MILANO 1877

PRESSO Carlo Barbini EDITORE

Via Chiaravalle, 9

INTRODUZIONE

Uno Stato che, dopo aver raggiunto, quasi potrebbe dirsi, un primato di prosperità, di floridezza e di coltura, si arresta improvviso, tentenna, si sconnette, perde finalmente tutto quanto aveva acquistato con un lavoro assiduo di mezzo secolo; nè solo perde ciò che possedeva di bello e di grande, ma cade nel più profondo della miseria e del languore; questo Stato, io dico, presenta senza dubbio uno spettacolo troppo degno che alcuno vi si fermi coll'attenzione; e tanto più in quanto contemporaneamente e nel medesimo paese, un'altro Stato raccogliendo gli effetti del lavoro di più secoli, e per l'impulso speciale e potente d'un uom solo, si porta invece di tratto al più alto punto della civiltà, e veste uno splendore ed un lusso, dirò quasi, festoso e tripudiante.

Quest'epoca e questo paese, in cui succedono due fatti così opposti, offrono un bel materiale d'operazione allo storico ed all'artista. Allo storico per l'indagine sagace delle cause, per la stima sapiente degli effetti; all'artista per quel forte contrasto d'elementi, di figure, di passioni, di tinte da cui, quasi sempre, suol scaturire il bello delle opere d'immaginazione.

Però codesto tratto di storia è l'argomento che sarebbe piaciuto poter sviluppare intero nel presente lavoro: Milano e Roma, le due prospettive da colorirsi a quelle così opposte intonazioni di tinte. Milano co' suoi duchi scaduti, viene a trovarsi implicata colla Francia, il suo re battagliero, i suoi luogo-tenenti crudeli; Roma e il magnifico suo pontefice che sono intesi a spegnere la folla dei tiranni nella media Italia, obbrobriosi per delitti e atrocità d'ogni maniera; nel mentre questi, aiutando Francia per tenersi forte contro il pontefice vengono a concorrere alla rovina del Milanese, fintantochè, percossi da Roma più potente, lascian nudo un fianco alla Francia, e Milano, giovata da quest'ordine di cose, da Roma, dalla lega, può riaversi un tratto da quel duro e atroce regime.

Dramma a larghissime dimensioni, nel quale più Stati son le figure colossali che aggruppano il nodo e s'affaticano allo scioglimento.

Se non che, trattandosi di un'opera d'immaginazione, in cui la materia storica dev'essere così stemprata nel diletto, che facilmente venga digerita anche dalle più gracili intelligenze, conveniva diminuire le troppo ampie dimensioni coll'accostare la periferia più che fosse possibile al centro, adoperando per altro di maniera, che se ne conservassero intatte le proporzioni relative; conveniva insomma far quello che fa la camera ottica, la quale, su d'una piccola tavola, raccoglie ciò che appena potrebb'essere contenuto da uno spazio di migliaia di metri.

A far questo era indispensabile un punto, che porgesse il mezzo di congiungere senza soverchia fatica, e, quel che più importa, senz'artifizio troppo palese, tutti gli elementi così lontani tra loro e così disparati; cosa che non sarebbe stata difficile qualora, camminando suite solite orme, si fosse voluto introdurre un personaggio ideale, e dare a lui l'incarico di guidare i lettori nella via della storia, e di connettere le cause e gli effetti de' più notabili avvenimenti.

Ma essendosi l'autore intestato che il protagonista avesse ad essere propriamente storico, se ne sarebbe al certo rimasto co' suoi desiderii, se la storia medesima non si fosse, a dir così, espressamente adoperata per mettergliene innanzi uno che a farlo apposta, non poteva per certo riuscir migliore.

Questo è il Manfredo Palavicino, giovane patrizio milanese, del quale l'ingegno e l'animo forte, le svariate vicende della vita e l'ultime sventure, porgevano senz'altro aiuto, abbastanza da fermar l'attenzione anche de' più indifferenti e svogliati.

Appartenendo esso alla classe de' patrizii, sebbene avverso al loro partito, ci porge tuttavia il mezzo d'investigare quanta parte avesse quel ceto nel complessivo risultato storico rispettivamente alla Lombardia nel secolo XVI.

Avendo, per essersi incontrato nella figlia del signore di Bologna, contratte relazioni e nimicizie ed odii con taluno che dominava nella media Italia, ne fa conoscere in parte la condizione, gli usi, gli abusi; ne conduce finalmente a veder Roma, la città eterna, dove per assai tempo ebbe a fermare la sua dimora.

Nemico alla Francia, e da lei assiduamente perseguitato, caldissimo fautore di Francesco Sforza e a lui carissimo, ne mette in bella luce le virtù di questo, ne fa conoscere l'ingiustizia di quella.

Sovrattutto parve all'autore, dopo aver tentato i segreti della storia, riuscisse sovramodo interessante il gruppo di quei tre personaggi Palavicino, Ginevra Bentivoglio, Sforza, perchè in quel loro incontro, nello stesso luogo e nel medesimo tempo, in quella parità di giovinezza, in quell'associazione di vita e di comunanza d'interessi, (comechè breve e lontana sia l'opera dell'ultimo di essi), in quel forte legame d'amore, a non voler star paghi del nudo fatto e della semplice cifra, gli sembrò vedere qualche cosa più di un puro accidente, ma alcun che invece di altamente prestabilito, ma una mano, provvida e sapiente che avesse espressamente gettate nel mondo e aggruppate quelle tre creature, perchè nel mentre avevano a soffrire per le colpe dei loro padri e della loro classe, ne fossero in una volta l'espiazione e la riparazione potente.

In questi tempi, in cui la fantasia stranamente prodiga di taluno de' nostri vicini d'oltremonte è usa imbandire così laute e forse indigeste mense alla folla incontentabile, ed a stordire il lettore nella sua noja più forse che ad appagarlo nelle sue pretese, lo trascina, quasi potrebbe dirsi, a coda di cavallo, sul popolato campo della vita attuale. In questi tempi che i labbri, viziati dagli spiritosi e forti liquori, facilmente fastidiscono ogni altra bevanda che loro sia porta, è ardua cosa assai il gettare alle moltitudini un libro qualunque esso sia.

Però l'autore non può dissimulare l'insolito timore dal quale è preso nel pubblicare il presente.

Di sè, dell'opera propria ha sempre dubitato e dubita tuttavia, con sensibile stringimento dei precordi, non tanto però quanto dell'inesorabile pubblico. Di questo pubblico sazio dall'abuso, indifferente, svogliato, e per nulla disposto a sperar bene di un lavoro che sia fatto da italiano, stampato in Italia, trattante italiane cose, e che lasciando il presente, benchè senza mai dimenticarlo, risalga al passato.

Ad ogni modo il libro è questo. L'autore vi si è applicato con amore, che nel corso dell'opera talvolta fu più, talvolta fu meno, talvolta eccessivo, talvolta anche nullo; ne ha concepita inoltre qualche speranza che comparve, disparve e ricomparve coll'assidua intermittenza delle febbri terzane. Ora quel che ne attenda, non saprebbe dir con certezza. Il lettore ci provveda, provvedeteci voi, amabili leggitrici, e perciò vogliate ascoltare una parola ancora.

Se talvolta facendo la via per certe aride steppe, l'ambio della cavalcatura fia per esser lento qualche poco, procurate rintuzzare il soporifero della noja, rintuzzarlo confortandovi nel pensiero che verrà il tempo delle corse affannate, delle aspettazioni ansiose, delle scosse non attese, dei forti affetti, e degli angori, più dell'acre cipolla, formidabile ai vasi lacrimali; e che forse anche dopo caduto il libro dalle mani vostre, le oscillazioni vorranno continuare per qualche poco ancora.—L'autore lo spera—Sperate anche voi.

PERIODO PRIMO

CAPITOLO PRIMO

Quel canto della contrada delle Ore, ove alzando un tratto lo sguardo, si ha il vantaggio, di vedere un lato della chiesa di s. Gottardo e la torre del suo famoso orologio, che è sempre un buon pezzo d'architettura, non fu mai, a nessun'epoca, oggetto di molta attenzione; ed è in questa parte, dove la massima noja viene oggidì ad assalire il granatiere del corpo che vi passeggia a guardia; soltanto trecentoventinove anni or fanno[*], il giorno de' santi Cornelio e Cipriano, che cadeva allora al tredici settembre, la parte di popolazione che poteva reggersi sulle gambe, passò quasi tutta per di là, a gettare un'occhiata ben attenta a quell'angolo che in quel dì ebbe un successo, quale non ebbe a vantar mai nè prima nè dopo. A quel canto si vedeva bensì un'immagine di Maria Vergine, che ora non c'è più, dipinta piuttosto male da uno scolaro di Luino per mezzo scudo del sole, con innanzi due torchietti sempre accesi e due vasi di fiori sempre freschi, alla cui conservazione e spesa tanto ordinarie che straordinarie sopratendeva il barbiere che vi avea bottega lì presso. Del resto non offrendo allora quel luogo nulla di diverso da quanto possa offrire oggidì, si poteva ragionevolmente maravigliarsi vedendovi una così gran moltitudine ferma ad osservare, non potevasi congetturar cosa. Ma nella notte prima, quando battevano le sei ore appunto all'orologio di San Gottardo, un gentiluomo, accompagnato da un suo famiglio, era stato colà assalito da quattro soldati con spadoni e pugnali; il gentiluomo n'era rimasto affatto affatto illeso; e i quattro assassini, inseguiti, agguantati, percossi, e strettamente legati dalle guardie svizzere dell'eccellentissimo duca, erano stati condotti in castello. Avvenimento che da tutti era qualificato per un vero miracolo, la cui spiegazione non poteva esser difficile, per essersi commesso l'attentato sotto gli occhi medesimi della Vergine Santissima.

[*] La prima edizione della presente storia fu pubblicata nel 1845.

La folla aveva cominciato fermarvisi, a che appena suonava la prima avemmaria in Duomo, e cambiata e rinnovata, è impossibile dir quante volte, vi stava stipata or tuttavia che i monsignori nella sagrestia orientale s'adattavano in fretta la cappamagna, battendo in quella gli ultimi tocchi de' vespri; trattavi anche allora, come sempre, da quella specie d'istinto pel quale ci sembra che la presenza del luogo ov'è avvenuto un gran fatto ci aiuti a ricostruircelo in mente, anche senza esserne stati testimoni, e malgrado il silenzio delle muraglie. Del resto, ad un simile silenzio s'affannava in quel giorno di soccorrere l'eccessiva loquacità del barbiere, il quale, fin dalla notte, s'era, al rumore insolito, affacciato alla finestra, aveva anche esso data una voce, aveva veduto e traveduto; all'alba, chiamato giù dagli avventori che lo martellarono di domande, aveva saziata la curiosità loro; interrogato poi da tutti quanti passavano per di là, s'era assunto l'ufficio di narratore, e quelle cinque o sei frasi, nelle quali stava racchiusa tutta la storia del fatto; le aveva quel di repetute, non si può calcolare quante centinaia di volte.

E anche in questo momento che continuavano i tocchi della campana de' vespri, stava intertenendo dell'avvenuto due o tre che attentamente lo ascoltavano.—Ecco, qui, diceva, quando mi sono affacciato col lampione, gli assassini fuggivano per di qui, e i due soldati della guardia venivan già loro alle coste molto bene, intanto che sei o sette labarde del duca correvano a furia dalla piazza. Il marchese stava fermo a questo posto, lo vedete… a questo posto qui dove son io; teneva ancor sfoderata la spada, e dicendo al famiglio che cessasse ormai dal gridare tant'alto, che più non era bisogno, rideva vedendolo così fuori di sè; ma colui era tanto scalmanato che non l'udiva nemmanco, e continuava a mandar grida.

—E tu cos'hai fatto allora?

—Per me non sarei già disceso, cari signori; ma quando m'accorsi ch'era il Palavicino, gli diedi una voce e dissi: Signor marchese, si faccia coraggio! e venni abbasso e uscii sulla strada. Dico al marchese: Fate a modo mio, bevete un bicchiere di Monterobbio, che ne ho ancora una botticina per fortuna… e so cos'è spavento…. A queste mie parole lui s'è messo a ridere… e….

—Diavolo… volevi che si sconciasse per sì poco uno che fu alla battaglia di Ravenna e di Novara?

—In quanto a questo avete torto, chè la guerra è tutt'altro gioco…. Ma, come dicevo, lui s'è messo a ridere e mi prese la mano, già sapete quanto è affabile quel signore, e mi fece tenere un mezzo ducatone, che è questo qui che vedete, ancor nuovo di zecca, e mi disse: Il Monterobbio lo berrete voi. Dopo si volse un tratto all'immagine della Madonna, e levatosi il berretto, mi parve dicesse delle divozioni, e subito dopo tornò a Palazzo.

A questo punto pareva che il barbiere avesse finito di parlare, ma si volse in quella ad un altro.

—Vorrei mò sapere precisamente, diceva quel tale, come fu codesta storia di jeri notte?

—Ecco qui; quand'io mi sono affacciato gli assassini fuggivano….

—Oh, basta! entrarono allora a dire ad una voce molti borghesi, che quella storia l'avean già sentita a ripetere più di tre e più di quattro volte. Di questo ne sappiamo assai…. Adesso sarebbe una gran cosa il poter sapere chi ha pagati i sicarj….

—Questo è bene quanto vorrei sapere anch'io; ma… fammi indovin….

—Io l'avrei bene il mio sospetto.

—Sentiamo, sentiamo, sentiamo.

—Siccome ognun sa i brutti guai che intervennero fra il giovane ed il vecchio marchese suo padre, e in che duro modo esso abbia cacciato fuor di casa il flgliuol suo, e che anche adesso lo vorrebbe morto, tanto è trasportato dall'ira, perchè sia così stretto amico dello Sforza, pensando poi che domani il giovane marchese sarà a combattere contro i Francesi, pe' quali il pessimo vecchio darebbe l'anima, così crederei….

—Oibò, oibò! che dite mai?… un padre?… Ma un padre può bene far tutto che vuole, non mai attentare alla vita del proprio figliuolo…. Oibò!… che diavolo avete detto?

—Ma cosa so io?… se ne odono di così strane a' nostri di, che….

—No-no-no, entrò a parlare un terzo, che s'era allora allora accostato al crocchio, e al quale tutti fecer largo; Carl'Ambrogio ha parlato bene…. Un padre, per quanti dispetti possa avere, non si attenterà mai di fare una così infame azione. Sapete piuttosto cosa sarà?… Sarà, che siccome a' Francesi è noto che il Palavicino è caldo amico dello Sforza, e che la sua buona spada pesa per dieci, e va poi innanzi a tutti nell'odiar loro, così crederei….

—Oh questa è grossa, è grossa, il mio caro Burigozzo.

—Ma lasciatemi dire.

—Ho compreso bene, non si sbaglia; ma è grossa, torno a ripetere. Se dà la sorte, i Francesi che voi dite non san forse nemmanco che esista il marchese. Il marchese è noto qui fra noi, perchè semina, come suol dirsi, i ducati per le contrade. È noto pei grossi guai che ha detto qui Carl'Ambrogio, per le tante lagrime che è costato a quella cara donna di sua madre, la quale avrebbe avuto a ringraziar Dio se fosse caduta morta il dì stesso che andò sposa del vecchio marchese: per queste cose dunque esso è noto fra noi; ma fuori del Ducato chi volete che sappia nulla di tutto ciò? E i Francesi?… Ma posto anche che i Francesi conoscan lui, com'io conosco voi…. e così…. che credereste?… potrebbe lor forse dar ombra codesto giovane, per quanto sia buona la lama della sua spada?…. È grossa, insomma; è grossa, e non mi par vero che abbiate parlato voi!

Facendo questi e simili discorsi quelle tre o quattro persone, passo passo, allontanandosi da quel luogo, trassero sotto la piazza del duomo, attraversata la quale, si ridussero verso al portico de' Figini, dove tornarono ad unirsi in crocchio permanente innanzi ad una bottega di merciaio.

Se un pittore, al quale un comittente, buon amico de' tempi andati, desse a ritrarre in tela una radunata di popolo nel principio del secolo XVI sulla piazza del duomo, si credesse, senza passare più in là, di poter rispondere al bell'assunto, col fare il suo bozzetto ritraendo la piazza quale si presenta oggidì, farebbe assai male le cose sue.

Nè basta che anche in oggi sia quell'area medesima di tre secoli fanno, quel medesimo duomo; quel portico, quel palazzo ducale istesso. La mano del tempo, quella degli uomini, il progresso, e talvolta, se pur vuolsi, il regresso, coll'assiduo mutare e rimutare, tanto e poi tanto vi ha tolto ed aggiunto, che se il buon Burigozzo, che noi abbiam veduto ridursi alla sua bottega, tornasse, per un miracolo, tra' vivi, assai penerebbe ad orientarsi.

Quella gran macchina del duomo incompiuta, coperta di tanti impalcamenti quante sono adesso le sue guglie, era tale ormai che già faceva inarcar le ciglia di stupore a' riguardanti; ed anzi non dando luogo a determinare precisamente, per la sua imperfezione medesima, quel che ne sarebbe riuscito, condotta che fosse all'ultimo termine, faceva che nella fantasia degli spettatori, come suole avvenire, più ancora se ne ampliassero le già colossali dimensioni. Nè la natura e più che tutto la forma degli edifizi che le stavano intorno contrastavano a quella gotica mole. Il portico de' Figini, surto da quasi due secoli, non presentava quell'incomportabile miscuglio d'architettura che tanto offende oggidì. Su quelle colonne, su quegli archi a sesto poggiava un sul piano di case co' finestroni di forma al tutto gotica, ornati di pietre cotte ad arabeschi e aventi nel mezzo una sottile colonna sulla quale si congiungevano due piccoli archi; tutta quella parte d'edificio che dalle colonne s'innalzava al tetto, per la forma, per gli ornati, per la tinta di un rosso fatto cupo dal tempo, rendeva immagine press'a poco dell'odierna facciata dell'Ospedal Maggiore. Rimpetto al portico dove or sorge quel rozzissimo corpo d'edifizi, senza un colorito al mondo nè di tempi, nè di civiltà, nè fosse pur anco di vetusta barbarie, l'area era allora affatto sgombra, e soltanto sorgeva qui e colà alcune trabacche, le quali per altro non impedivano che l'occhio da quel lato spaziasse per un ambito infinitamente più ampio che non sia oggidì, e per cui tutto si vedeva il palazzo ducale, d'architettura gotica esso pure, esso pure contesto di pietre cotte, alle quali il tempo aveva dato quella tinta severa, che segna, se può passar l'espressione, l'aristocrazia degli edifizi; archi a sesto acuto in fila, finestroni larghi, alti, a due archi, ad ornati arabeschi. Stemma visconteo e sforzesco in vetta a tutte le porte.

L'uniformità dunque dell'architettura in due distinti edifizi che sorgevano accanto al duomo, la loro tinta severa era ben lontana dal produrre quella sensazione disgustosa che oggi per avventura può nascere in chi stia contemplando quel pensiero sublime, gigantesco, incomparabile del tempio, in mezzo alle tante incompatibili, dirò, sgrammaticature che gli stanno intorno.

Un altro edifizio poi concorreva col resto a far sì che la piazza si mostrasse allora con aspetto sì diverso da quel d'oggigiorno, ed era la chiesa di santa Tecla, l'antichissima ausiliaria del maggior tempio milanese, la quale gli sorgeva quasi di fronte e guardava colla facciata la strada Marzia che le si apriva rimpetto.

E quale all'epoca, a cui ci troviamo, presentavasi la piazza, si può anche dire si presentasse la città, su la cui faccia architettonica, parlando de' principali edifìzi, v'era un colorito di età e di grandezza che presso noi è al tutto scomparsa. Ad onore del vero si ha a dire bensì che immensamente ha guadagnato in quanto a comodo ed a pulitezza; e come potrebbe essere altrimenti? che scomparvero quelle vie bistorte, quelle fronti mostruose di case, gl'impuri angiporti, le corrompenti chiaviche, le lobbie, i cavalcavia, le bicocche, le impalcature che allora la deturpavano; ma con queste quante altre cose scomparvero! Quanto ha perduto in faccia all'arte, in faccia alla storia! A vederla com'è oggi, sembra in tutto una città surta da ieri; per conoscere la sua vita è mestieri ricorrere al volume, nè per richiamarsi in mente le sue epoche memorabili non basta un colpo d'occhio che si getti su lei da qualche eminenza; tutto fu raschiato via, parrebbe a bell'apposta, dagli artistici pregiudizi, costringendola, direi quasi, a far la figura d'un patrizio, il cui nome per demeriti siasi voluto scancellare dal libro d'oro.

E almeno si fosse atterrate le vecchie cose incuriosi delle memorie venerabili che loro erano state commesse, per lasciar modo all'arte di tentar nuovi campi; e all'epoca nostra di vestirsi di forme tutte proprie. Ma le cose di un'antichità a noi più vicina parvero incomportabili appunto, pel desiderio di riabilitare le linee di duemila anni fa.

Del rimanente contagio è codesto comune a quasi tutta Europa, e con tante istituzioni e che so io, si è giunto ovunque a rendere di un calore uniforme i prodotti delle varie intelligenze. I guardacosta del preteso buon gusto, più oculati di un assistente di dogana, vegliano assidui sui contrabbandi delle fantasie d'oggidì; immobili come un dio termine, incorruttibili come la sentinella che mise la baionetta alla vita di Bonaparte, gridando tuttodì all'umano ingegno: On ne passe pas —di qui non si passa.—Almeno fossero stati tenaci di questo sistema, anche allorquando trattavasi di lasciar com'erano le cose vecchie nelle quali la storia era inviscerata; ma per una strana combinazione allora appunto se ne dimenticarono; però sarà ottima cosa che noi lasciamo in pace i presentì e ritorniamo tra quel crocchio ormai numeroso che sta fermo innanzi alla bottega del merciaio Burigozzo.

Costui, a que' tempi assai lontano dal sospettare che l'immortalità sarebbesi preso l'incomodo di prender nota del suo nome, e ch'egli trasportato dalla corrente degli anni, sarebbe disceso giù giù insino a noi in compagnia di molti illustri, non era allora cospicuo che per una insaziabile curiosità di conoscere i fatti altrui, e una disposizione infaticabile a cicalare ed a fiscaleggiare il terzo e il quarto per raccogliere le notizie esatte di quanto avveniva in Milano. Tutte qualità che ad un occhio avvezzo avrebbero potuto rivelare uno storico; ma inallora il suo genio se ne stava latente nell'involucro adiposo della sua bassa persona che egli aveva il costume di dondolare ogniqualvolta stesse a dare od a ricever parola da qualcheduno. La sua loquacità poi veniva mantenuta ed accresciuta dall'utile che in linea commerciale egli ne traeva, giacchè i molti suoi avventori una volta che si ponessero a sedere alle tavole collocate ai lati della bottega, non sapevano staccarsene così facilmente, per la qual cosa allorquando, alla Torre de' Mercanti suonava la grossa campana delle quattro ore di notte egli si trovava aver vuotate molte pinte d'acetosella e d'acquavite, giacchè è a sapersi ch'eran molti i generi di commercio che si vendevano in quella sua bottega, e alla vendita del frustagno, del bucherame e delle stringhe soprintendeva l'attempata sua moglie cui la natura era stata liberale come a lui, del dono invidiabile della parola.

Ritornato adunque che fu il Burigozzo alla sua bottega, intanto che si affannava a persuadere a quel suo preopinante che il colpo tentato contro la persona del marchese Palavicino non poteva venire che dalla Francia, fu improvvisamente interrotto dalle voci agre e sgarbate di alcuni soldati e da un caporale svizzero che s'eran gettati a sedere su d'una di quelle panche e volevano l'acquavite. Il Burigozzo troncò allora a mezzo la parola che stava per uscirgli di bocca, e non lasciò che il caporale svizzero comandasse una seconda volta. Così, dopo avergli messa innanzi una panciuta damigiana, non fu contento finchè non ebbe fatta anche a lui la sua interrogazione.

—E così, caporale, non han già voluto che più vi stesse a dondolare, e presto si scalderanno ancora le vostre miccie contro i nemici che tornano a mostrarvi il viso.

—Si scalderanno e non si scalderanno, rispose il caporale; che cosa sai tu?

—So che i Francesi si son già fatti vedere a poche miglia da Milano… dunque….

—Dunque… io t'ho chiesto acquavite che raspi e sèdano che morda… e non m'hai dato nè una cosa nè altra… e queste che ho sotto i denti paion frasche di zucca… in quanto poi ai nemici che tu dici….

—Ci son forse novità?

—Novità?… Certo che ci potrebbero essere le novità….

Qui messasi alla bocca la panciuta damigiana, e bevutone un così largo sorso come se fosse acqua:

—Nelle campagne dell'Unterwald, riprese poi, si poteva bene tirare innanzi tre, quattro, sei mesi senza vedere il gheld dei tre cantoni, perchè il formaggio di capra, e la cervogia non manca mai colà. Ma codesto paese tuo ha più d'un malanno, e all'aria grossa che ti fiacca le gambe maladettamente, puoi metter di costa che, se non hai un testone col sant'Ambrogio in saccoccia, per quel dì puoi startene a stomaco vuoto; con questo volevo dirti, che se dentr'oggi l'eccellentissimo signor duca non ce ne dà una manata, (che le promesse non bastano, ed ha un bel gridare il prete che ci comanda) puoi stare ben certo, come se lo dicesse il Tell, che mai non disse una menzogna al mondo, che noi non si combatterà, e i signori Francesi potranno benissimo restar serviti.

—E a che ora si uscirà domani di città, caporale?

—Oggi per le ventiquattro abbiamo a trovarci in castello tutti quanti.

—Questo lo so.

—Se poi fioccheranno denari, domani, prima dell'alba, si uscirà.

—E se i denari non ci fossero?

—Si troveranno.

—Trovarli… è presto detto. Ma io so che la cassa ducale è stramenzita affatto.

—Non c'è altri che il duca forse?… Quel che il duca non sa fare, lo farà bene la città, e lo farete voi…. Non è la prima volta. Intanto prenditi i tuoi due testimoni, che oggi o domani me li avrai a restituire in altro modo.

Qui il caporale si alzò, e con lui gli altri svizzeri, che volgendo uno sguardo sprezzatore a quel crocchio di persone per mezzo alle quali avevano a passare, si tolsero di là. Nè ad un attento osservatore sarebbe sfuggito con che mal'occhio li guardava dal canto suo la moltitudine, memore delle concussioni che il cardinale di Sion aveva insolentemente esercitate su tutti quanti i cittadini milanesi per pagare e satollare que' suoi Svizzeri affamati, ne' quali, dopo la vittoria di Novara, era la superbia cresciuta a dismisura, e verso i cittadini milanesi si comportavano come padroni, e peggio.

Il Burigozzo, come que' cinque furon partiti.

—E così, disse a chi gli stava intorno, siete capaci ora, che la storia della paga sia quale ve l'ho narrata io stesso stamattina? Mettetevi dunque in memoria che il Burigozzo non dice mai cosa in fallo.

—Sta a vedere che tu ne saprai più del Morone e del prete soldato….

—Io non so nulla; ma avete sentito… però la storia della paga mi dà a pensare….

—Attendi a vendere il tuo bucherame e la tua acquavite, e non darti un pensiero al mondo di tutte queste cose, che già è lo stesso….

Ma il Burigozzo non dava retta a queste parole, e continuava come parlando fra sè:

—Messer Bernardino Corio, che mi vuol bene e che si degna intrattenersi con me qualche volta, mi diceva un tal giorno, che codesta città nostra, la quale non è ampia gran fatto, pure ha i suoi duecentomila e più cittadini.

—Adesso c'è la storia dei duecentomila.

—Sicuro il mio Carl'Ambrogio, c'è, e ci dev'essere anche la storia dei duecentomila, perchè, dico io, è tal cosa che non fa molt'onore, che in tanto popolo non ci sia da mettere insieme quindici o venti migliaia di uomini… e questi Svizzeri che, a saziarli, ci vuole un bue per ogni quattro, rimandarli al loro Cantone, dove c'è la Cervogia e il formaggio di capra.

—Sin qui non pare che tu pensi male.

—E non ci sarebbe allora gran bisogno di paghe, e il duca non si troverebbe ora tanto allo stretto.

—In quanto a ciò, s'egli è a sì duro punto, suo danno.

—Capisco cosa vuoi dire tu! Se l'eccellentissimo signor duca invece di regalare avesse venduto, non mancherebbero le paghe.

—Qui sta il punto, Burigozzo, e la tua storia dei duecentomila non ci ha a che fare gran fatto. Domando io se al Morone c'era bisogno di regalare la contea di Lecco, Vigevano al cardinale, la Ghiarra d'Adda al Lampugnano: terre che rendono pan d'oro e fiorini a staia… e so cosa dico!

—Manco roba, manco affanni, dice il proverbio, e pare che il duca l'abbia intesa così.

—Ma pur troppo non avrà ad intendere questo solo; e a questo re che se ne viene con tanta brava gente, e più bravo lui di tutti, come dicono, e non ha ventun'anni, converrà bene ch'ei dia luogo o si rechi in villeggiatura.

—Pure se quelli che contano in paese fosser tutti della tempra del Palavicino, e d'altri pochi, il duca non si troverebbe in così pericolose acque; ma no, tutti a rovescio, e l'altro dì il conte Besozzo e il Gabaloita e il marchese Birago e il Sacramoro e altri troppi se ne uscirono di città, e chi è tra le stoppie e le pozzanghere ci pensi…. E davvero ch'io mi chiamo assai fortunato di vestir questo saio piuttosto che le vesti ducali, le quali in questo momento devono al certo bruciare le carni di chi le porta….

Qui s'interruppe, e con lui tacquero tutti quanti trovavansi sulla piazza. I muggiti dei leoni del serraglio ducale, espandendosi in quella del palazzo per tutta la piazza, avevano imposto quel generale silenzio. E tutte le teste involontariamente si volsero colà. All'orologio della Torre de' Mercanti suonavano le ventiquattro. Poco dopo scomparvero tutte le guardie dinanzi al palazzo del duca e tutte le porte si chiusero….

Rechiamoci ora a vedere se in questo momento le vesti ducali bruciassero davvero le carni di Massimiliano Sforza, come ha detto il Burigozzo.

CAPITOLO II

È una sala vastissima quella che ci si apre d'innanzi, nella quale l'eccedente sfarzo del lusso asiatico è temperato alcun poco dall'eleganza e della squisita gentilezza del genio italiano. L'ampia soffitta non è nè a vòlta, nè a travi. Una vetriera, divisa in mille scompartimenti di piccoli vetri circolari e a tanti colori quanto ne può dare un'artistica combinazione, l'attraversa e la ricopre tutta, lasciando libero il passaggio agli ultimi raggi del sole. I paramenti che ne vestono le pareti, nelle quali sono aperti sei grandissimi finestroni di stile gotico, son tutti di drappo d'oro riccio sovra riccio con ornamenti di vaghissimo lavoro. Il cornicione che la rigira è tutto messo ad oro ed azzurro oltramarino, sul quale disposti in bell'ordine e in gran numero stanno ampi vasi di varie e preziosissime materie d'oro, d'argento, di pietra alabastrina, di porfido, di serpentino e di mille altre specie. A due terzi della sala, quasi a formarne una divisione, due cortine d'un ampio velone di drappo d'oro tutte chiuse fino a terra, sono fermati per molti anelli ad un arco di ricchissimo ornato che poggia ai capi sul medesimo cornicione, attraversando pel largo la sala. Le scene più molli e voluttuose della favola sono il soggetto dei dipinti che, chiusi in larghe cornici, stanno appesi, in bell'ordine, intorno intorno alle pareti. Qui un Endimione colla sua Diana, e Bacco appoggiato a sdrajo sulle ginocchia d'Arianna, là una Leda coll'indivisibile suo cigno, e una Danae colla pioggia d'oro. Dirimpetto Orfeo ed Euridice, Ero e Leandro, Ercole e Dejanira. Ovunque quadretti d'ogni sorta; danze d'amori, Najadi nuotanti, ninfe ignude, scherzi voluttuosi di mille foggie; e in mezzo a codesto apparato artistico, su d'una tela molto più ampia delle altre, l'inevitabile giudizio di Paride. Da certi sfori praticati nel pavimento si mostrano, quasi a simulare una selva naturale, arbusti d'ogni maniera. Aranci, mirti, palme agitanti ventagli di verdura, roseti incoronati e larghe di candide foglie, aceri, tulipiferi, alcee, gelsomini d'Ischia, giacinti, viole, amaranti, che spandono un miscuglio di profumi. E su quei rami di quelli arboscelli, legati con crini sottili, svolazzano uccelletti d'ogni sorta, rosignuoli, capinere, pettirossi, rigogoli zufolanti, rondinelle gorgheggianti, palumbelle gementi, che diffondono suoni d'una graziosa e melanconica monotonia; se non che, di quando in quando, a coprire quei canti minuti della natura, dal di dietro dell'ampio velone si dilata un'armonia artificiale e più solenne. Le note di un organo da stanza.

A popolare quel luogo incantevole se ne stanno alcune in piedi, altre sedute, altre sdrajate, a due, a tre, a gruppi, tutte in atteggiamenti di una molle eleganza, molte leggiadre fanciulle incoronate di fiori, vestite di bianchi veli; e in mezzo a quelle fanciulle, tutto assorto in fantastiche contemplazioni sta adagiato su larghissimi cuscini di raso, un giovane avvolto in una magnifica roba di stoffa cilestre.

A guardare il suo volto, liscio e levigato come quello d'una fanciulla, si conosce che nessun forte pensiero, nessuna energica azione, nessuna passione profonda non ha mai agitata l'anima sua. Soltanto quel pallore abituale e senz'orma di vermiglio dà a divedere un'esistenza infiacchita dall'abuso dei piaceri e dalle tormentose irresoluzioni dell'anima. Da una tavola di tartaruga a fini ed eleganti intarsi egli prende di tratto in tratto a leggicchiare taluno dei molti libri che vi stanno dischiusi. C'è un Ovidio, un Catullo, alcuni canti del poema dell'Ariosto; e di quando in quando accostandosi alle labbra una conchiglia legata in oro va sorseggiando alcuna goccia d'un liquor forte e spiritoso. La fragranza dei fiori, lo spettacolo della voluttuosa bellezza, i suoni dell'organo gli popolano la mente di mille e svariate idee, di luccicanti fantasie, di trepide gioje, cui la virtù di quel fortissimo liquore, avendo in prima rese più acute, e più ardenti, le va ora agitando in vertiginosa danza, producendovi quell'ebbrezza luminosa che è il paradiso di chi ha infiacchita la fibra e mobilissima l'immaginazione.

Ora, a queste apparenze, chi direbbe che costui è il duca Massimiliano Sforza, il successore dello sventurato Lodovico, morto di crepacuore e d'inedia in Francia negli ultimi anni di Luigi XII; che benchè sieda da tre anni sul retaggio del padre suo, il padrone dello Stato non è lui, e la parte migliore e più forte del popolo non è per lui, che la sua cassa privata è vuota, e non avendo esercito proprio, gli mancano i denari per pagare quel di ventura al quale ha a sborsare ottocentomila ducati d'oro; intantochè Francesco I, re guerriero, ha già invasa la Lombardia con più di ottantamila uomini? e a poca distanza si è già fatta sentire l'artiglieria nemica?

Vi hanno uomini temprati in modo, che riescono al tutto inetti a qualunque occupazione richieda uno sforzo della mente e della volontà. Le dolcezze e gli svagamenti della vita hanno tale attrattiva per costoro, e il dilungarsene un solo momento dà ad essi così incomportabile dolore, che hanno per bisogno indispensabile dell'esistenza, ciò che per altri è semplice sollievo.

Questa morbosa tendenza, (che, non so se debbasi chiamar colpa); essendo al tutto contraria alla destinazione dell'uomo, in qualunque condizione esso si trovi, non può che condurre a rovina; però avviene spesso che coloro i quali dei piaceri s'eran fatti un'assoluta necessità, vengano a trovarsi in così terribili situazioni, e a provare tali miserie quali non toccano al comune degli uomini. Allorchè poi la caduta è imminente, s'attaccano costoro, con uno sforzo che dà la disperazione, ai piaceri che fuggono, procurando di renderne tanto più acuta l'ebbrezza, quanto più si avvicina l'istante dell'affanno.

A questa classe d'uomini per la sua e per l'altrui disgrazia, apparteneva appunto il giovine duca Massimiliano.

Portato dagli eventi a ricuperare il ducato di Milano del quale suo padre era stato spodestato, la natura lo aveva così destituito delle qualità indispensabili a chi è posto a governare uno stato, ch'egli credette fosse per lui occasione di continuo tripudio, quel che invece doveva essere oggetto di una laboriosa ed assidua cura. Più scolorato e più floscio assai di Galeazzo Maria, parve tenesse alcun poco dell'indole di quel tristo. In lui per altro la mollezza invadeva anche la parte che nell'altro era stata occupata dalla crudeltà, e fu solo a tratti e a sbalzi che anch'egli ne mostrò qualche fioco barlume, il quale per fortuna, non ebbe mai un effetto. In conclusione, una leggiera sfumatura di pazzia pareva avvolgesse tutte le qualità intellettuali e morali di questo giovane, per cui piuttosto che maledire le sue colpe, ci rimane a rimpiangere la fatalità che volle affidare ad una mano morbida e tremolante ciò che aveva bisogno di un braccio di ferro.

Del resto non si ha a credere che questo giovane duca, nel momento in cui lo abbiamo sorpreso nella segreta sua sala, ignorasse in che dura condizione egli si trovasse. Il Morone lo teneva assai bene informato di tutto, ma ciò che per altri sarebbe stato causa di uno sgomento continuato, in lui non generava che momentanee tristezze e prostrazioni d'animo talvolta eccessive, ch'egli procurava tosto di rintuzzare e affogare nei gaudii e nell'ebbrezza.

Le sue idee, nel momento in cui stava bevendo quest'ultima goccia di spiritoso liquore, esaltate, mosse rapidamente, intrecciandosi e confondendosi insieme, assumendo mille colori, costituivano un così intricato complesso da non potersi facilmente a parole tradurre.

Tuttavia, a seconda che il pensiero della sua condizione, o il coraggio artefatto che la forza del liquore metteva in lui, o la vista delle cose da cui era circondato generava nella sua mente qualche nuova idea; in quell'istante parlava tra sè, presso a poco, di questa maniera: "…. Oh venga la tetra calamità, se così piace ai duri destini, ma intanto ch'ella più mi si avvicina, più io mi stringerò a voi, soavissime illusioni della vita… Finchè i fervidi estri inonderanno di viva delizia i miei sensi, io non vorrò già atterrirmi nello scroscio dei naufragio… Qui mi hanno condotto i miei destini, senza ch'io pure lo bramassi nemmeno, di qui mi partirò tranquillo quand'essi suoneranno a ritratta…. Le atroci gioje della conquista e della vittoria, non voglio che rallegrino mai nessun giorno della mia vita… Ben sento che ai miei piedi brulica un innumerevole sciame di popolo, e a me si rivolge nella bisogna tremenda… Volgiti altrove, volgiti a te stesso; io non posso nulla per te…. Fintanto che l'onnipotente ricchezza mi cresceva tra le Mani, ognuno potrà dire quant'io ne fossi liberale con tutti; come ad una ad una mi scastonassi le gemme della mia corona, per donarle a coloro che più mi stavano d'appresso… Volgiti altrove, o mio popolo, volgiti a te stesso, volgiti alla provvidenza che tutto può… e ti allontana una volta, che le tue grida fanno strazio del mio cuore e troppo infastidiscono le facoltà mie infervorate di solo amore…

"Oh vi stringete d'intorno a me, soavi fanciulle, ch'io senti più d'appresso le divine armonie della vostra bellezza, e i cari abbracci promovano in me il trepido senso dell'estrema voluttà…. Oh venite e frapponetevi tra me e il mondo, così ch'io non veda e non senta più nulla della sua vorticosa incessante faccenda…."

In simili pensieri, e via rapito da una muta contemplazione, trascorse qualche tempo in mezzo alle sue fanciulle che gli si eran strette intorno. Gli ultimi raggi del sole intanto s'eran del tutto ritratti dalla vetriera che copriva la sala, e la pallida luce crepuscolare, attraversando i vetri, a fatica vestiva di un color cupo e misterioso tutti gli oggetti che stavan d'intorno al duca.

In quelle fanciulle una ve n'era d'una straordinaria bellezza che pareva esser cara al giovane duca più che le altre tutte, e più che le altre essergli ella medesima affezionata. Questa essendosi da qualche tempo avvicinata a lui, con una tristezza eloquente nel medesimo silenzio, pareva attendesse che il duca le volgesse qualche parola.

Questo infatti posò finalmente uno sguardo su lei e:—A che pensi? le disse.

—Penso a voi, mio signore, ed a me stessa, rispose la giovinetta; penso che non sarà mai ch'io mi disgiunga da voi oggi; penso ch'io vi seguirò dovunque sarete per andare, o signore.

—Taci, Gliceria, e non turbarmi l'anima con preghiere che non mi è concesso d'esaudire; finchè rimarrò in castello, a nessuna di voi più non si conviene lo stare con me… l'ho detto, e non può essere altrimenti.

La giovinetta, a tali accenti, chinò il capo e stette per qualche tempo senza parlare… ma poco dopo rialzando lentamente la testa e volgendo un mestissimo sguardo intorno:

—Addio dunque, sclamò con accento particolare pieno d'entusiasmo insieme e di dolore profondo, addio, stanza gradita: noi ti abbiamo a lasciare, il cuore mi dice, per sempre… noi non ci troveremo più qui… il mio signore non mi vuol più con sè, il mio signore mi ha rifiutato, i momenti della nostra gioia sono finiti….

Queste parole, come un soffio di vento gelato, che gli rasciugassero il calido madore della fronte, a poco a poco fermarono l'ebbra vertigine ch'era nella mente del duca; a produrre codesto effetto però avea concorso un'altra causa, senza cui le parole stesse sarebber cadute inavvertite.

È una legge fisica costante, che le bevande, dopo aver generato in chi ne abusa una vivezza, un'alacrità straordinaria di spiriti, producono poi una tale prostrazione di forze, un abbattimento così completo, che l'esistenza, di cui poco prima si avevano le più dolci sensazioni, ci si fa un tratto pesante, odiosa, insopportabile.

E un tale fenomeno, in quel momento, cominciava appunto a prodursi nel giovane duca. Il forte liquore tanto abusato, dopo averlo esaltato al massimo dell'alacrità, cominciava a lasciar in lui come un deposito di amarezza, una melanconia tetra ed inesplicabile, un malessere in tutta la persona che gli vestiva di tristezza tutte le cose che gli stavano intorno.

Se non che in una tale occasione, quel repentino malessere venne accresciuto dalle altre cagioni, le quali ancor più fieramente influirono per essere le stesse sue forze fisiche già tanto infiacchite.

Le parole della fanciulla, l'oscurità successa alla splendida luce del dì, che lo avvisavano ch'era vicina l'ora di ritirarsi in castello e di abbandonare le delizie del palazzo ducale, l'intricata condizione delle cose sue, l'incertezza degli eventi, i pericoli inevitabili… tutte queste cose lo assalirono allora di tanta forza, che assaporò tutto quell'amaro che pur troppo esubera nell'umana vita.

E ad accrescerlo dopo alcuni istanti s'udì lo squillo di una campana, squillo atteso da lui con tremore e sgomento. Era quello il segno con cui veniva chiamato il duca a recarsi nella gran sala di palazzo dove tutto il suo seguito stava raccolto per ritirarsi con lui in castello. Essendo assolutamente vietato di recarsi in quella sua sala, quand'egli si trovava colle sue donne, con quel segnale veniva chiamato ogni qual volta fosse bisogno della sua presenza. E a quello infatti il duca si alzò…. Era diventato più pallido la metà del solito…. Il tremito dei nervi che il liquore medesimo aveva prodotto in lui, in quel momento gli si accrebbe tanto, che parve non gli bastassero le forze di reggersi in piedi, ma a sostenerlo gli si serrarono intorno le sue fanciulle con abbracciamenti e con lagrime…. La commozione in lui, forse per un certo presentimento che l'avvisava che non sarebbe tornato mai più in quel luogo, era giunta al massimo punto, e non udendosi nella sala altro che i pianti di quelle fanciulle, ai quali s'intrecciavano i singulti delle palombelle che svolazzavano sulle palme e sugli aceri, anch'esso fu assalito da un angore insopportabile e da un empito di singhiozzi che finalmente scoppiò; e come se fosse un fanciullo diede in lagrime dirottissime e pianse lungamente….

Davvero che quella vista era indegna, quella mollezza eccessiva, que' propositi, que' pianti vituperosi… tuttavia, allorquando un uomo è infelice ed è alle prese col massimo affanno, egli è sempre degno di pietà e non ci può essere ragione che la vieti, neppure la colpa, se fosse concesso il dirlo….

Stato così qualche tempo, si staccò finalmente dalle sue donne ed uscì.

In un'altra sala del palazzo ducale stavano intanto ad attenderlo coloro che lo avevano ad accompagnare in castello. Tra una folla di paggi, di camarlinghi e di labarde svizzere, passeggiavano molti distinti personaggi. Un uomo di forse quarant'anni, di statura e corporatura mediocri attendeva a discorrere col duca di Bari, fratello di Massimiliano….

Era colui il celebre Gerolamo Morone, il quale avendo deposta su d'una tavola la sua berretta di velluto nero riccio, mostrava una cappellatura bionda-rossigna, un po' crespa che gli scendeva oltre l'orecchio. L'ossatura del viso era notabilmente minuta, e solo la fronte appariva alta ed ampia più di quanto il comportasse una giusta proporzione. Le pupille di un castagno assai chiaro giravano con gran rapidità sotto le palpebre, che abitualmente teneva semichiuse quasi a rendere più acuta la facoltà visiva.

Del resto, chi volesse avere di lui un ritratto più fedele di quello che noi possiamo esibir qui, non avrebbe a far altro che recarsi ad ammirare una tavola del Leonardo posseduta da un'illustre casa milanese, dove il cancellier Morone si presenta a chi lo guarda come se fosse ancor vivo e vero.

Presso al Morone, in abito civile si vedeva il cardinale di Sion, il capitano generale delle guardie svizzere, un uomo assai presso a sessant'anni, e nelle linee risentite del suo volto era chiara l'indole sua, e di fatto, l'odio per la Francia formava in lui come una seconda natura.

Lontano da questo gruppo, in mezzo ai camarlinghi ed alle labarde passeggiava un giovane gentiluomo. Alto di statura da soverchiare tutti i soldati tra cui si trovava, era notabile per la bella regolarità delle sue forme, per una tinta di gravità cogitabonda e soverchia in uom giovane, pel suo schietto e semplice vestire di velluto verde senza altro ornamento che una sottile catena d'oro che pendula gli cascava sul petto. Questo giovane era in quel momento l'oggetto dei sommessi discorsi del Morone e del duca Francesco Sforza.

—Io vi consiglio, diceva il Morone, a non dir nulla al Palavicino dell'arrivo del Baglione tra noi, e delle pratiche che il padre della Bentivoglio ha già inoltrate con colui. Forse adesso non c'è altri che abbia sentor di ciò in Milano, ed è probabile che il giovane non arrivi a saper nulla prima della battaglia. In ogni modo lasciate che le cose camminin da sè, nè gli dite cosa che possa metterlo in apprensione.

—Io non parlerò, ve ne do parola; ma se non lo saprà da me, lo saprà bene da altri, ch'egli è impossibile che non ne sia trapelato nulla in Milano… a quest'ora la figlia stessa del Bentivoglio troverà bene il mezzo di renderlo avvisato di tutto.

—Sapete pure che il Palavicino non ha la pratica della casa del Bentivoglio, nè in altro luogo parlò mai alla Ginevra che in questo palazzo medesimo in occasione di pubbliche feste. Però, essendo probabile che la cosa gli rimanga segreta, attendete voi pure a far quello ch'io vi dico che sarà pel meglio, e il suo coraggio non gli verrà scemato così da questa nuova sciagura.

—La stornassero almeno da lui i suoi santi protettori, come hanno stornato l'attentato di ieri notte!

—Così fosse, lo dico io pure.

—A proposito, messere… non han deposto altro i quattro assalitori?

—Null'altro… ma da quello che mi disse il Palavicino stesso, tengo il colpo sia venuto dal Lautrec.

—Dal Lautrec? il maresciallo di Francia?

—Da lui stesso; fatevi raccontare ogni cosa dal Palavicino stasera, e vedrete anche voi come la mia e la sua congettura non sia in fallo, sebbene di certissimo non ci sia nulla ancora. Sentirete….

In questa si spalancò la porta di prospetto, e il duca in mezzo a due uomini di camera si presentò a coloro che lo aspettavano. Il Morone e il cardinale di Sion gli andarono incontro e lo condussero nel mezzo della sala, presso al duca di Bari, che non si mosse.

I due figli di Lodovico il Moro, il primo ed il secondogenito si trovavano vicini; tutti gli sguardi di quanti si trovavano in quella sala caddero sui due fratelli, e non vi fu chi non pensasse allora, che le sorti sarebbero forse corse più propizie per Milano se Francesco Sforza fosse stato il primogenito invece di Massimiliano.

È una cosa curiosa che di quel miscuglio di grandi virtù e di molti vizi che distinsero la dinastia sforzesca, quando si venne a due figli di Lodovico, che erano destinati a chiuderla per sempre, avvenne, quasi potrebbe dirsi una compiuta secrezione.

Osservate le restrizioni debite, e avuto riguardo ad una quasi degenerazione, per la quale e vizi e virtù, passando di padre in figlio, grado grado si eran venuti dilavando, pare che i destini abbiano diviso in due esatte metà quel retaggio, come a compensazione ai vantaggi della primogenitura abbiano accollato il tristo fardello di tutti i vizi della dinastia, ed alla secondogenitura abbian dato per conforto le virtù, onde la dinastia stessa, al primo comparire sulla scena del mondo, era stata splendida di una luce non moritura. Persin nell'aspetto, quantunque tra due fratelli fosse grandissima la somiglianza, c'era qualche cosa che dinotava questa esatta divisione. A Massimiliano era toccata quella bellezza morbida e fiacca che già abbiamo avuto il tempo di ammirare. A Francesco invece l'ampia fronte, le linee grandiose del primo Sforza, l'acuta e vivace bellezza della Beatrice sua madre, e un po' di quel bruno che aveva dato il secondo battesimo a suo padre Lodovico.

Il Morone, dette in prima alcune parole al duca Massimiliano, il quale senza mai aprir bocca solo si accontentò di mostrare una faccia stravolta e accorata, si volse al cardinale di Sion dicendogli, che non era a porsi altro tempo in mezzo, e tosto desse gli ordini alle labarde di precedere il duca. Così tornò a spalancarsi la gran porta, e tutti quanti stavano assembrati in quella sala, l'uno dopo l'altro uscirono. Il duca in mezzo al Morone ed al cardinale, dietro lui il duca di Bari che si era accompagnato col Palavicino, e in seguito tutti gli altri gentiluomini.

Discesi al piede della gran scala, ventiquattro uomini con torce accese stavano ad aspettare intorno ad una larga botola con aperta cateratta. Tra il palazzo ducale e il castello di Porta Giovia era stata aperta una via sotterranea di comunicazione, la quale veniva praticata ogniqualvolta piacesse al duca recarsi in castello senza mostrarsi al popolo. In questa straordinaria occasione il Morone aveva consigliato il duca ad uscire per di là, e quella botola conduceva appunto alla via sotterranea.

—Attendete a star di buon animo, disse il Morone al duca quando fu per discendere; stasera sarò io medesimo in castello; e si licenziò.

Accompagnato dal cardinale e preceduto da sei torcie, discese dunque pel primo il giovane duca. Dopo lui discese tutto il seguito in mezzo alle altre diciotto torcie. Quando s'udì il rimbombo che fece la cateratta rivestita di ferramenti nel cadere sull'incastro della botola, tutti si misero in via.

Fu un viaggio lugubre quanto mai poteva esserlo, nè il duca aprì mai bocca, nè altri. Solo il duca Francesco, che camminava a paro col Palavicino, gli disse un tratto a voce sommessa e come di fuga:—Il Morone mi ha fatto parola del Lautrec; in castello mi dirai tu il resto.

E tenendo stretta la mano del Manfredo con un'affabilità ed amorevolezza straordinarie non aggiunse altro finchè durò il cammino.

Ma noi, cogliendo questo ritaglio di tempo, terremo qualche parola del Palavicino, per quel tanto che può bastare a mettere in luce alcune condizioni particolari alla vita di lui.

Figlio al marchese Anton Maria Palavicino ed alla contessa Giulia Flisca, che, giovinetta, aveva sposato il marchese già vedovo, già padre di quattro figli e già vecchio, trovò nel seno della propria casa più di quanto poteva bastare per alienarlo da lei e dal ceto patrizio a cui la famiglia apparteneva. Fanciullo, fu affidato alle cure degli uomini che allora più fiorivano in Milano per lode di buoni studi e d'ingegno. Giovinetto, ebbe a maestri il Merula, il Calcondila, il Minuziano; studiò geometria e logica dalle pubbliche cattedre istituite da quel Tomaso Piatti stato in sì gran favore presso Lodovico il Moro. Oltre l'ingegno non comune, aveva dati segni di un'indole al tutto particolare, un misto di procelloso e di tenerissimo, di violento e d'affettuoso, con eccessi di giocondità e di concentrazione profonda. Qui racconteremo succintamente due fatti leggeri in sè stessi, ma che, mentre valgono a dare alcuna idea di codesto suo temperamento, potranno anche far conoscere i primissimi motivi, dai quali in certo modo fu determinata la vocazione dell'intera sua vita.

Trovandosi, quand'era fanciullo di circa otto anni, presente al racconto che Cristoforo Palavicino, fratello di Anton Maria, faceva del modo col quale Lodovico il Moro era stato preso da' Francesi, fu insensibilmente attirato dalle parole dello zio, il quale, a differenza del fratello, essendo piuttosto sforzesco, narrava il fatto con quell'accento di verità e di compassione che si imprime negli animi. Quando si fu al punto dell'imprigionamento dello Sforza, la contessa Giulia, che si teneva in grembo il fanciullo, vide cadere due grosse lagrime sulle guance di lui e tremare di commozione i suoi labbruzzi infantili. Nè questo bastò; ma quello che fece una profonda impressione in tutti gli astanti, quando si parlò dei due figli del Moro, dei pianti disperati del secondogenito Francesco nel momento che fu staccato da suo padre, il fanciullo Manfredo, che lo aveva conosciuto e s'era trovato spesso con lui ne' giardini ducali, diede in un sì dirotto pianto con tanta furia di singhiozzi, che la madre penò molto ad acquetarlo; e fin da quel momento ogni qualvolta in sua presenza parlavasi di Francesi si riscuoteva tutto, e la bella sua faccia si rannuvolava.

Nel 1507 un'altra circostanza accrebbe ancor più quell'avversione che il giovinetto aveva per Francia. Venuto re Luigi in Milano per la seconda volta, il marchese Anton Maria volle invitarlo ad uno splendido banchetto nel proprio palazzo. Godeva quel re intrattenersi famigliarmente con tutti, e dilettandosi a far domande ora all'uno, ora all'altro, s'era pure in quel dì rivolto al giovane Manfredo, il quale o stesse sopra di sè impensierito, o fosse dispettoso di quella domanda, non seppe o non volle rispondere. Il re attribuendo a quel silenzio una causa troppo lontana dal vero: questo giovane dev'essere ben sciocco, disse in francese ad uno de' suoi cortigiani, e si volse altrove. L'indole altiera di Manfredo, che aveva comprese troppo bene quelle parole, rimase così colpita e piagata, come se gli fosse avvenuta qualche sventura, e Luigi gli diventò così odioso, che ad arrovesciargli l'animo non v'era cosa più pronta che nominargli quel re.

Ma l'anno 1512 fu per lui ben più terribilmente memorabile. Le cronache non raccontano con chiarezza il fatto; ma tra il Palavicino e il nipote del governatore Chaumont intervenne una gravissima contesa che finì colla morte del giovane francese ucciso da Manfredo in duello.

Il padre suo Anton Maria, che di questa terribile avventura fu più addolorato assai che il governatore medesimo, a dar prova del suo attaccamento a lui ed alla Francia, la notte medesima del giorno in cui era avvenuto il fatto, appena gli giunse a notizia, cacciò di casa e solennemente diseredò il giovane Manfredo, a nulla giovando le preghiere e i pianti disperati della madre Flisca che, amando svisceratamente l'unico suo figliuolo, da quell'ora non ebbe più un momento di pace.

Da quell'anno in poi il giovane Manfredo stette fuori, nè ritornò in patria se non dopo aver redate le immense ricchezze del fratello della madre sua che, a compensarlo dell'irremovibile e mostruosa severità del padre e dell'odio de' fratelli lasciò lui solo erede d'ogni suo avere. Ma il giovane non stava pago di questi compensi che la fortuna gli volle esibire.

Avendo compreso, che con quel marchio del paterno ripudio era per lui ben più difficile che ad altri l'aprirsi una via tra gli uomini, gli venne un desiderio ardente di operare alcuna cosa di grande e di generoso per mostrare così ch'egli era degno d'una sorte migliore, per meritarsi così la stima e l'amore degli uomini.

Desiderio che fu potente a temperare in lui quell'eccessivo amore di sè che l'istinto mette nell'uomo, e a mettergli innanzi come indeclinabile la legge sublime del sagrifizio.

Non avendo dapprima in che trasfondere quell'esuberanza d'affetto che lo agitava, ributtato dai vani splendori e dalle pingui prosperità, s'egli mai girasse l'occhio per cercare qualcheduno del mondo a cui affidarsi, sempre, per una tendenza invincibile, lo posava dove la sventura avesse infranta o spostata qualche esistenza, dove l'umana dignità fosse stata con eccessivo rigore umiliata, dove l'ingiustizia avesse scagliata la sua sentenza inesorabile. L'amore istesso ch'egli naturalmente portava alla giovane sua madre, gli s'accrebbe a mille doppi quando la seppe così infelice, quando s'accorse ch'ella aveva bisogno che taluno la difendesse contro agli sdegni dei vecchio marito, contro il rancore degli altri figli non suoi.

L'uomo d'ingegno e di cuore sente assai più bisogni in sè, che non il volgo degli uomini; egli s'accorge che nell'esistenza v'ha più d'una sfera d'azione: la famiglia, la vita privata, la pubblica, e che per essere completo, un uomo deve appunto versare in tutte coteste relazioni. Il cuore del giovane Palavicino aveva trovato assai in quella dolce sua madre: il pensiero di lei poteva occupare fortemente gran parte della sua vita; ma tanto non gli bastava. A quella figura dignitosa, venerabile, cui egli doveva inchinarsi come a maggiore, desiderò venisse compagna un'altra figura affettuosa e venerabile del pari, ma più giovane, e a cui egli potesse unirsi come ad eguale. Però le virtù stesse di sua madre avendogli come data la misura per giudicare ogni cuore di fanciulla a cui per caso s'accostasse, è facile a credere come l'affetto suo avesse dovuto lasciar trascorrere gran tempo prima di posarsi in qualcheduna; d'altra parte egli sentiva anche qui il bisogno di asciugare qualche lagrima, di confortare qualche esistenza. Su tutti que' volti giovani, freschi, rosati, levigati, egli non aveva mai scorto un segno che attestasse qualche spina secreta. Non aveva trovato che giocondità ed innocenza infantile, ed egli voleva qualche cosa di più, che finalmente gli fu concesso di trovare. Venne il giorno in cui, passatagli innanzi, quasi un'apparizione repentina, una gentile e mesta creatura, provò i soprassalti improvvisi di una gioia presaga, e senz' altro attendere, l'aggruppò alla soave figura della propria madre. Ma a rendersi più accetto a quella nuova sua donna, a mostrarsele più degno, bisognava che l'esistenza sua si gettasse nella vasta faccenda della vita pubblica, si scegliesse un motivo d'azione, un assunto grande e generoso.

Le prime sue lagrime erano state versate sulla sventura di due creature giovani come lui, deboli come lui, rimasti orfani d'un padre percosso da una eccessiva giustizia.

Quei due fanciulli, in quegli anni che stette fuori, li aveva conosciuti adulti, alla Corte di Massimiliano d'Austria dove, esuli, avevano riparato; li aveva riveduti quando su quelle giovani teste pesava l'ira di un'intera nazione potente e armata a loro danno. Col più giovane dei due fratelli specialmente, essendone mediatrice l'eguaglianza dell'età e la simpatia straordinaria dell'ingegno e del cuore, aveva stretta un'amicizia calda e tenace. Allora il suo impiego, gli obblighi suoi, il suo fine come uomo che ha a vivere al cospetto d'un'intera nazione, come buon cittadino gli venne subito innanzi, e non esitò ad accettarlo, a sceglierlo anzi con un ardore potente al pari di una passione. Da quell'ora l'azione dell'intera sua esistenza fu determinata; aveva una madre da venerare, una donna d'amare, una patria, una causa, una dinastia a cui sagrificarsi. Da quel punto non fu più irresoluto, la via gli era aperta innanzi, non guardò se fosse ingombra e difficile, e i suoi passi si accelerarono.

Ora che codesto giovane fu presentato sotto il punto di vista il più favorevole, non vogliam già dire che sempre ei si rivelasse altrui da questo unico lato; vogliam dire soltanto che da questo lato mostravasi altrui il più delle volte. Del resto troppi requisiti gli mancavano ancora per ottenere un buon ingresso nel calendario de' santi, e v'eran momenti anzi ne' quali correva pericolo di non parer più riconoscibile; come avviene delle linee semplici ed eleganti d'una bella faccia che, scontorcendosi, si tramutano sotto gl'impeti dell'ira, così avveniva di lui se per avventura versasse in circostanze straordinarie, o la passione di soverchio lo agitasse. Soleva allora darsi il caso ch'ei rivelasse debolezze e difetti che uomini di gran lunga men virtuosi di lui chiamerebbero incomportabili. Però potrebbe forse avvenire che codest'uomo sfuggisse talora ad un'esatta analisi. Ma chi è vago di caratteri eternamente costanti e invariabili, rifrughi la tragedia classica, e chi si piace di profili immobili, contempli le teste effigiate sui cammei e sulle monete.

Intanto, percorrendo la via sotterranea, il duca ed il seguito ebbero attraversata tutta la città. Due uomini furono espressamente spediti innanzi ad avvisare il castellano che giungeva l'eccellentissimo duca, e quando questi arrivò al piede dell'altra scala che metteva nel castello, trovò qui gentiluomini e soldati che lo stavano aspettando. Mise il piede finalmente sul selciato del castello, e in mezzo a due stipatissime file di soldati attraversò il gran cortile e salì nelle stanze ducali.

Batteva l'ora di notte all'orologio della torretta, e in quel momento dai quattro lati del castello si udirono i suoni delle trombe che chiamavano a raccolta. E in ogni parte del castello, nel cortile, sotto gli atrii, sotto gli androni, sugli spalti che guardavano la gran fossa, alle feritoie, ai merli era un tumulto, un frastuono, un brulichio d'armati incessante, e in quell'ora quel vasto ricinto rendeva l'immagine come di un grande alveare nel quale confusamente s'agitassero ronzando migliaia e migliaia di armati. Siccome non avevasi a passare che una sola notte colà, tutti gli Svizzeri che si trovavano in Milano sotto gli ordini del Sion, tutte le labarde tedesche le quali costituivano la guardia dei duca, tutti i soldati di ventura stranieri, e quanti vestivan armi in Milano, vi stavan raccolti insieme per esser pronti alla prim'alba del prossimo dì. Nè faccia maraviglia che si potesse dar luogo a tante migliaia di soldati. Quantunque il castello a quel tempo non avesse quella gran cinta di casamenti che lo chiude in mezzo oggidì, avea le fortificazioni che si estendevano per gran tratto all'intorno, e dalla parte poi che spetta a settentrione arrivava coi vasti broli chiusi da cinte fortificate, sin dove oggi si estende il borgo vicino; però su questo gran tratto di terreno, zeppi che furono i luoghi chiusi e coperti, i soldati come meglio poterono s'acconciarono a dormirvi a ciel sereno, buttati a disagio sul nudo terreno.

Il Palavicino intanto e Francesco Sforza, dopo avere accompagnato il duca nelle sue stanze, subito erano stati licenziati.

—Giacchè ci rimane qualche tempo, disse il marchese nell'uscire collo Sforza, andrei un tratto nella camera dell'ammenda alla torre, chè vorrei vedere dappresso costoro, che senza conoscermi, si volevano la mia vita. Così interrogandoli io stesso, tenterei scovar fuori qualche cosa di più.

—Son già condannati nel capo, nè c'è altro a cavarne. Quel che han confessato è ben chiaro.

—So per altro che, tra l'altre circostanze, han deposto che il caporale che li ha pagati era una volta agli stipendi del Lautrec. Questo sarebbe un filo per conoscere se il colpo venga propriamente da costui.

—Potrebb'esserlo.

—Ben è vero che anche senza prove io credo al tutto che sia così la cosa, nè, altrimenti, saprei come acconciare i fatti tra loro.

—Il Morone è del medesimo avviso tuo. Ma lui sa quel che intravvenne tra il Lautrec e te altra volta, ond'ebbe presto il modo di portar giudizio sul fatto. Ma io non so nulla.

—Dopo l'attentato è questa la prima volta che mi trovo con te. Ma pure te ne dovrei aver parlato altra volta.

—Ciò non può essere, se nulla me n'è rimasto in memoria.

—Allora ti dirò tutto in breve. Ma rechiamoci in prima alla camera dell'ammenda.

—Non so se mi convenga venir teco, nè, a dir la verità, vorrei esser riconosciuto potendo venir loro in mente ch'io avessi il diritto di grazia.

—Ciò non avverrà; possiamo andare.

Così, passando in mezzo a cento gruppi di soldati, si recarono nel cortile, detto della Torretta. Una labarda che precedeva il duca salì a far l'imbasciata al custode. Questo tosto discese.

—Si vorrebbe entrar nella camera dell'ammenda, gli disse il duca.

—I condannati per l'attentato contro il marchese Palavicino, se son quelli che volete vedere, ci furono condotti oggi di fatto. Io sono agli ordini di V. E.

—Questo che è con me è il marchese Palavicino appunto. È lui che vuol vederli.

Il custode allora, seguito da essi, risalì la scala e corse in fretta a cingersi la spada. Li fece passare per mille andirivieni e corritoi, ne' quali la tetraggine serrava gli animi. Finalmente il custode, spalancata una grossa imposta di legno di quercia tutta rivestita di ferro:

—Eccoli, disse, sono costoro.

La scena che si offerse a' due riguardanti era truce e curiosa nel medesimo tempo. Su ciascuno dei quattro angoli d'un carcere a volta, ampio e nano, v'eran quattro letti di lucido legno inchiodati a terra. Legato a ciascun letto con una grossa catena che poteva esser lunga forse tre passi un uomo. La foggia dei vestiti, benchè diversi l'uno dall'altro, pure li dava a conoscere per soldati. Accostandosi poi a ciascuno di essi, non si durava fatica a conoscere che non appartenevan tutti ad una nazione medesima. Ed erano infatti due Piccardi, un Valacco, un Italiano. Stando a quanto s'era potuto raccogliere dalle loro deposizioni, all'Italiano, come al più esperto delle vie di Milano, era stato dato carico di far la scorta agli altri tre, i quali non avevan poi a far altro che ferire.

Il Palavicino, dopo aver gettata un'occhiata su ciascheduno chiese al custode se avesser deposto altro in aggiunta alla confessione del dì prima, e avendogli il custode fatto cenno di no, volle accostarsi allora ad uno di essi per tentarlo in qualche modo, e il primo a cui si presentò per combinazione, fu il Valacco.

Disteso quant'era lungo sul nudo legno, immobile, calmo, ritto come se facesse l'esercizio, cinto così strettamente ai fianchi che pareva avesse il corpo diviso per metà, rendeva la figura di una gran mosca, con un vestimento compiuto alla foggia tartara, poco diverso da quello di un odierno ungaro, (perchè costumi e civiltà in quelle regioni puntandosi alla consuetudine come un mulo, che adombri, alla terra, non hanno voluto, per battere che siasi fatto, dar mai un passo innanzi.) Aveva quell'ossatura di teschio più larga che lunga che distingue la razza tartarica, naso schiacciato, bocca larga e labbro gonfio, coperto da un filo di pelo, nero, lungo, appuntato, lucido come la coda di un sorcio impiastricciata di lardo. La tinta del volto era tutta soffusa d'un bel giallo d'ottone misto ad una leggiera dose di verde di rame, zigomatiche alte, occhi tondi e grossi ed una fronte così bassa e angusta che l'intelligenza ci doveva star comoda come un condannato ai forni di Monza. Da quel complesso insomma si conosceva un vero discendente di Cam, il Maledetto.

Allora il Palavicino si provò a scuoterlo da quello stupido letargo, e fattosi dire dal custode il nome di colui, lo chiamò ad alta voce.

Il Valacco piegò un momento la testa.

—Sai tu perchè sei qui? gli domandò il Palavicino.

Il Valacco stette un momento cogli occhi fissi in chi gli aveva fatta quella domanda, poi rispose:

—Credo bene di saperlo.

—E a che pensi tu adesso?

—A questa carogna di custode, il quale mi ha dato del pessimo lardo che non si può masticare.

—Faresti assai meglio a pensare a quello che sarai tu domani, gli disse allora il custode.

Il Valacco crollò più d'una volta la testa, poi disse:

—Capisco quel che vuoi dire. L'uomo che venne qui un momento fa, tutto bigio come un bufolo del Niester, credo bene che fosse il boja…

—Era lui di fatto.

—Va benissimo.

—E a momenti sarà qui il frate…

—Perchè il frate? Io non voglio frati.

—È per la salute dell'anima tua.

Il Valacco tenne un istante gli occhi fissi come uno scemo al quale siasi dato un pugno sulla testa, poi soggiunse:

—Ah… capisco! Si poteva però anche risparmiare, chè in quanto all'anima, m'è indifferente s'ella sia per uscirmi dalla bocca, o da qualsiasi altra parte, e che viaggio sia per fare di poi, non ne voglio aver notizie.

Detto questo, si voltò per la prima volta su di un fianco, e non volle risponder più a nessun'altra domanda.

Nel frattempo che il Palavicino s'intratteneva innanzi al letto del Valacco, il condannato che gli stava rimpetto, non si ristava pur un momento dall'agitare e dallo scuotere le sue catene furiosamente, mutandosi e rimutandosi or sull'una, or sull'altra gamba cambiando ad ogni tratto postura gestendo, parlando ad alta voce; egli solo, in quel camerotto, faceva tanto rumore quanto ne poteva fare un'intera compagnia di lancieri.

Il custode avendo detto al duca e al Palavicino che quello era l'Italiano, subito a lui si volsero, vedendo che dal Valacco non era possibile cavare un costrutto. Aveva colui uno straordinario aspetto, capelli neri, lunghi, arruffati che gli adombravano un'alta fronte segnata da spessi solchi; occhi neri, acuti, sinistri, mobilissimi. Non pareva vero che il Valacco e costui fossero due esseri d'una medesima specie, tanto erano opposte le loro indoli.

E qui lo sguardo del Palavicino cadde a caso su d'uno sgorbio fatto sulla parete alla quale era inchiodato il letto dell'Italiano. Era un disegno ch'esso aveva tentato di fare col carbone, il qual disegno era diretto a rappresentare una forca con appesovi un uomo. Sotto all'uomo si leggevano queste parole che occupavano quasi tutta la parete:

—Io mi chiamo Giovanni Adolfo Gavazzola, figlio di Bernardo, mastro mirrante, e di Gaspara Spada, levatrice. La mia disgrazia è quella di non esser nato quarant'anni prima, che a quest'ora sarei forse maresciallo come il Trivulzio, che non è niente più galantuomo di me. Cosi invece domani sarò impiccato; non è che una combinazione.—

Più sotto, e con molto spazio interposto, il condannato, forse in un momento di riflessioni serie, aveva scritte quest'altre parole:

—Non so bene che opinione abbia di me il padre eterno, ma se è giusto, dovrebbe usarmi dei riguardi.—

Queste parole fecero una strana impressione tanto nel duca, che nel Palavicino, il quale, dopo alcuni momenti, cominciò a far molte interrogazioni a quel tristo. Ma non gli venne fatto di cavarne ciò che desiderava. Quel soldato non aveva conosciuto neppur di persona il Lautrec, nè disse altro se non d'esser stato obbligato per forza a quell'assassinio e che se coloro che lo avevano condannato a morte avesser conosciuto com'era corso il fatto in tutto e per tutto, lo avrebbero senz'altro rimandato assolto.

Sollecitato allora a palesare ogni cosa, rispose, che quel ch'era stato era stato, che lui aveva data la sua parola, e che non avrebbe mai detto nulla di più.

Accortosi allora il Palavicino che non riuscivasi a nulla, staccatosi da lui, si volse ai due francesi, dai quali potè finalmente raccogliere tale circostanza che lo raffermò nella sua credenza.

Potè sapere che il caporale francese che aveva dato carico a quei quattro soldati d'assassinare il Palavicino, prima della battaglia di Novara, essendo ancora agli stipendi del Lautrec, era stato da costui spedito espressamente a Milano, dove si fermò qualche tempo e dove aveva conosciuto di persona il Palavicino.

—Quand'anche tu non mi dicessi altro, disse allora il duca a Manfredo, stando così le cose io sarei già del tuo medesimo avviso. Ma ora usciam tosto di qui, chè la presenza di costoro mi guasta il sangue; usciamo che son pure impaziente di sapere il resto da te.

Così non avendo altra cosa che li trattenesse colà, si partirono da quel tetro luogo, e per logge e scale riuscirono sullo spaldo occidentale del castello, colà appunto dove di presente ci si offre come un punto appoggiato a que' due archi di sì straordinaria ed ardita altezza, che di quella parte di castello, se si ha riguardo anche all'effetto del torrione interposto, ti fanno una scena grandiosa e pittoresca.

In quel luogo adunque interrotti da tante migliaja di voci che ronzando incessantemente al basso salivano sin là con un rumore d'acque scorrenti, i due giovani s'intrattennero a lungo nell'abbandono della loro amicizia, e il Palavicino fu sollecito di narrare al duca quanto anche a' nostri lettori potrà schiarire la faccenda dell'attentato.

CAPITOLO III.

—Io ti racconterò, prese a dire il Palavicino allora, quanto il Morone ancor non sa; perchè, fuori di ciò ch'era indispensabile per metterlo sulla via di far qualche scoperta, a lui ho taciuto il meglio, ovvero sia il peggio della storia mia… Son cose strane, cose intralciate, alle quali per verità io non saprei dar fede se non fossero accadute a me stesso; ma sentirai… Tu sai bene, e tante volte ne ho parlato, com'io, scacciato dalla mia casa e messo, come suol dirsi, in sulla strada da quell'uomo inesorabile di mio padre, mi trovassi a un tratto tutto solo, senza mezzi e senza speranze, che mio padre troppo bene lo conoscevo, e dalla povera mia madre, per quanto si struggesse di angoscia e d'amore per me, non poteva sperar soccorsi, tanto era severamente guardata. E così in quella stretta, per quanto la disperazione m'intorbidasse la mente e il pensiero di quella donna soave di mia madre, di cui gli atti e le lagrime e le ultime parole mi risuonavano troppo bene nell'animo, non mi lasciassero aver pace un momento, pur presi un partito, ed era l'unico per verità ch'io potessi prendere allora. Sapevasi da tutti come Giulio II, unitosi improvvisamente, e contro l'aspettazione universale, ai Veneziani ed agli Spagnuoli, avesse pensato mover le armi contro Francia; come ardesse un furioso incendio nel mezzo dell'Italia, e si fosse al punto oramai che tutto avevasi a decidere con una risolutiva giornata. Io, che in quei momenti avrei desiderato, e per verità ne andavo in cerca, che qualcuno m'assalisse così a man salva e mi finisse una volta, colà, dissi, fra quegli orrori della guerra troverò molto bene il fatto mio. Ancora mi rimane a tentar qualcosa pel mio paese, e s'egli è vero che talvolta una penna fa traboccar la bilancia, chi sa ch'io non sia quel tale che la faccia appunto traboccare al danno di questi Francesi; e in tal pensiero confortandomi tutto, mi recai dal conte Mandello, l'unico uomo in tutta Milano al quale potessi domandar qualche cosa senza timore che mi ributtasse, o ch'io ne dovessi poi arrossire per rinfacciamenti. Recatomi da lui dunque, e dettogli il miserabile fatto mio, egli mi offerì ogni sorta d'aiuti, tanto è largo il cuore di quell'uomo, ma saputi i miei propositi, mi diede dell'oro e un cavallo. E mi ricordo benissimo che nel darmi la ben andata, mi baciò in fronte tutto commosso e quasi in lagrime, lui che non si sconcerebbe se crollasse il mondo, ed è quel capo strano che tutti dicono. Con quell'ajuto me ne uscii così da Milano, e un po' a passo, un po' a trotto, fra pochi dì mi trovai nella Marca, proprio nel cuore della guerra. Era una faccenda, una confusione, un tramestio indicibile. Un passare e ripassar continuo di soldati ora alla spicciolata, ora a truppe. Uno spavento di quei poveri abitanti, che non aveva tregua un istante, e un fuggire, un ritornare, un disordine insomma che a tutt'altri, Dio sa, che noia avrebbe recato, fuorchè a me che aveva bisogno d'alcuna cosa ben forte che mi sbalordisse e più non potessi ricordarmi delle mie miserie. In quel viaggio incontratomi con un tal Tullio Orlando di Macerata, assai ricco gentiluomo, col quale allo studio di Padova aveva vissuto assai intrinsecamente.—Io vado a Rimini, mi disse, se tu vieni con me, vedrai che il tempo che vi passeremo sarà il men male buttato della nostra vita.—Ed io vengo, gli risposi, ben contento d'aver trovata compagnia, e così senz'altri incontri, entrammo in Rimini la seconda festa di Pasqua nel 12. Ma appena misi il piede in quella città, m'accorsi, come si suol dire, di aver dato in un trabocchetto. Era tutto pieno di soldati e di baroni francesi, e per ciascun uscio ve ne saran stati un dieci buonamente.

Pensa or tu, com'io potessi star bene colà. Dovetti per altro stupire, vedendo come que' soldati francesi, contro il loro solito, si comportassero tanto gentilmente con lutti gli abitanti, e se mai per parte loro intervenisse alcun disordine, le punizioni fossero esorbitanti. D'un fatto così straordinario, ragionando appunto con quel mio amico Orlando egli mi fece capace della vera cagione.

Il signore di Lautrec, o il conte Odetto di Foix, come altri il chiamavano, che era già marasciallo de' Francesi, e il braccio più forte e più terribile dell'esercito, s'era fieramente invaghito della duchessa Elena di Pitigliano, signora di Rimini, ed ella di lui, come tenevasi da tutti. Egli era già da qualche tempo che si eran conosciuti, ma in quell'anno del 12, salito il Lautrec a molta altezza, aveva chiesto la mano di lei, e quand'io arrivai a Rimini si stava appunto apprestando ogni cosa pel dì delle nozze, e gli apparecchi erano regali. Si diceva tra il popolo, che l'amore di quell'uomo per la duchessa molto somigliava a furente pazzia, e se la signora gli avesse comandato facesse passare a fil di spada tutto il suo esercito, volentieri lo avrebbe fatto.

Quella donna, quantunque non avesse più di ventun anni, era già vedova del duca di Pitigliano, ed era gran tempo che parlavasi dei fatti suol per tutta Romagna, per Roma segnatamente, dov'ella era nata. In qual modo, mortole il marito, a lei fosse data investitura della città di Rimini, tolta già da molti anni ai Malatesta e passata d'uno in altro padrone, alla maggior parte non era ben noto. V'era bensì chi ne sapeva qualcosa, ma ne facevano grandissimo mistero, e quando mai se ne domandasse, il discorso lasciavasi cadere in terra. Capii insomma, che quella storia doveva bruciar la lingua a chi la raccontasse, e perciò fui costretto a rimanermi co' miei desiderj, e adesso non ne so più d'allora. Di costei io ne avevo già udito parlare qualche mese prima a Bologna tra que' signori, ma con parole di profondissimo disprezzo, e d'altro non mi avevano invogliato che di veder la sua grande bellezza e di sentirla cantare, chè tutti dicevano ch'era una Sirena, e ne aveva difatto tutto il costume. A Rimini per altro, e segnatamente fra il popolo minuto, se ne diceva un gran bene, non già della bellezza e dell'altre sue virtù che nessuno metteva in dubbio, ma della carità e delle sue larghezze nel beneficare, e tutti ne parevano innamorati, e fra 'l popolo era chiamata la Semiramide. Per questi vari giudizj, e per sentir sempre a magnificare quella sua straordinaria bellezza, venni in grandissima volontà di vederla, e mi raccomandai per questo all'Orlando, che era assai ben conosciuto dalla duchessa medesima. Una sera che c'eran grandissime luminarie per la città, e nel palazzo della signora ci dovevan esser musica e danze, l'Orlando mi dice:—Se vuoi venire il momento è buono,—ed io quantunque sapessi che mi sarei trovato tra quella maledetta peste di Francesi, che ammorbavan l'aria di tutta Rimini, pure molto volentieri mi lasciai condurre.

Aspettato colà molto tempo tra una densa moltitudine che già cominciava a darmi noia, vidi entrar finalmente la duchessa nella maggior sala. Circondata dalle gentildonne, dalle ancelle, dai paggi che formavano il suo seguito, corteggiata da un numero infinito di quei baroni francesi, tutta coperta com'era d'ori e gemme, a me fece in sul primo l'effetto d'un'apparizione straordinaria. Allora avendo tentato avvicinarmi a lei più che fosse possibile per osservarla meglio, mi parve che quel suo viso non mi riuscisse nuovo del tutto, e ch'io altra volta avessi veduto talun'altra chele somigliasse. E affaticandomi così a cercar nella memoria chi mai fosse quella, mi sovvenne allora d'aver veduto alcuni di prima il ritratto della Cenci. Ed era appunto l'immagine di questa sciagurata ed infelice fanciulla la cui perfidia e la cui bellezza m'aveva fatta tanta impressione, che non mi faceva parer più nuovo il viso della duchessa Elena; e se quel ritratto fosse stato eseguito espressamente per lei, non si sarebbe potuto far cosa più al naturale.

Questa strana somiglianza, e le misteriose e tronche parole che mi vennero udite sul conto di colei produssero in me, così di volo, un'impressione di raccapriccio e d'orrore. E allora, facendo certi strani sospetti, mi son messo ad osservarla con più d'attenzione ancora, tentando quasi di raccapezzar qualche notizia, leggendole ne' tratti del volto, che come tu sai, parlan chiaro talvolta. E forse, per la triste impressione che me n'ero fatta, sotto a quelle forme di una grazia divina mi parve che si nascondesse tal cosa che guai se fosse apparsa di fuori. Quel suo riso che per lo più sembrava nuotasse come in una giocondità festiva, tu lo vedevi di tratto subire certe trasformazioni repentine e sfuggevolissime che te la facevano parere tutt'altra donna. Alcun che di mesto e di tetro. Che so io? Qualche cosa di questo. Del rimanente, può darsi benissimo che io sia le mille miglia lontano dal vero. Ma è però tanta la curiosità in cui sono venuto, che la prima volta ch'io mi recherò a Roma, farò tali indagini che ne verrò a capo senz'altro.

Tornando adesso a quella sera, per quanto io non potessi vincere quei sospetti, pure le benedizioni del popolo, e quel fatto vero e presente e continuo della pietà sua e delle sue beneficenze molto poterono sull'animo mio, e se non altro mi sentii tentato a scusarla. Fu assai per poco però, e quella mia buona disposizione dileguò in un momento. E quando entrò nelle sale il signore di Lautrec, ch'io vedeva allora per la prima volta, mostrando manifestamente nel volto e in tutta la persona i segni d'un atroce orgoglio che si sarebbe conosciuto un miglio lontano, si accostò a lei, ed io pensavo ch'ell'era contenta di sposarlo, che lo amava ardentemente (il maresciallo, quantunque a me fosse odiosissimo, pure per le forme del corpo e per una certa bellezza virile, allora poteva benissimo piacere ad una donna); considerando che, quantunque dovesse vivere in gran timore del papa, dal quale dipendeva, ella per amore di lui, giovava manifestamente la causa dei Francesi soccorrendoli delle numerose bande ch'erano al suo soldo, mi sentii tutto rimescolare di sdegno, e: va, dissi, tu non puoi essere che una pessima donna. E senza più, subito uscii di quelle sale e non ne volli saper altro.

Avvicinavasi intanto il tempo che tra i Francesi e quei della lega sarebbesi venuto ad una giornata campale, e tra pel numero poderoso delle truppe, che d'ambidue le parti mettevansi in ordine, tra che la somma intera delle cose pareva dipendere da quella giornata, tutto dava a credere che dovesse riuscire assai terribile. E subito allora mi maneggiai per entrare in una colonna di cavalleggeri italiani al soldo della Spagna, e col grosso dell'esercito presto ci accostammo a Ravenna. Il dì 12 d'aprile s'impegnò la zuffa generale, ed io potei vedere papa Leone, il quale allora non era che cardinale, in sola stola e sottana, ciò che prima non s'era mai visto, governare molto bene le mosse, e ti so dire che in campo io non ho veduta faccia d'uomo più imperturbabile della sua e puoi ben credere che intorno al suo capo fischiavano le palle degli archibusi e la scaglia delle artiglierie francesi. Ma se dalla nostra parte c'era papa Leone, dall'altra c'era il cardinal Sanseverino che faceva altrettanto. Or io non ti descriverò già quella battaglia, che il Sacramoro te ne deve aver parlato abbastanza, solo ti dirò che fu terribile ed ostinata qual s'era preveduto, e fu la prima volta quella ch'io potessi dire di trovarmi in guerra veramente.

Verso le 22 ore, come fu manifesto per chi era la fortuna, si cominciò a vedere un disordine indicibile nel campo nostro, e gli orrori di quella giornata furon tali, che mi rimarranno sempre nella memoria. Allora, quando il sole già si ritraeva sulla cresta dell'Appennino, noi pochi cavalleggieri italiani e qualchedun altro degli sbrancati ci raccogliemmo insieme a tentare qualch'altro colpo, quantunque senza speranze; ma la guerra è come un giuoco, che quanto è più forte la perdita, tanto più ci si ostina, e si continua finchè ci è vita. E visto come i cavalli di Gastone s'eran dati ad inseguire un grosso drappello di Spagnoli, ci mettemmo a quella volta, e si arrivò allora appunto che una palla d'archibuso fracassò la testa di Gastone di Foix, il gran capitano. S'impegnò qui una zuffa orribile tra i nostri, che volevano approfittare di quel colpo inaspettato, e i Francesi che, messi in furore da quella sventura, parevan belve anzichè uomini. E a me, che in tutta la giornata non aveva quasi tocca ferita, cominciò qui a grondarmi il sangue da tutte le parti, nè perciò mi ristava, ed ebbi campo di vedere il Lautrec medesimo che in quella stretta mandava urli come un invasato, e colla sinistra tenendo stretto a sè il corpo morto del giovane Gastone, rotava colla destra un suo spadone a due mani. Il Lautrec, essendo cugino di Gastone, grandemente lo amava, e parlavasi appunto nell'esercito di quel suo straordinario amore per quel giovane. Ma era suo costume questo che, tanto nell'amore quanto nell'odio, quell'uomo trascendesse sempre i limiti. Quando gli fui addosso col cavallo e coll'azza, quantunque facessero già i crepuscoli, potei benissimo vedere la sua faccia che era coperta di ferite che faceva orrore, e mi ricordo che mi rivolse alcune furibonde parole che non ho potuto comprendere. Ma in quella perduta la spada, lui cadde in ginocchio oppresso dal numero, e a me, quando tutto già pareva finito, pel molto sangue che faceva sdrucciolevole il terreno, cadde pure di sotto il cavallo, intanto che due roncolate mi passarono la spalla; caduto mi trovai viso a viso col Lautrec che, sebbene non potesse più muoversi, continuava tuttavia a guardarmi inferocito e destava in me un raccapriccio indicibile, quando finalmente un colpo di spingarda gli fracassò la testa e cadde, io credetti, morto, col capo indietro. Non movevasi più nessuno d'intorno a me, imbruniva del tutto, ed io, soffocato dal cavallo che era morto; (era ancor quello del conte Mandello), e per quelle roncolate che mi davano un acuto spasimo, e pel molto sangue perduto non poteva più rialzarmi. Sorgeva la luna in quel punto che, tentato un ultimo sforzo per disbrigarmi dal cavallo e dal Lautrec, mi vennero invece i bagliori agli occhi, e so ch'io dissi fra me stesso:—Questa è ultima mia ora;—del resto non so altro. Il dì dopo, quando fui sveglio, due soldati francesi mi portavano a mano e mi deposero sur un carro di trasporto. Per non portar segno alcuno, e forse per avermi trovato insieme al Lautrec, mi credettero uno di loro. Medicato così e fasciato alla meglio, ho sentito uno di quei chirurghi a dire in francese, che io già intendevo poco: questo si può benissimo trasportare a Rimini. Era tanto il numero dei feriti, che si dovettero alloggiare così come si poteva in più piazze. I peggio aggravati si raccoglievano in Ravenna, e qui di fatto venne condotto il Lautrec, della cui vita al tutto si disperava. Gli altri in quelle altre cittadelle del littorale. A me poi toccò la più lontana, che era Rimini, perchè quantunque così malconcio fui tenuto per uno dei più sani.

