la Moncavallo! Non c'è che la madre!
La Capodimare e la Della Gancia ne parlano al tè delle cinque e mezzo alla duchessa Cristina. S'intende, con ogni delicata cautela, pigliandola da parte, lasciando che indovini tutto ciò che non sarebbe conveniente per loro di dire e per lei d'intendere.
La duchessa Cristina ha la forza di rimanere calma, imperterrita. I suoi occhi severi, hanno un lampo di collera pensando a Maria, poi, pensando all'Idola, si riempiono di lacrime: — Aceto... e fiele! — mormora evocando la passione e i dolori dell'altra madre, quella del Signore, afflitta, come lei, ai piedi della croce. La croce sua è sempre stata Maria Grazia!
Ritorna all'albergo, risoluta di por fine a «quello stato di cose», come ha promesso alle care amiche dell'Idola e anche, sebbene velatamente, a sua Eccellenza D'Entracques e al compitissimo cavalier Paparigopulos. Ma non è altrettanto ben decisa sulla via da prendere.
E Giacomo? Questo è il gran punto interrogativo.
Se Giacomo prendesse la cosa in cattiva parte?
Tutto vero, tutto giusto, bisogna impedire lo scandalo... Ma non bisogna disgustare Giacomo, assolutamente!
— Molini e Mortadella!... Sempre gli stessi scogli; sempre dover dipendere! — La povera madre sospira, pensa... trova, finalmente, una buona scusa per conciliare l'interesse con l'innata fierezza vicereale: — potrebbe vendicarsi con sua moglie, con l'Idola!... No! No! Prudenza... Ma per non correre il pericolo di urtare Giacomo, non bisogna urtare nemmeno Maria... — Alla duchessa viene una buona idea:
— Quella vecchia! Quella contadina!... Bisogna tender l'amo a quella Gioconda. È una... buona cristiana; va tutti i giorni a messa... Non si tratta altro che di ritornare a Fiumicino subito con Maria, per la pace di Remigia, per il decoro della famiglia, e... forse anche, per il più sicuro e rapido miglioramento di Giacomo stesso. Il male... vien dal male! Questo si sa!
Passeggia su e giù nel corridoio, aspettando che la vecchietta esca dalle sue stanze per entrare da Giacomo.
— Eccola!...
In fatti la zia Gioconda si presenta in fondo al corridoio sferruzzando.
Le va incontro, le dà la mano, sorride. Sorride anche la piccola vecchietta, ma fissa l'imponente viceregina con una certa maraviglia interrogativa negli occhi. Il tremolio del capo si fa più forte.
— Come sta Giacomo?... Sempre bene?... Cioè, sempre... regolarmente?
La vecchia non risponde: continua a dondolare il capo.
La duchessa Cristina diventa ancora più grave e più regale.
— Vorrei esprimerle un pensiero mio e un'inquietudine mia, signora D'Orea. Passiamo un momentino nel salotto?
La zia Gioconda acconsente. La duchessa vorrebbe farla passare avanti, la vecchierella non vuole e le tien dietro badando ad evitare lo strascico.
Appena si trovano sole, la duchessa fa sedere la signora D'Orea sul canapè, siede lei stessa sopra una poltrona vicina e va subito, direttamente, allo scopo, quasi con l'aria di fare un processo e ormai sicura d'incutere una grande soggezione alla vecchietta.
— Ella sa, cara signora, che il male non è soltanto quello che si fa, ma anche quello che si lascia credere. Anche le apparenze del male sono un gran male, specialmente per chi è portato dalla propria condizione... elevatissima... a servire di esempio agli altri. Chi attira sopra di sè gli sguardi di tutto il mondo, ha il dovere di mostrarsi a questo mondo in uno stato... di cose... sempre irreprensibile.
La signora D'Orea non risponde; conta le maglie del giubboncino.
— Ella che è buona e devota cristiana, come me, ricorda certo le parole di nostro Signore a proposito di chi... dà... — Bisogna dirla la parola, perchè la vecchia non si scuote. — Di chi dà... scandalo. — Ancora silenzio. La signora D'Orea ricomincia in fretta, — tic e tic e tic — a lavorare di maglia.
