GIAMBATTISTA DELLA PORTA
LE COMMEDIE
A CURA DI VINCENZO SPAMPANATO
VOLUME PRIMO
BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI 1911
LA TABERNARIA
INTERLOCUTORI
GIACOCO vecchio GIACOMINO suo figlio CAPPIO servo LARDONE parasito ANTIFILO innamorato Spagnuolo Pedante ALTILIA giovane LIMA balia Tedesco LIMOFORO PSEUDONIMO Capitano.
La favola si rappresenta in Napoli.
ATTO I.
SCENA I.
GIACOCO, GIACOMINO, CAPPIO.
GIACOCO. Tate, petate e castagne infornate. Zitto, che ti venga la pipetola; m'hai dato tante vernecalonne e vernecocche che m'hai fatto venire le petecchie. Lassamo sti conti dell'uorco, Iacoviello mio, figlio buono come lo buono iuorno, e ascota ca te boglio dicere: io me ne vao a Posilipo, ca Smorfia lo parzonaro m'ha ditto ca vole vendegnare; e se non ci vao e sto con tanti d'uocchi apierti, dell'uva non me ne fa toccare n'aceno.
GIACOMINO. Andate in buon'ora, Giacoco, mio caro padre, attendete alla vostra salute da cui dipende tutta la nostra; ma quando sarete di ritorno?
GIACOCO. Crai, poscrai, poscrigni o piscrotte allo chiú chiú, ca la vendegna ce la faccio brocioleare. Guardáte la casa, pigliatevi spasso e sguazzate.
CAPPIO. Se volete che sguazziamo, lasciateci denari assai.
GIACOCO. Mò volea mettere no spruocco allo pertuso se non ci rispondevi tu e bolivi danari: ca te venga la visintieria e ti si secchi la lengua quanno li nuommeni!
CAPPIO. Una dozina di ducati che ne lasciaste sarebbe ben poca.
GIACOCO. Squágliamete denante, ca puozze sparafondare, ca m'hai dato na pommardata dintro l'orecchia. Ca te sia data stoccata catalana alla zezza manca, ca ce capa dintro lo Castiello co l'artigliarie e onne cosa! non me ne mandare chiú de chesse giasteme, ca me fareste diventare no pizzico de cenere.
CAPPIO. Oimè!
GIACOCO. Oimè, ca trona: va', frate mio, ca marzo se ne trase.
CAPPIO. Non sguazzaremo dunque?
GIACOCO. «Né mò né mai»—disse Cola da Trane. Iacoviello mio, sai ca te boglio dicere? cerca dintro le saccocciole de chille cauze vecchie meie, ca ce trovarai doe cincoranelle larghe, stipatelle; e mò ca m'arrecordo, apri quello scrigno vecchio e cerca dintro chille bertole, ca ce trovarai na cinquinella. Compráte robbe a bizeffe, mangiate ad uocchie de puorco, satorateve a pietto de cavallo, bevete a diluvio; e lassate qualche morzillo pe quanno torno.
CAPPIO. Lasciatici alcun'altra cosa.
GIACOCO. Guerregnao, chisto m'ha fatto la gatta: non aggio chiú spanto, porrissivo sonare le campane de gloria.
CAPPIO. Qualche cosetta almeno.
GIACOCO. Te', all'uocchi tuoi!
CAPPIO. Volete che pigliamo pane in credenza dal fornaio?
GIACOCO. None, te dico.
CAPPIO. Che solamente spendiamo quelle cincoranelle?
GIACOCO. Sine, te dico. Non chiú parole, ca me se abbottano sti co…. chiú de na guállara.
CAPPIO. Metterò mano alla botte.
GIACOCO. Se tu metti mano alla votte, io metterò mano alle bòtte pe sse spalle: schitto che ti muovi a far delle toie, quanno torno te faraggio provare che zuco renne cótena, pe l'arma delli muorti mei. Iacoviello mio, me ne vao; covernamitte.
CAPPIO. (Che non ci torni piú!).
GIACOCO. Che hai vervesiato, chiattelluso, scummabruoccuoli, aguiento da cancari?
CAPPIO. Il Cielo vi facci tornar presto!
GIACOCO. Vao, ca no me coglia notte pe la via.
SCENA II.
CAPPIO, GIACOMINO.
CAPPIO. Mira avarizia di uomo, piatisce con i cimiteri e con i vermi e risparmia come non avesse a morir mai.
GIACOMINO. Quanto piú invecchia l'uomo, tanto l'avarizia piú ringiovenisce: egli è cosí avaro come misero e cosí misero come avaro.
CAPPIO. O che mai ne paressero vecchi! tutti avari, fastidiosi, ritrosi, pazzi, rimbambiti; sempre minacciano, bestemiano, gridano, si lamentano, né si contentano mai.
GIACOMINO. Veramente quando l'uomo passa i quarant'anni doverebbe morire e smorbare il mondo. Tutti perdono la memoria per non ricordarsi di quando son stati giovani.
CAPPIO. Anzi morire alli quaranta e lassar godere a' giovani com'han essi goduto. Dice che vuol tornar presto: oh che quella parola fosse tornata tossico che subito l'avesse ucciso!
GIACOMINO. Certo, che quel tornar presto ci turba ogni disegno.
CAPPIO. Intanto attendiamo a dar la battaglia al granaio, alla caneva e a' formaggi.
GIACOMINO. Bisogna attendere alla battaglia che amor mi dá nel cuore con assalti piú atroci che ritrovar si possino. Non posso piú resistere, mi rendo vinto, sono abbattuto e morto.
CAPPIO. Se sète morto, requiescat in pace, provedasi di sepoltura.
GIACOMINO. Cappio, ti burli di me?
CAPPIO. Giá cominciate a freneticar senza febre.
GIACOMINO. La febre amorosa mia è stata sempre continua e cosí ardente nel cuore che non mi lascia mai per un sol momento.
CAPPIO. Forse son resuscitati gli amori di Salerno?
GIACOMINO. Non son resuscitati, perché non moriro mai. Sappia il mio caro Cappio che dal dí che mi partii dalla mia Altilia l'anno passato da Salerno, restai il piú misero ed infelice uomo che viva; ma ben aventurato e felice che, in questa mia miseria ed infelicitade, la memoria de' ricevuti favori e la speranza di avere a tornar presto a rivederla son stati saporitissimo cibo alla fame e al digiuno de' miei pensieri, che agl'incendi miei desideravano rinfrescamento; ché s'io avessi voluto con importuna temeritá violar la modestia, la generositá dell'animo suo e il merito del suo amore, arei conseguito da lei quanto desideravo.
CAPPIO. Per quanto accorger mi potei, ella altro non bersagliava che avervi per isposo.
GIACOMINO. Ella ha compito il bersaglio, ch'io altro non desidero che averla per moglie.
CAPPIO. Non so se l'avarizia di vostro padre contenterassi che voi toglieste per moglie una figlia d'un maestro di scola e senza dote.
GIACOMINO. I suoi costumi e la bellezza son tali che la rendono degna di maggior uomo ch'io non sono, e senza dote. Queste doti apportano piú danno al restituirle che ricchezza quando si prendono. E che maggior tesoro della sua bellezza? Ella ave oro nei capelli, zafiri negli occhi, rubini nelle labra e perle ne' denti. Qual miniera produsse mai cosí fin oro o sí ricche gioie? O me sopra tutti gli uomini felicissimo, s'io possedessi un tal tesoro!
CAPPIO. Che ordinate che si facci?
GIACOMINO. Or che l'assenza di mio padre ci porge la commoditá, vuo' che subito vadi a Salerno. Tratta con Lima, la sua balia, archivio de' nostri secreti amorosi, e con Lardone parasito, che oprino appo lei in che luogo ed ora possiamo ritrovarci insieme, acciò possa satollar questi occhi famelici della sua vista. E se pur questo mi negasse, che miri almeno nel mio volto l'opera del suo valore. Del che se tu mi compiaci, ti compiacerai poi d'avermi compiaciuto.
CAPPIO. Oprar con Lima e con Lardone voi ben sapete che vi bisogna.
GIACOMINO. Che cosa?
CAPPIO. Un poco di musica.
GIACOMINO. Come musica?
CAPPIO. Porre in un fazzoletto alcuni scudi e poi dargli due squassatine che rendano suono, perché il suono de' scudi si fa sentir da lungi e fa piú dolce armonia di qualsivoglia istrumento, e massime se son traboccanti.
GIACOMINO. Pur bisogna disporgli.
CAPPIO. Essi risponderanno e disporranno meglio di voi.
GIACOMINO. Baciagli le mani da mia parte.
CAPPIO. I scudi gli faranno i baciamani meglio che voi.
GIACOMINO. Dove son questi scudi?
CAPPIO. Pigliate i capelli d'Altilia che son di miniera, coceteli al foco del vostro core, batteteli col martello, col quale amor vi picchia, in verghe e fatene scudi; o vendete quei rubini, zafiri e perle del suo volto, e cominciate a smaltir cosí gran tesoro.
GIACOMINO. Quei capei tutti son lacci per incatenarmi ed appiccarmi. Ma eccoti diece scudi che gli ho accoppiati col risparmio di quest'anno a tal effetto.
CAPPIO. Or sí, che il focile arde ed il martello lavora.
GIACOMINO. Rinnova l'amor con Lima, ché ci porghi il suo aiuto; ché questa mona Onesta sarebbe per corromper l'onestade.
CAPPIO. Questi danari e il desiderio che ho di servirvi mi giongeranno l'ali a' piedi e mi faran correr velocissimo.
GIACOMINO. Pártiti or ora con quella prestezza che si richiede al mio desiderio, ché la prestezza e diligenza è madre del buon esito delle cose.
CAPPIO. Entrate, ch'io provedendomi d'alcune cose per il viaggio, mi porrò in camino.
SCENA III.
LARDONE, ANTIFILO.
LARDONE. (O Cielo, che trovasse alcuno che mi ricevesse a pranso questa mattina!).
ANTIFILO. (O Cielo, o stelle, che v'ho fatt'io, che mi trattate cosí male? O morte, perché sai c'ho in odio la vita, però non me la togli?).
LARDONE. (Ecco Antifilo, l'innamorato d'Altilia, concorrente nell'amore con Giacomino, ma con disegual sorte: ché tanto Giacomino è amato quant'egli è disamato da lei).
ANTIFILO. (O Cielo, che amare ferite son queste? poiché mi son messo ad amare una tigre, mi devo però io disperar del tutto? No, perché nella disperazione suol sempre rinverdirsi qualche speranza).
LARDONE. (Certo, che lo desiava incontrare, ché mi pregò Altilia, incontrandolo gli donassi una lettera. Son certo che sarò il corriero della mala novella; ma gli cercarò prima la mancia che la legga, ché dopo letta so che mi odiará a morte).
ANTIFILO. Ma non è Lardon quel che veggio, o forse il desiderio me lo fa cosí parere?
LARDONE. Lo vedi veramente; e v'ho servito secondo il vostro desiderio.
ANTIFILO. Dimmi, Lardone mio, come stia.
LARDONE. Io non son medico che toccandovi il polso lo potessi sapere.
ANTIFILO. Lo sai meglio d'un medico: se mi rechi lieta risposta alla mia lettera, son vivo; se mala, son disperato della vita. Onde se vedrò con effetto che m'hai servito bene, ti farò conoscere che da me sarai servito assai meglio.
LARDONE. Ho dato la lettera ad Altilia.
ANTIFILO. E come debbo crederlo?
LARDONE. Ecco la risposta per testimonio che gli l'ho data.
ANTIFILO. E perché non me la dái, o illustrissimo mio Lardone?
LARDONE. E tu perché non mi dái la mancia, o eccellentissimo mio Antifilo?
ANTIFILO. Te la darò doppo letta.
LARDONE. Doppo che l'innamorato ha conseguito l'effetto con la sua amata, non si ragiona piú de' mezi.
ANTIFILO. Che vorresti dunque?
LARDONE. Due scudi almeno.
ANTIFILO. Eccoti due scudi l'un sopra l'altro.
LARDONE. Poco mi si dá che l'un stia sopra o sotto dell'altro. Ma che son scudi ch'han ali alle spalle ed a' piedi e corrono e volan via?
ANTIFILO. O Lardone, se qua dentro risplenderá qualche favilla di speranza, vedrai la mia liberalitá in altra forma.
LARDONE. Leggete e vedrete.
ANTIFILO. Oimè, mi trema la mano, e pare che sia paralitico. So che qui dentro non ci può esser cosa che buona sia. Leggerò pure.—«Voi mi chiamate selvaggia, ingrata, disamorevole, empia tigre, crudelissima vipera e velenoso basilisco. Ma se son tigre, perché mi segui? se son vipera, perché mi servi? se basilisco, perché mi miri? Lasciami dunque vivere nella mia crudeltá, nella mia fierezza, ed ingratitudine, né piú noiarmi con le tue importunitadi. Quando mai t'allettai ad amarmi? quando in parole o atti di avermi a seguire? se col desiderio ti pasce la speranza, quando ti ho dato io speranza che tu m'amassi? quando ti promisi fedeltá in amore? Tu stesso, per un tuo disordinato appetito, per un vano desiderio ed ostinata perfidia, mi hai sempre infastidita. Sarei veramente crudele, se mi ti fossi mostrata al principio pietosa e poi divenuta ingrata, se avessi promesso amarti e poi ritirata mi fussi…».—O cuor di marmo, o anima di bronzo, o petto di diamante! deh, perché non vo a precipitarmi?
LARDONE. Veramente una turca, una cagna.
ANTIFILO. Non vuo' piú legger per non morirmi affatto de disperazione. Ma io vuo' leggerla solo per morire: a chi vive senza speranza, la morte sola gli è medicina.—«… Dicovi che voi stesso sète cagione del vostro male, voi stesso la fucina de' vostri strali, voi stesso tessete fallacie, inganni e vani pensieri d'ingannar voi stesso. Tu dici che t'ho innamorato con la vista; tu ben sai che ti ho sempre scacciato con ogni mostra di sdegno. Se tu con la speranza hai sempre ravvivato le tue fiamme, ed io te l'ho sempre incenerite con odi, repulse ed ogni sorte de dispreggio: e perché dunque non disenganni te stesso?…».—Ed io posso legger questo e non morire? O parole uscite da' piú profondi luoghi del centro! O Lardone, e nel regno d'Amore trovasi piú gran mostro?
LARDONE. Veramente mostro di crudeltate! Finite pure.
ANTIFILO. «… Dite che son bellissima, che la mia beltá vi trasse a mirarmi e che d'allora in qua Amor si fe' signore e tiranno del vostro cuore; e che amando me, io obbligata sono a riamarvi. Se la mia bellezza v'ha spinto ad amarmi, non per questo io debbo amarvi; perché se voi non parete bello agli occhi miei, e se l'amore è atto della libera volontá né si lascia sforzare, come posso io sforzar me stessa ad amarvi? Amisi o per elezione o per destino, io né per l'uno né per l'altro posso amarvi; e tanto è amare alcuno contra la sua volontá e contro il tenor del Cielo, quanto camminar per un mar periglioso con venti contrari, senza sarte e senza vele, perché alfin doppo varie tempeste si truovi sommerso in un golfo di pene e de' suoi sproporzionati e disordinati desidèri…».—O che parole magiche e funeste, o tirannia d'amor non mai piú intesa!
LARDONE. Certo, che dovreste odiarla quanto l'amate.
ANTIFILO. Ahi! che non posso amar altra che quella che da' primi anni cominciai ad amare.—«… Ed acciò non abbiate piú a molestarmi, io vi manifesto il mio cuore: io ho dato ad altri il mio cuore. Egli solo m'ha spogliato della mia libera volontá, egli solo è la fatal esca de' miei pensieri; e non avendo se non un cuore, non posso amar se non un solo; e se volessi amar molti, bisognarebbe che avesse molti cuori. In conclusione, io non posso amarvi, né se potessi vorrei. V'ho risposto al giusto ed onesto».—O Cielo, che giustizia, che onestá è questa? O fiera conclusione, che ad un colpo m'hai tronco l'anima e la vita. Io ti maledico, terra che mi sostieni, aere che respiro, acqua che non mi sommergi, fuoco che tutto non mi brugi e mi facci cenere! Prego l'inferno che mi suggerisca nuove voci, nuove parole, nuovi concetti, con i quali io possa mostrare al mondo la crudeltá di costei. O generata dal Tartaro, o concetta da Megera e partorita da Aletto, o allevata fra l'orribili rive di Cocito, o nodrita fra le fere de' piú dirupati monti del Caucaso, solo ch'io avesse a vivere fra sí amarissime pene!… E che fo che non vo ad appiccarmi con le mie mani, acciò con la mia morte si sepellisca la memoria d'una sí crudelissima donna? E che non ho tentato per esser amato da costei? Non mi resta altro che la disperazione! Tutto ciò perché ama Giacomino; ma se dovessi morir io, vuo' che costui muoia per le mie mani, acciò per la costui morte ella muoia de disperazione.
SCENA IV.
CAPPIO, LARDONE, ANTIFILO.
CAPPIO. (Questi mi par Lardone).
LARDONE. (Questi mi par Cappio). O buono incontro!
CAPPIO. O che miglior riscontro, perché sei venuto a tempo!
LARDONE. Sarei venuto a tempo, se fossi ricevuto da te a pranso questa mattina.
CAPPIO. Che faccende ti conducono a Napoli? che porti di nuovo?
LARDONE. Nulla di nuovo né fuori né dentro. Fuori ogni cosa è vecchia: il mantello tanto logro e spelato che se due pedocchi facessero questione insieme, non sarebbe fra loro un pelo che li partisse; il giuppone e le calze paion reti di pescatori, tanto sono aperte, e temo che un giorno il corpo se ne scappi fuori. Dentro ci è quella fame antica che nacque nascendo meco, né morirá finché non muoia io. Di te non dimando, perché sei vestito di nuovo e la faccia è piú tonda che la luna in quintadecima.
CAPPIO. Tu stai cosí magro ch'appena hai l'osso e la pelle.
LARDONE. Sto in casa dove si mangia poco e si travaglia molto; sto con quel pedante che è avaro e spilorcio quanto ce ne cape. In casa sua mai mi veddi satollo di cucumeri; sempre il ventre entrato dentro, e la bocca tanto asciutta che non posso aprirla per parlare.
CAPPIO. Che sei venuto a far qui, in Napoli?
ANTIFILO. (Mira questi forfanti come si sono accoppiati insieme! Vuo' ascoltar che dicono).
LARDONE. Al pedante l'è stato tolto il salario della lettura in Salerno, ed egli vuole andarsene in Roma: e questa sera con la figlia e la balia se ne vengono in Napoli; ed io vado innanzi, al Cerriglio, col tedesco ad apparecchiar la cena.
CAPPIO. Lardone, se cosí è, or è venuto il tempo che daremo un poco di legno santo e di salsa alle tue veste e le guariremo della peluia che l'ha fatto cadere il pelo; ed alla fame del tuo corpo gli daremo una medicina di zuppe lombarde, di pignatte maritate, di capretti allattati da due madri, di maccheroni fatti di molliche di pane e di pelle di capponi bogliti nel brodo grasso di galli d'India. Per vini, liquori di vini grechi, lacrime, moscatelli di amarene. Queste vivande nuove ti scacciaranno dal corpo quella fame invecchiata che tu dici.
LARDONE. O che prurito alla gola! Eccomi per servirti a piedi ed a cavallo; ma intendiamo, che servigio volete da me?
CAPPIO. Ben sai quanto Giacomino mio padrone muore per Altilia e quanto è riamato da lei. Ben sai quante volte t'ha pieno il corpo e fattoti mutar vesti come il serpe la primavera.
LARDONE. Che vuoi dir per questo?
CAPPIO. Giacoco, il vecchio, è gito a Posilipo alla vendemia, e noi siamo rimasti soli in casa. Il padron giovane or m'inviava a Salerno per avvisarvi che voleva venir colá; ma poiché si viene questa sera in Napoli per alloggiare col tedesco nel Cerriglio, noi accomodaremo la nostra casa in foggia di taberna, ed io sarò il tedesco—ché per esser io stato per molti paesi, so alquanto di quei paesi.—Il pedante non mi conosce né mai fu in Napoli: stimará la nostra casa il Cerriglio; e venendo Altilia in casa nostra, puoi imaginarti se sará ben pasciuta di saporitissimi cibi.
