INDICE

Avvertenza di G. Pitrè Pag. 5

1. Verbo, Settimana Santa, Passione e Crocifisso 19

2. La Rappresentazione della Passione di G. C. in Naso 20

3. La Cena del Giovedì Santo ivi

4. Un balbuziente in S. Marco 21

5. La Rappresentazione della Passione di G. C. in S. Filippo 22

6. Bestemmia di uno di Veria ivi

7. Uno di Veria ferito da un colpo di crocifisso ivi

8. Risposta d'un prete di Longi 23

9. Verbo, messa ivi

10. Un prete vestito a messa che insegue un giovane 24

11. Un prete che a messa ricorda i suoi bachi da seta 25

12. Ignoranza canonica d'un prete ivi

13. La lettera d'un suddiacono 26

14. Bollito o arrostito? ivi

15. Effeminatezza ed ignoranza di un prete di Maletto 27

16. Miscellanea 30

17. Una recita dell'Officio divino 31

18. Atto di Fede teologica d'un fratello congregato nella Novara ivi

19. Benedizione data col braccio svelto dal corpo di una femina uccisa 32

20. Un notaro divenuto confessore 33

21. Città di Randazzo in iscena 36

22. Scena seconda ivi

23. Atto di dolore fatto da un moribondo 37

24. Confessore in Marsala 38

25. Morto che ride in Nicosia 39

26. Cappuccini di Nicosia in processione 40

27. Il P. Fortunato di S. Marco uccellato da D. Giuseppe Gallotto 43

28. Copia di una lettera 50

29. Copia d'una lettera 53

30. Copia di una lettera 54

31. Copia d'un biglietto 55

31 bis . Altra lettera ivi

32. In Frazzano, terra della Contea di S. Marco 56

33. Motto d'uno di Regalbuto 57

34. La manna del Monte di Trapani ivi

35. Seguenzia della gente di Mongiuffi 59

36. Salve Regina 61

37. Credo ivi

38. Veni Creator Spiritus 62

39. Confiteor 63

40. Varie preci divote ivi

41. Magnificat 65

42. Fragmenti di varie coselle dall'istesso 66

43. Litania ivi

44. De Profundis 68

45. Recitandosi l'ufficio dei morti 69

46. Miserere delli Romiti di Iudica 70

47. Sacerdote in Piazza che ricorda un moribondo 71

48. Le gare di Nicosia ivi

49. Ubbriaco in Regalbuto che dorme nel cataletto 72

50. Il Mirchio di Patti 74

51. Il morto della Giojosa 76

52. Il porco di S. Antonio nella Giojosa 77

53. Donna inflatata 78

54. Motivo di pazienza insegnato da un padre cappuccino 79

55. Vangelo d'un villano di Militello 80

56. Ragazzo che fa testimonianza alla madre d'essere stato alla messa 81

57. Misterij del Rosario nella Chiesa di S. Nicolò di Nicosia 82

58. Esempio 84

59. Barbaggianne in Trapani 85

60. Campana stimata sonare da se sola 86

61. Naso in giudizio condannato da un ficarrese 87

62. Panegirico di S. Antonio di Padova 88

NOTE 99

VARIANTI E RISCONTRI 107

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A TOMMASO CANNIZZARO

IN MESSINA

Questa Raccoltina di aneddoti, fatta da un messinese, va di ragione offerta a Voi, che della provincia di Messina siete il più dotto ed intelligente raccoglitore di novelle e canzoni popolari.

Nè che poco io vi dia da imputar sono,

Che quanto posso dar, tutto vi dono.

Vostro aff. mo Giuseppe Pitrè.

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AVVERTENZA

I Il manoscritto di questi Avvenimenti faceti è nella Biblioteca Nazionale di Palermo (segnato XI. A. 20), e mi fu dato a vedere da quel gentile Bibliotecario Capo che è il comm. Filippo Evola, tanto benemerito degli studi bibliografici in Sicilia.

È in-16 o piccolo, rilegato in pelle di montone, di cinquantasette carte (escluse tre bianche), pagine centotredici; e porta per titolo: Avvenimenti | Faceti | Per mantenere in ame-|nità innocente le one- | ste recreazioni, | Raccolte | In diverse città e | Terre di questo | Regno. La scrittura ne è nitida e chiara senza un pentimento: il che induce a ritenerla copia di un originale smarrito o distrutto.

Chi ne sia l'autore, non so; ma dalla natura dei fatti che egli ama di raccontare, tutti o quasi tutti di argomento ecclesiastico, con personaggi di chiesa e con particolari della vita di sacerdoti secolari e regolari, può ritenersi un prete o un frate predicatore della provincia di Messina, e probabilmente della Terra di S. Marco. Non altri che un ecclesiastico poteva occuparsi esclusivamente di persone di chiesa, discorrerne con piena conoscenza di abitudini, di occupazioni ordinarie, di offici divini e di altre cose siffatte; non altri che un predicatore, forse uno de' così detti quaresimalisti, poteva, nel passato secolo, recarsi da un vallo all'altro[1], girar mezza Sicilia, e trovarsi in grado di udire, dalla bocca di amici e di conoscenti, piacevolezze e storielle di Longi (prov. di Messina) e di Bagheria (prov. di Palermo), di Regalbuto (prov. di Catania) e di Marsala (prov. di Trapani), per non dire di Naso, Patti, Montalbano, Novara, Mongiuffi, Nicosia, Aggira, Bronte, Randazzo, Termini. Come appare da vari luoghi egli viaggiava e scriveva nella prima metà, e propriamente nel quarto decennio del sec. XVIII[2]; anzi nel n. 40 è ricordato, senz'altro, «quest'anno 1738[3] »; e chi non ignora le condizioni civili e morali della Sicilia in quel tempo, e le difficoltà di recarsi da un punto all'altro di essa, giudicherà se, guardato al genere dei racconti, altri, che non un frate o un prete, potesse fare quel che fece il nostro.

Che poi egli fosse, come oggi si direbbe, della provincia di Messina, non c'è ombra di dubbio, non tanto per il numero di fatti che egli racconta di quella provincia, e particolarmente di S. Marco, dove egli potè fermarsi di più[4], quanto per il dialetto in che egli scrisse, e che è del gruppo messinese. Laonde, senza dire del vermu di la sita (per vermi di la sita, baco da seta) che il Caglià ebbe cura di notare[5], del mi nella frase undi mi m'arricogghiu e di altre voci simili, giova rilevare la forma caratteristica di quel gruppo, cioè la d indocile di assimilazione quando preceda la n, forma unica e sola in tutti i dialetti dell'isola, ne' quali non esistono nè si sono mai sentite voci messinesi come le seguenti, che io raccolgo da tutto il libro: essendu, dicendu, mittendu, vardandu, undi, manda, andari, vindiri, mi ndi vaju, banda, vattindi, quandu ed altre.

La materia del libro è per più d'un terzo tradizionale, non pure in Sicilia, ma anche nel continente italiano, in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra ed in altre contrade: aneddoti, cioè, novellette, facezie, burle, motti di spirito più o meno festevoli, più o meno vivaci, che ognuno di noi, tra una brigata di amici, ha molte volte udito a raccontare ed ha raccontato egli stesso come seguiti nel tale o tal altro luogo, in persona del tal de' tali.

In vero, questi fatti poterono bene avvenire qua e là, e ripetersi con circostanze simili o analoghe, o non avvennero mai, e furono spiritose invenzioni di begliumori quando per mettere in burla gli abitanti d'un paese in voce di sciocchi e grossi di cervello, quando per deridere una classe di gente, quando per depreziare il prodotto d'un suolo. Veri o inventati, unici o no, propri o d'altrui, questi fatti piacquero, si raccontarono, e passando di bocca in bocca, di paese in paese, per la innata tendenza del popolo a personificare, a localizzar tutto, si individualizzarono sempre più, acquistando colori e circostanze locali. Così leggendo per avventura le storielle che hanno richiami nella rubrica delle Varianti e Riscontri[6], si vede chiaro che molti di questi Avvenimenti, tradizionali assai prima che il raccoglitore li scrivesse, erano stati raccolti e scritti da altri in Italia; e che qualcuno ci venne, nientemeno, dall'Oriente, culla d'una gran parte de' racconti che corrono presso i volghi di Europa.

Senza esagerare il valore, per altro abbastanza limitato, del presente libretto, vo' rilevare i nn. 1-3, 5 e 22, riferentisi a sacre rappresentazioni in Naso, Bronte, Aggira, Randazzo e, più che altrove, in Nicosia, celebre per la sua Casazza, rimasta insuperata finora tra noi[7]; ed il numero 15, che è un nuovo documento da aggiungere alla storia delle prefiche in Sicilia[8]. Parecchi racconti ricordano deplorevoli gare municipali[9], tutt'altro che cessate a' dì nostri[10]; e più d'uno, pei colori locali e per i caratteri personali che offre, conferma l'ignoranza e gli abusi di certi ecclesiastici dell'isola, contro i quali per parecchi secoli gridarono i sinodi e le costituzioni diocesane di Messina, di Patti, di Siracusa, di Catania[11], oltrechè di Cefalù, Girgenti, Mazzara, Monreale e Palermo.

L'edizione è fedelmente condotta sull'originale, e ne conserva la grafia tutta fino alle strane abbreviature ed agli accenti. Forse trattandosi di un ms. d'un secolo non lontano avrei potuto essere meno scrupoloso; ma confesso che non ho saputo farlo[12], considerando che gli scritti altrui vanno pubblicati come sono, e che la forma materiale d'una scrittura rivela, non meno che la sostanza di essa, la mente dell'autore. Nel caso nostro l'autore è uno de' tanti mediocrissimi scrittori siciliani del secolo scorso, il quale nel suo dettato conserva più o meno fedelmente le forme del dialetto, senza preoccuparsi di stile e di lingua; ma, in compenso, ha un po' di quella schiettezza ed ingenuità che spesso manca agli scrittori d'arte.

Avrei anche potuto lasciar da parte le pagine contenenti il Magnificat, la Sequenza dei morti, le Litanie e gli altri inni e preci latine solite recitarsi in chiesa; ma il latino in bocca al popolo è documento di demopsicologia, ed è un notevole contributo allo studio delle etimologie popolari, che oramai si avvantaggiano degli importanti lavori di Gustavo Andresen per la Germania, di Nyrop per la Danimarca, di Karlowicz per la Russia, di Palmer per l'Inghilterra.

Di note illustrative ho voluto esser parco; e la rubrica delle Varianti e Riscontri ho limitata, com'è mio costume, a sole cose italiane edite. Ma siccome ora l'una ed ora l'altra di queste capestrerie si raccontano alla giornata, così qualcuna di esse, come variante inedita, mi è piaciuto di riportare a documento della loro popolarità, ed a svago onesto di chi legge. Nell'indice ho creduto di apporre di mio i titoli ai racconti che nell'originale non ne hanno.

Palermo, 1 Gennaio 1885.

G. Pitrè.

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Avvenimenti Faceti Per mantenere in ame- nità innocente le one- ste recreazioni

Raccolte In diverse Città, e Terre di questo Regno.

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1. Verbo, Settimana Santa, Passione e Crocifisso.

I In Nicosia[13], rappresentavano con personaggi vivi la Passione di Nostro Signore; per la Crocifissione pigliarono un uomo dozzinale, il quale quando fu l'ora di salire sù la Croce si tolse i calzoni, e li ripose al pie della Croce. Chi rappresentava S. Giovanni, s'era accorto, che nelli calzoni v'erano tarì dodeci[14], e destramente col piede procurava di allontanare dalla Croce i calzoni, per poi far quella preda. Il Crocifisso, che non guardava altro dal suo patibolo che quei calzoni; in accorgersi dell'astuzia di Giovanni, in cambio di proferire qualcheduna di quelle sette celebri parole, gridò ad alta voce, e disse: Giov. e, non ti riminè cù li causun, cha si nò si guasta la Passiun[15].

2.

In Naso[16] similmente facevano una rappresentazione della Passione di nostro Sig. e; quello che rappresentava il Crocifisso era un uomo dozzinale; a piedi della Croce v'era Giov. e e la Maddalena, ch'era figlia di quello che rappresentava il Crocifisso. Or la Maddalena, come ch'era giovina di mediocre aspetto, tirò e i sguardi, e gli amori di quello, che rappresentava il Giov. e, il quale con gesti e con altri segni sollecitava la Maddalena a corrispondergli; quando se ne accorse il Crocifisso, parlò a Giovanne, e gli disse: Giovanni, lassala stari a Maddalena. Vedutosi scoverto, Giovanne si rasciugava, fingendosi addolorato per il grande spettacolo; mà appena s'accorgeva che il Crocifisso rivoltava altronde lo sguardo, tornava Giov. e ad intendersi d'amare colla Maddalena; mà che? Ecco il Crocifisso ripigliò: Santu Dià![17] Giuvanni, lassala stari a Maddalena. Finalmente al 3. o assalto dato dal Giov. e alla Maddalena, scese da Croce il Signore, ed impugnando uno di quei gran chiodi d'essa, pretendea scaricarlo contro Giovanne, il quale per mettersi in salvo lasciò il Calvario e corse nel piano; ed il Crocifisso d'appresso perseguitando a Giovanne; e quella tragedia di dolore mutossi in comedia di riso.

3.

In Bronti[18] quell'Arciprete fece al solito la Cena nel Giovedì Santo. Un uomo semplice e mandraio di professione, intenerito per quella funzione, se ne andò al gregge del suo padrone, e scelse dodeci crasti[19]; indi per fare a quelli la lavanda de' piedi, ad uno ad uno li prese, e li mise nella caldaja dell'acqua bollente; d'un subito saltarono a quelli l'unghie; si resero incapaci di stare più in gamba. Intenerito poi quel semplice di quella funzione che avea fatto, tutto compunto con le lagrime agli occhi, comparve innanzi al padrone, e dimandato della cagione del suo lagrimare, rispose: Sig. ri, aju fattu la Zena[20] comu lu Patri Arcipreti: non intendendo quegli il mistero che Zena, ripigliò: Sig. ri, diceva il mandraio, lu Patri Arcipreti lavau li pedi a l'Apostuli, ed iu ficcai li pedi di dudici crasti ntra la lacciata[21] essendu iddi li mei Apostuli. S'infuriò il padrone, e se non era veloce a fuggire, quel pover uomo che avea fatto il Cristo, già averebbe ricevuto la condanna di quel Pilato, di morire anch'egli crocifisso.

4.

In S. Marco[22] v'era un gentil'uomo per nome il sig. r Ignazio Lo Presti; quest'era mezzo bleso, mutando nel parlare la r in un misto d' r e d e la l in d. Or trovandosi un giorno della Settimana Santa nella Chiesa del monistero del Salvadore, si faceva ivi una funzione, che si conduceva in un lenzuolo un simulacro di Cristo morto; mentre si cantavano le solite preci, era genuflesso il sig. r Ignazio, e si percuoteva il petto, dicendo: Perdunu, miu Diu, misericordia. Intanto passarono avanti a lui i preti; egli in vedere l'imagine di Cristo morto, investitosi d'una gran pietà, alzò la destra, e benedicendo quella sagra figura disse: Redequiem etednam dona ei Domine; et lux pedpetua luceat ei, commovendo con ciò tutti a risa; e mutando quella scena di pianto in trastullo di gioco.

5.

Nella città di S. Filippo[23] nel 1727 in circa fecero la rappresentazione della Passione. Prima che salisse in Croce quell'uomo che doveva rappresentare il Cristo, per non patir di sete volle da bere, e appunto gli diedero un barrile; non s'accorsero quelli che doveano scoprire la scena che quell'uomo non era ancor satullato in Croce; sicchè calarono la tela, e li spettatori che aspettavano quella funesta veduta, s'accorsero ch'il Cristo con un barrile in bocca dissetavasi. Vergognandosi intanto d'una tale apparenza, gittò il barrile sù la Maria, la quale compassionante delle pene altrui, ebbe ad essere compassionata per il gran dolore del colpo ricevuto in testa.

6.

In Veria[24] v'è una gran gara tra due chiese e confraternità sotto il titolo dell'Annunziata, e perchè una stà fabbricata nell'alto della terra, e l'altra nel basso, per distinguerle le chiamano la Susa, e la Jusa. Più volte i sudetti fratelli vennero alle mani. Or in un giorno ripigliandosi tra di loro, uno di quelli villani che portava il Crocifisso non potea rimenar le mani a suo modo contro i competitori, ed eruttò: Santu Dià! si non avia ddu diavulazzu di ddu Crucifissu, cci vulia fari a vidiri ecc.

7.

In Veria medesima restò mortalmente ferito un fratello da un colpo ricevuto in testa da quello che portava il Crocifisso dell'emola confraternità. Già arrivò all'ultima agonia. Il prete procurava ch'il moribondo facesse quegl'atti dovuti da un cristiano vicino a morte, e portato un piccolo Crocifisso; il moribondo in vederlo si voltò dall'altro lato; si maravigliavano i circostanti per un tale atto, e maggiormente il persuadeano di stringersi col Crocifisso; allora il moribondo disse: Livatimillu d'avanti, chi chistu picciriddu, quandu crisci divintirà chiù diavulu di sò patri. Alludendo al Crocifisso della confraternità, che sbattutogli in testa era la caggione della sua morte.

8.

In Longi[25] il sac. te D. Rosario Panghi avea in cura la cappella del Crocifisso. Or il Marchese padrone di quella terra, non saprei che cosa c'avea da dire attinente al Crocifisso. Apprese il sac. te ch'il Marchese avesse voluto disporre di quel simulacro: Sig. re, ripigliò il sacerdote: Lu Crucifissu vecchiu arditivillu, abruciativillu: non minni[26] curu; lu novu, Sig. ri, non voghiu chi mi lu tuccati.

Ciò lo sapevo per bocca dello stesso Marchese.

9. Verbo Messa.

Il sopradetto D. Rosario Panghi in Longi andò ad una caccia selvaggia in una selva vicina, e per l'ardor della caccia dimorò ben tardi fino doppo mezzo giorno; ed uccisa una piccola troja selvaggia, lieto se ne ritornava, e passando per le ville del sig. r Marchese, padrone di Longi, l'interrogò dove andasse; li rispose: Signuri, lassatimi stari, chi pri sta beneditta purcedda, aju lassatu la mmaliditta Missa. Tanto m'à raccontato lo stesso sig. r Marchese.

10.

In Capri[27] v'era un sacerdote assai attaccato all'interessi, ed ogn'anno al fin del nutricato del verme della seta, grano ecc., tante erano le sue sofesticherie con li maestri, ch'uscivano dalle bacce la seta; molti non potendo soffrire le sofistiche pretenzioni del prete, o se n'avevano da fuggire, o restavano in prigione ad istanze del prete, sicchè niun de' maestri voleva servirlo. Or in un giorno di festa radunati alla Chiesa tutte le genti della vicina campagnia, v'era un giovane forastiero, ed interrogato dal prete chi fosse; gli rispose esser un maestro di seta. Il prete l'indusse ad affittarsi con lui e doppo la Messa se ne sarebbono andati al manganello[28]. Ciò concertato andò a celebrare il sac. te, e mentre si vestiva a Messa alcune persone descrissero al giovane le pessime qualità e sofisticherie del sac. te; ciò udito il giovane aspettò finchè arrivasse il sac. te sino all'Offertorio, e quieto quieto partissene. Quando arrivò il sacerdote all' Orate fratres s'accorge ch'il giovane era alquanto distante dalla Chiesa, che se ne andava altrove. Scende dall'altare così vestito alla sacerdotale, escie dalla Chiesa, cominciò a chiamare il giovane; quello si mise in fuga, ed ecco il sacerdote alzandosi le vesti, cominciò a gran passi ad inseguirlo, e durò questo corso per un miglio continuo per quelle campagne, fintantoche arrivati nella Piana di Pietra di Roma tutta fangosa per risate; allora il sac. te disse: La senti b. f. mi l'ai fattu, mi la paghirai; e tornossene in Chiesa a proseguir la Messa. Il caso non si seppe se non doppo morte, tenendolo occulto quei sac. ti di Capri per proprio decoro, e facendo ivi che quei laici, che furono spettatori di quella comedia, o più tosto tragedia, tacessero anch'essi.

11.

In San Marco un sacerdote chiamato Muglia diceva Messa in una Chiesa della campagna in tempo di nutricato; in quel tempo due femine in cambio di stare attente a quel tremendo Sagrificio discorrevano tra di loro del nutricato, e facevano le loro querele, che il verme non mostrava fruttare. Egli, doppochè intese molti lamenti, si voltò dall'altare doppoche erano cominciate l'Orazioni segrete, e disse loro: Non vi maravigliati nò: ancora lu miu vermu ristan cu la spoghia a lu culu.

12.

