ATTO I.

SCENA I.

ALBUMAZAR astrologo, RONCA, ARPIONE, GRAMIGNA furbi.

ALBUMAZAR. O miei cari compagni e commilitoni Ronca, Arpione e Gramigna, che in questo nobilissimo essercizio della busca, cioè far suo quel che è d'altri, cosí egregiamente e cosí valorosamente vi sète portati meco—tu, Ronca, roncheggiando; tu, Arpione, arpizzando; e tu, Gramigna, stendendo le tue radici per tutto e gramignando quanto afferri;—e come novi Soloni—che il giorno attendeva alle cose publiche e la notte scriveva le leggi d'Atene—voi virtuosamente spendendo l'ore, il giorno insidiando alle borse e falsando monete, scritture, processi e polize al banco, e la notte dando la caccia alle cappe e a' ferraioli, facendo sentinelle per le strade per dare assalti alle porte de' palazzi e batterie alle botteghe—che sono le nostre sette arti liberali:—come uomini di sottilissimo ingegno e valorosissimi guerrieri sempre sète tornati a casa trionfanti e carichi di spoglie ostili e di trofei de nemici, e ne avete conseguiti grandissimi onori.

RONCA. Ed io ne ho aúto parte degli onori, che fui fatto re di Cartagine, con la corona in testa circondando la cittá a cavallo, con riputazione a suon di trombe, con giubilo de' figliuoli e con allegrezza e concorso di tutto il popolo, non mancando chi mi scacciava le mosche dalle spalle.

ARPIONE. Ed io ne sono stato governatore tre volte della Galilea, e con uno scettro di quaranta palmi in mano ho administrato giustizia a quei popoli.

GRAMIGNA. Né io manco di voi: sarei fatto re della Piccardia, ché giocando desiderava danari e mi vennero tre bastoni, ma Rubasco, nostro compagno, per mostrarsi uomo piú valente di me, volse prevenirmi e me li tolse di mano.

RONCA. E come cavalli di buona razza ne portiamo i segni alle spalle, con bolle e patenti espedite a gloria del mestier nostro.

ALBUMAZAR. E con la dottrina che vi ho insegnato, avete fatto cosí felici progressi nell'arte, come non dar credito alle parole d'altri ma avere sempre l'occhio alle mani, non attendere quello che si promette, non aver fede né osservar fede né dar fede alle fedi d'altri, avere le bugie piú pronte che le lagrime delle donne, tenerne sempre apparecchiati gli magazzini sotto la lingua; ché questi sono i condimenti dell'arte nostra e le mercanzie che tengono aperto il nostro fondaco, ricordandovi che la commoditá è madre della ladreria.

RONCA. Veramente confessiamo, con sí importanti e gloriosi ricordi noi non esser indegni discepoli di un tanto maestro; e per segno, nel tribunale della ladreria non abbiamo mai avuto una sentenzia contra.

ALBUMAZAR. Or da cosí onorati princípi—se non mentono i segni della fisonomia che ne' vostri fregiati visi si veggono, come uomini della prima bussola,—ne ho fermo proposito che sète per ascendere a gradi piú alti e far piú gran salti e avere carichi su le spalle i maggiori che sian al mondo, ove spero a vedervi giunger presto come meritano le nostre opere.

RONCA. E noi preghiamo i cieli che siate a parte de' nostri onori; e confessiamo che ne lodate e desiate bene oltre il nostro merito, né possiamo trovar parole cosí degne per ringraziarvi del buon animo e della buona dottrina che abbiamo appresa da voi.

ALBUMAZAR. Come è grande iniquitá tacere il merito, cosí è maggiore invidia ristringerlo con brevi giri di parole. Ma io non ho usato con voi questo prologo per inanimarvi all'impresa, perché conosco che avete piú bisogno di freno che di sproni; ma per avisarvi che siamo in Napoli, cittá piena di ladri e furbi, e se in altri luoghi vi nascono, qui vi piovono: però bisogna star in cervello piú del solito.

GRAMIGNA. Se ben tutto il popolo fosse birri, bargelli, manigoldi, e tutta la cittá prigioni, galee, berline e forche, lo faremo star a segno; e doppo la nostra partita vi resterá un seminario de' pari nostri.

ALBUMAZAR. Non aspettava altra risposta da' vostri animi generosi, ché giá vi veggo scolpiti nelle fronti i trofei e trionfi; né restarò defraudato delle gran speranze di voi. Io son per proporvi un partito.

RONCA. Ecci guadagno?

ALBUMAZAR. Per altro non m'affatico.

RONCA. Eccoci pronti, o piú pazzi e piú bestie che mai!

ALBUMAZAR. Appena giunsi qui in Napoli, che fui richiesto da uno certo Pandolfo, vecchio ricco di danari e mobili di casa, che sta innamorato; ché se l'etá gli scema il cervello, l'amor gli lo toglie in tutto. E quello che importa, è che dá credito alla astrologia e alla negromanzia: che si può dire piú? ché se fosse uno Salomone, il dar credito a queste sciocchezze bastarebbe a farlo la maggiore bestia del mondo. Mirate fin dove giunge la umana curiositá o per dir meglio asinitá! Or io facendo dell'astrologo che partecipa un poco del negromante, che pizzica dell'alchimista e del far molini, con l'aiuto de' miei cari compagni spero lasciare memorabili segni della nostra pratica in casa sua, né dubito punto della riuscita.

RONCA. Quei danari e quelle tapezzarie saranno a noi acutissimi incitamenti ad esser piú destri e piú scaltri e piú solleciti che mai.

ALBUMAZAR. Giá da' vostri ladri cenni, furbeschi atti e muti zerghi conosco il pensiero che si ravoglie nel cuore: state attenti a' miei pronostichi e fateli riuscir veri. Avisatemi di quello che intendete; ché, acquistata che avremo la credenza appresso lui, li faremo la casa piú netta e lucida di uno specchio.

RONCA. Attendete a far bene voi la parte vostra, ché da noi vedrai effetti che avanzaranno la tua stima.

ALBUMAZAR. Eccolo che viene. Arpione, discostati, ascolta ciò che dice e riferiscimelo; Gramigna, trattienti su la porta e vedi narrargli qualche miracolo de' miei, perché io me ne entro.

SCENA II.

PANDOLFO vecchio, CRICCA servo, GRAMIGNA.

PANDOLFO. Cricca, io vo' farti consapevole di uno mio secreto: e se le tue manigolderie, che hai usato contro di me fin ora, l'usarai in darmi sodisfazione, ti impadronirai del tuo padrone e mi conoscerai piú amorevole che mai; ché mai piú per l'adietro mi è accaduta una simile occasione.

CRICCA. A che bisognan tanti proemi? pare come che ora m'aveste a conoscere.

PANDOLFO. E perché è gran tempo che ti conosco, per ciò ho usato tanto proemio.

CRICCA. Per chi donque mi conoscete?

PANDOLFO. Per un grande uomo! Se non fussi un gran furfante e se avessi la coda dietro, saressi un diavolo per un uomo, ché vuoi far piú per Eugenio mio figliuolo che per me.

CRICCA. E se mi avete in tale stima, non vi fidate donque di me, ché io non posso esser altro di quello che io sono.

PANDOLFO. Potresti volendo, sta in tuo poter l'essere; e però ti ho detto:—Se sarai cosí prudente e savio come sei manigoldo, e farai per me quello che cerchi fare per mio figliuolo, avrai altra ricompensa da me ora, che non speri col tempo da mio figliuolo.—Però se sarai d'accordo meco e secondarai il mio desiderio, buon per te; ché se mi accorgo che mi fai delle tue, guai a te.

CRICCA. Eccomi cosí manigoldo come voi dite, per ubidirvi e pormi ad ogni rischio per amor vostro.

PANDOLFO. Ma perché dubito che cosí sia in mio favore come tu diventar uomo da bene, vo' che mi giuri prima.

CRICCA. Giuro a….

PANDOLFO. Tu non sai di che giurare, e dici:—Giuro a.—

CRICCA. Giuro tutto quello che volete e non volete.

PANDOLFO. Poiché sei cosí frettoloso al giurare, sarai piú volontaroso a non osservare.

CRICCA. Se ben dovrei pregarvi che non vi fidiate di me, pur per il desiderio che ho di servirvi vi prego che ve ne fidiate.

PANDOLFO. Sappi, il mio caro Cricca, che fra i mancamenti della mia vecchiaia il maggior è l'amore….

CRICCA. Che umor di malinconia o di pazzia!

PANDOLFO. Non mi interrompere: so che vuoi dire che son vecchio di settant'anni.

CRICCA. Questo volevo dirvi.

PANDOLFO. Se son vecchio son tagliato a buona luna, e il legno tagliato a buona luna dura gran tempo gagliardo e non fa tarli: «Il vino vecchio è miglior del nuovo», «Gallina vecchia fa buon brodo», «Lardo vecchio bona minestra».

CRICCA. Il fatto sta che voi non sète né lardo né legno né vino né gallina.

PANDOLFO. Non sai tu quel proverbio: «Trista quella casa dove non è un vecchio»?

CRICCA. Sí, per consiglio, ma non per marito. Vi guastarete lo stomaco.

PANDOLFO. Son di buona complessione.

CRICCA. Bisogna essere di buono cervello; se non, farete la morte del grillo che muore sul buco.

PANDOLFO. La borsa fará parere il vecchio giovane alla donna: le darò danari al doppio.

CRICCA. È vero che non la pagherete se non di doppioni.

PANDOLFO. Il malanno che ti venga! io vorrei che tu mi alleggerissi e non mi aggravassi i miei guai. Per che ti dissi al principio che tu hai sempre avuto dell'asino.

CRICCA. Se ho avuto dell'asino in consigliarvi, da or inanzi avrò del savio nel tacere. A' padroni bisogna dire che i suoi vizi e mancamenti sieno virtú, se vuoi sperare utile; ché facendo il contrario, è molto pericoloso. Vorrei che vi valeste di quei consigli con li quali consigliate gli amici vostri.

PANDOLFO. «Sempre fu grand'abondanza di consiglieri e carestia d'aiuti». Vorrei piú tosto che mi escusasti che reprendesti: vo' aiuto e non consiglio. Se vuoi consigliarmi, ammazzami e finiscila presto: tanto è possibile lasciare questo capriccio quanto me stesso. In somma Artemisia….

CRICCA. Artemisia? proprio erba per i vostri denti!

PANDOLFO. «A cavallo vecchio erba tenerella».

CRICCA. Ben che lo confessiate che sète cavallo. Che volete donque? che vi sia ruffiano?

PANDOLFO. So che a te non si potrebbe fare piú gran piacere che essere richiesto di ruffianeria; ma io ti vo' per aiutante.

CRICCA. Dite su.

PANDOLFO. Tu sai che ci convenemmo insieme con Guglielmo, io dargli Sulpizia mia figliuola per moglie, ed egli a me Artemisia sua figliuola, chiedendomi due mesi a fare le nozze, finché andasse e tornasse di Barberia….

CRICCA. Ed in un'ora non poteva andare e ritornare dalla barberia?

PANDOLFO. Come in una ora si va nell'Africa?

CRICCA. Io pensava dalla barberia a farsi radere la barba.

PANDOLFO. … Or io passava questo tempo al meglio che poteva con la speranza del suo ritorno, quando ecco nel piú bello delle speranze vien nuova che è sommerso nelle sirti. Quanto dolor n'abbi sentito lo lascio considerare a te.

CRICCA. Seguite.

PANDOLFO. Non potendo io piú sopportare, la feci chiedere a Lelio suo figliuolo, il qual mi fe' rispondere che in casa sua non si dilettavano di anticaglie ma di modernaglie, e molte altre parole ingiuriose. Né a me per tante ingiurie si è raffreddato l'amore, né posso lasciare d'amarla; ma or mi s'appresenta una occasione di conseguire il mio desiderio a dispetto di Lelio….

CRICCA. L'occasione avrei io caro d'intendere.

PANDOLFO. … È giunto in Napoli un certo todesco indiano di lá della Trabisonda, dalla fin del mondo, astrologo mirabile e negromante;…

CRICCA. Come uno negromante vuole acquistar nome si finge di lontani paesi, come ne' nostri non vi fussero di simili animalacci.

PANDOLFO. … e chiamasi Albumazzaro metereoscopico….

CRICCA. Il nome solo bastarebbe a farlo essere appicato senza processo!

PANDOLFO. … Come è solo nella scienza, è cosí solo nel nome. Prima, mi vo' far indovinar se Guglielmo sia morto o vivo. Se è morto, che lo faccia risuscitare per un giorno, finché conchiuda il mio matrimonio, e poi farlo tornare a morire;…

CRICCA. E voi credete a queste bugie?

PANDOLFO. Le credo, arcicredo, stracredo.

CRICCA. Non sapete che la negromanzia è refrigerio di quelli miseri che si trovano in qualche strabocchevole desiderio?

PANDOLFO. Overo che trasformasse qualche persona in Guglielmo….

CRICCA. Che non trasformi voi in una bestia!

PANDOLFO. … e che quel facesse le mie nozze. Ma di quanto ti ho detto, non bisogna che lo publichi e bandischi, ché mi rovinaresti i disegni, e giocarebbeno poi fra noi de' sgrognoni senza discrezione e di bastonate straordinarie: e giá te le puoi por nel libro delle ricevute.

CRICCA. Vi prometto operarmi in tutto quel poco che posso.

PANDOLFO. Ed un poco manco ancora, purché non vogli tradirmi. Or andiam a casa sua.

CRICCA. L'ora è tarda: sará meglio andarci domani.

PANDOLFO. Il «domani», il «farò» e l'«andarò» sono figli del niente: bisogna andare ora.

CRICCA. Or riposano i vecchi.

PANDOLFO. L'innamorato non ha riposo mai.

CRICCA. Informatevi prima chi sia, ché forse sará qualche truffatore.

PANDOLFO. Guarda nol dire, ché intende quanto si dice di lui e ci fará andare in visibilium.

CRICCA. Chi?

PANDOLFO. L'astrologo.

CRICCA. E che, gli astrologhi sono Orlandi?

GRAMIGNA. (Arpione, va' a casa e riferisci ad Albumazzaro quanto hai inteso, ché io restarò alla porta).

CRICCA. Or andiamo dove volete.

PANDOLFO. Ecco la casa: dimanda costui.

CRICCA. Costui mi pare da Fuligno.

PANDOLFO. Che vuol dir «fuligno»?

CRICCA. «Degno di una fune e d'un legno»!

SCENA III.

GRAMIGNA, PANDOLFO, CRICCA.

GRAMIGNA. Che dimandate voi?

PANDOLFO. Sète di casa?

GRAMIGNA. Son servo dell'astrologo divino.

CRICCA. Avrá ben bevuto l'astrologo, poiché è di vino.

GRAMIGNA. «Divino», cioè che sa delle stelle, delli cieli e di cose celestiali, e perché indovina.

PANDOLFO. Si potria parlare col vostro indovino?

GRAMIGNA. È ritornato stracco dalla caccia de spiriti e di intelligenze, e n'ha portato piú di cento carafelle piene; e or sta con quadranti, astrolabi e metereoscopi e altri stromenti, osservando la congiunzione de' pianeti.

CRICCA. Dunque i pianeti si congiungono in cielo e s'impregnano? e che cosa partoriscono?

GRAMIGNA. Buoni influssi quando son maschi, cattivi quando son femine.

CRICCA. Che flussi: di sangue o di cacaiole?

PANDOLFO. Dice «influssi» e non «flussi», bestiaccia! Doppo l'osservazione avremo audienza noi?

GRAMIGNA. Si porrá a tavola a mangiare e bere.

PANDOLFO. Che berrá? che mangiará questa mattina?

GRAMIGNA. Una Venere allessa e un Mercurio arrosto.

PANDOLFO. Perché Venere prima e poi Mercurio?

GRAMIGNA. È uomo fuor del naturale.

CRICCA. Guardisi che non moia d'altro caldo che di sole.

PANDOLFO. Mangiando che beve?

GRAMIGNA. Liquore di pianeti, rugiade di stelle fisse, distillazioni di destini, quinte essenzie de fati, sugo di cieli.

PANDOLFO. Come li raccoglie? come se li beve?

GRAMIGNA. La notte, quando sta contemplando il cielo, li piovono su la gran barba, ed ei se li succhia e se li beve; l'avanzo si conserva, per quando ha sete, in certe botte grandi cerchiate di zodiachi, coluri equinoziali e orizonti; altri in certe botte mezzane cerchiate di tropici iemali ed estivali; e altri in certi barili cerchiati di cerchi artici e antartici.

CRICCA. Di che paese è questo vostro mangiapianeti e cacaflussi?

GRAMIGNA. Di uno paese di Lamagna detto Leccardia.

PANDOLFO. Sa egli quando fa la luna nova?

GRAMIGNA. Questa notte sará la luna nova.

CRICCA. Che nova? che vecchia? è quella medesima che fu fatta col mondo.

PANDOLFO. Quanto abbiamo questo anno di aureo numero?

CRICCA. Né numero aureo né argenteo lo posso mai trovare nella mia borsa.

PANDOLFO. Giovane, se la mia non è scortisia di dimandare, narratemi alcuno de' suoi miracoli.

GRAMIGNA. Dirò cose mirabili di stupore.

CRICCA. Purché le vediamo.

GRAMIGNA. Lega le donne con uno incanto…

CRICCA. Ed io le so legare con un suono senza canto.

GRAMIGNA. … che vi seguono dove volete:…

CRICCA. Le lego io una fune al collo e le strascino.

GRAMIGNA. … dico con due parole che li dice dentro l'orecchie.

CRICCA. Io so certe parole, l'una piú potente dell'altra, che se non fanno effetto alla prima, lo fanno alla seconda, e se no, alla terza; che è potentissimo. La prima volta le scongiuro per dieci ducati; se ricusan, per cento; e se pur restie, per mille: e con questo terzo scongiuro fo trottare i monti, non che le donne.

GRAMIGNA. Lega un uomo ché non possa usare con la sua moglie.

CRICCA. Lo lego ancor io con una fune ché non usará con la moglie né con altri.

GRAMIGNA. Fa nascere in un subito in testa ad un uomo un par di corna piú di uno cervo.

CRICCA. Ogni donna maritata lo sa fare.

GRAMIGNA. Fa diventare li uomini bestie, asini e becchi, e le donne vacche e scrofe.

CRICCA. Ci diventano senza l'arte sua ogni giorno.

GRAMIGNA. Fa pronostici infallibili.

CRICCA. Pronostica sempre male ché indovini.

GRAMIGNA. Fa un'acqua che tuffandosi dentro l'uomo s'innamora piú.

CRICCA. Ogni acqua fa questo effetto, affogandovisi dentro.

GRAMIGNA. Ti fa buttare da un luogo eminente senza pericolo di romperti le gambe.

CRICCA. Il boia lo sa fare meglio di lui: gli butta dalla forca senza pericolo delle gambe.

PANDOLFO. Bastano questi. Muoio se non lo vedo: Cricca, batti la porta.

CRICCA. Batto. Tic toc.

SCENA IV.

ALBUMAZAR, CRICCA, PANDOLFO, GRAMIGNA.

ALBUMAZAR. Chi diavolo batte?

CRICCA. Te ne porti in carne e in ossa! Doveva scongiurare ora e aspettava li diavoli, perché dimanda:—Chi diavolo batte?—È Farfarello.

GRAMIGNA. Avete battuto troppo gagliardo, perché li astrologhi sono lunatichi.

PANDOLFO. Perché «lunatichi»?

GRAMIGNA. Sempre contemplano e parlano con la luna.

ALBUMAZAR. Non sono calato piú presto perché stava parlando con una intelligenza mercuriale.

PANDOLFO. Bascio le mani della Vostra Strologheria, padron mio caro.

ALBUMAZAR. Bene vivere est laetari! siate venuti in buon'ora, in miglior minuto, in bonissimo secondo, in felicissimo terzo, quarto e quinto, in nomine planetarum, stellarum, signorum et omnium caeli caelorum!

PANDOLFO. La stupendissima fama del valor vostro ci chiama: noi siamo venuti per ricevere da voi un favore, e vi prego da quel grande uomo che sète a non mancarmi, e ve ne avrò singolare obligo.

