LA VITA ITALIANA DURANTE LA Rivoluzione francese e l'Impero
Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
UGO FOSCOLO
(1778-1827)
CONFERENZA DI Giuseppe Chiarini. Signore, Signori,
Fatemi grazia, cioè lasciate ch'io faccia grazia a voi, del preambolo, ed entri senz'altro in materia.
Ugo Foscolo canta nel Carme alle Grazie:
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
Sacri al tripudio di Diana e al coro;
Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto! A lei versan tesori
L'angliche navi, a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lieo. Rosea salute
Spirano l'aure, dal felice arancio
Tutte odorate, e dai fiorenti cedri.
Chi scrisse questi versi era nato poeta, avea nelle vene il sangue della greca poesia. L'isola natale che così sonante gli rifioriva nel verso eraglisi trasmutata dal vero in questa splendida visione, per la lettura degli antichi poeti. Il paganesimo, che nella maggior parte degli scrittori contemporanei d'Ugo si componeva di reminiscenze di scuola e di precetti accademici, era in lui un sentimento così vivo e profondo, che egli allorchè, parlando dei suoi colli materni, diceva: “Ivi fanciullo — La Deità di Venere adorai„, diceva una cosa essenzialmente vera; tanto vera, che gli effetti di quella soverchia adorazione lo tormentarono per tutta la vita.
L'isola di Zante, dove egli non vedeva che riso azzurro di cieli, selve d'ulivi e vigneti, dove non sentiva che profumo d'aranci e di cedri, e nei boschi il tumulto e lo strepito delle caccie di Diana, quell'isola di Zante era ai tempi suoi poco più che un nido di selvaggi e di briganti.
Ugo stesso quando, mortogli nel 1788 il padre, si condusse con la madre e il rimanente della famiglia a Venezia, era (e rimase sempre) un po' selvaggio anche lui. Qualche anno innanzi, a Spalatro, dove suo padre era stato ufficiale sanitario dal 1784 in poi, avea fatto la scuola di Umanità. Dove e come proseguisse gli studi a Venezia, s'ignora; ma che quivi la giovinezza sua fosse tutta negli studi, lo mostrano i ricordi ch'egli stesso ne lasciò fra le sue carte, e i versi che compose fra i quattordici e i diciannove anni, dal 1792 al '97.
Da quei ricordi e da quei versi balza fuori, piena di ardore, la figura del greco giovinetto, assetato di gloria, smanioso di farsi conoscere, di far parlare di sè. E Venezia era campo propizio a quelle giovanili ambizioni.
Quando egli arrivò là con la madre, la famiglia era così povera, che andò ad abitare in una delle contrade più sudicie della città, e non si cibava d'altro che di pane e riso.
“La casa, o per dir meglio catapecchia, scrive Mario Pieri, ove si alluogò, era sì miserabile che nelle finestre non avea vetri, ma bensì le impannate. Quel giovane per altro (è sempre il Pieri che parla) ben lontano dal lasciarsi avvilire a quella intollerabile povertà, scherzava, potrebbesi dire, con essa, e sfidavala, e quasi se ne compiaceva, superbo del proprio talento, e consolato dalla speranza di gloria che i suoi studi gli promettevano.„
“Rossi capelli e ricciuti, ampia fronte, occhi piccoli e affossati ma scintillanti, brutte e irregolari fattezze, color pallido, fisionomia più di scimmia che d'uomo; curvo alquanto, comecchè bene aiutante della persona; andatura sollecita, parlare scilinguato ma pieno di fuoco; mettea meraviglia il vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere più graziose e da tutta la gente.„
Il Pieri scrive ciò riferendosi al 1797, nel quale anno conobbe appunto il Foscolo, ch'era già divenuto famoso, che avea già composto l'ode Bonaparte liberatore, che avea già dato al teatro la sua tragedia, Il Tieste, accolta da applausi incredibili e recitata ben dieci sere, affinchè tutti i 150.000 abitanti della laguna potessero sentirla.
Com'è che il giovine greco avea penato così poco a conquistarsi la fama?
Al gusto e al giudizio nostro tutto il fardello delle sue poesie giovanili, fino all' ode e alla tragedia inclusive, pesa ben poco; dirò di più, in quei primi versi non c'è affatto la promessa del poeta che pochi anni dopo dovea scrivere alcuni sonetti e le due odi famose. Ma certo noi giudichiamo le poesie giovanili del Foscolo con criteri molto diversi da quelli dei suoi contemporanei, e non abbiamo sotto gli occhi il poeta giovinetto che con la sua singolarità e la sua stessa povertà attirava sopra di sè l'attenzione, destava l'interesse del pubblico.
Al ritratto di lui lasciatoci dal Pieri aggiungiamo qualche pennellata presa alla tavolozza di altri scrittori contemporanei. Odoardo Samueli, che aveva sentito il Foscolo recitare un canto di Dante, scrive di lui:
Quand'io ti vidi rabbuffati i crini
Con rauca voce e fiammeggianti sguardi
Cantar in suon feroce i sacri ond'ardi
Del tuo padre Alighier carmi divini;
··············
Cingi, o Italia, gridai, le fulve chiome
Del non tuo figlio col natio tuo serto;
E ne scolpisci ne' tuoi fasti il nome.
Queste fulve chiome nei versi di un altro scrittore contemporaneo diventano ignite; e lo scrittore vede il nome del poeta con le chiome ignite galleggiare, lucente, altero, su l'addensata notte dei secoli,
Quasi cometa per nemboso piano.
Si capisce a questi indizi lo stupore che il giovane Jonio avea destato, fino dal suo primo apparire, nel pubblico veneziano. E quello stupore, che non si produce mai durevolmente senza forti qualità dell'ingegno, ci spiega il rapido sorgere della sua fama, alla quale, come dissi, le condizioni di Venezia si porgevano favorevoli.
