EDIZIONE NAZIONALE DELLE OPERE DI
GIUSEPPE PITRÈ
OPERE COMPLETE

DI

GIUSEPPE PITRÈ

XXVII.

SCRITTI VARI

EDITI ED INEDITI

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GIUSEPPE PITRÈ
LA VITA

IN PALERMO

CENTO E PIÙ ANNI FA
VOLUME PRIMO
G. BARBÈRA EDITORE

FIRENZE

———— Proprietà letteraria riservata ————

COMITATO
Giovanni Gentile
,
presidente
.

Maria D'Alia Pitrè.

Giuseppe Cocchiara.

Raffaele Corso.

Nino Sammartano.

Paolo Toschi.

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OPERE COMPLETE

BIBLIOTECA DELLE TRADIZIONI POPOLARI SICILIANE

I-II. Canti popolari siciliani. III. Studi di poesia popolare. IV-VII. Fiabe, Novelle e Racconti popolari. VIII-XI. Proverbi siciliani. XII. Spettacoli e Feste popolari siciliane. XIII. Giuochi fanciulleschi siciliani. XIV-XVII. Usi e Costumi, Credenze e Pregiudizi del Popolo siciliano. XVIII. Fiabe e Leggende popolari siciliane. XIX. Medicina popolare siciliana. XX. Indovinelli, Dubbi, Domande, Scioglilingua del popolo siciliano. XXI. Feste patronali in Sicilia. XXII. Studi di Leggende popolari in Sicilia. XXIII Proverbi, Motti e Scongiuri del popolo siciliano. XXIV. Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende, Usi del popolo siciliano. XXV. La Famiglia, la Casa, la Vita del popolo siciliano.

SCRITTI VARI EDITI ED INEDITI

XXVI. Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere di esso (inedito). XXVII-XXIX. La vita in Palermo cento e più anni fa (il vol. III inedito). XXX. Novelle popolari toscane (edite; ma con molte aggiunte). XXXI-XXXII. Bibliografia delle Tradizioni popolari d'Italia (il vol. II inedito).

Corsi di Demopsicologia, cinque volumi (inediti)
:

XXXIII. I. La Demopsicologia e la sua storia. XXXIV. 2. I Proverbi. XXXV. 3. Poesia popolare italiana. XXXVI. 4. Poesia popolare straniera. XXXVII. 5. Novellistica e varie. XXXVIII. La Rondinella nelle Tradizioni popolari (inedito). XXXIX-XL. Viaggiatori stranieri in Sicilia (inediti). XLI-XLVIII. Articoli di Riviste e di Giornali; Recensioni, Conferenze, Discorsi, Prefazioni, ecc. (editi e inediti). XLIX-L. Carteggio con illustri contemporanei (inedito).

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INDICE

  • Prefazione
  • I. Stato politico ed economico della Sicilia nella seconda metà del Settecento.
  • II. Su e giù per Palermo.
  • III. Pulizia e condizioni igieniche della città. Bandi di Palermo.
  • IV. Senato e Senatori.
  • V. Condizioni economiche del Senato.
  • VI. Le Maestranze.
  • VII. Cartelli e Pasquinate.
  • VIII. I Giacobini e la poesia politica.
  • IX. Come si viaggiava per mare. I Corsari e la cattura del Principe di Paternò.
  • X. Come si viaggiava per terra.
  • XI. Locande ed Osterie, Correrìa o Posta.
  • XII. Portantine e carrozze.
  • XIII. Abituale assenza dei proprietarî dalle loro terre. Triste condizione dei campagnuoli.
  • XIV. Nobiltà e gara di fasto.
  • XV. Passione pel giuoco.
  • XVI. Circoli di conversazione. Romanzi più in uso.
  • XVII. Ospitalità e gentilezza. Balli e duelli.
  • XVIII. Dame belle, dame buone, dame virtuose.
  • XIX. Libertà di costume. Cicisbeismo.
  • XX. La moda delle donne. Il parrucchiere.
  • XXI. La moda degli uomini.
  • XXII. Pranzi di ricchi e mangiare di poveri.
  • XXIII. Lutti di Corte, di nobili, di civili, di plebei. Scene macabre.
  • XXIV. Partecipazioni.
  • XXV. Passeggiate della Marina e della Villa Giulia.
  • XXVI. Divertimenti a Porta Nuova e a Zè Sciaveria. Villeggiatura ai Colli e a Bagheria.

AL SENATORE

Prof.
PASQUALE VILLARI

CON ANIMO RIVERENTE E AFFETTUOSO

L'AUTORE

[pg!xi]

PREFAZIONE

Sorprendere e fissare, prima che cominciasse a trasformarsi, la vita pubblica e privata delle varie classi sociali nell'antica Capitale dell'Isola, nell'ultimo ventennio del Settecento: ecco lo scopo del presente lavoro.

Quella vita, così diversa dall'attuale, è in certe sue esteriorità, per chi non se ne sia occupato di proposito, poco o punto nota: ed è tale, non tanto pel comune preconcetto che la storia contemporanea sia familiare a tutti, quanto perchè da molti si confonde la storia scritta dei principali e più clamorosi avvenimenti con la vita, da scriversi, del popolo in mezzo al quale gli avvenimenti si sono svolti.

I costumi, le consuetudini e le istituzioni nel periodo illustrato in questo libro sono d'una importanza che ha pochi riscontri nella storia generale di Sicilia. Perchè, se, per esempio, il quattrocento ha grande somiglianza o analogia col cinquecento e questo col seicento, in quanto inalterato rimaneva sempre l'ordinamento politico e civile, e con esso le condizioni fisiche, morali e religiose, il settecento invece non ha nulla che lo ravvicini all'ottocento. I due secoli divide un abisso, in fondo al quale è facile scoprire che non cento ma quattro, [pg!xii] cinquecent'anni ha corsi la Sicilia dagli ultimi decennii di quel secolo all'ultimo del seguente. Ciò che il 1789 ed il 1793 lasciarono intatto tra noi, solo per lenta, impercettibile evoluzione di tempi e di uomini si venne modificando, e potè del tutto mutarsi pei rivolgimenti politici, che principiarono dalla sapiente rinunzia (imposta, peraltro, dall'incalzare degli eventi) dei Baroni ai diritti feudali nel 1812; e finirono ai moti siciliani del 1860; onde più tardi le nuove idee e riforme sociali.

Come e per quali espedienti abbia io potuto dettare questo Palermo, parrà solo in parte dalle citazioni a piè di pagina. Dico «in parte», perchè esse son le poche indispensabili a confortare le notizie da me accennate. Se tutto quel che dico avessi dovuto documentare, le note avrebbero affogato il testo, ed io avrei scritto non già un libro pel gran pubblico, che cerca fatti in forma spigliata, ma un'opera per più ristretto cerchio di persone.

Atti, Provviste, Bandi del Senato Palermitano nell'Archivio del Comune, documenti svariati nell'Archivio di Stato, registri ed elenchi nella Congregazione dei Bianchi ed in alcuni Reclusori, carte e manoscritti d'ogni genere, e soprattutto diari non mai fin qui posti in luce (per non citare se non le cose inedite) del Torremuzza, del D'Angelo, del Camastra, e dell'inesauribile Villabianca1 son le fonti alle quali ho largamente attinto. [pg!xiii] Da questo, le moltissime vicende, ed i fatti, per certi argomenti, nuovi, che io son riuscito a mettere insieme. Ma il soffio della vita del momento, non avvertito, perchè ordinario ed abituale, dalla vigile Polizia, dal provvido Senato, dal severo Governo, dai diligenti diaristi, io non ho potuto altrimenti raccogliere che tenendo dietro ai forestieri venuti tra noi. Le loro impressioni nessuno fin qui mise a profitto nello studio dei costumi e delle condizioni della civiltà nel secolo XVIII, nonostante che un illustre storico lo avesse autorevolmente raccomandato2.

I trenta e più viaggi dell'ultimo terzo del settecento, distribuiti in meglio che cinquanta volumi pubblicati all'estero e non sempre reperibili, contengono preziose e quasi tutte sicure notizie di costumanze, pratiche, scene, qua e là vedute e udite da uomini colti, i quali da curiosità mossi, con gravi disagi, ingenti spese, pericoli immensi erano venuti a visitare un paese tagliato fuori del consorzio d'Europa, e rappresentato come l'ultima Tule. Qui essi non compievano inchieste in una sola settimana, come oggi purtroppo usa, correndo, volando con la vaporiera da Messina a Taormina, a Catania, a Siracusa, a Palermo, e viceversa, facendo escursioni a Girgenti, a Segesta, a Selinunte, ed [pg!xiv] interrogando i primi sfaccendati che s'incontrino nella piazza, o i primi malcontenti d'una amministrazione comunale del giorno. Essi invece si fermavano mesi e mesi girando, visitando attentamente ogni cosa, in portantina, su muli, a piedi, e patendo sovente il digiuno, il freddo, lo scirocco e gli inenarrabili supplizi delle osterie e dei fondachi.

E però non fu solo Goethe colui che, è stato detto, scoperse la Sicilia ai Tedeschi. Le sue lettere del 1787 non videro la luce prima del 18173; e le dolci carezze tra le quali egli durante la primavera di quell'anno si cullò nella città mollemente adagiantesi ai piedi del Pellegrino, rimasero lungamente ignote. Prima e dopo di lui, durante cinque, sei lustri, percorsero, descrissero la Sicilia — Palermo soprattutto — i suoi connazionali Riedesel, Salis Marschlins, Stolberg, Reith, Hager4, e quel Bartels, che, tanto ingiustamente da tutti dimenticato, ha il maggior diritto alla considerazione di ogni buon siciliano. La percorsero il danese Münter ed il viennese de Mayer e, prima di Swinburne, l'inglese Brydone, che del suo soggiorno tra noi offriva il primo modello di viaggio nell'isola con intendimenti moderni. Il suo Tour ebbe una dozzina di edizioni, versioni e riduzioni5, nonostante il controllo che volle farne il Conte de Borch.

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Nè ciò è bastevole: oltre le cose non originalmente descritte da Audot e da de la Porte, i francesi de la Platière, Houel, de Saint-Non, de Non, Derveil, Sonnini, d'Espinchal, e gl'italiani Onorato Caetani, E. Q. Visconti e Rezzonico, assai cose descrissero delle molte che videro, e videro quelle che i siciliani non guardavano, come vecchie e non degnate di attenzione.

A tutti questi viaggi io ho avuto la fortuna e la pazienza di far capo con insperato frutto; e le affermazioni di essi ho potuto controllare, corroborare e compiere con testimonianze d'altro genere: quelle dei poeti contemporanei.

Giovanni Meli, cui vieti pregiudizi d'oltremonte non ha fatto mai spassionatamente guardare in uno dei principali suoi aspetti, è il primo gran pittore morale dell'età sua. Nessuno più coraggiosamente, più argutamente di lui rilevò il guasto dell'ambiente e della società d'allora; nessuno fu più realista del Meli, cui, solo nel 1874, nella sua patria nativa, presso alla cattedra nella quale il simpatico poeta insegnò, un improvvisato professore d'Università dovea con audacia senza limite battezzare «arcade di buona fede!».

Se io sia riuscito a ricostruire nelle multiformi sue manifestazioni la vita di Palermo nei giorni del suo vero o fittizio splendore, quando questa vita per ineluttabile necessità di eventi si disponeva a cangiamenti radicali, giudicheranno coloro che vorranno seguirmi nella rassegna, forse apparentemente severa, ma sostanzialmente [pg!xvi] spregiudicata, di ciò che facevano, di ciò che pensavano, di ciò che volevano i nostri bisnonni.

Chi ha visto con quanto ardore e con quanta coscienza io mi sia preparato per conoscere appieno ed intimamente questo passato, mi terrà conto, se non altro, del buon volere e del mio culto per le memorie storiche della Sicilia.

G. Pitrè.

Palermo, 10 Febbraio 1904.

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Capitolo I.

STATO POLITICO ED ECONOMICO DELLA SICILIA NELLA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO.

Chiamato al trono di Spagna Carlo III, la doppia corona di Napoli e di Sicilia passava al minorenne figliuolo di lui, Ferdinando6. Le riforme iniziate dal sapientissimo Principe venivano proseguite e fecondate dall'accorto Ministro Tanucci, educato ai principî di Montesquieu e di Hume: e l'Isola avviavasi ad altre riforme economiche, civili, sociali per quanto lo consentissero i tempi, a grandi novità poco disposti e pieghevoli.

La lieve scossa recata alla istruzione pubblica dalla espulsione dei Gesuiti (1767) veniva riparata dal savio provvedimento che assegnava il cospicuo patrimonio della Compagnia alla beneficenza, agli studî ed alle scuole che dappertutto si aprivano. Ustica e Pantelleria, approdo temuto di barbareschi, si venivano colonizzando. Le imposte, già lasciate alla capricciosa violenza di avidi appaltatori, passavano al Governo, che men dura dovea renderne la riscossione. Si abbandonava il monopolio dei grani e del tabacco; ed intanto che miglioravasi [pg!2] il Monte di Pietà, si volgeva l'animo alla censuazione dei beni comunali; e, per quelli della chiesa richiamavasi la legge dell' ammortizzazione di Federico II lo Svevo: richiamo seguìto, a breve distanza, dal divieto ai chierici di farsi agenti nei tribunali.

L'abolizione del S. Uffizio riempiva di gioia anche gli stessi ecclesiastici.

L'opera di rinnovamento progrediva rimediando a vecchie ingiustizie.

Dignità e titoli, sotto il dominio spagnuolo smisuratamente cresciuti nel ceto nobile, si trovavan di fronte al ceto medio, che guadagnava in diritti civili assurgendo a dignità non prima raggiunta. Molte disuguaglianze e prerogative alla medio evo cadevano in oblio; e la libertà e la indipendenza personale gradatamente si affermavano. Ai vassalli, numeri senza personalità, senza ordine, senza grado, concedevasi facoltà di lavorare fuori del territorio del signore: concessione addirittura rivoluzionaria in un tempo in cui nessuno di essi potea, senza permissione del Barone, trasportare da un luogo all'altro il proprio prodotto, nessuno allontanarsi dalla sua residenza7. Toglievasi per tal modo vigore a certi diritti angarici e contrattazioni di servigio, traducentisi, quelli in monopolî commerciali, queste in servitù personale. In altri termini, se il feudalesimo vigeva, gli abusi ne erano in gran parte aboliti, e la capacità giuridica delle persone rimaneva appena limitata dai vincoli che tuttavia inceppavano gli agricoltori [pg!3] nelle terre feudali, e che in ogni occasione venivan prescritti o almeno mitigati8.

Intanto che promoveasi la costruzione di legni nell'Arsenale di Palermo9, si deliberava quella di otto grandi strade rotabili per oltre 700 chilometri (1778), ma il voto dovea attender dell'altro il suo compimento.

Un intrigo di Corte spingeva nuovo Vicerè in Sicilia Domenico Caracciolo10, il quale, informato alla politica anti-feudale ed anti-ecclesiastica del Tanucci, usanze e pratiche arditamente, benchè non sempre ponderatamente, affrontava; pur qualche volta costretto a ritornare sopra i suoi decreti o per revocarli o per ammollirne la durezza.

Tra energici richiami forzatamente riducevasi dal 5 al 4% la rendita che lo Stato pagava per soggiogazioni; e se per alcun grave interesse di casta i tre bracci del Parlamento, quasi sempre uniti, erano in alcune quistioni in disaccordo tra loro (come quando il baronale chiedeva una legge contro il lusso e l'ecclesiastico un regolare catasto che comprendesse i beni ecclesiastici e feudali), l'accordo regnava sempre completo in tutto ciò che fosse bene del paese, e che servisse ad infrenare l'autorità regia o viceregia prevalente alla parlamentare. [pg!4] Laonde unanimi si opposero al Caracciolo medesimo, che il Parlamento volea chiamato congresso, e contributi i donativi (1782).

Sotto le terribili impressioni del tremuoto del 1783, Messina, ridotta a desolazione, otteneva il porto franco: provvedimento non bastevole a distruggere, ma efficace ad attenuare le conseguenze dell'immane disastro.

Mentre da un lato si proponeva il censimento dei beni feudali, dall'altro si restringeva — sgradito colpo alla feudalità — il mero e misto impero, che ogni dì si stremava di forze.

Dello scoppio dell'89 in Francia, la Sicilia, per ragioni feudali, civili, ecclesiastiche diversa da quella, non si risentì gran fatto; perchè se in Francia il terzo stato abbatteva nobiltà e clero, in Sicilia, clero e nobiltà sostenevano i diritti del Parlamento, qualunque essi fossero e per quanto logorati dalle leggi e dal tempo. L'aristocrazia e gli ecclesiastici aveano in sè tanto da esser giudicati liberali; la potestà regia, per assoluta che fosse, rompeva contro tutto un ordinamento, ch'era guarentigia dei diritti della nazione siciliana11.

Quale codest'ordinamento, non è chi non sappia. Per antico istituto, non prima che la proponesse il Parlamento poteva il Re decretare una legge; nè decretata, derogarvi da sè; nè, se penale e non proposta dal Parlamento, farla valida per più d'un anno12. Il Re stesso, soggetto alle leggi dello Stato, non avea facoltà di far cosa che tornasse in pregiudizio delle [pg!5] Costituzioni, essendo lecito a' custodi di esse fin lo impedire la esecuzione dei sovrani decreti13. Le basi della monarchia riguardavano come incompatibile presso i privati l'esercizio del mero e misto impero: e le concessioni che si vantavano, erano precarie ad arbitrio del Re14. Ovvio pertanto il supporre come nessuna gravezza potesse dal supremo Capo dello Stato imporsi senza il suffragio del Parlamento, salvo che non intervenissero certi casi stabiliti da Giacomo d'Aragona; e medesimamente come nessun mutuo coattivo di danaro e di generi, non istimato necessario da quello, potesse dal monarca decretarsi15.

Alle cariche dello Stato volevansi preferiti gli uomini virtuosi. Il Parlamento, sola autorità di punire i delitti dei magistrati e di altri pubblici funzionarî16. Condizione poi notevolissima: il Governo non avea un esercito; la forza era nelle mani del popolo.

Quale diversità di ordinamenti da quelli di Napoli! E frattanto quale disparità di trattamento per opera del Governo centrale! [pg!6]

Un testimonio non sospetto di sicilianesimo, dopo di aver visitata nel 1778 l'Isola, scriveva:

«Questa bella parte dei dominî del Re di Napoli, dove fiorisce un milione di uomini; alla quale la natura prodiga i suoi tesori; che in altri tempi nutrì i Romani, e che ad Atene, a Roma, all'universo intero diede d'ogni ragione capolavori d'arte, è da secoli abbandonata ai Vicerè ed all'Etna! I Siciliani son ritenuti a Napoli come stranieri; alla Corte, come nemici. Si crede che vessarli sia governarli, e che per averli sudditi fedeli se ne debba fare schiavi sommessi. La Sicilia è dal Ministero riguardata come un'escrescenza incomoda; la Corte non vede se non Napoli»17.

Nel 1795 scendevano i Francesi in Italia: e nobili ed ecclesiastici profondevano denaro ed armi per difendere il paese. Solo pochi ardimentosi cospiravano a favore dei Repubblicani d'oltralpe, impromettendosi per siffatto espediente il bene dell'Isola; ma il nobile tentativo aveva il suo epilogo nel taglione di F. P. Di Blasi e nel capestro dei suoi compagni.

Stremato per gli ultimi donativi ordinarî e straordinarî lo Erario, un decreto del 1798 imponeva la consegna degli ori e degli argenti delle chiese e dei privati, il compenso dei quali assicurava con mendaci promesse. Larghe e tutt'altro che cordiali le consegne, ma alla bisogna insufficienti: quando il 26 Dicembre, inattesa, sbigottita, chiedente asilo, giungeva la Corte.

Da quarant'anni Ferdinando III regnava in Sicilia, e in quarant'anni non s'era mai sognato di mettervi [pg!7] piede. Nel 1792 il milanese Gorani avea detto: «I Siciliani si dolgono che il loro Re non li abbia mai visitati, che non siasi mai messo in grado di conoscere i loro mali, che li lasci vegetare sopra un suolo pel quale soltanto la natura ha fatto tutto»18. Quattr'anni dopo le cose erano immutate. «I Siciliani, osservava Hager, non vedono il loro Re, che pur vorrebbero vedere, e pel cui figliuolo [Francesco I] è stato preparato il palazzo reale di Palermo. Ferdinando viaggia per Genova, per Vienna, per Francoforte; ma non viene mai in Sicilia. Egli rimanda sempre questa venuta, e così è passato tanto tempo»19. Quando venne, un'eco sgradevole di Napoli rimpiangeva aver egli barattata la vecchia residenza di terraferma con la nuova dell'Isola!20.

No, non si poteva essere più ingiusti verso la Sicilia generosa!

Non ostante il lungo, semi-secolare rinnovamento che abbiamo fugacemente seguito, preludio della vita del secolo XIX, l'Isola rimaneva in tale depressione morale e materiale che a noi tardi nepoti parrà quasi incredibile. Palermo, la stessa Palermo, partecipava a quella condizione di cose, triste e dolorosa ad un tempo, nella quale di fronte alla sprezzante ricchezza brancolava dimessa la povertà; accanto alla dottrina profonda balbettava la crassa ignoranza. Quivi il culto sublime [pg!8] della Divinità si confondeva con la superstizione delle pratiche, lo smagliante corteo nuziale s'incontrava nel Cassaro col lugubre cataletto: e con periodica, alterna vicenda si urlavano sguaiate canzoni carnevalesche e si biascicavano paternostri di quaresime penitenti: e recenti licenze di usi venivan cozzando contro viete restrizioni di consuetudini, e leggi severe contro applicazioni negligenti, ed aspirazioni sincere al bene contro accidiose attuazioni di esse.

Gli è che tutto un avanzo increscioso di abusi e di miserie gravava sulla società. La forma del reggimento interno, rimettendo al Parlamento la spartizione delle imposte, non tutelava abbastanza l'infima classe da aggravî talvolta superiori alle sue forze. Se nobili e civili ne aveano il modo, la povera gente non poteva sopportare pesi, i quali, come quelli de' Baroni alle loro terre, incombevano alle città; dove, come dappertutto, pel comun difetto di agricoltura, di sicurezza, di commercio, di comunicazioni, di pubblica igiene, miserrime eran le condizioni, rese anche intollerabili dalla mancanza di un codice, dalla cattiva amministrazione della giustizia, non sempre controllata nè sempre controllabile da un magistrato esaminatore della condotta dei ministri del Regno21.

Oh come avea ragione quel patriotto siciliano che nel 1790 diceva a J. H. Bartels: «Il suddito dell'Isola è tutt'altro che lieto. Se egli alza per un istante il capo, un singhiozzo gli si sprigiona dall'animo!»22.

[pg!9]

Capitolo II.

SU E GIÙ PER PALERMO.

Palermo era tutta circondata da bastioni e, ad ineguali distanze, da porte. Gli uni e le altre, come alcune piazze e vie principali, portavano e portano ancora nomi di Vicerè, che, poche eccezioni fatte, non vi spesero mai un quattrino del proprio.

Porta e via Macqueda, porta d'Ossuna, porta di Castro, porta Montalto, porta Colonna, strada Toledo, strada Colonna (Marina), piazza Caracciolo, e poi il bastione Vega, il bastione Gonzaga, il bastione Montalto, la via Albuquerque son testimoni di questa piacenteria o servilità, nella quale, spinte o sponte, il Senato toglieva a sè ed ai suoi concittadini il vanto di un'opera edilizia od estetica.

Anche le vice-regine vi aveano la parte loro: e porta Felice e la Villa Giulia ricordano la prudente Felicia Orsini e la pompeggiante Giulia di Avalos, mogli dei due Marcantonio Colonna: il primo del secolo XVI, il secondo del XVIII.

La gente però, non guardando a certi battesimi officiali, consacrava, salvo rari casi, quelli da essa originariamente creati per circostanze di tempo e di luogo. [pg!10] Laonde la via Macqueda diceva e dice Strada nuova, quasi per distinguerla dalla vecchia, che per antonomasia è sempre il Cassaro; piazza Vigliena, le Quattro Cantoniere; piazza Caracciolo, il Garraffello; la strada Colonna, Marina; la Villa Giulia, Flora; la via Albuquerque, strada Cappuccini ecc. Un giorno del 1822 il viaggiatore tedesco Tommasini, montando sopra una carrozzella, ordinava al cocchiere che lo conducesse a via Toledo, ed il cocchiere, senza tanti complimenti gli rispondeva: Niente via Toledo; niente via Toledo; si chiama Cassaro.

Come allora così anche adesso la città chiusa era divisa in quattro rioni o quartieri: Albergaria, Siralcadi (Monte Pietà), Kalsa (Tribunali), Loggia (Castellammare), il più piccolo tra' quattro rioni. Con uno sforzo di fantasia archeologica questi si volevano considerare come altrettante città, divise dal Cassaro e dalla Strada nuova ed abbracciantisi in naturale amplesso alle Quattro Cantoniere, dette di Palermo per distinguersi da quelle di campagna, ribattezzate or non è guari, al chiudersi dell'ottocento, piazza Regalmici per quell'Antonino Talamanca-La Grua, marchese di Regalmici, che ne fu l'ardito autore, e che ora si presta a certi bisticci della cittadinanza palermitana, contrariata dal recente titolo sostituito al primitivo.

Questo Pretore (giacchè il Talamanca-La Grua fu uno dei più rinomati Pretori di Palermo), agitato dal desiderio incessante di nobilitare la città, non si dava riposo: ed ora con un disegno, ora con un altro, ordinava il lastricamento della Strada nuova, dal palazzo Castelluzzo in sopra; ed il prolungamento della via fuori [pg!11] la porta Macqueda fino al Firriato di Villafranca (cominciamento di via Libertà). Forte del sostegno del Vicerè, moltiplicava la sua energia: e in un giorno faceva man bassa sopra tutto un giardino e sopra una casa, costringendo le monache delle Stimmate a rifare sul modello di porta Felice porta Macqueda, fino allora piccola quanto S. Agata; abbatteva le principali tettoie ( pinnati ) delle botteghe, le quali toglievano ai cittadini agio di passare ed a chi vi entrava, aria e luce; accorciava i banchi sporgenti dagli usci dei venditori; costruiva selciati dove non ve ne fossero, ne ricostruiva, anche a spese dei privati, dove fossero già sciupati.

Non basta: tracciava la via oggi detta Stabile, e fino al 1860 Ciccu di Palermu, e lasciando ai Quattro Canti da lui formati due lapidi ed otto sedili ora scomparsi, si spingeva, rasentando a sinistra il Firriato di Villafranca (Giardino Inglese, o via della Libertà), verso la via del Mulino a vento. Ed intanto che un terreno montuoso e selvatico convertiva nella deliziosa Villa Giulia, livellava piazze, sventrava cortili, collocava fontane, ricorrendo, ove incontrasse resistenza, alla mano militare.

Il Senato, per forza di passività, lasciava fare, e forse mentre approvava davanti il Regalmici, mormorava dietro a lui per tante e così grosse spese, alle quali non rispondevano le entrate. I contribuenti, d'altro lato, stanchi delle gravezze ogni dì crescenti, una mattina facevan trovare alla porta maggiore del Palazzo Pretorio (Municipio) questo cartello:

Nun cchiù Villa, 'un cchiù funtani: Ma bon vinu, carni e pani.

[pg!12]

Dicono che ogni rione avesse uno stemma suo: l'Albergaria, un serpente verde in campo d'oro; Siralcadi, Ercole sbranante un leone; la Loggia, l'arme di Casa d'Austria; la Kalsa, una rosa. Chi voglia sincerarsene, vada alla microscopica piazzetta del Garraffo all'Argenteria vecchia, e li troverà scolpiti in marmo, sotto la trisecolare statua del Genio di Palermo, dei tempi di quel Vicerè Caetani, Duca di Sermoneta, che fu soprannominato: Duca di far moneta (1663-1667).

Vero o no questo affare delle quattro cittadine stemmate, certa cosa è che ogni rione avea una santa patrona propria: l'Albergaria, S. Cristina; Siralcadi, S. Oliva; la Loggia, S. Ninfa; la Kalsa, S. Agata. La vergine Rosalia, santa sopra le sante palermitane, troneggiava su tutti i rioni. Ora nel dubbio, che la notizia possa o non comprendersi, o dimenticarsi, è bene guardare le Quattro Cantoniere, la fantastica «Piazza del Sole» dei nostri iperbolici scrittori antichi, e si vedrà che la santa torreggiante dall'alto dei quattro lati è la protettrice del quartiere; sotto di lei, è un re di Spagna; sotto il re di Spagna, una delle quattro stagioni: le beate del cielo, i beati della terra (allora sì che potevano dirsi tali i re: e Carlo V si compiaceva che il sole non tramontasse mai nei suoi Stati), i simboli delle quattro parti dell'anno.

Sia che si voglia, i rioni differivano tra loro per indole, costumi, occupazioni, pronunzia. Anche oggi la vita e la parlata dei Kalsitani è un po' differente dalla vita e dalla parlata dei Brigarioti e dei Sampietrani. Per siffatti caratteri, che formavano un distacco tra palermitani e palermitani, nel secolo XV gli abitanti [pg!13] di un quartiere erano in relazioni niente cordiali, anzi assolutamente odiose, con gli abitanti di un altro; ed il Senato nel 1448 otteneva da Alfonso de' capitoli contro gl'ingrati disordini giornalieri23.

Nel Gennaio del 1776 si fu a un pelo d'incorrere in un grosso guaio per una sassaiuola che dovea impegnarsi tra monelli di mestieri diversi24.

Una distinzione tra' nativi di questi quartieri non è così facile come la divisione della città nei quartieri medesimi. V'hanno caratteri etnici comuni a tutti e quattro, e ve ne hanno di particolari, che pure qua e là si vennero intrudendo e confondendo, e che ora a somma fatica potrebbero sceverarsi. I Kalsitani, per esempio, se uomini, son pescatori; se donne, ricamatrici; e quando all'una ed all'altra occupazione non son più adatti, i vecchi rammendano reti, che servono pei loro figli; le vecchie fanno funicella di cerfuglione25: gente, dal più al meno, tranquilla, che solo due volte ha fatto parlare di sè: nel 1647, durante la sollevazione del Masaniello di Palermo, Giuseppe D'Alesi, e nel 1770, quando le donne kalsitane, messe con le spalle al muro dal Senato, che voleva costringerle ad una tassa sulle aperture delle case, si adunarono furenti sulle Mura delle Cattive, e con grida da spiritate e manate di fango dimostrarono contro il Pretore Duca di Cannizzaro, andato per la solita sua passeggiata alla Marina.

[pg!14]

Specie di colonia di pescatori della Kalsa era la frazione di S. Pietro nel rione della Loggia, che poi con quella venne a poco a poco formandone un'altra, parte di pescatori, parte di marinai, nel Borgo, dove i Lombardi, per ragioni di commercio, facevano vita propria.

Ma dalla Kalsa propriamente detta alla Corte Pretoria (Municipio) ed a porta di Vicari (S. Antonino) quant'altra gente, diversa per indole e per occupazioni!

Lattarini coi suoi fondaci aperti a tutti i mulattieri dell'Isola bastava sola per richiamare a costumi del tutto medievali ed al ceto meno colto, anzi addirittura incolto, dei comuni anche prossimi a Palermo.

La gente dell'Albergaria anche oggi ha la non buona riputazione di litigiosa: e brigariotu vale persona che non tenga peli in bocca, che non si faccia passare mosca al naso, che non rifugga dallo attaccar briga per un nonnulla: il rovescio della medaglia delle persone della Kalsa. Un po' lontanamente nelle inclinazioni medesime tenevan dietro alle persone dell'Albergaria, quelle del Capo nel quartiere di Siralcadi.

Siamo alla Kalsa e vogliamo percorrerla un tratto.

Nelle vie dell'Alloro e di Lungarini, a pochi passi dai tuguri della povera e rassegnata gentarella che vi si addensa, sono palazzi dalle ampie ma semi-buie corti, dai riposati scaloni, dalle luccicanti sale, ove i Marchesi Abbate, della Sambuca, di S. Gabriele, di Bonagia, lussureggiano di magnificenze. I credenzieri vi hanno le loro case, la loro chiesa i cocchieri, che nella processione del Venerdì Santo affermano la loro prestanza [pg!15] fisica e la aristocratica dei loro padroni nelle dorate livree e nelle bianche parrucche.

Ecco il monastero della Pietà, già palazzo Abbatellis, dalla strana, unica sua porta d'ingresso (sec. XV); ove pietose monachelle ogni anno, al domani di Pasqua, non tralasciano di recitare in suffragio degli Angioini freddati nel Vespro Siciliano l'uffizio dei defunti.

Imboccando la strada Butera, il palazzo di questo nome, ultimamente ingrandito con lo spazio del demolito baluardo del Tuono26, e che si ingrandirà ancora dell'altro (1798) verso porta Felice, accoglie con isplendore reale ed ospitalità tutta siciliana sovrani e principi, ambasciatori e ministri. La via è come ostruita dalla parrocchia di S. Niccolò Anita la Kalsa, la quale ad oriente guarda porta Felice, ed a tramontana l'ospedale di San Bartolomeo. Fissiamolo bene questo cimelio d'arte innanzi che il tempo lo spazzi.

L'architettura medievale dell'Isola v'impresse la delicatezza delle sue linee. La finestra sulla porta d'entrata gareggia con quella di S. Agostino. Il campanile ha sagome che ricordano quelle della Cattedrale coi loro archi dolcemente acuti e le ogivali di purezza inappuntabile.

Guai se il cav. Fuga vi mettesse gli occhi!

Tutte le cure del Senato nel chiamarvi i più eletti [pg!16] parroci, nel mantenervi il culto più attivo27, non impedirebbero ch'egli vi ripetesse, come in corpore vili, l'opera devastatrice del maggior tempio della Capitale28.

Tre grandi palazzi, sorgenti sulla medesima linea e ad eguali distanze, dalla parte orientale alla occidentale della città, dal basso all'alto, furon teatri di avvenimenti drammatici nella storia cittadina: il palazzo Chiaramonte, ora dei Tribunali, il Pretorio, e quello del Vicerè, ora Palazzo Reale.

Che epopea d'arte, d'avventure romanzesche, di fasti religiosi e civili il palazzo Chiaramonte! Qui il fondatore Manfredi raccoglieva il fiore del baronaggio siciliano, traendo legittimo vanto dalle geste cavalleresche probabilmente della Casa Clairemont di Francia fatte da lui dipingere nel soffitto del grande salone. Qui, vinto da Martino II, lasciava sul palco la testa Andrea, uno dei quattro Vicari del Regno dopo la morte di Federico III il Semplice, padre della minorenne Maria. Qui il libidinoso vecchio Bernardo Cabrera Conte di Modica con comico insuccesso assaliva la bella Regina Bianca di Navarra involantesi da lui verso il Castello di Solante. Qui Luca Squarcialupo assediava il Vicerè Ettore Pignatelli, e la plebe in rivolta uccideva e precipitava [pg!17] giù dalle finestre i giudici della Gran Corte. Qui i piccoli Torquemada degli uomini e dell'arte martoriarono temerarî ed isteriche, visionarî e maliarde, e tagliarono architravi e ruppero colonne, che erano gioielli della migliore architettura dell'epoca aragonese. Dal sommo del prospetto rispondente sul Piano della Marina qui si precipitarono i trasgressori delle leggi della pubblica salute nei giorni paurosi di pestilenza. E qui, nelle notti scure e rigide d'inverno, quando il vento vi fischia sinistro, par di sentire come cupi gemiti di sepolti vivi e strida orribili di torturati e mormorii confusi ed imprecazioni feroci di giocatori al Lotto, interrotte dal monotono battere dell'immenso orologio, nel quale il poeta Meli ravvisò la grandezza dell'occhio di Polifemo.

Nell'andar su pel Cassaro, le vie laterali scompariscono al multicolore bucato teso tra un balcone e l'altro, tra una ed un'altra finestra. E non ci vuole di più per comprendere che si è in un paese del mezzogiorno, se pure non lo accusi quell'attentato permanente ai piedi dei passanti che è il ciottolato delle strade.

A destra è sempre la chiesa di S. Antonio, centro della città, donde partono gli avvisi dei generali Parlamenti del Regno e dei pubblici consigli, e le chiamate impellenti degli uomini atti alle armi, quando pericoli di corsari minaccino la sicurezza della vita e delle sostanze29.

Più in su a sinistra sorge il Palazzo Pretorio con le sue tre porte, una delle quali, quasi per irrisione, serba ancora l'antico motto: Pax huic domui.[pg!18]

E pace sia!

In alto, sul cornicione, di fronte alla chiesa dei Teatini, furon sempre di orrore due gabbie di ferro, nelle quali stavano chiuse le teste di due giustiziati per delitto contro la fede pubblica e l'Erario del comune: Francesco Gatto (1611) e Carlo Granata (1721), cassieri della Tavola (Banco).

La fontana del cinquecento è sempre lì maestosa, ma le sue statue, più che scollacciate, ignude, offrono ancora le cicatrici dei nasi rotti per una vendetta, dicesi, compiuta dai Messinesi30, o dalla barbarica abitudine dei monelli — ed anche dei non monelli — di guastare cosiffatte parti nei simulacri in marmo. Ad un prelato della famiglia Sermoneta di Roma, venuto a visitare Palermo (1773), fu assicurato la impudicizia di quelle statue essere stata in parte corretta da un suo antenato, (il Vicerè B. Francesco Caetani, dianzi citato) per riguardo alle monache di S. Caterina31.

Dal lato di S. Giuseppe rendevano una volta gaia la piazza i fiorai della città, dagli antichi posti raccoglientivisi a giornaliero mercato32, caro ai devoti di chiesa e di galanteria, che andavano a provvedersi di mazzolini da offrire a santi e a donne33.

[pg!19]

Se non s'avesse fretta, potremmo guardare ad una ad una tutte le particolarità di questo edificio, dal secolo XV a noi centro di vita civile, religiosa e politica, teatro di grida di Morte! al domani di grida d' Evviva! ad un medesimo personaggio. La visita ci stancherebbe forse, perchè non poche son le curiosità da vedervi anche dopo l'orribile scempio dell'Armeria perpetrato all'ultimo piano dalla plebaglia pazza d'incosciente devozione pel suo Pretore Principe del Cassaro nei tumulti del 1773. Non tutto, peraltro, potremmo visitare, giacchè nel quartierino del Pretore non è permesso di metter piede: e quello superiore della rappresentanza, dopo i tumulti, non è sempre a tutti visibile come lo è l'urna dei privilegi di Palermo, specie di arca santa messa sotto la tutela d'una immagine della Immacolata.

V'hanno arazzi di squisita fattura e suppellettili di non ordinaria bellezza, e tutto un corredo di argenteria, che attesta munificenza di Pretori e dignità di Senato. E sopra, di fronte a S. Caterina, sono ancora seimila tra archibugi grandi di archiglio e serpentina ( zuffioni ), ed elmi e corazze e cimieri e bracciali ed altre armature, buone a mettere in pieno assetto un esercito per la difesa della capitale.

Chi ne voglia, però, sapere qualche cosa si affidi al Torremuzza ed al Villabianca, che gliene diranno per filo e per segno34.

Noi potremo solo esaminare il portico, a tutti [pg!20] consentito di guardare. Vi sono statue in marmo: un David battezzato per Giovanni da Procida; un uomo in abito consolare con una matrona allato, ricordo di non so che lega tra Roma e Palermo: e che forse raffigura due coniugi romani. Un magro genio di Palermo col motto Fidelitas in uno scudo è sostenuto da mezza colonna di porfido, e seduto sopra un sasso, col solito detto: Panormus conca aurea, suos devorat, alienos nutrit: e vi sta fin da quando il Pretore D. Francesco del Bosco lo esumava da luoghi sordidi (1596). Nella medesima linea è un'urna cineraria, la cui recente iscrizione, male imitante le forme antiche, vuol confermare la vantata lega, essendo console per Roma in Sicilia Cecilio Metello.

La gente però si ferma volentieri innanzi a due statuette ignude: e vi si ferma non perchè tali, ma perchè ha sempre sentito narrare sul conto loro una certa storia, un po' triste, un po' allegra, che serve d'ammaestramento a chi abbia la tentazione di litigare. Il pittore Houel, messosi un giorno a disegnarle entrambe ebbe raccontato:

«Due fratelli piativano in questo Palazzo. La lite era di somma importanza, e tutti tenevano gli occhi fissi su di loro. Inesprimibile l'ardore che essi mettevano nella causa; l'agitazione, la fatica, la contenzione d'animo influì tanto sul temperamento dell'uno, che, appena udita la sentenza contraria, la sua statura s'accorciò improvvisamente d'un piede; mentre fu così viva la gioia dell'altro che le sue membra si allargarono, e di più pollici s'ingrossò la sua corporatura. Il duplice, strano prodigio sorprese tanto che si pensò a far eseguire due simulacri della grandezza dei due fratelli dopo [pg!21] la loro trasformazione: ed eseguiti, si collocarono alla porta del Palazzo senatorio ad ammaestramento dei litiganti; i quali, peraltro, non si correggono mai»35.

E dire che le due statue leggendarie rappresentavano, l'una un Antinoo, l'altra un Mercurio! L'Antinoo è sempre lì al municipio; il Mercurio, da buon mezzano, prese il volo36.

A scanso di molestie, nell'uscire non ci voltiamo nè a destra nè a sinistra. Sui due lunghi sedili, a piè del palazzo, stanno accoccolati straccioni e miserabili sollecitanti elemosine e grazie: e son già troppi quelli che s'incontrano per la città, la quale ne è tutta invasa!

Constatazione dolorosa: dal lato meridionale del monastero di S. Caterina e del Palazzo Pretorio evidenti rimasero le tracce dello sconsigliato tentativo di abbassamento del livello stradale. Voleva togliersi il rialzo della piazzetta S. Caterina; e, scava, scava, dopo dodici palmi di terriccio portato via, si scopriron le fondamenta dei due edificî minaccianti rovina. Si gridò alla improvvida opera, e con gravissima spesa del Senato dovette subito ricolmarsi il malfatto vuoto. Malfatto, sì, perchè metteva a pericolo la solidità di [pg!22] antiche fabbriche solo per vanità della Deputazione delle strade, e, sia detto senza riserbo, per vantaggio d'uno di essa, il Marchese Giacona, il quale avendo acquistato una casa nel piano di S. Anna, e riformatala, ad ottenere il comodo di uscire in carrozza per la più corta via nel Cassaro (salita Giudici, via S. Caterina, piazza Pretoria) sacrificava al suo privato il pubblico interesse37; esempio pernicioso ai futuri amministratori del Comune!

Torniamo alla piazza Vigliena, da poco stata proclamata nobile38.

Otto altri sedili accoglievano altri disoccupati in attesa di chiamata.

Chi per avventura si affacciasse dalla ringhiera della Casa dei padri Teatini (S. Giuseppe), o da quelle del palazzo Jurato (oggi Rudinì), Napoli, Gugino (Bordonaro), poteva bene indovinare, a certi loro strumenti, che mestiere essi esercitassero. Ve n'erano con una cazzuola in mano, e questi eran muratori; ve n'erano con grandi pennelli: imbianchini; i falegnami aveano una sega; i fontanieri, una specie di elmo di ferro in mano ed una martellina; i cocchieri, una frusta; e non occorreva cercare insegne per i lacchè, i servitori, i barbieri, ed altri oziosi forzati e volontarî, i quali davan la misura del disagio delle classi operaie. Nel 1777 un ingegnere della marina francese li trovò armati di spadini: il [pg!23] ciabattino dal grembiule di cuoio e dal sudicio vestito; il parrucchiere dal sacco pieno di cipria. Inoltre qualunque artigiano, uscendo di casa nel costume proprio del mestiere, andava armato d'un'ampia e vecchia parrucca, sovente d'un paio d'occhiali inforcati sul naso39.

Poco discosto, presso la chiesa di S. Giuseppe, s'aggruppavan preti e sagrestani privi d'elemosina di messe e senza occupazione; ed al lato opposto nella Calata dei Musici, la virtuosa canaglia, presso la quale gironzolava questuando qualcuno dei «figliuoli dispersi» del Conservatorio del Buon Pastore, in attesa di rientrare la sera nel pio Istituto40.

Gente di bassa estrazione, facchini, lettighieri, si sarebbero cercati invano qui. Gli uni stavano alla posta di li vastasi, nella via dei Chiavettieri, presso la Vicaria, dove a quando a quando gridavano: Cu' mi chiama, cà sedu! i seggettieri, — portantini di sedie volanti — nelle loro vie dell'Albergaria (Lomonaco-Ciaccio) e del Monte di Pietà, e i cancelli, vetturali da soma41, nei dintorni della chiesa di S. Maruzza, che da essi prende il nome, nella piazzetta di S. Cosimo42.

Mastro Bernardo Rusciglione, dalla sua classica panca vendeva nelle Quattro Cantoniere acqua diaccia di estate, acquavite, centerbe, mmiscu d'inverno. E [pg!24] d'inverno, appunto, col piano della pavimentazione delle vie, le piogge correvan giù impetuose al mare, e le Quattro Cantoniere diventavano un lago, a traversare il quale, non bastando i passaggi tenuti dal Senato43, chi non era un disgraziato, si lasciava caricare a spalla da uno dei tanti marangoni che per un grano a persona facevan da S. Cristoforo.

Qualche viaggiatore, venuto a svernare tra noi, pensò di far sapere a chi non se l'era mai sognato, che Palermo era una città divisa da un fiume ed unita da ponti. Il fiume sarebbe stato l'Oreto; i ponti, a vedere, i pezzi di legno di passaggio, dei quali era incaricato il famoso mastro Agostino Tumminello!

Se volessimo per un momento andare oltre, dovremmo sguisciare tra la folla che assiepa la strada. Tanta gente parve ad un inglese maggiore di alcune vie popolate di Londra44.

Più sotto incontreremmo «uno stuolo di mercatanti seguiti da una turba più folta di piccioli rivenduglioli, o rigattieri, e traffichieri minori di basse merci di comodo e di vantaggio alla povera gente». Troveremmo sarti e calzolai lavorare all'aria aperta, proprio nel Cassaro, e in tanto numero, da sorpassare ogni immaginazione; e, sparsi per terra, libri usati e, in varie fogge distesa, roba vecchia45; e resteremmo confusi [pg!25] alla ressa di altri venditori, i quali con panchette, attaccapanni, tavole, sporte, paniere, canestre prendon posto sulle sponde (marciapiedi); e qui, presso la Piazza, nelle quattro vie che in essa convergono, più che mai all'apparato di stoffe e di abiti che impedisce la vista, ed alle seggette (portantine) che barricano dappertutto, alla moltitudine di uomini, ai quali solo da pochi anni, per la riforma delle maestranze, è stata fatta libertà di gridar la roba che spacciano, libertà non prima concessa46.

Sprigionatici appena, potremmo a destra e a sinistra guardare i grandi palazzi, ai cui pianterreni son pannerie, botteghe, caffè, con entrate inegualmente divise da basse colonne sostenenti l'architrave e sópravi certi quartierini che sembrano gabbie da uccelli e sono abitazioni dei pigionanti delle botteghe medesime. Non uno spaccio di grasce, non uno di annona, non un'osteria od altro che non offra carattere di pulitezza. Antiche, inviolate ordinazioni del Senato non ne consentono uno nei due corsi47.

Sopra le botteghe grandeggiano abitazioni di persone di foro e di toga, di gente arrendata e di gente [pg!26] di penna48; nei «quarti (quartieri) nobili», alti impiegati e magistrati del vecchio stampo, pei quali abituale è lo spandere più del pingue stipendio, gaudenti dell'oggi, non preoccupati del domani delle loro festaiole famiglie. Agli ultimi piani, sotto i tetti, son le logge coperte dei monasteri, dove in ogni spettacolo profano, in ogni grande solennità religiosa fiammeggiano occhi irrequieti, sui quali più oltre senza secondi fini alzeremo freddamente i nostri.

In altre vie, di secondo, di terz'ordine, stanno di casa e di bottega artigiani; dalla specialità dei loro mestieri prendono nome le vie: Materassai, Sediari, Formari, Pianellari, Spadari, Cintorinai, Tornieri, Gallinai. A brevi distanze singolare è il contrasto di vita e di movimento. Silenziosi i vicoli dei Calzonai, dei Frangiai e dei Mezzani, che pur danno sul Cassaro; stridenti quelli degli Schioppettieri, dei Chiavettieri (magnani), e dei Cassari, che intronano le orecchie.

L'ab. Meli raccomanda, rimedio infallibile alla sonnolenza, lo star di casa ai Calderai, che è, secondo Galt, «il sito forse più tumultuoso di tutta Europa», dove si ammassano «considerevoli blocchi di stagno per la manifattura di lampade, forchette e di altri utensili da tavola e da cucina»49. Nel medesimo rione (e deve esser la Kalsa) egli vede pure una strada tutta di ricamatrici: ed il ricamo è su mussolino di Caltanissetta, città produttrice di buona tela, come Palermo lo è di nastri di ogni dimensione e colore per le centinaia di piccoli telai che vi stanno in continuo moto.

[pg!27]

Sconfortante peraltro è il pensare che molto, moltissimo venga manifatturato all'estero su materie prime qui prodotte e da qui partite. Un uomo d'ingegno fa osservare (1793) che l'olio siciliano è di gran lunga inferiore al medesimo olio che, mandato fuori, ritorna depurato, meno verde e più squisito; ed aggiunge: essere di pelle siciliana i cappelli provenienti dall'estero, di potassa nostra i cristalli, di canape nostra le funi, di lana nostra i panni, di seta nostra molte stoffe50. Carte di archivî privati in Palermo confermano la osservazione; se mai di conferma fosse bisogno.

E sì che questo è il paese nel quale il cav. de Mayer di Vienna trovò della gente che sa fare un'ascia con una sega!...

Andiamo avanti: piazza di Bologni!

La statua di Carlo V pare la figura d'un cieco che s'appoggi al suo bastoncello ed allunghi la mano andando tentoni. Ai suoi piedi cresce dell'erba, ed alla base fan brevi apparizioni pasquinate che tutti vedono e nessuno sa chi le attacchi: nè i servitori del Principe di Belmonte che vi stanno di faccia (Palazzo Riso), nè i frati del Carminello (Tribunale militare), nè i corrieri del Principe di Villafranca, che vi stanno allato.

Nell'andar su verso porta Nuova copriamoci gli occhi per non veder la Cattedrale. Dal 1780 l'ingegnere Fuga vi perpetra restauri, che sono complete trasformazioni. C'era presso i campanili, dal lato orientale, una torre, ed egli l'ha convertita in cupolone quasi quanto quello di S. Giuliano; c'erano, qui sulla piazza [pg!28] meridionale, tre ordini di merli e di finestre, e li ha caricati di tredici cupole e cupolette per altrettante cappelle edificate distruggendo i muri laterali lungo le due navate laterali, e pel necessario sfondo alle cappelle guadagnando terreno a mezzogiorno ed a settentrione. Le statue gaginesche del coro le ha piantate innanzi queste cupole, e, sopravvanzandogliene, le ha messe a fianco delle incoronazioni di Vittorio Amedeo e di Carlo III, sotto il portico! C'era.... c'era tutto un tesoro d'arte siculo-normanna e non ha avuto ritegno di sfigurarlo, disperdendone le parti più belle!

E per tanto scempio, prima non permesso, poi voluto dalla Corte di Napoli, si sono spesi centomila scudi, ed altrettanti se ne ritengono ancora necessarî alla interna decorazione, nella quale neppure un arco venerando sarà rispettato! E già si parla dell'opera con immenso vantaggio, e si gongola al pensiero che per la festa del Corpus Domini del nuovo secolo (4 Giugno 1801) il ringiovanito, rifatto tempio verrà riaperto al culto dei fedeli!51.

Stringiamoci al monastero dei Sett'Angeli, e, senza guardare al vandalismo dell'abside e del lato settentrionale del sacro luogo, rasentiamo la chiesa della Incoronata, che vide giurare rispetto a diritti siciliani sovente conculcati. Pietro d'Aragona, al domani del Vespro, vi prese la corona. Alla porta del Palazzo arcivescovile sta sempre attaccata un'elsa che ricorda quella con la quale Matteo Bonello avrebbe squarciato il petto [pg!29] di Maione, triste ministro di più triste sovrano (Guglielmo I).

E siamo già nella maggiore piazza della città, in faccia al più grande edificio: il palazzo vicereale.

Anche dopo la scomparsa delle sue primitive torri, esso fu fortezza custodita sempre da alabardieri, quando spagnuoli, quando tedeschi, quando svizzeri, e munita di cannoni dominanti da solidi terrapieni la città. Ogni parte di esso è un monumento, ogni monumento una pagina di dolore, di fremiti, di dolcezze.

Considerazioni diverse, liete e tristi, suscita la sala ove lo svevo Federico II accoglieva il fiore dei dicitori in rima, e, contrasto lacrimevole, le laterali carceri della torre ioaria o rossa, ove per ordine di lui venivan fatte morire d'inedia donne d'alto legnaggio, ree d'esser mogli di baroni, veri e presunti ribelli52. Il Vicerè march. de Vigliena per tutto suo piacere ruppe l'antica armonia dell'edificio. Al domani della rivolta del D'Alesi, il card. Trivulzio, malevolo verso il popolo, irriverente verso la chiesa, la fortificò di due baluardi (1649) distruggendo il tempio della Pinta fondato da Belisario, capitano di Giustiniano Imperatore: tempio rimasto celebre per l' atto che da esso prese nome. Quella che è ora scuderia (risibile fortuna delle umane cose!) fu aula dei Parlamenti della nazione: ed un affresco, che riproduce l'apertura solenne di uno di essi, sta di fronte ad un altro: che è tutta la messa in iscena di un auto-da-fè. Sulla volta della nuova sala dei Parlamenti, nei piani superiori, [pg!30] il principe di Caramanico fece dipingere la Maestà regia, protettrice delle scienze e delle arti (1787). S. M. però la volle più tardi cancellata per farvi dipingere dal Velasquez le forze di Ercole, delle quali, non più giovane, Ferdinando III si sarà compiaciuto più che dell'arcadia allegoria.

Vicerè e Presidenti del Regno vi ricevettero baciamani di patrizî ed inchini di dame, piati di litiganti e suppliche di rei, voci di plauso ed urli di sdegno; e tra sorrisi e lacrime, tra carezze e minacce, tra condanne e grazie passarono non pure il decretato triennio, ma anche la conferma di altri triennî, invocata al monarca dai tre Bracci parlamentari che sovente li detestarono.

Vediamone qualcuno di questi potenti, che fecero tremare mezza Sicilia, ma che pur tremarono la parte loro al ruggito di una sommossa. Li troveremo dipinti nell'anticamera dei vicereali appartamenti, ritti, imponenti come per dirti: — Guarda chi siamo! —

Ecco la mingherlina figura di D. Giovanni Fogliani de Aragona, Marchese di Pellegrino (che però non è il nostro diletto monte!). Chi gli avrebbe mai detto che in un momento d'inconcepibile tumultuazione delle maestranze sarebbe stato mandato via? egli così affezionato al paese, egli che ne cercò, come meglio seppe, il pubblico bene, che ne sostenne con larghe limosine i poveri, ne protesse in ogni maniera la sicurezza! Oh andate ad aspettarvi la gratitudine dei popoli! Che bel parruccone questo suo! Dal 1770 in poi non se ne vide uno più prolisso; come non si vide viceregno più lungo del suo; la bellezza di quasi diciott'anni! Il suo naso potrebbe far credere ad un avido succhiatore di [pg!31] sangue; ma le sue opere furono di uomo bonario quasi altrettanto che il Principe di Caramanico, col quale ebbe parecchi punti di somiglianza. Perchè, entrambi ebbero un gran debole per le feste e la nobiltà; entrambi amarono il sapere e ne protessero generosamente i cultori; e come il Fogliani non se ne sarebbe andato senza la frenesia popolare, così questo vi sarebbe forse rimasto con la fiducia del Sovrano, se la morte non lo avesse colto all'improvviso.

Ecco Marcantonio Colonna, Principe di Stigliano, magro, diritto, dal corto parrucchino e dal bastone.... coi fiocchi. Come splende l'anello che porta al mignolo! Si direbbe che egli se ne tenga quanto della discendenza dal Vicerè suo omonimo, quanto delle carezze che riceve dai titolati e che ai titolati largamente profonde, quanto delle ordinanze che emanò a favore dell'annona e contro la forza operaia nei baluardi. Dicono avesse velleità poetiche; ma il ritratto non lo accusa: e nessuno sognò mai che partendo malaticcio da Palermo potesse perpetrare versi di amore, come quelli per La partenza da Clori, trovati autografi nel suo scrittoio:

Sorge l'infausta aurora, Deggio partir, ben mio. Ti lascio in questo addio Un pegno di mia fè.... Ma già il nocchier s'affretta Le vele a sciorre al vento. Ecco il fatal momento. Mi sento ohimè mancar!

Il Principe che si sdilinquiva per la poetica Clori, era marito, padre e nonno!... [pg!32]

Ecco D. Domenico Caracciolo, Marchese di Villamajna. Disimpacciato dal vicereale paludamento, tende in avanti la mano in atto imperioso: espressione della sua indole autoritaria in lineamenti comunali, che mal rivelano la irrequietezza del suo pensiero. Quell'atto compendia la storia di un governo: cinque anni di scatti e di calme, di vittorie e di sconfitte, di esaltamenti e di depressioni: lotte continue tra un carattere non pieghevole a transazioni e la necessità di ripieghi, che furono scomposta rassegnazione e dovettero parere indifferenza.

Che vita di agitazione quella sua! Che rumore di discussioni attorno alla sua condotta! Ogni ordine di cittadini ebbe parole violente all'indirizzo di quest'uomo, che affettò il più profondo disprezzo della pubblica opinione. Gli artigiani fremettero d'aver avuto tolto lo spadino dal fianco e di essere stati diminuiti nelle antiche loro rappresentanze; i civili, impermaliti delle restrizioni al libero esercizio delle loro professioni, lo misero alla gogna; i nobili, in odio ai quali egli, cadetto, ma portatore di titoli nobiliari, ridusse loro gli sconfinati privilegi, lo detestarono del pari che gli ecclesiastici, altri bollandolo come paglietta napoletano, altri additandolo novello Argante,

D'ogni Dio sprezzator, e che ripone Ne lo scettro sua legge e sua ragione.

E in questa sala, ov'egli protende il dito altezzoso, si ripercuote ancora la sua voce altisonante: e la storia non tace il po' di bene che egli fece in mezzo al molto che non gli fu consentito di fare: ma non dimentica [pg!33] che agli occhi di chi lo conobbe appena tornato in Napoli l'antico ateo diventava ligio alla Corte Romana ed a quel pontefice che egli avea chiamato il gran muftì, e che l'uomo gaio appariva un buffone53.

Ecco il piacevole D. Francesco D'Aquino, Principe di Caramanico, il quale tra il plauso dei letterati e gli ossequî dei patrizî sbarcò nove lunarî fino ai primi giorni del 1795. Ha cinquantasei anni, e ne mostra dieci di più, non ostante il suo viso rubicondo. Ha naso adunco, ma non fu un vampiro; fa un gesto di comando, ma solo per posa accademica: e pare non dimentichi le grazie sconfinate di Maria Carolina che lo levarono alla non prima sognata grandezza di Vicerè.

Tanta grandezza non può non destare un senso di profonda mestizia. Le ceneri del Caramanico giacciono inonorate, neglette nella chiesa dei Cappuccini, coperte da un semplice mattone. Tra' nobili i quali, appena morto, offrirono di ospitarne la salma nelle loro superbe sepolture, e la famiglia in Napoli, che si riserbava di richiamarla nella propria, si interpose la negligenza, lo abbandono, l'oblio!

In mezzo all'uno e all'altro di questi Vicerè superbiscono Presidenti e Capitani Generali del Regno, Vicerè [pg!34] provvisorî con facoltà quasi vicereali: il giovialone D. Egidio Pietrasanta, Principe di S. Pietro, Tenente Generale dell'esercito per la prima assenza del Fogliani (1768); D. Serafino Filangeri dei Principi di Arianello, benedettino cassinese napoletano (1773 e 30 Giugno 1774), solenne nel costume di prelato, modesto in quello di Presidente, involontariamente altero nella mossa della destra a guisa del Carlo V della piazza Bologni; e D. Antonio Cortada e Brù (1778), D. Gioacchino de Fons de Viela (1786) e D. Filippo Lopez y Royo, che pare smentisca il severo giudizio dell'ab. Cannella54.

Da poco nell'antica torre di S. Ninfa, dallo Osservatorio Astronomico si leva gigante alla contemplazione del cielo l'ab. Piazzi, che presto darà al mondo scientifico la scoperta della Cerere e la numerazione delle stelle. «Un re eresse la torre, un altro la destinò a più nobile uso»: così dice una iscrizione latina sulla porta della Specola, alludendo a Ruggiero il Normanno ed a Ferdinando III Borbone.

Dalla terrazza di quest'Osservatorio girando attorno lo sguardo, lo spirito si sublima in una veduta che non ha confronti. La riviera compresa tra il Capo Zafferano e l'Arenella si stringe ai lambiti del mare di cobalto, carezzante la città bella. Palermo è tutta dentro le sue vecchie mura. Logge, cupole, campanili, si contano ad uno ad uno: e chiese, monasteri, conventi, palazzi, istituti si discernono in mezzo alle torri di Rossel (Albergaria), di Terranova, di Pietratagliata (Loggia), di [pg!35] Vanni, di Chirco, di Rombao, della Pietà, di Cattolica, alla Kalsa, il turrito tra' quartieri.

Le seduzioni politiche dei Vicerè, favorite dalla debolezza del Senato, tolsero ai baluardi i cannoni, resi, peraltro, inutili alla difesa, nocivi alle circostanti case. Quei cannoni furono imbarcati per Napoli; ma lunghesso la costiera altri ne rimasero (una sessantina circa), all'Acqua dei Corsari, al Sacramento, a S. Erasmo, alla Garita, alla Lanterna del Molo, all'Arenella ed altri ancora al forte del Castello, che però il sospettoso Governo tiene con le bocche parte sul mare, parte sugli inermi cittadini.

Siamo di primavera, e tutta verdeggia la Conca.

Nelle campagne che a vista d'occhio vanno a perdersi a pie' dei monti Gallo, Belampo, Billiemi, Caputo, Cuccio, Grifone, Gerbino, Gibilrossa, Solunto, lussureggiano viti ed aranci, olivi e mandorli, agavi ed opunzie.

L'aspetto di questi monti è d'un colore indefinibile tra l'azzurrognolo ed il rossastro se nudi; e se coperti di alberi, disseminato di macchie folte, irregolari, come capricciose, finchè lo comportino le immani rocce e le piccole balze, dove cadenti in bruschi ciglioni a picco, dove correnti in dolci linee di curve, di rialzi, di frastagliature, di punte, lisce, dentellate, taglienti, non tentate mai dalla mano dell'uomo.

A sinistra, sotto il crine meridionale del Pellegrino, a cavaliere della collina declinante verso l'Acqua santa, sorgerà tra non guari la villa Belmonte, ed al lato occidentale la Favorita, che dei rimpianti ozii di Capodimonte e di Caserta compenserà l'esule Ferdinando. Anche lontane, anche poco visibili, son sempre maestose [pg!36] laggiù le cospicue ville, anzi i grandi palazzi di Niscemi-Valguarnera, di Cassaro, di Montalbo, di Castelnuovo. Ai cipressi del finto eremo, alla chiesetta che questo fiancheggia, l'occhio distingue la villa Resuttano dalla villa Moncada, maravigliosa per verzieri, boschetti, labirinti, fontane, peschiere, statue e viali coperti; la villa Pandolfina dalla Airoldi, il cui padrone, custode della Legge, ha potuto in onta ad essa occupare un terreno.... pubblico.

Ed altre ed altre ancora son le ville della fatata pianura, e tutte, più o meno, si legano senza unirsi, si affiancano senza confondersi, in una gara di opulenza e di grandiosità, di fastigio e di spensieratezza. Il Conservatorio delle Croci, avanzo di una di queste ville (Cifuentes), non è più l'officiale albergo di nuovi Vicerè alla vigilia del loro solenne ingresso nella Capitale; ma Ospizio pietoso di povere orfane.

Dietro a noi, lassù, è il divin tempio in Monreale; e a destra della via che ad esso conduce, la Zisa, «il più bel possesso del più splendido dei re del mondo», secondo la iscrizione araba del coronamento della facciata dell'edifizio, che Guglielmo I incominciò ed il figlio «a tutta sua cura volle serbare».

Ma da questa terrazza non tutto ci è dato vedere; saliamo più in alto, torno torno alla Specola.

La Cuba, che a sinistra fronteggia quella via, è malinconica superstite degli ameni giardini, pei quali potè esser chiamata: «Paradiso della terra». Non più con imperiale pompa Arrigo VI vi riceve i commissarî della Repubblica di Genova, venuti a ricordargli le pattuite concessioni; non più, novellando il Boccaccio, [pg!37] Federico l'Aragonese vi tiene la vaghissima Restituta, dai marinai siciliani rapita in Ischia. Alla orientale immagine dell'Arabo Ibn Gubayr, valentino, intorno i manieri della Cuba e della Zisa sopravvive la gentile leggenda popolare, creduta anche dal Fazello, che Cuba e Zisa siano nomi di due figliuole d'un emiro di Sicilia; e la Cuba è dal seicento quartiere dei militari, i quali vi compiono l'opera devastatrice del tempo, e la Zisa, più fortunata, accoglie i Principi Sandoval55.

A destra gli orti si alternano coi frutteti, i monumenti antichi attendono la giocondità dei moderni. Di costa, sulla sponda sinistra dell'immenso arido letto dell'Oreto, sorge deserta la chiesa di S. Spirito, ove col novello cimitero di S. Orsola il Caracciolo ha voluto, proprio al quinto centenario del Vespro Siciliano, confondere nelle medesime fosse i trucidati del 31 Marzo 1282 coi morti dal 1782 in poi. E i cittadini ne mormorano ancora come di offesa alle loro sacre memorie, e le famiglie dispettano di farvi seppellire i loro cari. Quivi, di fronte, sul poggiuolo di S. Maria di Gesù, i frati Osservanti furono spettatori dell'eccidio. Ora i loro successori, forse immemori, vivono la stretta regola di S. Francesco d'Assisi. Nella contrada di Falsomiele l'occhio corre in cerca del Monastero delle Basiliane, ma esso non c'è più, e la loro tradizione si continua raffinata nella vita delle monache del Salvatore nel Cassaro.

Solitario e triste, S. Giovanni dei Leprosi ospita [pg!38] infelici, che la demenza e la etisia han condannati all'ostracismo. Un cuore di donna li redimerà presto e li rifarà esseri umani tra uomini. Oh anche la Regina Carolina ha un po' di carità!56.

Lì presso, sul greto del fiume, è il ponte dell'Ammiraglio del Conte Ruggiero, Giorgio d'Antiochia, e sulle scarse acque vagolano di notte in bianche vesti le anime dei giustiziati sepolti nella vicina chiesa di S. Antoninello. E non molto discosto l'arabo castello della Fawarah o Maredolce, voluttuosamente cantato da' poeti musulmani; tra' quali fu chi disse: «Ciò che ho descritto l'ho visto coi miei occhi; ed è certo; ma se sentissi racconti di delizie eguali a queste, io li reputerei invenzioni assai sospette».

Spiccata la differenza di vita e di natura, di storia e d'arte in questa variopinta Conca d'oro! A destra tutto parla del passato; a sinistra tutto brilla del presente; là tutto è vecchio; qua tutto è nuovo. Ad ogni passo che si muova da quel lato è un'orma profonda di emiri e di principi normanni; ad ogni passo che si faccia da questo, è un'eco solenne di nobili palermitani. Non alla Guadagna, non a Falsomiele, non a S. Maria di Gesù ha cercato l'aristocrazia dolci riposi, ma più in là, più in là ancora, alla Bagheria; e dall'altro ai Colli. Dove cappelle, palazzi, flore sorgevano a testimoniare [pg!39] la sapiente grandezza dei Chiaramontani fiammeggiarono roghi paurosi ed echeggiarono strida raccapriccianti.

L'occhio è già stanco: rientriamo nel santuario del Piazzi. Guardato o no, il mare splenderà sempre ai raggi fulgenti del sole; l'aura carezzerà alberi e piante, ed al sorriso perenne d'un azzurro purissimo il cielo sarà sempre in perpetua festa di bellezza e di sublimità.

È tempo ormai di lasciare questo incanto, senza neanche affacciarsi là ove prima avremmo dovuto lungamente deliziarci. No, la Cappella palatina non va profanata con uno sguardo fuggevole alla guisa dei futuri touristi del sec. XIX. Visita di questa maniera potrebbe far credere ad incoscienza quel che è semplice nostra imperizia. La sorpresa che al primo entrarvi colpisce, lo stupore che invade appena alla temperanza della mite, dolcissima luce cominciano a scintillare i fulgidi mosaici, a disegnarsi gli arabeschi, a profilarsi le figure, a comporsi in un tutto l'armonia architettonica di quel tesoro d'arte, che pare prodigio di celesti ed è opera di uomini, toglie all'ammirazione la parola.