— Lei... conosce, o avrà sentito parlare della marchesa Della Gancia e della principessa Capodimare?
— No. Mai.
La duchessa, vista la tranquillità della signora Gioconda, comincia lei a sconcertarsi.
— Ebbene, deve sapere che sono le due amiche migliori di Remigia... e mie.
Nemmeno una tale notizia produce impressione.
— Parlo anche a nome di queste due signore, di queste due nostre amiche intime e care, quando io, come madre, onde evitare scene... certo più gravi e spiacevoli, prego lei, la supplico... — La duchessa si ferma un momento, leva il fazzoletto dalla borsettina di velluto scintillante di lustrini, e se le preme leggermente per via della cipria, sulle labbra e sugli occhi: — Oh, lo strazio di una povera madre! Del cuore di una povera madre!... Mi comprenda, signora D'Orea, lei che ha tanto... senno! Lei che è giustamente così stimata ed apprezzata! Mi comprenda e non mi obblighi a dire di più. La prego, la supplico. Io non voglio, non posso dirle altro che questo: ritorni a Fiumicino subito con Maria.
Le mani della vecchia si fermano e anche il capo. Ella guarda la duchessa negli occhi.
— Lasciando qui Giacomo... solo?
— Come, solo? — ribatte la duchessa vivamente. — E sua moglie?... E tutti noi?
La vecchia tira dal gomitolo, a due lente riprese, un lungo tratto di lana, riabbassa il capo e ricomincia a lavorare di maglia: tic e tic e tic.
Allora la duchessa abbandona le perifrasi e le fa un lungo discorso. Le parla del mondo, dei grandi riguardi, dei grandi doveri, del nome sempre illibato dei Moncavallo, dell'invidia maligna dei piccoli verso i grandi, della calunnia della quale rimane sempre qualche cosa, delle nobili virtù dell'abnegazione, dell'eroismo dei grandi sacrifici, della moglie di Cesare, del candore dell'ermellino, dello specchio, che il più leggero fiato basta ad appannare, dell'ostinazione, dell'imprudenza, della... straordinaria leggerezza di Maria Grazia, della sua vita, tutta dedita al bene delle sue figliuole... e dell'aceto e del fiele di cui fu abbeverata.
La vecchina, sempre crollando il capo, sempre tic e tic e tic sferruzzando con la sua maglia di lana, continua a lasciarla parlare, a lasciarla sfogare, senza mai proferire una parola. Finalmente, quando la duchessa tace, posa il lavoro e le mani sulle ginocchia, si rizza a sedere e la guarda fissa: il capo non trema più.
— Sa lei... che sua figlia Maria è ammalata, forse anche più di Giacomo?
La duchessa s'indispettisce: dà un'alzata di spalle.
— Ma che! Esagerazioni!... Nervi! Un po' di mancanza di sangue. Del resto, se sta poco bene, ragione di più. Aria buona, al fresco, e curarsi subito!
La zia Gioconda si alza.
— A tranquillare i timori e a dissipare gli scrupoli suoi, di sua figlia Remigia e delle loro amiche, devono bastare i miei capelli... che se non sono ancora del tutto bianchi è perchè, ormai, non lo diventeranno più! — La vecchia ride. Nè l'imponenza vicereale della sua arcigna interlocutrice, nè il rimpinzato predicozzo in pro della morale, le mettono soggezione. — Ottant'anni, signora, ottant'anni proprio sonati!... Non le pare? Nel nostro caso presente sono una bella garanzia!
— Ma... il mondo è così cattivo...
— Il mondo è cattivissimo! Più di quello che si crede perchè... perchè anche ognuno di noi, certe volte, è molto più cattivo di quello che crede o non crede di esserlo!
La duchessa si volta sorpresa sulla poltrona, con un piccolo balzo. — Sta a vedere che quella... contadina, reduce dai molini e dalla mortadella, vuol tirarle delle frecciate?