*
Mentre l'Europa tremava sbigottita sotto il peso degli avvenimenti della rivoluzione francese, che le intimavano giunta l'ora del rinnovarsi, Venezia si divertiva. In una società come quella, in cui il principale scopo della vita era godersi la vita, inutile dire che la libertà dei costumi toccava la licenza. E in una società cosiffatta inutile dire che il regno apparteneva alle belle donne.
Fra le più belle (e bellissima possiamo giudicarla veramente, più che dagli attestati dei suoi adoratori, dal ritratto che di lei rimane, opera di una pittrice insigne) era Isabella Teotochi Marin; la quale, con poco piacere del marito, che pure pizzicava di letterato e di poeta, avea fatto della sua casa il ritrovo di tutti gli uomini più o meno illustri che dimoravano o capitavano a Venezia: notevoli fra i più noti il Cesarotti, il Bettinelli, il Pindemonte, il Bertola. Quando e come vi fosse introdotto il giovine Foscolo non saprei dire; ma è facile intendere ch'egli dovea sentirsi quasi istintivamente attirato verso quella società letterata, e che quella società letterata doveva essere molto curiosa di conoscerlo e desiderosa di attirarlo: alla padrona di casa sopra tutti, greca anche lei, dovea sorridere l'idea di prendere sotto la sua protezione ed allevare con le briciole del suo affetto il greco poeta.
Ugo dovette fare la conoscenza dell'Isabella fra il 1794 e il '96, quando essa, già divisa dal marito, stava per ottenere, o avea ottenuto il divorzio.
Vi figurate, o signore, o signori, questo brutto e ardente giovinetto di pelo rosso, ostentante con aria di superiorità il suo logoro e rattoppato soprabito verde, entrare ardito nelle aristocratiche sale, dove la greca bellezza esponevasi all'ammirazione dei suoi adoratori? E la greca bellezza accoglierlo con un sorriso pieno di grazia, che fece, io credo, balzare con violenza nuova il cuore del selvaggio isolano? A lui che fin da fanciullo adorava Venere nei materni suoi colli, dovette sembrar di vedere la Dea in persona, salvo che un po' più vestita. — E che cosa pensate voi, che avvenisse per questo incontro? — Io penso che il poeta s'innamorò senz'altro della bella signora; nè mi fa ostacolo ch'egli avesse diciassette o diciotto anni, e lei trentaquattro o trentacinque.
Amori di questo genere sono comunissimi nei poeti; ed anche nei non poeti. Nè la signora, io penso, per quanto vicina a passare a seconde nozze col nobile uomo Giuseppe Albrizzi, si adontò dell'amorosa offerta che il giovine poeta le fece del suo cuore.
Se questo ch'io penso è vero, la saggia Isabella sarebbe probabilmente la Laura cantata dal poeta nelle Rimembranze, e fors'anche la celeste Temira del romanzo autobiografico. Comunque sia di ciò, in questo amore del poeta per Laura è indubbiamente il germe primo del Jacopo Ortis.
Venezia, ho detto, si divertiva; ma, fra mezzo al tripudio dei giuochi, delle mascherate e dei balli, l'eco delle magiche parole liberté, égalité, fraternité, con le quali la Francia rivoluzionaria avea chiamato alla riscossa i popoli, e il suono delle vittoriose armi francesi, avevano anche a Venezia smosso qualche cosa. Anche in Venezia, come nelle altre parti d'Italia, era venuto sorgendo un partito democratico, e s'era formato un comitato rivoluzionario, in corrispondenza coi repubblicani di fuori. Ugo fece parte dell'uno, e forse anche dell'altro, spiegando nell'opera di agitatore politico tutto l'impeto della sua ardente giovinezza e della sua bollente natura; onde, sospettato e perseguitato dal Governo, dovè nell'aprile del 1797 abbandonare Venezia. Riparò nella Cispadana, e si arruolò cacciatore volontario in uno squadrone che si andava formando a Bologna.
Di lì a poco (12 maggio 1797) il Governo di Venezia cadde ignominiosamente abdicando. Gli successe un Governo provvisorio democratico; ed Ugo, appena avutane notizia, si affrettò a tornare. Furono, per lui, e per gli altri come lui amanti sinceri della libertà, giorni pieni d'illusioni; ma giorni soltanto. Si fecero feste e luminarie, si fecero sciocchezze e pazzie per celebrare la rigenerazione della patria; si piantò nella piazza di San Marco (6 giugno) l'albero della libertà; e intorno ad esso ballarono, cantando il canto della democrazia, vecchi, donne, fanciulli, sacerdoti, magistrati. Il Foscolo ebbe un ufficio presso il Governo provvisorio, e pubblicò la sua ode Bonaparte liberatore.
Intanto Bonaparte liberatore stava cedendo Venezia agli Austriaci.
Inutile dire lo scoppio d'indignazione dei liberali sinceri alla dolorosa notizia.
Nell'animo d'Ugo essa fece una ferita immedicabile. Quando stavano per entrare i nuovi padroni, egli capì che quella di Venezia non era più aria per lui, e scappò a Milano, dove nei primi del 1798 diresse il Monitore italiano (giornale ch'ebbe pochi mesi di vita), e vi pubblicò alcuni frammenti sullo stato d'Italia, i quali poi ricomparvero nell' Ortis.
