CONVERSAZIONI CRITICHE

4º Migliaio

ROMA

Casa Editrice A. Sommaruga e C.

Via dell'Umiltà.—Palazzo Sciarra

1884.

CONVERSAZIONI CRITICHE

G. CARDUCCI

CONVERSAZIONI CRITICHE

4º Migliaio

ROMA

Casa Editrice A. Sommaruga e C.

Via dell'Umiltà.—Palazzo Sciarra

1884.

PROPRIETÀ LETTERARIA

ROMA—Tipografia dell'Ospizio di S. Michele in esercizio di Carlo Verdesi e C.

PER IL CLASSICISMO E IL RINASCIMENTO

Nella Nazione di Firenze 23 settembre 1861.

PER IL CLASSICISMO E IL RINASCIMENTO

Lodiamo di buon animo i buoni pensieri ne'due scritti del dott. C., intitolati I beni della letteratura e I mali della lingua latina, intorno agli offici delle lettere e dei letterati, intorno alle pessime condizioni dell'educazione letteraria qual fu e qual è in parte ancora fra noi e alla necessità di una educazione piú veramente civile.

Ma noi amiamo e desideriamo il vero in tutto e per tutto: noi, abborrendo dalle comode declamazioni, crediamo non si possa comprendere in un odio e uno spregio sistematico tutto intero un secolo, tutta intera una letteratura, senza dissimulare molti fatti, senza sforzare molte illazioni, senza falsare molti giudizi; e, quando procedesi con buona fede e con animo volto al bene, com'è di certo il caso del signor C., senza involgersi in contraddizioni che nocciano capitalmente all'assunto. Anche noi anteponiamo di gran lunga, almeno quanto il signor C., la letteratura di Grecia alla romana, la trecentistica nostra a quella della seconda metà del Cinquecento. Il signor C. per altro, in quel che tócca della civiltà romana e della letteratura di tutto il Cinquecento, ha fatto ne'suoi scritti uno stillato, un sublimato, per cosí dire, delle opinioni del Balbo e del Cantú, e troppo ai loro asserti si affida, troppo si abbella fin delle loro citazioni. Ma il Balbo e il Cantú, oltre che in letteratura e in filosofia non attinsero sempre alle fonti, vollero anche giudicare la storia e la civiltà cosí antica come moderna dal solo punto di vista cattolico.

E a noi sa di fazione, dottor C., della fazione che spinse il cristianesimo all'intolleranza, alle persecuzioni, agli sperperi delle arti antiche, agli abbruciamenti delle biblioteche, fra cui esultava lo spirito selvaggio di Orosio, il prete spagnolo che poi doveva insultare all'eccidio di Roma, quel proscrivere, come voi fate, quel bandire all'odio universale tutta intera una civiltà, che improntò gran parte di mondo di quella unità meravigliosa onde s'aiutò poi il cristianesimo, che lasciò all'Europa il retaggio della sua legislazione, delle sue costituzioni, del suo senno pratico: la civiltà che sola diè all'Italia l'idea nazionale, da' cui frantumi risorse colla forma dei Comuni la libertà popolare, col simbolo dell'impero il concetto dell'unificazione. Quando voi dite che la civiltà romana ai nostri giorni farebbe vergognare di sé le piú barbare tribú africane, non c'è bisogno di confutarvi: simili sentenze portano nella loro esagerazione la loro condanna: ce ne appelliamo al Vico, da voi non degnato mai di né pur nominarlo. Né la letteratura romana ha bisogno delle nostre apologie, per non essere reputata ordinariamente sotto il livello della mediocrità e congegnata sempre sulla piú gelata apatia del sentimento: né del nostro aiuto han bisogno Cesare, Cicerone, Tacito, Virgilio ed Orazio, per rimanersene fra i piú grandi scrittori delle nazioni civili. Vero è ch'indi a poco voi salutate Tullio grande oratore, parlate dei canti immortali del castissimo Virgilio, onorate Tacito del titolo d' ingegno superiore al giudizio di qualunque non si levi all'altezza del genio. Come ciò possa stare con una letteratura ordinariamente sotto il livello della mediocrità, altri vegga: noi facciamo plauso alla buona fede. Del resto né pur gli argomenti che voi portate contro l'insegnamento della lingua e letteratura latina son nuovi: né voi, scrittore del Prete e il Vangelo, avete sdegnato di seguitare il canonico Gaume e il padre Ventura: basti dunque ricordare ai nostri lettori le risposte del Thiers, del Gioberti e dello stesso Tommaseo.

Ma non posso lasciar senza nota questa singolare asserzione: «E chi insanguinò sí atrocemente la rivoluzione dell'89, se non gli alunni della lingua e della morale latina?» Caro ed egregio dottore, la non fu colpa del latino, se un popolo gentile e cortese, se un'assemblea di filosofi umanitari dovettero ripurgar la Francia nei lavacri di sangue del 1792 e 93: tali eccessi furono dolorosa conseguenza dei piú grandi eccessi di un clero, il quale, se voi aveste scritto Il Prete e il Vangelo poco piú che un secolo fa, avrebbe fatto ardere per man del carnefice il vostro libro se non pur voi; dei piú grandi eccessi del feudalismo, il quale, se voi foste nato vassallo, come venti milioni d'uomini su a mala pena cinquecento, dava ad ognuno di quei cinquecento il diritto di riscaldarsi i piedi agghiacciati nel vostro ventre sparato, di salir primo nel letto della vostra sposa, o dottore. E il clero e il feudalismo non furono istituzioni della civiltà romana, che farebbe vergognare di sé le piú barbare tribú africane.

Veniamo alla letteratura del Cinquecento. Prima di tutto, se il dottor C. avesse attentamente seguíto il filo della tradizione romana dalla caduta dell'impero a tutto il secolo decimoterzo, ei non avrebbe detto che il Boccaccio fu il primo a far romane le nuove lettere; perché appoggiata d'una parte alle ruine del Campidoglio e al sorgente Laterano dall'altra avrebbe veduto dominar sempre su l'Italia la civiltà latina; perché nelle origini, nelle istituzioni, nelle glorie dei Comuni avrebbe veduto l'orgoglio del nome romano, lo avrebbe sentito nelle cronache, nei romanzi, nelle feste, nei canti; perché, a ogni modo, fu Dante il primo a far romana la letteratura dei Comuni italiani. E il quadro che il dott. C. delinea del Cinquecento è troppo ristretto, troppo vago, troppo caricato in certi punti e falso in certi altri, troppo copiato alla cieca dal libro XV della Storia Universale del Cantú, che tutti sanno non esatto né imparziale scrittore.

E ben si pareva, anche senza ch'ei ce lo dicesse, che il dott. C. non ha piú che scartabellato gli autori del Cinquecento: il che, se può bastare a buttar giú piú o meno calorose tirate, è poco a dar giudizio d'un secolo, il quale, se altro non avesse avuto che Venezia combattente contro tutta l'Europa, e le difese di Firenze e di Siena; se altro non avesse avuto che l'alterezza nazionale onde sotto il dominio straniero conservò purissimo il carattere paesano e ne improntò Francia Spagna e Inghilterra ad un tempo, e il senso squisitissimo e il culto amoroso del bello, che è sempre morale di per sé; se d'altri nomi non si gloriasse che del Machiavelli, del Guicciardini, dell'Ariosto, di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, del Tasso, del Sarpi (non metto come il dott. C. fra i cinquecentisti il Savonarola), avrebbe sempre diritto a esser gloriosamente ricordato fra quei secoli ne'quali il genere umano diè piú larga prova della sua nobiltà. Ah, signor C., ben pochi segni dell'alfabeto ci vogliono e pochissimi secondi occorrono a scrivere di queste righe «l'impudenza di abdicare i diritti del cittadino e di rinnegare la terra dei padri è un tristo privilegio dei cinquecentisti:» ben poco ci vuole! Ma, quando voi infamavate cosí molte generazioni d'italiani, non vi sorsero per un istante dinanzi agli occhi la greca figura di Francesco Ferruccio, non la romana di Andrea Doria, non la italianissima del Burlamacchi? E lo spasimo di un'anima e di un ingegno sublime tra l'ideale di una patria libera e grande e la realtà d'una corrotta politica, non lo sentiste voi mai nelle acerbe pagine d'un Machiavelli e d'un Guicciardini, le quali pur nel disperato scetticismo sono de'piú gloriosi monumenti del senno e della eloquenza italiana? E nel poema e nelle satire dell'Ariosto non vedeste la piú gran fantasia dell'Europa, che dalla trista verità del servaggio si ricovera nel campo della libera idea? E nei comici, nei novellieri, nei satirici non avete sentito erompere un concetto accarezzato dagli italiani, fin nel secolo decimoterzo, il concetto della riforma e della libertà di conscienza?

Ma voi conchiudete: «L'epoca che è corsa fra Dante e il Parini è una faticosa parentesi che interrompe il processo cronologico della letteratura italiana—parentesi che non ha relazione col suo contesto, ed è cosí estranea alle leggi di continuità, che è necessario addentellare la nuova letteratura al Trecento.» Voi avrete le vostre buone ragioni per obliare del tutto, non dirò il Tasso e l'Ariosto, sí il Machiavelli, il Sarpi, il Bruno, il Campanella, il Vico; ma e da vero la letteratura del Parini vi pare da potere addentellare solamente alla trecentistica? Ad altri in vece parrebbe che quel faticoso ed esquisito lavorío dello stile, quella cura della rotondità dei contorni, quelle frequentissime rimembranze mitologiche, non fossero virtú affatto affatto trecentistiche: e'parrebbe che la formazione della poesia pariniana tenesse del latino anche troppo: basti accennare le odi e molti luoghi del poema. E lo stesso può dirsi d'altri sommi della scuola del rinnovamento, i quali meglio mutarono le occasioni e le allusioni che non l'arte stessa, nella quale ritraggono piú dai cinquecentisti che dal Trecento. Ma voi seguitate: «dall'Alighieri al Parini, se si eccettui due canzoni del Petrarca, alcuni sonetti del Guidiccioni e del Filicaia, quattro versi e la vita di Michelangiolo, il Savonarola e il Galileo, sei costretto a traversare quattro secoli di stupido oblio per la patria italiana.» E noi vi regaliamo anche il troppo celebre sonetto del Filicaia: ma e l'ultimo capitolo del Principe, e le Storie del Varchi e del Nardi, e le orazioni del Casa per la lega e altre di altri, e tutto quasi il canzoniere dell'Alamanni, e molte poesie non plebee di cinquecentisti e secentisti, fin del Marini, e quelle del Chiabrera e del Testi, e piú luoghi di poemi famosi, e le Filippiche del Tassoni, e le prose del Boccalini mostrano elleno questo stupido oblío della patria italiana? Lo mostrano molte altre e poesie e prose che giacciono inedite per le biblioteche, colpa la erudizione pusillanime de'nostri critici d'accademia e di sagrestia? E il nome d'Italia non ricorre frequente fin nei versi degli Arcadi? Ben poco bastava aver veduto della nostra letteratura, per non proferire un'accusa sí amara; della nostra letteratura, a cui fu dato taccia di essere troppo egoisticamente nazionale.

Anche, avrebbe dovuto il dott. C., per acquistarsi maggior fede, curar piú la esattezza dei particolari e delle citazioni. Nulla dirò delle poche notizie intorno ai cinquecentisti, ch'egli ha per sua confessione solamente scartabellati, e dove gli errori son piú veramente imputabili al Cantú che non a lui. Ma in certo luogo, dopo aver chiesto il bando della lingua latina dalle scuole, egli, per mostrare con gli argomenti del D'Alembert la impossibilità del recare in quelli studi la critica grammaticale ed estetica, domanda agli uomini di buona fede: «come sentiranno che Virgilio sia cosí trascurato nella lingua da aver ordinato egli stesso la dispersione dell'Eneide, che a noi pare un modello di latinità?» Veramente non è questione di lingua scorretta: Virgilio voleva arso il poema, perché non gli aveva dato ancora l'ultima mano né l'avea terminato ( ut rem inemendatam imperfectamque ), e sconsigliatone da Seneca e Varo lo legò loro per testamento, sub conditione ne quid ederent quod a se editum non esset, et versus etiam imperfectos, si qui erant, relinquerent: tanto era lungi dal dubitare della correttezza della lingua: veggasi Donato e i biografi tutti. «Come comprenderanno—séguita il dott. C.—che Orazio sia verboso come ne è tacciato da Ovidio?» Veramente il tenuit nostras numerosus Horatius aures non suona rimprovero di verbosità, ma è lode di armonia nel numero e di pienezza di stile: veggansi i dizionari. «Come Cicerone, lo dicono Tacito e Quintiliano, camminasse balzellante od incolto?» Veramente non è Tacito che dice incólto Cicerone: è l'oratore Apro, il partigiano del cattivo gusto, il Tesauro del tempo suo, introdotto nel famoso dialogo da Tacito come antagonista di Messala, seguitatore della buona tradizione, è Apro a cui Tullio sembra non satis expolitus et splendens; quali apparivano gli scrittori nostri del Trecento ai letterati della scuola del Bettinelli e del Cesarotti. E Quintiliano non fa che riferire come Cicerone ad alcuni suoi contemporanei avesse aria di essere in compositione fractior et exultantior: ma quanto debban reputarsi fondati sul vero i giudizi dei contemporanei, impacciati dalle parti politiche o dalle scuole letterarie, non importa avvertire. E le accuse di arcaismo a Sallustio e di patavinità a Livio erano non dell'opinione pubblica, sí d'Asinio Pollione; il quale fu, come a dire, un pedante che andava per la maggiore e si compiacea dei paradossi; archetipo di molti critici de'nostri giorni. Per quel che tócca a Ovidio, non è difficile anche a noi moderni il sentire come il Sulmonese corra profuso quasi sempre e sia dilavato talvolta; e potremmo anche additare i versi ove egli fallisce alle regole inventate di poi. Ma che monta? togliesi con ciò il pregio ad Ovidio di essere uno de'piú copiosi scrittori romani? Anche Dante e il Petrarca e il Boccaccio e il Machiavelli trascurarono piú d'una volta le regole del benemerito Puoti. E il verso d'Ovidio, che il dottor C. riporta come una confessione fatta dal poeta del suo sgrammaticare, Num didici getice sarmaticeque loqui, non significa veramente cotesto; sí è un accenno dello aver egli scritto nella lingua getica: del che piú largamente altrove:

Ah pudet! et scripsi getico sermone libellum. Structaque sunt nostris barbara verba modis.

Et placui gratari mihi, coepique poetae Inter inhumanos nomen habere Getas.

Dopo ciò e con ciò tutto io non consiglierei l'Italia di arrendersi al piacere del dott. C. e ad abbandonare nell'istituzione giovanile l'insegnamento del latino. Per simili proposte di demagogica incultura e di sospettoso pietismo, ella n'ebbe alcuna volta di male parole dal Foscolo e dal Gioberti, non pedanti, credo. Del resto, all'Alighieri e all'Ariosto, al Vico e al Manzoni, avere scritto versi latini non guastò mica né l'ingegno né l'animo né la pietà.

IL BUCO NEL MURO

DI F. D. GUERRAZZI

Nella Nazione di Firenze, 3 marzo 1862.

IL BUCO NEL MURO

di F. D. Guerrazzi

Se alcuno, gittando gli occhi su tale argomento di appendice letteraria in un giornale stato sempre avverso ai procedimenti politici di F. D. Guerrazzi, se ne ripromettesse una fitta d'allusioni maligne o di volgarità invereconde, quegli s'ingannerebbe a partito. Di molte cose è ignorante chi scrive la presente appendice; ma questo non ignora, questo fermamente crede e liberamente professa: che lo scrittore, il quale pur essendo di pochissime facoltà rispetta in sé il ministero delle lettere, non ha da sottomettere il pensiero e la penna né al superbo giudizio della opinione creata dalle parti né alla variabile moda; e che a scrittor giovane massimamente si addice la osservanza verso chi formò con l'ingegno potente molta vita intellettuale della generazione a cui egli appartiene, a chi, atleta già provato nella lotta senza fine col male, resta diritto nel campo aspettando e ricercando tuttavia la battaglia, mentre i sorvenienti si perdono dietro a farfalle ed a fiori o scioperano all'ombra de'sacri boschi non da loro piantati.

F. D. Guerrazzi è l'ultimo superstite degli illustri toscani, che nella metà prima di questo secolo resero onore e diedero impronta propria e rilevatissima alla letteratura che oso ancora chiamare toscana, della quale ognun sa quanto bassa fosse caduta nel secolo scorso. E ognun sa come dal '15 in poi prevalesse in Italia la scuola in prima solamente lombarda, poi anche piemontese; la quale era messa in atto da quel comune impulso, che respinse le nazioni d'Europa dalla imitazione francese del secolo decim'ottavo alle loro origini, alle antichità loro storiche e letterarie, ma che pur ritenne qualche cosa del carattere rivestito in Germania, nella Germania della Santa Alleanza, onde mosse da prima, e ove fu per qualche tempo riazione non solo contro la conquista francese ma contro la rivoluzione incarnata nella repubblica e nell'impero invadenti. Anche nella Francia avemmo a udire il Lamartine e l'Hugo, trasportati da quel movimento un po' cieco e furioso, declamare nei loro princípi contro la rivoluzione e l'89. Non furono sí ciechi i nostri, lombardi e piemontesi: ma pur si ristrinsero in un cristianesimo un po' troppo stazionario, piú disposto, per dirla con Dante, a patire che a fare; vagheggiarono di soverchio il medio evo cosí per la rappresentazione artistica come nell'essenza storica: onde il neoguelfismo, che fu un male: onde la confederazione italiana col papa a capo, che altri seppe accortamente pescare nei loro princípi e nei loro dettati. Che se alcuni potenti d'ingegno e di volontà giunsero a liberarsi dalle conseguenze ultime di certe premesse, abbiamo tuttavia recente l'esempio d'uno scrittore di quella scuola, che ha mostrato apertamente non poter menarci buona l'unità; la quale oramai è pur condizione necessaria ed unica del nostro esser civile. Allora fu bello veder la Toscana levarsi d'un tratto a contrastare non di lingua né di forma, ma di pensieri e di massime; levarsi a difendere la vecchia tradizione del suo Dante, del suo Machiavelli, del quasi suo Alfieri. Nell'alta Italia tutto informava, con forza vera e nuova tra noi, la personalità di Alessandro Manzoni: egli la fonte da cui scaturivano la politica e la storia, la filosofia, la poesia, il romanzo. Se non che egli, con quel senso squisito di convenienza che è primo carattere, anzi, direi, grandissima parte del suo ingegno, non avea forse mai trasmodato: sí trasmodarono gl'imitatori e seguaci. E allora l'autore del Nabucco insorse alla sua volta col Procida e coll' Arnaldo; allora contro gl'innaiuoli e gli scrittori di ballate, contro i menestrelli e trovatori in caricatura, contro i genii incompresi e non comprendenti, contro gli arcadi nuovi, insorse la lirica satira del Giusti; allora contro i romanzi moltiplicati sino al fastidio da ispirazioni e reminiscenze feudali di sagrestia insorse F. D. Guerrazzi col maggior suo romanzo, ove protagonista è il popolo, catastrofe la caduta della libertà e dell'Italia. E a questi tre scrittori massimamente si ha obbligo, se la Toscana, non ostante la sua gloriosa autonomia, non ostante le tradizioni di democrazia recenti e vive nel suo popolo, gridò prima l'unità, trascinò seco nel concetto dell'unità tutta Italia. Questa giustizia dovevasi alla scuola letteraria toscana e all'ultimo superstite rappresentante di lei.

Parlare in genere dei difetti d'arte che son nei romanzi dell'illustre scrittore sarebbe inutile, quanto discorrere i pregi di quello del Manzoni. Chi non sa che quei difetti gli ha confessati in certi luoghi l'autore stesso? Chi non sa che quel suo ingegno altero, solitario, chiuso in sé, che trae la ispirazione piú dall'uno che dal molteplice, piú da dentro sé che dal di fuori, non gli permette di variare atteggiamenti e colori, meglio condensa il suo raggio affocato sopra certe figure e scene fantastiche di quello che non si allarghi chiaro e sereno nella vita esterna reale? Chi non sa che, a guisa del poema di Giorgio Byron, il romanzo del Guerrazzi precipita, come torrente, di cascata in cascata, e cerca rupi e scogli contro i quali infrangersi spumeggiando; piuttosto che si devolva pieno ed eguale nell'analisi graduata dello Scott, come fiume in lati e declivi meandri? Ma e chi può negare la potente originalità dello scrittore livornese? Mi si permetta, poiché non mi soccorre un termine di raffronto dalla storia letteraria nostra, di ricorrere a quella delle arti. Il Guerrazzi fra i romanzieri del tempo mi pare quel che Piero di Cosimo fra i pittori dei primi anni del secolo decimosesto. (Non mi si faccia per questo l'ingiuria d'intendere che io voglia agguagliare tutti gli altri nostri romanzieri alla bella scuola pittorica del Perugino e del Ghirlandaio). Figuravano gli altri bellezze ineffabili di vergini e sante: Piero, mostri stupendamente orribili. Studiavansi gli altri di delibare dalle parvenze divine della natura il fiore ideale, e aggraziarla: Piero si piaceva di veder selvatico ogni cosa, e voleva che gli alberi e le viti dell'orto suo cacciassero e stendessero a loro talento intatti dal pennato e dal ronchio i rami ed i tralci, allegando che le cose della natura bisogna lasciarle custodire a lei senza farci altro. Proponevansi gli altri i modelli che quella età porgesse migliori: egli guardava a lungo nelle nuvole, e ne cavava di strane battaglie equestri e le piú fantastiche città e paesi che si vedessero mai; anche amava i diluvii grandi delle acque che si rovesciassero dai tetti stritolandosi per terra. Gli altri rallegravano l'Atene italiana del Cinquecento con le piú liete e vaghe mascherate del mondo: egli spaventava i fiorentini, troppo tosto dimentichi del Savonarola e troppo improvvidi della servitú, sorveniente, col Carro della Morte. Altro tipo somigliante al Guerrazzi scrittore l'abbiamo in Michelangiolo da Caravaggio. Sórto egli pittore senza maestro, tra il fiorire de'Caracci, per dispetto degli arbitrii accademici e delle leggi convenzionali si gittò sotto i piedi ogni regola. ogni legge, e l'antichità e il disegno: per odio ai coloritori del tempo, ei dipingeva in uno studio tutto tinto a nero, ove la luce pioveva scarsa da un solo e alto spiraglio. Onde ne'suoi dipinti le ombre vigorose e taglienti, rilevati i contrasti del chiaroscuro, il tócco vigoroso; ma e scorrezioni e durezze inevitabili. Aggiungi che il Caravaggio presceglieva, a dipingere, assassinii e avventure paurose, ruine e cadaveri, e che nei quadri per le chiese sgomentava e disgustava i divoti con la cruda verità. Ma tutto questo, odo dirmi, è egli bene? Tutto tutto, non credo. Per altro ai tempi in cui il convenzionale predomina, o in cui, a malgrado delle pretensioni e presunzioni superbe, tutto è appianato e livellato a un esempio né alto né bello, tutto è intonacato e scialbato come le facciate delle chiese de'gesuiti, questi contrasti acri, avventati, è bene che ci sieno.

Di tal guisa F. D. Guerrazzi ha compiuto il ciclo de'suoi romanzi di antico argomento. Dopo narrato la caduta della libertà e preso vendetta dei percussori ed eredi di lei—imperocché l' Assedio, l' Isabella Orsini, la Beatrice Cenci possono riguardarsi come una trilogia sanguinosa, della quale la Battaglia di Benevento è il prologo, e la Veronica Cibo il picciol dramma satirico—ora mostra di voler modificare la sua prima maniera, piegando ai tempi moderni col Pasquale Paoli, ed anche al romanzo di carattere o di costume contemporaneo con questo Buco nel muro.

Io per me amo il romanzo di costume e d'argomento moderno a preferenza del racconto storico. Oggi gli spiriti sono piú quieti, e certe cose si possono dire. S'intende bene che il romanzo storico avesse una ragione d'esistere in Scozia, la terra delle ballate, la terra ove le tradizioni passano modificandosi di generazione in generazione per le leggende dei clan. Ma in Italia, ove in cambio delle leggende abbiamo le inesorabili cronache, le quali segnano il giorno e l'ora non che l'anno d'un avvenimento; in Italia, dove la poesia popolare contenta a cantare cosette d'amore o di devozione non s'è brigata mai delle vicende patrie, dove la epopea storica propriamente detta non ha potuto allignare; in Italia il romanzo storico poté e potrà essere uno sforzo d'ingegni piú o meno felice, non mai un genere di letteratura propriamente nazionale e vivace. E, per tornare al Guerrazzi, tenendo io il romanzo di costume contemporaneo per piú artistico, per piú necessario e utile, per piú accessibile alle moltitudini, che di fatto nei romanzi storici gustano meglio le parti d'invenzione e di affetto, mi rallegro di vederlo preso a trattare da uno scrittore illustre, e spero ch'ei ce ne darà esempi originali e che durino all'ammirazione e allo studio dei lettori. Ma F. D. Guerrazzi, il quale sbozza piú che non finisca, e riesce ne'tócchi arditi meglio che nei contorni, nelle tinte vigorose meglio che nelle sfumature; il Guerrazzi, il quale si trova a suo agio fra le nature scabre e forti della storia antica e tra quelle de'Còrsi; potrà egli accomodarsi a delineare, a miniare le figurette lievi e sfuggenti della bella e buona società contemporanea? Questa è la domanda che si movono molti fra gli ammiratori dell'autor dell' Assedio, del dipintore terribile della cena e del laboratorio di Francesco de'Medici. Rileggiamo Il Buco nel muro.

Nulla d'orribile, nulla d'ostentato o di sforzato negli avvenimenti e nei caratteri: niuna dose, per quanto minima, di quegli eccitanti, che la imitazione francese suole intromettere in siffatti romanzi. Semplice e piana è la storia, una breve storia di famiglia. Vediamo e udiamo ne'due primi capitoli uno zio, buona pasta d'uomo strano, tutto cura e amore per la casa e per un nipote che s'è rilevato e tirato su orfanello. Non però dovete credere che il signor Orazio sia uno di quei soliti zii da commedia, il cui tipo primitivo è il Micione terenziano; di quegli zii buontemponi, ben pasciuti, tutti ciarla volgarmente assennata, che lasciano correr l'acqua alla china. Il signor Orazio è un uomo ora arruffato come un istrice, ora soave come una colomba; che pensa come non pensano gli altri, e dalle cose chiarissime curiosamente osservate deduce le piú nuove conseguenze; che per le follie e le tristizie del mondo ha un cotale suo riso, velato talor da una lacrima, terminante piú spesso in un fremito: sopra tutto grande amatore del parlar figurato e delle digressioni. E Marcello, il suo degno nipote, specialmente nel considerar le cose dal lato piú lontano, e specialissimamente nell'amore delle digressioni, tien tutto dallo zio, se pure, per la maggior caldezza della gioventú, non lo vince. Sta fra i due la Betta, vecchia donna di casa, una di quelle che in una famiglia priva di capo femminile pigliano il sopravvento sul padrone, e dimostrano la loro potenza con la famigliarità rispettosa verso di lui, con l'affettuosa protezione verso i minori. La Betta, figura gioviale e arguta, dall'aria serena e sicura, fra zio e nipote pensanti e parlanti a ghirigori, rappresenta il buon senso popolano, che vede le cose dall'aspetto piú ovvio e piú vero, e pensa dirittamente, e parla alla buona, benché talvolta si lasci prendere a certe lustre per fin di bene; è una specie di Sancio Panza in gonnella, senza la goffaggine del bravo scudiere della Mancia. Ma il signor Marcello, conoscendo per prova l'arrendevolezza dello zio non ostante le dure apparenze, gli avea levato la mano; e di scapataggine in scapataggine era venuto tant'oltre da rasentare la via della colpa. Fatto un animo risoluto, lo zio lo fornisce del necessario viatico, e lo conforta a correre il mondo e non tornarsene a casa se non mutato in altr'uomo e dopo cinque anni. Ne corrono intanto due; il cui spazio è occupato nel racconto da un capitolo ove si dimostra piú apertamente al lettore l'animo e la vita del signor Orazio, e da un altro, ove, perché il lettore non prenda scandalo del terribile salto di due anni, gli si fa la storia delle origini e delle vicende del romanzo. Ma il zio Orazio, per quanto non voglia farne trasparir nulla, è tormentato dal pensiero di Marcello, e ne discorre una sera con Betta: quando a un tratto si spalanca l'uscio ed eccoti niente meno che Marcello in persona. Il quale fa in tre capitoli la narrazione, un po' piú lunga di quella d'Enea che dura due libri, de'suoi viaggi, de'suoi travagli, della sua conversione; come, reputasse bene non recarsi oltre Milano; come dato fondo al denaro, tornasse a pigione in una soffitta; come volendo appendere una immagine alla parete facesse un buco nel muro, buco in grazia del quale egli torna Rinnovellato di novelle fronde, Puro e disposto a... a far che, vedremo piú sotto. Imperocché vide per quel buco una donna, una bellissima e pietosa e misera donna che sosteneva col lavoro delle sue mani e con amorosissime cure confortava un ammalato. Era la signora Isabella, figliuola di un ricco banchiere, e contro al volere del padre moglie a un pittore, che, sfogato l'ardor primo, si chiarí indegno di lei, ed è l'ammalato. Come ne fosse Marcello súbito preso, per quali casi giungesse a parlarle, a sovvenirla d'efficace aiuto, a patir le sue pene, leggetelo nel racconto del giovine. Uditolo, il signor Orazio senz'altro chiude il nipote in camera, trotta a Milano a vedere con gli occhi suoi qual sorta di amore fosse quello della signora Isabella; e trovato che è del buono, e provatosi in vano a riconciliarle il padre, il banchiere Omobono, se la porta a Torino e la dà in moglie a Marcello. E tutto finisce con un bel figliuolo maschio; al quale, perché nulla si abbia in fine a desiderare, fa da padrino il pentito Omobono.

La storia è dunque per sé semplicissima; lo svolgimento naturale, aspettato. Ma tutto acquista aria di novità e varietà singolare dal modo del racconto. Il quale definire è difficile: mi proverò per via di paragoni. Mi pare che l'illustre autore anzi tutto abbia saputo ringiovanire la novella antica italiana, con gli allegri suoi motti, con la sua eloquenza argutamente ed elegantemente ciarliera; ed abbia saputo accortamente accoppiarla a quel burlone finissimo, incisivo, accigliato, che è il romanzo di costumi inglese. Per quanto la sembianza della storia pubblicata dal Guerrazzi sia italiana, pur tuttavia, chi cerchi sottilmente, piú d'un lineamento gli parrà di scorgere, che rammenta una parentela col zio Tobia e con Tristano Shandy. Potrebbe anche assomigliarsi a una pittura domestica fiamminga, in cui le oneste scene borghesi fossero a quando a quando interrotte da qualche gruppo del Callotta, mentre sorridono e scherzano in disparte alcuni putti del graziosissimo Albano. Forse delle digressioni tanto care allo Sterne ne ha troppe il Guerrazzi. Ma chi vorrebbe dirgliene parola in contrario, quando egli stesso mostra di tenersene, come d'argomento a rivolgersi, di mezzo al racconto, da qualunque tempo, da qualunque luogo, al lettore, e intrattenersi con lui di ciò che piú gli preme? E, o digressioni o episodi che si vogliano dire, ve ne ha in questa storia di bellissimi. Chi lettala una volta non ricorderà poi spesso la rassegna dei marenghi, la maledizione al libraio Tapputi, la questione e il contratto di Marcello col prete per conto del funerale, il banco dell'usuraio, e vai discorrendo? Aggiungi che il racconto acquista due tanti di vivezza dall'abbondanza cordiale della lingua parlata toscana, e dal maneggio de'suoi scorci, de'suoi tropi, de'suoi proverbi; il tutto saputo destramente contemperare alla bella lingua dei novellieri e dei comici antichi, contemperamento che a nessuno fino a qui era avvenuto di fare in modo che piacesse, a nessuno, se non, pare a me, al Guerrazzi.

Il quale nel Buco nel Muro ha forse scelto quella forma sotto cui il romanzo contemporaneo può meglio arridere all'autore dei Nuovi Tartufi. Ma noi desidereremmo, e il desiderio non paia importuno, che egli volgesse il pensiero e la fantasia anche a un altro punto. Perché non dipinge egli in qualche racconto le virtú occulte e illaudate, la vita operosa e paziente, la fede e i sacrifici della plebe? Perché non ravviva della sua potente parola la memoria di tanti eroi popolani che han prodotto negli ultimi anni le nostre città? Perché il Pasquale Sottocorno rimane senza fratelli?

LA DORA

MEMORIE DI GIUSEPPE REGALDI

Nella Rivista bolognese, fascicoli dell'agosto e del settembre 1867.

LA DORA

Memorie di Giuseppe Regaldi

I.

Francamente, io preferisco la prosa del Diderot, per un esempio, a quella dello Chateaubriand, e di gran lunga poi il Voltaire al Lamartine. Ma a dirne la ragione mi troverei un po' sgomento; tanto ella è semplice, che ai gran tiratori di formole risica di non parere né meno una ragione: in somma, è che io amo la poesia in poesia e in prosa la prosa. Cosí che, quando veggo di questi libri divisi, non a capitoli, ma a cifre romane in quella specie di stanze epiche tanto oggigiorno alla moda, come diceva il Sainte-Beuve a punto di certe storie del Lamartine, quando veggo della prosa divisa per istrofe, novantanove per cento io quel libro non lo leggo. Gli è che i razzi a lung'andare mi stufano. E coteste strofe di periodetti con la loro imaginetta ciascuno, montano, montano, fin che vadano a incappellarsi di una grande imagine finale, il coronamento dell'edifizio; proprio come il razzo che fila via per l'aria serpeggiando con quella sua striscia scurastra e fischiante, poi ricasca in una momentanea pioggetta di piú colori, poi tutto finisce in un fumacchio. Ora, a veder tirare un quattrocento razzi un dopo l'altro, resistereste voi, o lettori? E né pur io a leggere quattrocento pagine di prosa a strofe; tanto piú essendovi il pericolo ognora imminente d'un agguato. Dico di voi, traditrice imagine, brigante epifonema, assassina iperbole, che, mentre sono in vena, puta il caso, di sillogizzare su quel che leggo, mi cogliete al canto, e levatomi a mezza vita nell'aria mi urlate: Pover uomo, tu non ci aspettavi qui! o un po' di emozione, o sei un imbecille.

II.

Capitandomi da prima alle mani la Dora del prof. Regaldi, io mi mossi, non ostante la partizione per cifre romane, a svolgere il libro, dietro questo ragionamento—Il Regaldi, quando vuole scrivere in poesia, sa scrivere versi ben numerosi e di vena (ricordavo specialmente l' Armeria reale e la Umanità ): onde il bisogno di apparire poeta a ogni piè sospinto anche in prosa per lui non è urgente. Ancora: il Regaldi, quando vuole scrivere in prosa, ha mostrato di saperlo fare con larghezza e con determinazione di stile ad un tempo (e ricordavo i saggi su Parga, su 'l Capodistria, ed altre belle pagine staccate d'un viaggio per l'Ionio): onde questa Dora sarà di certo imaginosa, che non è male; ma sarà anche ragionevole e ragionata, che è bene anzi tutto. Di piú, aggiungevo, se la prosa poetica è un genere letterario (che ne dubito), in quel che è descrizione di viaggi dee fare men trista prova anche a cui non le sia favorevole molto. Nel viaggio in fatti, massime per paesi di montagna, lo spirito della natura mescolandosi a quello dell'uomo lo rinfresca quasi ed assottiglia; onde la maggior prontezza a comporsi o ricomporsi, di su i diversi aspetti che gli si presentano, altrettante reminiscenze e fantasmi; e la varietà degli oggetti succedentisi sempre nuovi e diversi porta seco la molteplicità delle imagini, e la varietà dei toni e dei colori rende, quasi direi, probabile anche la partizione della prosa per istrofe. In fine mormoravo fra me e me questi versi del poeta:

Vidi fiumi tra campi ubertosi, Vidi laghi tra chine fiorite, Città prische, famose bastite, Monumenti dell'italo onor.

Ma il pensier piú soave, piú santo, Che i disir di mia vita nudría, Fu il pensier della valle natía, Dei primi anni castissimo amor.

A questo amore per il paese ove uno è nato risponde sempre l'animo di chi non si avvezzò ad ammirare fumum et opes strepitumque. Mi crebbe quindi il desiderio di sentire come il Regaldi, reduce di Grecia e di Soria, ritrovasse e dipingesse una valle del suo Piemonte: e prima lessi la Dora di séguito, poi la rilessi in piú punti; e tuttavia con piacere.

Non si aspetti però il lettore che io gli riferisca qui per filo e per segno ciò che la Dora contiene. Prima di tutto, la critica a modo d'indice a me non garba: e poi questa è della Dora la seconda edizione dopo quella del Sessantacinque, il che in tanta scarsezza di chi legga libri è non mediocre lode all'autore: finalmente di sì fatti libri non si può dare un epilogo. Se io dovessi dire che cosa è propriamente la Dora, la definirei una guida dal Monginevra a Torino composta da un poeta e insieme un itinerario poetico composto da uno studioso delle patrie antichità. Il Regaldi, benché poeta e in sua gioventú improvvisatore, studia i suoi soggetti con amore, anzi con ostinazione. Per comporre l'ode sul telegrafo elettrico, si dice ch'ei stésse chiuso qualche diecina di giorni in un gabinetto di fisica, tormentatore assiduo del professore e dell'assistente. Dell' Armeria reale v'è chi preferisce alle ottave le note illustrative: per me è uomo di poco gusto, ma egli afferma di amar l'erudizione. Anche per questo libro su la Dora v'è ragion di credere che il Regaldi abbia rifrustato molte cronache e memorie paesane, e il nome del Cibrario che spesso gli ricorre sotto la penna ci è arra di sicurezza.

Di che ne viene una varietà notevole di materie e di stile. V'è l'idillio a canto all'ironia, la descrizione olezzante di fiori con la dissertazione polverosa dalle biblioteche, e dialoghi, e apostrofi, e anche visioni. Qui, un paesaggio e una pittura di costumi; lí, una leggenda feudale e religiosa; appresso, la storia d'un convento e la narrazione di una battaglia; qua un ospizio di frati, là un monumento romano; e poi un miracolo, e poi un colloquio di politica. Re, monaci, santi, guerrieri, montanari, industriali, artisti, poeti, si succedono dal Monginevra al Moncenisio, per le Chiuse e alla Novalesa, sul Pirchiriano, a Torino, a Superga, a Sántena.

Anche di miracoli parla il Regaldi; e fa bene. La composizione di coteste tradizioni giova agli studiosi per sorprendervi e raffrontare fra loro le costumanze e le facoltà d'una famiglia di popoli. Vero è che egli appartiene a quella scuola poetica che adoperava assai il soprannaturale, a quel modo che certa scuola pittorica fece grande sciupío di azzurro di Prussia a fine di ristorare il cristianesimo. Non però il Regaldi metterebbe pegno per acquistar fede ai miracoli ch'egli racconta. È ben capace di stare a udire con faccia tosta un da ben parroco che gl'infinocchi il racconto di non so che pisside portata via da certi soldati, e che poi fece un buco nei sacchi delle salmerie militari, e se ne rivolò tutta raggiante al suo posto: ma dopo ciò fa una crollatina di capo, conchiudendo «Lascio il miracolo sotto le arcate della chiesa parrocchiale» ecc. ecc., e passa a sbizzarrirsi con l'Inquisizione e suoi nefandi processi alle streghe o masche. Ancora: il Regaldi s'intrattiene volentieri a chiacchiera con preti e frati, e spesso ha da lodarsi in buona fede, e io lo credo, del fatto loro; non sí però che un sorrisetto fine insieme e bonario non gli scappi talvolta. «Che v'è di nuovo a S. Antonino? (un paese qualunque della montagna). Di veramente nuovo, mi fu risposto, abbiamo il prevosto Agostino Belmondo, accolto ora con feste popolari. Annessa alla prepositura v'ha la pingue rendita di cinque mila franchi, che il neo-prevosto saprà usare piamente, perché evangelico pastore lo annunziano la fama e i versi del bravo sacerdote Don Picco.» È veramente di buon gusto, e contenta tutti, il preposto, Don Picco poeta e gli spiriti forti del villaggio. La religione in somma del Regaldi, come di molti scrittori della sua generazione, è un idealismo, se non vogliasi piuttosto un ottimismo poetico, il quale si allarga a tale una tolleranza che confina da piú lati con lo scetticismo.

Del resto il Regaldi considera con roseo ottimismo tutte le cose e gli uomini tutti. Egli, come ogni poeta da natura e nello stato di natura, è buono. Ammira facilmente, facilissimamente loda: per lui non vi sono né scuole né partiti né sètte: cita Giuseppe Mazzini e il commendatore Minghetti; ama il Cibrario e il Brofferio; il Prati, Norberto Rosa ed il Révere. È un uomo egregio che vi apre le braccia e vi sorride di primo acchito; che si esalta della sua stessa parola, e prorompe nella lirica. Noi in vece, cresciuti dopo il 1849, maturati dopo il '60, siamo una gelida e arcigna generazione. Poco e di rado amammo; meno credemmo; e dubitammo troppo spesso di avere, ove ammirassimo oggi, a ricrederci domani. Abbiamo dell'acredine nel sangue; e molti di noi si vantano di essere d'un partito, credendo in verità che il non aver partito, quando la non sia una figura di parole, debba essere una immoralità. Per ciò quella gran bontà e larghezza del Regaldi non la possiamo accettar per intero: non dico che volessimo in lui un po' di fiele, che anzi in fondo desidereremmo per avventura di esser come lui; ma a noi iconoclasti quel suo voler di frequente rizzar degli altari fa specie. Tutto ciò avvertiamo, a dir vero, non per lui, che avrà benissimo le sue ragioni di far cosí, ma per i giovani e per noi stessi. Per noi stessi, dico; perché anche noi alla fin fine, a sentirci sempre brontolar d'intorno questo fiotto di lodi, abbiamo come pubblico il diritto di gridare: Alto là, rendeteci un po' di ragione.

Il Regaldi, per esempio, afferma di vedere nel discorso di Alessandro Manzoni intorno a' Longobardi connaturate, direbbe quasi, le anime del Muratori e del Vico. Tutto cotesto in un discorso solo non vi par troppo? Aggiungete un zinzin di Dante (e già ci son di quelli i quali per conto loro mandano di pari passo il Manzoni e Dante), ed eccovi, si passi un po' d'iperbole anche a me, eccovi rifatta una specie di padre eterno. Io intanto, dalla parte mia, per quanto possa ammirare l'autore dell'Urania, dei cori dell'Adelchi e dei Promessi Sposi, Vico e Muratori insieme non lo crederò ancora. Mi permette tanto la vostra tolleranza, signori lettori?

Qualche altra volta l'enfasi fa dimenticare al Regaldi il buon gusto. Egli, poeta delle reminiscenze bibliche, si ostina a chiamar Debora del Piemonte la signora Giulia Colombini. Ora la signora Giulia sa troppo bene chi la Debora fosse, e non avrebbe fatto mai quel che ella fece: cioè, se un generale austriaco fosse stato ospitato in casa d'un piemontese amico suo, e se la costui moglie, ospitatolo e datogli mangiare, gli avesse poi, mentre dormiva, piantato tanto di chiodo nella tempia, la signora Giulia non avrebbe cantato per ciò alleluia. Le son cose coteste da farle e lodarle le donne della santa nazione: noi poveri giapetici non siamo tanto perfetti, e dobbiam contentarci delle egoistiche e selvagge virtù di Atene e di Roma. Del resto, nel canto della pretessa ebrea certa energia, come quella dell'indiano che scalpella il teschio del nemico vivo, non manca. Per il nome adunque di Debora son troppo poca cosa dei versi come questi della signora Colombini:

Ma, nuovo Curzio, nel fatal momento Diede il suo capo il gran Biellese, e volle Sé stesso per la patria in sacramento: Scoppiò l'eccelsa polve, e glorïoso Micca su mille eroi tomba si aderse.

Importa egli provarlo?

Per certi giudizi, del resto, qualcosa è pur da concedere alla maniera di stile adoperata dal Regaldi in questa prosa. E chi mi domandasse che stile è cotesto, mi attenterei di accennare le due figure litografiche che adornano le copertine del libro. In quella d'avanti c'è la Naiade della Dora: tale almeno la dimostrano la classica urna su cui appoggia l'un braccio e il remo che sorregge dell'altro e la ghirlanda di canne: differente dalle antiche ninfe in questo, che ha un po' di camicia per mezzo il seno e una gran gonnella pe 'l rimanente del corpo. È classicismo rammodernato. Nella copertina di dietro si vede un vecchio seduto fra le ruine d'un castello del medio evo, e legge in un gran codice. Probabilmente doveva simboleggiare l'archeologia o l'erudizione storica: ma per me è un bardo, un trovatore, un poeta in somma di ballate e di leggende bell' e buono: chi altro, salvo un poeta sí fatto, si piglierebbe la scesa di testa di leggere al lume della luna e, per dirla col Davanzati, in zucca, come fa l'uomo della copertina? Se non che, ficcategli ben bene gli occhi in viso a cotest'uomo; e vi riconoscerete in fondo il buon compagno, e pratico a sufficienza della vita di questo mondo: come pure, riprendendo a vagheggiare la Naiade d'avanti, non c'è caso che quel viso furbetto mi voglia ricordare nulla delle alpi, ma sí bene le belle fanciulle in cui si avviene chi torna le sere di festa per le stupende colline da Moncalieri a Torino.

Non so se mi son fatto intendere: ma queste imagini a me pare che possan rendere un'idea della prosa della Dora, con le sue aspirazioni all'idillio alla lirica all' epos romanzesco, temperate e tal volta turbate o mortificate da un sentimento troppo vivo della realtà convenzionale. In questi contrasti l'arte ci perde un cotal poco: dico che il poeta perde la serenità della inspirazione, il pittore la sicurezza della mano; e la intonazione lirica diventa confusa e strepitante, e nella pittura idilliaca si ricorre spesso alla biacca. Vorreste un qualche esempio? Prendiamolo súbito dalle prime pagine. Si tratta, a pagina 13, del corso diverso della Duranza e della Dora, che la prima scaturisce dalla costa orientale del Monginevra, la seconda dall'occidentale: due sorelle, geni del bene e del male usciti da un medesimo principio, dice il Regaldi; e séguita: «Direbbesi quasi che nella Duranza si agiti una furia, la quale dalle Alpi scendendo minacciosa porti colle gonfie acque la desolazione nei seminati campi della Francia. Non cosí della Dora, fecondatrice benefica delle nostre campagne subalpine. Nelle sue sorgenti ella sospira con innocente grazia pastorale, e discesa al piano diviene regina, diletta ed onorata da tutte le genti italiane. Gli spiriti di Caino e d'Abele s'incontrano su le piú alte cime del Monginevra. Quello di Caino mira all'occaso, e seguitando nella loro corrente le acque della Duranza rinnova la sua antica disperazione; e lo spirito di Abele guardando ad oriente benedice le acque della Dora, e le accompagna coi canti dell'amore e dei santi olocausti.» A pagina 17 si descrive una pastorella di Bousson: «In quell'ora procellosa Lucia era veramente l'angelo, la stella della consolazione. Vestiva un giubboncello di panno bigio, una corta gonnella, egualmente di panno di tinta oscura, con un grembiale di tela turchina. La parte superiore del giubboncello terminava a fior di spalle in una listina di mussola, che in gran parte copriva gli avori del seno. Il volto di Lucia sarebbe stato all'Urbinate un prezioso modello per le sue madonne. Gli occhi azzurri ed i coralli del breve labbro sfavillavano fra i gigli e le rose del verginale sembiante; ed il cuffiottino di trapunto bianco con due fettucce raccomandato al mento faceva viemmeglio spiccare quell'angelico viso, sul quale scorrevano a guisa di fila d'oro le ciocche de'biondi capegli.» Ecco rappresentate in due esempi le virtú e i vizi di questo stile: vuolsi tuttavia notare che i vizi, o quelli che a me paiono tali, non sono tanto del Regaldi quanto di cotesto genere letterario: ricordiamoci certe pitture dello Chateaubriand, certe altre del Gessner.

Dopo ciò non parrà strano che gli splendidi coloritori, com'è il Regaldi, riescano un po' meno felici, ove a rendere la tenuità del concetto richiederebbesi tale una nitidità di disegno e una facilità di lingua propria netta e viva che non è di troppi oggigiorno. Racconta il Regaldi come riparasse da un temporale nella capanna del vecchio Giacomo, padre della Lucia, della pastorella con la cui vaga figura abbiamo fatto conoscenza pur ora. La folgore serpeggiava innanzi al finestrino della capanna, romoreggiavano i tuoni, e il poeta mormorava certi versi del Tasso. Ma «il buon vecchio levatosi da sedere volse gli occhi alla imagine di Maria; e, stesa la callosa destra, prese il rosario, e, baciatolo, mormorò una preghiera e versò qualche lagrima. Lucia, vedendomi intento a quell'atto religioso, mi disse:—Il padre stringe il rosario, che la cara madre aveva fra le mani, quando morí in questa capanna pregando per noi. Quell'immagine e quel rosario sono il nostro scampo nelle disgrazie. Ah! vedete come già cessa lo scrosciar dei tuoni e il diluviar della pioggia?» Scommetto che il Baretti, per esempio, uomo rotto com'era e non portato da vero all'idillio, questo discorsetto l'avrebbe fatto un po' meglio, con piú naturalezza vo' dire. Del che molte ragioni si potrebbon recare: a me basta avvertire che quel che manca specialissimamente al nostro secolo, al nostro secolo che pur si vanta di esser ritornato alla natura ed al vero e grida tant'alto contro il cosí detto convenzionalismo e le accademie, è a punto in generale un po' di natura e di verità al men nello stile. Vero è per altro che gli scrittori in prosa oggigiorno, in confronto a quei del settecento un po' piú freddi un po' piú secchi e poveretti, hanno della imaginazione sin nell'impasto della frase e una certa magnifica arte di disporre che fa delle volte ottimo effetto. «Veramente il cielo si abboniva (séguita il Regaldi); ond'io, ringraziati l'uno e l'altra delle amorevoli accoglienze, uscii colla guida per affrettarmi a Cesana, dove giungemmo in capo ad un'ora sotto luminoso arcobaleno, che coronando la capanna del pio pastore dalle falde del Chiabertone alle acque della Ripa mirabilmente si distendeva.» E cosí finisce il paragrafo. È un bel finire: pur che questo della imagine in fondo non divenga un processo sistematico, come piú d'una volta accade agli imitatori del Lamartine, se non vuolsi dello Chateaubriand.

III.

Ma la fantasia del Regaldi non sempre è descrittiva soltanto: qualche volta prende forza dal cuore, e il suo aprir dell'ale risponde a un batter di quello. Disceso col poetico viaggio a Torino e fermo su la piazza di San Carlo, lo scrittor novarese non dimentica la notte del 22 settembre 1864; e inorridisce al ricordare gli allievi carabinieri irrompenti a fucilate su l'affollato popolo inerme. «Nella concitata mia mente ho veduto Emmanuele Filiberto rizzarsi sul destriero, e levando la spada cercare intorno a sé gl'invasori stranieri per combatterli. Ahi! vedendo i segni della pugna civile, egli fremente esclamava: Chi sono gli sciagurati che cagionarono gli orrori del macello cittadino?—Non sono Piemontesi: risposero cupamente fioche voci di moribondi.—Ma pur sono Italiani: gridarono mille voci piene di giusto sdegno.... Le acque della Dora e del Po non cancelleranno facilmente nella piazza di San Carlo le macchie del sangue cittadino.» Ha ragione; né so davvero quanto valessero i conforti che si provò a dare al Regaldi in riva all'Arno un suo cólto amico di Toscana. «Poeta, mi disse, si tolga il velo alla favola; e in Fetonte rovesciato dal carro di luce nelle acque dell'Eridano presso alla foce della Dora facilmente ravviserai il fondatore della colonia ligure appiè delle Alpi, spodestato e perduto nei disastri d'incaute imprese. Poeta, ugual sorte sarebbe toccata al fondatore del regno italico fra il Po e la Dora. Ma qui sull'Arno, non piú savoiardo, non piú piemontese, ma italiano, il lealissimo fondatore, nella patria di Dante e Michelangiolo, di Galileo e Machiavello, trarrà vita nuova e sicura dall'idioma e dalle arti, dalle scienze e dalla politica della nazione intera.—Un albero secolare, gli risposi, radicato in terreno acconcio opino che corra pericoli gravi se altri vuole trapiantarlo in campo novello.» Non so, dico, quale a questa volta fosse piú poeta fra il Regaldi e il cólto amico suo, politico interpretatore di comodi miti.