La signora Gioconda continua sempre sorridendo, sempre pacatamente:
— Vuole che le racconti un fatto curiosissimo?... Io sono arrivata alle vicinanze del secolo, senza aver visto l'amore, proprio in faccia. Corpo e anima, io sono ancora una ragazza da marito... completamente! — Un'altra risatina, poi la vecchierella diventa a mano a mano seria e grave. — Miracolo! Un miracolo della divina Provvidenza!... — Sì; vero miracolo e vera Provvidenza! Perchè di amore, cara signora duchessa, lei non lo sa, come non l'ho mai saputo nemmeno io... ma di amore, si può proprio morire! Mi creda; non sono fantasie, poesie! È un fatto vero; lo vedo, in questi giorni, con i miei occhi: si muore, d'amore!
La voce della vecchia ha un tremito improvviso; la sua faccia rugosa diventa bianca, smorta, come di cera. La duchessa si alza; si alza subito anche la signora Gioconda avvoltolando il giubboncino di lana mezzo fatto e cacciandoselo sotto il braccio. Ella, ergendosi diritta, fissa la sua maestosa e minacciosa avversaria con fermezza e con sicurezza. Non sembra più nemmeno tanto piccolina!
— Lei, signora duchessa, ha parlato degnamente del decoro, del casato, dell'illustre e illibato nome dei Moncavallo. Io le rispondo, semplicemente, che tutte le donne della nostra famiglia, sono state donne oneste. Delle sue due figlie, entrate in casa nostra, io non conosco, da poter giudicare con convinzione, altro che Maria. Ebbene, io sono contenta, anzi sono fiera che sua figlia Maria porti il nostro nome. Dica questo soltanto per conto mio, e deve bastare e basterà, per tranquillare i timori, per dissipare gli scrupoli dell'altra sua figlia Remigia... e di tutte le loro amiche!
La vecchia scrollando il capo e ritornando, tic e tic e tic, a far la maglia, si avvia per uscire.
La duchessa è furente.
— Ma lei?... Ma come?... Non andrà via così senza dir altro?...
— Nient'altro. No! — Anche la vecchietta alza un po' la voce. — Che vuole?... Che le direi... se noi due non ci capiremo mai? Siamo fatte di una pasta troppo diversa! Non potremo mai... stare insieme!... Parole e parole, tante parole, e poi? — Sarebbe da mia parte fiato sprecato, e dalla sua, pazienza sprecata! Siamo agli antipodi... e ci dobbiamo restare. Lei, signora, ed è naturale, vede tutte le cose dall'alto... Io, venuta su da piccola gente, è altrettanto naturale che le veda, invece, terra terra... proprio come sono. Lei comprende, della vita, la nobiltà, la grandiosità e la sublimità... Io comprendo e intendo, perchè, così giù come sono, lo vedo e lo tocco con mano... il dolore. No! No! No! Lei è lei, io... sono io! Tutt'altra cosa! Persino la religione! Siamo tutte e due cristiane e cattoliche, eppure, vediamo un Dio assai differente: il suo fulmina; il mio perdona, e, di conseguenza, anche la nostra morale è diversa. Io vado a messa tutti i giorni, eppure non credo di far peccato, lasciando a quei due poveri esseri, che muoiono per aversi voluto bene, e che si sono incontrati in questa affezione colpevole perchè forse le altre lecite e alle quali avevano diritto, sono loro mancate, il conforto di vedersi in questi ultimi momenti. Intende, non è vero, lei, madre, le mie parole? — In questi ultimi momenti!
La duchessa, non commossa, perchè non si è mai lasciata commuovere da nessuna esagerazione, ma colpita, offesa dall'audacia di quella... signora D'Orea, vuol rispondere e terribilmente, ma non trova le parole. Fa per mettersi tra l'uscio e la vecchietta; questa torna a sorridere pacatamente:
— Vado di là. Mi lasci andare, signora duchessa, a far la sentinella a que' due poveretti. E, dove ci sono io, non abbiano paura di niente, nè per lo scandalo, nè per la morale, nè lei, nè l'altra sua figlia Remigia e nemmeno le loro amiche più care!
XVII.
Don Luciano è stato subito informato da Cincino D'Ermoli dell'arrivo a Roma della vecchia D'Orea, con quella perla... nera e funebre di sua moglie.