Qui potrebbe, pel molto ancora che ci resta, troncarsi la nostra passeggiata; ma vi son cose che non dobbiamo trascurare. Noi non abbiamo idea di quel che sia un rione popolare della città; l'Albergaria ne è il tipo: e facile è lo andarvi per la discesa del Piano del Palazzo sino alla piazzetta dei Tedeschi, ove alabardieri alemanni, guardie del corpo dimorano.

Noi non ci avventureremo in questo laberinto di straducole anguste, meandri tortuosi che si aggirano ed avvolgono, di usci che mettono in ignoti chiassuoli, [pg!40] di tane ove così di sovente brulicano come vermi esseri umani. A noi non importa se intatte siano le vecchie casupole, inalterati i nomi dei vicoli e dei cortili, fresca la memoria di scene, due, tre volte secolari; se refrattarî ad ogni novità vigano i costumi d'una volta. Potremmo tutt'al più mettere il piede nel vicolo di quel Matteo lo Vecchio che fu il più efferato aguzzino sotto il breve tempestoso regno di Vittorio Amedeo e maestro insuperato nell'arte di ordir calunnie, preparar denunzie, eseguire catture, onde di poveri accusati le carceri pullularono. Potremmo affacciarci all'antro recondito ove Anna Bonanno, la famigerata vecchia dell'Aceto, manipolò fino a ieri (1782) beveraggi arsenicati per amanti che vagheggiavano scellerati disegni sopra molesti rivali; sì che mariti e mogli misteriosamente finirono. Potremmo anche accostarci a guardare la finestra alla quale si fermava fanciullo Giuseppe Balsamo, il futuro Conte Cagliostro, e donde la madre e la sorella di lui fiduciosamente salutarono W. Goethe, venutovi a conoscerle ed a raccoglier notizie sulla infanzia del celebre impostore (1787). Potremmo anche deplorare il sopravvivere di pratiche refrattarie ad ogni umano progresso. Nient'altro che questo.

Ma nelle strade Maestra e di Porta di Castro rumoreggiano confusamente i venditori: e non si riesce a sentire neanche i carretti che ci minacciano alle spalle, carichi di barili di quel di Partinico o di verdure di Denisinni e dei Settecannoli; nè i venditori ambulanti, che con le loro immense canestre c'impediscon l'andare, o ci tolgono il vedere i cento usci ingombri di merci pendenti dagli stipiti od ammucchiati ai fianchi. Una [pg!41] sequela interminabile di bottegucce ti dà la mostra di quel che in esse si spacci: dalle brocche e dalle pentole al nocciolo ed alla carbonigia, dalle funicelle e dagli spaghi alle punte ed alle cordelle, dalle sporte e dalle ceste alle ferule ed alle granate: e pane e pasta e carne e gli avanzi delle frutta di inverno.

Quando tu credi di uscir di tanta confusione sboccando a Ballarò, allora il frastuono accresce lo sbalordimento. Altre botteghe con altre merci si succedono come rincorrendosi a destra ed a sinistra: ed un vinaiuolo grida come nella Fata Galanti del Meli57:

Tasta ch'è di Carini, veni, tasta!

ed uno spillettaio:

Haju spinguli, agugghi e jiditali, Haju curdedda pri faudali!

E nel mezzo, tra la gente che deve comprare, e lesina sul quattrino, rigattieri (pescivendoli), erbivendoli, panettieri, fruttaiuoli: e comari che cicaleggiano, e facchini che si bisticciano, e monelli che dagli schiamazzi non fanno udire un nuovo bando che il Senato pubblica.

Più in su, verso il piano del Carmine, o verso quello di Casa Professa, i caminanti (spacciatori di libretti e stampe popolari) vendono per due, tre grani le storie di S. Alessio e di S. Cristoforo e quella di Piramo e Tisbe, men ricercata del contrasto tra la Suocera e la Nuora, della Storia della vecchia che ha perduto il gallo e la Leggenda delle Vergini, [pg!42] che Napoli in numero straordinario di copie riversa su Palermo.

Qui come negli altri rioni fanno le loro frequenti affacciate i soliti cantastorie col loro ricchissimo repertorio di pratiche religiose per tutte le feste dell'anno, di preghiere per tutti i giorni della settimana, di orazioni per tutti i santi di Palermo, di leggende per tutti i fuorusciti della Sicilia e per tutte le novità più clamorose. Nuova di zecca quella di Testalonga; sempre nuova e sempre vecchia quella della Principessa di Carini, e per poco che ci accostiamo, udremo la patetica ottava sopra i due sfortunati amanti:

La Vernagallu, beddu Cavaleri, Di Carini a la figghia fa l'amuri. Ma cchiù chi cci usa modi 'nnamureri, «Pri mia fôra (idda dici) Don Asturi». Iddu la voli in tutti li maneri, Cci va d'appressu e l'invita a l'amuri; E currennu, a la fini, da livreri La junci, e tutti dui dicinu: amuri .

Nata di fresco una filastrocca, che a Ballarò si canticchia ad onore e gloria del Pretore Marchese di Regalmici:

Quant'è beddu stu Prituri, Ca nn'ha fattu lu stratuni! Fici 'i Quattru Cantuneri Pri li frati e li mugghieri....

E ci si ride sopra amaramente pensandosi che mentre si fanno tante spese di lusso, il costo dei viveri cresce a marcio dispetto di tutte le mete e di tutti i Pretori. [pg!43]

Intanto che ci troviamo nel più antico e popoloso mercato, non vorremmo prender conto del prezzo di qualche derrata? Oh sì: esso ci potrà essere certamente utile. Fissiamo la data: 1798. Ecco: v'è del pane di prima qualità per dodici grani e tre danari un rotolo; la gente lo vuole a forma di guastidduni e di puliddi (la forma più grande, cioè, e la mezza forma): e grida se non è del peso regolare di un rotolo e mezzo, e magari due, per un tarì. Della pasta bianca come cera di Venezia si ha per dieci grani e quattro danari. Di carne non si fa molto consumo; e di Venerdì e Mercoledì e nei giorni di vigilia, non se ne cerca altro che per gli ammalati, la migliore però si ha a tre carlini e tre danari, quanto l'olio. Le galline abbondano, ma chi volete che ne mangi a tre tarì l'una, quando fino a pochi anni sono (1794) costavano due tarì e sei grani quanto le paga l'Ospedale grande e nuovo? Le uova son tre grani l'uno; il carbone non va a misura, ma a peso, anche a minuto; ed un rotolo si paga cinque grani; un quartuccio di vino sette; un rotolo di sapone, sedici; uno di formaggio, ventotto; uno di sugna, due tarì e sedici grani58.

Non diversi gli altri mercati, sia quello della Fieravecchia, sia l'altro del Garraffello, che da poco il Senato, pur biasimandone il nome, ha battezzato Caracciolo, ed il volgo, Vucciria: titolo che un sedicente romanziere nel 1870 dovea derivare, non già da beccheria ( boucherie ), ma dalle voci che vi si fanno!59.

[pg!44]

Questa la città nella rapidissima visita che ne abbiamo fatta. Ma chi sono, e che sono essi i cittadini alla fine del secolo?

Ecco una breve statistica, buona a far capire molte cose.

Fissiamo la data anche qui: l'anno 1798. La popolazione, secondo l'ultimo rivelo o censimento, è di 148,138 abitanti. Esistono 38 conventi, 39 monasteri, 152 chiese con 7379 preti, frati, monaci e monache. (Avvertiamo qui una volta e per sempre che per convento in Sicilia s'intende monastero, con uomini; e per monastero, convento, con monache; ma di ciò, meglio a suo luogo, cioè nel capitolo dei Monaci e delle Monache ).

Moltissimi, come più innanzi si vedrà, i nobili tra autentici e falsi, tra veri, presunti e sedicenti. Il ceto medio o civile è sempre ascritto a corporazioni: e tra esse va ricordato il collegio dei medici, quello degli aromatarî, dei dottori, dei procuratori, dei sollecitatori e le nazioni dei Napoletani, dei Genovesi, dei Milanesi. Numerosissimi gli artigiani, divisi, non ostante i vicereali decreti, in maestranze di argentieri, caffettieri, barbieri, fornai, cocchieri, bordonari.

Queste cifre sono officiali; ma vanno controllate medesimamente che quelle del censimento del 1774, nel quale per un malinteso interesse delle loro chiese, i parroci fecero riveli per 216,000 anime, compresi i sobborghi di S. Lucia e di S. Teresa, dei Colli e di Bagheria, ed esclusi 6000 ecclesiastici: rivelo così sorprendente da eccitare i patriottici ardori del Villabianca, che esclamava:

«Faccia Dio onnipotente colla sua infinita beneficenza [pg!45] portare avanti siffatto aumento costantemente nell'avvenire, e un anno miglior dall'altro, a gloria del suo servizio ed a vantaggio di essa metropoli!». Così i parroci potevano di buona fede nel 1774 far credere al loro ordinario, Monsignor Filangeri, stragrande il numero delle anime commesse alle loro cure; e nel 1798, forse accortisi dell'errore di ventiquattr'anni prima, o forse insospettiti della fiscalità governativa, inacerbita nelle forme più insidiose di contribuzioni volontarie e forzate, di mete e di balzelli comunali, poterono scendere al numero che abbiam visto di poco più che centoquarantottomila abitanti. Esagerazione la prima, all'indomani della rivolta del 1773; esagerazione la seconda, alla vigilia della entrata delle armi repubblicane di Francia in Napoli.

E allora qual'è la verità?

La verità non si sa, ma si suppone: e la supposizione è questa: che nel 1774 la popolazione potè essere di circa 184,000 anime, e nel 1798 potè giungere a 200.000! Così la pensa un bravo nostro statistico, il quale, ha delle cifre in mano per affermarlo60.

Ora che da buoni palermitani abbiam fatto un po' di giro, guardando dove l'una, dove l'altra delle particolarità della città nostra, non vorremmo noi sentire quel che di essa dicono i forestieri? Perchè, altra è la impressione d'un paesano, altra quella d'uno straniero. Al paesano sfuggono le cose alle quali egli ha, fin dai suoi primi anni, abituato l'occhio; mentre quelle medesime cose allo straniero si appresentano, per poco che [pg!46] egli le veda, come nuove o caratteristiche. Per lui tutto è curioso: le vie, le case, i monumenti, gli abitanti, e, degli abitanti, il vestire, il muoversi, il gestire, il chiacchierare. Grande perciò il contrasto fra il giudizio del nazionale e quello dello straniero: mentre poi si completano entrambi a vicenda.

Degli ultimi trent'anni del sec. XVIII abbiamo quasi trenta libri di viaggi in Sicilia. Alcuni si ripetono: e noi, che siam costretti a brevità, dobbiamo restringerci a pochi, i quali valgono i molti.

Primo nel nostro interesse viene Jean Houel, architetto e pittore del Re di Francia. Data del suo viaggio: 1782.

«La situazione della città, egli dice, è felicissima; lo spettacolo del mare, delle colline, delle montagne, trasformandosi in aspetti deliziosi, rende questo suolo più che adatto a formare artisti. Palermo è piena di monumenti pubblici, di chiese, di monasteri, di palazzi, fontane, statue, colonne: non tutto è bello, non tutto di secoli di buon gusto; ma tutto è buono ad attestare che questo popolo ha amore alle arti e genio di decorazione.

«Le acque sorgive vi sono abbondantissime, e non v'è rione che non abbia le sue fonti, per lo più di marmo, tutte ornate di sculture, tutte d'acque copiosissime».

Questo delle fontane è un ricordo prezioso per noi. Dentro e fuori la città se ne incontrava sempre qualcuna. Due, per esempio, erano a Porta Felice, addossate ai grandi pilastroni; due fiancheggiavano, come vedremo in quella piazza, il teatro della musica alla prossima via Borbonica (Marina). Tra la prima e la [pg!47] seconda casetta di questa via, nello spessore della cortina (bastione delle Mura delle Cattive) era una ricca sorgente, alla quale andavano ad attingere gli acquaiuoli ambulanti della passeggiata61, ed a fornirsi pei loro viaggi i legni ormeggiati alla Cala, come quelli del Molo si fornivano alle due fonti a lato dell'Arsenale. Ve n'erano a Porta Reale, a Porta S. Antonino. Con premurosa curiosità additavasi quella nella quale in forma di sirena l'innamorato Vicerè Marcantonio Colonna avea voluto ritratta la indimenticabile Baronessa di Miserandino, che gli fece incontrare avventure romanzesche. Dentro città, una piramidale eravene nel piano del Carmine (1795); una in quello del Monte di Pietà; altre sotto lo Spedale di S. Giacomo, alla Fieravecchia, nel piano della Conceria, nella piazzetta di S. Francesco, alla Bocceria, dietro le regie Carceri. Eccellente reputavasi l'acqua di Vatticani, nel Cassaro, e l'acqua del Garraffello, presa a tipo di leggerezza e freschezza in Palermo, a termine di paragone in tutta Sicilia. E chi lo ignora? Essa a quanti ne bevevano dava come il battesimo della scaltrezza e della avvedutezza dei Palermitani. La sua fama giunse fino alla Corte di Napoli; quando questa giunse a Palermo, volle esserne servita nei caldi giorni di estate, mentre dell'acqua pretoria beveano abitualmente molte famiglie nobili, i cui servitori in lucide mezzine di rame andavano a provvedersene all'ora del desinare.

Cent'anni dopo, molte di queste acque, già proprietà del Senato, erano parte per vicende telluriche [pg!48] o per appropriazioni indebite scomparse, parte per dichiarazione dei batteriologi inquinate!

Torniamo ai viaggiatori.

Pel naturalista tedesco Stolberg, «mediocremente larghe sono le vie del Cassaro e Macqueda: e sarebbero belle se gli abitanti delle case fossero eletti. Ogni apertura ha il suo balcone a ringhiere ferrate, le quali danno alle vie un aspetto tutt'altro che bello, specialmente se lavorate con poco gusto. In certe strade larghe ci si sta come in gratelle di ferro»62.

Ad un connazionale dello Stolberg, non pur le ringhiere, ma anche l'architettura delle chiese, le variopinte decorazioni delle case a colori stridenti sembrano meridionali63; e ad un altro, tedesco anch'esso, tutto si presenta diverso dal continente64: un insieme singolare e bizzarro, pieno «di vita e di operosità», un paese ove «anche uno sguardo fugace vede il centro del benessere siciliano:... e commercio ed arti»65.

«L'affabilità ed onestà dei Palermitani, peraltro, rende sommamente gradito ai forestieri questo soggiorno»66. Fatidica poi la previsione di Houel: «Palermo diventerà una delle migliori città del mondo; [pg!49] l'Isola della quale essa è Capitale, coltivata come un giardino, potrà essere la più deliziosa abitazione della terra»67. E già nel 1814, per Kephalides, Palermo era «un vero paradiso!»68.

La nostra passeggiata è andata troppo in lungo perchè ci sia consentito di prolungarla dell'altro. Siamo a mezzogiorno, e si pensa a desinare.

Un'onda di forensi, chi a piedi, chi in carrozzelle, chi in portantine, scende dai tribunali del Palazzo del Vicerè spargendosi per tutta la città. Compiuta la via crucis dei loro ammalati, i medici rincasano stanchi delle sofferenze udite e viste. Scolari d'ogni età e d'ogni disciplina, fornite le lezioni antemeridiane, si affrettano verso le loro abitazioni. Le botteghe si chiudono, le strade si spopolano. Un tedesco che le vide disse: «Come diventi il Cassaro, non può meglio esprimersi, che paragonandolo alle nostre vie a mezzanotte».

La siesta dura ordinariamente due, tre ore, nelle quali ognuno schiaccia il sonnellino pomeridiano principiando dalla primavera e finendo all'autunno ed anche più in là; gli ecclesiastici, dal 3 Maggio al 14 Settembre, ricorrenze commemorative della Santa Croce consacrate nel detto: A Cruce ad Crucem.

Poco dopo le vent'ore (4 prima dell'Avemmaria) tutto torna all'ordinario; il movimento si riattiva, si ripopolano le vie; fanciulli e giovani raggiungono le [pg!50] loro scuole e, se di vacanza, le ville delle pie congregazioni alle quali sono ascritti69.

In estate, si va alla Marina.

Noi la vedremo più innanzi questa Marina deliziosa; qui non vogliamo, con una pallida descrizione, sfruttarne l'entusiasmo.

Vediamo, invece, la città di sera.

L'orologio di S. Antonio batte la castellana (due ore dopo l'Avemmaria). Una volta questo segno imponeva agli artigiani la chiusura delle botteghe; ora (1787) lascia ad essi le facoltà di tenerle aperte: indizio della lenta evoluzione dei pubblici costumi70.

Le porte della città si chiudevan tutte; ma gli abitanti de' sobborghi ne soffrivano disagio: e più volte ebbero a muover lagnanze al Pretore contro la vieta pratica, che li condannava a rimaner fuori quando avean bisogno di entrare; e viceversa. Tra le lagnanze più insistenti eran quelle degli abitanti presso S. Teresa, i quali domandavano che Porta di Castro, almeno fino a due ore di sera, rimanesse aperta, come gli altri di fuori Porta di Termini (oggi Garibaldi), insistevano perchè l'apertura si protraesse tutta la notte71.

[pg!51]

Il Senato concedeva l'uno e l'altro, e S. E. ordinava guardiani ad hoc72.

L'appetito viene mangiando: e quei di S. Teresa, «non contenti delle due ore, chiedevano completa libertà di entrata ed uscita da Porta di Castro di notte»; e poichè stavolta il Senato facea orecchie da mercante, il Re emanava provvedimenti in proposito73.

Porta Felice, spalancata di estate, si chiudeva a tarda sera d'inverno, quando, cioè, l'orologio grande dello Spedale di S. Bartolomeo (S. Spirito) sonava la mezzanotte, se pure l'orologiaio D. Francesco Melia non pigliava un'ora per un'altra nel caricarlo74.

Sul vecchio catenaccio di questa porta scherzavasi con l'indovinello d'un poeta d'allora:

Cu' fu lu mastru quali fabbricau Lu catinazzu di Porta Filici? 75

La quistione delle Porte era grave, anche per l'ordine pubblico. Alcune di esse costituivano un pericolo permanente per la morale e la igiene. Porta di Termini, ad esempio, prolungandosi quanto l'androne sottostante alla Congregazione della Pace, di giorno era popolata di ciabattini, ma di sera, essendo al buio, diventava rifugio di malviventi. Porta S. Antonino di Vicari formava un lungo tratto di via coperta, che era un orrore. Erasi [pg!52] gridato a perdigola contro la indecenza di certa gente che vi si andava a ridurre come a luogo innominabile; ma solo il 2 Gennaio 1789 il Vicerè si decise a farla finita. S. E. affidò al Principe di Mezzoiuso l'incarico delle opere necessarie alla cessazione dell'indegno spettacolo; ed il bravo Principe, senza pastoie di commissioni, senza lustre di contratti, fece diroccare un pezzo del bastione, ricostruire molto più ampia, in linea della via Macqueda, la porta, e nel nuovo spazio di dentro ordinò botteghe, e di fuori fontane secondo l'architettura della Porta Carolina (Reale).

Ma le porte non si toglievano; anzi le vecchie si rifacevano o si rimettevano a nuovo76.

Meno le due vie principali, il piano del Palazzo, la via Alloro ed altre di second'ordine, delle quali il Senato prendeva speciale interesse77, tenendovi fanali che anche oggi sarebbero singolare ornamento78; la maggior parte della città rimaneva al buio. Solo qualche rado lumicino e la scialba luce delle lampade innanzi le edicole dei santi rompeva le fitte tenebre delle viuzze [pg!53] e dei cortili quando la città era immersa nel silenzio della notte79; e se un improvviso lume guizzava, era fugace come il passaggio d'un signore che, dopo una leziosa conversazione o una disastrosa partita alle carte, frettolosamente rincasasse accompagnato da lacchè con torce a vento o da un fedel servo col lampioncino acceso.

Preceduta da un « cavarretta », che rischiarava strade e viuzze80, la ronda andava in giro. Ogni persona dubbia che incontrasse, la ronda la fermava, ed il cavarretta con la sua lucerna fissavala di sorpresa. Per poco che un sospetto cadesse su lei, veniva tratta in arresto.

Una canzone, nata e cantata nel Luglio del 1774, ricorda la severa pratica:

Pigghiannu la lanterna Mittennula a la facci, Chiddu chi 'un avi 'mpacci, Già vota e si nni va.

La qualificazione di porta-lanterna anche oggi viene applicata al più spregevole aguzzino, e, per traslato, a chi commette azioni birresche. [pg!54]

La oscurità non poteva non favorire anche il mal costume, fomentato soprattutto dall'eterno bisogno. Dove quella era più fitta, quivi si raccoglievano male femine, delle quali era una vera falange. Nel rione dell'Albergaria esse infestavano luoghi reconditi, attiratevi specialmente dalla vicinanza dei quartieri militari. Il vicolo degli Zingari, presso Porta di Castro, parla ancora. In tutta la città però queste sacerdotesse di Venere si raccoglievano all'ombra delle conniventi pinnati81, numerosissime anche dopo il provvido repulisti che ne fece, Pretore il Regalmici, la Deputazione delle strade82, e per vecchio costume riducentisi in que' posti del Cassaro che agevolavano le fermate e ne proteggevan le clientele; onde il titolo di cassariote col quale le vedremo83.

[pg!55]

Capitolo III.

PULIZIA E CONDIZIONI IGIENICHE DELLA CITTÀ; BANDI DI PALERMO!...

Una delle ultime forme, e forse l'ultima, di quella specie di magna charta della pulizia urbana, che nel suo complesso organico apparve nel 178284, sul finire del secolo ammoniva gli abitanti di Palermo de' loro doveri «per il mantenimento e limpidezza delle strade di questa città e suo territorio».

Il 22 aprile del 1799, infatti, con tanto di visto del Principe di S. Giuseppe sindaco, veniva bandito un lunghissimo ordine regio pel decoro e la nettezza della Capitale e per la salute dei suoi abitanti.

Chi ne scorra oggi i cento e più articoli, non può non riconoscervi un documento di civiltà moderna: e vorremmo tutto metterlo sotto gli occhi del lettore [pg!56] se dal farlo non distogliesse la soverchia lunghezza di esso.

Nella impossibilità materiale di riportarlo nella sua interezza, noi dobbiamo contentarci di un magro spoglio delle cose più utili a far conoscere usanze inveterate, e, con esse, condizioni topografiche, interne ed esterne della città, in mezzo alle quali si movevano padroni e servi, venditori e compratori, pedoni e cavalieri, femmine e donne; e carrettieri e vetturali e boari e panicuocoli e fabbriferrai e fallegnami e rigattieri e perfino cenciaiuoli e spazzaturai.

Il dettato del bando conserva l'antica nomenclatura, dal popolo così bene intesa, specchio fedele di quella lingua mezzo siciliana, mezzo italiana, nella quale esso venne originariamente composto.

A quello tra' lettori che non tutto potrà comprendere, gioveranno senza dubbio le spiegazioni intramezzate al testo; ma forse non basteranno, perchè troppo di dialetto e di antiche istituzioni locali, non a tutti i Siciliani d'oggi note, risentono questi documenti, avanzo d'un tempo oh! quanto diverso dal nostro.

Cominciamo la lunga rassegna.

D'ordine del Vicerè e ad istanza della Deputazione per le strade si ordina:

«che nessuno, e specialmente padroni di botteghe e conduttori, possa piantare focolai in mezzo le strade, dentro o fuori città, senza licenza, per non dare incomodo al pubblico passaggio; e caso mai, il cufolaio ( focolaio ) non sia più di palmi due, appoggiato al muro delle botteghe proprie e non già in mezzo le strade; che nessuno getti fuori di casa immondezze ( spazzatura ), [pg!57] che la sterratura ed altro materiale di fabbricatura sia portato in luogo designato fuori città, senza seminarlo per istrada, sotto pena di doverlo riprendere; che i fumalori ( spazzaturai ) che raccolgono immondezze, non debbono sporcare le strade; che ogni persona che abbia casa, debba ogni mattina scopare innanzi di essa la polvere, di estate, innaffiando, e il fango d'inverno, fin mezzo la strada raccogliendo in monzelli ( mucchi ) quella roba ad un lato della rispettiva casa o bottega fuori la rispettiva sponda delle abitazioni senza impedire il passaggio, così come con le immondezze interne, che poi dai soliti animali per le immondezze possono essere portati; ma, in ragion dei bandi 10 ottobre 1747, 20 novembre 1751, 18 aprile 1757, 12 settembre 1775; che nessuna persona possa gettar dalle finestre, balconi, aperture, porte, acqua lorda, di bagni, orina, bruttezze, immondezze ecc. di giorno e di notte; che le bancate, pinnate di botteghe, caciocavallari, fogliajoli, mercadanti, drappieri85, pannieri, orologiari che sono oltremisura siano ridotte alla misura voluta, di palmi 4 la pinnata, 2 palmi la bancata; che non si lascino di notte fossi praticati di giorno».

Contro l'ingombro delle vie:

«E perchè li costorieri ( sarti ), spadari, cappellieri, scarpari, scrittoriari ( moganieri ), maestri d'ascia d'opera gentile e opera grossa, bottegai ( fruttivendoli ), venditori di qualunque genere di comestibili ed altre persone di qualsiasi mestiere ed arte, anche quelli che non hanno [pg!58] bottega, si mettono tanto nella strada Toledo e Macqueda, quanto nell'altre strade e nelli luoghi pubblici di questa città e sobborghi con sommo detrimento, con sedili, percie, rastelli, cartelli, cannestri, boffette86 ed altri, con le quali si viene ad impedire il pubblico passaggio alli cittadini, con qualche pericolo, e particolarmente nel Cassaro di questa città, ove vi è la frequenza delle carrozze, talmente che non si può sopra la sponda seu catena della strada Toledo e Macqueda nè per altre strade camminare.... così vien fatto divieto che più oltre si continui con questi abusi».

Assoluta è la proibizione che si occupi in un modo o in un altro il suolo pubblico:

«I venditori sia per giuoco di cannamelli o di granata, o di miele d'apa87 o venditori di fichi d'India che non si possano situare nel Cassaro o Strada Nuova, Quattro Cantonieri, piano della Corte, Piano delli Bologni e della madrice Chiesa, siano obbligati tener limpie e nette così delle foglie di dette cannamele, delli sopravanzi delli granati, delle scorze di fichi d'India ed altre immondezze, che facciano li suddetti venditori nelle banchette del Cassaro e Strada Nuova, purchè non impediscano il passaggio al pubblico in quelle parti ove saranno dalla Deputazione per le strade situati; come pure li venditori di fichi d'India, che vanno camminando per la città con le cartelle ( corbe ), non possono fermarsi in nessun luogo portando con essi altra cartella per cogliere le scorze di detti fichi, e questo per [pg!59] non sporcare li luoghi, strade e fontane pubbliche; come pure lo stesso si proibisce alli venditori di celsi neri ( gelse more ).

«E più essendosi osservato che tanti tengono nelle strade, avanti le loro rispettive porte, delle mangiatoie per cavalli, asini, muli ed altri animali, con grave pericolo ed incomodo di chi passa, si ordina che fra il giro di giorni 15 dalla pubblicazione del presente bando si debbono disfare».

E per altre maniere d'ingombri delle vie:

«Avendosi osservato la mostruosità delli venditori di robbe, che si situano nelli Quattro Cantonieri di questa città, con perdersi la visuale di quel bellissimo ornamento, come di essere di impedimento al pubblico passaggio; per tanto si ordina, provvede e comanda che nessun venditore di qualsiasi robba abbia in avvenire da pratticare detta vendizione o situazione di robbe per venderle, come quelle portarle in altri luoghi e per tutto il Cassaro e Strada Nuova88.

«Nessuna persona possa fare ascare ( fendere ) legni, nè scaricare qualunque sorta di robba, ferro ed altro sopra le strade balatate ( lastricate ) di questa città; come pure non accendere, nè fare accendere fuoco per non devastarsi le dette strade balatate».

Tra le altre disposizioni, ve n'è una che permette ai chiodaiuoli di piantare le loro tende e fucine solo nella Piazza Marina, rimpetto alla Vicaria, nella piazzetta della Chiesa di S. Sebastiano, e sotto gli archi [pg!60] di S. Giuseppe dei Teatini, nell'attuale via Giuseppe D'Alesi.

Un'altra vieta ai carri da buoi carichi di pietre di passare per la via del Borgo, dal ponte di S. Lucia a Porta S. Giorgio, perchè la renderebbero impraticabile e guasterebbero i fossati del Bastione presso quella porta; e indica la via da tenere, per la cui manutenzione i padroni di carri si erano obbligati con atto notarile.

«Si è osservato che altrettanta mostruosità apportano ed impedimento al pubblico passaggio l'essere collocati nelli Quattro Cantonieri sino alla punta delle banchette le sedie portatili ( portantine ), essendo anche causa di perdersi detta visuale ed impedimento al pubblico passaggio; intanto si ordina che d'oggi innanti le suddette sedie si dovessero situare e collocare in dette Quattro Cantonieri e nella Strada Nuova e nel muro della Chiesa dei PP. Teatini una dopo l'altra in fila, con lasciare libero il passaggio su la sponda, seu catena, per il commodo del pubblico. Siccome anche tutte l'altre sedie nel Cassaro e Strada nuova avessero da praticare lo stesso».

Non era vigilanza che bastasse ad infrenare cocchieri e portantini, abituati a qualunque abuso, e coloro che si lasciavano condurre in carrozza o in sedia volante.

Perciò provvedimenti richiamati in vigore dalla Deputazione per le strade fanno fede che nel sec. XVIII, come, del resto, nel XIX e nel neonato XX, certe pratiche persistevano inalterate. Un bando di quattr'anni prima, che è uno dei tanti sui medesimi inconvenienti, suona così: [pg!61]

«Che i conduttori di bestie da soma entrando in città camminino e conducano a mano o per le redini le rispettive vetture.

«Che ogni carrozza che cammina [non] si fermi a capriccio o col pretesto di volere o il padrone o il cocchiere discorrere con altri.

«Che nel passeggio della Marina si vada in più di due file di carrozze e sedie volanti, dovendosi lasciare vacuo il centro o mezzo per libertà di S. E.»89.

L'abate Cannella, che l'avea contro Mons. Lopez, avrebbe potuto applicare a lui l'eterno rinfaccio del Cicero pro domo sua.

E di vero, il vanitoso Presidente non pensava se non alla sua libera passeggiata nello spazio libero tra le due file di carrozze; pure stavolta il Lopez riproduceva sic et quatenus gli ordini dei suoi predecessori.

La malattia delle fermate nel Cassaro è antica quanto la carrozza e la portantina, quanto lo spagnolesimo, quanto lo spirito aristocratico, potremmo anche dire quanto il comodo umano. Un bando del Vicerè Niccolò Pignatelli, Duca di Monteleone, ordinava nell'Agosto 1720 «che nessuna carrozza, sterzino o sedia volante possa fermarsi al Cassaro o alla Marina durante il passeggio; e chi voglia fermare qui a sentire la musica deve mettersi in una delle due file rimanendo quella di mezzo pel libero passaggio del Vicerè»90. — Proprio come nell'anno 1775, quando il secondo Marcantonio [pg!62] Colonna richiamava in vigore la medesima disposizione91; proprio come nel 1795!

E non diverse le pene ai contravventori, anzi più gravi delle solite: «I cocchieri, la frusta e quaranta sferzate o zottate del carnefice sopra un cavalletto nella piazza Vigliena; i padroni, la multa di onze cento o la perdita istantanea con la vendita irremissibile nella medesima piazza della carrozza, o calesse, o biroccio, o corso, o tariolo»92.

Le provvide ordinanze di pulizia pubblica, richiamate in vigore nel 1799, trovavano compagne non meno provvide contro tutto ciò che potesse anche lontanamente nuocere al comodo ed al decoro della città. Assidue le cure che il Senato prendeva degli alberi copiosi e folti ond'eran pieni e ornati i dintorni di essa; incessanti le premure di accrescerne il numero e la estensione fin dove gli espedienti finanziarî e la natura del suolo il consentisssero: onde il proponimento di piantarne nella montagna di Gallo, che si vagheggiava d'imboschire93. Guardie all'uopo destinate ne avean la custodia; carrettieri con botti, l'annaffiamento; frati di varî ordini, la potagione94. In casi rari minacciavasi e senz'altro [pg!63] applicavasi la pena dell'esilio a chi si permettesse di metter la mano devastatrice sopra uno di quegli alberi95.

La seguente ordinanza dimostra quale senso di estetica e di igiene fosse negli antichi amministratori del Comune:

«Osservandosi da questa illustre Diputazione delle strade, che di giorno in giorno vanno mancando e seccando gli alberi di pioppi, olivi ed altri, piantati nelle strade che conducono da Porta S. Giorgio sino al Molo e sino al Ciardone, per dare non meno il comodo a' cittadini di passeggiare ne' tempi caldi e di rendere vieppiù magnifica la strada, per causa che li padroni delle case, casini, luoghi od abitanti di essa, in mille modi e maniere artificiose, li fanno desiccare e recidere e scorticare; quindi la Diputazione, volendo ciò evitare, si è rivolta al Re, il quale ha ordinato gravi pene pei trasgressori chiamando responsabili i proprietari delle case e casine vicine e obbligandoli a ripiantare il doppio degli alberi recisi, spiantati, scorticati, mircati, scomparsi».

Gli ordinatori della pulizia urbana del sec. XX non sanno che la esperienza del passato era stata guida di coloro che prima, assai prima di loro, avevano studiato argomento così multiforme, ed importante per la vita pubblica e privata. Eppure essi non hanno se non ripetuto inconsciamente quello che avevano detto e fatto i nostri vecchi. La esperienza è maestra: e la esperienza aveva insegnato quanto gravi fossero le conseguenze di una dimessa pulizia stradale ed a quali [pg!64] pericoli si esponessero gli abitanti trascurandone certi particolari apparentemente frivoli. Chi presume il contrario, sconosce la vita di casa sua, che è vita di quella grande famiglia che è la patria.

E poichè pulizia ed igiene si danno la mano, gli Archivi della città e dello Stato ci offrono altre disposizioni acconce alla tutela di questa. Ma per poco che voglia farsene la rassegna, si resta non solo confusi al numero di esse, ma anche disillusi della vantata nostra sapienza del genere.

Nel periodo che ci sforziamo d'illustrare sono disposizioni di tempi anteriori. Ne rileviamo due, documenti della saviezza di molte altre.

Un nuovo bando del Pretore Marchese di S. Croce ordinava la buona qualità del tabacco (1785). Altro se ne rinnovava ogni anno per le modalità della immersione dei lini e del canape nei fiumi e pel seminato dei risi.

Tanta ragionevolezza di provvedimenti, se ben seguita, avrebbe dovuto far di Palermo una delle più pulite città d'Europa; ma, purtroppo, non era così. La Capitale dell'Isola era molto lontana da ciò che il suo magistrato si sforzava di avere. Ci sarebbe da giurare che tutti gl'inconvenienti previsti, tutte le imitazioni designate, tutte le licenze minacciosamente vietate, eran pratiche d'ogni giorno, d'ogni ora. Oh! è proprio il caso di esclamare: Bandi di Palermo e privilegi di Messina! Solo a fermarsi sulla tanto desiderata nettezza delle strade c'è da arrossire.

D'inverno le vie eran piene di mota; d'estate, di polvere. In una solenne adunanza dell'Accademia [pg!65] del Buongusto nel Palazzo del Principe di S. Flavia, in onore del Marchese di Regalmici, Onofrio Jerico conchiudeva con questa spiritosa sestina una sua laude al riformatore energico della città:

Dixi. Però 'na grazia v'addimmannu: Com' 'un aju carrozza e vaju a pedi, Vurria li strati netti tuttu l'annu. O fangu, o pruvulazzu chi arrisedi Sfascia li scarpi, allorda li quasetti, E in procintu di càdiri mi metti 96.

A qualche cosa il Senato rimediava con la famosa botte di Giacona, che dal 1746 offriva un modo pratico d'annaffiare le vie: una botte sopra un carro, che al davanti avea un mulo, e di dietro, con le spalle al carro medesimo, un uomo il quale, cianchettando ritroso, veniva dimenando a destra ed a sinistra un grosso tubo di pelle sulla molesta polvere.

Povero Giacona! Il pubblico ingrato tradusse la tua manichetta in un gesto somigliante a quello dell'annaffiatore, e in un motto che non risponde alle tue ingegnose intenzioni, per le quali un annuale servizio di 70 onze potò esser compiuto con sole 40!97.

Secondo un'antica ordinanza, passata in uso, ogni popolano ripuliva al far del giorno il tratto innanzi all'uscio di casa sua, come ogni mercante del Cassaro quello innanzi il suo negozio.

Goethe però il 5 Aprile del 1787 se la pigliava con un merciaiuolo, e per esso coi Palermitani, «che lasciavano [pg!66] ammucchiare, diceva lui, innanzi lo botteghe tante immondezze98, che poi il vento ritornava alle botteghe medesime»; ed il merciaiuolo, malizioso, gli faceva osservare che «coloro ai quali spettava di provvedere alla pulizia aveano grande influenza, e non si riusciva ad obbligarli a fare il loro dovere. Se si sgombrasse, aggiungeva, tutta quella lordura, verrebbe in luce lo stato miserando del sottostante selciato, e si scoprirebbero le malversazioni della loro disonesta amministrazione» (Oh! come il mondo è sempre lo stesso!).

Concludeva poi scherzando: «le male lingue dicono essere la nobiltà quella che favorisce questo stato di cose, affinchè le carrozze, andando di sera alla passeggiata, possano proceder senza scosse, sopra un pavimento meno duro»99.

Ma quel merciaiuolo se non conosceva la storia del suo paese, se non sapeva che già fin dai primi del quattrocento esistessero disposizioni per la pulitura delle vie, se ignorava che nel 1600 il Comune avea dato in appalto lo spazzamento ed annaffiamento giornaliero delle varie strade e piazze100; poteva almeno dire a Goethe, cosa della quale egli era testimonio, che otto anni innanzi (7 Ag. 1779) si era concertato la spazzatura [pg!67] del Cassaro e della Strada Nuova in una maniera più rispondente allo scopo. Poteva fargli osservare che certi carrettieri aveano impegnata con gli ortolani la spazzatura; anzi, come s'è visto in principio di questo capitolo, per antico decreto del Senato, le bestie da soma che entravano in città cariche di ortaggi non potevano uscirne senza la spazzatura delle famiglie, tanto nociva alla pubblica salute quanto utile alla agricoltura101; e che i padroni delle botteghe pagavano un bajocco (cent. 4) l'uno, per due spazzate la settimana, fatte da 20 forzati. Poteva anche soggiungere, ed egli doveva saperlo di preferenza, che per quanto il Senato facesse e nel Cassaro e nel Piano della Martorana lastricando, ripulendo, non riusciva mai a sbarazzare la immensa mota che le piogge continue vi producevano: difetto comune ad altri punti della città, ed alla Marina particolarmente102.

Quando il Presidente Lopez ordinò delle spazzate periodiche, il Senato non potè se non tornare a destinare una somma ad hoc per l'avvenire, ed affidare a «partitarî» questo servizio per le vie principali e per una volta la settimana103.

D'altro lato, bisogna esser logici. Il merciaiuolo di Goethe doveva sapere qualche cosa, se con un forestiero [pg!68] a lui sconosciuto si apriva intorno ad una pubblica accusa contro coloro ai quali incombeva la sorveglianza della pulizia della città; altrimenti conviene ammettere la solita malevolenza palermitana verso i Palermitani. Chi saranno stati i malversatori aventi l'interesse di non far vedere le reali condizioni del pavimento stradale? «I partitarî (appaltatori) delle strade o i deputati alla nettezza», potrebbe dirsi; ma chi può affermarlo con piena coscienza? Una sola rivelazione ci giunge per mezzo dei diaristi del tempo, ed è: che i «maestri di mondezza» (sorvegliatori di pulizia stradale) non erano immuni da colpe a danno del paese. Forse per loro oscitanza, forse per delittuosità, questi maestri venivano dalla voce pubblica accusati di corruzione; se no, come spiegarsi la sordidezza delle strade ed il lezzo delle carogne di cani e di gatti?

È vero che questo inconveniente non era nuovo; ma gli spazzini addetti a sì bassi servigi, portavano legati alla cintura degli uncini di ferro coi quali rimovevano i ributtanti ospiti.

Stanco di tante porcherie un giorno il Senato mandò a spasso questi inutili o disonesti «maestri»: e senz'altro ne abolì l'ufficio; contemporaneamente provvide alla pulitezza ed al decoro della città con una Deputazione di nobili, la quale con ufficiali adatti rispondesse alla bisogna104. E così fu fatto.

[pg!69]

Capitolo IV.

SENATO E SENATORI.

Magistrato supremo della città, il Senato mareggiava tra le giurisdizioni ed i privilegi che re e vicerè per volger di secoli avean profuso su di esso.

Grande di Spagna di prima classe, il Pretore procedeva a sinistra del Re e gli stava di fronte, a capo coperto, nelle cappelle reali. Generale di cavalleria, esso avea il comando supremo di tutte le truppe cittadine. Alle opere filiali del Senato era preposto e sovraintendeva con vigile cura. La Tavola o Banco, fondazione del Comune, avea in lui il mallevadore de' capitali privati; in lui il tutore supremo il Monte di Pietà; lui avea capo la Deputazione di salute, ond'egli traeva facoltà di accordare o negare libera pratica a chi giungesse per mare a Palermo, basso o alto che fosse e di qualsivoglia autorità investito. Mentre vi era un Protomedico del Regno, il Pretore era Protomedico della Capitale con poteri amplissimi sulla pubblica salute e sugli uomini ai quali era essa affidata, sulla igiene e sulla pulizia urbana.

Talvolta egli avea potestà anche criminale, rappresentando l'antico baiulo. [pg!70]

Nelle quattro grandi processioni e fiere dell'anno, il medesimo Pretore, accompagnato da un giudice della sua Corte, girava togato per le strade reggendo in mano il bastone, emblema di giurisdizione per la quiete del popolo. Gli eruditi scoprirono «l'uguale meccanica scritta nella romana Istoria e praticata dai consoli e pretori romani»; come un quissimile degli antichi littori precedenti i consoli vedevano nei contestabili che nelle pubbliche funzioni recavano il bastone sormontato dall'aquila. Tutti ne sapevano qualche cosa; ma sopra tutti D. Pietro Teixejra, storiografo del Senato105.

Per queste ed altre eccelse facoltà, in bocca del Pretore posava la sacra formola: Do, dico, abdico. Col do esso concedeva ai giudici della Corte pretoriana il modo di procedere nelle cause, come l'eccezione ai rei e la possessione dei beni; nel dico concentrava la proibizione dei giorni di giudizio e la restituzione in integrum per le persone; nell' abdico comprendeva il suo diritto in tutte le cessioni sulla legge scritta: nella confisca dei beni, nella vendita di essi all'incanto e via di seguito106.

Dal quale diritto traeva lume e forza quello civile e criminale che egli esercitava sulle carceri del Palazzo pei trasgressori delle ordinanze e dei bandi senatorii e le ingiunzioni al capo di Castellamare nel ricevere questo o quel reo di ceto nobile o civile. [pg!71]

Se questo pare troppo, si pensi che v'era anche dell'altro. Bagheria e Parco eran terre soggette al Senato, che vi esercitava amplissima giurisdizione per mezzo di persone di sua fiducia e da esso delegate. Prima che Ferdinando venisse in Palermo, e pensasse a proclamare città Partinico, ragione di lepido risentimento del Villabianca, che pur vi avea tenute, anch'essa, questa terra, era pel mero e misto impero soggetta al Pretore.

Ce n'era abbastanza, crediamo, per fare inorgoglire non che qualunque patrizio il più modesto cittadino palermitano, che pur sapea di non poter mai e poi mai aspirare, non diciamo alle sublimi sfere del Pretorato, od a quelle alte del Senato, ma alle altre di ufficiale nobile al seguito del Senato medesimo, pel quale un pezzo di blasone era indispensabile.

Il rosso associato al giallo era ed è tuttavia il colore senatorio della città; stemma pubblico: l'aquila d'oro in campo rosso; damasco cremisino le sopravvesti dei contestabili; rosso il drappo delle vesti dei mazzieri, sulle quali si disegnavano vaghissimi fiori d'oro107; rosso scarlatto e giallo la uniforme della fanteria e della cavalleria108, e rosso fiammante le livree dei sei paggi e dei sei cocchieri degli equipaggi.

Questo per coloro che circondavano il Senato; ma i singoli Senatori nelle loro giornaliere funzioni indossavano ordinariamente «il vestito alla francese in giamberga», [pg!72] come ci fa sapere il loro Cerimoniere109; nella mezza festa, toga semplice e cateniglia; nella grande festa, toga, manica ricca e gioie.

Il Pretore dava la intonazione al Senato: e quando avea paggi suoi (e raro è che non ne avesse), il colore della città veniva sostituito dalle livree della sua famiglia. Questa, per la forma e pel colore, si anteponeva talvolta a qualunque altra livrea, perchè indicava l'altezza del casato. Ricordasi in proposito, per analogia di richiamo, che quando il Principe di Paternò Moncada Capitan Giustiziere dovette recarsi nei suoi stati in Sicilia, e trattenervisi alcuni mesi (1780), il Pretore Regalmici ne ebbe la delegazione. Ora l'energico Marchese, zelando più che l'amico assente, si affrettò a fare aggiungere alla Carboniera ordinaria (la quale, come è risaputo, era il carcere di giurisdizione del Pretore, dentro il Palazzo municipale) altra Carboniera per le donne, ma non volle mai uscire a pubbliche comparse con gli ufficiali vestiti in livree Paternoniane110.

La fanteria composta di trenta dragoni era a custodia delle dieci torri di guardia del littorale ( torrari ); la cavalleria, di quaranta soldati, sorvegliava le spiagge e segnava l'avvicinarsi di barche sospette. Codesti eran detti «soldati di marina», e più tardi compagnia o «milizia urbana», nome sfigurato oggi, con uno de' qui-pro-quo della fortuna di cui il popolo possiede il segreto, in truppa babbana. Questa milizia rappresentava [pg!73] la forza propria del Senato sotto un comandante nobile (Sergente maggiore), un Capitano delle torri, un Alfiere, un Tenente e varî caporali, tutte persone civili; ed ogni anno, il 1º Maggio, veniva passata in brillante rivista. Carlo II nel 1695, confermando il privilegio di questa milizia al Senato, dava ad esso facoltà di assoldarne — in assenza del Vicerè — quanta per la sicurezza del Palazzo senatorio e della lanterna del Molo gliene abbisognasse, investendola dei medesimi onori e trattamenti delle truppe regolari regie, con divisa, tamburi, armi, bandiera e stemma della città.

E qui cade acconcio un richiamo storico strettamente connesso col privilegio di Carlo II.

Ciò che faceva il Senato facevano altri personaggi e comunità. La Compagnia dei barrigelli di Butera era modellata su quella di Palermo, benchè con iscopo un po' diverso. Ventiquattro soldati dragoni con insegne proprie, timpani e trombe correvano frequentemente una parte del Regno con la medesima libertà e giurisdizione delle compagnie reali. La Compagnia di San Cimino, dello stato di Monreale, mancava di stendardo, ma non della facoltà de' barrigelli di Butera: ed il Governo si serviva di essa come di altre compagnie baronali per la tutela degl'interessi e della sicurezza delle terre dei signori, quando le esigenze imponevano estirpazione di banditi, soffocazione di tumulti, od altre gravi pubbliche incombenze. Carlo VI riteneva potere con questo mezzo mettere sul piede di guerra meglio che diecimila uomini111.

[pg!74]

L'uscita del Senato era uno spettacolo sempre pittoresco, che chiamava sulle vie popolani e civili.

La compagnia dei carabinieri di cavalleria della truppa senatoria precedeva con le spade sguainate alle mani: regia preminenza più volte ritolta e ridata dai Vicerè. I contestabili, dalle larghe code, che coprivano muli o cavalli, e dal cappello ad embrici, eran sempre i servi, non sempre fedeli, dei loro Senatori.

Seguivano le tre carrozze del Senato. Di queste diremo particolarmente più innanzi.

Il rullo cadenzato dei tamburi, lo squillo monotono delle trombe ne annunziava il movimento. Quando l'alto Magistrato stava per entrare officialmente in una chiesa, festevole era lo scampanio; quand'era alla vista di un baluardo, spari assordanti d'artiglieria lo salutavano, anche perchè il Pretore era Capitan d'armi o di guerra del Val di Mazzara. Sforniti di cannoni i baluardi e scompigliate le Maestranze armate, queste pubbliche dimostrazioni, gravose al Comune, dannose alle fabbriche dei privati, cessarono. I cannoni che avrebbero dovuto servire alla difesa della patria, servirono per aiuto del Borbone in Napoli.

Le pretese di distinzione si acuivano tra gli ufficiali del Senato. Gli ufficiali nobili alzavano la cresta in faccia ai Senatori, non intendendo subire gradazioni lesive della loro dignità. Gli ufficiali civili li aizzavano facendo con essi quelle che si direbbero congiure di palazzo.

Una volta per la festa del Corpus Domini il Pretore Duca di Castellana, ammalato, delegò, consenziente il corpo del Senato, un senatore; i giudici pretoriani si [pg!75] negarono a prestargli omaggio, e ne seguì un litigio che si portò fino al Protonotaro del Regno112. Il perno della questione era questo: gli ufficiali nobili nelle processioni e in altre pubbliche comparse del Senato devono andare a lato o dietro ai Senatori?

Il Cerimoniale dava ai Senatori facoltà di regolarsi come credevano; ma gli ufficiali nobili non volevano riconoscere questa facoltà, ritenendola arbitraria. I Senatori affettavano indifferenza e tiravan di lungo; ma gli ufficiali sputavan veleno senza neppure ricordarsi della benevola concessione fatta loro dal Senato d'un tappeto sotto le loro sedie113; e tra il pretendere degli uni ed il rifiutarsi degli altri; tra l'imporre di quelli e il disubbidire di questi, si giungeva per lungo, eterno dissidio alla fine del secolo. Celebrandosi nel 1800, presenti i Reali di Napoli, le funzioni della Settimana Santa, il ceto civile faceva una tacita ma severa dimostrazione contro la senatoria dignità: brillava per la sua assenza, come direbbe una frase moderna!

Vecchio ed infermiccio, il Marchese Villabianca ne avea notizia fino a casa, e nel suo Diario consacrava questa nota, che nel decadimento grammaticale accusa lo ingenuo sognatore del passato, il patrizio a cui mancava la esatta visione del presente: «I paglietti hanno disdegno il servire e corteggiare i magnati. Non v'è forma che questi benedetti paglietti per la potenza che hanno nelle mani, di arrivare e conoscer sè stessi, cioè la loro condizione, stato e differenza. La superbia e [pg!76] l'orgoglio li mangia vivi»114. Eppure egli stesso negli anni passati avea biasimato i suoi consorti e lodato le opere pubbliche dei poglietti, tipo dei quali per amor patrio disinteressato il Presidente Asmundo Paternò!

Ma non ci occupiamo di queste miserie, quando ben altro abbiamo da vedere.

Due delle tre carrozze del Senato erano veramente belle. Nella prima andava il Pretore coi Senatori; nella seconda, altri Senatori; nell'ultima, il Cerimoniere, il Segretario e qualche ufficiale nobile. A volte nella prima entrava tutto il Senato; nella seconda, la sua Corte; la terza procedeva vuota per rispetto.

Eccole queste magnificenze!

Montate su traini e sospese con solidi tiranti di cuoio sopra molle, esse sono, all'esterno, ricche di dorature e di dipinti allegorici: all'interno, fulgide per la tappezzeria di raso rosso. La maggiore di queste carrozze somiglia a quella di Carlo X serbata ora al Trianon, ma le ruote son cariche di sculture; e nello insieme ha una linea più armonica di quella della vettura di Caterina di Russia (1773)115.

Donde vengono queste carrozze?

Negli Atti ufficiali troviamo più volte cenno di carrozze pretorie.

Il più curioso è quello del 1789. S. M. accordò al Senato la carrozza dell'abolito S. Uffizio contro il pagamento di onze 46116: il che significa che il Senato prese [pg!77] od ebbe la carrozza, probabilmente di gala, del grande Inquisitore, testimonio degli ultimi atti generali di fede. La trasformazione degli stemmi fu presto fatta: alla croce fiancheggiata dalla spada e dall'ulivo, col terribile motto: Exurge, Domine, et judica causam tuam, venne sostituita l'ardita aquila palermitana col classico S. P. Q. P.

Tre nuove carrozze uscivano l'8 Maggio 1796, festa di S. Cristina. La più bella tra esse attestava non la opulenza del Comune, ma la generosità dei privati. La fecero a contribuzioni proprie il Pretore, i Senatori, il Presidente del Regno ed i nobili, che con singolar munificenza vollero sopperire a questo bisogno del Senato. «Quel Senato, già così ricco e magnifico..., non ha come potere uscire a gala, e deve comparire accattone e cercare la elemosina per farsi una carrozza!», mormorava con profonda tristezza dentro la Biblioteca del Comune P. Giovanni D'Angelo; ed esclamava: «Tempi meschinissimi!... Io di questa mendicità non voglio nè posso ricercar la cagione. La indaghino i nostri posteri»117.

Ma la ragione, se vogliamo indagare la reticenza, può per un momento sospettarsi negli amministratori della città, i quali, perchè in alto, venivano presi di mira da chi stava in basso. Bisogna chiudere gli occhi alla luce per non vedere che, più che alla disonestà degli uomini, convenisse guardare all'indirizzo economico dei tempi ed alle teorie amministrative che conducevano a fatale rovina gli erarî civici.

La nuova carrozza pretoriana era quanto di più [pg!78] splendido avesse prodotto la Sicilia dal dì che veicoli del genere erano stati tra noi costruiti. I più esperti operai ed artisti vi avean lavorato a gara di delicatezza e di maestria, e Giuseppe Velasquez ne coronò l'opera con disegni che destavano l'ammirazione di tutti al vederla passare118.

Il fastigio del Senato non poteva non far gola agli amministratori delle opere filiali di esso, non nuovi alla dignità pretoriana o senatoriale. In seguito a recenti elezioni, i nuovi eletti eran punti dalla bramosia di andare a prender possesso solenne delle loro cariche nelle carrozze del Comune. Una pompa come quella non era da disprezzare! Ed il Principe Conte S. Marco, benchè avesse i suoi superbi equipaggi, la desiderò e la chiese. «In considerazione del merito e della nobiltà di esso principe», il Senato chinava il capo.

L'esempio è contagioso: e quando, compiuto il biennio del S. Marco, il nuovo eletto D. Francesco Statella, Principe del Cassaro, dovette far la funzione del suo possesso, si ricordò con letizia della carrozza officiale e la riconobbe adatta alla sua dignità. Il Senato, obtorto collo, consentiva anche stavolta; ma scorso, per non offender tanto signore, un mese, facea «un appuntamento col quale proibiva di potersi in avvenire accomodare ( prestare ) le carrozze proprie di esso Senato alle opere filiali per qualunque siasi funzione»119.

Difatti, era troppo che signori di quel grado, i quali quando coi loro equipaggi uscivano sulla via [pg!79] Alloro facevano maraviglia a chicchessia, dovessero cercar la pompa del supremo Magistrato della città!

Prima di lasciare l'ambito veicolo ed il cerimoniale che lo accompagnava anche nelle relazioni col rappresentante del Re, è opportuno un ricordo. Il sedere in carrozza con S. E. tenendo la sinistra, era un'altra delle prerogative del Pretore. Il Marchese Fogliani, che po' poi non guardava tanto pel sottile la distanza tra lui ed il magnifico Senato, confermò praticamente la prerogativa. S. E. il Principe Marcantonio Colonna di Stigliano ne diede benigna conferma al Pretore Principe di Scordia (Dic. 1774 e Marzo 1775), facendoselo sedere allato in una visita annonaria che volle fare con lui per Palermo.

È fama che codesta distinzione avesse voluto una volta arrogarsela il March. di Geraci Ventimiglia recandosi col Vicerè Duca de Uzeda a passeggiare alla Marina, e che questi, per tanta impertinenza, lo avesse mandato in carcere. L'atto del Ventimiglia fu invero audace; ma il nobil uomo non poteva dimenticare di essere il Marchese per eccellenza, in tutta Sicilia120, un piccolo re dei suoi stati con facoltà, dicevasi, di coniar moneta.

Savia consuetudine quella del periodo limitato delle cariche e degli alti uffici; savia perchè impediva il formarsi ed il prepotere di clientele protette da un lato, spalleggianti dall'altro chi siffatti ufficî a lungo s'infeudava. [pg!80]

Non più di due anni, spirati i quali non erano più rieleggibili, stavano in ufficio Pretore e Senatori, i Governatori del Monte di Pietà e quelli degli Spedali, il Deputato per la suprema generale Deputazione di salute e di quella del Molo, delle torri e delle strade; il Deputato della Terra di Partinico e l'altro della Terra di Bagheria ed altri di altre opere filiali. Più rigorosi, perchè più brevi (un anno appena), gli ufficî dei «giudici-senatori della gabella delli 12 tarì sopra ogni cantàro d'olio, della gabella delle teste piccole» ecc.

Di altri dignitarî e di modesti ufficiali urbani pochi quelli che, eletti, aveano da prestar giuramento; e tra essi l'Archivario della Tavola, i Giudici idioti, i Deputati di piazza, i credenzieri della carne, il Pretore, i Senatori, i Capitani delle torri, i Giudici pretoriani, il Capitan giustiziere: persone sulla fede delle quali era riposta la fede pubblica e sulle quali poggiavano le pietre angolari degli interessi cittadini.

«L'ufficio di Senatore per regio dispaccio del 12 Maggio 1775, deve conferirsi ai primogeniti e secondogeniti di famiglie magnatizie, titoli e feudatari con vassalli e tutt'altri nobili, ed atti a tale ufficio, ma con condizione che non usino il titolo di Eccellenza abusivamente fin qui preso, che compete al solo Pretore. La carica di Senatore sarà un passo per conseguire quella di Pretore».

Così scrivea il 26 Agosto 1775 il Villabianca, che pure anni prima aveva detto: «In Sicilia il solo Vicerè esige per forza l' Eccellenza come rappresentante la persona del sovrano»: e Sua Eccellenza era per antonomasia il Vicerè. Quando nell'Agosto del 1774 il Re sostituì [pg!81] la Giunta pretoria (una vera Giunta amministrativa dei tempi nostri), magistrato governativo di revisione degli atti del Senato, al Tribunale del R. Patrimonio: Giunta «composta di cinque ottimati ex-Pretori ed ex-Capitani giustizieri e patrizi della prima segnatura di nobiltà, cioè nati di famiglie pretorie e magnatizie», si pensò anche a questa grave faccenda del titolo. Fu concertato (ed il concerto durò fino al secolo XIX) che il ministro della Giunta pretoria scrivendo al Senato darebbe dell' Eccellenza, firmandosi in pie' della lettera, e che il Senato rispondendo col medesimo titolo non soscriverebbe nè come Senato nè come Pretore, ma col solo nome di Segretario121. E nel sovrano comando del 1775 veniva anche prescritto che i Senatori non dovessero essere obbligati a trattare con l' Eccellenza il Pretore122.

Vecchia costumanza, non mai intermessa, era quella che i nuovi nati dei Senatori in atto fossero tenuti al fonte battesimale dal Senato in corpo. Il battesimo assumeva un carattere di solennità particolare, compiuta con tutta pompa dal Magistrato civico. Quale compare, esso faceva un regalo alla comare, la senatoressa puerpera, alla levatrice, agli ufficiali della parrocchia. La senatoressa riceveva cinquant'onze: e se la puerpera era pretoressa in atto, cento. I Senatori non eran dei vecchi, e le mogli loro, molto meno. Immagini perciò il lettore come procedesse pel pubblico erario questa faccenda di sgravi, di battesimi e di regali! [pg!82]

Non v'era anno che il prolifero Senato non festeggiasse una di queste nobili comari, e che per conseguenza la cassa pretoria non si aprisse per siffatte graziosità123. Nel 1770, in meno di due mesi, la festa si ripeteva due volte: il 17 Gennaio pel primogenito del Sen. Salvatore Valguarnera, Principe di Niscemi e Duca dell'Arenella, funzionante l'Arciv. Sanseverino, e compare il Pretore Regalmici (al neonato veniva imposto il nome di Giovanni, in omaggio al card. Giov. de Buccadoks, Generale dei Domenicani, amico e parente del Niscemi); ed il 10 Marzo per la figlia del Sen. Bernardo Filingeri, Principe di Mirto.

Nel 1782 però abbiamo due begli esempî di dignitoso rifiuto per parte del Principe di Valguarnera e Montaperto e del Duca di Belmurgo, ai quali il Senato avea tenuto a battesimo i figliuoli124. Ma sono rari nantes in gurgite vasto.

Infatti nel medesimo anno la Giunta pretoria permetteva [pg!83] al Senato di cavare dall'erario comunale la solita somma per la puerpera Principessa di S. Lorenzo; nel 1785 per la Principessa di Fiumesalato e per la Baronessa Morfino125, tre pretoresse l'una più fresca e promettente dell'altra.

Nei «Nuovi regolamenti stabiliti per il buono ordine dell'amministrazione dell'annona del Senato di questa città di Palermo e patrimonio di essa approvati dalla Maestà sua con real dispaccio de' 16 Agosto 1788», l'articolo XIII ordinava l'abolizione delle regalie «pelli parti delle mogli del Pretore e Senatori: non essendo giusto che ritrovandosi il corpo amministrato in somma decadenza e sbilancio, gli amministratori, in danno del pubblico, fruiscano delli vantaggi»126. Ma siamo sempre ai bandi di Palermo! Infatti verso la fine dell'anno un nuovo battesimo senatoriale è lì lì per riaprire la cassa del Comune e metterne fuori le vietate e volute cinquant'onze. La senatoressa Marianna Branciforti si sgrava di una vezzosa bambina, la quale deve ricevere il nome di Beatrice. Il Senato si apparecchia al consueto battesimo; ma il Principe di Trabia, Pietro Lanza e Stella, nol consente, non già per l'onore, al quale non rinunzierebbe, ma per la gravezza che ne verrà al Comune. Potrebbe limitarsi ai nobili rifiuti precedenti del Valguarnera e del Belmurgo, ma va più in là. La sera del 30 Dicembre, martedì, chiama uno dei suoi familiari con la moglie, «persone minute», e da esse fa tenere al fonte la neonata. La geniale risoluzione suscita [pg!84] rumore, dove con plauso e dove con senso di maraviglia; ma primi a lodarla sono i Senatori. Il Villabianca, non sempre facile dispensatore di lodi, e che rivede volentieri uno di casa Lanza, il Duchino di Camastra, frequentare la sua casa e studiare il suo Diario, se ne mostra soddisfatto, e vuole che «serva questa buona introduzione in beneficio e rilievo in qualche maniera della cosa pubblica»; e «Dio volesse» esclama «che il di lui esempio venisse dai successori padri seguitato!».

E lo sarà stato certamente. Ma il simpatico Principe non trovò riscontro se non in se stesso. Dieci anni dopo, al giungere dei Reali a Palermo, nominato Ministro Segretario di Stato (1799), rifiutava cinquemila scudi annuali di emolumento127.

Più dannoso al non florido patrimonio urbano erano certi battesimi che il Senato faceva a personaggi estranei alla famiglia e più elevati. Ne ricordiamo un solo. La neonata Melelupi Soragno, nipote del Vicerè Fogliani, veniva tenuta al fonte dal Pretore del tempo: e la madre riceveva un orologio d'oro smaltato, a ripetizione, un astuccetto d'oro per bocca, una reliquia di S. Rosalia incastonata pur essa in oro, con preziosa statuetta della Santa e non so che altro: non picciolo dispendio, come si vede, ma che pur veniva compensato dal signorile ricevimento fatto dal Vicerè al Senato; ed il Vicerè era una eccellente persona, con la quale i Senatori erano in ottime relazioni.

Onore poi del Magistrato civico era la parte attiva, generosa ch'esso prendeva ad ogni piccola e grande [pg!85] sventura del paese. Incendî, tremuoti, alluvioni, carestie lo trovavano sempre al suo posto di tutore, benefattore, padre dei cittadini. In una notte freddissima d'inverno del 1775 (5 Dic.) prendeva fuoco la bottega d'un confettiere a Ballarò; ed il Pretore Principe di Resuttana coi Senatori, lì sul luogo, con l'aiuto dei maestri carrozzieri e di due compagnie di fanteria, era lieto di veder domare l'incendio. Il medesimo avveniva in una notte d'autunno (22 Ott.) dell'anno seguente, nel Conservatorio del Buonpastore128; e negli incendî del forno civico di Porta di Vicari (16 Giugno), del Monastero Valverde, della casa di Giuseppe Merlo Marchese di S. Elisabetta al Garraffello, della bottega del fruttaiuolo Neglia del Conte Federico in via Biscottari (30 Giugno, 12 Agosto, 19 Settembre 1787): tre incendî in soli quattro mesi, che ai dì nostri, con le solite lustre e frasi d'uso, provocherebbero tre solenni inchieste ufficiali, probabilmente senza venire a capo di nulla.

In uno scoppio di polvere nel bastione di Porta S. Giorgio (21 Febbr. 1788), il Pretore facea prodigi di abnegazione; non meno che nei gravi infortunî del forno di Maiorca ai Formari (21 Febbr., 3 Sett. 1788), e più oltre in quelli del forno di via Materassai (30 Maggio 1793), nei quali, dovere è il confessarlo, la parte migliore della nobiltà coadiuvava il Pretore Duca di Cannizzaro ed il Senato per mantener l'ordine e dare salvezza a tutta la contrada, esposta a sicuro disastro.

Opere generose come queste eran sovente compiute [pg!86] dai conciatori e sempre dai pescatori della Kalsa129.

Mirabile la vigilanza sull'annona e sulla salute pubblica, in ragione, s'intende, dei tempi, che è quanto dire dei sistemi e delle difficoltà d'allora. Questa vigilanza era dove immediatamente, dove per mezzo di deputazioni esercitata.

Ai lamenti dei cittadini per la cattiva qualità del pane e dell'olio il Senato provvedeva con gravi multe a padroni di forni ed a commercianti d'olio130: provvedimenti non rari se frequenti erano le infrazioni dei bandi da parte degli interessati.

I forni pubblici, i lombardi inclusi, pel numero al quale eran giunti (23 fino al 1768), imponevano sorveglianza assidua, oculata; e preoccupazione fissa d'un Senatore scrupoloso de' suoi doveri era la meccanica del pane.

Meccanica, parola comunissima a quei giorni, si diceva lo scandaglio che tre volte l'anno il Senato eseguiva per vedere se una data quantità di grano dèsse la presunta quantità di pane; meccanica pure il mercato che il Pretore faceva dei suoi grani con cittadini e fornai pubblici e senatorî dandoli loro in vendita con notabile rincaro sui prezzi correnti del caricatoio131.

La città avea un privilegio, che sarebbe stato di [pg!87] eccezionale importanza se il Governo non si fosse studiato sempre di dimenticarlo.

Per concessione di Re Ferdinando (3 Sett. 1507), qualsiasi prammatica regia o viceregia doveva prima esser sottoposta al Pretore ed ai Senatori (una volta, jurati), perchè essi vedessero se in nulla ledesse i privilegi e le consuetudini della Capitale. Vistala ed esaminatala, con la solita formola: Publicetur, salvis privilegiis urbis, firmata dal Sindaco, veniva pubblicata.

Nell'ultimo periodo del settecento era banditore del Comune D. Girolamo De Franchis, l'ultimo di una generazione di banditori, il più popolare ma anche il più antipatico tra tutti gli ufficiali pretorî. In lui si vedeva il nunzio di tutte le disposizioni del Senato e della Deputazione di nuove gabelle, disposizioni che non potevano non riuscire ostiche al pubblico. Il Governo, sempre odioso pel popolo, veniva confuso col Comune, e l'odio per entrambi s'impersonava nel banditore, come quello che portava divieti, imponeva gravezze, limitava libertà personali, prescriveva, minacciava, rivelava. L'antipatia per lui estendevasi ai trombetti che lo accompagnavano: i quali alla lor volta mormoravano malcontenti della scarsa mercede che loro toccava ad ogni «liberazione» che dal Senato facevasi, a tutti i bandi proibitivi che si pubblicavano ad instar delle parti, e nella occasione di bandi di privilegi delle strade Toledo e Macqueda132.

Torniamo al privilegio.

Contraria ad esso, una disposizione del Vicerè Principe [pg!88] di Caramanico (1788) voleva che nessun ordine senatorio venisse bandito senza la revisione e quindi il placet dell'avvocato fiscale della Gran Corte133.

Ecco la libertà concessa al Senato.

Questo Senato, che affogava tra le preminenze, stava sottoposto ad una Giunta pretoria, e ben poco poteva fare senza la intelligenza, il permesso del Vicerè, suo ingrato tutore. Lo stesso denaro che esso dovea spendere per una festa da tenersi all'arrivo o alla partenza d'una Autorità, mettiamo del Vicerè medesimo, dovea essere autorizzato da lui. Se altri oggi ritiene il contrario, si disilluderà svolgendo gli Atti e le Provviste nell'Archivio comunale. E fa senso che mentre egli, il Vicerè, era tutto miele col Pretore, coi Senatori, coi nobili che gli facevan la corte, e ossequiato, carezzava individualmente quando gli uni e quando gli altri e tutti insieme, nei suoi atti pubblici appariva ben diverso. — Imparzialità! dirà il lettore. — Ingratitudine! diciam noi, se si rispondeva col pungolo a chi, non demeritando, nell'esercizio delle proprie funzioni faceva il meglio che potesse pel bene del paese!