Convien dire che tutti coloro cui toccò la sorte di alloggiar in Rimini furono i meglio capitati. La duchessa Elena ci fece alloggiar tutti in castello, e ogni sorte di cure ci prodigò quella donna. Tutti i giorni, ad una cert'ora, veniva a visitarci e a distribuir consolazioni, e quando compariva, so che a taluno di coloro che giacevan malissimo condotti, pareva rinascere, quasi fosse lei quella che avesse a rimarginare le ferite. Ora odi bene.

Un giorno ch'ella venne per quelle solite visite, si avvicinò ad uno di quei chirurghi domandando notizie di me, ed io giacevo sul letto a pochissima distanza. Avendole detto il chirurgo ch'io era quello, ella subito mi si volse con parole assai cortesi, mi disse che glien'era stato parlato (quel mio amico Orlando aveva fatta buon'opera) sapeva tutti i miei casi, e mi compiangeva moltissimo, onde chiedessi quanto io voleva, ch'ella si recava a gran fortuna il giovarmi.

Solo, in terra straniera, in pessimo stato di salute, quelle parole, lo confesso, mi furono di una grande consolazione, e quel rancore che io aveva per lei, posso dire che se ne andò tutt'intero. Era la gratitudine che lavorava, ed io credo d'averle risposto di conformità a quelle sue cortesie, onde mi parve ne rimanesse soddisfatta. E così, tornando quasi tutti i giorni in quel luogo, fermavasi al mio letto e volle che io stesso le raccontassi tutte le mie sventure. Parlando l'italiano poteva esser certo di non esser compreso da chi mi stava d'intorno, onde le dissi il perchè mio padre m'aveva così duramente scacciato, ch'io tanto odiavo il nome francese, che non so quel che avrei patito piuttosto che farmi con loro, che su quel letto mi trovavo per sbaglio d'altri, e guarito appena, tosto me ne sarei andato, che la mia vita era tutta rivolta alla totale distruzione di coloro. A queste mie parole io vedevo che a lei si cangiava spesso il colore del volto e taceva. Stupivo poi, che parlandole sempre a quel modo di que' suoi francesi, tornasse poi sempre a visitarmi ogni dì e non mi avesse ancor preso in odio. Ma il cuore di quella donna la portava naturalmente al beneficio e non la guardava pel sottile.

Di tal maniera passò tutto un mese; e siccome intorno a questo tempo avrebber dovuto succedere le nozze tra la duchessa Elena e il Lautrec, se costui non fosse stato in termine di morte, ne domandai notizie ad uno di que' chirurghi, che benissimo mi contentò. Erano passati più dì prima che avesse potuto dar segni di vita, e cominciava allora solo a riaversi. Seppi poi che la duchessa era corsa a Ravenna in sul primo, e da que' chirurghi non fu lasciata entrare, che ritornata quando il Lautrec cominciava a star meglio, anche lui non aveva voluto riceverla, e ci furono grandissimi guai. Alcuni giorni dopo venne da me l'Orlando, e interpellatolo di questa avventura strana, mi raccontò che la duchessa, la quale stimavasi grandemente offesa per essere stata due volte rimandata, aveva finalmente ricevuto una lettera dal Lautrec medesimo, che con amorosissime parole le diceva che lui trovavasi bene ormai, ch'ella intanto disponesse ogni cosa per le nozze imminenti, che risparmiasse d'andarlo a visitare in Ravenna, per delle ragioni che le avrebbe manifestato poi. Che quando sarebbe tempo, lui stesso tornerebbe a Rimini; e senza più verrebbe a presentarsi all'altare, della qual cosa le manderebbe espresso avviso.

A te parrà ora assai strana la maniera con cui comportavasi il Lautrec; ma la causa non mancava, ed era ben grave, come sentirai.

Intanto anch'io andava riavendomi un giorno meglio dell'altro, e cominciava anche ad uscire un poco sul battuto del castello a riconfortarmi all'aria; e la duchessa continuando sempre a visitare i feriti, non mancava di venir a vedere anche me, e s'intratteneva in molti e diversi discorsi. Un giorno, odi questa, ella erasi appena partita, ed io, appoggiato al parapetto della loggia, stavo appunto osservandola che nella gran corte risaliva a cavallo, com'era suo costume, sento battermi sgarbatamente la spalla; mi rivolgo e vedo accanto a me un tal uomo del qual non ti ho parlato sin d'ora, ma che era venuto a Rimini sin dall'inverno per unirsi ai Francesi, del cui aiuto gli premeva moltissimo. Costui era il signore di Perugia, Giampaolo Baglione, uomo che io avrei odiato cordialmente, se fosse stato degno dell'odio mio; ma già è inutile ch'io te ne dica altro; tutta Italia sa chi sia questo mostro. Costui adunque, seguitando un pezzo a guardarmi fisso e ghignando:—Allegro, mi disse, giovinetto, a te si prepara buonissima tavola, e costei ha molta carità per te: carità pelosa quanto mai può essere; ma tu provvedi al fatto tuo, e v'immergi il becco più che puoi, intantochè quell'altro pensa a guarire.—E continuando a ghignare d'un modo che gli era particolarissimo, se ne andò mezzo zoppicante, travagliato, com'era, da certi suoi mali osceni. Io stetti pensando un poco a quanto colui mi aveva detto; sapendo però che agli occhi di quel laido uomo non ci poteva esser cosa che non paresse viziata, subito mi levai d'apprensione e non ci pensai altro. Non sapevo che da quelle parole appunto dovevano scaturire guai terribili per me. Ma or viene il grave. Erano passati due mesi, e si era agli ultimi di maggio. Il Lautrec era guarito oramai, e per verità, pensando com'era ridotto quando mi giacque vicino, fu un vero miracolo s'egli si riebbe così presto. Mandò espressamente a dire alla signora, che sarebbe venuto a Rimini la sera del 31 di quel mese medesimo, che essendo pressato di partire col grosso dell'esercito, le avrebbe dato l'anello allora, e stettero in questa. Il dì 31 non fu tardo a venire, e si sapeva che gli sponsali dovevan farsi nella chiesa di s. Francesco Saverio. Ci dovevano intervenire i principali baroni francesi, due vescovi consanguinei della duchessa Elena, venuti espressamente l'uno da Palermo, l'altro da Nocera, il cardinale Sanseverino, che doveva sposarli, tutto il capitolo, e i principali della città. Venne dunque la sera, e all'orologio di s. Francesco suonò presto l'ora di notte.

La chiesa erasi chiusa al popolo, e fu solo per mezzo dell'Orlando se a me venne fatto di mettervi il piede, ed ora non saprei dirti perchè mi sentissi tanta voglia d'esser testimonio di quegli sponsali. Quando entrai nella sagrestia, mi dissero che la duchessa Elena, arrivata in quel punto coi due vescovi, colle dame, coi paggi, con tutto il seguito, era nella gran sala, ove soleva tenersi il capitolo, e in quell'occasione splendidamente apparata; vi stava aspettando il signore di Lautrec, il quale aveale mandato a dire sarebbe entrato in chiesa addirittura, e lo aspettasse. Passò così molto tempo, e la duchessa pareva inquietissima; parlava ora ai cardinali, ora alle dame, e si comprendeva bene che quel ritardo le dava grandissima noia, e quanti eran presenti, persino que' baroni francesi, se ne maravigliaron forte. Finalmente fu udito dagli atri del cortile un tintinnio di sproni e un suonar d'armi, e lo sbattere d'un puntale sul pavimento; tutti dissero ad una voce: Egli è qui! e sulla soglia della sala apparve di fatto l'alta figura del Lautrec. Era tutto coperto di ferro, e avea la buffa calata sulla faccia. Senza innoltrarsi un passo, e con una voce alterata assai, che non sarebbe già sembrata la sua, se non fosse stato per quell'accento, a lui particolare, che si sentiva il bretone lontano un miglio, dice in italiano:—In chiesa subito; io vado innanzi; seguitemi tutti,—

E senz'altre parole, dato di volta, fece appunto quel che disse, ed entrò in chiesa il primo. Questo suo comportarsi, in una tale occasione segnatamente, era, se si vuole, assai strano, per non dir peggio; ma sapendosi come foss'egli uomo singolare e sprezzantissimo d'ogni regola, non fu alcuno che ne stupisse, e tutti lo seguimmo. Quella chiesa era un quadrilungo a tre navate, epperò molto capace; all'altar maggiore avevano acceso un così gran numero di ceri, che pareva fosse in fiamme tutto quanto, ma il resto della chiesa era bastantemente oscuro. Tutto il seguito, che era numerosissimo, si dispose intorno alla balaustrata; innanzi alla predella dell'altare i due vescovi ed altri grandissimi personaggi.

La duchessa Elena si pose in ginocchio sull'uno dei due cuscini di seta d'oro fattivi collocare espressamente. Alla sua dritta, innanzi all'altro cuscino, ritto in piede, immobile, tutto ferrato e sempre colla buffa calata sul viso, il maresciallo Lautrec. Venne finalmente il cardinal Sanseverino che doveva sposarli. Pronunciate le prime parole latine, disse sottovoce il Sanseverino al Lautrec: Siamo all'altare, levate la buffa. A queste parole, io che gli stavo quasi in faccia sull'ultimo gradino della balaustrata, e benissimo potevo notare ogni cosa, lo vidi star perplesso un momento, e quando poi alzò il braccio per levarsela in fatto, quello gli tremava forte come una canna sbattuta. Si scoperse alla fine; uno strido acuto della duchessa, che balzò in piedi spaventata, fu la prima cosa che successe a quell'atto, o subito un commovimento universale, un bisbiglio per tutta la moltitudine astante. Se invece della figura del Lautrec si fosse piantato li uno spettro, una apparizione spaventosa, che so io, un carcame d'uomo con teschio da morto che si movesse, la maraviglia, l'orrore, il commovimento non sarebbe stato maggiore. Io non ti saprei dire a che cosa potesse allora somigliare la faccia del Lautrec; soltanto io so, che faceva ribrezzo e spavento, tempestata com'era, guasta, mutilata dalle ferite, schifosa, e la sua voce che, come t'ho detto, m'era parsa così alterata, dipendeva da ciò, che uscendogli pel naso, del quale non gli rimaneva che la nuda e secca cartilagine, rendeva quel suono che dà la nota più bassa della cornamusa. E mai nè prima, nè dopo io non ho veduto faccia d'uomo più orribile di quella, a tal che, gli occhi al primo vederla involontariamente ne sviavano. Ma in mezzo allo sconvolgimento, al bisbiglio, che grado grado si trasmutò in frastuono, il Sanseverino imperturbabile seguiva a pronunciar la sua formola fino al punto che si rivolse alla duchessa Elena, la quale s'andava contorcendo le mani e faceva tali atti che pareva al tutto uscita di sentimento. In quel punto tutti si stavano in grandissima aspettazione di quel ch'ella avrebbe risposto, ed al rumore succedette un silenzio così profondo, così perfetto, che s'udirono chiaramente le due ore di notte che suonavano in quella all'orologio posto sopra la chiesa; la duchessa si ritrasse allora in mezzo alle sue donne, quasi volesse ripararsi fra quelle…. e una voce che sordamente le andava gorgogliando in gola, uscì finalmente in un no acuto e disperato, che fu ripetuto dalla vôlta del tempio, e via fuggì precipitosa e come fuori di sè…. e le dame, e i paggi, e il seguito le tennero dietro in grandissimo disordine. Il Lautrec si percosse la fronte col pugno, si udì esclamare in francese: Ah! Il mio presentimento! con voce disperata, e assumere poi in quel punto medesimo una tale immobilità che pareva una cosa senz'anima. La duchessa era già fuggita con tutto il seguito; gli astanti, l'un dopo l'altro, dileguati, la chiesa quasi vuota del tutto, che il Lautrec stava ancor là immobile. Si scosse poi tutt'a un tratto, quando anch'io stava per uscir cogli altri. Si scosse con atti da furibondo; lo vidi ascender l'altare, afferrare il sacramento quasi volesse scagliarlo per terra, ma, trattenuto a viva forza dai tre cardinali inorriditi, cosa impossibile a credersi, quel terribile soldato cadde svenuto nelle loro braccia. L'amore che portava a quella donna toccava il furore, era fisso di possederla ad ogni costo, ed è facile a comprendere che non avea voluto scoprirle la propria deformità prima di quell'ora, credendo che, stretta dal tempo e innanzi all'altare non avrebbe saputo rifiutarlo. Ed io t'assicuro che, sebbene quell'uomo mi fosse odioso per mille ragioni, pure in quei momento ne sentii compassione profonda. E anche adesso, ch'io so ch'ei non vuole altro al mondo che la mia morte, e pensando a lui mi assale un raccapriccio che mi tormenta, pure comprendo ch'era degnissimo di pietà in quel punto. Di un simil fatto puoi ben credere quanto si parlasse per tutta la città, e tanto più quando si seppe che ritrattosi il Lautrec a' suoi alloggiamenti, proruppe in tutto quel furore che aveva rattenuto per tanto tempo innanzi all'altare. Nessuno dei suoi più non osava accostarsegli temendo d'esser fatto in pezzi da quell'uomo terribile, e in quella sera medesima recatosi ad uno dei finestroni del palazzo dove alloggiava giurò di vendicarsi dell'insulto di quell'infame donna sulla città tutta quanta, e vedendo com'ella s'era chiusa in palazzo, fatto guardare da una schiera numerosa dei suoi, le prometteva verrebbe il dì che sarebbesi ancor trovato da solo a solo con lei, che lui stesso l'avrebbe fatto venire quel dì, che s'attendesse ogni peggior cosa, e l'ingiuria sì crudelmente fatta soffrire a lui le sarebbe costata sangue assai più che lagrime.

Per verità che nella condotta della duchessa Elena riguardo al Lautrec c'era un'apparenza di perfidia; rifiutarlo per la sola cagione che più non aveva l'avvenenza di prima dava indizio ch'ella non lo avesse mai amato veramente. Ma s'aggiungeva a ciò un'altra circostanza, che agli occhi del Lautrec poteva far parere assai più trista quella donna. La condizion de' Francesi, dopo la battaglia di Ravenna, nè mai sconfitta costò tanto a quella nazione come una tale vittoria, aveva peggiorato a furia. Le truppe francesi dovevan sgombrare tutte le città della Marca, e que' tiranni della Romagna non avevan più nè a sperarne aiuti nè a temer vessazioni. Il Lautrec credeva si fosse infinta quella sua donna, e si fosse promessa a lui non per altro che pel timore di perder lo Stato o di che altro. E pensando a ciò, dava in così terribili smanie, che temevasi da que' suoi compagni d'arme avesse la sua mente a dar di volta del tutto…. Ma chi poteva mai sospettare che ogni cosa dovesse tornare in capo a me? Ascoltami or bene. Due dì dopo, quel tale Orlando m'entra in camera tutto scalmanato, e mi dice:—Non avrei mai pensato avessi a scegliere per tuo confidente quell'uomo tristo del Baglione. Il diavolo dell'inferno certo ti ha consigliato. Ma se a quel ch'è fatto non c'è più rimedio, or che sei in un gravissimo intrigo pensa a' fatti tuoi di fretta, e vattene con Dio, chè questo non è più luogo per te.—T'assicuro che in sulle prime non ho saputo comprender nulla di quelle parole, e stavo attonito, e mi venne anche voglia di ridere di quell'insolita furia, e con tutta calma gli risposi, ch'ei mi pareva più pazzo che altro, e però si spiegasse un po' meglio, ch'io non comprendevo parola di quel suo garbuglio. Allora mi spiegò chiaramente com'era la cosa ed io rimasi come sbalordito. Quel tristo Baglione il quale, mentr'era così orgoglioso ed atroce nel proprio dominio, superava poi tutti nell'accarezzare i Francesi, stimandoli il più valido suo aiuto contro il papa, forse per rendersi ancor più amico il Lautrec, gli disse (già ti sovverai delle parole che già ebbe a rivolgermi colui) gli disse dunque che nel tempo ch'ei si giaceva in letto ferito e moribondo, io aveva saputo sì ben fare colla duchessa, che assai facilmente l'aveva tirata all'amor mio, tantochè nessun altro adesso le stava sul cuore più di me. L'Orlando mi rimproverava l'aver io osato mettermi in quell'intrigo, mi diceva che mai non avrei dovuto dar retta alle parole di lei, che pure dovevo avere qualche esperienza di mondo. Quando gli risposi ch'egli era in un grandissimo errore, m'entrò a dire ch'egli sapeva tutto, che la duchessa era innamorata di me, che ne aveva le prove, e parlarne oramai la città tuttaquanta. Codesto insistere mi fece andar sulle furie, perch'io era certissimo che s'ingannava sul conto della duchessa, e per parte mia poi non era niente affatto innamorato di quella donna. Mi piaceva la sua bellezza, ma come piace un quadro del Leonardo e niente di più, e a Bologna avevo veduto la Bentivoglio che mi stava sempre dinanzi.

A quel mio sdegno parve che l'Orlando credesse qualche cosa e pensasse di non darmi più noia. Insistette però perchè io uscissi subito di Rimini, dicendomi che il Lautrec aveva rivolto tutto contro di me l'odio suo, e in quella prima furia aveva giurato che mi avrebbe finito in ogni modo, che sarebbe venuto a trovarmi e non isperassi di sfuggirgli. Risposi all'Orlando, che se il Lautrec avesse voluto venire, venisse, che io non mi sarei già mosso di Rimini per lui, e per tutto l'oro del mondo non avrei mai voluto parer così dappoco in faccia a lui e a tutta la città….

Per questa risoluzione quel mio amico si partì allora da me assai malcontento. Del resto io parlai in quel modo all'Orlando perchè così doveva fare, perchè non è detto che si debba sempre mostrar fuori l'animo proprio. Ma ora ti confesserò, e non arrossisco niente, perchè sarei poi sempre pronto a far quello a cui l'animo quasi si rifiuterebbe, ti confesserò che io ne provai un certo sgomento. Conoscevo il Lautrec…. e cosa vuoi…. è questo l'unico uomo innanzi al quale io mi sento tutt'altro da quel che fui sempre. Qualche cosa d'orribile, che so io? di straordinario, di sovrannaturale nella natura di quell'uomo…. del resto poi non so. Ma tornando a quella sera, mi confortai così alla meglio, e fermando in ogni modo di far tuttociò che mai non mi desse a credere d'animo basso, e quasi a provare che io aveva coraggio veramente, uscii fuori senza pensare ai pericoli.

Nel tempo che ho dimorato in que' paesi, io soleva prendermi grandissimo diletto, quando non aveva altro a fare, di recarmi così sulla spiaggia dell'Adriatico, o d'innoltrarmi talvolta qualche miglio in mare in uno di quei navicelli che s'usan colà; tanto quel cielo, quella natura, que' siti splendidi e pittoreschi, tutti nuovissimi per me, mi toccavano e mi davan forti scosse e grandissime fantasie. Avevo vent'anni, ero sventurato, la gentile figura della Bentivoglio spesso mi passava dinanzi come un'apparizione, avevo quella cara donna di mia madre a cui pensare, e della quale non mi giunse mai nuova finchè restai fuori, e godevo a star solo. Recavami sovente ad osservar le tordelle che, quando s'alza la marea, si riducono a riva e vi si fermano appoggiate immobilmente su d'una zampa, mi piacevano i gridi delle lodole di mare che annunziano il riflusso. A notte poi recavami talora a qualche distanza per godervi di quella scena così tranquilla insieme e così solenne, per sentire fra que' vasti silenzii, non interrotti che dal mormorio delle immense acque dell'Adriatico, i dolcissimi gorgheggi del chiurlo, il rossignolo marino, che ti mettono una sì soave mestizia nell'anima, che ti senti accorare, eppure ne hai piacere. E così, bene spesso tutto pieno di queste voluttà, sentivo batter le sei, le otto ore di notte ed ancor trovavami sull'acqua.

Quando venne da me l'Orlando quella sera, eran passati due giorni ch'io non mi poneva in mare impedito dalle nebbie, che in quell'anno frequentissime, avean durato tutto il mese di maggio, e in quelle due notti appunto s'erano alzate foltissime. E per ciò, uscito di casa quella sera, e veduto come l'aria invece era sgombra affatto e lucentissimo il cielo, pensai di mettermi in mare, e saltato in un mio battello che tenevo legato a un piccol molo, in poche sbracciate fui ben lontano dalla riva, e così senza pensarci, tirato da quelle care bellezze, m'innoltrai molto in alto. Non era passata un'ora, quando a un tratto, come se per arte si fosse stirato un gran velone, mi trovai circondato dalla nebbia, leggera però in sulle prime, e diafana così, che lasciava vedere come un chiarore perlato. Fin qui quel nuovo fenomeno mi piaceva moltissimo, ma la nebbia in poco d'ora si raddensò tanto, e fu così folta tenebra d'intorno a me, che temendo di non poter ritornare per quella notte, maledii d'essermi posto in acqua. E speravo soltanto fosse per passar qualche barca di pescatore, che in quelle notti nebbiose colle torcie a vento vanno a cerca d'arzàvole, e stetti aspettando qualche buon incontro. Stato fermo così un pezzo mi parve sentir finalmente alcune voci in lontananza, e poi un batter affrettato di remi. Diedi una voce, e veduto allora che la nebbia si rischiarava e facevasi rossa sempre più, capii che erano le fiamme delle torcie e delle fiaccole, e ch'io era stato inteso. Diedi un'altra voce, finalmente vidi spuntar la prima fiaccola, e una barca, poi un'altra, e un'altra ancora, e molti navicelli. Non erano pescatori altrimenti, ma soldati francesi in gran numero che, veduta la bella notte, s'eran forse anch'essi messi a diporto sul mare. Io non aveva a temer nulla da loro, e senza altro lasciatele passare innanzi mi disposi a mettermi in coda a quelle e tornare a Rimini. Ora, intanto che mi passava innanzi l'ultima grossa barca, mi venne osservata la faccia del Baglione che mi guardò fisso e subito si volse a parlare ad un altro. E non mi era passato innanzi due tese, che fui scosso come da una cupa ed aspra voce, e sulla tolda vidi balzar in piedi, con un movimento rapidissimo, l'uomo istesso al quale il Baglione aveva rivolta la parola, parlar poi subito a quelli che gli stavano intorno, i quali pareva gli rimostrassero qualche cosa con grandissimo calore; e taluni poi volessero trattenerlo per forza. Ma colui, arraffata una torcia di vento, lo vidi dalla barca saltare in un piccolo navicello che gli veniva di costa legato, e strappata la fune, sviarsi da quella e venire alla mia volta. Io vogavo ultimo, perchè il mio battello non venisse percosso, camminando di fianco, da que' grossi remi delle barche, e, per esser solo, non potendo aver la loro velocità, ero rimasto molto indietro. Vedendo allora accostarsi a me quel battello, quantunque avessi un sospetto, ho potuto credere un momento venisse per meglio aiutarmi. Ma quando mi fu presso, la torcia a vento rischiarando la faccia di quell'uomo mi fe' correre un gelo per tutto il sangue: era la faccia orribile del Lautrec.

Costui fece girare lo schifo e lo attraversò al mio. Mi guatò fisso un momento, mi afferrò per un braccio, e mi disse in italiano: Aspetta. Stette poi fermo ed immobile come ad ascoltare il battere dei remi, e le voci e le grida che si allontanavano, lasciò che svanissero del tutto, anche gli ultimi suoni più fiochi e lontani lontani, e quando la nebbia non essendo più attraversata dalle torcie e da nessun altro lume tornò a ravvolgerci nella sua fitta caligine, e il silenzio, un profondo, un orrido silenzio ci circondò da tutte le parti… si volse a me. Per quanto io fossi sopraffatto, per quanto io mi sentissi perduto, puoi credere che io stavo pronto, e aveva impugnata la mia daga grossa e a due tagli. Il Lautrec fermo l'occhio su quella, poi guardò a me, come se esaminasse parte a parte tutta la mia figura. Pareva mi volesse dire più cose ad un punto, ma i labbri tremanti pel furore non gli permettessero di parlare…. Del resto non ti saprei dire come fosse veramente… chè in quel punto io non era bene in me stesso. Ma proruppe poi a un tratto, e con quella sua voce nasale mi disse in francese mille arruffate parole, di cui altro non compresi se non che mi preparassi a morire, che la sua vendetta mi avea ghermito finalmente, che forse poteva esser l'ultim'ora anche per lui, ma in ogni modo non gli avrei mai sopravvissuto… e così grado grado facendosegli più aspra e terribile la voce, mandò nel suo bretone altissime imprecazioni, imprecazioni lamentose insieme e feroci, pareva un tigre ferito… e di slancio si gettò su me furibondo con tutta la persona. Ma, come doveva succedere, la barca gli sfuggì sotto, allontanandosi tanto che la fiamma della torcia si nascose dietro al nebbione, come dietro a un fitto velo, e lui cadde sull'orlo del mio schifo, che a quel peso accresciuto dalla caduta si ripiegò su d'un fianco al punto d'andar sott'acqua. Così in quel primo assalto costretto ad attaccarsi tenacemente al fianco del navicello, colui non potè niente lavorare col suo spadone, ma nè io pure avendo, pel trabalzamento, perduto al tutto l'equilibrio, potei difendermi, e caddi addosso a lui. L'acqua entrò allora nello schifo e, per quanto io fossi sbalordito, m'accorsi che non si aveva ormai più a morir di ferro l'uno per l'altro, ma sì tutt'a due annegati in un fascio, e fu tanta la mia disperazione allora, che colla daga menai più colpi al Lautrec che si riscosse, e intanto che l'acqua gorgogliando gorgogliando finiva di sommergere lo schifo, mi fece pure alquante ferite col taglio dello spadone. E allora, quasi a un punto, era un moto d'istinto? lasciammo ambedue i ferri all'acqua, ed io mi diedi a menar le braccia con una forza disperata e furibonda.

La nebbia non era ormai più rischiarata che da un cerchio rosso e fioco, formato dalla torcia dello schifo del Lautrec che, trasportato dall'acqua stava per scomparire del tutto ed era lontano lontano. Vedi che se fossi anche stato solo era bastante orrore, bastante pericolo per morirne, ma quell'atroce uomo mi veniva d'accosto inesorabile, e imprecava anche con certi muggiti sordi… un pesce cane mi avrebbe dato minor travaglio. Intanto io mi affannava per raggiunger lo schifo di lui che galleggiava in lontananza, e tanto potei fare, che mi vi accostai, nè solo m'accostai, ma potei anche aggrapparmivi agli orli. Respiravo un momento, e fu allora appunto che mi parve di sentire un altro rumor di remi affrettato…. Altre voci…. Mi si allargò l'animo del tutto, e mi credei salvo, mando un grido, uno strillo acuissimo per dare un avviso di me… ma in quella mi sento afferrar per le gambe come da una tenaglia che stringe e morde, e a dar tirate e squassi tanto che le mani lacerate mi si staccarono dagli orli. Il Lautrec era già tutto sott'acqua, nè potei capire come fosse stato, e tirava in giù sempre con forza più tenace. Mi vidi di nuovo, e irrimisibilmente perduto, nel punto medesimo ch'io vedeva prestissimo l'aiuto, poichè molte barche mi si erano già scoperte, barche di pescatori, ed io seguitavo a gridar alto. Ma quando una voce s'udì fra quei silenzi a domandare: Chi è qui? Chi annega qui? io non ho potuto parlar più. L'acqua salsa m'entrava pel naso, e tratto in giù precipitosamente, già mi si velavan gli occhi. Di que' momenti non ti posso dir altro.

Ma tu vorrai sapere in qual modo io sia ancor qui vivo e sano. La cosa è assai facile ad intendersi: a que' pescatori venne fatto riscattarmi. Io mi risvegliai su d'un povero letto, avvolto in coperte di lana, tutto fracido di sudore, e chi mi raccolse mi raccontò poi come, alcuni momenti dopo che avean raccolto anche l'altro annegato che non dava segni di vita, loro si era scoperta una barca di Francesi che pareva vogassero in traccia di qualcheduno, e saputo com'era il fatto, pagarono alquanti fiorini d'oro a' pescatori e condussero con loro il Lautrec. A quanto ne ho congetturato, bisogna che, quantunque costretti dai comandi minacciosi del Lautrec a lasciarlo affatto solo con me, pure, veduto scorrere sì gran tempo, e sospettando, com'era ragionevole, qualche grave sciagura, più che il timore dello sdegno del Lautrec che in vero avrebbe messo sossopra tutto l'esercito, abbia potuto il timore di perdere un così gran personaggio, ed una delle più valorose spade di Francia.

Così non riuscì al Lautrec nè di trarre, per allora, nessuna vendetta di me, nè della duchessa, che s'era chiusa in castello e assai bene fortificata, e due dì dopo, avendo le truppe francesi abbandonato quel paese, anche lui, sebbene per le ferite non potesse reggersi, dovette lasciarsi trasferire in Francia, dove il re lo aveva richiamato, conducendo seco un suo fanciullo di pratica altamente secreta, e intorno al quale correvano per Rimini molte e diverse voci; d'allora in poi più non ebbi ad incontrarmi con lui; ma alla battaglia di Novara, dove la barbuta savoiarda mi ferì a tradimento, subito mi venne in mente il Lautrec, e ho tentato ogni mezzo per cavar di bocca la verità all'assassinio; ma il suo labbro era di marmo e morì senza dir nulla. Allora il dubbio che mi sorse in mente si dileguò a poco a poco, e non sarebbe mai più risorto se l'attentato di ieri non mi avesse fatto ripensare al Lautrec.

Del resto io t'assicuro che un simil fatto ha prodotto in me assai più meraviglia che altro; chè io avrei temuto bensì ogni peggior cosa dal Lautrec, ma da lui medesimo, a corpo a corpo, stimandolo sin qui, come tutto il mondo ancora lo stima, tanto onorato quanto feroce. Ben è vero che la forza dell'odio è prepotente, e può bene avergli fatto cambiare anche il costume, e sprezzare ogni legge di cavaliere; non so poi se in questi tre anni sia intervenuto nulla alla signora di Rimini, ma in ogni modo temo che quel che non è avvenuto avverrà di certo, che quell'uomo, come ho dovuto accorgermi, non dimentica e non riposa.

CAPITOLO IV.

Ma per lasciare una volta quest'uomo, continuò il Palavicino, altre cose mi avvennero in quel torno di tempo, e fu in quell'occasione che per la prima volta potei conoscer dappresso la Bentivoglio. Non ebbi dunque nemmen campo di riavermi dalle ferite e da una violentissima febbre che spesso mi induceva in lunghi deliri, che altre forti e dolorose scosse eran preparate per me. E quando trovandomi bene oramai e avendo risoluto partirmi di Rimini, mi volli recare a ringraziare, com'era dovere, e a prender licenza dalla signora che sempre aveva mandato a prender notizie di me, m'incontrai, mentre metteva il piede in palazzo, in un tale che era suo famigliarissimo, il quale mi dice:—Due mesi fa cotesto palazzo poteva benissimo non avere invidia del paradiso, ma ora è diventata la casa del pianto; e alla signora, che dopo quel che è avvenuto s'è concentrata in se stessa, che non si sa più tanto che si pensare di lei, vennero a far compagnia altri sventurati. Già vi sarà ben noto come i Papalini siensi impadroniti di Bologna, e i Bentivoglio abbian dovuto fuggirne a furia. Ebbene, son qui padre e figlia. Il magnifico signor Giovanni e la Ginevra si son rifuggiati presso la duchessa.—Questa notizia mi fu causa di dolore e di piacere a un tempo, e per tutte le ragioni fu tale insomma, che mi fece risolvere a fermarmi ancora in Rimini. Ebbi a meravigliare però che il Bentivoglio avesse voluto scegliere quel luogo per suo rifugio chè certo non era il meglio adatto, e toccatogli di ciò a quel tale che mi diede l'altre notizie, soggiunse: che il motivo veramente dell'esser venuto colà era tutt'altro da quel che il Bentivoglio aveva voluto far parere, ed ecco com'era la cosa.

Il Bentivoglio sapeva che Giampaolo Baglione, signore di Perugia, non era ancor partito di Rimini, e al medesimo, che vedovo per la terza volta gli aveva chiesta la figlia due mesi prima, ed era rimasto senza risposta, veniva ora ad esibirgliela in fretta e in furia, sembrandogli in quell'improvvisa sua sventura, far grandissimo guadagno, e sperando per quelle nozze confederarsi stretto al Baglione, che era il più potente signore della Romagna e tutta cosa de' Francesi, e poter meglio così tentar l'impresa di ricuperare il dominio della sua Bologna.

In quel giorno, quando entrai nella camera della duchessa, stavan seduti con lei in un crocchio, il Bentivoglio, la Ginevra, il Baglione. Un colpo d'occhio mi svelò come stava l'animo di ciascuno e la Ginevra mi parve così accorata, così spaventata, che io mi sentii tutto commuovere di pietà; e tutto il mondo già sapeva che, per una donna, il dar la mano al Baglione era incominciare una serie interminabile di patimenti e di guai. A te ho già detto come, avendola veduta una sol volta a Bologna, mi facesse tale impressione che la sua figura sempre poi mi comparisse in fantasia. Non era per altro così pazzo ch'io osassi nutrire nemmeno la più lontana speranza! Chi poteva misurare la distanza che interveniva fra me così infelice, così solo, così abbandonato, e così povero, aggiungi, colla figlia di così reverito e potente signore, con quella fanciulla i cui destini parevano avessero a comporsi interamente coi destini di un re?

Ma in quest'occasione mi parve che si fosse immensamente accorciata quella distanza, ed io potessi farmele più dappresso senza che più mi paresse nè audacia, nè pazzia; forse un tale effetto dipendeva da ciò, ch'ella era divenuta così infelice, ch'io sentissi tanta pietà per lei, e che da questa appunto nascesse quella prepotenza d'amore che fa superare ogni ostacolo.

Mi piaceva poi ch'ella fosse la figlia di sì grande e riverito signore, che l'altezza della condizione riflette sempre un gran lume sull'uomo e sui pregi suoi naturali; ma il saperla caduta da quell'alta condizione, la rendeva assai più venerabile agli occhi miei, le aggiungeva uno straordinario, un ineffabile prestigio. Quel misto di miseria e di splendore, quella giovanile bellezza, precocemente sfiorata dagli affanni, produsse in me tale effetto, che io non tel saprei dir qui a parole; e allora pensavo al mio stato, consideravo come anch'io fossi caduto assai basso per l'inesorabile volontà del padre mio, e m'esagerava in mente, e quella prima altezza della mia condizione e quella bassezza presente, e per la prima volta ho saputo confortarmi delle miserie in cui trovavami, non per altro, che perchè somigliavan tanto alla condizione di lei. E mi affannava per persuadermi che il destino avesse espressamente combinata quella parità di sventura, e condotto gli eventi così, che io e quella fanciulla infelice ci trovassimo uniti ambedue nel medesimo tempo e nel luogo medesimo. Ma il veder lì presente quell'uomo osceno ed atroce del Baglione mi dava poi un insopportabile affanno.

E pensa come stesse l'animo mio quando, alcuni giorni dopo, l'Orlando mi parlò dell'angoscie e dei pianti di quella poveretta, e come tremasse della gelosa severità del padre suo e non osasse contraddirgli, e in pari tempo come avrebbe voluto morire piuttosto che darsi in braccio al Baglione. E però un giorno più dell'altro mi andavo sempre più infervorando in quell'amore che doveva essere la mia disperazione e il mio conforto a un tempo. Una sera nei giardini del palazzo della signora, la quale in quel tempo si comportava meco d'una maniera assai strana e impacciata, a me venne fatto di rivolgere alcune parole alla fanciulla, e d'udirla parlare, e si tenne parola della condizione di Bologna, e della loro fuga e de' Francesi, dai quali il padre suo sperava tutto, e rimasi maravigliato della perspicacia straordinaria di lei in cose segnatamente nelle quali le donne non sogliono, per lo più, aver molto intendimento. E più maravigliato ancora quando potei comprendere ch'ell'aveva in pessima stima il nome francese contro l'opinione del padre suo, e mi raccontò una storia mesta d'una giovanetta sua amica che da uno di que' gentiluomini francesi che stavano col Gastone era stata condotta a malissimo termine, onde ne era poi morta di crepacuore, e pensa che tenerezza io sentissi di lei in quel punto che, piena di santo sdegno malediceva quel tristo, e su quel viso fatto rosso dall'ira cadessero ad un tempo le lagrime a dirotta. Egli è a codesti slanci di passione e pietà inestimabili che una donna ti si fissa in cuore, e non te ne uscirà mai più per tutta la vita.

Ma tu vedi come provvedessi alla felicità mia sempre più infervorandomi in quell'amore che non poteva avere che un miserabilissimo fine, per esser le nozze col Baglione inevitabili. Alcuni giorni dopo ho potuto accorgermi di un far contegnoso ed insolito tra la duchessa e il Bentivoglio che mi ha messo in volontà di domandare quel che fosse avvenuto, e seppi poi che la duchessa Elena, a cui disperatamente la Ginevra erasi raccomandata s'era interposta e parlò al padre di lei, e tentò ogni mezzo a persuaderlo perchè non sagrificasse così miseramente l'unica sua figliuola. Ma riuscendo al Bentivoglio nuovissimi que' ragionari, e non sapendo nulla dalla figlia, che mai non aveva osato aprirsi con lui, salì in grandissimo furore e duramente si ritrasse colla Ginevra, che ebbe a passare amarissimi giorni, i più dolorosi della sua vita, ond'io tutt'alterato e commosso, e quasi disperato: Oh che fai tu, proruppi volgendomi a Dio e stoltamente imprecando, colla tua giustizia e colla tua misericordia se permetti che costei abbia a morire di angoscia per la tirannia dello spietato suo padre e se non provvedi a liberarla dalle mani scellerate di quel laido uomo del Baglione. Or senti cosa va a nascere, e va poi tu a negare la provvidenza di Dio infinita.

Due giorni dopo, faceva l'alba appena, entra da me l'Orlando: Grandi novità! mi dice; io m'alzo sul letto pieno d'attenzione, impaziente. Non sai nulla tu di Giampaolo Baglione?

—Nulla ne so, gli rispondo; ma cos'è avvenuto?

—È avvenuto, soggiunse, che stanotte i suoi famigli corsero per messer Liborio chirurgo, e credevano fosse morto in letto.

—Morto in letto?… Ma chi, morto in letto?

—Il Baglione, che non si sarebbe mai creduto. Stamattina però s'è alquanto riavuto, ma gli è dato fuori un male orribile, un mal vecchio; paga insomma i suoi disonesti peccati, ed ora è peggio malconcio assai di Lucio Silla. Altro che nozze, Manfredo, e il Bentivoglio è rimasto a secco.

Eran corsi due giorni infatto che il Baglione non s'era lasciato vedere a palazzo, ma nessuno ci badava sapendo che strano uomo lui fosse, e d'altra parte colle sue mille lancie alloggiava fuori di Rimini un miglio.

Io non ho saputo nè quel che ne disse, nè quel che ne pensò il Bentivoglio allora; nè ho potuto godere dell'improvviso sollievo della povera sua figlia, alla quale aveva Iddio così manifestamente provveduto. Fatto sta, che in quella settimana medesima m'alzo una mattina ed esco fuori. La città essendo ormai assai tranquilla, d'ogni minima cosa vi si parlava a lungo, però sento dire da tutti che il Bentivoglio colla figlia erano, da qualche ora, in viaggio diretti precisamente a Milano. Se tre dì prima io m'era sentito così confortato veggendola salva ormai dal pericolo d'andar sposa del Baglione, altrettanto fu l'abbattimento mio quando mi venne udito ch'ella non era più in Rimini. Quantunque non mi fosse conveniente il recarmi spesso presso a lei, finchè si rimase colla duchessa, e passassi molti dì senza nemmanco vederla, pure il sapere ch'ella respirava quell'aria medesima della città ov'io mi trovava, ch'ella mi era vicina, che se in me fosse mai nato un indomabile desiderio pel quale non potessi stare senza lei, avrei pure potuto recarmi a vedere quel divino suo volto, tutto ciò mi dava un indicibile conforto, e scosse e soprassalti di giubilo potente.

Quando seppi dunque ch'ella era partita, che una grande distanza già mi divideva da lei, ch'era forse probabile ch'io non avessi a rivederla mai più, io ne rimasi così percosso, così sconsolato che sentii pesarmi l'esistenza addosso e desiderai di morire. Nè il sapere ch'ella fra poco sarebbe stata in Milano, vedi bene che speranze poteva darmi, giacchè non v'era una ragione perch'io potessi tornarvi, e a vivere onoratamente senza ajuto altrui, ciò che troppo mi pesava, conveniva mi acconciassi con qualche capitano, il quale assoldasse gente e fosse in pari tempo nemico alla Francia.

Ora quel che avvenne di me da quelli anni in poi tu lo sai, e come risorgessi a un tratto per la subita morte del conte, fratello di mia madre, che volle beneficar me sovra tutti… Per verità che sino a questo punto, quantunque abbia trascorso dei momenti ben tristi, pure ho ancora a lodarmi della sorte mia, la quale mi cavò di tante sventure e tanti disastri; e volesse Iddio che le cose sempre, in avvenire, mi corressero così ma vuol essere difficile… Frattanto due sole cose io desidero ardentemente: che si vinca la battaglia di domani e che il Bentivoglio, vinto dalla necessità, non si rifiuti a concedermi la figliuola sua, della qual cosa è viva la speranza in me, vedendo che per la condizione in cui trovasi lui e la Ginevra, non è già facile che attiri l'attenzione di chi ha Stato o potenza in Italia o fuori. In quanto poi al Baglione, se non è già spacciato a quest'ora, non passerà gran tempo che lo sarà. So bene che qualche mese fa era corsa la voce ch'ei si fosse molto bene riavuto, ma io non ci credo niente, e il conte Besozzo che, non è gran tempo passò per Romagna, mi assicurò ch'altro non sono che falsissime dicerie."

A queste parole il duca di Bari, sapendogli male di lasciare l'amico in quell'inganno crudele, fu quasi tentato di metterlo in cognizione d'ogni cosa, ma ricordandosi della promessa fatta al Morone, e pensando che i consigli di costui non potevano essere in fallo, si tacque.

In questa, i due giovani udirono scattare il martello dell'orologio della torretta che battè due tocchi.

—L'ora è ben tarda, disse allora il Palavicino, e bisogna ch'io vada alla casa del Besozzo, dove stassera si raccoglieranno un cinquanta del nostri che staranno pel duca Massimiliano e per te, duca Francesco.

—Non so se il castellano abbia licenza dal cardinale di Sion di lasciarti uscire?

—Sa il cardinale il perchè, ed ha già dato gli ordini.

—Quando avremo a vederci noi?

—Domani all'alba.

—Addio dunque frattanto, e confida nella sorte e in Dio.

—E in chi altri ho a confidare? Dopo l'attentato di jeri notte, dopo ch'io so che la morte mia è desiderio e fine assiduo di chi si nasconde tra l'ombre, a me par come di passeggiare su d'un terreno, sotto il quale si celi una mina; però, se a me non accadrà d'esser balzato in aria sfracellato, non sarà che un miracolo d'Iddio.

Detto questo, si licenziò dal suo Francesco Sforza, che lo volle abbracciare. Quando fu per uscire si scontrò nel Morone, che veniva dalle camere di Massimiliano e che gli disse:

—È qui il duca Francesco?

—Egli è qui difatto; siete venuto a tempo, ed io vi lascio con lui; a rivederci all'alba.

E senza più altro si partì lasciando appunto il Morone col duca.

Quando il romore che faceva il puntale della spada del Palavicino si perdette sotto alle volte del castello, il Morone si rivolse al duca di Bari, il quale misurava a lenti passi lo spalto, richiamandosi in mente tutto quanto gli avea detto il suo amico.

—E così, disse il Morone, non sa nulla?

—Nulla affatto.

—Neppure un sospetto?

—Neppure. Ma io fui tentato dirgli ogni cosa, quando mi raccontò quel che avvenne tra lui e il Baglìone altra volta, e come la figlia del Bentivoglio per miracolo abbia potuto sfuggire dalle mani di costui; e mi faceva grandissima pietà il vedere quant'egli viva tranquillo e sicurissimo, e creda anzi che il Baglione sia così malcondotto da certo suo morbo osceno, che non possa ormai più riaversi.

—Ed era appunto quanto credeva tutta Italia, e quanto desideravano gli sventurati Perugini. Ma il lettore di medicina allo studio di Pisa, messer Lucio Bandini, voleva in ogni modo esser maladetto da tutti i suoi concittadini, e almanaccò notte e dì per guarire il Baglione, e vi riuscì; ed ora Giampaolo alloggia in Lodi colle sue cinquecento lande.

—Ma in che modo sapete che il Bentivoglio s'è recato da lui?

—Vi basti che ne sono certissimo, come son certo che le nozze che non han potuto aver luogo tre anni fa, tosto si compiranno in uno di questi dì. Il Marsiglio di Lodi venne jeri da me e mi disse ogni cosa, ed io gli raccomandai stesse alle vedette e m'informasse di tutto minutamente. So anche che il Bentivoglio jeri si recò a far visita all'abate di Chiaravalle; nessuno me ne disse il motivo, ma è facile congetturarlo. E pare che gli prema dar sesto alle sue cose in fretta e in furia, e sagrificare la figlia senza le formalità che possono trarre in lungo ciò che egli vuol subito.

—Il Palavicino mi disse il perchè, anche tre anni fa, premeva tanto al Bentivoglio d'unirsi in parentela col Baglione.

—Ed è facile a comprenderlo, e per ricuperare la sua Bologna metterebbe Cristo in croce; ma è quanto per verità io non vorrei che avvenisse.

—Perciò era mio consiglio mettere in cognizione di tutto il Palavicino stesso, il quale, chi sa, forse avrebbe trovato il modo di stornar quelle nozze.

—A suo luogo ed a suo tempo si potrà benissimo palesargli la cosa, ma oggi no. La notizia intempestiva l'avrebbe messo sossopra, e a noi è bisogno invece ch'egli sia benissimo in sè stesso. Perchè, già non è bisogno ripeterlo, questo giovane può essere di grandissimo peso nella causa vostra, e dell'ardore appassionato che ha per voi, e dell'odio che porta alla Francia può accender gli animi di tutto l'esercito. Io so benissimo come vanno queste cose, e come un solo talvolta valga per tutti. Dunque è bisogno ch'egli non sia stornato da nessun altro pensiero, che se domani si avesse mai a vincere la giornata, si troverebbe facilmente il modo di tener lontani il Bentivoglio e il Baglione e allora porrò il pegno io stesso che la Ginevra sarà sua e non d'altri.

—Sperate voi dunque che s'abbia a vincere la giornata?

—C'è l'uno per cento di probabilità; è ben poca cosa in vero, pure alle volte quest'uno è tutto, come ho detto. Del resto è sempre profittevole prepararsi al peggio che al meglio. Il re, senza contar le lancie, i lanschinetti, i fanti della Gheldria e i Guasconi, ha seco seimila cavalieri, il fiore della milizia d'oggidi, quarantamila fantaccini e diecimila uomini d'armi. E noi? cosa abbiamo noi? Cotesti svizzeri che non arrivano a cinquantamila, ed è qui tutto, e combattono per le paghe. Se poi le forze di re Francesco avesse ad ottenere quel che pur troppo è così facile ad ottenersi, allora la lega tra il Bentivoglio e il signore di Perugia mi porrebbe in peggior fastidio assai, e più che prima mi bisognerebbe che il Palavicino sposasse la Ginevra, e l'Appennino tagliasse l'amicizia dei due tiranni.

—Comprendo quel che volete dire; ma la cosa è al tutto impossibile. E per verità, sebbene in questa durissima stretta io non dovrei che pensare alla sventura della casa nostra, pure la sorte del Palavicino mi affanna, e vedo che furia di guai già lo minaccia dappresso.

—E questo mi pesa, per verità mi pesa, o duca, perchè alla fortuna di questo giovane io lego la vostra, la mia e la fortuna di tutta la città. Pure a molti costui non parrebbe che un semplice gentiluomo, buono tutt'al più che a lavorare di spada; ma io so bene quel che se ne cava.

—Anche se i Francesi avessero a rimettere il piede qui?

—Anche se Milano n'andasse tutta sossopra per loro, a me parrebbe d'aver fatto molto se mi riuscisse di gettar la discordia tra il Bentivoglio e il Baglione, e di mettere fra costoro due il Palavicino, perchè dopo, potete ben credere che giuocando a tavola reale, nessuno mi sbancherebbe.

—Ciò è verissimo.

—Questi tirannetti da feudo, sentine di vizj e di nefandità orribili, più dannosi della gramigna in un prato, han bisogno di una falciata ben netta che lor seghi il collo in una sol volta. Dieci anni fa si diceva ogni gran male del Valentino; ma a me, che ne ho sentito l'odore da lontano, non parve poi che portasse così gran fetore, e il ferro e il fuoco, a cui egli ricorreva così spesso, era buono a qualche cosa, credetelo a me. Ma tornando a noi, se il Bentivoglio, che in fondo è un galantuomo, si collegasse mai coll'atroce Baglione, papa Leone se ne resterebbe coi desiderj. Allora questo paese nostro anderà tuttoquanto sossopra, e i frantumi rimarranno nelle mani di coloro che, armati fino alla gola, se ne stanno a riva per godersi lo spettacolo del nostro naufragio. Ecco perchè desidero che il Palavicino sposi la Ginevra, e che nasca discordia tra questi due reicoli, che son quelli che più contano in Romagna. Son cose ben leggiere, leggiere al punto, che si perderanno inavvertite nella farragine di tanti avvenimenti; ma quando le cose saran condotte in modo che il Bentivoglio abbia sempre a correre in su ed in giù tra il desiderio e la speranza, e a guardar sempre da lontano la cupola del suo San Petronio; che il Baglione abbandonato a sè solo, abbia alla fin fine a piegar collo e ginocchio, e l'acqua perugina filtri, corrodendo, tra questo semenzajo di tirannetti, da' quali i Francesi ricevono tanto ajuto, vedrete che il papa prenderà il suo partito e virerà lui stesso la nave allora, e questo giovin re, così alterato dal vin di Provenza, pagherà forse ben cari i sorrisi, che il santo padre gli fa adesso. Dall'istante io temo tutto. Dall'avvenire qualche cosa attendo. Sperate.

—Per verità, messere, disse allora il duca di Bari, io tremo vedendo che nel Manfredo collocate le vostre speranze.

—Eppure se mi verrà fatto di stornar le nozze del Baglione colla Ginevra, io mi gioverò assai bene di questo giovane. In tutta Milano, come v'ho detto, non v'è altri che più vi sia affezionato di costui, e non so quel che farebbe per il maggior vantaggio della causa vostra.

—Ed è per questo che mi pone in apprensione grandissima il vederlo in così dura e pericolosa condizione, perchè, posto anche ch'egli abbia a sposar la Ginevra, non vedo per questo ch'egli possa essere al sicuro di nuove sciagure. Poco fa mi raccontò del Lautrec e della duchessa Elena, signora di Rimini; e che da questo strano intrigo non abbiano ad uscirne altri, è quanto ragionevolmente non si potrebbe credere. L'attentato d'jeri notte intanto n'è un tristo indizio.

—Pur troppo, o duca, gli è chiaro che il Lautrec ha pagato gli assassini… Ma adesso rechiamoci dall'eccellentissimo fratel vostro, che stassera mi è caduto d'animo affatto, e si vuole confortarlo.

CAPITOLO V.

Intanto il Palavicino, uscito dal castello di Porta Giovia, messo a un piccolo trotto il cavallo, passato per quelle vie bistorte tagliate a sghembo, senza livello, a piani ineguali, che allora venivan tutte distinte dal comune appellativo del Baccio, casupole e catapecchie della più minuta e lurida accozzaglia di plebe, si trovò presto nella vetusta contrada dell'Orso-Olmetto. Qui gli giunse all'orecchio un rumore, un frastuono insolito, e traendo dietro a quello, dato di sprone al cavallo e pervenuto al canto estremo di quella contrada, vide gran moltitudine di gente insaccarsi nella vicina di Brera del Guercio. Assai sollecito di sapere quel che fosse, arrestò un momento il cavallo, e ad uno che gli veniva accanto pedestre domandò la causa di quell'insolito movimento.

—Sono i tôffi e i caramogi di Porta Tosa, gli rispose il buon uomo, usciti dalle puzzolenti lor tane, a trarsi dietro tutta la folla degli altri birboni, e Dio sa che sconquasso saran per fare stanotte.

—È un pezzo che sono in volta costoro?

—Sarà un'ora adesso. Dal momento che si seppe che i soldati svizzeri eran stati chiusi in castello per non uscire che all'alba di domani, e i cento cavalli del Coreggio non potevano più staccarsi dalla greppia delle stalle ducali, subito si videro delle novità. E non par vero non siasi pensato a provvedere a tanto disordine. Figuratevi che in tutta Milano non ci sarebbero dieci labarde, a pagarle cento ducati per ciascuna… Sentite, sentite che or va in rovina tutto il rione di Brera… sentite…

S'udì in quella di fatto un gran rumore, un tintinnio, un tempellamento vasto e prolungato come di vetriere che si lasciassero cadere o si gettassero a fracassarsi sulle lastre delle contrade.

—Scommetto, continuava a dire il buon uomo mentre tendeva l'orecchio ad ascoltar meglio; scommetto che è il palazzo del marchese Birago che va in ruina!… Domando io, cosa dirà quel signore quando, tornando dalla campagna, vedrà le sue gallerie ruinate così!… E a pensare che gli costarono ventimila gigliati!… tutte lastre di vetro fatte venire appositamente dalle fabbriche di Murano… Sentite! non è ancora finito; l'hanno co' palazzi de' gran signori, quest'oggi, che sanno essere usciti di città… E quel birbone del Tita, vetrajo, che non par vero non siasi ancora ammansato dopo tanti e tanti tratti di corda, s'è fatto lui capitano de' tôffi e dei ladri, ed ha risoluto di far la guerra ai vetri di Milano. Domani i cavalli non potranno andar in volta per la città, e ai poveri scalzi sanguineranno i piedi… Basta; si può ancora sperare, caro signore, e presto si rimetterà il governo francese, e torneranno i guasconi a tener soggetta la canaglia…

A tali parole, il Palavicino, senz'ascoltar altro, die' di sprone al cavallo lasciando in mezzo alla via, colla bocca ancora aperta, il buon messere che avrebbe voluto dir molte altre cose, e prese pel lungo viottolaccio del monastero di s. Giuseppe, viottolaccio quasi tutto attraversato da cavalcavie, e rallegrato da una quantità straordinaria di agiamenti che inallora non erano ultima parte dell'esterno ornato delle case.

Giunto sulla piazzetta di Santa Maria della Scala, il brulicame della gente era anche qui ben fitto, e veniva tanto quanto rischiarato da certi staggi o tizzoni ardenti ed agitati all'aria da molti di coloro. Su quella piazzetta per altro non v'era ciò che propriamente si direbbe tumulto ribellionario, v'era soltanto un'ilarità baccante, uno straordinario buon umore. Ciò dipendeva forse dalle molte bettole che in quel sito mostravano trionfalmente il sempre verde alloro e che riversavano sulla via una quantità di persone molto bene avvinazzate e fervide di una scomposta vitalità che, per una cagione insolita, difficilmente in quella sera poteva determinarsi all'ira ed alle risse come suol quasi sempre avvenire.

Ma qui è necessario spendere qualche parola intorno a quello strano commovimento.

Ogniqualvolta c'incontriamo, leggendo le storie, in qualche tumulto popolare, per poco che si voglia indagarne le cause, le troviam sempre gravissime, e d'altra parte vediamo in quelle occasioni essere costante il fenomeno di una moltitudine invasa da un furore violento. Bocche che gridan pane, e campi che non danno raccolto, scarsità insolita di danari e balzelli a furia, iniquità che abbian fatto traboccar la bilancia, violenze incomportabili sono per lo più le solite punture e battiture per cui la belva immane della moltitudine si fa lecito di mostrare i denti. L'altro fenomeno si è, che contro a questa belva infuriata, formidabile, prepotente, c'è quasi sempre una sufficiente forza armata che serve a mantenere l'equilibrio e a non permettere che il pubblico, così pieno di pretensioni, soddisfi ad ogni suo capriccio. Ma di tutte queste consuete circostanze questa volta non ce ne appare una sola, e invece ci si offre un fatto straordinario e tale che forse non ne fu mai un altro simile nè prima, nè dopo.

Una moltitudine nel complesso ancor bene satollata e ben pasciuta, poco di denaro e poco di ricchezze se vuolsi, ma tali però ancora che non potevano promuovere eccessivi lamenti; qualcosa in ombra, in barlume bensì di sovvertimento, di rovina, di confusione ma, di cui le intelligenze volgari non potevano avere nessun sentore; epperò nel complesso di tutta quella vasta famiglia, quel che si direbbe tranquillità dell'animo. Con tutto ciò il maggior numero de' membri di quella esce d'improvviso dalla consueta operosa tranquillità, dalle abitudini quotidiane, si danno la voce, alzano qualche grido eccessivamente acuto, e si accingono a fare ciò che si direbbe una sommossa.

Ma in quella sera del 14 settembre si potè far sul vero uno studio pratico quale infinite volte è stato fatto per teoria e per congettura. Si potè determinare il valore intrinseco e preciso delle leggi, dei capitoli d'uno statuto, d'un decreto, quando per caso non vi sia la forza armata che lor venga in aiuto. E si ebbe d'altra parte, in un'angusta scena, lo spettacolo della società che tenta adagiarsi e rimettersi nella ragione di vita semplice e larga degli uomini antidiluviani.

Alle ventiquattro di quel giorno, come già sappiamo, tutti i soldati, tutte le guardie che si trovavano in Milano furon sottratti improvvisamente allo sguardo de' cittadini. Le casacche screziate delle labarde svizzere che si vedevano a tutte l'ore del dì sulle porte del palazzo ducale, del senato, del collegio dei dottori erano scomparse. I larghi braconi della numerosa guardia del bargello che s'affollavano sulla porta del Capitano di Giustizia, delle prigioni di porta Romana, e di quelle della Malastalla erano scomparsi; di tutta quella razza d'armigeri non avvezzi ad uscir delle mura, s'era voluto fare un corpo di riserva, e cogli Svizzeri erano anch'essi stati chiusi in castello per non uscir più che al campo. Perciò la legge, questa formidabil vecchia, che nella sua decrepitezza è sempre attiva, inflessibile, antiveggente, sempre pronta a stendere l'artiglio e ad ingoiare colpevoli, fece in quell'occasione un'assai meschina figura; voleva ancor gridare bensì dalle aule del palazzo di giustizia o dalle cantonate delle contrade, ove stavano ancora affisse le tabelle, i decreti, le comminatorie e simili; ma eran voci che andavano perdute tramezzo al vasto frastuono, mentre ciascheduno intanto pensava cogliere l'opportunità e fare il suo comodo. Si presentò adunque il caso d'una moltitudine per se stessa disposta alla tranquillità, e dell'assenza assoluta della forza armata; il caso d'un fiume placido, non ingrossato da nessuna straordinaria alluvione, cui improvvisamente sian tolti tutti gli argini, tutte le dighe e tutte le conche; e siccome un tal fiume uscirebbe ugualmente da quel letto dove l'arte lo ha costretto per forza, e volgerebbe di tratto la sua corrente per dove da antichissimo era naturalmente inchinato, così pure doveva comportarsi una moltitudine, abbandonata a sè stessa, improvvisamente, senza i freni dei soliti tutori; poche similitudini vengono così a cappello come questa; del resto la plebe milanese, trovatasi improvvisamente in tanta libertà, s'accorse di molte cose alle quali forse non aveva mai pensato. Tutti coloro che si stavano stipati, addossati l'un l'altro, epperò molto incommodi e addolorati del pigiamento assiduo, sull'ultimo e più vasto gradino della gran scala sociale, alzarono un tratto uno sguardo invidiosissimo verso coloro che stavano ai primi posti. E l'effetto di quell'invidia fu così pronto e potente, che si propagò di pensiero in pensiero quasi una spontanea inspirazione di mettere in pratica, quel che oggi si direbbe, l'assurda teoria de' comunisti. Tutta la lurida accozzaglia de' caramogi, de' bordellieri, de' ladri, che di solito se ne stavano stipati ne' viottoli, ne' crocicchi, all'ombra dei cavalcavia, addossati a venti, a trenta nelle putride e puzzolenti lor tane, o sparsi nelle bettolaccie affumicate di porta Tosa a trincar caspio, sbucarono improvvisamente all'aria come una moltitudine di topacci che, al cessare di un rumore, esca tutta lercia dal fetido pattume, dispostissimi a tentare in grande quelle minute guerricciuole a cui s'erano avvezzi allorchè quatti quatti al canto di qualche via remota aspettavano la solitaria pedata dell'improvvido borghese.

Nè solo quest'ultima feccia del popolaccio aveva presa una simile risoluzione, ma anche buona parte di coloro che, sebbene non agiati, avevano però i mezzi di trarre abbastanza di guadagno dalle proprie fatiche; e coloro segnatamente fra questa classe d'uomini, che erano dotati di gioventù, d'ardimento e di sfrontatezza.

Quantunque la causa prima e più efficace che ha determinata l'infima turba a sovverchiare la più distinta classe, sia quella che già abbiam detto, pure alcune altre circostanze avevano concorso a dare l'avviamento a tante volontà.

Ne' dodici anni che Milano fu sotto il dominio di Luigi XII, i nobili e i più facoltosi Milanesi erano stati assai accarezzati dai governatori francesi, e però piegando alle lusinghe, s'erano intrinsecati assai strettamente cogli uomini d'armi, coi baroni e cavalieri che appartenevano a' più cospicui casati di Francia. La qual cosa aveva fatto sì che tutte le violenze, i soprusi e i carichi eran venuti a cadere sulle teste della plebe minuta, la quale più d'una volta aveva tentato bensì sfogare il suo malumore, ma era stata costretta, in ogni occasione di tentativo, rodersi in segreto e ritirarsi per certe improvvise scorrerie di cavalleggieri francesi che, uscendo a tutto galoppo dal castello, attraversavano le più popolose contrade della città. Venuto però al ducato il giovine Massimiliano, l'aspetto delle cose s'era al tutto mutato. Il giovane duca, o meglio il Morene, il quale operava di queto e sott'acqua, sapendo che il partito de' nobili gli era contrario, si diede a proteggere la plebe e far gravitare sui patrizii tutti i pesi dello Stato. Un mese prima del giorno in cui ci troviamo, la plebe s'era posta in armi per respingere alcuni corpi di presidio che il maresciallo Trivulzio aveva tentato introdurre in città; Girolamo Morone aveva pensato ajutare quel popolare sommovimento, e tanto fece, che il Trivulzio aveva dovuto ritrarsi dalla propria impresa. In quell'occasione si promisero grandissime cose in compenso alla plebe, e si cacciarono dalle magistrature quasi tutti coloro che le erano in odio. Non è a dire quel che allora fece la plebe protetta in tal modo; alcuni di que' magistrati furon presi a sassi e peggio, e molti dei loro palazzi furono posti a ruba, ed a sacco. Dopo qualche tempo il duca aveva fatto proclamare che egli voleva affidare le chiavi della città al suo popolo, e che in avvenire i cittadini sarebbero stati immuni da qualunque aggravio; il qual editto produsse che i nobili più e più s'alienarono dallo Sforza e più gli si affezionò la plebe. Passato qualche tempo, tutto si venne racquetando; ma in questo giorno il buon popolo ancora imbaldanzito e seguendo la natura de' fanciulli viziati, si ricordò del giuoco goduto alcun mese prima, dal quale aveva raccolto tanto diletto, non disgiunto da molto utile, e di quello spettacolo, non è da maravigliarsi, se si volle la replica a richiesta generale. Quella massa oscura inoltre che s'addensa nelle officine della città, ignorantissima, ma acuta, priva d'ingegno, ma dotata d'istinto, aveva come sentito l'odore de' Guasconi, de' Borgognoni, dei Parigini, e aveva presentito che coloro fra pochi dì avrebber fatto da padroni nella città e rinnovate le amicizie antiche coi nobili e coi facoltosi, pensarono adunque tentar qualche cosa in quella stretta di tempo, far guarnaccia pei dì della miseria, far pagare in anticipazione a' ricchi il buon tempo che stavano per godere, imporre loro una specie di tassa di buon ingresso. Ecco tutto.

Non essendo però istigati da un appetito straordinario, e i rancori, dopo quelli che avevano sfogati tanto tempo prima, essendo di presente leggerissimi, non avrebber fatto il minimo tentativo, senza l'insolita circostanza di una libertà così completa. E quelle soverchierie e violenze a cui s'accinsero e condussero a termine in quella notte furon tentate in via di giuoco, di baccanale, di festa e d'orgia popolare e nulla più.

Un uomo d'immaginazione, che sapesse fare gli opportuni cambiamenti, potrebbe figurarsi assai netto innanzi agli occhi lo spettacolo della città di Milano in quella notte, osservando una scolaresca numerosa dalla quale per caso siasi assentato il precettore severo. I più svogliati, i più accattabrighe, i più maneschi, mandando larghi respiri escono a furia dai banchi, cui li costringe una regola insoffribile, e si sparpagliano a dar qualche bussa, così per celia, ai condiscepoli che sono l'occhio dritto del precettore assente, di modo che quando al ritorno del maestro tutto ritorna in quiete, è frequente il caso che i privilegiati scolari abbiano a tastarsi le ammaccature e le membra indolenzite.

Le turbe si sbandarono dunque così a caso per la città, ed essendo numerosa la quantità de' signori che in quel dì, a fuggire la tentazione d'uscire al campo, erano invece usciti in villa, pensarono di entrare in taluna delle loro case, a far quello che fanno i soldati quando mettono il piede in una città assediata. A quelle tuttora abitate dai loro padroni, potendosi dare il caso che si volesse opporre una fronte di servi e di famigli assai bene armata, e non volendosi rendere fastidioso e incomodo quel tripudio di festa, s'accontentavano di recar qualche sfregio leggiero, e tutt'al più eran sassate e torsi nei vetri.

Così in quel breve spazio di tempo ch'era corso dalle ventiquattro alle due di notte, molti avevan già dato fine alle loro fazioni, e carichi di roba e di trofei s'erano dispersi a gruppi nelle numerose bettole della città, e ne' crocicchi e nelle piazze volentieri si fermavano a ridere, a schiamazzare, a far violenze facete.

Così, appena il cavallo del Palavicino, mostrandosi al canto di S. Giuseppe, fece suonare la zampa sul lastrico della piazza di Santa Maria della Scala, e que' mille beoni, al lume de' tanti lampioni che si agitavano per l'aria ebber potuto accorgersi che la cappa del cavaliere era signorile, scoppiò un urlo così ineducato che davvero non parve promettere nulla di buono.

—Giù! giù! s'udì poi da tutte le parti; giù da cavallo! Abbasso, abbasso! Non più lettighe, non più carrozze, non più cavalli! Giù, giù, tutti in volta a piedi stanotte! Prendiamolo a sassate, se tosto non obbedisce, a sassate, a sassate!

Il Palavicino accortosi allora che aveva scelta malissimo la sua strada, nè più essendo in tempo di scansare il cavallo, procurò alzare la sua voce fra le migliaia che gridavano, per vedere se, dandosi a conoscere, gli riuscisse d'ammansare quell'ira. Ma la sua voce non era abbastanza forte, nè acuta per farsi udire in quel generale frastuono. E tutti coloro che assolutamente avevan fermo avesse il cavaliere a discendere e a mettersi a pari con loro, vedendo che non pareva niente disposto a far quello ch'essi volevano, già si facevano intorno a lui per passare dalle minacce agli atti; ma la buona fortuna non lo permise. Intanto che la folla preparavasi a soddisfare a' suoi capricci, dalla bettola ch'era sul canto a S. Giovanni, era uscito un laido omaccio, colla sua caraffa colma di vino nella mano destra, il quale omaccio, sebben fosse ubbriaco in quarto grado, conobbe la cappa signorile del Palavicino… e allora, movendosi così barcolloni, sempre tenendo nella mano la tazza che versava vino da tutte le parti, s'accostò al cavallo del Palavicino, e, stato in prima a guardarlo con due occhi stravolti, gli alzò poi la caraffa sino al petto e:

—Tè! gridò, bevi anche tu, il mio caro marchese, bevi con me, che siamo amici vecchi!… e facendo una pausa svenevole e torcendo gli occhi sempre più:

—È però anche vero che tuo padre è un nottolone di mal augurio, e fa sempre l'occhio del porcel morto quando ci guarda a noi…. Ma tu lo hai sfalsato, il mio caro Palavicino; ma tu sei amico della povera gente, e va benone…. La c'è però la bazza, ve', stanotte, la c'è e ci si sguazza dentro come scarabei al sole. Peccato che la voglia durar poco, il mio caro marchese, poco ti dico, poco…. Ma perchè non bevi?… bevi, il mio marchese, che la c'è la bazza.

E sì dicendo voleva di tutti i conti che il Palavicino si prendesse la caraffa.

Intanto la moltitudine, all'udire che quel cavaliere era il marchese Palavicino, tosto cangiò gli urli in evviva. Il nobil giovane era conosciutissimo di nome in tutta Milano, e tra per quello che aveva sofferto dal padre, tra per le sue larghezze straordinarie nello spendere e nel beneficare, erasi guadagnato la simpatia del popolo, al quale era diventato ancor più accetto, dopo l'assassinio tentato contro lui la sera prima.

Così, cominciatosi a gridare—Viva il Palavicino—da quel gruppo d'uomini che gli si era serrato intorno, poco a poco il suo nome passò per tutte le bocche che gridavano in piazza, e, prese un così esteso giro, che lo si udì gridato in via Santa Margherita, e giù giù sino al Portone.

Ma tanto l'odio eccessivo del popolo, come l'amore eccessivo può riuscire incomodo, e se alcuni momenti prima, il giovane Palavicino, aveva ragionevolmente provato qualche timore, adesso si sentì sopraffatto da una noja mortale. La folla gli si stipava sempre più intorno, e chi gli diceva una cosa, chi l'altra, chi gli profferiva la cena, chi il letto, chi la vita; quel bevone principalmente che gli aveva fatto il piacere di stornare da lui l'ira popolare, si ricattò poscia tormentandolo incessantemente colla sua caraffa in pugno, ed essendosi intestato che propriamente dovesse bere, già al rifiuto stava per prorompere in ira; e fu ventura che, sopraffatto da un capogiro, cadde a un tratto come un corpo morto riverso su chi stavagli presso, e tosto, per la folla che rinnovavasi continuamente, spari via come un tronco di quercia trasportato da una fiumana.

Gli evviva intanto diluviavano, e il Palavicino, tutto in trasudore, disperava oramai di più rompere la folla, e con quel maggior fervore che gli era possibile, supplicava tutti coloro che deliravan per lui a dargli il passo. Soltanto, dopo aver trascorso una mezz'ora tra le noje insopportabili di questo banco di arene, cominciò un momento a sferrarsene, ed ebbe finalmente la consolazione di poter entrare nella contrada delle Case Rotte e di mettere il cavallo ad un piccolo passo.

CAPITOLO VI.

Giunto in sul canto di S. Martino in Nosigia, contrada che disparve, or farà un secolo, insieme alla chiesa di quel santo, visto il chiarore de' lumi alle finestre del palazzo del conte Mandello, amicissimo suo, pensò entrare da colui un momento, nella speranza che sarebbe esso pure nel numero dei pochi che avrebbero combattuto pei Sforza contro Francia. V'entrò dunque in fretta, e riconosciuto dai servi del conte, fu subito annunciato e messo dentro.

Il conte a quell'ora era seduto innanzi ad una gran tavola sulla quale stavano ancora le reliquie di un lauto pranzo e una selva di guastade, di vasi, di bottiglie di vino. Si comprendeva facilmente come il conte molto si dilettasse di quest'ultimo per certi segni di un rosso carico tendente al violetto che mostrava sulle guance e sul naso. Del resto, fuori di questo indizio, che forse non poteva dare un'idea molto dignitosa di un tal personaggio, tutti i tratti del suo aspetto e della sua fisonomia erano d'una nobiltà straordinaria, e ne era non comune anche la bellezza e l'eleganza, se non che queste scomparivano spesso sotto ad una trascuratezza e cascaggine, quasi potrebbe dirsi, affettata d'atteggiamenti. Aveva certi occhi neri pieni di brio e in quel momento più lucenti ancora del solito. Gli vestivan il labbro superiore due gran baffi neri lunghi e puntuti, quantunque il costume d'allora portasse che i gentiluomini avessero a radersi compiutamente.

Intorno alla tavola erano quattro seggiole alquanto smosse, nelle quali era manifesto che un momento prima ci dovean stare adagiate quattro persone, e gli oggetti che vi erano ancor dimenticati davano a divedere che quelle quattro persone dovevano appartenere al bel sesso. Il Palavicino, entrato in tempo per vedere a scomparir lesto lesto lo strascico d'una veste dietro una porta che subito erasi chiusa, s'era messo a sorridere guardando in faccia al conte, il quale fece in prima, a quell'atto, un volto assai significativo, poi soggiunse:

—Potevano benissimo star qui; ma forse, all'abito scuro, t'hanno scambiato pel sagrista di San Martino, che è un santo, ed ora ci scommetto che quelle care pazze ti stanno a dar la baia; ma bisogna compatirle.

—E anche tu sei sempre pazzo a un modo, caro conte.

—E tu sempre savio, e al di là di quanto fa bisogno a' nostri dì.

—La propria natura uno non può cambiarla.

—Benissimo detto!…. Ma io vorrei sapere la cagione di questa tua visita in ora così insolita.

—Mi rincresce che tu non l'abbia già indovinata.

A queste parole il conte Galeazzo guardò fisso il Manfredo, e stato così come sopra pensiero:

—Ah ah! disse; va benissimo… ora mi sovvengo! E crollando il capo e ridendo: Ma… prima però, hai da bere un bicchiere con me, chè questa è tal faccenda assai più importante di quella che tu di'. È un vino che bolle e frizza e fa il diavolo, ed è fatto apposta per guarire il dolor di capo.

Così dicendo colmò due bicchieri, ne presentò uno al Manfredo mentre se lo faceva seder vicino, vuotò l'altro tutto d'un fiato, e continuò:

—È già dal tredici, caro Manfredo, ch'io non prendo più arme, e al Besozzo maestro, che tien sala qui a due passi da me, non è mai riuscito in due anni, farmi prendere nè fioretto nè stocco; però non so bene s'io potrei fare il debito domani quando per caso volessi venire con voi a codesta scaramuccia.

—Non siam più che una cinquantina, Galeazzo, ed è invero una gran vergogna! Ma se tu fossi mai per mancare, più non saprei che dire di questi tempi così scaduti.

—Tempi scaduti certo. Ma!… non so cosa dirti. Io per me non ho polmoni che bastino a metter aria in questa vescica così vizza e screpolata, e quando un corpo è accidentato, altro che ortiche ci vogliono. E poi…. questo duca Massimiliano…

—Lascia il duca Massimiliano… e pensa alla sola causa sforzesca e al duca di Bari, e più che tutto, a que' scomunicati braconi, che faranno il diavolo, e peggio, se mai venisse lor fatto di rimettere il piede qui.

—Tu parli bene; ma io tengo che ci verranno senz' altro i braconi.

Il Manfredo aggrottò le ciglia, e soggiunse:

—Il cardinale di Sion e i suoi Svizzeri sapranno però far testa, e noi….

—Noi?…. rispose il Mandello ridendo e crollando il capo e vuotando a metà un altro bicchiere.

—Che vuoi tu dire?

—Nulla voglio dire….Del resto, quando in duomo batterà campana a martello io sarò a cavallo e verrò dove voi andrete.

—Pare però che tu non ci venga di buona voglia….

—Perchè no?

—Se tu sei persuaso che non possa venirne alcun utile….

—L'utile che tu intendi….no….ma io ci verrò nullameno. Da due anni a questo dì mi si è ingrossato il sangue maladettamente….e mi dice madonna, che questo mio naso è diventato così pavonazzo, che non è cosa più soffribile ormai….Io so benissimo che è il vino d'oltrapò, il quale bisogna bene che si faccia vedere in qualche luogo, e so pure che è questa vita inerte e tediosa la causa che l'oltrapò faccia deposito. Il Chiodo, chirurgo, mi consigliava stamattina a farmi applicar le mignatte a un tal sito per tirare al basso i tristi umori, ma io ho pensato invece farmi cacciare in altro modo il sangue che mi cresce, e dare una buona scrollata a questo corpo, che un dì più dell'altro va coprendosi di lardo. Se dunque io m'acconcio a venire con voi domani al tocco della campana, ci vengo per questo appunto, nè vogliate darmene un merito al mondo voi altri patriotti.

—Ma che sentimenti sono i tuoi, caro conte?

—Per ora non ne ho altri; ma io ti farò capace di tutto in breve. E comincio dal domandarti a che gioverà l'aver noi menate le mani in quest'occasione, quando i quattro quinti de' gentiluomini e delle case che più contano, altro non desiderano al mondo che si rimettano le brache di Normandia e torni in voga il vino di Borgogna….

—Che fa a noi di questi quattro quinti, se il popolo….

—Lascia stare il popolo, che lui non c'entra in queste cose qui….E tu guardati bene dal fare il Cajo Gracco un'altra volta.

—Che cosa vorresti dire con queste parole, Galeazzo?

—Niente affatto; ma il Tita, cameriere, t'ha veduto a Santa Maria della Scala a ricevere i battimani dei trecconi, e mi ha fatto ridere assai. Ma, come ti dicevo, il vino di Borgogna pare che debba tornare in prezzo, e lo si desidera ardentemente, perchè, vedi, tu devi crederlo a me, quando le lancie di re Luigi usciron di Milano, nel 12, si è anche sparsa più d'una lagrimetta qui. La contessa Clelia, che sta lì in sul canto, baciava e ribaciava, l'altro dì, i suoi due figli biondi, e se la maggior parte di noi non li avesse, come suol dirsi, veduti a nascere, direbbe ognuno che alla Senna, al Rodano, e alla Loira si è attinta l'acqua pel battesimo dei bimbi. E la cosa è naturalissima, perchè io giocherei la mia dritta, che il conte padre non ci ha nè colpa, nè peccato….tu mi comprendi. Ma io ho guadagnato più di trecento e più di quattrocento gigli d'oro giuocando al faraone col barone De-la-Palice che frequentava la casa, e ci perdeva volentieri, e trovava da far buona pesca perdendo. Nessuno diffatto potrebbe dire che la contessa non fosse allora un pezzo di femmina ben ghiotto.

—Ma io non so comprendere come tu possa ripetere codeste infamie, e non fremere al solo pensarci.

—Fremerne?…sicuramente che uno può anche fremerne! Ma sta a vedere ch'io vorrò alterare un sistema di quieto vivere, nel quale durai tanta fatica ad adagiarmi, perchè la contessa Clelia ha i figli biondi?…

Qui il Mandello si tacque, come uno che sta richiamandosi in mente qualche cosa, poi ghignando d'un fare tutto suo.

—Il contestabile di Boissy, riprese, un borgognone, il quale aveva assai più della bestia, che dell'uomo, un dì che il discorso piegò sulle nostre donne, disse cose che mai non avrebbe dovuto dire. Ma anche lui aveva una moglie molto bella e molto giovane, alla quale si capiva benissimo ch'esso erale venuto fieramente a noia, e per verità aveva aspettato anche troppo. La contessa Clelia, che sta qui in sul canto, baciava, come ti dicevo, i suoi due figli biondi; ma nel 12, la moglie del contestabile ne baciava uno di pupille nerissime, quantunque il borgognone avesse occhi gialli e pel rosso. E però anche vero che qualche anno fa io mi dilettavo a spruzzarmi coll'acqua nanfa, e l'oltrapò non aveva ancor fatto deposito; capirai dunque che una mano lava l'altra, senza venire a duelli per cose di sì poco conto; almeno tal modo è comodo….Ma tu ti mostri impensierito!

—Se domani mi verranno in mente codeste infamie, io temo che la spada abbia a croccarmi tra le mani. Ma tuttavia mi conforta che in taluni ancora, o non son pochi, c'è ancora moltissima virtù.

—Vorrei crederlo, caro marchese, ma per quanto io vada guardandomi attorno, se voglio prendere un conforto, convien pure che io ritorni qui! (e batteva le nocche della mano sul bicchiere che gli stava innanzi).

—Malissimo, conte.

—Perchè malissimo?

—Perchè la tua riputazione, e a me lo puoi credere, va perdendo prezzo di dì in dì.

—Ci ho rinunciato al tutto, caro mio. Il circolo de' miei diletti s'è cangiato e ristretto; quand'io mi sento girar nella testa come una ruota di mulino, al punto da non saper racapezzare più nulla di quanto avviene d'intorno a me, allora io posso dire di star bene, perchè delle cose che avvengono oggidì, meno si vede, più si guadagna.

A questo punto Manfredo, vedendo che il conte continuava a vuotar bicchieri, così mezzo ridendo, gli disse:

—Io non voglio già che tu debba cambiare il tuo costume, ma per stassera fa il piacer mio e bevi acqua fresca, giacchè noi dobbiamo recarci insieme dal conte Besozzo dove si raccoglieranno ipochi che stanno per lo Sforza.

—Benissimo; e noi andremo da quel buon vecchio, l'unico del quale io faccio grandissima stima. È un vecchio bravo e pieno d'onore, peccato che abbia un po' del matto, o mi fa ridere quando veggo che tiene ancora la catena alla punta delle scarpe e porta il berretto di Filippo Maria. È un caro matto, ma pieno d'onore, torno a dire.

Qui il conte s'alzò dalla seggiola, mostrando una statura di un'altezza straordinaria, s'arricciò i baffi colle due mani, il quale atto gli era abituale e caratteristico, guardò in volto a Manfredo, poi disse:

—Ora che mi ricordo, tu mi dicevi poco fa, ch'io dovessi bere acqua fresca. Ma tu sei un pessimo consigliere, e stassera ho bisogno più che mai che mi vengano i bagliori, che così il mio occhio vedrà a doppio.

—Cosa vuoi dire con questo, Galeazzo?

—Voglio dire, che avvezzo a veder truppe ben agguerrite, e conti e baroni a migliaia, e bene a cavallo ogni qual volta trattossi di venire a giornata, a me parrà di sognare, non vedendo altro che quel pugno sbrancato di raccogliticci come tu dì, però vorrei che l'oltrapò mi facesse stravedere…. Ora, se tu vuoi che andiamo dal conte, usciam tosto di qui, che vorrei arrivare in tempo per vedere anch'io qualcuno di coloro che vanno in volta per la città a bordellare senza costrutto. Già la mia casa, penso che non la si vorrà toccare, che per la pura verità, ti so dire che si ha più rispetto di me, quantunque taluna volta m'abbian veduto un po' sostentato, che del presidente dei novecento il quale, con tanta edificazione del pubblico, altro non beve che acqua temprata coi ginepro.

Così dicendo, si staccò dalla tavola, alla quale si era sempre tenuto appoggiato. Fece due o tre barcolloni come se non fosse benissimo in equilibrio, ma finalmente, trovato il centro di gravità, potè a poco a poco imprimer l'orma con abbastanza sicurezza e decoro.

In quel momento il servo gli recò spada, cappa e cappello, ed egli si vestì compiutamente. Come fu in ordine:

—Usciremo a piedi, disse al Manfredo, e il tuo cavallo te lo farò condurre a casa a mano. Voglio che ce ne andiamo in volta per qualche tempo, che la sera è bellissima, e non è un pericolo al mondo che le nostre cappe abbiano ad aver timore dei farsetti, sebbene stanotte, per una bizzarria dell'accidente, tocchi loro ad aver ragione; così dicendo uscì col Palavicino.

Ora è probabile che il lettore desideri qualche parola d'illustrazione intorno al conte Galeazzo Mandello, il quale, la bella prima volta, ci si manifestò, a volergli usar de' riguardi, per un uomo molto originale. E lo era di fatto.

Appartenente ad uno de' più cospicui casati milanesi, arricchito inoltre dalla pingue eredità d'uno zio materno, era tra più facoltosi signori della città; con tutto ciò, a trentasei anni, che tanti ne aveva, s'era ridotto a condurre una vita affatto solitaria. E non parea vero come avesse potuto acconciarvisi, mentre sembrava appunto costituito espressamente per vivere nel bel mezzo della società e al cospetto dell'universale. La natura, per crear lui, aveva, a così dire vuotato il sacco. Bellezza di forme, potenza di braccio, tanto che era in voce d'uno de' migliori schermidori d'Italia; svegliato ed acutissimo ingegno; attitudine a far tutto ciò che gli fosse piaciuto. E quantunque in nessuna cosa non avesse fatti studii profondi, che non ne aveva mai avuto nè tempo nè modo, pure di tutto era intendentissimo. Ma questa esuberanza di doni appunto doveva poi produrre effetti singolari e quali non erano a desiderarsi.

All'età di quindici anni aveva militato in Francia sotto la condotta del Trivulzio, e tanto s'era distinto, che re Luigi lo aveva insignito dell'ordine di San Michele. D'allora in poi s'era trovato a quasi tutte le guerre del tempo, aveva percorso mezza la Francia, visitata tutta Italia, era stato a tutte le Corti, aveva conosciuti ed accostati la maggior parte de' principi regnanti, s'era trovato a quattrocchi più d'una volta con Cesare Borgia; Alessandro VI e Giulio II gli eran noti assai bene.

Essendosi ora trovato implicato in quasi tutti i fatti memorabili del tempo, avendo tenuto dietro a' movimenti, alle gare, alle guerre di tanti Stati, essendo stato spettatore di tante e così gravi cose, e per quella sua mirabile sottigliezza ed abitudine a considerarle ad occhio nudo, senza prisma, senza metafisica, senza poesia, avendo saputo scrutarne il fondo senza lasciarsi allucinare dalle apparenze, appena ebbe varcato la sua prima giovinezza, si sentì come sopraffatto da una sazietà morbosa; non fu più nessun fatto, per quanto straordinario che valesse a destare la sua meraviglia. Essendo poi riuscite a vuoto tutte le sue speranze, e da tanto intreccio di eventi non avendo veduto uscire un costrutto che gli piacesse, non v'era partito oramai che attirasse di preferenza la sua attenzione e il suo amore, e se pure continuava a seguirne taluno, era assai più per avere una via in cui mettersi con determinato proposito, che per convinzione vera.

Tocchi i trent'anni, morto il Moro, al quale voleva un po' di bene per alcuni buoni frutti che l'infelice principe aveva saputo far maturare in Lombardia, la quale gli stava al cuore fortemente, veduto come tutta la classe de' patrizii aveva con tanta spontaneità piegati i ginocchi a Lodovico XII, provò tanto ribrezzo di quella generale abbiezione, che in prima tentò ricorrere al flagello dell'ironia per mettere un po' di buon senso in tante teste vacue, ma non riuscitogli un tal tentativo, ed accorgendosi ormai di venire sgradito alla maggior parte, risolse ritrarsi in tutto a far vita privata. Scacciati poi i Francesi, e venuto Massimiliano al ducato, sentì tanto sdegno al vedere come quel giovane leggero e spensierato avesse mandato in dileguo tutte le buone speranze che si erano concepite di lui, che non volle più saper nulla di nulla, e a troncare ogni occasione di nuove contese e di nuove noie coi patrizii colleghi che s'affannavano a provargli quanto meglio si vivesse sotto Luigi XII, levò persino il saluto ad una quantità infinita di gentiluomini che gli movevano i dispetti soltanto a vederli, e, quel che aveva risoluto, fece in effetto.

Ma un uomo di tanta suscettibilità, non poteva certamente far della sua casa una cella da penitente solitario; tutt'altro. In prima, non aveva, a quanto egli ne sapeva, nessuna colpa da espiare; poi, la natura, pel suo solito sistema di compensazione, a quelle sue straordinarie virtù aveva unito un fardello molto considerevole di vizi, ai quali, appena che le sue virtù si misero in istato di quiescenza e di letargo, fu permesso di uscir fuori liberamente e di far il loro comodo. Non è rarissimo il caso che, un uomo il quale trovi ingombra la via per la quale si sarebbe messo con grandissima alacrità, e non trovi la natura dei tempi acconcia all'indole del proprio ingegno e della volontà propria, non potendo in altra guisa dare uscita alla vitalità soverchia che gli ferve nelle vene, procuri sbalordirsi coll'ebbrezza e colla vertigine delle voluttà che smorzano l'intelligenza e ottundano i sensi.

E dal momento che il conte Mandello erasi ritirato dalla società, questa, che mai non lo volle perdere di vista, vide svilupparsi in lui due qualità delle quali certo doveva essere antico il germe in lui: la concupiscenza e l'intemperanza. E non è a dire quanto la critica invidiosa de' patrizi colleghi si bagnasse volontieri in quelle pozzanghere, e si gettasse a corpo perduto sull'uomo che tanto aveva fatto per non esser più riconoscibile.

Fu detto che nelle aule saliche di Carlo Magno, il numero delle amanti regali pareggiasse quello degl'insetti in un bel giorno d'estate. E la cronaca pretende, che il conte Galeazzo avesse fatto degli studi forti su Carlo Magno, e fosse preso dal contagioso desiderio d'imitarlo. È fama che i più insigni bevitori d'Europa fossero in quel tempo i borghesi di Gand, ma siamo assicurati che, se per caso si fosse trovato a far testa a qualcheduno di coloro, il conte avrebbe fatto tuttavia la prima figura.

È difficile a sapersi come mai abbia potuto svilupparsi in quel degno gentiluomo un amore così appassionato per il buon vino, ma è certo che il patriziato calunniatore, al quale il conte era argomento assiduo di parlari diversi, affermava ch'esso non era fresco di mente la mattina più di quel che il fosse alla sera, e ciò, colle debite restrizioni, poteva esser vero. Del resto, v'era un fenomeno ben notabile in quell'uomo singolare, ed è che il suo mirabile buon senso veniva sempre a galla dell'oltrapò, del quale, come sappiamo, egli era tenerissimo. Avveniva bensì, allorquando i vapori gli andavano alla testa, che la frase non fosse sempre purissima, che la parola penasse ad uscirgli di bocca, e quando pure ne uscisse, fosse a strascico, a frastagli, smozzicata. Ma l'idea era sempre lucida, ma il vero era quasi sempre colto. Si raccontano miracoli del sonnambulismo, e noi ne mettiamo qui uno cospicuo dell'ebrietà.

