GIAMBATTISTA DELLA PORTA
LE COMMEDIE
A CURA DI VINCENZO SPAMPANATO
VOLUME PRIMO
BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI 1911
LA CARBONARIA
PERSONE CHE RAPPRESENTANO LA FAVOLA
PIRINO innamorato FORCA suo servo MANGONE ruffiano FILACE suo servo Dottore FILIGENIO vecchio PANFAGO parasito ALESSANDRO giovane MELITEA innamorata *** muto Capitano de' birri Raguseo ISOCO suo amico.
La favola si rappresenta in Napoli.
ATTO I.
SCENA I.
PIRINO innamorato, FORCA suo servo.
PIRINO. Avea inteso dir mille volte che i seguaci d'amore erano il riso, il diletto, il gioco e tutte insieme le compite dolcezze. Misero me, che provo tutto il contrario; ché le malenconie, i noiosi pensieri, le fatiche, i disagi, i sospetti e le gelosie sono i suoi perpetui compagni: e veramente, chi le pruova conosce che queste sono vere e l'altre imagini di dolori.
FORCA. Buon dí, padrone.
PIRINO. O Dio, che amara compagnia m'han tenuto questi tutta la notte! ho desiato il giorno per ragionar con Forca, il mio servo, d'un mio sospetto, né posso ritrovarlo; oh, sei tu qui? t'ho chiamato tutta questa mattina.
FORCA. Anzi v'ho risposto prima che voi mi chiamaste. Ma or con chi ragionate?
PIRINO. Con meco.
FORCA. Chi è questo meco? guardatevi che non sia qualche mal uomo.
PIRINO. Dico: «meco», con me medesimo.
FORCA. Dunque voi e meco son due persone?
PIRINO. Non t'ho detto tante volte che l'anima mia non è dove ella abita, ma dove ama? avendo io l'animo fisso nell'amato oggetto, resto col corpo abbandonato senza anima; or ch'era ritornata al suo luogo, ragionava con lei.
FORCA. Conosco che siate innamorato e malamente, perché sempre avete in bocca l'amato oggetto, andate parlando solo e raccontando i vostri difetti a chi non ve li dimanda. Ma, di grazia, voi di che ragionavate con voi?
PIRINO. Apunto di te che pur un tempo eri mio scorporato, non lasciavi mai far cosa per compiacermi; non ho seguitato piacer in mia vita, di cui tu non sia stato il mezano. In somma, io era tutto il tuo bene, or non so come son divenuto tuo figliastro: o fingi o t'infingi non accorgerti de' miei affanni, e sai che solo sei segretario de' miei pensieri: non t'amo da servo ma da fratello, e ti dono sempre.
FORCA. È vero che mi donate sempre, ma una intrata di cinquanta bastonate il giorno: ché servendovi o disservendovi, senza mirar dove date, alla luce, all'oscuro, con ogni cosa che vi trovate in mano, mi fate piovere adosso una tempesta di bastonate traditore, che non è ora che non abbia da stridere sotto le vostre mani.
PIRINO. Tu ben t'accorgi, tristarello, quanto t'ami e quanto vaglio senza te.
FORCA. Non mi mirate negli occhi, che non vi paia che ci manchi un pugno; non il mustaccio, che non vi stia bene uno sgrugnone; non nello stomaco, che non vi disegniate un calcio; non le spalle, che non desiate misurarle con un legno. In somma, non avete pelo sovra la persona, che non mi volesse scacciare le mosche da dosso con un querciuolo. E piacesse a Dio che vi contentaste de dieci o venti; ma quando cominciate, non lasciate mai, se prima non fate prova qual sia piú duro o la schena o il bastone: talché le mie carni son diventate come carni d'asino.
PIRINO. E se pur ogni mille anni ti dessi qualche colpicciuolo, lo fo da scherzo: non sai, Forca mio caro, che chi ti vuol bene, ti fa piangere? Accadono ben spesso fra gli innamorati delle questioni e delle bòtte, e pur non lasciano d'amarsi: son segni d'amore.
FORCA. Se i segni d'amor che devo aspettar da voi saranno di darme bòtte e di farmi piangere, da or vi disgrazio di quanto amore sète per portarmi giamai. I vostri scherzi a me non piacciono: gli asini soli, quando scherzano, si dán morsi che si stracciano la pelle, e calci che si rompono l'ossa.
PIRINO. È cosí gran cosa soffrir due bòtte per un amico?
FORCA. Cancaro! non è parte in me che non mi doglia, e mi fate portar le carni sempre di piú colori de' panni d'arazzi. Se l'innamorata vi fa alcun favore, le consolazioni son le vostre; se mala ciera, con una finta occasione—ché son l'armi de' padroni contro i poveri servi—sfogate la rabbia contra di me, che non ci ho né colpa né peccato: talché ho da patir la penitenza per me e per voi.
PIRINO. Te ne cerco perdono, dammi il castigo e non se ne parli piú.
FORCA. Ve lo darei per certo volontieri; ma dubito che or togliendolo da scherzo, quando poi vi saltasse la mosca non me lo rendessi da senno e con l'usura ancora.
PIRINO. Ti giuro su la mia fé di non toccarti piú mai.
FORCA. Avete giurato cosí mille volte; ma montandovi quel maladetto ghiribizzo, tornate come prima e peggio. Un giorno ne farò le mie vendette. Ma perché usate meco sí piacevoli parole? devete aver bisogno di me. Tutta la notte v'ho inteso suspirare, non so se da amore o da umore. Ditemi, che avete?
PIRINO. All'infermo dá piú noia l'aver a raccontare a ciascun la sua infirmitá, che l'istessa febre. Se lo sai meglio di me, perché farmelo dire? Sappi, fratellino mio caro, che non vive uomo piú scontento di me sovra la terra; e se non lo credi, mirami in faccia, vera ambasciatrice dell'angoscie dell'anima. Non passava mai ora che la mia carissima Melitea non mi avesse mostrato segni di corrispondenza di amore e datami commoditá di ragionarle o di vederla almeno, conoscendo bene che viveva in lei e per lei. Or son otto giorni, anzi otto mesi, anzi otto lunghissimi anni che non compar né per usci né per fenestre: io dalla mia parte non l'ho dato occasione di sdegnarse meco, onde dubito che altro fuoco la scaldi. Ella è di bellezza tale che né per l'addietro s'è mai veduta né per l'innanzi fia per vedersi: però sollecitata e presentata da molti. È la donna piena di varie voglie, non si sazia mai, facile a piegarsi; e la loro costanza è l'essere mobili e incostanti.
FORCA. O poveri innamorati, che ferneticano senza febre! E perché non v'imaginate che abbia rotto lo scudellino del belletto, o che abbia i suoi mesi e che i cerchi degli occhi li stieno lividi, o che abbia il ranno troppo forte che l'abbia scorticato la fronte, e però non si lasci vedere?
PIRINO. In somma, ella ará mutato voglia.
FORCA. Mutatela ancor voi.
PIRINO. Subito dái consiglio, perché non ti duole come duole a me. Io non posso.
FORCA. Forzatevi.
PIRINO. Ogni cosa può essere, ma che muti pensiero non mai. Ami qualunque li piace, facciami quante offese ella puote, non sará mai che quei disgusti e quelle offese non mi sien piú dolci di quante dolcezze potessi aver in questa vita.
FORCA. O padrone, è caduta una lettera dalla sua fenestra: eccola, mirate se viene a voi.
PIRINO. Conosco la sua mano. La sottoscritta dice: «La vostra viva e morta Melitea». O anima mia, so che non vuoi che viva vita cosí disperata senza darmi novella di te. Ma che cosa mai potrai tu avisarmi che non mi sia di affanno e di cordoglio? o mia dolce morte, o mia amara vita!
FORCA. Leggetela liberamente.
PIRINO. «Caro mio bene, poiché non posso dirvelo a bocca, ve lo scrivo in questa carta con speranza che vi venghi in mano. Mi dispiace darvi cosí amara novella, ma soffritela con pacienza. Mangone mi ha venduta al dottore per cinquecento ducati; e comandandomi che mi fusse adobbata per andar a lui, un dolor cosí forte mi spinse il core, che cadei tramortita. Egli a cui sono noti i nostri amori, per stizza m'ha chiusa in una camera e serrati gli usci e fenestre con chiavistelli: e son tre giorni che non mi dá cibo, e vuol o che vada al dottore o muoia cosí di fame. Sapete bene come è dispettoso e vuol vincer ogni cosa, e io son risoluta e ostinata. Onde pria che la fame m'uccida, m'ucciderá il dolore in pensar solo che non abbia ad esser vostra. Talché fra poco darò il corpo vile alla terra, e a voi resterá lo spirito immacolato e bello per la fede…». Non posso intender piú, sono intenerito di sorte che mi dissolvo tutto in lacrime.
FORCA. Le donne sono di natura tanto dolci che, per duro stia un uomo, l'inteneriscono e lo risolvono in lacrime.
PIRINO. «… Quando sarò portata in chiesa morta, il che fia presto, venite a vedermi; e quando son partite le genti, baciatemi e non abbiate a schivo e in orrore quel corpo ch'è stato albergo d'un'anima vostra divota. Ponetemi le mani al petto, ché troverete certe coselline d'oro, parte donatemi da voi e parte mie, segnali infelici per trovar il mio misero padre: vi priego a ripigliarvele e tenerle appresso di voi, accioché vi rinfreschino la memoria de' nostri amori. Vi chiedo combiato per questa, ché moro senza vedervi: se vi avessi fatto qualche dispetto, perdonatemi, ché non lo feci mai per propria volontá, ma per pietá che avea della vostra vita e per moderar le vostre passioni, quando scorgeva ch'erano in voi nel maggior colmo; e pregate Iddio per me, ché, avendo tanto patito nella vita, mi dia pace in Cielo doppo la morte». O occhi miei, voi sète di pietra, poiché parole cosí miserabili non ponno cavar da voi vivi fonti di lacrime. Ahi, che moro per non poter morire! O morte, tu vinci tutte le cose e non puoi vincer me! Senza ragione ti chiamano amara, poiché per te si finisce ogni amaritudine. Io sto in vita assai piú amara della morte. Ahi, ruffian rustico, incolto, nemico delle cose belle, hai fatto un gran furto al mondo, celando le sue bellezze. E come resterá il mondo senza lei? Dunque morrá di fame chi potrá dar pastura a mille occhi affamati della sua vista? Sta dunque prigione la vindice della mia libertá e che può carcerar mill'anime con la sua bellezza? tu serrata in tenebre, di cui gli occhi luceno piú d'ogni sole? e dove tu non sei, ivi son oscurissime tenebre? Morrá Melitea, e io resterò vivo? Tu per non essere d'altri hai voluto piú tosto esser della morte; e io che son cagion della tua morte voglio restar in vita? io restar in vita, per la cui vita tu sei morta? orsú, convien morire, e morrò. Ma dove sono? Forca, dove sei? cosí ti dogli delle miserie mie?
FORCA. Taci, la casa di Mangone apre la gola e lo vomita fuori.
PIRINO. Un cibo di cosí cattiva digestione non può digerirlo.
FORCA. Nascondiamoci e ascoltiamo, ché da' suoi maneggi ne caveremo principio di qualche garbuglio: ogni suo trattamento ne potrebbe giovare.
SCENA II.
MANGONE ruffiano, FILACE servo, PIRINO, FORCA.
MANGONE. Filace, olá, non odi? cala qua giú presto.
FILACE. Eccomi.
MANGONE. Ho inteso che da Ragugia sia venuta una nave carica di schiavi: vo' andare infino al molo per veder se vi sia cosa da vendere o barattare. Tu resta alla guardia de' schiavi; ché levandogli gli occhi da sovra, chi nasconde, chi rubba, chi s'empie il ventre e chi machina di fuggire.
FILACE. Andate sicuro, ché non mi smenticherò del mio ufficio.
MANGONE. Se venisse quel di Calabria per la Gobba, digli che non ne chiedo meno di dugento ducati.
FILACE. Voi dovreste pagar chi ve la togliesse di casa: ella è brutta di volto e bruttissima della persona, col mento fitto nel petto, con le reni inarcate, con le groppe uscite fuori, che par che d'ora in ora aspetti la soma.
MANGONE. Non mi mancherá il mio prezzo: conosco l'umore. Quando il martello di amor lavora, batte e cava piú scudi d'ogni martello.
FILACE. Che dirò a quel genovese della Macrina?
MANGONE. Daglila per quel prezzo che vuole: mangia per diece e sta piú magra d'una gatta che mangia lucertole. Ogniun che la vede cosí asciutta stima che in casa mia non si mangi se non biscotto e vi si digiunino tutte le vigilie. Mi ha fatto spendere piú che non vale, per darle tartarughe boglite, suppe la mattina e vuova fresche la sera, quando va a dormire, per ingrassarla; e se la poni nuda incontro al lume, traspare come una lanterna, che se le ponno annoverar l'ossa dentro. Son risoluto farle un buco sotto le reni fra cuoio e pelle e farla gonfiar con un mantice, come si fa a' buoi vecchi per fargli parer grassi, quando si portano a vendere.
FILACE. Che faremo di Demonica?
MANGONE. Perché è tanto leggiera che con quattro carezzine si lascia volgere come l'uom vòle, lasciamola per quei di bassa mano, per dir che abbiamo una bottega generale ove son mercanzie d'ogni sorte. Io non arei pensato mai che il dottore, essendo vecchio, avesse pagato cinquecento ducati per Melitea: conobbi che l'amava non come quei ch'hanno cervello, ma come quei che ne son privi.
FILACE. I legni vecchi ardono piú volentieri e senza fumo.
PIRINO. (Ascolta, Forca).
FORCA. (Ascolto).
MANGONE. Sia benedetto Iddio, ché son uscito da quel fastidio: mi facea spender un tesoro per comprar muschio, zibetto e profumi. Tutta è ricci e belletti e abbigliamenti e attillature, e tutta cerimonie, però cosí amata da quel napolitano che non è altro che fumo, schiuma, neglia e vento: vivono di nebbia e si pascono di fumo, e chi se impaccia con loro si trova con le mani piene d'aria.
FILACE. Se venisse Forca o Pirino, che dirogli?
PIRINO. (Forca, ascolta bene).
FORCA. (Il vostro dir: «ascolta», non mi fa ascoltar bene: tacete voi e ascoltate).
MANGONE. Guardatevi da loro come dalle serpi! Quando entrano nella strada, non gli levar gli occhi da dosso: se caminano e tu camina, se si fermano e tu ti ferma. Volgi gli occhi dove si volgono, e mira dove mirano: se s'accostano alla casa, sgombra, fuggi, chiudi le porte, serra le fenestre, puntella dietro, tura i buchi, sbalestra gli occhi per ogni cantone, poni tutti gli occhi della casa in agguato: ché di niuno ho tanta paura quanto di loro. Conosco che ne sta innamorato e non ha danari; e non potendola avere con legittimi modi, ordisce furbarie, tenta ogni via, ardisce ogni impresa, non teme rischio o periglio, sta esso in travagli e dá travaglio agli altri: però sta' in cervello, ché per ogni scappata te la rapisce. Ha quel suo Forca che, se ben spende l'autoritá sua per quel che vale, prosume saper piú di tutti i tristi del mondo.
FORCA. (Fa' quanto sai, ché ti ingannerò).
MANGONE. In somma, guárdati, perché ho molti inimici.
FORCA. (Perché sei solo amico di te stesso).
FILACE. Morendo smorberá il mondo.
MANGONE. Però vive, ché l'inferno l'abborrisce. Ma faccia quanto può, differirla può ben, ma non fuggir la forca che gli sta apparecchiata.
FORCA. (Ed a te il fuoco).
MANGONE. O come campeggiarebbe bene una forca in mezo due forche!
FORCA. (E tu appresso me, che sei un ladro).
MANGONE. Se venisse alcuna vecchia con qualche scusa, mandala subito via: ché fa piú una ruffiana in una ora, ch'un innamorato in cento anni.
FILACE. Riposatevi nella mia diligenza.
MANGONE. Io vo al molo, al raguseo: entra e sèrrati dietro.
FILACE. Entro e mi serro dietro.
FORCA. (Andiamcene ancor noi).
SCENA III.
DOTTORE, MANGONE.
DOTTORE. M'hai tolto la fatica di venire a casa tua. Io non so perché non m'abbi mandata Melitea, se non lo fai ché cosí straziandomi, me la facci ricever piú caramente.
MANGONE. Certo non per mancamento di voluntá o di diligenza; se non che, ordinandole che si ponesse in ordine per venir a trovarvi, sovrapresa da un strano accidente, cascò morta; e se non che m'accorsi che sotto le vesti cosí pian piano le palpitava il cuore, io la mandavo a sepelire.
DOTTORE. L'altro giorno la viddi bellissima.
MANGONE. Se la vedeste adesso, non la riconoscereste, cosí son gli occhi scoloriti e le labra smorte e sparito il fior delle guancie. Io son furbo e conosco al naso le sue infirmitá. Ella sta martellata di Pirino; e quando intese ch'era stata compra da voi, trafitta dalla disperazione, le venne quello accidente. La sua infirmitá è piú finta che vera: vorrebbe esser venduta a suo gusto, ma s'inganna, ché io uso ostinazione con gli ostinati, e con ostinata perfidia vincerò la sua perfidia. Son tre giorni che non le do da mangiare; e se non si risolve di far a mio modo, io perderò i cinquecento ducati, voi l'innamorata ed ella la vita.
DOTTORE. Dio me ne guardi; vorrei piú tosto perder quante robbe ho al mondo! Ma Pirino che t'offerisce?
MANGONE. Pirino è un giovane attillato, pulito, che non ha che fare se non l'amor con le fenestre, non ha altro in bocca che «occhi», «vita», «speranza», «spirito» e «anima»; e pensa con le sue levate di barretta, inchini e parole profumate tormela di mano; ma erra, ch'io vo' danari, danari.
DOTTORE. Perché Melitea ama piú tosto costui che me?
MANGONE. Non altro ch'una maladetta usanza delle donne, che quando sono pregate, ancorché se ne morissero di voglia, se ne stanno in contegno e ci vogliono straziare. Ma le bastonate alfin le fanno far quello per forza, che di sua volontá non vogliono fare.
DOTTORE. Essendo in mio potere, non volendomi per amante, mi ará per padrone. Ma toltone che sia un poco di tempo, del resto non sono io meglio di lui in tutti i conti?
MANGONE. Dite il vero.
DOTTORE. Che ha un giovane piú di me? In quel fatto proprio, in cambio di far carezze alle povere donne, tutte le dimenano e le strappazzano senza rispetto; noi vecchi abbiam un natural piú rispettoso, sempre le comparemo innanzi col capo chino e le trattiamo con piú creanza. A' giovani quel fatto è fin de' loro amori, e spento in lor quel disordinato appetito, è spento l'amor loro; a noi per contrario, non potendo saziarcene, l'amore è sempre nuovo. Ma io vo' scoprirti il mio pensiero, Mangone mio. So ben che in questa etá non devrei cader in simil colpa, ma con fortezza e costanza resistere alle passioni, e devria far un guadagno della mia vergogna, tacere e soffrire: ché se è cattivo il fare, è peggio il palesarlo; ma lo fo non per fin di diletto, ma per desiderio di successione. Quando morí, mia moglie Brianna mi lasciò una fanciulla chiamata Alcesia; e volse la mia disgrazia che, fuggendosene la balia per certi rispetti, se la menò seco molti anni sono in Ragugia: mandai e non potei trarne nulla di costrutto, restai sola e infelice reliquia del mio legnaggio, del che son vissuto e vivo da disperato; e trovandomi da quarantamila ducati di facoltá, non avendo a chi lasciarla, mi par assai duro… .
MANGONE. Lasciatela a me, ché ve ne arò assai obligo.
DOTTORE. … Tanto piú che ho una dozzina di parenti larghi che mi fanno il córso adosso degli anni che vivo, e pregano Iddio che muoia presto, per aversegli a godere. La tua Melitea mi sta molto a cuore: a lei sono drizzati tutti i miei pensieri, e sento tirarmi da una viva forza ad amarla. Poi è tenerina, poco fa levata dalla balia, come un capretto di latte; assai, per me che son vecchio, con lei mi pareria ringiovenire; e se piacesse a Dio che ne avesse un figlio, me la torrei per moglie e coprirei il fallo con nome di matrimonio; e sarebbe la sua, la mia e la tua ventura insiememente: ch'io sarei sodisfatto, ella ricca e tu padron della mia casa, ché nello avanzo della mia vita sarebbe fra noi commune la stanza, le facoltá e le mie cose piú care. Però non vorrei che fussi cosí austero con lei; vorrei che il suo carcere fusse tanto che bastasse a farmi amare, non a tormentarla. E come potresti tu batter quel corpo, che non battessi il mio cuore? però vo' che le porti alcun presentuccio da mia parte, ché i doni sono di valore inestimabile a farsi amare dalle donne.
MANGONE. Ella è vivanda riserbata per la tua bocca.
DOTTORE. Mangone, sai che vorrei dire?
MANGONE. T'intendo: che Pirino non mi faccia qualche burla. Ti rispondo che le burle sono bene ad inventarle e ordinarle, ma a far che riescano, eh ci vuol altro che parole!
DOTTORE. Intendo che ha un servo molto astuto e sottile…
MANGONE. Come quello uccello che porta il grano al molino.
DOTTORE. … «e che non ha tanti peli in testa, quante lingue che gridano:» forche e capestri; però prego Iddio, ché tosto gli succeda.
MANGONE. Non bisogna pregarne Iddio, ché a questo fine ce lo condurranno le sue buone opre: ha mal vissuto e mal morirá; e il padron non è meglio di lui, servo degno di tal padrone.
DOTTORE. Mi vo' partire; il presto ti raccommando.
MANGONE. Ed io vo' al molo a trovare il raguseo.
SCENA IV.
PIRINO, FORCA.
PIRINO. Comporterai, o Forca, che tu e io siamo scherniti e vilipesi da un furfante ruffianello? Diménati, risvégliati, dimostra che sei vivo e non dormi: ove è l'ingegno, ove sono le tue grandezze, ove i tuoi gran fatti che fur tutti prigionieri delle tue astuzie?
FORCA. Molte girandole mi vanno per la testa: mi stillo il cervello e ordisco gran matasse, ma non mi sono ancor rissoluto ad alcun partito.
PIRINO. Aiutami.
FORCA. Mi uccidete.
PIRINO. Il breve termine che Mangone ha dato a Melitea di gir al dottore, è il termine della mia vita: intanto io sto nel mezzo delle fiamme ardenti. Rispondemi.
FORCA. Io sono cosí internato ne' pensieri, che sono fuora di me: il desidero piú di voi per vendicarmi di quel manigoldo. Penso e ripenso, e tuttavia non mi riesce nel cervello. Ma quel non aver danari mi fa venir il sudor della morte.
PIRINO. Se avessimo danari, non sarebbono necessari gli inganni.
FORCA. Io non dico cinquecento scudi, ma alcuni dinari maneschi per spendere e intricare. Ditemi, sète voi deliberato di averla?
PIRINO. Sí.
FORCA. Per ogni via?
PIRINO. Sí.
