GIROLAMO ROVETTA
BABY
e TIRANNI MINIMI
MILANO
CASA EDITRICE BALDINI & CASTOLDI
Galleria Vittorio Emanuele, 17-80
1913
PROPRIETÀ LETTERARIA
MILANO—TIP. PIROLA & CELLA DI A. CELLA
TIRANNI MINIMI
I.
—«Sta ferma, brutta saetta!» strillò la contessa Orsolina alzando con una mano, in aria di minaccia, un pettine d'osso giallo e sdentato, e coll'altra dando una tirata rabbiosa alla grossa coda di capelli castagni della piccola Agnese.
La fanciulletta in piedi, dritta dinanzi alla padrona che la pettinava, non si era mossa fino allora, ma traballò per quella strappata forte, improvvisa, e le si empirono di lacrime gli occhioni grandi, infossati nel visino smorto. Tuttavia rimase sbalordita, senza mettere un grido: era tanta la soggezione e la paura, che non osava fiatare.
—«Sta ferma, brutta saetta!» ripetè la Contessa, e questa volta, dopo avere scaraventato il pettine sulla seggiola vicina, accompagnò la tirata con uno scappellotto.
—«Le fo anche da serva, a quella monella… E lei, invece di essermene grata, le inventa tutte per farmi scappar la pazienza!»
La sera, prima che la famiglia uscisse in gala per recarsi al Caffè d'Europa, la piccola Agnese, che serviva in casa da sguattera, da cuoca, da cameriera e da bambinaia, veniva sempre lisciata e vestita di tutto punto dalle mani stesse della contessa Orsolina, che si assoggettava, non senza dispetto, a quella disgustosa operazione, pur di tener alto il decoro della casa. È da sapersi poi che la Contessa la chiamavano tutti Orsolina, col diminutivo, soltanto perchè ciò le faceva piacere; ma, in verità, era invece un pezzo di donna alta e tarchiata, coi capelli rossicci arruffati che pareano un enorme parruccone, e colla faccia tonda, colorita, tutta sparsa di lentiggini e di bitorzoli giallognoli, che la Contessa chiamava nei, reputandoli una delle sue tante bellezze.
La bimba, nel frattempo, sotto le sfuriate della padrona aveva sempre taciuto, e per non muoversi punto, non si asciugava nemmeno le lacrime che le colavano chete giù dalle guance pallide e smunte, sul grembiule bianco.
—«Piange, quella smorfiosa. Piange!» continuò a brontolare la signora, che aveva incominciato a far la treccia, movendo in fretta le dita grosse, coperte dagli anelli d'oro, con un moto che pareva meccanico. «Piange, povera vittima!» e per ischernire Agnese prese a farle il verso, sforzando la voce aspra, fessa, a una cantilena piagnucolosa. Ma poi, quel dolore muto, quel pianto silenzioso finì per irritarla maggiormente e «Bada» tornò a gridare infuriata, «bada che se non ismetti di frignare, ti concio io pel dì delle feste».
La bimba, allora, si sforzò di trattenere le lacrime e si asciugò gli occhi colle manine ruvide e annerite, già sformate dalle fatiche grossolane e screpolate dal rigovernare.
La Contessa, terminata la treccia, la legò in fondo stretta stretta coi capelli che tolse via dal pettine; prese le forcine che aveva preparate sulla seggiola (era in cucina, dove abbigliava l'Agnese), le riunì tutte in un mazzetto e se le mise fra le labbra per averle più sotto mano; poi levandosele ad una ad una appuntò con esse la freccia che rigirò intorno al cocuzzolo, aggiustandovela in fine con un colpo secco della palma della mano.
—«Ecco fatto: adesso voltati marmotta!»
La bimba ubbidì subito; si voltò, tenendo la testa bassa; ma sul grembiulino bianco, inamidato, si vedevano qua e là le tracce delle lacrime cadute.
La Contessa, a quella vista, strillò come una indemoniata, agitandosi, smaniando, che pareva presa dalle convulsioni: buttò fuori improperi e parolacce, e siccome la piccina spaventata proruppe in singhiozzi, le allungò un manrovescio così forte che le fe' rossa tutta una guancia.
In quel punto, mentre lo strepito era maggiore, si aprì adagio adagio l'uscio interno della cucina, che metteva in una stanza attigua; poi fece capolino fuori dell'uscio una faccia pallida, magra, sparuta, con una barbettina rada e una gran zazzera di capelli neri; e rimase là esitante, a guardare, senza muoversi punto.
—«Se i vicini ci sentono» disse infine una vocina sottile e sommessa, «si fa la figura di tanti matti!»
Quel personaggio che non osava inoltrarsi era il marito della terribile Contessa: il conte e cavaliere Venceslao Portomanero, professore a duemila e duecento lire nel regio Ginnasio di Verona.
—«Sì, facciamo una figura da cani» continuò a strillare la signora, «ma è questa sciagurata che ci fa scomparire! E tu che sei un uomo, se non ti muovi per darle una buona lezione, mi farà crepar arrabbiata… e sarete tutti contenti!»
Il signor Conte guardò allora la bambina e sul volto spaurito gli passò come un'ombra di pietà; poi con una durezza che si sentiva forzata, «Andiamo, animo, da brava», disse ad Agnese, sempre colla sua vocina da pecora, «cercate, santa pazienza, di metter giudizio!» Ma dette queste parole sparì subito dietro l'uscio, che si richiuse con grande sgomento della fanciulletta, che si vedeva nuovamente abbandonata sotto le granfie della padrona.
Eppure Agnese, o la bambinaia, come la chiamava la contessa Orsolina, aveva avuto in casa Portomanero i suoi giorni buoni di felicità e di gloria; ed erano stati i primi appunto, in cui, dopo aver lasciato il verde paesello del Tirolo, i prati odorosi, le rocce bigie di granito, era scesa a Verona ed era venuta a servire e a stentare, in un quartierino privo d'aria e di luce, che sapeva di muffa.
La Contessa si faceva provvedere il personale di servizio da una sua amica che abitava Trento: e ciò perché le tirolesi sfacchinavano il doppio delle altre, e avevano minori pretese pel vitto e pel salario. Di più, essa voleva che non avessero mai servito, così non erano ancora ammalizzite e le poteva meglio governare.
Quando arrivò l'Agnese dal Trentino la Contessa in persona si recò a riceverla alla stazione; onore codesto ch'era toccato per altro, indistintamente, a tutte le bambinaie che l'avevano preceduta; e come la signora aveva fatto colle altre, abbracciò e baciò con grande effusione la nuova arrivata, ripetendole il solito discorsetto, che in quel momento di contentezza era veramente sentito:
—«Come ti chiami?»
—«Agnese, signora Contessa…»
—«Brava: è un nome che mi piace. Ricordati, che se sarai savia, non avrai in me una padrona dispotica, ma troverai invece una buona mamma».
Si avviarono a piedi verso Porta Nuova. La Contessa che dondolava tronfia e severa nella grassa maestà della sua persona, colle piume e i nastri svolazzanti del cappellone passato di moda, dono di una sua parente di Venezia; la bambina, che tratto tratto saltellava, non potendo tener dietro ai passi smisurati di quel donnone.
La signora Contessa non osava mai approfittare delle vetture di piazza:—«Non si è mai sicuri di quel che si porta a casa!»
La corsa era lunga: Agnese, stanca, cambiava da un braccio all'altro il suo piccolo fardelletto. La Contessa, rossa, accesa, col viso lustro pel sudore e una treccia di capelli che si snodava di sotto al cocuzzolo, sbatteva, ansante, il ventaglio, ma non rallentava il passo.
—«Hai fame, Agnese?» domandò dopo un poco.
La bimba, vergognosa, e con un affanno che le levava il fiato, rispose un monosillabo inintelligibile.
—«Oggi mangerai le papparelle al sugo: ti piacciono le papparelle?»
—«Sì, signora Contessa».