Lo stesso Muglia si trovava un giorno vestito a Messa nella sagrestia ch'aspettava ch'entrasse un altro Sac. te che diceva Messa per poter uscire a dir la sua. Fratanto due sac. ti conoscendo l'ignoranza e la semplicità del Muglia, si raccapricciarono a far celebrare la Messa, e farle recitare nella Messa di Requiem al sudetto Muglia il Gloria e Credo. Pertanto finse uno di domandare all'altro se v'era Gloria e Credo in quella mattina nella Messa. «Non Signore, rispondeva l'altro, perchè nella Messa di Requie non v'è Gloria e Credo.» Sì, ripigliava l'altro, che nella Messa de' Santi dottori entrava la Gloria e Credo. Or il defonto per cui si celebrava, era stato dottor di Legge; gli toccava questo privileggio. Stava il Muglia a questo gran dubbio coll'orecchio attentissimo, e mostrava di sciogliere il gran dubbio. Quello ch'avea detto, che non toccava a dirsi la Gloria e Credo, mostrò di lasciarsi convincere, e rispose: Aviti ragiuni: non avia fattu riflessioni, chi lu mortu era Dutturi: ci tocca certa lu Credu e la Gloria. Intanto venne l'ora d'uscire il Muglia in Chiesa, per dir la sua Messa. Doppo il Khirie dice intrepidamente la Gloria, e doppo l'Evangelio il Credo, e quelli due furono truffatori nell'ingannarlo, spettatori nell'udirlo, e poi derisori nel beffeggiarlo.

13.

Non saprei in qual città o terra della Sicilia, cantandosi la Messa votiva de Passione Domini, il Suddiacono sprovisto di quello che doveva cantare, non s'era accorto, che il titolo della sua lezione era guasto, per un buco che v'era nella carta del Missale. Sicchè si leggeva bene: Lectio Hieremiæ Prophetæ, mancando della parola Prophetæ la prima sillaba Pro. Incominciò dunque la lezione con voce utentica, e disse così: Lectio Hieremiæ, c'è un pirtusu, e fete. Quali risa si sollevassero in tall'occasione, meglio è supporle che descriverle.

14.

In Aci Catena[29] v'era mansionario di quella colleggiata il sac. te D. Ignazio Quattr'occhi, al quale toccò una mattina dire l'ultima Messa. La sua madre avea posto in ordine per il pranzo del figlio un bel piccione; mà, non sapendo come lo volesse apparecchiato, spedì un suo nipotino alla Chiesa per domandare allo zio in qual maniera gustasse il piccione. Arrivato alla Chiesa trova in sull'altare lo zio giunto al Domine non sum dignus della sua Messa; e senza abbadare il ragazzino al tremendo misterio, accostasi tutto premura all'altare dicendo: Ziu, ziu, la nonna voli sapiri comu vuliti lu picciuni: si bughiutu, o arrustutu? Il Sac. te stava dicendo la seconda o la terza volta: Domine non sum dignus, [e] rispose: Arrustutu, prosequendo: ut intres sub tectum meum. Fu tanto celebre questo successo, che quando fui la seconda volta in Aci Catena, non solo me lo raccontarono i migliori gentil'uomini di quel paese; ma lo stesso D. Ignazio mel confirmò.

15.

D. Isidoro Lo Proto della Terra di Maletto[30], già morto in Bronte, ove solea abitare nel 1727 in circa. Quest'uomo fù un uomo da bene; mà tanto effeminato, che filava, tesseva, e s'impiegava nelle faccende proprie delle donne, qual'erano lo allievar galline, aver cura di pulcini, trattandoli delle maniere proprie donnesche; ed anche la voce sua s'assomigliava a quella delle donne; era ancora d'intendimento corto come le donne. Gli venne in testa di farsi ministro ne' sagri altari, e già n'andò in Messina per il Suddiaconato; mà essendo egli molto scarso di lettere, fù subito riprovato: non perciò disanimossi, mà tornando all'altra ordinazione in Messina con un carico di presciutti per regalarlo a chi potea promoverlo, ottenne l'intento di entrare negl'ordini sagri. Tornato al paese, e addimandato se fosse stato ordinato, rispose che se avesse portato più presciutti, avrebbe fatto ordinare il somaro che l'avea portato in Messina. Morì un giorno la sua madre; egli, mentre il cadavere della defonta era attorniato di donne, che, secondo il costume antico, tenevano il lutto con lamentazioni e con lagrime; situossi in mezzo ad esse con una tovaglia negra sul capo, dando in gridi e gemiti più dell'altre femine. Costume questo che osservollo nell'altre morti di altre sue congionti. Or questi arrivato già al sacerdozio, coll'uso del dir la Messa erano tante le smozzicature e li salti che non arrivava alla decima parte quella Messa che diceva. Soleva servirlo a Messa il chierico D. Mario Schillerò, che s'era tant'imprattichito della Messa del Proto, che anche dormendo ve la recitava. Io in sentirla lo pregai che me la scrivesse, e quello mi compiacque, ed è tale quale quì la trascrivo.

In nomi Patr artara Dei.

Judica me do scarsa gente uno doloso me

Emitte luce sme asserunt in monternacula tua.

Confitebor tu sturba sme.

Gloria Patri, e Spiritu Santu.

Introibo in nomine Domini.

Confiteor potenti B. M. sempri Micheli Arcangelu, beatu Battista, santis frates piccati niuri certionorbo, opere me culpa. Iddiu pregu beati onnes Santi Patri a D.nu nostru Misereatur vestri pervostra misera eterna. Indulgenza assolvi piccaturu onni corsu D.nu.

Deus tu misericordia tua.

Dominu estra oratiom mea.

Dominus obiscu. Oremus. Offeru nostru santu; Santoru reliqua sunt peccata mea. Leggeva poi strapazzatamente l'Introito, Kirieleison etc., Gloria in eccersi Domini meu, lamustè, andamustè, licistè in potera Patri ammè.

Collette e Lezioni.

Munda ori meu, mandasti, miseri evangeriu mutasti.

Jube Dos corde me.

Credo in de Onnipotenti Jesu Cristu, ed è spatrunatu saluti, et homo fattus est, crucifissu secundu scrittura in Ecclesia rationi vinti seculi ammè.

Per omnia sicura, securorum etc.

Vere dignu me justu mest nos tibi sempri supprici confessioni dicenti Santu, Santu, Santu. Hæc dona, hæc munira nlibata Papa nostru: Mementu Domini famularu, undè emors Dominu. Ostiampura, ostian santa, ostia maculata.

Con questo tenore arrivava alla consegrazione e proseguiva dopo d'essa sino al Pater noster.

Per onnia, securemus dicere. Pater.

Comunicatosi e detto il versetto del post comunio, Domine Sobiscu. Oremus. Quando diceva Messa de defonti, cominciava l'orazione doppo la communione; Animalibus quesumus Domine etc., Benedica vui meniput in Deu Patri e Spiritu Santu. Secundu Giuvanni. In principio era verbo, do, das, do, das, era verbu, e verbu ncaru factum est gratia e viritati.

Stimai io questa maniera di Messa una caricatura del chierico Schillerò, che me la scrisse, mà in sentirmela confirmare da migliori sacerdoti e gentil'uomini del paese, restai stupito, perchè non l'avessero sospeso[31].

16. Miscellanea.

Il sacerdote D. Mario Spitaleri in Bronte era un uomo di poca entità, mà zelante; prendea però le misure questo suo zelo dal suo naturale poco riflessivo. Quindi li Brontesi spesso lo stizzavano[32], per prendersi gioco delle sue proposizioni e delle sue impazienze. In un giorno il Tesoriere della Cappella del SS. o Sagramento, unito ad uno de' Deputati della medema Cappella, cominciarono a toccarlo[33], e specialmente sopra la sua cappellania. Era il D. Mario Cappellano della Chiesa di S. Marco, situata in campagna, sopra un pogetto esposto ai venti, che col loro impeto spesso faceano saltare le tegole di quel tetto; montato egli non saprei se in zelo o in collera cominciò a riprenderli che mandassero a male i frutti delle rendite pingui della Cappella, e poi soggiunse: Vui autri incappastivu cu l'altari di lu SS. Sagramentu, e vi lu mangiati vivu e mortu, ed illu [è] chiusu in mezzu a quattru tavuli e non parra; ma ju ncappai cu chill'armali di S. Marcu, chi tuttu lu jornu carriu canali[34] in collu.

Tanto a me il sig. r Barone D. Filadelfo Papotto.

17.

Trovavasi in un'altro giorno il sudetto D. Mario Spitaleri su d'un pogetto, volgarmente detto da' Brontesi il Pojo della Colla, in campagna, ove cominciò a recitarsi l' Offizio Divino; ed era arrivato a prima[35], quando capitò ivi l'Arciprete suo nipote D. r D. Mario Franzone, e chi c'è sig r Ziu? gli disse l'Arciprete; il D. Mario avea cominciato: Deus in adjutorium etc., [e] rispose subito: Lassatimi stari, jam lucis orto sidere: gran diavulu: Deum præcemur supplices, ut in diurnis actibus, nos servet a nocentibus: grandi diavulu di scecca. L'Arciprete tornò a dimandargli: Ch'aviti, chi ci fù? Ed egli, il D. Mario: E chi voghiu aviri! Sta santa scecca non m'à lassatu diri stu diavulu d'offiziu: Linguam refrenans temperet etc. L'azzioni del sudetto sacerdote sono celebri in Bronte.

18. Atto di Fede Teologica d'un Fratello congregato nella Novara li 17 Aprile 1739.

Fu giorno che toccava farsi la solita congregazione secreta per profitto de' Fratelli congregati, i quali per esercitarsi negl'atti delle 3 Virtù Teologali, esce in mezzo or l'uno, or l'altro a fare uno di questi atti. Toccò ad uno d'essi far l'atto di Fede, e genuflesso in mezzo alla Congregazione proruppe in quest'accenti: SS. Patri, iu cci cridu chi stati in Celu, ed ancora lu vostru SS. Fighiu, comu motrici di tutti li cosi; iu cridu, mà non cridu beni, pirchì senza la Fidi non pozzu iri in Paradisu, ne ad autra banda; la Fidi è fimmina, chi pozzu diri? lu Vicerrè manda un ordini, e non è obbedutu; dunca non è. Qui due o tre Fratelli cominciarono a ridere, ed il Padre della Congregazione fù necessitato che finisse. Uno d'essi era sacerdote; lo scrisse e lo consegnò a me, e colle medesime parole qui l'ò trascritto.

19. Benedizione data col braccio svelto dal corpo d'una femina uccisa.

Il sig. r Ignazio Lo Presti sentendo che fuori la terra di S. Marco nella campagna s'era ritrovato il cadavere d'una femina assassinata, accorse cogl'altri a vedere l'assassinio, e appunto trovarono quella sgraziata tutta ferite, una della quale era stata sì grave tra la spalla e braccio che stavan questi due membra congionte per un pezzetto di pelle rimasta sana. Allora il sig. r Ignazio va per maneggiare quel braccio e appena toccatolo si svelse subito dalla spalla, perchè eran tre giorni che quell'infelice era stata ammazzata, e perciò incominciando ad infracidirsi, quella pelle distaccossi dal suo busto; in avere già libero nelle sue mani il sig. r Ignazio quel braccio, alzatolo in aria cominciò a dire ai circostanti: Viditi, fighioli, quantu semu misedahidi! Cui c'avia a didi a chista chi ntra du meghiu di di sò capddicci avia a distadi comu li bestij ammazzata ndra la campagna? Mpadamu a spisi d'autrudu ad addrizzari li fatti nostridi[36]. Avrebbe voluto più proseguire a perorare; mà perchè non habebat usum a raggionare di Dio, gli finì la polvere a poter colpire i cuori, e ritornandosi quel braccio di quella uccisa peccatrice nelle mani, alzò come se fosse una reliquia di S. Agata o di S. Agnese, e poi dicendo: Benedicat vos Omnipotens Deus, Pater et Filius et Spiritus Sanctus. Fatt'il segno della Croce con quel avanzo opprobrioso di quell'infame cadavere, gittato addosso a quel corpo assassinato, e partissene movendo a risa quei circostanti, i quali tanto più si diedero a cacchinare, quanto più il sig. r Ignazio pareva loro compunto, tanto ridicolosa era la specie che n'aveano.

Tanto a me i conoscenti del detto lo Presti.

20. Un Notaro divenuto Confessore.

Facea la Missione in una piccola terra il celeberrimo padre Andrea Genovese della Compagnia di Gesù, e in quei giorni santi arrivò all'arciprete un'editto del suo prelato, in cui gl'ordinava che pubblicasse a beneficio della sua pieve il Giubileo conceduto dal Papa con tutte quelle grazie solite concedersi in cotai giubilei, tra le quali si communicava la facoltà d'assolvere da peccati etc. regularibus et secularibus. L'arciprete restò sorpreso a queste parole, perchè religiosi nella sua terra non v'e n'erano; dunque interpretò la mente del Vescovo, che intendeva parlare nel regularibus di quei pochi preti, che l'ajutavano a pascolare il gregge a sè commesso; nel secularibus che si dasse podestà ad altri laici ch'in quella congiuntura divenissero coadjutori de' preti; «ma qui in questo piccolo paese non ve n'è che un solo intelligente, a cui possa io commetter la cura d'ascoltare le confessioni; tutti gl'altri sono contadini di esercizio, ed ignoranti per professione; dunque bisogna che io prevenghi a mio compare il notajo, affinchè a buon ora per di mattina si trovi in chiesa e nel confessionario[37], per aggevolarmi in quest'importantissimo impiego». Escie di casa ancorchè l'ora della notte si fosse avanzata, si porta alla casa del notajo, bussa la porta, si fà a sentire ch'avea a conferire con lui un'affare di somma importanza; impallidì il notajo quando a quell'ora vide in casa sua l'arciprete, che con tanta premura voleva parlargli, nè sapea dove andasse a parare una parlata così segreta; si ritirarono in un angolo della casa, si piglia lume, e poi consulta il caso pro regularibus et secularibus; gli spiega la sua sopradetta interpretazione, e quegli rasserenato rispose che non potea esser più savio il sentimento da quello ch'era uscito dalla sua bocca. «Dunque, ripigliò l'arciprete, sig. r compare, voi conoscete meglio di me questi terrazzani; nessuno tra tanti si ritrova che possa adempire meglio di voi il confessore; abbiate dunque la bontà di portarvi a buon'ora in chiesa; sceglietevi quel confessionario che più vi piaccia; e voi ed io confesseremo le donne, quei due sacerdoti come giovani farò che confessassero gl'uomini». Il sig. r notajo vedendosi promosso ad esser confessore senza esser ancor sacerdote, poco potè dormire in quella notte allo riflettere a tant'onore. Sicchè prima che si fosse aperta la chiesa, ei aspettava dietro le porte, poi sedendo pro Tribunali divenne di lancio Confessore e Pontefice, assolvendo tutti quei casi quantunque spinosi con tale franchezza che non l'avrebbe fatto il Papa: nel meglio delle sue fatighe comparve in chiesa il padre Andrea Genovese per celebrarvi la santa Messa, e scopre nel confessionario ad uno col collare della casacca amitato alla spagnuola, e stimandola una illusione degl'occhi, attua maggiormente lo sguardo, e gli scuopre la lunga zazzara rovesciata sull'orecchie per non essergli d'impedimento all'udito, e compartendo dall'uno e dall'altro lato assoluzioni a quelle femine accostate intorno al sig. notajo, che anelavano i suoi santi documenti, che l'avesse creduto un Penitenziere di S. Pietro o di S. Giovanni Laterano. Sbalordì il padre Genovese ad una tal vista, e senza dir nulla entrò in sagrestia, si fece chiamar l'arciprete, e ritiratolo in disparte, lo fece inteso della temerità del notajo. Quel dottissimo Parroco senza esitare rispose non esser quella temerità del notajo, mentre viene abilitato ad una tal carica e dal Vescovo e dal Papa, e subito escie dalla saccoccia l'editto, e si facea forte su quelle parole, pro regularibus et secularibus. Bisognò spiegarcele il padre Genovese, e non gli costò poco il persuaderlo a far uscir da quel tribunale di penitenza il compar notajo, avvertendolo ch'era tenuto all'inviolabil segreto di tutto ciò ch'avea udito da quel luogo, e avvisando tutte quelle femine che si riconfessassero, essendo nulle le loro confessioni fatte con uno, in cui non v'era ne la podestà dell'ordine, e molto meno quella della giurisdizione. Sarebbe meno deplorabile un'ignoranza sì crassa, se si fosse trovata in quella sola terricciuola. Troppo ella è palpabile in tante altre terre e città, non solo del nostro Regno, ma di tanti altri, de' quali si contano successi assai più luttuosi di questo.

21. Città di Randazzo in iscena.

Nell'insigne città di Randazzo fu rubbata una mandra di crastati; il padrone interessato fece rivelo al Capitano; quel signore avendo fatte molte indagini per aver notizia alcuna degl'autori del furto; mà riuscirono vane; premuroso il Capitano, e dall'istanze della parte e del proprio onore, per non esser proseguito dalla regia Gran Corte s'appigliò ad un mezzo termine; ordinò che fosse portato alla sua corte uno degli rimasti crastati; arrivato, sede egli col suo maestro notajo pro tribunali, e dimandò al crastato chi fosse stato il ladrone ch'avesse rubbata quella mandra? Il povero animale nulla rispondea perchè nulla sapea; ordinò che se gli dasse la corda per sapersi, a via di tormenti, chi fosse stato il ladrone; quella bestia appesa belò per tre volte. Allora il Capitano rivolto al Notajo gli disse: Scrivitinni l'informazioni, sù Notaru: à dittu tri voti mbè[38].

22. Scena Seconda.

Si doveva fare nella detta città un'opera sagra[39], ed avevano avvisato le vicine terre e città se volessero intervenirvi, e furono loro prefissi i giorni ne' quali dovesse rappresentarsi. In quei medesimi giorni capitò in Randazzo un delegato, non saprei se dalla Gran Corte, o del Tribunale del Patrimonio; e comechè alcuni dei recitanti si trovavano imbarazzati in quei conti reggij, giudicarono altri fugirsene da Randazzo, altri mettersi in salvo sù la chiesa[40], uno ancor de' personaggi gravemente ammalossi. Alla vista di tanti sinistri accidenti, si videro in debito i sig. ri Randazzesi di riavvisare i convicini paesi a farsi quell'opera sagra, e per render più sonoro un cotal avviso mandarono un tamburo, il quale doppo aver battuto la cassa in ogni capo di strada gridasse in questa forma: Oh chi a Randazzu l'opera non si fà! Lu Diavulu si cumunicau, l'Angilu si ni fuiu, lu Cristu pighiau la cresia[41]; batteva di nuovo la cassa, ed andava a cantare in un'altra strada la medesima canzona, che meritò d'esser cantata per tutti i secoli.

23. Atto di dolore fatto da un moribondo.

Il sig. r D. Giuseppe Gallotto fù chiamato in S. Marco per ajutare a ben morire un vecchiarello villano per cognome Sgurbio, e trovando il moribondo cogli sentimenti espediti ebbe campo d'insinuargli alcuni documenti spirituali; e quel buon'uomo a modo suo corrispondeva alli buoni impressioni. Orsù, gli disse il padre Gallotto, ziu Sgurbiu, facemu un attu di contrizioni, e dimandamu a Diu perdunu di li nostri piccati; e lo Sgurbio: Si sig. ri ora vegnu: era egli rivoltato dall'altro fianco. Cominciò a muoversi pian piano per rivoltarsi verso il Gallotto, ed in ogni piccolo moto si lagnava, e racchietato prorompe in questa finissima contrizione: Iecu lasmaterna duna sdomini e lu sperpetua luci a sdeu[42].

Tanto a me lo stesso D. Giuseppe Gallotto.

24. Confessore in Marsala.

Un religioso in un convento della città di Marsala, già avanzato in età, era la rovina dell'anima di quei giovanastri libertini. Sapevano essi che assolveva dalla parte sua di pena e di colpa qualunque grave eccesso senza applicar loro nessuno spirituale rimedio; sicchè quelli impunemente correano come pulledri indomiti per tutte le praterie de' loro capricci. Veniva il tempo del precetto, o di qualche festa sollenne; l'andavano a trovare a buon'ora anche nel letto, bussavan la porta; egli rispondeva: Cu è ddocu? — Iu, lu N. N., — Trasi, chi cosa voi? — Mi voghiu cunfissari. — Ginocchiati. — Confiteor Deo et tibi, mea culpa, mea culpa. — Chi cosa ai fattu? — Aju bastuniatu ad unu. Il confessore: Chi diaulu facisti? passa avanti — Aju itu a la tali casa; aju avutu una fimmina schetta. Il confessore: Ora chistu è n'autru diaulu, passa avanti. — Aju rubbatu tali e tali cosa. Il confessore: Ti vitti nuddu? — Paternò. — Nè vistu, nè pighiatu non pò andari carsaratu; passa avanti[43]; ed uditi tant'altri eccessi, alzava la mano con l'assoluzione, non per proscioglierli, mà per maggiormente incatenarli ne' loro peccati.

Tanto a me il padre Lorenzo Spezzapane ed il padre Marino marsalese.

