SCRITTORI DʼITALIA
G. BOCCACCIO
OPERE VOLGARI
XIV
GIOVANNI BOCCACCIO
IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI
DOMENICO GUERRI
VOLUME TERZO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918
PROPRIETÁ LETTERARIA
III
CONTINUAZIONE
DEL
COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”
CANTO NONO
I
Senso letterale
[Lez. XXXV]
«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti: nella prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone, e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse; nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza quivi:—«Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta quivi: «E noi movemmo i piedi».
Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio tornare in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, si come gli aveano i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole; ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto, quasi come vinto tornare in volta, invilí l’autore, temendo non gli convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole l’autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato avea nel viso, per la turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse cagione all’autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno turbato che non era.
E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio, ancora in conforto dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare che venga chi’l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice: «Attento si fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre a questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo», discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè tenebroso, per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua natura non è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.
E cosí attendendo, cominciò a dire:—«Pure a noi converrá vincer la punga»—d’entrar nella cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad ascoltare:—«se... non... tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza dell’orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio, soggiugne esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch’altri qui giunga»—il quale abbatta l’arroganza de’ dimòni che la porta serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.
«Io vidi ben, sí com’el ricoperse Lo ’ncominciar», cioè le parole cominciate (quando disse:—«Se... non... tal ne s’offerse»—), «con l’altro che poi venne» (cioè col dire:—«Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!»—), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l’autore perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva la parola tronca» (cioè «se... non... tal ne s’offerse), «Forse»; dice «forse» perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s’avesse inteso per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch’e’ non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l’autore Virgilio aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer la punga, Se... non... tal ne s’offerse», che, dove essi vincer la punga non avesser potuto, che il prencipe dello ’nferno dovesse punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle parole, all’autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato l’orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non era la ’ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi non possiam «vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di quello che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga», entrò l’autore in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
—«In questo fondo della trista conca», dello ’nferno, il quale nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma essenziale dello ’nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?»—Pon qui l’autore il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca» vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro, percioché noi diremmo d’uno che molto bevesse: colui «cionca».
«Questa quistion fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei:—Di rado Incontra»,—cioè avviene, «mi rispose,—che di nui», li quali nel primo cerchio dimoriamo, «Faccia ’l cammino alcun pel quale io vado», cioè discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui», dove noi siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi incantamenti.
Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo libro, dove dice:
Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis, effera damnarat nimiae pietatis Erictho, inque novos ritus pollutam duxerat artem, ecc.;
dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle incantazion de’ demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ’l padre di lui e Cesare.
«Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale, partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch’ella mi fece», questa Eritón, per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.
Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de’ congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono, a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti l’anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice, del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente si comprende per Eusebio in libro Temporum; e, che istoria questa si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono, compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro, diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano scioccamente e in loro perdizione.]
«Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel, che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli, e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
«Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare, per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
«Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto, nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere, quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira»,—di coloro li quali contrariare n’hanno voluta l’entrata.
«E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto», cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo; «Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite, «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata; «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
«Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata « ydros »; e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda qualunque velenosissimo serpente.
«Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché « ceras » in greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il capo de’ capelli loro.
«E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si piagnerá;—«Guarda,—mi disse,—le feroci Erine», cioè le feroci tre furie.
E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone», la terza furia,«è nel mezzo»—delle due nominate di sopra; «e tacque a tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
«Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto; Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo, «al poeta per sospetto».
E quello, che esse gridavano, era:—«Venga Medusa», quella femmina la quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto»,—cioè di pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule, o verso lui;—«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto»,—il qual ne fe’, quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena, ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina, secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato, ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
—«Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto dalle furie, e l’essere stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati, accioché non la vedesse. Dice adunque:—«Volgiti indietro», accioché tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse:—Tieni chiuso il viso,—e dicegli la cagion perché: «Ché se ’l Gorgon», cioè Medusa chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare nol dice), «e tu ’l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso»,—nel mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti tornare né partirti di qui. «Cosí disse ’l maestro», come detto è, «ed egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò, «alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí chiuso il viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si scrive che venne.
«O voi, ch’avete gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’aurore, e, lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che s’asconde Sotto ’l velame degli versi strani», la quale per certo è grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale; li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l’autore avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto disusati a cosí fatto stile.
[Lez. XXXVI]
«E giá venia». Qui rientra l’autore nella materia principale, e comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive l’autore la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venia», avendo mi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un fracasso», cioè un rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso, «Non altrimenti fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da sé, come è il turbo o la bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai, secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali vi dissi essere due, cioè typhon e enephias, e però qui reiterare non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori», cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero, non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento, in quanto si movea velocissimo con l’impeto del vento] «Che fier», questo vento, «la selva», alla quale s’abbatte [le cui frondi percosse il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva, «schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono, «e li pastori» con le lor greggi.
«Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e disse:—Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo, «su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di quelle che all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può assai chiaramente comprendere. Credere’ io che ella fosse alcuna fiamma usa continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo è piú acerbo»,—cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.
«Come le rane». Qui dimostra l’autore, per una brieve comparazione, quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli dimostrava, facessero l’anime de’ dannati che quivi erano, e dice che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l’acqua si dileguan tutte», fuggendo, «Fin ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè s’ammonzicchia l’una sopra l’altra, ficcandosi nel loto del fondo dell’acqua, nella qual dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia», usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello della idra, la quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica le rane, si come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di Stige, dove esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.
E poi segue: «Dal volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per le nebbie che v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso, «Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga, si come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía. «E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.
«Ben m’accors’io ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati, che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo ’nferno commuoversi alla venuta d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice: «E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare, appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’ segno», a me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad esso», facendogli reverenza.
«Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano. [E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote, era commosso.]
«Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella destra man portava, per la quale si disegna l’uficio del messo e l’autoritá di colui che ’l manda. [E, secondo che i santi vogliono, questo uficio commette Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie celesti, fuorché a’ cherubini non si legge essere stato commesso: e mentre che quello beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso, si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da « aggelos » graece, che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione, non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè «vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s’abbia.]
«L’aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere tutto il mondo.
—«O cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s’erano fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro a loro. Dice adunque:—«O cacciáti dal ciel» per la lor superbia, «gente dispetta»,—cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su l’orribil soglia», della porta la quale era aperta,—«Onde», cioè da qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che voi fate, «in voi s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia», di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire, conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha cresciuta doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo dello ’nferno, sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di cozzo?»
Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro se non voler cozzare col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ’l muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel decimosettimo canto del Paradiso. Ma, percioché qui, poeticamente parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, in libro De natura deorum, scrive queste essere state figliuole d’Erebo e della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate», dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è intitolata Edipo, dove dice:
Fatis agimur, credite Fatis: non sollicitae possunt curae mutare rati stamina fusi. Quidquid patimur mortale genus, quidquid facimus, venit ex alto, servatque sua decreta colus Lachesis. Dura revoluta manu, omnia certo tramite vadunt, primusque dies dedit extremum. Non illa deo vertisse licet, quae nexa suis currunt causis. It cuique ratus, prece non ulla mobilis, ordo; multis ipsum timuisse nocet: multi ad fatum venere suum, dum Fata timent, ecc.
E questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume, dove introduce Giove cosí parlante a Venere:
...tu sola insuperabile Fatum,
nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum tecta trium: cernes illic molimine vasto ex aere, et solido rerum tabularia ferro: quae neque concursum caeli, neque fulminis iram, nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas. Invenies illic incisa adamante perenni Fata tui generis, ecc.
Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state da’ poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state attribuite al servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio dice, nelle sue Mitologie, queste essere attribuite al servigio di Plutone, iddio dello ’nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo l’opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi, secondo una significazion di quelle.]
[E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa fata s’appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato, accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione» o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato fuori in luce, Lachesis l’ha a ricevere e trarlo avanti nella vita. Atropos è detta ab « a », quod est « sine », e « tropos », quod est « conversio », cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense, filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e dell’opere di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama Cosmografia, scrive cosí: « Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum, id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere. Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis, quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus desit », ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene, guidata e menata.]
[Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa, se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e, peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque, secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo, come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]
[Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da « for faris », il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel libro De civitate Dei: ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto delle fate.]
Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore: —«Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».—Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò.
«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.
«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine. «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
«Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati, per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno, quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]
E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela nel secondo libro della sua Cosmografia scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’ quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo De historia naturali, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo: «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono Carnares. «Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da « evello evellis », percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso, cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»? -la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si possono.
[Lez. XXXVII]
«Ed egli a me:—Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome ab « haeresis » et « arce », quod est « princeps », quasi «principe d’eresi». «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono; e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il quale sant’Agostino scrive Degli eresiarci, e delle qualitá de’ loro errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro, cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano, Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti, ma esservi «Co’ lor seguaci», ed esservi «d’ogni setta» d’eretici. E chiamale «sètte», il qual nome viene da « seco secas », il qual vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla cattolica fede, e poi son divisi infra sé, si come coloro li quali niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo tempo questa perfidia.
«Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in una medesima arca col prencipe loro.
«E’ monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo canto l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»; nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei», «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi « seorsum a pulchro », percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai, essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si dice « tumba », quasi « tumulus bombans », cioè cosa rilevata che rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’ riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo», per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo, e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di chi v’è dentro seppellito, e dicesi da « sarca », graece, che tanto vuol dire quanto «carne», e « paghos », che tanto vuol dire quanto «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito. Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri, si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie, fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa; percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria, e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero. Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo» nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.
E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto», Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi che quivi espediti erano.
II
Senso allegorico
«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’ precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione, dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati siamo, e ne’ quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali supplici ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono, accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse, disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare), rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a dovere agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.
È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che s’intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo, assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna altra cosa significare, che il luogo dello ’nferno nel quale si puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige, della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell’anime ostinate, le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima «tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá; la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento, nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere in alcuna laudevole forma.
E chiama l’autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per lo trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti, caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio e ancora la pena apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere, l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione; s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi, li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s’imprieme questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano d’occupare con questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la sua origine conosciuta e dimostrata a noi.
[Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole d’Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono figliuole d’Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo, il dimostra:
Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae, quas et Tartaream nox intempesta Megaeram uno eodemque tulit partu, ecc.
E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:
Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis apparent, acuuntque metum mortalibus aegris si quando lethum horrificum morbosque deum rex molitur meritis, aut bello territat urbes, ecc.
E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra l’autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per li versi di Lucano si comprende, quando dice:
Iam vos ego nomine vero
eliciam, Stygiasque canes in luce superna destituam, ecc.
Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí come per Virgilio appare, dove dice:
... caeruleis unum de crinibus anguem
coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit, quo furibunda domum monstro permisceat omnem.
E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio dicendo:
Eumenides tenuere faces de funere raptas, ecc.
E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per Virgilio si può vedere:
At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas, infelix crines scindit Iuturna solutos, ecc.
Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi versi:
Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem obscoenae volucres: alarum verbera nosco, ecc.
Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]
[Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]
[Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad Aletto appare per questi versi di Virgilio:
Cui tristia bella
iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi. Odit et ipse pater Pluton, odére sorores Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora, tam saevae facies, tot pullulat atra colubris.
E un poco appresso séguita:
Tu potes unanimes armare in praelia fratres atque odiis versare domos; tu verbera tectis funereasque inferre faces; tibi nomina mille, mille nocendi artes, ecc.
A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi appare; e prima Virgilio dice di lei:
Egrediturque domo, luctus comitatur euntem, et pavor et terror trepidoque insania vultu, ecc.
A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:
Suffusa veneno
tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro ore vapor, quo longa sitis morbique famesque et populis mors una venit, ecc.
A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di Claudiano si può comprendere, dove nel libro De laudibus Stiliconis, dice:
Quam penes insani fremitus, animique prophanus error, et undantes spumis furialibus irae, non nisi quaesitum cognata caede cruorem, illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis, quem dederint fratres, ecc.]
[Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore, convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può comprendere questo atto furioso esser nato dall’aver cacciata la letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto «senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere avvenuto per ignoranzia d’animo: e la ignoranzia è similissima alla notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza, aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le furie esser figliuole d’Acheronte e della Notte.]
[Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per lo ’nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse, come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio, di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio: «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie, quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]
[Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto, secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo», accioché per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia, quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, si come Fulgenzio medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo « tritonphones », il che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira dobbiamo intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme. La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice, questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d’impeti furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa non giustamente séguita o nasce l’inquietudine dell’animo; e dalla inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’ romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati odii.]
[Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno, cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché, pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo; e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’ lor maggiori niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]
[Appo noi, li quali siamo in mezzo tra ’l cielo e lo ’nferno (e perciò si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate «furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e però, parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo, pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minor fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le piú delle volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché, essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]
[Sono queste medesime, come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli eccelsi e grandi uomini, chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla crudeltá la quale essi, sí come potenti, per ogni menoma perturbazione usano ne’ minori.]
[E sono ancora chiamate «ucceli» dalla velocitá del furore, percioché velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci dalla mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi «rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa alcuna da’ superiori discordanti non paiono.]
[Gli ufici loro attribuiti, percioché assai, per le molte cose dimostrate di loro e ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si possono comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí ancora gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere l’animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e ancora ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero: e per questo, sí come in luogo freddissimo e terreo, essere ogni attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per questo artificiosamente fingere l’autore queste furie gridare, accioché in lui, posto nel luogo dove ha la tristizia di Stige e il furor degl’iracundi contemplato, possano col romor loro mettere, con paura, perturbazione, accioché per gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover ricevere quella impressione, che pare il debbia fare perpetuo cittadino d’inferno, cioè l’ostinazione. E quinci, discrive l’autore, essendo giá la perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo suo, veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere esser quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa credenza paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi, caggiono in ostinazione, e, se medesimi riputando dannati, continuamente di male in peggio adoperando procedono.
[Lez. XXXVIII]
Ma, percioché l’autor dice che questa ostinazione era dalle furie per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa Medusa sia da sentire, cioè come s’adatti alla ’ntenzione lei aver per l’ostinazione, piú tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivono i poeti, e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]
[Scrivono adunque, secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo di Nettuno e dio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole, delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua Cosmografia, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi che son cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano, dove scrive:
Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus accipit Oceanum demisso sole calentem, squalebant late Phorcynidos arva Medusae, ecc.
E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che, chiunque le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la maggior delle tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre ad ogni altra femmina bella; e intra l’altre cose piú ragguardevoli della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro. Dallo splendore de’ quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso. Ma Minerva, turbata della ignominia nella qual pareva il suo tempio venuto per questo adulterio, accioché non rimanesse impunita, dicono che i capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa, di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di Perseo, in quei tempi valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover questa cosa mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava, e quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa, e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti. E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono, e poi al nostro proposito il recheremo.]
[Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state figliuole di Forco; ma perché dette sieno figliuole d’un mostro marino, credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della quale non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di femmina, come l’altre nascono: ma di questo sia la quistione terminata. Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò esser detto, perché esse tutte e tre fossero d’una medesima e igual bellezza, e per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro li quali le riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello vedessero, cioè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno, niuna altra cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza delle cose, e però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte lucrative arti, per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare le sustanze temporali, le quali per li capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci sollicitudini di coloro che l’hanno, percioché temono or di questa e or di quella cosa, ecc. Che esse convertissono in sassi coloro li quali le riguardavano, credo essere stato detto per ciò, che tanta e sí grande era la lor bellezza, che, come da alcuno veduta era, cosí diventava stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non altrimenti che se sasseo divenuto fosse.]
[Gorgone furon chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice, essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano le loro ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro uomini furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra». Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual solamente debilita l’animo di colui in cui cade; appresso dice che Euriale è interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o amenzia, la quale con un profondo timore sparge o disgrega l’animo debilitato; ultimamente dice che Medusa significa «oblivione», la qual non solamente turba l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti, i quali per avventura non s’accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da sapere che sono alcuni li quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, ne’ lor figliuoli, ne’ lor be’ palagi, ne’ lor be’ giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni letizia di paradiso; altri tengono l’animo fisso a’ lor cavalli, a’ lor fondachi, alle loro botteghe, a’ lor tesori; altri agli stati e agli onori publichi e a simili cose. E non s’accorgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni: da’ quali e’ traggono quella durezza che gli convertisce in pietra, la quale è di complession fredda e secca: per la qual possiamo intendere questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá del prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né ricevono alcun seme, né fanno alcun frutto.
Così adunque divenuti e caduti nella perseveranza del peccare, quasi della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano andare in qualunque colpa, dicendo sé sapere quel c’hanno, e non sapere quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun altro giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre ad ogni debito gli animi pongono a’ piaceri, li quali smisuratamente procuran d’avere, delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano, che cosa, che contro a questo piacer faccia, udir non possono. E, quantunque questo atto furioso non paia, egli è; percioché la perturbazione si prende nell’animo dalla nostra insaziabilitá; e però, non avendo né quello né tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna, e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono, di che a noi pare esser degni. E da questa perturbazione nascono gli stimoli, li quali il dí e la notte ne infestano a dover trovar modo come pervenir possiamo a quello che noi disideriamo; e da questi stimoli nascon le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo seguono gli atti e l’operazioni, le quali pognamo ad avere quello che bisogno non era. E questi, nel giudicio de’ savi uomini, piú tosto da furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci abituiamo, che né salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare; e cosí come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè ostinati cultivatori delle terrene cose.
Era adunque a questo provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta nella mente dall’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni, e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l’animo. Il che pregava il salmista quando diceva: « Averte oculos meos, ne videant vanitatem », cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali son tutte vane, come dice l’Ecclesiastes: « Vanitas vanitatum et omnia vanitas ». E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie gliele chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè dall’appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante volte questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l’uomo piú che il dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone veder non si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.
E séguita, di questo, che a coloro, li quali con fermo animo seguitano la ragione, Iddio, dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il quale in questo luogo l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la porta. Ed è questo divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia, che ogni infernale arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l’anime de’ dannati, pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli fuggon davante, lasciando aperta e spedita la via a dover poter vedere e conoscere ciò che per la lor salute bisogna a coloro li quali sperano in lui. E questo credo che sia quello, al quale vedere l’autore sollecita gl’intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione a discernere distintamente le colpe de’ caduti nella ostinazione, e i tormenti dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si sappia guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria pervenire.]
Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato agli eresiarci. Sono gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge nel testo, in sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati; nel qual supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza degli eretici in questa vita, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque che, per le sepolture, l’autore vuol dimostrare di questi peccatori l’apparenza in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a credere al giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte falso, ne ’nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo uscire, o con difficultá n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di marmi, d’intagli, d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si truovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in sé avere. E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione; ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco, esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’ morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili a riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sé il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor intrinseci sentimenti, molto piú sozzi e piú orribili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri. E quinci estimo, percioché ne’ sepolcri, a’ quali li lor corpi simiglianti furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori trassono; che l’ autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false e riprovate opinioni, sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo, ostinatamente servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.
Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?
Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di vedere e di sapere d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando, sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.
Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli altri bestiali si puniscono?
E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono, bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a ciò, adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli eretici.
CANTO DECIMO
[Lez. XXXIX]
«Ora sen va per un segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente in questo modo, che, avendo l’autore nella fine del canto superiore discritta la qualitá del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli è tormentato; nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne dice il suo procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse; ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza quivi:—«O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».
Dice adunque l’autore, continuandosi al fine del precedente canto, che «Ora», cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen va per un segreto calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali dannati lá giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere usitata da gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati «calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte. «Tra ’l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè tra’ sepolcri, ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo mio maestro, ed io dopo le spalle», cioè appresso a lui, seguendolo.
-«O virtú somma». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque:—«O virtú somma», nelle quali parole l’autore intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie dell’anima è somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli cerchi dello ’nferno, «Mi volvi»,—menandomi, «cominciai,—com’a te piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami», cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che io disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La gente, che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi veder?». E, volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita: «Giá son levati Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra che tutti erano aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’ sepolcri sia, «guardia face»,—per non esser veduto. E in queste parole par piú tosto domandar del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o no.
«Ed egli a me». Qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda se quegli che sono dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio gli risponde che essi saranno serrati tutti dopo il di del giudicio. Ma Virgilio gli dice questo, accioché esso comprenda e il presente tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore, quando serrati saranno i sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché, quanto il fuoco è piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli risponde alla domanda. Dice adunque:—«Tutti saran serrati», questi sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafà», cioè della valle di Iosafà, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti, quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesù Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno; e chiamasi quella valle di Iosafà, poco fuori di Gerusalem, da un re chiamato Iosafà, che fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassù hanno lasciati», quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero», cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture sono, sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi « communis terra », percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».
Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, percioché egli negò del tutto l’eternità dell’anima e tenne che quella insieme col corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e cosí ancora piú altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali sodisfacessero all’appetito sensibile: sí come agli occhi era sommo bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor piaceva di vedere, cosí agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo fosse ghiottissimo uomo; la quale estimazione non è vera, percioché nessun altro fu piú sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello diletto, nel quale poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam piú tosto dire il disiderio del mangiare, il qual, molto portato, adoperava che, non che il pane, ma le radici dell’erbe selvatiche meravigliosamente piacevano e con disiderio si mangiavano; e cosí, sostenuta lungamente la sete, non che i deboli vini, ma l’acqua, e ancora la non pura, piaceva e appetitosamente si beveva; e similmente di ciascuna altra cosa avveniva. E perciò non fu ghiotto, come molti credono; né fu perciò la sua sobrietá laudevole, in quanto a laudevol fine non l’usava. [Adunque per queste opinioni, separate del tutto dalla veritá, sí come eretico mostra l’autore lui in questo luogo esser dannato, e con lui tutti coloro li quali le sue opinioni seguitarono].
Poi séguita l’autore: «Però», cioè per quello che detto t’ ho, che da questa parte son gli epicúri, «alla dimanda che mi faci», cioè se veder si possono quelle anime che nelle sepolture sono, «Quinc’entro», cioè tra queste sepolture, «satisfatto sarai tosto»; quasi voglia Virgilio dire: percioché tra questi epicúri sono de’ tuoi cittadini, li quali, sentendoti passare, ti si faranno vedere, di che fia satisfatto al disiderio tuo; «Ed al disio ancor, che tu mi taci».—Il qual disio, taciuto dall’autore, vogliono alcuni che fosse di sapere perché l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e le presenti non par che sappiano; la qual cosa gli mostra appresso messer Farinata. Ma io non so perché questo disiderio gli si dovesse esser venuto, conciosiacosaché niun altro vaticinio per ancora avesse udito se non quello che detto gli fu da Ciacco; salvo se dir non volessimo essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose future, e Filippo Argenti nol conobbe, essendo egli presente: ma questa non pare assai conveniente cagione da doverlo aver fatto dubitare, conciosiacosaché, come Ciacco il vide, il conoscesse, come davanti appare; e però, che che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere quel disio, il quale Virgilio dice qui che l’autor gli tace.
«Ed io:—Buon duca, non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer poco», per non noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò disposto»,—ammonendomi di non dir troppo.
—«O tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche; appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e a lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre a questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli gli rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente come imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse. La seconda comincia quivi: «Ed el mi disse:—Volgiti»; la terza quivi: «Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse alla vista»; la quinta quivi: «Ma quell’altro»; la sesta quivi:—«Deh! se riposi»; la settima quivi: «Allor come di mia».
Dice adunque nella prima cosí:—«O tosco». Dinomina qui colui, che queste parole dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo tanto compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè «toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare, forse conosceremo avere a render grazie a Dio che toscani, piú tosto che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la nobiltá delle province, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal levante terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e mette in mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e di ponente è chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno da diversi posti diversi termini, percioché alcuni dicono quella essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri la ristringono e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta, e sono ancor di quegli che vogliono lei finita essere da un piccolo fiumicello chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i pisani medesimi, forse piú nobile cosa estimando esser galli che toscani, hanno alcuna volta detto quella di ver’ ponente essere chiusa dal fiume nostro, cioè da Arno, il qual mette in mare poco sotto Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa dal mare Mediterraneo, il quale i greci chiamano Tirreno. E questa terminazione è secondo il presente tempo; percioché anticamente essa si stendeva, passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di quindi i galli, li quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron nome alla provincia, e chiamaronla Gallia.]
[E fu Toscana, secondo che alcuni antichi scrivono, primieramente abitata da certi popoli li quali si chiamarono lidi, li quali, partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani, chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la provincia chiamata Lidia da Lido ed il mare fu chiamato il mar Tireno dall’altro fratello. E non solamente quello il quale bagna i termini di Toscana, ma, cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora il chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati (e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano con incenso, e lo ’ncenso in latino si chiama « thus », furon chiamati « tusci », li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo dirivò il nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si vede, Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e, appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra ogni altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo; e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá fu natio, esser da messer Farinata chiamato «tosco».]
Séguita poi: «che per la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite, ardente tutta d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto», cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio; «Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che io ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa manifesto» esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza, «natio, Alla qual forse fui troppo molesto».—Guarda, colui che parla, di dover per queste parole potere piú tosto ritenere l’autore, come davanti il priega; conciosiacosaché volentieri ne’ luoghi strani sogliano l’un cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da alcuna singular cosa son soprapresi, come qui faceva quella anima, dicendo forse essere stato alla cittá dell’autore troppo molesto. E dice avvedutamente qui questo spirito «forse», percioché, se assertive avesse detto sé essere stato troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua cittá adoperare se non tutto bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre e alla patria; e il biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò disse lo spirito «forse», suspensivamente parlando, volendo questo «forse» s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al giudicio de’ quali per avventura non era da credere: sí come al giudicio de’ guelfi, sí come di nemici, non parea da dover credere contro al ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e nostra costui, nelle cose seguenti apparirá.
«Subitamente questo suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo «suono» improprie, percioché propriamente «suono» è quello che procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono e simiglianti: «uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però m’accostai, Temendo, un poco piú al duca mio».
«Ed el mi disse». Qui comincia la seconda particella della parte terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e sospignelo ad esso. Dice adunque: «Ed el mi disse:—Volgiti», inverso l’arca onde uscí il suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi la Farinata», cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è dritto», nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su», cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne, [La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe; percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan le natiche.] «Tutto il vedrai».—Per le quali parole di Virgilio, l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare questo messer Farinata.
E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el», cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea, levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva, «Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna fatica, pericolo o avversitá.
«E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo», in quell’atto:—«Le parole tue sien cónte»,—cioè composte e ordinate a rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.
[Lez. XL]
«Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze, d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il temporal valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in Firenze, e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi, suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo peccato è dannato come eretico in questo luogo.
Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò:—Chi fûr li maggior tui?»—cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.
«Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri, onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del Paradiso; «Ond’ei levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.
«Poi disse:—Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici, percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè a’ miei passati, «e a mia parte».
[Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente, accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso, senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte, pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni, una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del Purgatorio; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse, cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti, che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’ termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa, mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini». Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano, si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]
«Sí che per due fiate gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze insieme con gli altri guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo ’mperador Federigo privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa e scomunicato, e trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire le parti della Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori, per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa e ghibellina nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze, alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a combattere insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la novella come lo ’mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze: e cosí furono a dí 7 di gennaio 1250.
La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza, con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi, tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa dice l’autore:—«S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar d’ogni parte»,—dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui,—e l’una e l’altra fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti, li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte»,—cioè del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né, per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si levò, «alla vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della sepoltura non coperchiata, della qual si poteva veder di fuori; «Un’ombra, lungo questa, insino al mento»: non si levò diritta in piè, come s’era levato messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea; «Credo che s’era inginocchion levata»; e cosi dovea essere, poiché piú non se ne vedea. «D’intorno mi guardò, come talento», cioè volontá, «Avesse di veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento», cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse:—Se per questo cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere», percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco», non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra, in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?»—quasi voglia dire: conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come siè tu. «Ed io a lui:—Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio, «per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro», figliuolo, «ebbe a disdegno».—
«Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome», cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.
È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore, fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti, leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato. E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta gli fece la domanda che di sopra si disse.
Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò:—Come Dicesti, ’egli ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce lome?»—del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.
«Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»; segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora». Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’ figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo». Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo», volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua costa», cioè suo lato.
—«E se,—continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore;-«Egli han quell’arte»,—del tornare donde cacciati sono, «disse,—male appresa», in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.
«Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui regge».
A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra. E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga, piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia, come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.
E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte», del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.
«E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello ’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei», cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»?— delle quali, poiché cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente tutti.
«Ond’io a lui», risponde l’autore e dice:—«Lo strazio e ’l crudo scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio», cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro diliberazioni facevano.
E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo, tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso. Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini, entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque sbigottissero i fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia cominciata, messer Bocca Abati, il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il qual portava l’insegna del comune, levata la spada, ferí il detto messer Iacopo e tagliògli la mano, di che convenne la ’nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini del tutto rotti, senza segno e senza consiglio, furono sconfitti, e molta gran quantitá di loro e di loro amici furono in quella sconfitta uccisi; il sangue de’ quali n’andò infino in un fiume ivi vicino chiamato Arbia; e ciò fu a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa poi pienamente per tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire, se non in disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia colorata in rosso» del sangue de’ fiorentini.
[Lez. XLI]
E séguita: «Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno li quali minacciano,—«A ciò non fu’ io sol—disse», cioè a far questi trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché contro alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro agli altri, che ad adoperar questo fûr meco;—«né certo, Senza cagion con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a dover far quel che si fece: vogliendo per questo intendere che il comun di Firenze, il quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua. Poi segue: «Ma fu’ io sol colá, dove sofferto», cioè acconsentito, «Fu per ciascun», fiorentino che a quello ragionamento si trovò, «di tôrre via Fiorenza», cioè di disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che alcuni altri cittadini.
È il vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella, si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e cosí ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo stato di parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra l’altre cose che in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu che la cittá di Firenze si disfacesse e recassesi a borghi, accioché ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare; e ciò era generalmente per tutti consentito, e ancora per li fiorentini che v’erano, fuor solamente per uno: e questi fu messer Farinata, il quale, levatosi ritto, con molte e ornate parole contradisse a questo, dicendo, nella fine di quelle, che, se altri non fosse che ciò vietasse, esso sarebbe colui che con la spada in mano, mentre la vita gli bastasse, il vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole, avendo riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.
—«Deh! se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a messer Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí:—«Deh! se riposi mai vostra semenza»,—cioè i vostri discendenti; e in queste parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata, accioché piú benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo: «Prega’ io lui,—solvetemi quel nodo», cioè quel dubbio, «Che qui ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio giudicio, in tanto che io non ne posso veder quello che io disidero. «El par che voi», cioè anime dannate, «veggiate, se ben odo» quello che voi m’avete detto, e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò; veggiate «Dinanzi», cioè preveggiate, «quel che ’l tempo seco adduce», nel futuro, «E nel presente» tempo, «tenete altro modo»,—in quanto non par che cognosciate né veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché messer Farinata gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero, egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose future; e messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in che si dimostra che essi non conoscono le cose presenti.
E messer Farinata gli risponde:—«Noi veggiam come quei c’ha mala luce, Le cose,—disse,—che ne son lontano». Suole questo vizio avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori li quali vengon dal cerebro, ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro alla virtú visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose propinque; ma, come la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá riceve le forme obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla propinquitá della caligine infernale, non posson le cose propinque vedere; ma, ficcando con la meditazione l’acume dello ’ntelletto per le cose superiori, veggion le piú lontane. E come queste possan vedere o no, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve della «cittá partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne splende», cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la grazia del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan», le cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto». in quanto niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra noi discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di quella ci dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè di cosa che lassú si faccia. «Però comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che tutta morta, Fia nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia chiusa la porta»,—cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora seranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno piú uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi, secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati nel profondo dello ’nferno.]
«Allor, come di mia». Qui comincia la settima particula di questa terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice: «Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea; «Diss’io:—Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che ’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi», quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error che m’avete soluto»,—qui poco di sopra.
«E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui stava», in quell’arca.
«Dissemi:—Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».
Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’ discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia, e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador di Roma.
Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra, vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case, come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare alcuna sua ragione alla Chiesa.
Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’ quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni, ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse; ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo», percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.
«E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza, voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo rammarichío disse:—Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini.—Nella qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E degli altri mi taccio»—quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri contare.
«Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui, seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’ l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).
«Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí andando, Mi disse:—Perché se’ tu si smarrito»?—cioè sbigottito; «Ed io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.
—«La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te,—mi comandò quel saggio,—Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice, «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede», cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita il viaggio»,—cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.
«Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce, «Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.
Questo canto non ha allegoria alcuna.
CANTO DECIMOPRIMO
[Lez. XLII]
«In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il quale è di sopra detto che, lasciando il muro della terra, cominciò ad andar per lo mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti: nella prima discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che vi trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta la esistenza dello ’nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le quali deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un dubbio a Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione, gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella settima Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la seconda quivi: «Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io:—Maestro»; la quarta quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi:—«O sol, che sani»; la sesta quivi:—«Filosofia»; la settima quivi: «Ma seguimi oramai». Cominciando adunque alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa». «Ripa» è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o pietre, la quale da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che o non presti, o presti con difficultá la scesa per sé di quell’altezza al luogo nel quale essa discende, sí come in assai parti si vede ne’ luoghi montuosi naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle cittá gli uomini artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa alta ripa, «facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che non artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo, sí come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere alquanto andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore per «stipa» le cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come i naviganti le molte cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e da questo modo di parlare prendendo l’autore qui forma, vuol che s’intenda che, sotto il luogo dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori, in piú crudel pena che quegli li quali infino a quel luogo veduti avea. «E quivi per l’orribile soverchio Del puzzo che ’l profondo abisso», cioè inferno, «gitta», svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché men lo sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono «ad un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel cerchio degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io vidi una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che diceva: ’Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in dimostrazione di chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio, «trasse Fotin della via dritta».—Dove è da sapere che questo Anastasio fu di nazione romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato Fortunato, e negli anni di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto papa, ma poco tempo visse nel papato; e avendo costui singulare famigliaritá con uno il quale fu chiamato Fotino, e che primieramente era stato diacono di Tessaglia e poi fu fatto vescovo di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto rimota dal mare, fu adunque da questo Fotino corrotto e tratto della cattolica fede, e cadde in una abbominevole eresia, della quale era stato inventore e seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di Fotino. Ed era la eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non essere stato figliuol di Dio, ma di Giuseppo, e ch’esso carnalmente giacendo con la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero che la Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto, come i cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il detto Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E, volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana, essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo resistendo; avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e undici mesi e ventitré dí, andato al segreto luogo dove le superfluitá del ventre si dipongono, per divino giudicio, sí come per tutti universalmente si credette, per le parti inferiori gittò e mandò fuori del corpo tutte le interiora, e cosí miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo l’autore estima lui essere stato eretico di quella eresia che detta è, e perciò qui dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui essere stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.
«Lo nostro scender convien». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore discrive distintamente la esistenza dello ’nferno, e ancora la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo, trovare; e dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien che sia tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo: «Sí che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso», dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato sará alquanto, «non fia riguardo»,—cioè non bisognerá di molto curarsene, « quia assuetis non fit passio ». E nel vero e’ si vuole a cosí fatte cose andar con discrezione, percioché assai giá hanno gravissime alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte, quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli odori o de’ puzzi.
«Cosí il maestro», ( supple ), disse; «ed io:—Alcun compenso—Dissi lui—truova, che ’l tempo non passi Perduto». Questo fu ottimamente detto, e in ciò ciascuno dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non perder tempo, percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose noi abbiamo nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre cose sono della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo adoperare che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli», rispuose:—«Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere la circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto séguita quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover perder tempo, e dice:
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,—li quali tu puoi veder di sotto da te, «Cominciò poi a dir,—son tre cerchietti», cioè il settimo e l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in grado», cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano, «come» trovati hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti», questi tre cerchietti, «son pien di spirti maladetti», cioè dannati; «Ma, perché poi ti basti pur la vista», cioè il vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi come e perché son costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.
«D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere: o è malizia corporale, o è malizia mentale. Malizia corporale è quella la quale noi generalmente chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»; e questa può essere ancora nelle cose insensibili, quando in esse naturalmente è alcun difetto, sí come alcuna volta è in uno albero, il quale nasce torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente biasimevole, secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual propriamente è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre anime sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore mostra di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice «d’ogni malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa ultima; percioché la prima alcun odio non acquista in cielo, quantunque ella sia in terra in odio a colui che la patisce; e per tanto dice «odio», perché l’operazioni, le quali seguono della malizia delle nostre menti, son malvagie e dispiacciono a Dio, il qual dimora in cielo; e quindi, perduta la sua grazia, meritiamo l’ira sua, la quale, perseverando noi nel male adoperare, diventa odio, se in esso male adoperare senza pentirci moiamo. «Ingiuria è il fine»; percioché quante volte i nostri maliziosi pensieri si mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non per fare ingiuria ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare ingiuria ad alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che riceve la ’ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente si fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.
E questo dimostrato, ne chiarisce in qual di questi due modi piú s’offenda Iddio, dicendo: «Ma perché frode è dell’uom proprio male», cioè che in esso si crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio male» dell’uomo; «Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale non è proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori siano all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali se l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e però», che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion detta, «stan di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono cerchio, li quali sono di sotto al settimo, nel quale intende dimostrare esser posti e dannati coloro, li quali per forza fanno ingiuria ad altrui, «e», percioché si stanno ne’ cerchi piú inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono oppressi da maggior tormenti.
E, detto questo, viene alla prima parte della sua distinzione, cioè a dimostrare in quanti modi e a quante persone si possa fare per forza ingiuria altrui, e questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí dimostra il settimo cerchio esser distinto in tre parti come apparirá. Dice adunque: «Di violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno altrui ingiuria, «il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio de’ tre, li quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero de’ cerchi dello ’nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son piene di violenti.
E mostra la ragione perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma, perché si fa forza a tre persone», in se medesime diverse e separate, come apparirá; «in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo cerchio. E, detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali i violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio», il qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui solo adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi dobbiamo, appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo è la seconda persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare come noi medesimi.