— Ah! Ah! La zia bigotta che regge il lume!
Prima un ghignetto, poi si stringe nelle spalle.
— Non è il caso di essere geloso. — Che! Paolo è accidentato e Francesca non è più che un'ombra con gli occhi!
Per certe viste, non dispiace anzi a don Luciano, l'arrivo di sua moglie, presso suo fratello il ministro. Tutt'altro! Socialista in politica, nelle finalità lontane, sta benone! Ma al presente, in pratica, fra gli impresari, gli agenti e... il resto, bisogna essere soprattutto il fratello... di suo fratello! Don Luciano D'Orea è passato, per ciò, naturalmente, dal partito che dichiara «il povero D'Orea già spedito» a quello che annunzia «l'alacre e illustre uomo in piena convalescenza».
E... non più disprezzo per quel taccagno, senza talento! Esprimere, invece, ammirazione e affezione. Ciò è in urto col suo carattere franco, leale, e indipendente... dalla gratitudine e anche dal galateo; ma... ma come si fa? Bisogna rassegnarsi!
«Vuolsi così colà, dove si puote». Così vuole, Fanfan!
In seguito allo strepitoso successo della Manon, si sta preparando al Costanzi un altro grande avvenimento artistico: la Fedora, protagonista la signorina Trécoeur. E anche Fanfan, per via delle vie, fa la ministressa a sua volta, accettando suppliche, promettendo favori e lasciando sperare al direttore d'orchestra un joli ruban rouge et blanc.
Poi... la Scala. Vincere la maledetta camorra, alta e bassa, della Scala!... Quel pubblico perfido e infame!... Bisogna assolutamente che monsieur D'Oreà resti al potere e che don Luciano si mantenga, con lui, in ottimi rapporti, finchè lei non ha trionfato completamente anche alla Scala!
Fanfan Trécoeur, a tutti gli amici e agli ammiratori che la visitano in casa e in camerino, dà sempre, con l'imperturbabile sicurezza di un qualunque signor Zaccarella, ottime notizie e particolari informazioni sulla salute di monsieur D'Oreà.
— Oh, sua moglie, la Remigia, è contentissima! Aux Anges! Aveva tanta paura di dover rinunziare alle feste di Napoli, della Spezia e di Venezia! Si troverà a Roma, per altro, certamente, per la grande première della Fedora!... Ieri, sono arrivati gli altri parenti di Fiumicino per vedere monsieur D'Oreà ristabilito e rallegrarsi con lui! La vecchia zia ricchissima, e la cognata molto bella, Maria Grazia...
Fanfan chiama sempre Luciano, don Luciano, per tenerlo a debita distanza, ma usa di chiamare assai confidenzialmente, col solo nome di battesimo, tutte le signore D'Oreà — non sa ancora pronunziare D'Orea — e Moncavallo. Ella si dà l'aria d'essere della famiglia e assicura i suoi amici che sta facendo la predica a don Luciano, per fargli mettere giudizio; per indurlo ad essere più amabile e più... buon marito.
— Voglio restituirlo a sua moglie assai migliorato!
Ella dichiara, per conseguenza, che i loro rapporti sono ristretti, oramai, ad una pura ideale amicizia. Quando si tratta della voce, non si scherza!
Del resto, lui, don Luciano, innamoratissimo oggi come ieri, sempre furiosamente. Ma lei? Fanfan?... Giammai! Con don Luciano D'Oreà, non ci ha mai messo del suo.
Ci tiene questo a ripeterlo a tutti, a dichiararlo a tutti, amici, giornalisti, compagni d'arte: al maestro, all'impresario e ai porta-ceste.
— Ah, no, cari miei! Anche in passato, nei pochi momenti, e molto insulsi, in cui era costretta... — sempre vite! vite! — ad immolarmi... Del mio?... Giammai! Glacé à la napolitaine! Io sono sempre stata troppo fiera! Il mio carattere si ribella! Impossibile! Non ho mai potuto amare l'uomo al quale devo delle obbligazioni! I cani soltanto, possono amare il padrone! Io, grazie a Dio, sono un'artista! Il mio amore è libero e disinteressato!... Tutto per niente!
