BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO pubblicata da T. CASINI e V. FIORINI.—N. 4
GARIBALDI IN TOSCANA NEL 1848
DI
GIOVANNI SFORZA
ROMA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI 1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società si ritengono per contraffatti.
(7931) Roma, Tipografia Enrico Voghera.
I.
Garibaldi dopo la giornata di Morazzone (26 agosto 1848) riparò nella Svizzera, dove cadde ammalato; poi, verso la metà di settembre, per la via di Francia si ridusse a Nizza.
Carlo Gemelli, Commissario del Governo di Sicilia in Toscana, il 20 di quello stesso mese scriveva a Vincenzo Fardella marchese di Torrearsa, Ministro degli affari esteri in Palermo: «La prevengo che volontariamente verranno molti italiani, fra i quali ve ne son parecchi valorosi, ma son gente però di opinioni estreme. Sarebbe assai utile d'invitare il Garibaldi, che sta in Nizza, uomo atto alla guerra che si combatte in questo momento presso di noi[1]». Il consiglio trovò ascolto; e di lí a poco, essendo Garibaldi andato a Genova, ecco che vi arriva Paolo Fabrizi, e a nome del Governo Siciliano lo invita a correre in aiuto dell'isola pericolante. Il Generale promise il suo braccio. «Io acconsentiva contento»; lo confessa nelle Memorie, e soggiunge: «con settantadue de' vecchi e nuovi compagni, la maggior parte buoni ufficiali, c'imbarcammo a bordo d'un vapore francese a quella volta. Toccammo Livorno: io contavo di non sbarcare, ma saputo il nostro arrivo da quel popolo generoso ed esaltato, fu forza cambiar di proposito. Sbarcammo[2].»
[1] GEMELLI C., Storia delle relazioni diplomatiche tra la Sicilia e la Toscana negli anni 1848-49. Torino, Franco, 1853, p. 41.
[2] GARIBALDI G., Memorie autobiografiche, Firenze, Barbèra. 1888, p. 208.
Sul soggiorno di Garibaldi in Toscana nel 1848 molto è da dire, anche dopo tutto quello che lui stesso ne ha scritto; non sarà dunque disutile rifare, colla scorta di nuovi documenti, la storia d'un episodio, che è sconosciuto in grandissima parte.
II.
Il Montanelli fin dal 21 d'ottobre aveva ricevuto incarico dal Granduca Leopoldo II di formare un nuovo Ministero. Vi era appunto intorno, quando, nella mattinata del 25, ebbe da Livorno questo telegramma: «È giunto nel porto, sul vapore Pharamond, proveniente da Genova, il generale Garibaldi. Sembra che vada in Sicilia. Sono stati dati gli ordini perché sia ricevuto in modo conveniente a sí illustre italiano.»
Il Corriere Livornese, diretto allora da Giovanni La Cecilia, scriveva: «Alle 8 stamane giungeva l'avviso che il prode generale Garibaldi era a bordo del pacchetto a vapore Pharamond, giunto da Genova. Il sig. La Cecilia disponeva subito che una guardia d'onore della nostra milizia cittadina, comandata da un ufficiale, presidiasse la dimora dell'illustre italiano. In pari tempo la guardia municipale vi mandava un suo distaccamento; e numerosissimo popolo, avendo alla testa moltissimi officiali dello stesso corpo, si recava ad incontrarlo. La Via Grande e la Piazza decoravansi quasi tutte a festa, ed immenso popolo applaudiva all'eroe di Montevideo… Forti e generose parole ha detto al popolo il Generale, ed ha salutato, in fine, la Costituente italiana. Tutti i cittadini delle diverse classi si sono affollati per visitare e conoscere da vicino il nostro Garibaldi, che si crede disposto a partire per la Sicilia, e che il popolo livornese vorrebbe invece rimanesse ora in Toscana.»
Di questo desiderio del popolo livornese si fecero eco i consiglieri Menichetti e Isolani, che, dopo la partenza del Governatore, reggevano, per quanto era possibile, la bollente e irrequieta città. E lo stesso giorno 25 d'ottobre, alle undici della mattina, cosí telegrafavano al Montanelli: «Garibaldi, sebbene diretto per la Sicilia, non sarebbe alieno dal prestare i suoi servigi al Governo Toscano. Rispondete che cosa ne pensate. Egli partirebbe di qui alle quattro pomeridiane, se non vi sono avvisi in contrario». Era già da una mezza ora sonato il mezzogiorno e la sospirata risposta non veniva. Allora fu telegratato di nuovo al Montanelli: «Occorre che sia data sollecitamente qualche risposta al primo dispaccio intorno alla presenza del generale Garibaldi». La risposta venne spedita da Firenze alle tre, e diceva: «Non essendo ancora costituita la nostra autorità, non posso promettere nulla di positivo a Garibaldi. Se può, differisca con la sua partenza». Com'era naturale, non piacque punto. Il Menichetti bisognò che si recasse sull'atto a Firenze a farsi interprete di questo desiderio, che aveva tutta l'aria d'un comando. L'Isolani ne avvisò, senza metter tempo in mezzo, il Montanelli. «Menichetti», cosí gli diceva, «è partito per Firenze: ha bisogno urgente di parlarti: occorre che tu sia reperibile all'arrivo del treno». Il popolo d'aspettare non la intendeva per niente, e il povero Isolani, tredici minuti dopo, fu obbligato a telegrafargli di nuovo: «Il popolo di Livorno vuole a qualunque patto che Garibaldi rimanga al servizio della Toscana. Si è riusciti a trattenere la partenza del vapore, che lo condurrebbe in Sicilia, fino alle sette. Occorre avere subito una risposta decisiva. Il popolo è molto agitato». Lo stesso Garibaldi si fece avanti da per sé con questo telegramma al Montanelli, scritto alle sette e quindici minuti della sera: «Domando se prende Garibaldi al comando delle forze toscane, e opera contro il Borbone: sí, o no. GARIBALDI». Il Montanelli alle otto e sei minuti replicava non a lui, ma all'Isolani: «Confermo quanto ho già scritto, che se Garibaldi può trattenersi, gli daremo risposta appena il Ministero della guerra sarà istallato. Ma nel momento non abbiamo autorità». Ventitrè minuti dopo telegrafò a Garibaldi stesso, dicendogli: «Per rispondervi, bisogna che prima io conosca quali sono le forze toscane. Finché il Ministero non è istallato non possiamo dir nulla». La missione del Menichetti, come era da aspettarsi, non approdò a niente. «Ho esposto il tutto a Montanelli» (telegrafava all'Isolani alle nove e trentacinque minuti della sera) «e mi ha dato la stessa risposta che ha già inviata a Garibaldi, che cioè non possono prendere nessuna misura finché non è costituito il Ministero[1].»
[1] Documenti del Processo di lesa maestà istruito nel Tribunale di Prima Istanza di Firenze negli anni 1849-1850, Firenze, Tip. del Carcere alle Murate, 1850, p. 372 e segg.
Il giorno dopo, il Corriere Livornese dava i seguenti ragguagli: «Garibaldi è rimasto fra noi, perché il cuore e la mente di Garibaldi hanno compreso il popolo toscano e il valore dell'inaugurata Costituente italiana. Garibaldi non è rimasto insensibile alle dimostrazioni de' livornesi. Egli è rimasto, sperando cosí di essere piú utile alla Sicilia in particolare ed alla causa italiana. Noi desideriamo che egli venga preposto immediatamente al comando supremo delle nostre truppe, per ricondurle alla disciplina e all'amore della patria, che sempre dovrebbero sentire».
Con ingenua schiettezza Garibaldi confessa nelle sue Memorie d'aver commesso uno sbaglio nello scendere a terra e restare in Toscana. «Io piegai, forse indebitamente», (son parole di lui) «alle sollecitazioni di quella popolazione, la quale frenetica pensò che noi ci allontanavamo torse troppo dal campo di azione principale. Mi si promise che in Toscana si formerebbe una forte colonna, e che, accresciuta di volontari cammin facendo, si poteva per terra marciare sullo Stato Napoletano, e coadiuvare cosí piú efficacemente alla causa italiana e alla Sicilia. Mi conformai a tali proposte, ma mi avvidi ben presto dello sbaglio. Si telegrafò a Firenze, e le risposte circa i progetti menzionati erano evasive. Non si contrariava apertamente il voto emesso dal popolo livornese, perché se ne avea timore, ma da chi capiva qualche cosa si poteva dedurne il dispiacere del Governo. Comunque fosse, era la fermata decisa, e partito il vapore[1]».
[1] GARIBALDI, Op. cit. p. 208.
Garibaldi, risoluto che ebbe di fermarsi, andò a stare in casa di Carlo Notary, dove già aveva preso stanza la moglie Anita; «ed era giusto», soggiunge il Corriere Livornese, «che Carlo Notary, da tanti anni propugnatore delle nostre libertà, che negli ultimi avvenimenti dette le piú chiare prove della sua devozione sincera al bene della nostra città, ospitasse Garibaldi, uno dei piú puri e valenti italiani.»
III.
Anche il giorno 26 ricominciò la solita storia dei telegrammi. Ecco quello che fece l'Isolani al Montanelli: «Garibaldi ha differito per ora la sua partenza per la Sicilia, attendendo istruzioni dal Governo. Ieri sera sono scesi a terra gli uomini della sua legione e hanno preso alloggiamento in città. Ho dato ordine perché sia provveduto alla loro sussistenza»[1]. Il Montanelli fece orecchi da mercante; ma, tempestato dal Notary, perdette la pazienza, e replicò: «Ho già risposto a Garibaldi. Lasciateci un poco in pace. Lavoriamo il programma[2], che quantunque breve, richiede discrezione e meditazione». Poi, pentitosi d'aver parlato cosí, sedici minuti dopo indorava la pillola con questo nuovo telegramma: «A noi piace molto il prode italiano, e hai fatto bene a trattenerlo. Ma ancora non sono venuti i decreti[3], per causa di quelle solite formalità, e non possiamo prendere alcuna determinazione.»
[1] Il Corriere Livornese cosí racconta lo sbarco de' garibaldini: «I militi di Garibaldi (circa settanta) sbarcavano circa le undici pomeridiane, ed erano provveduti immediatamente di alloggio e di quanto loro bisognava».
[2] Il programma politico del nuovo Ministero, che fu letto alle Camere il 28 d'ottobre.
[3] I decreti di nomina de' nuovi Ministri vennero sottoscritti dal Granduca il 27 d'ottobre e pubblicati lo stesso giorno nella Gazzetta di Firenze, n. 267.
Per due giorni fu lasciato in pace; ma il 30 siamo alle solite, e chi torna a insistere è il Notary. Questa volta fa capo al Guerrazzi, a cui telegrafa: «Ieri sera (29), con la scusa degli Elbani[1], spiacevoli fatti; sortita della truppa a fraternizzare; qualche cristallo rotto. Questo è tutto il danno reale, ma il danno morale è maggiore. Io ero al teatro con Garibaldi; non potei reprimere. Grandi ovazioni a Garibaldi. Subito che si può, vi prego pensare per lui. Dite se lo volete costà.»
[1] Il giorno 27 era arrivato da Portoferraio il vapore Il Giglio con una deputazione di centoventi elbani, venuti a fraternizzare co' livornesi.