[È vero che in questo prossimo ha differenza da un prossimo ad un altro, percioché a tutti gli uomini, di che che setta, di che che nazion si sieno, secondo la legge naturale, siam prossimi; percioché tutti da un principio, cioè da’ primi parenti, proceduti siamo, e però tutti ci dobbiamo amare. Ma a questa generalitá si prepone una particularitá, percioché noi dobbiamo amare piú i cristiani che l’altre sètte; conciosiacosaché noi siamo da una medesima legge, da una medesima dottrina, da quegli medesimi sagramenti costretti insieme, dove dall’altre sètte noi siam separati. E, oltre a questa, pare ancora che questa particularitá riceva alcuna divisione, in quanto pare che ciascun debba piú amare colui che con congiunzione di piú prossimana consanguinitá è congiunto, che un altro piú lontano di parentela amare; e cosí potrebbe seguire che, quanto alcun dee piú strettamente amare un che un altro, piú gravemente pecchi, se in colui, che piú dee amare, fa violenza: ma questo si rimanga al presente.]
«Si puone», cioè si puote, «Far forza»; e, detto questo, apre piú la sua intenzione, dicendo: «dico in loro», cioè nelle proprie persone de’ detti tre, «ed in lor cose, com’udirai con aperta ragione».
E cosí, di tre, paion divenute sei quelle cose nelle quali far si può violenza. E quali queste sieno, e in che maniera si possa in esse far violenza, distingue e dichiara, cosí cominciando dal prossimo: e dice che «Morte per forza», come uccidere col coltello, col veleno, col capestro, o col fuoco o in altra maniera, le quali son morti violente che si possono nel prossimo dar per forza; «e ferute dogliose Nel prossimo si dánno», cioè nella propria persona del prossimo; e quinci dimostra quello che violentemente s’adopera, o può adoperare, nelle sustanze del prossimo, dicendo: «e nel suo avere», cioè nelle sue possessioni e ricchezze, «Ruine», come è disfargli le case, «e incendi», come è ardergliele o ardergli le biade, e «tollette dannose», come è il rubargli le sue cose, tôrgli la moglie, la figliuola, il bestiame e simili sustanze. E, questo dimostrato, piú particularmente narrandogli, dimostra in qual de’ tre gironi tormentati sieno, dicendo: «Odii», cioè coloro che odio portano al prossimo, volendo per questo s’intendano coloro in questo medesimo luogo esser dannati, li quali, quantunque queste violenze non facciano, le farebbon volentieri se potessono, e, perché piú non possono, hanno in odio il prossimo; «omicide, e ciascun che mal fiere» (dice «mal fiere», a distinguer da questi cotali coloro li quali, posti per esecutori della giustizia, giustamente uccidono e feriscono); «Guastatori», come sono incendiari e simili uomini, «e predón», cioè rubatori, corsari e tiranni e simiglianti, «tutti tormenta Lo giron primo», di questo primo cerchio, e tormentali «per diverse schiere», volendo che per questo s’intenda questi cotali peccatori esser piú e men tormentati, secondo che hanno piú o meno offeso, sí come apparirá lá dove tormentati gli discrive.
E, mostrato della violenza che si può fare nel prossimo e nelle sue cose, dimostra quello che l’uom può fare in se medesimo e nelle sue cose, e quello che di ciò gli segua, e dice: «Puote uomo avere in sé man violenta», uccidendosi col coltello e col capestro, come molti hanno giá fatto, «E ne’ suoi beni», giucando quegli; «e però nel secondo Giron», de’ tre predetti, «convien che senza pro si penta», sostenendo gravissimi tormenti. E, questo detto, se medesimo dichiara con piú aperto parlar, dicendo: «Qualunque priva sé del vostro mondo», uccidendosi, come detto è, «Biscazza, e fonde», consuma, «la sua facultade», cioè la sua ricchezza, e, per conseguente, «E piagne», d’aver cosí fatto, «lá dove esser dee giocondo», avendole guardate e servate come si convenia.
E, mostrato della violenza, la quale l’uomo può fare in se medesimo e nelle sue cose, e quello che di ciò gli segua, viene a dimostrare come si possa far violenza a Dio e alle cose sue, e dice: «Puossi», da’ violenti, «far forza nella deitade, Col cuor negando e bestemmiando quella», come molti, o adirati o per mostrar di non temere Iddio, non che altrui, fanno; «E», appresso, si può far forza nelle cose di Dio «spregiando natura e sua bontade», cioè adoperando contro alle naturali leggi, come assai bestialmente fanno; «E però lo minor giron», de’ tre predetti, ne’ quali il primo cerchio è distinto, «suggella Del segno suo», cioè de’ tormenti che in quel sono, «e Sogdoma e Caorsa». E vuole l’autore per questi nomi di queste due cittá intendere due spezie d’uomini, li quali offendono o fanno violenza a Dio nelle cose sue, cioè nella natura e nell’arte, le quali sono sue cose, sí come appresso mostrerà l’autore: e intende per «Sogdoma» coloro li quali contro alle leggi della natura con sesso non debito lussuriosamente adoperano; e per «Caorsa» intende gli usurai, li quali fanno violenza alle leggi della natura e al buon costume dell’arte.
Ed accioché piú manifestamente appaia l’autore intender questo, è da sapere che Sogdoma, secondo si legge nel Genesi, fu una cittá vicina a Ierico in Soria, la qual fu abbondantissima di tutti i beni temporali; per la quale abbondanza i cittadini di quella in tanta viziosa vita trascorsono, che né legge divina né umana seguivano, e ogni vizio, quantunque detestabile fosse, era a ciascuno, secondo che piú gli piacea, lecito d’esercitare; e, tra gli altri, era in tutti generale il sogdomitico, per lo quale, e sí ancora per gli altri, meritaron l’ira di Dio. Il quale, essendo disposto a volerla insieme co’ cittadini sovvèrtere, prima il manifestò ad Abraam, il quale il pregò che non volesse fare a’ buoni sostener pena per le colpe de’ malvagi; e, promettendo Iddio di perdonare a’ malvagi per amor de’ buoni, se alquanti vi se ne trovassono, non sappiendovene Abraam trovare quantitá alcuna di quelli che domandati avea, fu contento al piacer di Dio. Per la qual cosa Iddio mandò due suoi angeli a Lot, nepote d’Abraam, il quale abitava in quella, ed era buono e onesto e santo uomo; e per loro gli comandò che di quella con la sua famiglia si dovesse partire, manifestandogli quello che di fare intendeva. Erano i due angeli, quando alla casa di Lot pervennero, in forma di due speziosissimi giovanetti, li quali da’ sogdomiti veduti, incontanente corsono alla casa di Lot, addomandando d’aver questi giovani. Lot, il quale sí come messi del suo Signore ricevuti li avea, non gli volle lor dare, ma per sodisfare all’impeto della lor lussuria, e per servare l’onore de’ giovani che a casa gli eran venuti, volle lor dare due sue belle figliuole vergini, le quali in casa aveva: ma essi, non volendole, e volendo far impeto nella casa, subitamente per divino giudicio tutti divennero ciechi. Lot con la famiglia sua poi uscí della cittá, secondo il comandamento fattogli, e incontanente sentí dietro a sé grandissima tempesta e orribili tuoni e folgori cader da cielo, le quali Sogdoma e’ suoi cittadini, e alcune altre terre le quali in simiglianti vizi peccavano, arsono e consumaron tutte, lasciando nondimeno, in detestabile memoria di sé, questo infame sopranome a tutti coloro li quali in vizio contro natura peccano.
Caorsa è una cittá di Proenza, ovvero in Tolosana, secondo che si racconta, sí del tutto data al prestare a usura, che in quella non è né uomo né femmina, né vecchio né giovane, né piccol né grande che a ciò non intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor salario, ma se d’altra parte sei o otto denari venisser loro alle mani, tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo. Per la qual cosa è tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo noi, che, come l’uom dice d’alcuno:—Egli è caorsino,—cosí s’intende ch’egli sia usuraio.
Séguita poi: «E chi spregiando Iddio col cuor favella», percioché in questo fa violenza alla divinitá, ché in altro non può; percioché andar non si può in cielo a far violenza a Dio nella persona, fassi adunque qui in quel che si può, bestemmiandolo, dispettandolo, avvilendolo e negandolo, come di sopra è detto.
«La frode, ond’ogni coscienza». Poi che Virgilio ha pienamente mostrato all’autore i gironi del primo cerchio, e ancora quegli che in essi son tormentati, che sono la prima spezie d’uomini che a fine di fare ingiuria usano violenza; ed esso diviene a dimostrare la seconda spezie, la quale esso chiama i «fraudolenti», che non con violenza manifesta, come i sopradetti, ma con fraude e occultamente s’ingegnano di fare altrui ingiuria. Dice adunque: «La frode»; che cosa sia fraude si mostrerá appresso nel principio del diciassettesimo canto; «onde», dalla quale, «ogni coscienza è morsa», cioè offesa, «Può l’uomo usare». Intende qui l’autore di dimostrare esser due spezie principali di fraude, delle quali dice l’una esser quella fraude la quale si commette contro a coloro li quali non si fidano di colui che poi con fraude l’inganna; e l’altra esser quella che si commette contra coloro li quali si fidano di colui che poi fraudolentemente gl’inganna; e perciò vuole queste due spezie di fraudolenti ne’ due seguenti cerchi, li quali sono li due ultimi dello ’nferno; e vuole nel superiore, il quale è il secondo de’ tre predetti, sien puniti que’ fraudolenti li quali ingannano chi di lor non si fida, e nell’inferiore, il quale è il piú profondo dello ’nferno, sien puniti i fraudolenti, li quali ingannano chi si fida di loro. E però dice: «Può l’uomo usare», fraude, «in colui», cioè contra colui, «che si fida», e questa è l’una spezie e la peggiore, «E», puolla ancora usare, «in quello che fidanza non imborsa». cioè con tra colui il quale non ha fidanza nel fraudolente. «Questo modo di dietro», cioè d’ingannare chi non si fida, «par che uccida», cioè offenda, «Pur lo vincol d’amor, che fa natura», cioè quel legame col quale la natura tutti ci lega e costrigne a doverci amare, in quanto tutti siamo animali d’una medesima spezie e discesi da un medesimo principio; «Onde», cioè per la qual cagione, «nel cerchio secondo», de’ tre di sopra dimostrati, che dice che son sotto quei sassi, «s’annida», cioè l’è data per istanza, sí come all’uccello il nido, «Ipocrisia, lusinghe e chi affattura; Falsitá, ladroneccio e simonia, Ruffian, baratti e simile lordura»: delle quali tutte partitamente si dirá, dove appresso de’ tormenti attribuiti ad esse si tratterá.
«Per l’altro modo». cioè per l’usar frode in colui che d’altrui si fida, «quell’amor s’oblia», cioè si mette in non calere, «Che fa natura», del quale poco dianzi è detto, «e», obliasene, «quel», amore, «ch’è poi aggiunto», al naturale, o per amistá o per benefici ricevuti o per parentado; «Di che», cioè delle quali cose, «La fede spezial si cria», cioè la singulare e intera confidenza che l’un uomo prende dell’altro, per singulare amicizia congiuntogli: «Onde», cioè, e perciò, «nel cerchio minore», de’ tre sopra detti, «ov’è il punto», cioè il centro, «Dell’universo» (piú volte s’è di sopra detto il centro della terra essere centro di tutto il mondo, cioè del cielo ottavo e degli altri cieli e degli elementi tutti), «in su che Dite siede» fondata, sí come tutte l’altre cittá e edifici, li fondamenti delle quali, se con diritta linea si tireranno al centro della terra, tutti si troveranno sovra quello esser fondati o fermati. O puossi intendere per lo Lucifero, il quale ha quel medesimo nome, secondo i poeti, che ha la cittá sua, cioè Dite, il quale, come nella fine del presente libro si vedrá, dimora sí in sul centro della terra bilanciato, che egli non può né piú in su farsi, né piú in giú scendere, percioché il piú in giú non v’è. Adunque, secondo che l’autor vuole, in questo cerchio ultimo, «Qualunque trade», cioè fraudolentemente adopera contro a colui che di lui si fida, «in eterno è consunto», cioè tormentato. E cosí ha ottimamente l’autore distinti e dichiarati i tre cerchi, li quali Virgilio dice essere sotto a quei sassi, li quali presente a sé gli dimostra.
«Ed io:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale l’autore muove un dubbio a Virgilio, domandando perché i peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, piú che quegli de’ quali di sopra ha parlato; e primieramente concede assai bene essere stato dimostrato da lui quello che detto ha de’ tre cerchi inferiori, dicendo: «Ed io:—Maestro, assai chiaro procede La tua ragione», nel dimostrare, «ed assai ben distingue Questo baratro», cioè questo inferno, il quale è da quinci in giù, «e», similmente distingue bene, «il popol che ’l possiede», cioè i peccatori li quali in esso son tormentati. «Ma dimmi: Que’ della palude pingue», cioè gl’iracundi e gli accidiosi, li quali son tormentati nella palude di Stige, la quale cognomina «pingue» per la sua grassezza del loto e del fastidio il quale v’è dentro; e quegli «Che mena il vento», cioè i lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, «e» quegli «che batte la pioggia», cioè i golosi, li quali sono di sopra nel terzo cerchio, «E» quegli «che s’incontran con sí aspre lingue», cioè gli avari e’ prodighi, li quali sono nel quarto cerchio (e dice «si scontran con sí aspre lingue», cioè mordaci, in quanto dicono l’un contro all’altro:—«Perché tieni?»—e«Perché burli?»—). «Perché non dentro della città roggia», cioè rossa per lo fuoco, il quale, facendola rovente, la fa di nera divenir rossa, «Son e’ puniti», come son costoro, de’ quali tu mi ragioni, «se Dio gli ha in ira?», cioè se Dio è adirato contro a loro; «E se non gli ha», in ira, «perché sono a tal foggia?»,—cioè puniti, come di sopra abbiam veduto.
«Ed egli a me». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale Virgilio, mostrandogli la ragione per la quale quello avviene di che egli domanda, gli solve il dubbio mossogli. Dice adunque: «Ed egli a me» ( supple ), rispose, alquanto commosso e dicendo:—«Perché tanto delira,—Disse—lo ’ngegno tuo da quel ch’e’ suole?», cioè, perché esce tanto della diritta via piú che non suole? « Lira lirae » sí è il solco il quale il bifolco arando mette diritto co’ suoi buoi, e quinci viene « deliro deliras », il quale tanto viene a dire quanto «uscire dal solco»; e però, metaphorice parlando, in ciascuna cosa uscendo della dirittura e della ragione, si può dire e dicesi «delirare». E cosí qui vuol Virgilio dire all’autore: tu suogli nelle cose dirittamente giudicare; questo perché avviene ora, che tu non giudichi cosí? E perché questo suole avvenire dall’una delle due cose (cioè il non giudicar dirittamente delle cose e però muoverne dubbio), o per ignoranza o per l’aver l’animo impedito d’altro pensiero, e perciò segue: «Ovver la mente», tua, «dove altrove mira?». E, questo déttogli, gli ricorda quello di che esso si dovea ricordare, ed, essendosene ricordato, non avrebbe mosso il dubbio, e dice: «Non ti rimembra di quelle parole, Con le quai la tua Etica pertratta».
Etica è un libro, il quale Aristotile compose in filosofia morale, il quale Virgilio dice qui all’autore esser «suo», non perché suo fosse, come detto è, ma per darne a vedere questo libro fosse familiarissimo all’autore e ottimamente da lui inteso: e tratta Aristotile in piú luoghi di queste tre disposizioni, e massimamente nel settimo. E quinci segue: «Le tre disposizion», d’uomini, «che il ciel non vuole», cioè recusa, sí come reprobi e malvagi. E quinci dimostra quali quelle disposizioni sieno, dicendo: «Incontinenza»: questa è l’una per la qual noi dagli appetiti naturali inchinati e provocati, non potendo contenerci, pecchiamo e offendiamo Iddio; «malizia»: questa è l’altra disposizione la quale il ciel non vuole, e questa non procede da operazion naturale, ma da iniquità d’animo, ed è dirittamente contro alle virtù, secondo che Aristotile mostra nel sesto dell’ Etica; ma in questa opera intende l’autore questa malizia esser gravissimo vizio e opposto alla bontà divina, come appresso apparirà; «e la matta Bestialitade?»: e questa è la terza disposizione che ’l ciel non vuole. Questo adiettivo «matta», pose qui l’autore piú in servigio della rima, che per bisogno che n’avesse la bestialità, percioché bestialità e mattezza si posson dire essere una medesima cosa. È adunque questa «bestialità» similmente vizio dell’anima opposto, secondo che piace ad Aristotile nel settimo dell’ Etica, alla divina sapienza, il quale, secondo che l’autor mostra di tenere, non ha tanto di gravezza quanto la malizia, sí come nelle cose seguenti apparirà. «E come incontinenza Men Dio offende», che non fanno le due predette, «e piú biasimo accatta?» negli uomini, li quali il piú giudicano delle cose esteriori e apparenti, percioché le intrinseche e nascose son loro occulte, e per questo non le posson cosí biasimare e dannare; e i peccati, li quali noi commettiamo per incontinenza, son quasi tutti negli occhi degli uomini, dove gli altri due il piú stanno serrati nelle menti di coloro che li commettono, quantunque poi pure appaiono; e sono, oltre a ciò, piú rade volte commessi che quegli degli appetiti carnali, li quali continuamente ne ’nfestano. «Se tu riguardi ben questa sentenza», cioè che la incontenenza offenda meno Iddio che l’altre due; «E rechiti alla mente chi son quegli Che su di fuor», della cittá di Dite, «sostengon penitenza», per le colpe commesse; «Tu vedrai ben perché da questi félli». cioè malvagi, «Sien dipartiti», percioché tu conoscerai questi cotali, de’ quali io ti dico che di fuor di Dite son puniti, tutti esser peccatori, li quali hanno peccato per incontinenza; «e perché men crucciata La divina giustizia li martelli»,—cioè tormenti; e dice «men crucciata», imitando nel parlare il costume umano, il quale quanto piú di cruccio porta verso alcuno, tanto piú crudelmente il batte.
—«O sol, che sani». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a Virgilio, e prima capta la benivolenza sua con una piacevole laude, la quale gli dá, dicendo:—«O sol, che sani ogni luce turbata». Sono le nostre luci alcuna volta turbate dalle tenebre notturne, percioché, stanti quelle, alcuna cosa veder non possiamo; sono, oltre a questo, turbate da’ vapor grossi surgenti della terra, li quali impediscono il riguardo di quello, e non lasciano andar molto lontano; sono ancora impedite e turbate dalle nebbie e da simili cose, le quali tutte il sole rimuove e purga, percioché col suo salire nel nostro emisperio esso caccia le tenebre notturne (e cosí pare per la sua luce essere agli occhi nostri restituito il benificio del vedere, il quale turbato aveva la notturna tenebra), poi co’ suoi raggi esso ogni vapore e ogni nebbia risolve, e con questo ne fa il cielo espedito a poter in ciascuna parte liberamente guardare, quanto alla virtú visiva è possibile: e cosí pare aver sanata, cioè nella sua propria virtú rivocata, ogni luce turbata da alcuno de ’ predetti accidenti. Cosí adunque, metaphorice parlando, dice l’autore a Virgilio, intendendo per la chiaritá delle sue dimostrazioni cessarsi della mente sua ogni dubbio, il quale offuscasse o impedisse la luce dello ’ntelletto; e però segue: «Tu mi contenti sí, quando tu solvi», cioè apri e dimostri la ragion delle cose, le quali, a me occulte, mi son cagion di dubitare; «Che non men che ’l saver, dubbiar m’aggrata», per udir le tue chiare dimostrazioni. «Ancora un poco indietro ti rivolvi,—Diss’io», e questo fa’, accioché tu mi dichiari,—«lá dove di’ ch’usura offende La divina bontade» (la qual cosa ha detta di sopra, quivi dove dice: «Del segno suo, e Sogdoma e Caorsa), e ’l groppo solvi»,—cioè il dubbio, il quale mostrava l’autor d’avere, in quanto non discernea perché l’usuraio offendesse la natura e l’arte, le quali son cose di Dio, come dimostrato è di sopra.
—«Filosofia,—mi disse». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale l’autore mostra come da Virgilio gli sia soluto il dubbio mosso, dicendo:—«Filosofia,—mi disse», Virgilio,—«a chi la ’ntende, Nota», cioè dimostra, «non pure in una sola parte», ma in molte, «Come natura». È qui da sapere che, secondo piace a’ savi, egli è « natura naturans », e questa è Iddio, il quale è d’ogni cosa stato creatore e produttore; ed è « natura naturata », e questa è l’operazion de’ cieli potenziata e creata da Dio, per la quale ciò, che quaggiú si produce, nasce. E di questa seconda intende qui l’autore, dicendo che questa natura naturata «lo suo corso prende Dal divino intelletto», in quanto piú non adopera, se non quanto conosce essere della ’ntenzion di Dio; e percioché essa prende quindi il suo movimento all’operare, cosí ancora da quello, in quanto puote, prende la forma dell’operare: per la qual cosa l’autor dice: «e da sua arte». L’arte del divino intelletto è il producere ogni cosa perfetta e a certo e determinato fine; e in questo s’ingegna quanto può la natura d’imitarla, e fallo secondo la disposizione della materia suggetta, la quale, percioché è finita, non può ricevere intera perfezione, come riceve la materia sopra la quale se esercita la divina arte; ché, se ricevere la potesse la natura naturata, producerebbe cosí i nostri corpi perpetui, come l’arte divina produce l’anime. Nondimeno essa ogni cosa, la quale essa produce, produce a certo e determinato fine; ma non è questo fine della qualitá che è il fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso fa con la sua arte: percioché il fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso compone. è ad essere eterne; ma la natura le produce al fine di dovere alcuna volta venir meno, cosí come veggiamo che fanno tutte le cose prodotte da lei.
Segue adunque l’autore: «E se tu ben la tua Fisica note», cioè riguardi e tieni a mente: e dice «la tua Fisica », come di sopra fece dell’ Etica; percioché Aristotile, non l’autore, fu quegli che compose il libro della Fisica; «Tu troverrai», esser dimostrato, «non dopo molte carte», nel secondo libro di quella, «Che l’arte vostra», cioè quella che appo voi mortali se esercita, «quella», cioè la natura, «quanto puote Segue», in quanto, secondo che ne bastano le forze dello ’ngegno, c’ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esempio ricevono, fare ogni cosa simile alla natura, intendendo, per questo, che esse abbiano quegli medesimi effetti che hanno le cose prodotte dalla natura, e, se non quegli, almeno, in quanto si può, simili a quegli, sí come noi possiam vedere in alquanti esercizi meccanici. Sforzasi il dipintore che la figura dipinta da sé, la quale non è altro che un poco di colore con certo artificio posto sopra una tavola, sia tanto simile, in quello atto ch’egli la fa, a quella la quale la natura ha prodotta e naturalmente in quello atto si dispone, che essa possa gli occhi de’ riguardanti o in parte o in tutto ingannare, facendo di sé credere che ella sia quello che ella non è; similmente colui che fará una statua; e il calzolaio, quanto piú conforme fará la scarpetta al piede, miglior maestro è reputato: intendendo sempre in questo che, medianti questi esercizi e le forze degl’ingegni, séguiti quel frutto all’artefice che a noi séguita dell’operazion della natura, la quale in ogni sua operazione per alcuni mezzi, sí come per istrumenti a ciò atti, è fruttuosa. E perciò aggiugne l’autore le parole seguenti, dicendo l’arte nostra seguire la natura «come il maestro fa il discente», cioè come lo scolaro fa il maestro; per che dice Virgilio: «Sí che vostr’arte a Dio quasi è nepote», cioè figliuola della figliuola; percioché la natura è figliuola di Dio, in quanto sua creatura, e l’arte nostra è figliuola della natura, in quanto si sforza di somigliarla, come il figliuolo somiglia il padre. Ma dice «quasi», e questo dice peroché propriamente dir non si può la nostra arte essere nepote di Dio, percioché conviene che la successione sia simigliante a’ suoi predecessori; il che della nostra arte dir non si può, in quanto ella è in molte cose difettiva, dove Iddio in tutte è perfettissimo.
E, questo detto, per esemplo dimostra cosí dovere essere, come di sopra ha detto, dicendo: «Da queste due», cioè da natura e da arte, «se tu ti rechi a mente Lo Genesi », quello libro il quale è il primo della Bibbia, «dal principio», del mondo, «conviene» all’umana generazione, «Prender sua vita», dall’un di questi, cioè dall’arte; percioché Adam, secondo alcuni vogliono, fu lavorator di terra, e cosí Cain suo figliuolo, e Abel fu pastore, e, per doversi poter nell’opportunitá sostentare, preson queste arti; e cosí, mediante la terra e il bestiame, della fatica e dello ingegno loro traevano il frutto del quale si sostentavano; «ed avanzar la gente», prendendo questa parte della natura, la quale mediante le congiunzion de’ maschi e delle femmine, produce gli animali secondo la loro spezie; e cosí ad Adam e ad Eva convenne per la lor congiunzione avanzare, cioè producere e multiplicar la gente. Ma «perché l’usuriere»; chiamasi «usuriere», percioché vende l’uso della cosa la qual di sua natura non può fare alcun frutto, cioè de’ danari: «altra via tiene», in quanto fa quello che detto è, cioè che i denari faccian frutto, li quali di sua natura in alcuno atto far non possono, e perciò tiene altra via che non fa la natura o l’arte; appare assai manifestamente che esso «Per sé», cioè dall’una parte, «natura» ( supple ) dispregia e ha a vile, «e per la», cioè dall’altra parte, «sua seguace», cioè l’arte, la quale è, come di sopra è mostrato, seguace della natura, «Dispregia», e cosí offende le cose di Domeneddio, «poiché in altro pon la spene», cioè in altra spezie d’avanzare e d’accumular danari.
[Lez. XLIII]
«Ma seguimi oramai». Qui comincia la settima e ultima parte del presente canto, nella quale l’autore discrive per due dimostrazioni l’ora del tempo o del dí. Dice adunque Virgilio, poi che dichiarato ha il dubbio mossogli: «Ma seguimi oramai»; quasi voglia dire: assai abbiam parlato sopra la materia del tuo dubbio; aggiugnendo ancora: «ché ’l gir mi piace». E soggiugne piacergli l’andare per l’ora che era, la qual dimostra primieramente dal luogo del sole, il qual discrive esser propinquo all’orizzonte orientale del nostro emisperio, e cosí essere in sul farsi dí; e dimostralo per questa discrizione: «Che i Pesci guizzan», cioè quel segno del cielo il quale noi chiamiamo «Pesci».
Ad evidenza della qual discrizione è da sapere che tra gli altri cerchi, li quali gli antichi filosofi immaginarono, e per esperienza compresero essere in cielo, n’è uno il quale si chiama «zodiaco»; ed è detto zodiaco da « zoas », quod est « vita », in quanto da’ pianeti, li quali di quel cerchio, movendosi, non escono, prendon vita tutte le cose mortali; ed è questo cerchio non al diritto del cielo, ma alla schisa, in quanto egli si leva dal cerchio chiamato «equante», il qual divide igualmente il cielo in due parti: verso il polo artico ventitré gradi e un minuto, e altrettanto dalla parte opposita declina verso il polo antartico. E questo cerchio divisero gli antichi in dodici parti equali, le quali chiamaron «segni»; percioché in essi spazi figurarono con la immaginazione certi segni o figure, contenuti e distinti da certe stelle da lor conosciute in quel luogo, e quegli nominarono e conformarono a quegli effetti, a’ quali piú inchinevole quella parte del cielo a producere quaggiú tra noi cognobbono; e il primiero nominarono «Ariete», e il secondo «Tauro», e il terzo «Gemini», e cosí susseguentemente infino al dodicesimo, il quale nominaron «Pesci».
È il vero che essi gli discrissero al contrario del movimento del cielo ottavo; e questo fecero, percioché, come il cielo ottavo con tutti gli altri cieli insieme si muove naturalmente da levante a ponente, cosí quegli segni, o l’ordine di quegli, procede da ponente a levante, percioché per esso cerchio, nel quale i predetti segni sono discritti, fanno lor corso tutti e sette i pianeti, e naturalmente vanno da ponente a levante: per la qual cosa segue che, essendo il sole nel segno d’Ariete e surgendo dall’emisperio inferiore al superiore, si leverá prima di lui il segno de’ Pesci, e in esso sará l’aurora; e cosí vuol qui l’autore dimostrare per i Pesci, li quali dice che guizzano, cioè surgono su per l’orizzonte orientale, dimostrar la prossima elevazion del sole, e cosí essere in su il farsi dí. Ma, percioché questa dimostrazione non bastava a dimostrar questo tanto pienamente (e la ragione è perché il segno de’ Pesci potrebbe essere stato in su l’orizzonte occidentale, e cosí dimostrerebbe esser vicino di doversi far notte), aggiunge l’autore la seconda dimostrazione, la quale stante, non può il segno de’ Pesci, essendo in su l’orizzonte, dimostrare altro se non il sole esser propinquo a doversi levare sopra ’l nostro emisperio; e avendo detto: «i Pesci guizzan su per l’orizzonte», cioè su per quel cerchio che divide l’uno emisperio dall’altro, il qual si chiama «orizzonte» (che tanto vuol dire quanto «finitore del nostro vedere», percioché piú oltre veder non possiamo), dice: «E ’l carro tutto sovra il coro giace».
Ad intelletto della qual dimostrazione è da sapere che, comeché il vento non sia altro che un semplice spirito, creato da esalazioni della terra e da fredde nuvole esistenti nell’aere, egli ha nondimeno tanti nomi, quante sono le regioni dalle quali si conosce esser mosso, e quinci molti per molti nomi il nominarono; ma ultimamente pare per l’autoritá de’ navicanti, li quali piú con essi esercitano la loro arte, essere rimasi in otto nomi, e cosí dicono essere otto venti: de’ quali il primo chiamano «settentrione» ovvero «tramontana», percioché da quella plaga del mondo spira verso il mezzodí; il seguente chiamano «vulturno» ovvero «greco», il quale è tra ’l settentrione e ’l levante; il terzo chiamano «euro» o «levante», percioché di levante spira verso ponente; il quarto chiamano «euro auster» ovvero «scilocco», il quale è tra levante e mezzodí; il quinto chiamano «austro» ovvero «mezzodí», percioché dal mezzodí soffia verso tramontana; il sesto chiamano «libeccio» ovvero «gherbino», il quale è tra ’l mezzodí e ’l ponente; il settimo chiamano «zeffiro» ovvero «ponente», percioché di ver’ ponente spira verso levante; l’ottavo chiamano «coro» ovvero «maestro», il quale è tra ponente e tramontana. E chiamasi coro, percioché compie il cerchio, il quale viene ad essere in modo di coro, cioè di quella spezie di ballo il quale è chiamato «corea». Adunque dice l’autore sopra questo coro giacere allora, cioè esser tutto riversato, il carro; la qual cosa mai in quella stagione, cioè del mese di marzo, ad alcuna ora avvenir non può, né avviene, se non quando il sole è vicino a doversi levare; e cosí questa dimostrazione ne fa aver certa fede di quello che intenda l’autore per la primiera.
Ed è questo carro un ordine di sette stelle assai chiare e belle, le quali si giran col cielo, non guari lontane alla tramontana; e per ciò sono chiamate «carro», perché le quattro son poste in figura quadrata a modo che è un carro, e le tre son poi distese, nella guisa che è il timone del carro, fuor del carro. E sono queste sette stelle poste nella figura d’uno animale, il quale gli antichi tra piú altri figurarono, immaginando essere in cielo, chiamato «Orsa maggiore», a differenza d’un’altra Orsa, la quale è ivi propinqua, e chiamasi «Orsa minore»; nella coda della quale è quella stella la qual noi chiamiamo «tramontana».
E, poiché Virgilio gli ha per queste discrizioni mostrato ch’egli è vicino al dí (donde noi possiam comprendere giá l’autore essere stato in inferno presso di dodici ore, percioché egli si mosse in sul far della notte, come nel principio del secondo canto del presente libro appare), ed egli gli soggiugne un’altra cagione, per la quale l’andare omai gli piace, dicendo: «E’l balzo», di questa ripa, «via lá oltre», lontan di qui, «si dismonta»,—volendo per questo, che non sia da star piú, poiché molta via resta ad andare.
In questo canto non è cosa alcuna che nasconda allegoria.
CANTO DECIMOSECONDO
I
Senso letterale
[Lez. XLIV]
«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente canto al precedente assai evidentemente, percioché, avendogli mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dello ’nferno, e sollecitandolo a continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano a loro smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual fosse la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse; nella quarta mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che ’l fiume circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni e de’ rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato l’autore dall ’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma ficca gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta quivi: «Noi ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si rivolse». Dice adunque: «Era lo loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva», intendendo per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno distinzione tra «riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del fiume, e «ripa» gli argini che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in luoghi declivi, per li quali d’alcun luogo alto si scende al piú basso, come era in questo luogo. E dice questo luogo essere «alpestro», cioè senza alcun ordinato sentiero o via, sí come noi il piú veggiamo i trarupi dell’alpi e de’ luoghi salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch’è «tal, per quel ch’ivi er’anco», cioè per lo Minotauro, che in quel luogo giacea come appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe schiva», a doverlo riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo, nel dimostra per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella ruina, che nel fianco Di lá da Trento l’Adice percosse».
È questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di Lombardia, verso Tiralli su per l’Adice, la quale alla sommitá d’un monte discende tutta in su la riva dell’Adice. E la cagione di questa ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose: o l’essere stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale, scendendo delle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual non è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o veramente cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada, come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per mancamento di sostegno. È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre acqua, la quale, evaporando e umettando le parti superiori delle caverne, sempre le rodono e indeboliscono; per che avvien talvolta che, premute molto dal peso superiore, non potendolo sostener piú, cascano, e cosí casca quel che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le voragini, le quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.
E avendo adunque l’autor detto: «l’Adice percosse», pone l’altre due cagioni per le quali poté avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per sostegno manco». È il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre della terra, il quale, essendo molto e volendo uscir del luogo nel quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall’una parte all’altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti tremare; ed è talvolta il triemito di tanta potenza, che egli fa cadere gli edifici e le cittá, alle quali egli è vicino.
Séguita poi l’autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualitá del luogo, e dice: «Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde si mosse», quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia discoscesa, Ch’alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi su fosse», cioè sopra ’l monte: «Cotal di quel burrato»; «burrati» spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi alpigini e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo, dove venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte trarupato che dimostrato ha; «E ’n su la punta», cioè in su la sommitá, «della rotta lacca», cioè ripa, «L’infamia di Creti era distesa», cioè il Minotauro, la cui concezione fu sí fuori de’ termini naturali e abominevole, che all’isola di Creti, nella quale esso fu, secondo le favole, generato, ne seguí perpetua infamia; «Che fu concetta», questa infamia di Creti, «nella falsa vacca», cioè in una vacca di legno, come appresso dimostrerò.
[È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro, dove si tratta di Minos, è detto, che, volendo Minos andare sopra gli ateniesi a vendicare la morte d’Androgeo, suo figliuolo, il quale essi e’ megarensi avevano per invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre, che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli mandò un toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos che esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo marito, e agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con Marte, fece che Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s’innamorò di questo toro cosí bello; e, andato Minos ad Atene, ella pregò Dedalo, il quale era ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse giacere con questo toro. Per la qual cosa Dedalo fece una vacca di legno vota dentro, e, fatta uccidere una vacca, la qual parea che oltre ad ogni altra dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro e stare in guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si creò, e poi nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro. Il qual cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata «laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali voleva far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto Teseo, figliuolo d’Egeo, re d’Atene, e quivi dimorato alcun dí, e in quegli Adriana, figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di lui, e avendo avuta la sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl’insegnò come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro ad uno spago se ne tornasse fuori della prigione. La qual cosa Teseo fece; e, giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa, la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d’un bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito del laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il qual dice:]
«E quando», quel Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse, Si come quei», si morde, «cui l’ira dentro fiacca», cioè rompe e divide dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente incrudelisce.
Ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere qual sia la qualitá de’ peccatori, che nel cerchio dove discendono si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere bestiale, poiché, per l’animal preposto al luogo, convenientemente, sí per la generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive. Appresso è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio settimo opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con atti o con parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte sarebbe stato rimosso, se i buoni conforti e l’aiuto della ragione non l’avesse, nella persona di Virgilio, aiutato.
Séguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa fiera bestia mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio desse di passare all’autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio gridò», cioè parlò forte verso il Minotauro: «—Forse Tu credi, che qui sia ’l duca d’Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene. «Partiti, bestia», del luogo dove tu se’ per impedire il passo a costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non viene Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne Teseo, il qual t’uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per veder le vostre pene»,—di te e degli altri.
E, queste parole dette, ne mostra l’autore per una comparazione quello che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel toro, che si slaccia», cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, «in quella», ora, «C’ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché, avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la ragione delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l’ordine dell’appetito, il quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e perciò non va, «ma qua e lá saltella», come l’impeto del dolore il sospigne; «Vid’io il Minotauro far cotale», cioè senza saper che si fare, o dove andare, andar saltando e furiando; «E quegli», cioè Virgilio, «accorto gridò», cioè avvedutamente mi disse:—«Corri al varco», donde vedi si può discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava; «Mentre ch’è ’n furia, è buon che tu ti cale», quasi voglia dire: quando in furia non fosse, sarebbe piú difficile il poter discendere; e in ciò n’ammaestra alcuno altro consiglio non essere migliore, quando l’iracundo in tanta ira s’è acceso che furioso è divenuto, che il partirsi e lasciarlo stare.
«Cosí prendemmo». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo il Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie’ piedi per lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e premeva, percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e però dice «nuovo carco», perché non era usato per quel cammino d’andare persona viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse.
