CAPITOLO I.

— Sarai buona, non è vero?... Mi prometti di non farmi ingelosire?

— Te lo prometto.

— Giuralo.

— Giuro.... bambino mio.

E a questo punto, com'è naturale, si udì nel salotto il leggerissimo susurro d'un bacio.

Quando la contessa Elisa chiamava bambino il conte Eriprando degli Ariberti, voleva proprio dire che si trovava allora molto in tenero con lui; cosa che non le accadeva sempre, quantunque, quasi sempre, ella credesse di volergli bene. Ma dal canto suo, la contessa Elisa era occupatissima, aveva ogni giorno un infinito numero di cosucce da fare e da sbrigare, mentre il conte Eriprando non ne aveva che due sole: voler bene alla contessa Elisa ed aspettar pazientemente una risposta alle carte ch'egli aveva inoltrate negli uffici delle strade ferrate A. I., col nobilissimo scopo di ottenere un impiego. Anche le grandi occupazioni però della contessa Elisa Navaredo si riducevano a questo, di trovare il modo di fare il passo più lungo della gamba, di fare insomma abbastanza buona figura a dispetto delle ristrettezze economiche che l'angustiavano. E, bisogna poi renderle questa giustizia, tutto sommato, ci riusciva benino.

Con un certo buon gusto che le era particolare, sapeva far comparire e scomparire le guarnizioni, i pizzi e i fiori dalla veste al cappellino, e viceversa; sapeva bravamente, con due abiti vecchi, farsene uno nuovo, e quanto meno la stoffa conservava il colore, la contessa ci rimediava accorciando tanto più le maniche e abbassando lo scollato. Teneva una cameriera, la Beppa, che faceva anche da cuoca, e il cocchiere serviva in tavola, annunciava le visite, tostava il caffè, portava l'acqua, puliva le stanze, e tagliava la legna per la stufa della sala, che si accendeva solamente la domenica, giorno di ricevimento in casa della Contessa, la quale, in tal modo, mangiando pochino sette giorni alla settimana e studiando l'arte di parere dodici mesi all'anno, poteva darsi ancora delle arie con una rendituccia di sei o sette mila lire: e quando Lord Palmerston, era questo il nome del suo cavallo, non pativa di reumi, poteva anche fare le visite nella sua carrozza: un brougham stinto e sdruscito, ma che aveva dipinto sugli sportelli uno stemma così grande da parere l'insegna d'un tabaccaio.

Il conte Eriprando degli Ariberti di rendite ne aveva ancor meno; ma, in compenso, era più ricco d'amore.... fors'anche perchè la contessa non lasciava mai che lo spendesse tutto. Il loro sangue egualmente puro scendeva all'uno e all'altra attraverso un lungo ordine di magnanimi lombi: quello del conte però era molto più caldo, più abbondante, più vigoroso di quello della contessa: ma la differenza si spiega subito coll'avvertire che lui non aveva ancora ventitrè anni, mentre lei ne aveva contati fino a trentadue.... e poi si era fermata lì, senza tirare più innanzi.

Si erano alzati tutti due dal canapè, il conte però prima della contessa; quest'ultima tenendosi stretta al braccio del giovanotto e lasciando che egli facesse un po' di forza per sollevarla; e sebbene dal canapè all'uscio non ci fossero che due passi e mezzo da fare, ella percorse quel brevissimo tragitto appoggiata, abbandonata quasi di peso su lui che la guardava in un certo modo che voleva dire “se tornassimo indietro, cara, a sederci un altro pochino?...„

— No, sai; bisogna, adesso, che tu vada via.

— Ancora cinque minuti soli....

— No, no: è tardi, e domattina mi devo levare per tempo.

E la contessa Elisa, per far intendere al conte Eriprando che quella volta poteva proprio lasciare ogni speranza, tirò indietro il sorriso languido, si fece subito seria seria, e gli si levò d'addosso, mentre colle due mani accomodava i capelli sulla nuca, che le si erano scomposti.

— Cattiva!

— Ma, sai, bambino, che con tanta gente che ho conosciuto, un egoista come te, non l'ho mai incontrato?

A queste parole il conte Eriprando fece il muso; ma la contessa Navaredo, quasi stizzita, tirò innanzi senza badargli:

— Per te non dovrei nè dormire, nè mangiare, nè uscire, nè far nulla.... altro che filare il sentimento!

— Ti domandava cinque minuti soli, soli....

— È dalle dieci che mi domandi cinque minuti; e abbiamo fatto venire la mezzanotte.... E poi, ho già suonato; c'è la Beppa di là che ti aspetta per farti lume e io non posso soffrire les commérages delle anticamere.

Le anticamere di casa Navaredo si riducevano al pianerottolo della scala: ma, come metafora, poteva passare.

— Dunque, alle dodici in punto ci troviamo alla stazione?

— Sì, caro; ma ricordati che non voglio altre lune.

Il giovanotto promise di no, e la contessa, che con una mano avea già mezzo aperto l'uscio del salotto, lo chiuse di nuovo, e si baciarono un'ultima volta.

— Sei contento?

— Adesso sì.

— Dunque va, da bravo. Ricordati domattina di telegrafare all'albergo, perchè ci tengano pronte le camere.

— È già tutto fatto.

— Grazie....

— Prego....

L'uscio fu aperto: la Beppa era là, sul pianerottolo, col lume in mano e colla faccia sbianchita e ingrugnata dal sonno.

— Buona sera, signora contessa.

— Buona sera, signor conte. A domani.

— A domani.

La Beppa scese innanzi adagio, giù per la scala, ripida, stretta e oscura, tenendo alto il lume col braccio levato.

Quando fu sulla porta di casa, Ariberti tolse dalla tasca interna dell'abito un portasigari di pelle nera con una vistosa corona di conte nel mezzo: poi, dal portasigari, un virginia: ne cavò la paglia che ripose nell'astuccio, lo accese al lume della Beppa, tirò in fretta due o tre sbuffate di fumo per vedere se andava bene, e dopo, dal medesimo portasigari, levò un mozzicone che porse alla donna:

— To'... lo darai a Menico.

Menico era il cocchiere, il cameriere, il porta acqua, il caffettiere, lo spaccalegna di casa, e quando aveva due minuti di tempo, anche l'amante della Beppa.

— Grazie, signor conte!

Bon dì.

— Serva sua.

E la Beppa, sbatacchiata la porta dietro al giovanotto, tirò tanto di catenaccio.

CAPITOLO II.

Il conte Eriprando degli Ariberti quella notte non aveva sonno: invece si sentiva in cuore una gaiezza insolita e nelle gambe una elasticità, una voglia di camminare che lo fece andare a zonzo per più d'un'ora. La gioia tutta nuova che lo aspettava al domani, quel viaggio con Elisa, quelle due o tre settimane che passerebbe con lei in riva al mare, lo rendevano l'uomo più beato della terra.

In quell'azzurro c'era però un punto nero; anzi, per essere esatti, bisogna dire che ce n'erano due, quantunque uno più piccino dell'altro.

Il punto grande, lo scarabocchio, era quella musona della contessina Cecilia; il punto piccolo, quello screanzato di Gegio. Da un'altra parte, sola con lui, la contessa Elisa non ci sarebbe andata, a Venezia: ella vi andava per tener compagnia alla figliuola, e per la salute del suo nipotino: ed anzi, quando lui e lei, negli amorosi colloqui delle serate primaverili, vagheggiavano quella giterella come il sogno incantevole d'una notte d'estate, tutte le loro speranze erano sempre riposte nelle scrofole del bambinello.

Dopo d'aver girato in su e in giù, per straducce buie e deserte, alla fine dovette pure decidersi a rincasare. Rallentò il passo, e rimpianse il mozzicone che aveva donato a Menico, perchè il suo virginia era consumato.

Il conte Eriprando abitava molto lontano dalla contessa Navaredo, in una viuzza modesta, in una casetta dall'aspetto meschino e dove il fitto, che si pagava ogni semestre, era proprio una miseria. Quando vi giunse, prima di metter la chiave nella toppa, levò il capo e guardò una finestrella del secondo piano: era spalancata e ne usciva uno sprazzo di luce.

— La mamma è ancora in piedi, — disse fra sè, nell'aprire.

Non poteva sbagliare. Il lume non era certo quello della serva, perchè la contessa degli Ariberti serve non ne aveva, se non si vuol contare una donnetta che andava da lei la mattina a sbrigare le faccenducce più umili.

— Sei ancora alzata? — disse il conte entrando nella stanza della mamma.

La vecchierella era intenta a stirare sopra una gran tavola di legno greggio, e tutto all'intorno, sul canapè, sulle sedie, sul cassettone, si vedevano, disposte con cura, delle mutande, delle calze, delle camicie, dei solini e dei polsini finti: grande amarezza questa del conte Eriprando, il quale non vedea l'ora d'esser capo-ufficio per avere le camicie coi polsini e il collo tutto attaccato. Sua mamma, poveretta, aveva tentato di fargliene una: ma ci perdette intorno una quindicina di giorni senza potervi riuscire: il solino, non c'era caso, faceva borsa da una parte o dall'altra!....

Nella stanza piccola, bassa, faceva un caldo da soffocare, sebbene la finestra fosse aperta ma di fuori c'era scirocco, e di dentro due lucerne di petrolio infocavano la stanza colla loro luce sfacciata e rossastra. Eriprando cominciò subito a sudare; invece la vecchiarella secca, piccina, che lavorava in quel forno dalle otto della sera, non sudava affatto.

— Mi trovi alzata perchè non ho sonno; già, con questo caldo, anche a voler dormire, non si può. E poi, ti occorre la roba per domattina, e io, lo sai bene, preferisco andare a letto tardi, piuttosto di essere costretta a levarmi presto.

La buona donna mentiva adesso col suo figliolo. Sapeva bene lei che, per quanto fosse andata tardi a letto quella sera, avrebbe sempre dovuto alzarsi per tempo il giorno dopo. Il viaggio del contino la affaticava da un mese. Aveva dovuto provvederlo di biancheria e riaccomodargli quella vecchia: aveva dovuto pulire, sbattere, rammendargli i panni, e solamente attorno all'abito nero ci aveva sciupati sette giorni e perduto un occhio e mezzo. Ma, e d'altra parte come si fa?... Il conte Eriprando degli Ariberti, partendo da Vicenza per le bagnature colla contessa Elisa Navaredo e la contessina Cecilia D'Abalà, non poteva andare come un pitocco qualunque.

Gli Ariberti erano una delle più antiche famiglie di Vicenza: ed è forse per questo che la troviamo così vicina a morire di consunzione. Il padre del contino Eriprando, il conte Eutichiano, era stato un impiegatuccio a duemila cinquecento; e in un momento di debolezza e con tre semestri di fitto in arretrato alla gola, aveva commesso un matrimonio morganatico, come diceva lui, colla figlia della sua padrona di casa, l'Orsolina, che fu poi così compresa delle illustri nozze, alle quali era stata assunta, da camminare in punta di piedi, quando si trovò gravida, per paura di scomodare il nobile rampollo che il conte suo marito s'era degnato di affidarle per la gestazione. Con legittimo orgoglio del conte Eutichiano, che vedeva così continuata la nobile prosapia, l'erede (erede per modo di dire, che non c'era proprio niente da ereditare) fu un maschio e subito gli misero nome Eriprando. Era l'Eriprando nono o decimo della casa, e tutti i predecessori che portarono prima quel nome, in sei o sette secoli, avevano avuto in mano, l'uno dopo l'altro, i destini della città.

Per l'Orsolina, il conte figlio era qualche cosa di sacro. All'affetto materno ella univa nel suo cuore la religione, il culto che professava all'ultimo discendente degli Ariberti, e facendogli da serva, credeva in buona fede di non fare nulla più del suo dovere.

Il conte Eutichiano morì quando il bambino non aveva più di tre o quattro anni. Alla vedova ed al pupillo non rimase altro per vivere che la magrissima pensione del marito, la biancheria e il mobilio bastante per quattro stanze: cominciarono col subaffittarne due, e n'ebbero così un altro cespite di entrata.

Mamma Orsolina si tiranneggiava, si misurava, come si suol dire, il boccone di pane, e tutto ciò perchè Prandino non mancasse di nulla. Lei faceva colazione con una fetta di polenta, se ce n'era: ma Prandino, quando andava a scuola, avea il suo canestro per la merenda sempre ben fornito. L'Orsolina la si vedeva, a ricordo d'uomo, con una vesticciuola di percalle a quadrettoni caffè, linda, pulita, ma tutta a rattoppi, che pareva un mosaico: invece il camiciotto di Prandino era novo fiammante, la biancheria fina, le scarpette lucide e scricchiolanti.

Quando venne il momento di dover pensare ad una professione pel contino Eriprando, la buona donna si sentì stringere il cuore; ma, vedendo anche lei che, senza far nulla non avrebbe potuto vivere, volle almeno ch'egli s'avviasse all'avvocatura.

Lo fece studiare..... e trovò modo, Dio solo sa con quanti stenti e con quanti sacrifici, di mantenerlo all'università: ma quando già era dottore, Prandino stesso comprese da sè che anche colla laurea avrebbe finito copista in qualche studio: il genio forense gli mancava del tutto. Allora, facendosi più sentito il bisogno di guadagnare, si decise anche lui a trangugiare l'amaro calice e cercò un impiego nelle ferrovie. Adesso che lo abbiamo imparato a conoscere, aveva già mandato le sue carte, aveva passato benino gli esami.... ma continuava ad aspettare l'impiego, che si prometteva e non arrivava. Mamma Orsolina, del resto, non disperava. Era sicura che col suo nome Prandino avrebbe fatto una bella carriera e figurandoselo commendatore e capo-traffico, non lo vedeva, per il momento, alla vendita dei biglietti ed alla spedizione delle merci. Certo che se il parentado degli Ariberti lo avesse voluto aiutare.... ma l'Orsolina non si lamentava di nessuno. I parenti non le erano venuti incontro, quest'è vero: ma i parenti, si sa bene, per queste mosse hanno sempre le gambe troppo corte, e poi nemmeno lei li era andata a cercare. D'altra parte era troppo buona per sentire dell'odio, dell'invidia, o solamente dell'amarezza, per alcuno: ella sopportava tutto in santa pace, ed era più che soddisfatta, felice, quando le domeniche d'estate andava in Campo Marzo, tutta chiusa nella sua mantelletta di seta nera, in compagnia della signora Luciana, una zitellona che teneva in affitto da molti anni le due disponibili delle quattro camerette, e le poteva dire, indicandole i più splendidi equipaggi che passavano al trotto: — quella signora là, è la marchesa tale, seconda cugina di Eriprando: — quell'altro signore è il conte così e così, terzo cugino di Eriprando: — adesso arriva il principe Caio, fratello d'un cognato d'una cugina di Eriprando — e con queste indicazioni la durava per tutto il passeggio, e la domenica vegnente ricominciava da capo, senza che mai ne dimenticasse un solo!... Quando poi rientrava in casa, dopo il corso di Campo Marzo, era tutta beata: le sue stanzette le sembravano più grandi, più lucente il cassettone, più morbido il canapè: e a cena, la sua polenta asciutta le parea dolce e saporita come un marzapane.

Mamma Orsolina, anche quella notte continuava nel suo lavoro, e il conte Eriprando, secondo il solito, quantunque del bene gliene volesse, non si sentiva rattristare dallo spettacolo di quella vecchiarella che si affaticava per lui. Era un po' viziato l'amico: era stato avvezzo a esser servito: e poi, colla propria coscienza si accomodava facilmente, pensando che s'egli l'avesse anche sgridata, tanto e tanto quella buona donna non avrebbe voluto intender ragioni.

Non le disse nulla dunque, ma invece si mise anch'egli a far qualche cosa. Prima di tutto si levò l'abito nero e tenendolo sollevato con una mano, coll'altra ne cavò, dalle tasche, il portasigari, un portafoglio di cuoio con una corona d'argento nel mezzo, dono della contessa Navaredo: un fazzolettino di battista che aveva pure una gran corona da conte ricamata in un angolo, capolavoro di mamma Orsolina, e un paio di guanti scuri, piegati a mezzo. Tutta questa roba la collocò in ordine, sul tavolino, e poi cominciò a ripulir l'abito ben bene.

La contessa Elisa usava di nascondere colla cipria l'impertinenza dei capelli bianchi, che qua e là cominciavano a comparire nell'ampio volume della chioma bionda, e perciò, dopo i loro colloqui, il conte Eriprando rimaneva tutto bianco di farina di riso. Anche quella sera, mentre colla spazzola dissipava le amorose tracce, un profumo di cipria all' opoponax lo avvolse come in una nuvola, sollevandogli nella mente, nel cuore, nei sensi, dei ricordi, che lo facevano vagar lontano da quella povera stanzetta, fino al canapè dei cinque minuti.

Quando l'abito fu spazzolato, il conte Eriprando lo posò delicatamente sul divano, piegandolo in quattro, colle fodere fuori. Quell'abito avea da sostenere una gran parte alle bagnature; figuratevi che, come si suol dire, era figlio unico di madre vedova!... Poi, venne la volta dei guanti; prese un piccolo calamaio d'osso, una penna, e, sedutosi, sempre in manica di camicia, vicino a una lucernetta, cominciò adagio adagio e con molta pazienza, a colorir coll'inchiostro dove la pelle era un po' consumata.

Il conte e la contessa erano così occupati da una mezz'ora, quando dopo un “si può„ che ebbe risposta affermativa, s'aperse l'uscio che dava sulla scala, ed entrò nella stanza una figura nera, lunga, ossuta, tanto da non potersi indovinare, a prima vista, se fosse un prete o una donna. In mano aveva un bicchiere, pieno, per due terzi, di caffè.

— A lei, contessa Orsolina; ho fatto il caffè fresco e gliene porto una mezza chicchera.

La signora Luciana non aveva mancato mai, in tanti anni di fitto, di chiamare contessa l'Orsolina: anzi ci teneva di rimbalzo a tutta quella aristocrazia, perchè già i titoli, anche quando non cavano la fame, riempiono la bocca.

Il conte Eriprando salutò la signora, senza scomporsi, con un inchino cordiale e dignitoso a un tempo, e continuò tranquillamente a tingere i guanti.

— Ne vuoi due dita? — chiese mamma Orsolina rivolgendosi al figliuolo.

— Grazie, mamma. Dammene una goccia in un bicchier d'acqua.

L'Orsolina uscì, e rientrò subito con una ciotola di cristallo quasi piena d'acqua fresca; si avvicinò al suo ragazzo, e versò tanto caffè nella ciotola, finchè questi, che aveva levati gli occhi, fe' cenno col capo che bastava.

Anche la signora Luciana, quando tutti ebbero terminato di bere il caffè, prese, senza dir nulla, un ferro dal fornello, e, da un altro lato della tavola, cominciò a stirare dei fazzoletti.

— La signora Luciana non ha mai sonno!

— Lo creda, signor conte, io dormo d'inverno anche per l'estate.

— Hum! Chissà.... chissà che foco ci brucerà sotto a tutta questa insonnia!...

— Oh! giusto!.... Che fuoco la vuole che ci bruci sotto, caro lei!....

Luciana, ad onta dei quarant'anni sonati, anzi, forse appunto per questo, se la godeva un mezzo mondo quando il bel giovinotto le toccava certi tasti delicati.

— Io non ne so nulla: però i miei sospetti cadrebbero sopra un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante, che vedo spesso girellare da queste parti con certe arie da conquistatore....

— Mi fa la grazia di tacere? Mi fa la grazia di non inventarne sempre delle nuove, lei? Ieri era un avvocato, oggi è un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante!.... Quasi che non ci fossero altre donne per la casa, e più belle di me!....

— Via, via, signora Luciana: lo sa anche lei, lo sa anche lei di essere amata: e ne gode, e si vede:

“Quando nell'ombra de' suoi negri occhioni

Improvvise balenano e procaci

Le cupidigie che...„

— Zitto là!.... non dica sciocchezze!.... e vada a dormire.... che domani.... Domani dev'essere una gran giornata per lei, ma... acqua in bocca! Acqua in bocca, chè se no, ce ne sarebbero degli altarini da scoprire!....

— Sa, — continuò l'altro, che invece di essere spaventato, si sentiva lusingato da quelle minacce, — sa, signora Luciana, che sto già preparando de' versi per le sue nozze?

“Dall'arida cenere

Rinasce il mio core,

Ritorna la cetera

Ai canti d'amore.„

— Grazie tante, ne faccio senza de' suoi versacci, tutti pieni di sporcizie....

Le tue carezze le conosco io solo, continuò l'altro facendo gli occhiacci.... — E il tuo guancial per me non ha segreti....

— Le dico di smettere!....

Guai se potesse dir quel letticciuolo,

Se potessero dir quelle pareti....

— La vuol finire, sì o no? Prenda il suo lume, i suoi guanti, e vada a dormire subito, subito, subito!....

Così dicendo, la signora Luciana, rossa come un peperone, con certe chiazze che non erano tutto pudore, si era buttata addosso al giovanotto, per farlo tacere, per ispingerlo fuori della stanza, e intanto si godeva a stringergli le mani e le braccia. Il conte Eriprando continuava a ridere e a recitare i versi dello Stecchetti, per irritare sempre di più la signora Luciana; ma poi, siccome era tardi, prese il lume, i guanti, che avea involtati in un giornale, e s'avviò davvero per andare a dormire. Mamma Orsolina rideva a quelle scene, senza capirne nulla, tutta allegra per l'allegrezza del suo figliuolo:

— Aspetta, Prandino!... Vengo anch'io!...

E lasciata la signora Luciana a brontolare e a finire la camicia che aveva già mezzo stirata lei, entrò col figlio nell'altra camera.

Chiuse la finestra, rimboccò le coperte del letto; uscì e tornò con un bicchier d'acqua fresca che pose sul tavolino da notte, e poi, finalmente, se ne andò dalla camera, ma dopo aver salutato e guardato il suo figliuolo con una occhiata nella quale c'era dentro un bel bacione, ch'ella, intimidita, non osava dargli.

Prandino aveva cominciato a svestirsi quietamente, colla cura di chi non vuole strapazzare la propria roba. Piegò il panciotto e i calzoni, e involtò la cravatta di raso nero nello stesso numero del Giornale di Vicenza, dove c'erano i guanti. Fatto ciò, perdette ancora del tempo parecchio a lucidare la sua catena di similoro; una catena che credevano tutti, anche la contessa Navaredo, fosse d'oro massiccio. Levò quindi dal cassettone un cartoccio, nel quale stava involtato un portafogli unto e bisunto, il predecessore di quello che gli aveva regalato l'Elisa, e tornò a contare, operazione che da una settimana faceva regolarmente tutte le sere, il danaro che c'era dentro.

Non c'era verso: erano dugento ottanta lire, non una di più, non una di meno!... Allora tornò, come tutte le altre volte, a rifare i suoi calcoli: tanto pel viaggio, tanto per la camera, tanto pel vitto, pei bagni, per le acque, pei traghetti... Ne aveva per dodici giorni, a far molto! Fossero state almeno trecento, avrebbe avuto un po' di largo!.... Alla fin fine viaggiava con signore, e colle signore si spende sempre di più... poi c'era quel monello di Gegio, il quale si metteva a piangere dalla sete e voleva bere tutte le volte che vedeva un caffè.... poi c'era suo cugino Badoero, sicuro, che lo avrebbe condotto in società e che indirettamente lo avrebbe fatto spendere anche lui.

Bisogna sapere che su questo cugino Badoero il conte Eriprando ci faceva molto assegnamento per darsi arie a Venezia. Ne aveva discorso molte volte colla contessina Cecilia, e non parlava mai delle bagnature colla contessa Elisa, senza ch'egli non le promettesse di presentarglielo. Per dire la verità si conoscevano appena di nome, tanto da scambiarsi i biglietti di visita ogni capodanno e nulla di più. Ma, non importa, erano parenti lo stesso: e il Badoero, oltre di appartenere ad una gran famiglia, — figuratevi che fra maschi e femmine contavano in quella casa più di una dozzina di corni, corni ducali, s'intende, — oltre dunque di appartenere ad una gran famiglia era anche un riccone sfondolato. Ma pur troppo, per quanto il cugino Badoero fosse ricco, le ducento ottanta lire del conte Eriprando non ne volevano sapere di diventare trecento!...

E queste sue pene, dopo d'essersi levati gli stivali prima di saltare nel letto, le confidò tutte con un'occhiata piena di passione ad una fotografia portrait-album, ch'egli teneva sul suo tavolino da notte appoggiata a un elegante cavalletto di legno intarsiato.

In quel ritratto la contessa Elisa dimostrava una diecina d'anni di meno, ragione per cui tanto lei quanto il conte Eriprando lo trovavano somigliantissimo.

Era stata presa di profilo come dicono i fotografi: in piedi, a mezza figura. Aveva i capelli sciolti che le scendevano giù per le spalle e, fra le mani, teneva un libro aperto, che non doveva essere un libro di devozione.

Era appoggiata al davanzale d'una finestra, più che raccolta, assorta nella sua lettura: e la fotografia, con effetto di chiaro di luna, aggiungeva dei riflessi romantici a quel profilo delicatissimo di figuretta bionda e sentimentale.

Adesso il tempo avea giocato dei tiri assassini alla Contessa. Il collo le si era un po' ingrossato, le guance cominciavano a diventar flosce, le palpebre, specialmente la mattina. Le avea rosse e gonfie: la pelle scuretta, la fronte un po' rugosa, e quando apriva la bocca si vedeva qualche segno di lutto fra i mascellari: già il suo riso non era più limpido, squillante, argentino e breve; s'era fatto troppo lungo e sgangherato, e la finezza della vita era sciupata da un tantino di pinguedine. Di tutte queste disgrazie il conte Eriprando non se ne accorgeva: per merito della cipria, del belletto, della glicerina, del cold-cream e della crème froide, ma sopratutto dell'amore, egli la vedeva sempre bionda, bianca, sottile, con alcun che di vaporoso, di etereo, di virginale nell'espressione, soavemente melanconica del volto ed in tutta la linea elegante della personcina; tal e quale com'era là in quel suo ritratto... ch'ella da dieci anni continuava a far riprodurre.

Quella dolce contemplazione durò qualche tempo: poi, finalmente, si decise, spense il lume e saltò nel letto. Però anche al buio, la contessa Elisa, coi capelli sciolti, col libro in mano e tutti gli effetti del chiaro di luna appariva viva dinanzi agli occhi del nostro innamorato!... Com'era cara, com'era bella, com'era buona! — ed era sua!.... Quante felicità avrebbe godute con lei in quelle due settimane.... al Lido di giorno.... in gondola di sera..., e poi.... — Peccato ch'egli non avesse almeno trecento lire, e che non si potessero mandare al diavolo quell'uggiosa della contessina Cecilia e quello sbarazzino di Gegio!

CAPITOLO III.

Otto o nove anni addietro, quando il conte Eriprando d'adesso era appena Prandino, Elisa Navaredo, oltre al figurare come una donnina bella ed elegante, quale l'abbiamo veduta nel portrait-album, era per di più una dama elegante, che dava molto a parlare alla cronaca cittadina.

A Prandino, quella bella signora, le chiacchiere, i desideri, gli scandali che la circondavano, fecero subito una grandissima impressione. Egli non parlava mai della Contessa, ma ci pensava sempre, giorno e notte; e tutti i suoi castelli in aria erano pieni di lei, della sua grazia, della sua bellezza e de' suoi fascini provocatori. — Oh! quando fosse diventato un grand'uomo!... — qual è il ragazzo che non sogna di diventare un grand'uomo?.... — quando fosse diventato un grand'uomo, allora le confesserebbe d'amarla... e l'Elisa non gli direbbe certo di no!....

Tutto il suo avvenire egli lo vedeva in lei e per lei, e tanto s'infervorava col pensiero fisso nella contessa Navaredo che, alle volte, facea delle lunghe passeggiate, solo soletto, fantasticando attorno a quella donna, fingendo di averci insieme dei colloqui d'amore o delle scene di gelosia, e terminava sempre coll'essere lieto o triste per davvero, a seconda che la sua immaginazione lo figurava amato o deriso.

Quando la incontrava, arrossiva tutto, sebben l'Elisa non lo guardasse neppure: tutte le domeniche, e le altre feste comandate, andava in Duomo, alla messa delle dieci, per vederla, per trovarsi dove era lei.

Ma, prima di quelle messe, sciupava tutta la mattina lavandosi e fregandosi tanto da spellarsi per diventare più bianco.

Rifaceva per una decina di volte almeno il fiocco della cravatta, perdeva un'altra mezz'oretta intorno alla scriminatura, e, proprio in mezzo alla fronte, s'impiastricciava un riccio alla rubacuori, che pareva un punto interrogativo.

Dopo d'averla guardata di lontano, per tutto il tempo che durava la messa, usciva fuori in fretta dalla chiesa e s'imbrancava, fermandosi sulla porta, cogli altri adoratori del bel sesso, per farsi vedere, e un tantino per farsi anche ammirare da lei. La Contessa, figurarsi!, gli passava dinanzi dritta, lesta, senza nemmeno accorgersi di quel bamboccione impomatato per amor suo, mentre vedendosela così vicina, a Prandino invece gli tremavano le gambe, gli si scoloriva la faccia, e benchè davanti allo specchio avesse fatte molte prove, tuttavia là non gli riusciva mai bene di riverirla levandosi il cappello con un largo giro del braccio e in tre tempi, salutare, inchinarsi e stringere i tacchi. Per lo più, quando si decideva a scoprirsi, la contessa Navaredo era già passata.

Però, soffriva spesso dei dispiaceri, delle gelosie, delle amarezze, che lo rendevano proprio infelicissimo. Bastava che, mentr'egli la pedinava di lontano, la vedesse accompagnarsi con qualcuno, perchè al povero Prandino gli si facesse nera l'esistenza, come il carbone. Allora s'imbestialiva, e nel suo furore a freddo, la copriva di vituperi, la chiamava leggera, civetta, e si figurava, quando sarebbe stato un grand'uomo, di farsi amare dalla regina per farle dispetto.

Del conte Navaredo, il marito della contessa Elisa, Prandino non soffriva gelosia: invece, quando si trovava con lui, era preso da una gran soggezione.

Un giorno, che lo incontrò, facendo una visita, si sentì confuso, impacciato, sconvolto, quasichè l'altro gli leggesse in fronte il segreto dei suoi desideri e della sua passione.

Per fortuna di Prandino, il conte Navaredo morì presto di un accidente, e non si potrebbe ridire la gioia dalla quale fu invaso alla notizia di questo avvenimento il buon ragazzo, del resto così mansueto e delicato di cuore, da scappar via dalla cucina inorridito quelle rare volte che la contessa Orsolina poteva abbandonarsi al lusso di tirare il collo ad un magro volatile.

Ma ben presto, appena finito il lutto grave, egli la scontò a caro prezzo quella sua gioia cattiva. Ogni giorno, a Vicenza, si dava in moglie la Contessa a qualche nuovo adoratore, e quelle chiacchiere tormentavano, perseguitavano il povero Prandino, che arrossiva e impallidiva tutto in una volta, con turbamenti strani e angosciosi. Allora leggeva Leopardi, piangeva, e la chiamava Aspasia.... quasi che lei ne avesse colpa! Più di ogni altro, poi, lo metteva fuori di sè un capitano di cavalleria, un riccone, il marchese Del Mantico, che teneva sempre dietro all'Elisa, come la sua ombra.

In tal modo, avvelenandosi senz'alcun costrutto l'esistenza e godendosi con poco sugo delle gioie immaginarie, il nostro Prandino diventò a poco a poco il conte Eriprando: ma l'ideale del ragazzo rimase pur sempre l'amore e il dolore dell'uomo.

Aveva vent'anni, quando si fece presentare in casa Navaredo. Era goffo, timido, impacciato; tutti lo deridevano senza pietà, e la Contessa più di tutti. Solamente due anni dopo, quando il marchese Del Mantico fu promosso a maggiore e cambiò reggimento, solamente allora il conte Eriprando cominciò ad essere preso in considerazione, ed ebbe in regalo la fotografia, portrait-album, con effetto di chiaro di luna.

Però egli lasciò correre del gran tempo, prima di spiegarsi intorno a' suoi sentimenti. Non osava.

Tutti i giorni che si recava dalla Navaredo, giurava a sè stesso di aprirle il cuore, di spiattellarle la sua brava dichiarazione; — ma quando era là, gli mancava il coraggio e la parola e apriva la bocca soltanto quand'era tornato via, per darsi del balordo, dell'imbecille e della marmotta.

Egli non la lasciava mai, taceva molto e la guardava sempre. Qualche volta la contessa Elisa, che aveva capito quanto foco covasse dentro per lei quel bel giovanotto balbettante, confuso, timoroso, che le riempiva la casa di amorini e perdeva tutto il giorno a dipingerle delle corone da contessa sui ventagli, le scatole e il parasole, qualche volta si godeva a metterlo alle strette; ma lui zitto, ammutoliva subito, abbassava gli occhi e tutto rosso parea rannicchiarsi nel suo abito nero, come una lumaca dentro al guscio.

Ma si sa bene, tira, tira, la corda si rompe.

Nell'autunno prima del viaggio di Venezia, il conte Eriprando era stato, come il solito, invitato dal suo compare a passar un mesetto in campagna: fortuna volle che la contessa Elisa prendesse appunto in affitto un villino nelle vicinanze e.... sfido io! si vedevano sempre, facevano delle lunghe passeggiate insieme, sedevano stanchi, soli.... e senza alcun sospetto sotto l'ombra di un albero o fra i cespugli delle giovani quercie, e accadde.... quello che da un pezzo doveva accadere. Un giorno, ch'egli le avea detto a memoria il Guado dello Stecchetti, quando l'ebbe finito, colla scusa che questa poesia era carina tanto, concluse dicendole che anche lei era bionda, bella e che lui l'amava, che da molto tempo

“Glielo voleva dire e non l' osava.„

Elisa lo ascoltò senza punto punto adirarsi; ma finse di non capire che l'amico le parlasse sul serio.

Prandino allora ripetè l'assalto, anche più scopertamente; ma la Contessa d'un tratto pareva avesse perduto il suo spirito, e continuava a non capir nulla. Allora, quell'altro le disse, tremando, che le voleva bene, e lei a rispondergli che mentiva: e il giovanotto a ripeterle ch'era innamorato fin da quando, si può dire, era ancora un ragazzo e che la pregava, la scongiurava d'esser buona, di lasciargli intendere che anche lei non era insensibile e che di tutto quel gran bene gliene ricambiava un zinzino.

— Eppoi?.... quand'anche glielo dicessi?.... A che pro?.... Tanto e tanto, sarebbe sempre la stessa cosa.

L'Elisa disse queste parole lentamente, facendosi seria, quasi mesta, alzando gli occhi al cielo con sospiri, con fremiti, che la scuotevano tutta.

Prandino che, sparata la bomba, sentiva crescere il coraggio coll'odor della polvere, le si fece più vicino e le prese le mani: ma lei non volle, si ritrasse, si schermì, fe' forza per liberarsi dalle strette del giovane; in fine, terminò col tagliare il male nel mezzo, e tirò via una mano, l'altra abbandonando a quelle carezze insensate.

Ariberti, preso l'aire, parlava adesso per tutto il tempo che aveva taciuto. Non le domandava che una parola, un segno, un indizio qualunque che gli facesse capire ch'ella gli voleva un po' di bene.

— E dopo?.... Quand'anche glielo lasciassi intendere?.... Già sarebbe sempre la stessa cosa.

E l'Ariberti ad insistere, a ripeterle che lo renderebbe l'uomo più contento, più beato del mondo; ch'egli non le domandava la sua pace, ch'egli non avrebbe turbato la sua quiete, la sua coscienza: ch'egli da lei non voleva altro che un sorriso, che una parola, e dopo avrebbe taciuto di nuovo, come taceva da tanti anni: ma che ne sarebbe stato così lieto, così superbo, perchè era solamente un po' del suo cuore ch'egli voleva ottenere, perchè egli desiderava soltanto di dominare ne' suoi pensieri, perchè egli non aspirava se non al possesso dell'anima sua, perchè l'amore ch'egli sentiva per lei, potente, appassionato, era però alto, era però nobile e puro, come l'amianto che la fiamma purifica e non consuma.

L'Elisa a tanta retorica, sempre con la testa china, sempre seria, sempre mesta, cogli occhioni sempre fissi, immobili, quasi la tenesse assorta l'idea d'un lontano pericolo, continuava a ripetere, come ritornello:

— E poi?.... Quand'anche glielo lasciassi capire?.... A che pro?.... Sarebbe poi sempre la stessa cosa!....

Il giorno dopo pioveva, e la passeggiata non si potè fare.

Non tralasciarono però di vedersi. Il conte Eriprando andò a farle visita e trovò la Contessa nel salotto terreno, che ricamava certe strisce di panno, destinate col tempo a diventare, unite insieme, un tappeto: ma che intanto si potevano paragonare alla famosa tela di Penelope, non che per fatto loro avessero costretto nessuno ad aspettare, ma perchè, invece, gli adoratori della Contessa, uno dopo l'altro, dovevano tutti godersele sotto il naso, finchè durava l'amore.

Il salotto terreno, con un divano, un tavolino rustico e due o tre seggiole di paglia in tutto, era una specie di sala di passaggio, con due porte vetrate, l'una di faccia all'altra. La prima dava nel giardino e avea di fronte un fitto capanno di mortella intrecciata colla vite selvatica: la seconda metteva invece sul piccolo orticello della villetta.

Era una giornata d'autunno, bigia, uniforme, senza uno spacco di cielo fra quella tinta squallida, infinita, senza neanche il fantastico rincorrersi delle nubi che si accavallano minacciose.... Era una giornata bigia, uniforme, monotona.

La pioggia col suo susurro lento e continuo, in quel silenzio di ogni anima viva, sembrava avesse isolato il salotto lontano dal mondo, fra i riflessi del verde delle piante, dell'erba, delle foglie, fatto più cupo dall'acqua che cadeva; quella pioggia, quella luce scialba, il lontano brontolìo del tuono mettevano addosso una melanconia, una tristezza, che rendeva più dolci e più desiderate le commozioni di una confidenza intera e tranquilla.

— Sa?... non lo aspettava oggi, con questo tempaccio.

— Quando son partito da casa, sembrava che il cielo si rischiarasse!

— Davvero?

E la Contessa lo guardò in modo, che l'altro dovette arrossire. Gli era sfuggita una goffaggine, e se ne accorse subito; ma, sempre, il primo momento ch'egli si trovava con Elisa, provava un impaccio, una soggezione, che non potea superare.

— Iersera, ho ricevuto una lettera da mia figlia.

— Buone nuove?

— Sì, buonissime.

— E laggiù come si trova?

La contessina Cecilia, la chiamavan così per un riguardo alla mamma, aveva sposato l'avvocato D'Abalà, sotto-prefetto a Maremma.

— Non troppo bene, anzi finchè a mio genero non daranno un'altra destinazione, fa conto di ritornare a star con me.

A questa notizia l'Ariberti sorrise; ma a denti stretti.

— Ci son dei saluti anche per lei.

— Grazie mille, Contessa.

L'Elisa, a questo punto, cercò nel cestino, ma invece della lettera di sua figlia, le corse fra mani un'altra lettera. Accortasi dello sbaglio, arrossì e, in fretta, se la cacciò nella tasca della veste.

Eriprando, che aveva scorto sulla busta lo stemma del marchese Del Mantico, fece un muso così lungo tutto ad un tratto, in modo che la Contessa non potè non accorgersene.

— Mi ha scritto anche il Del Mantico: e m'ha detto che, in settimana, verrà a trovarmi.

Prandino impallidì.

— E.... lei.... che cosa gli ha risposto?

— Che lo vedrò molto volentieri.

Ariberti si sentì opprimere il petto dall'affanno. Volle parlare, ma non potè dire due parole. Finalmente dopo un buon tratto che durava la scena muta, si alzò e stese la mano alla Contessa per accomiatarsi.

— Va via?... Così presto?... E con questo tempaccio?...

— Ci son venuto anche coll'acqua.

— Ma allora, secondo lei, pareva che il cielo si rischiarasse.

E l'Elisa tornò a ridere fissandolo, con un riso ch'era tutto un'amabile canzonatura.

Egli continuava sempre muto, sempre con tanto di muso a stenderle la mano, la Contessa gliela strinse: poi, con una certa violenza, lo tirò vicino, e se lo fece sedere sopra una seggiola accanto.

— Andiamo, da bravo, si consoli. — Oh!... Per me....

— Ho scritto a Del Mantico di non venire, perchè di giorno in giorno aspetto mia figlia. È contento adesso?

Ariberti non lo volle dire, ma lo lasciò intendere anche troppo.

Tuttavia nelle sue notiziole la Contessa non era molto esatta. Era stata lei a scrivere al maggiore di venirla a trovare, e il maggiore invece le avea risposto che non veniva, con una lettera piuttosto fredduccia, scusandosi coi soliti affari di servizio, e, se si deve dir proprio tutto, questa lettera avea molto infastidita la contessa Navaredo.

— Dunque.... — e Prandino, che adesso ritrovava tutta la sua vivacità, per il gran peso che si era levato da dosso, si tirò tanto vicino alla Contessa, da toccarle le vesti colle ginocchia. — Dunque.... se gli ha scritto così.... vorrebbe dire.... che un po' di bene me lo vuole?...

— Veramente, potrebbe anche non volere dir nulla di tutto questo!...

— La prego, la scongiuro, Contessa, mi dica che è stato per farmi un piacere che gli ha scritto di non venire.

— Sì.... perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.

Elisa cominciava a trattarlo col voi; ma bisogna compatirla, povera signora. L'Ariberti, quando si metteva in orgasmo, era un gran bel ragazzo, con quelle sue guance fresche, rosate, come una fanciulla; i capelli neri, folti e spettinati; e poi, aveva delle mossettine, degli atteggiamenti, certe arie da fanciullo viziato, che riuscivano molto attraenti, specialmente per una donnetta come l'Elisa, che, adesso, anche nell'amore, si godeva a fare un po' le parti della mamma: “....perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.„

— Per questo solo?

— Sicuro!...

— Non vi credo. Gli avete scritto di non venire perchè.... perchè mi volete un po' di bene.

— Torniamo da capo?

— Ve ne supplico, siate buona, non mi fate soffrire così. Già lo capisco, lo vedo, lo sento che mi volete bene; dunque non siate cattiva, ditemelo, mi volete bene, non è vero?

Elisa lasciò cadere il ricamo sulle ginocchia, e piegandosi un po', fissò il giovane con un senso d'affetto pieno di compiacenza, che le trapelava dagli occhi.