L'anno appresso (1799), Ugo, ristampando l'ode, vi premetteva la famosa lettera dedicatoria, con la quale, invitando il conquistatore a tornare in Italia, gli diceva, fra le altre cose: “tu sei in dovere di soccorrerci, non solo perchè partecipi del sangue italiano, e la rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di quel trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni e scemò dignità al tuo nome.„
Un giovinotto di ventun anni, povero e quasi sconosciuto fuori del veneto, che cercava un impiego dal Governo della repubblica cisalpina, parlare così al conquistatore francese, che era il fondatore di quella repubblica, che stava per toccare l'apogeo della sua fortuna e della sua gloria, fu certo ardimento non piccolo. In questo contrasto fra il bisogno che lo costringeva a importunare di domande i potenti e la fierezza della sua natura che lo induceva a rimproverar loro arditamente le loro colpe e i loro vizi, sta una parte notevole della vita e del carattere del Foscolo.
*
Io vi ho abbozzato, o signori, la giovinezza di quella vita; ora dobbiamo vedere l'uomo, e nell'uomo considerare tre persone, il soldato, il poeta, l'uomo propriamente detto.
Del soldato ci sbrigheremo brevemente; basterà ch'io vi legga il suo stato di servizio, uno stato di servizio veramente onorevole.
Lo tolgo da un rapporto del Ministro della guerra al Vice Presidente della Repubblica cisalpina, che porta la data del 30 ottobre 1802. “Dalle carte presentate, dice il rapporto, risulta che il Foscolo fu cacciatore a cavallo fino dall'anno 1797, e che ebbe un brevetto onorario di tenente dalla Giunta di difesa generale Cispadana; che combattè valorosamente a Cento, e fu ferito; che a Forte Urbano fu prigioniero; che combattè alla Trebbia e a Genova, dove per attestati, e per testimonianza del generale Massena (che lo nomina nel suo rapporto stampato), ebbe gran parte nella importante vittoria, dei due fratelli, e che fu nuovamente ferito; che fece le campagne della Romagna e della Toscana, e che ha sempre dimostrato negli stati maggiori dove ha servito per tre anni consecutivi tutto il coraggio ed i lumi che caratterizzano un uffiziale. La sua nomina di Capitano aggiunto ha origine da un ordine del generale in capo Massena, che a Genova lo impiegò a richiesta dell'aiutante generale Fantuzzi.„
Nei cinque anni dei quali parla il rapporto (1798-1802), è la parte più considerevole della vita militare del Foscolo. Dopo il 1802, egli non si trovò più a nessun fatto d'armi. Dalla primavera del 1804 ai primi di marzo del 1806 appartenne alla Divisione italiana mandata in Francia al Campo di Saint-Omer; poi tornò a Milano, dove rimase a disposizione del Ministero della guerra.
E qui, si può dire, finisce la vita militare del Foscolo; nella quale se non andò più avanti del grado di capitano, se anzi questo grado gli fu sempre contestato, e se non dimostrò le migliori attitudini come ufficiale amministrativo, dimostrò però ampiamente di possedere ciò che più importa nel soldato, il coraggio e il valore.
Ma cessando nel fatto dalla milizia, il Foscolo ne conservò gli stipendi e la divisa, che di tratto in tratto indossava in qualche importante occasione. Cotesti stipendi gli furono sempre pagati dal governo, perchè potesse attendere ai suoi lavori letterari. E pure le sue lettere di cotesto tempo ai superiori e agli amici son piene di lamenti perchè non era abbastanza pagato.
La spiegazione di questi lamenti sta in ciò che narra di lui Mario Pieri. Il Pieri che, come sappiamo, avea conosciuto il Foscolo a Venezia povero in canna e superbo della sua povertà, narra che, rivedendolo qualche anno dopo a Milano, lo trovò tutto attillato e pulito, che abitava un ricco quartiere, che si faceva abbigliare da capo a piedi dal suo servitore, che frequentava le mense dei grandi, e veniva predicando i comodi della vita. Accostandosi alle mense dei grandi, Ugo ne contrasse la malattia del voler parere grande, pur seguitando di tratto in tratto a protestarsi povero; le quali proteste, chi guardi bene addentro, erano anch'esse un effetto della sua megalomania; funesto morbo, che gli guastò il carattere e gli contristò miseramente la vita.
Divenendo la capitale della repubblica cisalpina, Milano si era d'un tratto trasformata come per incanto. Alla inerzia e al torpore degli anni precedenti era succeduta una meravigliosa esuberanza di vita: da tutte le parti d'Italia, quanto v'era d'uomini ingegnosi, arditi, operosi, intraprendenti, accorreva a Milano.
La medaglia aveva, s'intende, il suo rovescio. Insieme agli uomini di valore ed onesti erano accorsi d'ogni parte gl'intriganti, i quali cercano sempre trar profitto da ogni mutazione di governo: l'antica rilassatezza del costume non trovava certo nel nuovo ordine di cose un freno salutare; tutt'altro.
Ugo, nella sua duplice qualità di soldato e di poeta, avea subito trovata a Milano buona accoglienza fra i militari e fra i letterati. D'uomini illustri nelle lettere e nelle scienze c'erano già, quando egli arrivò, o giunsero poco dopo, il Monti, il Paradisi, Giovanni Pindemonte, il Giordani, il Gioia, il Rasori e parecchi altri.
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Una delle prime amicizie che Ugo contrasse fu quella del Monti, una delle prime cose che fece fu innamorarsi della moglie di lui. Non era nuovo agli amori. Avea già avuto a Venezia i primi ammaestramenti dalla celeste Temira. “Cogli i favori delle belle donne, come i fiori delle stagioni, essa gli avea detto; ma bada, non innamorarti„: e lui avea subito cercato di mettere in pratica il primo precetto. Quanto al secondo, preso letteralmente, esso non era di attuazione possibile per un uomo che già stava tramutandosi in Jacopo Ortis. Tanto non era possibile, che la vita del Foscolo nelle sue relazioni col sesso gentile fu da indi in poi un continuo succedersi, anzi intrecciarsi, d'amori, per modo che prima che maturasse l'uno era spuntato già l'altro; nè era vietato ai morti amori di rinascere, nè ai viventi di fare a pugni o accomodarsi alla meglio l'uno accanto all'altro dentro il cuore del poeta.