«Io giá pensando»: qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier dell’autore per avviso, non giá che altra certezza n’avesse, e però dice: «e que’ disse:—Tu pensi Forse a questa ruina, ch’è guardata Da quell’ira bestial, ch’io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E oltre a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe alcun dire: se quello Minotauro era iracundo, non pare che l’autore il dovesse in questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella palude di Stige, dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio assai ben si mostra soluto per l’adiettivo il quale dá a questa ira, chiamandola «ira bestiale». La quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i termini dell’ira umana, che ella è trasandata nella bestialitá, e per conseguente convertita in ostinato odio; e perciò attamente esser posta alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali.] Ma Virgilio, a solvere l’autore del suo pensiero [il qual, tacendo, confessa esser per quella cagione che Virgilio dice], comincia, continuandosi cosí: «Or vo’ che sappi che, l’altra fiata Ch’io discesi quaggiú nel basso inferno», come di sopra è stato detto nel canto nono, «Questa roccia non era ancor cascata»; e perciò gli dimostra quando avvisa che ella dovesse cascare, dicendo: «Ma certo poco pria, se ben discerno», immaginando, «Che venisse colui», cioè Cristo, «che la gran preda», cioè i santi padri, «Levò a Dite», cioè al principe de’ dimòni (il quale, quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’ Eneida, dove dice: « inferni regia Ditis »), «del cerchio su perno», cioè del limbo, il quale è il primo cerchio dello ’nferno.
E perciò dice Virgilio:—Poco prima che venisse Cristo a spogliar il limbo,—percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in su la croce all’ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l’altre cose che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente tremò, che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando tutta, tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo tempo fu poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l’anima di Cristo non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in paradiso, si come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette su la croce al ladrone: « Amen, dico tibi, hodie mecum eris in paradiso », ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l’aurora, risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal tremuoto universale allo spogliar lo ’nferno, quanto fu tra l’ora nona del venerdí e la prima della domenica. E questo è quel «poco prima» che Virgilio dice qui.
Poi séguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho giá dichiarato, cioè: «Da tutte parti», e in questo ne dimostra l’universalitá del tremuoto, «l’alta», cioè profonda, «valle feda», puzzolente d’inferno, «Tremò sí», cioè oltremodo, «ch’io pensai che l’universo», cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».
Qui è da ritornarsi alla memoria l’opinione, la quale di sopra raccontai nel canto quarto essere stata di Democrito, il qual tenne esser due princípi a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le cose, la quale egli appellava «caos», e in questa materia diceva essere i semi di tutte le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa e distinta forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos e perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate, quasi come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí: come ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, cosí dopo molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e univa col suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli sentí questo tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito né avea udito da alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi credette che l’universo, cioè tutte le cose, sentissero questo amore, che detto è, e dovessersi ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma risoluto.
E quinci, volendo mostrare questa non essere sua opinione, ma d’altrui, dice: «per lo quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi seguaci, «Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che di sopra è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale fu, «questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal fece riverso», qual tu puoi vedere.
[Lez. XLV]
«Ma ficca gli occhi». Qui, finita la seconda parte, comincia la terza del presente canto, nella quale l’autor discrive come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse; e dice che, poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella roccia, alla quale esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle, ché s’approccia La riviera», cioè il fiume o ’l fosso, «del sangue, in la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo; «Qual che per violenza in altrui noccia»,—rubando o uccidendo; e cosí appare questa essere la prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra è detto. La qual riviera del sangue come l’autor vide, cosí contra i vizi, da’ quali si può comprendere questa spezie di violenza esser causata, leva la voce, ed esclamando dice:
«O cieca cupidigia», cioè disiderio d’avere; e cosí apparirá radice di questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra, dove dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito d’avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza e bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori; percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono, o da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all’uccisione, e cosí fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue adunque: «Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in numero singulare, si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione, («O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla seconda parte («o ira folle»), «nella vita corta», cioè in questa vita mortale, la quale, per rispetto della eternitá, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe dire essere un batter di ciglia; «E nell’eterna poi», cioè in quella nella quale, cosí peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio dannati, «sí mal c’immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento de’ miseri, li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in questo condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura compunzione e dolore.
Ma poi che egli ha detto contro a’ due vizi, li quali son cagione della violenza che nelle cose e nella persona del prossimo si commette, ed egli piú appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i miseri son puniti, dicendo: «Io vidi un’ampia fossa», cioè un fiume, «in arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio, «abbraccia», col girar suo, «Secondo ch’avea detto la mia scorta». Dove questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui averlo detto in alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l’autore non l’avere scritto. «E tra ’l piè della ripa», la quale circundava il luogo, «ad essa», fossa, «in traccia, Venien centauri armati di saette», ( supple ) e d’archi (percioché invano si porteria la saetta, se l’uomo non avesse l’arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare a caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui posti, si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.
«Vedendoci calar». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto per guida. Dice adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci», percioché l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le pietre di quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire,] «calar», cioè discendere, «ciascun», de’ centauri, «ristette, E della schiera tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed asticciuole», cioè saette, «prima elette», cioè tratte del turcasso o d’altra parte, ove per avventura le portavano. «E l’un», di que’ tre, «gridò da lungi:—A qual martiro Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci», ove voi siete, «se non», ( supple ) il direte, «l’arco tiro»;—quasi voglia dire: io vi saetterò.
«Lo mio maestro disse:—La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel centauro il quale è preposto di voi. E poi, in detestazion della sua troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva fatto al Minotauro, dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí tosta»,—cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse:—Quegli», al quale io ho ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe’ di sé la vendetta egli stesso»,—posciaché fu morto.
[Fu questo Nesso, tra’ centauri famosissimo, figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli altri, ed essendo insieme co’ fratelli in Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di vivanda e vino, volle tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della quale si levò Teseo, amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava lapiti, e ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso, gli disse un de’ suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva vaticinare:—Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire, percioché la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercule.—Per la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e quivi allato ad un fiume chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo di Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta moglie d’Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la patria, trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira; e fattosi avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercule, disse: —Ercule, dove tu creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira.—Alla qual profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando Ercule, Nesso con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato, e pervenuto all’altra riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo. Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente, percioché sapea le saette d’Ercule tutte essere intinte nel sangue della idra, la quale uccisa avea, e casi essere velenosissime, pensò in vendetta della sua morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camiscia, la quale giá era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito della sua piaga, disse:—Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in riconoscenza del grande amore il quale io t’ho portato e porto, se non questa mia camiscia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli avvenga che Ercule in altra femmina ponga amore, dove tu possi fare vestirgli questo vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da ogni altra femmina, e ritornerallo in te.—Deianira, credendo questo dovere esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo, avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito, re d’Etolia, occultamente adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi e sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello, liquefatto, gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia addosso, che esso, composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò dentro e in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sé egli stesso.]
[La bella Deianira fu figliuola d’Oeneo, re di Calidonia, e fu ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani nobili la disiderarono e domandaron per moglie; ma, dopo molte cose, essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad Ercule domandantela, nacque guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo Acheloo vinto da Ercule, ne rimase Ercule in pacifica possessione. Dice Teodonzio che la guerra, la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume, fu in questa maniera, che, rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e per questo molto alcuna volta per le piove la provincia, crescendo, guastasse, fu ad Ercule, addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre di lei, questa condizione, che egli la poteva avere dove recasse Acheloo in un solo alveo, e quello sí d’argini forti chiudesse, che egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule con grandissima fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato corso d’ Acheloo, ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è detto, che ad Ercule mandò la camiscia di Nesso.]
«E quel», centauro, «di mezzo ch’al petto si mira. È ’l gran Chirone, il qual nudrí Achille». [Questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione, ma fu, secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira, comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della sua origine si recita questa favola: che Saturno, preso della bellezza di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice Servio, che, giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis, sua moglie, e perciò, accioché da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo, partorí un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi in giú era cavallo; il qual cresciuto, se ne andò alle selve e in quelle abitò e in quelle nudrí Achille, come di sopra si disse, dove d’Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi, essendo stato dal padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe, sua figliuola profetante, predetto che esso ancora disidererebbe d’esser mortale; avvenne che, avendolo visitato Ercule, per caso gli cadde sopra il piè una delle saette d’Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano avvelenate nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato, accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar gl’iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse morire: la qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo la morte sua fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco, ed è quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario.]
«Quell’altro è Folo, che fu sí pien d’ira». Di questo Folo niuna cosa abbiamo se non che esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli altri centauri.
«Dintorno al fosso», nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a mille a mille, Saettando quale anima», de’ miseri dannati, «si svelle Del sangue», cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste parole, e ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la violenza commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio voluto l’anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.
«Noi ci appressammo a quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli «fiere», percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la barba», la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»; e ciò fece, accioché essa non impedisse le sue parole.
«Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, Disse ai compagni:—Siete voi accorti Che quel di dietro», che era l’autore, «muove», co’ piedi, «ciò che tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de’ morti», cioè dell’anime partite da’ corpi morti.
«E ’l mio buon duca, che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due nature», cioè l’umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione, «Rispose:—Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché egli è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien la valle buia», d’inferno; «Necessitá il conduce», in quanto, come altra volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella quale va l’autore, andare a chi vuole uscire della prigione del diavolo; «e non diletto», ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.
«Tal si partí da cantare alleluia »: e questa fu Beatrice, la quale, lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al soccorso dell’autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato detto.
[« Alleluia » è dizione ebraica, e secondo alcuni è « interiectio laetantis »; ma Papia dice che « alleluia » in latino vuol dire «laude di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre a ciò, questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno: «cantate a colui il quale è», e cosí c’invita alla laude di questo Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a quegli iddii li quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede e umanitá, e cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte mostrare.]
«Che mi commise quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare uom vivo per lo ’nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi», mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice: «Non è ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú, per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo», cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e «Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto che per l’aer vada»,—come fo io e gli altri.
«Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio, «E disse a Nesso:—Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare, «s’altra schiera v’intoppa»,—cioè vi si scontra, di centauri.
[Lez. XLVI]
«Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice l’autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse:—E’ son tiranni», quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell’aver», del prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle persone e nell’avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io ti dico che piangono, «è Alessandro».
Non dice l’autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo, chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.
Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia, e d’Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto, il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra; né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E, pervenuto in Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d’Asia; e, non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e’ figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni, navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo gran pericolo vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali estimò piú valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un re chiamato Ambigeri, lui, ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse; e di quindi venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia, dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E, mentre che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori de’ cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I romani non vi mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo Ab urbe condita quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato. Quivi in Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.
Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune degli uomini, ma de’ regni e delle libertá degli uomini, violentissimo; e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma ancora degli amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’ conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote assai convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in questo ardentissimo sangue esser dannato.
«E Dionisio fèro, Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo che Giustino scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo, e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro De quaestionibus Tusculanis, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e similmente d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per che ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui, nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana, chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre riguardando andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e, come egli fosse sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto Dionisio in signore de’ siracusani, e tutti i cittadini a vederlo nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti; Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide, altamente disse:—Questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove;—il che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in compagnia quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta. Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto anni regnato.
Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato con certi giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore, in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo. Della qual fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando, fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali l’una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la camera nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante, salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza delle cose e la magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di lui; gli disse Dionisio una volta:—O Damocle, percioché io m’accorgo che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia fortuna?—Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo, comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi, li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.
Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de’ beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego. Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi, li quali con lui erano:—Vedete voi come buon navicare sia conceduto dagl’iddii a’ sacrilegi?—E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio un mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l verno troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’ detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi piú mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando le prendeva, sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti doni d’oro e care cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle; stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti aver detto.
E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi, che ucciso avevano il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver l’animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma, uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due, se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra a’ siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme, sperante d’arricchire della preda e della ruberia della cittá, di prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna della battaglia, mandò ambasciadori a’ siracusani, promettendo che esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della cittá, esso, ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani, mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensi come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi per forza menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro; oltre a ciò li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere, e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto per patti fatti co’ siracusani, lasciata la signoria, povero e misero n’andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi alle piú infime e misere cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si diede a insegnar giucare alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente l’autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti nel dimostra.
«E quella fronte, c’ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama Musatto padovano in una sua tragedia Ecerino, ed è quello Azzolino, il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente de’ padovani, de’ quali ad un’ora avendone nel prato di Padova rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio, o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di sé.—Adunque—disse Azzolino,—avendomi il diavolo fatte molte grazie, io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te, poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro, e nominatamente da mia parte gliele presenta.—E, fattolo menar lá col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente, avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente essergli venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio, e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.
[Lez. XLVII]
«E quell’altro, ch’ è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu fatto per la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e, appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l’autor mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d’Opizzo averlo conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento», cioè morto, «dal figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide e rubatori il dimostra esser dannato.
«Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’ disse:—Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo».—E vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a quel che dice.
«Poco piú oltre il centauro s’affisse Sovr’una gente che ’nfino alla gola Parca che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».
«Mostrocci un’ombra dall’un canto sola. Dicendo:—Colei fesse in grembo a Dio, Lo cor, che ’n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo, fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che, essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte; e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme, quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e, secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere disse:—Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro padre fu strascinato.—Per le quali parole il conte, tornato indietro, prese per li capelli il morto corpo d’ Arrigo, e quello villanamente strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo, senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere in questo cerchio dannato. E in quanto l’autor dicesse «fesse», intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è in quella, dee casi essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor, che ’n su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte. Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna, questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta al detto Arrigo e alla real casa d’Inghilterra. E quegli che dicono questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: « Cor gladio scissum do cui sanguineus sum »; cioè: «io do il cuor fesso col coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d’un medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l’autore che questo cuore d’ Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola», cioè onora; e viene da colo, colis; e pertanto dice che egli s’onora, in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte passano, riguardato.
«Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente, «tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere, e mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre che seguono, comprendere, secondo il piú e ’l meno avere violentemente ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur non ne nomina alcuno.
«Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli che dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.
E, passati che furono:—«Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu vedi, non cuopre piú su che i piedi: «—Disse ’l centauro,—voglio che tu credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo, «infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta, «Quell’Attila, che fu flagello in terra».
Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro, con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra, che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombadia, similmente molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa, avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece. Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila, il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea; a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta, ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia; e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l’affogò, e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l’arco d’Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser morto, e la mattina seguente a piú de’ suoi amici il disse; e poi si ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto. Fu costui cognominato « flagellum Dei », e veramente egli fu flagello di Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze degl’italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare e punire le iniquitá degl’ italiani, le quali in tanto ogni dovere eccedevano, che esse erano divenute importabili.
Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila, li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano imperadore, il qual fu promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu suo successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in Italia da Giustino, sconfitto e morto.
«E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore, pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del primo Pirro.
Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era solo e di notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno, il qual fu tirato in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza, trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite, suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse; e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando all’etá né al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie stata d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de’ molossi, li quali dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena, stata sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive. Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive, essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d’Ercule, la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo, o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote del tempio d’Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in vendetta della ingiuria fattagli d’Ermione.
Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo d’Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini, per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio, e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d’etá d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori, li quali infino all’etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da’ tarentini venne in Italia contro a’ romani; e ancora chiamato in Cicilia da’ siragusani, quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò in Epiro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone Antigono re. Poi, avendo giá levato l’animo a voler prendere il reame d’Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d’Argo in Acaia, fu d’in su le mura della cittá percosso d’un sasso, il quale l’uccise.
Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore ne’ suoi esercizi.
«E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli, raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna, intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica. Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle parti d’Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian Cesare ancora combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse Pompeo e’ suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia. Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in Cicilia, e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi, con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio, e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi, fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell’altrui sostanze e vago versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente, secondo che qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato.
«Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione, e ladrone famosissimo ne’ suoi di, gran parte della marittima di Roma tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi veniva.
«Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente canto, nella quale l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo: «Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato l’avea, «e ripassossi ’l guazzo», cioè quel fossato del sangue.
II
Senso allegorico
[Lez. XLVIII]
«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi utili e sani consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie temporali intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli l’ordine degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá de’ peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce a vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l’autore accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale primieramente presuppone l’autore essere stata vera la favola di sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però, questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente de’ bestiali.]
[Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole. Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito concupiscibile e dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare il fervore dell’ira. Questi due appetiti, quantunque l’anima nostra infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione, non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non curando il consiglio della ragione, s’inchina a compiacere ad alcuno di questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá ne’ vizi naturali. Da’ quali non correggendosi, le piú delle volte si suole lasciare sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti bestiali, li quali son fuori de’ termini degli appetiti naturali, percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di peccare carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci talvolta: ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione, pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura, come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è l’uno de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare ne’ disideri bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell’uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali.]
[I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine, il quale serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte divorano con denti leonini o d’altro feroce animale, quante le rubano, ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L’altro costume di questa bestia dissi ch’era l’esser crudelissimo: il qual costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente si vede, quantunque crudel cosa sia l’uccidere e il rubare altrui, quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch’è il confonder le cose proprie e all’uccidere se medesimo, percioché questo passa ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo costume ne disegna l’autore in questo animale la seconda spezie de’ violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l’esser fieramente furioso: e questo terzo costume s’appropria ottimamente alla colpa della terza spezie de’ violenti, li quali, in quanto possono, fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle naturali leggi o contro al buon costume dell’arte adoperando: e contro a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo terzo costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]
E, poiché la ragione ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú e ’l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e, oltre a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in parte assai agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole che in quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa la giustizia saettare a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori de’ loro scellerati comandamenti, li quali l’autore intende per li centauri: [de’ quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]
[È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui, secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo, e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde egli insuperbito per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove, sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone, ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone: per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno, e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se attentamente riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno saettino.]
[Fu adunque, secondo le istorie de’ greci, Issione oltre modo disideroso d’occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si sforzò d’ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna volta la ’ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea de’ regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che essa aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, si come l’aere, si converte in tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion del sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e condensati nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere convertita in piova. Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra’ termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso comandi e sia ubbidito da’ suoi come è il re. Ma, si come tra ’l chiaro aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra ’l re e ’l tiranno: l’aere è risplendente e cosí è il nome reale, la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re è amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria intorniato d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’ sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e il tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone l’anima sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá, se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]
[Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella finzion della favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire essere ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse, sí come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi, la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali, secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d’alcuno regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de’ quali incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d’arme, di superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí come noi veggiamo essere i masnadieri e’ soldati e gli altri ministri delle scellerate cose, alle forze e alla fede de’ quali incontanente ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]
[E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati «centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios» in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del nome de’ centauri.]
[E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli, racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga, il detto re comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono da quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano usi di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la figurazion di costoro.]
[Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro essere nati d’Issione, cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi mostrammo; le quali sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali si mungono e traggono gli stipendi, de’ quali i soldati in loro disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze e le ingiurie a’ sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte sono ministri e facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí come costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí sieno alla lor punizione.
Potrebbesi ancor dire che l’autor avesse voluto intendere, per gli stimoli delle saette de’ centauri ne’ violenti, s’intendessero le sollecitudini continue de’ tiranni, le quali si può credere che abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per l’avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma, comeché nella presente vita si sia, nell’altra si dee intendere le saette, da questi centauri saettate ne’ violenti, essere l’amaritudine della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell’arme; e cosí coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono, con le mani de’ quali versarono il sangue del prossimo, rubarono le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori, tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.
[128][129]
CANTO DECIMOTERZO
I
Senso letterale
[Lez. XLIX]
«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrano per un bosco, della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la quale ebbe l’autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de’ primi equali; nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito che spezie di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla. La seconda comincia quivi: «E ’l buon maestro»; la terza quivi: «Noi eravamo»; la quarta quivi: «Quando ’l maestro».
Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all’altra riva del fiume, «Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, per antiphrasim, quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in latino sono chiamati « sentes », conciosiacosaché in essi sentieri alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri» dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi e spine.]
«Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco; e questa è l’altra cosa per la quale vuole l’autore si comprenda questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della salvatica qualitá del bosco.
Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza d’esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due dimostrazioni: e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene di fiere salvatiche, conosciute dagl’italiani; e l’altra mostra dalla qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi, «Quelle fiere selvagge», le quali stanno nelle selve poste tra’ due confini, li quali appresso disegna; «che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè lavorati.
Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio, in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure tra’ due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli, nelle quali dice l’autore non essere «sí aspri sterpi», percioché sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose ch’e’ pruni: e i due termini, tra’ quali dice esser queste selve cosí orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto, il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l’altro è Corneto, il quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del padre di Dardano, re di Troia.
Appresso, mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra l’altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie lor nido fanno»; e, accioché d’altra spezie d’uccelli non intendessimo, ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno». E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi umani, Piè con artigli e pennuto ’l gran ventre; Fanno lamenti in su gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.
Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate Strofade; e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai, e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro, chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse: —Voi, troiani, per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche guerra, e volete della loro patria cacciare l’arpie: ma io, secondo che io ho da Apollo, v’annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell’ingiuria, la quale n’avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella voi mangerete le mense vostre.—Col quale «tristo annunzio di futuro danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d’Arcadia, seguite da Zeto e d’Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento, fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie si dirà alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del presente canto si dimostrerá.
E cosí avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualitá di questo bosco, séguita: «E ’l buon maestro»; dove comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai e non vede da cui; nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva; nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E ’l tronco suo»; la sesta quivi: «S’egli avesse»; la settima quivi: «E ’l tronco:—Si»; la ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».
Dice adunque: «E ’l buon maestro», disse:—«Avanti che piú entre», infra questo bosco, «Sappi che se’ nel secondo girone»,—cioè nella seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda spezie de’ violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire,—e sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione», sopra ’l quale si punisce la terza spezie de’ violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e dolersi.
Per le quali parole l’autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia d’ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda principale di questo canto, nella quale l’autore si maraviglia d’udire trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d’ogni parte», di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che ’l facesse, Per ch’io tutto smarrito m’arrestai». E questo smarrimento avvenne, percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono di que’ bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli guai venivano, dicendo: «Io credo ch’ei credette», Virgilio, «ch’io credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que’ bronchi. Da gente che per noi si nascondesse».
«Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo credere che esso credesse ecc.):—«Se tu tronchi Qualche fraschetta d’una d’este piante, Li pensier c’hai», cioè che quegli che traggono i guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè invalido e impotente ad alcuna operazione.
«Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue: «Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po’ avante, E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era, come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.
«E ’l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e però dice: «E ’l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò:—Perché mi schiante?».—E queste parole paiono assai dimostrare la parte schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata, comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno, per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò a gridar:—Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?». Quasi voglia qui l’autore mostrare avere i dannati compassione l’uno delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non sapeva che l’autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo: «Uomini fummo», nell’altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa; «Ben dovrebb’esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso loro non s’usasse alcuna pietá.
Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d’un stizzo verde, ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro», capo, «geme», acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare: «E cigola per vento che va via».
Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello, che v’è terreo, converte in terra. Ma dell’umido e dell’aere non avvien cosí, percioché, essendo l’umido, si come da suo contrario, cacciato dal fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire fuori alcun romore: l’aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto, gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir vogliamo; e, convertito dall’impeto in vento, va via.
Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond’io lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e stetti come l’uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e a sodisfare all’offeso e a rassicurar l’autore, dicendo:
—«S’egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è. Dice adunque:—«S’egli avesse potuto creder prima», che egli avesse schiantato questo ramuscello—«Rispose il duca mio,—anima lesa», cioè offesa, «Ciò c’ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Il duca mio rispose.—O anima lesa, se egli avesse prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva, «mi fece Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa», cioè a schiantare quel ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè in luogo, «D’alcuna ammenda», all’offesa la qual fatta t’ha, «tua fama rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel mondo sú, dove tornar gli lece»,—cioè è lecito, sí come ad uomo che ancora vive e non è dannato.
«E ’l tronco:—Sí». Qui comincia la settima parte della seconda principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e però comincia: «E ’l tronco:—Sí col dolce dir», cioè con la soavitá delle tue parole, «m’adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto m’imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch’io non posso tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch’io un poco a ragionar m’inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente potrá rinfrescare la fama mia.
«Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s’intenda questa sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto sentimento e d’ingegno; e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto in cancelliere dell’imperador Federigo secondo, appo il quale con la sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello ’mperadore celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto assai poteva apparire costui tanto potere dello ’mperadore, che nel suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo ’mperadore questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo stato dello ’mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello ’mperadore rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace dimostrazione fatta dagl’invidi vedere allo ’mperadore, che esso vi prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo dello ’mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor s’accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo:—Voi siete per me’ la chiesa di San Paolo in riva d’Arno;—il che poi che udito ebbe, disse al fanciullo:—Dirizzami il viso verso il muro della chiesa.—Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale disperazione l’autore, sí come contro a se medesimo violento, il dimostra in questo cerchio esser dannato.
Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo ’mperadore di qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e serrano i serrami, cosí io apriva il volere e ’l non volere dell’animo di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni. E, questo detto, vuoi dimostrare che meritamente avea ogni altro tolto dal segreto dello ’mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso ufizio», cioè d’essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir lui essere l’imperadore, «Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi». Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle quali si comprendono le qualitá de’ movimenti del cuore, e in queste piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d’altra cosa, ne fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione, la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi.
E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua morte, dicendo: «La meretrice», cioè la ’nvidia, la quale perciò chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si sottomettono, cosí la ’nvidia aver per merito il disfacimento di colui al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poiché qui cosí efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]
[Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in questa forma:
... Domus est imis in vallibus huius
abdita, sole carens, non ulli pervia vento: tristis et ignavi plenissima frigoris et quae igne vacet semper, caligine semper abundet.
E poco appresso séguita:
... Videt intus edentem
vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum, invidiam, visamque oculis avertit: at illa surgit humo pigre, semesarumque relinquit corpora serpentum, passuque incedit inerti.
E poco appresso:
Pallor in ore sedens, macies in corpore toto, nusquam recta acies, livent rubigine dentes, pectora felle virent, lingua est suffusa veneno: risus abest, nisi quem visi fecere dolores; nec fruitur somno, vigilantibus excita curis: sed videt ingratos, intabescitque videndo, successus hominum; carpitque et carpitur una: suppliciumque suum est, ecc.]
[Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il giudicio dello ’nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo ’nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò, nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d’alcuno, ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, si come quello nel quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de’ suoi pensieri e de’ suoi divisi appetiti, de’ quali, miseramente aspettando, esso pasce la dolorosa anima.]
[Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto colui che compreso n’è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta sia la forza della passione, la quale dentro l’affligge, in tanto che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la magrezza.]
[E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne dimostra il giudicio dello ’nvidioso esser perverso, e contro ad ogni ragione e dirittura; e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il rado uso che allo ’nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira, ci si dichiara mai nel petto dello ’nvidioso seccarsi o venir meno, ma sempre vivere e starvi verde l’iracundia, la qual sempre, sí come offeso dall’altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello ’nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto questo, non ride mai lo ’nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse, con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i lieti avvenimenti degli uomini.]
E, percioché nelle corti de’ gran prencipi han sempre di quegli che sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione ricevuta per l’altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore questa meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte, dall’ospizio dello ’mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle corti.
Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come qui nel testo si dimostra, dove dice l’autore: «La meretrice», cioè la ’nvidia, «che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti», cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d’ogni uomo, cioè vizio deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè accese, «gli animi tutti», de’ cortigiani; «E gl’infiammati infiammâr sí Augusto», cioè lo ’mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu privato della grazia dello ’mperadore e dell’uficio e del vedere, e cacciato via. «L’animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e, «Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno d’avere ricevuta la repulsa dello ’mperadore; «Ingiusto fece me», tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale «nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel luogo convertito in pianta, «d’esto legno», nel quale voi mi vedete trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che fu d’onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del colpo, che ’nvidia mi diede»,—quello apponendomi che io mai fatto non avea.
«Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché ’l si tace,—Disse ’l maestro mio,—non perder l’ora, Ma parla, e chiedi a lui s’altro ti piace»,—di sapere.
«Ond’io a lui:—Domandal tu ancora Di quel che credi ch’a me satisfaccia, Ch’io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá m’accora»,—cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l’autore questa pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello ’nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie, delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette, come di sopra appare.
«Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò», a parlar Virgilio e dire:—«Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che ’l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace, ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia», oltre alle cose che dette n’ hai, «Di dirne come l’anima si lega In questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi, S’alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si spiega»,—cioè si sviluppa o si scioglie.
«Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventin bronchi, ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto; «e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè:—«Brievemente sará risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l’anima feroce»: è l’anima di quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo ond’ella stessa s’è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo; «Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l’autore essere esaminatore delle colpe e giudicatore de’ luoghi a quelle convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio dello ’nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l’è parte scelta», una piú che un’altra, nella quale ella debba il supplicio determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra», la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’ lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».
«L’arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli l’arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che fanno l’arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser simile a quello che nella presente vita si dá a’ disleali e pessimi uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè rompendo e schiantando l’arpie le foglie di queste piante, fanno dolore all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi. E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono; a tôr via il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo dolor sentono (e che l’autore aveva udita, senza vedere chi se la facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l’uscita alle dolorose voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.
E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè «s’alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l’altre» anime verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi «verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono «spoglie» dell’anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo; «Ma non però, ch’alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie; cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch’uom si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui», cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa, «Selva saran li nostri corpi», de’ quali io parlo, «appesi, Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua dimostrazione.
[Lez. L]
[Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi, e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l’ultima sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice che l’anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne’ corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla nostra fede.]
[È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede, percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel Paradiso manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui, sí come quello cotale, ch’è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d’una opinione, la quale esso non teneva esser vera, compiacere a’ romani, li quali al suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro dell’ Eneida induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere, sua figliuola e madre d’Enea, sí come sollecita degli avvenimenti d’Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia, dove doveva essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato in Cartagine), tra l’altre cose le risponde cosí:
His ego nec metas rerum, nec tempora pono: imperium sine fine dedi, ecc.;
e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello ch’essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello ’mperio de’ romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della Georgica, dove dice:
Illum non populi fasces, non purpura regum Flexit, ecc. Non res Romanae, perituraque regna
( supple ) Romana, ecc. Il quale imitando l’autore, come in assai altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa opinione ritrar coloro, che l’udiranno, dal detestabile peccato della disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]
[È il vero, che che a’ poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua persona, né in altrui, raccontare o far raccontare assertive alcuna erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato raccontar questo errore.]
[Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l’autore in questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di queste pene «pena illativa», e l’altra «pena privativa». La pena illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come è tagliargli alcun membro, o farlo d’alcuna spezie di morte morire; la pena privativa è quella la quale s’impone nelle cose esteriori di colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori, negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di parte d’alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle fiere, questa non è pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell’ucciso, questa infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia, peroché molto maggiore infamia è l’essersi ucciso che non è l’essere poi gittato via a guisa d’un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva d’ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se medesimo non s’è curato, non si curi d’alcuna altra sua cosa, e quella non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa, sí come ella è nell’altre anime de’ dannati, e, oltre a ciò, vi sia la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il corpo loro, come l’altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il riaranno come l’altre. E se forse si domandasse: in che sentono però queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l’altre non l’hanno? Si può cosí dire: che, come l’anime de’ beati disiderano i corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro insieme partefici della gloria; cosí l’anime dannate ardentemente disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d’esser privati, sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però avvedutamente l’autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla veritá, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto].
«Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente canto, nella quale, poi che l’autore n’ha dimostrato che pena abbian coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui colpe non furono con quelle de’ primieri equali, percioché non in sé ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora al tronco attesi, Credendo ch’altro ne volesse dire», avendo egli finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d’un romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta». Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia cacciata, se n’avvede, per ciò «Ch’ode le bestie», le cacciate e quelle che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva, «stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de’ cani e dei cacciatori.
«Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che rilegate erano in que’ bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati. E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli verdi d’álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi» (supple), gridava:—«Ora accorri, accorri, Morte!»;—nelle quali parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura; «E l’altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava», dicendo:—«Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del Toppo».—
Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad una brigata d’altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch’egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de’ fiorentini sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v’andarono. E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso d’esser ricchissimo, si mise in fra’ nemici, fra’ quali, come esso per avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare, gridava quell’altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle lance, dalle quali fuggito non s’era, potendo; volendo in questo ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto. E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo, il discrive l’autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d’un cespuglio», nato d’una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo, forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne, le quali il seguivano.
«Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch’uscisser di catena. In quel che s’appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un groppo di sé e d’un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del dilacerato.
«Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s’era aggroppato, «che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de’ rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piagnendo diceva, cioè:—«O Giacomo—dicea—da Sant’Andrea»; cosí mostra che fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.
Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò e gittò via; e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta che, disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria, quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l’autore, sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo cerchio. E segue poi l’autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che dicea il cespuglio: «Che t’è giovato di me fare schermo?», quasi dica: niente, percioché tu non se’ scampato da’ denti delle cagne che ti seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io della tua vita rea?»—cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?
«Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo», cioè sopra questo cespuglio, «Disse:—Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con sangue doloroso sermo?».—
«E quegli a noi», disse:—«O anime, che giunte», cioè pervenute, «Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e «C’ha le mie fronde sí da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione, dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».
[Lez. LI]
A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta, era signor dell’ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata la veritá evangelica, e lasciato da’ cittadini, divenuti cristiani, l’error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio. E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore, non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d’alcuni vaticíni de’ loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare; poi, riedificata al tempo dello ’mperio di Carlo magno, fu ripescata e ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita, dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d’ogni uomo, non giá per molte gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi né si ritrovò né si ricercò.]
Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore da’ cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in san Giovanni.
«Ond’e’ per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni, «Sempre con l’arte sua la fará trista». In queste parole e nelle seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con battaglie, le quali aspettano all’«arte sua», cioè al suo esercizio, abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura. [La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’ nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha a dire di questa iniqua opinione, dicendo:] «E se non fosse che ’n sul passo d’Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l’acque e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi, oltre al grosso de’ membri, né dell’uomo né del cavallo alcuna cosa si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e grosso maestro; «Que’ cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra ’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè invano.
Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di tanta potenza che, per l’esserle quella particella d’onor fatto, cioè d’esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d’alcuna, tutto il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare un’ora.]
[Ma, percioché dice: «Sovra ’l cener che d’Attila rimase», è da sapere che, essendo Attila, re de’ goti, passato in Italia, in esterminio e ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che, avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere, volse l’ingegno agl’inganni, e con molte e false promessioni prese gli animi de’ cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata, passava sotto il Capitolio. Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per avventura sarebbe sentita, se l’acqua della gora, al rimettere in Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí, quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de’ fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze, chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione, comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l’anno di Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata, cinquecentoventi anni.]
[Poi piú volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono impediti da’ fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, li quali estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire, sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse in lor nome, e allo ’mperadore e al popolo di Roma, che con la lor forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro, e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello ’mperadore e de’ romani, e ancora de’ discendenti degli antichi cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra l’arsioni rimase d’Attila, reedificata Firenze, e abitata l’anno di Cristo ottocentodue, all’entrata del mese d’aprile.]
Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse, dice di che morte s’uccidesse, dicendo: «Io fe’ giubbetto», cioè forche, «a me delle mie case»,—e cosí mostra s’impicasse per la gola nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto», percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della giustizia sono impiccati. Né è costui dall’autor nominato, credo per l’una delle due cagioni: o per riguardo de’ parenti che di questo cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte; ovvero, percioché in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa apporlo a qual piú gli piace di que’ molti.
II
Senso allegorico
[Lez. LII]
«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro, li quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e che delli loro rami e frondi l’arpie schiantando si pascono: di che intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi rivestire al dí del giudicio, come tutte l’altre faranno.
È adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l’autore a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia «vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam noi con l’erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile. La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l’anima nostra, avanti che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le bestie e con gli uccelli e co’ pesci e con qualunque altro animale ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale da Dio n’è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione, di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti; e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.
Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá, non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché l’animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza di tempo distenderlo; come che d’alcuni si legge essersi giá uccisi, non, prima facie, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come ne scrive Valerio Massimo, De institutis antiquis, di quella donna antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non doverla vedere. Alcuni altri ex proposito si sono uccisi per tedio della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da’ suoi servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel quale Platone scrive Della eternitá dell’anima, sfasciatosi e con le mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s’uccisono, sí come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel Sogno di Scipione, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».
Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali». Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile, quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l’autore in forma di vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono, cioè in forma d’albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.
Che l’arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo «arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi e a far sentire il suo rammarichío. E non solamente gli attristano di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi: intendendo per questo l’abominevole atto della uccisione aver del tutto ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante, vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare, come la quantitá de’ tormentatori s’accresce nidificando e figliando. [Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.] E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi uccisono.
Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron le lor sustanzie, la qual dice che è l’essere i miseri da nere cagne seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sia n continuamente afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere, cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata; correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla parte seconda.
CANTO DECIMOQUARTO
I
Senso letterale
«Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, li quali contro a Dio e contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d’anime dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’ dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato avea; nella quinta l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse; nella sesta Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada. La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io cominciai:—Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta quivi: «Or mi vien’ dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l’altro»; la settima quivi: «Ed io ancor:—Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse: —Omai».
Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor, «del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era, «ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali avevan lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea, «a colui», cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era giá fioco», per lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si parte Lo secondo giron dal terzo», che è all’uscire di questo bosco; ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello ’nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e rigida.
«A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente parlando dichiara, e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto, «l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo, «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva circunda il luogo, nel quale dice pervennero.
«Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena». È la rena una terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e, secondo alcuni, è detta «arena» da « areo ares », che sta per «esser secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l’autor volere che venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da « haereo haeres », il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e appicca. Ma, come detto è, quella della quale l’autore intende qui, è della spezie prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli aggettivi della rena, come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice che era «Non d’altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena, «Che fu da’ piè di Caton giá soppressa».
Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui romano uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente in odio le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo, non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s’erano rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l’andar troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d’ogni disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.
Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto del Purgatorio, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò, alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.
[Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra ’l cielo della luna e la terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare, considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto; percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione; ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in buona abitudine, e noi poi, col disordinatamente vivere, corrompiamo e facciamo infermi.]
[E che non opera della natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che, per opera d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme d’alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna, e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e, partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano, scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d’Asia. E che ciò possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che Pomponio Mela scrive nella sua Cosmografia, nella quale, parlando della provincia o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò, venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione, ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e non atta all’uso umano.]
[Lez. LIII]
«O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale, poiché l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio». [Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti altri fanno; percioché vendetta propriamente è quella che gli uomini disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima, stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se medesimi fanno, cioè che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore, che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò, se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando, è l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol «vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]
«Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro, «Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia, «diversa legge».