— Bambinone!

— Mi volete bene?...

— No!

A questo punto, per un perchè forse più patologico che psicologico, la Contessa mutò d'un tratto. Da' suoi occhi si dileguò ogni espressione di tenerezza; divenne seria, sembrò quasi irritata, si levò da sedere e andò ad appoggiarsi, ritta, senza più dire una parola, alla vetrata che metteva nel giardino.

L'altro, indispettito, si abbottonò l'abito nero, quello stesso che più tardi fu rimesso a nuovo da mamma Orsolina per il viaggio di Venezia, poi cominciò a dondolarsi sulla sua seggiola.

Stettero un pezzo così: lei, pensosa, immobile a guardar l'acqua che cadeva; lui, tutto nervoso e sconvolto, a sfogare la stizza facendo l'altalena.

Però, dopo qualche tempo, sebbene Ariberti non ne potesse proprio più, fu la prima l'Elisa a parlare.

— Conte, conte! Venga qui.... Guardi com'è bello!

Di fuori, continuava a piovere; ma la pioggiolina s'era fatta più minuta, il cielo più chiaro, e una larga striscia di sole faceva brillare sulle foglie degli alberi e dei fiori, sui fili d'erba e sui bianchi sassolini del giardino, le gocciole dell'acqua caduta, così che parevano gemme, mentre di lontano, l'arcobaleno squarciava co' suoi vivaci colori la tinta grigiastra, uniforme, disegnandosi largamente di sotto a un gran lembo d'azzurro.

— Conte!... Venga qui!

Prandino si alzò, ma rimase affatto insensibile a tutte quelle bellezze della natura.

— Perchè torna a trattarmi col lei adesso?

— Oh che, forse non le ho sempre parlato in terza persona?

— Sempre no; e lei lo sa bene.

— Allora le domando scusa della libertà che mi son presa senza accorgermene. Venga.... Venga con me: andiamo là, sotto il capanno.

L'Elisa, in mezzo a tutti quei profumi che la pioggia aveva sbattuti dai prati e dalle aiuole, aspirando quelle sbuffate d'aria fresca, frizzante, si sentì correre in tutto il corpo un senso di piacere, un benessere, un'elasticità, una contentezza che le penetrava nell'anima, come se quella giornataccia di autunno si fosse mutata in un bel giorno di maggio, co' suoi fascini e colla sua salute. Allora, le saltò l'estro di fare un po' la bambina, raccolse le vesti e si mosse per attraversare il giardino, sotto l'acqua, così senza ombrello, colla testa scoperta e, ridendo, invitò l'altro a seguirla.

— Venga, dunque, andiamo!

— Me lo dica in un altro modo....

— Ebbene, venite! bambinone.

Ciò detto, senza aspettar la risposta, Elisa si pose a correre verso il capanno, chiudendo gli occhi, gittando dei gridi, delle risate vibranti, scotendosi e fremendo sotto quell'acquerugiola che la bagnava tutta. Arrivata sotto il capanno, non aveva quasi di bagnato altro che gli stivalini, sembrava che non fosse corsa, ma volata là dentro. Prandino, invece, che le aveva tenuto dietro, era tutto inzaccherato. E ancora col respiro affannoso, tornò daccapo per farsi dire s'ella lo amava, con quell'insistenza ostinata e petulante, che alle donne non dispiace quasi mai, e agli uomini giova quasi sempre.

— Ditelo che anche voi mi amate un po'... Già, il dirlo, non vi costa nulla.

— Voi pensate che non mi costerebbe nulla?...

— Vi giuro; vi giuro sul mio onore.... Sarebbe sempre la stessa cosa.

Non era più lei, ora; era Prandino che ripeteva quell'antifona della sera innanzi.

— No, no. È meglio non dir nulla; è più sicuro. Com'è carino, come si sta bene qui sotto; non è vero?

E la Contessa, che voleva fingere anche con sè stessa d'aver vent'anni, tornò a ridere, a ninnolarsi, stancandosi le dita per legare attorno al capo il suo piccolo fazzolettino di trina.

La pioggia batteva, crepitava sulle foglie della vite e della mortella con uno scroscio lento e continuo, ma di sotto però non ne cadea se non qualche rara gocciola qua e là, che, ingrossata, si staccava dal fitto tessuto del capanno.

— Che gusto a star qui sotto, non è vero, Conte?

La contessa Elisa riebbe allora uno dei suoi bei momenti. Ritornò per un istante com'era dieci anni prima. La fatica di quella corsa le aveva colorite le guancie, il brivido dell'acqua, l'allegrezza che si sentiva intorno, l'amore caldo, appassionato di quel bel giovanotto bruno, forte, sano, che, pauroso, tremava d'amore dinanzi a lei, tuttociò le metteva addosso un brio, una lena, un calore che la faceva proprio ritornar giovane per davvero.

Volendo staccare un piccolo fiorellino da un ramo di mortella, si bagnò le mani e, alcune gocce, scosse dall'urto, le caddero sul viso. L'Elisa ritornò a ridere, dopo un grido acuto, squillante.... e porse al giovane le mani, perchè gliele asciugasse. Non lo poteva far da sè chè la sua pezzuola se l'era legata attorno al capo.

Prandino arrossì.... prese una mano della Contessa, poi l'altra, e le asciugò tutte due adagio, lentamente.

— Guardate qui, — fece lei quando l'altro ebbe finito, e gli mostrò la goccia d'acqua che le rigava la faccia, chinandosi e allungando verso di lui la sua testa incipriata.

A Prandino batteva il cuore violentemente, gli ronzavan le orecchie e sudava tutto. Avrebbe voluto parlare, ma la voce gli si strozzava nella gola: avrebbe voluto asciugar quella gocciola con un bacio, avrebbe voluto stringersi l'Elisa al cuore, e lei, forse, non chiedeva di meglio, ma non ebbe il coraggio di farlo o di tentarlo.

— Grazie, — diss'ella, quando il giovane, tremando l'ebbe toccata appena sulla guancia colla cocca del fazzoletto.

— Se non sentiste qualche cosa per me, non mi terreste qui così.... così vicino a voi.

— No; non sento nulla; non insistete; cominciate a seccarmi.

La Contessa disse tutto ciò con un'asprezza nervosa che contrastava col buon umore e colla tenerezza di poco prima.

Ritornarono a tacere: Prandino questa volta era anche un po' mortificato.

— Siete in collera?... — disse lei alla fine ritornando buona. — Via, datemi la mano e facciamo la pace.

L'altro le si avvicinò; le due mani si strinsero; ma anche dopo la stretta non si lasciarono.

— Perchè volermi far dire una cosa che già avete capito da un pezzo?

A queste parole dette con una lentezza piena di sentimento, chi lo crederebbe? Prandino invece di consolarsi fu preso da uno strano turbamento. Era una confessione che desiderava da tanti anni, che aspettava da tanti giorni, eppure detta là, in quel luogo, in quel modo, in quel momento, lo sorprese invece di commuoverlo, lo sgomentò invece di consolarlo. L'idea di quello che avrebbe dovuto rispondere, di quello che avrebbe dovuto fare lo impicciava. Tutto il suo sangue, così caldo, così bollente, s'era raffreddato in un attimo.

— Ah! dunque è proprio vero, mio Dio? — e non trovò e non seppe dir altro.

Elisa, ch'era vicinissima a lui, gli appoggiò la testa sul petto, poi gli si piegò addosso, stanca, quasi priva di forze, colle braccia abbandonate, chiudendo gli occhi, palpitando, traendo dal seno ricolmo lunghi e grossi sospiri.

Egli si guardò attorno.... incerto, timoroso. Capiva che avrebbe dovuto essere ardito; ma non l'osava. Invece la baciò appena, leggermente, sui capelli, e le disse piano, con la voce strozzata:

— Sarà sempre la stessa cosa, ve lo prometto.

Elisa ebbe un nuovo fremito, lo strinse lei al cuore, con una stretta nervosa, convulsa: l'altro mantenne la data parola.

Imbruniva; la pioggia ritornava a cader giù fitta fitta, e anche il capanno cominciava a gocciolare da tutte le parti.

La contessa Elisa socchiuse gli occhi, come se si destasse allora, poi si rizzò e:

— Grazie, — gli disse lentamente.

— Addio.... Contessa!

— Andate via?

— Sì.

— Perchè?... con questa pioggia?

— È meglio, Contessa.... lasciatemi andar via.... altrimenti.... Credetelo, è meglio che me ne vada. Addio.

La Contessa gli sorrise dolcemente, ma lo lasciò partire.

L'Ariberti, quasi di corsa, penetrò nel salotto, prese il cappello, l'ombrello, poi ne uscì di nuovo e senza nemmeno salutare un'ultima volta l'Elisa, senza nemmeno guardare dalla sua parte, si dileguò nell'ombra della sera che, di mano in mano, si faceva sempre più densa e più profonda.

CAPITOLO IV.

L'arcobaleno mantenne le sue promesse: dopo una giornataccia e tutta una notte scura e piovosa, ne uscì uno splendido mattino pieno di sole, d'aria e di colori.

La contessa Elisa si destò che già la piccola cameretta era inondata di luce, e, sedotta dalla larga striscia di sole che rigando il coltrone di seta gialla damascato ne sollevava un via vai di pulviscoli dorati, folleggianti fra loro, come torme d'insetti che s'inseguano, volle alzarsi, volle scendere all'aperto, per respirare anch'essa in mezzo a quel giocondo e allegro sereno della campagna, che la chiamava a sè dalle finestre spalancate.

Nulladimeno, non si potrebbe dire che appena balzata giù dal letto, uscisse subito dalla camera, oh! no, tutt'altro! Ella si vestì, si acconciò colla solita cura paziente e diligente. Si oscurò le sopracciglia, con due tocchi leggerissimi di pennello: lisciò, ammorbidì le guancie con una certa manteca, sulla quale poi fece correre varie volte il piumino della cipria. Specialmente attorno alle narici, che aveva un pochino enfiate, e dentro le occhiaie, furono minuziose quelle sue cure.

Dopo si diè il rossetto alle labbra, e, quantunque volesse sembrare spettinata, tuttavia non le costò poco tempo nè poco lavoro, l'artistico disordine dei capelli. Sulla veste, indossò un lungo mantello a doppio bavero, che nascondeva, o almeno dissimulava abbastanza bene, la fatale e inesorabile pinguedine, e finalmente attorno alle tese del cappello, puntò un velo fitto fitto, color caffè, di sotto al quale il suo volto, così accomodato e mezzo nascosto, appariva soffuso di una freschezza incantevole.

Tutto quell'abbigliamento diceva chiaro che la Contessa voleva uscire a passeggiar fuori della villetta, e difatti, appena scesa attraversò il giardino, passò il cancello e s'inoltrò in una stradicciola dritta, lunga, ombrosa, fiancheggiata da due rivi d'acqua limpida, sui cui margini verdeggianti ella si fermava qua e là per raccogliere stupide margherite e sentimentali “non ti scordar di me.„

Quando fu al termine della stradetta, udì un'allegria confusa e varia di fringuelli, di cingallegre, di passeri e di merli, che cantavano tutt'insieme. Lì, a dritta, poco discosto, dopo un prato tutto verde e un campo di terra nuda sparsa di sanali, c'era il paretaio, dove l'Ariberti, ogni mattina, andava a uccellare per conto del suo compare.

La contessa Elisa lo sapeva e per questo appunto girò a destra, sollevando un po' la veste colle due mani e tuffando arditamente, fra le erbe umide del prato, i suoi stivaletti di pelle lucida.

Il casotto del paretaio era tutto coperto da rami di pino selvatico e da fronde rampicanti, disposte in modo da nascondere quel luogo d'insidie. Le reti appese in giro, pendevan giù, da lunghi filari d'alberi d'ogni specie. Il mandorlo intrecciava i suoi rami con un giovine carpine ed il pero col sicomoro. I poveri uccellini avevan là, davvero, una ricchezza funesta di seduzioni!... Ma dopo quelle seduzioni sulla fronda cara che rammenta il nido, sul tronco amico che ricorda il primo volo, sotto le foglie e tra gli stessi fremiti della brezza che accompagnò i primi gorgheggi del loro amore, trovavano l'agonia e la morte!... Poveri augelletti!... Oh! mille volte più fortunata l'allodola che rimane uccisa da un colpo improvviso e tonante come la folgore, lontana dalle native pianure, in mezzo alla deserta infinità dello spazio!...

La contessa Elisa era giunta a pochi passi dal casotto e si godeva tutta tra quei gorgheggi, in mezzo a quella verzura folta, ricreata dall'aria fresca del mattino.

— Conte Eriprando! — gridò dopo un poco che era là rimasta ferma a guardare, — conte Eriprando!... Si può venire avanti!?...

A risponderle uscì dal casotto un contadinello che serviva il Conte facendogli da uccellatore. Questi, senza parlare, con una mano le fe' cenno di non muoversi dal posto: poi si chinò e, nascondendosi mezzo dentro e pur rimanendo mezzo fuori dall'usciolo, attento attento, fissava l'occhio su due tordi che si avvicinavano saltellando fra i rami del paretaio, finchè d'improvviso, essi volando di traverso, piombarono nelle reti, dove invano si dibattevano tra quei fili, che per le lor forze pareano di ferro, con degli scrolli matti, furiosi, disperati.

L'uccellatore con un urlo d'allegrezza, corse calpestando le aiuole seminate, ed era già là per ghermirli, quando la Contessa pregò Prandino, che in due salti l'aveva raggiunta, di lasciarglieli veder vivi nella rete.

— Giacomo! lascia stare! — gridò il Conte all'uccellatore, che obbedì di mala voglia.

L'Elisa e l'Ariberti, lo raggiunsero presto e si trovarono anche loro due dinanzi alle vittime spaurite.

— Oh! come son carini, come sono bellini, poverini! — esclamò l'Elisa vezzeggiandoli con tutte le moine e i diminutivi coi quali si godeva darsi delle arie bambinesche.

— Vuole che li serbi vivi per lei, Contessa?

— Oh! no: tanto non camperebbero.

Giacomo, appena udite queste parole non aspettò di più; e colle sue ditacce, schiacciò loro la testa, un dopo l'altro, con due colpi lesti, sicuri.

Dibatterono l'ali un'ultima volta, ed erano già morti.

L'Elisa diè in un grido acuto, mentre i suoi occhi si gonfiarono di lagrime.

— Perchè hai fatto a quel modo, villano?

E il Conte, irritato, aggiustò a Giacomo uno scapaccione così forte che gli mandò il cappellaccio a rotolare lontano.

— Dio mio, poverini! che senso m'han fatto....

L'Elisa, così dicendo, stringeva, chiudendoli, gli occhi, e si premeva le mani sul cuore che le palpitava.

Tutti e due rimasero tristi e silenziosi. Il villano, sconcertato, si grattò la nuca, poi, dopo di essere corso a raccogliere il cappello, ritornò lì per accomodare, con due strappate di mano, le bisacce della rete.

— .... Andiamo un po' all'ombra, nel casotto? — domandò Prandino alla Contessa, con la voce che gli tremava e il cuore che gli batteva forte.

— Andiamo.

E l'Elisa, di nuovo, sollevando un po' le sue vesti, fu la prima a muoversi nella direzione indicata, sempre triste, sempre silenziosa, saltellando leggermente per schivare le pozze fangose della viottolina.

Il nostro giovanotto, dopo le conversazioni del giorno innanzi, si aspettava qualche cosa da parte della contessa Navaredo: o una lettera, o un libro con un fiore, oppure un invito a colazione.

La contessa Elisa non usava chiamar gente a desinare, perchè i pranzi impegnano troppo, ma dava invece, di tanto in tanto, qualche colazioncina intima (erano sempre in due a tavola, compresa la padrona di casa) per la quale, più che la cameriera, la Beppa, che serviva da cuoca, lavorava il contadino che, essendo anche giardiniere, riempiva la mensa di fiori e di semprevivi.

Ma sebbene qualche cosa si aspettasse, tuttavia quella visita della Contessa, a quell'ora, in quel luogo, superava qualunque speranza avesse osato vagheggiare.

Erano i castelli in aria della sua adolescenza, fantasticati tutte le domeniche in Duomo, durante la messa delle dieci, che si avveravano coi loro più splendidi miraggi, divenuti realtà.

Camminando adagio adagio, egli la guardava amorosamente muoversi lesta, elegante, dinanzi a lui; e allora il piedino perfetto e, più su, la gamba rotonda, coperta da una calza finissima di seta rossa, che le vesti, nel sollevarsi, scoprivano di più a ogni passo, a ogni saltello; e allora, il profumo della cipria aux fleurs de lys de kachemyr, che a sbuffate gli saliva al naso; e allora quegli alberi che si movevano ai lunghi soffi della brezza mattutina quel verde grondante di rugiada, quell'erba luccicante, quel sole così limpido, quell'aria fresca e sana, quella solitudine sicura, in mezzo a tutto quel vasto silenzio, solo interrotto dal canto alto degli uccelli, gli facevano battere il cuore con una contentezza infinita, gli facevano correre nel sangue nuove ebbrezze voluttuose.

Quand'erano già vicini al casotto, s'accorse che Giacomo gli teneva dietro: Ariberti si voltò a dirgli:

— Adesso non ho bisogno di te; va' pure a fare la tua merenda.

— Grazie, signor Conte.

Il villano gli fece dietro alle spalle una smorfia da scimmia, poi infilò un'altra viottola, passò dall'uccelliera a prendersi la sporta col suo desinare, e a un mezzo tiro di fucile all'incirca dalla ragnaia si sedette sopra l'erba folta della riva che divideva il campo vicino dal paretaio. Di tanto in tanto, fra un boccone e l'altro di polenta, il ragazzaccio però tornava a grattarsi la nuca e a fissare il casotto con certe mossacce maligne.

Là dentro, in quella tana angusta, oscura, dove il sole penetrava appena con qualche striscia minuta, con qualche punto luccicante, dagli spiragli invisibili, sparsi in quel fitto congegno di fronde, di tronchi d'albero e di stuoie, Elisa e Ariberti, tutti due vicini, tutti due seduti sopra una panchina corta, ristretta, avevano già ricominciato a discorrere d'amore.

— Che cosa avete pensato di me, iersera?

— Che siete molto buono.

— Troppo forse?

— Oh! No!.... Vi voleva bene prima.... ma adesso ve ne voglio anche più.

Prandino l'aiutò a levarsi il cappello che posò sopra un trespolo ch'era lì presso: poi tornò a sedersi sulla panchina con lei, che in quella oscurità non ci perdeva nulla, anche senza velo.

— Perchè non dite te ne voglio anche più?

— Perchè non son buona, perchè non mi piace. E poi, guardate, non ho mai dato del tu a nessuno.

— Nemmeno a vostro marito?

— Con mio marito si sa bene; ma era un'altra cosa!

E l'Elisa si strinse un po' nelle spalle, infastidita da quella domanda molto ingenua di Prandino.

— È curioso però il vostro modo di voler bene.

— Sta a vedere, adesso, che l'amore consisterà nel dare del lei, del voi o del tu!

— Non in questo solo, ma....

— Ma in che cosa?

— Voi siete cattiva anche.... anche in tutto il resto.

Lei lo guardò fisso perchè non capiva, e lui la guardò fissa per farsi capire: ma poi, siccome l'altra continuava a non voler intendere, Ariberti, per ispiegarsi, col braccio le circondò la vita, e sporse le labbra, avvicinandosi per darle un bacio.

Elisa si ritrasse con tanta vivacità che, quasi, cadeva giù dallo sgabello.

— La prego, Conte, non mi faccia pentire della fiducia che ho avuta.

— Perdoni, Contessa; perdoni! Già, io doveva saperlo ch'ella non sente nulla per me!

E Prandino, secondo il solito, mettendo subito il muso, sciolse dal suo abbraccio la vita della Contessa, e cogli occhi fissi fuori dalla piccola finestrella del casotto, sembrò volesse rimanere da allora in poi tutto intento alla caccia.

— Vedete come siete? Perchè non si vuol fare in tutto a modo vostro, fate il broncio e diventate sgarbato. Andate là, che anche voi avete un modo curioso di voler bene!....

Quell' anche voi urtò i nervi a Prandino, che però non si mosse e continuò a spiare dalla finestretta.

In quel punto due fringuelli spionciando allegramente e saltellando sui rami, tra le fronde della ragnaia, sembrava da un momento all'altro volessero scender giù nel mezzo del boschetto, attratti dagli inviti degli allettaioli.

Ariberti, non appena li vide, fece subito svolazzar gli zimbelli; poi, sollecito, allungò le mani sulla corda dello spauracchio.

Poveri uccelletti! Un colpo, una tirata sola e erano presi.

Elisa li avea scorti molto prima che li vedesse il Conte; ma aveva taciuto, sperando gli passassero davanti senza che se ne accorgesse. Ella si era sentita stringere il cuore per essi; se li figurava già colla loro testina schiacciata fra le ditacce di Giacomo e, buona, sensibile com'era di cuore, volle salvarli. Pensò di chiedere a Prandino la grazia della loro vita, ma Prandino in quel punto aveva una faccia così feroce....

— Perchè siete in collera, Conte? — gli chiese allora come per provare a distogliere l'attenzione del giovanotto da quel nuovo agguato.

Ma Prandino era un cacciatore di prim'ordine e nella presa ci metteva molto amor proprio, per cui non le badava affatto, e rimase invece tutto fisso, immobile, ad aspettare il momento buono di tentare il colpo.

— Perchè siete in collera, Conte?

I fringuelli, fatti due o tre voli capricciosi, adesso eran piombati fra le aiuole traditrici, e, senza alcun sospetto, poveri innocenti, beccavano il miglio sparso là intorno, per gli zimbelli.

Bisognava tirare lo spauracchio ed eran subito presi....

Prandino difatti, ne aveva già afferrata la corda e puntandosi fortemente co' piedi, stava per dare l'urto alla strappata, quando la Contessa, visto che non c'era altro scampo, appoggiò sulle mani di lui le sue manine grassocce, calde, vellutate, e piano piano gli susurrò all'orecchio:

— Perchè sei in collera, adesso?....

Prandino si lasciò sfuggire la corda.... si voltò....

I fringuelli erano salvi.

La buona Elisa gli aveva appoggiata sulla spalla la testa profumata. Egli la guardò con uno sguardo lungo, tenerissimo, colmo d'amore e di passione: Elisa aveva chiusi gli occhi e sorrideva a fior di labbro. Come la sera innanzi egli allora la baciò sui capelli; poi, d'improvviso, stringendosela al cuore con una stretta convulsa, la baciò e la ribaciò sulla bocca, cosa che la sera innanzi non aveva avuto il coraggio di fare.

Intanto i due uccelletti eran rimasti liberi e padroni del campo. Volavano a capriccio, dalle aiuole fiorite alle frondi verdi della siepe; poi battendo l'ali tornavan giù a bere l'acqua e a diguazzarsi nel bagnatoio degli zimbelli.

Nessuno al mondo pensava più di fare ad essi alcun male.

Giacomo, appena li aveva notati, s'era levato lui, mezzo da sedere, aspettando che dal casotto venisse data la tirata. Ma nel casotto sembrava che tutti fossero morti o, per lo meno, addormentati. Allora il villano die' in una grande sghignazzata, si strinse nelle spalle e si buttò a svoltolarsi, come un puledro, fra l'erba umida della riva.

Dei soffi d'aria leggeri correano sfiorando la terra, piegando le foglioline dell'erba, facendo stormire le fronde spesse delle siepi; lunghe ondate di profumo vagavano nell'aria, e qua e là qualche ranocchio che si godeva il sole sull'orlo del fossato univa di tratto in tratto, il suo gracidare monotono, ai canti acuti, squillanti, stonati che uscivano dall'uccelliera.

Giacomo, supino, stette là lungamente a beversi in un assopimento stanco quella luce calda e snervante; ma poi quel grande barbaglio del sole lo accecò e allora stirandosi e sbadigliando, si tirò giù, sulla faccia rosolata, il cappellaccio nero, bisunto e sformato.

I fringuelli continuavano intanto a godersi lietamente tutta quella pastura. Eran tornati a rivolare sulla siepe e dalla siepe al boschetto, e dal boschetto alle aiuole, e adesso salterellavano tutti e due sul tetto del casotto.

S'inseguivano, si sfuggivano, poi ritornavano ad accoppiarsi per scappar via un'altra volta, ma sempre continuando a pigolare, con dei gorgheggi, ch'erano le note più dolci del loro linguaggio.

Dal tetto, vispi, pettegoli, curiosi, scesero in cerca di becchime fra le fronde secche delle pareti, poi, temerari, vennero a posar proprio, bezzicandosi, sulla corda dello spauracchio ch'era là distesa, abbandonata e, dopo, tutti e due vicini vicini, pigolando sempre, s'inseguirono fino sull'assicella del finestrino: ma allora ci fu qualche cosa che li impaurì all'improvviso, perchè d'un tratto volarono via, spionciando spaventati e andarono dritti dritti, a cader giù perdendosi nei campi lontani.

CAPITOLO V.

Quello fu per il conte Eriprando degli Ariberti il più bel giorno della sua vita; e quando, verso le dieci, la Contessa lo licenziò con un ultimo sfogo di moine, egli era stanco, affranto, da quella sua grande felicità, e sentiva proprio il bisogno di esser solo, di andar lontano anche dalla donna ch'egli adorava, per raccogliersi a pensare, a misurare, a comprendere la nuova e immensa beatitudine che lo stordiva. Venne quasi l'alba prima ch'egli potesse addormentarsi. Tutta notte s'era voltato e rivoltato nel letto, col cuore gonfio, in preda a una contentezza, a una smania nervosa, che lo teneva desto, agitato.

È proprio vero: la felicità dà le stesse inquietudini, le stesse angosce, quasi, del dolore, ed è anche proprio vero che, come bisogna abituarsi alle disgrazie per sopportarle, così bisogna anche abituarci alla felicità per saperla godere.

Nemmeno la contessa Elisa dormì subito; non già ch'ella pure avesse inquietudini in cuore, ma perchè aspettò del tempo prima di andare a letto. Però la Beppa, ch'era una dormigliona rabbiosa e che, quand'erano sonate le dieci, tutta raggomitolata sopra una sedia, vicina al fuoco, in cucina, non faceva altro che brontolare fra un pisolo e l'altro, quella sera non ebbe occasione di lamentarsi. Elisa la mandò a dormire subito, dicendole che si sarebbe spogliata da sè, perchè prima aveva da scrivere delle lettere.

Difatti, ne scrisse una, corta corta, alla contessina D'Abalà, e quest'altra che segue, piuttosto lunga, per il maggiore Del Mantico:

Caro marchese,

“Oggi ho avuto una giornata molto splenetica, e vi confesserò, con tutto il candore, che ne è proprio stata causa la vostra lettera, dalla quale traspariva, fra le linee, una freddezza per me incomprensibile e anche choquante in qualche punto.

“Perchè non venite?.... Gli affari di servizio.... Oh! sono molto comodi gli affari di servizio, quando mancano pretesti.

A quelque chose malheur est bon, e anche le grandi manovre servono bene per ischivare delle visite seccanti. Non è vero, caro marchese?....

“Io, però, siccome non ho nessun regret nella mia coscienza, così vivo tranquilla, almeno per questo riguardo, e dimentico il presente, spaziando, come in un sogno, nelle rimembranze di un dolce e tenero trascorso.

“Anche oggi ho avuto la visita del conte Eriprando degli Ariberti. Povero bébé! Egli mi ama davvero e vorrebbe farmi sua moglie. In ogni modo, senza interrogare il mio cuore, la realtà della vita vi si oppone. L'ho mandato via, adesso, per iscrivere a voi, e penso di chiamare mia figlia presso di me, perchè il mondo è così maligno, e le assiduità del Contino, essendo io qui tutta sola, potrebbero venire interpretate equivocamente.

“Del resto, io lo vedo proprio con dispiacere soffrir tanto, povero giovane! ma non gli ho nascosto che rinchiudo tali ricordi nella mia anima, che mi darebbero sempre molto a pensare prima di legarmi a un altro. La poesia, che da lontano mi sfiora l'anima col suo dolce profumo, paralizza ogni palpito del cuor mio.

“Però confortatevi, caro marchese; se io vivo del passato, ciò non vi deve punto allarmare. Ho dello spirito, me lo avete detto anche voi, e ne uso a beneficio degli amici, per ricordare delle loro promesse quelle soltanto che loro stessi rammentano senza pentimenti.

“E ciò sia detto en passant, anche per la visita che volevate farmi qui in villa, e che le grandi manovre hanno rimandata, pare, ad un tempo indefinito.

“E quella mia figlia che mi secca sempre perchè vuole ad ogni costo che io mi rimariti?!.... Da ciò solamente dovrei arguire che l'avvocato D'Abalà le rende molto felice l'esistenza.

“L'Ariberti ha visto stamattina nel mio cestino la vostra lettera. Deve certo aver indovinato dalla busta ch'era vostra, perchè è diventato rosso come un gambero e poi è scappato subito via, tutto sconvolto, senza quasi nemmeno salutarmi.

“Pensate a me e, se non altro, non siate oblioso di qualche souvenir che del tutto ancora non può riuscirvi ingrato. Credete che io conserverò sempre a riguardo vostro, dell'affezione leale e sincera, anche perchè il giorno nel quale cessasse questo mio vivo interessamento, quel giorno potrebbe cominciar la coscienza a farmi dei rimproveri e dei rimarchi ben severi.

“Chi ama dimentica....

“Chi cessa d'amare ricorda.... ed io non posso, ed io non voglio ricordare, e perciò domanderò uno stordimento benefico anche alle ceneri dell'amore, ed alla poesia soave delle memorie.

“Vi dò la mia mano da baciare. Una volta la baciavate inginocchiandovi come dinanzi ad una regina; oggi stringetela pure senza complimenti, come ad un buon camerata.

Bienheureuse la femme qui après l'amour laisse épanouir les parfums de l'amitié.

Après l'amour!.... Ma mi avete amata, voi, caro marchese?

Sans adieu, et sans rancune.

“ Elisa Navaredo.„

Piegò la lettera, la chiuse nella busta, vi fece l'indirizzo e la lasciò là, sul tavolino, vicino a quell'altra, scritta per la contessina Cecilia.

Gli affari erano terminati e poteva concedersi il meritato riposo, perchè anche lei era un po' stanca ed aveva sonno.

Però, come nell'abbigliarsi al mattino, così anche nello svestirsi la sera, ella aveva mille cosucce da sbrigare.

Liberatasi dalle vesti e rimasta in sottanino, cominciò dal levare le ciocche dei riccioli finti che aveva intrecciate, e il crespo che avea nascosto nei capelli. Poi sulla fronte e di dietro sul collo, fece lesta lesta, alcune ciambelle coi capelli corti, che schiacciò fra certi diavolini di seta nera, unti e bisunti. Sulla faccia, lentamente, si spalmò una pomata scura, che si asciugò dopo con un pannicello di lana. Attorno alle narici avea la pelle più rossa del solito, e avea le labbra molto più rovinate; però quella sera, ricorse al rimedio più efficace: da un cassettino della toletta, sotto lo specchio, prese il fondo di una candela di sego, che vi era involtata in un pezzo di giornale, lo riscaldò, lo fece gocciolare al calore della lucerna, e, con quello, si unse ben bene il naso e le labbra. Finita anche questa operazione, sturò una bottiglietta di glicerina, se ne versò tanto del liquido in una mano quanto ne poteva contenere, e così continuò per un pezzo a fregarle tutt'e due l'una coll'altra, come se fosse dietro a lavarsele, e senza asciugarle, infilò un paio di guanti sudici, che una volta doveano essere stati bianchi, ma che adesso erano gialli dall'unto. Fatto tutto ciò, si avvicinò al letto e finì di spogliarsi; ma quando si levò l'ultima sottana e rimase in fascetta e in camicia, qualche cosa di ruvido le scivolò giù tra le gambe.... Era un ramoscello d'edera che, prima di uscire dal casotto, appoggiata mollemente al braccio di Prandino, aveva strappato dalla breve fessura della finestrella e che si era nascosto nel seno. Elisa guardò per terra, lo vide.... ma forse non lo riconobbe, perchè lo cacciò dispettosamente sotto il letto colla punta della babbuccia, mentre, per causa del freddo che l'era venuto addosso, s'ebbe un colpo di tossaccia grassa, che fece tremare tutta quella sua carne che, così disciolta com'era, dal busto e dalle altre vesti, l'avrebbe fatta apparire a chi l'avesse vista, ancor più pingue e sformata.... Ma per fortuna non c'era alcun occhio indiscreto!

CAPITOLO VI.

Il treno- omnibus da Vicenza per Venezia parte alle 12,27, ma alle 11 e mezzo il conte Eriprando degli Ariberti giungeva in carrozzella alla stazione.

Aveva la faccia scura. Mamma Orsolina, nell'abbracciarlo, era scoppiata in un dirotto pianto, e nemmeno le celie della Luciana valsero a dissipare in lui l'impressione affettuosamente melanconica di quel distacco.

Smontò, pagò il vetturino che brontolò sulla mancia, consegnò la valigia, prese un biglietto di prima classe, che infilò in bella mostra sotto il nastro del pioppino, e, con un gran sussiego, si pose a passeggiare sul piazzale, fuori della stazione, aspettando che lord Palmerston gli conducesse l'Elisa e la Contessina.

Intanto, mentre girava l'occhio per osservare se il suo biglietto verde era notato con rispetto da quelli che viaggiavano in seconda, col fazzoletto si spazzolava la polvere dal vestito nero, e, mentalmente, rifaceva quei benedetti conti: fra il biglietto, la vettura e il bagaglio, aveva già speso undici lire. Non gliene rimanevano più altro che dugento sessantanove. Eran pochine!... Già, per far le cose ammodo, gli sarebbero occorse trecento lire nette da poter spendere a Venezia, senza doverle intaccare per il viaggio.

Era ancora immerso in questi calcoli, quando lord Palmerston, che, col suo traino misurato, scalpitava forte sulle pietre con un cioc ciac tutto particolare, gli fe' battere il cuore e alzare la testa.

Non si era ingannato: era proprio la carrozza di casa Navaredo.

Prandino, diventando rosso, corse allo sportello e lo aperse. Gegio, subito gli saltò addosso, e, siccome aveva mangiato delle ciliegie e ne aveva ancora le manine sporche, così gli lasciò l'impronta delle dita sui polsini della camicia.

Lesta lesta discese poi la contessa Elisa, coperta fin sotto al mento, da uno spolverino d' orleans color piombo, con un cappello di paglia scura, che le veniva giù sugli occhi, e una veletta fitta, bigia, che le girava attorno al collo e le nascondeva bene la faccia.

La contessina Cecilia, su per giù vestita come sua madre (già per lo più, era la Beppa la sarta di tutte due) fu l'ultima a muoversi, e, messo un piede sul predellino, prima di toccar terra, si appoggiò tutta alla mano del giovanotto, perchè, come al solito, anche allora, la Contessina era, per dir la cosa più pulitamente che si può, in istato interessante.

— Ha preso i biglietti? — chiese subito costei, appena scesa di carrozza, colla sua vocina fessa, col suo piglio rabbioso, al povero Prando, intimidito tanto da non sapere come dirle di no.

— Ma, veramente, aspettava....

— Che cosa aspettava? Che li prendessi io anche per lei? Non sa forse che andiamo a Venezia? Intanto, non vede? allo sportello c'è già la gente accalcata e noi dovremo star qui ferme impalate, chissà per quanto tempo!

— La Contessa può accomodarsi nelle sale di aspetto, — disse uno dei facchini che aveva tirati giù dalla vettura il baule e le sacche da viaggio.

Ma la Cecilia non ne volle sapere, tutta scalmanata a correre intorno, dondolandosi in quello stato, a contare le sacche, le cassette, le scatole, le cappelliere, se c'erano tutte e a sorvegliare quelle che si dovevano consegnare, e quelle da tenersi in mano. Gridava, smaniava, dava in escandescenze per un nonnulla.

Voleva essere subito sbrigata, su due piedi, come se al mondo non ci fosse stata che lei da servire; faceva un casa del diavolo per le cose più semplici, era malcontenta di tutto, sospettava che tutti, e specialmente il Governo, la volessero frodare, tirava le orecchie a Gegio, brontolava con sua madre, perchè non sapeva farsi ubbidire, e ogni cinque minuti concludeva dicendo che se ci fosse stato là suo marito, la tale e tal'altra cosa non sarebbe successa.

E così arrovellandosi anche per un'inezia, la sua faccia d'un bianco giallo da linfatica, grassa, rotonda, col naso minuto, a punta, le labbra sottili, le sopracciglia spelacchiate, s'infocava tanto sugli zigomi, da diventare violacea, mentre in quei momenti i suoi occhietti bigi guardavano losco.

La Cecilia, fin dalla nascita, era stata la croce, e una croce molto pesante, degli adoratori della contessa Navaredo. Anzi, si può giurare senz'altro, che, se qualcuno avesse commesso (per modo di dire) qualche peccatuzzo colla mamma, la figliola ci avrebbe pensato lei a dargliene la penitenza.

Da bambina, per farla tacere, e per farla andar via, ci volevano i confettini, le bambole mute e parlanti, i cestini da lavoro, le cucine di stagno e le strade ferrate d'ottone. Però, se i vostri regali non le davano nel genio, stava là con tanto di muso, senza moversi, a farvi degli sgarbi: ma se invece le piacevano troppo, allora non vi lasciava più, vi era sempre addosso, e vi prendeva a voler bene con un amore seccantissimo che vi dimostrava pestandovi i piedi, saltandovi sulle ginocchia, baciucchiandovi colla bocca umida e impiastricciata di dolci, e sciupandovi la cravatta coi suoi ditini, ch'erano stati un po' dappertutto.

Grandicella, era maliziosa come uno scimmiotto e s'innamorava lei degli adoratori di sua madre, che generalmente se la cavavano coll'arricchire alla Contessina gli album dei francobolli, col regalarle libri morali, fiori, gingilli, coll'ammirare i suoi dipinti, col deliziarsi alle sue sonatine di pianoforte, col giurare che avrebbe avuto una bellissima voce anche pel canto, e col dir male di tutte le ragazze che si maritavano, e, peggio ancora, dei giovanotti che le sposavano. Ma ce ne fu uno, più minchione degli altri, il sottoprefetto D'Abalà che avendo tentato inutilmente tutti gli espedienti per piacere alla mamma, e volendo proprio piacerle a ogni costo, chiuse gli occhi e si prese la figliuola.

Tutti respirarono, tranne, s'intende, il sottoprefetto; ma tutti per poco. Delle sue pene ella faceva soffrire un po' ogni conoscente.

Il sigaro le faceva male, gli odori delle essenze peggio, se parlavate forte, le doleva la testa, se parlavate piano, dicevate male di lei. Ogni mese dovevate correre in traccia di un medico nuovo per un nuovo consulto, ad ogni parto andare in traccia di una nutrice forte, sana, robusta, non bella, perchè era gelosa, e di poca spesa. Ogni giorno poi, bisognava cercarle una cuoca o una cameriera, perchè, da lei ci restavano tutt'al più una settimana corta corta, e poi scappavano via come se avessero avuto il fuoco alle calcagna.

Nei vostri discorsi dovevate sempre alludere al ministro dell'Interno per protestare che era un asino, perchè non rendeva giustizia ai meriti dell'avvocato D'Abalà. Dovevate confessare che tutte le donne erano brutte, dichiarare che quello di far figliuoli era un gran merito e ammettere che il sottoprefetto era più bello, più buono, più forte e più intelligente di voi.

— Dunque? Ha preso questi biglietti? — chiese la Cecilia a Prandino, quando lo vide venir via dallo sportello.

— Eccoli, Contessina. Per lei, per la Contessa e mezzo per Gegio.

— Come?! Gegio ha tre anni e gli devo prendere il mezzo biglietto? Se per Gegio non ho mai pagato nulla?... Ma lei s'è fatto imbrogliare!... Ma lei non sa viaggiare!... Ma lei è rimasto sempre in un baule!... Faccia, faccia il piacere, la vadi e glielo dia indietro!

— Ma....

— Che cosa, ma?

— Ma adesso, voleva dire.... che non.... che una volta staccato non lo riprendono più.

— No? E allora? Che cosa me ne devo fare? La vadi, la vadi, si faccia sentire e non si lasci canzonare in questo modo. Sicuro, santo Dio, che con quella faccia sbalordita.... pare sempre addormentato. Gliela farebbe sotto il naso anche un santo, gliela farebbe. Ah! se ci fosse mio marito.... con lui, glielo dico io, lo ripiglierebbero, e senza tanti discorsi. La vadi, la vadi!...

Prandino, tutto sconcertato e vergognoso, corse dal bigliettinaio col mezzo biglietto, ma non riuscì se non a farsi strapazzare anche da lui.

— E così?... — domandò la contessina Cecilia all'Ariberti, quando lo vide entrare nella sala di aspetto. Ma quelle due parole furono dette con una cera, con un tono, con un'espressione tale, che il povero Prandino non ebbe più cuore d'andare avanti.

— Sì.... lo han ripreso, — disse tutto abbattuto e colla voce fioca. Il sacrificio era consumato: altre quattro lire e cinquanta centesimi se n'erano ite.

— Ha veduto?... Ma sicuro che bisogna muoversi, che bisogna parlare, e anche saper mostrare i denti se occorre! Andiamo, si svegli adesso, e mi aiuti un po' a portar questa roba. Prenda in mano quelle due sacche, quella scatola e quella cappelliera e andiamo fuori: il treno è arrivato.

Si mossero tutti e due, e l'Elisa dietro, dritta, silenziosa, senza occuparsi di nulla, lasciando ogni briga alla Cecilia, come se fosse lei la mamma. Gegio era sempre fra le gambe di chi aveva più fretta e voleva sempre dare la mano a chi le aveva ambedue impedite.

Il trovare buoni posti e l'accomodarsi nello scompartimento, non fu la cosa più facile del mondo. Il conte degli Ariberti era già andato innanzi e indietro per due volte, quant'era lungo il treno, seguendo la Contessina che correva su e giù, brontolando e spaventando i viaggiatori, che erano già dentro le carrozze. Vedendola così trafelata e con tutta quella roba, chiudevano in fretta gli sportelli, oppure si affacciavano in piedi all'ingresso, per preservarsi da quell'invasione.

— Partenza!... Padova, Mestre, Venezia!... Primi posti avanti, secondi indietro, terzi in fondo!...