Se nell'amore per la Monti il Foscolo trovasse corrispondenza, non si può nè affermare nè negare. Il Pecchio lo crede, io non lo credo. Comunque, Ugo lasciò scritto che si voleva ammazzare per lei, e lei raccontò al Pieri che veramente egli tentò d'ammazzarsi: ma per fortuna non ne fu nulla; e così potè invece cercare conforto in un amore nuovo, nell'amore della giovine Isabella Roncioni, che conobbe passando da Firenze nelle sue escursioni militari, e che ahimè era già fidanzata ad un marchese Bartolomei, al quale poi andò sposa.
Che cosa fosse il Foscolo innamorato, chi in Firenze conobbe il Niccolini, può averlo saputo da lui. Chi non lo conobbe può leggere ciò che ne dice il Pecchio, che torna lo stesso. “Egli era, dice il Pecchio, un oggetto per alcuni di terrore, per altri di riso.... diveniva mutolo, accigliato, cupo, guardando con pupille sbarrate, immote, come quelle d'un frenetico; e se rompeva quella terribile taciturnità, non era che per brontolare alcune sentenze sul suicidio, o per ripetere le cento volte a guisa d'un rosario alcuni versi allusivi al suo stato.„
Un amatore così fatto sembrerebbe dover fare paura alle belle signore: invece, almeno a quel tempo, pare di no. Tanto che della perduta Isabella potè ben presto consolarsi a Milano nell'amore della contessa Fagnani Arese, una superba bellezza, alla quale piacque aggiungere nella lunga lista dei suoi trionfi quello sul singolare poeta.
Ed egli allora (nel 1802) era veramente divenuto poeta, non solo singolare, ma grande. Singolare piuttosto è, cioè può parere, che egli diventasse gran poeta in quei cinque anni, che furono i più tumultuosi della sua vita, e i meno acconci agli studi; nè solamente poeta, ma anche prosatore. Egli andava correndo su e giù per l'Italia, da Milano a Bologna, da Bologna a Modena, da Modena a Lugo, a Firenze, a Pistoia, incaricato di commissioni militari, incaricato di dare la caccia ai briganti; e intanto dall'ingegno suo sbocciavano quei tre sonetti d'amore che il Carducci disse “mirabili di novità, di purità, di movimento, vera lirica dell'affetto superiore ed intenso trasformato ed idealizzato nel fantasma„. E intanto componeva l'ode alla Pallavicini, che se nella combinazione dei versi rammenta il Parini, lo supera nella eccellenza della esecuzione, e l'altra all'amica risanata, le cui ultime strofe sono di una purezza antica quale fino allora non s'era veduta nella nostra poesia. E intanto veniva elaborando le Ultime lettere di Jacopo Ortis, e scriveva l' Orazione a Bonaparte pel congresso di Lione.
I tre sonetti sono scritti per la Roncioni, nel 1799. L'amore per la Roncioni fu pure quello che fissò nell'ultima sua forma il romanzo. Il primo germe di esso furono, come dissi, le lettere a Laura; le quali, dopo l'amore per la Monti, si trasformarono ed allargarono nella vera storia di due amanti infelici, cominciata a stampare dall'autore a Bologna nel 1798, finita e pubblicata dal Sassoli, e dal Foscolo rifiutata.
Ma non si può pensare senza disgusto che all'ultima elaborazione dell' Ortis partecipasse l'amore per la bella Signora milanese, che il poeta celebrò nell'ode all'amica risanata.
Così quattro amori e quattro donne contribuirono alla formazione del famoso romanzo, che fece versare tante lacrime a tante innocenti fanciulle, che fece girare la debole testa a tante giovani spose, che fece, come il Werther in Germania, venir di moda il suicidio; che fu, lasciatemi dire, la catena del forzato che Ugo si trascinò dietro per tutta la vita. Meditando il suo romanzo, egli si era immedesimato siffattamente col protagonista, che di fronte alle molte donne che incontrò nel suo breve cammino non seppe recitare mai altra parte che quella di Jacopo Ortis, salvo, s'intende, il suicidio. Ma in quel libro malsano il poeta si rivelò prosatore nuovo, originale, efficace; meglio che nella Orazione pei Comizi di Lione, dove non seppe, o non volle, liberarsi dell'antico paludamento.
Egli non aveva allora che ventiquattro anni,
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La rimanente sua vita può dividersi in due grandi atti, separati, o meglio legati insieme, da un breve intermezzo. L'atto primo comprende il tempo della piena espansione di tutte le forze intellettuali ed affettive del poeta, alle quali una sola cosa mancò, il freno di una forte volontà che contenendole sapesse guidarle a mèta sicura. È il tempo dei Sepolcri e delle Grazie, dell' Aiace e della Ricciarda, della traduzione d'Omero e delle lezioni d'eloquenza a Pavia; il tempo degli amori per la Giovio, per la Bignami e per la Battaglia, a cui servono come di contorno gli amori in Francia, gli amori con la saggia Isabella e la Marzia, e gli amori bolognesi e fiorentini con la Martinetti, con la Magiotti e con altre donne.
L'intermezzo comprende la breve dimora del poeta in Isvizzera (1815-1816).
Nell'atto secondo è la catastrofe, cioè la vita dell'esule a Londra, dal 1816 alla morte, avvenuta nel 1827. Sono gli anni nei quali il poeta è morto alla poesia, e la poesia è morta al poeta, gli anni dei faticosi lavori d'erudizione e di critica, gli anni dei progetti di imprese letterarie, sempre falliti e sempre rinnovati; sono gli anni della vita galante nella gran società di Londra, gli anni dell'amore per la Russell, gli anni delle spese pazze e della miseria.