Anche don Luciano stesso è ben convinto, che... con la voce non si scherza! Anzi, è lui che ha più paura e maggiori riguardi. Guai, se la Fedora non fosse stata un altro grande successo!
Pagava cari gli applausi, ma sapeva, per prova, che avrebbe dovuto pagare assai più cari i fischi!
— Con la voce di Fanfan... Ma anche con Fanfan non si scherza!
In que' giorni don Luciano ha un gran da fare a preparare il successo. Lavorare il pubblico, lavorare la stampa. Inviti a colazione, a pranzo, gite in automobile, mettere a profitto amicizie, aderenze, influenze; essere più che mai il fratello... di suo fratello il ministro dei Lavori Pubblici.
Che vitaccia, povero don Luciano! Spendere, indebitarsi, finire di rovinarsi... pazienza; umiliarsi, pazienza... Ma non bastava più telegrafare; bisognava scrivere lettere...
Sicuro! Don Luciano, per il successo di Fedora, si rassegnava a scrivere alle agenzie, ai direttori dei giornali artistici, ai direttori dei teatri... E con tutto ciò, a sentire Fanfan, in que' giorni pure assai nervosa, sempre per via della Fedora, lui non faceva mai niente di bene, non sapeva muoversi, non sapeva montare la macchina. Era debole, era fiacco, era avaro; per farlo correre, lo colpiva con la solita sferzata:
— Oh, mister Kennet! Quello sì, è un uomo!
C'era uno scenario un po' misero? — Mister Kennet, non avrebbe mai permesso un orrore simile! — Il vestiarista, era in ritardo? — Oh, con mister Kennet, a quest'ora, sarebbe tutto pronto! Con voi, caro mio, si arriva sempre tardi perchè — altro che automobile! — l'omnibus! I mezzi di trasporto più economici!
Don Luciano sapeva che a Roma si faceva già il nome del miliardario americano come suo associato nelle spese, ed era questo il suo spasimo, la sua ossessione. Gli veniva oscurata tutta la gloria... di rovinarsi solo per la Trécoeur!
— E mia moglie?... — pensa in que' momenti di angoscia, di rabbia, di gelosia. — Non è tempo che la mia signora moglie ritorni a Fiumicino?
Ma sopraggiunge una notizia che fa quasi svenire Fanfan dalla gioia e che raddoppia le pene di Luciano, non lasciandogli più tempo di pensare ad altro.
— Il maestro Coccardè, ha risposto — Oui: j'irai te voir! — Ha accettato di venire a Roma da Parigi per assistere alle ultime prove e alla prima rappresentazione della Fedora.
— Subito! Subito! Al Grand Hôtel! Il miglior appartamento! E il suo Champagne! Non soltanto, la marca, anche l'annata!
Non beve altro: se non c'è il suo champagne con la marca preferita e l'annata migliore, il maestro Coccardè, a Roma, arrischia di morir di sete!
Don Luciano, quando arriva il maestro, deve andarlo a prendere alla stazione per condurlo direttamente a teatro, dove Fanfan ha la prova. Niente automobile. Il maestro Coccardè li abborre: fetore e sudiciume. Bisogna andare in landò, e in landò chiuso in un giorno in cui si scoppia dal caldo. Il maestro Coccardè ha sempre freddo, è assai delicato di gola e porta con sè una certa tossettina seccherella che deve aver preso dalla Violetta della Traviata e che cura, come tutto il resto, a Champagne.
Il maestro arriva col vagone pieno di scialli, di sporte, di bottiglie, di scatole, di valige e di valigette. Non bastano due facchini: anche don Luciano deve caricarsi di una cesta piena di commestibili e di una pelliccia. Il maestro Coccardè ha il cappello a cilindro, un foulard rosso al collo e il paltò. Saluta appena, con mal garbo, il signor D'Orea che abborre quanto i suoi automobili, perchè non è abbastanza signore, perchè è uno spilorcio, perchè non ha orecchio e forse, perchè anche nell'animo del maestro c'è lo stesso sentimento, come in quello di Fanfan, di fierezza indipendente.