CAPITOLO VII.

Ma lasciamo or da parte l'indole di costui, e teniam dietro piuttosto a' suoi passi e a quelli del suo giovane amico. Prendendo dunque così a caso, nel recarsi dal marchese Besozzo, per una delle più frequentate contrade di Milano, della quale era principale ornamento un vasto e magnifico palazzo di architettura gotica del secolo XIII, allora appartenente in proprietà ad una vecchia marchesa, di cui la storia non s'è presa la briga di tramandare il nome sino a noi, l'attenzione del Palavicino e del conte Galeazzo dovette necessariamente essere fermata dall'eccessivo splendore che riboccava dalle finestre appunto di quel palazzo, talchè pareva quasi fosse tutto quanto in fiamme; ma in fiamme non era certamente, perchè invece di strilli e di pianti e di voci lamentevoli, gli orecchi venivano intronati da un frastornio festoso da certi suoni e strimpellamenti e canti, i quali, manifestamente erano indizio di un'allegria smodata, di una gazzarra baccante. E ciò che produceva un'antitesi assai curiosa, era il genere di quei suoni e di que' canti, e la dignitosa magnificenza del palazzo. Canzonaccie per sè stesse sguajate, ma rese ancor più sguajate dalla natura delle voci strillanti che le mandavan fuori, pifferi e cornamuse e tiorbe e ribebe a due corde con accompagnamento di tamburelli, quali solevansi udire il giovedì e il sabbato grasso nelle bettole del Ponte Vetro, del Verzaro, del Bottonuto, con questa differenza, che tutte le orchestre particolari di ciascuna bettola erano state unite insieme e messe tutte a contributo per produrre il maggior frastuono possibile. Ogni tanto poi a qualcheduna di quelle finestre si vedeva comparire improvvisamente una figura d'uomo, la cui massa nera spiccava tagliata sul fondo luminoso delle sale, a mandare qualche acuto strillo che percorresse tutta la longitudine della contrada, a sacramentare per celia, a rivolger parole ed orazioni altitonanti alla folla che, stipata innanzi al palazzo, rispondeva con altri schiamazzi ed altre grida a quelle che facevano rimbombare le interne vôlte. Ed era una cosa strana, e che facilmente produceva la giocondità e il buon umore, il pensare a chi apparteneva quel palazzo, e l'uso che di presente se ne faceva. La marchesa proprietaria, vedova già da trent'anni, era vecchia, era ricchissima, era pinzocchera, era santa ed avara, due qualità che non potrebbero camminar di conserva, ma dessa ci avea trovato il modo. Ritirata in un cantuccio del palazzo, in una celletta oscura, conduceva una vita che avrebbe potuto essere un esempio cospicuo dell'umiltà cristiana, se i ventimila fiorini d'oro che tutti gli anni entravano a dormire un riposo eterno nelle casse ferrate intorno alle quali biascicando paternostri ella faceva la ronda piena di paurosa e gelosa sollecitudine, non avessero dato indizio che nel cervello della settantenne marchesa, c'era qualche cosa di guasto. Ora i ladri, i tôffi, i caramogi di porta Tosa, e tutta la parte più lercia della popolazione milanese, che conoscevano molto bene la vecchia, e il morto che teneva nascosto, aveva pensato prendere d'assalto il suo gotico palazzo e compensarlo in una sola notte della lunga solitudine e del profondo silenzio nel quale aveva passato trent'anni continui, giacchè il marchese defunto era stato un assai magnifico signore, e non s'era stato a dondolare. I pochi servi che, colla palandrana grattugiata, cadevano a brandelli per la vecchiaia, come le imposte tarlate e scardinate della porta del palazzo, non avevano saputo far testa pur un momento, e l'irruzione era stata così impetuosa, che in un istante tutto il palazzo fu gremito di popolaccio, il quale, sfondati gli usci, sfracellate le antiche vetriere, s'era precipitato in quegl'immensi e ricchi saloni che da tanto tempo eran vuoti, solitarj e silenziosi. Abbiamo detto che in questa notte memorabile la plebe, assai più che dall'istinto della violenza brutale, era animata da un buon umore straordinario, chè più che tutto gli premeva godersi quelle poche ore in tutta libertà, intanto che la legge, come talvolta accadeva pur troppo di que' giorni, trattenuta dalla chiragra, se ne stava a far capolino, ed ammicava irata e impotente dalle finestre del palazzo di giustizia.

Appena dunque che la folla, avvolta in un denso spolverío che s'alzava da tutte le parti, si trovò in quelle sale dorate, e al lume di certi razzi, di certi lampioni e lanterne che taluni facendo notte oscura aveva portate con sè, s'erano accorti delle lampade di cristallo che pendevano in lunga e densa fila dalle vôlte delle sale, subito s'alzò una voce strillante fra quella numerosa folla:

—Non si può negare che qui si stia assai meglio che alla taverna della Colonnetta, e se stanotte si aveva a strimpellare colà colle tiorbe dello Squinterna, e fare una scorpacciata di cipolle coll'olio di merluzzo che raspa in gola, per adesso ho cambiato parere, e l'oste potrà benissimo saltar lui con quella maladetta balena d'Onofria sua moglie, ch'io voglio far gazzarra qui stanotte.

E uno scoppio d'urli con accompagnamento di battimani disperati, avendo dato indizio che un simile partito era stato accolto a maggioranza di voti, in fretta e in furia un centinajo di bordellieri si sparpagliarono per tutti i canti della città, gli uni a reclutar pifferi e tromboni storti e tamburelli e ribebe e unicordi e tiorbe, gli altri a insaccarsi in tutti gli angiporti della città, destando dall'impuro letargo gli sciami schifosi delle briffalde, le quali, volessero o non volessero, tempestate da certi inviti strani, misti di cortesie, di bestemmie ed anche di pugni altitonanti, dovettero sgomitolarsi come vipere intrecciate al sole che sian percosse da una verga e seguire la turba. Altri a spandersi per le botteghe dei vend'arrosti, sagrando e minacciando perchè subito s'allestisse tutto quanto era sui fornelli. Fatto sta, che in poco d'ora tutto fu in ordine, in un momento la folla già stipata si raddoppiò per gli atrii e per le sale; tutto il putridume e la mondiglia che stava accatastata nelle cloache e ne' mondazzai della città si scaricarono in quel sontuoso palazzo. Nelle lampade di cristallo si mise olio quanto bastasse a fare grosse fiamme; e torcie e razzi e fiaccole e lanterne e lampioni furono aggiunti ad accrescere l'illuminazione e a far giorno di notte. Tutto però non avea potuto condursi colla tranquillità medesima, chè quando corse voce che il Cecco ferrajo aveva scassinata la cassa, la folla, attirata dai fiorini della marchesa, s'era riversata così impetuosa nell'angusto camerotto, che la quantità delle teste ammaccate e delle sorbe sugli occhi fu innumerevole. A questo punto eran dunque le cose quando il conte Galeazzo e il Palavicino passarono a caso per di là.

E appena che il conte ebbe udita la storia genuina del fatto, come preso da una repentina inspirazione, rivolto a Manfredo:—Mi pare, disse, che il conte Besozzo potrà benissimo far senza di noi stassera, che in ogni modo domani allo sparo delle artiglierie saremo in castello, la qual cosa è la sola che importi veramente. E intanto non si vuole non tener conto di un momento così prezioso senza entrare nelle sale della marchesa a godervi uno spettacolo che, per lo meno, è novissimo. Una festa da ballo composta di trecconi, di ladri e di ciccantoni che saltano sui tappeti dorati di Bologna e si riflettono negli specchi di Murano, è un fenomeno che non si vedrà la seconda volta. Lascia dunque il Besozzo e vieni con me.

Qui ci furono alcune altre parole tra il Palavicino e il conte, il quale, finalmente lasciando che il Palavicino se ne andasse tutto solo dal Besozzo, entrò nel palazzo della marchesa.

Appena che la cappa di velluto rasato e la collana d'oro del conte Galeazzo comparve nella gran sala dove infuriavano l'orgie, a tutta prima scoppiò un urlo generale che non pareva prometter nulla di buono per lui, e tutti i pantanosi caramogi, come ranocchi sconcertati dall'improvvisa comparsa di un luccio dorato, gracidarono minacciando di farlo in brani; ma il conte avea più di una cosa che militava a suo favore. In prima è da sapersi, ch'egli tutte le mattine, alla porta del proprio palazzo, faceva distribuire duecentocinquanta zuppe per la minutaglia affamata, ora buona parte di coloro che attendevano colà a far salti scomposti al suono di una trentina di tiorbe scordate, avevano appunto assaggiato più d'una volta i brodi della cucina del conte. Ciò per altro non sarebbe bastato a difenderlo dall'ira generale; ma più d'una volta il conte era stato veduto a far la via a zig-zag nel recarsi a casa la notte, e sapevasi da tutti che era il primo bevitore di Milano, e che andava soggetto a degli accessi d'ubbriachezza formidabili. Ora un uomo così amico del buon vino, e che più d'una volta sotto l'influenza di eccessivi vapori, che promovevano in lui gli estri guerreschi, s'era azzuffato coi sargenti della controronda, non poteva che aver destata l'ammirazione di quella parte di pubblico. Ma qui non era tutto ancora. Molte di quelle pudiche creature, che andavano a quarti ballando anfanate su quei ricchi tappeti, avevano più d'una volta avuto campo di ammirar la faccia del duca e dell'imperatore Massimiliano sui piccoli fiorini d'oro del conte, e non s'eran mai potuto far capaci del come un sì grande gentiluomo si degnasse salire per quelle scalette di legno dove era tanto facile fiaccarsi il collo, ciò che per altro non impediva loro di tenere il grandissimo conto l'affabile e liberale signore. Per tutte queste cagioni adunque, appena che egli fu conosciuto, gli urli minacciosi si cambiarono in grida d'applausi, cosa di cui il conte non avea potuto accorgersi, essendo rimaso come estatico appena gli si parò innanzi quel peregrino spettacolo.

Quella sala era un vastissimo quadrilungo, con dodici colonne capitelli dorati; la vôlta, a sesto acuto, dipinta a ricchissimo mosaico con fondo d'oro, le pareti rivestite di specchietti che quadruplicavano la grandezza della sala; il pavimento coperto di tappeti e d'arazzi, storiati in tessuto, di pazientissimo lavoro, i quali è vero bensì che, per incuria della marchesa, eran stati mezzo corrosi dalla polvere di treni'anni, ma spazzati in quella sera dalle danze carnascialesche, facevano tuttavia una splendidissima mostra. Si figuri il lettore che scandalosa antitesi dovesse fare con quelle magnificenze la schifosa moltitudine che stava là dentro. Quelle coppie di lerci danzanti e di oscene danzatrici, i primi colle palandrane sfilacciate, e le brache che cadevano a drappelloni, attraverso le quali si vedevan costole e trippe e gheroni in malissimo essere; le altre ancor più laide sotto a quell'apparenza di lusso inzaccherato di fango. Gonnelle di bucherame sparse di macchie d'unto, coi lembi sfilacciati, creste di canutiglia cariche di nastri di tutti i colori, che adornavano la arruffatte capigliature e quelle faccie quadre e sfrontate sparse di lividumi e di sorbe; e delle impronte dei pugni dei pochi gentili amanti. Nel mentre che le coppie attendevano a danzare, altri luridi gruppi gettati a sdraio sui tappeti attendevano a mangiare dello strutto, che impregnava d'un forte odore l'atmosfera, già abbastanza impuro, di quella sala. E intanto che le tiorbe e le cornette storte ci davan dentro a perdiafiato, alcuni mezzi ubbriachi, saliti in vetta alle colonne, aggrappatisi sugli accanti dei capitelli, cantavano con certe voci acute in chiave di clarinetto e d'ottavino alcune oscene canzonacce, mentre con del carbone facevan turpi aggiunte alle Veneri dipinte a mosaico in campo d'oro. La stranezza di quella scena in somma somigliava più che altro ad uno di quei sogni arruffati che può fare un galantuomo il quale si corichi subito dopo una scorpacciata d'ostriche e d'anguille marinate.

Però il conte Galeazzo, appena ebbe appagata la propria curiosità, non potendo a lungo dilettarsi di quelle sozze stranezze, già pensava d'uscire, quando gli passò innanzi la corpulente figura del Cecco ferraio che gli volse un'occhiata alla sfuggita.

Il conte gli mise allora una mano sulla spalla, e gli disse:

—E così, Cecco, come si metton le cose?

—Ottimamente, illustrissimo; peccato ch'ei sia di paglia quel che abbrucia, e la fiamma debba spegnersi tra poco.

—Non mi par poi che tutto sia paglia, Cecco mio; tu mi comprendi….

—Ci fu qualcosa meglio che paglia in fatti, rispose il ferraio ridendo, questo è verissimo; pure non fu gran cosa. E la contessa, Dio sa dove ha nascosto quello che in tanti anni andò ammassando, perchè quel che a me venne fatto di toccare, è ben poco.

—Pure ti dovresti contentare di ciò che hai trovato, e star pago,

—Non faccio altro infatti; e costoro son contenti abbastanza, ed è per costoro che ho tentata la virtù del grimaldello. Della pesca che ho fatto toccò la sua parte dì pesce a ciascuno, e la porzion mia è pari all'altrui, onde vedete che ho lavorato gratis, e per solo amore del prossimo.

—Questo mi piace; pure non avresti dovuto nemmeno far questo.

—Siete in errore, illustrissimo; e in quanto a me non feci mai cosa, di cui tanto mi compiacessi in vita mia, ed è per lei che spero di ottenere la remissione de' miei peccati. Del resto, considerate bene; o la contessa si ravvede, e va ottimamente o sta caparba nella sua pilaccherìa, e meglio ancora, perchè così la faremo morire di crepacuore. In quanto poi a costoro, un centinaio di ducati per ciascuno è un grande aiuto; non c'è infine cosa più dannosa al mondo dell'oro che stagna in una cassa ferrata, e se la zecca gli fa il conio rotondo, vuol dire che la sua destinazione è quella di girare per le mani di tutti. Dunque vedete che io ho operato benissimo.

—Sei tu convinto di ciò?

—Lo sono.

—Ebbene, or fa ch'io lo sia di quest'altro.

—Dite pure.

—Vorrei che mi provassi, che in fondo tu sei un uomo dabbene.

—Qual caparra volete?

—Giacchè hai compulsata la cassa, lascia in pace la contessa, e fa in modo che nessuno di costoro attenti alla sua vita.

—S'egli è ciò solo che vi preme, siatene certo; lo spegnere l'ultimo fil d'aria che sostiene il suo carcame di vecchia, sarebbe un atto barbaro non solo, ma un atto inutile…. Vedete che ho fior di ingegno, dunque non ci pensiamo. E in quanto a costoro, se due terzi son schiuma di furfanti, pure nessuno farà quel ch'io non voglio; in tutto Milano non v'è braccio pari al mio, e a questo si porta rispetto, però state tranquillo.

—Bravo, così mi piaci, e se a te occorresse qual cosa, quando mai la forza del tuo braccio non ti valesse più che tanto, sai dov'è il mio palazzo. Bada dunque che costoro si ritraggono presto, e lascino in pace la vecchia.

Ciò detto il conte Galeazzo uscì. Quando fu sotto gli atri, s'incontrò in un vecchio servo della contessa, che lo conobbe, e gli disse:

—In che modo ella è qui, illustrissimo signor conte?

—Ci venni, ma me ne vado.

—Se vostra signoria illustrissima si recasse un tratto a confortar la contessa, farebbe opera caritatevole. Ella teme che da un momento all'altro questi furfanti entrano da lei a furia, e trema di spavento.

—Questo non può succedere. Andate a dirlo alla contessa.

—Se ci andaste voi medesimo, illustrissimo, sarebbe assai meglio. Ella si conforterebbe vedendovi.

—Se ciò è, andiamo.

Il servo allora condusse il conte per molti corritoj, e pervenuto finalmente a una porta, bussò, dandosi a conoscere; una voce acuta, fessa e tremolante domandò che cosa fosse.

—È l'illustrissimo signor conte Mandello che è venuto in palazzo a sedare il tumulto, rispose il servo.

Allora l'uscio fu aperto, e il conte entrando vide una camera assai poveramente addobbata, una vecchia fantesca in piedi, e la contessa seduta. Nella camera non c'era che una tavola, due seggiole, un inginocchiatojo, un Cristo in croce e un grosso libro nero. Il Mandello girato l'occhio intorno:—Mi maraviglio, disse, che voi ve ne stiate in questo sozzo bugigattolo, mentre la canaglia sta contemplando il proprio ceffo ne' vostri specchi e saltando, sfilaccia il velluto delle vostre sale.

—Capirete dunque, ella disse, che se si continua di tal passo, non c'è più che la fine del mondo.

—Questo potrebbe darsi, contessa; pure avrete la bontà di confessare, che il torto, ben più che d'altri, è vostro questa volta,

—È mio? Chi vi può capire?

—Date per amore quel che vi cresce, contessa, che nessuno verrà a prenderselo per forza…

—E che dunque avrei dovuto fare?

—L'opposto di ciò che avete sempre fatto.

—Sentite, conte, se siete venuto qui per farmi ingiuria, potrete anche andarvene.

—Son venuto qui per dirvi, che mettiate da canto ogni paura, che quel ch'è successo è successo, e se alla vostra cassa si cavò il sangue, non sarà cavato a voi; questo voleva dirvi.

—Dunque tutto è perduto?

—In che modo? se tutto è guadagnato invece.

—Che cosa dite? Io non vi comprendo.

—I tempi sono assai scarsi, contessa, e se la povera gente levò stassera la muffa ai vostri ducati, che da quest'ora prenderanno aria e circoleranno a furia, è innegabile che molto siasi guadagnato; ne dovrete convenire anche voi…

—Andate; voi siete più tristo di tutti costoro. Andate, lasciatemi in pace una volta.

—E in pace vi lascerò; soltanto badate a ringraziarmi, e fate che la lezione vi giovi. Io vi auguro la buona notte.

E il conte ghignando, si tolse di là e uscì di palazzo.

Liberatosi che si fu dalla folla, che ancora innondava quella contrada, pensò che poteva ancora recarsi alla casa del conte Besozzo, dove si raccoglievano i patrizi che stavano pel duca, ossia i patrizi ghibellini, e l'un passo dopo l'altro in fatti, attraversando lentamente buona parte della città, per osservare quanto ci si faceva dal popolo in quella straordinaria circostanza, pochi momenti dopo ch'eran cessati i rintocchi della campana grossa de' Mercanti, si trovò sulla piazza di S. Ambrogio, dov'era il palazzo Besozzo. Ma in quella ch'egli stava per entrarvi, ne uscirono appunto in folla quei che vi si erano raccolti, e le parole e le esortazioni e i diverbi e le dispute continuavano ancora nel loro massimo fervore.

Il Palavicino quando s'accorse del conte Galeazzo:—Sei giunto in tempo, gli disse, ma fu peccato che tu non abbia potuto udire le calde parole del vecchio Besozzo.

—Per quanto io abbia stima di questo vecchio onorato, rispose il conte, pur non credo d'aver nulla perduto, che quando uno ha fermo il suo partito, le esortazioni sono inutili, e quand'uno ha in animo di far l'opposto, altro che parole ci vogliono, caro Manfredo. Dunque che cosa avete stabilito?

—Nulla che tu non sappia per verità. Domani all'alba ci raccoglierem tutti in castello.

—E non c'è a far altro?

—Null'altro, io credo, fuorchè a menar le mani da valorosi, quando sarà il momento.

—E questo è ciò che faremo, se non foss'altro, per mantenere l'esercizio.

—Per questo solo?

—Credo bene che basti; il berretto lo portai sempre alla mia foggia, nè a' guelfi nè a' ghibellini è mai riuscito d'iscrivermi nelle loro tabelle; la mia cappa non ha colore… per adesso almeno.

Ciò detto, accompagnatosi con Manfredo, e ripercorsa con lui buona parte della città, come la notte fu innoltrata, e i cittadini anche i più turbolenti, si riducevano alle case loro, e Milano tornava tranquilla e silenziosa, se ne venne al proprio palazzo. Qui strettasi la mano:—A rivederci all'alba! sclamarono i due amici, e si lasciarono.

CAPITOLO VIII.

Licenziatosi così il Palavicino, e pensato se avesse dato ordine a tuttociò che gli sarebbe abbisognato per il giorno successivo, si ridusse anch'esso finalmente alla sua casa, eh'era in via a S. Erasmo, contrada che ora non esiste più, ma che doveva, senza dubbio, trovarsi lì fra quelle di Borgonuovo e dell'Annunciata.

Il giovane, nel far la via così solo, si sentiva nell'animo un peso, un'arrovesciatura, una, a dir così, presaga tristezza che, a lui medesimo, riuscivano assai strane. Era quella, per dir vero, la vigilia dì un gran giorno; pure non era la prima volta ch'esso trovavasi in simili contingenze; nè al mondo vi era uomo di lui più coraggioso e men curante della vita, ma la cattiva condizione della città sua, le parole che in quel giorno aveagli detto il Morone, alla cui straordinaria conoscenza delle cose bisognava pur credere, lo mettevano in gran pensiero.

Considerava poi come e quanto dall'esito della vicina battaglia, dipendesse l'assoluta destinazione del resto del viver suo per quanto spettava la figlia del Bentivoglio, signor di Bologna, il quale, se Francia avesse trionfato, com'era a presumersi, mai non sarebbesi indotto, nella speranza di più alti destini, a concedere la propria figlia ad un semplice gentiluomo. Con questi pensieri giunse finalmente alla soglia del proprio palazzo; ma qui, tentato da un altro improvviso pensiero si fermò di tratto e fu a un punto di rimettersi in via. Gli era entrato il desiderio di recarsi ad una tal casa, dove soleva praticare la madre sua, a prender commiato ed a ricevere la materna benedizione prima della battaglia. Considerando però che innanzi a quella donna, alle parole, al pianto di lei, non avrebbe potuto star saldo, e se ne sarebbe allontanato più tristo che mai, fermò non farne altro, e senza più salì nel proprio appartamento.

Dati alcuni ordini al servo che gli faceva lume, ed esaminate con lui parte a parte le sue armi, ch'eran già preparate, non avendo a far altro, lo licenziò raccomandandogli gli entrasse in camera due ore prima dell'alba, e si chiuse dentro disponendosi a buttarsi così sul letto per quelle ore che rimanevano.

Allora, accostatosi così per caso ad uno de' finestroni che rispondevano sulla contrada, ed erano aperti, gli giunse all'orecchio, proprio dal piede del proprio palazzo, un barattar di parole frequente e vivacissimo tra molte persone quasi si stesse a porre in consulto alcuna cosa di gravissimo momento. Per essere l'ora ben tarda, e la via tra le più remote e silenziose della città, si poteva intendere benissimo qualunque cosa vi si dicesse; pure il Palavicino non vi avrebbe già prestato orecchio, se l'importanza del soggetto non avesse alquanto fermata la sua attenzione.

—Quel che oggi non è ben pensato, diceva uno tra gl'interlocutori, non sarà fatto domani, credetelo a me, e se adesso non si piglia di tratto il partito pel crine e dubitiamo ancora di porci al soldo de' Francesi, e di strappare dal nostro berretto la penna di Ghibellino non saremo per far mai cosa buona in vita nostra, e sarem sempre; quel che or siamo, se per giunta non si andrà di male in peggio.

—Io per me il mio partito l'ho preso, diceva un altro; stanotte prima che battano otto ore in castello, mi porrò in via fuori di porta romana, e domani avrò la borgognata in testa e i gigli di Francia in petto. Tant'e tanto uno di questi dì, dopo essermi guardato attorno ben bene, nè trovando uno spiraglio, avevo già fermo lasciarmi andar giù per l'Olona e finirla. I debiti son tanti, amici cari, che mi vorrebbero dieci anni di lavoro e di vita allo stecco, per rimettermi così sulle ginocchia, chè in piedi già non mi rimetto più. In quanto poi al marcire nelle prigioni della Malastalla non me ne sento volontà per adesso. Aiutati che t'aiuterò, e se non colgo questa bell'occasione, io son rovinato per sempre.

—Io poi non ho nè debiti nè altro, entrava a dire un terzo; e se volessi dire che mio padre mi dia scarso appuntamento, direi quello che non è. E mio zio mi vuol pure un gran bene, ed ha un poderetto qui fuori a tre miglia, con prati a marcita che rendono una bella sommetta. E non è tutto; il padre di mia madre mi ha promesso la sua casetta col cavalcavia a San Prospero, purchè mi faccia addottorar presto e diventi un gran sapiente; ciò che tanto desidera mio padre e lo zio, e mia madre anche. E cosa che fa poc'onore, e può anch'essere una fatalità, ma io non la penso così; in prima quell'aria morta di Padova è ancor più viziata di questa nostra, e le toghe dei professori mi guastano il sangue; poi se penso all'eredità, sto fresco…è come la terra promessa…ed io non mi sento di viaggiar quarant'anni, perchè, in quanto allo zio, se non è gran fatto giovane, non ha però un acciacco che prometta bene, e quantunque il nonno, se si guarda agli anni, sia ben decrepito, pure a desinare si mangia ancora il suo buon capponcello, e appoggiato al suo bastone di pino, fa tuttavia il giro delle mura a piedi che è tutto dire. Dunque vedete, s'io non vengo con voi domani, penso che a simil vita non si dura; l'inspirazione non può esser migliore, tu saldi i debiti, e a chi tocca tocca, ed io diserto casa, parenti, professori, e, viva Dio!…Ma tu…che gran diavolo volgi in testa ora?…parla e spacciati presto.

—Di che ho da spacciarmi io, per la Madonna! Il mio pensiero l'ho detto, e sto sodo. La condizione mia vuol così, e tal sia. Vadasi presto, e si faccia quel che si ha a fare… Già l'opera è bella veramente, l'opera è santa: mettersi a mangiar lardo insieme a quei bestioni di Borgogna, e tornar qui con loro a far man bassa sui nostri senza modo e senza pietà. Oh! va benone…ma l'hanno voluto, lo vogliono, e tal sia, ch'io non son già quello che possa cambiare il mio destino maledetto… Ho moglie e figli che non han pane, e pel fallito non c'è più credenza qui, no… Ma la recherò io la buona credenza, e ci sguazzeremo, perdio! Presto sarò di ritorno qui, e la vedremo… Dunque, come t'ho detto, sprechi il fiato a interpellarmi me…

—E tu, continuava lo studente, volto ad un altro che mai non aveva parlato, che cosa dici?

—Dico che ci ho bell'è pensato.

—E così?

—E così, verrò con te dimani.

—Bravo; ora sei uomo, ed io t'assicuro che ogni tuo danno sarà per volgersi in bene.

—Sentite adesso: giacchè siam tutti d'accordo, prendiam tosto per San Donato che sinchè si è qui, i pentimenti possono ancora guastare i savi disegni.

—Ben pensato… Ma e voi, che state a far lì tutti d'un pezzo?… Ohe! dormite?

—Per me ho promesso di venire al campo, e ci verrò, ma a un patto.

—A quale?

—Che di Francesi non voglio saperne, e starò pel duca.

—Bella questa… Ma sai tu perchè si ha ad uscire di città?

—Per tentar la fortuna, lo so benissimo.

—Ma la nostra fortuna, devi sapere, quella del duca non già, che si starebbe freschi…

—Chi lo può dire?

—La cassa del duca che è vuota, lo dice.

—La città che per lui corre pericolo di fallire, lo dice.

—I signori che mal si comportano questo pazzo duca, lo dicono.

—Ma se gli Svizzeri che stanno per noi…

—Pel duca, vuoi dire.

—Ebbene sia…dunque dicevo…se gli Svizzeri vinceran domani, come han vinto nel 13 a Novara, che avreste voi fatto?

—Un mal passo, no certo, che chi s'accosta alla Francia fa sempre guadagno, e guardiamo il Trivulzio…

—Viva il Trivulzio!

—Certo, il Trivulzio, ed io non ci pensavo.

—Considerate ora voi che accoglimento ci vorrà fare il maresciallo.

—La nostra fortuna è dunque fatta.

—È fatta; non c'è più dubbio.

—E fa conto che tornerai presto, vestito da capitan borgognone, e invece di corone col s. Ambrogio, piattonate a' creditori che ti verranno dappresso colle solite noje.

—Ma il diletto di metter sossopra i banchi delle scuole del Calchi dove il Calcondila mi ha fatto tanto dormire quando spiegava Omero, credo lo lascierete a me solo.

—Presto dunque via di qui e in cammino, ch'io già mi sento arder tutto d'un fuoco inusitato.

Nel momento che costoro, senz'altre parole, già si disponevano ad allontanarsi di lì, svoltò il canto una figura lunga e magra, la quale, a capo chino, a passo tardo, strascinando un bastone, presso a poco nell'attitudine con cui Fingallo, perduta la battaglia, traevasi dietro la lunga sua lancia, e se ne veniva innanzi radendo il muro del palazzo.

Quando fu presso a quel crocchio di giovani, lo studente, osservatolo così alla sfuggita e riconosciutolo, lo chiamò per nome.

—Ohe, Pierin da Sesto, buon'anima, dove vai tu così solo a quest'ora e per queste contrade, dove non vi suol mai bazzicare anima viva?

Quella lunga figura stette così un momento senza parlare, poi rispose:

—Buon dì, e buon anno, caro signore; aspetto mezzanotte, e vado così, non so io ben dove: ma sono in compagnia dei miei pensieri.

—Non mi sembra allegra gran fatto la compagnia; ma come va coll'arte?

—Di male in peggio, sempre un di più dell'altro, e tanto che stavo ora appunto mettendo il partito d'uscir di qui, ove non c'è più un fil d'erba, e andarmene altrove a cercar fortuna.

—Diavolo, siam già a questo punto?

—Sono tre mesi, caro signore, che la miseria d'una corona non ha voluto entrarmi in saccoccia, e a quel poco che avea messo da parte lavorando con maestro Bernardino, oggi per l'appunto ho dato l'ultimo colpo, e domando io come s'ha a fare? Maestro Bernardino, se n'è andato in giù infino a Parma, chè anche lui che è lui non trovava più a far bene qui. Il curato di San Pietro all'Olmo che dilettavasi darmi ogni tanto qualche tavola a dipingere, ora non mi da più che pareri e consolazioni anche sin che ne voglio; ma dice che per adesso non ha altro a comandarmi, che i Francesi son qui alle coste, e i proventi dell'orto e della vigna quest'anno andranno in bocca al diavolo. Il conte Beroaldo e il Gabaloita marchese, che mi aveano comandato facessi loro qualche bel nudo, sono andati in villa, e chi n'ha toccato n'ha toccato. Dunque vedete a che mal termine son io, e se a Sesto non avessi mia madre, che è ben vecchia, il mio partito l'avrei già preso. Ma come si fa?…

A tali parole si volse a lui quello tra i socii che sappiamo non aver molto ben nette le sue partite coi creditori, e:

—Amico, gli disse, dammi la mano e ringrazia Iddio, che se le tue saccoccie non hanno peso, pure c'è qualcheduno qui che può ancora benissimo invidiarti. Dammi la mano, e pensa ch'io dovrei darmi attorno una decina d'anni, Dio sa con che fatica e struggimento, per ridurmi ad averne quanti ne hai tu adesso.

—Non vi capisco bene, caro signore, ma dovrebbero esser debiti i vostri….

—Dovrebbero…. Tu dunque cercavi compassione ed hai trovato invidia, ma ora volevo dirti, che se Dio manda i malanni, manda anche le inspirazioni buone, ed è la tua fortuna appunto che t'ha fatto passare per di qui stassera. Ed ora vedrò se posso darti un tal parere, quale il tuo curato non ti avrebbe mai dato in mille anni.

—Io v'ascolto tutto pieno di speranze, caro signore, e dite pure.

—Vedi tu in quanti siam qui?

—Lo vedo benissimo.

—Siamo in dieci.

—È un bel numero.

—Tutti assai giovani, tutti benissimo in gambe, e tutti, se pure non vuoi fare eccezione di questo bel giovane (e batteva la spalla dello studente), al quale l'esser grande e grosso e pasciuto come una vacca spagnuola, non impedisce d'essere poi leggero come una penna di gallina; tutti, dicevo, gettati sgarbatamente dalla fortuna in mezzo al mondo, felici e protetti come i ronzini del procaccia, o come i botoli stizzosi di Bologna, a cui, ne' dì della canicola, si fa quel trattamento che tu sai; galantuomini tutti ai quali è assai ben nota la parrocchia ove si è stati battezzati, ma se in sajo o in cappa ci corrà la morte, e quale de' quattro venti si porterà la polvere de' nostri dieci carcami, è quanto sta ancora nascosto in un fitto bujo che fa perdere l'allegria; tutta gente inoltre che vorrebbe esser qualcosa di ben considerabile al mondo, ma che, fino ad oggi almanco, è qualche cosa assai meno di niente, e non si può dire non siasi data attorno con fatica cocente, che, per la pura verità, ne sentiamo ancora i trasudori alla camiscia. Ma tu sai la storia de' quattro apostoli in marmo di Viggiù che il Calzago scultore donò al comune di Milano; sai che son corsi sei anni buonamente, e a quelle quattro statue la compagnia del Breghetto non ha ancora saputo trovare una nicchia, che non par vero; e intanto son là in piazza e su d'esse piove, tira vento, nevica e tempesta, senza l'incerto di una quantità considerevole di sassate, tanto che a quest'ora non han più nemmanco il naso. Ebbene: guardaci ora noi, amico dell'anima mia, guardaci e piangi a caldissime lagrime di pietà, che noi siam veramente il ritratto al vivo di que' poveri apostoli e non abbiamo la fortuna d'esser di sasso… Larghe spalle però, grossa pelle e coraggio, il buon Dio non ci lasciò mancare; stamattina poi la provvidenza ha fatto capolino, e così in barlume e a mezza bocca ci ha insegnata la via maestra. Senza por tempo in mezzo, noi siam dunque in volta pel campo francese a cercar fortuna.

—Pel campo francese?

—Così è, amico, e penso adesso che tu potresti fare il medesimo e venire con noi. Di giorno menar le mani a buona guerra come gli altri; di notte, a chiaro di lampione, ritrarre col rossetto in carta le faccie lustre e violette de' caporali ubbriachi. La sorte che a te si para innanzi è tale da perderci la testa dietro al solo pensarci, e considera che que' baroni francesi han gigliati e fiorini d'oro a staia e non la guardan pel sottile, e c'è anche il re che vuole un gran bene all'arte. Soldato dunque e pittore, sbrigati presto e vieni con noi.

—Quel che mi dite, mi persuade moltissimo, caro signore, e son tutto tentato di venire con esso voi senz'altro; ben è vero che se resto sul campo….

Qui la gioia che le parole del nuovo amico gli avevano messo in cuore al primo, fu tosto annuvolata da un pensiero, onde soggiunse:

—Mia madre per altro non ha altri che me al mondo, e s'io non gliene mando, vedete bene….

—Aiutati che Dio ti aiuterà, Pierin da Sesto, e vieni con noi, così in poco tempo ne avrai messi insieme abbastanza da sostentare la madre per tutta la sua vita.

—Ebbene, andiamo s'ell'è così, rispose.

Ma qui un altro pensiero gli si attraversò improvviso, e disse:

—È dunque al campo francese dove dobbiamo andar noi?…

—Dove vorresti tu? Diavolo…..Ma cosa pensi?

—Non penso nulla….ma, dico, come la facciamo col dovere e coll'onore?

—Tu dici delle sciocchezze, Pierino; di che onore intendi tu?… Hai tu detto il vero che ora sei secco affatto, e che tua madre aspetta? Amico caro, credilo a me, che avrà un bell'aspettare la vecchia finchè tu resti qui.

—Sia dunque come volete allora, disse il pittore risoluto, io sono con voi.

Tutti si tolsero di lì.

Allorquando eran questi ancora nel massimo caldo della disputa, il Palavicino, che ne aveva compreso quanto bastava, tutto agitato da quel suo zelo ardentissimo pel paese e per gli Sforza, tentato, chi sa, da che inspirazione, trasse il campanello e chiamò il servo.

Come questo si trovò nella camera, le voci dei giovani si udivano ancora nella contrada abbastanza alte, e in ultimo quella di Pierino da Sesto.

—Odi tu costoro? disse Manfredo al servo.

—Li odo benissimo.

—Senti questa voce? è quella del pittore Pierin da Sesto, che tu devi conoscere.

—Lo conosco di fatto.

—Fammi dunque un piacere; va abbasso… aspetta… sento che si allontanan già. Spicciati presto dunque, e va sui loro passi. Di' al pittore che lo saluto, che ho bisogno di parlargli, che ne ho grandissimo bisogno, e tosto. Va, e fa presto.

—Vo subito.

—Senti; avresti a tentare, se mai ti venisse atta una cosa; parlargli così alto che t'abbiano ad udire anche i suoi compagni…. e se fosse mai possibile…. di' insomma a tutti quanti che li attendo qui, che vengano liberamente, e che…. conduci insomma le cose in modo che non abbiano a rifiutarsi. Va, e fa presto.

Il servo parti.

Quando i giovani furon al canto della contrada e stavan già per isvoltarlo, odono una voce:

—Messer Pietro.

Tutti si volsero, e il pittore per il primo.

—Il signor marchese vuol parlarvi, messer Pietro, continuava quella voce, e v'aspetta su in camera.

—Il marchese?…. Oh sei tu? soggiunse poi il pittore a un tratto come riconoscendo il servo. Come sta il marchese?

—Sta bene e vuol parlarvi; venite presto che non ci vorrà gran tempo. Anche loro signori possono benissimo entrare, che il marchese li conosce, e avrebbe bisogno dir qualche parola anche a loro.

—A noi? dissero ad una voce.

—Questo non può essere che uno sbaglio.

—Non è uno sbaglio altrimenti, vengano con me, che siamo a dieci passi dalla casa, ed è cosa subito fatta.

Tutti si guardavano in viso molto perplessi.

—Come mai, entrò a dire uno di loro, il marchese può aver bisogno di noi? e soggiunse poi subito rivolto al servo:

—S'ella è una qualche burla che tu ci voglia fare, ti avverto che sarebbe in malissimo punto. Ben è vero che so chi è il marchese, e lui mi risponderebbe di te. E così, disse poi a' compagni, volete o non volete? Non ci bisognerà più d'un quarticello d'ora, e non è gran perdita.

—Andiamo! via….ci vuol tanto?…soggiunsero tutti in una volta a quelle parole, e senza più si accompagnarono al servo. Per dir vero, la curiosità fu quella che più che altro li spinse fortemente a seguire i passi del servo del Palavicino, d'altra parte poi non v'era nessuna cagione che li potesse far timorosi dell'accostarsi al marchese.

Così quei dieci giovani furono introdotti dal servo, l'uno dopo l'altro, in una gran sala del palazzo. Colà vennero per disgrazia ad essere rischiarati da una sfacciata luce di molte candele di cera gialla che malissimo li raccomandava all'occhio dello spettatore e per minuto potevasi analizzare la fisionomia, il carattere, l'atteggiamento, l'abito di ciascheduno. Il nostro Pierino da Sesto, alto, asciutto, magrissimo, spiccava assai bene in mezzo a tutti; sulla di lui faccia più non apparivano neppure le tracce d'una certa originaria bellezza, tanto era alterata dal color scialbo, al quale aggiungevano una tinta ancor più patetica certe chiome castagne folte e scomposte che fuori del berretto gli cadevano in disordine sulle spalle. La scintilla dell'ingegno che di quando in quando non poteva a meno di farsi vedere e di brillare nell'occhio, era quasi sempre velata e soffusa di languore dalla miseria; e del resto, a primo colpo d'occhio, guardando quella lunga e magra figura, non si durava fatica a comprendere ch'era un'esistenza sostenuta a puro pane e latte.

Presso a lui quel giovane così esorbitantemente indebitato il quale, per contrapposto, mostrava sul volto i segni di una floridezza, non dirò verginale, ma generata bensì dall'assidua consuetudine di mangiar bene e bever meglio, la quale però era tutto a scapito delle vesti, talmente cenciose, talmente in mal essere, che la palandrana grattugiata del pittore veniva a guadagnare moltissimo nel confronto. Vicino all'uno e all'altro quel povero padre di famiglia che dopo la terribile peripezia d'aver sculacciata la pietra de mercanti, per tentativi che avesse fatti, non gli era mai riuscito di rifarsi un momento, aveva i cenci dell'uno, e la tinta lugubre dell'altro, con due sopraccigli irsuti in aggiunta che celavano a mezzo le pupille, le quali movevano lente e gravi su d'un bianco reticolato di vene sanguigne e sparso di colori biliosi. Gli altri tutti poi partecipavano un po' del pittore, un po' dell'indebitato, un po' del fallito, miscuglio di pallidume prodotto da astinenze involontarie, di colori vivaci generati da intemperanze di contrabbando, di cenci larvati da fogge signorili, miscuglio d'avvilimento, di sfrontatezza, d'abbattimento, di coraggio. E a produrre un contrasto di tinte certamente soverchio, il volto gioviale, fresco, paffuto, lucido dello studente, le cui membra assai ben disposte e divinamente pasciute erano coperte da un abito molto alla foggia in cui la ricchezza andava di pari passo coll'eleganza.

Allorchè il Palavicino entrò nella sala, quei dieci galantuomini che non sapevano veramente quel che si volesse, stettero aspettando in silenzio ch'egli parlasse per il primo; intanto erano pure entrati nella sala due camerieri con guastade di vino e tazze e calici, e quando ad un ordine del loro padrone si mossero portando in giro i bacili fra coloro che non sapevano trovar la ragione di tutte quelle gentilezze, il Palavicino prese finalmente a parlare:

—Ho a domandarvi scusa di una cosa, amici cari, cominciò a dire.

Tutti si misero in attenzione.

—Stando nella mia camera ho ascoltato assai bene tutte le vostre parole e tutti i vostri disegni. Egli è vero però che la colpa non è già tutta mia, perchè le vostre voci erano così estremamente sonore, che v'avrei udito anche all'altezza della torre. Avendo dunque avuto sentore che intendete porvi in cammino stanotte medesima, non sarà mai vero, dissi fra me, che costoro abbiano ad uscire di città senza ristorarsi con qualche cordiale; però, dal momento che mi avete onorato dei vostri segreti, spero che mi perdonerete se vi ho fatto chiamar su e che vorrete onorarmi assaggiando il mio vino.

Tutti si guardarono in faccia maravigliati; il Palavicino allora fece due passi innanzi, e si piantò in faccia a Pierin da Sesto, il quale se ne stava immobile e alquanto impacciato:

—Dunque hai risoluto d'andartene anche tu, gli disse poi con un accento pieno d'affabilità e di dolcezza; non so che dirti, le cose qui ti vanno fieramente alla peggio, e col danno della tua città, ti potrai rifare assai bene. Io non posso che lodarti.

Qui fece una pausa, poi soggiunse:

—Egli è gran tempo, amico, ch'io ti conosco… Qualche anno fa, trovandomi a caso col Luino, e il discorso essendo caduto su te, me ne disse cose grandissime quel bravo maestro, e mostrandomi alcune tele che tu eri venuto lavorando, mi assicurava che Iddio t'avea dato così mirabile ingegno, che il divino Raffaello forse avrebbe avuto un grand'emulo a questi dì. Sia dunque benedetta la donna che ti ha partorito. Pure avrei a dirti qualche cosa….

Qui fece una seconda pausa, e ricominciò poi così:

—Passerà un secolo, caro mio, più di uno ne passerà, e Dio sa quanti, l'un dopo l'altro, e le tue tavole avran prezzo sempre maggiore in ragione di tempo. Coloro poi che vivranno in quelle remote età, osservando i prodigi del tuo pennello, non finiranno di fare le meraviglie; questo è certissimo. Tuttavia la lode non verrà affatto sola. Peccato, dirà taluno, che a tanto ingegno venisse compagna così turpe viltà, giacchè avete a sapere che costui ha preso l'armi al danno del proprio paese; e forse colui che parlerà di tal modo, colto da un impeto d'ira, sarà tentato di rompere e distruggere il lavoro del mirabile pennello dicendo: non è giustizia che di costui ancora si perpetui l'infame memoria. Credilo a me, Pierino, anche questo potrà darsi…. Tuttavia bevi e ti prepara al viaggio.

Il pittore chinò la testa, avvilito e costernato, senza sapere cosa rispondere; ma il fallito che gli stava presso e ch'era uomo facilmente irritabile, e portava un astio cordiale a tutti coloro che godevano d'una certa prosperità, a quelle parole del Palavicino che gli parvero stranissime, si diede a passeggiare per la sala con poca soggezione e meno rispetto, e parlando ad alta voce come se discorresse tra sè, con un certo suo fare beffardo insieme e iracondo:

—Parla bene costui, diceva. Io vedo qui arazzi d'alto liccio, stupendi scrigni e tavolieri e ripostigli d'ebano intarsiati d'agate e lapislazzoli che è una maraviglia, sgabelli di quercia intagliati in oro con cuscini di velluto d'Utrec, nè si sbaglia a dire, che questi tappeti sono delle fabbriche migliori di Aquisgrana e d'Osnaburgo; me ne intendo benissimo io. E se adesso fosse inverno, su per la cappa di quel camino così ben ornato di puttini e fogliami, e così zeppo di stemmi araldici, crepiterebbe l'acuta e lunga lingua d'una fiamma a spandere un soave tepore per tutta la sala. Ora capisco che ha ad essere assai comodo e dilettevole il dar consigli e ammonizioni altrui quando, in cuna, la comare ci adagiò sulla mortadella, e penso che a me pure fioccherebbero i buoni pareri dalla bocca facili e abbondanti come fontane e ruscelli in tempo di primavera. Del resto, caro signore (e qui si piantò in faccia al Palavicino), se questo povero e buon diavolo, al quale la fame non porta un rispetto al mondo, per quanto il suo ingegno sia grande, corresse a furia stanotte per la città gridando: signori e signore, ecco un quadro stupendo per due pagnotte di segala; è probabile che ad ingannare il digiuno gli toccherebbe ancora di por la testa sotto la paglia, giacchè non credo che le coltri migliori sieno le sue.

Il pittore continuava a tacere: le parole del Palavicino lo avevan punto così al vivo e nella parte più sensibile dell'anima, che i suoi occhi si erano numiditi d'un pianto amaro.

Il Palavicino se ne accorse, e accostandosi a lui e mettendogli le due mani sulle spalle:

—Costui non ha parlato male, gli disse; i tuoi concittadini ebbero davvero un gran torto nel lasciarti senza lavoro tutto questo tempo; però, siccome le mie parole furono troppo acerbe, così avrei già pensato all'emenda. Qualche anno fa anch'io mi son trovato in durissima condizione, amico mio caro, e a quattrocchi ebbi anch'io a far dialoghi ben lunghi colla miseria, che mi si strinse alle costole con forti e duri argomenti, e tentò persuadermi ad azioni poco belle. Ma allora ci fu mia madre che pregò per me, e venutomi un forte aiuto mi riuscì di rimanere illibato. Ora tocca a te, amico caro, e in questo momento medesimo, te ne accerto io, la vecchia tua madre, di cui tu sei così tenero, ha fatto la sua preghiera, e l'aiuto è assai presto. Se dunque altro non cerchi che di lavorare, tu mi ritrarrai in una gran tela la battaglia che sta per succedere, e perchè l'inspirazione non manchi ed il tuo abbia ad essere un capolavoro, combatterai tu pure con me domani. Stassera intanto ti sborserò anticipatamente quanti gigliati vorrai tu, e comunque sia per esser di noi, tua madre non avrà mai più a languire.

Il pittore stette un pezzo attonito a guardare il Palavicino, e per quella sua natura fìsica così debole ed estenuata dal disagio e dallo scarso sostentamento, essendo facilissimo alla commozione, non potè dominarsi così che non desse in lagrime. Del resto gli mancarono le parole a ringraziare il marchese.

Ma al Palavicino si volse in vece sua alquanto calmato il bilioso fallito, e:

—Parlate voi da senno, gli disse.

—Perchè ne dubitate, messer Giorgio dei Nocenti?

—Giorgio dei Nocenti…. Ma in che modo sapete voi il mio nome?

—La storia sarebbe lunga, ti basti dunque ch'io sappia il tuo nome.

—Perdonate, caro signore, ma questa è pure la prima volta ch'io vedo voi.

—Ed io la seconda che vedo te… Vi fu un tal giorno, amico mio, che in Milano, due uomini erano infelicissimi forse del pari…tu eri uno di questi, io l'altro…. Correva il 12 e si era ai 30 di marzo…. Leggo già nella tua faccia che tu non hai dimenticato quel dì…. Ma io pure lo tengo a memoria. I trombetti de' mercanti annunziavano il sequestro di tutto quanto avevi al mondo, intanto ch'io vagolava per la città senza casa e senza mezzi, cacciato, disperato. Non ho vergogna a dirlo, no, tu allora non hai veduto me, avevi altro a pensare…ma io ti ho veduto bensì e ti ho compianto… Peccato che quanto hai tu adesso sul nudo palmo, tanto io possedessi allora, che forse non avresti avuto a sentire il duro rifiuto di quell'uomo spietato del conte Ferrandi.

A questo nome, sulla faccia del fallito si stese un nuvolo ancor più nero de' soliti, poi soggiunse:

—Signore, non mi state a parlare di colui, solo a nominarmelo mi si guasta il sangue… Trattavasi della mia vita, caro signore, della vita de' miei figliuoli si trattava, e colui mi ricusò allora quanto è solito a spendere in un voluttuoso quarto d'ora.

—E permise che tu, uomo onorato, fossi posto tre volte sull'odiosa pietra. Vedi che la tua storia io la so, ma allora m'accorsi ch'era la prosperità quella che teneva chiuso il cuore di quell'uomo, e ch'io sentiva pietà della tua miseria, perch'io era miserabile al pari di te; benedetta la miseria dunque, benedetta la sventura se tanto può; e benedetta la sorte che t'ha condotto da me in questo momento.

Qui fermatosi a guardarlo attentamente:

—Tre anni fa, soggiunse, brillava la salute sul tuo volto giovanile, ed ora tu non sembri più quello. So cosa vuol dire, ma a tutto c'è rimedio a questo mondo, e quando tornerai a casa, dirai a tua moglie e ai tuoi figli, che bollirà ancora del buon brodo nella loro pentola. Domani per altro anche tu sarai dei nostri, e comunque sia per esser di noi, alla tua famiglia sarà provveduto in ogni modo.

A queste parole la faccia burbera e sconvolta di quell'uomo s'era venuta a poco a poco spianando, e il suo occhio bilioso e come iterico era divenuto rosso empiendosi di lagrime.

Durò il silenzio per qualche tempo. A un tratto il Palavicino si staccò da lui, e girò lo sguardo fra tutti coloro che lo stavano a guardare attoniti essi pure e oltremisura commossi.

—Ora, quel che ho detto a questo amico mio carissimo, io dico anche a voi tutti. Ho potuto accorgermi che in fondo voi amate il bene del vostro paese, e i suoi nemici sono pure anche i vostri, e se per rimediare alle miserie, v'inducevate ad unirvi con esso loro e a tradire voi stessi, facevate tuttavia uno sforzo faticosissimo dell'animo, e colle belle parole e le celie e le risa che non bastavano a togliervi l'amaro in bocca era inutile il vostro tentativo di far tacere il pungolo segreto. Ora ditemi con libertà quel che vi abbisogna ad uscire di travaglio, ch'io confido di potervi benissimo soddisfare, e mi chiamo anzi fortunato ch'io sia quel tale che v'aiuti in quest'occasione. Del resto, se domani vi dà l'animo d'affrontar pericoli, vogliate uscire con me al campo, ma in difesa degli Sforza nostri signori, e contro Francia sino alla morte.

—A te poi, e si volse allo studente, io non ho nulla a dirti; a te è concesso far quello che più ti aggrada, nè io vorrò spendere neppure una parola sola a consigliarti quel che sarebbe il meglio. Se costoro, e additava gli altri che gli stavano d'intorno, fosser mai stati colpevoli anche di un delitto, comprendi tu, anche d'un delitto, sapendo bene da che duro persuasore eran stati sospinti, ben volontieri io avrei loro gettato un panno perchè tosto coprissero il marchio vergognoso, e tosto pensassero all'emenda, e in ogni modo io li avrei aiutati come avrei saputo meglio. Ma tu…tu non devi far altro che uscire e unirti alla Francia, che già non sarai quel tale che faccia il suo vantaggio. Esci dunque, e va pure, che sarai sempre la disperazione de' tuoi, che vorrebbero far di te un onest'uomo, e lo zimbello di coloro a cui tu pretendi di venire in aiuto. E in quanto alla patria; è assai meglio ch'ella ti perda, anzichè ti trovi. Lo ha detto il senno di quest'uomo, (e battè la spalla del giovane indebitato che se ne stava a bocca aperta), la tua testa è leggiera come la penna d'una gallina.

Il giovane studente, la cui natura era stata viziata dalla soverchia indulgenza della madre, della zia e dell'avolo, nè mai aveva sentito un sol rimprovero in vita sua, fu scosso da quelle dure e beffarde parole del Palavicino; fu quella la prima volta che si senti fortemente conturbato nell'animo dallo sdegno e dalla vergogna, fu una rivelazione di cose che gli erano al tutto ignote, e fu così potente rivelazione, che la sua faccia, abitualmente giovanile, si rialzò tutta stravolta e infocata per lo degno, e:

—Giacchè me lo dite, tosto uscirò di qui, rispose, ma vi rivedrò domani, in ogni modo vi rivedrò. Voi mi direte il numero de' baroni francesi che avrete uccisi… Io vi dirò i miei…faremo la somma. Ciò detto, senza attender altro, volse le spalle al marchese e partì di furia.

Il Palavicino sorrise a quelle parole e a quello sdegno, poi, come fu uscito:

—Non avrei creduto, disse, ch'egli si tenesse nascosto tanto fuoco. Basta, vedremo.

E stato qualche poco sopra di sè:

—Ora spacciamoci, soggiunse; noi dobbiamo stassera aggiustare i nostri conti, e la notte si fa alta. Compiacetevi dunque di seguirmi.

Lo seguirono infatti in un suo gabinetto dove rimasero con lui una mezz'ora buonamente. Quando uscirono, le loro fronti raggiavano di un contento certamente straordinario, perchè qualche cosa d'insolito pesava nelle loro saccocce. Allora il Palavicino li accompagnò fin sul pianerottolo dello scalone stringendo la mano a ciascheduno, e ripetendo spesso quasi per abitudine:—Domani all'alba alla porta del castello,—diede loro la buona notte, e si ritirò intanto che quei dieci giovani, a saltellone, discesero per la gran scala del palazzo.

Alcuni momenti prima il tetro bisogno loro aveva fatto sentire che per rifarsi, non c'era altro mezzo che d'accostarsi alla Francia, e quantunque conoscessero assai bene la turpitudine di quel disegno, la miseria, ingegnosissima, aveva popolato la loro mente di un così gran numero di sofismi, che essi, studiandosi ad esagerare il bene che Francesco avrebbe fatto alla Lombardia, avevano trovato il modo di conciliare il proprio vantaggio con quello del loro paese, talchè prima di trovarsi innanzi al Palavicino, erano riusciti a convincersi bastantemente che il loro disegno aveva la sua parte di generosità.

Ora, come fu tolta la causa che aveva generato que' torti ragionamenti, subito anche questi si dileguarono; tosto che la miseria ebbe cessato di preoccuparli, parve a loro di una schifosa bassezza il partito a cui si erano appigliati, e ragionando tra loro, e vergognando, non facevano che benedire la liberalità del giovane Palavicino, e a profferirgli, per rimeritarlo, anche la propria loro vita, se mai fosse venuta l'occasione.

Il Palavicino intanto, ritrattosi nella sua camera, ripensando a quella strana combinazione per cui aveva potuto guadagnare dieci uomini alla causa degli Sforza e della Lombardia sottraendoli alla miseria, egli se ne godeva in sè stesso assai più che i beneficati medesimi.

La voluttà dei riabilitare un'esistenza coi tempestivi soccorsi, di ritornare la tranquillità nell'animo di chi già disperava di tutto, è la suprema di cui gli uomini possono godere, è quasi una seconda creazione.

Ma per goderne occorrono troppo rare e squisite qualità di cuore e d'ingegno, e un simile fenomeno si riduce ad esser cosa così fuori delle regole e delle abitudini più consuete, che noi temiamo possa mai venir messa in dubbio la liberalità dei giovane Palavicino, e, ciò che sarebbe ancor peggio, tacciata di pazzia e multata di ridicolo.

CAPITOLO XI.

Non faceva ancora la prim'alba, ed era un cielo terso e lucentissimo del mese di settembre. Il silenzio della notte continuava tuttavia, quel silenzio particolare interrotto spesso da un vasto fremito generato o dal passaggio di venti improvvisi, o dallo stormire di estese masse d'alberi, o da rumori lontani, che prolungandosi di luogo in luogo, vanno a spirare nei recinti delle case.

Nella contrada di S. Erasmo, spopolata e silenziosa anche a di chiaro, non era indizio che abitasse anima viva, e solo ogni mezz'ora si sentiva rimbombare in quella quiete il martello dell'orologio dell'Annunziata.

Quando questo ebbe battuto dieci colpi, cominciò a partir qualche rumore dal palazzo del Palavicino, indi voci indistinte e nitriti di cavalli che risuonarono per tutta la contrada, e dopo qualche po' d'ora, lontan lontano s'udì come un rumor sordo di ruote scorrenti, e via via anche un trotto serrato, che s'andò sempre più avvicinando, sino a che svoltando dal Borgo Nuovo, e facendo rimbombar l'acciottolato, una carrozza, o meglio una lettiga a ruote, che fu la prima forma di cocchio che i Francesi avevano introdotto in Italia, non facevano allora molt'anni, andò a fermarsi innanzi al portone del palazzo del Palavicino.

Il servo, saltato a terra, battuto un colpo di martello alla porta, che subito venne spalancata, tosto si volse a stirar la cortina della lettiga, e diè il braccio a discendere ad una donna. Alcuni famigli del marchese, che erano usciti sulla soglia, conosciuta la signora, con grandissimo rispetto le si levarono di berretta.

Era dessa la madre di Manfredo.

A vederla così al primo poteva mostrare poco più di trent'anni, e solo ad avvicinarla e a guardarla per minuto le si dava un'età maggiore, per quanto fosse ancora attraente la sua non comune bellezza, alla quale dava un particolare carattere un certo pallore patito: e una tal quale rilassatezza di portamento. In quella mattina poi aveva il volto visibilmente scombujato, come per pianto recente. Vestiva una gran roba di velluto nero, e in testa aveva una cuffia parimenti di un tal velluto orlata di teletta d'argento.

La signora dimandò:

—È in camera mio figlio?

—È su in camera che sta armandosi, rispose un famiglio.

A queste parole, la signora fece un moto indescrivibile; presto salì lo scalone, e senza attendere che i servi la precedessero ad aprire gli usci, di una in altra camera giunse in quella di suo figlio.

Stava questo in quel momento adattandosi la corazzina; e quando, sentendo aprir l'uscio, si volse, rimase così impacciato e sconcertato vedendosi innanzi sua madre, che ella se ne dovette ben accorgere.

Ci fu qualche momento di silenzio e d'esitazione, ma infine, troppo rincrescendo al Manfredo ch'ella si amareggiasse stimandosi mal accolta:

—Non vi avrei già aspettata a quest'ora disse… jeri sera fui tentato di venire dai Beroaldo per vedervi.

—T'ho aspettato infatti fino a mezzanotte, tanto ero certa che ci saresti venuto; ho lasciato che ciascuno si partisse, e vi rimasi assai tempo ancora colla sola contessa, che pure ti aspettava; ma pur troppo ho dovuto dire fra me stessa: stavolta il mio Manfredo si è dimenticato di me.

Il giovane non rispondeva.

—E così venni a casa colla desolazione nel cuore; tuo padre e i tuoi fratelli mi aspettavano impazienti, perchè confidando nel mio buon Manfredo, loro aveva promesso che ti avrei persuaso a rimanere… pensa or tu come mi furon tutti contro, indispettiti e sdegnati, quando mi videro tornare così confusa e senza parole. Tuo padre, che vede disperata in tutto la condizione degli Sforza, trema per sè e per la sua casa, e pensa che la tua ostinazione porterà l'ultima rovina a tutti noi. In questi ultimi dì fu sempre così torvo e agitato e terribile, ch'io non ho avuto un'ora, un momento solo di quiete. Ma quando i tuoi fratelli gli replicarono l'incomportabile rimprovero, che avrebbe dovuto rimaner vedovo il resto de' suoi dì, che con me recò la sventura nella casa, l'ira lo trasportò, le sue parole traboccarono, tutte le sue imprecazioni vennero a cader su me.

Il giovane a tali parole si fe' tristissimo.

La signora stette guardandolo un pezzo, poi riprese:

—Hai tu dunque risoluto?

—Che cosa risoluto?

—Che tu combatta quest'oggi contro i Francesi?

—E ciò mi domandate? ma voi lo sapete pure. Quel ch'io pensavo a diciott'anni, anche oggi penso con quel fervore medesimo, e più. E ch'io debba combattere quest'oggi, è mio destino.

—E il mio è quello di viver sempre in affanno e di non aver mai una consolazione da te; ma, per carità, ascoltami, il mio Manfredo. Io non ho mai veduto tuo padre così inclinato, come oggi, che l'ho lasciato con qualche speranza, a dimenticare, a perdonar tutto. Non lasciarti sfuggire quest'occasione. Potrebbe non venire mai più, e lui altro non vuole se non che tu non combatta quest'oggi contro i Francesi, e rimanga in città… e tutto è finito, ed io sarei la più felice di tutte le madri.

Manfredo crollava il capo e pareva inquietissimo.

—Senti… tuo padre ti ha duramente scacciato per questa ostinazion tua… e ti ha maladetto…. Tu non ci hai colpa… lo so, tutti lo sanno. Ma la maledizione di un padre è terribile, il mio povero Manfredo, e viene il dì….

Il giovane si scosse a queste parole, e un misterioso raccapriccio gli tramestò tutta l'anima. Accorgendosi poi che la sua volontà quasi subiva la influenza di quel raccapriccio, indispettito di lasciarsi così sopraffare, e in quel momento, e per sua madre, tant'ira lo prese, che non bastò a dominarsi, e proruppe:

—Questo era il dì veramente, e l'ora opportuna per venir qui ad arrovesciarmi l'anima. Io aveva procurato scansar tutte l'occasioni per non veder voi innanzi a quest'ora, che già troppo m'immaginava i vostri soliti, perpetui, insopportabili pianti; ma voi, no, non lo avete voluto, e siete venuta qui pel mio malanno e pel vostro.

E misurando a gran passi la camera, l'impeto dell'ira sua appariva assai più dagli atti che da quelle parole medesime. Ma in quella foga sguardando un istante, e vedendo sul volto di quella donna soave di sua madre, un'attonitaggine accorata, un'avvilita sommessione, quasi fosse un suo soggetto intimorito dagli strapazzi e dalle contumelie, sentì come un rimorso e uno spavento repentino, rimorso che gli fece cadere a un tratto lo sdegno, gl'inspirò più forte che mai la tenerezza per sua madre, e gli sconvolse tutta l'anima d'una compassione che lo faceva tutto tremante. E' si fermò di tratto in prima, poi lento lento s'accostò alla madre e, stato un istante perplesso, le gettò le braccia al collo con una dimestichezza ingenua e abbandonata, che ricordava i suoi atti infantili, e stette così a guardarla senza dir altro. Allora la tenera donna, sentendo in quel punto tutt'in una volta l'effetto e dell'ira e della tenerezza del figlio suo, stette tuttavia attonita e immobile senza parlare, senza nemmeno guardarlo in viso. Ma dagli occhi lente le sgorgarono due sole lagrime, di quelle lagrime piene di passione che le promovono a dirotta in chi le osserva.

La somiglianza quasi perfetta di que' due volti, pallidi ambidue, sbattuti e atteggiati al dolore; quella madre ancora giovane, ancora avvenente, abbracciata dal suo unico figliuolo, con quell'atto d'amore insieme e di venerazione, avrebbero al certo fatta una impressione particolare in chi che sia li avesse veduti in quel punto. Stettero così in silenzio per qualche tempo, quando la madre:

—Ora ho a parlarti di una cosa, esclamò, di una cosa che importa assai, Manfredo; e stata un momento sopra di sè perplessa, soggiunse: la figlia del Bentivoglio mi parlò di te.

Il giovane non aveva mai dotto nulla di quell'amor suo alla madre, por ciò rimase assai maravigliato e scosso a quello parole inaspettate,

Ella se ne accorse, e continuò:

—Io so tutto, Manfredo, e da lei stessa lo so. Ieri sera, avendo ella saputo, non so come, ch'io era colla contessa, per gli orti che congiungono il palazzo dei Beroaldo col suo, di nascosto di suo padre e con grandissimo suo pericolo, come mi disse poi, entrò nelle stanze della contessa per parlare a me, e le parole e gli atti di quella fanciulla furono così ingenui e sinceri, ch'io dovetti abbracciarla e baciarla come se fosse mia, e l'amo adesso come amo te.

Il Palavicino, sentendo sua madre a parlare in tal modo della Bentivoglio, si sentì agitato da una tenerezza e da una gratitudine così viva per quella donna, che si mise a guardarla estatico, quasi fosse una cosa straordinaria, una cosa santa, e non trovava una parola per rispondere.

—Non avendo dunque il modo di parlare a te stesso, continuava la madre, appena seppe ch'io era dalla contessa, come dicevo, e riponendo ogni fiducia in me sola, quella povera tribolata venne a raccontarmi l'improvvisa sua sventura…. bisogna dunque che tu non esca di città, che tu rimanga qui domani…. il padre le fa forza, e tu devi conoscerlo, ed ella è costretta a delle nozze abborrite…. e l'uomo che la deve sposare è già qui. Egli è dunque anche per questo, anzi per questo particolarmente che sono venuta da te stamattina.

Il Manfredo, a tali parole, non fece un movimento, soltanto guardava in viso a sua madre, attonito, soltanto le labbra gli tremavano visibilmente.

—Ella mi raccontò in fretta ogni cosa, chè il tempo le mancava, e tremava di paura. Mi disse che sperava nel tuo aiuto, che sola, non gli basta l'animo a nulla, e teme il padre. Vedi dunque che il bisogno stringe, e che si vuole soccorrerla. Quando mi disse chi era l'uomo che ha da sposarla, io temetti volesse morirmi tra le braccia, tanto le fa orrore quel tetro uomo del Buglione.

A questo nome parve che al giovane si scomponessero le fattezze in un tratto, pure continuava a guardar la madre con occhi spaventati e mille parole gli vennero in furia sul labbro, ma il labbro gli balbutì e gli fu impossibile di parlare. Pareva come oppresso da qualche cosa che avesse chiusa dentro di sè, e volesse prorompere con violenza e non trovasse la via…. scoppiò finalmente quasi in un grido…. e si cacciò ambidue le mani fra i capegli, con quell'atto disperato che fa l'uomo quando gli entra l'orribile persuasione che per lui non v'è più scampo.

La madre intanto lo guardava spaventata, e giacchè prima d'entrargli in camera aveva pensato non manifestargli subito quella trista novella, e solo l'aveva fatto quando s'accorse che in altro modo non le sarebbe riuscito vincere la sua ostinazione e trattenerlo in città, ora quasi se ne pentiva, ed era tutta contristata, e pensava al miglior modo di placare quell'ira e quel dolore…. ma quel dolore proruppe:

—Dunque è vero, uscì a dire Manfredo con un accento in cui l'ira sentivasi già soverchiata dall'accoramento, dalla tenerezza, da quell'affanno che ha bisogno di stemprarsi in lagrime…. è dunque vero che l'uomo osceno s'è ancora aggrappato all'orlo del suo sepolcro e n'è uscito vivo, ancor vivo…. per la rovina mia…. per la disperazione di quella povera sfortunata fanciulla…

E passeggiava a gran passi prendendosi le vesti, contorcendosi le mani, mandando gemiti interrotti, come se un acuto, insopportabile tormento gli serpeggiasse nelle carni, non gli concedesse requie. La madre allora gli si accostò, e con una grazia sollecita e piena d'affetto gli pose una mano sulla spalla:

—Manfredo, disse poi, le cose non sono al punto che tu debba disperarti così…. non v'è nulla ancora di perduto,… io venni ad avvisarti di ciò appunto, perchè spero, perchè voglio veder felici te e quella povera fanciulla…. e in ogni modo, io farò quello che a nessuno non darà mai l'animo di fare…. spera….

Il giovane si fermò, tutto commosso di gratitudine e tenerezza, e a quelle provvide parole, lo spasimo che gli era derivato da un'orribile certezza, tornò a stemprarsi nelle oscillazioni del desiderio e della speranza.

Cessò l'ira, cessò l'orrore; solo rimase l'affetto per sua madre e per la fanciulla, il quale ora appunto ch'era nato quell'ostacolo crebbe a tal punto, che la stessa tenerezza gli generò un altro spasimo, e tanto trasporto lo prese, che fu per gettarsi ad abbracciar le ginocchia di sua madre. I suoi caldi pensieri volavano allora dalla madre alla fanciulla con una vicenda fervorosa e continua.

E qui cominciò a non ricordarsi più nè dello Sforza, nè dei Francesi, nè della battaglia. Altro non vedeva innanzi a sè che quelle due care donne.

La madre che lo teneva abbracciato, standogli tanto in sul cuore che non uscisse al campo, e ancora dubitando, dopo qualche momento:

—E così, gli domandò, possiamo sperare che tu ci esaudisca? vorrai tu finalmente rimandar consolate me e quella fanciulla infelice?

Il giovane si scosse, fece un volto compunto: l'impeto di una passione inestimabile gli mise le parole sulle labbra.

—Oh non partirò, non partirò. State tranquilla, non partirò…. voi…. lascierete finalmente, e per sempre, quella infame casa dove vi si fanno patire le angosce dell'inferno. Abbandonerete il rigido inflessibile vecchio, e verrete con me…. e con quella sventurata fanciulla.

E alzando a gradi a gradi la voce come l'eccitava la commozione:

—Oh non speri d'averla, il Baglione. Rimanga nella sua dura e superba solitudine il padre, la fanciulla verrà con me, con me e con voi. Ce ne andremo insieme una volta, e per sempre, dove migliori destini ci guideranno. Io, lo giuro per l'anima mia, io non ho altri al mondo che voi due sole, e piuttosto che abbandonarvi, non so quel che farei, povere donne mie, non lo so!

Così dicendo, come spossato da quel convulso anfanamento, si gettò a sedere prendendo la mano di sua madre a farsela seder vicina, e appoggiandosi a lei e abbracciandola, per effetto dell'immaginazione infervorata dall'amore, gli pareva, sotto a quell'abbraccio di sentire e toccare anche la soave figura della Ginevra.

E, cosa strana e incredibile, quello zelo così costante in lui per le cose della città sua, per la causa degli Sforza, il cui vantaggio aveva sempre desiderato colla foga d'una passione, furono in quel punto rintuzzati e vinti da quella tenerezza casalinga, la quale or sembrava a lui la più desiderabile, la più santa fra tutte le umane cose, ed era maravigliato anch'esso che tutto il resto gli sembrasse ora così vacuo, e peggio; e incontrandosi coi pensieri, che scorrevano rapidissimi, in quella floscia ed effemminata figura del duca Massimiliano, non gli parve più cotanto sprezzabile, ed ora che il Baglione era venuto a rompere duramente la pace sua, vide che in quelle ingenui gioie di famiglia, in quelle pure corrispondenze d'amore e di pace, c'era una voluttà ed un incanto potentissimi a legare una volontà per sempre.

La madre intanto, ch'era venuta lì così conturbata, così priva di speranze, e adesso udiva quelle proteste e quelle parole piene di un amore così sviscerato, e tenevasi tanto sicura che il figlio suo non sarebbe già uscito al campo, quasi non ricordandosi più di che nuovo dolore era egli afflitto, godeva in quel momento di una gioia piena ed intera, e scorrendo col pensiero tutta la sua vita, non vi trovava un istante così felice come questo, e abbandonando la mano in quella del caro suo figlio, lasciava che la mente vagasse in una dolce contemplazione.

In quel punto, impallidendo affatto la fiamma della lampada che ardeva ancora sulla tavola, entrava nella camera da una finestrella su in alto, lasciata aperta, il primo raggio dell'alba a piovere una mesta luce su quel quadro attraente di matronale bellezza, di bellezza giovanile, su quel gruppo appassionato del più sviscerato amor materno, della più gentile venerazione figliale.

Ma in quel punto medesimo, per l'ampio silenzio non mai interrotto prima, s'udì, trasportato dall'aria, un suono grave e profondo di tocchi accelerati e continui…. dan dan dan dan dan…. campana a martello in duomo; poi di lì a poco, più libero, più aereo, più maestoso, un altro suono in quella cadenza medesima…. dan dan dan dan dan…. campana a martello a S. Ambrogio. Quindi gli stessi tocchi a S. Marco, ai monasteri, al'Annunziata; finalmente un martellamento generale di tutte le campane delle chiese di Milano, un vasto frastuono, un agitarsi in turbine sonoro di tutte le onde dell'aria.

Era l'avviso che davasi a que' cittadini che avesser voluto prender l'armi in quel dì ed aggregarsi alla numerosa truppa degli Svizzeri che a momenti dovevano uscir dal castello.

Il volto del Palavicino diventò rosso infuocato come bragia, poi quasi nel medesimo tempo, pallido, inferriato come la faccia d'un cadavere. La mano, con cui teneva stretta quella di sua madre gli tremò quasi per repentina paralisi.

Che accadeva in quel momento nell'anima sua? con che ordine fatale gli si disposero improvvisamente nel pensiero gli Sforza, i Francesi, la battaglia, le promesse, il dovere, i concittadini, i colleghi che l'aspettavano, i dieci di cui la sera prima era riuscito a cambiare i propositi, le proteste di amore, le promesse di rimanere fatte alla madre, della quale teneva la mano ancor stretta nella propria, la sua Ginevra, le preghiere di lei, il grave pericolo che le sovrastava.

E allora, quasi sentisse una fitta, una doglia acuta un tormento fisico, mandò, senza volerlo, senza nemmeno avvedersene, un'esclamazione così angosciosa, così disperata, che sua madre ne trasalì.

In quella, avendo rimbombato per tutta la città lo sparo delle artiglierie del castello, il Palavicino balzò in piedi con quella rapidità che ha una molla che scatta, si volse, s'accostò alla tavola, prese, si calcò la borgognata in testa… e a sua madre, che s'era alzata essa pure tutta convulsa, e a cui non osava nemmen guardare:

—Ahi non m'è possibile, gridò.

In quel grido c'era il tremito del singhiozzo accorato, l'asprezza dell'ira, l'accento della disperazione. Era una di quelle voci che ha l'uomo per manifestare tante e diverse passioni in una volta, e che non si possono tradurre in nessuna maniera.

E tentato allora un ultimo sforzo, e sempre senza mai guardare in viso a sua madre, quasi ne avesse timore e vergogna, si sciolse duramente da lei e fuggì, chiudendo l'uscio dietro a sè.

Pochi momenti dopo s'udì il galoppo serrato di due cavalli suonare sull'acciottolato della contrada.

La madre, tenuto dietro a quell'ingrato rumore, finchè si perdette affatto, se ne rimase come trasognata. Non sapeva credere a sè stessa, le pareva impossibile, dopo che s'era tenuta sicura di quanto desiderava con tanto ardore, ch'ella or si trovasse di nuovo in quella medesima angoscia con cui era venuta a supplicar suo figlio, e non sapeva uscire da quell'attonita sospensione, ma persuadendosi alfine di quel che era veramente, sentendo il sanguinoso contrasto tra la disperazione presente e la gioia d'un momento prima, pensando al vecchio marito, all'inflessibile padre di Manfredo che, con impazienza stava attendendo una risposta, e più che altro assalita dal timore, che il figlio suo fosse per morirgli quel dì stesso, ed ella non avesse a vederlo mai più, diede in uno schianto così procelloso di pianto che minacciava affogarla.

Entrava allora in quella camera, non sapendo ch'ella vi si trovasse ancora, un domestico del Palavicino per dar sesto ad alcune cose. La poveretta si fece forza, si asciugò gli occhi in fretta, procurò ricomporsi, ed uscì.

Appena discesa, se le fece incontro il vecchio servo, che l'aspettava da un pezzo sotto l'androne della porta.

Notò il buon vecchio, che era affezionatissimo alla signora, gli occhi ancor molli di pianto o il turbamento straordinario…. e preso da compassione, colla voce tremante e gli occhi quasi bagnati, le disse qualche parola per confortarla…. Ma a quell'atto e a quelle parole ella tornò a dare in un altro scoppio di pianto con un angore che le toglieva il respiro, e quando si adagiò nella paravereda e la cortina si stirò, si mise il fazzoletto agli occhi, e pianse dirottamente finchè si fermò innanzi al portone del vecchio palazzo Palavicino.

CAPITOLO X.

È probabile che il nostro lettore, uscito qualche volta dalla porta Romana, in una di quelle placide mattine di primavera, o d'autunno, così particolari al cielo di Lombardia, siasi recato tutto solo a quattro miglia dalla città, a visitare l'abbazia di Chiaravalle, ed è pure probabile che, entrato in quel breve orto, deserto e lugubre oggidì, che circonda la parte posteriore del tempio, piccolo, ma prezioso saggio dell'architettura portata dalle crociate, siasi fermato a lungo cogli occhi volti in su ad esaminare quella guglia alta, svelta, aerea, a trafori, elegantissima, intorno alla cui vetta, svolando a tondo gli uccelli interrompono dei loro dolci garriti l'universale silenzio; e qui sentendosi portato sulla via delle reminiscenze storiche, abbia ripensata la vita austera ed operosa di s. Bernardo, che fondò l'abbazia, le vicende e la caduta dei Torriani che qui furono seppelliti, il nome della Beatrice d'Este, la quale, venendo sposa a Galezzo Visconti, fu in questo luogo salutata dalla nobiltà milanese che le aveva mosso incontro espressamente, le sorti della Guglielmina Boema, di cui in prima si venerò il sepolcro con triduo festoso, poscia se ne sparsero le ceneri al vento facendosi le cose a proposito, tanto nel primo che nel secondo caso.

Ora nel giorno 15 settembre sul piano praticabile più alto di quella guglia, ad un'ora di giorno si vedevan fermi due uomini. Dell'uno luccicavano al sole gli ori e le gemme sulle ricche vesti, e dell'altro difficilmente si distingueva l'umile sottana di monaco cisterciense. Il silenzio in quell'ora, in quel giorno, non era nè generale, nè profondo come il solito, ma veniva interrotto da frequenti scoppi come di tuono, che percorrendo e agitando le regioni dell'aria veniva a morire in seno dell'abbazia. Intanto che i due dall'alto della guglia parevano immobili a guardare, alcuni conversi del monastero, raccolti in quel brolo, oggi così abbandonato e tetro, se ne stavano inchinati, accostando la testa a terra, come ad ascoltare qualche cosa che venisse di sotto.

Stando in fatti in quella postura, alle improvvise alterazioni del cupo rimbombo, che, quasi percorresse lo spazio sotterraneo, arrivava da sei miglia lontano sino a quel punto, si poteva quasi avere un sentore dei repentini movimenti de' cavalli e delle artiglieria trasportate, delle varie vicende della battaglia che si combatteva tra Marignano e San Donato, e que' buoni conversi da que' suoni così vaghi credevano infatti poter raccogliere qualche notizia. In quanto poi ai due che stavano sull'ultimo piano dell'aerea guglia, non contenti di quello scarso indizio, per la vastità della campagna dirizzavano lo sguardo fin dove poteva mai arrivare, e lo tenevano fisso a un punto dove brulicava uno sciame, quasi poteva dirsi, di lucenti insetti che si agitavano, rischiarati in quel momento da un nitidissimo sole di mattina. Era quello un corpo di riserva che stava sull'ale per accorrere in tempo, quando l'esercito Sforzesco si fosse trovato all'ultime strette.

L'uomo, principalmente, sulle cui vesti si vedevano luccicare le borchie d'oro, fissava lo sguardo a quel punto con quell'inquietudine, con quell'ansia, con quel turbamento, con cui un giuocatore sta aspettando il cadere del dado che gli darà la buona o la mala fortuna.

Ma quando all'orologio dell'abbazia scoccarono quattordici ore, e colui stanco dell'assidua attenzione, distolse un momento lo sguardo da quel luogo, non ebbe neppur tempo di ritornavelo, che quell'amasso lucente era già scomparso e non si vedeva più nulla.

—Reverendo abate, disse allora quel signore con un soprassalto d'alacrità che gli scintillava tra ciglio e ciglio. Gli Svizzeri son certo a mal partito; spero che la vittoria sarà pel re, e con un'affabilità eccessiva che non gli era punto abituale, strinse la mano del reverendo.

Detto e fatto questo, si appoggiò ancora al breve parapetto che interrompeva l'elegante traforo della guglia; e tornò a concentrarsi in sè, volgendo come per un moto macchinale uno sguardo disattento sulla campagna che gli si stendeva d'innanzi. Il suo aspetto a poco a poco era tornato alla grave ed inquieta attitudine di prima; quel primo bollore di speranza si era già raffreddato, i suoi pensieri avevan già cambiata direzione.

Del resto, era colui il magnifico Bentivoglio, lo scaduto signore di Bologna, il padre della Ginevra.

Era uomo che già aveva varcato i sessant'anni, d'aspetto assai dignitoso e severo, e, più che severo, terribile. Pareva appartenesse a quella rigida stampa dell'epoca romana, con una faccia ampia, di forme grandeggianti, tutta ad angoli, con gran naso e gran mento, e nel complesso, qual potrebbe figurare uno scultore se mai volesse comporre un ideale di testa, adoperando le maschere di Seneca e di Bruto.

Parlava poco, rideva meno, pensava sempre. L'antichità del casato, il dominio della grande e ricca città che aveva perduto, i mezzi di ricuperarlo, erano gli assidui oggetti di quel suo pensare.

Sin dall'estremo scorcio del secolo decimoquinto, era stato per la prima volta assalito da quello spavento che, come epidemia, s'era impadronito di tutta quella folla di tiranni e tirannetti che padroneggiavano la media Italia, allorquando il Borgia aveva minacciato assoggettare a sè la Romagna tutta quanta, e non s'era fermato alle minacce. Sgombrato che fu, per l'improvvisa morte di papa Alessandro, quel tetro nuvolo che aveva oscurato l'orizzonte del suo potere, credè stornato ogni pericolo, e se ne tenne sicuro al tutto. Ma appena venne alla sedia pontificia Giulio Il, che non meno d'Alessandro e del Valentino bramava riconquistare alla Chiesa tutte le terre che già le erano appartenute, i timori gli si accrebbero assai più che prima, e nel 1506 ebbe infatti dal terribile Giulio perentoria intimazione di render Bologna, e minacce di fulmini spirituali e temporali in caso di rifiuto. Sicuro dell'ajuto dei sudditi, e più ancora delle promesse di Luigi XII, aveva risoluto sostenere l'assedio ch'era stato posto alla sua città; ma i sudditi non furono abbastanza valorosi, e il lealissimo Luigi, preso alle reti dal pontefice, col quale convenivagli acconciarsi, fece il suo comodo e lo tradì. Nella notte del 6 giugno di quell'anno, e fu gran ventura, potè fuggire dalla città, e raccolte quante ricchezze potè ammassare in quella dura stretta, ricevuto un salvacondotto da Chaumont, che comandava le truppe francesi, se ne venne a Milano coi due figli Annibale ed Ermete e colla Ginevra che allora poteva avere otto anni, e qui fermò la sua dimora. Non avendo in quel tempo a far nulla, ed essendo i due suoi figli già oltre l'adolescenza, a stornare i duri pensieri ed a fuggir tempo, si diede all'educazione della sua Ginevra. E mostrando la fanciulla tanto ingegno quanto è fuori dell'ordine di una donna, gli die' maestri di lettere, di disegno, di musica. Urceo era stato il primo maestro della fanciulla sin da quando erano a Bologna; in Milano fu affidata alle cure di Giovanni Filoteo, dottissimo uomo e buon poeta. Il Luino le aveva insegnato i principj del disegno, e uno Scandiano Monteverde, maestro nel conservatorio di musica fondato da Lodovico il Moro, e che fu il primo di tutt'Europa, gli apprese il canto e il suono della lira, genere di strumento che allora era in grandissima voga, per esserne stato suonatore insigne il mirabile Leonardo.

Recatosi poscia a Ferrara, dove aveva molti possedimenti, i soli con cui potesse mantenere il decoro principesco della famiglia, aveva ottenuto che Lodovico Ariosto contribuisse pure alla maggior educazione della figlia, la quale seppe rispondere così bene ai desiderj paterni che, non ancora uscita dell'adolescenza, destava la meraviglia in quanti ravvicinavano.

Intorno a quel tempo ricuperò Bologna, ma, come sappiamo, nel 1512, spodestato ancora di quel dominio, e con minori speranze di ricuperarlo, di nuovo ritornò a Milano. Vi ritornò colla sola Ginevra, avendo i due figli Annibale ed Ermete seguito l'esercito francese.

Nella fanciulla, in quel lasso di tempo, colle doti dell'ingegno s'era venuta sviluppando una bellezza di forme straordinaria, alla quale dava assai prezzo una leggiera tinta di quella severa maestà paterna, che ai giovani che la vedevano comandava l'ammirazione, senza far tacere l'amore. Non è a dire con quanta compiacenza lo scaduto signore di Bologna vedesse quella sua figlia, come ringraziasse la fortuna d'averla fatta nascere nella sua casa. Nè già l'amor paterno soltanto generava quella compiacenza, ma un'altra causa assai meno tenera e molto più forte, la grandezza della casa, il desiderio di ricuperare i suoi Stati, Qual signore di Bologna, egli aveva sperato, facendone fondamento sui pregi della figlia, ch'ella potesse venir chiesta in isposa da qualche principe regnante o d'Italia, o di Francia, coll'ajuto dei quali farsi forte, e riavere i propri dominj; quella sua figlia dunque era l'unico oggetto delle sue cure e dell'amor suo; ma in quest'amore v'era qualche cosa di geloso, di tormentoso, di pesante. In tanti anni di dimora in Milano non le avea mai concesso s'abbandonasse in dimestichezza colle fanciulle di altre nobili famiglie; neppure una volta lasciò ch'ella uscisse a piedi di palazzo; temeva quasi che l'atmosfera delle contrade, dove si confondevano le esalazioni plebee, potessero mai recare qualche offesa alla nobiltà della figlia.

Quando Milano era sotto il dominio francese, non aveva mai frequentato che il palazzo e la conversazione del governatore, dove la Ginevra fu più d'una volta l'oggetto dell'ammirazione generale, e quando ritornarono gli Sforza, qualche volta si recava alle feste del duca. Nella propria casa non concedeva accesso che alle più cospicue e antiche famiglie di Milano, con un riserbo però, con un cerimoniale, con un'etichetta, che poteva anche promovere la nausea. Qual signore, benchè scaduto, d'un ampio stato in Italia, egli pensava che in tutta Milano non v'era alcuno che potesse stargli a paro, nè di nulla era più curante che di far spiccare e rispettare codesto primato. Il titolo di magnifico signore, era il solo che lo mettesse di lieto umore, che gli facesse distender le rughe della calva sua fronte. Di null'altro era più tenero che dei propri titoli, di nessun'altra cosa prendeva passatempo che della lettura della storia del proprio casato e della sua Bologna. Dal momento che gli era sfuggito di mano il potere reale, cominciò a vagheggiare con un amore ardente, geloso, permaloso, le immaginarie prerogative della nobiltà. Molte volte avveniva, che trovandosi a far qualche parola con taluno dei signori milanesi che non appartenessero al più squisito patriziato, una loro parola non abbastanza misurata, un atto, un gesto troppo confidenziale, al quale per inavvertenza si lasciassero andare, una stretta di mano datagli senza pensar molto alla diversa inquartatura dello stemma, qualche cosa insomma che gli potesse far sospettare avesse voluto quel tale o porsi al livello di lui, o abbassar lui al livello suo, bastava di tratto a mettergli i dispetti nel sangue, a farlo di improvviso diventar cupo, accigliato, inquietissimo.

E coloro che avessero voluto spiegare quei repentini mali umori, potevano benissimo darne causa o al mal di capo, o al dolor di denti, o ai reumatismi, ma non mai a quel che era veramente, perchè quel signore talvolta faceva poi anche l'affabile e il liberale, nè tutti erano così acuti da tener nota delle occasioni in cui lo faceva, nè sapevano accorgersi che anche allorquando dava cortesi parole a chi era da meno di lui, procurava tuttavia, nel mezzo della folla, di tenersi alto di tutta la testa appoggiato ai trampoli del suo grado.

Chi tiene fra le mani la verga del comando ed è ancor ricco di potenza fisica, vedendo in che e in quanto avvantaggia gli altri, il concetto che può aver di sè stesso non trascende giammai i limiti, perchè la realtà gliene dà la giusta misura. Ma chi, invece, non ha altro al mondo che quel fluido imponderabile, il quale vien detto nobiltà, non potendo sapere quel ch'ella sia precisamente, ajutato dall'imaginazione le attacca quel valore che più gli piace, e col superbo fantasticare va tanto innanzi che gli riescono angusti i più estesi confini.