L'Elisa, che passeggiava in su e in giù anche lei, ma lentamente, per conto suo, vide uno scompartimento dove c'erano dentro solo due inglesi maschi, seduti l'uno di faccia all'altro. Chiamò la figlia e vi salirono su tutti e quattro.

Prandino là dentro, fra quei due musi seri seri, che non si scomodavano, che non gli davano posto, che non si movevano nemmeno per restringere la loro roba che, sparsa com'era, di qua e di là, occupava tutta la rete, sentiva un grande imbarazzo e anche una certa soggezione. Quell'ambiente ricco e severo della prima classe, se era quello del suo sangue, non era però quello della sua borsa.

Egli, in certo modo, invidiava un po' la disinvoltura di Gegio, il quale aveva già camminato pacifico sui piedi dell'Inghilterra, e poi, dando una inciampata fra le gambe di uno dei due, s'era voltato per dire alla contessina Cecilia: — guarda, mamma, come sono brutti!

Ma la Contessina aveva altro pel capo. Era in piedi, tutta occupata a disporre le sacche e le valigie.

— Con permesso, pardon, scusino, già ci deve essere posto per tutti; abbiamo pagato anche noi.

L'Elisa s'era subito rincantucciata comoda comoda, senza badare a nulla, nell'angolo vicino a un finestrino, e anche Prandino riuscì, alla fine, a potersi sedere e a tenere il posto di faccia all'Elisa, ma quando erano già cominciati gli urti e le toccatine di piedi, proprio sul più bello, gli inglesi, dopo essersi guardati in faccia con un'occhiata significantissima, levarono dei sigari d'avana dalle tasche, li accesero e, in due o tre sbuffate, riempirono di fumo lo scompartimento.

— Ma, Conte.... Siamo forse in un coupé da fumare?

Così dicendo, la Cecilia cominciò a tossire, a fiutare il fazzoletto, a morderlo.... però senza ottenere alcun effetto, chè i due inglesi, imperterriti, non si lasciavano commuovere da tutte quelle convulsioni.

Lo scompartimento era proprio destinato pei fumatori e la Contessina dovette rassegnarsi ed essere lei la prima a cedere.

Strepitò perchè le aprissero lo sportello, gridò prima in italiano che era una sconvenienza, e poi lo gridò in francese, corse giù, come meglio potè, dal vagone, e Prandino dietro, carico di nuovo di tutto il bagaglio e con Gegio fra le gambe, che piangeva perchè aveva paura che non si andasse più a Venezia.

La Contessa intanto aveva osservato che il sotto capostazione, un bel giovanotto biondo col berrettino foderato d'arancio, messo sulle ventiquattro, le teneva gli occhi addosso con mesta ammirazione e cheta cheta, senza dir verbo, scendeva anche lei dal coupé, ma però con la grazia e la compostezza che non l'abbandonavano mai.

Cecilia D'Abalà, com'è naturale, era adesso su tutte le furie. La gente le faceva circolo intorno, e i viaggiatori, col capo sporto fuori dalle finestrelle, la stavano a guardare, ridendo tra loro.

— È una sconvenienza! una mancanza di educazione! Bisogna avere dei riguardi per le signore! Oh! se ci fosse stato mio marito!... Avrei voluto vederlo!... Avrebbe saputo insegnar la creanza, lui, a quei signori!...

— Anch'io — soggiunse sommessamente Prandino che voleva essere pure tenuto in qualche conto — anch'io ho detto loro che potevano essere più gentili.

— Sì, ma gliel'ha detto in italiano e allora.... chi lo capisce?...

L'Elisa, peraltro, otteneva cogli occhi più che sua figlia colla lingua, perchè il sotto-capo, da un momento all'altro, fece aprire uno scompartimento, destinato a rimaner chiuso fino a Padova, e là dentro, comodamente presero posto tutti i nostri viaggiatori. Prandino si profuse in ringraziamenti col giovane impiegato, e a titolo di regalo gli offrì il suo biglietto di visita, con tanto di corona nel mezzo, ma il sotto-capo si trovò meglio ricompensato dal sorriso che gli volse di sotto alla veletta la contessa Navaredo. In quanto alla Contessina, questa volta ch'era una sgarbatezza il tacere, non aprì bocca: avean pagati i biglietti, dunque toccava a quei signori della ferrovia a trovar loro i posti!...

— Padova, Mestre, Venezia!...

Finalmente furon tutti seduti. Prandino riuscì a mettersi daccapo in faccia alla Contessa; finalmente suonò il corno, la campanella, la macchina fischiò, il treno si mosse, e non c'eran da temere altri inconvenienti. Gegio, inginocchiato sul sedile, guardava fuori dal finestrino dall'altra parte; la Cecilia gli stava vicina tenendolo per la falda del camiciotto perchè non cadesse fuori, e i nostri due innamorati eran così vicini che potevan parlare liberamente, come se fossero restati soli.

— Sembra una persona per bene, quel sotto-capo, ed è molto gentile — disse lui.

— Sì, davvero? non ci ho badato — rispose lei: poi chinandosi un po' — sei contento, bambino? — gli chiese piano piano, accarezzandolo cogli occhi e col suo fiato caldo che gli corse sulla faccia e che lo fece tremar tutto.

— Oh! sì, e non credevo che al mondo si potesse esserlo tanto!...

I quattro piedi si cercarono, s'incontrarono, si toccarono di nuovo e non si lasciarono più fino a Poiana.

Prandino toccava il cielo col dito e, pare impossibile, lo toccava col dito dei piedi....

Forse per questo la sua felicità era così vicina ad andarsene colle gambe all'aria!

Da Poiana a Padova fu un lungo e non interrotto sdilinquimento sentimentale, mentre Gegio canticchiava con urlacci così stonati da romper la testa, se non fossero stati attutiti un po' dal rumore e dallo sbattere del treno, e la Contessina dormiva, forse per il dispiacere di non aver alcuno da strapazzare.

— Mi ami?

— Tanto, tanto!

— Avrai delle lune?

— No.... se non ti lascerai fare la corte da nessuno.

— Chi vuoi che me la faccia, bambino?

— Tutti vorranno fartela, poichè sei tanto bella.

— Non temere, sarò buona.... vedrai.... e poi a Venezia, non so che cosa sia.... ma sono sempre stata più buona che in tutti gli altri luoghi.

Prandino ne avrebbe fatto senza di una tale confessione, ma già un po' di chiaro-scuro ci voleva.

— Perchè fai il muso adesso?... cos'hai?...

— Nulla, un pensiero che m'è passato per la testa.

— Dimmelo....

— Sciocchezze! Non lo ricordo nemmeno.

— È impossibile! Voglio saperlo,

— Ma se non lo ricordo più, ti dico!... senti, senti, cara: una sera.... una sera andremo in gondola noi due soli?

— Oh! sì!

— E... là... mi dirai anche là di volermi bene?

Questa volta, l'Elisa non gli rispose nulla, ma sospirò, levando gli occhi al cielo, in un modo tale che pareva Santa Lucia, prima dell'operazione.

Prandino sognava a occhi aperti: quei dodici giorni alle bagnature gli si paravano dinanzi alla mente con tutte le dolcezze, i fascini, le commozioni, le ebbrezze volute e sperate dal suo cuore. Egli si sentiva felice: anzi, si sentiva l'uomo più felice della terra, e, quando il treno arrivava sotto la tettoia di Padova, non desiderava più nulla.... nemmeno le trenta lire che gli mancavano per fare le trecento.

Lo scompartimento dov'erano i nostri viaggiatori si fermò proprio in faccia al Caffè della stazione, e però la contessina Cecilia si sentì subito fame, e Gegio sete di un'aqua di marena.

Il Conte smontò dalla carrozza, entrò nel Caffè e, strascicando l'erre, fece portare fuori un'acqua pel bambino e un caffè e panna, colla cesta, per la D'Abalà.

— E lei, Contessa, non desidera nulla?

— No, grazie, Conte.

— Pagate, che dopo, stasera, faremo tutto una cosa sola coi biglietti — disse la Cecilia ad Ariberti, che s'incamminava di nuovo verso il Caffè.

Mentre però i camerieri, che l'avevano visto a scendere da un coupé di prima classe e che avevano adocchiata la corona del portasigari, gli davano del conte a tutto andare, egli si sentì stringere il ganascino da due dita forti come l'acciaio; si volse subito, ma, appena conobbe chi lo trattava in quel modo tanto confidenziale, diventò rosso rosso, e fece una profonda scappellata. Era nientemeno che il cavaliere Pinocchio, capo divisione nelle Strade Ferrate dell'Alta Italia, quello al quale il conte degli Ariberti s'era raccomandato tanto per avere un impiego.

— Oh! bravo, bravo, bravo il nostro Prandinello! E per dove si viaggia?

— Vado a Venezia.

— A Venezia? Oh! che briccone! A Venezia!... bravo, bravo, bravo. Ci sono stato anch'io un paio di giorni fa, e sarà facile che vi ritorni ancora quest'altra settimana.

— Davvero? Sarei felicissimo d'incontrarla, Cavaliere.

Questa felicità di Prandino non era mica tutt'oro colato, ma egli la buttò là nulladimeno con una grande espansione.

— Sicuro; o al Lido, o in piazza, o sotto le Procuratie ci rivedremo certo.... bravo, bravo, bravo. E come sta mamma Orsolina?

— Benissimo, grazie, Cavaliere.

— Oh! a proposito, Prandinello mio, saprete che ho per voi delle buone nuove.

— Magari!... — magari me le desse a bassa voce, — pensava il poveretto ch'era sulle brace, perchè gli pareva che tutti quanti lo stessero là a guardare. Ma il cavaliere Pinocchio, uomo tagliato piuttosto alla buona, e che in tutte le stazioni sulla rete dell' Alta Italia, gli pareva d'essere in casa sua, parlava forte, lentamente e colla bocca piena, perchè stava masticando una focaccia calda calda, della Meneghina.

— Ieri sono stato a Verona, e ho parlato col capo-traffico.... M'ha detto di aver sollecitata la vostra chiamata in servizio. Per la fine di questo mese o pei quindici del venturo è quasi certo che sarete a posto. Già si sa bene, farete anche voi il tirocinio come avventizio, ma intanto....

— Partenza per la linea di Venezia!...

— Scusi.... Grazie tante, Cavaliere!... — E Prandino si mosse per scappar via.

— Oh!... c'è tempo.... c'è tempo....

— Ma sa.... non vorrei.... chiudono gli sportelli...

— Andate, andate. Ci rivedremo a Venezia.

— Servitor suo, Cavaliere. — E Prandino tornò di corsa dov'era l'Elisa, ma era aspettato anche là da una brutta sorpresa.

Il suo posto in faccia alla Contessa era stato preso da un signore grassotto, di mezza età, vestito piuttosto male, con una lente all'occhio, il quale, tutto miele, ascoltava sorridendo la contessa Elisa, che gli parlava chinata verso di lui e facendo l'occhio di triglia.

La D'Abalà s'era un po' avvicinata alla madre, e Gegio stava seduto tutto moine e carezze sopra una gamba del signore dalla lente.

Prandino, appena lo riconobbe, e lo riconobbe subito, si sentì tremar le gambe, mancare la lena e gli si oscurò la vista. Salì inciampando nello scompartimento; rosso, rosso, fece un risolino da ebete, come per salutare la comitiva, ma adesso aveva un bel mostrarsi affabile, nessuno gli badava più. Tanto per darsi un po' di contegno, accarezzò i capelli di Gegio, ma questi gli si voltò irritato, con una mossaccia dispettosa, e, quasi lo sapesse di fargli dispetto, si pose a baciucchiare la mano pelosa del suo nuovo amico.

— Andiamo, Gegio, non essere seccante. — Si conoscono? — chiese poi l'Elisa a quell'altro, indicandogli Prandino.

— Veramente di vista.... credo di sì; ma presentazione non c'è stata.

— Il conte Eriprando degli Ariberti; il marchese del Mantico.

Il maggiore si volse verso Prandino con grande sussiego, e serio, grave, si pose a fissarlo colla lente nell'occhio in una maniera come se non avesse da guardare un uomo, ma un monumento. Prandino invece, che voleva sembrare disinvolto, si alzò dal suo posto, gli venne incontro, gli prese, gli strinse la mano, tanto che il polsino, colle macchie rosse delle ciliege di Gegio, si slacciò dal bottone e gli corse giù, fuori della manica.

La Contessa e il Maggiore, ripresero subito la conversazione a bassa voce; la Contessina, da lontano, sorrideva all'una ed all'altro; Gegio fra le gambe del Maggiore giocava coi ciondoli dell'orologio.

— Sta a vedere, — pensava Prando dopo di essersi accomodato il polsino, — sta a vedere che questo animale viene a Venezia con noi? Se fosse vero, io mi fermo a Mestre!... — E intanto si mordeva i baffi, scoteva convulsamente i tacchi sul tappeto, allungava il muso, impallidiva, aggrottava le sopracciglia, ma era tutta fatica sprecata, che già l'Elisa non gli badava.

Dopo una mezz'oretta, terminarono di parlarsi così a bassa voce; e allora il Maggiore, per cambiar discorso, cominciò prima a dir male del suo colonnello, e poi dopo a discorrere di cavalli, di corse, di cocchieri di Monte-Carlo, di centinaia di migliaia di lire, delle scuderie del duca A., delle rimesse del principe B., dei box del conte C.

Prandino ne capiva poco, ma siccome quell'altro parlando, di tanto in tanto lo fissava con la lente, quasi per avere la sua approvazione, egli si credeva obbligato di fare certi sorrisi che pareano smorfie.

Però la provvidenza c'è dappertutto, anche sulla linea da Milano a Venezia. Difatti, poco prima di arrivare a Mestre, l'infelicissimo conte degli Ariberti si sentì tornar l'anima in corpo quando udì il Maggiore che cominciava a congedarsi.

— Come!... si ferma a Mestre?

Era la prima volta che Prandino osava dirigergli il discorso; ma la contentezza gli ridava adesso il coraggio.

— Sì, mi fermo a Mestre perchè vado a Treviso dove sono di presidio.

— Però ci rivedremo a Venezia, non è vero? — gli chiese quell'antipatica della contessina Cecilia.

— E.... potrebbe anche darsi.... ma....

E qui invece di rispondere alla figlia, il maggiore fissò la mamma in modo che questa arrossì, si chinò languidamente, e tornarono a parlarsi a bassa voce, cosa che rimise l'uggia e lo sgomento addosso a Prandino.

Il treno cominciava a rallentare.

— Ci siamo? — chiese il Maggiore.

— Ci siamo! — rispose Prandino, e aggiunse mentalmente — se Dio lo vuole!

— Mestre!... Chi scende a Mestre!...

Il Maggiore prese la sua sacchetta e saltò giù; ma risalì subito sul predellino a discorrere piano con l'Elisa che si sporgeva mezza fuori dallo sportello. Prandino, tutto orecchi, non riusciva se non ad afferrare qualche parola qua e là.

— Dunque? — chiedeva il Maggiore.

Cela dépendra!... — rispondeva la Contessa, sorridendo con intenzione. E poi parlarono più basso ancora, e Prandino non potè intender più nulla, soltanto ci fu un momento nel quale gli sembrò che il Maggiore accennasse a lui e che la Contessa si stringesse un po' nelle spalle colla stessa mossa, tal e quale, con cui ella soleva mostrarsi crucciata quando egli, alla sua volta, era geloso delle lettere del Maggiore.

— E dove ha preso alloggio, Contessa?

— Alla Gondola d'Oro — rispose per lei la Cecilia, avvicinandosi. — Dunque verrà a trovarci senza fallo a Venezia?

— Non dico di no.... e non dico di sì!... — Il Maggiore evidentemente ci teneva a fare il prezioso.

— Venga! ma venga, da bravo!

— Vieni! Vieni! non è vero che verrai? sì che verrai? — si pose a strillare Gegio che riebbe in quel punto un impeto di tenerezza per Del Mantico.

— Sì.... sì.... verrò!...

— Ma non si parte più?... — chiese Prandino che cominciava proprio a perdere la pazienza. — Non lo capisco tutto questo ritardo.

— Si vede che aspetteranno l'altro treno.... Ah! eccolo!... Dunque.... buon viaggio, Contessa!

Sans adieu!... — disse questa, stendendogli la mano e rifacendo gli occhi di triglia.

Sans adieu! — e anche il Maggiore, grassotto e attempatuccio com'era, si levò, anche lui, la lente per salutarla nell'inchinarsi, finchè il treno si muoveva, con un'occhiata lunga e molto sentimentale.

Prandino era ritornato al suo posto, che il Maggiore gli aveva tenuto caldo, ma aveva un muso, un fare, che diceva più di qualunque sfuriata. La Contessa allungò il piedino, ma i piedi dell'Ariberti si ritirarono, quasi avessero paura di scottarsi.

— Che cos'hai? — gli chiese piano l'Elisa, chinandosi verso di lui.

— Nulla! — rispose Prandino, con una manieraccia che pareva le volesse dare un morso.

— Si comincia male!

E l'Elisa, così dicendo, con aria seccata si riaccomodò nel suo cantuccio, e fino a Venezia non ci fu più verso di farle dire una parola.

Intanto, la contessina Cecilia continuava a sfogare il suo vivo entusiasmo per il Del Mantico: trovava ch'egli era molto simpatico, che aveva molto spirito, che aveva l'aria di gran signore e, finalmente, che s'era fatto anche più bello di prima, il che non era proprio vero, nè poteva essere, perchè, da che mondo è mondo, tutti i capitani, quando diventano maggiori, diventano più brutti....

Con queste chiacchiere, si attraversava il ponte della laguna, e Gegio era tutto festante; batteva le manine, gridava, saltava; bisognava tenerlo, se no, c'era pericolo si buttasse giù dal finestrino.

A un certo punto, quando vide un battelletto con una vela, che filava diritto diritto in mezzo all'acqua, parve diventasse matto, finchè, voltatosi di botto all'Elisa, le disse:

— Quando il Del Mantico verrà a Venezia, mi farai comperare una barchettina nera, con una bella vela bianca come quella là?...

— Tu, caro, devi imparare a non seccare mai nessuno.

— Va là: te la comprerò io la barchettina — gli disse Prandino, accarezzandolo, perchè, un po' spaventato dalla cera brusca che gli faceva l'Elisa, sentiva bisogno d'ingraziarsi qualcuno.

— Oh! giusto te!.... Tu non ne hai soldi, tu!.... La mamma ti chiama sempre Prandino meschino sotto gli alberi della luna!

Cecilia diede un forte pizzicotto al ragazzo e gli soffocò a mezzo le parole; ma Prandino aveva udito tutto; e queste sono le ragioni per le quali il conte Eriprando degli Ariberti, che era partito da Vicenza raggiante di felicità, smontava a Venezia con un muso lungo un palmo!

CAPITOLO VII.

Per chi non è avvezzo a viaggiare, il momento di uscire, stipato fra la gente, dalla stazione in una città grossa, dà sempre un certo impiccio: figuratevi poi Prandino, il quale, con quel po' po' di peso che aveva sullo stomaco, arrivava per l'appunto a Venezia, dove non era mai stato, fuorchè una volta sola, da ragazzo.

Dopo di avere attraversata quella tettoia lunga, bassa, stretta, scura della stazione, egli si trovò, tutt'a un tratto, in faccia del Canal Grande, dove le acque e il cielo e la terra si confondono amorosi in una festa di colori. E lì, attorno all'uscita, sul piazzale, c'era una folla di gondolieri e di servitori d'albergo: i gondolieri sbraitavano, si spingevano l'un l'altro, si sbracciavano; volevano impadronirsi per forza dei viaggiatori.

Vorla una gondola, signor? Una bela gondola, a un remo, a do remi — pronta!....

I servitori d'albergo, invece, tutti in fila, più gravi, più composti, non facevano altro che ripetere:

— Albergo d'Italia! Grand Hôtel Capelo! Al Vapore! Pension Suisse! La luna! Hôtel Vittoria!

Prandino era rimasto a bocca aperta; quelle grida lo stordivano e guardava trasognato lo spettacolo del Canal Grande, con quella larga striscia di gondole che formava giù come un'altra riva mobile, irrequieta, sotto quella bianca, solida, di pietra, e il verdastro dell'acqua, e il brulichìo di tutta quella gente affaccendata, e più lontano il ponte grigio che parea trapunto.

— Mi dia lo scontrino. Anderò io a farmi consegnare il bagaglio. Lei, intanto, prenda una gondola, ma badi bene di contrattare prima, se no, vogliono il doppio. Tu, mamma, vieni con me, — continuò la Cecilia, rivolgendosi all'Elisa, che camminava passo passo, colla sua andatura molle e sentimentale, guardandosi intorno con una certa noncuranza che la faceva parere una dama inglese da strapazzo. — Tu, mamma, vieni con me. Quattrocchi ci vedono più di due, e poi, alle volte, non si sa mai, potrei dimenticarmi qualche capo....

Questo pericolo non c'era proprio.... piuttosto ci poteva essere l'altro, che se ne ricordasse uno di più!

— Tu, Gegio, sta bono, resta col Conte.

— No! Io voglio andare colla mamma grande!

— Torniamo subito!

— No! Io voglio andare colla mamma grande!

— E tu va colla mamma grande, seccatore, marmotta, che non sei altro!

Un ometto magro, agile, colla faccia maschia, espressiva, annerita dal sole, con in testa un cappellaccio di paglia, e indosso un camiciotto di rigatino stinto, era stato attento alla scena: però, appena scomparse le signore con Gegio, si avvicinò a Prandino e, come se già lo conoscesse da un pezzo:

Son qua mi, signor — gli disse tutto umile — son qua mi.

— Avete una gondola?

La vegna co mi, ghe digo; la vegna co mi e no la se indubita!

Prandino lo guardò tutto consolato: non gli pareva vero che qualcuno si occupasse di lui in quella folla, per toglierlo d'imbarazzo e, senza dir motto, seguì il barcaiolo.

Questi lo fece piegare a sinistra.

Poco dopo, dalla stazione usciva un facchino con un gran baule sulle spalle, una valigia in una mano e due sacche in un'altra. Dietro di lui venivano la Cecilia, tutta piena di scatole e di cassette, la Contessa con una cappelliera da una parte, e Gegio, che le dava la mano, dall'altra.

Bapi! Ohè! Bapi! Porta qua la roba del signor — gridò il barcaiolo, che lo riconobbe, mentre Prandino tornava indietro di corsa, per aiutare la Cecilia, che in quello stato, rossa e dondolante, con tutto il peso della roba fra le mani, pareva dovesse scoppiare.

Bapi, che aveva voltato a destra, appena udì la voce che lo chiamava, alzò gli occhi, chè la testa non la poteva muovere sotto al baule, e piegò, trotterellando curvo, a sinistra.

— Si va per di qua? — chiese Cecilia a Prandino. L'Elisa non gli parlava mai, era in collera per la scenaccia che le aveva fatto a Mestre.

— Sì, per di qua. Ho trovato una bella gondola, grande, pulita.

Adagio adagio, si avvicinarono alla riva; ma quale non fu lo sdegno della Cecilia e l'espressione ironica della Contessa, quando videro che Prandino, invece di una gondola, aveva noleggiato un battello. Era una barca grande davvero! e pulita, co' suoi guancialini candidi, filettati di rosso!

Però tutto il sentimento aristocratico di casa Navaredo si rivoltò dinanzi a quel democratico mezzo di trasporto. La Cecilia strepitò, l'Elisa si strinse indispettita nelle spalle, e Gegio si mise a piangere perchè avea paura che la mamma non volesse più andare in barca. Ma tanto e tanto ogni diverbio era inutile: il baule e le sacche erano già dentro, Prandino lo aveva preso, dunque bisognava adattarsi. La Cecilia, alla quale davano mano in tre, scese ed entrò nel battello protestando che, se ci fosse stato là suo marito, non avrebbe tollerata quella canzonatura, e continuò a brontolare concitata finchè il battello scendeva lungo il Canale.

Il perfido battelliere la lasciò sfogare per un pezzo, ma poi, senza fissare in faccia a nessuno, senza piegare la testa, guardando in alto, come se parlasse coi fili del telefono:

Il batelo sono più sicuro de la gondola — disse serio serio — perchè co una scarampetola da niente si schivano dal tranvai: e invece la gondola vengano rebaltata facilmente. Anche gieri, do gondole sburtarono il vaporeto e andarono a ramengo coi passeggeri in aqua.

Haohe!.... — gridò poi piegando il battello per voltare in un rio.

Stalì!.... — rispose una voce interna e subito una gondola uscì dal rio, quasi urtando contro il battello che entrava; ci fu uno scambio di insolenze fra i barcaioli e ognuno tirò diritto per la sua strada.

Fra Prandino e l'Elisa, il malumore durò ostinato tutto quel giorno. A desinare, Prandino, discorrendo colla Cecilia, fece capire a quell'altra che lui si trovava così male a Venezia da pensare sul serio di ritornarsene a casa il giorno dopo. Ma nè la Cecilia nè l'Elisa gli risposero punto in proposito e continuarono invece a chiacchierare, a scambiarsi mezze parole, sorrisi significantissimi, che si riferivano a discorsi sott'intesi fra loro due e che Prandino non doveva capire.

Nulladimeno madre e figlia mangiarono con buonissimo appetito: l'Elisa masticava lentamente, silenziosamente e malinconicamente coll'aria di scomodarsi per compire un sacrifizio; la Cecilia divorava in furia, quasi avesse paura di non arrivare a tempo a mangiare di tutto. La Contessa, intanto, per non perdere il tempo, godeva di essere ammirata, non essendoci di meglio, dal direttore della locanda, un signore dall'aspetto pulito, elegante, che andava e veniva nella sala da pranzo, dispensando ordini coll'aria severa d'un diplomatico, mentre la Cecilia, di soppiatto, intascava pane, frutta, formaggio, tutto ciò che le capitava, perchè con quella provvista risparmiava la colazione sua e quella di Gegio.

Il contegno delle signore, quei misteri che non finivano mai, l'indifferenza che gli dimostrava l'Elisa, tutto ciò, metteva addosso a Prandino una smania, una gelosia, una inquietudine da non dire.

— Certo — pensava egli fra sè — certo parlano del Maggiore; certo le loro parole si riferiscono a lui. Maledetta combinazione!.... Ma come mai era egli a Padova!... Fu un accidente, o un incontro combinato tra loro d'accordo!.....

Il timore che il Maggiore capitasse un giorno o l'altro a Venezia e si facesse vedere al passeggio o al Lido coll'Elisa, lo angustiava fortemente; e in questa grande angustia c'era un po' di gelosia e insieme di vanità ferita; c'era la paura di perdere l'amore della Contessa e c'era anche l'apprensione che la gente, vedendola col Maggiore, non riputasse più lui, Prandino, il solo amante fortunato.

Nè a rasserenarlo contribuivano le amabilità scherzose di Gegio, il quale, pieno come un otre, sdraiato sulla seggiola, si divertiva a schizzare i noccioli delle ciliegie adosso a Prandino, che gli era seduto di contro.

Preso il caffè, la Cecilia si volse a sua madre e — Vuoi che andiamo a vestirci? — le chiese, alzandosi lei da tavola, per la prima.

— Andiamo pure.

L'Elisa aveva mangiato troppo; aveva caldo, sudava e, adesso, delle chiazze rosse, accese, trasparivano sotto la cipria della faccia.

— Io esco un momentino, — disse l'Ariberti alla Cecilia, chè, con quell'altra, anche lui voleva tenere il broncio.

— Esce solo?.... Senza aspettarci? — gli domandò Elisa un po' inquieta per quegli indizi di ribellione.

— Voglio passare da mio cugino Badoero. Non si sa mai, potrei ritornarmene via presto da Venezia, anche domani forse, e, a buon conto, desidero prima salutarlo.

— Faccia pure il suo comodo.

— Fra una mezz'ora, fra un'ora, forse, tutt'al più, sarò certo di ritorno all'albergo.

— Faccia pure, faccia pure. Vuol dire che, se noi saremo uscite, ci ritroverà in piazza o al Caffè.

— A qual Caffè? perchè, suppongo, ce ne sarà più d'uno anche a Venezia.

— Al Florian. Dovrebbe saperlo: la buona società non va altro che al Florian.

— Ma come vuoi che sappia lui queste cose? — saltò su a dire la Cecilia — se ti prende ancora un battello per una gondola!

L'Ariberti arrossì dalla rabbia e avrebbe dato dieci lire, delle dugento sessanta circa che gli rimanevano, per potersi sfogare tirando le orecchie ben bene a quel monellaccio di Gegio, che, dopo la risposta impertinente della mamma, s'era messo anche lui a dar la baia a Prandino e non la finiva più di gridare a perdifiato:

— Oh bello! oh bello!.... per una gondola prende un battello!....

Colla stizza in corpo salì per andare nella sua camera, a prender il cappello, i guanti e la mazzetta. Salì su su, tutte le scale, quante ce n'erano, perchè, assicurandolo che di là potea veder la laguna, lo avevano alloggiato proprio sotto il tetto. Quando fu di sopra, s'accorse di non avere la chiave: scese di nuovo e la domandò ai camerieri che incontrava nelle sale del primo piano. Ma questi che aveano ancora dei pranzi da servire, andavano e venivano affaccendati, carichi di piatti e di roba, mostrando chiaro che non c'era tempo da badare a lui. Prandino, in mezzo a tutta quella gente che gli passava dinanzi senza nemmeno salutarlo, oppure rispondendogli appena a monosillabi, provava soggezione. Quegli abiti neri erano più puliti e più nuovi e più eleganti del suo, capiva di non esser nulla là, per quella gente, mentre invece a Vicenza era pur sempre il signor conte, e temeva che avessero subito indovinato com'egli fosse uno di quei forestieri che ne han pochini da spendere.

— Che numero ha il signore? — gli chiese un cameriere.

— L'ottantasei.

— È di sopra la chiave dell'ottantasei? — domandò il primo interlocutore ad un altro che passava.

— No.

— Allora l'avrà da basso il portiere.

— Grazie — e Prandino scese giù a terreno.

— Avete la mia chiave?

— Che numero? — Il portiere era un uomo alto, colle fedine all'inglese, l'aria grave, i modi asciutti e che ci soffriva molto a essere scomodato.

— L'ottantasei.

Il portiere non si mosse da sedere: era sdraiato sopra una poltrona, non si levò il berretto, cerimonia che del resto non prodigava mai agl'italiani, ma teneva in serbo per gl'inglesi, i tedeschi e gli egiziani, e sempre senza parlare, indicò all'Ariberti l'ultima chiave appesa all'ultimo chiodino della tavoletta.

Prando prese la chiave, risalì su su, nella sua camera a cercarvi ciò che voleva e poi ridiscese di corsa. Era ansante, sudato: ma gli stava a cuore di dare una lezione a quell'animale di portiere. Però, certo, quando avrebbe saputo con chi aveva da fare, avrebbe usato altri modi.

— Sapete indicarmi il palazzo Badoero?

Il nostr'uomo si mosse dalla poltrona con visibile malcontento, e senza alcuna fretta uscì fuori a domandare l'indirizzo richiesto, ad un gondoliere.

Vorla una gondola, signor, andaressimo più presti.

— Non ho premura. Grazie. — Se per caso — e Prandino si rivolse al portiere — se per caso venisse all'albergo il conte Badoero a cercare di suo cugino il conte Eriprando degli Ariberti, che sono io, ditegli che fra una mezz'ora sarò qui di ritorno.

— Sarà fatto, signor Conte! — E questa volta il portiere, con grande soddisfazione di Prandino, si toccò il berretto.

Il nostro giovinotto, avviandosi e internandosi fra quelle calli così strette e affollate, dove la puzza d'acqua salsa, stagnante, si confonde coll'odore di pesce fritto, non aveva altro che un solo pensiero: trovare il modo di far patire all'Elisa un po' di quel malcontento, di quell'inquietudine che pativa lui.

— Certo — pensava — certo stasera mi aspetterà un bel pezzo al Caffè.... Tanto e tanto il maggiore è a Treviso e non ho paura di lui, dunque.... che mi aspetti!... Comincierà anche lei ad essere un po' inquieta non vedendomi capitare. D'ora in poi cambierò sistema. Già colle donne, lo dicono tutti, bisogna farsi desiderare per essere desiderati. A buon conto il mio cugino Badoero, molto probabilmente, uscirà con me: andremo insieme in piazza San Marco, egli mi presenterà forse a qualche suo amico, fors'anche a qualche bella signora, e l'Elisa, vedendomi fare il galante colle altre, proverà alla sua volta il divertimento della gelosia. Brutta stupida!....

Ma, e il suo cugino Badoero lo avrebbe accolto proprio bene? Se invece lo trattasse, come si dice, dall'alto al basso? Se non volesse saperne di lui? Se lo licenziasse sbrigandosene con un complimentino a fior di labbra?

Anche questa era una spina, e una spina che lo pungeva tanto più profondamente, quanto più il povero Ariberti si avvicinava al palazzo del suo illustre cugino. È vero che per nobiltà di sangue l'uno valeva l'altro, ma fra i Badoero e gli Ariberti c'era una differenza notabile di quattrini e, in questo mondo ladro e democratico, i quattrini sono un gran che, anche quando non sono tutto come nella maggior parte dei casi.

Quando tirò la maniglia del campanello la sua mano tremava ed era così confuso che al gondoliere che gli aprì la porta domandò del padrone dandogli del lei!...

Però si riconfortò presto, chè il Conte lo ricevette subito, dopo due minuti soli di anticamera. Badoero fu con lui di una cortesia senza esempio. Gli fece tante di quelle espansioni, di quelle profferte, come se fossero stati due amiconi che non si fossero veduti da anni, non già due cugini che non s'erano veduti mai.

Il Badoero era amabilissimo e possedeva una parlantina che non lasciava tempo a quell'altro nemmeno di respirare, non che di ringraziarlo. E Prandino lo guardava e sorrideva chinando il capo, tanto per rispondere in qualche modo. Del resto non ve n'era bisogno, perchè il cugino rispondeva da sè alle sue proprie domande.

— La Contessa vostra madre sta benone, già s'intende? Bravo, ne ho molto piacere. Desidero proprio di conoscerla di persona, e lo farò, oh se lo farò! la prima volta che passo da Vicenza per andare a Milano, mi ci fermo tra una corsa e l'altra. Vedrete, vedrete; non vi prometto di più, perchè voglio essere di parola, ma tra una corsa e l'altra mi ci fermo di sicuro. Voi già siete venuto a Venezia per le bagnature? Avete fatto benissimo: quest'anno avremo una stagione veramente eccezionale. Volete una sigaretta?.... Vi fermerete tutto il mese, s'intende — quantunque non sarete qui per la cura, ma per il passatempo dei bagni. — Bene, bene! andremo al Lido insieme, anzi, tanto per cominciare, trovatevi domani sul vaporetto delle tre. Non vi offro nemmeno un invito per il club: d'estate non ci si va mai. Però, una sera o l'altra, se avrete gusto di fare un taglietto al lansquenet od un paio di punti all' écarté, vi ci condurrò. Mi rincresce, nom de Dieu, che oggi, proprio oggi, ho un rendez-vous. Aspetto il conte Potapow, cugino dell'aiutante generale dello Czar, col quale dobbiamo andare dalla principessa di Lentz. Bisognerà che la conosciate la principessa: nasce Oldenburg. Suo padre, prima di morire, è stato gran duca, e ha regnato per otto giorni. Oh! qui a Venezia abbiamo una colonia forestiera molto numerosa e molto scelta. Mi rincresce proprio di questo impegno preventivo, ma come si fa? Non sono profeta, nè figlio di profeta e non potevo certamente immaginare il bel regalo della vostra carissima visita. Del resto già si sa bene; meglio stasera che domani. Appena arrivato, anche voi avrete molte cose da fare e io, anzi, non voglio essere indiscreto e non vi trattengo di più. Dunque a rivederci domani; siamo intesi: sul vaporetto delle tre. Vi presenterò alla Principessa. A proposito, dove siete, anzi fra noi parenti, dobbiamo trattarci col tu, lo permetti non è vero?....

— Oh! si figuri!....

— .... Dove sei sbarcato? Al Grand Hôtel?....

— No, all' Hôtel della Gondola d'Oro.

— Dicono che non ci si stia male. L'anno scorso vi tenne un pied-à-terre per qualche mese il commendatore Jamagata. È il console della Cina e del Giappone. Te lo farò conoscere anche lui.

Quando il conte Eriprando degli Ariberti si trovò fuori dal palazzo Badoero era tutto beato, tutto gongolante, e fissava la gente per la strada con una superbia da Rodomonte.

Gli pareva d'essere diventato un altro uomo. Solamente le dugento sessanta lire rimanevano sempre le stesse, e anzi, adesso, gli sembravano ancora meno di prima. E fu per l'appunto questa povertà che a poco a poco gli rase dal cuore tutta la contentezza dell'accoglienza così festosa e del tu scambiato col Badoero; tu nel quale la sera innanzi egli osava appena sperare con un sussulto d'ambizione.

Ma tant'è, in questo mondaccio non v'è cosa bella e desiderata, che una volta raggiunta non perda tutti i suoi fascini, tutte le sue attrattive. Anche la promessa d'essere presentato alla principessa di Lentz, al conte Potapow ed al commendatore Jamagata, quantunque fosse una fortuna, nulladimeno aveva per lui il suo lato pericoloso. Con dugento sessanta lire, come avrebbe potuto vivere per un paio di settimane in una compagnia così illustre?.... Tanto illustre che al suo confronto, gli sembrava rimpicciolito anche il grande Badoero, e trovava odiosamente borghese madama D'Abalà?

E se un bel giorno, sul vaporetto delle tre, gli capitasse alle spalle il cavalier Pinocchio e, prendendolo pel ganascino, gli discorresse ad alta voce dell'impiego, mentr'egli, magari, si troverebbe seduto fra la discendente del Granduca e il rappresentante dell'Impero Celeste?! E se il cugino Badoero si fermasse proprio a Vicenza?.... A questa idea tremò tutto dallo sgomento. Egli vedeva mamma Orsolina nella sua vesticciuola di percallo a quadrettoni caffè, vedeva la figura magra, lunga, allampanata della signora Luciana aprir l'uscio della cameretta che serviva da cucina, da guardaroba e da anticamera, all'elegante visitatore; e si sentì stringere il cuore, e desiderò d'essere sotterrato vivo, piuttosto di assistere a quella scena. Allora ebbe quasi vergogna di sua madre, povera vecchietta, dimenticando ch'egli, o bene o male, si trovava a Venezia a fare il signore, perchè la mamma aveva perduto le notti intere a lavorare per lui e un giorno aveva rinunciato alla cena e un altro al desinare per mettergli insieme quei pochi quattrinelli che bastavano appunto per renderlo infelice.

Anche quel caldo, quell'afa sciroccale, contribuivano non poco alla sua tristezza e al suo abbattimento. Nelle calli strette e infocate cominciava a farsi buio. Il cielo era grigiastro e il sole calava imbronciato fra certi nuvolacci di piombo, che sembrava non lasciassero correr giù nemmeno un fil d'aria.

Prandino camminava lemme lemme, abbandonandosi come lo portavan le gambe e la gente, fermandosi a ogni ponte a guardare svogliato da una parte e dall'altra, ma senza intendere nulla, senza che lo commovessero, senza che gli strappassero dal cuore nemmeno un sospiro di meraviglia, nè quella magìa di colori e di contrasti, nè quei rii silenziosi, nè quelle case lunghe, scure, chiuse come il mistero, dove una figura di donna che appare a un balcone, risveglia nell'anima versi d'amore, forse da anni dimenticati, dove una voce che si leva alta, lontana, fa pensare a un dramma o a un delitto.

Prandino si moveva lentamente, guardando intorno, ma senza veder nulla. Dinanzi agli occhi egli non aveva altre immagini che l'Elisa e il Maggiore, Badoero e mamma Orsolina, le dugentosessanta lire e il conte Potapow.

Ma così, dopo essersi per un bel pezzo lasciato trasportare dalla corrente, gli sembrò, un po' alla volta, che il cielo si facesse più chiaro, che le calli divenissero meno buie e il brulichìo della gente più spesso e rumoroso, finchè tutto a un tratto si trovò in piazza, sotto le Procuratie, proprio di fronte a san Marco.

Ma le meraviglie che là dentro e d'intorno gli si affacciarono alla vista, non lo commossero punto.

Il suo spirito non era disposto per quell'incantevole spettacolo dove l'opera di Dio si confonde con l'opera dell'uomo in un'armonia maravigliosa di linee e di colori; dove più si ammira ciò che è eternamente bello, la forma; dove più si sente ciò che è eternamente grande, l'anima.

Invece egli ne risentì come una grave malinconia, come uno sgomento vago, indefinito. Eran le sette già sonate da un pezzo, e la piazza, allora deserta, pareva ancora più vasta. Era rischiarata da un riflesso bigio, squallido, e i leggii preparati per la musica, senza che avessero intorno anima viva, e le seggiole bianche e vuote dei Caffè gli facevano l'effetto d'altrettanti scheletrini, disposti in riga in quel vasto e splendido cimitero. Anche l'allegria dei colombi mancava a quell'ora: forse essi pure erano andati altrove a desinare. Soltanto qua e là sotto le Procuratie egli vedeva qualche persona che passeggiava, qualche altra ferma, in piedi, o seduta. Di tratto in tratto, è vero, la piazza era attraversata da una frotta di signore e di signori, dagli abiti strani, chiari, eleganti, dai cappelli d'ogni foggia e d'ogni tinta, che camminavan lesti, che ridevano, che parlavano tutte le lingue, a due a tre in crocchi separati: erano forestieri che ritornavano dal Lido col vaporetto, ma che sparivano, si dileguavano via com'eran venuti, in un attimo. Una volta Prandino fu involto da una di quelle folate, e sentì crescere l'uggia che aveva intorno, perchè nessuno badava a lui, perchè, fra tutta quella gente, egli era un ignoto, un nulla, e, allora là, solo, in mezzo alla piazza san Marco, soffrì di nostalgia, per la sua cittaduzza dov'egli era pur qualche cosa, dove tutti lo conoscevano pel signor conte, dove tutti sapevano che egli era l'amante della Navaredo.