Il Regaldi tuttavia (ciò che da un poeta ordinariamente non si aspetta, ed è un torto che facciamo a Orazio e all'Ariosto) ci si mostra anche acuto ed arguto osservatore. Tra le fantasie pittrici della Dora chi si aspetterebbe dei periodi maliziosetti ed ironici come questi? «I nuovi venuti immaginarono il piemontesismo, piú di coloro che esuli, stanziando fra noi da lungo tempo, si erano omai addomesticati alle usanze nostre. Gl'italiani del mezzogiorno trovarono incresciose le nebbie e le nevi di Torino, e sospiravano i soli, gli aranci e la perenne primavera di Napoli e di Palermo. I toscani e i cittadini della Emilia trovarono troppo compassata e gelida la realtà del nostro vivere, e preferendo la ideale voluttà delle arti invocavano le logge dell'Orgagna e le torri di Giotto, i prodigi di Michelangelo e di Raffaello, e le glorie della scuola bolognese. Di poi si andò accagionando il piemontesismo di tutti i malanni del mondo. Se freddo era il verno, caldo l'estate, se ne accusava il mal clima del Piemonte. Lo accusavano delle malattie e delle cure, che, mortali anch'essi, soffrivano talvolta gli onorevoli deputati; e taluni maledicevano alla cucina de'subalpini quando mai nel mattino non trovassero ben acconciati i maccheroni o ben cotte le costolette nel caffè del Cambio, ove per solito adunavansi per disporre lo stomaco alla eloquenza parlamentare.»

Pur troppo era ed è cosí: e quel che una volta a Torino, ora tocca a Firenze e toccherà a Roma, se una sconfitta qualunque, militare o diplomatica (che altro, non saprei), ci apra, quando che sia, il Campidoglio. L'Italia una e indivisibile troppo si ricorda di essere il paese dei comuni: non per nulla si discende dai guelfi e dai ghibellini, e il sangue non è acqua. A ogni modo speriamo che col tempo, in una guisa o nell'altra, giungeremo pur una volta a conoscerci un po' meglio e a stimarci un po' piú gli uni gli altri. Al qual uopo, de'buoni libri fatti come la Dora del prof. Regaldi gioverebbero assai.

DON QUIXOTE

Da una prefazione di H. Heine a una edizione tedesca illustrata 1837

DON QUIXOTE

La vita e i fatti dell'ingegnoso gentiluomo don Chisciotte della Mancia descritti da Michele Cervantes di Saavedra», fa questo il primo libro ch'io lessi non a pena giunto all'età dell'intendere e imparato che ebbi a rilevare sufficientemente. Mi ricordo ancora benissimo quel dolce tempo. Scappavo la mattina di casa, e correvo al giardino di corte, per leggervi, senza essere disturbato, il Don Chisciotte. Era una bella giornata di maggio: la fiorente primavera posava nella placida luce del mattino sonnecchiando e si lasciava lodare dall'usignolo, il suo dolce adulatore; e questi cantava sí molle e carezzevole e con sí ardente entusiasmo, che le gemme piú pudiche si schiudeano sbocciando e l'erba innamorata e i raggi trepidi del sole si baciavano con desío di tenerezza, e gli alberi e i fiori fremevano di rapimento. Ma io mi sedeva sur una vecchia panca di pietra tutta fiorita di musco, nel viale detto dei sospiri, non lontano a una cascata; e il mio piccolo cuore si rallegrava nelle grandi avventure dell'ardito cavaliere. Nella mia probità infantile io pigliavo tutto sul serio: comunque fosse conciato il povero eroe, io pensavo—Deve esser cosí: oramai all'eroismo non tócca altro che ridicolo e battiture;—e ciò mi affiliggeva, come se lo provassi in me. Io era un fanciullo, e non conoscevo la ironia che Dio mise dentro il mondo, e che il grande poeta aveva imitata nel suo piccolo mondo stampato; e potevo spargere con abondanza di cuore le piú amare lacrime, quando il nobile cavaliere di tutta la sua magnanimità raccoglieva solo ingratitudine e bastonate. E come io poco esercitato nella lettura pronunziavo ogni parola ad alta voce, cosí gli uccelli e gli alberi, il ruscello e i fiori potevano sentire tutto; e quegli esseri innocenti, che, proprio come i fanciulli, non sanno nulla dell'ironia del mondo, pigliavano anch'essi tutto sul serio, e piangevano con me sopra i dolori del povero cavaliere. Un veterano albero di quercia singhiozzava, e la cascata scoteva forte la bianca barba[1] e pareva brontolare su la cattiveria del mondo. Noi sentivamo che l'eroismo del cavaliere non meritava meno ammirazione perché il leone svogliato gli voltasse la schiena, e che tanto piú gloriosi erano i suoi fatti, quanto piú fiacco e risecchito il suo corpo, quanto piú intarlata l'armatura che lo proteggeva, e piú rifinito il ronzino che lo trascinava. Noi disprezzavamo la canaglia bassa che prendeva a bastonate l'eroe; ma anche piú la canaglia alta, che, parata di seta e di belle frasi e di titoli ducali, scherniva un uomo tanto al di sopra di lei per nobiltà e forza d'animo e di pensiero. Il cavaliere di Dulcinea saliva sempre piú su nella mia stima e guadagnava del mio amore a mano a mano che io andava innanzi nel leggere il meraviglioso libro: il che facevo tutti i giorni nello stesso giardino, sin che in autunno arrivai al fine della storia. Non dimenticherò mai il giorno che lessi il pietoso abbattimento, nel quale il cavaliere dovè cosí tristamente soggiacere.

Era una giornata fosca: brutti nuvoloni correvano per il cielo grigio, gialle le foglie cadevano dolorosamente dagli alberi, lacrimoni di pioggia pendevan dagli ultimi fiori, che inclinavano mesti e appassiti le testoline morienti: gli usignoli era un pezzo che non cantavano piú, e da tutte le parti la imagine della decadenza di tutto stava rigida e stecchita intorno a me. E il mio cuore fu per rompersi, quando lessi come il nobile cavaliere stordito e pesto e ammaccato giacea su 'l terreno, e senza alzar la visiera, come se avesse parlato dalla tomba, mandava su verso il vincitore una voce debole e fioca:—Dulcinea è la piú bella donna del mondo, e io sono il piú infelice cavaliere della terra; ma non conviene che la mia debolezza paia rinnegare quella verità. Trapassatemi colla lancia, cavaliere.—

Ah, il luccicante cavaliere dalla luna d'argento, che vinceva il piú animoso e nobile uomo del mondo, era un barbiere mascherato.

Sono oramai otto anni che scrissi per il quarto volume delle Figure di viaggio ( Reisebilder ) coteste linee, nelle quali descrivevo l'effetto prodottomi molto tempo a dietro dalla lettura del Don Chisciotte. Dio buono! come fuggono rapidi gli anni! Mi par come ieri che io leggeva il libro del Cervantes nel viale dei sospiri del giardino di corte a Düsseldorf e che il cuore mi balzava di ammirazione per i fatti e patimenti del gran cavaliere. Il mio cuore è stato egli fermo tutto questo tempo, o per un ricorso circolare è egli tornato ai sentimenti della fanciullezza? Quest'ultimo è forse il caso, perché mi ricordo di aver letto a ciascun lustro della vita il Don Chisciotte con impressioni a volta a volta diverse. Quand'io sbocciavo in tutto il fiore della giovinezza e mettevo le mani inesperte in tutti i rosai della vita e mi arrampicavo alle piú alte cime per essere piú da presso al sole e la notte non sognavo altro che aquile e vergini, allora il Don Chisciotte era per me un libro tutt'altro che di ricreazione, e, ogni volta che mi capitava tra le mani o tra' piedi, lo buttavo in là con atto di sdegno. Piú tardi, maturato a uomo, mi riconciliai un tantino col disgraziato campione di Dulcinea e cominciai a riderne:—Il brav'uomo è un matto—io mi diceva. E pure, parrà strano, ma in tutte le vie della vita le due figure del magro cavaliere e del suo scudiere grasso mi perseguitavano sempre; e proprio me le vedevo da canto ogni volta che mi fermavo pensoso ad un bivio. Cosí, mi ricordo, quando venni in Francia, che svegliandomi a un tratto da un assopimento febbrile, vidi nella nebbia del mattino cavalcarmi presso le due ben note figure: l'una, alla diritta, era don Chisciotte della Mancia su l'astratto suo Rossinante, l'altra, alla sinistra, era Sancio Pancia su l'asino suo positivo. Avevamo tócco a punto il confine francese. Il nobile cavaliere della Mancia chinò rispettoso la testa dinanzi la bandiera tricolore che ci sventolava dinanzi d'in cima ai pali del confine; il buon Sancio salutò con un cenno del capo un po' freddo i primi gendarmi francesi che ci comparvero incontro. Ma poi i due amici cavalcaron via dinanzi a me: io gli perdei d'occhio, e solo di tratto in tratto udivo gli entusiastici nitriti di Rossinante e i positivi hi hon dell'asino.

Allora io era d'avviso che il ridicolo del Donchisciottismo consistesse in questo: che il nobile cavaliere avea voluto tornare in vita un passato da lungo tempo estinto, e le sue povere membra, segnatamente la schiena, s'erano avvenute a dolorose confricazioni con le realtà del presente. Ahimè, io ho poi imparato ch'ell'è una altrettanto ingrata follía voler troppo presto introdurre l'avvenire nel presente, quando nei combattimenti contro i grossi interessi del giorno s'ha da portare soltanto un troppo magro ronzino, una troppo arrugginita armatura e una persona meschina quanto l'armatura e il ronzino. Cosí su questo come su quell'altro Donchisciottismo il saggio crolla compassionevolmente la sua testa piena di giudizio. Ma Dulcinea del Toboso è non pertanto la piú bella donna del mondo, e, per quanto io giaccia miseramente a terra, non ritirerò mai questa parola. Non posso altro. Passatemi pure a parte a parte con le vostre lance, cavalieri dalla luna d'argento, barbieri mascherati!

Quale idea prima guidava il gran Cervantes nello scrivere il gran libro? Mirava egli soltanto a battere i romanzi di cavalleria, la cui lettura al suo tempo infuriava nella Spagna a segno che nulla contro potevano ordinanze ecclesiastiche e civili? o voleva egli volgere in ridicolo tutte in generale le manifestazioni dell'entusiasmo umano e, súbito accanto, l'eroismo dei trascinatori di sciabola? Intenzione sua evidente fu la satira dei ricordati romanzi, che egli, mettendone in luce le assurdità, voleva abbandonare alle risa dell'universale. Gli riuscí a meraviglia: ciò che né le ammonizioni dei pulpiti né le minacce delle cancellerie poterono ottenere, tutto ciò fece un povero scrittore con la sua penna: egli demolí i romanzi di cavalleria cosí a fondo, che, dopo l'apparizione del Don Chisciotte, il gusto di quei romanzi si estinse in tutta Spagna e non ne fu stampato piú uno. Ma la penna del genio è sempre piú ardita del genio stesso, ella vola sempre al di là delle intenzioni del momento; o il Cervantes, senza averne la conscienza, scrisse la piú gran satira umana contro l'umano entusiasmo.

Egli non si accorse né presentí mai cotesto, egli, l'eroe, che aveva passato il piú della vita in combattimenti cavallereschi, e ancora da vecchio solea compiacersi di aver combattuto a Lepanto, sebbene quella gloria avesse pagato con la perdita della mano sinistra.

Ei fu un bello e forte uomo don Michele Cervantes de Saavedra. Alta era la sua fronte, e largo il cuore: meravigliosa la magía dell'occhio. Come v'ha gente che vedono attraverso la terra e vi scorgono i tesori e i cadaveri sotterrativi, cosí l'occhio del grande poeta penetrava giú per il petto degli uomini, e discerneva chiaro ciò che v'era sepolto. Ai buoni era il suo sguardo come un raggio di sole che rischiarava allegramente il loro interno; ai cattivi era una spada che tagliava crudelmente a pezzi i mal celati sentimenti. Quello sguardo irrompeva indagatore dentro l'anima, e parlava con lei, e, se non voleva rispondere, la metteva alla tortura; e l'anima giaceva sanguinante sul cavalletto, mentre forse la sua invoglia corporea si dava l'aria degna d'una gentile condiscendenza. Qual meraviglia che tanta gente gli procedesse avversa, e ch'egli trovasse cosí deboli e scarsi appoggi nel córso della vita! Egli non giunse mai a quel che si dice una posizione agiata, e da' suoi faticosi pellegrinaggi non riportò a casa una perla, sí delle conchiglie vuote. Dicono ch'e' non sapesse apprezzare il valore dell'oro; ma io v'assicuro che sapeva bene apprezzarlo quando non ne aveva piú; non mai, per altro, lo apprezzò al pari dell'onore. Aveva dei debiti, e nella constituzione che egli fa concedere da Apollo ai poeti il primo articolo stabilisce:—Quando un poeta afferma di non aver denaro, gli si deve credere su la parola e non intimargli il giuramento.—Amava la musica, i fiori e le donne. Ma anche l'amore per le donne gli riuscí cordialmente male, massimamente da giovine. Forse che la conscienza della sua grandezza avvenire poté consolarlo in gioventú, quando le smorfiosette e sguaiate rose lo pungevano delle loro spine? Una volta, per una sera luminosa di estate, passeggiava lungo il Tago con una bella di sedici anni che seguitava a burlarsi delle sue tenerezze. Il sole non era ancora tramontato, e sfolgorava nella sua pompa d'oro: ma in fondo al cielo stava già la luna, gracile e pallida come una nuvolina bianca.—Vedi tu—disse il poeta all'amata—vedi tu laggiú quella piccola pallida sfera? Il fiume qui a canto, nel quale ella si specchia, sembra sopportare per pietà su i flutti orgogliosi la poveretta imagine di lei, e le onde la rigettano increspandosi e motteggiando alla riva. Ma lascia che il vecchio giorno si abbui. Tosto che la tenebra cresca, quella pallida sfera salirà risplendendo nell'alto gloriosa e piú sempre gloriosa, tutto il fiume sarà irraggiato dalla sua luce, e le onde, che poco innanzi la rigettavano arroganti, fremeranno all'aspetto dello splendido astro e si gonfieranno incontro a lui voluttuose.

La storia de'poeti bisogna cercarla nelle opere loro, nelle quali anche si ritrovano le loro piú secrete confessioni. Che il Cervantes fu, come dissi, lungo tempo soldato, si vede in tutti i suoi scritti, piú ancora nei drammi che nel Don Chisciotte. In lui il detto romano—Vivere è combattere—si effettua nel suo doppio senso. Egli combatté come soldato comune nei piú di que'feroci spettacoli di guerra che il re Filippo II fece per l'onore di Dio e de'suoi propri capricci rappresentare in tutti i paesi. Il fatto che Michele Cervantes mise tutta la sua gioventú al servizio del piú gran campione della cattolicità, che gl'interessi della cattolicità egli propugnò con la persona, dà ragione a credere che questi interessi gli stessero forte a cuore, e ribatte l'opinione assai diffusa che solo il timore dell'Inquisizione lo ritenesse dall'accettare nel Don Chisciotte le idee protestanti del tempo suo. No, il Cervantes fu un figlio fedele della Chiesa Romana, e non pure diede il suo sangue nei combattimenti cavallereschi per la bandiera benedetta da lei, ma per lei patí con tutta l'anima il piú crudele martirio in una schiavitú di molti anni tra gl'infedeli.

Noi dobbiamo al caso parecchi particolari su la vita del Cervantes in Algeri, i quali fanno ammirare nel grande poeta un eroe altrettanto grande. La storia della schiavitú da lui sofferta confuta con la piú splendida efficacia le melodiose menzogne di quel morbido e bel vivente, il quale diè ad intendere ad Augusto e a tutti i pedanti tedeschi ch'egli era un poeta e che i poeti sono vigliacchi. No, il vero poeta è anche un eroe, e nel suo petto abita la pazienza, che, come dicono gli Spagnoli, è un secondo coraggio. Non si dà spettacolo piú sublime del vedere questo nobile castigliano schiavo del Bey d'Algeri, constante a pensare la sua liberazione, infaticabile a prepararne gli arditi divisamenti, tranquillo a riguardare in faccia tutti i pericoli, e, quando l'impresa veniva meno, pronto a sofferire tortura e morte, anziché tradire pur con una sillaba i complici. Il sanguinario padrone del suo corpo è disarmato da tanta virtú e magnanimità, la tigre risparmia il leone incatenato e trema dinanzi al terribile monco che ella potrebbe con una parola mandare alla morte. Michele Cervantes è conosciuto per tutto Algeri sotto il nome del monco, e il Bey confessa ch'e' non può dormire tranquillo e sicuro della città, dell'esercito e degli schiavi, se non quando sa che il monco spagnolo è in buona custodia.

Dissi che il Cervantes fu sempre soldato comune; ma, poiché pur in quel posto subalterno si poté segnalare e farsi particolarmente notare al suo gran generale don Giovanni d'Austria, egli ne ottenne, d'Italia tornando in Ispagna, lettere per il re con attestazioni onorevolissime che lo raccomandavano caldamente per un avanzamento. Ora, quando i corsari d'Algeri, catturandolo nel Mediterraneo, gli videro coteste lettere, lo tennero per un personaggio d'alto affare, e sí alta taglia gli posero a dosso, che la sua famiglia, per sacrifizi che facesse, non poté riscattarlo, e il povero poeta ne ebbe a durare piú lunga e piú crudele schiavitù. Cosí per lui il riconoscimento de'suoi servigi fu cagione di nuove disgrazie, e cosí la fortuna si burlò di lui sino alla fine; la fortuna che non perdona mai al genio d'essere pervenuto all'onore e alla gloria, anche senza la protezione di lei.

Ma l'infelicità del genio è sempre l'effetto del caso cieco, o non piuttosto rampolla essa necessariamente dalla intima natura di lui e dalla essenza di ciò che lo circonda? È l'anima del poeta che viene alle prese con la realità, od è la rude realità che comincia lei un combattimento ineguale con quella nobile anima?

La società è una repubblica. Quando l'individuo fa degli sforzi per alzarsi, il comune lo ripinge in giú col ridicolo e la diffamazione. Nessuno dee avere piú virtú e spirito degli altri. Che se uno per la inflessibile potenza dell'ingegno si leva della testa sopra la misura comunale, quegli è colpito d'ostracismo dalla società; la quale lo perséguita con sí spietati motteggi e calunnie, che alla fine gli bisogna ritirarsi nella solitudine de'suoi pensieri.

Sí, la società è, di natura sua, repubblicana; e ogni sovranità le è odiosa, cosí la intellettuale come la materiale, la quale ultima, del resto, si appoggia su la prima men di rado che comunemente si creda. Lo vedemmo noi stessi dopo la rivoluzione di luglio, quando lo spirito del repubblicanismo si manifestò in tutte le relazioni sociali. Il lauro di un gran poeta attirava l'odio dei nostri repubblicani come la porpora di un re. Anche le diseguaglianze spirituali volevano essi sopprimere fra gli uomini: e, da poi che tenevano proprietà del comune i pensieri sbocciati e sboccianti sul territorio dello stato, altro non rimaneva loro che decretare l'eguaglianza dello stile. E di fatti il bello stile fu screditato come aristocratico, e noi udimmo piú volte affermare che il vero democratico scrive come il popolo, di cuore, schietto e sciatto. Ciò era facile ai piú degli uomini del movimento: ma non a tutti è dato di scrivere male, e tanto meno a chi ha già la consuetudine di scriver bene; e allora non si mancava di proclamare—È un aristocratico, un dilettante della forma, un amico dell'arte, un nemico del popolo[2].—Lo dicevano e lo pensavano onestamente, come san Girolamo, che si recava a peccato il suo bello stile e se ne flagellava di santa ragione.

E come nulla contro il cattolicismo, cosí nulla troviamo nel Don Chisciotte che suoni avverso all'assolutismo. Quei critici che vi fiutarono dentro qualche cosa di simile errano assai dal vero. Il Cervantes uscía da una scuola che aveva poeticamente idealizzato l'obbedienza incondizionata al sovrano. E questo sovrano era re di Spagna in un tempo che la maestà sua raggiava su tutto il mondo. L'ultimo soldato sentiva sé stesso nell'irraggiamento di questa maestà, e sacrificava volentieri la sua libertà individuale a tale soddisfacimento dell'orgoglio castigliano.

La grandezza politica della Spagna alzava e allargava allora le anime de'suoi scrittori. Anche nello spirito del poeta spagnolo, come nell'impero di Carlo V, non tramontava mai il sole. Erano finite le feroci contese coi Mori; e come dopo un temporale i fiori odoran piú forte, cosí la poesia fiorisce sempre piú magnifica dopo una guerra civile. Lo stesso vediamo essere avvenuto al tempo della regina Elisabetta in Inghilterra, dove contemporanea a quella di Spagna vien su una scuola di poeti che invita ai piú curiosi paragoni. Là Shakspeare, qui Cervantes, sono i fiori della scuola.

A quel modo che i poeti spagnoli sotto i tre Filippi, anche gl'inglesi sotto Elisabetta hanno tutti una certa aria di famiglia; e né Shakspeare né Cervantes, a mio avviso, possono pretendere all'originalità. Essi non differenziano affatto dai loro contemporanei per una particolar guisa di sentire e pensare e di rappresentare e descrivere, ma solo per intimità, profondità, delicatezza e forza maggiori: l'arte loro è piú ravvolta e penetrata dall'etere della poesia.

Ma questi due poeti non sono soltanto i fiori del loro tempo; furono anche le radici dell'avvenire. Come lo Shakspeare, per l'influsso delle sue opere specialmente su la Germania e su la Francia odierna, è da tenere per il fondatore del dramma moderno, cosí nel Cervantes bisogna onorare il fondatore del moderno romanzo. Mi si permetta qui di passaggio alcune osservazioni.

L'antico romanzo, il romanzo di cavalleria, scaturí dalla poesia del medio evo; né altro fu da prima che una rilavorazione in prosa delle epopee i cui eroi appartenevano al ciclo leggendario di Carlo Magno e del San Graal: l'argomento consisteva sempre di avventure cavalleresche. Era il romanzo della nobiltà, e i personaggi che vi agivano erano o creature favolose della fantasia o cavalieri a speroni d'oro: del popolo mai una traccia. Cotesti romanzi cavallereschi, degenerati fino all'assurdo, il Cervantes li abbattè col Don Chisciotte. Ma, scrivendo la satira che demoliva il vecchio romanzo, forniva egli stesso il modello a una nuova invenzione che è il romanzo moderno. Cosí costumano sempre i grandi poeti: fondano il nuovo, mentre distruggono il vecchio: non negano mai, senza affermare qualcosa. Cervantes fondò il romanzo moderno, introducendo in quello cavalleresco la descrizione fedele delle classi inferiori della società, mescolandovi la vita popolare. Né è solo del Cervantes, ma di tutta la letteratura di quel tempo, l'inclinazione a descrivere la vita del popolo piú basso e della piú scellerata canaglia; e si riscontra, come ne' poeti, anche ne' pittori della Spagna d'allora: un Murillo, che rubava al cielo i piú santi colori per dipingere le sue belle Madonne, contraffaceva con lo stesso amore le figure piú ributtanti di questo mondo. L'entusiasmo dell'arte era forse la cagione che quei nobili spagnoli si godessero lo stesso, sí a ritrarre fedelmente un pitocchetto nell'atto di spidocchiarsi, sí a figurare la Vergine benedetta. O era l'attrattiva del contrasto che spingeva nobilissimi gentiluomini, un cortigiano azzimato come il Quevedo e un potente ministro come il Mendoza, a compor romanzi di truffatori e di straccioni: amavano forse trasportarsi con la fantasia dal loro monotono contorno a condizioni di vita tutte opposte, come press'a poco per un altro verso certi scrittori tedeschi, che riempiono i loro romanzi di descrizioni dell'alta società e fan tutti conti e baroni i loro eroi. Nel Cervantes non troviamo ancora la tendenza esclusiva a descrivere l'ignobile per sé solo: egli mesce l'ideale al comunale, in modo che l'uno adombri o rischiari l'altro; e l'elemento nobile ha nel suo romanzo lo stesso posto e lo stesso svolgimento d'azione che il popolare. Ma questo elemento nobile, cavalleresco, aristocratico, sparí tutto dai romanzi degl'inglesi, che primi imitarono il Cervantes e lo ebbero sempre fino ad oggi dinanzi agli occhi come esemplare. Nature prosaiche quei romanzieri inglesi, dall'avvenimento in poi del Richardson! Lo spirito schifiltoso del loro tempo ripugna a ogni energica pittura della vita popolare; e dall'altra parte della Manica vedemmo uscire quei romanzi nei quali si rispecchia la piccola e digiuna vita della borghesia. Cotesta povera letteratura inondò e sommerse il pubblico d'Inghilterra, finché apparve il grande scozzese a fare nel romanzo una rivoluzione o piú propriamente una restaurazione. Come difatti Michele Cervantes introdusse nel romanzo l'elemento democratico quando solo il cavalleresco vi dominava, cosí Gualtiero Scott gli restituí l'elemento aristocratico che era disparito dinanzi alla invadente prosa degli assettatuzzi cittadinuzzi. Quella bella proporzione che noi ammiriamo nel Don Chisciotte del Cervantes, l'ha resa al romanzo, con opposto procedimento, lo Scott.

Sotto questo rispetto, non è stato ancora, credo, riconosciuto il gran merito del secondo poeta inglese. Le sue inclinazioni tory e la sua predilezione del passato fecer di gran bene alla letteratura e a que' suoi capolavori, che sollevarono per tutto rumore e gara d'imitazioni, e respinsero ne'piú oscuri cantucci dei gabinetti di lettura i cinerei fantasmi del romanzo borghese. È un errore il non riconoscere Gualtiero Scott per inventore del romanzo storico e questo voler dedurre dal movimento tedesco. Si scorda che la caratteristica del romanzo storico sta appunto nell'armonia dell'elemento aristocratico e del democratico, che Gualtiero Scott, rendendo al primo elemento la parte sua, ha mirabilmente restaurato quell'armonia, turbata durante l'esclusivo signoreggiare del secondo; mentre invece i nostri romantici tedeschi hanno nei lor romanzi rinnegato del tutto l'elemento democratico, per rientrare farneticando nelle rotaie dei romanzi di cavalleria che erano prima del Cervantes. Il nostro La Motte Fouqué non è altro che uno spedato, sbrancato dalla trista compagnia di quei poeti che misero al mondo l' Amadigi di Gaula e altre simiglianti avventure; e io ammiro non solamente l'ingegno, ma il coraggio che c'è voluto al nobile barone per mettersi a scrivere i suoi libri di cavalleria duecento anni dopo l'apparizione del Don Chisciotte. Furon di curiosi anni in Germania, quando cotesti libri uscirono e la gente ci trovava gusto! Che significava nella letteratura tale predilezione per la cavalleria e per le imagini del vecchio tempo feudale? Il popolo tedesco, lo credo bene, voleva prendere commiato per sempre dal medio evo; ma teneri di cuore, come noi siamo, prendevamo commiato con un bacio. Noi imprimemmo per l'ultima volta le labbra su le vecchie pietre sepolcrali. Qualcuno di noi, a dir vero, fece delle grullerie belle e buone. Ludovico Tieck, il fanciullo terribile della scuola, si mise a dissotterrare gli antenati dalle loro tombe, e dondolava ogni bara come fosse una culla, e con un vaneggiamento d'infantil balbutire ci cantava sopra, Nanna, nonnino, nanna.

Io ho detto lo Scott, il secondo gran poeta dell'Inghilterra, e capolavori i suoi romanzi. Ma la lode va soltanto al genio di lui; i romanzi io non li posso per nessuna guisa comparare al gran romanzo del Cervantes, che molto avanza lo Scott di spirito epico. Il Cervantes fu, già lo dissi, un poeta cattolico; e a ciò dee per avventura quella grande serenità epica, che come un cielo di cristallo cuopre e circonda il mondo varicolore delle sue creature: non mai il crepaccio del dubbio. Aggiungesi la calma nazionale del carattere spagnolo. Ma Gualtiero Scott apparteneva a una Chiesa che sottomette a rigorosa discussione anche le cose divine; come avvocato e scozzese era abituato alla discussione e all'azione; e anche ne'suoi romanzi, come nel suo spirito e nella vita, prevale il dramma. Le opere di lui quindi non possono mai esser considerate come puri modelli di quella composizione artistica che noi chiamiamo romanzo. Agli Spagnoli la gloria di aver prodotto il miglior romanzo, agl'Inglesi quella di aver toccato la cima nel dramma.

E ai Tedeschi qual palma rimane? Ecco, noi siamo i meglio lirici di questo mondo. Per adesso i popoli han troppe faccende politiche; ma sbrigate che siano un bel giorno, Tedeschi, Britanni, Spagnoli, Francesi, Italiani, uscirem tutti fuori per la verde foresta a cantare, e giudice sarà l'usignolo. Son certo che il premio in questa gara del canto lo vincerà il lied (canzonetta) di Volfango Goethe.

Il Cervantes, lo Shakspeare e il Goethe sono il triumvirato che toccò la cima nelle tre forme della rappresentazione poetica, la epopea, il dramma, la lirica. Chi scrive queste pagine ha per avventura una particolar competenza a lodare il nostro gran nazionale come il piú perfetto poeta di canzoni (nel senso vero della parola). Goethe sta nel mezzo tra le due scuole della degenerazione lirica, l'una che pur troppo è designata col mio nome, l'altra che è la scuola sveva. Tutt'e due hanno il lor merito, e indirettamente fecer del bene alla poesia tedesca. La prima operò in quella una salutare riazione contro l'idealismo esclusivo, ricondusse gli spiriti alla forte realità e sbarbicò quel sentimentale petrarchismo che a me parve sempre una donchisciotteria lirica. La scuola sveva qualche cosa fece anche lei per la salute della poesia tedesca. Se nella Germania settentrionale poterono uscire opere di poesia vigorosamente sane, forse che si dee alla scuola sveva, che tirò a sé tutti gli umori malati clorotici e piamente sentimentali della Musa tedesca. Stuttgart fu come il cauterio della Musa tedesca.

Ma, pur assegnando a quel gran triumvirato la supremazia nel dramma nel romanzo nel canto, io sono ben lontano dal diminuire il valore degli altri sovrani poeti. Questione da stupidi, qual poeta sia piú grande d'un altro. La fiamma è fiamma, e non si può pesare a libbra e oncia; e sol la volgar grossolana goffaggine d'un merciaiolo può scappar fuori con la sua logora bilancia da formaggio a voler pesare il genio. Non pur gli antichi ma anche parecchi moderni han fatto poemi nei quali la fiamma della poesia vampeggia splendida come nelle opere maestre di Shakspeare, Cervantes e Goethe. E pure questi nomi si tengono insieme quasi congiunti di misterioso allacciamento. Raggia dalle loro creazioni uno spirito di famiglia: vi respira dentro un'eterna dolcezza, come l'alito di Dio: vi fiorisce la compostezza della natura. Il Goethe ricorda molto spesso, come lo Shakspeare, anche il Cervantes, e al Cervantes somiglia fin nelle particolarità dello stile, in quella gioconda e comoda prosa colorita della piú dolce e innocente ironia. Il Cervantes e il Goethe si rassomigliano pur nei difetti, nella prolissità del discorso, in quei lunghi periodi paragonabili alla tratta di un corteggio reale. Non di rado un solo pensiero siede nella distesa d'uno di tali periodi, che procede con la gravità d'una gran carrozza di corte tutta a oro tirata da sei cavalli impennacchiati. Ma questo unico pensiero è sempre un'altezza, se non pure il sovrano.

Dello spirito del Cervantes e dell'influenza che ebbe il suo libro potei dar solo qualche cenno; e anche meno potrò estendermi sul vero valore artistico, perché occorrerebbero discussioni che mi trasporterebber troppo lontano nel campo dell'estetica: farò qui e solo in generale qualche osservazione su la forma del gran romanzo e su le due figure che ne tengono il centro. La forma è d'una narrazione di viaggio, come la piú naturale per questo genere d'invenzioni poetiche: basti ricordare l' Asino d'oro d'Apuleio, il primo romanzo dell'antichità. Alla uniformità, che è il difetto di sí fatte narrazioni, si volle riparare piú tardi con ciò che oggi chiamiamo la favola del romanzo. Ma i piú dei romanzieri, poveri d'invenzione, presero le favole a prestito gli uni dagli altri, o almeno gli uni si giovarono delle favole degli altri con poche modificazioni; e per cotesto ritorno degli stessi caratteri intrecci e situazioni il pubblico alla fine quasi si svogliò di romanzi, e per iscampar dalla noia delle favole riabburattate si ricorse per qualche tempo all'antica e original forma della descrizione di viaggio: ancora riabbandonata, non a pena apparí un poeta originale con favole nuove e fresche. In letteratura come in politica tutto si muove secondo la legge dell'azione e della riazione.

Le due figure di Don Chisciotte e di Sancio Panza, che nella continua parodia si compiono sí mirabilmente da formare tutt'e due il vero e proprio eroe del romanzo, attestano con egual forza l'arte e la profondità del poeta. Mentre in altri romanzi, nei quali l'eroe gira il mondo solo, per far sapere i pensieri e le impressioni di lui, gli scrittori doverono ricorrere ai monologhi alle lettere a un giornale, Cervantes in quella vece potè introdurre per tutto un dialogo naturalissimo; e dalla continua parodia che l'una figura fa dei discorsi dell'altra piú evidente apparisce la intenzione del poeta. In molte guise fu di poi imitata cotesta doppia figura che dà al libro del Cervantes una cosí artistica naturalezza, e da' cui caratteri, come da germe unico, cresce e svolgesi e si spiega, come un gigantesco albero dell'India, il romanzo intiero con tutto il suo frondeggiar lussurioso, e i fiori odoranti, e gli splendidi frutti, e le scimmie e gli uccelli che saltano, svolazzano o si cullano su per i rami.

Ma sarebbe ingiustizia mettere a conto dell'imitazion servile la introduzione o ripetizione di quelle due figure. Don Chisciotte e Sancio Panza, che uno corre in cerca di avventure, l'altro, mezzo per affezione mezzo per interesse, gli trotta dietro al sole e alla pioggia, ci sono da presso, piú che non si creda, nella vita, e anche noi gli abbiamo riscontrati piú d'una volta. Per riconoscere da per tutto e sempre, sotto i diversi travestimenti, nell'arte e nella vita, l'inclito paio, bisogna, è vero, aver l'occhio all'essenziale, ai segnali interiori, e non alle accidentalità dell'apparenza. Esempi potrei recarne molti. Non riscontriamo noi Don Chisciotte e Sancio Panza cosí nelle figure di Don Giovanni e Leporello come nelle persone di lord Byron e del suo domestico Fletcher? Non riconosciamo i due tipi e le loro mutue relazioni cosí nella figura del cavaliere di Valdsee e del suo Gaspar Larifari, come nella figura di qualche scrittore e del suo editore? il quale ultimo si accorge bene delle pazzie del suo autore, ma non per tanto, per trarne un profitto reale, lo accompagna fedelmente in tutti i suoi vagabondaggi ideali. E il signore editor Sancio, se anche dall'affare guadagni sol delle bòtte, riman per altro sempre grasso, mentre il nobile cavaliere dimagra ogni giorno piú.

Ma non solo tra gli uomini, sí anche tra le donne ho ritrovato spesso i tipi di Don Chisciotte e del suo scudiere. Mi ricordo specialmente una inglese, una biondina fantastica, scappata con un'amica da un convitto di signorine, che volea correre il mondo in cerca d'un nobile cuore d'uomo, come se l'era sognato nelle dolci notti illuminate dalla luna. L'amica, una brunetta atticciaticcia, sperava di conquistare in tale occasione, se non un che d'ideale a parte, almeno un bel tòcco di marito. Mi par di vederla ancora la snella persona, con gli occhi azzurri assetati d'amore, dalla spiaggia di Brighton mandare languidi sguardi lontano lontano sul mar tempestoso verso la costa francese. L'amica intanto schiacciava nocciòle, mangiava con aria ghiotta la mandorla, e gittava i gusci nell'acqua.

Tuttavia né i capolavori degli altri artisti né essa la natura ci presentano i due tipi cosí compiuti nelle relazioni dell'uno con l'altro come ce li dà il Cervantes. Ciascun tratto nel carattere e nella figura dell'uno risponde a un tratto opposto ma affine nell'altro. Ciascuna particolarità ha un valore di parodia. Anzi, fin tra Rossinante e il grigetto asino di Sancio è lo stesso ironico parallelismo che fra lo scudiero e il cavaliere, e anche le due bestie sono in certa guisa i simbolici portatori delle stesse idee. E come nel pensare cosí nel parlare padrone e servo danno a vedere i piú mirabili contrasti. Il buon Sancio col suo parlare per proverbi rotto e rozzo fa pensare al pazzo del re Salomone, a Marcolfo, che a punto come lui esprime e rappresenta in brevi sentenze la sapienza sperimentale del popolo basso in faccia al patetico idealismo. Don Chisciotte all'incontro parla la lingua culta delle classi superiori, e anche nella grandezza del bene arrotondato periodo rappresenta l'illustre e nobile hidalgo. La costruzione di cotesto periodo è spesse volte troppo distesa, e l'eloquio del cavaliere sembra una superba dama di corte in roba di seta a sgonfi con lunga coda frusciante. Ma le Grazie, travestite da paggi, portano sorridendo il lembo; e i lunghi periodi si compiono con graziosissimi movimenti. Brevemente: Don Chisciotte par che favelli impostato su l'alto suo cavallo: Sancio Panza discorre come adagiato sul suo povero asinello.

DOPO UNA RAPPRESENTAZIONE

della commedia "LA VIDA ES SUENO"

DI

P. CALDERON

Nell' Indipendente di Bologna del 23, 26 e 27 agosto 1869.

"LA VIDA ES SUENO"

DEL CALDERON

I.

Pietro Calderon della Barca, del quale il signor Ernesto Rossi rappresentava su le scene del Brunetti or sono due sere la commedia intitolata La vita è un sogno, fu soldato e prete spagnolo del secolo decimosettimo. Soldato, combatté, fra le altre, le guerre di Fiandra: prete, fu canonico di Toledo, cappellano reale in Madrid, confratello della congregazione di san Pietro apostolo: ebbe pensione a corte di trenta scudi il mese, benefizi a Toledo e in Sicilia. Ciò per larghezza di Filippo quarto, che del teatro piacevasi e pe'l teatro scriveva, nascondendosi con verbosa modestia sotto l'appellativo di un ingenio de esta corte. Filippo dunque consacrò il Calderon in suo poeta, come la chiesa di Spagna lo avea consacrato in suo ministro; e lo trattò un po' meglio che simili re dilettanti e guastamestieri non usin fare con quelli emuli ingegnosi ch'ei si tengono da torno per isfoggio di vanità, a uso bestie rare, e per un piú comodo sfogo, nella vicinanza degli oggetti, alle tentazioni dell'invidia. Cosí la vita di Pietro Calderon, varia e felice, empié quasi tutto il secolo decimosettimo: il poeta della monarchia e della chiesa spagnola distese l'ombra della sua gloria su l'età scadente di quelle due instituzioni, l'ombra allungata dall'occaso del sole di Castiglia, che pur doveva non conoscer tramonto. Nato co 'l secolo, piú esattamente che a' nostri giorni non dicasi di Vittore Hugo, aveva sedici anni quando morí Michele Cervantes, trentacinque quando Lope de Vega; creatore quello, accrescitore questo del teatro spagnolo, grande e vero onore, il primo, della Spagna e della letteratura europea. A tredici anni scrisse la sua prima commedia, El carro del cielo; a ottant'uno, Hado y divisa, l'ultima. Morí a' 25 maggio 1682; e lasciava, affermano i biografi, centoventi comedias, duecento loas (prologhi), cento saynetes (farse), e ben piú di cento autos sacramentales (drammi religiosi allegorici): sí bene che le opere di lui a stampa non aggiungono a tanto numero.

II.

Negli atti sacramentali pare che talvolta recitasse egli stesso improvvisando, come i nostri comici antichi nelle commedie d'arte. Ma il Calderon era in buona compagnia: recitava con Filippo quarto. Nella Creazione del mondo il re faceva da Dio, il cappellano reale da Adamo. E Adamo cominciò a descrivere il paradiso terrestre. Naturalmente Dio si dové annoiare a sentirsi squadernar lí su'l viso quello che aveva creato egli stesso: figuratevi poi, avendo che fare con un Adamo Calderon, della cui imperturbabilità nel tirar giú cataloghi di metafore e similitudini i lettori poterono avere un piccolo saggio nella rappresentazione di venerdí sera, se v'assisterono, e ne potranno avere uno infinito aprendo a caso qualunque de' molti volumi suoi. Non vi era in somma fuscello, granello, bacherozzolo che sfuggisse all'acuto occhio del canonico di Toledo. E Iddio si scontorceva e stronfiava su'l seggiolone dorato. Ma era proprio un predicar la discrezione ai preti: Adamo cappellano badava pure a tirare avanti. Iddio alla fine cominciò a sbadigliare sí fieramente, che Adamo, punto nella vanità d'autore, tagliò a mezzo una similitudine per domandare al signore e dio suo (tanto è vero che un autore offeso è capace di riuscire anche eroe) qual fosse mai la cagione per la quale Sua Divinità si induceva a far dimostrazioni cosí poco reali d'una passione non punto divina. Voto a Dios, stava per dire il re di Spagna; ma ricordando la persona che sosteneva, si riprese, e con la sufficienza d'un filosofo hegeliano esclamò:—Per me stesso giuro, che mi pento d'aver creato un Adamo cosí chiacchierone.—Io per me ho mezza voglia di dar ragione a Filippo quarto, e scommetto che insieme con me l'avranno quei lettori i quali nella rappresentazione di venerdí sera gustarono il discorso di Basilio re di Polonia, che pure era stato scemato di quasi una metà dal signor Rossi.

Questi atti sacramentali, i quali piú d'ogni altro lavoro del drammaturgo spagnolo eccitarono l'ammirazione dei contemporanei, e da' quali ripromettevasi egli la sua maggior gloria; questi atti sacramentali, che a Guglielmo Augusto di Schlegel apparivano singolari e straordinarie produzioni, e del cui entusiasmo religioso il consigliere aulico parlava con entusiasmo critico; questi atti ci domandano un po' d'attenzione; e forse che ci daranno in cambio qualche idea del tempo, della nazione, dell'uomo. Pigliamo il primo: Dio per ragion di stato.

Va innanzi un prologo, ove la Teologia avendo per padrino la Fede si offerisce a sostenere nella università del mondo contro qualunque combattente un torneo su queste proposizioni: la presenza di Dio nell'eucaristia, la vita nuova che l'uomo riceve nella comunione, la necessità di spesso comunicarsi. Contro la prima proposizione si presenta la Filosofia con la Natura a padrino; e le due parti combattono di tutt'arme, di sillogismi come i frati nelle scuole di Salamanca, di spada come i cavalieri nei torneamenti di Toledo e di Burgos. S'intende che la Filosofia con la Natura sono abbattute e confessano la prima proposizione; e lo stesso avviene della Medicina col Discorso che si presentano ad armeggiare contro la seconda, e della Giurisprudenza con la Giustizia che movono contro la terza. Allora, per festeggiare il triplice trionfo, la Teologia annunzia un atto, nel quale sarà provato in forza delle leggi universali la legge cattolica dovere esser sola seguíta come quella al cui favore convergono la ragione e la convenienza.

Personaggi dell'atto sono: lo Spirito (primo amoroso), il Pensiero (buffone); poi, il Paganesimo, la Sinagoga, la Confermazione, l 'Estrema Unzione, l' Ordine sacerdotale, il Matrimonio, l' Africa, l' Ateismo, San Paolo, il Battesimo, la Legge naturale, la Legge scritta, la Legge di grazia. Comincia risonando per l'aria un coro d'invocazione e desiderio al dio ignoto, e tratti a quel suono lo Spirito e il Pensiero pervengono a piè d'una montagna, su le cui vette levasi un tempio consacrato a punto al dio ignoto di cui parla San Paolo. I due pellegrini trovano nel tempio, tra una folla di supplicanti, il Paganesimo che prega il dio a venire ad abitare i delubri che egli ha fabbricato per lui. E qui una lunga argomentazione tra lo Spirito, il quale vorrebbe sapere un po' come un dio ignoto possa essere un dio, e il Paganesimo che fatto teologo glie lo prova come quattro e quattro fa otto con quella chiarezza e convenienza di ragioni che è propria de' teologi. Lo Spirito, a dir vero, non ne par molto soddisfatto, vorrebbe riattaccare la discussione col Pensiero.—È meglio ballare—risponde il buffone. E si balla un gran ballo di pazzia divina: il Paganesimo lo guida: le figure si formano in croce, e cantano con parole di mistero il dio ternario. Qui un colpo di terremoto e un'eclissi: fuga generale: restano soli il Paganesimo, lo Spirito, il Pensiero a ragionare su quei fenomeni. È il mondo che muore? è Dio che soffre? Queste sono ipotesi dello Spirito. Impossibile, obietta il Paganesimo. E il Pensiero, buffone, corre dall'uno all'altro; e dà sempre ragione a quello che parla l'ultimo. Il Paganesimo esce; e Spirito e Pensiero si propongono di andare girondoloni pe 'l mondo in cerca del dio ignoto. In America, l'Ateismo risponde alle loro domande che a lui non preme nulla né di coteste né d'altre fisime; e il Pensiero, da buon compatriota di Cortes e Pizzarro, lo bastona. L'Africa aspetta il suo profeta; e per intanto si accontenta di far considerare all'irrequieto Spirito che in ogni religione l'uom può salvarsi, e che quelle rivelate altro non sono che un mezzo per agevolare la perfezione. Bestemmia, urla come un baccelliere di Salamanca, lo Spirito; ed egli e l'Africa si minacciano, come arabi e castigliani. In Asia, trovano la Sinagoga, la quale è appunto sovra pensiero per certi segni di terremoto e di eclissi che accompagnarono la morte di un giovanotto da lei sentenziato alla croce perché col titolo di messia turbava l'ordine pubblico e scalzava la religion dello stato. Nuove discussioni su questo proposito tra la Sinagoga e lo Spirito. Ma eccoti un lampo e una voce di cielo—Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?—Entra in iscena san Paolo di subito convertito, e disputa con la Sinagoga su la rivelazione: introduce la Legge naturale, la Legge scritta, la Legge di grazia, come quelle che si riabbraccian tutte nel cristianesimo, e, per di piú, i sette Sacramenti che ne sono gli appoggi. E l' atto finisce con le conversioni, come una commedia di spada e di cappa co'matrimoni. La Sinagoga e l'Africa si ostinano a rimaner reprobe; ma lo Spirito, proprio lui, grida loro su 'l viso: Lo spirito dee pervenire ad amare e credere il dio ignoto per ragione di stato, quando pure gli mancasse la fede.—E il coro ripete cantando questa chiarissima affermazione.

In quel coro parmi di raffigurare i gesuiti fra i quali il Calderon era stato educato, i bisogni dell'esercito spagnolo fra i quali aveva combattuto la libertà in Fiandra, i domenicani inquisitori e confessori del re e della regina ai quali tutte le mattine il poeta baciava la mano nelle anticamere. E un leppo di bruciaticcio, e un suono ottuso e sordo, che non è suono, come di ferri acuti che si affondano con moto regolare e monotono in tante masse carnose, mi giunge, salvo mi sia, al naso e agli orecchi. Poveri giudei di Castiglia! nobili mori di Granata! generosi e improvvidi Incas! le allegorie dell'idalgo cattolico don Pietro Calderon della Barca non sono grottesche figure retoriche solamente: voi lo sapete.

Dio per ragion di stato del canonico sente il machiavellismo untuoso de'gesuiti. Io gli antepongo di gran lunga la sfacciataggine bronzea anzi di granito, monumentale a ogni modo, di Lope de Vega, la fenice di Spagna, a cui, per omaggio all'ingegno e alla gloria, Urbano ottavo mandava il diploma di dottore in teologia e il Grande Inquisitore il brevetto di famiglio del Sant'Uffizio, alle cui esequie tre arcivescovi cantaron la messa. Nell' Arauco domado di Lope, Caupolican difensore della libertà del Chile, è fatto prigioniero dalli spagnoli e condotto davanti a Garcia di Mendoza loro capitano. «Che è ciò dunque, Caupolican?» domanda il vincitore. «La guerra, signore, e la mala ventura,» risponde il vinto. Il Mendoza riprende: «La mala ventura è guiderdone degno di quelli che combattono contro il cielo. Non eri tu vassallo del re di Spagna?» E Caupolican: «Io nacqui libero, ho difeso la libertà della mia patria e delle mie leggi, non ho mai attentato nulla contro la vostra.» Ma la vittoria del re cattolico deve esser piena, e il vinto si arrende anche alla religione del vincitore. Ciò non vuol dire che si risparmi una vita: il sacerdote dà il passaporto all'anima per l'altro mondo, ma in questo il corpo è nelle mani del re: Dio per ragion di stato. Ecco dunque Caupolican ritto su 'l rogo, legato al palo; e i soldati spagnoli che appiccano il foco. Allora il Mendoza, inchinandosi a un ritratto di Filippo II che domina la scena, grida:

Señor, mirad que os servimos Tiniendo estes verdes campos De sangre de cien mil Indios Por daros un reyno estraño.

«Signore, vedete come vi abbiamo servito tingendo questi verdi campi del sangue di centomila indiani per dare a voi un regno straniero.»

Evviva dunque il re e la religione! evviva la gotica cavalleresca monarchica e cattolica scuola romantica, e i suoi due santi apostoli Augusto e Federigo Schlegel, par nobile fratrum, che gabellarono al mercato dell'Europa questo fior di roba. Erano i tempi a ciò, perché i pigmei avevan trionfato dei titani. I consiglieri aulici avevano messo il piede su la gola dei vecchi giacobini, i nobili uffizialetti prussiani osavano guardare in viso i cadaveri dei gran marescialli dell'impero plebeo, Blücher cercava Napoleone per farlo fucilare, e nell'aspettativa di distrugger Parigi minava un arco del ponte di Jena; il re di Prussia sospendeva i professori che avevano spinto la gioventù germanica alla battaglia triduana delle nazioni, e apriva la fortezza di Spandau agli ingenui pronipoti d'Arminio che si ricordavano un po' troppo d'aver rialzato essi i principi tedeschi; i pietisti protestanti e i gesuiti cattolici si davano la mano contro il libero pensiero; l'imperatore scismatico e il cattolico, il re luterano e l'anglicano facevano la Sant'Alleanza contro la rivoluzione: e i due fratelli Schlegel dettarono il codice della scuola romantica a onore e incremento dell'impero, della chiesa e del medio evo.

Delle Lezioni di letteratura di Federigo, che per la critica era il vero ingegno potente di quella consorteria, scriveva ingegnosissimamente al suo solito Arrigo Heine: «Federigo Schlegel esamina tutte le letterature da un punto di veduta alto, ma quella posizione alta è sempre la cima del campanile d'una chiesa gotica. E in tutto che lo Schlegel dice odesi un continuo scampanare, odonsi qualche volta anche gracchiare i corvi che volteggiano intorno gli assi della vecchia freccia. Per me, aperto a pena quel libro, mi sale al naso l'incenso della messa; e a' migliori passi mi par veder rizzarsi via via delle lunghe file di pensieri tonsurati.»— Höher Weisheit Sonnenlicht Und der Kirche stille Pflicht,—«la superiore luce solar della scienza e la tranquilla obbedienza alla chiesa,» era il motto di Federigo; e da ciò s'intende come egli potesse andar pazzo del Calderon. Lo Stollberg il Tieck il Novalis il Werner rinnegarono la confessione di Martin Lutero per cercar l'Ippocrene della nuova poesia nelle pilette delle chiese cattoliche; ma a Federigo non bastò cotesto, che e' non volesse anche fare un passo piú innanzi e immergersi nelle sacre tenebre dei monasteri spagnoli rotte a quando a quando dal bel vermiglio bagliore degli atti di fede. E predicava il Calderon per il primo e piú grande fra i poeti cristiani nel chiarire piú e piú nel dominio della bellezza spirituale secondo le idee cristiane le politiche singolarità, e risonanze della vita, della storia tradizionale, delle singole leggende e anche della mitologia pagana. E forse per questa stessa ragione Federigo aveva rubato al marito la bella ebrea figliuola di Mosè Mendelssohn, per farsi poi cattolico insieme con lei e vivere delle limosine del marito oltraggiato: lo racconta Arrigo Heine. Anche: il Calderon a Federigo pareva primo e grandissimo fra i poeti cristiani nel far nascere dalla rappresentazione degli estremi patimenti una trasfigurazione spirituale, che è quel che meglio si affà, secondo lui, al poeta cristiano: Federigo morí d'uno stravizio gastronomico.

