GIAMBATTISTA DELLA PORTA
LE COMMEDIE
A CURA DI VINCENZO SPAMPANATO
VOLUME SECONDO
BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI 1911
GLI DUOI FRATELLI RIVALI
PROLOGO.
Olá che rumore, olá che strepito è questo? Egli è possibil pure che fra persone di valore e di sangue illustre ci abbia a venir mischiata sempre questa vilissima canaglia? la qual per mostrar a quel popolazzo che gli sta d'intorno, che s'intende di comedie, or rugna di qua, or torce il muso di lá. Par che le puzzi ogni cosa:—Questa parola non è boccaccevole, questo si potea dir meglio altrimente, questo è fuor delle regole di Aristotele, quel non ha del verisimile;—pascendosi di quella aura vilissima popolare, né intende che si dica, e alla fine viene a credere agli altri. E altri pieni d'invidia e di veleno, per mostrar che la comedia non dia sodisfazione agli intendenti e che l'hanno in fastidio, empiono di strepito e di gridi tutto il teatro. E che genti son queste poi? qualche legista senza legge e qualche poeta senza versi.
Credete, ignorantoni, con queste vostre chiacchiere far parere un'opera di manco ch'ella sia, come il mondo dal vostro bestial giudicio graduasse gli onori dell'opere? O goffi che sète! ché l'opre son giudicate dall'applauso universal de' dotti di tutte le nazioni: perché si veggono stampate per tutte le parti del mondo, e tradotte in latino, francese, spagnolo e altre varie lingue; e quanto piú s'odono e si leggono tanto piú piacciono e son ristampate, come è accaduto a tutte l'altre buone sue sorelle che in publico e in privato comparse sono. Vien qua, dottor della necessitá, che con sei tratti di corda non confessaresti una legge, che non sapendo della tua prosumi saper tutte le scienze: certo che se sapessi che cosa è comedia, ti porresti sotterra per non parlarne giamai. Ignorantissimo, considera prima la favola se sia nuova, meravigliosa, piacevole, e se ha l'altre sue parti convenevoli, ché questa è l'anima della comedia; considera la peripezia, che è spirito dell'anima che l'avviva e le dá moto, ché se gli antichi consumavano venti scene per far caderla in una, in queste sue senza stiracchiamenti e da se stessa cade in tutto il quarto atto, e se miri piú adentro, vedrai nascer peripezia da peripezia e agnizione da agnizione. Ché se non fossi cosí cieco degli occhi dell'intelletto come sei, vedresti l'ombre di Menandro, di Epicarmo e di Plauto vagar in questa scena e rallegrarsi che la comedia sia gionta a quel colmo e a quel segno dove tutta l'antichitá fece bersaglio.
Or questo è altro che parole del Boccaccio o regole di Aristotele, il qual, se avesse saputo di filosofia o di altro quanto di comedia, forse non arebbe quel grido famoso che possiede per tutto il mondo. Ma tu, che sei goffo, non conosci l'arte. Or gracchiate tanto che crepiate, ché il nome vostro non esce fuor del limitar delle vostre camere; né per ciò voi scemerete la fama dell'autore, la qual nasce da altri studi piú gravi di questo, e le comedie fûr scherzi della sua fanciullezza. Or tacete, bocche di conche e di sepolcri de morti: ché se provocarete la sua modestia, come or amichevolmente qui vi ammonisce, fará conoscer per sempre chi voi sète.
Ma questi ignorantoni per la rabbia m'han fatto tralasciare il mio officio che era qui venuto a fare con voi. Or questo serva in vece di prologo, ché l'argomento della favola lo vedrete minutamente spiegato da questi che vengon fuora.
PERSONE DELLA FAVOLA
DON IGNAZIO giovane innamorato SIMBOLO suo camariero DON FLAMINIO giovane suo fratello PANIMBOLO suo camariero LECCARDO parasito MARTEBELLONIO capitano ANGIOLA vecchia CARIZIA giovane EUFRANONE vecchio POLISSENA sua moglie CHIARETTA fantesca AVANZINO servo Birri DON RODERIGO viceré della provincia.
Il luogo dove si rappresenta la favola è Salerno.
[Nota di trascrizione: il personaggio elencato qui come DON RODERIGO è in seguito chiamato DON RODORIGO o DON RODORICO, ed il personaggio POLISSENA è chiamato POLISENA. Abbiamo conservato l'incongruenza dell'originale.]
ATTO I.
SCENA I.
DON IGNAZIO giovane, SIMBOLO suo cameriero.
DON IGNAZIO. Egli è possibile, o Simbolo, ch'avendoti commesso che fussi tornato e ben presto, che m'abbi fatto tanto penar per la risposta?
SIMBOLO. A far molti servigi bisogna molto tempo, né io poteva caminar tanto in un tratto.
DON IGNAZIO. In tanto tempo arei caminato tutto il mondo.
SIMBOLO. Sí, col cervello; ma io avea a caminar con le gambe.
DON IGNAZIO. Or questo è peggio, farmi penar di nuovo in ascoltar le tue scuse. Che hai tu fatto?
SIMBOLO. Son stato al maestro delle vesti.
DON IGNAZIO. Cominci da quello che manco m'importa.
SIMBOLO. Cominciarò da quello che piú vi piace: sono stato a don Flaminio vostro fratello, per saper la risposta che ave avuto dal conte di Tricarico della vostra sposa.
DON IGNAZIO. Che sai tu che questo mi piaccia?
SIMBOLO. Ve l'ho intesa lodar molto di bellezza, pregate don Flaminio che tratti col conte ve la conceda, passegiate tutto il giorno sotto le sue fenestre, e il pregio che guadagnaste nella festa de' tori mandaste a donar a lei.
DON IGNAZIO. E ciò m'importa manco del primo.
SIMBOLO. Sono stato a madonna Angiola.
DON IGNAZIO. Ben?
SIMBOLO. Non era in chiesa, ché non era ancor venuta; ed io, per avanzar tempo per gli altri negozi, non l'aspettai.
DON IGNAZIO. Perché non lasciasti tutti gli altri per aspettar lei?
SIMBOLO. Che sapeva io che desiavate ciò? Se potesse indovinar il vostro cuore, sareste servito prima che me lo comandaste; e se a voi non rincrescerá comandarmi, a me non rincrescerá servirvi. Vi fidate de me de danari, argenti e gioie, e non potete fidar parole o secreti?
DON IGNAZIO. Ho celato il desiderio del mio cuore in sino alla camicia che ho indosso; ma or son risoluto fidarmi di te, cosí per obligarti a consigliarmi ed aiutarmi con piú franchezza, come per isfogar teco la passione. Ma un secreto sí grande sia custodito da te sotto sincera fede de un onorato silenzio.
SIMBOLO. Vi offro fedeltá e franchezza nell'uno e nell'altro.
DON IGNAZIO. Io ardo della piú bella fiamma che sia al mondo; e accioché tu sappi a puntino ogni cosa, cominciarò da capo.—Quando venne il gran capitano Ferrante di Corduba nel conquisto del regno di Napoli, venner con lui molti gentiluomini e signori spagnuoli per avventurieri, tra' quali fu don Rodorigo di Mendozza mio zio e noi fratelli; e dopo la felice conquista di questo regno, noi e nostro zio fummo molto largamente rimunerati da Sua Maestá di molte migliaia di scudi d'entrada e de' primi uffici del Regno: fra gli altri fu fatto viceré della provincia di questa cittá di Salerno….
SIMBOLO. Tutto ciò sapeva bene, ché son stato a' vostri servigio
DON IGNAZIO…. Or ei, volendo rallegrare la citta di Salerno sotto il suo governo, il carnescial passato ordinò giochi di canne e di tori in piazza per i gentiluomini, e un sollenne ballo nella sala di Palazzo per le gentildonne. Venne il giorno constituito, venner e canne e tori in piazza e le gentildonne in sala: fra le altre vennero due giovanette sorelle. Ma perché dico «giovanette», ché non dico due angiolette? Elle parvero un folgore che lampeggiando offuscò la bellezza di tutte le altre. E se ben Callidora, la minore, fusse d'incomparabil bellezza, posta incontro al sovran paragon di bellezza, a Carizia, restava un poco piú languida, perché la maggiore avea non so che di reale e di maraviglioso. Parea che la natura avesse fatto l'estremo suo forzo in lei per serbarla per modello de tutte l'altre opere sue, per non errar piú mai. Ella era sí bella che non sapevi se la bellezza facesse bella lei o s'ella facesse bella la bellezza; perché se la miravi aresti desiderato esser tutto occhi per mirarla, s'ella parlava esser tutto orecchie per ascoltarla: in somma tutti i suoi movimenti e azioni erano condite d'una suprema dolcezza. Un sí stupendo spettacolo di bellezza rapí a sé tutti gli occhi e cuori de' riguardanti: restâr le lingue mute e gli animi sospesi, e se pur se sentiva un certo tacito mormorio, era che ogniuno mirava e ammirava una mai piú udita leggiadria. Io furtivamente mirava gli occhi di Carizia, i quali quanto erano vaghi a riguardare tanto pungevano poi, e quanto piú pungevano tanto piú ti sentivi tirar a forza di rimirargli; e riguardando non si volean partire come se fussero stati legati con una fune, talché non sapeva discernere qual fusse maggiore o la dolcezza del mirare o la fierezza delle punture: al fin conobbi che l'uno era la medicina dell'altro. E benché io prevedessi che quel fusse un principio d'una fiamma nascente, dalla quale ogni mio spirito dovea arderne crudelissimamente, pur non potea tenermi di non mirarla: onde per non esser osservato da mio fratello, il prendo per la mano e lo meno nello steccato….
SIMBOLO. Perché dubbitavate di vostro fratello?
DON IGNAZIO. Tu sai, da che siamo nati, avemo sempre con grandissima emulazione gareggiato insieme di lettere, di scrima, di cavalcare e sopra tutto nell'amoreggiare, ché ogniun di noi ha fatto professione di tôr l'innamorata all'altro. Il che s'avenisse cosí di costei, si accenderebbe un odio maggiore fra noi che mai fusse stato; sarebbe un seme di far nascer tra noi tal sdegno che ci ammazzaremmo senz'alcuna pietade.
SIMBOLO. Seguite. E poi?
DON IGNAZIO…. Appena entrammo nello steccato, come in un famoso campo di mostrar virtude e valore, che fûr stuzzicati i tori, i quali furiosi e dalle narici spiranti focoso fiato vennero incontro noi. Onde se mai generoso petto fu stimulato da disio di gloria, fu il mio in quel punto; perché sempre volgea gli occhi in quel ciel di bellezza, parea che da quelle vive stelle de' suoi begli occhi spirassero nell'anima mia cosí potentissimi influssi, cosí infinito valore ch'io feci fazioni tali che a tutti sembrarono meraviglie, ch'io non solo non andava schivando gli affronti e i rivolgimenti de' tori, ma gli irritava ancora, accioché con maggior furia m'assalissero. Di quelli, molti ne destesi in terra e n'uccisi; ma in quel tempo ch'io combatteva con i tori, Amor combatteva con me. O strana e mai piú intesa battaglia! onde un combattimento era nello steccato apparente e un altro invisibile nel mio cuore: il toro alcuna volta mi feriva nella pelle e ne gocciolavano alcune stille di sangue, e il popolo ne avea compassione; ma ella con i giri degli occhi suoi mi fulminava nell'anima, ma perché le ferite erano senza sangue, niuno ne avea compassione. De' colpi de' tori alcuni ne andavano vòti d'effetto; ma quelli degli occhi suoi tutti colpivano a segno. Pregava Amore che crescesse la rabbia a' tori, ma temperasse la forza de' guardi di Carizia. Al fin io rimasi vincitore del toro, ella vincitrice di me: ed io che vinsi perdei, e fui in un tempo vinto e vincitore, e restai nella vittoria per amore. Del toro si vedea il cadavero disteso in terra, il mio vagava innanzi la sua bella imagine; il popolo con lieto applauso gradiva la mia vittoria, ed io piangeva la perdita di me stesso. Ahi quanto poco vinsi! ahi quanto perdei! vinsi un toro e perdei l'anima….
SIMBOLO Faceste tanto gagliarda resistenza a' fieri incontri de' tori e non poteste resistere a' molli sguardi d'una vacca?—Come si portò vostro fratello?
DON IGNAZIO. Fece anch'egli grandissime prodezze.—… In somma ella fu l'occhio e la perfezione de tutta la festa. Finito il gioco, fingendomi stracco e altre colorite cagioni, ritrassi don Flaminio dallo steccato, il quale avea gran voglia d'uscirne, e ci reducemmo a casa; ma prima avea imposto ad un paggio s'avesse informato chi fusse. Andai a letto avendo il cuore e gli occhi ripieni della bellezza della giovane e l'anima impressa della sua bella imagine; onde passai una notte assai travagliata. Intesi poi la matina che era una gentildonna onestissima, dotata di molte peregrine virtú, di casa Della Porta; ma povera per essernole state tolte le robbe per caggion de rubellione, ché Eufranone, il padre, avea seguite le parti del principe de Salerno.
SIMBOLO Se state cosí invaghito di costei, perché trattar matrimonio con la figlia del conte de Tricarico e ci avete posto don Flaminio vostro fratello per mezano?
DON IGNAZIO. Quando piace a' medici che non calino i cattivi umori ne' luoghi offesi, ordinano certi riversivi: io per ingannar mio fratello, ché non s'imagini che ami costei, lo fo trattar matrimonio con la figlia del conte.
SIMBOLO Ben, che avete deliberato di fare?
DON IGNAZIO. Per dar fine alle tante volte desiato e non mai conseguito desiderio, tôrla per moglie.
SIMBOLO Avetici molto ben pensato prima?
DON IGNAZIO. E possedendo lei non sarò un terreno iddio?
SIMBOLO Avertite che chi si dispone tôr moglie, camina per la strada del pentimento: pensatici bene.
DON IGNAZIO. Ci ho tanto pensato ch'il pensiero pensando s'è stancato nell'istesso pensiero.
SIMBOLO Che sapete se vostro fratello se ne contenta, o vostro zio che vi vol maritar con una figlia de grandi de Ispagna? Poi, povera e senza dote! Si sdegnará con voi e forsi vi privará di quella parte di ereditá ch'avea designato lasciarvi: perché gli errori che si fanno ne' matrimoni, dove importa l'onor di tutta la famiglia, si tirano gli odii dietro di tutto il parentado e principalmente de' fratelli e de' zii.
DON IGNAZIO. Purché abbia costei per moglie, perda l'amor del fratello, del zio, la robba e ogni cosa, fin alla vita. Che mi curo io di robba? son altro che miserabili beni di fortuna? L'onestá e gli onorati costumi son i fregi dell'anima; ricchezze ne ho tante che bastano per me e per lei. Or non potrebbe essere che, trattenendomi, don Flaminio mi prevenisse e se la togliesse per moglie, ed io poi per disperato m'avesse ad uccidere con le mie mani? Ho cosí deliberato; e le cose deliberate si denno subbito esseguire.
SIMBOLO Ecco don Flaminio vostro fratello.
DON IGNAZIO. Presto presto, scampamo via, ché non mi veggia qui ed entri in sospetto di noi.
SIMBOLO. Andiamo.
SCENA II.
DON FLAMINIO giovane, PANIMBOLO suo cameriero.
DON FLAMINIO. Panimbolo, quando vedesti Leccardo, che ti disse?
PANIMBOLO. Voi altri innamorati volete sentire una risposta mille volte.
DON FLAMINIO. Pur, che ti disse?
PANIMBOLO. Quel che suol dir l'altre volte.
DON FLAMINIO. Non puoi redirmelo? non vòi dar un gusto al tuo padrone?
PANIMBOLO. Cose di vento.
DON FLAMINIO. E udir cose di vento mi piace.
PANIMBOLO. Che Carizia non stava di voglia, che raggionava con la madre, che ci era il padre, che venne la zia, che sopraggionse la fantesca, che come ará l'agio parlará, fará, e cose simili. Ben sapete che è un furfante e che, per esser pasteggiato e pasciuto da voi di buoni bocconi, pasce voi di bugie e di vane speranze.
DON FLAMINIO. Io ben conosco ch'è un bugiardo: pur sento da lui qualche rifrigerio e conforto.
PANIMBOLO. Scarso conforto e infelice refrigerio è il vostro.
DON FLAMINIO. Ad un povero e bisognoso come io, ogni piccola cosa è grande.
PANIMBOLO. Anzi a voi, essendo di spirito cosí eccelso e ardente, ogni gran cosa vi devrebbe parer poca.
DON FLAMINIO. Il sentir ragionar di lei, di suoi pensieri e di quello che si tratta in casa, m'apporta non poco contento; e mi ha promesso alla prima commoditá darle una mia lettera.
PANIMBOLO. O Dio, non v'è stato affermato per tante bocche di persone di credito che non sieno persone in Salerno piú d'incorruttibil onestá di queste, e che invano spera uomo comprarse la loro pudicizia? né voi in tanto tempo che la servite ne avete avuto un buon viso.
DON FLAMINIO. Tutto questo so bene. Ma che vòi che faccia? non posso voler altro, perché cosí vuole chi può piú del mio potere.
PANIMBOLO. Chetatevi e abbiate pazienza.
DON FLAMINIO. La pacienza è cibo o de santi o d'animi vili.
PANIMBOLO. E voi amate senza goder al presente ciò né sperar al futuro.
DON FLAMINIO. Almeno, se non ama me, non ama don Ignazio, e non la possedendo io non la possiede egli. Quella sua onestá quanto piú m'affligge piú m'innamora: io non posso odiar il suo odio, godo del suo disamore. Ché s'alle pene ch'io patisco s'aggiungesse il sospetto di don Ignazio, sarebbono per me troppo aspre e insopportabili.
PANIMBOLO. Io dubbito che don Ignazio avendo tentata la via ch'or voi tentate ed essendoli riuscita vana, ch'or ne tenti una piú riuscibile.
DON FLAMINIO. Don Ignazio non vi pensa né la vidde.
PANIMBOLO. Son speranze con che ingannate voi stesso.
DON FLAMINIO. Facil cosa è ingannar un altro, ma ingannar se stesso è molto difficile. Io in quel giorno, perché non avea altro sospetto che di lui, puosi effetto ad ogni suo gesto e conobbi veramente che non s'accorse di lei: perché dove girava gli occhi, li girava io; dove mirava, mirava io; non diceva parola che non la volesse ascoltare; e accioché non s'accorgesse di lei, il tolsi dalla sala e il condussi allo steccato; e finito il gioco venne meco a casa, cenammo e ce n'andammo a letto e raggionammo d'ogni altra cosa che vedemmo quel giorno, eccetto che di quelle giovani. Ché s'egli si fusse accorto di sí inusitata bellezza, non l'arebbe tratto tutto il mondo da quello steccato, da quella sala, dalle sue faldi; e quando t'imposi che ti fussi informato chi fusse, usai la maggior diligenza del mondo ché non se ne fusse accorto. Io non sono cosí goffo come pensi. E se Leccardo, che abita in casa sua, n'avesse inteso altra cosa, non me l'arebbe referito?
PANIMBOLO. Il parasito Leccardo? state fresco, ché delle ventiquattro ore del giorno ne sta imbriaco o ne dorme piú di trenta. Vostro fratello tanto può star senza far l'amore quanto il cielo senza stelle o il mar senza tempesta.
DON FLAMINIO. Egli sta invaghito e morto della figlia del conte de Tricarico—ed io sono mezano del matrimonio e mi ci affatico molto per tôrmi da questo suspetto,—e m'ha dato parola che, volendo dargli quarantamila docati, sposaralla; ma egli non vol darne piú che trentamila.
PANIMBOLO. Come può starne invaghito e morto s'ella è brutta come una simia? né credo che la torrebbe per centomila; ed essendo egli di feroce e magnanimo spirito, poco si curarebbe di diecimila ducati, ché se li gioca in mez'ora. Ma dubbito che essendo gran tempo esercitato negli artifici della simulazione, che tutto ciò non dica per ingannarvi; e vi mostrarei per chiarissime congetture ch'egli aspiri a posseder Carizia.
DON FLAMINIO. Non piaccia a Dio che ciò sia! ché se per altre cortigianucce di nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa tu che farebbomo per costoro; e questa ingiuria io la sopporterei piú volentieri da ogni uomo che da mio fratello.
PANIMBOLO. Egli da quel giorno della festa è divenuto un altro. Parla talvolta, sta malinconico, mai ride, mangiando si smentica di mangiare, dove prima mangiava per doi suoi pari, la notte poco dorme, sta volentieri solo, e standovi sospira, s'affligge e si crucia tutto.
DON FLAMINIO. Io ho osservato in lui tutto il contrario.
PANIMBOLO. Perché si guarda da voi solo; né mai lo veggio ridere o star allegro se non quando è con voi. Di piú, non è mai giorno che non passi mille volte per questa strada dinanzi alla sua casa.
DON FLAMINIO. Io non ve l'ho incontrato giamai.
PANIMBOLO. Deve tener le spie per non esservi còlto da voi; e quella arte, che voi usate con lui, egli usa con voi. Ma io vi giuro che quante volte m'è accaduto passarvi, sempre ve l'ho incontrato.
DON FLAMINIO. Oimè, tu passi troppo innanzi, mi poni in sospetto e m'ammazzi. Ma come potrei io di ciò chiarirmi?
PANIMBOLO. Agevolissimamente: subbito che l'incontrate, diteli che il conte è contento dargli li quarantamila scudi purché la sposi per questa sera; e se non troverá qualche scusa per isfuggir o prolungar le nozze, cavatemi gli occhi.
DON FLAMINIO. Dici assai bene; e or ora vo' gir a trovarlo e fargli l'ambasciata.
PANIMBOLO. Ascoltate: dateli la nuova con gran allegrezza e mirate nel volto e negli occhi, osservate i colori—ché ne cambierá mille in un ponto: or bianco or pallido or rosso,—osservate la bocca con che finti risi; in somma ponete effetto a tutti i suoi gesti, ché troverete quanto ve dico.
DON FLAMINIO. Cosí vo' fare.
PANIMBOLO. Ma ecco la peste de' polli, la destruzione de' galli d'India e la ruina de' maccheroni!
SCENA III.
LECCARDO parasito, PANIMBOLO, DON FLAMINIO.
LECCARDO. Non son uomo da partirmi da una casa tanto misera prima che non sia cacciato a bastonate?…
PANIMBOLO. (Leccardo sta irato. Ho per fermo che non ará leccato ancora, ché niuna cosa fuorché questa basta a farlo arrabbiare).
LECCARDO…. È forse che debba soffrir cosí miserabil vita per i grassi bocconi che m'ingoio: una insalatuccia, una minestra de bietole come fusse bue? bel pasto da por innanzi alla mia fame bizzarra!…
PANIMBOLO. (Ogni sua disgrazia è sovra il mangiare).
LECCARDO…. Digiunar senza voto? forse che almeno una volta la settimana si facesse qualche cenarella per rifocillar i spiriti!…
DON FLAMINIO. (L'hai indovinata: non ha mangiato ancora).
LECCARDO…. Però non è meraviglia se mi sento cosí leggiero: non mangio cose di sostanza….
DON FLAMINIO. (Lo vo' chiamare).
PANIMBOLO. (Non l'interrompete, di grazia: dice assai bene, loda la largitá del suo padrone).
DON FLAMINIO. Volgiti qua, Leccardo.
LECCARDO. O signor don Flaminio, a punto stava col pensiero a voi!
DON FLAMINIO. Parla, ché la tua bocca mi può dar morte e vita.
LECCARDO. Che! son serpente io che con la bocca do morte e vita? La mia bocca non dá morte se non a polli, caponi e porchette.
PANIMBOLO. E li dái morte e sepoltura ad un tempo.
DON FLAMINIO. Lasciamo i scherzi: ragionamo di Carizia, ché non ho maggior dolcezza in questa vita.
LECCARDO. Ed io quando ragiono di mangiare e di bere.
DON FLAMINIO. Narrami alcuna cosa: racconsolami tutto.
LECCARDO. Ti sconsolerò piú tosto.
DON FLAMINIO. Potrai dirmi altro che non mi ama? lo so meglio di te. L'incendio è passato tanto oltre che mi pasco del suo disamare: di' liberamente.
LECCARDO. Vedi questi segni e le lividure?
DON FLAMINIO. Tu stai malconcio: chi fu quel crudelaccio?
LECCARDO. La tua Carizia me l'ha fatte.
DON FLAMINIO. Mia? perché dici «mia», se non vuoi dir «nemica»?—Ma pur com'è passato il fatto?
LECCARDO. Oggi, perché stava un poco allegretta, lodava la sua bellezza; ella ridea. Io, vedendo che sopportava le lodi, prendo animo e passo innanzi:—Tu ridi e gli assassinati dalla tua bellezza piangono e si dolgono, ché quel giorno che fu festa de' tori innamorasti tutto il mondo!—Ella piú rideva ed io passo piú innanzi:—E fra gli altri ci è un certo che sta alla morte per amor tuo!…
DON FLAMINIO. Tu te ne passi troppo leggiermente: raccontamelo piú minutamente.