In carrozza, nel tragitto dalla stazione al teatro Costanzi, poche parole e non un ringraziamento. Ma sul palco-scenico l'incontro del maestro con Fanfan è commovente: l'abbraccia, la bacia, si scosta, l'ammira: — Tenez, la voilà! — Torna a baciarla e ad abbracciarla. Poi le partecipa la grande notizia.
— Sai, Fanfan?... Sarà qui, indubbiamente, verrà per la prima della Fedora, per il tuo nuovo, strepitoso trionfo... Indovina?
— Chi?... — Fanfan ha già capito ed anche Luciano, che diventa verde.
Il maestro Coccardè, si leva la tuba e si toglie dal collo il fazzoletto di foulard per dare la lieta notizia con più enfasi e con tutte le sue poche, ma belle note superstiti:
— Il mio amico, il tuo amico, il nostro carissimo mister Kennet! Ha già fissato l'appartamento all' Hôtel Bristol!
A Luciano si annebbia la vista. È furibondo, si sfoga contro lo scenografo e con i coristi, una massa di cani! Poi tace, si rode, s'imbroncia, seduto in un angolo del palcoscenico, finchè Fanfan lo manda via perchè con quel muso dinanzi, è impossibile!... Non può provare!
— Tutte così, le donne!... Tutte così!... Ma soltanto con me! È il mio destino infame!
Continua a bestemmiare e a brontolare per un pezzo. Poi gli viene un'idea: salta in una carrozzella e si fa condurre all' Hôtel de Rome.
— Andiamo a sentire da quella mia cara signora moglie quando fa conto di ritornare a Fiumicino!
La botte, con un alto ronzino giallo, sfiancato, scende mezzo al galoppo e mezzo al trotto da via Nazionale.
Il pomeriggio è caldissimo. Roma sembra sonnecchiante, prostrata sotto il solleone, che dardeggia fiamme infocate sui graniti delle vie e sui marmi dei palazzi, chiusi e muti. Piazza Colonna è quasi deserta, il Corso spopolato. Il cavallone giallo, scosso da un'improvvisa furia di frustate, ripiglia il galoppo a sbalzi, schioccando i ferri. Luciano, mezzo sconquassato, salta a terra appena in vista dell'albergo di Roma. Fa a piedi l'ultimo tratto, ed entra:
— Che c'è?... Ch'è successo?
Appena sotto il vestibolo è rimasto colpito da un'animazione insolita a quell'ora, in cui non ci sono nè arrivi, nè partenze... Un via vai di gente affrettata, inquieta...
— Che c'è?... Ch'è successo?
Il direttore dell'albergo scende in quel punto precipitosamente dallo scalone, tutto rosso, trafelato, turbato. Ha lo stiffelius e il panciotto sbottonati, e ha in una mano alcuni foglietti; ricette, evidentemente.
— Che c'è?... Ch'è successo?... Forse, Sua Eccellenza?...
L'altro non lo riconosce nella confusione del momento e non gli risponde. Chiama i due fattorini dell'ascensore, e consegna all'uno e all'altro i vari foglietti, raccomandando di far presto, ripetendo il nome della farmacia più vicina, ripetendo le parole etere... ossigeno...
Luciano non ha più dubbio. Suo fratello ha avuto un altro colpo. Corre per andar di sopra, dà una spinta, butta in là un cameriere che incontra, ma quando sta infilando lo scalone, sente parlare concitatamente nel camerino imbottito del telefono. Si ferma, ascolta... Riconosce la voce. Apre l'uscio di colpo, chiamando, gridando forte:
— Signor Zaccarella!
Il signor Zaccarella si volta: è pallido, sfigurato.
— Che c'è? Ch'è successo?... Giacomo... è di nuovo aggravato?
Il signor Zaccarella rimane muto un istante... Lo guarda fisso, volge intorno un'occhiata circospetta, poi gli si avvicina, tenendo sempre nella mano il comunicatore e gli sussurra piano all'orecchio:
— È spirato or ora. Ma silenzio, con tutti. Prima di dare la notizia bisogna aspettare le istruzioni di Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio!