Ma Guglielmo Augusto Schlegel, o piú veramente Sua Eccellenza il consigliere di Schlegel, il quale saliva in cattedra tutto abbigliato su l'ultimo modello di Parigi a trattar male il Racine, e presso la cattedra tenevasi un lacchè nell'assisa baronale della famiglia intento a regolare la luce delle candele ardenti su candelabri d'argento; il secondo Schlegel in somma, o il primo secondo i gusti, vince la mano nelle lodi del Calderon al dotto fratello. Come la Spagna è la terra promessa della poesia romantica, cosí il Calderon, poeta sommo se altri mai al mondo meritò questo nome, il Calderon, miracolo della natura, è il genio della poesia romantica. «Essa poesia romantica, soggiunge il critico, lo aveva dotato di tutte le sue ricchezze, e sembra che avanti d'involarsi da' nostri sguardi abbia voluto nelle opere di Calderon, come si pratica in un fuoco artifiziato, riserbare i colori piú vivi la luce piú sfolgorante ed i piú rapidi razzi per l'ultimo scoppio.» E la comparazione del fuoco d'artifizio e dei razzi torna benissimo. Lo stesso Schlegel voltò in versi tedeschi La vita è un sogno per il teatro di Weimar, dove pochi anni innanzi erano state rappresentate l' Ifigenia in Aulide di Euripide, la Fedra del Racine, il Macbeth dello Shakspeare e anche la Turandot di Carlo Gozzi, tradotte dallo Schiller. Il quale (sia detto in parentesi) non voleva sentir parlare degli Schlegel, e li chiamava i due storni: e il Goethe, dopo lo schiamazzo che gli fecero intorno in compagnia di molti corvi per piú anni, un bel giorno scosse (dice il Heine) la chioma ambrosia e li disperse.

Cotesta preferenza dello Schlegel e l'opinione di altri critici ci assicurano dunque che La vita è un sogno va tra le opere meglio pregevoli del poeta spagnolo. E allora, a dir la verità, ci saremmo aspettati qualche cosa di più.

III.

La vida es sueño è una commedia eroica, la quale, come del resto tutti quasi i drammi spagnoli (e lo notarono il Bouterweck e il Sismondi), non è che una novella; novella drammatica, con sovrapposizioni d'intrecci.

Sigismondo, figliuolo unico di Basilio re di Polonia, è tenuto fin dal suo nascere prigioniero in una torre in mezzo ai boschi: cosí volle suo padre, il quale per segni di stelle avea creduto di prevedere che il figliuolo crescerebbe di sí feroce e superba natura da recar danno e ruina al regno e al padre stesso. Ma nello scorcio della vita, non rimanendo al vecchio che due nipoti di sorelle, Astolfo di Moscovia e Stella, prima di risolversi a trasmettere il regno ne'due che per ciò son già fidanzati, vuol tentar la prova se Sigismondo domato dagli anni del carcere désse speranza di sapere o potere correggere la mala natura. Clotaldo, carceriere e maestro del principe, gli mesce una bevanda soporifera; e Sigismondo dalle catene svegliasi nella reggia. Libero e potente, la natura sua di per sé feroce, e infiammata poi dai sentimenti di rancore e vendetta della sofferta prigionia, scoppia e rovesciasi come lava ardente su tutto: due volte vuole uccidere il suo maestro e carceriere, gitta dalla finestra un sergente, batte Astolfo suo cugino, minaccia il re: né autorità né età né bellezza gli è sacra. Il re allora pensa bene di farlo, addormentato, ritornare nella prigione: dove Clotaldo allo svegliarsi lo ammonisce ch'egli ha soltanto sognato, e che la vita tutta è un sogno, ma che anche in sogno giova far bene. Intanto popolo e soldati, per non sostenere la signoria d'un moscovita, qual era Astolfo in cui stava per ricadere il regno, si sollevano, corrono alla prigione di Sigismondo, lo liberano, lo acclamano re e capitano. Egli, nel pensiero che anche questo sia un sogno, ondeggia da prima; poi si gitta nella rivolta a conquistarsi il regno. Ma la ricordanza di quel sogno di grandezza d'un giorno cosí rapidamente dileguatosi e gli ammonimenti di Clotaldo han fatto di Sigismondo un altr'uomo: sa, con potenti sforzi, signoreggiarsi: vuol fare il bene. A Clotaldo, che gli annunzia doversi per lealtà raccogliere all'esercito del re, lascia libero il passo: contiene la sua passione per una donna, e la unisce a quello che ella ama: vince il re suo padre, e rende nelle sue mani la spada vittoriosa.

Tale è il nòcciolo della commedia di Pietro Calderon rappresentata ultimamente dal signor Rossi. Martinez della Rosa, critico e poeta spagnolo di scuola francese, domanda che cosa si possa sperare da una composizione drammatica, il cui soggetto è un principe chiuso come fiera in una prigione in mezzo ai boschi. La questione, cosí, parmi posta male, e il biasimo che ne riesce, ingiusto: perché veramente il personaggio e l'azione passano per tre fasi diverse, la rabbia impotente del prigioniero, lo sfogo dell'uomo della natura appassionato, la trasformazione dell'eroe.

Per la prima fase, quando Sigismondo è prigioniero, il Martinez ha ragione. Dramma non vi può essere: cotesta condizione appartiene alla lirica, all'epica al piú, a quella epopea analitica che il Byron indovinò nel Prigioniero di Chillon. Ma di questi prigionieri e solitari superbi, che già furono parte del mondo e devono tornarvi, due figure ci diede la Grecia: fra gli dèi, Prometeo; fra gli uomini, Filottete. Ora chi ricorda i lamenti tragici di Eschilo e di Sofocle (e come dimenticarli chi li ha letti una volta?) li paragoni un po', di grazia, a questi di Sigismondo nel dramma spagnolo (cito dalla traduzione fedelissima di Pietro Monti): «Me misero! me infelice! Desidero, cieli, sapere, giacché mi punite a questo modo, quale delitto nascendo commisi contro di voi: benché, se nacqui, già conosco che commisi un delitto; e la vostra giustizia e il vostro rigore hanno per ciò sufficiente motivo: l'essere nato è il piú grande delitto dell'uomo. Vorrei solo sapere, per giustificare i miei mali (lasciando da parte, cieli, il delitto del nascere) in che vi potei offendere piú degli altri, per punirmi di piú? Gli altri non nacquero? Dunque, se nacquero, perché hanno privilegi che io non ho goduto mai?—Nasce l'uccello; e colle ale che gli dànno somma bellezza, a pena è fiore piumato o mazzetto di fiori alato, già fende veloce le sale aeree, negandosi alla pietà del nido che lascia in riposo: ed io, che ho piú anima di lui, ho minore libertà?—Nasce il bruto; e colla pelle divisata di belle macchie è a pena, grazie al dotto pennello, figura stellata, quando gl'insegna, fiero e ardito, la necessità umana usare crudeltà; ed è mostro del suo laberinto: ed io, con istinto migliore, ho meno libertà?—Nasce il pesce, che non respira, aborto d'uova e di melma; e a pena squammoso navicello si vede su le onde, che gira per ogni dove, misurando l'immensità di tant'ampiezza, quanta glie ne dà il freddo abisso: ed io, con maggiore arbitrio, ho meno libertà?—Nasce il ruscello, biscia che tra fiori si snoda; e a pena, serpe d'argento, tra fiori si spezza, che musico celebra la pietà de' fiori che gli dà maestà e il campo aperto a sua fuga: ed io, che ho più vita di lui, ho meno libertà?—In tanto dolore, fatto un vulcano, un Etna, sono per isvellermi il cuore a pezzi a pezzi dal seno. Qual legge, giustizia, ragione può negare agli uomini privilegio sí dolce, qualità sí principale, concessa da Dio a un ruscello, a un pesce, a un bruto e ad un uccello?»

L'intonazione è solenne, e bello il motivo. Ma, del resto, come disse bene lo Schlegel! che sfilate di razzi! È sempre il solito vizio del Calderon: una imagine non gli basta: la prima non fa che mettergli appetito: come ciliege, l'una tira l'altra: e via per una pagina almeno, come processioni di fraterie per le strade di Madrid. E poi di tanti e sí smaglianti colori carica egli l'oggetto, che il lettore ne smarrisce la forma, ne dimentica l'impressione. Arrivato alla fine di cotesti periodi poetici, chi può dire di riconoscer piú gli uccelli e i ruscelli di madre natura? E queste filze di madrigali vorrebbonsi raccomandare accanto alla stupenda unità d'impressioni della tragedia greca e della inglese!

Nello svolgimento della terza fase del suo personaggio, il Calderon ha un riscontro, e pericoloso. Sigismondo che dubita se quello che l'attornia sia verità, Sigismondo per cui la vita è un sogno, Sigismondo che per iscetticismo divien generoso, è Amleto: un Amleto ridotto, un Amleto abortito, come lo potea fare il poeta della inquisizione: ma il germe c'è. Egli si move, ben diverso dal gran sonnambulo di Danimarca il quale ha da lottare con una folla di uomini vivi che da ogni parte gli si serra addosso e gli chiude la via, egli si move, sparnazzando sentenze morali e azioni cavalleresche fra tante figure di legno, fatte e messe lí solo perché ei le atterri o le sollevi.

Ma nella seconda giornata del dramma, nella seconda fase dell'animo di Sigismondo, il Calderon fece prova di forza vera, ci lasciò un saggio del drammatico che in altri tempi e in altro paese ei sarebbe stato. Sigismondo è l'uomo piú originale e gigantesco che il Calderon abbia creato: han ragione i suoi parziali: non può né meno dalla lontana esser raffrontato agli altri personaggi di quelle sue commedie, i quali, sebbene innumerevoli e forniti da tutte le parti del mondo, hanno un'aria di famiglia che deve consolar il cuore agli spagnoli su la fedeltà della musa nazionale del loro poeta, perocché son tutti cavalieri castigliani ad un modo, cultori fedelissimi al tempo stesso del punto d'onore e delle acutezze. Sigismondo questa volta non agita pennacchi, non tocca la chitarra né sgrana rosari; trascorre solo un tratto a fare un complimento a una dama nello stile del Gongora: ma del resto, sfrenandosi su la società coll'impeto della natura e colla passione del male dalla società stessa prodotto, è un leone dell'Africa; si leva e guardasi intorno e sbadiglia, si raccoglie per meglio prendere le mosse del salto, poi si slancia e abbranca e acceffa, e scrolla ed esulta, e bramisce e ruggisce; tutti fuggono. Pur tuttavia, rileggendo quella seconda giornata, ché lo merita, si sente desiderio di qualcosa: vorrebbesi vedere, parmi, opposti al selvaggio alcuni di quegli ostacoli piú insidiosi e dissimulati della civiltà piú raffinata, alcuna di quelle reti sottilissime che in soggetto consimile il Voltaire ha teso intorno al suo Ingenuo e che l' Huron salta e rompe cosí bravamente: gli spaventi della religione, per esempio. Ma a cotesto non v'era col Calderon da pensare: egli avrebbe condotto Sigismondo a baciar la mano al primo sagrestano che gli si facesse innanzi.

Lodano in vece, come invenzione singolare e che mostra l'artista profondo, l'ammirazione che il solitario incivile sente subito per la donna. Cotesta è invenzione antica quanto almeno il Novellino e il Decameron; né il Calderon l'ha rinnovata, parmi, singolarmente, descrivendola al solito piú con le molte parole che dagli effetti. Certo, l'ha viziata con lo stile.— Trombetta (a Sigismondo). «Quale di tutte le cose che qui hai vedute e ammirate ti è piaciuta?» Sigismondo. «Niente mi ha fatto meravigliare; mi era già tutto immaginato. Ma, se alcuna cosa del mondo mi dovesse cagionare stupore, sarebbe la beltà della donna. Una volta io lessi in certi miei libri, che ciò in cui Dio pose maggior cura è l'uomo, per essere egli un piccolo mondo; ma già penso che sia la donna, per essere ella un piccolo cielo e comprendere in sé piú bellezza che l'uomo, quanto è piú il cielo che la terra; e massime se è quella che ammiro.» Rosaura (da sé). «È qui il principe; io mi parto.» Sigismondo. «Donna, férmati e ascolta: non unire l'occaso e l'orto: fuggendo al primo passo, e cosí unendo l'orto e l'occaso, la luce e l'ombra, sarai senza dubbio sincope del giorno.»

E pure Guglielmo Schlegel non vuole si faccia il torto a Calderon di chiamare ammanieratura il suo stile puro ed elevato, vero colorito del dramma romantico.

Parmi d'avere accennato che Sigismondo s'agita nel vuoto, come quegli che non ha intorno a sé personaggi veramente vivi e moventisi. Potrebbe anche dirsi che, salvo Clotaldo il quale è, da buon carceriero e pedagogo, sufficientemente noioso, e salvo il vecchio re astrologo, gli altri personaggi del dramma poco di Sigismondo si curano, tutti intesi come sono a sbrigare le faccende loro, o meglio a dipanare una loro matassa, che è l'intrigo sovrapposto alla favola principale. Eccolo. Astolfo, per assicurarsi con la mano della cugina Stella il regno di Polonia, ha abbandonato in Moscovia un antico amore, Rosaura; che travestita da uomo passa nel regno, e la prima cosa a cui si abbatte è la torre di Sigismondo, alla quale non era permesso ad uom vivo di avvicinarsi. Ella fatta prigioniera deve rendere la spada nelle mani di Clotaldo, il quale in quell'arme riconosce un pegno da lui lasciato a una dama che giovine aveva amato in Moscovia. In fine Rosaura si scopre per sua figlia; e con lui passa alla corte, dove, riprese le vesti muliebri, diviene, come nipote di Clotaldo, dama di compagnia della principessa Stella. Questa un bel giorno la manda a ricevere di mano d'Astolfo un ritratto di donna che la principessa voleva da lui, argomento ch'egli avesse pe 'l suo dimenticato ogni altro amore. È il ritratto di Rosaura: imaginatevi qui una di quelle scene romanzesche che abbondano anche nel teatro nostro del secolo decimo settimo, la quale s'intreccia proprio alle furie di Sigismondo. Rosaura poi passa nel campo dei sollevati e sotto la protezione di esso principe, per dare in ultimo nella pace universale la mano ad Astolfo, quando Sigismondo impalma la Stella. Non è da vero la semplicità greca, e né pure quella folla di uomini e fatti che lo Shakspeare fa saltare tutti vivi e veri dalla sua testa per indirizzarli e moverli poi d'accordo al punto ch'ei vuole, come ragazzo un branco di animali domestici. È un imbroglio che si accavalca a una favola semplice di per sé ed austera, come edera che opprime ed insulta col suo verde stridente il verde cupo e severo di antica quercia.

IV.

Fra i puri e bei tratti di poesia, che pur sono in questa commedia eroica, è il soliloquio di Sigismondo su 'l fine della seconda giornata.—«Siamo in un mondo cosí strano che il vivere in esso è sognare; e l'esperienza m'insegna che l'uomo che vive sogna quello che è fino allo svegliarsi. Il re sogna di essere re, e, vivendo in questa illusione, comanda, dispone, governa; e quell'applauso che precario riceve scrive nel vento e in cenere lo converte la morte! Grande sventura che ci abbia chi sforzisi d'aver un regno, quando sa che si deve svegliare nel sonno della morte! Sogna il ricco fra le sue ricchezze, che gli recano i grandi affanni; il povero che soffre, sogna la sua miseria e povertà; sogna chi comincia a vantaggiarsi di stato; sogna chi si affanna dietro a speranze; sogna chi altrui ingiuria ed offende; e in somma nel mondo tutti sognano quello che sono, benché nessuno se ne accorga. Io sogno di essere qui da queste catene aggravato, e sognai di essere in uno stato migliore. Che è mai la vita? una frenesia. Che è mai la vita? un'illusione, un'ombra, una favola; e piccolo è il piú gran bene che ci sia, perché tutta la vita è un sogno e i sogni sono un sogno.»

Questo sentimento della vanità di tutto, questa conscienza dell'ombra, questo raziocinare del sogno è la vita della Spagna nel misero regno di Filippo quarto e nel miserissimo di Carlo secondo. Tutto era deserto oramai nella Spagna; e Filippo secondo che si fabbricò la sfarzosa prigione dell'Escuriale nella solitudine arenosa è l'imagine del popol suo che si fa il suo teatro nel secolo decimosettimo. Il cattolicismo insidioso e freddo de'gesuiti, piú micidiale ancora che quel violento e sanguinario de'domenicani, avea fatto il vuoto intorno alla Spagna; ed ella preparavasi alla morte, che sentiva oramai vicina, adagiandosi nel cataletto come Carlo quinto; e come i monaci di S. Giusto salmeggiavano su la bara dell'imperatore vivo, cosí il poeta voleva consolare la patria moribonda col ricantarle su tutti i toni che la vita è un sogno.

E questa poesia di scadimento e di morte i fratelli Schlegel la proponevano per canone all'arte dell'Europa nuova.

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SU

L'ATTA TROLL

DI ENRICO HEINE

Prefazione all' Atta Troll tradotto da G. Chiarini (Bologna, Zanichelli, 1868) riprodotta con emendazioni ed aggiunte.

SU L' "ATTA TROLL"

I.

L' atta troll, immaginato in Cauteretz, piccolo borgo de'Pirenei, nel 1841, nella stagione delle bagnature, fu buttato giú in una prima composizione sul finire di quell'autunno, e nel 1842 pubblicato a pezzi in un periodico tedesco che s'intitolava Il mondo elegante. «Ma in generale i poemi epici—scriveva il Heine al suo editore Campe—han da essere rifusi piú d'una volta: quante volte rimutò il suo l'Ariosto! quante il Tasso! Il poeta alla fine è un uomo, e i migliori pensieri gli vengono dopo il fatto.[3] » E cosí, pensatoci su ancora qualche anno fra i dolori d'una lunga malattia agli occhi e i fastidii d'una questione d'interessi con parenti, Enrico Heine, sol nell'autunno del '46, molte cose aggiunte, altre mutate, finí la piú fantastica e insieme la piú serenamente aristofanea satira che egli mai scrivesse e che la poesia germanica vanti.

L'autore stesso, nella prefazione che va innanzi al poema, narrò, con quella intima e splendida arguzia che è tutta sua, le circostanze fra le quali l' Atta Troll venne su, e anche rivelò i suoi intendimenti e le mire. Le ragioni storiche e politiche, le piú peregrine notizie, i piú sicuri schiarimenti su le allusioni personali, gli ha dati Carlo Hillebrand nella lettera al traduttore e nelle note che adornano preziosamente questa edizione. E già esso traduttore aveva pubblicato in un fascicolo della Nuova Antologia dello scorso anno un accurato studio su l' Atta Troll e sul genio satirico del Heine. Dopo ciò una mia prefazione è da vero inutile. Ma la prefazione di un terzo qualunque a un libro non suo può ella essere mai altro che inutile? Perché questa mia sia meglio in carattere, io cercherò di rappezzarla rubacchiando a man salva di qua e di là.

II.

Atta Troll è il filisteo tedesco mascherato da orso. Ma che cosa intendono i tedeschi per filisteo? e che cosa è il filisteo in generale? Lasciamolo dire al Chiarini, il quale, per la pratica lunga che ha avuto con l'orso, deve conoscerne meglio di altri il genio le abitudini e i gusti.

«Interrogando le sue memorie infantili intorno alla storia sacra, il lettore si rammenterà che i Filistei erano una piccola nazione della Siria, la quale fu lungamente in guerra col popolo ebreo; si rammenterà ch'erano gente robusta, ma grossa di cervello e dura, mentre gli Ebrei, che per ben due volte furono da loro soggiogati, ma seppero largamente vendicare le loro sconfitte, erano il popolo eletto, il popolo della luce, della civiltà, del progresso; si rammenterà che Sansone con una mascella d'asino ne uccise ben mille; si rammenterà che il piccolo David mosse senz'altra arme che la sua fionda contro il gran filisteo, il gigante Goliat, e lo atterrò, e toltagli la spada, e mózzogli con essa il capo, se ne tornò trionfante tra' suoi. E queste reminiscenze gli faranno, io credo, rifiorire nell'animo l'immagine di una razza d'uomini grossolana e volgare, moventesi senza garbo né grazia, piena di sé medesima, ostinata, arrogante, prosuntuosa. Pare a me, e parrà, spero, anche al lettore, che que' coraggiosi rappresentanti del vero spirito moderno in Grermania, i quali si affidarono di combattere e vincere l'usanza con la ragione, avessero una felicissima idea, allorché, allargando il significato della parola filisteo, con la quale già fino da tempo antichissimo gli studenti delle università schernivano i giovani provinciali, lo affibbiarono ai loro oppositori in arte, in politica, in filosofia. Come in ogni nazione, cosí in ogni ordine dell'umana società, anzi in ogni scuola, in ogni setta, in ogni associazione, ci sono filistei; riconoscibili facilmente a un certo sussiego, che non si scompagna mai da una certa goffaggine, che è, come a dire, la pelle, onde madre natura li ha rivestiti. Sien essi romantici o classici, sieno liberali o assolutisti, sieno progressisti o retrogradi, sieno realisti o repubblicani, sieno credenti o increduli, sono sempre un po' accademici, un po' arcadi, un po' pedanti; sono l'opposto della disinvoltura, della semplicità, della grazia, della eleganza; e perciò odiano queste qualità e chiunque le possiede, e perciò odiano spesso l'uomo d'ingegno, che non cura o deride le leggi ond'essi vorrebbero imbavagliare ogni cosa. E perciò i filistei tedeschi dovevano riguardare con un santo orrore Enrico Heine, ingegno indipendente, se altro mai, lucido, petulante, aggressivo; e perciò Enrico Heine doveva essere il piú fiero, il piú terribile, il piú spietato nemico de' filistei. In ciò sta il carattere principale, e come a dire l'essenza del poeta. In ciò sta l'importanza dell'opera sua letteraria, la quale, come acutamente e giustamente notò Matteo Arnold ne'suoi Saggi di critica, fu una guerra a morte contro il filisteismo, una guerra che durò quanto la vita dell'autore.»[4]

Questa guerra Heine la combattè nell' Atta Troll con le sue piú belle armi d'oro e con un intendimento meglio che altrove determinato. « Atta Troll è il filisteo tedesco, virtuoso, liberale, amante della patria, che porta i capelli lunghi, che fa la ginnastica, che nutre un superbo disprezzo pei popoli corrotti di sangue latino, che si guarda con gran cura dal macchiare di voci straniere il suo nativo idioma». Cosí l'Hillebrand[5] illustrava il tipo del filisteo tedesco: tipo, certamente, che si porge graziosissimo alla caricatura, da quanto lo chauvin francese, da quanto l' italianissimo, vestito di velluto, dei tempi del Primato. Ma l'intenzione lo spirito e le fogge della caricatura heiniana non si possono né cogliere intere né ammirare adeguatamente, se non si avverta da principio che Atta Troll è un tipo un po' complesso: è il germanesimo caparbio in certe sue evoluzioni politiche e insieme in certe fasi dell'arte: è, se vogliamo dirlo piú breve, il germanesimo romanticamente politico. «Come in Germania—séguiti qui il Chiarini—la scuola romantica pura attribuí a sé il monopolio della virtú, del liberalismo, dell'amore di patria, e come i purissimi dei romantici tedeschi furono i poeti svevi; Atta Troll è anche la satira del romanticismo tedesco in generale e della scuola sveva in particolare».

Se non che, prima di far conoscenza piú stretta con la caricatura heiniana, è giusto avvertire quel che notava l'Hillebrand: «L'Atta Troll comincia a non avere piú in Germania quel che oggi dicesi una grande attualità. La scuola patriottica dei tedeschissimi ( Deutschthümler ), che avea per motto il frisch, fromm, fröhlich, frei, e della quale è uno de' capi il padre Iahn, come Heine lo chiama, erasi già in parte modificata verso il 1840, quando il Gervinus ed altri, rinunziando a certe ridicolezze di forma e di linguaggio, infusero nuova e piú seria vita alla tendenza nazionale, benché serbassero poi nel fondo lo stesso orgoglio smisurato, lo stesso sentimento della propria virtú, lo stesso disprezzo per le nazioni neolatine. Cotesta scuola può dirsi che nel 1866 rimanesse interamente disfatta. Tuttavia i Mommsen i Wais ed alcuni altri non sono, chi ben guardi, che una terza metempsicosi dell'orso immortale».[6]

III.

Ora qualche cosa del romanticismo bisognerà pur dire; ma, siccome gl'italiani si sono ostinati a non volerne udir discorrere e io sono un po' pregiudicato, lasciamo parlare prima un altro, un forestiere.

Uno di quei francesi che innanzi al 1870 andavano pazzi della Germania e della sua poesia, il sig. Eduardo Schuré, in una Storia della canzone popolare tedesca, piena d'ingegno e di notizie e di belle traduzioni, ma forse troppo enfatica e poetica da crederle su la parola che la sia una storia, scrisse, sul romanticismo germanico e su le parti diverse che vi sostenne Heine, alcune pagine, che paiono una ballata romantica esse stesse. Le traduco qui, a rischio che la mia prosa rimanga scolorita al confronto.

«La poesia romantica tedesca era nel 1825 a' suoi piú be'giorni. Una folla di adoratori le si stringeva attorno, cavalieri non pochi sventolavano i suoi colori nell'arena della letteratura e della critica, i re le sorridevano perché essa gli incensava, i diplomatici la proteggevano perché essa faceva dimenticare al popolo il pensiero della libertá. Proprio allora entrò in lizza un poeta scintillante di spirito e d'immaginazione, che si annunziò per il suo cavaliere piú devoto e ardente. Ahimè, si accorse ben presto che le lance, anziché per i vezzi d'una bellezza fiorente, ei le rompeva per una vedova non tanto in carne, vivente su la contraddote. Rosso di collera, le gittò in faccia il guanto, e a tutti i suoi campioni assestò tali stoccate che i piú non se ne rialzarono, e la venerabile dama ne morí di dispetto. Il cavaliere fantastico e terribile era Enrico Heine. A questo nome quante bizzarre e incantevoli apparizioni sorgono a turbinare nella memoria! Quante fate pensose ci guardano coi loro grandi occhi azzurri cupi, quante nisse beffarde ci motteggiano passando! Quante buffe caricature, quante figure dolorose ci sfilano davanti agli occhi! Si riapre ancora allo sguardo abbagliato la magica foresta dei racconti delle fate; e nella caligine luminosa dei verdi frondeggiamenti, fra gli scintillíi del sole sul lussureggiante fogliame, apparisce una mano bianca che ci fa segno, ci chiama, ci attrae piú lontano, sempre piú lontano.

«La storia del Heine e della poesia romantica è per sé stessa un de'piú bizzarri racconti. Questa poesia aveva trasportato i suoi penati nell'antico castello del medio evo. L'aveva restaurato superbamente: cioè, fra i muri crollanti aveva ricostruito una splendida sala, badate bene, di legno. Colonne a chiocciola sostenevano superbamente la vòlta moresca; e le statue colossali dei vecchi imperatori, disposte in fondo alla sala presso il trono della santa e mistica poesia, parevano pronte a trar la spada per difenderla. In quella sala, scintillante di faci di fontane e di specchi, i romantici si diedero l'appuntamento per una gran festa ... Vi giungevano, meravigliosamente addobbati, cavalieri tedeschi, francesi, mori e saracini; bionde castellane in vesti azzurre seminate di stelle d'argento, cupe regine in mantelli purpurei raggianti di soli d'oro, trovatori dalle capellature ondeggianti. E cominciò il ballo. Una musica fantastica attrasse le coppie entro un cerchio magico, e con le cadenze via via piú passionali le trascinò a turbine. In questo momento entrò un misterioso cavaliere spagnolo. Stretto in una giubba di velluto, ei procedeva con la superba aria d'un hidalgo: mostrava nel mantello ricamato a oro alcune cifre arabe e indiane, e una gran penna di corvo gli dondolava sul capo: non avea maschera: bello di volto e attraente. Un ardore dolce e cupo covava negli occhi suoi fissi, e un superbo disdegno gl'increspava le labbra voluttuose. Portava ricamata in argento sul berretto la sua insegna, due teste di sfinge, che l'una pareva piangere e l'altra scoppiar dalle risa. Smisero di ballare per guardarlo. Egli con far trascurato prese la prima chitarra che gli venne alle mani, e cantò certe romanze castigliane con tono cosí altero e accento cosí nuovo, che scoppiò un tuono d'applausi. Il ballo ricominciò furioso, e il nuovo venuto ne fu il re».

«Ma presto tutti cadevano di stanchezza.—Or su—disse ad alta voce il bello incognito—è mezzanotte: via le maschere: ne ho assai di questa commedia. Vo'sapere chi siete. Io mi chiamo Enrico Heine: giudeo o protestante, come vorrete: ma mi rido di Dio e del diavolo, adoro l'amore e la libertà, e odio l'ipocrisia. Io ho detto chi sono. Ditelo anche voi.—Tutti gridarono: Indegnità. Il bel cavaliere diè in uno scroscio di risa:—Ah, voi avete paura, mascherine belle? E pure io so chi siete.—E accostandosi a un maestoso templaro, gli strappò la maschera:—Tu—gridò—non sei altro che un gesuita, e qui fai gli affarucci della tua congregazione. Voi, bel contino, che non parlate se non di crociate, voi siete un povero valletto di Sua Maestà il re di Prussia, e meglio fareste a entrar nella guardia che a pompeggiarvi qui nel palazzo della Poesia dove non avete che fare. E tu bel trovatore, sospiroso per la dama de'tuoi pensieri, tu non se'altro che un commesso di negozio e hai avuto un po' di fortuna con una cameriera. Voi siete tutti santi falsi, cavalieri falsi, trovatori falsi. Io vi smaschererò tutti, facchini: sotto le maschere lisce mostrerò le vostre facce rugose di sagrestani e di ciarlatani, e sotto le giubbe di seta i vostri abiti frusti di usurai e d'impiegati. Quanto a voi, dame illustrissime, non esamino i vostri titoli. Che sarebbe la commedia e la tragedia della vita, se voi non aveste il diritto di burlarvi di noi, di farci saltare come burattini ed empierci i cuori di torture divine e di voluttà dolorose? Contesse, ballerine, zingare e cortigiane, vi amo tutte e tutte vi canto. Voi siete belle: viva il ballo.—A questa uscita, scoppiò una tempesta di risa e di grida. La voce stridente del cavaliere passava nel midollo delle ossa: c'era nella sua amarezza non so che d'aspro e straziante che facea venire i brividi. La vecchia bicocca romantica tremava dalle fondamenta. Ve ne furono che gli domandarono ragione de'suoi insulti: egli incrociò la spada con loro, e li abbattè sul pavimento distesi senza voglia di ricominciare.—Nella vostra sala si affoga—disse il vincitore:—mi bisogna aria e l'alito dei boschi.—»

«Dir questo e dare un calcio alla porta e sfondarla, fu tutt'uno: venne un colpo di vento, tutti i doppieri si estinsero, e cavalieri e dame si videro al bagliore di pallidi torchi come spettri. Ma a traverso la porta spaccata apparve un incantato paesaggio di foreste, di montagne, di laghi dormenti al lume di luna. Allora il magico poeta, presa un'arpa obliata, ne trasse accordi miracolosi: le foreste lontane fremevano deliziosamente. A quelle melodie carezzevoli, si svegliarono i geni de'boschi e le dee delle acque, a riannodare i lor giri di ballo, a rinnovare i canti tentatori. Ai sospiri della magica arpa, ai richiami dell'incantatore, uno stuolo di fantasmi leggeri appressò e scivolò nella sala sotto gli occhi della gente attonita. Arrivarono dal fondo dei lor domi di verdura le elfidi selvagge, coronate di fiori fantastici e con ghirlande di betulla, a rintrecciare le danze fugaci al lume della luna. Arrivarono dal fondo dei lor palazzi di cristallo e delle cascate schiumanti le nisse, pazzerelle ridenti, dal seno di neve palpitante; elle si precipitarono, abbracciate, in una ridda furiosa. Talvolta le piú folli, passando davanti l'incantatore, volgevansi; e belle, scapigliate, col seno aperto, con un lampo di riso su le labbra, parevano volergli rapire un bacio, ma sfioravano l'arpa. E in mezzo al cerchio delle ondine passava, misteriosa apparenza, la diletta del poeta, con le braccia incrociate sul petto, con la testina bruna inclinata, con un sorriso strano su le labbra: tenerezza o ironia?

«Tutt'a un tratto il capriccioso negromante interruppe la musica ammaliatrice con un tocco stridente, e si mise a sonare arie sí comiche che non si poteva udirle senza ridere. Queste arie avevano di strane virtú: facevano, ciascuna, entrar di súbito nella sala un personaggio del tempo; e ballava come un burattino, e dispensava in pubblico i suoi pensieri piú segreti. Una volta era il grosso banchiere di Berlino, Gumpel, intitolantesi in Italia marchese Gumpelino, che declamava un po'di Shakspeare, calcolando il rialzo della rendita, e si metteva in testa d'essere il Romeo d'una bizzarra inglese, la quale gli ministrava teneramente certo filtro di farmacia che lo guarí per sempre da'suoi amori imprudenti. Altra volta è Saul Ascher, filosofo kantiano, con le gambe attratte, la secca persona esprimente l'imperativo categorico; e cammina, cammina, ripetendo, come un orologio—La ragione è il primo principio.—Una terza volta è il vecchio Schlegel con le sue trenta parrucche di riserva. Finalmente è tutta una galleria ...

«—Ah, voi gridate contro queste care figurine?—dice il mago.—E pure siete voi, è la vostra generazione, che si chiama sciocchezza, ipocrisia, servilità. Con le vostre pie bigottaggini, con le vostre vigliacche concessioni, voi avete avvelenato la vostra religione, la vostra filosofia, la vita intera. D'altra parte, tutto è sogno, chimera, illusione. La poesia è tanto pazza quanto la realtà è stupida. La storia è una commedia che il buon Dio si concede per ammazzare il tempo. In fondo in fondo, a questo buon Dio, che fa paura ai bambini e alle balie, voi non ci credete piú di quello ci creda io. Solamente voi siete tanto vigliacchi che non ardite dirlo. Voi non vi stimate nulla voi stessi; ma vi mettete in positura dinnanzi al mondo, vi imbacuccate di berretti, croci, nastri; e vi scambiano per eroi. Bene! io, per me, sono un pazzo: non credo a nulla, disprezzo me stesso, ma dico la verità. Il mio cuore sanguina; ma le vostre stolte infamie non mi strapperanno mai altro che un ghigno di disprezzo, e io ho il diritto di frustarvi in faccia.—Cosí parlava il mago trasformato in pazzo di corte, con lo scettro di buffone nell'una mano e la frusta nell'altra.—Dài al miserabile! addosso al ciuco! morte al bestemmiatore!— gridò tutta la canaglia romantica, aristocratica e clericale. Ma egli, afferrando una torcia affocata, la ruotò intorno a sé, e intonò con voce stentorea la Marsigliese.—Oh, questo canto vi fa paura—disse:—per soffogarlo, voi vorreste rizzare un patibolo. V'aiuterò.—Il mago evocò allora lo spettro della ghigliottina. Ed ella si rizzò, alta e sanguinolenta, entro una nebbia rossa; e le si aggiravano intorno corpi senza testa, e si facevano riverenze l'un l'altro: erano Maria Antonietta e la sua corte.—Corpi senza testa, ecco l'immagine della vostra società—disse ridendo il terribile pazzo. E già si sentiva cantare lontano la Marsigliese, la Carmagnola, il Ça ira; e cotesti canti andavano crescendo come il muggito della tempesta, al rintocco del 1848.— Le jour de gloire est arrivé —gridò il poeta, gittando la sua torcia nel tavolato dell'intarlato edifizio. La fiamma rossa lo investí, e crepitando di gioia guadagnò il culmine. Le travi scricchiolarono, la folla scappò: in un batter d'occhio la splendida sala fu un braciere, e sprofondò. Il poeta gittò un grido di trionfo. Ma tutto a un tratto si trovò nella triste torre, invecchiato, malinconico, solo. Come avviene nei racconti delle fate, quando svanisce il castello pieno di fiaccole, di valletti e di damigelle; egli non udí piú altro che gli stridi della civetta e della strige. Allora il poeta gridò tristamente:—E pure io ho amato! e pure io ho creduto all'ideale!—Forse non mai era stato piú sincero d'allora; ma egli aveva troppo riso, e non fu creduto.»[7]

IV.

Dopo ciò, a discorrere, di fuga, del romanticismo mescolato alla politica, toccherà a me.

Da principio romanticismo e patriotismo furono in Germania una cosa. Le memorie del medio evo cristiano-tedesco risvegliate con poetica sentimentalità nel romanticismo durante la signoria francese infiammarono i combattenti del 1813: l'orgoglio delle vittorie del '13 e del '15 alla sua volta rese quasi nazionale la riazione, e inebriò e licenziò a' piú furiosi eccessi mistici e feudali il romanticismo. Ci fu tempo, breve per verità, che la Germania, e non solo la Germania, parve avere perduto il senso del vero, la conscienza del moderno, la superbia della eredità del secolo decimottavo. Fu un terror bianco di medio evo, uno stravizio d'idealismo, un carnevale di spiritualismo. E il carnevale era la quaresima; e il digiuno delle idee durava tutto l'anno; e mille Braghettoni morali mettevano gran foglie di fico su le nudità della primavera, su l'oscenità dell'estate. Intanto i principi invitavano per mezzo degli usseri i patrioti e i combattenti del '13 e del '15 a maturare nelle fortezze la loro educazione per l'avvenire; e uno, fattisi saldare da' sudditi i debiti suoi e del figliolo, che non erano pochi, profferiva una carta costituzionale al prezzo di quattro milioni di talleri, e poi si sarebbe contentato anche d'un ribasso di due milioni; un altro concedeva la costituzione, ma solamente per i nobili e gl'impiegati, e con la discussione segreta; un terzo la rimandava a quando avesse ultimato un suo spartito o a quando fosse finito il domo di Colonia. Cosí non poteva durare. Il romanticismo intanto, come poesia, languiva tisico, per quel suo peccato originale di aver voluto sequestrarsi dal vero e vivere di profumi inebrianti fra i vapori e l'azzurro di un mondo fantastico, dalle cui cime riguardava con mesto disprezzo le bassure coltivate e abitate, che pur producono il buon pane, il buon vino, il buon manzo, e i dolori e le gioie di tutti i giorni. Esalata, per estenuazione e rifinimento, l'anima; le forme rimasero ciò che senza anima sono le forme. E mentre i corvi seguitavano a gracchiare intorno ai campanili, e i falchi roteavano intorno alle torri, e nelle torricelle tubavano le tortori, e i paperi diguazzavano nella probatica piscina della estetica, i cigni emigravano; e dalle uova deposte nella terra dell'odiata rivoluzione sgusciava, al sole delle giornate di luglio, la Giovine Alemagna.

La Giovine Alemagna usciva dagli scritti del Heine e del Börne, due ebrei già convertiti, se non proprio al cristianesimo, certo il primo alla poesia, il secondo alla repubblica. Heine assai prima delle giornate di luglio aveva gittato alle ortiche la tonaca del romanticismo; e ne' Reise-Bilder si era dichiarato per Napoleone, per la borghesia, per la libertà filosofica politica e letteraria; tutte parole e idee che allora andavano insieme a braccetto all'avventura: fuoruscito in Parigi dopo il '30, sonò a doppio contro il romanticismo e la vecchia Germania. Ma i purissimi in patria erano rimasti fedeli alle tradizioni cristiane e germaniche del medio evo; e da una parte Menzel, il mangiator di francesi, che inorridiva al paganesimo del Goethe, denunziava (la espressione è del Heine) alla polizia della Confederazione i libri de'fuorusciti; dall'altra il Mayer il Pfizer e gli altri poetini della scuola sveva scomunicavano in nome della moralità e dell'idealismo la nuova poesia. Heine dal suo lato rimaneva anch'egli costante nella fede alla poesia, nella religione del bello, nella politica dell'arte: fede, religione e politica, che egli sentí professò e trattò sempre con devozione immutata ed integra. Perdurava egli del pari in quell'ardenza rivoluzionaria, che ai 6 e 10 agosto del 1830 gli fece scrivere dei pezzi lirici in prosa come questi? «Lafayette, la bandiera tricolore, la marsigliese! Io sono come inebriato. Audaci speranze si slanciano appassionate su dal mio cuore, come alberi con frutti d'oro e con rami di selvaggio rigoglio che distendono il loro fogliame fino alle nuvole. Ma le nuvole ruinanti in fuga diradicano quegli alberi giganteschi, e con essi si spazzan la strada davanti ... Nell'azzurra letizia del cielo erra una melodia di violini; e dalle onde smeraldine del mare risuona come un allegro riso di fanciulle. Ma sotto terra qualche cosa scricchiola e bussa; il suolo si fende, i vecchi dèi sporgon fuori le teste, e con frettolosa meraviglia domandano—Che cosa vuol dire questo giubilo che percuote fin nel midollo della terra? Che c'è di nuovo? Dobbiamo tornar su?—No, rimanete nella regione caliginosa, ove ben presto un nuovo compagno di morte scenderà a raggiungervi.—Come si chiama?—Oh lo conoscete bene, è quello che un tempo sprofondò voi nella notte eterna ... Pane è morto ...»-«Lafayette, la bandiera tricolore, la marsigliese! Via ogni desiderio di riposo! Adesso io so di nuovo quello che voglio, quello che debbo ... Io sono il figlio della Rivoluzione, e afferro le armi benedette su le quali la madre mia ha pronunziato il suo scongiuro ... Fiori! fiori! voglio incoronarmene la testa per la battaglia. E anche la lira, datemi la lira, ch'io canti la canzone della battaglia ... Parole simili a stelle fiammeggianti, che scoppino dall'alto e incendano i palazzi illuminando le capanne ... Parole simili a dardi lampeggianti, che volino fino al settimo cielo e colpiscano la impostura che vi si è appiattata nel santo dei santi.... Io sono tutto gioia e canto, tutto spada e fiamme.»[8]

Sapete voi la storia del cane Medoro, del cane leggendario delle tre giornate? La racconta brevemente lo stesso Heine, nella stessa lettera onde riferii le ardenti parole. «Oh potessi vedere soltanto il cane Medoro! Egli mi preme assai piú degli altri cani i quali con rapidi salti han portato la corona a Filippo d'Orléans. Egli il cane Medoro portava al suo padrone il fucile e le cartucce, e quando il suo padrone cadde e fu con gli altri eroi sotterrato nella corte del Louvre, il povero cane restò giorno e notte su la tomba, immobile come una statua della fedeltà.» Giunto il Heine a Parigi volle andar a vedere questo Medoro, il quale fu cantato anche dal Delavigne ed era mantenuto a spese comuni della Guardia Nazionale nel Louvre; ed ecco che glie ne parve: «Non rispose affatto alla mia aspettazione. Non vidi che un brutto animale, nel cui sguardo nessun entusiasmo, anzi vi spuntava qualcosa di losco e di falso, qualcosa d'interessato e di furbacchiotto: direi anzi che v'era dell'industriale. Un giovine, uno studente, in cui m'incontrai, mi disse che quello non era il vero Medoro, ma un cagnaccio intrigante, un cane della dimani, che si faceva empiere il ventre e lisciare il pelo a spese della gloria del vero Medoro, mentre questo, dopo la morte del padrone, s'era modestamente ritirato, come il popolo che avea fatto la rivoluzione. Adesso il povero Medoro, aggiunse lo studente, erra forse per Parigi, senza un tozzo e senza un giaciglio, come molti eroi di luglio; perché il proverbio, che buon cane non trova mai un osso buono, qui in Francia è piú orribilmente vero che altrove: qui si mantengono nei canili caldi e si pascono della carne migliore mute di mastini, di cani da caccia e di altri quadrupedi aristocratici: qui voi vedete riposare su cuscini di seta, ben pettinati e profumati e rimpinzati di biscottini, lo spagnolo e la piccola levriera, che abbaiano contro ogni onest'uomo, ma che sanno adulare la padrona di casa e sono qualche volta iniziati nei vizi umani. Ahimè, tali bestie vili e immorali prosperano nella nostra società, mentre ogni cane virtuoso, ogni cane della verità e della natura, che resta fedele a'suoi convincimenti, crepa miserabile e tignoso sur un letamaio.—Cosí mi parlò lo studente; e molto mi contentò quella sua altezza di giudizi politici».[9]

Cosí Arrigo Heine trovò ben presto in Parigi il disinganno; e non meno presto cercò e trovò la lotta, anche, pur troppo, co'suoi compagni d'esilio. Il Börne giudicava l'Heine, dopo il libro che fu pubblicato anche in francese col titolo De la France, cosí: «Io posso essere indulgente con un fanciullo che giuoca, con un giovane innamorato; ma quando in un giorno di sanguinosa battaglia, il fanciullo va a caccia di farfalle pe'l campo della strage e mi si mette fra le gambe, quando, in un'ora di suprema angoscia, che noi preghiamo Dio con ardore, il giovane sguaiato, fra noi, non vede né guarda altro in chiesa che le belle ragazze, e fa l'occhietto e dice le paroline dolci; allora, con tutto il rispetto alla filosofia e all'umanità, v'è ben ragione di andare in collera. Heine è un artista, un poeta; e ad essere riconosciuto tale da tutti, non gli manca che il suo voto. Ma egli spesso vuol essere qualche altra cosa che poeta, e spesso si perde. Chi, come lui, non vede nulla piú su della forma, deve tenersi alla forma; altrimenti, passato a pena quell'orlo, ei cade nell'illimitato e vi s'inabissa e dispare. Chi adora per suo dio l'arte, e solamente per capriccio fa orazione di quando in quando alla natura, quegli oltraggia insieme la natura e l'arte. Heine accatta dalla natura il nettare e il polline dei fiori, e poi con la duttile cera costruisce l'alveare dell'arte; ma l'alveare non lo fa perché conservi il miele, raccoglie il miele per empierne il suo alveare. Però egli non commove quando piange, perché si sa che colle lacrime innaffia l'aiuola dei suoi garofani. Però egli non persuade quand'anche parla il vero, perché si sa che nel vero ama soltanto il bello. Ma la verità non sempre è bella, né resta bella sempre. Ci vuole del tempo perché ella venga in fiore, e i fiori bisogna che caschino prima ch'ella porti i frutti. Heine adorerebbe la libertà tedesca, s'ella fosse nel suo pieno fiore; ma in questi rigori d'inverno è ancora sotto il concime, ed egli non la riconosce e la sdegna. Con qual bello entusiasmo non ha egli parlato del combattimento e dell'eroica morte dei repubblicani nella chiesa di San Mery! Felicissimo combattimento, nel quale essi ebbero la sorte di gittare la piú nobile delle sfide alla tirannide e morire di bellissima morte per la libertà. Se il combattimento fosse stato meno bello (a ciò bastava fosse avvenuto in altro luogo, ove si fosse potuto disperdere i repubblicani o prenderli alla spicciolata), Heine ci avrebbe scherzato su. Heine celebrerebbe il fatto di Bruto come nessuno meglio: ma sia un sarto che levando il coltello sanguinoso dal cuore di una cucitrice oltraggiata, la quale si chiami soltanto Barberina, conciti i cittadini a libertà; Heine ci ride su. Trasportate Heine nella sala del giuoco della palla, a quell'ora memorabile in cui la Francia si svegliò dal sonno millenario e giurò di non voler piú sognare, egli diventerà il piú furioso giacobino, il piú arrabbiato nemico degli aristocratici, e farà con delizia scannare in un giorno tutti i nobili e tutti i principi. Ma date il caso ch'ei vegga scappar fuori dalla tasca di Mirabeau tonante alla tribuna una pipa al modo degli studenti tedeschi col fiocco rosso nero e oro, allora addio libertà! egli se la batte a fare di bei versi su'begli occhi di Maria Antonietta[10] ».

È vero: Heine era troppo squisitamente poeta, troppo feminilmente nervoso, troppo liricamente mobile: la rigidità e la durezza, il giacobinismo del Börne, del forte e nobile Börne, non gli si affaceva. Ma la imagine della libertà sotto il concime è, me lo perdoni il Börne, un po' brutale. Heine aveva adorato la libertà, ma in visione, come una dama del medio evo, a cavallo, col falcone in pugno, col velo verde ai venti; l'aveva adorata come un'etaira di Atene, passeggiante in tunica succinta, fra i mirti, sotto i platani, in mezzo alle statue bianche dei numi; come, in somma, una Isotta o un'Aspasia, la quale avrebbe gittato a lui fiori e sorrisi ed egli a lei i suoi canti. Quando la vide in sembianza di vivandiera mescer vino e anche rhum per accendere i soldati al combattimento; quando la previde massaia onesta e laboriosa attesa a distribuire a ciascuno la sua parte di lavoro e di pane e anche di companatico, ma senza i crostini dell'ideale impastati di miele e di burro e spalmati d'azzurro, o solamente per le ragazze e i bambini; allora l'apostata romantico rivolse la testa a riguardare le bianche alture onde era sceso la mattina; non le rivide piú; e una lacrima gli tremolò negli occhi, e una irrequietudine nervosa lo possedé poi sempre. Ma in un modo o nell'altro la libertà egli l'amò, amò la patria tedesca; e pur tra le sue infedeltà di artista quell'amore brilla su la fronte sua di poeta come una stella. Ora in Germania è di rigore e di moda giudicare severamente il Heine, della cui poesia non si vuol vedere che la parte negativa. Noi italiani possiamo essere piú giusti: è giusto a ogni modo che ascoltiamo anche lui. Nel suo scritto commemorativo su 'l Börne, che era meglio del resto non avesse scritto, vi sono pagine che bisogna rileggere prima di aprire l' Atta Troll. Eccone alcune:

«... Mi pesano su l'anima, come ombre umide, tutte quelle tristezze senza consolazione ... Mi pioviggina per entro i sensi roventi come un'acqua ghiacciata, e il mio vivere altro non è che intirizzimento doloroso. O freddo inferno invernale dove viviamo dibattendo i denti! O morte, bianca fantasima di neve in mezzo a una nebbia infinita, che ne accenni tu con quello schernevole crollar della testa?

«Felici coloro che imputridiscono in pace nelle carceri della patria! perocché quelle carceri sono pure una patria con spranghe di ferro, e vi spira a traverso l'aria tedesca, e il custode, quando non è mutolo affatto, parla la lingua tedesca. Sono oggimai piú che sei lune da che niun suono tedesco mi ha percosso l'orecchio, e tutto ciò ch'io imagino e sogno si riveste faticosamente delle forme d'una lingua straniera. Dell'esilio del corpo voi avete per avventura un concetto, ma l'esilio dell'anima solo può rappresentarselo un poeta tedesco, il quale si trovi costretto a parlare a scriver francese tutto il giorno ed anche a sospirar francese la notte sul cuore della donna amata. Fino i miei pensieri sono esiliati, esiliati in una lingua straniera.

«Felici coloro che all'estero han da combattere soltanto con la povertà, con la fame e col freddo, mali non piú che della natura. A traverso i buchi della soffitta sorride loro il cielo con tutte le sue stelle. O miseria dorata in guanti lustri, quanto piú infinitamente tormentosa! Doversi far acconciare, se non pur profumare, la testa disperata; e le labbra gonfie di sdegno, piene di maledizioni al cielo e alla terra, dover sorridere, sorridere sempre!

«Felici coloro che sotto il soverchio del dolore hanno perduto alla fine l'ultimo bocconcel di ragione e han ritrovato un ricovero sicuro a Charenton o a Bicêtre, come il povero F ... come il povero B ... come il povero L ... e tanti altri che io conosceva meno. Nella loro follía la cella pare ad essi la patria diletta; essi nella camicia di forza si credono vincitori di ogni dispotismo, si credono superbi cittadini d'un libero stato. Ma tutto ciò lo avrebber potuto avere anche a casa.

«Solo il passaggio dalla ragione alla follía è un momento increscevole e orribile. Rabbrividisco quando ripenso all'ultima volta che il F ... mi venne a trovare, per dirmi sul serio che si doveva accogliere nella gran federazione dei popoli anche gli uomini della luna e gli abitatori delle stelle piú lontane. Ma come notificar loro la nostra proposta? Questo il punto difficile! Un altro patriota in simili disposizioni aveva immaginato una specie di specchio colossale, col quale rifletter nell'aria proclami in lettere gigantesche, tanto che tutto il genere umano potesse leggerli allo stesso tempo, senza timori d'impedimenti dai censori e dalle polizie. Disegno gravido di pericoli per lo stato! E pure non ne fu fatto menzione nei rapporti della Dieta germanica su la propaganda rivoluzionaria!

«Ma felicissimi poi i morti, che giacciono nella loro fossa al Père-Lachaise, come tu povero Börne.