LECCARDO…. A pena finii le parole, che vidi sfavillar gli occhi come un toro stuzzicato, e la faccia divenir rossa come un gambaro. Tosto mi die' un sorgozzone che mi troncò la parola in gola; e dato di mano ad un bastone che si trovò vicino, lo lasciava cadere dove il caso il portava, non mirando piú alla testa che alla faccia o al collo. Cadei in terra; mi die' colpi allo stomaco e calci che se fusse stato un ballone me aría fatto balzar per l'aria, ingiuriandomi «roffiano» e che lo volea dir ad Eufranone suo padre.
DON FLAMINIO. Non spaventarti per questo, ché le donne al principio sempre si mostrano cosí ritrose: si ammorbiderá ben sí. Ma abbi pazienza, Leccardo mio, ché de' colpi delle sue mani non ne morrai.
LECCARDO. Le tue belle parole non m'entrano in capo e mi levano il dolore e la fame.
DON FLAMINIO. Faremo che Panimbolo ti medichi e ti guarisca.
PANIMBOLO. Io ho recette esperimentate per le tue infirmitá.
LECCARDO. Dimmele, per amor de Dio!
PANIMBOLO. Al gorguzale ci faremo una lavanda di lacrima e di vin greco molte volte il giorno.
LECCARDO. Oh, bene! ho per fermo che tu debbi essere figlio di qualche medico. E se non guarisce alla prima?
PANIMBOLO. Reiterar la ricetta.
LECCARDO. Almeno per una settimana! Che faremo per li denti?
PANIMBOLO. Uno sciacquadenti di vernaccia di Paula o di vin d'amarene.
LECCARDO. Tu ti potresti addottorare. Ma per far maggior operazione bisognarebbe che i liquori fusser vecchi.
PANIMBOLO. N'avemo tanto vecchi in casa c'hanno la barba bianca.
LECCARDO. E per lo stomaco poi?
PANIMBOLO. Bisogna tôr quattro pollastroni e fargli buglir ben bene, e poi colar quel brodo grasso in un piatto e porvi dentro a macerar fette de pan bianco, e accioché non esalino quei vapori dove sta tutta la virtú, bisogna coprir ché venghino ben stufati, poi spargervi sopra cannella pista, e sará un eccellente rimedio. All'ultimo, un poco di caso marzollino per un sigillastomaco.
LECCARDO. Veramente da te si devriano tôrre le regole della medicina. Andamo a medicar presto, ché m'è salito addosso un appetito ferrigno, e tanta saliva mi scorre per la bocca che n'ho ingiottito piú de una carrafa. La medicina n'ha reinfrescato il dolor delle piaghe e m'ha mosso una febre alla gola che mi sento mancar l'anima.
PANIMBOLO. Con certe animelle di vitellucce ti riporrò l'anima in corpo.
LECCARDO. Se fussi morto e sepellito resuscitarei per farmi medicar da voi. Don Flaminio, avessi qualche poco di salame o di cascio parmigiano in saccoccia?
DON FLAMINIO. Orbo, questa puzza vorrei portar adosso io?
LECCARDO. Ma che muschio, che ambra, che aromati preziosi odorano piú di questi?
DON FLAMINIO. Leccardo mio, come io so medicar i tuoi dolori, cosí vorrei che medicassi i miei!
LECCARDO. Non dubitar, ché quando toglio una impresa, piú tosto muoio che la lascio.
DON FLAMINIO. Vieni a mangiar meco questa mattina.
LECCARDO. Non posso: ho promesso ad altri.
DON FLAMINIO. Eh, vieni.
LECCARDO. Eh, no.
PANIMBOLO. (Mira il furfante! se ne muore e se ne vuol far pregare).
DON FLAMINIO. Fa' ora a mio modo, ch'una volta io farò a tuo modo.
LECCARDO. Son stato invitato da certi amici ad un buon desinare, ma vo' ingannargli per amor vostro.
DON FLAMINIO. Va' a casa e ordina al cuoco che t'apparecchi tutto quello che saprai dimandare, e fa' collazione; tratanto che sia apparecchiato, serò teco, ché vo per un negozio.
LECCARDO. Ed io ne farò un altro e sarò a voi subbito. (Vedo il capitan Martebellonio. Non ho visto di lui il maggior bugiardo; sta gonfio di vento come un ballone e un giorno si risolverá in aria. Ha fatto mille arti, prima fu sensale, poi birro, poi aiutante del boia, poi ruffiano; e pensa con le sue bravate atterrire il mondo, e stima che tutte le gentildonne si muoiano per la sua bellezza). Ben trovato il bellissimo e valorosissimo capitan Martebellonio!
SCENA IV.
MARTEBELLONIO capitano, LECCARDO.
MARTEBELLONIO. Buon pro ti faccia, Leccardo mio!
LECCARDO. Che pro mi vol far quello che non ho mangiato ancora?
MARTEBELLONIO. So che la mattina non ti fai coglier fuori di casa digiuno.
LECCARDO. E che ho mangiato altro che un capon freddo, un pastone, una suppa alla franzese, un petto di vitella allesso, e bevuto cosí alto alto diece voltarelle?
MARTEBELLONIO. Ecco, non ti ho detto invano il «buon pro ti faccia».
LECCARDO. Quelle cose son digeste giá e fatto sangue nelle vene; ma lo stomaco mi sta vòto come un tamburro. Ma voi adesso vi dovete alzar da letto e far castelli in aria, eh?
MARTEBELLONIO. Ho tardato un pochetto, ché ho atteso a certi dispacci.
LECCARDO. Per chi?
MARTEBELLONIO. Per Marte l'uno e l'altro per Bellona.
LECCARDO. Chi è questo Marte? chi è questa Bellona?
MARTEBELLONIO. Oh, tu sei un bel pezzo d'asino!
LECCARDO. Di Tunisi ancora.
MARTEBELLONIO. Non sai tu che Marte è dio del quinto cielo, il dio dell'armi? e Bellona delle battaglie?
LECCARDO. Che avete a far con loro?
MARTEBELLONIO. Non sai che son suo figlio e son lor luogotenente dell'armi e delle battaglie in terra, com'eglino tengono il possesso dell'armi nel cielo? però il mio nome è di «Marte-bellonio».
LECCARDO. E per chi gli mandate il dispaccio?
MARTEBELLONIO. Per un mozzo di camera.
LECCARDO. Come? gli attaccate l'ale dietro per farlo volar nel cielo?
MARTEBELLONIO. L'attacco le lettere al collo con un sacchetto di pane che basti per quindici giorni, poi lo piglio per lo piede e me lo giro tre volte per la testa e l'arrandello nel cielo. Marte, che sta aspettando, come il vede, il prende e ferma; si non, che ne salirebbe sin alla sfera stellata.
LECCARDO. A che effetto quel sacco di pane?
MARTEBELLONIO. Ché non si muoia di fame per la via.—Marte, avendo inteso gli avisi, spedisce le provisioni e lo manda giú. Come il veggio cader dal cielo come una nubbe, vengo in piazza e lo ricevo nella palma; ché si desse in terra, se ne andrebbe fin al centro del mondo.
LECCARDO. Che bevea? il mangiar il pane solo l'ingozzava e potea affogarsi. O si morí di sete?
MARTEBELLONIO. Bevé un canchero che ti mangia!
LECCARDO. Oh s'è bella questa, degna di un par vostro!
MARTEBELLONIO. Ti vo' raccontar la battaglia ch'ebbi con la Morte.
LECCARDO. Non saria meglio che andassimo a bere due voltarelle per aver piú forza, io di ascoltare e voi di narrare?
MARTEBELLONIO. Il ber ti apportarebbe sonno, ed io non te la ridirei se mi donassi un regno. I miei fatti son morti nella mia lingua, ma per lor stessi sono illustri e famosi e si raccontano per istorie.—Sappi che la Morte prima era viva ed era suo ufficio ammazzar le genti con la falce. Ritrovandomi in Mauritania, stava alle strette con Atlante, il qual per esser oppresso dal peso del mondo era maltrattato da lei. Io, che non posso soffrir vantaggi, li toglio il mondo da sopra le spalle e me lo pongo su le mie….
LECCARDO. (Sará piú bella della prima!). Ditemi, quel gran peso del mondo come lo soffrivano le vostre spalle?
MARTEBELLONIO. Appena mi bastava a grattar la rogna.—… Al fin, lo posi sovra questi tre diti e lo sostenni come un melone….
LECCARDO. Quando voi sostenevate il mondo, dove stavate, fuori o dentro del mondo?
MARTEBELLONIO. Dentro il mondo.
LECCARDO. E se stavate di dentro, come lo tenevate di fuori?
MARTEBELLONIO. Volsi dir: di fuori.
LECCARDO. E se stavate di fuori, eravate in un altro mondo e non in questo.
MARTEBELLONIO. O sciagurato, io stava dove stava Atlante quando anch'egli teneva il mondo.
LECCARDO. Ben bene, seguite l'abbattimento.
MARTEBELLONIO…. Mona viva, sentendosi offesa ch'avessi dato aiuto al suo nemico, mi mirava in cagnesco con un aspetto assai torbido e aspro, e con ischernevoli parole mi beffeggiava. La disfido ad uccidersi meco: accettò l'invito, e perché avea l'elezion dell'armi, se volse giocar la vita al ballonetto….
LECCARDO. Perché non con la falce?
MARTEBELLONIO. Ché ben sapea la virtú della mia dorindana.—… Constituimmo per lo steccato tutto il mondo: ella n'andò in oriente, io in occidente….
LECCARDO. Voi elegeste il peggior luogo, perché il sole vi feriva negli occhi; e poi quello occidente porta seco malaugurio: che dovevate esser ucciso.
MARTEBELLONIO. L'arte tua è della cucina e appena t'intendi se la carne è ben allessa. Che téma ho io del sole? con una cèra torta lo fo nascondere coperto d'una nube. Poi «uccidente» è quello che uccide: io avea da esser l'uccidente, ella l'uccisa.
LECCARDO. Seguite.
MARTEBELLONIO…. Il ballonetto era la montagna di Mauritania. A me toccò il primo colpo; percossi quella montagna cosí furiosamente, che andò tanto alto che giunse al cielo di Marte, e non la fece calar giú in terra per segno del valor del suo figlio….
LECCARDO. Cosí privasti il mondo di quella montagna. Ma quella che ci è adesso, che montagna è?
MARTEBELLONIO. Oh, sei fastidioso! ascolta se vòi, se non, va' e t'appicca.
LECCARDO. Ascolterò.
MARTEBELLONIO…. Ella dicea aver vinto il gioco, perché era imboccato il ballonetto: la presi per la gola con duo diti e l'uccisi come una quaglia, talché non è piú viva ed io son rimasto nel suo ufficio.—Ma scostati da me, ch'or che mi sento imbizzarrito, che non ti strozzi.
LECCARDO. Oimè, che occhi stralucenti!
MARTEBELLONIO. Guardati che qualche fulmine non m'esca dagli occhi e ti brusci vivo.
LECCARDO. Tutta l'istoria è andata bene; ma ve sète smenticato che non fu ballonetto ma ballon grande, e tanto grande che non si basta a ingiottire. Ma io ti vo' narrar una battaglia ch'ebbi con la Fame.
MARTEBELLONIO. Che battaglie, miserello?
LECCARDO. La Fame era una persona viva, macra, sottile, ch'appena avea l'ossa e la pelle; e soleva andar in compagnia con la Carestia, con la Peste e con la Guerra, ché n'uccideva piú ella che non le spade. Ci disfidammo insieme: lo steccato fu un lago di brodo grasso dove notavano caponi, polli, porchette, vitelle e buoi intieri intieri; qui ci tuffammo a combattere con i denti. Prima ch'ella si mangiasse un vitello, io ne tracannai duo buoi e tutte le restanti robbe; e perché ancora m'avanzava appetito e non avea che mangiare, mi mangiai lei: cosí non fu piú la Fame al mondo, ed io sono suo luogotenente e ho due fami in corpo, la sua e la mia. Ma prima andiamo a mangiare; se non, che mi mangiarò te intiero intiero: Dio ti scampi dalla mia bocca!
MARTEBELLONIO. Tu sei un gran bugiardo!
LECCARDO. Voi sète maggior di me: son un vostro minimo!
MARTEBELLONIO. Dimmi un poco, quanto tempo è che Calidora non t'ha parlato di me?
LECCARDO. Ogni ora che mi vede; e quando passegiate cosí altiero dinanzi le sue fenestre, spasima per il fatto vostro.
MARTEBELLONIO. Io so molto ben che la poverella si deve strugger per me, ché n'ho fatto strugger dell'altre. Ma io vorrei venir presto alle strette.
LECCARDO. Ella desia che fusse stato; e se voi mi pascete ben questa sera, io vi recarò buone novelle e vi do la mia fede.
MARTEBELLONIO. Guardati, non mi toccar la mano, ché se venisse, stringendo te ne farei polvere, ché stringe piú d'una tanaglia.
LECCARDO. Cancaro! bisogna star in cervello con voi!
MARTEBELLONIO. Quando mi porterai nuova che vada a giacer con lei, ti farò un pasto da re.
LECCARDO. (Prima sarò morto che sia pesta la pasta per questo pasto!).
MARTEBELLONIO. Io ti farei mangiar meco; ma perché oggi è martedí, in onor del dio Marte non mangio altro che una insalatuccia di punte di pugnali, quattro ballotte di archibuggio in cambio d'ulive, due balle d'artigliaria in pezzi con la salsa, un piatto di gelatina di orecchie, nasi e labra di capitani e colonelli, spolverizzati sopra di limatura di ferro come caso grattuggiato.
LECCARDO. Che sète struzzo che digerite quel ferro?
MARTEBELLONIO. Lo digerisco, e diventa acciaio.
LECCARDO. Dovete tener l'appalto con i ferrari dell'acciaio che cacate.
MARTEBELLONIO. Andrò a consultar un duello e tornando mangiaremo: cosí ad un tempo sodisfarò alla mia fama e alla tua fame.
LECCARDO. Giá si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de' suoi nemici. Non arò contento se non gli fo qualche burla. Andrò in casa di don Flaminio che deve aspettarmi.
ATTO II
SCENA I.
DON IGNAZIO, SIMBOLO.
DON IGNAZIO. Dura cosa è l'aver a far con i servidori: sa ben Simbolo quanto desio di andar a trovar mon'Angiola, e non ritorna. Ma eccolo.—Come hai fatto aspettarmi tanto, o Simbolo?
SIMBOLO. Come saprete quanto ho fatto in vostro serviggio, mi lodarete della tardanza. Sappiate che incontrandomi con don Flaminio, mi domandò con grande instanza di voi; e domandando io la caggion di tanta instanza, rispose che non voleva dirlo se non a voi solo. Mi lascia, e m'incontro con Panimbolo, il quale altresí mi dimandò di voi; e pregandolo mi dicesse che cosa chiedeva da voi, disse in secreto che don Flaminio aveva conchiuso col conte di Tricarico il matrimonio della figlia, e che vi vuol dare quarantamilla ducati purché foste andato a sposarla per questa sera….
DON IGNAZIO. Oimè, che pugnale è questo che mi spingi nel core? Mi rompi tutti i disegni e conturbi quanto avea proposto di fare: me hai morto!
SIMBOLO…. Io, accioché non vi trovasse prima di me e vi cogliesse all'improviso, corro di qua, corro di lá per trovarvi, né lascio luoco, dove solete pratticar, che non avesse cerco. Fratanto considerava fra me stesso cotal nuova: cado in pensiero che sia un fingimento di vostro fratello di scoprir l'animo vostro, se stiate innamorato d'alcuna donna….
DON IGNAZIO. Buon pensiero, per vita mia!
SIMBOLO…. Per chiarirmi di ciò, con non men subito che ispedito consiglio me ne vo in casa del conte di Tricarico, e non vedo genti né apparecchi di nozze. Piglio animo ed entro con iscusa di cercar don Flaminio, e me ne vo insin in cucina e non vi veggio né cuochi né guattari. Dimando di don Flaminio, e mi rispondono che è piú di un mese che non l'han veduto. Mi fermo e veggio il cappellano: entro in ragionamento con lui, e mi dice che il conte questa mattina è gito a Tricarico a caccia, e mi dice che molti giorni sono che del matrimonio piú non si tratta, anzi stima che don Flaminio vuol dargli la baia.
DON IGNAZIO. O Simbolo, che sia tu benedetto mille volte, ch'avendomi con la prima nuova tolto l'anima, con questa me l'hai riposta in corpo! Quando mi disobligarò di tanto obligo?
SIMBOLO. Or dunque, venendo a voi don Flaminio a farvi la proposta, accioché piú l'inganniate e confirmiate nel suo proposito, mostrate grandissima allegrezza, accettate l'offerta; e si dice per questa sera, voi diteli per allora.
DON IGNAZIO. Or questo sí che non farò io, ché non mi basteria il cuor mai.
SIMBOLO. Sará forza che lo facciate.
DON IGNAZIO. Mi farei uccider piú tosto.
SIMBOLO. E se non volete, farete che vostro fratello s'accorga che stiate innamorato di Carizia, e come uomo di torbido e precipitoso ingegno vi preverrá a tôrsela per moglie, o verrete a qualche cattivo termine insieme.
DON IGNAZIO. Dubbito di non incorrere in qualche inconveniente peggiore.
SIMBOLO. Che cosa di mal di ciò ne può avvenire?
DON IGNAZIO. Son disposto far quanto tu mi consigli.
SIMBOLO. Ecco madonna Angiola che viene a casa.
SCENA II.
ANGIOLA, SIMBOLO, DON IGNAZIO.
ANGIOLA. (Conosco a prova che il peso degli anni è il maggior peso che possa portar l'uomo su la sua persona, poiché in sí breve viaggio che ho fatto, son cosí stanca come si avesse portato qualche gran soma).
DON IGNAZIO. (Vo innanzi a toglierle la via).
ANGIOLA. (Son inciampata con don Ignazio c'ho cercato fuggir con ogni industria, ché so che cerca parlarmi di Carizia mia nipote; né vorrei che prorumpesse in qualche cosa men ch'onesta).
DON IGNAZIO. Signora Angiola, ho desiato gran tempo ragionar con voi d'un negozio importantissimo.
ANGIOLA. Eccomi al vostro commodo: ben la priego a non trattarmi di cosa che men che onesta non sia.
DON IGNAZIO. Certo non farei tanto torto alla sua bontá, alla mia qualitá; né l'importanza del negozio né il tempo richiede questo.
ANGIOLA. Poiché le vostre costumate parole, degne veramente di quel cavaliero che voi sète, m'hanno sgombro dal cuor ogni sospetto, eccomi pronta ad ogni vostro comando.
DON IGNAZIO. Sappiate, madre mia, che da quel giorno—che non so si debba chiamarlo felice o infelice per me—che vidi la bellezza e l'oneste maniere di Carizia vostra nipote, m'hanno impiagata l'anima di sorte che, se voglio guarire, è bisogno ricorrere a quel fonte donde sol può derivar la mia salute.
ANGIOLA. Signor don Ignazio, so dove va a ferir lo strale del vostro raggionamento.
DON IGNAZIO. Non ad altro che ad onesto e onorato fine.
ANGIOLA. Perdonatemi se cosí immodestamente vi rompo le parole in bocca. Sappiate che se ben Carizia mia nipote è giovane, nasconde sotto quella sua etá acerba virtú matura, sotto quel capel biondo saper canuto, sotto quel petto giovenile consiglio antico; e se ben è povera d'oro, l'onore non li fa conoscer bisogno alcuno, perché si stima ricca d'onore e di se stessa: e nella sua onestá s'inchiude il suo tesoro e la sua dote. Onde non sperate che il falso splendor d'oro o di gioie le appanne gli occhi; né col mostrarvi vinto della sua bellezza, di vincer lei; o col mostrarvi ubidiente, trionfar della sua volontá; o col mostrarvi servo, signoreggiarla: perché il vostro sperar fia vano, e la moverete piú tosto ad odio che ad amarvi.
DON IGNAZIO. Signora, io n'ho piú timore veder i suoi lumi turbati di sdegno contra di me—da' quali depende il maggior contento ch'abbi nella vita—che perder l'istessa vita; e vi giuro per quel cielo e per Colui che ci alberga dentro, ch'amo le sue bellezze come modesto sposo e non come lascivo amante; ché chi ama la bellezza e non l'onore, non è amante ma inimicissimo tiranno.
ANGIOLA. Dubito che non mi proponiate un infame amore sotto una onorata richiesta di nozze.
DON IGNAZIO. O Iddio, non mi conoscete nel fronte e negli occhi pregni di lacrime l'effetto della mia fede, che son ridotto all'ultimo termine della mia vita? ché se non voglio morire, son costretto toglierla per moglie?
ANGIOLA. Ditemi di grazia, che cosa desiate da lei?
DON IGNAZIO. Se non che pregarla che m'accetti per sposo, pur se non sdegna cosí basso sogetto.
ANGIOLA. Non sapete voi meglio di me che questo ufficio convien farsi col padre e non con lei, perché non lice ad una donzella dispor di se stessa?
DON IGNAZIO. Io non cerco altro da lei in ricompensa del singular amar che le porto, che sia favorito da lei dirglielo con la bocca e con le mie orecchie sentir le sue parole e pascer per quel breve momento gli occhi miei avidi e affamati, in cosí lungo digiuno, della sua vista; ché da quel giorno della festa non fu mai possibile di rivederla.
ANGIOLA. Se ben quel che mi chiedete non abbi molto dell'onesto, pure traporrò l'autoritá mia, per quanto val appo lei, d'indurlaci; ché, raggionandosele de voi, ho conosciuto nel suo animo non so che di tacito consentimento. Fratanto che attendete la risposta, potrete trattenervi qui intorno, ché io vo' entrar in casa.
DON IGNAZIO. Che dici, Simbolo?
SIMBOLO. Ad una dura e faticosa impresa vi sète posto.
DON IGNAZIO. Per lei tutte le fatiche e le durezze mi sono care; né mai le grandi imprese si vinsero senza gran fatiche.
SIMBOLO. Perdete il tempo.
DON IGNAZIO. E che tempo piú degnamente potrá perdersi come nell'acquisto de sí degno tesoro?
SIMBOLO. E che acquistate poi? l'amor d'una donna che si cambia di momento in momento.
DON IGNAZIO. Sí, delle vili e populari; ma quelle di reale animo come costei, amando, amano insino alla morte.
SIMBOLO. Tutte le donne sono d'una medesima natura.
DON IGNAZIO. Tu poco t'intendi di nature di donne. Ma non ingiuriar lei perché ingiurii me: taci.
SIMBOLO. Taccio.
DON IGNAZIO. Giá fuggono le tenebre dell'aria, ecco l'aurora che precede la chiarezza del mio bel sole, giá spuntano i raggi intorno: veggio la bella mano che con leggiadra maniera alza la gelosia. O felici occhi miei, che siete degni di tanto bene!
SCENA III.
CARIZIA, DON IGNAZIO, SIMBOLO.
CARIZIA. Signor don Ignazio, poiché Angiola mia zia mi fa fede della vostra onorata richiesta, io non ho voluto mancare dalla mia parte: eccomi, che comandate?
DON IGNAZIO. Io comandare, che mi terrei il piú avventurato uomo che viva, se fusse un minimo suo schiavo? Voi sète quella che sola avete l'imperio d'ogni mia voluntá, e a voi sola sta impor le leggi e romperle a vostro modo.
CARIZIA. Vi priego a spiegarmi il vostro desiderio con le piú brevi parole che potete.
DON IGNAZIO. Signora della vita mia—e perdonatime si ho detto «mia», ché dal giorno che la viddi la consacrai alla vostra cara bellezza,—io non desio altro in questa vita che essere vostro sposo: e perdonate all'ardire che presume tanto alto.
CARIZIA. Caro signore, io ben conosco la disaguaglianza de' nostri stati e la mia umile fortuna, a cui non lice sperar sposo sí grande di valore e di ricchezza come voi; però ricercate altra che sia piú meritevole d'un vostro pari, e lasciate me poverella ch'umilmente nel mio stato mi viva. La mia sorte mi comanda ch'abbia l'occhio alla mia bassa condizione. So che lo dite per prendervi gioco di me: la mia dote e la mia ricchezza s'inchiude nella mia onestá, la quale inviolabilmente nella mia povertá custodisco.
DON IGNAZIO. Troppo suntuosa è la vostra dote, signora, la quale quanto piú dimostrate sprezzarla piú l'ingrandite; le vostre ricchezze sono inestimabil tesoro di tante peregrine virtú, le quali resiedeno in voi come in suo proprio albergo: meriti ordinari si possono con le parole lodare, ma i gradi infiniti si lodano meravigliando, e con atti di riverenza tacendo si riveriscono. Ma voi lo dite accioché io n'abbia scorno, ché troppo povero mercante a cosí gran fiera compaia per comprarla: e veramente meritarei quel scorno che mi fate, se non venissi ricchissimo d'amore, ché non basta comprarse l'infinito valore de' vostri meriti se non con l'infinito amore che le porto.
CARIZIA. So che in una mia pari non cadono tanti meriti; e per non poter trovar parole condegne per risponderli, vi risponde tacendo il core.
DON IGNAZIO. Signora, ecco un anello nel cui diamante sono scolpite due fedi: tenetelo per amore e segno del sponsalizio. Il dono è picciolo ben sí; ma si considerate l'affetto di chi lo dona, egli è ben degno di lei.
