G. ROVETTA
NINNOLI
Storiella vecchia Era matto o aveva fame?… Cavalleria assassina Scellerata!… Quintino e Marco
Terza Edizione
1.° Migliaio
ROMA CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C. Via dell'Umiltà
1884
PROPRIETÀ LETTERARIA
901—Firenze, Tip. dell'Arte della Stampa.
Al mio carissimo Amico
GIUSEPPE FRACCAROLI
STORIELLA VECCHIA
Se Domenico Ghegola non fu un eroe, la colpa certo non è stata sua, ma del coraggio che sempre gli venne meno in tutte le circostanze della vita.
Vi è, non è vero? un certo coraggio sui generis, così detto della paura, il quale, alle volte, spinge anche i timidi a compiere prodigi di valore…. Ebbene, lo credereste?… Domenico Ghegola non ebbe mai neppure il coraggio della paura.
Tuttavia, però, non bisogna credere che, di tanto in tanto, non se la sentisse anche Menico, così tra carne e pelle, la fregola di essere o almeno di parere un ammazzasette; ed anzi, si può dire di più, che, per diventare un eroe, o soltanto un di quei buli capaci di tener la gente in soggezione, egli avrebbe fatto di tutto; tranne, s'intende, di mettere in pericolo una goccia del suo sangue, o un'ora della sua vita.
Egli non discorreva che di scherma, di duelli, di fucili e di cannoni. Passava l'intera giornata in sala d'armi; e nel cortile di casa s'era fatto costruire un bersaglio per divertirsi nel dopo pranzo. Le sue stanze erano tappezzate di sciabole, di spade, di pugnali e di stocchi di ogni forma e di ogni tempo, dalle scimitarre ricurve alla turca, agli spadini flessibili delle Eccellenze veneziane. I quadri ricordavano qualche battaglia fra le più sanguinose della storia; nella sua camera, inchiodato forte sul muro, accanto al letto, teneva un guancialino di pelle, sul quale, per esercitarsi il pugno, tirava lesto lesto varii colpi di fioretto ogni mattina appena alzato, e ogni sera prima di coricarsi. I ferma-porte rappresentavano degli zuavi col muso nero come il carbone, delle armature antiche e dei cannoni…. di legno. La sua biblioteca conteneva i migliori trattati di scherma e i codici più autorevoli della cavalleria; gli unici versi ch'egli sapesse a memoria eran quelli del Tasso, quando descrive il duello di Tancredi con Argante.
***
Tutti i giorni, durante la guerra del 59, perchè la nostra è una storiella vecchia, egli, a sentirlo dire, voleva passare il confine, emigrare in Lombardia, correre in Piemonte, entrare nell'esercito, arruolarsi con Garibaldi…. e invece restava sempre fermo al di qua del Garda, non decidendosi mai al salto del Rubicone, brontolando con le sue amiche contro il Comitato segreto, che non sapeva cogliere il momento buono per farlo scappar via. Però, siccome egli tirava innanzi colle chiacchiere, i suoi amici a poco a poco cominciarono a non salutarlo e a non guardarlo più in faccia; le signore gli mandavano a casa, per deriderlo, dei soldatini di piombo e delle spaducce di legno, i monelli scrivevano il suo nome su per i muri, accompagnandolo con degli aggettivi pochissimo lusinghieri; e Domenico Ghegola, per paura di prendersi, una sera o l'altra, anche un paio di scapaccioni, a buon conto preparò le valigie, poi, appena firmata la pace di Villafranca, passò il confine col diretto, chiuso, tutto solo, in un coupé di prima classe, e andò difilato fino a Brescia, dove prese un quartierino in affitto e si fermò in esilio.
A Brescia ci si trovò subito e molto bene. Egli faceva sempre vita in mezzo agli ufficiali; andava con loro al caffè, al teatro, e al passeggio sul corso di Torre Lunga, Dava loro delle lezioni sul modo di battersi, di tirare, di stare a cavallo, e guardava i borghesi dall'alto al basso. Ma però, dopo qualche settimana, i suoi nuovi amici, vedendo ch'egli lasciava passare il tempo senza far nulla, lo consigliarono apertamente di arruolarsi in un reggimento per essere pronto al bisogno. Ghegola finse, in sulle prime, di accomodarsi volentieri a quel buon consiglio e di esitare soltanto nella scelta fra la cavalleria e i bersaglieri; ma poi, visto che ogni bel giuoco, anche quello del tentenna, non può durare un pezzo, allora, cominciò a rallentare la sua intrinsichezza cogli ufficiali, finchè uscì in certe proposizioni che lo fecero mettere al bando dell'esercito, tanto di quello a piedi che a cavallo.
***
Ghegola era malcontento di Cavour, di Vittorio Emanuele e di Napoleone…. il piccolo!—Egli aveva dei grandi ideali, delle forti aspirazioni: le monarchie erano tutte compagne e avevano fatto il loro tempo; Ghegola non sarebbe mai, ad ogni costo, il soldato di un re. Peuh!… E agli avventori del Caffè del Duomo, dov'egli adesso consumava il suo tempo, sdottoreggiando di politica, ripeteva sempre, a proposito e a sproposito dei re, e senza mai stancarsi, il noto epigramma
Che cosa è re?… Di reo due terzi egli è, Anzi, per dire il vero, La differenza è zero!
Occorrendo, per l'indipendenza del paese e per una volta tanto, avrebbe fatto un sacrificio alle proprie convinzioni e si sarebbe arruolato con Garibaldi; il quale, appunto in quei giorni, aveva sciolta la sua legione. Ma quando, pochi mesi dopo, Garibaldi richiamò la gioventù italiana sotto le armi per la campagna delle Due Sicilie, il nostro esule rimase a Brescia scandalizzato e molto malcontento anche di Garibaldi, perchè, lo diceva Ghegola al Caffè del Duomo, cominciava a compromettere la causa. Il Duce dei Mille aveva cantato con un tono troppo alto Italia e Vittorio Emanuele; l'equivoco non poteva più essere mantenuto, era un caso di coscienza bello e buono: e Ghegola, che avrebbe sdilinquito per Casa Savoia se si fosse trattato di porre a rischio la pelle per la repubblica, questa volta si mostrò un repubblicano intransigente per non esporre la pancia in servizio della monarchia.
Con questo suo modo di agire, non occorre dirlo, in poco tempo egli s'era fatto prendere in uggia da tutti indistintamente, monarchici e repubblicani; ma ancora più degli altri ne avean piene le tasche i suoi stessi compaesani, i veneti, i quali dubitavano, e a torto, di poter sfigurare, perchè fra i tanti giovani animosi, coi quali aveano ingrossate le fila dell'esercito e dei volontari, era capitato pure dalle loro parti anche quel tanghero unto e bisunto di pomate e di profumi, colle gambe lunghe lunghe, la faccia bianca bianca, i capelli di stoppa, la barbettina rada…. e il cuor di coniglio.
Lo deridevano, lo prendevano in giro, lo tormentavano in mille modi. Ma Ghegola, di rimando, faceva l'incompreso, l'uomo superiore al pubblico flagello, e solamente quando la discussione si accendeva, ed egli, messo proprio fra l'uscio e il muro, non sapeva più che rispondere, allora tirava fuori i suoi paroloni da smargiasso e le sue arie da ammazzasette. In fondo in fondo però non gli dispiaceva punto di essere quasi sempre il centro delle conversazioni politiche del Caffè del Duomo; e questo passatempo, unito alla saccoccia rigonfia e ai conforti di una sartorella sana, fresca e sui diciott'anni, faceva sì ch'egli trovasse la vita abbastanza sopportabile, anche in terra d'esilio.
Ghita, si chiamava così la sartorella, era una buona ragazza, e cominciò a volergli bene perchè Menico le fece credere di essere un cospiratore travestito, uno di quelli, tal e quale, come se ne vedono nell' Ernani. Co' suoi paroloni le intronava la testa, e la poveretta non ne capiva un'acca, ma sbarrava tanto d'occhi quando sentiva il suo innamorato vantarsi di essere un martire dell'idea, un eroe dell'ombra, l' avanguardia del pensiero. Ghegola, il birbaccione, abusava della sua influenza; colla Ghita faceva lo spaccamonti più che non lo facesse cogli altri. Assumeva un'aria terribile, un cipiglio da tiranno, e la spaventava in mille guise, qualche volta allungandole anche certe carezze che pesavano un po' troppo. Era sempre la Ghita, in fin dei conti, che doveva scontare le canzonature inflitte al suo Menico dagli avventori del Caffè del Duomo.
***
Però, tutte queste fortune e la bella vita che menava, furono presto intorbidite per quel suo viziaccio di parlar sempre ad alta voce e in modo che, quando c'era lui, si sapeva subito, da un punto all'altro del caffè. Aveva una vocina sottile, ma rompeva i timpani come un campanello. Per di più, pranzava di solito alla Fenice, dove c'era un vinetto di Gussago limpido come un rubino, che si faceva bere anche quando la sete era finita da un pezzo. Si capisce dunque come Ghegola, tutt'altro che resistente alle seduzioni, fosse il dopo pranzo alticcio anzi che no, e ci vedesse di sera ancor più rosso che alla mattina. E fu di sera appunto, sorbendo il moka, quella volta che cominciò a tirarne giù, senza un motivo, di cotte e di crude, addosso ai piemontesi, ai monarchici ed ai fedifraghi; tanto che un giovinetto, il quale sedeva ad un tavolo vicino, stomacato da quella retorica balorda, si alzò d'un tratto e venne a gridargli sotto il muso che «parlando in quel modo, il signore era un vigliacco!…»
Ghegola si levò in piedi, bianco come un panno di bucato, e colla voce strozzata sfidò l'impertinente a ripetergli l'ingiuria…. E quell'altro, prontissimo, non la ripetè una volta sola, come avea desiderato Ghegola, ma due, dandogli così la buona misura, e accompagnò le parole coll'atto di volergli allungare un man rovescio.
Era questi un giovinetto bresciano, tarchiato, bruno, dalla faccia ardita: un garibaldino, anzi un mazziniano per la pelle, ma che in que' giorni, contentandosi, come diceva lui, di fare una cosa alla volta, raccoglieva compagni per la spedizione dei Mille.
Dopo quel fatto un duello era inevitabile.
Certo credevano tutti, che Menico Ghegola non avrebbe mandato giù in santa pace un'offesa tanto grave; e Marino Aimoni, così si chiamava il provocatore, pregò in anticipazione due suoi amici perchè fossero pronti a rappresentarlo appena il Don Chisciotte lo avesse mandato a sfidare.
In questo frattempo, attorno al tavolino dov'era seduto Ghegola, s'era fatto un silenzio sepolcrale. Subito, appena l'Aimoni ebbe lanciato quell'insulto, tutti si aspettavano che Ghegola gli si buttasse addosso come una tigre inferocita. Il pallor del volto l'avevan creduto, così in sulle prime, causato dall'ira, dal furore, non mai certo dalla paura; ma quando udirono quelle sue parole uscirgli dalla bocca balbettante, quando videro grosse gocce di sudore correr sulla sua fronte, e quella figura lunga allampanata scattar su ritta dalla sedia, non già per avventarsi sull'offensore, ma invece per tirarsi prudentemente indietro, allora capirono che in quell'eroe della retorica non c'era di vero altro che della gran paura.
Appena l'Aimoni ritornò tranquillamente al suo posto, Menico disse a chi lo circondava, ansando forte e ancora tremante, che era stato la vittima di un'aggressione bella e buona, e che quell'altro, per fare a lui quella partaccia, doveva essere o matto o ubbriaco; perchè, in fin dei conti, se avevano mandato al diavolo i tedeschi, era perchè ognuno voleva avere la libertà dei propri atti o per lo meno delle proprie opinioni.
Ghegola, si sa, dei tedeschi non ne aveva certo mandati al diavolo per detto e fatto suo; ma intanto anche lui aveva preso parte ai plebisciti!…
Tuttavia quelle parole, biascicate col tono di volersi scusare, non ottennero, non solo alcuna adesione, ma nemmeno alcuna risposta dalla brigatella che gli stava seduta intorno. Invece cominciarono l'un l'altro a guardarsi in viso; poi si alzarono senza dir motto, e si allontanarono tutti quatti quatti, salutandolo appena con un lieve cenno del capo.
***
—Domattina lo manderò a sfidare e domani sera gli taglierò il muso—borbottava Ghegola fra i denti, ritornandosene tutto solo a casa sua.—Gli darò una di quelle lezioni da far epoca, e così insegnerò a lui e a tutti di non rompermi le tasche!… Del vigliacco a me!… Animale!… Non ha osato di toccarmi, però; che se mi avesse toccato, per Dio che si sarebbe preso una seggiola sui corni! Lo ammazzerò, voglio ammazzarlo come un cane!—E mentre Ghegola allungava il bastone e lo batteva contro il muro, quasi volesse far la prova d'infilzare l'Aimoni, colla testa combinava delle azioni che terminavano tutte con una botta terribile.
Giunto a casa, salì e si chiuse nel suo quartierino senza passare a salutar la padrona; entrò subito nella camera da letto e staccò una sciabola bene arrotata che aveva appesa al capezzale, e ch'egli chiamava, con gergo soldatesco, la sua madonna.
Ma, ahimè, povero Ghegola! lo stridore che fece la spada nell'uscir dal fodero, e la vista di quella lama così lunga, così larga, con quelle due dita di punta, con quel filo che la faceva parere un gigantesco rasoio, gli fece correre un brivido per tutto il corpo.
Se invece di colpire l'Aimoni con una stoccata, gli fallisse il colpo, e quell'altro forasse a lui il petto con un simile spadone?… Se gli spaccasse la testa?
A questa idea spaventosa Ghegola si chinò macchinalmente come per parare quel colpo, chè egli già, nella fantasia impaurita, sentiva il fischiar della sciabola attorno al capo.
—Che ghiribizzo era stato quello dell'Aimoni per insultarlo a quel modo?—pensava Ghegola rabbonito, mentre rimetteva prudentemente lo sciabolone nel fodero.—Che cosa doveva importare a quell'altro se lui voleva mo' la repubblica invece della monarchia! Appunto! fra i vantaggi della libertà non c'è quello anche di poter volere chi una cosa, chi un'altra a piacimento? Insultarlo a quel modo!… Dov'era la creanza…. e dov'era il patriottismo? perchè lui, alla fin fine, Domenico Ghegola, era un esule, sicuro, come Mazzini in Svizzera e Victor Hugo in…. in qualche altro luogo, e però aveva diritto a tutti i maggiori riguardi. Lontano da' suoi, egli aveva rinunciato agli agi della vita, alle abitudini più care, ai cavalli, al cuoco, perfino alla comodità di far la doccia in casa, e tutto ciò per il suo paese; e l'Aimoni, quell'asino, invece di ammirarlo, gli diceva gratuitamente delle insolenze?! Ma dunque per far ciò l'Aimoni doveva essere proprio, anche ammessa l'ubbriacatura, un poco di buono! Sicuro, egli si sentiva troppo superiore a quel becero e non lo avrebbe mai inalzato fino al suo livello, non gli avrebbe mai fatto l'onore di rilevare un insulto che partiva troppo dal basso per poterlo colpire. Tutt'al più, quello che Menico poteva fare per l'Aimoni, era di dargli una lezione di generosità perdonandogli quell'offesa, se gli avesse mandato a chieder delle scuse. Dopo tutto, non era stato toccato…. Oh! se lo toccava anche con un dito appena, allora…. allora sarebbe stato un altro paio di maniche!—Ghegola era di buona pasta, e quando ragionava per conto proprio, riusciva sempre a convincersi; ed anche quella sera, appena in letto, chiusi i bilanci, trovò tra il dare e l'avere, che il vigliacco era l'Aimoni, e che nel caso suo ci voleva certo più coraggio a non battersi.—Una sciabolata!—pensava,—mi fa proprio ridere una sciabolata…. È una scalfittura, un salasso…. la dài, la pigli, e dalla sera alla mattina tutto è scomparso. Ma la vera forza d'animo, il vero coraggio sta appunto nel non piegarsi davanti ad un mascalzone che t'insulta per avere da te una patente di gentiluomo. Qui ti voglio!—E Ghegola, siccome quel coraggio sentiva d'averlo, si addormentò convinto d'essere un eroe…. o poco meno.
Ma egli cominciava appena a sognare, non si sa più bene se un bacio della Ghita o un pugno dell'Aimoni, quando fu svegliato di soprassalto da un battere precipitoso che facevano alla porta della camera.
—Chi è?… Indietro!… Chi è là?—gridò Ghegola, spalancando gli occhi, tutto spaventato.
—Sono io, apri, fa presto!—rispose una voce al di fuori.
Ghegola doveva conoscere quell' io, perchè, accesa una candela, si alzò subito, senza indugiare, e a piè nudi corse ad aprir l'uscio; poi, prima ancora che l'altro fosse entrato in camera, balzò daccapo nel letto, dove lo aspettò seduto.
Chi faceva quella visita a quell'ora ed in quel modo, era Gianni Foscarini, un bravo giovinetto, che avea guadagnate le spalline d'ufficiale combattendo a San Martino come un leone, e che in que' giorni aveva mandate al Ministero le proprie dimissioni, perchè voleva esser libero di andare con Garibaldi in Sicilia. Era veneto anche lui e cugino di Menico, e non è a dire se ci soffrisse pel ridicolo che circondava il bollente Ghegola.
—Che cosa vuoi?—chiese Menico, un po' inquieto, a Gianni che s'era fermato a' piedi del letto.
—Diavolo, m'hanno contata la scena di poco fa, e ho rotto il sonno della tua padrona di casa per farmi aprire e correr qui subito a mettermi a tua disposizione.
—A mia disposizione?
—Spero bene che un imbroglio simile lo lascerai sbrigare da me. Sono tuo cugino, mi sta a cuore l'onor tuo, che è quello della nostra famiglia e, tu lo sai, sono abbastanza pratico di tali faccende. Dunque di' su, contami com'è andata, dall'a alla zeta….
—Com'è andata? O che non lo sai? di più io non ho nulla da contare. Che l'Aimoni sia un mascalzone, anche questa è cosa nota, ergo non seccarmi, perchè io non sono venuto a Brescia per dare delle lezioni agli ineducati.—E Ghegola, così dicendo, si allungò tutto sotto le coperte coll'aria di chi ha sonno e vuol dormire.
—Scusa, caro, ma, di lezioni, invece di darne mi pare che tu ne riceva!…
—Pare a te?… Ebbene, così sia e felicissima notte!—e Menico si dimenò nel letto adagio adagio come per farsi la nicchia ancora più comoda.
—In quanto all'Aimoni, poi, ti so dir io ch'egli è tutt'altro che un mascalzone e che….
—Sta a vedere che m'hai rotto…. il sonno per venir qui adesso a farmi il panegirico di quel villano!
—Io sono venuto qui per sapere come intendi di riparare al tuo onore, dopo l'insulto che hai ricevuto.
—Prima di tutto non capisco perchè tu voglia pigliartela così calda….
—Me la piglio calda, sissignore; me la piglio calda perchè tu sei mio cugino, me la piglio calda perchè l'onor tuo è anche l'onore della nostra famiglia, e in fine me la piglio calda perchè vedo te pigliartela troppo fredda!