E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta raccolta», con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella men, che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá; «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento, Piovean di fuoco dilatate falde, Come di neve in alpe senza vento».
Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra lo suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».
Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che l’una è detta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor discrive qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da’ raggi solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro, o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d’Inghilterra e altri), e riguardando all’effetto, possiam comprendere l’autor per questo ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello ’nferno avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo dannati sono.
Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide», Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo fece «accioché ’l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’ si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che con l’altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale ardore», quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la rena s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo «focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender di questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri peccatori che sú vi stavano.
«Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare, la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella, «Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di nuovo piovea.
«Io cominciai:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori che quivi son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io cominciai:—Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri, Ch’all’entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo l’autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è quel grande, che non par che curi Lo ’ncendio», di queste fiamme, negli atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle fiamme, che continuamente caggiano, «non par che ’l maturi»?—cioè l’aumili.
«E quel medesmo, che si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui, Gridò:—Qual io fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi e l’animo dell’ arrogante; e primieramente in quanto dice che giace «dispettoso e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo mostrare sé non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando; e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente orgoglioso, superbo e bestiale.
E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè Iddio, secondo l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino all’ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè da’ quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí», della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta», cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri, e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed, oltre a quegli, «Chiamando:—O buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,—a’ fabbri miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece alla pugna di Flegra», nella quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe aver vendetta allegra»,—del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.
[Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto, Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di rea! verga egli portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò, perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti, gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi, uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio, nell’ottavo dell’ Eneida, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano, e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie d’uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani (li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove, e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro, e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]
Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l’opinione di colui che dice, percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza d’uno imperadore e la bassezza d’un povero uomo, non pare lo ’mperadore dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere, secondo che Stazio scrive nel suo Thebaidos, che poi che Edippo, re di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia, che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l’uno regnasse, l’altro andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e Pollinice se n’andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v’erano, avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo, tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini, levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii che venissero a combatter con lui, dicendo:—O iddii, non è alcuna delle vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien’ tu, o Giove, piú tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d’occorrere alle mie forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le tue folgori contra di me! tu se’ pur forte a spaventare le paurose fanciulle co’ tuoni!—Le quali parole, e forse molte altre, mossero gl’iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori, una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici: e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.
Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza, Tanto ch’io non l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo punto:—«O Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per martirio che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti rodi di te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito».—
«Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia», cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo:—Quel fu l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e poco par che’l pregi; Ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore, trasportando, auctoritate poetica, in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che s’intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.
«Or mi vien’ dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella quale l’autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e dice: «Or mi vien’ dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’ li tenghi stretti»,—cioè accostati.
[Lez. LIV]
«Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso, perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel prossimo.
E appresso questo, per una comparazion di scrive la grandezza e ’l corso di quello, dicendo: «Quale del bulicame», cioè di quello lago bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici». Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello», che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l’acqua, «Fatte eran pietra, e i margini d’allato», come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici», dove le pendici erano cosí divenute di pietra.
—«Tra tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali, dicendo:-«Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo, entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima porta dello ’nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.), «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta»,—cioè spegne.
«Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non fu», ecc.), «Per ch’io ’l pregai che mi largisse», cioè donasse, «il pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di cui largito m’aveva ’l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.
Per lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli l’origine de’ detti fiumi, cosí:—«In mezzo ’l mar siede un paese guasto,—Diss’egli allora,—che s’appella Creta».
Creti è una isola dell’ Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres». Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della contrada.
E séguita: «sotto’ l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non è; e però dice Giovenale,
Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam in terris, ecc.
«Una montagna v’è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella». E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge che Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta», cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla, volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle; «fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea», questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo il fanciullo, vi si facesse rom ore da coloro alli quali raccomandato l’avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non fosse udito né conosciuto.
[E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che, avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era; il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli avesse ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli, uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore, accioché il pianto non fosse sentito.]
E poi segue l’autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran veglio», cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte le spalle inver’ Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio», cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro argento son le braccia e ’l petto», di questa statua, «Poi è di rame fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d’altro metallo, «Salvo che ’l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ’n su l’altro», cioè in sul sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il calore del quale si crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.
Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa statua, cioè quella ch’è d’ariento e quella di rame e quella di ferro e quella che è di terra cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella che è d’oro, «è rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola, «Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua, «accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dello ’nferno. «Lor corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia», cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si discende al profondo dello ’nferno: «Fanno», queste lagrime di sé, cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello ’nferno, del quale è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto, la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e «Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello ’nferno, e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor discrive esser vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’ violenti. «Poi sen va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una «doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l’acque prestamente d’una parte ad un’altra; e però è detta «doccia» da questo verbo « duco ducis », il quale sta per «menare». Poi mostra questo rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello ’nferno; «e qual sia quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno», percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo noi giuso; «però qui non si conta»,—come fatto sia. Quasi come se gli altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti, dove Cocíto ancora veduto non ha.
«Ed io a lui:—Se ’l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama «rigagno» da « rigo rigas », che sta per «rigare», e questo rio rigava la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?»—cioè in questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia in piú parti veduto di sopra, sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione, conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me:—Tu sai che ’l luogo è tondo», cioè il luogo dello ’nferno, come piú volte di sopra è dimostrato; «E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú calando al fondo, Non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto», di questa ritonditá dello ’nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo, «Non dee addur maraviglia al tuo volto»,—come che per avventura potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del cerchio, della quale ella scende.
«Ed io ancor:—Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor:—Maestro, ove si truova Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di Letè, senza dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’ che si fa d’esta piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali sono nella statua predetta.
—«In tutte tue quistion certo mi piaci,—Rispose;—ma ’l bollor dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente», l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte. «Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di questa fossa», dello ’nferno: percioché in questo si scosta l’autore dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá del monte di purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il pongono in inferno; percioché essi il pongono l’ultimo fiume dello ’nferno, e dicono che, quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire, esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell’acqua di quello, dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne’ Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli abitare l’anime de’ beati: e cosí l’autore il pone nella sommitá del purgatorio, accioché l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima béano di quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice:—Tu il vedrai, «Lá dove vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta rimossa»,—per la penitenza.
«Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto, ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada. Dice adunque: «Poi disse:—Omai è tempo da scostarsi», scendendo o procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro ogni vapor si spegne»,—di questi che piovono, e perciò vi si puote senza cuocere andare.
II
Senso allegorico
[Lez. LV]
«Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due spezie de’ violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso, seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti divisi, si come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le quali son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco, che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo ’ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e coloro, li quali contro all’arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati dalle fiamme che piovono. E. percioché, si come chiaro si vede, hanno la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di ciascuno dicessi l’allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però, per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí com’io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre le maniere de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si finisce, come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno a ciò la ’ntenzion dell’autore.
Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l’autore intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno a ciò è prima da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire, avendo questa statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida; e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la terracotta, de’ quali esso la forma; e similmente quello che voglia che noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli, fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e ultimamente quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.
Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell’isola di Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme. Intendendo adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare una dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo, e all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese, né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune, se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.
Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo scilocco, infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi dissero quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce nel mare Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all’isola di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l’isola di Meroe, e venendose ne in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla parte del levante infino all’isola di Creti. Poi confinano Affrica dal detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene in quello che ad Affrica appartiene infino all’isola di Creti, e quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver’ ponente. Europa confinano dalla parte di ver’ levante dallo estremo del mare Egeo, e dallo stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale, il quale, dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all’isola di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l’isola di Creti appare essere in su ’l confine di queste tre parti del mondo. E, dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta l’isola di Creti, come dimostrato è.
È il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò, quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno piú manifesto senso, dico potersi per l’isola di Creti, posta in mezzo il mare, intendersi l’universal corpo di tutta la terra, la quale, come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti; e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l’autore intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai pienamente confermare il nome dell’isola, il quale esso appella Creta, conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí il nome si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore, in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto al corpo, siamo che terra.
Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla natura delle cose o dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature mortali, l’umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla quale l’autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro all’esistenza, lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono in vari tempi concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora que’ medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono, perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non ha nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor; percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi il suo regno e alcune sue successioni, in questa l’autore intende alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal principio del mondo infino al presente tempo.
Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere d’un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi dimostrare, per l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento anni, e per l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo; percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte, la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose periture fatte in qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.
Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale esso fosse. E noi intendiamo per lo Genesi che nella prima creazione del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio, fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu tanto, quanto egli stette infra’ termini comandatigli da Dio; vuole l’autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d’oro, cioè carissimo e bello e puro, sí come l’oro è piú prezioso che alcuno metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d’oro, il primo stato dell’umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente carissimo.
Dice appresso che puro argento sono le braccia e ’l petto di questa statua, volendo per questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido metallo che l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi parenti, l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma, dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per l’oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l’oro.
Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla ’nforcatura, volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto che gli uomini, dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l’arti liberali e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro metallo che alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma, percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell’altre gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de’ sopradetti.
Appresso dice che questa statua dalla ’nforcatura in giú è tutta di ferro eletto, volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente tutta l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza di quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro. E di questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’ macedoni e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle l’universale imperio del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza appiccata a’ re e a’ popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia. E, percioché gl’istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura l’autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò, sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.
Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta, volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto piú quanto i metalli predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice il piè esser di questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e, come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí sopra questa vii materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro, sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro, a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa, sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri sinistri, come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare, percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v’era fermato: e cosí ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia, non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo, appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell’ Apocalissi si legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha voluto in questa statua l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è dimostrato.
Poi, deducendosi l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni parte di questa statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta d’una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur ne’ presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell’oro di questa statua è disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando in quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo discendere nella misera valle dello ’nferno, con coloro insieme li quali commesse l’hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua, fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende l’universale stato de’ dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene a’ dannati.
È Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato «senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione, avanti ad ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine, la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è interpetrato «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia perpetua; percioché, come l’uom si vede perdere, dove estimava o dove gli bisognava di guadagnare, incontanente s’attrista. Ma, percioché la tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»; volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell’ardore della gravitá de’ supplici, li quali con tanta angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato «pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene eternali alcuno, esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove, cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive, per li quali l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’ ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e continuamente s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la presente vita persevererá.
[188][189]
CANTO DECIMOQUINTO
[Lez. LVI]
«Ora cen porta l’un de’ duri margini», ecc. Continuasi l’autore al precedente canto, in quanto nella fine d’esso mostra che gli argini di quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l’uno delli detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti: nella prima discrive l’autore la qualitá del luogo, e massimamente degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con alcuna dimostrazion d’esempli, ad intendere; nella seconda dimostra come da una schiera d’anime dannate in quel luogo guatato fosse, e riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá eravam dalla selva».
Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l’un de’ duri margini». E in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono, ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi, se medesimi portando, andavano su per l’uno de’ detti margini. E dice «l’uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due. E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello, erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo ’ncendio delle fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E ’l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l’acqua e gli argini», infra li quali s’inchiude. E sono questi argini grotte fatte per forza alle rive de’ fiumi, accioché, crescendo essi, l’acqua non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente dicendo:
«Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l’isola d’Inghilterra; «Temendo ’l fiotto», del mare, «che ver’ lor s’avventa», sospinto dall’impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti, «perché ’l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne’ detti margini, senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí naturale, si muove due volte di levante inver’ ponente, e altrettante si torna di ponente inver’ levante; e quando di ver’ levante viene inver’ ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»: e questo è quello del quale l’autore intende qui, e contro al quale dice che i fiamminghi fanno riparo.
Appresso dimostra l’autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che, dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova infino al Friuli, e quella da’ suoi eneti, aggiunta una lettera al nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale è una regione posta nell’Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali non si risolvono infino a tanto che l’aere non riscalda, del mese di maggio o all’uscita d’aprile; e allora, risolvendosi, cascano l’acque di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale v’ha grandissima quantitá. E perciò dice l’autore che i padovani, cioè quegli del distretto di Paùova, fanno simiglianti schermi che i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli», cioè i campi e’ lavorii delle villate e delle castella, le quali per lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la quale s’appropinqua. E, questi due esempli posti, dice che «A tale immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e’ padovani, «Qual che si fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.
«Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch’ io non avrei visto», cioè veduto, «dov’era, Per ch’io ’ndietro rivolto mi fossi», a riguardare; e ciò fu «Quando incontrammo d’anime», dannate, «una schiera», cioè molte, «Che venien lungo l’argine», sopra’l quale andavamo, «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza delle cose bisognerebbe; «E si», cioè e cosí, «ver’ noi aguzzavan le ciglia. Come vecchio sartor fa nella oruna», dell’ago, quando il vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia, percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava, «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: _-«Qual maraviglia?»—( supple ), è questa che io ti veggio qui.
«Ed io, quando ’l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato dall’incendio, il quale continuamente cadea; «Si» gli occhi ficcai, «che’l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese», cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto; E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi:—Siete voi qui, ser Brunetto?»-quasi parlando admirative. «E quegli» ( supple ) pregò dicendo:—«O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave, «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d’aver me alquanto teco.
Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá fu notaria, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare d’avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato Il tesoretto, se n’andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò Il tesoro; e ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l’autore il conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive, dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.
Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura alquanto innanzi l’autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia andar la traccia»,—di queste anime, le quali tutte ti riguardano, le qual forse l’autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.
«Io dissi lui:—Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto insieme; «E se volete che con voi m’asseggia», cioè ristea, «Faròl, se piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e maestro.
—«O figliuol—disse» ser Brunetto—«qual di questa greggia», cioè di questa brigata, «S’arresta punto, giace poi cent’anni Senza arrostarsi, quando» ( supple ) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca. «Però va’ oltre: io ti verrò a’ panni», cioè appresso, «E poi», che io avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi eterni danni»,—cioè il suo perpetuo tormento.
«Io non osava scender della strada», cioè dell’argine, «Per andar par di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di lui fosse disceso; «ma ’l capo chino Tenea», verso di lui, «com’», il tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.
«El cominciò:—Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino» sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l’ultimo di», cioè anzi la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che mostra ’l cammino?»—
Alla qual domanda l’autor risponde:—«Lassú di sopra in la vita serena»,—cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo luogo, «Rispuos’io lui,—mi smarri’ in una valle».
Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice «mi smarri’», non dice mi «perde’», per darne a sentire che le cose perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro, li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l’hanno smarrita per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêentere e ravvedere, la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l’autore, che non era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi smarrí’ in una valle».
E dice che vi si smarrí: «Avanti che l’etá mia fosse piena».
Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo quinto continuamente, o alla statura dell’uomo, o alle forze corporali s’aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l’etá dell’uomo «piena». Dice adunque l’autore che esso, avanti che egli a questa etá pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena pervenuto, si ravvedesse d’avere smarrita la via diritta e ritornasse in quella.
«Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d’essa: e qui dimostra esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.
«Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m’apparve, ritornando», io, «in quella», valle, si come uomo spaventato dalle tre bestie che davanti mi s’erano parate, «E riducemi a ca’», cioè a casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l’anime nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo si come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione, è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena, mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per questo calle»,—cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla chiarezza della veritá.
«Ed egli a me:—Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole l’autore l’opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella nativitá d’alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per cui fanno la elevazione. E tra l’altre cose che essi piú puntalmente riguardano, è l’ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá predetta sale sopra l’orizzonte orientale della regione; e, avuto questo grado, considerano qual de’ sette pianeti è piú potente in esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel dicono essere signore dell’ascendente e significatore della nativitá. E secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia, la quale allora v’ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è stata fatta. E però vuol qui l’autore mostrare che la sua stella, cioè il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu déi adoperare, senza storti da ciò per caso che t’avvegna, tu «Non puoi fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá, ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto dovergli avvenire: «Se ben m’accorsi nella vita bella», cioè nella presente.
E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare che esso fosse astrolago, e per quell’arte comprendesse ne’ corpi superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser Brunetto, si come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli costumi e gli studi dell’autore esser tali, che di lui si dovesse quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle, quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.
«E s’io non fossi si per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno», intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale per la scienza si perviene. «Dato t’avrei all’opera conforto», sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per te non potevi cognoscere.
E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la cagione, mostrando quella essere tale, che la ’ngiuria della fortuna, la quale gli s’apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E dice: «Ma quello ’ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da esso fatte verso coloro li quali l’avevano servito e onorato, e quasi trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque cittá, accioché di tutti i fiorentini non s’intenda esser questa infamia d’ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».
Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de’ discendenti di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d’Europa: la qual cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse l’edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma, fu per li romani disfatta, e parte de’ suoi cittadini ne vennero ad abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che, in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell’antica lor cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano Firenze essere stata contro al piacere de’ fiesolani reedificata, e abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono de’ discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta, l’abitavano.
Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra’ fiesolani e’ fiorentini, le quali all’una parte e all’altra rincrescendo, vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e sicuramente usavano l’uno nella cittá dell’altro. Sotto la qual sicurtá i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiati si i fiesolani con loro di dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono, insieme s’unirono. Nondimeno mostra qui l’autore, quella acerbezza antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in discendente de’ fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti si fará, per tuo ben far, nemico», si come quello al quale è in odio la vertú e l’operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico, seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol sotto questa metafora l’autore intendere non esser convenevole che tra uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.
[Lez. LVII]
Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi. Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani al conquisto dell’isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor cittá quasi vòta d’abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi erano a que’ tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di partire col detto comune la preda che dell’acquisto recassono. E, avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno, ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che posero dall’una parte le porti e dall’altra le due colonne coperte di scarlatto, e diedero le prese a’ fiorentini, li quali, senza troppo avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate, e, accioché i fiorentini di ciò non s’ accorgessono, le vestirono di scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de’ fiorentini, esser loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all’animo questa essere stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono, appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si verificassero ne’ nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!
Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere avarissimi appare ne’ lor processi. E, se ad altro non apparisse, appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men possenti non si stendesse. Appresso, ne’ publici offici si fa prima la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie, le baratterie, le simonie e l’altre disonestá moventi da quella; e, perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell’usure, delle falsitá, de’ tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si comprende ne’ nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta la mala ventura o essere per averla. Parsi ne’ nostri ragionamenti, ne’ quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l’opere laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne e’ danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo, troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle ’mprese, e tanto di noi medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone; teneri piú che ’l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d’avvilirlo. De’ quali vizi, esso permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che non siam noi, ci troviamo sgannati.
Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da’ lor costumi fa’ che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza, in amicizie di grandi uomini. «Che l’una parte e l’altra», cioè i fiesolani e’ fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che cacciato t’avranno: «ma lungi fia dal becco l’erba», cioè l’effetto dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme», cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S’alcuna surge ancor nellor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la qual somiglia al letame, percioché di sopra l’ ha chiamate bestie; «In cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di que’ roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio (ma in ciò non sono io con l’autore d’una medesima opinione, percioché infino a’ tempi de’ primi imperadori era Roma ripiena della feccia di tutto il mondo, ed era dagl’imperadori preposta a’ nobili uomini antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo non indecentemente, avendo riguardo a’ vizi de’ quali ne mostra esser maculati.
—«Se fosse tutto pieno il mio dimando—Rispos’io lui,—voi non sareste ancora. Dell’umana natura», la quale per eterna legge ciò che nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo dimanderebbe, perciò «Che in la mente m’è fitta», cioè con fermezza posta, «ed or m’accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora ad ora. Mi mostravate come l’uom s’eterna», per lo bene e valorosamente adoperare. E cosí mostra l’autore che da questo ser Brunetto udisse filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni, insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto io l’abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr’io vivo, Convien che nella mia lingua si scema», percioché sempre vi loderò, sempre vi commenderò.
«Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna, «scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo», cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s’a lei arrivo», chiosare e dichiarare e l’altre cose e quelle che dette m’avete. «Tanto vogl’io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch’alla fortuna», cioè a’ casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere. «Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata m’è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e ’l villan la sua marra».—Queste parole dice per quello che ser Brunetto gli ha detto de’ fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali qui discrive in persona di villani, cioè d’uomini non cittadini, ma di villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani, come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano adopera la marra.
«Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra, si volse indietro, e riguardommi. Poi disse:—Bene ascolta», cioè non invano ascolta, «chi la nota»,—con effetto, la parola la quale tu al presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.), volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di fare.
«Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co’ quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per fama.
«Ed egli a me:—Saper d’alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa risposta alla domanda che l’autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi voglia ser Brunetto dire (si come assai bene appare appresso): se io ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti furono uomini di nome e famosi. E, detto d’alcuno, «Degli altri fia laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v’ha si fatti uomini, che lo ’nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è, e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro, per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione n’assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché ’l tempo», che conceduto m’è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice: «In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati grandi e di gran fama, D’un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al mondo lerci», cioè brutti.
Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser maculati di questo male. Il che puote avvenire l’aver piú destro, e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l’usanza de’ giovani non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine è abominevole molto]; e, per questo comodo, questi cosí fatti uomini, cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro appetito non farebbono.
«Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due notabili libri: nell’uno trattò diffusamente e bene Delle parti dell’orazione, nell’altro sub brevitá trattò Delle costruzioni. Non lessi mai né udi’ che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s’intendano coloro li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e per l’etá temorosi e ubbidienti, cosí a’ disonesti come agli onesti comandamenti de’ lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse volte incappino in questa colpa.
«E Francesco d’Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto, «S’avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.
Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini, e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer Accorso chiosò tutto ’l Corpo di ragion civile, e furon le sue chiose tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s’usano per chiose ordinarie nel Codice e negli altri libri legali. E questo messer Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove si crede che ultimamente morisse.
Appresso dice che ancora v’avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che dal servo de’ servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue lettere chiama «servo de’ servi di Dio». E questo titolo primieramente per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s’appartiene di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea, predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue Omelie appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá. Ma questo di cui qui l’autor dice, dice che «Fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione».
Dicesi costui essere stato un messer Andrea de’ Mozzi, vescovo di Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano nel vulgo; per opera di messer Tommaso de’ Mozzi, suo fratello, il quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar dinanzi dagli occhi suoi e de’ suoi cittadini tanta abominazione, fu permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza. Il che l’autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò», morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omori corrotti, tutti i nervi della persona gli s’erano rattrappati, come in assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne’ piedi; e cosí per questa parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono innanzi quando all’atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere dall’autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi malvagiamente gli protese.]
«Di piú direi, ma ’l venir», al pari di te, «e ’l sermone Piú lungo esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch’io veggio, Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione. Gente vien, con la quale esser non deggio».
[Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati, e non osa l’una schiera esser con l’altra; e senza dubbio differenza ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie d’animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando due d’un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l’uomo e la femmina, eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto o l’uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti, e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]
E, dovendosi partire dall’autore, ultimamente gli dice: «Sieti raccomandato il mio Tesoro », cioè il mio libro, il quale io composi in lingua francesca, chiamato Tesoro: e questo vuole gli sia raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori, né sperino mai quassú tornare, né d’inferno uscire, è pure da loro disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi, dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata, e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro grandissimi difetti, de’ quali l’uno sta nello sciocco opinare che non sia guadagno altro che quello che empie la borsa de’ denari; e l’altro sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa sia la dolcezza della fama. E perciò m’aggrada di rintuzzare alquanto l’opinione asinina di questi cotali.]
[Empiono la borsa o la cassa l’arti meccaniche, le mercatanzie, le leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l’antiche istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini, e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l’arche d’oro e d’argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del nome suo: e questo basti aver detto dell’antiche. Delle piú ricenti non so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d’alcuno che giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col corpo e col nome loro s’è morta e convertita in fummo, quasi non fosse stata.]
[Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a’ nobili ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non dirizza l’appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni sua potenzia, che l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome del suo divoto componitore. E, se eterno far noi puote, gli dá almeno per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo, lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi e ancor ne’ moderni. E’ son passati oltre a duemila secento anni che Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua origine quistione: i re, gl’imperadori, e’ sommi prencipi mondani hanno sempre il suo nome quasi quello d’una deitá onorato, e infino a’ nostri dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi volumi, la gloria della sua fama.]
[Io lascerò stare i fulgidi nomi d’Euripide, d’Eschilo, di Simonide, di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti, li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono; per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d’un lutifigolo, con pari consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e sono l’opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé, e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma esse hanno con seco insieme infino ne’ dí nostri fatta non solamente venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola, nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un santuario non visitino e onorino.]
[E, accioché io a’ nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo il nome suo nelle bocche, non dico de’ prencipi cristiani, li quali i piú sono oggi idioti, ma de’ sommi pontefici, de’ gran maestri, e di qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi che l’opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora perirá il nome loro, quando tutte l’altre cose mortali periranno. Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio? Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s’accostano, o diranno che pur l’arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna? Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor non conosciute, e intorno a quelle s’avvolghino, le quali appena dalla bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:
Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam.
Ora, come io ho detto de’ poeti, cosí intendo di qualunque altro componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo Tesoro, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo. Poi segue: «e piú non cheggio»;—quasi dica: questo mi sará assai.
«Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a Verona ’l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché, partendosi ser Brunetto dall’autore, velocissimamente correa, l’assomiglia l’autore a questi cotali che quel drappo verde corrono: e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro», cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.
L’allegoria del presente canto, cioè, come la pena, scritta per l’autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si dirá di tutta questa spezie de’ violenti.
[210][211]
CANTO DECIMOSESTO
[Lez. LVIII]
«Giá era il loco, ove s’udia il rimbombo». ecc. Continuasi il presente canto al superiore, in questa guisa: noi dobbiamo intendere che, partito ser Brunetto, l’autore e Virgilio incontanente con piú veloce passo cominciarono a continuare il lor cammino; il quale continuando, mostra l’autore, nel principio del presente canto, loro esser pervenuti in quella parte, dove il fiumicello, su per l’argine del quale andavano, cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno; e quindi séguita, discrivendo quello che, in quella parte, dove pervennero, vedesse. E dividesi il presente canto in nove parti: nella prima per alcun segno dimostra il luogo dove venissero; nella seconda dice come tre ombre, di lontano correndo verso loro, gli chiamavano; nella terza dice come Virgilio gl’impone che aspetti tre ombre le quali il venivan chiamando; nella quarta scrive chi questi tre fossero; nella quinta dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse; nella sesta dimostra una domanda fatta da loro e la sua risposta; nella settima pone un priego fattogli da loro e la lor partita; nella ottava come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello; nella nona pone come, per opera di Virgilio, la Fraude venisse alla riva, alla quale essi erano pervenuti. E comincia la seconda quivi: «Quando tre ombre»; la terza quivi: «Alle lor grida»; la quarta quivi: «Ricominciâr, come noi»; la quinta quivi: «S’io fossi»; la sesta quivi:—«Se lungamente»; la settima quivi:—«Se l’altre volte»; la ottava quivi: «Io il seguiva»; la nona quivi: «Io avea una».
Comincia adunque cosí: «Giá era il loco», al quale pervenuti eravamo, «ove s’udia il rimbombo Dell’acqua», cioè di quel fiumicello del quale ha detto di sopra; e chiamiam noi «rimbombo» quel suono, il quale rendono le valli, d’alcun suono che in esse si faccia; e questo rimbombo, perché l’acqua di quel fiumicello «cadea nell’altro giro», cioè nel cerchio ottavo dello ’nferno; il quale rimbombo, dice l’autore, era «Simile a quel che l’arnie fanno rombo», cioè era simile a quel rombo che l’arnie fanno, cioè gli alvei o i vasi ne’ quali le pecchie fanno li lor fiari, il quale è un suon confuso, che simigliare non si può ad alcun altro suono.
«Quando tre ombre». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella qual, poi che l’autore ha discritto il luogo dove pervenuti erano, dice come Virgilio gl’impose che aspettasse tre ombre, le quali il venivan chiamando, e dice cosí: «Quando tre ombre insieme si partîro, Correndo», verso loro, «d’una turba», d’anime, «che passava», ivi vicino a loro, «Sotto la pioggia dell’aspro martíro», cioè di quelle fiamme. «Venían ver’ noi», correndo; «e ciascuna gridava:—Sóstati tu, che all’abito ne sembri Essere alcun di nostra terra prava»,—cioè di Firenze. E puossi in queste parole comprendere, in quanto dicono che «all’abito ne sembri», che quasi ciascuna cittá aveva un suo singular modo di vestire distinto e variato da quello delle circunvicine; percioché ancora non eravam divenuti inghilesi né tedeschi, come oggi agli abiti siamo.
«Aimè! che piaghe», cotture, come hanno quegli che con le tenaglie roventi sono attanagliati, «vidi ne’ lor membri, Ricenti e vecchie, dalle fiamme accese», fatte. «Ancor men duol, pur ch’io me ne rimembri», cioè ricordi. Suole l’autore nelle parti precedenti sempre mostrarsi passionato, quando vede alcuna pena, della quale egli si sente maculato: non so se qui si vuole che l’uomo intenda per questa compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa scellerata colpa; e però il lascio a considerare agli altri.
«Alle lor grida», le quali chiamando facevano, «il mio dottor s’attese»; e, conosciutigli, «Volse il viso ver’ me, e:—Ora aspetta,—Disse;—a costor si vuole esser cortese», cioè d’aspettargli e d’udirgli. E in ciò mostra sentire costoro essere uomini autorevoli e famosi, li quali, quantunque dannati sieno, nondimeno quelle cose, che valorosamente operarono, gli fanno degni d’alcuna onorificenza. E poi segue: «E se non fosse il fuoco che saetta La natura del luogo», sí come la divina giustizia vuole, «io dicerei che meglio stesse a te», andando loro incontro, «ch’a lor la fretta»,—di correr verso di te.
«Ricominciâr, come noi ristemmo, ei», cioè essi, «L’antico verso», cioè chiamandoci; «e, quando a noi fûr giunti, Fêro una ruota di sé tutti e trei».
«Qual soleano i campion far nudi ed unti, Avvisando lor presa e lor vantaggio». Usavano gli antichi, e massimamente i greci, molti giuochi e di diverse maniere, e questi quasi tutti facevano nelli lor teatri, accioché da’ circunstanti potessero esser veduti; e quella parte del teatro, dove questi giuochi facevano, chiamavan «palestra». E tra gli altri giuochi, usavano il fare alle braccia, e questo giuoco si chiamava «lutta». E a questi giuochi non venivano altri che giovani molto in ciò esperti, e ancora forti e atanti delle persone, e chiamavansi «atlete», li quali noi chiamiamo oggi «campioni»; e, per potere piú espeditamente questo giuoco fare, si spogliavano ignudi, accioché i vestimenti non fossero impedimento o vantaggio d’alcuna delle parti; ed, oltre a questo, accioché piú apertamente apparisse la virtú del piú forte, s’ugnevan tutti o d’olio o di sevo o di sapone: la quale unzione rendeva grandissima difficultá al potersi tenere, percioché ogni piccol guizzo, per opera dell’unzione, traeva l’uno delle braccia all’altro; e cosí unti, avanti che venissero al prendersi, si riguardavan per alcuno spazio, per prendere, se prender si potesse, alcun vantaggio nella prima presa. E questo è ciò che l’autore in questa comparazione vuol dimostrare.
E poi, per compiere la comparazion, segue: «Prima che sien tra lor battuti e punti». Parla qui l’autore metaphorice, percioché a questo giuoco non interviene alcuna battitura o puntura corporale, ma mentale puote intervenire, in quanto colui, che ha il piggior del giuoco, è battuto e punto da vergogna.
Poi segue: «Cosí, rotando», volgevansi questi tre in modo di ruota, per non istar fermi, e come che si volgessono, sempre tenevano il viso vòlto verso l’autore e con lui parlavano; e questo è quello che vuol dire: «ciascuna il visaggio Drizzava a me; sí che ’n contrario il collo Faceva a’ piè continuo viaggio»; in quanto il collo si torceva verso l’autore, ove i piedi talvolta si volgevano, e secondo che il moto circulare richiedeva, verso il sabbione.
E, cosí rotandosi, cominciò l’un di loro a dire all’autore:—«E se miseria d’esto luogo sollo», cioè non tanto fermo, percioché di sopra la rena, la quale è di sua natura rara, è malagevole a fermare i piedi; «Rende in dispetto noi», facendoci parere degni d’essere avuti poco a pregio, e per conseguente, «e’ nostri prieghi,—Cominciò l’uno», di loro a dire, e, oltre a ciò,—«il tristo aspetto e brollo», in quanto siamo dal continuo fuoco cotti e disformati; ma, non ostante questa deformitá, «La fama nostra», la qual di noi nel mondo lasciammo, «il tuo animo pieghi», a compiacerne di questo, cioè «A dirne chi tu se’, che i vivi piedi Cosí sicuro per lo ’nferno freghi»; quasi voglia dire: percioché questo ne fa assai maravigliare.
E, accioché esso renda l’autore liberale a dover far quello che addomanda, prima che la risposta abbia di ciò, che egli addomanda, nomina i compagni suoi e sé, dicendo: «Questi, l’orme di cui pestar mi vedi», dice di colui che davanti gli andava, l’orme del quale conveniva a lui, che il seguiva correndo, pestare, cioè scalpitare, «Tutto», cioè posto, «che nudo e dipelato vada», percioché le fiamme, le quali cadevano accese, gli avevano tutta arsa la barba e’ capelli, e però dice «dipelato»; «Fu di grado maggior», di nobiltá di sangue e di stato e d’operazioni, «che tu non credi», vedendolo cosí pelato e cotto: «Nepote fu della buona Gualdrada», cioè figliuolo del figliuolo di questa Gualdrada, e cosí fu nepote.
Questa Gualdrada, secondo che soleva il venerabile uomo Coppo di Borghese Domenichi raccontare, al qual per certo furono le notabili cose della nostra cittá notissime, fu figliuola di messer Bellincion Berti de’ Ravignani, nostri antichi e nobili cittadini: ed essendo per avventura in Firenze Otto quarto imperadore, e quivi per farla piú lieta della sua presenza andato alla festa di San Giovanni, avvenne che insieme con l’altre donne cittadine, sí come nostra usanza è, la donna di messer Berto venne alla chiesa, e menò seco questa sua figliuola, chiamata Gualdrada, la quale era ancor pulcella. E postesi da una parte con l’altre a sedere, percioché la fanciulla era di forma e di statura bellissima, quasi tutti i circunstanti si rivolsero a riguardarla, e tra gli altri lo ’mperadore, il quale, avendola commendata molto e di bellezza e di costumi, domandò messer Berto, il quale era davanti da lui, chi ella fosse. Al quale messer Berto, sorridendo, rispose:—Ella è figliuola di tale uomo, che mi darebbe il cuore di farlavi basciare, se vi piacesse.—Queste parole intese la fanciulla, sí era vicina a colui che le dicea, e, alquanto commossa della opinione che il padre aveva mostrata d’aver di lei, che ella, quantunque egli volesse, si dovesse lasciar basciare ad alcuno men che onestamente; levatasi in piede, e riguardato alquanto il padre, e un poco per vergogna mutata nel viso, disse:—Padre mio, non siate cosí cortese promettitore della mia onestá, ché per certo, se forza non mi fia fatta, non mi bascerá mai alcuno, se non colui il quale mi darete per marito.—Lo ’mperadore, che ottimamente la ’ntese, commendò maravigliosamente le parole e la fanciulla, affermando seco medesimo queste parole non poter d’altra parte procedere che da onestissimo e pudico cuore; e perciò subitamente venne in pensiero di maritarla. E, fattosi venir davanti un nobil giovane chiamato Guido Beisangue, che poi fu chiamato conte Guido vecchio, il quale ancora non avea moglie, e lui confortò e volle che la sposasse: e donògli in dote un grandissimo territorio in Casentino e nell’Alpi, e di quello lo intitolò conte. E questi poi di lei ebbe piú figliuoli, tra’ quali ebbe il padre di colui di cui qui si ragiona, il quale volle che nominato fosse Guido, percioché il primo suo figliuolo fu. E, percioché questa Gualdrada fu valorosa e onorabile donna, la cognomina qui l’autor «buona»; e perciò da lei dinomina il nipote, perché per avventura estimò lei essere stata donna da molto piú che il marito non fu uomo.
Appresso questo, dice l’autore il nome di questo nepote della Gualdrada, dicendo: «Guido Guerra ebbe nome». Il sopranome di questo Guido si crede venisse da un disiderio innato d’arme, il quale si dice che era in lui, d’esser sempre in opere di guerra. «Ed in sua vita Fece col senno assai e con la spada».
Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò, dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s’ampliò molto.
«L’altro, ch’appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe esser gradita», percioché furon l’opere sue laudevoli.
Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di graride animo e d’operazion commendabili e di gran sentimento in opera d’arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo, sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.
«Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento, «Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben riempie’ dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.
«E certo La fiera moglie, piú ch’altro, mi nuoce», in ciò che io sia dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere, come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi da lei, stimolandolo l’appetito carnale, egli si diede alla miseria di questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini curando che dell’ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella perdizione eterna avere questo supplicio.]
[Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie, anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa, assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender qualunque femmina, l’uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale egli compose Contro a Gioviniano eretico, che Teofrasto, il qual fu solenne filosafo e uditore d’Aristotile, compose un libro il qual si chiama De nuptiis, e in parte di quello domanda se il savio uomo debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo, dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d’onesti parenti, e se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere; incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa innanzi all’altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun che possa a’ libri e alla moglie servire.]
[Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l’oro, le gemme, le serve e gli arnesi delle camere. Appresso, dall’aver moglie procede che tutte le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella:—Donna cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da tutti, e io tapinella tra’ ragunamenti delle femmine sono avuta in dispetto.—Appresso:—Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina? Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien’ dal mercato, che m’hai tu recato?—E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse incontanente suspicano che l’amore, che il marito porta ad alcuna altra persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze, potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l’asino, il bue, il cane, e’ vilissimi servi, e ancora i vestimenti e’ vasi e le sedie e gli orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]
[Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l’uomo la chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna altra persona d’amare il padre di lei, e qualunque altro parente o persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio, incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e, dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in odio; e, se il marito non consentirá tosto a’ piacer suoi, di presente ricorre a’ veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú, vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl’indovini, e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori de’ preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se egli vieterá che essi non v’entrino, incontanente la moglie si reputa ingiuriata, in ciò che il marito mostra d’aver sospeccion di lei. Ma che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica, alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de’ lor costumi, e certi sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa quella cosa la quale d’ogni parte è combattuta.]