Di lí a poco ecco che capita a Garibaldi una staffetta da Genova, che gli reca queste notizie: «Pepe uscí di Venezia, batté gli Austriaci, riprese Mestre, 400 prigionieri e 4 cannoni. Per tutta Venezia si suona a stormo. I nostri sulle vie di Treviso. La Valtellina e tutta la Lombardia insorta». Che il Pepe avesse fatto una sortita da Venezia, e con lieta fortuna, era vero; il resto, in grandissima parte, fandonie. Ma in quei giorni chi piú le sballava grosse, piú trovava fede. Infatti, per darne qualche esempio, Piero Gironi scriveva da Lugano il 29 ottobre al Notary: «Insurrezione in Valtellina bene sviluppata. Vi sono molte colonne che marciano su Bergamo. Queste notizie sono ufficiali. Questa sera entriamo in Italia con D'Apice, che si metterà alla testa dell'insurrezione. Se di costà ci aiutate con un diversivo sopra Modena, noi potremo essere a Milano sabato o domenica»; e il giornale La Concordia di Torino stampava: «Garibaldi è partito precipitosamente da Livorno per accorrere alla testa degli insorti. Egli saprà certamente ripetere le lezioni di Luino! Il solo suo nome basta a mettere la confusione fra i cagnotti di Haynau; che farà poi la sua presenza, ora che è sostenuto anche dagli abitanti?».
Garibaldi non si mosse. Per un istante, peraltro, vagheggiò il pensiero di valicare l'Apennino. Si ritrae da un telegramma del La Cecilia al Montanelli, fatto lo stesso di 30, che dice: «Garibaldi parte domani per Lombardia. Occorrono domani vesti e armi per il primo corpo di volontari che parte per Lombardia». Il Notary, alla sua volta, ne avvisava il Guerrazzi: «Garibaldi vuol partire col primo treno per la via di Parma. Istruzioni subito. In Genova sono a sua disposizione denari e uomini, che lo raggiungeranno per terra». Silenzio assoluto da parte del Montanelli e del Guerrazzi per tutta la giornata: in quella seguente, non al La Cecilia, ma all'Isolani, il Montanelli telegrafava: «Farai sapere che domani» (primo di novembre) «nel Consiglio ci occuperemo dei provvedimenti richiesti per cooperare alla guerra d'indipendenza. Dio voglia che le notizie della Lombardia siano vere». L'Isolani, non sapendo come uscirne, ricorse al Guerrazzi. «Gli uomini di Garibaldi», son sue parole, «chiedono di essere armati ed equipaggiati a spese dello Stato, per marciare in Lombardia. Qual'è la volontà del Governo?» La risposta venne lo stesso giorno; e fu mandata a voce, col mezzo di Silvio Giannini; ma non riuscí gradita, come si ricava da questo arrogante dispaccio del Notary al Guerrazzi: «Male, malissimo è il mandare ambasciate per mezzo di terzo. Giannini dice che D'Ayala non vuole Garibaldi, perché ha già sei generali: ma buoni a che? Garibaldi poteva essere in Palermo. Il vóto pubblico lo volle e lo vorrebbe qui; voi non volete: poco importa. Vedrete le conseguenze. Capita occasione per mandarlo via, senza strepito, con poche armi, poche cose; se ne sorte; e si negano.—Comincia a brontolarsi.—Pensiamo bene, e non parliamo a tutti.»
Venne deciso che in quello stesso giorno Garibaldi sarebbe andato a Firenze per trattare a voce col Ministero; ma sul piú bello capita a Livorno il Castellani, incaricato d'affari di Venezia. E Garibaldi, muta a un tratto proposito, e comincia a vagheggiare il pensiero d'offrire la sua spada alla Regina dell'Adriatico. Il Notary, piú che mai indispettito, ne avvisa il Guerrazzi. «L'arrivo qui del Castellani», telegrafa, «sospende la gita costí di Garibaldi. Questa sera, vedrete che ci sarà scamottato. Saremo, o no, criticati»? Il giorno appresso, primo di novembre, il Guerrazzi risponde: «Si concedono le cose che domanda il generale Garibaldi». Questo dispaccio s'incrocia con quello del Petracchi, capo popolo livornese che annunzia: «Il Garibaldi parte domani per Firenze insieme alla sua colonna di ottanta individui circa ». Perduta ogni speranza di esser preso al servizio della Toscana, s'era finalmente deciso d'andare a Venezia, con piacere grandissimo del Ministero democratico, che visto che partiva davvero, cominciò a fargli ponti d'oro. Infatti il Presidente del Consiglio gli mandava a dire: «Non vi saranno difficoltà a concedere ciò che si richiede. Vorremmo sapere l'itinerario. Potrebbe la colonna dividersi nel viaggio, per poi riunirsi sulla frontiera. Rispondete». Garibaldi replicava subito: «La legione è di 85 uomini. Fino a Firenze verranno riuniti. Costi farò ciò che crederete per la via di Bologna. Grazie per le concessioni». A Mariano D'Ayala, Ministro della guerra, taceva le sue domande con questo foglio, tutto di sua mano:
Autorizzazione di arruolare individui per la colonna Garibaldi.
300 capoti.
300 paia di scarpe.
250 fucili con baionetta e corredi.
20 spade o squadroni per ufficiali con cinturoni.
Il sussidio dei mezzi che piacerà al sig. Ministro per poter arrivare sino a Bologna.
3 cavalli con una sella.
Se il governo toscano desiderasse che questa colonna fosse annessa all'esercito Toscano, sussidiariamente potrebbe allora dare i suoi ordini a proposito, al capo della forza ed alle autorità locali, ove detta colonna potrebbe transitare.
3 carri per il trasporto delle munizioni e bagagli.
Una guida per la marcia.
Ordini al capo della frontiera cogli Stati Sardi di di ausiliare a una compagnia mantovana ed altri individui venuti da Genova [1] acciò possano incorporarsi alla colonna sulla strada di Bologna.
[1] Erano i resti del battaglione degli studenti di Mantova, che ascendevano a circa quattrocento. Ne faceva parte anche Nino Bixio, che in un suo taccuino, avuto in dono da Goffredo Mameli, cosí ne descrive l'itinerario:
Partito da Genova con un avanzo della Legione Mantovana il 3 novembre 1848.
A Pontremoli il 5 novembre.
Da Pontremoli il 10 idem.
A Firenze il 15 idem.
Da Firenze il 16 idem.
A Ravenna il 21 idem, dove raggiungiamo la legione Garibaldi.
Cfr. GUERZONI G., La vita di Nino Bixio, Firenze, Barbèra, 1875, pag. 70.
1000 pacchi cartatucci da fucile.
Del resto si starà alla generosità del cittadino Ministro ed ai suoi ordini in tutto ciò che riguarda la presente richiesta[1].
[1] Cfr. Memorie di Mariano D'Ayala e del suo tempo (1808-1877) scritte dal figlio MICHELANGELO, Roma, Bocca, 1886, pag. 169.
Lo stesso giorno, a Giovanni Vecchi, medico chirurgo di Casteggio, che per lettera gli manifestava il desiderio d'accompagnarlo, Garibaldi rispondeva: «Noi non potremmo passare da Casteggio, ma dirigendosi per Firenze noi prenderemo il cammino della Lombardia, o del Veneto[2].»
[2] GARIBALDI G., Epistolario, Milano, Brigola, 1885; I, 22.
Come Dio volle, il 3 novembre lasciò Livorno. «Il nostro soggiorno in Livorno fu breve»; cosí ne parla nelle Memorie: «si ricevettero alcuni fucili, ottenuti piú dalla buona volontà di Petracchi, capo popolano, e dagli altri amici, che da quella del Governo. L'aumento di numero della nostra forza era insignificante. Si disse di marciare a Firenze, dove si farebbe di piú; ma fu peggio.»
La stessa mattina de' 3 l'Isolani telegrafava al Guerrazzi: «Col secondo treno è partito per Firenze Garibaldi con i suoi uomini. Sommano a novanta. Sono armati. Petracchi ha consegnato loro i fucili». Il Notary, parecchie ore dopo, inviava questo telegramma al Montanelli: «Garibaldi pranza da te. Avvertilo che la sua consorte è partita con l'ultimo treno. Col treno stesso vi sono dei fucili e munizioni. Che Garibaldi, o Bardi, pensino a ritirarli. Salute».
IV.
Il giornale fiorentino L'Alba cosí ne annunziava l'arrivo: «Stamani, a mezzogiorno, è arrivato a Firenze [1] il generale Garibaldi con ottantaquattro uomini che lo seguono. È stato incontrato alla stazione della via ferrata Leopolda da eletta schiera di cittadini, da bandiere e dalla banda militare, che per via Borgognissanti lo hanno accompagnato alla casa De Gregori, in piazza S. Maria Novella, destinatagli per abitazione. Lungo il cammino la folla era immensa e plaudente; gli applausi sono divenuti piú fragorosi ed unanimi sulla piazza. Il Garibaldi si è fatto al terrazzo e ha pronunziato all'incirca le seguenti parole: Immensa è la gratitudine che io sento per voi, o Toscani. Né essa nasce oggi, ma rimonta a epoca piú lontana, all'epoca in cui il popolo toscano fu il primo a onorare quel poco che avevo fatto per l'America[2]. Io credo però che la simpatia che mi dimostrate, più che all'individuo, sia al principio che intendo sostenere sui campi italiani, e in questo senso io vi debbo una maggior gratitudine. Il popolo toscano, senza far torto agli altri, è colto e gentile; ad esso spetta perciò maggiormente a dimostrare quanto gli stia a cuore e quanti sacrifici meriti la nostra patria. La vostra simpatia mi è cara, perché diretta alla causa italiana, per la quale ho combattuto. Sono persuaso che voi, Toscani, il piú intelligente e gentile dei popoli italiani, saprete nel tempo stesso esser quello che piú senta la vergogna della nostra posizione attuale. E non dubito che vorrete difendere fino all'ultimo istante quella causa per la quale tutti dobbiamo sacrificare le sostanze e la vita. Nuovi applausi. Il sig. Niccolini, romano[3], ha dette calde parole analoghe alla circostanza, chiudendo: Viva Garibaldi, viva l'Italia. Il Garibaldi si è ritirato: nuovi strepitosi applausi. Garibaldi, ritornato solo sul terrazzo, ha detto: La mia anima è con voi, o Toscani; dovunque mi conduca il destino, la mia anima resterà sempre con voi e coll'Italia.»
[1] Appendice N. I.
[2] Fino dal 1846 Cesare De Laugier, il condottiero futuro de' Toscani alla guerra dell'indipendenza, co' torchi del Fumagalli aveva stampato a Firenze i Documenti intorno a Garibaldi e la legione italiana a Montevideo; e in Toscana, per opera sopratutto di Carlo Fenzi e di E. Cesare Della Ripa, era stata aperta la sottoscrizione per offrire una spada d'onore al prode soldato. La eseguí con molta bravura Francesco Vagneti, e può vedersene il disegno nel Mondo illustrato di Torino (ann. II, N. 19, sabato 13 maggio 1848), insieme con la descrizione che ne fece Luigi Cicconi, intitolata: Spada destinata in dono a Giuseppe Garibaldi. Anche lo stesso autore, il Vagneti, ne fece una descrizione: cfr. La spada che l'Italia destina al general Garibaldi, nella Rivista di Firenze, N. 64, del 21 giugno 1848. Garibaldi fin da quando era in America vagheggiava di ridursi in Toscana, e di pigliarvi servizio co' suoi compagni d'arme. Si rileva da questa lettera del Console di Montevideo a Genova, scritta il 5 marzo del '48: «L'altro «giorno giunse a Genova la moglie del generale Giuseppe Garibaldi con i suoi tre figli. Il Garibaldi a quest'ora ha lasciato Montevideo per venire in Italia con una parte della sua legione. Qui si fece una dimostrazione alla sua moglie appena giunse, e le venne presentata una bandiera tricolore, che accettò piangendo e gridando: viva l'Italia e gl'italiani. Domani l'altro essa partirà per Nizza, e arrivato che sia il marito, verranno a stabilirsi in Toscana, dove Garibaldi ha intenzione di prendere servizio insieme colla sua legione». Cfr. Rivista di Firenze, supplemento al N. 19 dell'8 marzo '48.