Persistente poi lo studio di soffocare negli animi ogni sentimento di patria carità.

Un ordine del Re (1787) faceva rimuovere dal vestibolo del palazzo di città i medaglioni del Mongitore, del Presidente Marchese Drago, di Carlo Napoli e di Giordano Cascini134. Il perchè della remozione è nel decreto: perchè furon collocati senza autorità superiore. [pg!89] Ci voleva anche il permesso per onorare le glorie siciliane! Il medaglione del Cascini, biografo ed elogista di S. Rosalia, veniva confinato nella sagrestia della chiesa consacrata alla Patrona della città; quello del Mongitore, relegato nella Carboniera delle femmine, nella parte bassa dell'atrio del palazzo. Degli altri due si smarrirono le tracce.

Ora in quest'atto, che pare semplicemente inconsulto, forse c'inganniamo, è una meschina vendetta. Vediamo se è vero.

L'anno 1783 il Senato, forse per ingraziarsi il Sovrano, faceva istanza perchè gli fosse consentito che la Fontana pretoria togliendosi dal posto d'allora — ed anche d'oggi — venisse collocata in una piazza più ampia, e che in luogo di quella si alzasse un monumento con una statua al Sovrano medesimo. Domanda così servile non dissimula la bassezza di coloro che la umiliarono al trono, a perpetua vergogna dei quali dovrebbero consacrarsene i nomi in una lapide. Per la esecuzione dell'opera fu ordinato che si monetassero i cannoni di bronzo fuori uso tra' 120 dei baluardi della città135.

O che la domanda fosse consigliata da circostanze del momento (c'era allora un Vicerè mangia-nobili: ed il Senato, composto di nobili, era forse stanco della lunga, disuguale lotta con lui), o che la somma presunta fosse inferiore alla spesa da farsi, o che i Senatori fossero, com'erano già, scaduti di ufficio, proposta e sovrano assenso (il Re avea decretato a se stesso il monumento togliendone un altro d'arte, e secolare, come [pg!90] i Vicerè approvavano le spese straordinarie del Comune per regalie, pranzi, cuccagne da farsi in loro onore e beneficio!136 ), non ebbero esecuzione: la fontana non fu toccata e la statua non venne eretta. Ebbene: per noi un occulto legame tra il decreto del 1783, che approvava il monumento, e il decreto del 1787, che ordinava la sconsigliata remozione dei monumentini ai quattro insigni patriotti rappresentanti il diritto, la scienza, la storia siciliana, c'è; rivincita tanto puerile quanto invincibile era l'avversione a qualunque principio di sicilianità degl'Isolani.

Ed è notevole anche questo: che come nel sovrano dispaccio pel monumento era Segretario di Stato e di Casa Reale un siciliano, il Marchese della Sambuca, sceso indi a non molto (1787) dall'alto seggio in cui avea dominato potente137, così nell'altra contro gl'innocui medaglioni era Ministro (di Giustizia e di Affari ecclesiastici) altro siciliano, Marchese anche lui, ma non del valore del primo, il De Marco, vanità boriosa, che nei marmi dei quattro venerandi uomini deve aver fatto vedere all'augusto padrone una glorificazione audace dei diritti baronali e siciliani contro la sovranità138.

Un'altra notizia sui diritti degli amministrati, e chiuderemo con una solenne adunanza del Senato e delle Maestranze della città. [pg!91]

Grandi i privilegi del cittadino palermitano. In bocca sua poteva stare l'orgoglioso motto: Civis romanus sum; ed egli, messo in una posizione superiore, quasi di razza, al regnicolo, ne profittava per ottenere uffizî pubblici non consentiti ad altri siciliani, godere preminenze solo dovute ai nativi della Capitale. Al che vuolsi anche aggiungere che a condizione eguale di altri, egli era trattato eccezionalmente con una procedura di particolari sottintesi e distinzioni. Un prosecuto palermitano era sicuro che il fisco non gli metterebbe le mani addosso senza aver prima ottemperato al tale o tal altro articolo di legge. D. Gaetano Pensabene, imputato di omicidio e già latitante, nel 1784 si rivolgeva al Sindaco della città, perchè sostenesse non potere il fisco agire contro di lui, cittadino palermitano, anche perchè non v'era parte querelante139.

Qui è la chiave di tutto un sistema di piani per ottenere l'ambita cittadinanza. Un regnicolo, solo per avere sposata una palermitana, in virtù della vecchia formola: per ductionem uxoris, vi avea diritto, esteso anche ai nipoti.

Ma ahimè in quante maniere non si eludeva la legge!

Ed ecco il rendiconto storico d'una seduta di operai dentro il Palazzo Comunale.

Da tre giorni la campana di S. Antonio suona per preavvisare ai quattro quartieri della Città il pubblico Consiglio, indetto dal Senato per la meta da imporsi su alcuni comestibili. Le Maestranze degli argentieri [pg!92] e degli orefici, dei sarti, degli scarpari, dei calderai e dei chiavettieri ( magnani ) sono state invitate dal Contestabile maggiore.

È la mattina del 21 Novembre 1789. Alla spicciolata giungono gl'invitati alla Casa pretoria: e quando scoccano le ore 17,31 (11 a. m.) tutti sono militarmente nel salone delle grandi adunanze. Tra Maestri, Deputati di piazza, loro Esposti, Contestabili, «Maestri di mondezza», non giungono ancora a dugento, numero legale «per conchiudersi il Consiglio»; ma v'è la banda del Senato: e con essa il numero è raggiunto.

Ed ecco farsi innanzi, come in simili congiunture, servitori con vassoi gremiti di sorbetti, e passarli a tutti i presenti. I sorbetti, che sogliono coronare una funzione, stavolta ne formano la base: e dopo il primo di mieta ( cannella ), ne viene un secondo di melarosa: due rinfreschi, l'uno più squisito e persuasivo dell'altro. Il Senato coi suoi ufficiali nobili e civili sta a chiacchierare nella «Camera di negozio» dell'Eccellentissimo signor Pretore: e solo a trattamento finito si muove.

L'avanzarsi grave del Magistrato è accolto con una profonda riverenza dai rappresentanti del popolo. Chi l'uno, chi l'altro, tutti i maestri conoscono i signori Senatori. Il primo venuto fuori è S. E. D. Bernardo Filingeri Conte di San Marco, testè nominato Pretore; il secondo per ordine di gerarchia e di anzianità è il Duca di Villareale, priolu; terzo e quarto, i Principi della Trabia e del Cassaro; quinto, il Marchese Ugo; sesto, il Duca di Villafiorita; ultimo il Duca di Paternò dei Principi di Manganelli, Senatori. Mentre tutti sono in piedi aspettando che il Capo gl'inviti a sedere, questi [pg!93] prende posto sotto il soglio, e con lui i Senatori ed il Sindaco; davanti, i mazzieri ed i maestri di cerimonie; dappiè, i Contestabili; da un lato, sei ufficiali nobili del Senato; dall'altro.... nessuno! Le sedie vuote attendono i Deputati di piazza nobili, i quali non si degnano d'intervenire, sempre per la eterna pretesa delle preminenze, alle quali non sanno rinunziare. Più giù ancora, in fondo, son due banchi per la musica: e torno torno alle pareti, quattro altri pei maestri magnani, quattro per gli orafi, sei pei calzolai, sette pei calderai, undici pei sarti.

Ad un cenno del Pretore suonano le trombe e gli oboe; ad un altro, si fa silenzio; ed il Pretore pronunzia queste sacramentali parole:

«Nobili ed onorati cittadini, dovendo imporsi la meta alli formenti forti, rosselli ed orgi ( orzi ), racina ( uva ) e vino, e dovendo farsi alcune concessioni di terreno ed altri, ho fatto convocare voialtri nobili ed onorati cittadini, per dare ognuno il vostro parere».

Detto questo, D. Gaspare Cordaro, attuario del Maestro Razionale, legge la proposta. La faccenda, nel pubblico interesse, è vitale, e meriterebbe una larga discussione. Quali ragioni determinano il Magistrato a presentarla? In che misura vorrà essa applicarsi, la meta? Quali risultati se ne vogliono ottenere? Questi punti interrogativi non si affacciano alla mente di nessuno, non ostante che tutti siano chiamati a quello che oggi si chiamerebbe referendum. Nessuno fiata; tutti però si volgono al Sindaco Marchese della Motta d'Affermo, il quale, come procuratore generale dei cittadini, si fa innanzi verso il centro del salone, e in nome delle [pg!94] mute Maestranze si uniforma alla proposta della meta sui frumenti. Però siccome quella sul vino e la concessione del terreno gli sembra di non comune importanza, invoca il parere di «dodici cavalieri: sei interessati, sei disinteressati»; e con ciò anche il consenso di altri.

O che un accordo tra lui ed il Senato abbia preceduto, o che questa sia la consuetudine, o che non ci sia altro da fare, le sue osservazioni, consacrate in una scrittura, vengono dall'attuario senatoriale pubblicamente lette. Allora gli attuarî del Maestro Razionale vanno in giro ricevendo l'assentimento dei singoli convenuti; il sostituto del Maestro Razionale D. Benedetto Giusino lo raccoglie, e ad alta voce grida la vecchia formola: Conclusum est.

Il Senato scende dal soglio; i Consoli delle maestranze gli tengon dietro; alla porta della sala il Pretore gli ringrazia cortesemente: e la funzione è finita.

A quest'altro Novembre, per la festa di San Martino, Consoli e Maestri riceveranno, graziosità del Pretore, i biscotti che prendono nome dal Santo. E della graziosità godranno quanti nel Palazzo sono impiegati alti e bassi, dai Maestri razionali agli amanuensi, dai Contestabili agli attuarî, dal banditore al guardaroba, dai trombettieri ai paggi, e perfino ai volanti ed alle cameriste della casa del Pretore: una cuccagna che porta via da un migliaio e mezzo a duemila biscotti140.

[pg!95]

Capitolo V.

CONDIZIONI ECONOMICHE DEL SENATO.

Non alieno mai dal fasto, al quale lo spingevano le secolari tradizioni del paese, le naturali tendenze de' nobili e l'acquiescenza del Governo, inteso sempre a concedere per guadagnare, il Senato si avviluppava nello scompiglio della sua sconquassata finanza. Un malinteso sistema economico imponeva provviste di grani, olii, latticinî, carboni, che rispondessero alle esigenze della città pei bisogni eventuali. Così il Senato si faceva compratore e rivenditore di comestibili, ne' quali spendeva denaro che non aveva, e dai quali non ricavava il danaro che avea speso. Vendeva quasi sempre a prezzi inferiori a quelli di compra, sì che ci rimetteva somme ingenti141, che poi andava cercando alle casse pubbliche, [pg!96] agli istituti di credito, alle comunità religiose, ai privati142, pagando frutti onerosi. Quando, divorato dai debiti, vendeva i capitali della illuminazione notturna, il grano sopra le estrazioni ed altri cespiti, e non avea più nulla su cui metter le mani143, lo si vedeva a contrattare con questa o con quella persona per alcune migliaia di onze ai relativi interessi, che poi, alla scadenza, stentava a soddisfare144; di che la necessità di nuovi [pg!97] espedienti che lo togliessero alla triste condizione del momento. Si direbbe che vivesse alla giornata avvalendosi di tutto ciò che fosse buono a tirarla alla meglio. E gli espedienti si trovavano: e se ne otteneva la sovrana approvazione nei non pochi dazî, dai quali tutta dipendeva la vita materiale della città.

Abolito il diritto proibitivo del tabacco, si inasprivano i dazî sul vino, sull'orzo e, peggio, sulla farina. Dalla odiosa sostituzione speravasi trarre l'«abbisogna» per la passività; ma se ne fu ben lontani, e si dovette ricorrere ad altre gravezze. E mentre angustie nuove si aggiungevano ad angustie vecchie, privilegi, buone grazie e favori mantenevansi intatti a detrimento dell'erario civico: e si ritardavano riscossioni che sarebbero state provvidenze finanziarie.

Un principe, il cui titolo resta onorato in un suo successore nel sec. XIX, avea contratto non sappiamo quali impegni; non volendo o non potendo mantenerli al termine fatale, chiedeva di poterlo fare con annuali soluzioni, che poi prolungava all'infinito e non compiva mai.

Monasteri, conventi e confraternite non pur domandavano esenzioni dal dazio sulla neve, ma anche facevano istanze, non inefficaci per lo più, di concessioni, invocando antichi privilegi, che si era troppo indugiato ad abolire, e dimenticando prosperità che aveano potuto permetterle; ed il Senato cedeva e concedeva, autorizzato a conservare nel suo bilancio un gruppo di franchigie dei generi spettanti a monasteri ed a conventi e perfino un impiegato per esse145. La [pg!98] voce scasciatu è un ricordo di codeste anomalie dei tempi146.

E i bisogni crescevano anche dopo. Il Re avea imposto al Comune un contributo annuale di 300 onze per la rovinosa fabbrica (la dicevano restaurazione) del Duomo: e la Deputazione di essa ne voleva depositate con anticipazione le rate trimestrali147. Nè, dopo che la Giunta Pretoriana fu sostituita con la Giunta del Presidente e di un Consigliere, le condizioni migliorarono; chè anzi si fecero più critiche, perchè l'instancabile cercator di danaro, Re Ferdinando, rafforzava le sue pretese con insistenze che pigliavan carattere d'imposizione al Senato, al Clero secolare e regolare, al Parlamento. Per poter mantenere il suo fastigio, per soddisfare ai suoi amici e servi, ed ultimamente per tener fronte alla guerra minacciosa, la Corte, caduta in istrettezze che mai le maggiori, sperava sottrarsene coi soliti donativi. I donativi venivano, ma eran gocce d'acqua sulla terra riarsa dal sole di estate; altri ne chiedeva, ed altri ottenevane straordinarî, accresciuti [pg!99] da contribuzioni che assumevano nomi diversi con insidiose lusinghe.

La Deputazione del Regno pagava ed avrebbe pensato alla riscossione!

Morto l'Arcivescovo Sanseverino, al novello Arcivescovo s'avea da fare un dono d'argento di 200 onze (a. 1794), pagando l'arrendamento della neve148. Quest'Arcivescovo, pel breve allontanamento del Vicerè Principe di Caramanico, restava delegato alla Presidenza del Regno: e dovere elementare era un attestato di attenzione di 600 onze da fornirsi dai fondi civici (1794). Sarebbe stato strano poi che, tornato il Vicerè al supremo governo, non si pensasse ad una nuova e grande offerta; e una seconda volta ci si pensò. L'Arcivescovo, lui morto, veniva eletto Presidente: ed un tributo, che dicevasi consueto, di altre 600 onze doveva renderglisi (1795).

Al tirar delle somme, in pochi mesi la città avea messo fuori 1400 onze, per la bella faccia di una fortunata vacuità di prelato, piovuto da Monteroni (Leccese).

E fossero queste soltanto! Lopez y Royo godeva il diritto di «scegliere ogni giorno per servizio della sua casa un giovenco»; e, con le ultime riforme governative, soppresso questo diritto, riceveva un compenso annuale di onze 324,22,4149. La Giunta esaminava e [pg!100] deliberava questo pagamento all'Esattore degli introiti dell'Arcivescovo-Presidente.

E poichè di esso avea ormai piene le tasche il Sovrano, e di nominarlo, come egli ambiva, Vicerè non se la intendeva, e mandava in sua vece il Principe de' Luzzi, altri 3000 scudi per volontà del Re dal palazzo pretorio prendevano il volo pel Palazzo viceregio, sotto la ipocrita causale di «solita dimostrazione!150 ».

Potrebbe supporsi che di Presidenti o di Vicerè avidi di danaro non ve ne fosse che uno, il Lopez; ma affrettiamoci a dirlo: questo sarebbe una offesa agli altri padroni napoletani. Tutti i Vicerè fecero a gara nell'attingere alla cassa civica accampando diritti di regalie o di compensi, o diritti trasformati; e gli Atti del Comune rivelano come la tanto vantata correttezza del Marchese di Villamajna non avesse trattenuto il Vicerè Caracciolo dall'imporre al Senato il pagamento di settant'onze per franchigia di cinquanta botti di vino e di trenta quintali d'orzo, per rifarsi del danno che a lui proveniva dal nuovo dazio imposto dal Comune in surrogazione del jus proibitivo dei fornai151. E quando questo Catone in ritardo, deposto l'occhialino col quale stava perpetuamente a guardare chi passasse e che cosa si facesse nel piano del Palazzo, recavasi a Napoli, ritornando portava in tasca un regio dispaccio che imponeva al Senato il pagamento delle franchigie spettantigli nei mesi d'assenza152.

[pg!101]

Poco importava, anzi non importava nulla, se la potenzialità economica del paese non rispondesse più, stremata a cagione di sistemi agricoli primitivi, non buoni ad accrescerla per fiacchezza di iniziativa, per manco di speculazione, per difetto di braccia, di cultura, di viabilità, di assistenza alla terra. Tutto dovea trarsi dalla città, e dove la terra non potesse, dovea trarsi dai cittadini153.

Preoccupato di siffatto stato di cose, del quale esso avea molta parte di responsabilità, il Governo di Napoli incaricava la Giunta del Presidente (Asmundo Paternò) e del Consultore (Simonetti) «di discutere e riconoscere quali e quanti i debiti ed i pesi di questo Senato, della Deputazione di nuove Gabelle e del pubblico pecuniario Banco ed in qual tempo contratti ed altresì le rendite annue che dalli stessi si possiedono». Trovando del disordine, essa ne indicasse la sorgente e i mezzi onde correggerlo e preservarsene per l'avvenire. Le risposte furon tre, distinte tra loro. Lasciamone due, che qui non c'interessano. Quella sul patrimonio civico, con cifre eloquenti facea vedere che il Comune introitava 70,236, 10, 9 in cifra tonda, ed esitava 82,867, 2, 4, con una perdita annuale di 12,731, 15, 3.

Tra le cose più strane a danno dell'erario, una era enorme: le spese ed i salarî per l'amministrazione [pg!102] delle vettovaglie, che dovevano gravare sulla vendita di queste, gravavano invece sul bilancio della città.

Come si è detto innanzi, nello spaccio dei generi alimentari il Senato vendeva al di sotto del prezzo di compra e, che è peggio, non poteva gravare sui singoli generi le spese che per ciascuno di essi sopportava. I fallimenti dei gabellotti, gli ex-computi loro fatti, le strabocchevoli partite per la sterilità del 1784-85, la mancanza di varî cespiti, le passate perdite per le provviste, erano ragioni più che forti per spiegare la sempre crescente passività.

Il regime costituzionale d'oggi si trascina tra inchieste governative su centinaia di comuni del Regno, ed offre, pascolo a curiosi ed a maligni, ad onesti e a disonesti, operazioni losche, furti, ingiustizie, favori indebitamente concessi, ovvero negligenze, guardate attraverso a lenti d'immensurabile ingrandimento. Ma la vita amministrativa dei tempi passati non andava immune da simili sconcezze. Nella Riforma, che compendia codesta vita nel penultimo decennio del settecento, quanti indebiti favori, quante colpevoli trascuratezze a danno del pubblico erario! Per interi decennî (dal 1778 al 1788 e poi al 1791!) non si riscotevano censi per concessioni di terreni comunali154. Abolito lo sparo delle artiglierie per arrivi e partenze di Vicerè, la somma della [pg!103] polvere occorrente continuava a figurare nelle spese; scomparsa l'Armeria pretoria, se ne portava il carico di onze 1898 sull'esausto bilancio, come pur si faceva di artiglieri e bombardieri per cannoni e bombarde che più non si sparavano; e si vantava un credito di 24,660 onze, non saputo riscuotere, sopra partitarii, o impresarî, o appaltatori!

Vietate fin dall'anno 1776 le toghe d'allegrezza e di lutto, solite di attribuirsi al Pretore, ai Senatori, agli ufficiali nobili per la venuta d'un nuovo Vicerè e per morti illustri, continuava a pagarsene indebitamente il fondo di onze 328. E poi «regalie, palmarî, riconoscenze (gratificazioni), moratorie, rilasciti, difalchi, transazioni», senza intesa del Sindaco e senza approvazione della Giunta del Presidente e del Consultore.

«Vendere i capi d'annona come si comprano, escogitare i mezzi meno pesanti al pubblico, onde equilibrare il disordinato urbano patrimonio e lasciargli un annuo avanzo affinchè in ogni fine d'anno pretorio si formi un esatto ed attento bilancio degli introiti ed esiti di quell'anno, e tutto il più che avanza doversi girare ad un conto a parte del Banco, sotto titolo di Colonna, o sia peculeo pelle urgenze del Senato»; e sopratutto economia su tutta la linea: ecco i rimedi arditamente proposti.

Ma non si recedeva di un passo dalla falsa via sulla quale si tribolava.

«Da questa massa in denaro, dice poi con sicurezza invidiabile la Giunta, negli opportuni tempi far si dovranno le compre prudenziali delli tre primarj e necessarj generi di grano, latticini ed olio, di cui non può [pg!104] il Senato in verun conto starne senza totalmente, per occorrere al sovvenimento di questa popolazione quando vi fosse mancanza, nulla ostante la libertà a chiunque di poter vendere a consonanza degl'inculcati ordini della Maestà del Sovrano; ma pure dovrà in ogni tempo valersene per ritrovarsi provveduto in tutte le urgenze della città. Il fornimento delle varie colonne è provista fissa». «La nuova libertà di vendere varî generi di annona» non può sottrarre il Senato al dovere delle solite provviste «per moderare li prezzi a fronte de' pochi trafficanti e per non restare mancante un genere tanto sperimentato, necessario e desiderato». Condizione indispensabile; le centomila onze della consumata Colonna frumentaria devono rifornirsi!155.

Non v'era dunque resipiscenza; nè ve ne poteva essere, perchè il riconoscimento dell'errore e quindi il passaggio dal male al bene non poteva affacciarsi alla mente dei maggiorenti ed assurgere a coscienza pubblica quando il sistema economico dominante persisteva. Si cercava il bene degli amministrati col male che involontariamente loro si faceva: male che non di rado prendeva proporzioni allarmanti pel deteriorare dei generi chiusi nei magazzini del Comune!

I suggerimenti della R. Giunta portano la data del 1786; due anni dopo erano voleri sovrani; tre anni appresso (1791) pigliavan carattere di Riforma156.

Ma ahimè! se la cosa pubblica mutava indirizzo, il disavanzo cresceva, non per incuria di ufficiali, non [pg!105] per disonestà di Senatori, ma pei principî dei tempi e per gli errori degli uomini. Quasi tutti i danni fin qui deplorati sono dello scorcio del secolo, in seguito all'applicazione della Riforma. Nè essa è unica o sola, nè altre precedenti erano state più fortunate. A che valse infatti quella del 1739? a che, l'ultima del 1776?

L'anno 1793 segna la maggiore rovina delle finanze del Comune: anno di carestia e di fame, in cui il sistema della Colonna frumentaria, delle provvigioni vittuarie, delle vendite pretoriane trascinava a nuovi disastri finanziarî, che più tardi dovean tradursi nell'insopportabile caro dei viveri sia per le guerre dei Francesi (1796), sia per le truppe richieste dagl'Inglesi nel Mediterraneo e per l'affluenza dei forestieri, specialmente de' Napoletani, a Palermo (1799)157.

Dettando l'opera tuttora, inedita sull' Origine e giurisdizione dell'ecc.mo Senato, il Teixejra, più volte citato, usciva dall'abituale suo riserbo nel giudicare i sovrani provvedimenti relativi all'azienda comunale. «La libertà di panizzare, egli diceva, è stata una rovina pel paese: nobili, forestieri, proprietarî, monopolisti ne hanno tratto poco utile; la povera gente gravissimo danno; povertà e libertà son due date eterogenee ed opposte così che vanno sempre in collisione; avvegnachè la introdotta libertà non fa esente il Senato di soccorrere nel bisogno i poveri; e perciò mantenersi si dee sempre una certa provvigione di grani per provvedere nei casi fortuiti il popol tutto, il quale non può restar soddisfatto del pane di voluttà, il quale non riconosce limiti per la [pg!106] quantità e leggi per la qualità. E vi è di più: che questo voluttuoso pane non potrà trovarsi in tutti i tempi con la uguale abbondanza, perchè nei tempi di penuria mancar sogliono queste braccia dirette soltanto dal privato guadagno e non dalla comune felicità; ed ecco in tal caso mancare questo precario sussidio, o almeno con tale minorativa che uguaglia la mancanza158. La libertà di panizzare (aggiungo) ha portato anche questo: che quasi tutte le comunità religiose vendono pane pubblicamente, nulla curando le chiesastiche proibizioni in canone ridotte»159.

Queste osservazioni hanno valore quasi officiale. Il Teixejra scriveva per incarico e con la compiacenza del Senato, il quale premiavalo di un lavoro, che era la sua glorificazione. Avrebbe potuto il glorificatore scrivere ben centoquindici pagine contro l'abolita proibizione di libera vendita decretata dal Re senza il pieno consenso del Senato? La sua dissertazione quindi rispecchia le opinioni del consesso civico: ed è tutto dire. [pg!107]

Capitolo VI.

LE MAESTRANZE.

Le Maestranze palermitane apparvero all'apogeo della loro potenza negli scomposti tumulti del 1773. Senza una rivoluzione nelle forme classiche delle rivoluzioni siciliane, il Vicerè Fogliani doveva abbandonare per sempre la Capitale e, come can battuto, andarsi ad imbarcare per Napoli. Le Maestranze lo scossero dalle fondamenta solide di 12 anni, lo mandaron via e, da Porta Nuova a Porta Felice, gli protessero la vita dalla folla schiamazzante160.

Fino a quell'anno erano state padrone dei baluardi di cinta, dei cannoni di difesa, della sicurezza notturna della città e, armate di tutto punto quali guardie cittadine, braccio forte dell'Autorità, avean fatto [pg!108] le ronde, mantenuto il buon ordine, fiere della fiducia che il Governo riponeva in loro.

Erano esse una istituzione con organamento politico, economico, possibile solo nel tempo della loro prosperità, e ne era forza il principio religioso. Base fondamentale il monopolio dell'arte, limite alla produzione di pochi, attentato continuo alla libera concorrenza. Regolamenti statutari riconoscevano il monopolio sulle persone e sul lavoro, ed il riconoscimento di essi da parte del Senato in Palermo come in Messina, e del Vicerè in altri paesi dell'Isola, dava alle corporazioni personalità giuridica.

Fu tempo che alle Maestranze principali se ne aggregavano delle mezzane ed anche delle infime, le quali, in mancanza di personalità propria, si acconciavano a quella dei consoli dell'arte maggiore. Se non che, questa specie di giurisdizione, nascente da inferiorità di forze economiche e morali, agitava il loro spirito e lo faceva pensare alla soggezione loro imposta o creata dalla mancanza di rappresentanti proprî. Da qui risentimenti e scissure, ricorsi e litigi, nei quali ad artisti privilegiati e ricchi di privative vedevansi mescolati «artigiani ed operai di mezzana sfera, ed intrusa gente inferiore, e presto la più servile»161.

I deboli si dolevano delle sopraffazioni dei forti: e forti erano gli ascritti alle arti maggiori ed i vocali, cioè gli aventi diritto al voto ( voce ). Giacchè come non a tutti era consentito di presentarsi a lavorare senza [pg!109] essere prima riconosciuti lavoranti, così in seno alle Maestranze nessuno poteva dirsi maestro. Maestro era il più alto grado della scala della maestranza, ed a questo non si giungeva se non dopo alcuni anni di lavorantado.

Il lavorante in una bottega era pagato a tanto il giorno o a tanto per opera; ma il maestro non poteva associarselo al lavoro, perchè il lavorante non avea personalità giuridica. A lui perciò, privo di rappresentanza officiale, non era consentito aprire bottega, nè gestire, altro che temporaneamente, quella degli altri. Il suo lavorantado durava tre o più anni, fino a tanto che nella maestranza non vi fosse un posto per lui, o che il lavoro esigesse maggiori braccia riconosciute o uomini patentati. Allora egli, munito degli attestati del suo tirocinio, presentavasi al Console per far gli esami tecnici di abilitazione al maestrato, pronto, non sì tosto venisse dichiarato abile, a pagarne le tasse al Consolato, le buone grazie ai futuri colleghi e alla cappella: tasse, secondo i tempi e le maestranze, variabili dai 10 tarì pei muratori (a. 1487), alle 6 onze pei forgiatori (a. 1772). L'esame versava sopra l'arte del candidato, con una o più opere. Il giudizio non era privo di una certa severità e, se sfavorevole, inappellabile.

Riconosciuto maestro, l'operaio avea raggiunta la meta delle sue aspirazioni. Non più asservimento a maestri, solo dipendenza dal Console, dignità alla quale poteva aspirare anche lui; e poi facoltà di aprir bottega, di farsi valere nel sodalizio e quindi di votare (prerogativa di grande valore); coscienza di sapere le sue gioie e i suoi dolori condivisi da tutta la corporazione, [pg!110] sicurezza di soccorso in caso di malattia, di assistenza alla famiglia in caso di morte, di conforto di legati alle figliuole orfane. E da parte sua conosceva bene i suoi doveri di moralità, di religione, di fratellanza, senza i quali maestro onorato non vi poteva essere; e si sarebbe guardato dal tenere più di due garzoni da istruire, dal togliere avventori ai suoi compagni, dall'accrescere lo spaccio della propria merce mandandola a vendere per le strade, dal violare un solo articolo dei Capitoli, dal disubbidire al Console, e, in generale, dall'esser tepido nel sostenere gl'interessi e il decoro della corporazione.

Contro tanta democrazia di istituzioni e di pratiche cozzavano giurisdizioni e privilegi del tutto medievali: dal privilegio di foro per sè al privilegio pei figli e pei generi, il che oggi si direbbe ingiustizia sociale. Ve n'è poi una, alla quale ogni principio moderno di libertà ripugna, il garzonato.

Il ragazzo che aspirava a diventare maestro doveva per alcuni anni obbligarsi (e l'obbligazione era legale) a star sotto il tale o tal altro maestro, avente bottega ed officina. Questi s'impegnava ad istruirlo in casa propria.

Condizioni così semplici sono veramente patriarcali; ma esse sembrano fatte a posta per nascondere stato e condizioni di cose insopportabili. L'alunno accolto in bottega ed ospitato in casa facea parte della famiglia del maestro, ma non come figlio, bensì come picciotto, al quale non era fatica nè basso servizio che non si comandasse; e dove egli, per negligenza o per ottusità di mente, mancasse, guai per lui! Poichè, [pg!111] come vi sono anime gentili, ve ne sono anche (e disgraziatamente in assai maggior numero) crudeli. Costoro, abusando di un contratto imposto dal bisogno del momento e dalla prospettiva dell'avvenire, sfruttavano i poveri ragazzi ed insegnavano loro poco e male con maniere disdicevoli a maestri ed a padri di famiglia. Le carte del tempo conservano ricordi di discepoli, i quali, stanchi dei maltrattamenti ricevuti, si richiamavano all'autorità per essere sciolti dall'obbligazione e cambiar maestro, sinonimo di padrone. Il che ci fa correre con la mente al sospetto che qualche cosa offuscasse sovente l'animo del maestro, una certa qual gelosia di mestiere, una preoccupazione che il giovanetto d'oggi potesse domani diventare un emulo forte.

Notizie di scenate fanciullesche nel tempo di maggior prosperità delle corporazioni ci soccorrono qui di luce chiarissima sulle relazioni tra le varie maestranze. Nessuno ci ha detto mai, ed ora soltanto può affermarsi con ragione, che queste relazioni non fossero sempre plausibili, e che le manifestazioni di malumori, si potessero trovare nella condotta degli allievi di esse. Di tanto in tanto costoro venivano a zuffe; dispetti lungamente sopiti erompevano in violenti attacchi, nei quali mancavano solo le armi per prender nome di battaglie. Fuori le porte della città, in campo aperto, con bandiere spiegate, in giorni precedentemente stabiliti, la ragazzaglia di alcuni mestieri e particolarmente delle due parti, degli argentieri e dei conciatori, facevano ai sassi tra loro con la evidente intenzione di offesa e di difesa, quali che fossero i risultati finali di malconci e di feriti d'ambe le parti. Come più tardi, e come [pg!112] forse prima, alla vittoria seguivano urli di canti di gioia dei vincitori contro i perditori sgominati, e rappresaglie che rinfocolavano odii ed eran seme maligno di future vendette.

Una di codeste sassaiuole (Gennaio 1776), sventata a tempo, impedì danni non lievi alla città ed ai privati. Il Vicerè, il Capitan Giustiziere, il Senato stettero un momento in grande ansia; ma se ne rifecero a misura di carbone quando, avuti tra le mani i capi della fallita zuffa, li gratificarono di un cavallo per uno con venti sferzate, regalate loro da un commissario invece che dal boia, come avrebbe dovuto essere: quantunque si pensasse da ultimo a condannarli, i maggiori all'esilio, ed i più piccoli dai dodici anni in giù, alla catena pei lavori forzati162.

Ma c'erano di mezzo i figli dei conciatori, e qualunque rigore delle Autorità e severità dei cittadini pareva giustificata.

Di limitazione in limitazione, di privilegio in privilegio, si era giunti alle più insopportabili prescrizioni. Proibito l'esercizio di un'arte a chi potesse nuocere a coloro che l'esercitavano; proibita la concorrenza sulle vendite: tutto monopolizzato sotto quel nome di zagato, che era un ostacolo permanente al libero svolgersi del piccolo e del grosso commercio, come al progresso delle manifatture e delle industrie. Il zagatu (una volta tabaccheria, poi merceria e da ultimo pizzicheria), diritto di vendere una cosa, concesso mercè pagamento, era [pg!113] il monopolio per eccellenza; e di zagati se ne avea quanti si riusciva ad ottenerne per via di protezioni, di influenze, di aiuti presso l'eterna officina di favori e di mercedi, il Palazzo senatorio.

Come di fatti ordinarî della vita, nè storie, nè diarî se ne occupano; ne testimoniano invece le Provviste dell'Archivio della città, dove la pazienza del ricercatore ha modo di confermare che in mezzo a tante cose belle ed oneste, molte ve ne avea nè oneste nè belle.

Una delle più severe prescrizioni era quella delle distanze tra bottega e bottega congenere. Non se ne poteva aprire una che non distasse quaranta palmi, partendo dalla bancata (dal banco), da altra della esistente. Il Senato lo vietava: ed il venditore vecchio lo avrebbe messo a rumore a furia di ricorsi contro il nuovo. Non mancavano tuttavia modi di eludere leggi e regolamenti, e di fare degli strappi al grande organismo rappresentato dal Magistrato municipale.

Senza di questo un pescatore, rais Modesto Marino, non avrebbe potuto divenire un vinaiuolo, e molto meno aprire spaccio di vino a trentasette palmi dalla bottega più vicina; nè maestro Giuseppe Errante aprirne una di concia-calzette con dieci palmi di meno di quelli prescritti dai Capitoli; nè maestro Giuseppe Arcuri ottenere un posto da vendervi sapone nella strada Macqueda con passi assai di meno dei quaranta, voluti per la bottega preesistente rimpetto alla Congregazione delle Dame. Inoltre, certa Signora non avrebbe insistito per aprire il zagato che possedeva sotto il proprio villino, nello stradone di Mezzomorreale, e farvi vendere, come [pg!114] pel passato, non sappiamo che cosa, sorpassandosi alla mancante distanza voluta163.

Tanta larghezza, ed altra ancora che torna inutile rilevare, in un solo anno (1780), incoraggiava a chiedere ancora: e le domande di dispense e di eccezioni fioccavano, ed il Senato, come vigile custode degli ordinamenti del genere, così arbitro supremo in tutte le liti, dispensava, eccettuava, sentenziava indiscusso. Alla tempesta delle suppliche e delle istanze seguiva sempre la pioggia delle concessioni e delle grazie.

Ampie, quasi illimitate le facoltà del Console. Ad esso il riconoscimento dei titoli che davan diritto al maestrato; ad esso i giudizî sulle liti del mestiere tra' varî gradi dell'associazione; ad esso le sentenze di multe, di carcere, di privazione dei beneficî, di espulsione dalla maestranza; ad esso, per dir tutto, l'autorità di giudice «idioto», o, come diremmo oggi, conciliatore. Inappellabili le sue sentenze; e chi contro di esse si richiamasse ai tribunali ordinarî, veniva quasi ribelle, come uscito dalla casta che lo tutelava, condannato all'ostracismo.

Il feudalesimo delle alte classi non avrebbe potuto, sotto questo aspetto, trovare più evidente riscontro di quello che offriva questo feudalesimo del popolo.

Abbiamo detto esser forza delle Maestranze il principio religioso. L'affermazione potrebbe discutersi; ma i fatti son lì a provarla. Senza di esso le corporazioni non avrebbero avuto ragione di esistere: e crediamo di apporci al vero, partecipando alla opinione di chi [pg!115] non è guari ammetteva le Maestranze «aver avuto preparazione nelle compagnie religiose dette di disciplina» ed essere state «una specializzazione, una trasformazione civile di esse; onde i capitoli di alcune compagnie sono il substrato degli statuti di alcune corporazioni»164.

Ogni maestranza avea il suo santo protettore: i sarti S. Oliva, i parrucchieri S. Maria Maddalena, i calzolai S. Crispino, i falegnami S. Giuseppe, i pescatori S. Pietro, ecc. Nel giorno della festa patronale i maestri non lavoravano; bensì rinnovavano le cariche ed assistevano alla messa ed alle funzioni ecclesiastiche nella cappella della corporazione, e conducevano in processione la statua del santo. Nella cappella si scorge lo sdoppiamento della società in corporazione e in confraternita, giacchè la maestranza metteva capo alla congregazione (confraternita) schiettamente religiosa, che si attaccava a quella senza farne parte integrale, anzi quasi sempre avendo amministrazione propria con la cooperazione del cappellano. In quella cappella, la confraternita, quasi sodalizio diverso dalla corporazione, che tale era essenzialmente, compieva le pratiche religiose e tutelava gl'interessi sociali, economici, amministrativi della maestranza. Lì le adunanze dei maestri, come dei congregati; lì le trattazioni degli affari, gli esami degli aspiranti al maestrato, le elezioni; lì si decidevano le sorti di tutto un corpo di artigiani. Pensiero pietoso poi, per quanto nocivo alla pubblica salute: [pg!116] sotto la cappella si seppellivano i confrati defunti, sì che vivi e morti erano in tacita comunione tra loro.

La maggiore delle feste religiose nelle quale il duplice carattere delle Maestranze dava pubblica e solenne mostra di sè, era quella dell'Assunta a Mezz'Agosto. Quivi in giamberga o senza, con lo spadino a fianco, antico privilegio o abuso, prendevan parte alla lieta mostra conducendo ciascuna il proprio ciliu, cereo, da offrire alla Vergine. Un ruolo annuale a stampa, qualche giorno prima della festa, indiceva l'ordine da tenersi nella processione ed il posto che a ciascuna maestranza spettava. Chi voglia oggi trovare la ragione dell'ordine, dovrebbe indagare le origini delle singole Maestranze, la loro natura, le loro vicende, il dividersi, il fondersi, il trasformarsi loro, i privilegi e gli abusi che ne accompagnavano l'esistenza.

Queste vicende sarebbero materia per la conoscenza delle condizioni economiche e sociali del paese, pagine della storia del diritto, fatti ed aneddoti che lumeggiano il carattere del popolo siciliano.

Il Vicerè Caracciolo vide sempre male i collegi delle arti, e cercò una buona occasione per romperne la compagine.

La occasione venne propizia. Nella processione dei cerei il 15 Agosto 1782, a cagione d'una lite insorta tra due maestranze, un maestro dei gallinai venne ucciso; lo spettacolo religioso, funestato. Il Caracciolo non cercò di meglio: e senz'altro decretò l'abolizione dello spadino per gli artigiani e la graduale soppressione ora di uno, ora di un altro collegio di arti e mestieri. Primo a fare scomparire fu quello dei macinatori; [pg!117] secondo, quello dei Lombardi che venivano in Palermo a vender grasce; terzo, quello dei bordonari; poi quello dei cocchieri165, contro i quali più tardi, pur restituendo qualche collegio annullato, il Governo fu sempre inesorabile.

Nel 1786 il Caracciolo era già andato via, ma le soppressioni continuavano ancora. La malevolenza di lui, echeggiando in Napoli, proseguiva nel suo successore; tuttavia non così sorda da non sentire le voci di reazione degl'interessati, nè così intollerante da resistere al rumore dei ceti civile e nobile, che dalle nuove riforme pigliavan pretesto ad agitarsi, non per tenerezza delle vecchie corporazioni artigiane, divenute oramai troppo prepotenti e, secondo le idee del tempo, insopportabili, ma per naturale avversione alle idee innovatrici del Caracciolo.

Le Maestranze in quell'anno venivano ridotte a 59, divise in due categorie, l'una di quindici per la vendita dei comestibili, dipendente dal Senato, (bottegai, pizzicagnoli, tavernieri, pasticcieri, macellai ecc.); l'altra di quarantaquattro, per le arti meccaniche, soggette ad una commissione governativa. Gli antichi capitoli venivano sostituiti con altri compilati dalla Giunta; abolito il privilegio del foro, formato per un cumulo di tacite acquiescenze e costituente un tribunale speciale dentro un tribunale generale: e però, il magistrato ordinario, competente a giudicare i maestri; bandite le privative; non più consentite le tasse di entrata. [pg!118]

Colpo più grave le Maestranze non potevano avere, sì che ne rimasero scompigliate e stordite. Ma le idee liberiste cominciavano a farsi strada in Italia, e, pel Governo di Napoli, nel Governo di Sicilia. Le Maestranze avevano fatto il loro tempo, e cadevano sotto il peso di quel privilegio col quale e pel quale si erano mantenute. Chi consideri bene la lor vita sociale, economica e industriale, rivelata dalle carte che ce ne rimangono, scoprirà subito il tarlo che le avea lentamente róse, ed il male incurabile che era venuto minandone la esistenza, un dì rigogliosa e fiorente. Oppresse da debiti per ispese che non avean compenso nelle entrate; inclinate a feste religiose imponenti gravezze non facili a sostenersi; morose a pagamenti di tasse obbligatorie, le quali, per quanto ingiuste, eran necessarie alla giornaliera funzione del magistrato, si dibattevano tra le strette del volere e del non potere. Le liti, cooperatrici delle costosissime solennità religiose nel lavoro di rovina, le rendevano inabili a qualsiasi atto di energia, escluso quello solo della giurisdizione, che i Consoli eran gelosi di esercitare sulle tre classi della corporazione: liti di gente contro gente, di associazione contro associazione, per lesione di privilegi e per non retta interpretazione di Capitoli.

Ordinarî i ricorsi per lesioni di preminenze e per negata reintegrazione in diritti perduti, o infirmati per mancata osservanza dei Capitoli. Comunissime le richieste di maestri morosi ai pagamenti, imploranti la dispensa di essi, la quale consentisse loro l'ambita elezione a cariche ufficiali, non altrimenti permessa dai Capitoli medesimi. [pg!119]

Il Senato, la cui competenza in siffatte liti era sempre da tutti riconosciuta e dai Vicerè riconfermata, e nel cui palazzo questi Capitoli venivano conservati, se ne occupava come delle faccende più importanti per la cosa pubblica166.

Per anni ed anni i maestri d'acqua (fontanieri) litigarono per emanciparsi da un consolato, quello dei muratori, al quale non avean diritto di salire. Emancipazione simile, battagliando, conseguivano gl'intagliatori e gli scalpellini. «Semolai e vermicellai» non si stancavano dall'invocare, ciascuno nel proprio interesse, certi diritti di preferenza, loro contrastati. Dimentichi di una legge perpetua che li accomunava all'unico consolato dei paratori di chiesa, i fiorai ricusavano di prender parte secondaria ad un istituto del quale non potevano rappresentare la funzione principale e propria167. I pescatori, non potendo più andare d'accordo nella stessa loro corporazione, si scindevano per rioni della Kalsa, di S. Pietro, del Borgo (mand. Tribunali, Castellammare, Molo) e, sotto le bandiere dei loro santi e patroni, rivaleggiavano più che non usassero, essi di lor natura alieni da quistioni. Nelle solenni comparse officiali le ire esplodevano per malintese e mal sopportate precedenze nel ruolo.

Faticoso quanto rincrescevole il tener dietro, sulla scorta dei documenti d'archivio, a questi sodalizî, perdentisi in futili pretesti pel conseguimento d'una rappresentanza purchessia, o per l'impedimento di un consolato [pg!120] a quello tra essi che credevano non meritarlo. Nel vanto del loro forte passato s'affannavano a cercar vigore alla debolezza del presente: e si confortavano nel titolo di milizie reali, dato loro da Carlo III168, rimpiangendo l'abrogazione del diploma di Filippo III, che concedeva l'altissimo privilegio di liberare ogni anno un condannato a morte169.

Il tempo che corse tra la campagna iniziata dal Caracciolo e la fine del secolo passò meno turbinoso di quel che si potesse al primo istante prevedere.

Risensate dall'improvviso colpo ricevuto, le Maestranze pensarono seriamente a rialzarsi. Prive in parte di armi materiali e morali, non tutte avevano espedienti a resistere. Le loro sessantamila braccia di ieri, le cento e più mila dei giorni migliori della loro vita non si moveranno più a difesa della città, non potranno più agitarsi nella rivendicazione di diritti proibitivi170, nella restrizione di esercizî, nella osservanza di monopoli, nella imposizione di contribuzioni obbligatorie di feste e di cerei171; ma non rimarranno inerti. Se non altro [pg!121] pel loro numero, una grande energia è ancora in esse. Ora l'una, ora l'altra delle corporazioni, pensa a ricostituirsi chiedendo il riconoscimento ufficiale. La loro azione non cessa di svolgersi sotto l'alto patrocinio e la autorevole vigilanza del Senato, il quale continua a tenerne conto; il Pretore, Console dei consoli, non lascia di averli, quali li ebbe sempre, «onorati uomini»: prova patente il suo solenne invito del 1789, nel quale il voto delle Maestranze fu chiesto come suffragio del popolo172. Dove non possano e non vogliano ricomporsi nella soppressa forma di collegio, cercano altrimenti di ordinarsi: e gli orafi e gli argentieri ricompariscono in compagnie ad azioni, proprio nel medesimo anno (1794), in cui altra maestranza assume parvenze di confraternita (S. Filippo d'Argirò e SS. Ecce Homo), sotto la quale viene senz'altro riconosciuta.

Il giorno dell'arrivo dei Reali di Napoli in Palermo (26 Dic. 1798), «non armate, colle coccarde chermisi al cappello e coi loro ufficiali indossanti le uniformi turchine e rosse», insieme con la guardia dei miliziotti della Bambina, esse si trovano schierate nella via Macqueda e nella via Toledo173; ed il Re ne resta grandemente compiaciuto.

Così dopo tante fortunose vicende le Maestranze rientrano nelle grazie del Governo, che nel 1812, per suo tornaconto, le ripristina quali erano state prima del 1784: provvedimento fuori luogo a favore d'una istituzione indocile alle nuove idee civili ed economiche, [pg!122] non compresa neanche da coloro che più erano interessati a prolungarne la esistenza.

Ott'anni ancora, ed esse si riaffermeranno nella rivoluzione del 1820, con velleità di ordine, ma con atti torbidi e minacciosi.

Sarà l'ultimo supremo sforzo d'un gigante che finisce di decrepitezza.

Il 13 Marzo del 1822 un tratto di penna di Francesco I le faceva scomparire per sempre. Di quasi 80 corporazioni non rimaneva altro che il nome!174.

[pg!123]

Capitolo VII.

CARTELLI E PASQUINATE.

L'antico costume di affidare ad una statua, ad un qualunque monumento le voci di indignazione di una classe della società, del popolo o di alcune persone di esso aveva la sua applicazione nella figura marmorea del Palermo, in quella di bronzo di Carlo V alla Piazza Vigliena, o in altro dei luoghi più frequentati della città.

Siffatto costume era una delle tante conferme dell'assoluta mancanza di libertà di parola e della insormontabile difficoltà di dire il fatto proprio rivelando cose che potessero suscitare lo sdegno dei governanti e degli amministratori.

Nel tempo del quale ci occupiamo, e prima e dopo di esso, chi avrebbe osato parlare a viso aperto? Chi rinfacciare al Governo centrale o locale la riprovevole condotta ond'esso rendevasi colpevole in faccia alla Sicilia? Questa condotta, subìta in silenzio, deplorata nelle intime conversazioni, esecrata nei fremiti di spiriti indipendenti tra noi, era solo pubblicamente censurata nei libri d'oltremonte. Coloro che aveano visitata l'Isola, tornando alle loro case, la rivelavano nelle relazioni [pg!124] stampate dei loro viaggi. I Briefe del D.r Bartels sono in questo genere la più severa condanna della Corte di Napoli e della Corte di Palermo175.

Le statue pertanto e le mura dicevano quello che gli uomini non potevano o non osavano.

Di statue di Palermo ve n'erano (e qui possiamo dire anche: ve ne sono) parecchie: una, p. e., dentro l'atrio del Palazzo pretorio, una nella piazzetta del Garraffo, una nella Fieravecchia: tutte tra loro somiglianti per la magrezza del re coronato che si lascia tranquillamente rodere il petto da un pingue serpente, e per la posa solenne e maestosa nella quale il re se ne sta seduto.

Quest'ultima figura era e fu lungamente la favorita dai Palermitani: ai suoi piedi i popolani del quartiere si raccoglievano chiacchierando; e dal suo collo pendevano di tanto in tanto cartelli di collera, di protesta, di minaccia, che non si sarebbero altrimenti potute ripetere senza supplizî o bastonate.

E lo stecchito sovrano, sollevantesi di mezzo all'acqua della vasca che lo attornia, rimaneva impassibile a tutte le berline alle quali lo esponevano i suoi presunti capricciosi sudditi, senza uno scatto di risentimento per le scenate che gli si facevano rappresentare. Se dopo i tumulti contro il Vicerè Fogliani (Sett. 1773) appariva in giamberga, parrucca, nicchio e spada al fianco, egli riaffermava la sua sovranità; se al feroce strazio di tre giovanetti, veri o non veri colpevoli, dopo [pg!125] quei tumulti, veniva coperto di gramaglia, egli voleva piangere col suo popolo una giustizia che sconfinava e non colpiva i veri e principali rei; e se gli si imbrattavano di pane e pasta volto e vestiti, ben a ragione avea da deplorare i pessimi comestibili che impunemente obbligavansi i suoi figli a mangiare; e quando una fitta sassaiuola di fichi lo prendeva di mira, avea tutta la ragione di riconoscersi coperto di tanta ignominia per la vigliaccheria nella quale i suoi Palermitani eran caduti di fronte alla tirannia del Governo ed alla inettitudine del Senato.

La segaligna statua di Carlo V nella Piazza Bologni, rispettata sempre nei furori delle sommosse, non era risparmiata quando il malumore serpeggiava nella cittadinanza, e quando una voce voleva farsi giungere a' capi del Governo ed a quelli della città. Era un cireneo come il vecchio Palermo e come l'aquila audace del Comune, la quale al domani d'una sanguinosa esecuzione di giustizia compariva spennacchiata e grama nella Conca d'oro, divenuta conca di.... immondezze.

E non si andava oltre quella piazza, nè si sognava di salire verso il Palazzo reale, perchè ivi erano centinaia di Svizzeri a guardia, non della città, ma del Vicerè.

L'incalzar degli eventi e le miserie cittadine resero indispensabile questa tra le meno pericolose e tra le più efficaci manifestazioni di malcontento e di rabbia.

Se la vanità della erudizione dovesse vincerla sulla parsimonia dello scrivere, potremmo prenderla molto larga in quest'argomento. Potremmo, p. e., ricordare una certa elezione di giudici capitaniali in persona di Emanuele Lo Castro, di Serafino Castelli e di Pasqualino, [pg!126] elezione che fece nascere il calembour, sanguinoso per le allusioni menelaiche al primo ed al terzo e per le birresche al secondo, che avea il nome (Castelli) comune con quello del carcere dei nobili e dei civili (Castello a mare):

Mircatu di carni grassa di Crastu (Lo Castro) pasqualinu , pasciutu cu li malvuzzi di Castell 'a mari.

Potremmo ricordare quella del Principe di Partanna Grifeo, a Pretore, per la quale alla porta del Palazzo di città si trovarono attaccate quattro P.P.P.P., iniziali delle parole: Poviru, Palermu, Preturi, Partanna, allusive al fare spendereccio del nuovo capo del Senato.

Potremmo anche ridere alla vecchia giamberga attaccata ai rastrelli della nuova pescheria da un cenciaiuolo, unico, solitario compagno di un portatore di roba di Faenza nella piazza Marina, quando nel Vicerè Caracciolo sorse la infelice idea di un pubblico mercato in quel luogo, triste pei ricordi del S. Uffizio, disagevole per il sole di estate e le piogge d'inverno, e quindi rimasto deserto176.

Ma questi ed altri ricordi esorbitano dal nostro periodo, ed a noi non preme raccoglierli.

Siamo al 1793: il caro dei viveri s'inacerbisce di giorno in giorno; i granai comunali si vengono esaurendo; la città, come tutta l'Italia, è minacciata di carestia, la quale, non ostante che lungamente e ripetutamente [pg!127] prevista, giunge con tutta la crudezza e la desolazione del suo treno.

Ridire quel che è stato detto sull'argomento, non occorre. L'Autorità senatoria viene accusata del danno; essa che, secondo le solite voci, non previde, essa che non seppe provvedere in tempo e, peggio ancora, giocò con la cassa del Comune. Pretore è il Cannizzaro, Duca di Belmurgo, e contro di lui convergono gli strali di tutta la cittadinanza, invelenita avverso a lui usuraio, arricchitosi col denaro della città, e frattanto consigliere di pazienza e di attesa!... Ma la pazienza ha un limite, e un giorno i monelli del Mercato di Ballarò si mettono a gridare per le strade:

Cu la fidi e la spiranza Un guastidduni 'un jinchi panza 177: Preturi Cannizzaru Ha misu Palermu cu'na canna a li manu.

Se non che, i soldati del Pretore te li acciuffano, ed il boia se ne diverte con una buona fioccata di nerbate per uno.

Evidentemente questo Pretore Cannizzaro non era nelle buone grazie del popolo, se dopo le chiassate delle Kalsitane sulle mura delle Cattive alla Marina gli si faceva anche questa.

L'anno che segue v'è tanto ben di Dio che di carestia [pg!128] non accade più parlare. Ma ahimè! le cose continuano come per l'innanzi, ed il pane che si avea a grosse forme è bazza se si ha per metà del peso. Di chi la colpa? Ci vuol tanto a vederlo?!... del Pretore! E tutti lo vogliono ucciso, mentre il Vicerè Principe di Caramanico fa il possibile per rendere meno gravi le conseguenze della crisi. Questo sentimento si vede espresso al Pretorio nel seguente cartello:

Lu Vicerrè supra la vara staja 178, Lu Pirituri sutta la mannara 179;

e significa che del Pretore non se ne vuole più sentire a parlare.

Audaci, violente le minacce al Governo, che con inganni ed ipocrisie tentava carpire la buona fede, non già del popolo, che non aveva nulla, ma del medio e dell'alto ceto, che possedeva ori ed argenti, e dovea andarli a depositare alla Zecca in cambio di moneta sonante. Strumento servile del Governo in cosiffatta barbarica espoliazione l'arcivescovo Lopez y Royo, Presidente e Capitan Generale del Regno per la improvvisa morte del Caramanico, e tanto più servile ai danni del paese in quanto sperava la nomina di Vicerè facendo il piacere de' Ministri di Napoli. Avverso a lui si udirono canzoni e cartelli frementi di sdegno.

Siamo alle prime ore del mattino del 16 Aprile 1798, [pg!129] e attaccata alla solita colonna del Palazzo del Comune ed alle abitazioni dei Ministri del Consiglio e del Governo, si legge:

O v'aggiustati, tiranni, la testa, O di li Morti faremu la festa. E chi vuliti impuviriri a tutti? Chi oru?! Chi argentu?! un....

e qui una mala parola180.

Il Governo di Napoli era sotto l'incubo dei Francesi scorrazzanti il Mediterraneo con gli occhi fissi su Malta. La Corte, in preda ai timori che poi dovevano spingerla alla rada di Palermo, avea chiesto cannoni, soldati, danaro, e ne aveva ottenuti quanti non ne meritava. I Siciliani parteggiavano per essa, ma non erano così ciechi da non vedere la gravità della situazione: e poichè questa peggiorava di giorno in giorno, il 21 Giugno un cartello trovavasi affisso alla colonna. Stavolta era un dialogo tra due persone, composto di parole furbesche, accuse dei componenti del Governo locale. Cominciava altra mala parola, poi

...! Vennu li gaddi, addiu gaddini! Addiu nassa, canigghia e puddicini!

E seguiva la risposta:

Addiu nassa, canigghia e puddicini! Minchiuni! ch'è grossa! 'Na vota si mori!

dove, chi cerchi i doppi sensi, vedrà che i galli sono i Francesi, le galline i Napoletani, la massa la cricca [pg!130] governativa, la canigghia, crusca, la mangiatoia dello Stato, alla quale (per conservare l'allegoria) si direbbe che le galline bècchino, cioè i favoriti e gli aderenti divorino: egli ultimi due versi esprimono la indifferenza de' cartellanti siciliani di fronte alle conseguenze delle minacce francesi.

Gli eventi incalzano. Re Ferdinando ottiene una vittoria in uno scontro coi Francesi, ma i Napoletani pei Palermitani son tutti giacobini, compreso lo stesso loro S. Gennaro: la vittoria non è dovuta a questo Santo, ma a S. Rosalia, patrona di Palermo, alla quale il Re dev'essersi caldamente raccomandato. Quattro cattivi versi corsero in proposito:

T'haju fattu la varva, o San Ginnaru, Giacchì t'ha' fattu giacubinu amaru, Tradituri, putruni e da quagghiaru; Viva, dunca, Rusulia e non Jinnaru! 181.

La misura lasciamola all'ignoto poeta da colascione.

Quest'uso di dir male degli uomini e delle cose pubbliche era, come abbiamo affermato innanzi, antico, molto antico, e per quanto si fosse fatto a sopprimerlo, sempre vivo. Gli interessati vi ricorrevano sempre che il bisogno lo imponesse per non lasciarsi sopraffare. Il Governo sapevalo bene; e quando vi scorgeva una minaccia all'ordine pubblico ed un'offesa alla sua dignità, si sfogava in bandi e comandamenti severi, ripetizioni di altri precedenti e secolari. Dopo la giustizia del Settembre [pg!131] 1773 sopra cennata, per la rivolta contro il Fogliani, l'Arcivescovo Filangeri, Presidente del Regno, ordinava che «nessuna persona di qualunque ceto e condizione nelle private conversazioni in casa, nelle piazze, nei teatri, nelle cafetterie, nelle sagrestie, nelle chiese, nei conventi, nelle congregazioni» osasse ricordare i fatti avvenuti; nessuno «formare canzoni, sonetti, satire, leggende».

Disposizioni più severe emanava dieci anni dopo il Caracciolo, preso di mira specialmente dalle classi nobile e civile. Egli non sapeva darsi pace pensando che miserabili senza nome osassero gettare il ridicolo su lui; sicchè, fingendo di prendersela pel decoro delle famiglie, vietava «a qualunque persona, di qualsiasi grado, ceto e condizione si fosse il poter comporre, pubblicare, spargere o affissare o scrivere tali libelli e cartelli infamatori e contumeliosi, nè in versi, nè in prose, nè in figure esprimenti il carattere, nè in satire, nè in pasquinj, nè in qualunque altra guisa», e prometteva premî da trecento onze a chi siffatti delitti segretamente denunziasse182.

Egli avea ragione: nessuno più di lui era stato bersaglio di frizzi e barzellette, tanto che avea dovuto mandare in carcere i nobili Vincenzo di Pietro, Ugo delle Favare e Gaspare Palermo, sospetti di avergliene fatti. Ma il pubblico, che dovea saperlo, rinunziava alle trecent'onze e non faceva la spia a nessuno. In tempi più civili questo silenzio sarebbe stato chiamato omertà e mafia! [pg!132]

Le satire, le pasquinate continuarono senza posa fino al giorno della partenza del bollente Vicerè (Gennaio 1786), in cui gliene vennero messe sotto il muso non solo in italiano e in siciliano, ma anche in latino.

Gente incorreggibile questi Siciliani! [pg!133]

Capitolo VIII.

I GIACOBINI E LA POESIA POLITICA.

I versi popolareschi che abbiamo riferiti a proposito del pericolo francese nel Mediterraneo, e dei Napoletani ribelli alla monarchia potrebbero fornir materia d'un capitolo sulla poesia politica del tempo. Questa materia non sarebbe scarsa, perchè in nessun secolo di storia civile dell'isola s'incontra una fioritura di componimenti politici pari a quella determinata dal precipitar degli eventi nell'ultimo decennio in Palermo del sec. XVIII.

Se non che, l'argomento ci condurrebbe troppo in lungo, e noi lo sciuperemmo a scapito degli studiosi, che ai dì nostri, con cure indefesse, attendono a questa manifestazione dello spirito pubblico nei tempi passati. Non intendiamo però lasciarlo senza una parola che giovi a chiamar su di esso l'attenzione di coloro che volessero quando che sia percorrere a tutto loro agio questo campo inesplorato.

Mano mano che l'eco della rivoluzione di Francia si ripercoteva tra noi, e le mosse dei Francesi turbavano la olimpica tranquillità d'Europa, la così detta pubblica opinione si commoveva ed accaniva contro [pg!134] di questi in Palermo. I Francesi erano i nemici del trono e dell'altare. La Raccolta di Notizie di Palermo, come il Compendio delle notizie e le Nuove di diverse Corti di Messina, nelle loro periodiche comparse non lasciavano mai di dipingerne a foschi colori le imprese istillando nell'animo dei leggitori avversione invincibile per la Francia, covo di settarî e di malviventi. Guai a seguire le idee di essa! Chi ne avesse avuta la tentazione, si sarebbe buscato il carcere e la galera; perchè non era ammissibile che un suddito di S. M. Siciliana partecipasse a principî sovversivi e, peggio, ad atti di ribellione.

Le carte segrete della Polizia e le cronache private offrono in questo un triste spettacolo della politica del Governo e delle inclinazioni reazionarie delle classi alta e bassa dei cittadini. L'alta, aggiogata al Governo, non poteva non parteggiare per esso: e vi parteggiava anche per la propria conservazione. Lo Stato era salute ed ordine; ogni avversario del Monarca, avversario della casta che con la monarchia faceva causa comune. La classe bassa, abbrutita dalla ignoranza, non era in grado di comprendere, e, compresolo, di discernere quel che fosse di vero nelle vaghe, contraddittorie notizie che giungevano fino ad essa; la quale nel più frivolo fatto del giorno, in una festicciuola, p. e., in uno spettacolo interno, tutta si assorbiva, ignara od incurante dei grandi avvenimenti di fuori. Ogni francese era un giacobino: ed il giacobino un anarchico, pronto a sconvolgere l'ordine sociale, a radere al suolo la chiesa, a manomettere la proprietà privata. Contro i partigiani della Francia e i dottrinarî del tempo un libriccino [pg!135] scritto pei vescovi da un vescovo ammoniva: «Oggi ogni pastore deve sapere come condursi colla porzione di gregge composta di fiere orribili, sanguinolenti e voraci: pantere, lupi, orsi e molto maggiormente di volpi astute e maliziose; voglio dire questa razza che scorre per tutto di filosofastri, massoni, saccentoni, politici ecc.»183.

Il Domenicano P. Crocenti consacrava una opera alle tendenze giacobinesche184: e queste ed altre pubblicazioni simili evocando antiche memorie riaccendevano e rinfocolavano vecchi rancori, non ispenti ma sopiti, verso i Francesi del Vespro. Così tenevasi la popolaglia disposta a menar le mani là dove capitasse un francese, od anche un sospetto sorgesse, che il tale e tal altro forestiero fosse dell'aborrita Francia.

E la classe media?

La classe media, non iscarsa di cultura, offriva qualche caso di simpatia, più che verso la nazione nemica, verso il giacobinismo, ma non per l'attrattiva che una setta od anche una segreta società suole esercitare su spiriti facilmente eccitabili, bensì per un senso di reazione alla tirannia dei governanti, alla prepotenza dei maggiorenti, alla corruzione marcia degli uni e degli altri, ma specialmente per quel fascino che in molti esercitano certe novità. [pg!136]

Se di tendenze repubblicane francofile e di Giacobinismo deve pertanto parlarsi in Sicilia (e non può non parlarsene poichè vi fecero qualche apparizione), bisogna metter gli occhi sul ceto civile in generale e, come per analogia, sul clero secolare e regolare.

È curioso che per tutto un secolo non si preparasse movimento rivoluzionario in Sicilia senza che qualche prete o frate se ne credesse parte attiva, vera o presunta che essa fosse. La fine del settecento, il 1820, il 1848, il 1860 sono per questo memorabili date. Nello scorcio del sec. XVIII, dopo l'editto reale contro i Giacobini (14 Marzo 1795), i sacerdoti la passavano tra sospetti continui: ed ora veniva arrestato l'arciprete di Troina (Luglio 1797); ora, acremente ripresi l'abate Cancilla, professore di algebra e di geometria all'Accademia degli Studî, ed uno dei due sacerdoti bibliotecarî della Libreria del Senato; ora trascinati al Castello il sac. Mario La Rosa e varî frati Conventuali e frati Minori.

Le indicazioni di persone sospette venivano da Napoli; da Napoli gli ordini di cattura. Sovente i sospetti eran così deboli che il darvi retta riducevasi ad una puerilità crudele.

Da Marsiglia un tale per burla o per vendetta od anche per insipienza mandava una carta, una semplice carta, con l'indirizzo: Al cittadino N. N., a Troina: e tosto alcuni Troinesi venivano improvvisamente investiti, catturati e condotti come Giacobini a Palermo. Cinquantadue tra nobili, civili, frati, monaci, additati come pericolosi dal Governo centrale, erano chiamati e sgridati acremente solo perchè sparlavano del Governo [pg!137] locale: come se questo dimostrasse addirittura una intesa coi rivoluzionarî. Non era persona pacifica che potesse sottrarsi ai sospetti, non persona sospetta che non fosse vittima di vessazioni persistenti.

La introduzione di libri ritenuti pericolosi si combatteva con tutti gli espedienti dei quali il Governo era maestro. Non si doveva attendere che i libri uscissero dalla Dogana. Il teatino P. Sterzinger revisore aveva l'obbligo di andarli ad esaminare uno per uno appena giunti e depositati in dogana; e poichè alla merce egli solo non bastava più, attivi cooperatori gli si associavano in una Commissione di revisione, che era insieme di vigilanza, di censura preventiva e soppressiva185.

Il provvedimento non era nuovo; ma pur sempre stupefacente. Siamo sempre all'antica paura governativa di tutto ciò che potesse scuotere l'ordinamento dello Stato; e quando non s'informava al principio politico, si camuffava sotto quello morale e religioso. Il solo dubbio che il libro fosse brutto, bastava al provvedimento che dovea impedirne la entrata in commercio. Non si parlava più della Philosophie de l'histoire, de La chandelle d'Aras, dell' Examen important par Mylord Bolingbroke, del Catéchisme de l'honnête homme e del Dialogue de qui doute ecc.; non si parlava dei Derniers mots d'Epictète à son fils e del Mémoire sur les libertés de l'église gallicane, pubblicazioni tutte bandite già fin dal 1769186; non si parlava neppure dei libri di Rousseau, [pg!138] di Voltaire, di Diderot, di Volney, di Elvezio, stati inappellabilmente proscritti; ma delle Novelle del Casti, dall' Adone di G. B. Marino, del Pastor fido del Guarini, del Decamerone del Boccaccio e dell' Elegantia latini sermonis187.

E se questi libri si trovassero già per caso in città?...

Ecco un dubbio tormentoso per la Censura; la quale, non sapendo trovar modo di liberarsene, ordinava a tutti i librai fissi e girovaghi la presentazione del catalogo delle pubblicazioni in vendita nei loro magazzini. L'ordine non poteva rivelare maggiore ingenuità in chi lo emanava o provocava; mirando esso per tal modo a scovare libri proibiti, come se i librai fossero tanto disaccordi da dichiararsene all'autorità possessori con la certezza di esser buttati in fondo a un carcere. Pure venne scrupolosamente eseguita; nè c'era da discutere trattandosi d'un ordine del Presidente (il Presidente era per antonomasia il cav. G. B. Asmundo Paternò), il quale, per farla breve, minacciava la chiusura degli spacci ai ritardatarî.

E come se la lista dei libri proibiti fosse scarsa, il Presidente vi aggiungeva la Scienza della Legislazione del Filangeri e l' Orlando furioso dell'Ariosto188; mentre Ferdinando in persona si riserbava l'autorizzazione delle scuole private, ed anche concedendola, vi vietava l'insegnamento delle scienze189.