[E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna, quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare e stanno dintorno all’uomo infermo gli amici e’ servi domestici, obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci la sua sollecitudine, l’anima di colui ch’è infermo turbi infino alla disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s’egli avverrá che la moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova), piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che mai furono; ed ha l’animo libero, il quale in quella parte che piú gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d’uomini, egli parla con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è solo.]
[Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché ’l nome nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi, partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá, paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi son gli amici e i propinqui, li quali tu t’avrai eletti, che non son quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d’avere.]
[Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò che da Teofrasto, possiam comprendere per l’esemplo del misero messer Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne alcuna si dispongono, percioché rade volte s’abbatte l’uomo a Lucrezia e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la notte nel letto son diavoli.]
[Lez. LIX]
Poi séguita l’autore: «S’io fossi stato»; dove comincia la quinta parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste tre ombre sieno e ’l priego loro, dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse. Dice adunque: «S’io fossi stato dal fuoco coperto», che non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell’argine, «tra lor di sotto, E credo che ’l dottor l’avria sofferto», considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch’io mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura», ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea ghiotto», cioè disideroso.
«Poi cominciai:—Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia», cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me, «Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè degna d’onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.
Poi che l’autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo aveva detto («E se miseria d’esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor dire se egli era della lor cittá, e dice:—«Di vostra terra sono», cioè della cittá vostra, «e sembrami L’ovra di voi» laudevole (non il peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l’amaritudine del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva, dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo pe’ dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca», cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond’io, per lo tuo me’, penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè infino al profondo dello ’nferno, «pria convien ch’io torni»,—cioè discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle cose precedenti stata mostrata.
—«Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse, ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e dice:—«Se lungamente», cioè per molti anni, «l’anima conduca Le membre tue», cioè ti servi in vita—«rispose quegli allora», cioè messer Iacopo,—«E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura, disiderate molto da’ mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par che riguardi piú all’onore della republica, all’altezza delle ’mprese, e ancora agli esercizi dell’arme, nelle quali costoro furono onorevoli e magnifici cittadini; «di’ se dimora, Nella nostra cittá, sí come suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n’è gita fuora», cioè partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la cagione che il muove a dubitare e a domandarne.
«Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra’ grandi e gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare gli animi de’ faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l’aver poche volte peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá co’ compagni», da’ quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne cruccia con le sue parole»,—dicendone che del tutto partita se n’è.
Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o due l’anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme, non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú onorevolmente ricevere, E tra loro sempre si ragionava di cortesia e d’opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse, disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il qual visse sí lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.
E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta:—«La gente nuova, e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sí che tu giá ten piagni.—Cosí gridai con la faccia levata».
Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente, per l’esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché, come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran seguite: la qual cosa l’autore, sí come colui al qual toccava, turbato e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi, disse.
«E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta», fatta alla lor domanda, «Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata», cioè turbati, dando piena fede alle parole.
—«Se l’altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha risposto alla lor domanda, ed egli pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo:—«Se l’altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al presente hai fatto,—«Risposer tutti,—il satisfare altrui, Felice te, che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d’esti luoghi bui», cioè oscuri dello ’nferno, «E torni a riveder le belle stelle», su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui», in inferno, «Fa’ che di noi alla gente favelle»,—non in dire come noi siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale dell’onore della nostra cittá, e duolci d’udire che cortesia o valor si sia partita di quella.
«Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d’uomini che fuggissero a tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè parve che volassero. «Un amen », questa dizione « amen », la qual si dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno, «cosí», prestamente, «com’ei furon spariti, Per che al maestro parve di partirsi», poi s’eran partiti essi.
«Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite, dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell’acqua», la qual cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno, e però faceva suono, «n’era sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena uditi», l’un l’altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d’una acqua che cade discendendo dell’Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per lo cammin dritto da Firenze a Forlí.
«Come quel fiume, c’ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver’ levante, Dalla sinistra costa d’Appennino». Monte Veso è un monte nell’Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po. Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell’Alpi dalla parte di ver’ ponente, e d’Appennino di ver’ levante, e mette in mare per piú foci, e tra l’altre per quella di Primaro, presso a Ravenna; e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l’uomo da Po inver’ levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone, percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi discende a Ravenna, e lungo le mura d’essa corre, e forse due miglia piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l’autore che egli viene dalla sinistra costa d’Appennino. Intorno alla qual cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel monte ch’è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver’ mezzodí, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze, Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra d’Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina, dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante, sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il mare Adriano.
Dice adunque l’autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c’ha proprio cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra costa d’Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro, «da monte Veso inver’ levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d’Appennino». E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c’ha prima proprio cammino da monte Veso inver’ levante dalla sinistra costa d’Appennino, Che si chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome», Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma Montone è chiamato.
Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi Forum Livii, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor ciance d’una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse in rerum natura, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.
«Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell’Alpe, per cadere ad una scesa». Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo chiamato l’Eremo, e, discendendo a guisa d’un fossato, giú cade non guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d’un balzo giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a tempo piovoso corre con piú acqua.
«Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio di ciò che l’autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l’abate del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di questo luogo, dove quest’acqua cade, si come in luogo molto comodo agli abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri, metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è quello che l’autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser ricetto», cioè stanza e abitazione.
«Cosí giú d’una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell’acqua tinta», di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che ’n poca ora avria l’orecchia offesa», percioché ’l troppo romore, a chi non è uso, offende e noia l’udire.
«Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta», quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle dipinta», quella bestia delle tre che ’l suo andare impediva. «Poscia che l’ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Si come ’l duca m’avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a lui aggroppata ed avvolta. Ond’e’ si volse ver’ lo destro lato. Ed alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in quell’alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per lo avviluppamento d’esso.
Per la qual cosa l’autor dice:—«Ei pur convien che novitá risponda—Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio faceva,—«al nuovo cenno, Che ’l maestro con l’occhio si seconda», cioè segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l’occhio sopra l’acqua, e questo faceva piú credere all’autore che novitá dovesse rispondere.
«Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color che non veggion pur l’opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran col senno!» In queste parole assai notabili, n’ammonisce l’autore e ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a’ savi uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto pensiero spesse volte s’accorgono de’ nostri disidèri. E queste parole dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé quello che egli disiderava, cioè Gerione.
E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all’autore, il qual, seguendo, dice: «El disse a me:—Tosto verrá di sopra», a quest’acqua, «Ciò ch’io attendo, e», ciò, «che ’l tuo pensier sogna», cioè non certo vede, «Tosto convien ch’al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti. E, percioché quello, che seguir dee, pare all’autor medesimo una cosa incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza dire, se la materia l’avesse patito.
Dice adunque: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna», cioè che somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l’uom chiuder le labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui che ’l dice, «fa vergogna», a quel cotal che ’l dice; in quanto color, che l’odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo bugiardo.
«Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S’elle non sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti; e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l’ammaestramento di quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella presente Commedia si posson dir «note» quelle parti estreme de’ versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E chiama l’autor qui questo suo libro Commedia, la quale è una spezie di poesia; e percioché d’essa nel principio della presente opera fu pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.
Poi l’autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch’io vidi per quell’aer grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro». Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion dimostra come questa figura notando venisse susa, e dice: «Sí come torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare, «Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l’áncora»: «l’áncora» è uno strumento di ferro, il quale dall’un de’ lati ha piú rampiconi, e dall’altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch’aggrappa», cioè piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.
Usano i marinari quando vengono ne’ porti con li lor legni, accioché il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte opposita alla terra, alcune ancore, e queste co’ rampiconi loro si ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale l’áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l’áncora fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o altro dove ella s’appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l’ancora, come sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e sviluppila da’ luoghi ove avviluppata è, accioché sÙ tirar si possa. Li quali poi, insú ritornando, fanno l’atto il quale qui l’autor dice che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno fatto da Virgilio. E l’atto di questo cotale dice che è: «Che ’nsu si stende», con le braccia, dalla spessezza dell’acqua aiutato a ritirarsi insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza dell’acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.
L’allegorie le quali in questo canto sono, cioè il supplicio di quelle anime dannate, con le quali l’autor mostra che lungamente parlasse, sono una medesima cosa con quella, la quale è nel canto quindicesimo, precedente a questo, e ancora con quella che è nel quattordicesimo; delle quali, percioché d’una medesima qualitá sono con quella che ancora è a recitare, e che è nel canto seguente, come altra volta di sopra è detto, si riserva a dimostrare dove appresso della terza spezie di coloro che a Dio e alle sue cose fanno violenza si tratterá: e però qui non curo dirne alcuna cosa. Appresso, quello che nella fine del presente canto si discrive della corda data a Virgilio dall’autore, e dello animale che, per lo cenno da Virgilio fatto, venne sopra ’l fiume, percioché ad un medesimo fine aspetta con quella fiera della quale l’ autor tratta nel principio del seguente canto, per non fare d’una medesima materia due diversi sermoni, riserverò a dire dove di quella fiera diremo.
CANTO DECIMOSETTIMO
[Lez. LX]
—«Ecco la fiera con la coda aguzza», ecc. Il presente canto si continua col precedente assai evidentemente, in quanto nella fine del precedente ha dimostrato come, per lo segno fatto da Virgilio, vedesse sotto l’acqua una figura, la qual notando veniva insú, cioè verso la sommitá del fiume; e nel principio di questo dimostra questa figura esser pervenuta a riva. E dividesi il presente canto in tre parti: nella prima discrive la forma della figura venuta; nella seconda dimostra l’afflizione degli usurieri; nella terza dimostra come, salito sopra le spalle di quella figura, insieme con Virgilio fosse passato, e trasportato del settimo cerchio dello ’nferno nell’ottavo. La seconda comincia quivi: «Quivi ’l maestro»; la terza quivi: «Ed io, temendo».
Comincia adunque cosí:—«Ecco la fiera»; chiamala «fiera» dal suo fiero e crudele effetto; «con la coda aguzza», cioè aguta e pugnente piú che alcun ferro, «che passa i monti», cioè le durissime e grandi cose, «e rompe i muri», della cittá e di qualunque fortezza, «e l’armi» ( supple ) passa e rompe di qualunque fortissimo e ardito cavaliere; «Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza»,—cioè corrompe e guasta col suo iniquo è fraudolente adoperare. E dice «ecco» demonstrative, percioché, allora quando Virgilio cominciò a parlare, giugneva questa fiera sopra l’acqua del fiume dal lato loro. «Si cominciò», come detto è, «lo mio duca a parlarmi». Poi dice: «Ed accennolle», poi che cosí ebbe detto, «che venisse a proda», cioè sopra la riva del fiume, «Vicino al fin de’ passeggiati marmi». Pon qui la spezie per lo genere, cioè «marmi» per «pietre»: è il marmo, come noi veggiamo, una spezie di pietra bianchissima e forte. E dice «passeggiati marmi», percioché, passeggiando, eran venuti su per l’argine del fiume infin quivi; il qual argine ha di sopra dimostrato che era divenuto pietra: vuol dunque qui dire che Virgilio le fece cenno che ella venisse insino al luogo dove essi, passeggiando, erano pervenuti.
«E quella sozza immagine di froda». Manifesta l’autore qui di che cosa questa fiera fosse immagine, e dice che era «di froda»: la qual froda che cosa sia si dimostrerá appresso. «Sen venne», per lo cenno fattole da Virgilio, «ed arrivò», cioé mise sopra la riva, «la testa e ’l busto», cioè il rimanente del corpo; «Ma ’n su la riva non trasse la coda»; e cosí mostra che quella si rimanesse coperta nell’acqua.
«La faccia sua», di questa fiera, «era faccia d’uom giusto, Tanto benigna», mansueta e piacevole, «avea di fuor la pelle», cioè l’apparenza; «E d’un serpente» era «tutto l’altro fusto», della persona di questa fiera. «Due branche», cioè due piedi artigliati, come veggiamo che a’ dragoni si dipingono, «avea pelose infin l’ascelle», cioè infino sotto le ditella; «Lo dosso e ’l petto ed amendue le coste», cioè tutto il corpo, fuor che la testa e ’l collo e la coda, «Dipinte avea», ornate, come naturalmente hanno molti animali, «di nodi», cioè di composti, li quali parevano nodi, «e di rotelle», di figure ritonde.
«Con piú color sommesse e sopraposte», a variazion dell’ornamento, «Non fer mai drappi tartari né turchi», li quali di ciò sono ottimi maestri, si come noi possiam manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi, li quali veramente sono si artificiosamente tessuti, che non è alcun dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti, non che piú belli.
Sono i tartari..................... .............................
IV
ARGOMENTI
IN TERZA RIMA
ALLA “DIVINA COMMEDIA”
DI DANTE ALIGHIERI
[234][235]
ALL’INFERNO
«Nel mezzo del cammin di nostra vita», smarrito in una valle l’autore, e la sua via da tre bestie impedita,
Virgilio, dei latin poeti onore, 5 da Beatrice gli apparve mandato liberator del periglioso errore.
Dal qual poi che aperto fu mostrato a lui di sua venuta la cagione, e ’l tramortito spirto suscitato,
10 senza piú far del suo andar quistione, dietro gli va, ed entra in una porta ampia e spedita a tutte persone.
Adunque, entrati nell’aura morta, l’anime triste vider di coloro 15 che senza fama usâr la vita corta;
io dico de’ cattivi: eran costoro da moscon punti, e senza alcuna posa correndo givan, con pianto sonoro.
Quindi, venuti sopra la limosa 20 riva d’un fiume, vide anime assai, ciascuna di passar volenterosa.
A cui Caròn:—Per qui non passerai!— di lontan grida; appresso, un gran baleno gli toglie il viso e l’ascoltar de’ guai.
25 Dal qual tornato in sé, di stupor pieno, di lá da l’acqua in piú cocente affanno, non per la via che l’anime teniéno,
si ritrovò; e quindi avanti vanno, e pargoletti veggon senza luce 30 pianger, per l’altrui colpa, eterno danno.
Dietro alle piante poi del savio duce passa con altri quattro in un castello, dove alcun raggio di chiarezza luce.
Quivi vede seder sovr’un pratello 35 spiriti d’alta fama, senza pene, fuor che d’alti sospiri, al parer d’ello.
Da questo loco discendendo, viene dove Minós esamina gli entranti, fier quanto a tanto officio si conviene.
40 Quivi le strida sente e gli alti pianti di quei che furon peccator carnali, infestati da venti aspri e sonanti,
dove Francesca e Polo li lor mali contano. E quindi Cerbero latrante 45 vede sopra a’ gulosi, infra li quali
Ciacco conosce; e, procedendo avante, truova Plutone, e’ prodighi e gli avari vede giostrar con misero sembiante.
Che sia Fortuna e la cagion de’ vari 50 suoi movimenti Virgilio gli schiude: e, discendendo poi con passi rari,
truovan di Stige la nera palude, la qual risurger vede di bollori, da’ sospir mossi d’alme in essa nude,
55 dove gli accidiosi peccatori, e gl’iracundi, gorgogliando in quella, fanno sentir li lor grevi dolori.
Sopra una fiamma poi doppia fiammella subito vede, ed una di lontano 60 surgere ancora e rispondere ad ella.
Quivi Flegias, adirato, il pantano oltre gli passa, nel qual vede strazio far di Filippo Argenti, e non invano.
E appena era di tal mirare sazio, 65 ch’a piè della cittá di Dite giunti, senza esser lor d’entrarvi dato spazio,
si vide, e quindi da disdegno punti per la porta serrata lor nel petto da li spiriti piú da Dio disiunti.
70 E mentre quivi stavan con sospetto, le tre Furie infernai sovra le mura Tesifon, vider, Megera ed Aletto.
Appresso, acciò che l’orribil figura del Gorgon non vedesse, il buon maestro 75 gli occhi gli chiuse, e fennegli paura.
Di scender poi per lo cammin silvestro, per cui la porta subito s’aprio, mostra, e ’l passare a loro in quella, destro.
Quivi dolenti strida ed alte udio, 80 che de’ sepolcri uscivano affocati, de’ qual pieno era tutto il loco rio:
in quegli essere intese i trascutati eresiarci, e tutti quelli ancora ch ’a Epicuro dietro sono andati.
85 Lì, ragionando, picciola dimora con Farinata e con un altro face, ch’alquanto a l’arca pareva di fora.
Disegna poi come lo ’nferno giace, da indi in giú, distinto in tre cerchietti, 90 e poi dimostra con ragion vivace
perché dentro alle mura i maladetti spiriti sien di Due, e nel suo cerchio, piú che color che ha di sopra detti.
Centauri truova poi sovr’al coperchio 95 d’un’altra valle sovra Flegetonte, nel qual chi fe’ al prossimo soverchio
bollir vede per tutto; e perché cónte le vie salvagge, a passar la riviera Nesso gli fa della sua groppa ponte.
100 Oltre passati, in una selva fiera di spirti, in bronchi noderosi e torti mutati, entraron per via straniera.
Tutti se stessi i miseri avien morti, che li piangean, divenuti bronconi; 105 dove gli fe’ Pier delle Vigne accorti
delle dolenti lor condizioni e delle sue; e nella selva stessa, dopo gli uditi miseri sermoni,
da nere cagne un’anima rimessa 110 vide sbranare, e seppe a tal martiro dannato chi la sustanzia, commessa
all’util suo, biscazza. E quindi giro piú giú, dove piovean fiamme di foco, fuor della selva, sovra un sabbion diro;
115 lá dove Campaneo, curante poco, vider giacer sotto la pioggia grave con piú molti arroganti; e ’n questo loco,
seguendo, mostra con rima soave d’una statua, ch’ è di piú metalli, 120 l’acqua cadere in quelle valli prave,
e quattro fiumi per piú intervalli nel mondo occulto fare, infino al punto piú basso assai che tutte l’altre valli.
Poi ser Brunetto abbrusciato e consunto 125 sotto l’orribil pioggia correr vede, col quale alquanto, parlando, congiunto,
di sua futura vita prende fede. Poi, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, infino al piede
130 di lui venuti, a’ lor nuovi dimandi sodisfa presto; e quinci procedette dove anime trovò con tasche grandi
sedere a collo, sotto le fiammette, di loro alcuni a l’arme conoscendo 135 stati usurieri, e per tre render sette.
Poi, sovra Gerion giú discendendo, in Malebolge vene, ove i baratti in diece vede, senza pro piangendo.
De’ quali i primi da dimòn son tratti 140 con grandi scoreggiate per lo fondo, scherniti e lassi, vilmente disfatti;
lá dove alcun ch’avea veduto al mondo vi riconobbe, ch’era bolognese, Venedico, e ruffiano; a cui secondo
145 Iason venia, che tolse il ricco arnese a’ colchi. E quindi Alesso Interminelli in uno sterco vide assai palese
pianger le sue lusinghe; e quindi quelli che sottosopra in terra son commessi 150 per simonia; e li par che favelli
con un papa Nicola; ed, oltre ad essi, travolti vede quei che con fatture gabbarono non ch’altrui, ma se istessi.
Quindi discendon lá ove l’oscure 155 pegole bollon chi baratteria vivendo fece, e di quelle misture,
mentre che van con fiera compagnia di diece diavol, parla un che fu tratto da Graffiacan per la cottola via,
160 sé navarrese dicendo e baratto; quinci com’el fuggi delle lor mani racconta chiaro, e de’ diavoli il fatto.
Sotto le cappe rance i pianti vani degl’ipocriti poi racconta, e mostra 165 Anna e ’l suo suocer nelli luoghi strani
crocifissi giacer. Poi, nella chiostra di Malebolge seguente, brogliare fra’ serpi vede della gente nostra,
quivi dannati per lo lor furare: 170 Agnolo e ’l Cianfa ed altri e Vanni Fucci; li quai mirabilmente trasformare,
dopo nuovi atti, parlamenti e crucci, e d’uomo in serpe, e poi di serpe in uomo, in guisa tal, che mai vista non fucci,
175 discrive. E poi chi mal consiglio, comoda, come Ulisse, in fiamme acceso andando, vede riprender dattero per pomo.
Pria con Ulisse, e poscia ragionando col conte Guido, passa; e, pervenuto 180 su l’altra bolgia, vede gente andando
tutta tagliata sovente e minuto, per lo peccato della scisma reo da lor nel mondo falso in suso avuto.
Lì Maometto fesso discernéo, 185 e quel Beltram che giá tenne Altaforte, e Curio e ’l Mosca, e molti qual potéo.
Appresso vide piú misera sorte degli alchimisti fracidi e rognosi, u’ seppe da Capocchio l’agra morte,
190 e Mirra e Gianni Schicchi e piú lebbrosi vide, ed i falsator per fiera sete ritruopichi fumare stando oziosi:
tra’ quali in quella inestricabil rete vide Sinón, ed il maestro Adamo 195 garrir con lui, come legger potete.
Quindi, lasciando l’uno e l’altro gramo, dal mezzo in su gli figli della terra uscir d’un pozzo vede, ed al richiamo
del gran poeta intramendue gli afferra 200 Anteo, e lor sovr’al freddo Cocito posa, nel quale in quattro parti serra
il ghiaccio i traditor: quivi ghermito Sassol de’ Mascheron nella Caina, e ’l Camiscion de’ Pazzi, ebbe sentito.
205 oscia nell’Antenora, ivi vicina, tra gli altri dolorosi vide il Bocca, e di Gian Soldanier l’alma meschina,
ed altri molti, ch’ora a dir non tocca, si come l’arcivescovo Ruggieri, 210 ed il conte Ugolino, anima sciocca.
Piú oltre andando pe’ freddi sentieri, spiriti truova nella Ptolomea giacer riversi ne’ ghiacci severi.
Quivi, racconta, l’alma si vedea 215 di Brancadoria e di frate Alberico, che senza pro de’ frutti si dolea.
Appresso vede l’Avversario antico nel centro fitto, e Iuda Scariotto, e Cassio e Bruto, di Cesar nemico,
220 nell’infima Iudecca star di sotto. Quindi, pe’ velli del fiero animale discendendo, e salendo, il duca dotto
lui di fuor tira da cotanto male per un pertugio, onde le cose belle 225 prima rivide, e per cotali scale
usciron quindi «a riveder le stelle».
[242][243]
AL PURGATORIO
«Per correr miglior acqua alza le vele» qui lo autore, e, seguendo Virgilio, pe’ dolci pomi sale e lascia il fiele.
Catón primier, fuor dell’eterno esilio, 5 truovano e seco parlan, procedendo; poi dánno effetto al suo santo consilio.
Su la marina vede, discendendo nell’aurora, piú anime sante, e ’l suo Casella, al cui canto attendendo,
10 mentre l’anime nuove tutte quante givan con lor, rimorsi da Catone, fuggendo al monte ne girono avante.
Incerti quivi della regione, truovan Manfredi ed altri, che moriro 15 per colpa fuor di nostra comunione
col perder tempo, adequare il martiro alla lor colpa; e quindi, ragionando, del solar corso gli solve il desiro
l’alto poeta sedendosi, quando 20 Belacqua vider per negghienza starsi; e giá levati verso l’alto andando,
Bonconte ed altri molti incontro farsi vider, li quali infino all’ultim’ora, uccisi, a Dio penáro a ritornarsi.
25 Quindi Sordel trovar sol far dimora, il qual, poi che l’autor molto ha parlato contro ad Italia, il gran Virgilio onora.
Poi mena loro in un vallone ornato d’erbe e di fior, nel qual, cantando, addita, 30 a Virgilio Sordello stando allato,
spiriti d’alta fama in questa vita, tra’ quai discesi, il Gallo di Gallura riceve l’autor; quindi, finita
del di la luce, vede dell’altura 35 due angeli con due spade affocate discender ad aver di costor cura.
Poscia, dormendo, con penne dorate gli par che ’n alto un’aquila nel porti d’infino al foco; quindi, alte levate
40 le luci, spaventato, da’ conforti fatto sicur di Virgilio, Lucia gli mostra quivi loro avere scorti.
Del purgatorio gli addita la via, dove venuti, qual fosse disegna 45 la porta, e’ gradi onde a quel si salía,
chi fosse il portinaio, che veste tegna, e quai fosser le chiavi, e che scrivesse nella sua fronte, e che far si convegna
a chi passa lá dentro pone expresse. 50 E quindi come en la prima cornice dichiara con fatica si giugnesse;
ed intagliate in alta parte dice di quella istorie d’umiltá verace: poi spirti carchi dall’una pendice
55 vede venir cantando, ed orar pace per sé e per altrui, purgando quello che ne’ mortal superbia sozzo face;
tra’ quali Umberto ed Odorisi, ad ello appresso, e simil Provinzan Silvani 60 piangendo vide sotto il fascio fello.
Oltre passando pe’ sentieri strani, sotto le piante sue effigiati vide gli altieri spiriti mondani.
Da uno splendido angiolo invitati 65 piú leggier salgono al giron secondo, perché li «P» l’autor trovò scemati.
Lí alte voci, mosse dal profondo ardor di caritá, udir volanti per l’aere puro del levato mondo;
70 e poi che giunti furon piú avanti, videro spirti cigliati sedere, vestiti di ciliccio tutti quanti,
perché la invidia lor tolse il vedere: Guido del Duca, Sapia e Rinieri 75 da Calvol truova lí piangere, e vere
cose racconta di tutti i sentieri onde Arno cade, e simil di Romagna; quindi altri suon sentiron piú severi.
Ed oltre su salendo la montagna, 80 da un altro angelo invitati foro, parlando dell’orribile magagna
d’invidia, e dell’opposito, fra loro, e, di sé tratto andando, vide cose pacefiche in aspetto; né dimoro
85 fe’ guari in quelle, che ’n caliginose parti del monte entraron, dove l’ira molti piangean con parole pietose.
Quivi gli mostra Marco quanto mira nostra potenzia sia, e quanto possa 90 di sua natura, e quanto dal ciel tira.
Appresso usciti dall’aria grossa, imaginando vede crudi effetti venuti in molti da ira commossa.
Quivi gl’invia un angel; per che, stretti 95 alla grotta amendue, a non salire dalla notte vegnente fur costretti.
Posti a sedere incominciaro a dire insieme dell’amor del bene scemo, che ’n quel giron s’empieva con martire,
100 dove, sí come noi veder potemo, distintamente Virgilio ragiona come si scemi in uno ed altro estremo,
che sia amor, del quale ogni persona tanto favella, e come nasca in noi. 105 L’abate li di San Zen da Verona
con altri assai correndo vede poi e con lui parla, e seguel nell’oscuro tempo, con altri retro a’ passi suoi,
come sentendo si rifá maturo 110 d’accidia l’acerbo. Indi ne mostra come, dormendo in sul macigno duro,
qual fosse vide la nemica nostra, e come da noi partasi, e, sdormito, come venisse nella quinta chiostra,
115 fattogli a ciò da uno angel lo ’nvito. Quivi giacendo assai spiriti truova, che d’avarizia piangon l’acquisito
in giú rivolti e, perch’el non sen mova alcun, legati tutti; e quivi parla 120 con un papa dal Fiesco; appresso pruova
l’onesta povertá, ed a lodarla Ugo Ciappetta induce, i cui nepoti nascer dimostra tutti atti a schifarla,
pien d’avarizia e d’ogni virtú vòti; 125 e come poscia contro alla nequizia, passato il dí, cantando, vi si noti.
Quindi, per tutto, novella letizia, ed il monte tremare infino al basso dimostra, mosso da vera giustizia.
130 Qui truova Stazio non a lento passo salire in su, al qual Virgilio chiede della cagion del triemito del sasso.
la quale Stazio assegna; indi succede al priego suo ancora a nominarsi. 135 Quindi, com’uom ch’appena quel che vede
crede, dichiara Stazio avanti farsi ad onorar Virgilio, e gli fa chiaro lui, per contrario peccato agli scarsi,
aver per molti secoli l’amaro 140 monte provato. E giá nel cerchio sesto, parlando insieme, uno albero trovâro
donde una voce lor disse il modesto gusto di molti; e, piú propinqui fatti, chiaro s’avvider ch’ogni ramo in questo
145 albero è vòlto in giú, e d’alto tratti vider cader liquor di foglia in foglia, e sotto ad esso spirti macri e ratti
vider venir piú che per altra soglia dell’erto monte, e pure in sú la vista 150 alli pomi tenean, che sí gl’invoglia.
Cosí andando infra la turba trista, raffigurollo l’ombra di Forese: con lui favella; e della gente mista
piú riconobbe, e, tra gli altri, il lucchese 155 Bonagiunta Orbiccian; poi una voce all’albero appressarsi lor difese.
Un angel quinci al martiro che cuoce gl’invita, ed essi, per l’ora che tarda era, ciascun n’andava sú veloce,
160 mostrando Stazio a lui, se ben si guarda, nostra generazione, e come l’ombra prenda sembianza di corpo bugiarda,
e come sia da passione ingombra: e, sí andando, pervennero al foco, 165 prima che ’l santo monte facesse ombra;
lungo ’l qual trapassando per un poco d’un sentieruolo udîr voci nemiche al vizio di lussuria, ed in quel loco
piú anime conobbe, che ’mpudiche 170 furon vivendo, e Guido Guinizelli gli mostra Arnaldo in sí aspre fatiche.
Ma, poi che s’è dipartito da elli, a trapassar lo foco i cari duci confortan lui, ch’appena in mezzo a quelli
175 il trapassò. Di quindi a l’alte luci salir gl’invita uno angel che cantava, pria s’ascondesser li raggi caduci.
Vede nel sonno poi Lia che s’ornava di fior la testa, cantando parole 180 nelle quali essa chi fosse mostrava.
Quindi levato nel levar del sole, Virgilio di sé stesso il fa maestro, sul monte giunti, e può far ciò che vuole.
Venuti adunque nel loco silvestro 185 truova una selva, ed in quella si spazia su per lo lito di Letè sinestro.
Vede una donna, che a lui di grazia parla e con verissime ragioni: del fiume il moto e dell’aura il sazia.
190 Di quinci a vie piú alte ammirazioni venuto, sette candelabri e molte genti precedere un carro, i timoni
del qual traeva, con l’alie in sú vòlte, un grifon d’oro, quanto uccel vedeasi, 195 l’altro di carne, alle cui rote accolte
da ogni parte una danza moveasi di certe donne, e nel mezzo Beatrice del tratto carro splendida sedeasi.
Da cosí alta vista e sí felice 200 percosso, da Virgilio con Istazio esser lasciato lagrimando dice.
Appresso questo non per lungo spazio, con agre riprension la donna il morde, senza aver luogo a ricoprir mendazio;
205 per che le sue virtú quasi concorde li venner meno, e cadde, né sentisse pria ch’alle sue orecchi, ad altro sorde,
pervenne:—Tiemmi;—onde, anzi ch’egli uscisse, da una donna tratto per lo fiume, 210 l’acqua convenne che egli inghiottisse.
Poi quattro donne, secondo il costume di loro, il ricevettero, e menârlo di Beatrice avanti al chiaro lume.
Qual gli paresse il suo viso, pensarlo 215 ciascun che ’ntende può; poi la virtute gli mancò qui a poter divisarlo.
I casi avversi appresso, e la salute della Chiesa di Dio, sotto figmento delle future come delle sute
220 cose, disegna; poi il cominciamento di Tigri e d’Eufrate vede in cima del monte, e con Matelda va contento,
e con Istazio, ad Eunòe prima; donde bagnato, e rimenato a quelle 225 donne beate, finisce la rima,
«puro e disposto a salire alle stelle».
[250][251]
AL PARADISO
«La gloria di Colui che tutto move» in questa parte mostra l’autore a suo poder, qual ei la vide e dove.
Ed invocato d’Apollo l’ardore, 5 di sé incerto, retro a Beatrice pe’ raggi sen salí del suo splendore
nel primo ciel, lá, onde a ciascun dice, men sofficiente, che retro a sua barca piú non si metta fra ’l regno felice.
10 E mentre avanti cantando travarca, de’ segni della luna fa quistione alla sua guida, e quella se ne scarca.
Poi c’ha udita la sua opinione, e, premettendo alcuna esperienza, 15 chiaro nel fa con aperta ragione,
Piccarda vede, e della sua essenza nel primo cielo «per manco di voto» con lei favella; e, della sua presenza
partita, Beatrice a lui divoto 20 qual violenza il voto manco faccia distingue ed apre; e simil gli fa noto
perché gli paia i cieli aprir le braccia a diversi diversi, e come siéno però presenti alla divina faccia;
25 quindi, con viso ancora piú sereno, se sodisfare a’ voti permutando si possa o no, a lui dichiara appieno;
e nel ciel di Mercurio ragionando veloci passan. Lí Giustiniano 30 prima di sé sodisfá al dimando;
appresso, quanto lo ’mperio romano sotto il segno dell’aquila facesse gli mostra in parte, e poi a mano a mano,
parlando seco, volle ch’el sapesse 35 Romeo in quella luce gloriarsi, che fe’ quattro reine di contesse.
Induce poi Beatrice a dichiararsi, «come giusta vendetta giustamente fosse vengiata»; e quindi trasportarsi
40 nel terzo ciel, veggendo piú lucente la donna sua, s’avvide. Ivi con Carlo Martel favella, il quale apertamente
gli solve ciò che ’l mosse a dimandarlo, come di dolce seme nasca amaro; 45 quindi Cunizza viene a visitarlo,
e del futuro alquanto gli fa chiaro sovra i lombardi, e con Folco favella, che gli mostra Raab. Indi montâro
nella spera del sole, onde una bella 50 danza di molti spiriti beati vede far festa, e nel girarsi snella;
de’ quai gli furon molti nominati da Tommaso d’Aquin, che di Francesco molto gli parla poi e dei suoi frati.
55 Poi scrive un cerchio sovraggiugner fresco a questo, e ’n quel parlar Bonaventura da Bagnoreo del calagoresco
Domenico, nel qual fu tanta cura della fé nostra e dell’orto divino, 60 quanta mai fosse in altra creatura.
Poi rincomincia Tommaso d’Aquino com’egli intenda: «Non surse il secondo» di Salamone, e con chiaro latino
gliele dimostra, ed un lume giocondo 65 l’accerta lor, piú lieti e piú lucenti, come i lor corpi riavran del mondo.
Quindi nel quinto ciel di lucolenti spiriti vede una mirabil croce, della quale un de’ suoi primi parenti
70 gli fa carezze, e con soave voce gli si discuopre, e mostra quale stato Fiorenza avesse, quando nel feroce
e labil mondo fu da pria creato; quindi le schiatte piú di nome degne 75 nomina tutte, da lui dimandato.
Poi gli fa chiare le parole pregne di Farinata, e ’n purgatoro udite, a lui mostrando del futuro insegne.
Appresso ancor con parole espedite 80 gli nomina di quei santi fulgori Iosuè, Iuda, Carlo e piú, scolpite
da lui nel nominar per gli splendori cresciuti. E quindi nel Giove sen sale, dove un’aquila fanno i santi ardori
85 di sé mirabile e bella, la quale gli solve il dubbio d’un che nato sia su lito, senza udire o bene o male
di Dio, mostrando quel che di lui fia; quindi Davit e Traiano e Rifeo 90 gli mostra, ed altri en la sua luce dia.
Poi ’l chiarisce d’un dubbio che si feo in lui, de’ due che appaion pagani nel primo aspetto. Quindi uno scaleo,
salito nel Saturno, di sovrani 95 lumi ripien discerne, onde altro scende ed altro sale, e con Pier Damiani
ragiona lí; e qual quivi risplende gli parla e noma piú contemplativi quel Benedetto onde Casin dipende.
100 Sal nell’ottavo del poscia di quivi, e, nel segno de’ Gemini venuto, le sette spere ed i corpi passivi
si vede sotto i piè. Poi conosciuto Cefas, sua fede e suo creder confessa, 105 da lui richesto, a lui tutto compiuto.
Con voce appresso lucolenta e spressa al baron di Galizia la speranza dice che è, e che spetta per essa;
indi venire a cosí alta danza 110 Giovanni mostra, il qual del corpo morto di lui di terra il cava d’ogni erranza.
Poi seguitando, al suo domando accorto, che cosa sia la caritá, risponde, e qual da lei gli proceda conforto.
115 Appresso scrive come alle gioconde luci s’aggiunse quel padre vetusto che prima fu da Dio creato, e donde
tutti nascemmo, e per lo cui mal gusto tutti moiamo: il qual del suo uscire 120 laonde posto fu, e quanto giusto
in quello stesse, e quanto il gran desire di quella gloria avesse, e la dimora quanto fu lunga qui dopo ’l fallire
gli conta, ed altre cose. Indi colora, 125 quasi infiammato, il vicaro di Dio contr’a’ pastor che ci governano ora.
Poi come nel ciel nono sen salío discrive, dove l’angelica festa in nove cerchi vede e ’l suo disio;
130 di lor natura lí gli manifesta con sermon lungo assai mirabil cose, e della turba che ne cadde mesta.
Poi vede le milizie gloriose del nuovo e dell’antico Testamento, 135 che bene ovrando a Dio si fêro spose
nel ciel piú alto sovra il fermamento, dove ’l solio d’Enrico ancor vacante discerne. E quivi lui, che stava attento
a riguardar le creature sante, 140 lascia Beatrice, ed in loco di lei Bernardo con lo sguardo il guida avante,
dove, poi c’ha orazione a lei, cui seder vede dove la sortiro gli merti suoi, gli è mostrata colei
145 che sposa antica fu del primo viro, Rachel, Sara, Rebecca e ’l gran Giovanni, che pria il deserto, e poi provò il martíro.
Appresso poi in piú sublimi scanni Francesco ed Agostino e Benedetto, 150 e quei che trapassar ne’ teneri anni,
vede, de’ quali il dottor sopra detto, dico Bernardo, ragionando ad ello, caccia ogni dubbio fuor del suo concetto.
Quindi il santo grazioso e bello 155 piú ch’altro di Maria gli mostra il viso, e davanti da lei quel Gabriello
che ’l decreto recò di paradiso della nostra salute, tanto lieto che qui per non poter ben nol diviso:
160 onesto l’uno e l’altro e mansueto. Adamo e Pietro e poi il vangelista Giovanni lí seder vede, ripleto
d’alta letizia, e quindi il gran legista Moisé vede, e poi Lucia ed Anna; 165 e punto fa alla gioiosa vista.
Appresso, acciò che la divina manna discenda in lui, e faccial poderoso a veder ciò per che ciascun s’affanna,
umile quanto può, nel grazioso 170 cospetto della Madre d’ogni grazia, insieme col dottor di lei focoso
orando, priega che la vista sazia del primo Amor gli sia, e per lo lume, che senza fine profondo si spazia,
175 ficca degli occhi suoi il forte acume; poi, disegnando quanto ne raccolse, termine pone al suo alto volume,
mostrando come in quel tutto si volse l’alto disio ed alle cose belle, 180 e come ogni altro appetito gli tolse
«l’Amor che muove il sole e l’altre stelle».