ALBUMAZAR. Eccomi pronto alla caritá.

CRICCA. Purché non sia pelosa!

ALBUMAZAR. Voi desiderate saper d'un certo Guglielmo si sia vivo o morto, il quale vi avea promesso Artemisia sua figlia per sposa, e voi a lui Sulpizia per contracambio, e se ne andò poi in Barberia.

PANDOLFO. Me l'avete tolto dalla punta della lingua. Ma che motivi or vedo?

ALBUMAZAR. Giá sormontava negli assi e poli de' cardini celesti e vaneggiava tra gli eccentrici, concentrici ed epicicli: cercava alcuni punti felici per voi,…

CRICCA. Anzi per voi, e siano di spiedi e pontiroli!

ALBUMAZAR. … e se il sole era entrato nel segno del Cancro:…

CRICCA. Il canchero e il fistolo che ti mangi!

PANDOLFO. Tu prendi il granchio, Cricca! dice «Cancro» e non «canchero».

CRICCA. Il granchio lo prendete voi e il canchero!

ALBUMAZAR. … egli è morto, mortissimo, perché il raggio direttorio è gionto alla casa sesta,…

CRICCA. Dice che vi bisogna far un rottorio dietro la testa, perché purghi li mali umori.

ALBUMAZAR. … e negli luoghi della morte è gionto il suo afelio,…

CRICCA. Poveretto! dice che è morto e fete!

ALBUMAZAR. … e passa dal tropico estivale all'iemale….

CRICCA. È stropicciato e lo stivale li fa male!

ALBUMAZAR. … E giá la luna scema se ne va alla volta di Capricorno.

CRICCA. Guardatevi, padrone, tôr cotal moglie! quando la luna scema è cornuta e va al capricorno, vi minacciano corna: sarete un cornucopia.

ALBUMAZAR. Tu sei pazzo e presentuoso; e se non ti emendi, ti farò pentire della tua pazzia e prosunzione!

PANDOLFO. Taci, bestia! quei vocabuli sono arabichi e turcheschi.

CRICCA. Astrologo, di che ciera ti paro io?

ALBUMAZAR. Ho visto mille appicati in vita mia, ma non ho veduto la piú maladetta e scommunicata fisonomia e ciera della tua; e se tu fossi un poco piú alto da terra, direi che sei stato appicato giá. Ma se ben mi ricordo, vidi l'altro giorno uno che s'andava scopando per la cittá: o tu sei esso o egli te.

CRICCA. S'ho cattiva cera di fuori, dentro ho buono miele.

ALBUMAZAR. Cera da far candele: la forca prolongar la potrai ma non scampare!—Ma ditemi: costui è vostro servo?

PANDOLFO. Si bene.

ALBUMAZAR. Fate sonare la campana a mortorio.

PANDOLFO. Ancor non è morto.

ALBUMAZAR. Sará ucciso fra poco e li sará passato il cuore da mille punte. E cosí conoscerai se sono buono o cattivo astrologo; e quando l'avrai scampata, allor schernisci me e la potentissima arte dell'astrologia.

PANDOLFO. Padron caro, non mirate costui che è mezzo buffone, e però ha preso con voi questa confidanza. La prego per lo suo valore che non miri la costui pazzia; e rimediate se potete.

SCENA V.

RONCA, ARPIONE, CRICCA, PANDOLFO, ALBUMAZAR.

RONCA. Ah, traditore, fermati, dove vai?

ARPIONE. Sarò io cosí assassinato da voi?

CRICCA. Ah, di grazia, signor Albumazzaro!

ALBUMAZAR. Non te lo dissi io?

RONCA. Non ti lasciarò mai se non ti farò passare il cuor di mille punture.

ARPIONE. In mezzo la strada, di giorno, assassinio sí grande!

RONCA. Tu non scapperai vivo dalle mie mani.

ARPIONE. A me questa, eh?

CRICCA. Misericordia misericordia!

RONCA. Fuggi quanto vuoi, ché noi ti giungeremo, traditoraccio.

CRICCA. Oh oh!

PANDOLFO. Cricca, che hai che gridi cosí forte?

CRICCA. Son morto, non mi date piú, son morto giá!

PANDOLFO. Come sei morto se tu parli?

CRICCA. Poco ci manca a morire, ci è rimasto un poco di spirito.

PANDOLFO. Che hai?

CRICCA. Sono trafitto da piú di mille punte di pugnale e di spade: di grazia, mandate per un cerusico!

PANDOLFO. Non temer, no.

CRICCA. Non vedete che ho piú buchi nel corpo che un crivello? il sangue, le budella, il fegato, il polmone e il cuore sono tutti fuora.

PANDOLFO. Alzati, ché sei sano.

CRICCA. Come sano se ho piú di centomila ferite?

PANDOLFO. Ove son le ferite, ove i buchi? ti ho tòcco pur tutto e non ci è nulla.

CRICCA. Son tutto una ferita, tutto un buco, ogni cosa che tocchi è ferita o buco, però non troverai nulla.

PANDOLFO. Io non tocco né vedo piaga.

CRICCA. Pian piano, di grazia, non toccate ché mi fate male, non mi fate morire innanzi tempo.

PANDOLFO. Io dico che non hai male alcuno.

CRICCA. Se pur guarisco non sarò mai piú uomo.

ALBUMAZAR. Sei vivo per me. Or alzati, ch'è passato quell'influsso maligno, e guai a te s'io non avessi remediato. Or va' e schernisci l'arte dell'astrologia!

CRICCA. Chiamatemi un medico che mi medichi.

ALBUMAZAR. Ti dico che stai bene: alzati su.

CRICCA. Se ben pare che stia bene cosí di fuori, di dentro son tutto morto, oh oh!

PANDOLFO. Cricca, tu non hai male alcuno.

CRICCA. Ancorché parli e mi muova, pur non posso credere che sia vivo. Signor astrologo mio, ti chiedo perdono.

ALBUMAZAR. Impara a schernir gli astrologhi!

PANDOLFO. Seguiamo, signor Albumazzaro.

ALBUMAZAR. E perché la luna, come dicemmo, da Capricorno passa in Acquario e in Pesce, il vostro Guglielmo è morto nell'acque e se l'hanno mangiato i pesci.

PANDOLFO. Or io vorrei….

ALBUMAZAR. So meglio indovinare il vostro cuore che voi stesso non sapete. Voi vorreste che lo facessi risuscitare, e che tornasse a casa sua e vi attendesse la promessa, e poi tornasse a morire?

PANDOLFO. Questo è il mio desiderio.

ALBUMAZAR. «Sed de privatione ad habitum non datur regressus»: cioè col fiato delle stelle e de' pianeti far risuscitare un uomo dalle ceneri, oh che stento, oh che manifattura! Ci bisogna una intelligenza planetaria delle grosse, che sono fastidiose e fantastiche, come quella di Giove e del Sole; e queste sorti di spiriti tanto ti servono quanto si pagano bene: e se voglio essere ben servito bisogna che io paghi meglio, senza le molte difficultá che porta seco questa impresa.

PANDOLFO. Purché sia sodisfatto del mio desiderio, non guardarò a spesa nessuna.

ALBUMAZAR. Faremo l'istesso effetto con l'arte prestigiatoria. Torremo una intelligenza di bassa mano, che vuole poca spesa, e con l'aiuto di quella faremo che un vostro servo o amico pigli la forma di Guglielmo, e gli falseggiaremo solamente il sembiante, che non si sappia discernere se il vero sia falso o il falso vero.

PANDOLFO. Io vi prego, strapriego, arciprego, o mio negromantissimo astrologo, o mio astrologhissimo negromante, che prendiate di me calda e amorevole protezione; e in ricompensa vi darò questa catena d'oro che ho al collo, che vale scudi cinquecento.

ALBUMAZAR. Non lasciarò far ogni cosa per aiutarvi.

PANDOLFO. Vi raccomando il corpo e l'anima mia!

ALBUMAZAR. Ma fermatevi, ché mentre sto ragionando con voi ho visto certe linee nella fronte, e mi pare che tutte le stelle siano congiurate a' vostri danni e sono corrucciate e incolerite contro di voi….

PANDOLFO. Oh che dite! son morto! Voi state attonito?

ALBUMAZAR. … E perché le linee son tante colorite che paiono sanguigne, l'effetto sará tra poco: un gran sasso vi caderá sopra il capo, che vi spolpará tutta la carne e l'ossa e se n'andará in vento.

PANDOLFO. Cacasangue! questo è altro che amore: il cuore sbatte cosí forte che pare che sia un tamburo. Astrologo, me vobis commendo.

ALBUMAZAR. Abbiate pazienza: cosí comanda quel pianeta di cui voi sète preda.

PANDOLFO. Misericordia, pietá di me!

ALBUMAZAR. Sappi che le stelle e i pianeti sempre guerreggiano fra loro e fanno amicizie e inimicizie, e se stessero in pace per un momento, il mondo ruinarebbe. E come noi potremo opporci al cielo che non disponga delle cose mondane?

PANDOLFO. Voi con la vostra sapienza….

ALBUMAZAR. Bene dixisti, ché il sapientissimo Tolomeo egiziano disse: » Sapiens dominabitur astris ».—Gramigna, calami giú quel cappello e talari di Mercurio, fatti sotto ponto di Mercurio ascendente nel suo segno.

PANDOLFO. Io non mi partirò tutto oggi da' vostri piedi.

ALBUMAZAR. Eccolo, ponetelo in testa, e tenete in mano questa imagine marziale, impressa quando egli felicissimo ascendeva su l'orizonte nel segno d'Ariete di marzo, di martedi, all'ora prima di Marte, ché vi fará libero d'ogni male.

PANDOLFO. Accetto volentieri la grazia che mi fate.

ALBUMAZAR. Orsú, andate, abbiate l'uomo che volete transformare e tornate a me, ché vi renderò pago d'ogni vostro desio.

PANDOLFO. Cosí facciamo.

ALBUMAZAR. Io intanto col mio stromento iscioterico per via d'azimut e almicantarat cercherò felici ponti per voi.

PANDOLFO. Restate in pace!

ALBUMAZAR. Andate: che le stelle vi siano propizie e vi riempiano la casa d'influssi benigni, propizi e fortunati!

SCENA VI.

PANDOLFO, CRICCA.

PANDOLFO. Cricca, in somma l'astrologia è una grande arte: mira come subito in vedermi m'indovinò quanto mi stava nel cuore, e come intese quanto dicevi poco innanzi e lo burlavi e non gli volevi credere. Ecco ne hai patito la penitenza, e tristo te se non lo pregavo per la tua vita.

CRICCA. Veramente non pensava che fosse astrologo da vero: lo stimava qualche razza di furfante, come se ne trovano tanti che si vantano d'esser astrologhi e ingannano la vil plebe.

PANDOLFO. Beato te che sei uscito di periglio, ché a me par che d'ora in ora mi cada il mondo in testa! Per tutto oggi non farò questione. Se alcuno mi dirá:—Sei un furfante,—dirò:—Son un furfante e mezzo.—Che importa quella parola? bisogna vivere e fare li fatti suoi.

CRICCA. Andiancene presto a casa.

PANDOLFO. Vorrei aver un campanil in testa per stare piú sicuro. Oh oh, son morto!

CRICCA. O povero padrone, per parecchi giorni non avrai pedochi in testa, ché tutti saranno pesti o fuggiti per la paura!

PANDOLFO. Dubito che il mio cervello non sia balzato un miglio fuor della testa.

CRICCA. Ancorché paia cosí a te, spero che non sia nulla se il medesimo intervenne a me.

PANDOLFO. Oimè! che non mi assicuro d'alzarmi.

CRICCA. Alzatevi, ché vi ha difeso la celata fatta a ponti di stelle.

PANDOLFO. Parmi che non abbia male, o salamonissimo arcidottore. Li suoi pronostichi mi hanno tanto inanimito che m'assicuro d'ogni cosa che mi promette.

CRICCA. Andiamo.

ATTO II

SCENA I.

VIGNAROLO, ARMELLINA serva.

VIGNAROLO. (Sia maladetto Amore e quella puttana che l'ha cacato! Prima non conosceva altro pensiero che star alla villa; e doppo che mi sono innamorato bestialmente, mi par che in villa sia sempre inverno, e la primavera fuggirsi alla cittá per starsi con la mia Armellina. Son risoluto narrarle l'amor mio e richiederla, ché alle donne bisogna dir qualche parola, poi lasciar fare al diavolo che sempre lavora. Ma eccola su l'uscio: vorrei parlarle, ma mi vien l'animo meno: vo' far buon core e salutarla). Vi saluto centomila migliaia di volte, Vostra Signoria illustrissima, Vostra Altezza, Vostra Maestá.

ARMELLINA. Oh, quanti titoli! vignarolo.

VIGNAROLO. Non sète voi la mia signora, la mia regina e la mia imperadora?

ARMELLINA. Che cosa mi porti, vignarolo?

VIGNAROLO. Rispondi al saluto prima, poi mi chiedi che porto.

ARMELLINA. Rispondi tu prima a me: se dici che son la tua imperadora, ti posso comandare.

VIGNAROLO. Porto il presente, mezzo al patrone e mezzo a te; e se ti piace tutto, piglialo tutto.

ARMELLINA. Mi raccomando.

VIGNAROLO. Fermati un poco, ché son venuto a posta dalla villa per vederti…

ARMELLINA. E mò non m'hai veduta?

VIGNAROLO. … e parlarti ancora.

ARMELLINA. E mò non m'hai parlato?

VIGNAROLO. Lasciami parlare.

ARMELLINA. E mò che fai?

VIGNAROLO. Ragiono pur, ma vorrei….

ARMELLINA. Che vorresti?

VIGNAROLO. Sí sí, sai che vorrei? che mi volessi bene.

ARMELLINA. Io per me non ti vo' male.

VIGNAROLO. So ben che non mi vuoi male: pur non mi vuoi bene.

ARMELLINA. Che vorresti dunque che facessi?

VIGNAROLO. Tôrmi per marito.

ARMELLINA. Son poverella, non ho dote da darti.

VIGNAROLO. Mi basta la grandezza de' tuoi costumi e della tua natura.

ARMELLINA. Non vo' che alcuno mi pigli: vuo' stare come sto.

VIGNAROLO. Se vuoi stare come stai, diventarai salvatica.

ARMELLINA. Come?

VIGNAROLO. La vite come sta sola cade in terra e s'insalvatichisce: la donna è la vite, l'uomo è il palo; se non ha il palo dove s'appoggia, sta male.

ARMELLINA. Impalato possi esser tu da' turchi!

VIGNAROLO. Ah, traditora, perché mi maledici?

ARMELLINA. Burlo cosí con te.

VIGNAROLO. Ed io me lo prendo da dovero. Io non amo al mondo altri che te. Tutto il giorno piango e mi tormento, e per chi, ah? per te, lupa, cagna che ti mangi il mio cuore; e tanto potrei star senza amarti quanto far volar un asino. Se tu vuoi essere mia moglie, dal primo giorno ti fo donna e madonna di tutte le mie robbe, te le porrò in mano ché le maneggi a tuo modo. Beata te, se tu farai a mio modo!

ARMELLINA. Io vo' che tu facci a mio modo.

VIGNAROLO. Facciasi, se non al mio, al tuo modo: tutto torna in uno, purché non resti di fuora. Ma io vorrei una grazia da' cieli.

ARMELLINA. Ed io un'altra.

VIGNAROLO. Che vorresti?

ARMELLINA. E tu che vorresti?

VIGNAROLO. Il direi, ma temo che ti corrucci.

ARMELLINA. Non me corruccio: dillo.

VIGNAROLO. Dammi la fede.

ARMELLINA. Eccola.

VIGNAROLO. Oh che mano pienotta e grassotta!

ARMELLINA. Dimmi, che vorresti?

VIGNAROLO. Vorrei esser quel piston che pista nel tuo mortaio.

ARMELLINA. Ed io vorrei che, quando ho fatta la salsa, mi leccassi il mortaio. Ma vo' partirmi.

VIGNAROLO. S'è partita, la vitellaccia.

SCENA II.

PANDOLFO, VIGNAROLO.

PANDOLFO. (Quel furfante di Cricca ha preso tanta paura di quelle coltellate, che non vuole lasciar trasformarsi in Guglielmo in conto veruno: ho pensato al vignarolo, ma non ho per chi mandarlo a chiamare).

VIGNAROLO. Padrone, buon giorno!

PANDOLFO. O vignarolo, che mai giungesti a miglior tempo!

VIGNAROLO. «Come cavallo magro ad erba fresca».

PANDOLFO. Ho tanto bisogno di te che non ne ho avuto altrettanto in vita mia; e se tu vuoi servirmi, tu sarai la mia ed io la tua ventura.

VIGNAROLO. Eccomi per servirvi.

PANDOLFO. È giunto qui un astrologo che transforma gli uomini in altre persone. Se tu vuoi lasciarti transformare in un mio amico, ti lascio tre annate dell'affitto che mi rendi della tua villa.

VIGNAROLO. E se mi transformo in un'altra persona, che mi servirá quell'utile? lo farai a quello, non a me.

PANDOLFO. Tu non sarai transformato se non per ventiquattro ore, e poi ritornerai come prima.

VIGNAROLO. E chi m'assicura che torni come prima? ché transformandomi si perde la persona mia, non sarei piú in calendario e non restarebbe segnale al mondo che vi fosse stato. No no.

PANDOLFO. Non è peggio al mondo che avere a fare con animalacci come tu sei: «se li preghi s'insuperbiscono, se li bastoneggi s'indurano»; non si sa come trattar con loro, razza grossolana! Farò seco come si fa con i cani: che, per fargli piacevoli e che faccino a modo de' padroni, non se li dá da mangiare e si pigliano con la fame.

VIGNAROLO. Almeno, se morirò di fame, morirò quel che sono; ma se mi trasformo, venerò in fumo, in vento.

PANDOLFO. Chi non cerca migliorare vive sempre misero e meschino, e non val per sé né per altri. Sai che differenza è fra un savio e uno ignorante?

VIGNAROLO. No.

PANDOLFO. Che il savio mangia bene, beve meglio, ben vestito e sempre a spasso; l'ignorante, sempre scalzo, nudo e morto di fame e di sete, e sempre stenta e fatica: perché il savio conosce l'occasione di far robba, si mette a pericolo una volta per non stentar sempre; l'ignorante non si cura dell'utile né si provede. «Tu hai poco senno e manco ventura»: se tu saprai conoscerla, felice te! Chi recusa la sua ventura è sventurato.

VIGNAROLO. Padrone, né mi muovono le tue lusinghe né mi spaventano le tue minacce: il diventare un altro è una specie di morire, e col morire non ci sto bene. Io farei capitomboli per amor vostro.

PANDOLFO. Deh, che ti venga il mal francese!

VIGNAROLO. Non ho paura che mi venga.

PANDOLFO. Perché?

VIGNAROLO. Mi è venuto gran tempo fa e ne sto in possessione.

PANDOLFO. Se lo hai, che ti mangi e spolpi insin alle ossa, sciagurato che sei! ché se il pan che mangi conoscesse da chi è mangiato, piangeria quando è sotto i tuoi denti. Ti ho detto che tu non ti moverai da quel che sei, che si trasformerá il volto solo per ventiquattro ore: poi lascierai quel volto preso e tornerai nel tuo di prima. Fa' conto che andarai in maschera per un giorno, proprio come se dormissi e in sogno ti paresse esser Guglielmo, e risvegliandoti la mattina ti trovi quel vignarolo ch'eri prima. Ma che diavolo te ne può avvenire per questo?

VIGNAROLO. Io togliendo quella somiglianza e ingannando la casa di Guglielmo, son io che l'inganno o no?

PANDOLFO. Non tu ma quella somiglianza.

VIGNAROLO. E quella somiglianza ed io non siamo tutti una cosa?

PANDOLFO. No, ché tu mai sarai Guglielmo né Guglielmo te; ma restará ingannato chi si crede che tu sia Guglielmo.

VIGNAROLO. Io pensava che bisognasse disfarmi e risolvere la carne e l'ossa, e poi impastarmi di nuovo e buttarmi a cola dentro le forme di Guglielmo per transformarmi in lui.