Ma però quando passo passo, uscendo dalla severità maestosa, solenne della piazza Grande, entrò nella piazzetta, allora quella gaia giocondità di vedute e quell'aria odorosa, umida, saporita che d'improvviso gli sbuffò frizzante sulla faccia, allora la riva, la Giudecca, san Giorgio e le isole lontane, allora quell'acqua azzurra come il cielo e argentina, gli fecero provare commozioni nuove, vivissime, mentre una dolcezza profonda, una mestizia soave dagli occhi gli scendea giù in fondo all'anima, suscitandovi un impeto generoso di espansione, di tenerezza e d'amore. Allora la figuretta di mamma Orsolina gli riapparì dolce, cara, affettuosa, allora ricordò tutte le cure, tutto l'affetto della signora Luciana, e pensò come potrebbe impiegare parte delle dugentosessanta lire per portare all'una e all'altra un ricordo di Venezia. Ma più che non l'avesse mai amata, più che non l'avesse adorata mai, gli ritornò l'Elisa dentro al cuore. In quel punto sentì che i torti erano di lui, ch'egli era stato ingiustamente geloso, ch'era stato inurbano, che l'aveva trattata male, e affrettò con ogni desiderio il momento di trovarsi solo con lei, per abbracciarsela stretta, per dirle che le voleva tanto e tanto bene, per domandarle perdono di tutto, per fare la pace insieme.

Andò all'albergo per trovarla, ma le signore non erano ancora rientrate. Allora tornò in piazza a cercarle. Adesso s'era fatto notte, la piazza era gremita di gente, i Caffè affollati, e la luce viva, sfacciata del gas, la musica echeggiante, il mormorio confuso e il chiaccherìo pettegolo della folla, il calpestìo dei piedi, il fruscìo delle vesti lo sbalordivano, lo inebbriavano quasi. Nulladimeno, passò e ripassò da Florian due, tre, quattro volte, ma l'Elisa non c'era e nemmeno quella uggiosa della D'Abalà, che, tant'è, avrebbe veduta volontieri, perchè, vicino a lei, sarebbe stato sicuro di scorgere anche l'Elisa. Ritornò a fare la piazza in su e in giù, ma ancora inutilmente. Egli era stanco: la luce, la musica, il chiasso gli davano il mal di capo, aveva gli occhi che gli bruciavano ed era così stanco che le gambe gli si piegavano, e incespicava nelle ondulazioni disuguali del selciato.

Dov'erano andate?... Dove s'erano cacciate?... Era stato un gran stupido a non aspettarle, a non uscire con loro. Si seccava a star così solo, senza conoscer nessuno, fra tutta quella gente.

— Che fossero sedute sotto i portici?

Ancora non era abituato a chiamare Procuratie quei palazzi.

Salì i gradini, entrò sotto, camminò avanti, ma quando fu proprio dinanzi al caffè Florian, gli pareva d'essere sul palco scenico d'un teatro. Ebbe soggezione di tutta quella luce, sentì una vergogna strana in mezzo a tutta quella gente. Credea che ciascuno non avesse nulla di meglio da fare che badare a lui. Proprio sulla porta del Caffè c'era Badoero che discorreva con un bel vecchio dal tipo aristocratico, alto, colla barba bianca: il conte Potapow di sicuro!... Prandino arrossì, si fece piccin piccino, voltò via la testa per non essere riconosciuto, e fuggì lesto a nascondersi nel buio, perchè in mezzo a quello sfarzo d'illuminazione aveva scorto che le sue scarpe dalle suole troppo grosse, erano coperte di mota, e gli era sembrato che tutte le macchie e le frittelle da mamma Orsolina levate in quei due anni dal suo abito nero, saltassero fuori di nuovo, pettegole, impertinenti, per deriderlo e perchè fosse deriso.

Respirò più sollevato quando si trovò lontano dalla piazza e si avviò subito verso l'albergo della Gondola d'oro.

— È ritornata la Contessa? — chiese al portiere.

— Il numero? — rispose questi che, come al solito, non buttava via le parole.

— Numero quaranta.

Il portiere guardò la tavoletta delle chiavi.

— Il numero quaranta è in casa.

Ciò detto, si voltò nella sua poltrona e cominciò a leggere la Gazzetta di Venezia, con molta attenzione.

Prandino, questa volta, non badò più che tanto alla boria del portiere, ma fece gli scalini a due a due e si fermò, ansante per la corsa e un po' tremante per l'emozione, a battere al numero quaranta.

— Chi è? — domanda l'Elisa di dentro.

— Son io.

— Avanti.

L'Elisa era occupata nell'accomodare la sua roba dentro al cassettone.

— Dove vi siete nascoste? V'ho aspettato fino adesso, girando su e giù per la piazza come un matto. Sono stanco morto.

E Prandino si lasciò cadere sopra una sedia facendosi vento col cappello, che là dentro, in quella cameretta bassa, angusta, si soffocava dal caldo.

— Cecilia, dopo pranzo, si sentì male e non ebbe più voglia di vestirsi.

— Però siete uscite tutt'e due.

— Sì, ma per poco. Abbiamo fatto una corsa fino in Merceria per comperare i nostri costumi da bagno; e poi, siccome ci sentivamo stanche, siamo ritornate subito all'albergo.

— Io sono stato da Badoero, e sono giunto in tempo per trovarlo in casa. M'ha fatta un'accoglienza festosa, affettuosissima, povero Badoero. Voleva anzi che stasera si uscisse insieme per presentarmi alla principessa di Lentz, una gran signora: suo padre è stato un duca regnante. — Non ti lascio più. Voglio che facciamo vita comune. — Ma io ho risposto subito che per questa sera mi doveva scusare. — Sai, — gli ho detto, — sono appena arrivato. Ho tante cose da fare!... — Così, a fatica, me ne sono liberato per venire al Florian, ma tu non c'eri!... Abbiamo fissato di ritrovarci domani, sul vaporetto delle tre. Te lo presenterò. Vedrai, è un giovinotto molto simpatico.

L'Elisa lo lasciava dire e stava zitta, intenta alle sue faccenduole, senza badargli.

— A Venezia fa più caldo che a Vicenza, — riprese l'altro, dopo un po' che durava quella scena muta. — C'è un soffoco opprimente che dà alle gambe. Quando sono uscito, pareva che volesse piovere da un momento all'altro. Adesso invece s'è rimesso al bello, e c'è un sereno, di fuori, che invoglia ad andare a fare una sgondolata.

Prandino tentava tutti i mezzi per intavolare la conversazione; ma faceva fiasco. Allora, tanto per farla parlare, le si rivolse direttamente e: — la Cecilia, è andata a letto? — le domandò.

— Sì, poco fa. Anche Gegio cascava dal sonno.

— Sua madre dà troppo da mangiare a quel ragazzo. E... tu....

— Io?

— Sì, che cosa conti di fare?

— Metto a posto questa roba, poi finirò coll'andarmene a letto anch'io.

Prandino, a questo punto, si alzò, guardò l'uscio colla coda dell'occhio, se era ben chiuso, poi si avvicinò all'Elisa e cominciò per abbracciarla.

— Stia fermo.

— Sei in collera?

— Mi lasci stare, la prego: non mi secchi.

— Ma che cos'hai?

— Ho, e te lo dico chiaro e tondo, ho che se non moderi il tuo temperamento, è meglio che tu vada per la tua strada.

— Che cosa ho fatto poi, alla fine....

— Tu mi tratti, come non sono mai stata trattata da nessuno. Sei geloso di tutto, d'una parola, d'una mosca che vola....

— Il Maggiore mi pare che sia tutt'altro che una mosca.

— Torni daccapo?

— Ma non vedi che scherzo?

— Sì, ma son seccata d'esser sempre taquinée anche ne' tuoi scherzi.

— Se sono geloso, è perchè ti voglio molto bene.

— Oh Dio, quasi quasi, sarebbe il caso di dire un po' meno d'amore e un po' più di creanza! Lo sai bene che non sono uscita ieri di collegio, e che non posso fare sgarbi a tutti per la tranquillità del tuo cuore.

— No.... ma....

— Che cosa, ma?

— Spiegami un po' tutti quei sorrisi, quei sottintesi, quelle mezze parole colla Cecilia?

— Si rideva di te, del tuo muso, delle tue lune, delle tue gelosie, dei tuoi sospetti; ecco di che si rideva, se lo vuoi proprio sapere.

Prandino, anche questa volta, credette all'Elisa ciecamente e, al solito, fu beato e contento. L'Elisa, sentendosi forse rimordere la coscienza per qualche marachella che avesse anche lei da farsi perdonare, quella sera non stette molto sul tirato, e però fecero presto la pace, e in modo tale che dopo si vollero più bene di prima.

Prandino, sempre insistente e ostinato nelle sue idee, tornò da capo con la sua sgondolata; e la Elisa adesso accettò senza farsi molto pregare.

Appena fuori dell'albergo ed entrati in gondola, cominciarono tutti e due a respirare un po' meglio.

La gondola, dapprima, si avviò lenta, leggera, dondolante, per quei rii foschi, silenziosi, dove la tenebra fitta era spezzata sfacciatamente dai fanali a gas, che, colla loro tozza modernità, stonavano sugli angoli delle muraglie così artisticamente tetre, o meglio era interrotta qua e là dai riflessi di luce rossastra che si spandevano dalle finestre, illuminando, fra le ombre, qualche tratto di architettura gotica o bizantina le cui linee fantastiche ridestavano nello spirito mille storie lontane di vendette, di sangue e di amori infelici.

Poi sempre lenta, sempre leggera, sempre dondolante, la gondola passando pel rio così solennemente triste del Ponte dei sospiri, uscì fuori, all'aperto. Allora la piazzetta del Palazzo ducale apparì d'improvviso come una scena da teatro, col suo sfoggio di smaglianti colori, col frastuono delle sue voci confuse interrompendo il melanconico raccoglimento dei nostri innamorati, che tornarono a sentirsi a miglior agio, quando allontanandosi dalla riva di nuovo rientrarono nelle tenebre per uscir fuori ancora in mezzo ad una luce più tranquilla, in una calma perfetta, nella queta laguna di San Giorgio.

Giunti là, Prandino si pose a sedere sul trasto guardandosi attorno cogli occhi meravigliati e l'Elisa sospirò con un sospiro che le veniva proprio dal cuore.

Vi era diffusa una luce pallida pallida, l'acqua era immobile, il cielo chiarissimo, leggero e vaporoso, da sembrare un immenso velo trapunto di stelle.

Il silenzio era così vasto che pareva avesse preso il suo regno in quella solitudine incantata; eppure da tutta quella pace, usciva quella melodia che consola, che accarezza lo spirito: era il bello, era la musica dell'occhio, che scende già a farsi sentire nell'anima: melodia arcana, dolcissima che il tonfo del remo accompagna come un ritornello misurato, sollevando ad ogni battuta scintille fosforescenti, mentre la luna alta, bianca, serena, par fremere anch'essa rifrangendo i suoi raggi tremolanti nel cristallo delle acque.

— Com'è bello! — esclamò l'Elisa.

L'Ariberti non rispose nulla: ma quella voce e quelle parole allora lo urtarono e lo infastidirono.

— Mi vuoi bene?

— Sì.

— Dammi un bacio, bambino.

Il giovinotto si volse indietro a guardare, e poi fe' cenno alla donna che sarebbero stati veduti dal gondoliere. Ma tutto ciò fu un pretesto; egli allora non si sentiva la volontà, il desiderio di darle un bacio. In quel punto non sentiva di amarla. L'Elisa, quasi quasi gli era indifferente e, peggio, quasi quasi gli spiaceva. Mai come in quella sera e in quel momento egli aveva sentito l'amore, ma non era l'amore che gli poteva dare la donna viva e sensuale.

Egli si sentiva commosso da un sentimento vago, etereo come quel cielo vaporoso, casto come il cristallo di quell'acqua intatta. Era un amore che gli entrava nell'anima per la prima volta colle prime impressioni subite in quel luogo d'incanto, e così nuovo per lui: però era infinito come l'idea e usciva dalle ristrettezze della materia per diffondersi nella vastità del pensiero.

L'Elisa aveva perduti tutti i suoi fascini, tutte le sue seduzioni. Nessuna donna di questo mondo egli avrebbe sentito in quel punto di poter amare, nessuna donna fino allora conosciuta poteva prestare le sembianze all'ideale della sua mente. Soltanto là, in alto, in alto, nel fondo di quel cielo leggero come il fiato di una fanciulla, egli intravedeva una forma vaga, diafana, indistinta che non avea mai veduta e che non avrebbe veduta mai: che si avvicinava a poco a poco al suo pensiero, per scomparire a poco a poco simile a sognato fantasma che fugge via dissipandosi coi primi bagliori dell'alba.

— Vuoi che torniamo, bambino?... — gli disse l'Elisa alla fine, stringendosi attorno lo scialle con un brivido di freddo.

Il gondoliere voltò la barca, tornò indietro, e poi venne giù verso il Canal Grande.

Appunto perchè quelle impressioni erano state così forti e improvvise, appunto perciò, si dissiparono subito, appena finito l'incanto che le avea suscitate. Invece lo spettacolo nuovo che gli si preparava e che contrastava singolarmente col primo, ne produsse in Prandino altre del tutto diverse da quelle, ma non meno vive e sentite.

Dopo tanta luce, adesso la gondola, sempre lenta, sempre leggera e dondolante, si sprofondava nelle ombre misteriose del Canal Grande.

A mano a mano che s'inoltrava, la Venezia dei Dogi e delle feste, della voluttà e dei piaceri, del Messer Grande e delle cortigiane, si faceva strada non più nell'anima, ma nei sensi di Ariberti. Allora Otello e Desdemona, Bianca Cappello e la Faliero, Alfredo de Musset e la Sand, Byron e la Guiccioli, la leggenda e la storia dei vecchi palagi ingigantiti dalle tenebre gli risollevarono nella mente la memoria di quegli amori, gli riaccesero nel sangue il calore di quelle passioni: non era più una forma vaga, indistinta, lontana, che rischiarava adesso il pensiero dell'Ariberti, ma su quelle acque cupe come l'abisso egli sentiva correre aliti di sensualità acuti, penetranti, e vinto dalle nuove seduzioni tornò lui questa volta a piegarsi sul trasto e chiese un bacio all'Elisa che non gli venne negato.

Ahoé! — gridò il gondoliere che piegava per entrare in un rio.

Stalì! Ahoé! — rispose vicina un'altra voce, e una gondola a due remi, nella quale si distinse appena un'immagine bianca di donna, che sorrideva mollemente sdraiata ad una figura bruna di giovanotto, uscì velocemente perdendosi nelle tenebre lungo il canale: era un'altra strofa, che si dileguava nell'ombre, di quel poema eterno dell'umanità che a Venezia ha il suo canto più vario e più appassionato.

CAPITOLO VIII.

Il giorno dopo faceva un tempaccio indiavolato. Era una burrasca di mare: pioveva a dirotto e soffiava un vento freddo giù per le calli, che sbatteva gli ombrelli contro le mostre delle botteghe e agitava l'acqua verde dei rii. Nessuno, tranne qualche matto d'inglese o di tedesco, si sarebbe sognato d'andare al Lido.

L'Elisa, un po' stanca dal viaggio e dalla notte che aveva passata in gondola, rimase a letto fin tardi, indugiò ad abbigliarsi e fu visibile soltanto all'ora del pranzo, chè, in negligé, non si lasciava mai veder da nessuno; e si capisce!...

La Contessina invece, dovendo restar chiusa in albergo, approfittò del suo tempo per disfare le valigie e regolare i conti con Prandino, al quale non parve vero di entrar quasi nel suo, quantunque, per dire la verità, non ci fosse pericoli.

Colla sua solita pazienza e timida rassegnazione, si digerì poi una solenne lavata di capo dalla Cecilia a proposito della mancia ch'egli aveva creduto di mettere in mano, senza prima parlare con lei, all'uomo del battello: questi, alla fine, li aveva canzonati per buscarsi lui quella corsa dalla stazione all'albergo, e non meritava certo che i gonzi lo regalassero anche per soprammercato!...

Prandino del resto lo sapeva già, che non l'avrebbe passata liscia senza pigliarsi un rabbuffo! Che!... Quando doveva metter mano alla borsa, non c'era versi, madama D'Abalà diventava rabbiosa, bisbetica, insopportabile; e allora gli occhietti guardavan losco e si faceva in faccia tutta rossa, e non le rimaneva di bianco altro che la punta sottile del suo naso minuto.

— No, no, — borbottava contando i biglietti la terza volta, e osservando i più sucidi contro la finestra per paura che fossero doppi; — no, no; un'altra volta non mi muovo più, se non ho mio marito, che dei ragazzi da condurre a spasso me ne basta uno: Gegio, e spesso e volentieri, potendolo, farei anche senza di lui!... Una volta, vedete, a Firenze, perchè un vetturino pretendeva più della tariffa, mio marito, senza fare nè ai nè bai, lo prese per un orecchio e lo consegnò lui stesso ad una guardia di città!...

— Queste bravate di tuo marito le puoi contare al primo che passa, ma non a me che lo conosco, — pensava Prandino. Però non rispose nulla, anzi rimase colla testa bassa, come fosse mortificato davvero per quel confronto.

Fatte le valigie, fatti i conti, la Cecilia per non istare in ozio, cominciò a sentirsi male, a bere delle tazze di brodo col limone, e a sorseggiare dell' acqua di tutto cedro, fino all'ora di pranzo, dove mangiò per due, com'era naturale. L'Elisa più tardi volle scrivere delle lettere, e il direttore dell'albergo fece salire al numero quaranta della carta colla marca della casa in oro, e mandò alla Contessa tutti i giornali illustrati della Salle de lecture.

In quanto a Prandino, egli cominciò a metter muso; l'Elisa non si faceva vedere; e lui ogni momento scendeva giù dal portiere a domandare se non c'era stato nessuno a cercarlo; tanto che il portiere, seccato, gli rispose brusco, che, se capitassero persone pel signor Conte, lo farebbe avvisato, perchè egli stava alla porta appunto per ciò!....

Prandino sperava in una visita di Badoero: questa forse avrebbe fatto uscire l'Elisa dalla sua camera, e forse, chissà, gli avrebbe dato un po' d'importanza anche presso quella rusticona della Cecilia. Ma Badoero, contro tutte le espansioni della sera innanzi, non si lasciò vedere. Allora Prandino, per isvagarsi, dovette condur Gegio in piazza san Marco a gettare il becchime ai colombi che, fortunatamente colla loro piacevole dimestichezza, fecero scordare a Gegio l'idea fissa che aveva in testa dalla mattina di prendere una gramolata da Florian, tanto che appena messo il naso fuori dell'albergo aveva cominciato subito a brontolare che aveva sete.

Tutto sommato però, quella mezza giornata, non fu proprio cattiva per l'Ariberti. Quando tornò all'albergo, si sentì dire che il numero quaranta lo cercava: figurarsi! Mandò Gegio in fretta dalla mamma, promettendogli che il giorno dopo sarebbero andati in piazza a pigliare i colombi colla rete, e in due salti corse dall'Elisa.

— Si può?

— Avanti!

Nella cameretta buia, le tendine erano calate e le persiane chiuse, si respirava un profumo di vinaigres e di violettes, che ad altri avrebbe forse dato il mal di capo; ma a Prandino invece ricreava e irritava i sensi: era l'odore particolare della sua donna.

L'Elisa gli venne incontro mostrandoglisi a poco a poco nell'oscurità, ancora più bionda, ancora più bianca e ancora più bella del solito. Si movea lentamente con un languore pieno di sentimento, con una stanchezza piena di fascino e cogli occhi, ch'ella s'era fatti ancora più profondi col keul, così che dal suo volto e da tutta la sua persona apparivano a Prandino le tracce, a lui tanto care, della notte che aveano passata in gondola, soli, soletti.

— Che vuoi, cara?

Nella camera si sentiva la respirazione grave, affannosa del giovinotto.

— Nulla. Voleva darti un bacio prima di scendere.

Prandino, tremante di voluttà, voleva stringerla, baciarla, morderla, fors'anco: ma lei no; gli si oppose, e lo staccò da sè risolutamente.

— Andiamo; basta; sta quieto, bambino. È ora d'andare a pranzo.

E visto che l'altro stava fermo, intimidito, gli si appoggiò al braccio, gli sorrise di nuovo col suo languore di donna stanca, affranta, e scesero insieme, ninnolandosi un po' lungo le scale, nella salle à manger.

Ma, proprio, la fortuna di noi miseri mortali pende da un filo invisibile come la famosa spada di Damocle: quando pareva che tutto andasse a seconda all'Ariberti, che tutto lo accarezzasse, anche i piedini di Elisa, mancò poco ch'egli non si strozzasse con una lisca di pesce.

Il direttore dell'albergo, ch'era come sempre tutto daddoli per la Contessa del numero quaranta, fino a degnarsi di servirla lui e di domandarle ogni tanto se la portata non le piaceva, o se desiderava che le fosse cambiata, era entrato in sala con un piego sopra un vassoio d'argento.

— Un telegramma per la signora Contessa! — e glielo porse inchinandosi graziosamente.

L'Elisa lo ringraziò piegando il capo e girando gli occhi, ma poi, appena aperto il telegramma, arrossì, sorrise, parve confondersi, e lo passò in fretta alla Cecilia.

— È del Maggiore — pensò subito Prandino fra sè e sè, e fu proprio quello il momento, che la lisca gli andò a traverso.

La Cecilia guardò sua madre, aggrottando le ciglia per capir qualche cosa, ma senza parlare. Elisa le strizzò l'occhio, poi:

— È di tuo marito — le disse continuando a sorridere, tutta rossa in viso a dispetto della cipria. — Vuol sapere se abbiamo fatto buon viaggio.

Prandino rialzò il capo respirando, chè la lisca, a quelle parole, trovò la sua strada diritta, e il buon ragazzo, tutto consolato, non si adirò nemmeno contro Gegio, che, con una pallottola di pane, era riescito a colpirlo proprio in un occhio!...

Povero Prandino!... Meglio per lui, del resto, ma ad ogni modo era un osservatore assai superficiale. Se no, come avrebbe potuto credere che la Cecilia così taccagna, non uscisse in una sfuriata contro l'onorevole sotto prefetto, quando davvero egli avesse spesa una lira per avere le notizie, mentre se ne poteva levare il gusto qualche ora più tardi, con una cartolina da due soldi?...

Il giorno dopo Badoero passò apposta dalla Gondola d'oro e lasciò detto al portiere che avvertissero il conte degli Ariberti di non mancare al vaporetto delle tre.

L'Ariberti alle due e cinquanta era già sul ponte coll'Elisa, Gegio e la Cecilia che teneva in mano un cuscino di tela greggia con in mezzo lo stemma in rosso e la corona dei Navaredo, perchè, nel suo stato, soffriva a sedersi sulle panchette dure di legno.

Badoero non si fece aspettare: vestito come un cuoco, tutto di bianco, profumato, unguentato, impomatato, entrò sul vaporetto lentamente e leggermente, dondolandosi sulle gambette lunghe e molli e passando dal montatoio sul ponte con un salterello da cavallerizzo. Appena scorse Prandino, lo salutò con un cenno lieve del capo e poi gli si avvicinò nella corsia, dritto, impalato, guardandosi attorno con occhiatacce assassine e dispensando saluti, sorrisi e scappellate fra le bagnanti che già si accalcavano sul vaporetto e lo riempivano di risa, di chiacchiere e di colori.

Prandino gli venne incontro e lo raggiunse a mezza strada.

Ciao.

Ciao, mio caro!

— Se lo permetti, — e Prandino gli parlò all'orecchio stringendogli un braccio colla mano, — ti presento alla contessa Navaredo, di Vicenza, e a sua figlia, la contessina d'Abalà.

Badoero, che in tutte quelle bagnanti cercava invano una mima del teatro del Lido, per la quale sentiva del tenero assai, continuò a guardarsi d'attorno, ma rispose un ooh! lungo, eloquentissimo, accompagnandolo con un inchino e mosse dietro ad Ariberti, che camminava male fra tutta quella gente stipata, dispensando altrettanti pardon! quante erano le punte dei piedi che incontrava colle sue.

— Contessa, Contessina: il conte Badoero, mio cugino.

Questa volta furono le due signore che mormorarono un ooh! molto più debole però e molto più corto, chinando il capo leggermente. L'Elisa arrossì: già, alla sua età, aveva imparato ad arrossir sempre, quando credeva che le stesse bene.

— È la prima volta quest'anno che vengono al Lido? Già, già, sicuramente, perchè Ariberti m'ha detto che sono arrivate appunto l'altro giorno. Venezia però la conoscono? Non si domanda nemmeno, diamine! da Vicenza a Venezia è la corsa di un paio d'ore. Che tempaccio ieri! Loro signore non avranno preso il bagno, mi figuro?... Sfido io! chi doveva arrischiarsi, ieri, d'andare al Lido? Non ci fu altri che quel matto di Roders, un americano, un mio amico, che ha fatta la traversata in sandolo.

— Quanta gente che continua a salire! — esclamò la Cecilia accomodandosi sul cuscino e stringendosi vicino all'Elisa. — Vorrà dire però che quando saremo stipati come le acciughe chi sarà capitato tardi se ne ritornerà indietro.

— O aspetterà un altro vaporetto. Già, partono ogni venti minuti.

— Oh mio Dio, mio Dio! che puzzo di carbone! Che, che! io non ci posso resistere, non voglio già beccarmi il dolor di testa per nessuno, io! — esclamò la Cecilia quando proprio il vaporetto era pieno.

Non c'era verso, dovettero passare dall'altra parte, urtando e pigiando quella folla, la Cecilia facendosi da guardinfante colle due mani e fissando la gente, che stentava un po' a muoversi, cogli occhietti loschi dalla bile.

Elisa le teneva dietro con aria distratta, forse per fare impressione a Badoero, il quale allungava sempre il collo cercando la mima che non trovava mai. Il conte degli Ariberti veniva l'ultimo, tutto rosso dalla vergogna, strascinandosi Gegio con una mano e coll'altra tenendosi stretto sotto il braccio il cuscino stemmato.

— Oh, finalmente! — esclamò la Cecilia, quando si fu di nuovo adagiata. — È innegabile che una volta, da Rima, i bagni erano più comodi. Oh, sì davvero! E poi si faceva più presto e si spendeva meno.

— Oggi, sa, Contessa, c'è folla perchè è domenica.

— Anche qui come a Vicenza? — esclamò Prandino: — la domenica non si può andare in nessun luogo.

— Sicuro: tutto il mondo è paese. Per questo appunto le nostre signore non vengono mai al Lido la domenica.

— No?

— No. C'è troppa gente. Ma vedranno domani; ce ne sarà meno assai e poi troveranno una società molto più distinta!

— È vero che al Lido ci sono le carrozze e i cavalli? — saltò su Gegio a domandare tutto a un tratto, tirando la giacca a Badoero.

— Sì, carino. C'è il tramvai.

— Mamma, andiamo in tramvai? Io voglio andare in tramvai!

— Sì, sì: chetati, carino, si va in tramvai, fino allo stabilimento. È suo figlio? — chiese poi a Cecilia.

— Mio figlio. Andiamo, Gegio, da bravo, sta su dritto e saluta il signor Conte.

Gegio si strinse nelle spalle, e si voltò divertendosi a sputare nell'acqua.

— Carino proprio davvero; e quanti anni ha?...

— Tre anni, — rispose l'Elisa.

— Per bacco, è molto sviluppato!

— La mamma grande dice sempre che ho tre anni! — esclamò Gegio, voltandosi verso Badoero, e dando un urtone a un tedesco. — Anche l'anno passato a Lonigo io avevo tre anni!...

— Finiscila, stupido! — e la Cecilia gli diede un pizzicotto così forte in un orecchio che Gegio diventò rosso dalla rabbia e dal dolore e colla manina chiusa allungò un pugno a sua madre. Fra madre e figlio, naturalmente, stava per succedere una tragedia, quando Badoero, tanto per volgere altrove l'attenzione, esclamò ridendo, chè proprio non poteva più contenersi:

— Oh, ecco Potapow e Jamagata che arrivano gli ultimi; ah, ah, ah! se non fanno presto restano proprio con un palmo di naso.

Ma Potapow e Jamagata si misero a correre e così arrivarono a tempo per imbarcarsi. Potapow era un vecchietto rubizzo, vegeto piuttosto grasso, e nel vestito era sudicino, anzichenò. Aveva la barba intera d'un grigio giallognolo: parlava sempre, toccava tutto e non istava mai fermo. Invece, il commendatore Jamagata, lucente nell'abito nero, di una pulitezza squisita e di una eleganza severissima, alto, dritto, composto, nel suo genere giapponese era un uomo bellissimo. Naturalmente, s'era tagliato la coda, ma in compenso si era fatto crescere i baffi; cioè, intendiamoci, non aveva da coltivare che sette peli alla destra e cinque alla sinistra del naso.

Il russo ed il giapponese si vedevano sempre insieme: ma nulladimeno si detestavano cordialmente. Fra loro due c'era dell'astio, dell'invidia e della rivalità. Dicevano corna l'uno dell'altro, si contraddicevano, garrivano spesso, giocandosi dei tiri, facendosi dei dispettucci e a volte scambiandosi anche qualche impertinenza. Il russo era allegro e chiassoso, il giapponese grave e malinconico, il primo assolutista e avaro, il secondo splendido e liberale, l'uno materialista e scettico, l'altro sentimentale e credente, quello licenziosetto e spregiudicato, questo casto e tenero di cuore.

Mentre il vaporetto dal guscio giallo scendeva giù velocemente solcando l'acqua cristallina della laguna, con la tolda così tutta coperta dai vivaci colori delle vesti, dei capelli, degli ombrellini verdi, rossi, bianchi da sembrare un gran cesto carico di fiori, successe la presentazione del Conte e del Commendatore alle contesse Navaredo e al conte Eriprando degli Ariberti. Il giapponese si sedette vicino all'Elisa, il russo rimase in piedi dinanzi a Cecilia. Jamagata parlò colla Contessa delle melanconiche idealità di Venezia; Potapow consigliò Cecilia a prendere un libretto d'abbonamento pei bagni del Lido, avvertendola poi di confrontare attentamente le serie delle contromarche perchè alle volte erano sbagliate.

Solamente il conte Eriprando era un po' messo da parte e ciò perchè egli non godeva di troppa dimestichezza colla lingua francese. Una volta, vedendo ch'egli stava là tutto muto, accarezzandosi i baffi e ridendo quando ridevano gli altri, — Parlez-vous français, monsieur le comte? — gli chiese Potapow.

Oh, très peu!... — rispose Prandino colle labbra strette, e poi tacque arrossendo, perchè dubitò di aver detto uno strafalcione; e tanto per fare un po' il disinvolto, voleva che Gegio ammirasse le isolette dei Frari e di Sant'Elena. Ma Gegio nemmeno gli badava: il ragazzo fissava Jamagata cogli occhi sbarrati, mangiandosi le unghie.

Prandino cominciava a essere un po' seccato. Quel parlar francese lo infastidiva: egli aveva creduto di venire a Venezia a far la prima figura vicino alla contessa Navaredo e adesso invece gli toccava l'ultima parte.

E già non ne poteva proprio più, quando il vaporetto rallentava la corsa, e poco dopo si fermava all'approdo. Furono aperti gli sportelli, furon gettati i montatoi, e la gente cominciò a scendere. Allora Prandino lavorò tanto bene coi gomiti che riuscì in breve a ficcarsi proprio dietro all'Elisa, e quando ella discese, lui, risoluto, con una mano appoggiata allo sportello, cacciò fuori la gamba sul montatoio, e le rimase vicino, impedendo il passo a Jamagata.

Intanto la gente prendeva d'assalto i tramways, che, appena carichi, correvano via di trotto, l'uno dopo l'altro.

Jamagata e Potapow, pratici del luogo, non si perdettero in complimenti: il commendatore saltò sul tramway e con tutte due le mani aiutò la Cecilia. Questa vi salì spinta per di dietro da Potapow, che si volse poi a tirar su anche l'Elisa. Prandino, nuovo in quelle confusioni, e non abituato a fare l'inglese, s'intimidisce, non ha coraggio di passar davanti alle signore, e il tramway si riempie: corre in su e in giù, inquieto, affannato per trovarsi un posto purchessia, ma intanto che cerca, il tramway si mette in movimento e parte lasciandolo lì con un palmo di naso e con Gegio fra le gambe, il quale, vedendo la mamma allontanarsi, comincia a piangere e finisce a strillare.

L'Ariberti si guarda attorno, smarrito, mortificato: chiama Badoero: ma il Badoero s'era dileguato anche lui. Lì, poco discosto, c'era un altro tramway, mezzo vuoto, che si disponeva a partire. Prandino, trascinando Gegio, si mette a correre, e vi salta dentro che già si muove.

— Parte per il Lido? — domanda trafelato al conduttore.

— No, per Venezia! — rispose questo ridendo e schioccando la frusta sulla groppa dei cavalli.

— Se avessero osato di rispondere così a mio marito, guai! — esclamò più tardi la Cecilia, dopo che Prandino le ebbe contata quella canzonatura, — guai!... egli avrebbe buttato quel villano giù dal carrozzone. È vero però che mio marito non avrebbe certo fatta una domanda così sciocca: — soggiunse poi in via di conclusione, per paura che l'Ariberti le potesse rimaner in credito di una gentilezza.

Quando egli giunse allo stabilimento e attraversò la sala del Caffè ristorante, scura e bassa pari a quella di una nave, come si affacciò ad una delle uscite che mettevano sulla terrazza, si fermò là su due piedi.

Il mare tranquillo, in calma, lo accecava col riflesso di un azzurro largo, ampio, infinito, più del barbaglio del sole che saettava i suoi raggi sulle onde calde, con striscie gialle, mobili, scintillanti. A quell'ora sul mare non si vedeva una vela, nel cielo non correva una nube, non appariva neppure nella sconfinata immensità d'acqua, di cielo e di luce, l'ala bianca e rapida dell'alcione.

L'Ariberti, respirando con voluttà l'aria frizzante, si mosse, si avanzò verso il lungo parapetto della terrazza; ma allora l'andirivieni affollato, rumoroso dei forestieri ai bagni e dei veneziani a spasso, lo tolse dalla sua estatica contemplazione, e quel frastuono babelico, quel viavai delle fogge più strane, quel pettegolezzo di colori, lo attrasse ammirato, come prima lo aveva reso attonito il grandioso spettacolo del mare, e ciò mentre l'acqua ch'egli udiva rompersi e scorrere sotto il tavolato della terrazza lo impressionava così, da fargli muover le gambe con un certo sospetto. Quelle donne belle, eleganti, disinvolte che gli passavano vicino, lo facevano arrossire senza ch'egli ne sapesse la ragione. Certo, egli le trovava tutte più belle dell'Elisa, e pensando a lei adesso, si sentiva come un po' mortificato. Quelle vesti così nuove, quei cappelli così arditi, che parevano panierini ricolmi di fiori o di frutta, o ricchi nodi svolazzanti di nastri e di trine, quel lusso, quella sensualità, gli misero addosso un'invidia indefinibile, un'ansia infinita di desideri che sentiva confusamente nel cervello, nel cuore, nel sangue, ma che non avrebbe saputo esprimere; una smania d'essere pur qualche cosa, in quel mondo a lui così straniero, di attirare sopra di sè l'attenzione di tutta quella gente che non si curava de' fatti suoi, che non lo guardava, che nemmeno sapeva chi egli fosse di nome. Si avvicinò al parapetto; giù, nell'acqua, c'era una compagnia di giovinotti con maglia a righe, come quelle dei clowns, che offrivano un piacevole spettacolo di scambietti, di salti, di capriole, alle signore che li stavano a guardare dall'alto. Prandino pensò allora di saltar giù, in quella folla, per superare tutti quei nuotatori, per farsi ammirare!... Ma poi guardandosi attorno, stanco, intristito, e vedendosi così solo, mentre molte coppie di donnine e di giovinotti, passeggiando in su e in giù, combinavano insieme l'amore e la reazione, tornò a pensare all'Elisa con un impeto prepotente di affetto, e insieme con un gran desiderio d'aver anche lui la sua amante da sfoggiare, e però ricominciò a trovarla bella, a sentirsela cara e a volerle bene.

Fu il Badoero che lo fece tornare in sè, dandogli un pizzicotto.

— Oh, ciao, Badoero!... E la Contessa, dov'è andata?

— Dall'altra parte; a spogliarsi per fare il bagno.

— Io voglio andare a fare il bagno colla mamma grande! — piagnuccolò Gegio appena udì quelle parole.

— Appunto; la contessa Cecilia, — (le conoscenze nuove, si sa bene, chiamavano contessa anche lei), — la contessa Cecilia cercava il bambino, ed era irritata contro di te, perchè diceva che ti perdi d'animo per un nonnulla.

— E adesso, che cosa si fa?

— Condurremo il ragazzo da sua madre e poi andremo a fare il bagno anche noi. Non ti pare?

— Sicuro, perdina! non vedo il momento di rinfrescarmi.

Il Badoero, tutto consolato perchè finalmente aveva sbirciata l'Emma, la sua mima, giù in mare, che prendeva atteggiamenti plastici a fior d'acqua, circondata da tre o quattro adoratori, prese lui Gegio per mano e lo condusse nel compartimento riservato alle donne, raccomandando alla bagnaiuola che lo facesse entrare nel camerino delle contesse Navaredo. Poi raggiunse l'Ariberti sulla terrazza donde uscirono tutti e due di nuovo, per andare a bagnarsi.

— Sai, — diceva il Badoero a Prandino, parlando a voce alta, mentre si spogliavano in due camerini attigui, — se stasera, sul tardi, ti vedo al Florian, ti presento alla principessa di Lentz e poi andremo da Bauer a cenare.

— Grazie, — rispondeva l'altro dall'altra parte.

— Se vuoi ti condurrò anche al club.

— Grazie.

— Già non ti abbisognerà nulla; ma, si sa bene, in ogni occorrenza devi far capitale di me.

— Grazie.

— Me ne avrei a male, se non fosse così.

Uscirono presto, quasi nello stesso punto. Il cugino scese il primo dalla scaletta; l'altro gli tenne dietro.

L'acqua era bassa, non arrivava a toccar loro le ginocchia.

— Sei nuotatore, non è vero?

— Figurati: nuotatore d'acqua dolce!...

— Tanto meglio, così andremo al largo.

— Sicuro.

— Passeremo dall'altra parte, dove ci sono le signore.

— Ma, non è proibito?

— Che! È proibito avvicinarsi alle signore dentro allo steccato: ma fuori non c'è nessuno che possa trovar nulla da ridire.

— Tanto meglio!

Camminando nell'acqua, si lasciarono dietro la folla dei nuotatori inesperti che facevano il chiasso, vociando, ridendo, spruzzandosi gli uni cogli altri, tuffandosi a vicenda, o dondolando, come salami, appesi alle corde.

Quando il fondo cominciò a mancare, i due cugini si allungarono, si distesero e nuotarono via, filando velocemente.

L'acqua era calda: il sole dall'alto dardeggiava infocato.

— Vedi la Contessa? — chiese il Badoero a Prandino.

— No, non vedo che la D'Abalà sulla terrazza: minaccia Gegio coll'ombrellino, perchè non vuol lasciarsi tuffare dal bagnaiuolo.

— La D'Abalà, naturalmente, non farà bagni...

— No.

— Si capisce.

— Oh! eccola, la Contessa! Nuota sola sola: esce adesso dallo steccato!

— Per bacco! Ci vedi da lontano cogli occhi del cuore....

— Tu scherzi, cuginetto mio!...

— No davvero! E te ne dò subito una prova: io mi fermo qui coll'Emma e ti lascio libero.

La piccola Emma, con una maglia rossa, scollata, che la faceva distinguere a mezzo chilometro di distanza, ferma, in piedi, più vicina alla riva, usciva dall'acqua — dalla cintola in su — come Farinata dal fuoco: però l'Emma a vederla così, non metteva punto sgomento.

Voi ti, giavan, adess te vegnet giò? — questo fu il saluto dato dalla Venere meneghina a Badoero, il quale, al suo apparire, fece allontanare due o tre giovinottini che le boccheggiavano d'intorno, come all'avvicinarsi di un pesce più grosso, i pesciolini minuti si disperdono, guizzando via lesti lesti.

Quando Prandino raggiunse l'Elisa, questa cominciò a nuotare di fianco: aveva avuta anche l'altra furberia d'indossare un camiciotto da bagno molto scuro e così, benchè l'acqua fosse limpida, riusciva a nascondere il soverchio rotondeggiare delle sue forme: precauzioni affatto inutili, del resto, per il buon Prandino, chè egli era innamorato, e si sa bene: più ce n'era di quella donna e più ne amava!

— Sei tu?

— Sì.

— Come hai fatto a ravvisarmi così di lontano, sotto questo cappellone....

— Lo sai bene: io ti vedrei anche se tu fossi in capo al mondo.

Prandino ansava e nuotava adesso con maggior fatica. Le braccia bianche, il piedino lungo, elegante, e le gambe rotonde della Contessa, vedute così sott'acqua, gli toglievano il respiro.

— Sei stanco?

— Tutt'altro.

— Andiamo un po' fuori?

— Come vuoi. Già bisogna venire in mezzo al mare per trovarti sola.

— Sai che Jamagata ha già cominciato a farmi la corte? — E l'Elisa diede in una risata, uscendo fuori dall'acqua con un braccio per accomodarsi il cappellone di paglia.

— Me ne sono accorto; e tu, non c'è che dire, te la lasci fare per benino!

— Che vuoi? Un giapponese, non m'era ancora capitato!

— Cioè?...

— A proposito, bambino, non dir nulla con Cecilia, che siamo usciti insieme a nuotare, se no, mi fa certe prediche noiose che non finiscono mai! — Fra le altre fanciullaggini, all'Elisa era rimasta anche questa, di fingere cioè ch'ella fosse tenuta d'occhio da sua figlia.

— Per me, io non le dico nulla di sicuro!... Ma senti, cara, non ti lascerai fare la corte da Jamagata: me lo prometti, non è vero?

— Chi lo sa? È tanto sentimentale! — L'Elisa guizzò nell'acqua, girando sopra sè stessa e fremendo dal piacere.

Prandino le si cacciò ai fianchi: — Giurami, che mi hai risposto così per ischerzo!...

— Tirati in là; andiamo, tirati in là, chè mi fai bere.

— Ti farò bere apposta, se continui a far la civetta!...

— Andiamo, andiamo!... Sei matto! Nuota più distante, chè, se ci vedono, fo davvero una bella figura!

L'Elisa non ischerzava più: Prandino si allontanò subito da lei.

— Vuoi che ritorniamo indietro?

— Come desideri!

— Si sta così bene qui soli, in mezzo all'acqua.

— Ti diverti, Prandino?

— Assai!

— Come ieri sera?

— Oh, no! Ieri sera, per modo di dire, fu il più bel giorno della mia vita.

— Quanto sei sciocco!...

— Sfido io: ti hanno abituata allo spirito del Giappone.