Chi scrive conosce un tale della costola d'Adamo, uomo del resto di molto ingegno e di miglior coltura, e, come parve a taluno, anche di assai buon senso, il quale tiene per fermo che i patrizi sieno, nella grande catena, d'un bel tratto più presso a Dio che non il resto del genere umano; assunto che si affanna a dimostrare con una convinzione veramente prodigiosa, e, quel che più fa maraviglia, senza che il vino gli abbia dato alla testa.

Ora, tornando al Bentivoglio, era verissimo quanto di lui aveva saputo il Morone da quel tal Marsiglio di Lodi. Verissimo che essendogli giunto a notizia l'arrivo del Baglione (il quale, a gratificarsi i Francesi, avea seco condotto cinquecento lance per aggregarle all'esercito del re, e intanto aveva posto gli alloggiamenti a Lodi) tosto erasi colà recato a visitarlo.

Sebbene egli avesse trovato il Baglione invecchiato ed orrido da far paura, tuttavia avea subito tentato riannodare il filo che, tre anni prima, era stato mal suo grado spezzato. Come il lettore ben sa, era il Baglione tra' più facoltosi e potenti signori della Romagna, e per l'ajuto di Francia, era possibile avesse a salire più alto ancora, e il Bentivoglio, per quanto cogli ambiziosi desiderj girasse lo sguardo fra tutte le teste coronate d'Italia e fuori, non avea però mai trovato un personaggio migliore del Baglione con cui collocare la propria figlia, e collocarla in modo, che potesse esser d'ajuto a lui medesimo. Però, quando Giampaolo era stato improvvisamente assalito da quei mali che in tutti gl'Italiani aveva indotto la speranza, anzi la certezza, fosse per morirne in breve, egli si tenne perduto, vedendosi tolto un così valido mezzo a ricostruire lo scrollato edifizio; per questo è facile immaginarsi il contento di lui, allorchè, fatte quattro parole col Baglione, tosto comprese esser colui ancor pronto a sposare la Ginevra, benchè gli avesse posto una condizione.

—Aspettate si spieghi la fortuna di Francia, aveagli detto il signore di Perugia, aspettate che s'abbia a conoscere in quanti piedi d'acqua siamo noi, e allora la discorreremo. Domani o dopo si verrà ad una decisiva giornata. Domani o dopo quel che avrà a stabilirsi fra noi sarà stabilito. Del resto, io sto qui e non mi muovo, le mie lancie son condotte da Orazio, e se venni qua in persona io stesso, è perchè ho bisogno di tener quattro parole col re. Sto attendendo anch'io con impazienza quel che sarà per uscire da tutto ciò, ma spero bene. Ho una gran sete, caro mio, e mi conviene patire l'arsura finchè non vegga recisi gli unghioni di leone da questo ragazzo di re. Tengo nella stía della mia Perugia ad ingrassare, tre capi di pollame ai quali tireremo il collo quandochesia; un protonotario che ci ha tradito, un vescovino che s'impacciò di battaglie, un cardinale che si balocca colle daghe, le misericordie e gli schioppetti. Se dunque i Francesi si comporteranno bene, il papa farà cantare il miserere per tutt'e tre, e non avrò più un timore al mondo di lui. Allora venite qui, e senz'attender altro, qualche cosa si farà. La vostra figlia mi piace e la sento lodata da tutti, e, in quanto a me, sebbene allorchè spira tramontana mi vengano ancora certe doglie acute, pure qualche bollitura di gioventù me la sento ancora fra le vene.

A queste parole, sentitosi tutto confortare, il Bentivoglio era ritornato a Milano per preparare la figlia a quelle nozze che dovean essere imminenti; e in quel modo che tre anni prima s'era mostrato così insensibile ai pianti disperati della unica sua figliuola, lo fu anche in codesta occasione, e più ancora. Eppure s'ella gli fosse morta allora se ne sarebbe rimasto fortemente addolorato per tanta sventura, e avrebbe sparse lagrime abbondanti e sincere; ma trattandosi di ricuperare Bologna ogni fonte di pietà veniva essiccandosi in lui, e del resto, a spiegare i fenomeni dell'ambizione e' è un assortimento di sentenze l'una più decrepita dell'altra.

Dal dipendere adunque le nozze di sua figlia dall'esito della battaglia, è spiegata la cupa inquietudine del Bentivoglio in questa mattina del 15 settembre. Appena i cinquantamila svizzeri erano usciti di Milano e li seppe arrivati tra S. Donato e Marignano, anche egli tosto uscì della città, e si recò in un suo palazzotto ove si ritraea assai spesso quando, infastidito della fastosa ricchezza dei numerosi patrizj milanesi, che non parevano far di lui quella stima ch'egli pretendeva, aveva bisogno per dimenticare il fastidioso spettacolo della città, della solitudine e del silenzio d'un luogo dove nessuno potesse contrastargli il primato, e a lui fosse lecito di reputarsi quel che meglio gli fosse piaciuto. S'era poi scelto a dimora un luogo vicino all'abbazia di Chiaravalle perchè gli piaceva intertenersi col reverendo abate che già aveva conosciuto sino dal 1504 a Bologna, nella quaresima del qual anno aveva colui predicato in San Petronio con straordinario concorso di tutta la città. Più cose poi aveva stabilito il Bentivoglio dopo l'abboccamento avuto col signore di Perugia, l'una, che il reverendo abate di Chiaravalle fosse colui che benedisse gli sponsali, l'altra che non doveva correre più d'un giorno dopo l'esito della battaglia senza che le nozze fossero già strette, la terza che non sarebbe entrato in Milano prima che ad ogni cosa fosse dato compimento, e gli sposi con gran pompa facessero il loro ingresso in Milano intanto che vi si rimetteva il governo francese. Siccome però di codeste cose, per quanto esso fosse intestato di volerle assolutamente, pure poteva benissimo darsi il caso che non ne avvenisse neppur una, così contrastavano e cozzavano nella sua testa molti pensieri in quel mattino, e le ore che aveva trascorse sulla guglia dell'abbazia furon certo delle più tormentose della sua vita.

Stato adunque per qualche tempo appoggiato al parapetto della guglia, e incessantemente perturbato dalla tormentosa vicenda dei dubbj e delle speranze, al sentire le onde dell'aria sempre più agitate dagli scoppj continuati dei cannoni e delle artiglierie:

—Oh fossi anch'io colà, uscì a dire con impeto. Codesto sole cocente, che da tre ore mi batte sul capo, mi abbrucia più d'un razzo d'artiglieria. E non so nulla di quel che avviene a sì breve distanza da me, e tanto si aveva a rimanere sotto coltre.

—Fra breve ci sarà ben nota ogni cosa, rispondeva l'abate.

—Volesse Iddio che vincesse il re.

—Io l'ho pregato perchè volesse il meglio. E tornarono a tacere, e un'altr'ora misurò la sfera dell'orologio dell'abbazia, senza che essi mai rompessero il cogitabondo silenzio.

CAPITOLO XI.

Questo capitolo doveva esser tutto occupato da una lunga descrizione della battaglia di Marignano fatta con tutte le regole richieste dai precettisti, ed anzi, avendo avuto l'autore il valido ajuto d'un professore di rettorica, già amico del benemerito Elia Giardini, si poteva esser certi che a quella descrizione non sarebbe mancato una virgola. Ma una combinazione che potrebbe dirsi fatale ha fatto sì, che i fogli che la contenevano andassero smarriti, non si sa come. Dopo aver fatte le più diligenti ricerche, e sempre invano, trovandosi l'autore nell'odiosa necessità di rifare il suo lavoro, e sentendosi venir la bruttura, non solo ha pensato di ommettere la descrizione, e di chieder perdono dell'omissione, ma sì anche, per suo conforto, s'è affannato a persuadersi sia stata quasi una fortuna il non averli trovati, per due buone ragioni: l'una, che in faccia all'arte, supposto che si duri nell'ostinazione di non vedere che l'arte nuda in un romanzo, una descrizione di battaglia, è tal cosa, che oggidì potrebbe far venire la muffa al naso quand'anche uno vi recasse l'abilità di Omero; l'altra che, in faccia alla storia, le cause che producono una battaglia, e i risultati che ne emergono, sarebbero le sole cose indispensabili a conoscersi; nel caso nostro poi non importa gran fatto il sapere, che Francesco abbia dormito su un cannone nell'intervallo della mischia, che il maresciallo Trivulzio abbia fatto dar l'acqua alla campagna ed inzaccherate le gambe dei poveri svizzeri, ch'egli stesso, per salvare un suo paggio, abbia corso imminente pericolo della vita, che il re Francesco abbia combattuto come un leone, cosa che del resto abbiam veduto fare a molti fatui nerboruti, in cui l'acquavite teneva luogo di coraggio e di virtù; che il Palavicino abbia fatto tutto quanto può fare un uomo; che sul campo sien restati seimila morti, e una quantità innumerabile di feriti, che in fine il Trivulzio l'abbia qualificata battaglia di giganti. La notizia che ci preme veramente, e che veramente ci addolora, è quella che gli Sforzeschi rimasero sotto, e che re Francesco per quella battaglia fu padrone del Milanese.

Considerando poi che ci resta a percorrere un lungo, disastroso e intricato cammino, ci accorgiamo adesso che fu un vantaggio non disprezzabile l'aver potuto dilungarci dalla strada maestra e prendere per una tale scorciatoja.

CAPITOLO XII.

Dopo due ore d'attenzione, un acuto squillo ferì l'orecchio del Bentivoglio.

—Illustrissimo, disse allora l'abate, possiamo discendere, questo è il messo senza altro.

—Ho fiducia che costui mi debba recare la buona nuova, disse il Bentivoglio.

Lo squillo tornò a farsi udire vicinissimo, e allora discesero. Non avevano posto il piede sul primo piano di quella scala che mette nella chiesa, che ai ripetuti squilli della tromba, e allo scalpito incalzato d'un cavallo, tutti si ridestarono gli echi dell'abbazia.

Il magnifico Bentivoglio e l'abate uscirono di chiesa in quella che il messo a tutta corsa entrava nel cortile che la ricingeva, ed entrava gridando: che gli sforzeschi erano stati sconfitti.

Fu questo uno tra' più felici momenti della vita del Bentivoglio, il quale, con due suoi uomini, subito salì a cavallo e, senza attender altro, si recò a Lodi; avendo lasciato una buona scorta di servi e di villeggiani al palazzo dov'era la sua Ginevra, perchè stessero in guardia, se per caso vi capitasse qualche drappello di soldati francesi.

Intanto che il Bentivoglio viaggiava verso Lodi, molte cose avvenivano altrove.

In una fuga disordinata e disastrosa tornavano a sparpagliati drappelli verso Milano gli svizzeri e tutti coloro che avean preso parte nella battaglia contro il re di Francia. Sulla strada fuori della porta Romana moveva una gran moltitudine di cittadini contro i poveri malcapitati che ritornavano. Era un brulicame di gente infinita; un ire e redire; un parlare in confuso; un aggrupparsi disordinato intorno a qualche soldato, che tornava spossato e rotto dalla fatica, per udire notizie più distinte di quelle che avevano recate i corrieri della città. E come la sfilata degli Svizzeri malconci, luridi, pesti, insanguinati, inzaccherati di melma e di fanghiglia per quel brutto giuoco che il Trivulzio aveva lor fatto, cominciò ad entrare nella città, i buoni milanesi, dimentichi delle esorbitanti somme che loro eran costati que' mercenarj, e commossi a pietà del loro presente squallore, accorrevano, come lasciò scritto il nostro Burigozzo, con vino, con pane, e con altri soccorsi, ad alleggerir loro la sventura toccata.

Fra i molti che non erano rimasti sul campo, e fra i pochi reduci a cui non era toccata una ferita abbiamo pure alcuni personaggi di nostra conoscenza, tra' quali, se non tutti, i sei almeno dei dieci che erano stati così largamente soccorsi dal Palavicino.

Dal campo erano essi tornati assieme, lamentando gli altri che feriti non avevano potuto muoversi.

A quel giovane che noi conosciamo per quell'appellativo un po' disonorevole d'indebitato, si fece incontro sulla strada Romana, un uomo in sui quarant'anni, il quale, a molti tratti del viso e della persona, che aveva somiglianti con lui, non si poteva sbagliare dicendo ch'era fratello, o qualche cosa di simile. Quest'uomo dunque che, per disgrazia aveva comune con lui anche le poco splendide vesti, appena il vide fattagli una festa cordiale:

—E così, gli disse; come ti sei comportato Omobono, e la fortuna come s'è comportata con te?

—Benissimo l'uno e l'altra, Elia, per quanto riguarda me solo, ma è pur sempre vero che i nostri godimenti non hanno ad essere intieri. Tu già hai indovinato…

—È forse morto il marchese?

—No, il buon Dio l'ha voluto conservare ancor vivo, ma è in terra ferito; ora se ne sta tra le mani d'uno di que' chirurghi scortichini dell'esercito. Ma io vengo in fretta a cercare di qualcheduno de' nostri perchè la cura abbia ad essere e più sicura e più spiccia, sapresti tu dove potrei dare del capo, così in sul subito?

—Di medici e chirurghi non c'è penuria qui… ma se tu vuoi un uomo, cerca di messer Lucio Cardano, che sta in piazza… Ma è così grave il pericolo?

—Tanto grave, vorrei credere di no, ma si sa mai quello che può succedere, e siccome per un certo intrigo, che ti dirò poi, quel povero giovane è più malato d'animo che di corpo, e quando l'ho lasciato dava in deliri e in pianti che faceva pietà, così potrebbe una cosa far danno all'altra, e allora… e allora ti dico che vorrei essere in terra io stesso con una buona ferita, piuttosto che lui, e se questo cambio si potesse fare, lo farei di gran voglia, perchè è mio dovere.

Così parlando tra loro, se ne vennero in piazza a cercare di quel tal chirurgo.

In mezzo a tanta farragine di cose, fra tanto scompiglio di fatti, in così assiduo accozzamento di notizie, in tanta aspettazione di novità, i buoni Milanesi trovarono pure il tempo di prendersi pensiero anche degli avvenimenti minuti. Così presto circolò la notizia, che il marchese Palavicino era ferito, e con quella l'altra notizia, che la figlia del magnifico Bentivoglio avrebbe sposato il signore di Perugia, il quale insieme ai Francesi sarebbe esso pure venuto a Milano; due notizie che, quantunque abbiano un così stretto nesso nella nostra e nella mente dei lettori, pure non ne avevano alcuno nella mente de' Milanesi che ignoravano quello che noi ora sappiamo. Ma quelle due notizie, prima ancora che al popolo, erano pur giunte all'orecchio degli Sforza e del Morone, il quale ne sapeva più di quello che ne sappiam noi certamente. Però, appena seppe della sconfitta, dopo aver disposto più fermamente quello che, in suo segreto aveva già pensato prima della giornata campale per ciò che riguardasse gl'interessi dei due Sforza e, più che tutto, il bene della città, gli rimase qualche tempo di pensare anche a quei due fatti così minuti, (se si confrontino colla immensa farragine della cosa pubblica), che risguardavano la Ginevra e il Palavicino.

Aderendo strettamente a quanto aveva già manifestato al duca di Bari Francesco Sforza, la sua intenzione era quella di mandare a vuoto quel matrimonio, ma siccome tanto il Bentivoglio, che il Baglione stavano con Francia, e questa che oramai era padrona del Milanese, non avrebbe comportato fosse lor fatto il menomo sopruso, così il Morone non volevasi prendere apertamente sopra di sè un affare di tanta importanza, e tale che avrebbe potuto esser causa dell'estremo suo danno, e mandare in un fascio in una volta tutto il lavoro a cui da tanti anni attendeva con tanta fatica, con tanta astuzia, con tanto senno. Il fine del Morone fu sempre quello di giovare al proprio paese, del cui bene era tenerissimo, e chi scrive, non fu mai così persuaso di nessuna cosa al mondo, come di questa; ma esaminando attentamente ogni suo atto, vedesi chiaro ch'egli voleva condurre le cose in modo da non averne a scapitare lui stesso, e in qualunque mandibola fosse poi caduta questa bell'ala di pollo della Lombardia, comportarsi di maniera da pescar chiaro nell'acqua torbida; come tutti gli uomini di genio, ambiva l'ottima stima dell'universale e non era indifferente alle nuvole dorate della gloria; ma con tutto ciò la palma del martirio non aveva per lui neppure una mediocre attrattiva, nè mai sarebbesi indotto per lei ad accelerare d'un tratto la sua corsa. Da ciò forse derivò quella farragine d'opinioni così controverse sul conto di questo celebre personaggio, e ch'altri gli abbia fatto il torto di reputarlo indifferente al bene del proprio paese e ligio in tutto alla Francia.

Fin dal primo momento adunque che gli era balenato il pensiero in mente di stornare le nozze del Baglione colla Ginevra, parendo a lui che questo fatto assumesse un'importanza più grave di quella che altri potesse mai credere, sempre aveva pensato al modo di collocare le pedine sulla tavola reale, senza che apparisse che la mano che giocava fosse la sua. Di presente poi, che i Francesi erano entrati in Milano trionfalmente, che le sorti s'eran profferte interamente a loro, e alla causa Sforzesca più non rimaneva che un barlume, ma ben fioco e assai lontano, nella persona del duca di Bari, e che tra i due tiranni della Romagna e la Francia v'era un'amicizia molto tenace, comprese che il suo disegno era assai difficile a colorirsi, e più ch'altro, stringendo il tempo, aveva bisogno di un colpo risoluto. Per ciò, dopo esser stato più volte tentato di abbandonare al tutto quell'impresa, mise finalmente gli occhi addosso a un certo tale che aveva conosciuto qualche anno prima, e nascondendo sè stesso nell'ombra, pensò valersi dell'opera di colui.

Il giorno dopo, che era il 16 di settembre, chiamò l'uomo di camera, il quale da molto tempo gli era fidatissimo.

—Ti ricordi, gli disse, di quel tale che, faranno tre anni adesso, sedeva fra gli scribari dell'ufficio fiscale e che, per più mesi, venne a prestarmi aiuto nel mio gabinetto privato?

—Mi ricordo benissimo.

—Dal giorno che l'ho licenziato per non occorrermi più l'opera sua, non mi venne mai più veduto. Ma ora avrei bisogno di lui. Sapresti tu dove andarlo a trovare?

—L'anno passato so che abitava in Vettabbia al numero 35. Era un bugigattolo a livello della fossa, dove le lavandaie vanno a fare il bucato. Ma vossignoria sa bene, che in un anno può aver cambiato più di dieci e più di dodici alloggi, chè i proprietarii delle case non hanno mai avuto la consolazione di lodarsi della sua puntualità nel pagar le mesate; del resto, chi volesse fare il giro delle osterie dove c'è il vino migliore e il più bravo cuoco, non sarei lontano dal credere che tosto lo troverebbe. Adesso poi che ci penso, tre anni fa bazzicava al Pomo d'Eva, dove si è sempre bevuto il più buono recente, e non è improbabile che vi pratichi anche oggidì, perchè qui poi paga bene, e i lamenti dell'affittuario vanno in tanta lode nella bocca dell'oste. Se dunque vostra signoria crede, vò al Pomo d'Eva, e lo conduco qui.

—Va dunque, e fruga sin che lo trovi, e conducilo da me subito.

L'uomo di camera obbedì. Il Morone stette intanto ad almanaccare intorno al miglior modo di far fruttar l'opera del nuovo personaggio che aveva mandato a cercare.

Noi abbiam già avuto occasione di conoscere un tal uomo, quando il di della sconfitta degli Sforzeschi, si fece incontro al suo fratello Omobono. Esso chiamavasi Elia Corvino, ed ora che il Morone sta aspettandolo terremo di lui qualche parola, che forse tornerà utile a qualcosa.

Figlio d'un negoziante di pannilani che, a un certo punto della carriera commerciale, si era trovato aver messa insieme una somma ragguardevole di denaro, era stato assai signorilmente educato, e messo allo studio di Padova per impararvi giurisprudenza, ove il lettore di diritto, il quale, oltre ad essere versatissimo nella sua scienza, era un conoscitore molto esperto delle facoltà intellettuali de' giovani affidatigli, aveva pronosticato gran cose di lui, qualora peraltro si fosse a tutto uomo dedicato a quello studio, e non si lasciasse allettar tanto, come dava indizio di voler fare, dai giocondi svagamenti della vita. Ma esso non era ancor licenziato dottore, che suo padre, morto di affanno in poco d'ora, in conseguenza d'un rovescio di fortuna tanto terribile quanto inaspettato, lasciò a lui, come a due altri suoi fratelli, un tenuissimo avere; di quelle somme spilorce che non bastando a mettere una solida base al ben essere d'un uomo, nè a dargli i mezzi a tentar con sicurezza un'utile professione, non servono ad altro che a mettergli nel sangue, specialmente se l'uomo è molto giovane, una tentazione morbosa di sparnazzare pel lungo e pel largo, e di porsi a fare il gran signore un anno, sei mesi almanco, tanto per libare tutto il bello, il buono, il saporito di codesta vita, e assorbire a un tratto così tutto il contagio del vivere ozioso e splendido, poco curanti del resto, se fra poco tempo la miseria, con tutto lo squallido corteggio de' suoi malori verrà a dar la fuga a quella folla di desiderj e di appetiti nati e cresciuti con prepotenza in quel velocissimo mezz'anno. Uno di que' fatali patrimonj, insomma, de' quali è certamente più desiderabile un colpo di apoplessia.

Impacciato adunque d'un simile patrimonio, il giovane Corvino, vivacissimo e prodigo per natura, lo consumò tutto d'un fiato, senza nemmeno lasciar tempo all'anno di finire, senza neppure averne fruito lui solo, chè ad alcuni amici suoi aveva fatto de' prestiti graziosi, equivalenti a donazioni. E così d'improvviso s'era trovato in quelle secche, che, veduto da lontano, non gli eran sembrate tanto lugubri. Capì allora che il tempo d'oziare, di godere, di scialare era finito, e che voler mangiar pane, conveniva darsi attorno in qualche modo. Ricordavasi così in digrosso del diritto romano, gli era rimasta qualche polvere in testa dei capitolari di Carlo Magno, delle decretali di Graziano, aveva un fioco barlume delle leggi statutarie, conosceva passabilmente la pratica forense, capì che per vivere conveniva prender le mosse per di lì.

L'elemento capitale e più energico che costituiva l'ingegno del Corvino, era un acume e una perspicacia di veduta straordinaria. Ora quell'acume, pel bisogno inesorabile, trasportato dalle speculazioni teoretiche alla pratica, diventò astuzia; quella perspicacia trasmutossi in mariuoleria. Aveva cominciato in prima a far lo scrivano di cose forensi, poi si provò ad assumere per conto proprio qualche scabroso impegno, di quelli che fan torcere il viso e crollare il capo ai notai ben provveduti di tabellionato, ed essendo anche dotato d'un'immaginazione feracissima di trovati, era riuscito a spuntarlo, epperò in poco tempo aveva potuto mettere insieme qualche denaro. Ma per disgrazia tornando a farsi sentire prepotentemente in lui quegli appetiti de' quali aveva fatto conoscenza in quel tempo di vita signorile, fu tentato di oziare per qualche poco ancora, e fece una ricaduta. È sentenza che circola nel ceto medico, che talvolta una ricaduta è più rovinosa del primo assalto medesimo del morbo, e parve che pel giovane Corvino fosse così di fatto. Gli fu mestieri tornare al lavoro e, per aiutarsi meglio, allargare il campo delle sue operazioni. S'attentò dunque di mettere un carato in più agenzie, tornò a infarinarsi di giurisprudenza, a studiare, a notomizzare la legge corrente per trovare il suo lato debole, ove potesse riuscir vittoriosa la frode, e giunse così ad essere un molto fecondo autore di ribalderie, l'una più ingegnosa dell'altra, che gli procacciarono in poco tempo una certa fama municipale. Si era parlato principalmente molto a lungo in Milano, di tre o quattro suoi fatti, che, malgrado la loro pravità erano stati accolti con applausi infiniti del pubblico. Non finivasi poi di magnificare l'acutezza, l'ardimento, la fortuna di un ultimo suo tentativo, pel quale eragli riuscito annullare un iniquo testamento, delle cui disposizioni gli eredi si erano tenuti assai sicuri. Di ciò lautamente compensato, ebbe la consolazione di poter immergersi per qualche tempo ancora negli ozi e nelle intemperanze predilette, sinchè tornò ad altri capolavori di prontezza e d'audacia, toccando quasi tutti i generi dello scamotaggio, combinando matrimoni avversati da mille ostacoli, rompendone altri voluti per forza, facendo passare per equo e legale una violenza, un sopruso, e sempre mescendo alle ribalderie alcun atto, che invece di provocar gli odi, destasse le simpatie. E bisogna notar qui di passaggio, che i dirigenti delle sue ribalderie, anche le più smaccate, non eran mai nè bassa perfidia, nè tetra scelleraggine, ma solo una special teoria di diritto naturale, della quale non fu mai traccia in nessun codice del globo. Che se per avventura il cuor suo, non angariato dalle urgenze del bisogno, si fosse adoperato in pro di qualcheduno, che avesse potuto internarsi ne' suoi segreti, lo avrebbe veduto galleggiar più libero sulla negra sozzura, nella quale, quando la fame gridava alto, era costretto sprofondarsi vergognoso e sdegnato di quel che gli toccava vedere senza poter parlare. Del resto quel galantuomo a lucidi intervalli, seppe talora commettere azioni così nobili, così generose, così dilicate, quali non sarebber forse venute in mente mai a nessun galantuomo in pianta stabile.

Tal'era codesto Elia Corvino, un complesso di qualità così poche omogenee che mal si potrebbero racchiudere in una definizione. Qualcosa peggio del mediatore non iscritto nella tabella dei mercanti, qualcosa meglio del computista del falso monetario, e che intanto ci compare qui improvviso a mostrare, che alcuni personaggi appartenenti a un secolo, che nel complesso ha un'impronta tutta propria, possono troppo bene somigliare a personaggi d'altri secoli e d'indole ben diversa.

Questo Elia Corvino, quando il Morone gli mise gli occhi addosso, poteva aver quarantanni d'età, e continuava gloriosamente il mestier suo; come aveva congetturato l'uomo di camera del Morone, aveva lasciato da gran tempo il suo bugigattolo al N.° 35, in Vettabbia, ed ora abitava al quinto piano di una stretta e lunga casupola, per giungere alla cui porta bisognava essere assai pratico di quell'imbrogliato labirinto di vicoletti, di tuguri, di catapecchie accostate ed addossate l'una all'altra, senz'ordine e senza logica, in quella parte di rione dove ora è situata l'osteria dei Popolo e dove anche oggi il lavoro dei secoli e della civiltà non pare che abbia fatto miracoli. Del resto, il luogo d'abitazione e l'acconciatura del vestito erano le due sole cose per le quali l'Elia Corvino sentiva un certo rimorso a mettere fuori danari, e quel suo abitacolo, più propriamente doveva chiamarsi covile, e le sue vesti, che soleva comperar già frustate, eran di foggia signorile bensì, ma unte, spelazzate e tignose. I suoi danari di lucro impuro, andavan a versarsi tutti quanti all'osteria del Pomo d'Eva, la quale occupava il sito appunto dell'odierna del Popolo, motivo per cui erasi procurato un'abitazione che le fosse, ben vicina; e le mancie di lui, qui fioccavano a' famigli, e i polastrelli meglio ingrassati e purgati eran tenuti in serbo per messer Elia Corvino, al quale veniva qui prodigato il titolo di dottore. Oltre poi a codesti gusti, pe' quali non soleva guardarla pel sottile, aveva qualch'altra abitudine poco economica, e con assiduità soverchiamente peccaminosa, era veduto internarsi per gli oscuri angiporti e pei viottoli dove s'udivano le impure cantilene delle figlie di Pafo.

L'uomo di camera del Morone intanto, recatosi difilato all'osteria del Pomo d'Eva, appena ebbe messo il piede nel primo salotto a terreno, la persona appunto che tosto gli cadde sott'occhio fu l'Elia Corvino, che seduto rimpetto all'uscio innanzi ad una tavola, non attendeva già in quel momento nè a mangiare nè a bere, ma in mezzo a quattro persone, con innanzi carta e calamaio, scriveva a furia come fosse sotto il dettame di un curiale, fermandosi di tanto in tanto a interrogare qualcuno de' quattro che gli stavano intorno estatici, e facenti le maraviglie ad ogni suo detto, e a metter tosto in carta le loro parole. Egli è da sapersi che l'osteria del Pomo d'Eva non solo gli offriva la tavola per il pranzo, la cena e straordinari, ma in più d'un'occasione gli serviva di studio e d'aula per consulti, del che pagava l'oste, facendo all'occorrenza il suo patrocinatore officioso.

Ora, alzando la testa, l'Elia Corvino aveva veduto entrar l'uomo del cancellier Morone, e benissimo lo aveva conosciuto, di modo che, appena costui, salutandolo, gli fece intendere avergli a dir due parole, tosto congetturando fosse mandato espressamente dal Morone medesimo, ed essendo contento di ciò, depose la penna, s'alzò, disse a quei suor clienti; torno subito, e s'avvicinò all'uom del Morone.

Questi lo trasse in un canto del salotto.

—Messere, gli disse, l'illustrissimo mio padrone ha bisogno di voi, e vorrebbe parlarvi quest'oggi medesimo.

—Ed io sono bell'e pronto ai comandi dell'illustrissimo, sol che vogliate aspettare un quarticello d'ora.

—Aspetto anche di più, e attendete pure a fare il vostro comodo, solo è bisogno che non passi quest'oggi.

—Benissimo. Lasciate or dunque ch'io sbrighi questi quattro bietoloni, che, senza colpa nè peccato, se io non li aiutassi adesso, berrebbero domani nella brocca del bargello. Se volete aspettarmi, aspettate, quando no, verrò solo dall'illustrissimo; fate quel che volete.

—V'aspetto qui, dunque, e solo badate a far presto.

Il Corvino tornò a sedersi, rinnovò certe interrogazioni, scrisse e scrisse per un quarto d'ora buonamente, poi fece un rotolo delle carte, lo consegnò ad uno de' quattro clienti, dicendo:

—Questo farà l'effetto, e stassera tornate da me qui. Del resto, seguite pure a far buonissime digestioni, chè il pericolo è stornato.

E senz'altre parole, accostatosi all'uom del Morone, indossò la palandrana e s'accompagnò con lui. Non avendo a far molti passi, in pochi momenti furono a palazzo, dove tosto entrarono.

Messo il piede in un'anticamera, l'uom del Morone disse al Corvino:

—-Aspettate qui un momento, che vado ad avvisarne sua signoria illustrissima.

Quasi nel medesimo tempo uscì a dirgli: entrasse tosto, che il signore l'aspettava.

Quando il Corvino entrò, il Morone stava passeggiando nel suo gabinetto; ma fermandosi allora di tratto, insieme all'affabile saluto volse a colui uno sguardo assai penetrativo e scrutante; la qual cosa fece pure il Corvino, ammiccando anch'esso in quel momento, certo senza avvedersene, con quello stringere dell'occhio destro che era un lezio abituale e caratteristico del cancellier Morone.

Ora si trovavano al cospetto l'un dell'altro due uomini, dotati di una così identica natura d'ingegno e originarie attitudini che a percorrere, se fosse mai stato possibile, con un sol colpo d'occhio, tutta l'innumerevole schiera dei viventi a quell'epoca, non ne sarebbero trovati altri due tanto simili fra loro. Ma per conoscere una tale somiglianza, era bisogno far lunghi preparativi in prima, occorreva collocarli nudi ambidue sulla tavola dell'analisi, trasportarli fuori delle contingenze sociali, farli rimontare all'era adamitica, vederli così come la natura aveali formati prima che le mille modificazioni d'una società artefatta, della classe, dell'educazione, della sorte, del tempo diversi, li avesser tramutati in gran parte. E anche senza tuttociò, bastava forse chiudere un occhio su quella differenza tanto scandalosa che interveniva tra il feltro spelazzato e tignoso d'Elia Corvino, e il magnifico robone di velluto damascato che indossava il Morone, e portarlo solo sul volto d'ambedue. Non già che la loro somiglianza fosse pari a quella di due gemelli; non trattavasi qui d'eguaglianza perfetta di contorni e di linee. Ma un fisionomo, a primo tratto guardandoli, senza pensarci due volte, avrebbe detto:—Qui, più che il leone, c'è la volpe, e non saprei chi dei due sopravvanzi l'altro.—E v'era de' momenti in cui anche le linee e i contorni s'armonizzavano egualmente in ambedue, per certi guizzamenti di muscoli repentini, per alcuni tratti e moti abituali tanto nell'uno che nell'altro, come s'è veduto. E per verità d'altro non era effetto che della varia fortuna, della varia classe, della diversa potenza fisica, se l'uno era un esemplare ed esperto ed acutissimo magistrato e uomo di Stato, il quale aveva fermata l'attenzione della canuta esperienza del re Luigi, e avea piena Italia del suo bel nome, nel mentre che l'altro era un oggetto di contrabbando, un'esistenza morbosa, uno scarto della società, una cosa che forse potea far la sua figura a lume di candela, ma che non bastava a sopportare la chiara luce del sole. Certo, le due psichi, che stavano ascose nell'involucro di que' due corpi, erano state, originariamente, di una stessa natura, d'una forza medesima, d'una medesima bellezza; se non che l'una giovata, da mille combinazioni, aveva potuto crescere sempre più florida, dignitosa, potente; l'altra invece, intristita dagli assidui miasmi d'una esistenza corrotta, aveva perduta la bellezza originaria.

Vogliamo sperare che nessuno vorrà sdegnarsi con noi se osiamo istituir confronti qui fra l'illustre, che ha tanti diritti alla stima de' posteri, e un uomo qual era Elia Corvino. Ma possiamo assicurare non se ne sdegnerebbe neppure lo stesso cancellier Morone, giacchè, colla scorta del suo mirabile acume, tosto prenderebbe la cosa pel suo verso. Ora, tirando innanzi intrepidamente, si potrebbe dire che se quelle due creature, il Morone e il Corvino, si fosser potuto, a così dire, tramutare in cuna, e il figlio del mercante plebeo, fosse stato posto al luogo del fanciullo del gentiluomo, il dialogo che in oggi sta per succedere sarebbe forse successo egualmente; ma il Corvino, avvolto nel suo robone di damasco, avrebbe fatto domandare il Morone, e questo tutto cencioso se ne starebbe ad attender gli ordini e a coglier la parola al volo del nobile magistrato.

Ed era veramente il caso di coglier la parola al volo, perchè il Morone avrebbe voluto bensì che il Corvino si fosse preso sopra di sè l'assunto di stornare in qualche bel modo le nozze del Baglione colla Ginevra; ma esso non gliene avrebbe mai data espressa commissione.—Era collocato troppo in alto perchè gli sguardi non avessero a cadere su lui, e troppo gli premeva l'integrità della fama e la sicurezza propria.—L'astuto potente s'era guardato attorno ben bene per trovare a chi potesse far procura, ma siccome, poteva ancora darsi il caso di compromettersi, così il Morone pensava al modo di poter essere inteso, se fosse stato possibile, senza parlare nemmeno.

—E così, come va, messere? chiese finalmente al Corvino, tanto per dare un avviamento al discorso.

—Potrebbe andar meglio, e potrebbe andar peggio, rispose l'Elia, stiamo così fra zenit e nadir.

—E in quanto a faccende, come si mette la fortuna?

—Nel mese ch'è passato, adesso il collegio dei dottori ebbe un bell'affaccendarsi lui per dar corso a tutto quanto io venni manipolando in fretta e in furia in meno di quindici dì, ma il settembre che si avanza non pare abbia a portare con sè gran benedizione.

—E così, che pensate di fare?

—Pensavo che s'io mi dessi a sgranare i grappoli di villa Cortese, giacchè la stagione è da ciò, farei forse molto meglio le cose mie in questo settembre. Tuttavia non dò un lamento, perchè negli ultimi dì mi avvenne tal cosa, che può bene confortarmi del poco che il tempo promette. Quello scapestrato del fratel mio, che mi costava una quantità considerevole di pareri e di arrosti, ha trovato l'uomo che l'ha preso a proteggere, ed ha pagato tutti i suoi debiti. È un vero miracolo, ed è anche un gran peso che mi si è levato dalle spalle, perchè già un fratello, è sempre un fratello.

—Lodo la tua pietà, e mi fa maraviglia il miracolo.

—Peccato che adesso quel degno signore si trova in terra ferito, e quel ch'è peggio, sia più travagliato d'animo che di corpo; cosa di cui mio fratello è sconsolassimo.

—Scommetto che questo degno gentiluomo è quel caro conte Galeazzo, che si è messo a proteggere gli scapestrati, i tôffi e le sgualdrine, per far dispetto ai gentiluomini di cappa e di spada. Lo conosciamo assai bene quel degnissimo cavaliere.

—Non è di lui che parlo, illustrissimo; il conte Galeazzo l'ho veduto un momento fa, che se ne andava in volta colle sue gambe assai bene, certo più bene del solito, giacchè, vostra signoria sa come talora si diletti di far la via a zig zag per alcune sue abitudini. Non è dunque del conte che dicevo, ma di quel povero marchese Palavicino, intendo il giovane, quello che sta in Sant'Erasmo.

Il Morone, che avrebbe voluto giocar di parole un pezzo prima di venire a parlare del Palavicino, rimase tanto quanto maravigliato vedendo che la cosa aveva voluto camminare da sè, e fu contentissimo di quel buon avviamento.

—Il marchese è mio amicissimo anche lui, soggiunse poi.

—Dunque, vostra signoria saprà, meglio di me, perchè il marchese sia in così cattiva condizione, non parlo già delle ferite, chè di quelle tosto si guarisce…

—Volevi dir del matrimonio?

—Di quello, voglio dire. E mi raccontava Omobono, che il Palavicino voleva venir tosto a Milano, e non c'era chi potesse trattenerlo, se il chirurgo non gli avesse messo due uomini a far guardia.

—Il caso di quel giovane è ben grave.

—Ebbe per altro un gran torto nel fermar gli occhi sulla figlia del Bentivoglio.

—E che volevi?

—Dovea pur pensare, ch'era assai poca cosa la sua corona di marchese; e che ce ne voleva una da re in testa. Egli è vero bensì che un giovane non è poi obbligato ad avere il sangue freddo del sindaco dei mercanti, e che non trattavasi già di comperare un moggio di segala, chè allora si fa quel che conviene. Ma intanto, ecco qui uno di quegli affanni cocenti, de' quali io mi tenni sempre in guardia, benchè non abbia nè il senno, nè la trippa del sindaco.

—Lo sapevo, disse allora il Morone, come se pensasse tra sè, che codesto matrimonio lo dovea cuocere fieramente.

—E la figlia del Bentivoglio è in peggiore acque assai; non so se vostra signoria abbia veduto il Baglione; ma l'ho veduto io, a Lodi, qualche giorno fa, dove mi recai per dar qualche ajuto ad un galantuomo di qui, che aveva a difendersi contro un birbante di là, e se anche non si sapesse quel che ognuno sa di lui, basterebbe vederlo per mettersi tosto in guardia, quantunque sia vecchio assai, e mi somigli una imposta tarlata che non stia bene sulle bandelle.

Il Morone continuava intanto a misurar la camera con que' suoi passi brevi e svelti, e stava sull'ale per cogliere il momento opportuno di gettar la semente nel solco.

—E il fratel mio, seguiva a dire il Corvino, n'è così tormentato che stamattina scongiurava cielo e terra, perchè sulla testa di questo nemico degli uomini cadesse almeno una delle colonne di San Lorenzo che minacciano di sfasciarsi; e mi chiedeva dei pareri a me, tanto per trovar qualche empiastro da sanar la piaga al marchese. Bisogna confessare, che mio fratello non manca di buon cuore.

Il Morone si fermò di botto in faccia al Corvino, pensò un momento, poi disse:

—E che cosa basterebbe l'animo di fare a questo fratel vostro?

—Quel che può fare un uomo che è sostentato dall'ira, e che non bada a rovinar sè per salvare altrui. La buona volontà non manca a mio fratello. Ma che fa il solo appetito, se nella pignatta non cuoce la zuppa?

—Ci vorrebbe la buona tempra di quel tale che trovò il segreto di far parlare anche i morti, soggiunse allora il Morone, alludendo ad una delle mille ribalderie del Corvino; voi ridete, messer Elia, ma per la sventura del marchese non ci vorrebbe altro, che ne dite voi?

Detto questo, il Morone fe' le viste di dar di volta al discorso, gettò un'occhiata, come se fosse a caso, su quell'imbrogliata quisquiglia di carte che aveva sulla tavola, e soggiunse poi subito:

—Quasi mi scordavo di ciò per cui t'ho mandato a chiamare. Senza dunque attendere a pigiar l'uva di villa Cortese, come dicevi tu, ti darò io da lavorare. In questa stretta di tempo e in questo repentino mutamento di cose ci ho molte matasse da svolgere; e siccome ho potuto accorgermi, che dello studio di Padova, a te non rimase la polvere soltanto, così te ne darei una a te imbrogliata molto da dipannare e da stendere al sole. Del resto, ti sborserò tanti ducati, quanti in una sol volta non t'è forse mai bastata la vista di guadagnare.

—È un lavoro per cui ci vorrà molto tempo?

—Può esser più, può esser meno; anche un giorno avrebbe a bastare, anche un'ora, pur che il pozzo dia acqua, e il poeta trovi la rima.

Corvino non afferrò bene, e stette pensando a quelle parole.

—Domani o doman l'altro, e potrebbe darsi anche oggi… tu dovresti porti al lavoro… e in quanto al prezzo, saran trecento, saran quattrocento ducati, o scudi del sole, come ti parrà meglio, a seconda dell'abilità e della riescita.

Il Corvino, a cui sembrò in vero che quel prezzo fosse esorbitantissimo, guardò fiso il Morone. Questi comprese allora ch'era nato un pensiero in testa al Corvino, che c'era un uncino al quale attaccar molto bene il suo filo. Allora tirò via, saltando di palo in frasca, senza alcun ordine del discorso.

—Dunque, tu mi dicevi, che il marchese, benchè ferito, voleva di tutti i conti vènire a Milano.

—Certo, illustrissimo.

—Ma che intenzioni, che fini ha egli poi?

—È presto compreso, quantunque non sia presto fatto; tentare un colpo ardito, e tenersi la ragazza per sè.

—È pazzo il marchese, la cosa è disperata; ogni tentativo è impossibile.

Il Corvino tentennò la testa, poi soggiunse:

—Difficile sì, impossibile no; mi pare a me.

Il Morone gli si piantò allora in faccia, come aveva fatto alcuni momenti prima.

—È ottima cosa che a te paja così, Corvino, ottima veramente.

E facendo quel suo solito lezio, strinse l'occhio dritto, il che accresceva quell'espressione assidua di acutezza che aveva svolta in faccia, e guardò fiso per qualche tempo il Corvino.

Questi notò quell'occhiata acuta, penetrativa, parlante; gli venne un lampo, la interpretò alla sfuggita… abbassò la testa… aveva capito.

Ci fu un momento di silenzio, che il Corvino ruppe il primo, dicendo:

—Se vostra signoria illustrissima volesse mai…

Il Morone fu presto a tagliargli la parola in bocca; non voleva assolutamente nè parlar chiaro, nè sentire a parlar chiaro, e subito svoltò il discorso.

—La settimana ventura verrai dunque a prendere i quattrocento scudi, che per allora, spero, mi avrai spacciata quella faccenda che ti dicevo.

Il Corvino tacque.

Il Morone continuò a passeggiar per la camera sinchè di bel nuovo gli si volse improvviso, dicendogli:

—Conosci tu il Bentivoglio?

—Lo conosco benissimo.

—Di vista, o di nome soltanto?

—Di nome e di vista.

—È una buona cosa anche questa.

—Buonissima certamente.

—E la sua figlia l'hai tu mai veduta?

—Qualche volta sì…. E un certo signor conte che io non nomino, non avendomi conosciuto bene, mi voleva dar certi incarichi per lei. Si trattava d'imbasciate…. Ma l'illustrissimo sentirà anche adesso il fumo della vergogna, se si ricorda di quel che gli ho risposto….

—La fanciulla ti conoscerebbe forse?

—Credo di no.

—Ho piacere che non ti conosca.

—Lo capisco anch'io.

—Dunque, Elia, noi siamo perfettamente d'accordo. Queste faccende ti aspettano, e metteva la mano fra quel mucchio di carte che erano sulla tavola; per adesso puoi andartene, soltanto fa di ritornare quando avrai messa insieme qualche novità; già non dovrebb'essere gran che difficile, tutto Milano è pieno di novità a questi dì… Conduci dunque le cose in modo che se ne abbia ad accrescere il numero.

Dette queste parole si gettò a sedere, mostrando di non aver più nulla a dire, e di non voler sentire più nulla. Il Corvino si licenziò.

Partitosi dal Morone, tosto si recò a raccogliere quelle notizie che gli erano indispensabili per tentare il miglior modo di mettere in atto quanto il Morone, così alla sfuggita, gli aveva fatto intendere; ebbe presta la maniera d'attaccarsi, come una sanguisuga, ad un uomo di camera del magnifico Bentivoglio, dal quale per verità seppe ciò che mai non avrebbe voluto sapere, e che invece di dargli qualche speranza, quasi lo tolse dal suo proposito, persuadendolo che i quattrocento ducati, co' quali aveva già fatto moltissimi conti, se ne fossero già risoluti in fumo. Le notizie che avea cavate di bocca dall'uomo di camera portavano, che il Baglione s'era già recato ad alloggiare nel palazzo che il Bentivoglio teneva a Chiaravalle, e che forse in quel dì e in quell'ora medesima che se ne stavano a parlare gli sponsali sarebbero avvenuti. Stornare un matrimonio, quando le cose erano ridotte ad una tal condizione, parve cosa impossibile anche all'Elia Corvino, per quanto fosse immaginoso ed audace, e il danaro avesse potere di fargli far miracolo. Con tutto ciò, sempre ruminando progetti e disegni, e tele e trame, si recò alla solita osteria del Pomo d'Eva per vedere se da San Donato, ove il Palavicino giaceva ferito, fosse arrivato il suo fratello Omobono.

Non avendolo trovato, se ne andò in volta per la città tutto il dopo pranzo di quel giorno, prendendo per le vie più silenziose e più rimote, chè i suoi pensieri non avevano bisogno di essere divertiti da quell'unico suo proposito, che mai non sapeva abbandonare, per quanto poche speranze potesse avere. Intorno all'ora di sera però riavviandosi al centro della città, gli fu mestieri abbandonarlo un momento, per dar retta agli infiniti discorsi che si facevano tra gli innumerevoli gruppi di cittadini ne' quali ad ogni crocicchio s'incontrava, i quali discorsi non versavano che sull'ingresso che il dì dopo i Francesi avrebber fatto in Milano, del come si sarebbero comportati co' cittadini, delle feste che i patrizi milanesi, ritornati in fretta e in furia dalle loro villeggiature, già pensavano di offrire a que' loro amici vecchi, e così via.

Sul far della notte ritornò ancora alla confortevole sua tenda del Pomo d'Eva, dove, al primo affacciarsi, vide il suo fratello Omobono, che innanzi ad una tavola attendeva a mangiare a quattro ganascie, chè il trotto vivace a cui s'era posto, viaggiando da San Donato a Milano, gli aveva messo un formidabile appetito.

—Come sta il marchese? fu la prima domanda che l'Elia fece al fratello.

—Il Cardano gli ha fasciata la ferita in modo, ch'egli ormai sta abbastanza bene. Ma l'intrigo della Bentivoglio, di cui ti ho già parlato, gli ha messo il cervello a malissimo partito, e non c'è argomento col quale si possa medicargli questa altra ferita, assai più cruda della prima. E quel ch'è peggio, domani di buon mattino, il Baglione darà l'anello alla Ginevra, notizia che oggi ho raccolto io stesso passando presso a Chiaravalle; e domani, come s'ella fosse una regina, farà il suo solenne ingresso in Milano, intanto che i Francesi vi brulicheranno per ogni parte.

Il Corvino, intanto che il fratello Omobono parlava di questo modo, ascoltava e pensava nel medesimo tempo. A un tratto interruppe il fratello:

—Se qualcheduno, gli disse, volendo far qualche cosa per il marchese, avesse bisogno ch'egli si trovasse in Milano domani, la sua ferita gli permetterebbe di venirci?

—Crederei di sì, quantunque sulla gamba fasciata non si possa regger ancor bene.

—Allora è assoluto bisogno ch'ei ci venga; chi sa che qualcheduno qui non abbia presto il modo d'ajutarlo.

—Ajutarlo a far che? Non ti capisco bene.

—Tu, jeri, mi dicevi, che avresti dato anche la tua vita per vederlo contento.

—E anche oggi, lo dico.

—Bene, perchè dunque lui sia contento, ora non gli abbisogna altro che di trovarsi colla Ginevra.

—Credo che sia così…. Ma la Ginevra è cosa d'altri oramai.

—Tu non sei già l'arciprete della metropolitana, perchè abbia a prenderti fastidio di queste cose.

—Sono un direttore di coscienze molto più largo, questo è verissimo….

—Dunque?

—Dunque, fa pure il tuo comodo, ch'io son qui a tenerti la staffa, e oggi mi piaci più ancora del solito; ma dà fuori nettamente il pensier tuo… che allora potrò forse battere anche le mani.

—A far ciò aspetterai ad opera terminata, che nel futuro non si può leggere correntemente. Ed ora non mi occorre altro, se non che tu ritorni domani per tempissimo a San Donato, dia ad intendere qualche grave pastoja al chirurgo, perchè s'induca a lasciar venir qui il Palavicino; e in quanto a lui, ti metta a confortarlo di tutte quelle speranze che ti possono venire in mente, tanto perchè gli venga qualche coraggio e si risolva. Domani poi, quand'egli sarà arrivato, mi recherò io medesimo da lui, e quel che sarà da farsi, si farà.

Fermi in questo, passarono insieme il resto di quella sera, e poi si divisero, per mettersi poi a nuove faccende appena spuntasse l'alba del di prossimo.

Nel qual giorno, non ci fu milanese, che appartenesse ad un'arte, il quale potesse attendere pacatamente a' suoi lavori. All'alba, quasi tutta la popolazione trasse al corso, alla porta e alla strada Romana. I patrizj, dando magnifico spettacolo di sè a cavallo, in carrozza, in lettiga, si recarono incontro all'esercito francese per essere i primi a salutare i baroni, i cavalieri, i conestabili di Francia, coi quali avevan già stretta amicizia prima che tornasse Massimiliano Sforza, ed ora eran solleciti di riappiccarla più saldamente di prima. Il popolo minuto s'era sparpagliato pe' campi, non attratto che dallo spettacolo nuovo, dispostissimo a sfoggiare il suo satirico umore sui nuovi vegnenti, sulle loro facce, sul colore dei loro capelli, sulla forma dei loro nasi, sulla foggia delle loro vesti, delle loro armi. I caramogi, i monelli tutti i membri insomma della più sucida accozzaglia, s'erano appollajati sugli olmi come arzàvole che stiano riposando le ali affaticate, prontissimi, se mai desse l'occasione, a gettare qualche sassata furtiva sulla borgognata di qualche caporale dell'esercito francese.

Appena che la città di Milano ebbe finito di ricever soldati e soldati a tale da provar quasi gli effetti della replessione, a' Milanesi non mancarono altre occupazioni.

Sul corso di porta Romana, lì presso alla contrada di Rugabella, dov'era, e dov'è tuttora il palazzo del maresciallo Trivulzio, quattrocento uomini, per ordine ed a spesa dei principali patrizj, stavano alzando degli impalcamenti al fine d'allestire, per la notte di quel giorno medesimo, vaste sale posticcie, a festeggiare l'arrivo de' Francesi con danze e luminarie che fosser degne di loro.

Così il popolo raccolse qualche diletto nell'assistere alla prodigiosa prestezza, con cui quello ampio tentorio, quelle colonne e quelle sale vennero, a così dire, improvvisate.

CAPITOLO XIII.

Era quell'ora che va innanzi all'incominciamento di una festa notturna, ora nella quale tutta la città è immobile all'esterno, e il massimo affaccendarsi va fervendo nell'interno dei signorili palazzi, e segnatamente negli intimi gabinetti delle donne patrizie. Ora solenne in cui la vanità femminile è così assorta nelle proprie cure, che non patisce di essere interrotta per un momento, e ogni altra faccenda, per quanto seria, deve dar luogo a quella importantissima dell'abbellirsi. Ora in cui i desiderii e le speranze s'introducono in folla nei profumati penetrali a tentar fanciulle, spose e matrone, e la coscienza di una bellezza facilmente trionfatrice incoraggia la fantasia a fingere, a vagheggiare avventure, di cui tra poco si getteranno le prime trame. Ora inoltre d'impazienze, di dispetti e d'ire, in cui il fluido bilioso, sempre dissimulato in pubblico dalla calma, dall'ingenuità, dalle care grazie della forma, si sprigiona a un tratto in privato, e si riversa sull'incolpabile ancella; e in cui la quarantenne galante, memore delle molte battaglie guerreggiate, e de' trionfi innumerevoli, impallidisce all'improvvisa scoperta di una ruga che le raggela nell'anima ancora giovanile i nuovi desiderii e le speranze nuove. Ora insomma, in cui la vanità femminile si manifesta così a nudo, che è una vera fortuna per noi il non potere aver libero accesso a que' misteriosi gabinetti, per noi che, in ciò almeno, amiamo perpetuare illusioni, piuttostochè porre il dito sul vero.

Pure la sera del 12 settembre, se in tante camere dorate, le più soavi grazie, le più cospicue bellezze delle milanesi patrizie, stavano liete ed ambiziose a consultarsi allo specchio; una ve ne era in cui i profumi delle odorate essenze, gli abbigliamenti più sfoggiati di sposa, lo squisito apparato con cui la naturale bellezza suol essere accresciuta dall'arte, troppo crudelmente contrastava colle angoscie disperate di una giovine creatura.

Il lettore s'è già accorto che noi vogliamo parlare della Ginevra Bentivoglio, sposata in quel dì stesso a Giampaolo Baglione, signore di Perugia.

Nella stanza ov'ella a quell'ora trovavasi, v'era il massimo sfarzo degli addobbi e degli ornati dell'artistico cinquecento. Arazzi di ricchissimo liccio, con disegni storiati, cortinaggi di seta, tappeti di Fiandra, seggiole dorate, larghi cuscini di velluto gettati alla rinfusa sul pavimento; su d'un tavoliere, in eleganti astucci, gioie, vezzi, smaniglie, collane, cinture, piume fatte di sole perle e di brillanti; sui cuscini una veste di raso bianco, mantelline, veli, trine, merletti, sfoggi d'ogni maniera.

Innanzi ad una tavola di tartaruga ad intarsi di metallo, su cui eran vasi d'alabastro, barattoli ed alberelli pieni di essenze che effondevano un soave profumo per tutta la camera, stava seduta su di una gran seggiola a braccioli la Ginevra, in quel negletto vestire, in cui la bellezza vera compare assai meglio che nella compiuta attillatura, lasciando che la fante l'abbigliasse; ho detto lasciando, perch'ella non sapeva veramente quel che si facesse di lei in quel momento.

E in quel momento rallentato e sciolto, il bel volume dei capelli lunghi e nerissimi le cadde in varie liste sulle spalle, e la fante, disponendosi a spruzzarle le belle membra coll'acqua nanfa, come allora era costume, la venne a poco a poco spogliando così che apparve discinta quasi del tutto. Ma dessa, non accorgendosi di nulla, continuava tuttavia a lasciar fare. Aveva tanto pianto la notte prima pensando alle nozze imminenti, che ora non aveva più lagrime, e il suo dolore le si era cambiato come in un'attonitaggine piena d'accoramento; pure quel tormento assiduo, in cui versava da tanto tempo avendole messo nel sangue quasi un'alterazione febbrile, al pallore che le era abituale aveva sostituito un color purpureo, vivacissimo, che le dava un aspetto di floridezza straordinaria, il quale dissimulava l'interno affanno, e accrescendo la lucentezza delle sue pupille la rendeva notabilmente ancor più bella del solito. Le chiome, che in disordine le cadevano pel collo e per le spalle a velare in parte la nudità casta, la sua pupilla nerissima, lucente, estatica, immobile, adombrata da un tenue arco di sopracciglio, le membra, che acquistavano una grazia particolare in quella stessa cascaggine di atteggiamento, nella quale involontariamente ella erasi messa, i bianchi lini che le fasciavano i fianchi e in ricche pieghe avvolgevano la parte inferiore del corpo, tutto aiutava a vestirla di una bellezza abbagliante e piena di prestigio.

Intorno a lei continuò dunque la fante nell'officio suo per qualche tempo; quando, allontanatasi un momento dalla seggiola per prendere da un tavoliere un asciugatoio di stoffa di Fiandra, vide, nel volgersi, aprirsi leggermente l'uscio della camera, e sulla soglia fermarsi ritta la vecchia figura del Baglione. La fante non potè a meno di fermarsi con maraviglia disgustosa innanzi a quel severo e squallido aspetto, e si voltò come per avvisarne la Ginevra, ma irresoluta si tacque. Il signore intanto, girato lo sguardo nella stanza, lo fermò sulla giovinetta sua sposa, ancora discinta. Parve che a tal vista assai si compiacesse, e subito, con un cenno imperioso, ingiunse alla fante di uscire; quasi intimorita quella non pensò due volte se avesse ad obbedirgli, e sembrandole d'altra parte ragionevolissimo il far ciò che voleva il marito della sua giovane signora, e di lasciarlo solo con lei, tosto si partì.

Codesta scena era stata perfettamente muta e assai rapida, nè il lieve rumore dell'aprirsi del l'uscio e dello sbattere della cappa del Baglione era stato udito dalla Ginevra,

La testa china, le mani intrecciate, l'occhio fisso davano indizio più che mai, ch'ella si era internata ne' suoi pensieri abituali, e in quel momento ripensando al Palavicino, sentiva una tenerezza così intensa per quell'amico suo, ne aveva così netta innanzi agli occhi l'immagine giovanile, che, sprofondata, a dir così, in quella dolce contemplazione, nessuna cosa ci poteva essere, che valesse a scuoterla ed a farla accorta di quanto le avveniva d'intorno.

Il Baglione intanto a lenti passi le si era accostato, e stava contemplandola a parte a parte.

A me che descrivo tali cose ad italiani, il più de' quali avran veduta la squallida figura di Luigi XI, con tanta verità resa dall'incomparabile Modena, non soccorre altro mezzo che questo, per offrire qualche cosa di simile alla persona del Baglione.

Tutta quanta la massa del suo corpo era agitata continuamente da un movimento tremulo, indescrivibile, e specialmente le mani colle quali in quel momento s'andava premendo lo sterno; pure, a tutto quel suo aspetto alterato o guasto più che dagli anni, dai turpi acciacchi, a quel suo volto internato e vizzo e cascante, dal quale traspariva la creatura in dissoluzione, facevano uno strano contrasto quelle sue pupille, che adombrate da una fronte molto sporgente e da un foltissimo sopracciglio, gli brillavano di una luce tremula e vivacissima; notabili poi, in quanto che avevano quel colore tendente al giallo, e quella scintilla fosforica che pare distinguere gli animali del genere felis.

Ed era strano a vedersi, come mentre ei guardava le belle membra della giovinetta sposa, la squallida e cadente sua figura, dando certi guizzi repentini e particolarissimi si venisse grado grado rianimando, press'a poco come avviene di chi, assiderato e tramortito dal gelo, senta improvvisamente il vivo calore di una catasta accesa.

E considerava che quella figura di una bellezza affascinante, che a lui per la prima volta si rivelava, quelle membra così eleganti, que' vivi colori della floridezza di gioventù, appartenevano a lui, come una proprietà, che nessuno poteva contrastargli, e in mezzo alla massima accensione dell'estro trovò pur strada un pensiero di atroce egoismo, e ricordandosi di quel che gli aveva detto il suo medico, e di ciò che allora propalava la scienza, che il tepore del giovin sangue, convenientemente infuso nelle vene del vecchio, fosse sufficiente a reintegrare la giovinezza, si confortò tutto quanto pensando, che avrebbe resa così più ferma la propria salute e la propria esistenza, alla quale era tanto attaccato.

Stato qualche momento così, fece finalmente un passo innanzi, come ad avvisare la giovine sposa della sua presenza, e quasi nel medesimo tempo mise la sua tremula e fredda mano sulle carni infuocate della giovane. Se di nessun'altra cosa sarebbesi accorta in quel momento, ella si scosse con un soprassalto a quella disgustosa sensazione di freddo e si volse.

L'atto che a quella vista fece la giovine infelice, bisognerebbe averlo veduto per descriverlo, e l'improvviso turbamento, la paura, l'orrore fu tale, che la sua voce, la quale stava per uscire in un grido, si ruppe a mezzo, ed essendo al primo a quella vista balzata in piedi, tosto, presa da un tremito convulso, con un piegar lento e come di deliquio, ricadde sulle ginocchia…. e il vecchio Baglione intanto più e più le si avvicinava.

È probabile che qualcuno tra' nostri lettori abbia talvolta assistito a quell'orrido momento, quando il bianco e timido Coniglio, posto nella gabbia dove sta aggomitolato il crotalo, vien destinato al pasto di questo rettile, e si ricorderà d'aver forse dovuto torcer l'occhio pel ribrezzo, e per un certo senso quasi di nausea paurosa, quando il crotalo, svolgendo le spire, allungando il collo, tentando il coniglio che squittisce, sta per cominciare gli orribili suoi assorbimenti.

Il Baglione, che di quel modo stava accostandosi alla Ginevra, offeriva qualche cosa di simile a ciò. Se non che, la giovane, ad una nuova impressione della mano gelida del vecchio, che parve ridonarle la virtù vitale, si riscosse, guardò, mandò fuori quella voce che prima le si era spenta in gola, fece uno sforzo per rialzarsi, e riuscitole di trarre furiosamente al campanello, atterrita e spossata, tornò a ricadere e svenne.

Non aveva il vecchio avuto il tempo di accostarsi alla giovinetta sua sposa per tentar di sorreggerla, che a quel grido della signora, a quel furioso scampanellamento, era accorsa in fretta e in furia la donna di camera, e un momento dopo, chiamato da quel rumore insolito, anche il magnifico Bentivoglio, che venuto alla camera della figliuola, si fermò sul limitare, sollecito di saper quel che fosse avvenuto. Guardò la figlia svenuta, guardò la fante tutta intesa a farla riavere, guardò il Baglione, che colla sua massa tremula se ne stava impassibile e bieco, e non tardò a comprendere ciò ch'era veramente. Il pallore mortale che vide sul volto dell'unica sua figliuola, gli suscitò in cuore in quel momento tutto quell'affetto che aveva per lei, e gli sconvolse l'animo per un senso profondo di pietà non ipocrita, ed essendone escluso ogni altro rispetto, volse involontariamente uno sguardo iracondo sul Baglione, che pure guardò lui di quell'occhio bieco che gli era abituale. Allora i due vecchi si accostarono, i due tiranni colleghi, il suocero e il genero stavano rimpetto l'uno dell'altro. Vi fu un momento di silenzio perfetto, in cui altro non s'udiva che l'anelito affannato della sagrificata fanciulla, e il respiro interrotto e rantoloso del vecchio Baglione. Era una scena che faceva ribrezzo e pietà ad un tempo, era uno spettacolo ben degno di venir contemplato da quei troppi, a cui l'abuso della podestà paterna è così famigliare; da quelle fanciulle che troppo facilmente si lasciano intimorire da una venerazione indebita verso l'egoismo iniquo di chi pretende potere ogni cosa sulla vita de' figli. Oh, giovinette, se in tal momento il dannoso timore vi tenta, vi spinge a piegare all'altrui voglia, venite e guardate, da questo muto spettacolo apprendete il coraggio, che altrimenti vi mancherebbe. Contemplate il duro momento, che non sapete prevedere, poco esperte come siete, dei dolori che conseguono gl'involontari sagrificii. E se tanto vi giova, stringetevi intorno ai petti paterni, lagrimate e pregate, ma non obbedite. Le ire paterne si placheranno forse, ma il ribrezzo per l'uomo abborrito, cui vi si vuole congiunte per sempre, cospargerà di amarezza incomportabile ciascun momento de' vostri giorni venturi, e vorrete morire, se pure a mitigarvi il diuturno affanno, la disperazione, rendendovi odiosa fin anco la vostra virtù, vi farà docili alle fatali lusinghe della colpa che sta in aguato dell'occasione.

Quando la Ginevra, riavendosi, mandò un'accusatrice querela, il Bentivoglio, in cui tuttavia continuavano i moti della pietà, fu per dir qualche cosa al Baglione. Ma parlò costui invece:

—Codesta figliuola vostra, disse il tetro vecchio, crollando il capo e strascinando le parole, pare voglia troppo somigliarmi all'Ildegarda, la prima mia donna… Me ne rincresce, se è così.

Il Bentivoglio non rispose, e impallidì ricordando la lugubre storia di quell'Ildegarda.

—Voi sapete quel che è avvenuto di colei, continuò il vecchio… Dite dunque qualche parola a codesta figliuola vostra che, per lo meno, mi sembra ben sciocca.

Il Bentivoglio continuò a tacere.

—Noi abbiamo ad essere amici, seguiva il vecchio. Ma se costei continuerà a darmi noja così, io la lascerò in vostra custodia, e buona notte, ed io non ne vorrò saper altro, e ci rivedremo quando ci rivedremo.

La Ginevra intanto s'era riavuta affatto e ancora le tornavano i vivi colori sul volto.

Le parole del Baglione avevan tocca una corda che fecero risorgere tutti i pensieri d'ambizione del Bentivoglio, e con quelli anche il timore di non avere a raccogliere quanto sperava per colpa della figlia. E nell'animo suo, con una vicenda istantanea a quel moto di pietà che un istante prima aveva sentito per lei, subito successe un dispetto così iracondo che, volgendosi di tratto alla figlia, fu per prorompere in contumelie e peggio. Si contenne però, e assai sommesso e co' labbri tremanti e sforzandosi a sorridere, di un sorriso che rendeva ancor più severa la sua faccia:

—Non state ad inquietarvi, disse al Baglione, io so che a lungo andare voi sarete assai contento di questa figliuola mia.

Il Baglione non rispose, ma gettato un altro sguardo sulla giovane, le cui forme erano di una bellezza attraente, tanto quanto si calmò, e risentendo gli estri diè un nuovo guizzo, e fece un sorriso da fauno.

Alcuni momenti dopo la Ginevra, nella massima pompa di giovinetta sposa, saliva nel cocchio, specie di lettiga a ruote, col padre e col marito, per recarsi allo feste pubbliche che iu quella notte si davano nell'ampio tentorio, appositamente eretto sulla via a porta Romana.

Quando la lettiga del magnifico Bentivoglio uscì della contrada dov'era situato il palazzo del medesimo, un uomo che da qualche tempo se ne stava passeggiando innanzi al portone, colta l'occasione, che uno tra i famigli del Bentivoglio se ne usciva, lo trattenne e gli domandò se trovavasi in palazzo il signore.

—Se fosti stato qui un momento fa, l'avresti veduto uscire in lettiga colla figliuola.

Questa circostanza era ben nota a colui che espressamente erasi fermato a spiare.

—Saran forse andati al tentorio? chiese poscia.

—Sicuro, al tentorio di porta Romana; alla festa che i signori nobili milanesi danno ai baroni ed ai cavalieri francesi che oggi sono entrati in Milano.

Parve che questa fosse la notizia che più premesse a colui, perchè subito troncò ogni discorso, e senza più, dilungatosi da quella contrada, un passo dopo l'altro se ne venne all'osteria del Pomo d'Eva. Entrato in quella, in mezzo ad una moltitudine straordinariamente affollata di avventori, cercò coll'occhio l'Elia Corvino, che se ne stava in un canto innanzi ad una tavola; vistolo subito se gli accostò, dicendo:

—Ciò che tu hai pensato, avvenne di fatto, Elia li ho veduti io medesimo porsi nella lettiga, e a quest'ora saranno nelle sale delle feste.

Elia balzò in piedi a quell'annunzio, e:

—Va bene, disse ora comincio a sperar qualche cosa, e se la fortuna è seconda, si farà il resto; ma ora ti conviene rimboccarti le maniche del sajo, Omobono, che se mi sbagli una nota, tutta l'orchestra ne andrebbe sossopra. Dimmi, innanzi tutto, come sta ora di salute il Palavicino, che da stamattina non l'ho più veduto?

—Egli mi disse che si sentiva abbastanza bene, che solo non gli sarebbe possibile star sulle sue gambe, ma che a cavallo, o in lettiga, gli basterebbe l'animo di tentare ogni gran cosa, e si raccomandava a me e a te, ed essendo pieno di speranze, ha cessato qualche poco la furia delle sue smanie e delle sue querele.

—Mi rincresce però, ch'io non fui mai così impacciato come in quest'occasione, tanto che non mi venne in mente altro disegno che questo; ma, torno a dire, ora che tu mi assicuri che la Bentivoglio è là, spero che lui sarà contento di me; tu va subito intanto dal Palavicino, fa che in mezz'ora sia pronta ogni cosa al tutto, e i cavalli e la lettiga sien presti innanzi all'ingresso del tentorio. Ora vò su in camera, e in fretta vestirò la cappa signorile, così fra poco mi troverò anch'io in quelle sale delle feste. Va dunque, e spacciati presto, e fa in modo che il Palavicino ed io abbiamo a lodarci di te. Già la lettiga del marchese sarà pressochè eguale nella forma a quella del Bentivoglio.

—Di notte… può darsi benissimo che si scambi l'una per l'altra.

—È una buona cosa anche questa. Va dunque, e a rivederci.

Omobono prese la sua via, l'Elia Corvino salì al suo camerotto al quinto piano e si vestì la cappa signorile, ridiscese, e così a piedi come voleva la sua bassa fortuna, si recò al tentorio.

Pareva che tutta la popolazione milanese si fosse raccolta là tutta quanta; l'accesso alle sale non essendo dato che a' gentiluomini di cappa e di spada, tutte le strade del rione di porta Romana erano gremite di popolo, che si affollava sempre più in ragione che s'accostava al tentorio, e principalmente innanzi alla gran porta d'ingresso, la quale, per toccarne di passaggio, era fatta a più archi, sorretti da molte colonne di legno, pomposamente ornate di cortinaggi, di arazzi, di festoni, d'ellera e fiori.

Tutto ciò che poteva dare indizio di ricchezza, di splendore ed anche di gusto non fu pretermesso dai patrizj milanesi, che in quella notte per pompa di vesti, d'ori e di gemme toccarono il massimo del lusso proprio a quel secolo, il più splendido forse fra quanti ne sian stati e saranno. E tanto più era bello a vedersi in quanto c'era una certa gara tra que' cavalieri francesi, che mai non volevano star sotto, e in quell'occasione ambivano ancor più di farsi ammirare e di imporre altrui colle apparenze della ricchezza. Erano molti anni che l'Elia Corvino non respirava un'atmosfera pari a quella, e come si trovò avvolto fra tante cappe e robe e rasi e croci e gemme, pensando a quel ch'esso era veramente, e a quello per cui la natura lo aveva espressamente formato, si rodeva in sè stesso, e tanto più si rodeva in quanto pensava che, colla ricchezza fisica, se n'era ita anche la ricchezza morale; fu però una molestia che durò assai poco, perchè aveva tutt'altro a pensare. Appena, infatti, che in mezzo alla folla s'accorse della Ginevra Bentivoglio, subito le si pose dappresso, nè da quel momento, mai non pensò abbandonarla per tutta la notte.

Intanto che costui è tutto intento alla sua caccia, e però gli è forza provare sino a che punto possono arrivare i tormentosi effetti della noja, e come costi il pane che si guadagna coll'industria propria, faremo di divertire un momento da lui i nostri sguardi, e di volgerli un momento su qualch'altro oggetto.

Il conte Galeazzo Mandello anch'esso, dopo tre anni, era ricomparso in una pubblica festa a far mostra del suo grand'abito di drappo d'argento riccio, e della sua croce dell'ordine di S. Michele. E a chi lo aveva veduto tre giorni prima nelle sale, dove a furia era entrata la più cenciosa bordaglia di Milano, accomunarsi coi più schifosi trecconi e dar parole alle più laide briffalde, assumendo, per abbassarsi al loro livello e per armonizzarsi seco loro, persino i modi e il linguaggio solito a tenersi nelle più affumicate taverne di Milano, avrebbe durato fatica a riconoscerlo.

Sotto a quei ricchi padiglioni, una sfarzosa moltitudine di giovani gendarmi francesi, tutti appartenenti alle più cospicue famiglie di Francia, passavano e ripassavano con quel far giulivo e sprezzante del soldato, che si trova fra la popolazione di una città conquistata, e quel guardare ammirato di chi per la prima volta vede persone e costumanze che gli sono sconosciute. In mezzo a costoro però si trovavano personaggi d'altissimo ceto, seguiti dal loro corteggio, taluno de' quali, erano stati dal conte Galeazzo conosciuti tanti anni prima in Francia, quando mandato colà dallo Sforza, s'era tanto distinto in quella guerra dei baroni: con costoro, assunse a tempo in quella sera una gravità che non gli era abituale e intrattenendoli in discorsi conditi di una dignitosa e superba sprezzatura, aveva potuto ingenerare in essi un'alta opinione del milanese patriziato. Quantunque sapessero quei francesi gentiluomini ch'esso aveva combattuto contro di loro, pure non avevano nessun rancore seco lui, chè anzi lo stimavano assai più, e la croce di S. Michele, che loro richiamava alla memoria il valore straordinario della milizia lombarda in Francia, e i suoi discorsi pieni di senno facevan crescere quella stima, Misurando poi dal conte tutti gli altri milanesi gentiluomini, s'erano, in quei primi momenti che trovavansi in Milano, fatto tale un concetto de' Milanesi, che certo poteva appagare qualunque schifiltoso amor proprio nazionale.

Era una delle qualità affatto particolari all'indole del conte Galeazzo, l'assumere a tempo un'apparenza che faceva al caso, l'assimilarsi a tutti i ceti, il ricordare, se faceva bisogno, il proprio ingegno, la natura propria, tanta ne era, a dir così, l'estensione dei toni e il numero delle corde, con tutti i caratteri possibili. Anche un momento prima era egli uscito da un lurido luogo, praticando i quali era solito dire che andava cercando le margarite nel mondezzajo, dove si era dilettato a far rompere caraffe e bicchieri, con grande edificazione di quelle faccie da quattro testoni; e razzimatosi alla meglio dopo tre anni, e dopo tre anni tornatosi a spruzzar d'acqua nanfa, (esso che sfuggiva ed era sfuggito a vicenda dal più nobile ceto, dal momento che s'era dato a quel genere di vita così scandalosamente vituperevole), era accorso alle feste in quella sera, come se avesse sentito che era urgente il bisogno del suo aiuto, per tenere in prezzo, a dir così la dignità nazionale, e l'esito avea risposto benissimo alle sue intenzioni.

Ma intorno a lui passava pure e ripassava una sfarzosa moltitudine dei più ricchi gentiluomini milanesi; marchesi, conti, baroni, che sfoggiavano tutta l'eleganza del vestire di quell'età, i manti d'ogni colore, di velluto, di raso, con ricami d'oro e d'argento, le croci a brillanti, le pietre preziose, che sfavillavano iridescenti al giuoco della luce. Matrone, spose, donzelle, con serti, con monili, con cinti brillantati, con robe di broccato d'oro e d'argento. Era un scintillare, uno sfolgoreggiare continuo e svariato, e che incessantemente tramutavasi all'occhio pel passare e ripassare di tante figure, di cui eran popolati e gremiti que' padiglioni posticci. Ora di tanti conti, baroni e marchesi, non v'era che qualche giovane gentiluomo, il quale scambiasse un saluto col Mandello, e che anche avrebbe voluto farsi con lui.

Ma qui un settantenne gentiluomo, assai ben munito di trippa e di pappagorgia, chiamato in disparte il giovane suo figlio:

—Qualche momento fa, gli diceva, t'ho veduto scambiare un saluto col conte Mandello, non mi sarei aspettato mai questo, e non vorrei che ci fosse qualche accordo tra te e lui. Spero sarà l'ultima volta però, se pure ti preme di non avere a sperimentare la collera di tuo padre. Quell'uomo là, va lasciato cuocere nel suo brodo. Capisci tu; non voglio che abbia ad aver mai a che fare con lui, non voglio che gli rivolga la parola, non voglio che lo saluti. Capisci tu, fanciullo senza esperienza? Ora va, e se non vuoi annoiarti standoti solo, cerca il marchese, il marito della contessa tua sorella, questo è un uomo; e assumendo un contegno piuttosto severo, il conte padre dava licenza al conte figlio, che con una crollata di testa e di spalle se ne allontanava,

In un altro canto, una matrona diceva quattro parole in un orecchio al suo marito.

—Vogliamo andarcene, conte.

—Mai più, cara mia, a San Nazaro non son battute le tre ore di notte.

—Non importa; voglio condurmi a casa la Geltrude; c'è quello scapestrato del conte Galeazzo, che l'è passato vicino più di cinque e più di sei volte stassera, dandole occhiate che non mi piacciono punto; non vorrei che la Geltrude mi domandasse chi sia, perchè di lui si sanno cose…. cose…. basta, usciamo di qui subito, caro conte.

—Non ripeto una parola, e non posso che lodarti. E davvero, che quel viziato uomo avrebbe fatto bene a starsene, anche stassera, colle sue donne e i suoi fiaschi.

—Ma…. non dir queste cose, caro conte, Ma ti pare…. la Geltrude potrebbe sentire.

—Volevo dire che questi nobilissimi gentiluomi di Francia, i quali pare che godano a intrattenersi con quello scapestrato, faranno un assai triste concetto di noi tutti. Or chiamo il fante, e faccio venir la lettiga. Hai pensato bene.

In un altro canto c'era un crocchio di giovani spose che attendevano a parlare tra loro.

—Guarda quel pazzo del conte Galeazzo.

—Lo vedo.

—Perchè ti metti il fazzoletto al naso, cara la mia marchesa?

—Quando colui mi passa dappresso, mi par di sentire odor di feccia di vino, e sai bene com'io sono schifiltosa per gli odori.

—È per altro un assai bell'uomo, il conte.

—Che mi fa a me di questo, quando ci è quell'odore che guasta tutto, e poi e poi….

A questo punto il conte lor passava ancora dinanzi.

—Vedi se tutta non è immaginazione?

—Perchè di' questo?

—Non hai sentito che forte odore di canfora e d'acqua nanfa ha lasciato dietro di sè il conte? e tu sentivi la feccia di vino.

—In conclusione pare che a te non dispiaccia il conte.

—Mi pare a me, che valga bene tutti e tre i nostri mariti; e sebbene ami un po' troppo il vino, e un po' troppo il faraone, e un po' troppo certe altre cose; infine poi, non è un monsignore del Duomo.

—Ma sentite che pazza, diceva la giovinetta marchesa sorridendo; si direbbe che costei è noiata del suo don Silvestro.

—C'è forse a far mistero? la verità è una sola…. Mio marito ha cinquant'anni, ed ha la gotta, e appena uscita dal monastero di San Vittore, io mi trovai tra' piedi quest'uomo, che mia madre mi presentò, e ch'io non seppi rifiutare…. avevo quindici anni…. Tre dì dopo, vidi il conte Galeazzo colla sua croce di S. Michele…. Allora mi accorsi, che il mio don Silvestro non era nè il più bel giovane, nè il più bell'uomo di Milano. Ecco tutto.

—Ma ti pare, donna Adele, che tu debba parlare di questo modo…. Ma ti pare….

—Oh! io son noiata di star qui…. Colà s'intrecciano danze, e penso che ho vent'anni, soggiungeva la scapestratella Adele, la quale era dotata di una sincerità eccessiva, e aveva buon cuore.

—Oh che pazza, tornava a ripetere la giovinetta marchesa con quella voce infantile.

—Andiamo dunque.

Qui donna Adele, volgendosi per chiamare i tre mariti, che se ne stavan ritti a poca distanza da loro, disse sottovoce alle nobili compagne:

—Guardate, guardate codesti tre pivieri che se ne stanno dormendo su d'una zampa, e ciò dicendo, si recò colle amiche nella sala delle danze, tenendo dietro al conte Galeazzo che già l'aveva preceduta…

In mezzo a tanto frastuono, generato dai cicalecci minuti ed incessanti, dal suono delle mandole, degli arpicordi e dei liuti, dal fervore delle danze, s'udì netto un piccolo, ma acuto strido, e tosto uscire dal cerchio danzante una giovinetta fanciulla rossa, infuocata come una ciliegia e irata più d'una vespe, staccatasi improvvisamente da un giovane barone francese.

Quel barone era un gendarme del re, era un capitano d'una delle compagnie de' lancieri di Francesco. Aveva fatto la sua prima giornata campale a Marignano, e per la prima volta era venuto in Italia. Aveva un volto rosato e giovanile, adombrato da capelli biondissimi, con un nasino vôlto in su, e due occhi cerulei lucentissimi, pieni di quel fuoco fosforico che dinota un gran fervore di concupiscenza, e una colonna vertebrale soggetta a troppo frequenti fremiti. Ora quel capitano di una compagnia di lancieri s'era fatto lecito un gesto villano colla nobile e virtuosa fanciulla e aveva creduto d'avere a prendere una rocchetta d'assalto.

Vedevasi in lui l'impronta di quell'imprudente sicurezza, di quella leggerezza boriosa e avventata, congiunta a un deciso valor personale, che tanto distingueva i giovani gendarmi dell'esercito di Francesco.

Il Mandello era lì presso, aveva visto ogni cosa assai bene, e gli era venuto il sangue alla testa. Se avesse veduto che la fanciulla avesse corrisposto alle prime amorose gentilezze del giovane, il suo dispetto sarebbe stato anche maggiore, pure, rintuzzandolo pel momento, l'avrebbe poi tuffato nell'oltrepò, come era solito di fare, quando vedeva una cosa che gli dispiaceva, ma che tuttavia non gli era possibile riparare; ma in quest'occasione, avendo la fanciulla mostrato una dignità e compostezza di contegno ammirabili, non gli sembrò giusto che quel biondo e sfacciato mostricciuolo avesse a passarla impunemente, e così, fatti due salti e a furia trattolo fuor dal circolo che tuttavia danzava e datagli una formidabile tentennata, gli disse in francese, e in tuono assai alto, quattro parole, che volevan dire così:

—Io so benissimo com'è fatto Parigi, e bisogna dire che le tue sorelle abitino la contrada di coda di Brie, e più volte sien state prese dalle guardie del buon ordine, se tu credi che tutte sien fatte a un modo le donne; però ti dico, che sei uno schifoso cialtrone, e indegnissimo di stare con gentiluomini e con gentildonne.

Ad una simile apostrofe egli è ben naturale che qualunque uomo si sarebbe risentito, dato anche che nelle vene, invece di sangue gli fosse scorso pappina di fava, per ciò è facile a pensare, come si trasmutasse il volto del giovane gendarme alle parole del conte Mandello. In prima la risposta che gli diede fu pari a quell'invettiva e peggio; poi le mani corsero alla spada, ed essendo accorsi gentiluomini francesi e lombardi da tutte le parti per impedire si turbasse così la giocondità delle feste, ottennero che i due cavalieri uscissero di lì, e scegliessero quel qualunque luogo fosse loro piaciuto per ammazzarsi senza incomodo altrui. Il capitano degli arcieri cercò due padrini, che trascelse fra' tanti che gli si esibirono. Il conte Galeazzo Mandello fece altrettanto, percorse collo sguardo un centinaio di facce, domandò quel favore ai dieci o dodici che gli stavan presso. Ma il profondo e generale silenzio che s'era fatto per tutta la estensione del padiglione a quello scoppio di ira dei due campioni non fu interrotto da nessuna voce che rispondesse alle replicate domande del conte. Solo quel giovane che un momento prima aveva sentito il peso di quella terribile paterna rimesta, tremando dal capo alle piante per l'impazienza convulsa, provò una forte tentazione di profferirsi al Mandello, ma gli era rimpetto la faccia quadra e burbera del conte padre, e così, senza neppure fare un passo innanzi, dovette accontentarsi di mordersi le labbra, e di star queto; così moltissimi altri giovani si sentivano salir su la fronte un rossore insolito, ma eran tenuti in freno dai provvidi padri, e quel vituperevole silenzio tuttavia continuava; il Mandello intanto, ferito nella parte più sensibile dell'animo suo:

—Stolido ch'io fui, diceva tra sè, a rompere in quest'ora una regola di sei anni, e a non guardare altrove quando la fanciulla fu offesa, e a non ubbriacarmi più di quanto non ebbi mai fatto in questi sei anni d'inerzia e d'intemperanza, per dimenticare l'ingiuria altrui e la viltà nostra—e ciò pensando, girò ancora uno sguardo per tutta l'ampiezza della sala, ma nessuno rispose; e, almeno fosser stati contenti a non rispondere, ma taluni, di una stolidezza senza pari, accostatisi al biondo gendarme, lo pregavano a dimetter l'ire, e a non far caso delle parole del conte, a cui gli insulti dell'ebbrezza non permettevano dir mai cosa che stesse bene.

Questi fatti che raccontiamo sono, senza dubbio, ingratissimi ad udirsi, come quasi impossibili ad esser creduti, quando si pensa che molti de' gentiluomini che popolavano quelle sale appartenevano a quel glorioso ceppo di cavalieri milanesi e lombardi che non molti anni prima, al tempo di Francesco I e Galeazzo Sforza, mandati in Francia ad aiutar re Luigi, più che uomini erano stimati; quando si pensa che fra tutti coloro c'era ingegno, senno, coraggio, e tutto quel bel complesso di cose, che mai non manca nel tessuto della stoffa italiana, a così esprimerci! ma avendo in odio il dominio sforzesco, e convinti, che allo spargersi dei gigli fosse per piover manna sulle belle contrade di Lombardia, s'acconciavano a sopportare qualunque insulto fosse lor venuto dalla Francia; eran corpi, altra volta poderosi di gioventù e di bellezza, afflitti di presente da un momentaneo contagio, che violentava ogni loro virtù, e faceva che il loro senno naturale cedesse sopraffatto da' torti giudizj e della cieca passione.

E fu ventura che il giovane gendarme, trasportato dall'ira, non ascoltasse ragioni; e dicendo ai propri padrini che si rimanessero, giacchè l'avversario non poteva trovare i suoi, se ne uscì col conte Galeazzo Mandello,

Usciti, il pensiero che nacque nel capo ad ambedue fu quello di cercare un luogo solitario e remoto, dove non ci avessero a capitar spettatori. Il conte Galeazzo, il quale sapeva benissimo quanti luoghi fossero adatti a ciò, senza dir nulla al gendarme, e persuaso che costui lo avrebbe seguito, a scansare la moltitudine che s'affollava per tutto quel tratto di strada che era Rugabella e la statua di San Giovanni Nepomuceno al ponte, cominciò a prendere per viottoli, ma essendovi dappertutto persone in volta, dovettero percorrere un gran tratto di strada. Finalmente, il conte affrettò il passo, e trovò più breve il prendere la direzione per la piazzetta di San Martino in Nosiggia, dove rispondeva il suo palazzo, in prima perchè gli era balenato uno strano pensiero in mente, poi perchè era quella in fatto tra le più spopolate della città, se si eccettuano le ore, in cui scolari e monelli venivan lì a batter le mani, e a mandar voci e grida.

Egli è a sapersi, che in un angolo di quella piazzetta, sin dal secolo XIV, in occasione della peste memorabile che devastò mezza Europa, fu eretta una cappella detta di San Rocco, la quale, per la posizione che aveva con un palazzetto contiguo, aveva prodotto certe combinazioni d'angoli da generare un'eco mirabile; il quale ripeteva più volte il più minuto suono, perciò veniva chiamata anche la piazzetta dell'Eco, e i monelli venivano qui a passare il loro tempo godendo a sentir ripercosso tante volte il baccano che facevano. Su questa piazzetta vennero dunque i due campioni; ora avvenne che, attraversandola, il Mandello inciampasse in un corpo disteso quant'era lungo sul selciato, probabilmente il corpo avvinazzato di un qualche gabellino, e desse un tal barcollone che minacciò cadere. Il giovane gendarme, che era nojato di quella lunga passeggiata e ancora non sapeva ove v'andrebbe a fermarsi e, rifacendosi sull'ingiuria ricevuta, si sentiva abbruciare, còlta quell'occasione per parlare e pungere il suo nemico:

—Signore, gli disse, mi pare non siate ben fermo sulle vostre gambe; dunque, se siete ubbriaco, vi concedo d'andare a letto stanotte, che alle nostre spade non sarà già per venir la ruggine, e all'alba ci ammazzeremo.

Il Mandello, a quelle beffarde parole, non credette già d'avere a rispondere con altrettante, ma non potendosi dominare, si voltò di tratto; e lasciò andare sulle guancie rosate del gendarme due sonori schiaffi, il cui rumor secco venne quattro volte ripetuto dall'eco della cappelletta di San Rocco. Incidente che promosse la volontà di ridere nel conte, e accrebbe a mille doppi il furore e la rabbia del giovane gendarme.

Per questo insulto non ebbero bisogno di dirsi a vicenda: questo è il luogo adatto. Le spade sarebbero uscite impetuose dalla guaina, anche se fosse stato di mezzodì, e tra una folla di persone; così senza preliminare di sorta, quelle s'incrocicchiarono. La superiorità che aveva il conte Mandello con chicchefosse nel lavorare di punta, era così incontestata, così prodigiosa, che non è a far nessuna maraviglia se al terzo colpo la spada, dalla mano intormentita del giovane gendarme, balzasse a dieci passi di distanza. Il conte Mandello, non volendo in nessun modo stendere sul terreno l'avversario, volle fare un colpo che, senza spargimento di sangue, finisse il duello, e contentissimo che gli fosse riuscito così facilmente, tosto ripose la spada, intanto che il giovane borioso, che riputavasi espertissimo e formidabile schermidore, percosso di stupore che un colpo solo del ferro avversario fosse così terribile che il braccio e la mano non gli potessero regger contro, si rimase avvilito e sconcertato, in dubbio di quanto gli convenisse fare. Ma, a determinare ogni cosa, s'aprirono in quella molte finestre del palazzo che rispondeva sulla piazzetta; era il palazzo dello stesso Mandello ed erano i servi che a quel martellare minuto delle spade, s'erano affacciati.