LARDONE. Dubito che questi cibi non mi strangolino.
ANTIFILO. (Mira che diabolica invenzione per condurre Altilia in casa di Giacomino!).
CAPPIO. Tu non ti morrai piú di fame.
LARDONE. Ma di capestro.
CAPPIO. Eh, tu vuoi la baia!
LARDONE. Eh, tu mi drizzi al boia! Cappio, non vorrei ch'un altro cappio mi strangolasse.
CAPPIO. Staremo sempre in festa e gioia.
LARDONE. Ed io balzato in una galea.
CAPPIO. Qui non ci è pericolo manco d'un filo.
LARDONE. Ma d'una corda. E giá mi sento prurire il collo: come la calamita tira il ferro, cosí par che la forca mi tiri il collo molte miglia. Cappio, tu cerchi la mia rovina.
CAPPIO. Anzi tu stesso cerchi la tua rovina: hai la ventura innanzi e non la conosci.
LARDONE. Nol farò mai.
CAPPIO. Per che ragione?
LARDONE. Perché scoprendosi sarò appiccato.
CAPPIO. Questa tua ragione è senza ragione, perché non basta a scoprirsi mai. L'inganno è tanto riuscibile che se pur si scoprisse, avemo molti modi di scolparti. Lardone, tu sai ch'io e tu ci conosciamo insieme, e tu non ti puoi nascondere dietro questo dito. Sai bene quante volte avemo mangiato e bevuto insieme a spese de' perdenti; tu sei un forfante, e le forfantarie l'ho imparate da te; se faremo questione, scoprirò bene che sei un forfante de ventiquattro carati. Tu sai i patti nostri: aiutarci l'un l'altro, ché cosí aremo i corpi pieni di buoni bocconi e le borse di contanti. Queste occasioni non accadono sempre: passano, e ci pentiremo. Quello è proprio sciagurato che si fa scappar di mano queste straordinarie venture: non mancare a te stesso. Di' sí e poi lascia fare a me, ché ne restarai ben contento e pagato.
LARDONE. S'io dico sí, non farai tu, ma il boia, e tu vedrai.
CAPPIO. Finiamola! In Surrento una vitella ha partorito una vitelluccia, e son due madri a lattarla.
LARDONE. A queste figlianze diverrei compare io volentieri. Ma mentre ho denti da rodere piccioni e polli, e gola da tracannar vini brillanti, e stomaco da riempir di pastoni, io mi vuo' porre ad ogni periglio: meglio è che il boia mi stringa una volta la gola che la fame mi strangoli mille volte il giorno, e di gir nudo e crudo. Vuo' far quanto vuoi.
CAPPIO. Ritorna in Salerno, fa' consapevole Altilia e Lima del conserto, e dirai al pedante ch'hai avisato il tedesco del Cerriglio, il quale ha detto alloggiarlo benissimo. Come sará qui, fingeremo che Altilia non si senta bene, e ci tratterremo qualche giorno in casa nostra; e tu e Lima sarete sodisfatti d'ogni vostra opera. E per voi solo si prepara un forno sempre pieno di pasticci in caldo.
LARDONE. Ma la bocca del forno d'Altilia andrá in rovina. Con questo mi sconterò il mal pagato salario, i digiuni, le vigilie e le quarantine che mi fa far tutto l'anno in casa sua.
CAPPIO. Sappi usar bene la tua forfantaria.
LARDONE. Non bisogna avisarmelo, che questa fu arte di mia madre, ava e bisavola e di tutto il mio legnaggio. Va' presto e compra robba a bastanza, ch'io torno a dietro e condurrò la vacca in stalla; farò restare alcune robbe a dietro, acciò, mentre il maestro torna, il toro abbia agio di godersela.
CAPPIO. Via presto, ch'io avvisarò il padrone, e apparecchiaremo la taberna.
LARDONE. Avèrti che se non mi si attende quanto mi si promette, scoprirò ogni cosa e porrò sottosopra il mondo.
ANTIFILO. (Tutto questo si tratta contro me. Andrò a Posilipo; farò gridar: «turchi! turchi!», di modo che Giacoco torni a casa e disturbi la macchina di Cappio; e non lasciarò modo di affligere Altilia e Giacomino, come eglino hanno me afflitto e sconsolato).
SCENA V.
GIACOMINO, CAPPIO.
GIACOMINO. Oimè, Cappio, che fai?
CAPPIO. Nulla.
GIACOMINO. Come nulla?
CAPPIO. Perché è fatto quasi ogni cosa.
GIACOMINO. Come questo? tu sei qui ancora.
CAPPIO. Giá pensavate ch'io fossi gionto a Salerno?
GIACOMINO. Pensava che tu fossi piú amorevole al tuo padrone che non sei, e massime in cosa che egli desia cotanto.
CAPPIO. Ed io vi dico che vi son stato piú amorevole che non stimate. Ho esseguito quanto m'avete imposto, con piú destrezza e diligenza che comandato m'avete.
GIACOMINO. Se fosse come dici, giá saresti a Salerno.
CAPPIO. Ed io ho ragionato con Lardone e fatto di modo che questa sera arete Altilia in casa vostra.
GIACOMINO. Com'è possibile ch'abbi fatto quanto dici?
CAPPIO. Questi son miracoli che sa fare il vostro Cappio.
GIACOMINO. Tu ridi, m'arai detto la bugia.
CAPPIO. Poiché stimate che v'abbia detto la bugia, non bisogna che piú ne parli.
GIACOMINO. Non dico che nol credo perché nol creda, perché ogni innamorato crede e nelle cose che si desiderano si presta ancor fede alle bugie; ma dico che nol credo per soverchia voglia che ho che vero sia. So il valor del mio Cappio, a cui cede ogni malagevole impresa.
CAPPIO. Or apparecchia il cuore per poter capire cosí smisurata allegrezza!
GIACOMINO. Parla presto.
CAPPIO. La tua Altilia è in Napoli.
GIACOMINO. Altilia mia?
CAPPIO. Altilia tua.
GIACOMINO. In Napoli?
CAPPIO. In Napoli.
GIACOMINO. In casa mia?
CAPPIO. In casa tua.
GIACOMINO. La mia Altilia in Napoli e in casa mia?
CAPPIO. La tua Altilia in Napoli e in casa tua, e cose maggior di queste.
GIACOMINO. Che cose ponno essere maggior di queste?
CAPPIO. Che dormirete insieme questa notte.
GIACOMINO. Eh, Cappio mio, parla presto, ché tu mi strangoli piú che non farebbe un cappio di manigoldo.
CAPPIO. Per dirtela in breve, il pedante va in Roma, ed ha mandato Lardone innanzi, al Cerriglio, a preparargli l'albergo, ché vien con Lima ed Altilia. …
GIACOMINO. Che ha a far questo con la mia felicitade?
CAPPIO. … Abbiam concertato con Lardone che, in luogo del Cerriglio, la porti in casa vostra accomodata in foggia di taberna.
GIACOMINO. E come in cosí brevi parole rinchiudi cosí gran contento? Dimmelo piú distesamente.
CAPPIO. Ve lo dirò per strada. Diamo mano a' fatti: andiamo a comprar galli d'India, polli, piccioni e fegatelli; e prepariamo l'osteria, che fra poco tempo saranno in Napoli.
GIACOMINO. O cuor del mio spirito, o spirito dell'anima mia, o spirito ed anima del mio cuore, ti vedrò forse oggi e senza forse in Napoli ed in casa mia?
CAPPIO. Come stai cosí attonito?
GIACOMINO. Dubito di qualche tempesta che suol sempre attraversarsi alle gioie degl'innamorati.
CAPPIO. Non perdiam tempo: andiam a preparar la casa, ed io a comprar robbe.
GIACOMINO. Cosí si facci.
ATTO II.
SCENA I.
GIACOMINO, CAPPIO.
GIACOMINO. Paggi, scopate ed inacquate per tutto, portate qui la tavola e le sedie… . O Cielo, come sète pigri, non è maggior tarditá di quella che s'usa ov'è bisogno di prestezza… . Togli tu il mantile da quella parte ed io da questa, ché penda egualmente da tutte le parti… . Or sí, che sta bene. Accendete il fuoco che sia a bastanza, lavate i bicchieri, calate giú il giarro e il baccile per dar l'acqua alle mani, portate la saliera e i salvietti e i cortelli. Diasi fuoco alla profumiera, ch'essali il fumo odorato. Fate che serviate a cenno, ché il cenno è il segno delle taberne; se non, che voleranno per l'aria i piatti, e i bicchieri per la testa e su' volti.
CAPPIO. Ecco i piccioni, polli, capponi e porchette, spiedi di fegatelli, pasticci e l'altre manifatture.
GIACOMINO. O che sia tu benedetto, che con prestezza e diligenza hai avanzata la necessitá.
CAPPIO. Me l'ho fatti prestar da un'altra taberna, pagandoli quello che si consumerá; e l'aremo in un tempo arrosti e allessi caldi caldi.
GIACOMINO. Veramente, quando a te piace, non hai par in astuzia e diligenza.
CAPPIO. Andrò ad attendere al fuoco e a vestirmi da tedesco.
GIACOMINO. Ed io attenderò ad accomodar la taberna.
SCENA II.
ANTIFILO, SPAGNOLO.
ANTIFILO. (Giá son stato a Posilipo con molti amici, e con gridi e rumori abbiam gridato: «turchi! turchi!»; e s'è posto in bisbiglio tutto il luogo, com'è solito farsi tutta l'estate: stimo che Giacoco sará tornato, ché tutti son fuggiti. Giá vedo l'apparato che s'ordina; cercherò alcuni che turbino questa festa e conduchino il pedante al Cerriglio).
SPAGNOLO. ¡Oh cuanto mejor querria llegar á una venta adonde pudiese descansar esta noche, que estoy tan cansado que no puedo más menearme! Pobre pasajero, que de la guerra de Flandes ya que me debían veinte pagas, por no poder ser pagado, nos havemos alborotado y hecho los bandoleros, y viniendo á Napoles por tan largo viaje sin un maravedís, me he visto mil veces muerto de hambre, muchas veces desvalijado, y por tantas desdichas hay más de veinte dias que no como un bocado de pan ni un trago de vino, que no puedo tenerme en pié.
ANTIFILO. (O come costui viene a proposito! svaligiato e morto di fame e prosontuoso. Basterá questo solo a disturbar tutto il convito e far manifesto l'inganno).
SPAGNOLO. Oh Dios, cuando será V. M. servida volverme á mi tierra, que volvieria á mis manadas de ovejas y carneros para hartarme de queso y lache y de mucha fruta; partime de allá para hacerme caballero, y vine á estas partes del diablo, que nunca me veo harto de pan.
ANTIFILO. Compañero, che vai cercando cosí a notte per qua?
SPAGNOLO. Una venta adonde pudiese comer, dormir y descansarme.
ANTIFILO. Mira esta venta, aquí está un ventero muy rico, y da las cosas muy barato, y están esperando unas putas y alcahuetos; séntate y coma que son medrosos, y con una cuchillada comerás sin pagar nada.
SPAGNOLO. Doy muchas gracias á V. M. por el aviso; y entraré.
ANTIFILO. Entraos allá, y haceis dar bien de comer.
SPAGNOLO. Oh Dios, me pudiese hallar un poco de pan, vino y carne para comer esta noche, que en la guerra he estado pereciendo de hambre.
SCENA III.
GIACOMINO, CAPPIO, SPAGNOLO.
GIACOMINO. Olá, chi sei che con tanta presunzione entri nella taberna?
SPAGNOLO. Soy don Juan Cardon de Cardona.
CAPPIO. Don Giovan Ladron de Ladroni, lascia quel pezzo di carne.
SPAGNOLO. Era caido en tierra, y porque algun perro no lo comiese, lo he alzado de la tierra.
CAPPIO. E per salvarlo te l'avevi posto sotto l'ascelle?
SPAGNOLO. Ventero, quiero alojar esta noche en esta venta.
CAPPIO. Qua non son ravanillos y cevollas; non ci è cena per te, ché la taberna è fatta per signori e cavalieri e non per un tuo pari.
SPAGNOLO. Pese á tal, voto á tal, que yo soy tan bien nacido como el rey de Espana.
CAPPIO. Povero re di Spagna, ch'ogni villano e capraro che vien da Spagna in Napoli dice esser cosí ben nato come lui!
SPAGNOLO. Soy capitan aventajado y pariente de todos los grandes de España y vengo de la guerra de Flandes.
CAPPIO. Ará guardato capre tutto il tempo di sua vita, e ora è parente di tutti i grandi di Spagna. Qua non ci è da mangiare né da dormire; va' in alcun'altra osteria.
SPAGNOLO. No quiero más que dos anchovas con el aceite.
GIACOMINO. Mira dimanda, che vuol mangiar chiodi con l'aceto! In questi paesi non si mangiano queste vivande.
SPAGNOLO. «Anchovas» digo, «sardinas» con l'olio.
CAPPIO. Oggi è giorno di carne: non avemo né sardelle né olio.
SPAGNOLO. Almeno una minestra de garvansos.
GIACOMINO. Vuole una minestra di canevaccio. Andate alle botteghe di tele, ché arete canevaccio quanto volete.
SPAGNOLO. Vos quereis que os quebre la cabeza.
GIACOMINO. Vuole la capezza dell'asino. E che ti vuoi appiccare? Va' in un'altra taberna.
SPAGNOLO. Yo non me partiré de aquí, si me echasen todos los diablos del infierno. Si pongo mano á la espada, en dos golpecillos, chis chas, haré pedazos cuantos bodegones hay en todo el reino de Napoles.
GIACOMINO. Cappio, caccia costui, ché un trattenimento tale non è bon per noi.
CAPPIO. Se non vuoi partirti in buon'ora, te n'anderai in malora per te.
GIACOMINO. Cappio, chiama quei smargiassi forastieri che alloggiano di sopra, ché diano quel castigo a costui che merita.
SPAGNOLO. Con un tajo ó un rebés haré mil pedazos a cuantos quisieren echarme de aquí.
CAPPIO. Vado a chiamarli.
GIACOMINO. Camina presto.
SPAGNOLO. Y llama todos los bandoleros de Flandes y todos los diablos del infierno, que de todos haré un monton.
CAPPIO. O buon Dieu de Grandazzo, o diavolo de Paliermo, chi è cheddo cornuto, caparrone, viddano, pezziente, che mi va facendo lo giorgiu? ca se nesco fuori, co no pontapiede lo ietto sopra li ciaramiti. Taliate, quante palole ha sto beccu castratu, moneluso. Sto iannizzo battiam; aspetta no morziddu, ca pe ll'arma de patremu e de chi me figliau—e sia acciso, se me meno la chiavetta, lo sandali e lo guardanasu—piglio lo broccoliero e scindo a bassu, li scippo entrambu gli occhi e metteceli in mano, le sgangerò le corna e li scippu la lingua pe lo cozzu, con chista daga ienzo la stanza delle carne soie! E che pensi ch'haiu lo fecatu blancu come a tia, che te vuoi accoteddare co no canazu morretuso, fitienti? Non me tenite! Vostra Signuria me perdugne; ca se m'aspetta na picca, le scareco na coteddata che le taglio le nasche e le gambe co no cuorpo!
SPAGNOLO. Aquí es menester menar las manos.
GIACOMINO. Meglio per te che meni i piedi, ch'hai piú bisogno de' piedi che delle mani.
SPAGNOLO. Válame Dios, ¿que hombre es este?
GIACOMINO. Un siciliano indiavolato.
CAPPIO. Mira che criar, che zanze, che bravositá xe questa. Donca un ladro, mariol, zaffo, razza de zaffi, assassin, gramo, disgraziatazzo, schiuma de canaia, mostazzo de cavra, piegora grinza, ingenerao d'un castronazzo, becco de quattro corna, s'è cazzao in questa osteria da por sottosovra questa casa? Al sangue de le seppie e de mie pantofole, se pongo mano alla cinquedea n'ará cattao la mala ventura: una stoccata che dago dentro il cor, te trarrò la testa in levante e 'l cao in ponente. Ti xe matto, a questa foza se tratta con un zentiluomo veneziano? A ti dico, spagnolo impettolao, pezzo d'aseno, se pi' stai qua un giozzetto, ti xe morto.
GIACOMINO. O che terribil veneziano!
SPAGNOLO. ¡Voto al Cielo que yo soy muerto!
CAPPIO. Potenz in terra, pover spagnol meschinaz, al corpo de mi mader, che se te cazo in tel polmon questo temperarin, ti fare' tanti busi in tel polmon che non ne ha tanti un crivel, e ti fazo in mille pezzi. Ti venghi il cancher in tel cor, se cercasse in tutto el mondo, en Turcheria, en India e assai pi' en lá, ti non purisse accattar un oter come mi: mi son auter bravus che 'l sicilian, mi son un oter Rotolan che ammazzi pi' de trenta omen: va' via! ah venghi, ah venghi! A chi dic mi? partit con tutt'i diavoli del mondo, a chi dic mi?
SPAGNOLO. ¡Dios me libre de tantos mirables hombres!
SCENA IV.
PEDANTE, ALTILIA, LIMA, LARDONE, CAPPIO.
PEDANTE. Deo gratias. Giá siamo pervenuti all'antica Palepoli e moderna Napoli, uberrimo seminario degli oci e delle delizie. Salve o terque quaterque bella Napoli!
ALTILIA. Oh che gentil Napoli! veramente piú bella e piú magnifica assai di quel che il mondo ne ragiona. Questo è il perpetuo nido di gentilezza, la reggia d'Amore che ha lasciato il suo Cipro per abitare in Napoli; questo è il palaggio delle grazie, riposo de' miei pensieri, ricetto delle mie speranze. Oh, come par che qui il sol piú chiaro risplenda che altrove! oh, quanto goderebbe il cor mio se non avesse a partirmi di qui mai!
LARDONE. Oh come biancheggia il grasso in quei quarti di vitella! oh come gialleggiano quelle groppe de capponi, e come corporeggia quel rosso su le liste del bianco in quei presciutti, come carboneggia quel nero fra quelle reti di fegatelli, come pavoneggiano quelle provature fra quei riccami di salsiccioni!
PEDANTE. Oh tu come asineggi e bufaleggi fra queste tue ingordigie!
LARDONE. O fegadelli, trofei della mia fame! o salami, spoglie de' miei trionfi! o ricotte, o provature, gloria delle mie vittorie! o porchetta, come ti darei la man dritta passeggiando meco!
PEDANTE. Oste, oh con quanta venerazione venemo a te lietabondi e gratulabondi!
LARDONE. Domine magister, e io affamabondo e bibebondo!
CAPPIO. Ben venute le Vostre Signorie! par di vere ca mi voler far scazzar: ponere le cappelle en teste. Ma mi nit intender quel «famabonde» e «bibebonde».
LARDONE. Dico che vengo per disfamare l'affamata affamatagine del famoso mio affamamento.
PEDANTE. Oste, nomina desinentia in «bondo» significant at tum come «moribondo» e «gemebondo», cioè, idest cum maxima voluntate moriendi et gemendi.
LARDONE. Quanto dice in gramuffa, tutto viene dalla saviaggine e dalla sua litteratumma.
PEDANTE. È questo il xenodochio del Cerriglio?
LARDONE. Domine ita, non videbis quantum fegadellos, pullos, picciones e salsicciones?
PEDANTE. Lardone, andiamo per i supellettili.
LARDONE. Domine nonne; bisogna prima assaggiare i vini, apparecchiarsi da cena, e poi tornare a dietro per le robbe.
CAPPIO. Lassa faghe a mi: provi cheste pottagie falsamico, scippacapelli e moscatelli.
PEDANTE. Refiuto questi nomi infandi e nefandi di «scippacapelli» e «falsamico».
CAPPIO. Patrone, cheste… cheste «falseamiche» star tanto dolce che, quando se beve, ti pensare che ire in curpe; no, va alle gambe a fare sgambette e cadere in terre. «Scippacapelli» stare tant gagliarde, ire al capo, e pare che scippe i capelli.
PEDANTE. Dictum hoc per antonomasiam.
LARDONE. Detto per cornamusa.
