BIOGRAFIA DI GIUSEPPE GARIBALDI

BIOGRAFIA DI GIUSEPPE GARIBALDI

COMPILATA DA G. B. CUNEO

DEPUTATO.

TORINO 1850 Tipografia FORY e DALMAZZO già Favale in Doragrossa.

GIUSEPPE GARIBALDI

Vedrai

Un Cavalier che Italia tutta onora

Pensoso più d'altrui, che di sè stesso.

Petrarca.

Di media statura, largo nel petto e negli omeri, tarchiato e spigliato ad un tempo, ti dà l'idea della forza e dell'agilità. Severo il volto al primo affacciarsi; e gli danno aspetto imponente la fulva intonsa barba, i lunghi e biondi capelli e l'ampia fronte da cui scende e forma col naso una retta linea che cade a perpendicolo, e lo sguardo perspicace ed acuto; ma fissandolo, una cara armonia di linee e di forme ti balza come aspettata dinanzi, e un sentimento di fiducia e di simpatia ti sorge improvviso nell'animo e si mesce al rispetto che t'ispirava dapprima.

Aperto l'animo cavalleresco a tutte le manifestazioni del bello, la musica e la poesia hanno su di lui un magico impero. I racconti delle onorevoli imprese e gli atti di carità a pro degl'infelici lo esaltano potentemente; ma ciò che sovra ogni cosa predomina in lui è la devozione all'Italia ed all'onor nazionale. La costanza nelle avversità, il coraggio crescente in ragione degli ostacoli e de' pericoli, la fermezza nelle deliberazioni, un colpo d'occhio che di rado colpisce in fallo ne' più terribili frangenti e la serenità in tutti i casi della vita, sono altrettante doti che lo distinguono fra i contemporanei.

Coi germi di queste virtù, fremente azione ed un campo di lotta, si lanciò giovinetto sul mare, che dalle sponde della sua Nizza nativa aveva tante volte con una specie di voluttà contemplato sconvolto dalla tempesta, desideroso d'affrontare quelle onde infuriate e signoreggiarle. E cominciò a dar prova dell'imperterrito animo e della sua perspicacia, adolescente ancora, un giorno, che trovandosi a diporto in riva al mare tra Nizza e Villafranca, gettavasi nelle onde per recare aiuto ad alcuni compagni imbarcatisi sur un palischermo che per improvviso infuriare del vento pareva vicino a capovolgersi. Sottraevasi il minacciato legno all'imminente pericolo, mercè l'ardire e il pronto consiglio di quel fanciulletto di 13 anni. Navigò pel Levante, e in Mar Nero; toccò varii porti d'Italia, e da uno di questi recossi in quei suoi primi anni a veder Roma, di cui gli rimase poi sempre impressione profonda. Dato naturalmente allo studio, alla pratica che andava facendo degli uomini accoppiava pure lo insegnamento dei libri. E senza misura era quindi il dolore in lui, allorchè pensando a ciò che l'Italia fu e può essere ancora, vedevala misera preda dello straniero, e per giunta insultata da chi fu sempre strumento della nostra rovina. Ira e pietà l'assalivano a un tempo; e a questi affetti profondamente sentiti venivano ad accrescer forza gli ammaestramenti d'un fratello console sardo in Filadelfia, il quale dalla lontana terra non cessava dal rammentare all'amato Giuseppe, loro essere Italiani, e come tali dover vivere, temendo forse che la vicinanza di Francia e le bastarde tendenze di alcuni lo traviassero.

Nelle sue navigazioni in Levante, colto da malattia, dovè fermarsi in Costantinopoli, ove conobbe la famiglia dell'esule Calosso, del quale divenne amico; guarito e trovandosi privo di mezzi, s'offerse maestro di calligrafia, di lingua italiana e francese; si provvide così del bisognevole fino a che, avuto un favorevole incontro, riprese l'interrotta carriera del mare. Una decisa inclinazione pei Greci e pei lor canti popolari, di cui sovente egli ricorda con desiderio ed affetto le armonie ed i versi, gli rimase nell'animo, frutto di quei viaggi e delle reminiscenze dei primi studi.

Venivasi frattanto avvicinando l'epoca in cui l'Italia doveva nuovamente tentare, e invano, di vincere l'avverso destino: e Garibaldi affratellavasi ai generosi, cui non isgomentava l'indifferenza dei molti. E da quanto rilevo da alcuni suoi versi fu appunto in Taganrok, al cospetto de' servi Cosacchi, com'egli scriveva, che venne iniziato ai sublimi misteri da un credente:

Nell'età giovanil . . . . . . .

Là sui ghiacci del Ponto giurava

Per la terra natale morir[1].

Nè mai uomo si adoperò con maggior religione per compiere il fatto giuramento.

Scoperta la congiura del 1833, i patriotti si preparavano a riannodar le fila sgominate, per un tempo non molto lontano. Più tardi, fallito anche il tentativo di Savoia, e compromessi all'interno coloro che eransi adoperati a secondarlo, Garibaldi, che all'intento di meglio giovare erasi un mese prima offerto volontario nella marina da guerra, nella fuga soltanto potè trovare salvezza. La notte del 3 al 4 gennaio 1834 un moto insurrezionale doveva aver luogo in Genova; le notizie di Savoia pervenute in tempo, ed altri inaspettati avvenimenti sospendevano fortunatamente ogni moto; ma tutto questo non avveniva senza dare troppo chiari indizii alla polizia del mancato tentativo, per cui molti de' congiurati ebbero ad evadersi: alcuni furono arrestati. Garibaldi si rifugiò presso una buona popolana che il fornì d'abiti contadineschi. Così travisato usciva il giorno seguente dalla città, e prendeva su per le montagne. Di monte in monte, battendo rare volte ai tuguri dei montanari per ripararsi dai freddi delle notti alpine o chiedere un tozzo di pane, dopo molti giorni entrò furtivo nella casa paterna in Nizza; riposatosi alquanto e stretti al seno i cari parenti, se ne andò verso Francia. Vide finalmente dietro di sè le acque del Varo! e commosso, dalla sponda straniera guardò la terra nativa, per cui dopo i corsi pericoli e le tante fatiche sentì sorgersi in petto più vivo e più intenso quell'amore che in lui cesserà colla vita.

Ai profughi che d'Italia rifuggivansi sul territorio francese, il governo di Luigi Filippo non permettendo scegliere il luogo della dimora, veniva Garibaldi avviato a Draghignano, ove stette sorvegliato da quelle autorità; ma non potendo egli sopportare a lungo quello stato d'inerzia, scomparve; e di là recossi a Marsiglia, da dove poco tempo dopo uscì ad altre navigazioni su legni francesi, e una volta andò uffiziale a bordo d'una fregata a Tunisi, la quale aveva comprato in Francia quel bey. Forse alle conoscenze fatte in quell'epoca è dovuta la determinazione da lui presa ultimamente di recarsi in quel paese, cercandovi un rifugio che non volle dargli la mal grata sua patria. Un bel tratto di Garibaldi in Marsiglia merita di essere qui riferito. Trovavasi egli a bordo in quel porto, e d'improvviso un rumore come di chi annunzia una sciagura si leva sullo scalo dal popolo affollato: Garibaldi guarda, e vede in mare un giovinetto lottante colle acque presso a soccombere, e nessuno degli astanti osar strappare quella vittima alla morte; — fu un istante — ed egli aveva già afferrato quel morente prima che altri se ne addasse e non ancora erano ben rinvenuti dallo stupore che quel compianto trovavasi salvo alla riva; ma Garibaldi era sparito. Cercato però dalla famiglia del salvato, che era, se male non ci rammentiamo una delle più potenti in quella città e d'un generale d'armata, e finalmente rinvenuto, furongli dalla medesima fatte offerte di ricompense, protezioni, e dati ringraziamenti senza fine. Garibaldi accettò con amore la cordiale stretta di mano di quella riconoscente famiglia, e ringraziò con dignità per le offerte, da cui sentivasi come offeso.

La speranza di avvenimenti, che erano sembrati vicini avevalo trattenuto per qualche tempo in Europa, ma questa speranza dileguatasi più tardi, egli imprese un viaggio all'America, e toccò pel primo porto Rio Janeiro nel 1836. Ivi strinsesi in amicizia con alcuni esuli italiani, colà balestrati dalle patrie avversità; e col loro aiuto potè fare acquisto di un'esile navicella, colla quale s'esercitò per nove mesi nell'umile commercio del cabotaggio per la costa di Rio Janeiro a Cabo Frio.

Quella vita lo affliggeva amaramente, non che egli s'adontasse del lavoro in cui s'adoperava, che anzi noi lo abbiamo veduto andare orgoglioso di dovere il pane che lo sfamava a durissime, eppur sempre onorate fatiche; ma quell'affaccendarsi nei commerci nei quali ei portava nonostante attività ed intelligenza, non corrispondeva ai bisogni di quell'anima ardentissima, ond'egli da Cabo-Frio ci scriveva il 27 dicembre del 1836: «Di me ti dirò soltanto che la fortuna non mi favorisce, e ciò che m'affligge si è l'idea di non poter avanzar nulla per le cose nostre; sono stanco, per Dio! di trascinar un'esistenza tanto inutile per la nostra terra, di dover fare questo mestiere; sta certo, noi siamo destinati a cose maggiori; siamo fuori del nostro elemento.»

In questi viaggi fugli sempre caldo e affezionato compagno Luigi Rossetti di Genova che più tardi, combattendo nella provincia di Rio Grande per la Repubblica contro l'impero brasiliano, cadde da valoroso sopraffatto dal numero, lasciando solenne testimonianza della virtù italiana in que' solitari ed ignorati campi dell'America.

Un'altro fatto simile a quelli di Nizza e di Marsiglia compiè Garibaldi in Rio Janeiro. Un povero negro era caduto in mare tra mezzo ai bastimenti, mentre un vento furioso sollevando le acque facevali cozzare l'un contro l'altro e rendeva oltremodo pericoloso l'azzardarsi a dare aiuto a quell'infelice; e Garibaldi alla vista dei molti spettatori curiosi e indifferenti, non curando la propria vita, si tuffava nella ribollente marina, e con robusta mano stringendo il negro, traevalo seco alla sponda sano e salvo. Un negro non era per Garibaldi un fratello meno che un bianco.

L'insurrezione repubblicana di Rio Grande contro il governo di Rio Janeiro convertitasi in guerra, che durò poi circa dieci anni, aveva ricevuto un terribile colpo quasi nei suoi primordi, nella disfatta dell'isola di Fanfa. I capi di quel moto, abbenchè sotto l'egida d'una capitolazione, furono arrestati e mandati nelle prigioni di Rio Janeiro; eravi tra questi il nostro amico Livio Zambeccari, uno dei principali fautori di quel movimento, e poi segretario e compagno del Generale in capo dell'esercito riograndense, Bento Goncalves da Sylva, quello stesso Zambeccari che, dopo aver tanto patito e combattuto per la libertà in America, venne poi a dar l'opera sua nella guerra nazionale, e tanto meritò della patria in Bologna, in Venezia, in Ancona, ed ora nell'esilio, che le persecuzioni inglesi gli rendono più amaro e più onorato. Garibaldi, messosi a contatto con Zambeccari e con Bento Goncalves, caduto egualmente prigione, concepì il progetto d'armare in guerra colla bandiera riograndense il piccolo legno a' suoi ordini, e scorrere il mare nemico agli imperiali. Usciva difatti da Rio Janeiro munito dei necessarii documenti dal governo insurrezionale, e quasi subito impadronivasi d'una barca brasiliana, sulla cui antenna inalberava lo stendardo repubblicano. Con quella dirigevasi alla Repubblica Orientale, che gl'insorti credevano a loro favorevole; ma, pervenuti in Maldonado, non trovavano accoglienza; e recavansi perciò nelle vicinanze di Montevideo, inviando prima un messo a conoscere le intenzioni del governo, il quale, appena saputo il fatto spediva una grossa lancia armata onde coglierli prigioni. All'approssimarsi di coloro, non vedendo Garibaldi il combinato segnale che li palesasse amici, si preparò a combattere: cominciò il fuoco, e ai primi tiri egli cadeva riverso sulla tolda allagata del suo sangue; una palla avevalo colpito nel collo. L'equipaggio, rimasto così senza guida, e profilando del vento che spirava forte da Levante, si allontanarono dal pericolo, fuggendo pel lato opposto; e tanto corsero, che, entrati nel Paranà, andarono a gittar l'ancora dinanzi a Gualeguay, piccolo paese in Entrerios; dove non tenute per valide le carte del governo riograndense, nè voluta riconoscere la nuova bandiera, tutti furono messi in carcere. Garibaldi, mortalmente ferito, veniva affidato al chirurgo Ramon Delarca, nativo di quel paese, se non erriamo, il quale prodigando all'infermo le più affettuose cure durante la lunga e difficile malattia, salvò all'Italia quest'importante vita col più nobile disinteresse. La palla che avevalo colpito eraglisi introdotta dal lato sinistro sotto l'orecchio, e traversato il collo, erasi andata a fermare sotto gli integumenti dell'orecchio destro; oltre questa ferita ebbe il braccio destro scalfitto dalle palle in due o tre luoghi. Ma colla salute l'amico nostro non ricuperò la libertà; fu trattenuto ancora per lungo tempo in quel paese nel quale poteva passeggiare liberamente. Visse amichevolmente ospitato da uno Spagnuolo colà stabilito, il sig. Andreus, che prese ad amare Garibaldi colla passione direi d'un amante, tanto aveva egli compreso l'altezza di quel nobile animo. E della sua cattività così Garibaldi ci scriveva: «Circa ad evadermi, ti basti che sono in questa condizione, sulla mia parola d'onore. Passo la maggior parte del giorno leggendo libri che l'instancabile bontà del mio ospite mi provvede; talora nella sera d'un bel giorno vado a passeggio, visito qualche conoscente, e guardo malinconicamente le bellezze del paese, e mi ritiro a casa; altra volta esco a godere d'una bella mattinata, e leggo o scrivo; e sempre in cuore l'Italia; e parlando con dispetto io grido:

«Io la vorrei deserta

«E i suoi palagi infranti,

« . . . . . . . .

«Pria che vederla trepida

«Sotto il baston del Vandalo

«. . . . . . . .»

Poi ispirandosi a quella fede che giammai venne in lui meno, soggiungeva, «La mia sorte è legata alla tua — guidati da un solo principio, consecrati ad una causa, abbiamo rinunciato alla tranquillità ed imposto silenzio a tutte le passioni; ad onta dei giudizii leggeri ed inconsiderati della moltitudine, chè non riguarda sovente il nostro generoso proposito, che sotto l'aspetto d'interessate mire, o d'ambizione, proseguiremo. — Il testimonio della coscienza ci basta.»

Ma di tal quiete non si volle lasciargli fruttare più a lungo, dacchè le autorità del luogo ricevevano ordine di farlo tradurre alla capitale; la qual cosa era a lui comunicata alla vigilia della partenza, essendo già la notte avanzata. Temendo allora Garibaldi che si volesse sevire contro di lui, e viste mutate le condizioni, per le quali aveva dato la sua parola di non evadersi, si credè sciolto da parte sua, e tentò in quella notte medesima di porsi in salvo dalle persecuzioni che sospettava; errò due giorni per que' campi a lui sconosciuti. «Taccio, scriveva, le avventure di que' giorni di fuga; fui arrestato e ricondotto a Gualeguay.... Qui dovrei finire e non rammentare ciò che mi fece soffrire un mostro; però ti darò il suo nome perchè lo segni all'esecrazione dell'universo — Sì — Leonardo Millan ha tenuto un vostro fratello per due ore appiccato per le mani...... »

E quello strazio crudele rendeva più osceno ed atroce una turba selvaggia che, affollatasi alla soglia della prigione rimasta aperta, scherniva il sofferente, e del martirio faceva argomento di contumelie. Del tormento barbarico restò a Garibaldi offesa una mano, che in certe condizioni atmosferiche gli si risente ancora dolorosamente dopo 12 anni. Fatto finalmente condurre alla Bajada, capitale della provincia di Entre-rios, venne trattato alquanto umanamente: e forse la lunga prigionia e i durati patimenti persuasero quel governatore a non maggiormente incrudelire verso un uomo che in nulla aveva offeso le leggi del paese, in cui era stato condotto moribondo.

Alla fine di circa otto mesi di detenzione, stanchi forse di sorvegliarlo, o sazi di farlo patire, lasciarongli aperto il cammino ad allontanarsi da quell'infausta terra, che pure non lasciò odio nell'animo di Garibaldi, memore soltanto dell'affetto e delle simpatie dei buoni, che gemevano sulle crudeltà contro di lui esercitate. Dalla Bajada fece vela a Montevideo, di là a Rio Grande, ove si combatteva per la libertà. Il governo della Repubblica accoglievalo con entusiasmo, e affidavagli senz'altro il comando delle poche forze di mare, che aveva sulla Lagoa dos patos. Senza perdere tempo Garibaldi aumentava, riduceva a disciplina quelle forze, e illustrava con molto onorevoli fatti parziali, e la bandiera repubblicana e la nascente sua fama. Non c'è possibile dilungarci a narrarli partitamente, come non c'è dato tacere i seguenti.

Un capitano detto Moringue con 120 uomini attaccò inaspettato Garibaldi che trovavasi in Camacuàm con soli 11, tutti italiani, compreso Rossetti; e tanto fu il coraggio con cui i sorpresi si seppero difendere, che i nemici caddero morti, e i superstiti dovettero fuggire; ond'è che narrando al Governo l'accaduto, Garibaldi esclamava con nobile orgoglio: Un uomo libero vale per dieci schiavi.

Altra volta i Repubblicani, spintisi fino alla costa sul mare, onde prendere la fortezza che difende dal nord la bocca di Rio Grande, Garibaldi con Rossetti ed altri non molti, affrontando il fuoco nemico, arrampicaronsi su per le mura, e i difensori, maravigliati a tanto ardimento, respinsero dalle cannoniere, e per quelle s'introdussero nella fortezza, non osando più i nemici opporre resistenza. Però tanto valore non veniva secondato dagli altri! Sicchè, vistisi soli e abbandonati, dovettero ritirarsi.