Il conte, che non voleva continuare il duello, avendo fermo di non ammazzare l'avversario, diede allora una voce, che tosto fu riconosciuta, e dopo pochi minuti tutti i servi del Galeazzo, con torcie accese, furono intorno ai due combattenti.—Quel ch'è stato è stato a buona guerra, disse il Galeazzo all'altro, e quand'anche voi persisteste a voler continuare il duello, io vi dico che rifiuterei, giacchè non siete voi quel tale che possa star contro a me; favorite dunque in mia casa, chè ci sarà qualche conforto per voi.

E rifiutandosi il giovane, lo prese allora con forza per la mano, e traendoselo seco, lo condusse nel suo appartamento, sempre circondato da' suoi servi, che gli facevan lume colle torce.

Il Mandello si diede a passeggiare per quella camera, e pareva che attendesse a pensare qualche strana cosa. Improvvisamente si volge a un servo, e gli dice:

—Va qui un tratto alle Case Rotte, numera le porte a dritta, entra nella seconda, cerca del notajo Benintendi, di' che venga qui subito, che ho bisogno di lui.

Il servo partì, e il conte continuò a passeggiare assai grave e contegnoso.

Il giovane barone, senz'arme accanto, chè la spada trovavasi ancora sulla piazzetta, era chiuso in mezzo da quattro servi, a' quali il conte aveva fatto motto di non muoversi, se non comandati.

A un altro aveva ingiunto recasse nella camera uno scoppietto, che tosto fu portato, e la bocca dell'arme micidiale venne adatta sulla forcina in modo, che avesse dirimpetto il giovane barone. Tutto ciò venne eseguito assai tranquillamente, senza spender molte parole.

Il giovane guardava, taceva, e cominciava a pensare e a temere. D'indole stranamente avventata e spavalda, a un gioco lungo non sapeva resistere. Il suo coraggio, allontanata la fiamma dell'ira istantanea, aveva cominciato a sbollire, e, cosa strana a dirsi, quella medesima luce fosforica che di solito brillava nella sua cerulea pupilla, si era quasi spenta del tutto. In conclusione, il biondo gendarme era ridotto alla condizione d'una boccetta di spirito volatile, alla quale da qualche tempo si fosse levato il turaccio.

Comparve finalmente il servo col notajo.

—Vogliate perdonarmi, caro messere, disse il conte al nuovo venuto, se v'ho mandato a sturbare in quest'ora tarda, ma non c'era a perder tempo in nessun modo, e occorreva che voi apponeste il vostro tabellionato a una tal coppia di righe, che ora stenderò io medesimo, e che questo signore sottoscriverà. Abbiate dunque la bontà di attendere un poco che, in un quarto di minuto io mi spaccio. Così dicendo, si gettò a sedere, prese una penna e scrisse una mezza pagina, che tosto diede al notajo.

Questo, messosi a leggerla, quando fu a un certo punto, tutto compreso di maraviglia, e non potendo reprimere la voglia di ridere, guardò in faccia al conte dicendo:

—Avrei creduto si trattasse di far la ricevuta di una sommetta di ducati nuovi di zecca, non già di codesta mercanzia…. Del resto, purchè costui, che ci ha il massimo interesse, non metta innanzi delle difficoltà, e s'accontenti, io son qui pronto ad apporvi il tabellionato, e a far le cose in tutta regola, che già tanto vale una moneta quanto un'altra, e quella di cui è parola in questo scritto, ha sempre questo vantaggio di non mancar mai di peso.

Il Mandello, sorridendo, si volse allora al gendarme con un contegno alquanto serio.—Signore, gli disse, siccome abbiam combattuto senza padrini, e non c'è nessuno che possa attestare che da me non vi fu fatta violenza, quando mai venisse a voi la tentazione di vendere qualche vescica, così, dalla vita alla morte, fate grazia di apporre il vostro nome qui dove, in tre parole, c'è la storia genuina di quanto avvenne fra noi stassera. Questi intanto è il notajo Benintendi, che, per la regolarità dell'atto, ho voluto fosse presente anche lui, e mettesse il suo nome accanto al vostro…. Ecco qui, scrivete, e tosto uscirete.

Il barone francese, cui pareva mill'anni di non trovarsi all'aperto: "Infine, pensò tra sè, un gendarme non perde il proprio onore, se confessa di esser stato vinto in duello; d'altra parte, i suoi concittadini medesimi hanno mostrato d'aver men stima di lui che di me; e forse in questo momento egli è ubbriaco; dunque, non me ne può venire gran scorno e forse non si parlerà più nè di duello, nè d'altro." La conseguenza era precipitata; ma esso avea voglia d'andarsene, bisogna compatirlo, così, senza leggere la scritta, che già non avrebbe capito, per esser stesa in italiano, ci mise il nome.

Il notaio fece altrettanto, e ci pose il suo ghirigoro.

Chi volesse poi avere innanzi agli occhi il facsimile della scritta e delle firme, eccolo:

"Confesso io sotto segnato, per la pura verità, qualmente la notte del 17 settembre 1515, alle ore due, sulla piazzetta di San Martino, in Nosiggia, il col. Galeazzo dei conti Mandello, commendatore dell'ordine di San Michele in Francia, habbia incrocicchiata la sua colla mia spada a buona guerra, et che il suddetto conte mi habbia disarmato. Itèm, accuso al suddetto colconte Galeazzo la ricevuta di N. 2 sonori schiaffi che il medesimo a me consegnò tra guancia et guancia la sera stessa, et che furono ripetuti quattro volte dall'eco della cappelletta di S. Rocco. Ciò che qui confesso per la pura verità et perchè il sudd. conte cav. Galeazzo ne faccia quell'uso che le parerà et piacerà.

"Sott. Barone Coislin

"Capitano della 4.a compagnia dei lancieri del re.

N. M. ( Benintendi )".

Quando la scritta fu sottosegnata e tutte le formalità furono adempiute, il conte Galeazzo lesse ad alta voce quanto aveva scritto, poi, rivolto al giovane gendarme, gli disse in francese quel che noi mettiamo qui tradotto:

—Signore, gli disse, non avrete a male se questa carta sarà fatta circolare per tutte le gentili mani delle nostre belle milanesi; così nè uno sguardo, nè un sorriso, nè una parola vorranno gettare a voi, neppure per carità, e quand'anche vi rifugiaste colà, dove il vizio ha fatto l'ultima sua prova, neppure in que' luoghi troverete femmina sì proterva che si lasci pizzicare da voi. Son donne curiose le nostre, e non amano i volti sfregiati, voi mi comprendete. Cosi, finchè rimarrete qui, il tempo vi scorrerà assai tristo e privo di conforto al tutto, tanto che v'augurerete trovarvi ancora fra le corpulenti borghesi di Reims, e l'istinto copulativo insaziato vi condurrà a mal termine. Ora ne potete andare, ma serbate in memoria bene, che fra le donne, delle quali avete mostrato far così poca stima, l'onestà non è minore della loro bellezza.

Il lettore avrà notata una certa contraddizione tra queste parole dette al gendarme e alcune altre dette al Palavicino…. ma è appunto una tale contraddizione che fa molto onore al carattere del Mandello.

Il biondo gendarme, tutto mogio e costernato, uscì fuori finalmente, accompagnato da quattro servi che gli fecer lume colle torce.

Quando il conte Galeazzo si trovò solo, si tolse il piumato berretto, si svestì la cappa di broccato d'argento, gettò lontano da sè tutti quegli ornamenti che da tre anni non s'era mai mossi intorno, e tutte quelle delicatezze necessario, a chi si reca fra le pompe e le delizie d'una lesta, pentito oltremisura d'averle riprese per mezza giornata, di aver rotta un momento la sua regola, d'avere con una momentanea sobrietà fatta più lucida la propria intelligenza, e d'essersi così procurato il dispiacere di vedere e di provare in sè troppo più di quello che faceva di bisogno. Indossò ancora la sua semplica cappa di velluto nero e, gettatosi nella sua gran seggiola, chiamò l'uomo di camera. Questi capì ciò che voleva il conte, e un momento dopo, sulla tavola che gli stava d'innanzi, a promovere il buon umore, fu recata una batteria di bottiglie e di tazze dove l'oltrepò ribolliva e frizzava. E quella sera ne bevè una così smoderata quantità, che quando sentì il bisogno di recarsi a dormire, dovendo passare per certe sale che conducevano alla camera da letto, v'impiegò molto più tempo che non faceva bisogno, e, giunto che vi fu, al lume della candela che pei densi vapori che gli erano andati alla testa, gli pareva avvolta come in una nebbia, penò molto a trovare la rimboccatura delle coltri, nè gli riuscì più facile il cacciarsi sotto. Da quel giorno in poi la sua intemperanza d'eccesso in eccesso giunse a tal punto, che parve volesse minacciare perfino la sua salute. Il suo fine altro non era che di mettere una sì balorda confusione nella propria testa, da non conoscer più in che mondo si fosse. Finchè si rimase a Milano, non fece mai più vedere la sua faccia in pubblico; e quando sentì bisogno di moto e d'aria libera e sana, si ritrasse a vivere in campagna lontano dagli uomini, lontano dai rumori, lontano da tutto ciò che gli potesse recar qualche noia…. Ma vorrà durar sempre in questa ragione di vita sì vergognosamente inerte?… Ma sarà irremissibilmente perduto quest'uom forte, da cui la società avrebbe potuto cavare così grande vantaggio? Gli eventi incalzano gli eventi, e stanno or forse a maturarsi quelli che lo scuoteranno dal vituperoso letargo.

Intanto che si sviluppò e si sciolse questo intrigo che abbiamo raccontato, nelle sale delle feste era avvenuta cosa di ben più grave momento. Elia Corvino che, avvolto ne' suoi panni signorili, passeggiava da più di due ore fra tante cappe e tanti mantelli, col pensiero e collo sguardo attentissimo a tuttociò che succedeva nelle sale, e mai non aveva perduto di vista i tre personaggi dei quali gli conveniva sapere ogni benchè menomo movimento, quando vide staccarsi dalla sua sposa il magnifico signore di Perugia, e recarsi nelle sale da giuoco (ove fin dal principio della notte s'era ritratto il Bentivoglio con alcuni baroni francesi), e lasciar la Ginevra insieme alla moglie del masciallo Chaumont, (quel Chaumont che aveva dato un salvacondotto ai Bentivoglio la prima volta che ebbero a fuggire da Bologna); allora s'accorse che se non sapeva approfittare di quel momento, forse ogni speranza era perduta, e per sempre. Non senza una certa inquietudine, che s'apprende anche agli uomini più audaci ed avvezzi a tentar cose che, non riuscendo, possono produrre la propria e l'altrui rovina; guardava di tanto in tanto per la fuga delle sale fino alla gran porta d'ingresso per vedere se mai entrasse il fratello ad annunziargli qualche nuovo inciampo, che troppo temeva dell'insofferenza del Palavicino e del suo carattere impetuoso; inquietudine che, durando a lungo, gli aveva vestito la parte superiore del volto di un vivissimo rossore, pari a quello che solea coprire le guancie di Bonaparte la vigilia delle sue battaglie; ma l'impresa a tentarsi, se non era di sì alta importanza, non era però d'esito meno incerto e men difficile; però assai perplesso, stava in aspettazione. Quando ad un tratto la voce sonora del conte Galeazzo Mandello, alzatasi al disopra del generale frastuono, e le parole non meno sonore e impetuose del giovane francese produssero in un subito quel generale silenzio che sappiamo, e tosto, per un impulso comunicato macchinalmente a tante persone in una volta sola, la folla tutta quanta trasse nella sala donde le voci erano uscite. La maraviglia e l'impaziente desiderio di venire in cognizione del fatto, aveva in un momento scomposti tutti quei cento gruppi di persone che s'eran formati di distanza in distanza. Così anche il maresciallo Chaumont abbandonò il braccio della moglie, questa, il braccio della Ginevra, la quale per esser tutta agitata e compresa della sua terribile condizione, non potendo venir scossa da verun altro accidente, rimase indietro più di dieci passi. Accorse allora il Corvino con quella sicurezza di chi vede non poter più mancar l'esito all'intento. Accorse, e s'avvicinò alla Ginevra dicendo: Signora, vostro padre vi chiama.

La Ginevra si volse.

—Vostro padre e il magnifico Baglione vi chiamano là; e additando una sala a sinistra, che da un lato metteva nelle sale da giuoco, da un altro nei corridoi d'uscita, con molta gentilezza di modi e con quel fare cavalleresco, al quale non doveva esser nuovo, la prese pel braccio e la trasse con sè.

La chiamata del padre e la presenza del gentiluomo, sebbene non fosse di sua conoscenza, eran cose tanto naturali, ch'ella non ci fece sopra neppure un pensiero, e neppure un momento stette in forse di seguire il cortese gentiluomo.

Questo intanto, come l'ebbe tratta nella sala vicina:

—Sono già usciti di qui, disse; certo che vi attendono al vestibolo o il Baglione s'è già messo in carrozza, non potendo più sopportare il rumore e il caldo eccessivo delle sale. Permettete dunque che v'accompagni io stesso.

Elia Corvino, che sapeva benissimo com'è fatto il cuore umano, aveva contato sull'alterazione d'animo, in che naturalmente doveva trovarsi quella sera la Ginevra, alterazione che non gli avrebbe permesso di notare quanto ci poteva essere di men regolare in un fatto qualunque, e, per verità non s'era ingannato.

Attraversato dunque il lungo corritoio per mezzo a due file di servi gallonati, senz'accidente di sorta, pervennero finalmente sul limitare della soglia del vestibolo posticcio, messo a drappi, a drappelloni di frange d'oro ed a festoni di fiori. Il murmure alto, incessante della folla minuta che s'accalcava intorno al vasto padiglione, per vedere entrare ed uscir cappe signorili, il calpestìo di quelle cento cavalcature che s'attendevano là, giacchè la maggior parte dei gentiluomini soleva ancora a que' tempi recarsi dovunque a cavallo, il cicaleccio di quel migliaio di palafrenieri che ingannavano così la noia dell'aspettare, gl'irrequieti movimenti di quei trenta o quaranta cocchi a due ruote, chè le carrozze propriamente dette a quattro ruote furono introdotto molto più tardi, le grida dei cocchieri, lo sbattere delle fruste, avvolse i due che usciron fuori all'aperto in un turbine così vasto e così forte di frastuono, che, anche parlando ad alta voce, non si sarebbero intesi.

Allora il fratello del Corvino, che d'accanto alla lettiga (o carrozza che dir si voglia) del Palavicino, stava sull'ale e non aveva pur un momento stornato lo sguardo da quella uscita, accorse, appena li raffigurò, colla prestezza di chi si fa a raccogliere una moneta d'oro caduta di tratto, e non voglia esser prevenuto dalla folla che già accalcandosi fa a chi prima arriva. Accorse, si recò presso la Ginevra, è disse:

—È in lettiga! venite, presto!

A queste parole l'Elia Corvino si slanciò innanzi, gettando un'occhiata d'iraconda impazienza su tutta quella folla che poteva impedire alla carrozza d'allontanarsi rapidamente di lì, si recò presso lo sportello, che già stava aperto, e del braccio aiutò la Ginevra a salire. Alla giovane in quel momento si conturbò l'anima d'uno di quelli eccessi di sconforto disperato che ci rendono insensibili a tutto ciò che ne succede d'intorno. Credette salire nel cocchio del Baglione, che tutti erano d'una forma a quell'epoca, per esserne recentissima la moda e l'introduzione in Italia; credette che l'uomo che se ne stava ravvolto sdraiato in un canto fosse l'odioso vecchio, dal quale non era cosa che più oramai la disgiungesse, provò quell'orrore senza lagrime e senza parole che tramesta l'anima, di chi sale la scala del patibolo, e gli mette tal tremito per tutta la persona, che cadrebbe se non fosse sorretto. E il Corvino sentì infatti pesarsi sul braccio il corpo della Ginevra come se, perduta ogni virtù vitale, fosse stato per ripiegarsi su di sè e cadere inanimato in quel punto. Finalmente riuscì ad adagiarla, chiuse le cortine di corame damascato e si ritrasse. Tra quel formicolaio di cavalcature, di bussole, di lettighe e di moltitudine si fece uno slargo, e i cavalli dovettero procedere assai lentamente, finchè la folla non fu al tutto diradata. Il Corvino s'indugiò per qualche tempo per assicurarsi pienamente della riuscita dell'opera sua. Ma quando pensò a togliersi di lì, un grido, che doveva esser stato acuto, ma che gli giunse all'orecchio velato e fioco, attraverso a tanto rumore, lo colpì e io sconvolse. Si attese ancora qualche tempo in una gran perplessità. Ma vide finalmente ricomparirsi innanzi il fratello, che gli disse:

—Sono usciti di città adesso; non c'è più nessun pericolo.

—Ma la Ginevra mandò un grido, mi pare, un momento fa?

—Era troppo naturale; ma nessuno non volse neppure la testa, e, quel ch'è fatto è fatto.

Assicurato allora che quel grido, se pure non svanì inavvertito a tanta moltitudine, non aveva però fatto muovere un passo a nessuno, il Corvino si mosse per rientrar nelle sale, desideroso di venire in cognizione di due cose: della cagione che aveva promosso quelle parole di ferro e di sfida, che un momento prima avevano conturbato la giocondità della festa e giovato così bene al suo intento; e dell'effetto che sarebbe per produrre sul Bentivoglio e sul Baglione l'improvvisa scomparsa di Ginevra. Per verità, che ambedue codeste cose, e la seconda segnatamente, meritavano bene ch'ei ritornasse nelle sale, ma pensatoci due volle, e veduto che non era senza pericolo, che era troppo facile l'essere stato veduto colla Ginevra da qualcheduno, che si poteva venire a schiarimento, e non era improbabile il non poterne uscir netto, fermò invece d'allontanarsi sull'istante.

In quella, udito batter l'ore alla chiesa di San Nazaro, pensò che poteva in quella notte medesima, giacchè non era tardissimo, recarsi al palazzo del Morone, e quando non fosse in castello col duca, dargli la notizia che pareva esser tanto desiderata da quell'illustre personaggio.

Il Morone abitava in quella contrada, alla quale fu poi dato il suo nome, e lo conserva tuttora; conveniva perciò all'Elia Corvino far molta via prima di arrivarci; ma il pensiero dei quattrocento gigliati che avrebbe contato, e la soddisfazione d'aver saputo condurre a così buon termine il suo disegno, del quale aveva già incominciato a disperare, gli fecero parer brevissimo quel tratto di strada, e s'avviò. Giunto in quella contrada, e veduta illuminata l'ultima finestra del palazzo:

—C'è senz'altro, disse; ora staremo a vedere se mi si vorrà aprire a quest'ora. E accostatosi alla porta, e preso il martelletto, diede quattro colpi risoluti. Dopo qualche momento, dalla finestrella che stava ad un dei lati della porta, uscì una voce:

—Chi è che picchia a quest'ora? Chi cercate?

—Son io, e cerco dell'illustrissimo messere.

—A quest'ora? tornate domani; a quest'ora non riceve nessuno, quand'anche fosse sveglio.

—È sveglio senz'altro, ed io, da star qui, vedo il lume dalla finestra del suo studio. Io mi chiamo Elia Corvino, ed annunziatemi a lui, che vi dirà subito d'aprirmi.

—Bene, bene, aspettate che vo e torno.

Dopo quasi una mezz'ora, senti il rumore delle spranghe di ferro che scorrevano, e vide la porta aprirsi.

Fu introdotto, e salì nel gabinetto del Morone.

—Che gran novità ti ha fatto venire da me a quest'ora? domandò il Morone con una voce che pareva alquanto alterata, appena vide spuntare la testa del Corvino.

—Vi reco tal nuova infatti, per la quale domani tutta Milano ne sarà sossopra, e due vecchi disperati. Quella infelice Ginevra Bentivoglio, che all'alba di quest'oggi medesimo fu sposata al Baglione, annoiatasi di lui, in pochissime ore, e prima di numerar tutte le grinze della vecchia sua pelle, senza far tanto rumore, ha trovato il modo di fuggire col Palavicino; e può darsi benissimo che, in questo momento, senta scoccar le otto all'orologio dell'abbazia di Chiaravalle.

—La novella potrebbe esser buona; ma sarebbe stata migliore, se si fosse sparsa ieri piuttosto che oggi, e che la Ginevra fosse fuggita ancor fanciulla, anzichè moglie.

—Non tutto ciò che si vuole si può, illustrissimo. Del resto, la Ginevra, a rigor di termini, è fanciulla tuttora, e se mai volesse votarsi alla Vergine, questa non la rimanderebbe.

—Si ha qualche notizia del Baglione o dell'altro?

—Per ora no; ma si può bene essere indovini. Peccato per altro, che la vecchiaia li abbia lasciati senz'unghie, chè la lotta tra l'orso nero e l'orso bianco che, due anni fa, mise a rumore il serraglio ducale, si sarebbe rinnovata.

—Quand'è così, va benissimo, disse il Morone con una voce sottile, e sorridendo.

—Ci ha poi ad essere un'altra novità.

—Di' presto, e spacciati.

—Ho sentito nelle sale delle feste la voce sonora del conte Galeazzo a sacramentare, credo che fosse, con uno di que' giovani baroni francesi, il quale, trasportato dall'ira, rispondeva in tuono alto esso pure, con una voce in chiave di clarinetto che passava le orecchie. Minacciava insomma uscirne qualche sconquasso; del resto, le mie notizie non vanno più in là.

—Aveva forse il solito suo male, il conte?

—Tutt'altro; anzi era benissimo in sè stesso; lo sentii parlare quattro parole con assai dignità al connestabile di Borbone.

—Se sarà nato qualche sconcio, la sua croce di S. Michele lo salverà. Ora veniamo a noi! Domani tu sarai da me all'alba, che darem corso a quello che tu sai, e ad altro se occorrerà. Intanto mi bisogna star solo, chè ho a scrivere questa lettera al re, e a te non rimane altro che di fare la buona notte.

Il Morone si mise allora a sedere allo scrittoio, e il Corvino, uscito che fu, si recò finalmente a dormire il suo sonno nel solito covile al quinto piano, contentissimo del fatto proprio come lo era forse stato mai prima di allora.

Del rimanente, è ben ragionevole che il Corvino fosse quella notte così pago di sè, che, giovato dalla fortuna, le cose gli eran corse di maniera, che a nessuno trapelò mai per allora da chi fosse stato immaginato e colorito quell'arrischiato disegno, e la scomparsa della Ginevra Bentivoglio avvenne così felicemente, che nessuno se ne accorse, e parve davvero che i destini avesser voluto, in quell'avventura, intervenire espressamente col loro aiuto.

Ed ecco come in proposito si esprime un cronista contemporaneo ai fatti che raccontiamo:

"Alli diciassette del suddetto mese (settembre), in tempo che al tentorio di Porta Romana si facevan gazzarre per l'arrivo delli Franzesi, improvvisamente è scomparsa dalle feste la diuina figliola del Magnifico Bentiuoglio, Signore di Bologna, nè per allora si è mai potuto trovar come; et fu con grandissima maraviglia et scandalo de li Milanesi quando corse la voce, essere la predicta figliola fugita con il Marchese Palavicino, et magis conoscendosi da ognuno quanta fusse la virtù de la figliola et quela del predicto giovine".

Ora vogliam rifarci indietro un momento, a ritrovarli ove li abbiam lasciati.

CAPITOLO XIV.

Le sensazioni che provar può un uomo, il quale dannato a una perpetua prigionia, passa, la prima volta, dal giorno, dalla luce, dal rumore, nella tetra oscurità di un sotterraneo, dove, quasi fosse scagliato fuor del mondo e della vita, assai tempo prima di morire, sa che la propria esistenza vi si consumerà impreteribilmente; furono le sensazioni che assalirono e strinsero l'animo della Ginevra nel frattempo che la lettiga a ruote, avendo a rompere dinanzi a sè le onde impetuose di una folla stivatissima, procedeva lentamente e a fatica. Il sentirsi chiusa in così breve spazio con colui che ella teneva pel suo vecchio consorte, il sentirne il respiro frequente e affannato le dava una noja indicibile; persino il mantello di lui che, per le scosse del cocchio, veniva a toccare e a strofinare il raso delle sue vesti, promoveva in lei quello schifo di chi sente il tatto di cosa sudicia e fetente. Aveva nel sangue l'agitazione e lo spavento di chi si vede a lato il carnefice, e provava quel ribrezzo pauroso di chi è costretto a viaggiare con un cadavere; perciò s'andava sempre più rimpiattando nell'angolo della lettiga, come per allontanarsi, mentre amaramente rimproveravasi di non aver saputo star forte contro alla paterna volontà; ed ora che s'accorgeva che l'angoscia del trovarsi insieme al vecchio era mille volte più dura di quanto ella medesima aveva sospettato prima d'esser congiunta a lui, tormentavasi sempre più di non aver avuto il coraggio di rifiutare un così orribile supplizio.

In quanto al Palavicino, continuava nella direzione di que' pensieri che da due ore lo tormentavano, alterati in quel momento da nuove ansie, da' nuovi timori; ad ogni tratto che percorreva la lettiga temeva insorgesse d'improvviso una voce, un grido tra la moltitudine, e il suo nome ripetuto dalle voci furibonde del padre, del marito della Ginevra, passasse di bocca in bocca tra la folla maravigliata, e si accorresse da tutte le parti a circuirlo, a togliergli d'accanto la Ginevra. Lo scandalo, le vergogne, i pericoli, le sventure che ne sarebbero derivate lo facevan ardere e gelare; si rodeva tra sè che il cocchio procedesse così lentamente, e la stizza e la noja e lo struggimento gli era più incomportabile in quanto era costretto a starsene tranquillo in un angolo, silenzioso, immobile, avvolto nel proprio mantello, ed era impazientissimo di svelarsi alla Ginevra, di troncare quelle dolorose incertezze, di sollevare la fanciulla da quella condizione tormentosa, in cui naturalmente ella doveva trovarsi da molti dì.

Ma la folla a poco a poco cominciò a diradarsi, a dividersi, a non apparir più che in qualche gruppo sparpagliato, a lasciar finalmente sgombra la via del tutto. Allora i cavalli presero il trotto, e la lettiga fu tratta innanzi rapidamente. A un certo punto i palazzi, le case finivano, e cominciava un basso muro che cingeva le ortaglie. Il disco della luna lucentissima in un bel cielo sgombro e stellato non essendo più coperto dall'altezza degli edifizj, vibrò un raggio nell'interno della lettiga e rischiarò il volto accorato della Ginevra. Svolgevasi in quella il Palavicino dal suo mantello e, credendo fosse opportuno il momento, si volse, mosse il labbro mandando un debol suono di voce, e guardò la Ginevra, che guardò lui.

Fu in quel momento che, all'orecchio di Elia Corvino arrivò, velato e fioco, attraverso al frastuono, quel grido che lo aveva messo in apprensione.

Del resto, quel che avvenne nella mente e nell'animo della Ginevra al vedere dinanzi a sè, come se per arte di magia fosse avvenuto un repentino tramutamento, la faccia bella e giovanile del Palavicino, invece della turpe canizie del Baglione, che tumulto scompigliato di nuove sensazioni, e di nuovi affetti succedesse in lei, non può essere spiegato che da quel grido ch'ella non potè trattenere, e che fe' correre un gelo per l'ossa al Palavicino, il quale si tenne perduto, tanto timore lo prese che, accorrendo la moltitudine, fosse presto un terribile intrigo. Per un moto involontario, aveva bensì a quel grido gettato un lembo del mantello sulle soavi sembianze dell'atterrita fanciulla, a tentare di soffocarlo a mezzo, intanto che, per un altro moto d'istinto rattenendo persino il fiato, si era ristretto tutto in sè, quasi credesse sfuggir così alle ricerche della moltitudine. Il cuore gli voleva scoppiar sotto il giustacuore. Per buona ventura non accorse nessuno, i cavalli, sferzati dal cocchiere, che s'era spaventato la sua parte, raddoppiarono la corsa, la strada si fece sempre più deserta e silenziosa.

Ma il timore si accrebbe nel giovane Palavicino, quando s'accorse d'esser presso alla porta della città, dove era probabile che oltre la solita scorta di gabellieri ci sarebbe stato un rinforzo dei lancieri del re. Pensando allora che un altro grido non sarebbe di certo passato inavvertito, e che la rovina poteva esser pronta;—Zitto, per carità, disse sommesso alla Ginevra, con quel maggior fervore che può darsi ad una preghiera, e colla maggiore soavità che può avere l'affetto. Zitto, per carità, o noi siamo perduti; io e voi.

In quella, il bisbiglio di più voci, qualche sghignazzamento, una turpe canzonaccia cantata da una rauca voce, alcuni passi ferrati che facevan suonare il terreno, l'avvisarono che si passava sotto l'archetto della porta della città. Non era fibra che non gli tremasse, ma la carrozza fu tratta oltre veloce, e finalmente egli altro non vide che cielo ed alberi.

Allora, sciolta la Ginevra, amorevolmente la chiamò per nome.

Ma alle prime sensazioni, quali altre erano succedute nell'animo di lei?

Se il Manfredo fosse stato il suo promesso, se mai non fossero insorti ostacoli ad avversare i loro amori, se in quel momento si fosse trovato con lui per un procedimento comune delle umane cose, sicura che il proprio padre amava e benediceva l'affettuosa corrispondenza, ed era vicina la solennità delle nozze; ella, per quell'istinto di femminile ritrosia, che di tutto si adombra, quand'anche fosse stato egualmente forte l'amor suo pel giovine, pure sarebbesi comportata seco con assai riserbo. Ma in questo momento l'affetto per lui, che da tre anni era l'assiduo suo pensiero, proruppe invece con un impeto sì eccessivo, che a tutt'altri che a lui sarebbe quasi parso indizio di pazzia. Un certo che di febbrile alterazione che aveva nel sangue da qualche ora, quell'improvviso passaggio da uno stato ad un altro, così diversi, così opposti, quell'istantanea gioia, quell'estasi suprema successa al gelato terrore che da più giorni non le lasciava aver bene, le generarono nell'animo tal mistura di commozioni così eccezionali, che giunsero persino a far tacere in lei quel non so che di femminile alterezza e di ritrosia che le era sì proprio, per la qual cosa in sulle prime, tutto bagnando di lagrime il volto del Palavicino, si lasciò andare senza ritegno ai più teneri ed espansivi vaneggiamenti dell'amore.

Fu lo scorrere però di alcuni pochi secondi… e a un tratto s'arrestò… atterrita s'arrestò, come se una voce cui non le fosse possibile disobbedire, d'improvviso le suonasse minacciosa e fatale, e si ritrasse e tornò a rimpiattarsi nell'angolo della carrozza con uno sforzo straordinario dell'animo e delle membra, quasi che al posto del Palavicino si fosse messa a seder davvero la squallida e truce figura del Baglione. Fu straziante l'angoscia di lei quando, sulla predella dell'alture dell'abbazia di Chiaravalle, atterrita dal severo sguardo paterno, aveva messa la propria nella mano tremante del Baglione; più straziante ancora quando, poche ore prima, a lei discinta, il vecchio s'era accostato. Ma l'angoscia di questo momento le fu insopportabile, e il sangue con tant'impeto le si tramestò nella regione del cuore, che sentendo distendersi un gelo su tutta la superficie delle sue fragili membra, provò quell'alienazione di spiriti, e quel prostramento assoluto di forze, che ci fa presentire in che modo si passi da questa all'altra vita.

Il Manfredo se ne accorse, e stette in grandissimo timore fino a tanto che la fanciulla non si riebbe affatto.

I parossismi della passione e del dolore non possono durare che brevissimi istanti, per quanto sia straordinaria e terribile la condizione in cui l'animo si trova, e a quei parossismi subito susseguono de' momenti di calma, calma certamente non invidiabile, ma tale almeno, che alla mente permette di connettere delle idee con qualche ordine, alla bocca di parlare, agli occhi di piangere.

Riavutasi così la Ginevra, e pensando al padre, al Baglione, all'audacia del Palavicino, di cui, in barlume, le pareva d'aver indovinato il disegno, e prevedendo le nuove e più atroci sventure che ne sarebbero derivate.

—Ah! Manfredo, che avete voi fatto? gli disse. Che intenzioni sono le vostre?… io tremo solamente a pensarci.

—Una fortunata combinazione, rispose il Palavicino, non ci mancò, e spero che nell'avvenire….

—Ma chi v'ha consigliato a far questo, Manfredo?

—E puoi domandarlo? e non sapevo io il tuo dolore, e non conosceva i tuoi desiderj? altra volta io t'ho veduto in ginocchio, e t'ho udita scongiurare Iddio perchè ti liberasse dal Baglione. Oggi poi, chi m'aiutò ad aiutarti, mi disse le tue lagrime e la tua disperazione. Pensa dunque che colui non ti riavrà mai più, che tu sei con me ora, e per sempre lo sarai!…

—Per sempre, di' tu? ah, Manfredo io l'ho desiderato, è vero, io l'ho sperato; ma pur troppo, ciò che tu di' non può essere. Io tremo di trovarmi qui con te…. Il Baglione è mio marito.

Ella pronunciò questo nome con un accento sì amaro, che il Palavicino ne fu scosso. Vi fu un momento di silenzio, durante il quale non s'udiva che il trotto serrato dei cavalli, e il soffio dell'aria che fendevasi contro la carrozza.

—Io ebbi a pensar male di te, Ginevra, soggiunse poi il Palavicino; tu avresti potuto star forte contro la violenza altrui, ma nell'animo tuo, fu ben più potente assai il timore di tuo padre che l'amore di me. Io non avrei fatto così.

—Ma e tu, rispondeva allora la Ginevra con un impeto nel quale assai chiaramente sentivasi la mestizia profonda, che hai saputo far tu? Perchè mi hai abbandonata, quando più era bisogno che venissi pronto a darmi aiuto?

Il Palavicino taceva e sospirava.

—Perchè non hai tu voluto ascoltare quella soave e cara donna di tua madre che, bagnata delle mie lagrime, mi promise ti avrebbe costretto a rimanere? sai tu poi quel che a me bastò l'animo di fare in quella notte?… Ciò che nessun'altra donna avrebbe mai fatto, l'ho fatto io, Manfredo. Io voleva in ogni modo parlare a tua madre, e non vedendo altro mezzo, uscii tutta sola di palazzo, e tutta sola, essendo la notte alta e disastrosa, attraversai la pubblica via. Dio sa quello che si pensò di me da coloro che mi avranno veduto. Ma le mie e le preghiere di tua madre non valsero… sei uscito al campo egualmente, e, senz'altro aiuto, io non potei sostenere la severità del padre, e fui perduta per sempre…

Qui le lagrime prorompendole a furia, e soffocandola i singhiozzi, più non potè parlare. Il Palavicino malediva tra sè il momento che, senza un frutto al mondo, era uscito di città, e non sapendo che rispondere, taceva, ascoltando quel pianto e que' singhiozzi.

V'era una certa ineffabile attrattiva in quei gemiti della fanciulla, ch'egli sebbene percosso nel più profondo dell'animo, pure, a poco a poco si sentì rapir via insensibilmente dal mestissimo suono, provando una sensazione quasi gradevole.

Cessò il pianto alla fine, ella tornò a ricomporsi, tornarono a parlare fra loro. A un tratto la Ginevra, rispondendo a quanto erale venuto dicendo il Palavicino:

—Questo non sarà mai, proruppe, sarebbe una vergogna, uno scandalo; nessun'anima buona non potrebbe sentir più compassione delle sventure mie. O tu mi prometti adesso che tosto penserai a condurmi in qualche santo ricovero, dove nessuno possa venirci, nè tu stesso, o in questo momento medesimo io mi getto di qui, e così, come mi verrà fatto meglio, mi strascinerò a piedi sino alla casa dei padre mio.

Quanto più i desiderj e lo stato dell'animo la tenevan stretta al Palavicino, tanto più, come a vincere la difficoltà di una virtù che riusciva ardua troppo pel suo cuore, e a tentare uno sforzo disperato, procurava esagerare la volontà propria esprimendosi di quel modo risoluto e impetuoso, pure, mentre stava ad attendere una risposta dal Palavicino, temendo averlo offeso colle troppo dure parole:

—Tu sai perchè io ti domando questo, gli disse con una straordinaria dolcezza, tu vedi che io non posso stare con te, e che questi istanti medesimi che teco ho trascorsi, furono già troppi. Però, io ti scongiuro, Manfredo, a provvedere alla mia sicurezza ed alla mia fama.

—E per che cosa pensavi tu ch'io ti consigliassi a fuggire ben lontano con me? per provvedere alla tua sicurezza appunto; ma la tua fama non m'era già indifferente. I tuoi virtuosi costumi a chi sono più noti che a me, e a francare ogni tuo timore quella cara e virtuosa donna di mia madre sarebbe venuta a stare con noi, e affidata alle sue cure, alle sue soltanto, tu saresti stata come in un santuario; e tutto il mondo lo avrebbe saputo…. Pure, se tu persisti nel tuo proposito, io non sarò già quello che ti contraddica… a me basta che tu viva illibata e sicura, e considerando che, anche diviso da te, per quanto fosser lunghe le distanze e innumerati gli anni, non appartenendo a nessun altro, tu appartenesti a me solo, io saprei pure trovare qualche conforto alle sciagure mie… e penso che non vi è nulla ancora di perduto, o Ginevra, giacchè, se la natura farà il debito suo, non vivrà eterno il vecchio Baglione, e i nostri desiderj saranno esauditi nell'avvenire. Io ne ho fiducia. Intanto la tua pura virtù sarà da me, come cosa divina, altamente rispettata.

Queste parole misero un vivissimo raggio di speranza nei pensieri abbujati della Ginevra, la quale ajutata e sospinta da quel conforto, si slanciò allora nel futuro con un'alacrità e una confidenza straordinarie.

I cavalli intanto che, di corsa, s'erano allontanati forse quattro miglia dalla città, inoltrandosi adesso per un terreno paludoso, e sprofondandosi coi garretti nell'umida mota, cominciarono di necessità ad andare di passo. Cessato così lo scalpito dei cavalli, i due giovani si tacquero per non farsi udire dall'uomo che li guidava. Scoccarono in quel punto stesso, quasi due miglia lontano all'orologio dell'abbazia di Chiaravalle, le otto ore, il cui rimbombo, per quel vasto silenzio della notte, percorrendo in decrescenza le regioni dell'aria, giungeva all'orecchio dei fuggitivi indefinito o solenne, talchè alle loro fantasie parea di sentirvi come una promessa che venisse dall'alto.

Usciti a stento da quel palude ingrato, entrarono in una via affondata tra due alte rive sparse di macchie d'ogni generazione; ma s'accorsero qui, che la noja durata alcuni momenti prima era stata ben leggiera in confronto della noia a cui correvano incontro. E un'afa insopportabile cominciò tra quelle macchie a tormentarli, come se l'atmosfera d'improvviso si fosse condensata gravitando sulle loro teste, e la stagione fosse retrocessa ai dì della canicola.

Sentendo allora tra i rami e le frondi dei querciuoli e delle marruche un vasto e impetuoso stormire, i due giovani, ad ispirare, per confortarsi, qualche soffio di brezza passeggiera, misero la testa fuori dello sportello, ma, nauseati dal grave odore che lor ventava in volto, ne la ritrassero tosto nascondendola tra i panni.

—Ci accostiamo alla campagna tra S. Donato e Malignano, dove s'è data la battaglia, disse allora il Palavicino alla Ginevra che, quasi atterrita, gli aveva chiesta la causa di quella nuova noia. Non c'è altra via che metta al mio castello d'Acquanera; ma il cammino non durera più d'un'ora, e presto ne sarem fuori, coraggio.

In quella lasciatisi addietro le macchie, si trovarono in uno slargo di campagna; anche qui il terreno era tutto un mollume, e i cavalli di necessità dovettero ancora rallentare la corsa. Ma grado grado che la carrozza procedeva innanzi per quella vasta pianura, sempre più cresceva quel non so che di pesante caldura, quel fetore, quella nausea insopportabile.

E un'altra cosa insolita, e che più forse metteva nei loro animi una sensazione che somigliava alla paura, era il silenzio universale, nel quale a un tratto venivano ravvolti ogni qualvolta sostasse l'unghia dei cavalli; un silenzio profondo, assoluto, tetro e ben diverso dai soliti silenzi notturni. Passando, tre dì prima, a notte chiusa per quel campo, s'udivano que' suoni indistinti, que' mugolii lontani, que' gemiti vaghi che fondendosi in una cosa sola, ci avvisano che la natura è tranquilla, ma non è morta. I zufoli dei rigogoli sui più alti rami degli orni, le dolci musiche dei rosignuoli dalle siepi, dai platani, i tremoli squilli delle palombelle fra i rami delle guercie, i cicalecci monotoni dei grilli dagli ippocastani, il picchiare minuto e incessante dei rostri ne' rami delle piante, le peste improvvise e rapide de' lepratti, dinotavano al viandante ch'egli non era già solo in quel vasto campo, e ch'era circondato da migliaia e migliaia d'esseri viventi.

Ma in quella notte, in quell'atmosfera fattizia, regnava un silenzio di tal sorta, che quasi, pareva d'essere fuori della terra, e la cagione non era difficile trovarsi. Chi avesse voluto rovistar per le siepi, tra l'erbe arsicce e peste della campagna, sui rami secchi, tra le frondi ingiallite, avrebbe trovato a miriadi i cadaveri piccioletti d'infinite generazioni d'uccelli; i superstiti a torme di migliaia, s'eran rifuggiti, a sette, a dieci, a più miglia di distanza. I nidi anch'essi dei grilli erano abbandonati, che i buffi d'un'aria pesante e pregna delle putridi esalazioni che venivano dal campo, successi d'improvviso all'umida frescura della notte, e all'aure soavi di mille fragranze, lì avevan fatti emigrar di conserva.

Trascorso però un bel tratto di cammino, d'improvviso, in mezzo a quella solitudine s'udì un rumoroso sbatter d' ali. Era una torma di gufi e d'upupe che, svolando rasenti la carrozza, ferivan l'aria con un rombazzo fischiante, mentre su in alto un nugolo più fitto d'un'altra generazione di volucri la fendevan in quella medesima linea tenuta dalla torma più bassa; e subito un gracchiare aspro, tumultuoso, avvisava ch'eran corvi calanti alla pianura, e parevan quasi volessero rispondere ai singulti intermittenti dell'altro stuolo che viaggiava più basso. E stringeva l'anima di una cupa e ferale tristezza il sapere quale istinto, spingeva quei voli, che tra le fradice carni dei cadaveri avevan pure a fermare le penne. E in quella un buffo di vento, pregno d'un odore fetentissimo, ammorbante e come di sangue, soffiò quasi ad annunziare, che quelle legioni della morte andavano a sicuro viaggio, a certa preda.

La carrozza s'accostava intanto sempre più verso Marignano, e i fuggitivi tutti ristretti in sè, nascosto il viso tra i lini e il drappo delle vesti, via rapidi dai loro pensieri, non pronunciavano una parola…. D'improvviso la carrozza s'arresta, dà indietro; il nitrito de' due cavalli, tremulo spaventato, acuto come il suono d'una chiarina, si diffonde per la silenziosa solitudine. I due giovani s'affacciano allo sportello e guardano. Impennandosi, rinculavano i cavalli, e ricadendo sulle zampe le puntavano nel terreno, ritte le orecchie, aperte le narici, sbuffanti. Alcuni cadaveri giacenti nelle loro armature, come in un cofano da inumarsi, ingombrando la via per dove occorreva passare, li avevan fatti adombrare al punto, che non c'era verso di cacciarli innanzi; pure il flagello del cocchiere potè più dell'ombria e, a un tratto, presero la rincorsa, trascinando la carrozza saltelloni sulle armature che, suonando, si spezzavano a brandelli. Trasportati così velocemente, i due giovani presto si trovarono colà dove la campagna prendeva la massima estensione, e qui una nuova scena tanto più orrenda, quanto più vasta apparve loro dinanzi.

Soltanto il cielo era sereno, e sgombro come nei dì prima dell'orrida battaglia; le stelle luccicavano nell'infinito firmamento, il raggio lunare era ancor mite e vestito ancora di quell'azzurro perlato che di solito sparge tanta malinconica soavità ovunque va a posarsi; tutto insomma era ancor bello e calmo negli spazi dell'aria. Calma, bellezza, splendore, che troppo contrastava a tutto quanto era sparso su quelle insanguinate arene del campo.

E qui il silenzio non era più così perfetto, così continuato come a tre, a quattro miglia di distanza. Di tanto in tanto s'udivano improvvisi rumori, forti e secchi scoppi, come d'aria che squarci violentemente un ostacolo per trovare un'uscita. Si sarebber dette canne di schioppetti e di colubrine che si rompessero per un'esplosione di polvere; ma era tutt'altra la causa di quei rumori… la qual subito fu chiara, quando i cavalli di nuovo aombrarono impennandosi e nitrendo spaventati.

Per un gran tratto di terreno all'intorno, si vedevan giacenti, distesi per terra, in molte e diverse positure, in lunghissime file, ammonticchiati alla rinfusa di tre, di sei, di più ancora, corpi di quadrupedi. Nè a tutta prima non si poteva dar loro che quest'appellazione, che, anche senza l'oscurità della notte, non si poteva conoscere che eran cavalli, se non forse per gli arredi, pei freni, per le selle, tanto il loro corpo era cresciuto, era ingrossato a dismisura al punto da farli scambiare per altrettanti elefanti o rinoceronti. Ed era la fermentazione maturatasi nel loro interno che li faceva gonfiare, e gonfiar grado grado, sinchè la cute, tesa, assottigliata, screpolata, sanguigna, stirandosi fluiva a fendersi in due, in più parti, dando quei violentissimi e rumorosi crepiti che ogni tanto si facevano udire, anche a molta distanza, pel vasto silenzio, e i corpi, aprendosi così, davan uscita alle viscere che più non vi potevan capire, riversandosi, per molto spazio in giro, in spargimento di sapie nerissima, a corrompere il terreno, a impregnar l'aria di esalazioni letali. Inorriditi e nauseati, uscivano finalmente di mezzo a quelle file, ma tosto i cavalli tornavano ad arrestarsi, al lampo tremulo che partiva da un largo cerchio d'armati e d'armi, e da una luce bianchiccia riflessa da un'acqua; lancie, picche, spadoni, borgognate lucenti gettate alla rinfusa sul terreno, rifrangevano i raggi lunari; soldati a centinaia giacevano intorno intorno a quell'ampia gora d'acqua, colle teste, alcune sull'orlo, altre riverse, altre pendule, altre immerse al tutto nell'onda fimosa, colle braccia distese col ventre a terra. Feriti, presi da dolori atrocissimi, prossimi a morire, s'eran sentiti un'arsura, un incendio nelle viscere, una sete rabbiosa, spasmodica. Lenti, rifiniti, zoppicanti, a strascico, barcolloni, erano per lungo tratto iti in cerca d'una fonte d'acqua viva; trovatala, vi s'eran gettati sull'orlo, avidissimi avevan immersi labbri nella gora, e pendenti su quella, non anco saziati, avevan mandato l'ultimo respiro… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

I due giovani, per quanto procurassero affrettarsi su questa lugubre scena, dovettero per altro impiegare assai tempo ancora prima d'uscire di quella campagna. Durante il quale, i loro animi subirono quegli effetti e quelle scosse che mai non si cancellano dalla memoria.

Come i tremoli chiarori Dell'azzurro interminato, Cadean scarsi, cadean lugubri Sul terreno insanguinato, Ed al guardo il fean più truce Rivestendolo di luce.

Ahi! così dei due fuggenti Dentro all'alme perturbate, Fiochi i gaudi si mescevano Alle larve inesorate, E più cupo il duolo usciva Dalla gioia fuggitiva.

. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

Ma di sè stesso immemore, Sulla mortal pianura, Pensò l'afflitto giovane, Pianse l'altrui sventura, E il fato che terribile Sulla sua terra sta;

E allor sull'individuo Amor, nell'ansio petto, Sentì improvviso sorgere Quel generoso affetto Che tutti i figli abbraccia D'un'infelice età.

Eppur pel terren lubrico, Ovunque giri il guardo, Non v'è fratel cui lagrimi, Sangue non v'è lombardo, Tutti da lunge vennero: Il vinto—il vincitor.

Ma se il concittadino Sangue non fu versato? Se fu l'intatto popolo Alla città serbato? Non è destin che temperi In lui l'acre dolor?

. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

Fosse strage di fratelli,[1] Fosser lutti immemorabili Nel suo senno desiò;

Ma il tripudio degl'imbelli, Che del sole, ancor si nutrono Sovra l'alma gli pesò;

Ah sui tumuli cruenti Fiammeggiar vedrìa l'orgoglio Che domato ancor non fu,

Le speranze… rinascenti Dalle squallide reliquie D'una prodiga virtù.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma tosto, ai rotti anéliti Della gentile oppressa, Al fervoroso murmure Ond'è una prece espressa, La nova e forte angoscia In cor sentì svenir,

E divinando il mobile Tenor del pio pensiere, Anch'ei gli affanni solvere Tentò nelle preghiere, E della cara vergine Ai voti i voti unir.

Allor stretti si volsero Al cielo in un desìo, Pregâr le sorti dubbie A lor svolgesse Iddio, Scovrirne almen pregarono L'arcana volontà…

. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

Ma Lei lodate, improvidi, Che in suo rigor pietosa D'oggi vi chiude i termini, Che la ragion nascosa Dei dì venturi a giungere A voi l'ala non dà;

Morir, se intero il tramite Del dì vi fosse innante, Vorreste, inerti al gaudio Del fuggitivo istante, S'anco ne fia più libero E più securo il vol;

E s'anche oltre l'orribile E diuturno lutto, D'inestimabil premio Vi fia promesso il frutto, Dei luminosi giorni Rifiutereste il sol…

. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

Ed or che ai preghi tenera Gettò la eterna Mente Sulle severe pagine Lo sguardo onniveggente, De' vostri mali il cumolo Sì grave a Lei sembrò,

Che già volea distruggere I preparati eventi, Temprare a voi l'esiglio, Trarvi sulle fiorenti Vie, per mezzo a gioie Che mai non destinò;

Ma le speranze, o miseri, Non liberate ancora; Fu indarno.—Iddio ne' mistici Silenzi di quest'ora, I detti indeprecabili, Guatando a voi, mandò:

Ite—la prova è orribile Cui vi porranno i Fati, Ma io guardo a lor, ma numero I giorni guerreggiati— Ma più di tutti piangere Perchè dovete, io so…

[1] Con queste strofe, alludendo al fatto storico che la battaglia di Marignano fu combattuta dai Francesi pel loro re e per sè medesimi, e dagli Svizzeri ed altri mercenari pel duca Sforza e pei Milanesi, l'autore vorrebbe dire, che se in luogo d'aiutarsi col braccio altrui, i Milanesi medesimi avesser combattuto per sè e pel loro duca, dato anche il caso che avesser toccata una sanguinosa sconfitta avrebber trovate buone speranze nella superstite loro dignità e nel loro valore.

PERIODO SECONDO

CAPITOLO XV.

Siamo nel 1517, quasi due anni sono trascorsi, la congerie degli elementi si è accresciuta; ed ora da Milano, sulle traccie di taluni de' nostri personaggi, ci conviene passare a Roma.

A dieci miglia da questa città, chi non si dilunga dalla Via Appia, vede sorgere sull'alto bordo d'un cratere il Castel Gandolfo, così chiamato dalla famiglia Gandolfi, che forse lo edificò nel secolo XI. Passato da quella casa illustre, sul principio del secolo XIII, ai Savelli, e da questi, nel XIV secolo, ai Capizucchi, fu nel 1436 da Eugenio IV fatto saccheggiare e distruggere, e ritornò poscia in proprietà de' Savelli, che lo tennero fino al 1596, nel quale anno passò alla Camera.

In un bel giorno d'aprile dei 1517, era un affaccendarsi insolito in quel castello. Camerlinghi, famigli, servi eran sollecitali da un burbero maggiordomo dell'illustre casa Savelli, perchè colla maggior magnificenza possibile alcuni addobbassero certe ampie sale, situate nel piano più alto del castello che guardavano il lago d'Albano e tutta la campagna di Roma; altri allestissero una mensa per duecento persone nella più vasta sala, situata a terreno; altri ornassero di festoni, di frondi, di fiori gli atrj, i cortili, i veroni, le finestre. L'illustre casa Savelli aveva solennemente invitato papa Leone ad una caccia ne' dintorni di Albano, e il papa, dilettandosi assai di que' campestri diporti, aveva tenuto l'invito, e con tutta la sua corte, i suoi poeti, i suoi dotti, i suoi musici, i suoi buffoni vi s'era trasferito quel dì stesso.

Era all'alba di un tal giorno che s'udiva incessantemente il lontano squillo del corno, e per le ore ventidue attendevasi che tutti si riducessero in castello, però mancando pochissimo a scattar quell'ora all'orologio del torrazzo, il maggiordomo si affannava perchè ogni cosa fosse compiutamente in ordine pel momento stabilito. Un servo che stava affacciato ad uno de' finestroni del castello diede finalmente l'avviso, che la numerosa cavalcata ritornava. E tosto un correre per le sale, per gli atrj, un discendere e salire, uno sbattere di usciali, di vetriere, un insolito sommovimento.

Quando Leone colla sua Corte saliva per lo scalone principale del castello, per un'altra scala entravano, sotto un atrio del primo piano, due uomini che noi conosciamo, accompagnati da un servo. Erano il Morone e l'Elia Corvino. Pervenuti innanzi ad un magnifico vestibolo, dove il servo si fermò indicando che quello era il luogo che volevano:

—Tu entrerai qui dentro, disse allora il Morone al Corvino; ho già parlato al Bembo e al Savelli, che ciò mi consigliarono. Colui al quale tu hai a parlare è già istrutto del fatto tuo e dei tuoi disegni, e purchè tu sappia mettere in movimento i congegni della tua logica, egli farà il voler nostro, che alla fine è anche il suo. Entra dunque, e se mai dovessi aspettare qualche tempo, sulla vôlta di questa sala v'hanno bellissime figure a fresco che ti faranno forse comportare la noja. Quando sarà il momento, verrà qualche servo a chiamarti…. Io so che farai molto bene il fatto tuo, e non ti dico altro.

Così dicendo, il Morone si licenziò, ripercorse l'atrio, e ridiscese col servo, intanto che l'Elia Corvino aperto l'usciale entrò nella camera indicatagli.

Entrato che fu, un altro servo gli si fece incontro dicendo:

—So chi siete, abbiate la bontà di aspettare, che a suo tempo verrò a domandarvi. Ciò detto, lasciò solo il Corvino.

Questi, anzi che considerare le molte figure a fresco che decoravano la vôlta di quella sala, cominciò invece a pensare a sè stesso, e a quella specie di metamorfosi che in sì poco tempo egli avea subito. Due anni prima, a Milano, le persone di maggior conto, colle quali per lo più ei trovavasi in contatto, erano gli scabini del Collegio dei Dottori, alle quali dava qualche grossa mancia perchè non ne avessero a cacciarlo, siccome intruso; e le classi dov'egli trovava i suoi migliori clienti, eran quelle dei vendarrostri e de' bruciataj. Ora aveva indosso una magnifica cappa di velluto nero, la quale alterava tutto il suo aspetto; quella tinta di mariuoleria plateale, che da molto tempo gli si era svolta in faccia, appariva coperta a più mani da una tinta di acume presidenziale: il ludro insomma era scomparso per dar luogo a Talleyrand. Intanto trovavasi in una delle più sontuose camere d'uno dei più facoltosi romani, e, ciò che può far stupire chicchessia, per parlare all'uomo che col proprio nome doveva distinguere il suo secolo. La sfera delle sue speculazioni s'era cangiata. Non trattavasi più del povero borghese che metteva nelle sue mani la scarsa polizza perchè lo patrocinasse contro al creditore insolvente; era uno Stato, una città, un popolo al quale in quel momento egli doveva pensare, e di cui tra poco avevasi a far discorso. La cosa è così, nè più, nè meno. Del resto, ella è tale, che il Corvino medesimo se ne maravigliava.

E considerando la strana situazione in cui la fortuna lo aveva messo, d'uno in altro pensiero, per quanto il suo grave buon senso lo volesse trattenere dall'abbandonarsi ad eccessivi voli, pure fece delle speranze che, s'altro non fosse, avevano il merito di un'insolita audacia…. In questa s'era fermato innanzi al finestrone ad osservare la vasta scena della campagna e del lago che gli si distendeva dinanzi, men vasta certamente del campo dove le sue speranze correvano a furia, ma tale però da fermare l'attenzione di chicchessia…. Era da qualche tempo ch'egli se ne stava immobile a contemplare quella splendida natura, e gli effetti, per lui nuovissimi e interessantissimi, di un tramonto di sole nell'Agro romano, quando, sembrandogli d'avere udito il rumore di una porta che si fosse aperta, si volse.

Nella camera non v'era nessuno ancora, ma s'udiva il bisbiglio di alcune voci nella vicina, dalla quale un momento dopo, spalancatosi l'uscio da due servitori, un uomo passò in quella ove stava l'Elia Corvino, e i servi si ritirarono.

Il nuovo personaggio non dava indizio di essere nè un camarlingo, nè un maggiordomo, nè un segretario, ma non dava neppure nessun dato per formare una congettura. Aveva in testa un camauro che in vero poteva somigliar, per la forma, a quello di un papa, ma la stoffa e il colore n'erano affatto diversi. Intorno al collo aveva un fazzoletto bianco avvolto senza cura, indossava una breve cappa di sajo, e, ciò che più dava nell'occhio, eran due stivali grossi di bulgaro che gli passavano il ginocchio. Poteva parere nel suo complesso una foggia da cacciatore…. ma qualche cosa vi mancava per osser completa. Nè guardando al viso e alla corporatura del personaggio non vedevasi cosa che menomamente potesse acconciarsi ai costumi di un cacciatore. Esso cominciò a fissare l'Elia Corvino con quello stringere degli angoli delle occhiaie, proprio a tutti coloro che sono affetti da miopia; gli occhi che ogni tanto quasi scomparivano per quel lezio, erano eccessivamente piccoli in proporzione della faccia larga, grassa e paffuta. Tutto il corpo era notabilmente adiposo, e le mani grasse e pienotte anch'esse. Con tutto ciò, guardando a quel volto e a quella persona, c'era qualche cosa che, senza potersi nettamente definire, ingenerava un involontario senso di rispetto, anzi di soggezione, senso contro il quale, quantunque per brevissimi istanti, non potè star forte neppure il Corvino.

Dopo un breve silenzio, e quando appunto il Corvino stava per romperlo, il nuovo personaggio lo prevenne, e uscì in queste parole:

—Il Savelli e il Morone hanno parlato di voi a Sua Santità, ed è già da qualche giorno che il vostro nome sta sul suo libro dei ricordi. Egli sa che avete un progetto d'importanza da manifestargli e, a suo tempo, vi udrà egli stesso. In questo momento però vogliate manifestarlo a me, che sarà per essere la medesima cosa. Parlate dunque con libertà e non omettete parola. So già, intanto, che il vostro disegno ha per fine il miglior vantaggio della nostra cara patria; io starò dunque ad ascoltarvi con molto interesse.

Al Corvino crebbe la voglia di sapere chi fosse il personaggio al quale trovavasi in faccia, e intanto che lo stava esaminando parte a parte, e lo fisava in volto coll'immota attenzione dell'indagine;

—Io credo, rispose, con modi così franchi e dignitosi da parer uomo già da tempo avvezzo a vestir l'abito del diplomatico, io credo che l'Eccellente Morone avrà detto anche a vostra signoria in che press'a poco consisti il progetto mio?

—Me ne disse qualche cosa infatti; ma adesso desidero mi diciate voi tutto da capo.

—S'egli è così, porrò dunque da canto i preludj inutili.

—È quel che voglio.

—Comincierò quindi con dirvi, ch'io fui per qualche tempo in Perugia, e che vengo ora appunto da quella città.

—Va bene, e vi comprendo. Voi dunque avete veduto il Baglione?

—Non tanto lui, quanto le opere sue.

—E vi parvero?

—S'egli è vero che un tal uomo deve, finchè vive, pesare continuamente sul povero suo popolo, senza che nessuno provveda a purgare i tempi di una così atroce miseria, penso che la giustizia non c'è più nè in cielo nè in terra.

—Il cielo vorrà farla a suo tempo… in quanto alla terra, potreste aver ragione, ma…. continuate.

—Intanto che io moveva per quella città, e ad ogni canto vedeva i segni della più mostruosa oppressione, io pensava tra me come sarebbe utile, come anzi sarebbe santo il sottrarre una così bella città, ed anche un così buon popolo, dalla ferocia di questo vecchio tigre…. quand'anche fosse d'uopo dell'aperta violenza…. quand'anche fosse d'uopo passar sopra, chiudendo un occhio, su qualche patto internazionale…. Allora ho pensato al diritto delle genti….

—Al diritto delle genti? uscì allora a dire l'alto personaggio con significazione. È un banco d'arene molto incomodo il diritto delle genti, e molte volte rattenne la corsa veloce di più d'una barca…. Non parliamo del diritto delle genti….

—Ho dunque pensato che uno spirito forte, a suo luogo e tempo, dovrebbe anche saltarlo a piè pari. Il Baglione per non so qual patto è padrone di Perugia, questo è verissimo; pure non trovando in ragione una legge che stabilisca l'immobilità di un diritto avventizio a distruzione di un altro che vanti la sua origine dall'imparziale natura, penso che se fra i molti che hanno stato in Italia, e hanno virtù più valide di quanto sta scritto in una polverosa pergamena, vi fosse chi pensasse a togliere dal mondo una scandalosa ingiustizia che si cela sotto le larve del diritto; penso, dico, che colui si meriterebbe la benedizione di tutte le genti. Penserei poi che di tutti gli Stati, il solo cui spetterebbe un tal carico, sarebbe questo nel quale io sto….

—Voi parlate benissimo, e alle vostre ragioni difficilmente si potrebbero contrapporne altre migliori; pure non basta, non basterebbe nemmeno se anche il patto tra la Santa Sede e il signore di Perugia non esistesse.

—Io non comprendo.

—È presto detto ed è presto compreso. Questo sarebbe il caso di una guerra, e una guerra in questo momento è impossibile. Colui è ben forte in casa sua e, alzando la voce, ridesterebbe, fino a Napoli, gli echi di tutte le montagne degli Abruzzi, a provocare i latrati di quel centinajo di migliaja che ci ammorban l'aria di questo bel paese, peggio che quelle maladette Paludi Pontine. Una guerra…. in un'altra occasione, sarebbe presto fatta…. ma adesso abbiamo troppa carne a bollire, e per parecchi anni…. Abbiam Francia e Spagna, caro mio, che ci fa pensare e ci tien desti a mezzanotte…. Dunque, se i vostri scopi stanno qui…. mi rincresce a dirvelo…. ma per adesso converrà che il vostro bell'ingegno se ne stia inoperoso.

—Io non ho mai inteso di parlar di guerra; mi è troppo cara la pace. Vi dirò dunque che di tutto si potrebbe venire a capo senza rompere un sol momento il sonno de' popoli, basta che taluno sappia convenientemente spostare una sola pedina, e mettere sotto un piede, finchè dura l'urgenza quel benedetto diritto delle genti.

Il personaggio incognito si mise a sedere, e interruppe il Corvino, mostrando di avere a dir qualche cosa; si tacque però sul momento, e:

—Continuate, continuate pure con libertà, disse.

—Si parlò a lungo per l'Italia, e fu un plauso generale quando corse la voce che il carbonajo di Ripetta, coll'astuzia più che colla forza, seppe condurre in Roma il Grudio masnadiere, che fu poi decapitato, e da nessuno si pensò mai ch'ella fosse una violenza.

—Questo è vero.

—Dunque, tornando al Baglione, s'egli non è più scellerato del Grudio, non è migliore di certo, e se poi misuriamo la colpa in ragione del danno, crederei che tutti i misfatti di quanti briganti ha generato la Calabria non arriverebbero, sommati insieme, ad eguagliare i neri delitti di Giampaolo. Considerate perciò, che bel decreto della provvidenza sarebbe, se qualcheduno avesse l'astuzia del carbonajo di Ripetta, e la voglia di metterla in atto per lui.

—E vi sarebbe un tal uomo?

—Penso che vi sarebbe.

—E poi?

—Mi spiegherò in due parole: l'uomo va a Perugia, le vertenze tra la Santa Sede e il Baglione, siccome son molte, e intralciate e vecchie, così potrebbe sembrar ragionevole il desiderio di venire a un accomodamento. L'uomo dunque va a Perugia in qualità di commissario della Santa Sede…. V'hanno lacci per lepri, per volpi ed anche per tigri… d'uno di questi ultimi converrà far uso, e tosto si troverebbe il modo di condurre così il Baglione in Roma…. qui…. non ci sarà da pensarci due volte…. Il Castel Sant'Angelo ha veduto una popolazione di teste rotolare sul lastrico del secondo cortile, un'altra dunque non gli sarebbe di troppo; ecco tutto.

Il personaggio incognito, a queste parole, si alzò, e dopo aver dato di volta nella camera, lentamente e col capo basso, si fermò poi e piantossi in faccia all'Elia:

—E sareste voi quell'uomo?

—Io presterei l'opera mia.

L'altro tornò a passeggiar di nuovo, e di nuovo si fermò:

—Voi mi consigliate una giustizia, ed è una giustizia di fatto, ne sono convinto…. e se vi si concedesse un tal mandato, di nessun'altra cosa la mia coscienza sarebbe tranquilla, come di questa…. pure pel mondo potrebb'esser causa d'uno scandalo inaudito….

E qui s'interruppe, per soggiugnere poi subito:

—Basta, ci penseremo. È tal cosa alla quale converrà pensarci tre volte, non che una, e a lunghi intervalli l'una dall'altra, e interpelleremo chi si dovrà interpellare…. Non temo gli audaci partiti, disse poi, temo il mondo e i suoi giudizii…. Il mondo ha una foggia sua di valutare le cose, e persuaderlo è arduo, credetelo a me.

—Ci sarebbe poi da farvi un'altra giustizia, una giustizia privata, pure non meno santa della pubblica.

—Di che si tratterebbe?

—Sapete come tra il Baglione e il Bentivoglio, già signore di Bologna, abbian stretta una lega, primo pegno della quale fu il sacrifizio di quella sventurata figliuola del Bentivoglio, che da due anni è sposa del Baglione. Ella è la sesta moglie di questo infame uomo; le altre tutte morirono di violenza, come portò la fama. Che ragione di vita possa esser quella di costei accanto a così osceno e truce vecchio ognuno può immaginarselo. Intanto io so, ch'ella va consumandosi oncia oncia di crepacuore. È facile dunque a pensare quanto sarebbe meritoria l'opera di chi, facendole morire il marito, tenesse lei in vita e la difendesse contro una nuova violenza del padre!…

—Del caso di costei me ne fu già parlato, e mi dolse già che non si potesse far nulla per lei… pure codesta circostanza, per quanto minuta, potrebbe esser quella da rendere sufficiente la somma delle cause a farmi risolvere ad un passo; faremo dunque in modo che non mi abbia a doler più per lo innanzi…. Per ora basta così…. quando sarà tempo, avrete l'ordine di presentarvi alla Corte…. Adesso vi do licenza.

Ciò detto, senz'altre cerimonie, si ritrasse e scomparve dietro l'usciale, che subito si richiuse.

Il Corvino stato un poco sopra di sè pensando, chi mai esser potesse quel personaggio, fu interrotto ne' suoi pensieri dal servitore di camera che lo condusse fuori. A questo, nell'uscire, fu sollecito di dimandare chi era l'uomo col quale aveva parlato, ma non ne seppe altro, che il servitore disse che non gli poteva dir nulla, e lo avrebbe saputo poi.

Ora è molto probabile che anche il lettore, attraversata velocemente con noi la curva di questi due anni, desideri saper quel che sia avvenuto in codesto tempo, e da quali cagioni sieno scaturiti gli effetti di cui ha già intraveduto qualche cosa in barlume. È un fatto intanto, pur troppo incontrastabile, che la Ginevra Bentivoglio se ne sta a Perugia consorte di quel Baglione, sulla cui testa abbiamo potuto accorgerci che stia per crollare qualche ciglione di montagna. È un altro fatto che il Morone, entrato in sospetto di Francesco I e de' suoi Francesi, invece di accettare la carica di governatore statagli esibita, abbia stimato opportuno a sè ed al suo paese di emigrare e recarsi in Romagna; sappiamo…. molte altre cose sappiamo…. ma perciò appunto converrà aggiungere maggior luce al pallido barlume di queste notizie.

E qui correrebbe l'obbligo a noi di raccontare alla spiccia quanto è avvenuto, se alcune lettere del Palavicino medesimo, scritte sparsamente in que' due anni allo Sforza e al conte Galeazzo Mandello, non ci liberassero da questo officio.

Noi le riprodurremo qui, persuasi che il lettore, il quale di solito è assai mal prevenuto contro ai raccontatori, darà più fede al Palavicino, che scrive come gli vien dettando la condizione dell'animo suo, delle sue cose, di quelle del suo tempo, che a noi che viviamo tanto lontani da que' fatti.

LETTERA AL CONTE GALEAZZO MANDELLO.

Roma, 7 novembre 1515.

"Tu mi scrivi, che dopo tanto tempo i nostri Milanesi non si sono ancora stancati di vibrare su di me il micidiale veleno della calunnia, su di me che, per verità, mi pare d'avere tutti i diritti alla commiserazione dei miei concittadini. Tu stesso, sebbene mi ti professi sincero amico, e me lo dimostri col fatto, sembra tuttavia non sia in tutto persuaso della rettitudine dell'operar mio in quella sciagurata circostanza della battaglia, della fuga, della doppia fuga.

"Tu mi scrivi che gli accusatori si dividono in due schiere; la prima, di chi m'incolpa d'aver rapita a viva forza la sventurata figlia del Bentivoglio, e perciò non cessa di vituperarmi per aver tentato di gettar troppo disonore su quella virtuosissima creatura, nella quale accusa trovo il conforto almeno che tutti sappiano e gridino altamente la virtù intemerata di lei; la seconda, di coloro a' quali sembra assai giusto ch'io abbia tentato di rapire la Ginevra, per liberarla così dalle mani di quel tristo Giampaolo, ma che non si stancano di gridare contro di me, perchè l'abbia poi molto vilmente restituita, e lasciatomi intimorire dalle minacce; e pare che all'opinione di costoro tu, in qualche modo ti accosti; però trovo necessario raccontarti la cosa, com'io devo pure saperla, e comincierò dal dirti, che tanto l'un'accusa, che l'altra si riduce a non essere che una pretta falsità…. Io non l'ho rapita; io non l'ho restituita vilmente. L'Elia Corvino, che tu devi conoscere, e che prese ad amarmi perchè feci un po' di bene al fratel suo, fu quegli che condusse le cose in modo perch'io quella notte mi trovassi colla Ginevra senza saputa sua, e quasi, starei per dire, senza l'assoluta mia volontà. Tutta la mia colpa si riduce nel non aver consigliato alla Ginevra di ritornare fra le laide braccia del suo tristo marito, quando una combinazione che, a tutta prima, mi parve fosse protetta dai destini, me la mise d'accanto. E di questo non ti dirò altro, giacchè tu pure avresti fatto il medesimo, e trovi ragionevolissimo che un gentiluomo che ha dato la sua fede ad una fanciulla, che pure gli si è promessa, debba difenderla dall'attentato dei tristi, chè tali erano suo padre e suo marito, al quale per forza e inumanamente il primo la volle sagrificata. Quanto alla seconda accusa, trovo che un complesso di combinazioni fatali le hanno dato un certo fondamento; ma siccome a tutti, e a te, dev'essere ignota la parte secreta, e più efficace, e più orribile di quella storia, credo bene di rammentartela qui a brevissime parole.

"L'angoscia che in que' giorni del suo malaugurato matrimonio ebbe ad accasciare la complessione della Ginevra; lo sbattimento continuo dell'animo agitato da mille passioni, e tutte procellose, come puoi ben credere, lo sgomento che l'assalì in quella sera in cui ella ebbe a trovarsi nella medesima lettiga con me, la sua virtù che la teneva in un atrocissimo contrasto tra l'amore e il dovere, lavorarono di tanta forza sul già stanco suo corpo, che pervenuti al mio castello d'Aquanera in Lodigiana, guardatala in volto, ebbi a spaventarmi del quanto ella si fosse trasfigurata. Una violentissima febbre con brividi gelati l'era entrata addosso pochi momenti prima. Messa a letto, e confortata con panni caldi da quelle mie villeggiane, che le si misero attorno con molto amore, non diede alcun segno di miglioramento, che anzi le sconvolse il cervello un così violento delirio, che faceva pietà e ribrezzo a un punto. Io credeva tuttavia che in poche ore un sì repentino malore fosse per dar luogo; ma la mattina, trovatala peggio ridotta che mai, e tanto prostrata che pareva fosse per passare da un momento all'altro, io diedi in tale disperazione e in tali smanie, che avrei anteposte le pene dell'inferno a quell'insopportabile tormento che non mi lasciava aver requie; pure potei pensare che, smaniando così, non si veniva a capo di nulla, e che bisognava pure l'opera del medico in quel pericoloso momento, onde spedii di volo a Milano una lettera ad Elia stesso perchè mi cercasse l'Accurzio, medico, il più riputato della sua professione in Milano, come tutti sanno, e il più scellerato e ipocrita, come io so meglio di tutti, e come tu saprai fra poco. Verso la sera di quel dì stesso, impazientissimo d'indugio, perchè da questo poteva dipender la morte del maggior bene che avessi al mondo, vidi finalmente comparire una cavalcatura; ed era l'Accurzio infatto coll'uomo che aveva mandato a Milano e l'Elia Corvino. Questo, avendo letto nel foglio che gli aveva spedito, come fosse a mal termine la Ginevra, messosi in certa apprensione, per quel pericolo in sè stesso e pei maggiori che ne potevano scaturire, volle egli medesimo dirigere ogni mossa e, tenuto segreta ogni cosa all'Accurzio, quando me lo presentò, trattomi in disparte, mi disse com'io dovessi comportarmi seco lui, e che essendo uomo avarissimo e di poco cuore, badassi a caricarlo bene di fiorini e di scudi.

"L'Accurzio non sospettava di nessuna cosa e mi domandò chi mai fosse in pericolo della vita perchè fosse necessario l'intervento suo. Senza rispondere a quelle prime parole, cominciai a tocargli il guanto con un rotolo di scudi, poi, a poco a poco, gli palesai come fosse la cosa e di chi si trattasse, e come fosse mestieri di tenere il segreto. Dapprima mostrò di maravigliarsi molto, e mi parve a cert'atti, volesse quasi levarsi di tale intrigo; ma com'io durai un pezzo, quasi colle lagrime agli occhi, a scongiurarlo perchè non ci abbandonasse lei e me in quel durissimo punto, risposto che farebbe, mi seguì nella stanza dove giaceva mal condotta la povera Bentivoglio. Davvero, che a quel tristo, io non so in certi momenti negare la mia gratitudine, pensando che fa per le sue cure, s'ella potò ancora ritornare in vita; ben è vero che al prezzo che a lei la fece pagare, ed a me forse più che a lei, poteva bene pensare al modo di farci morire ambidue in una volta, che sarebbe stato per il meglio. Senti questo: venuto il sesto dì, e veduto com'ella si fosse riavuta, tanto che più non le occorresse l'opera sua, l'Accurzio disse, che gli bisognava recarsi a Milano, e che tosto sarebbe tornato il dì dopo. Io gli risposi facesse il suo comodo, e senza più, facendogli giurar mille volte che avrebbe custodito il segreto, e messogli nel pugno un altro rotolo di fiorini d'oro, di cui quel tristo mai non finì di rendermi grazie, allestitagli la cavalcatura, lo feci scortare a Milano.

"Il dì dopo, intorno alle ventidue, quando la Ginevra, riavuta del suo malore, passeggiava negli orti del castello in mezzo alle donne, ed io ero irresoluto fra mille pensieri intorno a quello che mi convenisse fare di poi, m'entra il famiglio in camera e mi dice che il castello è invaso da un cinquanta cavalleggieri del re, e con loro trovarsi un gentiluomo che altamente mi chiedeva. Il pensiero tosto mi corse a quel che era veramente, sudavo freddo; per mala sorte la Ginevra potè udire ogni cosa, e venutami appresso mi scongiurò non tentassi nulla a danno o del padre suo o del marito che si fosse, e risparmiassi me pure, perch'ella era in tutto disposta a ritornare col padre suo, col suo consorte, e che io poteva darle mille morti, non mai obbligarla però a convivere con me. Dette queste parole, disperata, mi si tolse dappresso, ed io seguitandola e trattenendola tuttavia non potei fare ch'ella non s'incontrasse col Bentivoglio. A' piedi suoi ella si gettò appena lo vide, e a mani giunte impetrando quella sventurata il suo perdono, lo pregò volesse condurla con lui che in quel luogo non avrebbe mai voluto rimanere. Il Bentivoglio, vedendo la figlia disposta a quel che egli voleva, non mostrò di fuori nessun'ira e, simulando anzi una certa pietà, come se egli credesse ben altro di quel che era di fatto, disse ch'ella ringraziasse Iddio il quale, avea provveduto a farla liberare dalle mie scellerate mani. Qui non ti saprei dire quel che sia corso tra me e il Bentivoglio, nè la millesima parte delle imprecazioni ch'io diedi alla sua spietata natura, nè le contumelie d'ogni sorta onde feci segno quella sua vituperosa vecchiezza, e certo non gli avrei mai più rilasciata la Ginevra, e mi sarei fatto fare in pezzi da que' suoi cinquanta cavalleggieri, piuttosto che abbandonarla in così vil modo; ma ella, fosse lo spavento dell'autorità paterna, fosse un resto d'amor figliale, fosse ira verso di me, che tante villanie avevo scagliate a suo padre, fosse… chi sa quante cose insieme le travolsero il cervello in quel punto…. il fatto è pure, ed io ne fremo e piango in ridirlo… ch'ella si alzò contro di me, con voce tremante e piagnolosa e iraconda, e protestò ch'ella voleva partirsi col padre, e ch'io mi guardassi dal farle violenza, che guai per me e per tutti. A tali parole mi cadde ogni virtù affatto, a me pareva di sognare, e chi mi avesse giurato che quella era ancora la mia Ginevra, per verità che non l'avrei creduto. Così senza parole, senza addio, senza lagrime, senza nessun segno, istupidito più che altro, io mi tolsi dalla sua presenza e lasciai fare. Quel che avvenne dopo, tutto il mondo lo sa… ed ella intanto è signora di Perugia. Dovevo io ritenerla per forza con me? l'avresti tu fatto? e ti par egli ancora ch'io sia stato un vile per essermi comportato così? S'ella avesse pianto…. s'ella avesse voluto ch'io la salvassi…. puoi bene esser certo che nè suo padre, nè quell'atroce marito suo non l'avrebbe riavuta mai più, e piuttosto l'avrei uccisa… ma così… ella comandò che fosse diversamente, ed io dovetti obbedirla; del resto poi non so…. eppure ella mi amava!!!….

"In quanto all'Accurzio, l'Elia Corvino scoprì poi quel che aveva fatto quel tristo, sperando non so quali emolumenti dalla Francia, e sapendo come il Bentivoglio fosse amicissimo del governatore e de' più distinti baroni, a gratificarselo, gli manifestò i segreti sul quale tanto solennemente aveva giurato il silenzio e gli diede i mezzi a venire sulle traccie della Ginevra… Non so se i miei destini lo faranno comparire quell'infame un'altra volta innanzi a me… Ma se mai ci venisse… puoi esser certo più che di qualunque altra cosa del mondo, che non lo potrà un'altra volta…. Del resto… chi sa! potrebbe ancora avermi fatto male in fin di bene, e, pinzocchero qual'era, è probabile che abbia consultato il senno di qualche nostro arciprete prima di rovinar me e lei in quell'atrocissimo modo… pure, guardando le cose da un diverso punto… parrebbe aver egli operato da assennato e da santo, e noi esser stati travolti dalla vertigine della colpa….

"Adesso dunque che tu sai le cose com'elle sono, e punto per punto, fa in modo, io ti prego di porre un argine a tutto questo flusso di calunnie e dicerie che vengono ad accumularsi sul mio capo, e procura sovratutto che continui a durare intemerata la fama della virtù della Ginevra; addio".

ALLO STESSO.

Roma 18 marzo 1510.

"S'io ti avessi a dire con parole la centesima parte della gratitudine ch'io ho a professare a te e a quel povero Elia, che sostentando con sì difficile e pericolosa fatica la sua vita, trova pure il tempo da provvedere all'altrui vantaggio, davvero che non ci riuscirei, per quanto io mi sforzassi. Fino dal dicembre dell'anno ora trascorso, ho passate più settimane temendo ogni dì sentir pubblicata la confisca di tutti i mei beni, e mi son martellato il cervello per vedere se ci fosse modo di riparare a tanta rovina… pure, accorgendomi che non era mezzo di scansar quella procella, se avesse voluto piombarmi addosso, non ci pensai altro, e mi parve alla fine che il temporale fosse al tutto passato. Però l'ultima tua mi recò grandissimo stupore insieme a molto sdegno e a grandissima consolazione ancora, la quale, per dirti il vero, mi ha vinto al punto, che piansi di riconoscenza per te e per quel povero Elia. Io non so comprendere come a colui, per quanto sia destro ed acuto il suo ingegno, sia riuscito di far risultare al fisco come della maggior parte de' miei beni io abbia fatta la cessione a te per vendita regolare. Vorrei che in un'altra tua mi spiegasse com'egli abbia potuto far questo, che ancora non mi par vero. In quanto ai pozzi di sale ch'io possedevo, ed ai boschi, devo dirti che non m'importa gran fatto siano caduti in bocca del fisco, perchè in questi ultimi anni non mi rendevano più che tanto, onde assai poco ci ho perduto. I trentamila fiorini d'oro che m'hai spediti non potevano giungermi più a tempo, che già le strettezze minacciavano di farmi ancora più miserabile di quello che di solito io sono. Tornando all'Elia, al miglior stato del quale è obbligo mio il provvedere da questo momento in poi, perchè troppo mi dorrebbe se tosto o tardi, dando nella rete, scontasse duramente tutte in una volta, nelle prigioni del Capitano di Giustizia, quelle azioni certamente vituperevoli a cui lo hanno guidato e la sua miserabile condizione e la natura del suo ingegno assai più che del suo cuore, che fuor d'ogni dubbio è nobilissimo, io ti prego a torlo giù da quella qualunque altra trappola che per avventura avesse già caricata, e dargli denari e mezzi perch'egli mi possa raggiungere qui in Roma, dove io spero poter trovargli un impiego molto acconcio alle sue cognizioni ed al suo scaltro ingegno. Mi pare ch'ei potrebbe versare in una sfera molto più nobile di quella che fin'ora il tenne occupato. Assai pochi di questi segretari di cardinali a' quali è affidata la manipolazione della cosa pubblica, la quale quanto sia sterminata e intricata e ardua è troppo facile ad immaginarsi in questi disastrosi tempi, non mi pare, stando a quelli che io son venuto tentando ci sia quell'ingegno che abbisogna. Tutti questi feudatari della Romagna che al santo padre danno un bel pensare da mattina a sera, e che sono tali furfanti da condurre chicchessia a perdizione, avrebbero bisogno di taluno che li traesse nel laccio, giocando di acutezza più che d'altro. Colui che in piccolo teatro e in talune condizioni è furfante, trasportato in altro campo è un grand'uomo. Non è cosa affatto nuova, e tu lo sai meglio di me, perciò mandami l'Elia Corvino, che in ogni modo ne caveremo qualcosa… D'altra parte, se non lavorerà per Roma, lavorerà per Milano, e se adesso non c'è nulla, e ci è forza lo stare imboscati ad attendere l'occasione, egli saprà far qualche cosa di buono…. Il Morone non dà segno di vita e non so quello che sarà per fare…. Si parla qui del posto di governatore, al quale Francesco lo ha eletto…. ne fu parlato anzi da Leone medesimo. È un gran peccato che questo magnifico pontefice abbia troppo amore alla poesia latina ed ai poeti in generale, e alla pittura, e alla musica. Io pure qualche volta deliro per queste arti; ma in tanta farragine di cose più importanti, e in tanto pericolo della patria comune, si pensa troppo a quelle gentilezze della vita.—In questa Roma intanto v'è un flusso e riflusso continuo di popolazione che romoreggia da mattina a sera; tutti i fiumi degli Stati d'Europa mandano qui i loro rigagnoli, tutte le razze del globo spiegano qui le loro fisionomie. Intanto l'oro, con vena sì larga come se venisse dall'Oceano, sgorga dal Vaticano, e tutto il popolo ci sguazza e vi si abbevera. La fragorosa voluttà del momento non lascia pensare a quel che sarà per succedere del patrimonio di San Pietro; e il Medici, che vede pure molto lontano spesse volte, quantunque sia miope, mi par bene che qui sia cieco. Me ne duole perchè forti bisogni mi stringon da tutta parte; me ne duole perchè Leone potrebb'essere davvero un leone. Ma i poeti, i citaredi, i dialettici, i buffoni gli fanno consumare troppa parte del dì. A quest'ora io solo avrò udito più di un centinaio d'improvvisatori. Di poeti, e verseggiatori in tutte le lingue, ve ne sono qui a migliaia; v'è una quantità innumerevole di rettorici, e più di dieci elefanti. Se io ti dicessi l'oro, l'argento, le gemme, le perle che di giorno fan specchio al sole, di notte alle fiamme, t'indurrei a credere sia stato saccheggiato il mar Rosso, sviscerate le miniere: e mentre l'onda dell'oro, come la gran cascata di Tivoli, si versa dal Vaticano, tutti i patrizi di qui fanno a gara a chi più ne rigurgita dalla loro sorgente, di men larga bocca.

Però bisogna confessare che Roma ti sembra veramente la regina del mondo; e, a voler star paghi del momento che passa, è uno spettacolo di cui è facile compiacersi, il veder risorta a pieno l'antica sua grandezza.

Scrivi presto, e fa in modo che l'Elia medesimo mi rechi la tua.

LETTERA A FRANCESCO SFORZA.

Roma, 9 ottobre 1516.

Il conte Maldengo, segretario dell'ambasciatore d'Alemagna, mi portò stamattina la vostra lettera. In quest'anno dunque è il primo di oggi che nell'animo mio amareggiato spesso, attediato sempre, entrò uno schietto conforto. Davvero che quella lettera fu un grave rimprovero per me che in questi due anni non ho mai saputo trovare il modo di prevenire l'E. V. Ma io non sapevo a quanti piedi d'acqua si stesse veramente alla Corte di Massimiliano d'Austria, per quanto il medesimo protegga apertamente la vostra e la causa di noi tutti, e non sapevo con che cifra si avessero a vergar le lettere da spedirsi colà…. e a rompere quest'ingrato silenzio aspettavo appunto un'occasione di schiarirmi di tutto. Che poi quest'occasione mi fosse esibita da voi, che il primo vi degnaste a darmi un attestato del vostro attaccamento, è quanto per verità avrei ben potuto desiderare, non però nè sperare, nè pretendere.

"Ti ringrazio (perdona se ritorno ai modi della dimestichezza antica) ti ringrazio dell'avermi palesata la più interna condizione dell'animo tuo; e d'avermi con sì generose proteste, parlato di te, del tuo paese, de' tuoi concittadini e di me. Mi sento però in obbligo di retificare alcune tue idee intorno al tuo stato presente.