PEDANTE. Lardone, tu sei cervello ottuso, apri il bugio dell'orecchie. «Antonomasia» è nome greco: «antos» vuol dir «contra»; «onoma onomatos» vuoi dire il «nome»: quasi, idest «contra nomen». «Scippacapelli», dolce che va fin a' capelli.
CAPPIO. Mi non intender, signor d'ottobre.
LARDONE. E tu intendi a me, che son signor novembre. Fa' che assaggi tutti i vini e prima il scippacapelli.
CAPPIO. Eccolo, che star mirando.
LARDONE. Miro questo mirabil vino come schizza, brilla e saltella da se stesso; mostra la schiuma, poi la risolve in perle grandi, poi in piú picciole e le picciole in nulla. O che bevanda celeste piú che nettare e pania che inveschia!
PEDANTE. Accelera il bere.
LARDONE. Non son questi vini da bersi subito, ma prima farci un pochetto l'amore; poi accostarselo alla bocca pian piano con una maestá grande, poi con una regal riverenza sporger le labra fuori e gire ad incontrarlo, torne un saggio e darlo alle prime labra; poi un altro che ne bagni la lingua e il palato, poi spargerlo per tutta la bocca, e succhiarlo a poco a poco e non traboccarlo giú nel ventre come fusse una medicina; e bevuto che n'arai un bicchiero, sta contemplando la battaglia che fan le membra, che tutte vogliono esser le prime a gustarlo: il cuor, primo, ne cava la quinta essenza, il polmone tutto se ci tuffa dentro, le budelle se ne riempiono e la milza all'ultimo se ne succhia la parte sua. All'ultimo ti fa' una succhiata de mostacci ammolliti nel detto liquore, perché ti servirá per una seconda bevuta, per un sciacquadente.
PEDANTE. Presto, che stai addormentato sul bicchiero.
LARDONE. Metti pian piano il vino, di grazia, per vita tua, ché vorrei piú tosto sparger tutto il mio sangue che n'andasse una goccia per terra. Questo è vino d'una orecchia.
PEDANTE. I vini dunque sono auriculati?
LARDONE. «Vin d'una orecchia» è quello che è eccellente, che quando l'hai bevuto, va in testa e inchini la testa sopra alla spalla; ma quando si scuote la testa dall'una parte all'altra, è segno che non val nulla. Oste, poni dell'altro vino.
PEDANTE. Che rumore è questo che fai con la gola, glo glo, quando ingiotti?
LARDONE. Lo fo accioché il vino cali a poco a poco; e quel «glo glo» son le trombette, i pifari e i tromboni con i quali io l'onoro. Questo come si chiama?
CAPPIO. Malvasia.
PEDANTE. Lascia questo, ché il nome t'addita che è malvaggio.
LARDONE. Anzi il contrario; ché «malvasia» non dice che sia malvaggio, ma dice: «mal, va' via», perché egli ti pone la sanitá nel corpo. E questo?
CAPPIO. Lacrima.
PEDANTE. Cattivo augurio: annunzia lacrime e pianto.
LARDONE. Dicesi «lacrima», ché per la sua gagliardía ti fa venir le lacrime agli occhi.
PEDANTE. Lardone, vorrei che tu libassi i vini e non ne ingurgitassi nella voragine del tuo ventre le cotile, le exabasi, gli acetabuli, i gutturni, i cantari, l'anfore, le paropsidi e i ceramini intieri intieri: hai bevuto per sei tedeschi.
LARDONE. Lasciamo «quae pars est» e nomi da scongiurar gli spiriti.
PEDANTE. Tutti son nomi significativi ch'esprimono le forme di quei vasi. Oste, hai tu del cecubo, dell'amineo e de' « spumantia vina Falerni »?
CAPPIO. Non intendere vostre linguagie.
PEDANTE. N'hai del cecubo di Pozzuolo, dell'amineo di Vesuvio e del razente de' monti Falerni?
CAPPIO. Aspette ne poche a io, che te porte le falanghine de Pezzulle, greco vesuviano e del trebiano.
PEDANTE. Nomina desinentia in «ano» maximam dulcedinem significant et mihi summopere placent. Andiamo per i supellettili.
LARDONE. Come posso partirmi, se queste porchette infilzate mi tengono incatenato, né posso distaccar la vista da questi salami, pollami? lasciatemi far un altro poco l'amore.
PEDANTE. Dii talem avèrtite pestem, o sarcofago, o lupus luporum, o asine asinorum!
LARDONE. Io asino e tu un bue, siamo bene accoppiati!
PEDANTE. Tabernarie, io non cerco lauti obsòni né tanti pulpamenti, ché non ho quadranti da spendere. Una cena frugale.
CAPPIO. Tas teich Gotz: te venghe le cancarelle, volere essere fregate!
LARDONE. Oste, al tornar mi farai trovar apparecchiato un piatto di ravioli e di maccheroni strangolatori, tanto l'uno. Per Altilia uno di questi salsicciotti, che non è avvezza a mangiarne ancora. Tu, Lima, attáccati a questi salsiccioni, che so che ti piacciono.
LIMA. M'appigliarò al tuo consiglio.
CAPPIO. Tutte cheste cose trovare apparecchiate.
LARDONE. Ma sopratutto il presto sia in capo della lista, che importa piú di tutto; ché non è peggio aver fame e stare aspettando a tavola. Se ci farai una minestra di trippa grassa, mettici della menta e zaffarano; che se per disgrazia non fosse ben netta e sentisse della madre, se è verde, abbiamo iscusa che sia la menta, se gialla, il zaffarano.
CAPPIO. Tornare presto a cca.
LARDONE. Quelle groppe pelate e grasse di quei capponi mi farebbon volare, non che trottare, e m'han posto in tanto appetito che sarei per mangiarmele crude.
PEDANTE. Andiamo, che fai?
LARDONE. Oste, riempi il ventre di questa porchetta di ficedole, tordi e altri uccelletti che, aprendo il ventre, si cavino ad uno ad uno, come uscivano i greci dal ventre del cavallo di Troia; fa' che si cuoca col suo succo e con quella sua crostina tenerella. Ahi, che non vorrei mai perderla di vista!
PEDANTE. Galante innamorato! altri amoreggia con le donne, egli con li animali morti. Teutonice, potremo lassar qui le donne sole?
CAPPIO. In cheste nostre ostelerie alloggiano vecchie fámine e con merdate.
LARDONE. Ti sia dato al mustaccio.
PEDANTE. Requiescite e date pausa alla lassitudine; fate che si prestoli la cena, ché da un pauculo di tempo tornaremo.
LARDONE. Avertite, non mangiate senza noi.
SCENA V.
GIACOMINO, ALTILIA, LIMA, CAPPIO.
ALTILIA. Il Ciel vi dia ogni contento, anima mia.
GIACOMINO. E che maggior contento potria darmi la sorte che darmi voi?
ALTILIA. E vi sia sempre lieta e propizia ogni stella.
GIACOMINO. E qual piú gioconda e graziosa stella poteva oggi appresentarsi agli occhi miei? il cui splendor ne' suoi begli occhi con benignissimi aspetti influiscono nell'anima mia tante felici e sovraumane dolcezze e preziose rugiade di gioie, che vagheggiandole non posso conoscere qual sia maggiore, o lo splendor de' suoi raggi o quel ferventissimo fuoco che apporta seco; o qual sia piú la gioia di mirargli o l'ardor che ne succede, che non so come l'angustia del mio petto lo possa capire e ne possa godere insieme tante felicitadi.
ALTILIA. E qual piú chiara luce poteva oggi rappresentarsi all'anima mia, nel cui lampeggio arde la piú chiara sfera del cielo? O vita dell'anima mia, o vita dell'anima mia!
CAPPIO. State in cervello, padrone, che le sue parole son pregne di sostanza: è figlia di mastro ed è una dottoressa che l'impatta a Platone—ed ha le veste e tele.
GIACOMINO. Ma che posso rispondere, s'alla tua presenza me si liga la lingua, stupefanno i sensi e in me stesso muoio? Le mie parole sono semplici, come m'escono dal cuore, solo avvivate dal desiderio del mio cuore. Bisognaria che avessi la sua dolcissima lingua in bocca per poterle ben rispondere.
ALTILIA. A tanto amore non so come rispondere; non posso altro, in ricompensa, che donar me stessa a voi: e voi amando me, non amate me, ma una cosa vostra; né io son piú padrona di me stessa, ma sono una guardiana delle cose vostre.
GIACOMINO. Ed io abbissato nel centro del mio niente, come posso pagar cosí gran dono? perché se possedessi la monarchia del mondo, non tanto potria donarvi che non restasse piú di quel che dato avessi. Troppo è grande la vostra bellezza, troppi sono i meriti dell'onore, della saviezza e di tante altre sue leggiadrissime parti, che partite in molte donne, molte se ne arricchirebbono: basta dir solo che in voi sieno tutte le grazie, costumi e bellezze che si trovano sparte in tutte l'altre, e che in voi sola la natura ha voluto mostrare l'eccellenza del suo valore.
ALTILIA. Vorrei che poteste ascoltar quello che nel silenzio della lingua desidera palesargli il core: che se vi è pur alcuna cosa di buono, tutto vien da' raggi del tuo sole che m'indorano tutta; da quello viene ogni mio bene. Ma ditemi, cor mio, come avete sopportata l'assenza di tanti mesi che non m'avete veduta?
GIACOMINO. In questa assenza ho provato di quelle crudeli e acerbe passioni che sanno far provare i vostri meriti. Ma pur in cosí infinito dolore m'ho meritato e guadagnato il premio della costanza e del valor della mia fede. Ho arso e bruciato bensí, ma in quelli miei incendi ho trovato quello alleggiamento che m'ave apportato la speranza di aver presto a rivederla, sperando che quegli occhi che mi avevano aperto il fianco, quelli poi avessero a risanar le mie piaghe. E voi, cor mio, come l'avete passata?
ALTILIA. Io rapita nel pensiero delle vostre qualitá rare e inimitabili, ho pasciuto l'intelletto di certo inusitato diletto che solo m'ha sostenuto in vita, e fra cosí dolci inganni ingannando me stessa, ho passata la vita mia; né so che altro rispondervi che tutte le parole che devrebbono uscir dalla mia bocca, tutte escono dalla vostra.
GIACOMINO. Che dici, o fidelissima ministra de' nostri secreti amori?
LIMA. Che il Cielo stringa e conservi stretto cosí bel nodo d'amore, che non sia per sciorsi giamai.
GIACOMINO. Non si sciorrá ben certo, ché non è il maggior ligame nell'amore che la somiglianza de costumi; onde il nodo è cosí strettamente ordito per le mani d'Amore che non bastará sciorsi dalla morte.
LIMA. Ma poiché sète patti e contenti, ricevete l'un dall'altro il premio di tanto amore.
GIACOMINO. Ma perché trattengo me stesso, dove la voglia mi sferza e mi sospinge?
CAPPIO. A me par sciocchezza perdere il tempo in belle parole, che si potrebbe spendere in uso piú desiato e gradito: avete poco di tempo, e quel poco che avete ve lo torrá il ritorno del mastro or ora.
LIMA. Giacomino, ve la do in podestá: vi prego a serbar con lei quel decoro che si conviene alla qualitá vostra e al suo onore.
GIACOMINO. Anima mia, dal tempo che v'ho amata, v'ho amata sempre da sposa, ché tal mi pareva che meritassero le vostre parti; io per sposa v'accetto se ne son degno.
LIMA. Or andate a riposarvi, o bella coppia d'amanti e sposi.
CAPPIO. Anzi a faticar piú che mai.
SCENA VI.
LIMA, CAPPIO.
CAPPIO. Lima, quei si vanno a godere, e noi vogliamo qui far la saliva in bocca?
LIMA. Il tuo amore è come quello degli asini, che non dura se non la primavera; ma dimmi, che hai apparecchiato per darmi?
CAPPIO. Il fuso per la tua conocchia e il pistello per il tuo mortaio; ché se non hai il pistello, come vorresti far la salsa, e se ti mancasse il fuso, come vorresti filare? E tu che m'hai apparecchiato?
LIMA. La berretta per il tuo capo e la lanterna per la tua candela; ché non aresti con che coprirti il capo quando piove, e non avendo lanterna, il vento ti smorzarebbe la tua candela.
CAPPIO. Orsú, entriamo ad accenderla; va' prima e ponti in ordine.
LIMA. Noi stiamo sempre in ordine; ponti a ordine, e per non farmi aspettare, entra innanzi tu o vienmi dietro.
CAPPIO. Entriamo, ché innanzi o dietro, poco m'importa.
ATTO III.
SCENA I.
CAPPIO, GIACOMINO, ALTILIA, LIMA.
CAPPIO. Giá è ogni cosa in ordine: potrete seder quando vi piace.
GIACOMINO. Paggio, dá l'acqua alle mani; oh come sei melenzo! dalli la tovaglia per asciugarle.
CAPPIO. Sedetivi, di grazia.
ALTILIA. Non tante cerimonie.
GIACOMINO. Non son cerimonie ma nostro debito.
ALTILIA. Siedi ancor tu, Lima; e chi ci ha invidia de' nostri contenti, non sia mai invidiato da altri. Ma se verrá mio padre, che scusa trovaremo che non l'abbiamo aspettato?
CAPPIO. Cosí non ci mancassero denari alle borse, come non ci mancano mai scuse. Diremo ch'eravate stanche, sí che venevate meno senza fare un poco di collazionetta.
GIACOMINO. Cappio, accendi quella profumiera, ché spiri odore.
ALTILIA. Io non voglio altro odore che quello che spira dai vostri onorati costumi e gentilissime maniere.
GIACOMINO. Mangiate di questa vivanda, se vi piace.
ALTILIA. A me sol piace quello ch'a voi piace. Ma voi perché non mangiate, anima mia?
GIACOMINO. Io fo un dolcissimo banchetto agli occhi miei e godo di quei cibi ch'ho desiato sí longo tempo; di quei cibi che non producono terra, acqua, aere e cielo. Veggo che la rosa tanto è bella quanto assomiglia alle vostre gote, e i gigli s'insuperbiscono della loro candidezza, perché pompeggiano nelle vostre carni; i giacinti tanto son riguardevoli quanto rappresentano la sembianza degli occhi vostri, e le perle delle marine conche tanto han di preggio quanto rassembrano i vostri denti; l'odori de' gelsomini tanto son grati quanto rassomigliano al vostro fiato. O occhi sereni, ove il cielo fa deposito delle sue stelle e dove conserva i suoi splendori!
ALTILIA. L'amor vi benda gli occhi e vi fa parer il falso per il vero.
GIACOMINO. O care mammelle, o acerbetti pomi, e quando mai negli orti esperidi si produssero pomi cosí leggiadri, custoditi con tanto rigore dal vigilante dragone? Io moro considerando quella valletta fra quei due pomi, oggetto di tutti i miei pensieri, nido dell'anima mia; or che saran l'altre cose che non si vedono?
ALTILIA. Mangiate; non sète ancor sazio di mirarmi?
GIACOMINO. Ancor non ho cominciato, perché non so da dove incominciare a rimirarvi. Perché se miro il terso avorio della fronte, gli occhi mi rapiscono a riguardargli; se mi fermo negli occhi, mi sento invitar dalle gote a contemplarle; e appena mi drizzo a mirar quelle, la bocca mi strascina a contemplar i rubini de' suoi labri; e se rimiro il collo, ecco mi tirano le mammelle: talché confuso e stupefatto non so da dove cominciare. E come potria esser questo, se voi non foste stata fatta dalla natura con tutto il suo studio d'impoverir tutte le donne per arricchirne voi sola, e per contemplar le sue gran meraviglie e quanto ella sa fare? Onde non potrete esser tanto mirata che non siate tanto piú degna d'esser mirata e admirata. E se non posso lodar quanto devo, supplisca l'affezione.
CAPPIO. Paggio, che fai che non porgi da bere?
ALTILIA. Bevete, cor mio.
GIACOMINO. Io non beverò mai, se voi non bevete prima e lasciate ch'io suchi quelle reliquie che son rimaste in quella parte del bicchiero ove han toccato le labra vostre, acciò con quelle io possa rinfrescar l'arsura dell'anima mia.
ALTILIA. Però, anima mia, ho pregato voi prima che beveste, per aver io quel contento e provar io quella dolcezza che voi da me desideravate.
GIACOMINO. Poiché il mio core è un eco del vostro core e l'un pensiero eco dell'altro, paggio, porta un bicchier grande, empilo tutto, acciò l'un goda della bevanda dell'altro. Deh, bevete per aggradirmi.
ALTILIA. Non solo bever, ma vorrei darvi maggior contento di questo.
CAPPIO. Con tantillo de cosa gli darete maggior contento.
SCENA II.
SPAGNOLO, GIACOMINO, CAPPIO, ALTILIA.
SPAGNOLO. ¡Buen provecho hagan Vuestras Mercedes! Al señor caballero y á mi señora beso mil veces las manos.
ALTILIA. Ben venghi, buon compagno!
SPAGNOLO. Por vida del rey mi señor, que he visto este caballero en la guerra de Flandes.
GIACOMINO. Non vidi mai altro che Napoli e Salerno.
SPAGNOLO. Y también he visto una señora en Flandes que par es de en todo á esta mujer, y por esto la quiero servir.
ALTILIA. Vi ringrazio del favore.
CAPPIO. (Mira che disgraziato e prosontuoso spagnolo! come si pone in dozena con questi gentiluomini! mira con che grandezza e sussiego si va accostando! Veggiamo dove riuscirá questa prattica).
SPAGNOLO. Señor caballero, V. M. beba.
GIACOMINO. Non ho ancor sete.
SPAGNOLO. Tus, tus, tus.
CAPPIO. (Finge aver tosse: certo, che egli vorrá bere).
GIACOMINO. Bevete voi, ché forse vi passará la tosse.
SPAGNOLO. Bríndis á V. M., bríndis á mi señora.
ALTILIA. Vi faremo ragione.
SPAGNOLO. Quiero contar la jornada que havemos hecho en Flandes con el conde Mauricio.
GIACOMINO. Non vogliamo udir cose malenconiche di guerre e occisioni, ma di amore e di piacere. Cappio, dágli del pane.
CAPPIO. Eccoti del pane; e come hai mangiato e bevuto, vanne via.
SPAGNOLO. Mi señora, quiero hacerte un bríndis.
CAPPIO. (Non gli basta d'aver mangiato e bevuto, pur vuol ber di nuovo).
ALTILIA. Vi faremo ragione.
CAPPIO. (Mira come s'è seduto appresso la signora un poco! vedremo che a poco a poco ne caccerá quella, ed esso se ci porrá).
SPAGNOLO. Por vida del rey mi señor, que V. M. es la mas hermosa señora que haya en todo el mundo, y merece que el rey la sierva, y por esto la quiero servir yo. Tome V. M. este bocado.
CAPPIO. (Eccolo seduto; a poco a poco mangia insieme con loro, e s'è invitato da se stesso).
SPAGNOLO. Tome este bocado, señora dama.
ALTILIA. Vi ringrazio assai.
SPAGNOLO. ¡Buen provecho haga! Bríndis, mi señora, yo bebo por la vida del rey mi señor y per la salud d'está señora mia.
CAPPIO. (Giá si è ingerito a mangiare e bere).
SPAGNOLO. Tudesco, trahe aquí pichones, pavos, pullos y todas las cosas que hay en la venta.
CAPPIO. (Poiché s'è fatto padron della tavola, si vuol far padrone ancor dell'osteria. Dubito che alfin non la baci).
SPAGNOLO. Tudesco, trahe ropas, que á fe de caballero yo pagar todo.
CAPPIO. (Da povero soldato s'è fatto cavaliero).
SPAGNOLO. Señora, yo le quiero contar cuantos torneos he ganado y cuantos gigantes he muerto, cuantos castellos encantados he derribado entonces cuando yo fui caballero andante, y todas mis hazañas.
CAPPIO. (M'arde il cor della prosunzion di costui).
SPAGNOLO. Mi señora, no puedo mas sufrir la pasion que me da la hermosura suya: perdóneme si me atrevo á tanto.
GIACOMINO. Mira forfante! te imparerò creanza con un bastone!… A baciarla!
SPAGNOLO. ¡Á don Cardon de Cardona, palos! ¡á mi, palos! Voto á Dios, que yo os mataré y á todo el mundo, que despoblaré todo el infierno.