FORCA. E non lasciar l'impresa?
PIRINO. Lascieranno piú tosto i cieli di muoversi, il sol di splendere, mancherá l'aria, si risolverá il mondo, che possa lasciar Melitea. L'amor nostro è invecchiato, non può scordarsi: ella è cosí tenacemente scolpita nel mio core, che tanto sarebbe levarmela dal core quanto svellerne l'istesso core.
FORCA. Orsú, poiché il vostro cuore è fondato piú tosto in maturo consiglio che in leggiera volontá, che come fusse indebolita si risolverebbe in nulla, mano a' fatti, animo da imperadore: risoluzione, animo e danari fanno tutte l'imprese e sono il nervo e l'anima de' negozi.
PIRINO. Se mai verrò al frutto dell'amor mio, beato te.
FORCA. Almeno ne guadagnasse le scorze di quel frutto che sarebbe una veste.
PIRINO. Altro che veste arai. Una buona somma di danari.
FORCA. Pur che non si risolva in qualche buona somma di bastonate. Ma ditemi, come state in credito con li banchi?
PIRINO. Benissimo: tutti credono che non ho un quatrino.
FORCA. Bisogna dunque farvi una poliza falsa.
PIRINO. Troppo pericolo: ci va la vita.
FORCA. Non si può aver il mèle senza le mosche, né si ponno far le grandi imprese senza pericoli; e quando si vuol far un gran fatto, non bisogna nominar pericoli, perché l'animo si raffredda e si fa pauroso. Bisogna por mano a cambi, interessi, scrocchi, usure e rubberie.
PIRINO. Chi me li dará, se non è sensal ne' banchi che non m'abbia in lista; e quando mi sentono nominare: «O che ditta, o che mercadante da tor ad occhi chiusi!». Poi, non sai che è fatta una pragmatica, che non si dia robba in credito a figli di famiglia?
FORCA. Dunque questa pragmatica vieta ancora a me, che non t'abbi credito di quella somma di danari che m'hai promessa. Cerchiamola in presto da alcun amico.
PIRINO. Cercali tu da parte mia.
FORCA. Se non han credito a voi, come l'aranno a me?
PIRINO. Come cerchi danari in presto ad un amico, subito ti risponde che non gli ha e ti diventa inimico.
FORCA. Pigliamoli ad usura.
PIRINO. Non mi piace.
FORCA. A chi vuol dormir con l'innamorata, bisogna trovar la pecunia, padrone.
PIRINO. Non è giorno che non discorra col cervello per tutti i banchi del mondo. O che cosa infelice è il non aver danari!
FORCA. Massime a voi, povero di danari e ricco d'appetito.
PIRINO. Non so che fare.
FORCA. Anzi bisogna disfare.
PIRINO. Chi vogliamo disfare?
FORCA. Tuo padre. Avemo il ben in casa e lo vogliamo cercare altrove.
PIRINO. Lo caricheremo di troppo peso di dolore.
FORCA. Lo scaricheremo di peso di argento.
PIRINO. Non sará possibil mai, perché sta tanto sospetto di noi, che, nol facendo stima che lo facciamo; poi se lo saprá, che fia di noi?
FORCA. Ti fo la sicurtá con le mie spalle.
PIRINO. Tu sai che in casa non mancano legne, e quando ce ne fusse carestia, abbiamo la villa vicina.
FORCA. Ho buone spalle per la villa e per la casa: tra le bastonate e le mie spalle ci è una antica amicizia, un invecchiato parentado: ci ho fatto il callo, non mi son cose nuove, mi son fatte naturali.
PIRINO. Come faremo che non se ne accorga?
FORCA. Aprimogli il scrittorio con il grimaldello; poi, quando gli aremo gli li restituiremo.
PIRINO. Buon'arte m'insegni.
FORCA. Non è usanza di servi forse?
PIRINO. E quando lo saprá, che faremo?
FORCA. Che so io? qualche mala cosa.
PIRINO. E questo è l'amor e la riverenza paterna?
FORCA. E voi coricatevi la notte con questa riverenza, abbrac-* *ciatevela e baciatela, e lasciate star Melitea. Questo modo è precipitoso, questo non è buono; qua ci va la conscienza, qui la riverenza: voi quello che potete, non volete, e quello che non potete, volete. Ne avete poca voglia. A dio.
PIRINO. Oh, come sei colerico! stammi allegro, che ad un ammalato è gran refrigerio aver un medico allegro.
FORCA. Voi sète un ammalato troppo pusillanimo e disobediente; non volete sorbir le medicine.
PIRINO. Queste tue medicine son troppo violenti per lo pericolo della vita, troppo nauseabonde per l'infamia e troppo amare per l'anima: e se ben la polvere del delitto mi accieca l'occhio della ragione, pur non son tanto cieco che non conoschi l'errore.
FORCA. Perdo il tempo, mi vo' partire.
PIRINO. Aspetta, férmati un poco. Ahi, traditora fortuna, a che mi conduci? Eccomi in una grandissima lite tra il padre e l'amore: il padre mi cerca la riverenza, amor non ascolta ragioni, è giudice e parte, mi spaventa con le saette e col fuoco e con la morte. Padre mio, vorrei ubbidirvi, amor non lascia dispor di me: o anima mia, bilanciata da tanti mali e agitata da tante onde di tempeste, come determinerai questa lite? Padre mio caro, abbi pazienza per questa volta: amor che vince ogni cosa, vince ancor me: perda il tutto e acquisti Melitea. Forca, ti do in mano il freno d'ogni mia volontá.
FORCA. Bisogna far un inganno a vostro padre.
PIRINO. Se non basta a mio padre, fallo a mia madre, fallo a me ancora.
FORCA. Conosco che sète un di quei che bisogna fargli ben per forza: bisogna aver animo per me e per voi. Vi vo' far conoscere che vaglio tanto oro quanto peso: son rissoluto d'ingannarlo.
PIRINO. Come? dove? dimmi.
FORCA. Non so il come né il dove: levo di qua, pono di lá; sconcia di qua, poni di lá, andrò tanto girando col cervello, che qualche cosa sará. Ma ecco tuo padre, conosco negli occhi il fuoco della còlera: scostati da me, che non ci veggia insieme.
PIRINO. Starò a veder quel che fará costui: alcuna solenne astuzia gli uscirá di mano.
SCENA V.
FILIGENIO vecchio. FORCA. PIRINO.
FILIGENIO. Fu giudicata sempre la buona educazione il fonte e l'origine degli abiti virtuosi e il fondamento delle umane felicitá, e tanto necessaria al buon vivere quanto l'anima al vivere. Perché, introducendosi a poco a poco ne' teneri intelletti il zelo della santa religione, con quella si viene a dar l'imperio alla ragione, freno agli affetti e termine alla volontá.
FORCA. (Oh, gran pedagogo sarebbe stato il mio padrone!).
FILIGENIO. Cosí, al contrario, la cattiva educazione è la fucina dove si fabricano gli strumenti della ruina della misera gioventú; perché, mancando per l'immatura etá la virtú moderatrice dei temerari desidèri della strabocchevol concupiscenza, corre sfrenata ad ogni precipitoso consiglio, e le buone qualitá della natura vengono atterrate e tiranneggiate da' vizi e difetti del tempo. Ecco l'essempio in Pirino mio figliuolo: ché bisognando per alcuni miei affari partirmi di Napoli, le mie occupazioni fur cagione del suo ozio, restando in tutela di un servo ribaldissimo, furfante della cappellina, capo de tutti i furbi del mondo.
FORCA. (Giá è entrato nelle mie lodi, racconta il catalogo delle mie virtú).
FILIGENIO. Ma a che mi affatico a dir tanto? basta che è servo. Cosí tutte quelle virtú e buone qualitá che gli erano state largamente dotate dalla natura, da cosí cattiva educazione sono state spente e atterrate. Onde poco stima Dio, manco il padre, sprezza ogni buon ricordo; e fattosi idol quel suo servo, corre precipitoso dietro a quello che gli vien additato da costui. Onde appena sono in piazza, che le genti mi sono adosso, dicendomi che Pirino sta innamorato di una puttana; e che quelle ricchezze che con tanto risparmio e lunghe fatiche sono state raunate in casa mia, vanno in essilio in casa di un ruffiano e si consumano in un viver lussurioso; e che allettato dagli artefici di costei, cerca rubbarmi cinquecento ducati per riscattarla.
FORCA. (Fa' e di' quanto sai, ché con i tuoi dinari la riscattaremo).
FILIGENIO. E se non fusse che veggio persone di maggior etá e condizione, anzi di quei che governano al mondo, inviluppati in simili materie, mi dispererei; ma con l'essempio di persone cosí degne allevio gli affanni miei. Ma eccolo: Forca, Forca; mi son accorto di te ben, sí!
FORCA. Vengo, padrone.
FILIGENIO. Come serpe all'incanto. Giá sleghi lo sacco delle bugie per vomitarmele adosso. Fa' che a quanto ti dimando mi risponda subito, accioché non abbi tempo a pensare e colorir menzogne.
FORCA. Se stimate che quanto dico sia bugia, a voi soverchio il dimandare, a me il rispondere.
FILIGENIO. Ben, che si fa?
FORCA. Si sta in piedi, con la beretta in mano, aspettando se mi comandate alcuna cosa.
FILIGENIO. Dove è Pirino?
FORCA. Stando qua, non posso saper dove sia.
FILIGENIO. Dove l'hai condotto?
FORCA. Egli conduce me dietro a lui, perché li son servo.
FILIGENIO. Dove l'hai lasciato?
FORCA. Egli ha lasciato me.
FILIGENIO. Parli cosí poco, come avessi a pagar la gabella delle parole. Furfante, furfante, ben sai che ci conosciamo insieme: se non mi dici il vero, farò che muti nome, e da Forca che sei diventerai un appiccato.
FORCA. Se dicessi la bugia, voi lo conosceresti in aprir la bocca.
FILIGENIO. Quanto tempo è che mio figlio non ha visto la…?
FORCA. La che?
FILIGENIO. Quella.
FORCA. Chi quella?
FILIGENIO. Quella vostra…
FORCA. Chi quella vostra?
FILIGENIO. Quella cosa vostra che voi sapete.
FORCA. Ah, ah, ah: sí, sí.
FILIGENIO. Vedi pur che la conscienza accusatrice dell'animo tuo ti fa accertar il vero, ancorché non vogli?
FORCA. La vede ogni ora, ogni momento.
FILIGENIO. Come ne sta innamorato?
FORCA. Innamoratissimo.
PIRINO. (Questo forfante par che discuopra i miei secreti).
FILIGENIO. E segue tuttavia la prattica?
FORCA. La segue con tutto il suo studio.
FILIGENIO. Quando pensa lasciarla?
FORCA. Quando lasciará la vita.
FILIGENIO. Come lo sai?
FORCA. Ce l'ho inteso dir mille volte.
FILIGENIO. Tanto è ostinato?
FORCA. Ostinatissimo.
FILIGENIO. Perché tu non lo togli da questo proposito?
FORCA. Se non ubbidisce a voi, perché vuol ubbidir me?
FILIGENIO. Quando va a casa sua, che fa?
FORCA. Gionto in casa sua, si butta sul letto supino, se la toglie in braccio e se la squinterna sul ventre e se l'accomoda innanzi: volta di qua, volta di lá, non la fa star mai ferma per tre o quattro ore, finché stracco non va tutto in acqua.
PIRINO. (Oh, che ti cadano i denti e quella lingua traditora!).
FILIGENIO. E ti par questa buon'opra?
FORCA. Buonissima, eccellentissima.
FILIGENIO. E tu sei quello che lo guidi e aiuti?
FORCA. Io, quando lo vedo tiepido e disamorato, l'aguzzo l'appetito.
FILIGENIO. Talché tu sei il maestro.
FORCA. Maestro io? signor no, è il maestro del Studio.
FILIGENIO. Che Studio? che signor no? Di che parli tu?
FORCA. E voi di che parlate?
FILIGENIO. Io parlo della sua puttana.
FORCA. Ah, io non pensava che voi parlaste di cose triste, ma della sua Legge; e tutto il giorno si trastulla con la sua libraria, la strapazza e se la tiene aperta innanzi.
PIRINO. (O buon Forca, come l'hai ben salvata!).
FILIGENIO. Cosí mi burli, eh?
FORCA. Io non burlo altrimente; rispondo alle vostre dimande.
FILIGENIO. O Dio, che avessi un bastone! ché avendo tu la pelle delle spalle piú indurita di quella degli asini, se ti do con le mani, offenderò piú me che te. O che unguento di cancheri! Traditorissimo, se non ti disponi a dirmi la veritá, proverai lo sdegno di un padron irato e schernito da te. Ti darò tante bòtte che amboduo restaremo stracchi, io di dar, tu di ricevere.
FORCA. Dico il vero, a voi sta il creder quel che volete.
FILIGENIO. Non mi hai risposto a quello che ti dimandava. Vuoi tu negarmi che Pirino non stia innamorato di una puttana, chiamata Melitea, che l'ha in poter un ruffiano che ne chiede cinquecento ducati?
FORCA. Signor no, signor sí, eh, padrone.
FILIGENIO. Che «signor sí», «signor no» cerchi in nasconder la veritá? ed è tanta la sua forza che a tuo dispetto ti muove la lingua a dirla.
FORCA. Eh, padron mio.
PIRINO. (Sta' saldo, Forca, ché il padron non ti scalza).
FILIGENIO. Che padrone? mi fai del balordo; che balbezzare è il tuo?
FORCA. Io non so nulla; ma… .
FILIGENIO. Che ma?
FORCA. Direi alcuna cosa, se stessi sicuro che egli non l'avessi a sapere.
FILIGENIO. T'impegno la fede mia che non sará per saperlo giamai.
FORCA. Dubito che voi lo scoprirete un giorno, ed egli mi salterá adosso con un bastone; e non sapete che tremo in sentirlo nominare?
FILIGENIO. Non dubitar, dico, ché quando io non bastassi a difenderti, sarei uomo da farti franco e mandarti via.
PIRINO. (Questa bestia mi fa entrare in suspetto).
FORCA. So che lo risaprá, e le spalle ne patiranno la penitenza. Ma alfin voi sète il padrone, vo' piú per voi che per lui.
FILIGENIO. Cosí mi par di ragione.
FORCA. Quanto avete detto, tutto è vero: che sta innamorato di una cortegiana, detta Melitea, che sta in poter di un ruffiano che l'ha venduta ad un dottore per cinquecento ducati; e però ne arrabbia di dolore.
FILIGENIO. Dove pensa avergli?
FORCA. Rubbargli a voi come meglio potrá.
PIRINO. (Ecco che fa l'affratellarsi con i servidori: pensava aver un servo fidele e ho una spia secreta di mio padre).
FILIGENIO. Come volete rubbarmi, se sto in cervello e mi guardo piú di voi che di tutti i ladri del mondo?
FORCA. È deliberato scassar lo scrittorio, se non lo può aprir col grimaldello.
PIRINO. (Merito questo e peggio. Or non sapevo io che i maggiori inimici che abbiamo sono i servidori?).
FILIGENIO. Ma come mi accorgeva del fatto, come andava il fatto per voi?
FORCA. V'attossicavamo.
PIRINO. (O Dio, che ascolto? non posso contenermi, mi risolvo lasciar il rispetto da parte, passargli questa spada per i fianchi, e accadane quel che si voglia).
FILIGENIO. Al suo padre questo? ahi, figli iniqui! or non dovea cosí scelerato pensiero indurgli terrore?
FORCA. Ma tutto ciò è nulla: ci è di peggio assai.
FILIGENIO. Che ci può esser peggio?
FORCA. Quel dottore è un cervello bizaro, straordinario, ha molti bravi che lo seguono, per un pelo se la torrebbe col diavolo; ne sta geloso e ha deliberato farlo ammazzare e li tiene le spie sovra.
PIRINO. (Non gli basta quanto ha detto: ci vuol aggionger del suo ancora).
FILIGENIO. Se ben per i continui inganni che m'ave usato costui, non gli devo prestar fede, pur la vita di un figlio importa molto. Forca, tu che conosci costoro e sai questi maneggi, ricorro a te, mi pongo nelle tue mani; vorrei che rimediassi, ché non si procedesse piú oltre.
FORCA. Non è cosa da ragionarsene in piazza: potrebbe egli sovragiongere e stimarebbe che il tutto fusse uscito da me, e non si potrebbe piú rimediare: vi mostrerò modo di salvarlo.
SCENA VI.
PIRINO solo.
PIRINO. Ah, Forca traditore, che tradimento m'hai tu fatto? farmi suspetto e reo appo mio padre! Ti arai voluto vendicare di quelle bastonate de quali poco anzi ti dolevi di me. Come arò animo di comparir piú mai dove il mio padre sia? manderò me stesso in essiglio. Perderò in uno istesso tempo il padre, la patria e l'innamorata, che è peggio assai che perder la propria vita. O come accetterei volentieri alcuna sorte di morte per liberarmi da vita cosí nemica. Uh, uh! Possa esser fatto in mille pezzi, se la scappi: vo' morire, ma prima che muoia farò vendetta della cagion della mia morte. Mi tratterrò da qui intorno finché venghi, per passargli la spada mille volte per i fianchi.
ATTO II.
SCENA I.
PANFAGO parasito, PIRINO.
PANFAGO. Par che questa mattina nell'uscir di casa abbia cantato la civetta, cosí ogni cosa mi va a traverso. Vo al dottore per desinar con lui, e mi dice che sta colerico, perché la sua innamorata ama altri e sta inferma. Vo in casa di un altro, e trovo la casa piena di pianto, ché vi si facea il mortorio. Fui forzato andare ad un certo che avea abbandonato, perché non avea piú succo—perché noi siamo come i pidocchi: quando non avemo piú sangue da succhiare, l'abbandoniamo;—e disse che mangiava altrove. Alla taverna non mi posso accostare, ché devo all'oste, e mi dice che ave cavato l'essecutorio, talché sto fra duo capitali inimici, la fame e l'oste: all'una non posso rimediare, all'altro non ho che dare. Pur, di lontano, ho fatto l'amor con una porchetta grassa che si rostiva; si burlava di me, perché mi mirava con certi occhi stralunati e con la lingua pendente fuori tra' denti: ci ho lasciati gli occhi sopra, e mi ha cavato il cuor di martello, la traditora. Vommene ora a trovar Pirino; e se la speranza mi fallisce, arrabbiarò di fame.
PIRINO. Misero me, qual si trova pena maggiore, che paragonandola alla mia non sia una gioia! non è misero stato che non abbia qualche speranza; sola la mia è priva d'ogni futura allegrezza.
PANFAGO. (Ecco a tempo chi desiava). Buon augurio, Pirino caro, amato e riverito da tutte le belle donne del mondo.
PIRINO. Non merito esser burlato da te.
PANFAGO. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti. Che si fa?
PIRINO. Se sta combattendo con la rabbia e con l'ira; e ne ho tanta nel petto, che bastarebbe a riempirne tutte le fère del mondo.
PANFAGO. Che colpa ci ho io? Volete voi con la vostra rabbia uccidere voi e me in un colpo? Se col mostrarti rabbioso e iracondo pensi che io non abbia a desinar teco, l'erri in grosso. Son gionto al porto: scacciami quanto vuoi, che la tempesta della fame mi vi riconduce.
PIRINO. Troppo pungente e pien di spine è il mio cibo per ora.
PANFAGO. Verrò a mangiar con voi con denti calzati di buoni stivali.
PIRINO. Mi pasco di veleno di vipre e di serpenti.
PANFAGO. Verrò con la pietra di san Paolo, o mi farò incantare da un ciurmatore. Mi negarai almeno due bicchieretti di quel tuo vino garbo?
PIRINO. E che non è garbo quel che bevo, Iddio tel dica per me: la mia bevanda è di amarissime lacrime.
PANFAGO. Di lacrima dolcissima di Somma? Vorrei che sempre si piangesse in casa tua, e non ne mancassero mai le bótte piene di quella lacrima: ché quel color di sangue mi fa rallegrar tutto il sangue; fresco e brillante, mi fa brillare il core; ponendolo in bocca, quel suavissimo odore mi conforta il naso e il cervello e il gusto. E quando lo sento calar nel petto, porta seco un mar di piacere e un foco tacito che tutto mi riscalda. Non posso saper io la cagion della tua rabbia? sbuffi, e mordi l'ugne: hai meco alcuna cosa?
PIRINO. (Non posso levarmi da dosso questa mosca canina). Se tu sapessi da quanta angoscia e tribulazione è afflitta l'anima mia, n'avessi compassione; però di giá vattene, ch'io me la torrei con le mosche. Ma ecco quel traditore!
SCENA II.
FORCA, PIRINO, PANFAGO.
FORCA. Fermate, padrone: che volete fare?
PIRINO. Romperti la testa.
FORCA. Romper la testa a chi se la rompe ogni ora per pensar trappole per vostro serviggio? fermatevi, vi dico.
PIRINO. Non mi fermarò, se prima non ti arò cavato il core.
FORCA. Volete cavar il cuore a chi ha cavato i danari dal cuor di vostro padre? Cancaro, io l'ho scappata bene, aiutami tu, Panfago!
PANFAGO. Or ora torno.
PIRINO. Assassin cane, ti voglio aprire il petto!
FORCA. Questo è il premio di chi ave aperto la cassa e la borsa di vostro padre, e or ve le porto?
PIRINO. Che borsa? che ci è ivi dentro?
FORCA. Cento scudi che son il cuor di vostro padre.
PIRINO. Come ce l'hai cavati dalle mani?
FORCA. Basta l'avemo, a che bisogna saper il modo?
PIRINO. Che ave a far cavargli i dinari dalle mani e scoprirgli i miei secreti? non potevi dargli ad intendere alcuna altra cosa?
FORCA. No, che fusse verisimile e credibile come quella, perché giá mezza la credeva, e v'era l'amor suo; e che sia vero, la riuscita ave approvato il mio consiglio.
PIRINO. Che gli hai dato ad intendere?
FORCA. Che per salvar voi dal pericolo del dottore bisognava pagargli cento scudi che li mancavano per lo riscatto di Melitea; e la menava seco fuor di Napoli e, come era lontana dagli occhi vostri, ve s'allontanava dal core. Se l'ha bevuta, datomi i danari e restituito voi nella sua grazia.
PIRINO. Se è cosí, ho il torto.
FORCA. Mille torti, non ch'uno.
PIRINO. Perdonami.
FORCA. Canchero! pormi a pericolo d'una perpetua galea e prepararmi un seminario continuo di buone bastonate: per sodisfare a' vostri capricci, cado in pericolo maggiore di essere ammazzato dalla vostra furia.
PIRINO. Perdonami, per amor di Dio.
FORCA. Meglio sará per me che non m'impacci con i vostri amori. Poco anzi mi promettesti con giuramenti non volermi piú maltrattare, e or mi volevi uccidere: questo è altro che bastonate: sempre sète l'istesso e ogni giorno siamo al medesimo. Sará meglio per me tornare i danari al padrone.
PIRINO. Perché farmi stentare a saperlo? non me lo potevi dir subito? Perdonami, fratello, fratellino mio dolce.