25. Morto che ride in Nicosia.

Un villano della medesima città di Nicosia, venendo dalla campagna, nell'inverno più crudo, fù assalito per istrada da una tempesta di tuoni, lampi, grandini e venti così freddi, che miracolo fu che non rimanesse morto in mezzo della via; arrivò alla sua casetta in atto che la moglie stava per infornare il pane, mà arrivò così sparuto ed interizzito, che non potea spiccare una parola, tanto gli s'erano serrati i denti, nè potea più scioglier un passo. La semplice moglie credendo di far un buon complimento al marito, per farlo rinvenire lo collocò dentro al forno, e serrò la bocca per farlo così ristorare, ed ella impiegossi ad accomodargli il letto, e fare altre masserie nella sua casa. Di là a qualche tempo mandò la figlia a vedere come se la passasse il suo padre; accorre, aprì il forno, e vide il padre colli denti di fuori; subito andò dalla madre a dirle che il padre non parlava, mà rideva. — «Sì, figlia, si consolò perchè ti vide.» Così contenta la madre e la figlia, di là ad altro poco di tempo tornarono, e trovatolo che seguitava a ridere lo richiesero se si sentiva ristorato; quegli non rispondeva, mà rideva; finalmente dal vederlo senza moto lo riscossero, e comparve senza senzo; lo sfornarono, e lo trovarono senza vita. Quest'è lo giudizio che han le femine: nell'istesso amare uccidono, e nel voler far bene cagionano l'ultimo di tutti i mali, verificandosi il detto dello Spirito Santo: Melior est iniquitas viri, quam mulier benefaciens.

26. Cappuccini di Nicosia in processione.

Riuscì molto cruda un invernata, non mi ricordo appunto in qual anno, e molto più in Nicosia, città situata nell'alto, e però più esposta all'inclemenza dei tempi. Passato il mezzo aprile, cominciò ivi ad addolcirsi la stagione, ed in una giornata che si fece vedere sgombro di nebia il sole, D. n Vincenzo Modica unito con un'altro sacerdote suo pari, per godere più agiatamente d'una solicchiata, se n'andarono nella selva de Cappuccini. Appena s'erano posti a sedere sù quelle tenere erbette, vedono ed odono le grida d'un padre cappuccino, che da una fenestra del convento caricava di mill'improperij quei due sacerdoti, trattandoli per lo meno da ladri; sbalorditi quelli al turbine di tant'ingiurie, risposero con mansuetudine esser ivi venuti, non per dar molestia ai padri, mà per ricrearsi dell'amenità di quel luogo; ed egli soprapigliandoli trattolli da indiscreti, sapendo che i padri Cappuccini vivono di limosina, contentandosi di poco pane accattato di porta in porta ed agli, vengono ad assassinar loro quei poco ortaggi, che sono la delizia di quei padri. «Padre, noi non siam venuti quà per rubar caoli ed insalata, che con un bajocco che spendiamo nella nostra piazza possiamo riempirne il ventre di due cavalcature. Ch'avete, che fate così.» — «Andate via, ne state a torci quello che non ci date.» Bisognarono cedere alle malcreanze que' civili sacerdoti, [e] ben carichi di mill'altre ingiurie, se ne andarono via. Il Modica però si stabilì di farli costare troppo cara una tale bravata, e andava penzando alla maniera, e al quando dovea disimpegnarsi; mà non passò molto che gli si offerì opportuna la congiuntura. Cadde nel seguente maggio la festa del Corpus Domini, che da per tutto si sollennizza colla più pomposa processione; i padri Cappuccini sogliono in quella sera cenare molto a buon'ora, indi per non succedere loro nella lunga processione qualche necessità corporale, tutti vanno ai luoghi communi, o ne abbiano o nò il bisogno, e si provedono questo frà loro; è un uso inveterato. Provisti che sono, tutti escono colla loro Croce in processione, e vanno alla Chiesa madre per collocarsi in quel luogo che lor tocca. Sapendo tutto ciò il Modica, buscò una o due cipollazze[44], il di cui sugo, se tocca l'umana carne, è così acrimonioso che fà gonfiarla, e le stuzzica un prorito spaventoso che necessita l'uomo a stropicciar la parte già tocca, mà non con altro profitto, se non con accrescer magiormente il prurito. Mentre dunque i Cappuccini tutti erano nel refettorio che cenavano, ebbe modo egli di segretamente salir sopra, stropicciò quelle cipollazze nell'orlo de buchi de luoghi impregnandoli bene del sugo consaputo, e parte via senza che nessuno di lui si fosse accorto; poi avvisò il suo amico, e si misero al posto fuori la Chiesa madre, come se vedessero passare la processione; mà propriamente per vedere passare i Cappuccini; ed ecco che compariscono ben composti, e tutti modestia secondo il suo solito. Passarono le compagnie e le confraternità; tocco il primo luogo tra tutti i conventi ai Cappuccini; entrarono nella chiesa già riscaldata col fiato di tanti, e molto più colla copia de' lumi, essi riscaldati col moto del convento fino alla chiesa, dentro d'essa finirono d'accendersi, e però cominciò con più di veemenza ad operare quel diabolico sugo, mettendo un prorito infernale nelle gonfie posteriora. In chiesa alla presenza di tant'ecclesiastici e di tante donne non misero mano all'opera i buoni padri, mà in uscir di chiesa perderono a poco a poco la pazienza; da prima brevemente dava or l'uno or l'altro colla mano una stropicciata, e tutto era lo stesso che attizzare magiormente il prurito con quella grossa lana, sicchè si vedeano de' Cappuccini chi teneva dietro la mano destra, chi la sinistra, in somma tutti passavano da una mano all'altra la candela accesa che tenevano, e l'altra mano libera impiegavano a dare ajuto, o, per dir meglio, ad irritare quell'inaspettato ed insolito prurito. I padri ed i fratelli davano questo tormentoso refrigerio al lor male, mà il chierico che portava la Croce, da cui pendea il palio (quest'è l'uso de' padri Cappuccini nella provincia di Messina, ch'il chierico con cotta, mà non il terziario, porti la Croce[45], non grande come quì, ma somigliante a quella degl'altri conventi col palio pendente, benchè lavorato di filo bianco, e non di seta) non avea questo commodo d'adoperare le mani impiegate tutte due a sostener la Croce, e però in ogni due passi dava due calci e caminava; non potendo finalmente più soffrire, nella prima manzione che si fece nella processione, appoggiò le posteriora al muro, e quello che non potevan fare le mani sostituì quella parete, in cui s'incontrò a fare la sua parte. La gente che vedeva i padri Cappuccini in quella forma, ne sapeva il perchè? non sapeva che penzare; altri attribuivan ciò ad effetto di rogna, altri dicevan: Mà Dio buono, tutta la communità è così mal'infetta! Altri: Che maraviglia se quest'è un'infermità contagiosa! — Mà tutti, ripigliava qualche altro, anno quest'infermità nella medema parte? Il Modica, però, ch'era l'autore di questo morbo, era crepato di ridere, e senza confidarsi in alcuno; godeva d'una tal vista, e specialmente di quel padre indiscreto che fù a lui tanto ingiurioso. Dopo alcuni anni raccontò a me quanto di sopra stà scritto; quale cosa se sia stato di lode o di biasimo, io nol decido; solo l'ò raccontato, perchè la cosa e veramente ridicola e potrà servire ad ogn'uno d'avvertimento e non aggravare ad alcuno de' nostri prossimi, potendo da essi riportare pregiudizij maggiori.

27. Il Padre Fortunato di S. Marco uccellato da D. n Giuseppe Gallotto.

Era il padre Fortunato religioso agostiniano, di patria Sammarcoto, e figlio di quel convento, mà perchè mai potè avere pace co' priori di quel convento, fù sempre d'essi tenuto lungi, e condannato a girare tutti i miseri conventoli della provincia. Avanzato già in età, parendogli duro lo star lungi da suoi e dalla patria, mise mezzi potenti, e fece più potenti promissioni di star nel dovere, per far ritorno alla sua cara patria; infatti ottenne quanto bramava, e pratticò fedelmente quanto promesso avea. Sapeva tutto ciò il sacerdote D. n Giuseppe Gallotto, fratello per sangue del sudetto notar Gallotto, mà più per l'amore e per lo genio, gli s'offerisce un'occasione, che dirò, d'uccellarlo; e per tenere in amenità tre amici, fà perdere il sonno d'un'intiera notte al riferito padre Fortunato. Il mese d'agosto di quest'anno fù calidissimo, sicchè molti non potean pigliar sonno; tra gli altri il sig. r D. n Giuseppe Filingeri disse a D. n Giuseppe Gallotto, ito in sua casa per visitarlo: «O Peppi, diamo quattro passi fuori a prender fresco, perchè mi sento languir per l'eccessivo calore». Uscirono di casa, e s'avviarono verso il convento di Sant'Agostino; essendo vicini, ripigliò il sudetto di Filingeri: «O Peppi, penza a qualche burla per divertirci». Il Gallotto: Ora, sig. ri, siditi dietru chistu murettu; e non vi dati a sentiri, chi vi daroghiu una bona ricreazioni[46]. Ubbidì il sig. r di Filingeri, ed il Gallotto si mise sotto la fenestra del padre Fortunato. La notte era bruna e non poteva esser scoperto; contrafece la voce d'un ragazzo, e cominciò a chiamare: Ah gnuri p. Fortunatu! gnuri p. Fortunatu[47]! e non cessava di gridare gnuri p. Fortunatu. Erano digià date l'ore due della notte, e quello era ito poco prima a letto; sente tante replicate chiamate, ed affaccia: «Ch'è là?» (così enfatico egli parlava). Il Gallotto: Iu, gnuri patri Fortunatu; e quello: Chi cosa voi? Il Gallotto: Mi manda lu miu patruni, e voli sapiri, si vui vinditi li ficu. Figghiu miu, rispose il padre, lu patri Priuri è ghiutu a lu locu di la marina; iu non sugnu nenti ntra lu cunventu; lassalu viniri, dumani cci lu dirrai ad iddu, e lu chi farà pri mia sarà ben fattu. Il Gallotto: Dunca ci dica a lu mia patruni, chi non ci vuliti dari li ficu. Il padre Fortunato turbossi, temendo che non fosse riferito al padre Priore, il quale cercava di vendere quei fichi impassiti, ed il sudetto padre avesse fatto perdere la congiuntura, e questa perdita potea esser di disturbi trà loro, per i quali il padre Fortunato avesse di nuovo a saltar fuori del convento; e però rispose con ardore: Iu, fighiu miu, non t'aju dittu chi non voghiu vindiri li ficu, pirchì chistu non spetta a mia, ma a lu patri Priuri; l'ai intisu? Il Gallotto: Si sig. ri, avi ragiuni V. S. Il p. re Fortunato: Lassa viniri a lu Priuri, e trattirai cun iddu lu negoziu. Gallotto: E quandu veni lu patri Priuri? Il padre Fortunato: Dumani matinu, aja pazienza; va dormi pri sta sira, e dumani t'affaccirai a lu cunventu. Il Gallotto: Si signuri, ma lu me patruni mi voli prestu. Padre Fortunato: Cu' è lu tò patruni? Il Gallotto: Oricchiazzi, sig. ri. Padre Fortunato: Nò lu canusciu. Gallotto: V. S. àvi tanti tempi chi manca di S. Marcu, e si l'àvi scurdatu li S. Marcoti. Il padre Fortunato: Cusì è: ora và riposati, e dumani torna. Gallotto: Comu voli V. S., bona sira. Padre Fortunato: Bona sira! Gallotto: Ah gnuri P. Fort. stà sira non aju undi iri; datimi un pezzettu di pani, e na stizzidda di vinu pir caritati. Padre Fortunato: Ah chi partita! e tu si chiddu chi voi cumprari li ficu! vattinni và, e dumani parlirai cu lu Priuri. Gallotto: Dunca mi ndi vaju? Bonasira a V. S.; dunca ci dicu a lu me patruni, lu patri Fortunatu mi mandau: non mi li vosi dari li ficu. Padre Fortunato: Taleccà, mulacciunottu[48], tu chi mi vuoi fari sciarriari cu lu Priuri! Iu non ti aju mandatu pirchi non ti voghiu dari li ficu, ma pirchi st'affari non spetta a mia, ed iddu lu mulacciunottu và dicendu chi nun ci voghiu dari li ficu. Gallotto: V. S. non si nichia[49]; V. S. avi raggiuni. Padre Fortunato, più benignato: Mà, fighiu miu, t'aju datu tutta la sodisfazioni, e tu sempri a na banda, chi canti sempri la stissa canzuna; m'ai fattu perdiri lu sonnu. Gallotto: Chi durmia V. S.? Padre Fortunato: Non era addurmintatu, mà già m'avia spughiatu, e m'avia curcatu. Gallotto: Dunca nudu è V. S.? Padre Fortunato: Si, fighiu miu, guarda (ed escie il braccio dalla fenestra, benchè per lo scuro niente si vedeva). Gallotto: Non fazza chi V. S. s'arrifridda; iu mi ndi vaju[50]; bona sira a V. S. Padre Fortunato: Bona sira. Gallotto: Ah gnuri p. Fortunatu! P. Fort.: Tu chi diavulu voi? Gall.: Sta sira mi fazzu dari un pezzettu di pani di lu gnuri D. Paulu vostru niputi, chi non aju undi mi m'arricogghiu[51]. P. Fort.: Chi cci capi D. Paulu miu niputi cu lu cunventu? — Non è tutta la stissa cosa V. S. e lu niputi? Dunca è la stissa cosa D. Paulu cu lu cunventu; mi lu fazzu dari e poi v'aggiustati ntra di vui autri. P. Fort.: Si non fussi ccà susu, bastardu mulu, ti pighiria a cauci; vattindi, dunca, cu na navi di diavuli. Talè chi pesta amara[52]! Gall.: Non vi nichiati, gniuruzzu, chi minni vaju;[53] Fort.: E va rumpiti lu coddu! Gall.: Bona sira a V. S. Durò questa scena dall'ore due della notte sino alle ore tre ad sonum campanulæ. S'alzò il sig. r D. Giov. i, e col Gallotto se ne tornavan a casa; di là a pochi passi incontrasi col signor D. Lorenzo Filingeri, il quale per il sommo caldo unitosi col D. Paolo nipote del padre Fortunato a cercare aria fresca, gli dice il D. Giov. i: O Lorenzo, son crepato di ridere, e non ne posso più. Peppi finto ragazzo con una delle sue convenzioni à fatto dare nell'impaziente il padre Fortunato, ed è stata una comedia degna d'esserle stato spettatore un rè. Il sig. r D. Lorenzo, che l'è d'umor allegro, udendo da suo fratello, ch'è d'umor serio, che con tanto piacere era riuscito quell'atto, «andiamo, disse, di nuovo a compir l'opera» e così fecero; s'appattarono li sig. ri Filingeri, ed entrarono a far le parti di recitanti il Gallotto, finto ragazzo, ed il D. Paolo Caputo, nipote del padre Fortunato. Comincia il Gallotto: Gnuri p. Fort.! ah gnuri p. Fort.! Quel poveraccio era ito la seconda volta a letto, mà avea la testa così riscaldata, che non ci poteva sonno. In udire di nuovo la voce di quello da lui appreso ragazzo, cominciò a dar nell'ismanie, benchè finse di non udire. Gall.: Gnuri p. Fort.! ah gnuri p. Fort.! affacciati, chi cc'è ccà lu gnuri D. Paulu[54]. Allora così nudo com'era affaccia alla fenestra, e dice: Tu fighiu miu si picciottu, o diavulu? talè chi sustu! Chi trivulu voi? Mi voi dassari durmiri[55]. Gall.: Pirdunatimi, gnuruzzu, iu vitti lu gnuri D. Paulu, chi V. S. m'avia mandatu und'iddu pri concirtari lu negoziu di li ficu e farimi dari un tozziddu di pani; iddu non mi vulia cridiri, ed iu l'aju carriatu undi V. S. pri fari la facci prova[56]. P. Fort.: Ah mariolu furfanti! iu nun t'aju dittu chi me niputi non avi negozij cu lu cunventu? Comu ci vai, e dici lu rivesciu! Gall.: Gnuruzzu, dunca strantisi[57]. P. Fort: Briccunottu, si vegnu, ti la voghiu dari la strina[58]. Sig ri niputi, V. S. avi da sapiri chi stu picarunottu mi và mittendu in cimentu di disgustarimi cu lu Priuri; V. S. sapi di chi didicatu omuri iddu sia; sintirà chi c'aju fattu sgarrari stu partitu di li ficu, pò dimani scrivirà a lu Provinciali ch'iu c'intorbidu lu guvernu, e mi farà sautari di ccà comu un tappu di masculu, ed iu ora sugnu avanzatu in età, non pozzu fari chiu sti sfrazzi girandu tutti li conventoli di la provincia; giacchì lu sig. ri m'à fattu la carità di ricondurmi a la patria, procuru di lassaricci l'ossa[59]. Divi dunca sapiri V. S. (e qui lo ragguaglia di tutto ciò che sopra si disse) e passò un quarto d'ora, molto più che di tanto in tanto v'erano l'intermezzi del Gallotto. Ora vidia V. S. si iu aviria obligazioni di sfasciaricci un lignu di supra a stu mulacciunottu[60]? D. Paolo: Già mi sugnu risu capaci di l'affari; iddu mi dissi, lu picciottu, chi c'è l'ordini di Vostra Paternità di raccoghirlu a casa pri sta sira, e daricci a mangiari, chi non avi undi iri. M'ai dittu accussì, gioja mia? Gall.: Non mi lu dissi V. S., gnuri p. Fort. P. Fort.: A! mentituri latrunottu! Gall: Si sig ri! portu li signali; mi lu dissi quandu iu vulia ristari pri sta sira ntra lu cunventu. P. Fort.: N'autru testimoniu cci voli; chist'è capaci a farimi impendiri. Sig ri niputi, duviti sapiri... (e qui perde un altro mezzo quarto in giustificarsi). Gall.: V. S. avi raggiuni; sgarravi iu; mi nni vaju, chi cci dicu a lu me patruni? cci li dati li ficu? P. Fort.: Sig. ri niputi, daticci quattru cauci di parti mia. Non t'aju dittu chi s'aspetta a lu Priuri! Gall.: Ma lu me patruni mi dissi, chi si non c'è lu Priuri, ed iu aju aspittari, parrassi cu lu p. ri Fort. e ci purtassi la risposta; mà si nò s'accatta li ficu a nautra banda. V. S. mi dici d'aspittari; iu non aju undi iri, e cci dirroghiu chi lu gnuri p. ri Fortunatu non mi li vosi dari li ficu. P. Fort.: Tu sempri canti la stissa canzuna; ti vurria fari la sunata cu un bastuni; mancu mali chi c'è lu testimoniu di lu miu sig. r niputi; vattindi, mulu bastardu, chi dumani ti voghiu fari mettiri sutta, pr'imparari ntra la carsara dda verità chi vai negandu.

Sonarono in quel mentre l'ore quattro; Don Paolo disse: Sig r zio, l'ora è tarda; il negozio è inteso; V. S. mi benedica. P. Fort.: Bona sira a V. S. e mi compatisca;[e] si chiuse la finestra. La compagnia delli sig. ri di Filingeri e col Caputo e Gallotto ripetendo ciò che abbiam detto, e tutto quel che abbiam tralasciato per non portare più a lungo il racconto, andarono a dormire con tai penzieri allegri; non così il p. Fort., il quale passò tutta la notte in veglia. Sicchè il dimani all'ore otto era per la terra, cercando all'Oricchiazzi[61], padrone del supposto ragazzo, domandava ad ogn'uno con cui s'incontrasse, e nessuno sebbe darle nuova; s'abbattè con uno finalmente che n'aveva cognizione, e le soggiunse: «Questo, padre, sono anni 17 che ne passò all'altra vita». Più qui si confuse p. Fort. prevenuto dalla specie[62] che fosse vera l'incombenza di quella compra, ed appena era spuntato il sole, si porta alla casa del suo nipote, facendolo svegliare nel meglio del suo dormire, ed entrando in camera di quello, poco mancò che non si mettesse a piangere (tanto era il timore di esser rimosso dalla patria); lo priegò che l'ajutasse in quello a lui doloroso frangente. All'ora il D. Paolo lo rischiarò dicendolo essere quella stata una burla delli sig. ri Filingeri per mezzo del p. D. Giuseppe Gallotto, e sciolto già l'intrico della comedia, si serenò il p. Fortunato per una notte uccellato.

28. Copia d'una lettera

d'un fratello carmelitano dalla massaria del Celso nella piana di Milazzo inviata al F. Diodato carmelitano nel convento di Pozzo di Gotto, cavata dall'originale dal molto rev. p.re Esprovinciale m.ro Raffa, e consegnata a me nel 1739.

Lettera del fratello.