Più tardi il Governo repubblicano, volendo estendere la rivoluzione nelle altre provincie dell'impero, avea offerto aiuti a quella di S. Catalina, che accettò. Una colonna, detta auxiliadora, si diresse alla Laguna (paese collocato nella suddetta provincia, con piccolo porto sulla costa); vi andava segretario del generale comandante la colonna Rossetti, che poi tenne, o diresse il governo nella Laguna, e Garibaldi, come sostegno potentissimo all'impresa. Cadeva il paese agevolmente in mano dei Riograndesi; e in un'operazione di mare Garibaldi a stento salvavasi a nuoto dal naufragio di una delle grosse lancie ai suoi ordini, mentre periva in quell'occasione il giovane amico suo Edoardo Mutrù di Nizza, anima ardente d'amore per l'Italia, e anelante i pericoli per farvi mostra della virtù italiana.

Coll'attività ed energia che lo distinguono, Garibaldi, entrato nella Laguna, v'allestì in pochi giorni tre piccoli legni, i migliori che fossero in quel porto, e con questi, mal forniti d'armi e di munizioni, e male atti ai combattimenti per la fragile costruzione, corse il mare, molestò il commercio del nemico, una o due navi ne prese e mandò nel porto; alla vista delle vele da guerra imperiali non fuggì; manovrando destramente evitò l'urto delle più forti, e appiccò il fuoco con una di forza minore, ma sempre superiore a lui; rimasto solo, inseguito da tutti, si riparò in un seno, incagliò il suo legno, sbarcò i due cannoncini, e da un'eminenza ove li pose continuò a fulminare il nemico, che, scostatosi per la notte sorvenuta, stette non lontano aspettando il giorno. — E il giorno fattosi ben chiaro non mostrò la nave inseguita. L'instancabile ed astuto Ligure aveva lavorato la notte, ed abilmente riguadagnato il porto prima che potessero avvedersene gl'inseguitori. Raccontano che a meglio ingannarli radunasse molte legna e nelle tenebre vi appiccasse il fuoco, per dar loro ad intendere d'aver abbruciata la sua barca e risoluto di cercare scampo per terra.

L'Impero aveva frattanto radunate molte forze di mare per riprendere la Laguna, e riuscì facilmente a sforzarne l'entrata, non da altro difesa che da una batteria poco atta a fare una grande resistenza. Entrarono i molti vasi da guerra nel porto fulminando coi molti cannoni; Garibaldi dai suoi gusci rispondeva alacremente, avendo a fianco l'impavida moglie, nativa di quel paese, e che da pochi giorni erasi assunta a compagna del cuore. Quando poi vide disperato il caso, mandò i suoi a terra e rimase solo; — scortili in salvo, diè fuoco alle polveri, e mandò in aria con orrendo scoppio i bastimenti, gettandosi al medesimo tempo nelle onde, che valicò a nuoto riducendosi a terra.

La fortuna dei nemici soperchianti per numero prevalendo, i repubblicani dovettero ritirarsi, e Garibaldi, ordinati i suoi in fanteria, seguì la colonna, tenne lungamente la campagna, dando sempre in ogni incontro luminose prove d'intelligenza e di coraggio; e un bel giorno alle armi repubblicane ei segnò nel combattimento di Lages, di cui il giornale del governo, O Povo, fece menzione in onore del nostro concittadino. In uno dei molti fatti d'arme la moglie cadde in potere del nemico: ma la valorosa donna non si rassegnò all'inerte prigione, che anzi, pervenutale la falsa notizia della morte del marito, tanto studiò e fece, che ad alla notte si sottrasse alla vigilanza de' suoi custodi, e smaniosa di sapere se veramente l'avesse colpita tanta sventura, primo suo pensiero fu quello di recarsi al campo di battaglia, ove ad ogni istante tremava di rinvenire le amate sembianze; e all'infelice, sull'albeggiare reclinata e fissa in quei morti là ancora giacenti, parve, in un momento forse di aberrazione mentale, di scorgere, ahi! lo sposo diletto, deturpato il volto per ripetute ferite. Ma rassicuratasi alfine, dopo aver bene esaminato quegli insepolti, s'affrettò a rintracciarlo per que' vasti e solitari campi. Non la rattennero i pericoli, nè la solitudine spaventosa; corse fidando in Dio e nel suo amore, che non le fallirono, e dopo due giorni ebbe la fortuna di ricongiungersi all'uomo che amava ed amò sempre con affetto, di cui rari s'incontrano gli esempi. In mezzo a tanti travagli ebbero un figlio, cui, pel culto che Garibaldi professa agli uomini morti per l'Italia, impose il sacro nome di Menotti.

Dopo la arrischiatissima impresa di Cima da Serra, ove il seguì la moglie col nuovo nato, esponendosi ai disagi e ai pericoli i più spaventosi, Garibaldi non si fermò più a lungo in Rio Grande. Scorgendo le cose andare a rovescio, e non più sostenuta la causa della Repubblica, pensò a ritirarsi da quel campo, ove alla guerra di principii pareva volersi sostituire una guerra d'ambizioni individuali; e verso la metà del 41 recavasi colla famigliuola a Montevideo, lasciando in Rio-Grande, e presso quanti nel Brasile amavano la causa rio-grandese, onorevole rinomanza e grato ricordo, e presso tutti gli altri un nome temuto, involto nelle calunnie di cui i partiti son prodighi in ogni parte del mondo; ma tutti amici e nemici compresi d'ammirazione pel valore straordinario. E qui ci piace ad onore del vero e della nostra patria rammentare che due nomi italiani rimasero sovra gli altri cari e riveriti nella popolazione di Rio-Grande, Zambeccari e Garibaldi.

Da Rio-Grande, dopo quei cinque anni di affannosa vita, Garibaldi trasse seco, unico tesoro, la moglie carissima ed il figlio: — null'altro: — sicchè prima sua cura dovette essere, arrivando in Montevideo, il cercar modo a sostentar se e la famigliuola. Abborrente dal vivere a carico altrui, e nemico all'ozio, non risparmiò fatica, nè lasciò intentalo alcun mezzo, e riescì onde provvedere ai suoi cari. Tra le varie cose in cui s'adoperò vogliamo notare le lezioni di algebra e di geometria che a certe ore del giorno dava nel principale collegio di quella città. Lo studio delle scienze esatte fu sempre una delle predilette occupazioni di Garibaldi. Però in un paese in cui ardeva la guerra non era possibile a lui rimanere a lungo rivolto agli studi ed alle cure dei tempi di pace. Il governo di Montevideo cui erano note le di lui guerresche virtù e il carattere onoralo, avevalo più volte fatto tentare, e invano, affinchè entrasse al servizio della Repubblica; ma finalmente, cedendo alle istanze degli amici, alla sua propria inclinazione e alla simpatia che gli ispirava la giustizia della causa, assunse il comando di una parte della flotta. Tre legni gli furono affidati, una corvetta, un brigantino, una goletta; con questi partiva da Montevideo per Corrientes sulla destra sponda del Paranà, affine di secondare il piano di guerra contro Rosas, combinato tra i governi di quella provincia e della Banda orientale. Affrontava in quella corsa il fuoco delle batterie dell'Isola di Martin Garcia collocata sull'unico passaggio delle navi, costrette quasi a rasentarla per iscarsità d'acqua nel fiume restante; e tanto abilmente e coraggiosamente operò, che alcuni pezzi di artiglieria nemica furono smontati in brev'ora, e agevolò, senza danno agli altri suoi legni, rimanendo egli colla propria nave in panna a sostenere tutto il fuoco nemico, quel passaggio considerato arrischiatissimo: locchè gli valse e le lodi dei giornali del paese, e i ringraziamenti del Governo. Da quel punto dirigevasi al Paranà, che navigò stentatamente pegli spessi banchi che lo ingombrano; e arrivato nelle vicinanze di Goya, mancategli intieramente le acque, ivi rimase incagliato; ed ivi lo raggiunse la flotta nemica forte di 10 vele e capitanata dall'ammiraglio Brown, già noto per riportate strepitose vittorie sulla squadra brasiliana nella guerra contro l'impero sostenuta dalla Repubblica Argentina. Baldanzoso pel numero, per la fama che accompagnavalo, e per la sfavorevole posizione della flotta orientale, Brown s'avanzava quasi sicuro della preda: ma la inaspettata resistenza ben ordinata e sostenuta contro i di lui attacchi presto il persuase della tempra del nemico che aveva a combattere. Durò il fuoco accanito per tre giorni, senza che gli avversari giudicassero opportuno, per servirmi d'una frase della relazione di Garibaldi, di andare all'arrembaggio malgrado la tanta superiorità del numero. — Vennero in quel lungo battagliare a meno i proiettili alla flotta orientale, e Garibaldi vi supplì tagliando a pezzi le catene delle àncore ed altri strumenti di ferro: di notte lanciò dei brulotti contro la squadra nemica che nonne ebbe alcun danno, perchè la molta violenza delle acque del fiume, di cui egli occupava la parte superiore, li fece sviare dalla imposta direzione; quando poi mancò ogni maniera ad offendere ei dispose ed eseguì l'imbarco dei suoi nelle piccole lance, ed abbandonate le non più difendibili navi, fecele saltare in aria appiccando fuoco alle polveri. — Sotto il tempestare delle palle nemiche vogò a terra, e la raggiunse in punto ove stava schierata e pronta la fanteria che alla sua volta fulminavalo coi moschetti; non pertanto toccò la sponda non solo, ma, ordinata la sua gente, respinse i fanti nemici e s'aprì via, dopo lungo combattere in siffatta guisa, a guadagnare il territorio di Corrientes conducendo seco i feriti.

Dell'equipaggio di quelle navi molti erano italiani, e non poche preziose vite di nostri concittadini si spensero in quel glorioso combattimento, che tanto onorò la bandiera di Montevideo. Fra questi noi rammentiamo gli uffiziali Giuseppe Borzone di Chiavari, e Valerga, ambedue giovani vigorosi e di provato coraggio. L'inglese Brown, maravigliato di quella difesa, concepì d'allora in poi la più alla stima pei talenti e pel valore di Garibaldi, e volle dargliene prova non dubbia l'illustre vecchio allorchè, ritirandosi in Inghilterra, approdò e rimase per alcuni giorni in Montevideo; poichè appena giunto colà, inviava a Garibaldi un suo fido, annunziandogli il desiderio che aveva di visitarlo. Garibaldi, per rispetto alla canizie e al leale e generoso nemico, ch'ebbe tanta parte nei più rimarchevoli avvenimenti nella storia delle repubbliche del Plata, e che per qualche tempo aveva avuto l'onore di reggere la somma delle cose in Buenos-Aires, s'affrettò egli il primo alla casa dell'ammiraglio, che, stupito al vedere quella maschia figura, e in sì giovane età, stringevagli affettuosamente la mano, e con parole di sentito encomio lodavalo pel combattimento del Paranà e per altri fatti minori nella guerra di mare. Non consentì Brown rimanere al disotto in cortesia al suo avversario, che poco dopo si recò a vedere nella modesta di lui casa.

Da quell'infelice ma onorevole spedizione tornava Garibaldi colla sua gente a Montevideo, dopo alcuni mesi, per via di terra; e v'arrivava appunto quando l'esercito che tuttora assedia quella città stava per invadere la Repubblica Orientale.

Gli imminenti pericoli facevano desiderato Garibaldi in Montevideo, e molti dei più animosi tra i giovani di quella nobile città attendevanlo ansiosi per unirsi a lui nella difesa che si andava preparando. «Con Garibaldi, dicevano, o si vince o si muore onorati.» Appena giunto, il governo incaricavalo d'organizzare una flotta di navi sottili, uniche rimastegli della primitiva e fiorente sua squadra di mare. Non è a dire l'impegno con cui s'adoperasse in questa bisogna; in breve tempo, superando l'aspettativa del governo, e assai meglio che non vi si attendesse per la scarsità de' mezzi, presentava ordinato e pronto il naviglio. In questo mentre era venuto a collocarsi quasi sotto le mura della città l'esercito assediatore; e il di lui capo, il generale Oribe, conscio del terrore che ispirava il suo nome e delle simpatie degli stranieri per la causa del popolo Orientale, mandava in que' primi giorni una circolare ai consoli, colla quale minacciava di trattar da nemici coloro tra gli stranieri che avessero o coll'armi o colla loro influenza giovato alla causa di quelli che ei veniva a combattere. A questa barbara minaccia i residenti tutti di Montevideo, allarmatisi, chiesero il governo di essere armati onde prevenire ogni danno. Gli Italiani abitanti in gran numero in quella capitale, richiesto ed ottenuto Garibaldi a lor capo, formarono una legione di circa 800 uomini e si posero agli ordini del governo. È noto all'Italia come quei prodi nostri concittadini difendessero energicamente la causa da essi abbracciata, e in quanto onore sollevassero il nome italiano in quelle contrade. In mille incontri sfolgorò luminoso il valore dei nostri condotti da Garibaldi e in particolar modo si distinse nei fatti del Cerro, de las tres Cruces, de la Boyada.

Il fatto del Cerro è stato, se non erriamo, il primo, in cui la legione italiana potè dare un vero saggio di quanto più tardi operò in benefizio di quella repubblica. Trovavasi in quella circostanza un distaccamento di legionari, unito ad altri corpi nel Cerro — monte che sorge rimpetto a Montevideo dal lato occidentale della baia, che è porto a quella capitale sotto gli ordini del generale Bauzà, intento a far cacciare il nemico da certe posizioni, di cui erasi impossessato. Le truppe già s'erano da qualche tempo valorosamente battute; e tuttavia battevansi risolute a sloggiarnelo; e non ostante egli rimaneva pur sempre lì ostinato senza dar segno di volersi allontanare. Garibaldi ben calcolata ogni cosa, aveva scorto d'un tratto il punto in cui avrebbe potuto con un decisivo vantaggio urtare il nemico, e, dopo qualche esitanza, finalmente apriva il suo pensiero al generale, chiedendo gli fosse commessa quell'impresa che il generale approvava, e di buon animo affidavagli. Un forte pugno di truppe nemiche erasi collocato in un fosso da dove senza poter essere offeso, offendeva terribilmente; non molto da quello discosto, sorgeva una casa, da cui gl'Italiani distavano da circa un cento passi, e tutto il rimanente era campo aperto. Garibaldi presentatosi ai legionari, diceva così: «noi dobbiamo recarci a quella casa senza trar colpo» e avviavasi il primo; il nemico, indovinato lo scopo, tempestava furiosamente coi moschetti l'ardito drappello, che s'affrettava verso la casa; e nonostante un momento dopo, al riparo di quei muri, Garibaldi riordinava tutti i compagni sani e salvi; «ora, soggiungeva, colle baionette calate al fosso»; A quelle parole come allo scattar d'una molla, avventavasi la piccola falange compatta al punto indicato e vi cadeva con tale impeto che il nemico cominciò da quel lato a tentennare per siffatta guisa, che ne trasalì lungo tutta la sua linea, e presentò così un momento favorevole ai montevideani che, colta l'opportunità lo respinsero facendogli molti prigioni.

Noi ci siamo alquanto diffusi intorno a questo fatto per rilevare una circostanza che è utile far nota all'Italia, nella fiducia che, ben conosciuti certi suoi pretesi amici, e nauseata finalmente dei vergognosi amori forestieri vorrà pensare a dignitosamente provvedere da sè al proprio onore dapprima, supremo dei beni, poi alle altre vitali questioni da cui dipende la sua felicità e la sua forza, ma che tutte sottostanno a quella principalissima dell'onore nazionale, senza di cui la libertà, l'indipendenza e tutto sono un nulla o una vergogna. E la rileviamo anche per far sempre più chiaro il nobilissimo carattere di Garibaldi, che il dispetto e l'ira in lui eccitati dalle bassezze di chi vorrebbelo offendere, egli riversa in capo ai nemici, non mai sugli individui che o per fede politica o per vincolo fraterno, dovrebbero meglio di ogni altro tenerlo in pregio.

Quando adunque sui primi d'aprile del 43, gl'Italiani chiesero le armi in Montevideo, un Francese, seguendo in ciò il costume de' suoi connazionali, faceva presente al governo e al generale in capo Paz, non d'altro essere capaci gl'Italiani, che di ferire nelle spalle di notte e a tradimento, e quindi tempo, danari per organizzarli e fiducia di valido aiuto, tutto sarebbesi risolto in nulla; e ciò, seguitava, poterlo affermare per la pratica che aveva della gente nostra! Erano le villanie francesi esattamente riferite a Garibaldi da persone, alla cui autorità non potevasi negar fede; ma troppo senno e troppa generosità aveva egli — e ben lo sapeva chi facevagli queste confidenze — per non comprendere che, in faccia a un nemico che tutti si preparavano a combattere, ogni personale risentimento tra uomini militanti per la causa medesima doveva tacere; sicchè frenata la giusta indignazione, fermava in cuor suo smentire e presto il calunniatore francese con fatti, pei quali il nome italiano onorevolmente s'alzasse in quelle contrade, e a danno soltanto del nemico comune, colla speranza di poter pure col tempo umiliare que' tracotanti, allorchè un paragone si fosse potuto istituire tra la legione italiana e la francese in Montevideo; non è quindi a dirsi con quale ardore ei cogliesse quella prima occasione del Cerro per dare alla Repubblica Orientale una prova che erano stati gl'Italiani turpemente calunniati. E fino a qual punto fosse già pervenuto poco dopo a levare in fama la legione italiana superiore a quella dei francesi, si rileva dalla giornata del paso de la Boyada, nella quale il generale Paz con animo di tentare un arditissimo colpo, che avrebbe potuto cambiare in parte le sorti della guerra se da tutti fosse stato egualmente secondato, sceglieva ad essergli compagni nella più arrischiata fazione di quel giorno, alcuni corpi, fra i quali l'italiano comandato da Garibaldi e da Anzani. Non ebbe sventuratamente il piano del generale l'esito che s'era proposto e per ragioni che non è qui debito nostro enumerare: ma non possiamo tralasciar di dire che nel paso de la Boyada Garibaldi col valore e coll'intelletto, in ciò mirabilmente sostenuto dai suoi, contribuì cogli altri corpi potentemente a dare un giorno di gloria alle armi della Repubblica: mentre da un altro lato la legione francese lasciata nei soliti trincieramenti, e lontana dal fervore della mischia, spaventavasi in quel medesimo giorno all'apparire d'un gruppo di cavalleria, sicchè molti perivano fuggendo colpiti nelle spalle, molti altri a passi precipitosi andavano a cercare salvezza nella città, lasciando quasi deserto il posto a loro affidato.