PANDOLFO. Non tante cose, no.

VIGNAROLO. Chi sa, forse mi ci accorderò. Ma come sarò transformato in Guglielmo, che ho da fare?

PANDOLFO. Entrarai in casa sua; e le genti stimaranno che tu sii il padrone, ti ubidiranno: disporrai di Artemisia sua figliuola, che mi sia moglie.

VIGNAROLO. Or questo non è un mezzo ruffianesimo? perderò l'onore.

PANDOLFO. Abbi danari, ché l'onore poco importa.

VIGNAROLO. Un cuor mi dice che lo facci; un altro, no. (Vignarolo, consiglia un poco te stesso.—Ascolta e fa' come ti dico io. Come sarò transformato, entrarò in casa sua, mi goderò Armellina. Ma se son Guglielmo, Guglielmo goderá quella dolcezza, non il vignarolo: avrò fatto la caccia per altri. No no, non lo vo' fare in conto veruno, morrò piú tosto! Non tanta còlera, vignarolo, piano piano! son solo e fo questione con me medesimo: consigliati meglio. Transformandomi in Guglielmo, avrò quanto desio in questo mondo; se passará questa occasione, non tornerá piú mai. Di vignarolo diventarò gentiluomo con moglie e danari, e dalla villa passarò alla cittá: cancaro alla zappa, alla vanga, all'aratro, a' buoi, anche a' porci e all'asino ancora! Sicché risolviti, vignarolo, ad una bella occasione: quando sarò dentro, prometterò Armellina al vignarolo, farò stipulare i capitoli, li prometterò cento, ducento o trecento ducati; e quando ritornarò io, andarò con li capitoli in mano a ritrovar Armellina). Lo farò, sí sí, son risoluto.

PANDOLFO. Sei risoluto?

VIGNAROLO. Risolutissimo; ma avvertite che vuo' che mi promettiate far un altro piacere anco a me quando sarò in casa di Guglielmo.

PANDOLFO. Ed a chi ho da mostrarmi cortese e amorevole se non a te che con ogni obbedienza dimostri servirmi, massime se per tuo mezzo conseguirò la mia Artemisia? Certo che non ti pagherò d'ingratitudine né di discortesia.

VIGNAROLO. Quando sarò dentro e che per opra mia recupererai la tua moglie, io prometterò Armellina sua serva al vignarolo; però quando sarò ritornato vignarolo a voi, mi facciate osservare la promessa con dir che or son in villa.

PANDOLFO. Eccomi e con la persona e con la robba per servirti e porre navi e cavalli per osservarti la promessa, e sarò tuo campione.

VIGNAROLO. Su su, me ne son pentito: la cosa non può riuscire, resta per me.

PANDOLFO. Che dici? che cervello è il tuo?

VIGNAROLO. Orsú, voglio servirvi.

PANDOLFO. E ti vuo' dar del mio ducento ducati piú di dote.

VIGNAROLO. Su, mano a' fatti, andiamo all'astrologo, ché voglio transformarmi.

PANDOLFO. E vuo' che stii sempre tre mesi in letto e mangiar sempre maccheroni.

VIGNAROLO. Se non basta transformarmi, disformami, reformami e conformami ancora.

PANDOLFO. Io so che i baci che ti dará Armellina si udiranno un miglio.

VIGNAROLO. Deh, andiamo presto, di grazia, ché io mi struggo, mi consumo e mi muoro!

PANDOLFO. Fermati! dove vai? non è quella la strada per ire all'astrologo.

VIGNAROLO. Io strabilisco, non so dove mi vada.

PANDOLFO. Eccolo. Monsignore, noi siamo tutti in pronto.

SCENA III.

ALBUMAZZAR, PANDOLFO, VIGNAROLO, GRAMIGNA.

ALBUMAZZAR. Ed arrivati in buon punto di astrologia: ché se il Sole vi fosse padre, madre Venere, la Luna sorella, Saturno vostro avo, Marte zio, Giove fratello e Mercurio vostro consobrino, non si sarebbono collocati in luoghi piú eletti del cielo di favorirvi e spargere sopra voi i loro felici influssi, che nell'ascendere, che nel mezzo del cielo, tutti in angoli, in congiongimenti e felicissimi aspetti di trini e di sestili; e in fortuna, sepolti in luoghi deboli e radenti.

PANDOLFO. Sappiamo bene il valore vostro: che sforzate i cieli a fare a vostro modo. Ecco colui che vuole transformarsi.

ALBUMAZZAR. Di buona indole.

VIGNAROLO. Padron mio, nulla mi duole.

ALBUMAZZAR. Di questo date grazia al Fattore del cielo, delle stelle, influssi planetari celestiali, che t'ha fatto uomo, che per forza del suo intelletto va penetrando i suoi secreti naturali.

PANDOLFO. Vi prego che quanto prima si può si dia principio all'opra.

ALBUMAZZAR. Primieramente bisogna trovar una camera terrena che sia rivolta al levante, che è la piú benigna parte del cielo; che non abbia fenestre al ponente;…

GRAMIGNA. (Quel «levante» è il miglior luogo, ché da quel levante levaremo le robbe della casa; quel «ponente» è suo contrario, ché non ci porrá altro del suo che parole).

ALBUMAZZAR. … e che sia in tutto conversa al settentrione: ché, secondo la opinione di Zoroastro, figlio di Oromasio persiano, Iarca bracmane, Tespione gimnosofista, Abbari iperboreo, Ermete Trismegisto, Budda babilonico, e tutt'i caldei e cabalisti, i cattivi influssi del cielo vengono da settentrione, che è la parte di dietro del cielo….

GRAMIGNA. (E massime quando quel vento non può star ristretto e vien fuori per la strada di dietro, che si chiude fra due monti rotondi della sfera della luna, con influssi umidi).

PANDOLFO. O grandissima sapienza, o mirabilissima astrologia!

GRAMIGNA. (Con quei nomi bizzarri l'ha pieno di spavento e di stupore!).

ALBUMAZZAR. … E se pure la fenestra settentrionale s'apre in qualche vicolo deserto, non sarebbe tanto cattiva.

GRAMIGNA. (Va designando le finestre donde possiamo aver la robba, ma ogni fenestra sará settentrionale per lui).

PANDOLFO. Vi porterò in mia casa, e voi vi eleggerete quella stanza che vi piace.

ALBUMAZZAR. Or, declinando dalla goezia alla teurgia, farmacia, neciomanzia, negromanzia, arte notoria e altre vane e superstiziose scienze, ci attaccaremo all'arte prestigiatoria che illude e perstringe gli occhi, che fan vedere una cosa per l'altra….

GRAMIGNA. (Giá spaccia la sua mercanzia, chiacchiere e menzogne e carote in furia).

ALBUMAZZAR. … E perché la Luna è quel pianeta in cielo che si transforma in piú forme—ché dalla neomenia in sette giorni sin alla dicotoma, e dalla dicotoma in sette altri giorni al panselino, e in sette altri dal plenilunio alla dicotoma, e in altretanto al panselino,—ci serviremo di quella nella nostra operazione;…

PANDOLFO. Oh cose altissime!

GRAMIGNA. (Giá tuttavia entrano le carote).

ALBUMAZZAR. … perché con quel suo mostrarsi in varie forme, mostra agli uomini d'intelletto che ella sola può fare questa maravigliosissima metamorfosi….

PANDOLFO. Oh che altissime cagioni!

ALBUMAZZAR. … Onde bisogna ornare prima quella camera di drappi bianchi finissimi lunari, e se fossero di tela d'argento, assai meglio;…

GRAMIGNA. (Quei panni ti faranno trionfar per molti giorni).

ALBUMAZZAR. … la terra coperta di lini bianchi e sottili;…

GRAMIGNA. (Per camiscie, fazzoletti, calzette e pedali).

ALBUMAZZAR. … un altar nel mezzo della camera, con vasi d'argento, bacili, bocali, candellieri e turribuli; e se vi fossero alcuni vasi d'oro non saria male, per la fratellanza che ave il Sol con la Luna e per piú onoraria:…

GRAMIGNA. (Vuol che ci bastino per molti mesi ancora).

ALBUMAZZAR… ché con tal bianchezza e puritá si allettano li influssi lunari, perché questo apparecchio si fa per la Luna….

GRAMIGNA. (Anzi per noi, ché ci alletteranno e provocheranno più che il Sole e la Luna).

ALBUMAZZAR. … Bisognano ancor per lo sacrificio e per certe altre ceremonie animali bianchi lunari, come una vitella di latte ma tutta bianca, ma se pur avesse qualche macchia piccola, non importa:…

GRAMIGNA. (E ancorché fosse tutta nera, pur ce la mangiaremo, non dubitate).

ALBUMAZZAR. … cosí alcuni capponi, piccioni e vini bianchi per spruzzar sul foco, come chiarelli, grechi, vernacce, e quanto piú vecchio e brillante tanto migliore, e con quanta maggior abbondanza tanto l'opra sará piú agevole a riuscire: che in queste cose «chi piú spende manco spende», e «se non si fa oggi non si fa in cento anni», perché è la massima congiunzione di pianeti.

GRAMIGNA. (Oh che sia benedetto un tal astrologo! ché senza buoni vini il banchetto non poteva riuscire bene; e carichi di robbe e di cibi ci partiremo da Napoli allegramente).

PANDOLFO. Come farò che non ho tanti drappi in casa né tanti argenti?

ALBUMAZZAR. Potrete tôrgli in prestito, ché serviranno solo per quattro ore e si potranno restituire a' padroni subito subito. E se vi fossero alcune provature bianche e fresche e altri frutti bianchi, pur sarebbono a proposito.

GRAMIGNA. (E ci vuol l'acconciabocca ancora).

PANDOLFO. Tutto si ará.

ALBUMAZZAR. Ma avertite che, doppo fatta l'opra, vo' la catena d'oro promessame per elemosina delle mie fatiche.

PANDOLFO. Le cose son troppo care.

ALBUMAZZAR. Tanto le dolcezze d'amore saranno piú care, perché costono; né amore e avarizia stanno bene insieme.

PANDOLFO. Orsú! prometto, doppo che avete trasformato il servo, donarvi quanto vi ho promesso.

GRAMIGNA. (Diavolo, sazialo tu! dubito che il troppo chiedere non li faccia perdere il tutto).

ALBUMAZZAR. Or andiamo a fare l'elezione delle camere, poi datemi licenza che vada a prepararmi.

PANDOLFO. Andiam presto, ché «il presto è il padron de' negozi».—Vignarolo, non partirte di qua né dir parola ad uomo di quanto hai inteso, ancorché ci andasse la vita.

VIGNAROLO. E se mi uccidessi non mi partirei di qua, né se mi cavassi la lingua parlarei.

SCENA IV.

CRICCA, VIGNAROLO.

CRICCA. Vignarolo, che vai facendo?

VIGNAROLO. Castelli in aria.

CRICCA. Di che cosa?

VIGNAROLO. Il padrone mi ha commandato che non lo dica ad uomo.

CRICCA. Dillo a me che sono una bestia.

VIGNAROLO. No no: sai che da me son secreto; quanto or ci debbo essere che me l'ha commandato il padrone?

CRICCA. Io non lo voglio sapere se bene mi pregassi.

VIGNAROLO. Se non lo dico, potrebbe essere che mi facesse una postema nel corpo e mi crepasse.

CRICCA. Ma pure….

VIGNAROLO. L'astrologo mi vuole transformare in Guglielmo: entrarò in casa sua, darò Artemisia per moglie al padrone e l'Armellina al vignarolo.

CRICCA. Hai detto bene che fai castelli in aria che si risolveranno in fumo. Ma eglino dove sono?

VIGNAROLO. Son entrati in casa per eleggere la stanza per la transformazione.

CRICCA. (Oimè, la cosa va calda! l'astrologo fará certo l'effetto: il vecchio avrá Artemisia a dispetto di suo figlio e di Lelio suo fratello! Non è da perdere tempo: troverogli e avisarogli del fatto, e ripararemo questo accidente. Ma cercarò se posso prima disuader questo asino). Ma dimmi: come ti metti a tanto pericolo? ché nel disfar della persona ci va il pericolo della vita.

VIGNAROLO. Non ci è pericolo, no.

CRICCA. Come no? se ti tagli un dito si sente cosí gran dolore, che sará quando si disfará il tutto? Il padrone, con grandissime promesse che mi ha fatte, non ci ha potuto coglier me: ci ha colto te che sei una bestia.

VIGNAROLO. Me ne vien molto commodo.

CRICCA. Da questo commodo ne viene molto incommodo: il desiderio ti fa precipitare, e per dilettare i tuoi appetiti incapparai in qualche mala ventura.

VIGNAROLO. Me l'ha consigliato il padrone ed io lo vo' fare.

CRICCA. I cattivi consegli fanno cattiva riuscita: per lo piú cadono sopra coloro che l'ordiscono.

VIGNAROLO. Lego l'asino dove vuole il padrone.

CRICCA. Dubito che questo «asino» e questo «ligare» non siano un capestro che ti leghi e ti strangoli il collo; perché oltre il pericolo di disfare, come si scopre la forfantaria, Lelio suo figlio con la corte te ne fará patir la penitenza.

VIGNAROLO. La patirá quel Guglielmo che paio, non quel vignarolo che sono.

CRICCA. (Stiman costui un asino, ma asino son io che lo stimava un asino. Ma eccoli che vengono fuori. Non vo' che ne veggano insieme: andarò e avisarò Lelio ed Eugenio del tutto).

SCENA V.

ALBUMAZAR, PANDOLFO, VIGNAROLO.

ALBUMAZAR. La casa è molto a proposito. Io andrò a tôr le mie armi, astrolabi, meteoroscopi, e per via di azimut e almicantarat prepararò le cose necessarie. Voi andate a tôr li argenti e paramenti in prestito e l'altre cose che vi ho detto, e lasciate ordinato in casa che si sgombri la camera e poi s'orni.

PANDOLFO. Sará fatto in un subito quanto avete ordinato.

ALBUMAZAR. Vo e volarò qui fra poco.

PANDOLFO. Andate felice!—Vignarolo, di' a Sulpizia che cali giú li addobbamenti di damasco con quelle trine d'oro e tutti gli argenti miei, e che sgombri la camera e l'adorni tutta; e torna volando.

VIGNAROLO. Cosí farò.

PANDOLFO. O felice me, o benedetto astrologo! eccomi giunto a quanto mai ho desiderato: posseder Artemisia per isposa. Cancaro! se ci dovesse andar la vita. E non mi par che mai giunga quell'ora; oh, quanto tarda il vignarolo!—Finiamola, a che dimori tanto?

VIGNAROLO. Eccomi!

PANDOLFO. Vien meco a portar vasi di argento che mi farò prestar dagli amici, li animali e quei liquori.

VIGNAROLO. Vengo.

SCENA VI.

EUGENIO, LELIO giovani, CRICCA servo.

EUGENIO. Queste son pur le gran maraviglie che ne racconti, ed io non basto a crederle.

LELIO. Chi è costui che opra cosí gran maraviglie?

CRICCA. Uno astrologo nuovamente stampato, che con le sue astrologherie astrologa tutti gli uomini.

LELIO. Che ha che fare l'astrologia col transformare un uomo nell'altro?

CRICCA. Che so io? non potrei tanto dirvene che non restasse piú a dirvene.

LELIO. Che ne sai?

CRICCA. L'ho visto con questi occhi.

LELIO. Gli occhi vedono alle volte cose che non furono mai.

EUGENIO. E ci vuoi far credere che l'hai visto?

CRICCA. Se non l'ho visto con gli occhi miei, che non vegga piú mai!

EUGENIO. Ci vuole far vedere la luna nel pozzo.

LELIO. Saremo, Eugenio caro, tanto da poco in cose che i nostri padri in cosí disconvenienti desidèri sappino piú di noi? e che vogliamo lasciarci tôr le spose senza volerci aiutare? Destiamoci noi stessi: pur chi s'annega, mena le braccia e le gambe per non lasciarsi morire; però in questa tempesta d'amore meniamo le mani con i piedi per non lasciarci peggio che morire e per non averci a doler poi della nostra negligenza e non aver fatto quanto umanamente può farsi.

EUGENIO. Non credo sia maggior miseria di quella ove noi siamo, poiché padre e figliuolo, tutti, mirano a un segno; né posso imaginarmi come per tante ripulse che li avete dato, pur non si arresta di chiederlavi.

LELIO. Ogni ora, ogni momento da diversi amici e parenti mi fa parlare, sempre con nuove proposte o nuove offerte; né io posso darli tante sconcie ripulse quanto egli con piú vantaggiosi partiti si offerisce. Io non ho voluto con piú aspre parole ingiuriarlo e modi disconvenevoli per non disconciar il fatto nostro.

EUGENIO. Ed è possibile che non abbiamo un amico, un parente che lo facci accorto di questo suo amorazzo, che un uomo di ottantacinque anni voglia per moglie una giovanetta di sedeci in diecisette anni?

LELIO. Non è per mancamento di amici o di parenti; ma niun vuole intricarsi o trapporsi fra padri e figliuoli.

EUGENIO. Non sarebbe buon Cricca, di cui tanto si fida e ascolta i consigli suoi?

LELIO. Bisognarebbe farli un salvacondotto per le spalle: ché egli sta tanto impazzito in questa pazzia sua che, come entra a dissuaderlo, egli entra in rabbia e gioca di bastonate, onde bisogna secondare li suoi desidèri e promettere di aiutarlo; ma egli si avisa subito del tutto.

EUGENIO. Ma sono tanto assassinato dalla sorte che vorrei incrudelirmi contro me stesso; e se fosse altri che mio padre, con le mie mani me lo torrei dinanzi.

LELIO. Vogliam perciò disperarci? bisogna ovviar con qualche rimedio.

EUGENIO. Cricca, speriamo in te: insegnaci ché siamo tuoi discepoli.

CRICCA. Non bisogna sperar se non nella fortuna, la qual suol trovar modo di sollevar l'uomo ne' maggiori suoi travagli quando manco si pensa, e abbassa chi sta piú al sicuro.

EUGENIO. Cricca, sopporti che la miglior perla cada in bocca al piú tristo porco?

LELIO. O fatiche, o passi sparsi, e sparsi poi tanto amaramente!

EUGENIO. Che dici? che pensi? parla un poco.

CRICCA. Qui non bisogna pensar molto né parlar assai: la cosa istessa ci apporta rimedio; e se son contrario al padron, mi perdoni, ché mi par cosa fuor di servitú lasciar di servir i giovani che hanno a vivere piú longo tempo, per servir vecchi che hanno a morire fra poco.

EUGENIO. Cavami da cosí gran pericolo.

CRICCA. Sarebbe veramente gran pericolo se non fussimo avisati; ma sapendo il tutto, cessa il pericolo.

EUGENIO. E come?

CRICCA. Quando si vedrá venir Guglielmo in casa con parole umili e piene di compassione, con dir che sia scampato dal naufragio e venuto a casa, via, cacciarlo, e non volendosi partire, che giuochi a bastone!

LELIO. Non saria meglio prenderlo e tenerlo in buona custodia; e come è tornato nella sua forma, porlo in mano della giustizia e farlo castigare?

CRICCA. No, ché il padrone stimarebbe che l'aviso fosse uscito da me, ed io ne portarei la penitenza che giá questa mattina me l'ha promessa. Non tanti consigli: avisate quei di casa che, volendo Guglielmo entrare in casa, lo scaccino quanto prima.

LELIO. Cosí si fará: io andarò a casa ad avisar tutti del fatto; tu partiti, ché non sii visto con noi ed entrino in sospetto.

EUGENIO. Cosí si faccia.

LELIO. Signor Eugenio, mi raccomando.

EUGENIO. Signor Lelio, servitor vostro.

SCENA VII.

EUGENIO, CRICCA, ARTEMISIA.

EUGENIO. Cricca, raccommandami ad Artemisia mia.

CRICCA. Raccommandatevegli voi stesso. Non vi sète accorto che mentre avete ragionato col fratello, che v'ha vagheggiato dalla fenestra?