Allora cominciarono le prime istruzioni. Due cose, anzi tre, raccomandava la Contessa in modo particolare: l'ordine, la pulizia e il buon cuore. In quanto alla pulizia doveva proprio badarci assai, perchè il «signor Conte» su quel proposito era molto esigente; ma per contentar lei, bastava aver cuore. Sicuro, qualora si mostrasse affettuosa, affezionata, specialmente colla Rosalia, «la signora» avrebbe finito col chiudere un occhio e magari due, su tutto il resto. Già, in casa, non c'era molto da fare. Soltanto doveva abituarsi a essere ordinata per non affastellare le faccende!—Del resto non aveva altro che due persone sole da servire; chè la Rosalia, naturalmente, non contava.—La Rosalia sarebbe stata per Agnese uno svago, una delizia! Rubava il cuore quella ciocina!… Era un tesoretto.—E poi qualche volta, si sa bene, anch'essa «la padrona» le avrebbe data una mano. Preferiva lavorare un po' piuttosto che vedersi attorno un'altra persona di servizio; un viso nuovo! Eran tutte viziose, sudice, ladre!… E anche l'Agnese doveva esser contenta di trovarsi sola: così almeno, nella sua cucina, la padrona dispotica era lei! Con due donne insieme sarebbe stato troppo difficile il buon accordo: invidie, gelosie, liti!… Una casa del diavolo!… E il signor Conte su questo tasto era inflessibile. Guai, se sentiva leticare!… E aveva ragione, perchè ne scapitava il decoro della famiglia.
Quando attraversarono la Piazza Brà, la Contessa indicò ad Agnese il Caffè d'Europa.
—«Guarda com'è bello, ti piace?»
La bimba guardò senza risponder nulla: pareva istupidita.
—«Tutte le sere, o suona la banda sulla piazza o c'è concerto dentro, nella sala del Caffè—Guarda com'è grande!—Noi ci veniamo sempre. E verrai anche tu, colla Rosalia. Vedrai, vedrai; un po' di buona volontà, un po' di buon cuore, e pulizia, e puoi star sicura di godere il papato!»
Giunte in fondo della piazza le fe' ammirare anche l'Arena.
—«Lì dentro, una volta, ci stavano le bestie feroci, che mangiavano i Cristiani vivi». E con un suo ghignetto di compiacenza, continuò: «Di' la verità, ti piace più Mori…» era il capoluogo del paesello di Agnese: «ti piace più Mori o Verona?»
La bimba alla domanda improvvisa si sentì stringere il cuore. Là, in mezzo a quella piazza così grande, fra tutte quelle casone bianche, con quella padrona al fianco, che vedeva per la prima volta e le metteva addosso tanta soggezione, volò col pensiero alla sua povera casetta, alla mamma, a Menico, e alzò timidamente gli occhi smarriti in volto alla signora, sospirando senza risponder nulla.
Alla poverina pareva di sognare. Difatti l'avevano destata di notte, bruscamente, per metterla in viaggio; l'avevano cacciata in una diligenza, tra una fitta di persone che la guardarono tutte di malumore e che si scomodarono appena per farle un po' di posto. Uno sgomento, un affanno nuovo, profondo la travagliava… Pure, per la stanchezza, pisolava a ogni tratto; ma quando tornava a svegliarsi spaventata pel traballìo della grossa vettura, la riprendevano quello sgomento e quel dolore, e alla luce malinconica dell'aurora, si facevano sempre più vivi, sempre più angosciosi. Poi, trovavasi sola, abbandonata sotto l'ampia tettoia della stazione, credeva di perdersi; rimaneva immobile, confusa, vergognosa fra il trepestio della folla affaccendata; non sapeva che fare, dove andare, a chi rivolgersi. Alla fine un conduttore, con mal garbo, la fe' correre quanto era lungo il treno, rossa, ansante, col suo fardello sotto il braccio, e la spinse su, strapazzandola, in un vagone di terza classe, sbacchiandole dietro lo sportello, mentre la macchina fischiava e il treno si metteva in movimento. E anche lì dentro, come prima nella diligenza, essa fu guardata di traverso da visacci arcigni, che l'accolsero con mal garbo…—Sì, sì; le pareva di sognare; sperava ancora che il suo non fosse altro che un brutto sogno. Ma poi, quando dovette convincersi d'essere desta davvero, allora lo sgomento di prima tornò a premerle sul cuore.
Buon per lei che la Contessa, in vena d'indulgenza, interpretava tutto benevolmente, anche la timidezza, anche la mestizia; tanto che appena giunta a casa, ancora scalmanata, contò subito al marito che la nuova bambinaia si mostrava molto intelligente e che sperava, alla fine, d'esser riuscita ad accomodarsi bene. E si mantenne in questa buona disposizione per tutta una settimana; durante la quale Agnese fu lodata, vezzeggiata, tenuta di conto, come una cosa rara. Le davano anche abbastanza da mangiare, e ogni poco la padrona tirava fuori da certe scatole di dolci stinte e sciupate, doni di nozze che contavano parecchi anni, talune chicche vecchie, indurite, che regalava alla fanciulla; la quale, non usa a simili finezze, le riceveva arrossendo, tutta confusa per la timidezza e la gioia; e dopo averle ammirate le metteva in serbo per la mamma e per Menico, in una scatola di mostarda senza il coperchio, che pure le era stata donata, perchè vi riponesse la sua roba.
La contessa Orsolina in quei primi giorni non era uscita mai; era rimasta tutto il tempo colla bambinaia per aiutarla, finchè non avesse imparato la pratica della casa.
Senza sottane, senza busto, la signora non indossava altro che una spolverina da viaggio di tela greggia, logora e unta, che faceva servire a uso veste da camera. In ciabatte, coi capelli rossastri che le uscivano spettinati di sotto a un foulard annodato attorno al capo, con un paio di guanti sudici, del marito, per non guastarsi le mani; trafelata, molle di sudore, col viso acceso, coi fianchi enormi e col petto opulento che le ciondolava, faceva ballare i vetri delle finestre andando e venendo, dalla camera al salotto, e dal salotto alla cucina; sempre armata dello spolveraccio e del pennarolo: sempre acciaccinata, sempre strillando. E «Bada, bimba, bada» ripeteva ogni minuto all'Agnese, «queste faccende devi poi imparare a farle da te.—Guai se mi vedesse il signor Conte in questo stato, guai! monterebbe in bestia!»
Ma la ragazzetta prometteva bene; e la padrona se ne mostrava sempre più soddisfatta, ritrovandole tutte le belle qualità di cui appunto difettava maggiormente «quella vipera, quella sudiciona, quella sciagurata dell'ultima bambinaia che aveva avuto e che» raccontava sempre la Contessa «era stata costretta a scacciare sui due piedi!»—La cosa, per altro, non era andata proprio a quel modo. Una bella mattina, svegliandosi arrabbiata perchè la serva non le apriva le imposte, si accorse che «quella briccona» era scappata di casa. Figurarsi il baccano! Si parlò di ricorrere alla questura… Ma poi, siccome per paura d'essere ripresa, la serva rinunciava tacitamente a quindici giorni di salario, così alla signora, dal canto suo, parve più conveniente, sbollita l'ira in chiacchiere, di non farle correr dietro il conte Venceslao!
Anche Rosalia, la piccola erede di casa Portomanero (un popone sformato di ciccia gialla e floscia, colle gambe corte, e le croste sul viso), doveva anch'essa in quei giorni di gaudio mostrarsi garbata. La contessa Orsolina le insegnava a dare i baci alla francese alla nuova bambinaia; e la sgridava se non le lasciava mangiare il pranzo in pace, ripetendo sempre che anche le altre donne se n'erano andate per via de' suoi capricci. Poi voleva che non facesse la caparbia, che smettesse il viziaccio di farsi sempre portare in collo per istrada, e infine, quando erano la sera al Caffè d'Europa, perchè «si abituasse ad essere di buon cuore», l'obbligava a dividere con Agnese il biscottino che la bamberottola succiava adagio adagio, tuffandolo nella mezza marenata della mamma.
Ma in sul più bello di tanta serenità e di tanta pace, verso il settimo giorno, si addensarono le prime nubi, sotto forma di semplici ammonizioni:—«Bada, Agnese; ti ho già detto un'altra volta che mi consumi troppa legna!—Bada, Agnese; il signor Conte ha gridato con me perchè non gli hai smacchiato l'abito nero.—Agnese, devi star più attenta alle cose!—Agnese, diventi poltrona!—Agnese, non abusare della mia bontà!» Poi la Contessa cominciò a stringere le labbra, a scrollare il capo, segni forieri di tempesta, e a mormorare: «Non capisco… Avevi fatto tanto bene i primi giorni… Non capisco; ma ci sarà sotto la sua ragione! » Frase misteriosa, detta così misteriosamente da spaventare la poverina ignara del supposto arcano.—«Certo, certo; ci sarà sotto la sua ragione; lo crede anche il signor Conte!» E, finalmente, dopo il lungo brontolìo del tuono, scoppiò improvvisa la saetta quando la Contessa si mise a urlare disperata che «Agnese non aveva cuore, che era un'ingrata,» e le rinfacciò brutalmente le garbatezze prodigatele, le chicche, il mezzo biscottino di Rosalia e i concerti del Caffè d'Europa.