[1] Costui, che ebbe tanta e cosí brutta parte ne' rivolgimenti toscani del 1848 e '49, nel seguente modo parlava di sé in un foglio volante a stampa, ora introvabile: «Toscani. Io mi presento a voi e vi chieggo il vostro suffragio, sia per la Costituente, sia per la Legislativa: e perché possiate darlo in conoscenza di causa, vi dirò poche e semplici parole della mia vita e della mia fede politica. Uno dei piú ardenti rivoluzionari del '31, imprigionato appena fu spenta la rivoluzione, fui messo in libertà per l'amnistia del giugno; rimprigionato di nuovo, fui reso alla libertà nella venuta delle truppe francesi in Ancona. Là e con gli scritti e colla parola propugnai la causa della libertà, e per quanto fu in me cercai di suscitare nel popolo odio per la dominazione straniera e per quella del potere temporale dei papi. Miei furono tutti i proclami rivoluzionari usciti in quel tempo alla luce. Arrestato dallo stesso generale Cubiers nella stamperia, mentre correggeva le prove della risposta alla bolla di scomunica che Gregorio aveva lanciata contro quella città, fui costretto ad esulare. In compagnia di quel santo martire Ricciotti, transitai per Firenze, da cui venimmo espulsi in tre ore, e non giungemmo a Livorno che per essere posti in fortezza; tale era l'ospitalità di colui di Lorena! Giunto a Parigi, protestai pubblicamente contro la condotta dei Francesi in Ancona. Quel grande di Lafayette lesse la mia protesta alle Camere, e mi scrisse lettera, che preziosamente conservo, encomiando la mia condotta in Ancona ed in Francia. Membro della Società dei Veri Italiani, presieduta dal tanto celebre Buonarruoti, quindi vicepresidente, fui uno dei redattori della Costituzione da presentarsi all'Italia il dí della rivoluzione, le cui basi erano l'unità e la repubblica, la cui capitale era Roma. Questa costituzione, scritta tutta di mio pugno, fu litografata, e ne conservo una copia. Fino d'allora adunque era repubblicano unitario. Durante i sedici anni di esilio, sia in Francia, sia a Londra nella Società Democratica, di cui fui anche presidente, combattei sempre per la santa causa del popolo. Tornato in Italia, mi fissai a Roma. La stampa non essendo ancor libera, con iscritti clandestini mi detti a minare il Governo dei preti e il potere dei gesuiti; e perché in Roma difficilmente si trovavano stampatori, in Livorno mandava i miei manoscritti, e di là mi tornavan stampati. Uno dei fondatori del Circolo del Popolo in Roma, di cui compilai gli statuti, andava giornalmente facendo proseliti alla causa della libertà e minava sempre più il potere clericale. Ma questo, al solito, mi chiuse la bocca; imprigionato, fui cacciato di Roma, benché cittadino romano, e rilegato a Bologna. Non vi era ancor giunto, che si proclamò la guerra. Chiamati tutti i miei amici alle armi, corsi verso Bologna; e là impaziente degli indugi che Pio IX poneva al passaggio del Po, precipitai la partenza e con cinque compagnie accorsi a Venezia. Incaricato di molte e interessantissime missioni; officiale di stato maggiore, combattei come soldato a Cornuda, a Treviso, a Primolano; e conservo lieve, ma gloriosa vestigie di quel combattimento. Le nostre cose andate in ruina, venni in Toscana; e sarà inutile il dire il poco che potei fare, perché da tutti è conosciuto. Il popolo mi vide sempre fra le sue file e alla testa quando si trattò di ridomandare o di far riconoscere i suoi diritti non solo, ma anche quando pochi scellerati Io volean trascinare ad azioni che potean disonorarlo. Tale io mi fui. Io vi chieggo con confidenza il vostro suffragio, perché ho la coscienza che non tradirò le vostre speranze, se voi volete eleggere uno che sia repubblicano unitario. Se metterete il mio nome nella scheda vi prego ad aggiungervi: Niccolini di Roma. Firenze, li 5 marzo 1849. G. B. NICCOLINI di Roma».
In que' giorni era capitato a Firenze Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino, che, dopo aver messo il maggiore scompiglio in Roma, veniva ad aumentarlo in Toscana; vi erano pure capitati i due Romeo, Gio. Andrea e Pietro Aristeo, i quali avevano diretto l'insurrezione delle Calabrie; e dietro loro e con loro gente d'ogni paese e condizione. La sera de' 5, per festeggiare Garibaldi, fu tenuta una straordinaria adunanza del Circolo del Popolo [1]; «uno fra i Circoli che in Firenze esercitavano la influenza maggiore e la piú notevole», e che «nato nella sala di una quieta e remota contrada della riva sinistra dell'Arno, divenne ben presto cosí numeroso, e di tanto concorso di uditori affollato, che v'ebbe la necessità di trasferirne la sede in un locale assai piú spazioso, e fu trasferita nel Teatro Leopoldo»[2]. Di questo Circolo era stato anima il Guerrazzi; poi, salito che egli fu al potere, ne assunse la presidenza Carlo Pigli, uomo, come ben disse il Ranalli, «d'ingegno balzano, quanto ingordo di danaro», che «parlava sempre, quasi mai a proposito, con voci e gesti e pensieri da matto»[3]. Di quella adunanza cosí scrive il Pigli stesso: «Prevedendo che il Teatro Leopoldo non sarebbe in questa occasione bastato a contenere lo straordinario concorso del popolo, fu chiesto e ottenuto il Teatro Goldoni. La sera del 5, poco dopo il tramonto, quel Teatro, per quanto vasto, era pieno e incapace di una sola persona di piú. Alle ore otto io introduceva nel palco scenico, ov'era il seggio della presidenza, il principe di Canino, il generale Garibaldi e i due Romeo, ricevuti in mezzo a vivissimi applausi. Presentandoli al Circolo, accennai di ciascuno i particolari titoli, e conclusi col ceder loro la presidenza»[4]. S'accese quindi una gara tra il Pigli, il principe di Canino e il generale Garibaldi a chi le dicesse piú grosse[5]. Garibaldi si sbracciava a sostenere che bisognava «violentare il Governo ed eccitare il popolo»; e finí esclamando: «Oggi mi pare che l'Italia è in una alternativa co' suoi reggitori, cioè di rovesciarli, o di trascinarli: non c'è via di mezzo: una delle due» Il Pigli prese addirittura a recitare la parte di Robespierre. «La terra s'agita», cominciò a gridare: «freme insanguinata, e aspetta sangue e poi sangue; e Dio disperda li augurii. Ma, e come sarebbe possibile che in un momento tremendo di rivoluzione e di crisi l'aspetto della società si cangiasse senza avvenimenti di sangue? A guardar bene, o cittadini, si direbbe che la libertà, a somiglianza di tutte le potenze del mondo, stabilir non si possa che pel diritto della conquista. Infatti si tratta adesso di una quistione interamente sociale, e precisamente si tratta dell'ultimo periodo dell'antica lotta tra le caste privilegiate, che debbono scendere, e il popolo diseredato, che deve salire. Pensate ora quante mai sono le vittime condannate a cadere ai piedi dell'altar della patria. Fra queste vittime vi è l'aristocrazia delle pergamene, ché da qui innanzi i meriti e le distinzioni saranno conferite, non già pel merito degli avi, ma pel merito proprio. Fra queste vittime vi è l'aristocrazia del danaro, ché da qui innanzi la vera proprietà sarà la proprietà personale; e v'è finalmente l'aristocrazia della mediocrità, questa immensa famiglia di monocoli e peggio, che innalzata da un potere che aveva bisogno di satelliti oscuri, sarà col tempo costretta a spogliare le usurpate divise, in faccia a un altro potere, santo e irresistibile, la pubblica opinione!»
[1] Garibaldi era stato eletto per acclamazione socio onorario del Circolo nell'adunanza del 2 novembre, e il vicepresidente G. Chiarini e il segretario T. Menichelli si recarono il giorno appresso dal generale per partecipargli la fatta nomina, che «fu dall'illustre italiano accettata con quella gentilezza che lo distingue».
[2] PIGLI C., Risposta all'Apologia di F. D. Guerrazzi, Arezzo, Borghini, 1852, p. 76.
[3] RANALLI F., Le Istorie Italiane, Firenze, Le Monnier, 1859, II, 493.
[4] Pigli, Op. cit, p. 81.
[5] Appendice II.
Senza avvedersene, parlando de' «monocoli e peggio», innalzati «da un potere che aveva bisogno di satelliti oscuri», accennava proprio a sè stesso: il giorno dopo il Pigli fu nominato Governatore di Livorno![1]
[1] Appendice III.
V.
Del suo soggiorno a Firenze Garibaldi cosí discorre nelle proprie Memorie. «In Firenze accoglienza magnifica dal popolo, ma indifferenza e fame per parte del Governo, e fui obbligato d'impegnare alcuni amici per alimentare la gente. Era il Duca nella capitale della Toscana. Si diceva però la somma delle cose nelle mani di Guerrazzi. Io scrivo la storia, e spero di non offendere il grande italiano, se dico il vero. Montanelli, acclamato meritamente dalla generale opinione, lo trovai però quale me l'ero immaginato, leale, franco, modesto, volente il bene dell'Italia, col cuore fervido d'un martire; ma l'antagonismo d'altri neutralizzava qualunque buona determinazione, e poco valse perciò la breve permanenza al potere del prode e virtuoso soldato di Curtatone». A Mariano D'Ayala, Ministro della guerra, che al pari del Guerrazzi non vedeva l'ora che andasse via dalla Toscana, l'8 di novembre indirizzò questa lettera: «Cittadino Ministro. Sono a pregarlo di avere la bontà ordinare che mi sia rimesso il foglio di rota per centocinquanta uomini che penso far partire domattina buonora per Calfaggiolo conformandomi con il convenuto con voi, e se poteste avere la bontà di farmi rimettere pure cinquanta fucili ve ne sarò sommamente grato. Comandate a tutto al vostro G. GARIBALDI»[1].
[1] D'AYALA, Op. cit., pag. 170.
Lo stesso giorno pigliava commiato dalla cittadinanza con le seguenti parole a stampa: «Toscani! Accolto in mezzo a voi con generosa gioia, quale conviensi ad uomini valenti, che raccolgono un vero amico, non vi parrà ch'io vi aduli, nobili Toscani, quando io vi dico che insuperbisco de' vostri plausi, dell'affetto vostro. E ben a ragione siete voi que' Toscani che a Curtatone, a Montanara, e sui colli a S. Giorgio fatti schivi omai del titolo di gentili che a sí buon dritto meritavate, degni vi faceste invece del titolo di strenui e di forti. Io vi lascio, per correre ove i destini d'Italia paion chiamarmi: non mi divido da voi, né mi separo coll'animo, colle speranze. Trovai a Livorno impareggiabili cittadini, grandemente benemeriti del risorgimento della nazione italiana; a Firenze un Ministero uguale alla grandezza dei tempi, perché degno del popolo e dei destini della gran patria comune; in tutta Toscana mi occorre un popolo impaziente di lavar quelle macchie, che mani venali e vendute cosparsero sul nome italico. Dio resti con voi. Dio ci accompagni. Emuliamo i sublimi Viennesi, sdegnosi della tirannide. Se per avventura io dirizzerò i miei passi là dove colle armi e col sangue uopo sarà decretare della vittoria, non fia mestiere levar la voce per attirarvi su quella via ove precederovvi; i prodi san rivenire le orme dei prodi. Confidate, o Toscani, nella inconcussa giustizia della causa nostra, e state adocchiando l'occasione. Dove si snuderanno i nostri brandi, ben esser potrete certi che ivi si agiteranno le sorti della libertà e della nostra Italia. Viva Toscana! Viva Italia!»