—Allora ti dirò, in secondo luogo, che il mio onore non ha perduto nulla, e che ci perderebbe in un caso solo: qualora io mi degnassi di raccogliere le parolacce di un ubbriaco.
Foscarini aprì la bocca…. voleva rispondere, ma non fiatò. Fissò invece suo cugino con un'occhiata così espressiva, che diceva molto più di quanto Ghegola avrebbe voluto intendere.
—Tu pensa ciò che vuoi—disse alla fine, non potendo a meno di sentirsi un po' impacciato sotto quello sguardo—ma in quanto a me non desisto e non desisterò mai dalla presa risoluzione.
—Ma crederanno che tu abbia paura.
—Chi lo crederà?… Gl'imbecilli!…
—No, perchè lo crederò anch'io!…
—Ogni regola ha la sua eccezione.
—Diranno che tu sei un vigliacco!…
—Che si provino un po'!…
Menico tornò a sedersi sul letto, incrociando le braccia, con un piglio da guerriero.
—Ma per l'amor di Dio, non te lo hanno detto e ripetuto sul muso anche due ore fa?
—Ed io….
—E tu…. te lo sei lasciato dire!
—Perchè non ero ubbriaco, perchè non sono un mascalzone come quell'altro, perchè sono una persona educata!…
—Hai paura!… Hai paura di batterti!… Non trovarmi fuori delle scuse!…
—Sia pure. Avrò paura. Tu sei padrone di credere quello che vuoi!—E Ghegola si stirò di nuovo sotto le coperte, esprimendo la rassegnazione di chi si sa colpito dalla calunnia, ma che però, forte della propria coscienza, la sopporta tranquillo e sicuro.
Gianni capì che colle cattive non avrebbe ottenuto nulla da suo cugino, e allora, tanto per dire d'averle tentate tutte, volle provare a commuoverlo colle buone e si avvicinò, penetrando nella stretta, alla sponda del letto.
—Via…. sii ragionevole…. pensa che se tu non ti batti coll'Aimoni, sarai costretto a partire da Brescia…. Nessuno de' tuoi conoscenti ti guarderà più in faccia.
—Anderò a Modena.
—Vuoi andare a Modena?… Sta bene; ma e la gente? Non pensi che cosa dirà la gente di te?…
—Ebbene, tu dici che io non ho il coraggio di battermi, non è vero? E io ti mostrerò che ho il coraggio, ancor più raro, d'infischiarmene dell'opinione pubblica, quando per ottenere i suoi applausi dovrei perdere il mio tempo e la mia dignità, dispensando dei brevetti di cavalleria: perchè, sai, l'Aimoni cerca d'avere uno scontro con me per far del rumore, e non per altro. Ma non gliela do vinta, sta' sicuro; sarei ben minchione!…
—Un uomo come l'Aimoni che cosa vuoi che ne faccia de' tuoi brevetti? fa un po' il piacere!… Ne ha tanto dell'onore, quello là, da darne anche a…. a degli altri che ne avrebbero bisogno.
—Questa sarà la tua opinione; la mia è diversa: tante teste tanti cervelli!…
—Ma perchè non sei rimasto a casa a far l'avvocato, invece di venire quaggiù a fare di queste figure!?
—E te?… chi ti ha pregato di venire in casa mia a dirmi di queste piacevolezze?…
—Ti voglio bene, mi sta a cuore l'onor tuo.
—Oh, grazie!
A questo punto, Gianni, che s'era proposto di esercitare la pazienza del povero Giobbe pur di riuscir nell'intento, tornò da capo a pregar Menico, a scongiurarlo d'accettare i suoi consigli. Ma l'altro, duro. Allora gli promise che avrebbe condotto la cosa in modo che tutto sarebbe finito con una scalfittura.
—Vedi che non c'intendiamo!—rispose Menico, sempre sotto le lenzuola, con una mano sola fuori, colla quale gestiva come un burattino.—Vedi che non c'intendiamo! Se dovessi accettare questo duello, non sarebbe che a condizioni gravissime. È, o non è un'offesa che meriti una riparazione? Nel primo caso bisogna ammazzarsi…. o quasi….
—Ebbene, ammazzatevi, se ciò ti accomoda di più.
—Ma nel secondo caso, che è il mio, si lascia morir la faccenda….
—E si fa la ricevuta di ciò che hai preso!—
A questo punto, Foscarini, che non ne poteva più, attaccò un di que' moccoli da far arrossire la barba d'uno zappatore; poi, acceso d'ira, uscì bofonchiando e tirandosi dietro l'uscio con tanta forza da far tremare tutta la casa.
Menico, a questa sfuriata, si tirò un po' su, fuori dalle lenzuola, e tornò a mettersi a sedere ascoltando attentamente il rumore che faceva Gianni colla sciabola e gli speroni correndo giù per le scale; poi, quando lo udì serrare con impeto anche la porta di strada, allora, adagio adagio cacciò fuori dal letto le sue gambe lunghe, secche, pelose, corse a richiuder colla chiave l'uscio della camera, poi, in due salti si coricò di nuovo.
—È un bel matto quello là—pensava tra sè, tentando di persuadersi che aveva ragione lui. Però non ci riuscì del tutto, ma, in compenso, dopo una mezz'ora, potè riaddormentarsi quetamente.
***
La mattina dopo, Menico si alzò per tempo, e tutto musone, colla faccia stralunata, stava facendo le sue valigie per prepararsi ad andare a Modena, allorchè suo cugino ritornò a capitargli in camera.
—Sai? Ho combinato tutto per oggi alle cinque—disse Gianni a quell'altro che lo guardava con due occhi sbalorditi.—Ho pregato un mio amico a nome tuo perchè ti serva da testimonio. Il duello è alla pistola e….
A queste parole, Ghegola non lo lasciò più andare avanti, si pose a gridare, a urlare, a dirgliene di tutti i colori, e concluse col mettere Foscarini alla porta o poco meno: se non del coraggio, questa volta la gran paura riusciva a mettergli in corpo un po' d'ardire.
—Ma il duello,—continuò Gianni senza scomporsi, appena Menico si fermò per pigliar fiato—salverà l'onore, senza che ci sia alcun pericolo nè per te…. nè per l'Aimoni.
Ghegola stralunò gli occhi a quelle parole, ma fu più sorpreso che fidente.
—Spiègati!…
—Subito. Devi sapere che il secondo, scelto dall'Aimoni, è il Gottardi, che è poi fratello di una signorina che l'Aimoni ha promesso di sposare quando ritorna dalla Sicilia. Anche a lui, dunque, rincrescerebbe moltissimo, come puoi figurarti, se al suo mandante accadesse qualche sinistro. Noi due, vedi che cosa vuol dire nascere colla camicia? siamo amici intimi: eravamo a San Martino soldati nello stesso battaglione. Figurati!… appena saputa la cosa, immaginandosi che io sarei stato scelto da te per questo affare, è venuto a cercarmi, e allora, d'accordo, abbiamo fatto in modo che all'insaputa dei nostri due primi, bada bene, all'insaputa dei nostri due primi, il duello non avesse tristi conseguenze.
—E che cosa avete combinato?… Che cosa avete deciso?…—Ghegola passava dallo stupore alla diffidenza e dalla diffidenza all'incredulità.
—Che cosa abbiamo combinato? È presto detto. Devi sapere intanto che si scelse appunto la pistola, perchè l'inganno così è sicuro. Siamo noi due, non è vero, che dobbiamo caricarle? ebbene: noi due le carichiamo soltanto a polvere. Tu tiri il primo colpo a venticinque passi di distanza, l'altro tira il secondo avvicinandosi di cinque passi, tu tiri il terzo avvicinandoti d'altri cinque: avete sparati i tre colpi, non vi siete presi, naturalmente, e l'onore è bello e salvo.
—Ma gli altri due testimoni sono poi d'accordo in quest'affare? Bisogna che sieno presenti alla carica.
—Non è vero. Non è necessario che restino lì a guardare; del resto è facile allontanarli con una scusa qualunque, mandandoli a dire qualche cosa ai medici o a vedere se tutto è a posto, se non c'è nessuno che si avvicini o che possa sorprenderci!… Ce ne sono tanti, dei pretesti!
A Ghegola, se si deve dire la verità, quella soluzione non dispiaceva punto. Trovava che c'era molto del buono: salvava l'onore e non metteva in pericolo la pelle. Ma…. poteva proprio fidarsi di Foscarini? E se quelle palle da far scomparire, se quel giuoco di bussolotti non riusciva bene?…
Foscarini lesse negli occhi del cugino tutte le incertezze e le esitazioni che gli turbavano lo spirito, e con quella sua eloquenza di soldato franco e sincero gliene disse tante che riusci ad assicurarlo e a convincerlo.
—Avere un duello…. senza correre alcun rischio?!—Per Ghegola era addirittura l'avverarsi di un sogno!…
Però seppe far le cose per benino. Non volle ceder tutto in una volta, tornò da capo colla dignità, coll'onore, coi brevetti di cavalleria; ma così debolmente adesso, che Gianni Foscarini durò poca fatica a guadagnarselo completamente.
—Il secondo dell'Aimoni sarà uomo capace di conservare un segreto di tanta importanza?…
—Non è un ragazzo, diamine! E poi ne va del suo onore, come ne va del mio, e in ogni caso egli non sa che t'ho messo a parte del nostro progetto.
—Tutta Brescia dunque crederà che ci siamo battuti sul serio?…
—Certamente.
—L'Aimoni avrà una gran paura, crederà che lo ammazzi!…
—A meno che non isperi di essere lui ad ammazzar te!…
Ghegola, quantunque sapesse ormai questa supposizione fuori affatto del possibile, non potè trattenersi, ciò non ostante, dal fare una smorfia.
—Via, via,—replicò Foscarini—fortunatamente, come t'ho detto, nessuno dei due corre di questi pericoli. Ti raccomando intanto di mostrarti sicuro, disinvolto sul terreno, e di far vedere in una parola che è proprio vero che tu non hai paura.
—Lascia fare a me; e come mi devo vestire?
—Vèstiti un po' come vuoi.
—Di nero?
—Di nero o di rosso, non importa. Resta fissato che verrò qui a prenderti colla carrozza, alle quattro e mezzo.
—Alle quattro e mezzo in punto mi troverai in casa ad aspettarti.
—Intanto bada di non far chiacchiere, di non contare a nessuno che hai un duello.
—Diavolo, per chi mi pigli?!
—Siamo intesi!
—Siamo intesi, arrivederci alle quattro e mezzo.
***
Partito Foscarini, e Ghegola rimasto solo, fece due o tre salti nella camera, fregandosi le mani dalla contentezza. Quella soluzione insperata gli andava molto a genio, perchè la parte da eroe ch'egli avrebbe sostenuta nel duello, senza nessun rischio e pericolo, pareva proprio fatta a suo dosso, nello stesso tempo che, non avendo più paura d'essere infilzato da quell'altro, vedeva bene la necessità in cui era di lavare col sangue l'insulto patito dall'Aimoni. Di più, sfidato l'Aimoni e battutosi con lui, poteva continuare a fermarsi a Brescia, non occorreva altro che egli partisse per Modena, e di fatti si pose subito a disfare le valigie ch'erano già quasi piene di roba.
Durante quell'operazione fu sorpreso dalla Ghita ch'era solita di regalare al suo Menico delle visite mattutine.
Ghegola si lasciò baciare serio serio, sospirando.
—Che cos'hai, Menico?… Perchè mi guardi in quel modo?
—Nulla, nulla; lèvati lo scialle.
Ghita si levò lo scialletto nero che, secondo l'usanza delle sartorelle bresciane, aveva puntato sul capo e dopo averle circondata la faccia le scendeva giù fino ai fianchi avvolgendole tutta la persona.
—Povera la mia Ghita…. mi rincrescerebbe!… per te mi rincrescerebbe!…—borbottava il giovinotto a mezza voce, mentre ricambiava alla fanciulla baci e carezze.
La Ghita, a tali parole, si sentì stringere il cuore, e viste le valigie sparse per la camera, e i cassettoni aperti, ne rimase sbigottita; poi d'improvviso, sollevandosi sulla punta de' piedi per arrivare, piccina com'era, a stringersi al collo del suo lungo innamorato:
—Tu parti con Garibaldi—esclamò—tu parti!—e la poveretta si pose a piangere.
Menico, invece di mostrarsene intenerito, accettò con un gran sussiego tutte le manifestazioni di quel dolore così sincero, ed anzi fece intendere all'amorosa che sarebbe stato più facile di tornare indietro partendo con Garibaldi che non andando dov'era aspettato lui…. alle cinque in punto. E così, dopo averle fatto giurare che non direbbe nulla a nessuno, le contò il gran segreto, cioè che egli doveva battersi quel giorno coll'Aimoni, che l'arma scelta era la pistola, e che l'uno o l'altro, indubitabilmente, sarebbero rimasti sul terreno con una palla nello stomaco,
Ghegola, il crudele, la nominò varie volte quella palla micidiale, tanto che la poveretta ne era disperata e piangeva, piangeva con dei singulti che facevan pietà.
—Almeno—concluse singhiozzando—che tu fossi andato con Garibaldi! saresti morto per l'Italia e per Vittorio!…
Povera tosa; non aveva torto: ma c'era questo di male, che con Garibaldi i fucili si caricavano a palla!
***
Domenico Ghegola uscì di casa prima del solito e passeggiò sotto i portici per un pezzo, fumando tranquillamente un sigaro d'Avana, molto più corto, ma quasi più grosso di lui. Poi sul mezzogiorno andò a far colazione al Caffè del Duomo, dove fece mostra d'un appetito invidiabile.
Quando si trattò di pagare il conto, gettò al cameriere un biglietto di banca da duecento cinquanta lire.
—S'accomodi, signore, pagherà domani—e il cameriere fece l'atto di restituirgli il denaro.
—Domani…. domani, caro mio, chissà dove potrei essere a far colazione! Dammi il resto.
Uscì dal caffè zufolando l'arietta della Bella Gigogin, e si avviò dal suo parrucchiere, sul Corso del Teatro, a farsi radere la barba. Quel giorno Ghegola fu amabilissimo coi giovani di bottega, si provò anche a fare dello spirito, e, finito d'acconciare, prima di andarsene volle pagare l' abbonamento, benchè non si fosse allora che ai quindici del mese.
—Il signore è di partenza?—gli domandò il padrone di bottega, tutto cerimonioso.
—Potrebbe anche darsi….
—E…. va lontano, s'è lecito?…
—Mah! te lo saprò dire…. se ritorno.—Così parlando si arricciava i baffettini radi, ammirandosi nello specchio.
Il parrucchiere gli si avvicinò con intrinsichezza, e—Ho capito, anche lei se ne va con Garibaldi—gli sussurrò in un orecchio. Eh! se avessi vent'anni di meno le chiederei l'onore d'accompagnarla: le farei magari da ordinanza!
Menico se ne andò indispettito. Per Dio, non sapevano parlar d'altro che di Garibaldi, in quei giorni!
***
…. Foscarini fu puntuale: suonavano le quattro e mezzo, ch'egli entrava da Menico. Lo trovò tutto vestito di nero, come un notaio.
—Andiamo?
—Andiamo.
Ma è proprio vero che il peggior passo è quello dell'uscio!…
Difatti tutti due stavan già per uscire, quando, proprio sulla porta, s'incontrarono nella Ghita che voleva ad ogni costo abbracciare il suo amante per l'ultima volta.
La poverina cominciò a piangere, a strillare, e finì col buttarsi per terra in preda a fortissime convulsioni. Foscarini, commosso, l'aiutava, la soccorreva, tentava di tutto per darle animo, per acquetarla; mentre Menico, imperturbabile, non faceva che ripetere a suo cugino:—Bada, Gianni, che si fa tardi; sono le quattro e trentacinque!—Andiamo, Gianni, ti ripeto che si fa tardi; sono le quattro e trentasette.
—Madonna delle Grazie, salvatemelo voi, salvatemelo, per carità!—singhiozzava la Ghita, e si stringeva con degli spasimi da disperata addosso al suo Menico, che rimaneva duro come un palo.
—Animo, via, sta' su, Ghita. Sai bene che io non posso sopportare di queste scene!…
—Ma se quell'altro t'ammazza….
—Ebbene, e per questo?… Una volta o l'altra bisogna morire!
—Ma non vedi, stolido, che potresti far crepar lei parlandole in questa maniera?—gridò Gianni stizzito.
—Intanto che ti commovi, ti ricordo che son le quattro e quarantatrè!—E Menico mostrò l'orologio al cugino con un sangue freddo da far stordire.
La ragazza fu quasi trascinata da Gianni fuori della stanza e, sola, cominciò a discender le scale, come istupidita, senza che nemmen lei sapesse che cosa si faceva; ma appena in fondo, fu tutta presa dalla angoscia paurosa di non rivederlo mai più: allora risalì precipitosamente e gli si buttò nelle braccia, stanca, priva di forze. Mai come in quel momento la Ghita era stata sua. Poi fece un gesto deciso, baciò Menico ripetutamente, in fretta, e sparì di corsa giù per le scale; asciugò gli occhi, benchè non avessero più lacrime, nascose il viso dentro lo scialletto nero e si cacciò in mezzo al frastuono della via.
***
Le due parti s'eran date convegno, per il duello, in un tratto di terreno abbandonato che si distendeva al di là del Camposanto.
Ghegola e Aimoni vi giunsero quasi nello stesso punto. Aimoni un po' pallido, serio, ma sicuro; Ghegola saltellante, sorridente, con una parlantina ed una disinvoltura tutt'altro che forzata, distribuiva saluti e strette di mano ai medici, ai testimoni dell'avversario, e per poco, nell'effusione, non complimentava anche il brumista che l'avea condotto sul luogo.
Intanto i padrini si occupavano dei preparativi, e dopo misurata la distanza, fissarono i duellanti l'uno di fronte all'altro. L'Aimoni, colle braccia incrociate, si manteneva grave, taciturno; Ghegola, sempre sorridente, si arricciava i baffetti. Però ci fu un momento, anche per lui, di una dolorosa perplessità: cioè quando vide tutti e quattro, i due padrini e i due testimoni, riunirsi per caricar le pistole. Ghegola si sentì correre un sudor freddo per il corpo e mancò poco non scappasse via. Fortunatamente in quel punto i due testimoni si allontanarono, uno per indicare ai medici dove dovevano mettersi, l'altro per avvertire i fiaccherai che s'eran di troppo avvicinati. Foscarini, allora, rimasto col secondo dell'Aimoni, sbirciò Ghegola con un'occhiatina che gli rimise il fiato in corpo e gli ritornò il colore sulle guance.
Caricate le armi, i due padrini si avvicinarono e le misero in pugno ai loro primi, che col braccio piegato ascoltarono le solite raccomandazioni, senza batter ciglio.
—Attenti!—gridò Foscarini, e fece l'atto di cominciare a batter le mani.
Ghegola tranquillo, impassibile, continuava a sorridere. Era bello di coraggio e d'audacia; tanto bello, che lo stesso Aimoni si sentì costretto ad ammirarlo.