Noi rammentiamo aver in quel giorno udito i legionari italiani che avean veduto il lor colonnello uscire illeso da quella tempesta di palle, ripetere tra la maraviglia e lo scherzo: — che egli scacciasse da se i piombi micidiali con uno scrollo come si fa de le mosche. —

Lo scontro de las tres Cruces fu sanguinosissimo per ambe le parti. Un colonnello per nome Neira avanzatosi di troppo verso gli assediatori di Montevideo, era caduto di cavallo colpito da un tiro di fucile: Garibaldi avvertito del fatto, ordinava subito ad alcuni de' suoi di raccogliere il caduto, reputandolo ferito: ma il nemico ch'era ingrossato in quel punto staccava alla sua volta forze maggiori per opporsi: lì impegnavasi una lotta accanita: Garibaldi coll'esempio e colla voce animava gl'Italiani a tener fermo onde non lasciar perire il ferito compagno: il nemico superiore di forze s'ostinava a non cedere: dei 150 de' nostri cadde la quarta parte tra morti e feriti; l'onore non concedeva a nessuno il ritirarsi: ma Garibaldi, fatto fare un estremo sforzo ai suoi, vedeva il nemico andare indietro, poi darsi alla fuga, che nol sottrasse alle baionette dei soldati furenti: le memorie d'allora registrarono la perdita del nemico di gran lunga maggiore a quella degl'Italiani. — Questo fatto mostrerà, come nell'ora del pericolo possano i compagni d'armi contare fiduciosi sull'appoggio del lor capo. V'hanno nella costui vita molti altri fatti di arme brillanti, pari a questi o più splendidi, ma noi li preferimmo, perchè da essi traluce meglio oltre il coraggio e il talento militare, la tempra dell'animo generoso, qualità che sopratutte noi veneriamo. Nella storia della Legione italiana in America, chi si farà un giorno a compilarla potrà distesamente, e ad una ad una, narrare le imprese in cui Garibaldi tanto meritamente si distinse.

Frattanto noi senza contraddire al nostro proposito ci faremo a narrarne alcune altre, e più specialmente quella del febbraio 1846 nel campo di S. Antonio, in cui diede prova di straordinaria militare perizia e d'incredibile audacia.

Veniva Garibaldi spedito dal governo con una divisione composta di varii corpi e d'una parte della legione italiana al Salto, città collocata quasi alla frontiera del Brasile, affinchè difendesse e sgombrasse quel territorio dai nemici, i quali incontrò e battè ripetute volte, scacciandoli finalmente da quella provincia. Nella sua navigazione da Montevideo al Salto operò l'occupazione della Colonia, sbarcando pel primo cogl'Italiani, che in quel giorno combatterono soli contro il nemico, e riportarono poi dai giornali francesi la taccia d'aver saccheggiata l'occupata città. Da quest'accusa noi abbiamo già difesa la legione italiana in uno scritto pubblicato nel Corriere Livornese[2] dimostrando come invece i soldati di Francia fossero gli autori degli scandali nella Colonia. Lasciata però questa città al colonnello Battle che continuò a difenderla valorosamente, ei riducevasi infine al Salto. Colà fu diverse volte attaccato dal nemico con molta artiglieria e superiore di forze, ma sempre invano.

In quel giorno 8 febbraio erane uscito con 184 legionari italiani ed alcuni uomini di cavalleria onde proteggere il generale Medina, che con pochi soldati doveva ricoverarsi nel Salto. Appena giunto a una lega distante, trovavasi attorniato da 1500 nemici, contro i quali fu forza combattere, poichè cedere nè far patti onde salvare la vita non istà nella natura di Garibaldi. Andavano i nemici come a preda sicura, e Garibaldi lasciavali approssimare di tanto che nessun colpo potesse andare fallito: e solo allorchè una breve distanza lo separava dai 300 fanti, che marciavangli sopra, ordinò una scarica, che ridusse a metà l'inorgoglito nemico. Durò l'ineguale conflitto 8 ore ostinatissimo. Garibaldi combattè in quel giorno da soldato, appuntando sovente il moschetto contro il soverchiante numero. — Non consentì che un parlamento inviato dal nemico s'avvicinasse a lui, preferendo la bella morte nel campo alla vita comprata con armistizi e codarde transazioni. — I suoi udironlo, in tutto quel tempo che il fuoco durò, esortarli a rammentarsi dell'onore italiano compromesso in quella lotta, e a non cedere. E il possente scongiuro sortiva in quei valorosissimi l'effetto bramato. Perirono 35 sul luogo, cinquanta rimasero feriti, e appena 100 trovavansi alle 9 ore di quella sera ancora in piedi, quantunque tutti o quasi tocchi e contusi. In sì deplorabile condizione Garibaldi rivolse dapprima il pensiero ai feriti, che collocò sui cavalli rimasti, e cogli altri commilitoni scortò nella ritirata che imprese a quell'ora notturna. Lungo e travagliato fu il breve tragitto da S. Antonio al Salto, ove non entrarono che verso la mezzanotte; il nemico tuttocchè battuto e assottigliato, pure rimasto sempre superiore di forze ch'erano di cavalleria, aveva continuato a molestarli durante il cammino.

Gli abitanti del Salto accoglievano festanti e come trasognati quei gloriosi, e il loro capo, sì miracolosamente salvati per propria virtù da tanti nemici. Di costoro vuolsi che 500 rimanessero in quel giorno fuori di combattimento, la maggior parte estinti. — All'annunzio del fatto strepitoso, il governo di Montevideo fece inscrivere a lettere d'oro nella bandiera della legione italiana queste parole: — Gesta dell'8 febbraio 1846 della legione italiana agli ordini di Garibaldi, e alla legione medesima assegnava per un decreto, in tutte le parate dell'esercito nazionale, la destra, distinzione altamente onorevole alle armi italiane, dovuta al genio e al coraggio di Garibaldi così valorosamente secondato dai compagni[3].

Di questo fatto scrivendo egli ad un amico in Montevideo, a giusto titolo inorgoglito diceva: Io non darei il mio nome di legionario italiano per il globo in oro. Nobilissimo detto che fu da tutti raccolto, e sublimato in un canto, che il poeta orientale Figueroa consacrava entusiasmato al difensore della di lui patria.

L'ammiraglio di Francia, nel Rio de la Plata, Lainé, colto da stupore anch'egli, scriveva dalla sua fregata l' Africaine al generale Garibaldi le seguenti parole, che traduciamo dall'autografo in nostro potere: «Io vi felicito, mio caro generale, d'avere così potentemente contribuito colla intelligente ed intrepida vostra condotta al compimento di fatti d'arme, dei quali si sarebbero inorgogliti i soldati della grande armata, che per un momento contenne tutta l'Europa. Io vi felicito in egual modo per la semplicità, e la modestia che rendono più cara la lettura della relazione, in cui ci date i più minuti ragguagli d'un fatto, del quale potreste senza timore attribuirvi tutto l'onore. Del resto questa modestia vi ha cattivato le simpatie di persone atte a meritamente apprezzare ciò che voi siete venuto operando da sei mesi in qua[4], tra le quali noterò in primo luogo il nostro ministro plenipotenziario, che onora il vostro carattere, e nel quale avete un caldo difensore soprattutto allorquando si tratta di scrivere a Parigi coll'intento di distruggere le impressioni sfavorevoli, che ponno aver fatto nascere alcuni articoli di giornali, redatti da persone poco use a dire la verità anche quando raccontano dei fatti avvenuti sotto i proprii loro occhi»[5].

Al tempo medesimo che aveva Garibaldi il comando della legione italiana, conservava pur sempre quello della flottiglia orientale, e in molte occasioni con questa prese il largo a molestare il commercio del nemico, in onta al blocco tenuto dalle navi di Brown, le quali non poterongli sempre impedire di condurre prigioni nel porto di Montevideo i legni, che andavano a provvedere Oribe. Altre volte con opportuni movimenti agevolò alle barche mercantili, che trasportavano vettovaglie alla bloccata città, l'entrata nel porto gelosamente custodito dalla squadra argentina. Talora di notte imbarcatosi con molti legionari in grosse lancie usciva determinato a dare l'assalto alle navi nemiche, che munite di grossi cannoni, ei non poteva affrontare di giorno; ma l'ardito divisamento ei non potè mandare giammai ad effetto perchè il nemico non ignorando con quale terribile uomo avesse a fare, soleva di notte alzare le àncore, e trasportarsi altrove. Finalmente volendo un giorno torsi quella voglia di venire alle mani, uscì con tre piccoli legni, i meno cattivi della squadra, con animo deliberato d'attaccare il nemico, che stava ancorato sulla rada di Montevideo. Tre navi, il 25 de marzo, General Echague, e la Maypù con 44 cannoni, tra tutte, presentava la squadra di Rosas; Garibaldi ne contava appena 8 di piccolo calibro, e nonostante egli s'avanzò, e dispose i suoi legni in linea di battaglia. La squadra nemica, che aveva già sciolto le vele, rivolgeva le prore, e navigava minacciando gli audaci che le stavano a rincontro: però vicina a toccare quella distanza, che avrebbe reso inevitabile il combattimento, torceva la direzione e si allontanava. Erano i terrazzi di Montevideo gremiti di popolo ansioso e trepidante: dagli alberi delle numerose navi mercantili e da guerra d'ogni nazione stavano i marini attendendo meravigliati che quella lotta così disuguale s'ingaggiasse; ma il nemico ritirandosi lasciava tutti sorpresi, mentre a Garibaldi ridondavane gloria e concetto grandissimo presso quegli spettatori ed in ispecie presso gli ufficiali delle navi inglesi, americane e francesi. Intento di Garibaldi era d'aspettare il nemico che superiore di tanto in forze credeva non avrebbe esitato a corrergli sopra, e quando gli fosse stato vicino, avventarglisi ai fianchi, e venire all'arma bianca: perlochè aveva al suo bordo un buon numero di legionari risoluti a quel colpo arrischiato. Vuolsi che il comandante di Rosas non disposto al decisivo esperimento, che avvicinandosi scorgeva preparatogli dall'audace nemico, si ritraesse dal campo.

E ad onore di Garibaldi vogliamo registrare in queste pagine un progetto, che ben dimostra di quanto sia capace l'imperterrito suo animo. Ei proponeva adunque al governo di Montevideo, d'imbarcare nella flottiglia la legione italiana e con essa navigare il più che fosse possibile occulto alla volta di Buenos-Aires, e di notte tempo scendere improvvisamente in quella città, accorrere alla casa di Rosas, tentare di farlo prigione e chiamare quell'oppressa e fremente popolazione alla libertà toltale dal suo feroce persecutore. Il governo di Montevideo non osava accettare la proposta, e a scusa del rifiuto adduceva il timore di perdere Garibaldi e i suoi, e con essi parte del suo più valido appoggio. — Il colpo meditato da Garibaldi, ove, com'era probabile, atteso l'esasperazione di quel popolo contro Rosas, fosse riuscito, avrebbe potuto accelerare di molto e in beneficio della buona causa il termine di quella guerra che tuttavia dura, e con incerte speranze di prospero fine.

Il governo della Repubblica reputando a lui più conveniente avere Garibaldi nella capitale, richiamavalo dal Salto, che da lungo tempo non veniva più molestato, nè approssimato dai nemici ch'egli aveva battuti, come già accennammo, in vari incontri, dei quali non vogliono essere taciuti, prima quello d'Itapevy, ove sconfisse il colonnello Lavalleja, togliendogli 100 prigioni, due pezzi d'artiglieria, oltre l'essere rimasta in di lui potere la famiglia del capo nemico, al quale la rimandò subito accompagnata da un picchetto composto di que' prigionieri e da una lettera piena di cortesi e generosi sentimenti[6]; e l'altro avvenuto sulle sponde del fiume Dayman contro i colonnelli Lamas e Vergara che disfece totalmente. Partiva adunque il generale alla volta di Montevideo, lasciando quella città munita d'una ben costrutta fortezza, opera dovuta alla perizia ed all'attività del colonnello Anzani, e quella popolazione dolente di perdere i suoi buoni amici e difensori.

E qui giova ricordare un monumento di pia ricordanza che a testimonio del suo animo religioso lasciò Garibaldi nel Salto, come già aveva fatto all'epoca del combattimento navale nel Paranà, presso Goya. Appena provveduto ai compagni superstiti alla battaglia di S. Antonio, fu suo pensiero far raccogliere i corpi gloriosamente caduti in quel campo e dar loro sepoltura, ch'egli indicò al viandante con un'altissima croce che la religione volle consecrare colle sue benedizioni.

Quella croce porta queste semplici iscrizioni — da un lato — 36 Italiani morti l'8 febbraio 1846 — e dall'altro — 184 Italiani nel campo di S. Antonio.

Verso il settembre del 46 rivedevano la capitale e i legionarii e Garibaldi che senza avere per allora occasioni di rendere importanti servigi alla Repubblica, continuò nonostante collo stesso zelo ed affetto al mantenimento dell'ordine, e a tener lontano il nemico, fino a tanto che sorvenute difficili circostanze, volle il governo affidargli il comando supremo della guernigione della città, ch'egli accettò dopo ripetute istanze ed a malincuore. Poco tempo rimase però a quel luogo fatto argomento d'invidie e di gelosie. — Desideroso piuttosto di meritare che di ottenere gli onori, ei rinunziava spontaneo all'incarico ambito da altri. Di quei brevi giorni in cui tenne il supremo comando non vuolsi dimenticare che tra i maneggi e le infinite bassezze praticate da pochi individui, si tentò di far ribellare alla di lui autorità un battaglione composto di negri, i quali — affrettavasi taluno a dirgli — volevano ad ogni costo disfarsi di lui, e a consigliarlo quindi a non esporsi mostrandosi a quegli inferociti. — «Rimanete adunque, se avete paura» rispondeva Garibaldi, e montato a cavallo correva solo e in quell'istesso momento al battaglione ribelle, il quale intese poche e franche parole del generale, acclamavalo con evviva e saluti d'affetto, smentendo le calunnie e confondendo i tristi.

Rinunziato al comando supremo, il consiglio e l'appoggio di Garibaldi continuò ad essere sempre vivamente ricercato dal governo nelle circostanze, e furono non poche, in cui gravi pericoli minacciavano la sua esistenza per opera delle interne fazioni agitantisi irrequiete.

Ciò che poi veramente è rimarchevole in costui, oltre le tante rarissime sue doti, di cui siamo venuti parlando, si è la di lui straordinaria attitudine a combattere valorosamente ed abilmente in terra ed in mare. E rimarchevole più di tutto ancora si è il disinteresse e la modestia che il guidano in tutte le sue azioni. La qual cosa dimostrerà ciò che seguiamo a narrare. Il generale Rivera avendo fatto donazione, che fu accettata, di terreni e bestiami a una legione francese formatasi parimente in Montevideo, volle altrettanto offerire agl'Italiani, e Garibaldi, quasi adontandosi dell'atto, rispondeva ringraziando senza accettare il dono, e osservando che «per debito d'uomini liberi soltanto avevano gl'Italiani preso le armi in quella guerra, senza mire d'interessi od ambizioni personali». Quando l'Assemblea della Repubblica volle solennizzare il terzo anniversario dell'assedio cominciato in marzo del 1843, il fece, decretando, tra le altre cose, diverse militari promozioni, e tra i promossi s'annovera Garibaldi al grado di generale. — Egli, non sentendo di sè presuntuosamente, scriveva allora al governo, riconoscente per l'onorevole distinzione, e rinunciando non ostante a quell'onore: rinuncia che nè il governo, nè l'Assemblea si indussero mai ad ammettere. Ed a lord Howden, ministro inglese inviato per la pacificazione delle repubbliche della Plata, allorchè accedendo al di lui invito, recavasi a vederlo nelle sue stanze, dopo intese le astute insinuazioni di sciogliere la legione italiana con profferte d'indennizzazioni ai militi ed ai capi, rispondeva: «Sè ed i suoi avere impugnate le armi per difendere la causa della giustizia, e questa causa non potersi abbandonare da uomini onorati». Della quale risposta maravigliato lord Howden, rigido sostenitore del partito aristocratico, ed insigne spregiatore di tutti, ben si rammentava nella tornata dei Pari in Londra del mese di luglio 1849, allorchè parlando degli uomini che aveva visto figurare in quelle contese americane, pronunziava dal suo seggio queste solenni parole, di cui ci compiaciamo serbar memoria nelle nostre pagine: «Il presidio (di Montevideo) era quasi per intero composto di Francesi e d'Italiani, ed era comandato da un uomo cui sono felice di poter rendere testimonianza che solo era disinteressato fra una folla d'individui che non cercavano che il loro personale ingrandimento. Intendo parlare d'un uomo dotato di gran coraggio e di alto ingegno militare, che ha il diritto alle vostre simpatie per gli avvenimenti straordinarii accaduti in Italia, del generale Garibaldi.»

E a tutti questi tratti di animo generoso siamo lieti di poter aggiungere i seguenti, che ricaviamo da un recente scritto dell'egregio amico nostro il generale Pacheco y Obes ministro della repubblica orientale in Parigi, col quale rispondendo ai detrattori del suo paese, tesse pure l'elogio meritato a Garibaldi soldato di quella repubblica. «Nel 1843, egli dice, il sig. Francesco Agell, uno tra i più rispettabili negozianti di Montevideo, indirizzandosi al Ministro della guerra, facevagli sapere che nella casa di Garibaldi, del capo della legione italiana, del capo della flotta nazionale, dell'uomo infine, che dava ogni giorno la sua vita per Montevideo, faceva, dico, sapere al ministro che in quella casa non s'accendeva di notte il lume, perchè nella razione del soldato — unica cosa sulla quale Garibaldi contasse per vivere — non erano comprese le candele. Il ministro (ed era lo stesso scrivente) mandò per il suo aiutante di campo G. M. Torres, 100 patacconi (500 lire) a Garibaldi, il quale ritenendo per sè la metà di questa somma, restituì l'altra affinchè fosse recata alla casa d'una vedova, che secondo lui, ne aveva maggiore bisogno.