Lasciato dunque il soggiorno di Firenze, che gli sembrò «inutile e tedioso», fermò il proposito di «passare in Romagna», dove «sperava far meglio»; tanto piú che dalla Romagna gli sarebbe stato piú facile di recarsi a Venezia per la via di Ravenna. S'accinse dunque a passar l'Apennino co' suoi. «Sulla strada», lo confessa non senza rammarico, «ove dovevamo avere i necessari sussidi per provvedimento del Governo Toscano, altro non trovammo che la benevolenza degli abitanti, volonterosi, ma insufficienti ai bisogni nostri. Una lettera del Governo suddetto ad un Sindaco della frontiera limitava la sussistenza ed ordinava lo sgombro agli importuni avventurieri». Era una lettera del Ministro dell'interno F. D. Guerrazzi; e quel Gonfaloniere (cosí si chiamavano i Sindaci a quel tempo nella Toscana) ebbe la dabbenaggine di fargliela leggere, come confessa lo stesso Garibaldi: «Io aveva letto la comunicazione di quel Governo al Sindaco, nella quale si raccomandava di liberarsi di noi al piú presto». Né questa fu la sola lettera poco amorevole verso Garibaldi e i suoi seguaci, che uscisse in quei tempi dalla penna del romanziere livornese, diventato Ministro. Al R. Delegato della Lunigiana, impaurito de' discorsi sovversivi che andava facendo una mano di volontari lombardi, che da Pontremoli moveva alla volta di Firenze per raggiungere Garibaldi[1], scriveva: «Sono un diluvio di cavallette. Consideriamole come una piaga di Egitto, ed operisi con tutti i nervi onde presto passino e contaminino meno luoghi che sia possibile» [2].
[1] La lettera del R. Delegato di Lunigiana, E. Sabatini, al Ministro Guerrazzi è questa:
«Informai nel decorso giorno (7 novembre '48) l'E. V. che una parte del corpo franco Garibaldi erasi, lasciata Genova, raccolta in questa città (Pontremoli); confermo che dimani (9 novembre) si muove alla volta della capitale. Ora debbo aggiungere all'E. V. che il soggiorno di quei militi nel Granducato può essere cagione d'inquietudini; poiché il tema dei loro discorsi al popolo, con cui cercano di stringere rapporti, si è che la miglior forma di governo è la repubblicana, e che neppure il regime costituzionale è buono, perché i Principi sono traditori e nemici del popolo. Lodano le defezioni delle truppe regolari, predicano il diritto che hanno i soldati di dare giudizi delle persone e degli ordini dei loro capi. Parlano anche male del presente Ministero toscano, perché non ha abrogato il Principato e cacciato il Granduca».
Questa «parte del corpo franco Garibaldi» era formata degli avanzi, già ricordati, del battaglione degli Studenti mantovani. Garibaldi, nel suo breve soggiorno in Toscana, spinto dal desiderio ardentissimo d'accrescere la propria legione (la quale non ascendeva a «circa cinquecento volontari», come vuole il Guerzoni, ma ad ottantacinque uomini, come telegrafò il Generale stesso al Montanelli), fece appello alla gioventù, col mezzo de' Circoli. Nella Gazzetta di Lucca de' 6 di novembre si leggeva il seguente invito, che il giornale lucchese non fu il solo a stampare: « Battaglione della Morte. Il prode generale Garibaldi è intento a formare un battaglione di scelti e animosi individui italiani, i quali abbiano volontà irremovibile di ottenere la intera indipendenza d'Italia, o morire. I lucchesi, validi e schietti amatori d'Italia, vorranno, speriamo, concorrere a formare questo battaglione, modello per disciplina e valore nella guerra imminente. Il battaglione sarà comandato dal generale Giuseppe Garibaldi, e avrà per cappellano il padre Alessandro Gavazzi. Alle stanze private del Circolo di Lucca, per incarico ricevuto dal detto Generale, sono ostensibili le condizioni per esser messi a far parte di questa eletta di prodi, e il figurino dell'uniforme. Ivi si ricevono pure le soscrizioni». Furono parole al vento!
[2] GUERRAZZI F.D., Appendice all'Apologia, Firenze, Le Monnier, 1852, p. 72.
VI.
Il prode condottiero, disgraziatamente, aveva voce in que' giorni di testa calda e avventata; si temeva sopratutto che i sovvertitori, de' quali vi era una straordinaria abbondanza, usassero del suo nome, del suo valore e della sua audacia per alzare il capo e tentare qualche colpo di mano. Appunto per questa ragione, perfino il Ministero democratico della Toscana cercò di sbarazzarsene, e se ne lavò le mani in fretta e furia, dandogli poche armi, e pregando Pellegrino Rossi, mente e braccio del Ministero costituzionale di Pio IX, ad accordargli libero il passo.
Né questa fu la sola ragione di non accettarlo al servizio della Toscana. Garibaldi allora, come generale, non godeva quella reputazione che cominciò ad avere dopo la difesa di Roma. Lo confessa schiettamente anche il suo compagno d'armi e biografo Giuseppe Guerzoni. «Gl'italiani», son sue parole, «stimavano Garibaldi un condottiero di bande, e nulla piú; e si sarebbero ben guardati dall'affidargli una parte importante, molto meno il comando d'un esercito». E, quasi temesse d'esser stato poco chiaro, ribatte il chiodo affermando che nel '48 e '49 «malauguratamente su di lui pesava quella reputazione di valente condottiero e di inetto generale, che gli era stata buttata addosso come una camicia di forza fin dal suo primo ritorno in Italia»[1].
[1] GUERZONI G., Garibaldi, Firenze, Barbèra, 1882; I, 280.
Con tutto ciò, l'avere sdegnato le profferte di Garibaldi e il non essersi voluti servire della sua spada fu uno de' tanti errori del '48. A nome proprio e dei compagni, da Montevideo, col mezzo di monsignor Bedini, Nunzio apostolico a Rio Janeiro, egli sin dal '47 si era rivolto con queste parole a Pio IX: «Se oggi le braccia che hanno qualche uso delle armi sono accette a Sua Santità, è superfluo il dire che piú volentieri che mai noi le consacreremo al servizio di colui che fa tanto per la Patria e per la Chiesa… Non è già la puerile pretensione che il nostro braccio sia necessario, che ce lo fa offrire; sappiamo benissimo che il trono di S. Pietro riposa su basi che non possono crollare, né confermare i soccorsi umani, e che di piú il nuovo ordine di cose conta numerosi difensori, i quali saprebbero vigorosamente respingere le ingiuste aggressioni de' suoi nemici; ma poiché l'opera deve esser repartita tra i buoni, e la dura fatica data ai forti, fate a noi l'onore di contarci tra questi». Non ebbe neppure risposta! Nel giugno del '48 sbarca a Nizza, e le prime parole, che proferisce in pubblico, son queste: «Tutti quelli che mi conoscono sanno se io sia mai stato favorevole alla causa dei Re; ma questo fu solo perché allora i Principi facevano il male d'Italia; ora invece io sono realista e vengo ad esibirmi coi miei al Re di Sardegna, che s'è fatto il rigeneratore della nostra Penisola, e sono per lui pronto a versare tutto il mio sangue». Da Nizza, di lí a poco, passa a Genova, e in un'adunanza del Circolo Nazionale esclama: «Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, io ho giurato d'ubbidirlo, e seguitare fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può esser salute». Tra il 3 e il 4 di luglio si presentò al Re, al quartiere generale di Roverbella; si presentò, pieno di devozione e di fede, ma non trovò ascolto! Venne allora in Toscana, e che accoglienza vi trovasse, si è veduto!
Dopo la difesa di Roma e la ritirata a S. Marino, il generale Alfonso Lamarmora conobbe Garibaldi a Genova nel settembre del '49. «Ho visitato Garibaldi», scriveva al Da Bormida: «ha bella fisionomia, un far rozzo, ma franco; sempre piú mi persuado che in buone mani se ne poteva trar partito». Sette giorni dopo tornava a scrivergli: «Garibaldi non è uomo comune; la sua fisionomia, comunque rozza, è molto espressiva. Parla poco e bene: ha molta penetrazione: sempre piú mi persuado che si è gittato nel partito repubblicano per battersi e perché i suoi servigi erano stati rifiutati. Né lo credo ora repubblicano di principio. Fu grande errore il non servirsene. Occorrendo una nuova guerra, è uomo da impiegare» [1]. La nuova guerra venne, e l'errore del '48, per fortuna d'Italia, non fu ripetuto!
[1] CHIALA L., Alfonso Lamarmora, commemorazione, Firenze, Barbèra, 1879, p.24 e sg.
VII.
Nella descrizione del viaggio di Garibaldi da Firenze a Bologna il Guerzoni è assai inesatto. «Giunto alle Filigare» (cosí scrive) «trova un inatteso intoppo. Il generale Zucchi….. posto dal Rossi a Commissario straordinario di Bologna, timoroso che Garibaldi mirasse allo Stato Pontificio coll'intenzione di agitarlo e sommuoverlo, gli aveva inviato incontro un battaglione di Svizzeri, coll'ordine preciso di sbarrargli il passo». E seguita dicendo come Garibaldi allora non vide altro espediente che quello di recarsi in persona egli stesso a Bologna, per spiegare allo Zucchi lo scopo del suo viaggio, e persuaderlo a lasciargli proseguire il cammino fino all'Adriatico. Lo Zucchi non volle in sulle prime ascoltar ragioni, e rinnovò il divieto; ma essendosi vociferata la cosa, e il popolo tumultando minacciosamente perché fosse lasciato libero il transito al famoso e già amato capitano, anche il generale pontificio stimò bene di arrendersi, e Garibaldi poté traversare, sicuro, Bologna, e arrivare non molestato a Ravenna.»