"Mi scrivi che oramai non ti basta più l'animo di continuare in quella vita inerte alla quale sei costretto da un lungo anno, che non puoi sopportare l'idea che l'universale opinione abbia a condannare la ragione del tuo vivere attuale. Che però o in un modo o nell'altro ti sei deliberato di uscire di tanta ignominia, e di tentare la sorte comunque sia per esser destra od avversa. Io ho la tua medesima età e lo stesso calore del tuo sangue, ma sono più vicino ai fatti, e penso che quelle tue proteste se sono generose, sono però indebite. La tua virtù sta ora appunto nel sopportare tutta la noia di una vita inerte, nel far violenza agli impeti dell'animo tuo; nel frenare i fremiti dello sdegno, per quanto ei sia generoso. Il tuo coraggio sta nel porti appunto tutto solo contro alle punte della pubblica opinione; nel maturare dentro al lievito ingrato della passeggera calunnia, le azioni che poi ti alzeranno a perpetua ed inconcussa fama. Tanto è virtù in te il far nulla adesso, e il pensare alla tua conservazione, e al corroborare la tua salute fisica e la tua forza morale, quanta sarebbe in me il tentar tutto se l'occasione il portasse, e il mettere la mia vita a qualunque pericolo che comandasse la necessità. Se io cado, un altro, moltissimi altri, possono occupare il mio posto, e nulla v'ha di perduto ancora; me se avventurassi la tua vita in questo momento, saresti reo di aver messo all'azzardo il bene, del tuo paese e de' tuoi concittadini; se tu muori, tutto è finito; nella tua vita, nella tua esistenza è riposta ogni speranza; a te l'inerzia è dovere, come a me l'azione. Quando i fatti avranno risposto ai desiderj, quando le nostre mani ti avranno ricollocato nella tua città, allora ci scambieremo il carico: a te sarà indispensabile l'operosità continua, a me potrebb'essere perdonata anche l'inerzia. Per ora dunque abbi fede e speranza, e non ti dar cura del resto, e pensa che, nel frenare gl'impeti generosi della bollente tua gioventù, nel rattenere questa tua medesima virtù, c'è una virtù molto più alta e solenne perchè molto più difficile. Frattanto a noi pure ci conviene star qui attendendo; ma ho fede ne' destini che qualcosa ci abbiano a recar presto di nuovo. Il Morone, del quale pare che tu muova alcun dubbio nella tua lettera, e di cui per tutta Italia si bisbigliava, s'è finalmente rivelato quale e quant'è; e fingendo recarsi a Bressy per occuparvi il posto di governatore, a cui Francesco avealo eletto, uscì invece del Milanese e, fra qualche giorno, sarà qui in Roma egli stesso. Dopo un anno e più che il conte Galeazzo Mandello non dava più sentore di vita, gettato come s'era, a corpo perduto nella sua voluttuosa e viziosa indolenza, a un tratto, non richiesto, mi manda sue notizie, e, quel che più fa maravigliare, notizie della sua città, de' suoi concittadini, de' suoi colleghi, de' Francesi e del governatore. In quanto a lui ebbe a lottare due mesi, con pericolo presentissimo di morte, contro ad un malor fisico, che forse il guarì dalla sua torpedine morale. Mi scrive talune cose che, a tutta prima, sembrano involute di pazzia, ma che in sè stesse racchiudono molta verità, e pare siasi, in qualche giorno di molta alacrità mentale, occupato delle cose del suo paese, quasi fosse lui al timone dello Stato. "Al tempo di Lodovico, scrive, il nostro buon popolo sommava a duecentomila, ora siamo centottanta, e così continuando le cose, la nostra città si vuoterà in breve; così si vuotasse del tutto, che penseremmo allora a riempirla. I nostri cari patrizj che per ora non faccio mai degni de' miei saluti, e molto meno delle mie parole, accarezzati da certi cani che usano la volpe, accarezzano di rimando, consumano l'entrate nel correre e ripercorrere la strada da Milano a Parigi, nello sfoggiare alla corte di quel re spadaccino, di cui vorrei bene sperimentare il valore, che certo farei pianger Francia e ridere Italia. Le loro rendite che il nostro villano gli guadagna, si dilettano a scompartirle fra i parisiani. I loro concittadini, che per tanto tempo e così bene li calzarono e li vestirono, ora avrebbero a morir di fame se stesser qui. Ma non ci stanno per lor buona fortuna e per la rovina del loro paese, ed emigrano; e Parigi, continuando ad ingoiar scudi, ingrassa e fa pancia. A tutti questi malanni, ne vien uno di costa, che è il peggiore di tutti, ed è che il Borbone governatore è uomo eccellente, d'ottimo cuore e di gentili maniere; così a' patrizi è dato a rosicchiare qualche osso midolloso, e il loro capogiro continua. Che util cosa sarebbe che la fortuna mandasse tra noi qualche novello Busiride e, se fosse possibile, qualche cosa di peggio! Il cancro è spiegato; senza ferro e senza fuoco non si fa nulla. Non è che per il nostro meglio, che io desidero che un flagello spietato sollevi la nostra cute. I patrizj ritroverebbero allora il loro buon senso che hanno smarrito per via; la sventura è madre di sapienza, ed io la invoco." Questo mi scrive, il conte, insieme a molte altre cose su quest'andare, per cui mi sembra che quest'uomo, il quale non si diletta che di guardare e di non far nulla, sarà per far molto a suo tempo. Intanto il pontefice, che s'era acconciato a far buon viso a Francesco, pare ne sia adesso profondamente pentito. I Bentivoglio s'affannano a muover passioni ed ire, per suscitare qualche vespaio contro il santo padre, e si ha qui per certo che la Francia dà loro buonissime speranze. E se coloro i quali già furono spodestati si fanno lecito di rialzare la cresta, tanto più quelli che si senton forti de' loro possessi e delle loro armi. Se c'è un pensiero che dia molestia a Leone, egli è questo fuor di dubbio; e siccome per talune parole ch'egli medesimo si degnò rivolgermi, in occasione ch'io fui alla Malliana sua villa, mi parve si disponesse a gettarsi in quest'impresa a tutt'uomo e con tutte le forze e tutta l'autorità sua, così spero bene anche per noi… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il resto di quella lettera, toccando cose inutili al fatto nostro, crediamo bene di ommetterlo; piuttosto riporteremo un frammento che abbiamo trovato fra le carte del Palavicino, il quale parla di una corsa da lui fatta al lago Trasimeno, e del suo incontro colla signora di Perugia, vogliam dire colla Ginevra. Non sapremmo se questo sia un frammento di altra lettera, o sien piuttosto pensieri staccati ch'egli buttasse sulla carta, a sfogo della sua passione, più che per altro. Del resto è cosa piuttosto indifferente; e a qualunque uso abbia poi servito quel brano di scrittura, a noi torna assai comodo il poterlo riportar qui… con qualche cambiamento di sintassi e d'ortografia, s'intende, come abbiam praticato coll'altre lettere…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

"È corso un anno e sei giorni, da che ella fu divisa da me per forza… tengo conto dei giorni, tengo conto delle ore, tanto quel fatto mi sta sull'animo continuamente… e un mese fa la rividi…

Chi lo avrebbe sperato… e insieme… chi avrebbe mai creduto ch'io mi sarei rimasto peggio contento che mai dopo averla riveduta?…

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pure è tenace ancora la persuasione in me che il destino espressamente mi additasse colei per un fine ben più alto che la sola corrispondenza d'amore non sarebbe… se mai fosse questa un'illusione, mi giova assai, od io farò di perpetuarla.

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"L'irresistibile bisogno di rivederla anche una volta, facendomi por da canto qualunque pensiero di pericolo, mi spinse un dì sino a Perugia e al Trasimeno, e non so in qual altro assai più lontano e più difficil luogo non mi avrebbe sospinto. Seppi ch'ella usciva qualche volta sul lago, e sempre in compagnia del truce e osceno vecchio. In tale orribile condizione io doveva rivederla, pure io mi condannai da me stesso a quell'insopportabile supplizio. Era una mattina, da quel solitario lago era scomparsa ogni barca di pescatore, chè quando usciva il Baglione col suo seguito scompariva ognuno, tanto era il timore che si aveva d'incontrarsi in lui, tanta era la cura di scansarlo. A tal uomo io doveva dunque veder d'accanto la donna dell'anima mia… contuttociò dal luogo ov'io stava nascosto con un'ansia insolita attendevo che spuntasse la vela della barca ov'ella trovavasi… L'ho scorta da lontano… Con un tremito generale del corpo la stetti osservando che s'accostava d'onda in onda alla mia volta… Il cuore mi scoppiava… finalmente mi fu presso; erano sei barche, quella del Baglione veniva la prima… A stento potei guardare di sotto al baldacchino di broccato d'argento che rifrangeva i raggi del sole. Il truce e squallido signore se ne stava sdrajato su de' cuscini, e la Bentivoglio gli stava seduta presso…. Che momento fu quello!… Il sangue mi corse alla testa velandomi gli occhi, e fui a un punto di gettarmi di slancio in quella barca e a viva forza prendendo e stringendo a me quel corpo divino della Ginevra, con lei precipitarmi nel lago e finirla, e affogar seco in un fascio, chè altra via non c'era. L'orrenda tentazione mi venne… la vertigine mi avea preso; ma la corsa della barca che, investita dal vento, fuggiva come saetta dinanzi a me, potè impedirmi, ed ora ne ringrazio Iddio. Non pensavo, in quel punto, che della vita mia non mi era lecito disporre, chè ad altro oggetto io l'avevo consacrato col giuramento dell'anima mia…

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"E supplico Iddio che a quest'unico oggetto non mi faccia mai anteporre altra cosa del mondo, e dell'alito suo sempre mantenga viva in me la necessaria fermezza… La vita mi si rivela spesso da mille facce, e quand'una a sè irresistibilmente mi attrae dall'altra, di necessità, io sento dilungarmi… Purtroppo tutte le passioni dell'uomo vanno agitandosi in me, e insieme allo sgomento che in me produce talora il difficile posto a cui mi son messo, e pel quale altri mi crede adatto, uno strano timore mi assale, che il mondo seco non mi tragga con impeto molto maggiore che non sia la forza mia per superarlo. Io sono una creatura fragile… ed è bisogno ch'io mi convinca di ciò, chè così la spensierata fiducia non avrà a farmi cadere nella mia corsa.

"L'altro dì manifestava l'animo mio a tale che se ne vive solitario fuori di Roma… uomo fatto savio dalla dura scuola dell'esperienza… gli toccai della Ginevra e del pericolo che per lei io avessi a deviare dal mio vero cammino; ma colui mi confortò fermandomi nel concetto mio, che il destino avesse unito noi due espressamente… uniti nello scopo, se non nella vita… È fama che dei casi della Ginevra il santo padre sia stato commosso, però è a sperarsi che per lei s'induca finalmente a far quello che già aveva nell'animo… di spodestare Giampaolo. Se ciò fosse mai per essere, la Providenza ci avrebbe dunque uniti allora appunto quando ci separò. Per la Ginevra cade il Baglione, e con lui che è il più duro ceppo, tutti gli altri tiranni della Romagna… Per la caduta di costoro alla Francia mancherebbero ajuti, e sarebbe allora agevole il mezzo di farla sloggiare da Lombardia… ma Dio sa cosa cova in seno al futuro… e più che d'altri io ho sospetto di me medesimo e della mia giovinezza e del fervido senso il quale minaccia dappresso la mia prudenza… in questa Roma segnatamente… in questa viva luce… fra questa calma d'un popolo che i gaudi incessantemente rapiscon seco.

CAPITOLO XVI.

Dalle date di queste lettere appar dunque averle scritte il Palavicino un anno prima all'incirca di questo giorno, che in Castel Gandolfo il principe Savelli sta apprestando a papa Leone forse il più sontuoso banchetto che mai siasi imbandito a quel tempo dall'opulenza fastosa dei patrizi romani. Ora ne giova il sapere che il Palavicino trovavasi appunto tra' commensali onde il Savelli aveva voluto rendere a Leone più decoroso il banchetto.

Fin dal suo primo giungere in Roma gli si eran fatte grandissime accoglienze, siccome a gentiluomo d'uno de' più illustri casati di Lombardia, e perchè si sapevano in gran parte le sue vicende e le sue sventure, e l'esser lui caduto in disgrazia di re Francesco per aver combattuto contro Francia a Marignano. E quell'impressione che a primo tratto egli avea fatto sull'animo di coloro a cui fu presentato, anzichè dileguare, come talvolta avviene, crebbe sempre più, e mentre il suo buon ingegno e le molte lettere ond'era fornito lo rendevano accetto agli uomini gravi e colti, e la fama militare ben acquistata su tre campi di battaglia lo facevano ammirare dalla romana gioventù; anche la sua giovinezza, considerando le cose da un altro lato, la bellezza non comune, e i suoi modi riservati insieme e soavi, avevano somministrata la materia per dialoghi d'ogni maniera a quel sesso così fatale in tutte le parti del globo e così formidabile in Roma. Però, viene spontanea la volontà di domandare, se al Palavicino sia venuto maggior vantaggio o maggior danno dimorando per sì lungo tempo in quella città?…. Questo è quanto noi vedremo col tempo…. ma intanto da quell'ultimo scritto che di lui abbiam riportato, traspare assai chiaramente, ch'egli temeva il danno più che non iscorgesse il vantaggio. E quel cielo di Roma, e quella tinta ne' volti femminili, e tutte le altre cose da lui medesimo già considerate esercitarono di fatto sull'animo di lui un'influenza che, quanto più protraevasi la sua dimora in que' luoghi, tanto più facevasi prepotente. E nell'anno che trascorse dai giorni ne' quali vergò quelle passionate scritture a questo in cui ci troviamo, tanti e così varj e così curiosi fenomeni si verificarono nel suo umano involucro, ch'io dubito molto non abbia a maravigliarsi il lettore del notabile cambiamento al quale avrà ad assistere.

Ma su questo tema torneremo di qui a poco; per ora è un immenso vestibolo che ci si spalanca dinanzi a lasciarci spingere uno sguardo per entro a una sala vastissima di cui non saprebbesi più oggidì far la chiave di vôlta, e su di un banchetto lungo a veduta d'occhio circondato da una selva di olivi, di mirti, di oleandri, ornato a sopraccarico di vasi, di anfore, di mescirobe, di guastade d'oro, d'argento, di porfido, d'agate, di lapislazzulo. Varietà sterminata d'oggetti, involuta per entro ad un vapore che annebbia qualche poco la luce, e sparge intorno profumi d'una ineffabile fragranza. Scena straordinaria innanzi alla quale tosto ci balzano alla mente Baldassarre e Lucullo. Se non che lo spettacolo ne si fa ancora più attraente adesso che intorno alle mense stanno assidendosi i duecento commensali.

Qualcuno de' nostri lettori, il quale per avventura s'interessi delle cose presenti più che delle passate, a farsi un'idea dell'apparato insolito che in tal dì offre allo sguardo la più gran sala del castel Gandolfo, si figuri nella propria mente un consimile banchetto apparecchiato a' nostri tempi in quella delle grandi città d'Europa che a lui possa sembrare più acconcia per tale officio. E assembrati intorno a così sfolgorante banchetto si immagini tutti quanti i più illustri uomini che la politica, la diplomazia, la milizia, le scienze, le lettere, le arti annoverano in tutti i punti dell'Europa sotto ali'insegna loro propria. Cerchi all'Italia le alte e solenni sue intelligenze, alla Francia i suoi versatili e brillantissimi ingegni, alla Germania gl'indefessi suoi pensatori, all'Inghilterra i suoi più insigni wighs e torys. Consideri codesta immensa ollapodrida del sapere universo di cui Chateaubriand e Manzoni e Thiers e Peel e Bulwer e Rossini e Vernet e Mickewicz e Lelewel e Hegel e Humbold e Cousin ed altri siano i più piccanti ingredienti, e si figuri di dominarla a colpo d'occhio per entro a quattro pareti. Così più facilmente rimontando al lontano passato potrà farsi un concetto di quell'adunanza d'uomini cospicui che stavan seduti alle mense del principe Savelli.

Leon X nel mezzo del banchetto era seduto su d'una seggiola più alta a dominar tutti quanti, come colui che del proprio nome avea a contrassegnare il suo secolo. Il cardinal Bembo alla sua dritta, il Bibiena alla sinistra; l'Accolti, l'Agostini, l'Alciato, il Sannazzaro, il Beroaldo, Demetrio Calcondila, Annibal Caro, Casliglione, Rafaello di Urbino, il Giovio, il Trissino, il Morone, seduti l'uno accosto dell'altro. Così gli ambasciatori di Francia, di Spagna, d'Alemagna, d'Inghilterra, e alle stelle principali mescolate le stelle minori, fra le quali, per quanto sia l'amore che gli portiamo conviene annoverare anche il nostro protagonista. In mezzo a tanti splendori ve n'era però qualcuno di una luce alquanto equivoca, e tra gli altri l'Aretino, invitato appositamente dal signore del castello perchè intrattenesse l'adunanza coi suoi petulanti epigrammi, al quale era stato posto di contro il Berni, fidando che questi due così acri ingegni, mordendosi a vicenda e continuamente e senza pietà, non avrebbero mai lasciato morir di noja l'adunanza. Cosa che si verifìcò, e al di là delle speranze e dell'aspettazione di tutti. Del resto, a un tale banchetto, non vediamo seduto l'Elia Corvino, quantunque la sua cappa fosse di velluto pari a quella dei gentiluomini e il Morone avesse cercato d'introdurlo a quelle mense; ma la causa per cui n'era stato escluso, era forse che Leon X somigliava troppo al personaggio che un momento prima s'era intrattenuto seco, e non voleva esser riconosciuto così presto. Il fatto sta che il Savelli, dopo alcune parole avute con Leone, avea dette le sue al Morone, che le riferì all'Elia il quale, senza provarne un dispetto al mondo, uscì del castello e, a saziare il suo appetito, si recò ad una osteria d'Albano, dove ebbe a lodarsi assai del buon vin di Frascati e di due foltissimi sopraccigli d'una donna di colà, la quale gli fece passare con minor tedio il rimanente di quella giornata.

Ora tornando nella gran sala del Castel Gandolfo, non ci fermeremo a descrivere a minuto quelle mense, nè a fare il più esatto elenco delle vivande che vi s'imbandirono, nè di tutte quelle squisite delicatezze onde venivano accompagnate. Ci siam fissi in mente che il lettore sia stato in gran timore tutto questo tempo per la minaccia d'una descrizione normale di un pranzo, la quale dopo le migliaja che si trovano nelle cronache e nelle storie di quart'ordine, e le altre migliaja che si trovano nei libri d'arte, aggiunta la gloriosa appendice di due o tre celeberrime descrizioni, compresa quella bizzarissima, del D. Giovanni di Byron, potrebbe venire opportuna, per prendere la similitudine appunto dall'argomento in discorso come un pollo d'India molto inlardellato che per bizzaria si volesse servire quando i commensali sul finire delle mense, istupiditi dalla replessione, stanno aspettando l'ajuto degli spiritosi liquori.

D'altra parte noi abbiam dovuto toccare di questo banchetto, e perchè fu in quell'occasione che l'Elia Corvino parlò a chi doveva parlare, e per dare un'idea del modo con cui il nostro Manfredo era uso a passare in quell'anno la sua vita a Roma, Venendo a lui gl'inviti da tutte le parti mal suo grado ora costretto intervenire alle feste, alle mense, ai giuochi, alle villeggiature, alle caccie e a tutti codesti passatempi della vita. E non essendovi altro a fare, bisognava pure si occupasse in qualche modo fintanto che in Lombardia maturassero quegli eventi, senza di cui qualunque azione sarebbe stata intempestiva e dannosa.

D'altra parte, siccome dappertutto intervenivano tutti i più distinti ingegni di quel secolo, da principio non stette ostinato nel suo proposito di viver solo, perchè credeva d'avere a raccogliere qualche diletto e qualche utile nell'assiduo conversare con tante e così distinte intelligenze; l'amore dei buoni studj a que' tempi, e in quella città segnatamente, era fatto tanto generale, che ogni banchetto serviva sempre d'introduzione ad un'accademia letteraria, come si fece anche nella occasione presente, in cui il Bibiena lesse una sua commedia con applausi infiniti de' commensali e dove papa Leone diè saggio del suo straordinario ingegno e del suo finissimo gusto in poesia; e quanto fosse dotto nelle lettere latine e greche, lo provò allorchè Demetrio Calcondila prese a leggere un suo brindisi scritto in greco ed in latino.

Il dì dopo, si partì il Palavicino dal Castel Gandolfo e ritornò a Roma dove altre feste lo attendevano, e dove la noja e la sazietà cominciavano a tormentarlo.

Il Morone raccomandava caldamente a lui e a que' pochissimi venuti da Lombardia a Roma, che pensassero a star tranquilli e aspettassero da lui il segnale dei primi movimenti. Ma il Palavicino, che impazientissimo desiderava la maturanza dei tempi, più d'una volta non ricordandosi del consiglio ch'egli stesso aveva dato a Francesco Sforza, fu tentato di prevenirli, se non fosse stata la calma sapiente e astuta del suo consigliero; e costretto così a sopportare in pace quell'intervallo tanto lungo di tempo, fu da quell'inerzia medesima, da quel tedio opprimente, che per lui germogliarono altre cagioni di altri effetti infiniti.

In mezzo a quella colluvie di pensieri che passarono per la sua mente in un anno, quattro mesi e non so quanti giorni, il pensiero della sua Ginevra si mantenne sempre, dal più al meno, a galla di tutti gli altri, e quasi sempre la gentile e mesta immagine di lei aveva fatta la prima figura, tra quel vortice delle altre mille che a tutte l'ore gli si schieravano innanzi in sì lungo periodo di tempo. In quegli ultimi mesi però, a dir tutto con verità, s'era ella alquanto ritratta nel fondo del suo pensatoio tutta circonfusa di una vaporosa nebbia. I passatempi, lo spettacolo di altre bellezze, il lungo intervallo e il pensiero d'essere stato da lei respinto gli avevano alquanto freddato quel primo impeto di passione. A questo s'aggiungevano le voci che correvano sul conto del Baglione e della giovinetta sua moglie; facevansi da tutti le maraviglie perchè, da qualche tempo, quell'atroce signore avesse alquanto rimesso della sua natura; se ne dava merito all'indole angelica ed alle mille doti della Ginevra, che dicevasi, essersi grado grado avvezzata a sopportare la compagnia del vecchio, e per una certa deferenza insolita in lui, trovarsi anche essa tanto quanto tranquilla. Parrebbe ragionevole che al giovane Manfredo dovesser giungere assai gradite quelle voci, ma in fatto gli riuscirono ingratissime; avrebbe voluto udire invece che un dì più dell'altro si andasse rinfuocando la discordia in quel malaugurato matrimonio. Se avesse saputo che i patimenti della Ginevra fosser giunti al punto che a lei non bastasse la forza di sopportarli, non è a dire quant'egli si sarebbe martoriato pensando a quelle ambascie, ma in que' martiri ci sarebbe pur stata qualche voluttà. Ma le angosce istesse della Ginevra sarebbero state quasi proteste perpetue del suo amore per lui. Ed ora quella calma, quella rassegnazione che significavano invece?… Significavan tanto, che Manfredo tentò ogni sforzo per rintuzzare un tal pensiero, e trovò più sopportabile il gettarsi nel vortice rumoroso delle conversazioni, delle feste, delle assemblee. Rinnovò più che non avesse mai fatto i suoi ritrovi col Morone; rimise in campo con più ardore di prima l'argomento relativo alla condizione del milanese. Udiva, proponeva, rigettava partiti. Ma eran tutte ipotesi al vento, mancando la linea su cui colorire i disegni, e le calde parole finirono anche qui in vacue esclamazioni, e si pose da un canto quel tema.

Intanto, giungendo i giorni del massimo caldo, s'era proposto uscir da Roma per alcun giorno e recarsi al suburbio di Tivoli in compagnia di taluni di que' magnifici signori romani. Da qualche tempo, non era ragione di vita in cui potesse durarla più di due o di tre giorni. Era un assiduo mutare e rimutare d'occupazioni, era una continua fuga da quegli oggetti de' quali era pure andato in cerca, era un'apatìa melensa involuta in un'operosità apparente, uno sbadiglio prolungato che precedeva e susseguiva qualunque movimento dell'animo o del corpo, che di tanto in tanto per disperazione promoveva. Si allontanò così da Roma, ma statone assente alquanti giorni, vi ritornò indispettito delle cascate di Tivoli, e della calma e del sonno di que' luoghi giocondi, ritornò, nuovo Curzio, a gettarsi nella voragine romoreggiante di Roma. Chi negasse l'intervento del destino negli eventi umani, non so cosa potrebbe non negare… tornò dunque… e il destino in fatti aveva preparato qualche cosa per lui. (È il momento di stare attenti).

Coll'alba d'un mattino egli si svegliò di uno stranissimo umore. Non potè per altro lasciarlo passare senza gettare il pensiero alla Ginevra; ma, per la prima volta, in quella giovine donna scoperse un difetto, o sia un eccesso di virtù; la purezza angelica di quella creatura e la santità de' suoi costumi, di che aveva sempre sentita una solenne ammirazione, gli parve cosa men che ragionevole in quel momento.

Dipendeva forse da ciò, che il Palavicino in quel mattino era più sensuale del solito. Era un giorno di giugno, era un giugno di Roma e dalla non lontana Ostia spirava lo scirocco. Il più degli amici di chi scrive v'han d'accordo nell'affermare, che le giornate calde e in cui soffia il vento marino, ed anche le giornate piovose d'estate son quelle in cui, più che in altre occasioni, il diavolo si fa lecito di bussare alla lor porta e di far capolino se per caso le trova aperte. Siccome poi tutti costoro sono esemplarissimi, così non credo abbassar per nulla i registri del mio protagonista, col dire che il vento che spirava di continuo dal Mediterraneo abbia influito notabilmente sul suo sistema nervoso. S'alzò così dell'increscioso letto, si recò discinto all'uno de' finestroni della sua camera, guardò fuori, vide un cielo pressochè tutto coperto da un denso vapore rosato, che vestiva di quella tinta tutta l'ampia prospettiva di Roma, che gli si dipingeva d'innanzi. Crollò la testa, stette ruminando molte cose. Gli risorsero in mente alquante parole del Morone. Si fece serio un istante, e pensò a Milano…. S'accorse però che non era quello il dì opportuno per volgere in mente i santi pensieri della patria, non era abbastanza puro per ciò, e si volse ad altro. Chiamò il suo valletto e si dispose a farsi acconciare. Senza ch'egli ci pensasse, si fermò assai più tempo che non soleva innanzi allo specchio, s'abbigliò con tanta cura e ricercatezza, quanta in altra occasione avrebbe bastato per muoverlo a sdegno….

Di tal modo passò molto e molto tempo, e uscì intorno all'ora che ne' vasti ed ombrosi giardini della villa Medici (dove, a quella stagione, quando non recavasi alla Malliana, soleva spesso ridursi papa Leone), traevano in folla i più facoltosi di Roma; patrizi, patrizie, matrone, spose, fidanzate, fanciulle, tutto ciò che di più voluttuoso potesse offrire allo sguardo quella città gaudente. Egli non sapeva perchè volgesse i suoi passi a quel luogo piuttosto che ad un altro; ma era lo scirocco che vel spingeva. Aveva bisogno di sguazzarsi, quasi augello al sole, in quel mar di bellezze. Già da qualche tempo aveva potuto accorgersi, che a molte di quelle splendide gentildonne la ricca semplicità del suo vestito, o il volto, o l'elegante robustezza della sua persona, non sapeva con precisione quale delle tre cose, avean dato fortemente nell'occhio. Egli per verità, se n'era dimenticato; ma in quel punto si risovvenne d'un bel numero di minuti accidenti, e in fantasia gli brillò di nuovo il lampo di qualche pupilla, che molto gli avea voluto esprimere. Di ciò egli era contentissimo, e quanto più lui, tanto meno il suo angelo custode. Girò così, passeggiando per gli affollati viali, molti sguardi a destra e a sinistra, con quell'intenzione onde il pescatore del littorale gitta le sue reti, e l'indigeno delle coste dell'Eritreo cala il suo scandaglio a tentare le bivalve conchiglie, e gli parve che in quel dì il numero delle bellezze romane fosse aumentato oltre misura. Vi son giorni (è sentenza questa confermata da replicate prove) in cui le donne appaiono più avvenenti assai di quello che siano in realtà, giorni tremendi in cui più d'un novizzo sentì lacerarsi le pinne dall'amo traditore di qualche bella, e fu colto e gettato nella terribil corba… del matrimonio. Son queste le crisi perigliose della gioventù, onde io credo debito mio avvisarne i miei coetanei, e ricordar loro, per tutto quello che potrebbe mai succedere, i controstimoli di S. Francesco….

E a questo punto sarebbe ottima cosa il saltare a piè pari codesto capitolo, nel quale il protagonista è costretto a presentare, al cospetto del pubblico, l'infima faccia del suo umano poliedro, ed a svelarsi in uno di quei momenti in cui tutte le virtù che costituivano dell'indole sua, ciò che troppo difficilmente si trova fra gli uomini, soprapprese da un repentino sopore, lasciarono in balía di aure maligne il loro nobile proprietario.

Ma troppi motivi ci costringono a non sopprimerlo perchè, pur troppo, in questo mondo indicifrabile, avvenimenti della massima importanza emanarono spesso da cause minute, indistinte, intricate l'una coll'altra in modo, che di loro non si sarebbe mai fatta la netta secrezione, se a' romanzieri non fosser stati concessi de' reagenti più efficaci assai di quei che la chimica possiede. E se in virtù di tali reagenti si fossero scoperte le cause prime che diedero la spinta alle azioni di quegli uomini che la storia registrò nel gran catasto degli illustri, chi sa se il mondo continuerebbe ad aver di loro quella stima di che pur tanto è compreso?

Del resto, quantunque noi mettiamo a nudo il Palavicino in un giorno in cui si degnò discendere al livello di tutti gli altri uomini, noi siamo convinti, che il lettore non vorrà menomamente rifiutargli quella stima che già gli ha concessa, perch'ei sa più di me ch'egli è appunto in questi alti e bassi dell'umana marea, e mi pare d'averlo già notato in un altro libro in una circostanza pressochè uguale, (non è detto che un medesimo fenomeno non debba riprodursi più d'una volta in questo basso mondo), ch'egli è appunto in queste intime lotte, in queste momentanee cadute che si apprende a compiangere chi poi avremo ad ammirare a suo luogo e tempo. Che se il vento più o men caldo del solito, se lo stato più o meno ardente dell'atmosfera, se mille altre cagioni fisiche influirono prepotentemente sul sistema nervoso del nostro Manfredo, a voler esser giusti, la colpa propriamente non era sua. D'altra parte egli avea di poco varcati i ventisei anni; età pericolosa quant'altra mai, e in cui il diavolo riappicca di nuovo all'albero del male la sua rete, e attende al varco il giovin uomo che gli è sfuggito una volta quando una combinazione straordinaria lo abbia spinto sulla via dell'amor platonico. Il Palavicino intanto, trascinato da quel torrente di gentiluomini, di cavalieri, di cardinali, di vescovi, di preti, di solide matrone, di aeree fanciulle, di vedove tentatrici, passeggiò gran tempo per quei larghi viali della villa Medici. In que' recessi così fittamente ombreggiati dai licinj, dalle palme, dai mirti, dai cipressi, dai pioppi, i raggi infuocati del sole penetravano a stento, e soltanto qualche azzurro fascio di luce, spargendovi una tinta particolare, giovava non poco ad aggiungere prestigi alle femminili beltà. Dal magnifico palazzo Medici partivano di tanto in tanto or briose or soavi armonie che si diffondevano all'intorno; tutte cose che non valevano per nulla a scemar la bollitura del sangue. Trascorse di tal modo più d'un'ora e più di due, nè il Palavicino avea voluto accompagnarsi con nessuno per non essere interrotto nella direzione di alcuni suoi pensieri. A un tratto la sua attenzione si fermò sulla folla che si era ristretta in un sol punto de' viali, e ogni momento vi s'ingrossava ristagnando. Credette a tutta prima fosse il papa colla sua Corte, i suoi camarlinghi, i suoi poeti e i suoi buffoni. Ma non scorgendo i quattro araldi a cavallo dalle quattro mule bianche, colle loro livree e gualdrappe di velluto color pavonazzo gallonato, s'accorse che non era la Corte altrimenti. Allora vedendo che quella moltitudine non era costituita che di giovani cavalieri, congetturò si fosse fermata ad ammirare, com'è costume di tali circostanze, qualche bellezza nova, qualche bellezza rara. Il Palavicino, che in qualunque altro giorno avrebbe irrisa quella giovanile stoltezza, mise in codesta occasione tutti i cavilli da un canto, e un passo dopo l'altro, lentamente, ma non tanto però, s'accostò a quella densa siepaglia di gentiluomini, aprì il più dolcemente che potè un po' di breccia…. si fe' innanzi, guardò e vide. Essendo stato assente que' pochi giorni, e però non sapendo nulla delle ultime novità intervenute in Roma, allorquando guardò e vide quello che vide, ne rimase oltremodo colpito, e fu quasi per non credere a sè stesso. La bellezza nova e la bellezza rara intorno alla quale, come paperi in aspettazione del grano di miglio, stavano stipati i gloriosi discendenti di Romolo, era nullameno che la duchessa Elena signora di Rimini, che il nostro lettore deve conoscere, se ha buona memoria.

Eran corsi sei interi anni da che il Palavicino non la vedeva, e la signora, se si tolga che invece di ventun'anni ne contava ventisette, pareva ancora quella medesima, quando pure non avesse palesati altri pregi che s'erano aggiunti ai primi.

Egli è certo che furon uomini di assai breve esperienza, coloro che hanno assicurato correre il miglior periodo della vita femminile dai quindici ai vent'anni. Però bisogna che un tale errore dia luogo adesso e per sempre; io non dico già che que' cinque freschissimi rugiadosi anni non abbiano il lor lato soave; ma chi di colpo non sa valutare i mille prestigi che della donna pervenuta a veggente dei trenta, fanno la più ghiotta vivanda che mai sia stata imbandita sul lussurioso banchetto della vita, non dee neppure intertenersi di tali cose. Ogni qualvolta il diavolo (è la terza volta che lo cito) fermò di condurre a perdizione qualcuno che assai gli abbia dato a pensare, sollecitò sempre di confederarsi ad una di cotali donne, e questo vuoi dir molto, quando non dica tutto.

Che i molti giovani gentiluomini affollati intorno alla duchessa Elena, facesser le maraviglie di quella straordinaria bellezza, è cosa troppo facile a credersi, perchè se ne debba parlar qui. Ma il fatto sta che i cinque anni trascorsi, anzichè scemare di un punto, avevano anzi cresciuta perfezione a quelle sue forme peregrine. Era la statua ridotta al punto quando l'artista medesimo, contemplandola, si stropiccia le mani e dice: Sfido a far più di così. Statua di tanta perfezione, nella quale il minimo tratto di più o di meno sarebbe un'alterazione che peggiora! D'altra parte è in quell'età che la donna sa a memoria la varietà innumerabile delle pose che, infallibilmente, promovono i capogiri del sesso forte; sa con qual giusta misura, e in quale occasione si debba volgere più o meno grave, più o meno ardente la pupilla, e con quella sapiente parsimonia che costituisce il pregio massimo d'ogni artista. Se dunque fosse buono un altro confronto, e se mai piacesse alla duchessa, della qual cosa io dubito; ella era come il serpe che, svestita la prima spoglia, ne ha assunta un'altra di gran lunga più iridescente della prima. Ora avvenne che, nel mentre il mio caro Manfredo porgeva a lei, insieme a quel d'altri, il tributo della sua ammirazione, ella, per caso, e fors'anco per arte, alzasse l'occhio e lentamente, di una lentezza maliarda, il lasciasse cadere sul gruppo di persone tra le quali egli trovavasi. È cosa strana che il Palavicino, d'indole grave e per nulla vano, questa volta desiderasse che quello sguardo si fermasse su lui, e riconosciuto così dalla signora, suscitasse qualche dramma d'invidia fra coloro che gli stavan d'intorno. Se non che colla medesima lentezza onde quel grand'occhio di Giunone erasi posato sul gruppo di persone, se n'era ritratto senza accidente notevole; la qual cosa lasciò nel fondo dell'animo del Palavicino tanta amarezza che, indispettito, si ritrasse. Il lettore si ricorderà dell'ingenuo racconto fatto dal Manfredo al duca Sforza del suo primo incontrarsi colla duchessa a Rimini, di quanto eragli intervenuto alla corte di lei, e come non desse nessun valore alle molte prove di una certa affezione che la giovane signora gli aveva allora esibite, prove, senza dubbio, sufficienti a produrre assai strane vertigini in qualunque altro giovane. E pare che il Manfredo, non avendo allora mostrato neppur d'accorgersi di quelle mezze tinte, se ne dovesse anco dimenticare. Ciò era già avvenuto infatti, e quando si tolgano alcune indagini che, appena giunto a Roma, volle tentare intorno all'occulta storia di lei, egli non ci aveva più pensato, e cosa facesse, e se ancora ella esistesse, non erasi mai dato premura di conoscere. Ma ora, appena l'ebbe veduta, l'anno 1512 gli balzò innanzi di tratto, e tutti gli atti, e le parole, e le esclamazioni che in quel tempo la duchessa ebbe a dirgli, tutte gli si ridussero in mente, quasi le avesse scritte sul libro de' ricordi. La sensualità aveva fatto scattare una molla, e una subita fiamma rischiarò la vasta scena della sua memoria. Nè soltanto ripensò a quelle parole, ma lor diede un valore che mai non aveva sognato, e con tanta audacia di interpretazione, che don Giovanni, se a que' dì fosse vissuto, non avrebbe fatto altrettanto. Però non sapeva comprendere come la duchessa, di volo, non lo avesse riconosciuto; cosa di cui tanto si martellò il cervello, che non ebbe più un'ora di bene. Dopo un anno, quattro mesi, e non so quanti giorni e quante ore, fu questo il primo minuto in cui l'immagine della sventurata Ginevra fu interamente oscurata da quest'altra, il primo istante ch'egli dimenticò al tutto vi fosse nel mondo una Ginevra Bentivoglio.

O giovinette che, atterrite, chiudete le sconfortanti pagine, e sostando a considerare il pieno tramonto del primo affetto di Manfredo, che a voi fu esibito quasi vaso di elezione, vi assale il dubbio non sieno per rompersi così le promesse di amore eterno che, ai di tepenti, in sull'ora dei leni crepuscoli, negli opachi recessi degli orti casalinghi, vi ha fatto il tenero giovinetto, prima, unica segreta gioja della vergine anima vostra, e vi rivolgete a me adirate, imprecanti, perchè, improvvido, vi abbia dischiuso gli sconsolanti segreti; per carità tornate a spianare le linee gentili della rosata faccia… sospendete i timori… sospendete le ire… tempo verrà…. Pure è un segreto codesto il quale costituisce l'ingrediente primo d'ogni racconto, che non si debba prevenire quel che sarà per succedere nel tempo che verrà; ond'io taccio su questo, e proseguo il mio cammino.

Quando il sole stava tramontando sui colli Sabini, e il Palavicino uscito, nell'insolita foga dei suoi pensieri, un bel tratto lungi da Roma, attraversava il ponte Molle colla testa china e malinconica; dopo molt'ore che n'era stata assente, l'immagine della Ginevra tornò ad affacciarsi alla sua memoria, e vi tornò lucida e tremolante come una stella; vi ritornò (notate questo) cinta di tanto splendore, ch'egli ne fu abbagliato, ch'Elena stessa ne impallidì; ma quanto fu vivo, tanto fu breve, e oscillando disparve poi affatto. I due amori, il vecchio ed il nuovo, stettero un istante al cospetto l'uno dell'altro; ma l'etere puro del primo fu vinto dal sublimato corrosivo, del quale era così gran dose nel secondo. Il Palavicino crollò il capo, guardò i mille colori di cui il sole, svariando di minuto in minuto, vestiva i colli Sabini, mandò anche un tristissimo sospiro, come portò la fama; volse uno sguardo assai grave all'onda gialla del Tevere fuggente… ne fu addoloratissimo, ma la lucida stella era scomparsa. Sventurata Ginevra!!

La sera il Palavicino si recò nelle sale del palazzo di Agostino Chigi, il più ricco banchiere di Europa, il più splendido mecenate, dopo Leone, delle arti e delle lettere italiane, il più sontuoso signore di Roma che banchettava spesso i più superbi patrizj i quali non avevano a sdegno di recarsi da lui, e ogni sera apriva le immense e dorate sue sale al fiore de' cittadini romani e de' forestieri che a quel tempo vi rigurgitavano. Il Palavicino vi si recò, sperando innanzi tutto di rivedervi la duchessa Elena, vi si recò inoltre, come era suo costume, perchè in quelle serali conversazioni, ventilandosi le notizie correnti, egli ne faceva espressa raccolta pe' suoi fini, e dalla bocca stessa di Agostino Chigi, il quale avea corrispondenze commerciali con tutte le città d'Italia, di Francia, di Spagna, dell'intera Europa insomma, raccoglieva tutti que' fatti più o meno importanti che valessero a chiarirgli qual mutamento subissero le italiane cose di giorno in giorno, e specialmente per ciò che risguardava Milano. Il Chigi aveva promesso, tanto a lui che al Morone, di tenerli informati dei più minuti avvenimenti. E quella sera, quando vide il Palavicino entrar nelle sale, senza togliersi dal vano d'un finestrone dove stava parlando col Morone, gli fe' segno di accostarsi.

—Grandi novità, gli disse; al governatore Borbone fu, a Milano, sostituito un altro governatore. Questo avvenne venti giorni fa.

—E pare, disse gravemente il Morone, che gli strani desideri del conte Galeazzo Mandello siano stati troppo compiutamente appagati; il nuovo governatore è un uomo che tu, pel tuo malanno, già conosci.

—Chi? gridò il Palavicino, sarebbe mai….

—Sì; è Odetto di Foix appunto, soggiunse tosto il Morone; il signore di Lautrec.

Il Palavicino diventò pallidissimo, e, guardando fisso in volto il Morone, non seppe aggiungere altre parole.

—Così tu saprai, continuò il Morone dopo una lunga pausa, che la duchessa Elena signora di Rimini, di cui mi hai tu parlato altra volta, è in Roma da due giorni.

—Lo so.

—Ella si è rifuggita qui, non credendosi abbastanza sicura in Rimini, e per timore del Lautrec; me lo disse ella stessa jeri.

—Dove?

—A quest'ora ella era qui.

Il Palavicino si tacque, e abbassò la testa.

—Vedremo quel che sarà per fare costui, disse di poi il Morone.

—Lo vedremo.

—E s'egli sia per essere quel tale che faccia maturare i falli.

—Non sarei lontano dal crederlo; pure non posso dissimulare che questa sua venuta mi sgomenta.

—E a me pure sarebbe causa di profonda agitazione, se moltissimo non ne sperassi. È mestieri che in Milano si promuovali passioni e lagrime, e si provochi un generale malcontento contro i Francesi; allora i nostri concittadini ne uscirannno in folla, e in qualche luogo ripareranno. Allora, se a noi sarà dato raggrupparli in un sol punto, e….

—Comprendo assai quanto volete dire; comprendo che forse è decreto della provvidenza, se fu mandato quest'uomo, quest'uomo appunto a pesare sopra Milano. Pure, pensando alla mia casa che, per me, sarà la prima ad essere sfracellata dall'atrocità di costui… pensando alla povera madre mia…. Per verità, che non ci può essere al mondo creatura più sventurata di lei….

Qui gli tremò la voce per l'estrema commozione, e gli occhi gli sì bagnarono… balzò in piedi allora per non farsi scorgere, e girò la testa altrove.

Dopo qualche momento tornò a volgersi al Morone, e:

—Volesse Iddio, gli disse, che la vostra testa e il mio braccio potessero riparare a tutti i guai da cui, per colpa sua e per colpa d'altri, la patria nostra sta per essere oppressa. Ma per parte mia non sarà trascurato mezzo che valga; ed ora più che mai, mi sento agitato da quel forte amore di lei che basta a rendere onnipotente la volontà di un uomo.

Ciò detto, si staccò dal Morone e dal Chigi profondamente pensoso.

Chi avrebbe detto al Palavicino, un momento prima di metter piede in quelle sale, che la natura delle sue idee e la condizione dell'animo suo doveva tramutarsi in un subito? Il pensiero però del proprio stato, del pericolo in cui versava la sua famiglia e la sua patria, gli aveva richiamato in mente il pericolo medesimo che aveva indotto la duchessa Elena a fuggir da Rimini a Roma. La voluttà si trasmutò in compassione; due cause diverse che potevano produrre un medesimo effetto.

Le sale del Chigi si andavano intanto affollando sempre più, e di minuto in minuto cresceva quel ronzio generato dai sommessi cicalecci delle persone che si univano a crocchi. Quel ronzio cessò un istante, e il Palavicino vide messer Chigi muovere incontro ad un cardinale di assai dignitoso aspetto. Era colui monsignor Pietro Bembo, che Manfredo inchinò per il primo quando gli passò innanzi, e andò maestosamente ad assidersi nel bel mezzo della sala. Non v'era certamente in Roma chi avesse più prolissa barba di lui, nè facesse più prolissi periodi. Il cancelliere Morone fu visto allora uscire da un crocchio affollato, e attraversando con que' suoi passi brevi e prestissimi, porsi a sedere accanto al Bembo, che gli si volse assai cortese, e gli strinse anche la mano. Il Morone, la sera innanzi, gli aveva lodato a cielo una sua orazione latina la quale, per verità, eragli assai poco piaciuta. Ma avea potuto comprendere essere il degno prelato piuttosto vano ed amante del panegirico. Il Bembo era il consigliero più segreto di Leone, ed allora aveva un grande ascendente su quel pontefice. Al Morone poi premeva assaissimo il valido aiuto del santo padre, e che si pronunciasse apertamente contro la Francia. Se egli si fosse fatto lecito dire al cardinal Bembo, che la sua latina orazione pativa eccesso di parole e difetto di logica, è probabile che il Bembo avrebbe consigliato il santo padre a baciare in fronte re Francesco ed a fulminar l'interdetto sugli Sforza e la città di Milano, con qualche cosa di peggio per il cancellier Morone. Di qualunque ingiuria noi possiamo esser rei verso di un dotto in letteratura, egli ci sarà sempre cortese di un bel perdono; ma non tocchiamo i suoi periodi se siamo amanti del quieto vivere. Del resto se vi erano nel mondo d'allora due uomini affatto opposti l'uno all'altro, in qualunque rapporto della Vita si fossero osservati, erano il Bembo ed il Morone appunto; pure in quella sera pareva che la provvida natura li avesse espressamente fatti l'uno per l'altro. Ma il Bembo colla sua dignità cardinalizia, colla sua ministeriale potenza, colla sua celebrità oratoria, col suo dittatorio in classica letteratura, colla sua maestosa persona, era lievissimo trastullo sulla breve palma del Morone. Così tra loro due, in quell'occasione, s'agitarono molti e vari argomenti, dall'irto campo della politica, delle pandette, dell'amministrazione, dell'economia, ai facili ed ameni viali della poesia e dell'arti; e, per quanto il Bembo fosse certissimo d'avere eccitata nel Morone la più alta maraviglia del proprio universo sapere, il cancelliere che lo tasteggiò a lungo e per ogni lato, come uomo il quale stia sul comperare, crollò il capo alla fine, e disse tra sè:—Non avrei mai creduto di trovar così poco.

Alcuni momenti dopo il cardinal Bembo, era entrato nelle sale un altro personaggio, che pure impose qualche silenzio a quella romoreggiante assemblea. Era un giovine gentiluomo, di bello e grave aspetto, assai semplicemente vestito, il quale, dopo aver fatto i suoi complimenti al Bembo, e dette alcune gentili parole al Chigi, si recò presso al Palavicino che, tutto solo e sopra pensiero se ne stava nel vano di un fìnestrone, appoggiato il destro lato alla parete, e presolo per la mano, con atti di una cordialità soave:

—Come state, marchese? gli disse; è da assai giorni che non vi si vede qui.

—Oh! sclamò il Palavicino scuotendosi. Io vi ringrazio, maestro; e se voi dite di star bene, vorrei poterlo dire io pure.

—Io sto bene veramente, ma starei pur meglio, lo dico col cuore, se una volta vi potessi vedere in lena, e sapessi appagati tutti i vostri desideri.

—Vi ringrazio di nuovo; codeste vostre parole mi sono d'una grandissima consolazione.

—Pure ci vorrebbe altro che parole; ma ditemi che nuove avete del paese vostro.

—Pessime, maestro, pessime.

—Il vostro Morone non mi pare però tanto afflitto.

—Dunque ne sapete qualcosa già?

—Dacchè siete venuto qui voi, m'interesso alla sorte del vostro paese, e, torno a ripetervi, vorrei veder felice voi e i vostri; e tutto quello che potrò fare col papa, che si degna portarmi così grande amore, io lo farò di tutto cuore, ve lo prometto.

Dette queste parole, udì chiamarsi dal Bembo, e si staccò dal Palavicino.

Era colui Raffaello Sanzio.

Dopo alcuni momenti cominciò a circolare una voce in quella vasta sala:—È qui messer Lodovico, Lodovico, l'Ariosto è qui;—e quando comparve nella sala un uomo in sui quarantanni, calvo, d'arguta fisonomia, spontaneamente eruppero da tutte le parti fragorosi scoppi d'applausi, che fecero chinar la testa all'umile e divino autore dell' Orlando.

Il Morone che stava ancora confabulando coi Bembo, notò che a quelli applausi, i muscoli del volto del cardinale guizzarono in modo da rivelare un certo dispetto, e sorrise di queto tra sè e sè quando il vide poi applaudire anch'esso, quantunque lentamente, colla sua mano onorata del cardinalizio lapislazzulo. Portò poi la fama, che monsignore in quella notte non facesse la sua digestione colla solita regolarità, ciò che pure è intervenuto al Trissino, ch'era presente a quel trionfo del divino poeta, e che, ancor fiacco pel faticoso parto della sua Sofonisba, ancora superbo dei suoi personaggi di marmo, e delle tre unità aristoteliche osservate con religioso scrupolo, attribuiva alla corruzione del gusto quegli applausi smoderati che concedevansi ad un poema fatto senza livello e senza seste.

Le sale del Chigi eransi così a poco a poco affollate del tutto e pareva non potessero bastar più a contenere persone. La gioventù maschile per altro, per certi indizi d'impazienza e di noia, pareva stesse in aspettazione di qualche cosa che assai le premesse; se non che, trascorso troppo tempo, stava già per deporre ogni speranza, quando improvvisamente s'ode uno scompigliato rimuover di sedie nelle prime stanze, che grado grado si veniva avanzando; tutti volgono la testa alla porta d'ingresso della maggior sala e veggono spontare, in mezzo a molte gentildonne di seguito, lei, che la sera innanzi era stata la stella fissa della instancabile loro attenzione, la duchessa Elena insomma. Un ah! generale e prolungato sorse allora da tutti i punti della sala, e da quel momento tutti parvero soddisfatti.

È cosa che mette di pessimo umore quanti si sfiatano ad introdurre qualche giustizia in questo basso mondo, il considerare che in una moltitudine di persone un bel volto di donna fa sempre più impressione che una dozzina di celebrità europee.

Il Palavicino, quando s'accorse ch'era la duchessa Elena, subì quelle sensazioni a cui furono soggetti tutti quanti componevano quell'adunanza, colle altre che dovevano essere particolari a lui. I gravi pensieri della sua patria e della sua casa, ch'avean dato la fuga a tutti gli altri, si ritrassero allora quanto bastava perchè questi ultimi potessero a poco a poco ricomparire. Pensava intanto al miglior modo con cui doveva comportarsi colla duchessa, quando, vedendo che il Bembo e il Morone e molti altri s'eran mossi espressamente per complirla, s'accorse che anche a lui conveniva fare il medesimo. Colse così il momento quando il Morone terminava di parlare e si presentò.

—Ecco il marchese Palavicino, disse allora il Morone, del quale abbiamo parlato ieri sera.

Manfredo si chinò, e prima di pronunciar parola depose un bacio, com'era costume, sulla bianca mano della duchessa.

—Ho assai piacere in vedervi, gli disse allora questa, con quel suo fare disimpacciato e pronto e cortese, e giacchè siam qui balestrati da una medesima procella, attenderemo così a confortarci l'un l'altro. Ieri sera, caro marchese, ho fatta la conoscenza di questo illustre vostro compatriotta, del quale ho sentito a magnificare tanto l'ingegno, e mi chiamo fortunatissima. Così desidero veniate da me sovente ambidue, e spero che ci faremo buonissima compagnia. Sedete qui, intanto; e voi, messere, se pure non v'annoia. Ho a dirvi assai cose, marchese; sedete.

Il Palavicino si assise allora accanto alla duchessa Elena, e sì l'uno che l'altro attesero lungo tempo a discorrere della condizione delle cose loro e del maresciallo Lautrec, fatto governatore di Milano, e di tutto quanto avrebbe potuto scaturire da un tale avvenimento.

—Credo che il papa non vorrà abbandonarmi, disse la duchessa; prima di venir qui le ho fatto parlare dal vescovo di Fano, il quale mi assicurò dell'assoluta protezione di Leone. E già m'accorgo che la cosa dev'essere sincerissima, perchè più di me assai gli deve importare la città di Rimini, la quale in certo modo è più sua che mia, non restando a me che il possesso a vita. Tuttavia codesto possesso non è poco, sapete, e se fossi uomo, e se avessi qualche maggior lume di scienza di guerra e di Stato, tanto mi affannerei da cacciar lungi le mille miglia codesto nemico di Dio e dell'Italia nostra. Voi mi avete fatta accorta, marchese, del quanto io fossi sul mal cammino, e la fortuna, quantunque con molto mio pericolo, mi fece risolvere in un subito. Così debbo esser grata ad ambidue, ma più a voi di certo. Voi siete un generoso italiano, lo disse jeri sera Raffaello, parlando di voi con alte parole di stima, e adesso sia lode al cielo ed alla mia sventura medesima, se ho compreso che l'Italia è tale che merita bene che i generosi pensino a lei qualche volta.

—Ho piacere, duchessa, a sentirvi parlar di tal guisa; così quand'io sia atto a qualche cosa, e quando il mio paese domandi dell'opera mia, spero che per amore dell'Italia e per amore di voi, che avete Stato in Italia, potrò pure esservi di alcun giovamento. Intanto, se vi abbisogna senno di Stato e provvidi consigli, volgetevi qui a codesto mio amico e protettore carissimo; egli saprà aiutarvi assai bene. E accennava il Morone, il quale entrò terzo allora in quel dialogo.

Passò in questo modo buona parte del tempo, e non pareva che in quella notte si avesse a dare, come soleva il costume, qualche trattenimento di musica o di poesia, quando i nostri tre interlocutori videro che s'erano stipate molte persone intorno a Lodovico Ariosto, e persistessero a pregarlo di cosa di cui egli si schermisse. Ciò di fatto era vero. Si desiderava generalmente ch'egli desse lettura o recitasse a memoria qualche canto del suo divino poema, e per questo lo stavan pregando e scongiurando. Vedendo però il Chigi che quelle preghiere non valevano a nulla, e forse era necessario qualche più forte intercessore, si staccò dall'Ariosto e lentamente se ne venne innanzi alla duchessa Elena.

—Saremmo a pregarvi di un favore, eccellenza, cominciò a dirle. Si desidera ardentemente da tutti sentire qualche canto dell'Ariosto, e lui sta forte sul negare. Per ciò tutta l'adunanza delega voi, perchè vi degniate rinnovare la preghiera al nobile poeta, e siamo certi non mancherà l'effetto.

—Io sono grata a voi, messere, e a tutti, di questo difficile incarico, gli rispose la duchessa, ma se poi, soggiunse sorridendo, me ne rimarrò coll'onta di un rifiuto, badate bene che mi avrete ad indennizzare.

—Ve ne do la mia parola.

—E allora io vado.

Ciò detto la duchessa s'alzò, e con quel suo incedere leggiadro, attraversata la sala, si fermò innanzi all'Ariosto.

Questo, come si vide davanti quella splendida figura, abbagliato, troncò il discorso che stava facendo ad un suo vicino, e guardò la duchessa che, con un fare a lei particolarissimo, e lasciando passar qualche istante prima di pronunciare una parola, lo guardava fissa.

—Voi già avete capito, messere, perchè io stia qui adesso, gli disse poi, e lo avete capito sì bene, che mi par già di sentire sgorgare dal vostro labbro quel mirabile canto dove la condizione della sventurata Olimpia è resa con colori tanto veri e tanto potenti. Se la fiaccola di un barbaro investisse tutto quello che fu scritto in questo secolo, la virtù di quel canto sarebbe più forte della veemenza del fuoco, e rimarrebbe. Udite che profondo silenzio è adesso in codesta sala, tutti hanno già pregustata la dolcezza della vostra poesia. Io vi prego dunque per tutti costoro, ed anche per me; che se voi mi rimandaste con un no, il rossore della vergogna non mi lascerebbe mai più per tutta la vita, e l'essere esaudita invece mi darebbe tanta superbia, ch'io non so di chi mai potessi avere invidia.

—Duchessa, le disse allora l'Ariosto, anche voi ieri sera vi siete ostinata a non esaudire il comune desiderio, mentre le note del vostro canto avrebbero davvero eccitato l'entusiasmo in tutti i cuori. Non così può avvenire di me, che per nulla sono alto al declamare, se dunque tacevo, egli era per questo; pure, giacchè lo volete, eccellenza, v'annoierò e annoierò tutti, ma ad un patto.

—Dite, messere.

—Che pensiate voi poscia a distruggere ogni noia colla soavità della vostra voce.

—Son presa al laccio, messer Chigi, disse allora la duchessa sorridendo, son presa al laccio. Dio faccia dunque ch'io ne possa uscire con onore. Ma il silenzio è più profondo ancora di prima; tocca or dunque a voi, messer Lodovico.

E tornata ad assidersi tra il Palavicino e il Morone, si pose ad ascoltare, vedendo che l'Ariosto, collocatosi nel mezzo della sala, già dava segno di cominciare.

Fra quanti amor, fra quanta fede al mondo Mai si trovâr, fra quanti cor costanti, Fra quante o per dolente o per giocondo

Stato, fêr provar mai famosi amanti; Più tosto il primo loco, ch'il secondo Darò ad Olimpia:

Così l'Ariosto, lentamente da principio e a voce bassa, poi grado grado infervorandosi per l'entusiasmo e la commozione, recitò di un fiato tutte quelle mirabili stanze del canto decimo, le quali in tutti coloro che lo stavano ascoltando, misero quella sensazione profonda che a tutta prima, più che collo scoppio dell'applauso, si manifesta col mormorio dell'ammirazione.

E qui bisogna notare, che anche il Trissino volle esser giusto e, volgendosi a un tale che gli stava presso, il quale sedeva ai terzi posti nella gerarchia delle belle lettere:

—Questa volta è gioco forza confessare, gli disse, che codeste stanze sono passabili.

E il Bembo, battendo palma a palma in maniera che tutti avessero ad osservarlo, mostrò per la seconda volta il grosso lapislazzulo incastonato nel suo anello cardinalizio.

Quando messer Chigi e l'Ariosto si presentarono alla duchessa Elena, pregandola volesse attenere le sue promesse, quella brillante e gentile gaiezza ch'ella aveva mostrato un momento prima, tanto nel suo volto quanto ne' suoi modi, era scomparsa del tutto. Gli antichi pensieri, sviluppati forse dal lugubre argomento, d'Olimpia, erano tornati ad infestarla, que' pensieri che davano all'indole di lei, che per natura sarebbe sempre stata vivacissima e briosa, una tale mutabilità sfuggevole ad ogni giudizio. In quegli istanti medesimi, in cui sfoggiando spirito e gentilezza, ella metteva una voluttuosa giocondità in quanti le stavano intorno ascoltandola, tu la vedevi sostare di tratto e corrugare la fronte, come per sensazione di dolore, e lasciando cader la parola a mezzo pronunciata, tacersi poi affatto. Assai grave si alzò dunque a quell'invito e, senza dir parola, guardò in volto al Palavicino, quasi dicendo: Qual noia mi tocca ora a subire; e lasciandosi condurre nel mezzo della sala, prese l'arpicordo dalla mano dell'Ariosto medesimo, che glielo porse, ed al quale si sforzò di sorridere, e ne trasse dei gravissimi accordi. I pensieri ch'ella tentò esprimere in quella notte, e il carattere della musica onde li vestì colla magia della sua voce, furono di una tinta così lugubre che lasciarono negli animi degli ascoltatori un'oscillazione ancora più grave di quella che avesse lasciato il canto d'Olimpia.

Quando la grossa campana del Vaticano battè le due oltre la mezzanotte, la numerosa adunanza convenuta nel palazzo Chigi cominciò a disciogliersi. E la duchessa Elena si licenziò anch'essa, facendosi promettere dal Palavicino e dal Morone che il domani sarebbero andati a trovarla nel palazzo di Marc'Aurelio, dov'ella aveva fermato la dimora con tutta la sua corte.

Allorchè il Palavicino non si vide più accanto la duchessa, gli parve che quelle sale del Chigi non avesser più nessuna attrattiva, e sentì pesarsi addosso l'amarezza della desolazione, e insieme provò un desiderio impaziente, irrequieto, del ritorno del dì. La presenza, le parole, i modi, le sventure, la gentilezza briosa, la tetraggine stessa di Elena (che mai non avevano avuto effetto sul cuore di lui) in quella sera lo dominarono così, ch'egli non fu più padrone di sè medesimo. Alcuni dì prima lo teneva oppresso la noia, questa erasi dileguata; e in suo luogo era venuta l'amarezza e l'inquietudine, alternativa perpetua della vita.

Quando uscì di palazzo si trovò in mezzo ad un cocchio di gentiluomini romani i quali, com'è facile a credersi, attendevano parlare dell'Ariosto e della duchessa Elena.

—È cosa molto strana, entrò a dire un gentiluomo piuttosto vecchio, che la duchessa dopo tutti i guai che, o per colpa sua o per colpa d'altrui, ha pur dovuto sopportare, conservi ancora quella giovanile floridezza di qualche anno fa; e stassera mi pareva quella medesima, quando andò sposa del duca di Pitigliano, e per la prima volta comparve alle feste di casa Orsini. E da quel tempo, credo abbia incontrate tante peripezie quante basterebbero per tribolar dieci vite, non che una. Pare però ch'ella se ne senta di quando in quando, e qualche piega della fronte attesti l'interno stato dell'animo.

A queste sue parole, alcuni gentiluomini, i quali non erano di Roma e nulla sapevano dei casi della duchessa Elena, ne domandarono il conte Ridolfi, chè tale si chiamava quel vecchio signore, e dicendo che molto ella aveva destata la loro ammirazione per le straordinarie doti onde manifestamente era fornita, mostrarono desiderio di sapere qualche cosa di più particolare della di lei vita.

—Se c'è qualcuno in Roma, disse allora il conte Ridolfi, il quale possa dire di conoscere costei, potrei bene affermare ch'io son quello giacchè ho vissuto qualche anno in molta dimestichezza col duca di Paliano suo padre, e la fanciulla la vidi nascere e la vidi crescere; direi falso però se sostenessi di sapere di lei più di quello che per avventura ne deve sapere la casa Orsini, nella quale ella trovò il marito; pure potrò farvi contenti assai bene. E qui si mise in sul raccontare.

La notte essendo bellissima, tutti mossero di conserva a cavallo per godere quelle fresche ore, verso Porta san Giovanni, passando sotto il Colosseo; e il Palavicino, che mai non aveva potuto raccappezzar nulla di preciso sui primi anni della vita della duchessa, ed ora gli s'era cresciuto il desiderio a dismisura, pensò di porsi anch'esso in compagnia cogli altri, e in questa maniera, finchè parlò il conte Ridolfi, non gli andò sillaba perduta.

CAPITOLO XVII

È cosa incomoda, per chi scrive e per chi legge queste pagine, che il racconto fatto dal conte Ridolfi al crocchio in cui trovavasi il Palavicino, non sia stato impresso dalla tipografia Vaticana, chè sarebbe giunto fino a noi, e così avremmo saputo assai più cose; e tra l'altre, anche i nomi di quei personaggi che la cronaca pensò bene di collocare in una fittissima ombra, e de' quali, narrando i fatti degni di ricordanza e di studio, dissimulò la fede di nascita e la fede di battesimo. Convien dire però, a tutto conforto del lettore, che noi frugando in una quisquiglia infinita di carte vecchie, abbiam pure raccapezzato ciò che forse il Ridolfi ignorava. Però mettendo a conto dei fatti taciuti dal degno gentiluomo, tutto quanto per noi potrà essere svelato, il lettore si dovrà convincere che non fu defraudato di molto.

È un fenomeno tuttora indecifrabile, come dal connubio del duca di Paliano, se non il più ricco, certo il più ipocondriaco uomo di Roma, e di madonna Anna Vettori, gentildonna di sangue purissimo fiorentino, la più pinzocchera e testarda matrona che mai sia cresciuta alla scuola delle prediche del Savonarola, abbia potuto nascere la più bella, la più ardente, la più voluttuosa e fallibil donna che mai abbia promosse passioni, delirii, vertigini, ire, dicerie e calunnie in quel secolo turbinoso.

Quando la duchessa Anna si sgravò della sua bimba, e tosto ringraziò il buon Dio di quel dono da lei atteso con trepida gioia, appena gettò uno sguardo sulle fattezze della piccola creatura, e scoperse quelle vaghissime rose e quelle due pupille, ahi troppo brillanti per una neonata, tosto la gioia fu oscurata da una nube di timore presago, e pensando alle mille insidie che il tristo mondo suol tendere alle peregrine beltà, e richiamandosi in mente alquanti aforismi del frate di S. Marco, quasi fu in procinto di supplicare i cieli, perchè si degnassero di alterare alquanto le linee graziose della sua creatura. Non ne fece altro però, e pensò tosto che una sana e severa educazione, e il tener chiusi con scrupolosa cautela tutti quanti i pertugi della vita mondana, era un valido mezzo per riparare ai pericoli contingenti. La duchessa Anna, nell'ortodossa sua fantasia, si compiaceva di vagheggiar qualche miracolo della prossima futura santa. Non fu dunque insomma, o almeno parve non sia stata colpa sua, se gli eventi non risposero alle intenzioni. Siccome poi la duchessa madre era educata e colta, qual si conveniva a gentildonna, così pensò allevare da sè la sua creatura senz'aiuto di nessun altro. I primi ventiquattro mesi della fanciulla, se si eccettuano alcuni acuti strilli che davano molta noia all'ipocondriaco marito, la buona madre ebbe molto a lodarsi della sua figlietta, e donna come era di brevissima esperienza, cominciò a sperar bene. Ma quando insieme al scilinguagnolo si sviluppò anche la forza fisica della fanciulla, la duchessa Anna ebbe a querelarsi assai dell'eccessiva, insopportabile sua vivacità; la piccola Elena toccò così i tre, i quattro, i sei anni.

Ogni anno che passava era un vizietto che veniva. Non v'era governante che la piccola Elena non percuotesse, non servo che non garrisse, non animali domestici ch'ella non malmenasse; era insomma quel che le madri dicono un vero nabisso. La povera duchessa Anna non sapeva più comportarsi, ma il fatto sta, che più non bastava a sopportare quella minuta ma continua procella; inoltre v'era nei modi della fanciulla, una certa risolutezza quasi maschile, una certa, direi quasi, procacità, e intanto alla sua straordinaria bellezza ogni dì, per disgrazia, si aggiungeva qualche nuovo prestigio. La duchessa si fece seria, praticò anche molte divozioni, infine pensò che l'educazione della fanciulla era un assunto troppo pesante per lei, e passatogli per la mente una sua zia, da qualche tempo madre superiora in un convento di Monte-Corvo, senza più, stabilì di affidare la figlia alle rigide cure di quella incatramata superiora. La breve esperienza ed il più breve ingegno impedirono a quella, altronde eccellente duchessa, di conoscere per qual verso si avesse a prendere la irrequieta sua figlia; non s'accorse che le blandizie e qualche concessione a tempo e luogo avrebber giovato assai più dell'asprezza. Così invece, credendo di essere ella medesima troppo poco aspra, si tenne sicura che raddoppiando la dose, la piccola Elena sarebbe di colpo guarita. Senza por tempo in mezzo, questa fu dunque mandata al convento di Monte-Corvo con una lunga commendatizia alla superiora, nella quale le si davano tutte le più minute notizie sull'indole dell'educanda, e la raccomandazione del più severo e stretto regime di cura. Appena dunque l'Elena fu racchiusa fra quelle tetre muraglie, è troppo naturale se l'eccessiva vivacità sua ha dovuto dar luogo ad una specie di paurosa ambascia. Così, presto divenne taciturna e concentrata; cominciò a smagrire oncia a oncia, a perdere i vivi colori della bellissima faccia, e infine si mise a letto con presentissimo pericolo di morte. La madre superiora, piena la mente delle parole della duchessa Anna, non le scrisse nulla di tutto ciò, sospettando non la richiamasse a Roma, e pensando ch'egli era pel meglio della educanda il morire a quell'età immacolata, che correr pericolo, vivendo, di far peccato, così lasciò andare le cose a beneficio di natura, e la fanciulla, di una complessione straordinariamente robusta, vinse di fatto la potenza del malore e, dopo qualche mese, compiutamente guarì. Ogni anno porta sempre alcuna varietà nella vita del giovin uomo, perciò a nove anni la figlia della duchessa Anna non aveva più quell'esuberanza di vitalità che la faceva tanto irrequieta; l'aria diversa, il grigio molto cupo delle muraglie del monastero, la faccia ad angoli della reverenda superiora, la malattia subíta, gli studii serii a cui venne applicata fin da quando mise il piede nel monastero, sviluppando a un tratto quel pronto ingegno, del quale era in lei rigogliosissimo il germe, fece sì ch'ella si compiacesse ormai più a pensare che a saltare. La cosa era naturalissima. Pure la procella non era cessata ancora; non aveva cambiato che di luogo, era passata dalle gambe alla testa, e nel suo segreto pensava e pensava continuamente, violentemente. Non erano che variazioni sulla vita passata e presente; teatro angustissimo dove non parea vero ch'ella trovasse da far tanta messe. E tutto ciò non impediva che ella crescesse molto alta e molto magra, e toccasse i dodici anni d'età. A questo periodo essendosi scoperta in lei un'attitudine assai pronunciata al canto ed alla musica, le fu dalla vice-superiora appreso a toccare i tasti dell'organo, volendo il costume, che ciò si praticasse con tutte le educande e le monache stesse. L'ingegno della fanciulla apparve maraviglioso in quest'arte; in breve si lasciò addietro la vice-superiora. Cantava i mottetti del canto-fermo di maniera, che dal primo istante ch'ella spiegò la sua voce dietro alle griglie dell'organo della chiesa di Monte-Corvo, la folla era cresciuta a dismisura. Qui però ci fu un fenomeno degno d'osservazione. Non tutte le cose fanno sempre il medesimo effetto su tutti, e le note solenni dell'organo, che per lo più invitano alla meditazione religiosa ed alla fervida preghiera, fecero su lei una impressione insolita. Come dunque fu giunta al pericoloso vestibolo della gioventù, ogni qualvolta facea scorrere la maestra sua mano sui tasti, più non stava contenta de' suoni tesi e solenni, ma con fervida vena e con estro inventivo traendone suoni della più vivace e fantastica e briosa inspirazione, questi le rivelarono il confuso iride di una vita di cui non aveva ancora notizia.

Santa Cecilia sognò, coll'aiuto dell'organo, i gaudi inenarrabili del paradiso…. All'educanda Elena quel veicolo istesso dischiuse invece uno spiraglio del vizioso mondo…. Chi sapesse risolvere tali problemi, darebbe indizio di una straordinaria acutezza.

Passarono così più mesi, e la fanciulla attinse i suoi quattordici anni; quando un avvenimento impreveduto e, a dir breve, la morte improvvisa dell'ipocondriaco duca suo padre, accelerò il suo ingresso nel mondo. La duchessa Anna richiamò tosto la figlia a Roma; aveva però prese le sue buone misure, preparandole un marito. Girato uno sguardo fra tutti i giovani gentiluomini che avevano a metter famiglia, e fermatolo su chi gli parve il più ricco e il più nobile, propose il partito, che fu accolto a bocca baciata. Giunta da Monte-Corvo a Roma, la fanciulla non ci pensò due volte prima di annuire ai materni voleri. Non basta l'ingegno, qualche poco d'esperienza è pur necessaria, ed ella nella sua innocenza credette che un marito fosse il riassunto ideale di quanto fra sè stessa aveva fantasticato. Quando ella vide per la prima volta il giovine duca di Pitigliano, un certo istinto estetico le fece bensì torcere il viso vedendo l'aspetto di lui, ma come fossero veramente fatti i bei giovani ella non ne sapeva gran fatto. La duchessa Anna, nella sua saviezza, non aveva mai permesso si mostrasse nella propria casa un volto di giovane. Era stata una santa precauzione, innanzi tutto per sè medesima, poi per il quieto vivere dell'ipocondriaco marito, infine per il meglio della piccola Elena, la quale prima d'esser chiusa in monastero mai non aveva potuto vedere viso d'uomo che le desse piacere, giacchè anche il seguito dei servi era stato assortito con una saviezza non comune. In monastero non vide nulla di meglio, com'è facile a credersi, per cui quando le fu condotto innanzi il duca di Pitigliano, ella, non avendo pietra di paragone che le regolasse i giudizii, a malgrado di quell'involontario torcimento di viso, fe' cenno di sì, e si reputò anche fortunata.

V'è un tratto della Via Mala dove il passaggero deve percorrere un tortuoso sentiero quasi al perfetto buio fino al punto che, improvvisamente, svoltando il canto, gli si appresenta l'ampia valle di Tusis tutta inondata dai vivi raggi del sole; è uno spettacolo che abbaglia la vista e fa chiudere gli occhi del viandante tormentati da quell'insolito fiume di luce. Una tal sensazione, press'a poco, ebbe a provare la giovane duchessa Elena, quando dall'ombra fitta del monastero e dagli squallidi crepuscoli delle materne stanze, stretta a braccio del duca di Pitigliano, mise il piede per la prima volta nell'immensa sala del palazzo Orsini, rischiarata da cento lampade, affollata da più di duemila persone, inondata da infinite regioni di profumi, e adornata da qualche centinaio di giovani teste maschili, l'una più bella dell'altra, raggianti desiderii e voluttà dalle nere pupille che tutte s'appuntarono, in una volta, sulla nova bellezza della sposa appena trilustre. Come il sole di maggio (la similitudine, se non migliore, potrebb'esser più nuova) che fa germogliar in un subito i molteplici semi gittati nel verno; quello spettacolo che, a tutta prima, l'acceccò, fe' sorgere nella fantasia della giovinetta una quantità non definibile d'immagini, di pensieri, di desiderii molto simili a quelle bolle che gorgogliando e stridendo appaiono alla superficie di un liquido per l'improvvisa immersione di un ferro rovente. Furono rivelazioni vivaci ad un tempo e tormentose; ma appena da un più attento esame di quelle giovani maschili teste, ella si volse al men vago marito, è troppo difficile a dirsi, qual genere di sensazioni ella subisse in quel punto; ma il fatto è certo che lo abborrì di colpo.

Così, a notte alta, quand'ella uscì di quelle sale, era tanto infelice, quanto era stata gioconda un momento prima di porvi il piede. Nulla apparve di fuori però, e passò di tal maniera qualche mese senza che nessun vento straordinario sconvolgesse le onde di quel mare tanto arduo di sirti. Ma ogni giorno che passava era un passo di più che ella faceva nel mondo. L'organo fu lasciato per il liuto e l'arpa. Alle noti cubitali e pesanti del canto-fermo furono sostituite le tenere romanze che i poeti facevano a gara nel comporre per lei. Il marito che, dopo le prime settimane, rozzo come era per costume, l'aveva lasciata in piena balia di sè stessa, non pensò mai potesse sorgere qualche ortica fra le rose del letto matrimoniale, lasciando che la giovinetta sposa, facendo sfoggio della mirabile arte sua, provocasse di troppo l'ammirazione ne' gentiluomini romani. Pure, se si guarda allo stato oltremodo ardente del cielo di Roma, e del cuore della giovine duchessa e delle mille insidie che a quel tempo si tendevano colà all'altrui fralezza, non par vero come abbia potuto trascorrere un intiero anno senza che la maligna fortuna siasi preso il diletto di torcer fila per tessere la densa tela di un dramma o d'una tragedia domestica. Ma il duca di Pitigliano apparteneva a una potentissima famiglia, ma l'indole di lui rozza e fiera, quando occorresse, dava da pensar due volte ai tentatori. Ma nelle vaghe sembianze di Elena c'era tuttavia una certa tinta di alterigia e disdegno che comandava il rispetto. Tutte queste cause contribuiron dunque a far trascorrer quell'anno senza fatti di molta importanza, e così fosse stato di tutto il rimanente tempo, ma ben altro ne doveva succedere.

Fu il giorno 6 o 7 settembre, salv'errore, in sulle ore ventitrè, poco più, poco meno, in uno degli ombrosi olezzanti viali della villa Orsini, situata sulle rive del lago d'Albano, che il bel piede della duchessa Elena fu d'improvviso arrestato dalle maliardi spire di un serpe, fratello genuino di quel d'Eva, celato, non so se fra i rosseggianti massi dell'oleandro, o gli azzurrini della mesta viola. Ella passeggiava, accompagnata da una sua confidentissima fante, pensando agli applausi fragorosi che destava ogni sera quando gli echi delle ardite vôlte ripercoteano la sua voce, e in quel punto vedendo la propria immagine nell'acqua del lago, e idolatrando ella medesima quelle divine sue forme, si affannava entro sè stessa che un sì largo dono di natura, si fosse vanamente sagrificato, e sagrificato per sempre. Pensava, come ho detto, a tali cose, e la fante s'era allontanata d'un trenta passi a cogliere un fiore per la sua signora… quando in quel punto medesimo, un leggiadro involto cadde sulla sinistra delle sue celestri pianelle. La duchessa si fermò, alzò la testa, la girò a dritta, a sinistra… solitudine e silenzio d'ogn'intorno….. se si tolga qualche minuto picchiar di rostri, qualche alto lontano garrito, e il continuo rumore delle onde. Se ne stette irresoluta qualche poco, ma osservando venir la fante con un ciclame, si chinò di volo, raccolse la profumata carta e la nascose. Pareva che qualche silfo celato nell'aria l'avvisasse in segreto, doversi di quel foglio far mistero con tutti. Così ella lo raccolse. Fosse almen ciò accaduto un'altra volta!! ma in quel dì, che il sangue di lei era all'estrema bollitura, fu per verità un avvenimento fatale. Staccatasi dalla fante, e corsa con impazienza a chiudersi nel proprio gabinetto, aperto il foglio, lo lesse di volo, lo rilesse due, tre volte; non aveva firma nè altra cosa che ne palesasse lo scrittore, ma in quelle righe c'era più di quanto sarebbe già troppo per manifestare la più violenta passione che mai abbia riscaldata anima d'uomo. Lettolo così più volte di fuga, si fermò poi, sperando quasi scoprire chi tenevasi celato, a commentarne ogni riga, ogni frase, ogni parola.

Il modo con cui era scritta quella lettera, una tal qual potenza di stile, mista a squisita eleganza, davano a diveder l'uomo d'ingegno: ciò che piacque assai, e piacque di troppo alla duchessa. Il linguaggio inusitato ch'ella vedeva farsi per la prima volta, la differenza che troppo facilmente doveva scorgere tra quelle violenti proteste d'amore, e i modi rozzi e gelati del duca marito, cominciò a metterle una strana vertigine. A questo s'aggiunga, che il modo gentile e riserbato con cui le venne porto quell'attestato d'affetto, rivelavano l'uomo appassionato insieme e l'uomo riguardoso. Un'altra cosa poi, e ne teniam conto, perchè vorremmo scusare in qualche modo la giovinetta sposa, s'aggiunse a darle una spinta, a far sì che il suo piede sdrucciolasse più presto sul pendìo della colpa, ed era l'assoluto mistero in cui aveva voluto chiudersi l'uomo, che pur tanto violentemente l'amava. Anche una donna, la cui temperatura fosse stata sotto a zero, e le cui virtù avesser costituito un antemurale insormontabile, per il manco sarebbe stata colta al laccio della curiosità di conoscere il nome dell'appassionato scrivente per riderne e mandarlo in pace con un no desolante. Consideriamo or dunque ciò che doveva succedere nella duchessa Elena pel desiderio di conoscere chi si celava con tanta circospezione. E quel desiderio trasmutossi presto in una smania impaziente, in una inquietudine che non le permetteva d'aver tregua un momento, e in queste cose c'era già l'amore adulto, la passione con tutti i suoi sintomi, la colpa in una parola.

Corse così qualche mese, nè quel viglietto si dipartiva un istante da lei, e lo rileggeva qualche volta, lo rileggeva con ardore e con disperazione ad un tempo. Si affannava, si martoriava perchè non fosse in sua facoltà di scoprire colui pel quale ella, senza conoscerlo, e in gran parte appunto perchè non lo conosceva, provava già una così violenta passione. In principio lasciò le rumorose adunanze, perchè lo stato interno dell'animo suo richiedeva la solitudine e la concentrazione, poi, accorgendosi che a quel modo non si poteva dar campo al destino di preparare i fortuiti incontri, si gettò nel gran mondo più che non avesse mai fatto. Gli applausi della moltitudine estasiata si raddoppiarono, fu notato che la sua voce e il suo canto aveva raggiunto una perfezione di più. La passione s'era congiunta all'arte, e quelle sue note oltre l'usato discesero a rimescolare i giovani cuori. Ma ella intanto, se piena di ardite speranze compariva innanzi alla folla ammirante, ne partiva poi sempre sconsolata e tetra. I servi poterono accorgersi, che fra lei e il duca marito ci fosse qualche rancore. Ella era troppo impetuosa per dissimulare gl'interni rodimenti e la decisa antipatia che provava, in quegli ultimi dì segnatamente, quando vedevasi il marito accanto.

Passò qualche giorno ancora: nell'estremo autunno di quell'anno, non so in qual occasione, in Roma si diede una festa notturna con luminarie e danze ed altre tali cose. Venne la notte; il fiore dei gentiluomini e delle gentildonne romane, si raccolsero nelle ampie sale del Palazzo Aurelio. La duchessa Elena, usa a far sempre la prima figura in quell'occasioni, non ci poteva mancare. C'era stato bensì qualche vivo contrasto tra lei e il marito in quel dì. Ella aveva protestato di non voler recarvisi, ma il duca lo pretese di forza. Ci furono diverbi lunghi, vivissimi, violenti, con qualche lagrima d'ira per parte di lei, ma non c'era verso. Il marito, di solito non curante, si mostrò quella volta ostinatissimo. Gli fosse almeno comparso qualche nuovo Spurina a profetargli quanto fosser fatali a lui ed alla giovane sua sposa, se non le idi di marzo, le calende di ottobre! o i cavalli traendo l'adorata loro lettiga li avesse travolti, attraversando il ponte Elio, nel sottoposto Tevere, chè affogandoli, li avrebbe almeno involati al gioco atroce della loro fortuna! Ma ciò non doveva succedere, e la duchessa di Pitigliano, diva del canto e della danza, fu proclamata in quella notte da migliaia di grida, intanto che la trista sorte stava per liberare la corda.

Alla grossa campana del Vaticano suonarono le due di notte; il duca marito, alla zecchinetta, aveva a quell'ora perduti più di cinquantamila scudi romani, ma ebbro e ostinato non si moveva di là. La duchessa Elena, stanca, abbattuta, arrovesciata, mestissima di quella mestizia che appunto è prodotta dalle smodate allegrezze di una festa, si ritraeva un momento lontano dalla folla. Alcune gentildonne, alcuni gentiluomini avevan procurato farsi con lei, ma ella si scansò, e tutta sola se ne venne su d'una aperta galleria.

Il cielo era sgombro e lucentissimo, la notte molle e deliziosa, la luna biancheggiante sulle moli gigantesche, tutta quella galleria innondata dalle fragranze degli aranci, che gettavano le lunghe loro ombre sul marmoreo pavimento e sui bianchi pilastri. Per quanto l'aria vi recasse ogni tanto la confusione delle voci, delle grida, de' suoni che fervevano nelle interne sale, quel luogo era tuttavia abbastanza silenzioso. Ella si concentrò in sè stessa, e fatta la somma dei beni e dei mali, che in quel momento costituivano la sua vita, concluse di essere troppo infelice, e non vedendo nel tempo avvenire nessun barlume di meglio, pensò esser ben più vantaggioso il morire, che vivere di quella guisa. In questi pensieri stava così colla testa reclina, guardando meccanicamente le ombre dei flessuosi aranci, che movendosi rendevano strane figure sui bianchi marmi rischiarati dalla luna. A un tratto ode un sospiro, nè già un sospiro di vento, ma d'un essere animato. Si volse, e si alzò repentinamente tutta conturbata e tremante e presaga. Un'alta ed elegantissima figura di giovane le stava dinanzi, due pupille ardenti la guardavano, le nerissime chiome di chi la guardava ondeggiavano all'aria.

Era desso avvolto in un drappo di seta nera, e teneva la maschera nella mano. Non fu pronunciata una parola, ma ella conobbe chi esso era, ed egli, quali sensazioni producesse in lei, e quante erano già passate in quel cuore di donna. Il silenzio continuava, s'udiva l'anelito affannato d'ambidue; ambidue erano felici, la mano di lui strinse la mano tremante della duchessa, che sentì l'impressione di una bocca di fuoco; finalmente, a quegli atti tenne dietro un sommesso bisbiglio, poi alcune parole:—Fra tre dì, sul lago d'Albano, ad un miglio dalla vostra villa, lungo la costa, dove tante volte solitaria io vi ho veduta, io ci verrò ancora.—Dette le quali parole, egli scomparve, ed ella rimase immobile, piena di sgomento, d'incertezza, di estasi. A quella bianca luce della notte, ella potè benissimo osservare ogni linea della figura di lui, e sì le piacque, che ne fu paga oltre ogni suo desiderio, oltre ogni sua speranza, e la passione guadagnò sì gran tratto di terreno in un subito, ch'ella quasi non si ricordò più d'esser legata indissolubilmente ad un altro. Il dì dopo ne provò bensì qualche oscillazione di pentimento, ed anche, dopo aver avuto un saggio del tetro umore del marito, un'altra oscillazione di timore, il quale crebbe a tanto, che risolvette di star salda, di far qualche divozione, e di scacciare il demonio tentatore. Ma la terz'alba fu presta, e furono più presti ancora, pur troppo, i ritorni della passione. Alla data ora, al dato luogo ella non mancò; rivide colui, gli parlò, scoperse nuovi fascini, non fu più atta a dominare sè stessa; per quel giovin uomo avrebbe dato le sue ricchezze, il suo grado, la sua fama, la sua vita, tutto, e que' ritrovi si rinnovarono. Pure, stando più a lungo con lui, di sotto a quelle grate apparenze, c'era qualche cosa ch'ella non arrivava a scoprire, ma che sentiva, in confuso; qualche cosa che promoveva in lei un turbamento ineffabile; un certo mistero nelle parole di lui, alcun che d'impacciato, di severo, di tetro.

Adah, la moglie di Caino, quando vide per la prima volta Lucifero, di sotto alla celeste bellezza di lui, intravide tal cosa, che la fece tremare e fremere…. Una simile impressione subì Elena una delle volte che si trovò coll'uomo che mai non le si volle scoprire. Pure i fascini di colui erano così potenti, così manifesti gl'indizi che egli la idolatrava, così ardenti ed assidue le sue proteste, che ella non seppe ritrarsi. Avrebbe però voluto sapere chi fosse colui, e all'accento, ai modi, a tutto avendo ragioni per credere che egli fosse un gentiluomo di Roma, si maravigliava come in tanto tempo ch'ella vi dimorava, per quante adunanze avesse frequentate, mai non le venisse veduto. Su questo pensiero cominciò a fermarsi a lungo; fermandovisi a lungo, cominciò a capire essere al tutto disdicevole il continuare in quella colpevol pratica. Finalmente, ciò che ella mai non potè scoprire, glielo scopri il caso…..

Una mattina la sua donna, fidatissima donna, cui per necessità aveva dovuto far partecipe del segreto, tutta pallida e tremante entra dalla signora per dirle qualche cosa, e si tace perplessa. La duchessa s'accorge di qualche novità e, sgomentata da quell'insolito pallore della fante, le domanda di che si tratta, e che parli per carità.

—Lasciate se n'esca l'eccellentissimo signor duca poi vi dirò tutto.

Quando il duca fu uscito e si credettero sicure.

—Voi vi affannavate, madonna, a cercarlo nelle adunanze, e credavate scoprirlo sotto alle vesti di gentiluomo, e colla spada al fianco.

—Chi?

—Lui.

—Oh Dio! e così?

—Un dì mi domandaste, se un giovane vestito di un drappo cilestre fosse mai desso; un altro dì era un mantel verde, sotto cui credevate si celasse; un altro, che una borgognata coprisse il suo volto. Ahi, madonna! non si tratta di borgognate…. La sua testa non ha bisogno di quest'arnese.

Grado grado che queste parole uscivano dalla bocca della fante, veniva sempre più mancando il colore nel volto e la virtù vitale nelle membra commosse della duchessa….

—Ma chi dunque è desso? proruppe alfine.

—Signora, Iddio è misericordioso, e perdona molte e molte colpe…. Ma guardatevi da questa…. per carità, guardatevene…. siete ancora in tempo. Ma già è inutile ch'io vi preghi, che, se voi persisteste, io stessa farei la spia a Sua Eccellenza; finchè trattavasi d'un uom libero…. Iddio me la perdoni… era certo una colpa. Ma così…. è tutt'altra cosa; colui è nullameno che….

Il nome che qui fu pronunciato non cerchi di conoscerlo il lettore; la storia ha voluto tacerlo espressamente; forse lo avrebbe palesato quando, ottenuto che avesse quel personaggio d'avere Stato in Italia, si fosse meglio spiegato al cospetto della nazione: ma la forbice della parca, o, meglio, una palla di piombo, troncò, prima del tempo, il filo della sua misteriosa vita. Ma una tal circostanza anche a noi scappò di bocca prima del tempo.