Tutto l'uomo è nel giovane. Questa sentenza del Giordani, verissima per molti scrittori, vera per tutti, per nessuno è di una verità così lampante come per il Foscolo. Perciò io mi sono trattenuto a parlare della giovinezza di lui forse più che non paiano comportare i limiti di una conferenza.
Quel sentimento, tutto pagano, di ammirazione e adorazione della bellezza plastica femminile, misto ad una tetra malinconia, che avea bisogno di alimentarsi nella infelicità dell'amore e nelle sciagure della patria; quel sentimento e quella malinconia, che nella vita del Foscolo giovine produssero gli amori per la Roncioni e per l'Arese, e nell'arte le due odi, alcuni sonetti e l' Jacopo Ortis; quel sentimento e quella malinconia governano tutta la posteriore vita dell'uomo e dello scrittore.
Tornato di Francia, dove pure avea fatto un po' l'Jacopo Ortis con una signora inglese ed una signorina francese, Ugo andò per alcuni mesi a Venezia, a rivedere la madre che adorava, e a riprendere gli amori suoi con l'Albrizzi. Là ebbe, io credo, la prima idea del carme I sepolcri. Lo scrisse poi tornato a Milano, e lo stampò a Brescia nell'aprile dell'anno appresso (1807). Non che gli mancasse a Milano il sorriso animatore delle Muse, cioè delle belle signore (ce ne aveva a bizzeffe); ma andando a Brescia, e trattenendovisi a lungo per la edizione delle opere del Montecuccoli, egli s'incontrò in una nuova Musa, Marzia Martinengo Cesaresco (le Muse erano per lui molte più delle nove che registra la Mitologia), e si affezionò ad essa; e sotto la protezione dell'amore di essa diede alla luce il Carme, che fu e rimase la più alta espressione del suo ingegno poetico e del suo caldo patriottismo.
Intendiamoci, la signora non ebbe alcun merito nel merito di questa poesia, che germogliò nella mente del poeta per tutt'altro influsso che di bellezze femminili, e ne balzò fuori d'un tratto intera e perfetta. Anzi, le bellezze femminili, troppo idoleggiate dal poeta, furono forse cagione che questo mirabile carme rimanesse unico nella produzione poetica dell'autore.
Egli intorno a quel tempo avea meditati e abbozzati, e in parte scritti, altri carmi; non meno di sei.
Si vede dai titoli, ed è confermato da ciò che il poeta scriveva in quel tempo agli amici suoi, che negli argomenti e nella materia dei carmi c'era assai varietà; ma nessuno di quei carmi ebbe compimento; e gli squarci che l'autore ne compose andarono poi tutti a finire in un carme solo, che fu come il testamento poetico di lui. È questo il carme Alle Grazie, nel quale il poeta intendeva fin da principio idoleggiare tutte le idee metafisiche sul bello.
Glie ne venne il pensiero dal gruppo delle Grazie scolpito dal Canova; ne scrisse forse qualche primo frammento sul lago di Como quando conobbe la famiglia Giovio e s'innamorò della Cecchina, una seconda edizione dell'amore per la Roncioni; se non che questa volta il poeta avea lasciato due pezzi del suo cuore a Milano, uno in potere della Lucietta Battaglia, l'altro di Maddalena Bignami. Non so se della prima di queste due donne, che fu amata furiosamente dal poeta, ci sia qualche accenno o allusione nel Carme, come una volta sospettai; ma la Bignami rappresenta in esso una delle figure principali. Le altre due donne, che con lei formano il perno intorno al quale si aggira il poema, sono la famosa Cornelia Martinetti, che Ugo corteggiò nel suo passaggio da Bologna per Firenze, nel 1812, e la bella Eleonora Nencini, antica sua conoscenza, ch'era stata la confidente de' giovanili amori di lui per la Roncioni.
A Firenze il poeta, grande ammiratore, e nei suoi primi lavori poetici imitatore dell'Alfieri, si fece assiduo alle conversazioni della contessa d'Albany, dove conveniva il fiore delle bellezze fiorentine, la Rondoni e la Nencini comprese; e qui incantato dalla grazia, dallo spirito, e diciamo anche dalla civetteria delle più belle fra quelle signore (i poeti in ispecie sono molto facili a bever grosso in questa materia e a prendere per grazia e per ingenuità la civetteria), incantato dalla eleganza della città, inebriato dall'aria balsamica dei suoi colli, non respirando, non sognando che grazia ed eleganza, s'innamorò, s'infatuò talmente del suo carme Alle Grazie, ch'esso a poco a poco assorbì ogni suo pensiero poetico, e venne prendendo proporzioni così larghe, che d'un inno com'era in principio, diventò nell'ultimo disegno, un poema, diviso in tre inni, e ciascun inno in tre parti.
Il numero tre pei poeti, è contagioso. Tre le Grazie, tre gl'inni e tre le sacerdotesse delle Grazie.
Tre vaghissime donne a cui le trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
Così comincia l'Inno secondo.
L'ara è a Bellosguardo, dove il poeta dimora, e dove scrive il suo carme. Le sacerdotesse sono le tre belle signore che sopra ho nominate, ciascuna delle quali ha suoi speciali attributi nel culto che il poeta rende alle amabili Deità.
La Nencini, abile suonatrice d'arpa, rappresenta la grazia simboleggiata negli effetti della musica; la Martinetti, piena di spirito e cultissima, la grazia della fantasia espressa nell'amabilità della parola; la Bignami, gentile danzatrice, la grazia apparente al guardo dall'eleganza delle forme nei moti del ballo.