«Sí, felici quei che sono nelle carceri della patria, felici quelli nelle soffitte della miseria corporale, felici i forsennati nella casa di forza, e felicissimi i morti! Per quel che tócca a me, io credo in ultimo di non avermi a lamentar troppo, perocché io in certa guisa partecipo la felicità di tutta questa gente, per quella meravigliosa suscettività, per quella simpatia involontaria, per quella malattia dell'anima che è nei poeti e non si sa propriamente denominare. Se anche, il giorno, io mi aggiro fresco e ridente per le vie splendide di Babilonia: credetemelo, non a pena cade la sera, le arpe melanconiche mi risonano in cuore, e tutta notte tutti i tromboni e i cembali del dolore, tutta la musica giannizzera dei patimenti umani vi rintrona dentro; e ne sale su fuori una orribile e stridente processione di maschere.

«Oh che sogni! sogni di carcere, di miseria, di follía, di morte! mescuglio stridente d'insania e di saviezza! zuppa avvelenata che puzza di sauerkraut e odora di fiori d'arancio! Orribile sensazione, quando i sogni dileggiano la realtà del giorno, e ironiche larve metton fuori il capo dai rossi papaveri ammiccando e facendovi lima lima, e i superbi allori si convertono in ispidi cardi e gli usignoli fanno un sogghigno di scherno!

«Per il solito ne'miei sogni io mi siedo sul pilastro angolare al canto di via Laffitte in un'umida sera di autunno, quando la luna gitta lunghe strisce di luce su 'l sudicio lastrico, sí che la mota sembra dorata se non pur seminata qua e là di diamanti che scintillano. Gli uomini che passano sono della stessa guisa, mota che risplende: sensali di fondi pubblici, giocatori al rialzo, monetari falsi del pensiero, scribi a buon mercato, e ragazze anche a miglior mercato, le quali per verità devono mentire soltanto col corpo, pance oziose che si rimpinzano nel caffè di Parigi e poi si precipitano all'Accademia di musica, alla cattedrale del vizio, ove Fanny Essler danza e sorride ... In mezzo, un trepestío di carrozze, un saltar di lacchè screziati come tulipani e volgari come i loro nobili padroni. E, se non erro, in uno di que'cocchi sfacciatamente dorati siede il già mercante di sigari Aguado, e i suoi cavalli che passano pestando superbamente la mota inzaccherano dall'alto al basso il mio abito di maglia rosso ròsa ... Già, con mia gran meraviglia, io mi veggo vestito da capo a piè di maglia rosso ròsa, d'una veste color carne; poiché la stagione inoltrata e anche il clima non concedono una intiera nudità, come in Grecia, alle Termopili, dove re Leonida co'suoi trecento spartani la vigilia della battaglia danzò tutto nudo, tutto nudo, coronato il capo di fiori. Io vesto alla foggia del Leonida dipinto dal David, quando ne'miei sogni mi siedo su 'l canto di via Laffitte, ove il maledetto cocchiere dell'Aguado m'inzacchera i miei calzoni di maglia. Mascalzone, egli m'impillacchera anche la mia corona di fiori, la bella corona di fiori che porto in capo, ma che, detto fra noi, è già mezza secca e non manda piú odore ... Ahi, ahi! egli erano freschi e allegri fiori il giorno che me ne adornai, nel pensiero che la dimani si anderebbe alla battaglia, alla santa e vittoriosa morte per la patria ... È oramai un bel pezzo, ed io me ne seggo qui tristo e sfaccendato in via Laffitte, e aspetto la battaglia; e intanto i fiori mi appassiscono su 'l capo, e anche i capelli m'imbiancano, e il cuore mi si ammala nel petto. Dio santo! com'è lungo il tempo di questo attendere oziosi! alla fine mi muore anche il coraggio ... Io veggo la gente che passa guardarmi pietosamente, e susurrar l'uno all'altro: Povero pazzo!»[11]

E intanto nel sacro suolo della patria, nella Germania tutta nera di querce e d'idee, il movimento incalzava; e in pochi anni alla Giovine Alemagna, specie di repubblica girondina che la dittatura contro il passato esercitava nelle poesie nei romanzi e nei drammi, succedeva la sinistra hegeliana, specie di montagnardi che tutte le idee del passato cominciando da Dio decapitavano sotto la ghigliottina filosofica; succedevano i poeti politici, specie di volontari del '93, che stanchi di combattere per parole e di decapitare idee volevano romperla con qualche cosa, ma non sapevano che. A questo punto Heine si smarrí.

E pure il giacobinismo del Börne era, con un piú ardente amore alla patria tedesca, quello stesso giacobinismo delle lettere da Helgoland. E pure la sinistra hegeliana non avea fatto altro che confinare nello stretto ragionamento le divinazioni e le volate del libro su l'Alemagna. E quei della poesia delle tendenze erano pure figlioli, piú o meno legittimi e rassomiglianti, che Heine aveva generati ne'suoi amori di luglio e di agosto con la rivoluzione del '89 e del '93. Ma che! L'estate e la passione erano ite, e la rivoluzione non parea piú cosí bella. E quel Börne con quella sua corona di ebrei e di puritani e di disperati era cosí poco estetico! E poi quella dura sinistra hegeliana, che deportava gli eleganti e poetici ingegni ai lavori forzati del romanzo di genere o della liricuzza nell'arcipelago del nulla! E poi quella politische Tendenzpoesie (orribile scontro di parole, di idee e di ringhi) cosí arruffata, per lui artista correttissimo nella linea! quel Hoffmann di Fallersleben con tutti i bicchieri che beveva per la rima, quel Dingelstedt con la lanterna, quel Prutz con la mazza, quel Herwegh strappatore di croci, quel Freiligrath, il quale dagli amori alle giraffe, che non avea mai vedute, di Guinea, era passato a recitare il confiteor fra i socialisti, apparivano cosí iperbolici, cosí enfatici, cosí monotoni, cosí vaporosi, a lui adoratore del Goethe e ora quasi naturalizzato francese!

Tali odii e amori, tali rimembranze e rimpianti, tali eccitazioni e antipatie, parte umane e patriotiche, parte artistiche e liberali, parte personali ed egoistiche, conspirarono tutte insieme a informare e formare l' Atta Troll. L'orso del Heine, come il veltro di Dante, muta parvenze e attitudini secondo spira il vento della fantasia e della passione: è il combattitore mangiafrancesi del '13, è il costituzionale del '18 col suo buon vecchio diritto, è il girondino della Giovine Allemagna, il giacobino della scuola di Börne, l'ammazzasette della sinistra hegeliana, il socialista poeta-tendenza, ma sempre sentimentale, sempre idealista, sempre germanico, sempre romantico, sempre orso. Heine nell' Atta Troll sembra aver fatta sua l'impresa di quel vecchio cavaliere spagnolo, Yo contra todos y todos contra yo: non mai fu piú in disaccordo con tutti e piú d'accordo col suo genio. E la caricatura riuscí tanto piú meravigliosa, non so qual meglio fra comica e fantastica, per questo, che fu condotta col piú serio artifizio della scuola romantica e con un appassionato sentimento della romantica poesia.

Lo afferma esso il poeta nelle Confessioni: «Dopo aver dati de'colpi a morte alla poesia romantica in Germania, a un tratto fui ripreso io stesso da un infinito amore del fiore azzurro nel paese de'sogni del romanticismo; e tolsi in mano la lira incantata, e cantai un canto nel quale mi abbandonai a tutte le meravigliose esagerazioni, a tutta l'ebbrezza del lume di luna, a tutta la strana magía di quella folle musa che io aveva un dí tanto amata. Io so che quello fu l'ultimo libero canto del vero romanticismo e che io sono l'ultimo suo poeta.»[12] E piú liberamente confessandosi al Varnhagen d'Ense (in una lettera del 3 gennaio'46): «Questa nuova generazione vuol godere e farsi il suo posto nel visibile: noi, i vecchi, c'inchinavamo umilmente dinnanzi l'invisibile, ma godevamo in soppiatto d'ombre, di baci, di profumi di fiori azzurri; noi rinunziavamo e piagnucolavamo, e non per tanto eravamo piú felici di questi duri gladiatori che vanno incontro con tanto orgoglio a un combattimento mortale. Il millennio del romanticismo è sul finire; ed io, io stesso, sono stato l'ultimo suo re favoloso, disceso volontario dal trono. Se non avessi gittato la corona e vestito la blouse, mi avrebbero a punto a punto decapitato. Quattr'anni or sono, prima di divenire apostata di me stesso, volli ancora diguazzarmi un poco al lume di luna co'vecchi compagni de'miei sogni; e scrissi Atta Troll, il canto del cigno d'un'età che declina; e l'ho dedicato a voi. Ed è proprio vostro; perché voi eravate il compagno d'armi che piú mi rassomigliava, sí nel serio sí nello scherzo. Come me vi adoperaste a seppellire il vecchio tempo e avete servito di levatrice al nuovo: sí, noi l'abbiamo messo al mondo, e ora ce ne spaventiamo: siamo come la povera gallina che ha covato le uova di anitra, e vede tutta sgomenta la sua covata gittarsi deliziosamente nell'acqua.[13] »

Il poeta si è veramente confessato. Dunque si adoperò anch'egli a seppellire il vecchio tempo! Dunque serví da levatrice al nuovo! Egli sa ciò che ha fatto, e in fondo crede che è bene; ma ha dentro di sé la tenia romantica che gli dà il mal umore.

Non voglio esser io a rappresentare Heine per rivoluzionario e radicale, e però lascio parlare un suo biografo tedesco, lo Strodtmann. «Questa spettrale e corusca apparizione del romanticismo per entro la fredda e arida vita del presente dà al poema un'attrattiva tutta sua e originale; ma noi ci accorgiamo súbito che quelle sono ombre morte, le quali ci volteggiano intorno stranamente gesticolando su la frontiera che separa il paesaggio del mondo antico dal paesaggio del mondo moderno. Noi, non del tutto liberati ancora dai loro influssi, sospiriamo riguardando indietro alla regione dei sogni del buon tempo antico; ma la ragione ci mostra l'ignoto avvenire. Per quanto il poeta metta in ridicolo senza un riguardo al mondo la poesia politica delle tendenze pavoneggiantesi nella sua ampollosità e la orsina goffaggine della propaganda socialistica, era ben lontano dal pensiero di mettere in dubbio co'suoi scherzi il contenuto delle dottrine rivoluzionarie e sociali. Non sarà per contrario sfuggito agli accorti e spregiudicati lettori come spesso il furbo Heine simpatizzi con le distruttive teoriche del radicalismo; e la teologia in specie può restare mezzanamente contenta agli ammonimenti di Atta Troll a'suoi figli che si guardino da Feuerbach e da Bauer, se gli raffronti alla rappresentazione del creatore sedente, su l'aureo trono del cielo, sotto il padiglione stellato, in forma d'un colossale orso del polo con pelle tutta di neve immacolata.[14] »

In tale contrasto fra il presentire Enrico Heine nella chiaroveggenza del suo pensiero il trionfo di quelle idee di trasformazione politica e sociale per le quali egli stesso aveva combattuto, e il suo disgusto di artista per le forme con le quali elleno erano almeno per allora bandite, e le voluttuose aspirazioni della sua sensualità di poeta a uno stato di segregato riposo ove la fantasia potesse abbandonarsi a tutti i voli di scoperta e l'arte a tutti i capricci di lavoro; in tale contrasto è la novità originale dell' Atta Troll. In mezzo al regno attuale degli orsi e prima dell'avvenimento delli gnomi l'autore del Canzoniere vuole abbandonarsi a un saturnale di fantasia, vuol prendere (perdonatemi, per amore della verità, la metafora) una romantica ubriacatura di poesia pretta, a onta e dispetto della scuola delle tendenze; se non che non può uscire dalla corrente, e con quel suo continuo ribattere a cotesta sciagurata poesia delle tendenze cade nella tendenza egli stesso.

V.

E in tali contrasti, e negl'intendimenti, in generale, che finora mi son provato a raccogliere e rappresentare, sta anche la ragione della diversità che intercede grandissima fra l' Atta Troll e le altre zoepiche ( epopee bestiali sonerebbe improprio e sgarbato), che risorte dopo il risorgere dell'apologo nella smania del secolo decimottavo per il naturale affèttato, furono diversamente ammirate nel correre del nostro secolo. Il Reineke Fuchs, che Volfango Goethe lavorò nel 1793 sul rifacimento, in basso tedesco del Quattrocento, dell'antico poema francese della volpe, tiene e dalla origine sua medievale, del tempo delle canzoni di gesta, e dall'arte classica onde il poeta di Weimar allargò i rozzi ottonari in esametri solenni, tiene, dico, l'anima e le forme di una vera epopea, di una epopea oggettiva, nel cui sereno sorriso non v'è riflessione o inflessione di motivo personale. Gli Animali parlanti del Casti, composti dopo la tempesta della rivoluzione, nella oscillazione dei tempi e degli animi fra il Direttorio e il Consolato, rimangono a punto una cosa incerta in politica e in poesia: sono, non ostante l'opportunità delle allusioni e delle dottrine politiche, non ostante certa vivacità pittorica nei particolari, un troppo lungo apologo in stile troppo spesso di gazzetta: quelle bestie seguitano ad affannarsi per ventisei canti in sestine a dimostrare che non son bestie, il che appariva a bastanza dal primo canto.

Qualcuno potrebbe darsi a credere che l' Atta Troll sia in comparazione al Reineke Fuchs quello che di fronte agli Animali parlanti sono i Paralipomeni alla Batracomiomachia del Leopardi. Nei due poemi, di fatto, in quello dei topi e delle ranocchie e in questo dell'orso, c'è il motivo e l'intenzione personale: ambidue i poeti mettono in ridicolo avvenimenti ed uomini dei giorni loro e fanno, un gran giuoco, con diversa opportunità, di episodi. Ma la rassomiglianza, tutta esteriore, finisce qui. Già il prof. Zumbini notò la mediocrità satirica del Leopardi, e, poiché il poeta della ginestra dai particolari (gli avvenimenti italiani del '21 e del '31) trascende presto al generale, anche notò, con molta verità, pare a me, la impossibilità del render comica l'irrisione di tutta la vita umana quale è, quale fu, quale sarà.[15] Ma, oltre a questo, il Leopardi, lirico grande e de' piú profondi e umani poeti che sieno stati, nei Paralipomeni è inferiore a sé stesso, anche come artista. Lasciamo la favola ricalcata un po' su l'antica Batracomiomachia e un po' sugli Animali parlanti; ma, salvo certi episodi di valor lirico, salvo certe brevi descrizioni naturali che sono delle piú vere della poesia italiana, come giudicar belle, in una letteratura che vanta i Pulci e l'Ariosto, quelle ottave cosí fredde, cosí slogate, tanto affannosamente stentate, che di alcune si contrasta ancora sul senso e se la costruzione sia retta? Scusiamo l'infelice poeta, che malato a morte non scriveva, dettava; ma non vantiamo, oltre quello si convenga a un'opera postuma, il poema.

L' Atta Troll si differenzia dai Paralipomeni e dagli Animali parlanti specialmente per una sua proprietà, che fu ben rilevata da un critico tedesco:—ha un sentimento poetico piú profondo che non l'allegoria: questa in altri poemi di favola simile diventa astrazione: Heine invece sa darle tale forma, che i personaggi ne acquistano una vita loro, per la quale e con la quale dànno un piacere vero estetico oltre a ciò che devono significare.[16] —È vero: l'orso del Heine raffigura il filisteo tedesco, ma è non per tanto un orso, e orso rimane; a quel modo che nel poema medievale della volpe rifatto dal Goethe la volpe, il lupo, il montone, con nomignoli nuovi tratti da certe loro qualità speciali, raffigurano indoli, caratteri e istinti diversi di personaggi dell'ordine feudale e clericale, ma rimangono volpi lupi e montoni veri. È la favola della vita umana, raffigurata ne'bruti e fatta recitare a'bruti, secondo certe rassomiglianze tipiche che l'uom vede o crede vedere fra certi individui della sua specie e certi bruti. Anche: Heine capí che una zoepica pura non poteva ai dí nostri reggere, e mescolò nella sua l'elemento umano. Come nella Divina Commedia ( si parva licet componere magnis ) il protagonista del poema è Dante stesso, l'uom vivo, antitesi della morte, nella cui personalità è (se cosí posso esprimermi) la guarentigia della verità e dell'arte di fronte alla visione e all'allegoria; per egual modo l'antitesi e l'antagonista di Atta Troll è il Heine stesso, a salvaguardia della verità e dell'arte contro l'allegoria e l'astrazione. E il Heine che viaggia i Pirenei in compagnia di Lascaro a caccia dell'orso è Enrico Heine vero, l'Heine dei Reisebilder, con tutto insieme la sua disposizione fantastica alla leggenda e il caustico riso, con la potente e profonda osservazione e la ingenua e infantile ammirazione amorosa della natura.

Quanto allo stile, a conseguire quell'agilità e quella sveltezza di passaggi e varietà di toni che è mirabile nell' Atta Troll, Heine fu anche aiutato e giovato dal metro che elesse. È in fondo l'ottonario delle romanze spagnole, che Herder avea già introdotto col suo Cid nella versificazione tedesca spoglio di rime e di assonanze ma fissato nel trocaico di quattro battute: se non che Heine per piú regolarità e per una tal civetteria lirica partí i suoi trocaici in istrofe di quattro. Su la qual maniera di strofe lo Strodtmann fa un'osservazione giusta: «come la sloka indiana, secondo notava A. G. Schlegel, imita l'andar barcollante e dondoloni dell'elefante, cosí il suono de'trocaici a quattro piedi fa tornare alla mente il passo dell'orso: v'è in fondo a quelle strofe un'avvertita e intenzionale monotonia, una gravità pretensiosa, che procede pettoruta con la grandezza spagnola.»[17] È vero, ma non è tutto il vero. La satira del romanticismo, che è insieme l'ultimo libero canto della poesia romantica, non poteva esser condotta meglio che col metro nel quale fece le migliori prove quella che agli Schlegel pareva la piú romantica delle letterature romanze, la spagnola; con quel metro lirico e insieme epico, e anche drammatico, che serví all'intonazione montanara e marinara dei romanceri e al dialogo constellato di diamanti della commedia del Calderon. Per la virtù specialmente di cotesto metro, che giovenilmente rimaneggiò, potè Heine alzarsi con tanta facilità e felicità dal racconto e dal discorso comico satirico alle volate liriche e fantastiche.

Il traduttore italiano (al fine parliamo un po' anche di lui) capí bene, che, non ostanti le apparenti somiglianze dell' Atta Troll con le due zoepiche italiane ricordate, non era il caso di tradurre le strofe di Heine in sestine e in ottave, o, peggio, in endecasillabi sciolti, come il buon Pietro Monti fece già del romanziero del Cid e non so chi, or son dieci anni, dell' Intermezzo del nostro poeta. Novantanove volte su cento il carattere di un'opera poetica sta nel metro; e già il Cesarotti scrisse: «I traduttori, volendo mettere in vista la difficoltà delle traduzioni, calcano unicamente sopra la diversità del linguaggio, ma non mostrano di sentire un'altra difficoltà, con cui è lor necessario di lottare, e che, per mio credere, è ancora più grande: voglio dire quella che nasce dalla diversità della versificazione. Egli è certo che i sentimenti, i pensieri e le espressioni prendono da sé stesse un tornio e una configurazione corrispondente alla versificazione rispettiva dei varii poeti. La brevità o la lunghezza del verso, la varietà delle flessioni, delle pose, delle cadenze, l'armonia che risulta naturalmente dal numero e quella che nasce dall'aggiustatezza delle consonanze, il diverso intralciamento e la distribuzione delle rime, ciascheduna di queste cose modifica i sentimenti, e comunica loro una bellezza propria e distinta da tutte le altre. Si trasferiscano gli stessi sentimenti in un altro metro, si cangi la disposizione, si alterino le misure; tutto è guasto. Le idee, aggiustate sopra un altro metro, stanno, per cosí dire, a disagio in questo nuovo, e prendono attitudini violente e scomposte: si forma una discordanza disgustosa tra i sentimenti ed i suoni: gli oggetti non si presentano piú sotto il punto di vista conveniente: l'orecchio, ed in conseguenza lo spirito, si riposa in luoghi poco opportuni, e sdrucciola su quelli ne'quali dovrebbe arrestarsi; e la composizione piú perfetta diventa simile ad un bel corpo con tutte le membra slogate. Perciò egli è assolutamente impossibile il far una traduzione di buon gusto, la quale sia precisamente letterale in una soverchia sproporzione di metro.[18] » Non si poteva né veder piú vero né dire meglio; ma le conseguenze che il Cesarotti ne traeva per il suo modo di tradurre sono false. Nessuno richiede, credo io, una versione precisamente letterale in poesia; e anche, perché farla tale è assolutamente impossibile, non è permesso a nessuno di rendere, per esempio, frugoniana e arcadica l'Iliade. Meglio, un altro poeta italiano, e dei novatori piú felici di modi lirici, il Berchet, proponevasi, traducendo le vecchie romanze spagnole, di rendere in italiano poesia straniera per poesia straniera, intonazione per intonazione, armonia per armonia, mirando a una fedeltà piú reale che apparente e piú esatta che non un'ordinaria fedeltà materiale.[19] Non so se il Chiarini pigliando a tradurre l' Atta Troll conoscesse il metodo e il libro del Berchet, ma pare a me siasi proposto proprio lo stesso; e, come il Berchet fece con le lunghe serie ad assonanza spagnole, egli ancora, per rispetto all'orecchio italiano troppo avvezzo alla rima specialmente nei versi brevi, ha creduto dovere introdurre due rime nelle quartine sciolte del Heine.

Ora non temano i lettori che io voglia far loro il maestro spiegando i pregi di questa versione dell' Atta Troll. Il mio debito era di aiutarli, quelli almeno che del mio aiuto possano credere di aver bisogno, a legger bene, cioè con conoscenza di causa, il poema tedesco; e mostrar loro il metodo, che a me pare il vero, tenuto dal Chiarini nel tradurlo. Del resto, leggano, e giudichino da sé. Se prima di giudicare volessero buttar da parte cosí i pregiudizi della vecchia scuola accademica come le superbiucce ignoranti della gente della letteratura facile, farebbero, credo, bene; e meglio farebbero se, leggendo, pensassero che per raggiungere l'espressione vera nell'arte manca a noi italiani moderni ancora di molto e molta fatica ci occorre, e fossero però un po' cortesi a chi questa fatica l'ha fatta onestamente e valentemente.

VI.

Sí, valentemente. Credo poterlo ripetere oggi, dopo cinque anni che le pagine qui a dietro furono stampate in prefazione al volumetto dell'edizione Zanichelli.

Certi parrucchieri della poesia, certi commessi viaggiatori della critica, quando scappa loro parlare di verseggiatura e di stile poetico, dovrebbero starsene contenti ai libretti d'opera. Essi non sanno, per esempio, che sia, o che ci sia al mondo, la strofe trocaica tedesca; essi non sanno che sia, o che ci sia al mondo, il semplice e monotono ottonario dei romanzi spagnoli (romanzi, badino, che non sono come quelli del Zola), che sia, o che ci sia al mondo, l'ottonario spezzato delle commedie di Calderon; due maniere metriche queste, che Heine imitò nella strofe trocaica del suo poema comico romantico, d'argomento e di scena spagnolo: ora, non sapendo tutto cotesto, non possono intendere che il Chiarini non poteva e non doveva tradurre l' Atta Troll in istrofette, come,

Mira, Norma, a'tuoi ginocchi Questi cari pargoletti ecc.

Essi signori parrucchieri e commessi viaggiatori non sanno che c'è una poesia italiana del secolo decimoquarto e decimoquinto, e che fu molto piú naturale e piú vera e piú varia della poesia degli arcadi classici, non che dei romantici lombardo-veneti, i quali spinsero il furore della originalità sino a rifare o contraffare in versetti metastasiani o in versoni cesarotto-foscolo-montiani i romantici francesi e tedeschi: non sanno che in quella vecchia poesia abondano le ballate vere a strofe ottonarie d'un andamento rotto franco e famigliare, che poi non si rivede piú se non forse in qualche parte obliata della poesia drammatica e popolare del secolo decimosettimo. Se dunque il Chiarini nel tradurre l' Atta Troll, e prima di lui il Berchet nel tradurre le vecchie romanze spagnole, risalirono a cotesti esempi; chi cotesti esempi conosce e conosce un pochetto della poesia straniera onde il Berchet e il Chiarini tradussero, sa, o crede, che facessero bene; perché con le strofe ottonarie del Metastasio o del Romani che stanno benissimo nei melodrammi, e con quelle del Parini o del Monti o del Prati che sono ai lor luoghi bellissime, il Romancero e l' Atta Troll non si traducono da vero, e tradotti in altro metro non sono piú il Romancero e l' Atta Troll.

Che se, dove in questo poema prevale l'elemento discorsivo e satirico la traduzione del Chiarini è alle volte ineguale né senza durezze o contorsioni, bisogna anche avere un po' di riguardo alla incredibile difficoltà del rendere in rime italiane quella poesia indiavolata; bisogna un po' vedere se l'originale in certi luoghi sia facile andante eguale, o non si contorca e sperda in giravolte d'allusioni e d'arguzie troppo misteriose e lontane e faticosamente cacciate. Ma dove l'epos romantico si devolve con abondanza di cuore e di vena, la traduzione del Chiarini, fedelissima, ha pienezza d'intonazione, semplicità di mezzi, rispondenza di movimenti e di suoni tale, che non lascia desiderar, credo, molto.

Leggiamo, o rileggiamo, a prova, la Caccia selvaggia, che per l'invenzione e la rappresentazione larvale fantastica appassionata, ove il languor dei delirii a un latteo lume di luna pare ardenza di entusiasmi sotto il rosso splendore del sole, è, per me, il punto culminante, il punto che mi vince, dello strano poema (cap. XVIII-XX). Nella Caccia selvaggia, si sa, il poeta, rimaneggiando all'uopo suo un'antichissima tradizione odinica incristianita nel medio evo, figura il corteo degli spiriti nemici al cristianesimo o che non ebbero inspirazione o sentimento di cristiani, i quali la notte di San Giovanni vanno a caccia per i greppi de'Pirenei.

Era appunto il plenilunio E la notte e l'ora quando Pe 'l burrone degli spiriti Vanno i morti cavalcando...

Risa, gridi e suon di corni, E di fruste scoppiettare, E nitriti lietamente Fean la valle risonare.

Venían primi insiem correndo E cinghiali e cervi strani, E altre fiere, che inseguite Dalla muta eran dei cani.

Differenti i cacciatori E di tempo e di paese: Cavalcava con Nembrotte Carlo decimo, francese.

Sovra bianchi palafreni S'avanzavano: i bracchieri, Dietro, a piede, coi guinzagli, E con faci gli staffieri.

Io piú d'uno riconobbi Nella gran turba. Non fu Quel coperto tutto d'oro Forse un giorno il re Artú?

Dopo i re e i guerrieri, i poeti:

Vidi ancor piú d'un eroe Del pensier fra quella gente; Riconobbi il nostro Goethe Al sereno occhio lucente...

Della bocca al dolce riso Shakspeare anche ravvisai, Che gl'inglesi Puritani Condannaro....

Con Shakspeare il suo pietista commentatore tedesco sur un asino:

Va cogli altri a caccia, e monta Un caval di nero pelo. Al suo lato, sopra un asino, Trotta un uomo.... O Dio del cielo!

Quella faccia di devoto, Quella orribile paura, Quel berretto di cotone.... Quella d'Horn è la figura.

Quando van tutti al galoppo, Il gran vate sorridendo Guarda il suo commentatore, Che a fatica il vien seguendo,

E spossato in su la sella Del somier s'aggrappa forte, Fedel sempre al suo poeta Come in vita così in morte.

Seguitano le baccanti dell'antichità:

Anche vidi molte dame Ne la folle processione, Belle ninfe da le snelle Leggiadrissime persone.

Inforcavano i polledri Tutte nude, ma i capelli Giú per gli omeri scendevano Come d'oro ampi mantelli.

Coronate eran di fiori E agitavano i virenti Tirsi bacchici, riverse In procaci atteggiamenti.

le schive del medio evo,

Vidi appresso in veste lunga Molte caste damigelle, Con in pugno il falco e assise Di traverso su le selle.

le fatturate del tempo nostro,

Dietro, quasi parodía, Sopra magri rossinanti Venían donne che al vestire Somigliavan commedianti.

Grazïose eran nel volto, Ma sfrontate anche un pochetto; E gridavan come pazze, Tutte rosse di belletto.

Come ciò gioiosamente Fea la valle risonare! Risa, gridi e suon di corni, E di fruste scoppiettare.

E tra le donne, tre figure, tre simboli, tre età, tre poesie.

Diana, la poesia classica:

Da la mezza luna in capo L'una si riconoscea: Fiera e bella come statua S'avanzava la gran dea.

Da la tunica succinta L'anche e il petto uscivan fuore: Le baciava della luna Delle fiaccole il chiarore.

Bianco e gelido qual marmo Era il viso. La severa Rigidezza di quei tratti E il pallor terribil era.

Ma ne' vividi occhi neri Fieramente divampava Un maligno e dolce fuoco, Che accecava, divorava.

Abonda, la poesia romantica del medio evo

Vienle al fianco un'altra bella, Che ben poco a lei somiglia; Ma il candore ha pinto in volto Della celtica famiglia.

Al dolcissimo sorriso Ed al suon de la gioconda Pazza voce io riconobbi Di leggier la fata Abonda.

Avea faccia un po' pienotta, Di rossor sempre soffusa; E la bocca a cuor, che i bianchi Denti mostra ognor socchiusa.

La leggera azzurra veste Che portava apríasi al vento: Spalle uguali neanche in sogno D'aver visto mi rammento.

Erodiade, la poesia orientale:

Il suo bianco ardente viso Rammentava le contrade D'Orïente, le sue vesti La sultana Scheherezade.

Era il naso un bianco giglio, E le labbra melagrane; Come palme in mezzo a un'oasi, Le sue membra svelte e sane.

Sedea sopra una chinèa Bianca, e a'lati uno ed un moro Le trottava a piè, reggendo Con la man la briglia d'oro.

Essa, Erodiade, volle la testa di San Giovanni Battista, perché ne era innamorata; e ora

Porta sempre nelle mani Il vassoio con la testa Di Giovanni; e di guardarla, Di baciarla mai non resta.

Ne la notte s'alza, ed esce Alla caccia, e porta in mano, Com'è detto, il capo tronco: Che talor (capriccio strano

Femminil!) con grandi risa Fanciullesche in aria getta, Come palla, e su 'l vassoio Ricader quindi l'aspetta.

La regina degli ebrei sente e distingue nel poeta un suo nazionale:

Quando a me passò dinanzi, Riguardommi, e m'accennò Cosí languida col capo, Che 'l mio cor forte tremò.

Ben tre volte andò la turba, Galoppando, innanzi e indietro; E tre volte, nel passare, Salutommi il caro spetro.

Già sparía la processione, Il tumulto già cessava; E l'amabile saluto Pe'l mio capo ancor trottava.

Tutto il giorno di poi il poeta fantastica della processione e specialmente delle tre donne:

E mi prese un fier desío Di sognar, di delirare, Un desío di quelle Amazzoni Che aveo visto cavalcare.

O notturne visïoni, Dall'aurora spaventate, Dite, dite, ove fuggiste? Ove al dí ricoverate?

Ricovero a Diana sono le rovine del paese che fu romano, onde ella in forma tra di dea e di strega conturba ancora gli spiriti:

Sotto i ruderi d'un tempio Di Romagna, per timore De' cristiani, ritirata Sta Dïana il giorno. L'ore

De la nera mezzanotte Per uscir fuori ella aspetta; Ed allor con le compagne A la caccia si diletta.

Piú lontano, piú fantastico, piú misterioso il refugio della romantica Abonda:

Essa pur la bella Abonda De' cristiani ha gran paura, Ed il giorno sta nascosta D'Avalun ne la sicura

Isoletta. Ne l'oceano De' romantici, assai lunge, È quest'isola: l'alato Pegaseo solo vi giunge.

Mai la Cura non v'approda, Né vapor su quelle ripe Mai depone i curïosi Filistei da le gran pipe.

Non si sente là de'doppi Il suon tristo, fastidioso, Quel din don din do continuo Alle fate tanto odioso.

Là, fiorente di perpetua Gioventú, sempre gioconda, Vive in mezzo a la letizia La gentile e bella Abonda.

Fra l'odor di strani fiori, Là ridendo ella passeggia. Fra una turba di ciarlieri Paladin che la corteggia.

Ma Erodiade, la povera esecrata ebrea, sta sotterra nei vecchi sepolcreti di Gerusalemme:

Nel sepolcro fredda salma Stai dormendo tutto il giorno, Fin che poi a mezzanotte Ti risveglia il suon del corno,

E tu segui con Dïana, Con Abonda, la feroce Cavalcata, e con gli allegri Cacciator ch'odian la croce.

L'attrazione della caccia selvaggia e la fatal simpatia d'Erodiade rapisce il poeta:

Qual gioconda compagnia! Potess'io cacciar con voi Per i boschi ne la notte! Starei sempre a' fianchi tuoi:

Poi ch'io t'amo sopra tutte! Né la greca altera dea, Né la fata amo del norde, Quanto te, morta giudea...

Ogni notte nella caccia Al tuo lato cavalcando Verrò teco; rideremo, Anderemo insiem ciarlando.

....e il dí piangendo Sul tuo tumul sederò.

Sí, nel giorno, su gli avanzi De' regali mausolei, Su la tomba dell'amata Mi vedranno i vecchi ebrei

Star piangente, e crederanno Ch'io lamenti sconsolato La città santa distrutta E 'l gran tempio ruinato.

È uno strano pezzo di romanticismo classico ed ebreo; tradotto poi, che non si poteva meglio. A cui la traduzione non garba, si conforti coi Salmi adattati al gusto della poesia italiana dall'abate e avvocato Saverio Mattei, che del resto avea ne'suoi tempi sufficienza di dottrina; mentre i commessi viaggiatori d'oggigiorno per giudicare della musicalità in poesia hanno soltanto la capacità delle orecchie.

[152][153]

PARINIANA

Pubblicate a parti sparse in— Fanfulla della domenica, 25 dec. 1881— Domenica letteraria, 24 e 31 dec. 1882, 7 genn. 1883— Nuova Antologia, 1º genn. 1883—raccolte ora, emendate, ordinate con aggiunta di parti inedite.

I.

PRELIMINARE.

È egli permesso, in Italia, ai giorni che corrono, scrivere di critica e letteratura senza nascondere tra il verde e i fiori la trappola d'una tesi? e non per isfoggio d'abilità ne'salti mortali dei paradossi? e né meno col sottinteso di rifare noi il mondo da capo e con la esplicita dichiarazione che i nostri predecessori in materia furono un branco di brave persone sí, ma tutt'altro che critici, tutt'altro che dotti, giudiziosi ed onesti? E, data la permissione, si potrà egli scrivere critica italiana leggibile, senza prima, per cattivarsi il pubblico, proclamare che in fondo in fondo noi siamo tanti bei pezzi d'asini, che discorriamo secondo ci frulla, e che ci ingegneremo di tenerci bassini bassini e lisci lisci, e ci proveremo anche a fare, secondo le nostre forze, i buffoni, per divertire le signore e i signorini, maestri e giudici inappellabili del torneo in ogni arte e in ogni critica? O non si potrà in quella vece annunziare che noi intendiamo parlare d'arte di proposito e a minuto, e discutere, interpretare, raffrontare, tradurre, senza per altro volere impolverare i lettori? E a farci leggere, scrivendo cosí, riusciremo? O, per meglio dire, e parlando per mio conto, riuscirò io? Non lo spero, e pur mi provo a discorrere, nei modi che dissi, di quattro odi del Parini.

Nel giudizio comunemente recato intorno alle odi di Giuseppe Parini poco c'è da aggiungere o da togliere e non molto da correggere. Anche nella lirica l'abate milanese fu, per una parte, il maestro e duca di quella scuola neoclassica la quale fece un po' piú che comporre versi antichi su pensieri moderni; e, per un'altra parte, in certi tócchi che qua e là osò, netti, precisi e nervosi, accennò anche, oltre ai limiti di quella scuola, a una rappresentazione del vero piú immediata che non soglia trovarsi nella poesia italiana, specialmente lirica, dopo il secolo decimoquinto.

Ma nulla dal nulla. Dall'elemento fantastico e affettivo d'un popolo, vivaio comune della poesia o spontanea o riflessa, è un continuo procedere di forme che si vanno organando secondo le attitudini della nazione negli ambienti delle età diverse; e, al mutar dell'ambiente, le deboli o troppo usate cadono a mano a mano formando il detrito storico, dal quale altre si svolgono e crescono, e le forti superstiti se ne giovano, fin che esse pure non perdano nel lungo attrito l'energia. Può quindi essere non inutile ricercare nelle odi del Parini ciò che resta del vecchio e ciò che è su'l cambiar colore, e ciò che spunta timido o già vigoreggia ardito: può esser utile seguire le tracce e i segni della trasformazione che il Parini, quando ebbe da vero il possesso e la conscienza della sua forza, fece nella poesia del tempo suo, e avvertire anche ai punti dove egli fu debole e incerto.

Nelle poesie di Giuseppe Parini, segnatamente liriche, primi i coetanei accusarono un po' di stento e certa fra ruvidezza ed asprezza. Saverio Bettinelli, che nella dedicatoria delle Lodi del Petrarca (1787) avea concesso a Milano il vanto di possedere un vero Orazio, introdusse poi in certi Dialoghi d'Amore[20] esso il nume, nume allora comune dei filosofi e degli abati, a giudicare, parlando col Petrarca, il poeta milanese cosí: «Un gran poeta talor mi invoca ed onora: ma latino dietro Orazio vuol dirsi per l'asperità e lo sforzo nella lingua e piú pe'l fiero animo catoniano, e poco a te (Petrarca) somiglia.» A cotesto giudizio dell'Amore gesuita uno de' due amici che nel 1801 pubblicarono dieci lettere Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini, e propriamente Luigi Bramieri piacentino, primo anche a dare nel 1805 una edizione critica del Giorno secondo l'ultime intenzioni del poeta, opponeva: «L'autor delle odi intitolate Il brindisi, Il piacere e la virtú, Le nozze, non era egli padrone, se ben gli piacea, di portare in tutti i suoi scritti la mollezza e la facile soavità di quei componimenti? Ma egli aspirava ad una gloria maggiore ...»[21]

Il Bramieri ha ragione. Lasciando Il piacere e la virtú all'efimero onore di essere stata una delle tante strimpellate per il matrimonio dell'arciduca Ferdinando con l'ultima Estense; le due piú veramente canzonette, Le nozze e Il brindisi, e le due altre piú tecnicamente odi ma di natura musicali, La vita rustica e L'impostura, meritano di essere un po' studiate in loro stesse e nelle attinenze con l'arte del tempo, per vedere fino a qual punto l'autore si avvicini a'suoi contemporanei o se ne discosti e gli avanzi, o se altri per avventura non avanzi lui, o se egli regga intiero al confronto degli antichi.

Anche il Parini, come tutti, salvo l'Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, move dall'Arcadia: anzi, si potrebbe fin dire, senza fargliene colpa, che in Arcadia almeno il tacco del piè sinistro ce l'ebbe sempre. Cominciò Ripano Eupilino a ventitre anni (1752) con sonetti e componimenti pastorali, «in tempo—scriveva egli stesso nella prefazione—che era ogni maniera di letteratura al suo colmo venuta.[22] » Circa trent'anni dopo (1780), mandava, sotto il nome di Darisbo Elidonio, al volume decimo terzo delle Rime degli arcadi, ordinate a raccolta dall'abate Gioachino Pizzi custode generale, quattordici sonetti quasi tutti pastorali, e con questi un'ode Su la libertà campestre, che poi egli od altri rititolò La vita rustica.[23] Cosí nessuna meraviglia che le sue odi per quattro gruppi almeno si ricongiungano a quattro forme liriche che l'Arcadia aveva a preferenza rinnovate, coltivate e lavorate.

Il primo gruppo è a punto delle odi, La vita rustica, La impostura, Le nozze, Il Brindisi. Queste per il motivo idillico e famigliare, per gli argomenti accademici, vezzosi e scherzosi, quasi da conversazione, per le strofe di settenari e ottonari, che nella nostra poesia sono i versi piú antichi e piú popolari a uso del canto, alternate di sdruccioli e di piani e di tronchi, appartengono alla forma lirica piú caratteristica dell'Arcadia, alla lirica mezzana musicale. Non è l'anacreontica, come si ostinarono a chiamarla i trattatisti, se bene qualche volta imiti le imagini delle piccole poesie degli eroti attribuite ad Anacreonte; non è la chanson francese, cantata a coro con l'allegro o entusiastico ritornello, se bene qualche volta possa prenderne gli andamenti. È la canzonetta; la canzonetta che i provenzali non ignorarono; che in Italia prevalse fra i generi popolari dalla fine del secolo decimoterzo alla fine del decimoquinto, coi vari nomi di ballata, di ballatina e ballatella, di frottola; che tacque per tutto quasi il Cinquecento, ristrettosi a cantare, almeno nelle società eleganti, il madrigale e l'idillio; che risorse alla fine del Cinquecento, prendendo col Rinuccini e col Chiabrera nuovi congegni di strofe e di rime per servire alla musica rinnovata e trasformantesi; che furoreggiò in tutti gli immani divertimenti teatrali e musicali del Seicento; che l'Arcadia raccolse, e la ravviò e la pettinò e le insegnò a fare il minuetto e la riverenza in contegno; che il Rolli e il Metastasio recarono al sommo della perfezione, come poesia classica per musica da sala; e il Frugoni tentò di restituirle piú lirica andatura, e il Parini riuscí a farla piú seria e morale. Per ciò a punto le canzonette del Parini non furono mai cantate, e sono odi.

II.

LA VITA RUSTICA.

La Vita Rustica, scrive il De Sanctis, «sembra posta in fronte alle poesie del Parini quasi come prefazione; è lo spirito che aleggia in tutte le sue composizioni»[24]. Certo l'illustre critico ebbe il pensiero alla strofe meritamente famosa, Me non nato a percotere; per la quale, io credo, e per l'attrattiva del metro, rapido piú che non sogliano averlo le liriche pariniane e che simula una certa concitazione, l'ode piacque e piace ed è ritenuta anche a memoria. La strofe settenaria doppia della Vita rustica è come la prenunzia dei metri manzoniani, e la novità dell'aver fatto seguire a un primo membro alternato di sdruccioli e piani, già trovato a Bologna nel 1747[25] ma non divenuto ancora popolare negli Amori del Savioli, un secondo membro alternato di piani e di tronchi, fu feconda di effetti armonici, che sono tanta parte della impressione lirica. Se non che forse il riscontro vicino troppo de'due ossitoni finali, massime quando sono non di vocali ma di consonanti tronche se specialmente nasali, offende un po' l'orecchio. Rileggiamo, a prova, le due piú belle strofe; la prima,

Per che turbarmi l'anima, O d'oro e d'onor brame, Se del mio viver Atropo Presso è a troncar lo stame? E già per me si piega Sul remo il nocchier brun Colà donde si niega Che piú ritorni alcun?

e la piú celebre,

Me non nato a percotere Le dure illustri porte Nudo accorrà ma libero Il regno de la morte. No, ricchezza né onore Con frode o con viltà Il secol venditore Mercar non mi vedrà!

Questa va d'incanto. Quell'accento largo di vocale come rialza l'armonia e come afferma il sentimento! Men bene la prima: non avete che dire, ma sentite che, se quegli ossitoni nasali seguiteranno nella strofe appresso e poi in altre, finiranno con farvi l'effetto di quei dannati di Dante, che d'una parte e d'altra con grand'urli, Voltando pesi per forza di poppa, Percotevansi incontro e poscia pur lì si rivolgea ciascun. Il Manzoni infatti, a cui piaceva il Metastasio, non accolse quella combinazione nelle strofe sue settenarie: ma essa a ogni modo fu il primo passo verso l'armonia che dirò manzoniana. Il primo passo, ho detto, verso l'armonia: ché gli schemi tecnici delle future strofe manzoniane erano stati già trovati dal Frugoni. La strofe del Cinque maggio fu da prima introdotta nella lirica moderna dal buon Comante eginetico per il primo incruento sacrifizio celebrato nella cattedrale di Parma l'anno 1741 dal signor conte canonico Girolamo Baiardi.

Ecco fuor d'uso Fosforo Apre lucente il giorno: Tutto di fior cospargasi Questo sentiero intorno, Questo sentier che scorgerti Al maggior tempio dé.

Vieni, immortal Girolamo Che di pietà tutt'ardi, Gentil sangue degl'incliti Magnanimi Baiardi, Vieni e volgi al gran tempio Il consacrato piè[26].

Per certa novità melodica dunque, prenunzia di armonie piú moderne, la Vita rustica piacque, o meglio, piace a giudici recenti anche severi. E mentre i coetanei del Parini e quelli che lo seguirono da presso, uomini di fino giudizio, non la annoverarono mai fra le odi migliori o fra le buone, il Cantú l'allogò, in compagnia della Caduta, fra gli Esempi della letteratura italiana[27] d'ogni secolo, e il prof. Giuseppe Puccianti la elevò ai primi onori nell' Antologia della poesia moderna[28]. O, forse meglio, il Cantù e il mio egregio amico furono persuasi a quella scelta da ragioni morali e storiche. Per la concezione ed esecuzione artistica, quell'ode a me non pare che vada tra le belle del Parini.

E s'intende. O composta su la fine del '58, come affermava il primo raccoglitore delle odi pariniane Agostino Gambarelli,[29] o a mezzo il '57, come piú tosto vorrebbe Filippo Salveraglio nelle note ricche di notizie ond'egli illustrò la nuova edizione data dal Zanichelli[30], cotesta è la prima ode che il Parini scrivesse; e come nel metro cosí nei pensieri presenta a pena i primi segni d'una lenta e variegata trasformazione del materiale idillico dell'Arcadia. L'antico e immortale idillio, l'ideale della pace e del lavoro alla campagna, cantato fra le guerre civili da Virgilio da Orazio e da Tibullo, riecheggiato fra le guerre e le corti del Cinquecento dal Sannazzaro dall'Alamanni da Bernardo Tasso dal Tansillo, finí a essere strapazzato su le zampogne dei pastori del Settecento. Il Parini avrebbe voluto rialzarlo, ma non riuscí. Né pur l'ombra qui del rapimento estatico e della malinconia potente del gran poeta Virgilio, né della finitezza e determinatezza ne'particolari del paesaggio del grande artista Orazio, né il sentimento religioso della campagna del grande elegiaco Tibullo. Ci sono invece la filosofia, la filantropia, la georgofilia: tutte astrazioni rispettabili, qualcosa di meglio, se volete, delle vanità d'Arcadia; ma non ancora la poesia.

La contenenza dell'ode è questa.—(str. 1ª) Il poeta non vuol sapere d'avarizia o d'ambizione, tanto si vive cosí poco!—(str. 2ª) Meglio godersi la libertà in campagna.—(str. 3ª) Non invidia i ricchi, condannati a viver sempre in sospetto.—(str. 4ª) Si contenta di morir povero, ma libero e onesto.—(str. 5ª) Dunque se ne torna ai colli che circondano il suo lago di Pusiano.—(str. 6ª) Ivi troverà la quiete, la quiete che i monarchi non hanno e che (str. 7ª) devono invidiare a lui, tranquillo poeta tra i contadini di Brianza.—(str. 8ª) Ivi egli pregherà Dio che tenga lontana la guerra; (str. 9ª-10ª) immortalerà in versi l'agricoltore che sappia uscire dalla carreggiata del cosí faceva mio padre; e (str. 11ª) morirà quieto e compianto come quell'agricoltore.

Contenenza onesta ma povera, e tutt'altro che nuova.

L'entrata è viva: della troppo nota figura di Caronte è ritoccato con qualche virtú plastica l'atteggiamento,

E già per me si piega Sul remo il nocchier brun:

è rinnovato bene, perché applicato meglio che nel caso del passero di Lesbia, il catulliano per iter tenebricosum Illuc unde negant redire quemquam,

Colà donde si niega Che piú ritorni alcun.

Ma la seconda strofe con le sue ore fugaci e meste che belle ne rende e amabili la libertade agreste, con Bacco che manda il vin e con la bella Innocenza che s'inghirlanda il crin, non esce punto dai cerchiolini dell'Arcadia. Della terza strofe qualche arcade allora vivo avrebbe per avventura rigirato un po' meglio i versi, segnatamente gli ultimi, dove quella man del gelato timor è fredda da vero, e quel sovente subito dopo la mano ( sotto la man sovente ) ci si trova a disagio per amore, o per isdegno, della rima. La quarta ( Me non nato a percotere, ecc.) è bella in tutto e per tutto, per la verità del sentimento e per la rispondenza dell'espressione: dopo i poeti del Trecento e dopo l'Ariosto nelle satire, nulla di altrettanto nobile era uscito dal petto di poeta italiano. Per vero il buon Passeroni aveva già scritto:

Cerchin cantando d'acquistar denari E facciano de' versi mercanzia Poeti adulatori e mercenari, E facciansi pagare ogni bugía. Io pensieri non ho sí vili e avari, E non contratto l'alma poesia: Me stesso e gli altri divertire io cerco, Canto a Milano, e non vi cambio o merco[31].

Due anni, si può dire, prima del Parini: ma quel suo poema è tanto lungo che a pena lascia ricordare ciò che v'è di buono.

Seguitando:

Colli beati e placidi Che il vago Èupili mio Cingete con dolcissimo Insensibil pendío,

sono versi che i nostri padri dicevano a mente con tanta dolcezza di enfasi; e non ho voglia di sofisticare su que' due aggiunti di pendío, uno dei quali, probabilmente insensibile, a Orazio sarebbe parso di piú. Ma credo che il Parini dopo scritto il Giorno dovè sentire egli stesso tutta la vacuità, la improprietà, la indeterminatezza, la nullaggine melodrammatica de' due versi seguenti,

Dal bel rapirmi sento Che natura vi diè.

E dire che il piú della lingua poetica degli ultimi centosettant'anni, della lingua, dico, di quelle poesie che il volgo dilettante capisce súbito e ammira di schianto, appunto perché non sono poesia, è cosí!

Ed esule contento A voi rivolgo il piè:

ecco un altro fiorellino di quel pattume, volevo dire di quella lingua poetica. Volgere i passi dissero Dante, il Boccaccio e l'Ariosto; anche volgere il piede disse Dante, ma da man destra a sinistra. Volgere il piede, senz'altro, lo fa dire il Fagiuoli in una commedia a uno di que' suoi personaggi civili che parlano tanto male a punto perché egli vuole che parlino bene: Non so da questa contrada volgere il piede.[32] Ma rivolgere il piede come l'usa il Parini per avviarsi, oltre che ampolloso, è anche improprio.—È piú nobile di quel prosaico avviar —Oh nobiltà dell'imaginarsi le punte delle scarpe del Parini sollevate e in moto verso la Brianza! E se andava, come si può tenere per certo, in calesse o in carrozza?

Nella quinta strofe la quiete è cantata piú che sentita. E i versi

..........in seno De le vostr'ombre apprestami Caro albergo sereno

avran dato a qualche arcade il mal di mare con quel loro fiotteggiare di suoni cupi, rotti, rugginosi: ma niun arcade certo avrebbe saputo verseggiare con tanta varia gravità di accenti e di spezzature armoniche e concettose la rimembranza oraziana degli ultimi quattro:

E le cure e gli affanni Quindi lunge volar Scorgo, e gire i tiranni Superbi ad agitar.

Del resto, il tomo delle Rime degli Arcadi che séguita a quello ove fu pubblicata l'ode del Parini porta d'un altro Decilio License, cioè Girolamo Pompei, traduttore di Plutarco e di Teocrito, una canzone, anch'essa su La vita rustica: eccone qui una stanza e mezzo, forse il meglio: raffronti chi vuole e come vuole.

Con un garrir gentile I poggi intorno mólce Lo spirar de le fresche aure soavi; E, come è loro stile, Ronzan le pecchie, e il dolce Tolgono a i fior per arricchirne i favi. Dal sen de gli antri cavi Alterna eco gli accenti, E a l'usignol risponde. Che su romite sponde Tempra in musiche note i suoi lamenti Per dar qualche conforto Al grave antico torto.

Sotto le verdi foglie La tortora coperta Geme ferita d'amoroso strale: La lodoletta scioglie Suoi trilli, e a l'aria aperta Tremolando si libra alto su l'ale.[33]

La sesta strofe respira la più beata ingenuità arcadica, ingenuità di gente che sapeva bene di dire cose impossibili, inverisimili e un tantino anche, buttiamo la parola, ridicole, e pur se le spacciava come nulla fosse. Che i re abbiano piú d'una volta ragione d'invidiare le condizioni di tanti loro soggetti oscuri e pacifici, fu detto e ridetto e si dice e ridice. Ma che il Parini specifichi il caso in persona sua, che egli venga proprio a contarci che Federico II, Maria Teresa, Caterina di Russia, Luigi XV o il sultano avevano da invidiar lui, proprio in quella posizione nella quale si è messo da sé, questo passa la parte.