CARIZIA. Il dono è ben degno di lui; nondimeno…, ma ben sapete che il rigor dell'onestá delle donzelle non permette ricever doni.
DON IGNAZIO. Signora, non fate tanto torto alla vostra nobiltá né tanto torto a me: rifiutar il primo dono di un sposo. Accettatelo, e se non merita cosí degno luogo delle vostre mani, poi buttatelo via.
CARIZIA. Orsú accetto e gradisco il vostro dono e me lo pongo in dito; e non potendo donarvi dono condegno—ché nol consente la mia povertá,—vi dono me stessa, ché chi dona se stessa non ha magior cosa da donare; e questo anello come cosa mia ve lo ridono in caro pegno della mia fede.
DON IGNAZIO. Accetto l'anello e accetto l'offerta della sua persona; e se ben ne sono indegno, amar mi sforza ad accettarla. In ricompensa non so che darle se non tutto io; e se ben disseguale alla sua grandezza, accettatelo come io ho accettata la sua persona.
CARIZIA. Comandate altro?
DON IGNAZIO. Vi priego a trattenervi un altro poco, accioché gli occhi mei abbino il desiato frutto di lor desiderio.
CARIZIA. I prieghi de' padroni son comandi a' servi; e se ben i rispetti delle donzelle non patiscano tanto, pur per un marito si deveno rompere tutti i rispetti. Eccomi apparecchiata a far quanto mi comandate.
DON IGNAZIO. Cara padrona, mi basta l'animo solo. So ben che la mia richiesta sarebbe a voi di poco onore: mi contento che ve n'entriate, pregandovi che in questo breve spazio, che non siamo nostri, di far buona compagnia al mio core che resta con voi né si partirá da voi mai; e ricordatevi di me.
CARIZIA. Non ricordandomi di voi, mi smenticarei di me stessa.
DON IGNAZIO. Amatemi come amo voi.
CARIZIA. Troppo vile e indegna è quella persona che si lascia vincere in amore; e se piacerá a Dio che siamo nostri, allora faremo contesa chi amerá piú di noi, ed io dalla mia parte non mi lasciarò avanzare da voi. Adio.
DON IGNAZIO. Ecco tramontata la sfera del mio bel sole, che sola può far sereno il mio giorno. O fenestra, è sparito il tuo pregio. O Dio, che cosa è nel cielo che sia piú bella di lei, se splendori, sole, luna, stelle e tutte le bellezze del cielo son raccolte nel breve giro del suo bel volto? Ahi, ché se prima ardea, or tutto avampo: ché per non averla tanto tempo vista i carboni erano sopiti sotto la cenere, or per la sua vista han preso vigore, m'hanno acceso nell'alma un tal incendio che son tutto di fuoco.
SIMBOLO. Poiché sète sazio della sua vista, partiamoci.
DON IGNAZIO. Che sazio? Gli occhi miei, in cosí lungo digiuno assetati, nel convivio della sua vista se l'han bevuta di sorte che son tutto ebro d'amore. Anzi questo convito mi è paruto la mensa di Tantalo, dove quanto piú bevea men sazio mi rendeva e piú ingordo ne diveniva; anzi nel piú bel godere è sparita via, ed io mi sento piú assetato che mai; anzi mi par ch'ancor mi sieda negli occhi, e ci sento il peso della sua persona. O alta possanza di celesti bellezze!
SIMBOLO. Se vi dolete per troppa felicitá, che farete nelle disgrazie?
DON IGNAZIO. Questa felicitá mi dá presagio di mal piú acerbo; ché amandola non riamato, quanto l'amarò riamato? piú m'infiammarò di quel desiderio di cui sempre son stato acceso. Ma dimmi, che ti par di lei?
SIMBOLO. Ella è non men bella di dentro che di fuori: mirate con che bel modo non ha voluto accettar il vostro dono né rifiutarlo; e se il dono era magnifico e reale, ella è stata piú magnifica e reale a non lasciarsi vincere da tanta ingordiggia.
DON IGNAZIO. Simbolo, sapresti indovinar in qual parte della casa ella sia?
SIMBOLO. Che posso saper io?
DON IGNAZIO. Non vedi? lá dove l'aria è piú tranquilla e tutto gioisce, ivi è la sua persona.
SIMBOLO. Ah, ah, ah!—Ecco don Flaminio, state in cervello.
SCENA IV.
DON FLAMINIO, DON IGNAZIO, ANGIOLA, SIMBOLO.
DON FLAMINIO. Oh, signor don Ignazio, voi siate il ben trovato!
DON IGNAZIO. E voi il benvenuto, carissimo fratello!
ANGIOLA. (Mi manda Carizia, la mia nipote, se posso spiar alcuna cosa del matrimonio suo e che si dice di lei).
DON FLAMINIO. Poni mano a darmi una buona mancia, ché onoratissimamente me l'ho guadagnata.
DON IGNAZIO. Non so che offerirvi in particolare, se sète padrone di tutta la mia robba.
ANGIOLA. (Certo ragionano del matrimonio de mia nepote: vo' star da parte in quel vicolo per ascoltar che dicono).
DON FLAMINIO. Veramente la merito, perché ci ho faticato; e se ben l'un fratello è tenuto por la vita per l'altro, pur in cosa di gran sodisfazione non si vieta che non si faccino alcuni complimenti fra loro.
DON IGNAZIO. Mi sottoscrivo a quanto mi tassarete.
ANGIOLA. (Fin qui va bene il principio).
DON IGNAZIO. Dite di grazia, non mi tenete piú sospeso.
DON FLAMINIO. Giá è conchiuso il vostro matrimonio.
ANGIOLA. (L'ho indovinata che ragionan del matrimonio di Carizia).
DON IGNAZIO. Con la figlia del conte de Tricarico?
DON FLAMINIO. Giá è contento darvi i quarantamilla ducati di dote e ha fermati i capitoli purché l'andiate a sposar per questa sera.
DON IGNAZIO. O mio caro fratello, o mio carissimo don Flaminio, ché piú desiderata novella non aresti potuto darmi in la mia vita!
ANGIOLA. (Oimè, che cosa intendo! dice che ha conchiuso il matrimonio con la figlia del conte di Tricarico con quarantamilla scudi di dote).
DON FLAMINIO. Con patto espresso ch'abbiate a sposarla per questa sera.
DON IGNAZIO. Or tal patto non potrò osservarlo.
DON FLAMINIO. Come?
DON IGNAZIO. Perché non basterei a contenere me stesso in tanto desiderio di non gir a sposarla or ora.
SIMBOLO. (Finge assai bene; e dubbito che a questa volta l'ingannatore restará ingannato).
ANGIOLA. (Or va' e fidati d'uomini, va'! o uomini traditori!).
DON FLAMINIO. Egli ha voluto giungervi quella clausula, perché l'era stato riferito che eravate innamorato e morto per altra.
DON IGNAZIO. Non mi ricordo aver mai amato cosí ardentemente come Aldonzina sua figlia; ché se ben ho amato molto, l'amor è stato assai piú finto che da vero, e mi son dilettato sempre dar la burla or a questa or a quell'altra.
ANGIOLA. (Oh che vi siano cavati quei cuori pieni d'inganni! Or va' ti fida, va'! e chi non restarebbe ingannata da loro?).
DON IGNAZIO. Ma per tôrlo da questo sospetto, andiamo ora a sposarla; andiamo, caro fratello, non mi far cosí strugere a poco a poco, ché dubito non rimarrá nulla d'intiero insin a sera.
DON FLAMINIO. L'appontamento è stato per la sera che viene: e credo ha chiesto il termine per non trovarsi forsi la casa in ordine; e andando cosí all'improviso, forsi li daremo qualche disgusto e forsi vi perderete di riputazione: però abbiate pacienza per un poco d'intervallo di tempo.
SIMBOLO. (Non dissi ch'arebbe sfugito d'andarvi? abbiam vinto).
DON IGNAZIO. Dubbito di non potervi ubidire.
DON FLAMINIO. Forsi non sará in casa.
ANGIOLA. (Mira che desiderio e che ardore!).
DON IGNAZIO. Mandiamo a vedere.
DON FLAMINIO. Panimbolo, va' a casa del conte.
DON IGNAZIO. Vien qua, Avanzino, va' a casa del conte e vedi se il conte de Tricarico è in casa.
DON FLAMINIO. Essendovi, andrò ad avisarlo io prima, verrò a trovarvi e vi andaremo insieme.
DON IGNAZIO. Noi dove ci trovaremo?
DON FLAMINIO. In casa.
DON IGNAZIO. Andate, orsú.
ANGIOLA. (O Dio, che ho inteso! o Dio, che ho veduto! Ed è possibile che si trovi cosí poca fede negli uomini? Or chi avesse creduto che don Ignazio, venutomi tanto tempo appresso per parlarmi e con tante affettuose parole, con tante lacrime e promesse, non fusse tutto fuoco e fiamme per Carizia? Or gite, donne, e date credito a quelle simulate parole, a quelle lacrime traditrici, a quei finti sospiri e a quelle fallaci promesse; movetivi a pietá di loro, perché tal volta li veggiate piovere dal volto tempesta di amarissime lacrime; credete a quei giuramenti, a quei spergiuri! Come si salverá onor di donna giamai, se li sono tesi tanti laccioli? Andrò a casa e non li narrerò nulla di ciò; ch'avendola io spinta a raggionar con lui, sarebbe donna, in vedersi cosí spregiata e tòcca su l'onor suo, di morirsi di passione).
SCENA V.
DON FLAMINIO, PANIMBOLO.
DON FLAMINIO. Ecco, o Panimbolo, che, tu non avendo voluto credere a quanto io te diceva, che don Ignazio non s'accorse quel giorno di Carizia e che è molto invaghito della figlia del conte, per far a tuo modo e per iscoprir l'animo suo, l'avemo detto che il matrimonio con la figlia del conte era conchiuso; e vedesti con che pronto animo e con che accesa voglia volea sposarla allora allora e non aspettar in sino alla sera.
PANIMBOLO. Cosí son sicuro io che don Ignazio sta innamorato d'altra come son vivo. Ma come ch'egli è d'ingegno vivace e pronto, imaginatosi la fraude, rispose in cotal modo.
DON FLAMINIO. Mi doglio del tuo mal preso consiglio. Ecco, andrá o mandará in casa del conte, e come saprá che è piú d'un mese che non vi son ito, scoprirá tutta la bugia, mi terrá sempre per un bugiardo e bisognando non mi crederá la veritá istessa.
PANIMBOLO. Bisogna con una nuova bugia salvar la vecchia bugia: andiamo a casa del conte e rimediamo in alcun modo.
DON FLAMINIO. Andiamo; e se uscirò con onor mio da questa bugia, un'altra volta non sarò cosí prodigo del mio onore.
SCENA VI.
EUFRANONE, DON IGNAZIO.
EUFRANONE. (Veramente chi ha una picciola villa non fa patir di fame la sua famigliola. Di qua s'hanno erbicine per l'insalate e per le minestre, legna per lo fuoco e vino, che se non basta per tutto, almeno a soffrir piú leggiermente il peso della misera povertá. O me infelice se, fra l'altre robbe che mi tolse il rigor della rubellione, mi avesse tolta ancor questa! Mi ho còlto una insalatuccia; ché «chi mangia una insalata, non va a letto senza cena»).
DON IGNAZIO. Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene!
EUFRANONE. Questa speranza ho in lui.
DON IGNAZIO. Come state?
EUFRANONE. Non posso star bene essendo cosí povero come sono.
DON IGNAZIO. Servitivi della mia robba, ché è il maggior servigio che far mi possiate. Copritevi.
EUFRANONE. È mio debito star cosí.
DON IGNAZIO. Usate meco troppe cerimonie.
EUFRANONE. Perché mi sète signore.
DON IGNAZIO. Vi priego che trattiamo alla libera.
EUFRANONE. Orsú, per obedirvi. (Non so che voglia costui da me: mi fa entrar in sospetto).
DON IGNAZIO. Or veniva a trovarvi.
EUFRANONE. Potevate mandar a chiamarmi, ché serei venuto volando.
DON IGNAZIO. Son molti giorni che desio esservi parente; e son venuto a farmevi conoscere per tale, ché veramente sète assai onorato e da bene.
EUFRANONE. Tutto ciò per vostra grazia.
DON IGNAZIO. Anzi per vostro merito.
EUFRANONE. Non mi conosco di tanto preggio che sia degno di tanta cortesia.
DON IGNAZIO. Siete degno di maggior cosa: io vi chieggio la vostra figliola con molta affezione.
EUFRANONE. Stimate forsi, signore, ch'essendo io povero gentiluomo venda l'onore de mia figliuola? Veramente non merito tanta ingiuria da voi.
DON IGNAZIO. Non ho detto per farvi ingiuria, ché non conviene ad un mio pari né voi la meritate: ve la chiedo per legittima moglie, se conoscete che ne sia degno.
EUFRANONE. Essendo voi cosí ricco e di gran legnaggio, non convien burlar un povero gentiluomo e vostro servidore.
DON IGNAZIO. Mi nieghi Dio ogni contento se non ve la chiedo con la bocca del core, ch'io non torrò altra sposa in mia vita che Carizia. E in pegno dell'amore ecco la fede: accoppiamo gli animi come il parentado.
EUFRANONE. Signor mio caro, io so ben quanto gli animi giovenili sieno volubili e leggieri e piú pieni di furore che di consiglio; e che subbito che gli montino i capricci in testa, si vogliono scapricciare, e passato quell'umore restano come si di ciò mai non ne fusse stata parola; e in un medesimo tempo amano e disamano una cosa medesima. Non vorrei che si spargesse fama per Salerno che m'avete chiesto mia figlia: ché come in Salerno si parla una volta di nozze, dicono:—Son fatte, son fatte!—e poi se per qualche disgrazia non si accapassero, restasse la mia figliola oltraggiata nell'onore—stimando esser rifiutata per alcun suo mancamento—e mi toglieste quello che non potete piú restituirmi. Ed io vorrei morir mille volte prima che ciò m'accadesse. Voi altri signori ricchi stimate poco l'onor de' poveri; e noi poveri gentiluomini, non avendomo altro che l'onore, lo stimiamo piú che la vita. Però lo priego ad ammogliarsi con le sue pari e lasciar che noi apparentiamo fra' nostri.
DON IGNAZIO. Eufranone mio carissimo, Dio sa con quanto dolore or ascolto le vostre parole e se mi pungano sul vivo del cuore! Io non merito da voi esser tacciato di vizio di leggierezza, nascendo il mio amore da un risoluto e invecchiato affetto dell'anima mia: ch'avendo fatto l'ultimo mio forzo di resistere al suo amore, dopo lunghissimo combattimento le sue bellezze son restate vincitrici d'ogni mia voglia.
EUFRANONE. Vi priego a pensarvi su sei mesi prima; e se pur dura la voglia, allor me la potrete chiedere: ed io vi do la mia fede serbarla per voi insin a quel tempo.
DON IGNAZIO. Sei mesi star senza Carizia? piú tosto potrei vivere senza la vita: e ben sapete che l'amante non ha maggior nemico che l'indugio.
EUFRANONE. A questo conosco l'impeto giovenile, che quanto con maggior violenza assale tanto piú tosto s'intepidisce.
DON IGNAZIO. Ogni parola che vi esce di bocca mi è un can rabbioso che mi straccia il petto. Il mio amore è immortale, e la mia fé, che or stimate leggiera, la conoscerete fermissima agli effetti.
EUFRANONE. È contento vostro zio e fratello del matrimonio?
DON IGNAZIO. Farò che si contentino.
EUFRANONE. Fate che si contentino prima, e poi affettuaremo il matrimonio.
DON IGNAZIO. L'amar mio non può patir tanto indugio; anzi mi maraviglio che dal giorno della festa come sia potuto restar vivo senza lei.
EUFRANONE. Lo dico ad effetto, ché forsi, non contentandosi del matrimonio, inventassero qualche modo per disturbarlo, onde venissi a perdere quel poco di onor che mi è rimasto.
DON IGNAZIO. O Dio, quanta téma e quanto sospetto!
EUFRANONE. «Chi poco ha, molto stima e molto teme». Ma voi sète informato dell'infortunio che ho patito nella robba, che non solo non ho da poter dar dote ad un par vostro ma né meno ad un povero mio pari?
DON IGNAZIO. Ho inteso che per aver voluto seguir le parti sanseverinesche siate caduto in tanta disgrazia; ma io ho stimato sempre d'animi bassi e vili coloro che s'han voluto arricchire con le doti delle mogli. Io prendo la vostra destra e non la lascierò mai se non la mi prometteti.
EUFRANONE. Temo prometterlavi: non so che nuvolo mi sta dinanzi al core.
DON IGNAZIO. Eufranone, mio padre, vi prego a darlami con vostro consenso, ché non mi fate far qualche pazzia. Non mi sforzate a far quello per forza che me si deve per debito d'amore. A pena posso contenermi ne' termini dell'onestá: son risoluto averla per moglie, ancorché fusse sicuro perder la robba, la vita e l'onore, per non dir piú.
EUFRANONE. Signore, perdonatemi se mi fo vincere dalla vostra ostinata cortesia: ecco la mano in segno d'amicizia e di parentado, avertendovi di nuovo che non ho dote da darvi.
DON IGNAZIO. E ancorché me la voleste dare, non la vorrei: conosco non meritar tanta dote quanta ne porta seco. Vo' che si facci festa bandita, si conviti tutta la nobiltá di Salerno, adornisi la sala di razzi, faccisi un solenne banchetto, adornisi la sposa di gioie, perle e di drappi d'oro, e non si lasci adietro cosa per dimostrar l'interno contento dell'animo mio.
EUFRANONE. V'ho detto quanto sia mal agiato di far questo.
DON IGNAZIO. A tutto provederò ben io: mandarò il mio cameriera ché proveda quanto fia di mestiero.
EUFRANONE. Quando verrete a sposarla?
DON IGNAZIO. Vorrei venir prima che partirmi da voi. Ma perché l'ora è tarda, verrò domani all'alba: ponete il tutto in ponto per quell'ora.
EUFRANONE. Si fará quanto comandate.
DON IGNAZIO. lo non vo' trattener piú voi né me stesso: andrò a mandarvi quanto ho promesso.
EUFRANONE. Andate in buon'ora.—O Dio, che ventura è questa! Desidero communicar una mia tanta allegrezza con alcuno. Ma veggio Polisena, la mia moglie, che vien a tempo per ricever da me cosí insperato contento.
SCENA VII.
POLISENA moglie, EUFRANONE.
POLISENA. (Veggio il mio marito su l'uscio, piú del solito allegro). Gentil compagno mio, che ci è di nuovo?
EUFRANONE. Buone novelle.
POLISENA. Ma non per noi.
EUFRANONE. Perché no?
POLISENA. Perché siamo cosí avezzi alle sciagure che, volendoci favorir la fortuna, non trovarebbe la via.
EUFRANONE. Abbiam maritata Carizia.
POLISENA. Eh, e con chi? con quel dottor della necessitá, nostro vicino?
EUFRANONE. Con un meglior del dottore.
POLISENA. Con quel capitan Martebellonio bugiardo vantatore?
EUFRANONE Con un gentiluomo.
POLISENA. Quel gentiluomo poverello che ce la chiese l'altro giorno? E che val nobiltá senza denari? avete l'esempio in noi.
EUFRANONE. Non l'indovinaresti mai.
POLISENA. Dimmelo, marito mio, di grazia: non mi far cosí struggere di desiderio.
EUFRANONE. Non vo' farti piú penare. Con don Ignazio di Mendozza.
POLISENA. Quel nipote del viceré della provincia, che combatté quel giorno con i tori?
EUFRANONE. Con quell'istesso.
POLISENA. Egli è possibile, marito mio, che tu vogli cosí beffarmi e rallegrarmi con false allegrezze? Il caldo del piacere, che giá mi scorrea per tutte le vene, mi s'è raffreddato e gelato.
EUFRANONE. Giuro per la tua vita, cosí a me cara come la mia, che lo dico da senno.
POLISENA. E chi ha trattato tal matrimonio?
EUFRANONE. Egli istesso; né ha voluto partirsi da me se non gli la prometteva.
POLISENA. Quando egli la vidde mai?
EUFRANONE. Quel giorno che fu la festa in Palazzo.
POLISENA. O somma bontá di Dio, quanto sei grande! e quanto sono secreti i termini per i quali camini, quando ti piace favorir i tuoi devoti! Tu sai, marito mio, che Carizia appena va fuor di casa il natale e la pasqua, cosí per l'incommoditá delle vesti come che è di sua natura malinconica; e se quei giorni che si preparava la festa, le venne un disio che mai riposava la notte e il giorno, pregandomi che vi la conducessi; e ributtandola io che non avea vesti e abbegliamenti da comparir tra tante gentildonne sue pari, se disse che le volea tôrre in presto dalle sue conoscenti, da chi una cosa e da chi un'altra. Ce lo promisi, tenendo per fermo che a lei fusse impossibile tanta manifattura: s'affaticò tanto con le sue amiche che accommodò sé e Callidora. Or io, non potendo resistere a tanti prieghi, chiesi licenza a voi e ve la condussi. Or chi arebbe potuto pensare che indi avea a nascere la sua ventura?
EUFRANONE. Chi può penetrar gli occulti segreti di Dio?
POLISENA. O Iddio, che mai vien meno a chi pone in te solo le sue speranze? Ella si è sempre raccomandata a te, e tu li hai esaudite le sue preghiere, rimunerata la sua bontá e l'ubidienza estraordinaria che porta al suo padre e sua madre.
EUFRANONE. Ho tanto giubilo al core che mi trae di me stesso.
POLISENA. Se ben i padri s'attristano al nascer delle femine, con dir che seco portano cattivo augurio di certa povertá e di poco onore; pur son state molte che hanno inalzato il suo parentado, come speriamo di costei.
EUFRANONE. Ella è una gran donna; e non m'accieca la benda del soverchio amore. Mai si vide tanta saviezza e bontá in una fanciulla.
POLISENA. Vorrei dir molto delle sue buone qualitá che voi non sapete; ma le lacrime di tenerezza non me lo lasciano esprimere.
EUFRANONE. Va' e poni lei e la casa in ordine.
POLISENA. E con che la ponemo in ordine?
EUFRANONE. Ecco genti cariche di robbe. Ho per fermo che le mandi don Ignazio: conosco il suo cameriero.
SCENA VIII.
SIMBOLO, EUFRANONE, POLISENA.
SIMBOLO. Signor Eufranone, il mio signor don Ignazio vi manda questi drappi di seta e d'oro per le vesti di Carizia e della sorella e di vostra moglie: ecco i maestri che faticheranno tutta la notte ché sieno finite per domani all'alba; ecco i razzi per la sala e camere; in questa scatola son collane, maniglie d'oro, perle, gioie e altri abbegliamenti necessari. Questo sacchetto di scudi per lo banchetto e altri bisogni: che spendiate largamente in fargli onore, ch'egli supplirá al tutto, che in sí poco tempo non ha potuto far piú e che andrá sopplendo di passo in passo.
EUFRANONE. Tutto stimo sia piú tosto soverchio che manchevole; e so che ci onora non secondo il nostro picciolo merito ma secondo le sue gran qualitadi.
SIMBOLO. Dice che, se bene son immeritevoli di tanta sposa, col tempo fará conoscere la sua amorevolezza; e se comandate altro.
EUFRANONE. Che ci ha onorato piú del dovere; e bisognando, gli lo faremo intendere.
SIMBOLO. Adio, signori.
EUFRANONE. Ecco, o moglie, che non ho mentito punto di quanto t'ho detto.
POLISENA. A Dio solo si dia la gloria, ché noi non siamo meritevoli di tanti favori per li nostri peccati.
EUFRANONE. Moglie, va' e fa' quanto t'ho detto, ché io andrò a convitar per domani tutti i parenti e la nobiltá di Salerno.
SCENA IX.
DON FLAMINIO, PANIMBOLO, LECCARDO.
DON FLAMINIO. Io vo' far prima ogni sforzo se posso indurla ad amarmi; e quando non mi riuscirá, non mancará ricercarla per moglie. Lo vo' lassar per l'ultimo, ché son risoluto non viver senz'ella o sua sorella.
PANIMBOLO. Voi trattando per via del parasito e con lettere e per modi cosí disconvenevoli, in cambio d'amarvi vibrará contro voi fiamme di sdegno, perché stimará esser oltraggiata da voi ne' fatti dell'onore.
DON FLAMINIO. Non vedi Leccardo come sta allegro?
PANIMBOLO. Averá bevuto soverchio e sta ubbriaco.
LECCARDO. O Dio, dove andrò per trovare don Flaminio?
DON FLAMINIO. (Cerca me).
LECCARDO. (Corri, volta, trotta, galoppa e dágli cosí felice novella).
DON FLAMINIO. (Se ben lo veggio allegro, mi sento un discontento nel core; e se ben ho voglia d'intenderlo, li vo innanzi contro mia voglia).
LECCARDO. O signor don Flaminio, buona nuova! la mia lingua non t'apporta piú male novelle.
DON FLAMINIO. E la mia ti apporterá grande utile.
LECCARDO. Non sapete il successo?