Invece la cosa andò in ben altro modo. La stessa mattina del 25 ottobre che Garibaldi arrivò a Livorno, vi giunse pure il generale Carlo Zucchi, che, a proposta di Pellegrino Rossi, era stato eletto da Pio IX ministro delle armi. Proseguí esso il suo viaggio, e appena fu a Roma entrò subito in carica; quand'ecco che il 5 novembre il Papa lo chiama in tutta fretta e gli dice: «Sono accaduti in Bologna e in Ferrara gravi disordini. Ho deliberato di mandarvi colà a vedere come realmente sono le cose e a rimettervi l'ordine». Il generale rispose: «Santo Padre, domani tosto partirò». Pio IX soggiunse: «Le cose sono troppo urgenti per ammettere dilazione di tempo: dovete partire subito». Lo Zucchi replicò: «Ebbene, entro due ore sarò in viaggio». Infatti due ore dopo partí, in compagnia del conte Ippolito Gamba, investito insieme con lui «di tutti i poteri che spettano nei casi urgenti alle podestà esecutive ed amministrative nelle Legazioni di Ferrara, di Bologna e di Ravenna e nella Delegazione d'Ancona». Arrivato a Bologna la notte dell'8, proseguí immediatamente il suo viaggio alla volta di Ferrara, non fermandosi altro che per cambiare i cavalli. In questo frattempo Garibaldi colla sua legione giunse ai confini delle terre pontificie. Un giornale bolognese d'allora, La Dieta italiana, scriveva: «Ieri (8 novembre) alle quattro pomeridiane partirono di qui (Bologna) 400 svizzeri comandati da un maggiore, alle volta di Pianoro, pel confine toscano. Questa partenza ha promosso una quantità di congetture, quasi tutte poco onorevoli al nostro Ministero; tutte però s'accordano nell'idea che detto movimento di truppa sia stato cagionato dal sapersi il prossimo arrivo dalla Toscana del generale Garibaldi con alquanti de' suoi legionari». L'Alba di Firenze nel suo numero del 10 novembre raccontava: «Persona giunta questa sera da Bologna ci reca la notizia che il Governo Pontificio abbia ricusato l'ingresso sul suo territorio al generale Garibaldi ed alla sua legione, inviando ai confini un corpo di 400 svizzeri e dragoni per appoggio a questo divieto. L'annunzio di questa misura aveva portato del malumore in Bologna, ed il decreto relativo, affisso alle cantonate, era stato strappato e fatto a brani dal popolo. Garibaldi e la sua legione si trovano attualmente alle Filigare sul confine toscano.»
Fino dal primo momento dell'arrivo di Garibaldi a Firenze, una parte della popolazione di Bologna, seguendo l'esempio di Livorno, s'era messa in testa di volerlo per suo generale; e con una clamorosissima dimostrazione ne aveva fatto formale domanda al cardinale Luigi Amat, capo allora di quella Legazione; il quale, per schermirsi e quietare il tumulto, fu costretto a dare buone parole. In questo mentre l'Amat è richiamato a Roma, e gli succede, come Prolegato, il conte Alessandro Spada, che arriva a Bologna la sera del 6 novembre. L'invio de' 400 svizzeri a' confini venne fatto da lui e dal barone De Latour, generale in capo delle milizie pontificie nelle quattro Legazioni. Il giorno 9, in cui appunto seguí questo invio, fu presentata ad essi la seguente fierissima protesta, che mostra quanto i cervelli si fossero riscaldati. È sottoscritta: «Il Popolo Bolognese», e dice: «Bologna chiese al Governo, per mezzo del cardinale Amat, il generale Garibaldi per condottiero della sua legione. Il cardinale rispose annuirvi per sua parte e che avrebbe efficacemente appoggiata in Roma la domanda del popolo: e ciò al cospetto di migliaia di cittadini. Il popolo conosce il carteggio passato fra il Nunzio di Firenze e il Legato di Bologna; nel quale carteggio era chiesto, e consentito per ambedue le parti, l'arrivo del Garibaldi e de' suoi uomini fra noi. L'atto sleale onde è fermato con forze imponenti questo generale ai confini, mette il popolo nel suo diritto di chiedere una spiegazione al Governo, onde non essere necessitato da tanta illegalità a farsi da sé la ragione della giustizia ed il diritto naturale delle genti. Quindi vuole immediatamente e positivamente il richiamo delle truppe spedite contro il generale in atto ostile, e ciò dentro questa stessa giornata; e intende che sia onorato l'arrivo dell'eroe di Montevideo con quelle dimostrazioni ch'ei merita, e soprattutto con l'invito sotto le armi della brava italiana nostra Civica. In questa occasione il generale De Latour si ricordi di esser bolognese e che un solo tratto di arbitrio vale ad oscurare una reputazione faticata per anni».
La sera del 10 Garibaldi arrivò a Bologna; non so, per altro, se spontaneamente, o invitato. Una gazzetta di que' giorni cosí descrive il suo ingresso: «Il generale Garibaldi è finalmente giunto fra noi. Ieri sera, alle nove, arrivava a Bologna. Una considerevole folla di popolo andava ad incontrarlo e distaccati dal suo legno i cavalli (ad onta delle ripetute istanze del generale) lo trascinava, quasi in trionfo, fino al Grande Albergo Reale, dove il Garibaldi fissava la sua dimora. Qui giunto, il popolo ripeteva piú volte fragorosissimi applausi ed evviva all'eroe di Montevideo, al valoroso campione dell'indipendenza italiana. I legionari del Garibaldi sono sempre alle Filigare, privi di mezzi e di risorse. Il generale Zucchi, ministro della guerra, giungeva egli pure ier sera in Bologna, reduce da Ferrara, senza per altro, lasciar trasparire nulla del suo arrivo». Il giorno 11, da Bologna, cosí scrivevano all' Alba: «Garibaldi fu incontrato alla Porta dal generale Latour, che lo accompagnò a piedi ed a braccetto fino all'albergo. Il popolo, con bandiere e torcie, faceva seguito e plauso». Lo stesso corrispondente dell' Alba tornava a scrivere due giorni dopo: «Il Governo Pontificio ha finalmente concesso alla legione Garibaldi di transitare pel suo Stato, consegnando le armi all'ingresso, per esserle restituite all'opposto confine». Quanto vi sia di vero in questa ultima condizione lo ignoro. Nella Gazzetta di Bologna del 14 si legge: «Ieri sera (13) giunse in Pianoro dalla Toscana la colonna dei volontari italiani, che è sotto gli ordini del generale Garibaldi. Questa mattina (14), dopo aver pernottato in quel paese, ha preso di colà la via di Romagna, diretta al littorale dell'Adriatico».
Sentiamo adesso il generale Zucchi[1]; anche l'accusato ha diritto alla parola: «Addí 9 novembre mi giunse da Roma la seguente lettera riservata, all'indirizzo di me e del conte Gamba:—Eccellenze, Il Governo Toscano ha chiesto al Governo Pontificio il passaggio per 350 uomini capitanati dal signor Garibaldi, che voglionsi recare a Venezia. Il Governo di S. Santità prega le LL. EE. di prendere i provvedimenti opportuni onde questo passaggio sia rapido ed innocuo. Io non so quale via sia per scegliere. Le LL. EE. dovranno quindi conferire con codesto signor Prolegato e scrivere a S. E. il signor cardinale Legato di Forlí ed al signor Prolegato di Ravenna… Coi sentimenti di distinta stima mi raffermo. Roma, lí 6 novembre 1848. Dev.mo servo Rossi».—Lo Zucchi stesso dice che «massime lo stato di Bologna dava materia a spavento», giacché «in essa tutte le passioni rivoluzionarie ed anarchiche venivano in cento modi fomentate da una turba di agitatori per mestiere, che s'era precipitata sopra quella città con avidità canina di sovvertire». Aggiunge poi: «Arrestati sicari e malandrini, feci disarmare tutti coloro che non erano descritti nei ruoli della guardia nazionale, e mostrai ferma volontà di tenere in freno quanti si fossero fatto lecito di turbare la pubblica quiete. Siffatte opere rinfrancarono i cittadini onesti e i savi uomini, esasperarono invece coloro che alla salute dell'inferma patria anteponevano il trionfo delle proprie passioni e della propria setta». La lettera del ministro Pellegrino Rossi ai commissari Zucchi e Gamba spiega tutto. Essi, a seconda degli ordini ricevuti, dovevano concertare coi Prolegati di Bologna e di Ravenna e col Legato di Forlí la maniera migliore di accordare il passaggio a Garibaldi e ai suoi legionari, e naturalmente ci occorse il suo tempo: di qui impazienze, sospetti, malcontento. Del resto, anche per testimonianza del Farini, «lo Zucchi non fece violenza al Garibaldi, ma si volle che, riposato che si fosse, partisse co' suoi per Ravenna, di dove avrebbe potuto imbarcarsi per trarre a Venezia»[2].
[1] Memorie, Milano, Guigoni, 1861, p. 147.
[2] Lo Stato Romano dall'anno 1813 al 1850, II, 358.
Brevissimo fu il soggiorno di Garibaldi a Bologna. Andatovi la sera del 10 novembre, ne ripartí la mattina del 12; e come aveva fatto a Firenze, tolse commiato della cittadinanza con un proclama a stampa[1].
[1] Cfr. GARIBALDI G., Epistolario, I, 24.
Il 2 giugno del 1885, a ricordo del fatto, venne murata sulla facciata del Grande Albergo Reale di Bologna, ora Hôtel Brun, la seguente iscrizione:
NELL'ANNO MDCCCXLVIII GIUSEPPE GARIBALDI DIMORÒ IL X E l'XI NOVEMBRE IN QUESTO PUBBLICO ALBERGO SEMPRE CON L'ANIMO E CON L'OPERE EROICAMENTE INTESE ALLA REDENZIONE DELLA PATRIA LA SOCIETÀ DEI SUPERSTITI DELLE GUERRE PER L'UNITÀ D'ITALIA A RICORDANZA IN PERPETUO P. A. MDCCCLXXXV.
APPENDICI
APPENDICE I.
Di un immaginario soggiorno di Garibaldi in Toscana nel 1833 o 1834.
Racconta Niccolò Tommaseo «come un bel giorno passasse da Firenze un giovane nizzardo, che andava in America, e si presentasse a Giovampietro Vieusseux». E aggiunge: «Circa trent'anni dopo, un signore fiorentino, frugando ne' suoi fogli, trova una lettera d'esso Vieusseux, la quale dice: Ho dato a un profugo anche per conto vostro. Il nome suo è Garibaldi »[1].
[1] TOMMASEO N., Di Giampietro Vieusseux e dell'andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, memorie, p. 118.
Il signore fiorentino era il marchese Gino Capponi. Ecco il testo della lettera; «Cher ami! Que voulez-vous que je donne pour vous a M. Garibaldi, que la Police oblige à partir demain sans faute, et qui repassera chez moi à 4 h. pour avoir quelque secours? Je ferai ce que je pourrai mais je ne pourrai pas faire grand chose. Ce Garibaldi est un superbe homme et des manières distinguées. Il a laissé une femme et quatre enfans». Il marchese Gino gli rispose: «Date venti lire al signor Garibaldi». Queste due lettere non hanno data, ma Alessandro Carraresi, che le ha messe di recente alla stampa, di sua testa le colloca tra il gennaio e il febbraio del 1833 [1]. Tanto lui, quanto il Tommaseo ritengono poi per sicuro che riguardino Giuseppe Garibaldi, e pigliano un abbaglio de' piú grossi, giacché non si tratta del condottiero famoso, ma di un oscuro profugo, che portava il suo stesso cognome; comune, del resto, nella Liguria.
[1] Lettere di GINO CAPPONI, e di altri a lui; I, 349.
Quando il Mazzini stava organizzando la spedizione di Savoia, Giuseppe Garibaldi, allora capitano marittimo mercantile, fu arrolato «come marinaio di terza classe di leva» nella regia armata sarda. Si rileva da' documenti che fu «iscritto alla matricola della direzione di Nizza il 27 febbraio 1832 al n. 289»; che entrò al servizio, in Genova, il 26 dicembre del 1833; e che il 3 di febbraio del 1834 venne imbarcato sulla regia fregata Des Geneys, dalla quale disertò il giorno dopo. Con sentenza del Consiglio di guerra divisionario sedente in Genova, de' 14 giugno dello stesso anno, fu condannato, insieme con Vittore Mascarelli e con Giambattista Caorsi, «alla pena di morte ignominiosa», e venne dichiarato esposto «alla pubblica vendetta come nemico della patria e dello Stato» e incorso «in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle regie leggi contro i banditi di primo catalogo». La sentenza li dice tutti e tre «autori di una cospirazione ordita in Genova, nei mesi di gennaio e febbraio, tendente a far insorgere le regie truppe ed a sconvolgere l'attuale Governo»; incolpa il Caorsi «di avere fatto provvista d'armi, state poi ritrovate cariche, e di munizioni da guerra»; il Garibaldi e il Mascarelli «di aver tentato, con lusinghe e somme di denaro, effettivamente sborsate, d'indurre a farne pur parte alcuni bassi uffiziali del corpo reale d'artiglieria».