—Attenti!—grida Gianni per la seconda volta.—Uno!… Due!… Tre!—Ghegola pronto tira il grilletto…. il colpo parte…. Aimoni, colpito, gira su se stesso, poi cade fra le braccia del suo padrino.
Foscarini, i medici, i testimoni, gli corsero tutti d'intorno per soccorrerlo; soltanto Ghegola non si mosse.
Egli s'era fatto bianco, quasi livido: pareva un cadavere. Gli tremavano le gambe, il terreno gli cominciò a girare sotto gli occhi, poi tutto all'intorno gli alberi vicini e le colline lontane; e finì anche lui col cader per terra, senza dir motto, lungo disteso.
***
Aimoni ebbe forata una spalla parte a parte, e rimase a letto per una quarantina di giorni; ma dopo potè dire d'averla scappata bella, che i medici, dapprincipio, lo davano come spacciato.
Anche Menico, appena finito il duello, fu portato nella sua vettura più morto che vivo: la sera fu colto da una febbre fortissima, e poco mancò non se ne andasse davvero all'altro mondo.
Fra malattia e convalescenza, ne ebbe per più di un mese anche lui. La paura gli aveva sconvolto la mente; gridava tutta la notte che lo volevano ammazzare; e, nei momenti di riposo, gli pareva di vedere un fantasma al quale domandava perdono giurando d'essere innocente!
La Ghita faceva dire delle messe alla Madonna delle Grazie, e non abbandonò mai, nè giorno, nè notte, il capezzale del povero delirante, finchè durò in quello stato e non cominciò a migliorare.
Com'è poi l'usanza cavalleresca, gli avversari, appena furono in caso di poterlo fare, si affrettarono a scambiarsi delle visite. Ma in questa occasione fu il ferito quello che fece visita per il primo al feritore, perchè Ghegola era tuttavia convalescente quando l'Aimoni era già completamente ristabilito.
ERA MATTO O AVEVA FAME?…
Quella mattina il buon Michele si alzò più presto del solito. Aveva cenato la sera innanzi, e non avendone l'usanza, gli era rimasto il cibo sullo stomaco, si sentiva la testa pesante e la bocca amara. Non fece colazione punto; prese soltanto il caffè con due gocce di latte, e poi bighellonando là là, dove il fumo del sigaro lo conduceva, infilò, senza avvedersene, per forza d'abitudine, la Via Nazionale, dove stava di casa la contessa Lavinia: una signora, che voi mi domanderete subito se è vedova, perchè io vi possa rispondere di sì, e salvarle in tal modo la morale della favola…. che non c'è.
La contessa Lavinia è bionda; non come Giulietta o come Ofelia, ma come una marchesa dei proverbi di De Musset, di quel biondo capriccioso, a giorni rossiccio, a giorni quasi castano. È carina, è buona, è amorosa; e quando voi desiderate una cosa, se la contessa Lavinia non la vuole, essa, per non disgustarvi, non vi dirà di no colla bocca, ma piegherà la sua testina lentamente, sorridendo coll'aria di una bimba che fa i capriccetti colla mamma…. Però quel sorriso amabilissimo, quel no che pare uno scherzo e una carezza insieme, sono inflessibili.
C'è un capitano di stato maggiore, per esempio, il cavaliere Arditi, che le fa una corte spietata: orbene, il buon Michele n'è geloso come un Otello…. bianco; suda veleno ma protesta invano.
—Cattivo! cattivo che sei!…. Non capisci mo'che sopporto la corte degli altri per nascondere la tua?—E con questa scusa, che pare buona per la grazia con cui sa dirla, Lavinia si tiene il capitano Arditi sempre fra i piedi.
Proprio quella mattina, passeggiando lemme lemme, come vi ho narrato, in Via Nazionale, il nostro amico pensava appunto al capitano, che la notte scorsa avea ballato colla contessa il cotillon, quando, attratto da un rumore di sproni che battevano sul marciapiedi, alza il capo e se lo vede, luccicante d'oro e colla durlindana sotto il braccio, ca minare in fretta, pochi passi dinanzi a lui.
—Da dove è saltato fuori?—borbotta Michele certo è uscito dalla casa della contessa. Non c'è dubbio, la casa della contessa è a dieci passi, lui è a venti, e prima non lo aveva veduto.
Ad ogni costo vuol sapere come sta la faccenda, e si affretta per raggiungere quell'altro.
—Capitano! Capitano!… Buon giorno!
—Oh!… Buon giorno, conte Michele!
—Dove si corre, se è lecito?…
—Devo essere al Comando alle undici, figuratevi, e sono adesso le dieci e mezzo.
—Diavolo, chissà chi vi avrà fatto perdere tutto questo tempo!
—Affari di servizio.
—Ma servizio di che genere? Maschile o femminile?
—Il servizio, pur troppo, è di genere neu…. To'! benissimo! una vettura!… Fiaccheraio, sei disponibile?
—Sissignore!
—Scusate, ma come vi ho detto, sono in ritardo.
E il capitano Arditi stringe la mano al giovanotto, salta nella carrozzella e grida al vetturino di condurlo al Comando militare.
Il buon Michele era rimasto là con un palmo di naso.
—Certo—masticava fra sè, e intanto sentiva la bocca farsi sempre più amara—certo esce da lei. Non ha voluto dirmi nulla, non ha voluto spiegarsi…. e poi lo si vedeva com'era imbarazzato. Però questa faccenda bisogna chiarirla subito. O lui o me, o dentro o fuori, cara contessa! Ah! Ah! Crede lei di potermi sorbire come il caffè? Tanto meglio; ma quest'oggi mi troverà senza zucchero, mi troverà. Un po' per uno, signora mia. Avete sempre comandato voi? Va bene; e adesso tocca a me a comandare. Ma non sono che le dodici, e fino alle due tanto non mi riceve! Come bruciarle queste due ore?…
Il buon Michele si pose a passeggiare; ma gira e rigira, ogni volta che guardava l'orologio, quella benedettissima lancetta non avanzava mai; pareva che avesse il granchio!… Allora egli si sentiva addosso, con un orgasmo nervoso, il bisogno di rivederla, di trovarsi con lei, di farle una scena!…—Intanto, per non perdere il tempo, ruminava nella mente le frasi meglio adatte colle quali egli avrebbe fatto colpo, rimproverandola. Quando era contento dell'effetto, si fermava su due piedi, rispondendosi quello che gli avrebbe risposto Lavinia, e concludeva combinando in cuor suo di finire la visita fissandola con due occhi freddi, proprio di stagione, perchè s'era in gennaio, e di dirle lentamente sottolineando le parole:
—Amleto, quando chiamò la donna perfida come l'onda, non era matto, signora contessa, no, non era matto!
Ma dopo quello sfogo, dopo quel borbottare eccitato, a mezza voce, il petto gli faceva male e lo prendeva l'angoscia ed una prostrazione di forze generale. Allora si sentiva avvilito, non ci trovava più nessun costrutto nemmeno a perdonare alla contessa Lavinia, s'ella si fosse anche gettata alle ginocchia di lui; tanto e tanto egli sapeva ormai di essere ingannato; si sentiva ineffabilmente infelice, vedeva farsi il vuoto d'intorno e, cosa strana, lo provava anche dentro di sè, batteva i denti sotto quel sole falso di gennaio, aveva una gran voglia di piangere; e non essendo che le dodici e mezzo, pensò che poteva ingannare benissimo un quarto d'ora facendosi radere la barba.
—Perfida! Perfida come l'onda—borbottava fra sè sospirando, mentre il barbiere lo insaponava.—No! Non era matto Amleto quando lo disse…. Ohi! Ohi! senza il contrappelo, mi raccomando!…
Rasa la barba ricominciò a camminare, benchè provasse un'insolita stanchezza. Ebbe quasi l'idea di far colazione, ma quell'idea non fu così forte da sedurlo. Ormai cominciava a soffrire l'inappetenza per il lungo digiuno. Guardò l'orologio: segnava le una e mezzo. Alle cinque desinava; facendo colazione allora, si sarebbe rovinato il pranzo, e poi aveva più volontà di morire che di mangiare!… Vi rinunciò, e, prendendola larga, si avviò di nuovo verso i paraggi di Via Nazionale. Di quel passo lì, sarebbe cascato da Lavinia in punto alle due.
—E se invece la piantassi? Se non mi facessi più vedere da lei?… così alla chetichella, senza dirle nulla, all'inglese?
Giunto sul posto, guardò di nuovo l'orologio: era l'ora precisa. Benchè avesse già infilata la porta, si pentì, ritornò indietro: sarebbe stato ridicolo, facendosi vedere così puntuale da lei che lo tradiva, che lo faceva aspettare fino alle due; e ciò considerato, volendo salvare la dignità, rifece la passeggiata almeno per altri dieci minuti.
***
Quando fu introdotto nel salottino particolare dove Lavinia non riceveva che gli amici, gli toccò di attendere, secondo il solito. Là dentro c'era un odore così acuto di viole e di mughetti, che gli fece crescere il mal di testa e cominciare anche il mal di gola, quando un noto aprirsi e rinchiudersi di porte vicine, ed un fruscio di abiti, lo avvertì che Lavinia stava per giungere. Egli adesso aveva abbandonato il progetto di assalirla con una scenata; non aveva più lena di parlare.
All'indifferenza avrebbe opposto indifferenza; la trovava anche più scicche, e invece di aspettarla dietro la porta per sorprenderla con un bacio, si cacciò nel vano della finestra, guardando fisso in istrada, fingendo di non accorgersi della sua venuta e di essere assorto in lontani pensieri.
Lavinia gli si fece vicina, piede innanzi piede, trattenendo il respiro, poi, improvvisamente gli chiuse gli occhi con le mani:
—Ah!… siete voi?—Il buon Michele prese un'aria trasognata, che parea venisse allor allora dall'altro mondo.
—No, sai, è stato il babau —e la contessa, ridendo, andò a rannicchiarsi, co' suoi atteggiamenti di gattina indolente, in un cantuccio in fondo del canapè. Michele le tenne dietro, ma si fermò a sedere due poltrone distante da lei. Lavinia lo fissò, poi:
—Temporale, quest'oggi—esclamò con aria di amabile canzonatura.
—Tutt'altro, bonaccia completa—rispose Michele senza guardarla.
— Sarà …. sarà …. sarà ma non lo credo!—canterellò Lavinia a mezza voce.
Michele non fiatò, tutti e due stettero zitti zitti, immersi nella meditazione. La contessa, dal canapè, sfilandosi colle dita inquiete le frange della manica, di tanto in tanto, di sottecchi, guardava Michele, che mezzo sdraiato sulla poltrona, una mano in tasca, il bastoncino nell'altra, gli occhi per aria, scotendo convulsamente una gamba, faceva battere il tacco sul pavimento con un tic, tic, tic, regolare, monotono, inquietante.
La contessa Lavinia, in fondo, era una buona donna…. Oh Dio, non moriva d'amore per Michele, questo no, ma gli voleva bene e le rincresceva di vederlo così imbronciato. Dopo un po' di tempo che durava quella scena muta, si rizzò dal suo cantuccio, e pian piano, leggera, si avvicinò a quell'altro, gli si inginocchiò dinanzi, poi appoggiando i gomiti sui bracciuoli della poltrona, e congiungendo le mani in atto di preghiera:
—Andiamo, parla—le disse—qual nuovo misfatto ho io commesso?…
Michele continuò ostinato a non guardarla, e aspettò del tempo prima di risponderle.
—Avete voglia di scherzare, voi—le disse alla fine…. con una voce incerta.
—E lei?… avrebbe volontà di dormire, lei?…
—Quasi!—rispose l'altro con un vocione brusco brusco, mettendosi il corno del bastoncino sulla bocca per nascondere uno sbadiglio.—Notate bene, anche quello era uno sbadiglio nervoso.
—Allora s'accomodi sul canapè, vi starà meglio—e Lavinia forzò il buon Michele, strascinandolo contro voglia, lei gaia, sorridente, birichina; lui duro, imbronciato, a cambiare di posto. Poi gli si sedette accosto, vicinissima, e gli prese una mano, affaticandosi inutilmente per riuscire a sbottonargli un guanto.
—Via, noioso che sei, lèvati i guanti!
—No; adesso me ne vado. Con questi fiori c'è da rimanere avvelenati—e si schiarì la gola due o tre volte, dispettosamente pensando fra sè, con una gelosia rabbiosa, che, ad onta di tutte quelle moine, il capitano era ricevuto prima delle dodici, mentre per lui la porta rimaneva chiusa fino alle due.—Perfida!—Più Lavinia quel giorno gli sembrava carina, attraente, e più cresceva il suo malcontento, così ch'egli adesso ritornava infelice, ma di una infelicità che lo rendeva fiacco, sfinito, sotto il colpo improvviso di quel gran dolore. Rimproverarla? a che pro? Lei avrebbe negato, lui non le avrebbe creduto, dunque…. dunque tanto valeva risparmiare il fiato e mostrarsi invece un uomo di spirito coll'abbandonare quel posto assediato e forse, Dio non lo volesse, espugnato dallo stato maggiore!— Nella guerra d'amor vince chi fugge! e allora chissà, fuggendo lui, che Lavinia non incominciasse a corrergli dietro. Michele però non si fermerebbe, continuerebbe a fuggire, ed era tanto risoluto in quella idea, che già si sentiva le gambe stanche…. forse per il gran correre che faceva coll'immaginazione.
Lavinia, nel frattempo, sempre colla testa bassa e dopo molta fatica, era riuscita a levargli un guanto; rimaneva il secondo, ma il buon Michele, pochissimo compiacente, si ostinava a tener l'altra mano abbrancata sul bracciuolo del sofà, dalla parte opposta a quella dov'era seduta la contessa. Questa, ostinata anche lei, non si diede per vinta, si distese, si allungò, riuscì ad afferrargli il braccio e si sforzava a tirarsi Michele vicino, mentre la sua testina bionda passava e ripassava proprio sotto il naso di Michele, il quale, dalla gran paura che alle volte gli sfuggisse un bacio, piegò il capo vivamente all'indietro; troppo vivamente, chè colla nuca, battè, tanto forte da farsi male, contro la cornice a punte dorate del sofà. Lavinia non potè contenersi, cominciò a ridere, e più quell'altro faceva la faccia inferocita e più lei rideva. Il buon Michele, sfido io!, perdette la pazienza, e, un po' per il dolore, un po' per il dispetto della figura che ci faceva, e per tutto il resto unito insieme, si alzò, avviandosi risoluto verso l'uscio, e salutandola appena con un—Buon giorno—che pareva un morso dato nel vuoto.
—Vai via?
—Sì.
—Per ritornare?
—No.
—No?… per sempre?
—Per sempre!
—Tanto meglio!
Lavinia tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio…. ma questa volta fece il muso anche lei. Il suo però, manco a dirlo, era un musino che non aveva nulla a che fare coi visacci di Michele, il quale, giunto sulla porta, sperava che Lavinia lo richiamasse indietro; ma invece la contessa non fiatò; allora si decise da solo, e piantandosele innanzi, mentre lei tornava a sorridere, e fissandolo con degli occhietti furbi, sbarrati, ne imitava a tratti, comicamente, la mimica della faccia:
—Amleto—egli disse con tragica espressione—Amleto, quando chiamò la donna perfida come l'onda, non era matto, signora contessa, no, non era matto.
—Oh! oh! quanta erudizione!—esclamò Lavinia, con poco rispetto per l'oratore.
—Addio, signora contessa!
—Addio, signor conte!
—Stupida!—brontolò Michele fra i denti, attraversando l'appartamento, sconcertato per il cattivo esito della sua parlata; ma quando, nell'anticamera, aiutato dal servo, indossava la pelliccia, si riaprì la porta interna, e Lavinia, sorridente, scherzosa, maliziosetta, fece capolino fuor dell'uscio che teneva socchiuso, colla sua manina bianca quasi coperta dagli anelli ingemmati:
—Se stasera il signor conte si sentirà meglio, l'avverto, per sua norma, che io vado all'opera. Numero nove, second'ordine, a sinistra.
—Grazie, contessa, ma stasera devo andare alla commedia.
—Pazienza: la sua ferita le duole forse?
—Punto…. ma non è bella la vita!
—Si potrebbe sapere che cosa…. Jolanda ha fatto di male?
Il servitore serio, impalato, che teneva aperta la porta impediva a Michele di spiegarsi chiaro.
—Ah, contessa!—le rispose con aria diplomatica— Jolanda fa sempre e tutto bene.
Il peggior passo, quello dell'uscio, fu consumato: l'onore era salvo.
Però il nostro eroe, subito, col freddo della strada, sentì un sincero rincrescimento pel coraggio dimostrato; ma ormai, pur troppo, era inutile il pianto; ritornare indietro non si poteva più!… Allora, guardando atterrito nell'avvenire che gli si preparava, provò la sensazione di un vuoto così squallido, così debilitante, da essere costretto a chiudere gli occhi perchè lo prendevano le vertigini. Ritornò a camminare dinoccolato, sentendosi dentro una prostrazione tale come s'egli si fosse appena rimesso da una lunga malattia. Invece la covava addosso, la malattia; erano bastate quelle poche ore a minare la esistenza di lui; e mentre prevedeva i suoi proprî e prematuri funerali, mentre figurava la sua tomba bianca con un bel monumentino sopra, rappresentante l' amore che uccide, sentiva ripetersi in cuor suo, profondo, il melanconico lamento di Edgardo, e a mezza voce, convinto, mesto, rassegnato, canticchiava anche lui, il buon Michele— Mai non passarvi, o barbara — Del tuo consorte allato.—Qui, l'allato, si sa bene che invece di essere un consorte era un capitano, ma la situazione rimaneva la stessa.
Il povero infelice non aveva mai amato Lavinia, come allora che non l'amava più!—Era bellina tanto in quel suo abito così bene attillato!… Civetta!… Le mancava affatto il cuore, le mancava; ecco il suo difetto! Lo avrebbe tradito, avrebbe aspettato a riceverlo alle due suonate, s'ella avesse avuto solamente un po' di cuore?—In quel punto egli passava dinanzi al Caffè di Londra: vi entrò per ammollire con una limonata l'arsiccio della gola e si incontrò là dentro, per l'appunto, con un frequentatore platonico della contessa Lavinia.
—Di' un po', Michelino, la contessa sta in casa stasera?
—No, va all'opera, credo.
—Sai il numero del suo palco?
—Il nove, second'ordine, a sinistra…. credo.
I due amici si strinsero la mano: uno si fermò nel caffè, l'altro, Michele, ne uscì e ritornò alle sue meditazioni peripatetiche.
—Appena quella gente lì, che adesso schiatta dall'invidia, conoscerà la mia ritirata, figuriamoci come gongolerà dal piacere!… Ma chi ci guadagna un tanto, per giunta, è il capitano…. Antipatico! l'unico che mi faccia dispetto, che mi faccia rabbia, chè, di tutti gli altri, non me ne importerebbe uno zero. Diranno adesso ch'io sono stato battuto, vinto, messo alla porta; è falso, falsissimo, perchè l'ho piantata io, la contessa Lavinia; ma questo fatto chi lo saprà?… nessuno, e intanto diverrò la favola, il ridicolo del paese.
E il buon Michele si vedeva adesso disonorato per avere appunto voluto salvare il proprio onore con troppa precipitazione.