«Cinquanta patacconi (250 lire), ecco l'unica somma che Garibaldi ebbe dalla repubblica. Mentre egli rimase tra noi, la sua famiglia visse nella povertà, egli non fu mai diversamente calzato dei soldati, sovente i di lui amici dovettero ricorrere a dei sotterfugi per fargli cambiare gli abiti già logori. Egli aveva amici tutti gli abitanti di Montevideo, giammai vi fu uomo più di lui universalmente amato, ed era questo ben naturale. Garibaldi sempre il primo al combattimento, lo era egualmente a raddolcire i mali della guerra. Quando recavasi negli offici del governo, era per domandare la grazia di un cospiratore, o per chiedere soccorsi in favore di qualche infelice; ed è all'intervento di Garibaldi, che il sig. Michele Haedo condannato dalle leggi della repubblica, dovè la vita. — Nel 1844 un orribile tempesta flagellava la rada di Montevideo; eravi nel porto una goletta, che perdute le àncore, stava affidata con evidente pericolo, all'unica che le rimaneva; a quel bordo stavano le famiglie dei signori Carril. — Il generale Garibaldi informato del pericolo s'imbarcò con 6 uomini recando seco un'altra àncora, colla quale la goletta fu salva. — A Gualeguaychu fa prigioniero il colonnello Villagra, uno dei più feroci capi di Rosas e lo rilascia in libertà, come anche gli altri di lui compagni. Nella sua spedizione all'interno, egli si distinse per molti tratti di cavalleresca generosità, che anche al dì d'oggi formano argomento di conversazione nel campo dei due partiti[7] ».

A due altissime mire ebbe sempre rivolto il pensiero l'illustre nostro concittadino: sostenere ed accrescere l'onore del nome italiano, e combattere per la libertà in qualsivoglia terreno la trovasse in pericolo. E mentre col braccio e coll'animo intendeva a propugnare i diritti di altri popoli, ei non dimenticava la terra natia, continuo desiderio e sospiro della vita solitaria dell'esule, sicchè egli avidamente raccoglieva coll'anima inebbriata e fremente di nuove speranze le prime voci dell'epoca nuova che da questa terra recavangli i venti alla spiaggia americana. È difficile descrivere l'impressione che le novelle d'Italia cagionavano nell'animo di Garibaldi ancora in America; la sua fisonomia pareva avesse preso una espressione nuova, i suoi modi erano divenuti più concitati: sovente ei s'arrestava sopra pensieri, e gli sfuggiva un leggiero sorriso come a chi attende una lieta fortuna. Al nome del nuovo pontefice, e alle lodi che avevano eco in quelle remote contrade, ei pensò che l'uomo aspettato fosse comparso sulla terra, e come tutti, s'illuse intorno a quell'uomo! E caldo in quella illusione, scriveva da Montevideo, unito al valoroso e nobile amico nostro, il colonnello Anzani, al nunzio apostolico Bedini in Rio Janeiro, sotto la data del 12 ottobre colle seguenti parole che troviamo in quella lettera: «Se queste braccia con qualche uso delle armi, ponno riuscire ben accette a Sua Santità, noi ben più volentieri le adopreremo in vantaggio di colui che tanto bene serve alla Chiesa e alla patria. — Purchè sia in sostegno dell'opera redentrice di Pio IX, per bene avventurati ci terremo noi ed i nostri compagni, in di cui nome parliamo, se ci sarà dato poterci mettere il nostro sangue». Cui il nunzio mandava il 14 novembre questa risposta scritta e firmata di proprio suo pugno, e che noi serbiamo originale in nostro potere.... «Sento il dovere di significarle senza indugio che quanto in essa si contiene (nella lettera di Garibaldi) di devoto e di generoso verso il Sommo Pontefice regnante è veramente degno di cuori italiani, e merita riconoscenza ed elogio. Col pacchetto inglese che partì ieri trasmisi lo indicato foglio a Roma, onde siano eccitati anche in più elevati petti i medesimi sentimenti.... Se la distanza di tutto un emisfero può impedire di profittare di magnanime offerte, non ne sarà mai diminuito il merito, nè menomata la soddisfazione nel riceverle», e conchiudeva con questo voto: «quelli che si trovano sotto la sua direzione, deh! che sian sempre degni del nome che li onora e del sangue che li scalda! — Con questo voto sincerissimo accompagno l'augurio ecc., ecc.»

Questo Bedini, dei voti sincerissimi, e che lodava nel 1847 i cuori italiani, è quel medesimo che più tardi guidò l'armata austriaca a bombardare Bologna per più giorni, e a distruggervi ogni seme di libertà!

Ma oramai per Garibaldi era diventato impossibile rimanere più a lungo lontano dalla patria; e veniva a mirabilmente secondare il di lui desiderio di ritornarvi e a dare probabilità di buon esito ad un progetto concepito in tempi remoti, e per lunghi anni accarezzato, la straordinaria concitazione degl'italiani residenti in Montevideo, i quali tocchi da quel medesimo spirito che aveva risvegliato una vita novella nella madre patria, eransi al lieto annunzio dei primi moti in Italia, sollevati alle più sublimi speranze, e, cacciati da uno di quegli impeti di cuor generoso, che non fanno mai fallo nelle moltitudini, allorchè una grande idea balena loro chiara dinanzi, avevano in poco tempo per mezzo d'una soscrizione nazionale raccolto una vistosa somma[8], che essi destinarono fin dal primo momento per la spedizione in Italia, comandata da Garibaldi.

Era l'offerta premurosamente accettata come augurio anche di felice riuscita, e come pegno di appoggio fraterno in Italia. Presto ogni cosa fu in pronto per la partenza: ma sorgeva a trattenerlo dal sospirato viaggio il governo di Montevideo, che non sapeva rassegnarsi alla privazione di un tanto uomo; ed il giorno della partenza veniva quindi indefinitamente ritardato. Gli indugi frapposti accoravano profondamente Garibaldi, che ogni giorno vissuto in quell'inerte aspettativa, tormentavalo come un rimorso; pareva a lui che ogni giorno di più passato nella terra straniera fosse una colpa verso la patria; ond'ei soleva in quella circostanza ripetere con accento di sentito dolore: — Duolmi che arriveremo gli ultimi, quando tutto sarà finito. — Sventuratamente l'amico nostro non fu profeta, e il dolore da cui fu contristato l'animo suo era destino, che dovesse scaturire da ben altra ed invero amarissima fonte! Ma venuta l'ora in cui il governo, a malincuore, assentiva che sciogliesse le vele, presentavasi il commercio inglese a chiedergli rimanesse per qualche tempo ancora, come se la sola sua presenza bastasse a rassicurare gli abitanti, ed a preservargli da ogni colpo del nemico; ed a Garibaldi, da cui gl'Inglesi apprendevano le enormi spese diarie causate dal ritenere più a lungo il bastimento contrattato, offerivano il bisognevole per soddisfarle durante molti giorni. Questi finalmente trascorsi, accompagnato da un cento tra soldati della legione ed altri volontarii[9], salpava finalmente da Montevideo nel mese di aprile del 1848, e dopo una lunga navigazione e quattordici anni d'esilio onorato, rivedeva e toccava quella patria amata tanto, e al di cui vento contemplava sventolante quella bandiera, pel di cui amore aveva dovuto in così giovine età fuggire dal suolo nativo, e menare una vita di stenti per le terre straniere!

Negli ultimi momenti che precessero la partenza di Garibaldi da Montevideo, egli riceveva fra gli altri segni di stima e di affetto, una commoventissima lettera del primo Corpo di quella guardia nazionale, firmato dal valoroso suo colonnello Tajes e da tutti gli uffiziali — «Non è possibile, scrivevano, che noi i quali abbiamo veduto voi e i vostri compagni dividere con noi con tanta generosità e valore tutti i travagli di questa guerra, siamo indifferenti al vuoto che lascia tra noi la vostra assenza. Ricevete, proseguivano, queste brevi parole, come un omaggio imperfetto, tributato ai grandi servigi da voi prestati all'indipendenza e alla libertà della nostra patria». Generose parole pronunziate da generosi, e che strapparono lagrime di riconoscenza agli occhi di Garibaldi!

Approdò Garibaldi anzi tutto in Nizza ad abbracciarvi la vecchia madre e la moglie coi figli, che aveva qualche mese prima avviati alla casa paterna, ove delibate un istante le domestiche dolcezze, s'affrettava a Genova per la via di mare, collo stesso legno, la Esperanza, che avevalo trasportato coi compagni da Montevideo. Le accoglienze nella forte e generosa città furono e di essa e di lui degne; ma Garibaldi non si fermò che pochi momenti, prese difilato la via per Torino, ansioso di agire egli pure, essendo già la guerra dell'indipendenza inoltrata. Ma l'uomo ch'erasi mosso dall'America, divorato dalla febbre di combattere per la gloria e l'indipendenza italiana, trovava nel Ministero d'allora fredda accoglienza, e parole che dovettero fare una ben triste sensazione su quell'animo non d'altro bramoso che d'opera, e persuaso che questo fosse titolo sufficiente ond'essere ben accetto ad uomini che reggevano un paese combattente contro l'Austriaco. Con modi nei quali non era abbastanza dissimulato il poco conto in che era tenuta la patriottica offerta, veniva egli consigliato a recarsi dal Re, il quale trovavasi coll'esercito intorno a Mantova. Abbenchè non uso, e repugnante anzi dal chiedere checchessia, accorreva Garibaldi non ostante a Roverbella e si presentava a Carlo Alberto. Egli voleva combattere e dare il suo sangue per l'Italia: questo era supremo bisogno per lui, e superare gli ostacoli che gl'impedivano lanciarsi nel campo delle battaglie, era pur sempre combattere e spingersi innanzi. Il Re facevagli cortese accoglimento, e colle lodi di quanto aveva operato in America rendevalo avvertito che il di lui nome non eragli ignoto. Eppure anche Carlo Alberto, allorchè Garibaldi esponevagli il motivo della sua visita, lasciavalo nell'incertezza, e rispondeva vaghe parole, invitandolo a parlare ai ministri. Noi lasciamo alla storia che dovrà trasmettere ai futuri la spiegazione di tanti avvenimenti accaduti in questi ultimi due anni, tuttora ravvolti nel mistero, l'incarico di far palese come il defunto re, lungi dall'approfittare di tanto entusiasmo, di così maravigliosa devozione alla patria e d'un nome già tanto noto e caro all'Italia, consentisse invece allontanarlo da sè, e privare la guerra nazionale d'un sì potente mezzo di vittoria. Forse egli trascinato obbediva suo malgrado, e inconscio anche a quella fatalità che poi e la nazione e lui stesso travolse in tanta sciagura che tuttavia ci preme. E, se vero è quello che ci venne riferito di Re Caro Alberto, allorchè, esule in Portogallo, udiva la disfatta dell'orda francese il 30 aprile sotto le mura di Roma, ei certo dovè pentirsi di non aver adoperato nella guerra da lui condotta un così prode e generoso uomo! Narrano che a quell'annunzio egli esclamasse con viva emozione ed evidente fremito di gioia: Bravo Garibaldi! bravo Garibaldi! Forse in quel momento ei rendeva nell'intima sua coscienza un omaggio negato a calunniate virtù; ed il fiele onde era stato abbeverato in Novara per qualche istante cessava dall'amareggiargli l'anima, assorta nella contemplazione dell'onore italiano vendicato.

Dopo avere inutilmente vagato e perduto un prezioso tempo, Garibaldi recavasi alla fine in Milano, ove il Comitato di pubblica difesa non esitava un solo istante a trar profitto dell'illustre guerriero, al quale dava subito l'incarico di arruolare i volontarii, e formare un corpo che destinava a difendere la provincia bergamasca. In breve tempo, affidati al nome del capo, correvano sotto i di lui ordini circa 3000 uomini, che immantinente venivano spediti alla volta di Brescia. In segno di affettuosa memoria al compagno d'armi che aveva secolui diviso pericoli, stenti e glorie in America, Garibaldi chiamava parte di quel corpo Battaglione Anzani. Non ancor bene aveva egli disposto le cose nella suddetta provincia, che era in tutta fretta chiamato a Milano, cui le sorti avverse della guerra facevano temere guai, che pur troppo si sono poi realizzati. Senza frapporre indugio rispondeva alla chiamata, e rapidamente avviavasi alla minacciata città. La nemica fortuna era stata veloce assai più! Garibaldi giungeva a Monza, distante dodici miglia da Milano, quando l'infausto annunzio dell'armistizio Salasco gli rivelava la tristissima condizione delle cose nostre, e l'onta immensa che la perfidia e lo spirito di parte avevano lanciato sulla italiana bandiera. Garibaldi, che aveva veduto un sì fiorente esercito, e i soldati correre bramosi come a festa alla battaglia, e gioire al tuonare delle artiglierie e affrontare con tanto valore la morte, sospettò quell'armistizio una trama di pochi codardi, e l'animo suo altamente italiano e dell'onore del nome gelosissimo, sdegnò piegarsi a tanto infortunio, e preferì alla vergogna di scendere a patti coll'Austriaco, incontrare coi pochi suoi fidi la morte contro il soperchiante nemico.

Disdiceva perciò ogni tregua, e sentendo rivivere in sè il diritto che appartiene a ciascun cittadino d'opporsi con tutte le sue forze e in ogni modo alla rovina della patria od alla sua vergogna, sè costituiva propugnatore della causa italiana, forte del mandato che la patria confida a chiunque ha il coraggio d'assumerlo. E se nelle tristi condizioni in cui trovavansi le nostre sorti precipitate, non era a lui concesso rialzarle co' propri suoi sforzi, mancante de' mezzi necessari a tant'uopo, egli volle mostrare almeno coll'esempio in qual guisa si deve da uomini dell'onor nazionale zelanti, cedere all'avversa fortuna.

Coll'intento adunque di scegliere un terreno, su cui gli fosse dato protestare solennemente e d'un modo onorevole per l'Italia contro gli avversi destini, egli avviavasi da Monza alla volta di Como; di là prendendo la via dei monti dirigevasi ad Arona, ove tolti all'Austriaco i due vapori S. Carlo e Verbano, imbarcava su questi le sue truppe, e con esse navigando pel Lario giungeva alla spiaggia di Luino inaspettato, mercè le rapide marcie con ch'erasi accelerato per giungere in Arona. Era Luino occupato in quella circostanza da un numero di truppe austriache forte quattro volte più delle sue. Nonostante egli risolvevasi ad attaccarlo ne' suoi propri alloggiamenti; e l'incredibile audacia sortendo esito felice veniva a riconfermare la nota sentenza: chi non ha paura, ha un grande elemento di vittoria.

Il nome di Garibaldi e l'accanimento con cui sentivasi attaccato, persuadevano il nemico a ritirarsi dall'occupata città; ma il concepito divisamento non poteva così presto mandare ad effetto, che non vi penetrasse Garibaldi, e giungesse ancora a tempo da fargli prigione un distaccamento, ricoveratosi nella locanda della Beccaccia. Quanto più il nemico ravvisava a sè vergognosa quella ritirata, tanto maggiore era la pertinacia che ei metteva ad evitare un simile sfregio; la resistenza fu quindi ostinata e sanguinosa, ma dovette finalmente cessare all'impeto dei nostri, che guidati da Garibaldi in persona, seguivano più che mai bramosi il lor capo, che coll'esempio, e con infiammate parole inferocivali contro l'Austriaco.

Nè a questo primo esperimento collo straniero si acquetava Garibaldi, che lasciate alcune ore di riposo nella notte ai compagni, allo spuntar del sole conducevali nuovamente ad inseguire il nemico, il quale concentrate le molte forze che teneva in quei dintorni, aveva formato una cerchia in cui i nostri furono rinserrati. Rimasero in quella difficile posizione per quattro interi giorni senza alcun serio attacco. Nel frattempo Garibaldi avendo avuto agio a ben conoscere il terreno ed a studiar modo ad evadersi colle sue truppe, di notte tempo mettevasi in moto e perveniva con accorte marcie a sfuggire al nemico ed entrare in Morazzone; da dove meditava lanciarsi sopra Varese nella speranza di sorprendere il generale d'Aspre acquartierato in quel punto con 10,000 uomini; mentre egli comandava appena a 1,500! Ma stante il numero grandissimo dei nemici che ingombravano quelle terre, ei non riuscì a siffattamente celare le sue mosse e gli intendimenti suoi, che non fosse il di lui arrivo colà, e il concepito progetto ad un tempo, conosciuto dal generale austriaco. Il quale staccato un corpo di 5000 uomini, munito d'artiglieria, inviavalo, e se non erriamo, conducevalo egli stesso sopra Morazzone. Informato a tempo delle mosse del nemico, Garibaldi si dispose a sostenere degnamente l'assalto, ordinando che in ogni punto della città si formassero le barricate. E da ogni parte cominciò a fervere improvvisamente il lavoro, per siffatto modo che in breve ora si trovò in istato di ricevere il nemico, che non tardò a dare l'attacco. Erano le quattro del dopo pranzo allorchè il fuoco cominciò; l'austriaco colle bombe, colla mitraglia e coi razzi incendiarii tentò sloggiare i nostri che sempre più irritati pei danni crescenti della città, s'ostinavano nella difesa: che non era punto cessata col cadere del giorno. Garibaldi accorrendo in quella notte a tutti i luoghi ove il rischio era maggiore, vegliava su tutto e colla sua presenza accresceva il furore della battaglia nei noti compagni; ma visto inutile l'ostinarsi in quella lotta tanto disuguale, e temendo d'altronde d'essere preso tra due fuochi all'apparir del giorno, essendo il nemico grossissimo in quelle terre, verso le ore tre dopo la mezza notte, lasciato addietro un buon pugno di uomini a difendere la ritirata e ad ingannare coi tiri il nemico, fece uscire le sue truppe dalla città: e divise queste in drappelli le sciolse avviandole ai confini della Svizzera. L'austriaco aveva in que' due incontri di Luino e di Morazzone nuovamente sentito quel braccio medesimo che l'aveva percosso a Goito, a Pastrengo, ed a Santa Lucia; e le menti grossolane dei suoi soldati atterriti a quel furioso tempestare, fantasticavano di demoni accorsi a lor danno, e dicevano Garibaldi legato coi diavoli e portarne la divisa, rammentando la tunica rossa dei legionarii italiani venuti da Montevideo. E quei fatti ricordò più tardi senza dubbio il general D'Aspre, allorchè in Parma alla presenza d'un'autorità del nostro regno vuolsi che egli esclamasse: «L'uomo che avrebbe potentemente giovato alla vostra guerra, voi non lo avete conosciuto, e questi è Garibaldi.»