FORCA. No, no: non mi ci correte piú: tornerò i danari a vostro padre, dirò che ho voluto scherzar seco.
PIRINO. Forca mio, m'ingenocchiarò a' tuoi piedi.
FORCA. No, no: non ci è ordine piú.
PIRINO. Forca, non afforcar ancor me; conosco l'errore: s'un cuor pentito merita la perdonanza, dammela. Si placa Iddio, pentendosi l'uomo; non vuoi tu placarti?
FORCA. Non è cosa che piú mitighi l'animo d'un offeso, che l'umiltá del nemico; però non solo vo' perdonarvi, ma procurar la sodisfazion di chi mi ha offeso. Vo' esser di animo piú generoso verso voi, che voi non sète con me.
PIRINO. Orsú, poiché avemo i danari, che faremo?
FORCA. Dove è Panfago? ché abbiamo bisogno di lui.
PIRINO. È scampato via. Ma non bisogna trattar con lui, perché è un ciarlone; ed è peccato a non esser trombetta.
FORCA. È a nostro proposito, perché è astutissimo.
PIRINO. Non sa far altro che spirar i fatti nostri e riferirgli al dottore.
FORCA. Serve ancora a spirare i fatti del dottore e riferirgli a noi.
PIRINO. Ha detto molti nostri secreti a lui.
FORCA. Ha detto molti de' suoi secreti a noi.
PIRINO. È piú tristo con noi che con lui.
FORCA. Ce ne guarderemo. Ma io con quattro palmi di salciccia—compráti il giovedí mattina prima ch'esca il sole, e pagandole al bottegaro quanto ne chiede, e arrostite a fuoco di legne di lauro senza parlare e con certe polveri di sopra,—ne fo un capestro, ce lo pongo in gola, e non potrá piú parlare.
PIRINO. Questo secreto l'ho provato molte volte e non mi è riuscito.
FORCA. Perché non sai tutte le cerimonie che vi si convengono; overo farò esperienza di una certa onzione.
PIRINO. Che onzione?
FORCA. Medolle di ossa di bue cotte in certi pasticci, grasso di caponi in suppa, e la domenica mattina a digiuno li ongerò la gola.
PIRINO. Questi grassi lo faranno vomitar piú tosto quanto saprá di noi.
FORCA. Anzi è contro il vomito, e l'ho esperimentata con voi piú volte.
PIRINO. Fa' come vuoi, non ti vo' contrariare in questo; dimmi, che hai disegnato di fare?
FORCA. Ascolta: io so far una polvere di carboni che, meschiata con olio e ongendone la faccia, la fará nera come un schiavo, d'un nero assai naturale.
PIRINO. A che servono i carboni?
FORCA. In simili carboni sta tutto l'inganno e la furberia: questi trarranno i danari di man di vostro padre, inganneranno Mangone e vi faranno posseder Melitea. Questa polvere la buona memoria di mio padre usava spesso ne' suoi ladroneggi, con questa scappò mille volte da prigionia, dalla galea e dalla forca—ché era la piú reverenda persona del mondo;—io che camino per le paterne vestigia, imitator della sua virtú, me ne sono servito in molti casi importantissimi.
PIRINO. Che abbiamo a far con la polvere?
FORCA. Con quella polvere ti ungerò le mani e la faccia, che parerai un schiavo naturalissimo.
PIRINO. Poi?
FORCA. Poi pregaremo Alessandro vostro amicissimo, che preghi vostro padre, che compri da Mangone un schiavo di buon garbo, giovane di diciassette overo di diciotto anni, dell'etá tua e di Melitea che sète poco differenti di etá e di persona; e che gli ne dia quanto ne vuole per un suo disegno molto importante, e gli dia i cento scudi per caparra.
PIRINO. Appresso?
FORCA. Appresso vestiremo Panfago, che non è conosciuto da Mangone, da raguseo—perché avemo inteso da lui, questa mattina, che voleva andar al molo a comprar schiavi,—ché dica esser fattor del raguseo e gli venda voi per schiavo, per quello prezzo ch'egli vuole, perché vi meni a casa. Esso, perché spera guadagnarvi con Filigenio vostro padre, da cui n'è stato pregato, vi comprará sicuramente. Come sarete dentro, arete agio da trattar con Melitea: e portando con voi un cartoccino della medesima polvere, tingerete la faccia e le mani a Melitea e la vestirete delle vostre vesti; e voi lavandovi mezanamente le mani e la faccia, vi vestirete delle sue e vi chiuderete in camera.
PIRINO. Che n'averrá per questo?
FORCA. Verrá vostro padre per lo schiavo. Mangone, pensandosi vendere lo schiavo che ha comprato, gli venderá Melitea; e cosí vostro padre se la menará a casa. Ecco fin ora Melitea in casa vostra.
PIRINO. Giá comincio ad intendere. O bello inganno! e il meglio che abbia, è che ha del verisimile e del naturale; e chi non ci restarebbe ingannato? Ma come caverai me di casa sua?
FORCA. Se avete pazienza di ascoltare, lo saprete. Vo' che quando il parasito vende lo schiavo a Mangone, gli prometta mandar un presente di cose della nave per far amicizia seco e tener ragione insieme, accioché, sempre che verrá in Napoli, gli riempia la casa di schiavi e poi partire il guadagno. Trovaremo quattro fachini giovanetti del vostro tempo, li vestiremo da bratti da navi, mezo nudi e mezo impeciati, neri, con un cesto in spalla, carichi di provature e di bariletti di vino o malvagía e cose simili; e quando verran dentro, e voi starete su l'aviso e spogliarete uno di quelli e vi vestirete de' suoi panni e vestirete colui de' panni di Melitea e scamparete fuora con gli altri, e il parasito e i bratti vi aiuteranno a questo. Ecco amboduo sbalzati fuora della casa del ruffiano e condotti in casa vostra: cosí il giorno l'arete nera in casa, e la notte bianca in letto, lavandole la faccia.
PIRINO. Ogni cosa va bene, eccetto che come Mangone troverá quello in casa vestito de' panni di Melitea, lo porrá in mano della giustizia, e la corda li fará confessare il furto usato da noi.
FORCA. A questo ci penseremo poi; e quello che non riesce per una via, il faremo riuscir per un'altra. Ma eccola senza lambiccarmi molto il cervello. Una bugia tra l'altre. Alessandro vostro amico ha quel servo sbarbato che conduce le legna dalla villa a casa, che è sordo, muto e un pezzo di pazzo, né molto dissimile dalle vostre persone, si lascia spogliare, vestire e tingere a nostro modo; e se Mangone li domandará, non saprá che rispondergli; e perché è molto gagliardo, se sará stuzzicato, dará mazzate da cieco.
PIRINO. L'inganno è pensato con tanta arte e ingegno, che come avanza tutti gli altri che sono stati per addietro fatti, cosí per l'innanzi non potrá ritrovarsene un altro simile.
FORCA. Avertite che, quando la trappola è ben inventata e consertata, se vi s'usa diligenza in esseguirsi, ha buona riuscita; ma esseguita malamente, non può aver se non pessimo fine.
PIRINO. Ella è tanto bene imaginata che, a dispetto di tutte le negligenze e intoppi della fortuna, ará ottimo fine; ma ancorché fusse per succederne qualche pericolo, animo grande, e succedane quel che si vuole: vada la robba, la vita e l'onore, per non dir l'anima, pur ch'abbia Melitea. Né meno sará l'allegrezza dell'acquisto di lei, che della beffa fatta a Mangone.
FORCA. Or poiché cosí rissoluto l'abbiamo, pensiamo a' mezi.
PIRINO. Poiché hai mostrato tanto ingegno in questa fizione, di' ancora i mezi de' quali abbiamo a servirci.
FORCA. Dove troveremo noi Panfago?
SCENA III.
PANFAGO, FORCA, PIRINO.
PANFAGO. Come stai, Forca mio?
FORCA. Per appicarti.
PANFAGO. Perché tanto male?
FORCA. Perché non m'aiutavi.
PANFAGO. Son ito per aiutarti.
FORCA. Con quel veloce córso?
PANFAGO. Con quel córso per darti soccorso.
FORCA. Nel bisogno fuggi; dopo il pericolo vieni ad aiutarmi.
PANFAGO. Correa per tor armi e aiuto.
FORCA. Non potevi senz'armi menar le mani?
PANFAGO. Non so menar le mani se non sovra i piatti.
FORCA. Giurerei che hai bisogno di fregarti i polsi e le tempie di teriaca per i vermi per la paura.
PANFAGO. N'arei bisogno, ma non per la paura.
FORCA. E di che cosa?
PANFAGO. Crepo della traditora fame.
FORCA. Dio ti ci mantegna.
PIRINO. Panfago, abbiamo bisogno di te; e se ci aiuti, te ne aremo obligo.
PANFAGO. Per acquistarmi la vostra grazia andrei nel fuoco.
PIRINO. Se, non avendomi mai fatto servigio, la casa mia t'è stata sempre aperta, pensa che sará se ricevo da te cosí segnalato servigio.
PANFAGO. Ditemi, in che volete adoprarmi?
PIRINO. Ma avèrti che bisogna che tu sia secreto: ci va la vita!
PANFAGO. Ce ne andassero mille!
PIRINO. Però ti priego non farne motto ad alcuno.
PANFAGO. Mi fate torto a pregarmi di quello che è mio debito di fare.
FORCA. Lo ci dirá, padrone.
PANFAGO. Perché cosí faresti tu.
PIRINO. Mi vo' fidar della tua fede, ché non manchi di fede a chi si fida nella tua fede.
PANFAGO. Eccovi la mia fede di osservarvi fedelmente la mia fede.
PIRINO. Fa' che non t'esca di bocca.
PANFAGO. Prego Iddio che non ci entri né pane né vino, mi cadano i denti, e il palato non gusti piú sapor de' cibi, ma diventi come quello degli infermi—ché ogni cosa lor pare amara,—né la lingua assaggi e rivolga boccon per la bocca, se di ciò rivelerò mai cosa alcuna.
FORCA. Per conoscer se sarai buono a quello che vogliamo servirci di te, vo' prima essaminarti un poco.
PANFAGO. Ché! sei tu mio giudice?
FORCA. Dimmi: come sei destro?
PANFAGO. Destrissimo.
FORCA. Non dico ad arrobbare, io.
PANFAGO. Né manco dico questo, io, ma al negoziare.
FORCA. Di che razza sei?
PANFAGO. Di giudei.
FORCA. I tuoi quarti?
PANFAGO. L'un di birro, l'altro di boia, il terzo di cerretano.
FORCA. Come sei reale?
PANFAGO. Come zingano.
FORCA. Bene. Come sopportaresti le corna?
PANFAGO. Cosí sopportassi la fame!
FORCA. Come le bastonate?
PANFAGO. Cosí cosí.
FORCA. Batteresti tuo padre?
PANFAGO. Mia madre ancora, e s'altro se può dir peggio.
FORCA. Come sei amico della veritá?
PANFAGO. Come il can delle sassate.
FORCA. Orsú, hai dato al segno del mio vóto: sei mille volte peggio di quel che vogliamo.
PANFAGO. Adesso vo' essaminar io te: che cosa ho da fare?
FORCA. Finger un raguseo e vender Pirino per schiavo.
PANFAGO. Che pericolo ci è?
FORCA. Nullo; perché non ci è cosa dove tu possa giocar di mano, e come tu non puoi rubbare, non ci è pericolo.
PANFAGO. Perché fingere un raguseo?
FORCA. Se d'ogni cosa ti vogliamo dire il perché, non finiremo tutto oggi.
PANFAGO. Se volete che serva bene, bisogna che sia ben informato.
FORCA. T'informaremo meglio di una scarpa. Su, finiamola.
PANFAGO. Non ho ancor finito di essaminarti; che avete apparecchiato da desinare?
FORCA. È troppo buon'ora per desinare.
PANFAGO. Chi non desina a buon'ora, desina a malora.
FORCA. Dico: è troppo presto.
PANFAGO. S'è presto a te, è tardo a me: che vuoi misurar il mio appetito dal tuo ventre?
FORCA. E tu vuoi che accomodiamo il nostro ventre al tuo appetito? Fa' prima l'effetto, ché poi mangierai.
PANFAGO. No no; fatta la festa non è chi spazza la sala: chi ave avuto il suo intento, non si cura piú d'altro.
FORCA. E tu, come hai mangiato e bevuto stai imbriaco, ti poni a dormire, e qui bisogna star in cervello; ché una parola che non dicessi a proposito, scompigliaresti in un punto quanto s'è consertato in un anno.
PANFAGO. Insegni a chi sa: attendi a quello che tocca a te e lascia il pensiero a me di quello che mi tocca.
FORCA. Non ti mancherá da mangiare.
PANFAGO. Almeno una collazionetta leggiera.
FORCA. Non abbiamo bombace né penne.
PANFAGO. Non bevendo, non farò cosa allegramente: duo becchieretti, non piú, starò allegro, fuor di paura, mi riporrá l'anima in corpo; come ho buon vino su lo stomaco, non può contro me il malanno. Porti l'oro su' diti, le gioie al collo, chi vuol rallegrare il core; la mia teriace e il mio allegracore è il vino.
FORCA. Mangierai e beverai assai bene.
PANFAGO. Chi me n'assicura?
FORCA. Stanne sopra di me.
PANFAGO. Tu non sei buono a star sopra né sotto: dico che bisogna bere.
PIRINO. Panfago, per dirti il vero sto col pensiero cosí su l'effetto, che se mangiassi prima, non mangiarai boccone che sapesse del suo sapore; se hai fretta di mangiare, affréttati alla promessa.
PANFAGO. Avertite che, se non mangio ben poi, scoprirò ogni cosa.
PIRINO. Fa' quanto sai di peggio.
PANFAGO. Orsú, che tardiamo?
PIRINO. Forca, spediamola, ch'ogni picciolo indugio me par una gran lunghezza di tempo.
FORCA. Le cose grandi han bisogno di grande apparecchio.
PIRINO. Restisi qui per parlar con Alessandro e vadisi per le vesti e per lo presente.
FORCA. S'io resto, chi va; se vo, chi resta?
PIRINO. Io andrò ad Alessandro, l'informarò e lo disporrò che vadi a mio padre, e gli darò i danari.
FORCA. Ed io e Panfago andremo per le vesti, per gli bratti e per lo presente; e l'informerò per la strada dell'effetto che ará da fare, e ci troveremo in casa di Alessandro.
PANFAGO. Ma mentre ci avviamo colá, fate voi che la tavola sia apprestata.
PIRINO. Cosí si faccia. Ecco Alessandro. Voi proprio desiava incontrare, caro Alessandro.
SCENA IV.
ALESSANDRO, PIRINO.
ALESSANDRO. Che comandate, carissimo Pirino?
PIRINO. Vengo a ricever grazia e favor da voi.
ALESSANDRO. Grazia e favor sará mio grandissimo, se mi darete occasione onde io possa servirvi: non mi son smenticato, padron degno, di tante grazie e favori ricevuti da voi; onde se non v'ho servito come dovea, tuttavolta la prontezza dell'animo ha sopplito dove han mancato l'occasioni.
PIRINO. Di picciol fonte non può nascer gran fiume: non l'ho servito come desiderava, atteso il mio poco valore.
ALESSANDRO. Tra buoni amici si disconvengono le cerimonie: quel poco ch'io vaglio, spendetelo a vostri commodi.
PIRINO. Però vengo alla libera con voi, e perdonatemi del fastidio.
ALESSANDRO. Allor ricevo fastidio e noia, quando non mi vien comandato da voi cosa alcuna, ch'è mio debito servirvi; venghiamo al tronco.
PIRINO. Non so se sapete la mia disgrazia, che Mangone ruffiano ha venduto al dottore la mia Melitea.
ALESSANDRO. Non n'ho inteso cosa alcuna, ché se n'avessi saputo un cenno non averei aspettato che me l'avessi domandato.
PIRINO. Mi complisce—per cagion de' miei amori che mi premono piú assai della robba e della vita,—che andiate a mio padre e lo preghiate che compri in vostro nome da Mangone un schiavo nero di diciassette over diciotto anni, ben fatto, che abbia del nobile, e non avendolo, che lo cerchi; e li diate per lo prezzo cento scudi che sono in questo fazzoletto, e se non bastano, almeno per arra; e comprato che l'averá, menilo a casa sua ben custodito, insin che andate o mandate per lui.
ALESSANDRO. Non altro di questo?
PIRINO. Non altro.
ALESSANDRO. Perché tanti scongiuri?
PIRINO. Con questo verrò a rubar la mia Melitea dalle mani del ruffiano, come poi vi dirò piú a lungo in casa vostra. Aiutatemi, amico caro, a cosí onesto e onorato furto; e se mi potrete scambiar questi danari in altri, me ne farete piacere, perché son di mio padre, ché non venisse a riconoscergli.
ALESSANDRO. Andrò or ora a servirvi; ho da scambiar questi e altri a vostro servigio; a dio.
PIRINO. A dio.
SCENA V.
FILIGENIO, ALESSANDRO.
FILIGENIO. (Son uscito fuori, se posso veder Forca per saper che cosa ha fatto col dottore: m'ha lasciato certi bisbigli in testa i quali, se non me li ritoglie, non mi lascieranno mai riposare. Il Forca è cattivissimo, conosce gli umori delle persone, e non è altro che sappi meglio di lui i negozi di mio figlio, ed è buon mezo a questo effetto: il suo consiglio mi piace: volendo servirmi, come dice, non è dubbio ch'io non sia ben servito).
ALESSANDRO. (Chi è costui che ragiona?).
FILIGENIO. (Chi è costui che vien verso me?).
ALESSANDRO. (È Filigenio, quel che cerco).
FILIGENIO. (È Alessandro mio vicino).
ALESSANDRO. (L'andrò ad incontrare). O Filigenio, Iddio vi conceda ogni vostro desiderio.
FILIGENIO. Non è altro il mio desiderio che servir voi, caro ALESSANDRO.
ALESSANDRO. Or veniva insino a casa vostra, per pregarvi d'un segnalato favore.
FILIGENIO. Eccomi ad ogni vostro comando: ché colui che non servisse voi volentieri, non meritarebbe esser servito da niuna persona del mondo, perché voi potete e sapete servir gli amici vostri.
ALESSANDRO. Se avessi saputo imaginarmi persona sufficiente piú di voi nel maneggio di questo mio negozio, arei fuggito darvi fastidio; non potendo altrimente, m'è forza a valermi del suo favore.
FILIGENIO. V'offerisco la prontezza dell'animo.
ALESSANDRO. Vi ringrazio di tanta cortesia. Iersera mi venne un corriero a posta da alcuni miei amici; e mi mandano un fascio di lettere, avisandomi con replicati ricordi l'importanza del negozio. Le lettere potrete vedere ad ogni vostro agio.
FILIGENIO. Non mi curo altrimente; venghiamo al tronco.
ALESSANDRO. Pregandomi come di cosa dove ci va l'onore e la vita; e mi vennero, insieme con l'altre, molte lettere di cambio, se mi bisognassero come di danari.
FILIGENIO. Danari non sarebbono mancati a me in vostro servigio.
ALESSANDRO. Replicandomi: non essendo servati da me come si richiede, rimarrebbono ruinati. Son uomini veramente di sommo valore e degni d'esser serviti.
FILIGENIO. Dite pure in che posso servirvi.
ALESSANDRO. Vorrebbono un schiavo di diciassette over diciotto anni, negro, di bel garbo e di acconcie maniere, che avesse del nobile; e che nel comprarlo non si avesse a risparmiar danari. Intendo che Mangone, qui appresso, n'abbia o ne soglia aver de buoni e belli; però vorrei che in mio nome ne compraste uno, e non avendolo, gli deste cura di ritrovarlo fra poco.
FILIGENIO. Tanto importa un schiavo?
ALESSANDRO. Come saprete il negocio, conoscerete l'importanza: eglino confidano in me molto; non vorrei che restassero ingannati di tanta speranza. Io per certi rispetti non posso mostrarmi con lui, per esser accadute alcune parole sconcie fra noi; e chiedendolo io, mi vorrebbe appicar per la gola. Eccovi nella borsa cento scudi, dateli per lo prezzo o almeno per caparra: dateli sin tanto che basti a saziar la ingordigia.
FILIGENIO. Vi servirò molto volentieri. Scudi non bisognano, ché ne ho le migliaia per vostro commodo.
ALESSANDRO. Se non togliete i danari per arra, non vo' che mi favoriate nel negozio.
FILIGENIO. Per non trattenermi vanamente in cerimonie, ché ho fretta di servirvi, li torrò, e or m'invio verso la sua casa.
ALESSANDRO. Ed io per non dargli occasione che mi veggia con voi, mi partirò e verrò da qui ad un poco per saper quello che abbiate trattato.
FILIGENIO. In buon'ora, non vo' perder tempo in servirlo! ché chi serve tardi, mostra che sia pentito della promessa, e chi serve presto, raddoppia la promessa. Eccolo che torna a casa.
SCENA VI.
MANGONE, FILIGENIO.
MANGONE. Ho speso i passi indarno: son ito al Molo, e mi dicono che il padron della nave ragusea con un suo amico passaggiero non era ancora tornato a desinare. Ho lasciato detto che desiava parlargli, e insegnatali la casa mia. Ma io vi tornerò, come arò fatta stima che abbia desinato.
FILIGENIO. O Mangone, o Mangone!
MANGONE. Chi mi chiama?
FILIGENIO. Chi t'apporta guadagno: vòlgeti.
MANGONE. Non è cosa al mondo a cui mi volga piú volentieri. Ditemi, che guadagno mi apportate?
FILIGENIO. Vorrei un schiavo nero di diciassette in diciotto anni, di garbo e di fattezze signorili, per farne un presente ad un signor principale.
MANGONE. Per ora non potrei servirvi, ché ho venduti quasi tutti i miei schiavi; ma spero accommodarvene fra poche ore, ché lo torrò da certi amici.
FILIGENIO. Giá l'hai trovata. Dici che vuoi tòrlo da certi amici per venderlo piú caro.
MANGONE. Dico il vero, a fé di uomo da bene.
FILIGENIO. Giuri la fé di un altro, non la tua, ché tu non sei uomo da bene.
MANGONE. Quanti giurano a fé di gentiluomo, che non ci sono? Ma se non lo credete, potrete venir infin a casa e vederlo: dopo pranso ne arò la casa piena e potrete eleggerlovi come vi piace.
FILIGENIO. Che ho a far io, ché ti ricordassi di me?
MANGONE. Sapete bene che la caparra porta seco tal obligo, che obliga il venditore a ricordarsi piú di lui che di ogni altro; e se non facessi torto alla vicinanza e alla vostra autoritá, ve la chiederei.
FILIGENIO. T'intendo, eccolati.
MANGONE. Avrete manco fatica a darmi il resto.
FILIGENIO. Prendi, potrai annoverargli con piú agio in casa tua: son cinquanta scudi.
MANGONE. Or sí che avete voglia di schiavi: farete che non desini questa mattina per star sollecito al vostro fatto. Vedrò che si fa in casa, e poi tornerò al Molo.
SCENA VII.
FORCA, PANFAGO.