Agnese intanto si faceva sempre più smunta, sempre più magra e sbalordita. Sfacchinava dalla mattina alla sera; era sfinita, ma non riusciva mai a contentare la signora. In verità, la disgrazia della bambinaia era una sola, e pur troppo inevitabile: granata nuova spazza bene tre giorni; e n'erano passati più di sette!… Adesso la contessa Orsolina si seccava a restar tutto il giorno coll'Agnese per insegnarle «la pratica della casa» e «per darle una mano.» Adesso voleva alzarsi tardi, voleva uscire, voleva andare a far visite. Insomma «voleva tenere una donna non per far lei la serva, ma per essere servita!» Nella sua indolenza di donna grassa e nel suo egoismo di pitocca sfarzosa, non si capacitava che una bimba di dodici anni non avrebbe potuto sostenere sulle sue povere spallucce tutto il peso di casa Portomanero; ma invece, più era esigente e incrudeliva, e più perdeva la coscienza della propria ingiustizia, persuasa che era stata ben grulla nell'aiutare l'Agnese, perchè la sorniona, colla sua «furberia da montanara ne approfittava per oziare e per mangiare il pane a ufo!»
—«Alla fin fine il quartierino era piccolo, Agnese non aveva altro che due persone sole da contentare, e in ventiquattr'ore c'era tempo e n'avanzava per lavorare e per riposarsi! Bastava che avesse avuto un zinzino di buona volontà; ma invece era una ragazzaccia disordinata quanto mai, e poi d'una sciatterìa che faceva rabbia a guardarla!»
E, al solito, anche questa volta, a mano a mano che la nuova bambinaia scemava di pregio, tornava in ballo quella di prima, e nasceva nella padrona la smania di riagguantarla.
«Per la pulizia,» principiava a dire la signora al conte Venceslao, che l'ascoltava sempre muto e sempre rassegnato a darle ragione, «per la pulizia bisogna proprio convenire che quell'altra era una meraviglia. E poi ti ricordi com'era svelta? E com'era precisa in tutte le cose?… Basta…» e la Contessa sbuffava stizzita, «una come quella non la trovo più!» Poi, essendo in vena di sentimento, ne lodava la bontà del cuore.—«Sicuro; la Virginia» era questo il nome della serva che aveva preso il volo «era molto più affezionata alla casa; e lo aveva provato in varie occasioni! ed anche a lei voleva molto bene!—Si era disgustata soltanto per cagione di Rosalia. Quella monella pretendeva sempre di stare in collo!… Ma se si potesse trovar modo di riaver la Virginia, sarebbe pure una gran bella cosa!…» E la sera a letto, fra le coniugali tenerezze, ingiungeva al marito (anche in quei dolci momenti la Contessa conservava sempre il tono assoluto) di correre la mattina appresso, prima della lezione, dalla fruttaiola sotto i Portoni dei Borsari (una che trovava servizio alle ragazze) per cercare s'era possibile di riaccomodarsi.
Il Conte, volendo esimersi, tirava in ballo la dignità offesa per la fuga della serva; ma la moglie, subito gli chiudeva la bocca con un altro argomento, che non ammetteva repliche: l'economia.
—«La Virginia mangiava molto meno di questa ghiottona dell'Agnese!»
Proprio, per dire la verità, l'accusa d'ingordigia era la più ingiusta che mai si potesse fare in casa Portomanero, dove nessuno mangiava a sufficienza, compreso il conte Venceslao. Soltanto la Contessa, colla scusa dei languori, si faceva certe frittatine, mentre il professore era a scuola, che le permettevano poi, all'ora del pranzo, di moderare l'appetito del consorte, coll'esempio della propria sobrietà.
Ma i coniugi ne avevan pochini da spendere, e meno ancora ce n'erano per i gusti aristocratici della contessa Orsolina. Le loro rendite non toccavano mai le tremila lire, tutto compreso; quantunque il conte Venceslao, dopo la scuola, corresse in giro a dar lezioni private.
—«Il benedett'uomo si strugge se non sta a predicare il latinorum!» diceva la Contessa, colla sua voce sgarbata, ai professori, che la sera le facevano corona al Caffè d'Europa.—Essa voleva dare ad intendere che non ce ne fosse punto bisogno, che anzi avesse a noia quel lavoro soverchio del marito; poi, nel segreto delle pareti domestiche, lo stimolava, rimbrottandolo, a darsi moto per trovar lezioni.
Alla signora piaceva assai di stare sulle mode, sebbene non fosse molto lungi dalla quarantina. Ma si sentiva rifiorire con un ritorno di aspirazioncelle giovanili, grazie a quel marmocchio, che le era capitato, non sapeva come, dopo dieci anni di matrimonio. E poi si reputava sempre una bell'asta di donna, e si arricciava le ciocchine sulla fronte un po' rugosa. Superba della sua pinguedine, de' suoi bitorzoli e delle vesti appariscenti, non credeva scemata la propria avvenenza dai denti cariati, nè la propria eleganza dalle unghie nere, alle quali non badava mai, perchè già, fuori di casa, portava sempre i guanti. Del resto, e se ne vantava, curava molto la pulizia: una volta alla settimana andava a prendere il bagno a San Luca, e la sera dopo raccontava al Caffè quella sua raffinatezza respirando a ogni tratto per il piacere di sentirsi «bella fresca».
I colleghi del marito non la potevano soffrire, ma le erano soggetti per via del Provveditore agli studi, un omettino piccolo, gobbo, tisicuzzo, che coi suoi occhietti miopi, senza vedere i particolari, apprezzava soltanto la quantità della persona.
Con quei gusti della padrona e coi denari contati, si capisce che dovessero andare di sotto i piaceri della tavola.
«Quel che si mangia non c'è più» sentenziava la Contessa dopo pranzo, mentre il conte Venceslao faceva ancora la zuppa in un mezzo bicchier di vino, cogli avanzi del pane.—«La roba invece rimane sempre, e si fa buona figura. Già è la moglie che rappresenta l' emblema della famiglia.—Quando esce, se si mostra ben vestita, di tutto punto, mantiene il decoro della casa, mentre, invece, chi viene a ficcare il naso nella nostra pentola per vedere che cosa ci bolle?—Non ho ragione, Lao?»
Il Conte, per tutta risposta, abbassava gli occhi sul suo abito nero, liso e spelato. Ma, secondo l'opinione della Contessa, gli abiti del marito non conferivano nessuna dignità alla famiglia; tanto è vero che il Conte non possedeva, fin dai tempi remoti, altro che quel suo vestito voltato e rivoltato, così ch'era lucido di sotto come di sopra. E poi, anche in questo, la contessa Orsolina sapeva salvare le apparenze al solito, brontolando:
—«Pare impossibile: i letterati non vogliono mai badare alla loro toeletta. Io grido sempre con mio marito, ma non mi riesce di vederlo vestito bene; e anche quando gli fo fare per forza un abito nuovo, non c'è versi che lo voglia mettere e invecchia nell'armadio.»
Ci sono delle persone che fanno come i cani; si conoscono all'odore. Così era successo al conte Venceslao coll'Orsolina, che l'aveva incontrata a Vicenza, dove egli era professore in un istituto privato. E avevan potuto annusarsi a loro agio, chè l'Orsolina era figliuola appunto della padrona di casa, dove il professore era andato in pensione. Tutti e due vani, tutti e due pitocchi, tutti e due erano boriosi di quel titolo, che avrebbero potuto sbatacchiare sul muso «ai plebei arricchiti», e che li avrebbe compensati di tutti gli stenti della lor condizione.