DON FLAMINIO. Non io.
LECCARDO. Come nol sai, se il sa tutto Salerno?
DON FLAMINIO. Nol so, ti dico.
LECCARDO. O nieghi o fingi per burlarmi.
DON FLAMINIO. In cosa ch'importa non si deve burlare.
LECCARDO. Io penso che tu vogli burlar me.
DON FLAMINIO. La burla insino adesso l'ho ricevuta in piacere, ma or mi dá noia.
LECCARDO. Lasciarò le burle e dirò da dovero. DON FLAMINIO. Or di', in nome di Dio, e non mi tener piú in bilancia: parla.
LECCARDO. Ho tanto corso che non posso parlare: non ho fiato.
DON FLAMINIO. Prendi fiato; se non, che farai perdere il fiato a me.
LECCARDO. Per la soverchia stanchezza mi sento morire.
DON FLAMINIO. Dammi la nuova prima e mori quando ti piace.
LECCARDO. Quanto ho piú voglia di dire, manco posso.
DON FLAMINIO. Dimmelo in una parola.
LECCARDO. Non si può, perché è cosa troppo lunga né si può esprimere in una parola; e la stanchezza m'ha tolto il vigor del parlare.
DON FLAMINIO. Mentre hai detto questo, aresti detto la metá.
LECCARDO. La vostra Ca… Cari… Carizia…
DON FLAMINIO. La mia Carizia…. O buon principio! spediscela, di grazia.
LECCARDO…. sará vo… vostra:…
DON FLAMINIO. Leccardo mio, parla presto, non mi far cosí morire: come sará mia?
LECCARDO. Manda a tôr diece caraffe di vino per inumidir il palato e la gola, che stanno cosí secchi che non ne può uscir la parola.
DON FLAMINIO. Arai quanto vorrai, e venti e trenta; ma parla presto.
LECCARDO…. la vostra Carizia è maritata….
DON FLAMINIO. Maritata? Tu sia il malvenuto con questa nuova! E questa è l'allegrezza che mi portavi?
LECCARDO. Io non penso che possa esser migliore.
DON FLAMINIO. E dove la fondi?
LECCARDO…. Non mi avete voi detto che non la desiate per moglie? Come il marito scassa la porta la prima volta, ella resta aperta per sempre; e ben sapete che le donne la custodiscono insino a quel punto: poi ci ponno passar quanti vogliono, ché non si conosce né vi si fa danno. Ecco, la goderete e io non sarò il malvenuto.
DON FLAMINIO. Veder la mia Carizia in poter d'altri per un sol ponto, ancorché fusse pur certo possederla per sempre, non mi comportarebbe l'animo di soffrirlo. E con chi è maritata?
LECCARDO. Bisogna che cominci da capo.
DON FLAMINIO. O da capo o da piedi, purché la spedischi tosto.
LECCARDO. Entrando in casa viddi che si facea un grande apparecchio d'un banchetto, e tutto ciò con real magnificenza. Io adocchiai certe testoline di capretto, le rubai e me le mangiai in un tratto; or mi gridano in corpo: Beee beee! Ascoltate? e le vorrei castigare….
DON FLAMINIO. Tu castighi or me, ché i tuoi trattenimenti mi son lanciate nel cuore.
LECCARDO…. Ivi eran mandre di vitelle, some di capponi impastati, monti di cacio parmigiano, il vino uh! a diluvio….
DON FLAMINIO. Vorrei saper con chi è maritata.
LECCARDO. Bisogna vi si dica il tutto per ordine.—… Lascio i pastoni, i pasticci, i galli d'India….
DON FLAMINIO. Piccioni e simili: basta su.
LECCARDO. Non vi erano piccioni altrimenti.
DON FLAMINIO. O che vi fussero o che non vi fussero, poco importa.
LECCARDO. Dico che non vi erano; e dicean che son caldi per natura e che arebbono fatto male al fegato.
DON FLAMINIO. Vorrei che ragionassi del fatto mio.
LECCARDO. E del vostro fatto si ragiona: a voi tocca. Ché si vi fusser stati piccioni, non arei mangiato teste di capretti.
DON FLAMINIO. O Dio, che sorte di crucifiggere è questo! Lassa le baie: di' quel ch'importa.
LECCARDO. Non è cosa che piú importi ad un banchetto che non vi manchi cosa alcuna, anzi sia abbondantissimo di robbe ben apparecchiate e condite e poste a tempo e con ordine a tavola.
DON FLAMINIO. Tu ti trattieni in questo ed io sudo sudor di morte.
LECCARDO. Eccovi il mantello: fatevi vento, rinfrescatevi.
DON FLAMINIO. Sará ancor finito tanto apparecchio?
LECCARDO. Non è finito ancora.
DON FLAMINIO. Almen s'è detto assai: torniamo a noi.
LECCARDO…. Quando io viddi i cuochi occupati in partire e distribuire le robbe, fingendo aiutarli mi trametto e ne trabalzo le teste di capretti….
DON FLAMINIO. Orsú te le mangiasti, l'hai detto prima.
LECCARDO. Come dunque volea mangiarmele crude? bisognava che fussero prima cotte. Se volete indovinar, indovinate a voi stesso quanto desiate saper da me.
DON FLAMINIO. Il malanno che Dio dia a te e alle tue chiacchiare!
LECCARDO. Se non lasciate parlar a me prima, come volete che parli io?
DON FLAMINIO. Parla in tua malora e finiscila presto!
LECCARDO. Se non mi lasciate parlare, non finirò mai.
DON FLAMINIO. Sto per accommodarmi la cappa sotto e sedermi in terra per ascoltare con maggior agio.
LECCARDO. Tacete mentre parlo.
DON FLAMINIO. Comincia presto, che fai? Sto attaccato alla corda, non sentii mai in mia vita la maggior pena.
LECCARDO. Voi state malcontento, e se non vi vedo allegro non posso parlare.
DON FLAMINIO. Che cagion ho io di star allegro?
LECCARDO. Dunque taccio poiché non ascoltate con allegrezza.
DON FLAMINIO. Se non con allegrezza, almeno con pacienza: di' su.
LECCARDO…. Io mi accorgo che bugliva una gran caldaia d'acqua per ispiumar i pollami e spelar gli animali; fingendo stuzzicar il fuoco, vi butto dentro le testoline….
DON FLAMINIO. Or lasciamo dentro la caldaia il ragionamento di ciò. Cotte che fûro te le mangiasti, buon pro ti faccia: finimola presto.
LECCARDO…. Venne un altro cuoco e s'accorge ch'avea buttato le testoline dentro la caldaia….
DON FLAMINIO. Oimè, ci è gionta un'altra persona: e se il parlar di uno era cosí lungo, or che vi è gionta un'altra persona, sará altro tanto.
LECCARDO…. Oh oh, che m'era smenticato il meglio! Prima che venisse quel cuoco….
DON FLAMINIO. Quando pensava che fusse alla metá dell'istoria, ci avevi lasciato il principio; e or al principio bisogna dar un altro principio.
LECCARDO. Se non volete ascoltar, io taccio.
DON FLAMINIO. Eh, parla col diavolo!
LECCARDO. Non parlo col diavolo io.
DON FLAMINIO. E tu parla con Dio.
LECCARDO. Or questo sí, in nomine Domini.
DON FLAMINIO. Amen.
LECCARDO. Voi dite « amen » come fosse al fine e non sète ancora al principio.
DON FLAMINIO. Spediscimi, per amor di Dio!
LECCARDO. Sei bello e spedito. Carizia è maritata con un parente del viceré della provincia.
DON FLAMINIO. Se tu dici da senno, m'uccidi; se da burla, dove ci va la vita mi ferisci troppo acerbamente. Sai tu il nome del marito?
LECCARDO. Sí bene; ma non me ne ricordo, perché era troppo intricato.
DON FLAMINIO. Ricordati bene.
LECCARDO. Spedazio…, Pignatazio…. Il nome s'assomigliava al spede o pignato, e però me ne ricordo.
DON FLAMINIO. Fosse don Ignazio?
LECCARDO. Sí sí, don Ignazio,… Spedazio.
DON FLAMINIO. M'hai ucciso, m'hai morto: le tue parole mi sono spiedi e spade che m'hanno mortalmente trafitto il cuore. Or sí che m'hai portato la morte nella lingua.
LECCARDO. Dubito averla portata a me stesso, ché per la mala novella non serò piú medicato come oggi.
DON FLAMINIO. Da questo principio posso indovinar la mia sciagura: piú dolente uomo di me non vive sopra la terra!
LECCARDO. Al fin, il mal bisogna sapersi ché si possa rimediar a tempo. E dicevano che le nozze si facevano domani all'alba.
DON FLAMINIO. Tanto men spazio di tempo è dato alla mia vita. Una tempesta di pungenti pensieri m'ha ferito il core, una nuvola di malinconia m'ha circondato l'anima, giá la gelosia ha preso possesso del mio core: non posso fingermi piú ragioni contro me stesso per trasviarla. Ahi! che da quel giorno maledetto che la viddi, ho portato sempre questo sospetto attraversato nell'alma: e come il condennato a morte ogni romor che sente, ogni uscio che s'apre, gli par il boia che venghi e gli adatti il capestro al collo; cosí ogni parola, ogni motivo di mio fratello mi parea che mi la togliesse! Ahi, che mai l'ho desiata come adesso! ché «mai si conosce il bene se non quando si perde». Io non basto né posso vivere: se non m'ucciderá il dolore, m'ucciderò con le mie mani.
PANIMBOLO. Padrone, voi sète bene avezzo a' casi dell'una e l'altra fortuna. Reggetevi con maturo consiglio: bisogna dar fine all'ostinazione; e nelle cose impossibili far buon cuore e abbandonar l'impresa, e prender una risoluzione tanto onorata quanto necessaria.
DON FLAMINIO. Panimbolo, se sei cosí di vile animo, non avilir e spaventar l'animo mio: se pensi rimovermi da sí bella impresa, ammazzami prima. Io non vo' andar incontro alla fortuna, né restar cosí vinto alla prima battaglia né lasciar cosa intentata fin alla morte.
PANIMBOLO. Orsú, facciasi tutto il possibile, ch'avendo a morire, quando s'è fatto quanto umanamente può farsi, si muor piú contento. Andiamo in Palazzo, informiamoci del fatto. Leccardo, trattienti da qua intorno, ch'avendo bisogno di te non abbiamo a cercarti. Va' e vieni.
LECCARDO. Andrò e verrò.
ATTO III.
SCENA I.
DON FLAMINIO, PANIMBOLO.
DON FLAMINIO. Battuto da cosí crudel tempesta di contraria fortuna, la qual mi spinge addosso onde sopra onde, l'anima mia stordita dalla paura ondeggia in una gran tempesta e sta turbata di sorte che non credo viva al mondo oggi uomo che sia aggirato da vari pensieri come io. Temo di molte cose e fra tanto timore non so in che risolvermi. Una sola forza nascosa mi toglie ogni espedito consiglio: temo il genio del mio fratello che sempre suol dominarmi. E se bene son abbandonato dalla fortuna, non abbandonarmi ancor tu: fa' che se non posso vincere, almen non resti vinto da lui. Tu sei il mio timone e la mia stella; gli occhi miei non mirano se non in te solo; non patir che facci naufragio.
PANIMBOLO. Questa tempesta che minaccia naufragio, questa istessa vi condurrá in porto.
DON FLAMINIO. Non posso soffrir che mio fratello abbi saputo far meglio di me.
PANIMBOLO. S'egli ha saputo fare, voi saperete disfare.
DON FLAMINIO. Io molte volte dalli tuoi astuti inganni d'invecchiata prudenzia ho conseguito molti disegni, de' quali t'ho grande obligo.
PANIMBOLO. Io non ho mai fatto cosa in vostro servigio che non avesse avuto desio di farne altro tanto.
DON FLAMINIO. Io ho voluto rammemorargli e ringraziarti, acciò conoschi con che memoria gli serbo e che voglia ho di remeritargli. Fa' conto che se per te schivo questa ruina che mi sta sopra, da te ricevo la sposa, la vita e l'onore insieme, ché perdendo lei perderò il tutto miseramente: renderai me stesso a me stesso e mi torrai dalle mani della morte. Se sei stato mio servidore, d'oggi innanzi sarai mio fratello; e dal guiderdone che riceverai da me, conoscerai che so conoscere e guiderdonare i servigi.
PANIMBOLO. Padron caro, allor sarò conosciuto e guiderdonato da voi quando conoscerete quanto i vostri servigi mi sieno a caro.
DON FLAMINIO. Il fatto è passato molto innanzi, le nozze son vicine, il tempo breve, i rimedi scarsi: temo dell'impossibile.
PANIMBOLO. Non può l'uomo oprar bene, il quale si avvilisce nell'impossibile. Quando non ci valerá ragione, bontá e giustizia, poneremo mano agl'inganni e furfanterie, ché queste vincono e superano tutte le cose; e poiché egli cerca con inganni tôrvi l'amata, sará bene che con i medesmi inganni gli respondiamo e facciamo cader l'inganno sopra l'ingannatore. E che val l'uomo che non sa far bene e male? ben a' buoni e mal a' cattivi? Or mentre ho lingua e ingegno state sicuro.
DON FLAMINIO. Comincio a respirare.
PANIMBOLO. Ma mentre parlo rivocate voi stesso in voi stesso.
DON FLAMINIO. O dolor o rabbia che tu sei, fa' tanta tregua con me fin che ordisca qualche garbuglio, e poi tormentami e uccidimi come a te piace.—Ma dimmi, hai pensato alcuna cosa?
PANIMBOLO. Cose belle a dire e grate all'orecchie ma non riuscibili; e nelle riuscibili non vorrei valermi di mezi cosí pericolosi.
DON FLAMINIO. Mai si vinse periglio senza periglio. Ma perché corremo per perduti e per me è morta ogni speranza e non spero se non nella disperazione, prima che muoia vo' tentar ogni cosa per difficile e perigliosa che sia, e morendo io vo' che tutto il mondo perisca meco. Ma tu imagina qualche cosa: fa' che veggia i fiori della mia felicitade.
PANIMBOLO. Farò come il fico che prima ti dará i frutti che ti mostri i fiori.
DON FLAMINIO. Presto: come la guadagnaremo?
PANIMBOLO. Ancora non avemo cominciato ad ordire, e volete la tela tessuta! né qui bisogna tanta fretta, ché la fretta è ruina de' negozi e le subbite resoluzioni son madri de' lunghi pentimenti. Sappiate che non è piú facil cosa che guastar un matrimonio prima che sia contratto: uno solo sospetto scompiglia il tutto. Diremo che molto tempo prima voi ci avete fatto l'amore e godutala.
DON FLAMINIO. La sua fama ci è contraria, perché è tenuta la piú onesta e onorata giovane che sia in Salerno.
PANIMBOLO. Un poco di vero mescolato con la bugia fa creder tutta la bugia. Aggiungeremo che la povertá sia stata cagione della sua disonestá.
DON FLAMINIO. Non lo crederá mio fratello ancorché lo vedesse con gli occhi suoi.
PANIMBOLO. E bisognando, faremo che lo veggia: come fargli veder di notte che alcuno entri in casa sua, mostrargli veste sue, gioie che portò quel giorno della festa o de' doni propri mandati; e per mezzo della notte agevolmente si può far veder una cosa per un'altra.
DON FLAMINIO. E ciò come farassi?
PANIMBOLO. Il parasito potrá aiutarvi, che è portinaio della casa, in farvi entrar e uscire e prestarvi alcune delle sue robbe.
DON FLAMINIO. Intendo ch'il padre, se ben per altro riguardevole, è molto iracondo e tenace del suo onore e buona riputazione: ci ponemo in pericolo d'un irreparabil danno e ne ponno accader molti disordini.
PANIMBOLO. A questi disordini rimediaremo con molti ordini. Come vostro fratello rifiuterá la sposa, vi appresentarete col prete e la sposarete.
DON FLAMINIO. Carizia che or ama don Ignazio, che l'ha legitimamente chiesta per isposa e complito con molti presenti, come s'accorgerá che per i nostri poco fedeli uffici riceverá questa macchia nel suo onore, non m'accetterá per isposo.
PANIMBOLO. Gli animi delle donne sono volubili: con nuovi benefici cancellaremo la vecchia ingiuria.
DON FLAMINIO. L'atto è pieno di speranza e di paura: non so a qual appigliarmi. Perché essendomi forzato mentre son vissuto di non macchiar la mia vita con alcuna poco men che onesta azione, or facendo un cosí gran tradimento, con che faccia comparirò piú mai fra cavalieri onorati? Mio fratello arderá di sdegno contro di me e ci uccideremo insieme.
PANIMBOLO. Noi lo battezaremo piú tosto un generoso inganno che vituperoso tradimento. Ad un amante è lecito usar ogni atto indegno di cavaliero contro qualsivoglia, purché rivale, per acquistarsi la donna amata: e negli amori non si ha rispetto né ad amicizia né a strettezza di sangue, e ogni inganno e tradimento per vincere è riputato ingegno e grande onore. Non si prendono molte cittá e castelli per tradimenti? e pur non «tradimenti» ma «stratagemmi militari» si chiamano. E quando si combatte per vincere, non si fa mostra per ferir nell'occhio e si percuote nel cuore? Voi per diverse vie aspirate alle nozze di Carizia: ella è posta nel mezo a chi per valore o per ingegno la sa guadagnare. Or ditemi, non ha egli usato a voi tradimento? mentre occultamente trattava averla per isposa, vi facea trattar matrimonio con la figlia del conte. Egli cerca ingannar voi: será ben che inganniate lui. Poi fatto il sponsalizio, accioché si vergogni, gli improverarete che, non trattando con voi alla libera, l'avete fatto conoscere che, facendo professione di strasavio e d'esser vostro maestro, non è buono ad imparar da voi; e poi fatto l'errore, si trapongono gli uomini da bene e frati e preti, anzi il vostro zio, a por accordi fra voi. E al fin bisogna che si cheti: ché se ben v'uccidesse, non per questo otterrebbe il suo intento.
DON FLAMINIO. E non riuscendo quest'apparenza di notte, non so come andarebbe la cosa.
PANIMBOLO. Perché addur tante téme o perigli contro voi stesso? chi molto considera non vuol fare: lontani da' pericoli, lontani dalle lodi della sperata vittoria: né valoroso né degno uomo può esser quello che schiva i pericoli, che aprono la via all'onore: temendo i pericoli, si guastano i desegni.
DON FLAMINIO. Chi non teme con ragione, incorre spesso in disordine; e la téma fa riuscire i consigli vani.
PANIMBOLO. Quei, che col nome di «prudenza» cuoprono il natural timore, non fanno mai cosa buona. Quando mai facessimo altro, poneremo il tutto in disordine e confusione; e chi scampa un punto ne scampa cento.
DON FLAMINIO. Se ben è ardito ma pericoloso il consiglio e da spaventare ogni gran cuore, essendo disposto o di posseder Carizia o di morire, esseguiamolo: né vo' per una ignobil paura mancar a me stesso.
PANIMBOLO. Sète risoluto?
DON FLAMINIO. Risolutissimo. Oh come con gli occhi del pensiero la veggio riuscir bella e netta! e mentre sto in questo pensiero, sento un secreto spirito nel cuore che mi conforta e spinge ad esseguirlo. Resta solo si parli al parasito se vuol aiutarci.
PANIMBOLO. Bisogna far presto, ché don Ignazio è d'ingegno destro e vigilante: se non si previene con prestezza, si torrá Carizia. «Chi non fa conto del tempo perde le fatiche e le speranze dell'effetto».
DON FLAMINIO. Or mi par ogni indugio una gran lunghezza di tempo: s'avesse le podagre, saria venuto.
PANIMBOLO. Se menasse cosí i piedi nel caminare come le mani ne' piatti o le mascelle quando mangia, che l'alza in su e giú come un ballone, sarebbe venuto prima.
DON FLAMINIO. Eccolo, ma con una ciera annunziatrice di cattive novelle.
SCENA II.
LECCARDO, DON FLAMINIO, PANIMBOLO.
LECCARDO. (O Dio, che disgusto darò a don Flaminio recandoli cosí cattive novelle!).
DON FLAMINIO. Leccardo, benvenuto!
LECCARDO. Non son Leccardo né mai fui Leccardo, ché non mai mi toccò leccar a mio modo.
DON FLAMINIO. Sempre sul mangiare!
LECCARDO. Sempre su gli amori!
DON FLAMINIO. Se ti scaldasse quel fuoco che scalda me, diresti altrimenti.
LECCARDO. Io credo che l'amor delle femine scaldi; ma l'amor del vino scalda piú forte assai.
DON FLAMINIO. Che novelle?
LECCARDO. Dispiacevolissime. Don Ignazio avendo trattato col padre, ave ottenuto Carizia. Ha mandato presenti sontuosissimi; or s'apparecchia un banchetto di rari che s'han fatti al mondo. Le principali gentildonne addobbano Carizia; e se negletta parea cosí bella, or che fiammeggia fra quelli ori e quelle gioie par di bellezza indicibile.
DON FLAMINIO. Non mi recar piú noia con le tue parole che mi reca la presente materia.
LECCARDO. Mi dispiace che per mia cagione non sia vostra sposa, ché la vostra tavola mi sarebbe stata sempre apparecchiata. Or temo il contrario: ché come vostro fratello saprá che son stato dalla vostra parte, mi ará adosso un odio mortale, e sarò in capo della lista di coloro che saranno sbanditi dalla sua casa.
DON FLAMINIO. Io non son cosí abbandonato dalla fortuna che, aiutandomi, Carizia non possa divenir mia moglie. E se darò ad intendere a don Ignazio che abbi goduto prima di Carizia, con manifesta speranza mi guadagnarò le sue nozze. Onde vorrei che la notte che viene mi aprissi la porta di sua casa e mi facessi entrare, e mi prestassi una di quelle vesti che portò il giorno della festa e alcuni doni mandati da lui.
LECCARDO. Cacasangue! questa è una solenne ribaldaria, e discoprendosi io sarei il primo a patire la penitenza, e non vorrei ch'avendomi io vivo mangiati molti uccelli cotti in mia vita, che or le cornacchie e corbi vivi se avessero a mangiare me morto sovra una forca.
DON FLAMINIO. Tu sai che mio zio è viceré di Salerno: scoprendosi il fatto, saprá che il tutto arai operato per mia cagione e non offenderá te per non offender me.
LECCARDO. No no, la forca è fatta per i disgraziati. La giusticia è come i ragnateli: le moschette piccole com'io ci incappano e ci restano morte, i signori come voi sono gli uccelli grandi che la stracciano e portano via.
DON FLAMINIO. Io sarei il piú ingrato uomo del mondo se, tu incappando per amor mio, non spendessi quant'ho per liberarti.
LECCARDO. De' poveretti prima si fa giustizia, poi si forma il processo e si dá la sentenza.
DON FLAMINIO. Non temer quello che non sará per avvenir mai.
LECCARDO. Anzi sempre vien quello che manco si teme.
DON FLAMINIO. Dái impedimento ad un gran disegno, ché non lo possiamo metter in atto e nel felice corso della vittoria si rompe: mi distruggi in erba e in spica le giá concette e mature speranze.
LECCARDO. Voi volete che i buoni bocconi, che ho mangiato in casa vostra, mi costino come il cascio a' topi quando incappano alla trappola.
DON FLAMINIO. Dunque non vòi aiutarmi?
LECCARDO. Credo io ben di no.
DON FLAMINIO. Dunque non vòi?
LECCARDO. Non voglio e non posso: pigliatevi quale volete di queste due.
DON FLAMINIO. Troppo disamorevole risposta.
LECCARDO. Troppo sfacciata proposta.
DON FLAMINIO. Leccardo, sai che vorrei?
LECCARDO. Che fussi appiccato!
DON FLAMINIO. Che quel c'hai a fare lo facessi tosto, ché il giorno va via e la sera se ne viene, e il beneficio consiste in questo momento di occasione. Usarò teco poche parole, ché la brevitá del tempo non me ne concede piú. Mi par soverchio ricordarti le cortesie che ti ho fatte; e il volerti far pregar con tanta instanza diminuisce l'obligo che mi tieni. Vorrei che mi facessi piacere pari alla cortesia, e questo servigio sarebbe il condimento di tutti gli altri.
LECCARDO. L'impresa che mi proponi è di farmi essere appiccato.
DON FLAMINIO. Fai gran danno non aiutandomi.
LECCARDO. Maggior danno fo a me aiutandovi.
DON FLAMINIO. Leccardo, to', prendi questi danari.
LECCARDO. Ho steso la mano.
DON FLAMINIO. Togli questo argento.
LECCARDO. L'argento mi comanda.
DON FLAMINIO. Togli quest'oro.
LECCARDO. L'oro mi sforza. Oh come son belli e lampanti! par che buttino fuoco: fanno bel suono e bel vedere.
DON FLAMINIO. Sai che ho degli altri, che posso sodisfare alla tua ingordigia; e tu potrai taglieggiarmi a tuo modo.
LECCARDO. Vorrei tornarteli, ma non posso distaccarmegli dalle mani.