[pg!139]

Dalle semplici catture si passava alle espulsioni ed ai confini. Alcuni catturati in Palermo venivano imbarcati per Napoli; altri catturati in Napoli imbarcati subito per Palermo. Giuseppe Gallego, Principe di Militello, era di quelli; un figlio del Marchese Palmieri, dei secondi. L'uno, bollato come degenere dalla sua casta, veniva mandato a disposizione del Governo centrale; l'altro, in un monastero di nobili, alieni da relazioni con Giacobini, a S. Martino190, dove più tardi i Reali doveano essere accolti con pranzi lautissimi, doni preziosi e poesie riboccanti di fedeltà per essi, di orrore pei loro nemici di Terraferma.

Tenevan dietro le esecuzioni: ed aprivano l'odissea funeraria il giovane giureconsulto F. P. Di Blasi coi suoi compagni, e la continuavano D. Pietro Lesa, tenente della truppa, il segretario di Jauch ed altri non pochi.

Lo spettro del Giacobinismo si aggirava pauroso nella Reggia di Napoli dapprima, in quella di Palermo dappoi, e rincorreva e perseguitava Ferdinando e, innanzi che abbandonasse la città nostra, Mons. Lopez, sognante, come il Sovrano, cospirazioni e rivolte.

Quali fossero da questo punto di vista le condizioni della Capitale ce lo dice il Villabianca in una pagina del suo Diario; e noi, anche con la certezza di tornare su quello che abbiam detto, la trascriviamo come informe ma fedele pittura dello stato dell'Isola mentre vi mettevan piede i sovrani.

«Li Giacobini nel nostro paese, cioè in Palermo [pg!140] e nella Sicilia tutta, non sono nè i nobili, nè i popolani, ma sono le persone che non ànno da perdere, birbi ed assassini. Da costoro nasce il fermento tumultuante che tanto tanto travaglia il Governo e a tutti strappa la quiete. L'impegno di questi ribaldi è di saccheggiare le case dei ricchi e mettere tutto a soqquadro, perchè coi spogli degli assassinati si provvedessero nei lor bisogni.

«Che fanno dunque li più maligni di questa terza specie di gente? Dànno a sentire a' plebei popolani e persone minute come li Giacobini e traditori del Re sono li nobili, ricchi e li ministri di Stato: e come tali esser di bene che il popolo piccandosi della fedeltà al Re prendesse l'armi contro detti Giacobini, li massacrasse e ne facesse l'esterminio con portarne le teste al Re. Così quindi praticando il popolo, da una mano fa un servigio alla maestà del Sovrano, e dall'altra mano, saccheggiandone le case, si arricchisce delle lor rapine.

«Le persone minute e i plebei, come che ignoranti ed innocenti quasi tutti, si persuadono di tai consigli, e ne ànno cominciato l'opera; per disgrazia incendia città e paesi, tutt'ora con accompagnarla di omicidij e furti sebbene di poca leva.

«Li nobili, ministri e ricchi non se l'àn sognato di essere Giacobini, e nè pure le maestranze e popolani, anche di buon senno; ma soltanto quelli vili uomini scellerati e vagabondi.

«E questo quindi è il fermento che sta bollendo a' tempi nostri nelle popolazioni e luoghi della Sicilia. La cosa intanto è seria e pericolosa. Il Governo ora [pg!141] pensa al riparo di un luogo, ora pensa all'altro. Si trova in una continua agitazione»191.

Se questo era l'ambiente governativo, nobilesco, popolare contro i novatori e contro i Francesi, dei quali facevasi tutt'uno coi detestati Giacobini, facile è presumere quale dovesse esser la poesia politica che lo ritraeva.

Uno dei primi componimenti nel genere era un sonetto di Giuseppe da Ponte. Questo sonetto, appena comparso, andò a ruba e, divenuto raro, per onorevole eccezione veniva ristampato dalla Raccolta di Notizie, come vedremo, specie di giornale ufficiale d'allora in Palermo. La imitazione dell'Alfieri ci si sente in ogni verso.

Vantar tra ceppi libertà di Stato In discorde Anarchia per l'uguaglianza, Buon Governo cercar dall'ignoranza, D'ogn'Erostrato far un Numa, un Cato; Orrida povertà mirarsi allato, E gli agi immaginar dell'abbondanza, Cangiarsi a ogn'aura, e poi vantar costanza, Chiamar felice un popol disperato; Stragi, sangue, ruine, ire, spaventi Piantar per base del Dominio eterno, E grandezza chiamar vil tradimento; Mostrare assassinando cuor fraterno, Un trono rovesciar, e alzarne cento; È questa, affè, Repubblica d'inferno 192!

Tipico altro sonetto Contra li Giacubini, del Meli, il quale celiando schizzava veleno sopra la Francia e [pg!142] sopra quanti parteggiassero pei nuovi apostoli che da essa partivano e in tutta Europa si diffondevano:

L'antichi ànnu vantatu a Santu Sanu 'Ntra li strani prodigj astutu e finu: Sanava un ugnu e poi cadia la manu; Cunzava un vrazzu, e ci ammuddia lu schinu. Ora c'è n'autru apostulu baggianu, Chi si 'un c'è frati, almenu c'è cucinu, È natu in Francia, e poi di manu in manu Scurrennu, s'è chiamatu giacubinu . Duna a tutti pri re 'na staccia tisa; Li fa uguali, però 'ntra li guai sulu, Liberi, pirchì in bestij li stravisa. Porta appressu frustati supra un mulu, 'Na Roma nuda, un Napuli 'n cammisa E un'Italia scurciata e senza.... Nè resta ddocu sulu; Chi li Fiandri o l'Olanna.... e 'nsumma pati Desolata l'intera umanitati. Cristi sù li vantati Prodigj, ahimè, terribili e funesti Di lu giacobinismu, orrenna pesti! Oh scuncirtati testi! Camina cu li cudi stu sunettu Pirchì veni a li bestii direttu.

Nessuna allusione, come si vede, a Giacobinismo in Sicilia. Lo spirito conservatore del poeta, monarchico più del monarca, non voleva neanche supporre, che esso potesse trovare eco e far proseliti fra noi; ma, caso mai, il corrosivo che è nell'apparente anodino sarebbe valso a distogliere dai pericolosi principî coloro che ne avessero avuta la tentazione.

In poche settimane, in fogli volanti, venivan fuori [pg!143] due inni di guerra minaccianti strage ed esterminio ai Francesi. Il primo tuona in termini abbastanza fieri perchè possa sospettarsi delle convinzioni dell'autore, che sarà stato un mediocre uomo di lettere, ma che fu certo un cattivo verseggiatore. Comincia così:

Chi s'aspetta? All'armi, all'armi! Si mora tra un serra-serra, Vinni l'ura di la guerra Disiata da quant'à! Ceda a nui la Francia infida E 'na vota almenu impari Cosa sù li frutti amari D'una insana libertà.

Continua:

Nui lu pettu comu un brunzu Alli baddi espuniremu, Scrittu in pettu purtiremu: «O la morti, o Diu e lu Rè!» Impia Francia mmaliditta, Abbastanza ài gaddiatu; Pirchì troppu l'hai stiratu: Rumpiremu l'arcu sò. L'armi nostri s'hannu vistu Di Francisi sangu lordi; Forsi ancora 'un ti ricordi La Sicilia quali fu.

E finisce:

Chi s'aspetta? All'armi, all'armi! Via, curremu, o fidi amici; Si lu Vespiru si fici La Cumpeta si farà.

[pg!144]

È la nota dominante in tutti gli scatti contro la Francia ed i Francesi, la eterna minaccia della sonata delle campane e riscossa. Sarebbe da vedere che cosa avessero fatto di eroico gli scamiciati e raccogliticci volontarî, pei quali, e in bocca ai quali risonarono spavalderie di questa fatta. Chi vide quella milizia ricordava con rincrescimento come nella leva contro i Francesi fossero stati, secondo un'ordinanza, accettati ed iscritti «inquisiti per delitti non gravi e non infamanti anche se carcerati», e notava con soddisfazione che a buoni conti con siffatto mezzo erasi «sbarazzata la folla de' ladri, de' malviventi o della gente oziosa, che infestavano la pubblica tranquillità»193.

L'altro inno è del notissimo D. Raffaele Drago, monaco cassinese, a proposito della Seconda Divisione del Corpo franco de' volontarî siciliani ordinato per cura e spesa di D. Saverio Oneto, Duca di Sperlinga, della famiglia di quel Michele che freddava il suo provocatore Beccadelli nell'anno 1799.

Vinni l'ura di cummattiri; Già la trumma all'armi invita: Damu, amici, e sangu e vita Pri la patria e pri lu Re. Opponèmucci a stu turbini, Chi scurrennu va la terra; Comu chista, nautra guerra Santa e giusta nò, nun cc'è. Già s'avanza l'avversariu, Chi ha seduttu tanti genti Cu prumissi fraudolenti D'uguaglianza e libertà.

[pg!145]

E segue con altri trentasei versi che battono sul medesimo tono194.

Alla testa del suo Corpo franco partiva lo Sperlinga a raggiungere l'esercito reale; ed un caldo augurio di D. Pellegrino Terzo salutavalo in un sonetto italiano. Il principio era questo:

Saverio, all'armi, all'armi, ecco rimbomba L'italo ciel degli oricalchi al suono; E l'empio Gallo al buon Fernando il trono Stolto minaccia, a tal che mugghia e romba 195.

Quali tesori per quella spedizione profondesse il soverchiamente liberale Duca, e con lui per la medesima causa altri nobili palermitani, non sarebbe credibile se non ci fossero documenti, che fanno pensare ad un vero sperpero di gente inconscia196.

L'odio dei poeti illetterati andava di pari passo con quello dei poeti dotti. Dalle strade e dalle piazze passava nelle chiese. In tutti gli abecedarî del tempo è riportata una canzonetta alla Madonna, canzonetta che risuona ancora nelle argentine voci dei fanciulli portanti nella prima quindicina d'Agosto i piccoli simulacri in cera di Maria Assunta. Quivi i Francesi vanno [pg!146] di conserva coi Turchi nello attentare alla religione cristiana:

Li Turchi e li Francisi Nni vonnu arruinari: A Maria âmu à chiamari; Idda nn'ajutirà.

E nasceva e giungeva fino a noi in frammenti una filastrocca, con questo principio:

Ò milli setticentu Ottantanovi orrennu, Annata mmaliditta Di ( da ) chiddu Diu tremennu! Tu la porta grapisti Di danni e di ruina, Pri tia muntau 'n triunfu La Setta Giacubina. Sunnu li Giacubini Chi portanu sta pesta: Triunfa lu Diavulu E si cci fa la festa.

E si trasformava in siciliano e cantavasi a coro un'aria italiana, giunta del Continente:

A sti 'nfami Giacubini Cchiù la terra 'un li ricivi; Cala forti la lavina E a mari li purtirà! A sti 'nfami Giacubini Pezzi pezzi li farannu, E li donni e picciriddi La simenza si pirdirà. A sti 'nfami Giacubini Li viju afflitti e scunsulati [pg!147] 'Ntra lu 'nfernu straziati Di lu Cifaru di ddà 197.

E spuntavan fuori e s'imparavano da tutti e in tutti i siti lunghe storie leggendarie della rivoluzione di Francia, nelle quali la tetraggine delle scene parigine acuiva nel popolo l'orrore alla nazione avversa, ed il nome di Giacobino perpetuavasi come ingiuria ai nemici dell'ordine sociale198.

Nuovo aspetto assumeva la poesia politica all'arrivo di Ferdinando III e Carolina a Palermo. Non più i Giacobini, ma i Napolitani repubblicaneggianti eran l'obbiettivo de' verseggiatori. La Francia però era sempre presa di mira, la prima, la più evidente, essa che con i suoi eserciti, coi suoi libri, coi suoi giornali, con la sua moda si era riversata sull'Italia e sul Regno di Napoli, beato, secondo i pacifici gaudenti, sotto l'egida dei Borboni. La libertà in nome della quale a squarciagola si grida, è vana lusinga, inganno, tradimento. Chi cerca in essa la sicurezza dello Stato, chi in essa vuol trovare la felicità, è un illuso; il quale non tarderà a vedere che cosa costi l'aver abbandonato il migliore dei re pel peggiore dei popoli.

Queste le manifestazioni comuni ed unanimi delle poesie stampate e delle poesie scritte d'allora: e molte devono essere state, se ancora tante oggidì ne avanzano. Appena poi la prima notizia della reazione trionfante in Napoli giungeva a noi, all'odio pei ribelli si associava [pg!148] il desiderio che nessun atto di clemenza venisse a temperare il rigore delle leggi contro di essi.

Nell'atrio del R. Palazzo, verso le tre pomeridiane d'una afosa giornata del Luglio 1799, una comitiva di cantanti recavasi a felicitare i sovrani della recente loro vittoria oltre Faro. I versi della cantata non son perfetti; ma il difetto non è dell'ab. Catinella, il quale dovette scriverli come sapeva scriverli lui, in perfetta prosodia, benchè potesse comporli meno servili:

Pr'un piattu di linticchi, Di libertà figura, Si curri a la malura E si tradisci un Re. O brutta sciliragini Di sti ribelli indigni! Tutti viraci signi C'amuri nun ci nn'è. Grida l'età cadenti E grida la 'nnuccenza: Nun cchiù, nun cchiù clemenza, No, nun si nn'usa nò. A forza d'armi e sangu Si superau ssu mostru: Castel Sant'Elmu è nostru, Li spassi senti mò. Sacra Real Famiglia, La cosa è già finuta: La libertà è battuta, Favuri 'un cci nn'è cchiù. Tocca a scialari a nui Vassalli fedelissimi E sempri nimicissimi Di tutti sti monsù 199.

[pg!149]

Ma mentre nelle aule della Reggia, tra una pietanza e l'altra della giubilante Carolina, l'esultante coro inneggia ai Reali e freme a parole verseggiate contro i rivoluzionarî di Napoli, fuori, nella città, in Sicilia, una voce severa levasi dal popolo, per ben altro sofferente. La vista cotidiana di un Re che nella Capitale dell'Isola consuma in divertimenti e sollazzi un tempo che dovrebbe impiegare nelle cose dello Stato, lo spettacolo indegno di mille cortigiani che mangiano e bevono senza neanche guardare alla povera gente che muore di fame, scuote le fibre di chi ne resta scandalizzato. Molti odono quella voce, nessuno l'ascolta, nessuno la raccoglie; ma, dopo un secolo, la tradizione ce ne ripercuote l'eco viva, come se quella voce parlasse ora la prima volta. È un'alata sestina siciliana, della quale ogni verso è una pagina storica:

Quattru scazzuna, cu' mancia e cu' vivi: Li puvireddi morinu di fami; Lu Re l'avemu ccà, nun cc'è' chi diri! Autru nun pensa chi a caccïari; 'Nsutta po' joca cu li Giacubini, E nui ristamu misi a li succari 200.

Che amara ironia di versi, e quale contrasto con la storia, descrivente la gioia dei Siciliani per la presenza dei Reali a Palermo! [pg!150]

Capitolo IX.

COME SI VIAGGIAVA PER MARE, I CORSARI E LA CATTURA DEL PRINCIPE DI PATERNÒ.

Una tradizione popolare siciliana attribuiva virtù salutari maravigliose a chi fosse riuscito a traversare incolume lo Stretto di Messina: ed il berretto da lui usato in quella traversata era buono ad agevolare le donne soprapparto.

La tradizione è speciosa; ma ha un grande significato, in quanto conferma la vieta credenza nei pericoli del Faro, e nella fortuna di chi li superasse. Non dimentichiamo la paura degli antichi pel vortice di Cariddi e per lo scoglio di Scilla, onde il motto Incidit in Scyllam cupiens vitare Charybdym. I Greci localizzarono in quel sito la leggenda delle Sirene, le quali addormentavano col canto i naviganti e li perdevano.

A passare dunque lo Stretto ci si pensava due volte.

Sotto il Governo spagnuolo i viaggi ordinarî erano per Barcellona o per altri porti della penisola iberica; sotto il borbonico, per Napoli; rari quelli per approdi più lontani, salvo che non si fosse marinai di mestiere.

Un pacchetto ( packet-boat ), spesso regio, teneva il [pg!151] traffico tra l'Isola ed il Continente. Il legno partiva ogni dieci, quindici giorni: e la partenza, non meno che l'arrivo, era cosa albo signanda lapillo. Bisognerebbe leggere qualche poesia del tempo per comprendere ciò che rappresentasse agli occhi di certuni un viaggio nel Mediterraneo201.

Poco dopo il 1770 la feluca di padron Parata faceva da corriera tra le due capitali, o portava lettere di privati e carte del Governo. Più tardi, il regio pacchetto Tartaro, comandato dal cap. D. Filippo Cianchi, e dipoi dal pilota D. Giovanni Fileti (anima di Mons. Gioeni, e vita del Seminario nautico da quello fondato), eseguiva il medesimo servizio, condiviso poi dal Leone, dall' Aurora e dal brik inglese The Progress. Il passeggiere aveva un camerino, una cuccetta e vitto, e pagava ventisette ducati in Napoli, o nove onze in Palermo (pari a L. 113,50 d'oggi). Poteva pagare metà, ed anche meno, fino a tre ducati, o un'onza; ma doveva rassegnarsi a diventare una merce, non diciamo da stiva, ma da prua, con la razione e la branda dei marinai.

Al primo salpare, specialmente per un lungo viaggio, il bastimento dava il segno della partenza col solito tiro di leva202, colpo di cannoncino: e tutti sapevano che un legno lasciava il porto. Una canzonetta del tempo, che ogni giovane bacato d'amore cantava alla [pg!152] sua bella nelle serenate estive, così frequenti allora, avea questi versi da colascione:

Ahimè! salpâr' già l'ancora I legni alla Marina! Già l'ora si avvicina, Nice, del mio partir. Senti il cannone, ascoltalo, Che di partir m'invita; Addio, mia cara vita, Addio, mio caro ben! 203.

E noi daremo al legno che parte il buon viaggio: augurio del quale esso ha gran bisogno.

I corsari infestavano i mari, specialmente mediterranei, ove le loro galeotte, equipaggiate da uomini rotti ad ogni pericolo e delitto e armati di coltellacci, jatagani, pugnali, pistole, tromboni, saette, fiocine, viveano di catture gavazzando nel sangue dei morti e dei feriti e nelle lacrime dei catturati.

Il legno, nel caso nostro, siciliano, palermitano, era alla sua volta munito di cannoni e di moschettoni carichi sempre a palla, pronti a far fuoco al primo appressarsi di galeotte sospette. Il timore era incessante in tutta la navigazione; marinai stavan sempre alle vedette, quale sul castello di prua, quale sulla carrozza della camera, e quale sulla coffa dell'albero maestro: e non sì tosto scoprivano un punto nero, una vela, un segno equivoco, ne davano avviso. In un batter d'occhio la ciurma era tutta in piedi: chi dietro i cannoncini, [pg!153] chi col suo enorme schioppettone a pietra focaia in braccia, chi con le accette in mano ad impedire l'abbordo, pronti tutti a vender cara la vita.

I non lieti incontri non erano rari, e quando i barbareschi, misurando le proprie forze con quelle probabili del legno che incontravano, non viravan di bordo fino a dileguarsi, gli abbordaggi erano improvvisi, fulminei; feroci gli assalti: e se una parte soccombeva, l'altra restava mal viva.

Le coste della Sicilia erano anche per questo fortificate, e a brevi distanze custodite da torri di guardie, le quali di notte corrispondevano con fani, fuochi e segni di vigilanza alimentati da torrari. La torre più vicina a Palermo era quella dell'Acqua de' Corsari, contrada triste per infami approdi. La villa S. Marco di Bernardo Filingeri, seconda per antichità tra quelle di Bagheria, avea nel mezzo una torre con ponti levatoi a guisa di fortezza per resistere alle incursioni204.

Un canto popolare, nato probabilmente tra noi, e certo diffuso in tutta Italia, accusa l'imminente arrivo di predoni, che vogliono precipitarsi sul tugurio d'una terra e, tra il ferro ed il fuoco, manometter tutto, portarne via fanciulle e giovanotti da vendere ai mercati d'Algeri. Quel canto è un grido di guerra:

All'armi, all'armi, la campana sona, Li Turchi sunnu junti a la Marina!

E la campana della torre di S. Antonio coi suoi improvvisi, precipitati colpi chiama all'armi: e le donne de' [pg!154] minacciati villaggi fuggono atterrite: e gli uomini corrono a difendere contro i cani infedeli le loro case, i lor figli, i loro santi.

Palermo avea bene i suoi «soldati di marina», che ne custodivano le spiagge dal Pellegrino allo Scoglio di Mustazzola ed anche a Bagheria; ma che potevano essi fare, questi soldati, impotenti come erano a resistere ai pirati che giungevano fino a Mondello, anzi fino al tiro della Lanterna del Molo?

I ricordi dell'ardimentoso Spalacchiata, corsaro trapanese della galeotta del Principe di Furnari contro i Turchi, eran sempre vivi; ma vivi eran del pari quelli delle dieci prede del rinnegato Vito Scardino, trapanese pur esso, che con ferocia inaudita e crescente a danno dei Siciliani corseggiava pei nostri mari. Se il Re ai voti del Parlamento del 1778 concesse a ciascuno dei suoi vassalli dell'Isola di armare legni contro i pirati205, non ebbe modo d'impedire che due figli del Marchese Lungarini, recandosi in Madrid alla Corte del Re Cattolico come guardie del corpo, cadessero nei lacci degli astuti Algerini, a poche miglia da Majorca.

Le notizie della vita miseranda alla quale i captivi andavano assoggettati erano commoventi. «Spogliati e lasciati in camicia e con un bastone sugli occhi», essi venivano trascinati schiavi al bagno; poco e muffito pane, il nutrimento: scarsa e malsana l'acqua, pesanti i ceppi ai piedi. Più fortunati, i Lungarini scioglievan vele dalle galere, se le caricavano sulle spalle, le rappezzavano, [pg!155] attendendo a non men bassi servizi. E frattanto, quanti loro compagni di sorte non gemevano in tormenti!...

Il forte di Castellammare, che avrebbe dovuto essere la principale difesa della città, non era nè la principale nè l'ultima. Quando la sera del 17 Maggio 1779 giungeva la fregata francese Attalanta e faceva il consueto saluto, e i nostri artiglieri dovevano restituirlo, due lunghe ore ci vollero perchè si caricassero i cannoni sugli affusti206.

Con questa prospettiva non era coraggio che bastasse. Alla più lieve occasione, alla visita di pirati i marinai, i passeggieri, dissennati dalla paura, prendevano il largo o raggiungevano la spiaggia. Il 19 Aprile del 1797 (si noti la data!), V. Emanuele Sergio, Segretario del Presidente del Regno, emanava una circolare a stampa per dire che «le perdite considerevoli dei bastimenti mercantili che cadono in preda dei corsari barbareschi» derivano da questo: «che facendo la maggior parte de' bastimenti nazionali la lor navigazione nel Mediterraneo radendo terra, all'apparire un corsaro barbaresco i rispettivi equipaggi, senza fare la minima resistenza, abbandonano subito il proprio bastimento e corrono a salvarsi in terra. Tali frequenti volontari abbandoni, nell'atto che privano i proprietarj de' loro bastimenti e delle merci di cui sono carichi, aumentano le forze del nemico, che, con il considerevole guadagno che ricava dalla vendita di essi, si alletta vie più alla pirateria; per cui si vede di giorno in giorno [pg!156] crescere il numero dei corsari». E finiva raccomandando che non potendosi resistere, pur salvandosi l'equipaggio, si colasse a fondo o si bruciasse il legno che non si potesse altrimenti salvare.

Il consiglio, dato da un uomo pratico come il Sergio, ad istigazione di un lupo di mare come il Maresciallo e Comandante della R. Marina Forteguerri, mostra la supina incoscienza dello stato vero delle cose. La pirateria era diventata una istituzione internazionale ed un pericolo cotidiano per tutti. Alle prime avvisaglie di movimenti in Napoli, i pirati algerini facevano causa comune coi corsari francesi (1794). Qualche legno inglese andava in corso anch'esso. Nè solo bastimenti in viaggio eran minacciati di cattura! Il porto di Palermo restò alla mercè dell'ultimo ladrone straniero. Un giorno (13 Luglio 1797) una nave inglese voleva dar la caccia ad una nave spagnuola; non potendo riuscirvi, volge la prua verso un veliero palermitano carico di mercanzie e, incredibile! lo cattura innanzi la Lanterna. Senza contrasto, imbaldanzisce; oltrepassa imperterrito il capo del Molo e ruba a man salva quanti più legni può, nel porto, proprio dentro il porto, «divenuto (dice indignato un ottimo prete d'allora) asilo di ladri, ossia, per servirci delle stesse parole [dei cittadini], portella di mare »207.

Così le indisturbate scorrerie di Algerini, Tunisini, Tripoletani nelle nostre spiagge son presto spiegate, e si comprende perchè i torrari non rispondano più come una volta al loro ufficio, ed il Senato si rassegni [pg!157] in silenzio alle sollecitazioni del Vicerè per la provvista della polvere nelle torri208, ed i cannoni vengano inchiodati, e la gente senza colpo ferire vigliaccamente fugga. Così ancora si spiega la famosa cattura del Principe di Paternò; la quale per la maniera onde fu perpetrata ed ebbe fine, appresta dolorose pagine alla storia della pirateria nell'Isola. Noi non la lasceremo senza una breve notizia, questa cattura; ed il lettore non vorrà rifiutarsi a scorrere con noi questo episodio della nostra vita passata.

D. Gian Luigi Moncada, Principe di Paternò, Duca di S. Giovanni, Conte di Caltanissetta, di Adernò, di Cammarata ecc. ecc., partiva da Palermo per Napoli sopra un veliero greco, la notte del 30 Luglio 1797. Nelle vicinanze di Ustica per tradimento del capitano veniva assalito da una galeotta turca e condotto con altri cinquanta passeggieri e sedici sue persone di seguito a cinque miglia da Tunisi.

Il fatto era grave; ma ancora di più per le complicazioni che doveano avvenire dopo.

Giunto a Tunisi, egli credeva di poter comandare come in Sicilia; dovette però persuadersi di essere divenuto un semplice schiavo, e che la sua altezzosità era vana con coloro ai quali era affidato in custodia. Raccoltosi allora in se stesso, cominciò a fare assegnamento sulla interposizione del Re, di cui era Cavaliere di S. Gennaro e Gentiluomo di Camera con chiavi d'oro, e del cognato Principe del Bosco di Belvedere: nè mal si appose. Ferdinando fu sollecito di raccomandarlo al [pg!158] Sultano; questi mandò un suo agente come ambasciatore al Reggente di Tunisi; ed il cognato si mise in moto per la desiderata liberazione. Tutto questo faceva sperare una buona riuscita; ma non bastava senza l'argomento potentissimo del denaro. La preda era grossa, ed il Reggente, o chi per esso, non se la sarebbe giammai lasciata improvvidamente sfuggire di mano. La cattura di un Principe non era fortuna di ogni giorno: e di principi di Paternò, ricchi sfondolati e strapotenti, non vi era che un solo in Sicilia.

Cominciano le trattative pel riscatto. Il Paternò chiede di affrancare sè ed i suoi sedici servitori. Lunghe, difficilissime le pratiche. Il predatore impone, condizione sine qua non, e dopo quattro mesi e mezzo di captività il Principe sottoscrive (14 Dic. 1797): il pagamento di 300,000 pezzi duri sonanti, pari ad un milione e cinquecentotrenta mila lire d'oggi. Il pagamento si sarebbe fatto in tre rate eguali a brevi distanze, impegnando il Principe i suoi beni presenti e futuri.

Rimesso in libertà e tornato a Palermo, il Principe a tutto pensò fuori che all'obbligazione contratta: ed è naturale. Egli s'era trovato a viaggiare pei fatti suoi; andava a prestar servizio al Re; una masnada di ladroni avealo proditoriamente assalito e tradotto in catene; condannato contro ogni diritto di natura e delle genti a perpetua schiavitù, avea soscritta, per liberarsi, un'obbligazione quasi superiore alle sue forze presenti: ed ora lo presumevano tanto sciocco da buttar via quella somma ingentissima!

Sdegnato della mancata promessa, il Bey fa sollecitare il moroso, e minaccia rappresaglie. Il Governo [pg!159] tentenna un poco; poi messo al bivio tra i danni conseguenti dall'ira del Bey e quelli del suo fedelissimo suddito e benefattore (bisognerebbe leggere la lettera scritta dal Re al Principe captivo per comprendere il significato di questa parola), anteponendo alla giustizia la ragion di Stato ed il quieto vivere con la Reggenza, ne prende le parti e fa citare in tribunale il Principe amico....

Era seria questa citazione? Al collegio degli avvocati del Principe, eterno litigante, non parve. Un'obbligazione strappata col coltello alla gola non potea, dicevano essi, avere effetto legale; nessun tribunale dover costringere a un patto imposto da una causa ingiusta, per illegittimità di preda; mostruoso il solo pensare a legalità in un atto di così sfrontata pirateria.

Ma Principe ed avvocati facevano i conti senza l'oste: e l'oste, cioè il Reggente, faceva intendere al Governo di Napoli che se esso non gli rendeva giustizia, la giustizia se la sarebbe fatta da sè. Laonde il Governo, tutto sossopra per la paura, con una di quelle risoluzioni che non paiono assolutamente credibili ai dì nostri, commetteva all'Avvocato fiscale del R. Patrimonio di perorare le ragioni del Reggente contro il Principe. Speciose codeste ragioni in bocca al Sovrano: «Attesochè si tratta di articolo che interessa non che il privato, ma il pubblico diritto, l'armonia fra le potenze, la fede delle convenzioni e che per le dichiarazioni fatte dal Bey potrebbero seguirne le più dannose conseguenze per gli Stati e i soldati del Re se non si vedesse amministrata la più rigorosa e la più sollecita giustizia, ha [pg!160] comandato e vuole che l'Avvocato fiscale del Patrimonio assista alla difesa di questa causa e per la pubblica sicurezza che vi è interessata proponga avanti il Magistrato del Commercio tutte quelle ulteriori istanze che fossero opportune per la soddisfazione della comunicata polizza debitoria».

E l'Avvocato fiscale, ossequente e sollecito, assume per tesi della sua requisitoria un bel passo di Cicerone, che suona così: Si quid singuli temporibus adducti, hosti promiserint, est in ipso fides servanda209.

La difesa del Reggente trionfa: il Principe è condannato «a soddisfare il debito contenuto nella polizza di cui trattasi»; e la sentenza vien fatta di pubblica ragione210.

A tanta enormità di giudizio il Principe di Paternò comincia a pensare sul serio ai fatti suoi; ma il Re non gliene dà il tempo, e direttamente gl'intima che depositi nella Tavola (Banco pubblico) di Palermo la somma che è stato condannato a pagare al Bey; e si affretta a darne comunicazione al Senato della città211: ed il Principe, per pagare il riscatto e le spese del processo, è costretto a fare dei prestiti dando in ipoteca tutti i suoi feudi212.

[pg!161]

Cose turche!...

Chiusa la digressione, torniamo ai disgraziati che capitavano nelle zanne dei corsari.

L'Ordine religioso dei Mercedarî avea per istituto la redenzione degli schiavi. Quest'Ordine avea in Palermo un convento al Capo, nel quartiere di Siralcadi, ben diverso dall'altro, e maggiore, dei Mercedarî scalzi ai Cartari, la cui Chiesa, maravigliosamente solida per costruzione, veniva anni fa, per inconsulta deliberazione del consesso civico, demolita. Cooperavano al medesimo fine pietoso e con espedienti poco diversi, uomini per censo, dottrina e pietà insigni. Tutte le somme che costoro accattando riuscivano a mettere insieme, spendevano per restituire alla patria, alla famiglia ed al culto della Religione cristiana quanti fosse loro concesso di riscattare.

Una sera del 1787 (12 Apr.) Goethe stando a chiacchierare nella bottega di quel tale merciaiuolo che già conosciamo213, vide passare a destra ed a sinistra del [pg!162] Cassaro due staffieri vestiti con molta eleganza, i quali portavano entrambi preziosi vassoi con monete di rame e d'argento. Nel centro del Cassaro, in mezzo ad essi, non curante della mota che gli sporcava le elegantissime calzature, il Principe di Palagonia, «serio, senza darsi pensiero di tutti gli sguardi rivolti sopra di lui.... percorreva la città facendo la colletta per il riscatto degli schiavi...». Goethe corre subito col pensiero ai tesori profusi nella villa di Bagheria; ed il merciaiuolo osserva che questa pietà del Principe «vale a mantenere sempre viva la memoria di quegl'infelici. Onde sovente, coloro i quali ebbero a provare nella loro vita sventure consimili, legano morendo somme ragguardevoli per il riscatto. Il Principe di Palagonia, conchiude il venditore, è da molti anni Presidente della pia opera che mira a quello scopo, ed ha fatto molto bene»214.

Sedici anni prima, nell'Agosto del 1771, si erano con siffatto mezzo riscattati ottantun cristiani dell'Isola, e l'Ordine dei Mercedarî avea speso la ragguardevole somma di tredici mila onze.

Allora fu oggetto di private discussioni se non sarebbe stato meglio impiegare tanto danaro in armamenti marittimi buoni a fare rispettare il paese, ed a tenere a freno i barbareschi; ma si posò senz'altro il quesito se fosse più civile premunirsi da future insidie che riscattare gli sventurati i quali gemevano sotto il bastone degli inumani predatori: e la pietà pei captivi del momento prevalse su quella per le catture avvenire215.

[pg!163]

Il dolore attuale, dice Epicuro, determina la volontà.

In cosiffatte delizie, il viaggiatore tribolava da due a quattro giorni per la traversata da Napoli a Palermo, che oggi lamentiamo di dover compiere in sole dieci, undici ore216. E non mettiamo in conto il fatto ordinario della bonaccia, che immobilizzava il legno, lo scirocco contrario alla rotta per Palermo, e i temporali, ai quali si scampava come per miracolo.

Ma finalmente il legno giungeva in porto; e allora nuove tribolazioni attendevano l'arrivato: la contumacia. E come sottrarvisi se regnavano ora le febbri petecchiali in Napoli; ora le febbri maligne in Civitavecchia, ora il vajuolo nero in Livorno; e qua e là il sospetto di pestilenza?!

La contumacia si scontava al Lazzaretto pel viaggiatore: sulla nave per l'equipaggio, ed anche per esso e pel viaggiatore. Come si passassero i sette, i quattordici giorni di attesa all'Acquasanta, dove è adesso la Regìa de' Tabacchi, segregati, quasi carcerati in una nuda cameretta, immagini chi può; mentre il legno, non ammesso a libera pratica, ancorato in rada e sotto vigilanza facile ad eludersi, caricava in quarantena e ripartiva pel Continente.

E quando i lunghi giorni della espiazione della pena contumaciale eran trascorsi, allora quante formalità a compiere per la libera pratica! [pg!164]

Capitolo X.

COME SI VIAGGIAVA PER TERRA.

Se questo era il viaggio per mare, immaginiamo quale fosse quello per terra.

Un antico detto siciliano raccomandava ai viandanti la recita di una certa preghiera al loro santo protettore:

Si vô' junciri sanu, Nun ti scurdari lu patrinnostru a Sanciulianu.

S. Giulianu l'Ospitaliero custodiva i viaggiatori: ed il paternostro, comune anche fuori Sicilia, ha questa strofe:

Sanciulianu, 'ntra l'äuti munti, Guarda li passi, e pöi li cunti: Tu chi guardasti l'acqua e la via, Guardami a mia e a la mè cumpagnia 217.

Virtù preservatrici avea pure il Postiglione, ossia l'Epistolario di S. Francesco di Paola, del quale correvano [pg!165] varie stampe palermitane, tanto più ricercate quanto più antiche218, e che si portava addosso e particolarmente in seno.

Tanta preoccupazione spiega perchè prima di avventurarsi ad un viaggio, chi avea un po' di roba al sole pensasse talora a far testamento, e sovente a confessarsi e comunicarsi219.

Guardando ai mezzi moderni di locomozione, noi non potremo formarci un'idea di quel che fosse in passato un viaggio per terra. Il venire a Palermo da Trapani, p. e., da Girgenti, da Messina, e viceversa, era tal cosa da mettere in pensiero: e la frase: jiri d'un vallu a 'n' àutru per significare: recarsi da un luogo all'altro molto lontano, è lì ad attestare quel che ci volesse per giungere ad un posto, specialmente dovendosi muovere dall'interno dell'Isola. «Il Re stesso» scriveva nei primi dell'ottocento un tedesco, «se vuole andare in carrozza, non può farlo oltre Monreale e Termini», le sole vie carrozzabili d'allora, o almeno le sole buone a tragittarsi. Le altre eran sentieri ( trazzeri ), dove s'affondava nel fango a mezza gamba d'inverno, si soffocava tra fitti nembi di polvere, di estate.

Giungendo alla sponda d'un fiume, bisognava attendere che si abbassasse, se ingrossato a cagion di piogge [pg!166] torrenziali, per guadarlo, con che pericolo, lasciamo considerare220. Non rari quindi gli annegamenti. V'era poi un altro guaio: la mancanza di sicurezza in certe contrade e in certi tempi.

Dei viaggiatori alcuni esagerarono questo pericolo; altri recisamente lo negarono. Due esempi in questo ci soccorrono. Dotti venuti da Vienna e fermatisi quasi nel medesimo tempo in Palermo, affermarono cose dei tutto contrarie tra loro. A sentire il primo, il cav. De Mayer: «In Sicilia si viaggia con sufficiente sicurezza ed a torto s'è perpetuata la tradizione dell'esistenza di briganti che desolano il paese»; se diamo retta al secondo, il Dr. Hager: «Il paese è tuttavia un soggiorno continuo di masnadieri che girano per le contrade deserte e abbandonate, assalendo viandanti solitarî ed uccidendoli senza pietà dopo averli svaligiati»221.

Chi dei due ha ragione?

Tra il 1801 ed il 1802 due altri stranieri percorrevano, tenendo quasi il medesimo itinerario, la Sicilia: Creuzé de Lesser francese e Johann Seume tedesco. L'uno scrive cose de populo barbaro del brigantaggio, l'altro si loda della sicurezza; anzi costui narra l'inatteso incontro con un noto perseguitato dalla Giustizia, il quale, trovando lui (Seume) sfornito di mangiare (giacchè il Seume, infastidito della mula, andava a piedi), lo avrebbe generosamente provvisto222.

[pg!167]

Giammai furono contraddizioni più aperte!

Necessario, ad ogni buon fine, che il viaggiatore provvedesse alla propria sicurezza: al che riusciva prezioso l'accompagnamento dei campieri, dei quali si chiedeva, come oggi si fa dei carabinieri, il numero occorrente. «I Siciliani», scriveva il Barone di Riedesel in Girgenti, «non farebbero sei miglia di cammino senza averne uno almeno.... Il costume e l'abitudine che hanno di viaggiare, li rende così timidi, che fa loro riguardare come indispensabile siffatta scorta»223.

Ma il Riedesel, potrebbe osservarsi, è già un po' antico, e le sue notizie sono stantie: nientemeno del 1771! E va bene: sentiamo allora un altro viaggiatore più recente.

Purtroppo, le cose non mutano d'una linea.

L'autore italiano delle Lettres sur la Sicile osservava che «andando per l'Isola i signori son circondati dai loro vassalli, armati da capo a piedi e con buone cavalcature. I borghesi hanno sempre qualcuno che li segue a piedi, e portano a cavallo il fucile di traverso. I forestieri son provvisti di cavalieri assoldati dal Governo»224.

I campieri, che diremo governativi, andavan divisi in tre compagnie in ragione dei tre valli.

Nel 1770 si facevano ammontare a 120; nel 1791, a 200 circa225. Si dice che fossero dei ladri matricolati, [pg!168] i quali però si facevan mallevadori delle persone che prendevan sotto la loro custodia. Si dice che fossero schiuma di ribaldi, dei quali però il Governo servivasi per tenere a freno coloro che avessero la intenzione di disturbare i viandanti. Si dice.... si dicon tante cose, che codesti campieri, a traverso le lenti paurose dei viaggiatori d'oltralpe, son divenuti tanti orchi maravigliosamente terribili. La verità poi è questa: che, traendo o no origine sinistramente oscura, essi mantenevano quella che si dice sicurezza pubblica, e consegnavano incolume al posto, a cui s'indirizzava, il passeggiero senza che gli fosse torto un capello, anzi, senza che nessuno osasse guardarlo in faccia. Avevano bensì certe loro teorie intorno a quello che si chiama punto d'onore, ma rispettavano e si facevan rispettare.

I signori ne tenevano anche per proprio conto e servizio personale, nè più nè meno di quel che facciano ai dì nostri, nei quali i campieri vestono divisa con distintivi speciali e con l'arme della casa a cui appartengono.

Limitato il genere dei veicoli: la lettiga e la mula. Il cavallo di S. Francesco, sovente preferito da chi non sapesse rassegnarsi ad una disagiata cavalcatura. Per certi posti era possibile il carretto, ed anche qualche carrozza o biroccio.

La lettiga era padronale e da nolo: l'una, come vedremo per la portantina, finemente dipinta, miniata, ornata all'esterno, rivestita all'interno di velluto, di raso, di broccato; l'altra, quale poteva fornirla un Mariano Campanella qualunque, che viveva di [pg!169] quell'industria226. Ma, bella o brutta, era sempre lettiga: e le due persone vi sedevan dentro vis-à-vis (donde il nome che sovente pigliava la lettiga), sospese in alto, sorrette da due lunghi timoni appoggiati alle due mule, l'una avanti, l'altra dietro, che col tardo andare imprimevano ai timoni medesimi, per la loro elasticità, un movimento di saliscendi che faceva dar di stomaco. Paolo Balsamo, recandosi in questa maniera da Palermo alla Contea di Modica, s'indispettiva pensando che a questo mondo vi fossero persone le quali tenessero la lettiga «un migliore eccitante per il ventricolo che quello della carrozza»227. Ombre venerate dei medici d'allora, il Cielo non vi ascriva a peccato l'errore onde macchiaste la vostra coscienza di sacerdoti d'Esculapio! Il vostro errore trova appena riscontro in quello dei medici di sessant'anni fa, quando a centinaia dei nostri borghesi ed impiegati, tutti affetti da ostruzione di fegato, consigliavasi di fare un po' di equitazione; sì che ogni mattina, di primavera o di autunno, frotte di uomini di età avanzata su pazienti asinelli della Pantelleria si vedevano a trottare verso le falde del Monte Pellegrino, o verso la Rocca di Monreale, o verso Boccadifalco: spettacoli non sai se più comici o pietosi!

[pg!170]

La lettiga aveva due uomini di accompagnamento: uno a lato dei viaggiatori, inteso a guidare ed aizzare gli animali; uno a cavallo, dietro la lettiga. Viottole ripide e scoscese per creste di monti, fiumi gonfi per recenti piogge, greti infocati dal sole, mettevano paura ai viandanti più arditi; ma la pratica degli animali e quella vigile ed esperta dei guidatori scansavan pericoli e danni. «Io mi meravigliava», scriveva il Rezzonico a proposito della sua gita da Palermo a Segesta, «come potessero i muli ora inerpicarsi all'erta di que' dirupi sassosi, ora passare fil filo d'uno in altro solco sulla margine d'un viottolo che qual tenue cornice scorreva intorno all'inclinato piano d'un colle; e più volte per l'orrore dell'imminente pericolo rivolgeva gli occhi altrove, e morivano gli sguardi miei contro la schiena ardua del monte, che quasi quasi poteva toccare distendendo la mano. Altre volte scendeva in una cupa ed oscura voragine anzichè strada, e la lettica sugli omeri de' muli rimbalzando per la scossa mi faceva temer vicina una gravissima caduta. Ma veggendo che mai non ismucciava il piede a' solerti animali, e più di loro fidandomi ormai, che de' condottieri vociferanti con noioso metro, mi lasciava trasportare nella mobile carcere per que' luoghi e sentieri sol culti dalle bestie, e valicava intrepido valli e monti».

E ricordandosi pure di altra gita da Aci a Giarre sotto un violento acquazzone, nel suo abituale stile ricercato raccontava:

«Cessata alquanto l'acqua, da cui mi fu preciso l'entrare in Jaci, ripresi il cammino e fui per pentirmene amaramente; imperocchè sorvenne la pioggia più [pg!171] di prima abbondante e dirotta; gonfiaronsi i torrentelli e fiumiciattoli che scendono dai vicini monti, e l'acqua inoltre raccogliendosi in varj canali, strariparono siffattamente che la valle, per cui vi andammo, divenne una terribile e larghissima fiumana. Il suolo tutto sassoso e declive rompeva l'acque, e feale rimbombare con grande strepito, e i muli attoniti a tal vista e impauriti da sì grande frastuono e flagellati sul dorso da' violenti scrosci, non volevano più gire oltre. Il mulattiere a piedi non poteva punzecchiarli, giacchè doveva per forza allontanarsi dalla lettica, e cercare saltellando di sasso in sasso un luogo per porre i piedi; cosicchè, privo omai di consiglio, l'istesso caporedine non sapeva come superare sì vasto pelago, e più volte io temei che smucciassero i piedi a' travagliati muli, e saltasser nel fiume. Da ogni banda accorrevano intanto nuovi flutti, e traevano seco de' grossi ciottoloni, che minacciavano di frangere la lettiga e di rompere gli stinchi dei miseri animali, che colle orecchie abbassate l'iniqua lor mente e l'estrema fatica appalesavan, rimprocciando tacitamente la temerità di loro guide coll'arrestarsi ad ogni due passi»228.

Per buona ventura le cose non andavano sempre così, anzi ci andavan di rado: e solo chi cercavali, certi guai, li trovava.

Nelle condizioni ordinarie, i mulattieri, camminando a passo, fornivano quattro miglia l'ora e, tenuto conto della natura delle strade, che, in generale, erano una [pg!172] serie di rovine, di precipizî e di sentieri pieni di sassi, compivano viaggi straordinari.

Dai seguenti particolari il lettore può formarsi un'idea delle distanze e del tempo necessario a percorrerle. Li desumiamo da un viaggio affrettatamente fatto da Vaughan per andare a raggiungere il pacchetto da Messina a Catania, in un sereno mese di Ottobre, e poi nel centro della campagna di Girgenti. Da Messina a Fiumedinisi, partendo martedì sera su tre muli, si facevano 18 miglia in quattr'ore e mezzo; da Fiumedinisi a Caltagirone, dalle due di mattina del mercoledì alle sei di sera, 42 miglia; da Caltagirone, dalle tre del mattino del giovedì alle sei di sera, a Catania, 40 miglia; e poi a S. Maria, 12 miglia, partendo alle dieci; dopo un riposo di due ore, a Licata, 30 miglia senza fermate io non so quante altre ore. Cosicchè i muli della lettiga compirono un viaggio di quella fatta dalle tre del martedì mattina alle otto del venerdì229.

I muli portavano attaccati dei fili di campanelli alle testiere e in giro sopra i selloni. Questo suono continuo, cadenzato, confuso con le voci monotone e le cantilene dei mulattieri accresceva il supplizio del viaggio230. Vogliamo sentirne una di siffatte cantilene? Ce [pg!173] la dice il Rezzonico, che la udì nelle sue escursioni per l'Isola: Au! cani, cani, Spaccafurnu, cani! ( Spaccafurnu era una delle mule della sua lettiga comprate a Spaccaforno), e si compiaceva di avere scoperto che queste maniere d'incitare le mule lettighiere si chiudevano sempre in versi endecasillabi231.

Dove va a ficcarsi la prosodia!

Solo di tanto in tanto, a prestabilite distanze di sei, otto miglia, il soffrire veniva interrotto dalle così dette catene, presso le quali la comitiva fermavasi; ma anch'esse erano nuove molestie agli stanchi molestati. La via, il sentiero trovavasi sbarrato da una catena di ferro, tesa di traverso per impedire il passaggio dei veicoli e degli animali da tiro, ai quali era fatto obbligo del pagamento d'un diritto di barriera. Moltissimi comuni aveano facoltà di metterne: e non pochi dei nostri coetanei ricorderanno i fastidî che s'incontravano nel passaggio di Villabate, presso il fondaco della Milicia, presso Trabia prima di giungere a Termini, e al ponte di Boarra, poco oltre Monreale. Non si pagava molto in vero: due grana (cent. 4) per un animale da sella o da basto; uno per un asino; quattro per un carretto; sei per una lettiga con passeggieri, quattro se vuota232; speserelle che gravavano sulla spesa maggiore concordata col lettighiere, il quale doveva [pg!174] perciò pagarla di suo, ma, al contrario, molte volte, fingendo di mancare di moneta spicciola, non pagava, chiedendola per la urgenza al suo passeggiere, che, pur sicuro di non più riaverla, si affrettava a metter fuori, impaziente di giungere dov'era indirizzato.

E meno male che un decreto del Caracciolo avea fatto cessare il grave abuso di certi birboni di riscuotere dai viandanti in alcune strade del Regno una specie di taglia sotto il pretesto di sicurezza di esse! Altrimenti, chi sa dove si sarebbe arrivati! Quel provvido decreto assimilò per la pena l'abuso al furto di passo, cioè di campagna233.

Oltre la lettiga c'era, come abbiam detto, il cavallo ed il mulo, forse più comodo per chi sapesse adattarvisi, o fosse armato di giobbica pazienza. Voleva andarsi da Palermo a Messina? Potevasi aver guide e muli a propria disposizione per 10 onze e 15 tarì, tutto compreso: mulo, guida, vitto. Voleva percorrersi la Sicilia, a tutto suo piacere? Pagare 14 tarì il giorno per una guida ed un cavallo; ma se non si pensava in tempo a provvedersi da mangiare a spese proprie, c'era da rimanere a stomaco vuoto234.

[pg!175]

Capitolo XI.

LOCANDE ED OSTERIE, CORRERIA O POSTA.

Quando nel 1793 il Conte Rezzonico metteva piede in Sicilia, egli non vi trovava nè alberghi, nè locande; ma solo fondachi, secondo lui, «caverne, anzichè ricetti d'uomini e per lo più senza letti e senza mobili». Man mano che il nobile lombardo s'inoltrava per l'Isola, confermavasi in questo sconfortante giudizio. Obbligato da piogge violente a pernottare in Fiumedinisi, fermata ordinaria allora in Val Demone, egli faceva esperimento della miseria e dello squallore di quei luoghi. «Un casolare che tutto tentenna passeggiandone i palchi, e le cui camere non si distinguono dalla stalla per la negrezza delle pareti e per li frequenti screpoli, senza vetrate, senza mobili (dove andava questo signore a cercare i mobili!) fuorchè alcune sedie sgominate ed un lercio tavolino di piedi ineguali e zoppi, si fu l'albergo che m'accolse e che io trovai delizioso per sottrarmi all'inclemenza di Giove pluvio»235.

V'era anche di peggio. Sovente si era costretti ad acconciarsi in casolari, stamberghe e mal connessi [pg!176] granai, privi del necessario al bisogno della giornata. Non solamente la carne, i polli, le uova, ma talvolta anche il pane difettava; e quando l'acqua non era buona, si dovea preferire certo vino tutt'altro che potabile.

Provvido perciò il consiglio dei due primi articoli del decalogo popolare:

Primu: amari a Ddiu sopra ogni cosa; Secunnu: 'un caminari senza spisa.

Più provvido però quello di fornirsi di commendatizie per autorità civili e religiose: e questo consiglio era così accortamente seguito che un vecchio vescovo, indirizzandosi ai vescovi novelli, in ragione dei tempi ammoniva: se vi son prelati che credono potersi esimere dal dovere di ospitare viandanti là dove sono alberghi e comunità religiose, sappiano che la loro casa dev'essere aperta ai poveri ed ai pellegrini236.

Una lettera di presentazione pel superiore di un ordine religioso era una provvidenza; ordine preferito, quello dei Cappuccini; i quali, a dir la verità, per rendere men disagevole il viaggio, si moltiplicavano, anche applicando un galateo molto sommario, del quale essi, umili fraticelli per quanto dotti teologi e canonisti non misuravano le conseguenze igieniche. Riedesel, Erydone, Delaporte, Houel, de Saint-Non, Münter, de Mayer, Stolberg, Hager, tutti più o meno vi ricorsero.

Ma anche nelle case religiose, quanti disagi prima di essere ricevuti! [pg!177]

«A Terranova, il posto più vicino a Malta (racconta quest'ultimo), dovemmo stare dai Francescani; a Taormina, dove è il più splendido teatro antico ed uno dei più bei panorami, ai Cappuccini. Quivi fui messo insieme con un ricco americano lasciandosi il nostro discreto seguito a bussare per oltre mezz'ora senza aprirglisi; tanto che dovette andare da un calzolaio, nella seconda ordinaria locanda di quella città, dove pure la bella Principessa di Belmonte, figlia del Marchese Verac, poco tempo innanzi avea passata la notte, non osando recarsi, per ragione della clausura, al Convento. Così dovette pure rassegnarsi a fare Mylord Wicombe, figlio di Lord Landsdowne, col quale un anno prima (1796) io era stato a Segesta, desinando ora in una cucina, ed ora in una stalla»237.

Del difetto di locande facevano ripetuti lamenti i viaggiatori, senza che nessuno sapesse o volesse darsene conto. «Il paese non ha locande!» dicevasi; e non si considerava che la Sicilia non sempre nè per molti era centro d'affari, e che per venirci occorreva una gran forza d'abnegazione, una ferma volontà e quattrini da spendere.

Pochi quindi ci venivano, e non tali che ad una industria sicuramente lucrosa incoraggiassero i paesani, pei quali, peraltro, in ragione della indole e delle abitudini, il tornaconto della impresa industriale, manifatturiera, commerciale che si tenti, dev'esser certo, largo ed immediato.

Solo un accorto tedesco, nel secolo XIX, capì la [pg!178] cosa e con molto senso pratico osservò: «Quello che gli Inglesi chiamano comforts, si cercherebbe invano in Sicilia.... È invece da maravigliare che non si stia peggio. Se non vi sono alberghi, gli è che non vi sono viaggiatori: e chi viaggia non cerca albergo, e va a casa sua o a casa d'amici. Il popolo basso non viaggia punto.... Come possono le osterie esser bene assestate, se esse vengono visitate di rado da viaggiatori, almeno da Siciliani? Quando un Siciliano di conto si mette in viaggio, porta con sè quasi tutto l'occorrente; un corriere lo precede per mettere in assetto il quartiere da notte nel vuoto palazzo d'un ricco amico; il signore viene trasportato, in lettiga chiusa, da agili muli a grandi giornate, e trova tutti pronti al suo arrivo. Le persone del ceto medio hanno come da noi [tedeschi] raccomandazioni presso i loro conoscenti nei paesi vicini; la classe infima non viaggia quasi punto, o dorme di convento in convento. Aggiungi un'altra circostanza: i paesi importanti sono nelle coste, dove si può andare in barca, e dove i disagi son sempre minori di quelli per terra. Nel nostro lungo viaggio a traverso l'Isola, il quale da Palermo a Messina non è stato meno di 150 miglia e mezzo tedesche, noi abbiamo potuto incontrare forse tre o quattro lettighe, solo con alti dignitarî ecclesiastici in giro per le loro diocesi»238.

E questo, nientemeno, nel 1822, dopo trenta anni che il Rezzonico avea scritto: «Manca in una sì chiara città una buona locanda, perchè mancano i forestieri: e così per tutta la Sicilia fino a Siracusa»239.

[pg!179]

In Palermo però, anche ab antico, le cose andavano diversamente240. Paesani e forestieri che potessero spendere, vi trovavano un albergo superiore ad altri (così almeno dice Hager) del Continente, e nel quale si poteva stare con una certa comodità: era quello di una signora provenzale, presso Porta Felice, dirimpetto alla Casa dei Teatini, ora Archivio di Stato. Quivi per mezzo secolo, dalla metà del settecento, presero alloggio non solo i principali benestanti dell'Isola che non avessero parenti od amici dove albergare in Palermo, ma anche gli stranieri più illustri. Conosciuto per un breve ricordo del Villabianca241, esso accolse, tra gli altri, Brydone nel 1770, Sonnini nel 1777, de Saint-Non nel 1782. Ora una lapide murata sul portone, ricorda che

GIOVANNI VOLFANGO GOETHE

DURANTE IL SUO SOGGIORNO A PALERMO

NEL 1787

DIMORÒ IN QUESTA CASA

ALLORA PUBBLICO ALBERGO.

[pg!180]

Piccanti le osservazioni del Brydone intorno a questa locandiera, Madama de Montaigne, al cui ritratto l'arguto giovane inglese consacrava alcune pagine. «Non essendovi se non un solo albergo in Palermo, noi [Brydone ed un suo amico, compagno di viaggio] dovemmo accettare le condizioni che ci vennero fatte: cinque ducati al giorno. Siamo alloggiati poco comodamente; ma è questo il primo albergo che abbiamo in vista in Sicilia, e, difatti, può dirsi l'unico in tutta l'Isola.

«Lo tiene una francese chiacchierona e fastidiosa, la quale io temo ci debba dare molto fastidio; non c'è verso di tenerla fuori le nostre camere, e non viene mai senza raccontarci che il principe tale e il duca tal altro furono sommamente lieti di stare da lei. Ci è facile capire che tutti quanti dovessero essere cotti di lei; la quale perciò pare si abbia a male che non lo siamo anche noi. Mi è stato giocoforza dirle che noi siamo gente molto ritirata, e che la compagnia non ci piace abbastanza; onde essa, come io mi sono accorto, non ci tiene più in pregio; e questa mattina (19 Giugno 1770) traversando io, senza dirle parola, la cucina, la ho sentita esclamare: Ah mon Dieu! comme ces anglois sont sauvages! Io credo che dovremmo avere per lei maggiori attenzioni, altrimenti ci vedremo aumentar la pigione. Ma la è grassa come un maiale e brutta quanto il diavolo, e s'imbelletta talmente le due grosse gote che si direbbe essersi intonacata di Marocco rosso».

Brydone prosegue la sua descrizione fermandosi [pg!181] sui ritratti di lei e del marito attaccati alle pareti della stanza di lui e sopra un certo scambio di parole tra lui e lei, la quale avrebbe dato il tema di quei ritratti al pittore; e conclude:

«Benchè sia stata vent'anni qui, madama è restata così perfettamente francese come se non fosse mai uscita da Parigi, e guarda da alto in basso e con grande disprezzo ogni donna di Palermo sol perchè le palermitane non hanno mai avuto la fortuna di vedere quella capitale, nè di udirne la musica sublime dell'Opera»242.

Questo severo giudizio sull'albergatrice d'allora in Palermo fu alcuni anni dopo comunicato in francese a lei stessa da un suo connazionale, l'ingegnere Sonnini. «Madama montò in collera, e dimostrò (parla il Sonnini) che Brydone s'era male apposto giudicandola una chiacchierona; e mi raccontò certi aneddotuzzi, pei quali aveva dovuto pregare l'inglese di procurarsi un altro alloggio; ed essa mi fece in proposito un capitolo altrettanto lungo quanto quello di Brydone»243.

Sicchè si conferma anche qui l'antico avvertimento morale, che bisogna sentire da tutte e due le orecchie.

Ad evitare pettegolezzi, lasciamo dunque la locanda della signora de Montaigne; ma, gittando un'occhiata all'ultimo piano di essa ed ai balconi che danno nel Cassaro, noi, con gli occhi della mente, vediamo ancora il giovane Goethe sulla terrazza, estasiato nel godimento del mare, del cielo e del Pellegrino, ch'egli non cessa di proclamare il più bel promontorio del mondo244.

[pg!182]

In occasioni eccezionali quest'albergo non bastava, e si era costretti a ricorrere ad altri, quanto, oh quanto diversi!

L'Ab. Richard de Saint-Non, giunto a Palermo coi suoi amici artisti il 2 Luglio 1778, trovò le locande affollate di forestieri venuti a vedere le imminenti feste di S. Rosalia. «Noi, egli dice, non potemmo alloggiare là dove ci si era proposto di andare, in un albergo tenuto da una francese, che è il conforto ordinario dei viaggiatori a Palermo; ma lo fummo in una casa che dà sul porto vecchio».

Quale poteva essere questa casa? Ce lo dice la tradizione. Da più d'un secolo la Locanda del Commercio, a Porta Carbone, sulla Cala (porto vecchio) riceve provinciali e forestieri di assai modesta condizione.

Ora, sia questa dell'Abate francese, sia quella del cav. viennese de Mayer, fatto è che mitissime ne erano le spese, e non solo nella Capitale, ma anche in Messina, in Catania e, in generale, in tutta l'Isola245.

Poichè tanto di quest'argomento degli alberghi, quanto di altri simili non è stato scritto nulla finora, ci si consenta di aggiungere, sorpassando il settecento, che il posto di Madama de Montaigne fu preso dall' Albergo della Gran Bretagna nella Piazza Marina, che avea balconi sul Cassaro, a pochi passi della Chiesa della Catena. Nessuno ne dice male; anzi il tedesco G., che si divertiva tanto a guardare la gente andare avanti e indietro, ne dice molto bene. [pg!183]

La locanda di Tegoni sulla medesima piazza, là dove sorse molto più tardi l'«Hôtel d'Italie», divenne la principale del suo tempo. Durante la rivoluzione del 1820 vi stette il Generale Church246.

I Siciliani che si recavano a Palermo, o eran dei signori, ed avevano dove andare; o eran dei miseri mortali, e cercavano le locande d'infimo ordine, delle quali la città era fin troppo provvista. Dicendo locande, noi intendiamo le meschine, poco decenti stamberghe di Lattarini; dove anche nel settecento erano accentrate, e, come ai dì nostri, frequentate dai provinciali che venivano per liti in tribunali, per contrattazioni con proprietari e signori, per compre e vendite. Ma altre ve ne avea un po' qua, un po' là: nel piano della Fonderia, alla Fieravecchia, presso la parrocchia di S. Giacomo, proprietà della Chiesa di S. Maria la Nuova, del convento di S. Domenico, di Asdrubale Termine di Vatticani e dello Spedale grande e nuovo.

E lì, a Lattarini, mettevano le vie dei Bordonari ( mulattieri ) e dei Cavallari, gente che viveva guidando bestie da soma e da tiro. Aggirandoci per tutta la contrada, noi possiamo anche oggi riconoscere il fondaco d'Agnuni, quello dell'Oglio o fondaco grande o del Sù Rosario, il fondaco piccolo dell'Oglio e, per non dire d'altro, quello della Calata dello Spedale grande all'Albergaria e di S. Cosimo a Siralcadi.

Quali le difficoltà del viaggio, tali quelle del carteggio.

Per limitato che fosse l'uso dello scrivere, ai bisogni [pg!184] più comuni esso non poteva mancare. Tra Napoli e Palermo la corrispondenza era attiva; più attiva però quella tra i varî paesi dell'Isola, specialmente con la Capitale, alla quale per ogni ragione di negozî tutti si rivolgevano.... V'erano i serii, o corrieri espressi, per affari urgentissimi; ma non tutti potevano permettersi la spesa occorrente, e si era costretti a far capo alla correria ufficiale (posta), che a periodi partiva ed a periodi avrebbe dovuto arrivare.

Esiste a Palermo anche oggi, innanzi il palazzo Bosco di Cattolica, una piazzuola detta della Correria vecchia. Quivi fino al 1734 fu la posta dei corrieri, donde in quell'anno passò al Piano dei Bologni, nel Palazzo de' Villafranca, i cui padroni aveano il diritto ed il privilegio della correria. Andate ad immaginare un servizio pubblico di questo genere in mano a privati, per quanto egregi e rispettabili come i Villafranca! Eppure altro che questo si vedeva nei tempi andati! nei quali, ufficî e dignità retribuite erano non di rado concesse contro pagamento, costituendo un vero e proprio privilegio. Il Governo spagnuolo spillava danaro da tutte le parti ed in tutte le guise, e quando la Casa Alliata de' Principi di Villafranca, per avere il monopolio dei servigi postali, offrì a Carlo VI cinquantamila fiorini contanti e centomila in soggiogazioni, Carlo non esitò un istante ed intascò bel bello quei cinquantamila.

«Nei primi tempi del viceregno del Caracciolo s'intesero lagnanze circa il servizio di correria. Pieghi disserrati e di nuovo chiusi, attrassi (ritardi) di consegna di lettere per replicati procacci cagionarono risentimenti. Il Duca Pietro Alliata e Gaetani, Luogotenente [pg!185] allora di Corriere maggiore del Regno, fu accusato d'indolenza dal Caracciolo alla Corte di Napoli. La verità è che si vollero rimettere in campo i diritti inalienabili del Demanio, il potere regio, per sottrarlo alla Casa Villafranca». Questa si difese, ed il Governo dovette provvisoriamente pagarle la cospicua somma di 92,000 ducati prima di poter prendere per conto suo l'esercizio di corrispondenza, che si affrettò a concedere ad appalto ritraendone un profitto annuale tra le undici e le quattordici mila onze247. La gazzetta degli Avvisi di Napoli, in uno dei suoi numeri del 1786, scrivea che il Principe di Villafranca si era rassegnato ai voleri del Sovrano, e soggiungeva:

«La posta in Sicilia sta per mettersi sopra un piede molto più rispettabile e più vantaggioso per la nazione. Le lettere del lato orientale per Napoli non aspetteranno sette giorni a Messina; quelle di città vicine come Alicata e Terranova non attenderanno quaranta giorni per le risposte, e procacci pubblici assicureranno il trasporto interno delle merci».

E cominciava la riforma.

La Posta dal palazzo Villafranca passava all'Ospizio degli arcivescovi di Monreale, nella casa, cioè, di S. Cataldo di fronte all'attuale Università degli Studî ed al lato meridionale del palazzo pretorio. Giuseppe Gargano veniva nominato primo ministro di posta e Luogotenente di Corriere maggiore pel Governo (questo Gargano era il Segretario del Vicerè). I corrieri dalla livrea [pg!186] di Casa Alliata passavano alla divisa (montura) turchina e rossa come le truppe, con una placca d'argento sul petto, rappresentante le armi regie, ed uno sciabolotto a fianco. Nel palazzo Villafranca rimaneva soltanto, e rimane anche oggi, l'archivio della correria di tutta la Sicilia e la vecchia buca delle lettere, che forse nessuno ha mai veduta.

Il dì 7 Aprile del 1787, Sabato Santo, la gente si accalcava innanzi ad un foglio di carta attaccato alla porta nel nuovo ufficio, nel quale era quest'avviso manoscritto:

«L'Officina della distribuzione delle Lettere del Regno in tutti giorni della Settimana, fuori del Sabato, resterà aperta la mattina per tre ore sino al mezzogiorno, e il dopopranzo dalle ore 21 sino alle 23. L'Officina delle Lettere di fuori Regno resterà aperta per tre giorni consecutivi dopo l'arrivo della Staffetta nelle ore della mattina e del dopo pranzo come sopra dinotate, e negli altri giorni solo dopo pranzo dalle ore 21 sino alle ore 23»248.

Era una riforma anche questa, che segnava un gran passo nella vita commerciale privata e pubblica.

Una nota del Marzo 1799 in Villabianca ci fa sapere che per la guerra di Napoli il Re era servito da due pacchetti accompagnati da fregate e navi da guerra che da Palermo andavano a Livorno, «luogo di correria per l'Europa». La posta partiva ogni quindici giorni, di giovedì. La lettera pagava in ragione del [pg!187] suo peso e della distanza che dovea percorrere. Il peso era rappresentato dal foglio; e la tariffa minuta era tassativa per le lettere di mezzo foglio, un foglio, un foglio e mezzo, due fogli, e un'oncia (grammi 25) di peso. La lettera da un solo foglio per Roma pagava 36 bajocchi; per l'Italia, 48; per Germania, Inghilterra, Olanda, 60; per la Spagna, 96; per Costantinopoli, 128249: il che vuol dire che la tassa di una lettera ordinaria costituiva il guadagno d'una, due giornate d'un maestro, d'un impiegato!

Nè c'è da dire che codesta gravezza di spesa fosse la conseguenza immediata della guerra; perchè, come per lo innanzi, così anche dopo, essa rimaneva la medesima. Ed ecco perchè le lettere costituivano un contrabbando: ed il trovarne addosso ai viaggiatori in vettura corriera dava ragione a multe. [pg!188]

Capitolo XII.

PORTANTINE E CARROZZE.

Chi si fosse messo a percorrere le vie principali della città, facendo una punta alla Marina e, in certe ore del giorno, fuori altre porte della città, si sarebbe sempre incontrato in portantine, o sedie volanti, o seggette, come vogliamo chiamarle.

Chi oggi fa di queste una medesima cosa con le lettighe, cade in un grosso errore. È vero, sì, che le une e le altre avevano stretta somiglianza di forma; ma diverse ne erano le proporzioni, diversi i trasportatori, diverso l'uso. Quelle erano per una sola persona; queste per due e, in ragione, il doppio; quelle per affari, per visite, per passeggiate; queste per viaggi più o meno lunghi; la sedia era portata a mano da uomini; la lettiga caricata da animali.

Le portantine però avevano comune con la lettiga e con la carrozza la qualità padronale e da nolo.

Diremo partitamente di esse.