Prendo la pina imano en gra malicunia dil caso doloruso so cese a ceso doe stejo io. (Spiegazione: Prendo la penna in mano con gran malinconia per il caso doloroso, che successe nel Celso, dove io sto). Lettera: Alli 16 dell' corretti musi avia 4.4. chilini, e cheche frido non mi ditruai canigla, mà davia, e mi rimai, u pocu tracipitro di Plaga, doe cina sale pur lu tepu di la di la curnara per salare accuni cusuzi di callo di tunnu. (Spiegazione: Alli 16 del corrente mese avevo 44 galline, ed in questo freddo non mi trovai caniglia[63], ma ne avevo, e me ne trovai dentro un cesto di paglia, dove io tenevo sale per il tempo della tonnara, per salare alcune cose di callo di tonno). Lettera: Ora io zio tolae drette pistro di paglia, e cacciae tutto il sale cula cania, culaca cauda cila pizietra lu caino, e mi dii al curnito. (Spiegazione: Allora io scotolai detto gistro di paglia[64], e cascò tutto il sale con la caniglia, e con l'acqua calda ce l'impastai tra il bagano [ tegame? ] e me ne andai al cannito). Lettera: Alla minata di Curnito cacai le chiline, e non via nulla. Idai picudda picudda. (Spiegazione: Alla tornata del cannito, cercai le galline, e non vedea nulla; gridai: pulli pulli!). Lettera: Troo il Zazo, delli noaralli, e vejo tutti chilini, capuni e calli morti parti calu caglaro, e parti tra la Zacca, de staje lo cavallo trovai un callo e u pagani morto sutta di zichi di cavallo. (Spiegazione: Trovo il jazzo delle galline[65], e vedo tutte le galline, caponi e galli morti, parte tra lo pagliaro, e parte tra la stalla, dove stà il cavallo, e trovai un gallo ed un capone morto sotto li piedi del cavallo). Lettera: E così donadio mutino mi coglivi tutta la pugnani, e mi la misi tra la minazza, e mi dij a lu covetto, e trovaolo nosto patri piuri a letto, e io traso co la minazza i calli prena di cilini, e papuni, e calli morti. (Spiegazione: E così Domenica mattina mi pigliavi tutta la pollame, e mi la misi ntra la bisazza, e me ne andai al convento, e trovo il nostro p. Priore a letto, ed io entrai colla bisazza in collo piena di galline, caponi e galli morti). Lettera: Mi domandò il pati priuri, che sortio la cosa ta ca bicoza chi porti, io arrispusi porto gialini, papuni e calli morti, che morino tutta la pugnami. (Spiegazione: Mi domandò il padre Priore che cosa sortì? tra la bisaccia che cosa porti? Io risposi: porto galline, caponi e galli morti, chè morì tutta la pollame). Lettera: e detto pati piuri mi rispusi netra vota che sortrio la cosa. Io arrepuse fù canigla coi sale, e mi sacchetto di farici mali, mi promasi; e mi dicascu più lu murruni di la Cuzzuana. (Spiegazione: E detto P. Priore mi rispose altra volta che fusse la cosa. Io rispose: fù caniglia con sale, e non sapevo che gli facevo male; vi prometto: ve ne procurerò; più mi costò più il montone della carduana[66] ). Lettera: Poi mi disse và fà chido, ed io li dedi tutti porcurito. Vesto è lo casco, che non oo pena di gilini, e capuni, canto oo pena di lo bello callo che era lo spasso di tutta sta silva, che mi catava ola pula spiziali di mezza notti a cornu. (Spiegazione: Poi mi disse: và fà quel che voi; ed io le diedi tutti per carità. Questo è lo caso che non hò pena delle galline e caponi, quanto hò pena del bel gallo, che cantava ora per ora, specialmente di mezza notte a giorno). Lettera: Era a putto come avissi auto unnoculo a coposo, non mi curao si si pirriano a tutti li gialini, purchè non muria lu callo. (Spiegazione: Era appunto come se avesse auto un orologio al capizzo; non mi curavo se si perdevano tutte le galline! purchè non moriva il gallo). Lettera: chesta è tutto listoria fracello caro: considerate vue si io mi ao pigliato una gra malacunia. (Spiegazione: Quest'è tutta l'istoria, fratello caro; considerate voi se io m'hò pigliato una gran malinconia). Lettera: Diti a fra Diodato che cè onze due ndi lu Proviciali Areno: i curru di do caletto Cavello: non resto abacion duvi vivero cori. A Ceso 21. fibraro 1. 3. 7. Vostro Sarvo N. N. (Spiegazione: Direte a fra Diodato, che vi sono onze due dove[67] l'Esprovinciale Arena, in conto di D. n Liberto Caravello: non altro, resto abbracciandovi di vero cuore. Dal Celso 21 febraro 1738. Vostro servo N. N.).

29. Copia d'una lettera

scritta da un calabrese di Cotrone a suo padre in Messina, in occasione del terremoto accaduto alli 10 febraro 1743; e gli dava conto del prezzo de' porci.

Cariss. mo Padre e Fratello amat. mo

Credeva scrivervi morto, e vi scrivo vivo per il gran terremoto, che ci hà stato; che se avesse durato altre due ore, saressimo tutti in paradiso, che Dio ci liberi. Qui li porci al mercato sono saliti tutti al Cielo. Io solamente vi invio qui acclusa un poco di sasiccia fatta colle mie mano salvaggine: li porci sono arrivati al Cielo[68]. O ricevete o non ricevete la presente, rispondetemi.

30. Copia d'una lettera

d'un Sacerdote della terra di monte Albano scritta al Prencipe della Cattolica, per confortarlo della morte del suo primogenito.

Ecc. mo Sig r Prencipe.

Non hò inteso tanta pena da venti anni che hò podagra, quanto sentì [ sentii ] la morte di suo figlio il più giovine. Questo Sig. r Gesù Christo mi dita il mio cervello che si serve della legge macchiavellistica che cui ci fa bene lo remunera in mali. Questo lo [ l'ho ] toccato e maniato sopra la mia persona[69]. Io non fazzo altro che diricci Ave marii, Creddi e Paternostri, ed io come lavassi la testa all'asino, e ci perdo la liscia[70]. Questo galantuomo di Dio avi la testa dura come Petru Paulu a la funtana, e con tutto ciò ci dico tre creddi la notte, e ci l'applicu a Maria Vergine che è tutta pietà, ed è amurusa, e al mio patriarca S. Francesco di Paula, S. n Nicolau e S. Antoni. Questi tre sono galantomini e fanno qualchi piaciri, ma lu primu, induratum est cor Faraonis. Soggiungo: chi si ci fussi autru Diu m'aviria appellatu; ma è sulu; bon prudu ci fazza! e bisogna fari costi di balena[71]. Quandu dicu la missa, e lu vidu, mi scantu vardandulu. E fazzu fini. Maria Santissima ci guardi!

31. Copia d'un biglietto

scritto dal Sac. te D. n Calogero Arrigo terminese, il quale trovandosi con due suoi amici in compagnia nella contrada dell'Arangio, pregava il Sac. te D. n Antonino Romano, che era in Termini, a mandargli due filetti ed un piccione per complementar quelli.

Il biglietto era del tenore seguente:

Sig. r D. n Antoni, pirchì mi ritrovu alla rancu, V. S. mi mandirà due firretti, ed un picuni, e perciò lu strincu ni li me brache.

[31. bis ] Altra Lettera[72].

Trapani 21 marzo 1741.

Caris. mo in Cristo F. llo Chi dò notizia del mio passago da questa. I murriali como be sapi per la sartorea da quela. Io poi sono sepiri quello stesso serevo, e amico da comandarimi, e mi oferisco tuto per tuto da servirivi. Ditolo al saristano, che mi fara dare la suoa fornelo dal Priricaturi de la Matichesa[73] e mi lo rivarisi, e io mi ricasco di vostri favori a tenetimi comandarimi, mi saluti al F. Sanoto, F. Agostino, F. Ant. o Fio i questo finisco da bracalo da vero cori, coferirimi al suoi sa: oraz. i.

Il P. re Montiliuni mi saluta e fato una cappa al suoa colorazioni, eun Calucu. (Questa ultima parte significa che il P. Mon. ni fece alla sua congregazione una cappa ed un calice).

Vostro se. vo Giocchino Scibona.

32. In Frazzano, terra della Contea di S. Marco.

Vi era un sacerdote per nome D. n Giuseppe Laurello. Questo faceva il maestro di scuola; ma nel spiegare quel verso: Pre rape prepositum vocali dicque praeustus, lo spiegò nella seguente maniera: «Sintiti, picciotti: vui autri nun sintiti la forza di stu versu, si iu nun cci dicu la rudizioni. Li P. Teatini sunnu di una religioni di cavalieri, e sunnu dotti; ànnu chisti lu sò superiuri, e lu chiamanu lu P. Prepositu. Ora chistu cadiu ammalatu; pinzati vui quantu medici e medicini si misiru in rumuri; tra l'autri mali chi patia, unu era chi non avìa appittittu; lu frattu[74] chi lu sirvia, sapia fari beni assai di manciari, e ci proposi varj pitanzi, e videndu chi di tanti nudda ci piacìa, finalmenti ci dissi si gustassi[75] una ministrina di rapi ben cundita. — Sì, falla, dissi lu P. Prepositu. Ci l'apparicchiau lu frattu bella assai, tantu chi lu malatu si la mangiau cu gran gustu. Allura li Patri, comu chi sunnu omini dotti, ficiru lu versu chi avemu a dichiarari, e fu misu 'ntra lu manuali[76]. Chista è l'erudizioni; dichiaramu: Pre rape, pri la minestra di rapi; prepositum, chi vosi lu Prepositu; vocali, doppu avirila mangiatu cu la bucca; dicque praeustus, dici ca ci intisi un grandissimu gustu. Ora viditi comu si addichiara! Cui nesci, arrinesci».

Tanto a me il P. re D. n Giuseppe Gallotto della terra di S. Marco.

33.

In Regalbuto nel 1735 nel mese di aprile un omo di bassa condizione dissi: Chi si voli fari, quandu lu binidittu Diavulu voli accussì!

34. La manna del Monte di Trapani.

L'arciprete che hà governato le anime della città detta Monte di S. Giuliano, con altro nome monte di Trapani, che fu l'anticha Erice. Questo, più semplice che scaltro, si era invogliato a fare scendere la manna del Cielo, come scese un tempo nel deserto, a sostegno e delizia degl'Isdraeliti; diede l'impulso maggiore ai suoi desiderij la vicinanza delle feste di Pentecoste. Onde cominciò a predicare al suo populo che si preparasse con orazioni e mortificazioni nella novena dello Spirito Santo, per ricevere da esso sì segnalato dono; altro non inculcava in quei nove giorni [a] quella gente, che allora era d'altra pasta più semplice che non è la presente; appunto di giorno in giorno aspettavano il celeste favore. Era corsa già tutta la novena, senza ricever la grazia bramata. «Non dubitate, la inanimava l'Arciprete, che i doni quanto sono più grandi, tanto tardono a venire; forse dommattina gioverà a noi ciò che anelanti spettiamo». Non era ancora nella Domenica spuntato il sole, che il sagrestano si porta alla chiesa per apparecchiare gli altari; mà che! sù l'altare maggiore ritrova come una ciambella di materia liquida e bruna, e stimandola un gran misterio corre dal'Arciprete a dargliene la bona nova. Subito la credette ciò che non era; si portò in chiesa per osservarla, e decise esser di già piovuta in quella notte la manna desiderata; convocò il popolo con il sono festivo delle campane; il quale ragunato insieme col suo maggistrato, montò sull'altare il Pastore di quel gregge per pascerlo prima colla divina parola, poi colla manna piovutali. Mostrò in primo luogo il favore distinto dal Cielo in mandar loro quel benefizio così grande. In secondo luogo la preparazione che ricercavasi in quelli che dovean riceverlo, e chi mai si sentisse lesa la coscenza di qualche colpa la detestasse con dolore e con fermezza di mai più commetterla, altrimente quel prezioso cibo invece di fargli gustare quel sapore che si desiderava, sarebbe divenuto insipido e disgustoso; «venghino dunque ad assaggiarla i sig. ri del magistrato!» e quelli con una straordinaria umiliazione si appressarono all'altare, ove l'Arciprete con un cocchiarino di argento in mano ne prendea una piccola porzione dal altare, e mentre il riponea nella bocca del Capitano gli diceva che sciegliesse coll'interno del suo cuore quel sapore che più gli aggradisse. Tanto fece il Capitano, mà in entrar quella manna nella sua bocca, al sapore, all'odore parevagli escremento di gatto, mà nulla disse, stimando ciò pervenire dalla sua rea coscienza; tanto avvenne ai giurati, altrettanto alle primarie persone, alcune delle quali si vomitarono; fecero migliore indagine, e ritrovarono che il gatto che si allevava nella chiesa per guardarla dai sorci, costume che pur tutta via si mantiene, avea piovuto alli Montesi la sua manna preziosa.

35.

La seguente Seguenzia è commune alla gente della terra di Mongiuffi[77] vicino alla terra di Tauormina. Stianzidda Stianzidda

Nsolia nsolia in faidda

Testi d'agghi cù Sibidda.

Quantu tremu malfatturi

Quandu judici avvinturi

Cu tri testi di scursuni.

Turba miru sparanzonu

Pri limburgu di Sionu

Focu a donni lampi e tronu.

Morsu stà pebbia e natura

Curri, surci, a criatura

Giudicanti arraspatura.

Libri scritti pri lu fetu

In quo totu continetu

Quandu mundu judicetu.

Giuda l'erramu chi vili

Ciocchi lati chiappareddi

Nuddu ndurtu rumaneddi.

Chi si miseru tu Dutturi

Lu patruni arragghiaturi

Cu' nun vidi stà a li scuri.

Rè trimenda majestati

Chi sarvandu sarvi e gati,

Sarvi a mia chi ti su frati.

Ricurdari Gesu Pia

Pri la casa e pri la via

Non mi perda stiddaria.

Cridi a mia si diti lassu

Ti nni ridi in cruci a spassu

Tantu labru di mulassu.

Giugu dudici minzioni

Donna fù rimissioni

Ntra dia curazioni.

Tu ci mbiscu tocca reu

Cu carbuni vultu meu

Giudicanti parcu a Deu.

Chi Maria assurbisti

E Latruni m'esaudisti

Michi oculi spirdisti.

Preci mei non sù digni

Si tu bonu fà benigni

Non ti perdiri ntra li vigni.

Intra l'ova locu apprestu

E dibiddi m'assiquestra

Statueddi parte a destra.

Confutati maliditti

Xammi larghi e burzi stritti

Voca a mia cu biniditti.

Ora a suppa mi l'inchivi

Cori cuntritu quasi lini

Ciciri crudi senza fini.

Lagrimusa stanza ad idda

Ca risurgi la faidda

Givolicandu l'omu reu.

Circhi cersi parci Deu

Gesù pia Domini tu

Raccumandu arma mia.

Dacci o ricchume nonnu me nonna me

Zia e cu splendenti visu

Abbiati in paradisu.

36. Salve Reggina.

Parte della quale suol dirla [la] monachella la Miccina giojosana abitante in Patti, parte un ragazzo di Raccuja[78], e parte da una donna di Bronte. Salve Reggina, tri misi di corda, vita torcedo, spara nostra salvia, a tia chiamamu, a tia sparamu giumenti suffrenti, nacchi lagrimaru valli, jergo avvocata nostra lo stu scunverti, Jesu biniditta putari, vintis tui, o notivo spusu o siliu lu stenni crimensi, o Spia, o dulcissima virga Maria.

Ora pro nobisi S. di Genitrici.

Benefiziamu grazia a Christu dumandamu a me.

37. Credo

raccolto dalle parole di esso[79], dette da un cieco palermitano, da un ragazzo raccujto[80], e communemente dalla gente della terra di Mongiuffi. «Credu in nuetetu Diu Patri me ripitedda Stazzuni di lu celu e di la terra e di Matru Franciscu nfilamicci unicu Dominu nostru, chi fù cunzertu di mastru Santu e cugnatu di Maria Virgini, passau sutta lu ponti di li Puntani, fù crucifissu, mortu e siburcu; sesti scindi a la Ninfia co to zia Diana, resurresci a mortu senza a la Zena, sedi a la destra di Putenzia, e d'idda scindiu all'Indij a guirriggiari cu li vivi e cu li morti. Creddu lu Spiritu di Santu, santi Matri Cresia, santi cumunicati e scomunicati, rimissioni di li mei piccati, ne carni, ne surra cè [ c'è ], la vita materna a me».

L'ho avuto dal sig. r D. n Silivestro Mustica di Trojna, e parte l'ho inteso io.

38. Veni Creator Spiritus.

D'una femmina di S. Militello Valdemoni[81]. Veni lume crea spiritu

Vintrisca ora mbistia

Inchi perna la grasta

Chi cuneria sti pecuri.

E di celu si sprattica

Altissimu coni un Diu

Ponzio vivu si digna

E sparti tu la sunza.

Setti infurma e smura

Di lu celu paterna testa

Nchiacca strittu a Diu Patri

O Simuni ditta e sgutta.

Da la carma a lu Missenziu

Vanfundu, mura e accorda

Calunfernu nostru corpora

Virtuti ferma e sperfida.

Oste bella di Longi

Da ammèa duna sprocchinu

Ditturi senza premiu

E videmu donni nostri.

Per tia non scindu Patri

Scampamu d'acqua fili

Travu travustu sfini

Non cridemu pri lu tempu.

A Diu Patri senza gloria

Ed affili menzu mortu

E di retica sparlati.

Consecula seculoru a mia.

L'hò avuto per mano del sig. r D. n Biaggio Calderone di Micello.

39. Confiteor.

Confiddiu, Diu, e nipitedda Beata M. a chi la sirvizza, B. Micheli ca cianci, B. Giov. e ca trisca, Santi Pazzozzuli Petru, e D. Paulu, e triulu Patri ca piccavi cimici cuncinzioni, erba ed obbra mi curcu, mi curcu cu Masi, mi curcu, judeu pregu la B. M. ca fà sirvizza, lu B. Micheli ca chiangi, lu B. Giu. pe ca trisca, li SS. Pazzozzuli Petru e D. Paulu ora e pri mia D. Ninnu lu nostru. L'hò inteso dal P. Duci, e molte parole da penitenti ignoranti nel confessionale.

40. Varie preci divote

solite a recitarsi da S. ro N. N. moniale vecchia di molta semplicità nel Monastero di S. Giovanne in Regalbuto[82], attualmente vivente in questo anno 1738. Anima Christi santifica me. (ella dice): Arma di Christu saccu fiatimi[83].

Corpus Christi salva me. Cocu di Cristu non mi sanati.

Sanguis Christi inebria me. Saccu di Cristu mbriacatami.

Acqua lateris Christi lava me. Acqua di Christu lavatimi tutta.

Passio Christi conforta me. Passuli di Christu appanatimi.

O bone Jesu exaudi me. Bonu Jesu non m'ascutati.

Intra tua vulnera absconde me. Tra la tua gurna mettimicci.

Ne permittas me separari a te. N'appurminari a mia.

Ab hoste maligno defende me. Di lu porcu malignu non mi difinditi.

In ora mortis meae voca me.

Iubbe me venire ad te, ut cum sanctis tuis laudem te, in secula seculorum. Amen. Arrobba a tia viniri a mia, cu li Santi tui mangiamu a mia, cu li zeculi zeculi. Ameli.

Veni Sancte Spiritus, emitte celitus lucis tuae radia. Veni caudu Spitu emitte lucerti lucina di rata.

Veni Pater pauperum, veni dator numera, veni lumen cordium. Veni P. ri Paulu, veni duna munnu, veni lana cornu.

Consolator optime, dulcis hospes animae, dulce refrigerium. Cunzulatu al hortu, duci mangiamu, e duci rifrigeriu.

In labore requies, in estu temperies, in fletu solatium. Va Laura e resta, chi veni la tempesta, e feti lu salatu.

O lux Beatis. a o reple cordis intima tuorum fidelium. O luci piatati, ricria cori a to fidili in chi cutuminu a saturari l'omini.

Lava quod est sordidum, riga quod est avidum, sana quod est saucium. Lava prestu surda piccha prestu arditu, sanami la testa cu la fauci.

Da virtutis meritum, da salutis exitum, da perenne gaudium. Da maritu carnicula causa, mancia cu li Patri, e bivi vinu pancu. Ammeli.

41. Magnificat.

Magnificat anima mea Dominum. Magnifica arma mia Donna.

Et exultavit etc. Si osau lu spiritu miu mìniu saluta a mia.

Quia respexit etc. Quia la dispenza umida ancidda duna a mia. Ecce la sciòcca beati radici cu la stazioni.

Quia fecit michi magna etc. Cui fici a Minicu ca mangia, e cui lu porta, e santu.

Et misericordia ejus etc. E misera ricotta purcedda cu purceddu timiti a mia.

Fecit potentiam etc. Fici la menza li brachi d'Abramu superbia la menti corna toi.

Deposuit potentes etc. Dipositu putenti sanu ad annari l'umili.

Esurientes implevit etc. Curriti prestu li voi chi dissi missa la Nana.

Suscepit Isdrael etc. Su sciecchi, e sala li sunzi la rescurdata miseria sua.

Sicut locutus est etc. Siccu lu latu di lu Patri Addamu arrobba e simina cu lu seculu seculi. Ameli.

42. Fragmenti di varie coselle dell'istessa.

Deus in nomine tuo salvum me fac. Dessi l'omina tua salva la vaccha, e la virtuti tua allicca a mia.

Zelus domus tuæ comedit me. Supra li Siculari avemu a zelari.

Principes persecuti sunt me gratis. Principi m'assicutanu e li gradi.