CAPPIO. ¡Don Ladron de Ladroni, toma esto!
SPAGNOLO. Espera un poco aquí que yo tome mi espada y la capa, que con ella castigaré mis agravios.
CAPPIO. Ma par che veggio il padron che torna da Posilipo; anzi non piú mi pare, perché è desso. Povero me, perché non vado ad impiccarmi? Lo scampo stesso non basteria a scamparmi dalle sue mani. Padron, ecco il vostro padre; entrate dentro e non vi fate vedere, ché io rimediarò al tutto: lasciate cosí ogni cosa e attendete a quel che dico.
SCENA III.
GIACOCO, CAPPIO.
GIACOCO. Sia ringraziato lo Cielo ca me veo a la casa mia! Quanno arrivai a Posilipo, appena m'avea ciancoliati quattro muorzi, quanno scappa Dio e fa buon iuorno, ca sento gridar «turchi! turchi!». Chilli strilli me fecero scorreiare e chilli quattro muorzi me deventaro tosseco. L'uocchio dello bifaro me se fece tantillo e le nateche me facevano lappe lappe; ca se m'arrivavano, me ne sorchiavano commo n'uovo friscu. In concrusione, me arronchio commo a cótena, subito tocca ca se fa notte, me pongo le gambe ncuollo e me ne bróciolo a Napole, che ancora le gambe me fanne iacovo iacovo; lo filatorio ca avea ncuorpo m'ha fatto correre commo avesse cursito allo pallio, e io ca fuieva e ca dicea a lettere de marzapane:—Iacocos votu facere e gratia recepere!—O casa mia bella! ma sto tanto sorriésseto ca me pare na taverna. O quante sausiccie, fecatelli, scartapelle e marcangegne! me fanno cannagola e stare a cannapierto.
CAPPIO. Bone vecchie, volere alloggiare a nostre ostelerie, ca te faremo scazzare?
GIACOCO. Ste vrache saiate! io non aggio voglia de bevere né de mangiare. Sto mirando se chesta è la casa mia.
CAPPIO. Avete prese scambie: cheste stare mi ostelerie, no vostre case.
GIACOCO. O ca io no so io, o chessa non è la casa mia; io no sto chiú nchisto munno, sto dintro a n'autro munno; aspetta no poco, lassame arrecordare meglio. Chesta è la casa de Coviello Cicula, appriesso la casa de Cola Pertola, la terza è d'Aniello Suvaro, la quarta è de Colambruoso e Iacovo dello Caso, appriesso veneno chelle caranfole e carafuorchi, appriesso stava la casa mia: ma chesta me pare taberna.
CAPPIO. Bone compánie, volere fare brindese.
GIACOCO. No boglio fare Brinnese né Galipoli, ch'aggio chiú boglia de dare sta capa pe ste mura: io sto fora de me, no sto ncelevriello, io no saccio se sto cca o dove sia; voglio fare lo veveraggio a chi me lo dice.
CAPPIO. Merdamente, che tu stare un altre e chesta no stare casa tua.
GIACOCO. Ora chisso è n'autro chiáieto; e me vuoi propio fare imbertecare lo celevriello, ca me vuoi dare a ntennere ca io no so io. Chissi chiáiti non servono; me vuoi dare a ntennere vessiche pe lanterne o ca le femmene figliano pe le denocchie? aggio abbesuogno de pataracchie? Chi sa se la paura delli turchi m'ave fatto deventare pazzo? chi sa se dormo? Ma io non dormo, ca sento, e non me sonno.
CAPPIO. Ah, ah, ah!
GIACOCO. Mira cca sto todisco mbriaco ca ne lo cacciarissi da no campo de fave, se ride delli fatti miei. Forse quarche mazzamauriello o chillo che pozza squagliare diavolescamente m'avessero fatto deventare la casa mia chiú lontana? Se fosse carnevale, diceria ca s'è ammascarata e s'ha pigliata na mascara de taverna. Fuorze sto todisco è pazzo o so pazzo io o semo pazzi tutti due; ma se fosse pazzo, come forría venuto da Posilipo fino a Napole e non errare la via?
CAPPIO. Tu stare imbriache, poter ire a dormire, perché te passare le imbriachezze certe certe.
GIACOCO. Tu sarrai quarche rifolo dello nfierno o chillo ca puozze sparafondare. Dove voglio ire a dormire, ca no aggio casa? Vuoi ca dorma miezo sta chiazza? O Cielo, ca vedesse Chiappino, ca me facesse mparare la via!
CAPPIO. Che omme stare chesse Chiappine?
GIACOCO. No catarchio, no catámmaro peio ca non si' tu.
CAPPIO. Tu mentire per le gole, ché cheste Chiappine stare gran omme da bene.
GIACOCO. Ora chesta è la ionta dello ruotolo, avere a competere co no tavernaro. Basta, ca me ce hai cogliuto solo e de notte; se nce fosse cca Chiappino, mò che sto ncepollato, te faria dare cinquanta smorfie e schioccolate a sso celevriello. La mentita è morta e no bale.
CAPPIO. Chiappino essere ommo onorato commo me stesso.
GIACOCO. Scompimmola priesto, ca no pozzo scellebrareme con tico, che te venga no cuofano de malanni. Me voglio partire, ca sta cosa è pe venire a fietu. Te tengo alla camera de miezo; viene e famme na cura co lo muto.
CAPPIO. Mi volere serrare le ostellerie, bone notte, e se non la volere, la mala notte.
SCENA IV. GIACOCO, CAPPIO.
GIACOCO. Serra, ca te sia serrata la canna dello manduoco co no chiappo. O negrecato Iacuoco, ca no saccio che m'è ntravenuto, ca sto peo che se fosse ncappato nmano de turchi. So stracco, ca so curzeto commo a no fúrgolo, e me siento, ahie! morire de famme; e borria ca no stráulo me strassinasse alla casa mia. O mamma mia, commo faraggio? ca penso ca so spiritato e averaggio ncuorpo quarche spirito maligno, e bisognará ca vaia a Surriento a fareme scongiurare. Non saccio che fare; sto commo a no pollicino mpastorato alla stoppa.
CAPPIO. O padron mio, che siate il ben trovato!
GIACOCO. Eilá, fosse Chiappino chisto? eccotillo, isto è isso. Che singhi lo ben trovato, ca ieva sulo e me parea ca ad ora ad ora me fosse pigliata la mesura dello ioppone.
CAPPIO. Come! tornate da Posilipo a quest'ora?
GIACOCO. Chiappino, ch'aggio avuto na mala cacavessa, e lo Celo sa quanti vernacchi me sono scappati, ca se non me ne appalorciava, bello me ne rappoleiavano; e mò forría nmano de turchi. E mò stava mirando sta casa!
CAPPIO. Perché stavate mirando questa casa?
GIACOCO. Pensava entrare alla casa mia e l'aggio trovata taverna; e no todisco mbriaco me volea fare accussine, e se non era sapatino, me carfettava a crepapanza, a serra de lino.
CAPPIO. E voi stimate che questa sia casa vostra? Voi sète fuor di cervello: questa è l'osteria del Cerriglio, e la vostra casa è un pezzo lontano di qua.
GIACOCO. Me penzo ca me s'è sbotato lo celevriello dintro la catarozzola, ca io no saccio se so isso o no, né chi pozzo essere. Ma tu che vai sanzarianno a chest'ora per Napole?
CAPPIO. Vostro figlio m'ha mandato al libraro per aver certi libri per studiare tutta la notte.
GIACOCO. Che libri?
CAPPIO. Barattolo ribaldo, Sal in aceto e Paolo te castre.
GIACOCO. Puozzi essere castrato tu e tutti li pari tuoi.
CAPPIO. Andiamo a casa, ché so tre ore di notte; e a quest'ora fa un freddo molto grande e s'è levata una tramontana penetrativa che fa molto danno alle teste de vecchi.
GIACOCO. Se non tornavo, era bello e cacato. Ma dimmi, avite spiso chille cincoranelle?
CAPPIO. Attendete alla salute vostra e poi cercate le cinque grana. Copritevi la testa con la cappa, ché il vento non vi faccia danno.
GIACOCO. Pell'arma de vávemo, ca dici buono. Coprela bene.
CAPPIO. Sta bene cosí?
GIACOCO. Tu m'hai coperto l'uocchi commo si fa alli farcuni co lo cappelletto o commo alli cavalli marvasi quanno si strigliano.
CAPPIO. Cosí bisogna coprire, che non offenda il vento.
GIACOCO. E commo pozzo bedere la via?
CAPPIO. Appoggiatevi al mio braccio, ch'io vi condurrò a casa; che la notte è tanto oscura che, se foste con il capo scoperto, non vedreste la via.
GIACOCO. Orsú, caminiamo; mò dove siamo?
CAPPIO. Ad Antuono speziale.
GIACOCO. Chillo che fa le cure co lo schizzariello?
CAPPIO. Signor sí.
GIACOCO. Zitto zitto, ca non ce senta; ca l'autro iuorno me venne a fare la cura e me mpizzai lo canniello tanto forte ca m'appe a sparafundare, e poi fece lo vrodo tanto caudo che me scaudai tutto lo codarino; e però non lo vuozzi pagare. E mò dove simmo?
CAPPIO. A mastro Argallo che fa li brachieri.
GIACOCO. Passammo a largo, ca m'aggio fatto fare lo vrachiere mio e non l'aggio pagato ncora. Ma quanno arrivarimmo, ca songo allancato?
CAPPIO. Anzi non sète a meza via, e volete esser gionto?
GIACOCO. Me fae botare ntorno ntorno, come botasse lo filatorio o commo a mulo ca bota lo centimmolo.
CAPPIO. Perché vi meno per strade accortatoie.
GIACOCO. Quanno arrivarimmo alli solachianielli?
CAPPIO. Or ci siamo.
GIACOCO. Arrássate dalla poteca de Giangilormo Spiccicaraso, ca m'ave arrapezzate le scarpe e le devo dare cinco tornisi, e mò me vole accosare.
CAPPIO. Giá siamo gionti.
GIACOCO. Tózzola la porta.
CAPPIO. Tic toc, tic toc.
GIACOCO. Quanto sta ad aprire sta madamma tráccola? Priesto, pettolosa mezzacammisa, che te puozze rompere lo cuollo pe ssi scalandruni!
SCENA V.
GIACOMINO, GIACOCO, CAPPIO.
GIACOMINO. Chi batte, olá? è questa l'ora da interrompere i studi?
GIACOCO. O Iacoviello mio, ca singhi benedetto dallo Celo e da me, ca studi commo no cane! come mo me ne preo.
CAPPIO. E se ci affatica con tanto gusto che non lo lascia mai, se non va tutto in sudore; e se voi non l'aveste interrotto, non avrebbe fatto altro tutta la notte.
GIACOMINO. Chi è lá, dico?
CAPPIO. Calate giú, che vostro padre è tornato da Posilipo.
GIACOMINO. Vuoi burlarmi?
CAPPIO. Venete e vedete.
GIACOMINO. Ora chissi so figli che non vanno dereto alle femine guaguine, squaltrine, chiarchiolle, zandragliose; né de chissi nnamorati che fanno taverne, ma stanno ammolati a rasulo sopra libri fin che se ci arreieno.
CAPPIO. Avertite che lo troppo studio non li disecchi il cervello.
GIACOCO. Batti, dico.
CAPPIO. Sento i pantofoli per li gradi, che vien giú.
GIACOMINO. Ben trovato, mio padre! sète venuto molto desiderato.
CAPPIO. (Anzi lo mal venuto, ché non ha potuto venire a peggior tempo).
GIACOMINO. Come a quest'ora?
GIACOCO. Te lo diraggio suso, ca mò sto allancato de fatica.
SCENA VI.
SPAGNOLO, GIACOMINO, GIACOCO, CAPPIO.
SPAGNOLO. Padron, dame mis alforjas, que he dejado en esta venta.
GIACOCO. Che grassa de suvaro è chesta? ca vole sso messer catruoppolo, barva d'annecchia, dalla casa mia?
SPAGNOLO. Está tarde, llegué á esta venta y dejé aquí mis alforjas.
GIACOCO. Dice ca lassai cca le forge dello naso e che la casa mia è viento: chesta è cosa da me fare desperare.
CAPPIO. Certo, che deve stare imbriaco.
GIACOCO. E tu cacciale ssa mbriachezza da capo.
SPAGNOLO. Digo que ayer llegué á esta venta, á esta taberna.
GIACOCO. Ed io te dico ca la casa mia non è né vinti né trenta né quaranta, e ca no è taverna. Chiappino, ca buole sto spagnuolo dalla casa mia?
CAPPIO. Deve esser qualche ladro, e sará qui nascosto per arrobbare.
GIACOCO. E chesta è la guardia ca se fa alla casa mia?
CAPPIO. Vien qui tu: come ti chiami?
SPAGNOLO. Don Cardon de Cardona.
CAPPIO. L'avete inteso con l'orecchie vostre che si chiama don Ladron de Ladroni.
SPAGNOLO. Vos mentís, que yo soy caballero, capitan aventajado y tan bien nacido como el rey.
GIACOCO. Chisso va cercanno piettene de tridece, e se me fa nzorfare… .
SPAGNOLO. Ayer tarde he comido en esta taberna con esto caballero y con mujer muy hermosa, y hicimos muchos bríndis juntos.
CAPPIO. Se non ti parti di qua, arai molte bastonate avantaggiate.
GIACOCO. Se deve pensare ca a Napole se mpastorano li asini co le saucicce e vorria arrobbare; e se non me sparafonda denanze, sarrá buono zollato.
SPAGNOLO. Si no me dais mis alforjas, os daré muchos palos en la cabeza.
GIACOCO. Dice ca ce vole dare pale e muzzone di capezze d'asino.
SPAGNOLO. Calla, que soys borrachos.
GIACOCO. Chessa è n'autra chiú bella: dice ca simmo vorraccie; pensa ca vindimu nsalate.
SPAGNOLO. Quiero mis alforjas.
GIACOCO. Pe parte de fuorfece, te darrimmo no poco de mela iacciole e grisommole.
SPAGNOLO. No alojan en esta taberna sino putas y alcahuetos.
GIACOMINO. Cappio, chiudili la bocca con un pugno, ché piú non parli.
GIACOCO. Me pare ca no la vuoi ntennere e me esci dello semmenato. Che ci vuoi le ciarammelle e lo colascione?
SPAGNOLO. Á vos digo, bodeguero, gente malvada, que me dais mis ropas.
GIACOCO. Dice ca simmo potecari de marva. Nui simmo potecari de vernecocche e de nespole e le vendimmo a buon mercato. Ha la capo tosta, ha pigliato la zirria de non se partire.
GIACOMINO. Cappio, con un pugno fagli cadere un dente.
GIACOCO. E da parte mia, dui scervecchie e dui seguzzuni.
CAPPIO. Questo a don Ladron, quest'altro al capitan avantaggiato, e questo al nato come il re.
SPAGNOLO. Yo iré á tomar mi espada y en dos golpes, chis chas, os haré mil pedazos.
GIACOCO. N'arai reppoliata na bona remmenata de mazze, mò va' e torna per l'autra: va' e vienici a fare no nudeco alla coda.
SCENA VII.
PEDANTE, GIACOCO, GIACOMINO, CAPPIO, LARDONE.
PEDANTE. Tabernario!
GIACOCO. Ora chesta è autro che crepantiglia. A me tavernaro? tu ne menti e arcimenti pe le canne della gola!
PEDANTE. Avemo baiulato li suppellettili…
GIACOCO. Che sopraletti e sottoletti?
PEDANTE. … et alia muliebria indumenta.
GIACOCO. Io non veo né muli né iommente. Va', frate mio, e fatte fare na cura co li mutilli, ca te purga ssi mali ammuri.
GIACOMINO. Costui se non è imbriaco da dovero, farnetica da buon senno.
GIACOCO. Dimmi, si' ommo o lombardo, si' iudío o cristiano, ca no te ntenno ca dici.
PEDANTE. Sum vir probus et circumspectus procul dubio.
GIACOCO. Ha nommenato ser Pruocolo da Puzzuolo: m'ave cèra de cristiano.
GIACOMINO. Sará qualche pedante.
GIACOCO. Ca bole da me sto sfecato sfritto varvaianne, co sta faccia gialliccia nzolarcata, co ss'uocchi scarcagnati ntorzati, co sso naso mbrognolato fatto a pallone, co ssi labruni da labriare co no zuoccolo? Mira ca vestiti scialacquati, ca a vedello me fa ridere senza che n'aggia voglia. Se stai mbriaco, va' vommeca e non me rompere la capo.
PEDANTE. O mi Deus, ha rotta una spalla a Prisciano. Dic, quaeso, diceremus bene: «la capo»? «La» est articulus foeminini generis, «capo», mascolini; discordat in genere; bisogna dire: o «lo capo» o «la capa».
GIACOCO. Giá chisso sbaría; manche se fosse no piccirillo della zizza, parla allo sproposito.
PEDANTE. Io non parlo allo sproposito, se de miei detti ne farai congrua collazione.
GIACOCO. Siente, ca vo fare collazione. Vorrisse doie ióiole o doi scioscelle?
PEDANTE. O che parlare absurdo e mal composto!
GIACOCO. Mò vole no poco de composta de cetruli.
PEDANTE. O che supina ignoranza, che intelletto rude e agreste!
GIACOCO. Non te l'aggio ditto ca vole composta d'agresta?
PEDANTE. Dii immortales, ubique sunt angustiae!
GIACOCO. È lo vero ca a Vico so ragoste.
PEDANTE. Dov'è quel teutonico che mi ricevè prima in questo ospizio?
GIACOCO. O che arraggie, che tante tente tonte! Tu sbarii, poveriello.
PEDANTE. Dico «teutonico», cioè germano, idest todesco. Germani sunt Germaniae populi, e sono detti «teutonici» dal lor dio detto Teviscone.
GIACOCO. Che ne volimmo fare nui de ssi chiáiti? chi t'addomanna chesse cincorane?
PEDANTE. Se non mi trovate la mia figliuola e la balia, tanto vociferarò che i miei stridi giungeranno ad astra coeli.
GIACOCO. In casa mia non c'è astraco né astraciello.
PEDANTE. Io lasciai qui mia figlia per arrabone.
GIACOCO. Mienti pe la gola, ca nui non arrobbammo. O povero Iacoco, dove si' arreddutto! Tu mi faressi venire li parasisimi.
PEDANTE. Ecco mi trovo afflitto da tante contumelie; sed « patienter ferre memento ». O l'aria di Napoli è tanto ottusa che ottunde gli anfratti auriculari che non vogliono intendere, overo hanno qualche cacademone nel capo.
GIACOCO. È lo vero che tu hai no demonio che te caca nduosso; e se me ntrattengo troppo con tico, che quarcuno non cache ncuollo a mene. Se si' spiritato, fatte nciarmare.
PEDANTE. Me Dius fidius, che io dubito non avere scambiato la casa. Ecco quella domuncula che minitava ruina, ecco il caprifico nel muro: veramente che questo è il diversorio.
GIACOCO. Lo guae che te attocca, qua non ci è diverso olio né diverso aceto, né manco c'è alluorgio che suoni diverse ore; non me buoglio scelevrar chiú con tico.
PEDANTE. Questo era il Cerriglio; e qualche diavolo l'averá fatto trasmutare in casa.
LARDONE. Andiancene, padrone, ché quello medesimo negromante queste parole non le facci diventare tante bastonate, come ha fatto diventare pur quei fegadelli e salsicce. (Oimè, che tutta questa negromanzia caderá sopra di me! Giacomino s'ará goduta Altilia, Cappio Lima, e s'averanno divorato tutto l'apparecchio, che io, che son stato il mezano del tutto, resto senza mangiare e senza dormire. O salsicce, come mi sète fuggite da bocca; o vini, dove sète abissati! Son diventato un Tantalo, che il mangiar gli sta sopra il naso e il vino sotto le labbra, e quando vuole, il mangiare fugge e cosí il bere).
GIACOCO. Olá, casa mia è deventata Cerriglio, o lo Cerriglio è deventato la casa mia; o io so diventato lo tavernaro dello Cerriglio, o lo tavernaro dello Cerriglio è deventato me. Chesta è cosa proprio da crepare e ridere; mai m'è accaduto cosa ntutto lo tiempo della vita mia commo chesta d'oie.