La padronale era un'eleganza di fregi e dorature allo esterno, di ricche stoffe all'interno: le facoltà di chi la possedeva si traducevano nel maggiore o minor lusso. Dalla portantina della famiglia Sperlinga a quella [pg!189] di casa Trabia, quali esse ci son giunte, è una scala ascendente di particolarità l'una più bella dell'altra; imperciocchè dal severo rivestimento in pelle nera sparsa di borchie indorate dell'una, alla smagliante decorazione dell'altra, quali e quante gradazioni! Le quattro fiammoline della prima, sprigionantisi dagli angoli, quasi a difesa dell'aquila del centro, figurano come i puttini, i piccoli mostri in giro della seconda, ripetentisi venti, trenta volte innanzi, dietro, ai lati, nello sportello, nelle maniglie e perfino ai piedi: e non è spazio libero che si sottragga ad un ghirigoro, ad un arabesco qualsiasi, scolpito, intagliato, messo lì per incorniciare, nobilitandoli, quadri mitologici di Aurore, Nettuni, Sirene, Satiri, Genietti dipinti, o quasi miniati.

Rivaleggiano con questa, senza vincerla, altre portantine, dove la profusione degli ornati, congiunta alla gaiezza delle figure simboliche, inebbriatisi al profumo dei fiori onde s'inghirlandano, è tutta gaiezza d'arte.

Dentro, altre bellezze, altre eleganze. Difese a destra, a sinistra, di fronte, da tersi cristalli, riparate da rosee tendine, sopra soffici cuscinetti e molli spalliere dal colore blasonico del casato, sotto seriche bande, che da su in giù si aprono come a far largo ad una candida testolina nell'angustissimo spazio di broccati, frange, trine d'oro, stanno solennemente adagiate dame di grande levatura.

Pallido il viso, largamente scollata in alto la veste, stretta in basso per fascette che a tante grazie ammezzano il respiro, ed a chi guardi fan sognare voluttuose penombre, queste regine della nobiltà raccolgono inchini e riverenze dei passanti. [pg!190]

Nè solo per diporto s'incontrano nelle feste profane ordinarie, ma anche per occasioni eccezionali e rare e per ricorrenze sacre e religiose. Una delle quali è quella della visita dei Sepolcri in date chiese, nella quali la esposizione del Cristo morto, nel Giovedì Santo, ha l'attrattiva di artistici tappeti di sabbia, di composizioni di fiori di passione, di rappresentazioni sacre, di splendide mostre di vasellame d'argento. Il Senato ha le carrozze sontuose che già conosciamo, ma di portantine si serve eccezionalmente per la gita al Monte Pellegrino nella festa delle quarantore dentro la grotta del Santuario. Queste portantine non son sue; forse appartengono al Pretore, o a qualcuno dei Senatori, o ad altri che si pregiano di metterle a sua disposizione per occasioni così solenni. Ne ha la Corte del Vicerè, come la Corte dell'Arcivescovo; ne hanno le più aristocratiche famiglie, come qualche ricca casa del ceto civile; ne hanno Valguarnera, Castelnuovo, Regalmici, Belmonte, Partanna, S. Marco, Cassaro, Paternò, Sandoval ed altri ed altri assai.

Mano mano che dalle alte si scende alle medie sfere, lo splendore scema, e gli stemmi si riducono a semplici velleità emblematiche.

La tradizione parla di sedie volanti nei conventi e nei monasteri. Dei Domenicani ne ricorda una, ad uso di non so qual P. Maestro, forse supremo dignitario, e probabilmente della Inquisizione prima del 1782. Portava dipinto l'emblema dell'Ordine: un cane con una fiaccola accesa in bocca e varî motti biblici, tra' quali: Quis ascendit in montem sanctum Domini? da un lato; e dall'altro: Innocens manibus et mundo corde. [pg!191]

Questa portantina non vuol far dimenticare la famosa carrozza del terribile Tribunale, stata ceduta al Senato250.

La tradizione ricorda pure portantine nei monasteri della Pietà, delle Stimmate, di S. Vito, della Concezione, usate pel trasporto ed anche per diporto di superiore e, in casi d'inabilità fisica, di semplici suore nei giardini e nei baluardi facienti parte dell'edificio251.

Nella portantina comune o da nolo l'ornamento mancava del tutto. Lo scintillio delle dorature cedeva al nero della pelle rasa. Gli usi diversi a tutto piegavano, fuori che a quello del semplice diporto. Qualche medico se ne serviva per le ordinarie sue visite; qualche magistrato per accessi giudiziarî; i predicatori per recarsi in chiesa e da chiesa a casa. A quando a quando un delinquente, sotto valida scorta, vi era chiuso dentro e portato in carcere; così del pari certi ammalati gravi dal carcere (Vicaria), prima che la infermeria vi fosse costruita, all'Ospedale grande e nuovo. I becchini poi vi ficcavan per forza e vi raccomandavano con corregge alla vita cadaveri da condurre ai Cappuccini, od al cimitero comune.

Potremmo esaminare uno per uno questi diversi stridenti ufficî; ma troppo ci dilungheremmo; l'opportunità [pg!192] però di certe coincidenze non ci dispenserà da notare debitori e falliti essere stati accolti in seggette fiancheggiate da poliziotti, e, come un tempo alla pietra del vitupero, condotti alle prigioni252; carnefici in espiazione di pena, portati sotto custodia in una piazza a giustiziare un condannato, e levatrici in tutta pompa a battezzar neonati. Nella farsa Li Palermitani in festa, quando nel cuore della notte Nòfrio va a bussare all'uscio di Tòfalo, perchè si levi, essendo improvvisamente giunto il Re (Ferdinando III), Tòfalo esclama:

Seggia a st'ura? ch'è medicu, o mammana? O runna chi a qualcunu s'attapància? 253.

Il Dr. Hager, che trovò molto comune anche in Palermo la seggetta, si maravigliava che l'uso la estendesse al trasporto dei morti non meno che dei vivi. Quasi ogni giorno egli vide sedie portatili per cortei funebri, nelle quali però, al primo suo giunger tra noi, nulla gli era parso di scorgere. Un aneddoto in proposito fa parte di altro capitolo di questo libro254, e spiega perchè il colto orientalista non volle mai entrare, finchè [pg!193] stette tra noi, in cosiffatte sedie, e molto meno mettervi piede. Galt notò l'uso anche lui, e se ne ricordò sempre255.

E pensare che in questo arnese, proprio in questo medesimo arnese, il Venerdì Santo, i cappellani delle parrocchie si facevano condurre alla Cattedrale a prendere l'olio santo per la Estrema Unzione da somministrare ai moribondi durante l'anno!... Costume, questo, che parrebbe stato introdotto nella Settimana Santa del 1777 per rispetto all'altro, pietoso, di non andare in carrozza per la città nel giorno commemorativo della Passione di G. Cristo256.

Secondo le sedie, i portantini. La differenza tra padronali e da nolo costituiva due classi diverse di seggettieri; quelli da nolo facevan parte da sè; si associavano nella devozione dei loro santi protettori Euno e Giuliano, componendo la confraternita di S. Uniu, e abitavano vicoli che prendevano nome da loro a Ballarò ed al Capo257. La vecchia e non più ribattezzata «Via delle sedie volanti», che si apre di fronte alla chiesa S. Cosmo, era loro abitazione e posto de' loro veicoli.

Facchini nati e cresciuti, i portantini erano rotti [pg!194] a qualunque strapazzo del mestiere: e, la cinghia alla nuca, le estremità della cinghia e le mani alle aste, si addossavano il gran carico, ansando e sudando come.... bestie. Da ciò il loro soprannome di mastru o vastasu di cinga (facchino da cinghia), il quale, ridotto a quello semplicissimo di cinga, è giunto fino a noi, in un traslato di dispregio di uomo che faccia e goda di fare atti incivili e bassi della peggiore specie.

D'altra condotta e foggia i portantini padronali. Come parte del servitorame d'una nobile casa vegetavano nelle anticamere, e conoscevano a menadito tutte le forme della buona creanza e del bon ton. Ad un cenno di Sua Eccellenza la Principessa, o la Duchessa, o la Marchesa, e quando occorresse, di sua Eccellenza il Principe, o il Duca, o il Marchese, erano in completo assetto di livrea, parrucca, nicchio gallonato; assetto oh quanto scomodo, che rendeva loro difficile il servizio, cui non bastavano ad alleviare aste artisticamente intagliate, nè cinghie vellutate, come le catene d'oro non renderebbero meno penosi i dolori della schiavitù.

Di sera, quando portavano a veglie ed a festini la dama, si aggiungeva loro un numero di sei, otto paggi, che reggevano torce accese, le quali essi, appena arrivati nel vetusto palazzo, si affrettavano a spegnere nei buchi nascosti dietro le porte dei vestiboli.

Bella o brutta che fosse la portantina, l'andarvi dentro per affari costava. Un viaggio, o per dir meglio, una corsa pel Cassaro o per la Strada Nuova pagavasi due, tre tarì; poco o molto di più fuori città: spesa non a tutti consentita dal proprio bilancio. C'erano, è vero, i carrozzini; ma in paragone delle molte e molte [pg!195] sedie volanti, e del gran numero di carrozze signorili, potevano dirsi pochissimi, o bisognava contentarsi di quelli del noto Vituzzu.

In tanta scarsezza, un giorno, certo Antonio Bruno, accorto commerciante, concepisce un'idea ardita per allora, ma pratica; quella di acquistare un numero di carrozzelle nuove e di metterle a disposizione del pubblico; pagamento d'una corsa, un tarì (cent. 42). Fu una gran pensata! Il pubblico le accolse con gran favore, e dal prezzo veramente medio del tarì o tariclu prese a chiamarle tarioli.

Se non che, la nuova impresa non poteva non danneggiare l'antica delle portantine, e dal primo apparire dei tarioli i lettighieri se ne risentirono. Si principiò col sorriso del giocatore che perde; seguì la derisione dei cocchieri dei tarioli, e quando gl'interessi del mestiere cominciarono, col considerevole sviluppo dei nuovi veicoli, a pericolare, vennero gl'insulti, le ingiurie, i battibecchi, le zuffe, a sedar le quali occorse l'intervento della Polizia. I tarioli si moltiplicarono; nel solo Piano della Marina, rimpetto la Vicaria, sotto le torve occhiate dei portantini della vicina posta, se ne contarono fino a trenta il giorno. Nel 1785 i trenta erano ottantacinque, e due anni dopo, centoventuno, che, secondo una opportuna ordinanza del Capitan Giustiziere, portavano già segnato in cassetta il numero progressivo del ruolo258. Oltre i fiacres ordinarî, erano nel medesimo Piano calessini [pg!196] a due ruote, coi quali, come a Napoli, si poteva andare in mezzo alla più fitta popolazione259.

L'uso di questi e di altrettali veicoli divenne così comune che forse più non si sarebbe potuto, date le condizioni topografiche della città ed i bisogni degli uomini d'affari. Questo stesso avvenne fuori Palermo. Il Giornale di Commercio ed il Giornale di Sicilia ne annunziavano sempre qualcuno in partenza per Partinico, indicando posti vuoti per passeggieri che volessero profittarne. N'erano proprietarî, ciascuno per proprio conto, Matteo D'Aquila e Girolamo Montalbano. Quest'ultimo nome è giunto fino a noi come ditta di carrozze corriere per l'Isola, e specialmente di carrozze per la città, ed è finito in quell'azzimato nanerottolo che nella sua altezza di una spanna, colla sua posa di personaggio importante, esigeva rispetto (e se lo faceva portare) da chi potesse aver la tentazione di ridergli in faccia al solo vederlo.

Carrozze si annunziavano anche in vendita: e le offerte giornaliere erano di carrozzini, di calessi come di « vis-à-vis con aste di ferro», di berlingotti, di «carrozzini di gala» e di «carrettelle per campagna, che si chiudono intieramente»260.

Tanto favore, non nuovo nè eccezionale, è espressione dell'indole palermitana molto proclive alla vanità ed alle apparenze, e risponde alla condizione delle cose del tempo ed allo spirito d'imitazione di ciò che facevano gli altri, nel campo suggestivo della moda. La [pg!197] passione per le carrozze, quasi innata in molti Siciliani, avea modo di affermarsi specialmente nella Nobiltà; in seconda linea, nel ceto medio; quindi, in qualsivoglia persona che avesse da poter comprare, o presumesse mantenere un carrozzino pur che sia. Le cronache cittadine abbondano di notizie su questo argomento, avvalorate dalle relazioni dei viaggiatori. Due di questi, senza essersi veduti nè intesi mai, nel medesimo tempo (1777), trovarono «prodigioso il numero delle vetture». Uno, l'abate de Saint Non, notava esser «così proprio dei Palermitani il gusto di farsi portare, che la carrozza era diventata oggetto di prima necessità in un clima costantemente bello; godimento per godimento, spesso ottenuto con sacrificio delle cose più utili alla vita»261.

Un altro, parlando del Cassaro e della Strada Nuova, nella seconda metà di Maggio diceva: «La sera, il gran numero di botteghe e di caffè illuminati, gli equipaggi che vi corrono rischiarati da torce, la poveraglia che vi preme, nella principale e più larga di queste strade (intendi il Cassaro) vi richiama allo splendore ed al fracasso della Via St. Honoré di Parigi. I Siciliani vanno soltanto in carrozza; per una persona agiata non sarebbe niente decente fare uso delle proprie gambe. Le vetture sono moltissime, ed i forestieri possono procurarsene di veramente buone per sette, otto franchi al giorno»262.

La inclinazione alla carrozza, in gente che aveva buone gambe, nel tempo che la città chiusa non girava più di quattro miglia, e tutti gli affari si potevano sbrigare [pg!198] nelle poche vie maggiori, fu primamente rilevata da Brydone, e fino a certo punto messa in dubbio da de Borch; ma, per quello che diremo, è vera, verissima.

Il testimonio più sicuro del tempo, Villabianca, sotto la data del 1782, scriveva: «Ai dì nostri il mantenimento delle carrozze è un lusso de' nobili, credendo il volgo doversi reputar soltanto cavaliere colui che ha carrozza e non va a piedi come le persone minute». Ecco adunque la vettura segno manifesto di ricchezza. «Cangiano i tempi (continua il sincero, ma aristocratico diarista), e sempre più invade la moda corrente di tener carrozze per far mostra ognuno di sua nobiltà e del carattere di sua persona, se non vogliam dire per una forza di frenesia che ha invaso le persone degl'ignobili e molto più coloro che per la ristrettezza degli averi non potrebbero farlo [com'è vero quel che trovò de Saint-Non su questo godimento, ottenuto col sacrificio delle cose più utili!...]; il che può bene compararsi all'antica moda, che è oggi in disuso, di mantener schiavi in servizio di lor casa»263.

I dati statistici confermano questa notizia.

Fino al 1647 soltanto le dame della prima aristocrazia si servivano della carrozza. Gli uomini andavano a cavallo, ed i ministri regi del Sacro Consiglio, i Presidenti ed i giudici, in chinea bianca, preceduti da valletti e con gli algozini a fianco, che portavan alto le verghe della potestà. Ebbene: fino a quell'anno le carrozze non erano più di 72. Un secolo e trentacinque anni dopo, nel 1782, erano più che decuplicate: 784! [pg!199] senza, contare le timonelle, le carrozze dei militari, dei signori regnicoli (provinciali), e non so quali altri veicoli del genere.

Questa la ragione dell'eccesso di vetture notato dagli stranieri.

Eppure esso sarebbe stato comportabile, anche nel suo movimento vertiginoso, se gravi inconvenienti non lo avessero accompagnato nelle solite vie maggiori. Cocchieri padronali che voglion sopraffare cocchieri da nolo; padroni che lasciano soverchiare, anzi impongono ai loro cocchieri che soverchino il pubblico dei pedoni e passino primi ed oltre, quali che i pedoni siano; carrozze e portantine che si fermano a tutto comodo ed a tutta jattanza di chi vi è dentro, od escon dalle file prescritte dall'autorità, invadendo il limitato spazio ed arrestando il passaggio, non pur loro, ma anche di quanti debbono o vogliono andare a piedi: ecco quello che si vede tuttodì. Ciò che oggi si dice 'mbrogghiu di carrozzi (inviluppo, confusione; impedimento di libero corso) trae appunto da questo abuso, che nè raccomandazioni, nè minacce, nè punizioni, nè multe riuscivano ad infrenare264.

Di siffatta jattanza volle trarre partito per migliorare [pg!200] certe vie della città, battute di continuo da veicoli e da uomini, il Vicerè Caracciolo.

Amico di lui era il Regalmici, che non poteva non approvarne le audacie edili; e di questi erano amici, e del Vicerè ammiratori, il Sorrentino, il Prades, il Castelnuovo, il Cefalà, sulla energia dei quali poteva fare sicuro assegnamento.

Allora, guardando alle deplorevoli condizioni delle strade ed al guasto che tuttodì veniva ad esse dalle carrozze, pensò come da tanto male trarre altrettanto bene: richiamò certa disposizione di una tassa annuale di tre onze non prima applicata, e ne decretò l'attuazione per la durata di soli quattr'anni, tassa da pagarsi da tutti i padroni di carrozze. Ciascuna rata avrebbe dato un introito di 2352 onze all'anno, e questa sarebbe bastata al lastricamento di una parte delle vie Toledo e Macqueda.

Dodici onze, per quanto scompartite, erano una spesa, ed i proprietarî di carrozze si misero a sbraitare. — «A buoni conti (mormoravano) che si pensa di fare questo paglietta?... ( paglietta, come si sa, nobili e civili chiamavano il Caracciolo). Di punto in bianco vuole aggiustare il mondo! Dopo di essersela presa con Dio ed i Santi, viene a prendersela con la Nobiltà, solo perchè essa ha delle carrozze». — «Sta a vedere (osservavano altri) che il Cassaro, la Strada Nuova vanno in rovina per noi! come se le carrozze delle Autorità non sciupassero il pavimento esse pure!...». E con queste ed altre querimonie molti si accordarono di non cedere, o, tutt'al più, di cedere solo alla forza.

La Deputazione incaricata della nuova tassa, sicura [pg!201] dell'appoggio vicereale, si disponeva ad energiche risoluzioni. Venne l'ora delle riscossioni, e mentre molti imprecando pagavano, altri si rifiutavano bravando. Allora s'impegnò una lotta accanita, ma disuguale; piovvero le coerzioni giudiziarie. Il Governo, limitando la libertà personale, che era sua recente preoccupazione, faceva pegnorare molte carrozze: questa sorte toccò anche alla Marchesa Geraci. Alle pegnorazioni seguirono le vendite. Il Duca Colonna di Cesarò con gran rumore e generale dispetto vide portata via la sua carrozza alle Quattro Cantoniere, dove, tra perchè il provvedimento pareva odioso e perchè la popolazione era ostile, nessuno volle comperarla.

I ricorsi alla Corte di Napoli non tardarono: e la Corte fece dare alla potente Marchesa soddisfazione del pubblico affronto; ma permise sequestri alle rendite dei morosi. I nobili ne sorrisero; i Deputati per le strade sogghignarono; gli uni e gli altri in apparenza soddisfatti; in sostanza scontenti, perchè, correggendo la forma, il provvedimento regio lasciava le cose come stavano.

Esenti dalla nuova tassa e quindi liete rimasero le timonelle e i carriaggi comuni di persone del popolo.

Così davasi opera ai lastricati ( balatati; 21 marzo 1782), che poi dovevano costituire la gloria non solo del Regalmici, ma anche di altri Pretori.

Quasi contemporaneamente avveniva un fatto che ha relazione col nostro argomento.

Menava gran vanto di sè una certa Unione di locatarî di vetture e di cavalli, la quale accampava non so che diritti di privativa concessi dal Senato. Un [pg!202] D. Vincenzo Bosio, rappresentante di essa, visto che gli affari della Società non andavano bene, pensò di richiamarsene al Vicerè.

Evidentemente D. Vincenzo non conosceva l'uomo: e l'uomo, appena letto il ricorso e sentito il parere della giunta dei Presidenti e del Consultore, scrisse al Senato una delle sue taglienti lettere annunziandogli di avere sciolta l'Unione, cancellati i capitoli di essa e conceduto piena libertà ai privati di prendere a loro scelta vetture e cavalli265.

Torniamo alla tassa. Scorsero i quattr'anni prescritti, e si sperava non se ne sarebbe più parlato; ma essa venne inasprita con la inclusione di altri veicoli non tenuti di conto dianzi. Il 16 marzo del 1786 si torna a pubblicare il bando sopra le carrozze con la seguente gradazione di imposta: carrozze padronali, onze tre; birocci, timonelle, ossia tarioli, canestri a due cavalli senza cocchiere, padronali o di affitto, due; carriaggi ad un cavallo, carri da buoi, carretti, da città e da fuori, onza una e tarì quindici; sedie volanti, onza una266.

Stavolta le mormorazioni dei nobili trovarono eco tra' civili e tra' plebei, e nessuno potè negare che l'esempio del Caracciolo era stato fatale anche alla povera gente, che per un tozzo di pane dovea lavorare giorno e notte all'aria aperta, alla pioggia, al sole, al vento, e di questo scarso pane farne parte in danaro alla Deputazione per le strade. Quello poi che toccava il colmo [pg!203] era la gravezza sulle seggette, per le quali incominciava già la crisi della concorrenza dei tarioli, e la fatica era, più che da uomini, da bestie.

La tassa rimase fissa per gli anni che seguirono, e l'ottocento, sotto questo punto di vista, ereditò dal settecento un introito sicuro di quasi tremila onze all'anno.

Scorrendo la lista dei tassati per quartieri nel giugno del 1801, sorprende la differenza tra alcuni di essi. Quello di Siralcadi (Monte di Pietà) era 559 onze; quello della Loggia (Castellammare), 645,15; l'altro dell'Albergaria (Palazzo Reale), 650,15; quello, infine, della Kalsa (Tribunali) 1071,15: totale 2926,15.

Donde tanta grazia d'involontarî contribuenti nel quartiere dei pescatori della Kalsa? È chiaro: dal maggior numero di signori che vi abitavano. [pg!204]

Capitolo XIII.

ABITUALE ASSENZA DEI PROPRIETARII DALLE LORO TERRE; TRISTE CONDIZIONE DEI CAMPAGNUOLI.

Una barbara parola recente, assenteismo, risponde alla inveterata abitudine di certi signori, di stare lontani dalle terre o dalle tenute di loro proprietà.

Quest'abitudine, divenuta sistema, era ordinaria e quasi comune. Vuoi per naturale ignavia, vuoi per carezzevole inclinazione alle beatitudini dei grandi centri, vuoi per difetto di sicurezza e di strade, essi abbandonavano a gabelloti i loro fondi. Li abbandonavano anche per altra ragione, o per altra serie di ragioni. Villani poveri, spesso impossibilitati a pagare, anticipazioni che occorreva far loro, lamenti sull'anno cattivo, sulle piogge abbondanti, sulle inondazioni devastatrici, sulle prolungate siccità; malsania insidiosa e letale di lunghi tratti di terreni, distoglievano dal tenere per proprio conto fondi, nei quali increscevole tornava loro lo stare. I baroni riconobbero molto commodo essere in relazione con una sola persona che pagava puntualmente ed anche anticipatamente267; si separarono dalla [pg!205] terra e dai coltivatori, e si ridussero nelle città inciprignendo così una piaga già da lungo tempo aperta.

I viaggiatori più spassionati, giungendo da Messina o da altri paesi dell'Isola per via di terra a Palermo, ne rimanevano impressionati, e non potevano non prenderne nota. «Noi trovammo, dice de Saint-Non, i nostri baroni palermitani passare voluttuosamente la vita in molle e dolce ozio mangiando a due palmenti il prodotto di quella loro terra che essi non visitarono mai»268. Il naturalista Stolberg, fermandosi un giorno (4 giugno 1792) nell'ampio, abbandonato palazzo del Marchese di S. Croce, di qua da Mongerbino, messosi a conversare con l'ospitale castaldo, potè per sicure informazioni scrivere che «questi palazzi non hanno mai visti i loro proprietari: e che vi son baroni, morti senza aver mai visitati i loro beni»269.

A siffatti inconvenienti alludeva Paolo Balsamo quando nel maggio del 1808, presso il Ponte di Vicari, si permetteva di raccomandare al Principe di Fitalia che con le sue splendide carrozze e livree trottasse di meno nella passeggiata della Marina e di Toledo, e che invece cavalcasse di più per le campagne270. Eppure il Fitalia era uomo molto serio!

Questa lontananza si rifletteva sulla cultura delle terre e su coloro stessi che dovevano attendervi. Un mediocre ma pomposo economista palermitano del tempo, dopo avere riconosciuto il principio che in un paese agricolo come la Sicilia le campagne debbano essere [pg!206] popolate più che la città, lamentava la pratica siciliana del tutto contraria, cioè che non si pensasse a popolare la campagna, e che di tutte le popolazioni dedite all'agricoltura non si formasse una città sola. E, con vedute nuove tra i suoi contemporanei, aggiungeva: «che in essa tutti i coltivatori che voltarono le spalle alle campagne si ammettono tra il numero di domestici; e per nostra maggiore vergogna si lasciano unire al folto stuolo dei poveri volontarj e sovente dei vagabondi viziosi. Con ciò si accresce il lusso, si moltiplicano le spese, ed intanto! Ed intanto la nazione diviene sempre più miserabile»271.

Anche questo fatto era evidente pei forestieri, ed uno tra i più temperati osservava: «Le abitazioni son troppo lontane dai fondi. Il contadino perde quattr'ore il giorno per andare e venire. Stanco di queste gite, ha poca energia di lavorare. Bisognerebbe trovar modo di diminuire tanta perdita di tempo e di accrescere le abitazioni rurali. Qua e là i lavori mi son parsi solo per metà compiuti: nè io saprei dire se per difetto di braccia o per mancanza di danaro; il che però non si riterrà improbabile quando si pensi che nella raccolta dei frutti non si attende che maturino.

«Il contadino diviene proprietario con un censo ch'egli paga al suo padrone. A questo censo, molto acconcio a moltiplicare i coloni ed a migliorare il suolo, bisognerebbe aggiungere la costruzione di vie praticabili, in guisa da rendere agevole ed a buon patto la [pg!207] circolazione delle derrate e soprattutto del grano, il cui trasporto vien compiuto a schiena di mulo, e perciò con difficoltà, lentezza e spesa»272.

Su quest'altro punto i lamenti dei forestieri non hanno riserbo. Münter, andando da Palermo ad Alcamo, rilevava, cosa notata dianzi, che la strada buona non andava oltre Monreale. «Al di là non si trova quasi vestigio di pubblica via carrozzabile, e quindi l'unione ed il traffico tra le città siciliane sono straordinariamente impediti, ed in certi punti, quando la neve cade in abbondanza, tagliati. Invece di strade, oltre quel paese, non sono altro che sentieri, su dei quali appena due cavalli possono andare tra loro vicini: e perchè l'intera contrada è molto montuosa e di nude balze ripiena, così tali passi sono assai ripidi, formando al tempo stesso delle tortuosità che allungano sino a trenta miglia circa la strada da Palermo ad Alcamo, che in linea retta non sarebbe più di diciotto»273.

Chi sappia come il Münter viaggiasse tra noi nel 1785, penserà che, a buoni conti, qualcosa di meglio possa essere stato più tardi. Ma non è così. Sul finire del secolo, un altro economista palermitano non sapeva acconciarsi al pensiero che una derrata prodotta in un distretto dovesse, a cagione delle difficoltà e delle spese di trasporto, consumarsi nel distretto medesimo; «donde l'abbondanza disgustosa, al tempo stesso che un altro distretto n'era privo e che avrebbe pagata ad un mediocre prezzo». Necessarie quindi le strade agevoli al [pg!208] trasporto verso le città e i luoghi marittimi. Le spese sarebbero state minori «non solo a riguardo di un minore tempo da impiegarvi, ma a risguardo pure che ai cavalli ed alle mule da soma si sarebbero agevolmente potuto sostituire delle carrette ben serrate, senza esporre i grani e le derrate all'adulterazione, bagnamento ed altre solite frodi dei vetturali»274.

Un'altra osservazione, pur essa nuova, scaturisce dalla coltivazione della terra, resa, per difetto di animali, insufficiente.

La zappa non basta: ci vuol l'aratro, e l'aratro ha bisogno di bovi. Ora i bovi, quando i baroni tenevano per conto proprio i loro feudi, producevano. Da un certo tempo una pessima pratica era venuta consigliandone la macellazione. L'esiziale esempio partì da due illustri signori palermitani. Le campagne rimasero prive o scarse di bestiame: e quando la crisi non potè più nascondersi, fu coraggiosamente gridato doversi rifare, anche obbligandosi i signori all'antica economia rustica di coltivare per conto proprio i loro feudi; il bisogno di far maggesi, di abilitare gl'inquilini, avrebbe riprodotto il bestiame grosso, ed i baroni si sarebbero rimessi nell'avita ricchezza. Gran danno invece l'abbandono della cultura dei propri feudi, la perdita dei capitali dalla campagna estratti; onde la decadenza dell'agricoltura, la povertà dei bracciali, uomini addetti alla cultura della terra! Tutto, nel modo che vedremo nel seguente capitolo, fu speso e consumato: ed il lavoratore, [pg!209] che si conduceva conformemente a ciò che vedeva praticare e che aveva appreso dai suoi padri, rimaneva sempre nella ignoranza dei migliori metodi di coltivazione275. La terra produceva solo quello di che la forza della natura benefica era capace; terra sfruttata sempre, limitatamente aiutata dalla mano dell'uomo più che l'opera di viete e dannose pratiche.

Pietro Lanza di Trabia ripeteva la decadenza dell'agricoltura in Sicilia dalla povertà dei contadini, dalla falsa loro credenza che il lor mestiere fosse il più vile, dalla condotta dei proprietarî che davano le loro terre in estaglio, o in amministrazione, a persone che scrupolosamente ripetevano quel che avevan visto fare ai loro nonni, dal difetto di cognizioni agrarie, comuni fuori Sicilia276; proponeva quindi un «Teatro agrario, o un Educandario», in cui potesse la gioventù istruirsi nell'agricoltura277.

Il concetto, non raccolto allora da nessuno, neanche dal Re, al quale veniva manifestato, doveva più tardi [pg!210] con altezza d'intendimenti patriottici esser tradotto in pratica dal Principe di Castelnuovo; concetto ragionevole, giacchè molti dei proprietari di grandi territorî non avevano essi stessi idea esatta, compiuta di quel che occorresse per migliorare i campi senza perder di vista la classe minuta che vi sudava.

Quanti han vissuto la vita della seconda metà dell'ottocento e respirano le prime aure del novecento credono coscienza nuova, e però affermazione suggerita dalla evoluzione dei tempi, il diritto degli umili a vivere per mezzo del lavoro, la considerazione per la loro triste condizione278. Scendendo a particolari, essi guardano con singolare interesse quelli tra gli umili che intristiscono nelle asprezze dei campi.

Eppure dovrebbero ricordare, e con soddisfazione ricordiamo anche noi, che prima assai di essi e di noi (che con premuroso affetto seguiamo le sorti dei diseredati dalla fortuna), una eletta di scrittori siciliani nel secolo XVIII, senza apparato teatrale, senza pubblicità di giornali, ma con idee che potrebbero dirsi moderne e sono antiche quanto il Vangelo, perorava la causa di questi grami lavoratori e ne metteva in evidenza l'opera proficua. Noti sono agli studiosi Antonio Pepi e l'Ayala, il Guerra ed il Gallo-Gagliardo ed il forte Sergio; ma costoro non son soli, nè, forse tutti, i più energici per quanto autorevoli. Altro uomo, illustre nella poesia, sentì la missione rigeneratrice pei poveri campagnuoli assai più e meglio che qualsivoglia [pg!211] altro contemporaneo. Alle più sane fra le dottrine sociali d'oggi egli precorse con un contributo di osservazioni maturate nel silenzio delle pareti domestiche e nel raccoglimento dello spirito stanco delle brutture della società. Qualcuno saprà che Giovanni Meli, scendendo alcune volte dalle sublimi sfere della fantasia studiasse l'amara realtà dei bisogni del popolino; ma pochi sapranno che argomento di sue cure speciali egli facesse le condizioni miserrime degli uomini addetti all'agricoltura ed alla pastorizia279.

Ora tra le verità da lui formulate è questa: che la gente civile era così affascinata dal guasto del tempo che non s'accorgeva di essere ingiusta verso i suoi benefattori. Questi benefattori, diceva, sono i bifolchi, sono i villani, che bagnano del loro sudore la terra per trarne i più salutari alimenti, d'alcuni dei quali non è loro concesso un boccone, perchè tutto devono vendere alla Capitale.

Nel poema D. Chisciotte e Sancio Panza questa verità egli, temendo che per la sua crudezza potesse destare l'indignazione dei maggiorenti, la mise in bocca allo stravagante eroe, il quale così ragionava:

Vui autri picurara e viddaneddi, Chi stati notti e jornu sutta un vàusu O zappannu, o guardannu picureddi, Cu l'anca nuda e cu lu pedi scàusu, Siti la basi di cità e casteddi, Siti lu tuttu, ma 'un n'aviti làusu; [pg!212] L'ingrata Società scorcia e maltratta Ddu pettu chi la nutri e unni addatta 280.

Egli stesso, aprendosi intimamente ad amici che sapevano comprenderlo, e rimpiangendo che la Sicilia non avesse arti, nè manifatture, nè commerci, riaffermava: tutto doversi ripetere dalla terra, che forma la base, e dal mare che circonda l'Isola disagiata281.

E poichè un certo risveglio a favore dell'agricoltura e quindi della povera gente di campagna venivasi accennando e prometteva di fortificarsi per impulso specialmente di pochi intelligenti signori che vi pigliavan parte attiva, un amico del poeta, il Marchese Giarrizzo, sosteneva: «La Società è in obbligo di prestare agl'individui che la compongono i mezzi di sussistenza; questi non può procurarglieli, perchè siano reali ed effettivi, che con l'agricoltura; ogni altro mezzo è certamente precario»282.

Non meno esiziale agli interessi agricoli della Sicilia deve ritenersi la maniera ond'erano tenute le terre comunali. Il diritto di pascolare e di legnare, indispensabile alla vita delle popolazioni rustiche, anteriore a re ed a leggi, e da re e da leggi sempre riconosciuto, impediva la coltivazione dei terreni; come la coltura che in alcuni si faceva era sempre fittizia e poco o punto produttiva. I fondi del comune, sentenziava il [pg!213] Gregorio, non son di nessuno; se non si usurpano, si abbandonano o si trascurano, sì che divengono sterili e brulli. Le terre poi a colture, perchè in mano a fittaioli, che le smungono a più non posso, poco o punto ottenendone, ritraggono dai giurati che li danno a fitto, ed i quali, perchè amministratori temporanei, non si travagliano a promuoverne la maggiore e più permanente coltivazione. E del resto l'amministratore d'oggi potrà domani esser fittaiolo!283.

La impressione, pertanto, che lasciava la vista dell'interno e delle coste dell'Isola era penosa: e non si riesce a comprendere, esclamava maravigliato Hager, come mai la Sicilia possa essere stata, nei tempi antichi, il granaio d'Italia!284.

Qui un pauroso fantasma si leva a turbare le rosee speranze dell'affaticato contadino e, salendo per la scala agricola, del colono. Fissiamolo un poco questo fantasma, e riconosceremo in esso l'idra divoratrice della miserabile classe dei campagnuoli. Ci soccorre con una breve nota descrittiva un apologista del Senato, il Teixejra.

«Il colono riceve il frutto della terra inaffiata co' proprj sudori; fatta la recollezione, un'indispensabile dovere l'obbliga ad esitarlo, e ciò per soddisfare i diritti di terraggio, semente, cultura ed altri; e non trovando così sollecito un compratore convien che ricorra ad un trafficante usurajo, quale ceto di persone trovasi in ogni luogo: e da questo riceve il prezzo, non a seconda [pg!214] della giustizia, ma regolato dalla sola sete del guadagno. Ed ecco così, in pochissimo tempo, arrivare il frumento di proprietà di un numero strabocchevole di coloni al piccolo numero di trafficanti, o almeno de' fittajuoli, i quali, ingrossata la massa, con questi mezzi dispongono dell'acquisto da' padroni assoluti, e non lo mettono in vendita se non a prezzi strabocchevoli»285.

Che fremito di vita attuale in questa pagina, scritta più che un secolo addietro! Sunt lacrymae rerum!

Ben è vero che il Monte Frumentario si contrapponeva a tanto danno di uomini e di tempi; ma dal dì che venne istituito, esso non rispose mai adeguatamente a' bisogni di chi vi ricorse. Gli interessi del 4% agli appaltatori del Senato, del 5 ai proprietarî di grani introdotti nel caricatore della città, del 6 a tutti i padroni esteri nei principali caricatori del Regno, consumavano il capitale. Questo, già scarso, era messo a pericolo dalle esigenze di chi offriva le sue derrate al Monte rifiutandole a mercatanti avidi e disonesti: onde lo istituto venne a fallire e, presso al fallimento, impose agli esausti cittadini sacrificî superiori alle proprie forze, che li mettevano nell'alternativa o di rifiutarsi ribellandosi o di sobbarcarsi impoverendosi.

E tornando là donde siamo partiti, cioè ai baroni, che, per non averne i disagi, abbandonavano le loro vaste tenute, vediamoli un poco nella Capitale.

La città offriva tutte le attrattive del tempo e della moda, circoli, compagnie, feste, giuochi, passatempi, [pg!215] ai quali non era facile rinunziare, anche perchè a molti gli espedienti per ben vivere stando alle sicure entrate annuali non mancavano. Col fidecommesso i beni erano accentrati; i secondi, i terzi geniti avean modo di limitare i loro bisogni e certe esigenze fomentate dal fasto di famiglia. Il chiostro poi non c'era per nulla. [pg!216]

Capitolo XIV.

NOBILTÀ E GARA DI FASTO.

La conquista normanna diede origine ad una monarchia a base di feudalità e di privilegi, forza e vitalità di essa. Il feudo fu il substrato dell'edificio che dovea sorgere e sorse. Crebbero i feudatarî e i privilegiati, che costituirono una classe a sè con preminenze e diritti non comuni. Crebbero per la natura delle primitive concessioni, e si mantennero pel Diritto siculo, che il passaggio del titolo feudale consente in linea retta, senza distinzione di sesso, fino all'ultimo e più lontano gettone della famiglia e, in linea collaterale, sino al 6º grado; e chi n'era investito, poteva alla sua volta, in virtù del famoso quos volueris, se di tanto avea facoltà, concederlo, trasmetterlo a capriccio.

Nel giorno della sua incoronazione (2 febbr. 1286) Re Giacomo creò ben 400 militi; 300 e più ne creò dieci anni dopo, per la sua, Federico II l'Aragonese, innalzando a dignità di Conti un buon numero di Baroni286.

Così nata l'alta classe, a poco a poco, col progredire [pg!217] dei secoli, col succedersi degli avvenimenti, con gli incessanti bisogni dei sovrani, diventava una legione con diritti e preminenze tutte proprie.

L'indirizzo impresso da Carlo III al Governo dell'Isola mirò anche a ritornare ad usi gli abusi dei feudatarî, e gli usi a ricondurre nei limiti compatibili coi tempi, assimilando alla feudalità di Napoli la feudalità di Sicilia. E certo, se a questo non riuscì, a quello accostossi con riforme sapienti, perchè non sempre fruttuose, vuoi per incertezze del suo successore, vuoi per malferma volontà de' ministri e vuoi per difficoltà di ordinamenti interni, non del tutto coerenti.

La fine del secolo XVIII offre la seguente statistica nobiliare: 142 Principi, 95 Duchi, 788 Marchesi, 59 Conti, e 1274 Baroni tra feudali e di franco allodio287. Costoro erano tutti in legittimo possesso dei loro titoli; però, oltre di essi, era un numero sterminato di persone con titoli abusivi, non suffragati neanche da parvenze di successioni e di antichità, di regolarità di concessione originaria o di legale passaggio; onde quel severo dispaccio, comunicato al Senato palermitano, col quale Ferdinando dichiarava per modo di regola (1799) che il conceder titoli od altra distinzione d'onore fosse unicamente e personalmente riservato alla sua Autorità288.

Come in Palermo, così a Messina, in Catania, in Siracusa, questi titolati abitavano palazzi da gran signori; ma la loro signoria era esercitata nell'interno [pg!218] dell'Isola. Nella Capitale, tutte le forme esteriori di grandezza in equipaggi, livree, ricevimenti; lì gli avanzi del baronaggio e degli usi feudali nel pieno loro vigore.

Nei dialoghi del giornale Conversazione istruttiva del 1792, un filosofo, pregato da un cavaliere che gli trovi un maestro pei suoi figli, risponde che essi non istudieranno gran fatto. E che vorranno essi fare se, usciti di collegio o liberi della custodia dell'aio, senza la guida dei genitori, si troveranno slanciati nel gran mondo, vittime della loro o inesperienza o tendenza malsana, tra teatri e banchi da giuoco, tra sensali di cavalli e venditori di stoffe?289.

Dai difetti biasimati da questo troppo catoniano filosofo defalchiamo il molto che deve attribuirsi alla umana natura; siamo anche indulgenti ripetendo dall'ambiente certe abitudini inveterate; questo è certo: che rimane sempre molto di deplorevole.

La gara del lusso impelagava in ispese che non trovavan compenso nelle entrate ordinarie e sicure. A molti patrimonî si dava fondo senza smettersi dallo spensierato ed improvvido sperpero, che a fatale rovina avea condotto famiglie per censo rinomate. Il regio Archivio di Stato in Palermo pullula di processi giudiziarî, che accusano vecchi spenderecci e giovani dissipatori, dal primo all'ultimo orgogliosi di un nome onorato che non seppero illustrare, e di un casato alla cui corona non curarono di aggiungere il verde d'una fogliolina. Accanto a patrizî venerandi e benemeriti, che la gloria più bella riponevano nel ben fare per la patria [pg!219] pel lustro edilizio, pel sollievo dei miseri, per le istituzioni di carità, erano scioperati, che a nulla di grande, a nulla di veramente utile volgevano l'animo. Rivaleggiando in occupazioni lontane dalla virtù, la nobiltà radiosa delle opere impiccinivano in manifestazioni, più che di volontà ferma, di velleità, senza un atto energico che rivelasse la coscienza sicura del movimento estero, inteso a trasformar tutto, mentre la inerzia locale tutto lasciava come cristallizzato.

Un patrizio dei più buoni d'allora, che del patriziato scrisse con dottrina di blasonista e con sincero entusiasmo e piena coscienza di celebrare una degna istituzione, il Villabianca, ebbe sempre parole roventi all'indirizzo dei malversatori delle proprie sostanze, e fremeva perchè molti del suo ceto non fecondassero gli esempî degli avi, e perchè nella pratica del bene restassero dietro a quelli del ceto medio, i quali egli dichiarava inferiori.

Sotto la data del 30 agosto 1793, prendendo nota dell'arresto di un allegro consuntore, faceva di costui uno dei tanti «seguaci della moda libertina lussuriosa», ed usciva in parole molto ma molto gravi. Inaugurandosi poi, in sostituzione dell'altra del 1676, la fontana della Piazza del Carmine alla Albergaria, e sostenendone le spese il Presidente di Giustizia altrove citato, G. B. Asmundo Paternò, non nobile di nascita ma nobile di azioni, il Marchese Villabianca riteneva vergognoso che non si emulasse la gloria di servire il paese in opere pubbliche, e che i magnati del sangue si lasciassero superare dai ministri di Legge. «Lo fa, diceva, il paglietta, perchè è virtuoso, e si nega il magnate, perchè [pg!220] è vizioso. A lui il vizio fura le ricchezze e lo fa vivere povero»290.

Quasi contemporaneamente l'ab. de Saint-Non trovava «gran quantità di case nobili, ricche, fastose, belle donne e.... costumi da Sibariti»291.

Questo, meno il poco detto dal de Mayer, è facile trovare nelle scritture del tempo; quello però che si legge a stampa, desta un gran senso di meraviglia.

Autori paesani e forestieri, ricercando la causa dell'ozio in Palermo, la trovavano là dove realmente era: nel pregiudizio che un signore che si rispettasse non dovesse in verun modo occuparsi di ciò che costituiva occupazione ordinaria degli altri. Il ceto basso tribolava nelle fatiche corporali; il medio sgobbava; ma il nobile non davasi punto da fare: non sapendo sobbarcarsi alla modesta vita dell'impiegato, del mercante, dell'architetto. Qualche eccezione era pel Foro; ma rara e da segnarsi a dito. Due sole vie perciò rimaneva a battere: quella della milizia e l'altra della Chiesa: e per esse si mettevano coloro che avevano la sventura di esser nati dopo il primogenito, il quale, pel fidecommesso, era il legittimo rappresentante della casa.

Questi cadetti pertanto entravano nei corpi distinti della milizia, dove per lento corso potevan giungere a qualche grado. La disciplina militare non era ostacolo alle inclinazioni succhiate col latte, mantenute dai costumi delle famiglie, determinate dalla vista di [pg!221] persone e di cose, che erano tentazioni continue292. Altri preferivano la vita ecclesiastica secolare e più frequentemente regolare. Per quanto si cercasse, non si trovavano conventi che loro convenissero. Nei conventi si raccoglievano soggetti di assai modesta condizione; raramente della media; rarissimamente, quasi mai, della superiore. Una volta, quando i Gesuiti erano nel loro splendore, sì che in Palermo contavano fino a sei case, non mancava tra essi l'elemento aristocratico: eletti ingegni, che gli accorti e severi Padri sapevano attirare alla Compagnia; ma dal 1767 i Gesuiti ramingavano fuori del Regno in attesa di tempi migliori. Non restavano se non le case dei Teatini, dei preti di S. Filippo Neri, ed i monasteri dei Benedettini. E qui eran ricevuti come a casa loro; giacchè tra i Teatini ed i Filippini si ostentava meno la grandezza dei natali e si curava più la educazione della gioventù: occupazione alla quale essi attendevano come per missione civile e religiosa; e tra i Benedettini, nella finezza della cocolla, nella sontuosità dell'abitazione, nella lautezza delle mense, nella copia [pg!222] dei mezzi di cultura, da pochi, per altro, messi a profitto, aveasi modo di sfoggiare la superiorità d'origine.

I monasteri di S. Martino delle Scale e di Monreale avevano il loro fratello maggiore in quello di S. Nicolò l'Arena in Catania. Le ricchezze sconfinate, provenienti da 72 feudi pel solo monastero di Monreale, potevano bene sopperire ai bisogni del gran numero di monaci, che vi conducevano vita di agi campestri, alternata con quella non meno agiata, ma più variata e mondana, di città. Qui altro monastero, quello di S. Spirito, nel quartiere del Capo (attuale Caserma dei Pompieri municipali), era la Gangia di S. Martino, tutta a loro disposizione quando l'aria dei monti non facesse per loro. Quei due monasteri eran sempre aperti a chi vi giungesse, ed ai refettorî di essi poteva, secondo il grado di civiltà, sedere chiunque, come alla sua foresteria quanti cercassero ospitalità temporanea, rimasta fino a noi tradizionalmente bella.

D'altro lato, alcuni dei primogeniti (non tutti, s'intende, giacchè c'erano anche qui eccezioni lodevolissime, che chiamavano la generale ammirazione su loro), schivi d'occupazioni fruttuose, sovente anneghittivano nell'ozio, e per conseguenza nei disagi della vita293. O non inchinevoli, o non adatti al maneggio degli affari, preferivano il dolce far nulla, come se la proposta di Galt di una Costituzione non li riguardasse punto, o come se sogno da menti inferme fosse la previsione che le loro fortune si sarebbero senz'altro aumentate [pg!223] quando per poco avessero voluto attendere al commercio ed alla mercatura294.

Vedremo nei seguenti capitoli le ragioni che per molti di essi era causa di rovina; nel presente non saranno inopportuni pochi cenni, che particolarmente illustrano quella vita o, come oggi si direbbe, quell'ambiente.

Fu detto che essendo la principale Nobiltà della isola raccolta in Palermo, il lusso degli equipaggi fosse eccessivo: e che essendo scarso il numero dei forestieri, e tutte conoscendosi tra loro le persone del paese, questo lusso non fosse giustificato neanche da occasioni frequenti di mostrarsi in gala, di abbandonarsi a spese di whisky, di carrozze, di cavalli e di altri rovinosi passatempi295.

L'osservazione non poteva essere più giusta, ma peggio seguita. Il lusso c'era; e sempre e quando occasioni nuove od eccezionali sorgevano, diventava più che pericoloso, specialmente se pei ricevimenti di persone straniere d'alta levatura si destasse una gara tra i riceventi. Questa gara giungeva anche al parossismo, e più si avviava alla sua fine e più accaloravasi in manifestazioni di opulenza che talora degeneravano in fittizie manifestazioni, ahi quanto laboriose! di ricchezza.

Il lettore ci segua un momento.

Pel primo parto di Maria Carolina (1772), il Vicerè Fogliani, nella villa Zati a Mezzo Monreale, invitava la Nobiltà ad un ballo, il popolo ad una cuccagna, tutti [pg!224] ad una fantastica illuminazione. I diaristi del tempo si diffondono nei particolari di quella festa, e ci fanno sapere che in limonate granite, sorbetti, pasticci, vini, rosolî e non so che altro, furono spese ben 700 onze. Poco dopo, il Pretore non volle esser da meno del Vicerè; ma la cassa del Comune era esausta, e non c'era dove metter le mani. Che importa! La festa dovea tenersi, e si tenne: ed il Palazzo Pretorio venne invaso da duemila persone in maschera, servite di rinfreschi, ghiacci, torte grasse, vini d'ogni sorta, ed alle ore otto della notte seguì una ben lauta cena, in ventitrè mense, protratta fino a giorno pieno. Quel giorno medesimo lo inasprimento della meta di alcuni commestibili296 offriva ai malcontenti ragione di biasimo per la inconsulta spesa.

Ma v'era un'altra Autorità, che non poteva starsene inoperosa. Il Capitan Giustiziere, Principe di Partanna, invitava al suo palazzo del Piano della Marina quanto di eletto offrisse la città. Da lì assistevasi al giuoco dei tori sulla sottostante piazza: e tra gli ori e gli argenti, tra i luccicanti cristalli ed i ricchi doppieri, tra le superbe tappezzerie e le sfavillanti lumiere, altre duemila persone danzavano, giocavano, mangiavano, servite da ventisei paggi, diretti da non so quanti maestri di casa, con soldati svizzeri e alabardieri del Principe. A conti fatti, il Principe Girolamo Grifeo metteva fuori presso a 650 onze!

La morbosa emulazione non si arrestava a spese per nessun verso giustificabili. Il 15 dicembre del 1777 giungeva al Molo di Palermo il primogenito del Vicerè [pg!225] Marcantonio Colonna, Principe di Stigliano, con la novella sposa, Cecilia Ruffo, secondogenita del Duca della Bagnara; ed il padre bandiva, in onore degli sposi, tre ricevimenti della Nobiltà Palermitana nei prossimi giorni 20, 21 e 22; e tre feste da ballo nei dì 27 e 30, e 1º gennaio del nuovo anno. Alla vanità del parere ed alla spensieratezza dello spendere non poteva offrirsi stimolo migliore. Ed allora, che restava a fare all'Autorità cittadina, se non indire una festa nel pubblico Palazzo ed invitarvi gli sposi? E questo fece il Pretore, il quale, conoscendo le strettezze dell'erario, da quel patrizio disinteressato che era volle stavolta spender di suo.

Qui avrebbe dovuto finir tutto e lasciarsi in pace gli sposi; ma nossignore! Una seconda serata bandisce il Principe G. L. Moncada di Paternò. E vada anche questa! Tanto il Principe era Capitan Giustiziere, e non poteva sottrarsi ai doveri della carica; altronde non per nulla si è altolocati; e non per nulla si hanno palazzi e quattrini. E comincia una gara tra' signori per solennizzare il fausto evento di giovani che nessuno di essi conosce e che ne hanno avuto già troppo con i tre ricevimenti, le tre feste da ballo al Palazzo vicereale, e le due altre del Pretore e del Capitan Giustiziere. Il Principe di Partanna, che nel far onore ad ospiti vuol essere sempre primo, dà il segnale con una festa alla sua casa. Segue il Principe di Giarratana, Troiano Settimo; indi Antonio Statella, Marchese di Spaccaforno. Essendo stati pochi i convitati, se ne mormora come di mancanza di riguardo. Tommaso Celestre, non come Principe, ma come Marchese di [pg!226] S. Croce, vuol farsi apprezzare, e dirama larghi inviti; e perchè è uno degli ordinatori del prossimo costoso Carnevale, compie prodigi di magnificenza; imitato, non superato, dal Duca di Cefalà Niccolò Diana, vecchia conoscenza dei nostri lettori, e dal Principe e Duca d'Angiò Giovanni Gioeni.

La storia non è finita: a brevi intervalli, altre feste vengono date da Placido Notarbartolo Duca di Villarosa, da Giovanni Oneto Duca di Sperlinga nella sua villa suburbana di Malaspina, e da Antonio Lucchesi Palli Principe di Campofranco, Capitano della real Guardia degli alabardieri, dentro il Palazzo del Vicerè.

E la gara continua, continua ancora nel palazzo del Conte d'Isnello Domenico Termine, nel Cassaro con altra festa, cominciata col passeggio delle carrozze di maschere e finita con balli mascherati; e si chiude nel piano dei Bologni, dentro il palazzo Villafranca ove dell'unico principato del Sacro Romano Impero in Sicilia meritamente si onora la famiglia Alliata.

Cuccagna come questa non s'era mai vista da mezzo secolo in Palermo: e chi se la godette, ne rimase entusiasta; «imperocchè furon feste veramente superbe e degne di esser date anche alla persona del re medesimo.» Alcune, quelle, p. e., di Angiò e Spaccaforno, costarono le solite seicento onze, col magro compenso d'una visita di ringraziamento del Vicerè297.

Ci si consenta, mentre ci siamo, un ricordo o [pg!227] qualcosa di simile, di data posteriore nei primi del sec. XIX.

Un bravo siciliano, che aveva molto viaggiato e molto veduto, parlando d'una festa organata in Palermo dal Principe della Cattolica, non trovava termini per dare un'idea anche lontana del gusto, della grazia e della fantasia ond'essa era stata ordinata ed eseguita.

«Immensi saloni, dalle pareti coperte di specchi dall'alto in basso, erano mascherati da alberi, testè divelti dalla terra, e tutti pieni di frutte. Gli spazî tra il fogliame e gli specchi facevano credere ad un altro mondo che passasse dall'altro lato della strada: la illusione era completa. Si facevano balli inglesi sotto viali di pergolati, dai quali pendevano grappoli d'uva matura e squisita; contraddanze francesi in quadrati d'alberi, e tutt'intorno ad una ricca vasca, donde zampillava un bel getto d'acqua che faceva dei giuochi. In fondo, nell'ultimo salone, vedevasi una graziosissima collina, anch'essa imboschita, e nel mezzo un sentiero, conducente alla sommità, a' cui due lati erano in gran copia bombons e gâteaux d'ogni genere. Nessun domestico si vedeva dai convitati; ma, a piè del colle, trenta o quaranta chiavette, con indicazioni delle singole bibite e d'ogni rinfresco desiderabile, come poncio caldo, poncio freddo, crema, caffè, thè, bordò; e, sotto, i bicchieri, che, presi, si sostituivano con un turacciolo. La musica era sentita bene; ma come non si vedevano domestici, così non si scoprivano musicanti, celati dentro grotte coperte di fogliame. Solo all'ora della cena si potè sapere che v'eran servitori. [pg!228]

«E se non è questa una féerie, esclamava il Palmieri, io non so che cosa meriti questo nome!»298.

Ecco le condizioni della società che ci occupa! L'alta posizione sociale consigliava sacrificî, che le condizioni personali forse non consentivano. Per una malintesa dignità, l'esempio diveniva contagioso: se non s'avea, erasi costretti a mostrar d'avere; se non si era, dovevasi fare ogni studio per comparir doviziosi.

Quest'esempio induceva un certo Gentile a tenere, sotto il Vicerè Fogliani, una clamorosa festa, molto lodata e molto biasimata. «Se le fanno i nobili le feste, avrà egli pensato, perchè non possono farle i civili?» Il figlio di lui, avv. Matteo, altra ne tenne superiore alla prima; e Diego Orlando, uno dei più famosi avvocati, ne traeva stimolo a bandirne alla sua volta una (26 gennaio 1798), che quella e questa superasse: e larghi inviti a stampa alle principali dame della città mandava la Principessa di Belvedere Caterina Del Bosco, e più larghi ancora a signori e civili l'Orlando medesimo, che, a titolo di lode per lui, non pur profondeva dolciumi e rinfreschi, ma anche deliziava gl'intervenuti col canto delle virtuose del teatro S. Cecilia299.

Più tardi, quando S. A. Leopoldo di Borbone soscriveva per 100 copie alla nuova edizione delle Poesie del Meli, a due onze e tarì l'una, e ne pagava anticipatamente il prezzo, un Presidente Marchese faceva altrettanto, perchè nessuno potesse pensare che un dignitario come lui facesse da meno di un Principe reale. Se poi [pg!229] il soscrittore neo-Marchese, amico ed emulo di Ferdinando III nella caccia, non fece onore alla sua firma, ed al momento della consegna dei libri negò al Poeta le dugentottanta onze, il pubblico seppe almeno che egli stette alla pari del Principe Leopoldo. E se un'arguta affabulazione sull'incidente venne in testa al Meli300, tanto meglio pel Presidente che ne fu l'oggetto! È sempre qualche cosa ex magnis inimicitiis excellere.

La distinzione fra i ceti aveva linee così nette, che una confusione non poteva assolutamente nascere e, nata, prolungarsi. Poteva bensì dolersi Em. Perollo che le cariche principali del comune venissero impartite solo ai nobili. L'Autorità, alla quale egli rivolgevasi chiedendo la partecipazione dei semplici cittadini a quelle cariche, nol degnava neanche di risposta!301.

Aveva un bel dire il Santacolomba che gli uomini son tutti uguali, «e manderebbe lo stesso odore d'arrosto messa sul fuoco la carne d'un alto o di un basso personaggio». Egli stesso, nelle cui vene circolava sangue non volgare, doveva poi convenire che «la civil polizia ha i suoi scalini gerarchici: non tutti sovra tutti posano i piedi: chi si trova più in alto, chi sta più basso. Il magnate, il nobile, il graduato esige certe marche di rispetto dal semplice e dal civile; è dovere che gli si paghino: volergli camminare a fianco è un'ingiuria»302.

Un giorno il Villabianca, andando in carrozza pel Cassaro in compagnia del Principe di Paternò, era salutato [pg!230] forse con maggiore riguardo del solito, ed egli ne traeva ragione di letizia, perchè ci vedeva gli effetti dell'onore altissimo303.

Ma il colmo di questo innato principio, fecondato e mantenuto dalla educazione, avversa a tutto ciò che potesse fin lontanamente intorbidire la purezza del ceto, è un aneddoto, che brevemente narreremo.

Festeggiavasi con un gran ballo il già detto parto della Regina Carolina: ed «uno de' figli del fu Razionale del Patrimonio, Scicli, perchè ebbe lo spirito di frammischiarsi in questa serata co' nobili, avendo giuocato a tavolino di dame, ne fu messo fuori sul tardi dal commissariato della celebrazione della festa, come persona affatto ignobile ed incapace di unirsi colla Nobiltà. E questo fu fatto ad istanza di quelle stesse dame che un'ora prima seco lui avean giuocato. Non licet omnibus adire Corinthum. Pover'uomo! Egli spacciò tosto per sua giustificazione essere originata la sua famiglia da avi nobili; ma questa affatto non gli fu fatta buona»304.

Questo aneddoto e questa osservazione può destare impressione oggi; ma non poteva destarne allora, che i distacchi tra le classi erano nella coscienza di tutti. Diremo, in proposito, cosa che darà ancora meglio la prova dell'abisso che separava non solo i ceti tra loro, ma anche i gradi d'un medesimo ceto.

Il 17 ottobre del 1779 il primogenito del Barone Ignazio Capozzo, un bravo giovane a 22 anni, sposava la figlia del già morto Principe di Torrebruna, Girolamo [pg!231] Landolina. I parenti tutti della fanciulla, scandalizzati, si misero a gridare contro lo sposo, che avea osato levar gli occhi verso la figliuola di sì gran signore; il contrasto tra lui e lei essere stridente. Le grida si tradussero in ricorso legale al Governo, non solo di Sicilia, ma anche di Napoli, e si chiese l'annullamento del matrimonio. L'annullamento, a dir vero, parve troppo al Governo; ma una punizione allo sposo, indispensabile; onde il Capozzo con dispaccio sovrano venne carcerato, proprio carcerato! a Castellammare, e poi relegato in non so quale riposta prigione del Regno. E quando rientrò libero a casa sua, dovette benedire alla toga del Tribunale del Concistoro vestita dal padre suo, ed alle parentele nobili, state contratte dai suoi antenati.

Un giorno, senza che nessuno se lo aspettasse, il regio Convitto Carolino pei nobili giovanetti fu soppresso. Che è che non è? si volle romperla con la intrusione di qualche ragazzo «di recente nobiltà». Bisognava rimediare allo sconcio: e vi si rimediò con la istituzione di un nuovo Convitto, il S. Ferdinando, nel quale furono ammessi alunni con cent'anni di nobiltà, almeno.

Seguiamo ora un po' davvicino la vita giornaliera, particolarmente da salotto, dell'alta classe.

Eccoli, costoro:

Quant'aprinu la vucca,

ed hanno

Carrozzi e vulantini, Gran tavuli e fistini, Tutti ( ogni ) commodità 305.

[pg!232]

Paggi, lacchè e servitori popolano le loro anticamere. Per poco che una della famiglia, il signore soprattutto, la dama, il primogenito, si muova da una stanza all'altra, si agitano in inchini profondi e in attitudini rispettosissime. Fuori, cursori a piedi e volanti accompagnano correndo le carrozze e disimpegnano altri urgenti servizî. Ad essi vogliono, nella rapidità del fare, contrapporsi i servitori; ne nascon gare a chi faccia più presto; e, questi in livrea, quelli nel leggiero vestito ordinario, si rincorrono fuori le mura per vincere un premio di agilità: prove pericolose, che il Governo è costretto a vietare per impedire danni alla parte offesa e perdite a chi su di esse scommetta306.

Stringevasi al Bartels l'animo per l'affanno di codesti infelici nel trottare al trotto dei cavalli mentre il padrone distrattamente godeva in cocchi, livree, cavalli, specie quando egli fosse un villan rifatto, che sfarzava con uomini da lui condotti dalla terra, della quale erano utili braccia, come della famiglia indispensabile aiuto307.

E volanti, lacchè, staffieri precedono, fiancheggiano e seguono i signori che vanno a piedi o in vettura, di [pg!233] giorno o di notte, con torce a vento se in vettura o in portantina, con ceri accesi se a piedi.

Codesto corteggio non era solo per comodità nelle vie buie o scarsamente illuminate, ma anche per distinzione. L'arguto Brydone, che in Palermo ebbe cortesie infinite di nobili amici, ricordava sorridendo l'inalterabile loro costume di andare in carrozza; solo una volta potè persuaderli a fare diversamente. Per condiscendenza essi scesero con lui a piedi pel Cassaro, ma non prima che innanzi a loro andassero i servitori con grosse torce di cera accese. Eppure il Cassaro era, per le feste di S. Rosalia, illuminato a giorno!308.

Di siffatto uso rimane viva la memoria nel motto popolare dialogato: — Appressu!... — Lu stafferi cu la torcia.

Talora uno di codesti servitori o staffieri teneva dietro al padrone portandogli il nicchio309.

A qualche vecchio signore abbiamo più volte chiesto dei servitori di casa sua o d'altrui: e le risposte ci son parse sempre esagerate. Lasciamole dunque queste notizie orali, ed atteniamoci alle scritte. Un figlio di famiglia, un cadetto di casa Palmieri di Miccichè, ce ne fa sapere qualcuna; la nostra opinione, peraltro, è formata sulle carte tuttora esistenti, di spese. Il Palmieri scrive così:

«Dei domestici straordinario era il numero nelle case signorili, anche più modeste. E bisogna vedere con che etichetta si regolassero. Il cocchiere si sarebbe [pg!234] guardato bene dal salir sopra per servire a colezione o in una serata; il domestico da livrea non si sarebbe mai acconciato a cingere un fardello: questo avrebbe fatto soltanto il mezza-livrea; e non è esagerazione se si porti il numero di tutta codesta gente a ventidue, ventiquattro persone tra maestro di casa, camerieri, domestici propriamente detti, cuochi, cocchieri, e via discorrendo»310. V'eran case che tenevano fino a sei lacchè con livree, alcune delle quali, per voler apparire ricche, riuscivano stravaganti. Certe dame non avrebbero saputo uscire per le strade senza un duplice appoggio ad entrambi i lati, quasi si svenissero ad ogni passo.

«Superbi gli equipaggi; cavalli di razza spagnuola, vigorosi corridori, per le gite ordinarie; cavalli danesi, romani, napoletani, per le grandi occasioni, che non mancavano mai. Eguale il lusso delle abitazioni. Si sarebbe creduto di non averne una bastevole, se questa fosse stata meno di cinque, sei stanze; dieci, dodici, quindici di fila componevano l'appartamento del signore: cosa, a dir vero, perdonabile in Sicilia, dove le adunate sono numerosissime, ed un quartiere piccolo non potrebbe accogliere tutti coloro che la convenienza vuole invitati. E frattanto, non v'è nulla di più strano che per un piccolo desinare di società e in famiglia si debba attraversare un filare di stanze e di gallerie per trovar poi in un gabinetto il signore o la signora con quattro o cinque commensali. Si resta sorpresi vedendo queste stanze mobigliate in damasco, tappezzerie ecc., [pg!235] sedie di cuoio o di paglia.... Il tono di magnificenza sul quale tutto è montato, impedisce alla Nobiltà di abbandonarsi al suo naturale gusto ospitale e socievole invitando i forestieri. Si sentirebbe vergogna di offrire una zuppa come vien viene, perchè non si vuol comparire altrimenti che in tutto il proprio splendore. Difatti, quando un desinare od una festa si dà, non si risparmia nulla. Pare che tutto si voglia buttar giù dalle finestre; ed io metto pegno se si trovi un paese dove le cose si facciano con magnificenza, gusto, e vorrei anche dire con raffinatezza voluttuosa più che a Palermo»311.

Pittura così viva potrebbe parere esagerata in chi l'ha fatta, il conte de Borch; ma la esagerazione, caso mai, sarebbe stata in altri visitatori della città. Tutti, infatti, descrivevano la magnificenza dei palazzi; tutti guardavano attoniti camere spaziose ed alte, in lunga fila, con arazzi di gran costo: ostentazione di splendore principesco; tutti, il nugolo di creati: etichette ambulanti di agiatezza; e le superbe livree cariche d'oro: affermazione perenne di grandezza nobiliare, e le carrozze pesanti dell'antica forma, e l'esercito di battistrada, avviso di signoria magnatizia. E non è sfuggito neanche questo: che, dopo morto, lì alle catacombe dei Cappuccini, qualche signore, avvolto nel comun sacco nero, con le mani irrigidite dalla inesorabile Morte, ti presentava un cartellino per dirti: Io sono il Principe A. — Io sono il Marchese B. — Io sono il Conte C.312.

Ma in mezzo a tanto fastigio di mobili, abiti, pranzi, [pg!236] feste, l'animo, insoddisfatto, non s'acquetava ad un capriccio stato appagato, ad una bizzarria compiuta, ad una delicatura non a tutti, e solo a chi avesse mezzi, possibile. Un non so che d'indefinito, che è infelicità di non gustar mai nulla, sopravanzava a tutto. I mobili erano una decorazione mutabile, gli abiti una servitù giornaliera, i pranzi una parata, le feste una distrazione effimera; ed il fastidio della ricchezza arieggiava il soffrire della povertà: ricco e povero in qualche cosa si somigliavano.

In una delle sue ingegnose concezioni, il Meli vide alcuni genî divertirsi ad osservare le umane sciocchezze; ed un gran quadro rappresentar figure e costumi della vita,

... chi espriminu lussu e spisi orrenni 313.

Lusso vide dappertutto e grossi debiti il Villabianca; il quale, a proposito del nobile Senato di Caltagirone, esclamava in versi:

Ah che il Senato non è più quel di pria! Schiavo è fatto de' scribi e de' sensali ;

correggendo l'ultima parola farisei314.

Perchè questo? potrà chiederci il lettore.

Chi guardi con criteri morali alle esteriorità, penserà che anche i piaceri lasciano un gran vuoto, e che possessa vilescunt. Pure una conoscenza più esatta delle persone e delle cose del tempo e delle conseguenze alle [pg!237] quali dovea condurre questa dissipazione induce a giudicare ben altrimenti.

«La maggior parte dei signori son coperti di debiti: e le entrate dei pochi, inadeguate ai loro bisogni; molti vivono in uno stato di miseria completa»315.

Ecco il giudizio di un inglese, venuto nei primordî del sec. XIX a studiare la Sicilia: giudizio assoluto, e, perchè assoluto, inesatto; nel quale una gran parte di vero è bensì a presumere, senza potersi provare.

E come provare che un uomo, apparentemente dovizioso, facesse sfoggio di denaro non suo, che forse non avrebbe avuto possibilità di restituire?