Il conte Venceslao per altro aveva creduto che la sposa dovesse ereditare qualche soldo alla morte della mamma, e l'Orsolina aveva sperato in qualche aiuto dal nobile parentado, che sentiva tanto vantare. Così tutti e due, si erano presi a vicenda come si prende una medicina, che non gusta al palato, ma che si spera, abbia a recar vantaggio.
Invece le speranze furono presto deluse; la mamma era passata a seconde nozze, e il nobile parentado, dopo essersi adoperato perchè il conte Venceslao fosse nominato regio professore e creato cavaliere, faceva il sordo a tutte le altre sollecitazioni. Soltanto una parente di Venezia, che contava cinque dogi nella sua famiglia, regalava ogni tanto all'Orsolina gli abiti smessi, e a Santa Lucia mandava una cassetta di roba per la bimba.
Per tutto ciò eran rimasti delusi e malcontenti, non avendo altro che il titolo da sfoggiare e da godere. Ma l'Orsolina, di tempra più forte, si vendicava della disdetta patita, comandando a bacchetta in casa; il Conte invece, fiacco e disilluso, si lasciava dominare, per non aver di peggio, lamentandosi in cuor suo di non esser nato a buona luna.
Fossero stata gente come ce n'è tanta, con tremila lire potevano sbarcarsela benino. Ma per gli obblighi del nome si trovavano sempre col borsellino asciutto. La loro vita era stentata appunto perchè era tutta d'esteriore, perchè sacrificavano l'essere al parere. E il conte Venceslao, al quale ritornava un po' di buon senso col crescere dei bisogni, sarebbe stato anche disposto, come diceva alla moglie « a molarghe un punto » coi fumi aristocratici; ma invece l'Orsolina, che per mezzo del Provveditore era stata ammessa ai ricevimenti della Prefettessa, teneva duro più che mai.
Con una servetta sola, che passava per bambinaia, essa andava parlando della sua «servitù», e dava ad intendere di tenere una cameriera e una cuoca, che poi «per caso», aveva allora allora licenziate, ogni qualvolta si vedeva in pericolo di esser colta in fallo. Nessuno era ancora riuscito a penetrare in casa Portomanero, nemmeno il signor Provveditore. Colla scusa di essere sempre in cerca di un quartierino conveniente, che non conveniva mai, la Contessa non riceveva nessuno; invece pretendeva che le visite le venissero fatte la sera, in Piazza Brà, al Caffè d'Europa, dove stava per ore intere come in trono, fra il marito stanco e assonnato, che scioglieva le sciarade della Nuova Arena, la bambinaia colla Rosalia sulle ginocchia, e la mezza marenata dinanzi, sul tavolino. E ogni tanto, quando c'era gente, domandava al marito perchè non voleva prendere un gelato, un'acqua o un caffè; e offriva una pasta alla bambinaia; ma il marito non beveva altro che l'acqua fresca della moglie, perchè le altre consumazioni gl'impedivano di dormire; e la serva doveva sempre rispondere con bella maniera:—«Grazie, signora Contessa, ma oggi a pranzo ho mangiato tanto, che non mi c'entra più niente!»
II.
La piccola Agnese non aveva mai avuto fortuna. Prima che nascesse, il babbo suo, già carico di famiglia, bestemmiava come un turco per quel nuovo peso che gli cascava addosso; i figliuoli ne tenevano il broncio alla madre, e mormoravano tra' denti, ch'era una vecchia senza giudizio; e dopo, appena fu messa al mondo, continuarono i musi e i litigi perchè invece di una femmina avrebbero voluto un maschio. La povera mamma tremava di continuo a cagione della creaturina sua, e dovea tenerla nascosta, e per allattarla scappava lontana, o correva a rifugiarsi in qualche angolo buio della catapecchia, temendo sempre che gli uomini non gliela inghebbiassero, come minacciavano di fare, col sugo di bosco.
Poi, quando più tardi la piccina fu divezzata, non vollero che la donna se la portasse dietro mentre andavano a lavorare: era una seccatura e un perditempo. Invece la tenevano chiusa in casa, senz'altra compagnia all'infuori di un gattaccio nero e di una gallina vecchia.
Gli spaccalegna abitavano una specie di tana: due buche basse, l'una dietro l'altra, colle pareti annerite dal fumo e dall'umido. Nella prima, un gran tavolone roso da' tarli, e tutt'intorno una panca sgangherata, serviva di desco; nella stanzaccia appresso dormiva la famiglia; uomini, donne, e il ciuco insieme. Lì non c'era nemmeno una finestra; ma l'aria e la luce penetravano dagli spacchi del tetto e delle pareti. Sullo sterrato del suolo colava il sudiciume della bestia insieme con quello de' cristiani e spandeva entro il misero tugurio un fetore malsano.
La bimba abbandonata rufolava l'intero giorno in quel sudiciume. Essa teneva stretta fra le manine grasse un pezzo di polenta nera che biascicava di mala voglia. La gallina, cheta, silenziosa, veniva di tratto in tratto a beccargliela furtivamente, e poi subito scappava via strillando, colle ali aperte, seguita sempre dall'occhio giallo, fisso del gatto, aggomitolato sulla panca.
La bimba, così sola, rideva, piangeva, si arrabbiava, si spaventava, poi, sola sola, tornava a confortarsi. Ma quando si faceva buio e Agnese non vedeva nella stanzaccia altro che gli occhi lucenti del gatto, essa cominciava a disperarsi e si metteva a piangere, a strillare e non si acquietava fino a tanto che un calcio del babbo e il fiato caldo di Parigi, il cane volpino, che veniva a leccarle il viso, non l'avvertivano del ritorno della famiglia. Allora essa correva a rifugiarsi accanto al camino e non si sentiva più neanche respirare.
La mamma non osava difenderla, perchè gliela avrebbero maltrattata peggio che mai; ma la cercava sempre con gli occhi pieni di tenerezza paurosa.
Era una donna alta e scarna, dal cui viso smunto traspariva una bellezza guasta ancor più dai patimenti che dagli anni; gli occhi esprimevano quella mestizia dolce e affettuosa, che indica come l'anima sia rassegnata, ma non abituata al dolore. Sempre sottomessa e umile soffocava persino i sospiri; soltanto quando proprio non poteva reggere allo strazio, osava dire appena qualche parola per difendere l'Agnese.
—«Finite di tormentarla… Già non è colpa sua s'è venuta al mondo!»
E quando scodellava, lasciava per ultima la ciotola della bambina; nè la metteva in mostra sul desco, ma la teneva in un angolo del focolare, così gliela empiva sino all'orlo, senza che gli uomini avessero a brontolare per quello spreco.
Agnese, seduta in terra, colla ciotola tra le gambette, afferrava il cucchiaio di legno e cominciava a mangiare; ma coi movimenti ancora incerti delle manine non imboccava bene la cucchiaiata e più di mezza le colava giù dalla bocca a imbrodolare il vestituccio. Intanto il gatto nero le si avvicinava piano piano, e veniva a ficcare il muso nel piatto. Agnese, subito, lo minacciava col cucchiaio, non arrischiandosi a picchiarlo, e non osando gridare. Invece si guardava intorno smarrita, cercando la mamma sua; ma la mamma era l'unica donna della casa, e dopo aver lavorato «cogli uomini,» mentre essi cenavano, usciva a raccogliere l'erba pel somarello… E il gattaccio continuava sempre a leccare, e leccava finchè Parigi, vedendolo, gli si avventava contro ringhiando… L'altro faceva le fusa, drizzava il pelo, soffiava, poi, via come di volo verso una tana sotto il tetto, e spariva… Parigi dietro, abbaiando, rovesciando la scodella di Agnese.
—« Parigi!… qua!… To!… canaglia…» e giù parolacce e bestemmie.
Parigi, colla coda tra le gambe, tornava lentamente sotto la tavola: il gatto adagio adagio rientrava in cucina per un altro buco, e la bimba, ancora tremante, raccoglieva col cucchiaio la broda colata in terra.
Ma per altro, in mezzo a que' cattivi, c'era di buono, oltre la mamma e Parigi, anche il cugino Menico: un ragazzetto di pochi anni più grande di Agnese. Ed anzi, qualche tempo dopo, quando il piccolo spaccalegna si ruppe una gamba cadendo da un abete, restando egli pure tutto il giorno rinchiuso insieme colla bimba, cominciò proprio a volerle bene.