V
RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
[258][259]
INFERNO
Comincia la prima parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Inferno, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, e di quella prima parte il canto primo. Nel quale l’autore mostra sé smarrito in una valle e impedito da tre bestie, e come Virgilio, apparitogli, se gli offerse per duca a trarlo di quel luogo, mostrandogli per qual via.
Comincia il canto secondo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, fatta la sua invocazione, muove un dubbio a Virgilio della sua andata. Il quale Virgilio, mostrandogli chi ’l mosse, e come tre benedette curan di lui nel cielo, gliel solve, e rassicuralo, ed entrano in cammino.
Comincia il canto terzo dello ’Nferno. Nel quale l’autore mostra come in quello entrasse e vedesse i cattivi piagnendo correr forte, trafitti da vespe e da mosconi; e appresso come molte anime s’adunavano alla riva d’Acheronte, le quali tutte Caron passava, ma lui passar non volle.
Comincia il canto quarto dello ’Nferno. Nel quale l’autor mostra come si ritrovò nel primo cerchio di quello; e quivi scrive esser quegli che per difetto di battesimo son dannati, e dichiaragli Virgilio come giá n’avea veduti trarre alquanti. Poi, venuti loro incontro quattro poeti, con loro entrano in un castello, dove nobili uomini d’arme, filosofi e valorose donne vede.
Comincia il canto quinto dello ’Nferno. Nel quale l’autore, discendendo nel secondo cerchio, truova Minos, e appresso i peccatori carnali da aspro vento percossi; e quivi con madonna Francesca da Polenta parla, e ode come con Paolo de’ Malatesti si congiugnesse per amore.
Comincia il canto sesto dello ’Nferno. Nel quale l’autor discende nel terzo cerchio, nel quale sotto grave pioggia son tormentati i gulosi. Quivi truova Cerbero, e parla con Ciacco, il quale gli predice certe cose future a’ fiorentini divisi.
Comincia il canto settimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, scendendo nel giron quarto, truova Plutone, e vede i prodighi e gli avari incontro a sé volger grandissimi sassi; e Virgilio gli dimostra che cosa è la Fortuna; e quindi, scendendo nel giron quinto, vede la padule di Stige, e in quella ode esser tormentati gl’iracundi e gli accidiosi.
Comincia il canto ottavo dello ’Nferno. Nel quale l’autor mostra che, salito sopra la barca di Flegias, s’avventò alla banda di quella Filippo Argenti, e come, sospinto da Virgilio nell’acqua, fu straziato dagli altri spiriti; e appresso come, venuti alla porta di Dite, fu da’ demòni serrata nel petto a Virgilio.
Comincia il canto nono dello ’Nferno. Nel quale, poi che Virgilio ha detto che altra volta fece quel cammino, gli mostra le tre Furie, e chiudegli gli occhi, accioché non vegga il Gorgone. E appresso scrive come messo di Dio fece aprir la porta, ed essi entraron dentro, e trovaro l’arche affocate degli eretici.
Comincia il canto decimo dello ’Nferno. Nel quale l’autor parla con Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio.
Comincia il canto decimoprimo dello ’Nferno. Nel quale Virgilio mostra, dal luogo dove è in giú, lo ’nferno esser distinto in tre cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che quegli, che lasciati hanno, non son nella cittá di Dite racchiusi.
Comincia il canto decimosecondo dello ’Nferno. Nel quale mostra l’autore come Virgilio facesse partire il minotauro, fattosi loro incontro, e rendegli la ragione d’una grotta caduta; e come truovano i centauri, e pervengono al fiume di Flegetone, nel quale vede bollire rubatori e tiranni; e poi Nesso il porta dall’altra parte.
Comincia il canto decimoterzo dello ’Nferno. Nel quale l’autore mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in bronchi, di ciò parlando con Piero dalle Vigne, e appresso coloro li quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati da cagne nere.
Comincia il canto decimoquarto dello ’Nferno. Nel quale l’autor mostra sé esser venuto sovra un sabbione ardente, sopra il qual piovono continue fiamme, e dove si puniscono quegli che violentamente hanno adoperato incontro a Dio e contro alla natura, e avanti agli altri vede punir Campaneo. Poi gli dimostra Virgilio come d’una statua di diversi metalli si creano tutti i fiumi dello ’nferno.
Comincia il canto decimoquinto dello ’Nferno. Nel quale l’autore di scrive il tormento de’ sogdomiti, e truova ser Brunetto Latino, il quale gli predice alcuna cosa della sua futura vita.
Comincia il canto decimosesto dello ’Nferno. Nel quale l’autor parla, in quel medesimo luogo che di sopra, con tre spiriti; poi, data una corda a Virgilio, mostra come egli, con quella pescando, facesse venir fuor Gerione.
Comincia il canto decimosettimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore discrive la forma della fraude e il tormento degli usurieri, e come, saliti sovra Gerione, passarono il fiume.
Comincia il canto decimottavo dello ’Nferno. Nel quale l’autore prima discrive come sia fatto Malebolge; e appresso mostra come i ruffiani siano con iscuriate battuti da demòni; e ultimamente come i lusinghieri piangano in uno sterco.
Comincia il canto decimonono dello ’Nferno. Nel quale l’autore, disceso nella terza bolgia, dimostra qual sia il tormento de’ simoniaci, e parla con papa Niccola, il quale gli predice d’alcun papa futuro simoniaco; e quindi esclama l’autore contro al detto papa.
Comincia il canto vigesimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore discende nella quarta bolgia, nella qual truova coloro li quali vollero antivedere, fatturieri e maliosi, tutti travolti; e alcuna cosa parla della origine di Mantova.
Comincia il canto vigesimoprimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, venuto nella quinta bolgia, mostra come in una bogliente pegola si puniscano i barattieri e come in quella è gittato un lucchese; e come, volendo andare avanti, son dati loro dieci diavoli in compagnia.
Comincia il canto vigesimosecondo dello ’Nferno. Nel quale l’autor discrive come i dimòni presero con gli uncini un navarrese, il quale, alcune cose raccontate, subito si gittò nella pegola; per lo qual ripigliare i demòni, volando sopra la pece, s’impegolarono.
Comincia il canto vigesimoterzo dello ’Nferno. Nel quale l’autore scrive come, temendo de’ dimòni, li quali impacciati avean lasciati, Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl’ipocriti, vestiti di cappe rance.
Comincia il canto vigesimoquarto dello ’Nferno. Nel quale l’autore mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i ladroni, tormentati variamente da serpi, tra’ quali primieramente truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice.
Comincia il canto vigesimoquinto dello ’Nferno. Nel quale l’autore nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini trasformarsi maravigliosamente in diverse forme.
Comincia il canto vigesimosesto dello ’Nferno. Nel quale mostra l’autore come pervenne all’ottava bolgia, nella qual dice esser puniti i frodolenti consiglieri in fiamme di fuoco; e qui vi ode da Ulisse il fine suo.
Comincia il canto vigesimosettimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore nella sopradetta bolgia discrive aver trovato il conte Guido da Monte Feltro, a cui racconta lo stato di Romagna, e ode le colpe sue.
Comincia il canto vigesimottavo dello ’Nferno. Nel quale l’autore dimostra nella nona bolgia con l’esser tutti tagliati punirsi i scismatici; e quivi, riconosciutine molti, parla con Beltram dal Bornio, e con certi altri.
Comincia il canto vigesimonono dello ’Nferno. Nel quale l’autore, disceso nella decima bolgia, mostra primieramente come in quella, essendo maculati di rogna e di scabbia, si puniscano gli alchimisti; e quivi parla con Capocchio d’Arezzo; poi, piú avanti, mostra con altre pene punirsi ogni falsario.
Comincia il canto trigesimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, continuando nella predetta bolgia, ne nomina alquanti, e tra gli altri maestro Adamo, discrivendo la riotta stata tra ’l maestro Adamo e Simon greco in sua presenza.
Comincia il canto trigesimoprimo dello ’Nferno. Nel quale l’autore dimostra sé esser pervenuto al pozzo dello abisso, e quello essere intorniato di giganti, e sé con Virgilio essere da Anteo disposti nel nono ed ultimo cerchio dello ’nferno.
Comincia il canto trigesimosecondo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro che tradiscono i fratelli e’ congiunti, parlando con Camiscion de’ Pazzi, n’ode piú nominare. E poi, procedendo nell’Antenora, dove in simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor cittá, truova Bocca degli Abati, il quale piú altri gli nomina dannati in quel luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro all’arcivescovo Ruggieri.
Comincia il canto trigesimoterzo dello ’Nferno. Nel quale l’autore, udita la ragione e ’l modo della morte del conte Ugolino, procedendo nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader l’anime, parendo qua sú ancora il corpo vivo.
Comincia il canto trigesimoquarto dello ’Nferno. Nel quale l’autore passa nella Giudeca, e vede il Lucifero e Giuda Scariotto e altri spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a’ velli del Lucifero, si cala e esce dello ’nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a riveder le stelle.
Qui finisce la prima parte della Cantica, over Comedia, di Dante Alighieri, chiamata Inferno.
PURGATORIO
Comincia la seconda parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Purgatorio, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di quella seconda parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore, fatta la sua invocazione, discrive sotto qual parte del cielo sia la regione dove arrivò; e quindi, trovato Catone uticense e il suo cammin dimostratogli, ne va alla marina, dove Virgilio, secondo il comandamento di Catone, gli lava il viso e cignelo d’un giunco.
Comincia il canto secondo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra come, essendo alla marina piú spiriti arrivati e smontati in terra, tra essi riconobbe il Casella, ottimo cantatore, al canto del quale mentre essi stavano tutti attenti, sopra venne Catone, dal quale ripresi, tutti verso il monte cominciarono a fuggire.
Comincia il canto terzo del Purgatoro. Nel quale Virgilio mostra perché egli come Dante non faccia ombra. Appresso, al cominciar dell’erta, truovano il re Manfredi con piú altri, della porta del purgatoro schiusi a tempo, percioché morirono scomunicati.
Comincia il canto quarto del Purgatoro. Nel quale Virgilio mostra la ragione all’autore, per che quivi dal sole sieno feriti in su l’ómero destro. Poi truova Belacqua con quegli che in sin lo stremo indugiaron la penitenza.
Comincia il canto quinto del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra aver trovato Bonconte di Monte Feltro e altri assai, stati per forza uccisi e indugiatisi ad pentere in fino a l’ultima ora.
Comincia il canto sesto del Purgatoro. Nel qual Virgilio solve a l’autore un dubbio mossogli del pregare che gli spiriti faceano che per lor si pregasse. Poi truovan Sordello da Mantova, e appresso l’autore parla contro ad Italia; e ultimamente contro a Fiorenza.
Comincia il canto settimo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, poi s’ebber fatta festa insieme Virgilio e Sordello, che Sordello gli menasse in un grembo del monte, dove vide Ridolfo imperadore e piú altri magnifichi spiriti.
Comincia il canto ottavo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come due angeli discesero da cielo a guardia del luogo dove erano; e appresso come truova giudice Nino e Currado marchese Malespina, con li quali alquanto parla.
Comincia il canto nono del Purgatoro. Nel quale l’autor dimostra come, adormentatosi, gli parve da una aquila esser portato infino al fuoco; per che destatosi, si trovò presso alla porta del purgatoro, dove, secondo che Virgilio gli dice, l’avea portato una donna. E quindi dice sé essere andato alla detta porta, la quale discrive come fatta sia, e similmente uno angelo che sopra quella stava, e come gli scrivesse sette P nella fronte e dentro il mettesse.
Comincia il canto decimo del Purgatoro. Nel quale l’autore dimostra che, entrato dentro a quello, vedesse intagliate nella ripa del monte certe istorie d’umiltá, e poi vedesse anime chinate sotto gravi pesi andare dintorno.
Comincia il canto decimoprimo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, trovati spiriti che sotto gravi pesi purgavano il peccato della superbia, parla con Uberto Aldobrandesco e con Odorigi da Gobbio; e alquanto grida contro alla vanagloria umana.
Comincia il canto decimosecondo del Purgatoro. Nel quale l’autore dimostra l’abbattimento di molti superbi essergli apparito scolpito nel pavimento; e appresso, invitati a salire nel secondo girone da uno angelo, gli è uno de’ sette P levato dalla fronte.
Comincia il canto decimoterzo del Purgatoro. Nel quale l’autore, venuto nel secondo girone dove si purga il peccato della ’nvidia, ode certe voci, mosse da caritá; poi truova spiriti a sedere, vestiti tutti di ciliccio e con gli occhi cigliati, tra’ quali Sapia gli favella.
Comincia il canto decimoquarto del Purgatoro. Nel quale l’autore nel predetto girone parla con Guido del Duca, il quale, abbominata la valle d’Arno, predice alcune cose del nepote di Rinier da Calvoli; e poi si duole di piú valenti uomini romagnuoli, venuti meno; poi ode voci in detestazion della ’nvidia.
Comincia il canto decimoquinto del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, invitati da uno agnolo a salir nel terzo girone, Virgilio gli solve un dubbio, natogli per parole di Guido del Duca; poi mostra sé avere per vision vedute certe cose dimostranti mansuetudine, e, nel giron pervenuti, dice cominciarsi lor sopra un gran fummo.
Comincia il canto decimosesto del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, entrato nel fummo del terzo girone, dove si purga il peccato dell’ira, truova Marco Lombardo, il quale ragiona con lui del mondo ch’è guasto e della cagione.
Comincia il canto decimosettimo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, vedute certe cose in visione, le quali sono in detestazion dell’ira, Virgilio gli aperse che cosa è amore e di quante spezie, essendo essi pervenuti nel quarto girone, dove si purga l’amore del bene scemo.
Comincia il canto decimottavo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra ancora come amore in noi si crea. E appresso ode cose ad incitare la sollecitudine; e poi parla con l’abate di San Zeno da Verona, e ultimamente ode cose in vitupèro della pigrizia.
Comincia il canto decimonono del Purgatoro. Nel quale l’autore discrive una vision d’una femina contrafatta, veduta da lui; e appresso come perviene nel quinto girone, ove si purga il peccato dell’avarizia; e quivi truova peccatori a giacere vòlti in giú e legati, e parla con un papa di que’ dal Fiesco.
Comincia il canto vigesimo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra d’aver parlato tra gli avari con Ugo Ciappetta, il quale gli dice come di lui son discesi li presenti reali di Francia, e, oltre a ciò, alcune vituperevoli opere fatte e che far debbono, e, oltre a ciò, gli mostra come il dí cantano laudevoli cose della povertá, e la notte vituperevoli dell’avarizia; e ultimamente come sentí tutto tremare il monte.
Comincia il canto vigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come Stazio, apparito tra loro, dice la cagion del tremar del monte, e poi se medesimo manifesta, e conosce Virgilio.
Comincia il canto vigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra come, venuti nel sesto girone, e andando Virgilio e Stazio ragionando di varie cose, trovarono uno albero nella strada, del quale sentîro certe voci venire verso loro, le quali sonavano in laude della sobrietá.
Comincia il canto vigesimoterzo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra purgarsi il vizio della gola; e, trovato Forese Donati, ode da lui certe cose, e, tra l’altre, alcune cose future, contra la disonestá delle donne fiorentine.
Comincia il canto vigesimoquarto del Purgatoro. Nel quale l’autore, continuando il suo ragionar con Forese, ode nominare piú altri spiriti che quivi erano, tra’ quali Bonagiunta Orbicciani gli predice lui doversi innamorare in Lucca, e similmente Forese il disfacimento d’alcun fiorentino. Poi truova un altro albero, e ode cose in vitupèro della gola, e da uno agnolo sono inviati al girone superiore.
Comincia il canto vigesimoquinto del Purgatoro. Nel quale l’autore scrive come Stazio, per dichiarargli come si dimagri dove non è uopo di nudrimento, gli disegna come generati siamo, e come dopo la morte i nostri spiriti piglin corpo dell’aere. E appresso dice l’autore come nel settimo giron pervennero, nel quale in fiamme dice si purga il peccato della lussuria.
Comincia il canto vigesimosesto del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra nelle fiamme aver piú spiriti veduti, e tra gli altri riconosciuto Guido Guinizelli e Arnaldo, e parlato con loro.
Comincia il canto vigesimosettimo del Purgatoro. Nel quale l’autor mostra come, passato un fuoco, e veduta la notte una visione, pervenne in su la sommitá del monte, dove Virgilio in suo arbitrio rimise che quel facesse che piú gli aggradisse.
Comincia il canto vigesimottavo del Purgatoro. Nel quale l’autore mostra come, pervenuto nel paradiso delle delizie, truova il fiume di Letè; e, parlando con una donna che da l’altra parte del fiume gli apparve, ode da lei la cagione che fa muovere le frondi degli alberi di quel luogo; e mostragli l’origine di Letè e d’Eunoè.
Comincia il canto vigesimonono del Purgatoro. Nel quale l’autor disegna come venir vedesse il celestial triunfo.
Comincia il canto trigesimo del Purgatoro. Nel quale l’autore dimostra come Beatrice sopra il triunfal carro gli apparí, e come, essendo Virgilio partito, ella il chiamò per nome e gravemente il riprese, mostrando poi alle sante creature, che dintorno al carro erano, perché degno era di riprensione.
Comincia il canto trigesimoprimo del Purgatoro. Nel quale l’autore distesamente discrive la grave riprension fattagli da Beatrice, e il dolore che per quella sentí; e appresso come, fuor di sé essendo e risentendosi, si trovò tirato dalla donna, che prima trovata avea, nel fiume, e in quello da lei tuffato; e avendo dell’acqua bevuta, fu dalle quattro donne presentato a Beatrice, e come lei, levato dal viso il velo, apertamente vide.
Comincia il canto trigesimosecondo del Purgatoro. Nel quale l’autore discrive come il triunfo celeste si volse a tornare indietro, e come, ad un albero senza foglie smontata Beatrice del carro, esso vi fu legato dal grifone; e appresso come s’addormentò, e, svegliato, vide il grifone esser partito e Beatrice rimasa, la quale gli fa rimirare il carro, sopra ’l quale per figura vede certe cose alla Chiesa di Dio avvenute e che doveano avvenire.
Comincia il canto trigesimoterzo del Purgatoro. Nel quale l’autore significa certe cose future a lui da Beatrice predette, e come, da Matelda bagnato in Eunoè, puro tornò a Beatrice.
Qui finisce la seconda parte della Cantica, overo Commedia, di Dante Alighieri, chiamata Purgatoro.
PARADISO
Comincia la terza parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Paradiso, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di questa terza parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore, poi che dimostrato ha sommariamente quello che in essa intende di trattare e fatta la sua invocazione, discrive come appresso a Beatrice se ne salisse nel primo cielo, e come ella gli solvesse un dubbio per lo suo veloce montare venutogli.
Comincia il canto secondo del Paradiso. Nel quale l’autore, poi che a quegli che meno sofficienti sono alla presente considerazione ha detto che si rimangano, dimostra la cagione de’ segni bui, li quali nel corpo della luna veggiamo.
Comincia il canto terzo del Paradiso. Nel quale l’autore parla con madonna Piccarda; e ella gli solve un dubbio, mostrandogli ciascuna anima esser contenta nel luogo dove posta è in paradiso; e poi gli mostra Costanza imperadrice.
Comincia il canto quarto del Paradiso. Nel quale Beatrice solve il dubbio della doppia volontá e del tornar dell’anime alle stelle.
Comincia il canto quinto del Paradiso. Nel quale Beatrice dichiara all’autore se per alcuna permutazione si può adempiere il boto fatto. E quindi, saliti nel secondo cielo, vede l’autore molti spiriti gloriosi, de’ quali uno, offertoglisi, domanda chi el sia.
Comincia il canto sesto del Paradiso. Nel quale Giustiniano imperadore se medesimo manifesta all’autore, mostrando appresso molte cose magnifiche fatte sotto il segno dell’aquila, e quanto falli chi quello senza giustizia s’apropri; e ultimamente dice quivi esser l’anima di Romeo.
Comincia il canto settimo del Paradiso. Nel quale Beatrice chiarisce all’autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso perché a Dio, a rilevare l’umana generazione dalla colpa del primo padre, piacque piú di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente perché gli elementi sieno corruttibili.
Comincia il canto ottavo del Paradiso. Nel quale l’autor mostra come salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.
Comincia il canto nono del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso Folco contro a’ pastori della Chiesa.
Comincia il canto decimo del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come nel cielo del sole pervenissero, dove gli parla Tommaso d’Aquino, e nominagli piú altri spiriti, li quali tutti furon gran letterati; e tra gli altri gli nomina Alberto di Cologna, Salomone e Boezio.
Comincia il canto decimoprimo del Paradiso. Nel quale Tommaso d’Aquino mirabilmente commendando onora san Francesco.
Comincia il canto decimosecondo del Paradiso. Nel quale Bonaventura da Bagnorea mirabilmente parla di san Domenico, e nomina piú altri beati spiriti, li quali quivi dice gloriarsi.
Comincia il canto decimoterzo del Paradiso. Nel quale l’autore mostra come san Tommaso d’Aquino gli chiarisse quello che di Salamon detto avea: «non surse il secondo».
Comincia il canto decimoquarto del Paradiso. Nel quale primieramente l’autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universal resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.
Comincia il canto decimoquinto del Paradiso. Nel quale l’autore mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico, e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.
Comincia il canto decimosesto del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida mostra all’autore quali fossero le piú notabili famiglie di Firenze al suo tempo.
Comincia il canto decimo settimo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida, domandato, predice all’autore il suo futuro esilio, e che per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e udite, a cui che elle si debbano parer gravi.
Comincia il canto decimottavo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida nomina piú famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi. E appresso l’autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive molti santi spiriti ne’ loro movimenti fare diverse figure di lettere, e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.
Comincia il canto decimonono del Paradiso. Nel quale mostra l’autor dalla sopradetta aquila essergli dichiarato quello che creder [si de’] d’uno non battezzato e che mai di Cristo alcuna cosa non udí ragionare, ma per ogni altra cosa è buono; e ultimamente quello che contro a piú cristiani dicesse la predetta aquila.
Comincia il canto vigesimo del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come la detta aquila gli nominò alquanti degli spiriti che in essa erano gloriosi; e appresso gli mostrò come Traiano imperadore e Rifeo troiano, li quali da lei erano stati nominati, non moriron pagani come esso stimava.
Comincia il canto vigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l’autor dimostra come, pervenuto nel settimo cielo, vide una scala altissima, per la quale salivano e scendevano molti spiriti; de’ quali venne a lui Pietro Dammiano, il quale, ad alcuna sua domanda avendo risposto, alcune cose dice contro a’ pastori della Chiesa.
Comincia il canto vigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l’autore narra come parlò con san Benedetto, il quale piú altri santi spiriti contemplativi gli nominò, e piú cose gli disse in vitupèro de’ presenti religiosi; poi dietro a lui su per la scala se ne salí nell’ottavo cielo; e quindi vòlto in giú, discrive quali vedesse la terra e tutti gli altri cieli.
Comincia il canto vigesimoterzo del Paradiso. Nel quale l’autore discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla Vergine Maria.
Comincia il canto vigesimoquarto del Paradiso. Nel quale l’autore, con san Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch’ e’ crede.
Comincia il canto vigesimoquinto del Paradiso. Nel quale l’autore scrive come, da sa’ Iacopo apostolo domandato, dice che cosa è speranza; e appresso come, essendo sopravenuto san Giovanni evangelista, ode da lui non essere in cielo alcuno altro col proprio corpo che Cristo e la madre.
Comincia il canto vigesimosesto del Paradiso. Nel quale l’autore, a domanda di san Giovanni evangelista, dice che cosa è caritá; e appresso come, con Adam parlando, da lui ode quando creato fosse, quanto vivesse, e dove.
Comincia il canto vigesimosettimo del Paradiso. Nel quale l’autore primieramente racconta parole dette da san Piero contro alli moderni pastori; e appresso discrive come pervenisse nel nono cielo.
Comincia il canto vigesimottavo del Paradiso. Nel quale l’autore di scrive la gloriosa festa de’ nove cori degli angeli.
Comincia il canto vigesimonono del Paradiso. Nel quale Beatrice dimostra all’autore l’ordine della creazione delle cose; e appresso ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanitá d’assai moderni predicatori.
Comincia il canto trigesimo del Paradiso. Nel quale l’autore scrive sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d’un fiume, poi in forma d’una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia d’Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa gli predice.
Comincia il canto trigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l’autore dice come, in luogo di Beatrice, trovò san Bernardo, il quale gli mostrò lei sedere nel luogo a’ suoi meriti sortito; ed egli le fece orazione; poi, dicendogliel san Bernardo, volse gli occhi alla letizia de’ gloriosi.
Comincia il canto trigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l’autor narra come san Bernardo gli mostrasse la Vergine Maria e Eva e nominatamente piú altri santi uomini e donne, e la letizia dell’agnolo Gabriello, e poi lui ad orare con seco, per grazia impetrar, disponesse.
Comincia il canto trigesimoterzo del Paradiso. Nel quale discrive l’autore l’orazione fatta da san Bernardo, e come con lo sguardo penetrasse alla divina essenzia; e fa fine.
Qui finisce la terza e ultima parte della Cantica, overo Commedia, di Dante Alighieri, chiamata Paradiso.
[272][273]
NOTA
[274][275]
I
Vita di Dante
Il testo è riveduto sul cod. 104. 6 della Biblioteca capitolare di Toledo, il quale da tempo vien giudicato molto autorevolmente di mano del Boccaccio (cfr. M. Barbi, Vita Nuova di Dante, 1907, p. LIV sg. per la descrizione del cod., e p. CLXXI sg. per la dimostrazione dell’autografia). Chi paragoni la presente edizione col testo critico di Fr. Macrí-Leone, vedrá quante lezioni risultino piú chiare e piú persuasive, in grazia appunto del codice toledano.
Un’accurata revisione della punteggiatura, favorita anch’essa dal manoscritto, ha pure aiutato in piú punti a raggiungere una piú esatta interpetrazione del pensiero dell’autore.
Si è mantenuto all’operetta il titolo tradizionale di Vita di Dante. Il codice toledano offrirebbe però questo titolo piú analitico: « De origine vita studiis et moribus clarissimi viri Dantis Aligerii Florentini poëtae illustris et de operibus compositis ab eodem »; e un’espressione del Comento (presente ediz., I, 118) condurrebbe a intitolare l’operetta Trattatello in laude di Dante.
La suddivisione dei paragrafi è generalmente quella assegnata dal citato codice.
Dei sottotitoli quelli che corrispondono alle partizioni adottate nelle precedenti edizioni, sono riportati da queste o modificati; gli altri son nuovi. Il Boccaccio non usò sottotitoli.
La grafia del ms. è stata rispettata fin quanto consentivano le norme di questa collezione[1].
II
Redazioni compendiose della Vita di Dante
Il testo del cosí detto Secondo compendio è riveduto sul cod. L. V. 176 della Biblioteca Chigiana, giudicato di mano del Boccaccio, come quello toledano, e piú recente. A piè di pagina ho riportato dalla eccellente edizione di E. Rostagno ( La Vita di Dante, testo del cosí detto Compendio attribuito a G. B., Bologna, Zanichelli, 1899) quei tratti che il cosí detto Primo compendio ha in piú o di lezione diversa. Son trascurate soltanto leggerissime differenze formali; sicché il lettore trova in questa edizione le due redazioni, si può dire, integralmente. Ho curato, dov’era possibile, che i capiversi agevolino i riscontri tra queste redazioni e la Vita.
Ho stampato queste Redazioni compendiose dopo la Vita, perché, come si comprende dal titolo stesso che do loro, io preferisco all’ipotesi, che fa di esse uno schema o traccia o primo getto della Vita, l’altra che tende a dimostrarle stesura piú tarda, come piú tardo sarebbe l’autografo chigiano, che contiene il Secondo compendio, rispetto al toledano, che contiene la Vita[2].
Le differenze di contenuto, in quanto a sostanza biografica, dati, giudizi e apprezzamenti sui casi e sull’opera di Dante, e le novitá di distribuzione e di ordinamento della materia, non sono trascurabili; ma non bastano a dare una fisonomia diversa al lavoro, la quale si delinea assai nettamente per la omissione di esclamazioni, interrogazioni, apostrofi, ripetizioni e simili luoghi tipici di rettorica scolastica, che infiorano le pagine della Vita. Per via di tale sfrondamento, che al Boccaccio non dovette costare alcuna fatica, mentre lo stile lussureggiante della Vita ci richiama ai romanzi giovanili, quello dei Compendi si riavvicina al Comento, ch’è opera degli ultimi anni di lui.
III
Comento alla «Divina Commedia»
Il testo è riveduto sui quattro codici fiorentini Magliabechiani II. IV. 58 (M 1 ), II. I. 51 (M 2 )[3], VII. 1050 (S)[4] e Riccardiano 1053 (R)[5], tutti del principio del secolo decimoquinto. Non si è tenuto conto del Magliab. VII. 805, che è una copia tratta da R dall’erudito settecentesco Anton Maria Biscioni.
È materialmente sicuro che nessuno dei quattro codici è copia dell’altro, perché le molte omissioni, che tutti presentano (e che si spiegano quasi sempre pel ritorno della stessa parola a poche righe di distanza nella stessa colonna), non hanno riscontro a volta a volta negli altri tre.
M 1 e R presentano una maggiore conformitá esteriore, perché recano chiose a margine e numeri progressivi delle lezioni, che mancano in M 2 e S; ma l’insieme dell’analisi porta a credere che sian tutti e quattro apografi di quel medesimo «originale», dal quale M 1 esplicitamente si afferma copiato a p. 71, e al quale si riferisce M 2 a c. 27 r, col. 2 a, allo stesso proposito del precedente, cioè per giustificare come la digressione sulla «fama» (pres. ediz., I, 215-217) non fosse stata copiata a suo posto[6].
Altre prove piú o meno esplicite[7] dan modo di constatare che l’«originale» presentava frequenti aggiunte in calce o a margine o forse in intere pagine intercalate, le quali aggiunte non sempre conformemente i vari codici hanno inserito a loro posto, e talun d’essi ha talvolta trascurato.
Son tutti maravigliosamente scorretti, nei nomi, nelle date, nelle citazioni latine, che l’amanuense di M 2, che sapeva poco di grammatica, sopprime addirittura, o taglia, o riduce male in italiano. La morfologia verbale e la fonetica son trattate individualmente a capriccio. Eppure, nonostante ciò, l’assiduo, paziente e accorto confronto dei quattro codici consente di ricostruire il testo dell’«originale» con abbastanza genuinitá e fedeltá.
Senonché io mi sono dovuto persuadere che di tale «originale» i «24 quaderni» e i «14 quadernetti», ne’ quali il B. lasciò, morendo, la contrastata ereditá delle sue lezioni di Santo Stefano di Badia, rappresentano una parte soltanto. Tutto il resto, che estensivamente può sommare a poco meno che altrettanto, è sviluppo di rimandi al proprio scritto biografico su Dante, che il B. lasciò segnati sull’autografo, e di altri consimili e piú numerosi rimandi alle proprie opere di erudizione, interpetrati con larghezza eccedente il proposito e con intelligenza inadeguata; è svolgimento di appunti e compimento di ragionamenti avviati; sono chiose teologiche e di dottrina chiesastica, per le quali non pare che il B. avesse né competenza né gusto; son tratti cavati da Eusebio, da Giustino, dal lessico di Papia e da altri volumi in uso nelle scuole; sono (e qui segnatamente è caduta in inganno la critica di questo testo nostra e straniera) pagine ricavate da altri commentatori di Dante, posteriori al Boccaccio.
Una somma di prove e di indizi giustifica ed avvalora questa concezione: chiose duplicate e contrastanti; brani che si inseriscono senza alcun legame, tolti i quali il filo del ragionamento ripiglia; errori di traduzione letteralmente meccanica attraverso le cattive e spesso farraginose riduzioni dal De genealogiis, De casibus virorum illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, fontibus; altri volgari errori di traduzione e fraintendimento di testi quali l’ Epistola a Can Grande, articoli dell’ Elementarium di Papia, ecc.; guasti dell’armonia della forma e alterazioni, scomposizione e disorganizzazione del pensiero nelle pagine desunte dallo scritto biografico su Dante[8]. Nel caso delle interferenze con altri commentatori (che son poi il Buti, Filippo Villani e l’Anonimo fiorentino), un’analisi stilistica non superlativamente difficile, né, io credo, leggermente opinabile, porta a constatare che vi mancano i modi e le forme del Boccaccio e vi si ritrovano invece i modi e le forme di quegli altri scrittori, piú o meno alterate, piú o meno peggiorate. Esempio tipico è quello del bravo e onesto Da Buti, che nella pagina che cita dal Boccaccia sul nome di Commedia (la qual pagina nel testo del proemio del Boccaccio, quale ora è, non s’innesta grammaticalmente, ma emerge per forma, per dottrina e per organismo di pensiero), rimane, come doveva rimanere, inferiore al modello, mentre ragiona meglio e in piú bei periodi nelle altre pagine che confrontano e che non sono citate come desunte dal Boccaccio[9]. Filippo Villani trasse dal De Genealogiis, com’egli attesta citandolo, molte pagine e le ridusse ad uso di proemio al commento del primo canto dell’ Inferno; e queste, con altre sue pagine, si ritrovano nel Comento, ch’egli non cita, e ch’è legittimo sospettare che non abbia conosciuto mai direttamente, perché niente ne imparò. Le lezioni errate dell’ Epistola a Can Grande, che sono nel suo scritto[10], si ritrovan pure nel Comento, con altri errori di versione che, se dovessero essere imputati al Boccaccio, porterebbero a questa conclusione: ch’egli, traducendo in italiano, non s’accorgeva di dire spropositatamente pensieri consacrati in chiara dizione latina nella sua maggior opera di cultura. Le pagine che raffrontano tra il proemio dell’Anonimo (ch’è, si noti, uno scritto «composito» nettamente diviso in due parti) e quello del Boccaccio, sono, direi, senza stile, le une e le altre; potrá cercarsi se quelle raffazzonature (come la storia di «guelfo e ghibellino» a pp. 51-53 del III vol.) derivino da una fonte comune ad entrambi i testi.—Esaminando sui codici quei tratti che per un motivo o per l’altro dánno piú grave ragione di sospetto, si trova che le aggiunte materialmente comprovate e riconosciute per dichiarazioni esplicite (vedi sopra) O per via di confronti (omissioni e spostamenti) vi corrispondono tutte: e ciò vorrá dire che nell’originale quei tratti non s’inserivano nel testo; e dove manchi la prova materiale dell’aggiunta, si trova d’ordinario che quei tratti son piú scorretti, con varianti piú frequenti, con una fonetica e una morfologia piú del consueto irriducibili: la qual cosa stará a significare o un’altra mano di scrittura nell’originale o per lo meno una scrittura che riusciva per qualsivoglia cagione (perché piú minuta, o piú trascurata, o interposta) meno nitida.
Sulla scorta di tal somma di prove e di indizii, scartate altre ipotesi, io mi son formata la convinzione che allo stato presente del testo del Comento si sia arrivati attraverso due momenti costitutivi ben distinti:
1 o Autografo del Boccaccio, tal quale è presumibile che fosse nella sua prima stesura, con le inevitabili correzioni, sostituzioni ed aggiunte interlineari o a margine o in calce di uno scritto di primo getto; e inoltre con molti rimandi ad altri scritti, specialmente propri, con pensieri e ragionamenti svolti soltanto parzialmente o accennati per tracce e sommari, dato che lo scopo era di preparazione a pubbliche lezioni;
2 o Integrazione del materiale di detto autografo (che s’è poi risoluta in rimaneggiamento di molte parti, con grande accrescimento di mole), eseguita con le qualitá di un ecclesiastico maestro di scuola, non privo di cultura, ma scarso d’ingegno: un letterato mediocre. Potrá o no dimostrarsi che costui fosse quello stesso frate, di cui è fatto il nome nella rubrica iniziale di R: «Esposizioni sopra a Dante per lo egregio dottore maestro Grazia dell’ordine di santo Francesco»[11]. Potrá discutersi se le sue intenzioni siano state oneste (e pur non commendabili!), quali io le credo, giudicando il suo lavoro un esercizio letterario svolto con assiduitá, con ritorni, forse in relazione con la sua professione d’insegnante. Difatti, quant’è alle sue intenzioni, se nel testo del Comento, qual è venuto a risultare dopo il rifacimento, si ritrovano noti ricordi personali del certaldese, che non è ammissibile che questi sia tornato a redigere in quella forma (avendoli altrove espressi nello stile suo proprio); ci son pure altri ricordi personali che non possono essere del Boccaccio, né a lui da un falsario, che non fosse del tutto sciocco o dimentico, attribuiti. A p. 78 del vol. II di questa edizione si legge: «E se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de’ loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—Vienne, tale e tale—de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto dal chiamatore, s’eran morti e andatine appresso al chiamatore». Or qui scelga pure il lettore tra la lezione «non era» e quella «non c’era», ammesse entrambi dai codici[12]; spieghi come vuole lo strano errore, per cui, invece di 1348, vi si legge 1340: in definitiva dovrá pur consentire che un falsario consapevole non poteva far dire al Boccaccio di non essere ancor nato l’anno della peste, ovvero di non essersi trovato in Firenze, in contrasto con la replicata affermazione del Decameron di aver visto «con i suoi occhi» quel che vi avvenne in quell’anno[13]. Tal prova par che basti a scagionare maestro Grazia, o chi altri sia, dall’accusa di aver falsato il Boccaccio per trarre in inganno il lettore[14]. Costui, anche se nato dopo l’anno della peste[15], poteva essere un uomo maturo sulla fine del ’300 e i primi del ’400, cioè subito dopo Filippo Villani e l’Anonimo, quando è presumibile che al manoscritto del Boccaccio toccasse la non lieta sorte di un revisore e rifacitore.
Il manoscritto, ch’egli lasciò, sarebbe da ravvisare in quello che Lorenzo Ubaldini[16] dice che «era giá in potere di Lorenzo Guidetti mentovato nel suo poema dall’Ariosto», e ch’egli qualifica per l’originale del Boccaccio. Giacché, se il Riccardiano 1053, che porta lo stemma dei Gherardi, è parte della copia del ms. Guidetti, che l’Ubaldini stesso dice posseduta da un altro fiorentino, Lottieri Gherardi, e questa copia dá il testo integrato, se ne deve concludere che il ms. Guidetti, insieme con l’autografo del Boccaccio, conteneva l’autografo di maestro Grazia, e cioè che tutto il lavorio dell’integratore venne fatto direttamente sull’originale boccaccesco. In tal caso il codice riccardiano, come gli altri tre codici fiorentini, sarebbero tutti apografi dell’originale boccaccesco e del suo rifacitore allo stesso tempo.