FORCA. Noi avemo il bisogno: ecco le vesti per vestirsi da raguseo; ecco quelle per lo schiavo, son ricche e pompose: almeno, se non per la persona, lo torrá per le vesti. Ecco i barilotti, i formaggi e i confetti.
PANFAGO. Sai tu che a proposito ho comprato le vesiche e i budelli?
FORCA. Non so.
PANFAGO. Ho fatto il tutto a vostro modo; in questo solo vo' che voi secondiate il mio: ho tolto il barilotto e gli altri intrighi per empirli di varie furfanterie, e ti farò veder salciciotti, provature e mille altre galanterie; ché avendogli a far una burla, non ci vogliamo perdere il presente, e noi restassimo i burlati. Ma avèrti, accioché non abbiamo a far questione poi, che, ingannandolo con i falsi, mi arò guadagnato i buoni.
FORCA. Hai ragione, lo credo, che accompagnando la tua presenza con vesti riccamente addobbate, che farai miracoli.
PANFAGO. Quando vedrai l'architettura ch'usarò in contrafar i salciciotti e le provature e i confetti, resterai stupito; e sará non men gloria averlo beffeggiato nello schiavo che nel presente.
FORCA. Entriamo, perché non abbiamo a far altro; ché Pirino deve struggersi di desiderio di far presto.
PANFAGO. Avèrti che, subito che ritorno, ritrovi la tavola apparecchiata, ché io crepo dalla fame, e sovra tutto buona lacrima, ch'io ne diluviarò un fiasco ad un tratto, per capace e grande che sia, per lacrimar poi fino a notte.
FORCA. Ricòrdati di usar buone parole—ché non è il miglior instrumento per ingannare—e a far l'ufficio tuo di buon animo; ché dalla nostra parte non mancheremo noi di quanto ti abbiamo promesso.
PANFAGO. Entriamo, ché mi par mille anni di esseguir l'opera e far poi un guasto mirabile di vivande.
ATTO III.
SCENA I.
PANFAGO, PIRINO.
PANFAGO. Or vadansi ad appicar tutti coloro che non credono che amore non basti a trasformar gli uomini in strane foggie; poiché tu da libero e bianco sei divenuto nero e ti lasci vender come vil schiavo.
PIRINO. Dimmi, Panfago, potrei esser riconosciuto da alcuno?
PANFAGO. Certo, se non avesse visto io imbrattarvi il viso con quella polvere, non crederei mai che foste Pirino: cosí rassembrate un schiavo al naturale; ci è questo di buono ancora, che incontrandovi con Melitea non sarete scoperto, se diventerete pallido o rosso con Mangone, ché il color nero nasconde il color del volto sotto la tinta: andate come in maschera.
PIRINO. Io non vorrei parer tanto quel che non sono, che, volendo, parer quel che sono non potessi.
PANFAGO. Ma io come vi paio?
PIRINO. Veramente mi par che tu non sia, né devresti mai far altro che ingannare: cosí dimostri essere un gran ladro, e se non ti conoscessi, ti giudicherei un ladro naturale.
PANFAGO. Con questo giubbone non dimostro magnificenza? e con questa ciera un mercadante ben ricco?
PIRINO. Non potrai dir che tu sei povero, perché sei mercadante e hai schiavi da vendere.
PANFAGO. Se non m'hai rispetto e parli con creanza, ti darò bastonate. Tu sei mio schiavo e ti posso vendere a mio piacere: e te ne farò veder l'esperienza, ché ti venderò or ora.
PIRINO. Hai ragione, vendimi tosto.
PANFAGO. Che hai, che tremi?
PIRINO. Sempre quello che piú si desidera piú si teme. Tremo non so se di paura o di allegrezza: il pericolo dove mi trovo mi spaventa, l'allegrezza dell'acquisto mi rallegra, il timor turba l'allegrezza; talché provo in uno istesso tempo una timida allegrezza e un allegro timore. Ma ricòrdati, partito di qua, sollecitar Alessandro, ché solleciti mio padre a tor Melitea; e ricòrdati tornar presto con il presente.
PANFAGO. E tu come sarai a casa, ricòrdati di far apparecchiar presto da desinare.
PIRINO. Ma camina presto, ché non veggio l'ora di veder Melitea.
PANFAGO. Anzi bisogna caminar con gravitá, col passo della picca: non sai che son ricco e mercadante?
PIRINO. Te ne prego e straprego.
PANFAGO. Or sí che dici bene, perché lo schiavo deve pregar il padrone.
PIRINO. Ecco la casa.
SCENA II.
MANGONE, PANFAGO, PIRINO, FILACE.
MANGONE. (Veggio un mercadante da nave, che mi dimanda: certo costui sará quel raguseo che ha portato schiavi a vendere e ne porta un seco per mostra). Chi dimandate?
PANFAGO. Sète voi Mangone?
MANGONE. Io son mentre Iddio vòle.
PANFAGO. Voi siate il ben trovato per mille volte, padron caro; perdonatemi se, non conoscendovi, primo non vi ho salutato.
MANGONE. Non accadono simili cerimonie tra mercatanti: eccomi se son buono a servirvi.
PANFAGO. Io son il fattor del raguseo, padron della nave che ora è gionta in Napoli, carica di schiavi; vi prega che vegnate domani o questa sera a vedergli: e ve ne porto uno per mostra.
MANGONE. (Questo mi par a proposito per Filigenio: me lo chiese di fattezze simili; mi par bello e proporzionato e ave assai del nobile). Lo schiavo mi piace, secondo il mercato che me ne fate.
PANFAGO. Il mio padron desia far amicizia con voi, e però non mira al prezzo di cotesto: volendolo in dono per amor suo, ve lo potrete tor liberamente, perché ogni volta che verrá in Napoli, vi riempirá la casa di schiavi, e voi vendendoli poi col vostro commodo, partirete il guadagno.
MANGONE. Io non ho desiato altro nella mia vita che un simile incontro: io accetto carissimamente la sua amicizia. Di costui vo' dar cinquanta scudi, se ben conosco che val piú, e quel piú lo ricevo in dono, accioché egli prenda medesimamente fiducia di servirsi di me, delle mie robbe e della mia vita.
PANFAGO. Mi contento di quello che voi vi contentate di darmi, cosí il mio padrone desia la vostra amicizia.
MANGONE. Eccovi quindici scudi; in casa vi darò gli altri: potrete annoverargli.
PANFAGO. Credo alla vostra parola.
MANGONE. Come si chiama lo schiavo?
PANFAGO. Amore, padron caro.
MANGONE. Di che paese?
PANFAGO. Di Donnazapi, della provincia di Rabasco.
MANGONE. Che nome voi mi dite?
PANFAGO. Nomi che si usano in Schiavonia.
MANGONE. Amor, vien qua, non mi vòi tu servir con amore?
PIRINO. Ben sarei discortese e villano, se, voi avendomi comprato con grande amore, non mi disponessi a servirvi con grandissimo amore.
MANGONE. Servendomi lealmente, ti terrò da figlio, non da schiavo.
PIRINO. Anzi, servendo voi, mi parrá di servire non un padrone, ma mio padre.
MANGONE. Sai alcun ballo all'usanza tua?
PIRINO. È gran tempo che non l'ho usati; ma però comandandomelo cosí voi, vo' piú tosto servirvi cosí goffamente come so, che disubedirvi.
MANGONE. Orsú via.
PIRINO. «Siam, siam per via, guallá! siam, siam per via, guallá!».
MANGONE. O ben, per vita mia! lo schiavo è cosí allegro e festevole, che mi fará viver dieci anni di piú: dispiacemi averlo promesso a Filigenio, ché vorrei tenermelo per mio spasso. Ma poiché Melitea sta cosí disperata, Filace, va' tu su, chiamala, ché venga giú e veggia ballar e cantar questo schiavo che le rallegrará un poco li spiriti. Noi, galante uomo, entriamo in casa, ché vi darò i restanti danari, e faremo un poco di collazionetta, e berete una volta.
PANFAGO. Per non parer discortese alla prima con voi, se ben ho desinato poco anzi in nave, verrò volentieri, berrò una volta e due e quattro, se me lo comandarete.
MANGONE. Filace, non levar gli occhi da Melitea, lascia che veggia ballar e cantare lo schiavo. Fra tanto tu da' una scorsa con la vista intorno, ché non passi Pirino o Forca; e passando, falla entrar dentro, nascondila da loro quanto sia possibile. Noi entriamo.
FILACE. Entrate sicuro e vegghiate con gli occhi miei.
SCENA III.
MELITEA giovane, FILACE, PIRINO.
MELITEA. (O Cieli, sonovi elle bastevoli le passate miserie? e mentre sarò viva, sarò sottoposta a' crudeli arbitri della fortuna? Appena fui nata che fui privata del padre, della patria e della propria casa, e in strani paesi non è stato scontento o sciagura che non fusse da me provata assai disconvenevole al mio sesso e alla mia giovanezza; e sperando che il tempo partorisse a' miei mali qualche rimedio, ecco fui fatta rapina di corsari e, sofferti pericoli del mare, son stata venduta per ischiava ad un furfantissimo ruffiano. E pur ciò sarebbe nulla, se amor non avesse voluto mostrar in me l'ultimo essempio della sua possanza, accendendomi d'alti e generosi pensieri in cosí misero e abietto stato, e alfin costretta a morirmi di fame in prigione. Qual será il fine di tanti affanni, se i mali che s'aspettano e mi minacciano, son piú gravi di quelli che si soffriscono? quando osarò sperar dalla fortuna cosa che per me buona sia?).
FILACE. Melitea, Mangone ti dá licenza che ti pigli un poco di spasso con veder cantare e ballar questo schiavo.
MELITEA. Altro che balli e canzoni mi stanno nel capo!
PIRINO. Dio ti salvi, reina di tutte le belle.
MELITEA. Io regina? io bella? O con quanta piú ragione mi aresti chiamata la piú miserabile di quante vivono.
PIRINO. Mi comandate che balli un ballo e vi canti una canzona? Rispondetemi.
MELITEA. Il dolore è cosí impadronito di me, che sto con l'animo tanto lontano da me quanto ti son vicina col corpo.
PIRINO.
Deh! mirami, signora mia, ascolta la mia canzona. Perch'è d'altri mia persona, che pensiate voi che sia? Siam, siam per via, guallá!
Ditemi, signora, vi piace il mio ballo e la mia canzona?
MELITEA. Mirami in fronte, leggi nel soprascritto: come può capir alcuna consolazione nell'anima mia?
PIRINO. Conosco, signora, da certi segni del volto che sète molto tribulata d'amore.
MELITEA. Poco è conoscer questo, ché l'ardentissimo foco, quasi un lampo, lo porto impresso nel volto.
PIRINO. Noi schiavi di Egitto siamo negromanti; e da spiriti folletti che tenemo nelle caraffine indoviniamo quello che volemo.
MELITEA. Sí, eh? orsú, indovina chi amo io?
PIRINO. Un giovane che si chiama Pi… Piri… Pirino.
FILACE. Che ragionate voi di spiriti?
MELITEA. Dice che ha uno spirito folletto nella caraffina, che indovina quel che vuole.
FILACE. Par che costui negromantizzi; non vorrei che ti facesse entrar qualche spirito in corpo per forza.
MELITEA. Quel spirito che ha nominato, ce lo farei entrar per mia volontá. Ma indevina mò se m'ama.
PIRINO. Egli non ha per altro cari gli occhi suoi, che per mirar voi; né per altro il suo core, che per serbare inviolabilmente nella sua piú interna parte la bellezza e i vostri costumi: e si gloria piú del titolo di esser vostro schiavo, che di tutti i reami del mondo. Sète sua, foste sua, né per l'avvenir basterá accidente alcuno a far che non siate sua. Ma ditemi se voi amate lui, e dite il vero, perché subito lo conosco.
MELITEA. Io son tanto sua che, per non esser d'altri, voglio piú tosto esser della morte. Dispiacemi solo che, in sí misera fortuna e con tanto mio poco merito, mi sia posta ad amar tanto alto. Ma la costanza del mio amore, l'ostinazione dell'anima e la puritá della mia fede, con la quale sommamente l'osservo e riverisco, parmi che suppliscano all'oltraggio della fortuna, e me ne rendono degna. Ma io dubito che m'ami da scherzo e mi burli da dovero, poiché in tanto tempo che ci amiamo, non ha trovato modo di liberarmi da un vil ruffiano, da un abisso di oscuritá dove sepelita mi trovo.
PIRINO. Egli vi ama tanto che, per far libera voi, s'è fatto servo e, per ricomprar voi, s'ha fatto vender per ischiavo e, per rischiarar gli oscuri nuvoli de' vostri affanni, s'è fatto piú oscuro dell'istessa oscuritá.
MELITEA. Io non t'intendo.
PIRINO. L'intenderete poi. Ma or vo' scoprirvi tutte le cose che son passate ne' vostri amori.
MELITEA. Orsú, di' via.
PIRINO. Andando voi a diporto un giorno al Molo, quando il vedeste e foste veduta da lui, gli riempiste gli occhi di tanta meraviglia che non potean saziarsi di mirarvi; perché, mentre si fermavano a contemplar una parte e, come inveschiati da quella, non sapevano dipartirsi, un'altra lo sollecitava e violentava e strascinava a sé, e prima che si fermasse in quest'altra, un'altra se ne offriva, che con altra tanta forza a sé lo tirava; talché vedendosi egli stracco e non potendo mirar tutte, confessò esser vinto e desiava esser tutto occhi per potervi mirar a pieno. Né pensava altrimente che ogni vostro atto pungessi e che ogni vostra parola attossicasse, né che voi portaste la morte nascosta negli occhi; onde senza accorgersene ponto trovò che le spine velocissime erano discese al petto e il veleno nel core, e che non era piú vivo: cosí vi parlò con gli occhi chiedendo pietá, e voi accorgendovi di ciò con un picciol riso gradiste la sua affezione. Vi seguí fin a casa, e nel dispartirsi, nel vostro bel viso restò lo spirito e l'anima sua impressa, e se ne portò la vostra imagine scolpita nel core. Cosí seguendo ad amarvi, come voi v'accorgeste che dagli occhi vostri come da due stelle era girata la vita sua e dalla vostra anima dependeva la sua, non prendendo solazzo delle sue pene e afflizioni, come sogliono alcune vilissime feminelle, ma come vera gentildonna—or rallegrandolo con speranze, or rammorbidendolo con le promesse, or fingendo non accorgervi delle sue pene, or dilatando le promesse,—l'avete trattenuto vivo sin adesso. Onde egli conoscendo che in voi come in proprio albergo albergavano bellezza, onestá, bontá e ogni lodevole costume, vi fe' libero dono dell'anima e della sua vita. …
MELITEA. Veramente che tutto è vero quanto hai detto.
PIRINO. … Dopo molti giorni, voi dandogli commoditá di parlarvi, vi baciò e baciandovi sentí tanta dolcezza che l'istessa bocca che vi baciò or non lo sapria ridire, e restariano molto a dietro le parole al vero. Gli parve che con quel bacio vi baciasse l'anima stessa; e steste tanto stretti insieme che parea che di duo corpi ne fusse fatto un solo; finalmente, vinto da tanta dolcezza, vi restò tramortito fra le braccia, e voi ne piangeste per dolcezza. …
MELITEA. Confesso tutto esser vero; né altri che egli proprio saprebbe ridirlo.
PIRINO. …Vo' dir piú innanzi… .
MELITEA. Non piú, basta. Ben vi giuro che se abbiam avuto libertá, non passò cosa fra noi che onestissima non sia stata; anzi non mi condussi con lui mai a solo a solo, se prima con giuramento non m'assicurava di poter star con lui come sorella.
PIRINO. … È vero; né si turbò egli giamai verso voi, se non quando lo richiedevate di simil giuramento, quasi volendolo notare d'infedeltá, avendo egli piú timore d'offendervi che del giuramento, e che non richiedendovi di propria volontá, voi stimavate che lo facesse per il giuramento.
MELITEA. Ahi, ahi!
PIRINO. Di che suspirate?
MELITEA. Della rimembranza de' passati piaceri. Ma ditemi, poiché tanto sapete, dove si ritrova egli ora?
PIRINO. In questa strada.
MELITEA. Come in questa strada, che se mi volgo intorno intorno, non veggio altri che te?
PIRINO. Ha ragionato ed è stato con voi, come state e ragionate meco; e v'è piú dappresso che non pensate.
MELITEA. In qual luogo m'ha ragionato?
PIRINO. Dove voi sète e io sono. Ma ditemi, s'egli vi volesse rubare a Mangone, fuggireste con lui da sua casa?
MELITEA. Da questa vita ancora.
PIRINO. Andareste a casa sua con lui?
MELITEA. Per acqua, per fuoco e per dove non è via, con lui; ché egli solo è la patria, la casa, lo sposo e mio signore.
PIRINO. Or ora?
MELITEA. Or ora.
PIRINO. Senza temer alcuno accidente?
MELITEA. Né la morte istessa—che si può dir piú della morte?—e se ben la morte per altra cagione mi parrebbe amara, per ciò mi sarebbe piú cara della vita.
PIRINO. Se ve lo facessi vedere, che pagareste?
MELITEA. Vi giuro—non da povera schiava ridotta in sí misero stato dove mi trovo, ma da quella gentildonna che fui,—che riporrei questo beneficio nel fondo del mio core, per pagarlo poi quando potessi con quanto vaglio; ché avendo a morir tra poco, morrei contenta.
PIRINO. E se lo vedeste, che fareste?
MELITEA. Che farei, dici? Me gli attaccherei con le mie braccia al collo con nodi e groppi cosí tenaci, che non timor di Mangone o suspetto di vita o di qual si voglia strano accidente me lo farebbono lasciar mai; accioché, bisognando morire, morissi nelle sue braccia, e gli consegnerei il suo deposito.
PIRINO. Farò che or ora voi lo vedrete.
MELITEA. O Dio, che intendo! Ma tu hai fatto un motivo con la bocca, che cosí soleva far egli; e hai parlato con tanta dolcezza e affettuose parole, che par che hai di quel genio che a lui solo fu donato dal Cielo per tiranneggiare e tirare a sé con dolce amorevolezza tutte le persone.
FILACE. Su su, finiamola, ché Mangone viene: ché tanti ragionamenti?
PIRINO. Se mi promettete non alterarvi di modo che possiate dar sospetto al guardiano, ve lo mostrerò sano e vivo.
MELITEA. Non so se potrò far tanta forza a me stessa.
FILACE. Parmi che colui che passa colá, sia Pirino. Entrate, entrate; presto, presto, ché non vi vegga. Ma non è desso, restate.
PIRINO. Bisogna farla, ché scoprendovi sareste rovinata voi e il vostro Pirino.
MELITEA. Cosí prometto.
PIRINO. Io sono il vostro Pirino!
MELITEA. O somma di tutte le mie speranze, io son tutta divenuta di foco, il sangue mi bolle per tutte le vene, e mi riconosco incapace di tanta gioia. O Dio, dammi tanta fortezza che possa nasconder cosí smisurato contento!
PIRINO. Ecco ch'è pur vero che m'ho fatto vender per ischiavo per far libera voi.
MELITEA. Ma che son io che merito esser riscattata con sí gran prezzo? Ma questo non per mio merito, ma per vostra gentilezza, ché avete riguardo alla vostra propria natura non al mio poco valore. Ma come io potrò riservirvi tanta cortesia, essendo ella infinita e io cosa finita?
PIRINO. Io non posso dirvi qui la trappola che abbiamo consertata, ché darei sospetto di voi al guardiano. In camera vi dirò il tutto.
FILACE. Melitea, tu entra dentro.
MELITEA. Or ora.
FILACE. Ca…, canchero, che m'avesti a far dire una mala parola! Voi donne non vi contentate del giusto mai, sempre inchinate al troppo: se vi si concede un dito, ve ne togliete un palmo. Poco anzi, con gli occhi bassi come se volesse nasconder il volto sotto le ciglia; ma ora lo schiavo l'ha fatta alzar la testa e star di buona voglia.
SCENA IV.
MANGONE, PANFAGO.
MANGONE. Potrete far ben libero conto, d'oggi innanzi, che la casa sia piú vostra che mia o almanco commune.
PANFAGO. Veramente farò cosí, poiché voi altresí mi avete liberamente promesso servirvi della nostra in Raguggia; faremo ragione insieme: noi vi condurremo delli schiavi e voi li venderete, e saranno fra noi le perdite e i guadagni communi.
MANGONE. Mi contento d'ogni vostro contento.
PANFAGO. Ma vo' che non mi neghiate una grazia.
MANGONE. Eccomi all'obbedire.
PANFAGO. Avemo alcune cosette in nave, come frutti della nostra patria, cioè alcuni barilotti di malvagie, bottarghe, provature, formaggi, confetti e simili frascherie; ve ne farò parte: vorrei che le riceveste con quello amore che ve le porgiamo, non avendo riguardo al lor poco valore.
MANGONE. Come non le riceverò con buon animo? ne terrò continua memoria della vostra amorevolezza; vo' darvi alcuni miei schiavi che vi aiutino a portarle.
PANFAGO. Non accade incomodarvi per ciò: in nave non mancheranno bratti che or ora le porteranno qui.
MANGONE. Andate in buona ora; e se non avete quella amorevolezza, in casa mia, che meritate, perdonatemi.
PANFAGO. Se bene è stata ogni cosa eccellentissima, il miglior è stata la buona volontá. A dio.
MANGONE. Non è poco l'aver trovato in costui tanta cortesia; perché tutti gli uomini del di d'oggi son piú tosto di levante che di ponente, overo zappe che tirano a sé che badili che buttino ad altri. Mi ha venduto un schiavo per cinquanta scudi, che val piú di cento, come a punto mi è stato chiesto da Filigenio. Mi ho guadagnato ducento scudi senza rischio e senza tormi dinari da mano in un batter d'occhio. Poi, mi torna molto a proposito l'amicizia di costui—egli va rubbando per le costiere di Schiavonia, e rubbane liberi e cristiani e li vende per schiavi:—senza spendere farò gran guadagno, oltre che mi manderá un buon presente, ché i forastieri sono osservatori della parola. Oggi è una giornata molto felice per me. Ma ecco Filigenio; certo vien per lo schiavo. Non me lo caverá di casa se non me lo paga benissimo: conosco che ne ha voglia.
SCENA V.
FILIGENIO, MANGONE.
FILIGENIO. Mangone, son venuto a trovarti secondo l'appuntamento doppo tre ore; e se non m'hai servito, vengo almeno, ché ti ricordi di me.
MANGONE. Sète venuto a tempo: v'ho comprato un schiavo piú meglio assai di quello che m'avete chiesto o che sapete desiderare. È giovane di diciassette o diciotto anni, bello di corpo e piú bello d'animo: ha un bel procedere, di belli ragionamenti, di apparenza assai nobile e allegrissimo, balla e canta graziosamente, e m'ho preso gran spasso con lui.
FILIGENIO. Poiché tanto lodi la tua mercanzia, è segno che vuoi stravendere. Mi bastava solo che fusse stato giovane e di belle fattezze.
MANGONE. Vi dolete dunque che ve l'abbi compro miglior di quello che me l'abbiate chiesto?