In te Domine speravi non confundar in æternum. In justitia tua libera me. In te Domini spinavi non confunniri la terra. La giustia tua allappara a mia.

De profundis clamavi ad te Domine, Domine exaudi vocem meam. Diu di lu fundu chiamavi a tia Donna, Donna na sarda duna a mia.

43. Litania

solita a recitarsi dalla sudetta moniale, e da un'altra Conversa semplice dello stesso sudetto Monastero.

Cridi Eleison.

Christu Crusta Eleison.

Christe sciala Nos.

Patre Iadeu. Miserere novi.

Spitu Sardu Deu. Ora pri novi.

Santa Triaca unu Deu. Ora pri novi.

Santa Maria. Ora.

Santa Dei Cenacici. Ora.

Santa Virgo Virdi. Ora.

Mater Tristi. Ora.

Mater Divini gradi. Ora.

Mater Pristissima. Ora.

Mater Criatissima. Ora.

Mater Minnulata. Ora.

Mater in terra data. Ora.

Mater armata. Ora.

Mater creaturi. Ora.

Mater sarvaturi. Ora.

Mater fruttissima. Ora.

Virgo virdi Anna. Ora.

Virgo praticanda. Ora.

Virgo porta. Ora.

Virgo clementi. Ora.

Virgo fidili. Ora.

Aspetta la giustitia. Ora.

Sala la pienzia. Ora.

Causa la lirizia. Ora.

Vas piritata. Ora.

Vasa la nurata. Ora.

Vasa fra Nicola. Ora.

Rosa Mustica. Ora.

Turri virdi. Ora.

Turri di pruna. Ora.

Do Rusariu. Ora.

Pedi di Sarda. Ora.

Iamu a lu Celu. Ora.

Vastedda matina. Ora.

Sala ca mori. Ora.

Re lurnu piccatoru. Ora.

Cunsulafu suffritturi. Ora.

Basili Bastianoru. Ora.

Reggina muncil'ora. Ora.

Reggina pignataru. Ora.

Reggina pistulari. Ora.

Reggina Marcu. Ora.

Reggina scapularu. Ora.

Reggina virdi. Ora.

Reggina sanu lu Monacu. Ora.

Agnu di colli scracca munni, marcia nobi domini.

Agnu di colli scracca munni esala no sdomini.

Agnu di colli scracca munni miserere novi.

Suttu prisuttu frijnu li Santi Dei Genitridrici nostra scarcasioni ne dispina in nicissitati li li pecuri cuntali libra a nui sempri vidi Gloriusa e Biniditta.

℣ Ora pri novi S. di Cenaciciri

℟ Guttaru tigna priemisiru a Cristu.

Oriminu.

Gratta antuani chisti sù l'Omini crimenti mastru cofurna cu l'Angilu nunciamu crusta filiu ivu incatinazioni cugnatu, pri passa l'azioni eju, e cruci rilassazioni gloria pirducamu pri crastu doma nostru. Amia.

Nò scumponi a mia.

Bedda Licca Maria.

44. De Profundis

solito a recitarsi dalla Congregazione del Casale di Ruidi, e udito da me dalla bocca d'uno di quelli congregati per nome Francesco Majo, e fedelmente trascritto. Deu prifundu escamamu Marita Dominu ed omini escaudi a duciri mia.

Fia volus tua ostendenti duci ubricazioni mia.

Bella iniquitati conservari a Domino Domini, e sustinebi.

Capu Deu proficia mia, ciò est supporta l'argintuo sostina in vita Domino.

S'ostina l'arma mia in verbo era, e spero l'arma mia iri in Domino.

Custoddia matutina, e usta, e notti jeu speru mistra era in Dominu.

Capu d'omini misericordia, e cupiusa capu Deu e rivirenzia sarvi maistra Deo.

Sevon senignità scàbus a Deo.

45. Recitandosi

nella Congregazione di S. Matteo di Palermo l'officio dei Morti[84], ad uno di quei frati toccò in publico leggere la sua lezione, ed uscì dalla sua bocca del tenore seguente: Homo natus de murmure brevi vivens temperie repletur multis miseriis, qui quasi stos aggraditur, et cunta retu, e fungi velatambra, et nunqua neo destatu prilimanu cu scommodi venire saculo stuo, e adduciri cum tecum in iudicium, chi potes facere munnu d'immunnu conseptum femine munnu tu chi sulu sì? breve die somini sun numeru smensiu eju aputestu. Costi tristi termine sueju chi pri tri tarì non puteri. Zicidi spaulinu mabeo, e quiesca d'una cottanta venia sicut mercurij die scujus.

Notai questa lezione esser stata tanto celebrata in Palermo, che molti la recitavano a mente; frai quali il sotto ciantro Marcorana uomo faceto, e affezionato ai Gesuiti, spesso ne faceva menzione avanzi ad essi, ed io essendo studente ebbi il piacere di udirla dalla sua bocca.

Non ebbi la sorte di udire tutti i spropositi scappati da altri nelle altre lezioni dell'officio de' morti, ma riferirò alcuni membretti di tali lezioni, in quella maniera come me l'hà riferita padre D. Giuseppe Gallotto di S. Marco, quale sta presente mentre alcuni pubblicamente le leggevano.

Il Sacerdote D. Nicolò Ferraloro in S. Marco recitando nel publico officio la lezione 1 a del 2 o Not. no, in cangio di dire: Et consumere me vis peccatis adolescentiæ meæ, colla sua voce disse: E cuonsumeri chinu di peccati adolescentia mea.

Il Sig. r Ignazio Lo Presti, gentiluomo di S. Marco, in somigliante occasione, e colla sua lingua blesa, mosse alle risa tutti gl'uditori, i quali in luogo di udire nel 1693 nella cappella del Purgatorio: Pelli meæ consumptis carnibus, udirono: Pedi meæ consumptis cornibus ad hæsitos meum, et dededicte sunt tra un tuminu.

Lo stesso in altra somigliante occasione, in quell'altra lezione: Quare de vulva exudixisti me etc: Quade de vulnede eduxisti mihi.

46. Miserere delli Romiti di Iudica.

Miserere me Deu secundu magu misericordia tuaria secundu murtitunedini e miserazioni ntuaria amdelia iniquitati mea.

Lampiusa lava me li peccati mei, e sbrunda me.

Ania peccata mea cognoscu quamtu nostru, è sempri.

Tibi soli peccari, e non quaranti fici giustiziari.

Simulabusti enca pregiudicari supra l'ezzetera.

Enichitati cu bussu pinciti ventri Matri mia, nzerta la virità, chi Diu non siti, e chi cosa meriti, et io miu curpa, e sapienzia tua mbutta nastimicara.

Spergimi Domini supra d'issopu lava buendabbu lava a mia supra lu nidu di lu barbaru.

Nchitati mia bella nanfarusa me.

Parifica supra lu nidu di lu biddiu astisu, e gaudiu ancora, se mundu cridemu, mundu a Deu.

Rispiru miu rettu, e novu cu li senzij mei, fazzia mea spiritu Sant'Antoniu craziantua.

Rè di l'amici fidili salutamu dichiu, e spirito spiziali sbruffullia a me zabbi, e sidicami stui nichità me convertenti.

Se libera me sangu di bustu un Diu saluta a miu.

Domini labia mia perna ossu nunzianti audi nova.

Cuonia vulisti sacrifiziu ndardisti marti mi culla castidutica azzitta biri a sacrifiziu un Diu.

Oi mi bilignu e dumani ivi fraccu Domini ninitabiri zittabiri si si bona.

Sacrifiziu fandi giustizia supra l'autaru di virtulossu.

Regula muderna scatta in paci a me.

47. Sacerdote in Piazza che ricorda un moribondo.

Fu chiamato in Piazza un Sacerdote, affinchè ajutasse a ben morire un moribondo, vi accorre egli col Crocifisso, trova quel meschino che vaneggiava, parendoli di essere non nel letto di morte, ma nella campagna, che contrastava col suo somaro, e quello indocibile e disubidiente gli dava di alterarsi; si sforzò il Sacerdote di metterlo nel bon sentiero: ma perchè quegli era fuori di se, proseguiva a drizzar le parole al suo somaro. Il bon Sacerdote armato di zelo gli mostrava il Crocifisso, egli dice: Costui è lu veru scieccu.

48. Le gare di Nicosia.

Le due chiese di S. Maria e di S. Nicolò in Nicosia, che contendono frà di loro per il primato, tengono divisi per le perniciose gare l'affetti non solo tra essi compatrioti, mà fin verso i Santi, contro i quali scappan loro proposizioni ereticali. Eccone una: Essendo dipinta la Nostra Signora, e a suoi piedi S. Nicolò, uno dei Nicositi disse: Eccu stà a ginucchiuni a piedi di S. Maria comu un caparunassu S. Nicola[85].

49. Ubbriaco in Regalbuto che dorme nel cataletto.

Il Sig. r Gaetano la Valle, uno de' più gran bevitori di vino ne' nostri tempi, annerì con tal vizio l'onestà de' suoi natali, e mandò a male tutto il suo decoro. Passava tutta la vita se di giorno andando in giro per tutte le bettole, e bevendo di tutti i vini, non curandosi di andar mal vestito, per impiegar tutto il suo nel vino. Un uomo in Regalbuto notò che in una sola bettola per lo spazio d'una mezz'ora vi era entrato da 17 volte, spendendo un quadrino per ogni volta per un bicchier di vino; onde era divenuto una favola per tutti i ragazzi e de' facchini. Nella notte prima di porsi a letto col fiasco in bocca recitava a modo suo la sua Compieta; faceva il primo sonno, ed in svegliarsi stendeva il braccio, e dando di piglio al fiasco, che teneva sotto il letto, recitava il primo notturno; di nuovo si addormentava, in svegliarsi eccolo al secondo Notturno; poi al terzo; in alzarsi col fiasco in mano recitava prima l'Ore canoniche, andava, come dissi, a fornirle dentro le bettole. Alle volte era tanto carico di vino il suo stomaco, che non potendosi più reggere in sù le gambe, si gettava a dormire. Una delle volte si portò nella chiesetta de' PP. Domenicani, chiesa rimota e mezza oscura e solitaria: non potea trovare luogo più adattato al suo sonno; in mancanza di letto, trovò una bara di morti, vi entrò dentro, e si immerse tutto nel sonno, e là durò sino alla notte. Solea andarvi in quella chiesa, come vicina alla sua casa, a compire le sue divozioni, un gentiluomo per nome D. Consalvo Picardi, il quale mi raccontò questo fatto, e niente accorgendosi, perchè era presso l'Ave Maria, facea scuro, niente accorgendosi del ubriaco, cominciò a recitare le sue preci; ecco ode nel meglio un rumuretto, e stimando che fossero gatte, proseguiva con intrepidezza il fatto suo; mà da lì a poco ode un rumore, come uno che arronfasse, si turbò allora; e molto più che giorni pochi prima era morto un P. Domenicano, e poco lungi da lui era la sepoltura, ove stava sepellito; con tutto ciò si fece d'animo, e se quel anima avesse avuto bisogno di suffragij, recitò per essa il Miserere e 'l De Profundis. Non avea ancora finito questi salmi, che ode un strepito così senzibile, come se stridesse la bara, e come se da essa uscisse un rancore; rivoltossi allora indietro, e vede uno che si alzava dal feretro, e gli parve che avesse in testa un cappuccio bianco; «questo, disse, è il patre domenicano da pochi giorni defonto, e da me che pretende?» Il Sig. r D. Consalvo più non aspetta, mà con un salto vigoroso, si caccia fuori la chiesa, entra nel atrio del convento tutto impallidito ed anzante, e dimandava cosa avesse; rispose, che il poco fà domenicano defonto era uscito dalla sepoltura e si ritrova nel cataletto. Si uniscono varie persone, entrono in chiesa e vi ritrovano dentro la bara, che già cominciava a svegliarsi, il Gaetano la Valle; e perchè era canuto come un ligno, quella sua canutezza fù appresa per il bianco cappuccio, e perchè avea deposto il mantello, e rimasto col giuppon bianco, in quello oscuro parea come i Domenicani vestiti di bianco: quello rancore s'intese appunto quando eruttava il vino, e lo strullore fù caggionato dal ruminarsi[86] che faceva nell'atto di svegliarsi dal profondissimo sonno.

50. Il Mirchio di Patti.

Era questi un giovane che nacque stolido, ma alla fatiga con il stento delle sue braccia procacciavasi il pane.

Era ito in un giorno nella montana della Giosa[87] col suo asinello per far legna, e salito egli sù d'un albero colla sua accetta, si pose a sedere sopra un ramo di quel albore, e in cangio di tagliare i rami di fuori di quell'albore del gran ramo, troncavane il tronco. Passò in quel mentre un contadino giosano, il quale gli disse: O loccu, e non t'adduni, chi da pocu cu tuttu lu ramu sbalanzi in terra? e ne andò via. Il Mirchio non abbadò punto a quello avvertimento, ma proseguì con più calore a terminare il suo lavoro; e avvenne, che insieme col albore precipitò a terra. Quella predizione fù appresa allora dal Mirchio per profezia, e niente curando, che avea restato malconcio da quel alta caduta, corse verso il suo profeta chiamandolo, ed appressandolo che lo aspettasse. Giunto che egli fù al luogo del giojosano, poco mancò che non l'adorasse per nume; indi gli disse: Già mi insirtastivu[88] la mia caduta; mi aviti a fari sta grazia di 'nzirtarimi la mia morti. Il contadino per torselo dinnanzi gli disse: Tu non vai a travaghiari cu l'asineddu? E quello: Gnorsì. — Ora quandu ddarmaluzzu si pidita[89] tri voti a la fila tu sarai mortu. Addiu. Ecco il Mirchio si inghiottì senza masticarla questa burla, per altro profezia; torna al suo lavoro, riduce in fasce le troncate legna, ne carica l'asino, e s'avvia per Patti; nel salirvi l'asino quella montata ben carico, eccolo scorreggiare per la prima volta. Il Mirchio si mise in timore; la salita seguitava più austera, i viottoli erano più stretti; l'asino che faceva più di forza, scorreggiò per la seconda volta, ed il Mirchio impallidì; era già l'asinello arrivato alla cima della montuosa salita più aspra, ebbe a far l'asinello gl'ultimi sforzi; ed ecco l'ultima orribile scorregia, che fece gittare a terra il Mirchio, il quale veramente credette esser morto, sol perchè il giojosano gl'avea detto, che allora doveva morire. L'asinello prosegui il suo viaggio: come prattico della via, se ne andò da se in città. Passavano per quelle campagne varie persone, e vedendo quel poveraccio prosteso a terra senza alcun moto, e che mostrava aver perduto i senzi, dandone in città l'avviso, e facendolo apprendere se non morto, almen moribondo, mandarono due becchini col feretro per dargli luogo di sepultura; que' due riscosero il Mirchio, ed ei senza rispondere. Il color suo per li tanti strapazzi era somigliante a quel de' cadaveri, fù creduto anche da questi, che pria d'arrivare in città, il Mirchio sarebbe sfinito; lo mettono nel cataletto, se lo caricano sù le spalle, arrivano in città; arrivati al borgo si contrastavano i becchini ove dovuto avessero portarlo, e in qual chiesa? Allora risponde il Mirchio: In quandu era vivu vulia essiri sipillutu tra la chiesa di la Madonna di lu Cinnaru, e tacque. I becchini, che erano ben stracchi del lungo viaggio, sentendo che il morto immaginario avea tutt'i sentimenti, posarono la bara nella strada, e a via di bastonate e di pugni il fecero risuscitare.

Così a me il canonico Allotta della città di Patti.

51. Il Morto della Giojosa.

Era stato sorpreso e tormentato da un spasimo un contadinello nella Giojosa con tal vehemenza, che tutti lo tenean per morto: senza calore, senza polsi, e senza moto. Si sparse di già che il NN. morì di puro spasimo; egli avea un poderuccio, e però c'era il fondo per far le spese del funerale proporzionato alla sua condizione; i preti non esaminando con tanto vigore quel sinistro accidente, ebber il penzier di far suffragij, a quell'anima, che non era ancor uscita dal suo corpo, anzi quanto più violento era stato il mortale assalto, il vigore della gioventù con più di robbustezza potè ribatterlo, a segno che quello nell'istessa giornata se ne andò al podere per cogliere i fichi verso l'ore 22. Vestiti i preti con cotta, sotto la Croce della Chiesa Madre, andaro processionalmente alla casa del defonto supposto; mà dal accorgersi che non v'era segno alcuno di lutto dubitarono che non avessero sbagliato la casa, e bussarono la porta di quel giovane: i preti domandando del morto, e quella rispose: Sig. ri, si nni ju a coghirisi li ficha[90]. Quanto restarono affrontati quei preti, ogniuno se lo può immaginare; basta dire che sino adesso riesce di rossore rammentargli tal successo, come io son testimonio.

52. Il Porco di S. Antonio nella Giojosa.

Si celebra nel sudetto paese con pompa la festa di S. Antonio Abbate, con apparato, con musica, con cera all'altare; nel doppo pranzo con processione. Era in un anno riuscita con molta proprietà competente al paese; fù collocata la statua del Santo sù la bara per trasportarsi con inni e cantici per quelle strade; non era ella così ampia che capisse a piedi del Santo il porco consueto che s'accompagnava per geroglifico; si misero allora in confusione per quel dovessero fare. Finalmente si determinò, che nel tempo della processione si collocasse il porco nella stessa nicchia, ove era la statua del Santo; e per non mancarsi alla dovuta venerazione a quel porco in riguardo del Santo, gli si accessero due candele, se qualcheduno si fosse ito a raccomandarsi. A me non è noto; ho specie, che questo fatto me l'abbiano raccontato i Pattesi, essendo la Giojosa soggetta al Vescovo di Patti.

53. Donna inflatata.

Nella terra detta Montagna Regale due miglia sopra la città di Patti[91], la madre del padre D. Antonio Caruso, che è stato Proposito [de'] Conviventi nel Santuario del Tinnaro, fece una graziosa burla ad una femmena contadina, e fù la seguente: Era ita questa, non saprei per qual caggione, alla casa della madre del sudetto sacerdote, teneva ella una pegnata impastata con ovi di formiche, quali anno virtù di riempire il ventre di flati cotanto violenti, ed in numero così esorbitanti, che a dispetto d'ogni forzo escono con stridore e strepito più d'una tempesta, che mette in rumore l'aria con suoi spaventevoli tuoni. Arrivata la contadina alla casa dell'altra donna, fù accolta da questa colle maniere più cortese; la fece sedere e poi volle onninamente che vi facesse una piccola merenda. Appena però che il suo stomaco cominciò a fomentare quel pane se lo sente come se fosse entrata una leggione di diavoli; tutte le interiora, già mise in rumore, volean dare esito per qualunque parte trovassero per l'orribile golia che volea scatenarsi; la povera contadina, premuta da una parte dal orribile ribellione dell'intestina, ritenuta dall'altra parte dalla natural verecondia, disse all'altra donna: Gnura, iu mi nni vaju; bon giornu a V. S. E questa, che volea godere della batteria del gioco di foco[92], gli disse: Chi fretta aviti? stati nautra picca[93]. La contadina: Non Signura, chi aju di fari. L'altra proseguiva a trattenerla; mà di già cominciò lo sparo dell'artiglieria, motivo alla povera contadinella di rompere ogni ceremonia, e partirsene; ma chè? dava due passi, mà erano accompagnate da quattro salve; il viaggio fù di un miglio e mezzo, fino che arrivò alla propria casa, che era nella campagna. Trovasi per sua disgrazia il marito, e ode darsi il saluto dalla moglie in quella guisa che le navi salutano le fortezze reali; s'imbestialì, e le rispose da prima con parole confacenti ad un rustico; mà ella mentre procurava di giustificarsi diveniva più rea col non voluto suo strepito. Finalmente impazientato quel villano con un bastone accompagnò quel sono con tal concertata battuta, che poco mancò a far morire la povera moglie che tonava insieme, e riceveva sù la schiena i fulmini delle non meritate percosse.

Tanto a me il sudetto padre D. Antonio Caruso.

54. Motivo di pazienza insegnato da un padre Cappuccino.

Faceva il suo Quaresimale nella chiesa del casino del principe di Butera nella Bagaria[94] un padre cappuccino, il frate Giuseppe Enna, che avea la cura del podere dei padri Gesuiti nella medema Bagaria. In un giorno di festa, unito al fratto della Cannita[95], si portò al Casino per udirvi la parola di Dio, ed appunto trovò il padre Predicatore in pulpito che esortava gl'uditori alla sofferenza ne' travagli. Uno degl'argomenti più forti che allora adduceva, si fù l'esempio di Gesù Cristo specialmente in Croce. E chi vi pari, dice a loro, sparti a li piaghi di lu suu corpu, e duluri di lu sò cori, appi a sustiniri l'esorbitanzi di lu Demoniu? pighiau chistu la forma di surici pri farlu impazientari, e poi si appiccicau a la Cruci, ci sauta in testa e s'accumenza a firriari tra la curuna di spini, chi era in forma di cappeddu, ed in ogni spina si ci aggravava cu duluri estremu di Nostru Signuri, lu quali non ci la detti vinta, mà sustriu[96] cu invittu curaggiu du gran turmentu, e nui nun putemu suppurtari una puntura di spingula.