La descrizione della suonatrice d'arpa è uno dei più bei pezzi del Carme, anzi della moderna poesia, denso di pensieri, abbagliante d'immagini, affascinante di suoni come una sinfonia rossiniana. Sentite:
Già del piè delle dita e dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note
Che pingon come l'armonia diè moto
Agli astri, all'onda eterea e alla natante
Terra per l'oceàno, e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla fortuna agitatrice e al tempo,
Sì che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d'armonia divina
E innalzino le menti oltre la terra.
Come quando più gajo euro provòca
Su l'alba il queto Lario, e a quel sussurro
Canta il nocchiero, e allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Su le gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorel con la sua piva;
Per entro i colli rintronano i corni
Terror del cavriol, mentre in cadenza
Di Lecco il malleo domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
Pende le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell'arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
*
Io fui forse troppo severo con le Grazie e con le belle signore quando una volta, a proposito degli amori del Foscolo, scrissi che natura lo avea creato alla grande poesia di cui son saggio i Sepolcri, e ch'egli, per piacere alle amanti, volle essere il poeta delle Grazie. Fui troppo severo, forse ingiusto; ma spero parere non immeritevole di perdono anche agli occhi vostri, o gentili signore che mi ascoltate.
Certo la bellezza è nel mondo una benedizione di Dio, e la bellezza femminile è una delle più gentili parvenze che rallegrino la vita dell'uomo: nessuna bella cosa è più bella di un bel volto di donna irradiato dalla bontà e dall'ingegno. Parlano all'anima un linguaggio misterioso, eccitano nel cuore ineffabili godimenti gli infiniti aspetti della natura animata ed inanimata, il sorgere del sole, un cielo stellato, il canto degli uccelli, lo stormir delle frondi, il profumo dei fiori, il fremito della primavera; ma un giovine innamorato ritrova tutti quei godimenti ed altri maggiori nella contemplazione di due begli occhi di donna. La gioventù non è però tutta la vita; nè può tutta la gioventù vivere della sola contemplazione della bellezza. L'uomo non appartiene a sè solo, appartiene alla grande famiglia umana, e la grande famiglia umana ha, oltre quello della bellezza, altri e più alti ideali che debbono guidarla e sorreggerla nel cammino interminato dell'umano perfezionamento. Egli è perciò, o signore, o signori, ch'io, rammentando gli effetti prodotti in me dalla lettura del carme I sepolcri, lo preferisco alle Grazie, e mi dolgo che il troppo amore di queste distogliesse il poeta dagli altri carmi.
L'ingegno poetico del Foscolo fu essenzialmente lirico; direi quasi, esclusivamente. Il poeta scrisse anche satire, ed, oltre il Tieste, che ho già nominato, altre due tragedie, l' Ajace e la Ricciarda: ma così nelle satire, come nelle tragedie, ciò che v'ha di meglio sono squarci di poesia narrativa e descrittiva appartenenti al genere delle Grazie e dei Sepolcri.
L' Aiace rappresentato con grande aspettazione a Milano nel 1811, finì fra le risate del pubblico. Occasione alle risate furono, voi lo sapete, i Salamini (sudditi di Ajace); ma la cagione vera, che la tragedia era mortalmente noiosa: la gente non va al teatro per sentir recitare qualche migliaio di versi, siano pur belli. E non c'è bisogno per ciò nè di palco scenico nè d'attori. Il dolore del poeta per l'insuccesso dovette esser grande. Chi pensò a compensarnelo furono i suoi nemici, ch'erano molti, e tristi e sciocchissimi.
Egli avea sempre tenuto verso Napoleone ed il suo governo in Italia, così al tempo della Repubblica cisalpina come del regno Italico, il libero e fiero contegno assunto fino dal 1799 con la lettera dedicatoria dell'ode Bonaparte liberatore. Nell'orazione pei comizi di Lione, più che tessere le lodi dell'Imperatore, avea fatto un'aspra e violenta censura dei mali che per opera del suo governo travagliavano la patria. Quando, nominato professore a Pavia, stava preparando l'orazione inaugurale, fu pregato d'introdurvi qualche parola di lode dell'Imperatore, com'era d'uso; ma egli rispose, no; e no fu. Notisi che lo stipendio di professore, di cui tutti i suoi predecessori si erano contentati, parendo a lui troppo piccolo, avea chiesto ed ottenuto che gli si conservasse metà del soldo militare. Egli era così, e si conservò sempre eguale; chiedeva quasi in tuono di comando, e riserbandosi piena la sua libertà di giudizio e di parola. Ma quanto più i governanti gli si dimostravano benevoli per la stima che facevano del suo ingegno, tanto cresceva l'ira dei suoi nemici contro di lui.
È noto l'epigramma che dopo la recita della tragedia corse per Milano:
Per porre in scena il furibondo Ajace,
Il fiero Atride e l'italo fallace,
Gran fatica Ugo Foscolo non fe':
Copiò sè stesso e si divise in tre.
Questo fu niente: i nemici del poeta andarono spargendo che l' Ajace era una satira dell'Imperatore Napoleone. Non si poteva inventare bugia più sciocca: ma non c'è bugia, tanto sciocca, che a forza di gridare non si riesca a farla credere una verità. Così accadde; la polizia dovè occuparsene, e il poeta dovè esulare dal regno. Egli, che con una parola avrebbe potuto giustificarsi, preferì fare la vittima, poichè così la tragedia acquistava un'importanza politica, che lo compensava dell'insuccesso nel teatro. L'esilio, che gli fu condito di tutte le dolcezze possibili, diventò una specie di viaggio trionfale alla volta di Firenze, dov'egli, già noto e famoso, arrivò più famoso e festeggiato che mai. Un po' di persecuzione, o vera o apparente, aggiunge sempre qualche raggio all'aureola di un uomo illustre.