Chiacchieravano tra loro soli, a voce bassa, ridendo, canticchiando, giocando e infilando coccole rosse di pugnitopo, e ghiande verdi e gialle colle quali l'ambiziosetta si faceva collane e orecchini. Menico intanto si godeva quel riposo insperato, e la bimba, tutta gaia, faceva la donnina, attorno al piccolo infermo; o gli stava accoccolata vicino, sul saccone, deliziandosi al molle calduccio. Poi, quando Menico potè cominciare ad alzarsi, i due ragazzi passavano intere le loro giornate nel praticello dietro la casa, a declivio sopra un torrente che scorreva chiuso in una villetta tutta verde. La bimba girellava raccogliendo fiori, e belle foglie larghe e striate, che ammucchiava sulle ginocchia di Menico. Poi anch'essa gli si sedeva vicino sull'erba e si divertivano insieme a intrecciare ghirlande e a far mazzolini.
Nelle ore calde del meriggio Agnese scendeva sotto l'ombra folta della riva per dar la caccia alle farfalline dai vivi colori, agli scarabei dorati e alle damigelle graziose, colle alette azzurre splendenti al sole. E gridi e risa di gioia annunciavano a Menico il ritorno della bimba, che egli vedeva comparire rossa e trafelata sull'erba, coll'insetto chiuso fra le mani.
Ma presto riprincipiarono i patimenti della piccola Agnese. Appena ebbe dieci anni il babbo e i fratelli suoi vollero che si mettesse a lavorare, e le furono tutti addosso coll'accanimento di chi intende rifarsi di un danno patito.
—«Aveva campato a ufo per tanto tempo!… Era ormai tempo che il suo pane lo guadagnasse!»
La mamma cercava di risparmiarla; ma gli uomini montavano in furia anche contro di lei e la facevano morir di fatica perchè non avesse da star dietro alla figliuola. Tutte le mattine era l'Agnese che doveva portare al bosco l'acqua e la merenda degli spaccalegna…—C'erano due, tre, alle volte anche quattro miglia da fare per una viottolina ripida e sassosa. La bimba teneva la sporta della polenta in una mano, coll'altra il secchio dell'acqua, e saliva su su, adagio adagio, traballando, e lacerandosi i piedini nudi sul sentiero. Menico, quando poteva scappare, le veniva incontro un buon tratto di strada per aiutarla; ma se gli altri se ne accorgevano, guai! lo picchiavano come un asino ed anche più forte, perchè la pelle dell'asino costa quattrini.
Finalmente, un giorno, uno degli uomini si risolse di pigliar moglie. La mamma s'era fatta vecchia e rifinita e Agnese sola non bastava a far le sue veci. Ma per altro, quando sarebbe entrata in casa una donna giovane e forte da metter sotto a sfacchinare, l'Agnese sarebbe tornata a essere un soprappiù. Perciò la mamma, prevedendo nuovi tormenti e sperando così di formare la felicità della figliuola, si rassegnò a distaccarsene e trovò modo di mandarla in città a servire.
Il babbo aveva dato il suo consenso non solo, ma si stimava molto fortunato: gli pagavano la bimba cinque lire al mese: non aveva mai sperato di cavarne tanto profitto!
III.
—«Cinque lire?… Capperi!…» quell'assegnamento mensile pareva una spesa grossa anche alla contessa Orsolina Portomanero, la quale non voleva certo buttar via i denari suoi «per ingrassare i villani!»
La bambinaia era pagata profumatamente; e però doveva servire; doveva lavorare!
—Cinque lire?… Sono una bagattella cinque lire al mese; ma in un anno, perdinci! diventano sessanta franchi; e con sessanta franchi c'è da farsi un abito nuovo alla Pompadour, che par proprio di seta!—Non dico bene, Lao?
—Già… sicuro… sessanta lire: quasi dieci giorni della mia paga.
A poco a poco, mentre cresceva il malcontento della Contessa per la bambinaia, questa somma di cinque lire prendeva nell'immaginazione sua dimensioni più gigantesche, e Agnese non lavorava mai abbastanza per meritarla. E perciò ogni giorno la signora diventava più esigente e ogni giorno incrudeliva verso la poveretta, che adesso le era diventata anche antipatica perchè si vedeva costretta, in certo modo, a tenersela per forza.
Le corse del conte Venceslao ai Portoni dei Borsari e le pratiche per riaver la Virginia erano rimaste senza effetto.
—«Piuttosto mi butto nell'Adige!» aveva risposto la giovane alla fruttaiola.
Le altre serve (pareva si fossero date l'intesa!) scappavano spaventate appena sentivano nominar la Contessa. Così, la sfortunata Portomanero, non potendo servirsi da sè sola, era obbligata per sua disdetta a contentarsi dell'Agnese, la quale faceva miracoli con quelle braccine sottili; ma tutto era inutile. La Contessa diceva che la bambinaia era indolente, disordinata, che non aveva cuore, nè pulizia; e siccome Agnese si crucciava e appariva mesta e mortificata, la sgridava di più, perchè metteva il muso.
—«Dio, Dio! Com'era stufa di villane! Zotiche, poltrone, golose, sciatte, senza un briciolo di quell'aria composta che dà tanto decoro alla casa: e inoltre anche ladre!—Sicuro anche ladre. Fin allora non si era accorta di nulla; ma era certa che un giorno o l'altro avrebbe scoperto che l'Agnese rubacchiava. Già non aveva cuore, e quando non c'è cuore, si finisce sempre male!»—Ed era tanta la bile della contessa Orsolina, che si guastò persino colla sua amica di Trento perchè «non le mandava mai altro che arruffone screanzate e buone a nulla!»
Era principiato l'inverno e l'Agnese tribolava anche più. Doveva mettersi in moto due ore almeno innanzi giorno, nella casa buia, fredda, silenziosa, mentre i padroni dormivano della grossa. E cominciare a lustrar le scarpe, a smacchiare gli abiti, ad accendere il fuoco per l'acqua calda: poi preparare il caffè del professore, il latte di gallina per la signora, e la pappa di Rosalia. Appena il Conte era alzato, correre ad accendergli la stufa nello studiolo, e soffiare, soffiare, soffiare, da rimetterci un polmone!… E quando si alzava la Contessa, correre anche da lei a pettinarla, lisciarla, abbigliarla; in ultimo, vestire e lavare la Rosalia, faccenda che finiva sempre in tragedia. Dopo c'erano da far le camere: c'era da spazzare, attinger l'acqua e portar la legna dalla cantina al quartierino, su al terzo piano di un casone grande, a Sant'Anastasia. Inoltre bisognava stirare, cucire, preparare il pranzo, lavare i piatti, e infine la sera, quando Agnese cadeva sfinita per la stanchezza, doveva ancora andare in giro per Verona, e su e giù in Piazza Brà, dritta, composta, tenendosi in braccio la Contessina che, a peso, prometteva crescere quanto la genitrice! E tutto ciò sempre con un po' di fame, e sempre colla padrona alle costole, la quale, protestando di farle da mamma, le dava anche di tanto in tanto qualche scappellotto.
Agnese non pareva più la stessa dei primi giorni: aveva il visino pallido, affilato, e il corpicciuolo curvo, dimagrato sotto l'abito cencioso.
—«Quando ti farai più svelta e troverai anche tu, come sapeva trovarle Virginia, due o tre ore nella settimana per lavorar di tuo, chè non sono una tiranna e lo permetto», diceva la Contessa rialzando la testa e il petto con severa maestà, «allora ti regalerò uno scampolo perchè tu ti faccia un vestito nuovo».
Intanto, per il freddo che soffriva nella sua cameruccia, dopo essersi abbrustolita in cucina, Agnese aveva preso la tosse: una tossettaccia cattiva, che a volte la faceva urlare con gran fastidio della Contessa, e senza rispetto de' suoi poveri nervi; ond'essa brontolava che «quella villana non aveva proprio educazione!»
Aveva le manine rosse, gonfie e spaccate dai geloni, e stentava a camminare nelle scarpe diventate strette; ma pure anche vedendola in quello stato la contessa Orsolina non ne aveva pietà. Anzi s'indispettiva maggiormente, essendosi persuasa che «la fintaccia» si mostrava apposta così malandata per farsi compatire, e per far credere alla gente che in casa Portomanero la trattavano male.