EUGENIO. Veggio scoprire il mio sole: e come il sole sorgendo la mattina, vien il mondo a rischiararsi e farsi bello, che era dinanzi tenebroso e pien di orrore; cosí apparendo voi, mio chiarissimo sole, le tenebre e amaritudini del mio cuore tutte si fanno illustri, e mi riempie il cuore di dolcezza.

ARTEMISIA. Siate il ben trovato, spirito dell'anima mia!

EUGENIO. Siate la benvenuta, dolcissimo sostegno della mia vita! Mi par che siate di mala voglia.

ARTEMISIA. E disperata ancora, poiché in tanto tempo non veggo favilla alcuna di luce con cui avvivi la speranza dell'esser vostra.

EUGENIO. Signora, il disperarsi è un tradire se stesso; però non piangete se mi amate, ché con le vostre lacrime consumate la vita mia, le quali, se non le rasciugate tosto, mi faran tosto venir meno.

ARTEMISIA. Deh! lasciatemi piangere e morir ancora, perché non è persona tanto disperata che non abbia qualche speranza di sperare, eccetto io che non ho che sperare se non nella morte come solo rimedio de' miei mali.

EUGENIO. Ah, signora, avendovi conosciuta sempre d'alto cuore, di gran fortezza e di eccelsa mente, come vi lasciate cosí vincere dal dolore?

ARTEMISIA. Anzi, se mi amate, dovete piangere meco, ché quando duo amanti piangono le communi disaventure è uno sfogamento delle lor passioni.

EUGENIO. Ma perché tanto affliggervi?

ARTEMISIA. Primieramente temo che non m'amate.

EUGENIO. Ahi, fiera stella, e come può cadere in voi cosí brutto pensiero se sapete certo che vi amo da dovero e il nostro amore è reciproco? E se potessi aprire il petto vedereste un tempio nel cui altare arde sempre il mio cuore in sacrificio dinanzi l'idolo della vostra bellezza, la qual è tale che fa stupire non solo il mondo ma l'istessa natura che vi ha creato, ornata poi di tanti mezi d'onori e di costumi, li quali gareggiano con la bellezza e giá si hanno acquistato li titoli di magnificenza. I vostri meriti sono tali che meritarebbono altro uomo che non sono io; ma perché conosco solo i vostri meriti, per il grande amore che li porto, mi par che possa meritarli.

ARTEMISIA. Se cosí è, perché scorgo in voi tanta tepidezza in sollecitar le mie nozze? Voi sète d'accordo con Lelio mio fratello. Non vedete che l'indugio vi potrebbe apportar qualche disturbo?

EUGENIO. Non considerate, signora, che ho un padre concorrente nell'amor mio? e se ben mi veggio in tante difficoltá e rispetti di mio padre, pur Amor non permette che cangi voglia. Il padre cerca privarmi di quello che mi si deve per amore; io ne prego e riprego vostro fratello, e dubito per la troppa importunitá di esserli molesto: avemo sofferto tanto, soffriamo un altro poco. Non è cosa da valoroso voler la corona e il trionfo prima che abbia combattuto: soffriamo, ché Amor ci coronerá del nostro soffrire.

ARTEMISIA. Mio padre non vuol darmivi per sposa se egli non conseguisce da voi Sulpizia: vuol comprar l'amor di vostra sorella col mio riscatto e vuole che io sia il prezzo de' suoi desidèri. Vuol servirsi di me per medicina del suo male, di me che sono inferma e ho bisogno di medicina per me stessa nella mia infermitá; ed io, misera! non so far altro che amaramente piangere, sospirare e consumarmi.

EUGENIO. Datevi pace, ché forse Amore vi consolará.

ARTEMISIA. Quel «forse» è una magra speranza. Di piú par che d'ora in ora mi veggia comparir Guglielmo mio padre, che non sia morto e che voglia ch'io mi sposi con Pandolfo: e questa notte me l'ho insognato tornar sano e salvo dal naufragio, di che ne ho preso tanto spavento che non sará bene di me per un anno. Però vi prego che vi affrettiate e mi cacciate di tanta angoscia.

EUGENIO. Non bisogna, signora, aver téma de' sogni, che nascono in noi da quelli effetti che sommamente temiamo e desideriamo. Se i sogni riuscissero, io sarei felice: quante volte mi son sognato con voi e non mi è riuscito? Piú tosto vorrei che riuscissero i miei che i vostri sogni.

ARTEMISIA. Padron caro, dubito che non sopravenga mio padre. Dio sa con che cuor vi lascio! Vi bacio le mani; e perché io non posso baciarvi le mani, vi cerco un favore.

EUGENIO. Eccomi prontissimo a servirvi.

ARTEMISIA. Che mi doniate i vostri guanti; ché baciando quelli mi parrá di baciare le vostre mani, e vestendone le mie mani parrammi che tenga strette le vostre mani.

EUGENIO. Eccoli; e date a me i vostri in ricompensa, acciò io senta quella medesima dolcezza de' vostri, che voi dite sentir de' miei.

ARTEMISIA. Eccoli: e piaccia a' cieli che come abbiamo scambiati i guanti, cosí abbiamo scambiati i cuori, che come il mio è fatto suo, cosí il suo sia fatto mio.

CRICCA. Finiamola, signor Eugenio, andiamo via.

EUGENIO. Ahi, che dura dipartita!

SCENA VIII.

ARTEMISIA, SULPIZIA giovane.

ARTEMISIA. Signora Sulpizia, vi bacio le mani.

SULPIZIA. O signora Artemisia, perdonatemi, ché non v'avea visto.

ARTEMISIA. Avete forse l'animo ingombrato di qualche travaglio, poiché non vedete le persone che vi stan dinanzi?

SULPIZIA. Veramente è come dite; e stimo che li medesimi travagli, che travagliano voi, travagliano ancor me: che ambedue ne affligga un medesimo male.

ARTEMISIA. Misera me, che dispiacere feci a mio padre mai, che meriti che mi dia quel vecchio cadavero e putrefatto di vostro padre per marito? questo è il premio della ubidienza che li ho portata tanti anni? Però non devrebbono maravigliarsi le genti quando odono che noi poverelle facciamo qualche scappata, perché ne sono cagione i nostri padri.

SULPIZIA. Certo che questi vecchi quanto vanno piú innanzi di etá tanto manco vedono di cervello: il troppo vivere gli fa rimbambire e non san quel che facciano. Misera e infelice la condizione di noi povere donne; e con ragione si fa dirlo in quella casa dove nasce una femina! Anzi dovrebbono le nostre madri, quando nascemo, affogarci, nascendo al mondo per un ritratto di tutte le umane sciagure. Da che nasciamo stiamo sempre ristrette fra quattro mura come in continue prigioni, sotto le severe leggi e rigide minacce de' padri, madri, fratelli e parenti, e massime quando stiamo innamorate; ché dove gli uomini, conversando con le persone, trasviano quei vivaci pensieri che gli fan star sempre vigilanti negli amori, a noi è forza sepelirgli nel cuore, né meno sfogarli con un minimo sospiro, che non so come non scoppiamo di doglia.

ARTEMISIA. Ed il peggio è che volendo maritarci ci voglian dar marito a lor gusto, o per loro particolari interessi darci per marito uno, col quale abbiamo a vivere fino alla morte, contro la nostra volontá, con dir che avendoci vestite di queste membra è forza che siamo ubidienti. E triste noi se una sola parola li rispondiamo in contrario! siamo le presontuose, sfacciate e col capo pieno di grilli! E cosí, non essendo il marito a nostra volontá, bisogna che stiamo sempre in discordi voleri e in una perpetua guerra; e però non dovrebbono dolersi, se ne togliemo uno a lor piacere, ce ne togliamo uno a nostro gusto.

SULPIZIA. Che legge è questa d'aver fondato l'onore nelle azioni di noi povere donnicciuole? dove gli uomini, per essere piú savi e di maggior forza per fare resistenza a' loro appetiti, si sfogano le loro amorose passioni, si procacciano sempre nuovi trastulli con diverse donne, commettendo adultèri e stupri a lor modo; e se di noi meschine s'avveggono di qualche cenno o ambasciata, subito:—Scanna, uccidi, ammazza; spade, pugnali, coltelli!—Che legge maladetta è questa!

ARTEMISIA. Eh, sorella, queste leggi se le han fatte gli uomini a lor modo; se toccasse a noi, ce le faressimo al nostro. Ma assai siamo noi infelici per ora: senza che andiamo rammemorando le nostre sciagure, ragioniamo di altro. Ditemi di grazia, se parlate mai di me col vostro fratello.

SULPIZIA. Sempre di voi.

ARTEMISIA. Che dice su questo fatto?

SULPIZIA. Bestemmia la sua sorte crudele, i pazzi umori di suo padre, e si consuma in lamenti, in dolori. Ma Lelio, quando li parlate di me, che risponde?

ARTEMISIA. Lagrime e sospiri; e credo ben che se Amor non lo aiuta in questo estremo punto, che saranno brevi i giorni suoi.

SULPIZIA. Di grazia, raccomandatemi a lui.

ARTEMISIA. Ed il medesmo vi prego che facciate di me al vostro.

ATTO III.

SCENA I.

PANDOLFO, CRICCA.

PANDOLFO. Or mentre l'astrologo sta trasformando il vignarolo, Cricca, vo' dirti un mio pensiero.

CRICCA. Dite.

PANDOLFO. Non mi basta il core a donar all'astrologo la catena d'oro che gli ho promesso.

CRICCA. Chi ha promesso attenda.

PANDOLFO. Confesso che fui troppo voluntaroso, e me ne pento.

CRICCA. Mi ho fatto gran meraviglia che, sendo cosí avaro, abbiate a donare una volta cinquecento scudi.

PANDOLFO. S'io son avaro, son avaro per poter esser poi liberale quando bisogna; ché chi è sempre liberale, all'ultimo non ha che dare. Ma la voglia di posseder Artemisia mi avrebbe fatto dar la vita, non che la robba.

CRICCA. Mi va un pensiero per la testa come con onor vostro ce la possiate negare.

PANDOLFO. Dubito che ora non intenda quanto parliamo.

CRICCA. Che perdiamo a tentarlo? se riesce, guadagnaremo cinquecento scudi.

PANDOLFO. Di' su, presto.

CRICCA. Quando egli verrá fuori per avisarci che il vignarolo è trasformato, io lo tratterrò ragionando meco; voi entrate in camera e nascondete alcuni vasi di argento, e poi venite fuori colerico e irato, gridando che vi sono stati tolti gli argenti. Egli dirá che non è vero, noi diremo di sí; al fin, dopo molto contrasto, direte che non gli darete la catena se non vi restituisce i vasi, minacciandolo ancora di accusarlo alla corte.

PANDOLFO. E se l'inganno si scoprisse?

CRICCA. Riversciaremo la colpa sul vignarolo che ha buone spalle.

PANDOLFO. Non mi dispiace il tuo pensiero e son disposto seguirlo.

CRICCA. Ma il punto sta e l'importanza del negozio in saper fingere il colerico, la stizza e il disgusto, e gridar alto e terribile.

PANDOLFO. Lascia fingere a me, e se nol faccio naturale, mio danno, cinquecento ducati. Cacasangue! mi farò uscir i gridi fin dalle calcagne; ma bisogna che tu m'aiuti a dar ragione.

CRICCA. Non mancarò: nelle mani vostre sta il guadagnare e il perdere cinquecento ducati se saprete ben fingere.

PANDOLFO. Non piú, ché non intenda quanto ragioniamo. Ma eccolo che viene fuori.

SCENA II.

ALBUMAZAR, PANDOLFO, CRICCA.

ALBUMAZAR. Pandolfo, ecco, fra poco spazio avrete trasformato il vignarolo.

CRICCA. Non è dunque trasformato del tutto?

ALBUMAZAR. È giá trasformato tutto il corpo, ma un solo piede e le mani li mancano.

CRICCA. Dimmi, signor astrologo, per quanto tempo durerá il vignarolo nella figura di Guglielmo?

ALBUMAZAR. Per un giorno naturale.

CRICCA. E ci sono anco i giorni contra natura?

ALBUMAZAR. Il giorno naturale se intende di ventiquattro ore.

CRICCA. E quello contra la natura?

ALBUMAZAR. Quando il sol vien verso noi dinanzi e i giorni son grandi, son naturali; quando vanno indietro e son brevi, vanno contro natura.

PANDOLFO. Oimè oimè oimè!

CRICCA. Oh che gran gridi!

PANDOLFO. A cosí gran botta non ho cagione di dar cosí gran gridi?

CRICCA. Che cosa avete, padrone?

PANDOLFO. Oimè, son morto, son rovinato del tutto!

CRICCA. E come? (Va bene il principio). Di che vi dolete?

PANDOLFO. La camera è tutta sgombra de' paramenti e delli argenti!

CRICCA. (Ben, benissimo! fingete assai del naturale).

PANDOLFO. Canchero, che non fingo, dico da dovero: mi è stata sgombrata tutta la camera!

CRICCA. (Gridate piú forte ché ne siate meglio udito).

PANDOLFO. Non potrei gridar tanto quanto ne ho di bisogno: mi ha rubato quanto aveva e non aveva!

CRICCA. (Ah, ah, ah! non posso tener le risa come finge bene!).

PANDOLFO. Mi è stato rubbato il mio e quel d'altri!

CRICCA. (Sforzatevi di gridare).

PANDOLFO. Non ho piú voce, diavolo! e mi manca la voce, il fiato e l'anima.

CRICCA. (Ah, ah, ah, chi non ridesse?).

PANDOLFO. Con questo tuo ridere mi cresce la rabbia: la camera è rimasta piú netta che un specchio!

CRICCA. (E dite da senno?).

PANDOLFO. Da maledetto senno! la fenestra verso levante è aperta e scassata, e dubito che di lá sieno state levate le robbe.

CRICCA. (Questo era quel «levante» cosí inimico a voi: la porta da ponente fu la vostra che vi poneste le robbe, e quella da levante vi ha levate le robbe).

ALBUMAZAR. Pandolfo, che avete che gridate cosí alto?

PANDOLFO. Tutto l'apparecchio è stato tolto dalla camera!

ALBUMAZAR. Sperate bene.

PANDOLFO. Come posso sperare bene, veggendo male?

ALBUMAZAR. I panni e vasi di argento ho consignato al vignarolo, l'ho chiusi in quell'altra camera vicina acciò siano ben guardati. Fermatevi qui, ché fra poco lo vedrete comparire qui fuori trasformato in Guglielmo e vi restituirá il tutto.

PANDOLFO. Or che faremo intanto?

ALBUMAZAR. Andaremo a spasso per mezza ora; poi tornate, aprite la camera e trovarete il vostro vignarolo trasformato in tutto; e poi verrò per la promessa per la catena.

PANDOLFO. Cosí faremo.

SCENA III.

ALBUMAZAR, RONCA, GRAMIGNA, ARPIONE.

ALBUMAZAR. Ronchilio, Gramigna, Arpione, uscite qui fuori.

RONCA. Eccoci, che volete?

ALBUMAZAR. Giá abbiamo conseguito quanto desiavamo: resta poca cosa a complire. Tu, Ronchilio, aspetta qui il vignarolo che esce di camera, fingi esser amico di Guglielmo, dágli questi dieci ducati con dir che gli dovevi dar a lui, per fargli piú credere che sia Guglielmo.

RONCA. E volete che io perda i dieci ducati?

ALBUMAZAR. Quali? che asino! Tu, Arpione, con quel braccio contrafatto toglili. Tu, Gramigna, trova Bevilona, quella puttana scaltrita: che si finga una gentildonna innamorata di Guglielmo; lo chiami a mangiare e a solazzarsi con lei; e ciò per fargli credere che sia quel Guglielmo. E fatelo star allegro e trattenetelo per due ore.

RONCA. Perché due ore?

ALBUMAZAR. Tra queste due ore tu, Gramigna, porta le robbe al Molo, piglia una fregata e caricala di tutte le robbe. Poi, va' al Cerriglio e fa' apparecchiar questi animali bene e questi liquori preziosi; porta la Bevilona all'osteria, ché, dopo alzati ben i fiaschi, possiamo godere il trionfo delle nostre furbarie. Poi, di notte imbarcaremoci per Roma con tutto il bottino.

RONCA. Tu dove vai?

ALBUMAZAR. A tosare un'altra pecora che vuol fissar l'argento vivo con sughi di erbe: accrescerá il numero de' burlati e il nostro bottino.

GRAMIGNA. Cosí faremo.

ALBUMAZAR. Usate le barbe adulterine, impiastri ed altri linguaggi, ché non siate conosciuti per quelli istessi. Ma non vorrei che mentre attendo all'utile commune di un altro guadagno, che mangiaste senza me e mi rubbasti la parte mia, giaché sète ladri senza vergogna, senza legge e senza fede, che arrobbaresti voi stessi quando non avesti altri a chi rubbare.

GRAMIGNA. Sarebbe cosa nuova forse? non ce l'avete insegnato voi?

ALBUMAZAR. Con la misura tua misuri tutti gli altri: «la cosa andará da zingano a giudeo».

GRAMIGNA. Fai ora come or ti avessi a conoscere. Orsú, andiamo.

SCENA IV.

VIGNAROLO, RONCA.

VIGNAROLO. (Oh bella cosa l'essere trasformato in un altro! Io pensava che fosse trasformato tra la carne e la pelle; ma or come sono trasformato di volto cosí ancora mi sento trasformato di cervello. Mi par di esser diventato gentiluomo e smenticato affatto del villano: non mi resta altro di vignarolo che l'appetito e l'essere innamorato di Armellina. Son certo che niuno mi conoscerá, poiché io medesimo non piú conosco me stesso. Oh che cosa mirabile! credo che per ogni buco della mia persona sia un spirito. Vorrei andar a casa di Guglielmo per servir il padrone; ma par che non mi assicuri).

RONCA. Oh, signor Guglielmo, voi siate il bentornato per mille volte! Quanto tempo è che sète giunto in Napoli?

VIGNAROLO. Voi siate il ben trovato! Or giungo dal viaggio.

RONCA. Vi avemo giá pianto per morto.

VIGNAROLO. Son salvo e al vostro comando.

RONCA. Si ricorda Vostra Signoria, quando mi prestaste dieci ducati, che i birri mi menavano in prigione?

VIGNAROLO. Signor sí, signor sí, me ne ricordo.

RONCA. Quando venni a casa vostra per restituirli, vi venne la nuova del vostro naufragio: e non potendo restituirli a voi, avea constituito conservargli al suo ritorno. Ma poiché sète tornato sano e salvo, eccoli, ché dubito ne abbiate bisogno.

VIGNAROLO. Come, che ne avrò bisogno!

RONCA. Vi ringrazio della cortesia; mi raccomando a voi.

VIGNAROLO. Oh che sia benedetto quel punto nel quale mi trasformai in Guglielmo, ché, non avendo in vita mia mai potuto accoppiare uno carlino quando era vignarolo, or, essendo Guglielmo, in un punto ho guadagnato dieci ducati!

SCENA V.

ARPIONE, VIGNAROLO.

ARPIONE. Vi ho visto sbarcare or ora dalla nave, signor Guglielmo, di che ne ho tanta allegrezza che non posso contenermi di non abbracciarvi e baciarvi.

VIGNAROLO. Ed io col medesimo effetto vi bacio molto amorevolmente. Ma come vi chiamate?

ARPIONE. Non vi ricordate di Arpione che vi era tanto caro?

VIGNAROLO. Sí bene, or me ne ricordo, Arpione mio caro.

ARPIONE. Ringrazio la fortuna del mare che ne fe' grazia di rivederci.

VIGNAROLO. Come state?

ARPIONE. Sète forse divenuto medico, che mi dimandate come stia? Comunque stia, son sempre al vostro comando. Perdonatemi, non posso contenermi che non vi abbracci e baci di nuovo, e sento tanta allegrezza che non ho lingua per esprimerla.

VIGNAROLO. (Mentre costui mi ave abbracciato mi ho sentito dare una scossa alla borsa. Le mani e le braccia me le sentiva al collo: se alcun da dietro non me l'ha tolta, non potrei saper chi fosse. Ma qui non è altri).