Qual porteranno invidia A me, che di fior cinto Tra la famiglia rustica A nessun giogo avvinto, Come solea in Anfriso Febo pastor, vivrò, E sempre con un viso La cetra sonerò!

Cantabitis, Arcades, inquit, montibus haec vestris. E non voglion finire di ronzarmi nel pensiero due versi del Porta:

Gh'aveven tucc on liri e on ghitarrin, Né se sentiva olter che frin frin.[34]

Fortuna che l'abate, mobile e impaziente come era, non durò molto a sonar la cetra con quel viso lí, e scrisse poco di poi La salubrità dell'aria.

La strofe seguente, dopo i quattro primi cosí cosí, ha quattro versi notevoli, se non per novità d'imagini, pe 'l numero variato e sostenuto:

E da noi lunge avvampi L'aspro sdegno guerrier, Né ci calpesti i campi L'inimico destrier.

Nulla, del resto, fuor dell'ordinario.

Ma brutte fuor dell'ordinario sono le strofe interposte in certe edizioni a questa parte dell'ode. Prima le portò la raccolta delle Odi del Parini data in Milano nel 1791 da Agostino Gambarelli, al quale, già suo discepolo, il Parini aveva accordato la facoltà di pubblicare quelle odi, e non piú; e le odi, avverte l'editore, passavano da una mano all'altra e da questa a quella città tanto infedeli e scorrette e mutile e svisate da non potersi talvolta piú riconoscere per fattura dello ingegno che le aveva prodotte[35].

Per la Vita rustica, il Gambarelli dovè essersi abbattuto in taluna di cosí fatte copie, o almeno conobbe soltanto la lezione corrente prima che il poeta avesse, stralciando, ridotta l'ode a piú unità e mandatala cosí corretta a stampare fra le Rime degli Arcadi. In fatti il Reina, discepolo e radunatore della sparsa eredità del poeta, che pe 'l testo delle odi, nel volume secondo delle Opere da lui pubblicate, si valse di un volume ove l'autore aveva raccolte quelle che disegnava egli di stampare, il Reina, dico, sotto la Vita rustica annota: «Il testo si dà quale fu pubblicato dall'autore nel volume XIII dell'Arcadia di Roma, se tolgansi alcune correzioni che vi fece dappoi. Le strofe che trovansi nelle posteriori edizioni [ quella del Gambarelli, e, derivate da essa, una piacentina e una bodoniana ] erano state da lui precedentemente rifiutate[36].» Avviso a cui volesse dare all'edizione del Gambarelli troppa piú autorità che ella non meriti. E troppa glie ne diede Giuseppe Giusti, quando gli fu messo in testa di curare l'edizione del Parini per il Le Monnier: se non la dottrina e l'ingegno di critico, l'orecchio e il gusto di poeta avrebbero dovuto avvertirlo a non raccattare ciò che il Parini aveva buttato[37]. Come potè il Giusti tenere non indegna del Parini una tale strofe?

In van con cerchio orribile, Quasi campo di biade, I lor palagi attorniano Temute lance e spade; Però ch'entro al lor petto Penetra non di men Il trepido sospetto Armato di velen.

Non vide egli la incoerenza della comparazione e la prosaicità e la scolasticità degli ultimi versi? In paragone de' quali paiono belli questi nell'altra Vita rustica del Pompei:

Cosí mai sempre liete Ei va passando l'ore In mezzo a solitudini remote. Spegne nel rio la séte, E l'acqua è a lui migliore De le bevande a i nostri climi ignote. I sonni a lui non scuote Il timido sospetto, Che s'ange e s'addolora Di mal non giunto ancora; Ma sicuro è dormir sott'umil tetto Di povera capanna Fatta di felce e canna.

Quella strofe nelle edizioni del Gambarelli e del Giusti precede l'altra, che è in tutte le stampe, dove il poeta sona la cetra sempre con un viso. E l'avrebbe sonata male da vero, anche peggio di quello che ci parve già, se avesse seguitato con questa strofe qui, che séguita veramente nelle due edizioni:

Non fila d'oro nobili D'illustre fabbro cura Io scoterò, ma semplici E care a la natura. Quelle abbia il vate esperto Nell'adulazïon: Che la virtude e il merto Daran legge al mio suon.

E il Giusti non si fece caso del gergaccio accademico dei primi quattro versi? Quelle fila d'oro, che sono anche nobili; e non basta, sono anche cura d'illustre fabbro (un fabbro per le corde del chitarrino! ma le son d'oro!); e quelle altre che sono semplici; e non basta, sono anche care a la natura (dove si va a cacciar la natura!); quelle fila che il poeta scuote, non lo scossero lui? Egli raccattò la strofe; e i due versi Quelle abbia il vate esperto Nell'adulazïon con quel tronco nasale non gli calarono come un pugno negli orecchi a fargliela cascar di mano?

Dopo la preghiera agli dèi, anzi ai cieli, acciò l' inimico destriero non calpesti i campi di Brianza, viene nelle due ricordate edizioni questa altra strofe che il Parini aveva rigettato:

E, perché a i numi il fulmine Di man piú facil cada, Pingerò lor la misera Sassonica contrada, Che vide arse sue spiche In un momento sol; E gir mille fatiche Col tetro fumo a vol.

Per due bei versi, gli ultimi (e ci sarebbe che dire su quel mille determinante di fatiche ), dover sorbirsi il momento sol e portare in pace la scioperataggine di quel Pingerò! Vi pingete voi, o lettori, l'abate Parini là in Brianza che sonando la cetra, descrive, anzi dipinge, a Domeneddio il guasto menato da Federico II in Sassonia nell'estate del '58, e Domeneddio che sta a sentire, aspettando il momento del pathos per lasciarsi cadere il fulmine di mano? E dire che Giuseppe Puccianti, il quale ha pur tradotto Orazio, ammette nella sua Antologia fra gli esempi della poesia italiana moderna non pur quest'ode, ma con queste strofe! Ah caro amico, se cotesti sono fiori, che saranno le ortiche?

Torniamo alle strofe accettate e riconosciute:

E te villan sollecito, Che per nov'orme il tralcio Saprai guidar frenandolo Col pieghevole salcio; E te che steril parte Del tuo terren di piú Render farai con arte Che ignota al padre fu:

Te co' miei carmi a i posteri Farò passar felice: Di te parlar piú secoli S'udirà la pendice. Sotto le meste piante Vedransi a riverir Le quete ossa compiante I posteri venir.

Ecco dunque i primi segni della trasformazione nel materiale poetico dell'idealismo arcadico. L'Androgeo del Sannazzaro, il tipo del genere arcadico puro, non ha fatto mai nulla al suo mondo, o ha fatto solo di quelle cose che nessuno fa, ed è morto per dare occasione al Sannazzaro di intessere una serie di versioni o variazioni virgiliane:

Chi vedrà mai nel mondo Pastor tanto giocondo, Che cantando fra noi sí dolci rime Sparga il bosco di fronde E di bei rami induca ombre su l'onde?...

Dunque fresche corone Alla tua sacra tomba E vóti di bifolchi ognor vedrai, Tal che in ogni stagione, Quasi nova colomba, Per bocche de' pastor volando andrai: Né verrá tempo mai Che 'l tuo bel nome estingua, Mentre serpenti in dumi Saranno e pesci in fiumi: Né sol vivrai nella mia stanca lingua, Ma per pastor diversi In mille altre sampogne e mille versi.[38]

Cotesto ideale ozioso dell'Arcadia napolitana spagnola romana, ora, nella Lombardia di Maria Teresa, tra le riforme e i bonificamenti, si va anch'egli riformando e modificando: Androgeo diventa il villan sollecito. Se il Gessner non avesse pubblicati i suoi Scritti nel 1765, cioè sei o sette anni dopo quest'ode, si sarebbe potuto credere a un influsso degli idilli svizzeri sul poeta de' Trasformati. Ma il secolo oramai s'avviava per quella strada. L'Arcadia passava al sentimentalismo progressivo e filantropico, per poi finire romantizzando. Ricordate la piantagione dei pini in Jacopo Ortis?

Io mi vagheggiava nel lontano avvenire un pari giorno di verno, quando canuto mi trarrò passo passo sul mio bastoncello a confortarmi a' raggi del sole sí caro a' vecchi; salutando, mentre usciranno dalla chiesa, i curvi villani già miei compagni ne' dí che la gioventú rinvigoriva le nostre membra, e compiacendomi delle frutte che, benché tarde, avranno prodotto gli alberi piantati dal padre mio. Conterò allora con fioca voce le nostre umili storie a' miei e a' tuoi nepotini, o a quei di Teresa che mi scherzeranno dattorno. E quando le ossa mia fredde dormiranno sotto quel boschetto alloramai ricco ed ombroso, forse nelle sere d'estate al patetico susurrar delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali al suono della campana de' morti pregheranno pace allo spirito dell'uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E se talvolta lo stanco mietitore verrà a ristorarsi dall'arsura di giugno, esclamerà guardando la mia fossa: Egli, egli innalzò queste fresche ombre ospitali.[39]

L'Hölty (1748-1776), un de' lirici tedeschi che spiccò nel passaggio dalla scuola del Klopstock e del Gessner alla poesia della natura, finiva un'ode a punto su la vita campestre cosí: «Sovente ( il cittadino in villa ) passeggia solitario, pieno di pensieri di morte, tra le fosse del villaggio; si siede sopra una tomba e contempla la croce con la funebre corona agitata dal vento.»[40]

Del resto, fuor della storia dell'arte, il villan sollecito fatto passare felice ai posteri non ci fa né caldo né freddo, né più né meno dei pastorelli savi, discreti, intelligenti, di Salomone Gessner, che giurereste pigliasser tabacco. Vien voglia di dirgli: Mascherina, ti conosco: scuoti la cipria, tu se' Androgeo.

L'ultima strofe ( Tale a me pur concedasi ) apparisce proprio fatta per finire; e già l'analisi fu lunga anche troppo.

E ora, facciamoci a parlar chiaro; in questi ottanta o novanta versi del Parini dov'è la freschezza e il selvatico della Vita rustica, come il poeta gli volle da ultimo intitolati? dov'è il respiro largo della Libertà campestre, come gli aveva intitolati da prima? Non io li raffronterò alla meditazione alata di Lamartine:

O vallons paternels, doux champs, humble chaumière Au bord penchant des bois suspendue aux coteaux, Dont l'humble toit, caché sous des touffes de lierre,

Ressemble au nid sous les rameaux;

Gazons entrecoupés de ruisseaux et d'ombrages, Senil antique où mon père, adoré comme un roi, Comptait ses gras troupeaux rentrant des pâturages,

Ouvrez-vous, ouvrez-vous! c'est moi!.....

Beaux lieux, recevez-moi sous vos sacrés ombrages! Vous qui couvrez le seuil de rameaux éplorés, Saules contemporains, courbez vos longs feuillages

Sur le frère que vous pleurez.....

Voir de vos doux vergers sur vos fronts les fruits pendre, Les fruits d'un chaste amour dans vos bras accourir, Et, sur eux appuyé, doucement redescendre:

C'est assez pour qui doit mourir.[41]

Sarebbe un disintendere affatto la critica, e, anche piú, un'ingiustizia. Sessantacinque anni corsero fra le due poesie; e in quel mezzo una rivoluzione avea scosse le basi dell'ordinamento sociale, e nelle malinconie e negli strazi delle conscienze che ne seguirono, un nuovo modo si rivelò di sentire la natura e di pensare la vita. E poi il Lamartine era l'unico maschio d'una famiglia di gentiluomini campagnoli, tirato su nel ritiro, con tutte le finezze d'un'educazione modestamente aristocratica, all'amore e alla gloria; e il povero abatino, figliuolo d'un setaiuolo di Bosisio, faceva il maestro per le case dei signori: tali differenze, in certe maniere di poesia, importano molto.

Né meno vorrei raffrontare le stanze del Parini alle descrizioni campestri condotte su l'esemplare di Virgilio e d'Orazio da poeti nostri del Cinquecento, dall'Alamanni, per esempio, e dal Tansillo. Gli artisti di quel gran secolo rimanevano, pur imitando, originali nella espressione; e in mezzo alle abitudini artificiose dell'imitazione si trovavano spesso, per una felice distrazione dell'educazion loro, il vero fra le mani, e lo rendevano con immediata purezza. Meno educati, certo sono sempre piú schietti e piú vivi dei settecentisti: ancor freschi della libertà, immuni dallo spagnolismo e dal gesuitismo, scrivevano una lingua non impoverita né guasta dal decoro accademico. Come i giocatori di pallone, per dar forte e alto, pigliavano la rincorsa dal trappolino dell'imitazione; ma picchiavan bene.

Il Tansillo comincia dunque imitando:

Oh troppo fortunati, se i lor beni Conoscesser, color che si stan fôra Tra colti poggi e valli e campi ameni!

Cui dà benigna terra d'ora in ora Quel che altrui fa bisogno, agevolmente; Né suon di tromba i volti ivi scolora.

E, se non han gl'inchini della gente, Né meno han chi li turba e chi gli scuote Dal riposo del corpo e della mente.

Oh felice colui che intender puote Le cagion delle cose di natura Che al piú di que' che vivon sono ignote,

E sotto il piè si mette ogni paura De' fati e della morte ch'è sí trista, Né di volgo gli cal né d'altro ha cura!

Fin qui è Virgilio reso con ariostesca scioltezza. Ma ecco l'uomo vero del Cinquecento, con la sua coscienza d'italiano e di galantuomo:

Ma piú felice chi, del mondo vista La parte sua, non vi s'appoggia sovra, Aitato dal saper ch'indi s'acquista,

Ma in villa ch'è sua tutta si ricovra, E degli anni e dei dí c'ha speso indarno A sé stesso ed a Dio parte ricovra!

Cosí potess'io tra Sebeto e Sarno Menare ormai la vita che m'avanza Con le ninfe del Tevere e dell'Arno

Dalle quai fei sí lunga lontananza, E de' signor sgannato di qua giuso Fondar nel re del cielo ogni speranza!

Preso l'abbrivio, séguita piano e soave:

Deh sarà mai, pria che giú cada il fuso Degli anni miei, che a piè d'una montagna Mi stia tra cólti ed arbori rinchiuso,

E con la mia dolcissima compagna, Qual Adamo al buon tempo in paradiso, Mi goda l'umil tetto e la campagna,

Or seco all'ombra or sovra il prato assiso, Or a diporto in questa e in quella parte, Temprando ogni mia cura col suo viso?

E ponga in opra quel c'han posto in carte Cato e Virgilio e Plinio e Columella E gli altri che insegnâr sí nobil arte,

E di mia mano innesti e pianti e svella La spessa de' rampolli inutil prole Che fan la madre lor venir men bella,

E con le care figlie e, se 'l ciel vuole, Spero co' figli, a tavola m'assida La state ai luoghi freschi, il verno al sole?...

Ma, badate, non è un idillio fatto per fare: l'uomo che ha militato e navigato sotto Carlo V, il cortigiano disilluso dei viceré spagnoli, si risente:

Bocche mi paion di balene e d'orche Le porte de' palagi e le colonne....

I pavimenti miei sien fiori ed erbe, Rami i tetti, e negre elci i marmi bianchi, E bótti l'arche ove il tesoro io serbe:

Né curi ire a palazzo o stare a' banchi E domandar che faccian Turchi o Galli, S'arman di nuovo o se ambiduo son stanchi.

Non sia obbligato a suono di metalli Giorno e notte seguir piccol zendado, Forbir arme e nutrir servi e cavalli.

E, qual si sia, contento del mio grado, Non cerchi di chi scende o di chi poggia, O che altri m'abbia in odio o gli sia a grado.

E quando i dí son freddi o versan pioggia, Con la penna io, le femmine con l'ago, Passiam quelle ore in cameretta o in loggia.[42]

Tali cose i settecentisti, con quella loro viterella e con quella linguetta, non potevano scriverle.

Ma sarà permesso raffrontare l'ode italiana del Settecento alle stanze d'un poeta francese del secolo innanzi, d'un poeta della scuola di Malherbe: siamo in famiglia, siamo alla lirica classica che ha la religione di Orazio.

Racan (1589-1670) di latino veramente non sapeva né men quello del credo, ma fu un valoroso luogotenente nella campagna dei gerundivi e dei particípi sotto il comando generale di Malherbe. Lafontaine lo salutava emulo d'Orazio ed erede della sua lira. Orazio il Racan lo leggeva e imitava tradotto, e per ciò forse rimaneva originale e francese. Felice—poetava—chi rinunziando alle lusinghe dell'ambizione, se ne vive su 'l suo, misurando i desidéri alle forze.

Il laboure le champ que labourait son père, Il ne s'informe pas de ce qu'on délibère Dans ces graves conseils d'affaires accablés: Il voit sans intérêt la mer grosse d'orages, Et n'observe des vents les sinistres présages Que pour le soin qu'il a du salut de ses blés.

Roi de ses passions, il a ce qu'il désire. Son fertile domaine est son petit empire, Sa cabane est son Louvre et son Fontainebleau; Ses champs et ses jardins sont autant de provinces; Et sans porter envie à la pompe des princes Se contente chez lui de les voir en tableau,

Il voit de toutes partes combler d'heur sa famille. La javelle à plein poing tomber sous la faucille, Le vendangeur ployer sous le faix des paniers; Et semble qu'à l'envi les fertiles montagnes, Les humides vallons et les grasses campagnes S'efforcent à remplir sa cuve et ses greniers.

Il suit, aucune fois, le cerf par les foulées, Dans ces vieilles forêts du peuple reculées, Et qui même du jour ignorent le flambeau: Aucune fois des chiens il suit les voix confuses, Et voit enfin le lièvre, après toutes ses ruses, Du lieu de sa naissance en faire le tombeau....

Il soupire en repos l'ennui de sa vieillesse Dans ce même foyer où sa tendre jeunesse A vu dans le berceau ses bras emmaillottés; Il tient par les moissons registre des années, Et voit de temps en temps leurs courses enchaînées Vieillir avecque lui les bois qu'il a plantés[43].

In queste stanze—osserva il Sainte-Beuve—dispiegantisi con tanta ampiezza e mollezza d'abbandono in uno stile un po' invecchiato, e che perciò tanto meglio rassomiglia ai grandi boschi paterni e alle alte selve presso il maniero, regna e respira la pace dei campi, la distesa, il silenzio. Io ne paragonerei l'effetto a quello che producono, piú che l'ode d'Orazio, certe elegie rurali di Tibullo. Ci si sente un riposato amore dei campi, non tanto per il piacere di cantarli quanto per la dolcezza e la consuetudine di viverci ... Siamo veramente nella Touraine, in buono e dolce paese, dove non tutto risplende, dove non ogni collina ha i suoi marmi scintillanti e il suo bosco sacro. Non cerchiamo altro che il sentimento sincero e pieno, la calma, la stabile tranquillità d'una vita felice, l'ideale d'una mediocrità domestica frugale e abbondante: tutto ciò esala da questi versi[44].

E tutto ciò manca nell'ode del Parini; e con ciò le manca la vita e il colorito; e per ciò ella è inferiore anche a una prosa mezzana dove ci sia almeno un po' di verità; a questo pezzo di lettera, per esempio, di Giuseppe Baretti.

Lasciando Asti al sorgere del sole, non ebbi fatte due miglia che la freschezza dell'atmosfera mi fece scendere dal calesse, invitandomi a camminare un poco a piede. Non si può dire il gusto che avevo, andando cosí passo passo lungo un sentiero che fiancheggia la strada maestra. Queste basse collinette dell'Astigiana non la cedono in bellezza alle piú belle che mai poeti e romanzieri s'abbiano sognato. Alberi fronzutissimi d'ogni banda, cespugli d'avellane, siepi di rose silvestri, macchie di fragranti fiordispini, e praticelli e poggetti coperti d'erbe e di fiorellini d'ogni fatta, e campi ondeggianti di verdi spiche, e vigneti e boscaglie e siepi di mortelle frequentate da infiniti uccelletti che gorgheggiano e cinguettano i loro innocenti amori in mille maniere di musica, fanno, lungo quella via che ho trascorsa pur ora, un molto soave incanto ai sensi d'un viaggiatore. E non voglio lasciare nella penna certi visi semplicemente giocondi e sorridenti di certe villanelle tarchiatotte, che, con canestri al braccio o in capo, se ne venivano verso questo Moncalvo al mercato, e che, a misura che andavo incontrandole, piegavano gentilmente le ginocchia a quel po' di gallone che ho sull'abito. Il vetturino, rallegrato anch'esso dalla dolcezza mattutina che l'intorniava, se ne veniva oltre pian piano cantando, sto per dire come un cucco rauco, certi suoi strambotti in lingua monferrina.[45]

Vien voglia di dare una stretta di mano a questo bravo vetturino, che ci ha liberati alla fine dall'ombra uggiosa di quel villan sollecito. Come quel paesaggio astigiano è dipinto netto ed allegro! come è veramente popolato di gente che si muove e non di marionette! quelle villanelle che accennano l'inchino del ginocchio sono proprio del Settecento e piemontesi: non c'è da sbagliare.

Il Baretti mi riporta a Gaspare Gozzi, che nel 1741, poco dopo o poco prima di quella lettera, lo descriveva così: «quel giovane di Torino, che aveva quel viso di pedale e veniva a visitarci, e cantò una sera all'improvviso con voce infernale...[46] » Il Gozzi ha pur egli una gemma di lettera, salvo alcune affettazioncelle toscanamente accademiche e alcune morbidezze venezievoli. Era a Vicinale nel Friuli, ancor giovine, ancora innamorato della moglie, padre novello, non frusto dal lavoro per la miseria di tutti i giorni, traduceva Plauto e Molière, e scriveva al compare Seghezzi, bembeggiante per le callette di Venezia:

Questa villetta si terrebbe da qualche cosa se un dí la voleste onorare con la presenza vostra; e se il mio piccioletto ospizio vi potesse raccogliere, che allegrezza sarebbe la mia! Oh che canzonette profumate vorrei che noi andassimo alternativamente recitando a mezza voce sulla riva di questa Metuna! Sappiate che per li poeti queste sono arie benedette, e che un miglio lontano da casa mia v'è quel Noncello, sulle rive del quale camminò un tempo il Navagero. Non v'accerto che vi sieno piú dentro le ninfe, come a quei dí; ma vi sono però trote e temoli che vagliono una ninfa l'uno. Orsú via, una barchetta fino alla Fossetta; e poi mettetevi, al nome del Signore, nelle mani d'un vetturale, il quale, quando sarete giunti alla Motta, vi consegnerá a un altro suo collega; e di là a due ore poco piú ritroverete questa villetta di ch'io vi parlo. È vero che la strada è alquanto fastidiosa, perché a voi che siete accostumato alla gloriosa e magnifica Brenta, dove a ogni passo vedete un palagio, parrá facilmente strano il vedere ora casacce diroccate, ora una fila d'alberi lunga lunga, e terra e terra senza un cristiano; ma fra il dormire un pochetto, la scuriada e forse i campanelli al collo de'cavalli potete passare il tempo. Quando poi sarete giunto qui, dieci o dodici rossignuoli nascosti in una siepe vi faranno la prima accoglienza, che mai non avrete udite gole piú soavi. Io sarò all'uscio, e vi correrò incontro a braccia aperte cantando un alleluia. Sarete subito corteggiato da capponi, da anitre, da pollastri e da polli d'India, che vi faranno la ruota intorno come i pavoni. Forse questo vi darà noia, ma bisognerà aver pazienza, perché sarebbe impossibile che queste bestie non volessero venire a dirvi che vi saranno ubbidienti e fedeli, e che hanno voglia di dar la vita per voi, che si lasceranno bollire, infilzare e tagliare a quarti e a squarci. Condottiera di questo esercito è una zoppettina villanella, che mai non vedeste la miglior pasta, perch'ella ama cosí di cuore questi suoi allievi, che ad ogni tirar di collo s'intenerisce, e accompagna la morte de' suoi pollastri figliuoli con qualche lagrimetta. Il bere sarà d'un vino colorito come i rubini, che va in un momento.... Pane abbiamo bianchissimo come neve che fiocchi allora; ma sopra tutto un'allegrezza di cuore, che non si canta sempre, perché la voce manca piú presto della contentezza.[47]

Ha ragione il Gozzi: certe cose non si cantano; e la falsità della poesia italiana degli ultimi secoli ogni qualvolta s'impicciasse della natura, come, imitando i Francesi, cominciavano a dire anche gli arcadi, tanto piú si sente disgustosa e sciapita quando la si paragoni a una prosa, ripeto, anche mezzana. Volete, nel caso stesso della ode pariniana, un paesaggio nell'aerosa larghezza chiaro determinato vivente, un paesaggio visto respirato goduto da un uomo sincero? Coraggio: risaliamo ancora al Cinquecento.

Giorgio Gradenigo, patrizio veneziano (1522-1600), non era già un letterato: fu podestà piú anni in Cividal del Friuli, dove avea poderi; e ci tornava volentieri, e di là scriveva agli amici. Non ha sempre pura la lingua, né sempre elegante la dicitura, e resta qualche volta impacciato dalle consuetudini scolastiche; ma il sentimento e la percezione del vero presto vince la maniera e rompe il ghiaccio e si fa largo fra gli impedimenti del fraseggiare, e trionfa.

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Ieri giunsi a Cividale: voglio dir nel contorno, nell'eterna primavera di Cividale. Vengono a me i pastori e i lenti bifolci dei miei poderi; qual col viso ampio e vermiglio, credo in virtú di uva e di mosto; qual tutto gravido e pieno di cacio e di latte. Quegli con pastoral riverenza s'allegra meco del mio ritorno, e in segno di ciò mi porge un capretto: questi con allegra e compagnevole fronte mi mette innanzi un catino di fresco latte: l'uno m'ingombra le mani pur di cacio, l'altro di funghi. Colui mi dice in sua lingua, e con un moto di corpo esultante ed allegro in suo decoro—Signor, voglio che prendiamo de' tordi e gli godiamo insieme—: quell'altro mi dice voler ch'io vada con lui alla caccia, e potermi dare allora un lepre a cavalieri. Se ne vengono poi le pastorelle: una delle quali è bella qual altra mi ricorda aver veduta giammai: vince di bianchezza il latte; e il vermiglio che le sparge le guance sembra le rose e l'uva matura. Queste portano a me il grembo e le mani piene d'uva; e donandomi diverse maniere di frutta, mi salutano, s'allegrano e mi ricevono con una rozzezza pastorale amabile e cara oltre ad ogni altra. M'hanno detto tutte, con istudio d'esser ciascuna di loro la prima a portarmi questa buona nuova, che giovedí vegnente e domenica seguente si fanno due belle feste vicino di qui a due miglia e che esse ancora vi vogliono essere.

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Iersera giunsi di Cividale con l'animo fatto sereno e col corpo ridotto a migliore stato che prima. Per certo, bel sito di città, bei colli, bel paese: non si può desiderar meglio! Non potreste credere quanti spirti vitali mi sieno passati al cuore, quanta malinconia mi sia uscita del petto nel mandar la vista per quei prati, per quei colli, per quelle rive. Non è poggio nel contorno di Cividale ch'io non l'abbia voluto ascendere, e ch'io non v'abbia dimorato le ore per pascere la vista di quell'amabile e grazioso aspetto che porta seco il nascer dell'aurora e del sole in quel paese. Avreste veduto prima le sommità dei monti piú alti tingersi a poco a poco di giallo, e poco appresso, ferite dal sole nascente, diventare di color d'oro, ed in ispazio d'altrettanto i colli poco rilevati dal piano esser ancora essi indorati dal sole con maravigliosa vaghezza. La quale si fa maggiore doppiamente di quella dell'Alpi, per esser i colli pieni di vigne e d'arbuscelli fruttiferi posti a lungo sopra gradi incavati nel terreno in guisa di teatro, successivamente l'un sopra l'altro: le quali vigne e arbuscelli par che con le loro ombre facciano contrasto al sole che non allumi il terreno; e ciò facendo, avviene cosa mirabile da vedere, che egli illustra la parte superiore sí che par tutta d'oro, e, penetrando per le foglie tinte di rugiada e mosse leggermente da un poco di soave aura tra le ombre di tutto l'arbore, rappresenta nel terreno alcuni splendori tremolanti e certi lumi in forma lunga, che paiono vene e verghe d'oro purissimo. Né minor vaghezza porta seco poi il percuotere che fa il sole nelle ghiare de' torrenti che discendono da' monti il verno piovoso, perché, illustrate da nuovo e chiaro splendore, le pietre maggiori sembrano rubini orientali, e l'arena, quella di Tago e di Pattòlo. Quanto respiramento credete che apporti poi all'animo il volger la vista d'intorno e vedersi vicino agli occhi per ispazio d'un mezzo miglio la città di Cividale!... Veder poi il Natisone, che le passa per mezzo, discender con acque purissime e limpidissime, e aversi fatto un letto fra monti e dirupi largo e profondo. Se voi vedeste le caverne e gli antri che la natura o il fiume ha fatto in quei sassi, la grandezza de gli scogli che sono nel mezzo, la profondità delle sponde all'acqua, gli edifizi che posti all'estremità delle rive pendono sopra il fiume, la bellezza d'un ponte di pietra che con due archi appoggiati ad uno scoglio, che è nel mezzo del fiume, con ampia altezza e larghezza dà passaggio comodo a' viandanti e abitatori della città, direste tutto sospeso e sopra di voi: Questa è cosa notabile e meravigliosa. Stendendo poi la vista piú oltre sopra lo spazio di una pianura d'intorno otto miglia, si vede la città di Udine: il cui castello posto sopra un monte di mediocre altezza e nell'ombilico della Patria rappresenta un aspetto piacevolo e novo. Volgete poi gli occhi alla parte di mezzogiorno, cioè verso il mare: voi vi godete la vista infinita e il piacere che porta seco la cultura de' campi, lo stendersi de' piani e il pascere degli armenti: godete d'appresso Rosazzo, abbazia coronata di colli bellissimi ed amenissimi: un poco di lontano il sito di Aquileia, quel di Monfalcone, ed altri che il narrarli saría cosa lunga e soverchia. Se piegate il volto poi un poco verso oriente, vi si fa innanzi il paese che si chiama Colli; cioè un numero infinito di monticelli cólti, che posti l'un dietro l'altro nelle lor cime paiono onde di mare che si movano piacevolmente. Quindi girando gli occhi verso tramontana, ove la vista è terminata dall'Alpi vicine, scoprite valli, selve, dirupi, aperture di monti; ed abbassando gli occhi alle radici loro, ecco poggi piacevoli da salire, pieni di vigne e di varie maniere di frutti. È cosa incredibile il desiderio che mettono quei bei prati di camminarvi e sedervi sopra, posti in riva e sotto quei monticelli, partiti da quei cespugli, col loro piano pieno di fiori di mille colori, simili a tappeti finissimi che vengono di Levante. A queste cose s'aggiunge l'udir eco rispondere da molte parti a un confuso suon di campane, a varie e diverse voci di animali, al cantar di pastorelle e pastori; l'udir similmente il canto di mille vari uccelli, sentir gli uccellatori, qual con foglia, qual con fischio, rappresentar le loro voci sí gentilmente, che di lor ne fanno abondanti e sollazzevoli prede. Ma che dirò io del respiramento che viene al core dalla bontà e purità di quest'aere?... Oh come interamente ho goduto la parte mia! oh come gustevolmente la sera fin alle due ore passava tempo in diportarmi per prati e pianure vicino al mio albergo! e nel respirare e prender fiato sentiva soavemente entrarmi un non so che di odorifero e spiritale nel petto. La mattina poi l'aurora non mi coglieva in letto giammai. Riducendo le molte parole in una, a Cividale il sole mi è paruto piú splendente che in altro luogo, il cielo piú azzurro, le stelle piú luminose. Gli uomini, domandati del male dello stomaco, dicono che non lo conobbero mai, e si sputa di rado, se non quando si vuole assaggiare qualche buon vino. E vanne via, maninconia.[48]

Conchiudendo: che rimane dell'ode del Parini dinanzi a questa prosa? Nulla, e peggio che nulla. Vorremo dire però che l'abate brianzolo non avesse il sentimento della natura? No, perché certi tócchi di altre odi e certi paesaggi, almeno un paesaggio, del Giorno, provano il contrario. Vorremo dire che G. G. Rousseau non aveva ancora spalancata la finestra per far respirare una boccata d'aria fresca alla gente del Settecento tappata nei salotti, e che il sentimento della natura mancava in generale agli scrittori di quella età? No, perché il Baretti e il Gozzi, mi pare, descrivevano alla brava e con un vigore di verità ignoto ai sentimentalisti della scuola del Rousseau che abbondarono poi anche in Italia. Diciamo piú tosto che la forma lirica accolta dal Parini non si prestava all'uopo, che egli stesso non era anche uscito fuori del tutto dalle consuetudini delle accademiche lucidazioni, e, piú d'altro, ch'egli non era il poeta da compiacersi e trovarsi bene della vita rustica o della libertà campestre; che la natura l'educazione i casi il contorno lo avevano fatto poeta di città e di società, poeta dei contrasti e delle antitesi civili e sociali. Per ciò l'ode, con la quale parrà troppa la nostra severità, letta in casa Imbonati, a un pranzo o ad una cena di Trasformati, fra i sorbetti, fu bella; oggi non ne riman viva che una strofe: tutta intera non è il manifesto della lirica pariniana, né può figurare tra i migliori esempi della poesia italiana moderna.

III.

IL BRINDISI.

Fu composto, secondo rilevò dai manoscritti il Salveraglio, nel 1778[49], che il poeta aveva quarantanove anni.

È l'addio alla gioventú e all'amore: ha solo qualche somiglianza di occasione e di circostanze con qualche scolio anacreontico, ma l'intonazione è oraziana,

Eheu fugaces, Postume, Postume, Labuntur anni...

oraziano il motivo

Intermissa, Venus, diu Rursus bella moves? Parce, precor, precor. Non sum qualis eram bonae Sub regno Cinarae. Desine, dulcium

Mater saeva Cupidinum, Circa lustra decem flectere mollibus Jam durum imperiis: abi Quo blandae invenum te revocant preces[50].

(Venere, tu ripigli dunque le guerre giá da tempo dismesse? Risparmiami, prego, risparmiami. Non sono quale io era sotto il regno di Cinara bella. Lascia, o fiera madre de' soavi amori, di volermi, già indurito dal decimo lustro, piegare ai morbidi imperii: va dove carezzevoli t'invocano le preghiere de' giovini).

Le strofe del Brindisi —doppie, cioè a due periodi, ciascuno di quattro settenari—sono dello stesso metro già aggraziato per la musica dal Rolli e trattato insuperabilmente dal Metastasio nella canzonetta Grazie agl'inganni tuoi. Sono dello stesso metro, se non in quanto il Frugoni, materialissimo ma pur tecnico rinnovatore di colori e di suoni, lo modificò rendendo sdrucciolo il primo verso d'ogni periodo tetrastico e aggiungendogli cosí pe 'l concitamento dell'ode quell'agilità e sveltezza di mosse che nell'ondeggiamento melodico della canzonetta non potea avere. Il Frugoni, rinnovatolo in questa guisa, ne abusò per tutti gli argomenti, di nozze, di monacazioni e di lauree; un po' meglio lo usò nella ninna nanna alla culla del real principe di Parma don Ferdinando.

Venite, o sonni placidi, Venite al canto mio; Addormentar vogl'io Il pargoletto amor.

È desso a quelle rosee Labbra, a quel vago riso, Al leggiadretto viso, Al guardo feritor.

Di questa sorta di dolcezze e di vezzi si usava allora co' principini. Chi avesse detto al Frugoni che quel bamberottolo cosí carino sarebbe cresciuto uomo molto gaglioffo, per quanto bonaccione! Per il poeta sarebbe stato lo stesso: a ogni modo dovea fare la canzonetta. E séguita verseggiando alle care pupille:

Adesso deh chiudetevi In placido riposo: In voi bello e vezzoso Il sonno ancor sarà.

Sparso di fresca ambrosia All'aurea culla intorno Vago sonnino adorno L'ali scotendo va.

Cento sognetti il seguono Figli dell'alma Aurora, A cui le penne indora A pena nato il dí.

Ciascun di lieto augurio Fedele apportatore Vorrebbe dirgli al core: Le cose andran cosí.

Chi regni e chi vittorie, L'un pace e l'altro guerra. Or questa or quella terra Sembrano disegnar.

Sí proprio: tutta la faccenda di quel povero Borboncello fu di essere ballottato da prima fra la moglie Maria Amalia, e il Du Tillot nella lotta co' preti ch'egli non voleva fare, ballottato in fine tra la Spagna e la Francia repubblicana per un mutamento e allargamento di dominio che egli non volea avere, preferendo a tutto lo starsene in Colorno a cantare in coro co' frati.

Ma cedon tutti e sgombrano A un gentil sogno vago, Che la materna immago Studiato ha di formar.

Questo piú dolce rendere Sa al pargoletto il sonno: Gli altri turbar lo ponno, Questo il piú accorto fu.

Tacete, o versi garruli, Ché delle amate forme Sogna il fanciullo e dorme: Voi non cantate piú.[51]

Cotesto metro il Parini elesse con ottimo accorgimento a rappresentare il moto rapido d'un sentimento improvviso e la concitazione bacchica; nessuno prima di lui lo aveva trattato sí bene, nessuno dopo lo maneggiò meglio. Il povero Leopardi, forse per mostrare al volgo de' leggiucchiatori, che si dichiarava annoiato delle sue lungaggini, come sapesse al caso fare anche strofette, verseggiò cosí il Risorgimento; ma ahi, in quei versi né l'anima ferita del Leopardi né l'allegro metro del secolo decimottavo risorsero.

Del Brindisi i due momenti propriamente lirici sono la protasi o proposta (1-16) e l'apodosi o conchiusione (41-56), fra i quali è un intermezzo (16-40) un po' discorsivo.

Conciso, animato, rapido il primo momento:

Volano i giorni rapidi Del caro viver mio, E giunta in sul pendío 4 Precipita l'etá.

Le belle oimé che al fingere Han lingua cosí presta Sol mi ripeton questa 8 Ingrata verità.

Con quelle occhiate mutole, Con quel contegno avaro Mi dicono assai chiaro: 12 Noi non siam piú per te.

E fuggono e folleggiano Tra gioventú vivace, E rendonvi loquace 16 L'occhio, la mano e il piè.

Versi di squisita fattura, eccetto forse il quindicesimo, ove il rendonvi è per lo meno inelegante nel senso di fanno e la particella vi apposta non parrebbe usata rettamente e correttamente a determinare una specie di stato in luogo di gioventù vivace: tant'è vero che il poeta da prima aveva scritto E rendono loquace, ma è anche vero che quel rendono cosí solo sembrava sospeso in aria o smarrito. Le varianti, del resto, e le prime lezioni in questi versi sono poche o di poco momento: segno che vennero di gétto.

Eccoci all'intermezzo.

Che far? degg'io di lacrime Bagnar per questo il ciglio? Ah, no; miglior consiglio 20 È di godere ancor.

E il consiglio di Anacreonte: «Mi dicono le femmine—Anacreonte, se'vecchio: prendi lo specchio, mira, non ci son piú capelli, la fronte è pelata.—Per i capelli, se ci sono o se ne andarono, io non lo so: questo ben so, che a un vecchio tanto piú sta bene lo scherzar co' piaceri quanto piú gli è presso la Parca».[52]

Se giá di mirti teneri Colsi mia parte in Gnido, Lasciamo che a quel lido 24 Vada con altri Amor.

È delle solite allegorie del vecchio fondo dei poemi d'amore del secolo XIV e dei romanzi della Scudèry del XVII passate nel linguaggio poetico dell'Arcadia.

Dove il mar bagna e circonda Cipro cara a Citerea, Lungo il margin della sponda Bella nave io star vedea.

Cosí il Frugoni, e altrove ripigliava invitando:

La bella nave é pronta; Ecco le sponde e il lido Dove nocchier Cupido, Belle v'invita al mar...

Al mare, ei grida, al mare, Belle che mi seguite: Meco a imparar venite L'arte che detta Amor.[53]

Nei versi del Parini stan male quei mirti teneri, per un difetto anche piú grave di quello che tutti sentiranno nella ripetizione del suono dentale: ed è, che l'aggiunta di teneri, conveniente al termine reale morale (amore) dell'allegoria, non si affà, anzi ripugna, al termine figurato sensibile ( mirti ). E un cotal poco strascicate nel manierismo anacreontico appaiono anche le strofe seguenti, ove con elle è una peregrinità pesante, ed è lungo Or di cantar dilettami Tra' miei giocondi amici; ma non mancano i versi belli, che lascerò ammirare ai lettori, contentandomi io a fare la parte dell'avvocato del diavolo.

Volgan le spalle candide Volgano a me le belle: Ogni piacer con elle 28 Non se ne parte al fin.

A Bacco, all'Amicizia Sacro i venturi giorni. Cadano i mirti, e s'orni 32 D'ellera il misto crin.

Che fai su questa cetera, Corda che amor sonasti? Male al tenor contrasti 36 Del novo mio piacer.

Or di cantar dilettami Tra' miei giocondi amici, Augúri a lor felici Versando dal bicchier

Tutto lirico e veramente di getto il momento ultimo.

Fugge la instabil Venere Con la stagion de' fiori: Ma tu Lieo ristori 44 Quando il dicembre uscì.

Amor con l'età fervida Convien che si dilegue; Ma l'amistà ne segue 48 Fino a l'estremo dí.

Il poeta aveva da principio scritto, Ma tu Lieo dimori Quando il dicembre uscí; e il dimorar di Lieo rispondeva meglio, a dir vero, al fuggire di Venere, ma troppo era freddo; anzi, col quando e il dicembre parevan tutt'insieme battere i denti.

Le belle, ch'or s'involano Schife da noi lontano, Verranci allor pian piano 52 Lor brindisi ad offrir.

E noi, compagni amabili, Che far con esse allora? Seco un bicchiere ancora 56 Bevere, e poi morir.

Bevere e poi morir!

E dire che il pensiero della morte, assiduo o imminente ospite tra i diletti che infioran la vita, e il pensiero del distacco inevitabile imperioso repente dalle piacevoli contingenze del mondo, ha un contorno piú vivo, un'espressione piú mesta, un compianto dalle profondità del senso umano piú vero, nella poesia d'Orazio, che non in questa di questo prete cristiano e poeta civile! «Qui dove il pino dalla larga chioma e il bianco pioppo maritano con gli associati rami l'ombra ospitale, e l'acqua del rivo affrettasi in fuga pe'l sinuoso letto mormomorando; qui fa recare vini e profumi e i fiori ahi troppo brevi dell'amena rosa, mentre la fortuna e l'età e gli stami delle fatali sorelle il concedono. Ti bisognerà lasciare i grandi parchi e la casa e la villa bagnata dalla bionda corrente del Tevere; e un erede s'impadronirà delle ammontate dovizie» ....«Addio terreni e casa, addio moglie piacente! Di questi alberi che tu coltivi, soli gli odiosi cipressi seguiranno il lor signore d'un giorno»[54]. E che versi quelli di Orazio!

Quo pinus ingens albaque populus Umbram hospitalem consociare amant Ramis, quo et obliquo laborat Lympha fugax trepidare rivo,

Huc vina et unguenta et nimium breves Flores amoenae ferre iube rosae...

E come al confronto il classicismo del secolo passato è liso e frusto, o, meglio casca a pezzi fracidi quasi carta a fiorami muffita per umido!

Bevere e poi morir!

L'abbiamo dunque còlto l'abate Parini nel momento di fare o dire, senza di certo accorgersene, senza rendersene conto, egli, l'autore del Giorno e delle Odi civili, il credo, l'atto di fede, il testamento di quella società leggera, frivola, egoista, corrotta, della quale egli si vantò e fu vantato il piú nobile inimico, e fu certo de' piú operosi guastatori. Il prete ambrosiano, quegli che nel capitolo al canonico Agudio, troppo ammirato come documento di povertà degna, confessava, Limosina di mésse Dio sa quando Ne toccherò, trovò dunque pe' contemporanei e lasciò ai posteri nel Brindisi la vera e genuina espressione dell'epicureismo galante di quella società che ebbe per legittimo re Luigi xv e per vangelo il suo Après moi le deluge, di quella generazione cui le ruine della Rivoluzione ferirono impavida, minuettante e versante champagne alle impudiche sue donne. Pochi mesi dopo scritta quest'ode, l'anno 1779, Giuseppe ii, occupando la Boemia e pigliando guerra col vecchio Federico, e non piú celando gli intenti di arrotondare i dominii italiani a spese de' vicini, anche del papa, e di riformare a dispotica unità gli stati di oltr'alpe, mandava i primi lampi dell'irrequieto ingegno, che fiutó, quasi volendo farla cesarea, la rivoluzione; Luigi xvi sottoscriveva il trattato d'alleanza offensiva e difensiva coi cittadini degli Stati Uniti d'America, e pochi mesi prima il marchese di La Fayette era passato al soccorso di quei repubblicani non senza fornimenti d'armi e d'artiglierie dal re di Francia.

Morire. Di certo fra tredici anni, sotto la scure umanamente riformata dal dottor Guillotin filantropo, dame, cavalieri, filosofi, poeti, tutto ciò che adesso brilla e balla e beve e canta ed ama. E per ciò, in capo a trent'anni da cotesta ode, l'addio alla gioventú e all'amore prenderà ben altre intonazioni nel romanticismo conseguente agli strazi della Rivoluzione e alle disillusioni della Ristorazione. Fino Vincenzo Monti apre il secolo decimonono con un presentimento della crescente tristezza:

Fior di mia gioventute, Tu se' morto, né magico Carme, ahi, piú ti ravviva, o fior gentile[55].

E la intensità della tristezza ingrandiva piú sempre fino all'irrigidimento della disperazione nella poesia leopardiana del male e del dolore.

Dal Brindisi al Tramonto della luna, qual passo! Si sente bene che in questo mezzo tutta insieme una società è crollata. Non però che la nuova generazione romantica e leopardiana sia piú nel vero moralmente che i vecchi epicurei del secolo passato. Non è mica una gran trovata che la fine alle altre età della vita è la sepoltura. Sta a vedere se, passata la gioventú, non sia piú virile e piú umano affrontare le dure pugne del reale per l'ideale, anzi che passarsela a frignare sulla caduta del fior degli anni e degli ameni inganni, quasi che l'anima umana sia uno stupido uccello che per cantare abbia bisogno d'inghebbiar nebbia e libar, come dicono, la rugiada dai fiori. Questo non per il Leopardi—intendon bene i discreti—il quale fu un gran poeta grandemente infermo; ma per i leopardiani. Che se ve ne sono ancora degli intignati che si ritingano nei colori di moda, bisognerebbe rincorrerli a scapaccioni fino alla porta d'una pia casa di lavoro.

Ma torniamo al secolo decimottavo, fuori per altro d'Italia.

Il Voltaire, a quarantasette anni, nelle stesse condizioni d'animo e di pensiero che il Parini, scrisse le stanze alla signora Du Châtelet, delle piú ammirabili fra le mirabili pièces fugitives di quel vivissimo ingegno a cui la Musa negando l' os magna sonaturum concesse il tenuem spiritum come a pochissimi de' suoi piú favoriti. Quelle stanze, nella prima parte, se non fosse certa pesantezza qua e là di forme stilistiche proprie del secolo e anche certa prosaicità della lingua francese, sarebbero del piú puro Orazio: nella seconda parte son tutte francesi, cioè hanno una cotal punta di quella maniera che non manca quasi mai alla poesia ed anche alla prosa francese, ma è una maniera cosí graziosa, e la graziosità è cosí tenera e delicata, che, senza piú, incanta, pure sforzando a sospirare.

Si vous voulez que j'aime encore, Rendez-moi l'âge des amours; Au crépuscule de mes jours Rejoignez, s'il se peut, l'aurore.

La mossa è anche qui oraziana,

Quod si me noles usquam discedere, reddes Forte latus, nigros angusta fronte capillos, Reddes dulce loqui, reddes ridere decorum et Inter vina fugam Cinarae moerere protervae.[56]

(Che se non vuoi che io mi stacchi mai da te, rendimi il fianco gagliardo, i capelli che ombreggino neri la fronte, rendimi il dolce favellare e il rider grazioso e il sapermi lamentar tra i bicchieri della fuga di Cinara capricciosa).

Ma la plasticità romana di Orazio è, e doveva essere, smorzata e smussata nella causerie dello spirito francese.

Des beaux lieux où le dieu du vin Avec l'Amour tient son empire, Le Temps, qui me prend par la main, M'avertit que je me retire.

De son inflexible rigueur Tirons au moins quelque avantage: Qui n'a pas l'esprit de son âge, De son âge a tout le malheur.

Laissons à la belle jeunesse Ses folâtres emportemens. Nous ne vivons que deux moments: Qu'il en soit un pour la sagesse.

Quoi! pour toujours vous me fuyez. Tendresse, illusion, folie, Dons du ciel qui me consoliez Des amertumes de la vie!

On meurt deux fois, je le vois bien: Cesser d'aimer et d'être aimable, C'est une mort insupportable; Cesser de vivre, ce n'est rien.

Certi pesanti illustratori delle poesie leggiere di Voltaire, il Rivarol li paragonava ai commessi di dogana che marchiano co' loro piombi i veli d'Italia: sarà dunque meglio passare senza commenti alla seconda parte, che è anche piú bella, a parer mio, della prima.

Ainsi je déplorais la perte Des erreurs de mes premiers ans; Et mon âme, aux désirs ouverte, Regrettait ses égarements.

Du ciel alors daignant descendre, L'Amitié vint à mon secours: Elle était peut-être aussi tendre, Mais moins vive que les Amours.

Touché de sa beauté nouvelle, Et de sa lumière éclairé, Je la suivis; mais je pleurai De ne pouvoir plus suivre qu'elle.[57]

La signora di Staël nell' Allemagna volle contrapporre per certo modo alle stanze del Voltaire Gl'Ideali di Federico Schiller, non tanto insistendo su 'l paragone, quanto rilevando i modi di sentire e fare del poeta tedesco e le proprietà di quel, per cosí dire, romanticismo classico e filosofico, che s'intendeva dedurre dagli esempi di lui e d'altri grandi coetanei. «Nel poeta francese—scrive la Staël—è la espressione d'un amabile rammarico del venir meno i piaceri dell'amore e le gioie della vita: il poeta tedesco piange la perdita dell'entusiasmo e dell'innocente purezza dei pensieri della gioventú, e pur si lusinga di ancora abbellire con la poesia e col pensiero il declinare degli anni. Le stanze dello Schiller non hanno la facile e brillante chiarezza d'un ingegno agile e aperto a tutti; ma vi si può attingere di quelle consolazioni che operano intimamente su l'anima. I più profondi pensieri Federico Schiller presenta vestiti sempre di nobili imagini: egli parla all'uomo come proprio la natura, perché la natura è insieme pensiero e poesia. Per dipingerci la idea del tempo ella ci fa scorrere dinanzi gli occhi le onde d'un fiume che pure non resta mai; e perché la eterna sua giovinezza faccia a noi pensare la nostra esistenza passeggera, ella si veste di fiori che han da perire, ella fa nell'autunno cadere dagli alberi le foglie che primavera vide in tutto il loro splendore. La poesia deve essere lo specchio terrestre della divinità e riflettere con i colori con i suoni e i ritmi tutte le bellezze dell'universo.»[58]

Che che sia da pensare di questo misticismo filosofico o di questo panteismo poetico, e lasciando stare la questione s'ei possa divenir mai fondamento saldo della critica e della estetica o condizione unica dell'arte, certo è che esso esulta potente nella poesia in generale dello Schiller e che Gli Ideali particolarmente, composti nell'estate del 1796, sono una poesia, anche nella significazione individuale, molto nobile. Fu da più d'uno fatta italiana, e con armoniosa larghezza da Andrea Maffei; ma, se ai lettori non spiaccia, io terrei a rappresentare in nuda prosa la potenza, non forse senza difetti, della composizione tedesca.

Tu vuoi dunque partirti, infedele, da me con le tue leggiadre fantasie? tu vuoi con le tue pene, con le gioie, con tutto, inesorabile, fuggire? Nulla dunque può indugiarti fuggente, o età dell'oro della mia vita? In vano! le tue onde si affrettano giú al mare dell'eternità.

Sono spenti gli allegri soli che rischiararono il sentiero della mia gioventú; svaniti gli ideali che un tempo mi facevano sobbalzare il cuore inebriato; è sparita la dolce fede in esseri che i miei sogni aveano partoriti: preda alla rozza realità ciò che un tempo fu cosí bello, cosí divino.