Tuttavia quell'Agnese «che doveva tenersi per forza», che si vedea lì dinanzi sempre ammusata, diventava il suo tormento e le faceva perdere l'appetito. Diceva, e lo credeva, che le avea portata in casa la jettatura, e ciò era provato dal fatto soprannaturale che non le era più possibile di trovar un'altra bambinaia. Era sempre spettinata, col capo sudicio, perchè adesso avea la superstizione di perdere i capelli se li toccava l'Agnese. Insomma un giorno, tanto si sentiva sfortunata, che non potè più reggere, e si mise a piangere dalla fruttaiola. Figurarsi! a cagione «di quella bestiaccia» si guastava il sangue e si arrabbiava anche col conte Venceslao!
«Mentre io la sgrido, lui non è buono di dire una parola, e lascia tutta a me la parte odiosa!»
Spesso, marito e serva, finivano coll'essere coinvolti nell'ira medesima.
C'era poi la Rosalia, che per l'istinto d'imitazione naturale nei bimbi, avea preso anche lei a perseguitare l'Agnese, appunto perchè la vedeva perseguitata. Le faceva sgarbi, dispetti: riferiva, e magari nel riferire inventava di suo, tutto ciò che poteva tirarle addosso una ramanzina, e le ripeteva, ciangottando, le parolacce e le ingiurie che sentiva dire dalla mamma. E costei, volendo mostrare alla fruttaiola, o ai professori, quando erano al Caffè d'Europa, l'intelligenza della sua creatura, usava domandarle, per giuoco:
«Che cos'è la Tata?»
—« Brutta bruttaccia! » rispondeva la Rosalia, facendo gli occhiacci.
—«Tesoro mio! Viscere mie care!» si metteva allora a gridare la Contessa, baciando e ribaciando la figliuola colla foga delle donne grasse che si sciolgono in tenerezze, e finiva poi sempre col farla piangere e strillare, infastidita da quelle strette, o perchè le entrava nell'occhio uno dei peli duri come setola, che spuntavano qua e là, dritti e solitari, sui bitorzoli materni.
Quelle ore lunghe, eterne del Caffè, erano proprio un supplizio per la povera Agnese. Non sapeva come stare, come muoversi, dove guardare, che cosa rispondere ai professori che la interrogavano, tenuta sempre in una gran soggezione dalle occhiatacce e dai cenni stizzosi della signora, che la bambinaia studiava attenta, spaurita, ma che non riusciva a capire, perchè non indicavano mai le stesse cose. E rimaneva lì muta e sgomenta, cogli occhi imbambolati, rossi e gonfi, per il gran piangere che aveva fatto durante il giorno. Soltanto sulla faccia assonnata del conte Venceslao ella intravedeva, qualche volta, uno sguardo benigno di compassione! e la bimba avea preso a voler bene al signor Conte, e gli era grata anche di quella timida e inefficace pietà: e la poveretta soffriva tanto, in cuor suo, quando la padrona lo trattava male.
Del resto già, era da vedersi che il buon uomo con la moglie non ce la poteva!…
Una volta sola egli s'era permesso di dire a Rosalia, che aveva tirato i capelli all'Agnese tanto forte da farla gridare: «Da brava, non tormentarla anche te!» Ma la Contessa minacciò, nientemeno! la separazione, e il conte Venceslao ebbe un bel fare, assicurandola che « quell'anche te » non era stato altro che un modo di dire!…
La signora intimò all'Agnese «di rispettare il suo sangue», e al marito «di non farsi mai più il protettore della gente di servizio», dichiarando che oramai era stufa «e che il conte Leo» proprio così «non avrebbe dovuto dimenticare che senza di lei sarebbe rimasto sempre a insegnare l' abbicì nelle elementari!»
E tutto il giorno, tutta la sera continuò quella lunga sfuriata, interrotta soltanto al Caffè, ripresa lungo la strada, nel ritornare a casa, riepilogata quando la padrona andava a letto e la bambinaia le augurava, balbettando, la buona notte.
Entrata nella soffitta dove avea la sua cuccia, mentre batteva i denti sul pagliericcio freddo, sentiva ancora la voce della Contessa che predicava al conte Venceslao.
Allora la povera ragazzina pianse tutte le lacrime sue, e le versava calde, silenziose, invocando la Vergine dei dolori perchè l'aiutasse a contentar la padrona e perchè il conte Venceslao non avesse a soffrir dispiaceri per cagion sua. Pregava e pregava rannicchiata, sotto le povere coperte, sforzandosi di soffocare la tosse, per non destare i signori, che dormivano; e se qualche volta, stanca, disfatta com'era, riusciva ad appisolarsi, si svegliava subito in sussulto, parendole di sentir la voce della Contessa che la chiamava… Quando venne l'alba a diradare le tenebre, Agnese già levata, era intenta nella cucina buia a dare il lustro alle scarpe dei padroni, dinanzi ad un mozzicone fumoso di candela, che stava per finire. Alzò gli occhi alla finestra, e sospirò, vedendo il giorno che ricominciava.
IV.
Non c'era versi: la fruttaiola sotto i Portoni dei Borsari non riusciva a pescare una bambinaia per casa Portomanero!
E la Contessa, allora, pensò fare di necessità virtù, e presa occasione da una lettera ricevuta in quei giorni da Trento, dichiarò che si sarebbe rassegnata a tenersi ancora l'Agnese «per fare un'opera di carità».
Infatti la lettera avvertiva la contessa Orsolina che la mamma dell'Agnese era stata ricoverata all'Ospedale, ridotta in fin di vita dalla pellagra. La Contessa avea dato il doloroso annunzio alla bambinaia senza preamboli e traendone anzi argomento per un nuovo predicozzo:—«Imparate a far la cattiva. E' un castigo che vi manda il Signore. In quanto a me», e si rizzava impettita, con una grand'aria di magnanimità «in quanto a me avevo trovata una cameriera bravissima che mi dovea venir da Milano, e contava darvi gli otto giorni. Tuttavia, adesso, per non lasciarvi in mezzo di una strada, vuol dire che… starò a vedere e vi proverò ancora un po' di tempo. Ma vi avverto che in questo mese avete rotto un piatto e un bicchiere, per cui mi terrò diciotto soldi sul vostro salario».
Alle prime parole, udendo che la mamma era tanto ammalata, Agnese rimase istupidita, poi cominciò a tremare, a tremar tutta come se avesse avuta la febbre, e mentre la padrona finiva appena di parlare, mandò un grido acutissimo e cadde che parea morta, per terra.
La Contessa, lì per lì, si spaventò parecchio e anche lei si diede a strillare, con quanto fiato aveva in corpo. Sollevò di peso la bambinaia, la portò sul canapè, le spruzzò la faccia con acqua e aceto; la baciò, la ribaciò, le riscaldò col fiato le manine diacce, e quando ritornò in sè, le giurò che non l'avrebbe mai abbandonata, che sarebbe stata come la sua mamma, e ad ogni costo le fece buttar giù un mezzo bicchierino di fernet puro, che, non essendoci la ragazzina abituata, le dette il travaglio di stomaco.
E per tutto quel giorno la signora fu buona coll'Agnese, e ogni momento volea darle da mangiare. Ma poi, dopo pranzo, tutto quel calore si raffreddò; cominciò a stringere le labbra e a rannuvolarsi, brontolando che «non bisognava abusare del buon cuore dei padroni». Agnese, ecco il guaio, aveva pregata la Contessa di lasciarla restar in casa per quella sera.
—«Cheh! cheh! doveva uscire per distrarsi! Un po' d'aria le avrebbe fatto bene!—Non è vero, Lao?—E poi, dovea portarsela in braccio lei, la Rosalia?»
In que' giorni appunto ricorreva a Verona la fiera di Santa Lucia; la gran festa dei bambini.
Santa Lucia, raccontavano le mamme, passava ogni anno, nella notte dal dodici al tredici dicembre, coll'asinello carico di doni, di giocattoli, di bei vestiti, di dolci, di aranci, di mandorlato; e tutto ciò per regalarlo in premio ai ragazzini ch'erano stati buoni e che avrebbero messo un bel piatto pieno d'avena vicino alla finestra del salotto, per rinfrescare l'asinello della santa.