FILIGENIO. Io non mi doglio di quel meglio, ma che tu con questo meglio mi vogli impiccar per la gola e vendermelo soverchio.
MANGONE. Non l'ho detto per tale effetto, ma perché mi ricordo e so servir gli amici a' quali porto affezione.
FILIGENIO. Te ne ringrazio: fallo calar qui giú, ché lo veggia.
MANGONE. Filace, fa' calar quello schiavo. Vedrete che non v'ho detto bugia: avanzará con la presenza quello che vi ho depinto con le parole. Ma avertite che non vi lascerò un quattrino di trecento scudi, perché val cinquecento, e vo' che voi ne siate giudice.
FILIGENIO. Io non ne ho a comprar la bellezza di lui, il bel ragionare, il cantare e il ballare; ma vo' che sia ben creato, gagliardo e che sappia servire.
MANGONE. Eccolo, vedetelo bene, consideratelo; non vi ho chiesto soverchio.
FILIGENIO. Non è di cattiva apparenza.
SCENA VI.
MELITEA travestita, MANGONE, FILIGENIO.
MELITEA. Caro signore, che mi comandate?
MANGONE. L'aspetto solo non vale un tesoro? vedeste mai schiavo piú bello, di miglior garbo e di piú nobile apparenza? Non si vede in costui quel naso schiacciato, quelle labra grosse rivolte in fuori; sempre col riso su le labra, e per lo volto e per gli occhi fiorisce la sua allegrezza; anzi, quanto piú lo miri piú ti piace mirarlo: or se fusse bianco, che si potrebbe mirar cosa piú bella? e ti giuro che mi par ora piú bello che quando lo comprai poco anzi.
FILIGENIO. Hai ragione, è vero quanto dici.
MANGONE. Avea fatto disegno, Amor mio, servirmi di te; ma poiché questo grand'uomo ti vuol comprare e so che ti fará carezze, ho stimato che sia meglio per te venderti a lui. Dimmi, lo servirai tu volentieri?
MELITEA. Perché mi diceste prima che aveva a servir voi, mi era disposto servirvi con tutto l'animo. Ma poiché vi par meglio vendermi a questo gentiluomo, a me par ancor meglio, poiché quello che piace a voi, piace ancor a me. Le volontá de' padroni son legge de' servi: mi contento cosí ubbidirvi in ciò, come era disposto servirvi in ogni altra cosa.
MANGONE. Non lo servirai molto tempo, perché ti fará libero presto.
MELITEA. L'aspetto suo venerando mi mostra che i suoi costumi sieno pieni di dignitá e di cortesia; poi, vedendo quanto i miei servigi saranno amorevoli e pieni di affezione, non dubito di non esser ben trattato da lui e della mia libertá.
MANGONE. Mirate che risposte argute. Di grazia, dimandateli alcuna cosa.
FILIGENIO. Quale è il vostro nome?
MELITEA. Amore: ché se ben la natura mi fe' nascer libero, amor mi fa viver schiavo, godendo di questa servitú cara e dolce piú d'ogni libertá: avendo il corpo schiavo, arò sempre l'animo libero. Servirò voi e il vostro figlio con grande amore; e se voi mi compraste con prezzo d'oro, a lui m'ho reso schiavo con prezzo di amore: e certo che riconosciuto che sará il mio amore, sarò degno di libertá.
MANGONE. Il nome val ogni dinaro: sará certo nato nobile nel suo paese, perché ancora nelle miserie spira la sua nobiltá.
FILIGENIO. Di che paese sei?
MELITEA. Di Pirinaica.
FILIGENIO. Di che cittá?
MELITEA. Amorina.
FILIGENIO. Dove sono questi paesi?
MELITEA. Nella Morea.
FILIGENIO. Come stai?
MELITEA. Come posso, poiché non posso star come vorrei.
FILIGENIO. Come sopporti la servitú?
MELITEA. Con animo assai libero e franco, per sentir manco travaglio; perché colui che serve con animo servile, patisce due servitú, e del corpo e dell'animo.
FILIGENIO. Mi pensava aver comprato un schiavo e ho comprato un filosofo.
MANGONE. Il ragionar di costui non vale un regno?
FILIGENIO. Quanto piú lo miro e ascolto ragionare, piú mi piace. Su, quanto ne domandi?
MANGONE. Quanto volete voi darmi?
FILIGENIO. A te sta il dimandar, a me il rispondere.
MANGONE. Trecento scudi.
FILIGENIO. È troppo.
MANGONE. Ducento.
FILIGENIO. È molto.
MANGONE. Centocinquanta.
FILIGENIO. È caro.
MANGONE. Di questo che vi dico ora, non ne torrò un quattrino—ché farei torto a me stesso in dimandarne meno, e voi a darmegli:—cento scudi.
FILIGENIO. Ed io non vo' far torto a te che ne dimandi il giusto, né a me che lo conosco, né al merito del schiavo. Eccoti cinquanta scudi: con l'arra che avesti prima, giongono al prezzo che m'hai chiesto.
MANGONE. O che allegro cuore! or vadasi ad appiccare chi dice che si trova cosa che allegri il cuore piú dell'oro.
FILIGENIO. Amor, andiamo a casa.
MELITEA. Vi seguo con gran desiderio, né veggio l'ora di giungere.
FILIGENIO. Mangone, a dio.
MANGONE. In buon'ora.
SCENA VII.
PANFAGO, MANGONE, FILACE.
PANFAGO. Padron mio caro, vi rechiamo alcune coselline; se ben poche, l'animo è grande e l'affezione.
MANGONE. Queste son di soverchio assai; m'avete qui condotto meza Raguggia: mi bastavano due salcicciotti, un prosciutto per segno di amorevolezza. Filace, conduci cotesti giovani dentro, discaricagli e dágli alcuna ricreazione: ponigli assai robbe e vino innanzi e lasciagli mangiare a lor piacere.
PANFAGO. Tutto è soverchio, amico caro: basta che bevano una volta per uno. Speditevi tosto.
MANGONE. Mentre costoro si ricreano, noi fra tanto ragionaremo delle cose del mondo.
PANFAGO. A vostro piacere.
MANGONE. Ditemi, di grazia, il nome del padron vostro.
PANFAGO. Il suo nome è Rastello Fallatutti di Monteladrone.
MANGONE. Il vostro nome, accioché possa servirvi.
PANFAGO. Rampicone di Maltivegna.
MANGONE. Per quanto tempo il vostro misser Rastello Fallatutti si fermará in Napoli?
PANFAGO. Mentre dará spaccio alla sua mercanzia. Verrá a voi al tardi o al piú domani, tratterá su questo negozio e, liberato dal peso, tornará quanto prima a Raguggia.
MANGONE. Da dove vengono questi schiavi in Raguggia?
PANFAGO. Da Segna in Raguggia, e d'indi li portano in diversi paesi.
MANGONE. Quanti ne ha portati per vendergli?
PANFAGO. Da quaranta in cinquanta, e giá li voleva portare in Ispagna; ma per aver incontrato per il camino certe fuste le quali facevano l'amore con la nostra nave, l'è paruto piú sicuro fermarsi qui in Napoli, se forse li potesse qui smaltire.
MANGONE. Filace, vien qui fuori.
FILACE. Eccomi.
MANGONE. Hai dato da far collazione a quei giovani?
FILACE. Sí, signore; e omai se l'han divorata e menano le mani assai valorosamente.
PANFAGO. Son usati a menarle su le funi a' servigi della nave.
FILACE. Eccoli che vengono fuori.
PANFAGO. Avviatevi innanzi alla nave, sgombrate tosto: che fate? non vo' che vegnate meco, ch'io verrò appresso.
MANGONE. Vi prego a ricordarvi che vi son servo, e raccommandatemi a misser Rastello Fallatutti di Monteladrone.
PANFAGO. Egli vi si raccommanda di tutto cuore. A dio, MANGONE.
MANGONE. A dio, Rampicone di Maltivegna.
PANFAGO. A te è giá venuto il male, e ti ricorderai spesso del mio nome! Andrò a spogliarmi, e a casa di Alessandro a diluviare.
ATTO IV.
SCENA I.
PANFAGO, ALESSANDRO.
PANFAGO. Ho fatto una gran sciocchezza a farmi scappar Pirino dalle mani; ché per poterlo poi trovare non ho lasciato strada né casa d'amico che non abbi cerco, per gir a desinar con lui come restammo d'accordo: perché ho complito quello che ho promesso a lui, giusto è ch'egli complisca quello che ha promesso a me. Sí che per la soverchia fatica ho una sete ch'arrabio: penso che sia in casa di Alessandro e che apparecchi il banchetto, e tutti mi stieno aspettando. Ecco la casa. O che aura odorata che ne spira, annunciatrice di un eccellente apparecchio! Se non giungo a tempo della battaglia, almeno raccorrò le spoglie de' nemici: tic, toc.
ALESSANDRO. Chi è lá?
PANFAGO. Amici!
ALESSANDRO. Come ponno essere amici chi ne spezzano le porte?
PANFAGO. Aprite tosto!
ALESSANDRO. Chi sei?
PANFAGO. Il soverchio bere ti ará tolto il vedere.
ALESSANDRO. Chi dimandi tu?
PANFAGO. Pirino, dico.
ALESSANDRO. Non è in casa, è uscito poco fa.
PANFAGO. Ha egli forse alzato il fianco?
ALESSANDRO. Sí bene.
PANFAGO. Non ha lasciato alcun bocconcello, alcun miserabil rilevo per me?
ALESSANDRO. Nulla.
PANFAGO. O mal d'affogaggine! Oimè, che la fame m'asciuga lo stomaco e la sete mi disecca le vene; ma possa io morir di mala morte, se non me ne farò vendetta e bona! Traditori assassini, che dispetto vi feci mai, che meritasse tanto scherno? farmi star tutto il giorno su le speranze, digiuno? Mi avete promesso per non attendere e m'avete onorato per beffarmi; ma farò che la beffe torni sopra voi, il cibo che avete divorato senza me farò che mal pro vi facci: ché non mi terranno tutte le catene del mondo, che non vada ora al dottore e non gli riveli tutte le furbarie che gli avete fatte. Avete rotto la fede a me, la romperò io a voi: li riempirò l'animo di gelosia, l'aspreggiarò tanto che da questa beffe ne germoglino danni, rumori e morti e quanto piú se può peggio. Un par mio digiuno a quest'ora, eh?
SCENA II.
DOTTORE, PANFAGO.
DOTTORE. Panfago, dove vai?
PANFAGO. Se non vi rovino tutti, …
DOTTORE. Che cosa hai?
PANFAGO. … cadano i cieli, se abissi la terra …
DOTTORE. Di chi ti rammarichi?
PANFAGO. … e si sconquassi il mondo!
DOTTORE. Panfago, tu smanii; certo tu devi arrabbiar della fame.
PANFAGO. Oh sète qui, dottore! la rabbia m'avea offuscata la vista d'un torto che vi è stato fatto: e se l'avessi potuto vendicar io senza la vostra saputa, l'arrei fatto assai volentieri; ma non potendo, vengo sforzato a dirvelo: è cosa che proprio non la posso digerire.
DOTTORE. Io dubito che tu abbi digesto d'avanzo, e che essendoti stato promesso da desinare e venutoti meno, tu ti muoia della fame.
PANFAGO. Ma vorrei che stimassi che le parole mie nascano da vero amore e da zelo del vostro onore, non da qualche mio interesse.
DOTTORE. Che cosa dunque?
PANFAGO. Sapete che Melitea vi è stata tolta e or sta in poter di Pirino?
DOTTORE. Non può essere.
PANFAGO. Quante cose paiono che non ponno esser, e pur sono? Ma accioché non pensiate che io parli in aria, m'offerisco a farvi veder ogni cosa con gli occhi propri.
DOTTORE. Mangone si guarda da Pirino e da Forca, come il diavolo dalla croce; e Melitea sta inferma e carcerata, e son tre giorni che non ha cibo.
PANFAGO. Pirino s'è tinto da schiavo e s'ha fatto vendere a Mangone da un gran furfante, come io, vestito da raguseo; e intrato in casa sua, ha vestito Melitea de' suoi panni e fattala comprar dal padre: e la burla è stata accetta e ricevuta, …
DOTTORE. Per farmi credere una bugia, ce ne aggiungi un'altra peggiore. Come voleva entrare e uscir dalla casa di Mangone, se vi sta un perpetuo guardiano?
PANFAGO. … ed il Forca è stato presente a tutto …
DOTTORE. O che testimonio m'adduci!
PANFAGO. … ed io a tutto son testimonio d'occhi. Né si ha vergognato di far una simile beffa ad un par vostro, ricco, dotto e di qualitá tanto stimate nella terra nostra. Chi è Pirino altro che un pidocchioso? chi è Forca se non un che meritarebbe essere stato afforcato prima che nascesse? …
DOTTORE. Orsú, basta, basta.
PANFAGO. … Or stanno abbracciati cosí stretti che l'aria non vi può star in mezo …
Dottore: Taci, non piú: ché me l'hai espressi cosí vivi che essermi gli contemplo presenti, e non veggendogli par di vedergli.
PANFAGO. … L'han fatto piú per svillaneggiarvi che per altro: or si ridono di voi, dicendo che abbracciar voi è abbracciar un morto, e che li movete vomito con la vista, sète pelle senza nervo, una vescica sgonfiata, che puzzate di cimitero e che piatite con la sepoltura, e che la notte la terreste sempre svegliata con l'orologio delle correggie, se dormisse con voi. …
DOTTORE. Ogni tua parola m'è un serpe velenoso che mi morde, una tigre che mi straccia.
PANFAGO. …Né gli bastava avervi beffeggiato, se alle beffe non s'aggiongevano l'ingiurie.
DOTTORE. Io mi sento l'anima in uno istesso tempo assalita da contrari affetti, combattuta da una turba de nemici, da sdegno, da malinconia, da vergogna e da gelosia. La malinconia mi rode, la vergogna mi confonde, l'ira m'arde nel core, la gelosia mi boglie nell'anima. Ho melancolia che ho perduta l'innamorata, ho gelosia che altri la goda, ho sdegno che non m'ami, ho vergogna d'esser beffato; e se son vecchio ho il cervello giovane, e se ho la debolezza del corpo ho la prontezza dello spirito.
PANFAGO. Se volete vendicarvi, bisogna prestezza e piú fare che dire, anzi il dire e il fare sia in un medesimo tempo: io vi aiuterò col consiglio e con l'esser a parte d'ogni fatica.
DOTTORE. Assaltiamgli all'improvviso; ché essendo Pirino temerario ed audace ne' piaceri, sará timido nelle avversitá, ché sempre sogliono essere temeritá e paura in un medesimo soggetto. Andiamo a Mangone prima, veggiamo se Melitea sia in casa e poi rimediaremo al tutto.
PANFAGO. Andiamo.
DOTTORE. E se troverò che sia vero quanto hai detto, prenderò tal vendetta di loro che li farò pentir mille volte d'avermi ingiuriato.
PANFAGO. Or do a desinare alla mia rabbia e da bere alla mia sete: la vendetta compenserá la noia dell'una e dell'altra.
DOTTORE. Ecco la casa, io batto.
PANFAGO. Io mi starò cosí chiuso nella cappa che costui non mi riconosca.
SCENA III.
MANGONE, DOTTORE, FILACE, PANFAGO.
MANGONE. Padron caro, che furia è questa? Melitea sta a vostra posta; e se la volete cosí inferma come ella è, ve la darò or ora.
DOTTORE. Dove è ella?
MANGONE. Chiavata in camera strettamente.
DOTTORE. Dici il vero; ma non in camera tua e da altri.
MANGONE. Dubitate forse che Pirino e Forca non me l'abbino tolta?
DOTTORE. Non lo dubito, ma lo tengo per certo: perché intendo che da Pirino e da Forca ti sia stata sbalzata di casa.
MANGONE. Saranno eglino prima sbalzati da una forca.
DOTTORE. Di grazia, toglimi da tale ambascia, ché mi bolle nel cor un strano desiderio di vederla.
MANGONE. Volentieri. O Filace, o Filace!
FILACE. Che volete?
MANGONE. Che cali giú Melitea, ché la vuole veder il dottore.
FILACE. Vado.
MANGONE. Filace è un gran custode, molto astuto e sospettoso, e teme insin delle mosche. Poi, gabbar me? son un tristo e son ruffiano—bastavi questo,—e son il maggior ruffiano di tutto il ruffianesmo.
FILACE. Mangone, la camera è aperta e dentro non v'è alcuno.
MANGONE. Oimè, che m'hai ucciso!
FILACE. Come ucciso?
MANGONE. Parli pietre, me n'hai dato una in testa che m'ave ucciso. E per dove potria esser scampata?
FILACE. Io non mi son mosso oggi di casa né fuor dell'uscio; e se non ha poste l'ali e scampata per le fenestre, non ha potuto scampar altronde.
DOTTORE. Che dici ora? non parli?
MANGONE. No, né può uscir fiato dalla gola: Forca m'ha strangolato.
DOTTORE. Che ti dissi io?
MANGONE. E mi fa peggio ch'egli m'abbi ingannato, ch'ogni altro forastiero. O Forca, ti veggia alzato in mezzo due forche che arrivino insin al cielo! o che Dio ti dia la mala ventura!
DOTTORE. Tu l'hai avuta giá. Ma perché non cominci il lamento sopra i cinquecento ducati? Il lamento fallo sopra di te: che tu l'hai perduti, che colpa n'ho io?
MANGONE. Son piú misero di quanti uomini sono stati o saranno o sono. O tristo me!
DOTTORE. Anzi, me!
MANGONE. Son rovinato.
DOTTORE. Son rovinato ben io.
MANGONE. Ho perduto cinquecento ducati.
DOTTORE. Ho perduto l'innamorata.
MANGONE. Son punito delle beffe che m'ho fatto di lui.
DOTTORE. Come t'hai lasciato ingannare?
MANGONE. Non son stato ingannato altrimente da lui, ma ben da un raguseo il qual m'ha portato un schiavo a vendere, che, or che vi penso bene, avea tutte le fattezze di Pirino. Quel raguseo è stato la cagione della mia ruina.
DOTTORE. Come ti colse quel raguseo?
MANGONE. Con un presente di molto prezzo; e non m'accorsi che sotto la maschera di quel presente stava nascosta la trappola.
PANFAGO. Ditegli che vi mostri quel presente.
DOTTORE. Di grazia, fammi veder quel presente per isgannarmi.
PANFAGO. Filace, conduci qui quel presente che mi portò il raguseo.
DOTTORE. Sai tu come si chiamava quel raguseo?
MANGONE. Sí bene, Rastello Fallatutti di Monteladrone.
DOTTORE. Se ti disse che si chiamava Rastello, ché ti rastellava, e Fallatutti, ché fallava e ingannava tutti, come non ti guardavi che non fallasse ancor te?
MANGONE. E il suo fattore si chiamava Rampicone di Maltivegna.
DOTTORE. Venghi il malanno a te e a lui; ma il mal t'è venuto.
MANGONE. E gli feci una buonissima collazione.
DOTTORE. Questo è il peggio, che facesti una collazione a chi te ingannava.
MANGONE. Prego Iddio che gli facci mal pro.
PANFAGO. A te porta il presente, Filace.
MANGONE. Ponnosi veder le piú belle provature, formaggi, bottarghe e barilotti di malvagía?
PANFAGO. Diteli che le provi un poco.
DOTTORE. Di grazia, provatene alcune.
MANGONE. Odorerò il vino. O gaglioffo traditore! il barilotto è pieno di piscio, le bottarghe sono di mattoni, il formaggio di pietra e le provature vessiche piene di sporchezza! O Dio, non gli bastava l'ingiuria, se non giongeva ingiurie ad ingiurie!
DOTTORE. Con tutt'i mei guai pur mi vengon le risa. Fa' cercar meglio per la casa se forse Melitea si fusse nascosta.
MANGONE. Camina su, bestiaccia; non lasciar luogo da cercare. Ma che dispiacer feci mai a quel raguseo, ché mi avessi a trattar cosí male?
DOTTORE. Deve essere amico di Pirino e di Forca, e per far piacere a loro è stato ministro del tuo danno.
MANGONE. Or che mi ricordo, avea una ciera di furfantaccio, d'un malandrino, d'un ladrone, e rassomigliava tutto a costui.
PANFAGO. Menti per la gola, ch'io non ho ciera di malandrino.
MANGONE. Possa morir di mala morte, se tutto non rassomigliava a te!
PANFAGO. Mio padre fu raguseo, e in Raguggia ho un fratello che tutto rassomiglia a me. Io non ce ho colpa né in fatti né in parole.
MANGONE. O Dio, che mi giova di essere uomo da bene, se la disgrazia mi persegue e altri invidiano il mio guadagno? Se vi dovesse spendere tutta la mia robba, io il porrò in mano del boia.
SCENA IV.
FILACE, DOTTORE, MANGONE, PANFAGO, MUTO.
FILACE. Padrone, ho ritrovato costui nascosto con le vesti di Melitea.
MANGONE. Ecco qui il ladro, ecco qui l'assassino, che ancor tiene adosso le vesti di Melitea.
DOTTORE. Mangone, da costui si potrá sapere il fondamento del fatto.
MANGONE. Vien qui, traditore; onde hai tolte le vesti, ove è colei a cui le togliesti?
DOTTORE. Mira come sta saldo, come se non dicesse a lui! non si degna respondere. Dimmi, dove è quella donna padrona delle vesti che tieni adosso?
MANGONE. Il manigoldo finge non intender; che parliamo noi arabo o greco? Dimmi, come sei qui?
DOTTORE. Finge il sordo: noi parliamo ed ei mira altrove.
MANGONE. Mira che ride. Fa del fastoso e alieno; or si fa beffe di noi e cava fuori la lingua.
DOTTORE. Balla, salta e fa atto da pazzo.
MANGONE. Filace, tienlo che non ti scappi, ché ne scapperebbe la speranza di non averne a sapere mai piú il fatto come è passato.
DOTTORE. Finge il muto e il sordo.
MANGONE. Dubito che da dovero non sia sordo e muto.
DOTTORE. Parlagli con i cenni e con le mani, se forse t'intende.
MANGONE. Appunto. Bisogna parlargli con le mani da dovero.
DOTTORE. Zappiamo nell'acqua.
MANGONE. Non v'accorgete della industria di Forca? S'ha servito per stromento di questa trappola d'un sordo, muto e pazzo, accioché, essendo qui ritrovato e dimandato dalla giustizia, ei non possa dar indicio di alcuna cosa.
DOTTORE. Chi ha fatto la pentola, ha saputo ancor far la manica. Non v'accorgete che è matto e pazzo?
MANGONE. Filace, recami qui un bastone, ché quel solo ha virtú di far intendere a sordi e parlare a muti.
DOTTORE. Mentre egli viene, io vo' far prova se nelle pugna e ne' calci fusse la medesima virtú. Vòlgeti qua, se non mi racconti il fatto come sia gito, arai per ora un saggio di pugna. Non vuoi rispondere? toccherai delle busse.
MANGONE. Giá ti è stato detto due volte; alla terza viene il buono. Dimmi, in tua malora, chi t'ha posto in dosso queste vesti? Ragiona, se vuoi. Io … oimè, oimè, mi uccide; aiutami, aiutami, dottore!