Fin dal 5 di febbraio Garibaldi era fuggito da Genova, e la Polizia faceva ogni sforzo per averlo nelle mani. Il Marchese Paolucci, Governatore militare e civile di Genova, il 10 dello stesso mese, annunziava al Vicario Regio di Pietrasanta, grossa terra della Toscana, che era «stato iniziato un procedimento penale, per reato d'insurrezione, contro Francesco Garibaldy e Rubens, latitanti»; gli soggiungeva, «come in detto procedimento figurasse inoltre come uno dei capi del movimento insurrezionale Giuseppe Garibaldy, fratello del detto Francesco, marinaio in attività di servizio sui regi legni, evaso da Genova la mattina del 5»; e «nell'ipotesi che il detto marinaio Giuseppe Garibaldy raggiunga la Toscana, ove si crede che abbiano trovato ricovero il fratello Francesco e il Rubens», lo pregava «di disporre il di lui arresto ed estradizione». Conchiudeva col dirgli: «le partecipo come da una lettera di Francesco Garibaldy, qui pervenuta e sequestrata, si rilevi essere sua intenzione di fermarsi alcuni giorni in Pietrasanta». Il giorno dopo torna a scrivergli che, riguardo ai nomi e cognomi ha preso una filza di sbagli, giacché Francesco si chiama invece Felice; non si tratta di Garibaldy, ma di Garibaldi; e in quanto al Rubens, è Ruben di Sion Cohen. Cosí poi gli dipinge Giuseppe: «ha capelli, barba, mustacchi e favoriti rossicci, veste un frak grigio-chiaro, porta cappello di color bianco». Di li a quattro giorni, insiste di nuovo per l'arresto, e gl'invia un foglio dove sta scritto:
«Connotati di Garibaldi Giuseppe Maria, figlio di Domenico, nativo di Nizza, capitano di seconda classe marina mercantile, assentato a Genova nel corpo dei reali equipaggi permanenti, in qualità di marinaio di terza classe di leva.
«Età: anni 27.
«Statura: once 39 3/4.
«Capelli: rossicci.
«Ciglia: rossiccie.
«Fronte: spaziosa.
«Occhi: castagni.
«Naso: aquilino.
«Bocca: media.
«Mento: tondo.
«Viso: ovale.
«Colorito: naturale.
«Nome di guerra: Cleombroto».
Son connotati che non differiscono da quelli che si leggono a p. 392 del vol. I della Matricola del 1832, tranne che nel viso, che, invece d'ovale, è tondo[1].
[1] DEL CERRO E., Misteri di Polizia; storia italiana degli ultimi tempi, ricavata dalle carte d'un Archivio segreto di Stato, pag. 164 e segg.
De' tre fratelli di Garibaldi ve n'era uno infatti di nome Felice. Il Guerzoni ne fa questo schizzo: «Lasciò dietro a sé la nomina di elegante zerbino, gran cacciatore di donne; esercitò con qualche fortuna il commercio, fu agente per molti anni della casa Avigdor a Bari, e cessò di vivere, non ancora vecchio, il 1856»[1]. Venne, di fatto, arrestato a Pietrasanta, per ordine del Vicario Regio, nel febbraio del '34; e insieme con lui fu pure arrestato l'israelita Cohen, suo compagno di viaggio e di commercio: ma il Governo Toscano si guardò bene di consegnarli al Governatore di Genova. Dopo pochi giorni di mite prigionia, entrambi vennero condotti a Livorno e di là imbarcati per la Corsica.
[1] GUERZONI G., Garibaldi, I, 10.
Della sua fuga da Genova, Garibaldi tocca di volo nelle proprie Memorie. «Il 5 febbraio 1834» (son sue parole) «io sortivo da porta della Lanterna, alle 7 pomeridiane, travestito da contadino e proscritto. Qui comincia la mia vita pubblica: pochi giorni dopo leggevo, per la prima volta, il mio nome su d'un giornale. Era una condanna di morte al mio indirizzo, rapportata dal Popolo Sovrano di Marsiglia. Stetti inoperoso, a Marsiglia, pochi mesi». Il Guerzoni, che fu segretario del Generale a Caprera, mentre confessa che «non era facile» indurlo «a raccontare le sue avventure», afferma che «su questa tornava egli medesimo spesse volte e volontariamente». Ciò che dunque ne scrive l'ha udito dalla sua propria bocca. Garibaldi, fallito il tentativo della rivolta, si rifugiò nella bottega d'una fruttivendola, e, cambiata nei panni d'un contadino la sua camicia di marinaro, uscí da porta Lanterna, e lasciata la via maestra, traversando campi e giardini, saltando muri e siepi, si diresse a Sestri di ponente; dopo dieci giorni giunse a Nizza, e di là, di notte tempo, prese la via dell'esilio e, varcato il Varo, toccò finalmente il suolo francese.
È dunque provato che il giovane marinaio non mise il piede in Toscana, né fu quel Garibaldi che a Firenze si presentò al Vieusseux ed ebbe aiuti di danaro da lui e dal Capponi. Di piú; il Vieusseux racconta che il profugo Garibaldi, da lui preso a proteggere, aveva moglie e quattro figli. Il nostro Giuseppe invece era scapolo e, soltanto piú anni dopo, sposò in America Anita Riberas, che poi lo fece padre di Menotti, di Teresita e di Ricciotti.
APPENDICE II
L'adunanza straordinaria del Circolo del Popolo di Firenze, tenuta nel Teatro Goldoni la sera del 5 novembre 1848.
«Ieri sera (5 novembre) al Teatro Goldoni fu dato un banchetto in onore del generale Garibaldi a cui convennero circa trecento persone, e che fu presieduto dal Principe di Canino. Il banchetto fu preceduto da un'adunanza straordinaria del Circolo del Popolo, nella quale preser la parola il prof. Carlo Pigli, il Principe di Canino, il general Garibaldi e il Romeo. Dei loro eloquenti e italianissimi discorsi, raccolti dagli stenografi, daremo un sunto». Cosí Il Popolano di Firenze, che era il Monitore del Circolo del Popolo (n. 153, del 6 novembre '48).
A.
Parole dette dal prof. Carlo Pigli.
Cittadini, io debbo, prima di tutto, ringraziarvi di questo atto solenne di affezione e di stima di che mi siete stati generosi eleggendomi, con tanta maggioranza di suffragi, a vostro Presidente.
Debbo poi rallegrarmi con voi di questa improvvisa, ma pure inevitabile nostra resurrezione, che è la resurrezione del Popolo, non meno potente del Cristo nell'infrangere e polverizzare la lapide del proprio sepolcro.
La passione del Popolo oramai è consumata. Ora incomincia la passione dei despoti e dei loro vili seguaci. Ma il Popolo esce dal suo lavacro di sangue santificato e invincibile; il despota vi sparirà sommerso e maledetto dagli uomini fino che la terra conservi traccia del sangue e delle lacrime sparse.
Volgetevi indietro e mirate! Per tutto forche, roghi, mannaie e calici di veleno! Ebbene! questo ferale apparato è la culla gloriosa della vera vita del Popolo; è il trono della sua maestà, della sua irresistibil potenza.
Li uomini si uccidono, ma non si uccide la idea, che, fatta gigante, è oramai regina del mondo. Quando il ferro del carnefice percuote la testa di un generoso, il suo pensiero si stacca dal sangue e si converte in un raggio immortale di quel limpido sole, che dovrà illuminare il trionfo della umanità.
Le catene dei tiranni si sono cangiate in corone di allori: per tutto dove la mano sanguigna dei tiranni ha scritto: a infamia, l'umana giustizia ha sparso i trofei della gloria. Fra i piú validi e i piú sapienti patrocinatori della causa italiana, fra i nostri stessi Ministri del Governo, troverete uomini usciti dalle prigioni di Stato.
Certo, che si sarebbe potuto credere che li auspicii, sotto i quali il Circolo nostro si riapriva, fossero fortunati e gloriosi abbastanza per non pretender di piú!
Eppure la nostra fortuna è stata molto piú grande della nostra aspettativa e speranza.
Dalle remote terre dell'America venia la fama che un valoroso profugo dell'Italia, non potendo combattere per la libertà della patria, combattea per quella di remoti fratelli. Ma quando finalmente la stessa Italia sorgea scotendo l'esecrato giogo, si seppe allora che, valicati i mari, scendeva sull'italico lido, facendo del suo peso tremare la terra sotto il piede dei barbari invasori. Già le valorose armate del Piemonte erano costrette ricorrere all'ombra del patto di un Re; ed egli pugnava nel patto dei Popoli, che hanno giurato di vincere; e io non dico di vincere o morire, che sono i Re che muoiono, e non i Popoli.
E questo valoroso, questo eroe, eccolo alla vostra presenza. Onorate, o cittadini, il prode Garibaldi.
Né qui prodiga la fortuna limitar volle l'onore di che le piacque cosí splendidamente coronare la nuova inaugurazione della nostra assemblea.
Chi è tra noi che non sappia intiera la storia miracolosa della rivoluzione della Sicilia e della insurrezione della Calabria?
Chi è che non abbia palpitato e pianto sui casi dei Romeo, commosso nelle viscere dal racconto delle loro tante virtú, dei loro tanti sacrifizi e del loro immenso valore?
Eccoli. Anche i due Romeo sono con noi. Onorate, o cittadini, questi altri prodi d'Italia, questi altri eroi dell'antica terra dei giganti e dei prodigi.
E qui con noi mirate pure finalmente, o cittadini, Carlo Bonaparte, che nato ai piedi del piú splendido trono del mondo, e principe del sangue, vi si presenta con non altra divisa che quella di sergente crociato, valoroso e generoso campione ovunque si discuta e si agiti la causa d'Italia.
Onorate, o cittadini, questo anello prezioso delle due piú grandi nazioni sorelle, Italia e Francia; onorate questo prezioso anello dei due piú grandi miracoli della umanità, l'impero di Napoleone e l'emancipazione dei popoli.
B.
Parole di Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino.
Cittadini, bisogna sapere che cosa è il potere, bisogna sapere che cosa è l'infame diplomazia, per conoscere il bisogno che hanno i Ministri non solo di essere sostenuti, ma spinti.
Il pensiero della Costituente italiana non può piú cadere; il patriottico Ministero Toscano ha fatto abnegazione di ogni principio municipale quando ha proclamato che in Roma, in quella nobile e inevitabile capitale della penisola, si dovesse riunire la Costituente italiana, scelta dal suffragio universale e diretto del popolo d'Italia: ma se un Governo retrogrado, se una fazione empia e venduta ai nemici d'Italia impedisse questo santo vóto dei popoli, sappia l'Europa, sappia il mondo tutto, che è venuto il giorno in cui gli italiani sapranno riunirsi e formare la Costituente italiana. Se nol potranno in Roma, si ricorderanno che l'Italia ha per cuore una Toscana, e che in qualunque città, in qualunque castello della Toscana potranno, mercé l'attuale rigenerazione, adunarsi. Abbia però la Costituente uno scopo unico: l'indipendenza; finché l'ultimo tedesco non abbia ripassato le Alpi. Bando, per ora, alle funeste distinzioni fra repubblicani e costituzionali, fra federalisti e unitari: siamo tutti italiani. E se un partito impudente volesse suscitare, stigmatizzare i repubblicani, che vantano fra loro i piú generosi italiani, diciamo ad esso: tacciano le querele intestine! i nostri ordini di governo li stabilirà la Costituente italiana
Italiani di tutti i partiti, non eccettuato alcuno, all'armi! all'armi! abbiam bisogno di unione per cacciar lo straniero.