La povera Quirina Magiotti, la sola donna forse che lo amò veramente, che lo soccorse generosamente (e che non ebbe un solo verso dal poeta delle Grazie, poichè i poeti sono spesso ingrati), la povera Quirina si sentì tremar tutta la prima volta che lo vide, arrivato di fresco, passare per ponte vecchio; tanta era la fama che avea preceduto il suo arrivo. E quanto dovette soffrire la povera signora quando tornato Ugo a Milano, dove lo richiamarono, non tanto gli avvenimenti politici, e la recita della Ricciarda, quanto il suo furioso amore per la Battaglia, trovò in alcuni frammenti di lettere di lui la conferma dei tradimenti d'amore, che pur troppo avea sospettati. Ciò non pertanto la brava donna rimase amica al poeta, amica affezionata fino alla morte, fin dopo la morte. Ciò fu per lui la Provvidenza.
Tornato a Milano, il Foscolo rivestì la divisa militare, come aiutante del generale Fontanelli. Ma gli avvenimenti precipitavano: caduto Napoleone e con lui il regno Italico, Ugo dovè scegliere fra mettersi a servizio dei nuovi padroni, o andarsene. Ebbe qualche momento d'esitazione, entrò anche in trattative per la fondazione di un giornale in servizio del nuovo Governo: finalmente vinsero i suoi istinti migliori, e fuggì nascostamente in Isvizzera, con piccol bagaglio, con pochi denari, senza saper nemmeno lui troppo bene che cosa avrebbe fatto, e come avrebbe vissuto. Quando fu a corto di denari, si rammentò della sua buona amica di Firenze, e lei fu tutta felice di aiutarlo. Ma anche fra i ghiacci e le nevi di Hottingen il vecchio peccatore ebbe una quantità di avventure stranissime, e s'impigliò nelle reti di un brutto romanzo d'amore, che gli fece commettere quello ch'ei chiamò il secondo delitto della sua vita: e alla povera Quirina toccò di sentirne la confessione. Finalmente, raccapezzati, con l'aiuto del fratello Giulio, un po' di denari, mosse alla volta dell'Inghilterra, e l'11 settembre del 1816 arrivò a Londra.
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La vecchia Britannia, superba di avere abbattuto Napoleone, ammirò ed onorò nel Foscolo, non solo l'autore dell' Ortis e dei Sepolcri, ma l'uomo che dinanzi al colosso di Francia, a cui tutti s'inchinavano, avea sempre tenuto alta la testa. Egli fu subito accolto nella migliore società di Londra. La vita che condusse là fino dai primi tempi fu, come quella che avea condotta a Milano, la vita del gran signore, salvo che costavagli molto più cara. Le centinaia di lire che gli dava a Firenze e gli mandava in Isvizzera la buona Magiotti sarebbero state una goccia d'acqua in un bicchiere vuoto; e d'altronde a Firenze e in Lombardia correvano novelle ch'e' fosse arricchito, perchè le persone andate a visitarlo lo avean trovato in un alloggio signorile, con tutte le mostre dell'agiatezza: di che egli scusavasi nelle lettere agli amici d'Italia, dicendo che l'usanza del paese e la necessità di guadagnare lo costringevano a quel lusso apparente, che nascondeva una miseria reale. Se non la scusa, la miseria era vera pur troppo.
Nel 1818 si ritirò in campagna, per economia, diceva lui, e per poter lavorare con più quiete; ma seguitò a tenere il quartiere che aveva affittato in città, spese alcune migliaia di lire per arredare la villa, e mise cavallo e carrozza, per potere andare e venire tutte le volte che gli occorresse. Vi raccomando questa razza d'economia.
Perchè non lo diremo? — Fu proprio l'economia intesa e praticata a questo modo che trasse in rovina il povero Foscolo, al quale non mancò nè anche a Londra l'aiuto largo, generoso e costante degli ammiratori e degli amici.
Una delle famiglie con le quali fino dal 1818 avea stretto più intima relazione era la famiglia Russell. Ugo andava spesso a pranzo da loro, andava in compagnia loro e d'amici comuni a partite di piacere, a feste e conversazioni, mandava e portava loro libri da leggere, e leggeva con le due figlie maggiori, Caterina e Carolina, le poesie del Petrarca. Come con la famiglia Russell, usava familiarmente con altre; ed uno dei suoi piaceri preferiti era spiegare alle signore e alle signorine le più astruse teorie d'amore.
Quella lettura del Petrarca fatta con le due Russell, una delle quali, la Carolina, bellissima e piena di spirito, si porgeva acconcia alle dissertazioni care al poeta, ma anche era, per un uomo come lui, tutto che avesse i suoi quarant'anni suonati, cosa molto pericolosa. Il padre delle ragazze ne lo aveva avvertito, ma invano. Accadde quel che doveva accadere, che cioè il poeta s'innamorò; e benchè la ragazza gli dicesse chiaro e tondo che un poeta di quarant'anni e povero non poteva sperare da lei nient'altro che stima e amicizia, non ci fu verso; seguitò per oltre un anno e mezzo a proseguirla delle sue furie amorose. Tant'è, non sapeva capacitarsi che un uomo come lui, al quale nessuna donna avea detto di no, dovesse trovare proprio a Londra la fenice del genere. Fece e scrisse una quantità di pazzie; minacciò di ammazzarsi; ma il buon senso, la fermezza e la calma della fanciulla finirono, dopo una serie di lezioni abbastanza dure, col richiamarlo alla ragione.
Non tutto il male viene per nuocere.