DOTTORE. Oimè, che mi stringe; aiutami, Panfago!
PANFAGO. Oimè, dottor, aiutami, che m'ha posto le mani alla gola e mi stringe cosí forte che mi strangola, che non potrò inghiottir mai piú intieri i ravioli!
DOTTORE. Di nuovo è tornato a me. Panfago, dove fuggi?
PANFAGO. Per trovar armi e amici.
DOTTORE. Férmati, pazzo indemoniato, dove mi strascini?
MANGONE. Tieni, para, Panfago, ché non ne scappi.
PANFAGO. Non vo' impacciarmi con pazzi, io.
MANGONE. Tieni, tieni!
PANFAGO. Lasciatelo andar in malora, che si rompa il collo!
FILACE. Ecco il bastone.
MANGONE. Vieni con l'armi dopo la rotta! Io vo' andare a trovare il raguseo, chiarirmi del tutto e ricuperar il mio; tu resta guardiano della casa.
DOTTORE. La dovevi far guardar prima: ti porrai la celata dopo rotta la testa!
FILACE. Cosí farò.
SCENA V.
DOTTORE, PANFAGO, FORCA, PIRINO.
DOTTORE. Panfago, non star piú nascosto: il pazzo è gito via.
PANFAGO. O a che periglio mi son oggi trovato d'esser strangolato e non poter piú mangiare! Or non poteva attaccarmisi piú tosto con i denti al naso, strapparmi l'orecchie o ficcarmi i diti negli occhi? Parve che il diavolo proprio gli drizzasse le mani alla gola per farmi dar in preda della disperazione, e che mi appicassi con le mie mani o fusse precipizio di me stesso.
DOTTORE. Una tempesta di pensieri non mi lascia riposare: ardo d'un doppio fuoco d'amore e d'ira: l'uno mi spinge a tor vendetta di costoro, l'altro m'incende d'amore; vorrei sfogar l'ira, ma l'amor mi tien ligato; l'ira m'inferma e il desiderio m'accende; e sí grande è l'una e l'altro, che la bilancia sta dubbia dove debba calare. Panfago, se non mi aiuti non posso riposare.
PANFAGO. Se prima non fo un poco di collazione e mi beva duo bicchieretti di vino, non arai ben di me tutt'oggi.
DOTTORE. Se mi darai modo che ricuperi Melitea e mi vendichi di costoro, ti darò tal mancia che non arai piú a morirti di fame mentre sarai vivo.
PANFAGO. Mi dá l'animo che la trappola che han tesa contro te scoccherá contro loro: gli faremo un tratto doppio, che avendola comperata per cinquecento ducati, l'abbi per cento, anzi per nulla.
DOTTORE. Tu mi curerai di due malatie, di amor, di gelosia: e dell'una risanandome, dell'altra riempiendomi di speranza. Fa' questo, ch'io non ti mancherò di quanto ti ho promesso.
PANFAGO. Ascolta quanto dico.
FORCA. (Giá espugnata la fortezza e soggiogati i nemici, potrai entrar in una casa e goder delle spoglie de tuoi nemici).
PIRINO. (Taci, che gli inimici ancor sono in campagna. Veggio Panfago e il dottore a stretti ragionamenti).
FORCA. (Chi sa se gli scuopre i nostri secreti?).
PIRINO. (La fortuna comincia i suoi cattivi effetti: siam rovinati).
FORCA. (Lo so: vorrei che dicesse cosa che non sapessi. Scostiamoci e ascoltiamo che dicono).
PANFAGO. Poiché costoro han tinto di carbone la faccia a Melitea e l'han fatta comprar da quel buon vecchio—e or è in casa sua,—andiamo a Filigenio, scopriamogli la veritá; essageraremo il negozio, che arderá di sdegno contro il figlio, porrá Forca in una galea, cacciará Melitea di casa sua per i capegli a bastonate.
PIRINO. (Intendi?).
FORCA. (Intendo, sto attento; taci).
DOTTORE. Egli nol crederá.
PANFAGO. Anzi lo crederá prima che s'apra la bocca, che i vecchi son di natura sospetti, e giá del fatto v'è in sospetto; e quando fusse restio a crederlo, della veritá ne potremo far veder subito l'isperienza: ché lavatole la faccia restará bianca e, se vuol toccar con mano se sia femina o maschio, le scalzi le brache e lo vederá.
PIRINO. (O Dio, che odo, che veggio! o che fusse nato sordo e cieco! ecco disperate le mie speranze).
FORCA. (Ecco rovinata l'occasione di condur ad effetto cosí bell'opera).
DOTTORE. Io non vo' che la cacci altrimente; ma diamela di buona voglia, ch'io gli rimborserò i suoi cento scudi.
PANFAGO. Se volete far questo, vo' che allegramente …
Pirino (O diavolo …)
PANFAGO. … vi porti a casa sua …
PIRINO. (… porti te, e quanti sono de' tuoi pari).
PANFAGO. … e te la consegni per la mano. Cosí gli faremo conoscere che, se la volpe è maliziosa, piú malizioso è chi la prende: ché uno pensa la volpe e altro chi ordina la tagliola.
DOTTORE. M'hai tirato nel tuo parere e m'hai posto in nuova speranza di riaverla. Orsú, andiamo a casa di Filigenio.
PANFAGO. Io l'ho visto or ora a' Banchi: andiam per costá, ché l'incontraremo per fermo. E sará bene che né Pirino né Forca ci veggia insieme; ma, mentre che stanno addormentati in tanta allegrezza né curan piú d'altro, non s'accorgano che vogliamo rovinargli e possano preveder l'apparecchio.
PIRINO. O fortuna, sei piena d'aggiramenti! sperava da te mia madregna qualche effetto di madre, ma m'accorgo ch'ancor sono ammogliato con la disgrazia, perché non fo un disegno, che la fortuna non ne faccia un altro in contrario.
FORCA. Ma io, sciocco ignorante, come non avessi mai fatto altra truffa, ho avuto fede ad uno che ha mancato sempre di fede.
PIRINO. O Forca, Dio tel perdoni! io te ne avisai prima, che costui ci avrebbe tradito, ché era uomo che parlava con tutti e d'ogni cosa che li vien in bocca; non essendosi saputo da lui, non si sarebbe saputo altronde.
FORCA. Voi foste piú presto a esseguire ch'io a dirlo, e non mi deste tempo a mutar proposito.
PIRINO. E quel che piú mi molesta è che l'impresa cominciata e proseguita con tanta gloria, or ci partorisca contrario effetto; e ci assassinano con l'astuzie imparate da noi.
FORCA. Ho fatto quanto ho saputo e potuto, e v'è successo ogni cosa contra la vostra opinione: questo è vizio della imperfetta nostra umana natura, ché discorgendo un ingegno, per savio che sia, sempre suol restare ingannato.
PIRINO. Ma cosa si ha piú astuta della disgrazia? Oimè, oimè!
FORCA. Rincora te stesso e sta' in buon animo.
PIRINO. Come starò di buon animo, se ho perduto l'animo? e togliendomesi Melitea, mi si toglie l'anima mia; con la perdita di costei io perdo tutte le mie speranze: o dolore insopportabile, ecco finita ogni cosa!
FORCA. Io ti dico che non è finita ogni cosa: fa' buon cuore.
PIRINO. Io son tanto atterrito dalle fortune passate e dalla disperazione delle presenti, che non oso sperar nelle cose avvenire. La nostra rappresentazione ha mutato faccia: rappresentiamo una favola contraria a quella di prima! Mio padre, in sentir questo, cacciará subito Melitea di casa, e io non arò piú animo di comparirgli dinanzi.
FORCA. Ed a me bisogna far voto a san Mazzeo per la schena.
PIRINO. Son in un mar di travagli; né per tanti travagli l'amor scema, anzi piú cresce: o disgrazia senza rimedio!
FORCA. Dico che non è senza rimedio, né questo è tempo di consumarlo in lamenti.
PIRINO. Il piangere è fatto mio famigliare.
FORCA. Vo volgendo per l'animo molte cose. O bel tiro mi sovviene! facciamo cosí, ché racconciaremo l'errore e daremo miglior perfezione all'opra, anzi—o bel pensiero!—castigheremo l'ardir loro, e vostro padre ancora, per avergli dato credenza, e ci vendicheremo di Panfago, e io provederò alla mia schena: faremo tre servigi ad un tempo.
PIRINO. Deh, conservator della mia vita, ritornami vivo con qualche speranza!
FORCA. Andiamo a trovare il pazzo, che stará in casa di Alessandro, conduciamolo in casa tua, tingiamoli la faccia con carboni e vestimolo delle vesti che tien or adosso Melitea; e sbalziamo Melitea fuor di casa tua e conduciamola in quella di ALESSANDRO. Qua verrá il dottore a lamentarsi con Filigenio, gli consegnerá il pazzo, pensandosi consegnargli Melitea; e se li laveranno la faccia, troveranno altro che pensano: restará l'uno e l'altro schernito, anzi verranno insieme a cattive parole. Poi troveremo un capitano di birri e faremo tor Panfago, con dir che ha rubato le vesti del schiavo e del raguseo ad Alessandro; e andaremo in casa sua, dove si troveranno, perché ivi se l'ha spogliate; e noi serviremo per testimoni: ché se non sará appicato, almeno lo faremo andar in galea in vita e ci vendicheremo di lui. Poi informaremo Alessandro del tutto e lo mandaremo a Filigenio per lo schiavo: ei gridará e gli dirá ingiurie. Alessandro gli dirá che è figlio di un gran signore; e che non s'accordi, se non gli cava di mano almen trecento scudi. E li faremo costar tanto l'aver creduto al dottore; voi ve lo restituirete in vostra grazia, ed io schivarò un maligno influsso di bastonate che mi sarebbon piovute dal Cielo.
PIRINO. O Forca mio dolce, o Forca mio di zucchero, Forca che dái la vita a' morti e non la togli a' vivi, ho preso animo e giá con la speranza abbraccio Melitea; ma non perdiam tempo, ché potria venir mio padre.
FORCA. Andate in casa, lavate la faccia a Melitea, fatele spogliar le vesti, e scampate per la porta di dietro; ch'io fra tanto vi condurrò il pazzo.
PIRINO. Cosí farò: toc, toc.
SCENA VI.
MELITEA, PIRINO, FORCA, MUTO.
MELITEA. Che dimandate, padron mio caro?
PIRINO. Il tesoro della bellezza, la monarchia delle grazie, la dolcissima mia padrona, accioché mi rallegri cosí il cuor con la sua presenza, come gli occhi con la sua bellezza.
MELITEA. In questa casa per ora non ci abita persona di tanto momento; ma se cercate una schiava nera, venduta per vilissimo prezzo, vile, brutta e disgraziata, che non ha altro in sé di buono che amore e fede, l'avete dinanzi agli occhi.
PIRINO. Non cosí splende il sole, quando ha alquanto ricoperti i suoi raggi di nuvoli, come le due chiare stelle de' vostri begli occhi lampeggiano sotto la nera tinta, ché a pena posso soffrire i suoi ardentissimi lampi; né cosí i carboni rilucono sotto il cenere, come porporeggiano i vostri labrucci di rubini: anzi la tinta istessa par troppo festosa e superba nella vostra faccia, né scorgono gli occhi miei cosa piú bella di lei. Deh, lascia questo non tuo, ma suo falso colore! sparisci via, invidioso carbone, e non celar piú al mondo quella faccia di rose, quelle carni impastate di perle, quel raro paragon di bellezza, dinanzi al quale ogni cosa, per bella che sia, par brutta; e come fin ora son stato uditore della suavissima sua voce, cosí sia spettatore della sua leggiadria: e se la voce mi rallegra, quanto mi fará beato la sua bellezza?
MELITEA. Queste lodi non convengono alla schiava che ben conosce il suo proprio merito, ma alla generositá dell'animo del suo padrone.
PIRINO. Dove è vero amore, non ci sono lusinghe e inganni.
FORCA. Padrone, questo non è tempo da scherzi: abbiam bisogno di prestezza e che i fatti prevengano le parole, se non, siam rovinati.
MELITEA. Oimè, non sono ancor finiti i nostri affanni? infelici noi, quando saremo felici? abbiam scampato da ladri, dalla casa e dalle mani del ruffiano, e in casa vostra ancor temo? chi piú infelici di noi, se anco nelle felicitá siamo infelici?
PIRINO. Fate conto, signora, che la fortuna per questa volta ha fatto come il buon cuoco che, per tor la soverchia dolcezza delle vivande, ci mescola un poco di agresto; cosí per aver acquistata Melitea, per moderar tanta gioia, mi fa assaggiar questo poco di molestia: però, vita mia, entriamo e spogliatevi le vesti.
MELITEA. Non si potrebbe ciò far senza spogliar le vesti?
PIRINO. Perché, cor mio?
MELITEA. Perché avendole vestite voi prima e or vestendole io, par che da tutte le parti sia abbracciata da voi.
FORCA. Entrate, signora, e senza lasciar ponto di sollecitudine avanziamogli di prestezza. Eccovi la tinta di carboni, tingete la faccia del pazzo e vestitelo de' panni di costei; ma presto entriamo, ché veggio il dottore e Panfago e di lá spunta FILIGENIO. Fate presto e fuggite per la porta di dietro.
SCENA VII.
DOTTORE, PANFAGO, FILIGENIO.
DOTTORE. Sappiate, Filigenio caro, che non è sí brutto il fatto istesso, come il modo con che l'han fatto; perché si son serviti della vostra persona per intermedio della propria furfantaria, e farvi ruffiano di vostro figlio; e se nol credete, potrete or ora vederne l'esperienza, perché lavando la faccia a quello schiavo che avete in casa, diverrá bella, bianca e pulita, e se volete veder piú innanzi, la troverete femina in carne e ossa.
PANFAGO. E se ben, innamorato di quella puttana, la poteva aver con alcuni dinari, Pirino e Forca, per maggior vostra beffe e per ridersene fra loro alla sgangherata, se hanno voluto servir de' vostri dinari: eccoli scelerati contro voi, ingiuriosi contro me e profani contro Iddio.
FILIGENIO. So che tutto è vero quanto dite, e conosco che tanto eglino sono stati astuti quanto io sciocco. Ah Forca ribaldo, ah figlio iniquo, ah traditore Alessandro! cosí sono da tutti voi egualmente beffato! Quando io diverrò savio, se a capo di sessanta anni mi lascio beffar da giovani? Or m'accorgo che quello schiavo ch'io comprai avea piú fattezze donnesche che virili, e con un parlar delicato e toscano, anzi—o sciocco me!—con un scherzevol riso, con certe cerimoniose e oscure parole significava esser innamorata di mio figlio; e io sempliciaccio non me n'accorgeva. Ma che sciocchezza fu la mia a credergli cosí subito! Veramente, quando le stelle s'accordano alla ruina di alcuno, alla prima gli togliono la prudenza. Ma io ne farò ben vendetta! Contro la puttana mi saziarò ben di schiaffi, pugna e calci e tirare de' capelli; Forca porrò in una galea; al figlio darò perpetuo bando di casa mia. O che rabbioso sdegno! lo sdegno avanzará l'amore, la rabbia la pietade.
DOTTORE. Fermatevi, non bisogna alcuna di queste cose: l'error è giá fatto; delle strade cattive eleggasi la migliore.
FILIGENIO. Dite, di grazia, ch'io son cosí riscaldato dall'ira che dubito con qualche precipitoso consiglio non mi condur a qualche sproposito.
DOTTORE. Io vo' che voi non perdiate nulla: non scacciarete il figlio e non perderete i danari; anzi con un bel fatto resteranno scherniti dal lor scherno. Rendetemi lo schiavo e io darò a voi or ora gli cento ducati.
FILIGENIO. Io non mi curo di perderli per saziarmi di sangue e con un castigo barbaro vendicarmi d'ingiurie sí vituperose.
DOTTORE. Questo non vorrei io, ch'ella non patirebbe alcun male che non lo patisca io: ecco i vostri cento scudi.
FILIGENIO. Questi sono i cento scudi che vi ho prestati per man di Forca?
DOTTORE. Che Forca? che scudi? chi v'ha dato ad intendere una simil favola?
FILIGENIO. Me l'ha chiesti Forca da vostra parte.
DOTTORE. Ho sempre un par di migliara di scudi al mio comando, che pèrdono tempo al banco.
FILIGENIO. Misero me, che da ogni banda sono aggirato.
DOTTORE. Entriamo in casa e ve li contarò.
FILIGENIO. Entriamo.
DOTTORE. Panfago, va' a casa, apparecchia un banchetto a tuo modo, ché vogliamo tutti rallegrarci: to' gli danari.
PANFAGO. Sia benedetto Dio che pur m'è toccato di apparecchiare un desinare a mio modo e di far un pignato grasso.
SCENA VIII.
PIRINO, MELITEA, FORCA.
PIRINO. Non vi dogliate, vita mia, che, se ben i frutti d'amore nel principio son amari, sempre nel fin la radice è dolce. E perché in tanti travagli la fortuna non ha bastato a scompagnarci, fo fermo augurio che i Cieli v'abbino servato per me, e che saremo nostri.
MELITEA. Io non mi affligo per me ma per voi, stando io sicura che mi aiutarete, se non quanto io, almeno quanto merita l'amor mio; e travaglimi la fortuna quanto gli piace.
PIRINO. Vita mia, con tanta cortesia piú m'obbligate e mi sforzate ad esser piú vostro che mio, e se il destino facesse che non avesse ad esser vostro, almeno non sarò d'altri. Questo allontanarci da casa nostra non è per altro che per schivar una burasca che n'è sovragionta, ché portavamo pericolo di affogarci nel porto.
FORCA. Or che nôtate nel golfo delle dolcezze, non si fa piú memoria del povero Forca, cagion del vostro giubilo.
PIRINO. Forca, sta' sicuro che mentre arò core arò memoria di tanto beneficio, accioché venendo l'occasione possa premiar l'amor e la fede verso me.
MELITEA. Ed io riserbo la ricompensa, quando sarò in miglior stato; ché adesso non posso mostrar segno del mio buon animo.
FORCA. Ed io pregherò Iddio che mai scompagni cosí bella coppia di sposi i quali, per etá, per nobiltá e costumi e bellezza, son degnissimi l'un dell'altro. Intanto, entrate in casa di Alessandro, e il passato pericolo vi renda assai piú cauti e diligenti: ché qui, di fuori, vi potrebbe vedere il dottore o Mangone o il padre istesso, e ad una tempesta se ne aggiongerebbe un'altra. Informate Alessandro di quello che abbia a dire a vostro padre e inviatelo fuori; fra tanto io m'armerò d'una corazzina di falsitadi e di bugie, che possa star saldo ad ogni gran bòtta di veritá: e gli farò credere che voi siate il piú onesto figlio che si trovi, io un santo e i nostri emuli traditori. Ma la sua porta s'apre: sgombriamo tosto.
SCENA IX.
DOTTORE, MUTO.
DOTTORE. Ecco che tocco il ciel col dito. Chi è al mondo piú felice di me, che della acquistata vittoria porto meco il trionfo e le spoglie de' nemici, e avendola acquistata, ancor non credo di averla? Era il mio amor stato vinto da altrui astuzia, or il mio valore ha vinto l'altrui malizia. O voi che fastosamente altieri schernivate la mia semplicitá, o voi che solo pensavate sapere al mondo, ecco ch'io sovrasto a voi quanto pensavate di calcar me. O Dio, quanto è grande la forza della sua bellezza, perché non basta la nera tinta a nasconderla, anzi la rende piú chiara e piú risplendente! Lo splendor che scintilla da' tuoi chiari soli, non bastava un uomo a sostenerlo; or fatto un poco piú opaco, ricevé tal temperamento che confortano non abbagliano, rischiarano non acciecano, avvivano non uccidono l'altrui viste. Or quanto sarai bella, quando sarai bianca divenuta? Ecco, carissima Melitea, sarai padrona della casa o mia regina; e se mi facci un figlio, mia carissima moglie, per te obliarò la perdita della mia amata consorte e la rapina dell'unica mia figliuola Alcesia. Anzi reputa, da oggi innanzi, che io sia tuo servo, e in dono ti do tutta la mia robba e me medesimo. Che dici, cor mio? rispondi, dolce anima mia; fa' che senta il suono di quelle parole che solo portano consolazione all'anima mia. Ma tu ridi, scherzi e balli: o che allegrezza, o che giubilo ha d'esser scampata dalle mani di quello importuno e fastidioso di Pirino, ed esser in mio potere! Sempre mi son accorto, ben mio, che tu mi amavi: è del tuo sommo giudicio sprezzar i giovani e amar uomini di consiglio e di riputazione. Ma perché non entro, non volo in casa mia, in camera, in letto? Entra, vita mia: questa è tua casa.
SCENA X.
FILIGENIO, FORCA.
FILIGENIO. La ragion n'insegna, l'esperienza ne dimostra, l'autoritá ne conferma che camina piú tardi un bugiardo che un zoppo. Quel scelerato di Forca mi avea dato ad intendere molte girandole; ma non sono state molto tempo a scoprirsi. Ma ecco il liberator delle puttane, il venditor de' liberi per schiavi, l'ingannator de' ruffiani, l'assassino de' vecchi, la ruina de' giovani, la fucina e l'architetto d'inganni, e la forca che conduce gli uomini alla forca; e che rispondi?
FORCA. Io non posso trovar cosí belle parole per ringraziarvi di cosí illustri titoli che mi date.
FILIGENIO. Io non so che dir piú, né posso dir tanto che non sia mille volte piú di quel che dico.
FORCA. A chi fo male io?
FILIGENIO. Agli amici, agli inimici, a quanti puoi.
FORCA. Nessuno stima questo di me.
FILIGENIO. Perché tutti lo tengono per fermo.
FORCA. Quei che sono cattivi, stimano che tutti gli altri sieno cattivi.
FILIGENIO. Dunque, io son un tristo che stimo te il piú tristo uomo del mondo?
FORCA. Non dico questo io, né è convenevole a un servo dirlo: ma guardatevi che non lo dica altri a cui piú conviene. (A tuo dispetto ti sommergerò in un mar di bugie, e se scamperai da un scoglio, romperai in un altro). Padrone, voi mi avete per un tristo, perché son troppo buono: ché a tempi d'oggi per esser stimato buono dal tuo padrone, bisogna rubbarlo, assassinarlo a tutto suo potere. Ma perché mi stimate cosí tristo, che effetto cattivo avete di me veduto?
FILIGENIO. Puoi negar tu che non sia il maggior ribaldo del mondo?
FORCA. A me non convien negarlo né affermarlo: ché negandolo farei voi bugiardo, e affermandolo direi bugia. Ma io nacqui al mondo sotto cattivo pianeta, assai disgraziato. Ma se voi deposta la còlera e l'ira, volete intendere il vero, il dico liberamente: e vo' che siate il mio giudice, poi ch'io purgherò le mie calunnie, e m'averete per un uomo da bene.
FILIGENIO. Vien qua, rispondimi a quanto ti domando.
FORCA. Eccomi.