Allorquando Garibaldi dopo lunghissime ed accelerate marcie giungeva in Arona, vi perveniva colle sue truppe estenuate dalle fatiche e dalle privazioni di ogni genere, e nessun'altra via gli rimaneva onde provvedere ai suoi imperiosi bisogni, tranne quella di ricorrere al municipio della città; il quale del molto danaro che era nelle casse, sborsava appena lire 7000, di cui Garibaldi diede la ricevuta. Taluno ha creduto poter giustamente biasimare non solo quest'atto, ma farne anche all'intemerato guerriero, che in ogni guisa s'affannava a degnamente sostenere colle armi l'onore italiano in faccia all'austriaco, un delitto. Però chiunque abbia sensi e cuore di vero cittadino d'Italia ben lungi dal dare biasimo, loderà invece altamente l'uomo, che rivolto il pensiero all'universa nazione, seppe sovrapponendosi alle impronte ed insensate questioni di provinciali legalità, con questo ed altri fatti dare un esempio, e segnare francamente la via a chi vorrà un giorno farsi unificatore della smembrata sua patria.

La Svizzera accoglieva finalmente gli onorati avanzi di quella colonna, che, dopo l'italica rovina nota al mondo coll'infausto nome Salasco, aveva ancora contro l'irrompente nemico sostenuto gloriosamente in alto quella bandiera che Dio ha dato all'Italia, e il suo popolo rileverà un giorno vittoriosa in faccia allo straniero.

Appena Garibaldi ebbe abbandonato l'Italia, sviluppossi in lui la febbre, di che aveva attinto i germi in Roverbella, e travagliato da molestia siffatta, passò in Francia, e di là tornò a rivedere in Nizza la famiglia, che poco stante lasciava per recarsi a Genova. Il suo tragitto lungo il littorale della Riviera fu un continuo trionfo; le popolazioni accorrevano da punti remoti in massa sul di lui passaggio per salutarlo, e i circoli inviavano le loro deputazioni a felicitare l'eroe di Montevideo, il combattente di Luino. In onta all'immensa sventura, l'entusiasmo nei popoli durava! e all'apparire dell'uomo che aveva sì nobilmente saputo interpretarne i voti ed i desiderii plaudivano, intendendo con ciò di rendere omaggio al magnanimo ardimento con cui aveva risposto al palpito il più santo del loro cuore.

In Genova ritiravasi in una villa, intento a guarire dalla febbre che avevalo ridotto a deplorabile stato. Fu in quella circostanza che venivagli offerto da parte del Governo del re un posto distinto nell'armata nazionale, che Garibaldi non era più nel caso di poter accettare, avendo già prima aderito ai Siciliani, dai medesimi invitato a recarsi nell'isola a prendere il comando di quelle truppe. Unito ai fidi compagni che non s'allontanarono mai da lui, prendeva posto sul vapore per Livorno onde continuare di là il viaggio per l'isola. La popolazione di questa città festeggiava entusiasmata l'arrivo del generale, e tanta forza fece al di lui cuore, che lo indusse a rinunziare all'impegno contratto colla Sicilia, e rimanere in Toscana, che non molto dopo lasciò, fatto accorto dell'obbliquo procedere di alcuni individui di quel Governo non punto amici a chi non ad una provincia, non a persone, ma all'universa Italia consacrava vita ed affetti. Uscì dalla Toscana verso le romane provincie, dirigendosi alla volta di Bologna; ma giunto alle Filigare sul toscano confine, vedevasi costretto a sostare, avendo il generale Zucchi inviato ad impedirgli il passo, un distaccamento di svizzeri; per lo che egli si decise recarsi in persona a Bologna collo scopo d'indurre quel generale a cambiare di proposito, da cui non gli venne fatto in alcun modo rimuoverlo; e se poco dopo otteneva passando per Ravenna di potersi recare a Venezia, era ciò dovuto soltanto al minaccioso contegno del popolo, che indignato per quell'impolitico procedere obbligava il Zucchi a mutare d'avviso.

A Ravenna trovò Garibaldi di nuovo le truppe svizzere aumentate di numero, ed in attitudine tale da fare in loro supporre ostili intenzioni; la qual cosa fece sì ch'egli tenesse in guardia la sua gente, 250 uomini circa, e preparata ad ogni avvenimento; se non che erano per lui le popolazioni, che in Ravenna, in Faenza ed altrove si sarebbero ad un solo cenno sollevate contro que' prezzolati stranieri. Mentre stavano le cose in quelle incertezze, accadeva in Roma la morte del ministro Rossi; Pio IX fuggiva dallo stato, e il Governo Provvisorio costituivasi nell'eterna città a tutelare le leggi e gl'interessi dei popoli, nell'ora del pericolo abbandonati da chi pur presume affidatogli da Dio quel santissimo dovere. Premuroso Garibaldi di concorrere coll'opera sua in quei momenti di crisi a sostegno del nuovo ordine di cose, da cui sperava un potente appoggio a la causa italiana: recavasi a Roma ov'era dal Governo immantinente ricevuto al servizio dello stato. Al partire da Ravenna aveva Garibaldi avviato la sua gente per Cesena ad Ancona, ed era essa di già pervenuta alla Cattolica allorchè dietro ordine del suo capo rivolgevasi su Roma, da dove partito Garibaldi andava a raggiungerla in Foligno per guidarla alle frontiere verso Napoli, sulle quali non comparve che un mese dopo, avendo la popolazione di Macerata fra cui dovette passare, volutolo a guernigione nella propria città, la quale ne chiese ed ottenne dal governo l'assenso.

Premendo finalmente custodire lo stato dalla parte di Napoli, andava Garibaldi a stabilire il suo quartiere generale a Rieti, spingendo le sentinelle avanzate fino alla linea che divide i due territori. Tra le facoltà accordategli dal governo, era pur quella d'arruolare il maggior numero d'uomini che gli fosse stato possibile; ed egli in ciò tanto felicemente riusciva, che in breve ora potè contarne sotto i di lui ordini due mila circa, tutt'ardentissima gioventù, nella quale scorgevansi individui dalle più umili alle più elevate classi, concordi tutti ed affratellati nel santo amore della patria italiana, e pieni di fiducia nell'uomo, sotto il quale erano accorsi volonterosi e colla certezza di essere condotti ad onorifiche imprese.

Noi ci faremo qui a descrivere le feste con cui le popolazioni della nuova repubblica in mezzo alle quali dovette Garibaldi passare colla sua colonna, si affrettavano ad onorarlo; ci basterà il rammemorare per saggio dell'entusiasmo destato dal di lui nome, come da ogni paese escissero le genti ad incontrarlo alla distanza di alcune miglia, accompagnate da musiche e bande militari. Toccata finalmente Rieti, fu prima sua cura di fortificare quel punto con fossi e trincee, e munirle d'artiglieria. Poi rivolgendo intieramente l'animo a ben disciplinare i suoi militi, ei cominciò dal tenerli in continui esercizi, senza mai lasciar trascorrere giorno, che con qualche nuova fatica non li tenesse risvegli; maneggi d'armi, evoluzioni, corse faticose, nulla perdonò; e tra queste ultime è da memorare una perlustrazione che fece imprendere a tutta la sua colonna pei monti Apennini, che durò alcuni giorni, lungo i quali furono continuamente molestati dalle pioggie, ch'egli a paro del soldato, non si risparmiò punto, tuttochè appena allora fosse uscito da non lieve infermità. E tanto per la sua parte ei si mostrò vigile e della disciplina zelante, che una sola notte non si rimase dal montare a cavallo e da Rieti recarsi al confine onde meglio accertarsi dell'esattezza e scrupolosità del servizio. Ammiravano le popolazioni in lui la straordinaria attività, l'amore con che all'ordinamento delle milizie attendeva, ed il modesto vestire che solo distinguevasi per un poncho[10] bianco foderato di rosso, mentre agli ufficiali era stato provveduto con abiti convenienti al loro grado. L'esempio del capo e la condotta dei subalterni, aveva destato negli abitanti dei paesi circonvicini tale ardore e desiderio di ammaestrarsi nelle armi, che da ogni parte facevangli richieste d'istruttori, i quali egli di buon grado accordava, nessun'altra cosa desiderando più che il vedere gl'Italiani addestrarsi nelle militari fatiche e rendersi atti a virilmente combattere.

Frattanto Pio IX rifugiatosi tra le braccia del Borbone a Gaeta, aveva respinto con ira e dispetto gl'inviti del governo di Roma a tornare nella capitale. Evidentemente ogni mezzo per l'accordo era stato esaurito; le provincie stanche per quello stato di incertezza in cui versavano, ed inquiete sul loro avvenire, esigevano dal potere pronti ed efficaci provvedimenti che alle apprensioni dolorose ponessero termine, ed apportassero al paese la stabilità nei suoi destini, e la regolarità nuovamente avviasse negli ordini politici e sociali.

In siffatta emergenza il governo provvisorio convocava un'Assemblea Costituente, nella quale era mandato a sedere Garibaldi dal collegio di Macerata. Nella memoranda seduta del 5 febbraio alzavasi Garibaldi e proponeva si proclamasse il governo repubblicano, oramai fatto desiderio di tutti per la ostile condotta del traviato pontefice. Era la proposta tramandata al 9 dello stesso mese, giorno in cui trovavasi per la prima volta l'Assemblea legalmente costituita; discussa vivamente, non molto dopo, e a quasi unanimità di voti, con applauso dell'astante numeroso popolo veniva approvata.

La risoluzione presa dalla Costituente romana, irritando le passioni avverse alle libertà popolari, aveva sollevato contro la nascente Repubblica gli sdegni d'una gente che ostentando carità di religione, non ha nè credenze, nè fede, e solo all'ombra di quel manto aspira al trionfo dell'impero assoluto da cui ottiene potenza, ricchezze ed onori a danno del popolo che soffre tutte le miserie di questo mondo, e paga lautamente i suoi felici padroni.

Protestando devozione alla chiesa agitavansi Francia, Spagna, Austria e Ferdinando Borbone; il Vicario di Cristo invocava e benediceva le bombe straniere che dovevano riconquistargli l'abbandonato trono, e quattro eserciti rovesciavansi contro Roma. Francia, fedele alle patrie tradizioni veniva prima, Giuda e Caino all'Italia, sicchè il secolo XIX vedeva rinnovato il feroce spettacolo d'un Brenno ancor più violento dell'antico. Tristi erano le condizioni della Repubblica romana e tali da mettere spavento in chiunque non avesse avuto una sovrumana dose di coraggio. Volte in basso le sorti della guerra contro l'Austria per la preparata disfatta di Novara, caduta Toscana in mano degli Austriaci, dominata la Lombardia, Napoli in piena reazione per la vittoria borbonica in Sicilia, occupata Civitavecchia dalle orde galliche, era il territorio della Repubblica circondato da forti e numerosi nemici, ed in più parti già da costoro invaso. I timidi, coloro che ai comodi e alle mezze libertà acquistate senza stenti, nè merito proprio son pronti sempre a sacrificare ogni sentimento di nazionale dignità e l'onore, consigliavano transazione coi soldati venuti da Francia a ristaurare l'assoluto dominio dei preti; ma non fu, viva Dio! il pusillanime e turpe consiglio adottato. Decretava la Repubblica «alla forza s'opponga la forza»; e in pari tempo riuniva le sue truppe nella capitale, e dalla frontiera di Napoli richiamava Garibaldi, il quale trovandosi in Anagni, distante circa 60 miglia da Roma, avviavasi alla Capitale ove giungeva due giorni dopo colla sua gente stanca, per le marcie forzate a traverso un terreno in cui aveva patito perfino penuria di acqua. Il popolo di Roma, in onta alle calunnie colle quali avevano tentato denigrare e fargli prendere in odio Garibaldi ed i suoi, accorreva numeroso e festante a ricevere i nuovi venuti; il ministro Avezzana affrettavasi a stringere fra le sue braccia Garibaldi e a dir parole di lode e d'entusiasmo alla Legione. Colla presenza di Garibaldi eransi i Romani sentito crescere l'animo e ciascuno vi ravvisava un pegno di sicura vittoria. Frattanto, tornate vane tutte le trattative coi capi francesi, Roma erasi parata a sostenere l'attacco, il quale ebbe poi luogo nel 30 aprile del 1849. Alle ore 9 di quel mattino presentavansi i Francesi in numero di 7000 uomini, nella stoltezza del loro insanabile orgoglio persuasi, che gl'Italiani non si sarebbero battuti, e alla vista delle armi loro dispersi. Forse l'esempio di Novara, il cui funesto risultato erroneamente attribuivano a mancanza di coraggio ne' nostri, aveva in loro esagerato quel disprezzo verso gli altri popoli, così radicato in quella vanitosa nazione.

Tentata in primo luogo Porta Cavalleggieri da cui furono virilmente respinti per opera della guardia nazionale, eransi i nemici rivolti alla porta S. Pancrazio, ove stava Garibaldi con 300 uomini vegliando alla difesa. Con questo pugno di prodi egli sostenne l'urto dei battaglioni nemici, e per qualche momento ne contenne la foga: vide in quella gigantesca lotta cadergli morto a fianco il maggiore Montaldi, in freschissima età, e venuto pur esso d'America; vide al Padre Bassi che stavagli accanto ucciso d'un colpo il cavallo; una palla di cannone battendogli poco discosto l'aveva coperto di polvere: la cintura della sua spada era stata lambita da un tiro di moschetto; due altri avevangli bucato il poncho; buona parte dei 300 erano caduti feriti nel petto, e stanche le braccia nel percuotere il nemico; — e questi superiore sempre di numero si avanzava occupando il posto dei caduti non più difeso. Allora Garibaldi si ritrasse in ordine coi superstiti e si ricongiunse alla riserva. — Riordinò celeremente colà le scomposte file, e unito ad altre truppe non entrate ancora in battaglia, si riversò impetuosamente sui nemici che già s'erano inoltrati fin presso le porte; l'urto e il furore dei combattenti furono tali, che i francesi perduto alla fine ogni ordine, cominciarono a retrocedere e a cercare un rifugio nelle case vicine, ove riescirono a trincerarsi, ma per poco; chè Garibaldi con tre sole compagnie si avventò egli stesso a sloggiarli, e con tanto ardore gl'investiva, che dopo un lungo combattere astringevali a ritirarsi facendo loro molti prigioni. — Durò il memorando conflitto fino alle 6 della sera, lasciandovi i Francesi circa 500 morti, e poco meno di 600 prigioni. Diresse Garibaldi quella difesa, e v'acquistò nuova fama pel maraviglioso coraggio, e le opportune disposizioni così energicamente secondate dalle truppe, dalla guardia nazionale e dal popolo.

Dopo alcune ore di riposo, Garibaldi ardente nel desiderio di cacciare d'Italia questi nuovi stranieri venuti a conculcarla, dirigeva nuovamente le sue truppe contro i Francesi ritiratisi a Palo, 10 miglia distante da Roma, con animo deliberato di attaccarli e venire ad un decisivo risultato. Il generale nemico, compreso quale fosse l'intenzione di Garibaldi, spedivagli un messo proponendo un armistizio, cui egli sdegnosamente: «andatelo a fare a Parigi.» Ma la proposta medesima fatta da lui pervenire al triumvirato alle cui determinazioni doveva in ogni caso sottomettersi, era dai supremi regolatori accettata, e Garibaldi rientrava quindi, benchè a malincuore, ne' suoi alloggiamenti in città, che l'accoglieva tra le acclamazioni e gli evviva universali.

Il giorno della battaglia i soldati avevano veduto il loro capo avvicinarsi amorevolmente ai feriti, abbracciarli, e dar loro il conforto di affettuose parole e di lodi: « Consolatevi, diceva, voi cadete in Roma per la libertà e l'onore d'Italia. »

Sublimi parole che rivelano l'altezza dell'animo, la potenza di sacrificio e la tempra dell'amore alla patria in chi le pronunciava, e in chi le udiva confortato! Possano gl'Italiani tutti comprendere, e mostrarsi degni di siffatte consolazioni!

Il dì dopo allorchè avviava le truppe a respingere i Francesi da Palo, ei volle in prima recarsi sul campo, ov'erano caduti i prodi commilitoni, per onorare di sepoltura gli estinti, e assicurarsi meglio se qualche ferito fosse rimasto dimenticato sul luogo. Le quali amorevoli premure osservando i valorosi soldati, sentivano sempre più crescere in loro l'affetto per l'umano e non meno valoroso lor capo.

Dopo questa vittoria riportata contro lo straniero e per la quale Garibaldi esultava contento di aver fatto una volta toccar con mano ai Francesi se veramente gl'Italiani si battono, quella fatalità che da tanti secoli pesa sull'infelice Italia voleva che quelle stesse armi che avevano respinto l'invasore venuto di Francia si appuntassero pochi dì dopo contro petti italiani; poichè essendo in quei giorni invaso il territorio della repubblica da un esercito mandato dal re Borbone, era necessario ricorrere alla forza onde respingere gli aggressori. Per lo che le truppe non ben anco ristorate del lungo faticare in quel giorno 30 d'aprile, dovevano rimettersi in marcia e disporsi a versare sangue fraterno. La qual impresa doveva profondamente affliggere l'italiano animo di Garibaldi, in estremo repugnante ai dissidi ed alle guerre tra noi figli d'una medesima madre. Pure la malignità degli uomini di Gaeta avevalo collocato in tale situazione, che imponevagli, senza via di scampo, anche questo dolorosissimo sacrificio — ed egli accettò. — Uscì da Roma con 4,000 uomini, e corse ad incontrare i fratelli convertiti in nemici, bramoso di torsi dinanzi quanto più presto fosse stato possibile l'amarissimo calice. Avevano i borbonici in numero di 7,000 occupato Valmontone, e Garibaldi ad ora già tarda erasi andato a collocare in Palestrina, posizione vantaggiosissima, nella quale meditava attirare il nemico che intento a riposarsi la notte non sembrava disposto venire alle mani per quel giorno; ma Garibaldi volendolo costringere a scuotere l'inerzia e ad uscire dai suoi alloggiamenti, gli tenne durante le ore notturne quattro compagnie continuamente ai fianchi con ordine di inquietarlo senza posa, e mantenere vivo l'allarme nel di lui campo; nè sopravvenuto il giorno egli faceva cessare quel fuoco, nella speranza che stanco il nemico di essere molestato, sarebbesi finalmente risolto a respingere seriamente gli assalitori; nè male s'appose, chè tratto in inganno dalla ritirata di quelli si lasciò facilmente trascinare ad attaccarne il grosso in Palestrina. Erano le 3 pomeridiane del giorno 8 di maggio allorquando la zuffa cominciò, e non ebbe fine che a tarda sera. L'insegna del dispotismo fu atterrata, la virtù repubblicana prevalse, ma del valore malaugurato dei napolitani fratelli, rimasero, dolorosa testimonianza, 800 uomini fuori di combattimento.