La duchessa Elena, all'udir quel nome, del quale aveva sentito a parlar tante volte, rimase colpita da quel genere di terrore che dà la disperazione; se l'angelo della vendetta le fosse venuto ad annunciarle, ch'ella aveva perduto la sua parte di paradiso per sempre, non sarebbe rimasta più atterrita di così. I severi e rigidi principii stati in lei instillati e dalla madre e dalla veneranda suora, avevano pure gettato nel fondo dell'anima sua un sedimento abbastanza forte di religione, dirò anzi, di superstizione. Però, all'udire in che laccio ella era stata avvolta, il rimorso le serrò l'anima; fece voto di non uscir per gran tempo se non accompagnata dal duca; si chiuse nella sacra cappella di palazzo, e pianse, e pregò, e chiese perdono…. Ma nella passione c'è la violenza, e senza una violenza maggiore non la si vince mai…. Passato alcun tempo, cominciò a risentire il peso noioso e tetro della solitudine…. cominciò a pensare, e questo fu il danno, che finalmente ella era colpevole soltanto per avere amato un uomo, il quale non era suo marito; ma che, del resto, nessuna colpa più grave poteva pesare su lei, che era stata tentata da chi non conosceva e, d'uno in altro pensiero, cominciò a considerare qual gioconda vita sarebbe stata la sua, e quanto innocenti sarebbero corsi tutti i suoi dì, se la condizione di colui fosse stata la medesima del marito, se appena uscita dalle stanze materne, una combinazione più propizia l'avesse posta nelle braccia di lui…. E questo grato supposto piacendogli oltremisura, vi si fermava colla contemplazione per giorni intieri. La sciagurata, da questi assidui pensieri, fu trascinata così a rompere il primo proponimento…. e con artificio faticoso cominciò a suscitare una speranza che non aveva voluto spuntar naturalmente…. la speranza, il dubbio almeno, che la fante avesse al tutto preso un abbaglio, e s'affannava a trovar così un pretesto per rivedere colui, dissimulando il rinascere della colpa, e cercando la delusione dell'innocenza. Però non iscansò di rivedere colui e il più segretamente che le venisse fatto, e all'insaputa della sua confidente medesima, della quale viveva in grandissimo sospetto, seppe condurre le cose in modo, che toccò il suo intento.

Bensì il suo contegno assunse questa volta una apparenza così dignitosa e severa e rigida, che colui stesso ne fu conturbato.

—Dal giorno in cui, pel mio danno, mi avete veduta, cominciò a dirgli, foste sempre il primo voi a venir su' miei passi, oggi ci venni io medesima di mia voglia, ma ci venni…. appunto perchè sarà l'ultima volta, l'ultima irrevocabilmente. Voi mi avete forse già compreso, e troverete che io non debbo più a lungo sopportare di trovarmi con voi, dal momento che so chi siete.

Mentre la duchessa pronunciò le ingrate parole, le sorse spontaneamente in cuore quella speranza che alcuni dì prima aveva durata tanta fatica nel suscitare, sperò d'aver creduto ciò che non era e che le parole di lui l'avrebbero affidata in quel punto; ma quando vide ch'esso cambiò invece il colore del volto, ella impallidì più di lui, e non trovò altre parole.

Fu un momento di silenzio, di un silenzio terribile, che finalmente egli ruppe.

—Se fino a quest'ora io v'ho tacciuto quel ch'io era veramente, la ragione sta in questo, che attendevo di fatto a palesarmi a voi, quando la condizion mia fosse tale che non vi avesse mai a far raccapricciare di me…. Sappi ora che, tra breve, avrò deposta questa mia veste, e sarò io pure quel che sono tutti gli altri uomini, libero di me e dell'anima mia; io ho supplicata questa grazia, la quale era oltre il possibile, l'ho supplicata in ginocchio e con lagrime. Io abbandonerò per sempre quel posto al quale fui messo. Io ne era indegno, ne divenni indegno forse per voi; ma se a voi tutto ho posposto, abbiatemi qualche gratitudine dunque. L'amore nato in me la prima volta che vi ho veduto, sì mi trasportò che, fin d'allora non tenendo conto degli ostacoli, impegnai la mia fede, che voi sareste stata mia in ogni modo. Se la natura di questo amore si avesse a render con parole, e queste si dovesser poi scrivere, la penna dovrebbe intignersi nel mio sudore di sangue per darne la più pallida idea. Voi tremate e impallidite…. Ahi pur troppo, Elena, pur troppo fu una dura cosa per noi l'esserci incontrati allora che gl'infrangibili nodi ne avevan già legati ambedue. Voi testè mi dicevate, sarebbe l'ultima volta questa che ci saremmo incontrati; spero che ciò non sarà…. pure passerà gran tempo prima che io vi riveda.

Ciò detto, si tolse dal cospetto di lei e scomparve. A quelle parole ella fu sbalordita e commossa, e quando tornò a chiudersi nelle interne sue stanze, si trovò in una condizione di gran lunga peggiore della consueta; s'accorse che la violenza del male aveva vinta ogni sua forza, e che mai non avrebbe rinunciato a pensare a chi le aveva dato prova di un amore così maraviglioso per lei; tuttavia si tenne indegna di Dio e degli uomini…. Tremava nell'articolare una preghiera, non osava più mostrare la sua faccia in pubblico; e più ancora, dopo che seppe avere colui mutato abito al tutto, cosa che molto aveva fatto maravigliar Roma, e provocate infinite congetture e dicerie.

Fu intorno a que' tempi che Giulio, infervorato di ricuperare e farsi padrone della Mirandola, richiese l'aiuto de' principali patrizi romani, e il duca di Pitigliano si esibì di prestar l'opera sua a quell'assedio; prima occasione in cui la duchessa s'accorse, esser la vita dell'abborrito consorte messa ad arbitrio della fortuna.

Le sorse nell'animo allora un involontario desiderio, che fece di tutto per respingere, e non poteva. Ogni dì chiedeva con impazienza come corressero le cose della guerra; ogni giorno attendeva le notizie del duca. Se si fosse dovuto credere alle apparenze ed al modo con cui si esprimeva nel chieder conto del marito suo, si sarebbe dovuto conchiuderne, che svisceratamente lo amasse, e paventasse all'idea ch'ei fosse per cader morto in guerra; pure, lo possiam dire con certezza, questa non era ciò che temeva, era ciò che desiderava, ma se lo desiderava non lo voleva però, e un tal cozzo di sensazioni succedeva nel più profondo dell'animo suo, tentando essa ogni sforzo per dissimularlo a sè stessa, e le preghiere quotidiane che faceva per la salute di lui, possiamo assicurarlo, erano sincerissime. Vi hanno tali intricate condizioni dell'animo umano, che chi si propone di spiegarle a parole corre pericolo di diventare incomprensibile, e questa n'è una.

Si sparse intanto la notizia della presa della Mirandola; correvan per Roma le liste dei morti e dei feriti. Fra questi ultimi era il duca di Pitigliano. Quando una tale nuova giunse all'orecchio della duchessa, coll'aggiunta che la ferita era mortale, e ch'ei non avrebbe potuto sopravviver molto, la duchessa balzò in piedi in mezzo a' suoi servi che la guardavano attoniti. V'era nel suo volto qualcosa d'indefinibile, ma che pur faceva una tetra impressione. E corse così a chiudersi, nella sua camera, tanto ella temea di svelarsi altrui; un impulso di gioja prepotente le si manifestò allora con un singhiozzo…. Ma di colpo ne fu poi atterrita, e quand'ella tornò a mostrarsi altrui e fu veduta così pallida, così abbattuta, così prostrata, fu un sommesso bisbiglio di compassione profonda, poi un silenzio di venerazione compunta; fu trasportato intanto il marito a Roma mortalmente ferito. Ci ritornò anche colui del quale ella, per assai tempo, non seppe mai nuova. Ci ritornò sano e salvo, dopo aver gloriosamente combattuto a quella guerra, e per uscirne poi tosto e recarsi a Rimini, la quale città si volle dargli a governare, come correva la fama. Che giorni fosser quelli per la duchessa Elena, il lettore può pensarlo da sè…. Ma il marito, dopo assai cure, qualche poco si riaveva; le ferite non eran state mortali come s'era creduto da principio…. le sue guancie l'un giorno più dell'altro riprendevano il solito colore, in quella maniera ch'Elena lo andava perdendo ogni dì più…. Una mattina il medico, a confortarla in tutto, le disse: facesse pure cantare un Te Deum in Ara Coeli, che ella aveva ricuperato il marito.

Come la donna d'Iris, che si sente trascinata verso la cascata del Niagara, Elena chinò allora il capo e chiuse gli occhi, non osando più di guardare nell'avvenire, e, per forza, tornò alla solita ragione di vita, che pareva non dovesse trasmutarsi mai più. Ma il destino stava gettando altre insidie.

Un giorno il duca marito era fuori di Roma, in villa, e doveva tornare quel dì medesimo. Verso sera, segretissimamente venne a lei ricapitata una lettera senza firma, nè altro, che indicasse donde venisse. Il tenore di quella lettera era il seguente:

"Non potendo, chi scrive, recarsi da Sua Eccellenza il duca vostro marito, e pensando sarebbe il medesimo rivolgersi all'Eccellenza Vostra; sappiate che da alcuni tristi furon prese le misure per assassinare il duca stanotte nell'ora che di solito esce di palazzo per recarsi dal Chigi; però fate ch'ei non esca."

Quest'avviso fece alla duchessa una strana impressione. L'ora era tarda, e il duca poteva badar pochissimo a tornare. Siccome avveniva talvolta che senza sua saputa entrasse il duca in palazzo, così, tutta sollecita, chiamato un servo,

—Quando il duca sarà di ritorno, gli dice, siate presto a darmene avviso. Ora siam già sulle ventiquattro, state dunque ad attenderlo alla finestra che guarda in Piazza Farnese.

Fu per verità una tetra sciagura per questa donna l'aver sperato una volta che il marito fosse per morirgli, d'averlo anzi tenuto per certissimo. In que' momenti potè osservare molto da vicino una felicità ch'era l'assiduo pensiero di tutta la sua vita, e osservandola più da vicino, le fu anche più difficile il dimenticarsene, le divenne quasi necessaria.

Ora, la lettera che le stava dinanzi le fece pensare, che se non fosse stato quell'importuno zelante, la felicità da sì lungo tempo vagheggiata indarno, si sarebbe quella notte medesima effettuata; desiderò così che non le fosse fatta ricapitare. Sentì peraltro tanto orrore di un così atroce pensiero, che scosso a furia il campanello, e chiamato di nuovo il servo al quale aveva parlato un momento prima:

—Appena il vedi, bada di non indugiare a darmene avviso, gli replicò; si tratta di cosa gravissima; e fu per mostrar la lettera al servo, ma tosto si rattenne, e subito se la nascose in petto.—Va, gli disse poi tutta stravolta e sdegnosa, va, e fa presto.

In quella, il duca era tornato, e il servo non avendolo veduto entrare, s'indugiò gran tempo prima di darne avviso alla signora. Saputo però da altri com'esso era tornato, tosto si recò nel gabinetto della duchessa, e non volendo parer dappoco, le disse come il duca era in palazzo, tacendogli del tempo ch'era trascorso prima d'averlo saputo.

La duchessa licenziò il servo e balzò in piedi. Era molto agitata. Rapidissima, di sala in sala, venne a quella del duca suo marito, e bussò forte; non rispondendo nessuno, ne interroga il servo che passa di lì per caso:

—Dov'è il duca?

—È disceso in questo punto, eccellenza.

—Disceso? Aveva la cappa?

Aveva la cappa, e lo accompagnava l'uomo di camera.

—Dunque è disceso per uscire.

—Per uscire; è l'ora solita.

Pareva che la duchessa fosse impaziente di parlare al duca, e in pari tempo facesse ad arte per trarre in lungo il discorso. Si scosse però fortemente, e venutigli dei brividi:

—Fa ch'ei non esca, disse poi al servo; va e fa presto, digli che ho a parlargli prima che se n'esca…. Va dunque, affrettati…. per carità….

Il servo, non sapendo come spiegare quella pazza furia della signora, obbedì e discese…. Ed ella lo seguì…. involontaria lo seguì…. e il modo col quale, tenendo dietro al servo, imprimeva l'orma, era indescrivibile. Attraversarono così tutte le sale e gli atrj, e giunsero a metà scala. Incontratosi qui il servo che la precedeva in un altro che saliva.

—È uscito Sua Eccellenza? gli domanda.

—È uscito in questo punto medesimo, e può esser tuttora in Piazza Farnese.

La duchessa si fermò. Il suo aspetto era orribile.—Dunque è destino—pronunciò allora tra labbro e labbro, e risalì di volo.

Il servo, che le si volse allora per chiederle quel che avesse a fare, non vedendola più, crollò il capo e disse: È matta!—Così discese e pensò ad altro.

Ma non aveva ancora posto il piede sul lastrico del cortile, che un altro servo, discendendo a rompicollo e raggiungendolo di volo:—Presto, dice, vuol essere richiamato il duca, madonna ha a parlargli; presto!—e, presolo così pel braccio, seco trasse il compagno di forza, e a quattro passi per volta, giù per Piazza Farnese, sapendo benissimo per quali strade era solito incamminarsi il loro signore, si mossero alla sua volta.

Non erano i due servi giunti al mezzo di strada Julia, che tosto un ronzìo di popolo affollato lor giunge all'orecchio; accelerano il passo; tutta la strada era ingombra dalla moltitudine. Era un bisbigliare, un chiedere, un rispondere, una confusione indicibile. Chi fu? Com'egli è avvenuto? Lo hanno morto.

—Chi? domandano i due servi ad una.

—Il secondo degli Orsini, il duca di Pitigliano.

I servi si guardano in faccia sbalorditi, e tosto essendo riconosciuti per l'orso che avevan ricamato sul giubbone gallonato, son circondati da tutto il popolo e tempestati di domande, alle quali non avevan nulla a rispondere.

In questa il corpo esangue del duca, trapassato da cinque pugnalate, è deposto su d'una bara e dai frati della Misericordia portato in una chiesa, e l'uomo di camera che aveva accompagnato il padrone, ne seguiva or pure la bara, tutto allibito e piangente.

Colui, seguitando il duca a qualche passo di distanza, aveva potuto scansarsi; ma senza esser atto a portar difesa, potè vedere cinque assassini, tutti coperti di ferro il corpo e il viso, vibrare, i colpi e sparir via di volo.

Di quel sanguinoso fatto tosto romoreggiò tutta Roma, e i due servi retrocessero, dubbiosi se dovessero darne avviso alla signora.

Nel rifar la via, l'un de' servi, volgendosi all'altro che camminava a testa china:

—Convien confessare, diceva, che l'uomo ha dei presentimenti.

—Perchè dici tu questo?

—Perchè non ho mai veduto la duchessa così conturbata e stravolta come stanotte…. pareva fuori di sè…. e certo, senza saperlo ella aveva qualcosa in sè stessa che l'avvisava di tanta disgrazia.

L'altro servo non rispose, e guardando fisso il compagno con un cert'atto macchinale, crollò leggermente il capo, e tornò ad immergersi in certi suoi strani pensieri.

Quando rientrarono in palazzo, la funesta notizia v'era già arrivata.

La duchessa se ne stava intanto nella sua camera in una terribile agitazione; temeva che il servo non potesse giungere in tempo, e di nessun'altra cosa più le premeva in quel momento, che la salvezza del marito suo. Aspettava con impazienza convulsa il ritorno del servo e del duca, e come le parve che troppo tempo fosse passato, discese per recarsi alle stanze delle sue ancelle. I due servi ch'erano tornati colla trista novella, prima di parlare alla signora, s'erano appunto recati da quelle sue donne, che solevano sempre star con lei, per concertare il modo di metterla in cognizione del fatto senza darle una scossa troppo violenta. Le ancelle atterrite, non sapevano che fare, e in quella confusione proponevano e rigettavan partiti, quando a un tratto odono un grido nella stanza vicina.

—Stolta! troppo alto hai parlato; ella ci ha intese di certo!—disse una di quelle donne accorgendosi da che labbro veniva il grido, e tosto si recò nella stanza vicina insieme a tutte l'altre sue compagne per dar soccorso alla duchessa, la quale stavasi nel mezzo della camera, in ginocchio, colle braccia cascanti, la testa alta, l'occhio teso e immobile, e pareva fosse uscita di senno affatto.

—Oh povera signora!—disse una delle donne, e inchinatasi per alzarla di peso, la duchessa lasciò fare. In quello stato di tremenda immobilità che pareva indizio certo d'alienazione mentale, ella trascorse quasi un'ora intera, e il primo indizio di ritorno alla vita furono queste precise parole:—Dio!! quale orrore!!…—pronunciate con un suono gutturale e stridulo della voce, poi accorgendosi allora d'essere in mezzo a tutte le sue donne, che tenevano gli occhi fissi in lei, fu assalita da un insolito sgomento, per che fuggendo si tolse loro di mezzo, e giunta nella sua camera, vi si chiuse e si gettò in ginocchio innanzi ad una immagine di Maria Vergine.

Le donne non avevano voluto abbandonarla, e seguitala, stettero vigilando all'uscio, timorose di qualche nuova sventura, e udirono alti scoppi di pianti e grida, e singhiozzi, che intermittenti non cessarono per tutta la notte.

Se vi fu apparenza di cordoglio profondo, se mai fu donna al mondo la quale sembrasse aver l'animo che non mentisse al lutto delle vesti vedovili, certo fu la duchessa Elena, che per un anno fu compianta da tutto il popolo romano, e additata altrui siccome esempio cospicuo di conjugale fedeltà.

Passò così l'intero anno. I Romani, attirati dal vortice continuo di avvenimenti di gran lunga più gravi, s'erano ormai dimenticati del duca ucciso e della duchessa addolorata, e dall'animo di lei s'erano anche in parte dileguati i tremendi pensieri. Forse avrebbe continuato così il resto de' suoi giorni, e avrebbe anche lavata, con una virtuosa vita, quel che aveasi a lavare, ma pur troppo altro ne doveva succedere.

L'uomo che aveva mutato abito, e che per tutto quel tempo non erasi mai più mostrato alla duchessa venne in quell'anno innalzato a molte dignità, e da ultimo era stato creato signore della città di Rimini ed eletto capitano generale delle soldatesche pontificie. Non parlavasi ormai più in Roma, che della sua partenza per Rimini, e del dì che solennemente sarebbe stato installato signore di quella città.

Che la duchessa Elena, dopo la morte del marito, più non pensasse a quel fatale e misterioso uomo, è cosa che nessuno potrebbe credere, e di fatto non ci fu giorno ch'ella, in mezzo al suo insistente rimorso, pur non si fermasse a lungo in quel colpevole pensiero; e per quante volte le sia sorto nell'animo un sospetto, il più terribile sospetto non fu tuttavia mai forte abbastanza da renderle detestabile quell'uomo.

Però, quando udì annunciarsi una visita di lui, ella si sentì rimescolare il sangue per modo, e ricevette tale percossa, che dovette appoggiarsi per non cadere. E quando ne udì i passi che si avanzavano, e vide spalancarsi la porta per dargli accesso, il cuore volle scoppiargli, e tremò come per sensazione di freddo.

Si trovarono così faccia a faccia, e da solo a solo, dopo due anni d'intervallo. Partito il servo che aveva accompagnato il signore nella sala, la porta si richiuse, e continuò il silenzio per molto tempo, durante il quale il battere frequente del polso d'ambidue si udiva distintamente.

—Io vi ho promesso, madonna, cominciò finalmente a parlare colui, io vi ho promesso che, per quanto tempo avrebbe potuto correr di mezzo, pure vi avrei riveduta alla fine. Il destino ha dunque voluto ch'io tenessi la parola, e prima che non avrei sperato. Oggi io posso finalmente mostrarmi a voi coperto di tali vesti, che faccian tacere ogni scrupolo; oggi possiam star l'uno in faccia all'altro, liberissimi di noi e della volontà nostra.

La duchessa, a queste parole, chinò il capo tremando; e il signore, accortosi di quel tremito, fece, involontariamente, un, po' di pausa al discorso.

—Quello a cui da tanto tempo io anelava, continuò poi, a cui anelava nell'ambizione ardente dell'anima mia, io l'ho dunque ottenuto. Non solo mi distrigai di ciò che segregandomi da tutti, mi teneva anche al disotto di tutti; ma il mio destino tanto mi propiziò, e oramai ho percorsa così lunga scala, ch'io sto con quei pochi privilegiati i quali stanno al disopra di tutti gli uomini. La città di Rimini è mia, a trentamila uomini io comando, dieci milioni di scudi romani stanno già nel mio erario; e tuttavia questo non è che un assai tenue principio. La mia testa, il mio braccio, la mia ferma volontà, mi additano altissime cose nell'avvenire, e a me par già d'averle in sul palmo. La fortuna giova agli audaci. Da qui a qualche secolo, chi sa qual preponderanza sarà per avere la mia dinastia nei destini d'Europa, voi mi comprendete. Però a codesta dinastia convien bene ch'io provveda. Altri, al posto dove io sto, avrebbe girato lo sguardo nelle case dei re per cercarvi una donna. Io ho disprezzato le figlie dei re, e son venuto qui… e tacque aspettando una risposta.

La presenza del signore, il suono della sua voce, la quale aveva, almeno per lei, una particolare armonia, la natura di quelle passionate parole, dalle quali traspariva che l'amore, in quel potente uomo, era tuttavia superiore all'ambizione, fecero tale impressione nella giovine duchessa che, invece di rispondere, tutta si disciolse in lagrime.

Era gioia, era gratitudine, o qual cosa era mai che avea aperta la via a quelle abbondanti lagrime? Troppe eran le cagioni che facean forza all'animo piagato di lei.

Il signore prese quelle lagrime come la più accetta risposta alle sue parole, e per la prima volta fu ardito di abbracciare e baciare la giovine duchessa, e presale la mano ed alzando la fede:

—Voi dunque sarete la moglie mia, soggiunse: e da quest'ora con giuramento io mi vi prometto; così domani saprà tutta Roma la libera scelta della mia volontà.

Ciò detto si licenziò.

Quand'egli si fu partito ed ella si trovò ancor sola, i rimorsi risorsero, e con più insistenza che mai. Ella pianse, pregò, volle e disvolle; ma all'amore si confederò anche l'ambizione, e vagheggiò il pomposo titolo di signora di Rimini.

Alcuni giorni dopo si diffuse per tutta Roma la voce che il signore ****, prima di recarsi a Rimini, si sarebbe unito in matrimonio colla duchessa Elena, vedova del duca Orsini; ma dal momento che circolò quella voce, altre pure a poco a poco cominciarono a circolare.

L'assassinio del duca di Pitigliano, se era stato un mistero per il più de' cittadini di Roma, non lo era per tutti. Chi ne aveva mandato espresso avviso con lettera alla duchessa, doveva intanto saperne qualche cosa; i cinque che avevano vibrati i colpi ne sapevano più di tutti. La fante, ch'era stata messa a parte del segreto degli amori della duchessa, e che di poi era stata licenziata, se non sapeva nulla di certo, aveva però in mano un filo per far delle congetture. Da queste fonti pare adunque sieno uscite tutte le dicerie che, al pubblicarsi di quel matrimonio, innondarono tutta Roma. In sul primo le accuse non furono che a carico del signore ****, del quale, stando ad alcuni cronisti, non era la miglior fama in Roma, poi a poco a poco corse qualche sospetto anche sul conto della duchessa Elena. L'uomo che le avea spedita la lettera, avrà cominciato a meditar la causa per la quale la lettera stessa non ebbe poi effetto, e d'uno in altro pensiero, e d'una in altra indagine, avrà scoperto il resto. I discorsi promossi da costui, combinandosi con quelli fatti circolar dalla fante, ingrossarono così il corpo delle congetture, le quali si trasformarono tosto in fatti ed in accuse. V'erano tuttavia, a tutto scarico della giovine duchessa, le lagrime versate per la morte del marito e il suo lungo cordoglio. Ma il servo che aveva avuto ordine da lei d'aspettare il padrone, e di recarle avviso del suo arrivo, al quale era parso assai strano il modo di comportarsi della signora in quella notte, e fin d'allora s'era messo in sospetto, gettò anche lui la sua parola nella pubblica caldaja della maldicenza, parola che ne accrebbe di molto la bollitura. Ma intanto che la duchessa Elena e il signore di Rimini erano il soggetto principale dei discorsi quotidiani, essi si andavano accostando sempre più all'altare, dove aveva a santificarsi il loro matrimonio. S'apprestavan già gli apparecchi per la partenza; tutti i giorni di buon mattino sul Campo Marzio, il signore di Rimini, portante già sulle splendide vesti i segni della sua potestà, e facendo caracollare il suo sbuffante cavallo di Barberia, assisteva e comandava le evoluzioni delle sue truppe.

A Rimini era stato mandato un numeroso stuolo di pittori a decorare le sale del palazzo della Signoria, e un nuovo concerto di campane era stato donato al maggior tempio di quella città. Il matrimonio doveva tra breve esser fatto; alcuni poi dicevano che, nella cappella sotterranea di Santa Maria Maggiore, era già stato benedetto senz'intervento di popolo e in tutta segretezza.

Che quel giovane signore, salito tant'alto pel forte ajuto di chi poteva quel che voleva, destasse invidia e dispetti nei più facoltosi patrizj di Roma, specialmente ne' Colonna, ne' Savelli, negli Orsini, è cosa troppo facile a supporsi, ma il seguente dialogo fatto da due personaggi appartenenti a quest'ultima famiglia, intanto che affacciati ad una finestra del loro palazzo vedevan passar quel signore alla testa delle sue belle truppe, ce ne può dare un maggiore indizio.

—Senti, Giordano, se quest'uomo, dopo quanto è avvenuto, e dopo l'atroce delitto che ha commesso, fu tuttavia così fortunato da diventare il primo di Roma, io non so poi dove trovare e a chi cercare giustizia.

—La giustizia, invece di cercarla, bisogna farla, Maffio: quest'uomo ha ucciso il fratel nostro…. oramai ne sono certissimo, e colui che venne da me è assai degno di fede; chi ha ucciso dev'essere ucciso…. questa è la giustizia che un uomo d'onore ha a fare. Converrà dunque pensarci, Maffio.

—Se si doveva pensarci, mi pare allora che abbiam già troppo aspettato. Fra qualche giorno egli sarà in Rimini, se non prendiamo le nostre misure, prima ch'egli se n'esca, non so quel che ci rimarrebbe a fare di poi.

—E non lo saprei io pure, per ciò fra ventiquattr'ore ci sarà qualch'altra novità, e qualch'altro scandalo per Roma.

—Fra ventiquattr'ore? sei tu pazzo?

—Sono assai bene in me stesso. Le misure son già prese.

—Già prese! e al papa hai tu pensato, e all'ira sua?

—Non ho pensato che al miglior modo di far cadere quel tristo, e nasca quel che vuol nascere.

—E la duchessa Elena?

—Che vuoi tu dire?

—Voglio dire che corron voci d'accusa anche per lei, e se ciò fosse, quella giustizia medesima…

—No, io non credo a quelle accuse. Il suo dolore era sincero. No, ella può vivere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La sera medesima di questo giorno, il signore di Rimini, accompagnato da un numeroso seguito di cavalieri, attraversava a cavallo il Ponte Elio. La folla traeva sul suo cammino ammirando quelle straordinarie pompe, ed egli, mentre lo scalpito rincalzato del suo focoso destriero faceva rimbombare il ponte, pensava con compiacenza a quell'altezza che aveva saputo raggiungere, e volgendo in mente i suoi futuri destini, considerava che lungo e glorioso tratto di cammino gli rimaneva ancora a percorrere. In quel punto una palla di piombo, squarciando l'aria con un fischio istantaneo, gli fracassò il collo e la spalla, e lo rovesciò nel Tevere sottoposto.

Fu un grido generale, si corse a strapparlo all'onde del Tevere, Un chirurgo attestò che non era morto, e fu così trasportato al suo palazzo.

A quest'avvenimento tutta Roma ne fu sossopra. La famiglia Orsini corse sulle labbra di tutti, e tutti stavano in aspettazione d'una grand'ira del pontefice. La piazza di Spagna, dove era il palazzo del signore di Rimini, fu il dì dopo zeppa di popolo da mattina a sera. Era un correre e ricorcorrer continuo delle 74 lettighe dei cardinali. Innanzi alla porta di palazzo, la folla si stipò più fitta che mai intorno a quella del pontefice. Questo finalmente fu veduto uscire in mezzo ai suoi cardinali e a' suoi dodici camarlinghi. Il signore di Rimini era morto.

Fatte le solenni esequie, parve che il popolo si dimenticasse anche di quell'atroce avvenimento; soltanto dopo alcuni dì corse voce che la duchessa Elena era uscita di Roma con un seguito numerosissimo, e non sapevasi dove fosse diretta. Si diceva che più non erale bastato l'animo di fermarsi in Roma, quando seppe d'esser bersaglio della generale maldicenza, e s'accorse che tutte le più illustri case le chiudevano la porta in faccia. Ciò in gran parte era vero, ma quand'anche avesse potuto esser questa una causa forte per farla esular da Roma, pure n'era ella uscita per tutt'altro. Dopo qualche tempo infatti, con maraviglia e stupore universale, si seppe ch'ella aveva fermata la sua stanza a Rimini, fatta signora di quella città.

Chi disse allora che ella fosse stata sposata da quel potente signore prima d'esser ferito, chi disse aver egli ciò fatto nelle ultime sue ore, e che essendo già stato installato signore di Rimini, lasciasse, con solenne dichiarazione dell'estrema sua volontà, il possesso di quella città alla duchessa Elena, e scongiurasse gli astanti, al letto di morte, della più scrupolosa esecuzione di quel suo orale testamento. Chi disse altre e diverse cose.

Il fatto è certo intanto, ch'ella ebbe la signoria di Rimini; quale sia poi stata la via precisa per la quale vi è pervenuta, non è la cosa che più importa di sapere. Ora, tutto quello che avvenne di lei da quell'epoca in poi, il nostro lettore lo sa, e potrà adesso farsi capace della varia fama che, per tutta Italia, era corsa sul conto di questa donna straordinaria.

CAPITOLO XVIII

Non siamo lontani dal credere che se il Palavicino avesse udita questa tenebrosa storia della duchessa Elena alcuni anni prima, o in altra occasione, od anche in altro dì, essa gli sarebbe parsa oltremisura abbominevole; ma di presente invece (tanto è vero che il più grave difetto in creatura che si prediliga facilmente si trasmuta in un pregio) quella medesima colpa, a produrre la quale avevano concorso tante cagioni che in certo modo eccitavano, a commiserare la sventura di lei, gli fe' scorgere nuove attrattive nella duchessa, per cui, senza quasi accorgesene, si confermò in quella passione che contro l'aspettazione nostra e la sua, già lo aveva con tanta violenza assalito. Così, come è facile supporsi, il giorno dopo fu al palazzo della Signora, e ogni dì per qualche tempo ci ritornò finchè le volte si moltiplicarono anche in un giorno solo. Ad eccezione per altro di codeste replicate visite, egli si comportava di maniera colla duchessa, e questa con lui, che a nessuno, fuorchè per avventura ad un occhio ben avvezzo, non potevano dare indizio che d'un'amicizia antica e intrinseca. Intanto al Palavicino si eran diradate le noie, e (la verità imperiosa c'incalza a non dissimular nulla) anche i suoi generosi pensieri in gran parte s'eran venuti dilavando. In quanto poi alla signora di Rimini, parve che fosse assai soddisfatta del giovane marchese, al quale (com'ella pensava) i sei anni trascorsi avevan recato non poco giovamento, e la scuola dell'esperienza e lo spettacolo della società e le mille avventure lo avevano per modo disimpacciato che pareva tutt'altra cosa. Di tal guisa a poco a poco scomparvero dal fondo del cuore di lei quegli ascosi pensieri, quegli insino a quel punto incoercibili rimorsi, e da ultimo sembrò fatta al tutto insensibile finanche allo sgomento del Lautrec, pel quale, lasciando Rimini in fretta, s'era ricoverata a Roma. Siccome poi l'indole primitiva di quella donna, quando pure avesse racchiuso alcun che d'eterrogeneo, era notabilmente inclinata all'affetto e a tutto ciò che di più soave e di più tenero può scaturire da questa pura fonte, e se mai non aveva potuto rivelarsi interamente altrui da questo lato, dipendeva da ciò, che mai non erasi incontrata in chi veramente potesse rincordarsi con lei; ora che il Palavicino parve assurgere all'ideale de' suoi desideri, ella tosto gli dischiuse tante nuove virtù, che al giovane Manfredo non sembrò vero, come avesse dovuto attender tanto per conceder a lei la propria ammirazione. Ma se per qualche tempo tra que' patrizi romani non trapelò nulla di quanto succedeva tra la duchessa e il marchese, impediti com'erano dal far congetture e sospetti, dal sapere le avventure già consumate tra lui e la moglie del signore di Perugia, venne però il tempo che qualche voce, più ardita delle altre, corse rapidissima tra la folla; poi un giorno un bel distico affisso alla statua di Marforio, il quale faceva alcune interrogazioni a Pasquino sul conto della signora di Rimini e del giovane lombardo, mise in attenzione Roma tutta quanta…. la quale fu stuzzicata ancor più, quando Pasquino mostrò al pubblico le sue risposte, che punto per punto soddisfacevano alle varie domande di Marforio.

Prima per altro che avvenissero tutte codeste cose, un uomo il quale era appunto dotato di quell'occhio avvezzo, di cui sopra abbiam parlato, con moltissima sua maraviglia s'era accorto dell'eccessiva deviazione dell'ago magnetico che regolava i movimenti del Palavicino. Ne aveva provato anche un certo rammarico, perchè egli, sperando assai nell'impresa tentata contro il Baglione, si figurava la Ginevra Bentivoglio ancor libera di sè, e in tal condizione da poter concedere la sua mano al Palavicino. E per verità aveva pensato aprirsi con Manfredo, stornarlo da quella pratica e rinviarlo altrove. Come poi si pubblicaron le pasquinate per Roma, non mancò di mostrarle trascritte al Palavicino, parendogli più che ogni altra cosa utile assai l'arma del ridicolo, per vincere l'indole permalosa del suo giovane concittadino, ma con molto dispetto, vide cadere anche quell'arme senza aver fatta una ferita.

Fu in questo tempo che il Morone dovette partire da Roma e condursi a Modena, dove l'anno prima si era fermato già per gran tempo, poi a Reggio, della quale era governatore il Guicciardini, con cui aveva gran desiderio di abboccarsi. Quivi si trattenne più di due mesi, e fu certo in quell'occasione che tra que' due astuti e ingegnosissimi maneggiatori d'uomini e di cose, si gettarono le prime fila della trama, colla quale si tendeva ad espellere la Francia dall'Italia, e stabilire i piani perchè Leone si unisse a Spagna e all'Austria, e si facesse una lega di più potenze al danno di quella sola che allora preponderava tanto pel suo governo diretto in Lombardia, e pel suo intervento in tutte le italiane cose.

Dopo aver dunque provveduto col Guicciardini agli affari del più grave momento, e dopo avere preventivamente cercato di indovinare le contingenze possibili che potevano susseguire ai loro disegni, attuati che si fossero, il Morone se ne tornò a Roma, perchè forte gli premeva di vegliar d'accanto Leone, dare una direzione sicura ai propositi di quel pontefice, di non allontanarsi da' fianchi del cardinal Bembo, e di soffiare ne' savi orecchi di questo grand'uomo i propri consigli, a tenerlo così sulla diritta e sicura via.

Qualche tempo dopo il suo arrivo a Roma si manifestarono poi i primi segni di quella procella che si doveva addensare sulla testa di Giampaolo Baglione: ecco come avvenne il fatto.

Un giorno papa Leone, in mezzo a' suoi soliti cardinali, protonotarj, letterati e poeti, stavasi nella gran sala delle mense, ascoltando un assai prolisso:— Poematium—De pulcra prole —di un latinante a quell'epoca, dopo il Bembo, distintissimo, quando il segretario apostolico entrò ad annunziare che il Baglione sarebbe entrato in Roma quella sera medesima. Lo stupore di quei cento illustri personaggi, tra i quali trovavasi il Morone, fu straordinario, come era straordinaria la notizia, ed a nessuno non parea vero come quel sospettoso e tetro uomo del Baglione avesse potuto indursi ad entrare in Roma, mentre doveva pur vivere in grandissima paura di sè medesimo. Soltanto il Morone pensando che tra le persone che avevan costituita l'ambasceria spedita a Perugia v'era anche l'Elia Corvino, non ebbe a maravigliarsi molto, sì grande era la fiducia che aveva nell'astuzia di costui. Papa Leone intanto, per quanto fosse l'amore che avesse alla poesia latina, e per quanto diletto gli derivasse dalla declamazione del poemetto latino, pure per quelle ore che dovette lasciar passare prima che arrivasse il Baglione, non fu più atto ad ascoltar altro, ed alzatosi dalla sua sedia, con somma impazienza movevasi per la gran sala passando da crocchio a crocchio, udendo tutti e non ascoltando nessuno.

Fuori della Porta Belisario, per ordine di lui, s'eran mandati cinquanta cavalli guidati dal Rangone comandante in S. Angelo, per ricevere il Baglione e per condurlo poi subito dov'egli aveva comandato, senza por tempo in mezzo. Ma un uomo a cavallo, spedito a tutta corsa a Roma dal Rangone stesso, era entrato in Vaticano ad avvisare che non era già il Baglione padre che arrivava, ma il figlio Grazio, il quale veniva in sua vece. Per queste notizie, alla prima sorpresa ne era successa un'altra assai più forte, e Leone stesso fu visto muovere incontro iracondo al segretario che aveva recata l'ingrata notizia, poi fermatosi di colpo, e spezzato della propria mano un vaso ch'era sulla gran tavola, volgersi con gran dispetto al Morone, e dirgli:—Il vostro uomo è un cialtrone anch'esso come tutti, ed or m'ha guasto ogni cosa al peggio.

Ma quasi nel medesimo tempo si raffrenò e volto al segretario—Fate dire al capitano de' cavalleggieri, che al figlio del Baglione si facciano onori come ad un re, andate: e noi tutti… si volse poi a quanti gli stavano intorno… fino a quando ei rimarrà qui, avremo a fargli ottima accoglienza e ad usargli ogni riguardo; ciò non ci esca mai dalla memoria. Non è Giampaolo… andava poi ripetendo… Non è Giampaolo… ed io lo dava già per ispacciato…

Al Morone, tal contrattempo dispiacque forse più che a tutti, e smarrì le speranze che fino a quei punto aveva sempre nutrite, e pensò che il Baglione, se non fosse per morire di morte naturale, non sarebbe già morto altrimenti.

La notte, il giovane Orazio figlio del Baglione, fu magnificamente alloggiato in palazzo. Il padre lo aveva mandato con plenipotenza di trattar per lui tutto ciò che risguardava gl'interessi tra la santa Sede e la signoria di Perugia, e Leone pensò di fatto condurre le cose in modo per dare un'apparenza di massima importanza alle questioni che avrebbero dovuto agitarsi tra la sua Corte ed il suo ospite, e medesimamente per declinare ogni domanda e lasciare sospesa tuttavia ogni vertenza perchè ne emergesse spontanea la conseguenza, che era necessaria la presenza del padre. Elia Corvino, entrato da Leone cogli altri che avevan fatto parte dell'ambasceria, è probabile abbia detto quanto riferì poi la notte medesima al Morone, allorquando questo volle essere istrutto minutamente da lui su tutto ciò che era succeduto a Perugia.

—Il signore, disse il Corvino, era alquanto aggravato da quelle solite sue doglie acute, perciò quando gli si mise innanzi la necessità della sua presenza in Roma, rispose essere grandissima la sua buona volontà, ma oramai mancargli il potere; che tuttavia qualora si fosse ristabilito in salute sarebbesi forse indotto a venire egli stesso; che intanto spediva il suo Orazio, al quale dava podestà di rappresentarlo per tutti i bisogni che si fossero presentati.

—E tu, Elia, ti se' accontentato di queste parole, e non hai fatto altro?

—Le parole non mi contentarono affatto, e feci tutto quello ch'era fattibil ad uomo per fargli passar le doglie e determinarlo a venir qui…. E in quanto alle doglie, se non sarebbero passate, le avrebbe saputo comportare però, e un po' in lettiga, un po'a cavallo sarebbe giunto fin qui; se non avesse temuto un trabochetto nascosto, e avesse avuto fede nella fede altrui, ma questa fede non l'ebbe. Allora ho detto fra me…. codesto giuoco, a volerlo condurre a buon fine, converrà trarlo in lungo, e dare intanto qualche fetta di lardo da rosicchiare a questo vecchio sdentato…. ed accogliendo adesso ogni sua domanda, e facendo ogni volontà sua, rintuzzare anche i suoi sospetti…. fino a tanto che, nel punto che meno sel penserà, torneremo a caricare la trappola e sarà nostro.

—Sta volta, Elia, ho i miei dubbi, e così forti dubbi, che pongo già da un canto tutti i disegni che avevo fatto su costui, e già mi rivolgo ad altro.

—Eppure voi m'insegnereste, illustrissimo, che in questi maneggi non conviene mai lasciarsi trasportare dall'impazienza, ma temporeggiare bensì, e lavorare di queto. Leone si comporterà intanto di maniera che il giovinetto Orazio sarà per lasciar Roma tutto quanto edificato. Allora porrò in campo un altro mio progetto. Converrà bene però che dia qualche forte narcotico alla coscienza, perchè profondamente si assopisca e non abbia ad ascoltar nulla, quand'io sarò per muovere i congegni. Del resto, giacchè mi guardate di quell'occhio così grave, sappiate che il progetto sarà per essere affatto incruento. Ho sempre avuto avversione a quei mezzi infami dei pugnali e dei veleni, e a me non importa d'altra cosa al mondo che di condurre in Roma quella volpe vecchia di Giampaolo. Ho veduto dappresso i poveri Perugini, e le loro piaghe stillano sangue continuamente, ho veduto quella soave e sventurata creatura della Bentivoglio, e considerando che sarebbe ben tristo chi avendo un mezzo, non ne volesse far uso per confortarla una volta per sempre, feci de' lunghi ragionamenti fra me stesso in questi dì affine di farmi convinto, ch'ella è cosa verissima che lo scopo talvolta santifica il mezzo.

Il Morone, stato un pezzo in silenzio:

—Di tutti i tuoi progetti e di tutte le tue speranze io sono convinto invece che non sarà per attuarsene neppur una. Non mi fermerò adesso a numerarti i motivi di questa mia persuasione, ti basti che la cosa sia così, e ch'io non mi lascio tor giù tanto facilmente dalle mie opinioni. In quanto poi alla Ginevra, ho una calda raccomandazione da farti.

—Io sto ascoltandovi, illustrissimo.

—Tu non farai mai parola col Palavicino nè del suo marito, nè di lei, nè de' suoi patimenti, nè delle tue speranze di trarla a salvamento. Non ho bisogno che in tal punto si travolgano taluni affetti nuovi che in questi ultimi mesi m'han tratto costui per altre vie. Da principio ciò m'era parso un grave contrattempo, ma ora che ho abbandonato ogni pensiero del Baglione, di ciò che mi sembrò danno, saprò trarre tanto vantaggio, che tu farai le maraviglie a suo tempo. Della Ginevra adunque non ne dir nulla.

—Io tacerò, potete vivere tranquillo, e l'Elia si licenziò.

Dopo tutto questo, il Morone lasciò passare molto tempo ancora senza far nulla, durante il quale non avvenne cosa che meritasse nota. Soltanto il Palavicino continuava a frequentare la signora di Rimini. Per tutta Roma ormai non era parola che degli amori di quella donna voluttuosa coll'illustre lombardo. Il Morone recavasi esso pure qualche volta al palazzo della duchessa. Una notte vi stette a lungo col Palavicino, e col medesimo ne partì ad ora tardissima. Fu in quell'occasione che, facendo la strada seco, e prendendo per certe solitarie vie di Roma, d'una in altra parola, lo trasse al seguente discorso:

—È già da un anno, Manfredo, che l'ozio e le delizie della vita ne circondano da tutte le parti; se non fossimo a ciò costretti dalla necessità, se in quest'ozio medesimo i nostri pensieri non fossero continuamente rivolti a quel fine per cui siamo fuggiti di Milano, per cui stiamo qui, comprendi anche tu che sarebbe una gran vergogna. Egli è certo però, che in questi ultimi mesi l'amore per il tuo paese ha ceduto luogo, credo che non vorrà esserlo per sempre, ad un altro oggetto. Queste mie parole sarebbero assai più gravi che non sono, se appunto in quell'ozio che ti dicevo non trovassi quanto basta per iscusare la tua condotta; e queste mie parole tanto sono meno gravi, quanto più mi pare che, qualora tu il voglia, possa raccogliere utile dal nuovo avviamento che il destino impresse alla tua vita e agli affetti tuoi. Che tu ti sii dimenticato della Ginevra, è cosa di cui mi consolo per la tua pace, per la pace di lei, per la pace di molti. Non sarà mai dunque ch'io ti voglia far rimprovero del tuo vario ingegno. Tuttavia, egli ha messo in me qualche dubbio sul conto tuo….

—Qualche dubbio su me?

—Zitto, lascia ch'io finisca. Ti confesserò dunque ch'io ti reputava assai più fermo ne' tuoi propositi e ne' tuoi affetti, che le prove ch'io già tenni di te, del tuo ingegno, dell'animo tuo, del tuo cuore pel paese nostro comune, parevan promettere assai più. Egli è perciò che voglio da te oggi tal caparra che, per l'avvenire, mi faccia vivere tranquillo sul tuo conto. È dunque necessario che tu sappia fare qualche sacrificio di te stesso, e, può darsi anche, ch'egli abbia ad essere tutt'altro che sacrificio. Odimi bene: tu ami, ed ami ardentemente la duchessa; questo è certissimo, perchè tu l'hai confessato…. perchè converrebbe esser ciechi per non accorgersene. Ti ricorderai adesso d'alcune parole ch'io feci con te prima di andarmene a Modena, colle quali io procurava tôrti giù da questa nuova passione. Ora ho fatto tutt'altro pensiero; però intendiamoci bene.

Il Palavicino facevasi attento.

—Tu sai, continuava il Morone, qual'è la parola d'ordine colla quale io soglio comportarmi in taluni momenti, tu lo sai; ella è: O tutto, o nulla; ora io voglio ch'ella debba servire a te pure. Ascoltami bene; da questo istante tu hai a pensare scrupolosamente a' fatti tuoi; tu hai a scegliere un partito, scelto che sia, non abbandonarlo mai più. Tu corteggi la duchessa; tutto il mondo dice che la cosa è così…. Sciagurata quella terra che attende il suo soccorso dall'uomo che vive una tal vita; è bisogno dunque, è necessità…. imperiosa necessità, che tu ti purghi da questa taccia; tu devi sposar la duchessa.

—Sposarla?

—Sposarla, non mi ritraggo, o abbandonarla per sempre; l'una delle due: O tutto, o nulla.

—Ma io non saprei….

—So io tutto. Se ti stacchi da lei rimani libero di te, della volontà tua, e pronto a porti in movimento appena il tuo paese ti chiami, e questo è un vantaggio; se poi tu la sposi, la tua posizione può acquistare importanza in Italia…. dal tuo stato di privato t'innalzi a un posto che sta al cospetto delle genti…. possessore della duchessa la quale, io so bene, porrebbe adesso ogni cosa a' piedi tuoi, saresti possessore anche della sua città, e, benchè il pontefice ne sia a metà padrone, pure tu avresti un popolo, molti soldati e mille lance, alle quali porti a capo quando la necessità lo richieda. Come già ti ho detto, stetti a lunghe e replicate conferenze col Guicciardini, e anch'egli pensa, al pari di me, che or si debba più che mai stare in agguato dell'occasione, e affrettarla anzi per quanto è possibile. Egli mi domandò se avevo un uomo di cuore al quale, all'occorrenza, dare incarico di tentare un colpo a mano armata, ed alla testa di qualche migliaia d'uomini. A lui ho nominato te, ed egli, non sapendomi dir nulla in contrario, mi fece tuttavia comprendere come sarebbe stato un gran bene se un sì difficil carico si fosse imposto ad uomo che avesse Stato in Italia; se dunque tu sposi la duchessa, tu potresti esser l'uomo veramente che riunisce in sè tutte le qualità acconcie per ciò. Puoi dunque lodarti della tua fortuna che t'ha suscitata in cuore una passione che, in certo qual modo, può collimare coi vantaggi lontani del paese tuo. Però ti do tempo a pensarci tutta questa notte; domani verrò da te…. e mi dirai quello che avrai stabilito…. Se tu ti stacchi da lei può esser bene…. se tu la sposi è senza dubbio il meglio. Soltanto se continuassi in codesta vita voluttuosa, sarebbe una sventura incalcolabile. Ora poi che, su tutto ciò, teco mi sono aperto con libertà, ti dirò anche il resto. Io ho conosciuto e conosco la tua casa… conosco tua madre, quell'angelica donna di tua madre, e per amor suo io ti amo come se fossi un mio figliuolo, ti amo al disopra di ogni altro mio concittadino, e forse non c'è altri che Francesco Sforza che divida codest'amor mio con te; pure adesso ti parlerò con assai dure parole. Se domani non fermi il tuo partito sull'una delle due cose che t'ho proposto, abbandonarla o sposarla, io mi divido sull'istante da te, e per sempre, e mi rivolgo ad altri. Il mio rammarico sarà immenso, ma sarò forte, nè su te porrò mai più gli occhi in tutta la mia vita… Trattasi d'impresa a cui convien mettersi con calma solenne, con virtù e senza basse passioni; nè per un affetto esagerato e mal'inteso verso di te, mai non vorrei porre all'azzardo tutta la cosa pubblica del paese in cui son nato; io non mi rimovo.

Il Palavicino, stato in silenzio per qualche tempo, alla fine gli rispose con queste parole:

—Vi ringrazio del grande amore che voi avete per me, e potete esser certo ch'egli è altrettanto quello che ho sempre sentito e che sento tuttavia per voi. Mi piace la franchezza con cui adesso mi avete parlato; pure, del timore e del dubbio che nell'animo vostro ha potuto sorgere sul conto mio, sono così conturbato che, se non vi reputassi quel che vi reputo, vi avrei già risposto colle parole dell'indegnazione; ora ascoltatemi. Il paese mio è il primo mio affetto, e per quanto le passioni avesser tentato dilungarmi da lui, io porto fiducia però che sempre gliele avrei sapute posporre. Del resto, quanto mi avete voi chiesto non è cosa che significhi un sacrificio, nè credo che ci sia alcun merito nel protestarvi, io mi vi acconcio pienamente, purch'ella sia cosa fattibile. Non credo però che ella sia tale.

—Di ciò lascerai ogni pensiero a me, rispose allora il Morone, assai contento delle parole del suo giovane concittadino; parlerò io medesimo alla duchessa, parlerò al Bembo, parlerò, se farà d'uopo, al santo padre: ma voglio che il tutto sia combinato in breve; non abbiam tempo da perdere.

Fermi in questo nuovo proposito, dopo qualch'altra parola, per quella sera i due concittadini si lasciarono. Il giorno dopo, il Morone non attese ad altro che a gettare lo scandaglio alla Corte romana, per vedere come sarebbe accolto quel nuovo progetto del matrimonio tra la duchessa Elena e il marchese. Per verità ebbe ad accorgersi che tal cosa non era per esser tanto facile come a tutta prima aveva creduto, ma continuando ad aver fede in sè stesso e nella propria facoltà persuasiva, ed anche nella mutabilità delle circostanze, non si conturbò punto, nè perdette le sue speranze.

In quanto alla signora di Rimini, allorchè il Morone s'accorse che la buona occasione era venuta, le domandò un abboccamento segreto, ottenuto il quale, con quella sua mirabile facondia e gentilezza di modi, seppe condurla a promettere, non già ch'ella avrebbe sposato il Palavicino, cosa di cui non poteva essere in lei l'assoluto arbitrio, ma che, dato che Leone mettesse innanzi qualche dubbio, anch'ella ponendo in campo de' fatti veri od anche de' simulati, avrebbe saputo fare in modo per indurlo ad accordarle la necessaria licenza. Del resto fu assai facil cosa il trarre la duchessa a quel partito, perchè già da gran tempo, nel cuore di lei, ne era sorto ardentissimo il desiderio; desiderio ch'ella non sarebbesi indotta a manifestar mai, perchè le parea cosa al tutto impossibile in quella sua condizione, e per mille altre ragioni. Ora poi che il Morone le ebbe dischiusa quella nuova via, è facile il credere ch'ella vi si mise a tutta corsa con un'alacrità straordinaria. Si può dire, senza timore di errare, che di tutti gli affetti nati e morti in questa versatile donna, questo che ella ebbe pel giovane Manfredo fu il più forte, il più sincero, il più sviscerato di tutti; e che se invece di finire ella avesse cominciato con questo forse non sarebbe mai pesata su di lei nessuna grave taccia. Non sarebbe possibile poi far tacere un moto assai naturale di compassione profonda, pensando che a dure vicissitudini ella doveva esser tratta da tale affetto, che di tutti fu il più innocente, se non si considerasse che con ciò voleasi appunto trarla sulla via dell'espiazione da colui che veglia su tutte le umane cose… Ma di ciò a suo luogo e tempo.

Sicuro adunque che fu il Morone della buona volontà della signora di Rimini, mise in movimento tutti i suoi congegni per toccare di volo gli ultimi risultati. Ebbe però a lasciar passare gran tempo ancora, perchè Leone stette forte in sul negare un pezzo…. e fu soltanto dopo molte e molte preghiere per parte del Bembo e dello Sanzio e della duchessa medesima, che se ne potè impetrare il permesso.

Ottenuto il quale, con una vivezza di gioia che in lei era nuova, d'accordo col Palavicino e col Morone, ella dispose le cose in modo che le nozze dovessero effettuarsi nel più breve tempo possibile… e fu verso la fine del novembre del 1519, che tutta Roma altro non attendeva che di assistere alle pompe solenni di quelle nozze.

Ma, prima ch'esse s'effettuassero, doveva scorrere assai più tempo che non avrebber creduto, per una sventura non attesa, la quale ne portò seco mille altre, e che all'altrui perfidia, la quale stava in agguato, diede campo di tendere al giovane Manfredo così infernale insidia, che, Dio sa, s'egli sarà mai per iscamparne.

CAPITOLO XIX

In un giorno del dicembre di quell'anno, nell'ora che, sparecchiate le mense, i numerosi commensali della duchessa Elena recavansi nella sala dove servivasi l'Alicante e il Lagrima Christi, il marchese Palavicino che, com'era indispensabile, trovavasi tra quelli, fu chiamato in disparte da un servo, il quale gli disse attenderlo un uomo in una delle anticamere, e avere una lettera da consegnargli. Il Palavicino tosto si mosse, e veduto l'uomo e ricevuta la lettera, lo richiese da chi era mandato.

—Io vengo da Milano, illustrissimo, e son qui di passaggio per Napoli. Questa lettera mi fu data a consegnarvi da un uomo di camera della contessa vostra madre.

Il Palavicino subito aprì allora la lettera e la scorse di volo. L'uomo che lo stava guardando, si accorse che gli si cangiò il colore del volto.

—Quando il servo ti consegnò questa lettera, gli chiese poi Manfredo con voce manifestamente alterata e tremante, non ti ha detto nulla di più particolare intorno alla contessa?

—Nulla mi fu detto, illustrissimo signor marchese. Il mio mestiere è quello del procaccia e di trasportare le mercanzie di Lombardia a Napoli. Io sono assai noto in Milano, e venne da me un uomo che mi si diede a conoscere per servo della contessa, raccomandandomi consegnassi a voi il più segretamente che fosse possibile una tal lettera, e mi guardassi dal palesare ad altri ch'io era mandato a voi. Ecco tutto; del resto non so nulla.

—Quando sarete per ritornare a Milano, buon uomo?

—Non so se mai ci tornerò, caro signore, il commercio lombardo è così rifinito a Milano, e ridotto a così deplorabile condizione, ch'ella è già questa la terza volta che ci rimetto del mio viaggiando. D'or innanzi le mie gite saranno tra Venezia e Napoli; Milano è un cadavere ormai, e non è più a cavarne un costrutto.

Il Palavicino non rispose, diede a quell'uomo un fiorino e lo licenziò. Come si trovò solo, tutto conturbato, rilesse la lettera.

"Illustrissimo signor marchese, diceva quel foglio, la contessa madre vostra è da due mesi in così pessimo stato di salute, che si teme forte non ci abbia a mancare da un giorno all'altro. I continui patimenti l'hanno condotta a così mal punto, ed ora è abbandonata da tutti. Chi scrive sente il rimorso d'affliggervi in sì cruda maniera, ma lo fa per esortarvi a venir di volo a Milano, a vederla un momento. Ella non fa che nominar voi a tutte le ore, e la disperazione di non avervi a rivedere mai più, è quella che più che altro le va limando la sventurata sua vita; se voi foste qui, non sarebbe forse perduta ogni speranza. Affrettatevi dunque per amore della sventurata madre vostra che va consumandosi di giorno in giorno per voi. Affrettatevi, se avete qualche pietà di figlio, e a questa vogliate posporre qualunque timore che possiate avere del Lautrec, di cui non vi sarà difficile scansare la collera."

Quella seconda lettura fece sul Palavicino una impressione assai più forte della prima. Un angore amarissimo lo vinse di tanta forza, che diede in lagrime, e gli entrò nell'animo un tal rimorso di non avere abbastanza pensato a quella povera sua madre, che più non sapeva darsi pace.

—Tristo, diceva tra sè, ed io poteva star qui in mezzo alle feste, mentre quella donna sventurata è in così orrenda condizione per me. E avrei ben dovuto pensare che un tal punto era inevitabile…. e avrei avuto a condurla qui con me, quale assai volte me ne venne il pensiero…. e lo avrei potuto…. Tristo dunque se non l'ho fatto! Io non saprò mai più darmene pace, mai più,

E cacciandosi le mani tra' capegli, a gran passi misurava la camera.

La duchessa Elena intanto che, non vedendolo tra gli altri, aveva chiesto al servo che era venuto a domandarlo, dove era desso, impaziente del molto tempo trascorso senza vederlo a ritornare, uscì delle sale e venne in traccia di lui. Quando, entrata nella camera dov'egli passeggiava in tanto disordine, s'accorse del quanto egli era stravolto e contraffatto, tutta spaventata gli domandò che fosse….

Il Palavicino a tutta prima non rispose, poi diede a leggere il foglio alla duchessa.

—O povera sventurata, disse questa tutta impietosita, letta che l'ebbe; e così, Manfredo?

—E così partirò stanotte; fra un'ora partirò; non è tempo da perdere, neppure un momento!

E tirato a furia la corda di una campana, chiamò un servo.

—Va, gli disse, come questo si mostrò, va alla mia casa; di al fante che inselli sull'istante due cavalli, e venga qui tosto e si disponga anch'esso a viaggiar con me stanotte verso Milano…. Va e fa presto, per carità, non por tempo in mezzo!

—Manfredo, disse allora con impeto la duchessa, accennando al servo di fermarsi, e assai conturbata; Manfredo, voi precipitate le cose! sapete pure se voi siete in condizione di rimettere il piede in Milano. Voi siete perduto se vi ci recate, inevitabilmente perduto! Ci andrei io stessa piuttosto; io stessa ci andrei, anzichè permettere che corriate voi stesso nelle insidie di colui….

—E mia madre, Elena, e mia madre? Oh se mi verrà fatto di poterle dare questa suprema consolazione, io potrò bene morir dopo, e lodarne Iddio se fu per una sì pietosa causa!…. Oh no, no, io non ci penso ai pericoli…. Venga il Lautrec, mi strazj con mille tormenti il Lautrec, ma voglio vedere mia madre; vederla una volta, una volta almeno quella povera, miserissima donna, e morire! Sì, morire, che sarà per il meglio.

—E noi, Manfredo, ed io?…. disse Elena allora, con un accento particolarissimo, e con un suono di voce da muovere il pianto.

Manfredo ne fu scosso, e guardatala a lungo….

—Ahi, maledetto!! proruppe…. pure bisogna ch'io parta, bisogna ch'io parta! Temerei di offender Dio, dispererei del suo perdono, non avrei mai più pace, mai più, per tutta la mia vita, se potessi dimenticarmi di mia madre…. Per carità, Elena, per carità, s'egli è vero che voi avete alcun amore per me, esortatemi anzi a partire di subito! Mi sarete ancora più cara; più cara che ad uomo non sia stata mai donna di questo mondo.

—Va dunque, va, disse poi tosto al servo, ch'era impacciato assai di trovarsi presente a quella scena, va e fa quel che ti ho detto; che tra un'ora sia qui il fante e i cavalli; va, che si è perduto già troppo tempo.

Il servo partì.

Ci fu qualche momento di silenzio. La duchessa diede anch'essa di volta per la camera agitatissima, poi si gettò a sedere su d'una di quelle cassapanche che stanno nelle anticamere. Non sapeva più quel che si facesse nè quel che si pensasse. D'improvviso, come se le venisse una speranza:

—Avete fatto leggere la lettera al Morone? domandò al Manfredo.

—Egli non sa nulla.

—Convien pure ch'egli lo sappia, Manfredo. Lo chiamerò.

—Non fate, duchessa, non fate. Egli sarebbe ostinato a non lasciarmi partire, ed io non potrei obbedirlo. No, non fate; gli direte voi ogni cosa quando sarò partito.

—Sarebbe malissimo fatto il comportarsi di tal modo, io lo chiamo; e domandato un servo:

—Andate nelle sale, dite all'illustrissimo Morone che venga qui. Aspettate; fatelo passare nel mio gabinetto…. Manfredo, disse poi a lui rivolta; andiamo. Non è conveniente lo star qui, potrebbe venir gente, e i servi vanno e vengono di continuo, andiamo.

E il Manfredo, più sbalordito che altro, la seguì nel di lei gabinetto. Un momento dopo v'entrò anche il Morone, che, accorgendosi della commozione dipinta sul volto d'ambedue:

—Che c'è egli di così grave? domandò.

—Oh Dio!! Dategli la lettera Manfredo.

Questi senza parlare, gliela consegnò.

Intanto che il Morone leggeva, Manfredo continuava a passeggiare per camera.

—E così? disse il Morone quand'ebbe finito di leggere.

—E così, rispose la duchessa, costui ha fermo di partire questa notte medesima, ed ha già dato gli ordini perchè s'insellino i cavalli. Pensate voi s'egli non è un correre incontro alla propria rovina.

—Egli non ci andrà, disse allora il Morone con molta pacatezza e gravità, egli sa bene che la sua vita è preziosa, preziosissima, non tanto per lei stessa quanto per il suo paese, egli lo sa meglio di me; egli anzi lo ha detto a me più volte. Se in questo momento ei si recasse a Milano e giocasse la sua vita così, tradirebbe la causa per la quale ha fatto tanto frequenti e tanto solenni promesse; egli non partirà, ne sono certissimo.

Manfredo, intanto che il Morone profferiva queste parole, lo stava guardando attonito, ed era pallido come un morto. Dopo qualche momento cambiò atteggiamento, e guardando il Morone come uomo che stia supplicando un suo superiore, e con voce quasi piangente:

—Sentite, Morone, io vi supplico come non ho mai supplicato nessuno al mondo, io vi scongiuro come si scongiura la croce nei più gravi travagli della vita; lasciate che io vada a Milano, si tratta di mia madre; voi l'avete conosciuta quell'infelice; voi sapete quanto abbia dovuto soffrire per me. Sovvengavi poi, oh! vi sovvenga, che fu un tempo nel quale avete amata quell'angelica e dolce creatura di un ardentissimo amore; voi eravate ben giovane ed ella ancor fanciulla. Vi muova dunque a pietà la rimembranza di quegli anni lontani, non voler dunque permettere ch'ella abbia a morir disperata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui il labbro gli tremò per l'eccessiva commozione, il giovine volto tutto gli s'inondò di lagrime, e tacque.

Elena proruppe anch'essa in lagrime allora, e il Morone non potè più dominarsi.

Fu un lugubre silenzio di qualche minuto.

—Io compiango la madre tua, uscì poi a dire, dopo qualche momento il Morone, ne provo quella pietà medesima che tu ne provi, e sa Iddio com'io vorrei che tu potessi andar tosto a confortarla, ma una fatale necessità te lo proibisce. A te pesa di sembrar sconoscente, di sembrar spietato… pure, questo sacrifizio istesso che tu fai del tuo sviscerato amor figliale, che ti fa piangere con queste così sante lagrime, parrà assai più generoso e più solenne a coloro che penseranno perchè lo hai tu fatto. I tempi, i fatti sono maturi, l'occasione di operare è assai presta, e a te verrà dato il primo carico; se tu vai a Milano, è impossibile al tutto che non cada in un'insidia, e che sarà per succederne allora? tua madre morrà ben più disperata, pensando ch'ella stessa fu causa della tua rovina e della rovina del paese tuo, il quale aveva riposta ogni fiducia in te. E tu pensa come, morendo condannato, insieme al crepacuore dell'inesorabile tua sventura, ti morderà la vergogna della tua debolezza; conchiudi dunque, Manfredo, che ti è forza rimanere. A tua madre scriverò io stesso; ella ha tal mente e cuore che ti vorrà amare di più quando sappia la tua risoluzione; coraggio, Manfredo, a noi più che a nessun altro è necessaria la fermezza.

In questa entrò il servo.

—È qui il vostro fante, illustrissimo signor marchese.

—Son qui i cavalli? domandò questi infiammandosi in viso, e guardando il Morone alla sfuggita.

—No, illustrissimo. Ma lui dice che, dovendosi viaggiare verso Lombardia, gli bisogna maggior tempo per i preparativi; siamo in dicembre, e lassù vorrà essere un rigido inverno..

—Bene, verrò io, di' che mi aspetti; e qui rivoltosi al Morone:

—Se non tenterò, disse; se non tenterò ogni mezzo per iscansare tutti i pericoli possibili, allora potrò essere colpevole d'avere in qualche modo tradito la causa alla quale mi son dedicato, ma starò sulle ali per isfuggire ogni insidia, ve ne do parola; or dunque lasciate ch'io vada, e vogliate voi medesimo darmi i felici auguri.

—Tu vai incontro alla tua rovina, codesto è l'augurio che ti posso dare; pure se tu ti ostini a voler queste, io non sarò già quello che ti trattenga per forza, tanto più ch'io m'avvedo adesso che tu sei ben altro da quello che ti ho stimato fin qui. Ho creduto che l'animo tuo fosse di ben altra tempra; per questo avevo messo l'occhio su di te. Ora gravemente mi pesa d'essermi così ingannato, e d'essere costretto a rivolgermi ad altri, quando credevo fosse giunto il momento di poter valermi di te; però puoi andar, nè io aggiungerò altre parole per dissuaderti.

Questo discorso mise il Palavicino in un imbarazzo assai più terribile di prima. Tornò a passeggiare su e giù per la camera inquietissimo, guardava or l'uno or l'altra, pareva gli ardesse il pavimento sotto a' piedi; il Servo intanto aspettava, il Morone e la duchessa tacevano.

A un tratto il Palavicino si fermò, parve assumere l'apparenza di un uomo che tenti spiccare il salto da un precipizio, gridò:—Io vado,—e si gettò a furia fuori del gabinetto. La duchessa si mosse di slancio sui passi suoi, chiamandolo altamente per nome; ma il Palavicino, afferrato il fante per un braccio, saltelloni gli fece discendere la scala, e uscì con lui rapidissimo dal palazzo di Marco Aurelio. Il Morone non si mosse, e non parlò.

Recatosi al suo alloggio, il Palavicino dispose le cose sue pel viaggio, a que' tempi lungo e disastrosissimo. Stabilì di condurre con sè due uomini a cavallo, che avrebbe poi lasciati molte miglia fuori di Milano per non fermare l'attenzione altrui. Sotto ai panni vestì una maglia di ferro intera, e caricò i cavalli di gravissime pelliccie, tanto per sè che pei servi. Così verso le quattr'ore di notte potè uscire di porta Belisario, e si mise in cammino, punto da un certo rimorso per essersi licenziato a quel modo dalla duchessa Elena e dal Morone.

L'inverno essendo di solito assai clemente a Roma, e in quell'anno segnatamente, camminò senza noje quella notte per un bel tratto di paese, sotto a un cielo tutto stellato, rinfrescato da uno spirare continuo di una brezza che metteva una tal quale alacrità nel sangue, e l'avrebbe messa anche nel Palavicino, se non avesse avuto con sè il grave fardello delle sue cure, che non gli lasciava aver tregua. Ma da Narni a Terni ebbe a viaggiare sotto una pioggia minuta e assidua che gli accrebbe a più doppi la già soverchia tristezza, e che l'accompagnò quasi sempre fin presso a Perugia.

Quando alzando la testa, vide a molta distanza, le alte torri di quell'antichissima città, senti tutto rimescolarsi per l'improvviso sopraggiungere di un affanno che da moltissimo tempo erasi dileguato dall'animo suo. Quando ne scorse la gran torre del castello e col pensiero vi corse per entro, la sventurata Ginevra gli ricomparve inanzi, e con quella quante angosciose memorie, e meste imagini e rimorsi!! Usciva da Roma, dove per poco aveva lasciata la donna che, tra brevissimo tempo, avrebbe fatto sua sposa. Gli tornarono allora in mente le prime proteste fatte alla Ginevra; le parole onde, nell'effusione dell'ardente amor suo, le aveva giurato che nessun'altra donna al mondo avrebbe mai avuto il suo affetto; pensando allora com'egli aveva attenute quelle promesse, come eran stati mutabili gli affetti suoi, ebbe ribrezzo e vergogna di sè stesso. Dato allora un tratto ai freni del cavallo e fermatosi, stette per lungo tempo a guardare la gran mole quadrata del castello, e penetrandovi coll'occhio della mente conturbata a considerar la Ginevra che, desolata, forse ne passeggiava le tetre camere, ne fu intenerito oltre misura, e sentì rinascere più ardente che mai l'amore per quell'infelice sua donna; se non che, rivolgendo la testa verso Roma, e involontariamente lasciandosi trascinare nelle splendide sale del palazzo Aurelio, gli ricompariva Elena dinanzi: crollò il capo indispettito, non potendo sopportare il cozzo di quelle due passioni, e fisse e rifisse gli sproni nel cavallo, che prese la rincorsa a galoppo. Ma sua madre boccheggiante sul letto, disperata, destituita d'ogni soccorso; ma la sua città squallida e deserta; ma Odetto minaccioso e terribile; tutte queste immagini gli si pararon contro d'improvviso e in una volta, mentre cacciava il cavallo a quel modo. I capelli gli si rizzarono per brividi di sotto al cappuccio, un vento gelato cominciava allora a soffiare dalle gole dell'Appennino.

Da Perugia volse il suo cammino per traverso, diretto alla volta d'Ancona. A Foligno aveva udito correr voci, che alcune galee di Francia e Spagna si fossero scontrate sull'Adriatico; perciò volle passare ad Ancona, desideroso di poter raccogliere altre notizie, che egli non poneva da un canto nessun fatto che menomamente toccasse la Francia. Giunto colà seppe che i legni francesi, aiutati da alcune galee veneziane, avevan recato qualche grave danno alla flottiglia spagnuola. Ogni più grave sciagura augurò a quella repubblica, considerando che, in quegli ultimi anni, in ogni occasione s'era sempre messa dalla parte della Francia, e richiamandosi in mente Bartolomeo d'Alviano suo generale, che tanto aveva contribuito all'esito della battaglia di Marignano, dopo la quale Milano era caduta sempre più basso di giorno in giorno, smarrì quasi ogni coraggio, pensando ai troppi inciampi che impedivano alla sua patria di riaversi.

Il Piemonte, o neutrale o amico della Francia, tutti i feudi di Romagna interessati a sostenere la Francia, Firenze egoista, Ferrara gonfia di poesia e di poeti, non curante di tutto il resto, e con amici di tal fatta d'ogni intorno, i Milanesi, con più ostinazione di tutti, nemici di Milano e degli Sforza. In questi pensieri se ne venne a Ferrara per la via di terra, per esser l'Adriatico, in quella stagione procelloso fuor dell'usato. Da Ferrara passato a Rovigo, trovò qui buon numero di Francesi comandati da Annibale ed Ermete, fratelli della Ginevra Bentivoglio. Seppe che Giampaolo Baglione li aveva caldamente raccomandati al governatore Lautrec, perchè li aiutasse a ricuperar Bologna, e il Lautrec, vedendo che col ritogliere al papa quella ed altre città importanti della Romagna e facendole ricuperare dai loro originarj padroni, veniva ad avere in questi degli alleati per necessità e per gratitudine, senza nemmanco domandare il consenso del re Francesco, che allora ad altro non attendeva che a darsi buon tempo, aveva concesso quelle truppe ai due Bentivoglio. Il Palavicino potè inoltre sapere, che il padre della Ginevra era morto da due mesi; con tali notizie che a qualche cosa gli potevano giovare, da Rovigo volle recarsi a Venezia di volo, per tentar più dappresso i misteri di quel Senato. Per quanto non gli lasciasse aver tregua il desiderio di riveder sua madre, non voleva por però da canto quanto si riferiva al maggior vantaggio del suo paese.

Da Venezia per altro, non avendovi trovato il fatto suo, difilato e viaggiando dì e notte per timore che mai non avesse ad arrivar troppo tardi, volse il suo cammino verso la Lombardia. Dopo cinque giorni di assai disagiato viaggio, si trovò a Cassano; qui lasciò i suoi famigli e riposò egli stesso una notte; e finalmente all'alba d'uno degli ultimi giorni di dicembre, tutto solo cavalcò verso Milano.

Faceva una mestissima mattina degli squallidi inverni della Lombardia. Il cielo coperto da una sola nube dappertutto eguale, non dava nessuna speranza di sole, ed era infatti da più di dieci giorni ch'esso non si mostrava affatto. Tirava continuamente un vento di tramontana crudissimo che alimentato da quell'infinito strato di neve che copriva tutta la vasta pianura lombarda, a vicenda ne manteneva la rigidezza; bianche le cime dei boschi; bianchi i tetti dei casali; bianche le acque agghiadate; non v'era luogo dove l'occhio potesse riposare un istante da quell'uguale bianchezza. E il cavallo, sprofondando nella neve fin oltre i garretti, a stento proseguiva, ed ogni tanto era costretto fermarsi. Allora il Palavicino, irrigidito nella stessa sua greve pelliccia, provava quella sensazione del silenzio universale, tanto particolare in un'immensa pianura, quando la densa massa della neve par che chiuda ogni adito ai suoni della natura, e dia uno squallore particolarissimo, anche a que' rumori ch'ella non può far tacere. Di tanto in tanto infatti, da qualche miglia lontano, perveniva all'orecchio del Palavicino il suono del martello d'un orologio che batteva l'ore, ma quel suono, reso muto e senza oscillazioni, anzichè rompere, accresceva la tetraggine del silenzio; di tanto in tanto dalle cascine gli perveniva qualche latrato, qualche muggito, qualche voce umana, qualche canto; ma tutto s'improntava di una tetra mestizia che gli pesava sull'animo. Egli proseguiva intanto a passo, e tutto immerso ne' suoi pensieri. Verso il mezzogiorno, parve che il sole tentasse di rompere quella densa caligine; ma mostratosi per qualche minuto, come un globo di sangue in mezzo ad esso, si celò poi di nuovo; e di lì a poco la nebbia, dalle regioni superiori, si. calò sulla terra. Trasparente in prima, a poco a poco si raddensò, e dopo due ore era sì fitta, che il Palavicino non vedeva gli alberi a trenta passi di distanza.

A metà viaggio, non avvisato dal rumore per la neve che lo impediva, nè avendo potuto accorgersi per la nebbia, gli si scoperse improvvisamente un convoglio di cavalli e cavalieri ch'egli non potè scansare, come avrebbe voluto. Erano quattro gentiluomini seguiti dai loro servi, quattro patrizi milanesi ch'egli conosceva, il conte Birago, il Figino, il Tornano, il Crivello; ai cavalli tenevan dietro alcuni somieri che trasportavan bagagli; era facile comprendere, che coloro erano in ordine di viaggiar lontano.

Il Palavicino stette intradue un istante per darsi a conoscere…. pure non ne avrebbe fatto altro, se il conte Birago non avesse riconosciuto lui, quantunque fosse coperto dal mantello fin sotto gli occhi, e lo adombrassero le falde del cappello di feltro, tutte bianche di bruma. Il conte lo aveva bensì lasciato passare innanzi, ma detto ai compagni il dubbio suo, questi per un moto spontaneo, e per vedere se mai fosse stato un abbaglio, nominarono il Palavicino, che non seppe più celarsi.

Si fermarono così, senza che nessuno ne avesse avuto un'espressa volontà, i quattro gentiluomini, i cavalli del seguito e il Palavicino; questi provava un certo conforto nel vedere de' volti conosciuti prima d'entrare in città, a malgrado quell'avversione antica che ad essi aveva sempre portato e non aveva mai potuto far tacere per la diversità dell'indole, dei principi, del partito, de' veementi e iracondi diverbi avuti secoloro per le cose appunto che toccavano davvicino l'interesse del paese comune.

—Il marchese Palavicino?…. domandò il conte Birago a lui che volgeva il capo e sprigionava il volto dalle pieghe del mantello.

—Son io, esso rispose, come tu se' il conte Birago, e tu il Crivello, e voi due il Figino e il Torriano. Vi riconosco tutti…. e ho caro rivedervi… pure non fate che il mio nome sia ripetuto un'altra volta dal vento qui…. Cammino su di un terreno dal quale violentemente fui cacciato…. Voi dovete saperlo.

—Tutti lo sanno; però stupisco di vederti qui, marchese, e, com'è vero Iddio, vorrei che subito rivoltassi il cavallo e ripassassi l'Adda come l'hai passata.

—Così farei, se mia madre non mi chiamasse, mia madre che sta in termine di morte e vuol vedermi…. Ma voi che venite di là ne dovreste ben sapere qualcosa. Che stato dunque è il suo?…

I quattro cavalieri si guardarono in faccia a quella domanda, come consigliandosi a vicenda intorno a ciò che convenisse rispondere.

—Che stato è il suo? ripetè poi il Birago, pensando intanto a quel che dovesse dire; che stato è il suo?… Noi non ti sapremmo invero far contento… ma s'ella mai avesse a morire, son tempi questi in cui è lecito confortarsi se il padre, se la madre, se i fratelli ne muoiono.

—Atroce, insopportabile conforto!! La tramontana che venta è molto men rigida di queste tue parole.

—Io vorrei che fossero ancora più rigide, e ti spaventassero tanto da farti retrocedere. Ne siamo usciti anche noi, lo vedi, e se ne uscimmo all'alba, e in questa squallida stagione, non sappiamo se di giorno o di notte, d'inverno o d'estate ci ritorneremo…. Dio solo lo sa…. Il nostro cammino intanto è essai lungi.

—Banditi anche voi?… pure foste sempre francesi sin nelle ossa…. Io non so comprendere.

—E noi comprendiamo quanto ci parlavi tu da senno una volta. Non è parola che sia uscita dal tuo labbro allora, la quale sia rimasta senz'un effetto adesso. Così non fosse stato, così potessi adesso schernire la tua paurosa e fallace prudenza; ma noi usciamo del paese nostro quando la nebbia e la tramontana ci sta di sopra e d'intorno…. Pure, sebbene l'amaro fatto ti dia ragione, io mi sento obbligo di stringere quella tua mano leale, e di baciare quella saggia tua fronte. Gli anni e la dura prova assennano gli uomini, ed è venuto il tempo che noi tutti ti dobbiamo dar ragione.

Il conte tacque; tutti tacevano, il silenzio non era interrotto che dal vento di tramontana che, agitando gli alberi, faceva cadere i flocchi della neve raggelata su quelle teste patrizie.

—È tardi! disse poi il Palavicino.

E in quel punto, fosse l'aria che si facesse ancor più rigida, fosse quella parola, tutti sentirono crescersi i brividi nelle ossa e si ristrinsero i mantelli d'intorno, che parevan diventati più leggeri.

—Manfredo, parlò allora il Birago, se noi non ti abbiam voluto ascoltare, ascoltaci tu adesso. Non entrare in città e vieni con noi, e fa che l'esperienza non abbia poi a rimproverarti di non avermi dato retta. Tu vai per rivedere tua madre, ed ella forse a quest'ora potrebb'esser morta.

—Morta!! uscì quasi in un grido il Palavicino allora.

Gli altri tornarono a guardarsi in viso…. il Birago si trattenne.

—Non ne sappiam nulla, disse poi. Ma vorrei ch'ella fosse morta; per il tuo bene lo vorrei…. Retrocedi.

—S'ella è viva, come ne ho fiducia, come ne scongiuro Iddio, che non mi vorrà disperato, io la rivedrò ed ella ne sarà tutta consolata. Se poi ella fosse morta…. ma ciò non può essere…. che io ne avrei avuto qualche presentimento.

—Manfredo, entrò allora per la prima volta a parlare il conte Crivello, noi vorremmo che tu credesti alle proteste della nostra amicizia, che mai non fu tra noi, e che adesso ti esibiamo, ed è santificata dalla comune sventura; noi vorremmo che tu ascoltassi i nostri consigli. Non fummo banditi come tu credi; non abbiamo avuto, per noi stessi, fino ad oggi, a patir soprusi dalla Francia e dall'atroce uomo che ci governa; a noi non fu ancor torto un capello; pure abbiam cambiate tutte le nostre terre in oro sonante, ne abbiamo caricato i nostri cavalli; tutte le nostre sostanze sono qui, e dolorosamente emigriamo. Il solo spettacolo dell'universale miseria, quand'anche in un prossimo avvenire non avremmo intraveduta anche la nostra, bastò a spaventarci tanto da comandarci la fuga. Or pensa se a te conviene ritornare, che più volte fosti notato sulla tabella del capitano di giustizia, e quando la tua famiglia ebbe la prima a sopportare per te lo sdegno terribile di Odetto? Tuo padre fu spodestato di quanto aveva in Lombardia, se non lo sai, te lo dico, ed ora è a Parma, se pur vive ancora; un tuo fratello fu ucciso; gli altri fuggirono….Sappi ancora, che Odetto ti ha condannato nel capo ed ha posto una taglia sulla tua testa. Retrocedi dunque, per carità retrocedi e vieni con noi. Il Birago parlando di sè, ha espresso l'animo di noi tutti, che sentendoci colpevoli di averti offeso altra volta, ora ti serbiam gratitudine e ti amiamo. Vieni dunque con noi.

Il Palavicino non rispondeva; era sbalordito dall'enormità delle sue disgrazie e di quelle della sua famiglia, e per la prima volta sentì spuntare nell'animo un sincerissimo affetto pei fratelli e per suo padre, pel quale aveva tanto sofferto.

—Non hai tu incontrato altro convoglio lungo la via? gli domandò poi il Crivello.

—Non ho incontrato nessuno. Ma che vuol dire con ciò?

—Volevo dirti, che tutti provvedono alla propria sicurezza. Oggi partirono i Salvadego, i Rho, i Gallarate, i Marcellino, i Mariani, i Ferreri, tutti per Venezia, ove ci rechiam noi. Jeri il Besozzi e il Moriggi e il Lampugnani partirono per Nizza; è da più mesi che tutti i giorni parte qualcheduno, e parte per non ritornare mai più.

—Mai più? chiese il Palavicino scuotendosi; mai più, chi lo dice?

—Dove sono le ragionevoli speranze?

—In voi stessi ci dovrebbero essere, per Dio! In me ci sono, in me più sbattuto e più lacero di voi. Sette anni or fanno aveste troppa fiducia negli altri, ora non sapete più trovare nessuna speranza in voi stessi: per verità, quasi parrebbe che Iddio vi abbia maledetti.

—Ma che speranze hai tu?… Il Palavicino stette un momento in silenzio, poi disse:

—Il Morone è a Roma, ed egli pensa dì e notte a tutte codeste cose. L'acuta forza della sua mente vi è nota, ed è invero un gran conforto l'avere di tali uomini per concittadini. S'ei fosse nato re, tutto il mondo avrebbe sentito il suo benefico influsso; ma suddito a cittadino soltanto, provvederà a sanar le piaghe del suo paese ed a ridonargli il suo duca.

—Ma e con quali mezzi?

—La fortuna talvolta ci è destra. Ci è tanto destra, che… guardate e pensateci bene…. vi fa emigrar tutti, e nella vostra debolezza medesima trova gli argomenti per reintegrarvi alla vostra salute. E da più mesi, avete detto, che ogni dì esce taluno e va lungi… Questa notizia è preziosa, preziosa tanto, che il Morone contava soltanto su di essa. Voi siete in cammino per Venezia; gli altri che oggi partirono son pur diretti a Venezia…. è ben ciò che io ho udito?

—Sì, tutti, quasi tutti almeno si raccolgono colà.

—E questo, perdio, è destino! Solo mi pesa, che di tutte le città siasi scelta la peggiore appunto; pure, se la fortuna ha cominciato, continuerà, quando provvediate a raccogliervi tutti in un sol luogo, che poi sarà facile passare altrove. Il resto lo farà il tempo e chi ha più senno di voi, di noi tutti. Andate dunque pel vostro cammino, e nella mia tristissima condizione mi è dolce augurarvi il felice viaggio assai più amico che mai non vi sia stato, e tanto più che codesta amicizia mi fu da voi medesimi esibita per i primi. Questo è pegno che la provvidenza è per noi, onde in lei confidando, e nel suo aiuto, volo incontro a mia madre per dispiccarmene poi tosto. Tornato che sarò a Roma, scriverò a te, Birago, e forse ci rivedrem prima a Venezia, chi sa!… Grandi cose hanno ha succedere, grandissime, o amici miei, e non può essere altrimenti, se io ne ho una così viva fiducia nell'angoscia profonda dell'animo mio, nella rovina della mia casa, nella miseria di tutti, e nello squallore di questa morta natura; però vivete felici, io non ho più tempo da perdere.

Detto questo, senz'attender altro, fe' dar di volta al cavallo e si rimise in via di corsa.

Il Birago lo chiamò replicate volte, ma visto che non ne avrebbero cavato altro.

—Egli va incontro alla sua rovina, esclamò, e spera nella nostra redenzione.

—Dio l'aiuti, e noi pure—aggiunsero gli altri, e mestissimi si rimisero in via, correndo molte e molte miglia senza rompere il vasto silenzio che li circondava.

Dopo qualche momento, su quel medesimo sentiero aperto da loro, camminava a passo, venendo da Milano, e parimenti rivolta all'Adda, un'altra numerosa cavalcata. Eran le sei famiglie milanesi nominate dal conte Crivello. Molti uomini a cavallo avvolti in grevi pellicce fin sotto gli occhi e molte donne nelle lettighe portate dalle mule. La ricchezza degli equipaggi attestava l'alta loro condizione; ma non era voce che sorgesse fra tutte quelle persone. Gli uomini, chiusa la bocca nei mantelli, tenevan la testa bassa, o volgean l'occhio intorno con quell'atto meditativo e grave che dà indizio di una pessima condizione dell'animo. Le donne, pensose anch'esse e qualcuna piangente…. pure andavano a Venezia per godervi il prossimo carnevale, come avean lasciato detto.

Il Palavicino, accortosi in tempo di quel nuovo convoglio, potè scansarlo, e così, senz'altr'incontro, verso le ore ventidue arrivò sotto le mura di Milano. L'esser stato facilmente riconosciuto dal conte Birago e dagli altri, gli fece pensare al miglior modo di celarsi altrui. Perciò stimò opportuno di lasciare il cavallo fuori delle mura, e d'entrar pedestre nella città tutto imbavagliato fino agli occhi.

La nebbia, che a quell'ora s'era fatta ancora più fitta, lo liberò dal timore di poter essere facilmente riconosciuto. Così prese per la via più breve, diretto alla casa del conte Galeazzo Mandello, col quale voleva abboccarsi prima di recarsi dalla madre che, uscita com'era dalla casa paterna, la quale era passata al fisco, non sapeva dove di presente fosse ricoverata.

Sebbene egli si trovasse immerso nella massima tristezza, pure, entrato che fu in città, non potè non accorgersi del novissimo aspetto con cui questa gli si mostrava. Era giorno di martedì, e le botteghe eran chiuse come ne' dì festivi. Per la novità del caso non potè dunque trattenersi dal richiederne un buon popolano che gli camminava presso.

—Che vuol dir questo, buon uomo, ch'io non ho ancor trovato bottega che sia aperta?

—Vuol dire, caro signore, che i mercanti han dato licenza a tutti i loro lavoranti, e ieri sbarrarono le botteghe. Da che Milano è Milano non s'è mai veduta una cosa simile. Ma questa volta i mercanti fecero davvero orecchio da mercante, e il signor governatore, che dopo aver fatti domandare gli abati dei Paratici, impose loro una tassa di cinquantamila ducati da pagarsi tosto agli Svizzeri che han messo in campo certe loro pretese, questa volta non trovò la solita paura, e i nostri operai trovarono il coraggio nella disperazione. E tutt'oggi intanto che la città è in gran silenzio, e pochissimi vanno in volta, e la nebbia e il freddo e il ghiaccio, ch'è più terribile ancora di quel del dieci, ha fatto che ciascun cittadino stesse fermo nel suo proposito. Ben è vero che il Lautrec ne ha fatti prender parecchi, e in dodici ore si son commesse più atrocità che in dodici anni, e Dio sa a che si vorrà riuscire….

Il Palavicino, senz'aggiungere parola, impedito com'era dal pensiero incalzante di sua madre, continuava di corsa la sua via, per cui il popolano, credendo di non fermar molto la sua attenzione, a una svolta della contrada, lo lasciò di punto in bianco e se n'andò pe' suoi fatti.

Ma per quanto il Palavicino fosse assorto, potè pure accorgersi della squallida apparenza dei palazzi signorili. Intorno a quell'ora egli era sempre stato solito vederne le finestre riboccanti di luce, e per le porte e gli atrii un ire e redire continuo di cavalli, di cavalieri, di lettighe, di servi, di famigli, essendo l'ora in cui tutti i convitati si affollavano alle mense dei magnifici signori. Ma in quel dì non avrebbe potuto accorgersi dei palazzi, se non se per le alte e cupe facciate che rendevano ancor più nere le tenebre delle contrade. Del resto le finestre e le porte, chiuse in gran parte, erano indizio che le case, come quei castelli deserti per timore dei notturni fantasmi, erano state abbandonate dai loro padroni.

E sebbene il Palavicino avesse udito non esservi giorno in cui volontariamente non uscisse qualcuno dalla città, pure non avrebbe mai creduto si fosse giunto a quel termine. In quanto poi al popolo minuto, che la popolazione fosse ancora abbondante, glielo indicarono migliaia di fiammelle che dopo qualche momento si mostrarono luccicando dalle impennate delle casupole e delle catapecchie a diradare qualche poco la nebbia.