A non radi intervalli una sentenza di tribunale metteva in vendita un feudo: espropriazione forzata per debiti insoluti. Ed ora un Principe veniva privato della baronia di Garbanoara col relativo feudo, acquistato da Girolamo Fatta Oddo pel prezzo di diecimila quattrocencinquant'onze316; ora un altro Principe vedevasi dismembrato lo stato e la Contea di Cammarata del feudo e della baronia di Molinazzo, passato alla creditrice D. Lucia Sances317; ed ora volontariamente, per contratto ordinario, quando uno e quando un altro dei signori era costretto ad alienare qualcosa del suo patrimonio per rispondere ad impegni gravi ed a bisogni pressanti.

Uno studio sugli atti degli antichi notai di Palermo [pg!238] porta a constatazioni dolorose. Valga per tutte questa: nel 1787 la sostanza mobiliare del Principe Tommaso Palermo ascendeva alla somma di onze 44765,07 (Lire 570756,65); poco men che quattordici anni dopo, nell'Aprile del 1801, quella sostanza era ridotta ad onze 3462,06 (L. 44041,26), della quale 207,04 in argenteria giacente al Monte di Pietà. Non ardite speculazioni, non speciali bonifiche di terre, non atti insigni di carità aveano consumato il patrimonio di Tommaso (41303,01); ma il lusso, al quale erasi sfrenatamente abbandonato il figliuolo Giuseppe, la cui eredità nel 1810 era quasi scomparsa318. Si parla ancora di un feudo del valore di 80000 onze stato venduto per sole 7000! E la causa di rivendica dei defraudati eredi si trascina ancora dopo un secolo!

Nondimeno, la qualificazione di ricche seguiva sempre molte famiglie.

Non poteva pronunziarsi il nome di questa o di quella, senza il sottinteso delle sue cospicue ricchezze. Lo stato tale, il feudo tale, la tale o tal'altra tenuta fornivano ad essa danari a palate, che, per quanto volesse spendersi, eran sempre molti. «La casa è forte», ripetevan tutti: ed il fatto stesso che il capo di quella casa si mantenesse con tanta proprietà, non dava luogo a dubitare. [pg!239]

Eppure non era sempre così!

Mancano pubblici documenti o libri di cassa accessibili allo studioso, dai quali possa di certa scienza rilevarsi quali gravami pesassero sulla casa, notoriamente per grosse annuali entrate, più che ricca, opulenta. Rara e debole quindi la diffidenza nei capitalisti e nei banchieri, alle casse dei quali ad ogni urgenza ricorrevasi attingendo oro che spensieratamente si profondeva, e «usando della loro fortuna come i fanciulli dei giocherelli»319.

Questo spendere alla scioperata però aveva un lato buono: quello di dar da mangiare ad una poveraglia che sarebbe altrimenti rimasta priva di pane in un paese senza fabbriche e senza considerevoli opificî, dove il clima mette in corpo una certa pigrizia, sorella dell'accidia al lavoro. Così la moltitudine, che vedeva circolare il capitale, rimaneva soddisfatta.

Nuove leggi venivano a far conoscere a molti quel che solo pochi s'andavan sussurrando all'orecchio: ed i fallimenti, rimasti all'ombra, cadevano sotto i raggi del sole meridiano. La legge sulle soggiogazioni parve un'ingiustizia verso i debitori, ma fu guarentigia dei creditori.

Le tristi condizioni descritte nel presente capitolo (che fa seguito al precedente e si compie con quello sul Giuoco ) furono energicamente pennelleggiate dal più schietto pittore dei costumi del tempo, Giovanni Meli. La invettiva che egli pone in bocca al popolano Sarudda [pg!240] nel brindisi al Genio di Palermo nella Fieravecchia è oramai documento storico.

Ieu vivu a nnomu tò, vecchiu Palermu, Pirchì eri a tempu la vera cuccagna; Ti mantinivi cu tutta la magna, Cu spata e pala, cu curazza ed ermu! Ora fai lu galanti e pariginu: Carrozzi, abiti, sfrazzi, gali e lussu; Ma 'ntra la fitinzia dasti lu mussu, Ca si' fallutu ahimè! senza un quatrinu. Oziu, jocu, superbia mmaliditta T'hannu purtatu a tagghiu di lavanca; Tardu ora ti nn'avvidi e batti l'anca; Scutta lu dannu, písciati la sditta!

[pg!241]

Capitolo XV.

PASSIONE PEL GIUOCO.

Nello elenco delle Maestranze del settecento comparisce per la prima volta quella dei cartari; questo significa che il numero dei fabbricanti di carte era tale da costituire una vera e propria corporazione, come le altre del tempo: e non poteva non esserne ragione il considerevole spaccio della tanto ricercata e tanto pericolosa merce. Un bando poi del 18 settembre 1785 imponeva la gabella per le carte da giuoco.

Comune era nelle conversazioni pubbliche e private il giuoco; senza del quale la distrazione più dilettevole, e quindi l'attrattiva migliore, sarebbe mancata.

Nelle grandi feste con solenni ricevimenti, Vicerè, Pretori e signori di alta levatura avrebbero creduto di venir meno alle regole elementari di cortesia non ordinando sale con tavole per giuoco: e «fare il tavolino» era, ed è tuttavia, la espressione propria di questa maniera di passare il tempo e di mettere in moto la borsa.

Alcuni vi si appassionavano a tal segno che ogni altra cura passava per loro in seconda linea. Il giuoco era fascino morboso, ossessione. Lunghe ore del giorno, [pg!242] intere notti, essi rimanevano attaccati a quelle sedie, a quelle tavole: gli occhi avidamente fissi sui gruzzoli di monete che facevano monticelli nel centro; lo spirito tremebondo al muovere di una carta, dalla quale dipendeva la sorte loro, della loro famiglia. Il ricco d'oggi poteva non esserlo più domani; senza testamento, l'ultimo giocatore diventare il facile erede d'un feudo. L'eguaglianza di ceto regnava sovrana tra disuguali per censo; ogni cuore chiudevasi alla pietà, ed il dolore d'uno era la gioia d'un altro.

Nè solo dei nobili era rovina il giuoco, ma, in generale, di qualunque persona vi si appassionasse; e però della sua condizione economica, della sua salute, della sua felicità di borghese320.

La calabresella, il tressetti, la primiera: ecco i passatempi preferiti, ma la bassetta specialmente, la quale si faceva anche con donne321. Come giuochi pericolosi d' azzardo, il Governo li bandiva sempre, e più severamente che mai il 14 dicembre 1776. Il secondo Marcantonio Colonna vietava non solo che si giocasse, ma anche che si vedesse giocare a «bassetta, biribisso, primiera di qualsivoglia sorte, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta, cartetta, banco fallito, regia usanza, o sia tuppa, faraone, paris e pinta, passa-dieci, sette a otto, scassa quindici» ecc.; ed al contrario permetteva «quei giuochi leciti che si usano per onesto sollievo del corpo e dello spirito, quali sono i giuochi tresette, riversino, picchetto, gannellini, scarcinate, calapresella, [pg!243] gabella ed altri simili non espressati, nè proibiti, purchè non importino in qualunque modo e maniera invito e parata».

Non è già, ripetiamo, che il giuoco fosse passatempo esclusivo dell'alto ceto; tanto vero che il bando viceregio accordava che i giuochi permessi ed altri d'altro genere, pur essi tollerati, si potessero usare «nelle case de' particolari, nelle botteghe de' mercadanti, caffè, barbieri ed altri artigiani, ed avanti le medesime»; ma ci vuol poco a vedere che chi non possiede, non ha nulla da perdere: e le grandi fortune non potevano restar compromesse da queste piccole concessioni. Le gravi perdite avvenivano nelle grandi case, dove i pingui patrimonî erano fomite alla malsana inclinazione.

Il Caracciolo rinnovò gli sforzi dei suoi predecessori col vecchio bando, rimasto però lettera morta. Le condizioni dell'abuso eran sempre le medesime dei secoli precedenti, a nulla essendo valsi capitoli di Re, prammatiche e costituzioni di Vicerè. Il male si era invece acutizzato per modo che egli dovette in forma solenne confessare essere in Palermo il giuoco «funesta origine delle maggiori enormità...; tutti sieguono perdutamente nella istessa ostinazione, non curando neppure la propria rovina, nè lo scompiglio e desolazione delle proprie famiglie».

D. Ippolito de Franchis impiegò mezza giornata per leggere sulle pubbliche piazze l'ordine viceregio322; ma fu fiato buttato anche il suo, perchè la passione [pg!244] non riconosce impero di legge, ed i giuochi proibiti continuarono nelle sale dorate e nei rendez-vous d'ogni sorta. Meli, che più volte alluse all'ingrato tema, vi lasciò cadere in arguti terzetti la sua urbana satira, descrivendo i giocatori in gara nell'assalire il più potente tra loro:

E ddà si vidi càdiri da l'altu Un suldatu senz'arma, e l'autru resta Cu l'occhi bianchi e lustri comu smaltu; N'autru di stizza e colira si 'mpesta, E n'autru cu la sorti 'ntra lu pugnu Va a tuccari lu celu cu la testa. La maggior parti rusica un cutugnu, Pirchì si senti supra l'anca dritta Di lu cuntrariu sò lu rastu e l'ugnu 323.

Accecati come erano, non facevano mistero dell'audace trasgressione, e non pensavano a nascondersi, neanche quando persone estranee al paese, tra lo stupore e la paura per l'insensato sperpero, stavano a guardarli. In barba al Governo, il biribissi faceva proseliti più che altro passatempo; la attrattiva di poter prendere sessantaquattro volte più della somma puntata sopra un numero, trascinava. Gli stessi giuochi leciti, consentiti da Re e da Vicerè, compreso il Caracciolo, eran tutt'altro che innocui, e bisognerebbe sapere che cosa ci fosse sotto, se gli scacchi, stati introdotti dal Fogliani, destavano tanto entusiasmo nelle conversazioni nobili e civili, come non sarebbe inutile ricercare [pg!245] perchè infiniti proseliti contassero i tarocchi, fatti conoscere dal Vicerè Gaetani di Sermoneta.

Quando poi giunse Hager, molto rari eran gli scacchi, perchè (il perchè non ce lo dice lui, ma il Villabianca), trattandosi di lunghe partite, i tavolini ad hoc ed i lumi portavano sempre una spesa. Non nei caffè come in Germania, ma in apposite sale, il bigliardo contava pure i suoi cultori. Non birilli, non bersaglio e, incredibile, non tabacco da fumo.

Ben altro vide Hyppolite d'Espinchal nei beati giorni della estate del 1800 in mezzo all'alta Società palermitana. Udiamolo da lui: «Dalle 9 p. m. in poi, noi restavamo liberi e andavamo alle numerose riunioni della città, nelle quali molte graziose ed eleganti dame eran sempre occupate in balli, musica e passatempi ordinarî in questo dolcissimo paese: mentre i mariti, gli zii, i fratelli con vera frenesia si abbandonavano a giuochi d' azzardo, dei quali son fanatici. Così non passava sera senza probabilità di perdite enormi, tanto in ducati d'oro rotolanti sul tavolo, quanto in debiti che si contraevano, di somme alle volte spaventevoli»324.

Eppure in Inghilterra, dalla bocca del celebre Fox, era uscito il famoso detto: essere il primo piacere della vita quello di guadagnare al giuoco; il secondo, quello di perdere!

Sotto la data del 2 marzo 1798 la cronaca cittadina riferiva la notizia della morte d'una delle più illustri dame di Palermo, una Principessa puro sangue, la quale al giuoco avea consumato non pure il suo, ma anche [pg!246] l'altrui, rovinando il marito, degno, invero, di ben altra sorte.

L'unico suicidio del tempo avvenne per ragion di giuoco. Il patrizio palermitano Giuseppe Chacon, non trovando conforto alle immense perdite nel giuoco in Londra ed alla vergogna di non poterle pagare, si toglieva la vita (1799), corsa fino allora gioconda per larghi guadagni nella rivendita di quadri ch'egli ritirava dall'Isola in quella capitale325.

Nuove di zecca le teorie sul giuoco, forse non dimenticate ora dopo un secolo. Le somme perdute andavan pagate a qualunque costo, perciocchè non esistendo un articolo di legge che costringesse a quel pagamento, e dovendo starsi alla parola di chi giocava; questi, [pg!247] naturalmente, voleva fare onore al suo nome ed alla sua parola, detta o scritta.

Un tale, che sopra un signore rovinato pel giuoco, vantava un vecchio credito, pensò una volta, con uno stratagemma, di trar profitto da questa rigida e fiera consuetudine per riavere il suo, che in cento guise aveva sempre invano richiesto. Nelle prime ore d'una uggiosa giornata, si presenta torvo in viso al suo nobile debitore, il quale dormiva tuttavia la grossa. «Eccellenza, gli dice con aria di mistero e di disperazione, stanotte, tentato dal mio maligno genio, ho giocato, e perduto dugent'onze. Io non ho come pagarle...; vengo da V. E., non a riscuotere il mio credito, ma ad implorare un aiuto...».

Il Principe, anima di vero giocatore, senza profferir parola, si alza da letto, s'accosta ad uno scrigno, l'apre, ne trae fuori un sacchetto e conta all'ingegnoso inventore della storiella cinquecento scudi l'uno più lucente dell'altro, e lo ammonisce: «Caro mio, il danaro che si perde al giuoco è danaro sacro, e si deve pagare. Ecco le dugent'onze; ma guardatevi bene d'ora innanzi dal giocare più».

L'autore della trovata con due lacrime spremute dagli occhi si profuse in ringraziamenti e benedizioni, e, tra riverenze e scappellate, scese a precipizio le scale, non credendo a se stesso di aver potuto, per tale sotterfugio e per una teoria di quella fatta, ricuperare il suo danaro.

Un'altra.

Nelle sale da giuoco non si doveva andare mai per curiosità: questa regola, incomprensibile per chi [pg!248] non senta la brutta passione, era pur tanto comunemente intesa da essersi fatto strada sin nelle basse sfere. Uno dei facchini, che nei giorni di piogge impetuose allaganti certe strade della città, facevano da marangoni ai Quattro Canti o in altri posti del Cassaro, una notte trasportava a spalla un dopo l'altro parecchi uomini, che venivano da aver giocato; ma quando l'ultimo di essi, gli disse che egli tornava, non da giocare, ma da aver visto giocare, lo lasciò, senz'altro, cadere nel torrente.

Costui non meritava nessun riguardo326.

[pg!249]

Capitolo XVI.

CIRCOLI DI CONVERSAZIONE, ROMANZI PIÙ IN USO.

Non fu nel settecento viaggiatore che non restasse impressionato di quei «casini di conversazione», che per noi passavano inosservati. Di questi casini, o circoli, o clubs, o rendez-vous, ce n'eran parecchi in Palermo, e tutti per la Nobiltà. La quale se nel quattrocento e più tardi, nelle ore antemeridiane, usava al largo della Cattedrale, onde la denominazione di «Piano dei Cavalieri», rimasta per lungo tempo a quella piazza327; verso la metà del settecento si adunava là dove ora son le botteghe a pianterreno del monastero di S. Caterina, quasi rimpetto la Chiesa di S. Matteo; il 1º settembre del 1769, nella casa del D. r Domenico Caccamisi, presso la Cattedrale, e tre anni dopo anche nel palazzo Cesarò328, di fronte alla Chiesa del Salvatore. Quivi in [pg!250] tutte le ore della sera gran numero di signori dell'aristocrazia convenivano; e le dame più note della città allietavano della loro presenza il geniale ritrovo, come di mattina la passavano in compagnia dei cavalieri presso a S. Matteo.

I due circoli non bastavan sempre. In estate se ne avea un altro, che temperava i calori della stagione; ed era (1782) una delle casine della Piazza Borbonica (Marina), dove «la nobiltà del corpo della Gran Conversazione, cioè della maggiore, di cavalieri e dame, se la godono nelle sere al fresco, facendovi dei tavolini a giuoco nel piano, e allo spesso tenendovi feste da ballo. Il popolo intanto, che vi fa circolo e n'è spettatore, e specialmente con esso la marineria vicina della Kalsa, va a partecipare di tal godimento»329.

Ottimo club della buona compagnia, tenuto con magnificenza e poca spesa da tutta la Nobiltà, la quale vi si raccoglieva e vi riceveva i viaggiatori che le venivan presentati, il Cesarò restava aperto tutta la giornata; ma le adunanze di esso cominciavano ad un'ora di notte (alle nove di sera, cioè, in luglio), e finivano, alla maniera italiana di computar le ore, a quattro o cinque ore, cioè, all'una dopo mezzanotte, nella quale andavasi alla Marina330.

Quali fossero i giuochi, abbiam veduto nel capitolo precedente.

Qui accade confermare la buona decorazione de circolo, le vaste sale, l'amabilità di chi vi si adunava [pg!251] e la incantevole libertà tra i due sessi»: e la conferma viene appunto da un signore viennese che vi fu ammesso331.

Il tema della conversazione è facile a indovinarsi. Gli uomini, secondo i tempi e le occasioni, si occupavano di fatti interni del giorno, giunti ultimamente a loro conoscenza per via di volanti, di cocchieri, di servitori, di lacchè, gazzette ambulanti tutti; de' fatti esterni, per mezzo di corrieri, fittaioli, procuratori, vassalli, amici, o per sentita dire dai fogli stampati, o dalle persone giunte sia con l'ultimo pacchetto da Napoli, sia con legni mercantili da Genova e Livorno, sia con la vettura corriera da Messina, sia con forestieri provenienti da Siracusa, Catania e Trapani332. Difformi per le cose nostre, uniformi fin con le medesime parole per le straniere, i giudizî eran pronunciati a traverso tanti «si dice» che era bazza se di dieci notizie riferite nei circoli ve ne fosse una esatta.

La politica estera vi entrava sempre; ma negli ultimi anni, poco o punto. Se la Francia vi facea capolino, e non potea non farvelo, ciò era pei suoi Giacobini.

Le donne, si comprende bene, non conversavano se non di cose loro, dei loro abiti, dell'ultima moda. Un nuovo costume le interessava quanto può interessare al sesso femminile il comparir belle, graziose, ben portanti. L'uso voleva ricevimenti e feste: e ricevimenti e feste erano argomenti dei loro discorsi. I piccoli e grandi intrighi d'amore si prestavano a confidenze attraenti, che tutte le donne si sussurravano all'orecchio [pg!252] e tutte si confidavano rinfronzolandole con particolarità di luoghi, persone, parole, date, sulle quali si poteva giurare. Era il solito crescendo di circostanze nella vecchia storiella del marito che, volendo mettere a prova la segretezza della moglie, le confidò d'essersi sgravato d'un uovo, il quale dalla mattina alla sera si era moltiplicato fino a cinquanta.

Se talora una di esse usciva dalle frivolezze, per entrare in un campo d'idee generose, poteva avere, avea magari, uditrici affettuosamente, coscenziosamente benevoli, ma chi sa! forse non tali che si determinassero all'iniziativa d'una opera nobile e santa. Le nobili e sante opere della collettività dell'età moderna, non sono se non l'attuazione di idee largamente pensate, vivamente illuminate dalla fede nel bene e dall'abitudine all'esercizio della carità, di una o poche persone.

«La maldicenza, diceva Hager, è di casa a Palermo come a Parigi. Gli scherzi spiritosi e gli aneddoti faceti vengono raccontati nel gergo siciliano, come in gergo si raccontano nella Senna»333.

Questa facile critica di persone e di cose veniva ordinariamente interrotta dal giuoco, al quale anch'esse le dame, si davano un cotal poco, o dalla conversazione coi cavalieri. Allora questa mutava aspetto: la galanteria saliva dai teneri sguardi alle espressioni della cortesia nell'antico significato della parola, ma scendeva alle dichiarazioni più audaci, senza peraltro smettere i misurati inchini, i saluti compassati, gli studiati complimenti, stereotipati sulla mimica dell'affettazione e [pg!253] sulle formole d'un ghiacciato galateo334. Ed è senz'altro comico che la etichetta imponesse, non solo da cavalieri a dame, ma anche da cavalieri a cavalieri, un certo gergo ed una inflessione di voce che oggi desterebbe la più grande ilarità. Di rito era il Voscilenza, contrazione di Vostra Eccellenza, che essi si davano a tutto pasto.

La conversazione però non si faceva solo nei circoli, ma anche, e forse più, nei palazzi privati, per ricorrenze ed occasioni alle volte eccezionali. Occasione non infrequente e pur sempre lieta il parto di giovani donne. «Ogni notte si hanno molte conversazioni particolari (nota P. Brydone), e vi recherà non poca sorpresa questo: che si tengono sempre nelle camere delle puerpere». Questa circostanza era ignota al Brydone, il quale una bella mattina vedevasi comparire il Duca di Verdura (l'amico che a lui e ad un suo concittadino faceva gli onori del paese), che in tutta fretta veniva a dirgli esser conveniente, anzi indispensabile, una visita. «La Principessa di Paternò, ci disse, è stata presa stanotte dai dolori del parto, ed a voi corre il dovere di presentarle stasera i vostri omaggi. A bella prima credetti ad uno scherzo; ma l'amico mi assicurò che parlava sul serio, e che sarebbe stata grave mancanza la nostra di non farle quella visita. Così sull'imbrunire ci recammo dalla Principessa e la trovammo seduta in letto, in elegante déshabillé, circondata da varî amici. Parlava al solito e pareva stèsse benissimo.

«Questa conversazione si ripete ogni notte, per [pg!254] tutta la convalescenza, la quale dura da undici a dodici giorni: costumanza generale, poichè le signore son molto prolifiche [sfido io, se sposavano dai 12 ai 15 anni!]; le conversazioni nella città son tre o quattro contemporaneamente»335.

Codesta piccante notizia venne confermata pienamente dal Cav. de Mayer. Nel 1791 egli trovò che «a Palermo non s'invita, non si riceve ordinariamente; ma le persone si vedono due, tre volte il giorno ed anche più se hanno relazioni. Le adunanze si tengono presso le donne in puerperio; e poichè esse sono feconde, frequentissime son le adunanze»336: nè più nè meno che vent'anni prima avea veduto e detto Brydone: salvo, s'intende, la parte di altri ricevimenti ordinarî e straordinarî da aggiungere, come vedremo, a questa, esclusivamente puerperale.

Brydone rimase lietamente sorpreso della facilità onde le dame conversavano seco lui in inglese; facilità che crebbe a vera disinvoltura al tempo degl'Inglesi in Sicilia. Più familiare ancora il francese, che quasi ogni nobile possedeva, avendolo appreso, gli uomini al R. Convitto S. Ferdinando, le donne al R. Educandario Carolino o, in generale, sotto la guida d'una bonne o d'un aio, che raramente mancava nelle case signorili. Bisognava anche tener presente che non poche signore erano state all'Estero, e ne avean preso lingua e fogge.

Di siffatta familiarità col francese, specialmente [pg!255] dame, usavano a tempo e a luogo. Alla presenza di forestieri, che non comprendevano l'italiano e meno ancora il siciliano, da persone finamente educate, con una gentilezza, dice un tedesco, che confondeva, parlavano il francese, ovvero, occorrendo, l'inglese337; e nel francese aveano, secondo la mondana espressione d'un nobile ecclesiastico338, «una chiave facile ad aprire i gabinetti del cuore».

Parlare poi di cultura femminile nel significato moderno della parola, non si può, senza creare equivoci. Quella che vi era (e certo rappresentava qualche cosa, allora) si raccoglie dal programma di studî del Carolino per le nobili donzelle, dalla Regola dei Collegi di Maria per le civili. Ordinariamente, poco leggevan le donne, e questo poco era la minima parte di quel che si leggesse in Continente: in Venezia, p. e., in Firenze, in Napoli, centri di pubblicazioni romanzesche; là, in Venezia, sovente originali; qua, in Napoli, quasi sempre tradotte.

Di romanzi originali siciliani neppur uno ce n'è giunto: e forse non ve n'ebbero; o, se mai, furono manifestazioni sporadiche, non riuscite a farsi strada oltre lo scorcio del secolo, come l'invisibile Romanzino utile e piacevole di quel Francesco Carelli, che fu anima venduta del Governo. Quando lo stampatore veneziano Rapetti, sotto gli auspicî della Duchessa Anna-Maria Gioeni, volle iniziare in Palermo una Biblioteca galante, dovette fermarsi al solo primo volume, mentre la medesima [pg!256] Biblioteca, per il gran numero di compratori, veniva su prospera a Firenze ed a Venezia.

I libri ameni, meglio favoriti dal sesso gentile, venivano per la via di Genova e di Livorno, e più comunemente di Napoli. Le novelle e i romanzi inglesi e francesi, pessimamente tradotti, tenevano il campo conquistato dagli italiani.

Entrando nel boudoir d'una dama, o d'una signora del ceto civile, l'occhio si posava subito su qualche volume elegantemente rilegato della Nuova Biblioteca da campagna, o della Biblioteca piacevole, o della Biblioteca di villeggiatura: tre collezioni napoletane levate alle stelle dalle leggitrici delle due Capitali del Regno. L'ab. Galanti, autore d'uno studio sopra la morale e i diversi generi di sentimenti, avea curato una di queste Biblioteche, ricca di ventinove tomi; ma anche qui tutto era forestiero, dall' Orfanella inglese alle Memorie di Fanny Spingler, dalle Novelle morali di Diderot agli Amori di milord Bomston di Rousseau, dalle Novelle e dalle Favole di St. Lambert alla Lucia, alla Giulia, al Varbeck, agli Aneddoti del ricercato d'Arnaud. E vi si appassionavano le nostre damine, e vi facevan cadere sopra le loro discussioncelle. Conversando con esse in francese, Hager credette di accorgersi che difettassero di letture francesi; e si maravigliò che ragazze e signore non sapessero di Marmontel, di Crebillon, di Mercier339; ma ebbe il torto di appoggiarsi a vaghe notizie negative; e dimenticava, o ignorava forse, che ve n'erano appassionate per Rousseau e per Voltaire, [pg!257] le pagine dei quali si facevano spiegare in luoghi nei quali nessuno potesse sentirle340. Vero è che in pubblico mostravano molta simpatia per l'Alfieri, il Metastasio, il Parini; vero che amavano molto il Meli341; ma la loro predilezione era per la letteratura galante, da gabinetto, come vogliamo chiamarla: e questa era tutta francese. Che se gli scrittori nostri se ne scandalizzavano, è bene ricordare che essi non aveano nulla di proprio da contrapporvi, e non pensavano a soppiantarla. La Scelta raccolta italiana di Romanzi di Milano (1787, tredici volumi), rimase ignorata; ignorata pure la larga produzione di quell'Antonio Piazza, che fu conosciutissimo nell'alta Italia. Solo qualche racconto dell'inesauribile ab. Chiari penetrò in Sicilia, non giungendo peraltro a scalzare nè il Telemaco di Fénelon nè il Belisario di Marmontel, nè il Diavolo zoppo e molto meno il Gil Blas di Santillana di Le Sage, che con i Viaggi del Cap. Gulliver dello Swift ed i Viaggi di Enrico Wanton del veneziano Sceriman tenevano il posto d'onore. Siffatti libri piacevano a donne e ad uomini, a vecchi ed a fanciulli; ma non riuscirono mai a inumidire tante ciglia quante ne bagnarono gli Amori di Adelaide e Comingio, il fortunatissimo tra i fortunati racconti divulgati per l'Isola.

Tornando ai circoli dei nobili, dobbiamo aggiungere che il principale tra essi (poichè, come s'è visto, ve n'eran parecchi), era quello della Grande conversazione, lì nel Palazzo Cesarò. [pg!258]

Di minute particolarità ce ne diede il Conte de Borch, da cui le riportiamo.

Questo circolo è «una specie di club inglese, o di Caffè pubblico per la Nobiltà, al quale vanno tutte le Dame e quanto di più eletto abbia la città. In esso i forestieri ed i regnicoli, colmati d'ogni maniera di garbatezze, sono come a casa loro, lieti di poter parlare di affari, di contrarre conoscenze gradite senza soggezione e senza disuguaglianza. A qualunque ora vi si ha caffè e rinfreschi a proprie spese. I socî debbono esser tutti nobili, e vi sono ammessi a bussolo secreto e strettissimo; sono dugento e pagano un'onza all'anno, e con questa somma e con quella che si ricava dal giuoco si fa fronte alle spese di pigione della bellissima casa, di servizio (servi e massari) e di illuminazione.... Io ho veduto, conclude il nobile visitatore del 1777, molte istituzioni simili, ma sento il dovere di dichiarare che quella di Palermo supera le migliori che io abbia viste nel genere in Italia»342.

La Conversazione sul finire del secolo non era più da Cesarò. Ai socî parve un po' fuori centro: e centro per ogni buon palermitano è la Piazza Vigliena. «Martedì 9 dicembre del 1800 il Re assiste alla processione della Immacolata dalla casa del Barone Gugino (Bordonaro), destinata alla Conversazione dei Cavalieri e Dame della città». Così dice il n. 97 della Raccolta di Notizie, di quell'anno.

Ott'anni dopo, nel 1808, presso la casa di D. Giuseppe [pg!259] Valguarnera e Gentile Peveri, Marchese di S. Lucia, allato della piazza di S. Caterina, veniva demolito l'antico teatro dei Travaglini e ricostruito nella forma dell'attuale Bellini, allora, dal nome della regina, Carolino. Una parte della casa del Marchese aggregavasi al nuovo teatro, con diritto al proprietario di entrata e di libero accesso dallo interno della propria abitazione; diritto passato più tardi a D. Teresa Fasone, detta di S. Isidoro, rimasta celebre fino ad oggi, anche per una certa avventura galante avuta con Ferdinando III343.

In quella casa trapiantavasi da ultimo, e prospera ancora, l'antica Grande Conversazione. [pg!260]

Capitolo XVII.

OSPITALITÀ E GENTILEZZA. BALLI E DUELLI.

Una frase del Conte De Borch dianzi riferita suona lode della ospitalità palermitana, virtù per la quale potè il Barone di Riedesel affermare che gli uomini «amano ricevere gli stranieri, e questi passan con quelli piacevolmente il tempo»344. Quella frase dobbiamo raccoglierla per avvalorarla con testimonianze autorevoli. Facciamo parlare gli stranieri, i quali ne fecero esperimento.

Il dovere di ospitalità era (e con lieto animo possiamo dire è) profondamente sentito da ogni siciliano, fosse anche il meno colto. Questo i viaggiatori decantavano a coro, e c'impongono di confessarlo anche noi. Dei tanti che visitarono l'Isola, pochi furono quelli che non ebbero occasione di accorgersi e di provare questa qualità, che agli stranieri riusciva provvidenziale. In Palermo si spingeva fino alla delicatezza. Il vecchio Genio della Città, cui la recente creazione dello scultore Marabitti faceva nella Villa Giulia pompeggiare con un'aquila ed un cane dappiè, simboleggia la [pg!261] naturale tendenza del palermitano a nudrire lo straniero pur divorando sè stesso. Questo Genio è ormai noto al lettore. I Palermitani, non benevoli verso i loro concittadini, apron le braccia al primo che venga da fuori. Nel commercio stesso, la bottega d'un nazionale (come si diceva il siciliano) era meno simpatica di quella d'un forestiere; e le botteghe dei Lombardi aveano un concorso che altre non sognavano.

Nel 1787 l'Ab. Delaporte diceva: «La Sicilia offre ai viaggiatori vantaggi veramente preziosi e quasi sconosciuti nei paesi nei quali si crede supplire col danaro a molte virtù: è l'ospitalità generosa di tutti gli abitanti, avanzo venerando di costumanze antiche, che formava un legame invidiabile e sacro tra uomini di nazioni diverse. Io ne feci più volte lieta esperienza. Provvisto di semplici lettere di raccomandazione ricevute a Messina, io trovai amici dappertutto, accolto, festeggiato con ogni maniera di servigi e sempre con una gentilezza, con una cordialità che mi ha colmato di riconoscenza, e addolcito le fatiche del viaggio»345.

Così pure un altro Abate, R. de Saint-Non: «Poche sono in Europa le città nelle quali il tono generale sia più amabile, più onesto, e la Nobiltà abbia tanta politesse, tanta naturale affabilità, quanta in Palermo; al che concorre specialmente il club » dianzi citato346.

Così il Dr. Hager: «L'indole del siciliano non è meno orgogliosa che superba o sostenuta; ma i forestieri, come in una campagna che sia poco frequentata, [pg!262] vi son ricevuti con ispecial dimestichezza ed ospitalità. Si è lieti quando si vede arrivare qualcuno da lontane contrade: ogni forestiere è veramente il benvenuto»347.

«Un forestiere che si regoli bene, non ha bisogno di commendatizie: è subito accolto nelle migliori società. Nelle passeggiate pubbliche le signore più aristocratiche gli rivolgono la parola, come pur fanno a teatro se esse si accorgono che egli cerchi far la loro conoscenza; gli domandano del suo paese, non dell'esser suo. Eccellenza è il titolo che gli danno. Soventi volte, tanto nelle passeggiate, quanto a teatro, io non ebbi a durar fatica per conoscere le primarie famiglie. Invitato ai loro circoli, ho avuto le prove d'una ospitalità amichevole, che si cercherebbe invano in altre grandi città anche per via di lettere di raccomandazione». Proseguendo, Bartels aggiunge: «Anche oggi, standomene a contemplare in un palco la leggiadra bellezza della Principessa X, ho avuto il piacere di veder cominciare da lei la conversazione, finita con un suo invito al ricevimento di domani. In quali luoghi si va tanto incontro al forestiere? Ma in quali altri luoghi si acquista tanta celebrità ricevendo dei forestieri nella propria casa quanto a Palermo?»348.

Più tardi, nel secondo decennio dell'ottocento, Gino Capponi, percorsa la Sicilia e giunto a Palermo, serbava nel suo Diario finora inedito questo ricordo: «Non vi è forse altro paese dove questi (i forestieri) siano così accetti, nè in altro luogo può il viaggiatore adempiere [pg!263] meglio che qua l'oggetto che dovrebbe esser principalissimo, di vivere, cioè, coi connazionali»349.

Egli poteva ben ripetere quello che un altro toscano, Filippo Pananti, reduce da Algeri, e ammaliato della franca affabilità e della gentilezza affettuosa dei Principi di Villafranca e di Valguarnera, avea detto con Catullo a proposito di certi uomini: «Coloro che li conosceranno un giorno, li ameranno; e coloro che li avranno amati una volta, li ameranno sempre»350.

Quali i padroni, tali i loro dipendenti; quali i nobili ed i civili, tali i popolani. Questo principio di ospitalità era ed è innato in tutti. La liberalità nel ricevere e trattare il forestiere senza un fine, che non fosse quello di compiere un atto di convenienza e di buona educazione, era pratica ordinaria.

Particolareggiando sulla squisita cortesia, il prof. Bartels ragguagliava della ospitalità delle dame. Pareva a lui di trovarsi non in un'isola, ma in un paese in contatto immediato e continuo col mondo.

Nessuno capitava mai in una casetta, in un abituro che non vi venisse cordialmente festeggiato. Quando Stolberg, prima di giungere a Bagheria, si fermò innanzi il palazzo del Marchese Celestre di S. Croce, il castaldo (che per la sua gentilezza già conosciamo) offrì subito a lui ed al suo compagno di viaggio, vino, letto e commodi d'ogni genere, che lo confortarono dell'insopportabile scirocco della giornata351.

[pg!264]

Ma noi abbiamo parlato di ospitalità e gentilezze senza parlare delle forme con le quali l'una e le altre si svolgevano.

Accompagniamo un forestiere in una visita che egli, giungendo tra noi, vada a fare. Ad immaginarla ci vorrebbe poco; pure non occorre giocare di fantasia quando ci son testimonî di vista.

Il Bartels descrive una di codeste visite fatte da lui, e ricorda i sonori annunzî dei servitori: Signori forestieri! al suo inoltrarsi nel salotto; ed il dignitoso ricevimento dell'ospite e la presentazione di esso Bartels alla signora ed alla compagnia: tutto condotto in guisa da mostrare la importanza del luogo e la solennità del momento352.

L'inglese Vaughan scende a particolari, che hanno dello spiritoso e sono verissimi. Riassumiamoli.

Facendo una visita a persone ragguardevoli, voi siete, secondo l'etichetta, condotti per una lunga fila di stanze, probabilmente fino ad un'ultima, in fondo, piccola ma bella, che è forse quella da letto, ove, se indisposta, la dama riceve. In inverno vi viene offerto caffè; in estate, acqua diaccia.

Finita la visita, il padrone di casa attraversa con voi le stanze e vi accompagna, pronto a farvi un inchino. Importa che voi conosciate tutto il cerimoniale del momento per non venir meno a' doveri che v'incombono. Voi, p. e., cominciate ad inchinarvi pregando il Signore che non si dia pena ( by no means ); ed egli vi risponde che non fa se non lo stretto suo dovere. Voi vi provate [pg!265] di nuovo ad impedire tanto disagio, ma egli vi prega di non privare il più umile dei vostri servitori di tanto onore e piacere.... Se vi capita di lodare le sue belle sale, vi dichiara che esse sono a vostra disposizione, e che tutto è merito delle vostre lodi. Vi mostrate disposto ad esprimere la vostra obbligazione agli amici che vi presentarono a Sua Eccellenza? Ebbene: Sua Eccellenza vi assicura che la obbligazione è proprio sua, e che gli amici lo giudicavano discretamente prevedendo il piacer suo nel ricevere un forestiere di meriti così singolari, che — voi rispondete — «sono bontà sua».

Il resto si passa come si può, con ripetute insistenze per impedire altro disturbo, e con le migliori espressioni di rincrescimento da parte di lui per la occasione che gli si toglie di mostrare altrimenti la propria stima: frase, questa, che, pronunziata a capo della scala, v'impone le maniere più cortesi e gentili e le parole più rispondenti alla vostra riconoscenza. Così inchinandovi e indietreggiando sempre, potete andar soddisfatto di avere alla meglio compiuta la visita. Un'ora dopo, riceverete una carta o una visita nell'albergo o nell'abitazione da voi scelta.

Grande è lo stupore che un inglese prova nel sentirsi rispondere, quando loda alcun che, case, cavalli, carrozze, che tutto è a disposizione di lui. Un inglese vede in questo un complimento che basta esso solo a dimostrare la differenza tra Siciliani ed Inglesi353; ma un italiano, il Rezzonico, prima di lui, vi avea riconosciuto [pg!266] ben altro, e ne avea preso argomento delle seguenti parole, lusinghiere per ogni isolano, ma più ancora per la Nobiltà:

«L'urbanità, lo spirito, la bellezza delle dame di Palermo, l'affabilissimo carattere de' cavalieri, ed i loro gentilissimi modi co' viaggiatori sono invisibili catene che gli ritengono dolcemente in una città tranquilla e piena d'ozio beato, che dopo il tumulto di Napoli riesce aggradevole e deliziosa, per quell'equabile tenor di vita e quella soave dimenticanza d'ogni cura e d'ogni fastidio che gli uomini talvolta cercano indarno nelle torbide ed inquiete capitali del continente»354.

Poichè nei ritrovi c'incontriamo sempre con donne, qualche altra notizia di esse non dovrebbe tornare superflua. Ma dove cercarla se i nostri scrittori, meno il Villabianca, non ne hanno alcuna? Peraltro, o essi la danno buona, e allora son sospetti di piacenteria; o la danno cattiva, e allora fanno nascere il dubbio di malanimo personale: e poi, v'è sempre quell'ingrata figura del Palermo con quel brutto serpente!...

Facciam capo dunque ai forestieri. Hager, che si trattenne a lungo e volentieri nei salotti eleganti e nei circoli di compagnia, ce ne dice più di tutti.

«Il pianoforte, mobile di quasi tutta l'Europa, è anche qui abituale dappertutto. Per mezzo di questo magnifico strumento ho imparato in Palermo, accanto a dive siciliane, arie appassionate di Cimarosa e di Fioravanti, e duetti di Andreozzi e di Tritto. L'amore si unisce inosservato col canto; l'armonia del suono porta [pg!267] quella dei sentimenti, e non si può immaginar nulla di divino più che un momento così celestiale.

«Col pianoforte, pel quale si hanno in Palermo eccellenti sonatori e compositori, va anche la chitarra, come nelle case della Spagna. Di questa le ragazze si servono per accompagnare, con la delicatezza che è propria di siffatto strumento, brevi canzonette popolari siciliane, il cui contenuto scherzevolmente amoroso non cede in acutezza ed in arguzia al tedesco. Pure la melodia è diversa, non solo dalla nostra, ma anche da quella italiana, perchè suona proprio secondo il gusto asiatico, nel modo che l'arte chiama moll minore, nè più nè meno che io la udii sulle rive del Bosforo. Essa fu importata dagli Arabi o dagli Aragonesi, che ancora più lungamente tennero il dominio della Sicilia»355.

E parlando delle donne palermitane:

«La loro andatura, i loro balli, ogni loro movimento tramandano un non so che di dolce e di delicato; di esse tutto somiglia alle mimiche attitudini che Rehberg a Napoli ha ritratto in assai gentile maniera in Lady Hamilton. La loro conversazione è vivace, il loro sguardo espressivo, ora con fisonomia languida, ora con sorrisi maliziosi, ora con parole scherzevoli; il suono della loro voce è dolce, e la loro presenza spira in tutti gli astanti serenità»356.

[pg!268]

Non ti pare egli, amabile lettore, che il prof. Hager, dimenticando per poco il suo brutto arabo, per cui fu chiamato dal Re a giudicare della impostura saracena del Vella, abbia perduto la testa per qualche bella ragazza, o bella dama?

I balli! Oh i balli eran pure un gran divertimento! Peccato che nessuno d'allora abbia pensato a descriverli! Neanche questo stesso Hager, che ci si trovò così di frequente; neanche d'Espinchal, che vi prese parte godendo i beati ozii palermitani del 1800.

E che balli! Uno dei più graditi e forse dei tenuti più in conto, era il minuetto, espressione della società d'allora, ma pur sempre grazioso. Quando oggidì si vuole alludere a cosa che ci si somministri a spilluzzico, sì che si rimanga un cotal poco in pena, usa dire in Sicilia: Mi fa lu manuettu cu lu suspiru, frase che ricorda una particolare figura della cerimoniosa danza, con pose mimiche di prestabiliti sospiri. Avverso per indole a qualsiasi caricatura di vita, il popolino non poteva guardare con piacere tutte quelle finzioni, e vi creava sopra il non benevolo motto.

Ma il ballo non era un semplice esercizio fisico e di educazione, come quello che s'insegnava alle nobili donzelle del R. Educandato Carolino ed ai nobili giovinetti del R. Convitto S. Ferdinando; nè poteva, in vero, dirsi uno svago da cenobiti. Francesco Sampolo, che ballò la parte sua, perchè anche lui fu giovane, e della società del suo tempo studiò i difetti, scrisse qualche verso in proposito; donde si vede a che ufficio la danza servisse, e come le mani, i piedi, che si palpano, si toccano, s'intrecciano, si stringono, s'avvinghiano, [pg!269] siano, ed eternamente saranno, lacci potenti d'amore. Egli stesso, numerava un per uno questi lacci, raffigurati da altrettanti balli. La seguente lista è la più copiosa che da noi si conosca:

Lu quàcquaru, la starna, la scuzzisi, Lu savojardu, lu 'ngaggiu d'amuri, Lu valson, lu pulaccu, l'olannisi, Lu manuettu di lu stissu Amuri. L'ussaru, lu 'ngongò, lu tirolisi, Lu sursì, l'alemanna, su' d'amuri Ministri, chi cci 'mbrogghianu li carti E fannu cchiù ruini chi 'un fa Marti.

Pedanteggiando, potrebbe discutersi sulla triplice comparsa della parola amuri; però ci vuol poco a capire che essa non è fortuita, ma fatta con arte. Se poi il lettore ha nel genere una certa erudizione che a noi difetta, non troverà difficoltà a riportare ai nomi originali parte dei quattordici nomi sicilianizzati di danze. Quei nomi, altronde, nei ritrovi correvano quali erano giunti dall'estero, e bisognava sentire con quale correttezza di pronunzia li dicesse, con quale franchezza di tatto li insegnasse il più scrupoloso ministro d'Euterpe d'allora, Domenico Dalmazzi.

Oh tre volte e quattro volte benedetto Maestro, che, lasciando per Palermo la natia Genova, tante generazioni educasti all'arte che fu tua! Morendo (1797), tu lasciasti largo compianto di fanciulle e di giovani desiosi di danze; e chi sa che, trasportato per le vaghe regioni della fantasia, non ti sarai, anche tu, abbandonato alle ineffabili dolcezze sognate dal poeta, che cantava: [pg!270]

Mentri ca godi grata sinfunia Di trummi, contrabassi e vijulini, E senti lu cuncertu e l'armunia Di citarri francisi e minnulini, E ammira lu 'ntricciu e la mastria Di li balletti e di li ballerini, Ed è 'ntra li piaciri tutt'astrattu Ogni armuzza si cogghi a lu strasattu 357.

Con questi ardori è facile immaginare quel che dovesse avvenire tra le teste calde dei giovani. Ad ogni menoma occasione sorgevano contrasti; per lievi malintesi di inavvertite preferenze nei balli, per impercettibili violazioni di etichette, passavasi a vie estreme; e cartelli di sfida venivano issofatto lanciati, specie nei giorni di ridotti carnevaleschi o al giungere di qualche bella, compromettente artista del S. Cecilia o del S. Caterina (oggi teatro Bellini).

Ai duelli, altronde, si era per antica consuetudine adusati. Al S. Ferdinando, tra le varie discipline che s'impartivano, non mancavano le cavalleresche. La scherma, una delle cinque piaghe, non già d'Egitto, ma della Sicilia, lamentate dal poeta benedettino P. Paolo Catania358, possedeva un abilissimo insegnante in un tal Torchiarotto. A lui faceva codazzo uno stuolo interminabile di ammiratori; a lui si rivolgevano per esser [pg!271] preparati coloro che cercavano nelle vertenze di cavalleria farsi ragione.

Una poesia, andata in giro tra gli schermidori di Palermo (1784), dà la misura dell'ammirazione che gli professavano i suoi devoti. È una stampa del tempo, che fedelmente ripubblichiamo:

«In lode del celebre maestro di spada D. Antonino Torchiarotto, inventore e direttore del battimento nella contradanza allusiva alla presa della fortezza di Algeri:

SONETTO Marte, cui deve il primo onor la spada, Rese nel campo mille eroi guerrieri. Ma fra l'orride stragi agli alti imperi Schiude di gloria sanguinosa strada. Nuovo Marte tu sei, e fai che cada, L'audace Moro ai colpi tuoi non veri Formi col brando i nostri, i tuoi piaceri; Porti illustre vittoria u' più ti aggrada. I tuoi seguaci in eleganti pruove Con grati giri e con maestri passi Spingi fra loro a belle pugne e nuove. Così tu vinci il natural dell'arte, Mentre i limiti suoi dolce sorpassi. Or ceda a te l'onor lo stesso Marte» 359.

E poichè Marte ha ceduto le armi a Torchiarotto, giova avvertire che anche nei più grossi scontri le cose non si facevano troppo sul serio, perchè poche tracce cruente si scoprono di partite cavalleresche. [pg!272]

Capitolo XVIII.

DAME BELLE, DAME BUONE, DAME VIRTUOSE.

Le donne che abbiamo qua e là, nel corso di queste pagine, incontrate, non son le sole della società del tempo. Astri maggiori, splendenti di luce propria nel firmamento muliebre della Nobiltà siciliana, esse gareggiavano in attrattive di grazia dominatrice, in distinzione di eleganza.

La vaghissima Marianna Mantegna, col suo delizioso neo sul seno d'alabastro, ispirava al Meli la canzonetta Lu Neu, che contiene non innocenti arditezze:

Tu filici, tu beatu 'Nzoccu si', purrettu o neu! 'Ntra ssu pettu delicatu Oh putissi staricc'eu! 'Ntra ssi nivi ancora intatti Comu sedi, comu spicchi! Ali! lu cori già mi sbatti, Fa la gula nnicchi nnicchi! 360.

Gli occhi non sai se più penetranti o voluttuosi della Duchessa di Floridia, Lucia Migliaccio, facevano [pg!273] battere cento cuori e penetravano fino alle midolle del buon Poeta361, che nella dolcissima tra le sue dolci odi L'Occhi cantava:

Ucchiuzzi niuri, Si taliati 362Faciti càdiri Munti e citati. Ha tanta grazia Ssa vavaredda 363Quannu si situa Menza a vanedda, Chi, veru martiri Di lu disiu, Cadi in deliquiu Lu cori miu.... 364.

Riandando con la memoria e celebrando nel suo Gemälde le principali fattezze femminili da lui viste, il prof. Hager metteva in prima linea la Principessa di Leonforte (poi di Butera), una vera Aspasia per le sue forme e pel suo ingegno. Beltà come la sua, nessuno tra quanti la conobbero ricordava: e tutti dicevano dei suoi occhi di gazzella, della sua testa scultoria, [pg!274] resa maravigliosa dai ricchissimi gioielli365. Chi stenta a riconoscerla, la identifichi con la seconda Caterina Branciforti, e saprà subito chi ella fosse, anche senza il ritratto che ne fece il siculo poeta delle venustà del tempo366.

Leggiadre le signore di Calascibetta, di Villarosata, di Castelforte e molte altre minori. Rimettendo il piede in Terraferma, sul Ponte della Maddalena, Hager incontrava (dicembre 1796), un'ultima volta ammirando, la simpatica Principessa di Petrulla e la Marchesa d'Altavilla, di casa, crediamo, Bologna, accompagnate dal Marchese di Roccaforte e dal Principino della Cattolica367.

E lì, a Napoli, gemme l'una più dell'altra preziosa, queste dame componevano la corona della altera Maria Carolina, confermando con la loro presenza l'antica reputazione del tipo estetico dell'Isola: forme giunoniche e taglie mezzane, volti rosei ed ardenti e visi sentimentalmente pallidi, chiome dai riflessi dell'ebano alternantisi con le bionde oro, grandi occhi neri lampeggianti allato a languidi cerulei, quali più, quali meno, imperiosi e carrezzevoli, dalle interrogazioni rapide e dalle meste vaghezze d'un sogno.

Esse si eran chiamate Aurora Filingeri, Maria Gravina, Caterina Bonanno: Principesse di Cutò, di Palagonia, di Roccafiorita (1775) e Marianna Requesen Contessa di Buscemi (1777). Scomparse dalla vita e ritratte dalla società, ricomparivano nelle grazie delle [pg!275] loro incantevoli figliuole, o congiunte, o amiche, od anche emule: Marianna e Ferdinanda Branciforti, Principessa di Butera l'una, Contessa di Mazarino l'altra, Stefania Bologna Marchesa della Sambuca ed Anna-Maria Ventimiglia Contessa Ventimiglia-Belmonte (1780). Belle, superbamente belle tutte, come la Principessa di Carini Caterina La Grua, nome che richiama ad una forte leggenda368: la Duchessa di Belmurgo Rosalia Platamone, la Principessa di Villafranca Giuseppina Moncada, la Principessa di Scordia Stefania Valguarnera e Felice di Napoli Marchesa di Giarratana (1797), la quale non vuolsi confondere con la Lionora.

Dame d'alto lignaggio, costoro brillavano con l'ideale di loro gentilezza nei circoli, con la prestanza di loro signorilità nel ceto, col fasto di loro casato nelle due Capitali e fuori.

Pieni d'ammirazione per tante dive dell'Olimpo siciliano, alcuni scrittori del tempo non sapevano far differenza tra bellezza e bellezza. I tipi più eletti eran lì, sorriso gaio di natura, fascino potente di uomini, invidia mal celata di donne. Profili spiritualmente greci, dagli occhi e dalla capigliatura corvina, dai lineamenti correttissimi, quelle dive passavano ammirate tra la folla, corteggiate tra le conversazioni. Bartels, astraendosi talvolta dalle sue severe lucubrazioni economiche e storiche, vide «a Palermo ed a Venezia le più splendide donne, in faccia alle quali anche Paride sarebbe restato incerto a chi assegnare il pomo d'oro»369.

[pg!276]

Le figure più snelle offrivano anche allora agli osservatori stranieri «un'idea di quelle bellezze che una volta servirono di modello a Prassitele ed a Policleto in quest'Isola greca, e che infiammarono Aci per Galatea». E lanciandoli fantasticamente in mezzo alle favole ed alla storia, li richiamavano a quella siciliana che fece girare il capo ad Eufemio, quando nel secolo IX l'Isola cadeva sotto la dominazione degli Arabi370.

Tra le rare onorificenze e, perchè rare, pregiate, qualcuna concedevasene a donne, per meriti e virtù preclare.

Dopo il quarto ventennio del secolo la Marchesa Regiovanni, Sigismonda Maria Ventimiglia, veniva insignita del sacro militare ordine gerosolimitano con la medesima croce ed i medesimi privilegi che avean goduto e godevano la Principessa di Valguarnera e la Marchesa Fogliani-Malelupi. Lionora Di Napoli, Principessa e Marchesa di Spaccaforno, indossava l'abito di Malta e la gran croce di devozione371: e quando ogni anno il Gran Maestro dell'Ordine mandava il solito tributo solenne del falcone a Re Ferdinando, ella, in mezzo ai pochi cavalieri che della distinzione si onoravano, attirava gli appassionati sguardi della folla.

Con queste, altre dame con altre insegne.

Poco prima dell'abolizione del S. Uffizio un Grande Inquisitore viaggiava per le campagne di Sciacca. A un tratto, nel feudo Verdura, una masnada di ladri [pg!277] sbuca da una macchia, lo assale ed è quasi per finirlo. Non discosto da lui è la Duchessa Leofanti coi suoi uomini; alle grida dell'assalito ed alle voci degli assalitori, ella, con ardimento più che virile, accorre, investe e mette in fuga i ribaldi salvando il malcapitato uomo. Per quest'atto la Duchessa veniva decorata in perpetuo, per sè e per le sue discendenti, dell'Ordine cavalleresco della SS. Inquisizione372. Quella crocetta verdescuro e bianca, pur dopo la soppressione dell'aborrito Tribunale, fregiò più d'un petto femminile, coprì molti palpiti, oggetto di fiero, inestinguibile odio e di viva ammirazione.

E con le valenti erano anche le dame colte e virtuose, nelle quali l'ardore del vero era così intenso come fecondo il culto del bello.

La spiritosa giovane Baronessa Martines metteva in musica con dolcezza degna dell'originale qualche canzonetta che l'amabile Cantore delle «Quattro Stagioni» scriveva per lei. Anna Maria Bonanno, ingegno pronto e luminoso, con profondo intelletto studiava gli scelti volumi del suo ricco studio; sì che a lei faceva omaggio della sua Biblioteca galante il tipografo Rapetti373. Educando la prole alla pietà, non fu lieta dei frutti della sua buona educazione; chè il figlio Agesilao si rendeva un giorno colpevole di contumelie ad un Giudice del Concistoro374.

Una figliuola del Principe di Campofranco, monaca [pg!278] in uno dei principali monasteri, scriveva sapientemente di morale375: e fresca era la memoria della povera Anna Maria Alliata, primogenita di Pietro, Duca di Salaparuta, la quale, morendo a trentanove anni, lasciava nome di cultrice di filosofia376.

Parlandosi della Principessa di Villafranca, a titolo di lode fu scritto (1794) esser ella tutta dedita a conversazioni istruttive e ad occupazioni ben diverse da quelle di altre donne. Il lettore prenda nota di questa lode377, e si procuri le Lezioni sulla educazione della culta dama.

Triste esperienza della vita ammaestra che gli uomini s'inchinano al sole che nasce e voltano le spalle a quello che tramonta. Chi è in auge od anche in ordinaria prosperità di fortuna è carezzato, corteggiato, adulato; la sua stella declina, ed egli cade in dimenticanza. Il Dum eris felix di Ovidio si ripete assai più frequente di quel che si possa immaginare.

Nei momenti più tristi del Marchese Fogliani, quando una turba incosciente urlava: Viva il Re! Fuori il Vicerè! pochi serbarono al Principe contro cui s'imprecava i riguardi prodigati al Principe fino allora regnante. [pg!279] Tra questi e sopra questi pochi fu una donna, la Contessa di Caltanissetta, vedova Ruffo Moncada. Costei, degna di sue copiose ricchezze, affrettavasi a far sapere all'afflitto Marchese che teneva a disposizione di lui i suoi beni, e pronte a qualunque di lui bisogno le migliaia di scudi della sua cassa378: offerta di anima nobilissima, la quale aveva anche il coraggio di affrontare non pur la impopolarità del momento, ma anche le ire della plebaglia d'allora.

Tra tante dame che non negavano un sorriso ai lodatori e forse s'inebbriavano ai profumi del loro eccelso casato e del sangue generoso dei loro avi, erano donne casalinghe ed economiche, tutte cura di famiglia: tipo non unico ma perfetto, Rosalia dei Principi di Resuttana, che meritò un bel ricordo in un libro di viaggi del tempo379.

Ad atti di religione attendeva la Consororita di S. Maria delle Raccomandate, presso Porta di Vicari (S. Antonino). Per lungo volger d'anni ne tennero le sorti ora Caterina Tommasi Principessa di Lampedusa (1794), ora la Principessa di Furnari Maria Teresa Marziano (1800), coadiuvate dalle congiunte. Alla Principessa Maddalena Gravina vedova Rammacca e a Bernardina Oneto di S. Lorenzo (1794) seguivano la vedova Duchessa di Castellana Antonia Bonanno (1795), la Baronessa Teresa Schittini e la Principessa d'Aragona Marianna Naselli-Agliata (1798-99); ed a queste Stefania Branciforti Principessa di Scordia (1800), sempre [pg!280] piene di fiducia nella perpetua tesoriera vedova Principessa di S. Giuseppe, Maria Barlotta.

Il numero delle vedove nella pia congrega fa pensare ai disinganni della vita dopo le grandi sventure, per le quali il bisogno di conforto religioso si fa più che mai imperioso, e le pratiche divote si levano dal semplice misticismo al più profondo sentimento di Dio. Non abbiamo le fedi di battesimo e di stato civile delle altre nobili consuore, ma ci sentiamo quasi autorizzati a credere che tra esse non erano, poche eccezioni fatte, nè giovani, nè ragazze, nè donne, alle quali più sorridessero gioie di idealità avvenire.

Presso che ignoto l'uso moderno dei comitati. Il bene, chi sentiva di doverlo fare, sapeva dove e come farlo. Tuttavia, eccezionalmente, un Comitato misto di signori e di signore s'incontra verso la fine del secolo. Nel luglio del 1796 l'Arcivescovo e Presidente del Regno Lopez y Royo, affine d'ingraziarsi la Corte, nominava una commissione di dame, di cavalieri e di mercanti che raccogliesse danaro tra i nobili ed i civili a favore del Re. Col Pretore Principe del Cassaro era la Pretoressa Felice Naselli, col Capitan Giustiziere Conte di San Marco la Capitanessa Vittoria Filingeri nata Agliata, e Rosalia Di Napoli Marchesa di Montescaglioso e la Principessa della Trabia Marianna Branciforti Lanza, alla quale la carità non era impedimento negli uffici di Dama della Regina, come non pareva distrazione alla passione, che in lei si disse potente, pel giuoco.

La somma che questo Comitato potè mettere insieme fu cospicua, ma chi si fosse trovato a sentire [pg!281] coloro ai quali chiedevasi una contribuzione, si sarebbe senz'altro turate le orecchie.

Non un libro d'oro ci ha tramandato coi nomi le opere di codeste donne; anzi i nomi stessi ci mancano, perchè molte di esse si restavano nell'ombra. Giornali che le mettessero in evidenza non c'erano: e la cronaca mondana correva orale piuttosto che stampata e divulgata come ora tra i curiosi e gli sfaccendati. Eppure a noi è consentito affermare che se non furono tutte Veneri le belle, la beltà di molte fu fine e soave; se non eroine le buone, la loro benemerenza, chi se l'acquistò, non fu fittizia nè bugiarda. Molte le creature deboli e leggiere, ma molte anche le forti: e di fronte ad amori avventurosi, quali comportava con la suggestione la triste morbosità dei tempi, vi ebbero affetti elevati, che alle ebbrezze chimeriche contrapposero serenità ragionevoli ed alle seduzioni materiali del corpo le sublimi idealità dello spirito.

Veniamo ora alle dolenti note dell'ambiente nel quale donne belle ed avvenenti poterono non partecipare all'esercizio delle virtù ed esserne distratte dalla influenza d'allora. [pg!282]

Capitolo XIX.

LIBERTÀ DI COSTUME, CICISBEISMO.

La storia non mai scritta della vita siciliana offre, per la seconda metà del settecento, lo strano e quasi incredibile fenomeno d'una certa rilassatezza di costume. Si tratta d'un lungo episodio — chiamiamolo così — del poema morale dell'Isola, e bisogna rassegnarsi a percorrerlo anche quando l'amor proprio di chi scrive e di chi legge ne resti mortificato per la tradizionale aureola di rigidezza onde ogni buon isolano si abbella. Per fortuna, gli attori dell'episodio sono, relativamente alla popolazione intera, di numero sparutissimo, e di quasi una sola classe.

Siamo dunque nello scorcio del secolo XVIII. La moda straniera, come diremo, valicando monti e mari, veniva ad assidersi sovrana tra l'eterno femminino della Capitale. La galanteria francese con orpelli ed insidie tutto informava il costume dell'alta classe e, per imitazione, o per esempio, o per contagio, della media.

La libertà di fogge e di maniere, come sprigionata dalle secolari pastoie, veniva arditamente fuori in non corrette manifestazioni. La Francia era la gran tentatrice, e le sue lusinghe giungevano apertamente o sottomano. [pg!283] Dalla Francia un galateo non prima sognato, dalla Francia libri ed oggetti licenziosi. Le autorità civili e le ecclesiastiche vigilavano zelantissime, confondendo sovente il male reale col male immaginario, il bene assoluto col bene relativo; ma i loro occhi d'Argo e le loro braccia di Briareo non riuscivan sempre ad impedire relazioni occulte di commercio malsano, o creduto tale380. E che cosa, d'altronde, non poteva penetrare in città, quando in una sola volta, non meno di venti forestieri residenti in Palermo, usciti col pretesto di andare a bere un thè sopra un legno straniero ancorato nel porto, ritornavano di pieno giorno, carichi di preziose merci di contrabbando?381. Nel 1782 si riusciva a metter le mani sopra non so quanti ventagli giunti intatti da Parigi. Due anni dopo, per ordine dell'Arcivescovo Sanseverino, non so quanti altri, con figure che facevano arrossire anche i libertini, ne ardeva il boja; e nel 1790 si diffondevano davanti alla polizia figure che erano il colmo della sconcezza. Pure il malcostume al quale si chiudeva la porta entrava per la finestra; e le frequenti arsioni di merci proibite non impedivano che si facessero strada costumanze licenziose; anzi esse diventavano patrimonio comune appunto quando le autorità si moltiplicavano nello sbarrar loro la strada.

Le prime conseguenze della inconsulta condotta del Governo le risentiva la educazione, non più madre, ma madrigna; la quale preparava un avvenire poco [pg!284] edificante per le donne anche delle buone famiglie. Mentre, secondo Brydone, prima della celebrazione delle nozze non era permessa domestichezza di sorta tra i giovani dei due sessi in Italia, le signorine palermitane, disinvolte, affabili senza affettazione, cominciavano a rallentare la severa consuetudine di stare ai fianchi delle mamme. Mentre queste in Continente conducevano le figliuole in società guardando non al diporto, ma al secondo fine di disporle al matrimonio, pur sempre paurose che esse non venissero loro ad ogni istante rapite, o che prendessero la fuga; in Sicilia mostravano una certa confidenza nelle loro figliuole, e permettevano che il loro carattere si svolgesse e maturasse382.

Bartels volle indagare lo spirito di questa nuova educazione, e ne trovò le ragioni, alle quali facciamo larghe riserve. Ecco in proposito una sua pagina, che gioverà come informazione, ma non già come apprezzamento; perchè, alla maniera di altri del medesimo genere, questo apprezzamento non corrisponde tutto alle condizioni del paese di allora.

«Il tenore di vita di società è libero e piacevole, e più leggiadro per le nubili, le quali in tutto il resto d'Italia non compariscono mai. Qui non si guarda più che tanto alla età acconcia a prender parte ai piaceri del mondo. Una filosofia ben intesa, non più offuscata da principî religiosi, ha preso piede fermo nella Capitale dell'Isola: e già si riconosce quanto sia pericoloso per una ragazza ignara della vita il passaggio improvviso dalla oscurità del chiostro alla luce abbagliante del [pg!285] mondo, tanto più pericoloso in quanto il temperamento, per ragione del clima, è ardente. Qui per le ragazze si stima necessaria la entrata prematura in società, acciò non manchi in esse la conoscenza dei pericoli stando ancora sotto la direzione dei genitori. Nè accade fermarsi sulle particolarità di quest'argomento, perchè basta solo il fatto che qui, come altrove in Italia, usa il cavalier servente, e che per passione irrefrenata il palermitano cerca di spendere quanto più può, e, in ogni occasione, di primeggiare. Così la madre non si occupa assolutamente della educazione dei figli, i quali, com'è ovvio supporre, non avranno alla loro volta imparato nulla. Però incontra in Palermo ciò che non incontra fuori, in Italia: una ragazza che possa facilmente dare un passo falso: e questa è conseguenza naturale della conoscenza precoce dei piaceri mondani; conoscenza che, trovando la ragazza un cotal poco emancipata dalla sorveglianza paterna e materna e completamente abbandonata a se stessa, dà ad essa agio di profittare dei molti godimenti.

«Non è pertanto a dubitare della influenza che questa pratica debba esercitare sulla salute di lei, e del come essa sia ragione degli infelici matrimonî che si contraggono, della rovina dei mariti e della nervosità delle mogli»383. Al che concorrevano anche e in alto grado gli sposalizî anticipati dei quali abbiam fatto cenno384, e pei quali, mogli a dodici, quattordici anni di età, erano nonne a trenta385.

[pg!286]

Durante ventun anno (1767-1787) tre tedeschi ed un francese scrissero in termini niente lusinghieri delle donne palermitane; ed è notevole che i loro giudizî indipendenti l'uno dall'altro, non presentano carattere d'imitazione. Cominciò primo Riedesel dicendo che esse erano in preda ad una grande libertà, e che i mariti s'avviavano a spogliarsi della vecchia gelosia386. Goethe, non già perchè portava al petto come un breviario il viaggio di Riedesel, ma perchè pensava con la sua testa e vedeva coi suoi occhi, notava che le persone all'occorrenza si corteggiavano a vicenda387. Terzo, un anonimo francese, facendo un passo avanti, affermava essere soprattutto le donne che fornivano aneddoti alla cronaca scandalosa388; e quarto, e malauguratamente non ultimo, Bartels, passando il segno, imprimeva delle vere stimmate all'alto femmineo sesso389.

Queste ed altre accuse generali ci preparano a qualche notizia, meno vaga per i luoghi e le date.

Il grande laboratorio, la fucina diciamo così, degli articoli onde si componeva il nuovo o recente galateo sorgeva fuori la città chiusa. La Marina era l'attrattiva più potente di chi amasse divertirsi senza troppi scrupoli di.... morale.

Brydone, impressionato della sfrenata passione degli abitanti per le pubbliche passeggiate, scriveva:

«Siccome i Palermitani in estate sono obbligati a mutare la notte in giorno, il concerto musicale non [pg!287] principia prima della mezzanotte. Il tocco è il segnale perchè i virtuosi diano fiato ai loro strumenti per la sinfonia. A quell'ora la passeggiata formicola di pedoni e dì carrozze, alle quali, perchè sian meglio favoriti gl'intrighi amorosi, è vietato, qualunque sia il grado della persona, di portare lumi. Questi vengono spenti a Porta Felice, ove i servitori attendono il ritorno de' loro padroni: e tutti i passeggianti restano un'ora o due nelle tenebre, a meno che le caste corna della luna, insinuandosi ad intervalli, non vengano a dissiparle. Il concerto finisce verso le due del mattino, e tutti i mariti rincasano a trovare le loro mogli.

«Questa usanza è ammirevole [vedi un po' che cosa vuol dire viaggiatore giovane, come era il nostro inglese!] e non cagiona scandali. Un marito non rifiuta mai alla sua metà il permesso di andare alla Marina; e le signore per conto loro son tanto circospette che spessissimo coprono il viso con maschere»390.

Questo passo, per la crudezza delle affermazioni, è d'una estrema gravità. Giammai nulla di simile era stato detto in proposito. Vietati i lumi, che perciò si spegnevano a Porta Felice, la Marina rimaneva al buio completo, come quello che meglio favorisse gli amori. Le signore potevano andarvi senza i mariti, ed alcune anche mascherate.

Invero, non c'è da rimanere edificati! Ma è poi vero codesto? Il Conte de Borch, che scrisse per controllare il viaggio di Brydone, spiega così l'affare dei lumi: «Siccome la maggior parte dei nobili di sera si [pg!288] reca alla Marina in veste da camera e le donne in semplice mussola bianca, si ha tutta cura di non far entrare fiaccole accese; altronde, non se ne ha bisogno, perchè la bella luna riflettendosi sul mare illumina tutto d'intorno.

«Io, aggiunge, non mi farò il paladino della galanteria delle donne, qui come altrove civette; ma sostenere che vi sia una legge positiva, un uso pubblico stabilito che protegga il disordine, e questo abuso siasi mantenuto da tempo immemorabile, è per me quanto di più assurdo si possa immaginare»391.