Tanto a me il fra Giuseppe Enna.

55. Il seguente Vangelo

dell'aspettazione del Parto, è solito recitarsi da un villano della terra di Militello Valdemoni, e me l'hà trasmesso il padre dottor D. Biaggio Calderoni de' PP. Conviventi. Domini Sabiscu.

℟ E custutò.

Sintenzia Santu Sanceliu Sumduca.

℟ Ngloria si tu Domini.

Milli tempurisi suseru Ancilu, e Verumi vilitati Gallilia un omu Lazzaru, e Virgini disprizzata, vinu cu nomu Dauì, e nomu Nariose, e nomu Virginia Maria; e tu ngrassu Angilu fabru dissi: Avi Maria gratia prena Dominu stecu, e biniditta tu munierba, e tu medittu fruttu ventri tua, e comu dissi stintatu esti D. Simuni Gesù: e cu la barbata quali se chista salutatio. Cuviu Angilu Gesu ne Simuni Maria, tu mbinisti essiri sazia ebedeu: ecce Calupare scimuntinu mparu, e filu lattissimu vocabuli, e dubiti milli domini: Diu rignau patri seggiu, e regnu novu lagu in lanterna, e regnu e già non avi fini. Diu Tarria Angilu comu so fighiu hà dittu chi non moru jo nun cognuscu. Rispundi Angelu dissi Dei Spiritu Santu subarbaronte, e barbantissimu si rinberenti, e filioculi conusciti l'arti santu chi vocabit a filui sei. Eccu la zia betta prilugnata tua, e accume nasu sestu mantili, si non eri mpassibili lebba Deu omne verbo: Dici detta Maria: Ecce medda Domini fia nuli sendu vermu tue.

56. Ragazzo che fa testimonianza alla madre d'esser stato alla messa.

In Bronte era venuto dalla campagna, ove abitava, un ragazzo servente in una massaria, e come capitò presso a mezzo giorno, in vederlo la madre l'interrogò s'avesse udito la messa; quello rispose, che nò. — Presto, essa ripigliò, và alla Madre chiesa, che deve esservi l'ultima messa, ed al ritorno dovrai darmi i segni che tu l'abbii udita. Partì il ragazzo, ed arrivò in tempo che usciva la messa cantata: stiede presente a tutto, ed osservò tutto, e fece ritorno alla casa. Interrogato dalla madre, della messa e delli segni, se l'avesse udita, disse ad essa: Andai a la chiesa, e cerami tanti persuni, e la (là) a la trasuta c'era un scifu d'acqua, ed illi si zavavanu la frunti, ed iu andai, e mi lavai lu frunti, poi nisceru di la sagristia tanti parrini cu li cammiselli in collu, poi nautri dui parrini puru cu lu saimmarchellu russu, e all'ultimu vinia lu patri Arcipreti cu lu saimmarchellu russu, e la pastura a lu vrazzu[97].

Così distinse le cotte, le tunacelle, pianete e manipulo ed il fonte dell'acqua santa.

57. Misterij del Rosario nella chiesa di S. Nicolò di Nicosia.

In ogni domenica sole pubblicamente recitarsi il Santissimo Rosario. Per esser [ec]citato il popolo a maggior divozione, vi è assegnato un sacerdote che avvivi quei sacrosanti misterij con alcun discorsetto divoto. Nel 1736 stava esercitando questo ufficio un canonico di quella Colleggiata per nome il canonico la Barbera, ed in una di quelle domeniche, in cui v'intervenne il Sig. r D. Forte Speciale, che mi rappresentò, poi mi fece scrivere ciò che disse il sudetto canonico, ed è del tenore seguente:

Primo Misterio.

«Avendu lettu e rilettu un casu terribili di la Madri di Diu nellu libru di l'esempj; c'era un divotu; ci dicia: Madri di Diu, perdunatimi li mei peccati. C'arrispusi la Madri di Diu: Vade, remittuntur tibi pecata tua. Dunca dicemucci tutti: Madri di Diu, pirdunatici li nostri peccati, liberatici di li peni di l'infernu, datindi la gloria di lu Paradisu. Pater noster, etc.»

Secondo Misterio.

« Pastores loquebantur ad invicem: li pastureddi andavanu in Gerusalemmi, chi è lu stissu chi diri in Bethelem. Videamus hoc verbum. Traseru ntra la grutta, vittiru lu Fighiu di Diu, s'incuntraru cu alcuni autri, e ci dumandaru: Quem vidistis, pastores? Chi aviti vistu, chi aviti incuntratu, pastureddi? Ci rispusiru: Vidimus eum non erat aspectus. L'interrogaru puru di novu, e ci rispunderu: Vidimus Jesum Christum Crucifixum spinis coronatum. Lo vittimu mortu e sepurtu. Pater noster, etc.».

Terzio Misterio.

«Vuatri fimminazi, autru non faciti: mangiati, biviti e ngrassati da fra Giuniparu (qui quelle fecero un bisbiglio). Discurso de corpore. La Madri di Diu chi facia? Non mangiava, non bivia, non durmia, dunca chi facia, Madri di Diu? Priusquam in utero pariens, si ritirau, si chiudiu s'ammucciau? senti chi t'arrispundi. Undi v'ammucciastivu, Madri di Diu? Senti chi t'arrispundi: Nella Cappella di lu SS. Crucifissu. E chi facia, Madri di Diu? Recitava, ti dici, l'offiziu di la Madonna Santissima. Dunca dicemu tutti nui: Madri di Diu, vi ricitamu, vi dicemu lu Rusariu, pri non vidiri lu vostru Fighiu Crucifissu. Pater noster, etc.».

Quarto Misterio.

« Defunto Erode: già morì Erodi, già morto Archelao, già sù morti li picciriddi innoccenti; sulamenti ristau menzu mortu lu Fighiu di Diu pri lu fasti chi si pighiau di aviri mortu tanti picciriddi. Dicemucci dunca: Madri di Diu, facitindi muriri picciriddi, facitindi muriri tutti li desiderij di lu mundu, carni e dimoniu. Pater noster, etc.».

Quinto Misterio.

«Già semu morti: Oggi in figura e dumani in sepultura; mbiatu cui pri l'armuzza so si procura. Vinirà un jornu terribili, nellu quali sariti vivu la mattina e mortu la sira. Voi sapiri, chi ti resta, o omu, o fimminazza, di tuttu lu to travaghiu? mangiari, biviri, dormiri e ddoppu un linzolu strazzatu. Dunca, dici: Madri di Diu, vi pregu datimi lu linzolu chi mittistivu a vostru Fighiu, chi quandu nui muremu, vi lu purtamu in Paradisu. Pater noster, etc.»

58. Esempio.

«Si leggi un esempiu nelli cronici di li PP. Cappuccini, chi un latru, un assassinu, un furfanti prigava la Madri di Diu, e ci dicia: Madri di Diu, datimi saluti, di iu dumani putiri andari a lu nigoziu chi vui sapiti di arrubbari; chi poi, quandu mi ricughiroggiu, vi dumandu pirdunu. Ci rispusi la Madri di Diu: Ah cani sciliratu, primu voi chi ti salvi la vita, e poi mi voi serviri? Non ti voghiu pri miu divotu; vattinni! — Dicemocci tutti nui: Madri di Diu, nui non rubbamu, nui non vulemu fari mali, chi la Madri di Diu ndi chiama, ndi volia tutti in Paradisu. Dicemu tutti: Sia ludatu lu SS. Sagramentu. E viva Maria! E viva Maria!»

E fattosi il segno della croce se ne partì.

Due riflessioni mi occorre qui fare.

Prima si è, che il cavaliere D. Forte Speciale, che fu presente alla sopradetta predica, è d'una memoria felicissima, sicchè de verbo ad verbum ve la ripiete. Egli l'hà rappresentato avanti a me con tutta l'energia, tuono di voce ed azzione, come la fece al [il] canonico, e poi me la trascrisse.

Seconda: Intendendo il signor D. Guttera la Via, che mi era stata communicata una tal famosa predica, se ne dispiacque molto. Almeno, mi disse, padre, non dite che ciò successe in Nicosia; tanto è certo, che questi è la maniera che suole predicare il sudetto canonico.

59. Barbaggianne in Trapani.

Non saprei in quale chiesa in Trapani c'era abitazione di barbaggianni nel tetto; e come cotali animali dormono il giorno e vegliano la notte, faceano del rumore una notte. Uno nulla di ciò sapendo, trovandosi nella chiesa in tempo di notte, apprese che quel rumore fosse cagionato da qualche anima di qualche defonto sepellito in quella chiesa, che si faceva sentire, domandando in quella maniera suffragj; e benchè si fosse atterrito da quel strepito, nulla di meno fattosi animo interrogò il barbagianne supposto: Anima penante, cui siti? E qui non rispondea il barbagianne. Ave bisogno di suffragj? Ne tampoco a questa. Quante messe volete celebrate, forse tre? I barbagianni sogliono mandare questa voce: chivi chiù; ed allora sciolse la voce quella bestiola: chiù. Sentendo quello chiù, apprese che volesse più di tre messe, e rispose: «Cinque vi bastano?» Il barbagianne proseguiva chiù. Dieci son buone? Chiù, si avanzò a maggior numero, e sempre udiva chiù, si diede in busca di messe raccontando il bisogno che aveva quel anima, e però dovea impegnarsi ogni fedele in libertà di quel penosissimo carcere; tanto girò sino che s'abbatte in uno che era consapevole dell'abitazione de barbaggianni, e gli disse: «O barbaggiannone, che ti sei lasciato uccellare de' barbaggianni», e gli decifrò non esser stata quella voce di anima penante; mà di un barbaggianni par suo.

60. Campana stimata sonare da se sola.

V'è fuori le mura della città di Trapani una chiesetta chiamata dal volgo S. Maritana. Solea lasciarsi la porta di essa per devozione de' fedeli aperta, e nel imbrunarsi la sera il sagristano l'andava a chiudere. Un giorno un asino trovando quella porta spalancata, entrò dentro quella chiesa, e o il fresco, o altro commodo a quella bestia l'invitasse a giacer in riposo, a questo appunto s'appigliò. Si annottò; il sagristano, al solito, andò per serrare la porta, ne si accorgeva di quel asino adaggiatosi in quella chiesa; si risvigliò la fame: e andava in giro della chiesa, avanzata la notte, l'asino, se trovava qualche cosa di soffiarla. Finalmente trova un sarmento seccho, che faceva le veci di corda alla campana, cominciò a rosicarlo, e col tirare di quà e di là sonava la campana. Attentò da principio il sagristano; mà finalmente accertatosi della realtà del sono, uscì di casa mettendo in rumore un vicinato ed ogni altro con cui incontravasi, gridando: S. Maritana! La chiesa chiusa, e la campana sona? S'apprese da molti ciò esser un gran prodigio, con cui significasse il Signore o qualche gran cosa succeduta, o altra gran cosa che dovesse succedere. Andò intanto una gran chiurma di persone ad ammirar quello stupendo miraculo, e trovarono esserne l'autore un asino affamato, di cui non si era accorto il sagristano, primacchè chiudesse la chiesa.

61. Naso in giudizio condannato da un Ficarrese.

Predicava nella terra di Naso un religioso il suo quaresimale. Toccò, al solito, far la predica sopra il Giudizio universale, e procurò farlo con tutta lena, per imprimere sacro orrore ne' cori de' Nasitani. Or egli doppo che esprimeva colle più vive formule, ora i segni che lo precedono, ora l'avvenimenti che lo accompagnano, ora la sentenza finale che lo sossiegue, per fare una grande impressione ai suoi uditori si valeva di quella figura[ta] repetizione: O Nasu o Nasu, undi ti vai a ficchi lu jornu di lu Giudiziu? Era capitato in quella mattina in Naso un'arteggiano della terra delle Ficarre, quattro miglia distante da Naso, e comecchè la vicinanza de' paesi suole alle volte producere gare, queste due terre appunto hanno l'ambizione di essere in tutto una miglior dell'altra, e spesso tra quei paesi succedono civili contese. Il Ficarrese, essendo l'ora della predica, entrò cogl'altri in chiesa per approfittarsene; mà udendo così spesso dal predicatore: O Nasu o Nasu, undi ti vai a ficcari lu jornu di lu Giudiziu? si valse del punto a fare che restassero celebri i Nasitani in tutto il Regno nostro ed in tutti i secoli avvenire; si spiccò prima dal luogo dove era situato, si collocò sù la soglia della porta della chiesa; ed in udire dal predicatore la solita repetizione: O Nasu o Nasu, undi ti vai a ficcari lu jornu di lu Giudiziu? con voce più sonora rispose: Tra lu purtusu di lu culu! Ed in dir ciò si mise precipitosamente a fuggire.

62. Panegirico

di S. Antonino di Padova rappresentato da un frate zoccolante nella terra di Cassano in Lombardia nel dì 13 giugno 1677.

Dovendo il Patriarca Abbramo, quell'Abramo dico, che fratello di Nacor et Aaron per obbedire al dolce comando di Dio e far del proprio figlio un sagrificio: Sacrificium Deo spiritus contribulatus, sovra l'altar d'un alto monte: Montes Gelboe, nec ros, nec pluvia cadant super vos, lasciatisi i superbi apparati, li sontuosi banchetti, le sedie postergali, i baldacchini che usano i patriarchi moderni, senza intervento di canonici o altri, in una cappella patriarcale, d'altra esistenza non si serve che di quattro personaggi, cioè il medesimo Abbramo, Isaac, un suo servo e l'asino. Expectate hic cum asino, dice la glossa interlineare parlando e maravigliandosi di questo gran fatto: Factum est cor meum tamquam cera liquescens. Tale, o fratelli Cassanesi, succede oggi a me nel sollennizzarvi la festa del nostro glorioso Antonio, che la povertà de' suoi religiosi figli non gl'essendo permesso far altri addobbi, che quattro stracci di sedia ch'anno prestato per loro cortesia li RR. PP. Dominicani a guisa del sopradetto Abbramo, che sopra il monte di questa chiesa stà fuori della campagna: Stetit in loco campestri, del sig. r Piazza, rettore, mio amico: Amice, ad quid venisti? Quale fu l'Abbramo nel cantare la messa d'Isaac, ch'è il nostro Sig. r Iddio, del servo che si trovò presente, che sono le Signorie vostre, che state a sentire, e dall'asino che porta le legna: Super omnia ligna cedrorum tu sola excelsior, che sono io: Asinus præsepe domini sui, quale raggrinzato a forza di bastonate de' comandi del rev. o padre Guardiano, per non buttar via la baldella dell'ubbidienza, son comparso di trotto sopra il monte di questa catedra: Super cathedram Moysi, carico di legna d'un mal infasciato discorso per accendervi un foconaccio di divozione ne' vostri petti, e con dimostrarvi la necessità ch'avea il mondo per mantenere la fede catolica, che nascesse Antonio, e mentre a guisa di questo somaro d'Abbramo coll'orecchie ingrinzite della mia audacia, e colla bocca ragliando, vado sparando sopra le montuosità di questo pulpito i calci de' miei concetti: Durum est tibi contra stimulum calcitrare: tenete voi le cavezze delle vostre bocche: In camo et freno maxillas eorum constringe; lasciando solo ragliare a me, che superando quel divulgato proverbio, che raglio d'asino non arriva al cielo, farò vedere che penetrerà la mia voce: Vox clamantis in deserto, al cielo dei vostri petti: Cœlum cœli Domino; onde se voi m'osserverete silenzio, io vi porterò a bere nelle pantanelle della gloria d'Antonio, ed incomincio.

Due sorti di necessità assegna la filosofia, o Sig. ri Cassanesi (attenti, non guardate quà e là) una da teologi detta simpliciter, l'altra secundum quid; mà perchè non mi ricordo della definizione per adesso, e poi parlo con persone dotte, tralascio la spiegazione. Sò bene che la nicessità ch'avea il mondo d'Antonio era una di queste due, e che sia la verità, tralasciando il dirvi con alcuni che consistesse nelle prediche: Predica verbum, insta opportune, importune argue; collo stesso Apostolo soggiongo, che abbiate pazienza: Patientiam habete; con altri che consistesse nell'udire le confessioni: Confessio et pulchritudo; con tall'uno in servire alli spedali: Oportet Episcopum hospitalem esse; con tall'altri nel mitigare il Cielo con discipline: Et disciplina tua ipsa me docebit; ed io vi rispondo, che tutte queste cose ordinarie, e le facciamo anche noi Zoccolanti, e voi altri Sig. ri c'avrete inteso qualche voltarella; ma non consisteva qua la necessità ch'aveva il mondo del mio Antonio. Onde andate a parlar col Quicumque, [Simb. di S. Atan. o ] e non stupite. Interrogando lo dite che le paja della necessità ch'ebbe la fede catolica d'Antonio, e sentirete, che quell'oracolo vi risponde con quelle belle parole, acute parole: Ante omnia opus est ut teneat catholicam fidem. Che ne dite miei Sig. ri? Siete paghi del mio concetto? Ah! che mi accorgo, non siete abbastanza sodisfatti, forse perchè non intendete quest'altra latinità per essere un poco oscura. Attendete a sentire il senzo: Ante omnia, dice è Antonio; opus est, è di necessità, ut teneat, che mantenghi, catholicam fidem, la fede catolica.

E veramente non pare fuori di proposito; questo Quicumque dice molto bene la verità: Veritas de terra orta est, poicchè nato Antonio mio gloriosissimo Ante omnia, ed essendo ragazzotto nella città di Lisbona, imparò subito dal nome stesso della sua patria Lisbona a pigliar la zizza buona, cioè a patire, ed andarsene via dal mondo, entrando immediatamente ne' Canonici Regolari: mà perchè ivi non vedeva adempire il suo desiderio, che era di patire: Vir desideriorum, perchè ivi si mangiava bene e si beveva meglio: Manducamus et bibamus, e vi si fa una vita squisitissima, Mors et vita in manu Domini, e se qualche volta accade fra questi il digiunare, quello che s'hanno da mangiare la sera, se lo mangiano la matina, e la sera per collazione qualche galantariella, oh che santo digiuno!.. Mà torniamo presto al nostro Ante omnia, che già s'è calzato li stivali per partir via da questi Canonici. E dove t'incamini o bel zitello? A che lasci si commoda occasione per servir Dio? Nonne septuaginta annis Domino servisti? Si può dire di te come di quell'starione [ch]e fuggì. Vien quà, vien qua, che, per quanto vedo, corri a frati Zoccolanti. Or qui si che troverai il rovescio della medaglia; vedrai le morbide cammise di lino mutate in ruvidissima lana: Deus qui dat nivem sicut lanam, i morbidi letti in sacchi di paglia: Tamquam paleas ferrum, e così l'uomo come una nespola, o pera fiorentina, se ne starà sempre nella paglia; muterai poi la carne di capone in quella di pecora: Insuper pecora campi, il vino dolce in agraticcio: Verumtamen fex ejus non est exinanita, il pan bianco in quello di bracchi: Dic ut lapides isti panes fiant. Stà dunque sull'accerto. Mà se n'andò via il nostro Ante onmia, Sig. ri, nulla curando e tutto sprezzando, e direte non fosse vera questa necessità? Preziosissimo opus est? Clarissimo Ante omnia? Sapete perchè e [ ha ] lasciate tutte queste delizie? Deliciæ meæ esse cum filiis hominum, ed in specie à cambiato quell'abito, ch'à quasi del coloraticcio in questo saccaccio bigio del color d'asino, a cui io con raggione m'hò assomigliato? Per portar la somma del martirio. Non perchè in questa mia religione vi siano tiranni che martirizzano le genti (sebene qualche volta quando si comincia a perseguitare qualcheduno, non si finisce così subito); onde una volta un rev. padre Guardiano, quale non voglio nominare per degni rispetti, mi prese a perseguitare talmente che per una bagattella mi fece stare per cinque mesi e due giorni in prigione: Guardianus persequutus est me gratis; che mi volle far dare al diavolo: Et diabolus stet a dextris ejus. Ottenuta intanto licenza il nostro Ante omnia di poter predicare nelle parti dall'infedeli, ed in specie a Marrocchesi, dove si fà il marrocchino rosso, colà egli s'invia di buon animo; mà per l'infermità cagionatagli dall'asprezza delle penitenze, parte volontario, e parte per forza, non può proseguire il suo camino; onde doppo varj viaggi e disaggi pervenne in Assisi, e di là partendo per Forlì per ordinarsi con alcuni Frati Minori, che non erano frati nostri, perchè noi siamo Minori Osservanti, e del nostro Ante omnia può dirsi ch'era Maggior Osservante. Non istarò a dirvi qui i di lui atti di mortificazione: Mortificamur tota die; ne il lavare i piatti: Qui intingit manum mecum in paropside. Non vi voglio fastidire col ricordarvi la disciplina a sangue che faceva tutto il giorno: Et fui flaggellatus tota die. Non vi rammento i digiuni e pan moffito ed acqua pura in tempo che frà i Canonici Regolari avrebbe bevuto in neve: Nive dealbabuntur in selmon. Tralascio l'umiltà in iscopare le stanze e cortili de' Principi: In atrium principis sacerdotum ducebam. Non già che si tratta dell'umiltà; contemplatelo in questo fatto veramente stupendo, ch'è stimarsi indegno di predicare agli uomini, quasi non dicesse buoni concetti: Et concepit filium in senectute sua; andò a predicare ai pesci: Pisces maris qui perambulant semitas maris. Dunque con ragione posso dirvi, mio Ante omnia Antonio: Quam est admirabile nomen tuum in universa terra et mari!