ARPIONE. Avete patito gran disagi nel viaggio, Guglielmo caro?

VIGNAROLO. Molti, Arpione mio carissimo. (Io veggio pur le mani di costui fuori, e pur mi sento levar la borsa).

ARPIONE. Orsú, me vi raccomando. A rivederci, ringrazio la vostra liberalitá.

VIGNAROLO. Ed io vi bacio le mani. (Io non li ho dato nulla e dice che ringrazia la mia liberalitá!). Oimè oimè, la mia borsa! oimè, i miei danari, o messer Arpione!

ARPIONE. Eccomi, che volete?

VIGNAROLO. Mostrami la mano.

ARPIONE. Eccola.

VIGNAROLO. Dove è l'altra?

ARPIONE. Eccola.

VIGNAROLO. Dove è l'altra?

ARPIONE. Che volete che abbia cento mani?

VIGNAROLO. Quale è la destra?

ARPIONE. Ecco la destra.

VIGNAROLO. La sinistra?

ARPIONE. Ecco la sinistra.

VIGNAROLO. Dove son le due mani?

ARPIONE. Quante volte volete vederle? forse i pericoli del viaggio vi fanno ferneticare?

VIGNAROLO. Oh, fermati! o ladro, o tagliaborse, o Arpione, proprio Arpione, ché come un arpione hai arpizato! Oh come è sparito! Ma come costui avrá potuto cosí stendere le membra e torcer le braccia, come i bagatellieri che fanno vedere e stravedere? o forse me l'ha tolta con i piedi? Or conosco che son un asino: non ha detto che si chiamava Arpione e che mi voleva arpizar la borsa? Perché lasciarmi arpizarla? Certo, che devo essere il vignarolo e non Guglielmo!

ARPIONE. Signor Guglielmo, che avete?

VIGNAROLO. Un truffatore mi ha tolto una borsa con dieci ducati.

ARPIONE. Mi dispiace non poter aiutarvi per mia disgrazia!

VIGNAROLO. Anzi per mia, per me solo!

ARPIONE. Come stava fatto?

VIGNAROLO. Con una ciera di ladro proprio come la tua; ma teneva un empiastro agli occhi come quelli che si pongono su le pannocchie. Che il cancaro si mangi tal razza di uomini!

ARPIONE. A voi mi raccomando.

SCENA VI.

BEVILONA cortigiana, VIGNAROLO.

BEVILONA. O vita, o contento, o metà dell'anima mia! Signor Guglielmo, che siate il bentornato per mille volte!

VIGNAROLO. Con chi ragionate, bella giovane?

BEVILONA. Con il signor padrone della mia persona, della mia vita, d'ogni mio bene!

VIGNAROLO. Che ho io a far teco?

BEVILONA. Quel che a voi piace di fare; e se mi comandate che vi faccia un tantino di piacere, ve ne farò un tantone.

VIGNAROLO. (Costei deve essere qualche mercadantessa che tiene fondaco aperto delle sue mercanzie. È qualche innamorata di Guglielmo: poiché gli rassembro Guglielmo, mi prende per scambio. Vo' entrare con lei: che ci posso perdere? le comprarò una collazionetta o qualche cosellina. Ho fatto error a dire che non la conosceva: l'emendarò come posso). Signora mia, ho voluto cosí un poco scherzar con voi, per vedere se v'eravate smenticata di me per la mia partenza.

BEVILONA. Io smenticarmi di voi, che dopo la vostra partenza sète restato piú vivo nell'anima mia che non ci era essa stessa? né per nuova della vostra morte si poté smorzar giamai una di quelle faville che s'accesero per man di Amore nel mio petto?

VIGNAROLO. Ed io per amor vostro son stato veramente molto travagliato di fantasia. Son gionto ora in Napoli, e prima che andasse a casa mia, m'era aviato alla vostra. Donque, avete marito?

BEVILONA. E voi non lo sapete? quel bravaccio tanto vostro amico.

VIGNAROLO. Sí sí, lo conosco bene; e se tornasse fratanto?

BEVILONA. Come state cosí rispettevole? Non vi ho visto mai cosí tiepido come ora. Entrate.

VIGNAROLO. Vi verrò dietro. (O felice Guglielmo, quanto eri felice; e o felice me, che la godo in sua vece! Non è maggior piacere al mondo che diventar un altro).

SCENA VII.

GRAMIGNA, BEVILONA, VIGNAROLO.

GRAMIGNA. (Giá il vignarolo deve esser su' baci: vo' sconciarlo e gustar un poco del fatto suo). Tic toc.

BEVILONA. Olá, chi batte?

GRAMIGNA. Don Giovanni Termosiglia Caravaschal di Siviglia!

VIGNAROLO. (Oh quante genti!).

BEVILONA. (Non è altro che mio marito. Oh che sia venuto in mal punto!).

VIGNAROLO. (Ha nominato tante persone).

BEVILONA. (Non ha tanti nomi quanti ha diavoli in corpo: o meschina me! Signor Guglielmo, cercate salvarvi, saltate per quella finestra).

VIGNAROLO. (Apritemi l'uscio di dietro del giardino, ché mi sará piú caro).

BEVILONA. (Non si può aprire, ché se ne porta le chiavi).

VIGNAROLO. (Che ho donque da far per scampar fuori?).

BEVILONA. (Salta per quella fenestra).

VIGNAROLO. (Dio me ne guardi! è troppo alta: volete che mi rompi una gamba?).

BEVILONA. (Una gamba piú o meno poco importa).

GRAMIGNA. Mujer, perché mori tanto?

BEVILONA. Or or, marito mio.

VIGNAROLO. (Evvi alcuna altra via da fuggire?).

BEVILONA. (Niun'altra, meschina me!).

VIGNAROLO. Por cierto que deve star alcun innamorado, pues que non abre presto.

BEVILONA. (Non posso piú tardare: bisogna aprire. Ci è una botte vòta, che a mio modo posso porre e riporre il fondo).

GRAMIGNA. Se non mi abreis presto, enviaré esta puerta per tierra.

BEVILONA. È rotta la fune del saliscende: calo giú ad aprirne. (Presto, Guglielmo caro!).

VIGNAROLO. (Fo quanto posso!).

GRAMIGNA. (Giá deve essere entrato nella botte: lo tratteneremo almeno per due ore ché non vada a casa, e ci torremo spasso del fatto suo). Viene ora. ¿Mujer, que haceis?

BEVILONA. Ecco aperta; ché tanta fretta, marito? non volermi dar tempo di calar giú?

GRAMIGNA. Tengo pressa porque ho mercado una onza de vino: es menester ora limpiarla donde es da ponerse, ché sará qui or ora. Piglia, Bevilona, di fuora.

BEVILONA. Lasciamo far questo per oggi: lo faremo domani.

GRAMIGNA. Es menester hacerlo ora.

BEVILONA. Non ho tanta forza di portarla io qui fuora.

GRAMIGNA. Yo te ayudaré: abre la porta; non es menester tanta fuerza, eccola desclavada. Quiero limpiarla.

BEVILONA. Andate voi per lo vino, ché io la laverò.

GRAMIGNA. Yo la limpiaré, ché ahora sará aquí lo vino. Trae aquí agua bulliente per limpiarla.

BEVILONA. Dove è ora l'acqua calda per lavarla?

GRAMIGNA. Toma quella che sta nel fuego per limpiar los pez.

BEVILONA. Non posso ora, ché son stracca.

GRAMIGNA. Se yo ne tomaré un palo, te ne daré cinquanta.

VIGNAROLO. (Misero me, che farò? mi scotterò tutto?).

GRAMIGNA. Eres una mujer muy soberbia, non quere alzar algo sin palos.

BEVILONA. Eccovi l'acqua.

GRAMIGNA. Ponla por este aguiero, dalla qui, deja hacer á mi.

BEVILONA. Ecco fatto.

GRAMIGNA. Tomais vos de una parte, yo de la otra, y menealla un poco.

BEVILONA. Non piú non piú, ché non posso!

GRAMIGNA. Bien sta, ora lo quiero inviar alla marina.

SCENA VIII.

RONCA, GRAMIGNA, VIGNAROLO.

RONCA. Che volete da me, missere?

GRAMIGNA. Che me traes esta curba alla marina.

RONCA. La portarò dove volete, purché mi paghiate.

GRAMIGNA. Torna medio real.

RONCA. Non vo' men d'un carlino, se volete che la porti in testa; ma se mi date meno, la portarò rotolando a vostro risico.

GRAMIGNA. Traela como quieres.

RONCA. La porterò rotolando.

GRAMIGNA. Camina, ché io vendré atrás.

VIGNAROLO. (O povero vignarolo, quanto era meglio per te star alla villa nella tua forma che voler trasformarti in altro!).

ATTO IV.

SCENA I.

GUGLIELMO vecchio, solo.

GUGLIELMO. Ecco col favor del cielo da cosí crudel naufragio san pur gionto salvo alla patria mia. O patria, quante lacrime ho sparte ricordandomi di te! non so come sia vivo per il gran dolor che ci ho patito, veggendomi lontano da te! Or quanto devo a' cieli, che pur dopo tante lagrime mi è concesso di rivederti! Misero me, che, volendo andar in Barbaria per saldar i conti con un mio corrispondente e vivermi il restante della mia vita ocioso e felice, ebbi a far i conti con la morte: ché, sendo vicino alle sirti, fieramente percosso da una fiera tempesta e dato in quelli scogli di arena, s'aperse il legno in mille parti e fui fatto schiavo de' mori; poi, riscattato, mi sono ricovrato nella mia patria! Onde avendo passati innumerabili travagli, posso innumerabilmente ringraziare il cielo che mi veggia salvo. Vo' aviarmi verso la casa mia.

SCENA II.

CRICCA, GUGLIELMO.

CRICCA. (O Dio, che cosa veggio? or non è questo il vignarolo transformato in Guglielmo, la cui figura cosí perfettamente rappresenta il figurato che non saprei discernere s'egli fosse il vignarolo o il vignarolo lui?).

GUGLIELMO. (Veggio uno che si maraviglia del mio ritorno: forsi che, stimandomi morto, si maraviglia che cosí insperatamente gli comparisca dinanzi).

CRICCA. (Oh mirabil possanza delle stelle, oh mirabil arte di astrologia, or chi di questo non s'ingannasse? Guardatevi, mariti che avete le donne belle, ché i loro innamorati sotto la vostra forma si godono di loro; guardatevi, ricchi, perché possedete tanto oro, argento, gioie e danari in casa, ché i ladri trasformandosi nella vostra effigie vi aprono le casse e vi togliono i danari: or sí che ogni uno può venire al sicuro ladro di quello che vuole).

GUGLIELMO. (Mi ricordo averlo visto e ragionato con lui piú volte; ma non posso ricordarmi chi sia).

CRICCA. (Vorrei burlarlo un poco; ma mi par Guglielmo tanto naturale che non ardisco).

GUGLIELMO. (Giá mi sovien chi sia). O Cricca, che tu sia il ben trovato! Come sta Pandolfo mio amico?

CRICCA. Mi rallegro dell'accrescimento del vostro stato: che di padron che vi sia Pandolfo, or vi sia divenuto amico.

GUGLIELMO. Che dice il mio caro Cricca?

CRICCA. Che siate il bentornato da lontano paese, ché giá sommerso nel mare vi avevano pianto per morto!

GUGLIELMO. Posso dir che sia renato: fu tanto periglioso il mio naufragio!

CRICCA. (Ah, ah, mira il goffo con quanta grazia e prosopopeia ragiona: or che potrebbe piú dire o far l'istesso Guglielmo?). Oh che il cancaro ti mangi!

GUGLIELMO. Or questo è un cattivo modo di procedere: tieni le mani a te e parla con piú riverenza: con chi pensi trattare?

CRICCA. (Mira questo furfante, che in corpo, in anima si pensa essere transformato in Guglielmo! fa sí come io non fossi consapevole dell'inganno).

GUGLIELMO. (Io non posso imaginarmi come un servo ribaldo, come costui, abbia preso tanta baldanza meco: come ride il furfante!).

CRICCA. (Mira come stringe le labra per non ridere il furfante, e per il riso gli lampeggiano gli occhi!). Ah, ah, ah!

GUGLIELMO. Vorrei saper di che ridi; se non, ne farò risentimento col tuo padrone.

CRICCA. Rido che tanto bene sei trasformato in altra forma.

GUGLIELMO. Che? questa è cosa degna di gran meraviglia, se i pericoli della morte tanto vicina, l'affezion della servitú che ho sofferta tra' mori e i disagi del viaggio avrebbono trasformato altra persona della mia, che sono un povero vecchio e son piú tosto degno di pietá che di riso?

CRICCA. (Mira che il vignarolo ha lasciato la bestialitá della villa e divenuto savio di cittá!). Or va' a casa di Guglielmo a far l'effetto che devi, ché ti fa certo che sarai ricevuto per l'istesso Guglielmo.

GUGLIELMO. E se nella mia casa non sarò ricevuto per l'istesso Guglielmo, dove spero esser piú ricevuto?

CRICCA. (Ed è possibile che questa bestia non si avvegga che ancor è quel vignarolo che era prima? come sta saldo, con che riputazione sta il mariuolo!).

GUGLIELMO. (Io non so dove nasca questo suo riso e questo scherno di me. Fa come se non m'avesse mai conosciuto per quel che sono e quel che fui).

CRICCA. Mi par che tu non lo vuoi intendere: tu sei il vignarolo, ed io lo so meglio che tu stesso non lo sai.

GUGLIELMO. Io non so quello che ti dica del vignarolo.

CRICCA. Non sei tu dunque il vignarolo?

GUGLIELMO. Non sono né ci fui mai.

CRICCA. Questo nieghi?

GUGLIELMO. Lo niego, perché è il falso.

CRICCA. E pur lo nieghi?

GUGLIELMO. E pur lo niego e straniego.

CRICCA. Non sei il vignarolo, col nome del diavolo?

GUGLIELMO. Son Guglielmo, col nome di cento diavoli!

CRICCA. Vo' chiamar il padrone, ché venga ancor egli a ridere un poco meco e maravigliarsi.

SCENA III.

PANDOLFO, CRICCA, GUGLIELMO.

PANDOLFO. Io non so perché tanto gridi, o Cricca.

CRICCA. Non vedete il vostro vignarolo trasformato in Guglielmo, e tanto trasformato in Guglielmo che il vero resta vinto dal falso, perché il falso è piú vero del vero?

PANDOLFO. (O stupenda maraviglia! ed è possibile che l'astrologia possa tanto? Veggio il simulacro e l'imagine di Guglielmo cosí naturale che, se fosse fatto a stampa o dentro le forme, non potrebbe essere piú simile. Proprio fatto a stampa, ché un scudo non è cosí simile ad altro scudo come è costui a Guglielmo).

GUGLIELMO. O mio carissimo Pandolfo, cosí amato e desiderato di vedere!

PANDOLFO. (Non mi dispiace il principio. Mira con che bel garbo ragiona il furfante! oh come ha del naturale, come pompeggia in quelle vesti: cosa da spanto!). Caro Guglielmo, come sète salvato da naufragio?

GUGLIELMO. Sappiate che per andare in Barberia imbarcaimi su una nave ragusea. Il padrone che la noleggiava era uomo di suo capo; e quantunque fusse avisato da tutti li marinari non partisse in tal tempo che minacciava tempesta, pur volse partirsi con la tempesta. La nave diede su le sirti; e il padrone fu il primo in morire e in pagare la pena della sua temeritá e ardimento….

PANDOLFO. (Che bella istoria s'ha inventata! con che bella maniera il racconta il manigoldo!).

GUGLIELMO. … Vennero i corsari e ne fer prigionieri; scampai e mi presero un'altra volta; mi riscattai, sono arrivato a casa a salvamento.

CRICCA. Andaste in Barberia per rader quel tuo debitore, e il mare t'ebbe a rader la vita e tutte le tue robbe.

GUGLIELMO. Andai in Barbaria per riscuotere i miei crediti.

CRICCA. Andaste in Barberia per radere e fosti raso. (Lasciamo le baie, dimandiamoli delli argenti e de' paramenti).

PANDOLFO. Ben, vignarolo mio, dove sono li argenti e i paramenti che l'astrologo t'ha consegnato?

GUGLIELMO. Non so che vi dite.

PANDOLFO. Scherzi o dici da senno?

GUGLIELMO. Dal miglior che abbi. È tempo questo di scherzi?

PANDOLFO. Or questo è un altro conto. Dimmi, dove è l'argento?

GUGLIELMO. A me ne dimandate?

PANDOLFO. A chi vuoi che ne dimandi?

GUGLIELMO. Che argento dite voi?

PANDOLFO. Che ti ha consegnato l'astrologo dopo che fosti trasformato.

GUGLIELMO. Che astrologo, che trasformazione?

PANDOLFO. Or questo è un altro diavolo, duomila scudi d'argento: sarebbe cosa da farmi arrabbiare!

CRICCA. Ah, ah, ah! mirate che ride! vuol scherzare con voi il traditore.

PANDOLFO. Canchero! questi sono mali scherzi. E par che sia piú tosto pallido divenuto.

CRICCA. Pensa il ladro che se or è trasformato in Guglielmo, che mai piú abbi a divenire vignarolo e farci star in forsi dell'argento ancora.

PANDOLFO. Non ha tanta malizia, è un bestiale.

CRICCA. Ed i bestiali sogliono essere maliziosi; ma sarei piú bestiale di lui se mi lasciassi burlare da un par suo. Dimmi, non sei tu il vignarolo?

GUGLIELMO. Dico che sono Guglielmo non il vignarolo.

PANDOLFO. Anzi tu sei l'uno e l'altro, il vignarolo e Guglielmo, cioè il vignarolo mascherato in Guglielmo.

GUGLIELMO. Io non son altro che Guglielmo, e non è or carnevale che vada in maschera. Non ho altra maschera di quella che mi fece la natura.

CRICCA. Non posso credere che la soverchia bestialitá basti a far un uomo savio.

PANDOLFO. Torniamo all'argento: che mi rispondi?

GUGLIELMO. Io non so che rispondervi, perché non so nulla di quello che dite.

PANDOLFO. Io non vo' piú moglie. Torniamo all'astrologo, ché ti ritorni in quel di prima e restituiscami l'argento.

CRICCA. (Fermatevi, padrone: s'apre la porta della casa di Guglielmo e ne vien fuori Armellina la serva. Lasciamolo entrare in casa e veggiamo che effetto fará; perché non può egli scapparne dalle mani, e quel che volete far ora lo potrete far sempre che volete. Partiamoci da lui, ché non diamo sospetto dell'inganno).

PANDOLFO. (Vo' attenermi al tuo consiglio).

CRICCA. Vignarolo, giá s'apre la porta della casa di Guglielmo. Non vedi la tua innamorata Armellina e la sua figlia? orsú, entra in casa.

GUGLIELMO. Sian benedetti i cieli che mi vi tolsero dinanzi, ché mi avevano stracco con non so che vignarolo o che argento!

SCENA IV.

ARTEMISIA, GUGLIELMO, ARMELLINA.

ARTEMISIA. (Veggio il vignarolo trasformato in Guglielmo, che se ne viene dritto a casa. Oimè! che mi par l'istesso mio padre e vo' dargli la baia un poco!).

GUGLIELMO. (Ben ne ringrazio i cieli che veggio la mia casa!). Tic toc.

ARTEMISIA. Chi batte, olá?

GUGLIELMO. O Artemisia, figlia cara, aprimi, che sii tu benedetta!

ARTEMISIA. «Figlia cara», dice il furfante: ah, ah, ah!

GUGLIELMO. Non conosci il tuo padre Guglielmo?

ARTEMISIA. Chi Guglielmo?

GUGLIELMO. Chi Guglielmo? tuo padre.

ARTEMISIA. Fosti tu dove è Guglielmo mio padre?

GUGLIELMO. Dove è dunque tuo padre?

ARTEMISIA. È morto e sotto l'onde sommerso.

GUGLIELMO. Quel morto e sommerso son io!

ARTEMISIA. Ben, io non tratto con morti e con sommersi.

GUGLIELMO. Aprimi, figlia cara!