—Se mi fossi ingannato—continuava—se i miei sospetti sul capitano fossero privi di fondamento? Oh! no; pur troppo tento d'illudermi, ma non ci riesco: stamattina potrei quasi giurare di averlo visto io, coi miei occhi, uscire da Lavinia. Che cosa faceva dunque in Via Nazionale?… Affari di servizio! li chiama affari di servizio, lui! Sarebbe un po' meglio che il Governo li facesse lavorare davvero, questi soldati, con delle marcie, con delle grosse manovre, con delle spedizioni, magari nel centro dell'Affrica. Oh! per Dio! sotto la destra se lavoravano di più! E poi con che costrutto cercherei d'illudermi? ormai la è finita: certo, se Lavinia non avesse avuto del contrabbando, non mi avrebbe proibito di andare da lei prima delle due!… Però è una gran disgrazia che mi è toccata, sicuro; e siccome le disgrazie non vengono mai sole, così ho avuta anche quell'altra di accorgermene troppo presto. Come farò d'ora in poi a passare il mio tempo?… La sera, pazienza, vuol dire che mi abbonerò al teatro come un marito qualunque; ma di giorno?… Che cosa farò tutto il santo giorno? Per oggi, tanto, sono le quattro e mezzo, ci rimedierò coll'andare a pranzo mezz'ora prima; ma domani?…
Non posso mica andare a pranzo appena alzato da letto, domani!… Perfida e senza cuore!—
Al club non trovò nulla di pronto e se ne indispettì, quantunque egli non sentisse la fame, essendosi anche troppo indebolito per causa della colazione soppressa e per la limonata che lo avea gonfiato come una rana. Avrebbe fatto bene a cominciare il pranzo con una minestra al brodo, calda e sostanziosa, e lui, difatti, l'avea domandata; ma quando il cameriere gli disse che bisognava farla andare apposta, allora la disordinò brontolando che il servizio del locale era un servizio pessimo e che bisognava cambiare la direzione. Terminato lo sfogo, si trovò dinanzi una porzione di carne lessata che opponeva al dente una ostinazione degna di miglior causa. Michele la voltò, la rivoltò, ci battè sopra sdegnosamente col piatto del coltello e finì coll'ingoiarla a stranguglioni.
—Auf!… che vita!… E pensare—continuava fra sè—che quella donna aveva l'impudenza di ripetermi due volte al giorno, dalle due alle cinque e dalle nove alle dodici, che mi voleva bene, e poi m'ha lasciato venir via senza dirmi una parola…. M'avesse scritto almeno, ma no: cioè no, veramente, non lo posso sapere, perchè in tal caso avrebbe spedita la lettera a casa mia; anzi è quasi probabile, è sicuro quasi che lo ha fatto.—
E allora, nella tenebra profonda di quella grande infelicità che lo aveva preso tutto, dal cuore allo stomaco, la speranza vi alitò un nuovo raggio di luce benefico e ristoratore.
Lasciò il pranzo da finire; già quella porzione di carne alida e tigliosa lo aveva affaticato, come se avesse smaltito un bue, e andò a casa dritto, quasi correndo.
—Ma! è proprio vero che i dolori tolgono affatto l'appetito. In tutto il giorno non ho preso un boccone, e il cibo invece di solleticarmi, chè!… mi dà nausea! Avrà scritto sì o no?… Io direi di sì.
Entrò dal portinaio che gli batteva il cuore, gettò un'occhiata sulla tavoletta per vedere se ci fosse quella tal lettera, che egli distingueva subito fra cento, ma non c'era nulla.
—Son venute lettere per me?
—Nossignore.
—Portatemele di sopra se vengono.
—Sissignore.
Michele salì nel suo appartamento e fece una teletta minuziosa, lenta, che non finiva mai; ma ebbe un bell'attendere; ridiscese più mortificato di prima.
—Nulla?
—Nulla, signor conte.
—Se più tardi arrivassero lettere, portatele al club.
—Sissignore….
—Nemmeno una riga! stup…. no! tanto meglio, così sono libero finalmente—e il buon Michele tirò un sospirone che voleva essere di sollievo, ma che invece sembrava un rantolo.—Era la schiavitù dei negri tale e quale: tutti i santissimi giorni dalle due alle cinque e dalle nove alle dodici comprese le domeniche!… Stasera mi divertirò come uno scapolo al Circo Americano; farò la corte a madamigella Fayler e sconcerterò il suo esercito di adoratori….
—Signor conte! signor conte!
Michele si volse e vide il suo portinaio che gli correva dietro con una lettera in mano.
—Ah! ecco! lo dicevo! m'ha scritto! Intanto è la prima a cedere!
Il volto gli si colorì improvvisamente…. ahimè! Si accorse subito che non era una lettera di Lavinia; era un fornitore che lo pregava, stante gli impegni della fine del mese, di rimettergli prontamente il saldo della fattura già da tempo consegnata, in lire 1268 75.
—E sempre al verde questo animale!—Cacciò la lettera in tasca e ritornò a pensare alla contessa.
***
Al Circo Americano non si divertì come aveva sperato. Trovò madamigella Fayler attorniata da una dozzina di giovanottini che la corteggiavano, offrendole dei fiori e dei cartocci di marrons glacès. Michele, là in mezzo a quello sciame che ciaramellava, prese l'aria dell'uomo avvezzo, affettando colla equestre diva una dimestichezza, un fare d'intimità molto olimpico, ma poco educato, e per voler parere spiritoso finì coll'essere impertinente. Madamigella Fayler gli rispose per le rime; Michele si strinse nelle spalle, buttò là un'insolenza e se ne andò. In istrada tornò da capo a non sapere come finirebbe la serata. All'opera già non ci poteva andare perchè c'era la contessa!—Peccato; così bell'opera la Favorita!… A tanto amor, Leonora, il tuo risponda..,. Altro che la musica tedesca e i torci-budella dell'avvenire!… ed io non ci posso andare!… Cioè, anzi, non andandoci proverei a Lavinia che ho paura di rivederla; andandoci, invece, senza guardare dalla sua parte, nemmeno per starnutire, le dimostrerò chiaramente che non me ne importa un'acca di lei!
Giunto al teatro dell'opera, si sa bene, il numero nove fu il primo che Michele adocchiò colla scusa di accomodarsi il goletto della camicia….
—Come mai il capitano non è con lei?
E Michele che aveva notata Lavinia tutta sola, meno la visita innocua di un piccolo segretario di prefettura, cercò nei palchi a diritta per scoprire se il capitano Arditi fosse da quella parte a filare con lei, poi, contento di non avercelo veduto, entrò nella sua barcaccia, dopo di essere passato dal Caffè dove prese un bicchiere di barolo caldo. Il nostro amico si sentì animato da una elasticità nuova, fece gli scalini a quattro a quattro e fra gli amici si mostrò gaio ed espansivo. Si pose sul davanti del palcone, guardò a destra, a sinistra, di su, di giù; insomma il capitano non c'era proprio davvero!… Ma dunque egli non sapeva che la contessa fosse al teatro? Dunque non l'aveva veduta quel giorno? dunque lei non l'aveva avvertito, ergo lui, Michele, aveva avuto torto di sospettare. Allora si sentì invadere da una contentezza, da una beatitudine che gli riscaldava l'anima e il cuore, si accusò di essere stato ingiusto con Lavinia e provò per lei un'effusione di tenerezza così viva da sentirne le lacrime agli occhi. Aspettò un atto ancora; poi, prima dell'ultimo, affatto sicuro ormai che il capitano non sarebbe più venuto al teatro, e perciò anche dell'innocenza della contessa, volò, proprio come dal desio portato, a farle visita. Lavinia, vedendolo entrare, arrossì tutta dal piacere, e quando un altro signore, molto intelligente, ch'era nel palco, battè in ritirata lasciandoli soli, essa, piegandosi tutta innanzi colla vita, per discorrere più piano e più da vicino con Michele:
—Dunque—gli disse— sgarbatone, ti è passata la luna?
—Si, ma sono stato molto male!
—E il motivo, adesso, si potrebbe saperlo?
—Quattordici ore senza vederti! Da mezzanotte alle due è una tirata troppo lunga!
—Hai delle fissazioni, dei capricci proprio da bambino. Lo sai bene che fino a quell'ora non ho mai ricevuto nessuno, e che facendo un'eccezione per te, darebbe subito nell'occhio e farebbe sparlare.
—Verrò travestito, con una barba finta.
—Quanto sei caro!—esclamò Lavinia sorridendo e guardandolo con due occhioni colmi di tenerezza.—Ma, vedi, se non teniamo un'ora fissa, tu, a forza di voler anticipare di dieci minuti tutti i giorni, termineresti col capitarmi in casa appena fa giorno!… Io sono una pigrona, mi alzo tardi, ho i miei interessi da vedere, la casa da dirigere, mille bricciche da fare, e sbrigo tutto prima delle due apposta per essere dopo affatto libera.
—Sì, hai ragione, sono indiscreto e ti domando per..do..n.. Michele non finì la parola: un rumore di sciabola e di sproni, che si ripercoteva nel corridoio, si avvicinò e si fermò proprio sull'uscio del numero nove, poi l'uscio si aprì, ed entrò in palco il capitano Arditi. Il buon Michele diventò pallido, Lavinia ch'era donna e che perciò se le godeva assai tutte queste scenette, sorrise impercettibilmente, più cogli occhi che colla bocca. Il capitano salutò Michele, questi gli rispose colla voce rauca, e il barolo caldo con un impeto subitaneo gli risali dallo stomaco alla gola, mentre il tenore sul palco scenico cantava il romantico: Spirto gentil, de' sogni miei!…
—Che musica ispirata, divina!—esclamò il capitano dondolandosi dalla commozione.
—Sarà benissimo; in quanto a me—brontolò Michele, tenendo le gambe dispettosamente piegate sotto lo sgabello per isfuggire i piedini della contessa che cercavano i suoi—in quanto a me è roba da organetti; patrimonio del passato!
—Non vi fate sentire, per amor di Dio, caro Michele: è uno sproposito, un'eresia, questo che dite; e poi noi italiani non dobbiamo disprezzarci in tal modo. La musica è forse l'unica arte nella quale conserviamo ancora il primato, e prima di Paisiello e di Cimarosa, ma dopo Palestrina, il fiorentino Lulli alla Corte di Luigi XIV….
—Scusate, capitano, è una lezioncina che mi volete dare?
Arditi si morse le labbra, ma si contenne, e coll'aria di dire uno scherzo, più che un'impertinenza:
—No, no; caro Michele—gli rispose sorridendo—non ho tempo da perdere.
Il vino caldo fece un altro viaggio, quasi avesse preso un biglietto circolare. In questo frattempo entrava nel palchetto un vecchio parente di Lavinia, che aveva avuto l'incarico di ricondurla dopo lo spettacolo. Michele si alzò e stese la mano alla contessa per salutarla; Lavinia gliela strinse con una di quelle strette nervose che parlano così bene e così chiaro, levando i suoi occhi cilestri negli occhi foschi cattivi di Michele, con quell'effusione di amorosa inquietudine colla quale la donna si rivela madre o amante: moglie no, perchè le donne, a quel modo, non guardano quasi mai i loro mariti.
Michele, fatto un saluto col chinar del capo, saluto che comprendeva tutti e non era particolare a nessuno, uscì dal palchetto, passò nel Caffè a bere un secondo bicchiere di vino caldo per istordirsi, dopo con un brougham si fece condurre al Caffè di Londra, al club, al Circo Americano, poi di nuovo al club, dove finalmente incontrò il barone di Sant'Arduino, che Michele cercava in tutti quei giri, per mandarlo a sfidare, insieme ad un altro amico, scelto d'accordo, il capitano Arditi.
—Mi ammazzerà—pensava Michele—ma almeno, dopo un fatto simile, il ministro della guerra si deciderà a farlo cambiare di guarnigione.
Alla cena, ad uno spuntino, non ci pensò nemmeno. La testa gli girava, era stravolto; il tradimento di quella donna ormai appariva evidente:—Arditi lo sapeva certo che Lavinia era al teatro, altrimenti non ci sarebbe capitato all'ultim'atto…. con quel freddo cane!…
—Cercavo di te—disse Michele al barone incontrandolo.
—Lo so, e so pure che cosa vuoi dirmi. Il capitano Arditi m'ha lasciato or ora, m'ha detto che gli è sembrato di vederti risentito per una sua freddura, e m'incaricò di dichiararti francamente ch'egli non aveva proprio nessuna intenzione di offenderti.
—Non si tratta di una freddura, ma di un'insolenza bella e buona, ch'egli gratuitamente mi ha diretto in presenza di una signora.
—Via, siamo giusti, anche tu però….
—Voleva rifarmi la storia della musica italiana all'estero: sfido io, l'ho fermato appena ho potuto.
—Va bene, ma insomma, gli estremi per battersi non ci sono!
—Vuol dire, in tal caso, che tu non accetti d'essere il mio secondo?… Pazienza, me ne dispiacerà moltissimo, te lo assicuro, ma ne cercherò un altro.
Sant'Arduino era amico di Michele, e prevedendo che se lo avesse abbandonato sarebbe stato più difficile l'accomodar la faccenda o il risolverla alla meno peggio:
—Io accetto—gli rispose—senza discutere i tuoi motivi. Solamente ti fo considerare che abbiamo ventiquattr'ore di tempo dinanzi a noi. Stasera sei troppo irritato e nervoso, domattina alle dieci vieni a casa mia, discorreremo e combineremo tutto.
I due amici si separarono, e Michele si avviò verso casa. Colà giunto, trovò il servitore che lo aspettava.
—È arrivata una lettera per lei, signor conte, mezz'ora fa.
—Datemela.
Questa volta il presentimento non ingannò Michele, che lacerò la busta e lesse con un sogghigno d'incredulità: «Domani vi aspetto prima delle due, prima dell'una ed anche prima di mezzogiorno se volete. Bambino, bambino, bambino!—L.»
—Troppo tardi, cara!…—si svestì con fretta concitata, strappandosi i bottoni, si cacciò nel letto e spense il lume senza nemmeno leggere la gazzetta. Sotto l'inaspettata dichiarazione del capitano egli ci vedeva chiaro lo zampino di Lavinia, la quale, volendo salvare la propria riputazione, aveva scritto a lui quel bigliettino per adescarlo, e aveva ottenuto nello stesso tempo dal capitano che gli facesse delle scuse.—Oh! era una scaltra, quella là, e sapeva menare per il naso tutto il mondo. Con lui però non ci sarebbe riuscita, oh no! piuttosto se lo sarebbe tagliato!… Se non fosse per lei, il capitano Arditi che contava tre campagne, due medaglie al valor militare e tanti duelli quanti non bastavano le dita di una mano a numerarli, si sarebbe indotto ad un passo simile?… Perfida!… ma egli si sarebbe vendicato facendosi uccidere ad ogni costo!
Il buon Michele non poteva pigliar sonno: si rivoltava nel letto smaniando, colla gola secca, bruciata dalla sete, e si sentiva nelle orecchie un ronzio fastidioso come se la camera fosse tutta piena di zanzare.
Quando alla fine si addormentò, fu sconcertato dai sogni più strani: Lavinia, in mezzo alle tenebre, con una veste scolorita, i capelli di un bigio chiaro, pallida, gli si avvicinava, allungandosi, assottigliandosi, finchè, come una mignatta, attaccava la sua bocca al petto di Michele e ne succhiava il cuore…. e il povero paziente soffriva la sensazione di un vuoto strano e molesto; poi, d'un tratto, la scena variava. Egli era in mezzo ad una campagna sterminata coll'erba e gli alberi color cenere di sigaro, e vedeva contro di sè il capitano, ch'era diventato magro e lungo come Don Chisciotte, con uno spadone che teneva a due mani; ed egli si lasciava infilare colla stoica tranquillità di un dindio morto; ma poi si avanzava lentamente, con isforzi inauditi, che lo facevano sudare, sulla lama che gli attraversava il corpo, finchè giungeva ad abbrancare il suo rivale fortunato: allora, con ugolinesca rabbia, cacciava i denti nelle carni del capitano e, cosa orribile a narrarsi, Michele, di solito tanto schifiltoso, trovava quella carne saporitissima!…
***
Sì svegliò che erano le nove e mezzo, si vestì alla lesta e alle dieci in punto entrava in casa di Sant'Arduino che faceva colazione; Michele annusò con intima compiacenza il profumo dì un consommè di pollo, che davvero doveva essere eccellente.
—Mi fai compagnia?
—No, grazie.
—Sei ancora ostinato come ieri sera?
—Più che mai!
—Allora mi porrò d'accordo con Giuliani per andare insieme dal ca…. Ma tu non ti senti bene?…
—È stato un capogiro…. momentaneo!
—Sei pallidissimo…. che cos'hai?
—Ho fame…. cioè, ho sete del suo sangue!
Il buon Michele alludeva certamente al sangue del capitano, ma però, con gli occhi imbambolati, fissava ostinatamente un piatto di prosciutto cotto, dal taglio fresco, soffice, spumoso.
Sant'Arduino se ne accorse.—Tu non hai fatto colazione?—gli domandò.
—Non ho appetito.
—Chè! l'appetito viene mangiando, non lo sai?—così dicendo il barone aveva fatto cenno al cameriere di servire Michele. Questi poco dopo si sentiva la faccia avvolta dal fumo denso, caldo e profumato del consommé. Cominciò a sorbire le prime cucchiaiate adagio e svogliato, ma poi a poco a poco i suoi movimenti acquistarono una insolita vivacità. Sant'Arduino gli versava del Chablis e del Médoc e Michele lo lasciava fare, mentre prendeva due volte del prosciutto, ingollava una bistecca all'ovo e, dopo di essersi battuto con selvaggio accanimento contro lo stracchino di Gorgonzola, distruggeva adesso un vassoio colmo di tigliate. Il suo volto intanto si rischiarava, l'occhio avea ripreso la vivacità abituale, Michele tornava a sentirsi sano, robusto, contento, e provava una certa contrarietà, pensando di finire ammazzato prima di sera.
Dal consommé al prosciutto e dal prosciutto alla bistecca, egli aveva cominciato a dubitare del tradimento di Lavinia, la cui figura gli si riaffacciava bionda, colorita, colle sue vaghe linee tondeggianti come nell'originale; allo stracchino, era certo della innocenza di lei, e giunto alle tigliate, una cosa sola non riusciva a spiegarsi: come mai egli ne aveva potuto dubitare.
—Lavinia innamorarsi d'un capitano…. delle armi dotte?… Lasciarsi fare un po' di corte, transeat, ma amarlo? Chi lo sospettava era strambo davvero! Se lo avesse amato, per qual motivo allora fingerebbe con me?… Cento volte, anche ieri, le avrei offerto un pretesto validissimo per mettermi in libertà, caso mai mi preferisse un altro, e lei invece tutti i giorni si fa con me più buona, più paziente, più affettuosa. E poi, bisogna essere giusti; Lavinia non sa fingere e non mi sopporterebbe dalle due alle cinque e dalle nove alle dodici, in media sei ore al giorno, se proprio non mi volesse bene.