Come un giorno Pigmalione abbracciò con súpplici desidèri la pietra fin che il sentimento traboccò nelle fredde guance del marmo infiammando; cosí io con giovanile talento avvolsi le braccia dell'amor mio intorno alla natura fin che ella cominciò a respirare, a riscaldarsi sul mio petto di poeta,

e fin che partecipando il mio ardore ella già muta trovò pur la favella e inteso il bàttito del cuor mio mi rese il bacio d'amore: allora visse a me l'albero, visse la rosa; a me cantò l'argentea cascata del fonte; sin la cosa inanimata senti l'eco della mia vita.

Un movente universo premeva con impulso onnipossente l'angusto mio petto, per prorompere nella vita, in parola e opera, in imagine e suono. Come grande era in formazione cotesto mondo fin che il bocciuolo lo avvolse! come poco fu allo sbocciare, come picciolo e scarso!

Come slanciavasi alato d'audacia, beato nella illusione del suo sogno, da niuna cura ancora imbrigliato, lo spirito giovanile spinto nella via della vita! Sino alle più pallide stelle del lontano etere lo inalzava il volo dei propositi: nulla era sí alto e nulla sí lontano che l'ale no 'l vi portassero.

E come di leggeri portato! Che v'era di troppo difficile per lui felice? Come danzava avanti al carro della vita l'aerea compagnia! l'Amore con la sua dolce mercede, la fortuna con la sua corona d'oro, con la sua corona di stelle la Gloria, la Verità nello splendore del sole!

Ma ahimè! io non sono anche a mezzo del cammino, e le scorte già si perderono; rivolsero indietro i passi, e l'un dopo l'altra sparirono. Leggera su' piedi volò via la Fortuna, la sete del sapere restò insaziata, il fosco nuvolato del dubbio si distese su la imagine solare della Verità.

Io vidi le sante corone della Gloria sconsacrate su fronti volgari. Troppo presto, ahimè!, dopo breve primavera s'involò il bel tempo d'amore. E sempre piú silenzioso e sempre più deserto tutto facevasi intorno per l'aspro sentiero: a pena che la speranza gittasse ancora un pallido raggio su la tenebra del cammino.

Di tutta la numerosa compagnia chi mi sta ancora amorevole appresso? Chi mi sta ancora consolatore al fianco, e mi seguirà fino alla cupa dimora? Tu, che sani tutte ferite, leggera tenera mano dell'amicizia, che amorosa partecipi i pesi della vita, tu che io di buon ora cercai e trovai.

E tu, o studio, che volentieri a lei ti mariti, e scongiuri, come essa, le tempeste del cuore: tu che non ti stanchi mai, che lento costruisci, ma non mai distruggi, che per l'edifizio della eternità rechi un grano di sabbia dopo l'altro, ma cancelli dal gran conto del tempo minuti, ore, anni.[59]

Un letterato lombardo, oggi dimenticato, che nel 1832 pubblicò un saggio di poesie alemanne tradotte, e fra queste Gli Ideali in ottava rima, fece delle stanze del Voltaire, dell'ode del Parini e dell'elegia dello Schiller un raffronto che si può non senza piacere rileggere anche oggi: «Le stanze di Voltaire tengono come il dimezzo fra quelle di Schiller e di Parini. Tempera Voltaire la libera popolarità di Parini e la severa filosofia di Schiller con la eleganza e con la grazia dei modi francesi e con lo spirito amabile di quella nazione; corregge la gioia quasi clamorosa del primo e la malinconia un po' cupa del secondo con una tinta di malinconia piú delicata e col tócco magico del sentimento. La poesia di Parini è un vero brindisi, sgombra dall'animo ogni cura e ci ispira tripudio. Quella di Voltaire ci scende dolcemente fino al cuore, c'invita all'abbandono, ad andare vagando dietro ai nostri pensieri, e ci lascia come in una cara estasi di malinconia soave. Effetto è questo veramente strano, se si pensa che parte da quell'arguto cinico di Voltaire. Le strofe di Schiller ci concentrano in noi stessi, ci fanno fissare la mente in pensamenti profondi, dai quali scaturisce una consolazione severa sí ma solida, senza illusione, appoggiata alla realtà. E degno è poi di osservazione che Voltaire e Parini sembrano avere dettate le poesie loro in una età piú tosto avanzata, Schiller dettava la sua tanto severa nella ancor fresca età di 36 anni, e sembrava presagire che altri soli dieci glie ne rimanevano di vita»[60].

Conchiudendo per conto mio: le due poesie del Voltaire e del Parini non hanno, specie la seconda, oltre l'artistico, un valore umano: quella dello Schiller sí. Lette le due prime, voi potete, riportandovi in voi, dire—Io non farò mai di cosí bei versi:—letta la terza, voi potete pensare—Questo è un alto documento della dignità e serietà della vita, che posso anche io seguire.

Se non che sarebbe questo un troppo pretendere da versi come quelli del Parini, che sono bensí un addio alla gioventú e all'amore, ma anche un brindisi. E come tale l'ode del Parini vuole anche esser considerata da parte e per un altro lato nella produzione lirica italiana.

L'Italia, Oenotria, la terra del vino, non ha la poesia del vino; come fervida voluttuosa serena l'ebbe la Grecia, come giocondamente borghese la Francia, come fantasticamente cordiale la Germania. Il popolo italiano, oltre che di natura è piú generalmente sobrio che non paia (ne chiedo perdono ai bolognesi e ai milanesi che oggi trionfano del Santo Natale), ama anche di star su le sue, su le grazie, su le gale; non ama abbandonarsi neanche in poesia, perché in vino veritas. Il popolo italiano oggigiorno fa e ode, quanti niun altro popolo mai, brindisi-discorsi, politici, scientifici, artistici, economici, industriali; e com'è naturalmente ed utilmente scettico, cosí egli sa bene che tutta quella chiacchiera, novantanove su cento, è per darsi la polvere negli occhi gli uni agli altri, per adularsi in faccia gli uni gli altri e farsi poi lo sgambetto, per imbrogliarsi gli uni gli altri; ed egli, artista consumato in machiavellismo, si gode alle sottigliezze con le quali e fra le quali svolgesi o avvolgesi l'imbroglio, e giudica da maestro i colpi dei toreadores della menzogna; gode, e giudica, superiormente, come Nicolò Machiavelli descriveva i modi tenuti dal duca Valentino per ammazzare Vitellozzo Vitelli e compagni. Ma il popolo italiano, né anche fra i tanti sonetti e capitoli e ballate e frottole su' beoni, dei secoli piú originali, non ha un vero canto popolare convivale o bacchico, vero, espansivo, cordiale.

Nel secolo del Parini chi ne diè qualche saggio, imitando non male la galante spigliatezza delle chansons à boire francesi, fu il Rolli, nato, per vero, di padre borgognone. Anche nelle sue canzonette, come nelle francesi, e piú che negli scolii greci, il vino s'accorda all'amore e la nota epicurea prevale.

Beviam, o Dori, godiam, ché il giorno Presto è al ritorno, presto al partir: Di giovinezza godiamo il fiore, Sian l'ultim'ore tarde a venir...

Versa, Fiammetta, vezzosa figlia, Quella bottiglia di vin clarè: Duchi e regnanti or non vogl'io, Ma sol, ben mio, brindisi a te....

Oh come, o bella, l'ardor dei vini Piú corallini tuoi labbri fa! Bacco vi stilla soave umore Di un tal sapore che Amor non ha...

Altri versi del Rolli mostrano qual canzonier popolare sarebbe egli riuscito in tempi migliori: di rado, salvo forse in qualche aria del Metastasio, la facilità scorrente e sonora dei settenari ebbe una intonazione corale piena e colorita come in queste strofe qui:

Compagni, Amor lasciate: Sofferto io l'ho abbastanza: È pien di stravaganza E di difficoltà.

Troppo il suo ben si stenta; E quando poi s'ottiene, In un momento viene E in un momento va.

In buona compagnia Un fiasco di sciampagna, Che i labbri e il cor vi bagna Col vivo suo liquor,

Smorzata pria la fiamma D'ogni penoso affetto, Pone la gioia in petto E l'allegria nel cor.

Individuale in vece, ma di movimento lirico piú intimo, e spumanti come il buon vino, queste altre:

Un vaso cristallin Ripieno di buon vin, Numi immortali!,

È don celeste in ver, Se apporta col piacer L'oblio dei mali.

Nel compiacermi in te Son come il tuo gran re, Vin di Borgogna.

Ripien del tuo vigor D'aver quant'ama il cor La notte sogna.

Oh come è bel mirar La spuma che in versar Gorgoglia fuora,

E in un istante ancor Lo spirto del liquor Che la divora![61]

Ma chi volesse vedere un saggio o un cenno o un esempio del come sarebbe riuscita la canzone convivale nel vero sentimento popolare italiano, gli bisognerà ricorrere a un marchese erudito, a un marchese tragico, a un marchese che sapeva di latino, di greco, di ebraico, di tedesco, e volea sapere, credo, anche di etrusco, al marchese Scipione Maffei. Il quale del resto da giovane fu anche soldato, e nel 1704 prese parte alla battaglia di Donawerth sotto un suo fratello generale al servizio della Baviera e autore di Memorie che nessuno più legge e che sono tutt'altro che spregevoli. Nella sua vita militare l'autore della Merope e della Verona illustrata scrisse canzonette da tavola adattate a certe arie. Eccone una:

Amici, amici, è in tavola; Lasciate tante chiacchiere; Tutti i pensier se 'n vadano, Se 'n vadan via di qua. Che il cielo sia sereno, Che sia di nubi pieno. Buon tempo qui sarà.

Quand'io mi trovo a tavola, Non cedo al re del Messico, Né mai pensier di debiti Allor mi viene in cor. Segghiamo allegramente, Godiam tranquillamente, Ci pensi il creditor.

Ch'arrabbin questi economi C'han sempre il viso torbido! Per gli anni c'hanno a nascere Tesoro io non farò. Ch'io serbi per dimani? Follia! che san gl'insani Diman s'io vi sarò!

Ma se a noi fan rimprovero Che siamo a mangiar dediti. Non mangiam senza bevere, Ché non è sanità. Qua coppe, qua bicchieri, Vin bianchi, vini neri: Quest'è felicità.

Un tempo era il mio genio Languir per un bel ciglio: Error degli anni teneri, Pazzia di gioventú! Quant'è miglior diletto! Versar dentro il suo petto Due fiaschi e forse più.

L'amore ci fa piangere E 'l vino ci fa ridere: Cui piace Amor lo séguiti. Ché il vino io seguirò. La dama, con sua pace, Allora sol mi piace. Che brindisi le fo[62].

Non in tutto eguale. Ma Plauto l'avrebbe scritta cosí, e cosí l'avrebbero scritta i ballatisti del Quattrocento, del secolo in cui l'arte, come espressione del popolo italiano, fu piú sincera, piú rilevata, piú, direi anche, originale, sí nella scultura e nella pittura, sí nella poesia.

Per trovare in questo genere qualche cosa di piú fine che non la canzone da tavola del Maffei, di piú vario che non le canzonette del Rolli, di piú nuovo che non il Brindisi del Parini, bisogna pur troppo tornare indietro, molto indietro; ricorrere a quell'artefice superiore che seppe albergare sí buon sangue greco nella polpa romana, ad Orazio.

Era fra il 725 e il 730 di Roma; quando, chiuso Giano, dedicato il tempio di Apolline Palatino ed il Pantheon, la terra pacata lasciava al felice Ottaviano, quasi cacce a divertirsi dalle cure della repubblica, le sole guerre con i Cantabri ed i Salassi, e permetteva alla poesia imperiale et iuvenum curas et libera vina referre. Orazio, poeta di moda, frequentava ancora e celebrava i lieti banchetti. In alcuno dei quali una volta, avendo i commensali alzato un po' il gomito e troppo dimesticamente essendosi affrontati con certo vecchio e burbero falerno, dalle grida e dagli schiamazzi eran venuti alle mani fra loro su per i lettucci del triclinio; e gli scifi (chiamateli, se volete, còppe) cominciavano a volare fra le teste in vano ghirlandate di mite apio. In tale frangente, Orazio, il solo forse della compagnia rimasto padrone di sé, come piú anziano, si rizza su la sponda del suo letto, e, arbitro del bere, col braccio teso, ammonisce i baccanti.

—Farsi arma degli scifi nati al servigio dell'allegria, è da Traci: via il barbaro costume, e lungi dalle sanguinose risse Bacco che n'è rosso di vergogna. Oh immane contrasto la nuda scimitarra fra il vino e le lucerne! Quetate l'empio schiamazzo, o compagni, e rimanetevi col gomito appoggiato ai cuscini.

I rissanti invece di calmarsi si accordano contro il pacificatore.—Ah sí? Ma tu non hai bevuto. Un'anfora di falerno per il predicatore.—L'affare si parava male. Ma Orazio aveva lí accanto un greco, famoso delle glorie della sorella, un biondino sentimentale, un Cupieno perseguitatore delle bianche stole ma che poi si contentava anche delle serve (Xanthia foceese?), e pensò a divergere su lui l'attenzione e l'assalto e ad estinguere cosí nelle risa gli elementi della rissa. Séguito traducendo:

—Volete che anch'io prenda la mia parte di questo brusco falerno? Bene! Il fratello di Megilla d'Opunte dica onde partí lo strale la cui ferita lo fa morire di felicità. Esita? Non beverò ad altra condizione. Qualunque sia la bellezza a cui Venere ti sottomise, la tua non è certo fiamma da vergognare: tu pecchi sempre di nobili amori. Or via, che che tu abbia, deponi il secreto in questo orecchio fedele.

Difficile trasportar in altra lingua, sia pur l'italiana, la suprema squisita eleganza d'ogni parola, e della collocazione e della disposizione e dell'atteggiamento delle formole, onde nel latino risalta a ogni tratto la finissima corbellatura della allungata lusingheria. È impossibile, parmi, supporre in questi versi un'imitazione al solito dal greco. La subitaneità e la vivace verità dell'apparente disordine mostrano, parmi, che è il caso di un allegro episodio, d'una scena animata, còlta lí per lí e tradotta in una breve odicina, ammirabile per movimento drammatico. C'è,—per vero,—un frammento d'Anacreonte, ove si riscontra l'accenno agli Sciti, ma (vediamolo in una recente e accurata traduzione)

Via, non piú di questa guisa con fracasso ed ululato a la scitica maniera non si bea, ma centellando fra soavi inni d'amore[63]

è tutt'altro. Anacreonte placa i suoi bevitori col canto; Orazio li richiama dal tumulto con lo scherzo.

Ricevuto nell'orecchio il segreto del giovane vagheggino, il poeta si mette le mani ne' capelli, e raccogliendo con un tono d'enfasi comica l'attenzione alla sua pietà su quella vittima d'amore, prorompe:

—Oh sciagurato, in quale Caribdi ti travagli, ben degno di fiamma migliore! Quale strega, qual mago ti potrà con tutti i tessali incanti liberare? qual dio? Bellerofonte a pena sul Pègaso varrebbe a strapparti dai lacci di questa triforme chimera.[64]

Il poeta ha ottenuto l'effetto che voleva. I compagni rasserenano l'ebrietà sfogandola in un turbine di risa e di motti che avvolge il biondino, la famosa Megilla e la non meno famosa fiamma novella. E Orazio può riadagiarsi sul lettuccio meditando lentamente una strofe alcaica ad amici piú degni, a Postumo o a Dellio.

E poi si vuol asserir tutto ai moderni il vanto di aver drammatizzato la lirica!

IV.

L'IMPOSTURA.

Questa, secondo la notizia lasciatane dal Gambarelli nell'edizione che diè delle Odi nel 91, fu «recitata in una pubblica adunanza dei Trasformati circa un trent'anni fa[65] »: dunque nel 1761, tre anni dopo la Vita rustica e due avanti la pubblicazione del Mattino. Il poeta a trentadue anni era in succhio. Si sente al vigore onde tócca certi tasti che non aveano ancor risonato o non risonavano piú da un pezzo nella lirica italiana, all'arditezza onde cerca la nota stridente, al coraggio onde presenta l'antagonismo della sua personalità, all'ardenza saputa trasfondere nel metro, che solo si raffredda per poco qua e là nei passaggi.

L'ottonario è de' versi piú antichi e piú veramente popolari della poesia romanza. Nella lingua provenzale, nella francese, nella spagnola, con maggior varietà e libertà di accenti e di cesure, serví meglio al racconto eroico, e diè, ammirabili frammenti di epopea cantata, i romanzi di Bernardo del Carpio, dei Sette infanti di Lara, di don Beltrano, del Cid: in Spagna serví anche al dialogo drammatico. In Italia da principio fu adoperato a qualche sbozzo di canzone epica; ma piú si allargò per tutti i primi tre secoli, nelle ballate, nelle laude, nei canti carnescialeschi, poesia lirica e narrativa, famigliare e comica. Meno pregiato nel classico Cinquecento, rifiorí, col fiorire della nuova musica, nei cori e nelle liriche del Rinuccini e del Chiabrera, nelle melodie del Caccini. Circa il 1740, quando il Vinci il Pergolese il Jomella musicavano i melodrammi del Metastasio, il Quadrio scriveva: «L'ottonario è divenuto a' nostri giorni celebratissimo; e fra i versi di sillabe pari, per la sua sonorità e numero, si può dire che sia il piú degno e però il piú frequente presso gli autori.»[66]

Oltre che rimato a coppie, nella qual forma serví specialmente alla narrazione e alle epistole o in generale agli scherzi famigliari e galanti (il Parini l'adoperò cosí nell' Indifferenza[67], il Frugoni poi ne abusò in cento o duecento argomenti), fu intrecciato in strofe di varia struttura. Col Seicento, direi, incomincia la strofe di quattro versi baritoni (piani) a rima alternata; e fu molto felicemente, per l'effetto musicale, introdotta nei cori dell' Euridice dal Rinuccini:

Cruda morte, ahi pur potesti Oscurar sí dolci lampi. Sospirate, aure celesti; Lagrimate, o selve, o campi...

Fiammeggiar di negre ciglia Ch'ogni stella oscuri in prova, Chioma d'òr, guancia vermiglia, Contr'a morte ohimè che giova?

L'Appennin nevoso il tergo Spira gel che l'onde affrena, Lieto foco in chiuso albergo Dolce april per noi rimena.

Quand'a' rai del sol cocente Par che il ciel s'infiammi e'l mondo, Fresco rio d'onde lucenti Torna il dí lieto e giocondo.

Ben nocchier costante e forte Sa schermir marino sdegno... Ahi fuggir colpo di morte Già non val mortal ingegno.[68]

E fu popolare nelle canzoni di quel secolo: graziosissima, e caratteristica, anche per il costume, questa:

Monicella mi farei, S'io pensassi esser accetta: Et il nome ch'io vorrei Saria Suor Bell'Angioletta.

Vorre' aver le tonicelle Di saietta milanese E le bende bianche e belle Co i soggòli alla franzese,

Il bavaglio largo e fine, La cintura lunga e stretta, Con le belle forbicine Il coltello e la forchetta.

Quando poi fossi chiamata Da parenti o da stranieri, Verrei presto a quella grata Dove io stéssi volentieri;

E con dolci paroline, Col tener la bocca stretta, Direi mille coselline Da fermar chi avessi fretta.[69]

Continuò nel Settecento, adattandosi alla descrizione e alla narrazione nelle poesie degli Arcadi.

Ecco una descrizione assai garbata del Frugoni:

Ve' che spiaggia, ve' che sponda, Dove pace signoreggia! Che bell'aer la circonda! Che bel mare al piè le ondeggia!

Là son antri ove tra i vivi Sassi l'edere tenaci Van serpendo, e qui son rivi D'acque gelide fugaci.

Là di cento alberi folte Son lietissime selvette, Qui son piani, e là son cólte Rilevate collinette.[70]

Del Parini ecco una narrazione, che ha già qualche atteggiamento da ballata romantica:

Ne le fasce ancor lattante Le sdentate donnicciuole L'alma debole incostante Mi nudrîr d'assurde fole.

Io da lor narrar m'udía Come spesso a par del vento Van le streghe in compagnia De' demòni a Benevento,

Come i lepidi folletti Di noi fanno e gioco e scherno E gli spirti maledetti A noi tornan dall'inferno.

Con la bocca aperta e gli occhi E gli orecchi intento io stava, Mi tremavano i ginocchi, Dentro il cor mi palpitava.

Al venir de le tenébre M'ascondea fra le lenzuola; Quindi un sogno atro e funébre Mi troncava la parola.

Non di meno al novo giorno Obliavo i pomi e il pane, A le vecchie io fea ritorno E chiedea nuove panzane.[71]

Non è se non uno svolgimento di cotesta prima la strofe di sei versi, che aggiunge, cioè, ai primi quattro una coppia a rime baciate. Piú larga, ricorda un po' l'antica ballata.

Maggio, onor di primavera, Oggi nasce in grembo a'fiori: Spira l'aura lusinghiera, Scherzan lieti i nudi amori: Con dolcissimo diletto Rido e canta ogni augelletto

è una maggiolata del secolo decimosettimo, semipopolare[72]. Tale strofe riprese bene il Chiabrera, nelle odi ad Amarilli, tra descrittive e narrative.

Vieni almen per trarre un'ora Tutta lieta e dilettosa Qui vermiglia esce l'aurora, Qui la terra è rugiadosa, Qui trascorre onda d'argento, Qui d'amor mormora il vento.

Mirerai rive selvagge, Chiusi boschi, aperti prati, Spechi ombrosi, apriche piagge, Valli incólte e colli arati: Che dirò di tanti fiori? Fior che dan cotanti odori?

I nevosi gelsomini, Le vïole impallidite, Gli amaranti porporini Di beltà movono lite; Ma la rosa in su la spina Sta fra lor quasi regina.[73]

Dal Chiabrera l'ebbero il Frugoni e gli Arcadi, e l'abbiosciarono. Da essi la liberò il Parini; e la racconciò nel Parafoco,[74] la rialzò nell' Impostura imprimendole impeti nuovi e nervosi, e pur lasciandole un po' della popolare pianezza. Il Monti in poesie rivoluzionarie e imperiali la fece squillare a battaglia.[75] Il Manzoni la fece parere un'altra, aggiungendole un tronco, nella Resurrezione, che è delle sue poesie meno eguali e forse meno corrette ma piú originalmente liriche.

Perdonino i liberi e profondi ingegni queste chiacchiere su' metri, troppo lunghe e minute: ma senza conoscere la storia della metrica, poco fin ora o nulla curata in Italia, si potrà benissimo fare molta retorica inspirata e chiamarla poesia o critica, ma non s'intenderà mai Io svolgimento organico e lo spirito della lirica, non si discernerà quello che sia da innovare o modificare e quello che giovi meglio lasciar morire.

Tornando al Parini e all' Impostura, comincia con un'entrata molto franca in mezzo alle cose[1-6].

Venerabile Impostura, Io nel tempio almo a te sacro Vo tenton per l'aria oscura;

E al tuo santo simulacro, Cui gran folla urta di gente, Già mi prostro umilemente.

A proposito: è egli lecito supporre che l'adunanza dei Trasformati, ove il poeta lesse da prima questi versi, fosse una carnevalata, e la sala rappresentasse il Tempio dell'Impostura, e i poeti recitanti o leggenti figurassero da sacerdoti o da devoti e supplichevoli della dea? Saremmo nel costume della poesia academica d'uno o due secoli fa, e l'ode ne acquisterebbe un tanto di vivezza.

La quale ode, dopo l'entratura, si divide in due parti, ha due quasi intonazioni diverse: la prima [7-38] è dell'ipocrisia in universale, la seconda [49-84] è delle ipocrisie particolari: finisce con una chiusa [85-96] forse inutile, certo moralissima, ma un poco strascicata.

Nella prima parte il poeta invoca e saluta la Impostura, mente e anima del mondo.

Tu degli uomini maestra Sola sei. Qualor tu dètti Ne la comoda palestra I dolcissimi precetti, Tu il discorso volgi amico Al monarca ed al mendíco.

Che disinvoltura! E, pur conservando il solenne movimento trocaico e l'ondeggiamento delle coppie a rime alterne, quanto è già lontana questa intonazione dalla morbida e vuota sonorità delle canzonette! Egli è che non son piú parole; son colpi di pensieri, come colpi di ala.

L'un per via piagato reggi, E fai sí che in gridi strani Sua miseria giganteggi; Onde poi non culti pani A lui frutti la semenza De la flebile eloquenza.

Tu dell'altro a lato al trono Con la Iperbole ti posi; E fra i turbini e fra il tuono De' gran titoli fastosi Le vergogne a lui celate De la nuda umanitate.

Cose nuove per la vecchia lirica italiana. E la elocuzione poetica insorge anch'essa, nella prima delle due strofe, fiera, vigorosa, a tócchi e sbòzzi; e nella seconda la verseggiatura, con quegli sdruccioli nelle cesure e con quelle vocali gravi nelle ultime sedi, par che sbuffi il vento e il bombo dell'ironia plebea verso le nebulose cime delle grandezze sociali. E forse che dalle pareti della sala pendeva, in asburghese solennità carnaloccia, il cesareo regio ritratto di Sua Sacra Maestà Apostolica, la imperatrice e regina di non so quanti paesi e madre di Maria Antonietta. La filosofia, come dicevasi allora, faceva capolino nei metri dell'Arcadia e nell'Accademia dei Trasformati; e i Trasformati, marchesi, canonici, consiglieri aulici e conti, battevano le mani, e non vedevano quali figure seguissero caliginose per l'aria la salutata apparizione.

L'abate intanto, preso l'abbrivio, procede di bene in meglio: dimentico che forse la mattina stessa si è consumato fra le sue dita dinanzi all'altare dell'Uomo-Dio il mistero della transustanziazione ( Limosina di mésse Dio sa quando Ne toccherò ), procede e passa all'impostura religiosa; alla impostura, cioè, di altre religioni che non sia la cristiana:

Già con Numa in sul Tarpeo Désti al Tebro i riti santi, Onde l'augure poteo Co'suoi voli e co'suoi canti Soggiogar le altere menti Domatrici delle genti.

Del macedone a te piacque Fare un dio, dinanzi a cui Paventando l'orbe tacque.

A confronto di questi ultimi tre versi il prof. D'Ancona, nella illustrazione che opportunamente ha fatto delle odi pariniane a uso delle scuole,[76] cita quelli del Guidi nella canzone La Fortuna:

Allor dinanzi a lui tacque la terra; E fe' l'alto monarca Fede agli uomini allor d'esser celeste, E con eccelse ed ammirabil prove S'aggiunse ai numi e si fe' gloria a Giove:

dei quali, per due belli, tre sono superflui, inutili, vescicosi. Da tali confronti apparisce la misura del progresso e la qualità del rinnovamento mosso e operato dal Parini, quando e dove, anche nella elocuzione, anzi specialmente nella elocuzione, fece bene da vero.

La strofe séguita con tre versi brutti, proprio brutti:

E nell'Asia i doni tui Fûr che l'arabo profeta Sollevaro a sí gran meta.

Prima di tutto: Maometto è un di piú: bastavano Numa e Alessandro: la lirica non si fa mica per enumerazioni. Poi, la elocuzione casca trivialmente scorretta: i doni tui fûr che è costrutto francese: a una mèta si arriva di per sé, si scorge si guida si conduce altrui, non si solleva.

Le due strofe, che seguitando incontriamo [37-48], sono come il passaggio dalla prima parte alla seconda, dal generale al particolare. Nei passaggi il Parini è per lo piú poco cigno e manco aquila: fa un saltetto, e stramazza: o pure per la lunga risale la corrente finché trovi il ponte.

Qui aveva cominciato bene:

Ave, dea. Tu come il sole Giri e scaldi l'universo.

Due bellissimi versi, ampi di giro e di suono, pari alla contenenza; ma che sono anche un bellissimo schiaffo alla storia della civiltà e alle credenze, delle quali il genere umano è solidale, nelle idealità o nelle idealizzazioni della società. Al che pensi un po' chi ci ha da pensare. Io dico che son brutti, brutti di core, brutti in modo da non si potere far peggio volendo, i seguenti:

Te suo nume onora e còle Oggi il popolo diverso: E fortuna a te devota Diede a volger la sua ruota.

I suoi dritti il merto cede A la tua divinitade, E virtú la sua mercede. Or, se tanta potestade Hai qua giú, col tuo favore Che non fai pur me impostore?

E non mi scalmano da vero a dimostrare come e perché sono brutti; né saprei o vorrei sottilizzar troppo a ricercare come e perché il Parini, che pure di versi belli s'intendeva, e di che guisa!, s'abbandonasse poi a farne talvolta di cosí: era per amore d'una semplicità al rovescio e per riazione contro la vuotezza sonora? Ad altro c'è da pensare. Ecco: questa scuola lombarda, che fu giustamente definita la scuola del buon senso, del buon senso sollevato all'idealità e alla lirica, incomincia con l'inno all' Impostura, e finisce o tócca il piú alto punto con gl' Inni sacri. Tanta è la logica nelle parabole dello spirito umano.

Passiamo alla seconda parte: ipocrisie individuali.

Anche il Parini vorrebbe far l'impostore, ma non scioccamente da essere súbito scoperto e fischiato, come era pur allora avvenuto a qualcuno di sua conoscenza e di conoscenza, pare, di tutta Milano. Perocché, dopo i brutti versi piú sopra recati, nei manoscritti dell'ode seguitano tre strofe, rifiutate poi dal poeta, delle quali una è bella e curiosa:

Temerario menzognero Già su l'Istro non vogl'io Al geografo Buffiero Tôrre un verso e farlo mio, E buscar gemme e fischiate, Falso conte e falso vate.

Pare dunque che quella di fare il conte e la contessa non sia un'impostura democratica, cioè di questi ultimi tempi di democrazia titolata. Ma chi era egli cotesto falso conte? Né il Salveraglio che tante ricerche fece su i personaggi delle odi pariniane, né il D'Ancona che tante brache pur sa del secolo decimottavo, ne trovarono nulla. Questo è un bel caso per certi critici impostori di mia conoscenza. Costoro leggono un libro o un saggio o un fascicolo, che all'autore è costato tempo e fatiche, e dal quale essi imparano tutto quello che non sapevano; ma avviene per caso ch'e' ricordino o si abbattano a un nonnulla, che era sfuggito all'autore o non se ne era curato. Ecco cotesti farabutti a menar giú un articolo, come qualmente quel pover uomo è un ignorante e un disonesto, e che in Italia non si sa questo, e che in Italia non si fa quello, e che è tempo di smettere, e che è tempo di cominciare. Ed essi cominciano facendo de' libroni ove c'è tale un'allegria di chiacchiere e di spropositi da mandarli diritti diritti a una cattedra. Cerchino i su lodati farabutti, cerchino, ciò che probabilmente non troveranno. Quel falso conte dovè essere persona e ricordanza già svanita nel '91, quando la prima volta fu stampata l'ode, e il poeta ne tolse via questa e le strofe che nei manoscritti le seguono, una anche piú enigmatica, e tutt'e due insieme bruttarelle anzi che no.

Il poeta tira avanti nella buona intenzione di far l'impostore. E disposizione ne avrebbe: invenzione e chiacchiera a sufficienza. Ma ... c'è un ma, che gli fa molto onore.

Mente pronta e ognor ferace D'opportune utili fole Have il tuo degno seguace, Ha pieghevoli parole; Ma tenace e quasi monte Incrollabile la fronte.

Ma bravo l'abatino! In mezzo a tanti

.........marches, Marchesazz, marcheson, marchesonon,

questa è una bella scappata. Che ne dirà ella la padrona, la duchessa Maria Vittoria Serbelloni? Prima di tutto, donna Vittoria era una signora molto per bene e spregiudicata, che stimava per quel che valeva l'orgoglio della nobiltà milanese: e poi l'abate era per la parte sua uomo da tener duro anche con donna Vittoria. L'anno dopo la recitazione di quest'ode il Parini si trovava in campagna a Gorgonzola con la duchessa e col maestro San Martino, adorato allora in Milano per il dio della musica. La figliuola del San Martino voleva tornarsene in città: la duchessa non voleva che tornasse, e le menò un par di schiaffi. Che fa il Parini? Il Parini pianta la duchessa, e accompagna lui la ragazza a Milano. «J'ai dû me défaire—scriveva poi la duchessa al figliuolo—de l'abbé Parini à cause qu'à Gorgonzola il m'a fait une tracasserie bien grande».[77] Il terzo stato s'annunziava non soltanto in poesia.

Segue una strofe cosí cosí, della quale il poeta non potea far di meno per congiungere imagini e ragionamenti. E un danno per altro che in tali o ricongiungimenti o passaggi il Parini, o piú generalmente i lirici moderni, abbiano a spendere strofe intere; mentre la lirica antica e la popolare n'esce con un colpo d'ala.

Sopra tutto ei non oblia Che sí fermo il tuo colosso Nel gran tempio non staría,

Se, qual base, ognor col dosso Non reggessegli il costante Verosimile le piante.

«Altri vegga—dice il D'Ancona—se è bello e perspicuo il Verosimile che, qual base, regge col dosso le piante al colosso dell'impostura.[78] » Bello no; è una rappresentazione barbara e barocca, tra di chiesa del Mille e di pagoda; e però figura benissimo, a parer mio, nel culto dell'Impostura.

Belle, cioè vive, di vena, d'un'arguzia civettuola come il soggetto, facenti gl'inchini con le pòse del verso, seguono le strofe che presentano un tipo immortale d'impostura, il medico delle signore.

Con quest'arte Cluvïeno, Che al bel sesso ora è il piú caro Fra i seguaci di Galeno, Si fa ricco e si fa chiaro; Ed amar fa, tanto ei vale, A le belle egre il lor male.

Tal medico oggigiorno mescerebbe dell'oscenità galante a un po' di socialismo mulso, e il tutto dibattuto in molta prosa vaporosa romantica darebbe a bere come un siroppo di scienza e d'arte. Allora il leggiadro birboncello, il cattivo soggettuzzo, faceva madrigali ed ariette. Era un poetastro, e avea scorciato la pazienza al Parini: era di certo un poetastro, me lo assicura Giovenale:

.....facit indignatio versum Qualemcumque potest, quales ego vel Cluvienus.[79]

Peccato che il poeta escludesse o lasciasse escludere dall'edizione del '91 le due strofe che seguono nei manoscritti:

Ei non come i pari suoi Pompa fa di lingua argiva, Ma vezzoso i mali tuoi Chiama un'aura convulsiva, E la febbre ch'ei nutrica Chiama dolce e chiama amica.

Ei primiero il varco aperse A un ristoro confidente, Egli a' medici scoperse Come l'utero si pente: Dea, ben dritto è se n'hai scólto Nel tuo tempio il nome e il volto.

Ma forse nel '91, pur restando il tipo, il personaggio vivo era passato, e dileguato e dimenticato il suo linguaggio prezioso. Perché Cluvieno è un ritratto dal vivo: il Parini non rifuggiva dai ritratti personali, come non ne rifuggirono tutti gli artisti veri e forti, tutti i greci, il temperatissimo Orazio, tutto il Trecento con a capo Dante, tutto il Cinquecento con a capo l'Ariosto, fino il Boileau. Il Giusti, sempre e ferocemente falso e academico nelle teoriche, predicò anche contro la satira personale; ed egli ne faceva a tutto spiano, di sottécchi, spalmandola poi con molte manate di vernice civile. A proposito del Giusti, sarebbe da raffrontare a questa Impostura il San Giovanni di lui, per rilevar meglio il difetto di facoltà plastica, il contrasto tra la volgarità e la convenzionalità, l'urto tra la sciattezza e la pretensione, il prosaicismo inorganico e sconclusionato, che offende segnatamente nei primi tentativi satirici di cotesto poeta che non fu quasi mai perfetto e intero artista.

Sarà meglio tornare al Parini.

Ma imitar Cluvieno e farsi largo tra le signore egli non può: è prete. Farà dunque il Tartufo.

Ma Cluvien dal mio destino D'imitar non m'è concesso. Dell'ipocrita Crispino Vo' seguir l'orme da presso. Tu mi guida, o dea cortese, Per lo incognito paese.

Di tua man tu il collo alquanto Sul manc'omero mi premi: Tu una stilla ognor di pianto Da mie luci aride spremi: E mi faccia casto ombrello Sopra il viso ampio cappello.

É il tipo figurato per l'eternità dal Molière, qui la prima volta ridotto alle brevi proporzioni della caricatura popolare.

Ma quest'altra strofe con quanta efficacia non rende il giólito degli sfoghi bestiali grugnante dallo stabbiolo della conscienza ipocrita! Quel fregamento di mani interiore, quella interrogazione e quella esclamazione che s'incalzano con uno sguardo di sotto in su, come é drammatico!

Ch'io non macchi e ch'io non sfrondi, Dalle forche e dall'esiglio Sempre salvo? A me fecondi Di quant'oro fien gli strilli De' clienti e de' pupilli!

Le ultime due strofe sarebbe meglio non ci fossero. C'è l' amabil lume e il fervido pensiere, ci sono i rai della verità e le zanne fiere del mostro orrendo dell' Impostura, c'è un E me nudo nuda accogli che fa ridere, facendo pensare alla bella figura che farebbero que' due nudi lí, la Verità e l'abate. Quei nostri vecchi, con tutte le lodi del buon tempo antico, doveano aver da vero di molto poca stima o dell'intelligenza o dell'onestà dei loro lettori uditori: attaccavano sempre la moralità dove n'era meno il bisogno. Oggi affettiamo invece la immoralità. Né l'uno né l'altro è arte.

V.

LE NOZZE.

Quest'ode fu scritta del 1777, nella prima quindicina di ottobre: l'abate Gian Carlo Passeroni la mandava con lettera del 15 a Verona al dottor Paolo Patuzzi, che era dietro a compilare una delle tante raccolte nuziali d'allora. Il Passeroni scriveva: «Per servirvi presto e bene, mi sono raccomandato ai due piú classici scrittori che io conosca in Milano; ambedue m'hanno promesso; ma un solo m'ha favorito; onde ho dovuto io subentrare al peso, che l'altro non ha voluto o potuto portare. Dunque la canzonetta scritta di mia mano è mia, fatene quell'uso che volete; l'altra è dell'abate Parini, e ve la raccomando ...» La canzonetta del Passeroni che segue alla lettera è troppo simile alle troppe sue sorelle sparse per venti o piú volumi di rime e d'apologhi del buon nizzardo: incomincia

Fu a color la sorte amica Che spirarono di vita La primiera aura gradita In città nobile antica, Per pietà per saver chiara; Quanto mai da lei s'impara!

e séguita

Quanto celebre è Verona! Cosí ognun di lei favella, Ed il titolo di bella E di dotta ognun le dona: Voi la cuna a lei dovete: Quanto mai felice siete!

Quanto mai siete un buon uomo, dové pensare il dottor Patuzzi; e non pubblicò la canzonetta dell'autore del Cicerone, sí quella del Parini, nella raccolta intitolata Per nozze de' nobili signori marchese Carlo Malaspina e contessa Teresa Montanari, stampata in Verona dal Moroni nel 1777.[80]

Dunque l'ode Le Nozze fu composta per una raccolta e stampata in una raccolta ventisette anni dopo che il Bettinelli aveva composto il poemetto satirico allegorico critico in quattro canti d'ottava rima su le raccolte o contro le raccolte[81]; sí che potrebbe parere che il Parini fosse rimasto addietro in franchezza di opinioni e in audacia di ribellioni dalle mode letterarie al gesuita falsificatore di Virgilio, se il Bettinelli non avesse pur egli seguitato a dar del suo alle raccolte per tutta la vita e se le raccolte in Italia non durassero tutt'oggi a divertire forse quelli che noiano gli altri per metterle insieme.

Il Bettinelli riporta, solo per capriccio poetico, alla metà del secolo XVII l'invenzione delle raccolte dei versi. Ma la prima forse fu fatta per la morte di Dante, che anche nelle sue ecloghe inventò l'Arcadia. Il Cinquecento incomincia con le Collettanee grece latine e vulgari in morte de l'ardente Serafino Aquilano[1504], e ne conta poi delle celebri, parecchie: Il tempio di donna Giovanna d'Aragona [1554]: Rime in vita e in morte della signora Livia Colonna [1555]: Rime in morte del cardinal Bembo [1549], in morte d'Irene dei signori di Spilimbergo [1561], in morte e per le esequie di Michelangiolo [1564]. Le raccolte in specie per nozze abondano dal 1575 al 1625 particolarmente in Romagna, e nominatamente nelle città di Bologna, di Ferrara, di Ravenna. La piú antica a me conosciuta fu impressa in Bologna del 1575 nel fausto sposalizio di Carlo Antonio Fantuzzi e Laerzia Rossi. Altra stampata in Ravenna del 1583 per le nozze d'Alfonso d'Avalo marchese del Vasto e di donna Lavinia Feltria Della Rovere ha una canzone di Torquato Tasso.

Il Bettinelli anche attribuí l'uso di verseggiare le nozze principalmente al Marini, che, egli scrive, divulgò, senza tener conto de' sonetti, egli solo dieci e forse piú poemi di tali argomenti. Ma piú assai che dieci canzoni nuziali, oltre sonetti moltissimi, avea già composto Torquato Tasso, e prima di lui per nozze di Medici e di Farnesi ne compose Francesco Maria Molza. Sí veramente che in quelle rime del Tasso e del Marini è già tutta la materia e il maneggio della poesia nuziale, quale derivò nelle raccolte dell'Arcadia, con due amminicoli o luoghi comuni, la lascivia rimbiondita con frasi e figure piú o meno garbate, e l'adulazione su gli avi famosi e su i nepoti che han da nascere anche piú famosi.

Il Baretti in certo capitolo a un amico che raccoglieva rime per nozze toccò bravamente della lascivia, mirando al Frugoni:

Dite un poco a quel vostro pretacchione Che, quando vuole far versi per nozze, Non istomachi tanto le persone.

Non dico che non usi frasi sozze: Ma non vorre' neppur ch'egli adoprasse Certe rubriche imagini mal mozze.

Vorrei che con ritegno egli parlasse, Vorrei che il molle seno e il casto letto E i casti baci da un canto lasciasse.

Cosí procaccerebbe piú rispetto Alla sua toga, e un certo soprannome Non gli saría cosí sovente detto.

Faccia pure scherzar le bionde chiome Sulle guance vermiglie e sulle bianche Spalle soavemente, io non so come;

E batta pure a suo piacer le franche Ali, e se 'n vada a ragionar col fato E parlare per forza lo faccia anche...

Ma da' pudichi talami si stia Alquanto lunge e da' lor puri lini La sua poco pretesca poesia.[82]

E il Passeroni con la sua piacevolezza bonaria mise in burla le adulazioni cosí[83]:

Se prende moglie un ricco cavaliere, Un Orlando, un Achille, un novo Aiace Fan nascere i poeti; e aste e bandiere Vedono tolte al già tremante Trace; Additan di nepoti immense schiere, L'un sarà chiaro in guerra e l'altro in pace, E faran gli uni e gli altri in pace e in guerra Cose che star non puon né in ciel né in terra.

Nascerà, Italia, Italia, il tuo soccorso, E fioriranno in te virtú novelle, Gridano i vati, e vendono dell'orso, Prima che preso l'abbiano, la pelle, E portano, di penne armati il dorso, I nascituri eroi fino alle stelle; E spesso accade poi, come Dio vuole, Che muoiono gli sposi senza prole.

E voi, poeti, avete ancor coraggio Di dir che penetrate entro il futuro? Di dir che in voi scende un celeste raggio Che vi rischiara ciò che agli altri è oscuro? Che parlate in profetico linguaggio E che un Dio rende il vostro dir securo? Affé, se debbo anch'io far da indovino, Credo che questo Dio sia il Dio del vino...

Dovreste essere ormai disingannati, E non dovreste dir piú tante insanie; Lasciar dovreste ormai l' orror de' fati, Le vie de' venti e altre parole estranie, E il pegaseo cavallo e i cento alati Destrier, su cui fate cotante smanie; Ma chi d'altro caval non si provvede, Faccia pur conto d'andar sempre a piede.

Anche il Bettinelli con quel suo stile franco-gesuita e con que' suoi versettucci ripicchiati alla Boileau disse cose argute su le raccolte; ma piú che altro gli dispiaceva, pare, che le si fossero, come oggi si direbbe con francesismo democratico, volgarizzate:

È la raccolta un traditore ordigno, Vago in vista, piacevole, pudico; Sembra un cortese libricciuol benigno, Ma in volto onesto asconde un cor nemico. Sparge un succo sonnifero maligno, A l'oro insidia, a la menzogna è amico; Di monache fa strazio e di dottori, E le nozze avvelena e i casti amori.

Tempo già fu che d'onorato sprone, Servir poteva a l'anime gentili, Or destando a cantar dotte persone, Or lodando atti onesti e signorili: Ma le antiche Gonzaghe e le Aragone Cangiò col tempo in giovinette vili, Trovò nel vulgo l'Elene e i Pompei, E fu veduto a nozze con gli ebrei.[84]

Già, anche con gli ebrei. In Ferrara, nel 1744, fu pubblicata per Bernardo Pomatelli stampatore arcivescovile, con licenza de' superiori, una raccolta di rime Per li felici sponsali del signor Moisè Vitta Coen ferrarese colla signora Consola Coen mantovana; ebrei, come sentite, e della tribù sacerdotale, mi pare. Sono sette sonetti e una canzonetta, sottosegnati di denominazioni academiche, D'un pastor arcade, D'un accademico infecondo, D'un accademico intrepido. Entrano in uno de' sonetti Rachele e Giacobbe:

Onor di Carra e la piú illustre e bella Delle sirie fanciulle era Rachele; Ma tre lustri servir, soffrir per quella Del suocero gl'inganni e le querele,

Ma unirsi a forza alla maggior sorella E l'assenzio gustar prima del mèle, Tal la nemica fu sorte rubella Dell'amoroso suo sposo fedele.

Tu che senza sí gravi affanni e rei Questa accogli gentil vergine al seno, Ben di Giacobbe or piú felice sei;

Che se al placido volto ed al sereno Volger degli occhi lusinghieri e bei Non è Rachel, la rassomiglia almeno.

In un de' rari esemplari di cotesta raccolta presso di me è manoscritta una nota che dice: 31 marzo. Per mano del Boia[lettera maiuscola] avanti le prigioni fu abbruciata d'ordine di Roma. Uscirono molte satire manoscritte contro questi sonetti. D'alcuna delle quali satire, e proprio di una intitolata con accesa pietà cristiana Pentapoli arrostita, era autore il Baruffaldi seniore, autore anche del Canapaio; che per essere arciprete di Cento nel ferrarese e per avere scritto non bene qualcosetta intorno all' Orlando si credea avere un ramo dell'Ariosto, e dovea tenersi certamente piú poeta del Redi per avere scritto molti ditirambi, ch'egli denominava Baccanali, a ogni proposito, per esempio, su 'l Museo volpiano e su San Filippo Neri, su 'l libro d'oro della repubblica di Venezia e sul tabacco, e anche su le nozze saccheggiate.

Una sola città, racconta il Bettinelli, delle men popolate, Ravenna, ebbe una raccolta pubblicata del 1739 con rime di centotrentasei poeti suoi. E a mettere insieme tutte le raccolte stampate per quei cento anni in Imola, Faenza, Forlí, Cesena, Rimini, Ravenna (oltre che in Bologna e Ferrara), ci sarebbe da trovarsi a dosso una biblioteca altro che ordinaria. In quel secolo i romagnoli correvano a far rime come oggi a far comizi.

La satira del Bettinelli valse non a scemare in Italia il numero delle raccolte, ma a cambiarne un poco le intitolazioni, il metodo, la contenenza, direi quasi la indole.

Così nel '53 ne uscí in Ferrara una intitolata Gli augurii delle nove muse per le nozze del marchese Francesco Calcagnini colla marchesa donna Alessandra Scotti. In una lettera preliminare si riprendeva l'indocile stemperato appetito di raccolte; si affermava che i poeti se ne dicono stanchi, stanchi fino allo stomaco i lettori; con tutto ciò si trovava ottimo il pensamento di far raccolte di autori eletti, di argomenti obbligati e di stabilita maniera di versi. Alla lettera seguono gli augurii delle fatidiche sorelle: fra le altre, Talia, nella persona del conte Camillo Zampieri, autore d'un poema su Tobia, d'una infinità di sonetti frugoniani e di catulliani endecasillabi, augura agli sposi copia di beni e buona economia: Euterpe, per bocca dell'ab. Girolamo Ferri, latinista, quel tanto di sapere che può loro convenire, con molte raccomandazioni d'avere nella debita stima gli uomini dotti ecc. ecc.

Imitazione della raccolta ferrarese paiono I fasti d'Imeneo nelle nozze degli dèi stampati in Bologna dalla tipografia del Sant'Ufficio (chi l'avrebbe detto a San Domenico?) il 28 aprile del '62. Imeneo reca nel consiglio dei numi notizie del gran fatto: degli sponsali cioè del conte Giov. Francesco Aldrovandi Mariscotti senatore bolognese con la marchesa Lucrezia Fontanelli di Reggio. Alla novella balena un degnevol sorriso su 'l terribile sopracciglio di Barba Giove. Gli dèi applaudono e attaccano discorso su le brave persone che uscirono dalle due casate: Minerva parla degli scienziati e de' letterati, Marte de' guerrieri, Febo de' poeti. Le Muse si preparano anch'esse a cogliere e mettere in mostra i piú bei frutti delle due piante amiche al cielo. Quando Giove, stendendo la destra,—Zitti là—dice—meno schiamazzo;—e fa lui una chiacchierata lunghissima, conchiudendo che, per meglio onorare le nozze Aldrovandi e Fontanelli, alle beate e immortali nozze si paragonino degli dèi e queste in commendazione e quasi in concorrenza di quello si cantino. E qui sette canti. Ricordo Proteo che nelle strofe di Ludovico Savioli celebra le nozze di Nettuno e Anfitrite, Erato che per bocca di Agostino Paradisi canta quelle di Apollo e di Calliope. Infine Vincenzo Corazza, per Bacco e Arianna, pensò meglio di tradurre un epitalamio dal secondo libro, Le nozze della Filologia e di Mercurio, dell'opera su le Arti liberali di Marziano Capella. Cotesto bolognese nella seconda metà del secolo decimottavo propugnò validamente la imitazione dei metri classici nella poesia italiana, e in questa raccolta imitava i versi di Marziano con tali senza rima:

Non cosí tosto l'aurea Nel scintillante ciel luna fia apparsa, Accoppierò le rose a un laccio e i gigli.

Per entro i sacri talami S'aggiungeranno la fanciulla e il dio: Odorate di cinnami le sponde.

Esper la vegga vergine Per poco ancora e intatta: alla prim'alba Fosfor dall'alto ciel vedralla sposa.

Splendidi per opera tipografica e pregevoli per testimonianza d'erudizione, lo stesso anno che I fasti d'Imeneo, uscirono in Bologna dai tipi della Volpe I riti nuziali degli antichi romani a festeggiare le nozze di don Giovanni Lambertini e donna Lucrezia Savorgnan: sono dieci capitoli in terza rima—ce ne ha di Vincenzo Corazza, di Camillo Zampieri, di Agostino Paradisi—che percorrono l'argomento per tutte le sue parti, con innanzi una dotta memoria di mons. Floriano Malvezzi (Diomede Egeriaco) e con incisioni e vignette di marmi e oggetti antichi bellissime. Piú tardi (1771) e piú modesto non ostante la superbia del titolo, esce pure in Bologna e dalla oramai profanata stamperia del Sant'Uffizio, Il coro delle Muse a celebrare le nozze del conte e senatore Gius. Dalla Serra Malvasia Gabrielli e della marchesa Eleonora Zambeccari. Le nove sorelle cantano in tutti i metri: Apollo esordisce con endecasillabi sciolti per bocca, meno male, di Ludovico Savioli, e chiude ahimè con un sonetto, per bocca, ahimè ahimè ahimè, del padre Bovi. Molto piú ancora modesti, almen nella forma tipografica del Riccomini, ne si presentano del '72 in Lucca, per nozze Lucchesini e Orsini, gli Imenei festeggiati in Citera; e Pindaro canta in sestine ed è.... è un padre Romualdo Baystrocchi Accademico Ricovrato e Dissonante, Tibullo in terzine non mica male è il Cerretti, il Petrarca è Giuliano Cassiani, l'Ariosto è niente meno Cristoforo Boccella.