DON FLAMINIO. Non sai quella pergola di presciutti, quei salsiccioni alla lombarda, quei formaggi e provature; non sai le compagnie di polli, gli esserciti di galline, quei squadroni di galli d'India, le cantine piene d'eccellentissimi vini che ho in casa? Ti chiuderò ivi dentro e non ti farò uscir se non arai divorato e digesto il tutto; sederai sempre a tavola mia con maestá cesarea e ti saranno posti innanzi piatti di maccheroni di polpe di capponi, d'un pasto l'uno, sempre bocconi da svogliati.
LECCARDO. Panimbolo, che mi consigliaresti per non esser appiccato?
PANIMBOLO. Farti tagliar il collo prima.
LECCARDO. Il malan che Dio ti dia!
PANIMBOLO. A te ho detto quanto bisogna far per non esser appiccato.
LECCARDO. A tutti doi voi io lo posso insegnare.
DON FLAMINIO. Che dici eh, Leccardo mio?
LECCARDO. Che volete che dica? tanti presenti, tante carezze, tante promesse farebbono pormi ad altro pericolo di questo; ma lassami retirar in consiglio secreto.—Leccardo, consiglia un poco te stesso: sei in un gran passo. Dall'una parte sta la fame e dall'altra la forca; e l'una e l'altra mi spaventano e mi minacciano. La fame uccide subbito, la forca ci vuol tempo a venire: la forca è una mala cosa, mi strangolará che non mangiarò piú mai; alla fame darò un perpetuo bando e mi prometto dovizia di tutte le cose. Ahi, infingardo e senza core! i soldati per tre ducati il mese vanno a rischio di spade, di picche, di archibuggi e di artegliarie; ed io per sí gran prezzo non posso contrastar con la forca? Meglio è morir una volta che sempre mal vivere. Ho passati tanti pericoli, cosí passerò quest'altro. Cancaro! si mangiano molte nespole mature, poi un'acerba t'ingozza: «è di errore antico penitenza nuova».
DON FLAMINIO. Risoluzione? ché l'indugio è pericoloso e il pericolo sovrasta.
LECCARDO. Son risoluto servirvi piú volentieri che non sapresti commandarmi, e avvengane quello che si voglia: sète mio benefattore.
DON FLAMINIO. Avèrti che avendomi a fidar di te tu sia di fede intiera.
LECCARDO. Interissima: non mai l'ho rotta perché non mai l'adoprai.
DON FLAMINIO. In che cosa mi serverai e in che modo?
LECCARDO. Del modo non posso deliberare se non parlo prima con Chiaretta, ch'ella tien le chiavi delle sue casse. È gran tempo ch'ella cerca far l'amor con me.
DON FLAMINIO. Bisogna far l'amor con lei e dargli sodisfazione.
LECCARDO. Piú tosto m'appiccherei. Mai feci l'amor se non con porchette e vitelle; ed è il peggio, ch'è una simia e pretende esser bellissima.
DON FLAMINIO. Bisogna tôr la medicina per una volta.
LECCARDO. Quando la menerò a casa, fingerò por la mano alla chiave per aprir la porta. Basta: l'ingannerò di modo che mi aiuterá.
DON FLAMINIO. Lodo il consiglio: mandalo in essecuzione.
LECCARDO. Fra poco saperete la risposta.
DON FLAMINIO. Non vo' risposta ché non ci è tempo: gli effetti rispondino per te.
LECCARDO. La notte viene: non mi trattenete, ché è vostro danno; io vo con buona fortuna.
DON FLAMINIO. A rivederci.
LECCARDO. A riparlarci.
SCENA III.
MARTEBELLONIO, LECCARDO.
MARTEBELLONIO. Non ho lasciato fornai, salcicciai, macellari, osterie e piscatori che non abbia cerco per trovar Leccardo, e non ho avuto ventura di ritrovarlo!…
LECCARDO. (Ecco il ballon da vento! oh come gionge a tempo! Muterò parere e farò disegni piú a proposito, ché, per esser ignorantissimo, gli potrò dar ad intendere ciò che voglio).
MARTEBELLONIO…. Certo sará imbriacato, e ficcatosi in qualche stalla si sará disfidato con la paglia a chi piú dorme. M'è salito capriccio in testa di Calidora e vorrei sborrar fantasia.
LECCARDO. (Oh come servirò ben l'amico!). Ben venghi il bellissimo e innamoratissimo capitano!
MARTEBELLONIO. O Leccardo, ti son ito cercando tutt'oggi.
LECCARDO. Se foste venuto dov'era, m'areste ritrovato al sicuro.
MARTEBELLONIO. Perché m'hai detto «bellissimo»?
LECCARDO. Perché fate morir le principalissime gentildonne della cittá, e fra tutte Callidora, la mia padrona, che quando le muovo ragionamenti di voi fa atti da spiritata.
MARTEBELLONIO. Vorrei che la finissimo una volta, ché io non facessi penar lei né ella me; vorrei che le facessi un'ambasciata da mia parte.
LECCARDO. Farò quanto m'imponete.
MARTEBELLONIO. Dille che non è picciol favore che un mio pari s'inchini ad amar lei, ché son amato dalle piú grandi donne del mondo.
LECCARDO. Andrò a dirglielo.
MARTEBELLONIO. Ma non con certe parole umili che cagionino disprezzo, ma con un certo modo altiero che cagioni verso me onore e riverenza.
LECCARDO. Le dirò che se non vi ama, con un soffio la farete volar per aria o, con un fúlgore degli occhi vostri mirandola, l'abrusciarete.
MARTEBELLONIO. Dille ciò che tu vuoi, ché le cortesi parole d'un mio pari minacciano tacitamente.
LECCARDO. Ella spasima per voi.
MARTEBELLONIO. Poiché è cosí, dimmi: quando? come? Non m'intendi?
LECCARDO. V'intendo bene; ma non so che dite.
MARTEBELLONIO. Mi porrai con lei da solo a solo?
LECCARDO. Questa notte.
MARTEBELLONIO. Or sí che puoi comandarmi: sono assai amico delle preste risoluzioni, e per tal cagione nelle guerre ho conseguito grandissime vittorie. Ma venghiamo all'ora piú commoda a lei.
LECCARDO. Quando dorme la vicinanza, alle due ore, la farò venir in questa casa terrena e vi sollazzarete con lei tutta la notte. Ma che segni mi darete quando venite di notte ché vi conosca?
MARTEBELLONIO. Quando sentirai tremar la casa e la terra come se fusse un terremoto, son io che camino.
LECCARDO. Andrò ad ordinar con lei l'ora che possa venir senza saputa di suo padre. Venite sicuramente.
MARTEBELLONIO. Andrò a cenare e sarò qui ad un tratto.
LECCARDO. Oh com'è stata la venuta di costui a proposito! dalla cattiva via m'ha posto nella buona. Quando la fortuna vuol aiutare trova certe vie che non le trovarebbono cento consigli. Da Chiaretta non era possibile averne alcun piacere senza venir a' ferri, dove pensandovi sudava sudor di morte; l'accoppiarò con costui di modo che l'uno non s'accorgerá dell'altro, e l'altro sará contento e ingannato. Veggio Chiaretta che toglie i ragnateli dalla porta dalla casa.
SCENA IV.
CHIARETTA fantesca, LECCARDO.
CHIARETTA. Ho tanta allegrezza che Carizia, la mia padrona, sia maritata che pare ch'ancora io sia a parte delle sue dolcezze.
LECCARDO. Maggior dolcezza aresti, se gustassi quello che gustará ella quando staranno abbracciati insieme.
CHIARETTA. E se fusse a quei piaceri, ne gusterei ancor io com'ella: che pensi che non sia di carne e d'ossa come lei? o le membra mie non siano fatte come le sue?
LECCARDO. Ci è qua uomo che ti fará gustare le medesime dolcezze.
CHIARETTA. Sei tu forsi quello?
LECCARDO. Cosí Dio m'aiuti!
CHIARETTA. Tengo per fermo che non ti aiuteria, ché tu hai piú a caro un bicchier di vino che quante donne son al mondo.
LECCARDO. Dici il vero, ma tu sei tanto graziosa che faresti innamorar i sassi.
CHIARETTA. S'io facessi innamorar i sassi, starei sicura che farei innamorar te che sei peggio d'un sasso.
LECCARDO. Son risoluto esser tuo innamorato.
CHIARETTA. Che ti ho ciera di vitella o di porca, che ti vòi innamorar di me?
LECCARDO. T'apponesti. Hai certi labruzzi scarlatini come un prosciutto, una bocchina uscita in fuori com'un porchetto, gli occhi lucenti come una capra, le poppe grassette come una vitella, le groppe grosse e ritonde come un cappone impastato: in somma non hai cosa che non mi muova l'appetito; ebbe torto la natura non farti una capra.
CHIARETTA. E tu che vòi esser mio marito, un becco.
LECCARDO. E quando starò abbracciato con te, mi parrá di gustare il sapor di tutti quest'animali, o mia vacca, o mio porchetto, o mia agnella, o mia capra!
CHIARETTA. Starò dunque mal appresso te, che non mi mangi. Ma arei caro darti martello.
LECCARDO. Sei piú atta a riceverlo che a darlo.—Oh come par bella Carizia or che pompeggia fra quelle vesti.
CHIARETTA. Altro che tovaglia bianca ci vuol a tavola, altro che vesti ci vuole a far bella una donna: gli innamorati non amano le vesti ma quello che sta sotto le vesti. Bisogna aver buone carni, sode, grasse e lisce, come abbiamo noi fantesche che sempre fatichiamo; le gentildonne, che sempre stanno a spasso, l'hanno cosí flaccide e molli che paiono vessiche sgonfiate.
LECCARDO. Mi piace quanto dici.
CHIARETTA. E le lor facce son tanto imbellettate che paiono maschere; e portano tal volta sul volto una bottega intiera di biacche, di solimati, di litargiri, di verzini e altre porcherie. Oibò, se le vedessi la mattina quando s'alzano da letto, diresti altrimente. Ma noi misere e poverelle abbiamo carestia d'acqua per lavarci la faccia: triste noi se non ci aiutasse la natura!
LECCARDO. Veramente come una donna si parte da un buon naturale e il piglia artificiale, non può parer bella. Ma tu m'hai fatto risentir tutto: ti vorrei cercare un piacere.
CHIARETTA. Che piacere?
LECCARDO. Che mi presti una cosa.
CHIARETTA. Che cosa?
LECCARDO. Per un'ora, anzi mezza, anzi per un quarto; e te la ritorno come me la prestasti.
CHIARETTA. Dimmi, che vorresti?
LECCARDO. Vorrei….
CHIARETTA. Che vorresti?
LECCARDO. Dubito non me la presterai.
CHIARETTA. Ti presterò quanto ho per un'ora, per un quarto, per quanto tu vuoi: a me piú tosto manca l'occasione che la voluntá di far piacere; e se non basta in presto, te la dono.
LECCARDO. So che sei d'una naturaccia larga e liberale, che ciò che ti è cercato in presto tu doni.
CHIARETTA. Su, di' presto, che vuoi?
LECCARDO. Che mi presti la….
CHIARETTA. La che?
LECCARDO. La…, mi vergogno di dire.
CHIARETTA. Se ti vergogni dirmelo di giorno e in piazza, dimmelo all'oscuro in casa.
LECCARDO. Vorrei che mi prestassi la gonna di Carizia.
CHIARETTA. Il malan che Dio ti dia! non vòi altro di questo?
LECCARDO. E che pensavi? qualche cosa trista?
CHIARETTA. Che vuoi farne?
LECCARDO. Vestirla a te. E alcuna di quelle cose che l'ha mandato don Ignazio, o di quelle che portò quel giorno della festa; ché s'ella si vuole sposar dimani, noi ci sposaremo questa notte. Tu sarai Carizia, io don Ignazio.
CHIARETTA. Tu mi burli.
LECCARDO. Se ti burlo, facci Dio che mai gusti vino che mi piaccia!
CHIARETTA. A questo giuramento ti credo. A che ora?
LECCARDO. Alle due, in questa casetta terrena.
CHIARETTA. Perché non in casa nostra?
LECCARDO. Ché facendo romore non siamo sconci: ne parlaremo piú a lungo in casa.
CHIARETTA. Bene.
LECCARDO. Non mancarmi della tua promessa.
CHIARETTA. Né tu della tua.
SCENA V.
DON FLAMINIO, LECCARDO, PANIMBOLO.
DON FLAMINIO. Ecco il veggiamo a punto. Leccardo, hai appontato con la fantesca?
LECCARDO. No.
DON FLAMINIO. Perché?
LECCARDO. L'aco era spuntato e avea la testa rotta.
DON FLAMINIO. Hai scherzato a bastanza: non piú scherzi.
LECCARDO. Non abbiamo fatto cosa veruna.
DON FLAMINIO. Fortuna traditora, se tu volgi le spalle una volta, non volgi piú la faccia.
LECCARDO. Anzi la fortuna s'è incontrata con te senza saper chi fussi, e tu senza conoscerla ti sei incontrato con lei.
DON FLAMINIO. Che m'apporti?
LECCARDO. Le vesti, le gioie e l'istessa Carizia: piú di quel che m'hai chiesto e sapresti desiderare.
DON FLAMINIO. Perché dicivi di no?
LECCARDO. Per farvi saper la nuova piú saporita; ché si t'avessi detto cosí il tutto alla prima, non ti sarebbe piaciuta. Non solo aremo da Chiaretta quanto vogliamo; ma m'è venuto fra' piedi quel capitano balordo, innamorato di Calidora, il qual ci servirá molto a proposito, di modo che ci si trovará gentilmente beffato e vostro fratello tradito.
DON FLAMINIO. Da cosí buona fortuna fo argumento che la cosa riuscirá assai netta. Conosco il capitano; ma come si sentirá beffato da te, ti fará una furia di bravate.
LECCARDO. Ed io una furia di bastonate.
DON FLAMINIO. Leccardo mio, come arò per tuo mezo conseguito il mio bene, arai sempre la gola piena e ornata di catene d'oro.
LECCARDO. Purché non rieschino in qualche capestro!
DON FLAMINIO. Che resta a far, Panimbolo?
PANIMBOLO. Come il fratello vi dará la nuova, mostrate non sapere nulla. Dilli che sia disonesta. Tu, Leccardo, tieni in piedi la prattica della fantesca, ché noi ti avisaremo di passo in passo quanto è da farsi.
LECCARDO. Raccomando alla fortuna la vostra audacia.
PANIMBOLO. Abbi cura spiar se don Ignazio prepara alcuna cosa.
SCENA VI.
DON IGNAZIO, SIMBOLO, AVANZINO.
DON IGNAZIO. Talché noi abbiamo gentilmente burlato il fratello, il quale si pensava burlar me.
SIMBOLO. Se non era il mio consiglio, ti saresti trovato in un gran garbuglio.
AVANZINO. Padrone, datemi la mancia, ché me l'ho guadagnata davero.
DON IGNAZIO. E di che cosa?
AVANZINO. Non la dico, se prima non me la prometteti.
DON IGNAZIO. Ti prometto quanto saprai tu dimandarmi.
AVANZINO. Quando voi mi mandaste a casa del conte per veder se vi fusse, non so che mi fe' far la via della porta della cittá che va a Tricarico….
DON IGNAZIO. E ben?
AVANZINO…. Trovai il conte il quale, perché se gli era sferrato il cavallo di tre piedi, s'era fermato a farlo ferrare, e li feci l'ambasciata da vostra parte….
DON IGNAZIO. E che ambasciata?
AVANZINO…. Come vostro fratello avea concluso il matrimonio per questa sera; e che voi non potevate aspettar fin alla sera, che volevate passar i capitoli allora allora e venire a casa….
DON IGNAZIO. Il conte che disse?
AVANZINO…. Se ne rallegrò molto; e cavalcato se n'andò alla via di Palazzo a vostro zio, e credo che adesso adesso será spedito il negozio.
DON IGNAZIO. Chi t'ha ordinato che gli facessi quell'ambasciata?
AVANZINO. S'io vedeva che voi vi attristavate per quell'indugio, io per levarvi da quella tristezza ho pregato il conte da vostra parte ch'avesse differito l'andare a Tricarico per quel giorno.
DON IGNAZIO. Ah traditore, assassino!
AVANZINO. In che vi ho offeso io?
DON IGNAZIO. Non so perché non ti spezzi la testa in mille parti, come m'hai rovinato dal fondo e spezzatomi il cuore in mille parti!
AVANZINO. Queste sono le grazie che mi rendete del piacer che vi ho fatto?
DON IGNAZIO. Un simile piacere sia fatto a te dal boia, gaglioffo!
SIMBOLO. Padrone, non bisogna irarvi contro costui.
DON IGNAZIO. Egli m'ha rovinato della vita e scompigliato il negozio.
SIMBOLO. Per questo non deve mai il padrone trattare i suoi fatti dinanzi a' servi, i quali, quando non vi nocciono per malignitá, almeno vi nocciono per ignoranza.
DON IGNAZIO. Non so che farmi, son rovinato del tutto; m'ha posto in un garbuglio che non so come distaccarmene: andrá il conte al mio zio, dirá che l'ha trattato don Flaminio e che io ne sia contentissimo, effettuará il negozio.
SIMBOLO. Il caso è da temerne; ma i consigli de' vecchi son tardi ché non si muovono con tanta fretta, e poi egli ha desio maritarvi in Ispagna.
DON IGNAZIO. Or conosco la mia sciocchezza a lasciarmi persuadere da te di accettar il partito di mio fratello: con non men infelice che ignobil consiglio tu mi hai posto in tanti travagli.
SIMBOLO. Chi arebbe potuto imaginar tanta ignoranza d'uomo a far di sua testa quel che non gli era stato ordinato?
DON IGNAZIO. Fa' che mai tu comparischi ove io mi sia; se non, che farò pentirtene.
AVANZINO. Questi sono i premi d'aver dieci anni fidelmente servito: esser cacciato di casa.
SIMBOLO. Taci e non parlar piú in collera. Ecco vostro fratello.
SCENA VII.
DON FLAMINIO, PANIMBOLO, DON IGNAZIO, SIMBOLO.
DON IGNAZIO. Don Flaminio, son andato gran pezzo ricercandovi: voi siate il benvenuto!
DON FLAMINIO. E voi ben trovato! Che buona nuova, poiché mostrate tanta allegrezza nel volto?…
PANIMBOLO. (Oh quanto il cuore è differente dal volto!).
DON FLAMINIO…. che cosa avete degna di tanta fretta e di tanta fatica?
DON IGNAZIO. Per farvi partecipe d'una mia allegrezza; ché so che ve ne rallegrarete come me ne rallegro io, amandoci cosí reciprocamente come ci amiamo.
PANIMBOLO. (Mentite per la gola ambodoi!).
DON FLAMINIO. Rallegratemi presto, di grazia.
DON IGNAZIO. Perché, partito che fui da voi, andai in casa del conte e mi dissero ch'era andato a Tricarico e che trattava con altri dar la sua figlia, io mi ho tolto un'altra per moglie secondo il mio contento.
DON FLAMINIO. Non credo sia maggior contento nella vita che aver moglie a suo gusto e suo intento. Quella signora d'Ispagna che trattava don Rodrigo nostro zio?
DON IGNAZIO. Ho tolto una gentildonna povera ben sí ma nobilissima; ma la sua nobiltá è avanzata di gran lunga dalla sua somma bellezza, e l'un'e l'altra dalla onestá e dagli onorati costumi.
DON FLAMINIO. Ditelami di grazia, accioché mi rallegri anche io della vostra allegrezza; ché per aver ricusata una figlia de grandi d'Ispagna, dev'esser oltremodo bella e onorata.
DON IGNAZIO. È Carizia.
DON FLAMINIO. Chi Carizia? non l'ho intesa mai nominare.
PANIMBOLO. (Ah, lingua mendace, non la conosci?).
DON IGNAZIO. Carizia, figlia di Eufranone.
DON FLAMINIO. Forsi volete dire una giovenetta che nella festa de' tori comparve fra quelle gentildonne con una sottana gialla?
DON IGNAZIO. Quella istessa.
DON FLAMINIO. E questa è quella tanto onesta e onorata?
DON IGNAZIO. Quell'istessa.
DON FLAMINIO. Or veramente le cose non sono com'elle sono, ma come l'estima chi le possiede.
DON IGNAZIO. Che volete dir per questo?
DON FLAMINIO. Che non è tanta l'onestá e il suo merito quanto voi dite.
DON IGNAZIO. Dite cose da non credere.
DON FLAMINIO. Ma piene di veritá. Ma dove nasce in voi tanta meraviglia?
DON IGNAZIO. Anzi io non posso tanto meravigliarmi che basti.
DON FLAMINIO. Avete fatto molto male.
DON IGNAZIO. Si ho fatto bene o male non l'ho da riporre nel vostro giudizio.
DON FLAMINIO. Or non sapete voi ch'ella col far di sé copia ad altri dá da viver alla sua casa, la qual è piú povera di quante ne sono in Salerno e che senza la sua mercanzia non potrebbe sostenersi?
PANIMBOLO. (Oh come i colori della morte escono ed entrano nel suo volto!).
DON IGNAZIO. Si fusse altro che voi, ch'ardisse dirme questo, lo mentirei per la gola.
DON FLAMINIO. Perdonatemi si son forzato passar i termini della modestia con voi, ché quanto ve dico tutto è per l'affezione che vi porto.
PANIMBOLO. (Ah, lingua traditora!).
DON FLAMINIO. Dico che fate malamente, ché per sodisfare ad un vostro momentaneo appetito, e d'una finta bellezza di una donnicciola, non stimate una vergogna che sia per risultar al vostro parentado; ché ben sapete che una picciola macchia nella fama di una donna apporta vituperio e infamia a tutti.
PANIMBOLO. (L'ammonisce per caritá fraterna: che Dio lo benedica!).
DON IGNAZIO. Io per diligente informazione, che per molti giorni n'ho presa da molte onoratissime persone, ne ho inteso tutto il contrario.
DON FLAMINIO. Dovete credere piú a me che a niuno.
DON IGNAZIO. Credo a voi non al fatto.
DON FLAMINIO. Anzi vo' che crediate al fatto istesso non a me.
DON IGNAZIO. Ella è tanto onorata che la mia lingua s'onora del suo onore; e avendola ne resto io piú onorato. E voi, per farla da cavaliero, d'una gentildonna dovresti dirne bene ancorché fusse il falso, né dirne male ancorché fusse il vero.
DON FLAMINIO. Io non ho detto ciò perché sia mala lingua, ma perché sappiate il vero. Ma che non può la forza d'una gran veritá? Perciò non vorrei che correste con tanta furia in cosa ove bisogna maturo consiglio, e poi fatta non può piú guastarsi; e poi dal rimorso di voi stesso vi aveste a pentir d'una vana penitenza.
DON IGNAZIO. A me sta il crederlo.
DON FLAMINIO. A voi il credere, a me dir la veritá la qual m'apre la bocca e ministra le parole. Ma io, che tante volte v'ho fatto veder il falso leggiermente, or con tante ragioni non posso farvi creder il vero?
DON IGNAZIO. E però non vi credo nulla, perché solete dirmi le bugie e conosco i vostri artifici.
PANIMBOLO. (Oh come mal si conoscono i cuori!).
DON FLAMINIO. Ma se vogliamo adeguar il fatto, bisogna che ambodoi abbiamo pazienza, voi di ascoltare, io di parlare.
DON IGNAZIO. Dite suso.
DON FLAMINIO. Son piú di quattro mesi che me la godo a bell'aggio, né io son stato il primo o secondo; e vi fo sapere che non è tanto bella quanto voi la fate, ché, toltone quel poco di visuccio inbellettato e dipinto, sotto i panni è la piú sgarbata e lorda creatura che si veda.
DON IGNAZIO. Non basto a crederlo.
DON FLAMINIO. Né la sorella è men disonesta di lei; e un certo capitano ciarlone, che suol pratticar in casa, se la tiene a' suoi comodi. Or questo, che è il peggior uomo che si trovi, sará vostro cognato; e ci son altre cose da dire e da non dire.
DON IGNAZIO. Mi par impossibile.
DON FLAMINIO. Farò che ascoltiati da molti il medesimo.
DON IGNAZIO. Se non lo credo a voi, meno lo crederò agli altri.
PANIMBOLO. (Li è restata la lingua nella gola e non ne può uscir parola).
DON FLAMINIO. E se non lo credete, farò che lo veggiate con gli occhi vostri.
DON IGNAZIO. Che cosa?
DON FLAMINIO. Poiché volete sposarla dimani, vo' dormir seco la notte che viene: io sarò sposo notturno, voi diurno. State stupefatto?
DON IGNAZIO. Se mi fusse caduto un fulmine da presso, non starei cosí attonito.
DON FLAMINIO. Da un buon fratello come vi son io bisogna dirsi la veritá, poi in cose d'importanza e dove ci va l'onore.
PANIMBOLO. (O mondo traditore, tutto fizioni!).
DON IGNAZIO. Odo cose da voi non piú intese da altri.
DON FLAMINIO. Se vi fusse piú tempo, ve lo farei udir da mille lingue; ma perché viene la notte piú tosto che arei voluto, venete meco alle due ore, che andrò in casa sua: vi farò veder le sue vesti e i doni che l'avete mandati, e ce ne ritornaremo a casa insieme.