L’esame ch’io ne ho fatto non esclude questa conclusione,
salvo la difficoltá materiale di frapporre e sovrapporre tanta scrittura a pagine scritte, senza pensare a fogli qua e lá intercalati. Sia chiaro tuttavia che anche se l’«originale» dei codici fiorentini non conteneva l’autografo del Boccaccio, ma una trascrizione, e anche se questa trascrizione fosse giá adattata alle esigenze del rifacimento e conglobata con esso, i criteri da seguire per la condotta di un’edizione del Comento permarrebbero in sostanza gli stessi.
Tornando dunque alla presente edizione, essa, prima di ogni altra cosa, riproduce il testo qual è nei detti codici fiorentini, cioè il testo integrato. L’ultima edizione, quella del Milanesi (Le Monnier, 1863), sebbene sia molto migliore delle due precedenti (Napoli, Ciccarelli, 1724, con la falsa data di Firenze, e Moutier, 1831-2), e sia condotta sugli stessi codici, sui quali è condotta la presente, non è degna di un’opera che porta il nome del Boccaccio, come gli studiosi non ignorano. Vi si trovano pagine infedelmente trascritte, con omissioni, con parole fraintese, finanche con periodi che dánno un senso opposto a quello che devono avere. Altre e piú numerose pagine appaiono appena trascritte anziché interpetrate. L’interpunzione è quanto mai disordinata. Il lettore, che vorrá esaminare parallelamente l’ediz. Milanesi e la presente, di fronte a moltissimi tratti, si domanderá se non siano cosa nuova.
Il Milanesi divise il Comento in 60 lezioni; le edizioni precedenti dividevano invece il testo in capitoli, secondo la successione dei canti, e la piú parte dei capitoli in due parti, del senso letterale e del senso allegorico.
Non vi può essere dubbio che l’intenzione dell’autore, come la vera fisonomia del suo lavoro, è meglio rispettata dalle edizioni del Ciccarelli e del Moutier, sulla fede dei codici. Difatti M 1, S e R segnano in modo evidente la divisione e suddivisione per capitoli, lasciando spazi in bianco e venendo a capo pagina, interponendo rubriche o segnandole o ripetendole a margine e dando rilievo alle iniziali. M 2 si contenta del capoverso e delle rubriche, che però sono omesse talvolta[17].
Invece le note a margine, che segnano il numero progressivo delle lezioni, sono riferite soltanto da M 1 e R; ma talune mancano, altre non si corrispondono tra i due codici. In M 1 mancano i numeri 2, 7, 12, è ripetuto il 23 in luogo del 24, mancano 44, 45, 51, 52; in R, per la parte del testo ch’esso contiene, mancano 23, 24, 26, 27, 29, 33-35, 45, 51, 53, 60; non si corrispondono i numeri 25 e 30. Dunque il Milanesi, dividendo in lezioni il Comento del Boccaccio, fece cosa arbitraria, in quanto i codici non offrono gli elementi necessari e sufficienti. Peggio ancora, diversi dei suoi inizi non corrispondono con quelli segnati dai codici: p. es. l’inizio della lezione 43 dovrebbe esser segnato in corrispondenza al verso «La frode ond’ogni coscienza è morsa», sulla fede di ambedue i codici; e l’inizio della lezione 44 dove comincia la 43, sulla fede di R. D’altra parte, se si riflette che la materia del commento è organicamente distribuita tra la lettera e l’allegoria dei vari canti, la divisione in lezioni, anche nell’ipotesi che l’abbia segnata il Boccaccio, sarebbe da giudicare occasionale e secondaria; rammenterebbe quanta materia riuscí a svolgere il B. di giorno in giorno, non giá rappresenterebbe il piano dell’opera; anzi proverebbe che la stesura in iscritto riuscí piú volte diversa dalla lezione parlata, dovendosi giustificare la sproporzione ch’è tra lezioni di poche pagine ed altre che non finiscon mai. E sarebbe, per giunta, piú d’una volta assai poco felice.
Insieme con l’edizione del testo del Comento, quale è dato dai codici, io ho voluto tentare di ricuperare il testo vero del Boccaccio, liberandolo dalle sovrapposizioni subite; e ciò col distinguere per mezzo di semplici[18] quei tratti che, alla prova dei codici, dei raffronti e dello stile, non giudico genuini. Parlo di tentativo, perché, all’atto pratico, questo lavoro di eliminazione, ovvio in alcuni casi, riesce in molti altri estremamente difficile e non dá (né, con gli elementi di cui disponiamo, potrebbe darla)
la piena soddisfazione della certezza. Tra le altre difficoltá c’è questa: che, quando le aggiunte non sono semplicemente giustaposte, ma conglobate, ne restano mal sicuri i limiti, o sfuggono addirittura all’attenzione, o possono soltanto ingenerare dubbi irresolubili. E nel caso di riduzioni e rifacimenti da altre opere sue, in che guisa fissare il punto dove la penna e la foga e il tempo e la disposizione di spirito han tratto il Boccaccio a segnare un « et caetera »? Niente esclude che ci siano nel Comento pagine rifatte o tradotte direttamente dal Boccaccio, accanto a pagine né tradotte né rifatte da lui stesso. E si deve pure ammettere che brani che conservano la fisonomia di aggiunte, tali fossero realmente nell’autografo del Boccaccia e di suo pugno. Delle numerose biografie, quelle intorno a nomi mitologici, che sono le piú frequenti e le piú sviluppate, provengono per la maggior parte dal De Genealogiis; le bibliche è raro che presentino garanzie di stile, e forse ho errato per eccesso di prudenza espungendone dal gruppo che se ne legge nel IV Canto (Adamo, Abel, Noé, Moisé ecc.) solamente la prima, sulla base dei raffronti col De claris mulieribus (§ De Eva ); e cosí pure le altre biografie, di letterati, di principi, di grandi peccatori, ecc. lasciano spesso molti dubbi o nell’insieme o nelle parti. I miei dubbi irresoluti si estendono oltre: p. es., le chiose svolgenti l’idea che Dante mostri compassione dei dannati quando lo rimorde coscienza di essere incorso negli stessi falli, trovo che sono tutte rescindibili: e, messe insieme, dánno una fisonomia morale dell’Alighieri ben diversa da quella ch’è delineata nella Vita.
Tra le conclusioni piú certe, che dall’eseguito processo di eliminazione si possono trarre, c’è questa: che il Boccaccio non dettò un proemio al suo Comento. Sicuramente sue sono soltanto le pagine sul nome di Comedia; forse è suo anche il primo periodo, 1’«esordio». Il rimanente è accozzato da altri commenti e da altre opere boccaccesche. La mancanza del proemio si spiega pensando che il Boccaccio abbia desunto le prime lezioni dal proprio scritto biografico su Dante, e che, se volle discorrere della concezione pagana dell’inferno e offrirne il quadro mitologico e poetico, si servisse del De Genealogiis. Se tracciò appunti per riordinare e disporre a modo di lezioni siffatta materia, ch’egli possedeva da gran signore, tali appunti non paiono ormai ricuperabili attraverso il proemio composito di maestro Grazia[19].
Cosí il testo del Boccaccio, sgombro del proemio non suo e liberato da ìntromissioni e sovrapposizioni, ripiglia parte del decoro che dovette avere, dettato da tanto maestro; molti ragionamenti riannodano le fila spezzate; l’eloquenza fluisce con meno sbalzi ed intoppi; il pensiero e la cultura dell’opera si risollevano all’altezza del nome ch’essa porta.
IV
Gli Argomenti in terza rima alla «Divina Commedia» di Dante Alighieri
I tre capitoli o ternari «ne’ quali il Boccaccio in forma poco o punto poetica, ma sempre chiara e fedele al soggetto, e qua e lá efficacemente sintetica, riassunse, o piuttosto stipò, la contenenza delle tre cantiche dantesche»[20] si leggono autografi nel giá ricordato codice Toledano, nel Chigiano L. VI. 213 e nel Riccardiano 1035, che sono stati tenuti presenti nella revisione del testo per questa edizione.
Nel primo degli anzidetti codici la intitolazione è latina: Argumentum super tota prima parte Comediae Dantis Aligherii Florentini, cui titulus est Infernus, ecc.; negli altri due è volgare: Brieve raccoglimento di ciò che in sé superficialmente contiene la lettera de la prima parte de la Cantica overo Comedia di Dante Alighieri di Firenze di Giovanni Boccaccio, ecc.[21].
V
Le Rubriche in prosa alla «Divina Commedia» di Dante Alighieri
Si leggono autografe nel codice Chigiano L. VI. 213, dove sono distribuite in testa ai singoli canti, copiati dal Boccaccio con grande accuratezza. Nel cod. giá Barberiniano 2191 ed ora Vaticano Barber. lat. 4071, della fine del sec. XIV, si leggono tutte di séguito, con la soscrizione « Iohannes Boccacci de Certaldo Florentinus opus fecit »; e di séguito si leggevano in quel ms. del Cinquecento, donde furono pubblicate, molto scorrette, nel 1843 a Venezia per la prima volta[22].
Queste rubriche dovettero godere assai per tempo buona riputazione, se si pensò di trascriverle riunite come in un’operetta a sé, staccandole dai canti ai quali dovevano andar congiunte. Esse «potranno parere a chi non ne conosce altre delle antiche, una povera cosa, e certo non sono, né possono essere, capilavori d’arte; ma a chiunque abbia presenti quelle che di
solito si leggono negli antichi codici della Commedia parranno di tanto superiori ad esse, di quanto, poniamo, la struttura dell’ottava boccaccesca supera quella dell’ottava dei cantastorie popolari. È manifesto l’intendimento, e notevole l’abilitá, di compendiare e condensare con esattezza e chiarezza il contenuto sostanziale di ogni canto; e, d’altra parte, la espressione rivela assai spesso un particolare studio dell’eleganza; tutti pregi che mancano alle altre rubriche dantesche di quei tempi, poco degne davvero di Dante e del suo poema[23] ».
Con la Vita e le Redazioni compendiose, col Comento, gli Argomenti in terza rima e le Rubriche in prosa vengono a raccogliersi per la prima volta in un sol corpo tutti gli scritti che il Boccaccio compose intorno alle vicende e alle opere del suo grande concittadino. Tale raccolta non sarebbe stata possibile senza gli studi precedenti del Rostagno, del Barbi e del Vandelli, giá additati in questa Nota: qui ripeto i nomi di quegli insigni studiosi, perché vada ad essi il merito che loro compete. In particolare esprimo la mia riconoscenza a Giuseppe Vandelli per la cordiale larghezza con cui egli ha messo a profitto di questa edizione la sua competenza e la sua singolare preparazione sui testi boccacceschi intorno a Dante, de’ quali sono stati riconosciuti gli autografi. Pel testo del Comento, che questa edizione presenta in modo affatto nuovo e insospettato finora (con la necessaria conseguenza che la critica spesa attorno a quest’opera debba essere in parte rivista), mi è giovato «ad ora ad ora» manifestare le mie idee a Pio Rajna, a Francesco Torraca, ad Ernesto Giacomo Parodi, a Francesco Flamini, ad Achille Pellizzari, a Benedetto Croce, Cl. Paolo Savj-Lopez e ad altri maestri ed amici; ma ciò sia detto senza preoccupare o prevenire il loro giudizio, che, al pari di quello di ogni altro studioso, potrá esser definitivo soltanto sull’esame del lavoro compiuto. Fausto Nicolini, tra gli altri carichi, si è assunto quello di rivedere e rettificare la grafia e l’interpunzione; e la fatica della correzione delle bozze l’ha divisa molte volte con me, come cura familiare, Bianca Guerri Marcolongo, che ha pure collaborato alla compilazione dell’ Indice dei nomi, nel quale, in servigio degli studiosi, ho voluto riportare le citazioni degli autori, numerosissime nel testo del Comento (ma desunte per lo piú, in ispecie quelle dei classici, dal De Genealogiis e dalle altre opere boccaccesche di erudizione), sulla guida fidata di Paget Toymbee[24].
Devo aggiungere che questo lavoro, per il quale non ho risparmiato fatiche, è stato eseguito in condizioni assai sfavorevoli. Troncato allo scoppio della guerra, fu ripreso durante una lunga convalescenza, e condotto a termine tra il campo e la caserma, spesso senza alcun sussidio di libri, senza i miei appunti. E in questo tempo perdetti te, o Madre, che mi chiamavi al tuo capezzale nel giorno stesso in cui io, spezzato il braccio e passato il petto da parte a parte tra i reticolati sopra Polazzo, parvi dovere, secondo la legge di natura, soccombere, e pur prolungasti le tue dure sofferenze sino a che non giunsi a raccogliere l’ultimo bacio sulle tue labbra benedicenti. E perdetti anche te, o Pietro, su cui l’agra morte sorvolò tante volte al San Marco di Gorizia, per abbatterti contro le onde dell’Egeo, rigide d’inverno, dal Minas infausto; te, o Fratello, di cui quattro bimbi aspettano ancora le conosciute carezze. Nella memoria vostra, o Madre, o Fratello, do termine a queste pagine, di cui nessuna s’è chiusa senza un pensiero per Voi.
[290][291]
INDICE DEI NOMI VOLUME III
Abate di San Zeno,246,265.
Abati (degli) Bocca,59,241,262.
Accorso (Accursio) (d’) Francesco,203.
Acheronte,175,186,259.
Acquacheta, fiume,225.
Adamo,254,270.
—(maestro),240,262.
Adimari, vedi Aldobrandi.
Adrasto,169.
Adriana (Arianna),90.
Adriano V, papa (del Fiesco),246,265.
( Epistola di san Girolamo a sant’Agostino )
194 ( De civitate Dei, XVI. 2);
Alberico (frate),241,263.
Aldobrandeschi Umberto,244,264.
Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari,216,238.
Alessandro di Macedonia,102,165.
Aletto,10.
Anastasio, papa,68.
Anna, sommo sacerdote,239.
Antenora,241,262.
Apocalissi,185.
Appennino,225 sg.
Apuleio di Madaura,17 ( Cosmographia ).
Arbia,58.
Argenti Filippo de’ Cavicciuli,237,260.
Aristotile,13;
Ethica,79 bis;
Fisica,82.
Arli (Arles), cittá di Provenza,20.
Arnaldo, vedi Daniello.
Arpie,132.
Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore,255,270.
—d’Inghilterra,111.
Atti degli Apostoli, vedi Apostoli.
Attila,113 sg.,152 sg.
Beatrice,65,201,235,248,251 sg.,267 sg.
Beisangue Guido, detto Guido vecchio,215.
Belacqua,243,263.
Beltram di Altaforte (dal Bornio),240,262.
Bernardo (san),255,270.
Berti Bellincione, de’ Ravignani,215.
Bocca, vedi Abati.
Bonaventura (san) da Bagnorea,252,268.
—Bondelmonte,53.
—famiglia de’,53.
Bonconte di Montefeltro,243.
Borsiere Guglielmo,222.
Brancadoria,241.
Brenta, fiume,191.
brigata spendereccia senese,148.
Bruggia (Bruges),190.
Bruto Marco Giunio,241.
Cacciaguida,253,268.
Caco,262.
Caina,240,262.
Calvoli (da) Rinieri,245,265.
Caorsa,74 sg.
Capaneo,169 sg.,238,261.
Capocchio,240,262.
Carlo IV, imperatore,52.
Caronte,235,259.
Casella,243,263.
Cassio,241.
Catone uticense,156,161 sg.,243,263.
Cavalcanti Guido,56.
—Cavalcante (de’),55 sg.
Cecina, fiume,130 sg.
Cefas, vedi Pietro (san).
Celeno, vedi arpie.
Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
centauri,123 sg.
Chiarentana,191.
Ciacco,236,260.
Ciampolo navarrese,261.
Ciappetta (Capeto) Ugo,246,265.
Cicerone, vedi Tullio.
Claudiano,31 ( De laudibus Stiliconis ).
Clemente V, papa,270.
Cocito,176,187,240.
Comedia,228 sg.
Coppo di Borghese Domenichi,215.
Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
Corneto,130 sg.
Corneto (da) Rinieri,119.
Costanza, imperatrice,268.
Creta,172,179 sg.
Cureti,173.
Curzio Quinto,165.
Damiani Piero (san),253,270.
Damocle,106.
Daniello Arnaldo,248,266.
Daniello, profeta,182.
Democrito,94.
Didone, II,119 sg.
Dionisio il vecchio,104 sg.
Dionisio il giovane,107 sg.
Dite,27 sg.,237,260.
Donati, Forese,247,266.
—Piccarda,251,268.
Duca (del) Guido,245,265.
Elsa, fiume,171.
Empoli,60.
Ennio,207.
Epicuro,45.
Erine (Erinni),10,29 sg.,237,260.
Eritone,6 sg.
Eschilo,207.
Este (da) Opizzo,110.
Eteocle,169.
Eunoè,249,266.
Euripide,207.
Europa, regione,179 sg.
Eusebio ( Liber temporum ),7.
Evemero ( Istoria sacra ),172,173.
Ferecide,156.
Fiesole,197 sg.
Flegetonte,175 sg.,187,237,260.
Flegias,237,260.
Flegra,167.
Folco da Marsiglia,252,268.
Folo, centauro,99.
Forlí,226.
Fotino,68.
Francesca da Rimini,236,259.
Fucci Vanni,240,262.
Fulgenzio,17 ( Myth.),33,37.
Furie, vedi Erinni.
Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio VIII.
Genesi,74 (XIX. 1-25),83,183.
Gerione,239,261.
Geronimo, vedi Girolamo.
Gherardesca (della) Ugolino,241,263.
Ghibellino,52.
Giacomo da Sant’Andrea di Padova,149.
Gianfigliazzi Luigi,52.
Giasone,239.
Gibilterra,163.
Giordano, conte,59.
Giovanni (san) evangelista,254,270. Vedi Apocalissi e Evangelio.
Giovenale,172 ( Sat., VI. 1-2).
Girolamo (san),217 ( Adversus Iovinianum ).
Giuda Scariotto,241,263.
Giudecca,241,263.
Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
Giunone,123 sg.
Giustiniano,252,268.
Giustino,21 (XXXII, 3),
102 -4 (IX. 6. 7; XI. 6. 7. 8. 11; XII. 9. 10. 13. 14). 104 (XXXI. 1),
105 (XX, 1, 2, 3, 5),
107 (XXI, 1-5),
116, (XVII, 3),
117 (XXV, 3, 5).
Gorgone,10 sg.,35 sg.,204 ( Omelie ).
Gualdrada,215.
Guelfo,52.
Guerra Guido,216,238.
Guglielmo d’Inghilterra,165.
Guglielmo d’Oringa,22.
Guinizzelli Guido,248,266.
Guzzante, cittá (Wissand),190.
Iacopo (san),254 (barone di Galizia).
Ida, monte di Creta,173.
India,165.
Innocenzo papa,54.
Interminelli Alessio, lucchese,239,261.
Iosafá,45.
Issione,123 sg.
Istoria sacra, vedi Evemero.
Italia,21.
Lamberti (de’) Mosca,240.
Lano di Siena,148.
Latino Brunetto,192 sg.
( Tesoretto, Tesoro ),205,238,261.
Lattanzio,99.
Leon tessalo, vedi Pilato.
Letè,175 sg.,248,266.
Lia,248.
Lino,207.
Livio Tito,103 (IX. 16. 17. 18),
191 (I, 1).
Lucano,6 (VI. 507-9),
30 (VI, 732-4),
36 (IX, 624-6).
maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
Maiolica (Maiorca),198.
—Paolo,236,259.
Malespina Currado,264.
Manfredi,54,58 sg.,243,263.
Maometto,240.
Marco lombardo,245,265.
Maria,255,270.
Marte,150 sg.
Martello Carlo,252,268.
Mascheron (de’) Sassol,240.
Matelda,249,267.
Matilde, contessa di Toscana,52 sg.
Mausolo, re di Caria,24.
Medusa, vedi Gorgone.
Megera,10.
Mela Pomponio,20 (II. 5. §§ 79. 80),
35 (III, 9, § 99),163 (I, 6, § 32).
Minos,236,259.
Minotauro,89 sg.; 122 sg.
Monforte (di) Guido,111.
Monte Aperti,54,59.
Montefeltro (da) Guido,240,262.
—Bonconte,243,264.
Montone, vedi Acquacheta.
Morruello, vedi Malespina.
Mozzi (de’) Andrea,204.
—Tommaso,204.
Musatto padovano ( Ecerinis ),109.
Nesso,97 sg.,260.
Nevio,207.
Nicola papa,239,261.
Oderisi da Gobbio,244,264.
Omero,207.
Orazio,17, vv. 7-8);
207.
Orbicciani Bonagiunta,247,266.
Orfeo,207.
Otto IV, imperatore,215.
Ovidio,17, ( Metam., XV. 807-14),
30 ( Metam. VI. 430),
31 ( Metam. IV. 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
139 ( Metam. II. 761-4. 768-72. 775-82).
Padova,191.
Paolo (san),113 -5 ( Hist. Rom. XIV. §§ 1-13).
Paradiso (cantica),16,51,145,
Pasife,90,120.
Pazzi (de’) Rinieri,119.
—Camiscion,240,262.
—Iacopo del Vacca,59.
Persio,66,69 -70).
Petrarca Francesco,208.
Pietro (san),254,270.
Piettola,208.
Pirro, figlio di Achille,115.
Pirro, re dell’Epiro,116.
Platone,156.
Plauto,207.
Plinio,21 ( Hist. nat.,5 ),
24 -25 ( Hist. nat. XXXVI. 4; non citato nel testo).
Pola,21.
Polinice,169.
Prisciano,203,16.
Proserpina,10.
Proverbi, vedi Salomone.
Ptolomea,241,263.
Purgatorio (cantica),52,162.
Quarnaro,21.
Rea,173.
Ridolfo, imperatore,264.
Rifeo,253,269.
Rodano,20.
206 sg.; 182 sg.
Romano (da) Azzolino,109.
—Cunizza,252,268.
Romeo,252,268.
Rusticucci Iacopo,216,238.
Salmista,39 ( Ps., CXVIII, 37).
Salomone,39 ( Eccles., I, 2).
Samuele,7.
San Benedetto (monastero di) dell’Alpe,224 sg.
Sapia,245,265.
Sarno, fiume,171.
Schicchi Gianni,240.
Seneca,16 ( Oedipus, II. 178),70.
Sereno,36.
Servio,36 -37 ( Sup. Aen., VI. 289, non citato nel testo),
99 ( Sup. Georg., 93),
126 ( Sup. Georg., 115).
Sesto Pompeo,117 sg.
Siena,58 sg.
Silvani Provenzano,244.
Simonide poeta,207.
Sinone,240,262.
Sofocle,207.
Sogdoma,79 sg.
Soldanieri Gianni,241.
Sordello,244,264.
Stazio,31 ( Theb., I. 106-9),
169 ( Theb., I, X),
246 sg.,266.
Stige,176,186,236,260.
Strofade, isole,132.
Tamigi,110.
Teodonzio,16,18,29,31,35,37,98.
Teofrasto ( De nuptiis ),217,220.
Teognide, antichissimo istoriografo,36.
Terenzio,207.
Teseo,10 sg.
Tesifone,10.
Titani,168.
Tommaso d’Aquino,252 sg.,268.
Toppo (Pieve al),148.
Toscana,47 sg.
Traiano, imperatore,253,269.
Trento,88.
Tullio Cicerone,16 ( De nat, deor. 17),
18 ( De nat. deor. 17),
61 ( Div., I. 23),
104 sg. ( Tusc., V, 20),
157 ( Somnium Scipionis ).
Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale,64.
—Ruggieri, arcivescovo,241.
Uberti Farinata,49 sg.,237,260.
Ulisse,240,262.
Umberto, vedi Aldobrandeschi.
Valerio Massimo,106 (I. 1 ext. 3),
156 (II,6, § 7).
Venedico,239.
Vigne (dalle) Piero,136 sg.,238,260.
Villani Giovanni,54,59,60 ( Cron., VI. 77. 78. 81. non cit.),
109 ( Cron., VI, 72),
111 ( Cron., VII, 39, non cit.),
114 ( Cron., II, 1, non cit.),
151 ( Cron., I, 42),
153 ( Cron., II, 1),
154 ( Cron., 1),
197 ( Cron., I, 31 sg., non cit.),
198 ( Cron., IV, 31, non cit.).
Virgilio,191,207 sg.,236.
Eneide, I,112 (II,689-91),
120 (VI, 106),
123 (VI, 237-42),
124 (VI, 126),
125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
131 (VII, 810-11),
151 (I, 544-5),
154 (XI, 539 sg.),
156 (XII, 930 sg.),
184 (III, 56-7),
197 (I, 1, 8),
204 -5 (VI,1 sg.),
208 (VI, 127-31; 756-7),
215 (VI, 174, 234, I, 52),
239 (VI, 261),
251 (VI, 298-9),
253;
29 (XII, 845-7),
30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
31 (VII, 325-9, 335-8),
93 (IV, 106),
116 (III, 294-7),
145 (I, 278-9),
168 (VIII, 425).
Georgica, I,139;
145 (II, 495-6, 498).
Egloghe, II, 10 (IV, 7).
Culice, II,33.
Visconti Nino (Gallo di Gallura),244,264.
Vita nova,56.
Viterbo,110 sg.
INDICE DEI NOMI
Abacuc, profeta, II, 262 ( Hab., II, 6, 9).
Abate di San Zeno, III, 246, 265.
Abati (degli) Bocca, III, 59, 241, 262.
Abele, II, 15.
Abramo, II, 17.
Accorso (Accursio) (d’) Francesco, III, 203.
Acheronte, I, 120, 250; III, 175, 186, 259.
Achille, II, 130 sg.
Acquacheta, fiume, III, 225.
Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, II, 173 sg.
Adamo, I, 119; II, 12; III, 254, 270.
—(maestro), III, 240, 262.
Adimari, vedi Aldobrandi.
Adone, I, 180.
Adrasto, III, 169.
Adriana (Arianna), III, 90.
Adriano V, papa (del Fiesco), III, 246, 265.
Agostino (sant’), I, 146, 147
( Epistola di san Girolamo a sant’Agostino )
194 ( De civitate Dei, XVI. 2); II, 10 ( Sermone della nativitá di Cristo ),
61 ( Civ. Dei, VIII 14),
66 ( Civ. Dei, IV),
72 ( Civ. Dei, VIII 2),
113 ( Civ. Dei, V 8 9),
242; III, 19 ( Civ. Dei, V 8 9),
23 ( De haeresibus ).
Alberico (frate), III, 241, 263.
Alberigo ( Poètria ), II, 221.
Alberto magno, II, 21.
Aldighieri di Ferrara, I, 7, 69.
—figlio di Cacciaguida, I, 7, 69.
Aldobrandeschi Umberto, III, 244, 264.
Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, II, 179 sg.; III, 216, 238.
Alessandro di Macedonia, I, 105; III, 102, 165.
Aletto, III, 10.
Alí, commentatore di Tolomeo ( Comento del Quadripartito ),
II, 140.
Alighieri, padre di Dante, I, 7, II, 69, 72.
—Dante, I, 4, 5, 8, e passim; II, 262.
—Gemma, moglie di Dante, II, 262.
—Iacopo, I, 52, 97.
—Piero, I, 52, 97.
Amos, profeta, I, 182 ( Amos, III, 8).
Anassagora, II, 71.
Anassalide, uditore di Platone, II, 66.
Anassimandro lampsaceno, I, 201.
Anastasio, papa, III, 68.
Anna, sommo sacerdote, III, 239.
Anselmo, arcivescovo di Canterbury ( De imagine mundi ), II, 41.
Antenora, III, 241, 262.
Anteo, I, 179; III, 240, 262.
Antioco, re d’Asia e di Siria, I, 182.
Apocalissi, I, 125 (XI, 7; IX, I, 2), 160, 169 (II, 7; III, 12);
II, 202, 233, 235 (XVIII, 21); III, 185.
Apollodoro, grammatico, II, 29.
Apostoli ( Atti degli ), I, 147, 148 (Act. ap., IX, 5;
XXVI, 14).
Appennino, III, 225 sg.
Apuleio di Madaura, II, 62 ( De Deo Socratis liber );
III, 17 ( Cosmographia ).
Arbia, III, 58.
Archiloco di Paro, II, 29.
Argenti Filippo de’ Cavicciuli, II, 276; III, 237, 260.
Aristarco di Samotracia, grammatico, II, 28.
Aristotile, I, 43, 75, 92, 105, 142, 200; II, 59 sg. (vita e opere),
66, 86, 186, 212, 241, 244; III, 13;
Ethica, I, 117, 181, 211, 222; II, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
III, 79 bis;
Meteora, I, 242, 256; II, 4, 114;
Politica, II, 108;
De anima, II, 141;
Fisica, III, 82.
Arli (Arles), cittá di Provenza, III, 20.
Arnaldo, vedi Daniello.
Arno, I, 171.
Arpie, III, 132.
Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore, I, 22, 54, 79, 80, 100;
III, 255, 270.
—d’Inghilterra, III, 111.
Ascanio (Iulio), I, 204.
Asclepiade, filosofo, II, 68.
Aspidopia, vedi Esiodo.
Astiage, II, 177, 214.
Atalante, edificatore di Fiesole, II, 40·
—re di Mauritania, II, 40.
Atti degli Apostoli, vedi Apostoli.
Attila, I, 6, 68; III, 113 sg., 152 sg.
Augusto, I, 31, 139, 140, 205, 207.
Aulo Gellio, II, 62 ( Noctes Atticae, II, 1), 63 (N. A., I, 17),
70 (N. A., II, 18).
Averno (lago d’), I, 123, 125.
Averrois, II, 61, 86.
Avicenna, II, 85.
Beatrice, I, 11, 13, 15, 48, 72 sg., 75, 81, 95, 118, 213 sg.;
III, 65, 201, 235, 248, 251 sg., 267 sg.
Beisangue Guido, detto Guido vecchio, III, 215.
Belacqua, III, 243, 263.
Beltram di Altaforte (dal Bornio), III, 240, 262.
Bernardo (san), III, 255, 270.
Bernardo Silvestre, autore del Megacosmo e del Microcosmo,
I, 233.
Bersabé, I, 48.
Berti Bellincione, de’ Ravignani, III, 215.
Bianchi (setta dei), II, 171.
Bocca, vedi Abati.
Boezio, I, 141 ( De consolatione philosophiae, I, pr. 1),
148 ( Cons., I, pr. 1); II, 72 ( De musica ),
84 ( De geometria ),
113 ( Cons., IV, pr. 6),
144, 215 ( Cons., II, pr. 1),
237 ( Cons., II, met. 5).
Bologna, I, 9, 22, 26, 71, 79.
Bonaventura (san) da Bagnorea, III, 252, 268.
—Bondelmonte, III, 53.
—famiglia de’, III, 53.
Bonconte di Montefeltro, III, 243.
Bonifazio VIII, papa, I, 46, 94, 246 sg.; II, 173.
Borsiere Guglielmo, III, 222.
Brancadoria, III, 241.
Brandizio (Brindisi), I, 31.
Brenta, fiume, III, 191.
Brescia, I, 22, 79.
brigata spendereccia senese, III, 148.
Bruggia (Bruges), III, 190.
Bruto Caio Giunio, II, 54.
Bruto Marco Giunio, II, 7; III, 241.
Cacciaguida, I, 7, 69; III, 253, 268.
Caco, III, 262.
Cadmo, re di Tebe, I, 202.
Caina, II, 143; III, 240, 262.
Caino, II, 15.
Calano d’India, II, 178.
Calcidio, II, 62 ( Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone ).
Callimaco, biografo d’Omero, II, 24, 25, 27.
Calvoli (da) Rinieri, III, 245, 265.
Camilla, I, 154; II, 50.
Camillo, I, 21, 29.
Cancellieri di Pistoia, II, 171.
Caorsa, III, 74 sg.
Capaneo, I, 182; III, 169 sg., 238, 261.
Capocchio, III, 240, 262.
Cariddi, II, 203 sg.
Carlo di Valois, I, 46; II, 173 sg.
Carlo magno, I, 6, 69.
Carlo IV, imperatore, III, 52.
Caronte, I, 120, 251, 261; III, 235, 259.
Casella, III, 243, 263.
Casentino, I, 22, 74, 79.
Cassio, II, 7; III, 241.
Catellina (Catilina), I, 179.
Catone uticense, III, 156, 161 sg., 243, 263.
Cavalcanti Guido, II, 174; III, 56.
—Cavalcante (de’), III, 55 sg.
Cecina, fiume, III, 130 sg.
Cefas, vedi Pietro (san).
Celeno, vedi arpie.
Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
centauri, III, 123 sg.
Cerbero, I, 120; II, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
Cerchi (dei) famiglia, II, 170, 213; III, 223.
—Vieri, II, 171 sg., 262.
—Ricovero, II, 172.
Cesare, I, 140, 205, 207; II, 46 sg., 87.
Chiarentana, III, 191.
Chiassi (pineta di), I, 128.
Chirone, III, 96, 98 sg.
Ciacco, II, 170, 264 sg.; III, 236, 260.
Ciampolo navarrese, III, 261.
Ciappetta (Capeto) Ugo, III, 246, 265.
Cicerone, vedi Tullio.
Claudiano, I, 29; III, 31 ( De laudibus Stiliconis ).
Clearco, uditore di Platone, II, 66.
Clemente V, papa, I, 22; III, 270.
Cleopatra, I, 179; II, 124 sg.
Cocito, III, 176, 187, 240.
Comedia, I, 33, 49, 52, 53, 54, 60, 61, 62, 96, 98, 99, 105, 106, 111,
113, 118, 173; III, 228 sg.
Convivio, I, 55, 100.
Coppo di Borghese Domenichi, II, 276; III, 215.
Coriolano, I, 21.
Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, II, 41.
Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
Corneto, III, 130 sg.
Corneto (da) Rinieri, III, 119.
Corniglia (Cornelia), II, 58.
Corvara (frate Pietro da), antipapa, I, 55.
Costantino, imperatore, I, 170, 207.
Costanza, imperatrice, III, 268.
Crasso, I, 185.
Creso, II, 214.
Creta, III, 172, 179 sg.
Crisippo, filosofo stoico, I, 251.
Cureti, III, 173.
Curzio Quinto, II, 26; III, 165.
Dalila, I, 179.
Damiani Piero (san), III, 253, 270.
Damocle, III, 106.
Danaidi, I, 122.
Daniello Arnaldo, III, 248, 266.
Daniello, profeta, I, 42, 91; III, 182.
Danne (Dafne), I, 44, 93.
David, I, 48; II, 18 e vedi Salmista.
Democrito, II, 67; III, 94.
Didone, I, 178, 180; II, 119 sg.
Diogene, II, 69 sg.
Dionisio areopagita ( Della celeste gerarchia ), I, 147.
Dionisio il vecchio, III, 104 sg.
Dionisio il giovane, III, 107 sg.
Dioscoride, II, 74.
Dite, I, 41, 125; III, 27 sg., 237, 260.
Donati, famiglia de’, II, 170, 213.
—Corso, II, 171.
—Forese, III, 247, 266.
—Piccarda, III, 251, 268.
Duca (del) Guido, III, 245, 265.
Eaco, I, 120. Ecclesiaste, vedi Salomone. Ecclesiastico;
II, 242 ( Ecclesiasticus, X 9).
Elena, I, 179; II, 127 sg.
Elettra, II, 40.
Elisei, famiglia degli, I, 7, 69.
Eliso, I, 41. Eloquentia ( de ) vulgari, I, 55, 100.
Elsa, fiume, III, 171.
Empedocles, II, 72.
Empoli, III, 60.
Enea, I, 151, 204, 206, 208; II, 44, 87.
Ennio, III, 207.
Epicuro, III, 45.
Epimenide, poeta, I, 147.
Eraclito, II, 73.
Eratostene, II, 28.
Ercole, I, 41, 48, 89, 120; II, 97.
Erine (Erinni), III, 10, 29 sg., 237, 260.
Eritone, III, 6 sg.
Ermolao, tiranno di Atene, II, 27.
Erode, I, 48.
Esaú, I, 249.
Eschilo, III, 207.
Esiodo ( Aspidopia ), I, 53.
Esodo, I, 90
( Exod., XIV 22), 235
( Exod., XV 5, dal testo attribuito al Salmista).
Este (da) Opizzo, III, 110.
Eteocle, III, 169.
Ettore, I, 30; II, 43.
Euclide, I, 144; II, 83.
Euforbo, istoriografo, II, 29.
Eunoè, III, 249, 266.
Eurialo, I, 155.
Euripide, III, 207.
Europa, amata da Giove, I, 48.
Europa, regione, III, 179 sg.
Eusebio ( Liber temporum ), I, 139, 207, 261; II, 9, 29, 30, 32,
33, 43, 54, 71, 72, 77, 95, 109, 123, 201, 268; III, 7.
Eussimene (Anassimene), I, 201 ( Thelegumenon ).
Evangelio, I, 122 ( Luc., XVI 19-31), 168,
( Ioh., XIV 6), 169,
( Math., X 22; XX 6), I, 175,
( Ioh., I 29), 230,
( Math., VII 7), 257,
( Math., VII 13); II, 9,
( Ioh., XII 5), 37,
( Ioh., XIII 13 14), 90,
( Math., XXVIII 19; Ioh., I, 33; Luc., XII 50;
Marc., XVI 16; Ioh., III 5; Math., XX 23), 183,
( Math., XIX 24), 191,
( Luc., XVI 19-31), 242,
( Luc., XV 22), 252 (vedi Paolo, ad Hebr.); III, 32.
Evemero ( Istoria sacra ), III, 172, 173.
Ezechia re, I, 170.
Ezechiel, I, 42, 91; II, 235 (Ezech., XI 19).
Fabrizio, I, 29.
Faggiuola (della) signori, I, 79.
—Uguccione, I, 54, 99.
Falacro, filosofo, II, 25.
Fama, divinitá mitologica, I, 215 sg.
Faro di Messina, II, 203.
Febo, I, 44, 93.
Federico II, imperatore, I, 7, 8, 69, 70; III, 53 sg., 62 sg.
Federigo III, re di Sicilia, I, 54, 100.
Ferecide, III, 156.
Fiandra, II, 259.