— Giappone o Cina, sta sicuro che Jamagata di queste sciocchezze non ne dice!

— Bada!... ti fo bere!

— Tirati in là!...

— Perdinci, come ti sei fatta paurosa!...

— Andremo ancora un'altra sera in gondola; e prenderemo con noi anche Cecilia, non è vero? — L'Elisa aveva detto ciò per ischerzo, ma vedendo che l'altro in acqua come in terra prendeva il cappello colla stessa facilità. — Non arrabbiarti, permaloso che sei — aggiunse subito — non capisci che l'ho detto per ridere?

— Dammi la mano....

— No....

— Dammi la mano!

— No. Non fare scherzi, sai: non mi accomoda! — E l'Elisa si voltò per ritornare verso lo stabilimento.

— Oh Dio! — esclamò — quanto ci siamo allontanati.

Difatti sulla sabbia bigia della riva, i bagnanti che vi formicolavano qua e là, sembravano altrettanti bambini: lo stabilimento basso, angusto, ristretto, pareva poco più grande d'un balocco.

Nuotavano tutti e due adagio adagio, senza parlare: lui un po' indietro, intento cogli occhi per iscoprire sotto l'acqua tutti i movimenti dell'Elisa, e lei godendosi, colle pupille socchiuse, il barbaglio della luce calda, molle, snervante, che sollevava dal mare un odore acuto di alghe e di sale.

— Chi è quel cappellone laggiù, che nuota dritto verso di noi? — chiese Prandino, sempre pieno di sospetti, alla sua compagna, indicandole un coso lontano che sembrava una zucca gialla, galleggiante a fior d'acqua.

— Non so, non vedo nulla — rispose l'Elisa. Però, la perfida non diceva la verità nemmeno questa volta!... Tanto è vero che increspò le labbra a un sorriso di soddisfazione e che, colla scusa di accomodarsi di nuovo il cappello, levò fuori dell'acqua un braccio bianchissimo, grassotto, che ebbe così, grondante sotto il sole, un momentaneo luccichìo. Poi tornò a nuotare di fianco, molto di fianco, allungando e allargando i movimenti.

— Ti dico che quello là ci viene incontro! — tornò a ripetere Prandino coll'innocenza che gli era abituale. Ma poi, quando si avvicinarono ancora di più ed egli potè adocchiare chi ci stava sotto il cappellone, il suo povero cuore gli cominciò a saltar dentro come se gli battesse la furlana e quella larga distesa d'acqua azzurra gli girò attorno alla vista.

— Contessa.... arriva da.... Trieste?!

Maledizione! era proprio lui, il Maggiore!

— Addio Del Mantico! Ritorno col conte Eriprando, da una bellissima traversata.

L'Ariberti non potè dire una sola parola: per superarsi, per vincere la commozione di quella sorpresa così sgradita, accelerò troppo i movimenti, però lo prese un po' d'ansia, d'affanno, e, mentre gli altri due si scambiavano dei complimenti graziosissimi, lui diede giù una bevuta così abbondante, che lo fece starnutire per un pezzo.

— Conte, si beve?

— Si beve e si beve amaro!

Prandino continuò a sputare, a schiarirsi la gola, e a soffiar l'acqua dal naso.

Il Maggiore, veduto in maglia da bagno, non era avvenente per nessun verso. Egli non aveva la malizia dell'Elisa, che nuotava di fianco, e però si vedeva tutto, così grasso e grosso com'era, col collo corto e largo, col petto setoloso, mentre i baffi gli pendevano molli, cadenti, rendendo buffo quel suo faccione tondo, bruciato dal sole.

— Lo sapeva, Maggiore, di trovarmi al Lido?

— No, non lo sa....peva, ma lo spe....rava.

Anche il Del Mantico era ansante nel parlare. Non era un nuotatore della forza di Prandino, e nell'acqua si stancava subito.

— Ma come ha fatto a riconoscermi così da lontano, e senza l'occhialino?...

— Mi fu indi...cata dalla contes...sina Cecilia!

— Strega del diavolo! — borbottò Prandino, la cui grande infelicità riempiva adesso, per lui, tutto quell'immenso spazio d'acqua e di cielo.

L'Elisa, pratica di tali scene, capì che la posizione poteva farsi un po' difficile, e pensò bene di lasciare soli i due rivali a sbrigarsela come credessero meglio.

— Qui, signori miei, bisogna dividerci, se non vogliamo far nascere scandali.

— A ben rivederla, Con...tessa!

— Si ferma a Venezia, Maggiore?

— Potrebbe.... darsi!

— Allora, au revoir!

Au revoir.

L'Ariberti non salutò nemmeno la Contessa, che filò via dritta dritta, verso il compartimento delle signore; invece cominciò a nuotare come i cani, sbattendo l'acqua colle mani e coi piedi.

Il Maggiore aveva fatto uno sforzo e non ne poteva più; buon per lui che si cominciò presto a toccare il fondo! Prandino continuò a tenersi muto, il Maggiore ugualmente, e tutti e due salirono ai rispettivi camerini, per due scalette differenti.

Quando l'Ariberti si trovò chiuso, solo solo nella sua gabbia, rimase là per un momento, come istupidito dall'affanno e dal dolore; ma poi, mentre si asciugava, cominciò a piangere, e a piangere dirottamente.

Povero ragazzo!..

CAPITOLO IX.

— Quando ho veduto che c'era quell'altro, ho fatto tutto il possibile io, perchè il Del Mantico non ti corresse dietro — diceva la Cecilia, mentre aiutava la mamma a vestirsi — ma non sono stata buona di trattenerlo: pareva che avesse addosso l'argento vivo!....

— Meglio così: meglio così!.... Ho sempre veduto che cogli uomini, quello che non si ottiene coll'amore, si ottiene colla gelosia. Dammi un po' di crème.

— Bianca o rosa?

— Rosa.

— Credi che il Del Mantico questa volta dica davvero?

— Che vuoi? ancora non ci vedo chiaro — continuava l'Elisa, mentre guardandosi nello specchio si toccava qua e là leggermente, colle dita intinte nella manteca, le labbra e le narici. — Ancora non ci vedo chiaro. A volte mi pare di sì, a volte mi pare di no.

— Tuttavia il telegramma di ieri e il fatto di esser capitato oggi a Venezia così a precipizio....

— Certo che dell'Ariberti è molto geloso!...,

— Vedi un po'?.... È geloso di quello stupido!

— Stupido non tanto, e poi ha un bel nome, e in fin dei conti è anche un bel ragazzo!....

— Sarà!.... Ad ogni modo è troppo giovine perchè ti sposi.

— Oh! in quanto all'età non vuol dire!

— Ma poi è uno spiantato.

— Questa piuttosto, è una buona ragione.

Mentre l'Elisa terminava d'acconciarsi, la D'Abalà e il conte Potapow combinarono di fermarsi al Lido a desinare. Di solito, avea detto il Conte, servivano un pranzo fisso, a tre lire e cinquanta, senza vino, abbastanza buono. Jamagata, interrogato anche lui in proposito, consigliò invece di desinare a la carta.

Potapow si strinse nelle spalle e non gli rispose nemmeno. Fra loro due poi successe un battibecco vivacissimo quando si dovette scegliere la tavola. Potapow ne voleva una vicina alle sale, così erano meglio riparati: Jamagata invece la preferiva sul mare, perchè se non si doveva godere della vista del mare, allora era inutile di fermarsi al Lido: e concluse che chi aveva paura del raffreddore poteva ritornarsene a Venezia. La Cecilia li lasciò bisticciare senza entrare in mezzo: era troppo affaccendata a far capire al cameriere che pranzavano in sette, ma che dovevano apparecchiare per otto, perchè in compagnia c'era un bambino, che aveva poco più di due anni.

Ma sul più bello, quando tutto pareva ben disposto, eccoti Badoero che dichiara di non poter prendere parte a quel picnic: non lo disse, ma ne aveva un altro impegnato colla piccola Emma.

Questa notizia inaspettata turbò i calcoli e la quiete della Cecilia e di Potapow. Per fortuna il Conte si ricordò in tempo del cavaliere Ramolini, il quale poco prima aveva manifestato il desiderio di pranzare anche lui al Lido, e domandò subito alla D'Abalà se permetteva che glielo presentasse, e se la contessa Navaredo, che ormai li aveva raggiunti, ne sarebbe stata contenta.

— Si figuri, si figuri; vada subito a cercarlo: contenta la mamma, contenta io, contenti tutti!

Potapow andò correndo in cerca del Cavaliere.

— Contento io, oh, no: rien du tout — disse piano Jamagata alla Contessa. — Oh! per trovarmi io contento vorrei essere senza nessuno con voi, précisément; come dite in italiano?.... senza nessunissimo?....

L'Elisa, sorridendo, insegnò a Jamagata che in italiano si poteva dire soli, solissimi, affatto soli, mentre Prandino entrava sulla terrazza da una parte e il Maggiore vi entrava dall'altra: quello, livido, cogli occhi rossi e un muso al doppio del naturale; il Maggiore, invece, colla cera soddisfatta e l'occhialino in cerca dell'Elisa, asciugandosi i capelli corti, brizzolati, con la pezzuola bianca.

Dopo la presentazione del Maggiore a Jamagata, la contessa Navaredo contò che il bagnaiuolo cercava di farle il galante e che nell'acqua le stava sempre vicino e che voleva a tutti i costi insegnarle a nuotare, quantunque lei non ne avesse bisogno.

Di solito, queste narrazioni, fatte apposta dall'Elisa per istuzzicare un po' l'amor proprio dei suoi adoratori, indispettivano fortemente Prandino; ma in quel momento egli aveva già troppa infelicità nel cuore, perchè una gocciola più una gocciola meno lo potesse far traboccare. Invece, cominciò a sentirsi un po' meglio quando la comitiva si mise a tavola e la contessa Elisa volle lui alla sinistra, mentre alla destra c'era già seduto Jamagata. Allora toccò al Maggiore d'impermalirsi: difatti, egli si cacciò in fondo, lontano dagli altri, finchè Gegio, per consolarlo, gli camminò prima sui piedi e dopo gli saltò sulle ginocchia.

— Perchè è andato a sedersi così in disparte, Maggiore? — gli chiese la Cecilia.

— Il bagno forse le ha fatto male? — gli domandò a sua volta l'Elisa, con una punta d'ironia.

— Ho fame — rispose il Maggiore secco secco, per dire qualche cosa. Prandino, vedendo il Maggiore così annuvolato, si rischiarava sempre più.

— Verrò io, Maggiore, a tenerle compagnia! — esclamò la Cecilia; e, così dicendo, si alzò di dov'era e andò a sederglisi accanto.

Intanto, dalla porta di mezzo, si vide entrare e avanzarsi Potapow, seguito da un signore dall'aspetto grave, rispettabile, tutto chiuso, abbottonato fin sotto al mento in un lungo soprabito di mezza stagione.

Questo signore era il cavaliere Ramolini, il quale, dopo i complimenti, le proteste e i ringraziamenti d'uso, fu messo a sedere anche lui di fianco alla D'Abalà.

— Domando scusa alle signore, ma vorrei mi permettessero di rimanere coperto: questa brezza per me è micidiale.

— Faccia, faccia pure.

— S'accomodi liberamente.

Sans façons.

Couvrez-vous monsieur! — e Potapow con una mano gli alzò il braccio, perchè non esitasse più a lungo a rimettersi in testa la tuba grigia.

— In riva al mare tira sempre un po' d'aria, — disse, dopo la zuppa, il cavaliere Ramolini, il quale parlava poco, ma in compenso, di tanto in tanto, usciva con delle scoperte che facevano molta impressione.

Il pranzo fu abbastanza animato: se Jamagata trovava tutto cattivo, Potapow, viceversa, affermava che tutto era eccellente, e la Cecilia mangiava anche per il Maggiore, che si faceva sempre più ammusato a mano a mano che Prandino diventava persino spiritoso, tutto consolato dalle tenere amabilità che gli prodigava l'Elisa.

Gegio non seccava nessuno perchè dormiva: la lezione di nuoto lo aveva infiacchito. E poi, una volta sola che osò dire alla Cecilia, indicandole Jamagata: “Guarda, mamma, com'è rimasto giallo anche dopo il bagno!„, si prese un altro pizzicotto sull'orecchio, così forte, che non fiatò più per un pezzo, finchè terminò coll'addormentarsi.

Alle frutta, Jamagata volle che la Contessa lasciasse a mezzo una pesca duraccina, per ammirare la bella vista.

Il mare aveva preso adesso, coi riflessi del tramonto, una tinta verde chiara con delle strisce rossicce e violacee, mentre lontano sull'orizzonte apparivano le vele a triangolo di tre paranze, sfacciatamente colorite d'un giallo dorato.

— Ah, se ci fosse mio marito!.... Come sarebbe contento! — esclamò la Cecilia, estatica.

— La contessa d'Abalà non è mai stata a Dieppe? — le domandò Ramolini.

— No.

— Oh!.... — fece il Cavaliere con un sorriso di compassione, e poi strinse le labbra come per indicare che là ci dovea essere del bello assai.

— Che vuole? — soggiunse la Cecilia, quasi scusandosi — i figli!.... — e cambiò di posto colla seggiola, perchè a un tavolo lì vicino c'era un signore che fumava spagnolette.

— Già, già, — concluse Ramolini.

Ramolini non diceva mai uno sproposito: parlava poco, ma quel poco era per dire che il sole di luglio è caldo, che l'aria di gennaio è fredda e che un risotto coi peoci leva l'appetito: tutte verità sacrosante.

Quando egli era costretto a esprimere il suo debole parere sulla tal persona o sulla tal'altra, non diceva una parola, ma aveva certi sorrisi che rovinavano una riputazione, certi atti ammirativi che mettevano un uomo sul piedistallo. Senza avere mai scritta una riga e avendone lette pochine, nulladimeno pizzicava un tantino di letterato: si faceva vedere al caffè col Provveditore agli studii; ogni giorno dava una capata in biblioteca, e s'era fatto presentare a Carducci; ma anche in letteratura, come nel resto, aveva un metodo di critica sicuro: parlavano, per esempio, di Torelli o di Paolo Ferrari? egli si metteva a sorridere e pronunciava un nome: — Augier! — C'era discussione sulla Giacinta o sui Malavoglia? e lui, dopo d'essere stato sempre zitto, tornava a sorridere ed esclamava con un sospiro: — Zola! Oh, les Rougon-Macquart! — Dopo di aver osservato attentamente per un quarto d'ora, sull' Illustrazione, la copia di un quadro della scuola italiana moderna, si stringeva nelle spalle, e: — Jèrome — esclamava — Oh, Jèrome!.... — e buttava la rivista sul tavolino con un moto di dispetto.... Anche Carducci, sicuro, quantunque Ramolini lo conoscesse personalmente, anche Carducci impallidiva dinanzi ai poeti della Francia, perchè, già è inutile, ma per la Francia il Cavaliere ci aveva un debole.

Qui da noi, in Italia, dove tutti facciamo un po' di tutto, il poeta, il droghiere, il ministro, il pittore, il sotto-prefetto e il lustrascarpe, Ramolini, che non aveva mai fatto nulla, per non esser buono a far nulla, rappresentava una lodevole eccezione, e godeva molto credito. Andavano tutti d'accordo nel riconoscere il suo ingegno, nel vantare la sua coltura. Quando era un giovinotto: — Ramolini, dicevano, è un po' inerte, ma il giorno che si metterà a lavorare, farà delle grandi cose. — Adesso aveva cinquant'anni, era cavaliere come gli altri, ma ancora non aveva estrinsecate le proprie facoltà intellettuali che sotto una sola forma: la dimissione. Ramolini si dimetteva sempre, appena nell'ufficio pubblico, al quale era stato eletto, avrebbe dovuto cominciare a far qualche cosa. — Che importa ciò? — diceva il buon pubblico — Ramolini non sarà un ingegno produttivo, ma resta sempre un bell'ingegno e solido! — e molte volte interpretava quelle sue dimissioni come piccoli colpi di Stato.

A dir corto, dacchè era venuto al mondo, egli non faceva che tacere e curar la salute; la curava male, però che esagerando nelle cautele e abusando dei lenitivi, era sempre mezzo indisposto.

Quando servirono il caffè, si levarono tutti da tavola e si avvicinarono al parapetto della terrazza, tranne Gegio che fu lasciato solo a dormire.

— Bada, mamma, che il troppo stroppia! — disse la Cecilia piano all'Elisa, indicandole il Maggiore che aveva chiesto al cameriere l' orario delle ferrovie.

— Lascia stare, che ne so più di te!

L'Elisa prese il braccio di Prandino, ch'era tanto fuori di sè dalla consolazione da lasciarsi andare fino a parlar francese con Jamagata e con Potapow, e si fece condurre nella sala in fondo alla terrazza dove c'era un maestro che suonava disperatamente il pianoforte.

— Mi vuoi bene? — le domandò Prandino pieno di buona fede.

— Sei molto seccante!.... In tutto il giorno non hai proprio altro da dire!

Elisa non si fermò punto nella sala, ma ritornò subito dov'era il rimanente della comitiva.

Là stavano tutti persuadendo il Maggiore a fermarsi per il fresco: c'era la serenata di gala sul Canal Grande.

Il Maggiore s'impuntava duro sul no, ma tutti quei discorsi inquietavano Prandino, al quale battea forte il cuore per la paura che il Del Mantico, dopo tante chiacchiere, finisse col cedere e col dire di sì.

— Animo, da bravo, bisogna essere compiacente colle signore! — continuava quella petulante della Cecilia, mettendosi in saccoccia pezzi di zucchero, per Gegio — diceva lei! — Invece di stasera non potrebbe partire domani colla prima corsa?

— Ma lascialo andare, Cecilia, non insistere così, non seccar la gente. Il Maggiore, si sa bene, non è libero: avrà qualche affare di servizio che lo obbligherà assolutamente a passare le sue notti a Treviso!.... dunque.... non dobbiamo essere indiscreti! — e detto tutto ciò con vivacità, Elisa sorrise molto ironicamente.

— Oh! per gli affari di servizio — rispose il Maggiore senza guardare in faccia l'Elisa — tanto sono in licenza e posso fare quello che più mi accomoda.

— Allora si resta! — replicò subito la Cecilia.

Il Maggiore non rispose nulla: Prandino si sentì mancare il fiato.

— Lei, Maggiore, se vuol dire la verità, ha qualche cosa per la testa. Andiamo andiamo, mi dia braccio e si confidi con me. Chissà che non siano cose che non si possano aggiustare!.... Che ne dice, Cavaliere?

— Mah! A una cosa sola non c'è rimedio: alla morte.

Jamagata a queste parole guardò l'Elisa sospirando profondamente: Potapow si mise a ridere.

Il Del Mantico si alzò, offerse il braccio alla Contessina e camminarono lentamente in su e in giù lungo la terrazza.

Prandino li seguiva colla coda dell'occhio, inquieto, perchè vedeva il Maggiore che gestiva con molta animazione.

— Troverei inutile, — disse poi all'Elisa, un po' titubante, ma facendosi coraggio per tastare il terreno — troverei inutile che la Contessina dovesse insistere perchè il Maggiore si fermasse alla serenata: tant'è, in una gondola non ci possiamo star tutti, e però bisognerebbe dividerci.

La Contessa, che adesso pareva molto distratta, non rispose nulla, ma Jamagata e Potapow si scusarono di non poter andare con lei al fresco avendo già ricevuto un invito dalla principessa di Lentz.

Il giovinotto si faceva sempre più inquieto: i discorsi della D'Abalà con il Del Mantico non finivano mai, ed egli non ne potea proprio più; tuttavia quando essa gli si avvicinò e gli disse piano di fare i conti anche per sua madre e per lei, Prandino non osò fiatare e correva già al banco.

— Conte Eriprando!.... Scusi!... Senta un momento!....

Prandino le tornò vicino, tutto umile e premuroso.

— Si ricordi bene che Gegio non paga! Non mi faccia i soliti pasticci, le solite confusioni!....

Mentre Prandino regolava i conti, e in quel mentre, numerando i suoi capitali, si trovava mancante di sette lire, senza che sapesse come e dove le avea gettate, le nostre dame, seguite dai rispettivi cavalieri, uscirono dallo stabilimento per aspettare il tramway. Prandino però li raggiunse subito, tutto in orgasmo, temendo di perdere il posto buono; quello, si sa, vicino all'Elisa. L'Elisa infatti, che s'era tenuto Gegio con sè, lo mandò da sua madre; così Prandino potè sedersi al suo fianco, tutto glorioso e trionfante. Se non avesse avuto due spine, le sette lire che non riusciva a trovare come le avesse spese e la faccia del maggiore Del Mantico che, dopo le chiacchiere colla Cecilia, parea meno scura, egli sarebbe stato felice. E non felice solamente in tramway, ma anche dopo, sul vaporetto, ritornando a Venezia.

L'Elisa se lo teneva vicino e gli sorrideva, accarezzandolo con lunghe occhiate: si era tolta il velo perchè la brezza viva della laguna glielo portava via, e così nell'ombra il suo volto pallido, bianco, non ci perdeva nulla neanche scoperto.

— Fa freddo! — esclamò Ramolini, appena il vaporetto si staccò dalla riva, cacciandosi la tuba sulle orecchie e stringendosi attorno il soprabito.

Jamagata disse di no, che non faceva freddo: Potapow allora si abbottonò l'abito in fretta e si legò un fazzoletto attorno il collo per ripararsi la gola.

Il cielo, di una trasparenza leggerissima verso il mare, dall'altra parte, sopra Venezia, era sparso, attraversato da nuvolacci neri, minacciosi, rotti giù basso, dietro ai monti, da una fascia rossa di fuoco. Intanto

“a poco a poco.... la notte era discesa„

e mentre le isolette della laguna qua e là fra le ombre apparivano scure, silenziose come fantasmi, Venezia gaia, rilucente, splendeva nel fondo, colla sua lunga riva illuminata.

— Ci sarebbe pericolo, Cavaliere, che ci piova sopra al fresco di stasera?

— Mah! — rispose Ramolini guardando per aria. — Mah!....

Oh! madame la comtesse!.... Oh! la belle vue!.... — esclamò Jamagata, rapito in estasi, mentre indicava Venezia all'Elisa.

Tutti s'erano levati in piedi, rivolti verso Venezia, esprimendo ognuno alla sua maniera, tranne, s'intende, il cavaliere Ramolini, la propria ammirazione.

— Finalmente! — esclamò Prandino, tutto a un tratto, mentre il vaporetto, facendo il giro della laguna, per fermarsi allo sbarco, passava lento dinanzi alla piazzetta illuminata — finalmente! adesso mi ricordo!

— Che cosa, Conte? — gli domandò piano l'Elisa.

— Nulla, nulla, — fece l'altro, rimettendosi.

S'era ricordato allora come aveva spese le sette lire; e però, liberato da quel peso, potè commoversi anche lui dinanzi alle meraviglie della riva incantata.

Appena discesi a terra, cominciarono i saluti, i ringraziamenti e le espressioni del piacere reciproco per la fatta conoscenza.

— E il Badoero? — domandò Prandino — non s'è più visto?

Il Badoero era rimasto a teatro, al Lido. Tutti notarono allora ch'egli si era dileguato in una maniera poco cortese.

— Almeno si fosse degnato di salutarci! — brontolò la Cecilia.

Prandino tentò difenderlo, ma le sue parole furono accolte dalla disapprovazione generale.

— Gioventù, — disse Ramolini, sorridendo con uno di quei sorrisi che levavano la pelle.

Il Cavaliere aveva accettato di seguire il fresco anche lui, in gondola colle signore. Soli Potapow e Jamagata abbandonarono la comitiva, e tutti e due, per punizione, dovettero ricevere un bacio da Gegio, che aveva la faccia tutta sudicia e ancora assonnata.

Prima però di allontanarsi, Jamagata, stringendo la mano all'Elisa, le confidò che si sentiva molto malheureux, per doverla lasciare, e Potapow regalò un ultimo buon consiglio alla Cecilia: di offrire ai gondolieri la metà di quello che avrebbero domandato di noleggio per la sera.

Difatti, questo gran contratto non fu concluso tanto presto. Il conte Ariberti dovette andare innanzi e indietro almeno una mezza dozzina di volte; finalmente si combinò per sei lire, non compresa la mancia.

— È caro, non è vero? — domandò la Cecilia al Ramolini.

— Sì.... e no.

Quando l'Elisa fu seduta sul trasto colla figlia, vedendo che il Maggiore si disponeva a imbarcarsi:

— Come! Non parte più Del Mantico? — gli domandò, sempre sorridendo con ironia: ma però, questa volta, con un'ironia molto più dolce.

— Partirò colla corsa delle undici! — e il Maggiore guardò la Cecilia, che sorrise anche lei.

— Per le undici, sa, Maggiore, non saremo a terra di sicuro, — avvertì Prandino, che sperava ancora.

— Ebbene, vuol dire che non partirò.

Questa risposta fu detta con un tono così asciutto che Prandino non fiatò più; invece, senza far complimenti, scese in gondola prima del Maggiore e andò a sedersi sulla panchettina accanto all'Elisa. Ma un gondoliere lo fece subito alzare e gli cambiò posto, per regolare il peso della gondola e destinò proprio il Del Mantico a seder vicino all'Elisa.

Le cose tornavano a prendere una cattiva piega per il povero Prandino!....

Appena che la gondola si mosse, la Cecilia, vedendo che ci sarebbe stato un posto disponibile perchè Gegio poteva mettersi benissimo fra le ginocchia dell'Ariberti, ripigliò una seconda sfuriata contro il Badoero. Se c'era Badoero, è naturale, avrebbe pagata anche lui la sua parte e la spesa sarebbe stata minore. E poi la Cecilia, che non vedea Prandino di buon occhio, si godeva tormentandolo anche a proposito di quel suo cugino ch'egli aveva dipinto e magnificato come se fosse un Baiardo redivivo.

L'Elisa, invece, taceva sempre: aveva troppa dignità di sè stessa per curarsi lei di chi si mostrava poco sollecito delle sue grazie.

— E tutto questo, per chi poi?.... per una figurante di terz'ordine!....

— Mamma, che cosa sono le figuranti? — domandò Gegio.

Prandino taceva, tutto avvilito e mortificato.

— Dormi adesso; non seccare! Ancora — continuò la Cecilia — ancora capirei se si fosse impegnato, come il Commendatore e il conte Potapow colla principessa di Lentz!....

A questo nome il Ramolini sorrise col suo ghigno demolitore.

— Come?.... Non è forse vero che il Conte e Jamagata avevano ricevuto un invito per questa sera dalla Principessa?....

Ramolini chinò il capo affermativamente.

— Dunque?

— L'ultima principessa di Lentz è morta a Vienna nel 1869.

— Ma allora, questa qui di Venezia?....

— Questa signora che si lascia dare della principessa a tutto pasto è la vedova del capitano Krauss: l'aiutante o il segretario, che so io, di un principe di Lentz qualunque, il qual principe, morto senza figli, riconobbe appunto per suo erede il capitano Krauss, che oltre alla roba si prese, abusivamente, anche il nome ed il titolo.

— Oh, guarda un po'!....

— Non è dunque vero che suo padre abbia regnato? — domandò Prandino col tono dolente di chi vede dileguarsi una gran bella illusione.

— Mah! vattel'a pesca!.... Secondo chi sarà stato suo padre.

— E allora perchè Badoero e tutti gli altri la chiamano principessa?.. continuò la Cecilia con dispetto.

— Perchè qui a Venezia ci trovano gusto. A Parigi, invece, madama Krauss ha fatto di tutto pur di piantarvi radice, ma non vi ha mai potuto attecchire. Mah!.... la società parigina!.... le faubourg Saint-Germain!....

— Prima d'entrarci là dentro!.... — fece l'Ariberti sgranando gli occhi, che proprio gli pareva d'esservi nato.

— Ci vuol altro!.... — continuò il Ramolini. — I francesi non somigliano punto ai nostri giovinotti che corrono attorno ai forestieri come i servitori di piazza, e tanto più si affannano quanto più ci vengono da lontano. A Parigi?.... Che!.... Bisogna vedere!.... Ma già, Parigi.... è la capitale della Francia!....

— C'è stato molto tempo a Parigi, Cavaliere? — gli domandò l'Elisa.

— No. Non ci sono mai stato. Però faccio conto d'andarci.... prima di morire.

La gondola, mentre si facevano tutte queste chiacchiere, s'era internata, sempre in mezzo al buio, passando da un rio in un altro, finchè, dopo un lungo tragitto, si trovò quasi all'improvviso nel Canal Grande, vicino al Ponte di Rialto.

— Ah! — esclamarono allora tutti quei della gondola e, da sdraiati, si rizzarono a sedere per goder meglio lo spettacolo: però, dopo quel grido di meraviglia, non dissero più una sola parola: rimasero là muti a guardare.

Ramolini solo non si commosse; invece si coprì le ginocchia con uno scialletto che gli aveva prestato apposta la Cecilia.

Il Ponte di Rialto, dal quale si vedea sporgere gremita una folla di teste, era così bianco, rischiarato dalla luce elettrica, da sembrar quasi trasparente. Lungo il Canal Grande, tutto pieno, tutto coperto di gondole, le case colle finestre e i balconi illuminati, uscivano dall'ombra, scure, fosche, sotto il cielo chiaro e diffuso; e qua e là, fra le colonne dei gotici palagi, bruciava a sprazzi come un incendio, la luce rossa del bengala. Intanto dalla galleggiante, elegantissima pagoda adorna di vive fiammelle e di palloncini di vetro a colori, si spandeva nel vasto silenzio, la voce di due donne, lenta, squillante.

Era la serenata del Sabba Classico:

La luna immobile,

Inonda l'etere

D'un raggio pallido.

Tutte le gondole stipate, a ridosso le une delle altre, erano ferme, immobili: soltanto l'altalena lenta dell'acqua le movea appena come un largo respiro. Le donne avvolte nei veli, sdraiate sui cuscini, avean la bocca semiaperta, l'occhio socchiuso. I gondolieri in piedi, ritti, a capo scoperto. Tutta quella immensa folla ascoltava muta, quasi assopita da un'onda dolcissima, voluttuosa.

E la canzone continuava:

Doridi e silfidi

Cigni e nereidi,

Vogan sull'alighe.

L'aura è serena — la luna è piena — l'onda beata!

Canta, o sirena! — canta, o sirena! — la serenata!

— Oh! se ci fosse qui mio marito! — tornò a sospirare la Cecilia, mentre il Maggiore stringeva, sotto lo scialle, la manina grassoccia dell'Elisa che, trasportata in estasi anche lei, lo lasciava fare.

Il Ramolini, per questa volta, non sorrise e non citò Gounod; Gegio si era riaddormentato, e Prandino, povero ragazzo, guardava teneramente l'Elisa e sognava.... a occhi aperti.

Però, quando le gondole si mossero tutte in una volta, spingendosi e urtandosi insieme, Prandino, che si trovava là per la prima volta, in mezzo a quel tramenìo, cominciò a sentirsi intorno qualche vaga inquietudine e stava attento ai gondolieri che, adesso, affaccendati co' remi, bisbigliavan fra di loro a voce sommessa, ma vibrata:

Zo quela pope!

Me tegno stagando!

Ocio el fero!

Cassève soto!

Ocio el fero, go dito!

Varé..., varé che vago avanti.

— Non è mai accaduto — chiese Prandino al Cavaliere, dandosi l'aria di fare una domanda indifferente, tanto per dir qualche cosa — non è mai accaduto che in queste serenate, qualche gondola restasse schiacciata?

Ramolini si strinse nelle spalle per indicare che non ne sapeva nulla.

— Però.... potrebbe accadere!....

— Sicuro.

— E se si va giù in acqua, con tutta questa distesa di gondole, non si torna più a galla?

— Certo.

Le risposte laconiche del Ramolini, non erano già per sè stesse quelle che più lo potessero tranquillare. Nulladimeno Prandino tentava di tutto per non lasciarsi scorgere e vedendo che il Maggiore rimaneva impassibile, anche lui si sforzava di mostrarsi disinvolto e di sorridere; però sorridendo, faceva la bocca storta.

Ma capitò un altro incidente ad accrescere le sue paure. Mentre la galleggiante si allontanava trascinata sull'acqua, da quel cielo così bianchiccio cominciarono qua e là a cader giù grossi goccioloni.

— L'ho detto io, che doveva piovere! — strillò la Cecilia — ma a me, è inutile, nessuno vuol dar retta, e adesso roviniamo tutta la roba! — e ciò detto si slacciò il cappello e se lo levò: — era nuovo — e in fretta se lo mise sotto la mantiglia.

— Ma se si vedono le stelle! — Prandino non ne indovinava una.

— Meglio per lei, se le vede. Questa, intanto, è acqua che viene!....

Il Cavaliere aprì un ombrellino, ma invece di prender sotto la Cecilia, lo tenne tutto per sè. Il Maggiore, più galante, e piegandosi un po' a destra e un po' a sinistra, chè sulla panchettina della gondola cominciava a trovarsi maluccio, teneva coperta l'Elisa. Gegio era stato cacciato da sua madre sotto le gambe dell'Ariberti, al quale, così, non rimanea da far altro che lasciar piovere e pigliarsela tutta.

I goccioloni si fecero presto più fitti, più minuti, finchè l'acqua venne giù proprio a dirotto. Allora in quella ressa di gondole era un continuo muoversi, uno spiegarsi confuso di scialli, di fazzoletti, di ombrellini, un tramestìo disordinato, un chiasso assordante di grida, di strilli e di risa, mentre invece quelli delle finestre se la godevano allegramente al nuovo spettacolo e batteano le mani.

Prandino, fradicio, era tutt'occhi e tutt'orecchi, attento ai gondolieri che lavoravan di remi, rossi in viso, grondanti d'acqua e di sudore, vociando e sbraitando a più non posso.

Scia!

Scié!

De zo le pope!

— Che sia questa la volta che si va sott'acqua? — tornò a domandare Prandino al Cavaliere.

— Ci siamo già, mi pare.

L'Elisa rideva e strillava, fremendo con iscatti che avrebbero voluto imitar quelli di una bambina impaurita. Il Maggiore, tutto indolenzito, tentava di allungare le gambe, ma non ci riusciva. Gegio, pacifico, si asciugava il naso nei calzoni di Prandino mentre sua madre brontolava che dei freschi ne aveva avuto abbastanza, e che non ce la piglierebbero più, per tutta la vita.

Le gondole continuavano a urtarsi, ma avanzavano stentatamente.

Dè una vogada de manco, che me casso soto! — gridava il barcaiolo di prora della gondola di Prandino, ad un altro, ch'era in un'altra gondola lì vicina.

Stè indrio vu, che go pressa!

E alora voghè, movéve!

Fogo in mànega, paron? Arè che furie!

Andè a sciosi, andè!

A questo punto le due gondole sbacchiarono, urtandosi, con un tonfo sordo di legno; ma quella di Prandino rimase indietro:

Andè a vogar in peata, andè!

Va là, moscardin, va là!

Il gondoliere di Prandino, a tali parole s'infuriò che parea matto, e senza badare alle raccomandazioni del Maggiore, alzò il remo gridando a voce squarciata: Regatante dal loffio! Te cucarò doman, te cucarò!

— Si bastonano! Si accoppano! — esclamò Prandino tirandosi indietro, vedendo i remi levati, senza badare che le due gondole s'erano un po' allontanate. Anche le signore si mostravano inquiete. Del Mantico stava serio e attento. Soltanto il Ramolini sorrideva, dondolando la testa.

Te storzarò el colo, mi!

Va là, moscardin, va là!

Te stagnarò el sangue dal naso!....

Le gondole non si urtavano più; a poco a poco sgusciaron via leste, spedite. La galleggiante coi lumi spenti, o quasi, entrava al largo, nella laguna; e il cielo, dopo quella burletta, s'era fatto d'una trasparenza lucente.

Va là, moscardin, va là!.... — continuava l'altro a gridare da lontano colla solita cantilena, ironica e inquietante; ma il nostro gondoliere adesso non gli badava più e sorrideva strizzando l'occhio al compagno di pope, che non aveva mai aperto bocca durante tutta la bega.

— Sempre così! — disse il Ramolini, mostrando il suo disprezzo o il suo malcontento perchè non si erano per lo meno accoppati. — Succede sempre così!

Appena la gondola si avvicinò alla riva, prima ancora che il ganzèr curvo, col cappello in mano, la tenesse ben ferma coll'uncino, il Maggiore saltò giù, prestamente, sugli scalini, per quanto glielo permettevano le gambe indolenzite. Allora le allungò, le distese con un sospiro di sollievo, e poi offrì il braccio all'Elisa, e si allontanarono insieme verso la piazza. Prandino avrebbe voluto seguirli, ma a un cenno imperativo della Cecilia si fermò per pagare il noleggio della gondola. Quando se ne sbrigò e raggiunse il resto della compagnia, la Cecilia con Ramolini e Gegio, lo aspettava ferma, un po' discosta dalla “mamma„ che tirava dritto, lentamente, appoggiata tutta addosso al Maggiore.

— Quanto ha pagato?....

— Volevano sette lire....

— Perchè lei non è bravo di contrattare!....

— Ma non ne ho dato altro che sei e mezzo!....

Il Ramolini s'accomiatò sotto l' Orologio; voleva fermarsi al caffè Quadri a bere qualche cosa di molto caldo; gli altri, passo passo, si avviarono verso l'albergo. Prandino, che adesso non avea più paura di affogare, tornò daccapo ad esser molto turbato dalla presenza del Maggiore: — Dunque non anderà a Treviso altro che domattina?.... E quella stupida d'Elisa perchè si mette a far la smorfiosa con lui?... E la Cecilia, brutta strega! perchè non lo ha lasciato partire?

Sulla porta della Gondola d'oro si fermarono in crocchio, ma Prandino, col cuore che gli batteva forte, notava che il Maggiore non si risolveva mai ad accomiatarsi. Chiacchierava a bassa voce coll'Elisa, rideva, scherzava con lei e non si moveva.

— Conte Eriprando, ho sete, — cominciò Gegio, con voce piagnolosa.

— Berrai domattina. Adesso si va a dormire; — gli rispose seccamente la Cecilia.

A questa antifona della figlia, la Contessa, che l'aveva capita, chiese al Maggiore, con un certo garbo malizioso, se, adunque, aveva risoluto di fermarsi o di partire.

— Partirò.... domani.

E il Del Mantico sorrise in un modo tutto particolare e pieno di sottintesi.

— Oh! finalmente! tanto ci voleva! — esclamò la D'Abalà, mentre guardava brontolando, se l'acqua avesse lasciato macchia sul vestito.

— Ma.... — Prandino parlava a stento e colla voce malferma. — Ma.... il nostro albergo deve essere tutto pieno....

— Ho telegrafato da Treviso perchè mi tenessero pronta una camera.

Allora entrarono dal portiere, per vedere se il telegramma era giunto in tempo.

— Mi avete tenuto una stanza? — chiese il Maggiore al portiere che sonnecchiava.

— Il numero 43, signor Marchese!

Il portiere, secondo il solito, non si mosse, ma si toccò il berretto colla mano.

Quando fu arrivato su in cima, al numero ottantasei, Prandino non ne poteva proprio più; si sentiva soffocare, e buttandosi smaniando sul letto, pensò allora che sarebbe stato meglio se la gondola fosse calata a fondo con lui dentro! Oh! sì; molto meglio sarebbe stato! Almeno, a quell'ora, egli avrebbe finito di soffrire.

CAPITOLO X.

Quella notte, il conte Eriprando degli Ariberti stentò molto a prender sonno e, anche dopo, dormì poco e male. Si svegliò che albeggiava appena, nè potè più riaddormentarsi. In quella cameretta soffocava. Si alzò, si vestì a malincuore, sospirando nel lavarsi, sospirando nell'infilare i pantaloni, e annodandosi la cravatta con una stretta rabbiosa.

Tant'è, per lui era cosa già risoluta: se la contessa lo tradiva col numero 43, egli non avrebbe più voluto tirarla innanzi.

Che cosa avrebbe fatto? — Uno sproposito avrebbe fatto, ma dopo, almeno, la sarebbe finita.

Povera mamma Orsolina!... Non ci pensava Prandino, in quel momento.

Uscì dalla Gondola d'oro ch'erano sonate appena le sette, e andò a passeggiare per un pezzo, così dinoccolato, colla faccia smorta, gli occhi gonfi e una folla di brutti pensieri che gli girava per la testa. Soffriva; soffriva davvero. Nel suo cuore esacerbato c'erano due odii, anzi tre; odiava la Cecilia, odiava il Maggiore, odiava adesso anche l'Elisa: la Cecilia però sopra ogni altro era il suo tormento più grave; era giunto anzi quasi a figurarsi l'Elisa come una vittima, forse troppo debole, di sua figlia, ma tuttavia sempre una vittima, che si sacrificava per lei. Quando tutto a un tratto (passeggiava allora sotto le Procuratie ) sentì chiamarsi per nome da una vociaccia che lo fece trasalire: era il Maggiore che usciva da Galli, il parrucchiere.

Prandino si volse e tornò indietro qualche passo per venire incontro a Del Mantico. Ebbe il coraggio di stendergli la mano, si sforzò di far la bocca ridente; ma lì, su due piedi, non fu buono di dire una parola: la voce gli si strozzava nella gola.

— Come mai la si vede in piedi così per tempo, caro Conte?

— È il caldo!

— Col caldo, difatti, si dorme male.

— Ma.... anche lei, signor Marchese, è molto.... è molto mattutino!

L'Ariberti avrebbe voluto dire mattiniero. Ma bisogna compatirlo; era l'emozione che gli faceva pigliare dei granchi.

— Io sono solito ad alzarmi presto. A Treviso sono in quartiere prima delle cinque, estate e inverno.

— Per bacco!

Il Maggiore si mostrava cortese, affabilissimo con Prandino; ma questi certo sarebbe stato più contento se lo avesse trovato burbero e musone, com'era stato il giorno prima al Lido. Bisognava proprio che i suoi affari gli andassero bene, per essere così di buon umore.

— E oggi, — domandò poi, improvvisamente, prendendosi l'Ariberti a braccetto, — che cosa ne faremo oggi delle nostre signore!

Nostre? Adagio Biagio! — pensava Prandino. — A te lascerò la Cecilia e, se vuoi, anche Gegio per giunta.

— Che cosa ne faremo?

— Mah! Bisognerà sentire la contessa Navaredo e la contessina D'Abalà! — rispose Ariberti, con aria diplomatica.

— Già, m'immagino che vorranno ritornare al Lido?