In fin dei conti non è mia moglie, io non ho nessun diritto, pur troppo, sopra di lei, motivo per cui non ci vedo lo scopo di fingere in pubblico con me, per il gusto di tradirmi di nascosto; e quell'altro, se ci potesse qualche cosa per davvero, invece di sopportarmi sempre lì fra i piedi, mi manderebbe dritto a quel paese!
—Diamine!… Ma dunque, ero proprio matto ieri?… Lei indurre il capitano a farmi delle scuse, per non restar compromessa? Intanto dalle scuse alle dichiarazioni del capitano ci corre e poi…. e poi non è donna, Lavinia, da simili commedie!… Riepilogando, quale prova mi resta del suo tradimento? L'incontro mio col capitano in Via Nazionale! Grazie tante: ma io non posso dire da dove veniva, ed anzi, se Lavinia non me lo ha confessato, vuol dire che non c'è stato da lei. Certo, quando ieri m'ha veduto con un palmo…. di muso, ne avrebbe indovinata la cagione e con un pretesto; qualunque—ha tanto spirito—avrebbe subito giustificata quella visita clandestina. Come l'ho trattata male…. povero angelo!… Ma bisogna che mi compatisca…. ero proprio matto!… Sicuro!… L'amore fa di questi scherzi!…—E allora Michele, ricordandosi del bigliettino di Lavinia, che gli permetteva di andare da lei magari prima delle dodici, fu preso da un desiderio vivo, cocente, di rivederla, di gettarsi alle sue ginocchia, di confessarle tutti i suoi torti, concludendo però che se il giorno prima era stato matto, lo era stato per il gran bene che le voleva!… Guardò l'orologio; erano le 11. Sant'Arduino, il quale in tutto quel tempo non aveva sentito l'amico dire una sola parola, vedendolo adesso che guardava l'orologio, lo credette deciso più che mai nei suoi propositi di vendetta. Allora ritornò da capo, quantunque sperasse poco di riuscirvi, a tentare di persuaderlo sull'inutilità, e quasi sulla sconvenienza, di quella sfida.
—Dunque—gli domandò Michele, quando l'altro ebbe finito, sfettandosi del panattone che inzuppava nel caffè—dunque tu, nel mio caso, in parola d'onore, accetteresti le dichiarazioni del capitano?
—In parola d'onore, accetterei le dichiarazioni del capitano, che è un uomo leale e di cuore!—esclamò Sant'Arduino, meravigliato e soddisfatto del buon esito della sua eloquenza conciliativa.—Tutt'al più, se lo vuoi, posso fargli sapere, in via amichevole, che tu, risentito un po' dalle sue parole, avevi cercato di me, appunto per chiarirle.
—Sì, questo glielo puoi dire, ma ti raccomando di farlo in modo ch'egli non debba credere ch'io abbia del mal'animo contro di lui, perchè, lo riconosco, egli ha agito con me da vero gentiluomo, con molta delicatezza e cavalleria. Dopo tutto, se l'avesse voluto, sai, mi avrebbe tagliato a fette come quel tuo prosciutto, ch'era proprio eccellente. Hai detto bene. Il capitano è uomo di cuore!
***
Mezz'ora dopo, il buon Michele, leggiero, svelto, felice, colla fisonomia ridente e l'occhio limpido, imboccava la Via Nazionale canterellando il motivo del duetto: mia vita l'amarti — Se' tutto per me. E confrontando allora quella sua contentezza gaia, serena e confidente, colla torbida infelicità, l'amaro dubbio e il malessere del giorno prima, non potè a meno di domandare in confidenza a sè stesso:—Ero matto…. o avevo fame?
CAVALLERIA ASSASSINA
Il signor di Gaucherin non avea chiuso occhio in tutta la notte. Dopo parecchi giri di valtzer, ballati colle più leggiadre donne di Bordeaux, si era gettato vestito sul letto, convulso e torvo. I suoi occhi stanchi guardavano con ripugnanza il riflesso bianchiccio dell'aurora che penetrava dalla finestra socchiusa. Una folla di pensieri foschi, angosciosi, gli turbava la mente. Avrebbe pur voluto dimenticare col sonno le vicende di quella notte; ma non ci riusciva, anzi faceva peggio. Gaucherin era stato ad un ballo, e gli splendori delle gemme e dell'oro, i lampi procaci della gaia giovinezza che per tante ore lo avevano esaltato e commosso, adesso gli suscitavano nell'anima un impeto d'ironia amara e feroce.—Ah! senza dubbio si era avvolta di tanto lusso, di tanta luce quella festa, perchè a nessuno sfuggisse l'ignominia di lui!
L'irrequieto giovinetto era andato al ballo per una donna…. voleva almeno vederla. Gaucherin aveva trent'anni, lei ventiquattro. Le fanciulle, quando Gaucherin passava per la via, se lo rubavano cogli occhi. Era bello, e poi aveva fama di ardito, di battagliero. Non c'era stata mano di ferro che l'avesse fatto piegare; la sua spada non ricordava il numero de' suoi duelli, e allora i duelli erano di moda come il ferraiolo a tre baveri e la cravatta a tre giri.
Quanto alla vaga prescelta da questo giovane bruno, forte, affascinante, c'era davvero di che perder la testa. Carlotta di Morny pareva una statua di marmo pario, nella quale una strega in collera cogli umani avesse costretta un'anima strappata dal limbo. In quella donna, nelle sue carni, nelle sue fibre, c'era del ghiaccio. Il suo occhio, quantunque bellissimo, sembrava privo di vita. I fascini che emanavano da lei, erano altrettanti agguati involontarî di una bellezza senza cuore. Aveva la sua forza in un istinto che, mentre temprava la sua virtù, faceva sordo il suo cuore. Era una donna caduta per caso sulla via dell'amore. A ciò non era destinata, ed è per questo che passava fredda, distratta, sicura attraverso quel campo nemico dove, a vent'anni, ogni fanciulla affronta la lotta…. con una corazza di velluto ed un elmo di pizzi e di piume.
Carlotta di Morny quella sera ricevette l'omaggio di cento cavalieri; ma rimase alteramente placida in mezzo al loro caldo entusiasmo: ebbe per tutti un sorriso, una parola, un saluto ugualmente cortese, ma senza scomporsi dalla sua attitudine di regina annoiata, senza che mai l'eterno femminino scoperto da Goethe avesse in lei un solo lampo di vita. Anche durante la danza, nel giro febbrile, vorticoso, insidiatore del valtzer, ella, strana cosa, si mantenne impassibile. I suoi riccioli biondi ondeggiavano appena quando le coppie incrociandosi le une colle altre mettevano in iscompiglio l'aria tepida, odorosa, che tutto e tutti circondava. Ma dopo un lungo ballo, quando il cavaliere garbato s'inchinava innanzi a lei, asciugandosi con una pezzuola di seta la fronte infiammata, notava, sorpreso e dolente, la tranquillità inalterabile della sua dama. Ella era rosea, avea l'occhio sereno e l'atteggiamento di chi vuole la quiete perchè ama la quiete soltanto. Ma il male si è che in quella festa c'era stata una vittima nuova, impensata di questa sirena noncurante e fatale. Il signor di Gaucherin se ne era fortemente innamorato, e siccome fra le sue abitudini avea pur quella di far tutto alla lesta, così si spiegò con lei spiattellandole la sua brava dichiarazione durante un giro di valtzer. Con voce rotta dalla commozione e dall'urto della danza, egli le disse che già da qualche tempo aveva perduta la pace; che sentiva bisogno di lei come dell'aria, della luce; che non era bugiardo giurandole di amarla immensamente. Le disse, insomma, tutte quelle belle cose che son sempre le stesse in ogni idioma; ma alle quali si lavora assiduamente col pensiero prima di esprimerle, studiandone il modo e la forma più efficace, paventando con una timidità inusitata e nello stesso tempo affrettando con un'ansia indicibile il momento nel quale saranno ascoltate.
Gaucherin parlò tremando. Egli citato per la sua serenità quando rischiava la vita, egli che sorrideva in faccia ad ogni pericolo, balbettava, colle ginocchia che gli si piegavano, dinanzi a questa donna, e quando ebbe finito, aspettò confuso, impacciato, ubriaco quasi, una parola di lei. Ma la bionda creatura non rispose nè con una parola, nè con un sospiro e nemmeno col rossore del volto.
—Nulla?… Non mi dite nulla?—esclamò Gaucherin fatto pallido e cogli occhi fissi, lucenti.
—No…. Questa musica allegra e appassionata ad un tempo non è certo adatta per quello che io vi risponderei; ma però non posso disconoscere ch'essa ha pur la potenza d'inspirare sentimenti quali voi dite di sentire per me.
Ciò detto, mollemente si adagiò sopra un divano: aveva parlato abbastanza chiaro…. e Gaucherin, quantunque pazzo d'amore, lo comprese; s'inchinò addolorato, attraversò la sala, e giunto nel mezzo, si voltò per salutarla ancora, quasi mendicando cogli occhi un ultimo atto di compassione. Carlotta di Morny non lo vide, lo aveva già dimenticato e rideva, rideva deliziosamente col marchese di Tracy che si sarebbe detto la stasse aspettando appoggiato alla spalliera dorata di una poltrona vuota.
A Gaucherin quel sorriso punse e rimescolò il sangue; non tremava più; si fermò guatando i due in modo da far paura; ma allora il marchese di Tracy, sghignazzando e guardando lui beffardamente, si sedette al fianco di Carlotta. Per Dio! non l'avesse mai fatto!… A Gaucherin parve di morire. Il cuore gli mancava, si sentì traballare, ma fece violenza e imperò su sè stesso. Si guardò ancora d'attorno, e là, nel mezzo alla sala, urtato, serrato, spinto dalle coppie che ballavano, avvolto da un'onda di luce, tormentato da un'afa soffocante, credette per un momento che tutti ingrossassero la voce deridendolo, come aveva fatto il marchese di Tracy; vide moltiplicarsi le fiamme dei doppieri, e tingersi in bianco, in giallo, in rosso, e quella musica folle, spensierata, egli la sentiva sghignazzante e pettegola, esultare all'oltraggio patito da lui come ad una bastonatura di Pulcinella.
Il suo primo pensiero, forse il suo primo impeto, fu quello di gettarsi sul marchese e di schiaffeggiarlo; ma lo scandalo sarebbe ricaduto su quella donna che, se si era fatta il suo tormento, era pur sempre il suo amore, e si trattenne. Invece, coll'odio nell'anima, facendo sacramento a sè stesso di far scontare al marchese quella sua beffa temeraria, corse a casa, si buttò sul letto, pianse di rabbia, ma promise a sè stesso di aspettare il momento propizio.
***
La stagione delle danze, dei teatri e delle allegre cene era terminata. Il maggio, colle sue rose, colle sue rondini in cerca del vecchio nido e coi ruscelli colmi d'acqua appena calata giù dall'alto, metteva fremiti nuovi di nuovi amori. Una gran benedizione discendeva dai cieli tepidi, tersi e diffusi, parlando di pace, di gioia, sorridendo benigna al fecondo lavorìo della natura. Ma il signor di Gaucherin, da quella notte, si era fatto infelice e cupo. Era stato offeso, odiava e ancora non avea trovato il destro di vendicarsi. Quel riso beffardo lo seguiva dovunque, se lo sentiva d'attorno: era l'incubo della sua vita. E mille volte in cuor suo, mentre le voleva un bene pazzo, smanioso, furente, imprecava contro quella donna che ignorava lo strazio della sua anima, che non poteva neanche comprenderlo; ma che lo rendeva incapace di difendere il suo orgoglio. Se ella non fosse stata, oh, allora!…
Da due mesi Gaucherin cercava invano un pretesto. Il marchese di Tracy non sospettava nemmeno di avere ai fianchi un così acerrimo nemico; ma però se ne accorse il giorno soltanto ch'egli comprese la provocazione. Fu un'inezia, che fra diversi contendenti e in altri tempi avrebbe tutt'al più messo un po' di dispetto. Sangue non se ne sarebbe versato, o quel tanto solamente che ne poteva correre da una scalfittura. Ma quelli erano tempi intolleranti, per così dire, e maneschi. Nel 1829, il duello era una frenesia della vita; affrontare così balordamente la morte, una seduzione. La temerità si confondeva coll'eroismo, essere audaci voleva dire essere celebri, così che talvolta il punto d'onore e la cavalleria giustificavano un assassinio, legalizzando la ragione del più forte. Il lion del giorno era Choquart, guardia del corpo, spadaccino insolente e frenetico, il quale avea avuto quaranta duelli ed altrettante ferite, che alla mattina si svegliava col prurito di trovare una briga, e con questa spavalda aspirazione entrava nelle botteghe dei parrucchieri, gridando con voce grossa e volgare:
—Non usano più i capelli tagliati; è una cosa da stupidi; ve lo dico io; io! pronto a schiaffeggiare il primo che mi smentisce!
E da ciò un tafferuglio, mezza dozzina di pugni, la conseguente sfida e la relativa stoccata che metteva a letto per un mese l'uno o l'altro dei contendenti.
Erano tempi da matti, quantunque con un'apparenza severa e castigata. Da tre anni ì duellisti si erano costituiti in associazione, tutti guasconi, per la maggior parte. Perfezionarsi nella scherma era lo scopo e il vanto; sciabolare, storpiare, uccidere, il lugubre ideale. Le autorità per tre anni tentarono invano di porvi riparo. Il giorno che si misero a perseguitare quell'associazione, due prefetti e un generale, avversarî e vittime dello stesso pregiudizio, pagarono colla vita il loro zelo soverchio. Alla fine gli ufficiali dell'esercito si sollevarono contro questa bestiale manìa; ma il rimedio fu peggiore del male. Era una lotta decisa, pronta, inesorabile, barbara; era togliere la piaga uccidendo l'ammalato, seminare il dolore dove c'erano e madri e spose e sorelle che imploravano misericordia. La morte non si presentava più come un fantasma nero ed immane che cercava gli eroi; ma come un fantoccio insensato e buffone che amava i capricci.
Appunto sotto questi auspizi i due vagheggini della Morny si mandarono i loro padrini. Il signor di Gaucherin era capitano d'artiglieria, duellista audacissimo, uccisore di undici membri dell'associazione che gli ufficiali dell'esercito si erano proposto di distruggere. Il marchese di Tracy era l'ultimo dei duellisti guasconi: l'ultimo…. perchè era stato il più forte.
Presso ad Archon i due rivali si trovarono di fronte, in un bel giorno di fiorita primavera, tutto sole, in mezzo ad un vasto campo serrato da verdura nuova e palpitante: la morte non ebbe mai un più festevole sudario.
Il processo verbale, firmato in piena regola, stabiliva che i due avversari, armati entrambi di due pistole, si dovevano porre alla distanza di venticinque passi, con facoltà di far fuoco l'un contro l'altro, avanzandosi a piacere. Non c'erano sottintesi: l'uno o l'altro dei due doveva, come si dice, restar sul terreno.
Al segnale, il signor di Gaucherin fu il primo che si mosse: altero, sicuro, cogli occhi fissi nel volto del suo avversario, dove pareva a lui che errasse ancora il ghigno di quella notte; ma non aveva fatto cinque passi che il marchese di Tracy sparò il primo colpo…. nessuna fronda d'attorno si mosse. Gaucherin si fermò un istante, fu visto un fremito sulle sue labbra, si fece ancor più pallido, ma continuò, colle braccia protese, le armi ferme nel pugno, il suo cammino…. Adesso anche egli ghignava; l'ora tanto aspettata, sognata, era giunta. Che importava a lui della palla che gli bruciava nel petto?…
Il marchese di Tracy pareva un gigante di granito. Era forse più audace in quella immobilità suprema. Attese, altero come un leone, e quando Gaucherin non fu che a dieci passi da lui, sparò il secondo colpo. Uno sgomento si librò allora su quel campo così lieto, eppur così desolato; un grande sgomento, giacchè il marchese di Tracy, gettate a terra le armi, colle braccia incrociate, immoto, baldo, aspettava la morte, mentre Gaucherin, insanguinato, colle sue pistole ancora cariche si avanzava inesorabilmente spietato.
Egli camminava con una lentezza paurosa: guardò le pistole, osservò freddamente l'acciarino, le montò con cura e le appuntò alle tempie del marchese di Tracy.
Gl'istessi padrini si ribellarono a quell'atto.
—Fermatevi, Gaucherin! Voi uccidete un inerme—gridarono—Basta!… cotesto è un assassinio!
Ma nè il marchese ebbe un pensiero di speranza, nè Gaucherin un atto di compassione. Si volse, ebbe tanta forza di volgersi, volle parlare, ma un fiotto di sangue gli spumeggiò sulla bocca, e colle pistole ferme sulla fronte del suo rivale sparò sghignazzando beffardamente.
Il marchese di Tracy cadde fulminato ai piedi di Gaucherin, che un'ora dopo spirava.
…. Carlotta di Morny, causa involontaria e insciente di così orrenda tragedia, al racconto che gliene venne fatto si rivoltò inorridita. Però non pianse nè il signor di Gaucherin, nè il marchese di Tracy.
A dispetto della sua giovinezza, quella donna non era stata mai viva.
SCELLERATA!…
Il signore cerca della marchesa Giulia o della marchesa Lucia?…—domandava un coso lungo, secco, in livrea, ad un giovanotto elegante, un bel giovanotto, nell'anticamera del palazzo Tolosana.
—Cerco della marchesa….—e qui ci pensò sopra:—Cerco della marchesa Lucia—disse poi, quando si credè sicuro del fatto suo.
—Allora da questa parte—e Battista, perchè come tutti i servitori del mondo, anche lui si chiamava Battista, precedette l'elegante visitatore in un gabinetto di temperatura e di lusso quasi orientale, tutto dorature, specchi e arazzi, fiori e gingilli.
—Chi devo annunciare?
—Gino de' Recanati.
Battista s'inchinò un'altra volta, e uscì lasciando solo il signore, il quale approfittò del momento per riparare, con una mano, ai guasti che avea fatto il cappello sulle onde della capigliatura.
***
Oltre di essere un bel giovanotto, il nostro Gino era anche un giovane ammodo e aveva tutta l'aria del gran signore e del diplomatico. Gino de' Recanati era infatti attachè alla legazione di Spagna e si trovava allora in congedo a Roma…. per le Corse dei Barberi.
Aspettando la bella marchesa di Tolosana egli si guardava dentro allo specchio e misurava le sue forze d'assedio e d'assalto…. A farla breve, da quattordici ore egli era cotto della marchesa Lucia; l'aveva veduta la sera prima al ballo della duchessa Melikoff, le avea parlato, avea ballato con lei. Lucia non era una bellezza romana; piuttosto sembrava una donnina balzata fuori viva e fresca da un capitolo di Feuillet. Il corpicino pieno di grazia…. nervoso, flessuoso, vivace. L'occhio ora provocante ora languido, aveva alle volte un'espressione scaltra e beffarda. Vestiva come acconciava i suoi capelli rossicci copiosissimi, cioè con un disordine pieno di eleganza e di ardire. Rideva, parlava, gestiva continuamente, mostrando due fila di dentini da bambina e due fossette alle guance pienotte. Due fossette che pareano fatte apposta per raccogliere i primi…. e gli ultimi baci dell'innamorato.