FILIGENIO. Non hai tu tinto la faccia di carboni a mio figlio e vendutolo al ruffiano? poi tinta la faccia di carboni alla puttana, e l'hai fatta comprar da me, facendomi pregar da Alessandro?
FORCA. Giesú! vostro figlio va libero per la cittá con la faccia bianca per testimonio della veritá e di colui che vi ha detto il contrario. Ma ditemi, di grazia, la puttana, che avete comprata con la faccia tinta, l'avete lavata la faccia per scoprir la veritá?
FILIGENIO. Non io.
FORCA. Perché dunque, per far la prova delle altrui astuzie e della mia furfantaria, non faceste tal esperienza? Dio vel perdoni! ché, chiarito della veritá, or con giusta cagione avresti cagione di uccidermi di bastonate, disgraziar vostro figlio e dolervi di Alessandro senza scusa.
FILIGENIO. Non m'hai tu chiesto cento scudi per dargli al dottore, con darmi ad intendere che voleva rifiutar la puttana?
FORCA. Voi li avete dati a me, io al dottore.
FILIGENIO. Egli m'ha detto che ciò non fu mai, e che ha duomila scudi al banco per suo servigio.
FORCA. Chiamo in testimonio Iddio!
FILIGENIO. Chiami in testimonio chi è tuo nemico capitale.
FORCA. Dubito che v'abbia negato questo per farsi qualche altra somma di maggior importanza: però state in cervello, perché è un gran baro, vostro nimico, del figlio e mio; e dubito che non ve l'abbi attaccata giá; e faccia Dio che il mio dubitar sia vano!
FILIGENIO. Ma a vostro dispetto io ho ricoverati i miei cento ducati e scacciata la puttana di casa.
FORCA. Che cento scudi? che puttana?
FILIGENIO. Quella che m'avea pregato Alessandro ch'avesse comprata per lui.
FORCA. O padrone, avete avuto gran torto creder piú ad un bugiardo che ad Alessandro, gentiluomo amico e mio vicino. Com'egli sappia questo, s'adirerá con voi.
FILIGENIO. Tu sei un gran ladro.
FORCA. Sarò piú tosto un grande indovino.
FILIGENIO. Tu pensi aggirarmi di nuovo, ma non m'aggirerai.
FORCA. È vero, perché sète stato aggirato giá.
FILIGENIO. Sempre tu meschi un poco di veritá per darmi ad intendere una gran bugia.
FORCA. Ed or avete creduta una gran bugia senza punto di veritá. Vi dico il vero, non vi sono adulatore, se non l'avete per male; ma Iddio m'aiutará.
FILIGENIO. Iddio non aiuta forfanti pari tuoi.
FORCA. Ma ecco Alessandro. Oh, siate il ben venuto: da lui potrete intendere il vero.
SCENA XI.
ALESSANDRO, FILIGENIO, FORCA.
ALESSANDRO. Vengo desioso a trovar Filigenio mio amicissimo.
FILIGENIO. Anzi capitalissimo inimico; e vo' piú tosto l'odio di molti, che la tua amicizia, …
ALESSANDRO. Questo è un principio d'una grande ingiuria.
FILIGENIO. … poiché cosí trattate gli amici vostri.
ALESSANDRO. Oimè, che dite?
FILIGENIO. Il vero. Con iscusa che fate piacere ad un mio figliuolo, fate a lui e a me un grandissimo dispiacere.
ALESSANDRO. Questa è una maniera di notarmi d'infideltá, e queste parole pungenti fanno disconvenevole ogni convenevolezza, e io da ogni persona aspetterei di udir simili parole fuorché da voi, il qual non offesi mai in cosa alcuna, se pur non ho offeso in averlo soverchiamente riverito e onorato.
FILIGENIO. Cose indegne di buon vicino.
ALESSANDRO. La sinceritá della mia fede credo l'avete veduta agli effetti.
FILIGENIO. Non merita questo l'amore.
ALESSANDRO. Lassatemi dire.
FILIGENIO. Non voglio.
ALESSANDRO. Ascoltate.
FILIGENIO. Non piú parole.
ALESSANDRO. Io, io …
FILIGENIO. Anzi io …
ALESSANDRO. Tacete, ché non sapete quello che voglia dire.
FILIGENIO. Né voi sapete quello che voglio rispondere. Non meritava questo l'amor che vi ho portato; e v'ho stimato gen-* *tiluomo, né vi diedi cagion mai di dolervi di me, ma servirvi di quanto ho potuto.
ALESSANDRO. Confesso aver ricevuto da voi molti favori, e confesso parimente non averli riservíti non per mancamento d'animo, ma d'occasione.
FILIGENIO. Voi me l'avete resi con iniquo cambio che non sarebbe stato fatto ad un turco; ma dice bene il proverbio: che molti benefíci fanno un uomo ingrato.
ALESSANDRO. Orsú, perché avete sfogata l'ira con ingiuriarmi, sarebbe di ragione, se non prima, mi dicesti la cagione di che vi dolete di me; perché le vostre parole mi sono ferite mortali che mi trapassano il core. Non mi fate piú penare.
FILIGENIO. Guarda simulazione.
ALESSANDRO. In che v'ho offeso, accusandomi tanto d'ingratitudine?
FILIGENIO. Anzi di sfacciataggine e di furfantaria.
ALESSANDRO. Ah, dir cosí sfacciatamente mal degli uomini è ufficio di tirannica lingua! però, di grazia, ponete freno alla lingua nell'ingiuriarmi, accioché non la scioglia allo sdegno per difendermi.
FILIGENIO. Perché, con iscusa di farmi comprar un schiavo per un vostro amico, me avete fatto comprar l'amica del mio figliuolo e fattalami condurre a casa?
ALESSANDRO. Mi fo la croce; overo ciò dite per schernirmi, o forse vi movete da alcuna falsa informazione.
FORCA. Vedrete, padrone, che tutto sará falsitá quanto vi è stato detto.
FILIGENIO. Ed in cose di niente farmi ruffiano di mio figlio?
ALESSANDRO. Ditemi se di giá avete comprato lo schiavo e dove sia.
FILIGENIO. L'avea comprato giá e ridotto a casa; poi, venuto il dottore, mi disse ch'era la bagascia di mio figlio, tinta la faccia di carboni, vestita da maschio; l'ho cacciata di casa e lasciatala a lui.
ALESSANDRO. O Dio, che cosa mi dite? O fortuna traditora, a che son condotto! io son il piú disperato uomo del mondo! Sappiate che il dottore è mio capital nemico, e per cagion di costui non l'ho voluto comprar io, ma pregatone voi, accioché mi aveste a ciò favorito.
FORCA. Che vi dissi, padrone?
ALESSANDRO. Vo' scoprirvi l'importanza. Gli mesi a dietro, in una battaglia navale si fe' giornata tra il re di Marocco e il re di Borno: fu sconfitto il re di Borno, e il figlio, il quale è costui, fuggendo in una nave sbattuta dalla furia della tempesta, venne in Italia; non essendo conosciuto, fu venduto per ischiavo. I suoi parenti han perciò inviato trentamila scudi per lo suo riscatto e restituirlo al suo reame. Il dottor ha lettere del re de' mori per inviarlo a lui: avendolo in mano, o lo fará morire in una prigione o li taglierá la testa. Onde il dottore, per guadagnarsi questi danari, m'ha fatto il tradimento.
FILIGENIO. Egli m'ha dato i cento scudi. Eccoli qui.
ALESSANDRO. Io non vo' ricevere altramente i cento scudi; ma vo' lo schiavo overo oprare in modo me si restituisca.
FILIGENIO. Come può esser che il fatto non sia fatto? Io non stimava tal cosa: essendo come voi dite, io mi pento di averlo venduto.
ALESSANDRO. A che mi giova ora il vostro pentimento? Convien ad un uomo della qualitá ed esperienza che voi sète, dar cosí subita credenza ad un uomo senza onore e senza anima, che con un velo d'ipocresia cuopre ogni sua sceleraggine, e stima, non dico me, ma vostro figlio che è un de' piú gentili giovani della cittá nostra, per un tristo uomo?
FORCA. Non vi dissi ch'era vostro inimico?
FILIGENIO. Ecco i cento scudi.
ALESSANDRO. Or questa sarebbe bella: per cento scudi pagarne trentamila! Egli se li guadagnará, e mandará quel povero giovane al macello overo ad una perpetua prigionia; ed io volea restituirlo al suo regno.
FILIGENIO. Ho peccato semplicemente; confesso l'errore, e se vi piace, confermarò con giuramento la mia ignoranza. Poiché siam qui, facciasi quel che si può per rimediarci.
ALESSANDRO. Se avevate comprato lo schiavo in nome mio e con i miei danari, quello era mio, e voi non avevate piú potestá sovra quello; e avendolo venduto, sará in vostro pregiudizio, perché avete venduto quello che non era vostro. L'error vi costerá caro. Andrò a' superiori e mi farò far giustizia: forse sarete condannato agli interessi.
FILIGENIO. Dio me ne guardi! ecco i vostri danari.
ALESSANDRO. Io non gli torrò per non far pregiudicio alle mie ragioni. Andrò a Sua Eccellenza, raccontarò il fatto: ella dará ordine di quello che ará a farsi. M'incresce nell'anima ch'abbia a venir con voi, che v'ho stimato mio padre e padrone, a termini cosí fatti.
FILIGENIO. O Iddio, che intrighi son questi ove mi trovo? Va', Forca, e vedi se puoi far nulla.
FORCA. Padron, perdonatemi, sète stato frettoloso a credere ed estimar vostro figlio e un amico come Alessandro, un assassino—ché l'uno vi fu sempre ubidientissimo e l'altro venti anni un buon vicino,—e me per un ladro, che v'ho servito venti anni fedelmente.
FILIGENIO. Eccoti i cento scudi: almeno non arò rimordimento di conscienza di aver fatto cosa con malizia. Togli anco questa catena d'oro che val quattrocento, e vedi si puoi rimediare.
FORCA. Non lascierò tentar per ogni via, per amor vostro. Io vo.
FILIGENIO. Camina.
SCENA XII.
DOTTORE, FILIGENIO, PANFAGO, MUTO.
DOTTORE. Férmati, Filigenio, non entrare ancora: avemo a trattare alcune cose insieme.
FILIGENIO. Pur hai animo comparirmi dinanzi, giuntatore: non vedo io che porti scolpita nella fronte la sfacciataggine?
DOTTORE. Che hai tu meco? vuoi esser forse il primo a gridare, per mostrar in un certo modo che abbi ragione o dar qualche color di giustizia alla tua ingiustizia?
FILIGENIO. Mi dái ad intendere che lo schiavo era la bagascia di mio figlio, ed era il figlio del re di Borno, qual con inganno m'hai tolto di mano per farlo essere decapitato?
DOTTORE. Che re di Borno, che decapitare? io non so se tu stai ne' tuoi sensi. Io pensava riscattar la mia innamorata Melitea; poi, avendola condotta a casa e lavatagli la faccia, ho ritrovato un maschio e altro di quel che pensava: eccolo qui.
FILIGENIO. Chi è dunque?
DOTTORE. Tanto ne so io quanto tu.
FILIGENIO. O Dio, che girandole son queste? che vuoi tu dunque da me?
DOTTORE. Che ti togli il tuo schiavo e mi torni i miei cento scudi.
FILIGENIO. Che so io se lo schiavo che m'hai tolto di casa sia quel che mi rimeni?
DOTTORE. Che so io che Melitea che fu portata in casa vostra non sia stata scambiata e posto costui in suo luogo?
FILIGENIO. Eccomi diversamente incappato in una lunga rete di artifici: e quanto piú cerco svilupparmene, piú mi ci trovo dentro, senza trametter tempo di mutar consiglio. Se tu non stavi sicuro che fusse quella che desiavi, a che venire a chiederlami con tanta voglia?
DOTTORE. E se non stavi securo che fusse l'innamorata di tuo figlio, perché subito non consignarlami?
FILIGENIO. Io dubito che con l'arte non vogliate schernir l'arte. Ma vien qua: chi sei tu che ti hai lasciato vendere? perché non rispondi? di', parla. Sta saldo, come se a lui non dicessi.
PANFAGO. Non vedi che con le mani fa ufficio della lingua, e con tacito parlar dice che non sa nulla?
DOTTORE. Non so che voglia dir, io. Panfago, dove vai?
PANFAGO. Questo è quel pazzo di poco anzi, nol conoscete?
DOTTORE. Certo che mi par quello: ride, salta e cava fuor la lingua.
PANFAGO. Scampa, dottore, ché non ti còglia un'altra volta.
FILIGENIO. Vien qui. Dimmi: chi sei tu? parlavi poco anzi come un filosofo; come hai or cosí perduta la lingua? Se non rispondi, ti rompo la testa. Oimè, oimè; aiuto, aiuto, ché costui non m'ammazzi! Chi mi ha portato costui dinanzi? a me con beffe? sarò uomo da vendicarmene.
ATTO V.
SCENA I.
CAPITANO de birri, FORCA, ALESSANDRO, PIRINO, PANFAGO.
CAPITANO. Eccoci qui apparecchiati a servirvi.
FORCA. Or ponetevi qui in agguato; e passando quel furfante, lo pigliarete e strascinatelo in prigione.
PIRINO. Ecco Alessandro. La cosa va bene.
FORCA. Tolto che voi l'arete, andremo in casa sua, che quivi troveremo le vesti e le robbe che ha rubate, e le porteremo in Vicaria.
CAPITANO. Cosí faremo.
FORCA. Eccolo che giá viene.
PANFAGO. Quel maledetto pazzo ha mancato poco a strangolarmi: ho passato un gran pericolo.
FORCA. (In un maggior incorrerai).
PANFAGO. Son stato tutto oggi in travaglio, e non ho potuto tòrre un maledetto boccone.
FORCA. (Via piú gran travaglio ti sta apparecchiato, e non cenerai per questa notte, ché dormirai in un criminale).
PANFAGO. Quel dottoraccio sta arrabbiato, ché non ha trovato la sua innamorata: né ha cenato egli né ha fatto cenar me.
FORCA. O voi, togliete questo ladro traditore.
PANFAGO. Io ladro, eh? voi m'avete rubbato il pasto, e io sono il ladro! Che volete da me?
FORCA. Lo saprai quando starai attaccato alla corda, e il confessarai a tuo marcio dispetto.
PANFAGO. Lasciate le mani voi: perché mi ligate?
ALESSANDRO. Legatelo bene che non vi scappi; ché non è questa la prima volta che ha patiti simili affronti. Vuoi tu negar, ladronaccio, che non sia entrato in casa mia, rubbatemi certe vesti da raguseo d'un mio amico, quelle di uno schiavo e molte cose da mangiare, come provature, salcicciotti e barili di malvaggia?
PANFAGO. Quelle vesti con le quali v'ho servito oggi e che voi mi prestaste?
ALESSANDRO. Io non so chi tu sia, e non t'ho visto fin ora: questi sono i testimoni che ti han visto entrare in casa mia, rubbarle e portarle via.
PANFAGO. Ed è questo atto da gentiluomo? Cosí vi sète concertati con Forca, per vendicarvi dell'offesa che v'ho fatta.
ALESSANDRO. Che offesa? Capitano, ecco la sua casa: voi lo serrate qui ligato; e voi altri entrate e cercate la casa, ché le trovarete, se non l'ará sbalzate in altra parte.
PANFAGO. O Dio, che cosa avete inventato contro di me! Troppo acre vendetta per sí picciola offesa.
ALESSANDRO. Che vendetta, ladronaccio? pensi con le tue paroline scappare ch'oggi il boia non ti abbia a far una pavana senza suoni sovra le spalle?
FORCA. Ecco le vesti, ecco le robbe toltemi! cosí, furfantaccio, s'entra nelle case di gentiluomini e si vuotano le casse? Su, strascinatelo in Vicaria.
PANFAGO. O Dio, lasciatemi tor prima un bicchiero di vino, ché la gola mi sta tanto asciutta che non ne può uscir parola.
FORCA. Te la stringerá il capestro, la gola.
PANFAGO. O gola, mi farai morir appiccato per la gola.
ALESSANDRO. Su, caminate, andate via.
PANFAGO. Vorrei sapere il vostro disegno, io.
ALESSANDRO. Il nostro disegno? non lasciarti mai finché tu non muoia appiccato.
PANFAGO. Merito questo io per avervi cosí ben servito?
ALESSANDRO. Non si trova gastigo che basti a meritar la tua ladreria. Capitano, di grazia, fatelo strascinare, ch'io mi muoio di voglia di vederlo appicato presto.
PANFAGO. Oimè, oimè, perché con tanta fretta?
ALESSANDRO. Perché cosí meritano i pari tuoi.
SCENA II.
RAGUSEO, MANGONE, ISOCO.
CAPITANO. Io non so che hai tu meco né che cerchi da me: che sai tu chi sia io, se questa è la prima volta che pongo il piede in questa terra? e tu come una infernal furia mi persegui!
MANGONE. Vo' che mi restituisca la mia robba, poiché per tuo conto io son stato miseramente assassinato.
CAPITANO. O che tu sei infernetichito o devi star ubbriaco, poiché cerchi da un uomo che mai vedesti, che ti restituisca la tua robba.
MANGONE. Io non ho visto te, ma sí ben il tuo fattore che, vendutomi un schiavo in tuo nome, m'ha rubbata la schiava mia.
CAPITANO. Io non ho fattori, ma disfattori sí bene; e il fattore servo e mastro di casa e padron della nave son io stesso.
MANGONE. Tanto è: egli mandatomi da te venne a cercarmi a casa, con dir che volevate tener conto meco di vendere e comprar schiavi.
CAPITANO. Come si chiamava quell'uomo?
MANGONE. Maltivenga.
CAPITANO. Mal ti venga e mille cancheri e mille ruine!
MANGONE. E non contento di avermi rubbata la mia schiava, per svillaneggiarmi mi mandasti un presente pieno di furfanterie, con dirmi ch'eran le miglior robbe di Raguggia.
CAPITANO. Le robbe di Raguggia son buone: e stimo che le robbe di Napoli, come tu sai, sieno piene di furfantarie e di sporchezze; e se tutti i napolitani sono come tu sei, dal cattivo saggio che me ne dái, son uomo da tornarmene in nave or ora, far vela e girmene all'Indie nuove, per non aver a far con simili uomini.
MANGONE. Qui in Napoli avemo buona ragione.
CAPITANO. A me par che ve ne sia molto poca; perché tu mi richiedi di cose senza ragione, mi molesti con poca ragione e mi provochi a ira con molta ragione.
MANGONE. Oh, seria bella certo, ch'essendo tu solo e forastiero, senza aver alcuno per te, volessi vincer me che ho parenti e amici nella mia terra.
CAPITANO. Dimmi, ch'è l'arte tua?
MANGONE. Comprare schiavi e schiave belle e venderle poi a' giovani che se n'innamorano.
CAPITANO. Come se dicessi ruffiano.
MANGONE. Come se tu lo dicessi e io ci fussi. Non mi vergogno dell'arte mia; ma qual arte è la tua?
CAPITANO. Di corseggiar mari e lidi de' nemici e andar facendo prede.
MANGONE. Come si dicessi un spogliamari, saccheggialidi, cacciator d'uomini; come si dicessi un ladro publico.
CAPITANO. Piacesse a Dio che il mar ben spesso non spogliasse e rubasse me!
MANGONE. Or tu che osi rubar i lidi e i mari e gli stessi ladri, hai osato rubar ancor a me.
CAPITANO. O ruffiano, lassemi stare.
MANGONE. O ladro de' ladri publichi, tornami quel che m'hai rubato.
CAPITANO. Un corsaro si chiama soldato e non ladro.
MANGONE. Tu sei un di quei soldati che non dái batterie se non alle case private e alle porte delle botteghe.
CAPITANO. O fussi incontrato piú tosto con la nave in un scoglio che in costui!
MANGONE. O fussi venuto piú tosto in Napoli un diavolo che tu! Ma qui arai condegno castigo delle tue opere, ché vendi i cristiani per turchi e per mori.
CAPITANO. E tu fai peggio.
MANGONE. Qui ti saranno scontati i tuoi ladronecci.
CAPITANO. E a te le tue poltronerie.
MANGONE. E come un publico ladro morirai nell'aria publica.
CAPITANO. E tu per il tuo mestiero nel foco.
MANGONE. E tu che vai pescando gli uomini per lo mare, sarai pescato dal mare.
CAPITANO. E tu lapidato da' giovani che rovini.
MANGONE. E se pur il mar ti rifiuta per un cattivo guadagno, un giorno i turchi ne faranno vendetta per me, ché sarai impalato.
CAPITANO. Ed il boia la fará per me, ché sarai arrostito.
MANGONE. Mi pensava aver fatto un gran guadagno, che cotal mercatante fusse venuto ad alloggiare in casa mia: bella mercanzia che hai portata in Napoli!
CAPITANO. Ci ho portata una gran mercanzia di legne; e se le cerchi, te ne darò a buon mercato quante ne cerchi.
MANGONE. Orsú, vieni innanzi al Reggente.
CAPITANO. Tu cerchi briga e n'arai.
MANGONE. Se non vieni di bona voglia, ti strascinarò a forza.
CAPITANO. Dubito che lo strascinato sarai tu.
ISOCO. Io son stato tacito insino adesso, stimando che la tua importunitá avesse pur a far qualche fine; ma veggio che sei soverchiamente temerario, e dubito che non facci temerario ancor me. Ma forse non v'intendete l'un l'altro.
MANGONE. La ragione che ho, e l'importanza del fatto che importa cinquecento ducati, faranno o che io uccida costui o che sia ucciso da lui, perché non è cosa che ne possa passare.
ISOCO. Che costui non sia stato mai piú in Napoli e questa la prima volta che sia sbarcato di nave, ne son buon testimone.
MANGONE. O che testimone! Mi venne un uomo da parte di costui e mi chiamò per nome—Mangone!—e dissemi:—Poiché sei mercadante di schiavi, il mio padron Rastello Fallatutti di Monteladrone …
CAPITANO. Menti per la gola, ché rastello di Monteladrone sei tu!
ISOCO. Lascia dire.
MANGONE. … ne ha portato una nave, e si vuol accomodar teco.
ISOCO. Férmati, di grazia. Tu sei colui che vendi schiavi e schiave, che ti chiami Mangone?
MANGONE. Io son: mal per me!
ISOCO. Lasciamo il primo e cominciamo un altro ragionamento piú importante. Son d'intorno a tre anni che certi uscocchi depredando i lidi della Schiavonia, da una villa dove io abitava mi tolsero una giovane bellissima; e mi fu riferito che la vendero in Napoli per ducento ducati ad un mercadante di femine, detto Mangone.
MANGONE. È vero; e si chiama Melitea.
ISOCO. Non, no: quella si chiamava Alcesia.
MANGONE. Ho inteso ben dir da lei che si chiamava Alcesia; ma allora che la comprai, si chiamava Melitea.
ISOCO. Che n'è di questa giovane?
MANGONE. Di questa giovane ragioniamo ora, che sotto nome di costui m'è stata sbalzata da casa.
ISOCO. Sappi che quella Melitea, che tu dici, è donna libera e gentildonna cristiana e non schiava; è figlia di un napolitano molto ricco e importante.