DON IGNAZIO. Se me fate veder questo, farò quel conto di lei che si deve far d'una sua pari.
DON FLAMINIO. Andiamo a cenare e verremo quando sará piú imbrunita la notte.
DON IGNAZIO. Andiamo.
DON FLAMINIO. Andate prima, ché verrò dopoi.
PANIMBOLO. Giá è gito via.
DON FLAMINIO. Panimbolo, a me par che la cosa riesca bene.
PANIMBOLO. Avete finto assai naturale. Mi son accorto che la gelosia li attaccò la lingua che non possea esprimere parola.
DON FLAMINIO. Io non mi dispero della vittoria.
PANIMBOLO. Andiamo al fratello, acciò non prenda suspetto di noi e gli ordini presi non si disordenino.
DON FLAMINIO. Andiamo.
SCENA VIII.
EUFRANONE solo.
EUFRANONE. Giá ho dato la nuova a' parenti, agli amici e a tutta la cittá; e ciascuno ne ha infinito piacere e allegrezza, veggendo che la nostra casa anticamente cosí nobile e ricca per una disgrazia sia venuta in tanta miseria e povertade, e ora per una cosí insperata occasione risorga a quel primiero splendore e grandezza; e che la bellezza e onorati costumi di Carizia, che meritava questa e maggior cosa, abbino sortito cosí felice ventura per esserne le sue parti tali da farsi amar insin dalle pietre. Oh quanta sará la mia allegrezza dimani, quando vedrò la mia figliola sposar da cosí degno cavaliero con tanta grandezza e concorso di nobili, e gionta a quell'eccelso grado che merita la sua bontade! Dubito che non passará mai questa notte ché veggia quell'alba, per lo gran desiderio che ho di vederla. Ma perché trattengo me stesso in tante facende? andrò su, cenerò subito e andrò in letto, accioché dimani mi levi per tempo. Sommo Dio, appresso cui son riposte tutte le nostre speranze, fa' riuscir queste nozze felici per tua solita bontade, ché so ben che noi tanto non meritiamo!
SCENA IX.
MARTEBELLONIO solo.
MARTEBELLONIO. Credo che non sia minor virtute e grandezza ferir un corpo con la spada che un'anima con i sguardi: ben posso tenermi io fra tutti gli uomini glorioso, ché posso non men con l'una che con l'altra; ché non può starmi uomo, per gagliardo che sia, con la spada in mano innanzi, né men donna, per onesta e rigida, a' colpi de' sguardi miei; e se con la spada fo ferite che giungono insin al cuore, con gli occhi fo piaghe profondissime che giungono insin all'anima. Ecco Calidora che appena mi guardò una volta, che non sostenne il folgore del lampeggiante mio viso; onde ne restò sconquassata per sempre. Ma io con un generoso ardire non men uso misericordia a quei che prostrati in terra mi chiedeno la vita in dono, che a quelle meschinelle e povere donne che si muoiono per amor mio. Or io mi son mosso a darle soccorso ché non la vegga miseramente morire; ed è gran pezza che mi deve star aspettando. Ma io non veggio per qui Leccardo, come restammo d'appontamento.
SCENA X.
DON FLAMINIO, DON IGNAZIO, MARTEBELLONIO, PANIMBOLO, SIMBOLO.
DON FLAMINIO. Io sento genti in istrada, non so se potremo mandar ad effetto quanto desideriamo: dovevamo cenar prima.
DON IGNAZIO. A me non parea mai che venisse l'ora di veder un tanto impossibile, per poter dire liberamente poi che onore e castitá non si trova in femina; poiché costei, di cui si narrano tanti gran vanti della sua onestá, si trovi sí disonesta.
DON FLAMINIO. Cosí va il mondo, fratello: quella donna è tenuta piú casta che con piú secretezza fa i suoi fatti.
MARTEBELLONIO. Sento stradaioli. Olá, date la strada se non volete andar per fil di spada!
PANIMBOLO. Se non taci, poltronaccio, andrai per fil di bastone!
MARTEBELLONIO. (Costui par che sia indovino, ché son poltrone).
DON IGNAZIO. Chi è costui?
SIMBOLO. Quel capitan vantatore.
MARTEBELLONIO. (Vo' farmi conoscere, ché non m'uccidano in iscambio). O signori don Flaminio e don Ignazio, son il capitan Martebellonio! E dove cosí di notte senza la mia compagnia? ché è meglio aver me solo che una compagnia d'uomini d'arme.
DON FLAMINIO. E tu dove vai? a donne ah?
MARTEBELLONIO. L'hai indovinata, a fé di Marte!
DON FLAMINIO. A qualche puttana?
MARTEBELLONIO. Se non foste voi a' quai porto rispetto, vi farei parlar altrimente. Io a puttane, che ho le principali gentildonne della cittá e tutto il mondo che spasima del fatto mio? Vo ad una signora che è ridotta a pollo pesto per amor mio, e or la vo a soccorrere.
DON FLAMINIO. Signora di casa, fantesca eh?
MARTEBELLONIO. E pur lá! è Callidora, figlia d'Eufranone: conoscetela voi?
DON FLAMINIO. (Che ti dissi, fratello? cominci a scoprir paese). Noi la conosciamo molto bene; ma dove voi conosceste lei o sua sorella Carizia?
MARTEBELLONIO. Gran tempo fa che l'una e l'altra è impazzita del fatto mio; ma a me piace Calidora per esser di ciglio piú rigido e piú severo. Mi ha chiesto in grazia che vada a dormir seco per questa notte: or vo ad attenderle la promessa. Ma s'apre la porta e veggio il parasito che viene per ritrovarmi: perdonatemi.
SCENA XI.
LECCARDO, CHIARETTA, MARTEBELLONIO, DON IGNAZIO, DON FLAMINIO.
LECCARDO. Entrate, signora, in questa camera qui vicino.
CHIARETTA. T'obedisco.
LECCARDO. Serratevi dentro e aspettatemi un pochetto.—Capitano, sète voi?
MARTEBELLONIO. Pezzo d'asino, non mi conosci?
LECCARDO. Non vi conoscea, perché me diceste che venendo la vostra persona arei sentito il terremoto: son stato gran pezza attendendo se tremava la terra, però dubitavo se foste voi.
MARTEBELLONIO. Dite bene, e ti dirò la cagione. Poco anzi mi è venuta una lettera dall'altro mondo. Plutone mi si raccomanda e mi prega che non camini cosí gagliardo, che vada pian piano, ché tante sono le pietre e le montagne che cascono dagli altissimi vòlti della terra, che mancò poco che non abissasse il mondo e sotterrasse lui vivo con Proserpina sua mogliere. Gli l'ho promesso, e perciò non camino al mio solito.
LECCARDO. Entrate, ché Calidora vi sta aspettando.
DON FLAMINIO. Che dici, fratello? è vero quanto vi ho detto? Io farò il segno: fis, fis.
LECCARDO. Signor don Flaminio, Carizia vi prega a disagiarvi un poco, perché sta ragionando col padre.
DON FLAMINIO. Se ben è alquanto bellina, io non la teneva in tanto conto quanto voi.
DON IGNAZIO. Non vi ho io dimandato piú volte se in quel giorno della festa vi fusse piaciuta alcuna di quelle gentildonne, e mi dicesti di no?
DON FLAMINIO. Era cosí veramente; ma essendomi offerta costei con mio poco discomodo, me ce inchinai.
LECCARDO. Signor don Flaminio, Carizia v'aspetta agli usati piaceri, e che le perdoniate se vi ha fatto aspettar un poco.
DON FLAMINIO. Don Ignazio, non vi partite; forse vi porterò alcuni de' suoi abbigliamenti e de' doni mandati.
DON IGNAZIO. Aspettarò sin a domani.—Che dici, Simbolo, aresti tu creduto ciò mai?
SIMBOLO. Veramente delle donne se ne deve far quel conto che dell'erbe fetide e amare che serveno per le medicine, che cavatone quel succo giovevole si buttano nel letamaro: come l'uomo si ha cavato quel poco di diletto che s'ha da loro, nasconderle ché piú non appaiano.
DON IGNAZIO. Veramente la femina è un pessimo animale e da non fidarsene punto. Ahi, fortuna, quando pensava che fussero finite le pene e cominciar la felicitá, allor ne son piú lontano che mai!
DON FLAMINIO. Don Ignazio, dove sète? Conoscete voi questa sottana gialla che portò quel giorno? non è questo l'anello che l'avete mandato a donare, le catene e gli altri vezzi di donne?
DON IGNAZIO. Li conosco e mi rincresce conoscerli.
DON FLAMINIO. Vi lascio le sue cose in vece di lei per questo breve tempo che mi è concesso goderla.
DON IGNAZIO. Eccole, tornatele adietro.
DON FLAMINIO. Vi lascio la buona notte.
DON IGNAZIO. Anzi notte per me la piú acerba e d'infelice memoria che sia mai stata! O stelle nemiche d'ogni mio bene—ben posso io chiamarvi crudeli, poiché nel nascer mio v'armaste di cosí funesti e miserabili influssi,—deh, fuggite dal cielo, spengete il vostro lume e lasciate per me in oscure tenebre il mondo! O luna, oscura il tuo splendore e cuopra il tuo volto ecclisse orribile e spaventoso, e in tua vece veggansi orrende comete colle sanguigne chiome! O maledetto giorno ch'io nacqui e che la viddi e che tanto piacque agli occhi miei! Ahi, dolenti occhi miei, a che infelice spettacolo sète stati serbati insin ad ora! veder ch'altri goda di quella donna che mi era assai piú cara dell'anima istessa. Ahi, che sento stracciarmi il cuore dentro da mille orsi e da mille tigri, e la gelosia m'impiaga l'anima di ferite inmedicabili e immortali! Ahi, Carizia, cosí onori il tuo sposo? queste sono le parole che ho intese da te questa mattina? non avevi altri uomini con chi potevi ingannarmi, e lasciar mio fratello? e se mi dispiace l'atto, mi dispiace piú assai con chi l'hai tu adoperato.
SIMBOLO. Padrone, fate resistenza al male, ché non è maggior male che lasciarsi vincere dal male.
DON IGNAZIO. Ma io non sia quel che sono se non ne la farò pentire.
SIMBOLO. Dove andate?
DON IGNAZIO. A consigliarmi con la disperazione, con le furie infernali, ché non so quale in me maggior sia l'ardore, il dolore o la gelosia.
DON FLAMINIO. Panimbolo, son partiti?
DON IGNAZIO. Sí, sono.
LECCARDO. Don Flaminio, come sei stato servito da me?
DON FLAMINIO. Benissimo, meglio che s'io fussi stato nel tuo cuore o tu nel mio.
LECCARDO. Che dici del capitano, del suo non aspettato e fattoci beneficio?
DON FLAMINIO. La fortuna non ha ingannato punto il nostro desiderio.
LECCARDO. Mai mi son compiaciuto di me stesso come ora, tanto mi par d'aver fatto bene.
DON FLAMINIO. Te ne ho grande obligo.
LECCARDO. Ne avete cagione.
DON FLAMINIO. Panimbolo, par che siamo fuori di periglio.
PANIMBOLO. Anzi or siamo nel periglio; e poiché si è cominciato, bisogna finire, ché non facci a noi egli quel che pensiamo di far a lui.
LECCARDO. La fortuna scherza con noi, ché scambievolmente abbassa l'uno e inalza l'altro.
DON FLAMINIO. Patisca or egli quelle pene che ha fatto patir a me! Egli piange ed io rido.
LECCARDO. Ben sará se non s'appicca con le sue mani!
DON FLAMINIO. Questo bisogno sarebbe a punto per farmi felice! Andiamo.
LECCARDO. Ed io vo' entrar qui dentro e prendermi spasso di Chiaretta col capitano.
ATTO IV.
SCENA I.
SIMBOLO, DON IGNAZIO.
SIMBOLO. Padrone, vi è passata ancora quella rabbia?
DON IGNAZIO. Anzi me n'è sovraggionta dell'altra.
SIMBOLO. Stimava che, la notte come madre de' pensieri avendovi meglio consigliato, foste mutato di parere.
DON IGNAZIO. Piú mi ci son confirmato.
SIMBOLO. Frenate tanto sdegno che impedisce il dritto della raggione, ché le vostre parole potrebbono cagionar qualche gran scandolo.
DON IGNAZIO. Che vorresti dunque che facessi?
SIMBOLO. Ch'avendola a rifiutare, la rifiutaste con modi non tanto obbrobriosi.
DON IGNAZIO. Il fuoco d'amore è rivolto in fuoco di sdegno; e l'uno e l'altro m'hanno inperversato di sorte che mi parrebbe poco se la sbranassi con le mie mani.
SIMBOLO. Fareste cosa che ve ne pentireste.
DON IGNAZIO. Vo' che sia a parte della pena, poiché è stata a parte del diletto.
SIMBOLO. Or non potrebbe esser che quella notte vostro fratello v'avesse ingannato?
DON IGNAZIO. Non sai che dici.
SIMBOLO. Dico cose possibili e dubbiose ancora.
DON IGNAZIO. Non merita una sua pari le sia portato tanto rispetto.
SIMBOLO. Considerate che nella sua famiglia si raccoglie tutta la nobiltá di Salerno, e facendo ingiuria ad uno macchiate molti. Ecco il padre e i principali della cittá che vengono incontro per ricevervi con molt'amorevolezza; ma troveranno in voi tutto il contrario.
SCENA II.
EUFRANONE, DON IGNAZIO, SIMBOLO.
EUFRANONE. Caro signore, siate il benvenuto, per mille volte molto desiato dalla sposa e da' principali di Salerno!
DON IGNAZIO. Io vengo con voluntá assai diversa da quel che pensi: stimi che venghi a sposar tua figlia ed io vengo a rifiutarla.
EUFRANONE. Non sperava sentir tal nuova da voi! Ma in che ha peccato mia figlia che meriti tal rifiuto?
DON IGNAZIO. D'impudicizia e disonestá.
EUFRANONE. Onesta è stata sempre mia figlia e cosí stimata da tutti, e non so per qual cagione sia impudica appresso voi solo.
DON IGNAZIO. Tal è come dico.
EUFRANONE. Or non vi pregai io, allor che tanto ansiosamente m'era chiesta dalla vostra leggierezza, che ci aveste pensato prima; e al fin vinto dalla vostra ostinazione ve la concessi? Ché il cuor mi presaggiva quanto ora m'accade, che passati quei furori vi pentireste; e per mostrar giuste cagioni del rifiuto, offendete me, lei e tutta la cittade. Bastava mandare a dire ch'eravate pentito, ché io contentandomi d'ogni vostro contento mi sarei chetato, senza svergognarmi in tal modo.
DON IGNAZIO. Io non spinto da giovenil leggierezza ciò dico, ma da giustissime cagioni.
EUFRANONE. Dunque dite che mia figlia è infame?
DON IGNAZIO. Ce lo dicono l'opre.
EUFRANONE. Se non foste quel che sète e men di tempo, io vi risponderei come si converrebbe. Ma che cose infami avete udite di lei?
DON IGNAZIO. Quelle che non arei mai credute.
EUFRANONE. Nelle cose degne e onorate si trapone sempre mordace lingua.
DON IGNAZIO. Qui non mordace lingua ma gli occhi stessi furon testimoni del tutto.
EUFRANONE. Né in cosa cosí lontana dall'esser di mia figliuola dovrebbe un par vostro creder agli occhi suoi, che ben spesso s'ingannano.
DON IGNAZIO. Che un uomo possi ingannar un altro è facil cosa ma se stesso è difficile: ché quel che vidi, molto chiaramente il viddi, e per non averlo veduto arei voluto esser nato senz'occhi.
EUFRANONE. Lo vedeste voi a lume chiaro?
DON IGNAZIO. Anzi a sí nimico spettacolo rimasi senza lume!
EUFRANONE. Gran cose ascolto!
DON IGNAZIO. Or ditele da mia parte che desiava lei per isposa stimandola onesta e onorata; ma avendone veduto tutto il contrario, si goda per sposo chi la passata notte goduto s'ave.
EUFRANONE, Farò la vostra ambasciata e farò che le penetri ben nel cuore. Ahi, misero padre d'infame figlia, e quanto son dolente d'averti generata!
SIMBOLO. Non v'ho detto, padrone, che il vostro parlare arebbe cagionato qualche ruina? ch'essendo egli molto superbo né punto avezzo a sopportar ingiurie, con che rabbiosa pacienza ascoltava; e con gli occhi lampeggianti di un subbito sdegno, ripieno di un feroce dolore, die' di mano al pugnale e se n'è gita su dove fará qualche scompiglio. L'onda, che batte ne' scogli, si fa schiuma, sfoga e finisce il furore; ma se non fa né rumor né schiuma, s'ingorga in se stessa, si gonfia e fa crudelissima tempesta. Dal ferro delle vostre parole, come da una spada, ha rinchiuso il dolor dentro: sentirete la tempesta. Sento tutta la casa piena di gridi e di romore. Andiamocene, se non volete ancor rallegrar gli occhi vostri del suo sangue; ché se foste constretto vederlo, dovreste serrar gli occhi per non mirarlo.
SCENA III.
MARTEBELLONIO, CHIARETTA, LECCARDO.
MARTEBELLONIO. Or mira che bizzari incontri vengon al mio fantastico cervello, ché pensando far correre un poco il mio cane dietro una bella fiera, s'è incontrato con una pessima fiera.
CHIARETTA. Buon can per certo, che, per aver avuto tutta notte la caccia tra' piedi, è stato sí sonnacchioso che non ha voluto mai alzar la testa né in drizzarsi alla via per seguitarla.
MARTEBELLONIO. Il mio can ha piú cervello che non ho io, che conosce all'odor la fiera, ché né per stuzzicarlo né per sferzarlo si volse mai spinger innanzi.
CHIARETTA. Va' e fa' altre arti, ché di caccia di donne tu non te n'intendi.
MARTEBELLONIO. Troppo gran bocca avevi tu aperta, che aresti ingiottito il cane e il padrone intiero intiero.
CHIARETTA. Non bisognava altrimenti, avendo a combatter con can debole di schiena.
MARTEBELLONIO. Io non so punger cosí con la spada come tu pungi con la lingua; ma ti scampa ché sei ignobil feminella, che vorrei con una stoccata passarti da un canto all'altro.
CHIARETTA. Non temo le tue stoccate, ché la tua spada si piega in punta.
MARTEBELLONIO. O Dio, se non temessi che, cavando la spada fuori, la furia dell'aria conquassata movesse qualche tempesta, vorrei che la provassi! Ma me la pagherá quel furfante di Leccardo.
LECCARDO. Menti per la gola, ché son meglio uomo di te!
MARTEBELLONIO. Dove sei, o tu che parli e non ti lassi vedere?
LECCARDO. Non mi vedi perché non ti piace vedermi: eccomi qui!
MARTEBELLONIO. Mi farai sverginar oggi la mia spada nel sangue di poltroni.
LECCARDO. E tu mi farai sverginar un legno che non ha fatto peccato ancora.
MARTEBELLONIO. Sei salito sul tetto ché non ti possa giungere: come ti arò in mano, te squarterò come una ricotta.
LECCARDO. E tu sei posto in piazza per aver molte strade da scampare, ché dubbiti che non voglia spolverizzarti la schena.
MARTEBELLONIO. Se m'incappi nelle mani…
LECCARDO. Se mi scappi dalle mani.
MARTEBELLONIO…. ti sbodellerò!
LECCARDO. Tu non sai sbudellar se non borse.
MARTEBELLONIO. Ah, poltronaccio, ti farò conoscer chi son io!
LECCARDO. Ti conosco molto tempo fa, che fosti facchino, aiutante del boia, birro, sensale, ruffiano.
MARTEBELLONIO. Ah, mondo traditore, ciel torchino, stelle nemiche! fai del bravo perché non posso salir su dove sei.
LECCARDO. E tu fai del bravo perché non posso calar giú dove tu sei.
MARTEBELLONIO. Cala qua giú e pigliati cinquanta scudi.
LECCARDO. Sali qua tu e pigliatene cento.
MARTEBELLONIO. Cala qua giú, traditore, e pigliati mille scudi.
LECCARDO. Sali qua tu, forfante, e pigliatene dumila.
MARTEBELLONIO. O Dio, che tutto mi rodo per aver in man quel traditore!
LECCARDO. O Dio, che tutto ardo per non poter castigar un matto!
MARTEBELLONIO. Con un salto verrò dove tu sei, se ben la casa fusse piú alta di Mongibello.
LECCARDO. Con un salto calarò giú, se la casa fusse piú alta della torre di Babilonia.
MARTEBELLONIO. Tu sai che ti feci e che ti ho fatto e che ti soglio fare, né cesserò di far finché non t'abbi fatto e disfatto a mio modo.
LECCARDO. Non potendo far altro tirerò una pietra dove sei: ti vo' acciaccare i pidocchi su la testa.
MARTEBELLONIO. O Dio, che montagna è questa!
LECCARDO. È la montagna di Mauritania, che è caduta dal cielo, che ti manda Marte tuo padre, messer Cacamerdonio.
MARTEBELLONIO. (Questo incontro alle genti di Marte! San Stefano, scampami!). Mi partirò, t'incontrerò e ti gastigherò all'ordinario come soglio.
LECCARDO. Ed io con bastonate estraordinarie come soglio.
MARTEBELLONIO. (In somma bisogna l'uomo serbar la sua dignitá! che onor posso guadagnar con costui? Alla smenticata e alla muta, incontrandolo al buio, li darò la penitenza delle parole e della burla che m'ha fatto).
LECCARDO. (Io ho avuto a crepar della risa della battaglia fatta all'oscuro con Chiaretta! Vo' andar a raccontarla a don Flaminio; ma andrò prima a casa a veder che si faccia).
SCENA IV.
DON FLAMINIO, PANIMBOLO.
DON FLAMINIO. Finalmente è pur stato vinto colui che era cosí malagevole a vincere, e preso chi pensava prender altri. Il volpone è caduto nella trappola e poco l'ha giovato la sua astuzia, ché ha trovato chi ha saputo piú di lui.
PANIMBOLO. Or drizzisi un trofeo all'inganno, un mausoleo alla fraude, un arco trionfale alla bugia, un colosso alla falsitá, poiché per lor mezo avete conseguito il sommo de' desidèri.
DON FLAMINIO. Petto mio, se ben per l'addietro sei stato bersaglio di tanti affanni, ricetto di tante pene, respira e scaccia da te tanta amaritudine. Or andiamo a tôr il possesso di Carizia, non temiamo piú il fratello. Gran maraviglia ch'essendo gionto a quel segno ove solo aspirava il cor mio, non sento quell'allegrezza che devrei; né ho passata notte piú fastidiosa da che nacqui. Avendo gli occhi rivolti alle prime passioni, non l'ho mai chiusi né verso l'alba riposai molto: sogni, ombre, larve e turbolenze m'avean inquietato l'animo, e tutti i sogni son stati travagli di Carizia. Mi destava per non conportargli, e pur dormendo sognava travagli. Veramente i travagli son ladri del sonno.
PANIMBOLO. Don Ignazio è di spiriti ardenti: non ará indugiato fin adesso farli intendere che piú non l'accetta per isposa.
DON FLAMINIO. L'animo mio teme e spera: spera nel timore e teme nella speranza. Se ben desio Leccardo ché mi porti felici novelle, pur temo qualche sinistro successo: vorrei venisse presto, ché ogni indugio mi potrebbe apportar danno.
PANIMBOLO. Ecco s'apre la porta e ne vien fuori.
SCENA V.
LECCARDO, DON FLAMINIO, PANIMBOLO.
LECCARDO. (Se mi fussero stati posti innanzi galli d'India cotti senza esser impillottati, caponi duri, brodo macro e freddo, non arei potuto aver maggior dispetto di quel che ho avuto quando viddi morta Carizia. Oh come intesi darmi colpi mortali allo stomaco e alla gola! Veggio don Flaminio molto gioioso; ma diverrá subbito doglioso come saprá quanto sia per dirgli).
DON FLAMINIO. Leccardo mio, i segni di mestizia che porti scolpiti nel fronte mi dán segno d'infelice novella: parla con la possibil brevitá. Oimè, tu taci e par che col tuo silenzio vogli significar qualche sinistro accidente!
LECCARDO. (Desia saper quello che li dispiacerá d'averlo saputo; ma va' meno amareggiarlo al possibile).
DON FLAMINIO. Deh, comincia presto!
LECCARDO. Di grazia, portami al monte di Somma, dove nasce quella benedetta lacrima che bevendola ti fa lacrimare, acciò bevendone assai possa lacrimar tanto che basti, ché or mi stanno gli occhi asciutti come un corno.
DON FLAMINIO. (Col tardar piú m'accresce il sospetto).
LECCARDO. Oimè, quella faccia piú bianca d'una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, quei labrucci piú cremesin d'un presciutto, quella…, ahi! che mi scoppia il core,…
DON FLAMINIO. Che cosa? sta male?
LECCARDO. Peggio!
DON FLAMINIO. Ecci pericolo della vita?
LECCARDO. Peggio!
DON FLAMINIO. È morta?
LECCARDO. Peggio!
DON FLAMINIO. Che cosa piú peggio della morte?
LECCARDO…. è morta, e morta disonorata!