Dalla lettura del Petrarca fatta in casa Russell, nacquero i Saggi sul Petrarca, cioè la migliore opera che Ugo scrivesse a Londra, quella che lo rivelò sotto un aspetto nuovo, l'aspetto del critico. Chi pensi alle condizioni di tempo e di luogo nelle quali il Foscolo scrisse questi saggi, e i discorsi sul testo di Dante e del Boccaccio, non può non restare meravigliato, non dico della dottrina, ma dell'intuito felice col quale egli vide molte cose, che il progresso degli studi critici dovea poi dimostrar vere. E chi pensi alle condizioni domestiche e di salute nelle quali egli dovè attendere a questi ed altri lavori, la sua meraviglia si cambierà in istupore. Il Foscolo, dissi, era nato poeta. Strappato dalle necessità della vita alla poesia, e costretto a scrivere della prosa pe' librai e pei giornalisti, applicò la potente visione poetica allo studio delle opere altrui, e divenne critico nuovo e potente; lasciatemi dire, l'instauratore della critica nella nostra letteratura.
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Un giorno si presentò a lui una vecchia dama in compagnia di una giovinetta, e gli disse: Ecco, signore, questa è vostra figlia; io, sua nonna, la affido a voi, e vi affido insieme la piccola dote che ho potuto assegnarle.
La giovinetta, che poteva avere sedici o diciassette anni, era frutto dell'amore che il poeta, come accennai, ebbe con una signora inglese nel tempo che militò in Francia. Ugo accolse con lieto animo la figlia, e pensò a mettere in luogo sicuro la dote. Così non ci avesse pensato! Gli venne l'idea di fabbricare, di fabbricarsi la casa, che doveva essere l'asilo della sua vecchiezza, e, morto lui, il patrimonio della figlia: ne fece il disegno da sè, e da sè attese a mobiliarla e adornarla con l'eleganza di un artista.
Come andasse non so, il fatto è che prima ancora che la casa fosse finita, si trovò in tali angustie, che dovè ricorrere per aiuto agli amici; e Lady Dacre, una donna d'alto animo e d'ingegno, che gli voleva bene e lo ammirava, promosse una sottoscrizione per un corso di letture, che gli accrebbero riputazione e gli fruttarono circa un migliaio di sterline. Si figurò di potere con queste accomodare tutte le sue faccende e rimanere un signore. Ciò accadeva nel 3 marzo del 1823. Ai primi del 1824 alcuni creditori lanciarono contro di lui un mandato d'arresto; ed egli, per sottrarsi alle loro persecuzioni, dovè abbandonare di nascosto la propria casa, e andare errando dall'uno all'altro dei più poveri quartieri della città.
Le fatiche e i dispiaceri gli avevano rovinato la salute. Non visse più che quattro anni non interi; e furono quattro anni di patimenti inauditi, materiali e morali. Più d'una volta, mal reggendosi in piedi, dovè andare attorno vendendo qualcuno dei suoi libri, per potersi sfamare. Tanto sentiva di non essere più lui, che nascose il proprio nome sotto quello della figlia.
Se furono grandi i suoi errori, fu anche grande l'espiazione; e sopportata eroicamente.
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Quella che ho tentato di adombrarvi non è certamente, o signore, o signori, la vita di un uomo savio, nel significato che si dà usualmente a questa parola; ma se è bene che la grande maggioranza della società sia di uomini savi, non è male che di tratto in tratto sorga fra essi qualche pazzo, chiamiamolo pure così, cioè no, diamogli il suo vero nome, qualche eroe, qualche poeta, capace di scrivere dei versi come quelli dei Sepolcri; versi che una volta letti vi si conficcano nella memoria e diventano parte dei vostri pensieri, che vi ricercano le intime fibre, che vi trasportano in un mondo ignoto, che vi fanno maggiori e migliori di voi stessi, risvegliando le più nobili energie che dormivano nascoste nell'intimo dell'essere vostro.
Che importa che il Foscolo avesse come uomo delle debolezze? Quando noi le abbiamo sapute, i suoi Sepolcri non rimangono egualmente belli, non rimangono la prima voce più altamente e liricamente patriottica dell'Italia moderna? È solo speciosa quella trita sentenza che pel cameriere non ci sono eroi. Sapete perchè il cameriere non vede l'eroe? Non già perchè l'eroe non ci sia, ma perchè il cameriere è un cameriere.
La critica moderna, che scruta le vite de' grandi uomini, ci abbassa pur troppo spesse volte a quell'umile ufficio. Facciamone onorevole ammenda, lasciando la parola al poeta.
Io lo so bene, i versi che vi leggerò voi li avete letti chi sa quante volte; forse, anzi senza forse, li sapete a memoria; ma la bella poesia è come la bella musica, quanto più si risente tanto più piace. Ad ogni modo io non saprei trovare scongiuro migliore per farmi perdonare da voi la noia di questa conferenza.
A egregie cose il forte animo accendono
L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che temprando lo scettro a' regnatori
Gli allôr ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l'arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a' celesti, e di chi vide
Sotto l'etereo padiglion rotarsi
Più mondi, e il sole irradiarli immoto,
Onde all'Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento;
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe' lavacri
Che da' tuoi gioghi a te versa Appennino!
Lieta dell'aer tuo veste la luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti; e le convalli
Popolate di case e d'oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi.
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco;
E tu i cari parenti e l'idïoma
Desti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma,
D'un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere celeste.
Ma più beata che in un tempio accolte
Serbi l'itale glorie, uniche forse,
Da che le mal vietate Alpi e l'alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t'invadeano, ed are,
E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Questi versi, composti novant'anni fa infiammarono di santo sdegno i cuori di quelli uomini gloriosi (ora ahimè, tutti scomparsi) che ci crearono la patria. La santa ombra del poeta ci assista, ed ispiri a quelli che restano le virtù necessarie per conservarla.