— Sicuro: sono venute a Venezia per i bagni.

— E ci fermeremo là anche oggi, a pranzo?

Ma dunque non parte più! — pensò Prandino, e non ebbe lena di rispondere nulla.

— Si mangia così male, al Lido! — continuò il Del Mantico.

— Oh! il mangiare... è l'ultima cosa! — esclamò l'altro, sospirando profondamente.

— Certo; quando però non si abbia appetito! E anche oggi ci dovremo digerire la compagnia di Potapow e del Giapponese?

— Lo temo.

— Mi sono cordialmente antipatici tutti e due!

— Anche a me!

Questa volta, forse fu la prima e rimase forse anche l'ultima, il conte degli Ariberti e il marchese Del Mantico andavano sinceramente d'accordo.

— Oh! To! to! Guarda chi si vede, a quest'ora! La contessa Elisa!

Prandino si sentì battere il cuore con violenza, e diventò rosso come un gambero.

La contessa Elisa, elegante, profumata, col suo velo caffè attorno alla faccia, si avvicinava, sorridendo, inchinandosi scherzosamente; non molto però, chè si poteva muovere appena, tanto s'era stretta nell'abito, per parere meno grassa.

All'Ariberti, quella mattina, l'Elisa parve ancora più bella, ancora più cara del solito; vedendola appena, sentì in un attimo dileguare l'odio e ritornare tutto l'amore.

Ella gli sorrise graziosamente, e lui provò un grande bisogno di trovarsi solo con lei, per parlarle col cuore in mano, colle lagrime agli occhi, per iscongiurarla di non amare il Maggiore, chè l'avrebbe reso infelice, per contarle che aveva passata una notte d'inferno e che aveva voluto morire, per dirle, insomma, che le voleva bene e che le perdonava!...

— Sola, Contessa?

— Affatto sola, Maggiore!

— Come mai?...

— Sono scappata via! — e così dicendo fece una mossetta co' fianchi, come di fanciulla che fosse fuggita di collegio.

— Ma, e la contessina Cecilia, dov'è?

— Via, via, Maggiore, non pensi male. Non ho nessuna idea di ribellione. Eccola là, la mia guardiana! — e, alzando l'ombrellino, indicò fuori dalle colonne la D'Abalà, rossa, scalmanata, in quello stato! che inseguiva Gegio gridando forte, mentre il monello le scappava dinanzi in mezzo alla piazza, per correr dietro ai colombi.

Per quanto tentasse tutti i modi e cercasse tutti i pretesti, il conte degli Ariberti non potè restare solo colla contessa Navaredo altro che al Lido, alla sfuggita, sulla terrazza. La Cecilia si era allontanata per far preparare il camerino alla mamma, e il Maggiore era andato nel suo a spogliarsi. Ma però, anche allora, messo tutto in orgasmo, forse per averlo aspettato e desiderato troppo quel colloquio da solo a sola, non trovò nè modo, nè agio di dirle nulla. Solamente le domandò, come una grazia, che non uscisse al largo a nuotare: sarebbe stato troppo infelice, se avesse veduto il Maggiore tenerle dietro.

Bisogna sapere che al conte degli Ariberti non era concesso quel giorno di fare il bagno, per quanto ne potesse aver desiderio; chè gli era stato proibito dalla D'Abalà, la quale gli aveva imposto di tener d'occhio Gegio fino a tanto che ella rimanea colla mamma per aiutarla a spogliarsi e a vestirsi.

L'Elisa, dopo che Prandino le ebbe chiesta grazia, non gli rispose ne sì, nè no; ma gli sorrise in un modo che il fanciullone interpretò come assenso.

— Dunque sì?... me lo giuri?...

L'Elisa cominciò a guardarlo, ma si fe' seria e cominciò a sospirare.

— Perchè ti sei fatta così triste?

— Nulla, sai, non ho nulla: non mi sento a modo mio. Ma il bagno mi farà bene, servirà a scuotermi un po'!

— Devo parlarti. Ricordati che dopo il bagno ti aspetto fuori: verso la Favorita. Voglio restar solo con te.

— Vedrò se mi sarà possibile....

— No, se sarà.... deve essere possibile, perchè lo voglio.

— Ah! bambino mio! Se si potesse far sempre quello che si vuole, che paradiso sarebbe! — E l'Elisa sospirò di nuovo. Poi, come abbandonandosi a un'improvvisa risoluzione — addio, — gli disse, — vado a spogliarmi.

— Ti accompagno....

— No.... resta sulla terrazza.... è meglio evitare i commenti.

— Buon bagno, Contessa! — esclamò Prandino, salutandola ad alta voce.

Au plaisir de vous revoir, caro Conte! — rispose l'Elisa con un tono che attirò l'attenzione dei vicini, e poi lentamente si avviò verso il compartimento delle signore.

Anche quel giorno la contessa Navaredo era stata molto affettuosa col conte Eriprando; ma però, in fondo alle sue moine c'era qualche cosa di triste che avrebbe dovuto mettere Prandino in sull'avviso. Col Maggiore, invece, l'Elisa non parlò quasi mai: tuttavia era affatto sparita dal suo sorriso ogni tinta ironica e ogni apparenza di sfida.

Adesso lo sfuggiva cogli occhi e li abbassava subito appena il Maggiore si metteva a fissarla coll'occhialino: voleva mostrarsi timida con una soggezione non priva di verecondia, quantunque, così striminzita com'era entro l'abito, non si potesse abbandonare ai molli e ai languidi atteggiamenti che le erano abituali.

Durante il tragitto sulla laguna, in vaporetto, si sedettero vicini mesti e taciturni.

Come già aveva annunciato Badoero il giorno prima, il vaporetto era meno affollato, le conversazioni tutte più intime o più sommesse; non si udivano risa, ma si vedevano soltanto sorrisi. Badoero salutò da lontano le Contesse di Vicenza. Era tutto sussiego al fianco della principessa di Lentz, una vecchia alta, secca, arcigna, vestita di nero, che salutava appena con un cenno breve del capo, senza dar la mano a nessuno e rimanendo quasi sempre in piedi, come se là, sul democratico vaporetto, ci stesse a regnare, a ricevere suppliche e a dispensare grazie.

L'Elisa la guardava con invidia, la D'Abalà con dispetto, mentre il conte degli Ariberti allungava il collo per farsi vedere da Badoero, sperando che lo chiamasse vicino per presentarlo alla Principessa. Ma Badoero dritto, serio, contegnoso, gongolante in cuor suo d'essere veduto da tutti vicino alla vecchia dama, non guardava nessuno, nemmeno la piccola Emma, che faceva il chiasso con alcuni ufficiali d'artiglieria. Egli dimostrava tutta la gravità nobile e a un tempo superba d'un ciambellano che si trova alla presenza di Sua Maestà.

Quando salirono sulla coperta Jamagata e Potapow, le Navaredo si consolarono tutte e due sperando anche loro di mettere su un po' di corte: l'Elisa salutò con un'occhiata tenerissima il Commendatore, e madre e figlia — Complimenti!.. Complimenti! — esclamarono ad alta voce, e la Cecilia si tirò da parte sul cuscino, quello solito collo stemma di casa, per fare un po' di posto ai nuovi amici; ma Potapow e Jamagata si degnarono appena di un bonjour, mes dames, corto e distratto, e poi filarono via per andare ad inchinarsi ai piedi del trono, come disse il Maggiore, con una frase che fu trovata felicissima dalle Contesse di Vicenza.

Fortunatamente a rialzare un po' il loro umore, capitò grave e solenne il cavaliere Ramolini. Aveva il soprabito gettato sul braccio, perchè il termometro, al sole, segnava 30° Réaumur. Ramolini sorrise stringendosi nelle spalle, finchè la Cecilia tirava giù delle impertinenze a proposito di quella ridicola madama Krauss; ma poi annunciò con mestizia che quel giorno temeva di non poter fare il bagno: soffiava un po' d'aria. Già era sempre così: Ramolini capitava al Lido ogni giorno: ma appena era imbarcato sul vaporetto cominciava ad esprimere dubbi, e quando poi era giunto sulla terrazza, non trovava mai che la temperatura fosse abbastanza buona, e il tempo abbastanza sicuro, per arrischiare di tuffarsi nell'acqua.

— Chi lo piglia il raffreddore, se lo tiene! — rispondeva invariabilmente a chi giudicasse esagerata quella prudenza.

Quando la contessa Navaredo lasciò Eriprando per andare a fare il bagno, Gegio cominciò subito a sentirsi male alla gola, cosicchè l'altro, per vedere di guarirlo, si determinò a fargli portare un gelato. S'erano seduti tutti e due vicino al parapetto, ma Ariberti, ad ammirare il mare, aspettava che vi si fosse tuffata l'Elisa; intanto approfittò di quel momento di quiete per fare un po' di conti. Il bilancio lo atterrì; in cassa non gli rimanevano più altro che dugentoquindici lire; e ancora all'albergo c'era tutto da pagare!... Non riusciva a capacitarsi, come mai il denaro scappasse via così presto. Perbacco! Dugentoquindici lire! Ma già era un continuo spendere: e gondola, e bagno, e pranzo, e guanti, e tramway, e caffè, e traghetti.... A volerla fare da signore, proprio davvero, anche trecento lire sarebbero state poche!... Continuando di quel passo, in una settimana, se non toccava il verde, ci andava molto vicino. E pensare che lui lo sentiva in sè di non essere proprio nato per fare il pitocco!... Ma!... e al mondo c'erano dei bottegai, dei fruttivendoli, dei fabbricanti di piroconofobi per le zanzare, che accumulavano milioni.... mentre lui.... l'ultimo degli Ariberti, non avrebbe ottenuto alla banca, sulla sua firma, un cento lire!... Ma!... Il progresso! Bel progresso, davvero!... Ah! se invece d'essere l'Eriprando nono o decimo della casa, ne fosse il quinto o il sesto solamente, avrebbe saputo lui come farlo correre il progresso a gambe levate!...

Intanto che pensava a tutto ciò, avvilito e colla testa bassa, gli toccò un altro dispiacere: i suoi calzoni in fondo erano così smangiati, che sfilavano in diversi punti.... Ci fosse stata la mamma! glieli avrebbe saputi rammendare così bene da parere nuovi. Ma alla locanda?... Oh, sì; bravi davvero!... Alla locanda, la rompono la roba, invece di aggiustarla!... Figurarsi, i suoi guanti che aveva dati da accomodare, li avevano cuciti col cotone!... — Povera mamma! bisognerà che mi ricordi un giorno o l'altro di scriverle una cartolina. Già, se l'ultimo giorno che sto a Venezia, pagato il conto dell'albergo e messi da parte i denari del viaggio, mi resta un avanzo di sei lire, le compero la spilla!

Era una magnifica spilla di venterina, con una gondola in mosaico nel mezzo, che Prandino aveva veduta in mostra da un chincagliere, sul ponte dei Beretteri: non valeva più di sei lire, ma faceva figura per venti.

— Oh, Conte illustrissimo! prendi il fresco?

Era Badoero che, abbandonato dalla Principessa, arrivava sulla terrazza in cerca dell'Emma.

Ciao, Badoero.

Ciao simpaticone! Dirò anch'io col poeta: Beati coloro che veder si ponno!

— Perchè?

— Perchè ti sei fatto invisibile!

— Anche oggi ero sul vaporetto delle tre, colla contessa Navaredo e colla contessina D'Abalà.

— Lo dici davvero?... E dire che io ho guardato appunto se ti vedevo, perchè volevo presentarti alla Principessa.

— Grazie.... al caso.... se si presentasse di nuovo l'occasione, mi farai un favore.

— Eriprando, ho fame! — piagnucolò Gegio, il quale, furbo, capì subito che alla presenza di Badoero, quell'altro non gli avrebbe rifiutato una ciambella.

— Fra un'ora pranzerai. Accontentati del gelato.

— Ho fame!... Non voglio aspettare un'ora.

— E che, diavolo! fa portare una pasta! — disse Badoero a Prandino.

— Dopo non mangia più a pranzo.

— E che importa? Fai troppo il tiranno! Garçon! porta la cesta.

Gegio si acquetò subito, e quando ebbe la cesta davanti, toccò tutte le paste, per arrivare a scegliersi la più grande.

— Hai fatto il bagno?... — tornò a domandare Badoero.

— No.

— Non lo fai?

— Forse più tardi.

— Dopo ti lasci vedere?

— Sì, dove vuoi che ci troviamo?

— Ci troveremo, ci troveremo... aspetta un po'... ci troveremo... ma, adesso che ci penso, dopo il bagno ho un impegno colla Principessa. È meglio fissare per domani. È una gran seccatura quella Principessa, che Dio la conservi!... Oh diavolo! Ecco l'Emma che m'ha riconosciuto e mi fa cenno di scendere in mare con lei.... questo mi secca! oggi non posso; oggi non ho tempo da perdere!

Eriprando, da qualche momento non gli badava più: cominciava ad essere distratto. La Contessa nell'acqua nuotava verso i pali e il Maggiore faceva il morto nelle vicinanze.

— Ciao, Ariberti! — esclamò il Badoero, dopo aver fatto dei segni all'Emma colle mani per aria.

Ciao.

— A proposito, ricordati che un giorno dobbiamo pranzare insieme.

— Grazie, quando vuoi.

— No, no, il giorno lo fisserai tu, caro il mio Prefetto! — e Badoero si mise a ridere con malizia.

Ariberti lo guardava fisso, senza capir nulla.

— Sai, qui, appena vedono una persona, subito gli affibbiano un soprannome. Ma senza malignità, così, tanto per ridere.

— Oh bella, e a me hanno dato il soprannome di Prefetto?

— Sicuro; siccome ti vedono sempre in abito nero, così ti chiamano il prefetto di Malamocco!

Prandino rise ancora, però adesso con un po' meno di piacere. Prefetto sarebbe bastato, senza quell'aggiunta di Malamocco!

Nel frattempo giù nell'acqua si videro anche Potapow e Jamagata a far bella mostra delle loro forme: Potapow, più prudente, non si allontanava dalla corda, ma Jamagata s'era spinto fuori e aveva anche tentato dì unirsi col Maggiore, nella sua gita acquatica; ma il Del Mantico fece l'indiano, col giapponese, e tirò dritto per conto suo, avvicinandosi sempre più al compartimento delle signore.

Prandino sulla terrazza guardava fisso, attento a ogni cosa e diventava verde; l'Elisa, tranquillamente, dopo essersi fermata qua e là ad accomodarsi il cappello e a serrarsi la veste sul collo, si lasciò andare ed uscì al largo, fuori dei pali; e il Maggiore le tenne dietro.... ma non era buono di raggiungerla.

— Contessa!... Contessa!...

— È lei, Maggiore? — L'Elisa, come al solito, nuotava di fianco; però meno del giorno prima perchè l'acqua era più morbida e non lasciava distinguere bene altro che il biancastro dei piedi e delle braccia.

— L'acqua oggi è buona, — cominciò il Maggiore, che faceva fatica a seguire la Contessa.

— È anche troppo calda!

— La prego.... Vada un po' più adagio.... Contessa! Così io non posso tenerle dietro.

— Non voglio che mi tenga dietro.... Lei ha risoluto di compromettermi ad ogni costo!

— Se ha tanta paura di compromettersi allora dovrei credere ch'è proprio vero quanto m'ha narrato la Contessa.

— Non so che cosa mia figlia le abbia detto; io la prego soltanto di ritornare indietro.

— E se non volessi ubbidirle?

— Ho da fare, spero, con un gentiluomo.

— Ma la Cecilia mi assicurò in fine.... che lei non aveva detto ancora l'ultima parola.

L'Elisa s'era messa a nuotare un po' più lentamente, socchiudendo gli occhi ai buffi d'aria umida, che le sfioravano la faccia come una carezza: il Maggiore le si era avvicinato, e guardava sott'acqua.

— Crede lei che la dica proprio volontieri quella parola?.... Certe cose, sa, una donna come me, non le dimentica mai.

Il Maggiore guardava il collo dell'Elisa che appariva sotto i riccioli biondi bagnati, di una bianchezza incantevole: ma non ne vedea più di due dita: il cappellone colla larga tesa abbassata e la veste scura serrata alta, lo nascondevano quasi tutto.

— E chi l'obbliga a dirla?

— Mia figlia.... e mio genero. Se sapesse che bocconi mi tocca di mandar giù, che dispiaceri ho dovuto soffrire per lei!....

— Per me?

— Certo, perchè tanto mia figlia quanto il D'Abalà mi fan capire anche quello che non hanno il coraggio di dirmi.... Pur troppo non sono stata sempre padrona di me stessa.... pur troppo.... Ma già lei lo sa bene!.... Mia figlia e mio genero insomma mi fanno capire che se un giovane onesto, leale, un gentiluomo, mi offre la sua mano, il suo nome, io dovrei.... dovrei dimenticare tutto, anche il passato, e accettarla.

A questo punto, l'Elisa, quasi che si sentisse stanca anche lei, si voltò di contro al Maggiore e provò un momento a fare il morto. Ma un momento solo; che tornò a voltarsi subito, rapidamente, appena vide gli occhietti del Maggiore luccicare sotto il cappellone.

Questi però le si avvicinò nuotando con orgasmo e:

— Lo ami quel bamboccio? Lo ami proprio? — le domandò commosso e inquieto.

— Certo; se mi deciderò a diventare sua moglie, dopo, lo amerò certamente.

L'Elisa, detto ciò, si fermò un momento e si tenne ritta nell'acqua per accomodarsi, alzando le due braccia, i capelli, che pareva le si sciogliessero, poi si allungò di nuovo e continuò a nuotare adagio adagio.

— Ma adesso.... oggi.... lo ami?

— A lei.... che cosa importa a lei di saperlo?

— Importa anzi moltissimo.

— Perchè?

— Perchè io sono franco; e ti confesso che un po'.... un po' credeva che mi fosse passata.... ma alla sola idea.... che.... che tu possa.... che tu abbia un altro.... insomma.... sento di.... sento che non lo potrò mai sopportare.

Il Maggiore, fosse l'emozione, fosse la stanchezza, respirava così affannosamente da non poter tirare più innanzi.

— Sei stanco?.... — gli chiese l'Elisa fermandosi e non facendo che qualche lento movimento per tenersi a galla.

— Oh! No.... ti pare?.... vengo avanti quanto vuoi.

— Prova ad appoggiarti con una mano sul mio braccio, ma tienti leggero, sai; — e l'Elisa, gli distese il suo braccio bianco, sodo, rotondo, la sola bellezza perfetta che ancora le fosse rimasta. Il Maggiore vi si appoggiò sopra, ma con tutte due le mani e così forte, che per poco non andarono sott'acqua tutti e due.

CAPITOLO XI.

Appena Prandino vide la Contessa uscire al largo ed il Maggiore tenerle dietro ed accompagnarsi con lei, non si potè più contenere. Dimenticò la prudenza, i rispetti umani, le ingiunzioni stesse della D'Abalà: dimenticò Gegio che s'era messo a correre per la terrazza, e scappò via pallido, concitato. Voleva buttarsi in mare, voleva raggiungere la perfida.

Strepitò per aver presto la maglia e la biancheria. Intorno al casotto del guardaroba c'era ressa, essendo arrivati allora i tramways del vaporetto delle quattro: e siccome lì, subito, non trovò nemmeno un camerino disponibile, sebbene avesse promessa una lira di mancia al bagnaiolo, si spogliò in fretta e in furia in un passaggio vuoto, fra due corridoi, bestemmiando i santi del paradiso e strappando i bottoni di quell'abito nero, che in tanti anni di onorato servizio, non si era mai sentito trattare con così poco rispetto. In un attimo svestito, infilò la scaletta della riva che non avea ancora finito di allacciarsi la maglia; ma appena nell'acqua, quando, fatti i primi passi, si buttò lungo disteso per nuotare e raggiunger più presto la Contessa, si sentì afferrare improvvisamente per una gamba. Sternutando, chè era andato ben sotto colla testa, si voltò furioso per dir la sua a quel villano che gli avea fatto quel tiro, e uno scroscio continuo di spruzzi d'acqua, accompagnati da una sonora sghignazzata, lo percosse sul viso.

— È una mancanza di educazione! È un'impertinenza! — urlò il contino degli Ariberti accecato dall'acqua e dall'ira.

— Ah! ah! ah! Il nostro Prandinello!.... Il nostro Prandinello che beve!....

Misericordia!.... Lo screanzato, l'impertinente era nientemeno che il cavalier Pinocchio!

— Uno spruzzetto, un altro, un altro ancora!.... Così! Ah! ah! ah! Che faccia buffa, che mi fate.

— Scusi, Cavaliere!.... Scusi.... sa.... non l'aveva riconosciuto!.... Ma avrò il bene di rivederla più tardi! — E Prandino fa di nuovo per mettersi a nuotare; ma il cavalier Pinocchio, che quel giorno era proprio di buon umore, continua a ridere e torna a prenderlo per una gamba.

— Scusi, Cavaliere; mi lasci andare!....

— E dov'è, dov'è che vuol andare il nostro Prandinello? — Da bravo! Rimanete un po' qui a farmi compagnia....

— Ma, volevo....

— Io sono un cattivo nuotatore, anzi, vi dirò che non so nuotare nè punto nè poco.

— Ma....

— Sapete?.... Ho scritto per voi a Verona, sicuro, al Capo-traffico.

— Grazie....

— Che volete! L'Orsolina mi sta proprio a cuore. Quella è una santa madre, ma santa davvero!.... Potete proprio dire d'esser nato colla camicia!.... La vostra mamma si leverebbe il pane di bocca per darlo a voi, sciupone d'un don Giovanni!

— Lei scherza, Cavaliere, ma adesso vorrei....

— Vedete, Prandinello, il morto, lo so fare — e così dicendo il cavalier Pinocchio si distese sull'acqua supino — ma se fo un movimento, non c'è verso, bevo!.... Aspettate, dovreste provare un po' voi a mettermi le vostre due mani sotto la vita: così.... bravo!.... Restate fermo adesso, non vi movete!

— Ma.... — e Prandino, mentre teneva il Cavaliere, fissava cogli occhi imbambolati i due cappelloni gialli della Contessa e del Maggiore che si allontanavano lentamente sullo specchio turchino del mare.

— Come vi dicevo, ho scritto a Verona, al Capo-traffico, e m'ha già risposto.... Ah, quant'è buona oggi l'acqua!.... È proprio un piacere! Voglio provare adesso a muovere prima le braccia e poi le gambe.... ma voi state fermo, sapete, se no, vado sotto. Benissimo! così! bravo!.... Uno-due!... Uno-due!.... Uno-due!.... Uno-due!.... — e il cavaliere Pinocchio continuò per un pezzo a fare i movimenti di scuola, sempre sostenuto da Prandino, che non aveva il coraggio di lasciarlo andare, e intanto vedeva l'Elisa e il Maggiore confondersi insieme nella lontananza, così da sembrare quasi un punto solo.

— Ah! che bagno delizioso!.... Uno-due!... Uno-due!... adesso voglio provare.

— Ma scusi.... — A Prandino gli pareva che i due cappelloni di paglia si fossero fermati.

— State fermo! Forza, mi raccomando! Adesso vorrei provare a distendere insieme le braccia e le gambe.... Ah, come me la godo!.... Come me la godo!

— Ma io.... — Prandino si sentiva male: il punto giallo non si moveva più.

— Dunque, il Capo-traffico m'ha risposto che sareste chiamato in servizio provvisorio fra pochi giorni e che forse.... Uno-due!... Uno-due!.... forse sarete destinato per l'appunto alla contabilità della divisione di Vene.... No! No!.... Non vi movete! non mi lasciate andare!.... Vado sotto!.... Vado sot.... — e il cavalier Pinocchio non potè finire la parola, perchè era andato sotto davvero. Quando, soffiando e sbuffando, potè di nuovo levarsi su, ritto, Prandinello era scomparso.

Che cos'era accaduto? — Un avvenimento che poteva avere del tragico. Mentre Ariberti, colle braccia tese, teneva a galla il cavaliere Pinocchio, e col cuore correva dietro all'Elisa, sentì all'improvviso la vocetta aspra della Cecilia, che lo chiamava forte dalla terrazza.

— Conte Eriprando! Conte Eriprando!

Il Conte Eriprando levò il naso all'aria e vide la D'Abalà che gestiva contro di lui come una spiritata.

— Gegio! Dov'è Gegio?!.... Gegio!

A questo nome Prandino si ricordò del marmocchio che aveva piantato là solo, sulla terrazza e sudò freddo benchè fosse in acqua: lasciò andare a fondo il cavalier Pinocchio e corse via con uno sgomento in corpo che gli levò ogni altra preoccupazione.

— Chissà dove s'è cacciato! Chissà che cosa gli è accaduto! — pensava l'Ariberti mentre si vestiva in tutta fretta, senza nemmeno finire di asciugarsi.

— Gegio! Dov'è Gegio?! Gegio! — La Cecilia, spinta dall'angoscia, aveva superato ogni pudico ritegno, ed entrata nel compartimento riservato agli uomini, correva lungo il corridoio chiamando il bambino, seguita da Ramolini, al quale si unirono presto anche Potapow e Jamagata che, appena udite le grida della Contessina, uscirono dai rispettivi camerini.

Mais Gegio, ne prend-il pas le bain avec vous?

— No! Ieri s'era raffreddato e io oggi non aveva voluto che facesse il bagno. Gegio!.... Gegio!

Anche Prandino dovette pur farsi coraggio e mostrare la faccia: la D'Abalà, appena lo vide, gli si avventò addosso come se lo volesse pigliar per il collo.

— Mio figlio?! Dica! Che cosa ne ha fatto di mio figlio?....

Prandino, smorto, allibito, aprì la bocca per rispondere, ma non rispose nulla. Allora la D'Abalà non potè più reggere e scoppiò in un pianto dirotto.

— Si faccia coraggio, Contessa, si faccia coraggio, — le andava dicendo il Ramolini. — Se non è perduto.... lo troveremo di certo.

Anche Jamagata si provò a consolarla; ma Potapow lo apostrofò dicendogli che bisognava avere point de cœur, per credere di poter confortare una madre in un tal momento.

— Ma, mio marito?! Chissà che cosa farà mio marito, se non trovo più Gegio!.... Guai! Guai! — singhiozzava la Cecilia, poi rivolgendosi di nuovo contro Prandino. — Ringrazi Dio che l'avvocato D'Abalà non è qui! — esclamò, e di nuovo si mise a correre in cerca di Gegio, seguita da Ramolini, da Potapow, da Jamagata e da una frotta di curiosi, che si domandavan l'un l'altro che cosa era successo.

— È una signora che ha perduto suo figlio!

— No, gli si è annegato il marito.

— È una contessa forestiera.

— È una principessa di Roma.

— Oh! che disgrazia!

— Le si è annegato il marito, mentre voleva salvare suo figlio!

— Povera signora!.... in quello stato!....

Intanto che tutte queste voci facevano il giro dello stabilimento, ingrossandosi e facendosi più gravi a ogni passo, la Cecilia continuava a correre, come meglio poteva, dai corridoi al caffè e dal caffè alla terrazza, chiamando Gegio e l'avvocato D'Abalà. Prandino la seguiva, abbattuto, con una faccia stralunata, pensando a ciò che gli avrebbe detto l'Elisa quando, uscita dall'acqua, sarebbe venuta a sapere che non trovavano più il suo nipotino, e di tratto in tratto levava gli occhi smarriti in faccia a Ramolini, come se aspettasse da lui la propria sentenza.

— Mah!.... — gli disse una volta il Cavaliere con una reticenza più lunga e però più grave del solito. — Mah!.... i figli degli altri!.... — e non aggiunse parola.

La Cecilia, percorsa un'altra volta tutta la terrazza, attraversato di nuovo il caffè, uscì fuori dallo stabilimento e giunta in mezzo al ponte, sulla spiaggia gridò ancora, con quanto fiato le era rimasto: Gegio! Gegio! Gegio mio!....

— Mamma, mamma, son qua! — rispose finalmente di lontano la voce stridula del monello e giù, sulla riva, tutto coperto di sabbia e di terriccio giallo si vide muoversi un coso che aveva più del scimiotto che dell'umano.

Era Gegio, che s'era preso il bel gusto di seppellirsi vivo sotto la sabbia.

Sua madre, ravvisandolo appena, diè in un grido di contentezza: pareva matta dalla gioia, povera donna! ma appena se lo ebbe dinanzi e lo vide così sucido, tutta la sua espansione si arrestò di botto, cambiò viso, e, preso il figliuol prodigo per un orecchio, se lo tirò dietro a quel modo, strapazzandolo come una bestia ed applicandogli ad ogni tratto scapaccioni tutt'altro che amorevoli.

Jamagata, Potapow, Ramolini e tutti gli altri ch'erano lì intorno fecero gran festa alla madre e al figliolo. Prandino solo, quantunque adesso gli si fosse levato un gran peso dallo stomaco, tuttavia non era tranquillo del tutto: sentiva che, per lui, l'ultima parola della tragedia non era ancora stata detta. Difatti: in quanto a lei — gli gridò la D'Abalà, cogli occhi loschi e il nasino bianco — in quanto a lei, può dirsi fortunato che non ci sia stato qui mio marito!.... A quest'ora, guai!....

E la Contessina si pose una mano sugli occhi, come per non vedere lo scempio che dell'ultimo degli Ariberti avrebbe fatto il sottoprefetto D'Abalà.

— Ma è dunque un uomo terribile il marito della contessa Cecilia! — domandò più tardi il Ramolini, a cui pareva che premesse molto saperlo, in tutta confidenza a Prandino.

— Oh! no; anzi, si figuri! È un omettino piccolo, magro, che trema dinanzi a sua moglie e che non ha mai fatto carriera, perchè ha troppa paura delle dimostrazioni.

CAPITOLO XII.

Ciò che non principia bene finisce male, e il conte Eriprando degli Ariberti non potè proprio dire che quella giornataccia infame avesse fatta per lui un'eccezione alle regole.

L'Elisa era mesta e preoccupata, e il Maggiore, invece, sembrava molto allegro: e pazienza se la cosa fosse rimasta lì; ma quando Prandino, dopo pranzo, andò al banco, secondo il solito, per pagare il conto, trovò che i due pranzi, quello della contessa Elisa e quello della contessina Cecilia, erano già stati pagati dal Maggiore.

— Corpo di bacco!.... — Prandino corse subito dalla D'Abalà, inquieto e sorpreso, e n'ebbe, in risposta, ch'ella non aveva preso lui per suo segretario.

Anche al Florian, più tardi, successe pure qualche cosa di simile. Il Maggiore, che s'era piantato duro sulla sedia accanto all'Elisa, con un'aria da padrone del campo, invece di aspettare che ognuno ordinasse le bibite per conto proprio, domandò egli stesso prima alle signore, e poi al resto del circolo, che cosa volessero prendere, mostrando chiaro ch'era lui che faceva trattamento. Naturalmente, Prandino, quantunque da un'ora bruciasse dalla sete, non prese nulla per far dispetto al rivale. Siccome, poi, tutti gl'infelici sono fatti per intendersi, così invece egli sentiva slanci di simpatia per il povero Jamagata, che si mostrava melanconico, perchè si vedeva assai trascurato. L'Elisa non gli parlava mai, era timidissima col Maggiore, e voleva sua figlia sempre seduta accosto, come se avesse paura a star sola in mezzo agli uomini.

Prandino, che aveva giurato a sè stesso, dopo rinfrancato dallo spavento per la scomparsa di Gegio, di non parlar coll'Elisa e di non mettersi vicino a lei in tutta la sera, volendo punirla in tal modo per la sua gita in mare, dopo la sorpresa dei due pranzi pagati e dopo il contegno tenuto dal Maggiore al Caffè, non ebbe più coraggio di tirarla innanzi col broncio; capì che sarebbe stato troppo infelice se fosse andato a letto con quel tormento di gelosie e d'inquietudini nel cuore, e però si fece animo, e quando tutti s'eran levati in piedi per ritornare all'albergo, offrì lui il braccio all'Elisa in un modo così risoluto che la Contessa non glielo potè ricusare.

— Mi avevi promesso che a Venezia saresti stata buona, mi avevi giurato di non darmi nessun motivo di gelosia; ti ringrazio, sai, ti ringrazio del bel modo col quale mantieni la tua parola.

E Prandino sorrise amaramente, aspettando che l'altra lo rimproverasse come al solito, dicendogli che era matto, che i suoi dubbi erano ingiusti, che si faceva insopportabile, ma come al solito concludendo poi che gli voleva bene.

Invece nulla di tutto questo: l'Elisa chinò il capo e Prandino sentì contro il braccio il seno di lei che si gonfiava per un grosso sospiro.

Prandino la fissò agitatissimo e — Perchè sei uscita al largo col Maggiore? — le domandò — perchè?.... — ma questa sua domanda era fatta in modo che pareva più un lamento che un rimprovero.

L'Elisa continuò a tacere e a sospirare.

— Mio Dio.... che cosa c'è di nuovo?.... parla!.... mi fai morire!

— Non morrai, no; tu sei giovane.... hai tutto l'avvenire per te, e poi.... tu sei un uomo, tu; e ciò vuol dir molto.... mentre io invece....

— Per amor di Dio, che cosa è accaduto?

— Nulla.... nulla.... calmati adesso....

— Che cosa è accaduto, parla!

— No.... adesso no; non posso.... ma tu ricordati questo, che io sono molto infelice.... e che vi sono tali necessità nella vita, alle quali bisogna chinare il capo e rassegnarsi.... côute que côute!

— Ma io non voglio... — cominciò Prandino, alzando la voce.

— Non fate scene adesso, non fate il ragazzo!

E l'Elisa spaventata, abbandonando in un attimo il tono languido, fermò subito le parole in gola al suo innamorato; ma poi, vedendo che l'altro non fiatava più, ritornò buona, ritornò tenera, per dirgli con affetto: — Domani saprai tutto.... ma, te ne scongiuro, sii generoso.... non rendermi più infelice di quello che sono.... ricordati che da te.... bambino mio, aspetto una parola che mi dia coraggio.... e che mi conforti.

Detto ciò, mentre Prandino la guardava bianco, pallido, senza esser più buono di proferire una parola, l'Elisa si fermò per aspettare la Cecilia e il Maggiore, ch'erano rimasti un po' indietro, e unirsi col rimanente della brigata.

Quella notte il povero Prandino la passò male. Ormai non ne potea più dubitare: l'Elisa e il Maggiore se la intendevano fra di loro.

Aprì i vetri, spalancò le persiane e, in maniche di camicia, rimase là, lungamente, appoggiato alla finestra, guardando di lontano, fra i tetti, una striscia di laguna illuminata dalle fiamme rossiccie del gas e bevendo, come altrettanto veleno, quell'aria pregna degli aromi acuti del mare, respirando quei buffi caldi che penetrano nel sangue con una mollezza voluttuosa e che sembra allarghino il cuore con un bisogno inconscio e irresistibile d'amore.

Maledetta Venezia! Se fosse rimasto a Vicenza, credeva lui, avrebbe sofferto meno.

Aveva la testa che gli bruciava, il cuore gonfio, e non poteva piangere. Si sentiva pieno di lagrime fino alla gola, ma non gli volevano scoppiar fuori. Se avesse potuto piangere, forse sarebbe rimasto un po' più sollevato.

— “Domani saprai tutto?!„ E che cosa può dirmi che io già non abbia indovinato? Non sono già un imbecille, capisco le cose per aria, io! Non ama più me, e torna daccapo ad amare il Maggiore! Ecco la bella novità che mi dirà domani! Ma io non resterò qui a sentirmela dire, nemmeno per sogno; che! Domattina me ne ritorno a Vicenza.... e non mi vedrà più, no; mai più!... Se aspetta da me “la parola di coraggio e di conforto„ la aspetterà un pezzo. A sentirla lei, dovrei dunque farle coraggio, perchè mi pianta?... Dovrei confortarla, perchè mi tradisce? Questa è nuova davvero! “ Ricordati che io sono molto infelice! „ Ma perchè lo vieni a contare a me, se sei infelice?... A me, che lo sono più di te e per cagion tua?

— Però.... però, qualche cosa ci deve esser sotto, — pensava Prandino abbandonando la finestra e camminando in su e in giù nella cameretta, mentre si spogliava, — qualche cosa ci deve esser sotto. È impossibile che sia così cattiva di cuore. Certo, certo quella strega della D'Abalà, c'entra in gran parte nella faccenda. Sembra che sia lei innamorata del Maggiore. È con lui tutta moine, tutta finezze.... Maledetta!... Quello che ha in corpo, scommetto che non è un figliolo: ma è un sacco di malignità! Ma io vorrei sapere perchè l'Elisa deve sottomettersi a sua figlia, e rendersi infelice lei, e far infelice me, per i capricci e le simpatie di casa D'Abalà. — Che il Maggiore la voglia sposare? Senza dubbio, non può essere altrimenti. Ma se avesse aspettato due o tre anni, quando avessi avuto uno stato, l'avrei sposata io.

A questo punto, Prandino chiuse le finestre, spense il lume e entrò nel letto: egli sperava, allo scuro, di poter avere un po' di riposo, ma invece si trovò peggio. Vedeva il numero 40 fra le braccia del numero 43, e nell'eccitamento della fantasia, il numero 40 era ancora più bianco, ancora più biondo, ancora più bello del solito, e il 43 più nero, più vecchio, più brutto: — e il povero ragazzo si voltava smaniando nel letto, mentre le zanzare, ch'erano entrate in camera dalla finestra, ch'egli avea lasciata aperta per tanto tempo, col lume acceso, gli raddoppiavano l'agitazione e il tormento.

Ah! se non fosse stato povero, allora.... allora l'avrebbe sposata lui subito, domani. Ma con duecento quindici lire, non poteva già pensare di metter su casa! Che figura farebbe egli adesso, a Vicenza, quando vi fosse giunta la notizia del matrimonio della Navaredo con Del Mantico! Lui si sarebbe serrato a chiave nella sua camera, senza farsi più vedere da nessuno.

Già, sarebbe morto presto, così non la poteva durare!... No: no! A costo di finirla lui.... Sarebbe andato lontano lontano, colle lettere e i capelli dell'Elisa in tasca, e quando avesse trovato un precipizio in riva al mare, un bel salto.... e buona notte: egli avrebbe finito di soffrire.... e di far ridere quei pettegoli di Vicenza!... Ma tant'è, il numero quaranta restava però sempre fra le braccia del numero quarantatrè!...

La calma che si era fatta nel suo spirito, pensando di morire placidamente sotto l'acqua fresca del mare, si dissipò di nuovo a quell'idea tormentosa.

Ritornò ad agitarsi nel letto, a sospirare, a dolersi, e a poco a poco le angosce crebbero in modo, ch'egli non potè più reggere a sopportarle.

Era andato tutto in sudore: nella cameretta bassa, angusta soffocava dal caldo, e le zanzare gli ronzavano a torme sulla faccia, moleste e insistenti, aumentando il suo affanno colle loro punture irritanti.

Saltò giù dal letto, accese il lume, si vestì in fretta e uscì dall'albergo per respirare. Quando fu in piazza San Marco una folata di vento gli portò via il cappello. Prandino gli camminò dietro, triste, melanconico, e se lo calcò in testa senza nemmeno pulirlo. Tant'è; adesso che l'Elisa non gli voleva più bene, che cosa gliene importava a lui della sua roba?...

Il cielo era coperto, la piazza buia: entrò sotto le Procuratie squallide, deserte, e si sedette sospirando sopra una seggiola del caffè Florian. Nemmeno al fresco trovava il sollievo ch'egli aveva sperato. E pensare che quei pochi giorni di cura a Venezia, dovevano essere il suo paradiso!... E pensare che se li sognava da un anno! Mah!...

Per sentire un po' di sollievo, lo sapeva bene lui che cosa gli sarebbe bisognato!... Trovare il modo di vendicarsi di quella brutta strega della D'Abalà!... Ecco, questo gli sarebbe bisognato; perchè era lei la causa di tutto; era lei, lei sola, che nascostamente attizzava il fuoco. L'Elisa era una donna debole, senza volontà e forse....

— Oh! guarda chi vedo!... Il nostro caro Prefetto!

Prandino levò la faccia sbattuta dalla veglia e vide Badoero che usciva da Florian in compagnia di tre o quattro giovinotti.

Ciao, Badoero.

— Che fai qui solo solo?

— Prendo il fresco....

— Vieni con noi da Bauer?

— Ti avverto che Bauer ha già chiuso a quest'ora, — disse a Badoero uno della comitiva.

— Se troveremo chiuso, non ci sarà gran male: andremo a battere a qualche altro Caffè. Su, su, levati, giovine sentimentale, e vieni con noi! — e Badoero, preso Prandino per un braccio, lo costrinse a levarsi in piedi.

— Io proporrei di andare a battere dall'Emma! — esclamò uno di quei giovinotti, per lanciare un frizzo a Badoero.

— Nossignori! — rispose questi con fatuità, — dall'Emma non c'è posto per tanta gente! — poi, fermandosi su due piedi: — vi presento mio cugino, il conte degli Ariberti, — disse indicando Prandino alla comitiva.

Finito lo scambio dei complimenti, si avviarono tutti verso la Birreria Bauer; Badoero, allora, prendendo Ariberti a braccetto e tenendolo un po' più indietro degli altri:

— Dimmi, caro prefetto, — gli chiese a bassa voce, — la Contessa t'ha proprio messo in disponibilità, per questa notte?

— Non ti capisco!

Ma Prandino, che invece capiva benissimo, sentì un'ondata di sangue caldo, che gli saliva alla testa.

— È arrivato il Maggiore.... e ti mandano a passeggiare!... Eh! che vuoi farci? Le donne, vecchie o giovani, quando vedono i bottoni lustri, perdono la testa.

— Ma...

— È destino comune, e non c'è che fare; bisogna rassegnarsi, Prandinello mio!..

Prandinello!... Anche Badoero lo chiamava Prandinello come il cavalier Pinocchio!...

Ariberti, però, non se la prese con Badoero per quelle parole, ma invece gli proruppe nel cuore un impeto d'ira, quasi di odio, contro l'Elisa. Sentì allora, per la prima volta, che fra lui e quella donna era proprio tutto finito. Difatti, se anche l'Elisa, per un'ipotesi, avesse ripreso a volergli bene come prima, tanto e tanto nell'opinione del mondo egli oramai non era più il suo amante. E l'opinione del mondo, si sa bene, presta a certi amori le loro più care attrattive. Prandino però non volle mostrare al cugino che egli soffriva per quello smacco. Invece si sforzò di fare il disinvolto, di parer spiritoso e lieto confessando a Badoero che il Maggiore capitava proprio in punto a sollevarlo d'un grande imbarazzo. Lui non negava di aver amato l'Elisa, e molto: ma adesso quella catena gli si faceva ogni dì più pesante; insomma, era stufo di rappresentare il moroso de la nona a tutto pasto, e domandò a Badoero se non trovava che oramai la contessa Navaredo era una donna andata. Egli sperava che Badoero gli dicesse di sì; sarebbe stato un conforto al suo dolore.