Piccolina, presuntuosetta, battendo il tacco come un petit-maître, esce, un anno innanzi la rivoluzione in Bologna, per le nozze del sen. Giacomo Ottavio Beccadelli con la marchesa Violante Bovio, La toilette; e il cavalierino Clementino Vannetti canta in strofette settenarie Il déshabillé, e il marchesino Ippolito Pindemonte in strofette savioliane Lo specchio, e il poetino Giacomo Vittorelli in strofette pur settenarie Le forcelle, e l'abatone Lorenzi in strofette savioliane La polvere di Cipro, e la futura professoressa greca Clotilde Tambroni, in strofe idem, La cuffia e i veli: meno male!

Ultimi, tra gli splendori del classicismo napoleonico, nel 1812, i Pemeni Filopatridi coi tipi bodoniani di Parma invocavano in terzine magnificamente elaborate gli Dei Consonti a sorridere benefici su le nozze di Alceo Compitano dodecandro con Telesilla Meonia, figliuola di Acrone Meonio poeta massimo: avete capito, credo, che erano le nozze di Giulio Perticari con la Costanza figliuola di Vincenzo Monti.

Qualche poeta trattò da sé solo argomenti nuziali in una serie di piú composizioni, per lo piú sonetti, che continuando svolgessero per ordine un concetto o una rappresentazione unica.

L'ab. Pellegrino Salandri, quel delle Litanie della Madonna in sonetti, anche ne scrisse cinquanta, per le nozze di Pietro Leopoldo Granduca di Toscana con Luisa Borbone di Spagna; nei quali descrisse e narrò il viaggio della sposa per le diverse città con fermata in Mantova fino ad Innsbruck, e i divertimenti, e il ritorno degli sposi in Italia per Mantova a Firenze, e le glorie e le speranze ecc. ecc. Meglio, per nozze in Mantova della marchesa Teresa Castiglioni, espose in dodici sonetti una Galleria di donne illustri; nella quale a una greca o romana fa regolarmente riscontro una barbara, Maria d'Austria a Cornelia madre dei Gracchi, Cristina regina di Svezia (non senza meraviglia, penso, di tutt'e due) a Veturia. Meglio ancora, per le stesse nozze, verseggiò in trentacinque sonetti, prima e con piú spirito che i poeti della raccolta bolognese per il Lambertini, Le nozze secondo i riti degli antichi: de' quali sonetti alcuni sono, per raffigurazione plastica, belli. Ai nostri vecchi piaceva piú di tutti quello che descrive il sacrifizio:

Questo bosco e quest'ara a te consacro, Santa madre d'Amor, Venere bella: Ecco intorno al pietoso simulacro L'amaraco, la persa e la mortella:

Ecco il sal puro, ecco il lustral lavacro, La candida odorifera facella, E il coltel che, compiuto il rito sacro, La bianca sveni ed innocente agnella.

Or cinta il crine dell'idalie rose Vieni, e del nume tuo spargi l'altare. Bella unitrice de le belle cose;

Ché coppia non vedrai d'alme piú chiare, Se non riede il garzon che in duol ti pose, Se non torni tu stessa a uscir del mare.

Ma per graziosa agilità nelle mosse forse che non gli cede questo, che è la presentazione e la preghiera della sposa al tempio di Giunone:

Cinge il ceruleo manto, il capo infiora, Riveste il breve piè, vela le ciglia Licori; e il piede e il velo a lei colora La diletta a Giunon vaga giunchiglia;

E al tempio della dea, cui Giove onora, Pensosa e taciturna il cammin piglia; E ovunque move, la ridente aurora, Ch'esca dal balzo orïental, somiglia.

Al sacro limitar ferma le piante, E il pio ministro, che per man la prende, La riconforta e guida all'ara avante.

Là le supplici palme al cielo tende, E mostra agli atti e alle parole sante Che di là solo ogni soccorso attende.

E per animata verità storica può anche piacere quest'altro che rappresenta l'entrar della sposa nella casa del marito secondo la costumanza romana:

Chi sei?—Caia son io.—Vieni, e seguace Gaudio in questo ti sia nuovo soggiorno—: Dice il custode, ella risponde, e pace Spira dagli occhi e dal bel viso adorno.

Fregia l'uscio di bende, e con sagace Man l'olio versa a' cardini d'intorno: Pronto è il fanciullo per ghermir la face, Che non rapita le saría di scorno:

Entra, donna immortal, ma deh! che il saggio Virginal piede il limitar non tócchi: Sai qual alto n'avresti un giorno oltraggio.

Ma già in meno che stral d'arco si scocchi Lanciossi entro la soglia, e al suo passaggio I cardini si alzâr, benché non tocchi.[85]

Sonetti nuziali parecchi scrisse il Cesarotti, con la solita pretensione filosofica, e nel fatto declamando con molto barocchismo di lingua e di stile. E pure il Leopardi li ricettò in quella sua Crestomazia, che pare un ospitale di storpi o una sala di pezzi anatomici della poesia italiana. Che sugo c'è, si domanda, a mettere fra le cose utili ad apprendere de'versacci di questo conio?

Era un bosco la terra: ivano a squadre Gli uomini errando e si mescean quai fere: Sceso Imeneo da le celesti sfere La sua possanza ah di qual ben fu madre!

Sacri nomi s'udir di sposo e padre; Ministro di virtú fèssi il piacere; Saggio divenne amor, dolce dovere; Nacquer leggi, cittadi, arti leggiadre.

Fu di famiglia pria quel che fu poi Amor di patria; ché ad amar s'apprese Ne'suoi sé stesso e ne la patria i suoi.

S'eternàr chiari nomi, avite imprese; Virtú scambiârsi, e s'innestaro eroi. Sposa, Imene a tal fin sue faci accese.[86]

Anche l'ex-gesuita Clemente Bondi, quando la rivoluzione ebbe reso alla vita un po'piú di serietà, cantò, diciamo oramai cosí anche noi per tacita convenzione, il matrimonio in dodici sonetti, se non cristiani, come a lui prete saría stato bene, almeno morali. Ecco un saggio:

Coppia gentil, che ai pronubi misteri T'accosti a piè degli invocati altari, Dal sacro laccio a cui la man prepari Sai cosa il cielo e la tua patria speri?

Sposa, da te sensi d'onor severi E custodia ed amor dei casti lari: Da te, signor, che a sostenere impari Di padre e cittadin cure e pensieri:

E d'ambedue, di gentilezza avita E di pietà religïosi esempi, E prole poi, che di virtú nutrita

Del moribondo secolo ristori Gli acerbi danni, e de'futuri tempi I rei costumi ed il destin migliori.[87]

Ah sí, padre Clemente? Bisognava pensarci un po'prima, in scambio di scriver tanti sonetti su la cagnolina d'Amarilli, su Nice salassata, su Nice elettrizzata, su Nice che tira a'pipistrelli, e anacreontiche su la. .. giacché non siamo gesuiti, diciamo diarrea.

Troppi ne scrisse il Frugoni, e senza mai affettazione di filosofemi o di moralità: a lui piaceva la mitologia decoramentale: ma fra i troppi ne ha di anche piacenti per impasto almeno di colori e di suoni.

Silvia, sovviemmi de la bianca Aurora, Quando fu sposa del marito annoso. Ahi sventurata! che non disse allora Ch'ei se la strinse al vecchio sen rugoso!

Pianse, e di sua crudel lunga dimora Accusò il pigro sol fra l'onde ascoso; E al par del giorno sonnacchiosa ancora Lasciò le ingrate piume e il freddo sposo.

Forse ancor tu di questo orror notturno, Silvia, i silenzi e l'ombre in odio avrai? Ti vedrà sorta il nuovo albor diurno?

Tirsi non è Titon: piú bella assai Tu sei de l'Alba, e l'aureo letto eburno Amor sa quando abbandonar potrai.[88]

Cotesto è in una raccolta. E le raccolte, massime nella seconda metà del secolo, offrono qualche fiore, e nominatamente de'due lirici estensi, Agostino Paradisi e Luigi Cerretti, inferiori d'assai al Parini e forse anche al Savioli, ma superiori a molti altri del tempo, per certa correttezza di forme non sempre disgiunta da nobiltà e civiltà d'intendimenti.

A Giuseppe Puccianti piacquero del Cerretti per la sua Antologia di poeti moderni i Fasti d'Imeneo. E di fatti le prime strofe, compendiate di su l'antico di Catullo, sono graziose.

Bella in siepe frondosa È la fiorita spina Allor che rugiadosa Fuor de l'epa marina L'alba novella uscí:

Ma, se gentile innesto Non cangia il tronco duro, Cadon le foglie, e presto Rozzo virgulto oscuro Torna qual era un dí.

Bella in piagge fiorite Di pampinosi colli È la nascente vite. Cura de l'aure molli, Primo de'campi onor:

Ma, se a l'olmo il bifolco In accoppiarla è lento, Lei su 'l negletto solco Calca co 'l piè l'armento, L'insulta ogni pastor.

Bella è in chiuso soggiorno Vergin pudica anch'ella; Tutto le ride intorno, Tutto la fa piú bella Ne la sua fresca età:

Ma, se Imeneo con presta Man non ne unisce il core, Oltre che inutil resta, Illanguidisce il fiore Di sua gentil beltà[89].

Migliori sarebbero quelle che seguono discorrendo i civili effetti del matrimonio, se troppo non sottostessero al paragone col carme catulliano dal quale derivano.

Con piú novità il Paradisi introdusse Urania a cantare Imeneo principio della società umana:

Ruotino gli astri, il sole Dispensi il giorno da l'eterna sfera. Rinovelli sua prole Ogni germe di fiori in primavera, Rompa fulmineo telo Il ciel di nubi carco, Su 'l tranquillato cielo Iri dipinga l'arco;

L'uomo ognor di natura Fia la maggior, la piú ammirabil opra, L'uom fia la miglior cura Del mio pensier che in meditar s'adopra, L'uom che ne' sensi frali Simile ai bruti ha vita, L'uom che i numi immortali Per la ragione imita.

Io lui nel mondo antico (Memoria orrenda) già selvaggio vidi. Ora il deserto aprico Or le selve assordar d'incólti gridi, Ora i destrieri al corso Vincer co i piè non pigri, Or con l'ugne e co 'l morso Sfidar lioni e tigri.

A i natii boschi tolto Necessitate entro i tuguri il chiuse, Poi crebbe in popol folto E bisogni e voleri insiem confuse. Allor le ghiande e l'erbe Fûr mensa de le fere, Allor città superbe Erser le torri altere.

Conobbe ognun suo gregge, Pose ciascun suoi limiti al terreno; Sentí de l'util legge La indomita licenza il primo freno. La nuzïal facella Piacque a l'amante ardito, E rise la donzella A l'unico marito[90].

Altrove descrisse gli abitatori della selva primitiva, la cui immagine dalla filosofia del Vico e di Gian Giacomo sorrideva spesso alle visioni dei poeti del secolo:

Vago per selve inospite L'uom primo alpestre e duro Non conoscea ricovero Di tetto e d'abituro, Né spoglia difendevalo Dal vicin sole o da l'acuto gel.

Fra i perigli e il disordine Terribili a mirarsi I crin si rabbuffavano Sovra le ciglia sparsi; Gli occhi di furor lividi Rado trovar sapean la via del ciel.

Quando le stelle inducono Il sonno ai membri lassi, Sotto chiomata rovere Giacea tra fronde e sassi, E nel feral silenzio Ministro de' suoi sogni era il terror.

Se foglia in ramo tremula Mormorava per vento. Còlto da pavor gelido Premea nel petto il mento: Scosso raccapricciavasi, E stringea freddo sangue il tardo cor.

Per l'atra solitudine Tal di sé stesso incerto Se 'n gía con orme pavide Misurando il deserto L'uomo, a le belve símile, Sconoscente a natura, ignoto a sé.

Salve, o fanciullo idalio, Spirator di leggiadre Cure ne l'uomo indocile; Salve, de l'uomo padre. In società raccoglierlo, Se non Amor, qual altro dio poté?[91]

Anche il Parini, per tornare pur una volta a lui, disseminò per le raccolte nuziali, oltre la canzonetta, altre rime parecchie. Un sonetto meritò di essere tradotto in leggiadro disegno da Andrea Appiani:

Fingi un'ara, o pittor. Viva e festosa Fiamma sopra di lei s'innalzi e strida: E l'un dell'altro degni e sposo e sposa Qui congiungan le palme: e il Genio arrida.

Sorga Imeneo tra loro; e giglio e rosa Cinga loro a le chiome. Amor si assida Su la faretra dove l'arco ei posa; E i bei nomi col dardo all'ara incida.

Due belle madri al fin, colme di pura Gioia, stringansi a gara il petto anelo, Benedicendo lor passata cura.

E non venal cantor sciolga suo zelo A lieti annunci per l'età ventura; E tuoni a manca in testimonio il cielo[92].

È una fantasia archeologica, vaga come un bassorilievo antico; e mostra il gusto plastico del poeta. Tutto nella vita, ma in quella vita senza cuore e senza testa, che finí con la società del Settecento, è invece quest'altro, che pare il séguito di quel del Frugoni:

O tardi alzata dal tuo novo letto Lieta sposa, a lo speglio in van ritorni, E di fiori e di gemme in vano adorni E di candida polve il crin negletto.

La diva che al tuo sposo accende in petto Fervide brame onde bear suoi giorni Vuol che piú volte oggi lo speglio torni A rinnovare il tuo cambiato aspetto.

Ecco a la bella madre Amore addita L'ombra che ad or ad or sul crin ti viene La dissipata polvere seguendo;

E pur contando su le bianche dita E fiso nelle tue luci serene Guarda vezzosamente sorridendo.[93]

Graziosissimo, del resto, salvo il sesto verso, strascinato con quell' onde bear suoi giorni.

Ma nell'ode nuziale del '77 la prima novità che il Parini trovò fu del metro: fra tante migliaia d'impolverati sonetti e di canzoni strascicate e di compassate odi e di ecloghe e di capitoli e di ottave e di sciolti, venir fuori con delle strofette ottonarie andanti, sonanti, inebrianti di famigliare letizia:

È pur dolce in su i begli anni De la calda età novella Lo sposar vaga donzella Che d'amor già ne ferí.

In quel giorno i primi affanni Ci ritornano al pensiero E maggior nasce il piacere Da la pena che fuggí.

Pare il còro della Sonnambula.

La strofe di quattro ottonari a rime barítone e ossítone (piane e tronche), usata prima, credo, dal Rinuccini, risponde meglio alla concitazione patetica ed entusiastica; cosí nell'elegia del Rolli, prima poesia imparata a mente da Goethe fanciullo,

Solitario bosco ombroso, A te viene afflitto cor, Per trovar qualche riposo Fra i silenzi in questo orror,[94]

come nell'epinicio del Monti, tanto caro ai nostri padri,

Bella Italia, amate sponde. Pur vi torno a riveder! Trema in petto e si confonde L'alma oppressa dal piacer.[95]

La strofe doppia o geminata, composta cioè di due strofe di quattro versi collegate fra loro per una rima barítona e una ossítona (piana e tronca) combacianti nel principio e nella fine, si presta meglio al periodo poetico e al periodo armonico, allo svolgimento lirico e al coro. Questa elesse il Parini per la sua ode nuziale, e primo l'aveva usato il Rolli.

Nel partir dal patrio suolo Con amor pur meco viene La memoria del mio bene Che m'è forza abbandonar.

A Partenope me 'n volo, Indi solco il mar tirreno; E afferrando il tosco seno Rendo grazie a' dèi del mar.[96]

E al movimento franco rapido allegro del metro risponde nelle Nozze del Parini la cordiale movenza interna dell'ode e la intonazione spontanea, quasi direi popolare. Non miti né simboli, non archeologia né filosofemi, non allegorie non mitologie non pastorellerie; ma in quattro versi la sera delle nozze, e súbito appresso, con un bell'accorgimento di passaggio, lo svegliarsi degli sposi la dimane della notte nuziale.

«Quante cose e tutte belle—nota a questo punto un degli amici biografi, il Bramieri—potuto avrebbe il poeta collocare fra la terza strofe e la quarta! E al suo pennello delicato e sicuro non sarebbe mancata l'arte del velo modesto; ma la casta sua musa, schiva di quelle dipinture che sono sempre pericolose, si slancia pudicamente d'un facil salto dal cominciar della sera allo spuntar del mattino. Che se vi piaccia di riconoscere in quel salto anche un altro intendimento, quello cioè che corrisponde alla nota apposta dall'autore della Nuova Elvisa alla sua lettera LV della parte I, verrete cosí a confermare vie maggiormente che egli è poeta del cuore per eccellenza.»[97] «O amore,—annotava il Rousseau—s'io rimpiango l'età in cui l'uom ti gusta, non è per l'ora del godimento, è per l'ora che lo segue.»

Quando il sole in mar declina Palpitare il cor si sente: Gran tumulto è ne la mente: Gran desio ne gli occhi appar.

Quando sorge la mattina A destar l'aura amorosa Il bel volto de la sposa Si comincia a vagheggiar.

Bel vederla in su le piume Riposarsi al nostro fianco, L'un de' bracci nudo e bianco Distendendo in sul guancial:

E il bel crine oltra il costume Scorrer libero e negletto, E velarle il giovin petto Che' va e viene all'onda egual.

Bel veder de le due gote Sul vivissimo colore Splender limpido madore Onde il sonno le spruzzò;

Come rose ancora ignote Sovra cui minuta cada La freschissima rugiada Che l'aurora distillò.

Bel vederla all'improvviso I bei lumi aprire al giorno; E cercar lo sposo intorno, Di trovarlo incerta ancor:

E poi schiudere il sorriso E le molli parolette Fra le grazie ingenue e schiette De la brama e del pudor.

Dal Poliziano in poi la lirica media non avea prodotto in Italia altro di sí fresco e sí vivo. Incredibile, ma in cotesti versi fin la donna pupattola di Arcadia diventa alla fine sopportabile; nei quali, del resto, anche i piú rigidi settatori della purezza e proprietà del linguaggio poetico de'due grandi secoli poco avrebbero, credo, da apporre e poco da desiderare.

Desiderare forse potrebbero che il poeta avesse lasciato ai soliti cantori di Filli le grazie ingenue e schiette, che assomigliano tanto tanto all' umilissimo devotissimo servitore del formulario epistolare. Anche il giovin petto che va e viene all'onda egual, potrebbe per avventura osservare alcuno di quei rigidi antiquari, non è mica bello né vero: altra cosa è egual all'onda cosí in generale, e altra cosa è l'ariostesco,

Due poma acerbe e pur d'avorio fatte Vengono e van com'onda al primo margo.

Capisco, era peggio come il poeta aveva scritto da prima.

Ch'or discende or alto sal.

Il Parini aveva dato questa canzonetta al Passeroni una sera: la mattina di poi gli scrisse: «Stracciate di grazia la copia della canzone che vi diedi iersera, e sostituite la presente.» Il Passeroni—nota il Salveraglio, al quale dobbiamo anche questa notizia—accolse la nuova lezione, ma non distrusse l'altra; che fu publicata da esso Salveraglio[98]. È pur sempre curioso per gli uomini di gusto, se anche in questa ignobile trascuranza dell'arte della parola non serva piú a nulla, il notare con quanta insistenza, e in quante guise e con quanti assalti diversi, poeti e artisti quali il Petrarca, l'Ariosto, il Tasso, e, dopo loro, l'Alfieri, il Parini, il Foscolo, tornassero e ritornassero su i loro versi, e come da monchi informi brutti pesanti li rendessero un po' per volta intieri agili raggianti volanti. Tant'è vero che nella poesia—s'intende, d'arte individuale—, dopo la barbarie scolastica del medio evo, la percezione del vero e la concezione del fantastico non fu né spontanea né facile né sincera. A noi moderni poi, dopo l'oscurazione dell'ingegno italiano nell'abiettamento degli ultimi tre secoli, bisogna con la profonda meditazione e con la perseverante osservazione levar via le scaglie agli occhi dell'anima contemplante, e gli sbozzi dei fantasmi ci bisogna con la paziente industria dell'arte rassettarli dalle storture e rinettarli dalla scoria che han dovuto pigliare passando per i canali del nostro sentimento, nei quali permeò con l'atavismo la falsità di tante generazioni. Non ci aduliamo, cari compatrioti e coetanei; noi siamo nati brutti, bugiardi e infelici. E l' ispirazione è una delle tante ciarlatanerie che siamo costretti ad ammettere o subire per abitudine.

La prima strofe dunque nella prima redazione diceva cosí:

È pur dolce in su i prim'anni De la calda giovinezza Lo sposare una bellezza, Onde Amor già ne ferí.

In quel dí gli antichi affanni Ci ritornano al pensiere: Ed accrescesi il godere Da la doglia che finí.

Inutile avvertire quanto non pur d'agilità e d'eleganza ma di verità nell'espressione abbiano acquistato dall'emendamento gli ultimi due versi: doglia in quella posizione e con quell'accompagnamento era senz'altro un'improprietà: vano e contraddittorio in termini accrescesi il godere da la doglia: increscioso per lo meno l'aggiunto di antichi agli affanni d'un amore oramai beato. Nei versi secondo e terzo quella giovinezza e quella bellezza erano coi loro doppi zeta due veri macigni; ed era proprio una smanceria d'astratto spropositato, da arcade di terzo o quarto grado, lo sposare una bellezza onde amor già ne ferí.

Della seconda strofe i primi quattro versi non ebbero mutamenti: s'intende: contengono non una rappresentazione ma una osservazione còlta e resa con sentimento istantaneo. I quattro versi di poi sonavano da prima cosí:

Quando riede a la mattina Con la luce avventurosa; Il bel volto de la sposa Si comincia a contemplar.

Tiriamo via su la convenzionale ridondanza del sole che riede a la mattina con la luce avventurosa, ma quel contemplar!

Anche della terza il primo periodo restò immutato: il secondo diceva,

E, contrario al suo costume, Il bel crine andar negletto A velarle il giovin petto Ch'or discende or alto sal.

Inutile notare la pesantezza, la sgarbatezza, forse la scorrettezza di quel contrario al suo costume: inutile notare quanto di verità e determinatezza abbia acquistato la rappresentazione dallo scorrer libero e negletto: ma forse che a velarle per la unità dell'impressione era meglio che e velarle.

Nella quarta un limpido madore era sparso, assai men bene dello splender. Ma il verso quinto e il sesto dicevano,

Come rose al guardo ignote, Ove appar minuta e rada La freschissima rugiada, ecc.

dove io, passando sopra quell' al guardo ignote, mi fermerei volentieri a vagheggiare Ore appar minuta e rada: mi sembra piú vera la raffigurazione, piú logica la correlazione di tempo, che fu guasta dalla correzione; nella quale il cada e il distillò si urtano fra loro, o, meglio, si allontanano troppo l'uno dall'altro.

La prima lezione della quinta offre un Riaprire i rai lucenti e un restar pochi momenti, dei quali non mette conto né anche dir male.

A ogni modo, questa prima parte dell'ode è delle migliori rappresentazioni plastiche dal vero che sia dato ammirare nella lirica pariniana e in generale nella lirica del secolo passato. Ma vien pur fatto di domandarci: una cosí viva e commossa descrizione delle gioie matrimoniali sta ella bene in bocca di un prete, che pur dicea messa, almeno quando n'avea bisogno?

Il Frugoni certa volta, dopo descritti con tante mitologie e sudicerie metaforiche tanti talami, scappò a fare l'ipocrita:

Perché di nozze pingermi Lieta pompa festevole? Non sai che vita celibe Trarre promisi al ciel?

Tu schifosetta e rigida Ma desiosa vergine Mi fai veder, che vassene Sposa a garzon fedel.

Sguardi furtivi e cupidi E sospir caldi narrimi, Ch'esser potrebbon mantice Al sopito desir.

Abbiansi moglie e talamo Que' ch'altra vita seguono; Io di cose a me indebite Non vo' novella udir.[99]

Il Parini almeno, in quel vagheggiamento del matrimonio dal suo stato di celibatario obbligato, è piú sincero e meno impuro. Peggio, per la morale, da vecchio e a letto, misurava e palpeggiava col classico verso le rotondità e le morbidezze delle carni della procuratessa Tron e della contessina di Castelbarco. Ma il Giusti ebbe scrupolo ad accogliere nella sua scelta pariniana Le nozze; e certa gente a ogni passo rinfaccia a questo e quello la purità e la severità dell'arte pariniana. O inchiostranti italiani, se non vi scusasse l'ignoranza, sareste pure di gran begli impostori!

Dissi l'altra volta due essere gli amminicoli o gli ingredienti della poesia nuziale arcadica: la lascivia e l'adulazione. Il Parini riuscí a trasmutare i luoghi comuni della lascivia nella viva rappresentazione di legittime gioie; non riuscí a trasmutare, come pur volle, l'adulazione in civile moralità.

All'ode Le Nozze dopo le prime cinque strofe cascano le ale; o, meglio, ella trascina i frasconi per anche tre; una sola bella, questa:

Ma oimè come fugace Se ne va l'età piú fresca, E con lei quel che ne adesca Fior sí tenero e gentil!

Come presto a quel che piace L'uso toglie il pregio e il vanto, E dileguasi l'incanto De la voglia giovanil!

Se bene non a tutti gli orecchi arriverà proprissimo quell' incanto della voglia giovanil; che anche peggio sonava nella prima lezione, E dilegua con l'incanto De la voglia giovanil! Cotesto ammonimento, del resto, cotesto alto là alla gioventú, a me pare un contrasto non pur morale, ma poetico, di assai effetto. Altro ne pareva a un de' due autori delle Lettere su la vita e gli scritti del Parini, all'avv. Bramieri; delle cui parole mi piace riferire, per una mostra di quanto sia antica abitudine ai critici italiani, o che lodino uno di scriver bene, o che biasimino un'altro di scriver male, lo scrivere sempre pessimamente loro. «Era egli codesto il momento di turbare le delizie dello sposo, di ammorzare il sí dolce entusiasmo e il senso della somma sua felicità, con una riflessione crudele sulla caducità della bellezza, sulla brevità della gioventú e sui tristi effetti della abitudine? Sia pur vero che il poeta non debba giammai perdere di vista l'utile morale, e certo il rimprovero di averlo obbliato non si potrà mai fare al nostro: ma assai di morale istruzione e piú propria all'istante poteva egli dal suo soggetto ricavare, parlando della sobrietà necessaria e vantaggiosa ne' piaceri, del bisogno, che questi hanno, del magico velo del pudore ecc., senza avvelenare le gioie d'un giovine innamorato, che sta per fruirne legittimamente, coll'intonargli all'orecchio e in aria di lamento quelle dure verità. Che s'egli ha poi cercato di consolarnelo coll'idea della virtú, onde, come della bellezza, era fregiata senza pari la sposa, ognuno ben vede che sterile consolazione sia codesta, massime per quel tempo in cui l'uomo è tutto dei sensi ed ascolta una sentenza lor sí funesta. O i sensi parlano allora in lui un linguaggio imperiosamente esclusivo, ed è perduta presso di lui la fatica di moralizzare; o non parlan sí forte, e dalla importuna morale gli è avvelenata la fonte dei piaceri che gli amanti illusi credono inesauribile, immanchevole. Oltre di che madonna la virtú, di sembianze sempre poco grate alla giovinezza, arriva cosí inaspettata, che il venir suo non lascia neppur sentire da lei quella consolazione che meglio preparata poteva arrecare.. .. .»[100]

Quanto a questo il Bramieri ha ragione: la Virtú arriva proprio inaspettata: pare che il poeta se la cacci innanzi spingendola per le spalle: Oh va un po' là e prèdica tu, per finirla; ché io dopo la contemplazione di quel che va e viene non so come cavarmela.—Nella prima lezione la prèdica era anche piú predicozzo: diceva,

Giovinetto fortunato, Che vedrai fra i lieti bari Ne la bella Montanari Un tesoro di virtú!

La virtú non cangia stato, Ma risplende ognor piú chiara; Senza lei saría discara La piú bella gioventú.

Oh Piccolo Lemmi, indimenticabile lettura morale de' miei teneri anni! Il poeta corresse,

Te beato in fra gli amanti Che vedrai fra i lieti lari Un tesor che non ha pari Di bellezza e di virtú!

La virtú guida costanti A la tomba i casti amori. Poi che il tempo invola i fiori De la cara gioventú.

E i versi sono di certo e senza paragone migliori: ma, mutati i sonatori o i suoni, l'antifona è la stessa. E quando non ce n'è, Quare conturbas me? E quando non c'è la poesia, cioè l'invenzione il fantasma la passione e il volo il colore e il canto, quando non c'è tutto insieme l'impasto di tutte queste attività e qualità, metteteci quanta morale volete, e la religione per giunta, metteteci la monarchia la democrazia l'anarchia, Dio o il diavolo, l'arcangelo San Michele o Satanasso, quando la poesia non c'è, non c'è materia o contenenza, non ci sono intenzioni o tendenze che la sostituiscano o la scusino o la compensino. Ciò che in questa occasione e in questo argomento il poeta aveva sentito, e col desiderio o il rimpianto d'un celibe cinquantenne aveva idealizzato, erano i godimenti della luna di miele: di cotesto fece vivo e vero ritratto; tutto il resto non è sentito, è accattato, è impiallacciato per mettere una cornice al quadro.

Cinquant'anni, poco piú poco meno, dopo l'ode pariniana, Giacomo Leopardi compose la canzone per le aspettate nozze della sorella Paolina. Che mutamento! La diversità dei tempi e degli uomini, delle ispirazioni e delle aspirazioni, risulta dalla diversità non pur del contenuto ma dell'intonazione e del metro. Non piú metastasiani ottonari, ma endecasillabi alfieriani; non piú strofette danzanti, ma la stanza della canzone togata con lo strascico; non piú musica, ma eloquenza. Piú che poesia, cotesta del Leopardi è una concione col suo bravo esordio in un periodo a tre membri e piú incisi, e col suo bravo episodio storico in fine; episodio che anche è confermazione; confermazione che anche è perorazione o commozione degli affetti, perché è da vero poesia: ritoccato a pena il seno della madre terra classica, storia o poesia greca e romana, il povero Anteo di Recanati rimbalza.

Virginia, a te la molle . . . . . .

ecc. ecc.; perché spero che tutti i lettori italiani abbiano a memoria quelle due stanze.

Ma, tornando alla canzone intiera, che gravità, che contegno! Par di ritrovarsi con un gruppo di carbonari come va. Che grandi bianche cravatte! che baveri! che cappelli! che ciuffi, e che moschettoni! Ed ecco, tra le classiche reminiscenze di Orazio (Virtú viva sprezziam ecc.) e di Anacreonte ( al dolce raggio Delle pupille vostre il ferro e il foco Domar fu dato ), tra i fremiti convulsi del dialogismo alfieriano ( o miseri o codardi Figliuoli avrai. Miseri eleggi ecc. ), tra le severe armonie della piú peregrina della piú diamantina della piú finamente martellata elocuzione poetica che da gran pezzo avesse udito l'Italia, ecco svolazzare al vento sul dirupo una punta della fusciacca nera di Manfredo e di lord Byron:

...D'amor digiuna

Siede l'alma di quello a cui nel petto Non si rallegra il cor quando a tenzone Scendono i venti, e quando nembi aduna L'olimpo, e fiede le montagne il rombo Della procella.

Nel 1827 o 28 non si può fare a meno d'un po' di romanticismo, anche essendo Giacomo Leopardi. E, pur sedendo al banchetto nuziale, bisogna far giuramento di salvare la patria, e,—pst, pst, chiudete bene le porte—di ammazzare il tiranno. Va bene, e ci sto anch'io, nobili padri! Vogliamo cominciare la rivoluzione col coro di Donna Caritea? Oh meglio, meglio da vero che vendere l'orvietano di frasi sgrammaticate dai palchi scenici di qualunque specie a un popolo che non vuol piú saper nulla di grandezza e di patria!

Ma, tornando anche una volta alla canzone del Leopardi, tutto cotesto era vero?—È storico.—È bello?—Era utile, opportuno, civile.

La lirica nuziale, ripetizione oggimai vieta di luoghi comuni piú o meno affettuosi od occasionali, è non per tanto delle piú antiche tradizioni del canto popolare della nostra razza; e in Grecia e in Roma, quando la poesia accompagnavasi veramente, ideale emanazione, a tutti quasi gli atti della vita sociale, fu altamente civile e religiosa, senza per questo rimanere obbligata a forme fisse liturgiche o rituali.

I greci ebbero di piú maniere poesie nuziali: epitalamii, cantati da cori di fanciulli e fanciulle davanti la camera degli sposi, o la sera al colcarsi o la mattina al levare: scolii, canzonette intonate in mezzo al convito da alcuno dei commensali: imenei, canti morali di ammonimenti e documenti intorno al matrimonio; e altri, descrittivi della pompa delle nozze; e inni a onore degli sposi.

Di scolii uno ce ne avanza, male attribuito ad Anacreonte, tutto ancor fresco e brioso:

O regina de le dive, Cipride; o Amore, forza de gli uomini; o Imene, custode della vita; voi chiamo con la parola, voi ne' canti onoro, Amore, Imeneo, Cipride. Guarda, o giovine, guarda la novizza: sta' su, ché non ti sfugga la caccia della pernice.

Stratocle diletto di Citerea, Stratocle marito di Mirilla, mira la cara moglie, adorna, fiorente, splendida. La rosa è regina dei fiori, rosa tra le fanciulle Mirilla. Il sole t'illumini il talamo: ti cresca nel giardino un cipresso.[101]

Degli epitalamii propriamente cantati non ne avanza. Teocrito, o chi altri nell'età alessandrina, rifece l'epitalamio di Elena; e, o che parte lo deducesse dalle antiche epopee o che parte vi raccogliesse degli spiriti dalla vita ancor poetica del popolo, fe' cosa, pur negli atteggiamenti studiati dall'arte, graziosamente ingenua. Sono dodici fanciulle di Sparta, che, col giacinto alle chiome, in casa il biondo Menelao, intrecciano carole cantando Imeneo dinanzi al talamo di fresco dipinto della Tindaride e del piú giovine Atride. Le fanciulle cominciano giovanilmente scherzose. (Riferisco dalla versione del Salvini, che, dove non falla per difetto del testo seguíto, è delle men peggio).—Dovevi—dicono allo sposo—

. . . . . dovevi tu per tempo. Tu che mestier n'avevi, andare a letto, E lasciar poi che colle sue compagne Presso alla cara madre in festa e in giuoco Si stésse la figliuola infino a giorno; Poi che ce n'era ancor por la dimane Della tua sposa, e ancor per anni ed anni.

Noi siamo—seguitano, cambiando tono, le figlie di Sparta—noi siamo, tutte compagne di età, duecentoquaranta fanciulle, femminil gioventú usa a correre, unte la persona a mo' de' maschi, lungo i lavacri del nostro Eurota; ma niuna di noi è, comparata ad Elena, senza taccia. Quale la veneranda aurora spuntando, mostra la bella faccia, o quale la serena primavera allo sparire del verno, tale anche Elena mostrasi aurea fra noi, ben vegnente come biada che sorge ornamento del solco o cipresso nel giardino o cavallo tessalo al cocchio.—E poi ancora, con desioso e casto intrecciamento delle memorie virginee alle condizioni e agli offici di sposa:

Vaga fanciulla, omai tu donna sei, Ed a guardar la casa omai ti tócca. Noi la mattina al corso ed ai giardini Andremo a coglier fiori e a far ghirlande, Molto, o Elena, te membrando; quali Pecorelle di latte, che son prive Della materna desiata poppa.... Godi, sposa, e tu godi, o nobil sposo.... Doni Latona a voi leggiadra prole, Latona di bei figli alma nutrice; Venere a voi, Venere dea conceda Un eguale d'entrambi amor perfetto.... Dormite, l'un nell'altro, o cari sposi, Amore ed amistà spirando in seno. Destatevi al mattin, non ve 'l scordate. Torneremo ancor noi qui domattina, Tosto che sorto il buon cantor del giorno Strepitando alzerà il piumoso collo.[102]

Ma questa riproduzione artistica dell'età epica non può compensare la perdita degli epitalamii di Stesicoro o dei piú molti composti da Saffo, quando nella lirica eolia batteva giovine il cuore ed esultava la fantasia del popolo greco.

Può essere che da alcuno o da piú degli epitalamii di Saffo ritragga il carme di Catullo per le nozze di Tito Manlio Torquato con Vinia Aurunculeia di nobilissime famiglie romane negli ultimi tempi della repubblica. Imitazioni dal greco certe, almeno di luoghi conosciuti, non pare vi sieno; se bene è vero che abonda di imagini e memorie e forme greche, massime nella prima parte, e greca è la invocazione a Imeneo, dove i romani chiamavan Talassio; ma tutto il carme è anche una perfetta rappresentazione di tutti quasi i riti delle nozze romane. A ogni modo le forme della religione greca sono cosí amicamente conciliate alle romane costumanze, e la vita del momento è còlta cosí in accordo alle relazioni eterne della famiglia e della patria, che quel carme resta ammirabile non solo tra le fantasie pittrici piú graziose e pure che la poesia latina lasciasse, ma fra i piú bei monumenti della classica antichità.

Il rito delle nozze romane, né anche ai dí nostri sparito affatto dagli usi delle popolazioni italiche particolarmente montigiane e isolane, era una poesia per sé stesso, rinnovando in una quasi drammatica raffigurazione le origini e tradizioni epiche della famiglia e del giure gentilizio. Tale rappresentazione Catullo descrive tra da poeta e da sacerdote, ancora vate; la descrive in un carme a strofe brevi e animate, di semplice e abile disegno, che è pur esso un piccolo dramma svolgentesi insieme col maggiore in un monologo variato d'inni e di cori.

La sposa, pettinata fin dal mattino alla foggia delle Vestali con la punta dell' asta celibare, ferro già tinto nel sangue, che segnò il solco alla raccolta capigliatura; coronata di maggiorana o di verbene o di altre erbe raccolte di sua mano; velata il capo, la chioma, tutto il viso, nel roseo flammeo; fatta la confarreazione, nella quale, alla presenza del pontefice del flamine e di dieci testimoni, dopo il sacrificio, partí con lo sposo il pane del farro sacro; aspetta la sera. Imbrunisce. È l'ora che la sposa deve esser rapita a forza, come già furono le Sabine, dal grembo della madre o della congiunta piú prossima. Le fanciulle consanguinee, compagne, clienti, aspettano nell'atrio, con quella affettuosa e quasi religiosa trepidanza che è delle donne in quei casi.

Il poeta, dinanzi alla casa, circondato dalle persone e dalle decorazioni della festa, invoca il giovine dio greco delle nozze; e chiama il drappello delle fanciulle a ripetere in coro l'inno dell'imeneo, ché il dio del piacere legittimo si renda piú facile alle preghiere di voci pure e di bocche innocenti. Ecco l'invocazione, illuminata dalla imagine della verginale bellezza di Vinia, uscente nel carme come Vespero che sale dai colli romani ad affrettare il momento della partita di lei dalla casa paterna.[103]

O abitatore del colle d'Elicona, figlio di Urania, che trai di forza la tenera vergine al marito, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo;

cingi le tempie dei fiori della maggiorana dal soave odore, prendi il velo flammeo, vienne lieto, vienne fra noi, calzato il niveo piede nell'aureo socco;

e tratto alla gioia di questo giorno, cantando con argentina voce il canto delle nozze, batti dei pié la terra, scuoti nella mano la teda di pino.

Però che, quale Venere mosse dall'Idalio al giudice frigio, Vinia a Manlio, vergine buona con auspicio buono, si sposa,

ridente come su l'Asio mortella da'ramicelli fioriti, che le Amadriadi nutrono loro delizia con l'umore della rugiada.

Sí che, or via, affréttati a noi, lasciando gli spechi aonii della tespia montagna, cui dall'alto rinfrescando irriga la sorgente Aganippe:

vieni e chiama la novella padrona alla casa c'ha da essere sua, allacciandole l'appassionata anima di amore, come edera che tenace si aggrappa all'albero con erranti viluppi.

E voi insieme, o vergini pure per le quali simil giorno avvicinasi, cantate, or via, in coro: O Imeneo Imen, o Imen Imeneo;

acciò, sentendosi invitare al suo ministero, piú volentieri egli venga, conducitore della buona Venere, congiugnitore dell'amor buono.

L'inno cominciato con movimento d'entusiasmo va ora seguitando solenne nelle lodi d'Imeneo, in quanto il matrimonio è instituzione non pur domestica ma civile; e canta come le nozze ferme siano principio e fondamento di felicità e di forza agli individui alle famiglie alla patria: canta con quella sobrietà che s'accompagna sí bene al vigore e alla virtù.

Qual dio è piú da invocare agli amanti ansiosi? quale de' celesti gli uomini han piú da venerare? O Imeneo Imen, o Imen Imeneo.

Te invoca per i suoi il tremulo genitore: per te le vergini sciolgono i seni dalla pura zona: te veniente aspetta inquieto con cupido orecchio lo sposo novello.

Tu nelle mani al fiero garzone consegni la fiorente fanciulla dal grembo della madre, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo.

Senza te non può Venere pigliarsi piaceri che l'onestà approvi; ma può, tu volendo. Chi a questo dio oserà compararsi?

Senza te niuna famiglia può avere figliuoli né il padre cingersi di stirpe novella; ma può, tu volendo. Chi a questo dio oserà compararsi?

Terra senza il tuo culto non potrà dare difensori alle frontiere; ma può, tu volendo. Chi a questo dio oserà compararsi?

Giovanni Fantoni, fra tanto altre imitazioni che fece, riprodusse anche ammodernato, in un epitalamio per patrizi veneti, questo carme di Catullo, e specialmente l'invocazione ad Imeneo, cosí:

Voi donzellette amabili, A cui trilustre palpita Nel colmo petto il core, E spesso il volto mostra Un mal celato amore;

Perché discenda facile Il dio, sciogliete un cantico; —Dal sacro orror pimpleo, Dalle materne selve Scendi, Imene-Imeneo.

Te d'ogni stirpe chiamano Speme le madri e i tremuli Vecchi con voce fioca, Te il garzoncello imberbe, Te ogni donzella invoca.

O di costumi agli uomini Dolce maestro ed arbitro, Dal sacro orror pimpleo Dalle materne selve Scendi, Imene-Imeneo.

Tu a re sdegnati e ai popoli Pace ridoni e candida Fe' di pensier concordi, Tu in amistade unisci Le famiglie discordi.

E tu soave imperio Stendi dall'austro a borea Dal sacro orror pimpleo, Dalle materne selve Scendi, Imene-Imeneo.

Per te la zona timide L'intatte spose sciolgono A lusinghiero invito, E cedon lagrimando Al cupido marito

Per te fama non temono Casti Cupido e Venere. Dal sacro orror pimpleo, Dalle materne selve Scendi, Imene-Imeneo.

Scendi, dator benefico Di gioia e di dovizia, Protettore fecondo Delle città, dei campi, Animator del mondo.[104]

E il Leopardi die' luogo anche a questi versi nella sua Crestomazia poetica. Ahimé! È vero per altro che nella chiacchierata poesia italiana ce n'è di peggio.

Poi che i vóti delle vergini e del poeta hanno attirato il nume la cui presenza guarentisce la santità dell'amore, e i fanciulli con le fiaccole aspettano alla porta per l'accompagnamento a casa del marito, è pur tempo che la sposa si mostri. È chiamata: il pudore la ritiene: le sollecitazioni si rinnovano di momento in momento, solo interrotte dalle lodi della bellezza di lei e dalle promesse della felicità che l'attende sicura.

Aprite i battenti della porta. Vergine, fatti avanti. Vedi come le fiaccole agitano le luminose chiome? Un bel pudore la ritiene ... E pure ubbidendo piange che le bisogni andare.

Lascia di piangere. Non per te, Aurunculcia, c'è pericolo che sposa mai più bella abbia veduto spuntar dall'Oceano la luce della dimane.

Tale nel giardino di ricco signore si leva tra gli altri il fior di giacinto. Ma troppo tu indugi. Il giorno se ne va. Esci, o sposa novella.

Esci, o nuova sposa, se ti par ora; e ascolta le nostre parole. Vedi? le faci agitano le chiome d'oro. Esci, sposa novella.

Non sarà mai che l'uom tuo pieghi a tristi amori di adultera, e in cerca di vergognosi piaceri voglia colcarsi lontano dalle tue tenere mammelle;

chè anzi, come lenta allacciasi la vite agli alberi vicini, così egli si allaccerà nel tuo abbracciamento. Ma il giorno se ne va: esci, o sposa novella.

Alla porta i cinque fanciulli pretestati scuotono le cinque faci di spino (rimembranze della primitiva povertà agreste), accese a Giove, a Giunone, a Venere, a Diana Lucina, alla Persuasione. Ed ecco dal fondo bianco dell'atrio rosseggia il velo della sposa.

Alzate, o fanciulli, le fiaccole. Io veggo il flammeo apparire. Andate, cantate in cadenza: o Imen Imeneo viva, o Imen Imeneo.

I pretestati si muovono con in mezzo la sposa; innanzi, l'impubere, il Camillo, che reca in un vaso coperto gli utensili muliebri; dietro un altro fanciullo con la conocchia avvolta di stame ed il fuso: di poi, la lunga schiera dei parenti. Cosí sotto il favore di Giunone Domiduca va la processione nuziale alla casa del marito. E i fanciulli e le fanciulle e i clienti invocano Talassio e Imeneo, e al suono delle doppie tibie il popolo e i servi cantano i fescennini.

I lettori sanno che fossero i fescennini: canti, la cui origine e l'uso era, dicesi, dall'etrusca Fescennia, improvvisati, senza piú rispetto al ritmo e al metro che al pudore. Imaginin dunque i motti, le allusioni, le licenze, le facezie sboccate che dovean correre in tali occasioni tra la folla degli scapati, i quali si divertivano all'impaccio della sposa. E pure il fescennino durò fino agli ultimi tempi dell'impero, nelle nozze dei Cesari cristiani e fin del barbaro patrizio Ricimero. E il poeta della Gerusalemme e quel dell' Adone dedussero nelle loro poesie per nozze di principi cattolici piú dai fescennini di Claudiano e di Ausonio che dai carmi di Catullo. Noi, con tutto il rispetto alla sincerità romana, che volle serbare non che nelle solennità dei trionfi ma nelle feste della famiglia i segni dell'antica rozzezza o realità della vita, passeremo oltre sui fescennini, pur se ricantati da Catullo; e aspetteremo la sposa alla casa maritale su la soglia, che ella non deve toccare co' piedi, ma oltrepassare, sollevata a braccia dai pronubi.

Eccoti la casa ricca e beata dell'uom tuo, che sarà tua sempre ...

Sino alla canuta vecchiaia che movendo il tremolo capo par che dica a tutti di sí ...

Porta con buon augurio que' piedini d'oro oltre la soglia ed entra per la nitida porta. O Imen Imeneo viva, o Imen Imeneo.

Il poeta, trasvolando su i riti minori che la sposa entrata nella nuova dimora aveva da compiere, le mostra lo sposo seduto al convivio.

Vedi là dentro, nella sala del convito, l'uom tuo, che dal letto di porpora tende a te le braccia impaziente.

A lui non meno che a te arde nell'intimo petto la fiamma d'amore, ma a lui più profonda. O Imen Imeneo viva, o Imen Imeneo.

Il poeta e il corteggio passano in fretta dinanzi al convito, e s'avviano al talamo. Un de' pretestati va innanzi con la fiaccola di corniolo: un altro tiene la sposa pe 'l braccio o al braccio. Da lui la ricevono le pronube, matrone d'un solo marito, e l'allogano nel letto covertato di porpora. Dopo di che, i parenti e gli amici strappano e portano via la face di corniolo, che rimanendo nella camera o riposta dagli sposi sarebbe augurio di morte. A questo punto entra il marito; e la poesia, in su la sdrucciolo, si rialza nelle imagini della bellezza di quelle due giovinezze e della prossima maternità.

Lascia, o pretestato, il bel rotondo braccio della fanciulla: si appressi ella oramai al letto del marito........

E voi, oneste matrone e rispettate dai vostri vecchi, collocate la fanciulla nel letto. O Imen Imeneo viva, o Imen Imeneo.

Adesso puoi venire, o marito: la moglie ti è nel letto, brillante nel viso fiorito come bianca partenice o papavero rosso.

Ma anche tu marito (cosí mi assistan gli dèi) sei bello non meno, né Venere ti ha trascurato. Ma il giorno se ne va: affréttati, non t'indugiare.

Non tardasti troppo: éccoti. La buona Venere ti sia propizia, poi che ti pigli in palese il piacer tuo e non celi il legittimo amore.

.. . E in breve date figliuoli. Un cosí antico nome non sta bene senza figliuoli, ma bisogna che sempre si rinnovelli.

Voglio che un Torquatino, porgendo dal grembo della madre sua le tenere manine, rida dolcemente al padre col socchiuso labbruccio.

Somigli tutto a suo padre Manlio, e lo raffigurino anche quelli che non lo sanno; e gli si legga in viso la pudicizia della madre.....

Chiudete i battenti, o vergini: cantammo assai. Ma voi, nobili sposi, vivete felici, ed esercitate nell'amore la valida gioventú.

Cosí finisce questo carme, antico di quasi duemila anni. Nel quale—traduco da un vecchio erudito francese di buon gusto, il Naudet—quanto è il movimento e la vita e la energia imitativa!

E come bisogna innanzi tutto ammirare la semplicità dei mezzi onde il poeta produce tanti effetti pittoreschi! Egli direbbesi che prenda la lira come uno dei cantori omerici, le cui armonie rallegravano le feste e i banchetti degli eroi. Canta, e tutte le vicende del rito nuziale ci passano una dopo l'altra davanti gli occhi. La grazia, la forza, la maestà, la magnificenza, la gioia, la passione, il sentimento religioso variano a volta a volta le sue imagini; e tale è la illusione di quella poesia, che ancora crediamo udire le acclamazioni d'imene e vedere gli attori della festa. Piú che descrizione e pittura è uno spettacolo animato.[105]

E come, aggiungiamo noi, dinanzi a questa poesia della vita appaiono fredde, solitarie, quasi egoistiche, le gioie descritte nella sua ode dall'autore del Giorno e le moralità verseggiate nella sua canzone dal poeta di Bruto minore! E vien fatto di pensare: Come dové esser meschina la età che ispirò le Nozze del Parini! e come infelice la generazione che produsse la canzone del Leopardi!

ADOLESCENZA E GIOVENTÚ POETICA

DI UGO FOSCOLO

Nella Domenica letteraria del 2 luglio 1882 recensione che non fu continuata delle Poesie di Ugo Foscolo edizione critica per cura di Giuseppe Chiarini. Livorno, Vigo, 1881: 16º con ritratto e facsimile.

ADOLESCENZA E GIOVENTÚ POETICA

DEL FOSCOLO

I.

In questa edizione le poesie del Foscolo, liriche e satiriche, originali e tradotte, edite e inedite, con varianti e illustrazioni d'ogni maniera, tengono 485 pagine; e sono distribuite in quattro parti: 1) pubblicate da esso l'autore, 2) frammenti del carme alle Grazie, 3) postume e traduzioni, da quella in fuori dell'Iliade, 4) giovanili. Sta innanzi in CCXXVI pagine la prefazione del Chiarini, che dà di esse poesie la storia interna ed esterna e molte notizie e induzioni e questioni su gli amori su i lavori e in generale su la vita del Foscolo.

II.

Facciamoci dai versi giovanili, o, meglio, dell'adolescenza; dai versi, dico, che il Foscolo compose in Venezia dai quattordici ai diciannove anni, tra il 1792 e il '97, e che hanno per termini il Tieste e l'oda Bonaparte liberatore. Non pregi veri o contrastati che abbiano, ma ci sedurrà a fermarci attorno ad essi certa curiosità degli indizi di quel tempo e delle alluvioni e fecondazioni che si successero in quel singolare spirito giovinetto.

Monumenti e notizie dei primi saggi poetici del Foscolo sono nel manoscritto ch'ei mandò il 1794 a Costantino Naranzi e fu impresso il 1831 in Lugano coll'ambizioso titolo di Poesie inedite, nelle lettere a Gaetano Fornarini di Brescia dal dicembre del '94 all'agosto del '95, in un Piano di studi e indice di scritti concepiti o finiti o abbozzati sino all'anno 1796 lasciato a Tommaso Olivi da Chioggia e pubblicato il 1881 in Bologna dal sig. Leo Benvenuti, nel Mercurio d'Italia e nell' Anno poetico di Venezia del 1796 e 97, e in pochi fascicoli stampati in quegli anni o di poi per occasioni: documenti tutti che il Chiarini con ogni diligenza raccolse, raffrontò, esaminò o anche riprodusse nel volume.[106]

Il Foscolo dunque fu verseggiatore precoce. Tradusse molto: tutto Anacreonte, due odi di Saffo, un'ode di Pindaro, e pezzi di Teocrito, e da Orazio parecchie odi, ed elegie di Catullo e di Tibullo e Properzio; di latini moderni, dal Pontano; di stranieri, il libro terzo del Paradiso perduto, e idilli di Gessner, e canzonette inglesi, francesi, tedesche, tutto dal francese; fino una canzoncina di Thesdeher (?) anacreontico turco, del quale piú altre poesie affermava conoscere voltate in greco volgare. Tredici anni dopo, da Pavia, professore, scriveva: «Si canta canzoni greche, in canto fermo, a modo degli Albanesi, e ieri quelle arie, tra il barbaro e il passionato, esilararono la penosa anima mia.»[107] Forse il zacintio aveva dai primi anni ritenuto nella memoria di que' distici cosí amorosamente greci cantati ancora per le isole Jonie; come, a esempio, questi tre tutti Teocrito:

Quando il gelsomino fiorisce, le sue ciocche se ne ornano; E quando la giovinetta s'abbiglia, i giovani escono di sé. Papavero folto, folto, gentile, Prestami i fior tuoi e'l tuo rossore, Ch 'i' mi vesta, m'abbigli, nel lido scenda E strugga d'amore.