DON FLAMINIO. O Dio, che nuova è questa che tu mi dái?
LECCARDO. E mi dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse ad Eufranone. Il quale, vinto in quel punto dal furore e inasprito dall'ira, con la schiuma in bocca com'un cignale, venne su e caricando la figlia di villanie correa col pugnale in mano per infilzarla come un tordo al spedo. A questo la moglie se le fe' incontro e lo risospinse adietro. Instupedí la povera figlia e aiutata dalla sua innocenza diceva:—Padre mio, ascolta le mie ragioni; se conosci che ho fallato, ti porgerò il petto ché mi ammazzi!—Egli, come un vitello che cerca di scappar di mano di coloro che lo conducono al macello, cercava scappar da man di quelli che il tenevano. Carizia cercava parlare, ma le lacrime l'impedivano; poi disse a fatica:—La conscienza mia pura mi liberará dall'obbrobrio della calunnia, ché questa sola ha lassato Iddio per consolazion degl'innocenti!—Queste ultime parole morîr fra le labra, ché appena fûr udite; e morí prima della ferita. S'affoltavan i parenti per sovenirla; ma—Lasciate lasciate—gridava Eufranone—che l'uccida il dolore prima che l'abbi ad uccider il ferro, e che prevenga la violenza la voluntaria morte; e questo volerla far vivere è piú tosto opra di crudeltá che di pietá!—Cosí morí com'un agnello, e rimase con la bocca un poco aperta com'un porchetto che s'arroste al foco. Ancor morta par bella e t'innamora, perché è morta senza offesa della sua bellezza….
DON FLAMINIO. Ahi, padre troppo austero e troppo nemico del suo sangue!
LECCARDO…. Gli occhi miei, che mai piansero, piansero allora. Eufranone la fe' subbito inchiudere in un'arca e fecela sotterrar nella chiesa vicina per la porta di dietro, per non poner a romor la cittade.
DON FLAMINIO. Dunque è pur vero che l'anima mia sia morta, e seco morto ogni mio bene; e sepolta ancora, e con tanta bellezza sepolta ogni mia gioia e me sepolto in un infinito dolore! Gli occhi, che avanzavan il sol di splendore, son chiusi in eterno sonno, e la bella bocca in perpetuo silenzio. Ahi, non fia vero giá ch'essendo tu morta, io voglia restar in vita. È morta la sposa nel piú bello delle speranze! Oh com'invan s'affatica chi vuol contrastar col cielo, il qual è piú possente d'ogni umano consiglio! Ho dato la morte da chi sperava la vita; ed io, che di tanto mal son caggione, vivo e ardisco spirar quest'aria? Ho nociuto a me stesso e patisco il mal che ho fatto a me medesimo. Che m'ha giovato aver travagliato tanti anni nella guerra, esposto il petto a mille perigli, imitar tanti esempi onorati per segnalarmi cavalier d'eterna lode, e or per un sensual appetito son stato nocevol cagione della morte d'una innocente? tradito un fratello, infamato lei e il padre, e disonorato il parentado? Ecco oscurata la gloria di tanti anni e di tante fatiche, e divenuto non cavalier d'onore ma d'infamia, non di pietá ma d'impietade. Dove mi nasconderò che non sia visto da uomo vivente? dove andrò, dove mi nasconderò ché fugga e mi nasconda a me stesso? ché la coscienza afflige piú di quanti tormenti può dar uomo vivente. Orsú, come cagione di tanto male, bisogna che pigli vendetta di me medesimo, che con un laccio mi toglia da tanto vituperio. Ahi, Panimbolo, tu fosti autor del malvaggio e da me mal preso consiglio; ed io piú isconsigliato che lo presi, ché da sí cattivo principio non poteva aspettar altro che l'infame e doloroso fine.
PANIMBOLO. Padrone, non è stato cosí mal il mio consiglio come la mala fortuna, ché l'una è sovraggionta all'altra, e noi per ischivarne una siamo incorsi in una peggiore: e da un error ne vengono mille, e ogni cosa è riuscita in nostro danno, e il mal sempre è andato crescendo di mal in peggio; né la fortuna istessa arebbe potuto rimediar a tanti infortuni. E quando la mala fortuna vuol rovinar alcuno, fa possibile l'impossibile.
DON FLAMINIO. Non è stata tanto la mala fortuna quanto il tuo cattivo consiglio; né in cose disconvenevoli dovevi tu prestarmi consiglio né agiuto.
PANIMBOLO. Voi che mi avete sforzato con tanti comandi m'accusate contro ragione. Ma chi può gir contro il cielo? Ed essendo il mondo cosí sregolato e insconsigliato, con che ragione o consiglio potete regolarvi con lui? Non conoscete, come umana creatura, che tutte le cose son instabili e incerte e che il mondo inchina or ad una e or ad un'altra parte? E l'uomo accorto nella necessitá de' pericoli deve accomodar l'animo suo alla prudenza; ma la nobiltá del vostro sangue dovrebbe destar in voi l'ardire e farvi caminar nel termine della modestia, soffrir e conservar voi stesso a piú liete speranze.
DON FLAMINIO. Io non temo piú i colpi della fortuna, ché è morta ogni fortuna per me: non bisogna piú ordir fraudi e inganni; non ho piú sospetto di niuno, poiché è morta la cagion di tutte queste cose. Ahi, che pena converrebbe al mio fallo? Mi conosco degno di maggior pena che la morte: bisognaria che morisse d'una morte che mai finisse. Ma prima che morisse, desiderarei restituir l'onor che l'ho tolto, e scoprir l'inganno che l'ho fatto.
PANIMBOLO. Ecco il vostro fratello che viene a voi.
SCENA VI.
DON IGNAZIO, DON FLAMINIO.
DON IGNAZIO. (Veggio don Flaminio assai doloroso).
DON FLAMINIO. Don Ignazio—ché al tradimento che v'ho fatto, non son degno d'esservi né di chiamarvi fratello,—vengo a voi ad accusar il mio fallo: io son quello iniquo che avanzo d'iniquitá tutti gli uomini.
DON IGNAZIO. Fratello, che aspetto pallido è il vostro! che pianto, che parole son queste che intendo da voi!
DON FLAMINIO. Io son quello che a torto ho accusato appo voi quella donna celeste, il cui corpo fu tanto bello che non si vidde mai cosa tale.
DON IGNAZIO. Io non so ancora di che cosa parliate.
DON FLAMINIO. Io son quello che v'ho ingannato e tradito, e con quelle false illusioni di notte ho fatto veder che Carizia fusse inonesta.
DON IGNAZIO. O estremo dolor, cessa alquanto fin ch'intenda da costui come il fatto è seguito.
DON FLAMINIO. Io, essendo innamorato di Carizia da quell'infelice giorno che fu la festa de' tori, nascondei l'amor mio verso lei a voi quanto potei. Poi avendo inteso quanto voi piú degnamente avevate operato di me, accecato da una nebbia di gelosia, vi feci veder quell'apparenza di notte, nella quale il parasito e la serva di casa sua mi fûr ministri. E fu il mio intento che, voi ricusandola, io col prezzo del tradimento mi avesse comprato le sue nozze; ma il mio pensiero ha sortito contrario fine, perché è morta.
DON IGNAZIO. O Dio, quante mutazioni in un tempo sente l'anima mia! intenso dolor della sua morte, pena della sua infamia e innocenza, gelosia dell'inganno, rabbia dell'offesa che hai fatta al padre! Ed è possibil che si trovi un cuore, non dico di cavaliero, ma cosí barbaro e inumano in cui abbia potuto cadere cosí mostruosa invenzione? In qual anima nata sotto le piú maligne stelle del cielo, in qual spirito uscito dalle piú cupe parti dell'inferno, vestito d'umana carne, ha potuto capire sceleraggine come questa?
DON FLAMINIO. Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltá che ho usata contra voi, usate voi contro me. Qua si tratta del vostro onore: io son quello che t'ho tradito, infamato e tolta la sposa. Tu sei infame di doppia infamia se non te ne vendichi. Vorrei trovar le piú pungenti parole che si ponno, per provocarti ad un giustissimo sdegno.
DON IGNAZIO. O tu che non vo' dir mio fratello, fatti indietro, non mi toccare, allontana da me le tue mani profane, ché non macchino il mio corpo! Patirò che mi tocchino quelle mani che m'han ucciso la sposa? Non contaminar le mie orecchie con le tue accuse; gli occhi miei rivolgono lo sguardo altrove, perché schivano di mirarti. Sgombra da questa terra, purga l'aria e il cielo infetto dal tuo abominevole spirito, porta fuora del mondo anima cosí scelerata e traditrice, e come hai saputo machinar tante fraudi, cosí machina un modo da fuggir dal mondo. Tu non morrai dalle mie mani: lascio che la tua vita sia la tua vendetta, vo' che sopravivi al tuo biasmevole e infame atto, vo' che venghi in odio a te stesso. Ma qual spirito dell'inferno ti spinse a tanta sceleraggine?
DON FLAMINIO. Le fiamme de' suoi begli occhi, ch'accesero te dell'amore suo, accesero ancor me; e come la desiavate voi, la desiava pur io; e quel tradimento che v'ho fatto per possederla, m'imaginava che voi l'aveste fatto a me. Ma il caso, che maneggia tutte le cose, ha fatto succedere il tutto contro il mio pensiero. Ramentati quella infinita bellezza, e secondo quella giudica l'error mio. Qua ha peccato la sorte non la voluntá; e quando l'effetto che succede è contrario alla voluntá, purga il biasmo di chi il commette.
DON IGNAZIO. O falsa defension di vera accusa! Te accesero fiamme amorose de' suoi begli occhi? Tesifone tenne l'esca, Aletto il focile, Megera percosse la pietra e ne scagliò fuori faville tartaree accese nel piú basso baratro dell'inferno. O notte, che fosti tanto cieca che non scernesti l'inganno, t'ingrossasti di folte tenebre, ti copristi di scuro manto per occultar fatto sí abominevole: vergognandoti di te stessa ti nascondesti in te medesima! Te nascondesti nella tua notte, o luna, che con disugual splendore facevi incerto lume: la nefanditá ti fe' nascondere la tua faccia, perché ti turbò e ti spense il lume! O cielo, gira al contrario e conturba le stagioni; e il sole non dia splendore a questo secolo infame, poiché un fratello non è sicuro dall'insidie dell'altro fratello! Non so che nome potrá aguagliar l'opre tue, sí inumano, barbaro, traditore senza vergogna e senza timor di Dio: il mondo non ha nome con che possa chiamarti.
DON FLAMINIO. Supplice e lacrimoso ti sta dinanzi a' piedi la cagion del tuo affanno: non chiede né perdono né vita, perché non la merita e non l'accetta—ché quando l'uomo ha fatto quel che non deve, non deve piú vivere per non vivere vita pessima e infame,—ma chiede vendetta. E se in te è rimasta qualche scintilla di fraterna pietá, uccidimi. Non invidiarmi morte cosí desiata; anzi per rimedio delle mie pene non chiedo morte ordinaria, non assegno luoco alle ferite: ferite dove volete, trovate voi nuove sorti di morti com'io ho trovate nuove sorti di tradimenti.
DON IGNAZIO. La vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che figlia! quella ch'amava piú che l'anima sua, a cui se è pesata la morte, assai piú pesará il modo della sua morte.
DON FLAMINIO. Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar in voi, e li restituirò la fama come posso.
DON IGNAZIO. Ecco che giunge. Fuggirò il suo aspetto, ch'avendoli cosí a torto ingiuriato la figlia, non ho piú animo di comparirgli innanzi.
SCENA VII.
EUFRANONE, DON FLAMINIO.
EUFRANONE. (Veggio il fratello di don Ignazio che vien verso me. Che voglion costoro? forsi uccidermi la rimasta figliuola?).
DON FLAMINIO. Onoratissimo Eufranone, ve si appresenta innanzi il reo di tanti mali, accioché con moltiplicato supplicio lo castighiate. Io essendo ardentemente innamorato della bellezza ma assai piú dell'onestá di Carizia, e veggendo che mio fratello m'avea prevenuto a tôrsela per moglie, l'invidia, l'amor, la gelosia facendono lor ultimo sforzo in me, l'infamai appresso lui, accioché, egli rifiutandola per onorar la sua fama, me la togliesse io per moglie. E Leccardo, vostro servo di casa, m'aperse la porta di notte;…
EUFRANONE. O Dio, a che sorte d'uomini ho dato in guardia la casa mia!
DON FLAMINIO…. non pensandomi che la vostra iracondia avesse a terminar in atto sí sanguinoso. Tu, giusto monarca del cielo, a cui solo è concesso di penetrar gli occulti seni del cuore, tu mi sia testimone come non fu mai mia intenzione offender voi né d'infamar lei, ma sol ch'ei la lasciasse per tôrmela io per moglie; e tu mi sia ancor testimone come non fu mai donna di piú candido onore né mai macchiato di picciol neo di bruttezza. Prego la vostra bontá, ché sovra di me pigliate la vendetta della morte di vostra figliuola e dell'offesa dell'onor vostro.
EUFRANONE. Oimè, che le vostre parole m'hanno passato l'anima: voi avete ucciso lei, me e la madre in un colpo, e uccisi nel corpo e nell'onore! Oimè, che or ora m'uccidi la mia figliuola! ché allora pensando al mancamento ch'avea fatto all'onor suo, mosso dalla disonestá del fatto, il desio della vendetta non mi facea sentir la doglia. O sfortunata fanciulla, o anima innocentissima, o figlia viva e morta unicamente amata da me, tu sola eri l'occhio, mente, mano e piede del tuo padre infelice: con teco compartiva gli affanni della mia povertá e come un comun peso la sopportavamo insieme; la tua compagnia non mi faceva sentir i difetti del tempo e mi faceva cara la vita. O invano nata bella e onorata: o nocente bellezza! o dannoso e mortale dono di natura, misera e infelice onestá! dunque per esser tu nata bella e onorata hai voluto perder l'onor e la tua vita? Deh! qual prima piangerò delle tue morti, quella del corpo o quella dell'onore? di quella del corpo non devo pianger molto, ch'essendo nata mortale e figlia d'uomo mortale, non ti potea mancare il morire; ma piangerò la morte della tua fama, ch'essendo nata figlia di padre onorato, coll'innocente tua morte hai infamato te e il tuo parentado.
DON FLAMINIO. Il reo pentito del suo errore ti porge il pugnale, ché vendichi con la tua mano il torto che ti ha fatto.
EUFRANONE. A che mi giova il vostro pentimento e la vendetta che cercate da me? mi restituirá forsi viva e onorata la mia figliuola? Infelice e sconsolato conforto! Ahi, figlia, ahi, cara figlia, essendo io falsamente informato che tu avessi fatto torto all'onor tuo, fu tanto l'impeto dell'ira ch'estinse l'affetto paterno e ti corsi col pugnale adosso. Tu pur volevi dir le tue ragioni, e la furia non me le fece ascoltare. Oh che bei doni maritali che ti portai! un pugnale. Oh che bel letto che ti apparecchiai! l'arca e la sepultura. Figlia d'infelice e sfortunato padre, chi t'ha prodotto al mondo t'ave uccisa: aresti trovato piú pietá in un barbaro che in tuo padre! O dolore insopportabile, o calamitá mondane! e perché vivo? perché non m'uccido con le mie mani? Ahi! che tu con un leggerissimo sonno se' passata da questa vita e sei uscita di travagli, son finiti i tuoi dolori; ma a me che resto in vita resteranno perpetuamente impressi nel cuore i tuoi costumi, la tua bontá, la tua onestá e la riverenza che mi portavi. M'hai lasciato orbo, afflitto e pieno di pentimento: oh fossi morto in tua vece, vecchio canuto e stanco dal lungo vivere!
DON FLAMINIO. Eufranone, ascoltate di grazia.
EUFRANONE. Non voglio ascoltar piú, ché quanto piú apro e apparecchio l'orecchie al vostro dire, piú apro e apparecchio gli occhi al pianto. Ma perché i cavalieri d'onore sogliono difendere e non opprimere gli onori delle donne, vi priego, se le ragioni divine e umane vi muovono punto, fate che quella bocca che l'ave accusata, quella l'escusi. Usate questa pietosa gratitudine: andate in Palazzo dinanzi al viceré vostro zio, raccontate la veritá, accioché, divolgatosi il fatto per sí autorevoli bocche, le restituiate l'onore e si toglia tanto cicalamento dal volgo.
DON FLAMINIO. Poiché non posso giovarle col spender la robba, la vita e l'onore, le giovarò con la lingua: onorerò lei, infamerò me stesso; e son tenuto farlo per obligo di cavaliero. Andiamo insieme innanzi al mio zio, accioché di quello che farò ne siate buon testimone.
SCENA VIII.
LECCARDO, BIRRI.
LECCARDO. (Aspettar che si mangi in casa è opra disperata. Tutti stanno colerichi: intrighi di amori, di morti, di cavalieri, e cacasangui che venghino a quanti sono! Al fuoco non son pignate né spedi su le brage: i cuochi e guattari son scampati. La casa di don Flaminio deve star peggio: il budello maggior mi gorgoglia cro cro, la bocca mi sta asciutta, la lingua mi si è attaccata al palato, il collo è fatto stretto e lungo; e che peggio mi potrebbe far un capestro? e si temo d'esser appiccato, cosí mi par d'esser appiccato due volte).
BIRRI. (Ci incontra a tempo: costui è desso).
LECCARDO. (Veggio birri e devono cercar me. Chi si arrischia a molti perigli, sempre ne trova alcuno che lo fa pericolare: ho scampato la furia di un legno, non so come scamperò quella de' tre legni).
BIRRI. Prendetelo e cercatelo bene…. Ha molti scudi; questi son nostri.
LECCARDO. (O dinari rubati, ve ne tornate al vostro paese: oh quanto poco avete dimorato meco!).
BIRRI. Camina camina!
LECCARDO. Dove mi strascinate?
BIRRI. Al boia!
LECCARDO. Nuova di beveraggio: che vuol il signor boia da me?
BIRRI. Accomodarti un poco la lattuchiglia della camiscia intorno al collo con le scarpe che non stanno bene accomodate.
LECCARDO. Il ringrazio del buon animo: mi contento che stiano come stanno; e volendole accomodare me l'accomodarò con le mani mie.
BIRRI. Presto presto!
LECCARDO. Ché tanta fretta?
BIRRI. Ti vol appicar caldo caldo.
LECCARDO. Che l'importa che sia freddo freddo?
BIRRI. Le cose fatte calde calde son buone.
LECCARDO. Che son io piatto di maccheroni che bisogna che sia caldo caldo? Ma io vo' morir appiccato per non morir sempre di fame; ma se volete appicarmi, fatemi mangiar prima, ché non muoia di doppia morte, e della fune e della fame.
BIRRI. Camina!
LECCARDO. Son debole e non posso caminare.
BIRRI. Le buon'opre tue ti fan meritevole d'una forca.
LECCARDO. Per vostra grazia, non per mio merito: ed io ne fo un dono alle Signorie Vostre come piú meritevoli di me.
BIRRI. La tua gola ti ha fatto incappare.
LECCARDO. I topi golosi incappano al laccio.
BIRRI. Sei stato cagione che sia morta la piú degna gentildonna di questa cittá per la tua golaccia.
LECCARDO. E se non lo faceva per la mia gola, per chi l'aveva io a fare?
BIRRI. Ma tu troppo ti trattieni.
LECCARDO. Avendo a morir strangolato, ponetemi di grazia un fegatello in gola, ché quando il capestro mi stringerá il collo di fuori, la gola mi stringerá il fegadello di dentro, e il succo che calerá giú mi confortará lo stomaco e lo polmone, e quello che ascenderá su mi confortará la bocca e il cervello: cosí morendo non mi parrá morire.
BIRRI. Se non camini presto, ti darrò delle pugna.
LECCARDO. Almanco dite a' confrati, che m'hanno a ricordar l'anima, che portino seco scatole di confezioni e vernaccia fina che mi confortino di passo in passo.
BIRRI. Non dubbitar, ché andrai su un asino con una mitra in testa, con trombe e gran compagnia; e il boia ti sollicitará con un buon staffile.
LECCARDO. O pergole di salciccioni alla lombarda, o provature, morrò io senza gustarvi? o caneva, non assaggiarò piú i tuoi vini? Prego Iddio che coloro, che t'hanno a godere, sieno uomini di giudizio e non sciagurati che ti assassinino! Adio, galli d'India, caponi, galline e polli, non vi goderò piú mai!
BIRRI. Presto, finimola.
LECCARDO. Fratelli, di grazia, dopo che sarò morto sepellitemi in un magazin di vino, ché a quell'odore risusciterò ogni momento.
BIRRI. Camina, forfante leccardo!
LECCARDO. Forfante no, Leccardo sí.
ATTO V.
SCENA I.
DON RODORIGO viceré della provincia, EUFRANONE, DON FLAMINIO.
DON RODORIGO. Dunque mi sará forza, per non mancar ad una giustissima causa, incrudelir nel mio sangue? che la prima giustizia ch'abbia a fare in Salerno sia contro il mio nipote, qual amo come proprio mio figliuolo?
EUFRANONE. Signor viceré, chi non sa reggere e comandare a' suoi affetti lasci di reggere e comandar agli altri, né si deve prepor la natura alle leggi: però non dovete far torto a me perché costoro sieno a voi congionti di sangue e di amore.
DON RODORIGO. In me non può tanto la passione che mi torca dal dritto della giustizia, né mi muove rispetto d'altri né proprio affetto, ché quanto mi sento vincer dall'amore tanto mi fo raffrenar dalla raggione.
DON FLAMINIO. Giudice, non zio, io vengo ad accusar me stesso: ho infamata e uccisa l'amante mia! Non chiedo pietá né perdono: usate meco le vostre raggioni, datemi tanti supplici quanti ne può soffrir un reo. Vuo' con presta e vergognosa morte purgar gli errori che per me son avvenuti, ché i fatti dell'onore ricercano testimonio d'un chiaro sole. Toglietemi questo avanzo di vita, toglietemi da tanta miseria: qua non lenti consigli di vecchi ma uno espedito decreto ché muoia; e voi sète reo giudice e inumano, se non volete che con la morte finisca la mia miseria. E perdonatemi se non uso con voi quelle parole rispettevoli che a voi si devon per ogni ragione.
DON RODORIGO. Non si deve condennar a morte chi sommamente desia di morire, ché la morte gli sarebbe premio, non castigo. Egli desiando la vostra figliuola per isposa fece l'errore, e l'error fu piú tosto dell'etá che suo, ché non gionge ancora a diciotto anni.
EUFRANONE. E voi con la giustizia vincete gli animi; né un error fatto per poca etá deve privare un padre di sua figlia. E voi sète giudice e non avvocato che debbiate escusarlo.
DON RODORIGO. Perché gli innamorati han l'animo infermo d'amore e la ragione annebbiata da furori, i loro errori son piú degni di scusa che di pena, e la giustizia ha gran riguardo ne' casi d'amore.
EUFRANONE. Se l'amor bastasse ad escusar un delitto, tutti gli errori si direbbono esser fatti da innamorati e l'amor si comprarebbe a denari contanti.
DON RODORIGO. Perché le sète padre, la soverchia passion non vi fa conoscer il giusto; e un cor turbato e agitato dall'ira non ascolta ragione.
EUFRANONE. Fui padre d'una e, se mi è lecito dir, onestissima figlia; e i vostri nepoti per particulari interessi me l'han uccisa e infamata.
DON RODORIGO. Quando il reo è di gran merito si procede alla sentenza con piú riguardo.
EUFRANONE. La morte e innocenza di mia figlia gridano dinanzi al tribunal di Dio giustizia contro i vostri nepoti, ché non restino invendicate.
DON RODORIGO. Dio sa quanto desio uscir da questo intrigo con onor mio, e volentieri mi contenterei spender una parte del mio proprio corpo, e mi parrebbe come nulla mi levassi, anzi mi parrebbe esser intiero e perfetto. Eufranone mio, poniam caso che don Flaminio morisse publicamente: resuscitará per questo la tua figliuola?
EUFRANONE. No, ma da un publico supplicio vien a verificarsi la sua innocenza.
DON RODORIGO. Anzi questo garbuglio ha nobilitato la fama della sua pudicizia, perché Leccardo è giá preso e, menato dinanzi al giudice, ha confessato che il tutto sia successo con non men scelerato che infelice suo aiuto; e come caggion del tutto è stato condennato a morire, se il capestro non gli fa grazia della vita. Ma ditemi, fratello: non ci è altro modo di restituir l'onore alle donne che far morire il reo publicamente?
EUFRANONE. Ditelo voi che reggete.
DON RODORIGO. Ne dirò uno, e credo che ne restarete sodisfatto, se sète cosí galante uomo come sète predicato da tutti. Voi avete un'altra figliuola chiamata Callidora, non men bella e onorata che Carizia: facciamo che don Flaminio sposi costei, accioché le genti che hanno inteso il caso della sorella non sospettino piú cosa contraria all'onor suo. Voi con la sua ricchezza vi ristorerete in parte del danno avvenuto; e se la vostra famiglia Della Porta è famosa per antica gloria d'uomini illustri, or si rischiara con i titoli di questo nuovo parentado, per esser la casa di Mendozza delle piú chiare d'Ispagna; e a lui poi per penitenza del suo fallo gli resti un perpetuo obligo di servitú e di amore verso la vostra dilettissima figlia. Il viceré non vuol mancar alla giustizia, ma don Rodorigo vi priega che questo viceré non sia constretto a farla; e voi, se sète prudente e savio, dovreste prevenirmi con i prieghi di quello che or priego voi.