Fratelli! Una cosa importante e urgente ci resta a fare. Il vostro (dirò il nostro) Ministero, nella sua squisita lealtà, ha voluto convocare la nuova Camera toscana colla legge che aveva prodotto la prima. Ebbene? soffrirete voi che una seconda volta la Toscana ci dia un simile eunuco prodotto? Io non son tale da potere consigliare un Guerrazzi ed un Montanelli, ma se lo fossi, avrei detto loro: Bando agli scrupoli! i nostri avversari non ne hanno quando si tratta di calpestare i popoli. Quando si tratta di stringere una lega di Re contro i popoli tutte le ragioni sono buone; e voi non potrete allargare la legge elettorale? Io avrei fatto loro questo dilemma: Per quelli che riconoscono dalla bontà dei Principi le istituzioni politiche, non può il Principe abbandonare e accrescere la dose di queste concesse libertà? O per quelli che pensano come me, sostengono che i Principi altro non hanno fatto che riconoscere una porzione dei sacrosanti diritti dei popoli, non vi ha sempre tempo di riconoscere questi diritti maggiori; di riconoscerli in tutta la loro forza, in tutta la loro estensione?
Ora dunque chi avrebbe potuto biasimare un consiglio che forse sarebbe ancora tempo di seguire? Quelli soli che rimproverano i Ministri di rinunciar soli a una legge concessa dal tradimento di chi aveva il suo mandato dal Popolo; dal Popolo che dà il suo mandato per sostenere le sue libertà, non per contrattarle; per proteggerle, non per abbandonarle a pseudotiranni. Ora dunque, da questo Circolo, eminentemente italiano, partano individui per ciascuno degli ottantasei circondari elettorali, e predicando la causa d'Italia ottengano da quelli elettori che calcolino la importanza del loro voto e il debito che doppiamente loro incombe di fare che il popolo sia veramente rappresentato e non si rinnovi una Camera sí poco italiana, ora che una Camera, che non rappresentava la vera opinione del popolo, è stata spezzata e infranta. Cosí si spezzi ogni potere che mentisca la missione popolare! Si devono dunque usare tutte le lecite influenze perché un Montanelli e un Guerrazzi non siano abbandonati in questo momento, perché ciò sarebbe un'altissima vergogna per la Toscana, un'ultima rovina della nostra patria.
C.
Parole del Generale Giuseppe Garibaldi
Io son d'opinione che non solamente si debba sospingere il Ministero, ma violentarlo, se è necessario, e portarlo piú lontano: dico violentarlo perché gli ostacoli che lo circondano non lo lasceranno francamente agire in modo conforme alla sua coscienza. Dunque, se il popolo conosce la necessità di agire prontamente, io ripeto che non solamente deve spingere il Ministero, ma violentarlo, quando vi sia, ciò facendo, la convinzione del bene d'Italia; quando vi sia la convinzione di un fatto d'urgenza a seguire quella necessità e adempirla e metterla in pratica, se fosse necessario, in luogo del periodo, per esempio, di un mese, in quello di un giorno. Io appoggio sulla necessità di una pronta azione, perché la credo indispensabile alla posizione d'Italia; perché mi pare che qualunque aggiornamento, qualunque dilazione per parte nostra sia un delitto grande; perché sono, conseguentemente, d'opinione che quello che si deve fare in sei mesi si faccia in sei giorni.
Violentarlo moralmente, s'intende; e con dimostrazioni, quando si conosca che vi sia necessità, E che il Ministero sia titubante a prendere una determinazione, voi dovete eccitare il popolo in massa. Proponete ciò che è per il bene del popolo, e voi troverete quelli uomini sommi disposti a consentire e far quello che il popolo domanda. Oggi bisogna disingannarci. Io non adulo; e nello stesso modo che non adulo i Principi, non adulo il popolo, perché lo stimo e lo venero. Oggi mi pare che l'Italia sia in una alternativa co' suoi reggitori; nella alternativa, cioè, di rovesciarli, o di trascinarli. Non c'è via di mezzo: una delle due.
Il vantaggio positivo che il Popolo toscano è pervenuto ad acquistare oggi sopra le altre popolazioni d'Italia, si è che egli può, nella foga del suo progresso, trascinare il Principe con sé e metterlo sopra il cammino dell'interesse d'Italia. Perciò il gran vantaggio che acquistossi è di essere oggi alla testa della nazione italiana. Firenze ha preso il posto che toccava a Genova; Genova è oggimai schiacciata sotto il peso delle baionette che la reazione ha cumulato nel suo seno. Genova (non è una rampogna che le faccio), Genova ha fatto forse meno di quello che poteva fare. Nulladimeno Genova si trova oggi in una posizione diversa da quella di Firenze, ed un grido suo non avrebbe forse oltrepassato le mura della città, mentre un grido di Firenze avrà un'eco in tutta la Toscana, poiché la Toscana non è una piccola frazione d'Italia.
La Toscana poi particolarmente ha rappresentato e rappresenta il centro di uno dei principali elementi della nostra nazionalità, la lingua; la prima delle lingue, la nostra, creata in Toscana, ingentilita in Toscana, io la credo la base fondamentale della nazionalità italiana. Siccome l'Italia deve alla Toscana almeno i nove decimi del progresso della sua lingua, cosí ella le deve una parte vitale della sua nazionalità. La Toscana si è posta nella situazione politica che l'Italia le possa dovere la sua emancipazione completa.
In conseguenza io credo che piú bella posizione di Firenze non vi possa essere. Oggi bisogna che Firenze sia la capitale d'Italia, la Parigi d'Italia, ed un grido di Firenze risonerà senza dubbio da un'estremità all'altra della penisola. Dunque, popolazione di Firenze, concittadini! non abbandonate quella missione che la Provvidenza vi ha affidata, che è una missione sacra[1].
[1] Il Popolano annota: «In queste idee concorreva il Romeo, e con poche, ma assennate parole, cercava persuadere il popolo a non mettere tempo in mezzo per riaccendere la guerra d'indipendenza, la guerra d'esterminio dello straniero».
D.
Parole di commiato del Presidente Pigli.
Riassumendo quanto è stato detto sin qui, voi dovete aprire l'anima a speranze superbe; pure, rammentando che vi è stato parlato del possibil bisogno, non che di soccorrere, di spingere perfino questo stesso Governo, volonteroso e intrepido com'è, dovrete necessariamente presentire la esistenza di gravi difficoltà da combattere e da vincere.
La Politica, questa antica padrona del mondo, è già sparita sotto il passo dei Popoli che rapidamente s'avanzano; la Diplomazia dell'Europa, questo misterioso genio del male, spira nell'esilio fra le nebbie di Londra; e il giorno della Libertà sorge tutto a un tratto come un giorno dei tropici.
Con tutto ciò la terra s'agita, freme insanguinata e aspetta sangue e poi sangue; e Dio disperda li auguri!…
Ma, e come sarebbe possibile che in un momento tremendo di rivoluzione e di crisi l'aspetto della società si cangiasse senza avvenimenti di sangue?
A guardar bene, o cittadini, si direbbe che la Libertà, a somiglianza di tutte le potenze del mondo, stabilir non si possa che pel diritto della conquista.
Infatti si tratta adesso di una questione intieramente sociale, e precisamente si tratta dell'ultimo periodo dell'antica lotta fra le caste privilegiate, che debbono scendere, e il popolo diseredato, che deve salire.
Pensate ora quante mai sono le vittime condannate a cadere ai piedi dell'altar della Patria!…
Fra queste vittime vi è l'aristocrazia delle pergamene; ché da qui innanzi i gradi e le distinzioni saranno conferite non già pel merito degli avi, ma pel merito proprio.
Fra queste vittime vi è l'aristocrazia del danaro; ché da qui innanzi la vera proprietà sarà la proprietà personale.
E v'è finalmente l'aristocrazia della mediocrità—questa immensa famiglia di monocoli e peggio, che, inalzata da un potere che avea bisogno di satelliti oscuri, sarà, col tempo, costretta a spogliare le usurpate divise in faccia a un altro potere, santo e irresistibile—la pubblica opinione.
Cessi dunque la maraviglia di tutte le presenti calamità della terra, e ci conforti il pensiero che l'Italia non vedrà mai li orrori dei paesi meno inciviliti di lei, comecché l'antica e gentile cultura di questa classica terra abbia lentamente fra le diverse classi della società consumate le asprezze e gli attriti.
L'Italia non è barbara, fuor che occupata dai barbari: giuriamo disperderli, e tutti ci abbracceremo fratelli.
APPENDICE III.
Il prof. Carlo Pigli Governatore di Livorno.
La nomina del prof. Carlo Pigli a Governatore di Livorno suscitò molte recriminazioni, e il Guerrazzi se n'ebbe amaramente a pentire e finí col destituirlo. Il giornale fiorentino Lo Stenterello (n. 34, 15 novembre 1848) ne fece questo ritratto, che è una vera fotografia.
«Il sig. Carlo Pigli, attual Governatore civile e militare di Livorno, uno de' primi corifei della democrazia-pura, uno de' primi che abbia in Italia dottoralmente enunciate le antisociali teorie de' socialisti, potrebbe egli all'uopo provare che la sua condotta, passata e presente, sia veramente conforme ai principii ch'egli mostra di professare? Noi temiamo forte di no, e sospettiamo ch'egli non altro sia che un novello Padre Zappata. E poiché non ignoriamo che quando si produce un'accusa siam tenuti a darne le prove, noi non mancheremo di darle. Il pubblico dunque ascolti, e il pubblico dopo avere ascoltato pronunzi la sentenza. Il sig. dott. Carlo Pigli è d'Arezzo ed aggirandosi temporibus illis per la casa dell'autocrate Vittorio Fossombroni, parimenti d'Arezzo, tanto si strisciò, tanto scodinzolò, che il dottorino si vide nominato professore all'Università di Pisa. Ma il fare il professore non era come il fare il leccazampe; il parlar dalla cattedra universitaria non era come il parlare nel Circolo di Via Maggio, o nella bettola di Via Calzaioli: il perché il professor novellino fu in breve dispensato, ed invece del terzo o del quarto, come si ebbero altri, egli ebbe l'intero; e cosí pel favore del vecchio Ministro si beccò 700 scudi all'anno senza far niente. Pareva pertanto che l'ex professore avesse dovuto serbare eterna gratitudine al Fossombroni, a solo il quale egli doveva un sí grasso benefizio, e a solo il quale doveva dire: Deus nobis haec otia fecit. Eh sí, le zucche! Il dottorino ex-professore, continuando sempre a frequentare il vecchio Ministro, gli tastava a quando a quando il polso: ma un bel giorno, preso dalla bellezza di quel principio, da lui oggi pubblicamente professato, che cioè deve abolirsi l'aristocrazia della ricchezza, presentò all'aristocrata Fossombroni un conticino di 1200 scudi per tastature di polso. E se per tale intimazione l'aristocrata fu per sempre liberato dalla presenza d'un democratico-puro, fu parimente alleggerito dell'incomodo peso di cento libbre d'argento. Il principio della democrazia (non per altro pura ) essendo stato adottato in Toscana per la promulgazione dello Statuto, il sig. Pigli fu nominato Deputato d'Arezzo. Si sarebbe creduto che un uomo non sprovvisto d'un qualche patrimonio, un uomo che si beccava 700 scudi all'anno senz'altra fatica che quella di contarli, avrebbe prestato, siccome Deputato, l'opera sua gratuitamente. Eh sí, le zucche! Egli cominciò dapprima a chiedere 100 scudi per le spese di viaggio. Vedete, la chiesta è discretissima per il viaggio da Arezzo a Firenze! Quindi chiese per le sue fatiche l'inezia di scudi 1400 all'anno. Ma poiché il pollo non voleva lasciarsi pelare senza stridere, e poiché un tale stridere allarmava il vicinato, il Deputato democratico d'Arezzo si contentò allora della piccola responsione annua di scudi 900. Ora finalmente il sig. dott. prof. Deputato democratico puro, sebbene, poveretto! abbia poca salute, si sobbarca pel bene della pura democrazia al gravoso carico di Governator di Livorno, cui è annesso lo stipendio annuo di scudi 4000! Certo la democrazia passata e presente del sig. dott. Pigli non può esser piú pura; certo la sua abnegazione e il suo disinteresse non posson esser maggiori; certo le sue azioni private e pubbliche non posson meglio corrispondere ai suoi teorici principii di socialismo! Evviva dunque il novello P. Zappata!».