I Francesi che per molti giorni erano rimasti quieti nei presi alloggiamenti, collo scopo di guadagnar tempo, onde avere rinforzi d'armi, d'uomini e di artiglierie d'assedio, covando in petto il perfido disegno di restaurare pienamente l'antico ordine di cose dalla pubblica coscienza condannato, avendo fatto qualche movimento, per cui sembravano minacciare nuovamente Roma Garibaldi fu richiamato subito in città. Respinti da un lato i borbonici, venivansi inoltrando dall'altro su Bologna gli Austriaci. Gli Spagnuoli anch'essi sbarcavano in Fiumicino rivolgendo un proclama nella loro lingua al popolo, di cui s'annunziavano liberatori.

Fu in que' momenti che il triumviro Mazzini dirigendosi al plenipotenziario di Francia facevagli osservare la slealtà e l'ignominia di proseguire oltre gli ostili disegni contro Roma dinanzi alla triplice invasione accennata «Vi sarebbe in ciò, esclamava l'intemerato triumviro, qualche cosa simile all'accordo schifoso del 1772 contro la Polonia.» E l'accordo tra gl'invasori tutti v'era pur troppo, come risulta dai dibattimenti nell'assemblea francese nelle tornate d'ottobre. Ma intavolatesi tra il Lesseps e il triumvirato trattative di sospendere le ostilità, il governo pensò mettere a profitto quel tempo sbarazzandosi dell'esercito borbonico, che era nuovamente venuto ad accamparsi in numero di 16,000, e munito di numerosa artiglieria in Velletri ed in Palestrina, avente a capo lo stesso re Ferdinando, che male sapeva comportare l'onta della prima disfatta ricevuta dalle armi repubblicane.

Bologna già da vari giorni sosteneva a quell'epoca una lotta accanita contro l'esercito austriaco. Tuttochè priva di artiglieria, e in gran parte anche della sua armigera gioventù accorsa alla difesa di Roma, trovò nell'antica sua fierezza tanto e tale valore da resistere per otto intieri giorni al bombardamento e agli attacchi della preponderante forza, facendole costar cara la vittoria. Accompagnava l'orda barbarica il prete Bedini in nome di Pio IX.

In onta a questi rovesci ed ai pericoli che la stringevano, la repubblica mantenevasi ferma e lungi dall'affievolirsi nell'animo, spediva 12,000 uomini con 12 bocche da fuoco ad incontrare il Borbone. Comandava l'avanguardia il colonnello Giuseppe Marocchetti, il corpo di battaglia Garibaldi, il comando supremo commesso al generale in capo. Era sull'aggiornare del 19 maggio allorchè Garibaldi avanzatosi verso Velletri incontrava alla distanza di alcune miglia il nemico in grosso numero, ch'egli non esitò di attaccare con 100 uomini di cavalleria, seguendo il suo stile di mostrare in certi casi estrema audacia e risolutezza, affine di sorprendere la fortuna: ebbe in quello scontro la peggio, e negli avviluppamenti della ritirata gli cadde a terra il cavallo, che lui pure trascinò al suolo, lasciandogli contuso il volto e ferita una mano: ma risalito celeremente in groppa e postosi alla testa di 500 uomini di fanteria ritornava alla carica colle baionette calate, dinanzi alle quali il nemico cedeva il terreno, e finiva per andarsi a rifuggire sotto le mura di Velletri, da dove continuò ad opporre accanita resistenza, in onta alla quale Garibaldi proseguì a combattere, tuttochè inferiore di forze, non essendo ancora il grosso della spedizione romana ripervenuto al luogo della battaglia. Caricò a più altre prese il nemico alla baionetta, e sarebbe forse anche riuscito colle poche truppe sotto i suoi ordini a dare un colpo decisivo che avrebbelo fatto padrone d'una parte della città, se la poderosa artiglieria dei borbonici collocata nell'altura dei Cappuccini non lo avesse con vivo e continuo fuoco tenuto lontano. Ravvolgeva in animo Garibaldi il progetto di precludere la via di fuggire a re Ferdinando e farlo prigione, lo che forse temendo, erasi questi quasi sul principiare della battaglia messo in salvo, con ordine a' suoi soldati di seguirlo nella notte. Tutto il giorno 19 si durò a combattere vigorosamente da ambe le parti, e soltanto a sera avanzata si pose fine alla strage fraterna, che s'è fatta maggiore per l'arrivo durante il giorno delle altre forze repubblicane sotto le mura di Velletri, che tacitamente abbandonata dai borbonici accorsi a raggiungere il re fuggitivo, venne dai Romani, già preparati ad attaccarla, occupata nel giorno seguente 20 di maggio. Fu quello scontro doloroso e rimarchevole pel numero dei fratelli nel campo nemico rimasti fuori di combattimento, e che si fece ascendere a 1,200.

Avendo parte di quella spedizione contro Velletri, ripresa la via di Roma, Garibaldi si rivolse due giorni dopo con 8000 uomini verso il regno di Napoli, non senza speranza di raggiungere quei fuggenti accelerando le marcie, nè senza la lusinga che entrando nel regno sorgesse qualche moto favorevole alla causa della libertà. E questa lusinga appare evidente dal proclama che usciva in quei giorni diretto ai napoletani «Fratelli, diceva, noi non veniamo ad imporvi alcuna legge, veniamo per dirvi una parola libera, motrice di magnanimi affetti, per innalzare in mezzo a voi il vessillo della patria comune.» E se i Francesi non erano, forse l'Europa vedeva da quel canto d'Italia sorgere una potente favilla, che l'incendio avrebbe più fieramente ridestato. Non appena toccava Garibaldi Rocca d'Arci, che riceveva ordine dal governo di sforzare le marcie verso la capitale, disponendosi i Francesi a nuovamente attaccarla. Rifece adunque il cammino non riposando nè giorno nè notte, in tal guisa che il 2 giugno entrava colla sua colonna in Roma.

Il generale francese avea fissato il giorno 4 per riprendere le ostilità, siccome è provato dalla lettera ch'egli stesso inviò al generale Roselli: poi contro la data parola cominciò invece il fuoco nella notte del 2 al 3, con intento di sorprendere i difensori, e terminare con un colpo di mano l'impresa, che prevedeva difficile, tuttochè avessero affermato che gli Italiani non si battono.

A un'ora dopo mezzanotte i Francesi avanzaronsi alla villa Pamfili, rispondendo in italiano, colla mira di meglio nascondersi al grido d'allarme delle scolte, viva la Repubblica Romana; e in questa guisa riescirono in numero di 6000 a sopraffare il presidio che vegliava alla difesa di quel punto; ma pervenuta la notizia di tanta slealtà agli altri corpi, tutti accorsero indignati al loro posto preparati a qualunque evento. Il nemico avendo continuato a venire innanzi e a trarre colle artiglierie, il combattimento divenne ben presto generale. Fin dai primi rumori Garibaldi era accorso al quartiere delle sue truppe, che già in pronto non attendevano che i di lui ordini. — Dette poche parole raccomandando severa disciplina e di rammentarsi dell'onore italiano, guidavale a passo di carica a porta S. Pancrazio. Il nemico aveva già occupato oltre villa Pamfili quella di Valentini e l'altra dei Quattro Venti; l'energica resistenza opposta dalle truppe già accorse era stata superata dal numero, gli sforzi con cui eransi adoperate a sloggiarlo erano tornati vani. Garibaldi arrivava in quel punto, e postosi senza più alla testa dei battaglioni li rincorava coll'esempio; e col solito impeto li conduceva ad assaltare il nemico colle baionette: lì s'impegnò furiosissima la tenzone, che durò senza mai ristarsi per quattro intiere ore. Alla fine i Francesi non potendo tenere più fermo cedettero il campo già occupato, rimanendo però nella villa Pamfili. — Rinforzato di nuove truppe, il nemico tornò all'assalto, e dopo alcune ore di lotta disperata riprese le abbandonate posizioni. Verso mezzogiorno Garibaldi riordinata la sua gente, ed era sempre la stessa, conducevala per la seconda volta contro i Francesi, i quali con doppio numero di forze contrastarono ferocemente il terreno, che più tardi dovettero sgombrare. Ma il nemico potendo disporre di truppe fresche e di numerosi battaglioni, cacciava innanzi sempre nuove colonne, contro le quali non reggendo più il numero, Garibaldi dopo avere sostenuto per più volte e sempre colla stessa virtù lo scontro col nemico, ordinò la ritirata e si ridusse al casino detto il Vascello, da dove continuò a combattere sino alla sera. Ebbero i Francesi una perdita quattro volte maggiore de' nostri, e confessarono che quella era stata una lotta da giganti. Garibaldi dovunque appariva seminava il terrore e la morte[11]. Il combattimento durò 17 ore, la mischia fu più che tutt'altrove sanguinosa e feroce presso alla villa Pamfili, ove Garibaldi fece quasi sempre combattere corpo a corpo, all'arma bianca. Rendendo conto al Triumvirato di quanto erasi fatto in quel giorno egli scriveva, parlando dei suoi commilitoni «io non saprei distinguere alcuno, perchè tutti si sono egualmente distinti». Garibaldi perdè in quel giorno due degli uffiziali ch'eran venuti con lui d'America, i maggiori Ramorino e Peralta, degni d'onorata memoria. Il nostro valoroso amico Giacomo Medici, colonnello della legione portante il di lui nome, diede in quel giorno una solenne prova di quanto può aspettarsi da lui l'Italia nella futura guerra nazionale.

È impossibile, e riescirebbe d'altronde troppo lungo il tener dietro ad uno ad uno de' numerosi fatti in cui Garibaldi si fece rimarcare per valore e per accortezza sia nel respingere il nemico, sia guidando le sue truppe ad attaccarlo nelle proprie trincee. Nei giorni 5 e 6 di giugno furono rinnovate le offese dagli assedianti, i quali sempre ricacciati, resero quei giorni memorandi per le grandissime loro perdite e per nuove vittorie delle armi italiane. Garibaldi diè loro tali fierissime percosse, che li lasciarono sovente atterriti e sanguinosi. Le lotte dei tempi omerici furono in quei giorni rinnovate con lode somma dei nostri, coll'onta e col danno dei nemici. La luce diurna non bastando agli animi inaspriti, Garibaldi usciva di notte tempo ad attaccare i Francesi che certo non s'aspettavano a tanto ardimento. Era tale l'ardore, l'attività e l'indomabile coraggio di lui in quelle arditissime fazioni, che i Romani chiamavanlo il leone della serra. Memorabile tra tutti gli altri per individuale coraggio, si è il fatto in cui con solo 8 uomini di cavalleria cacciò da un palazzo fuori porta S. Pancrazio i famosi Chasseurs de Vincennes, che non seppero lungamente resistere a quell'impeto, e cercarono scampo fuggendo per le finestre.

Avendo i Francesi piantato delle batterie, i di cui fuochi riescivano oltremodo funesti ai Romani, Garibaldi mise mano a una via sotterranea, che li conducesse a quella volta con animo di farle colle mine saltare in aria, lo che impedivagli il nemico di mandare ad effetto, col rivolgere le acque dentro i lavori già avanzati, e de' quali egli s'era avveduto.

La sera del 10 meditando un audacissimo colpo, Garibaldi riuniva buon nerbo di truppe nella piazza di s. Pietro, e fattele disporre per una incamiciata, le conduceva fuori dei muri con ordine di avanzarsi in silenzio e di scagliarsi al convenuto segnale sull'accampamento nemico, colla baionetta alla mano. Un inaspettato contrattempo faceva sì che l'avanguardia sparato qualche tiro prima di giungere al luogo, rendesse avvertiti i Francesi dell'imminente pericolo e non più eseguibile il preparato assalto.

Tale stizza i Francesi aveano concepito contro Garibaldi, che allorquando appresero com'egli soleva dall'alto del palazzo nella villa Corsini osservar le loro operazioni e dirigere i movimenti delle truppe romane, cominciarono a far piovere sulla malaugurata casa e cannonate e bombe in tal copia, che non molto dopo dovette Garibaldi abbandonarla perchè interamente guasta e prossima a crollare. Di là egli trasportò il suo quartiere nella villa Spada, egualmente esposta ai tiri del nemico.

Spuntava frattanto il giorno 12, in cui il generale Oudinot, terminati i lavori d'approccio, trovavasi in posizione di poter bombardare Roma; per cui rivolgendosi alle autorità scriveva: che ove dopo 12 ore dall'intimazione la città non si fosse arresa, avrebbela attaccata di viva forza: al che il Triumvirato fermo nell'onorevole proposito: «Non tradiamo mai le nostre promesse, rispondeva: abbiamo promesso difendere l'onore del paese e la bandiera della Repubblica: manterremo la nostra promessa.» E dodici ore dopo ricominciava più che mai furiosa la pugna. Videro in quel giorno i Francesi tali prove di audacia, di valore e di militare scienza, che ne maravigliarono spaventati. Garibaldi dà di quella tremenda giornata, ch'egli dirigeva in persona, un saggio nella relazione che trasmise al governo; ivi è detto: «Il furore de' nostri era al colmo, poichè mancando di munizioni, questi prodi colsero le pietre, e con esse sconfissero il nemico, gli tolsero le baionette dai fucili, e se ne servirono come d'un arma terribile.»

In tutti quei giorni di lotta che seguirono dal 13 al 22, Garibaldi fu visto dì e notte continuamente nei luoghi ove più ferveva la battaglia, ed era più evidente il pericolo: la gente non sapeva com'egli potesse tanto assiduamente mostrarsi dovunque le emergenze di que' fortunosi momenti richiedessero la presenza d'un uomo che valesse col consiglio e l'audacia a debitamente provvedervi. Egli pareva non sentir mai il bisogno del riposo o quello del cibo: sarebbesi detto che nel fuoco e nelle aspre fatiche della guerra prendessero le di lui membra ristoro e forze novelle.

Occasione di nuovi ingenti sforzi e di valore disperato diede a Garibaldi la notte in cui i nemici per la lenta ma sicura via delle opere d'assedio, apparvero dentro i muri della città. Trovavasi egli in quel momento in un posto di riserva e non appena giungevagli l'infausta notizia, che in un colle truppe accorreva ad assalire colla baionetta calata il nemico, che in fortissimo numero già s'era trincerato nelle prese posizioni. Tornata vana tanta virtù, egli non si perdeva d'animo per questo; chè all'alba con nuovo furore avventavasi risolutamente un'altra volta all'ardimentoso cimento. Spinse i soldati a metter piede perfin sui lavori del nemico, e con tal impeto e dispregio del pericolo il fece, che erasi condotto tanto innanzi, che i nostri toccavano le punte delle carabine ai soldati nemici, le quali sopravanzavano dalle paralelle. Pure anco questo secondo tentativo rimaneva pur troppo senza frutto dinanzi all'ostacolo dei trinceramenti, senza di cui il nemico avrebbe dovuto come già altre volte ritirarsi sanguinoso e disfatto. Erano quelli momenti supremi, e la posizione tristissima; e nonostante il coraggio e il desiderio di nuovi paragoni col nemico in tutti raddoppiavansi allo spettacolo sublime di Garibaldi e de' suoi. — Roma riviveva ai tempi antichi.

Dalla nuova posizione in cui s'erano fortificati, i Francesi bombardarono senza posa per molti giorni la città, e gravissimi danni arrecarono agli antichi monumenti, che altri barbari e in più barbari tempi avevano rispettato. E la ferocia di codesti stranieri che non offesi, nè provocati eran calati in Italia senz'altra ragione che il numero[12], senz'altro diritto che il sangue, veniva spinta a tal grado, che i consoli delle estere nazioni, indignati a tanto strazio diressero al generale francese una nota nella quale protestando contro « quel modo d'attaccare che non solo minacciava le proprietà e le vite dei neutri abitanti, ma anche quelle delle donne e dei fanciulli, chiedevano in nome dell'umanità e delle nazioni civili che desistesse dal bombardare più oltre, per salvare dalla distruzione la città monumentale che è considerata come sotto la protezione morale di tutti i paesi inciviliti del mondo.»

In onta alla voce che il mondo cristiano sollevava per bocca de' suoi rappresentanti in Roma contro il vandalismo de' soldati di Francia, le bombe continuarono senza ristarsi un momento a cadere sull'eroica capitale d'Italia, e quanto più codesti pretesi liberatori dei popoli vedevansi da un piccol numero d'uomini, nuovi quasi tutti alle armi e privi dei potenti mezzi di guerra, di cui essi potevano disporre, contrastato il trionfo e sovente ancora battuti, tanto maggiormente s'imbestialivano, e il concetto furore con atti crudelissimi disfogavano. Poco pareva a costoro il fulminare notte e giorno la città coi mortai e co' cannoni, che anche spingevano all'assalto i soverchianti battaglioni; ma a traverso le tenebre, colla mira d'introdursi non visti e per sorpresa, dacchè l'approssimarsi di giorno e venire a far prova faccia a faccia del proprio valore coi nostri avevano vedute tornar loro sempre a danno e a vergogna. E tale esito ebbe il colpo tentato la notte del 25, in cui da tutti i punti assaliti vennero coraggiosamente respinti. Ripeterono l'assalto la notte del 27 giovandosi d'una fitta nebbia e attaccando colla baionetta; ma non valse loro nè la sorpresa nè la risolutezza dell'assalto, chè un muro insuperabile di petti cittadini s'oppose a contrastarli il passo. Ivi s'accese una mischia talmente accanita da ambe le parti, che durante tutta la notte si continuò a combattere, il micidiale incontro protraendosi fino a tardi nel giorno seguente. Garibaldi sempre in mezzo al fuoco aizzava i compagni in quel furore e gli esortava a non cedere, a tener fermo per l'onore italiano, e accorrendo dovunque accresceva l'animo e la rabbia nei combattenti. «Voi pugnate per la libertà e per l'onore d'Italia!» era il suo grido prediletto di guerra, e a quel grido raddoppiavansi come per incanto i colpi, sotto i quali cadevano i Francesi a mordere quel mal tocco terreno. L'orribile pioggia di bombe e di granate accompagnava incessantemente quegli attacchi alle fortificazioni, protetti pur anco dalle artiglierie che avevano già grandemente dilatato la breccia. Sulla quale avendo finalmente i nemici lanciato il dì 30 un numero sterminato d'uomini, poterono collocare una batteria che rendeva quasi del tutto vana ogni ulteriore resistenza. Nonostante male sapendo Garibaldi comportare quel trionfo del nemico, che oramai non era più in poter d'uomo contrastare lungamente, egli volle far prova di scacciarlo dalle occupate posizioni, e riuscivagli il colpo; senonchè rivennero poco dopo i Francesi alla pugna, e dovè Garibaldi ritirarsi non senza però ritentare la fortuna che sorridevagli per l'ultima volta, poichè avendo nuovamente respinto il nemico, quando tutto già pareva perduto, questi rinforzatosi con nuove truppe, rese impossibile ad umana forza ogni altro tentativo.