E siccome Santa Lucia, a quanto pare, scende dalle celesti sfere per far le sue provviste in città, così a Verona, in quel tempo dell'anno, c'è fiera per tre giorni; e la sera illuminazione e folla, e baccano in Via Nuova e in Piazza Brà, e gran lusso nelle mostre dei negozi; e per tutto baracconi, trabacche e casotti pieni di roba.
La contessa Orsolina, cascasse il mondo, non sarebbe certo rimasta in casa in una di quelle tre sere.—Figurarsi!—La Rosalia se la godeva tanto!—E pensava, invece, che se l'Agnese avesse avuto un solo briciolino di sentimento, non dovea neppur fiatare, in una simile ricorrenza.
E si rodeva vedendola «per tutta la sera andare in su e in giù come un allocco, tenendo la Rosalia in braccio con un mal garbo che faceva dispetto!»—Sempre con una faccia imbroncita, senza mai dire una parola, senza nemmeno voltarsi a guardar l' Arena, illuminata dal bengala, ch'era proprio un «effetto magico!»
In Piazza Brà ci fu un momento in cui una brigata di giovinastri avvinazzati passando vicino all'Agnese e vedendola camminare così trasognata, per burlarsi di lei, le intronarono la testa improvvisamente, con uno squillo rauco di certa lor tromba stonata.
—«Figurarsi!» esclamava dopo, al Caffè, la signora, nel riferire la scena.—Figurarsi! quella mummia s'era messa a piangere, mentre la mia Ciocina batteva le sue manine gridando dall'allegrezza: «Evviva sonatori!»
Poi mentre la Contessa si disponeva ad andare a letto (al tocco dopo la mezzanotte, chè il baccano era durato tardi), nel licenziare la bambinaia, rinnovò, in forma di epilogo, una succosa paternale.
—«Badate che sono stata indulgente fino ad ora, ma che sarò d'or innanzi assai più severa. La vostra disgrazia deve farvi mettere il capo a partito, e non dovete fingervi oppressa dal dolore per abusare della mia bontà e mancare al vostro dovere!» Il conte Venceslao era già in letto, e a questo punto cacciò la testa sotto le lenzuola, fingendo di dormire.
—«Da domani, vita nuova!» continuò la matrona che in camicia, così disciolta com'era, pareva ancor più corpulenta. «Vita nuova, se no: guardatemi!»
La bimba avea in una mano il lume e lo scaldaletto; sul braccio le vesti della Contessa. Nell'altra mano due paia di scarpe, e sull'altro braccio tutti gli abiti del conte Venceslao.
—«Guardatemi!» ripetè più forte la Contessa.
Agnese spinse fuori il visino pallido fra quel mucchio di roba.—«Di voi…» e qui la padrona, rifece, gravemente e lentamente, l'atto famoso di Pilato: «di voi, me ne la-vo le ma-ni!»
—«A me Santa Lucia porterà l'abitino bello, a te niente!… A me, le chicche bone… a te niente!… a me… pru… pru… a te niente!» canticchiava Rosalia, la vigilia della festa, per mortificare l'Agnese.
Ma alla povera bambinaia non facevano gola nè l'abitino, nè le chicche, nè il cavallino di legno. Essa pure aspettava con ansia, quasi con angoscia, il regaluccio di Santa Lucia; ma era ben altro: erano i denari del viaggio per andar a trovare la mamma ammalata.
E aveva tanto pregato per ottenere i quattrinelli occorrenti, ed era tanta la fede della ragazzina buona, ch'ella si teneva proprio sicura, in cuor suo, di essere esaudita.—«Anche la Rosalia non aveva sempre ottenuto dalla Santa tutto ciò che le avea domandato?—La contessa Orsolina non assicurava la figliuola che l'abito di velluto cremisi, e il pru-pru lo avrebbe avuto di certo?… E dunque? Perchè avrebbe dovuto negare proprio a lei, que' po' di soldi?…—Sì, sì; era certa di rivedere la mamma!»
—«Guarda un po', se non ho ragione di dire che nel cuore ci ha tanto di pelo quella croata?!…» diceva al conte Venceslao la contessa Orsolina. «Non l'ho mai veduta così gaia come adesso che sua madre sta per crepare!»
Ma ottenere il miracolo di veder la mamma, per l'Agnese voleva anche dire vederla guarita. E ogni momento tirava fuori di sotto al lettuccio la scatola di mostarda senza coperchio, dove c'erano riposti i confetti che le avevano regalato in principio, e tutto ciò ch'essa aveva potuto raccattare giorno per giorno, spazzando le camere, e che pensava di portare a Menico «quando fosse ritornata al paese». Erano le scatolette vuote dei cerini, i rocchetti del cotone, le capocchie di vetro degli spilli rotti, i vasettini delle pomate, senza il turacciolo, e in fine un mazzo di carte vecchie, al quale non mancavano altro che il tre di denari e il fante di spade. Per la bimba pareva tutto ciò un tesoretto, e un tesoretto, certo, doveva sembrare anche a Menico. Ma la Rosalia aveva spiata la bambinaia quando stava disponendo le sue robuccie; aspettò appunto che andasse per abbigliare la mamma, entrò nella soffitta, si spinse sotto la cuccia, tirò fuori la scatola, e portò via ogni cosa.
Appena Agnese ritornò, e non trovò più le sue ricchezze, e le vide poi fra le mani di Rosalia che ne faceva sterminio, sentì un gran dolore, e lì per lì, si sciolse in lacrime, mentre la contessina rideva e beffava la Tata «brutta, bruttaccia!» Ma presto si fe' cuore, offrì alla Santa quel nuovo patimento, e si sentì più sicura di ottenere la grazia invocata.
Quella notte che Santa Lucia doveva passar da Verona, Agnese pregò per ore ed ore inginocchiata a piè del lettuccio, sul pavimento diaccio, tremando di freddo nella lacera camicina. Ma era riscaldata dal fervore stesso della sua fede. Anche la bambinaia avea ottenuto di mettere il suo piattino d'avena per il buon asinello vicino al vassoio ricolmo di Rosalia, e pregò, pregò, pregò tanto che finì per assopirsi così inginocchiata, col capo appoggiato sul saccone. Allora sognò la mamma bella che le veniva incontro alla fermata della diligenza; sognò il prato dietro la casuccia, sparso di margherite e di papaveri rossi sfolgoranti, e sognò di correre con Menico all'aria aperta accompagnata dai latrati festevoli di Parigi, che echeggiavano nella valletta tutta verde.
Fu destata assai prima di giorno dalle grida di allegrezza della piccola Rosalia.—Si vestì lesta, lesta, col cuore che le palpitava; ma non osò correre in salotto, non osò muoversi, aspettando di essere chiamata…—Ma perchè tardavano tanto?… Che non vi fosse nulla per lei?…—E affrettatamente, ma con un fervore intenso, supremo, recitò un'altra avemmaria.
—«Tata, Tata!» strillò infine la padroncina.
La chiamavano! Dunque la Santa l'aveva esaudita!…
Corse, entrò nel salotto rossa, confusa, e al lume della candela che teneva in una mano la Contessa, ancora in sottanino e con in braccio la Rosalia, vide subito sul tavolo grande, dove avevano disteso una tovaglia bianca, il vestitino di velluto cremisi, il cavallo di legno, e poi bambole, giocattoli, aranci, dolci, mandorlato… Era la Santa Lucia che arrivava da Venezia, dalla parente dei cinque dogi.
Agnese, con un moto irresistibile allungò il collo verso un cantuccio, in fondo della stanza, dove avevano messo il suo piattino…
—«Tata, Tata!» fece la Rosalia.
—«Andiamo a vedere che cosa la Santa avrà portato per voi» disse la Contessa, colla voce ancor roca, per aver dormito, ma sempre piena di una gravità solenne.
Si avvicinarono col lume dov'era il piatto dell'Agnese, e questa ci vide sopra un oggetto che di primo acchito non distinse bene, poi… poi lo raffigurò: era uno scudiscio, di legna verde.
—«Ah! si vede che Santa Lucia vi conosce!» esclamò la contessa Orsolina, «e vi premia secondo i vostri meriti.»
Agnese rimase muta, poi scoppiò in un pianto dirotto.
—«Brutta bruttaccia! brutta bruttaccia!» continuava intanto a ciangottare la Rosalia, colla bocca piena di mandorlato.
V.