ARTEMISIA. Aprir io? me ne guarderò molto bene: sento tutta incapricciarmi.

GUGLIELMO. E di che?

ARTEMISIA. Che un morto e sommerso parli e venga a casa.

GUGLIELMO. Apri, di grazia!

ARTEMISIA. Sarai or risolto dal mare o sei putrefatto, e ne sento fin qui la puzza del tuo corpo, oibò, fiú!

GUGLIELMO. Apri, ché son vivo come prima!

ARTEMISIA. Come vivo, se abbiamo ragionato con tanti testimoni di veduta, quando ti sommergesti con la nave e moristi?

GUGLIELMO. Deh, apri e non tante parole!

ARMELLINA. (Padrona, lasciate burlare un poco a me). Chi è lá giú? che dimandi?

GUGLIELMO. Apri, Armellina mia.

ARMELLINA. Se vieni da casa calda, hai bisogno di qualche rinfrescamento.

GUGLIELMO. Ho bisogno del malanno che Dio ti dia!

ARMELLINA. Buone parole in casa d'altri!

GUGLIELMO. Mi avete mosso la còlera; e se non mi aprite, buttarò le porte per terra.

ARMELLINA. Con un poco di acqua ti rinfrescaremo la còlera.

GUGLIELMO. Quando sarò entrato ti spezzarò le braccia con un bastone.

ARMELLINA. Togli questo rinfrescamento!

GUGLIELMO. Ah, lorda, rognosa, pidocchiosa!

ARMELLINA. T'ho lavato il capo della lordura, tigna e pidocchi.

GUGLIELMO. Se non te ne pagherò, possa sommergermi un'altra volta! non so che mi tenga che non rompa e spezzi le porte e non ti uccida di bastonate.

SCENA V.

LELIO, ARMELLINA, GUGLIELMO.

LELIO. (Non so con chi ragiona Armellina: mi pare forastiero). Con chi parli?

ARMELLINA. Con l'anima di vostro padre, che vuol entrare per forza in casa nostra.

LELIO. Veggio l'aspetto di mio padre. Oh quanto se gli assomiglia! Se Cricca non me ne avesse avisato prima, chi bastarebbe a farmi credere che fosse il vignarolo? Certo sará qualche spirito dell'inferno che ha costretto l'astrologo a venire in cotal forma.

GUGLIELMO. (Costoro mi faranno venir tanta rabbia col vignarolo e con l'astrologo che mi farebbero sommergere un'altra volta nel mare da me stesso! Da chi spero essere riconosciuto se l'istesso mio figliuolo non mi conosce?).

LELIO. Oh possanza delle scienze! quanto son grandi! Or chi bastarebbe a credere che i potenti influssi delle stelle partorissero tanta varietá? Mutar un uomo in un'altra forma! Lo vorrei schernire e burlarlo, ma mi par tanto simile a mio padre che la riverenza del suo aspetto mi ritiene.

GUGLIELMO. (Oh almeno avessi un altro capo per battere questo in un muro!). O figlio, se non conosci l'aspetto di tuo padre, considera che l'ardore del sole mi ha fatto un poco nera la pelle e crespa, e gli occhi ficcati nella fronte per il disagio del viaggio e del paese; e ancorché siano mutati i lineamenti del viso, considera l'aria del sembiante che non si può perdere: almeno considera la ferita della mano che gli anni adietro tu mi aiutasti a medicarla.

LELIO. Colui, che ha trasformato il vignarolo in Guglielmo, ha trasformata la persona del vignarolo con quella ferita istessa che avea Guglielmo; ché altrimenti non saria trasformato.

GUGLIELMO. Figlio, non so che altra certezza possa darti che sia tuo padre.

LELIO. (Mi ha mosso a compassione, né so perché). Orsú, vattene con queste tue novelle; e un'altra volta non aver ardire con queste tue trasformazioni venir in casa degli uomini da bene: per la prima volta ti sii perdonato. Noi ben sappiamo chi tu sei e a che proposito qui venuto; e se ben avea proposto nell'animo bastoneggiarti molto bene, la riverenza che porto alla sembianza del mio carissimo padre me lo vieta. Vattene per i fatti tuoi, che io, per non essere importunato dalla importunitá tua, fossi forzato a farti quanto ti ho detto; ché se l'astrologo che ti ha trasformato ti avesse predetto che dovevi ricevere delle bòtte, forsi un'altra volta ti avrebbe il vero pronosticato. E poiché non vuoi partirtene tu, partiromene io.

GUGLIELMO. Mi vuo' partir ancor io e cedere all'iniqua fortuna!

SCENA VI.

VIGNAROLO solo.

VIGNAROLO. La nostra vita è proprio come le fette del presciutto: un poco di magro e un poco di grasso, un poco di piacere e un poco di dispiacere. Quando stava in villa, mi pensava che la vita de' gentiluomini tutta fusse felicitá; ma or ho provato che ancor eglino hanno i loro cancheri e cacasangui. Era tutto allegro che avea guadagnato dieci ducati e chiamato da quella signora in scambio di Guglielmo; ma i dieci ducati mi fûr tolti e la signora mi costò molto, ché con fatica sono scampato dalle mani di quel spagnuolo. Or prima che mi accada qualche altra disaventura, me ne vo' andar a casa di Guglielmo; e subito entrato, farò che Armellina sia promessa per moglie al vignarolo e fare gli instrumenti, accioché, quando lascio di esser Guglielmo, me la toglia per moglie. Oh, cancaro! io temo di esser scoperto da altri per vignarolo, e or scopro me stesso; e quel che con tanta diligenza vuo' nascondere lo paleso a tutti. Son solo e parlo come fosse accompagnato.—Ascolta, vignarolo, e fa' come ti dico io.—Ben, che dici? che vuoi che faccia?—Va' in casa di Guglielmo ed entraci con riputazione; poi comincia a far prima i fatti tuoi, poi i fatti del padrone: che Armellina si sposi con il vignarolo e poi Artemisia col padrone. Ma se non lo volessero fare, che farai tu? Io ne torrò Armellina per forza e di Artemisia facci il padrone.—Ah, traditora Armellina, or ti renderò le parole che mi dicesti questa mattina! Vo' andare a battere alla porta e non trattenermi piú, ché non passi il tempo e tornasse il vignarolo senza far nulla.

SCENA VII.

GUGLIELMO, VIGNAROLO.

GUGLIELMO. (Misero me, che debbo fare, ché, venuto nella mia patria con tante fatiche, non posso entrare in casa mia? Ma veggio uno che cerca entrarvi: sará qualche amico; mi raccomandarò a lui).

VIGNAROLO. Tic, toc, toc.

GUGLIELMO. Gentiluomo, sète voi di casa?

VIGNAROLO. (Mi chiama «gentiluomo», mi onora: poiché paro ben vestito si pensa che sia gentiluomo. Bella cosa è l'essere ricco: ogniuno ti onora, ti saluta, ti tocca la mano, si ferma a ragionare con te, ti compagna sino a casa e ti dimanda come stai. Mi chiama «gentiluomo», che né a me né a niuno della mia schiatta conviene tal nome).

GUGLIELMO. Gentiluomo, chi sei che batti a cotesta porta?

VIGNAROLO. Rispondi a me tu prima: chi sei che me ne dimandi?

GUGLIELMO. Padron mio caro, non entrate in còlera: di grazia dite voi, chi sète?

VIGNAROLO. Non ho da render conto ad un uomo vile come tu sei; ma tu che vuoi saper chi sia, tu chi sei?

GUGLIELMO. Il padron di questa casa!

VIGNAROLO. Tu menti che ne sii padrone, ché il padrone ne son io.

GUGLIELMO. (Forse mio figlio l'avrá venduta a costui). Quanto è che ne sète padrone?

VIGNAROLO. Io ne son padrone da quel tempo che ne fu padrone Guglielmo.

GUGLIELMO. Chi Guglielmo?

VIGNAROLO. Degli Anastasi.

GUGLIELMO. Guglielmo Anastasio? quello che andò in Barbaria per saldar la ragione con quel suo compagno e si sommerse nel golfo?

VIGNAROLO. Quello che tu dici.

GUGLIELMO. Or se Guglielmo si sommerse in quel golfo, come or si trova vivo nella cittade?

VIGNAROLO. Goffo! perché mi salvai nuotando.

GUGLIELMO. (Che dice costui?).

VIGNAROLO. Ed io avea promesso Artemisia a Pandolfo per moglie, ed egli a me Sulpizia sua figlia.

GUGLIELMO. (Cancaro! questo è ancor me: e dice tutto quello che son io e sa tutti i miei secreti, sí come avesse la mia persona e lo mio spirito). Ma avèrti, giovane, che io son Guglielmo, e son colui che andai in Barbaria per saldar le ragioni con quel mio compagno, ed io promisi la mia figlia a Pandolfo; ma se io non sono né posso essere altro che io, e tu non sei né puoi essere altro che Guglielmo, tutti duo saremo Guglielmo e tutti duo saremo uno.

VIGNAROLO. Se tu dici piú simili parole, ti batterò con una pertica come si battono le noci. Che asinitá! se siamo duo, io e tu, come siamo un solo?

GUGLIELMO. Almeno dimmi se io sia diventato te e tu me.

VIGNAROLO. E pur lá! taci e fai meglio per te.

GUGLIELMO. Puoi far tu che non sia quel che sono? e non sia Guglielmo?

VIGNAROLO. Orsú, togli, Guglielmo; ricevi, Guglielmo!

GUGLIELMO. Oh oh! dispiacemi che per li travagli del viaggio io sia sí fievole e cagionevole della persona che non possa difendermi.

VIGNAROLO. Or dimmi se sei Guglielmo! poiché non posso con le buone parole far che tu non sia, lo farò con i legni.

GUGLIELMO. Volessero i cieli che non fossi Guglielmo o che non fossi mai stato, e che io fossi te e tu me, che io dessi e tu ricevessi le pugna!

VIGNAROLO. Dimmi or, chi sei?

GUGLIELMO. Son quello che tu vuoi che sia: Pietro, Giovanni, Martino.

VIGNAROLO. E perché dicevi poco dianzi che tu eri Guglielmo?

GUGLIELMO. Avea bevuto in un'osteria e stava ubriaco.

VIGNAROLO. Poiché non sei piú Guglielmo, chi sei?

GUGLIELMO. Tuo schiavo, tuo servitore.

VIGNAROLO. Io non ti vidi né conobbi mai, né sei mio schiavo né mio servitore.

GUGLIELMO. Ma di grazia parliamo a ragione: se non son Guglielmo, chi sono?

VIGNAROLO. Se non lo sai tu chi sei, manco lo so io: sei un cavallo, un bue, un asino.

GUGLIELMO. Messer sí, se fussimo nel tempo di Pitagora, direi che quando mi sommersi morii e l'anima mia entrò in un altro corpo e son un altro. Vorrei saper chi sono.

VIGNAROLO. Sei un tartufo!

GUGLIELMO. Sto fresco: questa veramente è una gran cosa; a me par essere pur quel Guglielmo di prima. Io non son morto: vedo, parlo, mi muovo; o forsi quando mi sommersi, per la gran paura che ebbi quando mi vidi la morte cosí vicina, fossi divenuto un altro, e mi bisogna trovar un'altra persona per essere alcuno?

VIGNAROLO. Non piú parole: o va' via o fa' meco questione!

GUGLIELMO. Non farò questione io teco.

VIGNAROLO. Partiti e non dir piú che sei Guglielmo.

GUGLIELMO. Oh disgrazia grande e non mai piú intesa, che un uomo abbia perduto se stesso e non sappia chi sia! E mi par questa disgrazia maggior della prima; e accioché il tempo non possa dar fine alla mia miseria, fa che sia scacciato da casa mia con dire che sia un altro, e poi trovar un altro che dica esser me. O voi tutti miseri e disgraziati che sète al mondo, correte a vedere la mia disgrazia, ché tutte le vostre vi pareranno nulle! O catene, o prigioni, o sferzate ricevute da' mori, quanto veramente mi eravate piú dolci; o perigli di mare, quanto mi eravate piú soavi; o mare, mio nemico capitale, perché mi lasciasti vivo, mi hai posto in questi travagli! Andai in Barbaria per acquistare danari, e perdei me stesso; per far conti col mio compagno, vi lasciai la persona. Meglio era perdere la robba e salvar me medesimo: da me solo mi difendei dal mare e non seppi difendermi da chi mi rubbò da me stesso!

SCENA VIII.

LELIO, CRICCA, VIGNAROLO.

LELIO. Oimè, che veggio? che è quel che raffiguro?

CRICCA. Che cagione avete di tanta maraviglia?

LELIO. Non vedi mio padre e il vignarolo, il vero e il falso Guglielmo?

CRICCA. Sí, che li veggio.

LELIO. Non mi hai avisato che il vignarolo sia trasformato nel mio padre? e io dando credito alle tue parole ho scacciato mio padre da casa, pensando che fosse il vignarolo. Ecco qui l'uno e l'altro: non so se quel Guglielmo che riguardo sia il vero o falso Guglielmo.

CRICCA. Cosí è veramente; ed io rimango piú maravigliato di voi.

LELIO. Tu smanii, tu farnetichi.

CRICCA. Siamo stati doppiamente burlati dall'astrologo, e della trasformazione e dell'argento; e or sará scampato via: e dubito che io non sia piú veridico astrologo di lui.

LELIO. Come potremo chiarirci di questo? Mira come il mio povero padre sta doloroso!

CRICCA. O vignarolo, o vignarolo!

VIGNAROLO. Mira questa bestia che mi conosce.

CRICCA. Rispondi, vignarolo.

VIGNAROLO. Cricca, tu vedi il vignarolo?

CRICCA. Che non ho gli occhi con quali possa vedere?

VIGNAROLO. E tu non vedi?

CRICCA. Sí, che ti vedo.

VIGNAROLO. Tu non mi vedi né mi conosci; ma ascolti parlare e mi conosci alla voce: perché come vuoi conoscermi, se io son un altro?

CRICCA. Dico che sei quel che eri prima.

VIGNAROLO. Dunque tu mi vedi, Cricca?

CRICCA. Come non vuoi che ti veda? (O Lelio, ho indovinato: questo vignarolo è un ignorante da bene, e si è un mezzo asino, l'altra metá è una bestia; e se Pandolfo ha faticato gran pezza a persuaderlo che voglia trasformarsi in Guglielmo, or bisogna faticar altrotanto a fargli credere che sia quel che era prima). Chi sei dunque?

VIGNAROLO. Son Guglielmo e vo' entrare in casa mia, dar Artemisia al mio padrone e Armellina al vignarolo.

CRICCA. E gli atti, il procedere e le parole mi fan ampia fede che tu sei quel vignarolo che eri prima. Non ti vergogni a dire che sei Guglielmo?

VIGNAROLO. Mi vergognarei facendo cosa cattiva, ma in entrando in casa e disponendo delle mie cose non fo cosa cattiva.

CRICCA. Avverti bene che non sei Guglielmo.

VIGNAROLO. E se non son Guglielmo, che s'è fatto del vignarolo?

CRICCA. La prima bozza e lo stelo della tua persona era il vignarolo, il color poi e la sembianza di sopra era di Guglielmo: è sparito via quel colore e quella apparenza di Guglielmo, ed è restata la persona del vignarolo che era prima.

VIGNAROLO. Basta basta, so che tu cerchi persuadermi che non sia Guglielmo.

CRICCA. Vuoi che ti faccia conoscere chi sei?

VIGNAROLO. Te ne prego.

CRICCA. (O galea, che piangi senza costui!). To', togli questo!

VIGNAROLO. O canchero ti mangi! col pugno mi hai rovinato una spalla.

CRICCA. Hai sentito la botta, pezzazzo di bestia?

VIGNAROLO. Sentitissimo!

CRICCA. Donque sei il vignarolo: ché se tu fussi Guglielmo, l'avria sentito Guglielmo e no il vignarolo.

VIGNAROLO. Anzi, però l'ho sentito io perché son Guglielmo; se fusse il vignarolo, l'avria sentito il vignarolo e non Guglielmo.

CRICCA. Io ho dato al vignarolo e non a Guglielmo. Ma dimmi, chi è innamorato di Armellina, il vignarolo o Guglielmo?

VIGNAROLO. Il vignarolo.

CRICCA. Dimmi, ami tu Armellina ora o no?

VIGNAROLO. L'amo e straamo.

CRICCA. Dunque tu sei il vignarolo, babuazzo, perché Guglielmo non ama la sua massara.

VIGNAROLO. Giá mi comincia ad entrare.

CRICCA. Manigoldone, se Guglielmo è sommerso e morto o non è piú al mondo, se tu fussi Guglielmo saresti morto overo una persona di vento o d'aria; ma perché ti vedo e ti tocco, tu sei il vignarolo.

VIGNAROLO. Tu mi hai di sorte ingarbugliato il cervello che sto dubbioso se sia Guglielmo o il vignarolo; ma se sono trasformato giá e non sono Guglielmo, chi sono? sarò perduto e sarò qualche altro uomo o qualche bestia.

CRICCA. Tu non sei divenuto una bestia perché sempre vi fusti.

VIGNAROLO. Io sono stato stimato Guglielmo da uno suo debitore, perché mi diede dieci ducati che li doveva, e da una sua innamorata, e son stato stimato da tutti Guglielmo; ma perché tu hai invidia della mia felicitá e non vorresti che fussi meglio di te, ti affatichi con tante ragioni a darmi ad intendere che non sia lui. Ma io sono Guglielmo a tuo dispetto. L'invidia ti rode: crepa d'invidia a tuo modo, teh, teh! Ma se pur n'hai tanta invidia, va' all'astrologo che ha trasformato me, e fatti trasformar ancor tu.

CRICCA. Quanto può la forza dell'imaginativa!

VIGNAROLO. Non basta il mondo a tôrmi da cosí soave pensiero d'essere Guglielmo: ci sono e ci voglio essere; e se non ci fossi, pur mi parrebbe d'essere. Or me ne vo' a casa sua e allor conoscerò se sarò stato Guglielmo o il vignarolo.

SCENA IX.

LELIO, CRICCA, GUGLIELMO.

CRICCA. (Signor Lelio, costui è di quella linea antica di Bartolomeo Colione: persuaderlo che non sia Guglielmo è un perder tempo. Ma siate certo che costui è vostro padre).

LELIO. (Quando lo scacciai da casa, sentiva nel cuore certo rimordimento di quella ingiuria; ma io vo' dimandarli alcuna cosa per assicurarmene meglio). Ditemi, signor Guglielmo, quando vi partiste per Barberia, quanti danari vi portaste per commoditá del viaggio?

GUGLIELMO. Ducentocinquanta ducati, ché non potei complire trecento ché Avareggio, nostro parente, ne venne meno della parola.

LELIO. (Questi è mio padre certissimo, ché altri non avrebbe potuto saper questo). Perdonatemi, caro padre, se son stato tanto sciocco a non accorgermi prima….

GUGLIELMO. Io non posso credere che cosí tosto crediate che sia vostro padre, perché tanti contrari eventi di fortuna mi fan chiaramente conoscere che mi conoscete per alcuni precedenti prodigi contro me.

LELIO. Del tutto ne è stato cagione un astrologo.

GUGLIELMO. Chi astrologo?

LELIO. Quando voi vi partisti da Napoli, promettesti Artemisia a Pandolfo; venuta poi la nuova della vostra morte, mi richiese Pandolfo della promessa fattali da voi. A tutti gli amici e parenti parea disconvenevole che ad un uomo di tanta etá se li dovesse attendere la promessa: ce la negai. Egli ha trovato un astrologo che gli ha promesso trasformare il suo vignarolo nella vostra effigie, e sotto il vostro nome entrar in casa e dargli la sposa promessagli; ma io essendo stato avisato dell'inganno prima, credendo scacciar il vignarolo ho scacciato voi.

GUGLIELMO. Però tutto oggi mi han dato per lo capo dell'«astrologo» e del «vignarolo», e mi erano un'esca che mi accendevano il fuoco dell'ira nel petto. Ben è vero che gli la promessi, ma me ne sono pentito mille volte poi.