Il nobile savoiardo disegna con matita di rosa il paesaggio che il viaggiatore inglese avea disegnato col carbone; ma la matita di rosa non illumina la scena; e resta di fatto: che se non c'era una proibizione ufficiale di lumi, c'era una consuetudine per la quale carrozze, sedie volanti ed altri veicoli uscivano a lumi spenti nell'allegra piazza. Mutate le parole, le cose suppergiù restano. Nell'Archivio del Comune, a farlo apposta, non siamo riusciti a trovare documento di un solo fanale in quella piazza. Altri forse lo troverà. La pubblica illuminazione, principiata in Palermo nel 1746, quando ancora molte metropoli d'Europa (lo dicono quelli che venivano dall'Estero, non lo diciamo noi) erano allo scuro, non si estese oltre alle due vie principali, e quando vi si estese non ebbe premure per la Marina, che, proprio nel secolo XVIII, restava a discrezione della luna e degli habitués.

I viaggiatori di quello scorcio di secolo ripetono [pg!289] la notizia del Brydone, non per sentita dire, ma per vista personale. Tutti furono a Palermo, tutti assistettero alla scena; qualcuno solo ne trasse particolarità che si prestano a sfavorevoli discussioni.

Il lettore abbia pazienza di proseguire con noi la galante rassegna.

Per un italiano del 1776, che non volle farsi conoscere, «la Marina è la passeggiata universale ed il convegno della sera. La Polizia ne vieta l'accesso alle fiaccole [non sarà stata la Polizia, sarà stato l'uso]. Al coperto d'una oscurità fitta passeggiano i mariti gelosi ed i timidi amanti, nascondendo gli uni i loro possessi, attutendo gli altri le loro fiamme. Ho visitato più volte queste tenebre misteriose, e non son rimasto mai senza una certa penosa emozione alla vista del turbamento che suole sempre accompagnare la felicità dell'uomo»392.

Che cosa debba intendersi per «possessi dei mariti gelosi» cerchi di indovinare chi ci sa ben leggere! Noi procediamo oltre.

Per un altro scrittore del medesimo tempo la faccenda non è diversa. L'abate de Saint-Non, persona colta e senza scrupoli, rilevava (1778):

« La promenade charmante è un convegno dove nessun palermitano rinuncia a fare un giro prima di andare a letto. Pare un sito privilegiato con indulgenza plenaria per tutto quel che vi avviene, e pare altresì che i Siciliani abbiano per esso dimenticato a tal segno la loro naturale gelosia da proibire le fiaccole e tutto ciò che possa recare incomodo alle piccole libertà clandestine. [pg!290] Molto difficile sarebbe darsi ragione di siffatta singolarità, se non si sapesse già che essa, facendo partecipare tutti ai medesimi vantaggi, soffoca e fa cessare le mormorazioni di quei gelosi che per essa soffrono tormenti. Qui regna la oscurità più misteriosa e la meglio rispettata: tutti vi si confondono e smarriscono, tutti vi si cercano e vi si trovano»393.

A brevi intervalli noi possiamo con altri viaggiatori visitare il piacevole ritrovo. Possiamo farlo col tedesco Bartels (1787), e troveremo inalterata l'usanza della spengitura delle fiaccole, che «senza etichetta, senza gelosia e con gentili scherzi» concorre a rendere più brevi le notti394. Possiamo farlo col Cav. de Mayer (1791): e se ci recherà fastidio la polvere sollevata dalle vetture, confessiamolo candidamente: non è per la polvere in se stessa, ma perchè la polvere «nuoce ai piaceri della sera»; e piaceri sono «il fresco, il laissez aller, la libertà, gl'incontri»395. Possiamo farlo con altri ancora; ma che più, a fronte di testimonianze così concordi?

E le donne mascherate? Queste si, lasciamole alla responsabilità di Brydone, che nessuno ne parlò mai e prima e dopo di lui. Solo la tradizione ne fa timido cenno, accusando certe illustri dame (e dice tre nomi), le quali a nascondere infedeltà colpevoli avrebbero ricorso al mal sicuro espediente.

E del resto, perchè questo sotterfugio quando gli stessi italiani in Palermo giudicavano preoccupazione [pg!291] non necessaria quella delle donne borghesi di coprirsi del manto nero?396

Ed ora, lasciamo il costume estivo della Marina, tanto esso non è se non una delle molteplici esteriorità della vita palermitana, e veniamo ad altro.

Siamo nel 1800. La Famiglia reale di Napoli è in Palermo. Il Duca du Berry, con un seguito di brillanti ufficiali, arriva nel nostro porto e viene a chiedere la mano d'una figliuola di Ferdinando III. Maria Carolina è a Vienna e la si attende da una settimana all'altra. Il signor d'Espinchal, uno degli ufficiali, senza perdere un solo dei divertimenti della giornata, prende nota di quel che fa e di quel che vede. Ecco una delle sue note:

«Maria Amelia ha diciott'anni: figura molto gradevole, ma nulla di particolare in un paese dove di beltà non è difetto. Le sue maniere dolci, gentili, timide anzichè no, ritraggono dalla etichetta troppo affettata della Corte, in contrasto delle costumanze molto rilassate della Sicilia».

Appressavasi l'estate: e la ducale comitiva francese passava la notte tra le numerose conversazioni della città, nelle quali splendevano donne eleganti e graziose, «dedite ai balli, alla Marina, ai passatempi abituali in questo paese dolcissimo». La Flora era «il ritrovo delle più belle donne della città, des intrigues amoureuses ». Le dame, appassionate pel fasto e per gli ornamenti, amavano «le feste, i piaceri, e soprattutto [pg!292] les intrigues de coeur, leur passetemps habituel, così che gli stranieri consideravano Palermo «come l'Eldorado di Europa».

Dopo quattro mesi di attesa, non inutile per nessuno: non per il Duca che, a buoni conti, passava buona parte del giorno presso l'Amelia, non per la sua compagnia, che divideva gradevolmente, troppo gradevolmente, il suo tempo tra le visite ai monumenti e quelle alle conversazioni; si fu costretti a partire.

D'Espinchal, che è il solo cronista di quei giorni avventurosi, evocava «le deliziosissime ore passate in questa città incantatrice, dove i capricci della graziosa e vaga Duchessa di Sorrento aveano tali fascini da render veramente felice chi vi si sottoponesse; dove era la Marchesa Aceto, più costante in amicizia che in amore, e la bella, altera e superba Principessa di Hesse, ai cui desideri tutti servivano specialmente in amore, del quale ella era una delle più ardenti sacerdotesse»397.

Ma d'Espinchal era giovane, e la sua accesa fantasia poteva dar corpo alle ombre, ed attribuire a molti il facile godimento di pochi, tra i quali era pur lui. Tuttora giovane, benchè persona molto seria ed artista di grande valore, l'architetto Houel che, visitando la casa del Principe di Campofranco, rimaneva sorpreso di trovarvi più libertà che in Francia398. Giovane e maldicente quell'altro ufficiale francese Creuzé de Lesser che trovò «la Marina la passeggiata del miglior tono specialmente di notte, ove si danno i ritrovi d'ogni [pg!293] genere»399: tutti e tre da noi chiamati a testimonî stranieri nella non bella causa di moralità.

Più che straniero, poi, il figlio del Sultano del Marocco, Mohammed Ben Osman, assistendo nel gennaio del 1783 ad una festa da ballo al Palazzo Vicereale, si dichiarava scontento della libertà delle donne, «vedendole comandar dappertutto gli uomini», dai quali esse «erano poco men che adorate»400. Volgiamoci pertanto ai non giovani ed a Siciliani, anzi a Palermitani, che non avevano ragione di esagerare, anzi dovevano aver tutto l'interesse di attenuare ciò che non faceva loro onore.

E qui con amaro sorriso presentasi l'abate Meli. Nessuno più civilmente di lui studiò la società del tempo, nessuno la ritrasse con maggior fedeltà; l'opera sua quindi rispecchia quella vita. Più e più volte lo sdegno del poeta eruppe contro la leggerezza dei suoi contemporanei; e l'apparente sua festività era collera, tanto più grave quanto viva era la interna lotta ch'egli dovea sostenere per non offendere il ceto nel quale egli, medico retribuito e poeta carezzato, vivacchiava. Tutta, col Meli, si percorre dispettando la scala di questa galanteria: dalla misteriosa trasparenza dei veli che volevan coprire il collo delle ragazze alla procace evidenza dei seno delle maritate, dalla furtiva occhiata della monachella al fremito inverecondo della donna mondana.

Ecco qua la Moda. Tra le malattie in voga predomina[pg!294] quella dei deliquî, pretesto all'amore, e certe smorfie per accreditarli; si finge di

Trimari d'un cunigghiu, anzi sveniri, Sfùjri li corna di li babbaluci, Ma di l'autri mustàrrinni piaciri.

Si gioca a carte: guerra di spade, bastoni e dardi d'amore; nubili, mogli e vedove, tutte posson dirsi paghe e contente, in quanto

A un latu ànnu l'amanti o niuru o biunnu, Secunnu lu capricciu, e all'autru latu La sfera, lu quatranti e mappamunnu 401.

Ecco Non cchiu Porta Filici. L'estate è finita, cessata è la Marina, i nobili tornano assidui alla conversazione del palazzo Cesarò, dove tra i due sessi

Si tratta a la francisa, Nun su' nenti gilusi, Su' tutti afittuusi, Nun c'è nè meu nè tò. Per iddi è impulizia Qualura la sua dama 'Un joca, 'un balla, 'un ama. Ma fa lu fattu sò. Anzi taluni stilanu Chi lu maritu va, Pri stari in libertà, Unni la mogghi 'un c'è. Hannu morali a parti; La liggi sua briusa 'N'è nenti scrupulusa, Ognunu fa per sè.

[pg!295]

E come la libera moda ha riconosciuto naturale l'uso di prendere a braccio la prima ballerina che s'incontri a passeggio, così per questa si spende e si spande402.

Ecco Ma chi pittura! Il buon Meli, disgustato delle scene alle quali gli tocca assistere, pennelleggia le condizioni dei tre ceti. A lavoro finito, egli non ha il coraggio di dare alle stampe la sua poesia, e la lascia manoscritta. È carità di patriota, o incontentabilità d'artista? Nol sappiamo; però è certo che in essa vuolsi vedere un documento di quella vita che non ha avuto ancora un illustratore con le vedute moderne.

In Palermo tutto vede bizzarria e sfacciataggine il poeta; la vanità regna immoderata:

Nun c'è vergogna, Nun c'è russuri, Pocu è l'onuri E l'onestà.

La desiderata Marina è sempre il luogo favorito di certa gente. L'amore vi assume carattere di liberalità; la gelosia ne fugge; e se vi fa capolino, vi è, come avanzo di barbarie, derisa. Ogni donna — continua piacevoleggiando, il poeta — ha il suo amante e chi non ne ha, potrà occhieggiando procurarselo; e allora complimenti a tutt'andare, e subito confidenza.

Chi tocchi amabili, Chi duci vezzi, Chi pezzi pezzi Lu cori sfa!

[pg!296]

Le vesti di queste donne sono scollacciate quali si addicono al tratto, che la moda impone libero dai vieti pregiudizî di dignitoso riserbo nelle donne, di sommo rispetto alle mogli altrui. Tutto questo al buio,

A la francisa, Senza cannili: Chistu è lu stili Di la cità.

E sempre nella fortunata piazza,

E specialmenti La siritina 'Ntra la Marina C'è libertà.

E così, sempre alla Marina, ove Palermo, la Sicilia, accentra quanto del suo peggio moderno abbia mandato Parigi:

Chista è la Francia Di sta Marina 403.

Se così è al palazzo Cesarò, nelle case private, ai pubblici passeggi, che c'è mai da aspettarsi altrove? L'ambiente è sempre uno: tutti lo respirano, e vi prosperano.

Queste le scene reali che tuttodì cadono sotto gli occhi del Meli. Cent'anni dopo, un dilettante di lettere, dovea venire a battezzare «arcade di buona fede» il poeta che così aveva scritto! [pg!297]

Un prete contemporaneamente cantava:

Oggi viju introdutta certa usanza, Chi pari chi cci sia qualchi indecenza; In ogni casa, cui canta, cui danza, Va pri li pedi pedi l'Eccellenza. Nun si vidi cchiù un quatru 'ntra 'na stanza, Cu cornacopi speddi ( finisce ) ed accumenza. Li credituri e la povira panza Sunnu custritti a fari pinitenza 404.

E non isfuggirà a nessuno il calembour della cornucopia.

Il Villabianca, raccogliendo le voci popolari del tempo in cui il Regalmici faceva sorgere la Flora, mentre prima avea pensato ad un camposanto o carnaio ( carnala ), osservava che:

La carnala fu in flora a commutari. Acciò 'ntra chiddi fraschi e ddi virduri Putissiru li vivi agumintari;

dove l'allusione è così trasparente che viene spontanea alle labbra la casta invocazione:

Musa, deh copri di benigno velo L'incauta scena....

Quando poi la licenza si traduceva in fatti scandalosi, il medesimo Villabianca, acceso di sdegno contro coloro che ne erano gli attori, usciva in una invettiva che è forse la più sanguinosa ch'egli abbia lanciata contro la moda del libertinaggio, contro le famiglie che ne inalberavano la bandiera, contro la società che [pg!298] tollerava siffatte vergogne. Noi stessi, non osiamo riferirla405. Nè l'Arcivescovo Serafino Filangeri, Presidente del Regno, era stato meno severo406.

Prove indirette di questa realtà di cose potrebbero sorgere da particolari indagini da farsi sull'argomento in archivi speciali. Nei diversi reclusorî d'allora molte nobili e civili signore venivano ospitate. Quante le une? quante le altre? quali di spontanea loro volontà? quali per volere di parenti o per ordine superiore? Giacchè, per citare un solo esempio, se tra il 1770 ed il 1804 meglio che quattordici grandi titolate entrarono nel solo Conservatorio della Divina Provvidenza (Suor Vincenza) a Porta S. Giorgio407, bisognerebbe cercare quali lo fecero, se alcuna ve ne fu, per propria elezione, quali obtorto collo. In quel ritiro, come negli altri simili d'allora, nessuna dama andava a chiudersi senza gravi ragioni, e queste non potevano non essere d'indole estremamente delicata: o che i doveri coniugali avessero, per passioni inconsiderate, ricevuto qualche colpo, o che la condotta del marito si riflettesse sulla moglie, la quale, appunto perchè donna, rimaneva esposta alla solita maldicenza, che talora risparmia l'uomo notoriamente infedele ed accusa la donna forse lievemente indiziata di colpevolezza, quando non del tutto innocente.

[pg!299]

E se le quattordici dame, che pur tenevano ai loro servizi ciascuna le sue cameriere, rappresentavano l'undecima parte delle ricoverate in quel Reclusorio, quante saranno state le civili, maritate o vedove, che per le medesime ragioni vi convivevano?

Con questa vita e con queste abitudini è facile comprendere come potesse nella Capitale farsi strada il cicisbeismo, che tra le cattive fu la peggiore delle mode. Non si cerchi nel popolo, perchè la rigidezza della sua morale e quella gelosia che, per quanto esagerata da viaggiatori e da romanzieri, era ed è sempre intensa, mal ne avrebbe comportato le libere pratiche408. Il cicisbeo, o meglio, il cavalier servente (giacchè solo con questa parola si conosce la brutta cosa nel popolo) non esistette mai o, piuttosto, esistette solo di nome; il vero servente nacque, potè prosperare nelle alte sfere sociali. Brydone, quelle sfere le conobbe in Palermo, e trovò «generale anzi che no» la istituzione. Bartels, senza circonlocuzioni e sottintesi, ne confermava, come in altre parti d'Italia, l'usanza409; e tanto era comune che il non trovarne in qualche famiglia parve lodevole eccezione. L'ab. Cannella ascrisse a vanto della Principessa di Villafranca l'avere ella scelto un dotto sacerdote per la conversazione, in luogo d'un cicisbeo che [pg!300] le facesse la corte410; mentre, al contrario, un'altra giovane Principessa non seppe rinunziare all'ordinario conforto d'un vagheggino (un principone d'alto lignaggio) alla notizia che il marito fosse stato catturato dai corsari barbareschi; vagheggino, ch'essa si tenne schiavo d'amore in Napoli e in Palermo, come il Reggente si tenne schiavo di pirateria in Algeri il non più giovane marito di lei411.

Se riflettiamo un po' sopra queste cattive tendenze, verremo alla dolorosa conclusione che vi son simpatie non approvate dalla legge civile, vietate dalla ecclesiastica, le quali, secondo alcuni, non intaccano certi articoli del decalogo. La educazione d'allora, parliamo sempre del settecento, era, ahimè! troppo progredita perchè potesse arrestarsi a proibizioni, riconosciute grette da quella società.

Il cavalier servente guardava con serenità calcolatrice la perdita del tesoro che era suo; e seguiva istintivamente, forse senza conoscerla la dantesca Semiramide,

Che libito fe' licito in sua legge.

Simile ad accorto capitano, egli dalla effimera perdita traeva ragione e forza a conquiste, tanto facili quanto meno consentite o permesse. Una fortezza che si perdeva, ne faceva supporre una che si vincesse; anzi la fortezza perdevasi appunto perchè il capitano, niente premuroso di essa, era alienato dagli stratagemmi di guerra necessarî ad espugnarne altra. Ed a questa, [pg!301] espugnatala, egli consacrava se stesso, ogni sua cura, dal primo istante in cui questo giovin signore, compagno del «giovin signore» lombardo del Parini, riapriva gli occhi al sole già alto, al far del nuovo giorno, in cui li chiudeva stanchi al sonno pertinace. Ad essa e per essa spendeva, senza riguardi a conseguenze economiche, le sostanze che aveva, se pure le aveva. Egli la custodiva, la teneva di conto, ne visitava ad ore determinate gli angoli più recessi, e l'addobbava e adornava di sua mano; giacchè a lui, solamente a lui, era dal nuovo codice galante fatto diritto di accedere, padrone e servo, signore e vassallo, cavaliere e valletto, capitano e soldato, là dove codici oramai fuori moda non consentiron mai di levare gli occhi, non che di mettere i piedi o di alzare le mani.

Usciamo di metafora.

Il cicisbeo era sempre in pieno esercizio in molte case signorili, in quelle specialmente dove la cascaggine dei zerbinotti e le smancerie dei ganimedi si credevano così innocue da limitarsi a leziosi inchini, e, tutt'al più, a languide occhiate. Se qualche puritano ne faceva le maraviglie, c'erano i non puritani, persone di mondo, che trovavano opportuno lasciar fare.

Alla fin fine, che cosa è il cicisbeo se non un cavaliere della galanteria, che volontariamente si rassegna ai capricci d'una bella o d'una brutta dama? Come ellera all'albero, così egli si attacca a lei; nè l'abbandona mai quando ella esce per la messa, per le prediche, per le passeggiate, quando va al giuoco, ai ricevimenti, agli spettacoli. Ella non va senza di lui, e quando la s'incontra è impossibile che egli, vagheggino fedele, [pg!302] in ogni guisa non si adoperi a tenerla divertita e soddisfatta di sua corte. A villeggiatura, in luogo solitario, legge alla signora Metastasio, e spiega Voltaire e Rousseau412. C'è da stupire, che sappia far questo; ma è così.

In città, la condotta non è diversa. La femmina

L'amicu sò sirventi Chi a latu fissu teni Càncaru! si manteni Cu tutta proprietà.

Nè unica nè sola è questa femmina nel costume corrente; perchè

Teni ogni donna A lu sò latu Lu 'nnamuratu Cu gravità 413.

L'innamorato non era il cavalier servente. Quello era un infelice che trascinava la catena d'una passione ardente; questo, felice, perchè alieno da gelosie, sospetti, guai: distinzione fondamentale, fatta da un testimonio del cicisbeismo. Una cicalata di Fr. Sampolo è la più sottile psicologia del Cavaler serventi. Non conosciamo in proposito studio intimo più fine, come della voce cicisbeo non conosciamo etimologia più sicura di quella data da un vocabolarista siciliano d'allora414. Solo il cavalier servente, secondo il Sampolo, gustava i più [pg!303] deliziosi piaceri, veri o fittizî che fossero. Preferibile l'amore senza amaro, com'era il suo. La dama ed il cavaliere godevano d'una felicità senza limiti:

Accussì stannu sempri in jochi e sciali Senz'essiri nè amanti nè mariti; Guadagnanu cu pocu capitali Tirannu frutti, ma frutti squisiti.... Lu gran nimicu chi ognunu avirria Fora la maliditta gilusia.

Ma egli questa gelosia non la conosce, e molto meno lei. La gelosia, osserva il poeta, è morta, o presso a morire; talchè di giorno o di notte, in pubblico o in privato, camminando o sedendo, in campagna o in città, per tutti e due è cuccagna continua:

Cuccagna d'ogni gustu in generali: La vista vidi così ( cose ) di allucchiri; Lu gustu tasta così curdiali; La 'ntisa senti cosi di 'nfuddiri; Lu nasu ciàura ( odora ) così essenziali; Lu tattu tocca cosi d' 'un si diri; E l'armuzza 'mparissi assintumata Cci fa lu lardu, ed è tutta scassata 415.

Quello che fa difetto non son mica i piaceri; ma il tempo; chè dei piaceri se ne ha tanti che non si riesce tutti a goderseli; bisognerebbe allungare i giorni con le sere, le sere con le notti,

E succedi a li voti ( volte ) e forsi spissu Chi pàrinu cchiù jorna un jornu stissu.

[pg!304]

Potrebbe osservarsi che non varrebbe la pena di perdere il sonno per passatempi di siffatto genere; ma chi la pensa così, aggiunge Sampolo, non capisce che l'uomo e la donna sono come la secchia e la fune, e che fuoco novello spegne vecchio fuoco. Un sorriso asciuga una lacrima, una giovane ringiovanisce un vecchio, e l'amore, a chi chiude, a chi apre un paradiso; i balli son fatti per legare le anime; e amore tesse i fili d'argento della tela della felicità.

Con un'analisi così delicata del cuore del cicisbeo, noi possiamo lasciare lo spinoso tema; tanto il cicisbeismo in Sicilia fu assai più temperato che in altre regioni d'Italia416, e se si protrasse anche fino ai primi del sec. XIX esso non fu se non l'ombra di se stesso. Heinrich Westphal, che si volle nascondere sotto il pseudonimo di Tommasini, parlando del nostro Cassaro, potè nel 1822 vedere soltanto questo: che «nelle botteghe di galanteria entrano donne elegantemente vestite, coi loro cicisbei o cavalier serventi, occupate a passare a rassegna le novità parigine, e comperare questo o quell'altro, ovvero anche a dare una specie di Avis au lecteur al povero accompagnatore, notando come veramente bello e di buon gusto il tale o tal altro oggetto»417.

Fortunatamente per noi lo stato morboso che in mezzo alla derisione del popolo ed all'aperto disprezzo delle persone sane, compiè il suo periodo, cessò del tutto. I cicisbei del settecento sono anche per la Sicilia semplici ricordi storici, anzi reminiscenze archeologiche. [pg!305]

Capitolo XX.

LA MODA DELLE DONNE, IL PARRUCCHIERE.

La moda, che per lungo volger di tempo fu spiccatamente spagnuola, nella seconda metà del settecento era senz'altro francese, o infranciosata.

Però, mentre le donne della campagna conservavano qualche cosa del vestire antico, le civili di Palermo, Messina, Catania ecc. indossavano lunghi manti neri, che scendendo dal capo coprivano interamente il volto. Del medesimo costume si servivano anche le grandi dame quando di mattina si recavano in chiesa: ma preferivano il bianco od il variopinto, che era di seta e formava un negligé ricco e piacevole.

Questo ci dicono i viaggiatori d'allora418; ma nessuno ci dice che l'acconciatura del capo era il massimo dell'eleganza, il centro a cui convergevano i raggi della grande ruota femminile: del qual silenzio dev'essere stata la ragione la generalità dell'uso e la notorietà della toilette in Francia, in Germania, in Inghilterra. Quando uno dei viaggiatori disse che le donne siciliane [pg!306] avevano chiome bellissime, e sapevano in particolar guisa giovarsene per accrescere grazia alla loro bellezza, disse molto e non disse nulla, perchè l'acconciatura del capo meritava ben altra notizia.

Riguardato con sottilissima cura, questo requisito di venustà muliebre occupava il parrucchiere, la cameriera ed altre persone di casa.

Fedele ministro della vanità femminile, il parrucchiere non poteva ogni giorno prestar l'opera sua; ma bastava che lo facesse una volta la settimana o più, per lasciar paga la sua eletta cliente. Giacchè, l'acconciatura del capo, così come per un certo tempo la ridusse il figurino francese che veniva da Napoli, era un edificio mirabile di mezza giornata di paziente, industre lavoro.

La vigilia di questo lavoro Madama andava a letto in ciocche accartocciate: e fin dalle prime ore del domani stava ad attendere il desiderato carnefice. Una intera batteria di ferri, ferretti, pettini, bambagia, fettucce, nastri era a disposizione di lui, capitano e stratego. Polveri e cosmetici popolavano la stanza. Il sapone di spiga andava con le polveri dentifricie; l'acqua nanfa gareggiava con l'acqua di rosa, la fior di mirto con la sans-pareille, e tutte con la costosissima acqua del paradiso. Le pastiglie profumatorie si associavano sovente con il ricercato liquore per togliere le macchie del volto.

Atteso con febbrile impazienza, ecco giungere il parrucchiere. Seguiamone le mosse con D. Pippo Romeo:

Si spoglia del vestito, si attacca un panno innanti, Divide le incombenze a tutti i servi astanti. [pg!307] Chi scioglie papigliotti, chi intreccia nocche e veli, Chi penne, chi fettucce e chi posticci peli; E mentre al disimpegno ciascun di lor s'adopra, Superbo di sè stesso si accinge il fabbro all'opra. Principia con il pettine a dar la prima carica, Indi pomata e polvere senza contegno scarica; Torna a levare e mettere, dissipa senza frutto, Suda a compor la parte, poscia distrugge il tutto, Riede a ricciare il pelo, unisce, disunisce, Lascia il deforme, e il bello annichila e sbandisce; Innalza il promontorio con stoppa e crine riccio, Guarnisce riccamente di nocche il bel pasticcio; E dopo il gran lavoro, tutto sudato e sfatto, «Signora, consolatevi, dice, il scignò sta fatto» 419.

È fatto: e di nuova cipria si copre e di ornamenti di piume, che si prestano ad equivoci di begli umori e di poeti420. La cipria è il cavallo di battaglia del parrucchiere: e di cipria facevasi tanto consumo che il Senato, a corto di quattrini, non sapendo dove metter le mani, la gravava di due grani (cent. 4) il rotolo: gravezza che era costretto subito a sopprimere (1790)421. [pg!308] Altra cipria gialla, detta pruvigghia atturrata, usavasi per far bianche e rilucenti le chiome422.

Questa frisatura, una delle dieci diverse di moda, era chiamato gabbia: e vera gabbia era, sulla quale potè lepidamente dirsi che:

Di lu concavu ancora di la luna Vinniru pri mudellu a li capiddi Nuvuli fatti a turri e bastiuna. Poi di l'autri mudelli picciriddi Cui fa trizzuddi mali assuttilati Cui d'intilaci fa gaggi di griddi, Vali a diri ddi scufii sbacantati Chi contennu li càmmari e li alcovi Cu medianti di ferrifilati 423.

Ma con questo arnese sul capo come prender sonno la notte?

Ebbene: la moda provvedeva con un apparecchio di tela inamidata, specie di fodera, di cuffia, della capacità di due teste, dentro la quale la studiata ricciaia veniva custodita, dovesse anche scomparirvi dentro una parte del viso. Il mimì, nome dello strano supplizio, era anche altra maniera d'acconciatura, con la quale la volontaria martire della vanità usciva di casa424.

[pg!309]

Tornando al parrucchiere, bisogna riaffermarne la importanza nelle case signorili. Quando un uomo si presenta per cameriere in una di queste, la cosa che gli si domandava era se sapesse pettinare da donna e da uomo: ed è curioso che la réclame rudimentale nei primi giornali di Palermo s'iniziasse proprio con questi lisciatori di dame. Nel Giornale di Sicilia, che conosceremo nel secondo volume di quest'opera, si legge:

7 Aprile 1794: «Un giovane palermitano della età di 22 a. vorrebbe impiegarsi per cameriere, sapendo pettinare da uomo e da donna.

«Altro giovane romano di anni 24 cerca impiegarsi da cameriere. Sa leggere, scrivere, far di conti, parlar francese, pettinare da donna...».

28 Aprile. «Una persona di abilità, e che sa pettinare da donna, vorrebbe impiegarsi da cameriere in qualche nobile casa».

7 Luglio. «Da Filippo Remajo, parrucchiere, che abita nel palazzo del Principe di S. Lorenzo, si cerca impiego di cameriere, sapendo pettinare da donna»425.

In Messina, il parrucchiere Di Carlo era l' enfant gâté della Nobiltà. Una sera che egli, reduce da Napoli, ove andava a prendere le ultime novità della moda, si recò, appena sbarcato, al ridotto carnevalesco della Munizione, tutto il teatro si mise a rumore426.

[pg!310]

Per il fatto che egli penetrava fino nei boudoirs delle signore, il parrucchiere era a parte di tutte le cronache d'alcova, e adibito in incombenze delicatissime. Il lettore potrà averne un'idea quando saprà di una certa vertenza tra i partigiani delle artiste Bolognese e Andreozzi nel S. Cecilia (1797-98), della parte attiva, eccessivamente attiva, che vi ebbe a favore di quest'ultima il Pretore Principe Giuseppe Valguarnera e del dietroscena delle dame cospiratrici ed occulte attrici per mezzo dei loro parrucchieri427.

Che perciò a furia di scatricchiar capelli e costruire toupets certi accreditati parrucchieri riuscissero a mettere insieme larghi guadagni, è naturale. Giuseppe Fraccomio potè per tal modo convertirsi in mercante, e come tale divenire principale impresario della grande Beneficiata di S. Cristina428. Carlo Biscottino, che nei giorni di maggiore splendore per lei servì la Duchessa di Floridia in Palermo, e la seguì poi alla Corte di Napoli, moglie di Ferdinando, potè con frequenti prestiti sopperire ai bisogni di essa, resi ogni dì più gravi dai nuovi doveri dalla sua altissima posizione e dalla taccagneria del vecchio Re: donde non guadagni429 gli vennero, ma influenza che pochi poterono vantare eguale, ed il conforto di due eccellenti partiti per le sue vaghe figliuole, una delle quali divenne Marchesa.

Lasciamo l'artista del capo, e prendiamo la moda di tutta la persona.

Con le munteri e gli scignò, con i chiuvetti ed i tuppi[pg!311] altissimi, andavano i cantusci o andriè, ed i tonti, detti pure guardinfanti, ed i busti, che avevano il loro complemento in scarpine di drappo ornate di rose e di altri fiori artificiali. Il cantusciu (forse da qu'on touche franc.) era una veste di lusso, composta di drappi a colori, lunga e ristretta alle maniche. Il tonto un forte, inflessibile crinolino di ossi di balena, sul quale il faceto D. Pippo sicilianamente piacevoleggiava coi suoi concittadini messinesi:

Spuntannu un guardanfanti l'omini tutti allura Un largu ossequiusu facïanu a la Signura, E chidda, cu ddu tontu, e dda gran cuda strana Chi trascinava 'n terra, paria vera suvrana: Chiudianu l'occhi tutti, nè cc'era di imbarazza Pirchi scupava ognuna sarmi di pruvulazzu; Ed era chiddu tontu un baluardu forti, 'Na rocca inespugnabili chi difinnia li torti. (Mi servu di metafuri, chi la mudestia un velu Esiggi in ogni cantu, nè tuttu vi rivelu!) Ddu bustu trapuntatu, simili a un fucularu Di pisu undici rotula, sirvia di gran riparu; L'invernu li guardava di friddu e di punturi, L'està li depurava a forza di suduri, Eternu, inistrudibili, supra lu quali spissu Fundava un testaturi lu sò fidi-cummissu, Insumma era curazza, furtizza, bastiuni Cchiù forti pri cummattiri l'Andria, Macrifuni 430, 'Na vera citatedda ferma, sicura e soda. Oh busti! oh guardinfanti! oh biniditta moda! 431.

Lo spirito d'imitazione si attua specialmente nelle cose che forse meno lo meritano. Per esso la gara del [pg!312] vestire acuivasi nel medio ceto. Invano si rievocavano le leggi suntuarie a correzione del lusso e ad armonia dei ceti. Chi poteva mettere insieme, non cerchiamo come, i quattrini all'uopo, anche castigando lo stomaco voleva per la propria moglie, per le figliuole gli abiti più eletti e l'indispensabile parrucchiere coi relativi arnesi432. Cipria a profusione copriva toupets e chignons, patrimonio festivo delle donne civili; andriennes e scarpettine seriche ne completavano il costume.

Quando nell'ottobre del 1772 una vera alluvione venne a guastare la festa data dal Vicerè Fogliani a tutte le classi della cittadinanza a Mezzo Monreale, i cantastorie fecero argomento delle loro colascionate la rovina delle vesti e delle superbe pettinature delle donne non nobili; ed un poetucolo ne traeva ragione di avvertimenti alla città, una volta rigida di morale; e si scandalizzava

Di li fimmini attillati, Schittuliddi e maritati, Cu scufini e frisaturi 433Pri cumpàriri signuri. Li fadeddi 434a mezza gamma, La scarpetta cu la ciamma, E lu pettu tuttu nudu Chi a pinsàricci nni sudu.

E rimproverava mariti e padri che permettevano siffatte sconcezze, incentivi frequenti di liti, zuffe, sangue435.

[pg!313]

Anche il Meli rimava sul medesimo tono, e con fine ironia ammoniva una ragazza troppo modesta:

Nun ti vèstiri a l'antica, Cà di tutti si' guardata; Cumparisci pittinata Cu la scuffia e lu tuppè. Cu cianchetti 436, veli e pinni, Cu fadedda bianca e fina, Cu la scarpa 'ncarnatina Fai vutari a cu' c'è c'è 437.

Non avendo ove riporre ciò che il bisogno od il capriccio imponeva o consigliava, le donne servivansi d'un elegante astuccio d'argento, specie di nécessaire da passeggio. Quest'arnese con altri gingilli pendeva dal fianco delle signore, flagellato ad ogni istante e per ogni loro movimento. Uno che ne abbiamo veduto, quante rivelazioni ci ha fatte! Fremiti e svenevolezze, palpiti e speranze, mal simulate gelosie ed ostentate freddezze, visioni fantastiche e delusioni amare, e gioie evanescenti come guizzi di baleno che rompa la notte e la renda più cupa....

Mentre non si conosceva ancora il sigaro, il tabacco da fiuto era lo chic per le donne, la delizia degli uomini. I medici non eran tutti d'accordo sulla vera azione di esso; e, come a Napoli ed a Parigi, chi lo vantava salutare, chi lo sprezzava come dannoso alla testa. [pg!314] Federico di Prussia, artistica fusione di genialità e di stranezza, di poesia e di prosa, il quale alla vigilia d'una battaglia scriveva barzellettando a Monsieur de Voltaire, ne portava ripiene le tasche; Ferdinando di Napoli regalava tabacchiere, ma non pigliava tabacco.

Un giorno uno dei più illustri professori dell'Accademia degli studî (Università) leggeva una palinodia contro gli effetti perniciosi di esso. Durante la firitera, in mezzo a continua ilarità del pubblico, non faceva altro che stabaccare; e quando, a lettura finita, uno degli uditori gli chiese a bruciapelo a chi dovesse credersi, se all'oratore che avea tanto gridato contro il tabacco, o al maestro che ne avea preso a manate, il dotto uomo, confuso, mendicando una risposta, tornava istintivamente a fiutare.

Pertanto si spiega come, stanco dei continui reclami dei consumatori, il Governo s'indusse ad abolire (1781) il dazio proibitivo del tabacco, gravando invece la mano sulla farina, sull'orzo, sul vino!

La tabacchiera era d'avorio, o d'argento, o di oro. I damerini che se ne stavano a tessere e ritessere la Marina, al primo incontrarsi con una dama, facevano a gara nell'offrirgliela438: e non v'era dama che non avesse la sua. Molte ragazze, nelle quali la buona educazione non sempre riusciva a moderare la vanità degli ornamenti, la volevano. L'aristocratico educandato Carolino [pg!315] proibiva alle alunne l'uso di «orologi, ricordini, odorini, astucci e simili cose inutili e vane», e permetteva le tabacchiere solo «in caso di tale infermità che non ammettesse altro medicamento che il tabacco».

Come devono essere state carine quelle amabili convittrici a gingillarsi coi loro ciondoli e mandar su l'odorosa polvere di Nicot!...

In mezzo a tante metamorfosi camaleontiche, la moda femminile serbava sempre la massima cura delle chiome. Questa cura subì una certa decadenza dopo la rivoluzione francese del 1793 ed in seguito al crescente progresso del giacobinismo in alcune parti d'Italia. Stranezza! Mentre si cercava di soppiantare la parrucca coi proprî capelli tra gli uomini amanti di novità, cominciavasi invece a studiare tra le donne ogni espediente per sostituirla alle proprie, anche più belle, chiome: codesti uomini e codeste donne appartenevano alla classe più alta.

Alle prime avvisaglie, il Sovrano rimase allarmato e, non sapendo fare di meglio, proibì le parrucche femminili. Il divieto ritardò, non impedì la graduale introduzione del costume, deformatore delle muliebri fattezze. Il primo tentativo partì (nessuno lo immaginerebbe!) da una dama della Regina, che era pure una delle tre più belle ma più discusse dame d'allora. Il marito, gentiluomo di Corte, Grande di Spagna, uno dei dodici Cavalieri siciliani dell'Ordine di S. Gennaro, con esercizio, ne rimase scosso; ma nulla fece per temperare il rigore del suo Re, il quale, contro la predilezione della capricciosa donna pel monastero della Concezione, la mandò all'Assunta, monastero di penitenza. [pg!316]

Ciò avveniva nei primi di giugno del 1799. Pochi dì appresso (18 giugno) partiva dal R. Palazzo una severissima lettera ai signori Capitani, Giudici e Fiscali di Sicilia del seguente tenore:

«È pervenuta alla notizia del Re che siasi adottata dalle dame e da altre donne l'uso delle parrucche, e che talune per uniformarsi vieppiù ai sistemi repubblicani son giunte tant'oltre che fino anche si son rasi intieramente i capelli trasformandosi in tal guisa notabilmente. S. M. ha risoluto perciò che si proibisca affatto l'uso delle parrucche alle donne sotto la pena della carcerazione, e per le dame in un monastero o reclusorio che S. M. giudicherà, e per coloro che le lavorano o le vendono soggiaceranno ugualmente alla pena della carcerazione parimenti per quel tempo a S. M. ben visto ed alla perdita dei mobili. Con tale espediente si renderà alla pubblica intelligenza la facilità di talune di adattarsi a sì strani modi». Seguiva la firma del Ministro: «Il Principe di Cassaro»439.

A dispetto di Re e di Ministri, il parrucchino, stavolta politico, si faceva strada anche tra coloro che non ne capivano il valore; e D. Pippo Romeo col suo fare in apparenza allegro, in sostanza serio, nel Carnevale del 1800, innanzi a numerosissimo pubblico dentro il teatro la Munizione, declamava:

Finiu la purcaria, è la pilucca in moda, E da lu nostra sessu si esalta, encomia e loda, Qualunqui signuruzza chi vanta gustu finu La trovu providuta d'un beddu pilucchinu, O niuru, o castagnolu, o comu quadra ad iddi; [pg!317] E quattru pila rizzi li portanu a li stiddi; Li compranu salati. Tutti li frisaturi 440Di pila fannu un traficu, e vìnninu favuri! Fineru li suspetti, scrupuli non cc'è chiù D'esaminari e vìdiri.... di quali testa sù? 441.

Vesti ed ornamenti, senza ombra di rispetto dovuto al pudore, si abbandonavano all'andazzo dei tempi; con l'antiestetica acconciatura del capo procedevano veli leggieri e civettuoli scialli, fascette cortissime e sottilissimi lini, che scoprivano ciò che volevan coprire e rivelavano appunto ciò che morali velleità miravano ad occultare. Anche qui il Meli va chiamato come testimonio autorevole, il Meli che non sapeva chiudere gli occhi ai calzoncini femminili alla turca, agli arnesi che colmavano i fianchi, alle bianche e sottili gonne, per le quali a tutte ed a ciascuna delle partigiane di tante risibili novità e francisarii,

Li gammi si cci vidinu, Lu cintu cumparisci, Ed accussì cchiù accrisci La curiusità 442.

Altronde, non sappiamo dirne di più quando per le particolarità di questa toletta abbiamo la franca dichiarazione dello stesso D. Pippo, il quale, sfogandosi contro la indecenza fin de siècle, si domandava: [pg!318]

Stu vèstiri mudernu senza cchù capu e cuda, Chi parti su' cuverti, e parti su' a la nuda, Senza cchiù spaddi e scianchi, senza principiu e fini, Lu centru nun cchiù centru, la vita 'ntra li rini, Fadetti di sei parmi, ch'appuntanu a li sciddi, Scarpi cu li ligneddi, testi senza capiddi, Pilucchi a battagghiuni, circhetti, castagnoli, Senza disparitati di vecchi e di figghioli, 443Sta caristia di pila pri tantu gran cunsumu, Stu beddu chi consisti in apparenza e fumu, Sta razza di vintagghi, di menzu spangu a stentu, Chi Suli non riparanu e mancu fannu ventu, Sti scialli chi si portanu 'mparissi pri lu friddu E pisa cchiù 'na pagghia, o un filu di capiddu, Sti veli trasparenti, sta fina cammiciola, Sti musulini oscuri, stu sciusciami chi vola, Chi mettinu in prospettu chiddu chi duvirria Ristari a lu cuvertu, su' rami di pazzia? 444.

Il ricordo dei ventagli è una brutta tentazione ad una rassegna delle varie fogge che ne corsero. Quelli richiamati da D. Pippo erano di forme nanerottole, ai quali, degradando sempre, si eran ridotti i mastodontici ventagli dei tempi anteriori. Ma noi non possiamo fermarvi la nostra attenzione; specialmente riflettendo che essi suscitaron la collera dell'Arcivescovo Sanseverino e, che è tutto dire, del Vicerè Caracciolo. Sotto la data del 7 luglio 1784 costui scriveva all'Avvocato Fiscale della Gran Corte, avere inteso di ventagli donneschi in vendita presso alcune botteghe di galanteria: ventagli con bizzarre figure, con la Confessione [pg!319] e la Comunione; e di esser rimasto scandalizzato del fatto che a maggior danno del veleno dell'empietà istillato negli spiriti deboli, si aggiungesse la stampa di certe canzonette francesi, per le quali mettevansi «pure in derisione i più sagrosanti misteri della nostra Religione». E però incaricava esso Avvocato Fiscale «di proibire immediatamente lo spaccio di tali ventagli, e formare al tempo stesso il legale processo contro coloro che li hanno introdotti, come rei di pubblicazione di stampa senza legali permessi»445.

Il Vicerè che scriveva in questo modo era un enciclopedista convinto; coloro che comperavano ed usavano i ventagli, erano delle donne che si picchiavano il petto. [pg!320]

Capitolo XXI.

LA MODA DEGLI UOMINI.

Le fogge per gli uomini, tolte piccole modificazioni, rimanevano sempre le stesse, e per oltre mezzo secolo inalterate. Si guardino un poco i ritratti del tempo in un salone magnatizio d'oggi, e si troverà la eterna parrucca incipriata, il magnifico giambergone (divenuto traslato non sempre serio nella giammèrica ) dalle candide e pieghevoli manichette con dentelles, mutabili ad ogni tre o quattro giorni, con il profuso panciotto che slarga in basso, e con calzoni di raso attaccati a mezza gamba, là dove li raggiungono eleganti calze di seta446 uscenti da scarpine ornate di lucentissime fibbie d'oro o d'argento.

Chi poi avesse veduto questi signori per le strade, a passeggio specialmente, avrebbe rilevato sopra la parrucca un cappello a tre pizzi trinato e indorato, che la [pg!321] jattanza affidava talora ad un creato, ad uno dei creati usi a tener dietro al padrone447.

Nobili e civili andavano armati di spadino.

Quest'arme fino al 1782 era comune anche alla bassa gente. Dopo l'omicidio commesso nella processione della Madonna Assunta, del quale abbiam fatto cenno448, essa venne severamente proibita, e si volle che per lo avvenire «niuno degli artisti e degl'individui delle maestranze che esercitano arti meccaniche, servitori di livrea, eziandio qualora non vestono livrea, e qualunque altra persona del volgo inferiore, possa da oggi (26 dic.) innanti portare al fianco o in altra guisa spada di qualunque misura e forma, sciabole, sciabolette, guardafreni, squarcine o altro genere di arme, ancora quando fossero vestiti di giamberga, sotto le pene contenute nel bando proibitivo delle arme»449.

Contro questa disposizione si levò un vero putiferio. Le stampe attaccate nei soliti luoghi per la affissione, vennero stracciate dai maestri, e riattaccate sotto i sospettosi occhi della Polizia; la quale, sorpreso nel momento che tornava a stracciarle un prete, e arrestatolo, lo condusse nelle carceri dello Arcivescovo. E perchè il Console degli spadai si presentò al Vicerè per dirgli in un memoriale i danni della nuova disposizione per la sua maestranza, quegli lo scacciò in così mala maniera che il console ne rimase sconcertato450.

[pg!322]

Ai due ceti lo spadino non bastava; ci voleva pure, a compimento della moda, un bastone, il cui manico con fiocchi di seta e d'oro, avea sovente un valore cospicuo.

Dai taschini, anzi dalle grandi tasche del panciotto pendevano, percotendo a destra ed a sinistra del ventre, due meravigliose catene451 con ciondoli preziosi e con orologi. L'uso nobiliare chiamava mostra (franc. montre ) l'orologio: e di orologi si faceva sfoggio singolare. Basta leggere il seguente avviso pubblicato nell'unico giornale palermitano del 1794 per averne un'idea: «S'è perduta una mostra d'oro montata alla francese, a quattro quadranti, dei quali quello che denota li giorni del mese, ha li numeri scritti in oro sopra striscia blò, come lo sono quelli dell'altro quadrante, che mostra le ore ed i minuti, e che ha tutti li numeri in cifre. Tiene annessa una catena d'oro di Napoli, nel di cui centro è dipinto un bastimento in ovale che comparisce da ambedue le parti sotto cristallo, e vi è appesa pure la chiave d'oro». E dopo questa descrizione necessaria a riconoscimento, pel ricupero si avverte: «A chi la porterà, anche per via di confessione, allo orologiaio sotto la casa del sig. Marchese di Geraci, saranno date once quattro di mancia». Probabilmente il proprietario sarà morto col desiderio di pagare quella mancia.

Mentre la moda rimaneva come cristallizzata, una nuova ma breve, per aberrazione della gioventù, ne sorgeva infra l'ultimo ventennio del secolo: effetto di una anglomania acuta, che quasi in forma epidemica invase quanti dispettavano il vecchio costume. [pg!323]

Costoro, professandosi devoti al bon ton, presero a seguire rigorosamente fogge e pratiche inglesi. Indossavano abito scuro; calzavano pantaloni di pelle e stivali, e sui capelli rialzati piantavano un cappello tondo. Ora sì, ora no, portavano un nocchiuto bastone, ma per lo più tenevano in tasca le mani. Salutare, era delitto per loro; chiacchierare, avrebbeli resi indegni della loro società. Un d'essi, che, dimentico un giorno della parte che rappresentava, si abbandonò alla natural sua vivacità in una conversazione con un forestiere, ricordandosi a un tratto di quel che era, voltossi di punto in bianco e piantò in asso, senza neppur dire addio, il suo interlocutore.

Secondo la rigida etichetta inglese, la loro biancheria doveva esser molto semplice. Uno che fu sorpreso con merletti in quella, ne fu subito severamente punito. Alcuni suoi compagni, senza profferir verbo, gli si avvicinarono, gli strapparono i merletti e si allontanarono tranquillamente come se nulla fosse stato.

Di sì strano episodio nella storia del viver nostro nessuno, altro che Bartels, ne diede mai notizia; il quale riflettendovi sopra maravigliato aggiungeva: Io spero che questa mania, così contraria all'indole del popolo, non duri a lungo; altrimenti il palermitano diverrebbe un essere pesante ed incivile. Disgraziatamente, questo esempio ha prodotto i suoi effetti nel popolo: e se ne movete lagnanza, vi sentite rispondere: « Così fanno pure gl'Inglesi »452.

I seguaci della pazza usanza si chiamavano intonati: [pg!324] e 'ntunatu nel dialetto siciliano resta anche oggi a denotare persona che stia sul grave, o che affetti di non conoscere e di non sapere.

Ripigliamo il discorso del costume generale. Una reazione nacque anche tra gli uomini, come l'abbiam veduta tra le donne; e causa ne furono i rivolgimenti di Francia, echeggianti nelle principali città del Continente e per esse in Napoli.

Il 29 marzo del 1798 il Presidente del Regno spediva al Principe di Castelcicala, Ministro in Napoli, un secreto rapporto sulle nuove maniere di vestire in Palermo, e chiedeva un apposito rescritto sovrano per essere autorizzato a farle cessare. Il rapporto, quale è stato trovato, dice così:

«Ecc.mo Signore. Corre qui voce costante che siasi da S. M. risoluta, ed ordinata in codesta Dominante la riforma del vestire, e di certi tratti esteriori, inconvenienti alla vita ed al costume di buoni Cattolici e di fedeli Sudditi del Sovrano. Se ciò sia vero, avrei sommamente caro che la M. S. si degnasse di far qua arrivare, e pubblicare la stessa Legge; perchè lo stesso disordine si è qui da qualche tempo introdotto, ed è allignata, e cresciuta a segno l'indecenza e deformità del vestire e dell'abbigliarsi, o per meglio dire del trasformarsi, che non può tollerarsi senza raccapriccio e ribrezzo, (e quantunque si procuri coonestare come semplicità di animi, pure fanno sospettare fellonia di cuori fazionarj e settarj. Nella lubricità del vestire, e dei tratti esteriori, vi è tanta impunità, e si è giunto tanto oltre, che dichiarandosi e infami e irregolari, si permette talora un'ostentazione sì smodesta e lasciva, che non [pg!325] può rimirarsi senza orrore). Io diverse volte me ne sono querelato pubblicamente, e non ho lasciato di riprendere la indignità dello scandalo; ma non sono giovati nè i miei risentimenti, nè le mie ammonizioni. Sarà perciò proprio delle paterne cure di S. M. di trovarsi riparo a questo disordine, e di prefiggervi pronto ed esemplar castigo; anche sul riflesso che la stessa apparenza di uomini sì sconsigliati risveglia in ognuno la idea del giacobinismo e dell'infame detestabile libertà.

«Prego V. E. a sollecitarmi da S. M. questa providenza, analoga a quella, che si dice essersi costà promulgata»453.

Questa allarmante relazione non dice in che consistessero le nuove compromettenti fogge; ma da documenti posteriori si capisce subito.

Non degli enormi cravattoni allarmavasi il Governo, non dei ricci a foglie di lattuga delle camicie, non dei ninnoli pendenti sulla sottoveste; ma di certi peli che i giovani si lasciavano crescere sul viso, abitualmente raso, di pochi capelli non incipriati sulla fronte, e di non so che gambali di calzoni tendenti ad allungarsi dalle ginocchia ai piedi: minacce, codeste, che facevano pensare ai pericoli che poteva correre il Regno. [pg!326]

La lettera segreta del Presidente ebbe pronta risposta, e l'Arcivescovo D. Filippo Lopez y Royo si vide autorizzato a pubblicare: come qualmente il Re avesse appreso «con vero dispiacere l'abuso introdotto e assai attualmente aumentato che la Gioventù si trasformasse con strane e singolarissime pettinature, con abiti strani e bizzarri e talvolta indecenti con iscandalo de' buoni e con proprio vitupero e disdecoro». E lo proibiva severamente454.

Da ciò nuove, tassative disposizioni. Ordinavasi ai nobili che vestissero decentemente «per esser d'esempio agli altri», e moderatamente si pettinassero. «La moderazione — dicevasi — è nelle parrucche e nella cipria», e si ricordavano le riflessioni fatte dal Presidente del Regno ai nobili nel giorno che si erano presentati «alla udienza in barbette» ( varbitti )455.

Dopo due mesi del suo arrivo a Palermo Ferdinando volle romperla con le velleità novatrici, e per mezzo del Ministro Principe di Cassaro faceva sapere al Capitan Giustiziere, Principe di Torremuzza (6 marzo 1799):

«S. M. ha veduto con suo dispiacere di esservi tuttora in questa Capitale l'abuso del modo di vestire e di certi tratti esteriori inconvenienti alla vita ed al buon costume; quando le precedenti sue sovrane risoluzioni per le riforme avrebbero dovuto far entrar in sè stessi coloro che lo hanno finora costumato con poca decenza e scandalo e sommo disgusto delle persone [pg!327] serie d'ogni rispettivo ceto che ama la decenza. La continuazione quindi di questo disordine nel vestire e nell'abbigliarsi difformemente richiama la sovrana vigilanza di S. M. a darvi l'opportuno rimedio; non potendolo tollerare senza raccapriccio e ribrezzo; ed alla S. M. maggiormente rincresce il vedere nei luoghi pubblici e circospetti l'uso di calzoni lunghi, senza legaccie, e di calze brache o di calzoni chiamati alla pantalona.... nella città ove è precisa la decenza e la priorità. [E rincresce pure a S. M.] il vedere le barbette difformare le fisonomie e certe strane singolarissime maniere di coprirsi la fronte con i capelli senza polvere di Cipro; li quali, invece di adornare, trasformano il volto; e che in siffatto modo disdicevole, precisamente alla Nobiltà, si ardisce di andare fin anche nelle chiese». In coerenza a questo, «ha risoluto che si abolisca addirittura siffatto abuso di vestire e che ognuno da oggi avanti pensi a riformarlo a seconda delle sane sue intenzioni, e di quella decenza e circospezione, i doveri di buon cattolico e gli obblighi di fedele suddito». Finiva raccomandando la cieca rassegnazione ai sovrani voleri e minacciando ai contravventori le pene della Giustizia.

Era un gridare al deserto. Quattro giorni dopo la promulgazione di questo bando l'ab. Cannella, da poco tornato da Napoli, dove si era ridotto dopo la sua romanzesca fuga in Francia, se la spassava col suo inappuntabile vestito alla nuova moda: ed eccolo, quando meno se lo attendeva, fermato, catturato e subito relegato nel Convento dei Cappuccini456.

[pg!328]

I rigori crescevano man mano che la piena minacciava d'irrompere e rovinare l'edificio dell'ordine così gravemente compromesso nelle fantastiche visioni dei governanti. Il Vicario Generale della Diocesi faceva predicare da tutti i pulpiti, in tutte le chiese, contro il pericolo del nuovo costume, favorito da giovinastri refrattarî alla osservanza della legge.

Non è tutto. Il Capitan Giustiziere, Principe di Fitalia, una brutta mattina fa venire al suo Palazzo presso S. Anna tutti i parrucchieri e tutti i sarti della città; e in termini severissimi ordina loro che non s'arrischino più a tagliar capelli in modo da coprir la fronte, e di cucire calzoni lunghi: pena il carcere e la frusta; e che denunziino senza indugio all'Autorità gli sconsigliati che cercassero l'opera loro per l'una e l'altra foggia condannata dai sovrani voleri457.

Rinunziamo alle malinconiche riflessioni che s'affacciano in chicchessia per provvedimenti così insensati; e passiamo ad un fatto col quale si chiudeva il secolo dell'Ottantanove.

È la sera del 18 gennaio 1800. Ferdinando con la reale consorte è al teatro S. Cecilia, pieno zeppo di spettatori. Il fiore della Nobiltà occupa tutti i palchi; i civili, le gradette, la platea. Delle dame della Regina neppur una manca. Parrucche candidissime (solo di uomini!) si muovono in mezzo a toupets tempestati di gioie, fulgide sotto la grande lumiera che pende dalla volta e per mille candele di cera di Venezia piantate intorno alla impalcatura. Ed ecco farsi innanzi pettoruto [pg!329] verso la platea un giovane sui trent'anni. Un improvviso scatto del Re rivela qualcosa che deve averlo inattesamente colpito. Egli ordina che si faccia venire alla sua presenza questo giovane.

— «Chi sei?» gli chiede concitato e con la sua solita voce altisonante, appena se lo vede innanzi.

— «Francesco Perollo da Cefalù, suddito fedele di V. M.».

— «E tuo padre»?

— «Emanuele Perollo, Cavaliere Costantiniano ed ex-Senatore di Palermo».

— «Ed hai l'ardire, villanaccio impertinente, di comparire in pubblico con quei capelli sulla fronte e con quei pantaloni fino ai piedi»?

Il giovane, più morto che vivo, non sa che rispondere; e tosto, ad un brusco cenno del Re, vien preso da due birri e portato via in lettiga al carcere.

Al domani, di pieno giorno, alle Quattro Cantoniere, ripetuti squilli di tromba chiamavano la folla dei curiosi. Il boia lega al cavalletto Francesco Perollo, reo di moda sediziosa, gli recide con forbici il posticcio codino, le fedine, i gambali e li butta sprezzatamente per terra; e scioltolo lo riconduce al carcere, non già dei nobili e dei civili, come avrebbe dovuto essere, ma, per onta maggiore, dei plebei, alla Vicaria458.

La patria era salva!

Questo fatto non dovea rimanere isolato. Re Ferdinando nutriva la più fiera avversione ai pantaloni [pg!330] ed alle fedine, ed un vero culto al codino naturale ed alla cipria.

Dal primo giorno che sbarcò in Sicilia fino all'ultimo che se ne allontanò per sempre, egli vide un terrorista, un repubblicano esaltato in qualsiasi partigiano della nuova moda francese; e sovente ordinò la berlina dopo la violenta, completa rasura del viso e del capo.

Una delle sue vittime fu D. Giuseppe Ruffo, fratello del Principe di Scilla. Incitato a ballo dal Principe di Trabia a Mezzo Monreale, costui, bello com'era della persona, si presentava con grandi barbette e coi neri capelli senza polvere. L'esser egli un servitore fedele del suo Re, l'aver seguito costui in Sicilia, abbandonando patria, beni, famiglia, dovevano esser ragioni più che forti per metterlo al di sopra di qualsivoglia sospetto di demagogia; ma non fu così. Appena il Re, presente al ricevimento, lo vide entrare, gli corse incontro imbestialito, gli afferrò con ambe le mani le fedine e, tira, tira con quanta avea di forza come per istrappargliele, gli grida, con voce stentorea: Porco, briccone! E se non fosse stato per la Regina, la quale corse in aiuto di lui, chi sa che ne avrebbe fatto!459

[pg!331]

Capitolo XXII.

PRANZI DI RICCHI E MANGIARE DI POVERI.

Tale essendo il lusso del vestire e dell'acconciarsi, facile cosa è lo immaginare la vita alla quale esso dovesse corrispondere. Conversazioni, feste da ballo, teatri, villeggiature si alternavano con feste e spettacoli sacri e passatempi religiosi. D'estate o d'inverno, la giornata era sempre breve, insufficiente alle occupazioni del corpo e dello spirito. Tolte le poche ore della siesta, essa era tutta divisa tra le molteplici cure volute dalla posizione sociale e dagli affari di famiglia. La siesta era l'ora che seguiva al desinare: e se per taluni il desinare era delizia, per altri era fastidio, se non sacrificio penoso.

Incredibile il lusso delle mense aristocratiche, quali lo videro alcune volte i forestieri invitati, e pieni di stupore. Mense imbandite di tutto punto, con servizî di singolar pregio; ricchi vasi d'oro e d'argento, spesso cesellati dai migliori artisti, miniature di squisita fattura, componevano e ornavano quelle mense: ricchezza sterile, non fecondata nè confortata da quella fruttuosa del capitale che circola e produce. Le posate splendevano al pari de' piatti d'argento, e in una festa datasi il 13 maggio 1799 alla nobiltà ed alla officialità militare nel palazzo [pg!332] Butera (Principe, allora, D. Ercole Michele Branciforti e Pignatelli) posate e piatti del prezioso metallo bastarono a più che 300 persone460.

Ad un inglese nel 1770 la cucina siciliana parve un misto di francese e di spagnuolo: e che l' olla podrida serbasse «sempre il proprio posto e la propria dignità in mezzo alla tavola, circondata da un trono di fricassè, di fricandò, di ragù ecc., come un grave Don spagnuolo in mezzo ad uno stuolo di piccoli marchesini attillati»461.

Dopo quell'anno la cucina, al pari della moda, della quale faceva parte, era presso la Nobiltà o tutta francese o molto infranciosata. Per qualche lieve modificazione bisogna attendere il tempo degli Inglesi (1806-1815).

Con ordine inappuntabile i servitori attendevano alle singole loro incombenze; nelle grandi occasioni le pietanze seguivano alle pietanze, con crescente soddisfazione dei trimalcioni e con pericolo degli stomachi più agguerriti. Il numero di queste pietanze era l'indice della grandezza della casa e del rispetto che essa imponeva a sè ed agli altri. Anche qui i forestieri guardavano stranizzati, non riuscendo a persuadersi che l'essere ricchi, o semplicemente agiati, imponesse, per onorare [pg!333] un ospite, di far passare sotto il naso di lui dieci, quindici piatti l'uno più costoso dell'altro.

Le principali specialità dell'Isola eran messe a contribuzione, e nelle portate di secondo e terzo ordine si vedevano i cefali della Cala di Palermo e le anguille del Biviere di Lentini, i caci di Calatafimi e le provole di Modica, il miele di Mascali ed il torrone di Piazza, il moscato di Siracusa e la malvasia di Lipari. I monasteri della città compievano l'opera culinaria, L'ab. Giovanni D'Angelo ci ragguaglia d'un pranzo tenuto nel Convento di S. Domenico (15 maggio 1796), nel quale, con l'intervento del Presidente del Regno, l'Arcivescovo Lopez y Royo, di trenta altri illustri commensali e di cinque frati dell'Ordine dei Predicatori, a compimento del Capitolo da questi tenuto e ad omaggio del nuovo Provinciale eletto P. Pannuzzo, furon serviti 24 piatti e 64 intramessi e tornagusti oltre il pospasto ed sorbetti462.

Prima ancora, Brydone aveva fornito curiose particolarità di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla Nobiltà di Girgenti al suo Vescovo; pranzo al quale egli prese parte.

«Eravamo, egli dice, trenta commensali; ma, parola d'onore, non credo che i piatti fossero stati meno di cento. Si servì in vasellame d'argento, e, cosa singolare, una gran parte delle frutta portate al secondo servizio, ed il primo piatto portato in giro fu di fragole». Brydone le mangiò con latte e zucchero, ed i convitati gustarono il nuovo condimento. Il dessert si compose [pg!334] di frutta svariate e di sorbetti anche più svariati, in forma così perfetta di pesche, fichi, arance, nocciole, che uno dei commensali, inglese come Brydone, ne rimase ingannato. Perchè, finita la seconda portata, e presentatiglisi a guisa di retroguardia, altra maniera di gelati, un servitore gli pose davanti una bella e grossa pesca, che egli prese per frutta naturale: e tagliatala in mezzo, e portatane la metà alla bocca, a bella prima ne rimase scosso, e come per allargare lo spazio gonfiò le gote. Ma la intensità del freddo vincendola sul ripiego e sulla sofferenza, egli la palleggiò con la lingua, poi non potendo più oltre resistere, con gli occhi rossi di lacrime la rigettò disperato sul piatto, bestemmiando come un turco ed imprecando al servitore, dal quale si credette burlato quasi gli avesse profferto per quel frutto una palla di neve dipinta.

Tanto abuso di sorbetti richiama a quello della acqua gelata nella stagione calda. Come senza di essa non si sarebbe saputo dare un passo in città, così con essa si alternava ogni pietanza ed ogni intingolo. Il nostro bravo forestiere, lodandosene altamente in Palermo, riconosceva strano che questo lusso (a parer suo, il più grande e forse il più salutare tra tutti i lussi) fosse ancora tanto trascurato in Inghilterra: e rilevava con piacere la pratica dei medici siciliani di dare al malato di malattie infiammatorie acqua gelata in quantità; pratica spinta tant'oltre che un celebre medico d'allora copriva con esito fortunato il petto e lo stomaco del paziente, di neve e ghiaccio463.

[pg!335]

Se non l'abbiamo fatto prima, vogliamo ora che ci cade in acconcio, notare che l'etichetta del tempo non guardava al vestire da tavola; pare anzi che in questo non si andasse tanto pel sottile464. Alla eleganza delle vesti non si sacrificava punto la libertà del comodo: di che qualche viaggiatore si maravigliava come di costumanza incoerente alla vita di grandezza e di sussiego.

Alle mense nobilesche raramente mancava qualche parassita, vecchia piaga di chi ha. Quest'essere avea bene una casa, ma solo per dormire; il resto della giornata divideva tra' suoi potenti amici, presso i quali giungeva sempre con esattezza matematica. D'uno di essi fu detto:

Lu viditi affacciari a menzujornu, 'Ntra l'ura giusta chi firria lu spitu 465.

Egli andava ben vestito, ma si hanno forti dubbî se il sarto del suo giamberghino fosse stato pagato. Il suo appetito era pari alla sua sfrontatezza. Degl'intingoli, dei manicaretti che si passavano in giro, tutto assaggiava, tutto mangiava, tutto trovava eccellente; e come per isdebitarsi col suo generoso ospite vuotava il sacco di tutte le notizie che avea potuto udire o leggere gironzolando di qua e di là. E l'ospite non poteva non esserne soddisfatto, solleticato nella sua vanità di ricco, di magnifico, e, altronde, non isdegnoso della compagnia di persone che alla fin fine erano le più innocue creature del mondo. [pg!336]

Un signore savoiardo ha una pagina aspra per codesti parassiti, i quali egli incontrava in ogni casa magnatizia, e che il padrone di casa, pur disprezzandoli, tollerava, perchè il loro rumoroso stuolo serviva ad accrescere pompa alla scena: «espediente infelice, diceva lui, che obbliga il signore alla compagnia di uno stuolo di miserabili che gli ronzano attorno, guidati dallo interesse di strisciare ai piedi del fortunato»466.

Meli vedeva una ingiustizia sociale nel favore accordato a questa gente a scapito di altra che lavora e non riceve nulla. Certi baroni

.... paganu beni e profumati Li tanti parassiti muscagghiuni, Chi si fannu vidiri affacinnati E usurpanu lu lucru tuttu interu Di chiddi chi fatiganu davveru 467.

In mezzo a tanta festa di gola e di ghiottoneria, Palermitani e Siciliani, dal primo all'ultimo, dal più alto al più basso, le solite eccezioni fatte, erano frugalissimi nel mangiare, moderatissimi nel bere. Nelle grandi mense, solo dopo il 1770 cominciarono a brindare alle dame toccando i bicchieri, e bevendo alla loro salute: usanza, a quanto pare, non mai udita nè seguita prima dell'esempio datone in Palermo da due signori inglesi468.

Questa frugalità c'induce a guardare il rovescio della medaglia: il mangiare, cioè, dell'infima classe, dalla quale in parte, e in parte dalla superiore, ritraeva il ceto civile. [pg!337]

Non occorre uno studio per conoscere come si nutrisse la povera gente che viveva col lavoro delle braccia. I cibi meno costosi, presi dal regno vegetale, erano il suo alimento ordinario. Zuppe d'ogni maniera di legumi e di verdure, il meglio che essa potesse permettersi quando il frutto del lavoro glielo concedesse, o solo in qualche giorno della settimana. Il suo alimento però era sempre a base di pane, quando fino, di buona qualità, quando murino, di qualità inferiore; pane scusso, pane con cipolla e, secondo le stagioni, con pomidoro non maturo, con fave verdi, o con frutta fresche o secche, o con olive, o con formaggio della peggiore qualità, con copiose libazioni d'acqua o con un gotto di vino quando l'aveva469. Il caffè, la cioccolata le eran note solo di nome, per quel che ne sentiva dire, o che ne vedeva passando, o per qualche prova che poteva averne fatta in giorni di poesia. Questi conforti mattutini erano, come abbiam veduto, riservati a gente civile, e tale essa non poteva dirsi nella triplice partizione della società. Non caffè con latte quindi bevea, perchè il latte andava preso in giorni eccezionali, ed i medici preferivano per gli ammalati quello d'asina.

Al di sotto delle zuppe, come si chiamano tra noi, andavano altri cibi: fave lesse non isbucciate, minestre ed erbaggi, che costavano solo la cottura e non sempre esigevano condimenti di olio, bastando il vilissimo sale di Cammarata o quello migliore di Trapani ed il pepe selvatico della città470. Secondo le stagioni e le circostanze, [pg!338] usava anche baccalà e tonno, che, copiosissima essendone la pesca e del tutto mancanti i mezzi di esportazione, andava svilito al prezzo d'un baiocco il rotolo (4 cent. di lira gr. 800), e che chiamavasi perciò carni di puvireddu; e sciala, poviru! gridavasi dai venditori per le piazze.