Il giorno dopo, di buon mattino, la contessa Orsolina si era precipitata ansante nella bottega della fruttaiola.
—«Trovatemi una donna qualunque, magari in prestito, che venga almeno per le faccende più grosse. Ho la mia bambinaia in letto, colla febbre. Anche questa mi doveva accadere!… E proprio oggi, figuratevi! che avevo un pranzo di dodici persone!»
—«Si troverà in un bell'impiccio, beata Vergine!»
—«Per gl'invitati, pazienza! Ho mandato a dire che invece pranzeranno con noi la vigilia di Natale.»
—«Mangeranno di magro!» pensò fra sè la fruttaiola; poi domandò notizie sulla malattia dell'Agnese.
—«Mah! Vattel'a pesca!—Il medico pretende che abbia la febbre…, sarà! Tosse come un'indemoniata, questo è sicuro. Non mi ha lasciato dormire in tutta la notte! A dirla a voi, credo che ieri abbia preso un'indigestione coi dolci della mia Ciocina e, a buon conto, le ho dato un'oncia di olio di ricino.»
Del resto, ci voleva ben altro che badare alle fanfaluche del medico. Il medico voleva curare le villane come usava colle signorine; tanto per mandarla in lungo colle visite. Ma lei non voleva saperne di tante smorfie; a lei occorreva che l'Agnese si rimettesse subito in gambe!
Invece la poveretta continuava a peggiorare.
Il terzo giorno la Contessa non aveva trovato altro che una donna in prestito, per un paio d'ore alla mattina, ed era sempre in grandi angustie colla veste da camera sbrindellata; coi capelli rossi arruffati, a ciocche, fuori del fazzoletto di foulard; e le stanze e i mobili non parevano più quelli, tanto, mancando Agnese, tutto era in disordine, sudicio, polveroso.
—«Non ho mai voluto che una mia persona di servizio fosse portata all'ospedale» raccontava poi la Signora, spassionandosi colla fruttaiola: «ma in questo caso il medico dice trattarsi di mal di petto, ed io non voglio assumermi alcuna responsabilità verso la famiglia della ragazza. Se accade una disgrazia non voglio si dica che è stata curata male!»
Ma il Municipio faceva difficoltà per accogliere l'Agnese all'ospedale, non essendo essa di Verona, e la Signora, intanto, smaniava gridando col conte Venceslao, perchè non era buono di muoversi, di farsi sentire e permetteva che la sua casa diventasse «l'infermeria dei villani!» La contessa Orsolina aveva pescato alla fine un'altra bambinaia, e aveva bisogno della soffitta di Agnese.
Tutti que' giorni la povera ammalata li passò sola sola, nella misera cuccia. Spesso la febbre le cagionava un sonno intenso, morboso, e allora, ne' deliri angosciosi, vedeva la mamma in un letto tutto bianco, che moriva, e Menico le piangeva accanto.
La contessa Orsolina non passava dalla sua stanza altro che per brontolare, e la Rosalia non dovea entrarci perchè aveano paura che pigliasse il male. Soltanto una volta, verso sera, mentre la Contessa era andata fuori, appunto per prendere le informazioni della nuova bambinaia, il conte Venceslao le capitò in camera, pauroso, titubante, e le nascose, in fretta, sotto le coperte, un arancio ch'egli avea preso a Rosalia. Ma raccomandò bene, quasi pregando la piccola ammalata, che lo ringraziava commossa, di non farsi vedere quando lo mangiava.
E la Contessa, frattanto, andava in solluchero colla nuova bambinaia; sbuffava sempre più perchè ancora si dovea tener in casa quell'altra, e nell'ira, dimenticando tutta la sua aristocrazia, scagliava contro il Municipio di Verona tutti gli epiteti e gl'improperi che, quando faceva l'affittacamere, aveva scagliato, per altre ragioni, contro il Municipio di Vicenza. Ma, finalmente, le fu mandato anche il certificato d'ammissione all'ospedale, e vennero presto anche du' omini colla barella a prendere l'Agnese. Nel distendere sul lettuccio il misero corpicciuolo della ragazzina, que' due burloni, grossi e tondi, si misero a sorridere: «C'era pericolo che si perdesse nella barella, tanto era piccina!»
Agnese, colla voce debole debole, ringraziò ancora il signor Conte, mandò un bacio a Rosalia, e domandò perdono di «tutto» alla signora Contessa. Ma a questo punto le viscere della Portomanero si commossero in modo straordinario e finì col fare i lucciconi. Baciò e ribaciò l'Agnese, le promise che sarebbe andata a trovarla; l'assicurò che, appena guarita, l'avrebbe subito ripresa, e a edificazione degli infermieri che la confortavano vedendola afflitta in quel modo, le colmò il lettino di aranci e di dolci, e volle ancora che bevesse due dita di fernet.
Poi, otto giorni dopo, appena finita una scena assai burrascosa colla nuova bambinaia che le aveva dato una rispostaccia, la Signora andò per trovare l'Agnese all'ospedale; ma quando ne disse il nome all'infermiera, le risposero che la poveretta era spirata nella notte.
Quella sera, al Caffè d'Europa, il Provveditore e tutti gli altri professori che facevano circolo intorno alla contessa Orsolina Portomanero avevano un bel fare per confortarla. La Contessa non poteva trattenere le lacrime, e dal petto poderoso traeva sospiri che parevano venir fuor da un mantice.
—«Mah! era così docile e buona quella povera Agnese! Era proprio un angelo! E a me, poi, voleva un bene, un bene all'anima!—Non è vero, Lao?»
E le memorie delle virtù e dei meriti della povera Agnese servirono d'esempio e di tormento insieme, per tutte le altre bambinaie che capitarono a servire in casa Portomanero. La Contessa ricordava sempre la piccola morta per destare la loro emulazione, per mortificarle, per strapazzarle; e ogni poco ne lodava, sospirando, «l'ordine, la pulizia, il cuore,» e finiva sempre per volere, in proposito, la testimonianza inappellabile del marito:—«Non è vero, Lao?!»
Il conte Venceslao chinava allora il capo confermando; ma a quelle parole che evocavano dinanzi al suo pensiero il profilo tisico della povera servetta, era preso da un brivido di freddo, e si sentiva nell'anima un senso ineffabile di pietà.
FINE.
Opere di Gerolamo Rovetta
Romanzi e Racconti:
=La Moglie di sua Eccellenza=, romanzo. =Mater Dolorosa=, romanzo. =Il tenente dei Lancieri=, romanzo. =L'Idolo=, romanzo. =Le lacrime del prossimo=, romanzo. =La Signorina=, romanzo. =La Baraonda=, romanzo. =Cinque minuti di riposo!= =Casta Diva=, novelle. =Baby=, romanzo. =Ninnoli=, racconti. =Il processo Montegù=, romanzo. =Sott'acqua=, romanzo =Il primo amante=, romanzo. =Tiranni minimi=, racconti. =Cavalleria assassina=, racconti.
Teatro:
=Romanticismo=, dramma in quattro atti. =Un volo dal nido=, commedia in tre atti. =La Moglie di Don Giovanni=, dramma in quattro atti. =In Sogno=, commedia in quattro atti. =Gli Uomini pratici=, commedia in tre atti. =Scellerata!…= commedia in un atto. =Collera cieca!…= commedia in due atti. =La Contessa Maria=, dramma in quattro atti. =La Trilogia di Dorina=, commedia in tre atti. =I Barbarò=, dramma in un prologo e quattro atti. =Marco Spada=, commedia in quattro atti. =La Cameriera nova=, commedia in due atti, in dialetto veneziano =Alla Città di Roma=, commedia in due atti. =La Realtà=, dramma in tre atti. =Madame Fanny=, commedia in tre atti. =Principio di Secolo=, dramma in quattro atti. =I Disonesti=, dramma in tre atti. =Il Ramo d'ulivo=, commedia in tre atti. =Il Poeta=, commedia in tre atti. =Le due coscienze=, commedia in tre atti. =La Moglie giovine=, commedia in quattro atti. =A rovescio!= commedia in un atto. =La Baraonda=, dramma in cinque atti. =Il Re Burlone=, dramma in quattro atti. =Il Giorno della Cresima=, commedia in tre atti. =Papà Eccellenza=, dramma in tre atti. =Molière e sua Moglie=, commedia in tre atti.