PEDANTE. Lardone, che mastichi in bocca?
LARDONE. Mastico quelli fegadelli, salsicce e pastoni che mi son fuggiti dalla bocca.
PEDANTE. Perder le robbe non saria molto, ma perder la figlia! L'ira mi rode i precordi. Questa non è taberna, ma postribulo e lupanare.
GIACOCO. La casa mia non è taverna chiú, ma centimmolo e panara; da cca a n'autro poco deventará no fiasco. O Celo, ca zeccafreca è chisto?
PEDANTE. Di cosí nefando atto vuo' che ne resti memoria ne' secoli futuri.
GIACOCO. Chiappino, fa' sta caretate, porta chisto all'osteria dello Cerriglio, perché averá scagnata la taverna. Guai e maccaruni se voleno mangiare caudi caudi; e se non se ne vuole ire, dalle quarche manomerza.
CAPPIO. Andiamo, ch'io vi condurrò al Cerriglio.
LARDONE. (Io l'attaccarei al calendario; lui ha mangiato e bevuto, e a me toccará lavar le scudelle, succhiar il brodo e vôtar i fondi de' fiaschi. Prego il Cielo che i maccheroni diventino strangulatori, e il vino foco. Ahi, ch'io pensavo burlar altri, e io resto burlato!).
PEDANTE. Non vidi hominem di maggior pasto né di minor fatica di te.
CAPPIO. Ecco il Cerriglio; battete e vi sará aperto.
LARDONE. Tic, toc, tic.
SCENA VIII.
TEDESCO, PEDANTE, LARDONE.
TEDESCO. Chi battere le porte delle nostre ostellerie?
PEDANTE. Tito Melio Strozzi gimnasiarca!
TEDESCO. Non capire tante gente le nostre ostellerie.
PEDANTE. Sono solo e un famulo.
TEDESCO. Se avere fame, ire in altra parte; qua avemo poche robbe.
PEDANTE. Aprite, dico, le ianue a Tito Melio Strozza gimnasiarca.
TEDESCO. Mi non aprire le porte a Tutto Merda Stronze de patriarche.
PEDANTE. Aprite al gazofilazio delle dottrine.
TEDESCO. Andare alle forche, parlare oneste!
PEDANTE. Aprite le valve ad un grand'uomo.
TEDESCO. Nostre ostelerie non capire la barba d'un grande omme.
PEDANTE. Ho una rabbia exardescente che mi bolle nell'arterie.
TEDESCO. Volere aprire mie porte con l'artellerie?
PEDANTE. Infringerò i cardini e farò patefacere le valve.
LARDONE. Non battete piú. Non udite che cala per le scale?
TEDESCO. Ecco aperte. Dove stare quel grande omme?
PEDANTE. Io son quel grande uomo.
TEDESCO. Tu stare picciolette. Tu stare quel Tutto Merda Stronze de patriarche?
PEDANTE. Ti ho detto il prenome, nome, cognome e officio. «Tito» è il prenome, «Melio» il nome, «Strozzi» il cognome, «gimnasiarca» l'officio; e se non son grande di corpo, son grande nella dottrina e la rettorica.
TEDESCO. Non stare bene, non avere bisogne de' rottori.
PEDANTE. Datemi la mia sobole…
TEDESCO. Qua non avere né sorbole né nespole, …
PEDANTE. … insieme con la balia.
TEDESCO. … né ci stare bálice né stivale.
PEDANTE. Nil aliud volo.
TEDESCO. Dicere che volo e tu stare fermo.
LARDONE. Tacete se volete, e lasciate parlare a me, corpo del mondo! parlate con gli osti come se parlaste con i scolari. Diteci, oste, avete in questa vostra osteria una donzella con una vecchia, che abbiamo lasciato qui, quando siamo tornati a dietro a portar l'altre robbe?
TEDESCO. Nelle ostelerie non stare putte, vecchie, né merdate. Andate a fare i fatti vostri.
LARDONE. Almeno dateci alloggiamento, ché a quest'ora non abbiamo dove a dar di capo.
TEDESCO. Alla fé, non capere altre gente: tutto star pieno de passaggieri.
LARDONE. Dateci almen da mangiar, per amor de Dio.
TEDESCO. Né per amor delle diable.
LARDONE. Respondete almeno.
PEDANTE. L'uscio che ci ha serrato nel volto risponde per lui.
SCENA IX.
PEDANTE, LARDONE.
PEDANTE. Questo incontro m'ave acceso una face arsibile intorno al core, perché per mio solo dedecore m'ha serrato l'uscio sul volto. Sarò propalato per infame per tutto il mondo.
LARDONE. Anzi per mio, perché mi publica per un affamato.
PEDANTE. A te pare cosí?
LARDONE. Anzi è cosí, e non mi pare; perché io son quello che resto morto di fame e di sonno.
PEDANTE. Anzi, a tutti due; e tutti due restiamo affrontati e di affronto grande: a me per le donne e a te per la fame.
LARDONE. A me non dá pena l'affronto della donna, ma perché mi muoio di fame.
PEDANTE. Il carico fatto a me è fatto al piú famoso uomo del mondo.
LARDONE. S'il carico è fatto al piú famoso, dunque è fatto a me che sono ora il piú famoso uomo del mondo e di quanti affamati fur mai.
PEDANTE. Mai dal mio nemico sidere m'accadde cosa come questa.
LARDONE. Né a me mai verrá questa notte in fantasia, che il mio stommaco non si risenta.
PEDANTE. Si dirá per tutto il mondo che Tito Melio Strozza gimnasiarca ha perduto la figlia con la balia, si scriverá per le gazzette, e i scrittori de nostri tempi lo scriveranno per l'istorie; né io potrò piú comparir fra letterati.
LARDONE. Il manco pensiero che hanno i letterati di questi tempi è di scrivere i fatti tuoi.
PEDANTE. Il tuo male con una ricetta si guarirá.
LARDONE. E quale?
PEDANTE. «Recipe due capponi, l'uno arrosto e l'altro boglito, cento ova dure, due rotuli di carne di vitella, un piatto di maccheroni; pongasi in una pignatta e boglia a sufficienza; quattro fiaschi di vino: et fiat cibus et potus».
LARDONE. Con manco di questo si guarirá il tuo male. «Recipe colla di carniccio, bianco d'un uovo, un poco di litargirio; faccisi impiastro con stoppa di cánnevo; pongasi sopra la rottura e subito consolidarassi».
PEDANTE. Da questa massima ne segue: ho perduto la figlia, ergo, igitur, è stata violata; e io ne resto disperato.
LARDONE. Disperati son quelli che l'han trovata; ché subito gli verrá in fastidio, che doppo il fatto, se avessero il pozzo appresso, ce la buttarebbono dentro, ché non è peggio mercanzia che di femine.
PEDANTE. Ti par poco essermi tolta una figlia?
LARDONE. Ti par poco esser restato io senza mangiare e senza dormire, che non sarebbe altro che sotterrarmi vivo?
PEDANTE. Perché sei un forfante che ad altro non pensi che mangiare.
LARDONE. Come si parla di mangiare e di bere, sono un forfante; come non darmi da mangiare e bere, son piú che fratello carissimo.
PEDANTE. Ti vorrei attaccar la bocca con una cannella piena di vino e lasciarti bere fin che crepassi; e dire:—Vinum sitisti, vinum bibe.
LARDONE. O che crepar dolce!
PEDANTE. Il furto della figlia a chi « habet acetum in corde » importa l'onore.
LARDONE. Lo star senza mangiare importa la vita, che è piú dell'onore: si può vivere senza l'onore, ma non senza mangiare. Da questo mondo non se ne ave altro se non quanto ne tiri con i denti.
PEDANTE. Ergo, igitur, absque dubio, poco importa l'onore.
LARDONE. Le leggi dell'onore son fatte per i cavalieri e prencepi, re e imperatori, e appena se ne curano; perché vuoi curartene tu?
PEDANTE. Chi son questi reggi e imperadori?
LARDONE. La regina Didone, come ho inteso da voi leggere a' scolari.
PEDANTE. Mente per la gola Virgilio, mente e rimente per guttur quante volte lo vuol dire overo l'è passato per la fantasia: ché Didone fu una regina onorata, né mai si ritrovò a solo a solo con Enea in quella spelonca; e io lo vuo' mantenere con lo filo e la punta della penna contro qualsivoglia letterato che lo voglia dire.
LARDONE. Poco importa questa disfida alla mia fame, e ad ogni parola fare una disputa.
PEDANTE. Il parlar teco troppo familiare causa il minuspretio: omnis familiaritas parit contemptum; ma sempre che parlerai meco senza licenza, vuo' cavarti un dente.
LARDONE. Vorrei piú presto perdere un diamante che un dente. Ma io merito questo e peggio. Venir da Salerno a piedi a preparare l'alloggiamento, e restar con una bocca secca come avesse mangiato presciutto!
PEDANTE. Te hai bevuto un semisestante di vino e mangiato tanto. Ti par poco onore mandarti al « senatus populusque romanus » a fargli intendere che viene il primo letterato di questo secolo a far reviviscere e repullular le ossa giá incenerite e far sorgere dalle tombe i Varroni, i Ciceroni, i Salusti e i Cantalici e gli altri grandi nella greca e latina lingua; e aprir un luculentissimo gimnasio? …
LARDONE. E che sapete ben correre alla quintana.
PEDANTE. … Sederai meco a tavola, beverai al mio bicchiero e del vino che bevo io, e seraimi compagno nello Studio: questo onor ti fará glorioso fin alla fin del mondo. …
LARDONE. Io non ho bisogno ingrammaticarmi; e questi onori dálli ad altri che li desiderano; ché io vuo' piú tosto mangiarmi una cipolla, una radice e ber vin che senta di muffa, quando ho appetito, e a mio modo, e dormir solo in terra e trar corregge a mio modo; starei piú tosto in galea che nel tuo Studio.
PEDANTE. … Sedendomi appresso, questa mia venerabil toga ti onorerá e ridonderá in tua gloria, che mai dall'edace tempo ti fia consumpta.
LARDONE. O Cielo, che mirabil nuovo genere di pazzia ave occupato il cervello di costui! Non è piú dolce boccone che beccarsi il suo cervello.
PEDANTE. Parli da quel che sei, cioè una bestia; e io sono una bestia, che d'un asino vogli farlo diventar cavallo. Il dedecore m'ha transverberato il core. Ma ricogliamoci in qualche luogo e dormiamo insino a giorno.
LARDONE. Or questo no.
PEDANTE. Lasciami dire.
LARDONE. Non voglio ascoltare.
PEDANTE. Nil melius sobrietate.
LARDONE. Nil peius affamatione.
PEDANTE. Io non intendo questa tua grammatica.
LARDONE. Né io la tua.
PEDANTE. Dimmelo in volgare.
LARDONE. Non si trovano parole per dichiararlo.
PEDANTE. Se vuoi rispondere ad ogni cosa, non finiremo questa notte. Ma sta' di buona voglia.
LARDONE. Come posso, morendo di fame, star di buona voglia?
SCENA X.
LIMOFORO, LARDONE, PEDANTE, ANTIFILO.
LIMOFORO. Sento lamenti.
LARDONE. È segno ch'hai orecchie.
LIMOFORO. È segno d'uomo sconsolato. O uomo da bene!
LARDONE. Questo nome di uomo da bene non fu mai in casa mia, e io sono il primo di questo nome.
LIMOFORO. Consòlati.
LARDONE. Come può consolarsi chi non ha niuna speranza di consòli?
LIMOFORO. È troppo gran miseria viver senza speranza di consòlo.
LARDONE. Però son discontento e ne disgrazio tutti i consòli.
LIMOFORO. Non pianger dunque.
LARDONE. Piango per sfogar la mia disgrazia e per morire.
LIMOFORO. Meglio è che ti consoli da te stesso che esser consolato da altri: abbi pazienza.
LARDONE. La pazienza non è rimedio da far passar la fame.
ANTIFILO. (La fame? non sará altri che Lardone). O Lardone!
LARDONE. Mai fui manco Lardone che ora: è scolato il grasso e ci è rimasta a pena la cotica.
ANTIFILO. Se non sei Lardone, sarai lo spirito suo.
LARDONE. E il spirito è quello che ti risponde, ché il corpo è giá morto.
ANTIFILO. Che cosa è del maestro?
LARDONE. Eccolo qui in carne e ossa.
ANTIFILO. Sète qui voi, o mio caro maestro?
PEDANTE. Ille ego, qui quondam… .
ANTIFILO. E voi sète il mio maestro?
PEDANTE. Ipse ego, ipsissimus sum: io son quello che voi volete, absumpto nel pelago delle miserie.
ANTIFILO. Oh quanto ho desiderato di servirvi! Come a questa ora di notte vi veggio in questa disgrazia?
PEDANTE. Anzi per mia grazia disgraziato, o optatissimo Antifilo.
LIMOFORO. Non vi disperate; ché mai viene disgrazia che non trovi la porta aperta per la grazia che segue.
PEDANTE. Mi son partito da Salerno con sinisterrimo auspicio Romam versus, per far quivi stupir il mondo della prestanza della latina e greca lingua. …
LARDONE. Val piú un bicchiero di vin latino o greco che tutta la tua dottrina.
PEDANTE. … E da Cicerone in qua non è stato maggior uomo che sono io. Oh quanto perde Roma e l'Italia tutta, se si perde un par mio.
ANTIFILO. Maestro, potete venir a dormir e cenar meco.
PEDANTE. Obsecro te dalla base del cuore venerabondo, e revoluto a' tuoi piedi, accetto la grazia che la necessitá me la fa accettare, e me ne congratulo.
LARDONE. Io per dubito di non aver a restar senza cena e senza sonno, ero quasi morto.
PEDANTE. Tu non hai mangiato e bevuto tanto questa mattina?
LARDONE. Quello è giá digesto.
LIMOFORO. Perché andar disperso a quest'ora?
PEDANTE. Lo saprete a bell'aggio in casa, ch'or sto « in cimbalis male sonantibus », che per disperazione volea buttarmi in un sarcofago.
LIMOFORO. Entriamo, ché la porta è aperta.
LARDONE. Questo incontro a un par mio? Quando io sperava questa notte empirmi lo stomaco a scorpacciate da taverna e scacciarmi la sete a salassate de bótti, mi trovo martorizzato dalla fame e abbrugiato dalla sete. Ah, Giacomino e Cappio, cosí m'avete tradito? M'avete talmente guasto lo stomaco che non basteranno quanti impiastri e medicine ha una speziaria a ristorarmelo; ma io non sarò tanto goffo che mi lasci morir di fame dentro un forno di pane né di sete in un magazzino di vino. Scoprirò il fatto ad Antifilo; e la gelosia l'infiammerá talmente alla vendetta che vedrò fulminar le spade su gli occhi e i pugnali su le gole fra loro. Scommodando gli amori di Giacomino, accommodarò il mio stomaco. Devo io osservar fede a chi mi manca di fede? Io intanto apparecchiarò le scuse e le gambe per sfrattar la campagna, e al peggio le spalle alle bastonate. Vuo' piú tosto morir satollo e da forfante che morirmi di fame e da uomo da bene.
ATTO IV.
SCENA I.
GIACOMINO, CAPPIO.
GIACOMINO. O Cielo, che soave dolcezza, che ineffabile armonia può trovarsi in questa vita che due cori congionti in un sol core, due vite in una vita e due alme in un'alma d'un reciproco amor congionte, dopo tante pene, lacrime e tormenti, giongere a quel da loro tanto bramato bene? O diletto indicibile, o soavitá eroica, o piacere che supera e avanza ogni altro piacere e diletto! Deh, ch'io non posso trovar parole con le quali possa esprimere cotanta gioia! O veramente felici e ben avventurati coloro che giongono a tanta altezza di gioia! Misero me, che avendo gustato tanta dolcezza e accesomi in tanto incendio intorno al core, come potrò mai vivere senza lei? ché essendo d'un cor congionti insieme, d'un'alma e d'una fede, tanto sarebbe separar l'un dall'altra quanto l'uno e l'altra viver senza la vita. Disporrò quanto posso mio padre; e vedendolo ostinato a non voler compiacermi, alfin farò a mio modo. Doppo l'effetto mi disse piangendo:—Vi raccomando l'onor mio!—O che mirabile effetto è quello che fan le lacrime delle donne ne' cuori degli amanti. Gli risposi:—E come posso io compensar tanta liberalitá con tanto onore, con che voi stessa concessa m'avete e la persona e l'onor vostro, se non con l'atto del matrimonio?—Veramente la natura delle donne è tanto dolce che, per duro che sia un cuore, lo fa subito tenero e liquefare in lacrime. Ma par che mi senta un messo nel cuore, mandatomi dal mio continuo pensiero, che dice che speri bene.
CAPPIO. Padrone, vorrei lasciaste cotesto prologo, e pensiamo allo scandolo che sia per avvenirne quando saprá il pedante che Altilia sia stata trafugata e toltole l'onor suo; e sapete che Antifilo, vostro contrario, non sta con le mani a cintola, ché una ne pensa l'oste e l'altra il pellegrino. L'aiuterá per la gelosia che lo rode.
GIACOMINO. Ma io con che occhio potrò mirar mio padre, quando egli mirando negli occhi miei vedrá scolpita la mia disobedienza e che della sua casa io n'abbi fatto taverna, fattolo aggirar per le strade dal servitore? che gastigo aguaglierá la mia forfantaria? Amor mi sollecita, il timor del padre mi spaventa e la ragion vuoi ch'io l'ami. Cappio, non so che farmi, son rovinato del tutto.
CAPPIO. Non siamo rovinati mentre siam vivi e vogliamo aiutarci.
GIACOMINO. Io non so se son vivo o morto, né dove mi sia: son tanto attuffato nel mar delle delizie ch'io non so che mi faccia. Pensa tu, Cappio, che sei fuora di passione.
CAPPIO. Né io son libero di passione, che sapendo il padrone ch'io son stato l'inventore ed essecutore del tutto, non lascierá crudeltá che non voglia esperimentar contro di me. Per ora non so pensar altro modo che condur Altilia al Cerriglio e pregar il tedesco che dica al pedante che, dall'ora che Altilia e la balia son state menate da lui nell'osteria, l'hanno aspettato tutta la notte e anco senza cibo e senza sonno; e che sappino ben fingere questa bugia.
GIACOMINO. A prieghi aggiongeró qualche scudo, ché dica quella bugia: ché se delle bugie se ne dicono le migliaia senza pagamento, quante se ne diranno per denari? I danari son l'unguento de tutti i mali. Io vo a chiamar le donne.
CAPPIO. Presto, ch'ogni tardanza ci potrebbe apportar danno. (Questi giovanetti doppo conseguito il lor desiderio non pensano piú allo scandolo che ne può succedere. Io temo che de loro piaceri io n'abbi a patir la pena).
SCENA II.
GIACOMINO, ALTILIA, LIMA, CAPPIO.
GIACOMINO. Anima mia, quanto la fortuna ci è stata favorevole in avervi condotta a casa mia, tanto poi voltandoci le spalle n'è stata disfavorevole, facendo venir mio padre da Posilipo e trovar la sua casa fatta taberna, e venir poi lo spagnolo, poi venir vostro padre. Giá avete visto il contrasto col mio padre. Noi per ovviare a questo disordine avemo concertato condurvi al Cerriglio; e faremo che l'oste dica che voi tutta la notte avete aspettato il suo ritorno.
ALTILIA. Vita mia, potrete commandarmi e dispor di me come di cosa vostra; solo vi priego m'adempiate quella promessa che per vostra buona grazia m'avete fatta con quella volontá e prontezza con la quale ho adempita la mia, e considerate quanto mal stanno insieme amore e ingratitudine.
GIACOMINO. Sappiate, signora, che voi sola sète l'oggetto d'ogni mio pensiero, e che il vostro cuore è nel petto mio come il mio nel vostro; e son fatto tanto suo che non spero esser mai piú mio, né possedendo voi, curo di posseder piú cosa al mondo. E pensando che ho da star questo poco di tempo senza voi, mi sento svellere il cuore dalle piú interne viscere del mio petto. Sia per me maledetta quell'ora e quel ponto che, stando senza voi, mai pensi ad altro che a voi.