MANGONE. Fusse alcuna altra trappola ordita tra voi, per rubbarmi alcuna altra cosa?
ISOCO. Sappi che a questo effetto son venuto qui in Napoli, per saper nuova di suo padre, se sia vivo o morto; e qui non son per tòrti alcuna cosa, anzi per giovarti: ché ritrovandosi lei e suo padre, sarai per averne una buona mancia. Ma, di grazia, sapete voi s'ella si ricorda del nome di suo padre?
MANGONE. Di suo padre no, ma ben d'un suo balio detto Isoco, e d'una sua balia detta Galasia.
ISOCO. Io son Isoco, e mia moglie, giá morta, era detta Galasia. Ma oh, piaccia a Dio ch'essendo venuto qui per un fatto che non pensava espedirlo in un anno, lo spedissi in un giorno e liberassi l'anima di mia moglie e la mia da cosí fatta angoscia! Io vo' venir teco per saper nuova di costei, e ritrovata, so che ti sará di non poco utile.
MANGONE. Pur che mi sia utile, eccomi pronto a far quanto comandi.
ISOCO. Di grazia, lasciamo il padron della nave che vada per i suoi affari, ché quando saprai ch'egli abbia errato in alcuna cosa di quel che ti duoli di lui, io voglio rifar il danno.
CAPITANO. Isoco, a dio.
SCENA III.
DOTTORE, MANGONE, ISOCO.
DOTTORE. Mangone, hai saputa alcuna novella di Melitea?
MANGONE. Sí bene, anzi di cose che voi non sapete.
DOTTORE. È dunque in poter di Pirino?
MANGONE. Dico altro che voi pensate.
DOTTORE. Che cosa dunque?
MANGONE. Melitea è libera e gentildonna.
DOTTORE. Che non sia qualche nuovo inganno ordito da Forca, per schernir me dello amore e del desiderio di aver figliuoli?
MANGONE. L'uomo che qui vedete, dice ch'è napolitana, figlia di uomo nobile e di gran qualitade.
DOTTORE. Certo che m'è carissimo, ch'essendo di buon legnaggio e avendola per moglie, arò meno reprensori; e se per rispetto del mondo faceva prima resistenza alle mie voglie, or le farò correre a tutto freno. Gentiluomo, vi prego a narrarmi quanto sapete di lei.
ISOCO. Dico che questa giovane fu rapita dalla sua balia e portata in Raguggia sua patria. La cagion della rapina fu che, nascendo la bambina, morí sua madre nel parto; e restando la balia col padre in casa, o che si fusse innamorato di lei o che fusse intemperante di sua propria natura, la ricercò piú volte dell'onor suo. Ed avendogli ella piú volte detto che nel fatto dell'onor non volea esser molestata in conto veruno, che altrimente si partirebbe, ed egli non restando di noiarla, non s'arrestò di quanto l'avea minacciato: onde, per fuggir gli disonesti assalti del padrone, se ne fuggí di casa sua e se ne venne con la bambina in Raguggia, dove dimorò tre anni. Abitando in un suo podere alla costiera della marina, un vassello de scocchi la rubbò e la vendé qui in Napoli ad uno mercatante di schiave, che si chiama Mangone.
DOTTORE. Come si chiamava la balia?
ISOCO. Galasia.
DOTTORE. Galasia? oimè, che dici? e può esser questo? si ricorda la fanciulla del nome di suo padre e di sua madre?
ISOCO. La fanciulla non se lo poteva ricordare, che non giongeva a duo anni. Ma io l'ho inteso dir mille volte da Galasia che la madre si chiamava Brianna e il padre il dottor Carisio.
DOTTORE. O Dio, che intendo? son desto o sogno? Ma tu come sai questo? a che effetto sei venuto qui in Napoli?
ISOCO. Io lo so, che quando Galasia gionse in Raguggia, si maritò meco; e siam vissuti insieme dodici anni, pensandomi sempre che questa fanciulla fusse sua figlia, d'un suo primo marito. I mesi a dietro venne a morte; e chiamatomi, mi pregò caldamente—e ne volse la fede per iscarico della sua conscienza—che fusse venuto in Napoli e cercato se fusse vivo quel dottore, e raccontargli il suo furto, accioché n'andasse scarica e contenta all'altra vita; la qual cosa le ho promesso e osservato.
DOTTORE. O Dio, non potrei esser oggi il piú felice uomo del mondo! Dimmi, di grazia, che effigie avea quella fanciulla?
ISOCO. Era di viso un poco lunghetto, di guardo austero ma dolce, di carnagione mescolata di rosso e latte, di capelli com'io, di maniere assai signorili; e mostrava in tutte le cose esser di sangue nobilissimo, di animo generoso e d'ingegno vivace.
DOTTORE. Questa è dessa, certissimo; ché i segni che mostrava in quelle piccole membra, davan presagio che nella compita etá non dovesse riuscir altrimente che le sue fattezze. Avea ella alcun segnale nella persona?
ISOCO. Una macchia rossa nella mammella sinistra come di un vovo; e diceva la balia che fu una gola che venne a sua madre di quei frutti, e venne a caso a toccarsi alla mammella.
DOTTORE. Questa è dessa: non bisogna piú dubitare; e io son quel dottor Carisio che tu dici. Ma dimmi, come è stata allevata la fanciulla?
ISOCO. Questo posso ben giurarvi che, se ben in povera casa come la nostra, non avria potuto esser meglio allevata nella vostra istessa: appena ave avuto nella mia casa quella libertá che si conveniva all'etá fanciullesca; ed ella si mostrò sempre gelosissima e rigida defenditrice dell'onor suo.
DOTTORE. La rapina, la povertá, la lontananza da' suoi parenti, la violenza de' corsari liberano la sua volontá d'ogni colpa di disonestá, e massime in lei che per la sua soverchia bellezza chiama a sé la violenza.
ISOCO. Non dite cosí; ché la generositá dello aspetto, la maestá della bellezza sforza ancor le genti barbare a non cercarle cosa contra il suo volere: e io vi giuro—poiché mi fu referito—che i corsari che me la ruborno, la vendero come la tolsero da mia casa, con speranza di cavarne piú guadagno.
MANGONE. Ed io vi assicuro di questo: ch'eglino, volendomela vendere per vergine cinquanta ducati di piú, la feci veder dalle commari, ed essendomi cosí affermato, li sborsai ducento ducati; e in mia casa è stata cosí conservata come uscí dal corpo di sua madre.
DOTTORE. Che costumi mostrava in quella sua etá?
ISOCO. Di grande animo ne' pericoli, ardita con modestia, di nobiltá umile e onoratissima nella bellezza: in un picciol corpo un gran spirito. E sappiate che di queste arti niuno le fu maestro; ché dalle fascie si portò seco simili parti da far invidia a qual si voglia principalissima gentildonna.
DOTTORE. Io del suo acquisto e del non macchiato fior della sua verginitá per molto stupore son fuor di me stesso. O infinita Providenza, con quanti vari accidenti hai sospesi i nostri amori! per non farci accoppiare insieme, e la sua onestá avesse pericolato con il suo padre, hai fatto che Forca e Pirino con una gentil trappola abbian schernito i miei desidèri e involatamela dal seno.
ISOCO. Di grazia, fatemela vedere, ché da' segni del suo conoscermi conoscerete esser vero quanto vi ho detto.
DOTTORE. Su, Mangone, diasi ordine di ritrovarla: non si perda piú tempo. Ma ecco Filigenio: viene a tempo per saper nuova di suo figlio.
ISOCO. Voi cercate di costei e datemi aviso di quel che sará.
SCENA IV.
FILIGENIO, DOTTORE, ISOCO.
FILIGENIO. Veggio venir il dottor verso me: qualche altra burla aranno scoverta di Forca: non sará per finir tutto oggi.
DOTTORE. Filigenio, io vengo a ragionar di cose assai differenti dalle passate, alle quali mai non pensaste: ora non è tempo di amori, ma di compimenti di onore: e ben sapete che dove va l'onore, poco si prezza la robba e la vita insieme.
FILIGENIO. Evi alcuna altra terza di cambio di farmi pagare?
DOTTORE. Ritenetevi ne' termini della prudenza e della creanza, e ascoltate prima, ché non sapendo che abbiamo a narrare, potreste prender error per parlar troppo.
FILIGENIO. Evi alcuna altra cosa scoverta di mio figlio?
DOTTORE. Io vengo or per coprir gli errori di vostro figlio e non scoprirgli al mondo piú che sono. Sappiate che Melitea rapita da vostro figliuolo, or non è corteggiana, come stimavate, ma gentildonna libera e onorata.
FILIGENIO. Come può esser questo, essendo stata tanto tempo in casa di un ruffiano?
DOTTORE. Di cosí picciola cosa vi meravigliate? vi sono ancora delle cose maggiori. Vi dico in somma che è mia figliuola; che mi fu rapita dalla balia, sendo piccina; e or l'abbiamo riconosciuto, come poi piú minutamente restarete sodisfatto.
FILIGENIO. Mi rallegro della vostra ventura. Ma che cercate da me?
DOTTORE. Se ben non ho riconosciuta mia figlia, né so fin ora dove sia, so ben che Forca e vostro figlio l'hanno sbalzata dalla casa di Mangone. Voi sapete che ho tanta robba che posso giovar agli amici e castigar gli inimici; e chi mi toglie lei, mi toglie l'onor mio: e l'onor pone l'uomo in disperazione, e il disperato di se stesso non può aver pietá di alcuno. Son uomo da far che i suoi amori gli costino molto cari, e a voi, a Forca e a tutti i complici; e sará piú duro il vero male che l'apparenza del falso bene. Nelle cose importanti si conoscono i nobili da' plebei: se faremo alla scoverta, parlerò a Sua Eccellenza, e con il braccio della giustizia, col favore degli amici e de' parenti e de' danari ci offenderemo tra noi, e la cosa si pubblicará; e il meglio sarebbe la secretezza possibile. Bastivi alfin questo, che son padre e son uomo onorato.
FILIGENIO. Per dirvi la veritá, io non so cosa alcuna de' fatti suoi: e tanto ne so ora, quanto da voi me n'è stato referito; che ben sapete che i figli si nascondono da' padri nei loro amori, e noi siamo gli ultimi a sapergli. Ma che si rimedino gli errori, io lo desidero piú che voi.
DOTTORE. Come dunque faremo per rimediargli?
FILIGENIO. Ecco, ecco il secretario de' suoi pensieri: ecco qua il domestico, il maiordomo maggiore, l'inventore e l'essecutore de' suoi garbugli.
SCENA V.
FORCA, FILIGENIO, DOTTORE, ISOCO.
FORCA. (Or sí che potrò ben andar a sotterrarmi vivo per non incappar nelle mani di costoro).
FILIGENIO. Forca, vieni a tempo: ascolta questo gentiluomo che dice.
DOTTORE. Forca mio, se per l'addietro t'ho odiato piú che la morte, come ostacolo de' miei desidèri; or, come quello che mi hai tolto da illeciti amori o disoneste nozze, te ne arò obligo eterno. Sappi che Alcesia—non piú Melitea—non è schiava di Mangone, ma mia legittima figliuola, che molti anni sono mi fu rapita dalla balia, come potrai piú a lungo intenderlo da costui… .
ISOCO. Quanto dice questo gentiluomo tutto è vero.
DOTTORE. … Onde io sapendo certissimo che tu e Pirino me l'avete rubbata dalla casa di Mangone, e conoscendo voi l'importanza della cosa, e conoscendo parimente che non posso tormi questa macchia dell'onore se non mi sia restituita, vorrei che facesti pensiero di effettuarlo.
FORCA. Io, in quanto Forca, son persuaso a bastanza; bisogna persuader Pirino che ve la restituisca.
DOTTORE. Dove è Pirino, accioché possa ragionargli?
FORCA. Con Pirino non potrete ragionar altrimente; ma ragionate con me quello che desiate ragionar con lui, e fate conto ch'io sia sua mente, suo desiderio e ch'io ascolti con le sue orecchie e ch'io vi risponda con la sua lingua.
DOTTORE. La somma è che mi restituisca la figlia.
FORCA. Ed in somma io dico ch'egli è innamorato di Melitea non di amore ordinario o sopportabile, ma di un desiderio irrefrenabile; e si privarebbe con assai piú agevolezza della vita che di lei. In somma pensate ad ogni altra cosa che a riaverla; e potete pur ferneticare e consumar il cervello a vostra posta.
DOTTORE. Io con la giustizia gli levarò Melitea con la vita.
FORCA. L'uno e l'altra si strangolerá, e preverrá con una morte volontaria la violenta.
DOTTORE. Ti do podestá che s'elegga un marito, come saprá desiderarlo.
FORCA. Non bisogna piú elezione, ché se l'ha eletto giá; anzi una cosa vi fo saper certissima: che né voi vedrete piú lei, né Filigenio il suo Pirino.
DOTTORE. Come?
FORCA. Amboduo poco anzi, provisti delle cose necessarie, si sono imbarcati per fuggirsene in luogo ove di loro non si sappia mai piú novella.
FILIGENIO. Che cosa è quello che mi dici, Forca?
DOTTORE. Dunque a tempo che ho ritrovato la figlia, la perdo: e avendola non l'avrò piú mai, ed era salva quando l'avea perduta!
FORCA. Egli non ha animo di comparirvi piú innanzi per vergogna, ed ella per dubbio di non tornar di nuovo nelle mani di Mangone. Da lor stessi s'han preso un volontario essiglio e vita pellegrina e vaga, e sopportar ogni incommoditá e ogni miseria, purché vivano insieme e si soddisfaccino l'un l'altro, e mostrino al mondo che i loro amori non erano fondati in vani desidèri giovanili, ma su salde leggi di santissimo matrimonio.
DOTTORE. Filigenio, io conosco che i matrimoni prima si dispongono in Cielo e poi s'esseguiscono in terra, e che invano tenta umana forza impedir quello che è ordinato lá su. A me par che sieno cosí ben accoppiati fra loro, che né io né lui né tutto il mondo l'aría potuto imaginare; e mi par ch'egli sia degno di lei, ella di lui. Io non ho altro figlio, e la mia robba è di valor di quarantamila scudi; sono nell'ultimo della mia etá e inabile alla sperata successione. Fate voi la dote al vostro figlio. Né voi potrete restarvi di apparentar meco; perché non so come meglio si possa rimediare all'acerbitá dell'ingiuria che m'ha fatto vostro figlio.
FILIGENIO. A cosí buon partito che mi proponete, ogni cosa ch'io rispondessi in contrario, mostrerei che fussi scemo di cervello; ed è ben ragione che avendo io comprato la moglie al mio figlio, che voi con buona dote ricompriate il mio figlio per vostra figlia: e come per l'acquisto di lei è intricato con augurio di scherno, cosí vo' che, mentre sia vivo, l'abbia ad esser non sposo ma schiavo di vostra figlia.
DOTTORE. E mia figlia, perché sotto auspicio di schiava fu introdotta in vostra casa, non che nuora, ma sia perpetua vostra schiava e di vostro figliuolo: e dove si ha pensato uccellar me, ará posto l'uccello in la sua gabbia.
FILIGENIO. Orsú, trovinsi costoro, e questa sera medesima facciamo le nozze con reciproca sodisfazione. Forca, perché son chiari che l'uno è dell'altro e non han piú dubio che sieno separati fra loro, falli tornar da viaggio e menali a casa nostra.
FORCA. Vi do la mia parola giongerli nel viaggio e far ch'or ora li veggiate qui presenti.
DOTTORE. Per l'amor di Dio, presto: ché non so se potrò viver tanto che li veggia.
FILIGENIO. Io me ne vo a casa, a porla in ordine per questa sera.
SCENA VI.
DOTTORE, ISOCO.
DOTTORE. Or dimmi, di quelle cose che mi tolse Galasia, non ne ha serbata alcuna Alcesia per ricordo di suo padre?
ISOCO. Sí bene: un anello con una fede scolpita, con certi piccioli diamantini intorno; e certi bracciali d'oro che mia moglie tolse con lei: e se l'ha ella sempre portati su' diti, e se i corsari non gli han tolti, penso che debba avergli.
DOTTORE. Dimmi, avea ella mai desiderio di riveder suo padre?
ISOCO. Anzi, nel mezo sempre delle sue allegrezze si risentiva e si rattristava, e con certi occulti e nascosti sospiri manifestava il dolor della perdita di suo padre e il desiderio che avea di rivederlo, e per lo piú sempre stava sommersa in una tacita malinconia.
DOTTORE. Dio cel perdoni! ché m'ha fatto buttar piú lacrime e piú sospiri che non ho peli adosso, non solo ogni volta che mi ricordavo le persone, ma quando io son venuto col pensiero da me stesso. Ma eccola che viene.
ISOCO. Questa è Alcesia mia.
SCENA VII.
MELITEA, ISOCO, DOTTORE, PIRINO, FORCA.
MELITEA. O padre, non a me di minor riverenza di colui che m'ha generato, perché m'hai nodrita e allevata con tante fatiche e diligenze, oh quanto mi rallegro in vederti, vedendovi a tempo quando meno sperava di rivedervi.
ISOCO. O figlia cara—ché all'amore e riverenza che vi porto non so che altro nome chiamarvi,—che mi date tanta allegrezza in vedervi quanto mi deste dispiacere essendomi rapita: o che nobile aspetto, o come anco nelle miserie risplende la maestá della vostra bellezza!
MELITEA. Siami lecito abbracciarvi con quella riverenza come mio padre: o mio caro e amato balio!
ISOCO. O amata e desiata figliuola!
MELITEA. O Dio, quanto presto sète fatto vecchio.
ISOCO. Il tempo camina, figlia: tenetelo voi, ché stia fermo, e io terrò una medesima forma. Figlia, poiché hai conosciuto il tuo balio, riconosci ora il tuo vero padre.
DOTTORE. Carissima figliuola, non ti ricorderesti del tuo vero nome?
MELITEA. Nascendo fui rapita dalla balia; poi, con piú malvaggia fortuna, fui rapita da' corsari, i quali mi fecero questo oltraggio che, rubbando me, mi rubbaro il mio vero nome, il quale è Alcesia.
DOTTORE. Dimmi, figliuola cara, non hai alcuna di quelle coselline d'oro serbate teco, che ti diè Galasia mia moglie?
MELITEA. Signor mio, non ho altro che questo anello con una fede scolpita, che l'ho sempre custodito con grandissima diligenza—se pur Iddio mi avesse fatto grazia di riconoscere mio padre,—e questi bracciali.
PIRINO. Moglie mia cara, perché mai prima mostrati non me l'avete?
MELITEA. Sposo mio, i segni sono segni a coloro che li conoscono. Ma appresso quelli che non sanno che cosa sia, mi potrebbono piú tosto esser cagione di cattiva fama, dubitando che l'abbi per alcun ladroneccio o che alcuno innamorato me l'abbi donati.
DOTTORE. Pazzia sarebbe dubbitar piú che non sia mia figlia, e giá m'accorgo che allo splendor degli occhi e dalla eccellenza della bellezza, che rassomiglia a quella, quando era bambina: tu sei dessa, e il tuo aspetto è bastevole a farti conoscere che tu sei nobile.
MELITEA. Gentiluomo, ecco alcuno altro segnale per lo quale possiate rendervi piú certo che sia vostra figlia.
DOTTORE. Figlia, giá son certificato da tutti e son vinto da tutti i segni, e finalmente mi chiamo vinto dalla di tutte cose vincitrice natura, per tirarmi nel core una insopportabile alle-* *grezza. Figlia dolcissima, lascia che ti abbracci e baci, e non trattenermi un cosí dolce contento.
MELITEA. Gentiluomo mio, se ben voi sète certificato che io sia vostra figlia, voglio anche io certificarmi se sète mio padre, né cerco altri segni da voi se non un solo; se sète del medesimo voler che son io, ché non conviene tra padri e figli diversa volontá. Io mi trovo esser sposa, e amata da questo cavalliero senza inganni e senza simulazione, piú svisceratamente che sia stata amata donna giamai; e per rendergli guiderdone di tanto amore, l'ho amato e amo con tutto il core e tutta l'anima mia: e sapendo certissimo che ogni debito può ricever cambio e ricompenso, e solamente l'amore non può pagarsi se non con amore, me l'ho eletto per isposo. Ed essere amata da lui è la mia gloria e mia terrena beatitudine: me li sono data in tutto e per tutto, o che mi schivi o che mi batta o mi venda in man di turchi. Mi contento del suo contento; onde se voi avete la medesima volontá mia, sète mio padre, altrimente io non ho padre né madre né altra persona al mondo se non lui.
PIRINO. Caro signore, con che parole poss'io corrispondere a tanta affezione, conoscendo che mi ama sovra il mio merito? qual uomo sarebbe al mondo piú ingrato di me, se non l'amassi con tutto il cuore? Da quel ponto che ci vedemmo insieme—o fusse caso o destino o che cosí fusse piaciuto a Dio, per un gran pezzo sospesi insieme, imaginandoci dove prima ci avessimo potuto vedere e riconoscerci insieme, e quando avessimo avuto insieme domestichezza; e conoscendoci fra noi l'un l'altro di merito proporzionato e l'un degno de l'altro,—ci arrossimmo insieme e insieme ci impallidimmo; e insieme chiedendo l'un a l'altro misericordia, con gli occhi pieni di lacrime e riverenti, giurammo ne' nostri cuori di amarci fin alla morte.
DOTTORE. Carissimi figliuoli, se conosco l'uno e l'altro di giudicio pieno e vivace, vi conosco in questo principalmente che cosí bene ambo insieme accoppiati vi siete: onde io non son d'altra volontá che voi medesimi, ed io ho impetrato da vostro padre licenza d'ammogliarvi amboduo insieme: però abbraccio e bacio amboduo come miei carissimi figliuoli. Ma io non so chi abbracciar prima, cosí egualmente vi amo e desio. Solo ti priego, caro mio Pirino, ch'ami la mia figliuola come l'hai amata per lo passato.
PIRINO. Se l'ho amata schiava, povera e in casa d'un ruffiano, che si può dir piú? benché dalle sue maniere e sue creanze l'ho stimata sempre nobile e onorata, or dico che se non conoscendola l'ho tanto amata, quanto debbo or amarla sapendo che è vostra figlia? E quanto m'ho imaginato di lei, tutto m'è riuscito.
DOTTORE. Figlia, entriamo in casa, ché ivi ragionaremo piú a lungo. Forca, trova Mangone e digli che gli dono i cinquecento ducati e che la mia facoltá è tutta sua; e chiama Panfago e liberalo dalla prigionia.
PIRINO. Chiama ancora Alessandro, ché venghi a riconciliarsi con mio padre e goder insieme con noi una commune allegrezza.
FORCA. Farò quanto comandate.
MELITEA. Forca mio, giá è tempo di riconoscerti de' piaceri ricevuti da te.
PIRINO. Farò che questa sera sia tu libero e a parte d'ogni mio bene.
FORCA. Io non merito tanti favori. Spettatori, Alessandro, Panfago e Mangone verranno a noi per la porta di dietro. Voi potrete andarvene a vostro piacere; e se la comedia v'ha piaciuta come l'altre, fatele il solito segno di allegrezza.