Dall'agosto al dicembre i fichi d'India erano la provvidenza di quanti non avessero da sfamarsi; e ciò non solo nella Capitale, ma anche in tutta l'Isola. Galt sul principiare del secolo ne trovò quasi incredibile il consumo. «In ogni parte voi v'incontrate in piantagioni di fichi d'India, in ogni villaggio coperte ne sono le stalle. Ad ogni angolo di strada di Palermo sono articolazioni ( pali ) di fichi d'India. Se vi capita uno che mangi, il suo cibo non sarà che di fichi d'India. Se egli porta un paniere, questo non sarà d'altro pieno che di fichi d'India. Ogni asino che la mattina s'avvii alla città, è carico di fichi d'India. Un contadino che in sul far della sera stia sopra una pietra a contar monete di rame, non fa se non il conto di quel che gli han prodotto i suoi fichi d'India. Se un genere è cattivo si dice che non vale un fico d'India, mentre non v'è cosa più squisita al mondo che un fico d'India. Ecco il solo lusso che gode il povero»471.

Quale distacco tra chi avea e chi non avea! [pg!339]

Capitolo XXIII.

LUTTI DI CORTE, DI NOBILI, DI CIVILI, DI PLEBEI; SCENE MACABRE.

Le feste ed i lutti della Corte eran feste e lutti della Nobiltà; e siccome di occasioni liete e tristi non era penuria nella Corte di Napoli, feste e lutti si alternavano con frequenza di forme stridenti. Carolina regalava ogni anno o due un figlio all'augusto marito, un padrone ai sudditi fedeli; e bisogna riflettere che questi regali andavano celebrati anche negli anniversarî, e che il Principe ereditario, in età da prender moglie, presala, avea anche lui i suoi figliolini, i quali non potevano passare inosservati. Or se si consideri che la Casa Borbone, emanazione di quella paterna di Spagna, era imparentata con la Casa d'Austria-Ungheria, con quelle di Toscana, di Portogallo e con altre regnanti in mezza Europa, può immaginarsi quante volte all'anno dovesse il Castello issare la bandiera, il Duomo sciogliere le sue campane, la Curia intonare i suoi Te Deum, le fortezze della città sparare i loro cannoni; e con tutto questo le truppe fare le loro mostre, i nobili accorrere al baciamano di giorno ed ai ricevimenti di sera. E non mettiamo in conto gli arrivi e le partenze dei Vicerè, [pg!340] gli onomastici ed i compleanni loro e delle Viceregine: salvo che non si fosse scapoli, come il placido Marchese Fogliani, l'arcigno Marchese Caracciolo, il dabben Principe di Caramanico.

Diremo altrove delle feste d'altro genere; qui accenneremo soltanto ai lutti.

Feste e lutti venivano, le une avvisate, gli altri intimati con ispeciali inviti che, come abbiam detto e diremo, si sdoppiavano: uno, p. e., del Capitan Giustiziere ai cavalieri, uno della Capitanessa alle dame. Basta leggere codesti inviti o partecipazioni per formarsi un'idea del lutto che si dovesse prendere:

La Marchesa di S. Croce Capitanessa

nell'atto di riverirla, le fa sapere

di essere arrivata a S. E. con Dispaccio Reale

in data de' 24 dello scaduto Febrajo [1781]

la morte
472
seguita della Reggina vedova di Portogallo

ed avere la Reggina Nostra Signora

preso il lutto per mesi quattro due stretti,

e due più larghi,

che corsero dalli 18 dello stesso Febbrajo;

perciò S. E. Signor Presidente del Regno

ha determinato

che lo stesso si prattichi in questa Capitale

da tutte le Signore Dame,

e con pieno ossequio le si rassegna.

Se la morte era di persona della Famiglia reale, il bruno doveva essere intero, completo, fino alla mancanza della inevitabile cipria alle parrucche e delle dentelles alle maniche delle giamberghe. Così fu per [pg!341] la morte della Imperatrice Maria Teresa, madre della Regina, notizia per la quale fu mandata in giro (6 febbr. 1783) un'elegante circolare in questi termini:

Il Marchese di S. Croce Capitano Giustiziere

nell'atto di riverirla distintamente le fa sapere,

che dovendosi celebrare nel Duomo

per nove giorni continui l'Essequie, e Funerale

per la morte dell'Imperatrice Regina

Madre della Regina N. S.

cominciando dal giorno 16 del corrente

per tutti li 24 dello stesso;

perciò S. E. Sig. Presidente del Regno il primo,

ed ultimo giorno, due ore prima al mezzogiorno

abbasserà al Duomo, ove terrà la Real Cappella:

ed in detti nove giorni

vestirsi in lutto rigoroso senza polvere, e manichetti
473

e con pieno ossequio si resta.

Nove giorni di funerali! C'era da svenirsi; ma la Nobiltà c'era abituata, e, se si toglie l'incomodo della levata mattutina, che po' poi non era grave, non essendosi tenuta conversazione la sera innanzi, ad esequie finite, rincasavasi con la soddisfazione di aver compiuto un dovere, e forse con un po' d'appetito in corpo.

Alle dame, per la medesima ragione, era stata spedita per via di lacchè altra partecipazione consimile a nome della Capitanessa Marchesa di S. Croce.

Qui la sventura era grande, perchè legata strettamente alla Famiglia regnante; ma per decessi di personaggi che in Sicilia nessuno conosceva, e che solo l'aristocrazia [pg!342] avea sentiti nominare nell'annuo Notiziario di Corte del Gregorio, il lutto si raccomandava ed esigeva; e quando una volta un signore credette di potervi derogare, e tenne una festa da ballo, il Vicerè lo mandò subito in prigione, scandalizzato che durante un lutto ci fosse un nobile che si permettesse di tenere festino in casa sua. Ed il povero, mal consigliato signore, che era stato sempre una buona persona, dovette prendere un mesetto di Castello.

Questa commedia del lutto veniva a stancare; perchè, o bisognava privarsi di qualunque divertimento pubblico e privato, o smettere il bruno: due cose che non istavano bene e che conveniva guardarsi dall'affrontare. Perciò conciliando, come suol dirsi, capra e cavoli, che cosa facevano le dame? serbavano il lutto stretto, e così abbrunate recavansi a teatro, che, a buoni conti, avea vita per esse. Alla medesima maniera andavano alle deliziose adunate della Marina ed alle funzioni di chiesa: servendo così a Dio ed a mammona. Ma la trovata dava troppo all'occhio, ed il Vicerè, che tutto vedeva, e non poteva permetterlo, per mezzo della moglie del Capitan Giustiziere faceva un giorno sapere come qualmente queste contraddizioni non potevano passare inosservate, e che se si voleva prender parte ad una festa e si era in lutto, non bisognava profanare il dolore. La Capitanessa, col suo superbo stemma inquartato a capo d'un biglietto e con la corona marchionale, notificava l'ordine caraccioliano: [pg!343]

La Marchesa di S. Croce divotamente riverendola,

le partecipa che intesa S. E. Sig. Vicerè,

che alcune Dame nella occorrenza delle Feste Reali,

come di parto della Regina, ed altre

non lasciano di comparire vestite a lutto

ne' luoghi pubblici,

e nei Teatri s'è servita con biglietto delli 7 corrente

incaricarla di far avvertire le Signore Dame,

che sotto pena della Reale Indignazione,

non si facciano vedere

vestite a lutto ne' pubblici Luoghi, e Teatri

in simili occasioni,

e volendo in essi comparire, lasciar dovessero il Lutto;

e perciò in adempimento di tal comando,

glie ne passa il presente Avviso

pella dovuta esecuzione e regolamento

e con dovuto ossequio se le rassegna.

Le dame non se la presero calda, come, per dovere d'ufficio, dovea dare a vedere di prenderla la moglie del Giustiziere, e come, per eccessiva servilità alla Corte, fingeva d'averla presa il Vicerè. E, discorrendone tra loro, tutte vi fecero sopra le loro argute osservazioni.

Tolti codesti incidenti, il lutto signorile procedeva, non diremo sulla falsariga, ma in ragione della vecchia etichetta, e molto davvicino alle prammatiche del Regno. Da anni ed anni il Governo non avea fatto altro che dibattere il chiodo del 1737, cioè che bisognava vestire così e così, senza arbitrarie innovazioni; ed ultimamente (1775), infastidito della rilassatezza nella quale si era caduti, volle ribatterlo più fortemente ancora, ricordando come dovesse vestirsi non solo dai nobili, ma anche dagli altri ceti, in occasione di morti. In quel bando del Vicerè Colonna gli eruditi riconosceranno una delle solite leggi sontuarie: noi invece vediamo una delle tante manifestazioni della vita d'allora, così diversa [pg!344] dall'attuale. Molti faranno le grandi meraviglie che il Governo s'immischiasse anche nel vestire di lutto o penetrasse nelle case per dire alle famiglie: «Queste si può fare; quest'altro non si deve fare!». Ma dovranno pure persuadersi che la ragione di ciò è nei tempi, che consigliavano disposizioni di quel genere, estese anche alle fogge per nascite, per nozze, per morte e per altre circostanze e condizioni della vita ordinaria.

Spigoliamo, adunque, nel largo campo aperto dal bando del 1775; ma nel far ciò, asteniamoci dal manifestare qualunque osservazione possa affacciarsi alla nostra mente. Le osservazioni sarebbero molte, e ci distrarrebbero dall'argomento.

Il Vicerè ordinava:

«Per le morti delle persone reali gli uomini possano portare le giamberghe nere di panno o bajetta, ed in tempo d'està di stamina ( stamigna ), e le donne vestir di laniglia o cattivello ( filaticcio ), dovendo durare il lutto per mesi sei. Con che però, alle famiglie de' vassalli, di qualsivoglia stato e condizione che siano i lor padroni, non si permetta portare lutti per morte di persone reali, poichè bastantemente si manifesta il dolore di tanta universal perdita colli lutti de' loro padroni».

Il medesimo ordinava per la morte dei nobili, dei Consiglieri di Stato, dei Cavalieri di S. Gennaro e del Toson d'oro, dei Grandi di Spagna. Ai visitatori, anche non parenti, consentiva pel solo primo giorno della morte, non ancora sepolto il cadavere, il lutto, «permettendo anche alle vedove il portar per uso proprio le fittuccie ( nastri ) a loro arbitrio».

Inoltre «che nelle case di lutto i parenti di qualunque [pg!345] grado, ed anche del marito e moglie, non possano tenere le finestre delle stanze chiuse, ma totalmente aperte. Che la sera non si possano tenere lampadi, ma candele, non meno di due, nella stanza ove si ricevono visite; e le donne per la morte dei mariti possano stare in casa soli tre mesi; e per padre e madre, figlio o figlia, nonno o nonna, suocero o suocera, genero o nuora, giorni nove; e per zii, zie e cugini carnali non possano aprir lutto in casa, ma solamente vestirlo per giorni nove.

«Che nelle case di lutto, ancorchè il cadavere sia sopra terra, solamente si possa coprire il suolo della camera, ove le vedove o vedovi ricevono le visite di condoglianza, con mettere li portali ( tendine ) neri alle porte o finestre, e questo per giorni nove, proibendosi, in qualunque altro lutto, che non sia come sopra, di marito o moglie, li panni neri o morati, senza poterne giammai parare di nero le mura».

E poichè chi più poteva spendere, più largheggiava nella erezione di altari e nella pompa dei ceri innanzi il morto, il bando consentiva un altare e solo dodici lumi; e circa i mortorî: che essi non dovessero sonarsi fuori la parrocchia del defunto o la chiesa della sepoltura, fosse essa d'una confraternita, fosse d'un convento; e che l'associazione ecclesiastica non uscisse dalla cerchia della medesima parrocchia e dei medesimi frati e consocî della confraternita.

«Che le parti ed eredi del cadavere non possano dare a' sudetti regolari e confratelli, che interverranno all'associamento in forza del loro invito, nè costoro ricevere e portare alle mani se non se una candela, [pg!346] che al più non ecceda il peso di once tre: e per qualunque difonto o difonta di qualsivoglia stato, grado e condizione, che fusse, non possa eccedere il numero di cinquanta candele».

C'è egli dubbio che, a ragion di lusso o di pompa, ai processionanti si dèsse più d'un cero, sì che il numero giungesse all'infinito?

«Che li baulli o tabuti, ( bauli o casse ) ne' quali si portano ad interrare li difonti, non siano coverti di drappo d'oro, argento o seta, ma di bajetta o panno, o di altra sorte di lana, con color nero o morato, per essere sommamente improprii tutti gli altri colori, e solo si permette il terzanello di colore; senza oro ed argento, e non altro, per li baulli seu tabuti di figlioli ( bambini ), che muoiono prima di uscire dall'infanzia, sentendosi del pari ne' sudetti interri, in vigor del presente bando, generalmente vietato checchessia altro mondano somiglievole fasto.

«Che per qualsivoglia lutto, ancorchè sia della primaria nobiltà, non si possano portare carrozze nere o sedie di mano ( portantine ) di drappo nero o morato, o di qualunque altro colore, che dinotasse lutto, nè tampoco usarsi qualsivoglia altro lusso»474.

A questa lungagnata seguivano le pene ai trasgressori: e le pene erano minacciate con tanta severità che nessuno dubiterà della ferma intenzione del Vicerè di farla finita coi contravventori. Si trattava nientemeno di una multa di 500 scudi ai nobili e di un anno [pg!347] di carcere e di altre pene ad arbitrio di S. E. a qualsivoglia altra persona. Per le donne maritate, la pena sarebbe stata pagata dai mariti; per le vedove, si sarebbe esatta da qualunque dei loro effetti; pei figli di famiglia, dai genitori.

A ben comprendere le inibizioni di questo bando bisognerebbe riportarsi ai vecchi eccessi che turbavano la società, e soprattutto alle teatrali ostentazioni di dolore alle quali grandi e piccoli, madri e figli, mariti e mogli si abbandonavano. Porte, usci, si tingevano in nero; di nero si coprivan le pareti; si capovolgevano seggiole e deschi; sparecchiate si lasciavan le mense; buio pesto regnava nelle stamberghe, nelle camere, nelle sale, rischiarate appena dal debole chiarore di qualche lucerna: e tutto ciò per mesi interi ed anche per anni se per poco la perdita fosse stata di mariti o, in generale, di capi di famiglia. Aggiungi altre esteriorità create e mantenute dalla vanità e dalla jattanza, come il tramutamento in nero di qualunque colore di fornimenti di animali da soma e da tiro, e carrette, e carrozze, e sedie portatili e perfino lettighe padronali se si fosse stati nella imprescindibile necessità di andare a udir messa (dovere che i Sinodi diocesani richiamavano sempre, condannandone l'inadempimento), o di recarsi da un sito all'altro dentro o fuori città, nei dintorni di essa, o nel vallo, o più oltre ancora475.

Noi abbiamo parlato del bruno senza aver veduto ancora il morto per cui il bruno andava preso. [pg!348]

Il cadavere veniva portato via subito senza pensarsi alla possibilità d'una morte apparente. Questa possibilità turbava qualche persona d'allora; ed il prof. Hager, che un giorno vide dentro il coro dei Cappuccini, chiusa in un feretro, una giovane stata dianzi strappata al desolato sposo, e che provò un grande raccapriccio scorgendo innanzi le fosse della chiesa dei giustiziati, un'ora dopo lo strangolamento, i compagni di congiura di F. P. Di Blasi (1795), ne parlò al Presidente del Regno, il quale non se ne commosse nè molto nè poco476.

Le più strane costumanze s'incontravano nei due ceti estremi, la Nobiltà e la bassa gente.

Nella Nobiltà tutto era un apparato di sontuosità che voleva attestare quanto grave fosse stata la perdita. Quale la vita, tale la morte. Lo splendore del palazzo si trasformava nelle gramaglie della chiesa ove i funerali doveano celebrarsi. Molte le chiese che si facevano partecipare, nel medesimo giorno e nelle medesime ore, ai suffragi, con centinaia di messe e con migliaia di rintocchi di campane. Nella chiesa del cadavere, immenso lo stuolo degl'invitati e la resa dei curiosi. Sopra un cataletto a frange d'oro, in abito sfarzoso come per una festa mondana, la fredda salma non istava, come d'ordinario, a giacere, ma seduta quasi per mostrare l'esser suo477.

Un capitolo sull'argomento riempirebbe di sorprese chi non abbia familiarità con le tante sopravvivenze [pg!349] etniche dei popoli, descritte dai moderni critici della civiltà.

Nel popolino la più comune era quella delle reputatrici, donne prezzolate, che esercitavano il triste mestiere di piangere sui morti, urlando nenie, strappandosi i capelli. Un parroco della città ne fu testimonio pel suo rione, dove la più povera gente grameggiava in mezzo alla più agiata. «Un solo rimasuglio di cantilene, dice il Santacolomba, mi è accaduto sentire qualora m'è toccato d'assistere a ben morire ai pescatori della Kalsa, e mi si dice che tuttora vi sia nelle piccole terre del Regno: reliquia forse delle antiche prefiche»478.

Altro che «mi si dice»! L'usanza era così comune che più non si sarebbe potuto trovare in inculti casali e in centri civili dell'Isola.

Sotto la data del maggio 1775, nel solito Diario del Villabianca si legge: «Sul cominciare di questo mese cessar vedesi la costumanza di esporsi i cadaveri dei mendicanti nelle pubbliche piazze e contrade della città; cattandovi la limosina pel suffragio delle anime e per la spesarella dei facchini e del feretro li pii confrati dell'Opera della Misericordia. Ciò venne ordinato dal Senato, non solo per dar favore alli confrati della chiesa di S. Matteo del Cassaro [ma an]che per non funestare i cittadini con quella luttuosa mostra479 ».

[pg!350]

La breve notizia è un guizzo di luce nel campo non del tutto esplorato del costume. Come dev'essere stato orribile, andando per la città, vedere nei posti più frequentati, fermi e circondati di curiosi, cataletti, con sopravi figure contraffatte di uomini e di donne in attesa di chi offerisse l'obolo per le spese del seppellimento!...

La provvida abolizione, peraltro, non tolse l'uso dei trasporti funebri di poveri, di civili, di nobili. Il noto Segretario del Senato Teixejra nel 1793 parlava ancora di questue dell'opera Santa di S. Giuseppe ab Arimathea a beneficio dei defunti poveri480.

Nè mutò l'abolizione de' diritti parrocchiali per siffatte occasioni luttuose. Quantunque non si pagasse più l'associo, la benedizione del cadavere ed il trasporto di esso, pure questo, dove l'agiatezza lo consentisse, o la vanità del fastigio lo esigesse, avea l'onore d'un corteo di frati e di preti dalla casa alla chiesa o, quando qui non fosse la sepoltura, al camposanto. Non lo mutò neppure il divieto di quella tale associazione che per un grano (cent. 2) la settimana forniva ai contribuenti gratuito, se tale poteva dirsi, ed associo e sepoltura e mortorio e messe ed altri postumi suffragi481.

Il morto volgare veniva acconciato in portantina, scoverta o no. La distinzione s'avea anche in questa, [pg!351] perchè esisteva una gradazione esteriore, dal cuoio nero semplice al legno lucido, ed ornato con un pennacchio in alto, un cranio su due stinchi incrociati davanti, ed il motto: Memento mori482.

Non era raro che una portantina comune con un cadavere dal viso mostruoso e ributtante si scambiasse per altra, rallegrata da un bel viso sorridente, e viceversa. Hager si disse vittima di questo equivoco, e lo ricordava con terrore483.

Eppure, la vista di cotali spettacoli non dovea essere così brutta come ne è adesso per noi il semplice ricordo. Ci si era nati, cresciuti, e perciò abituati: ed a forza di giornaliere ripetizioni doveva tenersi come una delle cose ordinarie della vita.

Fin nelle feste dei bimbi e dei fanciulli, e nelle strenne, che loro si facevano e si fanno credere regalate dai congiunti trapassati, le triste immagini potevano ricomparire, frammischiarsi, senza turbare i miti sogni delle anime tenerelle. L'Arcivescovo Filangeri, fungendo da Presidente del Regno (1773 e 1774), volle per due volte consecutive, all'avvicinarsi della fiera per la commemorazione dei defunti, disporre «che non si lavorassero le antiche immagini o figure di qualunque si sia sorte di morti, di scheletri, di ossa, di teschi»484 (anche di teschi manipolati dai dolcieri per le strenne fanciullesche!); ma non si hanno prove che con la venuta del novello Vicerè si fosse ottemperato al bando presidenziale.

[pg!352]

Il provvedimento governativo per le seppellizioni nel nuovo cimitero di S. Orsola non abolì l'uso delle inumazioni nelle chiese, ma ne diminuì il numero. Le cosiddette sepolture gentilizie continuarono a ricevere i cadaveri di quelle famiglie che ne avessero la proprietà. Conventi e monasteri erano per questo preferiti; ma preferiti erano, esclusivamente per le donne, i sotterranei delle Cappuccinelle e, indistintamente per gli uomini e per le donne, le catacombe dei Cappuccini. Lì s'accoglievano le dame e le gentildonne dei migliori casati, e, vestite da cappuccine, venivano allogate in nicchie; qui, invece, nobili, civili, ecclesiastici, maestri, i cui congiunti potevano fare la spesa del colatoio e del posto avvenire. In che forma, dopo essiccati, venissero ridotti e come acconciati, si vede ancora nella triste necropoli, che tutti i viaggiatori hanno con senso di ribrezzo visitata, e dove solo un poeta di alta forma trovò non invidiabile ragione d'ispirarsi.

La descrizione che ne lasciò Ippolito Pindemonte è artistica:

.... spaziose, oscure Stanze sotterra, ove in lor nicchie, come Simulacri diritti, intorno vanno Corpi d'anima vôti, e con que' panni Tuttora, in cui l'aura spirar fur visti Sovra i muscoli morti e su la pelle Così l'arte sudò, così caccionne Fuori ogni rumor, che le sembianze antiche, Non che le carni lor serbano i volti Dopo cent'anni e più: morte li guarda E in tema par d'aver fallito i colpi 485.

[pg!353]

Bei versi, invero, che non fanno onore ai gusti del malinconico Cantore veronese, ma che bastarono a far dare il nome di Via Pindemonte alla strada dei Cappuccini.

Ora anche nel seppellimento una distinzione non poteva mancare. Tra le gallerie ve n'era una anche pei nobili, e dove, mummificati e vestiti d'un sacco nero i corpi di persone dozzinali venivano ordinariamente appesi alle pareti, quelli di distinto casato, dissecati a quel modo ed avvolti nei propri panni e veli, «con sacchetti d'erbe aromatiche sul petto» venivan chiusi in casse, o bacheche, le quali il vecchio custode del luogo apriva ai curiosi visitatori486.

[pg!354]

Capitolo XXIV.

PARTECIPAZIONI.

Il lettore non tema di essere attristato con altre notizie funeree. Chi muore giace, e chi vive si dà pace, dicono per proverbio i Toscani; ma più efficacemente i Siciliani: Tintu cu' mori, ca cu' arresta si marita. E proprio pei maritaggi, come per i ricevimenti, le gale, i balli, i monacati, partivano gl'inviti da un palazzo e andavano ad un altro, espressione della grandeur delle titolate famiglie. Non un invito che deviasse dal suo natural cammino, non una partecipazione che uscisse dalla cerchia entro la quale se ne stava la classe elevata. Se inviti per alcuno di essa dalla media classe partivano, raro è che, giunti, si tenessero, per quanto graziosamente accolti; e se si tenevano, circostanze e ragioni speciali dovevano averne determinata l'accettazione: o che tra l'uno e l'altro dei due ceti fosse un'amicizia tale da imporre a questo di spedire, a quello di accogliere l'invito gentile, o che nel gentile patrizio fosse una singolare degnazione. Senza di questo ciascuno rimaneva al posto che gli competeva.

Per quanto piccola, questa faccenda delle partecipazioni è una curiosità anch'essa. Se ai dì nostri sono elementi di cronaca mondana la cravatta di uno scombiccheratore [pg!355] di versi, la sottoveste d'un accozzatore di note musicali, il tacco degli stivalini d'una Nanà qualsiasi, e le più futili cose della vita giornaliera assurgono ad importanza che rivela soltanto la nostra miseria, perchè non devono queste dimenticate delicatezze dei nostri vecchi entrare nella storia della eleganza siciliana?

In una delle splendide sale del Palazzo Butera in Palermo487 è la ricca biblioteca della Casa. Tra i manoscritti del Duchino di Camastra, che, dopo il 1805, dovea essere D. Giuseppe Lanza e Branciforti, Principe di Trabia e di Batera, ed uno dei più colti ed affabili letterati del sec. XIX, v'è un volume che fa per noi488. Giovinetto ancora, l'intelligente patrizio piacevasi di prendere appunti nel Diario palermitano che il venerando Villabianca metteva in propria casa a disposizione di lui489: e certo a siffatta amicizia è da attribuire la spiccata tendenza del futuro scrittore alla erudizione patria. I dotti lo chiamavano alle loro adunanze: ed una stampa del tempo, che fa parte di quel volume, dice così:

L'ACCADEMIA PALERMITANA DEL BUON GUSTO. DOMENICA LI 2 8BRE 1796 ALLE ORE 22 NEL PALAZZO DELL'ECC.MO SENATO IL SAC. D. GIOVANNI D'ANGELO RECITERÀ UN DISCORSO CHE HA P. TITOLO LA GALLERIA DI VERRE. SI PRIEGA IL SIG.RE DUCHINO CAMASTRA AD INTERVENIRE.

[pg!356]

È, come si vede, una formola ordinaria, la quale verrà subito compresa quando nel corso di quest'opera si leggerà che cosa fosse quell'Accademia, e perchè si adunasse nel Palazzo del Senato, ed alle ore 22.

Sotto l'anno 1795, il volume Butera offre le più distinte forme tipografiche e letterarie di partecipazioni. Scorriamone qualcuna.

Sono pezzetti di carta di filo, non più larghi di dieci, non più lunghi di sette centimetri. Lo stampato vi è incorniciato in fregi incisi e litografati con disegni di artisti d'allora: ben povera cosa, invero, che però non andava senza il nome latino degli autori: Franciscus Gramignani, ovvero Michael Ognibene sculpsit. Si capisce che le cornicette servivano ad inquadrare qualunque comunicazione. Ma in tanta modestia di dimensioni e di forma quale profumo di gentilezza!

Eccone uno, il primo, che s'infiora del sorriso d'una nobil donna a tutti nota:

LA MARCHESA DELLA CERDA

MENTRE DIVOTAMENTE LA RIVERISCE

SI DÀ L'ONORE DI SIGNIFICARLE IL GIÀ CONCHIUSO

MATRIMONIO

DI D. GIUSEPPE DI SANTO STEFANO

MARCHESE DELLA CERDA

SUO FIGLIO

CON D. GERTRUDE RUFFO

ZIA DEL PRINCIPE DI SCILLA

E CON PIENO OSSEQUIO SE LE RASSEGNA.

Non abbiam modo di vedere se la egregia Marchesa fosse, come pare, vedova e, come supponiamo, madre di quel giovane che in Roma incontrò la famosa avventura [pg!357] di strappare dalle unghie della gendarmeria pontificia l'amico suo Cannella; ma se era la madre, essa deve aver presa molta cura dell'ardito e sventurato abate, quando egli potè impunemente ritornare a Palermo.

Eccone un altro, al quale mancano le forme tipografiche di epigrafia:

ESSENDOSI DI GIÀ STABILITE LE NOZZE FRA D. FRANCESCO PAOLO DI MARIA AGLIATA PRIMOGENITO DEL BARONE DI ALLERI, E D. CASIMIRA DRAGO, E MIRA FIGLIA DELLA MARCHESA D. FLAVIA DRAGO, E MIRA, IN DISCARICO DI SUA ATTENZIONE IL BARONE DI ALLERI PADRE NE PARTECIPA L'ADEMPIMENTO.

Non è bello, ma in una collezione non guasta.

Ecco uno sposo che, forse per esser privo dei genitori, nomine proprio annunzia a parenti ed amici i suoi sponsali:

IL PRINCIPE DELLA CATENA

NELL'ATTO CHE DIVOTAMENTE

RIVERISCE L'E. V.

LE PARTECIPA LA CONCLUSIONE

DEL SUO MATRIMONIO, COLLA SIG. D. CATERINA

REQUESENZ, E BONANNO,

FIGLIA DEL PRINCIPE DELLA PANTELLERIA

E SPERANDO I GRAZIOSI EFFETTI

DI GRADIMENTO

SU DI QUESTI DOVEROSI UFFICI SE LE RASSEGNA.

Il padre della sposa avea una paginetta aneddotica nel zibaldone ms. d'un aromatario d'allora; ma noi non saremo così indiscreti da richiamarla a proposito [pg!358] d'una festa gentile di gentilissima fanciulla. E seguitiamo a sfogliare il volume del Duchino di Camastra.

La seguente è una partecipazione di due signoroni, l'uno forse congiunto, o tutore della sposa, l'altro sposo:

IL PRINCIPE DI MONTELEONE

ED IL PRINCIPE MARCHESE DI GIARRATANA

NELL'ATTO DI RIVERIRLA DIVOTAMENTE

LE PARTECIPANO IL CONCHIUSO MATRIMONIO

TRA D.
A
FELICE DI NAPOLI, E NASELLI,

FIGLIA DEL SIG. PRINCIPE DI RESUTTANO

ED IL SUDETTO PRINCIPE MARCHESE

DI GIARRATANA,

E SI RESTANO ALLA DI LEI UBBIDIENZA.

Questo pei residenti nella Capitale; ma quando gli amici eran lontani, forma e formola cangiavano: lo stampino minuscolo diventava un foglio grande di carta, e la dicitura epigrafica passava in epistolare. In proposito incontriamo una lettera stampata della Principessa di Cutò in Napoli alle sue nobili amiche in Palermo:

Eccellenza. Piacente novella recherà a V. E. questo mio divotissimo foglio della conclusione del Matrimonio tra la mia nipote D. Nicoletta Filingeri figlia del fu Duca di Misidindino mio primogenito, ed il Principe della Motta unigenito del Duca di Baranello. Ascriverà l'E. V. questo mio ufficio come testimonianza di mio rispettoso ossequio alla sua degnissima persona, e famiglia, mentre io contrasegnandole l'onore de pregiatissimi suoi comandi costantemente mi ripeto [pg!359] Di V. E. Napoli, 18 Agosto 1798. Div.ma Obl.ma serva e par[tecipan]te La Principessa di Cutò . A. S. E. ( Ms. ) La Sig. Principessa della Trabia. Palermo.

Lasciamo la Biblioteca Trabia-Butera e rechiamoci alla Biblioteca Comunale, ove il Mentore del futuro letterato ci conservava tesori di erudizione contemporanea. Il Diario palermitano edito ed inedito tante tante volte sopra ricordato del Villabianca ha delle vere ghiottornie del genere.

La forma dei piccoli avvisi cominciava a comparire verso il 1777; prima del quale anno essi correvano su carta grande ad una sola colonna, e con molta, fin troppa semplicità. Nella nuova forma tipografica, se nuova può dirsi, venne diramato l'invito ad una serata da ballo della Viceregina Principessa di Stigliano; uno della Duchessa di Sperlinga per il figlio di essa Viceregina; uno del Principe di Paternò, Capitano, per un lutto di due mesi, in seguito alla morte dell'Elettore di Baviera, ed, esempio unico e solo, uno in caratteri d'oro, della Principessa di Villafranca490.

Nello stile vecchio il Villabianca ci dà a leggere le participazioni del Principe di Trabia e del Duca [pg!360] di Sperlinga per le nozze dei loro figli491. Certo, Aloisia Lanza voleva un gran bene al suo Saverio, e perchè gli voleva un gran bene era lontana dal prevedere il grave attentato che un giorno, proprio nella casa nuziale, avrebbe egli commesso alla vita di lei. Di quel torno (1780) sono, tra cento altri, gl'inviti del Marchese di Regalmici, Pretore prima, Capitan Giustiziere poi, per occasioni di gale492; e del Marchese di Villabianca a sacerdoti celebranti. Questo qui, per la sua singolarità, vuol esser conosciuto di preferenza:

IN OCCASIONE DI DOVER FARE LA LORO SOLENNE PROFESSIONE NEL VEN. MONASTERO DI S. MARIA DELLE VERGINI LUNEDÌ CHE SONO LI 26 DELLO SPIRANTE NOVEMBRE LA SIGNORA D. CONCETTA ELEONORA, E D. MARIA BEATRICE EMMANUELE DE' MARCHESI DI VILLABIANCA SORELLE, VIENE PREGATA LA DI LEI BONTÀ PER ACCRESCERE VIEPPIÙ LA POMPA COLLA PRESENZA DI SUA MESSA, E SICURO DELLA SUA GENTILEZZA SI OFFERISCE ALL'INCONTRO 493.

Le due monachelle non ci resteranno sconosciute. Noi le vedremo il giorno della visita della Viceregina Colonna a quel monastero, e le sentiremo squisitamente sonare strumenti.... non monacali.

Poco prima che la Corte di Napoli venisse a Palermo, la Capitanessa Principessa di Torremuzza invitava le dame ad illuminare le loro case pel felice parto della Granduchessa di Toscana Luisa Amalia, e, venuta [pg!361] la Corte, il Principe marito Capitan Giustiziere avvisava che S. M. «tiene appartamento in Corte, e permette alla persona alla quale è indirizzato l'invito d'intervenire»494. Si noti la concessione permette, non invita ad intervenire.

La Capitanessa aveva rappresentanza ufficiale e andava ufficialmente riguardata. Come il marito ai Signori, così lei alle dame partecipava i reali o vicereali comandi; e come lei, così anche la Pretoressa per le partecipazioni che il Pretore pel Senato faceva ai nobili in occasione di ricevimenti al Palazzo Pretorio. Una volta che la Pretoressa nol potè, la nuora ne tenne le veci, perchè la moglie del Pretore aveva il dovere ed il privilegio di far gli onori di casa.

Un'altra citazione e non più. I nobili solevano recarsi ai periodici convegni del Palazzo Viceregio; con loro o senza di loro, le dame non mancavano mai. Un giorno però un ordine superiore, forse del neo-Presidente del Regno, o dispensava le dame dallo intervento, o rimandava a lutto finito le geniali adunanze; e allora la moglie del Capitan Giustiziere si affrettava a far giungere di casa in casa questa circolare:

LA PRINCIPESSA DI GALATI

CAPITANESSA

RIVERENDOLA DIVOTAMENTE LE AVVISA

CHE PER L'ACCADUTA MORTE,

DEL FU PRINCIPE DI CARAMANICO VICERÈ

SI È STABILITO DI NON INTERVENIRE DAME

NELLA GALLERIA DEL GIORNO 12 CORRENTE.

[pg!362]

L'avviso era ampio, il doppio degli ordinarî: e non poteva non esser tale, data la grande sventura della improvvisa scomparsa del buon Principe, tanto festeggiato l'anno innanzi appena recuperata la effimera guarigione. [pg!363]

Capitolo XXV.

PASSEGGIATE DELLA MARINA E DELLA VILLA GIULIA.

Fino al 1782 la piazza, già Colonna, poi Borbonica, comunemente Marina, era compresa tra la Garita, a sinistra di chi esce da Porta Felice, e a destra Porta dei Greci, trofeo glorioso dei giovani siciliani a Mahadia, nella spedizione africana del Vicerè de Vega (1556). Dopo quell'anno, raso il baluardo di questo nome e conservata la porta più religiosamente che non abbian fatto posteri incoscienti delle patrie glorie495, la piazza, o passeggiata, si protrasse fino alla Flora o Villa Giulia.

In questa Marina l'occhio spazia libero pel pittoresco golfo, circoscritto dal classico ferro di cavallo che ha un capo nel Zafferano ed un altro in quel Pellegrino che a W. Goethe parve «uno dei più bei promontorî del mondo», e della cui bellezza di forma egli si credette inabile a dar con le parole un'idea adeguata496.

[pg!364]

Il sole vi dardeggia di giorno il fulgore dei suoi raggi; la luna, di notte, ne inargenta le onde tremolanti; «solo il Bojardo e l'Ariosto, dice un tedesco, ricordano luoghi più incantevoli»497.

Là dove ora frondeggiano perenni le eritrinee, sorgevano, non sappiamo se tutte ammirate, le statue di Carlo II, Carlo III, Ferdinando III498, dal furore del popolo abbattute più tardi insieme con altre, forse per confuso dispetto di re fedifraghi e di regi patti non mantenuti; al qual furore potè solo sottrarsi nella piazza Bologni quella di Carlo V, che incarna pel popolo una dolorosa affermazione sul caro dei viveri in Palermo499. Quelle statue erano intramezzate da due fontane, decoro dell'artistico padiglione per la musica: e la cortina o bastione concorreva alla bellezza della scena con ornamenti di archi e di figure.

Forte, incessante il desiderio dei cittadini di recarsi ogni giorno a questo luogo di svago, forte così da diventare una specie di bisogno. La stagione inclemente e le giornate rigide non valevano a moderarlo. De Saint-Non osservava che nella estate nessun palermitano avrebbe saputo andare a letto senza aver prima fatto un giro in questo sito500. Ma anche d'inverno e col freddo di tramontana Bartels vide signore, nobili e borghesi, [pg!365] delicatissime di complessione affrontarvi una tempesta che in continente avrebbe fatto paura501. Il recente prolungamento esercitava un fascino su tutti.

Noi dobbiamo visitarla nella stagione in cui l'abitudine vi chiamava una volta il giorno la popolazione tutta; due volte il giorno, i ceti superiori502.

Il 24 giugno la passeggiata estiva inauguravasi in forma chiassosa. Delle vetture padronali, altre eran nuove, altre rifatte a nuovo. All'ultimo sole che andava a nascondersi dietro Monte Cuccio luccicavano, svariati e ricchi, gli stemmi d'argento. Cocchieri, lacchè, volantini pavoneggiavansi in abiti che l'uso voleva o supponeva usciti dalle mani dei sarti.

Uno sempre, ma variato fino a settembre, lo spettacolo. Godiamcelo sulle Mura delle Cattive. Qui (se la tradizione è plausibile) le vedove ( cattivi ) che non vogliono farsi scorgere, ma che invece si mettono in evidenza, vengono a prendere un po' d'aria, e la frequente loro presenza dà il nome all'alto viale, ed il nome è etichetta della merce.

Brulica nell'ampio corso la folla di cavalieri e di dame, di borghesi e di signore, di maestri e di donnicciuole. Preti e frati, impiegati e professionisti, soldati e studenti, monachelle e pinzochere animano la scena componendo e scomponendo, come in un caleidoscopio, gruppi multicolori e distinti503.

Verso la Garita siede maestoso in alto un uomo che narra e gesticola e con un bastoncello in mano in [pg!366] forma di furberta trincia in aria dei segni, o combatte corpo a corpo nemici che non ha. Egli è un contastorie, che sa tutte le leggende di Rinaldo, di Carlo Magno, d'Orlando, di Calloandro, di Guerino. Gli appassionati, chi in piedi, chi su pancacce, con la spesa d'un grano, pendono religiosamente dalle sue labbra.

A due passi da lui, in un teatrino di legno per farse e commedie in dialetto, popolani ed anche civili entrano premurosi a sentire i creatori della nuova arte nazionale504. Trombe e tamburi chiamano uomini attempati e giovani ad uno steccato vicino, ove i lazzi di pulcinella provocano ilarità e risa sgangherate; e dietro a tutti, con uno sforzo assolutamente fantastico d'isolamento, il luogo della contumacia (1788), non è guari scelto e costruito da chi trovò incomodo e pericoloso nelle procelle quello di fronte alla Garita, presso la chiesa di Piedigrotta (1787).

In mezzo a tanta confusione giungon distinte le voci dei venditori di seme di zucca tostata e di acqua del pozzo di Santa Ninfa che a piè del nostro bastione vengono ad attingere gli acquaiuoli della passeggiata.

Circolano, frattanto, nel centro « phaetons » secondo l'ultima moda e fornimenti inglesi ornati d'argento e carrozze indorate, con le più eleganti livree e con arditi cavalli allietanti non meno per le loro magnifiche forme che pel loro bel colore, e che attirano con la loro finezza e col loro fuoco gli sguardi di tutti. Qui un amico che guida da sè i cavalli spumanti, o una coppia di attraenti bellezze, che dalla vettura aperta mandano [pg!367] ardenti saluti, o che passeggiando, amichevolmente conversano.... Qui, si fanno nuove conoscenze, si sentono notizie interessanti, si combinano accordi di divertimenti e di piaceri»505.

Dall'altro lato, sotto della banchina, a cavalcioni, accoccolati, carponi, in piedi, stanno lunghesso la spiaggia raisi della Kalsa, chi a risarcire reti smagliate, chi a fornir d'esca e ad adugliare per la prossima notte palangani, e chi sui gozzi tirati o da tirarsi a terra, a frettare, ad aggottare con la vecchia sàssola l'acqua penetrata per le falle: e quando or l'uno or l'altro di essi alza gli occhi verso tanti sfaccendati, senza neppure fissarli, non sanno comprendere come possano dirsi palermitani essi pure, i Kalsitani, se palermitani son tutti costoro, che ogni giorno vengono qui a divertirsi.

E come possono essi, i poveri pescatori, veder di buon occhio, tutte fronzoli, trine e belletti, vecchie impiastricciate di cerussa nelle profonde rughe del viso e le quali vogliono gareggiare con le più fresche ragazze? E come non sentirsi rimescolare al passaggio di una che, tutta polvere e manteca, sfacciatamente invita un giovinotto a farle compagnia nel passeggio, mentre altri zerbinotti la colmano dei complimenti più leziosi?506.

In tanto viavai il bel sole ha abbandonato sul Pellegrino la pietra dell'Imperatore507: e noi, che dal [pg!368] baluardo non sappiamo più discernere quel che la mancante luce non ci consente, rientriamo in città. Stasera, chi ne avrà vaghezza, potrà rivenire a questo luogo bellissimo, ma quanto mutato! Le tenebre lo avvolgeranno nel loro velo misterioso, che solo la luna potrà per un istante diradare. Il curioso cercatore di aneddoti potrà sguisciare tra la nuova folla sotto i baluardi. Presso Porta Felice vedrà la Conversazione estiva della Nobiltà: un crocchio d'indifferenti chiacchierare con le dame del circolo; uno di annoiati ridire sul caldo della giornata, sulla mancanza assoluta di notizie, sulle ultime disposizioni del Senato. Più in là, fuori le casine incavate nei baluardi, vedrà un muoversi confuso di servitori carichi di sorbetti pei seduti lungo la cortina, pei nuovi arrivati in carrozza, schivi di scomodarsi a scendere. Più in là ancora, non lungi da Porta di Greci, potrà prender posto in una delle trattorie che lottano contro la recente concorrenza di quella dell' Astracheddi alla Flora, dove a tarda notte giovani spensierati accorreranno a sbraciare in compagnia delle artiste da teatro che avran potuto conquistare, cortigiane dei secoli passati, demi-mondaines dei secoli avvenire.

La Flora o Villa Giulia, creazione geniale del Pretore Regalmici, era l'ideale dei giardini non meno pei Siciliani che pei forestieri.

Quando Goethe venne a Palermo (1787) essa non era ancora finita; eppure parve a lui «maravigliosa», riflettente «un aspetto magico che vi trasporta nei tempi antichi..., un vero incanto per l'occhio»508. Un [pg!369] suo connazionale la disse «fatata», ed un altro ancora, «un vero paradiso»509.

Chi vi si rechi oggi, spettatore o spettacolo, di giorno o di sera, nei dolci tepori primaverili o nello splendore delle centomila fiammelle a gas delle fresche notti di estate, non immagina, forse neanche sa che quello fosse luogo di convegno della gente più spensierata; anzi, che fosse il tempio della spensieratezza. Quando si è varcata una mezza dozzina di decennî si è contati tra i laudatores temporis acti, tra i disgustati del presente, tanto diverso dal buon tempo antico; ma non dobbiamo disconoscere che il nostro umore oggidì è troppo nero perchè possa ravvicinarsi, per via di paragone, a quello di un tempo. La società moderna, risultato complessivo di condizioni psichiche, di problemi sociali, di speranze e aspirazioni indefinite, con spostamenti d'interessi, persone, cose, manifesta un turbamento abituale, permanente, quale forse non si ebbe mai per lungo volger di secoli.

Quanto diversi invece quei nostri nonni di un bel secolo fa!

Vedeteli con che premura s'avviano alla Flora. Si direbbero preoccupati di perdere un istante dello svago che li attende; si direbbe che in mezzo a tanto rigoglio di alberi non sorga neppure il ricordo delle cataste di legna che quivi si alzarono in orrendi auto-da-fè; ed al profumo di tanti fiori sentano imbalsamare l'aria, non più pregna dei sinistri vapori delle carni bruciate.

In tre ore diverse del giorno s'andava a respirare [pg!370] a pieni polmoni quest'aria che la città chiusa non dava. Noi possiamo venirvi nelle prime ore del mattino, nelle ultime del giorno, nel principio della sera. Un gentile cavaliere c'invita di mattina: «Venitele a vedere in questo giardino incantato le donne, in questa Flora che non ha la eguale. Esse passeggiano; la bellezza del loro corpo, la grazia del loro atteggiamento fanno di sè pompa naturale. Oh come vi guadagnano esse! Una semplice mussola le copre; il verde degli aranci, l'oro del sole, il bianco delle vesti scherzano con la luce e l'ombra. L'auretta mattutina pare avvivi coi suoi carezzamenti la freschezza della bella tinta. No, non manca nulla all'armonia del quadro!»510.

Torniamo più tardi.

Son ventidue ore: nei quattro viali che circondano in quadro la Villa circolano signori in carrozza. Civili e popolani, palermitani e regnicoli, attraversando i frondosi oleandri che tutta la chiudono in giro, entrano a frotte spargendosi alcuni a sentire la musica, liberalmente legata dal Principe Moncada, altri a numerare i cinquanta busti donati dal Presidente Paternò, o a contemplare la fontana del centro con l'orologio a sole e le vicine edicole di mons. Gioeni, altri infine ad ammirare la solenne posa del Palermo dello scultore Marabitti. Delle sgradevoli figure che in semicerchio, di fronte a Palermo, convulsamente si contorcono, tutti ignorano la ragione. Si chiamavano Scisma, Eresia, Maomettanismo quand'erano a piè del brutto monumento di Carlo III a S. Anna; ma qui davvero nessuno ne comprende [pg!371] il simbolo, specialmente dopo che Marabitti ve ne ha aggiunta un'altra, la Maldicenza.

Due ore son passate rapidamente: e se non fosse il suono dell'Avemmaria, che impone la cessazione della musica ufficiale, non se ne accorgerebbe neanche un annoiato. Meno male che la Villa non si chiude, e vi si può restare ad agio fino a tardi. I soldati di guardia la vigilano d'intorno, e respingono pezzenti, mendici e gente in livrea511. Quattro lioncini voglion farla da vigili anch'essi, ma.... sono di marmo e i due versi latini che il poeta Giuseppe Costa mise loro in bocca:

Adsumus hic vigiles. Florae sunt numine plena Omnia, quae lustrato Tu temerarie, cave 512;

non son altro che belle parole.

La scarsa luce della via Butera finisce in oscurità, fitta nella recente Porta Carolina (Reale), o nella Porta di Greci. La Villa nelle sere buie ha pochi fanali liberalmente apprestati dal Paternò Asmundo; ma di lumi [pg!372] serotini non si ha bisogno quando fin la stessa luna riesce talvolta molesta.

L'eco delle dolci note musicali del giorno si ripercuote ancora, e già d'altre note risuonano luoghi più recessi: tambussio di cembali, mesto pizzicar di chitarre, malinconia di voci argentine, lieto scoppiettar di mani ne prendono, con l'avanzar della sera, il posto. Son le serenate delle comitive dei canterini; è il fruscio delle coppie che ballano; sono gli applausi della folla che ascolta e non sempre vede. Se la luna ci favorisce, noi potremo ravvisare tra essa un modesto abate, la cui canzone:

'Ntra lu pettu nun ci ha cori Cui nun godi la Marina, Cu sta bedda siritina 'Ntra sta Villa chi si fa?

che prima salutò la trasformazione della deserta funerea campagna513, è uscita or ora dalla bocca d'un giovane innamorato alternandosi con le canzonette Lu Gigghiu, A Dori, Li Piscaturi da una donna del vicino viale. Egli, lo schivo Meli, lieto della scena, ricantando a sua volta le lodi della Flora, esclamerà commosso:

La luna manna Li soi amurusi Rai luminusi Pri cui va ddà;

e si rallegrerà di aver veduto

Cui balla e sona, Cui canta e ridi,

[pg!373]

mentre altri sgrana cialde e biscotti ed altri sorbisce gelati514.

Povero Meli! condannato un secolo dopo alla berlina quando la berlina è rimasta solo di nome, lì nella medesima Villa Giulia, in una amara caricatura di statua, che il Municipio avea avuto la infelice idea di far sorgere nella Piazza di S. Teresa, ed il Municipio stesso ha avuto il buon senso di togliere per regalarla o relegarla in un angolo del pubblico giardino. Oh no! il primo poeta della Sicilia non meritava il ludibrio di quel monumento!

Se il chiaror della luna ci favorisce, noi potremo anche discernere lo Scimonelli, che però, men fortunato dell'amico suo, s'avviene in una «comitiva di cattivi dilettanti di canti, che più di una sera fu fischiata», e forte si maraviglia che essa non comprenda, gli applausi del pubblico essere una solenne canzonatura; onde è necessario smettere dallo straziare minerali, vegetali, animali: statue, cioè, piante ed uomini del luogo, dove pure

Li sònura e li canti Piacinu a tutti.... 515.

Questo svago non fu smesso mai per lungo volger di estati: ed i Palermitani attendevano ansiosi la stagione buona per goderselo sempre. E quale svago più delizioso che concerti e canti notturni dei cittadini più abili nell'arte della musica e del canto! Anche fuori di patria essi vi tornavano col pensiero e lo celebravano [pg!374] con le parole. Il barone Forno in Napoli diceva: «Due donne che abbiano sonora voce, cantando l'una e l'altra in terza, ed un uomo che l'accompagni, in voce di basso, cantando, dico, tutti e tre sull'unisono canzonette di gusto, non recan eglino il maggior piacere del mondo, anche oggigiorno (1792), che siamo per così dire sazj di sentire composizioni eccellenti della più scelta ed armoniosa musica? Simili ariette, così cantate, si sentono con gran diletto, tutte le sere estive, nella pubblica Villa di Palermo, e moltissime persone di ogni ceto corrono ad esserne ascoltatrici»516.

Kephalides vi assistette nei primordî del sec. XIX, e «da ogni lato intese chitarre e tamburelli e gran folla di spensierati ballando come pazzi al suono d'un violino e con le mani facendo scoppiettar le castagnette, mentre un vecchio batteva il sistro con le dita coperte d'un grosso ditale di ferro».

Il vecchio è morto e seppellito: il sistro ( azzarinu ) si batte con un ferro; ma la Flora non riecheggia più di cembali, nè di canti, nè di balli, nè di grida di venditori. Il chiasso di chi mangiava e bevea all' Astracheddi517 è appena un ricordo del Meli. Fino i giocatori alle bocce, incomodi e pericolosi ai passanti, sono per sempre scomparsi. Nel 1822 un forestiere trovava già chiusa all'Avemmaria questa Villa Giulia: ed ora, quando il popolo vi accorre numeroso, vuoi di giorno, vuoi di sera, la musoneria ne è sempre la nota dominante.

[pg!375]

Capitolo XXVI.

DIVERTIMENTI A PORTA NUOVA E A ZE SCIAVERIA; VILLEGGIATURA AI COLLI E A BAGHERIA.

Ma non la sola Marina, non la sola Villa Giulia, eran teatri di passatempi e di svaghi.

Un giorno non si sa come e perchè, i Palermitani mettono gli occhi sopra la via fuori Porta Nuova e cominciano ad andarvi, dapprima in pochi, poi in molti. Quanti amano il piacere, nuovo come passeggiata giornaliera estiva, son tutti lì.

E la Marina? La Marina resta quasi deserta, solo frequentata dai signori. Andate a leggere nel capriccio del Palermitano!

La passeggiata fuori Porta Nuova finiva a mezzanotte. Beato chi poteva trovare un posticino nei sedili presso la fontana di S. Teresa! (Piazza Indipendenza). Qualche solitario sognatore di vecchie storie guardando la bella, anzi bellissima sirena della fontana versante dal seno copiosi zampilli d'acqua, avrà riflettuto sulla labilità delle umane cose, e sarà corso col pensiero al primo Marcantonio Colonna, alla più che dolce amica di lui Baronessa di Miserandino, ed alle turbinose vicende di quel marmo, di continuo, secondo i tempi e le esigenze estetiche, spostato da un luogo all'altro, e finalmente [pg!376] allogato qui, donde poi, al domani d'una rivoluzione (1860), doveva passare in un privato giardino518.

Ma il gran pubblico, il pubblico grosso, pensava ad altro, e forse neanche sapeva della passione gagliarda del Vicerè, forte così nella giustizia pei delinquenti come nell'amore della sventurata dama di Palermo. Per esso c'era più gusto a guardare le nuove baracche di frutta, dolci, ed i nuovi caffè, che a contemplare la muta sirena.

Anche qui fu visto aggirarsi il Meli; anzi proprio da lui si è saputo della diversione dalla Marina alla nuova passeggiata (nuova, s'intende, per la forma che pigliava e per la passione dei frequentatori). Fu lui che, cresciuto l'entusiasmo per Porta Nuova, volle andarvi, riandarvi, e cantarla nella vita novella e nel movimento incessante, allegro di coloro che vi si recavano. Fu lui che raccolse l'eco d'un

Coru di strumenti Sunari a tinghitè,

e delle chitarre in mano ai più esperti figari della città; fu lui che assistette alla ressa dei buontemponi, ed allo spensierato gironzolare delle donne nel loro bianco costume di estate; e solo da lui sappiamo:

Ca cui cci va la sira Ddà fora a Porta Nova, [pg!377] Siddu ni fa la prova, Mai si la scurdirà 519.

D'altro lato, non dobbiamo giudicare priva d'un certo gusto la nuova simpatia per la vecchia strada fuori Porta Nuova. Se oggi il Corso Calatafimi è comodo e buono, allora che si chiamava, come ancora volgarmente si chiama, strada di Mezzo Monreale, era anche bello, uno dei più belli dei dintorni di Palermo. Da quella Porta fin sopra i Cappuccini, platani, alvani e pioppi giganteggiavano in doppia fila difendendo dal sole d'estate, dalle piogge d'inverno i passanti. Di tratto in tratto, gaie d'aspetto vi sorgevano ville eleganti, e a distanze regolari fontane di limpide e salutari acque, le quali cent'anni dopo — non un giorno più, non un giorno meno — doveano come impure e non potabili essere sostituite con altre, «dedotte dalle eccelse vette dei Nebrodi» (come dice una sciocca iscrizione testè murata nel prospetto del Palazzo municipale). Ed il popolo, eterno poeta, non impassibile a tanta bellezza di natura e d'arte, cantava lietamente:

Quant'è bedda la via di Murriali! Cci su' li chiuppi ( pioppi ) fileri fileri, E 'ntra lu menzu, li quattru funtani Su' l'arricriu di li passaggeri 520.

[pg!378]

Di là dalla Flora, oltre la Tonnarazza ed il Ponte di S. Erasmo, a Romagnolo era Zè Sciaveria, altra delizia palermitana. Zè Sciaveria (zia Saveria) era il nome della intraprendente donna, ch'ebbe il coraggio di convertire la solitaria spiaggia in ameno ed elegante ritrovo. Nulla di simile si era saputo ideare in città; e della città esso raccoglieva il meglio delle trattorie e dei caffè, senza essere nè trattoria nè caffè, o dell'una e dell'altro partecipando. La novità della impresa, l'amenità del sito, fronteggiato a sinistra dalla silhouette del Pellegrino, lambito di fronte dalle ondicelle del golfo, guardato a destra dalla batteria del Sacramento, dalla torre dei Corsari, dal Castello di Ficarazzi, che guida l'occhio verso la montagna di Solunto, e dietro ed intorno coronato dai monti Grifone, Gerbino e Gibilrossa, ne facevano la grande attrattiva giornaliera d'ogni persona che avesse voglia di passare qualche ora divertita.

Non era nata ancora ed era già celebre, ed a frotte vi andavano d'ogni classe persone; giacchè Zè Sciaveria era un posto buono per tutti. Poeti superiori come il Meli, mezzani come il Melchiore ne decantavano le maraviglie; questi, anzi, inventava una favola per provare che il sito avesse avuto origine divina, giacchè Encelado, sopravvissuto ai giganti subissati da Giove, venne a nascondersi presso Mostazzola, amò la Saveria, che durante tremila anni rimase incinta e diede poi [pg!379] in luce un nanerottolo, padrone di questo luogo, uomo che avea mente e pensieri da re.

Codesta allusione, in mancanza di notizie particolari, fa supporre aver avuto la Saveria un figliolo forse gobbetto: e così sarebbe spiegata la fortuna insolita del caffè-ristorante, come oggi si direbbe, o della elegante taverna od osteria, come si diceva allora,

E chi ha nobilitatu sta cuntrata: 'Nfatti Dami, prelati e Vicerrè Vennu ogni jornu a fari passiata; E tanti e tanti senza li stestè 521Vennu ccà apposta, lassannu la Flora, Sidennu a sti puliti canapè. L'occhiu guarda lu mari e si ristora, Godi vidennu culonni e perterra, Orti, muntagni e la citati ancora 522.

Meli conferma la inusata eleganza del nuovo posto nei tanti

Gran cornacopj, Specchi e lumeri, Ed autri mobili Di cavaleri;

donde il favore, non solo dell'aristocrazia, ma anche d'ogni altro ceto. L'accorta padrona avea fatto le cose bene: larga réclame per la città; tende pel riparo dei signori e civili che si recassero da lei; tavoli illuminati da due candele, ciascuno per le singole famiglie che volessero divertirsi; per i villeggianti dei dintorni, ai [pg!380] quali non era proibito di accedere «coi reciproci galanti», e per chi volesse andarvi da Villabate, S. Cataldo, Mostazzola, Torrelunga. Zia Saveria era donna che la sapeva più lunga di qualsiasi altro commerciante di Palermo, e basta dire che, esempio unico nel genere di industria, faceva ordinarî trattenimenti di musica, al suono dei quali

Si balla e canta, Si canta e vivi,

o meglio vi si passa tra

Balli e tripudj, Sàuti a muntuni, Favuli e brinnisi Soni e canzuni 523.

Ora, dopo cent'anni, solo il nome rimane della divertente contrada, ed un documento di soggiogazione nell'Archivio del Comune524. Ma sul vicino scoglio echeggia la dolcissima canzonetta del Meli:

Supra lu scogghiu Di Mustazzola L'àipa vola, L'alba si fa!

[pg!381]

La città non bastava a chi avesse modo di procurarsi agiatezze e svaghi; ci voleva qualcos'altro fuori, nelle campagne dei dintorni. La povera gente ci andava (come ci va sempre) nelle tanto attese ricorrenze festive di Madonne e di santi, e nel calore della scampagnata consumava il guadagno d'una intera settimana, quando il guadagno l'aveva, o quando i pochi tarì ottenuti al Monte di Pietà dando in pegno un soggetto qualsiasi di casa, glielo consentissero. La quale risoluzione pratica non si arrestava in essa, ma passava ed estendevasi in un ceto meno modesto, quello di certi impiegati e di piccoli trafficanti, ai quali non sembrava vero di poter fare uno strappo all'abituale parsimonia della vita. Per costoro non ricorrevano invano le biennali quarant'ore del 14 settembre a Monte Pellegrino, il festino del 3 di maggio e le quinquennali dimostranze di settembre in Monreale o in altri siti, come una volta le feste di Maredolce e di Baida, la cui proverbiale Calata ha anche oggi la somigliante in quella del Pellegrino.

Senza aver sostenuto fatiche di corpo, e perciò senza un pressante bisogno di rinfrancarsi, rompendo la monotonia della vita cittadina forse perduta, i nobili cercavano nella campagna semestrali ricreazioni. Con le sue agiatezze e coi suoi ozî beati la campagna non era se non la continuazione della città. A Mezzo Monreale, ai Colli, a Bagheria essi andavano con la famiglia; [pg!382] e lungo stuolo di amici, di aderenti, di familiari li seguivano. Tra le varie ville come tra' varî palazzi aveano ben da scegliere. A guardare oggidì i palazzi magnatizi di Calvello, di S, Giuseppe, di Guggino, di Maletto, di Tommaso Natale, di Pantelleria ai Colli, e quelli innanzi ricordati525, si rimane stupiti della sontuosità di essi. L'architettura del tempo vi spiegò tutti i suoi capricci di scale esterne e di appendici ornamentali. La ricchezza vi tenne una corte di casette basse per la servitù, sulle quali signorilmente levavasi l'edificio superbo. Quanto la vita moderna possa immaginare di confortevole era apparecchiato con particolarità che rispondevano alle ricercatezze, ai gusti più delicati. Oh no! non erano solo gli Agrigentini che fabbricavano come se non dovessero morir mai e mangiavano come se dovessero morire il domani!

Mentre le strade carrozzabili erano scarse come le cose buone, una, conducente ai Colli, non mancava (1768); alla quale poteva accedersi anche per quella del Mulino a vento (Corso Scinà) uscendo da Porta Maqueda dopo il taglio del baluardo di questo nome (1780).

Bagheria era per l'alta aristocrazia di Palermo quello che per l'alta aristocrazia di Roma i Castelli. I grandi signori della Capitale siciliana vi aveano ville magnifiche, anche superiori ai palazzi loro in città. Giganteggiava su tutte quella di Butera, a cavaliere del nascente sobborgo. Grandeggiava sulle cospicue quella di Valguarnera; delirava sulle strane l'altra di Palagonia; e, sontuose [pg!383] tutte, quelle dei Principi della Cattolica, di Cutò, di Rammacca, di Campofranco, del Duca di Villarosa, del March. Inguaggiato, del Conte di S. Marco e di altri signori. Sdegnato della Corte, o sdegnoso di cortigianerie, verso gli sfruttatori Vicerè stranieri, dignitosamente ritiravasi nel suo nuovo palazzo nella seconda metà del sec. XVII, D. Salvatore Branciforti, Principe di Butera, e sul frontone, a lettere cubitali voleva scolpito: O Corte, addio, e dentro, i versi spagnuoli:

Ya la speranza es perdida Y un sol bien me consuela, Que el tiempo, qui pasa y buela, Lleverà presto la my vida 526.

Cento e più anni dopo (1797) il Principe Ercole Branciforti Pignatelli, sull'ingresso della Villa alzava «per novità di sua grandezza» un monastero di trappisti, nelle cui cellette, monaci in cera rappresentavano varî momenti della vita claustrale. Sa egli il lettore raffigurare quei due solitarî così pieni di sentimento reciproco? Sono un giovane e una ragazza, i quali, ignari l'uno dell'altro, dopo una vita tempestosa, perdute le speranze di congiungersi, nel mondo han vestito il bianco saio. I visitatori li chiamano ancora Adelaide e Comingio, e ne raccontano le avventure secondo il commovente romanzetto onde tanto si deliziavano giovani e vecchi. In altra cella son le figure di Don Ercole e di Ferdinando III, entrambi camuffati da monaci [pg!384] che giocano a carte. Ritratti più fedeli dei due personaggi non offre nessun monumento della Sicilia. Nelle frequenti visite fattevi col Principe di Butera dal 1799 in poi, S. M. riconosceva siffatta somiglianza, e non poteva trattenersi dal ridere vedendosi convertito in trappista, lui così acerbo nemico del silenzio, rumoroso nel parlare, sghignazzante nel ridere.

Idillio perpetuo di anime innamorate, la villa Valguarnera era la reggia tra le case principesche della verde vallata. I padroni vi tenevano corte bandita di cavalieri e di dame, di amici e di vassalli, di servitori e di valletti, ai quali offriva comoda residenza in ampie stanze, grandi saloni con quadri, pitture ed ornamenti, un teatro artisticamente decorato ed orti e frutteti e boschetti e giardini pensili e logge e cortili e fonti e statue e quella Montagnola che è la più deliziosa delle colline, il più giocondo asilo della pace e della poesia. Man mano che si va su pei larghi avvolgimenti di quella vetta, l'occhio si perde, tra i due promontorî, nella vista del mare turchino, nelle lontananze cerulee, nelle varietà di colori distribuiti su ruvidi macigni, e di fughe e degradazioni di luce per valloncelli e falde e costiere; e nel salire un amorino impone col dito sulle labbra silenzio; un genietto ti sorride lietamente, una Diana ti invita alla caccia, una baccante ti danza e un Polifemo fistoleggia quasi per farti cantare l'arietta del Metastasio scolpita ai suoi piedi:

Se scordato il primo amore.... 527

[pg!385]

A tanta profusione di ornamenti e di doni di natura il gusto dei patrizî spese tesori. Gli artisti più illustri vi tornarono sempre, chiamati a gareggiare di affreschi, di tele, di sculture, di ornati, che attestavano non solo il merito loro, ma anche il senso squisito dei signori che li chiamavano e largamente li retribuivano.

«Ma oh! quale contrasto all'atticismo della Valguarnera è la farnetica villa di Palagonia!» esclamava Rezzonico della Torre un giorno che recavasi a Bagheria insieme col Pretore di Palermo Duca di Cannizzaro, col Principe di Grammonte cognato di lui e col Duca Calvello (19 agosto 1793).

La triste fama di essa gli era giunta a traverso le pagine quasi incredibili dei viaggiatori che l'avean preceduto. Egli conosceva Brydone e Riedesel, Houel, de Saint-Non, e forse de Borch e Bartels. Ma il Cannizzaro ne ricordava altri, e più d'una volta avea sentito raccontare del gentile Vicerè Caramanico, — che avealo tenuto a pranzo, — d'un valente poeta e naturalista tedesco, il quale pochi anni innanzi vi si era fermato pieno di sbalordimento, ripetendo non si sa che frasi di sdegno e di orrore. Evidentemente parlava di W. Goethe, recatovisi nella primavera del 1787528.

Ora la fama era inferiore al vero circa i mostri della villa. Rezzonico trovava il viale spogliato di moltissimi gruppi e busti e vasi che preludevano a quelli fiancheggianti all'abitazione. Erano stati 200 e ne trovava [pg!386] appena metà, che riddavano all'occhio e alla fantasia di chi li guardasse.

«Sembravami il castello di Circe o di qualche fata, che di lemuri, di larve, di farfarelli popolando loggie e tetti ed archi e viali godesse atterrire, deludere, affascinare i pellegrini con istrani ludibrj infernali, ed apparenze grottesche di uomini, di animali e di mostri insieme accoppiati e misti. Qui vedi sopra un sol corpo annestate più teste umane e ferine, ciclopi non solo triocoli ma sestocoli, orecchie d'asino, di capra, di cinghiale e tempie d'uomini affisse, demoni che abbracciano streghe o suonano violoni, e vanno imbacuccate di larghe parrucche e di folte ricciaje anuti, cercopitechi, policefali, gerioni e pagodi indiani...»529. E se hai forza di resistere, vedi un uomo che cammina su due teste e sopra un piede, con occhi sul collo; e una testa collocata a mezzo lo stomaco, e una testa di toro sul corpo di un uomo appoggiantesi sulla coda d'un pesce530.

Completava tanta aberrazione di spirito del fondatore Gravina e del suo discendente Ferdinando juniore la palazzina, nella quale di sopra, di sotto, di fronte, ai lati, di dietro sei immensurabili specchi milliplicavano capovolti i visitatori e le visitatrici, con effetti indecenti. La fantasia e la mano di cento artisti e di cento artigiani erano state esaurite nelle multiformi decorazioni interne arrampicantisi su per gli angoli delle pareti, per gli stipiti delle aperture, fino alle volte, tempestando di rabeschi disordinati, di frutti e conchiglie [pg!387] sciupacchiate in mostriciattoli paurosi, il più piccolo spazio che rimanesse libero. V'eran sedie di inestimabile valore, di dorature eleganti e di marmi torno torno al soffice piumaccio: chi spensieratamente vi si adagiasse, sentiva spilli ed aghi acutissimi.

Centomila scudi furon buttati in tanta follia: e quando l'opera parve compiuta, il Principe Ferdinando non cessava di ripetere soddisfatto «di avere avuto al mondo l'abilità di dar supplemento alla creazione degli animali lasciata imperfetta da Domeneddio»531; ciò che dava piena ragione al Meli di comporre l'arguto epigramma:

Giovi guardau da la sua reggia immensa La bella villa di Palagunia, Unni l'arti impietrisci, eterna e addensa L'aborti di bizzarra fantasia. «Viju, dissi, la mia insufficienza; Mostri n'escogitai quantu putia; Ma duvi tirminau la mia putenza, Ddà stissu incuminciau Palagunia» 532.

Eppure quelle statue, parto di menti inferme, chi sa non debbano, nel concetto creatore, raffigurare dei nobili contemporanei, tra' quali la misantropia o la stravaganza dei Palagonia non trovava comunione!

Durante la villeggiatura, gli annoiati della vita cittadina ricevevano in queste loro reggie; e l'abituale splendore della città sfoggiavano pure nei lauti pranzi, nelle brillanti conversazioni, nei giuochi arrischiati, nei [pg!388] passatempi cavallereschi. Pei giardini, per le tenute pare ancor di sentire l'eco tarda ma sempre lieta del nitrir dei cavalli, del sonare dei corni, dell'abbaiar delle mute, del richiamo dei bracchieri e dei fischi e bussi delle battute di caccia, come delle sonagliere dei cocchi principeschi, al chiudersi del secolo, superbi della presenza di Re Ferdinando.

FINE DEL VOLUME PRIMO