ALTILIA. Vi ricordo che l'amor de' giovani ha per fine il diletto de' loro amori, e che conseguito l'effetto svanisce l'affetto.
GIACOMINO. Altilia, vita dell'anima mia, se ben ho avuto sempre l'anima e gli occhi invaghiti della sua nobile sembianza, ho sempre riverita l'onestá, i costumi e le rare sue qualitadi, e considerato che nell'amore non è piú stretto ligame che la conformitá de' costumi. Or queste qualitá fanno che conseguito l'effetto, piú vien sempre a crescere l'affetto.
ALTILIA. Io non merito d'essere amata né per bellezza né per raritá di costumi, che in me non sono, ma perché v'ho amato con tutta la tenerezza dell'anima mia: perché non son tanto ignorante che amandovi tanto non meriti di esser riamata; ma essendo l'amor mio straordinariamente grande, dubito che non mi abbiate fatto qualche malia.
GIACOMINO. La malia che l'ho fatta, mia reina, è che l'ho amata con quella schiettezza di amore e lontana da ogni simulazione, che si convenia; e saprá bene che il ricompenso d'amore è lontano da ogni spezie di pagamento, ché l'amor si paga con amore.
ALTILIA. Ahi, che il timor m'uccide!
GIACOMINO. E di che temete, anima mia?
ALTILIA. Che non può esser grand'amore ove non è gran téma, gran sollecitudine e gran sospetto di quel che si deve e non deve temere.
GIACOMINO. Questo dovrei temer io, che sapendo la natura delle donne esser fragile, dolce e tenera e pronta alla mutazione, dubito che lontano dagli occhi vostri non mi sepelliate nell'oblio; ché non è cosa che nell'assenza piú si raffreddi che l'amore, e col nuovo successore non si marcisca.
ALTILIA. Se voi miraste nel centro dell'anima mia, vedreste veramente ch'io in me muoio per vivere in voi; e la donazion che ho fatta di me stessa a voi, è irrevocabile tra vivi, e ve ne ho dato giá il pacifico possesso.
LIMA. Signor Giacomino, se l'amor vostro nella lingua non è lontano dal core, e se voi desiderate corrispondere al suo desiderio com'ella ha corrisposto con i fatti ad ogni vostro desio, acciò l'essempio della sua disonestá overo della troppa violenza d'amore non passi nell'altre donne, ora m'assalta una improvisa astuzia di far che Altilia sia vostra per sempre, né basterá uomo del mondo trarvela di mano.
GIACOMINO. Io con questo bagio che stampo nelle gote della mia reina, ratifico quella promessa che l'ho fatta d'esser mia sposa e le ne do la fede; e giuro per la sua, piú cara che la mia propria vita, che non lascierò far cosa, per impossibil che sia, per conseguir lei, ché solo l'amor non conosce difficoltá.
LIMA. Ecco, v'apro il modo che non può ritrovarsi il migliore. Sappiate ch'essendo assediata Napoli da' francesi sotto il general monsieur de Leutrecche, una crudelissima peste assaltò il suo essercito, Napoli e quasi tutto il Regno. I signori del governo, per remediare alla commune ruina, strassinavano gli appestati su un carro dalle proprie case ad un lazzaretto a San Gennaro, poco lontano da Napoli, dove si governavano, e morendo si seppellivano in una grotta quivi appresso. Ritrovandosi impestato Limoforo suo padre e Cleria sua madre e Antifilo suo fratello, furo anch'essi come gli altri portati in quel loco. Rimasi io sola con questa bambina in casa; io per non incorrere nella medesima sciagura, la portai meco a Salerno, patria mia. Era la mia casa appresso a quella del mastro di scola, il qual veggendo la fanciulla bella e di spirito vivace e che portava nel fronte scolpiti i suoi natali, le prese tanta affezione che se la prese in casa insieme con me che l'allevasse—veggendo che la mia povertá non bastava a sopplire,—dove l'ha nodrita e allevata sin al dí d'oggi.
GIACOMINO. Balia, io t'ho ascoltato fin ora con molta attenzione, né posso imaginarmi dove sei per riuscire.
LIMA. Ecco l'inganno. Ritrovate un amico confidente, informatelo di quanto v'ho detto, e fate che s'incontri col maestro. Dichi chiamarsi Limoforo, sua moglie Cleria, suo figlio Antifilo; mostrar i segni, i tempi, l'istoria; e all'ultimo per testimonio chiamar me che confermerò il tutto: che vuol che se gli restituisca la figlia. Egli la restituirá, anzi l'ará a caro, liberandosi di averla a dotare e condurla seco a Roma, e liberandosi da me, ché non ha molto a caro la conversazion delle donne. Con questa finzione inorpellata di veritá l'arete nelle mani; ed egli è uomo che crede la metá piú di quello che se gli dice.
GIACOMINO. O che sottilissima invenzione, e mi par proprio venutami dal Cielo, né si potrebbe mai altra imaginarsi migliore. Le mano all'opere.
CAPPIO. Che sapete voi se Limoforo fosse morto dalla peste?
LIMA. Rotto il campo, venni in Napoli; né per sovraumana diligenza che vi oprassi, potei mai averne contezza di lui che, per esser dottore e ricco, era in Napoli riconosciutissimo.
GIACOMINO. O vita mia, se ti ho amata figlia d'un maestro di scola, quanto or debbo amarti figlia d'un gentiluomo! E veramente i costumi non m'hanno ingannato, che di gran lunga avanzano ogni nobiltade.
CAPPIO. Non si perda piú tempo: andiamo al Cerriglio e cerchiamo questo futuro nuovo Limoforo.
LIMA. Giacomino mio, vi raccomando la mia figlia.
GIACOMINO. Non bisogna raccomandare a me le cose mie né l'anima al suo corpo. Cappio, batti la porta.
SCENA III.
TEDESCO, CAPPIO, GIACOMINO, ALTILIA, BALIA.
TEDESCO. Chi stare quelle grande asine che battere le porte delle mie ostellerie con tanta furia?
CAPPIO. Son io; apri.
TEDESCO. Avere detto bene che stare un grande asene.
CAPPIO. E tu arciasino ad aprire.
TEDESCO. Mi patrone, che comandare Vostre Signorie?
GIACOMINO. Tedesco mio, m'hai da fare un piacere di che non ti pentirai.
TEDESCO. Eccomi a vostre piacere.
GIACOMINO. Vien questa gentildonna con la sua balia ad alloggiar nella vostra osteria; vorrei che ti fosse raccomandata come la mia propria vita.
TEDESCO. Cheste stare poche servizie.
GIACOMINO. Poi quando verrá suo padre a dimandarla, dirai che dall'ora che l'ha lasciata in quest'osteria, hanno aspettato tutta la notte senza cena e senza sonno.
TEDESCO. Sue padre esser state cheste notte a mie ostellerie, e mi aver risposto che non stare alogiate in case mie.
GIACOMINO. E questo è quel piacere che ricerco da te, che dichi una bugia per amor mio; e per questo piacere togli questo scudo e, riuscendo bene il negozio, da questo principio conoscerai se saprò remunerar bene il fine.
TEDESCO. De cheste bugie noi avere grande abbondanzie e le vendemo a bon mercato, anzi per nulla. Noi altre tedesche avere gran privilege fare quanto piacere a nui, poi dire che stare imbriache.
CAPPIO. Bisognarebbe, padrone, che fusse bene informato di quel che è passato con l'altro tedesco, acciò le risposte fossero conforme alle domande.
GIACOMINO. Dici bene, però rèstati con queste signore e avvisa di tutto quello che passò nella nostra taberna; e io andrò a trovar un amico che finga Limoforo. Son vostro, anima mia.
ALTILIA. Cor mio, non fate che, lontana dagli occhi, resti sepolta nell'oblivione.
GIACOMINO. Voi sète piú viva nell'anima mia che non ci è l'anima istessa. Sparito è il mio sole, il mondo è in tenebre: come andrò dove debbo, senza occhi e senza luce?
SCENA IV.
LIMOFORO, LARDONE, PEDANTE, ANTIFILO.
LIMOFORO. Dimmi, Lardone, minutamente e veramente il fatto come è andato, ch'esser non può che tu non abbi tenuto le mani in questa pasta.
ANTIFILO. Comincia a narrar il fatto per lo filo.
LARDONE. Se mi perdonate un fallo che ho commesso in questo fatto, strassinato dalla gola, vi spianarò il tutto in due parole.
LIMOFORO. Se dici il vero, ti sará perdonato.
LARDONE. E che sicurtá me ne date?
ANTIFILO. Io sarò il tuo mallevadore.
PEDANTE. Ed io il tuo fideiussore.
LARDONE. Se bene il gastigo che merito saria molto, pur perché non è altro che una burla, merito piú liberamente il perdono. Giacomino, mentre studiò leggi in Salerno, amò saldamente e onestissimamente Altilia sua figliuola, desiderandola piú tosto per sua sposa che per amore; e volendo andare il mio padrone in Roma, quando passava per Napoli, mi commandò che io n'andassi al Cerriglio per preparargli l'alloggiamento; e per mia mala sorte venendo qui, m'incontrai con Cappio. …
LIMOFORO. Chi è questo Cappio?
LARDONE. Il servo di Giacomino, l'inventore e l'essecutore di tutte le forfanterie, un che fa veder la luna nel pozzo; e gli fu posto nome Cappio dalla cuna, che durerá finché finirá con un cappio su la forca. … Tanto fe' che mi persuase che conducessi Altilia in casa sua; che essendo gito il padre a Posilipo, arebbe trasformata la sua casa in taberna. …
PEDANTE. O mirabile excogitatum, o inventum diabolicum: una bestia venir in una stalla di Napoli per accoppiarsi con un'altra bestia!
LARDONE. … Venne Altilia in Napoli; la condussi in casa di Giacomino col suo padre, invece del Cerriglio. …
PEDANTE. Ed io inscio et errabundo venni in questa taberna; e fummo ricevuti con sedulo servizio e uberrimo apparato.
LARDONE. … Poi con iscusa di portar le restanti robbe, tornammo a dietro e lasciammo Altilia e la balia nella taberna. Venne allor il padre da Posilipo: fu necessario che sparisse la taberna; e tornando io e il maestro, ché non si scoprisse l'astuzia, fummo discacciati dalla casa. …
PEDANTE. Per cosí nefando flagizio meritaresti che fussi legato in un asino al roverscio, con le braccia recinte al tergo, disnude, e poi da uno inflammabondo e irabondo carnefice instantemente con un flagello acuto fussi gastigato e con belluina rabie cruentato, adeo ut, usque donec, finché querulo, miserabili eiulatu, efflassi la tua nefanda animula. Ma che prima fusse disradicata la tua insaziabil mandibula infin dalle fauci, che mai potessi abligurire. Ma vegnamo al quatenus.
LARDONE. … Questo è quel peccato del quale v'ho chiesto da prima il perdono e che la gola mi aveva condotto a fare. La qual, ora, è tanto vacua quanto mi pensava che or di soverchio mi doveva esser piena.
LIMOFORO. Or, perché hai detto il vero, ti si perdoni.
PEDANTE. Restò dunque Altilia e la balia, la notte, in poter di Giacomino?
LARDONE. Come v'ho detto.
PEDANTE. Saran giá venuti all'illecebre amorose, agli amplessi cupidinei e a' bagi desiderati! Come farem dunque per riconoscerla?
LIMOFORO. Poiché non potiamo entrare nell'altrui case senza licenza del Regente, andiamo, informiamolo del fatto, ché ne doni licenza d'entrare in casa sua e porgli le mani adosso.
LARDONE. Andiamo a dormire.
PEDANTE. Abbiam piú voglia d'uccidere che di dormire.
LARDONE. Giá s'è dato fuoco alla mina; poco stará a scoppiare e far andar per l'aria l'inganno di Giacomino, se Cappio non rimediará con alcun'altra contramina.
SCENA V.
GIACOMINO, PSEUDONIMO.
GIACOMINO. Tu sai, Pseudonimo mio, se mi son sempre affaticato ne' tuoi commandi; né mai ne feci tanti che non mi fosse restato desiderio di farne de maggiori.
PSEUDONIMO. Né io ho cessato di ricevergli, perché ho sempre avuto desiderio de riservirceli: ché colui che rifiuta i servigi mostra che non si diletta di farne ad altri; ed io resto vinto da tante cortesie, e tanto piú mi sono stati cari quanto che gli ho ricevuti senza dimandargli.
GIACOMINO. Ricordatevi ancora.
PSEUDONIMO. Non bisogna rammentarmi i benefici, né tanti prieghi né tante parole, di forza che mi spingano piú degli oblighi che vi debbo.
GIACOMINO. E sempre dove conoscerò servirvi, ancorché v'andasse la vita, non mancarò mai.
PSEUDONIMO. Queste vostre tanto amorevoli offerte le pagherò ben io con piú efficaci operazioni.
GIACOMINO. Ed or avendo bisogno di fidarmi d'un amico per tormi dinanzi l'ostacolo di Antifilo, ho eletto voi fra i piú cari; poiché in voi concorrono tutte quelle parti che sono necessarie in questo effetto: voi forastiero non conosciuto in Napoli, sagace, accorto, ricco di partiti e da sapersi risolvere in ogni occorrenza; talché stimo sicuramente che voi sarete il principio, mezo e fine d'ogni mio contento.
PSEUDONIMO. Voi non potevate trovar uomo che volesse e potesse servirvi meglio di me: ho animo e rissoluzione. Fate che me si mostri quell'uomo, ché mi confido potervi condurre Altilia in casa vostra.
GIACOMINO. Io non vorrei che confidaste tanto in voi stesso, perché sogliono occorrere nel fatto cose che non si pensano mai: bisogna pensar prima a quello che ne potrebbe occorrere.
PSEUDONIMO. Non bisogna trovar il medico prima che venghi la malatia; né io mi curo di pericoli che siano per avvenirmi, purché di me restiate sodisfattissimo.
GIACOMINO. Ricordatevi i nomi delle persone e dell'osteria e de' segni delle persone.
PSEUDONIMO. So ogni cosa tanto bene che lo potrei insegnare a voi, e occorrendo rispondere ad alcuna cosa che io non sappi, non sarò tanto goffo che non sappia risolvermi.
GIACOMINO. Andiamo verso il Cerriglio, ché lo troveremo. Intanto io andrò rammentando l'istoria, i nomi e i segni delle persone.
SCENA VI.
LIMOFORO, CAPITANO, PEDANTE, GIACOCO.
LIMOFORO. Poiché il Regente ci ha favorito nella giustizia e ordinato che si cerchi la casa di Giacoco, e ritrovandovisi Altilia e la balia, si menino a casa nostra, e Giacomino in Vicaria; se avanzarete di diligenza in esseguir questo mandato, noi avanzaremo nel premio di quel che vi si deve.
CAPITANO. Mostratemi la casa e vedrete ch'io vi servirò di buona voglia e di miglior fede. Ma siate sicuro che Giacoco è un grand'omo da bene.
LIMOFORO. Per questa volta la bontá del padre poco valerá alla cattivitá del figlio.
PEDANTE. Me subscribo alla vostra sentenza.
LIMOFORO. Maestro, mostratici la casa.
PEDANTE. Ecco la malefica, prestigiosa, personata e larvata taberna che parvo tempore, instantulo, si metamorfeo in casa d'un viro probo; che se fosse nell'etá degli errabondi circumvaganti cavalieri di Gallia, direi che fosse un de' palaggi incantati di Amadis de Gaula, ove io con ludibriosa ludificazione, merente e lamentabile, ne fui expulso. Tic, toc.
GIACOCO. Che buoe, capitanio, frate mio, che con tanta auterezza e sobervia e con tanti sbirri vieni a scassar le porte della casa mia, manco se fussemo dello Mandracchio o dello Chiatamone?
CAPITANO. Cosí m'è stato ordinato dal Regente della Vicaria.
GIACOCO. Che bolete, in concrusione?
LIMOFORO. La figlia e la balia di costui.
GIACOCO. In casa mia non c'è autro ca na vaiassella, carosa, coccevannella, cacatalluni; e se ci truovi autra perzona, voglio che de zeppa e de pésole me portate presone.
LIMOFORO. Capitano, entrate e fate l'offizio vostro. Non ti bisogna recalcitrare con la giustizia.
GIACOCO. Ommo da bene mio, che hai a fare con la casa mia?
PEDANTE. Io venendo in Napoli per ospitare al Cerriglio, vostro figlio—o maximum scelus!—ha posto una maschera a questa casa e ne fece un xenodochio, dove lasciai la mia sobole con la balia; poi tornando con le reliquie delle robbe, la taberna evanisce e trovai la mia figlia sincopata.
GIACOCO. Che era deventata copeta?
PEDANTE. Sincope de medio tollet quod epentesis auget. Dico «sincopata», ché avendola lasciata nella taberna, non ci trovai la figlia né la balia: audistine?
GIACOCO. Noi poco avemo abbesogno de sse gramuffe. Ma io non t'aggio fatto accompagnare allo Cerriglio che la cercassi?
PEDANTE. Testor tutti i celicoli e i terricoli che non ce la trovai, et testor quel rutilante sidereo lume ch'io ne rimasi absorto e dementato.
CAPITANO. Padron, qui non son donne, altro che una fanciulla.
GIACOCO. Iate into allo Cerriglio; cercate meglio, ca la trovarite.
PEDANTE. Orsú, drizzamo colá il nostro gresso.
LARDONE. Ecco il Cerriglio; io batto. Tic, toc.
SCENA VII.
TEDESCO, PEDANTE, LIMOFORO, ANTIFILO.
TEDESCO. Got morgon.
PEDANTE. Chiama il dio Demogorgone, bono augurio. Bona dies et annus!
TEDESCO. Che volere, care padrune, de cheste ostellerie?
PEDANTE. Duo verbiculi.
TEDESCO. Non avere vermicoli cca.
PEDANTE. Siam qui venuti con passo celere et pernice.
TEDESCO. Non stare cca pernice né fasane; ire a cheste altre ostellerie.
PEDANTE. Voi conoscete me?
TEDESCO. Si certe: voi stare quel Tutto Merde Stronze de patriarche.
PEDANTE. Io mi chiamo Tito Melio Strozzi gimnasiarca. Non venni iersera ad ospitare in questo vostro ospizio?
TEDESCO. Dico ca mie ostellerie non stare ospitale; e veneste con uno imbriago che se bevé tutte le vine de mie ostellerie.
PEDANTE. Aedepol, maxime verum!
TEDESCO. Bevé vine fauzamiche, scippacapil, moscatelle, trebiane e vine falanghine de Pezzulle; e dicere vui che tutti li vini che finivano in «ano», tutti stare vini eccellenti.
PEDANTE. Sí bene.
TEDESCO. Poi dicere ca volive ire a portare li sopraletti.
PEDANTE. Le suppellettili, dissi.
TEDESCO. E intanto apparecchiasse una cena da fregare.
PEDANTE. Dissi:—Una cena frugale.—Non ti ho lasciato qui due donne?
TEDESCO. Sí bene; e avere aspettate vui tutte le notte senza cena e senza dormire.
PEDANTE. Non fui io qui a prestolar questa mia figlia?
TEDESCO. Voi non avete prestato figlie a me, ma sobole e bálice.
PEDANTE. La mia sobole e balia.
TEDESCO. E tornaste a portar mule e giumente.
PEDANTE. Dissi:—Et alia muliebria indumenta.
TEDESCO. Vui parlare con me d'une linguaggie turchesche, biscaino; e me nit intender.
PEDANTE. Mi dicesti che non v'erano donne, e mi serrasti le ianue nel volto.
TEDESCO. E mi stare ancora mezze imbriaghe, facere brindese con mie compánie, e tutta la notte stare a scazzare.
ANTIFILO. Queste son cose da far diventar pazzo altro cervello che non è il mio! Voi parlate con tutti come se parlaste con i vostri scolari: questo è che vi fa cadere in molti errori; che nuovo genere di pazzia è questo?
PEDANTE. Io non vuo' contaminare e imbastardire il mio mero ciceroniano eloquio, con il vostro vernaculo, della piú eccellente frase che si trova e ornato tutto delle figure di Ermogene.
LIMOFORO. Fate venir le donne.