Questi rovesci ben lungi dal far desistere Garibaldi da ogni idea d'ulteriore resistenza avevanlo sempre più confermato nel pensiero di continuarsi ad opporre al Francese nella terza cinta protetta dalle barricate al di qua del Tevere, e dopo aver fatto rovinare il ponte di S. Angelo e quello di Sisto. Se il magnanimo proposito non fu mandato ad effetto, debbesi attribuire a cause che da lui non dipesero, e le quali la storia, fedele custode delle umane azioni, farà note più tardi.

Non patendo a Garibaldi l'animo di cedere le gloriose armi allo straniero invasore, risolveva uscire da Roma, ed avventurarsi a nuovi pericoli; e fatto appello ai compagni con queste parole che riportiamo fedelmente:

Soldati,

Ciò che io offro a quanti vogliono seguitarmi, eccolo: fame, freddo, sole. Non paga, non caserme, non munizioni, ma avvisaglie continue, marce forzate e fazioni alla baionetta. — Chi ama la patria e la gloria mi seguiti.

Garibaldi.

radunò circa 3,000 uomini coi quali s'avviò alla volta di Tivoli, non lontano forse dal credere che mantenendosi per qualche tempo nella campagna, avrebbe potuto riunire a sè maggiori e considerevoli elementi onde organizzare una lunga resistenza contro gli stranieri, che da due parti diverse aveano invaso l'Italia, e i quali ad un tempo s'affaccendavano ad inseguirlo, ben mostrando come degli Austriaci chiamati barbari non fossero punto dissimili codesti altri calati di Francia bestemmiando parole di libertà.

Non ignorava Garibaldi l'ardore con che ambedue si sarebbero egualmente lanciati sulle di lui tracce, e perciò affine di meglio celar loro e la propria situazione e le sue mire, aveva diviso in molti piccoli drappelli le sue genti che spinse in direzioni diverse, mostrandosi così nel tempo medesimo in disparatissimi punti. Per lo che i nemici, francesi ed austriaci, quantunque in numero di gran lunga superiore, mal sapendo ove rivolgersi per coglierlo, vedevansi obbligati ad errare alla ventura, e con inutili marcie stancare i propri soldati, che talora quando meno vi s'attendevano, sentivansi improvvisamente colpiti dai tiri d'un nemico, di cui non trovavan più orma. Con questo incessante avvicendarsi di marcie e di inseguimenti erasi condotto in Toscana, coll'intendimento di tentare anche quelle popolazioni e conoscerne l'animo. Apparve perciò nelle vicinanze di Montepulciano verso il 10 di luglio, e sostò per prendervi riposo sull'alpestre monte Fallonico, ove era impossibile al nemico l'avvicinarglisi. Entrò più tardi in quella città, ove da un convento di frati furongli tratti alcuni tiri di fucile; la qual cosa diede luogo a che Garibaldi ritenesse presso di sè e conducesseli fuori, e il sottoprefetto ed alcuni preti di quel paese, i quali rilasciò poi subito, senza ulteriormente occuparsi nè di loro nè dei frati.

Accennando da Montepulciano alla volta d'Arezzo, stavano in quest'ultima città e nella stessa Firenze in allarme gli uomini della ristorazione, e l'italiana Arezzo vide le sue porte chiudersi all'avvicinarsi di Garibaldi, come se uno straniero nemico o un malfattore la minacciasse. Contro la quale condotta protestarono in modo solenne il popolo e gli abitanti di quei dintorni, i quali affrettaronsi numerosi a salutare i fratelli ed a recar loro il bisognevole, onde potessero ristorarsi della fame e della sete patite in que' lunghi travagli.

Erano in que' momenti le condizioni d'Italia tutta, e di Europa, poco o nulla favorevoli alla causa della libertà, perciò i popoli non potendo corrispondere agli eccitamenti di Garibaldi, stavano quieti, oppressi dagli eserciti stranieri, accampati in gran numero nelle nostre provincie. Fattosi persuaso Garibaldi della realtà dolorosa, per cui doveva rimettere ai giorni avvenire il compimento del magnanimo proposito rifaceva i passi, avviandosi verso l'Umbria. Anche durante quella ritirata ebbe sempre ai fianchi l'austriaco, che inseguivalo numeroso e senza prender mai posa. Marcie e contromarcie precipitose e continue, riposi brevi, e conturbati sempre dal pensiero d'un attacco imminente, vigilanza diligentissima, corse per luoghi alpestri e tenuti per impraticabili; talora circondati dal nemico, che stava per serrarli nella vasta cerchia, che facevasi ad ognora più stretta, e con volte e rivolte sfuggirgli dalle mani, che già si stendevano sopra di loro; tal altra lanciarsi arditamente tra mezzo alle schiere nemiche, e transitare al punto bramato senza che azzardassero offenderli. Per siffatte circostanze fu maravigliosa quella ritirata verso gli stati romani, da dove Garibaldi risolveva ricoverarsi finalmente in S. Marino, nella certezza di esservi ben accolto.

La disciplina più rigorosa fu da Garibaldi fatta osservare dalle sue truppe lungo questa escursione; a tale spinse lo scrupolo da quel lato, che per lievi mancanze inflisse i più severi castighi. I luoghi per cui transitò non ebbero che a lodarsi dell'ordine e del rispetto alle persone e alle cose. Allorchè le vettovaglie mancavano, ei ricorreva alle comuni che fornivangli l'occorrente, e giammai si fece lecito di togliere da per se neppure lo strettamente necessario.

Molte volte i suoi uffiziali instarono presso di lui affine di indurlo a battersi col nemico, ed egli consultando la difficile posizione in cui si trovavano, e calcolato con maggior prudenza le cose, rifiutò costantemente di farsi aggressore. Mancavangli i mezzi di trasporto pei feriti, mancavagli un luogo sicuro ove depositarli: come mai avrebbe egli potuto acconsentire in tanto critica condizione, che i di lui compagni s'esponessero alle eventualità di una lotta, dalla quale erasi convinto non poter più ricavare quei benefizi di che si era lusingato dapprima?

Entrava quindi in S. Marino, ove il governo e gli abitanti facevangli tutta quell'onorevole e lieta accoglienza che si doveva a fratelli. Quivi chiamati a sè gli uffiziali, rendeva lor noto essere oramai inutile continuare nell'intrapresa, e necessario quindi lo sciogliersi, e provvedere ciascuno alla propria salute in quella terra amica. Frattanto l'austriaco avea per mezzo del governo di S. Marino fatto proporre a Garibaldi una capitolazione, colla quale era offerto libero il campo per ritirarsi al proprio paese ad ognuno della sua colonna, ed assicurato a lui un passaggio per l'America. Concertato col reggente di S. Marino il modo di salvare i compagni, rifiutò per sè ogni patto dell'austriaco, cui non volle umiliarsi.

Non rimanendo in Italia più altro campo ove si combattesse contro lo straniero, tranne Venezia, ei concepì lo ardito divisamento di recarsi a far le ultime prove nell'eroica città, che oramai sola sosteneva la bandiera italiana colla guerra. Perciò accompagnato dalla moglie che da Roma avevalo voluto seguire ad ogni costo, e da un centinaio d'uomini i quali in onta a tutto non seppero risolversi ad abbandonarlo, scese dalla montagna di S. Marino alle pianure del Cesenatico, ove stavano a vigile guardia numerosi gli austriaci, più che mai bramosi di averlo nelle mani. Mercè la scorta di generosi patriotti di quei dintorni potè la piccola brigata passare non vista in mezzo ai nemici, e giungere alla sponda senza verun ostacolo. Solo non ebbe amica la fortuna quel santo martire, il quale smarritosi nella corsa cadde in potere del nemico, e più tardi spirò in Bologna rotto dai piombi tedeschi stromenti dell'ira clericale. Perdita che lasciò un immenso dolore nell'animo di Garibaldi che nel P. Bassi venerava il vero tipo dell'uomo di Dio.

Era questa la terza volta che egli veniva colpito nella parte più sensibile del suo cuore dacchè aveva riveduto la patria. Fin dai primi giorni del suo approdo in Genova la morte ponendo fine al martirio di una troppo lunga infermità, avevagli rapito l'antico fratello d'armi, il colonnello Anzani, al quale stringevalo stima ed affetto caldissimo. Combattendo sotto le mura di Roma contro i Francesi erasi veduto orbare d'un altro a lui estremamente caro per valore e per senno militare, il colonnello Masina di Bologna. Pareva che un maligno destino salvando a lui la vita da tanti e così fieri pericoli, volesse fargliela misera ed insopportabile, accumulando sul di lui animo dolori sopra dolori, che qui non ebbero ancor fine.

L'austriaco informato del rifiuto di Garibaldi per le condizioni propostegli, emanò severissimi ordini contro chi avesse dato asilo a lui e ai compagni, e come se l'atto già di per sè barbaro non fosse bastante, un altro volle aggiungerne più barbaro ancora. Eragli noto che la indivisibile compagna stavagli a fianco; — ed egli, il tedesco, ricordavalo alle popolazioni, affinchè meglio fosse riconoscibile il marito! e non si vergognava di avvertire inoltre come a più chiaro indizio, che era la donna incinta da vari mesi. Lo stato dell'infelice Anna, che per qualunque altro nemico sarebbe stato un titolo a mitigare i feroci diritti della guerra, doveva servire invece coll'austriaco a fare più desolata e lagrimevole la condizione di lei! Tali sono gli uomini che pesano sulla nostra sventurata patria!

Ma il bando assassino dello straniero non metteva punto sgomento nel cuore di quei generosi abitanti, poichè non solo ebbero i fuggitivi fraterna accoglienza dovunque, ma trovarono sulla riva pronti i pescherecci bragozzi che li accolsero e li condussero lontano.

Rivedendo il mare, e sentendolo fremere intorno a sè, quasi fosse la cara voce d'un amico, esultava Garibaldi tra i buffi del vento che venivano a scompigliarli sulla fronte i lunghi capegli; e navigando alla volta di Venezia sentiva ognora più rinfrancarsi l'animo al pensare, che tra non molto avrebbe potuto toccare la terra desiderata e forse operare ancora qualche bel fatto che il suo nome non solo illustrasse, ma, ciò che più stavagli a cuore, al nome italiano fosse onorevole, e alla causa della libertà di giovamento. E l'ardore e la straordinaria concitazione dell'animo suo ei comunicava ai compagni stimolandoli colla seducente pittura de' nuovi pericoli e delle più splendide glorie.

Così viaggiando tutta una notte erano sull'albeggiare pervenuti all'altura di Comacchio, allorquando vedevansi sorgere dinanzi, e non molto da loro discosto, i legni da guerra austriaci veglianti in quelle acque, e senza alcun dubbio attendendoli. Appena scoperti furongli rivolti sopra i cannoni, che incominciarono a bersagliarli fieramente; in breve alcuni bragozzi andarono capovolti perendo miseramente le persone, altri furono raggiunti e fatti prigioni; solo, per quanto ci consta, pervenne Garibaldi a riguadagnare la costa col suo palischermo. Forse alla sua rara abilità di marino, alla robustezza del braccio, e al raro suo sangue freddo, ch'egli conserva sempre inalterato anche ne' momenti d'estremo pericolo, o forse al volere della Provvidenza che lo riserba al compimento di qualche alta impresa, è dovuto se in tale emergenza potè sottrarsi agli inseguitori.

Toccava finalmente la spiaggia; ma ivi la sua costanza ed il suo valore dovevano trovarsi alla più tremenda prova, che mai padre e marito possano sopportare. Tante corse affannose pe' monti tanti giorni e notti senza prendere riposo, e lo sgomento continuo nell'animo per la sorte del marito, e le privazioni d'ogni cosa al di lei stato indispensabile, e l'incontro fatale sul mare, tutto aveva contribuito a spossare le robuste forze della infelice sua donna, e a condurla a termini di morte. Al toccare la riva appena rimaneva alla sventurata un tenue alito di vita — Era quel luogo deserto; e nessun soccorso poteva venirle apprestato. Più tardi apparve qualcheduno cui Garibaldi mandò in fretta a Ravenna per un medico; ed inoltre potè dalla pietà di quelle genti ottenere un biroccio, sul quale adagiò la morente, che condusse nella casa d'un contadino, in una terra del marchese Guiccioli, non molto lontana dal mare.

La povera famigliuola che l'abitava commossa a tanta sventura di quegli sconosciuti offrì un letto per la donna moribonda — Sventurato! appena Garibaldi ebbe tempo di coricarla, che già la travagliata aveva finito di patire!

Quel colpo atterrò l'animo di colui che aveva tante volte nei suoi giorni sentito senza punto commoversi ruggire intorno a sè la desolazione e la morte — Chinò il capo come cedendo al peso di così grande dolore; poi chiesto un bicchier d'acqua per mitigare l'arsura che stringevalo alle fauci, ed alzato lo sguardo al cielo, quasi invocandolo a testimonio di quanto pativa per la causa dell'umanità, e dato un ultimo doloroso addio alla fredda spoglia della amata sua donna, uscì frettoloso da quella casa e disparve.

Povera Anna! Ella che soleva con tanto amore visitare in America la sepoltura d'una sua figliuoletta, che Dio le tolse, e volle tra i suoi angeli, e con quell'affetto istesso con cui s'affaccendava a renderla vaga e lieta d'ornamenti in vita, davasi continua cura perchè il sepolcro ch'avevala accolta paresse men tristo, e desse testimonianza d'un amore che durava oltre la fossa, povera Anna! era gran mercè se la cristiana carità del buon contadino che avevala ospitata, poteva dar riposo alle sue ossa in un campo ignorato, senza che un segno le indicasse alla pietà de' suoi cari, o alla reverenza di quanti hanno in pregio tanta virtù e tanto amore di sposa!

Ma quelle ossa non poterono aver pace! chè

La derelitta cagna ramingando

sconvolse quella terra, che le copriva, e svelò all'inquisizione dell'austriaco la colpa del povero contadino, il quale convinto d'aver dato ricetto in vita e poi sepoltura a quella morta, fu da que' feroci messo in carcere!

All'uscire dall'infausta casa, Garibaldi aveva seco un suo fido, capitano Leggero di Sardegna, il quale d'America era venuto con lui a prender parte alla guerra nazionale. Accompagnato da questi, pensò guadagnare lo stato sardo, unico luogo in Italia, in cui poteva sperare tranquillità e sicurezza; ma il cammino era difficile e lungo, tutti gli stati romani da quel lato erano occupati dagli austriaci, la Toscana medesima erane ingombra, pure fidando in Dio e nella sua stella s'accinse al periglioso viaggio.

Ignoravasi dovunque la sorte toccata all'uomo che aveva con sè l'amore di tutti: non v'era patriotta in Italia che trepidante non ne chiedesse novella: erasi sparsa la voce che avesse approdato in Venezia, e fu questa una pietosa invenzione per eludere l'austriaca vigilanza; in Venezia stessa era stato annunciato imminente il di lui arrivo, ma fra l'incertezza di queste voci tutti perdevansi in conghietture, e facevano voti per la salvezza d'un tant'uomo: la speranza di saperlo fra non molto fuori d'ogni pericolo albergava nel cuore di tutti i buoni, ma talora le liete speranze veniva a troncarle il lungo silenzio e il non udirne mai nuova.

Frattanto egli imbattutosi in uomini pei quali la patria è una sacra parola, aveva in essi trovato appoggio ed asilo fraterno; molti giorni rimase celato in luogo, che non crediamo ancora fuori di pericolo per que' generosi il rendere noto; di là scortato sempre da qualche fido da uno in altro punto veniva lentamente avvicinandosi: sovente ozioso nel giorno, e ricovrato ne' boschi aspettò il favore della notte per continuare il viaggio, talora incalzato dagli eventi s'aggirò tra le file dei nemici, mentre forse stavano meditando in qual modo avrebberlo potuto raggiungere; altra volta mentre seduto in una osteria attendeva a rifocillarsi, capitò, e s'assise accanto a lui il croato, che senza sospetto vide quello sconosciuto alzarsi e partire.

Dovunque egli trovò ardenti e coraggiosi patriotti, che per lui non badarono a pericoli nè a fatiche; e sappiamo d'un parroco il di cui nome aspettiamo tempi men tristi per segnalare alla riconoscenza di tutta Italia, il quale confortò l'illustre fuggiasco di tutte quelle amorevoli cure, che soltanto sa suggerire un nobile animo, educato alla sublime dottrina del Vangelo.

Finalmente dopo tanto errare, dopo tante dolorose vicende rivedeva la marina dalla costa toscana. Novello Mario inseguito da crudeli nemici e colla morte ruggente alle spalle, egli pure dalla spiaggia tendeva lo sguardo sulle onde in traccia d'una vela, che il raccogliesse, e come Mario ei vedeva una barca propizia a suoi voti approssimarsi alla riva ed accoglierlo nel suo seno: ma del fuggiasco romano più fortunato egli trovava cuori generosi, che lungi dallo spaventarsi all'apprenderne il nome, vogarono più lieti alla costa sarda, superbi di poter salvare un tant'uomo.

Era il 5 di settembre, ed il giorno trentacinquesimo del travaglioso viaggio, allorquando la barca guidata da pescatori, raccoglieva la vela sulla rada di Porto Venere. Garibaldi aveva unicamente tre lire in suo potere! e male ei quindi poteva rimunerare a danaro i suoi salvatori, cui diede unica ricompensa un'abbraccio, che que' buoni popolani accolsero colle lagrime agli occhi, e uno scritto, che renderà fede ai futuri della sua riconoscenza per tanto benefizio.