Andata proprio no, — rispose Badoero: — Certo, comincia a essere un po' troppo grassa, ma si conserva ancora piacente e poi sa truccarsi bene, come dice l'Emma.

Da Bauer, com'era stato previsto, si trovò chiuso. Allora, tutti insieme, tornarono indietro brontolando; chi voleva andare in un luogo, chi in un altro, e nessuno riusciva a trovare una proposta che ottenesse l'approvazione generale. Intanto, aspettando l'idea buona, che non capitava, si sedettero per un momento al Caffè Svizzero, dove ci doveva essere, dicevano, della birra inglese in bottiglia, eccellente. Prandino, che aveva sete e sentiva qualche brivido di freddo in quell'aria umida della piazza, ne tracannò in fretta due tazze, sebbene nell'andar giù gli bruciasse la gola e lo stomaco.

— Sapete che cosa dobbiamo fare? — saltò su a proporre Badoero da un momento all'altro, — andiamo a giocare un'oretta al lansquenet?

— Sì, ma dove? — chiesero gli altri.

— Dal sior Angelo a la Cuca. Tanto, se trovassimo chiuso, quando ci facciamo conoscere ci aprono subito.

— Allora paghiamo, e partenza per la Cuca!...

Garçon! — gridò Badoero, che s'era levato in piedi, chiamando il cameriere dalla vetrata della bottega.

— A me sai, Badoero, — disse Prandino facendo una smorfiaccia colla bocca, — quella tua birra ha fatto male. Mi brucia lo stomaco, mi brucia, come se avessi bevuto del fuoco.

— È nulla; le prime volte fa sempre così, ma poi ci si abitua. La birra inglese è come il sigaro, bisogna avvezzarcisi.

— Se ha un po' di nausea, prenda un bicchierino di cognac e le passa subito, — suggerì un altro signore della compagnia.

Prandino accettò il consiglio, bevette il cognac e subito dopo gli sembrò di fatti di sentirsi un po' meglio. Allora dal suo famoso porta-biglietti colla corona d'argento, levò una carta da due lire e l'offrì al cameriere perchè si tenesse la spesa.

Il cameriere prese il biglietto con due dita, invece di riporlo lo tenne levato per aria fissando Ariberti.

— Che cosa paga il signore?

— Un cognac e una bottiglia di birra.

— Allora formano cinque e trenta, in tutto.

— Ma non pago altro che la mia birra.

— Appunto, cinque lire della bottiglia, e sei soldi del cognac.

— Per bacco! — pensò Ariberti fra sè, — cinque lire per sentirsi male, mi pare un po' caro!

Tuttavia pagò senza altre osservazioni, chè non voleva perdere il credito fra le sue nuove conoscenze.

Strada facendo, mentre tutti si avviarono verso la Cuca, gli venne addosso, col calore del cognac un gran bisogno di espandersi e confidarsi a qualcuno.

Allora fu lui che si prese Badoero a braccetto, e dopo d'essersi fatto promettere il segreto — in parola d'onore — gli contò che la contessa Navaredo si era condotta molto male con lui.

— Certo che per me è stata una fortuna, perchè proprio ero stufo, ma questo non vuol dire; resta sempre il fatto che s'è portata malissimo. Del resto, te lo dico io che al signor Maggiore non gliene voglio. Oh no, davvero: anzi, quando lo vedo, son quasi tentato di fargli i miei rallegramenti; si diverta, si diverta, se può, ch'io già non lo invidio di sicuro!

E qui, Ariberti tornò daccapo a voler persuadere il cugino che la Contessa oramai era una donna sciupata, mentre invece, un anno o due prima, quando l'aveva lui.... allora sì che era davvero un tipettino da far girare la testa. A Vicenza, allora, quando l'Elisa passava per le strade, si voltavano tutti a guardarla. Ma adesso?... Adesso era tutt'altra cosa.

Alla Cuca le imposte erano chiuse, ma dalla luce che usciva dalle fessure si vedeva bene che dentro c'era ancora della gente. Allora picchiarono forte colle mazze sulle persiane delle finestre a terreno, finchè fu aperta a metà la porta della bottega e furono introdotti da un omiciattolo in maniche di camicia e colla faccia assonnita, che accolse i nuovi avventori brontolando fra i denti.

Nella sala c'erano seduti in un angolo due o tre operai colle facce accese dal vino e dal caldo che guardavano di sbieco quelle grinte aristocratiche che entravano là dentro, in casa loro.

Ma gli amici di Prando non si fermarono a terreno; invece, salirono su per una scaletta ripida, angusta, ed entrarono in una stanzuccia al mezzanino, dove si sentiva forte il puzzo della pipa mescolato coll'odor grasso dei cibi.

Il cameriere accese il gas, spalancò i vetri della finestrina, distese sul tavolo di legno greggio un tappeto macchiato d'unto e di vino, e poi domandò ai signori che cosa volevano ordinare.

— Porta del Chianti, di quello vecchio, del ghiaccio e tre mazzi di carte nuove.

Il cameriere uscì, e rientrò poco dopo con un gran fiasco di vino sotto il braccio, un tazzone in mano, con dentro del ghiaccio, e i tre mazzi di carte che gli gonfiavano le tasche della giacchetta.

— Giochi anche tu, Ariberti? — domandò Badoero a Prandino, che in quella stanzuccia bassa, infocata dal gas, sudava tanto, che gli pareva di essere in un forno.

— A che si gioca?

— Al lansquenet.

— Al lansquenet? — Non lo ricordo bene, — rispose Prandino, che invece quel giuoco non lo conosceva punto.

— Oh, è facilissimo: non puoi sbagliare! Guarda: io tengo banco e scopro due carte: la prima è il due di spade, la seconda il cavallo di coppe. Se adesso, sfogliando il mazzo, scopro prima un due qualunque, ha vinto il banco: se invece è un cavallo, ha vinto chi punta.

— E quanto si punta?

Prandino era sbalordito: la birra bevuta, il cognac, quel caldo soffocante e i dispiaceri che gli cocevano nell'anima, tutto ciò lo faceva star male.

— Facciamo il solito? — domandò Badoero, guardando in giro i suoi compagni.

— Sì, il solito! — risposero insieme, meno Prandino, ch'era nuovo della partita e non ne sapeva nulla.

— Allora, — e Badoero si volse a Prandino, — non puoi puntare meno di cinque lire. Se vuoi, perchè tu veda meglio com'è il giuoco, faremo una levata noi due soli.

Ciò detto, il giovinotto cominciò a sfogliare le carte con una prestezza che mostrava come ci avesse fatto la mano, e si fermò, che aveva scoperto il due di denari.

— Ecco, è fatto: ha vinto il banco.

— E io?... — domandò Prandino, alzando d'in su la carta due occhi stanchi, melensi.

— Tu hai perduto cinque lire; ma se invece di un due fosse uscito prima un cavallo, le avresti vinte. Capisci?...

— Ma....

Prandino ancora non era entrato bene nel congegno, pur semplicissimo, del giuoco.

— Aspetta: per farti veder meglio, faremo un altro colpo.

Badoero tirò da una parte le carte sfogliate, e ne scoprì sul tavolo due nuove: la prima era un sette di denari, la seconda un tre di bastoni.

— Sta attento, adesso: la carta del banco è un sette, la tua un tre.

E Badoero ricominciò a voltare le carte del mazzo, a una a una, prestamente. Scoprì un sette prima del tre.

— Ha vinto il banco anche stavolta, e tu perdi dieci lire.

— Ho capito. Se invece d'un sette era un tre, le dieci lire le vinceva io.

— No, ne avresti vinte cinque sole; ma siccome altre cinque le perdi già dalla puntata di prima, così avresti fatto pace.

— Adesso, dunque, si può giocare anche noi? — domandarono gli altri compagni, che, messi in ardenza dalla vista delle carte, erano stufi di restar là a guardare senza far nulla.

— Sì: puntate, signori!... Comincio il giuoco. Tu, Ariberti, se vuoi, puoi puntare anche più di cinque lire: io tengo qualunque posta.

Prandino giocava e beveva, e poi tornava a bere e a giocare mezzo stupidito.

Non riusciva a persuadersi a mettersi in testa ben chiaro che ognuno di quei gettoni d'osso, di un bianco ingiallito dall'uso, rappresentasse proprio il valore di cinque lire, e li puntava a casaccio, pazzamente, a due, a tre, e fino a dieci per volta!... La faccia gli si era fatta d'un pallore cadaverico, gli tremavano le mani e balbettava delle parole rotte, sconnesse che non avevano senso. In una giocata, chi teneva il mazzo avendo voltato un fante di spade così mal colorito da parere una puppattola invece d'un soldato: “To, to, la vecchia!„ si mise a urlare Prandino. — “Banco sulla vecchia! Voglio vedere se anche questa mi fa dannare! banco!„

Nessuno dei presenti rilevò l'ironia di tali parole: erano troppo assorti nel giuoco; ogni loro attenzione era là fissa, muta, instancabile, e non badavano ad altro.

Quando l'Ariberti domandò il banco, si levarono tutti dal loro posto e si avvicinarono a chi faceva il giuoco e voltava le carte lentamente; anche questi era pallido, convulso, e aveva un sorriso forzato che gl'increspava le labbra. Alla fine, dopo d'aver consumato quasi un mazzo di carte, scoprì il fante davvero, e Prandino guadagnò una grossa somma; tanto grossa che, se l'avesse conservata, avrebbe dato da vivere a lui e a mamma Orsolina per un anno, senza dover più ricorrere all'impiego promesso dal cavalier Pinocchio. Ma lui non se n'accorse neppure d'aver vinto. Tracannò d'un fiato un altro bicchiere di Chianti e sghignazzò borbottando che già le vecchie erano dalla sua e ch'egli sapeva bene come si dovevano prendere. Poi, tutte le volte che quel fante gli compariva dinanzi, sul tavolo, urlava, gli faceva dei brindisi e gli puntava sopra tutti i gettoni che aveva, senza nemmeno contarli.

Già, fossero state anche delle migliaia di lire, che cosa gliene sarebbe importato a lui? Se avesse avuto in mano il cuore e l'anima, anche il cuore, anche l'anima avrebbe buttato là su quel fante goffo, scolorito, che lo fissava con due occhi teneri, languidi, appassionati.... cogli occhi maledetti dell'Elisa!

Quando, dopo stabiliti gli ultimi tre giri, fu chiuso il giuoco e si cominciò a regolare i conti, Prandino era in perdita di ottocento cinquanta lire, che doveva a Badoero. E avrebbe perduto molto di più, se quei giovinotti avessero voluto approfittare del suo stordimento, ma invece, appena si accorsero che il conte di Vicenza era po' alticcio, gli rifiutarono delle puntate ch'egli gridava da ubbriaco.

Anche ottocento cinquanta lire, rappresentavano un disastro: il fallimento addirittura per il povero Prandino!

Fino a tanto però che rimase chiuso dentro in mezzo al fumo, alle carte, allo schiamazzo di quella bolgia infocata, non arrivò mai a comprendere la gravità della propria disgrazia; la prima idea l'ebbe soltanto quando si trovò fuori all'aperto in Piazza San Marco, coi buffi d'aria fresca, umidiccia, che gli snebbiarono la testa. Allora, per un momento, sperò di sognare, ma poi, quando si persuase ch'era desto, ci mancò poco che non impazzisse.

— Scusa, Ariberti, che cosa abbiamo detto che tu mi dovevi? — gli chiese Badoero, che col lapis prendeva appunti e faceva somme sopra un biglietto di visita.

— Non so!... Quanto?...

— Se non isbaglio i conti, dovrebbero essere ottocento cinquanta lire.

I conti del cugino erano giusti.

— Ma.... io.... io non le ho.... qui.

— Che importa?... si sa bene, nessuno viaggia colla Banca in tasca. Me le darai con tuo comodo.

Prandino respirò. Dunque c'era tempo, e fin che c'è tempo c'è vita.

— Se ci fosse giustizia, — continuò Badoero sorridendo, — la perdita di stasera te la dovrebbe pagare il Maggiore, perchè se lui non capitava a Venezia, tu forse, a quest'ora avresti in tasca ottocento cinquanta lire di più. Del resto, sei stato sfortunato, ma giocavi anche da matto, lasciatelo dire: ci volevi tu perchè io fossi buono di vincere, almeno una volta! bisognava proprio che tu venissi da Vicenza apposta per fare il miracolo!... io perdo sempre e tanto che, te lo dico in confidenza, per il giuoco di questo mese, in sul momento mi trovo un po' al verde; ma di ciò tu non devi darti pensiero, quando me le puoi far entrare per domenica, quelle ottocento cinquanta lire, mi basta e sono contento.

La vita tornava ad accorciarsi al povero Prandino.

— Per domenica?

— Sì, te ne sarò grato. In un'altra occasione, figurati!

E Badoero cambiò discorso, perchè gli amici si erano avvicinati per salutare il conte degli Ariberti, dovendosi dividere da lui: Prandino andava da una parte e loro dall'altra.

— Buona notte, signor Conte: già si fermerà ancora un po' di giorni a Venezia?...

— Sì.... probabilmente....

— Allora avremo il piacere di rivederla e di dargli la rivincita.

— Grazie....

— Buona notte!

— Buona notte!

Ciao, simpaticone!

Ciao....

— A proposito, scusa, — e il Badoero tornò indietro chiamando Prandino, — domani ti vedrò al Lido, sicuro, non è vero?

— Sì.... probabilmente. — Prandino, adesso stentava a capire che cosa gli dicevano.

— Bada di non mancare. La principessa di Lentz vuol conoscerti personalmente.

— Grazie!...

.... Domenica?... per domenica ci vogliono i denari?... ottocento cinquanta lire.... — pensava Ariberti provando dei brividi in tutto il corpo, che lo facean trasalire. — Come trovarle?... Dove?... Eppure ci vogliono, ci vogliono ad ogni costo; e ci vogliono per domenica!... Prandino tentò allora di ricordarsi che giorno fosse della settimana, ma non ci riuscì.

La piazza si stenebrava a poco a poco, triste, silenziosa. In alto, il cielo bigio era corso da una folla di nuvolacci nerastri, fra gli strappi dei quali rilucevano ancora qua e là alcune stelle con bagliori incerti, sbiaditi.

Prandino si sentiva stanco, disfatto: le gambe non lo reggevano più, gli dolevano i piedi ammaccati dalle scarpe, aveva la testa grossa, pesante, e stentava a tener gli occhi aperti. Gli sembrò per un momento che se si fosse lasciato cascar per terra lungo disteso, lo avrebbe preso un sonno così forte dal quale non si sarebbe svegliato mai più. Si avviò verso l'albergo, curvo, traballante, con un tremito di freddo, inciampando nelle pietre disuguali della via, chiudendo gli occhi ogni tanto per riposare.

Nel cortiletto angusto della Gondola d'oro, cominciava ad esserci un po' di movimento per alcuni viaggiatori che dovevan partire colla prima corsa, ma dal portiere si vedevano le imposte ancor tutte chiuse, mentre le scale erano deserte e i corridoi si prolungavano muti fra le tenebre.

Prandino salì lentamente, tirandosi su, appoggiandosi di tutto peso alla maniglia, fermandosi ad ogni branca. Quando arrivò al primo pianerottolo e sostò alquanto per prendere fiato, caso volle che il suo occhio cadesse proprio sopra una fila di scarpe e di stivaletti messi là in un angolo dal facchino che più tardi poi li dovea pulire e lustrare. Tutta quella roba faceva un'impressione strana, curiosa. Ogni oggetto pareva avesse non solo la fisonomia, ma indicasse la condizione e ritraesse i costumi e le tendenze del proprietario. Vicino alla calzatura coi chiodi del touriste, c'era il borzacchino coi bottoni di madreperla e le ghette colorate del commesso viaggiatore. Accanto alla scarpa risolata del marito, col tacco basso e la pianta larga, comoda, c'era lo stivaletto lungo, sottile della moglie: poi lo scarpone di panno del nonno, e il sandalo foderato di tela della nipotina e gli scarpini verniciati del damerino: insomma parea di vedere tutti gli ospiti della locanda, schierarsi là ad uno ad uno colle loro macchie di mota, co' loro frinzelli, colle orecchie basse e le bocche socchiuse al respiro, o spalancate ad uno sbadiglio. Prandino fissò lo sguardo in quella mandata di calzature finchè scoprì uno stivaletto che aveva le ghette chiare e il tacco molto alto, e un po' consumato internamente. L'Elisa calzava attillato e il suo passo non era più tanto leggero.... Lo guardò a lungo, e sentiva la tentazione di accarezzarlo, di baciarlo, di portarselo via, quando all'improvviso fu preso da un senso strano di dispetto, da un impeto acuto di rabbia gelosa, che lo risvegliò brutalmente da quel suo stato di dormiveglia: lì, sopra la ghetta chiara dello scarpino d'Elisa, era stato buttato uno stivale colla suola grossa all'inglese, e la tacca degli speroni nel calcagno. Prandino non aveva alcuna ragione di dolersi: era ben naturale che gli stivali del numero quarantatrè si trovassero insieme colle scarpe del numero quaranta! Ma tant'è, il povero innamorato non potea darsi pace!....

In quel punto lo prese un desiderio tormentoso di riavere le voluttà, l'amore dell'Elisa e il rammarico del suo paradiso perduto gli si mutò in un'angoscia disperata. Tuttavia quando rientrò nella sua cameretta, vedendo il disordine che c'era là intorno, e il letto sfatto, si risovvenne delle vicende di quella cattiva nottata, e pensò, raccapricciando, che sebbene quando ne usciva poche ore innanzi egli fosse già tanto infelice da voler morire, lo era ancor meno d'adesso che vi tornava!.... Come avrebbe fatto a pagare le ottocentocinquanta lire che aveva perdute?.... E bisognava pagarle per domenica, non c'era verso! Come avrebbe fatto?!... Smarrito, si guardò attorno per la cameretta, cercando un conforto. E gli pareva di scorgere viva dinanzi a sè la misera figuretta di mamma Orsolina, tutta chiusa nella sua vesticciola stinta e a rattoppi, curva sul tombolo, sciupandosi la vita pur di risparmiare un quattrino e poterla tirare innanzi colla famigliola.... Dove avrebbe trovato il coraggio di dire a quella povera donna: sai, mamma, ho perduto ottocentocinquanta lire!.... Prandino, così sconvolto, credette di vedere la mamma impallidire tremando a quelle parole, come s'egli le avesse dato una stilettata, e pianse smaniando, e si strappò i capelli finchè, spossato, affranto, si lasciò cadere, così vestito com'era, attraverso del letto.

Allora, mentre cedeva al sonno che gli pesava greve sulle pupille e che gli sperdeva dall'anima, a poco a poco, ogni memoria e ogni dolore, gli sembrò di fuggir via da quella vita maledetta, e chiuse gli occhi, provando un senso benefico di riposo e di pace, come se non dovesse riaprirli mai più!....

Ma invece, quantunque si svegliasse assai tardi, erano già suonate le tre, fu ancora in tempo di ritrovare tutti i suoi dolori che lo aspettavano pronti per tornare daccapo a farlo soffrire. Il suo primo pensiero, come di solito, corse subito all'Elisa e provò il senso d'un vuoto così grande, così profondo, che pareva gli mettesse le vertigini. Poi, subito, si risovvenne delle ottocento cinquanta lire che doveva a Badoero e a quel ricordo saltò giù dal letto, come se si fosse sentito scottare. Le ottocento cinquanta lire perdute erano di una verità così fredda e inesorabile, che Prandino cominciò a dubitare non fosse altrettanto sicura l'altra disgrazia: quella di dover perdere anche l'Elisa.

Non poteva forse aver inteso male?

Si ricordava che l'Elisa gli aveva dette queste precise parole: domani saprai tutto; dunque era cosa certa ch'egli ancora non ne sapeva nulla, e però, da quella parte, poteva ben darsi che il diavolo fosse meno brutto di quanto pareva. Già la speranza, colle donne, si acquista sempre e non si perde mai! E poi Prandino aveva certi fumi che gli annebbiavano il cervello: della mezza cotta della sera innanzi, gliene durava ancora almeno un quarto!

— Che! — pensava, mentre rimetteva un po' in ordine il suo abbigliamento — ella non può vivere senza di me: l'ha giurato tante volte! Chissà mai a che cosa voleva alludere co' suoi discorsi.... forse era tutto un ordito combinato ad arte, perchè io non avessi più lena di rimproverarla di essere uscita al largo col Maggiore. Se fosse così, è stata molto brava e le perdono in grazia dello spirito che ha avuto!

A questa idea consolante gli si allargò il cuore, e gli si dilatarono i polmoni tanto ch'egli, tutto consolato, cominciò a canterellare a mezza voce un'arietta in tempo allegro; ma poi gli si fecero innanzi le ottocento cinquanta lire tetre, minacciose come il Mane-Thecel-Phares di Baldassare, e gli strozzarono il motivo a mezza gola.

Tuttavia, siccome fino a domenica poteva respirare, non pensò, per il momento, se non a raggiungere l'Elisa.

La Contessa e la Contessina erano certo andate al Lido col solito vaporetto delle tre; non c'era più tempo da buttar via, bisognava sbrigarsi, bisognava correre per non perdere anche quello delle tre e mezzo.

— Signor Conte! Signor Conte! — chiamò il portiere, mentre Ariberti usciva in fretta dall'albergo.

L'Ariberti tornò indietro, chè il portiere non si sognava certo di scomodarsi per corrergli appresso.

— La contessa Navaredo cercava di lei.

— È ancora di sopra?

— No; è andata al Lido colla sua compagna, — alla Gondola d'oro non si sapeva che la D'Abalà fosse sua figlia — e col signor marchese Del Mantico.

— Perchè non chiamarmi?

— Credevo ch'ella fosse uscita.

— Dovevate informarvene.

— Poco male: al Lido la ritrova di sicuro. Già il vaporetto parte ogni venti minuti.

— Questa non è una buona ragione: un'altra volta fate meglio il vostro dovere.

Ciò detto, Prandino infilò la porta dell'albergo e ne uscì quasi di corsa, ed ebbe il sospetto che il portiere lo mandasse con cattivo garbo a quel paese; ma fu un semplice sospetto, chè, proprio bene, non intese ciò che quell'altro gli brontolò dietro.

Era una giornata fresca, di burrasca; la laguna era mossa, il cielo scuro, minaccioso, e il vento che soffiava forte contro i tendoni del vaporetto, ne rallentava la corsa, aumentando così l'impazienza e l'infelicità di Prandino.

Quando arrivò sulla terrazza, vide subito l'Elisa che stava appoggiata al parapetto, guardando il mare grosso, agitato, sul cui ondeggiamento d'un verde cupo, rotto qua e là da strisce più chiare, correvano, moltiplicandosi, creste mobilissime, bianche, candide come spuma di latte.

— E dunque? — le domandò l'Ariberti, quando le fu vicino, e con due occhi gonfi, umidi, fissò la Contessa che, per maggior disgrazia, gli pareva molto più bella del solito.

Elisa lo guardò con tenerezza, e poi, chinando la testa in aria di vittima rassegnata, sospirò così forte, da mettere in grave pericolo le maglie della sua giacchetta attillata.

— E dunque?.... — ripetè l'altro, col cuore che gli batteva violentemente.

— Dunque.... continuate a volermi bene, ma come a una vostra mammina.

E mentre il vento le portava sulla faccia e sul collo gli spruzzi freschi, voluttuosi, sollevati dai cavalloni del mare, che, rompendosi contro la spiaggia, correvano rumoreggiando sotto il tavolino scosso, traballante per quegli urti impetuosi, ella raccontò a Prandino, senza neppure un tremito, e senza nessuna reticenza, che aveva dovuto cedere alle istanze del sotto-prefetto, alle preghiere e alle minacce della Cecilia, e che si rassegnava, vittima dell'altrui volontà, a sposare il marchese Del Mantico, pel quale sentiva molta stima e punto amore.

Prandino la lasciò dire senza mai interromperla: non poteva parlare, perchè aveva la gola stretta, serrata. Rimaneva dritto in piedi, immobile, duro e mentre con una mano si teneva sodo il cappello contro la fronte, le lagrime gli colavano dagli occhi e dal viso smorto e si fermavano qua e là, luccicanti, sull'abito nero. Non vedeva nulla, nè l'Elisa, nè nessuno: vedeva solo il fondo buio, deserto del mare. Aveva il capo intronato dal vento e dal fragore delle onde, aveva il cuore rotto, spezzato; ma però sentiva bene, sentiva vivo, quel suo dolore così grande che lo avvolgeva tutto, che gli toglieva ogni altra forza, che gli levava dall'anima ogni altro sentimento.

Quando l'Elisa si allontanò da lui, egli la lasciò andar via senza fare un passo, senza nemmeno salutarla.

— “Guarda don Bartolo — sembra una statua!....„

Ciao, Badoero! — Alla voce del cugino, l'Ariberti si ridestò, si scosse: pare impossibile! Non poteva andare una volta sulla terrazza, senza incontrarsi in Badoero!....

— Sai? Oggi la Principessa non è venuta per il cattivo tempo. Sarà per domani.

— Come?.... Non avevi detto per domenica?

— Per domenica?.... Che cosa?....

L'Ariberti che avea inteso male, s'era spaventato a torto, ma non rispose nulla che spiegasse al cugino la sua interruzione.

— Vai a fare il bagno? — continuò Badoero senza badargli più che tanto — no, di certo, immagino, con questo tempo indiavolato. È vero che sei un nuotatore di prima forza, ma tant'è, non ci si diverte!.... Addio, Ariberti, corro in cerca di Potapow e di Jamagata, chè, oggi, non son buono di trovarli.

Ciao, Badoero!

In quella domanda del cugino — se andava a fare il bagno — Ariberti avea finalmente ritrovato un indirizzo, un'ispirazione, e uscì dalla terrazza col passo fermo, risoluto.

Era stanco di vivere e di soffrire, e lo consolava l'idea di perdersi lontano con tutti i suoi dolori e con tutte le sue angosce, in quell'onda sconfinata del mare.

CAPITOLO XIII.

Il conte degli Ariberti non sapeva ancora come sarebbe morto, ma voleva morire a ogni costo e per il momento gli bastava la certezza di farla finita prima di domenica.

Più di tutto lo seduceva l'idea di perdersi nella profondità del mare come un atomo che lentamente viene assorbito da una gocciola d'acqua, senza lotta e senza dolore. Gli pareva, una volta inghiottito da quell'enorme distesa di cavalloni verdastri, d'esser così ben sepolto che nemmeno la sua memoria non sarebbe più ritornata a galla; e così quei signori di Vicenza, dimenticandolo affatto, non avrebbero riso di lui per la brutta figura che faceva ad essere stato, in certo qual modo, messo in libertà dalla contessa Navaredo.

Ma anche il morire non è sempre una cosa presto fatta, e alle volte per quanto chi ci voglia riuscire, ci si metta di buona lena, non arriva a capo di nulla. Morire sott'acqua poi, nel caso di Prandino, nuotatore espertissimo, era un'impresa estremamente difficile.

Quando si trovò innanzi un buon tratto nel mare, portato dalle onde in su e in giù come da un'altalena, si determinò nel disperato proposito e si cacciò sotto risolutamente, ma fece fiasco. Per quanto lavorasse di braccia e di gambe, l'acqua lo riportava a galla dopo pochi istanti, e tornato fuori colla testa, doveva respirare per forza. Un'altra volta, dopo d'essersi tuffato, provò ad aprire la bocca: ma non fece altro che bere!....

Eppure non c'era verso!.... bisognava morire!.... Morire?.... Perchè morire?.... E a questo punto il fresco dell'acqua, che calmando il sistema nervoso del giovinotto, lo conduceva a più miti consigli, lo tenne prima un poco perplesso sulla decisione da prendere e poi addirittura lo fece cambiar di parere.

Morire?.... Chè! Vivere bisogna; vivere per potersi difendere dalle false accuse e dichiarare a tutti che non era stata l'Elisa la prima a piantar lui, ma che viceversa era stato lui a piantare l'Elisa! Bisognava vivere per vendicarsi del sottoprefetto D'Abalà a costo d'improvvisargli apposta una dimostrazione.... e, in tutti i casi, prima di morire voleva mostrare i denti alla Cecilia e, almeno una volta, provare il gusto matto di tirare le orecchie a Gegio! Sì, sì, bisognava vivere!.... Ma, e le ottocento cinquanta lire da pagarsi domenica a Badoero? Questo funesto ricordo lo sgomentò; si lasciò di nuovo calare a fondo e fece di tutto per rimanervi; ma, povero diavolo, anche questa volta non ci riuscì.

— No, no; bisogna morire! Coûte que coûte (come dice la perfida!) bisogna morire! — E poi, forse ch'egli avrebbe potuto vivere a Vicenza il giorno del matrimonio dell'Elisa col Maggiore?

I suoi amici che avevano tentato di soppiantarlo quand'era lui il fortunato, adesso gli domanderebbero — “se gli parevano dolci i confettini!„ E se il cavalier Pinocchio lo destinasse per il momento alla vendita dei biglietti e toccasse a lui, proprio a lui (quando ci si mette l'ironia del destino è così spietata!) toccasse a lui di staccare i biglietti per quel viaggio di nozze? — Bisogna morire! e Prandino chiuse gli occhi, abbandonandosi all'urto delle onde che gli si rompevano scroscianti contro la faccia.

Pensò, visto e provato che andar a fondo non poteva, di spingersi tanto innanzi nel mare, fino a raggiungere quella striscia scura, plumbea, che chiudea l'orizzonte. Allora, quando le forze gli fossero mancate, egli verrebbe travolto dai flutti e sommerso a poco a poco, senza nemmeno accorgersene.

Già, si capisce che non gli premeva molto di assistere con tutta la sua presenza di spirito a quel trapasso dalla vita alla morte: per quante ne dicano i misantropi, non è mai una gita di piacere! E poi, Prandino, tutti i gusti son gusti, avrebbe desiderato di morire dormendo. Intanto continuava a nuotare di lena e ad allontanarsi sempre più dalla riva. Dopo qualche tempo cominciò per davvero a trovarsi un po' stanco. Tuttavia continuò sempre a nuotare: era deciso! adesso però nuotava molto più adagio. Il vento gli sibilava acuto, molesto nelle orecchie e gli battea il viso, l'acqua salata gli bruciava gli occhi, ma egli non indietreggiava, avanzava anzi sempre verso il largo, rassegnato al suo destino, finchè sentì i primi brividi di freddo corrergli per la vita.

— Ci siamo! pensò, e Prandino fece il morto, tanto per cominciare.

La durò così ancora per qualche minuto, quando d'un tratto egli si sentì trasportare con violenza da una forza nuova, ignota, che lo trascinava velocemente. Spaventato, si allungò nell'acqua, per opporsi a quell'onda impetuosa, ma rotto com'era dalla fatica, ci riusciva a stento e capiva che presto egli sarebbe rimasto vinto, sopraffatto: era stato portato via da una corrente tanto più forte quanto il mare era più grosso.

In quel punto, Elisa, il Maggiore, la Cecilia e anche le ottocento cinquanta lire, gli si dileguarono in un attimo dal cuore e si risvegliò in lui prepotente l'istinto della conservazione. Fece, sforzi disperati, sovrumani.... ma, per quanto si adoperasse con tutto il suo vigore, non riusciva che a resistere all'urto dell'onda e a star fermo: retrocedere gli era impossibile.... Già, in breve, stanco, sfinito, non poteva più nemmeno tenersi a galla.... già l'onda vittoriosa gli era passata due volte sulla testa, già, spossato, stava per venir meno e questa volta trovarlo proprio davvero il modo di calare a fondo.... quando, senza saper come, senza saper nemmeno s'era proprio desto o se sognava, si trovò dritto in piedi, là, in mezzo alla burrasca, coll'acqua che gli arrivava appena alle spalle!

A un migliaio di metri all'incirca dal Lido, si allunga per un buon tratto di mare, un banco di sabbia: la corrente lo aveva portato là sopra, e Prandino era salvo: salvo, ma non sicuro. Adesso quei cavalloni verdastri, impetuosi, spumeggianti, lo spaventavano, e tutte quelle creste candide che correvano sulle onde, gli sembravano altrettanti mostri marini che gli venissero incontro. Si raccomandò a Dio, pensò a sua madre e chiamò al soccorso, con quanto fiato gli rimaneva in corpo.

Semo qua, paron, semo qua — gli rispose subito una voce poco lontana.

Era la barca destinata al salvataggio dei nuotatori che, come vuole il regolamento, quando Ariberti si allontanò troppo dalla riva, gli aveva tenuto dietro, senza che il poveretto, fisso collo sguardo nel tendone buio dell'orizzonte, e mezzo accecato com'era dal bruciore e dagli sprazzi dell'acqua, se ne fosse accorto.

Due battellieri, dalle braccia robuste, lo tirarono su di tutto peso nel guscio, e, quando fu dentro, gli domandarono come mai s'era arrischiato di allontanarsi tanto, col mare così grosso.

— È stata la corrente che mi ha portato via — rispose Prandino, arrossendo per la doppia vergogna dell'essersi voluto annegare e del non esservi riuscito.

Tutto curvo, seduto sopra una panchetta della barca, coi denti che gli battevano dal freddo, col vento che gli soffiava addosso, egli, silenzioso, mortificato, si lasciò condurre a riva. Ma, tuttavia, mentre si avvicinava alla spiaggia e lo Stabilimento s'ingrandiva a vista d'occhio, così da distinguere le persone che si movevano sulla terrazza, tornò a pensare a' casi suoi e a convincersi che, per quanto gli potesse spiacere di morire, nulladimeno, non poteva più vivere. Anche un po' per non rendersi ridicolo a sè stesso, non c'era verso, doveva venire a quella conclusione. Però, avrebbe scelto un altro genere di morte. I battellieri gli narrarono il caso d'un tedesco che, l'anno prima, s'era annegato, per l'appunto al Lido, e che fu ripescato monco di un piede e senz'occhi: gli erano stati divorati dai pesci.

Prandino, al racconto, sentì in tutto il corpo un senso vivo di ribrezzo. Scegliendo quel genere di morte, sott'acqua, non aveva riflettuto al pericolo d'essere mangiato vivo.... o anche morto, che, quasi, gli sarebbe spiaciuto ugualmente. No, no; bisognava trovare un'altra specie di suicidio: col freddo che aveva intorno, avrebbe preferito piuttosto di morire nel fuoco, bruciato; tanto più che quella massa enorme, spaventosa, d'acqua ondeggiante e quegli odori acuti d'effluvi salini, gli davano nausea!....

Voleva finire i suoi giorni a Vicenza, dov'era nato. In quel momento supremo, voleva trovarsi vicino a sua madre.... Voleva abbracciarla un'ultima volta, povera mamma!.... A Vicenza, ancora, non si saprebbe nulla del matrimonio della Contessa, e fino a domenica, c'era tempo; questa proroga se la poteva concedere senza offendere la fermezza del suo carattere, essa, invece di distoglierlo, lo rendeva più saldo nel suo proponimento.

Quando uscì vestito dal camerino, trovò sull'uscio i battellieri che lo avevano salvato, col cappello in mano, che aspettavano la mancia. Nè si accontentarono così facilmente. Erano in tre e ci vollero cinque lire.

Per bacco: avevano salvato un conte, non una persona qualunque!

Prandino pagò, sospirando, e pensò che a Venezia tutto era caro, e che non si poteva nemmeno tentar di morire senza spendere quattrini. Ma ci sarebbe da scommettere, a ogni modo, che quelle cinque lire lì, trovò che erano meno buttate via delle altre spese la sera innanzi, nella bottiglia di birra inglese.

Uscito fuori dai corridoi, era in preda a una viva preoccupazione: schivare in tutti i modi di incontrarsi colla Contessa. Non voleva rivederla più: gli avrebbe fatto troppo male.

Questa volta, la sorte fu mite: gli risparmiò quell'angoscia. Ma non così potè schivare Jamagata, che adocchiò, appoggiato alla porta del Caffè Ristorante, colla faccia melanconica, d'una tristezza gialla, che faceva ancora più pena, mentre Potapow, di lietissimo umore, lo tormentava con facezie un poco spinte.

Allez vous à Venise? — chiese Jamagata a Prandino, che passava dritto, fingendo di non vederlo.

Oui, monsieur. Vado a Venezia.

Si le temps n'était si mauvais, je viendrais moi aussi.

E sospirò profondamente, in modo tale da far capire all'Ariberti che anche Jamagata sapeva qualche cosa del matrimonio d'Elisa.

Potapow, invece di commoversi a quella muta desolazione, uscì in una sonora risata e continuando le allusioni impertinenti.

Courage, Courage! — disse al Console sentimentale, — le temps et les femmes il faut les prendre comme le bon Dieu nous les donne!

Vous m'ennuyez, monsieur le Comte, vous m'ennuyez! — esclamò Jamagata con vivacità, diventando violetto, chè, alla fine, cominciava a perdere la flemma diplomatica.

Potapow, saltellando dalla collera, gli rispose per le rime; l'altro continuò più forte; il battibecco si faceva vivo, quando comparve sulla porta l'ombra nera del cavalier Ramolini, che fu come un secchio d'acqua fredda sui contendenti, ma nello stato d'animo in cui si trovava l'Ariberti, quel diverbio non lo commoveva: ne approfittò invece per dileguarsi senz'altri intoppi dallo Stabilimento.

Adesso Venezia gli metteva addosso un'uggia insopportabile, avrebbe voluto ritornare a Vicenza subito, quella stessa sera. Gli pareva che più presto fosse andato via, più presto avrebbe trovato pace. Credeva, povero illuso, di lasciar là, alla stazione, tutti i suoi dolori, e una volta chiuso in vagone e messosi in via, di dover respirar più leggero. Ma, mentre attraversava la laguna in vaporetto, sembrò che le cateratte del cielo si aprissero ad un secondo diluvio e Prandino arrivò alla Gondola d'oro così bagnato dalla testa ai piedi ed in tale stato da vincere la musoneria del portiere che, vedendolo, si mise a ridere.

— L'ha presa tutta, mi pare?

— Sicuro. Fatemi mandare il conto sopra, all'ottantasei.

— Parte il signore?

— Sì, parto.

— Subito?

— No, domattina, colla prima corsa. — Bisognava che si mettesse in letto, aspettando che si asciugasse un po' la sua roba.

— Allora c'è tempo.

— Non importa: il conto lo voglio subito.

Levato il dente, come si dice, è levato il dolore; e poi adesso Prandino avea premura di vedere il conto dell'albergo, per sapere quanto denaro gli restava da portar a casa.

— Il quaranta parte con lei?

— No!

L'Ariberti diventò rosso fin alla punta dei capelli. Quel petulante di portiere aspettava allora a diventare verboso!

Venuto il conto, pagato, preso un biglietto di seconda classe alla ferrovia, tutto sommato gli rimanevano ancora cento dieci lire. Dunque non gliene occorrevano che settecento quaranta per Badoero!!... A questa scoperta gli si allargò il cuore; ma per poco. Tant'è, domenica non le avrebbe avute, nemmeno ridotte a settecento quaranta, e però il conte Eriprando degli Ariberti era sempre vicino al fallimento.

Maledetto il giorno ch'egli era partito per Venezia. Maledetta l'Elisa, il Maggiore, il Badoero e le bagnature!...

CAPITOLO XIV.

Bisogna credere proprio che le impressioni che si subiscono da una donna amata fanno un effetto opposto a quello prodotto da un creditore. Prandino stesso avrebbe potuto notare questa verità sacrosanta, ma lui non aveva tempo da perdere per fare il filosofo!

A mano a mano che si allontanava dall'Elisa, essa gli si faceva ancora più cara e più necessaria; a mano a mano che si allontanava da Badoero, le ottocentocinquanta lire perdevano di valore. È un fatto, del resto, indiscutibile! quando non si vede il volto dell'innamorata, si sospira: quando non si vede la faccia del creditore, si respira!...

Finchè rimaneva a Venezia l'Ariberti tremava tutto all'idea d'incontrarsi al Lido o sotto le Procuratie con il Badoero la domenica del pagherò, senza avere in tasca la somma; ma da lontano questo pericolo non lo correva più e avrebbe meglio trovata una scusa o domandata una proroga, inviando intanto qualche piccolo acconto. Invece di parlare, era il caso di scrivere; e, si sa bene, certe cose che a dirle bruciano le labbra, si possono scrivere correntemente e senza fatica.

Ma l'Elisa, invece? Dall'Elisa più si allontanava e più la sentiva viva, possente nel cuore, nel sangue e nella testa. Durante quel viaggio del ritorno, sbalottato così solo solo in seconda classe, ricordava, con un desiderio amarissimo, l'altro viaggio fatto in prima, nell'andata, e gli pareva allora d'aver goduto il suo paradiso, tanto è vero che nella miseria si dimenticano i piccoli dolori che amareggiano i periodi della felicità. Prandino si ricordava bene l'estasi amorosa goduta da Vicenza a Padova, ma aveva dimenticato tutti i tormenti sofferti da Padova a Venezia.

Adesso le spine, e non erano poche, delle sue rose d'amore non bucavano più. L'Elisa non era più lunatica, non era più capricciosa, non era più esigente; non aveva più la Cecilia sempre d'intorno, non aveva più Gegio sempre fra i piedi; non lo tormentava più colle sue leggerezze, colle sue civetterie, co' suoi sgarbi. Adesso ch'egli l'aveva perduta, l'Elisa era ritornata la donna più buona, più bella, più cara, più amabile della terra, e quando Prandino pensava all'avvenire e lo vedeva senza di lei, sentiva nell'animo uno scoramento, un affanno che vi facevano strazio.

A Vicenza, tutte le strade gli avrebbero rammentato un incontro, un saluto, una passeggiata fatta insieme. Al teatro, senza la contessa Navaredo, senza i suoi occhioni che lo cercavano, senza la soddisfazione di offrirle il braccio, finito lo spettacolo, per ricondurla presso lord Palmerston, non avrebbe gustata nemmeno la musica. E in chiesa?... Che cosa sarebbe andato a fare in chiesa, se, dopo messa, non aveva più da aspettarla all'uscita?