LELIO. Padre, che abbiate stimato Pandolfo cosí vecchio meritevole marito di vostra figlia, nol debbo né lo posso credere; ma perché dite che foste di tal parere, sarei di parer io che si desse ad Eugenio suo figlio, che ne è piú meritevole assai.

GUGLIELMO. Figlio, fa' di Artemisia quello che ti piace, ché io in nulla ti sarò contrario.

CRICCA. Se avete giudicato Eugenio degno di vostra figlia, sará ancor degno il signor Lelio di Sulpizia sua figlia.

GUGLIELMO. Io di ogni vostro contento ne resto contentissimo: ho avuto sempre desio di parentarmi con Pandolfo.

CRICCA. Voi con la vostra inopinata venuta sarete cagione di molto contento. Persuader a Pandolfo lasciar Artemisia è un giuocare a perdere; e si verrá seco a termini fastidiosi, perché è cosí pazzo che manca poco a trar sassi. Io ho pensato un modo che con le sue proprie mani si troncará la radice a' suoi poco onesti desidèri, e scioglia con le sue mani quel nodo con il quale egli pensava allacciarci: se ne volgeranno le saette contra l'arciero, e noi resteremo ricchi per la sua perdita e felici per la sua disgrazia.

GUGLIELMO. Dillo di grazia, ché io ti ho conosciuto sempre per uomo di gran spirito.

CRICCA. Stimo che la vostra venuta quanto riesce a nostro beneficio tanto fa bello il nostro inganno.

GUGLIELMO. Bello inganno è quello che è ordito con disegno e che riesce poi.

CRICCA. Egli pensa certissimo che il vignarolo sia trasformato in voi, e l'ha mandato a casa vostra a far l'effetto. Andarò a dargli la nuova che è stato ricevuto dentro e che vuole darli Artemisia per moglie con sodisfazione di tutti, purché si contentino star alla sua parola. Onde, stimando certo che voi siate il vignarolo, accetterá la offerta; e in presenzia di tutti faremo che giuri; e giurato, potrete dire che sará piú convenevole dar Artemisia ad Eugenio e Sulpicia a Lelio, ché a vecchi decrepiti non convengono mogli di sedici anni.

GUGLIELMO. Oh bel pensiero, veramente molto sottile e astuto!

LELIO. Non potria imaginarsi il piú bel tratto! togliete via ogni tardanza.

CRICCA. Piano; «a chi è impaziente dell'indugio convien precipitare»; ma se vogliamo che l'inganno riesca, non bisogna andar cinguettando che Guglielmo sia tornato. E voi trattenete il vignarolo in casa, ché non lo vegga Pandolfo insin a tanto che non avete fatto i matrimoni. Qui sta la vittoria del fatto; e partiamoci ché non venga e ci veggia ragionar insieme, perché sarebbe un dargli sospetto di qualche trama ordita contra di lui. Io andarò a dargli nuova che il vignarolo è entrato in casa e che Lelio è contento far il volere di suo padre: il che crederá, come cosa che desidera, e verrá agevolmente al giuramento.

LELIO. Come trattenerò io il vignarolo?

CRICCA. Egli verrá certissimo in casa vostra: serratelo in una camera finché le spose sian fatte vostre.

LELIO. Vorrei che mentre l'avrem prigione facciam vendetta del disgusto che ne ha dato.

CRICCA. Il piacer che pigliaremo del piacevole scherzo del vignarolo sará la vendetta della sua ignoranza.

LELIO. Or che la fortuna seconda li nostri desidèri, andiam, padre, a dar questa allegrezza ad Artemisia.

GUGLIELMO. Andiamo.

CRICCA. Ma ecco il vignarolo che se ne vien dritto a casa: beffeggiamolo un poco.

LELIO. Lascia far a noi.

SCENA X.

VIGNAROLO, ARMELLINA.

VIGNAROLO. (Questo maladetto Cricca con le sue ragioni m'avea di sorte frastornato il cervello con dire che era il vignarolo e non Guglielmo, che poco men m'avea persuaso; ma io conosco la sua natura maliziosa e furfanta. Allor sarò chiaro della veritá, se sarò ricevuto in casa di Guglielmo per l'istesso o per il vignarolo). S'apre la porta e ne vien fuori Armellina.

ARMELLINA. O Guglielmo, padron caro, sassata al benvenuto!

VIGNAROLO. O Armellina cara, quanto ho desiderato vederti! prego il ciel che vi possa veder con un occhio, se non ho desiderato vederti! Vorrei che mi vedeste il cuore aperto, ché conoscessi quanto t'amo.

ARMELLINA. Volesse il cielo, massime per mano del boia!

VIGNAROLO. Lascia almen che ti baci in fronte come figlia.

ARMELLINA. Basta la buona volontá; ma io vo' baciarti i piedi.

VIGNAROLO. Oh canchero! che mi hai fatto cadere, m'hai stroppiato!

ARMELLINA. Venite in casa a far collazione, ché sète stracco e ne dovete aver bisogno. (Giá ha ricevuto l'antipasto della collazione).

VIGNAROLO. Sappi, Armellina mia, che d'ogni minima cosa mi doleva, quando mi sommersi, di non aver a vederti mai.

ARMELLINA. Quando, padrone, vi sommergeste in mare, non vedesti alcun pescespada che ti passa da un lato all'altro, e i pescirasoi che ti tagliano la faccia, e le balene che ti inghiottono vivo?

VIGNAROLO. Se avessi incontrato questi, mi avrebbono ferito o morto. Ma subito che son riposato un poco, vo' maritarti.

ARMELLINA. E chi mi volete dare? qualche bel giovane?

VIGNAROLO. Una persona che muor per te: è della simiglianza vostra, di altezza e di fattezze come io, molto simile a me.

ARMELLINA. Sará dunque vecchio come voi. Dio me ne guardi! non vuo' vecchio; se io mi accaso, lo fa per far figli come le altre.

VIGNAROLO. Non dico che sia vecchio come me, ma della mia statura, e molto simile fuorché nella vecchiezza. Ti fará star sempre in villa; mangiarai polli, piccioni, porchette, ricotte e frutti di ogni sorte.

ARMELLINA. Ditemi, è giovane?

VIGNAROLO. È giovane.

ARMELLINA. Ditemi chi è, presto.

VIGNAROLO. Il vignarolo.

ARMELLINA. Forsi quel vignarolo di Pandolfo? perché l'amo quanto la vita e ne sarei contentissima.

VIGNAROLO. Quello è desso, quello son io.

ARMELLINA. Voi sète quello? se sète Guglielmo, come sète lui?

VIGNAROLO. O bestia!—dimmi. Quello, dico io; ma io son Guglielmo.

ARMELLINA. Io son innamorata di quel vignarolo e mi moro per lui.

VIGNAROLO. Desideri vederlo?

ARMELLINA. Quanto la vita.

VIGNAROLO. Che pagaresti a chi te lo facesse vedere?

ARMELLINA. Me stessa.

VIGNAROLO. Se vuoi tenermi segreto, io te lo farò veder mò.

ARMELLINA. Eccoti la fede.

VIGNAROLO. Io son il vignarolo.

ARMELLINA. Voi volete burlarmi; sète Guglielmo.

VIGNAROLO. Se non sono il vignarolo, mi possino mangiare lupi e sia trovato in mezzo al bosco a suon di mosconi! Ma tu ridi?

ARMELLINA. Rido del desiderio che ho di vederlo.

VIGNAROLO. Ti dico che, vedendo me, tu vedi lui.

ARMELLINA. E pur io vi dico che, veggendo Guglielmo, veggio voi e non il vignarolo.

VIGNAROLO. Oh sia maladetto quando mi trasformai! Io sono Guglielmo di fuori ma di dentro sono il vignarolo, ché un certo astrologo mi ha trasformato.

ARMELLINA. Voi volete far la burla.

VIGNAROLO. Mi è innodata tanto la lingua che non posso parlare. Vorrei disfarmi e non posso, vorrei dar della testa nel muro per tornar quello che era prima. Or sí che questa è una disgrazia mai piú veduta! Ti dico, Armellina mia, che dentro sono il vignarolo.

ARMELLINA. Che bisogna adunque aspettar che Guglielmo partorisca e far il vignarolo, o scorticarvi per cavarvelo fuori?

VIGNAROLO. Dammi campo franco in una camera, ché conoscerai quanto ti dico.

ARMELLINA. Non vo' andare in camera con i padroni; io ci andarei con il vignarolo, sí bene da solo a solo.

VIGNAROLO. O fortuna traditora, o astrologo traditore, o padrone assassino, che mi avete fatto trasformare in un'altra persona; ché ora vorrei esser quel di prima e non ci posso essere! Rifiuti quel che desideri, e non conosci quel che hai: andiamo in camera e ci metteremo soli fino a domani, finché ritorni alla mia figura.

ARMELLINA. Son contenta. Entrate innanzi, signor Guglielmo.

VIGNAROLO. Entro; seguimi, Armellina mia cara.

ARMELLINA. (Non so se Lelio averá accomodato lo scaglione per farlo sdrucciolare per li piedi).

VIGNAROLO. Oimè, mi hai chiusa la porta sul volto, mi hai morto!

ARMELLINA. Perdonami di grazia, ché il vento me l'ha tolta di mano.

VIGNAROLO. Tien la porta aperta mentre saglio, ché le scale sono oscure.

ARMELLINA. Tengo. Eccolo dirupato.

VIGNAROLO. Oimè oimè! son morto!

ARMELLINA. Che avete, padron mio caro?

VIGNAROLO. Mi è venuto meno un scaglione e ho sdrucciolato con tutti i piedi e mi ho infranta una spalla!

ARMELLINA. Entrate, ché vi ungeremo con un poco di grasso di querciuolo.

VIGNAROLO. Oimè! oimè!

ARMELLINA. Giá avete avuta la cena, ora si prepara il retropasto di un cavallo su le spalle di cinquanta bastonate.

ATTO V.

SCENA I.

CRICCA, PANDOLFO.

CRICCA. (Andarò al padrone e li darò la buona nuova; mi sforzerò di fargliela credere, benché sia certo che durerò poca fatica, ché egli avrá piú voglia di crederla che io di farglila credere).

PANDOLFO. Averei desiderio sapere che ha fatto il vignarolo.

CRICCA. (Farò vista di non vederlo e farò vista desiderar di trovarlo per fargliela entrare piú bene). Oimè, che mai si trova quel che si cerca e si incontra sempre chi si ischiva: non posso trovare il mio padrone per dargli cosí buona novella!

PANDOLFO. Veggio Cricca; parmi intendere che mi voglia dare una buona novella: l'ho per un prodigio del mio bene.

CRICCA. Ho caminato in tanta fretta per trovarlo che appena posso trar il fiato; le scarpe ne hanno fatto la penitenza che sono tutte rotte.

PANDOLFO. Lo dice con voce alta, con bocca larga e allegra: segno di cosa allegra. Certo il vignarolo sará stato ricevuto per Guglielmo e mi avrá concesso Artemisia per isposa. Lo vo' intender meglio: o Cricca, o Cricca!

CRICCA. Non è in casa né in piazza né in loco alcuno dove soglia pratticare.

PANDOLFO. Cricca, volgeti qua, non mi vedi?

CRICCA. Padrone, è tanta l'allegrezza che non vi potea vedere: ho cercato ogni buco per trovarvi.

PANDOLFO. Che? sono un granchio o un topo che cerchi per i buchi per trovarmi? Dimmi presto, che buona nuova mi rechi?

CRICCA. Vo' dartela a poco a poco acciò non scemiate per allegrezza. Il vignarolo…

PANDOLFO. Che cosa?

CRICCA. … è giá fatto padron della casa;…

PANDOLFO. Oh che allegrezza! parla presto.

CRICCA. … e vi manda a dire…

PANDOLFO. Che cosa? non mi far morire.

CRICCA. … che veniate con Eugenio vostro figliuolo….

PANDOLFO. E poi?

CRICCA. … accioché egli consenta al vostro matrimonio.

PANDOLFO. Ben bene! me ne vo ora con Eugenio mio figliuolo.

CRICCA. Padrone, voi non mostrate tanta allegrezza quanto io stimava.

PANDOLFO. Se ben taccio con la bocca grido con il cuore: l'allegrezza mi ha talmente occupato i sentimenti che non so dove mi sia. Camina, corri, vola!

CRICCA. Ho tanto caminato, corso e volato per darvi la buona nuova, che avrei vinto il pallio; ma dove volete che corra, camini e voli?

PANDOLFO. Trova Eugenio; e tu, che sai l'umor suo, disponilo ché contenti il voler di Guglielmo.

CRICCA. Oh come gli amanti son presti a seguir i loro desidèri!

PANDOLFO. Su presto, che fai? mena le mani.

CRICCA. Bisogna menar i piedi, non le mani.

PANDOLFO. Mi sento venir meno.

CRICCA. Vi perdete nella felicitá.

PANDOLFO. Pensando che ho da incontrarmi con Artemisia io moro.

CRICCA. Che fareste se aveste ad affrontarvi con un toro, se avendo ad affrontarvi con una vacca morite?

PANDOLFO. Oimè, l'astrologo ha saputo trovare il felice punto per transformare il vignarolo! E perché cosí fedelmente s'è portato meco, lo farò felice per tutto il tempo della sua vita, cosí come io viverò con la mia desiderata Artemisia. Ma ecco il vignarolo inguglielmato overo Guglielmo invignarolato: se non vi será alcuno, suo figlio stima che sia suo padre.

SCENA II.

GUGLIELMO, PANDOLFO, LELIO, EUGENIO, ARTEMISIA, SULPIZIA.

GUGLIELMO. Sia ben trovato il mio caro Pandolfo!

PANDOLFO. E voi benvenuto, mio desideratissimo Guglielmo! Come il medesimo desiderio ha spronato l'uno e l'altro, voi a partire ed io a desiderare il vostro ritorno; cosí la fortuna ave oprato che di nuovo ci rivediamo con sommo contento dell'uno e dell'altro, se ben che voi m'avete fatto aspettare, eh?

GUGLIELMO. Eh, fratello, ho patito tanti disaggi che volendoli raccontare mi moverei a compassione; ma perché son qua salvo, son pronto e volontaroso adoprarmi ne' vostri servizi piú che mai.

PANDOLFO. Ed io prontissimo ubbidir a tutto quello che mi viene commandato da voi. Ma dove è Eugenio mio figliolo?

GUGLIELMO. Sará qui fra poco, ché l'ho inviato a chiamare. Eccolo che viene.

EUGENIO. Voi siate il benvenuto, signor Guglielmo!

GUGLIELMO. Voi ben trovato, Eugenio, mio caro figliolo! Ma perché siamo qui tutti in pronto, è ben che vengano ancora le nostre figliuole, accioché siano elleno ancor contente di quanto abbiamo a fare.

PANDOLFO. Oh come dite benissimo! Eugenio, va' su e chiama Sulpizia.

GUGLIELMO. E tu, Lelio, figliol mio, chiama Artemisia.

PANDOLFO. (O buon vignarolo, con che bel prologo ha cominciato! Sará maggior l'obligo che avrò all'astrologo, che l'ha trasformato de volto, l'ha megliorato d'intelletto).

GUGLIELMO. Eccoci qua in pronto.

LELIO. E noi altri pur a tempo.

GUGLIELMO. Caro Pandolfo e voi carissimi figlioli, volendosi trattar cose di matrimoni, i quali si terminano con la vita, e gli errori che si commettono in quelli sono irremediabili, è ben di ragione che si trattino con il consenso di tutte le parti e che ognuno dica il suo parere libero e aperto, ché non si dica doppo il fatto:—Dovea dir cosí, dovea far cosí….

PANDOLFO. Benissimo, caro Guglielmo.

GUGLIELMO. … E però non ho voluto trattare di matrimoni se non in presenza e col consenso di nostri figlioli e figliole, li quali doppo le nostre morti avranno a succedere alle nostre facultadi; accioché doppo le nostre morti non abbino a dire male di noi e maledirci, come veggiamo fare alla maggior parte de' figlioli quando sentono alcuno disgusto per cagione de' loro padri. Però voglio che prestino il libero consenso a questa mia sentenza e mi dia ciascuno di voi auttoritá in particolare di poter determinarlo; ché altrimente non son per dire parola in questo fatto.

EUGENIO. Io per me, signor Guglielmo, vi delibero potestá di determinare di questi matrimoni come vi piace, e starò pazientissimo ad ogni sua sentenza comunque si sia; e cosí afferma Sulpizia mia sorella.

SULPIZIA. Io confermo tutto quello che dice mio fratello.

LELIO. Ed io, padre mio caro, come vi son stato ubidientissimo in tutta la vita, cosí vi sarò in questo e in qualsivoglia altra cosa che mi commandarete; e il medesimo vi promette Artemisia mia sorella.

ARTEMISIA. Mi contento di tutto quello di che si contenta mio padre e mio fratello.

GUGLIELMO. E voi, signor Pandolfo?

PANDOLFO. Ed io prima di tutti. E per maggior sicurezza della mia voluntá, sapendo quanto gli animi giovanili siano pronti e leggieri a promettere e poi a pentirsi, vuo' che le promesse si confermino, ché non abbiamo a rampognar poi e a litigare:—Non la intendeva cosí, non mi pensava cosí.

ARTEMISIA. Oh come dice bene!

LELIO. Anzi benissimo!

PANDOLFO. Io voglio essere il primo a giurare. E giuro la sentenza, che uscirá dalla bocca vostra, averla sempre per rata e ferma e osservarla in ogni modo.

EUGENIO. Ed io ne arcigiuro.

LELIO. Ed io ne stragiuro.

SULPIZIA. Io giuro osservare tutto quello mi vien comandato da mio padre.

ARTEMISIA. E vo' medesimamente osservarlo, piú che se fosse mio padre.

PANDOLFO. Orsú, Guglielmo caro, ognun pende dalla vostra bocca, non s'aspetta altro che la vostra sentenza: voi sète il giudice, la ruota e tutto il tribunale, e il vostro decreto sará inappellabile.

GUGLIELMO. Signor Pandolfo, voi non sète come i giovani, i quali come bestie non mirano piú oltre che cavarsi li loro sensuali appetiti; ma in quella etá che i calori della concupiscenza son giá spenti, né si devono destar con invigorirli con novi incendi di sozzi e disonesti pensieri ma mortificando la concupiscenza. Risvegliatevi da questo amor terreno in cui gran tempo dormito avete, e aprite gli occhi alla luce della veritá; e se non potete con la propria virtú, innamoratevi della gloria che vi solleverá, ché la madre della vera gloria è la propria virtú. Raccordatevi de' vostri maggiori, delle loro grandezze, e cercate d'imitargli con tutti i vostri studi; di vostro padre che fu uno ritratto e una imagine del ben vivere, e con quanti degni e onesti costumi vi ave allevato: e che questa vita è molto indegna della gravitá e prudenza di che avete dato tanto presagio nelli anni giovanili, onde l'onor passato vi dovrebbe spronare a piú alti gradi di onore….

PANDOLFO. Che ha da fare questa prattica con la sentenza che avete a dare?

GUGLIELMO. … E ben sapete che le principali cose che si ricercano nel matrimonio sono le conformitá delle etadi e de' costumi; né si devono violentare i figliuoli o le figliuole a tôr chi noi vogliamo. Or considerate che conformitá di etade è fra te e mia figliuola, ché ella è di sedici anni e tu di ottanta, che vi potrebbe essere due volte nipote. Considerate che diranno le genti, che un gentiluomo pari vostro, ben nato, ornato di saggi fregi di onore e vivuto con tal splendidezza di vita, e poi all'ultima vecchiezza volersi ammogliare: o che siate vecchio rimbambito o che il cervello vada a spasso, e altre ingiurie piú vituperose. Considerate che naturalmente i giovani odiano i vecchi; e che un uomo stracco dal tempo non possa star al martello con una giovanetta, se non per altro, almeno per la disonestá del fatto e per l'esempio, che si dá a' giovani, di poca modestia….

PANDOLFO. Finiamola di grazia.