Recanati non durò gran fatica a perdere la testa per una creatura tanto piacente; ma però un merito la cara marchesa glielo doveva pur riconoscere; quello di essersene invaghito subito subito, senza titubar nella scelta fra lei e sua cognata, perchè, bisogna anche sapere che Lucia aveva una cognata, la marchesa Giulia, donna che, in un altro genere di bellezza, era pure un astro dei più sfolgoranti.
Le due cognate erano l'una al braccio dell'altra quando Gino le notò per la prima volta:—Ohe! c'è del buono!
—Le conosci?—domandò il nostro amico al conte Raiberti, un ufficiale di cavalleria che a Roma faceva al nuovo arrivato gli onori dell'ospitalità.
—Mezz'ora fa mi ci ha presentato il Vitalis.
—Vuoi fare a me lo stesso piacere?
—Volentieri.
—Chi sono?
—La prima è la marchesa Giulia di Tolosana, vedova….
—Peccato! Non ne parliamo più…. E quell'altra?….
—Quell'altra è la marchesa Lucia, una Tolosana anche lei. Hanno sposato due cugini. Uno è morto, quello della marchesa Giulia, e l'altro, quello della marchesa Lucia, è vivo e sano….
—Meno male; e che la grazia di Dio lo conservi!
Gino fu presentato alle dame. Egli ballò una contraddanza colla vedova, per convenienza, poi una mazurka e un waltzer con quell'altra, per…. per il gusto che ci trovava. Al cotillon, il cuore, la felicità, l'avvenire del nostro diplomatico, tutto insomma era già nelle mani della bella Lucia.
—Quando mi sarà concesso di rivederla, marchesa?…
—Ricevo gli amici tutti i giorni dalle due alle quattro.
—Allora mi permette di venire dalle quattro alle cinque?
—Come! non vuol essermi amico?
—La conosco da troppo poco tempo per esserlo, e l'amo già troppo per diventarlo.
—Oh! oh! Una dichiarazione?!…
—No. Una confessione.
—Allora c'è un peccato da assolvere?
—Non lo so, perchè è la prima volta che provo…. quello che provo!
Finito appena il cotillon, Lucia e Giulia furono delle prime a partire, e naturalmente anche lui, Recanati, s'affrettava a lasciare la festa.
—Sai, Gino, gli disse il conte Raiberti che l'incontrò nell'anticamera, devo farti delle rettifiche a proposito delle cognate.
—Delle cognate?
—Cioè delle due cugine, delle Tolosana insomma che io credeva cugine, mentre invece sono cognate perchè hanno sposato due fratelli. Uno per una.
—Ah! tu in fatto di parentele sei sempre lo stesso confusionario.
Gino, uscito da casa Melikoff, contro al solito quella notte non si avviò verso il club. Aveva bisogno di essere solo, di fantasticare. Passeggiò come lo portavano le gambe, a caso, per viottoli e strade deserte, camminando nel fango e nelle pozzanghere colle sue scarpine da ballo, colla pelliccia aperta, quantunque facesse un freddo acutissimo, e col paracqua chiuso quantunque cadesse un'acquerugiola fitta come neve. Suonavano le quattro quando si trovò sulla porta dell'albergo.—Le quattro!… Dodici ore ancora!… Una eternità. Per accorciare il tempo non c'è che uno spediente: dormire…. se si può. Gino fece prova di questo espediente, e il giorno dopo, alle tre, quando il cameriere aprì le finestre della sua stanza, egli sognava la moglie del superstite Tolosana.
***
—Bravo Recanati! Credevo che ella si fosse dimenticato dell'impegno che avea preso—disse la marchesa Lucia animando il salottino col fru-fru della sua veste di seta turca ed inondandolo con un profumo acuto, inebriante; un profumo ed un fru-fru che scossero tutte le fibre di Gino.
—Dimenticarmene?… Se da ieri notte io non fo che pensare a lei! non fo che desiderare questo momento, imprecare al tempo, pigro, eterno, noioso?!
—Dio mio, quale crescendo! Badi però che sono le quattro suonate.
—Lei m'ha detto, marchesa, che riceve dalle due alle quattro….
—Appunto; come vede, avrebbe potuto imprecare al tempo così eterno, così noioso, due ore di meno. Ma via, non si confonda e impari a essere meno eloquente e più…. e più utile. Butti giù, da bravo, la tenda di quella finestra, così non mi vedrà arrossire ai suoi complimenti.
Gino ubbidì. Difatti dalla finestra entrava una striscia di sole molesta, sfacciata.
—Adesso però io non la vedo più;—esclamò il galante mortificato.—Era sole d'inverno e di tramonto, e, abbassata così la tendina, essi rimanevano in una oscurità quasi completa.
—Si consoli; non ci scapiterà molto!…
—Forse, avendo imparato a vederla anche quando non sono con lei….
—Così presto?! Ma in tal caso ella avrà lavorato di fantasia, e ora, veduta a occhio nudo, chi sa come le sembrerò brutta!
—Divina!… Adorabile!…—Queste due volgarità Gino le aveva lasciate sfuggire a denti stretti, schiacciando quasi, con un moto convulso, il cappello fra le ginocchia. Benchè alle volte egli fosse pieno di spirito come un termometro, adesso lo spirito era svaporato del tutto. Egli si sentiva molto…. molto commosso. L'oscurità del salottino, alla quale il suo occhio si abituava, lasciava distinguere, a poco a poco, la bella marchesa di Tolosana che si disegnava fantasticamente fra i colori vivaci della seta e dei velluti. Di quella bizzarra creatura, Gino intravvedeva la linea pallida del collo e delle spalle, una linea che si allungava via via completandosi, quando a Lucia, che era tutta un continuo movimento, si apriva meglio la scollatura a cuore della veste. E distintamente, anche nell'oscurità, vedea disegnarsi il biancastro delle braccia tondeggianti, che, nude fin sopra il gomito, uscivano dalle maniche larghe e cortissime, e poi…. e poi tutta quella massa di capelli, quel disordine, quella confusione di capelli che, lunghissimi, le cadevano sul collo sulla faccia, sulle spalle, penetrando qualche ciocca indiscreta anche nell'apertura della veste; il profumo intenso, nuovo, particolare a quella donna, e il caldo della stufa e i fiori…. Insomma, se a Gino era svaporato lo spirito, bisogna pur compatirlo!…
—Adorabile!… Divina!…
—Recanati, attento! È la quarta delle dichiarazioni ch'ella mi fa in cinque minuti, e così non mi lascia nemmeno il tempo di poterle gustare.
—Marchesa cattiva! cattiva! Per amarla troppo terminerò coll'odiarla.
—Il caso non sarebbe nuovo, ma:
Sì fieri sensi nell'ardente petto Chi v'ispira, o signor?
—Sfido io! Non c'è caso ch'ella voglia prendere le mie parole sul serio!
—Oh! Se non prendo le sue parole sul serio, dovrebbe ringraziarmene, caro Recanati—e qui l'accento ebbe un'intonazione molto marcata.—Se no, scusi, sa, scusi, ma, a quest'ora…. me ne rincrescerebbe tanto per la diplomazia, ma….
—Marchesa, non era mia intenzione l'offenderla.
—Lo credo, e non si sgomenti. A me piace lo scherzo e ho capito che piace molto anche a lei, ecco tutto.
—Ella certo non può dubitare della mia stima!
—Oh no; perchè sono abbastanza sicura del fatto mio, ma lei, come lei…. Mi conosce da dodici ore e pretenderebbe di amarmi non solo, ma pretenderebbe anche di farsi amare e….
—Non lo pretendo, marchesa, lo desidero.
—Un momentino; lasci finire. Appena presentato, subito mi scarica addosso una dichiarazione fulminante. Io ne rido; e lei, con una disinvoltura invidiabile, giù la seconda, la terza, la quarta: una raccolta non sempre originale, ma molto ricca. Continuo a ridere, per il meno male, e allora, con un talento superiore a qualunque filodrammatico, mi recita per benino la parte del cruccio e dell'ira. Senta, se lei mi lascia ridere, rider di cuore, potrò credere che, pure scherzando, abbia della stima per me; ma se invece dubita solamente che io possa accettare le sue, sarò buona e dirò le sue amabilità sul serio, per valuta corrente, nei miei Stati—la sua passione che dura da dodici ore, delle quali ne avrà dormito otto per lo meno, mi condurrebbe a delle conclusioni contrarie, credo, ai suoi desiderii.
Ella rideva mentre parlava, rideva con un riso fresco, giovane, sonante, e le fossette delle sue guance si facevano più profonde e più tentatrici.
—Sì…. dodici ore, sarà; ma dodici ore sono più che abbastanza per diventar matto!
—E allora, per ritornar savio, quante ore pensa che le possano occorrere?
Gino, a questa lezione, perchè, anche detta ridendo, mentre ella, con una mano, si accomodava i capelli dietro la nuca, mostrando così tutto il braccio nudo e facendo risaltare le curve squisite del busto, era sempre però una lezione, Gino si trovava maluccio….
—Chi le assicura che io l'abbia veduta per la prima volta ieri sera?—diss'egli come l'uomo che nuota a caso in cerca di una tavola di salvamento.
—Raiberti me lo ha assicurato mezz'ora fa.
Raiberti era un buon diavolo, ma chiacchierava troppo.
Esso raccontò alla marchesa l'esclamazione di Gino al sentire che Giulia era vedova, la confusione delle parentele; raccontò tutto, in una parola. D'altra parte era la sua prima visita, e si riteneva fortunato di avere così un argomento qualunque da mantener viva la conversazione.
—Ma Raiberti non lo poteva sapere.
—No?… Se mi ha detto che son due giorni soli ch'ella è qui a Roma e che era assente dall'Italia da cinque anni?
—Questo non vuol dire. Non è la prima volta che ci vengo.
—Ma io, cinque anni fa…. cinque anni fa ero già fidanzata.
—Fidanzata…. pur troppo!—Dicendo queste parole, egli prese una cera rassegnata, si avvicinò a Lucia che, sicura di sè, non si ritrasse nemmeno, e:—Se io le dicessi—continuò—di aver portato meco in questi cinque anni di esilio….
—D'esilio?… In Ispagna?… Alla Corte?… Con una incoronazione, due matrimoni e un funerale?
—Cinque anni di esilio, perchè non ho potuto dimenticare mai ciò che io avevo lasciato in Italia, qui a Roma.
—Raiberti me lo ha detto: una nonna adorata!…
—Marchesa, questa è cattiveria, è crudeltà….
—Via, via, da bravo! quella brutta faccia non gliela voglio vedere!…—e Lucia stese una delle sue piccole mani a Gino, che la prese e la strinse…. anche un po' troppo.
—Avevo lasciata in Italia, una fanciulla bionda, pallida, con due occhioni neri.
—Non la si può dire una rarità della specie; tutte le bionde, da poco in qua, hanno gli occhi neri.
—Lei…. non si ricorda di nulla, lei?—Gino prima di andare avanti aveva bisogno di un qualche indizio per poter regolarsi.—Imbecille! Perchè non sono andato al club ieri sera?—pensava intanto fra sè.—Avrei potuto forse conoscere suo marito e raccogliere qualche informazione opportuna.
—Non si ricorda di nulla, lei?…
—Io?… Di nulla!
—Non si ricorda di avermi veduto mai, nè al Pincio….
—No….
—E nemmeno al Valle?…
—Al Valle, cinque anni fa? Ero ragazza!
—Cioè all'Apollo, volevo dire.
—Ci sono stata una volta con papà. Alla première dell' Aida.
—E non si ricorda di avermi veduto!…—soggiunse Gino, il quale finalmente si sentiva in porto.
—Io no. Ero fidanzata, e capirà bene, io non guardava che il marchese di Tolosana.—Così dicendo Lucia abbassò gli occhi sospirando profondamente; profondamente davvero.
Gino pensò, con una soddisfazione colpevole, che anche quel marito non andava a versi alla moglie.
—Io non conoscevo alcuno—continuò il diplomatico—ero a Roma, per gli esami, da pochissimo tempo. Entro in teatro, mi guardo attorno svogliatamente e vedo…. vedo lei, marchesa, in un palco di….
—Di second'ordine.
—Appunto…. In seconda fila. Vederla, e restare colla bocca aperta, assorto in una muta contemplazione, fu tutt'uno. Le cantilene di Selika e di Nelusko….
—Cioè di Radames e d'Aida….
—Di Radames e d'Aida, trovarono la mia mente, i miei sensi distratti. Tutta la mia vita era negli occhi, negli occhi che contemplavano lei, e la divina musica di Verdi rimaneva soffocata da un'armonia celeste dell'anima, che mi trasportava in un altro mondo, in una follia di desiderii e di sogni. Egli è che allora conoscevo l'amore per la prima volta, egli è che allora per la prima volta imparavo ad amare. Finito lo spettacolo esco dalla sala per incontrarla all'uscita. Mentre la vedo passare bionda, pallida, sottile, come la figura d'Ofelia nella mente di Shakespeare innamorato, scorgo un collega:—Conosci quella giovinetta? domando.—È la…. Qui Recanati s'interruppe un istante: il casato di Lucia non lo sapeva.—È la fidanzata del marchese di Tolosana—mi risponde. Creda, marchesa…. mi sono sentito una mano ghiacciata serrarmi la gola, un coltello piantarsi nel cuore….
Lucia non rispose, pareva commossa…. anche lei pareva avesse perduto lo spirito.
—Ricordo di averla veduta quella sera con…. con un….
—Con mio padre.
—Appunto. Un signore…. piuttosto in età….
—Alto di statura….
—Sicuro, alto…. un po'….
—Un po' magro.
—Un po' magro….
—Colla barba bianca.
—Oh bianchissima. Vede bene come ricordo ogni più minuto particolare!
Lucia lo guardò con un'occhiata che era una carezza, e sfogliando a caso uno degli album che teneva sul tavolo, mostrò un ritratto a Gino.
—Lo ricorda?…
—Suo padre?…
—Mio padre.
—Tal e quale.—Eppure, pensava Gino guardando il ritratto, quella barba io la conosco.—Le rassomiglia molto.
—Le pare?
—Tutta lei. Come era bella anche allora! Con suo padre nel palco formavano un quadretto, tutt'e due, che non ho mai potuto dimenticare.
—Tutt'e due?… Cioè, tutti e tre, perchè c'era anche mia sorella.
—Sicuro, ma…. non se n'abbia a male…. con sua sorella era il quadretto veduto, solamente lei era quell'altro; quello conservato nell'anima.
A questo punto, Gino baciò lentamente la mano della marchesa. Lucia lo lasciò fare abbassando la vaga testina e così si aperse un po' più la scollatura dell'abito. Cominciava ad esser commossa anche lei, non della commozione effervescente di Gino, ma di una specie di malinconia tranquilla e profonda.
—Ebbene, signora Lucia…. Permetta che io la chiami così, per una volta sola almeno; ebbene, signora Lucia, quando le avrò detto che sono cinque anni, cinque lunghi anni che io vivo per lei e con lei, crederà ancora che, se sono pazzo, mi possano bastare poche ore per ritornar savio?
Lucia lo guardò, sorrise, e poi abbassò la testa anche di più:
—Oh se fosse proprio vero…. cinque anni…. allora…. allora sarebbe tutt'altra cosa!…
Recanati intanto continuava a farsi più e più vicino, e già, con un ginocchio, toccava la veste della marchesa.
—Io non pretenderei, certo, non pretenderei mai di essere amato, ma se tutto quello che ho sofferto in cinque anni, tutto quello che ho sofferto di dolori, di gelosie….
—Gelosie….—e qui la marchesa sospirò un'altra volta—adesso lei non avrebbe più ragione di essere geloso….
—No?…—Curiosa! pensava tra sè il diplomatico, fra marito e moglie le relazioni sarebbero dunque interrotte?—Ascolti, marchesa—riprese poi rinfrancato da questa nuova scoperta.—Ascolti. Mi deve rispondere con franchezza, con serietà. Se lo ricordi, non ha il diritto di scherzare colla passione di un uomo, perchè ha il diritto di non parteciparvi!
Lucia lo guardò con uno sguardo tenero, lungo, e riabbassò di nuovo gli occhi.
—Quando io facessi tutto ciò che il suo capriccio fosse per domandarmi, quando io superassi tutte le prove alle quali le piacesse di sottopormi, fra un anno, fra due, fra dieci, potrei forse sperare….
—Che cosa?…
—Una sua parola…. una sua parola sola…. Mi dica qualche cosa, marchesa…. Non rimanga così muta…. la prego, la supplico…. Dunque?… Sì o no?… Parli!…
—…. Forse! Chi sa!…
—Forse! Ah! Grazie, grazie; sente dunque che…. un giorno…. E allora si mostri buona, abbia della compassione per me. Non mi faccia aspettare troppo quel giorno. Sarebbe una crudeltà!
—Ma bisogna intendersi prima sul tenore di questa parola….
—Le domando solo di lasciarmi spendere la vita, tutta la vita, per adorarla in ginocchio. Domando di essere l'uno dell'altra per sempre! Oh! se potessi portarla con me, fuori dal mondo che ci separa, in una campagna isolata, lontana, lontana….
—Ma se io la dicessi, quella parola…. potremmo vivere così.
—Liberi?
—Come l'aria.
—Decisamente sono divisi—concludeva Gino—e quello stordito di Raiberti che non me l'ha detto!… Scommetto che l'ha fatto apposta.
—E allora tanto più se ella è libera, parli, parli subito. Dica tuttociò che compendia il mio sogno di cinque anni. Sarebbe così bella la nostra vita!
—No. Ella deve prima conoscermi meglio. Conoscermi a fondo. Ho dei difetti, sa; sono stata viziata, perchè sono stata anche molto amata.
—Conoscerla? Ne ho forse io di bisogno? La donna che si ama, s'indovina, si sente.
—Il passo è grave ed io voglio lasciarle tempo a riflettere….
—Riflettere?! Riflettere quando l'amo?
—Si tratta della libertà, si tratta di tutta la vita, ci pensi!
—Ma s'è già nelle sue mani tutta la mia vita!
—Allora….
—Allora? Ebbene!… allora?
—No, no, parta, signore. Un altro giorno mi ringrazierà di non averle ceduto, di non averla sorpreso, quasi, in un momento di esaltazione.
—Partire? Partirò dopo che m'avrà detta quella parola, non prima, di certo.
—Ma se io le dicessi questa parola oggi, subito, che cosa poi potrebbe pensare di me?…
—Che siete un angelo!—rispose Gino, tentando il voi per la prima volta.
—No, non sono un angelo—e qui Lucia, a sua volta, cogli occhi umidi, lucenti, accesa nel volto, tremante, pareva in preda anche lei all'orgasmo, in uno stato, pareva, di eccitamento nervoso.—No, non sono un angelo. Sono una povera donna che sente, che sente troppo, forse. Un linguaggio così appassionato, la confessione imprudente di un amore che dura da cinque anni, solitario, pieno di fede e senza alcuna speranza…. tutto ciò mi ha commossa, sconvolta. Oh, signore, dev'esser buono lei, che è tanto forte: ebbene, abbia un po' di compassione per me.
—Cara….
—E poi ella mi ricorda nella voce, nel volto, negli occhi…. mi ricorda….