Sentite, di grazia, per conferma della mia proposizione quest'altro prodigio, e vederete se io dico il vero si ò nò, e col primo Papa del Vaticano bisognerà che rispondiate: Non te negabo (l'occhio a me, Sursum corda ). Si trovava in Ancona il padre del nostro Ante omnia Patavino, per essergli stati apposti due misfatti, l'uno per non aver pagato come doveva i Regij Ministri, e l'altro d'aver ammazzato uno. Il padre Ante omnia ciò sentito se n'andò dalli giudici, alli quali così favellò: Vos saeculorum iudices, et vera mundi lumina, votis praecamur cordium, audite voces supplicum; e non essendo quelli capaci, doppo due o tre Pater noster si portò all'epitafio, o vogliam dir cenotafio del nostro ammazzato, dove era sepellito, e gli parlò dicendo: Lazzare, veni foras, et surrexit qui erat mortuus. Poi l'interrogò chi l'avesse ammazzato: Responde mihi quantas habeo iniquitates. Con fetida bocca, quadriduanus erat, rispose non essere stato l'uccisore mio il padre di lui; e allora tutto allegro il Santo se ne ritornò via: Et errare facit in [in]vio, et non in via. Era dunque di necessità, che questo mio Ante omnia venisse al mondo per mantenitore della fede, e fù di necessità, perchè era condannato reo l'innocente: Innocens ego sum a sanguine justi hujus. Fù di necessità, perchè levò d'errore alcuni di questi, che vedevano il padre scandaloso: Necesse est ut veniant scandala. Fù di necessità, perchè levò via con quest'occasione gl'odij e mormorazioni de' parenti, e riparò ad altri infiniti mali: Malos male perdet. E mi direte che non sia vera la mia proposizione, e che non moralizzo con belli concetti?

E tacete tutti, e lasciate dire a me: Il mio glorioso Ante omnia era di necessità che venisse al mondo; mà non vi fermate in questi chiribizij di poco momento, mà miratelo là qual altro Giosuè, che se quello fermò il sole, che qual cavallo spallato se ne correva alla stalla dell'occidente; quest'ancora [fermò] tanti e tanti soli di peccatori, che se ne andavano all'occidente de' peccati. Era un Moisè: che se quello con verga toccante fece scaturire l'acqua, questo toccata la pietra de' spiritati facea scaturire fuori i demonij, che come lepri fuggivano: Dæmon lepra fugiunt.

Mà chi veggo? non hò tempo di mostrarvelo or un angelo, or un profeta, perchè già s'avvicina l'ora di fare il gallospaccio al cielo, onde per non morire tra noi Zoccolanti (o gran torto! quasi non fossimo degni di sì santa compagnia) si fece portare in una stanza del suo confessore, vicino al monastero delle monache. E qual cosa t'indusse a far ciò, o bellissimo Ante omnia? Tu che eri lo stesso zelo della nostra religione: Zelo zelatus sum; e che t'abbiam dato il nome di Maggior Osservante, dove gl'altri l'ànno di Minore per alienare: Si conditionem suam faciat meliorem. E forse facesti meglio cangiar tua condizione con andare là per esser meglio governato che frà noi? Avverti che sono poverelli, nè ti potranno soccorrere conforme al tuo bisogno; ti senti forse svogliato, e la t'invij per ricrearti con un pò di cialde, ciambellette e mustaccioli? Potevi però dirlo al reverendo padre Guardiano, che l'averebbe mandato a pigliare. Nessuna di queste cose lo mosse, o Sig. ri. Volete sapere per chè cosa ciò fece? Perchè egli era stato confessore e vergine, e perciò volle morire in una stanza del confessore di quelle vergini monache, onde con raggione potrai implorare: Regina Confessorum, Regina Virginum, ora pro nobis.

Mà se l'hà colta il nostro Ante omnia! E dove te ne voli lasciando quà giù noi, o padre? A godere, tu mi rispondi: Gaudete in Domino, semper iterum dico gaudete. Tu che eri tanto amator della mortificazione, non sapevi trattenerti un poco più, e non andartene così presto? Non eri quà giù qual candela che illumini tutti noi altri che caminiamo nelle tenebre delli splendori del mondo: Erat lux vera quæ illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum. O come ben dissi candela? Attenti al senzo tropologico e paraglifico, come dicono gl'eloquenti; avete osservato mai una candela quando è nuova, e comincia ad ardere? La tenete sovra un candeliere, o d'un altare, o nell'anticamera de' Principi: Ut luceat omnibus, qui in domo sunt, e doppo che è logorata più della metà, e che ne resta tre o quattro dita, vi resta per meccolo della lanterna; così era la candela del nostro Ante omnia, che doppo d'esser logorato ne' candilieri de' pulpiti e confessionali e di tante altre penitenze. Iddio se l'acchiappò questo meccolo per farlo ardere in cielo: Venit cum lanternis et facibus comprehendere eum.

Mà non sij chi si disperi per la sua partenza, poichè non è vero che c'abbji abbandonato, anzi di là sù siamo per riportare la luce delle sue grazie della celeste candela, come vediamo che chi a lui si raccomanda in cose sode e rilevanti, egli a nessuno le niega: Facienti quantum in se est, Deus non denegat suam gratiam. Parli chi era ridotto a vedere ballare i barrattini, come si suol dire, e in un subito gli fù restituita la sanità: Egri surgunt. Parli chi per la perdita d'un occhio era divenuto fiorentino, e per intercessione del nostro Ante omnia, avendolo ricuperato diviene italiano; parli chi a dispetto de' giudici portava la storta ed altre infermità nelle gambe, acciò quello non andasse prigione, o in galera gli furono cavate. Parli ch'avea perduto qualche cosa, e confessi subito, che gli fù restituita per sua intercessione: Membra resque perditas petunt. Parlino i giovani, che iti a caccia, ànno recuperato i cani smarriti: Accipiunt iuvenes et cani. E giacchè, gloriosissimo Ante omnia pronosticato dal gran profeta Atanasio, fai ritrovare le cose perdute, giacchè qual meccolo t'accendesti nella lanterna del cielo, favorisci ancora a me, che hò perduto il filo del mio discorso, non perchè sia sazio, mà perchè vedo storcere quest'idioti di ritrovarlo, e a costoro che m'ascoltano, fagli copia di tua intercessione: Veni sante Ante omnia, reple tuorum corda Cassanensium, mihique optatam gratia tribue. Io di già l'ò ottenuta la grazia. Voi dunque, che già alla promessa fatta vi ò condotti alle pantanelle della gloria del nostro Ante omnia, fatecci a vostro piacere una trippata di divozione, che bon prò vi faccia. E siccome quando s'abbevera qualche animale per farlo saziare con più gusto gli si ciuffola, così giacchè Animalis homo non percipit ea que Dei sunt, il signor organista gli farà una ciuffolata d'organo nel proseguire la messa cantata, e quando ciascuno si sarà abbeverato, a bon conto faccia quello che fò io, che me ne vado di galoppo alla stalla della mia cella, per invogliarmi nello strame del mio riposo.

FINE.

NOTE:

1. La Sicilia era allora divisa amministrativamente in tre valli; e le gravi difficoltà di locomozione fecero nascere la frase proverbiale, non registrata in nessun vocabolario: Jiri d'un vallu all'àutru, andare da un luogo all'altro lontanissimi tra loro.

2. A pag. 63 si legge: «Varie preci divote solite recitarsi da S. ro N. N. moniale vechhia di molta semplicità nel monastero di S. Giovanni in Regalbuto attualmente vivente in questo anno 1738 ».

3. Gli Avvenimenti coi nn. 5 e 15 si riferiscono all'anno 1722, ma il n. 33 al 1735, il n. 57 al 1736, il n. 18 al 1739, il n. 36 bis al 1741. Solo il n. 29 è del 1747.

4. Vedi i nn. 4, 11, 12, 19, 23, 27, 32.

5. Nomenclatura familiare siculo-italiana, p. 35. Messina, 1846.

6. Cfr. specialmente i numeri 7, 25, 50, 60.

7. Vedi nel mio volume di Spettacoli e Feste popolari siciliane (Palermo, 1881), lo studio Delle Sacre Rappresentazioni in Sicilia, c. III, e D'Ancona, Origini del Teatro in Italia. Studii sulle Sacre Rappresentazioni, seguiti da un'appendice sulle Rappresentazioni nel contado toscano (Firenze, Successori Le Monnier, 1877), vol. II, p. 296 e seg.

8. Giova riportare le parole del nostro anonimo: «Morì un giorno la sua madre: egli ( il sacerdote Isidoro Lo Proto della Terra di Maletto ), mentre il cadavere della defonta era attorniato di donne, che, secondo il costume antico, tenevano il lutto con lamentazioni e con lagrime, situossi in mezzo ad esse con una tovaglia negra sul capo, dando in gridi e gemiti più dell'altre femine. Costume questo che osservollo nell'altre morti di altre sue congionti (p. 28)».

Sulle prefiche siciliane vedi Salomone-Marino, Le Reputatrici in Sicilia; nelle Nuove Effemeridi siciliane, serie II, vol. I, 1874, e D'Angelo e Cipriano, Intorno alle Prefiche e ad alcune costumanze praticate dagli antichi siciliani alla loro morte; nella Nuova Raccolta di opuscoli di autori siciliani, t. VIII.

9. Vedi per Veria il n. 6, per Nicosia i nn. 1, 25, 26, 49, e poi i nn. 34, 50, 59, 61.

10. Cfr. Guastella, Canti popolari del circondario di Modica, p. LXXXVI e seguenti (Modica, 1876) e Di Tommaso Campailla e dei suoi tempi, cap. II, (Ragusa, 1880) i miei Usi natalizi, nuziali e funebri, p. 58 (Palermo, MDCCCLXXIX); L'Amico del popolo di Palermo, an. XVIII, n. 113; il Giornale di Sicilia, anno XVI, n. 228, e più che altro, varie delle Fiabe, Novelle e Racconti pop. sic., serie II (Palermo 1875).

11. Particolarmente i sinodi del 1588, 1621, 1648, 1663, 1681, 1691 in Messina; del 1567, 1584, 1687 in Patti; del 1623 e 1668 in Catania.

12. Quello che mi son permesso è la punteggiatura, difettosissima nell'originale.

13. Nicosia nella provincia di Catania.

14. Pari a L. 5 e cent. 10.

15. «Giovanni, non ti muovere i calzoni (cioè, non toccare i calzoni), altrimenti si guasta la Passione». Evidentemente si vuole imitare il dialetto di Nicosia, il quale è del gruppo gallo-italico, ed il popolo siciliano lo ritiene francese.

16. Naso, comune della provincia di Messina.

17. Questa, di dar del santo al diavolo, è una delle bestemmie più grandi e più comuni in Sicilia.

18. Bronte, nella provincia e diocesi di Catania.

19. Crastu, castrone.

20. Signore, ho fatto la cena ecc.

21. Lacciata, scotta.

22. S. Marco, comune nella prov. di Messina, e nella diocesi di Patti.

23. «S. Filippo d'Argirò», o Aggira, comune nella provincia di Catania, e dal 1816 nella diocesi di Nicosia.

24. Non so che comunello sia questo Veria.

25. Longi, comune della provincia di Messina e nella diocesi di Patti.

26. Minni, va meglio scritto mi nni, me ne.

27. Capri, comune della provincia di Messina e nella diocesi di Patti.

28. Manganello, dim. di mangano, ruota grande con cui si cava la seta dai bozzoli.

29. Aci-Catena, comune nella provincia di Catania, allora nella diocesi di questo nome, adesso in quella di Aci-reale.

30. Maletto, comune della provincia e diocesi di Catania.

31. Cioè, come il vescovo non avesse sospeso a divinis questo prete così ignorante e spropositato.

32. Lo stuzzicavano, lo eccitavano.

33. Cioè, a stuzzicarlo.

34. Tutto il giorno trasportò tegoli.

35. Intendi, all'ufficio divino di prima.

36. Volendo parlare italiano, questo improvvisato oratore sacro mette la d dove è la r come suole spesso il popolo quando vuole italianizzare. Le sue parole dicono: «Vedete, figliuoli, quanto siamo miserabili! Chi dovea dire a costei che nel ( ntra du, tra lo) meglio de' ( di di, de li) suoi capricci dovesse restare, come le bestie, ammazzata nella campagna? Impariamo a spese d'altri ad addrizzare i fatti nostri».

37. Prevenghi a mio compare, avverta mio compare. Confessionario confessionale.

38. Scrivetene la informazione, sig. Notaio: ha detto tre volte mbè.

39. Cioè, deve eseguirsi una sacra rappresentazione.

40. Era il tempo della immunità ecclesiastica, ed il reo, per iscampar la Giustizia, potea bene rifugiarsi in luogo sacro. Ecco perchè alcuni degli attori della sacra opera pensarono di «mettersi in salvo sù la chiesa». Storico è oramai il modo proverbiale: Pigghiari la chiesa di pettu, per significare: mettersi in salvo dopo di aver commesso un delitto, dato fondo alle proprie o altrui sostanze, rimanendo debitore, ecc. ecc.

41. Lu Diavulu, intendi: Colui che dovea rappresentare, nell'opera sacra, il diavolo ricevette il Viatico; colui che dovea far da angelo, prese la fuga; il Cristo si rifugiò nella chiesa.

42. Requiem aeternam dona ei Domine, et lux perpetua luceat ei.

43. Paternò ecc. padre, no. Il confessore poi risponde col proverbio: Cu' è vistu (o Cu' 'un è vistu ) e 'un è pigghiatu, 'un pò ghiri carzaratu (Chi è visto e non è preso, non può andare in carcere).

44. Cipollazza, sicil. cipuddazza, e più comunemente cipuddazzu, è la scilla maritima di Linneo, pianta acre e fortemente irritante.

45. Nelle processioni de' frati Cappuccini portava la Croce un terziario, e non già un chierico con cotta come presso altri Ordini religiosi. Essa era gigantesca (e perciò forse vuota di dentro) e senza pallio od ornamento alcuno.

L'autore qui nota come nella provincia monastica de' Cappuccini di Messina fosse una eccezione, cioè che nelle processioni reggesse la croce un chierico con cotta, e che dalla croce, piccola anzichè no, pendesse un pallio.

46. Chè vi darò una buona ricreazione, un gran divertimento.

47. La voce gnuri, che in Palermo si dà a' cocchieri, in alcuni comuni si usa per signuri, signore; e si prepone a' nomi di parentato: Gnuri patri, gnura matri; e si dà anche agli ecclesiastici come qui: Gnuri patri Furtunatu ecc.

48. Da scriversi: Talè ccà, guarda qui, furbacchiuolo! Mulaccinnottu, alterato da mulacciuni (mulotto), e questo da mulu, e si dice in senso cattivo.

49. Nichiarisi, v. intr., indispettirsi, corrucciarsi.

50. Dio non voglia che ella s'infreddi; io me ne vado.

51. Undi mi m'arricogghiu, dove ritirarmi, ricoverar questa notte. Notisi il mi caratteristico de' dialetti siciliani del Messinese, del quale nel mio Saggio di una Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane ( Fiabe, vol. I, p. CCX) scrissi: «Il mi sta ora per che, congiunzione, ora per semplice ripieno, come nelle frasi: «Voli mi ci trovu un cunfissuri» (Milazzo). (Vuole che gli trovi un confessore). «Voli mi mi pigliu la risposta (Novara). (Vuole che mi pigli la risposta) ecc.»

52. Vattindi ecc., vattene, dunque, con una nave di diavoli! Oh guarda che rompiscatole! Pesta amara, pesta di c..., vale rompimento di scatole, seccatura, molestia insopportabile.

53. Non vi adirate, signorino, chè me ne vado.

54. Affacciatevi, chè c'è qui il sig. D. Paolo!

55. Tu, figliuol mio, sei tu giovane o diavolo? Oh guarda che rompimento di capo! Che diavolo vuoi? Vuoi tu lasciarmi dormire?

56. Ed iu l'aju carriatu ecc., ed io l'ho condotto (qua) da lei per fare un atto di affronto.

57. Signorino, dunque io fraintesi.

58. Bricconcino, se io ci vengo, ti vo' dare la strenna (te lo vo' fare un regalo; ti vo' picchiare di santa ragione).

59. Procuro (fo di tutto) di lasciarvi le ossa per morirvi.

60. A questo mulo, a questo figliuol di p....

61. Cercando Aricchiazzi, (nome di uno che dovea aver le orecchie grandi).

62. Dalla stranezza.

63. Caniglia, crusca.

64. Allora io scossi la cesta di paglia. Gistru e gistra dicono nel Messinese e nel Catanese.

65. Il pollaio.

66. Modo proverbiale notissimo, che vale: Il più costa più del meno.

67. Dallo, presso.

68. Intendi, che hanno acquistato un gran prezzo.

69. Questo ho maneggiato (l'ho sperimentato) sopra di me.

70. Ci perdo il ranno.

71. Buon pro gli faccia! e bisogna far coste da balena (sopportare in pace, ingozzarla).

72. Questa lettera nel ms. non è numerata.

73. Matichesa, per matrichesa, madre chiesa, chiesa principale di un comune.

74. Il frate.

75. Finalmente gli domandò se gusterebbe.

76. Nel Manuale per lo studio della lingua latina.

Probabilmente qui allude ad un manuale scolastico di latinità, notissimo a quei giorni.

77. Mongiuffi o Mungiuffi, comune della prov. di Messina, nel circondario di Taormina.

78. Raccuja nella prov. di Messina, diocesi di Patti.

79. Dalle parole di esso Credo.

80. Raccujto per raccuioto, di Raccuja.

81. S. Agata di Militello, nella prov. di Messina e nella diocesi di Patti.

82. Regalbuto, nella prov. di Catania, oggi diocesi di Nicosia (allora di Catania).

83. Saccufiari, tambussare, zombare.

84. La Pia Unione di S. Matteo in Palermo detta del Miseremini ha per istituto di suffragare le anime del Purgatorio.

85. Caparrunassu, pegg. di caparruni, furfantaccio.

86. Ruminarsi qui usato per dimenarsi, al quale corrisponde il sic. arriminàrisi.

87. Leggi Giojosa, e più sotto gioiosano. Giojosa, comune della prov. di Messina, diocesi di Patti.

88. Insirtàstivu, indovinaste.

89. Adesso, quando quell'animalaccio spetezza. Ddarmalazzu, va scritto: dd'armalazzu.

90. Signore, se ne andò a raccogliersi i fichi.

91. Montagna reale, comune nella prov. di Messina, nella diocesi e nel circondario di Patti.

92. Metaforicamente significa: Volea godere di sentirla spetezzar forte (come una batteria nei fuochi artificiali).

93. Nàutra picca, ancora un poco.

94. La villa Butera in Bagheria, comune a 9 miglia da Palermo, è una delle più cospicue di quella contrada.

95. La Cannita, tenuta e Casa già dei Gesuiti nel territorio tra Ficarazzi e Misilmeri. Oggi è una tenuta privata, e, abolita l'a. 1860 la Compagnia di Gesù in Sicilia, appartiene ai signori Villa, Siciliano ecc., che ne fecero acquisto.

96. Sustriu per sustiniu o sustinni, sostenne.

97. Andai in chiesa, e v'erano molte persone, e lì all'entrata, c'era un truogolo d'acqua ( fonte dell'acqua santa ), e di esso s'insaponavan la fronte ( si segnavan con l'acqua santa ); e io andai, e mi lavai la fronte ( mi segnai ); poi uscirono dalla sagrestia molti preti con le camicette ( cotte ) addosso; poi altri due preti, anch'essi col saltambarco ( tonacella ) rosso, e finalmente veniva il padre Arciprete col saltambarco ( pianeta ) rosso e la pastoia ( manipolo ) al braccio.

Decorazione

VARIANTI E RISCONTRI.

N. 2. Una variante di quest'aneddoto raccolse in Borgetto e pubblicò nell' Archivio per lo studio dalle trad. pop., vol. III, p. 572 n. XXXI, il Salomone-Marino, ( Aneddoti, Proverbi e Motteggi ) col titolo: La finzioni di la Passioni a Murriali. S. Giovanni lancia occhiate e mezze parole alla Maddalena; il Cristo, padre di questa, lo avverte per due volte che la lasci stare: Giuvanni, lassa stari a Maddalena. Alla terza, svincola un piede dalla croce, e giù un gran calcio sul muso a Giovanni, che cade sullo steccato, e si rompe la testa.

La sacra rappresentazione finisce tra schiamazzi e atti scandalosi.

L'aneddoto corre in tutta l'isola e fuori.