Si ricordava che, in passato, se per una ragione qualunque egli doveva rimanere un giorno senza andare da lei, il suo primo pensiero, alla mattina, nello svegliarsi, era quello, e ne restava angustiato, e smaniava per trovar modo di far correre veloce il tempo che camminava per lui come una tartaruga. Ma adesso che avrebbe dovuto stare senza l'Elisa tutte le ore, tutti i giorni, tutta intera la vita?... Tanto valeva addormentarsi una volta, per non destarsi mai più.

Al primo momento, non avrebbe creduto di dover soffrir tanto per quell'abbandono; ma le ferite dell'animo sono come quelle del corpo: subito, appena capitano addosso, si prova uno sbalordimento e nulla più. Il bruciore, lo spasimo cominciano dopo.

Quando Prandino smontò a Vicenza era come inebetito. Perchè poi si trovasse ancor peggio, la prima persona che gli si parò dinanzi fu per l'appunto il sotto-capo della stazione: il bel giovinotto dal berrettino foderato d'arancio, che gli chiese subito come mai ritornava così presto dai bagni e senza la contessa Navaredo.

— Ho fatto una corsa per affari; ma devo ritornare a Venezia fra un paio di giorni.

Non aveva cuore di confessare la propria ignominia!... No, no: non avrebbe potuto sopportare quella disgrazia, e adesso il proposito di farla finita non era preso in un istante di febbre: era proprio il convincimento dell'anima.

Sul piazzale della stazione fu ricevuto dalle scappellate dei vetturini.

— Signor Conte, la carrozza!

— La carrozza, signor Conte!

— Signor Conte, comanda il brougham?

Prandino salì sul primo brougham che trovò aperto, un po' consolato da quei saluti così rispettosi. Finalmente non era più un ignoto, una persona qualunque, il numero ottantasei!... Ritornava a essere il signor Conte, il signor Conte che tutti conoscevano e al quale tutti facevano di cappello....

Ma quella sua consolazione fu di breve durata. Era la contessa Navaredo che lo illuminava colla propria luce, e adesso che quella luce gli era negata, egli ritornerebbe presto nell'ombra anche a Vicenza!...

Dio santo!... che effetto gli faceva Vicenza, quella mattina!... Gli pareva di veder l'Elisa apparire a ogni canto di strada.

Era così tutto compreso da quell'affanno cupo, desolato che, quando scese dalla vettura, credette di scorgere lo scherno, la derisione negli occhietti neri di una bella figliuola che al rumore era corsa a vedere sull'uscio della pasticceria accanto alla sua casa.

Quella sua casa gli era però sempre cara; quella vecchia casetta dove crebbe fanciullo, dove vide sua madre genuflessa al lettino di lui ammalato, dove fece tanti sogni d'amore, dove ricevette la prima lettera dell'Elisa; la sua casetta la rivedeva come un amico fidato, anche allora che vi rientrava per andarvi a morire.

Ma, varcata appena la soglia, gli sembrò che gli pesasse sul capo, e dalla corte angusta, oscura, usciva un odore di muffa e di miseria che lo disgustavano. Eppure in quell'andito buio, aveva giocato per tante ore, allegro e senza pensieri, eppure da bambino ci perdeva il fiato a corrervi dentro, tanto era grande.

In fondo al corridoio, in alto, sullo stipite di una porta, c'era un piccolo tabernacolo, messo là dalla signora Luciana in un giorno di profonda divozione. E la fede s'era talmente fatta grande per la madonna della casa, che gl'inquilini vi accendevano il lume quasi ogni sabato. Adesso il lumicino rosseggiante nelle tenebre tetre del corridoio, fu per Ariberti come una stella nel mare procelloso della sua anima; e, al di là della figura di Maria Addolorata, vide un'altra madre ch'era pur santa e che avrebbe pure spasimato dal dolore: la mamma sua!...

Povera mamma!... Quel giorno egli non derise il bigottismo della signora Luciana: ma, involontariamente, si toccò il pioppino dinanzi alla immagine benedetta, e salì più lentamente fin su, al secondo piano, incerto se dovesse farsi vedere da sua madre, col triste proposito che aveva nel cuore, oppure se non fosse meglio di tornare indietro e scappar via. Così, combattuto da mille dubbi, arrivò all'uscio del suo quartierino, l'aprì, entrò dentro nella prima stanzetta, senza quasi sapere che cosa si facesse.

L'Orsolina stava lavorando, seduta vicino alla finestra, e agucchiava muta, grave, curva sul tombolo. Alzò il capo appena udì toccare il chiavistello dell'uscio, e quando vide il suo Prandino entrare nella stanza, diè un grido acutissimo, le guance secche, scarne arrossirono ancora di gioia, e gli corse incontro e lo abbracciò e lo coprì di baci; ma poi la sua grande consolazione si agghiacciò a un tratto: perchè ritornava così presto?... perchè era così pallido?... perchè non le diceva nulla?... Prandino lesse negli occhi timidamente affettuosi della buona vecchia tutte le ansietà e le inquietudini che la angustiavano, e ne fu turbato. Buttò là un pretesto, una scusa, pel suo arrivo improvviso.... disse che aveva dovuto ritornar subito per affrettare l'impiego, per alcune carte che non erano in regola, e poi si avviò verso la sua camera in fretta, sperando di fuggire da tutto quel grande amore che usciva dagli occhi di sua madre e che gli pesava addosso come un rimorso. Ma in quel mentre comparve sulla soglia della stanza la signora Luciana, in un atteggiamento, così lunga e secca com'era, che pareva un punto interrogativo.

— Che vuol dire, signor Conte?... Così presto di ritorno?... Che cosa le è succeduto?...

— Ho dovuto venire a Vicenza.... per un giorno.... ma vado a Venezia di nuovo.... presto.... domani.

Ciò detto, spinse l'uscio della camera ed entrò, che non ne poteva più di trovarsi solo, lasciando la signora Luciana a tormentare, a furia di domande, la contessa Orsolina.

— Ho fatto male a ritornare a Vicenza! Ho fatto male a farmi rivedere! — pensava Prandino buttandosi a sedere sopra una seggiola, respirando, là, solo solo, e non riflettendo che da due giorni faceva tutto ciò che gli saltava in testa, senza fermarsi un momento a ragionare.

La quiete della stradicciola, dove era un caso che passasse una carrozza, gli metteva tedio; il bisbiglio che le due donne facevano nell'altra stanza lo tormentava come la voce della sua coscienza e, a fior di labbro, quasi fosse una sfida lanciata a tutto il mondo, e insieme il ricordo d'un impegno preso con sè stesso, andò ripetendo il suo triste ritornello: bisogna morire, bisogna morire!

Per il debito del giuoco, tanto, ci avrebbe potuto rimediare.... l'avrebbe confessato a sua madre, che era una donna piena di consigli... avrebbero potuto vendere un po' di roba.... qualche masserizia che non fosse strettamente necessaria — non era poi un milione, alla fine, che aveva perduto! — e adesso si meravigliava di averci dato tanto peso il giorno prima. Ammazzarsi per ottocento cinquanta lire, anzi per settecento quaranta, sarebbe stata proprio una minchioneria: e poi, ammazzandosi, non pagava i suoi debiti, tutt'altro: commetteva, invece, una frode.... in articulo mortis....

Ah! se l'Elisa gli avesse voluto ancora un po' di bene: s'ella non l'avesse piantato in quel modo, allora no, no, certo, non penserebbe di morire! E, a questo punto, il suo povero cuore tornava daccapo a tormentarlo. Che valevano le persuasioni dell'uomo saggio, che valeva l'affetto di sua madre, le ragioni stesse dell'orgoglio ferito per l'abbandono ingiusto, immeritato, contro il suo amore fisso, tenace, selvaggio?

L'Elisa sarebbe stata d'un altro!

L'idea che quelle forme vaghe, da lui follemente adorate, avrebbero appartenuto a un rivale, sarebbero state toccate dalle manacce ruvide del Maggiore, baciate da quella bocca ingorda e irriverente, che puzzava di sigaro, tutto ciò gli faceva correre nel cervello dei buffi di sangue caldo e gli dava le vertigini, mentre, nell'accesa fantasia del povero ammalato, l'Elisa diventava bianca, candida come neve, delicata, flessuosa come una gazzella, e trasudava un profumo aux fleurs de lys de cachemir; ritornava giovane, ritornava fresca.... e non era quasi più neppur vedova!... Dio, Dio, quanto era bella!...

Prandino se la vedeva innanzi, ora gaia, biricchina, piena di vita e di fremiti, come il primo giorno ch'era stata sola con lui, grondante d'acqua, sotto il capanno, e ora raggiante di sole e splendida d'amore come quella mattina che gli camminava dinanzi, lungo la viottola dell'uccelliera; poi gli appariva languida, voluttuosa, mollemente sdraiata nella gondola, e poi.... e poi... finalmente, la rivedeva com'egli solo, com'egli solo sapeva.... e, dannazione!, come avrebbe saputo anche quel beduino del Maggiore!

No, no; era uno strazio troppo vivo, uno strazio che colle carni gli lacerava anche l'anima! No, no: egli aveva bisogno dell'amore di Elisa come dell'aria per respirare, e perchè quell'amore gli veniva meno, egli moriva.... moriva colla gola stretta, col petto gonfio.... moriva soffocato!

Come fare per fuggire quell'immagine che lo torturava?...

Se apriva gli occhi la vedeva in un modo, se li chiudeva la vedeva in un altro: ma la vedeva sempre!

E ancora, il fanciullone innamorato!, tentava di combatterla, di vincerla, di metterla in fuga, ripetendo a sè stesso, mentre coi denti si strappava i baffi:

— Bisogna morire, bisogna morire!...

Ma tornava daccapo a domandare a sè stesso:

— Con qual genere di morte? Sott'acqua, no; nemmeno per idea!... Dunque?...

E Prandino pensava, ripensava e non concludeva mai nulla: perchè, quando si arriva a questo di non saper sciogliere il problema del — come vivere? — ci troviamo con quell'altro fra mano, non meno difficile, del — come morire?!

— Un buon colpo di pistola, proprio dritto in mezzo al cuore?... — Quello ci voleva!... — Sì! ma come trovarlo il posto giusto del cuore?

Prandino lo cercava colla mano aperta sul petto, ma non era più buono di sentire un palpito, una battuta sola: il cuore stava zitto, non si moveva neppure.... pareva quasi che fosse scappato via!

— Buttarsi giù da un campanile alto, il più alto di Vicenza?

No. Primieramente, questa era la morte d'un manovale e non già quella che doveva scegliere l'ultimo degli Ariberti, e in secondo luogo, invece di spaccarsi la testa, si poteva rompere le gambe solamente, e allora sarebbe stato messo in ridicolo.... e poi avrebbe veduta ancora sua madre, ne avrebbe udite le grida, i pianti!.. Sua madre?... No. Non la voleva più rivedere: la disperazione di sua madre avrebbe fatto morire disperato anche lui, e lui, invece, voleva darsi la morte per aver pace!

Ruminando nel capo tutti questi pensieri, che non erano affatto color di rosa, Prandino, dopo avere camminato un po' di tempo in lungo e in largo per la cameretta, aveva finito col fermarsi su due piedi, meditabondo, quando, levando il capo, l'occhio per caso gli cadde sul portrait-album dell'Elisa che, come di solito, era sul suo tavolino da notte, appoggiato all'elegante cavalletto di legno intarsiato.

— Eccola là, quella perfida! — pensò Prandino fra sè e sè; e, vinto da una seduzione potente, irresistibile, si avvicinò al ritratto per inebriarsi ancora una volta delle note sembianze.... e là, respirando a fatica, graffiandosi le braccia che si stringeva al petto, pallido, sconvolto, tutto tremante, guardò la figuretta insidiosa; poi si fece ancora più vicino, frugando col pensiero nell'immagine cara per cercarvi un sorriso, un ricordo, per....

Ma che diamine era accaduto?!... Chi aveva sfregiato quel ritratto?!...

Prandino lo prese e si avvicinò alla finestra per osservarlo meglio e, dominando la sua agitazione, rimase là lungamente, serio, attento, pensoso, col ritratto fra le mani.

Ma però, mentre fissandolo aggrottava fortemente le ciglia, il suo respiro, l'ansia del suo petto diventava meno grave, meno affannosa. Che cosa era dunque successo?

Una mosca, una grossa mosca di certo, si era fermata sul naso della contessa Navaredo.... (vedete un po' la Provvidenza, quali forme si compiace di assumere?!...) e lo aveva macchiato con una patacca nera, rotonda, che cambiava affatto l'espressione di quel viso così caro a Prandino.

Egli la guardava sempre attento, ostinato, ma la figurina gentile, romantica, al chiaro di luna, coi capelli biondi, cadenti lungo le spalle, veduta con quella macchiaccia sul naso, non era più la stessa.

La testolina bianca, pensosa, tutta raccolta e mollemente chinata sul libro che teneva aperto fra le mani, quel profumo, quell'aria di sentimentalità verginale, stonava maledettamente dopo il tiro fattole dalla mosca birbona, e non era più dolce, non era più poetica, ma diveniva una cosa buffa; buffa e grottescamente ridicola.

Prandino continuava a restar là, dritto, immobile, guardando il ritratto dell'Elisa, e a poco a poco non tremava più: a poco a poco poteva fissarlo senza paura, senza che la sua testa gli andasse in fiamme.

Accadeva un fatto curioso, una combinazione strana: mentre la figurina al chiaro di luna, con quello sgorbio sul naso, non pareva più la stessa, tuttavia rassomigliava però sempre alla contessa Navaredo. Anzi, a Prandino pareva quasi che le rassomigliasse di più. Sempre, ben inteso, com'era ne' suoi momenti meno felici.

Uno dei primi giorni in cui le signore avevano cominciato a usare quella maglia scura così attillata, l'Elisa ne aveva indossata una tanto stretta, che le gonfiava il collo e la faccia: e il ritratto, adesso, faceva ricordare l'Elisa com'era appunto in quel giorno!

Anche allora era ridicola a voler fare la bambina, coi passettini corti corti, per le sottane che le impacciavano le gambe, e a volersi stringer tanto da soffocare, per avere un po' della Sarah Bernhardt.... — con quella ciccia!..

Ridicola, com'era ridicola là nel ritratto, coi capelli biondi sciolti lungo le spalle, con la testolina bassa, col raccoglimento stanco, romantico, al chiaro di luna, e quella patacca sulla punta del naso!... Oh, tanto ridicola, che faceva ridere anche Prandino, sebbene gli frullassero per la testa i più tristi pensieri!

Eppure, a pensarci bene, l'Elisa non meritava certo ch'egli l'amasse a quel modo!... Non aveva cuore: era tutta vanità, tutta finzione. Come voleva sembrare quello che non era, così voleva mostrare di sentire anche quello.... che non sentiva!... Voleva fare la bambina, ed era nonna! Voleva fare l'innamorata, e non aveva cuore!

E pensare ch'egli desiderava di morire per lei. per l'Elisa!.... A questa idea, guardando il ritratto così sfigurato, Prandino non potè trattenere una risata: una risata che lo sorprese all'improvviso, che gli scattava dai nervi più che non gli uscisse dalla testa o dal cuore, ma che, a ogni modo, gli fece bene.

Volle ritornar serio, volle vincere le impressioni del momento, non volle più guardare il ritratto.... ma non ci riuscì: dopo un poco, dovette fissarlo di nuovo.... e di nuovo tornò a sorridere.... e intanto, senza che nemmeno se ne accorgesse, cominciava ad avere lo spirito più sollevato.

Certo, adesso quella donna non gliela doveano più invidiare, come gliela invidiavano un anno innanzi.

Chissà che anche lui non fosse stato ridicolo, qualche volta, mostrandosene così invaghito! — Ma, e il Maggiore? Il Maggiore che la sposa?!.... Chi lo dice, intanto, che la sposa? Lei stessa: l'Elisa, che non ne dice mai una vera. Bisogna star a vedere!....

Ciò che maggiormente ci esalta, nella donna, è quel tanto che le presta o le aggiunge la nostra immaginazione, e quella macchiaccia, che adesso le sfigurava il volto, aveva buttato il ridicolo là dove il sentimento aveva sempre lavorato di fantasia, là dove l'amore saettava i suoi fascini e spiegava le sue migliori attrattive. Prandino continuava a guardarla, a fissarla, a studiarla; ma, non c'era caso: la donna che gli rappresentava quel ritratto non era più l'Elisa trasfigurata nell'ansia di un desiderio febbrile, ma l'Elisa viva e reale, in carne ed ossa, l'Elisa com'era, l'Elisa con tutti i suoi difetti e, ahimè, con tutti i suoi anni. E però, Prandino, un po' alla volta, andava finalmente concludendo, che la balda e forte giovinezza di lui non dovea piegarsi dinanzi a quelle mature seduzioni, che quell'avvenenza impiastricciata di cold-cream non valeva il contraccambio di tutto un avvenire di riposo e di pace.

L'Elisa non s'era imposta al suo innamorato coll'intelligenza, collo spirito, col cuore; ma lo aveva preso colla vanità e lo teneva vinto coi sensi, ed è perciò che il suo regno, quantunque costituzionale, veniva buttato all'aria così facilmente!....

Intanto che Prandino continuava a fissare il ritratto dell'innamorata, non s'era accorto che da qualche tempo mamma Orsolina era entrata adagio adagio nella cameretta, e che singhiozzava vicino a lui, sommessamente, senza osare di lamentarsi, rispettando timorosa l'angoscia del suo figliuolo anche allora ch'egli era stato così ingiusto, così disumano con lei. Ma un singulto, che le proruppe troppo forte dal petto, la tradì: Prandino si scuote, si volta, e comprende tutta l'immensità di quel dolore muto, rassegnato.

— Mamma, mamma! — esclama, — non piangere, te ne scongiuro, non piangere! No: sono guarito, sai, non piangere! Non l'amo più, te lo giuro, non l'amo più!

E adesso copre di baci, di carezze, e si stringe al cuore quella sua vecchietta così santa, colla stessa frenesia con la quale avrebbe abbracciata l'Elisa, se un momento prima le fosse apparsa dinanzi per dirgli, come ai bei tempi d'una volta: ti voglio bene, e son tua!....

— Per quella cattiva? — chiese l'Orsolina, indicando il ritratto; e non disse altro.

— No, mamma, no: ho un altro dolore che mi fa disperare, che mi fa perdere la testa.

E Prandino confidò a sua madre che, per domenica, doveva restituire ottocentocinquanta lire a Badoero.

In quel punto, nessun debitore lo vorrà credere, ma è pure la verità, egli fu quasi contento d'avere quel debito: gli ripugnava troppo di dover confessare a sua madre ch'egli era stato così ingrato verso di lei, e tanto matto, fin da voler morire, solamente per il bel muso.... della contessa Navaredo!....

CAPITOLO XV.

Non bisogna credere, a ogni modo, che il conte Eriprando degli Ariberti fosse proprio guarito interamente dalla sua malattia. Anche quando ci si leva un dente, resta il bruciore per un po' di tempo; dunque, figurarsi, quando si tratta di strappar via dal cuore una donna!

La vista del ritratto macchiato aveva fatto sì che Prandino superasse la crisi, ecco tutto: ma restava però in uno stato di convalescenza che doveva essere lungo e penoso, col pericolo di ricadute.

Molte volte tornò a desiderare l'Elisa, molte volte tornò a rimpiangerla, ma a ogni assalto la violenza era men forte, e quegli assalti si facevan sempre più radi.

Il primo giorno che comparve al Caffè, mentre i frequentatori di casa Navaredo gli domandavano notizie della Contessa, con quell'aria che voleva dire: — le domandiamo a lei per fare una gentilezza a tutti e due, — Prandino diventò rosso, confuso, rispose balbettando e pensò che quei signori, quando avessero saputo come stavano le cose, gli avrebbero tolta in parte la loro stima: ma poi, dopo che per Vicenza s'era cominciato a buccinar qualche cosa, anche la curiosità che egli destava per il mistero che a ogni costo volevano vederci sotto a quella rottura, soddisfaceva, in qualche maniera, un po' il suo amor proprio.

Fu poi sviato dal suo pensiero dominante da un'altra grossa consolazione: quella di poter fare buona figura col cugino Badoero.

L'Orsolina s'era confidata colla signora Luciana a proposito delle ottocentocinquanta lire, e la zitellona, un po' per bontà di cuore e per il gusto d'immischiarsi negli affari dell'aristocrazia, e un po' perchè in pelle in pelle si sentiva del debole per quel bel giovinetto, offrì subito d'aprire lei la borsa per sopperire al bisogno. A questa proposta però si oppose la dignità della casa. Combinarono dunque di presentare allo sconto della Banca Popolare una cambialetta di mille lire (facendovi su l'operazione, tanto valeva addirittura prendersi un po' di largo) e la signora Luciana avrebbe messo la sua firma plebea, sotto quella illustre, ma fuori corso, del conte Eriprando degli Ariberti.

Il sabato mattina, Eriprando portava alla posta una lettera suggellata collo stemma degli Ariberti: c'era dentro il vaglia delle ottocentocinquanta lire a favore di Badoero. Però, solo che egli avesse aspettato qualche ora a fare la spedizione, avrebbe forse potuto risparmiare i denari del vaglia. Quando ritornò a casa, trovò un'altra lettera, con un altro stemma: — quello delle Strade ferrate dell'alta Italia.

Come gli aveva promesso il cavalier Pinocchio durante la lezione di nuoto, era stato nominato avventizio presso la Contabilità degli uffici di Venezia, e fra un paio di giorni bisognava partire.

Ritornare a Venezia così subito?.... Rivedere la Elisa?.... Rivederla forse col Maggiore?.... A braccio, sola con lui?.... No, sarebbe stata una commozione troppo forte!.... Ma non c'era caso; a Venezia bisognava andare!....

Ebbene, vi andrebbe, ma non avrebbe messo il naso fuori dell'uscio fino a tanto che l'Elisa ci fosse rimasta.

Poi, si fece cuore e cambiò idea un'altra volta: adesso voleva anzi incontrarla e farle tanto di cappello e mostrarle chiaro, colla sua indifferenza, che per lui, tanto, era come se fosse morta e sotterrata.

Questa volta l'abito nero d'etichetta non fu indossato durante il viaggio, ma riposto con ogni cura in fondo del baule; vestì invece una giacca d'Orléans, stinta e senza fodero: roba di Bocconi. Anche i guanti comperati a Venezia andarono involtati, nello stesso giornale colle cravatte, a tener compagnia all'abito nero: per viaggio poteva bastare un paio di quelli vecchi, sciupati e induriti dal sudore.

Del lusso antico, non c'era più altro che il portasigari, che faceva capolino dalla tasca di fuori della giacchetta.

Quando il figliolo fu sul punto di partire, mamma Orsolina lo guardò, mettendosi a piangere.

— Sta sicura, mamma: sta sicura. Quel che è stato, è stato. Ormai non ci ricasco più.

— Bravo, signor Conte! — esclamò la signora Luciana, ch'era presente a quell'addio. — Ce ne sono tante di donne e lei non avrà che da scegliere. A quella signora, poi.... ma no, acqua in bocca, Luciana, a te non istà bene!

— Che! Parli, parli, signora Luciana.... tanto, non ci penso più.

— Allora le deve dire, quando la vede: — chi non mi vuole, non mi merita! — Ma glielo deve proprio dire!....

L'Orsolina, seria seria, dondolava la testa, mostrando chiaro che non approvava quel consiglio.

— Come? Non pare a lei, contessa Orsolina, che le stia bene a quella signora?

— Per me sarei più tranquilla se Prandino mi promettesse di far di tutto per non rivederla!

— Te lo prometto, ma in ogni modo, anche se la rivedo, sai, mamma, puoi esser tranquilla ugualmente; non dubitare.

Però, mentre concludeva in questo modo, egli sentiva in cuor suo che la mamma aveva forse ragione.

Capitò a Venezia di notte, e fu meglio perchè così il ricordo di quei luoghi si faceva per lui meno sensibile. Il cavalier Pinocchio, per incarico avuto dall'Orsolina, gli aveva fissata la camera e il vitto in un alberguccio modestissimo in Calle del Carbon.

Quando arrivò sul luogo, Prandino era morto dalla fame: e quantunque dalle Tre Corone, che così si chiamava la locanda, invece del profumo di consumé, che spandeva intorno la cucina della Gondola d'oro, uscisse un odore acuto di grasso che friggeva, tuttavia egli vi entrò senza ripugnanza e senza perderci l'appetito.

Mangiò del pesce e una porzione di lesso in un piccolo stanzino basso, annerito dal fumo, che dava adito alla cucina, anche quella bassa, nera e illuminata dalle fiamme vive del camino, così da parere un forno; e poi, quand'ebbe finito, domandò del padrone a un ometto che lo aveva servito, piccolo, tondo tondo, tutto involto in un grembiule greggio, sudicio e con una berretta larga di tela bianca, che incorniciava il suo faccione di luna piena.

— Sono io per l'appunto; che mi comanda? — e l'albergatore, ch'era nello stesso tempo il cuoco, il cameriere e il direttore delle Tre Corone, fissò il giovinotto con due occhiettini vivi, lucenti, che schizzavan furberia di sotto a due folte sopracciglia grigiastre, fatte a spazzola. Prandino lo salutò con un cenno del capo, e si fece conoscere per quel signore che doveva essergli stato raccomandato dal cavaliere Pinocchio.

— Vedo, vedo, è lei, quel giovine di Vicenza?! non è una mezz'ora che gli abbiam messo all'ordine la stanza.

— Tanto meglio, perchè casco dal sonno.

— Venga con me; la condurrò subito di sopra.

L'oste passò un momento nella cucina a prendervi un candeliere d'ottone con una mezza candela di sego, che accese in fretta alla fiamma del camino, poi raggiunse subito l'Ariberti e lo accompagnò, facendogli lume, per una scala ripida, angusta, diritta, tutta d'una sola branca, sino al primo piano. Quando arrivò su, l'oste, seguito da Prandino, entrò in una stanza a destra, della quale aprì l'uscio con una pedata: trovò una candela nuova sul cassettone, l'accese, e poi volgendosi al suo ospite, gli disse senza altri complimenti:

— Eccola servita.

La stanza era molto grande; forse troppo. Di contro a una parete c'era un lettuccio, piccolo, stretto, si capiva a colpo d'occhio che doveva essere un sofà a doppio uso, con una seggiola impagliata in luogo del tavolino da notte; dall'altro lato, di contro al letto, un cassettone di noce, colle borchie d'ottone, e sopra, uno specchio così vecchio da parer antico, colla luce guasta e rotta in un angolo: appese alle pareti due oleografie rappresentanti l'una la Famiglia reale colla Regina in pelliccia, e l'altra la Famiglia di Garibaldi, con Teresita tutta vestita di rosso.

Una frasca d'ulivo benedetto e una piletta di stagno per l'acqua santa, erano a capo del lettuccio, e in mezzo alla stanza, una tavola grande di legno, colorita d'un color verde scuro, che non si capiva che cosa fosse stata messa là a fare.

Prandino, quando vide il lettuccio, gli si strinse il cuore: poi, subito, gettò di sbieco sulla tavola un'occhiata sospettosa.

— Di giorno — gli disse l'oste, prevedendo la domanda di Prandino, — tengo questa camera a disposizione degli avventori che vogliono essere serviti a parte; perciò la mattina si disfà il letto che si rifà poi tutte le sere.

Prandino chinò il capo senza fiatare; il cavalier Pinocchio gli aveva fissato vitto e alloggio per lire una e ottanta centesimi al giorno: però, si capisce che non poteva avere grandi pretese.

— Vuol favorirmi il suo riverito nome e cognome?

L'oste, preso dal cassettone un libraccio che doveva pesar doppio, tanto era imbevuto d'untume, lo teneva aperto sulla tavola e fissava Prandino, prima di mettersi a scrivere.

— Il conte Eriprando degli Ariberti!

— Scusi, ha detto!...

E il locandiere, levandosi il berretto di testa, che si cacciò sotto il braccio, e pensando che il cavalier Pinocchio doveva aver certo sbagliato, scombiccherò quel nome illustre sul sudicio libraccio che non aveva proprio nulla a che fare col libro d'oro della Serenissima.

Rimasto solo, Prandino si guardò attorno nello stanzone, che all'esile luce della candela pareva ancora più grande, e sospirò profondamente. Poi, fattosi coraggio, si spogliò e si cacciò in letto, sperando di dimenticare tutto coll'addormentarsi. Infatti dormì quasi subito, ma si svegliò anche prestissimo: dovevano essere appena le due di notte! Allora cominciò a sentirsi inquieto, agitato e, un po' per il caldo, un po' per tutto quello che gli frullava in testa, e un po' per il letto, ch'era molto cattivo, non ci fu più caso che potesse ripigliar sonno.

Il letto delle Tre Corone non era, no, quello elegante, elastico della Gondola d'oro, e nemmeno il lettino morbido, soffice che gli preparava la mamma! era duro, ruvido, troppo stretto e troppo corto per lui: e poi, come se tutto ciò non bastasse, ogni volta che si moveva per cambiare di fianco, uno degli asserelli cigolava, che pareva un violino scordato.

Intanto, giù nella Calle, c'era un trepestio di gente, uno schiamazzo di risa, di canti, di grida affatto insolito a quell'ora.

Chi poteva essere?.... ci pensò sopra un momento, e poi si ricordò ch'era una notte di sagra per Venezia, la notte del Redentore.

Aspettare che facesse giorno, in quello stato, senza poter dormire, non c'era proprio sugo. Allora decise di levarsi e di andare anche lui a passeggiare, e saltò dal letto.... coll'accompagnamento di un'ultima arcata di violino.

Cammina, cammina, uscì dalla Calle del carbon, fece tutto il Ponte di Rialto, entrò in Merceria e poi non potè resistere a una tentazione che lo prese a un tratto, improvvisamente, come un reuma: la tentazione di passare davanti alla Gondola d'Oro.

Prandino giurò a se stesso ch'egli non passava di là per la contessa Elisa, e forse con quel giuramento poteva essere anche in buona fede; ma non si può credere ad ogni modo ch'egli facesse quella passeggiatina per amore del portiere; dunque?....

Dalla Gondola d'Oro, un passo dopo l'altro, capitò in piazza san Marco: la notte era bella, serena, e c'era attorno tanta gente e i caffè erano così affollati, come alle nove di sera, durante la musica.

Prandino vide subito che al Florian, al posto dove di solito andava a sedere l'Elisa, le seggiole erano vuote.... Non volle fermarsi in piazza: gli metteva tristezza. Andò invece a camminare sulla Riva degli Schiavoni; anche quella corsa e ricorsa da frotte di persone e dai barcaiuoli che volean condurre i foresti al Lido, quasi per forza. Il Canale era tutto pieno di gondole che si distinguevano la maggior parte per il piccolo fanale di prua che rosseggiava guizzando veloce nelle tenebre: qua e là sull'acqua cupa, nera, passava lentamente qualche barca adorna con frasche verdi e con palloncini a colori, con tavole attorno alle quali stavan sedute donne in capelli e uomini in farsetto, mangiando, bevendo, oppure cantando cori e canzoni popolari.

Prandino, dopo aver passeggiato tanto da sentirsi stanco, si sedette al Caffè Orientale: il cielo cominciava a farsi più chiaro, e a mano a mano che l'alberatura delle navi ancorate nella laguna, e poi l'isola di San Giorgio e poi la Giudecca si stenebravano un poco, anche il ricordo di tutto quello ch'egli avea goduto e che avea sofferto a Venezia gli si affacciava più vivo alla mente.

Ritornò a passeggiare per distrarsi, per cacciar via quei brutti pensieri, ma dovette fermarsi presto di nuovo, che attorno al ponte del vaporetto c'era una folla che si accalcava facendo chiasso, urtandosi e vociando.

Domandò subito che cosa volesse dire quel baccano e gli fu risposto ch'era tutta gente che volea imbarcarsi per andare al Lido, a vedere il levar del sole.

Prandino non aveva veduto mai levarsi altro sole che quello di cartone del teatro di Vicenza nel terzo atto del Profeta; era abbastanza naturale che gli venisse voglia di quel nuovo spettacolo. All'ufficio, tanto, non dovea presentarsi prima delle nove, in letto oramai non ci sarebbe più ritornato, dunque bisognava trovar modo di passare quelle ore.... Si cacciò nella folla, lavorando di gomiti, finchè riuscì anche lui a prendersi il biglietto e ad imbarcarsi.

Quando il vaporetto si fermò al Lido, cominciava già l'alba. Tutta, quant'era lunga, la strada che conducea verso il mare, era piena zeppa d'un via vai affollato, che parea una fiera. E in mezzo a quella calca, a quella ressa d'uomini e di donne d'ogni età, d'ogni grado, spiccava, sotto il ricco cappello a piume larghe, svolazzanti, un profilo pallido, delicato, sbianchito dalla veglia, vicino al viso rosso, acceso, della popolana in zendado; qua e là qualche faccia assonnata d'inglese o di tedesco, si guardava attorno stupita fra le risa, i canti e le beghe, fra lo schiamazzo, il rumore, la confusione dei tramways e degli omnibus carichi, che passavan di corsa battendo le sonagliere, dei conduttori e dei vetturini, che davan l'avviso sonando il fischio e la cornetta, gridando e schioccando le fruste: e tutto quel frastuono assordante, tutto quel brulichìo confuso, scomposto, tutto quel contrasto, quella mescolanza di vesti, di tipi, di facce, di colori, nella luce così debole, così sbiadita dell'alba, presentava un tutt'insieme strano, originale, produceva effetti nuovi ed inaspettati.

Mentre Prandino stava per montare sopra un tramway, si sentì prendere per un braccio; si voltò: era il cugino Badoero, che saliva anche lui, per andare a sedersi poco discosto dall'Emma, con la quale scambiava occhiate, sorrisi e altri segni d'intelligenza.

Ciao, Badoero!

E Prandino respirò pensando che le ottocento cinquanta lire gliele aveva pagate.

Ciao, mio caro! Che vuol dire che non sei più in prefettizia?.... Hai forse dato le dimissioni?

Prandino arrossì, perchè la giacchettina dei fratelli Bocconi, a quell'ora, non facea troppo bella figura.

Intanto il tramway si mosse e Ariberti non rispose nulla.

— Sei tornato da Vicenza per la festa del Redentore?.... E la vuoi chiudere anche tu al levar del sole? Bravo; fai benone! Già, adesso, ti fermerai a Venezia per un altro po' di tempo, non è vero? Ci ho proprio gusto!.... Ma guarda che fatalità: se tu arrivavi un giorno prima, potevo ancora presentarti alla principessa di Lentz.

— Grazie.

— Ma invece s'è imbarcata stanotte per Trieste. Oh, le è spiaciuto assai di non averti conosciuto.

— Sarà per un'altra volta.

— Già, già, s'intende!.... Ma, a proposito, dimmi un po', tu non la devi conoscere la grande novità di Venezia!?

Prandino fe' segno di no, colla testa, ma provò uno stringimento di cuore: temeva che il Badoero volesse alludere al matrimonio dell'Elisa. Per lui, povero Prandino! non si poteva dare una novità più grande!

Invece Badoero gli contò che dovea esserci un duello fra Potapow e Jamagata, in seguito a un diverbio successo al Lido e al quale, in parte, aveva assistito anche Ariberti. Aggiunse che il merito della riconciliazione era tutto suo; ma che ce n'era voluto; aveva dovuto adoperare una gran diplomazia e una grand'arte per riuscirvi.

— Per me, sai, il condurre due amici sul terreno, mi ripugna. Piuttosto, guarda, mi batto io dieci volte; in parola d'onore! Non si scherza colla pelle degli altri: è una responsabilità gravissima: un duello non si sa mai come vada a finire. Ramolini, che sa bene quello che si fa, richiesto da Potapow perchè lo servisse come secondo, non ne ha voluto sapere. Un duello — mi diceva — è sempre un rischio: si può risolvere con una graffiatura, come invece può avere conseguenze gravissime.

— Ha ragione.

— Per bacco, se ha ragione! Ragione da vendere!

— Hai ricevuto non è vero?... Hai ricevuto una mia lettera? — gli chiese poco dopo l'Ariberti, quando vide che Badoero non si risolveva mai a ringraziarlo.

— Una tua lettera? Ah, sì! adesso me ne ricordo, — fece l'altro cascando dalle nuvole. — Dimmi un po', tu sei matto! Matto da legare! Valeva proprio il conto di pigliarsi una seccatura per così poco! Me li avresti resi tornando a Venezia, con tuo comodo, o si sarebbe fatta la pace in un'altra occasione! Lo hai fatto per ischerzo, dimmi la verità? Lo hai fatto per ischerzo?

— Mi avevi detto che ti occorrevano per domenica? — rispose Prandino colla sua solita ingenuità e quasi dispiacente adesso di essersela presa con tanto calore.

— Matto, matto, che non sei altro! Se non mi dici che lo hai fatto per ischerzo, me ne ho a male e mi vendico. Oh! se mi vendico! Conto a tutti che il matrimonio della Nonna scellerata! ti ha fatto perdere lo spirito. Sai, qui a Venezia, la contessa Navaredo (non diventar rosso, bambino!) la contessa Navaredo la chiamano la Nonna scellerata.... Ma, nom de Dieu! Se non si fa presto, c'è pericolo che il sole si levi prima di noi; perchè di solito, non usa la cortesia di aspettare!

Questa spiritosaggine fu detta da Badoero ad alta voce, in modo che la potesse udire anche l'Emma, in fondo del tramway.

Sarebbe stato proprio un peccato: lo spettacolo dello spuntar del sole, quella mattina, doveva essere magnifico: non si vedeva una nube nel cielo scialbo, bianchiccio, e una gran calma si distendeva sul mare, mentre gli ultimi vapori dell'alba si dissipavano via via, allontanandosi.

Prandino, vedendo che la riva era corsa da bagnanti che si tuffavano nell'acqua o che si avvoltolavano, insudiciandosi, nel terriccio giallo:

— Andrò anch'io giù, a fare il bagno, — pensò fra sè, tanto più che, per aspettare il sole, non aveva potuto trovare un buon posto sulla terrazza, tutta ingombra di gente che stava là ferma, ammonticchiata, sporgendo le facce smunte, verso l'orizzonte.

E si avviò per andare ai bagni. Ma, attraversando il Caffè, provò un turbamento vivissimo, quantunque non lo volesse confessare a sè stesso: in un angolo, in fondo alla sala, buttato sopra un sofà, c'era il cavalier Ramolini che dormiva e (ahimè! povero avvocato D'Abalà!) aveva sulle spalle lo scialletto di lana della Cecilia. Quel scialletto, però, non permetteva alcun dubbio: anche la Contessina non doveva essere molto lontana, e, se c'era la figlia, ci sarebbe stata anche la madre.

Il primo movimento istintivo d'Ariberti fu quello di scappar via dal Lido; ma quando fu per imboccare il ponte di legno che mette sul viale, scorse giù sulla riva la Cecilia che dava scapaccioni a Gegio.... e non proprio sul capo.

Prandino impallidì, ma rimase duro a voler fingere con sè stesso di non aver provata nessuna commozione.

— Stordito, che non sono altro! — borbottò, battendosi la fronte e tornando indietro: — Si passa da questa parte per andare ai bagni!

Ma, quantunque non volesse credere alla propria agitazione, ne aveva tanta in corpo, che gli tremavano le mani nello spogliarsi, e poi voleva indossare la maglia prima di levarsi gli stivali! solamente quando fu giù, solo solo, nell'acqua, lontano dalla riva, cominciò a sentirsi più tranquillo, più sicuro, e allora tornò a pensare al ritratto sfigurato dell'Elisa, tornò a ridere.... e rise anche di sè e della gran paura che aveva avuta.

— Ha ragione Badoero. Sono matto, proprio matto da legare!

E allegramente si tuffò nell'acqua, guizzando come un pesce.

— Non tocca a me ad arrossire, ad avere vergogna! Tutt'altro; è il Maggiore, invece, è lo sposo che deve trovarsi maluccio, quando m'incontra! Sicuro, è lui, proprio lui!

Certo, era la grande serenità di quella mattina, era quell'aria pura, balsamica, che rischiarandogli la mente, gli suggeriva un'idea così luminosa, e Prandino, un'altra volta, guizzò leggero nell'acqua con tutta l'elasticità de' suoi vent'anni.... ma, d'un tratto si turbò, ritornò pallido, si mise a nuotare adagio, quasi fermandosi, e il cuore gli ricominciò a battere violentemente.

Due cappelloni gialli, due cappelloni ch'egli tremava di riconoscere, gli venivano incontro a fior d'acqua.

— Era l'Elisa?... Era il Maggiore?... Sì.... No.... No.... Sì!... — Sangue del diavolo! Erano proprio loro!

Che fare?... Prandino avrebbe dato chissà che cosa per non trovarsi là, a quell'ora, in quel luogo.... Se fosse stato sicuro di non essere riconosciuto, sarebbe tornato indietro.... Sì.... piuttosto d'incontrarsi con quella maledetta, avrebbe commessa anche una viltà... Ma oramai era troppo tardi.... dovevano averlo veduto di certo.... perchè il Maggiore lo fissava, e l'Elisa.... l'Elisa sorrideva, sorrideva, cogli occhioni languidi, colla bocca socchiusa.... Che fare?... Che fare?!... Incontrarla?... Vederla ancora?... Riamarla forse?! Ah, no!... Mai!...

Allora egli levò le braccia dritte, tese, puntò le due mani, si diè un urto violento e si cacciò giù, sotto, battendo forte l'acqua, fendendola con forza grandissima, straordinaria, trattenendo il respiro con una volontà disperata. Ci fu un punto nel quale credette di sentire l'Elisa e il Maggiore che gli passavano sul capo sghignazzando, ma ebbe pure un altro momento nel risalire, dove le onde si facevano più chiare, in cui gli sembrò di scorgere la sua mamma tutta consolata, tutta ridente, con una gran beatitudine che le traspariva dal volto!...

.... Quando Prandino riaprì gli occhi, un lungo sospiro gli uscì dal petto con un grido di gioia: non c'era più alcuno dinanzi a lui, nè l'Elisa, nè il Maggiore!... Non c'erano altro che le vele a triangolo di cinque paranzelle immobili sull'orizzonte, tutte bianche, come cigni natanti, e là, dove l'aurora coloriva l'acqua con una tinta rancia dorata, s'innalzava a poco a poco, sfolgorando sopra un barbaglio di luce, il disco giallo del sole.

FINE.

DELLO STESSO AUTORE:

Mater Dolorosa, romanzo. Due volumi, L. 4 —