—Chi vi ricordo?…
—No, no, parta, parta finchè sono padrona di me. Parta, non mi guardi in quel modo…. Mi fa male. No, è inutile, oggi, così subito, non voglio dirla quella parola. No. Sia buono. Non mi guardi così!—Ma il diplomatico si ostinava a fare il cattivo, e mentre sbarrava ancora di più gli occhi, fissandola, pareva volesse magnetizzarla, con una mano era penetrato adagio, adagio fra la spalliera del sofà e la vita della marchesa che, d'un tratto, strinse forte contro il suo petto.
—Ah! Demonio!
—Angelo!… Quella parola la voglio!
—No!…
—E allora già io non vi lascio.
—Ah! Mio Dio! Ebbene…. sì…. sì, sarò vostra moglie!
—Mia moglie?!—esclamò Gino e, rallentate le braccia, ritornò fermo, al suo posto.—Mia moglie?!… Cioè…. come sarebbe a dire?…
—Credo che non mi vorrete offendere, signore; credo che non avrete pensato nemmeno per un istante di poter ottenere il mio cuore, senza prima avermi fatta vostra moglie. Credo che non sarà una colpa quella che dopo cinque anni di amore venite a propormi.
—No, no certo, signora marchesa…. solamente…. mi avevano detto…. che…. vostro marito….
—Mio marito, dal cielo, mi perdonerà.
—Dal cielo?!…—Ah imbecille d'un Raiberti, imbecille!—pensava Gino che si sentiva la voglia d'inghiottirselo crudo come un'ostrica.—Egli ha confuso le due. La maritata era quell'altra!—e intanto continuava a ritirarsi, restringendosi in fondo al divano; non sapeva più quel che si facesse, asciugava il sudore coi guanti, cercava la lente che teneva nell'occhio, avrebbe voluto rispondere, ma non sapeva infilar due parole. Quella che avrebbe infilata molto volentieri, sarebbe stata la porta.
—Credete, siete certa davvero che vostro marito dal cielo perdonerà se….
—È la sua immagine ch'egli mi fa rivivere in voi.
—Grazie tante del miracolo—masticò Gino fra i denti e la bile.
—Voi gli rassomigliate in un modo singolare.
—Io?… Gli rassomiglio?
—Nel volto, negli occhi specialmente. È per questo che ho sentito subito di volervi bene.
—Era lui, dunque, che io poco fa vi ricordavo?
—Sì, ora posso confessarvelo…. Ora posso dirvi tutto, perchè oramai siamo uniti per sempre. Appena voi mi foste presentato ieri sera, io ho sperato quasi in una risurrezione. Aspettavo una vostra parola d'affetto come….
—Veramente, in principio, mi avete trattato piuttosto male.
—Volevo mettervi alla prova, e poi temeva quello che non è, fortunatamente. Temeva, e lo temeva per il mio avvenire, per la mia felicità, che voi foste un vagheggino sciocco, presuntuoso e leggiero, con nessuna stima nelle donne, e con nessun rispetto per il loro onore; un irresistibile di professione, un Don Giovanni da strapazzo che si crede un gran Sultano e passeggia colle tasche piene di fazzoletti per….
—Ma il vostro dubbio….
—Oh! Il mio dubbio offendeva il vostro carattere, come offendeva la cara memoria di colui che voi mi ricordate tanto!
—E per ciò….
—E per ciò capisco che vi debbo un'ammenda…. ebbene, io vi domanderò perdono a Tolosana…. una villetta appartata dal mondo, una villetta chiusa da tanti anni, ma che si riaprirà con voi, perchè con voi riavrà l'adorato suo ospite e signore. Mi avete aspettato cinque anni ed io non ho il diritto di essere crudele, non voglio farvi aspettare di più. Ecco la mia mano, è vostra. Daremo un addio per sempre alla società, al mondo, alle feste, ai balli, ai teatri, alla Corte, come avete desiderato, per vivere noi due soli, in campagna, in mezzo al verde, lontano, molto lontano, raccolti nel nostro amore, fra
Pianure interminabili e colline Di perpetua verdura inghirlandate;
solamente rallegreranno la solitudine i miei figli che amerete…. come un giorno amerete i nostri, non è vero?
—I vostri figli?
—Quattro….
—Quattro?
—Quattro angioletti. E verrà con noi, a Tolosana, mia madre….
—Anche la suocera!—borbottava Gino, sospirando un treno diretto che lo riportasse a Madrid.
—È un po' nervosa, irascibile, malaticcia…. ma è un angelo anche lei!
—Anche lei! Tolosana, cara, diventerà la scala di Giacobbe!
—Ah! Gino, ripetete ancora le vostre divine parole di poco fa: Come sarà bella la vita!
Lucia, così dicendo, questa volta si avvicinò lei. Ma a Recanati non pareva più la medesima. In quelle tenebre l'occhio si era assuefatto e vedeva che la carnagione della marchesa non conservava più la prima freschezza e che molto candore lo doveva alla cipria. I capelli non erano biondi, ma rossi, il disordine della pettinatura di pessimo genere, i colori sfacciati della veste di pessimo gusto, e il profumo che aveva intorno quella donna era un odore insopportabile di kaenferia, da far venir l'emicrania.
—Prima però…. ho da regolare qualche affaruccio…. e bisogna per pochi giorni che io ritorni in Ispagna….
—Benissimo, andremo in Ispagna facendo il viaggio di nozze! Avete sofferto cinque anni di angosce ed io voglio compensarvene, non lasciandovi mai, mai più.
—Questo è impossibile…. il mio ufficio…. ho una missione del Governo delicatissima e….
—O posso venire con voi…. o date le dimissioni.
—Ma….
—Non ascolto nulla, non ammetto nulla, non vi permetto una sola parola. Sono gelosa, e basta.
—Avete torto. Io non sono già un Don Giovanni da strapazzo, io non sono un gran Sultano che abbia le tasche piene di fazzoletti per….
—Oh! Questo no. Anzi non ne avete nemmeno uno: da mezz'ora vi asciugate il sudore coi guanti.
Così dicendo, Lucia suonò il campanello. Battista entrò.
—Alzate quella tendina. Mio Dio!—disse poi Lucia a Gino, vedendolo pallido e quasi allibito,—voi vi sentite male.
—Non è nulla…. è l'emozione…. mi sento bisogno di prendere una boccata d'aria…. d'aria libera.
—La signora marchesa ha null'altro da comandarmi?—domandava intanto Battista.
—I bambini sono di là?
—Sono usciti, signora marchesa—rispose il servo.
—Con miss Dlain?
—No, col signor marchese.
—Appena ritornano, dite a mio marito,—aggiunse Lucia, fissando Recanati che a queste parole acquistava gli smarriti colori,—dite a mio marito che li conduca qui, che voglio vederli, andate.
Battista, fatto uno dei suoi soliti inchini a tre tempi, scomparve di nuovo.
—Come? Ma dunque—allora—voi vi siete presa giuoco di me!—esclamò Gino con aria offesa.
—Sì, un pochino, ve lo confesso. Intanto vi avverto che all'Apollo da ragazza non ci sono mai stata e che cinque anni fa ero ancora a Bologna.
—Ma….
—Mio padre poi è piccolissimo di statura e non ha mai portata la barba.
—Ma allora, quel ritratto?…
—Quel ritratto? Abbiamo guardato l'album degli uomini illustri: il ritratto era quello di Don Pedro d'Alcantara, l'imperatore del Brasile.
—Aveva ragione anch'io! Quella barba non mi era nuova.
—Del resto, calmatevi—continuò ridendo Lucia, con un'aria di canzonatura che le andava a meraviglia—benchè imperatore, Don Pedro è un uomo di spirito e non se n'avrà a male se un diplomatico ha trovata molta rassomiglianza fra l'augusto suo volto e quello di una povera marchesa.
—Marchesa…. Marchesa scellerata!
Gino, nella sua falsa posizione, non trovava altra scappatoia, per il minor male, che quella d'irritarsi e d'offendersi. Prese il suo cappello:
—Ed ora….—mormorò cominciando dal salutare Lucia.
—Ora potete venire anche voi, dalle due alle quattro…. quando vengono tutti gli altri.
—Non mi rivedrete più, signora marchesa.
—Mai più?…—disse Lucia con un accento e una espressione che mostravano del rincrescimento sincero….
—Riparto questa sera per la Spagna.
—Ebbene, me ne dispiace molto, molto.—Dicendo queste parole Lucia si era rifatta seria, e i suoi occhioni avevano un'espressione così ammaliante, che Gino credendola forse pentita del suo scherzo e dolente per la sua partenza, ritornò indietro, vicino a lei, e, prendendole una mano:
—Davvero?—le domandò—ve ne dispiace molto che io ritorni in Ispagna?
—Molto, perchè la nostra diplomazia mi pare in cattive mani!
QUINTINO E MARCO
L'avevano chiamato Quintino, perchè bisognava trovare ad ogni costo una parola che, mentre ricordava al pover'uomo tutta la sua miseria, lo insultasse, e facesse ridere; e la parola fu trovata.
S'egli fosse stato meno forte, incontrandolo gli avrebbero allungato dei calci, oppure avrebbero fatto una gran baldoria, buttandogli in faccia dei pugni di sabbia o delle manate di fango; s'egli avesse avuta una casa, una mensa, una donna, sarebbero entrati là dentro per attossicare quel pasto, per offendere quella pace e per tentare quella donna: ma il disgraziato, quantunque paziente e mite, era forte…. ed era solo. Non restava dunque che il veleno dell'ironia; e il pitocco seminudo, che non aveva mai un soldo in saccoccia e non portava con sè che una gran fame per tutto bagaglio, fu chiamato Quintino perchè allora appunto era ministro delle finanze Quintino Sella. Quel nomignolo, buttato là per ischerno da un burlone ben pasciuto, fece dimenticare il vero nome dell'oscuro martire, crocifisso dal buon umore altrui, un nome, che la sua mamma forse, povera pia, avrà voluto scegliere apposta per lui da un vecchio libro di preghiere. Ma Quintino era buono, paziente, rassegnato; e non solo sopportava tutto, anche quell'insulto quasi feroce, sorridendo con un sorriso così mesto che avrebbe dovuto inspirare un po' di compassione, ma per far ridere ancora di più, aveva messo il nome d'un altro ministro delle finanze, di Marco Minghetti, al fido e solo amico ch'egli avesse al mondo; al suo cane. E Marco era proprio degno di Quintino; era una bestiaccia magra, sozza, appuntita; ma però giudiziosa, compassata, prudente…. o dormiva, o pensava. Mai un latrato, mai un ringhio ostile, non faceva mai un salto più del necessario, non faceva mai una corsa alla quale non fosse stata obbligata. Tutto il suo còmpito si riduceva a far da sentinella con un cheppì di carta ed un randello per fucile. I soldati, a veder quel fantaccino più rassegnato che formidabile, se lo indicavano l'un l'altro, ridevano a crepapelle, gli si fermavano a frotte d'intorno e facevano sì che la bestia fosse più profittevole dell'uomo.
Quintino lo capiva, e quando guardava Marco, accarezzandolo colle mani lunghe ed ossute, i suoi occhi rivelavano una tenerezza infinita.
Come l'uomo, anche la bestia era triste e meditabonda. Quintino diffondeva la sua melanconia su Marco; e tutti e due, confusi nello stesso dolore, parevano maledetti dallo stesso destino.
Certo i due affamati che si scorgevano lontani, sul fondo bianchiccio della strada: certo quell'uomo vestito di rosso, magro ed agile, e quel cane tutto nero che rigava col muso l'arso e polveroso terriccio, camminando a sghimbescio, formavano un quadro triste e lacrimevole al quale non c'era raggio di luce nè colori di maggio che prestassero un solo riflesso giocondo.
L'esistenza di Quintino era simile a quella di un bandito perduto in una macchia, senza un pensiero della vita, senza un desiderio, senza mai una speranza; e alle volte cercava invano una goccia d'acqua, mentre bruciava dalla febbre, cercava invano un mucchio di paglia mentre cadeva sfinito dalla stanchezza.
Tuttavia egli non si lamentava mai; era sempre muto come Marco, e l'uno e l'altro facevan festa a chi donava loro un pezzo di pan nero, anche se non lo dava per carità, ma solo per tenere in vita quelle due strane creature che facevano ridere coi loro giuochi e col loro aspetto così buffo e meschino.
E come non riuscivano a sfamarsi proprio del tutto, così non avevano mal nemmeno un giorno di riposo. Camminavano sempre attraversando le città, i borghi, i villaggi, ed erano sempre in mezzo alle feste, al chiasso e alle allegre ribotte. Quintino colla sua faccia da funerale, e Marco Minghetti colla coda fra le gambe.
Ma quando l'uomo scorgeva di lontano al di là di una strada lunga, arida, corsa dalla polvere o impaludata dal pantano, il paesello nel quale ricorreva un mercato o una fiera, affrettava il passo come un povero ciuco al quale si fa passar la stanchezza e il dolor di reni con una bastonata, e allora dei lunghi e grossi sospiri gli salivano su dal cuore alla gola, come se dietro a quelle bandiere svolazzanti, a quegli archi di mortella, al brulichìo di quella gente, ci fosse stata per lui la gogna o il patibolo. Ma la fame lo faceva affrettare, allungava il passo e con un fischio confortava il suo compagno di viaggio e di gloria che gli trottava alle calcagna, col muso basso, colla lingua fuor dalla bocca, penzolante.
Tutti e due andavano dritto fino in mezzo alla piazza più frequentata; e là Quintino piantava le sue tende: stendeva un canovaccio sudicio per terra, intanto che Marco lo stava a guardare riposando sulle gambe di dietro e il collo piegato per il fastidio della cordicella che gli teneva fermo sul capo il cheppì di carta. Quando tutto era pronto, il cane si rizzava su, dritto in piedi, il saltimbanco gittava per aria, salutando la folla, il cappellaccio a tre punte, e la rappresentazione incominciava.
Era un uggioso spettacolo. Pareva che quella maglia di un rosso scialbo e stinto dalla pioggia e dal solleone, coprisse uno scheletro. Quando scattavano in salti e capriole o si allungavano o si torcevano, le ossa del saltimbanco pareva che scricchiolassero. Era un pagliaccio ben triste quel povero Quintino!…
Egli campava la vita sempre chiuso dentro a quelle sue maglie lacere che non lo difendevano nè dal caldo nè dal freddo, coi calzoncini corti a sbuffi verdi filettati di lustrini anneriti, colle scarpacce bianche, sformate, la coda e il cappello da Meneghino, e, da anni, viveva in quella buffonerìa della miseria, come se per lui fosse diventata la sua propria carne; come Marco viveva nel suo pelo lungo e inzaccherato. La faccia di Quintino però era ancora più buffa del muso di Marco: quei capelli nerissimi, ruvidi, dritti, parevano un pennacchio, così tagliati all'ingrosso come erbe selvatiche rotte da un colpo di falce. Nel suo viso si vedevano ogni sorta di rughe; aveva l'occhio senza sguardo, la fronte immota, una rossiccia lanugine sul mento; e perchè all'ironia degli uomini fosse compagna l'ironia della natura, lui, che mangiava così poco, mostrava dalla sua bocca larga dei denti lunghi e bianchi che avrebbero macinato un forno intero.
I suoi esercizi erano numerosi e variati. Dava principio al trattenimento il giuoco della tartaruga, nel quale si vedeva Quintino ad allungar le gambe all'indietro della testa, accavallandole attorno al collo, mentre, appoggiandosi colle mani sulla stuoia, dondolava col corpo fra le braccia dritte, tese, che parevan di ferro. Poi c'era il salto chinese, e poi l' a due, ovverosia la passeggiata comica: in questo esercizio Quintino faceva sbellicar dalle risa passeggiando guardandosi intorno coll'aria da moscardino, arricciandosi i baffi, fingendo di fumare con un pezzo di legno, che avrebbe dovuto essere un mozzicone di sigaro, tenendosi il cappellaccio piegato sulle ventiquattro; e tutto ciò mentre Marco, col muso basso e col cheppì che gli cadeva sugli occhi, gli entrava e gli usciva di mezzo alle gambe, seguendolo ad ogni passo senza mai farlo incespicare, con una precisione di tempo degna di un matematico. Ma la rappresentazione finiva però sempre col meraviglioso salto del Niagara, che veniva annunciato come un grande e straordinario esercizio, unico nel suo genere. Difatti era questo, si può dire, il cavallo di battaglia del celebre Quintino. Figuratevi ch'egli saliva come un gatto in cima a sei o sette seggiole, messe l'una sull'altra; poi, quand'era arrivato all'ultima, mentre la mobile colonna dondolava sotto il suo peso, Quintino, il capo all'ingiù, si sollevava dritto sulle braccia, colle gambe all'aria, stava là qualche secondo, poi prendeva la spinta e si slanciava a cader lontano su due piedi, nello stesso punto che le seggiole precipitavano per terra con un fracasso di grande effetto.
Marco, che serio serio era stato immobile a guardare il suo padrone durante tutto l'esercizio, a questo punto gli si avvicinava pian piano dimenando lentamente la coda: cerimonia alla quale egli si abbandonava molto di rado.
Ma quantunque col salto di Niagara Quintino arrischiasse l'osso del collo ad ogni rappresentazione, tuttavia, quando lo incominciava, non si vedeva mai incoraggiato da un pubblico numeroso. Ciò avveniva perchè, messe le seggiole l'una sull'altra, prima di dar principio alla salita, Quintino andava in giro col piattello, e allora quella gente, pare impossibile ma è proprio vero, diventava in sull'attimo di una sensibilità eccessiva, e chi gli voltava le spalle brontolando che quel genere di giuochi avrebbe dovuto esser proibito dalla Questura, chi spergiurava che gli metteva il capogiro, un altro che gli faceva tornare a gola il desinare; ma però, appena il saltimbanco aveva riposto il piattello e cominciava a salire, tutti i suoi disertori si voltavano uno alla volta e si fermavano un po' discosti per vederlo lavorare. Finito il salto del Niagara egli restituiva le sedie a chi gliele aveva imprestate, raccoglieva da terra il canavaccio piegandolo in quattro, e ripigliava il suo viaggio senza dire una parola, senza barattare un saluto e senza curarsi nemmeno dei monelli che lo seguivano per un buon tratto di via, gridandogli dietro colla vociaccia squarciata: Quintino! Quintino! accompagnando molte volte quel loro saluto con qualche torsolo che capitava a lui nella schiena, ma che non gli facea volgere il capo, o con qualche sassata che arrivava fino a Marco Minghetti, il quale, colto così all'improvviso, benchè continuasse col muso basso per la sua strada, dava però in un guaìto breve e sommesso.
Nè quell'uomo nè quel cane sentivano rancore per quegl'insulti; essi dimenticavano tutto. Ogni giorno avevano troppe angosce da soffrire, perchè potessero ricordare le amarezze del dì innanzi. Una sola volta Quintino ebbe un impeto d'ira furibonda contro un perverso che gli avea chiesto, ghignando, s'egli sapeva dov'era nato. Il saltimbanco, smessa d'un tratto l'abituale mansuetudine, saltò addosso come una belva a quell'uomo senza cuore, lo percosse, lo afferrò per la gola…. e forse lo avrebbe ucciso se non ci fosse stato là chi lo salvò dal commettere un delitto. Ma il tristo che gli avea fatto così male, egli non lo incontrò più sulla sua strada; e quindi si dimenticò ben presto anche del solo ed unico suo odio.