Ricevuto in Porto Venere con segni di manifesta reverenza e d'amore dal popolo, ebbe da un amico i mezzi per recarsi a Chiavari, ove appena arrivato, il governo per mezzo de' suoi agenti s'impadronì di lui, e fecelo scortare coi carabinieri a Genova, ritenendolo ivi custodito nel palazzo ducale.

Il Parlamento appena conosciuto il reo procedere del ministero contro un cittadino, che aveva pur tanti diritti non solo ad un'accoglienza amorevole per le sue sventure, ma al rispetto e ad ogni onorifica dimostranza per quanto aveva operato in pro della patria comune, biasimò altamente ed a gran maggioranza di voti quello scandaloso contegno, adottando il seguente ordine del giorno, che noi riferiamo ad encomio dei nobili sentimenti e dell'indignazione generosa, manifestati nella tornata del 20 settembre dai rappresentanti nazionali. «La Camera dichiarando che l'arresto del generale Garibaldi e la minacciata espulsione di lui dal Piemonte sono lesivi dei diritti conservati dallo Statuto e dei sentimenti della nazionalità italiana passa all'ordine del giorno.»

In onta del quale Garibaldi continuò ad essere sostenuto in prigione, ove molti fra i più ragguardevoli uomini che trovavansi in Genova, e gli uffiziali del presidio affollavansi ogni giorno a visitarlo. Non mai uscì dalla sua bocca un lamento intorno a quel modo d'agire verso di lui, sembrava non accorgersi, o non dare alcuna importanza a quel passeggero capriccio della nemica fortuna. A quanti l'avvicinarono in quei giorni, egli non d'altro parlò che dell'avvenire d'Italia, confortandoli ad aver fede e ad unirsi concordi per la guerra nazionale, nè lontana, nè perduta, affine di raggiungere la bramata vittoria. Quegli stessi che prevenuti contro di lui andarono a vederlo per mera curiosità, ne partirono compenetrati d'un senso d'ammirazione, se non d'affetto.

Quanti altri che formano attualmente i più bei titoli che abbia l'Italia alla stima delle nazioni sono, com'era, ed è in parte tuttavia Garibaldi, calunniati, e costringerebbero in egual modo i loro nemici a ricredersi ed a stimarli, se fossero ben conosciuti!

Desiderando Garibaldi rivedere la vecchia madre in Nizza ed i figli, consentì il governo che v'andasse sopra un vapore: si disse che un agente di polizia in incognito lo accompagnasse. È impossibile descrivere l'entusiasmo del popolo nicese al rivedere il suo concittadino dopo tante avventure e dopo i fatti di Roma. Trattenutosi colà appena il tempo necessario per visitare i parenti e gli amici, risaliva a bordo del vapore per tornare a Genova, giusta la data parola, e mettersi nuovamente alla disposizione del governo. Il quale fermo nell'allontanarlo dallo Stato, alcuni giorni dopo fecelo trasportare con un vapore da guerra a Tunisi, avendo Garibaldi scelto per luogo della sua dimora quell'affricana città, venutigli forse in dispetto cotestoro della civile Europa, che con atti da veri barbari toglievano ai popoli la libertà, bombardavano città innocenti vantandosene liberatori, e procedevano tant'oltre da perseguitare perfino un individuo, solo ed inerme, e scampato per miracolo da tanti e così gravi pericoli.

Nel suo tragitto da Genova alla volta di Barberia, il vapore che lo conduceva approdò in Cagliari, ove la popolazione appena informata della sorte di Garibaldi s'affollò numerosissima sulle barchette, spinta dal desiderio di vedere almeno una volta quell'uomo di cui avevano udito tante nobili e maravigliose imprese. I fieri isolani, nelle cui vene scorre ardente il sangue latino, fecero ripetute volte echeggiare quelle sponde agli evviva al forte Italiano, e agli auguri di più lieta fortuna in non lontano avvenire — Era quello un ultimo addio, che l'Italia mandava al prode guerriero dall'estremo suo lembo — E quell'addio si prolungava sulle acque del golfo, come grido di madre desolata che vede strapparsi dal seno il prediletto suo figlio.

Salpato poco dopo per Tunisi arrivava in quel porto il giorno 21 di settembre; ma anche là attendevalo la vendetta francese e la persecuzione del governo sardo, se è vera la voce che ne corse[13].

Il Bey cedendo alle esigenze della grande nazione che non poteva vivere tranquilla se quell'uomo avesse avuto stanza in Barberia, negò il permesso a Garibaldi di sbarcare nella sua città. E al medesimo tempo quasi avesse voluto manifestargli l'animo suo non avverso, e forse anco a scusa del rifiuto impostogli dal più forte, il Bey gli offerì un vapore perchè si recasse a Malta, ove fosse piaciuto a Garibaldi trasferirvisi.

Simile anche in ciò a Mario, che fuggitivo dalle coste d'Italia si rivolse a quell'istesso porto, non molto discosto dal quale sedeva l'antica Cartagine, e dovette subito allontanarsene riprendendo nuovamente il mare per sottrarsi alle persecuzioni de' suoi concittadini e de' barbari, Garibaldi tornò indietro colla stessa nave, dal comandante della quale fu sbarcato nella piccola isola di Maddalena, collocata presso la costa settentrionale della Sardegna, ed ivi lasciato sotto la custodia del comandante militare del luogo, fino a che il governo avesse preso nuove determinazioni.

Quell'isoletta fu per Garibaldi l'oasi invocata dal viaggiatore affranto dalle lunghe e perigliose fatiche del deserto, sconvolto da fierissimi venti. Ivi trovò riposo, e volti amici e cuori che fecero sue le di lui pene. — Tutti quegli abitanti andarono a gara per testimoniargli l'interesse e la stima che sentivano per lui. Dal più ricco al più povero nessuno tra i buoni isolani lasciò di stringere quella mano che aveva sì fieramente percosso i nemici d'Italia; tanto essi l'amavano, tanta confidenza aveva egli ispirata col suo fare semplice e cordiale! — Crediamo dover nostro di specialmente rammentare qui a titolo d'onore il signor Susini sindaco nell'isoletta, padre di quell'istesso Susini, scelto da Garibaldi a suo successore nel comando della legione italiana in Montevideo, da cui il nostro amico ebbe le più distinte prove di affettuosa amicizia.

Nei molti giorni, che quasi dimenticato rimase colà, ei soleva per allontanare da sè la cupa malinconia, da cui era tormentato, esercitare il corpo e distrarre la mente colla caccia e la pesca, di lui prediletti passatempi. E un giorno mentre egli era in riva al mare vide un burchiello a vela navigare lungo la costa con evidente pericolo di capovolgersi, soffiando impetuoso il vento; nè s'ingannò, che poco dopo cresciuto questo in forza e fattosi più turgido il seno della vela, non presentando l'esile barchetta sufficiente peso a mantenere l'equilibrio, si piegò rovesciandosi sulle acque. A quella vista non rimase Garibaldi freddo spettatore; si precipitò nel mare seguito da un suo compagno, e tanto s'adoperò colle robuste membra e coll'ingegno, che que' naviganti furono salvati. Così la Provvidenza diede a lui occasione di mostrare agli amorevoli suoi ospiti in qual guisa ei paghi i debiti di gratitudine.

Non consentendo il governo ch'egli rimanesse più a lungo nel territorio sardo, fecelo trasportare dal brigantino il «Colombo» a Gibilterra, unico luogo ove potesse recarsi tra i più vicini in Europa. Al suo arrivo colà ebbe l'assenso del governatore soltanto per isbarcarvi e rimanervi pochi giorni. Richiesto il Console spagnuolo se sarebbe accolto in qualche punto della Spagna, n'ebbe risposta negativa — Andare in Francia non era cosa che potesse venirgli in mente. A fronte di tante turpitudini, il Console degli Stati Uniti d'America e con lui gli uffiziali delle sue navi da guerra, quasi a protestare contro tanta infamia per l'onore dell'umanità, si presentarono ad offrire al valent'uomo perseguitato dai vermi della diplomazia, oro, asilo nel loro paese, e un legno da guerra per trasportarvelo — Garibaldi non volendo allontanarsi d'Europa ringraziò que' nobili figli della libera America, e preferì tentare di nuovo l'Affrica. Partì pochi giorni dopo per Tangeri, nell'impero di Marocco, ove fu accolto da persona amica, e trovò quel pacifico asilo che invano aveva desiderato in patria.

All'apprendere questi fatti i posteri maraviglieranno senza dubbio per tanta ingratitudine verso un così illustre cittadino, e chiederanno indignati se le proteste d'amore alla causa italiana e alla libertà tanto spesso ripetute ai dì nostri da certi individui, fossero un'ironia gettata in volto a un popolo di imbelli!

Tutta la vita di Garibaldi è un continuo e non infecondo sacrifizio alla libertà e alla patria. Nei suoi atti d'uomo privato, come in quelli d'uomo pubblico, ne' lieti convegni degli amici, come nelle serie e gravi adunanze, uno fu sempre l'oggetto ch'ebbe in mira, uno l'argomento dei suoi pensieri e de' suoi discorsi: Patria e Umanità.

Le sublimi aspirazioni della forte anima sua costantemente s'elevarono a quell'altissimo concetto; di ogni altra cosa poco o nulla prese mai cura, perciò fu visto combattere sempre, e la causa americana difendere con quell'ardore medesimo con cui impugnò le armi in Lombardia ed in Roma — Al pensiero tenne sempre dietro e incessante l'azione.

Convinto che soprattutto l'Italia ha bisogno di riabilitarsi nell'opinione del mondo con forti e magnanimi fatti, e che la libertà, come il pane, dev'essere acquistata col sudore della propria fronte, egli vuol combattere solo co' suoi le italiane battaglie, e respinge come uno sfregio all'onore nazionale, e una macchia che rimarrebbe eterna nella storia d'Italia, ogni idea d'intervento straniero. L'Italia deve, e volendo può fare da sè, glielo impone il suo passato, lo esige l'altezza della sua missione avvenire. Lo schiavo ognor fremente, e in continua lotta virilmente sostenuta è per lui la più sublime protesta dell'uomo conscio della propria dignità; quegli che infingardo o fiaccamente operando invoca, e accetta sollievo dalla carità altrui lo muove a sdegno e disprezzo. Ei vorrebbe prolungata la schiavitù della patria, anzi che averla libera per mano straniera. Spezzerebbe la sua spada, e tra i ferri nemici cercherebbe la morte se all'Italia fosse riserbata quell'onta.

Uomo dell'Umanità, ei vagheggia nell'avvenire la fratellanza dei popoli, ma al banchetto delle nazioni ei vuol sedere da eguale, o non sedere. Può l'Italia dalla sua altezza discendere come l'uomo Dio nelle tenebre del sepolcro, ma come l'Uomo Dio deve risorgere per sua propria virtù — Grande sovra tutte le nazioni nel passato, deve esserlo nell'avvenire; l'esempio altrui male s'attaglia a chi esce dalla sfera comune.

Educato fin dai primi suoi anni ai principii delle libertà popolari e convinto che a raggiungere l'altezza de' suoi destini l'Italia deve in un futuro più o meno lontano essere una, ogni suo pensiero ed ogni suo atto concernente alla Patria, fu sempre diretto a quelle due mire; ma conscio egualmente che anzi tutto denno gl'Italiani acquistarsi l'indipendenza, egli, come tutti i suoi fratelli di fede politica[14], è pronto, messa a parte ogni individuale convinzione, a far sua la bandiera di colui, che offrendo maggior probabilità di riuscita, entrerà in campo irrevocabilmente deciso a cacciare oltr'alpe l'austriaco.

Garibaldi conta oggi 42 anni d'età. La stessa energia e l'ardore medesimo della prima gioventù governano tuttora quell'anima indomata. Il suo discorso breve, e d'ordinario pacato, s'infiamma, e dai suoi occhi scintilla un insolito splendore quando parla di patria e di gloria nazionale. Austero nei costumi, parco nel dar lodi, dal suo labbro non esce mai detto che offenda; delle offese ricevute non degna mover lamento e le obblia. Inesorabile nel suo sdegno verso i codardi ed i tristi, è indulgente co' valorosi.

Senza alterigia, come senz'umiltà, tratta con egual rispetto chiunque; il semplice soldato come ogn'altro ha sempre libero accesso a lui; pari all'ultimo de' suoi nel cibo, nel vestire e nelle privazioni della vita militare, si distingue soltanto per l'aspetto decoroso e la reverenza che nessuno sa negargli. Quanti l'avvicinarono gli rimasero amici: i suoi compagni d'armi ebbero sempre per lui affetto di figli. Allorchè un doloroso pensiero gli travaglia l'animo, ei suole calarsi sulla fronte il berretto e starsi o passeggiare solo e taciturno; ha il passo non greve, ma lento, e l'andare composto a gravità senz'ombra di studio. Per lo più serio e sopra pensieri, la vista d'un amico lo allegra e chiama il sorriso sulle di lui labbra. Fra persone di sua intimità talora s'abbandona allo scherzo, ma per poco, quasi l'assalisse rimorso d'aver sprecato il tempo. — Riverente alla madre, ottimo marito, è co' figli or sorridente, ora severo.

I tanti travagli durati per la propria patria e l'altrui gli hanno fruttato povertà, persecuzioni, un nome onorato in Europa e in America[15], l'odio dei tristi e l'amore del suo paese, di cui forma una delle più splendide glorie. Lasciò in Nizza la vecchia madre, coi tre figli, Menotti, Ricciotti e Teresita, all'educazione de' quali provvede con affetto di padre l'avvocato Garibaldi cugino del Generale: — egli, il suo amico Daideri, e non altri.

Uomini generosi, di cui non è difetto la Dio mercè in Italia, offersero al prode uomo ragguardevoli somme, che non accettò. D'indole laboriosa, egli trova dovunque come sostentarsi coll'opera sua; all'uopo non esiterebbe un solo momento a imbarcarsi per semplice marinaio. Sobrio, modesto, e tollerante le fatiche, poco gli basta.

Accettò con lieto animo una spada superbamente lavorata in Firenze, frutto d'una soscrizione nazionale. Un'altra eseguita dall'egregio artista Borani in Torino, dono essa pure de' suoi compatrioti, sarà tra non molto depositata nella sua casa materna.

Di queste spade una rappresenta nell'impugnatura l'Italia, che appoggiata al brando attende a ristorare le proprie forze.

Dio le infonda vigore! Quando l'ora di sollevarlo nuovamente sarà giunta, Garibaldi nol lascerà giacere ozioso. Dalle aride montagne di Marocco, donde mirando all'Italia, medita la grande vendetta, tornerà fulmine di guerra, a dar nuove glorie alla patria, nuovi argomenti d'odio ai malvagi, e, Dio confermi l'augurio, l'ultimo colpo all'austriaco fuggente oltre l'Alpi!

FINE.

NOTE:

1. Nel 1831 trovandosi Garibaldi in Taganrok capitò in una locanda, ov'eransi riuniti molti marini di varie parti d'Italia, i quali delle umilianti condizioni di questa avevan fatto doloroso argomento ai loro discorsi. Era tra costoro un giovane, il credente, a cui Garibaldi allude, il quale affannavasi a far concepire ai poco creduli compagni speranze di lieto e glorioso avvenire alla patria comune. Garibaldi dal fondo della sala porgeva attento l'orecchio a quel ragionare; e alla fine non potendo più trattenersi correva verso lo sconosciuto giovane e, col trasporto che ben manifestava l'ardore dell'animo stringevalo al suo seno. Da quel giorno ei divenne l'amico del cuore di quel credente, che lo iniziò alle dottrine della Giovine Italia.2. Vedi dal n. 9, 11, al 16.3. Vedi Corr. Liv., numeri citati, nei quali è diffusamente narrato questo fatto.4. Erano appunto sei mesi dacchè Garibaldi era stato dal governo incaricato della spedizione al Salto.5. Queste parole dell'ammiraglio francese non possono far allusione che alle ripetute calunnie a carico degl'Italiani apparse ne' giornali francesi intorno all'occupazione della Colonia, e specialmente ad articoli pubblicati nella Presse, generalmente attribuiti al signor Page, comandante del brigantino Ducoëdic, il quale trovavasi dinanzi alla Colonia all'epoca dell'occupazione suddetta, e traeva coi cannoni sugl'Italiani sbarcati, in luogo di mitragliare i nemici. — Il signor Page è tenuto nel Rio de la Plata come interessato partigiano di Rosas.

Era ministro di Francia in Montevideo il barone Deffaudis.

6 . Vedi: Réponse aux détracteurs de Montevideo par M. Pacheco y Obes , Paris 1849. 7 . Réponse aux détracteurs de Montevideo par M. Pacheco y Obes , già citato. 8 . Fra i molti che splendidamente contribuirono a formare la somma necessaria, si distinse il signor Stefano Antonini, negoziante di Genova, che sborsò la non tenue quantità di 30,000 lire e più onde favorire la nobile intrapresa. Nella storia della Legione italiana in Montevideo dovrebbe essere pubblicata la lista di tutti i contribuenti a quella spedizione. 9 . Fra questi ultimi merita speciale menzione Francesco Gaggini, il quale dopo venti e più anni d'assenza dalla patria, abbandonava ad un tratto i suoi ben avviati commerci per venire a combattere in Italia, e accompagnava Garibaldi fino al momento, in cui disciolta la Legione in S. Marino, ciascheduno doveva provvedere alla propria salvezza. 10 . Specie di mantello usato nelle campagne dei paesi del Rio de la Plata ed altri luoghi dell'America meridionale. 11 . Siège de Rome par B. Del Vecchio. 12 . L'esercito francese montava a 40,000; gl'Italiani sommavano appena a 12,000 di truppe regolari. 13 . Fu detto, che il Console francese in Tunisi d'accordo col sardo facesse vive istanze presso il Bey, onde Garibaldi venisse respinto; e che il secondo inviasse poi persona del Consolato a bordo del Tripoli con incarico di far presente a Garibaldi che egli, il Console erasi adoperato presso quel Governo affinchè gli accordasse la bramata ospitalità! 14 . V. Mazzini , Italia del Popolo . — Vol. II, pag. 23 — gennaio 1850. 15 . Nell'America del Nord quattro anni or sono vide la luce un romanzo intitolato Dolores nel quale a Garibaldi è assegnata una nobile parte. — Noi rammentiamo questo lavoro del nostro amico Harro Harring ad encomio dell'autore e di Garibaldi.