XVIII.
La salma dell'onorevole D'Orea, di Sua Eccellenza il ministro dei Lavori Pubblici, è stata esposta in una sala del primo piano, trasformata in cappella ardente.
L'addobbo, in drappo nero e fregi d'argento, è sfarzoso, pesante: in fondo, contro la parete di fronte all'ingresso, il letto piccolo e molto semplice, nel quale Giacomo aveva sempre dormito ed è morto. A' piè del letto, in due enormi candelabri d'argento massiccio, ardono quadruplici ceri istoriati e dietro il letto, sul fondo nero della parete a gramaglia, si apre come un'aureola verde, un grande trofeo di fronde di palme e d'altre piante. Il cadavere giace disteso rigido sulla coltre bianca, la testa alquanto eretta, sopra due guanciali.
Veste l'uniforme rabescata di ministro, il petto costellato di decorazioni, attraversato dalla fascia verde di grande uffiziale; al collo, le varie commende. Tutte queste insegne appartengono al generale D'Entracques che le ha offerte per la circostanza. Giacomo, non ne ha mai posseduta una. Nelle mani in croce sul petto, un umile e vecchio rosario che mette la sua parola di dolore sincero e di benedizione, nella pompa volgare e profana del lutto ufficiale. Pure sulle coltri, una semplice rosa: nessun altro fiore nella camera.
Di Giacomo D'Orea morto, nessuno avrebbe potuto dire la solita frase banale: sembra che dorma! — No, Giacomo D'Orea è morto e apparisce morto nella pietrificazione repentina del corpo, nel disfacimento squallido del volto, in qualche cosa di torbido e d'inquieto, che i dolori e le intime lotte hanno impresso su quel volto scarnito.
Nell'antisala, divisa da una sola parete da quella camera dove tutto è silenzio, pace, riposo, ferve un brulichio sommesso, ma incessante, concitato, una repressa intensità di vita... determinata dalla morte. È l'ufficio del lutto nazionale, espresso nei giornali di tutte le città e di tutte le regioni, nei telegrammi, che dopo quello di Sua Maestà il Re, continuano ad affluire a fasci, ed anche delle visite per le quali donna Remigia D'Orea, inconsolabile, ma ammirabile per fortezza d'animo, ha tacitamente iniziato, guidata dai consigli del D'Entracques, un cerimoniale proprio, abilissimo. Assai elegante, ella sembra più grande e fatta più donna dall'abbigliamento semplice di pizzo nero. È circondata dalla madre, la duchessa Cristina e dal principe di Sant'Enodio, creati e messi al mondo apposta, per una così solenne cerimonia. Mimì Carfo, spettinata, mal vestita di nero, col viso smorto, disfatto dalla stanchezza e dalle lacrime, eseguisce come un automa tutti gli ordini che riceve sottovoce, da Remigia e dal D'Entracques.
Donna Remigia, oltre ad essere «ammirabile per fortezza d'animo» è ammirabile pure «per la sua forza di resistenza». Ella, attenta, vigila su tutto, risponde a tutti. Non ha più alcun bisogno nè di cibo, nè di sonno. Rimane al suo posto sicura, facendo sempre prevalere la sua volontà, — che è poi quella del D'Entracques, — in ogni cura, in ogni particolare, in ogni rapporto determinato dalla disgrazia.
Sulla soglia d'accesso, il signor Zaccarella ritira i telegrammi da un usciere del Ministero: un impiegato di gabinetto li apre, li porge a donna Remigia che li scorre rapidamente e ne trattiene uno o due su dieci, i più importanti, che fa leggere anche al D'Entracques. Tutti gli altri, i telegrammi consueti dei sindaci, delle deputazioni provinciali, dei Circoli, delle Associazioni vengono distribuiti a due altri impiegati che, seduti ad un gran tavolo sotto la finestra, lavorano febbrilmente a farne lo spoglio per i comunicati al Ministero e alla Stefani.