Fiesole, III, 197 sg.
Filippo, re di Francia, I, 46.
Fillide, I, 180.
Filocoro, II, 29.
Filosofia ( Della ), opera di Clearco e Anassalide, II, 66.
Firenze, I, 6, 22, 27, 47, 69; II, 172 e passim.
Flegetonte, III, 175 sg., 187, 237, 260.
Flegias, II, 267 sg., 283; III, 237, 260.
Flegra, III, 167.
Folco da Marsiglia, III, 252, 268.
Folo, centauro, III, 99.
Forlí, III, 226.
Fotino, III, 68.
Francesca da Rimini, II, 137 sg.; III, 236, 259.
Frangiapani (famiglia de’), I, 6, 69.
—Eliseo, I, 6, 69.
Frescobaldi (Dino di m. Lambertuccio),
I, 50, 96; II, 263, 265.
Fucci Vanni, III, 240, 262.
Fulgenzio, I, 121, 146 ( Mythologiae ), 200 ( Myth.), 201;
II, 230; III, 17 ( Myth.), 33, 37.
Furie, vedi Erinni.
Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio
VIII.
Gaio Antonio, I, 179.
Galeotto, II, 145.
Galieno, I, 144; II, 85.
Gallia, I, 6, 22.
Genesi, I, 210 (XLIX, 27), 244 (XXV, 29-34), 261 (I, 3-4);
II, 12 (I, 27), 15 (IV, 2-8), 19 (XXXII, 1-32), 176 (I, 26),
190 (III), 233 (III, 1, 14); III, 74 (XIX, 1-25), 83, 183.
Geremia, profeta, I, 89; II, 92 (VIII, 7), 192.
Gerione, III, 239, 261.
Geronimo, vedi Girolamo.
Gherardesca (della) Ugolino, III, 241, 263.
Ghibellino, III, 52.
Giacomo da Sant’Andrea di Padova, III, 149.
Giandonati Arrigo, II, 179.
Gianfigliazzi Luigi, III, 52.
Giardino (Piero di m.), I, 52, 97, 128.
Giasone, I, 178; III, 239.
Gibilterra, III, 163.
Giordano, conte, III, 59.
Giovanni (san) evangelista, I, 91; III, 254, 270. Vedi Apocalissi e
Evangelio.
Giovanni XXII, papa, I, 55, 100.
Giove, I, 37, 40, 86, 112; III, 167, 173.
Giovenale, I, 29, 145, 168 ( Sat., X,349-50);
II, 34, 67 ( Sat., X, 33-35),
215 ( Sat.,
X, 365-6), 219 ( Sat.,
X, 365-6), 243 ( Sat., XIV, 135-7);
III, 172 ( Sat., VI, 1-2).
Girolamo (san), I, 141 (a Damaso papa De filio prodigo ),
145 ( Def. pr. ),
146 ( De f. pr.),
147 ( QuaestionesHebraicae ),
194 ( Praefatio in Apocalypsim );
II, 60 ( Praefatio in librum II Chronicorum Eusebii ),
62 ( Epist. XXXV e Praefatio in Bibliam ),
83 ( Liber virorum illustrium ),
85 ( Quaest. Hebr. ),
238 ( Epist. ad Rusticum );
III, 217 ( Adversus Iovinianum ).
Giuda Scariotto, III, 241, 263.
Giudecca, III, 241, 263.
Giugurta, I, 182.
Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
II, 58.
Giunone, I, 40; III, 123 sg.
Giustiniano, II, 28; III, 252, 268.
Giustino ( Historia ), I, 167 (III, 2);
II, 51 (II, 4),
52 (XLIII, 1),
63 (II, 10);
III, 21 (XXXII, 3),
102-4 (IX, 6, 7; XI, 6, 7, 8, 11; XII, 9, 10, 13, 14), 104 (XXXI, 1),
105 (XX, 1, 2, 3, 5),
107 (XXI, 1-5),
116, (XVII, 3),
117 (XXV, 3, 5).
Golia, I, 182.
Gorgone, III, 10 sg., 35 sg.
Gregorio (san) papa, I, 39, 88,
163 (proemio de’ Morali ), 232;
II, 225 ( Innario );
III, 204 ( Omelie ).
Gualdrada, III, 215.
Guelfo, III, 52.
Guerra Guido, III, 216, 238.
Guglielmo d’Inghilterra, III, 165.
Guglielmo d’Oringa, III, 22.
Guinizzelli Guido, III, 248, 266.
Guzzante, cittá (Wissand), III, 190.
Iacopo (san), II, 242 ( Epist., V, 1);
III, 254 (barone di Galizia).
Ida, monte di Creta, III, 173.
Ierusalem, I, 89, 171.
Iezzabel, I, 182.
India, III, 165.
Inferno (cantica), I, 33, 50, 54, 99, 119 sg.
Innocenzo III, papa, III, 54.
Interminelli Alessio, lucchese, III, 239, 261.
Iob, I, 160; II, 192 (VI, 6; XV, 16).
Iole, I, 48.
Iosafá, III, 45.
Ippocrate, I, 144; II, 84.
Isaac, II, 19.
Isaia, profeta, I, 42, 119 (V, 14),
172, 175 (XI, 2-3); II, 96 (XL, 13),
192 (XXIV, 9).
Isidoro ( Etymologiae ), I, 198, 199.
Isopo, II, 243.
Israel (Iacob), II, 18.
Issione, I, 121; III, 123 sg.
Istoria sacra, vedi Evemero.
Istorie scolastiche di Pietro Comestor, II, 65.
Italia, I, 14, 22, 117, 154; III, 21.
Lamberti (de’) Mosca, II, 179; III, 240.
Lancellotto, II, 144.
Lano di Siena, III, 148.
Latino Brunetto, I, 117; III, 192 sg.
( Tesoretto, Tesoro ), 205, 238, 261.
Latino, re dei laurenti, II, 52.
Lattanzio, II, 74, 76 ( Divinarum institutionum, I, 23),
201 ( Div. inst., I, 11), 267; III, 99.
Leon tessalo, vedi Pilato.
Lavina, figlia di Latino, II, 54.
Leontonio, ateniese, protettore di
Omero, II, 27.
Letè, III, 175 sg., 248, 266.
Lia, III, 248.
Libia, I, 14; III, 163.
Licaone, I, 41, 89.
Licurgo, I, 167.
Lino, II, 78; III, 207.
Linterno, I, 30.
Livio Tito, I, 171;
II, 45 ( Hist., XL, 4);
III, 103 (IX, 16, 17, 18),
191 (I, 1).
Lodovico di Baviera, imperatore, I, 55, 100.
Lombardia, I, 46, 79, 137 sg.
Lucano, II, 25, 33,
57 ( Pharsalia, II, 326 sg.),
87;
III, 6 (VI, 507-9),
30 (VI, 732-4),
36 (IX, 624-6).
Lucca, I, 74.
Lucia, I, 220 sg.; III, 244.
Lucrezia, II, 55, 87.
Luna, I, 37, 86.
Lunigiana, I, 22, 79.
Maccabeo Giuda, I, 105.
Macrobio, I, 121 ( Liber saturnaliorum ),
160 ( Comm. in Somnium SciPionis, I, 2),
200 (Somn., II, 3);
II, 124 ( Saturn., V, 17).
maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
Magna (Allemagna), I, 22.
Maiolica (Maiorca), III, 198.
Malatesti Gianciotto, II, 137 sg.
—Paolo, II, 137 sg.; III, 236, 259.
Malespina Morruello, I, 22, 51, 54, 79, 96, 99; II, 263.
—Currado, III, 264.
Manfredi, III, 54, 58 sg., 243, 263.
Mantova, I, 28, 138; III, 261.
Maometto, II, 277; III, 240.
Marco lombardo, III, 245, 265.
Maria, III, 255, 270.
Marte, III, 150 sg.
Marcello Marco, console, I, 218.
Martello Carlo, III, 252, 268.
Marzia, moglie di Catone, II, 57.
Mascheron (de’) Sassol, III, 240.
Matelda, III, 249, 267.
Matilde, contessa di Toscana, III, 52 sg.
Mausolo, re di Caria, III, 24.
Medusa, vedi Gorgone.
Megera, III, 10.
Mela Pomponio, I, 124 ( Chorographia, I, 19, § 103),
151 (I, 18, § 93);
II, 71 (I, 17, § 86);
III, 20 (II, 5, §§ 79, 80),
35 (III, 9, § 99), 163 (I, 6, § 32).
Melchisedech, I, 103.
Menandro, I, 147.
Metabo, I, 143.
Mida, I, 185.
Minos, I, 120; II, 106, 147 sg.; III, 236, 259.
Minotauro, III, 89 sg.; 122 sg.
Moisé, I, 40, 89; II, 16.
Monarchia ( De monarchia ), I, 54.
Monforte (di) Guido, III, 111.
Monte Aperti, III, 54, 59.
Montefeltro (da) Guido, III, 240, 262.
—Bonconte, III, 243, 264.
Montone, vedi Acquacheta.
Morrone (del) Piero, I, 246 sg.
Morruello, vedi Malespina.
Mozzi (de’) Andrea, III, 204.
—Tommaso, III, 204.
Musatto padovano ( Ecerinis ), III, 109.
Muse, I, 198 sg.
Museo, II, 77; III, 207.
Nabucodonosor, 40, 89, 182.
Napoli, I, 31, 139.
Narsete, I, 138.
Nepote Cornelio, II, 29.
Neri (setta dei), II, 171.
Nerone ( Troica ), II, 133.
Nesso, III, 97 sg., 260.
Nestore, I, 28.
Nettuno, I, 41.
Nevio, III, 207.
Niccolaio, pastore di Smirna, I, 28.
Niccolaio di Tamech ( Sopra il Tito Livio ), I, 171.
Nicola III, papa, III, 239, 261.
Nino, II, 117 sg.
Niso, I, 155.
Noé, II, 15.
Numeri, II, 233 (XXI, 6-9).
Oderisi da Gobbio, III, 244, 264.
Omero, I, 24, 28, 31, 123 (Od., XI, 1-20),
197 (Od., I, 1-2),
203;
II, 24 sg., 43, 127 ( Il., XXIV, 765-7),
130( Od., IV, 1-18; Il., II, 683),
161 ( Il., XIV, 214-17);
III, 207.
Orazio, I, 9, 29, 145, 147, 198 ( Ad Pisones, 141-2);
II, 29 sg., 34,
53 ( Carm., III, 17, vv. 7-8);
III, 207.
Orbicciani Bonagiunta, III, 247, 266.
Orbino, I, 22, 79.
Orfeo, II, 74 sg.; III, 207.
Origene, I, 264.
Osea profeta, I, 174 (VI, 1).
Ottaviano, vedi Augusto.
Otto IV, imperatore, III, 215.
Ovidio, I, 9, 29, 31, 197 ( Metam., I, 1-3);
II, 4 ( Metam., XI, 623-5),
30 ( Tristia, X, 3-4, 26, 21-22),
31 (opere),
32 ( Tristia, II, 207, 103, 108),
40 ( Fasti, IV, 169-78),
75 ( Metam., X, 78-85),
86,
108 ( Metam., VIII, 166-75),
134, 229 ( Metam., V, 346 sg.);
III, 17, ( Metam., XV, 807-14),
30 ( Metam., VI, 430),
31 ( Metam., IV, 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
139 ( Metam., II, 761-4, 768-72, 775-82).
Padova, I, 22, 72; III, 191.
Palamede, I, 202.
Pantasilea, II, 50.
Paolo (san), I, 147 (I Cor., XV, 33; Tit., I, 12),
165 ( Rom., XIII, 11; Ephes., V, 14),
169 (I Cor., XV, 10; Ephes., V, 8),
170 ( Tit., III, 5),
186 ( Gal., V, 17),
205 (I Cor., X, 11),
209 (II Cor., XII, 4),
210;
II, 82 (lettere a Seneca),
90 (I Cor., X, 1-2),
92 (I Cor., XIV, 38),
99 (I Tim., I, 13; II Tim., IV, 4;
I Cor., XIV, 38), 192 ( Ephes., V, 18),
238 ( Ephes., V, 5).
Paolo Diacono, I, 137 sg. ( Hist. Lang., I, §§ 1-2;
II, §§ 5, 10);
III, 113-5 ( Hist. Rom., XIV, §§ 1-13).
Papia, lessicografo, I, 200; II, 73; III, 23, 100.
Paradiso (cantica), I, 54, 99, 118, 119, 159, 161, 214;
II, 208; III, 16, 51, 145,
Parche, II, 219; III, 16 sg.
Pargoletta, I, 74.
Parigi, I, 9, 22, 35, 71, 79, 84, 117.
Paris, I, 48, 132 sg.
Pasife, II, 107; III, 90, 120.
Pazzi (de’) Rinieri, III, 119.
—Camiscion, III, 240, 262.
—Iacopo del Vacca, III, 59.
Perini Dino, II, 264.
Persio, I, 147; II, 34, 242 ( Sat., III, 66, 69-70).
Petrarca Francesco, I, 142 ( Epistola al fratello Gherardo ),
143 ( Bucolica ),
145, 178 ( Africa, I, 1-2); II, 61; III, 208.
Pierie, I, 27, 82.
Pietro Lombardo (maestro delle sentenze), I, 169, 243.
Pietro (san), III, 254, 270.
Piettola, I, 31; III, 208.
Pilato Leone (Leonzio Pilato), II, 24, 77, 232, 201, 227.
Pirro, figlio di Achille, III, 115.
Pirro, re dell’Epiro, III, 116.
Pisa, I, 54, 99.
Pisandro, fisico, I, 201.
Pitagora, I, 200, 202.
Platone, I, 75, 111 ( Timeo ),
141, 144 ( Republica ),
148;
II, 66 sg.;
III, 156.
Plauto, I, 116, 177 ( Cistellaria, a. II, sc. I, 1-12);
II, 34; III, 207.
Pleiadi, II, 40 sg.
Plinio, II, 48 ( Hist. nat., VII, 25),
85 ( Hist. nat., XXIX, 2);
III, 21 ( Hist. nat., III, 5),
24-25 ( Hist. nat., XXXVI, 4; non citato nel testo).
Plutone, I, 41; II, 201, 227 sg.; III, 236, 260.
Po, II, 139.
Poggetto (del) Beltrando, cardinale, I, 55, 100.
Poggi Leone, II, 262.
—Andrea, II, 262 sg.
Pola, III, 21.
Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
—Guido Novello, I, 23, 25, 27, 80, 82, 100.
—Ostagio, I, 55.
Polinice, III, 169.
Portinari Beatrice, vedi Beatrice.
—Folco, I, 9, 10, 72.
Priamo, I, 30.
Prisciano, III, 203.
Pronapide, I, 196, 250 ( Protocosmos );
II, 25; III, 16.
Proserpina, III, 10.
Proverbi, vedi Salomone.
Ptolomea, III, 241, 263.
Publicola, I, 29.
Purgatorio (cantica), I, 54, 99, 118, 137, 158, 190, 219;
II, 169, 200, 208; III, 52, 162.
Quarnaro, III, 21.
Rabano Mauro, II, 74 ( Liber originum, XVIII, 4),
76 ( Orig., XVIII, 4),
84 ( Orig., XVIII, 5),
85 ( Orig., XVIII, 5),
232.
Rachele, II, 19.
Radamanto, I, 120.
Ravenna, I, 23, 24, 25, 27, 31, 32, 79, 82, 117.
Rea, III, 173.
Ridolfo, imperatore, III, 264.
Rifeo, III, 253, 269.
Roboam, I, 182.
Rodano, III, 20.
Rodopei, monti, I, 14.
Roma, I, 6, 23, 30, 46, 54, 69, 100,
206 sg.; III, 182 sg.
Romagna, I, 23, 26, 47, 80.
Romano (da) Azzolino, III, 109.
—Cunizza, III, 252, 268.
Romeo, III, 252, 268.
Rusticucci Iacopo, II, 179; III, 216, 238.
Rutilio, I, 21.
Saladino, II, 59.
Salmista, I, 120 ( Ps., CXIV, 3; LIV, 16),
122 ( Ps., VI, 6),
128 ( Ps., LXXXIX, 9-10),
165 ( Ps., CXXVI. 2),
168 ( Ps., I, 1; CXVIII, 29; CXVIII, 1; CIX, 7),
169 ( Ps., XXII, 6; LXXX, 8),
170 ( Ps., XXXII, 9; L),
174 ( Ps., v, 5),
175 ( Ps., XVIII, 4-5; CXX, 1),
227 ( Ps., V, 9),
235 ( Ps., XXIII, 3-4),
263 ( Ps. XXXII, 9);
II, 92 ( Ps. XXXV, 4),
97 ( Ps., XVIII, 4-5),
99 ( Ps., LVII, 5-6),
184 ( Ps., VIII, 8-9),
234 ( Ps., CXVII, 22),
272 ( Ps., IV., 5);
III, 39 ( Ps., CXVIII, 37).
Salomone, I, 48;
II, 192 ( Prov., XX, 1),
272 ( Ecclesiastes, I, 18);
III, 39 ( Eccles., I, 2).
Salvatico, conte, I, 22, 79.
Samuele, III, 7.
San Benedetto (monastero di) dell’Alpe, III, 224 sg.
San Giovanni (battistero di), I, 35, 94.
Santa Lucia di Napoli, II, 221.
Sapia, III, 245, 265.
Sapienza ( Liber sapientiae ), I, 198; II, 192.
Sardanapalo, I, 180.
Sarno, fiume, III, 171.
Saturno, I, 37, 40, 86, 89.
Scala (della) Alberto, I, 22.
—Cane, I, 51, 53, 54, 57, 98, 100.
Schicchi Gianni, III, 240.
Scipione, I, 30, 105.
Semiramis, II, 117 sg.
Seneca, I, 123 ( Hercules furens, III, 813-14);
II, 4 ( Herc. fur., IV, 1065-77),
33-34,
64 ( Epist. ad Lucilium, VI),
67 ( Epist. ad Luc., LXI),
69 ( De beneficiis, I, 4),
70 ( De ira, III, 38),
78 sg., 87,
140 ( Hippolytus, I, 294-301),
192, ( Epist. ad Luc., XXIV),
223 ( De sacris Aegyptiorum ),
229 ( Herc. fur., III, 782-8),
239 ( Epist. ad Luc., IV),
242 ( Epist. ad Luc., XVII),
274 ( Thyestes, II, 344 sg.);
III, 16 ( Oedipus, II, 178), 70.
Sereno, III, 36.
Servio, I, 137, 150, 261;
II, 45 ( Sup. Aen., I, 386; II, 801),
53 ( Sup. Aen., XII, 164),
54 ( Sup. Aen., VIII, 51; VI, 760),
133 ( Sup. Aen., V, 370),
267;
III, 36-37 ( Sup. Aen., VI, 289, non citato nel testo),
99 ( Sup. Georg., III, 93),
126 ( Sup. Georg., III, 115).
Sesto Pompeo, III, 117 sg.
Sibilla, I, 123.
Siena, I, 35; III, 58 sg.
Silvani Provenzano, III, 244.
Silvestro (san), papa, I, 208.
Silvio, figlio di Enea e di Lavinia, I, 204.
simbolo, I, 248.
Simonide poeta, II, 177; III, 207.
Simon mago, I, 182.
Sinone, III, 240, 262.
Socrate, I, 75; II, 61 sg.
Sofocle, III, 207.
Sogdoma, III, 79 sg.
Soldanieri Gianni, III, 241.
Solino, II, 76 ( De mirabilibus mundi, X, 8),
126-27 ( De mir. mundi,
XXVII, 31, 41 (non citato nel testo).
Solone, I, 3, 4, 43, 67, 103, 105.
Sordello, III, 244, 264.
Speusippo, nipote di Platone, II, 66.
Spurima, giovane romano, II, 153.
Stazio, I, 9, 123 ( Thebais, I, 94-6),
158;
II, 76 ( Theb., V, 344, 435),
228 ( Theb., VIII, 21-6),
254 ( Theb., VIII, 739 sg.);
III, 31 ( Theb., I, 106-9),
169 ( Theb., I, X),
246 sg., 266.
Stige, II, 211; III, 176, 186, 236, 260.
Strofade, isole, III, 132.
Svetonio, I, 140 ( Vitae duodecim Caesarum, II, § 1 non citato nel testo),
207 ( Vit., II, §§ 1-4);
II, 46 ( Vit., I, § 13),
48-9 ( Vit., I, §§ 56, 51, 49, 51, non citato nel testo).
Tacito, Cornelio, II, 34 ( Annales, XV, 56, 57; XV, 69, 70),
80 sg. ( Ann., XII, I, 8; XIII, 2; XII, 67, 68; XIII, 16;
XIV, 8, 63, 64, 60, 51; XIII, 2; XIV, 53-56, 65; XV, 60-65).
Tale (Talete), II, 71.
Tamigi, III, 110.
Tantalo, I, 121, 185.
Teodonzio, II, 76; III, 16, 18, 29, 31, 35, 37, 98.
Teofrasto ( De nuptiis ), III, 217, 220.
Teognide, antichissimo istoriografo, III, 36.
Terenzio, I, 116, 148; II, 34, 163; III, 207.
Tertullio, II, 65.
Teseo, III, 10 sg.
Tesifone, III, 10.
Titani, III, 168.
Tizio, I, 121.
Tolomeo astronomo, I, 144; II, 84.
Tommaso d’Aquino, III, 252 sg., 268.
Toppo (Pieve al), III, 148.
Torquato, I, 29.
Tosa (della) Pino, cav. fiorentino, I, 55, 100.
Toscana, I, 21, 22, 46, 79; III, 47 sg.
Tosinghi, II, 213.
Traiano, imperatore, III, 253, 269.
Trento, III, 88.
Tristano, II, 134 sg.
Trogo Pompeo, II, 51.
Tullio Cicerone, II, 28 ( Tusculanae quaestiones, I, 39),
48 ( Brutus, § 72),
62, ( Tusc., II),
64 ( De senectute, § 5),
68 ( Tusc., V, 39),
71 ( Tusc., I, 43),
77 sg.,
128 ( De inventione, II, 1),
132 ( De divinatione, I, 21),
140 ( De natura deorum, III, 23),
177 sg. ( Div., I, 27, 30),
232 ( In Verrem, IV, 50),
239 ( De officiis, III, 5),
242 (Off., I, 20);
III, 16 ( De nat, deor., III, 17),
18 ( De nat. deor., III, 17),
61 ( Div., I, 23),
104 sg. ( Tusc., V, 20),
157 ( Somnium Scipionis ).
Turno, I, 156.
Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale, III, 64.
—Ruggieri, arcivescovo, III, 241.
Uberti Farinata, II, 179 sg.; III, 49 sg., 237, 260.
Uguccione di Pisa, lessicografo, I, 125.
Ulisse, III, 240, 262.
Umberto, vedi Aldobrandeschi.
Urbano IV, papa, I, 8, 70.
Valerio Massimo, I, 218 ( Memorab., I, 1, § 8);
II, 58 (IV, 6, § 4, non citato nel testo),
61 (III, 4 ext. 1),
62 (VII, 2 ext. 1),
69 (IV, 3 ext. 4),
73 (III, 3 ext. 2, non cit.),
74 (III, 3 ext. 3),
83 (VIII, 12 ext. 1),
117 (IX, 3 ext. 4, non cit.),
153 (IV, 5 ext. 1, non cit.);
177 (I, 7 ext. 3; I, 5, non cit.);
III, 106 (I, 1 ext. 3),
156 (II, 6, § 7).
Varrone ( De origine linguae Latinae ), II, 53.
Vecchio Testamento, I, 160.
Venedico, III, 239.
Verona, I, 22, 33, 79, 83; II, 262.
Vigne (dalle) Piero, III, 136 sg.,238, 260.
Villani Giovanni, I, 246 sg. ( Cronica, VIII, 5, non
citato nel testo);
II, 173 ( Cron., VIII, 39 sg.);
III, 54, 59, 60 ( Cron., VI, 77, 78, 81, non cit.),
109 ( Cron., VI, 72),
111 ( Cron., VII, 39, non cit.),
114 ( Cron., II, 1, non cit.),
151 ( Cron., I, 42),
153 ( Cron., II, 1),
154 ( Cron., III, 1),
197 ( Cron., I, 31 sg., non cit.),
198 ( Cron., IV, 31, non cit.).
Virgilio, I, 9, 24, 29, 31, 54, 99, 105, 126,
137 (vita), 150 (opere),
203;
III, 191, 207 sg., 236.
Eneide, I, 112 (II, 689-91),
120 (VI, 106),
123 (VI, 237-42),
124 (VI, 126),
125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
131 (VII, 810-11),
151 (I, 544-5),
154 (XI, 539 sg.),
156 (XII, 930 sg.),
184 (III, 56-7),
197 (I, 1, 8),
204-5 (VI, 1 sg.),
208 (VI, 127-31; 756-7),
215 (VI, 174), 234 (I, 52),
239 (VI, 261),
251 (VI, 298-9),
253;
II, 37 (I, 378),
39 (VI, 753-5),
46 (IV, 615-21; X, 606 sg.),
52 (VII, 45-8),
53 (XII, 164),
109 (VI, 422-3),
134 (X, 92),
142 (VI, 472-4),
168 (VI, 417-23)
169, 221 (VI, 323-4),
223, 228 (V, 548-9),
230 (VI, 563),
242 (III, 56-7),
268 (VI, 218-20, 412-14),
278 (VI, 552-8);
III, 29 (XII, 845-7),
30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
31 (VII, 325-9, 335-8),
93 (IV, 106),
116 (III, 294-7),
145 (I, 278-9),
168 (VIII, 425).
Georgica, I, 139;
II, 75 (IV, 126-527);
III, 145 (II, 495-6, 498).
Egloghe, II, 10 (IV, 7).
Culice, I, I, 33.
Virgilio (del) Giovanni, I, 26, 55, 82, 100.
Visconti Nino (Gallo di Gallura), III, 244, 264.
visioni di profeti, I, 160.
Vita nova, I, 12, 56, 73, 95, 100, 214; III, 56.
Viterbo, III, 110 sg.
Vitis ( de ) philosophorum ( Libellus de vita et moribus philosophorum ), II, 61.
Xerse, I, 103.
Zenobia, regina di Palmira, II, 153.
Zenofane eracleopolita, I, 201.
Zenone, II, 73 sg.
Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, II, 68.
FINE DEL TERZO ED ULTIMO VOLUME.
INDICE
——
Canto nono:
I. Senso letterale p. 3
II. Senso allegorico » 27
Canto decimo » 43
Canto decimoprimo » 67
Canto decimosecondo:
I. Senso letterale » 87
II. Senso allegorico » 120
Canto decimoterzo:
I. Senso letterale » 129
II. Senso allegorico » 155
Canto decimoquarto:
I. Senso letterale » 159
II. Senso allegorico » 178
Canto decimoquinto » 189
Canto decimosesto » 211
Canto decimosettimo » 231
IV
ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
All’ Inferno p. 235
Al Purgatorio » 243
Al Paradiso » 251
V
RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
Inferno p. 259
Purgatorio » 263
Paradiso » 267
Nota » 273
Indice dei nomi » 291
FOOTNOTES:
[1] Le rarissime [], che s’incontrano nel testo della Vita di Dante, colmano omissioni del ms. A p. 9 la parola «tratto» doveva essere intromessa, com’è suggerito dalla corrispondenza col Compendio (p. 70); invece l’aggiunta «ordinar», mantenuta dalle precedenti edizioni a p. 36, senza corrispondenza con p. 85, è forse arbitraria.
[2] Si vedano la prefazione del Rostagno all’edizione sopra citata e lo studio di M. Barbi, Qual’è la seconda redazione del«Trattatello» in laude di Dante (1913). Cfr. G. L. Passerini, nella prefazione a Le vite di Dante, Firenze, Sansoni, 1917, alcune mie pagine di recensione nella Rassegna bibliografica, a. XXV (1917), n. 3, e altre di G. Vandelli, in Bollettino della Societá dantesca italiana, N. S., vol. XXIV, fasc. 4 (dec. 1917).
[3] In questo codice sono rimaste in bianco parte della seconda col. di c. 81 r e le cc. 82-83. La lacuna va dalle parole «I cittadin, cioè i fiorentini, della cittá partita, peroché in que’ tempi Firenze», alle parole «Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo ordine: Ahi giustizia di Dio, chi stipa», cioè da p. 171 a p. 203 del II vol. di questa edizione; inoltre il detto codice si tronca alle parole «la cittá giá se ne dolea in quanto molti scandali e molti mali e uccisioni», in corrispondenza di p. 23, vol. III.
[4] Da questo codice è stata asportata la c. 172, sicché esso presenta una lacuna tra le parole «È il Quarnaro un seno di mare il qual nasce del mare Adriano e va verso tramontana e quivi divide Italia dalla Schiavonia e chiamasi», in corrispondenza di p. 21, vol. III, e le parole «e quinci viene arcano, la cosa segreta», in corrispondenza di p. 24, vol. III.
[5] Questo bel codice incomincia con le parole: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Scrivesi ne’ predetti romanzi che un prencipe» in corrispondenza di p. 145, vol. II. Probabilmente era diviso in due parti, delle quali la prima è andata perduta.
[6] R, a c. 20 v., alle parole «e ’l Mosca, perché fu scismatico, nel... canto» (pres. ediz., II, 180), omette fra «nel» e «canto» il numero che dovrebbe leggervisi, riempiendo lo spazio con un «nol dice», della medesima mano, in piú minuta scrittura; in S la stessa lacuna non è colmata; ed essa doveva trovarsi «nell’originale» di M 1, perché in quest’ultimo codice, a p. 235, il numero del canto apparisce scritto posteriormente alla riga e costretto a stento nello spazio lasciato prima in bianco. M 2 in questo caso non offre riscontri, perché il passo cade nella lunga lacuna segnalata di sopra.
[7] Segnalo le seguenti, delle quali ho voluto lasciar traccia in questa edizione: I, 126-7 «Questo soluto, ne resta venire, ecc., ut supra.—Resta a venire all’ordine della lettura...»; ib., p. 159 «si possono due ragioni dimostrare...», cui pur s’aggiunge una terza ragione a p. 161.
[8] È giusto ch’io rammenti che, pur non avendo affacciato neanche io alcun sospetto sulla genuinitá del Comento in ciascuna sua parte, ebbi però giá, dal solo esame stilistico, a rilevare che piú e piú tratti di quest’opera, e in sé e al confronto delle pagine o proprie o altrui, dalle quali il B. li avrebbe derivati, appariscono indegni del grande scrittore. Cfr. pp. 7, 9, 25-6 con la n. 2, del mio scritto Caratteri e forma del Comento di G B. sopra la Commedia di D. (Barga, 1913). Allora era il disagio dello studioso in cerca dei veri dati del suo problema: la prima stesura, la fretta, «la vecchiaia, che, se pur lascia valido il tronco, ne sfronda il verde» ( ib., p. 10), erano un’impostazione provvisoria. I veri dati e la risoluzione si son presentati dopo a mano a mano, attraverso l’esame dei codici e la susseguente ripresa in esame del testo. Allo scritto cit., p. 4, n. 2, rimando per la bibliografia sul Comento: aggiungasi O. Bacci, Il B. lettore di Dante, Firenze, Sansoni, 1913.
[9] Il fatto che il Buti avesse saccheggiato il proemio del Boccaccio, trasportandone nel suo tanta parte, non poteva non essere rilevato con meraviglia. Silvestro Centofanti, nella introduzione alla diligente edizione di Crescentino Giannini, s’ingegnò di scagionare il buon frate, ricorrendo per extrema ratio all’«uso dei tempi». Ma la veritá è che l’uso dei tempi, per certo piú accondiscendente dell’uso nostro, non basta a spiegare un plagio che sviluppa tutto un sistema di idee, e che non ha riscontro nel séguito dell’opera, ove e il Boccaccio e Guido da Pisa e altri, quando accade che sian fonte dell’idea, non porgono insieme con essa l’espressione, e inoltre vengon citati, proprio come è citato il Boccaccio per il nome di Commedia, ch’è pagina sua (e cfr., nel séguito del testo, gli altri pochi rimandi che il Buti fa al certaldese). S’aggiunga che un’introduzione scolastica sviluppata su di uno schema che, ognuno che ne sappia, può riconoscere tradizionale, s’addice bene al Buti, maestro di grammatica, lettore nello Studio di Pisa, qualificato a ragione «il grammatico» tra gli antichi commentatori di Dante (C. Hegel, Ueber den historischen Werth der älteren Dante-Commentare, p. 54); al Boccaccio, scrittore grande e originale, no.
[10] Cfr. «poliseno» (è però lezione che ha riscontro nelle stampe del De Genealogiis ); cfr. « iustitia praemiandi et puniendi ».
[11] La rubrica è di altra mamo, ed è posteriore, ma del sec. XV.
[12] M 1 e S leggono «non era» (M 1 è stato poi corretto da mano piú recente); R legge «non c’era»; in M 2 il passo cade nella lacuna segnalata di sopra.
[13] In corrispondenza del passo sopra citato (singolarmente notevole per la questione di cronologia boccaccesca che vi è stata riconnessa), i codd. R (c. 19 r.) e M 1 (p. 232), oltre a riportare a margine alcuni versi del IV della Georgica (219-227), recano, pure a margine, questo appunto o traccia, che nel testo non ha avuto sviluppo conforme: «Estimò Platone essere in ciascuna anima di qualunque animale alcuna parte di divina mente, il che appare nell’api—nelle formiche—nel cavallo d’Alessandro—ne’ leofanti—ne’ leoni—negli uomini». Il materiale delle pagine di cui fa parte il tratto sulla peste di Firenze è desunto dal De casibus (§ De Astiage, § Pauca de somniis ).
[14] Un altro ricordo personale del frate par quello del vol. III, 226 sg., circa il monastero di San Benedetto dell’Alpe. La medesima spiegazione, obbiettivamente esposta, si legge in Benvenuto da Imola.
[15] Una annotazione di A. M. Salvini nel cod. R, in corrispondenza all’anno della peste, dice: «questo commentatore fiorí dopo la peste del 1348».
[16] Citato dal De Batines.
[17] Quali queste rubriche fossero originalmente, non è perspicuo. M 1 scrive: «Capitolo primo della prima cantica della Commedia di Dante Alinghieri» (ma è d’altra mano che il testo); «Allegorie del cap. o primo dello ’nferno (corretto «della prima cantica») della Commedia di Dante Alinghieri»; «Cap. o II o della prima cantica della Commedia di Dante» (d’altra mano), e a margine «Canto II o » (della mano del testo); «Allegorie del II o cap. o della Commedia di Dante (d’altra mano); «Cap. III o » (sulla linea e a margine); «Allegorie del III o cap. o »; e cosí di séguito, generalmente in quest’ultima forma.
S’ha per ogni capitolo una di queste intestazioni: «Capitolo» (o «Canto»), «senso litterale», «senso allegorico», «senso morale», «secondo la lettera», «allegorico», «litterale»; una volta sola, e questa a margine: «Primo cap. o secundum litteram».
R scrive «Canto VI», «Canto VII» ecc., d’ordinario ripetendo quando incomincia il commento allegorico.
[18] Ho tuttavia riprodotta a margine la numerazione delle lezioni giá adottata dal Milanesi per agevolare i riscontri.
[19] In complesso io penso di avere espunto dal Comento meno di quel che si debba; ma ciò non toglie che qualche tratto da me espunto non sia negato a torto al Boccaccio, specialmente negli inizi delle singole trattazioni. Giudichi caso per caso lo studioso; al quale, in mancanza della dimostrazione analitica a corredo del testo (il tipo della edizione non la ammetteva, ma potrá essere eseguita a parte), non dispiacerá ch’io gli tracci una guida sommaria per altre poche pagine oltre il proemio. Le prime, a mio giudizio, sono anch’esse contaminate con i commenti che il rifacitore si trovava fra mano per la compilazione del proemio. Poi le chiare pagine parafrastiche del Boccaccio finalmente compariscono, con poche intromesse piú o men bene riconoscibili (quella, ad es., su Virgilio mago, sproporzionata, se non estranea, al proposito, e affatto nuova nella concezione boccaccesca di Virgilio altrimenti nota), finché la parola «poeta» offre al rifacitore il destro di interpolare, raffazzonandole, piú pagine, della Vita e del De Genealogiis. Quindi ripigliano le pagine autentiche, con altre varie intromesse, sino alla seconda parte del commento di questo I canto, dov’è spiegato il senso allegorico; nella qual parte io credo che non si possa dubitare che la impostazione del discorso è del Boccaccio; ma si potrá dubitare se fosse meglio rescindere dall’inizio dello svolgimento delle idee generali sull’allegoria («In risponsione della qual cosa si possono due ragioni dimostrare..», I, 159) sino all’inizio della spiegazione del canto (I, 164), o tagliar via soltanto quella «terza ragione», che i codici provano non essere stata in una prima stesura, insieme con quel tratto sui quattro sensi, che l’analisi interna e il confronto col Boccaccio autentico ( De Genealogiis, l. I, cap. IV) non consentono di giudicar genuino. E cosí di séguito.
[20] Cfr G. Vandelli e L. Casali, Per le nozze di Teresa Bertoldi con Umberto Monico, Firenze, 1913, p. 17. In questo opuscolo è pubblicato di sul codice Toledano il capitolo relativo alla prima cantica.
[21] La piú recente ristampa dei tre capitoli è stata quella curata da Giuseppe Gigli, in Antologia delle opere minori di G. B., Firenze, Sansoni, 1907, pp. 301-320.
[22] Rubriche della Commedia di Dante Alighieri scritte in prosa, e breve raccoglimento in terzine di quanto si contiene nella stessa Commedia. Edite da G. Comello con introduzione di E. Cicogna e note di G. Veludo, Venezia, tip. Cecchini e C., 1843, 8 o, pp. 72 (per nozze Milan Massari-Comello).—L’opuscolo, sotto il titolo Rubriche e breve raccoglimento della Commedia di Dante: scritture attribuite a G. B., fu ristampato a cura di L. Pizzo con prefazioni di E. Cicogna e osservazioni di G. Veludo (Venezia, tip. Merlo, 1859, 16 o, pp. 80).
[23] G. Vandelli, Rubriche dantesche pubblicate di su l’autografo chigiano, Firenze, Landi, 1908, 8 o, pp. 31 (Nozze Corsini Ricasoli Firidolfi). Vedasi quivi per l’autografia del cod. Chigiano.
[24] Index of authors quoted by Boccaccio in his «Comento sopra la Commedia»: a contribution to the study of the sources of the Commentary, in Miscellanea storica della Valdelsa, a. XXI, fasc. 2-3, n. 60-61 (settembre 1913).