GUGLIELMO. … Io vo' che Artemisia mia figliuola sia moglie di Eugenio vostro figliuolo; e Sulpizia vostra figliuola, avendola prima giudicata degna di me, sia moglie di Lelio mio figliuolo: l'una perché ambedue sono ne' primi fiori della loro giovanezza, l'altra perché gran tempo fra loro si sono amati modestissimamente, e non facciam cosí gran torto a' loro onestissimi amori. E voi, signor Pandolfo, abbracciate la pazienza e sposatela!…

PANDOLFO. Vi ringrazio che con tante lodi medicate le ferite che piovono sangue. (Ah, vignarolo traditore, per buon rispetto ritengo le mani e la lingua in presenza di costoro!).

GUGLIELMO. … E ricordandovi i tradimenti della prima moglie dovereste abborrir la seconda; ché non dican le genti che sète cavallo di dura bocca, ché non avendone domata la prima cercate la seconda. So bene che non tantosto sarebbe a casa che ve ne pentireste; onde, avendo a pentirvene, sará meglio che non la togliate….

PANDOLFO. (Se non ti faccio pentire! presto finiranno queste ventiquattro ore e tornerai quel di prima).

GUGLIELMO. … Pandolfo mio caro, siate piú tosto ragionevole che ostinato, e non inquietate voi stesso e gli altri con i vostri sproporzionati amori; e se ritornate in voi stesso, conoscerete che la sentenza data da me è in vostro favore e piú a proposito per voi. Mi raccomando.

PANDOLFO. O diavolo, o trenta diavoli, o traditore, o gaglioffo can mastino, se non te ne farò patir la penitenza, possa morir squartato! Me l'hai accoccata: giá il dolore e l'affanno è tanto che mi stringono il cuore che non so come non muoia. O Amor traditore e maladetto, o femine manigolde, o vecchiezza traditora! si è consertato mio figliuolo con Lelio, con Cricca e col vignarolo, l'aranno subornato, e mi hanno aggirato con le loro astuzie e inganni, ché tutti si sono rivolti contro di me. Quando mi pensava aver acquistato il premio di una famosa e illustre vittoria, mi trovo essere perditore. O cieli, o stelle, o mondo iniquo, o fortuna disleale! ma perché debbo dolermi del cielo e delle stelle, del mondo e della fortuna, se non di me stesso che son stato ministro del mio male? ché una cosa di tanta importanza non dovevo commettere in mano di un furfante, villano, ignorante, traditore. Conosco l'errore quando non ho piú rimedio: non mi è altro restato di conforto che la vendetta. Mi son lasciato burlare, offendere e tradire da chi non è buono offendere e tradire una formica. Queste mie braccia e queste mani mi siano tagliate se non me ne vendicherò! se dovessi morire lo aspettarò, il trovarò, il castigherò a mio modo!—Ma ecco che se ne vien il furfante di modo se non avesse fatto nulla.

SCENA III.

VIGNAROLO, PANDOLFO.

VIGNAROLO. La fortuna mi è stata tutto oggi contraria.

PANDOLFO. Ed or piú che mai, manigoldo, gaglioffo, traditore, assassino!

VIGNAROLO. O misero me e infelice, che volete fare?

PANDOLFO. Farte misero e infelice come hai tu fatto me misero e infelice!

VIGNAROLO. Merito io questa ricompensa da voi?

PANDOLFO. Quella ricompensa che hai tu dato a me!

VIGNAROLO. Deh! non…, deh! non…, per amor….

PANDOLFO. Per amor del diavolo!

VIGNAROLO. Perché mi fate ingiuria?

PANDOLFO. Perché l'hai fatta tu a me: «l'ingiuria che si riceve, è figlia dell'ingiuria che è stata fatta prima». Io ti fo ingiuria non uccidendoti, e per non ingiuriarti ti vo' uccidere! E questo desiderava io: che niuno si possa tramettere che io non ti tratti come meriti.

VIGNAROLO. Oimè! oimè!

PANDOLFO. Ti dole forsi che non fo quanto meriti?

VIGNAROLO. Che ti ho fatto io?

PANDOLFO. Mi dimandi ancor che mi hai fatto?

VIGNAROLO. Perché mi volete uccidere?

PANDOLFO. Per trarti il cuor dal petto e bevermi il tuo sangue!

VIGNAROLO. La cagione?

PANDOLFO. Il voler renderti la cagione è un voler tramettere tempo per ascoltar le tue scuse: la cagion è che vo' trarti le budella!

VIGNAROLO. Volete far esperienza di tutte le vostre forze contra di me?

PANDOLFO. Perché non è uomo a cui con tutte le forze non cerchi far il peggio che possa.

VIGNAROLO. Al vostro fattore?

PANDOLFO. Al mio disfattore. Né con queste parole scamperai la vita, né il pentire né il cercare perdono ha piú luogo appresso me.

VIGNAROLO. Che vi ho fatto io?

PANDOLFO. Pur hai animo di parlar, traditore?

VIGNAROLO. Che tradimento vi feci io mai?

PANDOLFO. Lo nieghi ora, furfante?

VIGNAROLO. Lo niego, perché non feci mai tradimento.

PANDOLFO. Or finge il balordo, perché con far il balordo mi hai sempre ingannato.

VIGNAROLO. Non fingo il balordo né inganno, né è mio officio né a voi si conviene.

PANDOLFO. Or me inganni e burli piú che mai.

VIGNAROLO. Non vi burlo, né volendo potrei farlo. Parlatemi chiaramente né mi tenete il coltello tanto alla gola.

PANDOLFO. Or che diresti se non fosse stato in presenza a' testimoni?

VIGNAROLO. E perché vi fûr testimoni, però dico il vero.

PANDOLFO. Cosí tradirsi chi si confida nella tua fede?

VIGNAROLO. Vi son stato fedele in tutto quello che è stato commesso alla mia fede.

PANDOLFO. Sei stato fedele a loro, non a me!

VIGNAROLO. In che vi ho mancato di fede?

PANDOLFO. E pur cerchi sapere in che mi sei stato infedele?

VIGNAROLO. La causa?

PANDOLFO. È perduta; e mi hai data contra la sentenza. Che avresti potuto farmi peggio? mi hai fitto il coltello nel cuore, mi hai ucciso; e per sí cattiva sentenza che t'hai fatto scappar di bocca, peggior opre mi scapparanno dalle mani!

VIGNAROLO. Che «causa», che «sentenza» dite voi?

PANDOLFO. Di far mi perdere la mia sposa. E che vo' far della mia vita senza lei?

VIGNAROLO. Quanto ho fatto tutto ho fatto per vostra sodisfazione.

PANDOLFO. Di quella sodisfazione che tu mi hai dato, te ne pagherò io in castigarti come io fo; e se non ti uccido, è per mancamento di forza, non di volontá.

VIGNAROLO. Non è stato per mia colpa ma per vostra sorte.

PANDOLFO. Quello che è stato per tuo cattivo animo non attribuirlo alla sorte.

VIGNAROLO. Ho fatto quanto ho saputo; e se avessi piú saputo, piú avrei fatto.

PANDOLFO. Sei stato piú tristo che non pensava; hai fatto tanto il balordo meco, solo per ingannarmi: al fine poi la colpa è tutta tua.

VIGNAROLO. Frena un poco l'ira, ché possa dire le mie ragioni.

PANDOLFO. Di' ciò che vuoi.

VIGNAROLO. Vorrei sapere di che vi dolete di me, se mi son affaticato tutto oggi per vostro bene?

PANDOLFO. Perché mi hai tu sentenziato contro in favor d'altri!

VIGNAROLO. Tacete voi ora: quando io fui giudice o consegliero che vi avesse dato sentenza contro in favor di altri?

PANDOLFO. Taci or tu: «che Artemisia fosse sposata con mio figliuolo, e Sulpizia con Lelio».

VIGNAROLO. Volete voi che io parli o non parli?

PANDOLFO. Vo' che parli tanto che crepi!

VIGNAROLO. Però tacete voi.

PANDOLFO. Ma taci tu, lassa parlare a me. Tu mi promettesti di entrare in casa di Guglielmo e darmi Artemisia per sposa, e poi la desti ad Eugenio. Tu ne hai fatta una a me, io un'altra a te: siamo patti pagati e cassate le partite.

VIGNAROLO. Se non tacete voi non ci accordaremo mai.

PANDOLFO. Parla con il tuo malanno!

VIGNAROLO. Ed io vi rispondo che mai fui trasformato in Guglielmo dall'astrologo; e quello con il quale avete parlato è il vero Guglielmo, oggi tornato di Barbaria.

PANDOLFO. Oimè, che dici?

VIGNAROLO. Quanto è passato.

PANDOLFO. Dunque, non fosti tu che mi desti la sentenza?

VIGNAROLO. Non ho detto che mai fui piú di quello che sono ora?

PANDOLFO. Se cosí è perdonami, vignarolo mio!

VIGNAROLO. Cacasangue! dopo avermi pistato due ore, dici:—Perdonami!—Il vostro perdono non mi entra in corpo: è un toglier il dolore?

PANDOLFO. Se non vuoi perdonare tu a me, perdonarò io a te.

VIGNAROLO. Il vostro perdono non lo voglio, perché non lo merito.

PANDOLFO. Perdonami a me, ché lo merito io. Ma dove sono gli argenti e i drappi che ti ha consegnato l'astrologo?

VIGNAROLO. Che argenti, che drappi?

PANDOLFO. Or questo sarebbe un altro diavolo!

VIGNAROLO. Quando disse che voleva trasformarmi, mi bendò gli occhi; e quando mi tolse la benda, trovai la camera sgombrata.

PANDOLFO. Oimè! oimè! oimè!

VIGNAROLO. Di che piangete?

PANDOLFO. Della sposa che ho perduta, delli argenti e della perdita di me stesso!

VIGNAROLO. A che vi giova il pianto? siate presto acciò l'indugio non vi toglia il rimedio.

PANDOLFO. O infelice me piú di quanti uomini sono al mondo! vado a trovar l'astrologo, benché l'impresa è da disperarsi. Tu entra e taci.

VIGNAROLO. Entro e taccio.

SCENA IV.

ASTROLOGO, GRAMIGNA, ARPIONE, RONCA.

ASTROLOGO. (Son stato al Cerriglio e non ho trovato l'apparecchio né i miei furbacchi: dubito che non abbino furbacchiato ancor me. Certo che non l'ho fatto da par mio: fidarmi de ladri! Ma eccoli). Voi siate i benvenuti!

RONCA. Dubito che sarete il mal trovato.

ASTROLOGO. Buon giorno, discepoli miei cari, se lo meritate!

GRAMIGNA. Mal giorno e mal anno al nostro caro maestro, ché so che lo meritate!

ASTROLOGO. Se non lo meritate, ve lo toglio e non ve lo dono.

RONCA. Noi saremo piú cortesi di te ché te lo diamo, e non lo potemo togliere perché l'avemo giá dato.

ASTROLOGO. Che ne è di Sfrattacampagna?

RONCA. Ha rubato la parte sua e sfrattata la campagna.

ASTROLOGO. E la mia parte?

ARPIONE. Tutti abbiamo fatto il debito nostro: Ronca se l'ha roncheggiata, Gramigna sgramignata ed io arpizzata; e ce andiamo verso levante come uomini di quel paese.

ASTROLOGO. Non me la darete dunque?

RONCA. È fatta commune giá, non può tornarsi piú.

ASTROLOGO. Dubito che me la vogliano fare.

GRAMIGNA. Non bisogna dubitarne: e ve l'abbiamo fatta giá.

ARPIONE. E tu, che pensavi piantar lo stendardo su la torre di Babilona, restarai piantato per ornamento di una berlina, per trofeo di una forca e per ciambello di corde.

ASTROLOGO. Non mi volete dar dunque la parte mia?

RONCA. Non saressimo ladri se non sapessimo rubbar da te: siamo tuoi discepoli, e tu ci hai addottorati.

ASTROLOGO. E l'amicizia?

ARPIONE. Che amicizia è tra ladri? par che da mò cominci a conoscerci?

ASTROLOGO. E la fede?

ARPIONE. Che cosa è fede? la prima cosa che tu ci insegnassi, fu che sbandissimo da noi la fede; né mai l'abbiamo conosciuta che cosa sia.

ASTROLOGO. E la promessa?

RONCA. Se le promesse non si osservano fra uomini da bene, né con tanti scritti, testimoni e instromenti, come cerchi la osservanza della promessa tra ladri?

ASTROLOGO. Mi son affaticato tanto oggi per guadagnare….

RONCA. Un paro di forche! e non ti paia poco che ti doniamo la vita, che non ti ammazziamo o ti diamo in poter della giustizia.

ASTROLOGO. Vi ringrazio.

ARPIONE. Non bisogna ringraziarci, se lo facciamo per ordinario.

ASTROLOGO. La vostra sufficienza me lo fa credere; ma voi discepoli non dovreste far questo al vostro maestro.

RONCA. Questa volta i discepoli hanno saputo piú che il maestro: noi giovani t'insegniamo a te che sei vecchio d'anni e d'inganni.

ASTROLOGO. Mi date licenza che vi dica una parola?

RONCA. Dinne cento, ché noi siamo piú tuoi che tu del diavolo.

ASTROLOGO. Questa vostra impietá mi fará divenir uomo da bene.

ARPIONE. Non può essere che tu facci tanto torto alla forca che ti aspetta.

ASTROLOGO. Ah, ciel traditore!

ARPIONE. A te, che sei astrologo, ti hanno ingannato i cieli.

ASTROLOGO. Ed è il peggio: ingannato da voi.

ARPIONE. Or te ne avvedi: dovevi pensarci prima.

ASTROLOGO. O Dio, o Dio! anzi, che tardi mi accorgo chi sète voi.

RONCA. Siamo stati tanto tempo teco e non ne hai conosciuti?

ASTROLOGO. Ma io ve ne farò pentire, vi accusarò; e non mi curo esser appiccato per far esser appiccati voi.

RONCA. Abbiamo avuto l'indulto per noi e accusatone te: e avemo testimoniato contro di te di tante furfantarie che la millesima parte basterebbe di farti esser appiccato, squartato e abbruciato. Mille pendono dalle forche che non han fatti tanti malefici come tu; tutti li abbiamo caricati sopra di te.

ASTROLOGO. Ed io posso sopportar tal carico?

RONCA. Lo sopportarai maggiore quando il boia ti caricará sopra le spalle!

ASTROLOGO. A te, a te! E non mi volete dar almeno qualche cosa?

RONCA. Ma, per essere stato nostro maestro, vogliamo farti una caritá, darti tanto che compri un braccio di fune per strangolarti; over ponti la via tra piedi e scampa.

ASTROLOGO. Bisogna pur che io me ne vada con Dio.

ARPIONE. Se non ti par poco, va' con il diavolo ancora.

ASTROLOGO. Ricordatevi della burla che mi avete fatto.

RONCA. Ricordatene pur tu a cui si appartiene. Fuggi presto, scampa la forca che ti sta al presente innanzi agli occhi e non la vedi: ogni cosa è birri e pregione e manigoldo per te, e guai a te se non voli!

SCENA V.

CRICCA, PANDOLFO.

CRICCA. (Ma dove trovarò il padrone per dargli questa buona nuova, che l'argento è ricuperato dall'astrologo? Vo' cercargli la mancia. Ma eccolo, che viene). Padrone, allegrezza allegrezza!

PANDOLFO. Le allegrezze non ponno capir in me ripieno di tante calamitá, ché la maladetta fortuna mi ha colmato di tante miserie.

CRICCA. Non offendete la vostra buona fortuna con queste maledizioni, ma concorrete meco in allegrezza, ché col soffio della buona nuova sparirá da voi la cattiva fortuna.

PANDOLFO. Lo farò se averò tanto potere. (Certo costui mi portará nuova che si sian ritratti dalla sentenza e non averli concessa Artemisia). Dimmi, che allegrezza è questa?

CRICCA. La maggior desiderata da voi.

PANDOLFO. Orsú, raccontami tanta allegrezza: forsi si sono mutati di parere e me la vogliono restituire?

CRICCA. Vi restituiranno quanto avete perduto.

PANDOLFO. La restituiranno?

CRICCA. Restituiranno.

PANDOLFO. Perché dunque avean negato darmela?

CRICCA. Per tôrsela per loro; ma non è piaciuto la godessero, ed al fin sará pur vostra.

PANDOLFO. Quando dunque me la restituiranno?

CRICCA. Or ora, quando voi vorrete.

PANDOLFO. Perché non andiamo volando? perché trattenermi in parole?

CRICCA. Non ve ne trattarò se prima non mi promettete la mancia.

PANDOLFO. Siati promesso quanto saprai chiedermi, e di straordinario ancora.

CRICCA. Voi vedete la mia cappa che ha solamente perduto il pelo, che tutta l'acqua del legno santo e della salsapariglia del Perú non bastaranno a restituircelo.

PANDOLFO. Arai cappe, calze e calzoni, e quanto saprai chiedermi.

CRICCA. Ma bisogna che vi tratti prima in che modo l'abbi ricuperata.

PANDOLFO. Non mi curo del modo: bastami solo che sia mia.

CRICCA. Partito che fui da voi, me ne andava per la piazza dell'Olmo. Per la via m'incontro in un uomo d'una ciera assai traditora: egli mirava me ed io mirava lui, ed egli pur mirava me….

PANDOLFO. Che ha da far qui l'allegrezza che vuoi darmi?

CRICCA. Ascolta pure…. Io mi fermo ed egli si ferma, io fingo di partirmi e lui si ficca dentro una bottega. Passo inanti per conoscere chi sia e veggio una moltitudine ivi dentro. M'accosto piú vicino. Vi veggio un uomo con una notabil barba che lo tenevano legato molte persone, e tutti gridavano:—Birri, birri!…

PANDOLFO. Ed è possibil che questi birri vadano al proposito mio?

CRICCA. … Vengo fuori per trovar altri birri, e per tutto Napoli non posso incontrarne un solo. E quando li fuggo l'incontro per ogni passo….

PANDOLFO. Lasciamo il ragionar de birri, ché ne hai detto a bastanza.

CRICCA. … Non potendo trovar birri, ritorno al luogo e veggio che colui che avea questo, era l'astrologo….

PANDOLFO. Che astrologo? di che parli tu?

CRICCA. Dell'astrologo che ci rubbò li argenti.

PANDOLFO. Io stavo col pensiero ad Artemisia e pensava che ragionasse di lei! Che cosa mi volevano restituire?

CRICCA. L'argentaria.

PANDOLFO. Cancaro mangia te e l'argentaria!

CRICCA. Non vi basta l'aver perdute tante robbe; ed è il peggio, della burla che vi è stata fatta: e pur col pensiero ad Artemisia? Or non avete promesso con giuramento darla a vostro figlio?

PANDOLFO. Passa inanzi.

CRICCA. Io non vo inanti né indietro, ché l'inganno è vostro…. E cosí i drappi e i paramenti e le robbe stan consegnate in poter di un uomo da bene, finché vegnate voi a riconoscerle e riceverle.

PANDOLFO. Che si fará dell'astrologo? non bisogna vendicarmene, alterarmene?

CRICCA. Disacerbare la vendetta nell'acquisto delle robbe e ricevere in burla la sua forfantaria come l'han presa quasi tutti: ti basta non aver perso nulla, e questa volta aver avuto piú ventura che senno.

PANDOLFO. Perdendo quelle, era ruinato del tutto; e poiché la ragion mi ha tolto quel velo dagli occhi che mi rendeva cieco, conosco quanto mal fa colui che è servo de' suoi appetiti: e conosco veramente piú convenire al mio figlio che a me. Non vo' piú moglie; e giá bandisco da me tutte le speranze del mondo, e mi restará per penitenza del mio sproporzionato desiderio, che ne arrossirò ogni volta che ne sentirò parlare.

CRICCA. Andiamo, padrone, ché la tardanza non vi offenda.

PANDOLFO. Andiamo presto a ricuperare le robbe e poi attenderemo a' sponsalizi de' figli. Tu, licenza costoro.

CRICCA. Spettatori, la favola è finita: fate il solito applauso che avete fatto all'altre tre sorelle.

FINE DEL VOLUME SECONDO.

INDICE

L'Olimpia pag. 1 La Cintia » 91 Gli duoi fratelli rivali » 195 Lo astrologo. » 303