TEDESCO. Le donne mò venire. Bisogna pagar le ostellerie del vine che si ha bevute quell'imbriago e dell'alloggiamento delle donne.
LIMOFORO. Quanto debbiamo per questo?
TEDESCO. Duie ducate per le vine bevute, mez ducate per la stanza delle donne e mez altre per il buon pro vi fazze.
LIMOFORO. Eccoli.
ANTIFILO. Maestro, come dite che vi sieno state trabalzate le donne, se le trovate nel luogo dove le lasciaste?
LIMOFORO. Non ci ha detto Lardone che Giacomino l'avea ricevute in casa sua, mettendo la sua casa in taberna?
PEDANTE. Io resto absorto e trasecolato: cose da insanire! Ma avendo la mia figlia, son compote d'ogni mio desiderio.
ANTIFILO. Certo, che saranno invenzioni di Cappio; ma pur che abbiamo le donne, non si parli piú del passato.
SCENA VIII.
ALTILIA, LIMA, PEDANTE, LIMOFORO, ANTIFILO.
ALTILIA. O caro mio padre, come m'avete abbandonata cosí sola e con tanto mio poco onore? ché, se non avesse avuta la mia balia meco, m'avreste trovata morta di dispiacere.
PEDANTE. Ecco che non m'ave abbandonata l'opifera speme, che giá era per essalar l'anima! Tanto timor m'avea invaso d'averti smarrita che stimava mai piú vederti; or possedo quanto l'animo mio ha concupito.
LIMA. Senza cena e senza sonno non abbiam mai chiuso occhi per timore.
PEDANTE. Limoforo, secondate a favorirmi, ché «melius est non incipere, quam ab incepto turpiter desistere».
LIMOFORO. Voi entrate in casa mia con le donne e riposatevi, mentre noi andremo attorno col capitano a prender Giacomino che, secondo m'ha referito Lardone, egli è stato l'autore dello strattagemma.
ANTIFILO. Ed io restarò in casa a far compagnia alle donne.
LIMOFORO. Tu vieni meco, ché il maestro ará cura di loro: che come aremo Giacomino in Vicaria, cercheremo come passò il fatto e, trovatolo colpevole, cercheremo il modo come le sia restituito l'onor suo.
ANTIFILO. Ma bisogna si facci il tutto con prestezza, ché Cappio con un'altra nuova invenzione non ce la ritoglia dalle mani.
LIMOFORO. Andiamo.
ANTIFILO. Io in tanto aggiaccio e ardo: aggiaccio per la tema e ardo per la speranza.
PEDANTE. Ite bonis avibus. Figlia, entriamo in casa.
SCENA IX.
GIACOMINO, PSEUDONIMO, PEDANTE.
GIACOMINO. Una bugia ben detta è madre dell'inganno…
PSEUDONIMO. … ed è sorella carnale del verisimile.
GIACOMINO. All'amante è lecito usar ogni inganno e astuzia per conseguir la sua amata.
PSEUDONIMO. L'inganno è tanto verisimile che non mi dispero della riuscita.
GIACOMINO. Veramente le donne sono mirabili nelle invenzioni cattive, come nelle buone non vagliono nulla; e meglio quelle che sovvengono all'improvviso che le studiate.
PSEUDONIMO. «D'inganno e di bugie si vive tutto il die, di bugie e d'inganno si vive tutto l'anno».
GIACOMINO. Di grazia, stiate in cervello che non andiamo per ingannar altri e noi restiamo gl'ingannati; ché l'inganno molto mi preme.
PSEUDONIMO. A me non sol preme ma m'opprime.
GIACOMINO. Pseudonimo, vedete quel vecchio vicino alla porta? quello è desso; accostatevi.
PSEUDONIMO. M'accostarò pian piano. Questa è la casa che m'è stata insegnata? Dimanderò costui; forse me ne dará contezza. O padrone!
PEDANTE. Hem, quid est? domine, quid quaeris? perché infixis oculis e con petulante obtúto mi guardate?
PSEUDONIMO. Se mi sapeste dar nuova d'un Tito Melio Strozza gimnasiarca.
PEDANTE. (Costui non potrá esser se non un gran letterato e mio devoto, sapendo il mio prenome, nome, cognome e officio). Quem quaeritis, adsum.
PSEUDONIMO. Voi dunque sète quel ch'io dimando?
PEDANTE. Quellissimo—un superlativo volgarizato.
PSEUDONIMO. O mia ventura che l'abbi trovato al primo.
PEDANTE. Che prestolate da me?
PSEUDONIMO. Cose d'importanza; né posso dirlevi se non ho prima piú certa informazione della sua grandezza e mirabil sua sapienza.
PEDANTE. (Costui è un gran rettorico, perché al principio capta la benevolenza con le lodi). Non vedete la digna imperio facies? la mia maestosa presenza? e che tutti cominus et eminus mi riveriscono?
PSEUDONIMO. O amatissimo e venerabil Tito Melio Strozza gimnasiarca! In quanto obligo mi trovo: mi trovo in un obligo obligatissimo, obligato in modo senza potermene sciorre.
PEDANTE. Dic, quaeso, di che cosa?
PSEUDONIMO. Che senza altra richiesta m'avete raccolta e allevata una mia figliola, e con tanta diligenza e dottrina che non averei potuto allevarla io che le son padre.
PEDANTE. Chi sète voi?
PSEUDONIMO. Per non tenervi a bada, io son Limoforo, padre di Aurelia che voi m'avete nodrita.
PEDANTE. Voi, voi Limoforo?
PSEUDONIMO. Io, io Limoforo al vostro servigio.
PEDANTE. Di che cognome?
PSEUDONIMO. De' Pignattelli.
PEDANTE. Quanto tempo è che la perdeste?
PSEUDONIMO. D'intorno a dicisette anni.
PEDANTE. Di che etá era la figliuola?
PSEUDONIMO. Di tre anni incirca.
PEDANTE. Avea alcun'altra donna al suo famulizio?
PSEUDONIMO. Una sua balia chiamata Lima.
PEDANTE. Voi come la perdeste?
PSEUDONIMO. Nel tempo della peste di Napoli, io appestato con la mia moglie e figli fummo portati al lazaretto a San Gennaro, dove morí mia moglie e il figlio, e restò la casa sola; e la balia, per timore che non sortisse la medesima sciagura, se ne venne a Salerno.
PEDANTE. Come sète stato tanto tempo a non cercarla?
PSEUDONIMO. Come fui guarito, tornai a casa e la trovai tutta svaliggiata. E perché non era ancor la peste estinta, andai a Surrento mia patria, ove son dimorato molti anni; ritornato, feci ogni diligenza per aver novella di lei o della sua balia. Or avutane novella, son stato a Salerno per ritrovarvi; e m'han riferito che eravate in Napoli nell'osteria del Cerriglio, per passare in Roma; e ora ho inteso ch'eravate a questa casa.
PEDANTE. Sapete alcuni stimmati ch'aveva ella nella persona?
PSEUDONIMO. Nella mano sinistra una ferita che le fe' la balia, cadendole dalle braccia; e un nevo rosso nella destra del collo, che fu gola di sua madre d'una cirieggia.
PEDANTE. Rivolgendomi per le cellule della memoria le cose prima recensitemi da Lima, si conformano con tutte queste: estimo absque dubio che costui sia il suo vero padre.
PSEUDONIMO. Se la balia fosse viva, sarei certissimo che mi conoscerebbe e sarebbe buon testimone della mia veritá.
PEDANTE. La balia è viva; e curriculo l'andrò a chiamare.
PSEUDONIMO. Ma ditemi, di grazia, come Aurelia mia venne in poter vostro?
PEDANTE. La balia, fuggendo da Napoli, venne a Salerno ad alloggiar vicino alla mia casa. Io veggendo quella puellula di precellente figura, con una cesarie aurea, con cincinni capreolati e vertigini errabondi, d'una preclara indole che mi presaggiva la nobiltá del suo sangue, mi rapí ad amarla e nodrirla come propria mia figlia.
PSEUDONIMO. Io mi sforzarò pagarvi le spese fatte in quanto posso; ché son certissimo che, per pagarvi l'amor con che l'avete allevata, non sarei bastante pagarlo mai, se non con obligo di avervi a servir mentre son vivo.
PEDANTE. Io non vo' altri riscontri che sia vostra figlia; e ve la ritorno volentieri, per essere io di genio molto alieno dalla natura muliebre; e avendo a conferirmi in Roma, mi sarebbe molto incomodo condurvi donne; né essendo cumulato de' beni della fortuna, come potrei dotarla?
PSEUDONIMO. Io non so se sogno o se son desto, poiché conseguisco cosa, in un punto, che ho desiderato dicisette anni. Di grazia, chiamatela ché la veggia, ché ogni momento mi par mill'anni.
PEDANTE. Lima, Lima, vien qui con Altilia.
SCENA X.
LIMA, ALTILIA, PEDANTE, PSEUDONIMO.
LIMA. Che commandate, padrone?
PEDANTE. Chiama qui fuori Altilia.
ALTILIA. Eccomi, che commandate, padre?
PEDANTE. Lima, conosci quel gentiluomo?
LIMA. Mi par di conoscerlo e di non conoscerlo. Giá mi par di conoscerlo; ma non so dove… .
PSEUDONIMO. Mirami bene.
LIMA. Or lo raffiguro assai meglio. O Cielo, questo è Limoforo mio antico padrone!
PSEUDONIMO. O Lima, ch'io subito in vederti t'ho riconosciuta!
LIMA. O padron caro, lascia che ti baci questi piedi e queste mani.
PSEUDONIMO. Lascia che mi consoli un poco con mia figlia.
PEDANTE. Altilia, riconosci il tuo vero padre?
ALTILIA. Io mai ebbi altro padre che voi.
PEDANTE. Io son stato tuo padre equivoco; questi è tuo padre univoco.
PSEUDONIMO. Figlia, non posso piú tenermi che non ti abbracci. O figlia ritrovata a tempo, quando meno sperava di ritrovarti!
PEDANTE. Figlia, questo è quel tuo vero padre qual io stimava morto di peste.
ALTILIA. Padre, se non son venuta tosto a farvi riverenza, è stato che io ho sempre stimato che costui fosse il mio vero padre.
PSEUDONIMO. Lascia che t'abbracci un'altra volta, o cara figlia.
ALTILIA. E ch'io di nuovo ti baci le mani, o mio carissimo padre.
PEDANTE. O che lacrime stillanti dagli occhi per tenerezza!
PSEUDONIMO. Questo mi par incredibile, e pur è possibile per mia ventura, carissimo Tito Melio. Io non veggio mai l'ora di portarmela a casa e consolarmi pienamente con lei; però datimi licenza, ché fra due ore sarò con voi: ragionaremo del merito, e dell'obligo che vi devo, e degli amorevoli offici prestiti a mia figlia, acciò prima che partiate di qua per Roma, conosciate la mia affezione. Vi prego che mangiamo insieme questa mattina in questa casetta, la qual da oggi innanzi sará piú vostra che mia.
ALTILIA. Padre mio, non mi abbandonate e non mi private di voi cosí presto. Desidero che oggi ci riveggiamo insieme, e rendervi le grazie di tanti favori e grazie che in tanto tempo m'avete fatte in casa vostra.
PEDANTE. Silenzio; faciam. Andate, ch'oggi ci rivederemo; ché vuo' dar conto a questi gentiluomini che m'han tanto favorito, di quanto è successo.
PSEUDONIMO. A rivederci.
PEDANTE. A rivederci.
ATTO V.
SCENA I.
PEDANTE, ANTIFILO, LIMOFORO.
PEDANTE. Delibúto d'un insueto e subitaneo gaudio dell'insperato successo, sento la mia persona eliquarsi in lacrime, che son quasi prolapso in una epilepsia d'allegrezza, talché sono inabile a soccombere al peso; poiché senza dispendio e senza aver a far scrutinio d'un marito probo per collocare Altilia mia, l'ho restituita al genuino suo padre. La donna in casa è un certum malum e una verecundia incerta.
LIMOFORO. Di grazia, fatemi partecipe di tanta vostra allegrezza.
PEDANTE. È venuto il padre d'Altilia mia: ce l'ho restituita e son evaso da un tanto discrimine.
ANTIFILO. Dunque, Altilia non è vostra figlia?
PEDANTE. D'amor sí bene, ma da me non ingenita.
LIMOFORO. E come venne, ditemi di grazia, in poter vostro?
PEDANTE. Vi dirò laconice, con brevi parole ma succiplenule. Venne in Salerno, fuggente il grassante contagio napolitano, una pedissequa ch'avea prestato il latticinio ad una puerula di facie spectanda et insuper iucunda, la quale abitava nella mia vicinia. Io circumspectando questa virguncula con uno inflexo et pertinace obtúto, la scorgeva d'una modestosa e maestosa indole. Eran le parti del suo corpo con una suprema eleganzia armonizate. Resideva negli occhi sui una coruscante luce siderea con certi igniculi vivaculi spirantino l'eleganzia del suo ingegno. Le guancie eran di latte, invermigliate di purpuree rose. Vernavano nel volto i flosculi della sua futura pulcritudine. Era d'un blando eloquio. La bocca con certi labricoli che traean da lunge morsicanti e sorbicoli baci; con certe toberose mammelle e lattabonde. Crescendo poi nell'etá florulenta, crebbe molto morigerata e guardinga dell'onor suo. Io le presi affetto paterno, come propria uscita dal mio alveo; ricevei ella e la balia nel mio contubernio e ne presi il tirocinio: l'ho imbuta di varie lettere e lingue dagli incunabuli. Dicevami la balia esser nata nobile; e ritrovandosi forse il padre, n'arebbe ricevuto da lui de' prestiti alimenti non picciola ricompensa. Io non ebbi mai moglie, che ho amato le donne d'un amor socratico o platonico. Or essendo venuto il prelibato suo padre, l'ha riconosciuta; e io doppo le debite richieste gli l'ho restituita.
ANTIFILO. Dubito che non siate stato ingannato.
PEDANTE. Non posso esser stato deluso, perché era uomo circonspetto con le mani chiroticate: da segni della figliuola e dell'istoria della sua vita, me ne rendei certo; ma pur, dubitabondo e renuente, chiamata la balia e seco confabulando, si riconobbero insieme. E senz'altra replica gli consegnai l'una e l'altra.
ANTIFILO. (O morte, perché non m'uccidi? Mi sono affaticato tutto oggi per scapparla dalle mani di Giacomino e dalle trappole di Cappio, fatto venir il padre da Posilipo, mandato uomini alla taberna, fatto cercarla dal capitano; alfin ridotta in casa mia, con nuovi inganni me l'han robbata. O speranze, o vani pensieri d'innamorati, come spariscono in un momento! o cose del mondo come sète varie e instabili!). Maestro mio, dalle cose da voi dette io non posso in alcun modo persuadermi che voi non siate stato ingannato. Come sono accadute tante cose in un'ora, che son state sepolte tanto tempo? come in questo ponto è venuto il padre da casa del diavolo per torvela? Poiché la casa di Giacomino si trasformò in taberna, come cercata al Cerriglio non v'era, e poi cercata di nuovo si trovi, e subito ricuperata è stata subito rubbata? Stimo che giochino a chi sa meglio trappoleggiare.
LIMOFORO. Come disse che si chiamava suo padre, sua madre e la fanciulla?
PEDANTE. Il padre, Limoforo; la madre, Cleria; e la fanciulla, Aurelia.
LIMOFORO. Voi perché la chiamate Altilia?
PEDANTE. Per esser cresciuta alta e procèra della persona e della virtú, l'ho posto nome Altilia.
LIMOFORO. (Io mi sento un certo spirito favellar nel core che costei sia mia figlia. Che favellare? anzi sollecitare e spingere a saperne il vero). Ditemi, ove è costui che dice esser suo padre?
PEDANTE. Egli è introgresso in questa domuncula seu domicilio.
LIMOFORO. Di grazia, chiamatelo, che tutto fia per vostro bene.
PEDANTE. Tic, toc, tic.
SCENA II.
PSEUDONIMO, LIMOFORO, PEDANTE, ANTIFILO.
PSEUDONIMO. Che commandate, mio carissimo maestro?
PEDANTE. Questo gentiluomo ha caro ragionarvi.
ANTIFILO. (O che cèra di manigoldo, che malencolia, che occhi ficcati in dentro piccioli, che naso grifagno! E come in corpo sí mostruoso può albergar anima che buona sia?).
PEDANTE. (In anima malevola non intrabit sapientia).
PSEUDONIMO. Eccomi al vostro commando.
LIMOFORO. Desidero sapere il vostro nome.
PSEUDONIMO. Io? Limoforo.
LIMOFORO. Di che cognome?
PSEUDONIMO. Pignattelli.
LIMOFORO. Di che cittá?
PSEUDONIMO. Di Surrento, se ben ho abitato in Napoli.
LIMOFORO. Quando venisti in Napoli?
PSEUDONIMO. Iersera.
LIMOFORO. La cagione?
PSEUDONIMO. Ebbi novella ch'una mia figliuola e balia che gran tempo non avea viste, erano in Napoli.
LIMOFORO. Come le perdeste?
PSEUDONIMO. Essendo la peste in Napoli, m'appestai io, la moglie e il figlio, e fummo strassinati al lazaretto; restò la casa sola; morí la moglie e il figlio. Tornando in Napoli trovai la casa vuota di uomeni e di robbe; mi ricovrai in Sorrento, né piú mai ebbi contezza della figlia o della balia.
LIMOFORO. (Questo è un altro me; anzi se ricorda delle cose che non me ne ricordo io). Ma ditemi un poco, come si chiamava la moglie?
PSEUDONIMO. Cleria.
LIMOFORO. Il figlio?
PSEUDONIMO. Antifilo.
LIMOFORO. La balia?
PSEUDONIMO. Lima.
LIMOFORO. Di che tempo era la figliuola?
PSEUDONIMO. Di duo in tre anni.
LIMOFORO. Avea alcun segno la figliuola nella persona?
PSEUDONIMO. Una ferita nella man sinistra che si fe' cadendo dalle braccia della balia; e una macchia rossa, nella mammella destra, che diceva essere una gola d'una cirieggia della madre.
LIMOFORO. Dico che a puntino accadde questo a me nel tempo della peste di Napoli; e quanto tu hai detto di te stesso, tutto quello son io. Io Limoforo Pignatello di Surrento, io m'appestai con la moglie e il figlio: morí mia moglie, restò la casa sola con Aurelia e la balia Lima; e guarito, tornando trovai la casa vuota e sbaliggiata e mi ricovrai in Surrento; e la figlia avea quella ferita e macchia ch'hai tu detto. O che tu sei diventato me o che io son diventato te.
PSEUDONIMO. Io son quello che fui sempre, né son altro diventato.
LIMOFORO. Forse ci siamo scambiati insieme.
PSEUDONIMO. Mai viddi uomo tanto simile a me che mi fusse scambiato in lui.
LIMOFORO. Forse siamo un'anima in duo corpi?
PSEUDONIMO. L'anima mia stette sempre con me, né si partí mai dal corpo mio per animarne un altro.
PEDANTE. Se fussimo al tempo di Pittagora, che diceva che morendo uno l'anima di quello transmigrava in un altro, io direi che costui fusse morto e l'anima sua passata nel tuo corpo; ma questi è vivo.
LIMOFORO. O tu sei me o io son te.
PSEUDONIMO. Io son quello che fui sempre, né fui mai te.
LIMOFORO. Quanto voi avete detto di voi, tutto è impossibile.
PSEUDONIMO. Come impossibile, s'è stato, è e sará sempre?
PEDANTE. (Hem, quid audio?).
ANTIFILO. (Che dite voi di questo fatto, il mio caro maestro?).
PEDANTE. (Quid dicam vel quid cogitem, nescio. Dubito sia un paradosso di furfantaria, e noi restaremo condennati alle spese. Se fosse stato un avocato, non arebbe potuto dir tante bugie in un attimo).
ANTIFILO. (Oimè, dubito che Altilia d'innamorata mi diverrá sorella!).
PSEUDONIMO. Io son calato giú per farvi grazia.
LIMOFORO. Anzi, per mia disgrazia. Volete voi saper chi sète, volete che ve lo dica?
PSEUDONIMO. Io so ben chi sono, né bisogna che mi sia detto.