N. 7. «Mentre uno pregava il Crocifisso, questo si staccò dal muro e lo colpì in testa. Guarito, il cafone, per prevenire un male futuro, fa tante crocettine di legno e poi le batte ogni giorno. Una volta lo vede un amico e gli chiede: — «Che fai?» — «Educo queste crocettine da piccole, perchè, grandi, non mi facciano male!» G. Amalfi, Maldicenze paesane, nel Giornale Napolitano della Domenica, anno I, n. 39. Napoli, 1882.

In Sicilia corre la seguente storiella, da me raccolta e pubblicata tra le mie Fiabe, Novelle e Racconti popolari sicil., v. III, p. 183:

Lu Paraturi.

«Un paratore di chiesa parando un giorno una chiesa, e volendo passare una fune tra le gambe di un vecchio Crocifisso, cadde e rimase tanto malconcio dal Crocifisso cadutogli addosso, che in capo a pochi mesi ne morì. Nelle ultime ore di sua vita, fu chiamato ad assisterlo a ben morire un prete, che, dopo averlo confessato e comunicato, mise fuori un piccolo Crocifisso esortando il moribondo a raccomandarsi a Lui. Il povero paratore non volle saperne, e quando il prete insistette per sapere il perchè di tanta ripugnanza, il paratore gli raccontò brevemente il fatto della caduta, ed il male che glien'era seguito per ragione del Crocifisso. — «Ma quello — gli osservò il prete — era un Crocifisso grande, mentre questo qui è molto piccolo»: ed il moribondo: « Lu lassassi (lo lasci) crisciri a ssu crucifisseddu, e vidi (ed ella vedrà) si 'un addiventa cchiù piriculusu di chiddu ».

Questa storiella di Palermo è una variante di quest'altra raccolta in Ficarazzi:

Firrazzanu e lu Cunfissuri.

«Firrazzanu nn'avia fattu quantu Cinchedda, e 'na jurnata cadìu malatu, e la pigghiau bona. 'Nca, cci chiamàru lu cunfissuri pi cunfissàrisi e cuminicàrisi. Vinni lu Parrinu, e cci accuminzò a diri: «Firrazzanu figghiu mio, cc'è morti e vita, e lu Signuri veni pi grazia. Pensa quantu cci nni ha' fattu a Nostru Signuri!...» Si vôta bottu 'nta bottu Firrazzanu: — «Sissignura: ma una chi mi nni stà facennu a mia, 'un mi la pozzu scurdari cchiù». Fiabe, Nov. e Racc. pop. sic. v. III, pag. 180.

Una variante palermitana, data per istorica, è in Caminneci, Brevi cenni storici, biografici-artistici delle maschere siciliane in Palermo che vissero dal 1750 in poi, e di quelli (sic) esistenti sin'oggi, p. 27. Palermo, Barravecchia 1884.

N. 9. L'Agatuzza Rao mi ha raccontato un aneddoto simile: «Lu zu Jàpicu Zappa 'na vota scinnìa di lu sò sulàru, e avìa (parrannu cu rispettu) lu càntaru 'n manu, e la curuna ammugghiata a lu pusu pi dirisi lu rusariu. A lu scinniri, si stava sdirrubbannu; e pi scanzari di fari rumpiri lu càntaru, si rumpìu la curuna; vôtasi arrabbiatu: Pi quasanti stu binidittu càntaru, rumpivi la mmaliditta curuna! »

(Questo Giacomo Zappa si chiamava Badalamenti, ed era nativo di Carini, e morì su' sessant'anni prima del 1860).

N. 10-11. Richiamano agli aneddoti di quel Prete di Prizzi (prov. di Palermo), che, celebrando messa e voltandosi per dire Dominus vobiscum, vede che la neve caduta a falde ha fatta bianca tutta la parte visibile della porta spalancata della chiesa, e dice: Minchiuni, comu nivica! (Per bacco, come nevica!). — E un'altra volta, pur celebrando messa, ode che una tale litiga con la madre sua per affari domestici, e voltandosi pel Dominus vobiscum, dice a voce alta: Zitta, bagascia, cà mè matri ragiuni havi! Vedi Salomone-Marino, Aneddoti, Prov. e Motteggi, nn. XXXII e XXXIII. L'Arcipreti di Prizzi: e Lu Cilibranti di Prizzi, nell' Archivio, vol. III, pp. 573-75.

N. 13. Si narra di un giovanetto, che, ammonito dal maestro di far la pausa ad ogni punto o virgola o ad altro segno disgiuntivo, nol faceva mai; però il maestro l'obbligò un giorno a ripetere con la voce, dopo letta la parola, i segni tutti d'interpunzione. Il giovanetto eseguì, ma a certo punto capitatogli un bucolino ( pirtusiddu ) di un tarlo, che avea distrutto la sillaba pro della parola profeti, il giovanetto disse: C'è un pirtusiddu, e feti = V'è un bucolino, e puzza (Trad. di Borgetto).

N. 17. In Palermo è tradizionale la recita del rosario che si faceva ogni sera in casa di una povera famigliuola del Borgo, (in via Gottuso) chiamata Lombardo, donde il titolo di Rusariu di Lummardu. Eccone qua un saggio, che è uno de' «misteri gloriosi»:

«Gesù già risuscitau,

E di morti triunfau,

( Peppi, statti cuetu: 'un scuitari a Vanni...... )

E di ( da ) re d' 'i triunfanti,

( Peppi, a tia dicu! )

Scarzarau li Patri Santi.

O gran Vergini Maria,

Mi rallegru assi cu tia.

( Ciccu, lèvati 'a burritta! )

Patrinnostru, chi stati 'n Celu, sia santificatu lu Vostru nnomu, vegna a nui lu Vostru Regnu ( Rosa, 'i livasti i piatta? — Sissignura, matri ) sia fatta la Vostra vuluntà comu 'n Celu accussì 'n terra. ( E cc' 'i mintisti 'nt' 'a gasena? Sissignura ). Dàtinni oggi ( chiss chiss! 'A gatta!... Càccia ssa gatta, ca si licca 'u mecciu d'a cannila!... ) lu Vostru pani cutiddianu...»

E via di questo passo.

N. 25. «D'un Procidano si riferisce, che, bagnatosi per la forte pioggia un agnellino, lo mise ad asciugare in un forno scottante. Il poverino strepitava e digrignava i denti, e l'infornatore sclamava: — « Cumme ride lu beccu fijuto; nce trova refrigerio! » E l'agnellino morì ridendo.» G. Amalfi, Maldicenze paesane.

Nel Giucca toscano, uno sciocco inforna la mamma o la nonna per farla ridere. Vedi le mie Novelle popolari toscane, n. XXXI. (Firenze. Barbèra 1885).

N. 29. Ecco in che forma corre comunemente in Sicilia la lettera:

«Carissimo Padre,

Vi dovea scrivere morto, e vi scrivo vivo. In questo paese vi è una grande epidemia, che il Signore (il Viatico) va per le strade strade come un diavolo. Vi mando un poco di salsiccia fatta dalle mie mani di porco. Sono andato al mulino, ed ho trovato la giumenta orba di un occhio; e così spero sentire di Vossignoria.

Vostro figlio».

La soprascritta sarebbe stata questa:

Alle riverite mani di mio Padre

Palermo.

Giunta questa lettera all'ufficio di destinazione, gl'impiegati postali discutevano chi potesse essere questo padre; ma uno di essi più pratico degli altri osservò che se il padre era dello stampo del figlio, la lettera la troverebbe di sicuro.

Lupus in fabula. Viene un tale e domanda: «Signore, ci son lettere di mio figlio?» — «Ecco qua» dice il postiere; e gli consegna la lettera in discussione; la quale andava proprio a lui.

Nel libretto col titolo: Raccolta di aneddoti, barzellette, doppi sensi, frottole e facezie; aggiuntovi il pranzo immaginario di 500 cognomi (Firenze, Tip. di A. Salani [1870]) a p. 31 si legge:

«Un giovane di un paese di provincia fra le altre cose che chiedeva per lettera a suo padre, vi fu questa: Mi manderete pure un poco di salciccia fatta con le vostre mani di porco ».

N. 41. Ecco il principio di un Magnificat da me udito molte volte dalla bocca di una donnicciuola nella Chiesa di S. Francesco di Paola, in Palermo:

Magnifica arma mea Sdomino.

E va satannu lu spiritu smeu,

Di smeu salutari Sdeo.

Cu' fici la ficu magna incrèpiti nzesti

E lu santu nnomu di Jesu.

N. 43. Svariatissime e tutte bizzarre sono le mistificazioni popolari delle Litanie Lauretane. Comica di molto è quella chiaramontana del Vestru, Scene del pop. sicil. (Ragusa, MDCCCLXXXII) del Guastella, p. 53-55.

Non meno comica è quella di Cianciana favoritami dal Comm. Gaetano Di Giovanni e raccolta dalla bocca di Angela Maria Perzia vedova Bosciglio, intesa la Scocchilla, ed anche Centumilia e centu, perchè suol far da capo nella recita del Rosario del SS. Sagramento, ov'è il ritornello;

E centu milia e centu

E lodamu 'u Sagramentu:

Questa litania comincia così:

Crijeleisò. Cristeleisò. Chistu e saudi nostru (bis). — Matri der celu e deusu. Matri del mundu e deusu. Santa Tirnitati unu e deusu. Santa Maria (ora pro nobbi). Santa Deju gènetri. Santa Virco Virginu ecc.

A proposito del Matri der celu e deusu (Pater de Coelis Deus), il Di Giovanni mi fa notare l'ostinazione della Scocchilla nel dire Matri invece di Patri = Pater, malgrado le ripetute correzioni dell'Arciprete di Cianciana; « Pirchì (oppone la Scocchilla), chi c'entra stu patri e figli nni la litania di Maria SS.? »

E dire che questa donna, coi suoi 75 anni, fa da maestra nell'insegnamento della dottrina cristiana a ragazzi ed alle spose!

Un'altra litania manoscritta è un'amenità per se stessa, e la devo al Di Giovanni medesimo, che l'ebbe dal sac. Pietro Capraro Beneficiale e Cerimoniere del Capitolo della Cattedrale di Girgenti. Pare una spiritosa invenzione: eppure fu raccolta in Prizzi da una vecchierella, che contava per pia e santa donna.

Sul latino in bocca al popolo siciliano, vedi i miei Canti popolari sicil., v. II, p. 363.

N. 47. In Palermo il motteggio s'attribuisce a un P. Arceri, proverbiale per le sue prediche al popolo, e per la sua attività nel cercar di correggere i vizi e i difetti de' popolani. Ecco qua, con l'aneddoto, il tratto della sua predica, nel quale è il motteggio:

«Una volta P. Arceri andò a predicare in una chiesetta di campagna, e portò con sè un corbello di melarance bell'e sanzeri (= sane, intatte, senza nessun guasto o macchia), ma con una melarancia nel mezzo, guasta e marcita; e cominciò così la sua predica alle donne:

«Picciotti mei, li viditi st'aranci? Comu vi pàrinu? Su' tutti belli sanzèri, senza nudda màcula. Arriminàtili, picciotti, e viditi chi cc'è 'nta lu menzu. Cc'è n'aranciu muffutu. Lu sapiti!? st'aranciu muffutu fa ammuffiri tutti l'àutri, ca sunnu belli sanzeri. Accussì siti vuàtri: una tinta fa addivintari tinti all'àutri, pirchì 'na pècura virminusa 'nfetta 'na jinía.

«Ma vuàtri cci pinsati all'arma? cci pinsati a lu Signuri? cci pinsati a lu Paraddisu?

«Lu vostru pinseri è a li cosi di stu munnu.

«E a chi pinsati? La za Cicca pensa a li gaddini ca su' senza lu gaddu; la za Peppa pensa a lu sceccu, ch'avi a manciari; la za Vanna pensa a lu porcu, ca cci ( al quale ) havi a 'mpastari; la za Sara pensa a lu mulu.... Ora livativillu di 'n testa, figghi mei; e canciati vita; cà ( perchè ) lu primu gaddu è Ddiu, lu primu sceccu è Ddiu, lu primu porcu è Ddiu, lu primu mulu è Ddiu!...

«E accussì vi nni jiti drittu tiratu 'n Paraddisu.

«Ah! lu Paraddisu! la gran cosa ch'è lu Paraddisu! La sapiti la minestra di risu cu li porri? Vi piaci ah! Lu viju, marioli, ca vi piaci!... Ora accussì è lu Santu Paraddisu: è comu lu risu cu li porri!....»

Ogni comune la racconta a modo suo mettendo in bocca a un prete d'un comune vicino la predica. Salomone-Marino, Aneddoti, Prov. e Motteggi, n. XXXIV: La Predica a lu Maciddaru ( Archivio, vol. III, p. 576) ne reca una variante di Borgetto, dove il predicatore sarebbe stato di Camporeale ( Maciddaru ).

N. 50. Una variante siciliana di Salaparuta col titolo: Lu partannisi è nelle mie Fiabe, n. CL, ove si vuol mettere in burla la grossolanità de' contadini di Partanna nella provincia di Trapani.

Un'altra di Partinico, Lu zu' Giacumazzu, la pubblicò tra' suoi Aneddoti, Prov. e Motteggi il Salomone-Marino nell' Archivio. vol. II, p. 550, n. III; quella variante si avvicina molto a questa del Mirchio di Patti, anzi è quasi la medesima cosa. Altra variante toscana è nelle mie Novelle pop. toscane, n. XXXI: Giucca.

Nelle Cene di A. Franc. Grazzini detto Il Lasca, c. II, n. II, «Mariotto, tessitore camaldolese, detto Falananna, avendo grandissima voglia di morire, è servito dalla moglie e dal Berna amante di lei, e credendosi veramente esser morto, ne va alla fossa: intanto sentendosi dire villania, si rizza: e quelli che lo portano, impauriti, lasciano andar la bara in terra; onde egli, fuggendosi, per nuovo e strano accidente, casca in Arno e arde; e la moglie piglia il Berna per marito».

Di questa interessante piacevolezza vedi le varianti e i riscontri di R. Köhler nell' Orient und Occident, I, 434 e ne' Göttingische gel. Anzeigen, an. 1868. p. 1368.

N. 51. In una serie di avventure attribuite a Giucca in Toscana, ve n'è una inedita, che si racconta così:

«Senti, Giucca: va' a far da legna, che un c'è da accendere il foco». Questo Giucca piglia la su' miccina e va' far le legna, e sale su una querce. Va per tagliare il ramo, e stava dalla parte che doveva cascare in terra. Passa un frate: — «Oh Giucca!» — «Oh!» — «Tu caschi, sai! se tu fai a codesta maniera a tagliare le legna.» — «Mi dica, padrino, quando morirò io?» — «Alle tre corregge d'il tu' asino». Giucca finì di tagliare il ramo; casca il ramo e lui gli va dreto. Giucca, quando fu in terra: — «Oh! me l'aveva detto quel frate che cascava; se mi dovessi rifare, 'un vorrei cascare più; ma ancora non muoio sino che il mi' asino 'un ha fatto tre corregge».

La storiella continua, su per giù come la nostra.

N. 59. La tradizione è viva, ed ecco come corre in Vittoria e Comiso, secondo una versione raccoltami in italiano dal Guastella:

Ciaramuntanu cciù!...

«Era tempo di vendemmia, e c'era un chiaro di luna che rallegrava. Un villano di Chiaramonte, ma di quelli che hanno le orecchie lunghe, se ne tornava al paese, a cavalcioni dell'asinello, in mezzo a due corbe di uva fresca, spiccata allora allora dalla sua vigna.

«Vito (in Chiaramonte si chiamano tutti Vito ) era allegro e cantava, ed ecco che un gufo accovacciato sopra un cipresso cominciò a cantare in modo sì pietoso che parea gli si spiccasse l'anima. Il povero Vito avea, egli è vero, le orecchie lunghe, ma avea un cuore di papa: e si rattristò del lamento del gufo, e pensò che piangeva forse per fame. Sicchè, vinto dalla tenerezza, gli gridò: «Gufo mio, vuoi un grappolo di uva?» Il Gufo seguitò a cantare: Cciù. — «Come! Non ti basta un grappolo? Ne vuoi forse due?» — « Cciù! » — «Oh che gran fame che hai! Ne vuoi un paniero?» — Cciù! — «Ma, santa morte! tu sei incontentabile; ne vorresti forse una corba?» — Cciù! — «Va al diavolo! io ho moglie e figliuole, e non posso darla tutta a te».

Notisi che nella parlata di Chiaramonte più, in siciliano cchiù, si pronunzia cciù.

Con qualche differenza corre in Borgetto, secondo una versione del Salomone-Marino, Aneddoti ecc. nell' Archivio, v. III, n. XXIX: Lu Murrialisi e lu Chiò.

N. 60. «Molti anni fa, a Panza, si ruppe la fune della campana, e lo scaccino pensò di metterci un sarmento ( vetecaglia ). Un asino affamato, passando di notte, al chiaro della luna, andò a rosicchiarlo, e fe' sonar la campana. A questo tin! ton! tutti si svegliarono; ed, immaginando incendi, ladri e simili diavolerie, accorsero coi coltelli, coi bastoni, e coi fucili spianati; ma mentre si precipitano addosso alla sventurata vittima, s'ode una voce: «Lasciate stare: si tratta del ciuco di frà Tommaso!» G. Amalfi, Maldicenze paesane.

Nella novella LII del Novellino (secondo il testo Gualteruzzi), la quale esce col titolo: D'una campana che si ordinò al tempo del Ginorea vni, «il re Giovanni di Atri ordina che sia messa una campana, la quale potesse esser suonata da chi gli chiedesse ragione di torti ricevuti; la fune dopo qualche tempo si logora, ed è sostituita da una vitalba. Un vecchio cavallo è cacciato dall'ingrato padrone, che non vuol più mantenerlo. Avendo fame e giungendo alla campana, mangia la vitalba e la campana suona. Si aduna il consiglio del re, e pensando che il vecchio destriero chieda ragione contro l'avaro signore, si condanna costui a pascerlo, in rimerito de' servigi resigli da giovane».

Il D'Ancona, che fa questo riassunto della novella nel suo lavoro: Del Novellino e delle sue fonti, accenna alle lievissime varianti ed a' maggiori svolgimenti che questa stessa novella ha in altri testi, pur notando le analogie di essa con racconti letterarî e popolari fuori d'Italia. Vedi i suoi Studj di Critica e Storia letteraria, p. 320. Bologna, 1880.

N. 61. Anche questa piacevolezza è comunissima ai giorni nostri, e mi piace di riferirla, meno spiritosa certamente ma legata ad altre capestrerie, quale me l'ha favorita il sig. G. Crimi Lo Giudice, che la raccolse in Naso sua patria:

«In Ficarra, paese a poche miglia da Naso, si doveva celebrare la festa dell'Annunziata, che è la protettrice; e il procuratore di quella festa, non avendo potuto trovar cera nei paesi vicini, era andato per comprarla in Palermo. Fatta la compra, se ne ritornava sopra una barca a vela; ma, prima di toccar la riva di Brolo, un'ondata di mare, gli bagnò intieramente la cera, ed egli, ritenendo che le candele bagnate non fossero più buone ad illuminare la Chiesa, era così dolente, che per poco non gli scappavan le lagrime. Un Nasitano, che si trovava sulla stessa barca, forse per ischerzo, gli disse, che non valeva la pena d'impensierirsi tanto per cose da nulla, dappoiche il medesimo fatto era accaduto a' Nasitani più volte, ed essi ci avevano rimediato mettendo le candele al forno.

«Giunto in Ficarra, quel povero diavolo fece come gli aveva suggerito il Nasitano, ma le candele nel forno squagliarono, e la festa non potè più celebrarsi.

«Da ciò, dicono i vecchi, nacque il sopranome di 'Nfurnacannili dato ai Ficarresi, i quali, com'è naturale, se la legarono al dito.

«Difatti, passato un po' di tempo, un Ficarrese di molto spirito, trovandosi nella Chiesa Maggiore di Naso, mentre il Quaresimalista faceva la predica del Giudizio e gridava a squarciagola: Nasu, Nasu, unni ti ficcu, Nasu? rispose ad alta voce: 'Ntra stu st.... di c....! e scappò di corsa per la più breve, senza che i Nasitani potessero raggiungerlo. La stessa notte però, alcuni di essi, frementi di rabbia, andarono in Ficarra, e non potendo far altro, chiusero con altrettanti pezzi di legno, detti cavigghiuna, tutte le porte che avevano i cancheri. Si racconta che un certo Masotto, il quale aveva una figlia che abitava una casa con due porte, tutte due chiuse da' Nasitani a quel modo, la mattina andava ripetendo: A mè figghia Anciurina 'a 'ncavigghiunaru davanti e darreri!

«Tant'è che i Ficarresi vengono motteggiati ancora co' nomi di 'Nfurnacannili e Cavigghiunara ».

Vedi in proposito i miei Proverbi siciliani, vol. III. p. 145.

N. 62. Ed anche questa spiritosa predica ho udita più volte a pezzi e a bocconi in Sicilia, specialmente da persone di chiesa.

Decorazione