La duchessa è in ammirazione dell'Idola, ma è anche inquieta:
— Tanta forza d'animo, tanta forza di resistenza, un coraggio tanto ammirabile, non finiranno poi per abbattere la sua fibra così gracile e delicata?
La duchessa Cristina comunica i suoi dubbi, le sue pene al generale D'Entracques che cerca di tranquillarla, pur non essendo egli stesso del tutto tranquillo, tanto che sovente ripete a Remigia, sottovoce:
— Non abusi... di lei stessa...
Ella lo guarda, si passa il fazzoletto su gli occhi e sospira:
— Povero Giacomo!
Poi si volta al signor Zaccarella che le mostra il brano di un giornale in cui è meglio rilevato «lo spettacolo ammirabile, di fermezza, di coraggio, di abnegazione, offerto dalla giovine vedova del ministro, nel lutto improvviso, nel grande dolore che l'ha così fieramente colpita».
Il treno corre via rapidissimo per la campagna romana grave d'afa e d'immobilità, chiara e triste nell'albore diffuso della luna che declina. Tutti i vetri sono calati, eppure non un lieve respiro di brezza tempera la notte arsa. E va il treno attraverso il paesaggio pallido, smorto, tra il sonno malinconico delle alberelle disperse, e la gran veglia spettrale degli acquedotti romani... Da lontano, a intervalli, lustrano, come lamine d'acciaio fuso, sprazzi di mare.
Le due signore, la zia Gioconda e Maria, sole nello scompartimento, sedute l'una in faccia all'altra, pare che evitino studiosamente d'incontrarsi con gli occhi. Ma la vecchia, talora, come riscotendosi da un'assenza del pensiero, si sorprende con lo sguardo sulla giovine. Allora un sorriso scialbo le si abbozza sul volto, poi ancora si volge a contemplare la campagna che fugge, che fugge in tristezza infinita. Un fischio lungo spezza l'aria; la vecchia curva e macera ne rabbrividisce. Ella guarda Maria... tutto il pallore della luna sembra morirle sul viso sbianco attraversato da una riga di capelli, lunga e nera, come una ferita. La vede sussultare nelle spalle così pietosa, così vinta; stende le mani secche e tremanti, stringe, stringe forte la mano di lei e le sussurra:
— Come ti senti?
Maria non la guarda; ha gli occhi fissi nel vuoto. Risponde con la voce che si spegne:
— Male...
Fine.
Opere di Gerolamo Rovetta
Romanzi e Racconti:
- Mater Dolorosa , romanzo.
- Il tenente del Lancieri , romanzo.
- L'Idolo , romanzo.
- Baby , romanzo.
- Ninnoli , racconti.
- Il processo Montegù , romanzo.
- Le lacrime del prossimo , romanzo.
- Sott'acqua , romanzo.
- Il primo amante , romanzo.
- Tiranni minimi , racconti.
- La Baraonda , romanzo.
- La Signorina , romanzo.
- Novelle.
- Casta Diva , novelle.
- La moglie di Sua Eccellenza , romanzo.
Teatro:
- Un volo dal nido , commedia in tre atti.
- La moglie di Don Giovanni , dramma in quattro atti.
- In sogno , commedia in quattro atti.
- Gli uomini pratici , commedia in tre atti.
- Scellerata!.... commedia in un atto.
- Collera cieca! , commedia in due atti
- La contessa Maria , dramma in quattro atti.
- La trilogia di Dorina , commedia in tre atti.
- I Barbarò , commedia in un prologo e quattro atti.
- Marco Spada , commedia in quattro atti.
- La cameriera nova , comm. in due atti, in dialetto veneziano.
- Alla Città di Roma , commedia in due atti.
- La Realtà , dramma in tre atti.
- Madame Fanny , commedia in tre atti.
- Principio di Secolo , dramma in quattro atti.
- I disonesti , dramma in tre atti.
- Il ramo di ulivo , commedia in tre atti.
- Il Poeta , commedia in tre atti.
- Le due coscienze , commedia in tre atti.
- La moglie giovane , commedia in quattro atti.
- A rovescio! , commedia in un atto.
- Romanticismo , dramma in quattro atti.
- La Baraonda , dramma in cinque atti.