INDICE DELLE PERSONE E COSE NOTABILI
Alba (L'), giornale fiorentino, citato, 18, 37, 39.
AMAT DI S. FILIPPO Luigi, cardinale legato di Bologna, 37.
BARDI Giuseppe, incaricato di ricevere armi e munizioni dei Garibaldini in Firenze, 17
Battaglione Mantovano, suoi avanzi riuniti alla legione garibaldina, 15
Battaglione della Morte, doveva formarsi in Toscana, 30.
BEDINI Gaetano, internunzio pontificio in America, 32.
BIXIO Nino, descrive l'itinerario del battaglione mantovano, 15.
BONAPARTE Carlo Luciano, principe di Canino, in Firenze, 21, 23, 24; presiede l'adunanza del Circolo del Popolo, 51; suo discorso, 54, 57,
BUONARROTI Filippo, cospiratore toscano, presidente della Società dei veri italiani, 21.
CAORSI Gio. Battista, condannato a morte con Garibaldi, 46.
CAPPONI Gino, invitato dal Viesseux, aiuta un profugo Garibaldi, 45, 46.
CARLO Alberto, re di Sardegna, non accoglie le offerte di Garibaldi, 33.
CARRARESI Alessandro, citato, 46.
CASTELLANI, incaricato d'affari di Venezia, va a Livorno, 13, 14.
CHIARINI G., presidente del Circolo del Popolo in Firenze, 22.
CICCONI Luigi, descrive la spada offerta a Garibaldi, 19.
CIRONI Piero, manda notizie inesatte da Lugano, 12.
Circolo Nazionale in Genova, 33.
Circolo del Popolo in Firenze 22-25, 51-62; in Lucca, 30; in Roma, 21.
CLEOMBROTO, nome di guerra di Giuseppe Garibaldi, 49.
COHEN Ruben, proscritto 47, 49, arrestato, 49.
Concordia (La), giornale torinese, citato, 12.
Corriere Livornese, giornale diretto da G. La Cecilia, citato, 5, 8, 9, 10.
CUBIÈRES Amedeo Luigi, generale francese in Ancona nel 1832, 20.
DA BORMIDA Giuseppe, generale piemontese, 33,
D'APICE Domenico, generale toscano, doveva capitanare l'insurrezione di Valtellina, 12.
D'AYALA Mariano, ministro della guerra in Toscana, creduto avverso a Garibaldi, 13, 26; domanda di Garibaldi a lui, 14-16; lettera di Garibaldi a lui, 26, 27; sue memorie citate, 16, 27,
DE LATOUR, generale pontificio in Bologna, 38, 39.
DE LAUGIER Cesare, generale toscano, sua pubblicazione su Garibaldi in America, 18.
DEL CERRO Emilio, citato, 49.
DELLA RIPA E. Cesare, promotore della sottoscrizione per la spada d'onore a Garibaldi, 19.
Dieta Italiana (La), giornale bolognese, citato, 36.
Elbani, loro deputazione di 120 cittadini in Livorno, 11.
FABRIZI Paolo, in Genova invita Garibaldi per la Sicilia, 4.
FARDELLA Vincenzo marchese di Torrearsa, ministro degli affari esteri del Governo Siciliano, 3.
Farini Luigi Carlo, citato, 41.
Fenzi Carlo, promotore della sottoscrizione per la spada d'onore a Garibaldi, 19.
Fossombroni Vittorio, 64.
GAMBA Ippolito di Ravenna, commissario collo Zucchi in Romagna, 36, 40.
GARIBALDI . . . . . , profugo ligure in Toscana 45, 46, 50.
GARIBALDI Anita, 9.
GARIBALDI Domenico, padre di Giuseppe, 48
GARIBALDI Felice, fratello di Giuseppe, 49; erroneamente indicato col nome di Francesco, 47.
GARIBALDI Giuseppe, suo servizio nell'armata piemontese, 46; condanna a morte e vicende immediate, 46-48; in America 19; offre di là i suoi servigi a Pio IX, 32; giunto in Italia, li offre a Carlo Alberto, 33; nella Svizzera, 3; a Nizza, 3; a Livorno, 4-16; disegno d'andare in Lombardia, 12; va a Firenze, 16, 17; suo arrivo e dimora in Firenze, 18-28; suo discorso al Circolo del Popolo, 57-60; va a Bologna e in Romagna, 28-41; suo immaginario soggiorno in Toscana dopo la diserzione del 1833, 45-50; suoi figli, 19, 50; sue memorie citate, 4, 8, 26, 49; suo epistolario citato, 16, 42; suo nome di guerra, 49.
GAVAZZI p. Alessandro, doveva essere cappellano del Battaglione della Morte, 30.
Gazzetta di Bologna, citata, 40.
Gazzetta di Firenze, giornale ufficiale, citata, 11.
Gazzetta di Lucca, citata, 30.
GEMELLI Carlo, commissario del Governo Siciliano in Toscana, 3.
GIANNINI Silvio, mandato dal Montanelli a Livorno, 13.
GREGORIO XVI papa, 20.
GUERRAZZI Francesco Domenico, ministro dell'interno in Toscana, 11, 12, 16; promotore del Circolo del Popolo, 23, 26; sue lettere a un Gonfaloniere, 28 e al Delegato di Lunigiana, 29; nomina il Pigli governatore di Livorno, 63.
GUERZONI Giuseppe, segretario e biografo di Garibaldi, citato, 15, 31, 35, 49, 50.
ISOLANI, consigliere di governo in Livorno, 6, 8, 10, 13, 16,
HAYNAU Giulio Giacomo, generale austriaco, 12.
LA CECILIA Giovanni, direttore del Corriere Livornese, 5; suo telegramma al Montanelli, 12.
LAFAYETTE Giuseppe, 21.
LAMARMORA Alfonso, generale piemontese, suo giudizio su Garibaldi, 33.
LEOPOLDO II, granduca di Toscana, 5, 20,
MAMELI Goffredo, suo taccuino donato a Nino Bixio, 15,
MASCARELLI Vittore, condannato a morte con Garibaldi, 46.
MAZZINI Giuseppe, sua spedizione in Savoia, 46.
MENICHELLI T., segretario del Circolo del popolo in Firenze, 22
MENICHETTI, consigliere di governo in Livorno, 6, 7, 8.
Ministero democratico toscano formato dal Montanelli, 5; suo contegno verso Garibaldi 6-14, 16-17, 26-32; giudizii di Garibaldi su di esso, 26, 27.
Mondo Illustrato, periodico torinese, citato, 19.
MONTANELLI Giuseppe, governatore di Livorno nel 1848, 6; è chiamato a formare il Ministero, 5; suo contegno verso Garibaldi, 9-10; giudizio di Garibaldi su lui, 26.
NICCOLINI Gio. Battista romano, sue notizie e suoi vanti, 20-22.
NOTARY Carlo, livornese, accoglie Garibaldi in casa sua, 9; suoi telegrammi ed insistenze presso il Montanelli, 10, 15, 16, e il Guerrazzi, 11, 12, 13.
PAOLUCCI Filippo, governatore di Genova nel 1834, 47.
PEPE Guglielmo, notizie correnti su lui e sui fatti di Venezia, 11.
PETRACCHI Angelo, capo-popolo livornese, 14, 16.
PIGLI Carlo, presidente del Circolo del Popolo in Firenze, 23; suoi discorsi al Circolo, 51-54, 60-62; governatore di Livorno, 25, 63; ritratto che ne fece lo Stenterello, 61-65.
PIO IX papa, 22, 32, 36.
Popolano (Il), giornale fiorentino, organo del Circolo del Popolo, 51.
Popolo Sovrano (Il), giornale di Marsiglia, riferisce la condanna di Garibaldi, 50.
RANALLI Ferdinando, storico italiano, citato, 23.
RIBERAS Anita, moglie di Garibaldi, 19, 50.
RICCIOTTI Niccola, ricordato, 20.
Rivista di Firenze, citata, 19.
ROMEO Giovanni Andrea, patriota calabrese, 22, suo discorso al Circolo del Popolo in Firenze, 51, 60.
ROMEO Pietro Aristeo, suo fratello, 22.
ROSSI Pellegrino, ministro di Pio IX, 31, 35, 36; sua lettera allo Zucchi per Garibaldi, 40.
RUBENS, latitante con Felice Garibaldi, 47; (vedi Cohen).
SABATINI E., delegato di Lunigiana, sua lettera pel passaggio dei garibaldini, 29.
Società democratica in Londra, 21.
Società dei veri italiani in Francia, presieduta dal Buonarroti, 21.
SPADA Alessandro, prolegato in Bologna, 38.
Spada d'onore a Garibaldi, notizie relative, 18-19.
Stenterello (Lo) giornale fiorentino, suo articolo sul Pigli, 63-65.
TOMMASEO Niccolò, citato, 45.
VAGNETI Francesco, eseguisce e descrive la spada offerta a Garibaldi, 19.
VECCHI Giovanni, medico di Casteggio, lettera di Garibaldi a lui, 16.
VIEUSSEUX Gio. Pietro, aiuta un Garibaldi proscritto, 45.
ZUCCHI Carlo, generale, suo contegno in Bologna verso Garibaldi, 35-41.
INDICE DEL VOLUME GARIBALDI IN TOSCANA NEL 1848:
I. Da Nizza a Livorno Pag. 3-4 II. L'arrivo di Garibaldi e il Ministero democratico » 5-9 III. Garibaldi a Livorno » 10-17 IV. Arrivo a Firenze e adunanza al Circolo del Popolo » 18-25 V. Partenza dalla Toscana » 26-30 VI. Diffidenze ufficiali verso Garibaldi » 31-34 VII. Dalla Toscana in Romagna » 35-42
APPENDICI:
I. Di un immaginario soggiorno di Garibaldi in Toscana nel 1833 o 1834 » 45-50 II. L'adunanza straordinaria del Circolo del Popolo di Firenze tenuta nel teatro Goldoni la sera del 5 novembre 1848 » 51-62 III. Il prof. Carlo Pigli Governatore di Livorno » 63-65