Stilla il tuo tetto a correnti a correnti amarezza, E io assetato la beo per il dolce amor tuo.[108]

Altrettanta, se non larghezza, varietà o divagazione di contatti, e, se mi sia permessa l'espressione, d'attingiture e intingiture, è attestata anche dal piano di studi, ove si abbracciano o fanno alle braccia i nomi di Omero e d'Ossian, del Tasso e di Milton, di Sofocle e di Shakespeare, dell'Ariosto e di Rousseau, di Swift e di Cervantes, di Teocrito e di Gessner, delle Georgiche e de' Piaceri dell'immaginazione, di Saffo e delle lettere d'Eloisa imitate da Pope, d'Orazio del Guidi e di Gray, del Frugoni e di Haller, del Savioli e di Whaller, di Richardson, di Arnaud e di Goethe. E tutte queste letture e versioni e imitazioni, se non potevano per una parte conferire di molto alla pronta e retta educazione del giudizio estetico, dovevano per un'altra promuovere il rapido svolgimento di quel senso d'una vita piú larga e piú mossa in una realtà passionata, che, pur con l'espressione enfatica e asmatica e torbida, distingue subito i poeti e gli scrittori in generale della fine del secolo dagli arcadi e dagli imitatori dei cinquecentisti nel principio o nella metà prima.

Del proprio il Foscolo giovinetto compose molte anacreontiche su l'innanzi del Vittorelli e del Bertòla, tredici odi savioliane —cosí egli—, molte odi oraziane, cioè a mo' di Labindo, e idillii gessneriani a strofette fra rolliane e frugoniane a mo' pur del Bertòla; i quali modi tutti erano la moda poetica dell'Arcadia trasmutantesi al filosofismo sentimentale. E con ciò scriveva anche un'ode mosaica e parodie (poveretto!) delle odi pindariche. Ma piú dovea tenersi di certe odi che accennava al Fornasini fin dal 19 agosto '95 e indicava e registrava nell'indice del '96. Non oraziane o fantoniane, non savioliane, non pindariche, non mosaiche; ma del conio dell'autore —cosí egli.—Dovevano andar raccolte in un solo libretto col motto Vitam impendere rero. Dovevano esser dodici, ma tra le finite nel '95 e le composte o da comporsi nel '96 e nel 97 io ne conterei diciassette. Vero è che alcune le avea rifiutate, e di tutte sentenziava nell'indice, « esigono la lima di molti mesi. » Di piú, per quelle già composte nel '95, «L'inquisizione—egli scriveva al Fornasini—si mostra severa; a primo leggerle sembrò sia stata presa da un accesso di febbre.» Eccone gli argomenti e i titoli: nel '95, A Dante, La verità, Il sacrificio o L'olocausto (allo Scevola: per nuova messa), La campagna (al Bertòla), In morte del duca G. C., L'ingordigia o L'avarizia, L'incontentabilità, I destini, Ai regnanti (qui—notava il poeta—l'inquisitore fa foco), L'adulazione (al Parini), All'Italia: nel '96, I Grandi, A mia madre, La musica (all'Ansani), Robespierre (ne fece poi in cambio una cantica), Il mio tempo. E a questa serie si lega l'ode Ai novelli repubblicani composta e pubblicata nel 97. Il Chiarini ritrovò e ha pubblicato le intitolate A Dante, La verità, La campagna, In morte del duca G. C., Ai novelli repubblicani.

La campagna è dei soliti pasticcetti gessnero-bertoliani. Quella su la morte del duca spira furori biblici contro gli empi. Nelle altre si sente la lettura del Parini, dell'Alfieri, del Mazza, ma senza rimembranze; e certe imagini profetali e certe forme quasi dantesche e piú le imitazioni di Young e di Ossian sono in viscida mescolanza impastate con la fraseologia filosofica sentimentale e democratica di quella età. Singolari per audacia di grottesco certi impeti e certe mosse. Al Bettinelli, cui piú tardi mandandogli i Sepolcri dovea salutare padre e maestro, nell'ode a Dante augura questo:

Pera!...

La lingua succida (sic)

Costui nutra nel sangue, E per delfici lauri Gli accerchi invece un angue, Sanie stillante infesta, L'abominevol testa.

La Verità principia cosí:

Sino al trono di Dio Lanciò mio cor gli accenti Che in murmure tremendo Rispondono i torrenti, E dalla ferrea calma Delle notti profonde Palma battendo a palma Ogni morto risponde.

Nel Mio tempo:

Vien meco, o Elettra, a piangere Il soqquadrato mondo, Ch'ode gli eterei fulmini E corre furibondo A trar suoi giorni eterni Nei spalancati Averni.

Ai novelli repubblicani, con rimembranze delle tragedie scritte dall'Alfieri e delle tragedie fatte dalla rivoluzione diceva:

Questo che io serbo in sen sacro pugnale Io l'alzo, e grido all'universo intero: Fia del mio sangue un dí tepido e nero Ove allontani le santissim'ale Dal patrio cielo Libertà feroce. Già valica mia voce D'Adria le timid'onde, E la odono eccheggiando Le marsigliesi sponde.....

A l'armi! Enteo furor in voi discende, Che i spirti ingombra e l'alme erge ed avvampa; E accesa in ciel di ragïon la lampa, Vi toglie agli occhi le ingannevol bende: Che ragïon figlia di Dio v'invita A vera morte e addita I rei petti esecrandi Ove, Piantate, grida, Infin a l'elsa i brandi.

Delle odi libere, cioè delle canzoni a strofi sciolte sul modello del Guidi, altra forma lirica agli esercizi del giovinetto, una sola rimane, ben conosciuta, il Bonaparte liberatore (1797); ove la rigidezza alfieriana si scioglie e distende sotto i tepori del Monti, e spuntano e si affacciano o si accusano le prime forme veramente foscoliane.

Anche sonetti, naturalmente, compose: non so quanti per monache, quattro per la morte del padre: un de'quali a stampa, e negli ultimi versi risuona il pianto come si faceva una volta intorno a'morti:

spirata l'alma,

Cessò il silenzio; e alle strida amorose La notturna gemea terribil calma.

Il Chiarini riprodusse quello su la neutralità di Venezia, di valore storico, e anche non senza qualche efficacia di rappresentazione.

O di mille tiranni, a cui rapina Riga il soglio di sangue, imbelle terra! 'Ve mentre civil fame ulula ed erra, Siede negra politica reina;

Dimmi che mai ti val se a te vicina Compra e vil pace dorme, e se ignea guerra A te non mai le molli trecce afferra Onde crollarti in nobile ruina?

Già striscia il popol tuo scarno e fremente E strappa bestemmiando ad altri i panni, Mentre gli strappa i suoi man piú potente.

Ma verrà giorno, e gallico lo affretta Sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni Farà col loro scettro alta vendetta.

E io credo si debba riportare e riallogare in questo primo periodo il sonetto che incomincia Quando la terra è d'ombre ricoverta, dal quale, come ben parve al Chiarini, il Foscolo poeta poi da vero rifece nel 1800 il bellissimo Cosí gl'interi giorni ecc.

Laura, canti in terzine e in isciolti —è nell'indice del '96 la intitolazione generale d'una serie di poesie, d'argomento, come chi dicesse intimo o soggettivo, meditazioni o elegie: in terzine L'aurora, La notte, Le rimembranze, Le ore: in isciolti, Il tempietto, Amore, I deliri. Non rimangono che Le rimembranze, alle quali si può accompagnare la elegia pure in terza rima per morte di Amaritte, pubblicata in una raccolta del '96: da questa apprendiamo che il poeta piangeva da un anno la mortagli amica, giovinetta bionda con occhi azzurri. Il piú volte citato indice fra altre prose registra Lettere ad una fanciulla, e anche Laura—lettere; nell'Ortis è la storia di Lauretta; e forse in quell'amore e in quel dolore di adolescente convien ricercare il primo elemento del romanzo, del quale, ricordiamolo, la scena per la prima parte è posta nei colli euganei. Il Chiarini ne ha indovinato, parmi, qualcosa (pag. XXX della prefazione); egli, spero, non intralascerà gli studi sul Foscolo, e vorrà procurare un'edizione critica dell'Ortis con raffronti e richiami alla edizione bolognese lasciata a mezzo e poi rifiutata: allora vedrà se in quel romanzo, come a me pare, si possa distinguere o scernere due o tre elementi diversi, due o tre diversi momenti di concezione e di elaborazione. Torniamo ai canti elegiaci. Di quelli in isciolti già enumerati nell'indice non se ne sa nulla; ma resta inedito uno composto del '95 in morte del padre, e fu stampato nel '97 un canto al sole.

In tutte coteste o meditazioni o elegie o poesie intime, sciolte e rimate, che sopravanzano, spasseggia assai vistosamente la gufaggine sepolcrale di Young.

Nell'elegia per Amaritte:

Triste è cosí de'morti la campagna Allor che Young fra l'ombre della notte Sul fato di Narcisa egro si lagna;

E al suon di sue querele alte interrotte Silenzio oscurità s'alzan turbati Dal ferreo sonno di lor ampie grotte.

E nelle Rimembranze:

Era l'istante che su squallid'urne Scapigliata la misera Eloisa Invocava le afflitte ombre notturne,

E sul libro del duolo n'stava incisa Eternitade e morte a lamentarsi Veniva Young sul corpo di Narcisa.

Peggio negli sciolti al sole:

Dal fondo

D'una caverna i fremiti e la guerra Degli elementi udii. Morte su l'antro Mi s'affacciò gigante; ed io la vidi Ritta: crollò la testa e di natura L'esterminio additommi.

Truffaldinata che ha l'antecedente nell' Entusiasmo malinconico del Monti. Nelle Ricordanze, fra ripetizioni e ripercussioni dantesche e versi di taglio alfieriano, c'è anche qualche tratto di quel misticismo sensuale di origini miste anglo-tedesche, che riscalducciò poi per tanti anni il romanticismo inferiore.

E mi stringea le man:—tutto fuggío Della notte l'orrore, e radïante Io vidi in cielo a contemplarci Iddio.

E petto unito a petto palpitante, E sospiro a sospir, e viso a viso, La bocca le baciai tutto tremante.

E quant'io vidi allor sembrommi un riso Dell'universo, e le candide porte Disserrarsi vid'io del paradiso.

Deh! a che non venne, e l'invocai, la morte?

Ma negli sciolti al sole si annunzia qua e là il Foscolo futuro. La derivazione e anche un po' la intonazione è dall'apostrofe alla luna nella Dartula ossianesca; se non che il sentimento vero del poeta ben presto penetra l'imitazione e la trasforma.

Te, o Sol, riprega la natura, e il tuo Di pianto asciugator raggio saluta, E tu la accendi; e si rallegra e nuovi Promette frutti e fior. Tutto si cangia, Tutto père quaggiú! ma tu giammai, Eterna lampa, non ti cangi? mai? Pur verrà dí che nell'antiquo vòto Cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo Ritirerà da te: non piú le nubi Corteggeranno a sera i tuoi cadenti Raggi nell'Oceàno; e non piú l'Alba, Cinta di un raggio tuo, verrà sull'orto Ad annunziar che sorgi. Intanto godi Di tua carriera. Oimè! ch'io sol non godo De' miei giovani giorni; io sol rimiro Gloria e piacere, ma lugúbri e muti Sono per me, che dolorosa ho l'alma.

Quel corteggiar delle nubi lo riprese poi in uno de' sonetti piú veramente belli,

O sera! E quando ti corteggian liete Le nubi estive e i zefiri sereni:

ed è delle non poche novità da lui portate nella lingua poetica.

Prima de' diciannove anni il Foscolo faceva e volea fare pur troppo anche de' poemi e delle cantiche; uno per esempio, che descrivesse la storia del cristianesimo nientedimeno che dal principio alla fine del mondo; e il Genio, in tre canti di versi sciolti (Canto primo, Il Genio universale: Canto secondo, Il Genio nelle scienze: Canto terzo, Il Genio nelle arti); e Il Piacere, canti tre in terza rima; e súbito dopo Il Robespierre, o, come scriveva egli, Il Roberspiere, canti tre pure in terza rima. Per fortuna, di cotesti poemi non ci resta nulla; se non l'occasione a notare come di simili trattazioni didascaliche e filosofiche l'esempio venisse dalla poesia inglese d'allora e avesse anche sedotto in età piú matura e già padrone dello stile quell'altro greco ingegno di Andrea Chénier: le cantiche poi dovevano essere d'ispirazione montiana. Lo fan supporre due poemetti che, fuori dei registrati nell'indice, furono stampati: La Croce, canto in terza rima pubblicato del '96 per monaca, e La Giustizia e la Pietà, canti due in versi sciolti con un coro rimato, pubblicati del '97 per S. E. Angelo Memmo che lasciava la reggenza di Chioggia.

La Croce mostra anche montiano del tutto l'impasto dello stile e l'andare della verseggiatura: ci sono terzine ormate evidentemente su altre del Pellegrino apostolico, qualcheduna non però senza grazia:

Tremante allor, con luci timorose, Si strinse alla sua duce la donzella E nel suo petto il volto si nascose.

Poi l'alzava qual dopo la procella Pian pian tragge dal nido il capo, e guata, L'impaurita ingenua colombella.

Nei canti pe 'l Memmo è notevole, almeno come ricordo del luogo natale, la lode dell'aver represso il brigantaggio in Zante:

. . . . . Di trofei recinto

Te Corcira adorò; d'Itaca i solchi Al tuo apparire germinàro, offrendo A te raro tributo; e Cefalene Ancor ne serba la memoria dolce. Ma Pietà tacque, e tonasti vendetta, Decretata già in ciel: quando alle ricche Zacintie spiagge tu lanciasti un guardo, Tremàro. Ahi come abbandonate e sole Stavan sui freddi talami le meste Consorti cinte dai piangenti figli! Ahi come il sangue uman sparso dall'uomo Scorreva a rivi! Ahi come in man del ladro Era la lance di giustizia, e come Tutto era notte, tempesta, spavento! Ma tu sorgesti, e il lutto sparve ancora. Al Memmio nome l'omicida infame Getta il pugnale, ed all'aratro torna, Onde sien carchi di Britannia i pini Del dolce frutto di Zacinto onore.

Ma fra altre lodi molte c'è uno sfiatatoio allo spirito democratico:

Pèra colui che il popolar talento Deluse primo e calpestò la plebe Schiava, già donna di sé stessa e d'altri.

Chiudo la serie delle citazioni con due terzine del Robespierre, che il Foscolo stesso mandava come saggio, in una lettera del '96, al Costa:

Tal del Giordan sul margo un dí solía Pianger l'arsa Sionne e il tempio infranto L'ispirato dall'alto, Geremia.

E ad ogni verso del funereo canto Contemplava le meste onde scorrenti Tacito, immoto, con le luci in pianto.

Non sono gran che, ma pure il pensiero ricorre ai versi dei Sepolcri che rappresentano l'Alfieri, e alla figura dell'Alceo nell'inno alla nave delle muse.

Finalmente il 4 gennaio del 1797 fu nel Sant'Angelo recitato, e per nove sere ripetuto con irruzione che formar potrebbe epoca (cosí si scriveva allora l'italiano in Venezia), il Tieste. E il diciottenne tragedo aveva anche in pronto un Edipo, recitabile (attesta egli nell'indice), ma da non istamparsi; e meditava Focione e i Gracchi.

Del Tieste né si può né si deve discorrere qui. E già troppo ci siamo indugiati intorno a poveri versi immaturi d'un poeta insigne. La colpa è del Chiarini, che, avendoli al fine tutti raccolti e industriosamente illustrati, ci ha alléttato a ricercarli con qualche curiosità, non per rifiutare e né meno per correggere il giusto giudizio datone da lui, sí, ripetiamo, per trovarci indizi dei sentimenti del tempo e trarne induzioni e divinazioni sul poeta futuro. Ma i veneziani coetanei di Carlo Gozzi del Baffo e del Gratarol riguardavano allora non senza stupore quello strano giovinetto greco di pelo rosso, che recitava Dante con rauca voce sepolcrale e componeva de'poemi su Robespierre e delle tragedie su Tieste. Un Eduardo Samueli gli diceva:

Quand'io ti vidi rabbuffati i crini Con rauca voce e fiammeggianti sguardi Cantar in suon feroce i sacri ond'ardi Del tuo padre Alighier carmi divini;

e, accennato alla cantica e alla tragedia, conchiudeva:

Cingi, o Italia, gridai, le fulve chiome Del non tuo figlio del natío tuo serto, E ne scolpisci ne' tuoi fasti il nome.

E un Ferdinando Vaini,

Su l'addensata notte De' secoli fra rotte Ombre, lucente, altero, Quasi cometa pe 'l nemboso piano, O poeta, tuo nome Galleggiar veggo con l'ignite chiome.

Mario Pieri, nelle sue memorie, descrive il Foscolo del '97 cosí: «Io aveva già udito far menzione anche in Corfú d'un giovane mezzo veneziano e mezzo zacintio, cioè nato al Zante di padre veneto e di madre greca, che già levava grido in Venezia pe 'l suo talento poetico. Egli contava a un di presso i miei anni e forse qualcuno di piú. Tenea fermo soggiorno in Venezia, ed abitava con la sua madre vedova, e parmi anche col fratello e con una sorella, in campo delle Gatte, contrada delle piú sudice di quella magnifica città, in una casa, per dir meglio catapecchia, sí miserabile, che nelle finestre non aveva vetri, ma bensí le impannate. Quel giovane per altro, ben lontano dal lasciarsi avvilire a quella intollerabile povertà, scherzava, potrebbesi dire, con essa, e sfidavala, e quasi se ne compiacea, superbo del proprio talento, e consolato dalla speranza di gloria che i suoi studi gli promettevano. Rossi capelli e ricciuti, ampia fronte, occhi piccoli e affossati ma scintillanti, brutte ed irregolari fattezze, color pallido, fisionomia piú di scimmia che d'uomo: curvo alquanto, comecché bene aitante della persona: andatura sollecita, parlare scilinguato ma pieno di fuoco: mettea meraviglia il vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere piú graziose e da tutta la gente. Questi era Ugo Foscolo, noto allora per sonetti ed anacreontiche, e sopra tutto per molte terzine dantesche; e che avea già consegnato alla compagnia del teatro Sant'Angelo il suo Tieste, sua prima tragedia, che eccitava in tutta Venezia una grandissima aspettazione, e ch'io vidi poco dopo in quel teatro accolta con applausi quasi incredibili, e replicata per ben trenta sere, onde appagare que' cencinquantamila abitanti che volevan tutti sentirla. Io lo conobbi quasi appena arrivato a Venezia, ed a lui mi condusse Niccolò Delviniotti, mio concittadino, di sempre cara ed onorata memoria. Lo rivedea poscia sovente in Milano nell'ultima guerra, ma quanto diverso di quello di prima! Quell'uomo che vantavasi d'esser povero, e di non cibarsi d'altro che di riso e pane, e che andava sudicio e malvestito, tu lo avresti veduto tutto attillato e pulito, in un ricco quartiere, farsi abbigliare da capo a piedi dal suo servitore, frequentare le mense de'grandi e venire predicando i comodi della vita ... Egli per altro, sia detto a lode di lui e della verità, non prostituí mai il santo ministero dell'uomo di lettere, né serví alle occasioni, né ai governi, né ai principi; pur beato se non si fosse lasciato sedurre alle lusinghe del lusso di una corrottissima metropoli, che opprimendolo di debiti sparse di grande amarezza e affrettò i suoi ultimi giorni in mezzo al vigore delle sue onorate fatiche.»[109]

In questa pagina vive tutto il Foscolo di diciotto anni co' fremiti e coi versi che udimmo: strana apparizione in quell'inverno dal '96 al '97 che diè l'ultimo e il piú allegro carnevale alla repubblica di Venezia, presso a crollare senza resistenze, senza difese, senza rimpianti.

III.

Il secondo periodo delle poesie del Foscolo è dalla venuta in Milano nel novembre del 1797 dopo la cessione di Venezia alla partenza pe 'l campo di Boulogne nel giugno del 1804: è la gioventú vera dell'animo e dell'ingegno non che della vita d'Ugo, travagliantesi fra le armi e i pericoli e le passioni nella repubblica cisalpina e nell'italiana. Ora, dopo le ricerche e le fatiche del nuovo editore, che, seguendo anno per anno, mese per mese, a passo a passo, i viaggi gli amori e gli studi del poeta, ha nei capitoli terzo e quarto della prefazione assegnato con quasi certezza o dato altrui gli argomenti per assegnare il tempo della composizione di ciascun sonetto e ode, sarebbe un piacere discorrere di quella gioventú del lirico greco-italiano e riconstituire la storia dello svolgimento passionato ed artistico di quella poesia. Ma io non posso che accennare.

Le poesie di questo secondo periodo, cioè dodici sonetti e due odi (nella parte prima della edizione chiariniana) si può anzi si deve, chi le voglia intendere bene, dividere in due serie, che rispondono a due fasi o momenti diversi o meglio a due diverse condizioni e parvenze dell'animo e dell'ingegno del poeta. La prima, se mi sia lecito usurpare ad appropriazione individuale la denominazione d'un periodo della letteratura tedesca, è dello Sturm und Drang: ha il motivo e la ragione nella perdita della patria e nell'amore senza speranza per l'Isabella Roncioni, ha per termine e sfogo Le ultime lettere di Iacopo Ortis pubblicate nell'ottobre del 1802. La seconda, movendo dalla trasmutazione del sentimento a una piú larga se non piú chiara comprensione dell'essere, è della calma nel dolore e dell'amore per la plastica: è il regno delle forme dell'Antonietta Arese, e ha per contorno il commento alla Chioma di Berenice, pubblicato nell'agosto del 1803.

Come aveva chiuso la poetica adolescenza con l'imitazione della tragedia alfieriana nel Tieste e delle canzoni alfieriane nell'ode al Bonaparte, cosí Ugo cominciò alfiereggiando anche nei sonetti. Il primo, per la sentenza capitale contro la lingua latina proposta nel gran Consiglio Cisalpino l'anno 1798, ha solo il valore di documento storico, e del resto è inferiore a quello dell'Alfieri su la soppressione dell'Accademia della Crusca; anzi, a esser franchi, procede fra grandi avvolpacchiamenti di parole un po' slombato. Alfieriano sempre, ma già con un tic d'originalità, il secondo Non son chi fui. Ma di lí a pochi mesi, forse a pochi giorni, ecco i tre, E tu ne'carmi, Perché taccia il rumor, Meritamente, mirabili di novità, di purità, di movimento, vera lirica, alfine, dell'affetto superiore ed intenso trasformato ed idealizzato nel fantasma. Sono tutti e tre per la Roncioni, e scritti, come il Chiarini ha dimostrato, parmi, sicuramente, i primi due nel marzo o nell'aprile del '99 quando i Francesi occuparono la prima volta Firenze, il terzo nella Liguria, lo stess'anno, probabilmente d'autunno. Sono i tre momenti dell'amore: l'ammirazione, il tremore, il dolore. Ma chi gli aveva dopo il Petrarca cantati mai cosí? E chi all'estasi e al gemito del Petrarca aveva mai saputo mescolare quel profumo e quel fremito di ionia primavera? chi nella toscana eleganza della forma petrarchesca aveva mai saputo condurre la purità della linea attica e la mollezza della voluta corintia con tanto pacata sveltezza? E quel zantiotto che era stato a scuola a Spalatro, italianizzatosi, diceva il suo ammiratore Samueli nel '97, da quattro anni, fra i ciaccoloni cesarottiani veneti, digrignante sotto il suo soprabito verde versi apocalittici, come cosí d'un tratto era arrivato a tanta proprietà, eleganza ed efficacia di lingua, a tanta squisitezza, morbidezza, pastosità d'elocuzione, a tanta musica e volo di verso? Miracoli! Che un primo e vero amore, che l'apparizione soave d'una giovine bella e pura possa con un sentimento nuovo promuovere una nuova espansione della forza fantastica, s'intende. Ma la materia per esprimere ed imprimere i fantasmi, la parola, e l'istrumento e l'arte, chi glie li diede?

Al sonetto di lontananza ( Meritamente ) che tócca l'ultimo limite della passione (... Amor fra l'ombre inferne Seguirammi immortale onnipotente ), succede, quasi intermezzo di riposo, l'ode, composta nel marzo 1800, per la Pallavicini caduta da cavallo. Procede questa, come anche notò il Chiarini, dalle odi pariniane, da quelle specialmente per donne; anzi il paragone di Pallade (T al nel lavacro immersa ) par suggerito da un simile nel Pericolo:

Parve a mirar nel volto E ne le membra Pallade, Quando, l'elmo a sé tolto, Fin sopra il fianco scorrere Si lascia il lungo crin.

Anche la combinazione dei versi, la strofe, è un misto di quelle del Pericolo e dell' Educazione. Quel tronco finale del Pericolo martellava un po' troppo: piana troppo in vece, e quasi discorsiva, la strofe dell' Educazione. E questa fu rialzata con gli sdruccioli al fin d'ogni coppia, e quella del Pericolo ammollita con tôr via il tronco. È un metro che il Foscolo deve al Bertòla. Per l'invenzione fu già notato che move dall'ode I Cocchi di Luigi Lamberti. Ma nell'eccellenza, almeno per gran parte, dell'esecuzione il giovine lirico si lascia addietro d'assai, non che il Lamberti, il Parini.

Liberata, come si diceva, l'Italia, e restaurata la repubblica, il Foscolo da Milano fu sul finire del 1800 a Firenze, e cantò il chiudersi dell'anno e del secolo con un sonetto novellamente alfieriano ( Che stai? ), di magnanima conchiusione. E chiuse la storia del giovanile e infelice amore col bellissimo Cosí gl'interi giorni.

Questi sette sonetti, con un ottavo Il ritratto e con l'ode alla Pallavicini, pubblicati la prima volta nel Nuovo giornale dei letterati in Pisa del 1802, sono come i bassorilievi piú puramente artistici che circondano e adornano la base della piramide funebre o del cono tronco, un tantino rococò, di Iacopo Ortis. Ma il ritratto non è mica gran cosa, che che ne pensino i facitori d'antologie e i maestri di scuola. Prima di tutto, la enumerazione, chiunque la faccia, non sarà mai poesia; e poi questa enumerazione foscoliana in quattordici versi non ha né meno il merito dell'originalità; è una scimiottata di quella dell'Alfieri, alla quale per concettosità e concisione rimane di molto inferiore. Già, a proposito di autoritratti mi torna sempre a mente quella mossa del Montesquieu: Je vais faire une assez sotte chose, c'est mon portrait. E mi dispiace che uomini come l'Alfieri e il Foscolo dandosi cosí in pascolo agli sciocchi abbiano lusingato le inclinazioni istrioniche del volgo dei lettori, abbiano pòrto esempio o pretesto o scusa a tante grullerie d'una letteratura vanesia. Un uomo come l'Alfieri fare la propria presentazione con simili versi, Giusto naso, bel labro e denti eletti! e il Foscolo, Capo chino, bel collo largo petto! e fino il Manzoni, Naso non grande e non soverchio umíle! Oh, i connotati per il passaporto in metafore e in rime!

Notammo la derivazione dell'ode alla Pallavicini dal Parini e dal Lamberti. Né qui finiscono le derivazioni o le imitazioni o le rimembranze foscoliane. Luce degli occhi miei, chi mi t'asconde? chiude il sonetto Cosí gl'interi giorni: ma questo verso, e un pochetto anche la principal situazione di tutto il sonetto, è del Lamberti nel Lamento di Dafni:

Ecco già il mondo in preda al sonno giace, Ecco tacciono i venti e taccion l'onde, Sol nel mio petto il mio dolor non tace:

Quindi i poggi e le valli ime e profonde Fo egualmente sonar d'un mesto grido —Luce degli occhi miei, chi mi t'asconde?

Proprio del Lamberti, di cui il Foscolo undici anni dopo dimandava: Chi legge i versi del Priscian Lamberto? e pare non ricordasse piú che poteva rispondergli, Voi.—Un altro sonetto comincia con un'imitazione, che dico? con una traduzione di due versi del falso Cornelio Gallo o vero di Massimiano etrusco elegiografo del tempo di Teodorico, e finisce con altre imitazioni o traduzioni da Ovidio e da Seneca. Ma chi, anche erudito, ripeterebbe il distico di Massimiano,

Non sum qui fueram, perit pars maxima nostri; Hoc quoque quod superest languor et horror habet,

di faccia alla giovine bellezza di questi versi qui,

Non son chi fui; perí di noi gran parte: Questo che avanza è sol languore e pianto; È secco il mirto, e son le foglie sparte Del lauro, speme al giovanil mio canto?

L'altro principio,

Meritamente, però ch'io potei Abbandonarti, or grido alle frementi Onde che batton l'alpi, e i pianti miei Sperdono sordi del Tirreno i venti,

ricorda il principio d'un'elegia dell'Ariosto,

Meritamente ora punir mi veggio Del grave error ch'a dipartirmi feci Da la mia donna, e degno son di peggio;

e ambedue ricordano il properziano,

Et merito, quoniam potui fugisse puellam, Nunc ego desertas adloquor alcyonas.

Ma, col dovuto rispetto al Callimaco umbro, i gabbiani a cui si presenta allocutore fanno, a dir vero, una gran magra figura dinanzi alle frementi onde che batton l'alpi.

I piú grandi poeti del rinascimento, e in ciò i moderni neoclassicisti li seguitarono, si recavano a pregio d'ingegno e d'arte derivar nel volgare certe bellezze d'imagini e di figure dagli antichi; prendere poi dagli stranieri reputavano conquista; e togliendo a' mediocri o a' minimi qualche diamantuzzo non credevano di rubare ai poveri, ma di renderlo alla grazia delle Muse incastonato in monili d'eterno lavoro. Gente invidiosa e superba confonde oggi le imitazioni utili e le inevitabili reminiscenze co' plagi, e fruga e accusa plagi per tutto; mentre essa copia e lucida e prende tutto dagli stranieri, fino il modo di pensare e di dire; e alla disperata copia sé stessa, cioè quello che di piú brutto, di piú abietto e di piú ebete possa sopportare la terra. Torniamo al Foscolo. Le imitazioni degli elegiaci latini rivelano almeno uno degli studi nel cui strofinamento il levantino giunse a deporre l'antica scorza. E forse che l'eleganza allucignolata del Lamberti, buon traduttore, del resto, dal greco, e che sapea le veneri latine lavare nelle chiare fresche e dolci acque del toscanesimo classico, forse che, dico, la eleganza del Lamberti gli fu guida traverso i cinquecentisti (il Foscolo mostrò tener conto del Tarsia e del Della Casa, quasi autori d'uno stil nuovo) fino al Petrarca.

Alla seconda serie poetica della gioventú del Foscolo appartengono l'ode all'amica risanata e quattro sonetti. Queste poche liriche, pubblicate la prima volta nelle prime due edizioni milanesi delle Poesie dell'autore che uscirono a poca distanza di mesi nel 1803, sono piú che probabilmente composte tutte nel 1802: il sonetto che incomincia Un dí s'io non andrò sempre fuggendo, necessariamente dopo la morte del fratello Giovanni che fu nel dicembre del 1801: quello a Zacinto io lo suppongo scritto dopo l'ode all'amica, la quale è senza dubbio dell'aprile 1802, per questo; che l'ode finisce con quel passionato accenno alle isole ionie, accenno, perché l'economia lirica non voleva di piú; ma quel ricordo non bastava all'animo del poeta, che si sfogò nel sonetto, Né piú mai rivedrò le sacre sponde. Per quale o in quale occasione precisamente fossero composti gli altri due, Forse perché della fatal quïete e Pur tu copia versavi alma di canto, non si può indovinare: a ogni modo innanzi o ne' primi del 1803. Di cotesti sonetti, tre—in morte del fratello—a Zacinto—alla sera—sono di certo i piú belli del Foscolo, e, dopo quelli di Dante e del Petrarca e qualcuno forse del Tasso, sono dei piú perfetti della poesia italiana. Se non che dire perfetti non mi pare lode giusta: la perfezione può essere anche fredda; e questi sonetti pur cosí grondanti di lacrime e frementi di disperazione, sono caldi, caldi, caldi della divina passione giovanile: sono, senza piú, una meraviglia. E se qualcuno non lo capisce o non lo vuol capire, non importa proprio nulla. Ciò che il De Sanctis riconobbe nell'ultima terzina del sonetto a Zacinto, il presentimento di Giacomo Leopardi, a me par di trovarlo in tutti tre: ma lascerei da parte il Leopardi, e direi, che, mentre nei primi sonetti si divincolava lo spasimo individuale, in questi sentesi nella sua fatalità quasi serena la doglia mondiale.

Fra essi, come statua greca del quarto periodo dell'arte, sorge l'ode all'amica risanata, una stupenda perfezione marmorea. Di questa ode giudica molto bene il Chiarini—«Le ultime sette strofe sono di una purezza antica, quale fino allora non s'era veduta nella nostra poesia. Chi legga le lettere che il poeta scriveva in quei giorni all'amica e le paragoni con l'ode, non potrà non restare meravigliato del contrasto singolarissimo. In quelle le espressioni di un amore esaltato, in questa neppure un accento di passione. Non si direbbe davvero che questa ode è la poesia di un innamorato. Il Foscolo, che sapeva mettere nella prosa tutta la poesia della passione (le sue lettere d'amore sono delle piú belle che io abbia lette), in questi versi, come nella maggior parte di quelli delle Grazie, coi quali celebra altre donne amate da lui, è d'una freddezza glaciale; è un artista che tutto assorto nella serena contemplazione della bellezza della sua donna si dimentica affatto che cotesta donna è pur quella che gli fa battere il cuore violentemente; si direbbe che, mentre egli la canta, se la vede dinanzi come una Venere, come una delle Grazie, bella e perfetta si, ma di marmo; anzi piú gelida ancora, poiché il marmo della Venere di Canova lo facea sospirare, con mille desiderii e con mille rimembranze nell'anima.» Aggiungo, quasi temperamento, un passo del De Sanctis: «A quei sonetti lapidarli, dove la vita è come raccolta e stagnata al di dentro, succede la classica ode ne' suoi ampi e flessuosi giri, dove l'anima si espande nella varietà della vita. In questo suo classicismo a colori nuovi e vivi senti la freschezza di una vita giovane guarita da quel sentimentalismo snervante, e risorta all'entusiasmo, incalorita dagli occhi negri e dal caro viso e dall'agile corpo e da' molli contorni della beltà femminile, tra balli e canti e suoni d'arpa. In questo mondo musicale e voluttuoso l'anima si fa liquida, si raddolcisce, e spunta la grazia; le corde eolie si maritano all'itala grave cetra.»[110]

Di mio faccio un po'di commento. Evidente nella prima strofe è a tutti la comparazione omerica e virgiliana, e qua e là qualche rimembranza d'Orazio e d'altri poeti latini. Non so per altro se in quei bei versi della terza

tornano

I grandi occhi al sorriso Insidïando, e vegliano Per te in novelli pianti Trepide madri e sospettose amanti,

qualcuno abbia riconosciuto questi d'Orazio

Te suis matres metuunt iuvencis, te senes parci miseraeque nuper virgines nuptae, tua ne retardet aura maritos:

che è realismo nella eleganza efficacissimo; ma, perché divenisse complimento passando da una etaira a una contessa, bisognava rammodernarlo o rammorbidirlo, come il Foscolo seppe. Chi poi non ricorda?

Ebbi in quel mar la culla: Ivi erra, ignudo spirito, Di Faon la fanciulla; E se il notturno zeffiro Blando sui frutti spira, Suonano i liti un lamentar di lira.

E da vero nei canti popolari delle isole ionie

spirat adhuc amor

Vivuntque commissi calores Aeoliae fidibus puellae.

Eccone alcuni:

Amore, perché mi svegliasti, ché dolce i' dormivo? E mi mettesti pensieri ch'i' non nutrivo?

Questo non è affanno ch'i' ho nel cuore. Ma è amor vero che mangia le viscere mie.

Come i fiori del mandorlo biancheggia il tuo viso: Chi ti vede vien meno e languisce dinanzi a te.

Ahi come lo soffersi io tanto? Quando ti veggo, tremo, Le mani e i pie' e la parola che parlo.

Come tremolano le stelle del cielo infin ch'aggiorni, Trema e a me il cuor mio finché ti rincontri.

Di contro a me venisti e sedesti, come sole, come luna; E succiasti il sangue mio come l'arida spugna.

Di contro, di fronte a me siede la mia desiderata; E freddo freddo sudore corre dal corpo mio.

Quand'odo 'l tuo nome, non so perché, Palpitano le viscere mie, il mio corpo vien meno.[111]

Non cito per isfoggio d'erudizione, ma per trasfondere, potendo, nei lettori la persuasione mia, che gli elementi e le forze della rinnovazione fatta dal Foscolo nella lirica italiana provengono in gran parte dal sangue e dal sentimento greco.

Difficile, dopo cotesta ode, far meglio in quel genere. E nei sonetti a Zacinto e alla sera è raggiunta la suprema perfezione nella corrispondenza del motivo al metro e alla forma. Meglio smettere, cosí pare l'intendesse il Foscolo, forse anche ammonito dalla inferiorità del sonetto finale, Pur tu copia versavi alma di canto. Né piú fece sonetti, salvo uno che tentò non felicemente pe 'l ritratto dipintogli dal Fabre nel 1813 e che non pubblicò egli. E si volse agli sciolti.

Quello degli sciolti è il terzo periodo dell'arte foscoliana; dove specialmente per le Grazie la industria critica del Chiarini fu piú faticosa ed è piú benemerita. Ne discorreremo altra volta.[112]

FINE

INDICE.

Per il classicismo e il rinascimento Pag 9

Il buco nel muro di F. D. Guerrazzi » 21

La Dora, memorie di Giuseppe Regaldi » 35

Don Quixote » 53

«La Vida es sueno» del Calderon » 79

Su «L'Atta Troll» di Enrico Heine » 103

Pariniana— I. Preliminare » 155

II. La vita rustica » 161

III. Il Brindisi » 192

IV. L'Impostura » 219

V. Le Nozze » 238

Adolescenza e gioventú poetica del Foscolo » 289

[320][321]

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[328][329]

NOTE:

[1] Cascata in tedesco è mascolino ( Wasserfall ), e per ciò gli sta bene la barba.

[2] Il traduttore si gloria di avere avuto l'onore di tali accuse e condanne per tutta la sua vita letteraria dai democratici dello stile , che abbondano anche, anzi, tra i moderati e i progressisti. I manzoniani per lo piú sono sanculotti ed hebertisti. (Il cittadino proto è pregato di non lasciare stampare ebelisti ).

[3] Heine , Corresp. inéd. ediz. franc. Levy, III 24: lett. 19 déc. 1844.

[4] G. Chiarini , L'Atta Troll : nella Nuova Antologia , serie II, vol. V, luglio 1877: anche in Ombre e figure , Roma, Sommaruga, 1883, pag. 118 e segg.

[5] In una lettera al Chiarini pubbl. nel già cit. scritto su l' Atta Troll .

[6] Hillebrand , nella lettera al Chiarini pubbl. nel cit. scritto.

[7] Schuré , Histoire du Lied , Paris, Lacroix, 1868: pag. 439-448.

[8] Heine , Briefe aus Helgoland : in Sämmtliche Werke , Hamburg, Hoffmann, 1867, XII 87-89.

[9] Heine , Geständnisse , in Sämmmtliche Werke , edizione già cit., XIV.

[10] Börne , Briefe aus Paris (109); in Gesammelte Schriften , Wien, Tendler, 1868, XII 65-66.

[11] Heine , Ludwig Börne, Eine Denkschrift , in Sämmtl. Werke ediz. già cit., XII 227-232.

[12] Heine , Geständnisse , in Sämmtl. Werke , edizione citata, XIV 213-14.

[13] Heine , Correspondance inéd. , ediz. franc. Levy, III 59 60

[14] Strodtmann , Heine's Leben und Werke , Berlin, 1869: II 186-7.

[15] Zumbini , Saggi critici , Napoli, Morano, 1870: pag. 29.

[16] Kurz , Geschichte der deutschen Literatur , Leipzig, Teubner, 1870: III 308.

[17] Strodtmann , Heine's Leben und Werke , II 487.

[18] M. Cesarotti , nelle Osservazioni che seguono Comala , in Poesie d'Ossian , edizione milanese dei class. ital., I 320-21.

[19] Vecchie romanze spagnole recate in italiano da G. Berchet Brusselle, Hauman, 1837: pag. XXIX.

[20] Bettinelli , Opere : Venezia, Cesare, 1799: VI 75 e 193.

[21] Della vita e degli scritti di G. Parini , seconda edizione: Milano, Mainardi, 1802: pag. 121

[22] Alcune poesie di Ripano Eupilino , Londra, 1752, presso Giacomo Tomson (Milano, Bianchi).

[23] Rime degli Arcadi , t. XIII, Roma, Giunchi, 1780: pag. 139-119.

[24] Nuovi saggi critici : Napoli, Morano, 1879: pag. 183.

[25] Cfr. Poeti erotici del sec. XVIII : Firenze, Barbèra, 1868: prefaz., pag. XLIX e L .

[26] Frugoni , Op. poet. , Parma, 1789, v 35.

[27] Pag. 529: Torino, Unione tipogr. editr., 1860.

[28] Firenze, Le Monnier, 1883: pag. 1-4.

[29] Odi dell'ab. Gius. Parini : Milano, Marelli, 1791: pag. 162.

[30] Le Odi dell'ab. G. Parini , riscontrate su mss. e st. con pref. e note di F. Salveraglio : Bologna, Zanichelli, 1882: pag. 191.

[31] Cicerone , cant. XII, st. 17.

[32] G. B. Fagiuoli , Commedie : Firenze, 1734-52: VI 220.

[33] Rime degli Arcadi , t. XIV, Roma, Giunchi, 1781: pag. 168.

[34] Nelle sestine per il matrimonio di don Gabriele Verri.

[35] Odi dell'ab. G. Parini già divulgate : Milano, Marelli, 1791, prefaz. e pagg. 23 e segg.

[36] Opere di G. Parini pubbl. e illustr. da Franc. Reina : Milano, 1802: II 47.

[37] Vedi Versi e prose di G. Parini , con discorso di G. Giusti : Firenze, Le-Monnier, 1850; pag. 110 e 111.

[38] I. Sannazzaro , Opere volgari : Padova, Comin, 1723: pagina 37.

[39] U. Foscolo , Opere : vol. I, Firenze, Le Monnier, 1850: pag. 14.

[40] Hölty , Gedichte : Bonn, 1805: I 169 ( Das Landleben ).

[41] A. De Lamartine , Nouvelles Méditations poétiques : Paris, Hachette, 1880; pag. 104 e segg.

[42] L. Tansillo , Il Podere , canto III: in Poesie di L. T. , Londra (Livorno), Masi, 1782, pagg. 317 e seguenti.

[43] Les poètes français : Paris, Gide, 1861: II, 128 e segg.

[44] Sainte-Beuve : Causeries du lundi : VIII (Paris, Garnier, 1855) par. 63.

[45] G. Baretti , Opere : Milano, Soc. tipogr. class, ital., 1839: IV, 362.

[46] G. Gozzi , Scritti scelti e ord. da N. Tommaseo : Firenze, Le Monnier, 1818-49: III 515, lettera del 5 gennaio 1741 ad A. F. Seghezzi.

[47] G. Gozzi , Lettere diverse , Venezia, Pasquali, 1750, pagg. 100-1.

[48] Lettere di diversi eccellentiss. uomini , racc. da L. Dolce : Venezia, Giolito de'Ferrari, 1559: pagg. 435-440. Queste due del Gradenigo furono riprodotte, ma sciupacchiate, in Lettere descrittive di celebri italiani raccolte da B. Gamba , ediz. seconda, Venezia, tipogr. d'Alvisopoli, 1819: pagg. 50-58.

[49] Nella già cit. ediz. del Zanichelli, pag. 131.

[50] Horatii Carm. II XIV , IV I : ed. Fr. Ritter: Lipsia, Engelmann, 1856.

[51] Frugoni , Opere poetiche , Parma, stamp. reale, 1779: v.

[52] Anacreontea , 6, in Anthol. lyrica ed. Th. Bergk , Lipsia, Reichenbach, 1854, pag. 308.

[53] Frugoni , Poesie : Lucca, Bonsignori, 1779: III, 275 e 350.— Poeti erotici del sec. XVIII , Firenze, Barbèra, 1866: 197 e 203.

[54] Horatii Carmina II III e XIV : nella cit. ediz. del Ritter.

[55] V. Monti , Poesie liriche , Firenze, Barbèra, 1862, pag. 331

[56] Horatii Epistolae 1 VII : ediz. già cit. del Ritter.

[57] Voltaire , Oeuvres compl. , ediz. 1785, De l'Imprim. de la soc. littér. typogr. , t. XV, pag. 195 (lettre à m. de Cideville. 11 juillet 1741).

[58] Staël , De l'Allemagne , Paris, Mame, 1814: I 309.

[59] Schiller , Gedichte der dritten periode .

[60] A. Bellati , Saggio di poesie alemanne recate in versi italiani , Milano, Fontana, 1832: pag. 73 e 134.

[61] P. Rolli , Rime , Verona, Tumermani, 1733: pagg. 146, 164 e 167.— Poeti erotici del sec. XVII. Firenze, Barbèra, 1868: pagine 91, 93, 96.

[62] Sc. Maffei , Poesie volgari e latine , Verona, Andreoni, 1752: I 138.

[63] Anacreonte , ediz. critica di Luigi A. Michelangeli , Bologna, Zanichelli, 1882: pag. 290.

[64] Horatii , Carmina , I XXVII : nella già cit. ediz. del Ritter.

[65] Odi ecc., pag. 162.

[66] Quadrio , Storia e ragione d'ogni poesia : 1712.

[67] Parini , Opere : Milano, Genio tipografico, 1802: II 225.

[68] Ott. Rinuccini , Poesie : Firenze, Giunti, 1622: pagg. 24-25.

[69] In Bibliot. di letter. popol. ital. pubbl. da Severino Ferrari , Firenze, 1882: pagg. 186-7.

[70] Frugoni , Poesie : Lucca, Bonsignori, 1779: III 285.— Poeti erotici del sec. XVIII , Firenze, Barbèra, 1868: pag. 218.

[71] Parini , Opere : ediz. già cit. III 25.

[72] In Bibliot. di letter. pop. ital. già citata: pag. 216.

[73] Chiabrera , Rime varie , parte seconda, Venezia, Combi, 1605, pag. 34; e Rime , Roma, Salvioni, 1718, II 102.

[74] Parini , Opere , ediz. già cit., II 229.

[75] Nella rassegna di 60 usseri cisalpini , in Poesie liriche di V. Monti , Barbèra, 1862, pag. 311; e nel Bardo della Selva nera , canto I.

[76] Firenze, Succ. Le Monnier, 1884, pag. 21.

[77] Vedi la prefazione di F. Salveraglio alla utilissima edizione de Le Odi dell'ab. G. Parini , data dal Zanichelli, pagg. XI e XII.

[78] Nella già cit. ediz. del Le Monnier, pag. 22.

[79] Juvenalis Satyrae , I 80.

[80] Cfr. F. Salveraglio nelle note (pag. 228-229) alla già cit. ediz. delle Odi di G. Parini per il Zanichelli 1882.

[81] Ripubblicato poi con aggiunte nelle Opere edite e inedite dell'ab. S. Bettinelli , Venezia, Cesare, 1800: XVII 2 e seg.

[82] La Frusta letteraria , nº XXIII , Roveredo 1 sett. 1764.

[83] Cicerone , c. IV st. 17 e segg.

[84] Le Raccolte , c. I st. 9 e 10.

[85] Pellegr. Salandri , Poesie , Reggio, Torregiani, 1824; qua e là nel tomo II.

[86] Cesarotti , Opere vol. XXXI, Firenze, Molini, 1809, pag. 192. Cfr. G. Leopardi , Crestomazia italiana poetica , Milano, Stella, 1827 pag. 423.

[87] Clem. Bondi , Poesie , Vienna, Degen, 1808: III 35.

[88] Rime per nozze Corona Terzi di Sissa e Rangone , Parma, Rosati, 1741, pag. LXXXVII. Vedi anche Poeti erotici del sec. XVIII, Firenze, Barbèra. 1869: pag. 280.

[89] Puccianti , Antologia della poesia moderna, Firenze Le Monnier, 1883: pag. 87. E prima in Lirici del sec. XVIII , Firenze, Barbèra, 1871: pag. 128.

[90] Fu pubblicata in non so piú quale raccolta lucchese: ristampata in Prose e poesie scelte di Ag. Paradisi , Reggio, Fiaccadori, 1827, I 10; e in Lirici del sec. XVIII , Firenze, Barbèra, 1871: pag. 64.

[91] Ag. Paradisi , Prose e poesie scelte , già cit. edizione, 1881; e in Lirici del sec. XVIII. già cit. ediz., pag. 70 e segg.

[92] Parini , Opere , Milano, 1802: II, 12.

[93] Parini , Opere , ed. cit. II. 22.

[94] P. Rolli , Rime , Verona, Tumermanni, 1738: pag. 140. Anche in Poeti erotici del sec. XVIII. Firenze, Barbèri, 1869: pag. 78.

[95] Monti , Poesie liriche , Firenze, Barbèra, 1862: pag. 318.

[96] P. Rolli , Rime , ediz. già cit., pag. 190; e in Poeti erotici , ed. già cit., pag. 43.

[97] Della vita e degli scritti di G. Parini , lettere di due amici: sec. ediz. Milano, Majnardi, 1802: pag. 132.

[98] Nella piú volte cit. ediz. delle Odi del Parini fatta dallo Zanichelli, pagg. 73-5.

[99] Frugoni , Poesie , Lucca, Bonsignori, 1779: IX 73.

[100] Della vita e degli scritti di G. Parini , lettere di due amici: ediz. già cit. pag. 167.

[101] Tradussi dalla lezione, che mi parve bene eletta, dell' Anacreonte , ediz. critica di Luigi A. Michelangeli : Bologna, Zanichelli, 1883; pag. 314 e segg.

[102] Teocrito volgarizz. da A. M. Salvini , Arezzo, Bellotti, 1751, pag. 100 e segg.— Theocriti Idyllia , ed. Ad. Th. Fritzsche, Lipsia, Pernitzsch, 1869: II 92 e segg.

[103] Ho seguíto la lezione di Luciano Muller (Lipsia, Teubner, 1870) non senza concedermi di accettare in qualche luogo varianti da altri testi.

[104] Giov. Fantoni , Poesie , Italia, 1823: III 11 e segg.

[105] C. Valerius Catullus , Parigi, 1826, della collez. Lemaire, pagg. 585 e segg.

[106] Perciò mi libero dall'obbligo delle citazioni particolari che dovrei far troppo spesso. Cfr. anche Poesie di Ugo Foscolo edizione completa a cura di Guido Biagi , Firenze, Sansoni, 1883 16º picc., nella Prefazione e nelle Avvertenze .

[107] U. Foscolo , Opere edite e postume , vol. VI: Firenze, Le Monnier, 1882: pag. 182.

[108] Nei Canti popolari toscani còrsi illirici greci racc. e illustr. da N. Tommaseo : Venezia, Tasso, 1842: vol. III.

[109] M. Pieri , opere, Firenze, Le Monnier, 1850: I 39.

[110] Fran. De Sanctis , Nuovi saggi critici : Napoli, Morano, 1879: pag. 151.

[111] N. Tommaseo , Canti popolari toscani còrsi illirici greci , Venezia, Tasso. 1842: III 445 e segg.

[112] Noto intanto due errori incorsi in questa edizione e non corretti nelle Giunte . Uno è di stampa: nell'epigramma vii a pag. 346 sul Bossi pittore, invece di le tue scritture , s'ha da leggere, almeno pare a me, le tue pitture . Un altro non è errore, ma probabilmente omissione: a pag. 361 l'ultimo frammento di sermone non è proprio un frammento foscoliano, ma una citazione allargata dal Saul di V. Alfieri, atto IV sc. IV .