LIMOFORO. Tu non sei Limoforo; ma vorresti esserci per ingannar me, che sono il vero Limoforo.
PEDANTE. Tarde venisti, domine.
PSEUDONIMO. Son venuto molto presto, piú che aresti voluto; e mal per voi.
LIMOFORO. Tu veramente sei un furfante, un truffatore.
PSEUDONIMO. Voi molto vi discomponete verso di me.
LIMOFORO. Perché n'ho ragione.
PSEUDONIMO. Che ragione?
LIMOFORO. Che per tormi la figlia, m'hai occupato il nome e l'esser mio.
PSEUDONIMO. Ed io questo medesimo dirò di te.
PEDANTE. Mira che viso invetriato! Tu sei un spurio e adulterino Limoforo.
LIMOFORO. E ti basta l'animo di negarlo?
PSEUDONIMO. Sí ben, perché dico il vero.
ANTIFILO. Va' t'appicca.
PSEUDONIMO. Va' e appiccati tu che lo meriti, ché tu vuoi truffar me.
ANTIFILO. Tu dici che Antifilo è morto di peste; io sono Antifilo, e io son vivo a tuo dispetto. Padre, meritarebbe che costui fosse preso da' birri e balzato in una galea.
LIMOFORO. Giá tace: la veritá e la vergogna gli chiude la bocca, ché non sa che rispondere.
PEDANTE. Meritarebbe che questo falsiloquo fosse ben castigato.
PSEUDONIMO. Ascoltate la veritá.
LIMOFORO. Ascoltiamo che dice la bocca della veritá.
PSEUDONIMO. Chiamiamo la balia; ella chiarirá chi sia il vero Limoforo di noi duo.
LIMOFORO. Che si chiami.
PSEUDONIMO. Tic, toc, tic. Cala qua giú, Lima.
SCENA III.
LIMA, PEDANTE, PSEUDONIMO, LIMOFORO, ANTIFILO.
LIMA. Che commandate, signor Limoforo mio padrone?
PSEUDONIMO. Che dichi chi di noi sia veramente Limoforo.
LIMA. Che dimande son queste? voi sète Limoforo, il mio antico padrone.
PSEUDONIMO. Chi è costui che mi sta presso?
LIMA. Io non lo conosco, …
LIMOFORO. Non mi conosci, eh! e io subito, in veder te, t'ho riconosciuta. Ma raffigurami meglio.
LIMA. … né tampoco mi ricordo avervi giamai visto.
LIMOFORO. Non ti ricordi del tuo antico padrone Limoforo?
LIMA. Signor Limoforo…: dico, forastiero, veramente che non vi cognosco.
LIMOFORO. Pur mi chiami Limoforo; e tu non volendo, a tuo dispetto la lingua ti manifesta i secreti del core. Ma questi chi è?
LIMA. Limoforo Pignatelli, marito di Cleria mia padrona, il qual avendolo stimato morto col suo figlio, ho sempre onorata la sua morte con molte lacrime.
PEDANTE. Dii boni, quid audio? or in me regresso conosco che son stato deluso.
LIMOFORO. Ecco che mentre piú ti raffiguro, ti vedo nel fronte il segno di quella ferita che ti fe' Cleria mia moglie, quando ti cadde Aurelia di braccio. Ma dimmi, nuovo Limoforo, come si chiamava il marito di Lima?
PSEUDONIMO. Che imperio avete sopra di me, che sia costretto a rispondere a quanto mi dimandate? Non me ne ricordo.
LIMOFORO. Tu non lo pòi sapere, che mai conoscesti Lima né Limoforo. Ma dimmi, Lima, non ti trovò mia moglie a giacere con Barbetta nostro famiglio, e con un bastone ti fe' quella ferita ch'hai nella mano, ti cacciò di casa, e poi a preghiere d'amici fosti ricevuta? Questi secreti li sa questo tuo Limoforo?
PSEUDONIMO. Non mi ricordo di tal cosa.
LIMOFORO. Mostra la ferita ch'hai nella mano.
LIMA. Non vo' mostrare le mie carni a persona del mondo.
LIMOFORO. Non eri cosí quando eri giovane: ché mirandoti solo alcuno, prima che te lo chiedesse, ce le mostravi; e le tenevi coperte solo perché le mosche ti davano fastidio.
LIMA. Non so quel che vi diciate.
LIMOFORO. O Cielo, che non mi par di creder quel che veggio né di creder quel che è vero; e pur mi sento morir di desiderio di veder mia figlia.
ANTIFILO. Lima, chiama la tua figliana.
PEDANTE. Io tremo nel meditullio del mio core per tanti inopinati accidenti d'oggi. O Giacomino malus, o Cappio peior, o Pseudonimoforus pessimus! O quam malum est habere foeminas pulcherrimas in domo!
SCENA IV.
CAPITANO, GIACOMINO, PEDANTE, LIMOFORO, PSEUDONIMO.
CAPITANO. Limoforo, eccovi Giacomino che, senza ch'io lo meni prigione, egli da se stesso viene ad imprigionarsi.
GIACOMINO. Io non vengo qui a scusarmi, ma vengo a ricever castigo della mia colpa, se lo merito; se non, perdono e cortesia.
CAPITANO. Limoforo, se non volete aver pietá di lui, abbiatela di suo padre: usateli qualche cortesia.
LIMOFORO. Ma che cortesia potrá sperar da me, s'egli m'ha offeso nell'onore, ché so che questa notte non avrá dormito? Mi dispiace nell'alma d'usargli discortesia. Ma ditemi, che ho da fare?
GIACOMINO. Eccomi a pagar quell'offesa con quel pagamento con che soglionsi pagare simili offese.
LIMOFORO. Ditemi questi pagamenti.
GIACOMINO. Io dal primo giorno ch'io vidi la bellezza, l'onestá, i costumi e un tesoro di tanti meriti e di tutte le grandezze della natura in vostra figlia, feci un fermo proposito, averla per moglie; né mai mi cadde pensiero contaminar la candidezza della sua onestá d'una minima macchia; e or disprezzo e aborrisco la vita avendo a viver senza lei, e son tutto disposto e confirmato in questo pensiero, che o mi la concediate per isposa o che m'ammazziate qui or ora. Eccomi qui genocchione, eccovi il petto e la gola: prendete quella vendetta che vi piace. E se forse vi par che per nobiltá o ricchezza non ne sia degno, ne sono almen degno per il grande amor che le porto.
LIMOFORO. Giacomino, converrebbe che voi perdeste la vita in pago di tanto ardimento; ma questo libero procedere con me fa che con voi ancor liberamente proceda: come avete voi del grande in cosí grande eccesso, cosí voglio io ancora aver del grande in perdonarvi; e come uomo che stimate l'onor mio, cosí voglio ancor io stimar la vostra vita.
GIACOMINO. Ed ancora io voglio aver del grande: di cotanto perdono restarvene in tutta la vita obbligatissimo.
LIMOFORO. E vo' che ancora voi abbiate del grande in perdonare a me, che abbi commandato a prendervi prigione; ché, or sapendo le rare qualitá che in voi sono, come gentiluomo di onor che sète, considerate che in cosa dove vi sia l'onore, non si porta rispetto a persona alcuna.
GIACOMINO. Ma che non fa amore? rompe le leggi, supera ogni difficoltá e fa che non si miri a nulla.
LIMOFORO. Capitano, lascia costui e lega quest'altro che, avendo usurpata la mia persona, per cotal mentita merita un degnissimo castigo.
GIACOMINO. Carissimo Limoforo, poiché avete perdonato la mia offesa, convien anco perdonar l'offesa di colui che v'ha offeso per mia cagione. Questo mio caro amico ha posto la vita e l'onor suo in periglio per aiutar me; il quale, per posseder per moglie la vostra amatissima figlia, m'ha servito per istrumento quando io avea posto in disperazione la terra per non perderla.
LIMOFORO. Poiché l'ingiuria che m'ha fatta è riuscita in mio grandissimo onore, e ho conosciuta la mia carissima figlia, come cagione della mia felicitá vo' che se gli perdoni. Capitano, liberate quest'altro che vo' che non solo sia libero ma che ancor mi sia carissimo amico, perché non è piccola cosa aver un tal per amico né aver un tal per inimico.
PSEUDONIMO. Io non so se tanto debbo vergognarmi delle cose passate quanto rallegrarmi delle cose presenti. Ma come potrò mai sciorme di tanto obligo dove oggi m'avete posto? Io me ne vo con un monte d'obligo sopra le spalle, pregandovi mi porga occasione di tormelo da dosso; mi parto.
PEDANTE. La dolcedine delle recensite parole di tutti m'hanno invaso di tanta tenerezza che giá succresce il foco che m'avevano acceso negli inflammabondi precordi.
GIACOMINO. Ma in tanti oblighi ch'io v'ho non isdegnate che vi s'accresca quest'altro, di venir a mio padre per impetrar da lui grazia ch'abbi passati e rotti i confini dell'obedienza, e dargli questa ultima sodisfazione di aver tolto moglie senza sua licenza.
LIMOFORO. Faccisi quanto s'estende il mio potere in servirvi. Andiamo a vostro padre.
GIACOMINO. Eccolo che vien fuori.
SCENA V.
LIMOFORO, GIACOCO, GIACOMINO, PEDANTE.
LIMOFORO. Giacoco, presentiamo vostro figlio dinanzi a voi, acciò voi ne siate giudice d'aver a punirlo o liberarlo.
GIACOCO. Io no saccio la cosa commo è iuta: sciarvogliatemi lo gliuómmero dallo capo, ca po ve responderaggio.
LIMOFORO. Vostro figlio a tempo che studiò a Salerno, s'innamorò di mia figlia stimata allora figlia d'un maestro di scuola; e sapendo ch'oggi veniva in Napoli per passare in Roma e che doveva alloggiare al Cerriglio, trasformò la vostra casa in taverna con l'aiuto d'un suo servitore chiamato Cappio, …
GIACOCO. Chisto è lo cunto dell'uorco!
LIMOFORO. … dove fe' alloggiar mia figlia. Voi poi tornando da Posilipo, bisognò che la taverna mutasse faccia; e venendo il maestro poi per alloggiar con la figlia, lo scacciar da casa con occasione; e restò mia figlia sola e sola con vostro figlio: ben sapete che il diavolo mai dorme. Io sapendo questo fui al Regente della Vicaria; ebbi ordine si cercasse la casa vostra e si pigliasse prigioniero vostro figlio, se ne facesse atto publico, né si procedesse alla consueta e solita giustizia. Ecco, lo poniamo a voi, prigione; sappiamo quanto siate uomo da bene: giudicatelo voi, ché ne restaremo tutti contenti della vostra sentenza.
GIACOCO. Patrone mio, Bossignoria co ssa cera d'emperatore m'ave affattorato, e me potite commannare a bacchetta. Considerate ca no aggio autro figlio che chisso, ca è stato lo cacanidolo di tutti li figli mei.
LIMOFORO. Né io ho altra figlia che costei.
GIACOCO. Iacoviello mio, cheste negregate cose ca me fai ntennere, me spertosano lo core. Ih, sse belle cose! Io pensava ca tu studiassi a Ribando; mò abbesogna che studia a Paolo che te castre, a far le biscazze. Che se ne puozza scendere commo a fiore de cocozza!
GIACOMINO. Padre, ho errato, lo conosco; ma se miraste la bellezza, l'onestá e i nobili costumi d'Altilia, ivi vedreste la colpa e la discolpa dell'error mio; e in questa elezione son stato piú fortunato che saggio.
GIACOCO. Poiché le cose passate non ponno tornare dereto, abbesogna remediare lo meglio che se pote. Io lo remetto a Bossignoria; e la supplico ca, se isso ha mancato de descrizzione, Bossignoria, faccia mescoliata mia!, non mancate de compassione.
LIMOFORO. Io non son per mancargli di compassione se non mi si mancherá di dovere da vostra parte: ben sapete le sodisfazioni che si cercano in simili offese.
GIACOCO. Bella faccia mia, te puoi nformare in chesta cittate ca dintro lo parentato mio no nc'è quarche chiavettiere o sosomellaro; se no te sdigni d'apparentare co mico, io te lo do pe schiavuottolo ncatenato. Iacoviello, figlio mio, io voglio ca te nzuri a gusto toio, pur che essa sia femmena onorata e te dia buona dote.
GIACOMINO. Padre, troppo sarebbe cara l'onestá, se l'onestá di tutte le donne fossero come l'onestá d'Altilia mia.
GIACOCO. Parlammo mò della dote, che è la ionta dello ruotolo; ché l'oro nnaura e noropella tutti li defietti delle mogliere, che se fosse brutta, desonorata, sopervia e fastidiosa, l'oro la fa parer bella e complitissima.
LIMOFORO. Io li darò dote quanto saprá dimandarmi, che non ho altra figlia.
GIACOMINO. Ed io troppo torto farrei all'infinito tesoro delle sue qualitá, se cercasse altra dote che la sua persona: poco o nulla è la mia qualitá al suo gran merito.
GIACOCO. Ti dico che ne zeppolie ssa bona dote, che è autro che bellezzetudine.
GIACOMINO. Padre, per questa disubedienza che ho fatto in aver preso moglie senza vostra ubedienza, l'emendarò con una continua osservanza di servitú e di amore fin alla morte; e il medesimo a mio suocero: ma tanto piú grande quanto meno conosco di meritarla.
GIACOCO. Iacoviello mio, co ssa mostra d'affezione e con cheste parole nzuccarate, m'hai addociuta la collera che m'avea nzorfato lo core. Io te fo erede di tutta la mia robba che val piú di quarantamila ducati.
LIMOFORO. Veramente in questo amore s'è portato troppo da leggiero.
GIACOCO. No se rascione chiú delle cose passate; perché ognuno vuole scusare le sue rascioni e accrescer quelle del compagno, e cosí l'ingiurie si vengono a rinfrescare: da mone nnante non se ne parle chiú.
GIACOMINO. Padre, m'avete a fare un'altra grazia, di perdonare a Cappio, perché io l'ho sforzato a fare quanto s'è fatto. E se Pseudonimo falsificò la sua persona, tutto fu per mia cagione. Né si può dire inganno, anzi tutto è stato fatto per forza d'amore: onde poi è riuscito in cosí buon successo che Limoforo abbi ricuperata la sua figlia, Antifilo non abbi preso per moglie la sorella, il maestro libero di non aver a dotar e maritar la figlia, anzi ricevuto il compenso delle sue fatiche, e io arricchito di cosí gran tesoro.
GIACOCO. Si perdoni a tutti, che nquesta commune allegrezza non resti alcun discontiento; se bene è stato no piezzo de catapiezzo d'aseno. Pedante. « Mihi gaudeo, tibi gratulor »—disse Cicerone,—o mi Iacobule, del mirifico amore portato alla mia sobole.
GIACOCO. Figlio, chiama la mogliera toia, ca poi che avimmo stancate l'orecchie in ausoliare le virtute soie, si rallegrino gli uocchi di vederela.
SCENA VI.
GIACOCO, GIACOMINO, ALTILIA, PEDANTE, LIMOFORO, ANTIFILO.
GIACOCO. O che bello piezzo de femmena, o che uocchi cennarielli, o che faccia vasarella, o che bocca cianciosella, o che labri mozzicarielli, o commo è iocarella e broccolosa! Iacoviello mio, la state chesta te fará frisco commo na rosa e d'invierno t'a tiene pe na coperta. E perché non la basi? non bidi ca chella bocca dice: basame, basame?
GIACOMINO. Padre, la bacio mille volte per ora con la bocca del core.
GIACOCO. Iacoviello mio, appiendi na cepolla squillitica alla fenestra soia e pastenace la valleriana, che no ce pozzano le ianare per la nvidia. E tu, Aurelia mia, ama Iacoviello mio, ca la bellezza toia l'ha tanto spertosato lo core che ne sta tutto scarfato e spronamentato.
ALTILIA. Egli non è mal cambiato di amore; ché non tanto egli m'amò con buona intenzione, com'io l'ho amato con buona volontá.
GIACOMINO. O vita mia, se morisse ora, morrei contentissimo per morire in tanta gioia, accioché il mondo con le sue aversitá non ci meschiasse poi il suo amaro, come suol far spesso nelle cose d'amore.
ALTILIA. Ed io vorrei morir mai per godermi di sí compita felicitá.
GIACOCO. Orsú, pozza essere alla bon'ora.
GIACOMINO. O giorno felicissimo e chiaro, che sei nato da cosí oscura e infelicissima notte!
ANTIFILO. O sorella, quanto devi ringraziare il Cielo che mi fosti cosí disamorevole e ingiuriosa con tanti improperi; ché se benigna mi fosti stata, avendoti poi riconosciuta per sorella, mi saresti stata amara e acerbissima: e chi può opporsi a' gran secreti del Cielo? Onde le speranze dell'amor mio fin qui nodrite nel core, or che sorella mi sei, mi sono in tutto e per tutto spente e sparse via.
ALTILIA. Fratello carissimo, or si spenga l'amor della carne e da oggi innanzi divenghi amor di sangue.
PEDANTE. Antiphile mi, tarde venisti.
LIMOFORO. Figlia, sei stata tanti anni senza padre; or in un punto n'hai acquistati tre: l'un vero che son io, l'altro falso che s'era fatto me, e il maestro che t'ave allevata come padre.
ALTILIA. Poiché io non posso esser figlia se non d'un padre, amerò voi con quel vero amore che dee amare un'amorevole e obedientissima figlia; il maestro che m'allevò con tanta caritá e affetto paterno, l'amerò con un perpetuo obligo di servitude; il finto padre, come istrumento della mia felicitá, l'amerò con amor verissimo e non finto.
LIMOFORO. Maestro mio, per riservirvi in parte l'obligo grande che vi tengo di avermi allevata la mia figlia con tanto dispendio e amore, restarete in casa mia, voi e la balia: ove sarete padroni come son io, e sarete serviti e amati con quell'amore ch'avete amata e servita la figlia mia, mentre che viverete; né vi sia bisogno piú di gir a Roma, che giá sète in etá di riposarvi e no straziarvi per viaggio e nelle letture, e vi servirá mia figlia come v'ha sempre servito.
PEDANTE. Maximas vobis ago gratias.
GIACOCO. Iacoviello mio, veo ca d'allegrezza no capi dintro la pelle, e stai cannapierto a mirare sta faccia strellecata e lenta e penta de mogliereta, e te par mill'anni di parpezzare no poco e darli quattro vasi a pizzichini e farle quattro bruoccole. Trasitenne e mprenamella sta notte a no bello nennillo.
GIACOMINO. Poiché le ricchezze che non si spendono nei bisogni, sono miserie e povertadi, però vorrei invitar tutti questi questa sera a casa nostra.
GIACOCO. Perdòname se te spezzo parola a bocca, ca non ce voglio spendere manco na spagliocca: chisse ne reppoleiano na mangiata e nui restammo affritti e negrecati.
GIACOMINO. Mi tengo a grande incontro non invitarli.
GIACOCO. E nui facciamole na bona nzalata, no pignatto de foglie torzute, no sanguinaccio e na meuza zoffritta.
PEDANTE. Or che siamo tutti alacri e ridibondi, chiaminsi i musici, e con sibili tonanti e con belle circumvoluzioni di choree s'onori questa copula matrimoniale.
GIACOMINO. Sí bene, chiamiamo suoni per i balli.
GIACOCO. Basta no vottafuoco, na cètola, no calascione e no zucozuco.
GIACOMINO. Ci rimediarò ben io.
GIACOCO. Auscutatori miei, perché site perzune da bene e me date onore per le vertude vostre, veo ca ve ascevolite de famme. Per darve sfazzione, se volite venire a ciancoliare co nui cosí auto auto, a primo vi cacciarimmo innanzi dui uocchi de tunno, poi vi cacciarimmo lo fecato, le stentine e lo core de puorco, e ve arrostarimmo dintro no furno na bella porcella, e vi friarrimo dintro na tiella na bona frittata, e vi bollerimmo dintro no pignatto na foglia maritata, e ve menozzarimmo tutta la carne co la mostarda, e allo dereto ve annegarimmo dintro votte de vino; tal che ve ne iarriti alle case vostre tutti senza uocchie, fecati, stentine e pormoni, arrostiti tutti e bolliti, menuzzati e annegati.
PEDANTE. Spectatores, valete et plaudite.