***
Nessuno sapeva bene chi fosse Quintino, nè di dove venisse; ma però, cosa strana, pareva a tutti, anche ai nonni, anche ai più vecchi, anche al campanaro che aveva quasi cent'anni, d'averlo veduto sempre e sempre così, fino da quando durava loro la memoria, con quel cappellaccio a tre punte e le maglie stinte, e lo credevano sempre lo stesso. S'ingannavano però: l'uomo era diverso, benchè fosse la stessa maschera di pagliaccio che appariva di fuori e la stessa sventura che ci soffriva dentro.
Solamente da dieci anni Quintino durava in quella vita e in quel mestiere:— Per la fabbrica dell'appetito —come diceva lui.
Egli era nato fra le acque putride e le canne insulse e giallognole di una campagna paludosa del Veneto, vicino al mare, dentro un casone nero, ampio, umido, diroccato e abbandonato da tutti, che la leggenda paurosa dei contadini chiamava col nome di Cà del diavolo. Non vi era pace, non vi erano sorrisi, non vi erano baci, non si sentiva mai una parola d'affetto in quella casaccia dove il lugubre silenzio era interrotto soltanto dal fischio del vento, che vi penetrava come un padrone impetuoso e villano dallo spacco dei tetti e dalle imposte sgangherate.
Ogni volta che Quintino, così solo nel mondo, pensava a quella bicocca, sentiva dei brividi di freddo corrergli per tutto il corpo, e quando la ricordava, prima di addormentarsi sotto un albero nell'estate, o in un fienile o sui gradini di qualche chiesa nell'inverno, egli si faceva fremendo il segno della croce.
***
Suo padre più d'una volta avea dato da fare alla Polizia e, per non incomodarla ancora, dopo una rissa nella quale aveva lasciato correre una coltellata ad un altro contadino proprio sull'uscio della bettola, era emigrato in Sardegna; e nel Lombardo-Veneto non si fece più vedere.
Sua madre era stata una faticona tutta cuore…. pareva la bontà divina venuta al mondo per creare un disgraziato. Ma la pellagra, volgarmente detta il mal di miseria, che in quel tempo infieriva forse ancor più d'adesso, la segnò fra le sue vittime, e un cattivo giorno il povero ragazzo se la vide portare a casa colla faccia livida, enfiata, il corpo gonfio, gli occhi spenti: l'avevano trovata morta in una fossa d'acqua stagnante.
Da varî giorni ella avea già fatto temere che il cervello le dèsse di volta: si faceva ad ogni momento il segno della croce, borbottando: «Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il cuore e l'anima mia—Vi dono il cuore e l'anima mia, Gesù, Giuseppe, Maria!» E colle mani coperte dalle ulceri, si premeva con fremiti di disperazione le testa gialla piagata.
Nella notte il ragazzo fu chiuso in casa tutto solo, colla povera suicida, perchè delle contadine chi non si arrischiava di far la veglia nella Cà del diavolo, e chi si valeva del pregiudizio per andarsene tranquillamente a dormire col su' omo.
Il giorno dopo, quando ritornarono a prender la morta col becchino, il ragazzo, tremante di paura, scappò via appena l'uscio fu schiuso, chè non voleva lo seppellissero anche lui colla mamma, e, fuggendo a casaccio, si smarrì fra le steppe e le distese d'acqua paludosa.
***
Andò ramingando solo solo per varî giorni, finchè fu incontrato da un funambolo che lo prese e lo condusse seco, che gl'insegnò il mestiere e lo avviò alla vita a forza di calci e di percosse; ma che più tardi, quando venne a morire di tisi in una stalla come una scimmia, lasciò in eredità al suo alter ego le proprie maglie sdrucite, il cappellaccio bisunto e una giacca logora di frustagno. Allora Quintino continuò tutto solo quella brutta esistenza, poi, un giorno, s'abbattè nel futuro Marco Minghetti, allo stesso modo ch'era stato incontrato lui, qualche anno innanzi, dal funambolo, e lo prese con sè; ma ricordandosi ancora il bruciore dei calci e delle busse patite, volle risparmiarle al proprio allievo. Quella che non gli poteva certo risparmiare era la fame; però, in compenso, ci si abituarono a patirla insieme, e tanto bene, che Quintino, innanzi al colto pubblico e all' inclita, soleva dire con quel sorriso nel quale c'era dell'angoscia mista ad alcunchè di dolcezza—«Di fame, illustrissimi signori, non si muore, ve lo so dire per pratica, ma vi domando un soldo perchè, viceversa, si può morire di sete!»
A questa buffonata, tutta quella gente, ch'era solita a desinare, si metteva a ridere e a batter le mani; anche il povero Quintino, per continuare il giuoco, faceva allora delle smorfie e dei lazzi comicissimi, ma mentre colle mani suonava il tamburone sulla pancia vuota, egli guardava cogli occhi pieni di compassione e di lamenti il suo fido compagno di glorie…. e di digiuni.
Tuttavia era l'inverno il nemico più crudele dei due disgraziati. Quando erano stanchi, affranti, estenuati dai calori dell'estate, si sa bene, trovavano sempre un po' di refrigerio sotto l'ombra densa degli alberi e c'era sempre anche per essi una corrente d'aria fresca e refrigerante sulla riva di un fiume…. ma l'inverno?… l'inverno col freddo, colla neve, colle notti di dodici ore?!…
Ed era appunto l'inverno, sull'imbrunire, dopo una giornata di viaggio, che Quintino e Marco si trovarono finalmente in vista di una cittaduzza. Fra tanta gente non ci sarebbe stata l'anima buona che per carità volesse cavar loro la fame?… Fra tante case accumulate le une colle altre, non avrebbero trovato un buco, una tana, per ripararsi dal freddo e riposare?
Cadeva un'acquerugiola fitta fitta, minuta, ghiacciata. Quintino non aveva più nemmeno la giacca di frustagno; l'aveva dovuta cedere ad un bracciante in cambio di una fetta di polenta…. A confronto suo. Marco Minghetti poteva proprio dirsi un signore, e Quintino glielo fece notare.—Coraggio, Marco! tu hai la pelliccia, come un conte, come un riccone sfondato.—Marco, per tutta risposta, squassò, dimenandosi con violenza, l'acqua che gli si era diacciata sul pelo nero.
Quando arrivarono alle porte, Quintino fece sghignazzare i doganieri che lo guardavano battere i denti con quel freddo cane, non avendo per tutto vestito che un calzoncino e un corsetto di maglia.
—Ohè, ohè, quel ballerino! non hai niente di dazio?—gli gridaron dietro i soldati, per burla.
—Sì…. ho un quarto di vitello nascosto sotto il tabarro.
Questa risposta aumentò il buon umore delle guardie, che lo lasciaron passare senz'altre osservazioni.
Ma a mano a mano che il povero buffone s'inoltrava nella cittaduzza, faceva sempre più freddo e si faceva sempre più buio. Le case erano chiuse, chiusi i negozî dietro ai larghi cristalli, e la poca gente che camminava per le strade correva lesta lesta sotto gli ombrelli perchè la pioggiolina cominciava allora a mutarsi in neve. Quintino sentiva nel petto indolenzito i morsi acuti della fame, il freddo lo intorpidiva, era affranto dalla stanchezza, e però gli si stringeva il cuore vedendo quanto gli riuscirebbe difficile il dare almeno una rappresentazione con quel tempaccio e a quell'ora.
Allungò il passo per arrivar più presto alla Piazza Grande…. Quando vi giunse era deserta, non ci si vedeva anima viva: anche i fiaccherai erano scomparsi, in barba al regolamento, mentre per terra, tutto il vasto piazzale cominciava ad esser bianco di neve.
Quintino si fermò smarrito, sgomento, e guardò Marco Minghetti che fissandolo a sua volta guaiva a mezza voce. Ma intanto i lumai cominciavano ad accendere le lucerne e, dall'altra parte della piazza, Quintino potè notare, sotto un breve porticato a due archi, la luce rossastra d'un caffè e scorse della gente che stava ferma attorno alla porta della bottega. A tal vista si consolò tutto. Dopo di essersi soffiato nelle mani per riscaldarle, allungò, battè le braccia con tutta forza attorno al petto saltando sulla neve per stirare le gambe che avea aggranchite nelle maglie fradice d'acqua, e, attraversata la piazza, si avvicinò a quei signori che stavan là ben tappati a guardar le falde cadere; poi levandosi il cappellaccio, col più comico de' suoi lazzi:
—Illustrissimi!—cominciò—Favoriscano d'un benigno compatimento il signor Marco Minghetti—e indicava il cane—e l'umilissimo Quintino Sella che sono io, entrambi ministri delle finanze in riposo, i quali si produrranno con degli esercizi straordinari e non mai più veduti, inventati apposta per la fabbrica dell'appetito!…
A tali parole quei messeri si strinsero nelle spalle infastiditi, dando segni non dubbi di noia e di malcontento, ed entrarono nel caffè brontolando fra' denti:
—Ozioso!
—Ubbriacone!
—Va a lavorare!
—Mi salterebbe il ticchio di fartela passare io a calci nel sedere, la frega del Marco e del Quintino—borbottò un costituzionale arrabbiato, il quale avea presa quella buffonata per una satira di colore politico.
Il povero Quintino, viste le mossacce, restò lì tutto solo, come interdetto, col cappello in mano e il corpo inchinato.
La piazza era diventata tutta bianca e co' suoi pallidi riflessi rischiarava tristamente il vasto squallore di quella notte d'inverno. Il portico soltanto era illuminato da una lucerna che pendeva giù dall'architrave, e dalla luce viva che si diffondeva al di fuori dai cristalli delle grandi portiere del caffè.
Che cosa fare?…
Quintino continuava a guardarsi d'intorno smarrito. Non c'era pubblico punto, tranne un piccolo spazzacamino che s'era fatta una pallottola di neve e la divorava, con un appetito eccellente, tal e quale come fosse una fetta di polenta abbrustolita, guardando con gli occhi imbambolati il pagliaccio vestito in quel modo così buffo e aspettando che dèsse principio alla rappresentazione. Allora, preso da un avvilimento profondo, Quintino si volse come per interrogare con uno sguardo il suo compagno d'arte: Marco Minghetti, per tutta risposta, si levò dritto in piedi, sulle gambe di dietro.
—Vuoi travagliare? Ebbe'…. coraggio e avanti sempre fin che la dura.
Sbirciò dai cristalli del caffè, dopo averli qua e là strofinati col gomito, perchè s'erano appannati, tutta quella gente che vi stava là chiusa beatamente, che rideva, discorrendo e cianciando, che beveva delle acque e del vino fumante, che mangiava pasticcini e leccornìe, seduta in soffici poltrone e coi soprabiti sbottonati, perchè nella sala si sudava dal caldo.
Egli pensò che dalle portiere lo avrebber forse potuto vedere a travagliare, e si animò tutto. Si battè un'altra volta colle mani sulle maglie inzuppate d'acqua, soffiò colla bocca sulle dieci dita raggruppate, guardò lo spazzacamino che continuava a merendare pacificamente colla sua pallottola di neve, e cominciò a mettere a posto, le une sulle altre, tutte le seggiole del caffè ch'eran di fuori sotto il portico. Ma dopo un poco gli tornò a mancar la lena: era tutto intirizzito, gli pareva di venir meno per la fame e per la stanchezza. Le gambe gli si piegavan sotto, aveva la testa che gli martellava per la febbre, e la gola secca, arida, che lo faceva spasimare ad ogni respiro, ad ogni parola, come se vi avesse avuto dentro delle punte sottilissime di acciaio.
Quando le seggiole furono pronte, fece un altro salto per riscaldarsi, ma sdrucciolò sul lastrico diacciato e mancò poco non cadesse giù, lungo disteso.
—Signori!… Si dà principio per la fabbrica dell'appetito.
Marco Minghetti sapeva bene che adesso toccava a lui; si rizzò dritto a sedere e colle due zampette tentò, al solito di accomodarsi il cheppì.
Il piccolo spazzacamino rise dall'allegrezza godendosi quella mimica, e battè soddisfatto le manine ghiacce marmate, quando il funambolo cominciò a salire adagio adagio sulla colonna dondolante. Una seggiola, due, tre, cinque le ebbe superate; superò anche l'ultima e fu su, in cima: ma quando volle rizzarsi facendo il braccio di ferro colle gambe all'aria, gli scivolò una mano, le sedie si smossero, mancò l'equilibrio a tutto l'edificio e Quintino precipitò riverso a terra, battendo di tutto peso col corpo sul lastrico, mentre le seggiole gli cadevano addosso sulla testa e sul petto.
Non diede un grido, non un gemito; rimase là sotto, senza più muoversi.
Lo spazzacamino diè un urlo e fuggì.
Per qualche tempo nessuno venne in soccorso del povero pagliaccio, nemmeno Marco Minghetti che non osava di muoversi e, ancora seduto sulle gambe di dietro, stanco, si appoggiava di tanto in tanto per terra colla terza zampa per riposare un poco; e allungava il collo guardando il padrone immobile sotto le seggiole, fiutando affannosamente inquieto, come se avesse voluto indovinare il perchè di quella nuova buffonata.
Un facchino fu che si avvicinò il primo al caduto, poi una donnetta che invocò la Madonna e tutti i santi del paradiso, poi a poco a poco gli si fermarono attorno otto o dieci persone, tenendosi però ad una certa distanza, tanto da poter vedere, senza compromettersi, che cosa era accaduto; poi uscì un cameriere del caffè, ma questi rientrò quasi subito dovendo riferire il fatto agli avventori, che lo avevano mandato apposta di fuori per sapere che voleva dire tutto quel baccano. Finalmente capitò anche un vigile il quale mandò subito a prendere una barella dell'ospedale: quando giunse, sollevarono in due il ferito, che continuava a non dar segno di vita, lo misero dentro, sul pagliericcio, poi chiusero il coperchio e lo portaron via.
Marco era stato sempre là, in mezzo alla calca; gli pestavano addosso, ma non fiatava e non si allontanava punto. Seguì però la barella appena si mosse; la seguì vicin vicino, colla coda tra le gambe e il muso basso; ma giunto alla porta dell'ospedale, quando anche lui voleva entrare dietro al suo padrone, un portantino, stizzito, lo cacciò via con una pedata così forte e così bene aggiustata che lo mandò lontano, a ruzzolar nella neve.
***
Per tutta la notte Quintino nulla seppe di sè: era caduto in un deliquio che faceva scrollare il capo sinistramente agli infermieri del suo riparto. Ma quando la mattina vegnente si destò da quel sonno così grave e si guardò all'ingiro, credette allora di cominciare a vaneggiare: per la prima volta in sua vita gli pareva d'essere un signore. Riposava, ben coperto, in un morbido letto di bucato. Dalle ampie vetrate delle finestre, che davan sopra la strada, il sole cominciava allegramente ad entrar co' suoi raggi, rigando le bianche lenzuola con delle strisce luminose, piene di pulviscoli vaganti; e in quell'ambiente sereno di candidezza e di quiete provò un benessere nuovo che gli fece prorompere dall'animo grato come un'espansione di riconoscenza e d'affetto per tutta quella gente ch'egli vedeva andare e venire, con pietà santa, da un letto ad un altro, per quelle sacre immagini che pendevano appese all'ingiro, e per quel Cristo gigantesco dipinto sotto il soffitto, che dalla sua croce pareva diffondere nell'ampio recinto la benedizione e il conforto.
Anche per il povero Quintino, la vita ebbe finalmente un sorriso…. e lo ebbe allora che si svegliava così malconcio all'ospedale!… Gli pareva che il suo male fosse stato il suo bene. La testa gli doleva, nel petto sentiva di tratto in tratto delle fitte acutissime, ma la febbre gli recava, coi suoi turbamenti, anche le sue leggiadre visioni. Lo prese un gran bisogno, un gran desiderio d'amare, e, illuso, anch'egli aspettò con ansia chi lo venisse a trovare, perchè ogni volta che si spalancava la porta entrava nella sala qualcuno che s'indovinava dovesse essere o una madre, o una sorella, o un'amante, oppure un amico, e tutti si avvicinavano lesti e sorridenti all'uno o all'altro dei lettucci, disposti in lunga riga, e vi dispensavano e doni e baci e carezze.
Allora ognuno di quegli infelici aveva pure la sua consolazione!… Quintino vedeva la mano del povero ammalato stretta in una mano affettuosa che lo confortava, vedeva delle lacrime, dei sorrisi, udiva delle grida di dolore o di gioia; ma invano aspettò che la porta della sala fosse aperta da un'anima caritatevole che venisse là per lui. Nessuno sapeva chi fosse quel saltimbanco; nessuno lo conosceva, e il suo letto rimaneva solitario, abbandonato, come s'egli fosse uno straniero anche in quella casa del dolore. Allora pensò a sua madre, sformata dalla pellagra e morta dannata in una fossa d'acqua melmosa, imputridita; pensò a suo padre finito miseramente fra gli stenti e i rimorsi in un'isola lontana, invidiò il sorriso di un'amante, la parola cara di un amico, e rimpianse la vita che gli sfuggiva, per tutto ciò che non aveva goduto. Solo!… solo!… sempre solo!… Eppure…. eppure sì, un compagno, un amico lo aveva anche lui! A questo pensiero balzò con un impeto improvviso fuori dalle coperte e venne giù e guardò e cercò sotto il letto…, ma invano! Era solo, solo, abbandonato da tutti!… Allora tornò a scoraggiarsi, a disperare, e trovò più penosa quella solitudine in mezzo al mondo e alla gente di quanto non lo fosse per lui quella delle sue notti di viaggio, quando si trovava smarrito fra le vaste pianure in riva al mare.
Riadagiatosi nel letto, spasimò più forte e gli sembrò che tutte le liete immagini di prima gli si annerissero cupamente d'intorno. Gli si era mossa la fasciatura della larga ferita che aveva alla testa, e ne usciva il sangue a fiotti. Infermieri e medici e suore gli corsero intorno soccorrendolo, ma, in tutti que' volti sconosciuti, egli non seppe più leggere una sola espressione d'affetto.
Intanto la febbre consumava quella misera esistenza destinata a quel lugubre fine.
Il povero disgraziato era vicino al termine dei suoi patimenti e de' suoi dolori…. era vicino a morire…. ma moriva come un delinquente, senza una lacrima, senza un rimpianto, senza un saluto; e quest'ultimo dolore che lo attendeva là dove tutti gli sventurati trovano un conforto, impresse sul suo volto, fra le tracce di tante angosce sofferte, il solco profondo di un'angoscia nuova, indescrivibile, straziante…. ma poi, prima dell'agonia, l'espressione mutò, e a poco a poco si diffuse su quel volto scarno, distrutto, una tenerezza ineffabile…. le sue labbra balbettarono un nome, piegò il capo sul capezzale, e fu sorridendo che chiuse gli occhi per sempre.
In quel momento, dalla strada, egli aveva udito un ululato lungo, triste, disperato….
Era il saluto di Marco Minghetti.