EUFRANONE. Signor viceré, se ho parlato cosí senza rispetto, ne è cagion il dolor acerbo della morte della mia figliuola, non il desio della morte di vostro nipote. Purché venghi reintegrato nell'onor pristino, facciasi quanto ordinate.
DON FLAMINIO. O zio, non di minor osservanza e di amor di colui che mi ha generato, che piú onorata giustizia, piú santa vendetta non arei saputo desiderare. Io ben conosceva che la mia morte non toglieva la macchia impressa nell'onestá di donna, né per morte fineva l'amor mio. Desiava servir e riverir Callidora sotto l'imagine della morta sorella; d'accettarla per moglie indignissimo mi conosco: l'accetto per mia signora col tributo impostomi d'averla a servir sempre, e mentre duri la vita duri l'obligo. A voi, mio suocero Eufranone, m'inchino, con ogni umiltá che devo, a ricevermi per servo: la vostra dote saranno i suoi meriti, le mie facultá communi a tutto il parentado.
EUFRANONE. Ed io per genero vi accetto e per figliuolo.
DON FLAMINIO. Concedetemi che vi baci la mano se ne son degno; se non, i piedi.
EUFRANONE. Alzatevi, signor don Flaminio, ché la vostra soverchia creanza non facci me malcreato: ardisco abbracciarvi perché me lo comandate.
SCENA II.
DON IGNAZIO, DON RODORICO, DON FLAMINIO, EUFRANONE.
DON IGNAZIO. Intendo, signor don Rodorico, che per accomodar il fallo di don Flaminio l'avete ammogliato con l'altra sorella.
DON RODORICO. Io per non partirmi dalle leggi del giusto e per non veder la disperazion di tuo fratello, mi è paruto accomodarlo in tal modo.
DON IGNAZIO. Ma non vuol la legge del giusto che per accomodar uno si scomodi un altro.
DON RODORICO. A chi ho fatto pregiudizio io?
DON IGNAZIO. A me, a cui la rimasta sorella si convenia per piú legittime ragioni.
DON RODORICO. Per che ragioni?
DON IGNAZIO. Prima, avendo io ingiuriato Eufranone, a me tocca la sodisfazione togliendo io la rimasta sorella, ed egli allor sará reintegrato nel suo onore. Appresso, restando io offeso da' suoi inganni e vituperevoli frodi, a me tocca disacerbarmi il dolore con le nozze dell'altra sorella; ché niuna bastarebbe a farmi partir dal cuore la bellezza, onestá, maniere e tante maravigliose parti di Carizia, che sua sorella. Egli, che con tanta sceleratezza ha turbato il tutto, sará rimunerato; ed io verrò offeso, che ho operato bene. Né convien ad un occisor della sorella che divenghi marito dell'altra; e avendomi tolto la prima moglie, non è convenevole che mi toglia la seconda; e tante e tante altre raggioni, che se volessi dirle tutte non si verrebbe mai a capo.
DON RODORICO. Caro figliuolo, non sapevo l'animo vostro: ho avuto pietá della sua vita come una imagine della vostra; e stimava che a questo vostro fratello, ancorché fusse vostra moglie, per compiacergli glie l'avessi concessa.
DON IGNAZIO. Il voler tôr a sé e dar ad altri mi par cosa fuor de' termini dell'onesto.
DON FLAMINIO. Ella è mia moglie; e non comporterò mi sia tolto quello con violenza che mi ho procacciato per l'affezion del mio zio e acquistato con ragioni dal padre e con la fede. Fatto il contratto, volete voi rompere le leggi del matrimonio?
DON IGNAZIO. Io non rompo le leggi del matrimonio, ma difendo le mie ragioni con un'altra legge. Ed io non patirò che un frettoloso decreto sia fatto con infame pregiudizio dell'onor mio; e ti conseglio che lasci tal impresa, perché verremo a cattivo termine insieme.
DON FLAMINIO. Pazzo è colui che accetta consigli dal suo nemico: e meco venghisi a qualsivoglia termine, ché con l'armi son per difendere quel che la mia sorte m'ha donato; e te lo giuro da quel che sono.
DON IGNAZIO. D'ingannatore e di traditore!
DON FLAMINIO. Don Ignazio, se, mentre siamo vissuti insieme, t'ho fatto altro inganno e tradimento fuor di questo, veramente son un ingannatore e traditore; se questo, che ho fatto per amore, si ha da chiamar «tradimento», diffiniamolo con l'armi.
DON RODORICO. Don Flaminio, tu parli troppo liberamente e fuor de' termini.
DON IGNAZIO. Zio, voi ne sète cagione, ché la vergogna degli errori commessi, quando vi si trapone autoritá d'uomo degno, diventa audacia. Si è fatto superbo per la mia viltá, ché se per l'offesa fattami l'avesse dato il dovuto castigo, non saria tale. Ma ella sará mia, o che tu voglia o non voglia; e diffiniamolo con l'armi. E ti ricordo che alla vecchia tu aggiungi nuova offesa.
DON FLAMINIO. Chi m'ha da tôr Callidora me la torrá per la punta della spada!
DON IGNAZIO. Grida come se fusse ingiuriato e non avesse ingiuriato altri. Ma se m'hai vinto con le forfantarie, non mi vincerai con l'armi; e vedremo se saprai cosí menar le mani come ordir tradimenti.
DON RODORICO. (Cercando accomodar uno, ne ho sconcio doi). Fermatevi, fermatevi! questo è il rispetto che mi portate? questo cambio rendete a chi ve ha allevati e nodriti come padre? non vi son io padre in etá e maggiormente in amore? cosí abusate la mia amorevolezza?
DON IGNAZIO. Zio, chi può soffrir le stoccate delle sue parole, che pungeno piú della punta della sua spada? Ma io sarò giusto punitore dell'ingiuste sue azioni.
DON RODORIGO. Ferma, don Ignazio! ferma, don Flaminio! Oh che confusione di sdegno e di furore, oh che misero spettacolo d'un abbattimento di doi fratelli!
SCENA III.
POLISENA, DON IGNAZIO, DON FLAMINIO, EUFRANONE.
POLISENA. Fermate, cavalieri! fermate, fratelli! e non fate che lo sdegno passi insin al sangue.
DON IGNAZIO. Di grazia, madre, toglietevi di mezzo, accioché, mentre cerchiamo offenderci l'un l'altro, non offendessimo voi e facessimo error peggior del primo.
POLISENA. Se le figliole mie sono cagione delle vostre risse, offendendo la madre loro offendete il ventre che l'ha prodotte: questo ventre sia bersaglio de' vostri colpi!
DON IGNAZIO. Di grazia appartatevi, madre, ché per téma d'offender voi non posso offender il mio nemico.
POLISENA. O figlie nate sotto fiero tenor d'iniqua stella, poiché in cambio di doti apportate a' vostri sposi scandalo e sangue! E a che sposi, a che fratelli poi! a' piú chiari e valorosi che vivono a' nostri secoli. Non son le mie figlie di tanto merito che le lor nozze siano comprate col prezzo del sangue di sí onorati cavalieri. Cari miei figliuoli, se amate le mie figliuole, è debito di ragione che amiate ancora la lor madre, la qual vi priega che lasciate il furor e l'armi e ascoltiate quello che son per dirvi.
DON IGNAZIO. Io non lasciarò la mia spada s'egli prima non lascia la sua.
DON FLAMINIO. E s'egli prima non lascia la sua io non lasciarò la mia.
POLISENA. Io sto in mezzo ad ambidoi, e l'uno non può ferir l'altro se non ferisce prima me, e la spada passando per lo mio corpo facci strada all'altrui sangue. Ma a chi prima di voi mi volgerò, carissimi miei generi, carissimi miei figliuoli? Mi volgerò a voi primo, don Ignazio: voi prima mi chiedesti amorevolmente la mia figliola per isposa. Se non è in tutto in voi spenta la memoria dell'amor suo, s'ella vi fu mai cara, mostratelo in questo: che siate il primo a lasciar l'armi. Com'io posso stringervi la destra, se sta nella spada? come posso abbracciarvi, se spirate per tutto odio e veleno?
DON IGNAZIO. Non mi comandar questo, cara madre; ché costui, solito a far tradimenti, veggendomi disarmato, che non mi tradisca di nuovo.
DON FLAMINIO. Tien mano alla lingua se vòi ch'io tenghi le mani all'armi.
POLISENA. Ed è possibile che possa tanto la rabbia in voi che pur sète stati in un istesso ventre? rabbia piú convenevole a' barbari che a' vostri pari?
DON IGNAZIO. Noi non siamo piú fratelli ma crudelissimi nemici. Sono rotte le leggi fra noi della natura e del convenevole: un fratello che offende non è differente dal nemico.
POLISENA. Non fate vostre le colpe che son della fortuna. Questa sola ha peccato nell'opere vostre, questa sola ha conspirato ne' vostri danni: l'un fratello vuol uccider l'altro fratello! Cercáti una vittoria nella quale è meglio restar vinto che vincere. Per acquistar una moglie perdernosi duo mariti: volete che le vostre spose siano prima vedove che spose? volete che coloro, ch'eran venuti per onorar le vostre nozze, onorino le vostre esequie?
DON IGNAZIO. Dite presto, madre, che sète per dire.
POLISENA. Che voce potrá formar la mia lingua tutta piena d'orrore e di spavento, veggendovi con l'armi in mano e che state di ponto in ponto per ferirvi? Almeno ponete le punte in terra, e colui che sará primo a inclinar la spada dará primo testimonio dell'amor che mi porta.
DON IGNAZIO. Ecco ch'io v'obedisco.
DON FLAMINIO. Ed io pur voglio obedirvi.
POLISENA. Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello?
DON IGNAZIO. Egli, senza averlo giamai offeso, tradendomi, mi ha tolto il mio core che era la Carizia; la qual essendo morta, son certo che mai morirá nel mio core quella imagine che prima Amor vi scolpí di sua mano, né spero vederla piú in questo mondo se non vestita di bella luce innanzi a Dio. Per non morirmi di passione avea pensato tôrmi la sorella per isposa, la qual sempre che avesse veduta avrei veduto in lei l'imagine sua e gustato l'odor del sangue e del suo spirito. Or ei, cagion di tanto male, mi vuol tôr la seconda: io che ho oprato bene ricevo male, ed egli che ha oprato male sará guiderdonato.
DON FLAMINIO. Egli cerca tôr a me Calidora concessami dal padre e dal mio zio, della qual sono acceso talmente che sarò piú tosto per lasciar la vita che lei. L'amor mio non è degli ordinari, ma insopportabile, inmedicabile, non vuol ragione.
POLISENA. Se amavate Carizia, com'or amate Calidora?
DON FLAMINIO. Non potendo amar quella che è morta, l'anima mia si è nuovamente invaghita di costei.
POLISENA. Or poiché l'amate tanto, vostra sia; e farò che don Ignazio ve la conceda.
DON FLAMINIO. Con una medicina mi sanarete due infermitá, di amore e di gelosia; e vi arò sempre obligo delle due vite che mi donate.
DON IGNAZIO. O madre, non vi promettete tanto di me, ché ancorch'io volessi non potrei.
POLISENA. Ben potreste, sí.
DON IGNAZIO. E s'avesse il potere non avrei il volere.
POLISENA. Vi darò rimedio: che avrete Carizia.
DON IGNAZIO. La morte sola saria il rimedio, ché cavandomi dal mondo, il spirito mio s'unisse col suo.
POLISENA. Vo' che senza morir godiate la vostra Carizia: sperate bene.
DON IGNAZIO. Come può sperar bene un afflitto dalla fortuna?
POLISENA. Carizia ancor vive per voi.
DON IGNAZIO. So che lo dite accioché fra noi cessino l'ire e li sdegni; ma con queste speranze piú m'inacerbite le piaghe.
POLISENA. Dico che è viva.
DON IGNAZIO. O Dio, sognando ascolto o sogno ascoltando?
POLISENA. Dico che vegilando ascoltate il vero.
DON IGNAZIO. Il mio cuore non è capace di tanta allegrezza, e s'io non muoio per allegrezza è segno che nol crede. Non sapete che l'innamorati appena credeno agli occhi loro? ma se è vero, fa' che veggia colei da cui dipende la vita mia.
POLISENA. Va' tu e fa' venir qui Carizia.—Quando voi li mandaste quella cruda ambasciata, il dolor la fe' cader morta. Il mio marito per l'offesa dell'onor, che s'imaginava aver ricevuto da lei, la fece conficcare in un'arca, volea farla sepellire. Io, non potendo soffrir che la mia cara figlia fosse posta sotterra senza darle le lacrime e gli ultimi baci, feci schiodar l'arca; e mentre la baciava tutta, intesi che sotto le mammelle li palpitava il core. Oprai tanti remedi che rivenne. Rivenuta, fu veramente spettacolo miserabile: stracciandosi i capelli si dolea della sorte che l'avesse di nuovo ritornata in vita assai peggior che la morte, pensando al torto che l'era fatto. Io, reimpiendo l'arca di un altro peso, la mandai a sepellire. Ella volea entrarsene in un monastero e servir a Dio, per non aver a cadere mai piú in podestá di uomo.
DON IGNAZIO. O madre, cavami fuor delle porte della morte, dimmelo certamente se è viva; perché ella sará mia, ancorché voglia o non voglia tutto il mondo.
POLISENA. Ed ella piú tosto vol esser vostra che sua, e per non esser d'altri volea esser piú tosto della morte.
DON IGNAZIO. Donque gli occhi miei vedranno un'altra volta Carizia, e aran pur lieto fine le mie disperate speranze?
EUFRANONE. O moglie cara, tu arrechi in un tempo nuove dolcezze a molti: tu pacifichi i fratelli, allegri il zio, dái dolcezza non al padre amorevole di colei ma a chi le fu rigido e inumano, e consoli tutta questa cittá.
DON FLAMINIO. Ma io come uscirò di tant'obligo? che grazie vi potrò rendere, essendo stato cagione di tante rovine?
POLISENA. Rendete le grazie a Dio, non a me indegna serva! Egli solo ha ordinato nel cielo che i fatti cosí difficili e impossibili ad accommodarsi siano ridotti a cosí lieto fine.
DON IGNAZIO. Ecco che l'aria comincia a dischiararsi da' raggi de' suoi begli occhi! oh come il mio core si rallegra della sua dolce e desiata vita!
SCENA IV.
CARIZIA, DON IGNAZIO, DON FLAMINIO, POLISENA, DON RODORICO, EUFRANONE.
CARIZIA. Madre, che comandate?
POLISENA. Conoscetela ora? v'ho detto la bugia?
DON IGNAZIO. O Dio, è questa l'ombra sua o qualche spirito ha preso la sua stanza?
POLISENA. Toccala e vedi si è ombra o spirito.
DON IGNAZIO. O don Ignazio, sei vivo o morto? e se sei vivo, sogni o vaneggi? e se vaneggi, per lo soverchio desiderio ti par di vederla? Io vivo e veggio e odo; ma l'infinito contento che ho nell'alma mi accieca gli occhi, mi offusca i sensi e mi conturba l'intelletto, ché veggiando dormo, vivendo moro, ed essendo sordo e cieco odo e veggio. Ma se eri sepolta e morta, come or sei qui viva? o quello o questo è sogno. E se sei viva, come posso soffrir tant'allegrezza e non morire? O tanto desiato oggetto degli occhi miei, hai sofferte tante ingiurie insin alla morte, insin alla sepoltura; e or volevi finir la vita in un monastero!
CARIZIA. Veramente avea cosí deliberato per non aver a trattar piú con uomo, poiché era stata ingiuriata e rifiutata dal primo a cui avea dato le premizie de' mia amori e i primi fiori d'ogni mio amoroso pensiero.
DON IGNAZIO. Deh! signora della mia vita, poiché sei mia, fammi degno che ti tocchi; e no potendoti ponere dentro il cuore, almeno che ti ponga in queste braccia. Io pur ti tocco e stringo; donque io son vivo. Ma oimè, che per lo smisurato contento par che sia per isvenirmi! i spiriti del core, sciolti dal corpo per i meati troppo aperti per lo caldo dell'allegrezza, par che se ne volino via, e l'anima abbandonata non può soffrir il corpo, e il corpo afflitto non può sostener l'anima: mi sento presso al morire. Ma come posso morire se tengo abbracciata la vita? O cara vita mia, quanto sei stata pianta da me, dal tuo padre, fratello e zio mio, e da tutto Salerno!
CARIZIA. Donque mi spiace che viva sia, essendo onorate le mie essequie da persone di tanto conto.
DON IGNAZIO. Ecco, o vita mia, hai reso il cor al corpo, lo spirito all'anima, la luce agli occhi e il vigore alle membra.
DON FLAMINIO. Ecco, o signora, l'infelicissimo vostro innamorato gettato innanzi a' vostri piedi, quale, spinto da un ardentissimo amore e gelosia, con falsa illusione per ingannar il fratello, ha offeso ancor voi. E arei offeso e tradito anche mio padre e zio e tutto il parentado insiememente per possedervi, tanto è la vostra bellezza e pregio delle dignissime vostre qualitadi, degne d'essere invidiate da tutte le donne; ma il disegno sortí contrario fine. Ma chi può contrastar con gli inevitabili accidenti della fortuna? Vi prego a perdonarmi con quella generositá d'animo, eguale all'alte sue virtú, offerendomi in ricompensa, mentre serò vivo, servir voi e il vostro meritevolissimo sposo.
CARIZIA. Signor don Flaminio, a me i travagli non mi son stati punto discari, perché da quelli è stato cimentato l'onore e la mia vita. Questo sí m'ha dispiaciuto: che la mia infelice bellezza, che che ella si sia, abbi data occasione di turbar un'amorevolissima fratellanza di duo valorosi cavalieri.
DON FLAMINIO. Generosissimo mio fratello, le mie pazzie vi hanno aperto un largo campo di esercitar la vostra virtute. Io non ardirei cercarvi perdono se Amore e la disgrazia non me ne facessero degno, la quale, quando viene, viene talmente che l'uomo non può ripararla. Essendo tolta la cagione, si devono spengere gli odii ancora; e poiché sète gionto a quel segno dove aspiravano tutte le vostre speranze e possedete giá il caro e glorioso pregio delle vostre fatiche, pregovi a perdonar le mie inperfezioni e smenticarle, e ricevermi in quel grado di servitú e amore nel quale prima mi avevate, restando io con perpetuo obligo di pregar Iddio che con la vostra desiata sposa in lunga e felicissima vita vi conservi.
DON IGNAZIO. Caro mio don Flaminio, se è disdicevole a tutti tener memoria dell'ingiurie, quanto si denno in minor stima aver quelle che accaggiono tra fratelli? e poi per liti amorose? E questo ch'avete voi fatto a me, l'avrei io fatto a voi parimente. Mi sète or cosí caro e amorevole piú che mai foste, e in fede del vero io vengo ad abbracciarvi.
DON FLAMINIO. Abbattuto dalla propria conscienza e confuso da tanta cortesia, io non so che respondervi né basta ad esprimere il mio obligo: arò particolar memoria della grazia ch'or mi fate.
EUFRANONE. Ed io, soprapreso da diversi effetti, non so qual io mi sia: allegro dell'amorevol fratellanza, ripieno d'ineffabil meraviglia della prudenza di mia moglie, allegro della figlia risuscitata, confuso e pieno di vergogna veggendomi dinanzi a quella che ho ingiuriata a torto con la lingua e uccisa con le mie mani. Però, figlia, perdona a tuo padre, il quale falsamente informato ha cercato d'offenderti; e ti giuro che io ho sentito la penitenza del mio peccato senza che voi me l'avesti data. Vieni e abbraccia il tuo non occisore ma carissimo padre!
CARIZIA. Ancorché m'aveste uccisa, o padre, non mi areste fatto ingiuria: la vita che voi m'avete data la potevate repetere quando vi piacea. Mi è sí ben ora di somma sodisfazione che siate chiaro che non ho peccato; questo sí mi è di contento: che la mia morte v'ha fatto fede dell'innocenza mia.
EUFRANONE. La tua bontá, o figlia, ha commosso Iddio ad aiutarti: egli ne' secreti del tuo fato aveva ordinato che per te ogni cosa si fusse pacificato; e perciò di tutto si ringrazi Iddio che ha fatto che le disaventure diventino venture e le pene allegrezze.
DON RODORICO. Veramente mi son assai maravigliato, essendo spettatore d'un crudel abbattimento di dui per altro valorosi e degni cavalieri; ma or che veggio tanta bellezza in Carizia—e cosí ancor stimo la sorella,—gli escuso e non gl'incolpo, e giudico che l'immenso Iddio governi queste cose con secreta e certa legge de fati, e che molto prima abbi ordinato che succedano questi gravi disordini, accioché cosí degna coppia di sorelle si accoppino con sí degno paro di fratelli, che par l'abbi fatti nascere per congiungerli insieme. E come il mio sangue onorerá voi, cosí dal vostro il mio prenderá splendore e onore. E giá veggio scolpite nelle lor fronti una lunga descendenza di figliuoli e nepoti che mi nasceranno dalla mia indarno sperata successione, per non esservi altro germe nel nostro sangue. E perché queste gentildonne mancano di doti, io li faccio un donativo degno dell'amore e generositá loro, di ventimila ducati per una; dopo la mia morte a succedere non solo alla ereditá ma nell'amore: e se agli altri si dánno per usanza, vo' donarli a voi per premio. E per segno d'amore vuo' abbracciarvi: il sangue mi sforza a far l'offizio suo.
CARIZIA. E noi saremo perpetue serve e conservatrici della vostra salute.
EUFRANONE. E noi quando di tanta largitá vi renderemo grazie condegne?
DON IGNAZIO. Carissimo padre e nostro zio, vi abbiamo tal obligo che la lingua non sa trovar parole per ringraziarvi.
DON RODORICO. Or, poiché tutti i travagli han sortito sí lieto fine, ordinisi un banchetto reale per le nozze e corte bandita per dieci giorni per tutt'i gentiluomini e gentildonne di questa cittá, acciò un publico dolore si converti in una publica allegrezza. E perché non vi sia cosa melancolica in Salerno, si scarcerino tutti i prigioni per debito e si paghino del mio, e si facci grazia a tutti quei che han remissioni delle parti. E per voi, Eufranone caro, scriverò e supplicherò Sua Maestá che vi si restituisca quello che ingiustissimamente vi è stato tolto.
DON FLAMINIO. Poiché a tutti si fa grazia, sará anco giusto che l'abbi Leccardo il parasito.
DON RODORICO. Olá! ordinate che Leccardo sia libero. Ma mi par oggimai tempo che questi felici sposi e amanti dopo tanti travagli colgano il desiato frutto degli disperati loro amori. Entriamo.
DON FLAMINIO. Ma ecco Panimbolo.
SCENA V.
PANIMBOLO, DON FLAMINIO, LECCARDO.
PANIMBOLO. Padrone, che allegrezza è la vostra?
DON FLAMINIO. È tanta che non basto dirla. Panimbolo, la fortuna secondo il suo costume tutt'oggi ha scherzato con noi valendosi della varietá de' casi; e all'ultimo Iddio ha essauditi i nostri desiri. Rallegrati, ché la poco dinanzi infelice miseria mia or sia ridotta in tanta felicitá.
PANIMBOLO. Stimo che di questo giorno vi ricorderete ogni giorno che viverete.
DON FLAMINIO. Oh dolcezza infinita degli innamorati, quando, dopo i casi di tanti infortuni, fortunatamente li è concesso di giunger a quel desiato segno che bersagliò da principio! Oh come ottimamente dissero i savi: che Amor alberga sovra un gran monte dove solo per miserabili fatiche e discoscese balze si perviene, volendo inferir che negli amori gran pene e amaritudini si soffriscono, ma quelle pene son condimento delle loro dolcezze!—Ma ecco Leccardo.
LECCARDO. Io ho avuto tanta paura d'esser appiccato che la gola si è chiusa da se stessa senza capestro, e mi ha data la stretta piú de mille volte e senza morir mi ha fatto patir mille morti; e ancora che io abbi avuto grazia della vita, per ciò non sento allargar il cappio e sono appicato senza essere stato appiccato. Adio, cavaliero! oh come presto m'era riuscito il pronostico che mi feci questa mattina! Ma per prender un poco di fiato, bisogna almeno bermi un barril di greco e quattro piatti di maccheroni; se non, che or mi mangerò voi vivo e crudo.
DON FLAMINIO. Or non si parli piú di scontentezza, poiché la fortuna dal colmo delle miserie mi ha posto nel colmo di tutte le sue felicitá. Starai meco tutto il tempo della tua vita, e comune sará la tavola, le robbe, le facultadi e le fortune. Licenzia costoro che son stati a disaggio ascoltando le nostre istorie, e vieni a prender possesso della mia tavola.
LECCARDO. Spettatori, ho la gola tanto stretta che non posso parlare. Andate in pace e fate segno d'allegrezza.