Ma sconfortato dalla vista di quegli squallidi prospetti, il Palavicino affrettò più ancora il passo, e finalmente si trovò a San Martino in Nosigia, innanzi al palazzo del conte Galeazzo Mandello.

Entrò, domandò del conte: gli fu risposto che non era in palazzo, ma che se avesse voluto lasciar detto qualche cosa, si rivolgesse al maggiordomo.

Il Palavicino, costretto a starsi di ciò contento, pregò gli conducessero innanzi quell'uomo ch'egli conosceva assai bene, e sapeva esser fidatissimo del conte.

Colui comparve finalmente, e appena fu lasciato solo col Palavicino, questi gli si scoperse dicendogli:

—Son io, buon uomo, e vengo a cercar di mia madre. Desideravo però prima di vedere il conte: dove può esser dunque a quest'ora?

L'uomo del conte, maravigliato nel vedere il Palavicino,

—Per carità, gli disse, vogliate venire nel gabinetto del conte. Qui troppo occhi ci potrebbero vedere; venite con me. Voi mi ponete in apprensione…. Ma perchè siete venuto qui…. e di questi tempi, e di questa stagione?….

Così dicendo, seco il traeva ad una delle camere più interne.

—Venni per mia madre, gli andava intanto rispondendo il Palavicino, e sapendo quanto è avvenuto nella mia casa in questi infelici tre anni, e com'ella sia rimasta qui sola, affatto sola, son qui per sapere dove se ne sta di presente….

L'uomo del conte guardò il marchese stupefatto, e fu in procinto di dire alcune parole, che tosto tramutò in quest'altre:

—Ma da chi avete saputo tutto questo, illustrissimo? Ma chi v'ha detto ch'ella sia a mal termine?

—Mi fu scritto, però fui scongiurato a venir qui, e, come dunque potete pensare, tosto io mi mossi.

—Oh com'io vi compiango, caro signore! rispose l'altro allora facendosi forza. Ma io non so darvi nessun conforto…. Solo vi prego a sopportar la sventura con rassegnazione…. Oh, per carità, non tremate così! Siate uomo e abbiate fermezza…. Voi dunque mi avete compreso.

Il rapido tramutamento dell'espressione e delle tinte che a tali parole si osservò sulla faccia del Palavicino fu cosa straordinaria, e più straordinaria ancora quell'immobilità, dirò quasi demente, che subì tutta la sua persona, e poscia quel balzo istantaneo dall'immobilità all'escandescenza.

—Ma quando?!… chiese poi, allorchè nella parola si riversò l'angoscia disperata dell'animo.

—Martedì, alle quattro della notte. Ora sta nella cappella di San Martino. Il conte mio padrone ha fatto tutto quello che far si poteva per quella povera signora…. Non fu conforto che mettesse da parte…. l'assistette fino all'ultima ora sua. Ero là anch'io…. ed ella morì benedicendo voi, caro signore; quando il conte mio padrone le giurò (le parole le ho sentite io stesso) che, purchè morisse in pace, egli avrebbe sagrificato anche la vita per amor vostro e per la vostra sicurezza…. Quella povera signora repentinamente s'alzò alle sante parole del conte, lo abbracciò, lo baciò. Ciò vidi io stesso co' miei occhi, e ho pianto.—Io vi raccomando il mio buono, il mio unico figliuolo, gli disse, l'unica mia delizia; proteggetelo sempre, sempre, e che voi siate benedetto…. e stringendosi al petto un lembo di veste che vi coprì fanciullo, e supplicando il conte che quella unica memoria fosse con lei seppellita…. spirò…. Ma voi piangete, caro signore…. Oh! perchè non era qui il conte…, perchè non era qui lui, che vi avrebbe saputo confortare…. Ed io non posso trattenere le lagrime…. Era davvero un angelo di bontà quella povera vostra madre…. Ma consolatevi, che morì col sorriso sulle labbra, tanta gioia le recarono le parole del mio padrone.

Fu ottima cosa veramente che l'uomo del conte, condotto dall'ingenuità del suo carattere e della sua stessa pietà, abbia esposto il fatto in modo d'aprire una larga via alle lagrime. Il dolore del Palavicino fu alleggerito così, ed egli stette quasi un'ora senza profferir parola, piangendo di continuo dirottamente. Alla fine tanto quanto si riebbe.

—Che ora può essere? domandò.

—Le ventiquattro, caro signore.

—E il conte non ritorna?

—Sin oltre a mezzanotte non ritorna mai. Egli è a palazzo.

—A palazzo?

—Dal governatore.

—Il conte dal governatore? Il Palavicino si scosse facendo questa domanda.

—Egli ci va sempre, marchese. Di tutti i Milanesi egli è il più accetto al governatore.

—Vorrei che ciò non fosse, lo vorrei, com'è vero Iddio!

—Ma non credo che il governatore sia così accetto a lui.

—Perchè ci va dunque?

—Se ci va…. vuol dire che facendo altrimenti, farebbe il danno di sè e degli altri. S'io vedessi il conte mio padrone a colloquio col diavolo, non mi stupirei punto; direi soltanto: questa volta è il diavolo che va di mezzo. Il conte, caro signore, è tutt'altr'uomo di quello che voi l'avete lasciato…. Alle cene del governatore, non crederei ch'egli sia l'ultimo a vuotar fiale…. ma in casa non beve quasi mai. A mezzanotte la sua mente è lucida come a mezzodì. Del resto non ho mai potuto farmi capace come sia riuscito a divezzarsi da quel costume che voi sapete…. Ma il conte è padrone di sè e degli altri, di tutto e di tutti, e se vuole una cosa, state pur certo ch'ei sarà anche per farla, e tosto; lasciate dunque che vada dal governatore.

—E sia…. gli rispose il Palavicino; e attirato ancora dal funesto pensiero della madre: Dunque tu hai detto ch'ella sta nella cappella di San Martino?

—Ponete da parte questo doloroso pensiero.

—Dimmi, io vorrei vedere dov'ella fu seppellita!

—Non fate, marchese; lasciate questo doloroso pensiero….

—Dimmi, se il conte ha voluto provvedere a tutto, avrà pur pensato a far ritrarre l'immagine di quella donna soave. Un tal ritratto mi abbisogna; conviene ch'io lo rechi sempre con me.

—Anche a questo avrebbe provveduto il conte….

—Avrebbe?….

—Sì, avrebbe; ma in tutta Milano non si trovò nè pittore, nè scultore, nè disegnatore, nè altro che fosse abile a ciò in qualche modo…. Tutti se ne sono andati. La scuola che ha aperto il Leonardo fu chiusa, caro signore, e quell'edificio fu trasmutato in magazzino per lo strame de' cavalli francesi. Prima che voi partiste, già sapete che il Luino e tutti i suoi scolari se ne erano andati. Il Calzago, scultore, fu l'ultimo…. e colle vesti che gli cascavano a brandelli venne dal conte, prima di partire, perchè gli desse qualche fiorino, che voleva recarsi a Ferrara. Così dunque in tutta Milano non si trovò chi sapesse ritrarre la benedetta immagine della madre vostra….

—A tanto siam giunti! proruppe il Palavicino; ma il nome attesta il luogo almeno dov'ella venne seppellita?

—Questo fu fatto.

—Ora discenderò in chiesa, vedrò almeno la pietra che copre l'infelice e benedetta sua cenere. Oh madre mia!!

—Ora mi torna in mente una cosa, caro signore; voi diceste poco fa che un servo della contessa vostra madre vi scrisse espressamente una lettera per esortarvi a venir di volo a Milano?

—Questo ho detto, e questo è di fatto.

—Eppure adesso che ci penso, ciò non può essere, ciò è impossibile.

—Ma perchè dici questo?

—Ho udito io stesso il conte più volte a raccomandare alla contessa, e a chi stava con lei, di non dare a voi nessuna notizia del pessimo stato, in cui ella trovavasi. Ben lo avrebbe voluto la madre vostra, ma quando fu fatta capace che trattavasi della vostra rovina, non replicò altro, e disse al conte:—Fate voi—e so benissimo ch'ella soggiunse:—Quando scrivete a Manfredo, dategli dunque le migliori notizie di me, tanto ch'ei viva tranquillo e non si muova di là.

—Questo è vero di fatti. Il conte mi scrisse ch'ella stava abbastanza bene.

—Ma quando dunque vi giunse l'altra lettera?

—Qualche tempo dopo….

—E chi la scriveva,…?

—Credo, il servo; del resto non so, quel carattere non lo conosceva…. Ma cosa pensi tu?

—Cosa so io!… pure non sono tranquillo. Io tremo per voi…. Quanto pagherei che fosse qui il conte, mio padrone….

La campana di San Martino in Nosigia suonò in questa l'avemmaria.

Il Palavicino che s'era messo a sedere si alzò… fece due o tre passi per la camera, poi con un accento il più accorato che mai.

—Discenderò in chiesa, disse; bisogna ch'io parli al priore, bisogna ch'io veda il luogo dove sta il corpo benedetto di mia madre.

—Sarebbe meglio vi fermaste ad aspettare il conte.

—Aspettarlo fino a mezzanotte? Non è possibile. Discendo dunque un momento in chiesa, e torno subito; siamo a tre passi; non ci può esser nessun pericolo.

—Fate come volete, ma Dio v'aiuti. Il Palavicino uscì e discese.

In quei momenti egli era così assorto nel pietoso pensiero della madre, che nel mondo e fuori di esso non v'era cosa nessuna di cui menomamente avesse coscenza. E quantunque il suo aspetto fosse tranquillo, era però quella calma solenne e funesta che promove le lagrime in chi n'è spettatore.

Entrò dunque in chiesa, si recò innanzi all'altare della Vergine, girò uno sguardo sul pavimento; e vi cercò una lapide; la scorse, diè un guizzo per tutte le membra, e vi si accostò; lesse il nome di Giulia Flisea Palavicino, quel nome così caro e così funesto, stette immobile a considerarne le lettere incavate nel sasso, poi vi s'inginocchiò sopra con una compunzione così religiosa, così scrupolosa, che idea non giungerebbe a comprenderla.

Nella chiesuola v'era uno scarso numero di persone che vi si eran raccolte per recitare la terza parte del rosario; tutte notarono la presenza di lui.

—Chi può esser mai quel giovane gentiluomo? disse uno.

—Lascialo in pace, e attendi a rispondere all'avemaria che recita il priore.

—Io vi attendo… però guardate anche voi che turbamento insolito è su quel giovane volto.

A tali parole, l'altro devoto, bisbigliando l'avemaria, si volse.

—Quello che tu dici è vero… ma non so s'egli potrebbe avere invidia di noi. Bada ch'ei s'è accorto che noi stiamo a guardarlo. Lascialo dunque in pace, e preghiamo anche per lui, s'egli è così tribolato.

Intanto che questi parlavano tra loro, un altro strano dialogo si stava facendo al vestibolo della chiesuola, fra tre uomini tutti imbavagliati nei loro mantelli, e il sagrestano.

—Dunque non avete veduto nessuno neppure oggi? domandava l'uno dei tre al sagrestano.

—Nessuno, in fede mia, e ci viene così poca gente oramai, ch'ei sarebbe ben facile accorgersene.

—Eppure avrebbe dovuto capitarci.

—Domandatene anche mia moglie, e vi dirà s'ella ha mai veduto capitar qui gentiluomini nè giovani, nè vecchi; in quanto poi alla lapide che il priore fece murare l'altro dì, posso assicurarvi che non ha fermato l'attenzione di nessuno.

I tre si ristrinsero in crocchio.

—Ciò pare inverosimile, diceva l'uno.

—Non è però detto ch'egli debba venirci infallibilmente.

—Eppure, se la lettera arrivò in tempo egli dovrebbe essere in Milano a quest'ora.

—Può darsi benissimo ch'egli sia in Milano. Ma va a dirgli ch'egli debba trovarsi qui appunto perchè torna comodo a noi.

—Sentite, disse allora un terzo, mezzo in francese, mezzo in italiano, se non ci viene dentr'oggi o dentro domani, possiamo esser certi che non ci verrà mai più.

—E ciò mi pesa, perchè noi avremo taccia d'uomini dappoco.

—Questa sarebbe bella! Come se a noi fosse stato dato carico d'andarlo a strappar da Roma.

—Va a dirlo a colui che vuol che vuole, e va sulle furie e imbestia quando non si ottien l'impossibile.

—È tutto fiato buttato; ora rechiamoci ancora a fare una visita al palazzo del marchese.

—È già la sesta volta che ci torniamo oggi; e di questa stagione, con questa nebbia, con questo freddo, correre e ripercorrere la città coi piedi nella neve e nella pozzanghera da mattina a sera, c'è da diventar vecchi in un mese.

—Torno a ripeterlo, va a dirlo a colui che vuol quel che vuole.

A questo punto, fra una tarlata imposta del vestibolo, e la grossa tenda imbottita di piuma, fece capolino la vecchia moglie del sagrestano, e chiamò:

—Menico vien qui un momento.

Il sagrestano si mosse, entrò in chiesa colla vecchia, e ne usci poi subito dicendo ai tre:

—Venga in chiesa qualcuno di voi… presto, venite a vedere. Mi pare ci sia l'uomo che voi cercate.

Uno dei tre v'entrò in fatti, per uscirne poi tosto anch'esso esclamando volto ai compagni:—È lui davvero. Venite.

I tre si strinsero in un gruppo.

—Lui?

—Sì, lui; ci cascò adesso.

—Ma ne sei poi sicuro?

—Diavolo… come che io son io, e tu sei tu; ci può esser dubbio?

—Fu dunque un buon pensiero.

—Non credo che ve ne fossero di migliori; o presto o tardi ci doveva venire… e fu già troppo l'aver aspettato fino ad oggi.

—Non buttiam le parole; ora io ti domando: che si ha a fare?

—C'è da pensarci? aspettare il momento e non perderlo mai d'occhio.

—E stanotte medesima trarlo dal governatore.

Stavan costoro facendo ancora queste parole, che il Palavicino, come fuggendo da cosa che lo spaventasse, spalancata la porta del vestibolo, uscì della chiesuola, imbacuccandosi fino agli occhi nella propria pelliccia.

I tre, che a ciò non eran preparati, si rimasero un momento perplessi su quello che conveniva fare.

—Se non volete che ci sfugga, disse un d'essi, seguiamolo tosto, e assicuriamoci di lui.

—Per me penso, che sarebbe bene tenergli dietro da lontano per non dargli sospetto.

—Che fa a noi se anche facesse dei sospetti?

—Sentite, nostro incarico è quello d'impadronirci di costui, non è già quello di metter la contrada a rumore, che, se vi ricorda, il governatore ci comandò facessimo le cose alla sorda. Dunque, siccome ad esser pronti è impossibile che ci scappi, così fate quel che vi dico, e andiam di fretta; tu a dritta.., tu a sinistra… noi due gli staremo alle coste… attenti dunque, che la nebbia non ce lo possa nascondere.

Così dicendo, s'eran già incamminati sui passi dei Palavicino il quale, correndo a furia, li faceva correre affannati. Percorsero così una, due, tre contrade, e nel silenzio che a quel tempo, in quell'ora s'era steso per tutto, s'udivano distintamente le veloci peste delle quattro pedate.

Ma il Palavicino non s'accorgeva di nulla; la condizione dell'animo suo era tale, da non permetterle d'aver più una sensazione del mondo esterno. D'improvviso rallentò il passo, pareva fosse incerto della via per dove avesse a prendere; fu due o tre volte per ritornare al palazzo del conte Mandello, ma l'idea che doveva fermarvisi tante ore per aspettarlo, lo fece risolvere diversamente. Aveva bisogno di trovarsi solo con sè stesso, di agitarsi, di correre. Qui gli venne un altro pensiero. Ma nell'irresoluzione percorse e ripercorse due o tre viottoli; essendosi finalmente determinato, accelerò più che mai il passo alla volta della casa paterna.

Egli medesimo non sapea veramente perchè si recasse a quel luogo di tanto terribili memorie, ma il fece forse per quella inesplicabile e disperata voluttà, onde l'uomo, non potendo in nessun modo far cessare un dolore, gode quasi nel tentar d'aggiungergli egli stesso un'asprezza nuova.

Davvero che quegl'istanti eran così crudi, così desolati, così orrendi per lui, che, a non rimanerne oppresso e vinto gli bisognava un fatto, una occasione, una cosa qualunque che, in qualche modo, ne cangiasse il tenore.

Camminato così per qualche tempo, intravide finalmente, attraverso la folta nebbia, la torre quadrata della sua casa fatale; s'accorse poi come di una viva luce che, innanzi al portone, diradava qualche poco la nebbia.

Fatto un passo, riconobbe il vecchio portinaio del palazzo che teneva un lampione, l'unico rimasto degli antichi abitatori di quel luogo, l'unico dei tanti servi che, una volta, popolavano quel palazzo. Questo, passato al fisco e vuoto da molto tempo, era stato dato in custodia a lui per ingiunzione del fisco stesso, e il vecchio servidore con rammarico vi rimaneva. Nel momento che il Palavicino lo scòrse, esso tornava d'aver detto il rosario ad una vicina cappella, e stava per chiudersi dentro; udì allora chiamarsi per nome, si volse, e vide il figlio del suo antico padrone senza riconoscerlo al primo; ma quegli, trasportato dalla sua disperazione, senza saper quello che si facesse, mise il piede in palazzo.

Fu allora che il servo, seguendolo col lampione, e riconosciutolo, ne fu oltremodo colpito e gli disse qualche parola; se non che il Palavicino, sturbato ne' propri pensieri da quel suono, meccanicamente gli accennò di tacere.

Si fermarono così ambidue nel mezzo del cortile…. il lampione, per la nebbia, formava come una grande e rossa aureola intorno ad essi, la quale riusciva a rischiarar qualche poco gli atrii, lo scalone e le finestre del palazzo; il Palavicino vi gettò un'occhiata; questa bastò perchè la sua faccia, in un subito, tutta quanta si bagnasse di lagrime. La vista di una finestra di quegli atrii, di quella scala, facendogli di balzo ritornar nella memoria la madre sua che, la notte ch'ei fu cacciato di casa dall'inesorabile padre; n'era discesa per abbracciarlo un'ultima volta sotto gli atrii, e richiamandogli il tenore delle affettuose parole di lei nel tristissimo istante dell'abbandono, gli mise l'animo sossopra. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma intanto che il servo stupefatto taceva, che Manfredo gemeva, che la fiamma del lampione stridea per l'umidità, in quel silenzio s'udiva il rumore continuo (e parea venisse da una delle contigue casupole) come di un arcolaio che girasse e girasse, e una voce femminile che accompagnava quel suono.

Una povera donna, forse ad ingannare la dolorosa e lunga solitudine e la noia del lavoro, cantava macchinalmente una di quelle semplici e rudi canzoni che il popolo trova, e che passano per tutte le bocche in una data stagione. Canzoni che, nel territorio milanese, sono vestite di suoni così monotoni, e improntate di quella gravezza così esclusivamente longobarda, che ci pesan sull'animo, anche allorquando le parole han significato giocondo.

Ma le parole che, cantando, pronunciava la povera filatrice, eran troppo lontane dal rendere una idea lieta; eran parole nate spontaneamente, non faceva gran tempo, sulle labbra commosse del popolo per riassumere, coll'unica efficacia della naturale poesia, la vasta congerie degli atroci fatti ond'erano d'ogni intorno oppressi: canzone che, cantata in pubblico, era costata a molti la prigione e il patibolo, ma che quella donna, senza pensare più in là, cantava tranquillamente nella sua innocenza.

Il Palavicino dovette, per forza, prestarvi orecchio. Il frammento vernacolo che la voce continuava a ripetere, era questo:

I campann d'òr e d'argent Hin in del pozz de sant Patrizzi…. Dimmel a mì che s'era present, L'era proppi un gran stremizzi…. Dâi lader… dâi lader… Che sèm tutti ruvinaa… …………………….. ……………………..

La cantilena con cui, facendo il ritornello, si esprimevano quegli ultimi due versi, era di tal natura che, mettendo i brividi nel sangue, facea rizzare i capegli in sulla fronte.

Il Palavicino non potè sopportarla … le sue lagrime si arrestarono; due dolori si fusero in uno, salutò grave il vecchio servo, che lo guardava stupefatto … ed uscì.

Fuori del portone, s'incontrò faccia a faccia coi tre che lo stavano attendendo; ma egli non ci badò, e infestato da quel lûgubre canto che, nel generale silenzio, gli suonò fino all'estremo punto della contrada, continuò il suo disordinato cammino.

Ma noi, senza più accompagnarlo, lo lasceremo nella trista compagnia dei tre che più gli si stringono dappresso; e giacchè la canzone della povera filatrice ci ricondusse ai gravi pensieri della cosa pubblica, è bisogno che noi, rimontando molti anni addietro, tentiamo riassumere adesso, in brevissime parole, le cause che da lontano la prepararono, per ritornare poi tosto ai privati avvenimenti.

Trent'anni prima dell'epoca a cui siamo coi fatti che raccontiamo, chi avesse voluto tener conto della condizione di Milano, anche dopo avere assistito alle poderose forze del commercio di Genova, di Pisa, di Livorno, di Venezia, alla grandezza cui eran salite le arti a Firenze, a Ferrara, e le scienze a Bologna, a Padova, sarebbe rimasto tuttavia maravigliato, contemplando la floridissima condizione del Milanese.

Lanifizj e setifizj in tanto numero, quale non ebbe a vantar mai prima di quell'epoca; fabbriche di stoffe, di broccati, di broccatelli, di bucherame, che esportavansi nella bassa Italia, a Lione, a Parigi, a Londra, persino alle Fiandre, dove pure l'industria manifatturiera era giunta a così alto punto. Officine innumerevoli per la fabbricazione delle armi, all'acquisto delle quali si accorreva qui, come tutti sanno, da tutt'Europa. E a tal potenza manifatturiera e commerciale non inferiore la coltura delle scienze, delle lettere, delle arti. Lodovico fu per Milano, nella relazione colla civiltà, quello che fu Leon X a Roma, colla differenza assai notevole, che Lodovico gli fu anteriore di un quarto di secolo, e che invece di trovare il cammino in gran parte già dischiuso, dovette egli il primo aprirlo di posta, dopo che il governo feroce e tenebroso dei due ultimi Visconti, l'anarchico interregno, torbida linea di divisione tra lo spegnersi d'una dinastia, e il sorgere d'un'altra, l'atrocità mentecatta di Gian Galeazzo Maria, che avea disperse al tutto le generatrici sementi del primo Sforza, avevano moltiplicati inciampi al vitale dispiegamento di tutte le forze d'uno Stato. Inciampi che al Moro riuscì di superare con tale prontezza e pienezza di risultato, che lo fanno meritevole della lode degli storici.

Pubblici stabilimenti d'istruzione, le scuole del Piatti, del Calchi, del Grassi, s'aprirono sotto lui per la prima volta. Il Calcondila, il Merula, il Minuziano, il Ferrari ed altri molti si raccolsero in Milano, per insegnarvi scienze, lettere, lingue erudite. Il Leonardo fondò la scuola lombarda di pittura; il Gaudenzio Ferrario, il Luino, l'Oggionno, antistiti di quella scuola, fiorirono sotto il Moro. Bramante dispiegò per lui il suo straordinario ingegno architettonico, e lo trasfuse in Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino. Insieme ad un'accademia di pittura venne pure dal Moro fondato il primo conservatorio di musica che vantasse Italia, e così molt'altre instituzioni s'effettuarono per le sue cure, come sanno anche coloro che men sanno di storia patria.

E tali cose noi avremmo tralasciato di por qui, considerando che in mille guise furono già notate, raccontate, discusse da storie generali e parziali, da cronache municipali, da dissertazioni accademiche, artistiche, se non giovasse richiamare un istante tutti codesti fatti gloriosi in mille libri notati, per parlar poi dell'ultimo esito a cui toccarono, vogliam dire dell'assoluta loro scomparsa, del loro diuturno esiglio dal paese nostro; fatto complesso dissimulato di molti fatti individui, replicati ad esuberanza; fatto che, esplicitamente almeno, e quando è toccato, intendasi bene, questo solo periodo di tempo, non si trova registrato ne' libri.

Abbiam detto quando è toccato questo solo periodo di tempo, perchè, parlando poi dell'era ispanica, tutti gli storici tumultuano in folla, ripiangendo la fuga delle arti, accelerata dal suono del tamburo delle soldatesche spagnuole.

La scomparsa delle arti e delle industrie venne dunque da tutti sin qui registrata dopo la venuta degli Spagnuoli, non mai prima; e di recente anche un nostro distintissimo concittadino, il quale è solito a portar nelle questioni, anche quando le tocca di volo, un acume, un tatto, un'indipendenza di giudizio certamente non comuni, mise anch'esso la sua sottoscrizione accanto all'altre numerose, forse, noi crediamo, perchè fu quello un momento di molta fretta.

Fu dunque sempre creduto che il ducato di Milano, prima del reggimento spagnuolo, quantunque abbia subite infinite crisi, le abbia però sempre subite nel rapporto esterno, nel rapporto colle nazioni conquistataci, non mai nell'interna vita, la quale fosse poi sotto a un governo, che sotto a un altro, si credette continuasse ad esser sempre vegeta e rigogliosa.

La questione è dunque intorno all'epoca vera in cui le arti esularono da noi, epoca che noi porremo alla seconda venuta dei Francesi in Lombardia. E sebbene di un tal fatto non ci sia espresso racconto ne' libri contemporanei, v'è però se non il racconto, gli elementi almeno di esso, in alcune lettere d'uomini contemporanei, di pittori, di scultori, lettere di Luino, di Ferrario, i quali assicurano non trovar più modo di vivere decorosamente a Milano; e in quanto a' libri, se non se ne parla a precise parole, sono in esse registrate le cause di effetti necessari taciuti, che sono appunto l'emigrazione di artisti, di manifatturieri, la dispersione delle varie industrie, e l'esportazione cessata, il consumo interno assottigliato.

Qui ci si potrebbero opporre alcuni fatti, quali sarebbero l'assegnamento di diecimila ducati, che il re fece al municipio per opere di pubblico vantaggio, e il progetto e gli studi per render navigabile l'Adda da Brivio a Trezzo…. Ma son essi fatti sparpagliati, tentativi non effettuati, e che necessariamente debbono rimanere oppressi dalla folla de' fatti contrari.

Ma la colpa d'aver prodotti tanti infelici risultati è ella tutta della Francia? Senza dubbio fu sua, e tanto più in quanto era del suo interesse medesimo il ripararvi; ma in gran parte, convien pure confessarlo, essa fu anche nostra, fu del ceto patrizio.

Pretermettiamo adesso il fatale errore di Lodovico d'aver chiamato i Francesi in Italia; esso fu, senza dubbio, la causa prima ed unica di molti tristissimi effetti, non di tutti però; e in quanto a' lontani e a' non necessari, essi si sarebbero potuti stornare, se i patrizi non avesser poi aderito a' Francesi, se per odio di Lodovico, abbastanza, ne pare, punito dell'error suo, o dagli stessi che invitò a discendere in Italia, non avesser preso ad avversare alla dinastia sforzesca; contraddizione inesplicabile, e strano modo di far iscontare una colpa, sforzandosi a perpetuare gli effetti della colpa medesima.

Se il ceto patrizio, sdegnando d'agitare la vita in un teatro angusto, non avesse vagheggiato un più vasto campo, o se, sdegnando d'obbedire ad un duca vicino, che dovea pure frenare le loro prorompenti ambizioni, non avessero anteposto di obbedire ad un re più potente ma lontano, che, come speravano, avrebbe loro rilasciati i freni; se, infine non fossero stati indotti a far così dalla smania di novità, causa frivola e ridicola di effetti seri e gravissimi, all'errore del Moro sarebbesi pure in qualche modo messo riparo.

Ma questa non sarebbe che la prima colpa del ceto patrizio, colpa anteriore allo stabilimento de' Francesi in Lombardia. È di un'altra che noi intendiamo parlare, e del fatto posteriore all'invasione, dell'avere cioè operato quanto per lui si poteva, a scompaginare l'intima vita dello Stato, il quale, anche sotto il reggimento francese, sebbene inglorioso, avrebbe tuttavia potuto, fino ad un certo punto, durar tranquillo e prospero.

Fin dalla prima volta che i Francesi eran venuti in Lombardia, e dopo che Luigi venne a visitar Milano, una folla di gentiluomini lombardi, a sfoggio di zelo ed a gratificarselo con quanti mezzi poteano, avevan voluto accompagnarlo in Francia, dove per qualche tempo, allettati dalle lusinghe del re, fermarono la loro dimora.

L'assenza diuturna de' più facoltosi cittadini dalla madre patria, fu e sarà sempre una cagione di rovina.

Costretti que' patrizi a presentarsi alla corte del re, dove il lusso e la magnificenza erano al massimo grado, nè volendo mostrarsi da meno degli altri, troppo facilmente erano spinti a gettare in un mese il reddito di un anno, e quell'oro così lautamente sparso a colmare le mani parigine, venne per la prima volta, defraudato alle lombarde, che tosto subirono la grave influenza dell'inaspettata privazione. Compiaciutisi nella loro colpevole leggerezza, a scimiottare, in quel tratto di tempo che dimoravano in Francia le foggie di colà, appena tornati in patria, mostri a dito per le novità che seco recavano, cominciarono a suscitare una stolida gara fra coloro che non erano usciti di qui, e i costosi viaggi si moltiplicavano; ognuno sollecitava di far seguito alle ambascerie, ognuno faceva lunghi risparmi in patria, per isfoggiare e sparnazzar fuori.

In Francia intanto avevan cominciato a prender sopravvento, sulle nostre, le merci e le manifatture delle città olandesi, a lei più vicine delle italiane. I velluti e i rasi d'Utrecht, i drappi, gli arazzi d'Osnaburgo, le trine di Brussell, le maglie di Gand, ebbero spaccio a preferenza. E i nostri, che avevano tanto risparmiato in patria, gettarono a scialaquo il loro oro nell'acquisto di tali merci, e reduci fra noi arricciarono il naso, schifando le manifatture patrie, non inferiori per nulla alle olandesi, le quali se ebbero smercio in Francia, fu per la sola cagione della maggior vicinanza e facilità di trasporto. Non s'accorsero che ciò ch'era utile ai Parigini, era dannoso a noi, e così chi più desiderava farsi mirare e primeggiare e por legge altrui, arrossiva di valersi ancora dell'opera di mani concittadine.

Le corse intanto a Parigi si moltiplicavano più volte in un anno, e un patrizio che, una volta almeno, non si fosse presentato all'udienza del re a Fontainebleau, bisognava scansasse le rumorose società, se non amava, esser messo in ridicolo; d'esser posto in ridicolo perchè desiderava il ristabilimento della dinastia sforzesca, perchè, lombardo, sdegnava inchinarsi innanzi ad un re francese; di esser posto in ridicolo perchè, conservando tuttavia le foggie italiane più proprie, più eleganti, più logiche di quante si conoscessero, non voleva assumere le altrui; d'esser posto in ridicolo perchè, invece di gettar le ricchezze a scialacquo fuori della città propria, le distribuiva utilmente tra i concittadini, e ne incoraggiava, alimentandola, l'operosa industria.

Di questo modo cominciò, un dì più dell'altro, a venir meno l'esportazione delle cose nostre; e rimettendosi i patrizj, appena si riducevano in patria, a' più stretti risparmi, per ristaurare le ricchezze altrove dilapidate, cominciò a mancare anche il consumo interno. Per consenso, coloro che stavano a' loro servigi e raccoglievano qualche frutto dalla loro ricchezza, furono costretti a fare altrettanto; una veste di meno, un grappolo di meno, un pane di meno; e il venditore ch'aveva sempre veduta la moltitudine affollarsi agli sportelli, si sgomentava del suo improvviso diradarsi. Ci fu un'apprensione, un allarme generale; si radunavano a crocchi fabbricatori, venditori:—Se voi non vendete, a me non convien fabbricare; la fortuna, se qui più non risponde, bisogna tentarla altrove; ormai ci bisogna uscire, qui non è altro a fare; converrebbe che tutti quanti facessimo l'armajuolo, questa sol'arte ha spaccio ancora, le altre son disertate…—Queste voci cominciavano ad espandersi, i progetti cominciarono a ventilarsi; infine più d'uno emigrò, e più d'uno a Parigi, dove tutti i patrizj lombardi affluivano, fece fortuna. L'esempio suscitò l'imitazione, e, fin dall'ora, molte arti indigene esclusive di Lombardia, si trapiantarono oltremonte.

E dopo il ritorno di Massimiliano Sforza, la maggior parte del ceto predominante, avverso al ristabilimento di quella dinastia, o fermarono al tutto la loro dimora in Francia, o in patria fecero ancor peggio di chi se n'era ito altrove. Il buon senno, esulato dalle alte regioni, erasi rifuggito nelle più basse, che pur sono consueto dominio dell'ignoranza e della superstizione, ma il popolo minuto, stretto dai fatti, s'accorgeva del tarlo, mentre i patrizj, illesi tuttavia, godevano a soffiar nella fiamma che, a lungo andare avrebbe involuto anche le robe loro.

Gettando un'occhiata sulle varie magistrature in quel secolo costituite in Milano, su quelle che non potevano essere esercitate che da nobili, e segnatamente al gran consiglio de' Novecento, c'incontriamo in un fatto, del quale non fu mai tentato d'indagar la cagione.

Prima che si aprisse il secolo XVI ossia, prima che la Francia si stabilisse fra noi, il numero dei novecento che costituivano il gran consiglio ora tuttavia completo. Poco dopo, ai novecento si cominciò a sottrarre il centinaio, e grado grado il numero si venne tanto assottigliando che, nel 1516, a quel consiglio più non rimaneva che l'appellazione de' novecento, non contando in fatto più di 150 nobili.

L'appellazione superstite è prova, ch'esso non venne mai abolito nè ridotto a minor numero per decreto espresso, (perchè, quando ciò avvenne sotto il Lautrec, che volle non fosse costituito che di soli 60 decurioni, l'appellazione di gran Consiglio cessò, e le fu sostituita quella di Cameretta ), parrebbe dunque che quella riduzione di numero sia avvenuta di sua natura, vale a dire per assenza spontanea e diuturna del più dei patrizj, assenza dalla città, o solamente assenza dal Consiglio, per disamore delle cose patrie.

Ed ora ci sarà forse taluno cui dispiaccia siano state scoperte codeste piaghe, e ci voglia gridare, ch'era debito nostro il tenerle celate? Se v'ha chi se ne senta la tentazione, si alzi pure, si alzi, e gridi a sua posta; noi teniamo in serbo una risposta per lui.

Dopo la battaglia di Marignano le cose camminarono di male in peggio sempre più; quando il commercio e le industrie lombarde ebbero ricevuta una così mortale percossa, le arti consacrate al solo diletto, al solo ornato, tanto meno furon valide a sostenersi. I patrizj assenti lasciavan senza commissioni scultori e pittori; reduci e in bisogno di far risparmi, cessarono di far donazioni alle chiese, le quali in quel secolo, ajutavan l'arti, aiutate dalle elemosine. Cosi una cosa crollando ne faceva crollar mille, e i patrizj, che avevan dato il primo urto non si ristavano; così la città nostra vide passare molt'anni, spensierata, indolente, tranquilla, come il possidente che, ignaro che il suo gli è dilapidato a furia, dorme abbastanza placidi i sonni, improvvido che un rovinoso sequestro il getterà nudo, quandochessia in mezzo alla folla.

Ma venne un anno memorabile; un governatore partì per dar luogo ad un altro. Il sonno fu rotto di colpo ai Milanesi che spaventati, si destarono; sarebbero morti di lenta consunzione, e la violenza accelerò gli estremi dolori; sarebber morti senza pianti, senza strepito, forse senza patimenti, tranquilli. Ma ferri omicidi e flagellature a sangue, fecero loro alzare così acute grida di spasimo, che furono udite a grandi distanze, e tanti e tali strazj, operò un sol uomo di noi, che l'orrore non ne può essere scemato, anche dopo sì lungo corso di tempo.

Ora è di un tal uomo che ci dobbiamo occupare.

CAPITOLO XX

Mentre la tenebra più fitta di questo rigido dicembre copriva la città tutta quanta, il palazzo ducale e il largo spazzo che gli si stende innanzi, appariva come circonfuso da una rossa nube in molti punti e ad uguali distanze attraversata da vivi raggi di luce; era l'effetto prodotto dai finestroni del palazzo che riboccavano di splendore, al quale facea velo la foltissima nebbia. Chi, in quell'ora, avesse osservato Milano da un'eminenza, sarebbesi accorto ch'era quello l'unico punto risplendente nell'oscurità totale; chi avesse potuto raccogliere tutti i suoni che s'innalzavano allora dalla vasta superficie, in quell'unico luogo avrebbe udite voci allegre e baccanti, le quali facevano un duro contrapposto alle parole di lamento e d'ira che si alzavano da mille punti della città oppressa. Una catasta accesa di notte ad ardere ossa in un campo santo, intorno alla quale i becchini, nell'atroce loro indifferenza, prorompessero in iscoppi di risa, potrebbe dar qualche immagine di quel luogo, di chi vi dimorava, di Milano, dei Milanesi a quel tempo, in quell'ora.

Il governatore in una grand'aula del palazzo ducale, soleva passare gran parte della notte in mezzo ai suoi ministri, ai suoi baroni, agli ufficiali, ai soldati. Era una di quelle immense aule gotiche, di cui si è smarrita la misura dall'architettura pigmea di oggidì.

Pochi minuti dopo ch'era scoccata l'ora di notte, in quell'aula, da una contigua, traguardando nella quale, vedevansi ardere ancora i doppieri sui confusi avanzi di una gran mensa disposta a ferro di cavallo, entravano a diversi gruppi i soliti commensali del governatore; bisbigli, parole, cachinni, risa, sghignazzi, grida uscenti da più di cento bocche si fondevano in un rumor solo, vasto e forte, che avrebbe impedito di udire il rombo del grosso campanone del duomo vicino.

Di tal modo, in breve, quel vastissimo luogo divenne quasi angusto per tanta gente. Una gran fiamma, erumpendo allora da più fascine appoggiate a' grandi alari di bronzo, s'innalzava gigante crepitante, scomparendo coll'acuta sua lingua, sotto l'immensa cappa di un camino straricco di sculture a tutto rilievo, di proporzioni rispondenti a quelle della sala, e innanzi a cui stavan disposti una trentina di sedili. La ricchezza onde la sala era addobbata era certamente straordinaria, ma in tutto militare, senza impronta nessuna dell'eleganza squisita di quel secolo; nel mezzo una tavola lunga e stretta, ingombra di vasi, di vassoi, di anfore, di mescirobe, di guastade, di fiale, di calici. I vini di Sciampagna, di Borgogna, di Provenza, tutte le ragioni dei vini di Francia, e le più squisite d'Italia e di Spagna, attendevano colà d'esser travasate nel capace ventre della soldatesca patrizia. In molti luoghi v'eran tovaglieri dei giuochi, il faraone, la zecchinetta, la cricca, la tavola reale. Una camera vicina, osservando nella quale si vedevano elmi, corazze, scudi, spade, azze, palozzi e fasci di fioretti alla rinfusa, era destinata all'esercizio della scherma. Il governatore, schermidore d'una straordinaria potenza, vi si provava a tutte le ore del dì.

In breve, ciascheduno dei cento si ebbe scelta l'occupazione che più gli andava a grado; molti, colme le tazze di vin di Borgogna, si disposero in giro intorno all'ampio camino; nessuno sedette però; tutti aspettavano ci venisse il governatore, il quale, come alligatore al sole, godeva digerire il suo pasto all'ardente riverbero della fiamma.

Dopo qualche tempo, il governatore finalmente entrò; entrò a passi gravi, e gettando in giro una torva occhiata (era codesto un suo moto caratteristico, e lo ripeteva assai spesso). E prima piantossi in piedi innanzi al camino col tergo rivolto al fuoco; l'ombra dell'alta e complessa sua corporatura si proiettò allora, allungandosi in giganti proporzioni sul pavimento e sulla parete opposta, tutta illuminata dalla rossa luce della fiamma; poi si volse, e gettatosi a sedere, dispiegò le mani a comunicar loro il vivo calore del fuoco. Il suo volto truce di cicatrici, metà illuminato dal fuoco, metà coperto dall'ombra delle mani, faceva una impressione di ribrezzo e di paura ad un tempo.

Erasi fatto un po' di silenzio; in quello si alzò la sua voce chioccia e nasale:

—Stando di là, udivo il barone De-Forses che parlava, e i vostri sghignazzi che rispondevano; se fosse mai la storia di qualche sposa o fanciulla o donna qualunque che voi aveste fatto strillare, tornate da capo, vi ascolteremo con piacere.

E il De-Forses si fece innanzi. Allora i più fecero cerchio intorno al Lautrec ed al barone coclega, che replicò un racconto tenuto alcuni momenti prima. Narrò una storia recente, di cui egli era stato il principale attore, una storia di sopruso, di libidine, di violenza. Narrò le preghiere e le lagrime disperate d'una tra le più belle e virtuose gentildonne lombarde; narrò la morte miserissima di lei; e il tetro barone, riputando così di rendersi più accetto, caricava ad arte gli atroci colori del suo racconto, che noi avremmo orrore di ripeter qui.

Ma parve che il Lautrec ne ricevesse questa volta una sensazione, chi sa per qual causa, ingrata, perchè, sebbene volesse dissimulare, pure gli scappò detto:

—Basta così, De-Forses, basta, volevo qualche cosa di più allegro; e si concentrò in sè medesimo, chi sa a quali obbietti pensando.

A quelle parole, a quell'atto del governatore ciascheduno si ritrasse, lasciandolo solo innanzi al camino. Tutti que' baroni ed ufficiali e soldati francesi, che pure eran tanto orgogliosi, di sè stessi, tanto iracondi, tanto affrenati, allorchè trovavansi presso il governatore, parean schiavi tremanti al cospetto del loro signore. Erano così procellosi i suoi impeti quando l'ira lo trasportava, così mutabile l'umor suo, così difficile a comprendersi quello che gli piacesse, quello che no, che ognuno stava in gran riguardo, per non profferir parola o fare atto il qual fosse in fallo. Ed era sempre curioso a vedersi, come a tutti cadesse improvvisamente ogni baldanza quand'egli, da una tal quale alacrità apparente, passava, di colpo, ad una concentrazione profonda senza farne le viste, ognuno si dileguava, amava star lontano da lui. Tacque dunque De-Forses, le atroci risa cessarono.

In quella, da un tavoliere intorno al quale stavano osservando una dozzina di soldati, sorse quel grido che, di solito, accompagna il fine ansiosamente aspettato di una partita di giuoco.

—È vinta, gridò un francese, l'uno dei giuocatori; è questa la prima volta, in dodici mesi, che il conte perde due partite, l'una dopo l'altra; domani, l'artiglieria del castello ne darà avviso a tutta la città, è cosa che lo merita.

—Se questa fu una perdita, rispose allora il vinto, non mi pesa però, perchè presto mi varrà una vincita ed una vendetta; e la voce bella, tonda e sonora onde furono pronunciate quelle parole colla cara italiana pronuncia, si alzò su tutte le altre.

Era la voce del conte Galeazzo Mandello, amico nostro, che, saettando la nera e vivace pupilla su chi gli stava d'intorno, scuotendo la nerissima chioma, ed accennando del nobile suo volto, pareva l'uomo re in mezzo ad una razza degenere.

Era da qualche tempo che giocava a tavola reale con uno di quei Francesi, ma dall'angolo ove stava seduto, avendo udito il racconto del De-Forses, non avea potuto mantenere il suo sangue freddo, e la sua attenzione, interrotta dallo sdegno che quasi gli fe' rompere in quel punto la sua regola di dissimulazione, non valse a dargli vinta la partita.

—Quel che sarete per fare di poi, seguì a dirgli il francese vincitore, lo farete a comodo vostro: domani intanto l'artiglieria si farà sentire.

—Ebbene, sia ciò per dato, rispose il Mandello, qualora però io non vinca adesso con voi sei partite, l'una dopo l'altra; s'io non vinco, i doppi petardi dei castello annuncino pure la mia sconfitta domani.

—Accetto il patto.

—E tal sia.

Così i due emuli si rimisero a giuocare.

Ma in che modo il conte Galeazzo poteva acconciarsi a vivere in mezzo ad uomini da' quali la sua città era tanto conculcata…. e perchè vi si acconciava? un tal perchè basterebbe cercarlo nell'indole originalissima di lui; ma altri ve n'aveva, e gravissimi. Basti il dire intanto, che fu immenso il vantaggio derivato dalla sua dimora nella città, nel tempo che quasi tutti ne uscivano. Fu per lui se molte e molte famiglie avevan potuto scampare dall'ultima rovina; egli che sì spesso aveva barcollato della persona, fu potente a sostenere le altrui fortune che crollavano. Molti gentiluomini, la maggior parte anzi, prima d'esser còlti, avvisati da lui, avevan potuto uscire; fu esso che consigliò a tutti di vendere quante terre possedevano in Lombardia, perchè non andassero in gola del fisco, e d'impiegare l'oro che ne cavavano sulle banche di Genova, di Livorno, di Pisa. Anch'egli avea fatto il medesimo, aveva altrui vendute tutte le sue terre fino all'ultimo jugero, tutte le sue case che aveva in Milano, fino all'ultima catapecchia, e il suo stesso palazzo a S. Martino in Nosigia era stato comperalo da un ebreo di Genova, al quale, intanto che continuava ad abitarvi, ne pagava l'annata.

Era mirabile in quest'uomo il concorso di tanto acume, di tanta sicurezza, di tanto sangue freddo e di un buon senso così invariabile in mezzo alle sue medesime stranezze e alle sue stesse intemperanze, alle quali però, fin dal momento che in lui alla nausea della generale abbiezione era successa la pietà delle comuni miserie e la speranza della virtù rinascente nei colleghi patrizj, avea saputo mettere un freno per conservare ancor più lucida la lucidissima sua mente.

Però, accostatosi al Lautrec, che aveva conosciuto fin dai primissimi anni a Parigi, credette opportuno pe' suoi fini di continuarne la pratica, ma sebbene sul governatore, cosa di cui neppur egli sapea farsi capace, avesse grande ascendente, pure stette sempre in gran riguardo di sè stesso, e, per essere disimpacciato nelle sue mosse, pensò bene svincolarsi da tutto ciò che poteva obbligarlo a starsene presso lui. Come l'uomo incerto se debba rimanere nella propria terra o fuggirsene altrove, teneva, nel frattempo, i due piedi sui due confini, all'erta e in sull'ali continuamente per prendere di volo il suo partito, quando si fosse presentato il momento. Frattanto tutte le sere, sedendo alle mense del governatore ed alle sue tavole di giuoco, non perdeva il suo tempo neppur qui…. e sbancando largamente que' baroni francesi a tavola reale, ogni notte metteva da parte il molt'oro che ne cavava, e alla mattina facendo il giro della città in cerca delle più laide miserie, adoperava l'oro medesimo dei Francesi per sanare le piaghe fatte dai Francesi. Se fosse lecito il dire, che un uomo sì poco santo, qual era il conte, fosse il rappresentante della provvidenza in terra, per verità ch'egli poteva esserlo: ma ora lasciamo ch'esso continui a battersi col suo avversario.

In mezzo al rumor generale udivasi intanto nella sala vicina il martellare minuto e continuo dei fioretti. Attirato da un tal rumore, il governatore si alzò e recossi in quella sala. Entrato che fu, prese, senza parlare, il suo fioretto e il suo stocco spuntato; poi, gettata la sua torva occhiata in mezzo ad un gruppo d'uffiziali che se ne stavano in un canto spettatori:

—Il conte Galeazzo, lor disse, ha scommesso di vincere, a tavola reale, sei partite l'una dopo l'altra; ed io scommetto, scommetto la mia borgognata d'argento, di combattere contro a sei, e di non esser tocco, in mezz'ora, da nessuna delle sei punte.

Nessuno rispondeva; egli perdette la pazienza, e alzando la sua voce nasale, proruppe in alcune bretoni bestemmie.

—Or via, spicciatevi, disse poi, uscite fuori e fatevi vedere, o vengo io stesso a cercarvi collo spadone a due tagli, se il fioretto vi dispiace.

Allora i sei uscirono, si armarono, si coprirono il volto, impugnarono il fioretto, e, come assalitori, si strinsero intorno al Lautrec, il quale stette parato alle prime percosse.

Per quanto fosse il pauroso rispetto che ognuno aveva di lui, pure, come assai destri e valorosi e vanitosi, non avrebbero mai voluto lasciargli quel vanto, onde si disposero a combatterlo con tutta la forza e l'accorgimento possibile. Fu notata l'ora: mezza ne doveva trascorrere, gli assalti incominciarono.

Quella sensazione di ribrezzo e quasi di orrore che subiva chiunque, parlando al Lautrec, era costretto a guardar la sua faccia, tosto cangiavasi in una gradevole sensazione, quando le bellissime forme del suo corpo si atteggiavano pel combattimento. Non avendo ancora oltrepassati i quarant'anni, trovavasi nel pieno possesso della sua straordinaria forza, e il continuo esercizio aveva data tale elasticità a' suoi nervi ed a' suoi muscoli, e tal prontezza di movimento alle sue membra, che allorquando la celata e la visiera gli coprivano la capellatura, che già cominciava ad incanutire, e la sconciata sua faccia pareva non toccasse sei lustri. E coloro in fatto, i quali l'avevan conosciuto assai giovane, si figuravano di vedere ancora, di sotto alla celata, quelle linee eleganti e virili che a lui avean procacciate tali avventure, di cui adesso la ricordanza gli bruciava l'anima.

E applausi non consigliati nè da rispetto nè da timore si alzarono replicate volte intorno a lui, quando con quella sua straordinaria maestria, scansando le sei punte sovra di sè, toccava gli altri quasi a ciascun colpo. Allorchè poi l'ultimo dei trenta minuti fu sorpassato dalla sfera dell'orologio, un grido sorse da tutti i punti della sala e i battimani andarono alle stelle.

Eran questi i momenti in cui, per quell'unico pertugio dell'amor proprio, si rinnovava l'aria corrotta della sua vita infelice.

Vinta la scommessa, gettò dunque per terra stocco e fioretto, e a ciascheduno dei suoi competitori strinse la mano con atto di tanta affabilità e piacevolezza da farlo parere altr'uomo. E allora fermatosi a caso innanzi ad una targa lucente, e vedutavi riflessa l'elegante e nerboruta proporzione delle proprie membra, parve anche a lui di rimontare molt'anni addietro, cosa che gl'infuse nel sangue un'insolita alacrità.

Così entrò nella sala de' giuochi, e recatosi presso al tovoliere ove trovavasi il conte Galeazzo, mosso ancora da quella straordinaria vivezza di spiriti.

—Noi, disse, noi abbiam vinto una nostra scommessa, caro conte; or tocca a voi a fare in modo che i petardi non abbiano a farsi sentire domani. Che se mai non riusciste a sbancare costui, vi assicuriamo, conte, che voi avrete perduta per sempre la vostra riputazione di giocatore, e anche le campane del duomo suoneranno a distesa per la vittoria del vostro competitore.

—Nego che costui sia mio competitore, disse il Mandello allora. Perchè due uomini sien competitori convien pure che abbian forze eguali. Ma costui mi cade sfiatato fra le braccia, e cinque partite son vinte.

—Cinque?

—E una sei, ecco fatto. Or dite agli artiglieri e ai campanari che possono dormire sino all'anno santo.

E così dicendo si alzò e prese la sua manata di fiorini d'oro.

—Convien confessare, disse allora il vinto, qualche poco mortificato, che a questo giuoco non v'è chi vi possa star contro. Ma è un'ostinazione la vostra di non voler mai giuocare alla zecchinetta.

—Io non getto i danari, bensì li giuoco. Alla zecchinetta anche un bufalo mi sbancherebbe. L'oro mi piace a guadagnarlo, non rubarlo. Qui c'è ingegno e astuzia, e batteva le nocche sulla tavola reale, là non c'è che azzardo. Odio l'azzardo io! Nel giuoco l'ingegno, soggiunse poi quando vide accostarsi il barone De-Forses, nel duello il sangue freddo.

Per comprender la causa per cui il Mandello pronunciò quest'ultime parole appena vide il De-Forses, convien sapere che da molto tempo aspettava un'occasione per punire in qualche modo quel barone francese il quale era l'uomo più laido e più atroce dell'esercito; in quella sera poi gliene crebbe a mille doppi la smania per l'indignazione e l'orrore, onde tutto si sentì rimescolare all'udire il tetro racconto che quel mostro aveva fatto della misera gentildonna da lui medesimo tratta a mal termine. Ma ad ottener l'intento, gli bisognava un pretesto per potersi sbrigar di colui senza che ci fosse apparenza d'odio, nè vi paresse spinto dal desiderio di vendicare i propri concittadini, che di quel modo svelandosi al governatore, gli sarebbe per sempre stata chiusa la via a toccare gli altri e più importanti suoi fini. Essendo dunque alcuni dì prima venuto a contesa con quel barone intorno alle qualità principali che costituiscono il buon schermidore, nè essendosi mai messi d'accordo, gli balenò ora in pensiero di rimettere in campo una tal questione per condurre il De-Forses a ciò ch'egli voleva.

—Sì, disse poi con voce più alta, nel giuoco l'ingegno, nel duello il sangue freddo. E costui, soggiunse tosto battendo sulla spalla del De-Forses e rivolgendosi a tutti, costui sosteneva, che il duello più che il sangue freddo vale il saper giocare di tempo.

—Lo sostengo ancora, rispose il De-Forses.

Il Mandello, contento di questa risposta, continuò subito, sospingendolo l'impazienza:

—Allora io farò di convincervi in qualche modo.

—Trovate il modo, e mi lascerò convincere.

—È presto trovato; scommettiamo!

—Scommettere?… come volete che si scommetta?

—Proviamoci noi due.

L'altro stette un momento perplesso, poi disse:

—Se ciò può far conoscere di chi sia la ragione, per me son qui, e tal sia. Vedrete dunque che col fioretto in pugno mi basterà la vista di vincere, quantunque vantiate tanto il vostro sangue freddo.

Il Mandello quasi fu per tradire gl'interni pensieri, tanto sensibile fu la scintilla che gli balenò tra ciglio e ciglio all'udire che il De-Forses accettava, soggiunse poi:

—Non trattasi di fioretto, caro mio; coi fioretti si giuoca, e allora a che il sangue freddo? Per conoscere quali sono le virtù indispensabili allo schermitore, conviene che chi combatte il faccia per la vita.

—Questo è vero, uscì detto a più d'uno.

—Ebbene, si vedrà, rispose De-Forses indispettito, ed io combatterò col conte.

—A morte!

—A morte!

—Ma perchè tenga la scommessa, tocca a voi a sceglier l'arme in cui vi stimate aver più esperta la mano.

—Nessuno vince il De-Forses, disser più voci, quando ha in pugno lo squadrone scozzese.

—E sia lo squadrone, sebbene io faccia assai meglio le cose mie lavorando di punta. È dunque andata, barone?

—È andata.

Allora i due campioni, e tutti quanti trovavansi intorno a loro, si volsero per domandare licenza al governatore, trattandosi di un duello a morte. Ma quegli tornato l'uom tetro di prima, erasi di bel nuovo messo a sedere innanzi al camino; però quando il conte Galeazzo e il De-Forses gli si avvicinarono per chiedergli concedesse loro di tenere la mortale scommessa, egli non fece altro che alzare la testa qualche poco e girare su di essi il solito suo torvo sguardo, poi disse macchinalmente come se i suoi pensieri fosser volti ad altro:

—Andate, ammazzatevi pure, e se v'è tal altro qui che voglia imitar costoro, il faccia che farà bene.

Tutti si tacquero, e licenziati da lui con un gesto risoluto, l'uno dopo l'altro si recarono nell'aula vicina, dove si aveva a decidere la terribile scommessa.

Il Lautrec rimase seduto innanzi al cammino affatto solo…. solo e in compagnia dei suoi duri pensieri.

Ed ora che noi pure ci troviamo soli con lui e possiamo considerarlo più dappresso, senz'altro obbietto che ci distragga, un ribrezzo invincibile ne dovrebbe assalire, pensando che se il ducato di Milano da una condizione particolare, che in certo modo era calma, piombò di colpo nel più profondo della miseria e del terrore, fu per opera principale di quest'uomo, di quest'uomo fatale, che affatto solo, nè con istraordinari mezzi, ma spinto dalla sua terribil natura, e talvolta da un certo impulso inesplicabile, al quale, in mancanza di altro, potrebbe darsi il nome di forsennatezza, in sì breve spazio di tempo e per così esteso ambito ha potuto recare tal danno al paese nostro da vincer quasi la rapidità e la prepotenza di una lue.

Solo produsse innumerevoli danni, e s'egli non fosse venuto governatore tra noi, è probabile che i nostri sventurati padri non avrebber patito così atroce flagello; pure un senso di giustizia ci costringe a domandare: se ne dovette esser sua la responsabilità, o piuttosto se non ne ebbe affatto, e se adesso non sia debito invece addossarla tutta, quale e quant'è, sui colpevoli omeri di re Francesco. Se quel re non iscrutò e non conobbe l'indole e l'ingegno di un tal uomo prima di mandarlo in mezzo a noi; se, conoscendolo appieno, ne lo mandò egualmente; o se, più che altro, il fece per appagare i desiderii della sorella stessa del Lautrec, supplicante scaltrita; e ai laidi vezzi di una donna sacrificò spensierato il benessere e la vita di due milioni, d'uomini, per noi è incomprensibile il fenomeno, che un tal re, anche dopo sì nera spensieratezza, ed altre tali inassolvibili colpe, sia sempre stato e continui ad essere l' enfant gâtè degli storici.

Ma tornando al Lautrec, egli era nato uomo di guerra, uom di guerra soltanto; fuori di quell'irto campo non era cosa per cui fosse atto. La sua natura di ferro, le sue facoltà disaccordanti, le sue passioni effrenate, l'abitudine a balzare repentinamente da un'eccesso all'altro delle umane cose senza misura, senza ragione, gli vietavano di far bene in una sfera diversa.

Abbiam veduto come a Rimini, facendo l'opposto di quanti Francesi stanziavano in qualche parte d'Italia, fosse scrupoloso nell'osservare e nel far osservare il rispetto agli abitanti di quella città, e fosse eccessivo in vece il suo rigore nel punire quelli tra' suoi soldati che si fossero resi colpevoli della benchè minima violenza. Sappiamo adesso come quell'uomo medesimo, cangiato costume, abbia rilasciato i freni a' suoi luogotenenti, a' suoi baroni, a tutte le sue soldatesche.

La storia, occupandosi di lui, più volte registra un tal fatto, più volte parla delle sue ingiustizie assidue, onde, ad arricchire sè stesso, spodestava i suoi governati. Ma registrando tali cose a chiarissime parole e in più d'un'occasione, passa di volo sul resto, nè molto si occupa dell'intima vita del Lautrec, e come e perchè fosse spinto a quelle ingiustizie. Noi però, dopo aver tentato di interrogare anche il silenzio e diradare il buio, e col soccorso di pochi dati di rintracciare il valor delle incognite, possiamo aggiungere altre cose di lui.

Diremo intanto, che di quanti sventurati trovavasi nel ducato di Milano di cui, a quel tempo, non v'era forse, percorrendo tutt'Europa, più desolata contrada, di quanti infelici gemevano oppressi pel duro governo di lui, di quelle sue vittime istesse egli era, senza misura, assai più infelice.

Ciò potrebbe parere esagerazione; ma a quei due milioni d'uomini così tremendamente conculcati, rimaneva tuttavia un barlume di speranza, e le confische medesime non potevano intercettar loro le contingenze favorevoli dell'avvenire. Ma il fondo invece che costituiva il carattere permanente dell'esistenza del Lautrec era la disperazione, quando non si faccia conto delle sue speranze di vendetta, speranze di tal natura, che concorrevano anch'esse a far più acre e più torbida la sua vita. Non saremmo per altro lontani dal credere, che per quelle appunto abbia sollecitato di venire in Italia e d'esser collocato in tal posto che gli rendesse più lungo e più potente il braccio. Sia dunque l'esecrazione sullo stolido suo re, che non indugiò ad aderire a' di lui desiderii; sia lode a Dio, che gliene fece di poi pagar carissimo il fio.

Prima dell'anno 1512 il Lautrec, essendosi sempre innanzi a tutti distinto nelle fazioni di guerra, nè avendo mai altro carico, erasi meritato un nome abbastanza onorato: nè, fuori di quegli impeti procellosi a' quali talora andava soggetto, non aveva mai fatto cosa che soverchiasse i confini della ragione. Ma da quell'anno di terribile memoria cangiò al tutto natura, divenne incomportabile a chi l'avvicinava, e da principio si credette avesse il suo cervello dato di volta affatto.

La violentissima passione che avealo investito per la duchessa Elena, signora di Rimini, l'essere stato da lei rifiutato nel punto stesso in cui credeva fosse per compiersi ogni suo desiderio, e per colpa, come egli stimava, del Palavicino, cui odiava di un odio al quale le parole non arrivano; le ferite che oscenamente gli aveano deturpato il viso, e per le quali tuttodì s'accorgeva di quanto ribrezzo fosse causa a' risguardanti, erano più che sufficienti cagioni per isconvolgere un'esistenza come la sua, tessuta di passioni e d'atrabili, eccessivamente eccitabile per amor proprio, e di continuo tormentata dalla smania di piacere, smania che, fin dal suo primo ingresso nel mondo, sempre gli era stata lusingata dalle sue virtù cavalleresche, e dalla sua virile ed aitante bellezza.

Parrebbe che in uomo di sì ferrea tempra quale era il Lautrec, quest'ultima causa avesse dovuto esser troppo frivola e troppo debole per operare su di lui; troppo frivola potrebbe esserlo stato, troppo debole non lo fu; e il più degli uomini danno al proprio esteriore maggiore importanza di quello che si crede e che, per verità, non dovrebbero se fossero ragionevoli. Ma è calda ancora la memoria di un alto ingegno che tormentavasi, ed era infelicissimo per un lieve difetto del corpo; però non deve far troppa maraviglia che la deformità di Odetto, se non la prima, fosse una delle terribili cagioni dell'assidua sua tristezza e disperazione. E tanto più in quanto appunto egli era stato bellissimo, e di quel tempo avea promossi gli affetti e le passioni di quel sesso che ora, sebbene a suo dispetto, e per quanto si sforzasse dissimulare a sè medesimo continuava tuttavia ad idolatrare in segreto.

S'ei fosse nato deforme, nè mai avesse posto il senso a talune voluttà della vita, non avrebbe nemmeno provato sì acuto dolore nel dividersi da esse; pari al cieco nato, in calma avrebbe sopportato la sua privazione, e come l'uomo cresciuto nella miseria, forse si sarebbe appagato del poco che la fortuna avesse voluto concedergli; ma egli era nella condizione di un re spodestato, spodestato per sempre, spodestato e schernito e tuttavia superbo.

Dal momento che gli sorse nell'animo quell'odio implacabile per la duchessa Elena, odiò con lei tutte quante le donne, le odiò di quella guisa istessa onde odiava lei; le odiava cioè, idolatrandole come idolatrava la duchessa che tanto abborriva. E come s'accorse che per la propria deformità era stato da lei ributtato, da quell'istante scansò di trovarsi con verun'altra donna; le fuggiva tutte costantemente, espressamente, portando tuttavia dentro di sè il desiderio roditore di avvicinarle. E il pensiero che avrebbe loro destato una repugnanza invincibile, era quel medesimo che gliele faceva poi tanto abborrire, e godeva in sè stesso nel vagheggiar qualche modo per poterle tormentare.

Ma egli era troppo orgoglioso per farlo, troppo orgoglioso per farsi scorgere ch'egli avesse un pensiero di loro; avrebbe voluto che altri il facessero per lui.

E venuto in Italia, avuto in propria balia il ducato di Milano, trovandosi possessore di quante bellezze contava Lombardia, pure non si degnò mai di accostarle, non volle che gentildonna mai fosse ammessa in palazzo; ma godette di avere sotto di sè tante soldatesche sfrenate, godette di poter loro liberare il guinzaglio; e lo fece, e lor disse:

—Andate, e dovunque lasciate i segni della violenza.

Vergognava di porsi egli stesso agli atti brutali, nessuna matrona, nessuna sposa, nessuna fanciulla ebbe mai torto un capello da lui; ma gioiva che gli altri facessero strazio di quelle splendide e superbe beltà che, docili a lui un tempo, or l'avrebbero ributtato schifandolo; gioiva che gli altri calpestassero inesorabilmente quei tesori ch'egli per sempre avea perduti.

Soltanto su d'una donna egli si riserbava di fare da sè le proprie vendette, ed era in questo pensiero ch'egli passava gran parte del dì, gran parte delle notti; che li passava tormentandosi nella ricerca d'un mezzo che tosto il portasse a toccare il suo intento.

Per la sciagurata Elena, la deformità del Lautrec fu il gravissimo dei danni, che s'egli nel suo orgoglio non si fosse tenuto lontano da tutte le donne, forse nella vita avrebbe trovato qualche nuova illusione, e in questa stemprandosi le ire, avrebbe dimenticata la prima causa d'ogni suo tormento, quantunque un altro ostacolo vi fosse forse per ciò.

Non era solo per la distanza in cui tenevasi dal voluttuoso mondo, ch'egli vedeva continuamente innanzi a sè l'immagine di quella donna. Anche senza di ciò, egli si teneva un pegno con sè che tuttodì gli riproduceva quelle vaghe forme; un pegno pel quale soltanto avea trovata la forza di sopportare l'orribile vita; un pegno ch'egli amava con quell'eccesso di trasporto onde odiava la signora di Rimini e il Palavicino.

Uomini della tempra del Lautrec è forse impossibile trovarne ai nostri dì, e quando la natura ne riproduce di tali, le diverse condizioni della vita attuale li dirigono in modo da tramutarne al tutto l'indole primitiva. E oggidì sarebbe un fatto mostruoso quella costanza dell'odio per cui il Lautrec mai non perdette di vista, e mai non abbandonò le tracce dei Palavicino.

Sul mare, in veduta di Rimini, noi fummo spettatori dell'impeto furibondo onde l'ebbe investito; sappiamo che un anno dopo, alla battaglia di Novara, pagò un soldato perchè togliesse di mezzo il giovane Manfredo. La vigilia della battaglia di Marignano, i quattro sgherri colti sul fatto, come era la congettura di Manfredo stesso, erano stati pagati da lui.

In altre circostanze il Lautrec non avrebbe mai voluto ricorrere a questi così vili mezzi; ma l'odio gli aveva messa la benda, e senza vergogna avea gettato dietro di sè ogni virtù di cavaliere.

E in questo momento medesimo egli se ne sta pensando appunto al giovane gentiluomo, e sospirando l'ora in cui la sorte glielo porrà tra le mani.

Mal riuscitogli il primo ed il secondo tentativo, ostinossi sempre più nel suo truce proposito, e tanto aguzzò l'ingegno nel cercare un'insidia che non fallisse allo scopo, che per sciagura del Palavicino l'ebbe alfine trovata.

La lettera spedita a Roma, per sollecitare il ritorno di lui a Milano, non fu dunque mai scritta per accontentare le ultime volontà della madre del Palavicino; bensì fu fatta scrivere dal Lautrec medesimo, cosa di cui il lettore si sarà già accorto.

Com'egli seppe la condizione della contessa Palavicino, alla quale o per deferenza del conte Mandello che l'avea ricovrata nel proprio palazzo, o chi sa perchè altro, mai non aveva fatta ingiuria, come seppe poi quanto amore portasse Manfredo a quella donna, di colpo gli balenò quel modo di trarlo nelle proprie reti, e considerando che lo avrebbe così avuto vivo nelle proprie mani, fu assai contento della non riuscita dei primi tentativi.

Egli era dunque da qualche dì che il Lautrec se ne viveva inquietissimo; perchè, misurando tempo e distanze, parevagli che, se la lettera avesse avuto l'effetto, doveva a quell'ora essere arrivato. Tempestava perciò continuamente que' suoi cagnotti, che in agguato del Palavicino aveva sparpagliati in varie parti della città, al palazzo di lui, al palazzo Mandello, alla chiesa di S. Martino, dove la contessa madre era stata sepolta, e dove tutto induceva a credere che il figlio si sarebbe tosto recato.

Ed ora l'idea che forse quella sera gli poteva esser condotto innanzi, cominciò ad occuparlo tanto, da renderlo smemorato d'ogni altra cosa, ed all'insorgere dei dubbi che a mille ne generava il suo desiderio medesimo, si sentì agitato da tale impazienza, che più non bastava a mantenersi calmo. Vagheggiando poi il supposto, che il Palavicino avesse a cader negli agguati, proponeva e rigettava partiti sul genere di vendetta che avrebbe potuto trarre di lui, e come ne avrebbe mandato notizia alla duchessa Elena, e con che nuove minacce l'avrebbe atterrita… E in questi pensieri era così profondamente immerso, che non udiva neppure il martellare dei ferri che facevasi nell'aula contigua, nè in ultimo il suono prodotto da una subita caduta, nè quell'alto ed unico grido nel quale s'eran fuse le voci di tanti uomini. Soltanto quando a furia rientrarono nella sala i cento suoi commensali facendo tal rumore che le vôlte ne rintronarono, volse un momento la testa. Vide allora il conte Galeazzo Mandello che rientrava anch'esso per l'ultimo, assai pallido, contraffatto, tutto coperto di sudore, che s'andava asciugando.

Dopo una lunga e faticosa lotta, era al Mandello riuscito di stendere il suo avversario in terra e di vincere la scommessa.

Alla di lui comparsa si tolse un momento il Lautrec da' soliti propositi, e avendo benissimo compreso com'era andata la cosa, dopo aver guatato a lungo il Mandello:

—Avete dunque vinto! gli disse con voce agra.

—Ho vinto; però durai qualche fatica.

—Da quanto tempo avete voi pensato a questo vostro colpo? gli chiese allora il Lautrec.

Il Mandello fu sorpreso da tal domanda, ma subito rispose:

—lo non vi comprendo, eccellenza.

—Comprendo io voi! disse il Lautrec e stette per qualche tempo a fissare il conte, che fissò lui.

—Voi avete sempre odiato il De-Forses! soggiunse poi il governatore.

Il Mandello non rispose.

—L'odio è quel che rende valoroso l'Italiano; senz'odio non lo avreste mai vinto.

—Ne ho vinti di più esperti e più terribili assai, disse allora il conte con dispetto non velato.

A queste parole il Lautrec gli diede quella solita sua torva occhiata, poi conchiuse:

—Se nel vostro volto non ci fosse qualcosa che mi rimembra Gastone di Foix, il mio diletto Gastone, l'unico uomo che ho amato nel mondo, verrei adesso io medesimo a provarmi con voi, conte, e la vedremmo.

Il Mandello non aggiunse parola, ma detto fra sè.—Vorrei bene vederla,—si confuse nella folla. Il Lautrec, voltegli le spalle, di nuovo si concentrò in sè stesso.

L'amore e l'odio, spinti ambidue all'estremo lor punto, erano le passioni alterne dell'esistenza del Lautrec, il quale dal conte Mandello avrebbe sopportata non so che offesa, per ciò solo ch'esso rendeva qualche immagine del suo cugino Gastone, ch'egli avea amato quanto si può amare un uomo, che già fatto cadavere, alla battaglia di Ravenna, avea serrato tra le braccia difendendolo col valore della disperazione contro a mille punte, e che avrebbe voluto ritornare in vita col sagrificio della propria.

Ma la memoria del cugino diletto e della battaglia di Ravenna, associandosi all'altre, con subita fitta gli rimise l'animo sossopra.

Intanto le cento voci de' baroni e de' soldati assembrati in quell'aula tornarono a farla risuonare di un alto e continuo frastuono. Avvinazzati come erano, e continuando ad avvinazzarsi, eransi già quasi dimenticati dell'ucciso collega. Se colui fosse stato ucciso in guerra, nulla avrebber tralasciato per vendicarlo, ma essendo caduto in duello il fatto era assai regolare, e quand'anche sentissero un segreto rancore pel conte, pure non fecero atto che li palesasse, ed ingegnandosi a tuffarlo nel vin di Borgogna, volsero il discorso ad altro. Due soli uomini se ne stavano silenziosi in mezzo alle baccanti gridi che squarciavan le orecchie, il conte Galeazzo e il Lautrec, il quale, dopo alcuni momenti, chiamato un soldato, gli disse alcune parole, per cui il soldato stesso, partito di volo, ritornò tosto in compagnia d'un uomo di camera, il quale, udito il Lautrec, uscì poi subito, per ritornare anch'esso dopo breve intervallo, conducendo seco un fanciullo.

Fu cosa assai notabile che appena fu veduta spuntare quella vaghissima testa del fanciullo, da tutti i punti della sala sorse quel sibilio particolare coi quale in un'adunanza si raccomanda altrui il silenzio, e un così perfetto silenzio successe infatti, che parve se ne fossero tutti improvvisamente usciti di là.

Erano uomini sfrenati la maggior parte, e in quel momento oltre il solito alterati dal vino, eppure a quell'improvvisa comparsa non avevan più osato pronunciare una parola….

Il fanciullo era corso intanto presso il Lautrec, il quale, contemplatolo a lungo, se lo strinse vicino.—Quel fanciullo era l'unico oggetto per cui sopportava l'orribile vita, il solo che tanto quanto gli rallegrasse i tetri giorni, il solo a cui avrebbe fatto sagrifizio di sè, d'altrui, di tutto, di tutti, pel quale si affannava con trovati iniqui ad ammassar tante ricchezze, il solo per cui, con legge strettissima, era a tutti stato imposto il più scrupoloso riguardo.

Una notte, in un'occasione come la presente, mentre il fanciullo se ne stava presso al Lautrec, ed uno degli ufficiali che trovavasi nella sala con lui, venne profferita, nel fumo dell'ebbrezza, una oscena parola che poteva offendere l'innocenza del fanciullo. È impossibile il dare un'idea del furore, onde il Lautrec, a quella parola, fa trasportato; furore che non dileguò senza un terribile effetto, ed il dì dopo sei palle di piombo avevan fracassata la testa dell'incauto e sciagurato ufficiale.—Fu inaudito rigore, fu ingiustizia che provocò l'ammutinamento in tutte le truppe; ma l'irremovibile e ferrea volontà onde il Lautrec avea rintuzzata ogni forza di reazione, ingenerò tale sgomento in tutti, che nessuno mai più si dimenticò di quel fatto, onde ogni qualvolta compariva in mezzo ad essi la vaga figura del fanciullo, ognuno si taceva per tema di profferir parola che fosse in fallo; e il rispetto pel Lautrec era tale che vinceva anche l'azione prepotente dell'ebbrezza; così era fatto quell'uomo.

Nessuno però, per quanto la memoria del fatto fosse terribile, portava odio al fanciullo che n'era stata la prima causa; bensì le care grazie di quella creatura gli avevano conciliato l'amore di tutti.

Il fanciullo poteva avere otto anni d'età, nè linee più gentili potevansi immaginare di quel suo viso, nè forme più eleganti delle giovinette sue membra. E ciò che forse il rendeva ancor più attraente, era un tal pallore non solito nei fanciulli di quell'età. Una prolissa capellatura castagno-cupa gli cadeva in anella sul collo e sulle spalle, le pupille grandi, lucenti, erano adombrate da due fini sopraccigli, nè sapevasi immaginar cosa più soave del modo onde volgeva lo sguardo. Queste naturali vaghezze erano poi giovate da un vestito azzurrino che gli si stringeva alla carne con grata eleganza.

Continuava il silenzio nella grand'aula tanto che s'udiva distintamente il crepitare che faceva la fiamma sul focolare. Intorno alla gran tavola, su cui alla rinfusa stavano i segni dell'orgia notturna, si vedevano quelle cento faccie soldatesche accese pei vapori del vino e pel riverbero della fiamma, e fatte così ancor più rozze e più truci del solito. Innanzi al camino, a qualche distanza, seduta la grave persona del governatore. Se dunque, al primo, non pareva cosa che s'addicesse a quel luogo ed a quegli uomini la vaga e purissima figura del giovinetto, non era tuttavia senza il suo prestigio quella scena curiosa; e tanti uomini fatti silenziosi per lui e tante pupille converse in lui solamente e il governatore che lo guardava con affetto che parea compunzione religiosa, tutto ciò potea suscitare una strana, ma pur grata commozione.

Il Lautrec, porgendo orecchio alla voce argentina del fanciullo, lo stava dunque osservando con religioso affetto, e parea che contemplando quel volto più non si ricordasse nè del luogo ove trovavasi, nè da quali cose fosse circondato, nè quanti uomini stessero a guardar lui in quel punto.

La tenerezza, che di consueto non trapelava mai dalla fiera tetraggine della sua natura, si era allora come sprigionata da un duro involucro. In quel momento l'esistenza del Lautrec non era che amore, ma così intenso amore, che la commozione che glie ne derivava gli tirava quasi le lagrime agli occhi. Chiunque allora avesse potuto guardargli in cuore, dimenticando chi esso era veramente, non avrebbe saputo rifiutarsi a compiangerlo, direi quasi, ad amarlo; tanta era la santità del suo affetto, tanto l'angore onde contemplando quel volto, immagine viva e perfetta e ognora presente di un altro volto fatale, si sentiva tramestar l'anima, risalendo col pensiero ad un giorno, ad un'ora, ad un punto perpetuamente memorabile.

Il lettore si ricorderà che il Lautrec, quando colle truppe si partì di Rimini, chiamato in Francia, seco si avea condotto un fanciullo di pratica altamente segreta. Ora, se avesse innanzi agli occhi il ritratto del fanciullo Armando e della signora di Rimini, tosto il mistero gli sarebbe chiarito.—La sciagurata Elena era la madre di Armando, di cui Lautrec era padre!!

E non pareva vero come, vedendo nelle fattezze del figlio la donna istessa che tanto abborriva, potesse poi amarlo di tanto amore. Pure in questa notte, considerando che di lei gli rimaneva un tal pegno che a tutti attestava esser egli stato riamato da lei, provò un così vivo soprassalto di compiacenze, che si strinse accanto più teneramente che mai il giovanetto Armando, e illudendosi, nel guardarlo fisso, artificiosamente illudendosi di vedere la stessa Elena, e di averla innanzi, e l'odio non potendo più a far sentire la sua voce, e rinascendo l'amore, provò un istante di felicità perfetta; taceva ancor tutto d'intorno, egli non udiva che il molle respiro d'Armando, e si sforzò, direi quasi, a mantener viva quell'illusione il più a lungo che potè.

Scoccarono allora le cinque della notte all'orologio di San Gottardo. A tal suono si scosse, e di tratto fu ricondotto alla realtà che lo circondava. Fu il ritorno dello spasimo dopo un istante di calma perfetta. Ed egli n'ebbe sì cruda la sensazione, che balzò in piedi improvviso. L'angoscia di quell'uomo in tal punto varcò il consueto confine; avrebbe destato orrore più che pietà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dopo qualche tempo entrò di fretta nella sala l'uomo di camera, e s'accostò al Lautrec. Quella folla di baroni, che da qualche tempo lo stava guardando in silenzio, notò la sollecitudine straordinaria con cui quell'uomo era entrato là dentro, e l'atto che fece il Lautrec nell'udire le parole.—Quest'atto fu tale che si guardarono in viso come interrogandosi sul suo significato, e tanto più quando videro il governatore prendere il fanciullo per mano, passarlo all'uom di camera e uscir con essi in manifesto disordine.

Uscito lui, il silenzio fu rotto di subito, e il generale bisbiglio che gli successe crebbe grado grado fino al più alto frastuono.

—Hai tu veduto?

—Che vorrà dir ciò?

—Sarà qualche dispaccio del re.

—Un dispaccio del re non può essere.

—Qualche lettera della sorella.

—Non poteva esserne scosso a quel modo.

—E che sai tu?

—Nulla io so.

—Ed io so invece che da qualche tempo ei vive in grandissimo timore non sia la sua sorella per perdere la grazia del re.

—Questo non sarei lontano dal crederlo.

—Zitto…. silenzio…. corsero allora molte voci per la sala.

—Tu se' incauto a parlar così; s'egli ti udisse, guai!

—Guai! lo dico anch'io.

—Io sono impaziente di sapere quel che fu e quel che ne sarà.

—Zitto: ho sentito a sbattere una porta.

—Zitto, tacete, è lui.

—No.

—Silenzio…

Era il Lautrec infatti; tutti si rimisero in quiete, in aspettazione di qualche gran cosa.

Il Lautrec era manifestamente convulso, e gli balenava un raggio di terribil gioia tra ciglio e ciglio.

—Uscite tutti! tuonò poi con quella sua voce nasale, e piantandosi nel mezzo della sala.

Nessuno al primo si mosse, tanto erano perplessi per la curiosità.

—Uscite tutti! tornò a gridare più forte il Lautrec.

Allora, per quanto lo stupore lor facesse forza, tutti si mossero in fretta, e pel disordine s'affollarono, uscendo, in sulla soglia, come branco di bufali sgominati dal ruggito di un tigre reale.

Il conte Galeazzo, che uscì l'ultimo e che più di tutti era impaziente di saper quel che fosse, potè allora udire il Lautrec a pronunciare tra' denti queste precise parole:

—Ora non mi potrà più sfuggire.

CAPITOLO XXI.

Manfredo Palavicino, assalito un momento prima, mentre senza scopo e all'impazzata andava avvolgendosi in un labirinto di viottoli, da quei tre che abbiam veduto affrettarsi sui passi suoi e che finalmente s'erano risoluti, assalito all'impensata, e quand'egli era tutto immerso ne' suoi pensieri e nella sua disperazione, a malgrado della resistenza che macchinalmente vi aveva opposto, era stato preso e tostamente tratto al palazzo ducale. Così cadde nelle insidie del Lautrec, dopo averle tante volte scansate. L'amore unico che portava a sua madre aveva respinti i consigli della fredda prudenza, ed egli stesso era corso incontro al proprio pericolo. Al numeroso volgo potrà parere debolezza imperdonabile, ai pochi venerabile infortunio. Vi hanno tali posizioni nella vita, in cui per sentenza del più degli uomini, fu stimato necessario l'assoluto e tirannico dominio di una virtù sola, innanzi alla quale tutte le virtù subalterne debbono tacere, il dominio d'una virtù dura e inflessibile, quasi non compatibile coll'umana natura, dalla quale tutte le passioni, anche le generose, debbono necessariamente esser messe in fuga. In una tale posizione trovavasi il Palavicino, ma per offrire all'incontro in sè lo spettacolo di un uomo che, tendendo per risoluzione deliberata della volontà ad un gran fine, lungo il cammino è impedito non solo dagli esterni ostacoli, ma sì anche dalle intime lotte dell'animo, ed a risolvere il problema se, attraverso a tanti ostacoli, sia mai possibile ad uomo di toccare i supremi intenti nella vita.

Ma il Lautrec avea toccato il suo. Dopo tanti sforzi falliti per impadronirsi del Palavicino, dopo aver prezzolati sicarj che non seppero rispondere al mandato, dopo aver messa indarno un'ingente taglia sul capo di lui, finalmente aveva potuto ghermirlo con un'insidia astuta e perfida.

La gioia che gli venne per tale avvenimento fu di quelle che di rado provano gli uomini; ma come l'ebbe assaporata per alcuni momenti, condotto dall'istessa sua gioia a considerare il passato, senti vergogna di aver dovuto ricorrere a mezzi così vili, per raggiungere il suo fine; e il pensare che, di tal modo, l'uomo che odiava veniva di tanto a ingrandirsi al cospetto dell'universale, di quanto egli si abbassava, tosto gli mise il dispetto nell'animo. Avrebbe voluto che sul Palavicino insieme alla sventura cadesse anche il vituperio, perchè in faccia alla duchessa Elena comparisse così una cosa vilissima. Ma il fatto troppo si opponeva a questo suo desiderio, ed ora che il Palavicino era in sua piena balia e di lui potea fare ogni strazio, la scomparsa d'ogni ostacolo quasi gli fece smarrire ogni entusiasmo…. e d'uno in altro pensiero, cercò se mai si potesse trovare un modo di purgarsi della taccia di traditore, per far cessare qualunque accusa, e conseguentemente per togliere ai Palavicino, se fosse stato possibile, anche la grandezza della sua disgrazia.

Un lampo gli balenò nella mente; pensò ch'ogni supplizio era inutile, ch'eravi un mezzo per rendere il Palavicino spregevole in faccia al mondo. Dare ad intendere d'averlo tirato a Milano non per altro che per costringerlo alle vie dell'onore, offerendogli di battersi seco colle armi della lealtà, e nel punto stesso di toglierlo di mezzo, vestire colle apparenze di una generosità straordinaria lo sfogo della propria vendetta. Lo stesso desiderio di togliere colle proprie mani la vita all'uomo che odiava, lo aveva aiutato a far l'astuto disegno; d'altra parte era tanta la sicurezza che aveva di sè stesso, che non poteva nemmeno ammettere il dubbio non fosse il Palavicino per rimaner soccombente. E la cosa era così infatti. Per quanto il giovane Manfredo fosse valentissimo nel maneggio dell'armi, da aver pochi eguali, tuttavia non poteva dipendere che da un prodigio la salvezza di lui, e lo star contro al Lautrec colla spada in pugno era quasi come mettere il capo sotto il tagliente del patibolo. Del resto, ogni uomo ragionevole comprenderà che il Palavicino non veniva ad impicciolirsi per nulla, se, nella gara della forza fisica, era tanto inferiore all'altro.

Il Lautrec erasi dunque gettato a sedere, volgendo in mente il nuovo disegno, quando gli sovvenne che si attendevano appunto i suoi ordini pel modo da comportarsi col suo prigioniero il quale stava ancora in palazzo. Nel primo momento che gli fu annunziata la cattura di lui, affrettatosi a lincenziar tutti per trovarsi solo, non aveva avuto il tempo di recarsi a vederlo; ma ora gliene venne una gran voglia, la voglia di guardare a lungo l'uomo che da tanto tempo aborriva, e che oramai non era altro che la sua vittima certa. Chiamò dunque un soldato—Mi si conduca qui il Palavicino in sul momento—gli disse. Il soldato partì.

Correvano sette anni da che il Lautrec si era trovato col Palavicino sul mare, presso a Rimini, la prima volta in cui l'avea veduto; ora stava per vederlo una seconda volta. Un'ansia strana provò in quest'aspettazione. Quando al rumore che fecero gli usci nell'essere sbattuti, s'accorse che qualcheduno veniva, si alzò. In tutti que' suoi moti e que' suoi atteggiamenti c'era qualche cosa d'indefinibile che molto somigliava ai moti d'istinto delle belve. La porta finalmente si aprì; egli vi gettò lo sguardo avido…. vide e tremò…. tremò; tanto la vista di Manfredo gli mise un sussulto, un orgasmo insolito in tutte le fibre, e fu a un punto di gettarsegli contro come per farlo in brani. Pure le tendenze dell'uomo vinsero gli istinti ferini e si contenne, e dissimulò e cercò anzi di far venire sul labbro le parole più calme. Così comandò d'uscire a coloro che avevano accompagnato il Palavicino; e rimase da solo a solo con lui.

Lasciò passare qualche momento, poi si volse a gettare un'altra occhiata su di esso, quasi per avvezzarsi a sopportarne la vista, ma non potè, e tosto si rivolse. Finalmente parlò, pur continuando mentre parlava a guardar la fiamma che gli ardeva dinanzi:

—Son sette anni che ti cerco, marchese; sette anni che sospiro di trovarmi faccia faccia con te…. E ora sei qui…. però, se sei ragionevole, capirai che non v'è più speranza…. La legge parla chiaro e forte…. Tu sei un ribelle….

Qui fece un momento di pausa.

—Pure hai da ringraziare Iddio, continuò, ringraziarlo dell'odio stesso che ti porto, ringraziarlo, perchè se tu mi fossi indifferente, tosto saresti gettato in bocca della legge, e a chi tocca tocca; così invece voglio che la giustizia ti ceda a me, e francandoti del resto, altro non pretendo se non che la tua spada abbia a toccare la mia; questa sola, e il destino, decideranno dunque di noi. Ora se hai qualche cosa a dirmi, parla.

Manfredo non rispose nulla. Il Lautrec lo guardò per la terza volta.

—Credo d'aver parlato chiaro, e quantunque la tua bocca stia chiusa, crederò che hai udite le mie parole, e che accetti.

Manfredo accennò del capo, ma continuò a tacere.

Il Lautrec cercò allora se avesse qualch'altra parola da dire, ma non trovandone più, ed accorgendosi di non poter sopportare la presenza dell'abborrito giovane senza venir tosto a qualche estremo, uscì egli stesso della sala.

Dopo qualche tempo vi entrarono quattro soldati con arme in asta, i quali senza parlare si collocarono ai quattro angoli, e un uomo che s'accostò al Palavicino e gli parlò non senza una certa cordialità, avvisandolo che per tutta la notte gli conveniva fermarsi in quel luogo.

Il Palavicino non fece parola; soltanto, dopo alcuni momenti, domandò gli si recasse dell'acqua. Recata che gli fu ne bevve molta; dopo si liberò della pelliccia onde ancora era coperto, e si assise innanzi al fuoco. Per tutta la notte rimase poi solo in questo modo insieme ai quattro soldati.

Il dolore non confortabile per la morte di sua madre, la corsa disastrosa, la stanchezza del corpo, il gelo che gli aveva irrigidite le membra, avevan messo una tale stupidezza nella mente di Manfredo che, al primo, quando s'accorse d'esser caduto nelle mani del Lautrec, quasi non seppe misurare tutta la gravezza della sua situazione. Nè la vista del Lautrec medesimo, nè le di lui parole bastarono a riscuoterlo. Come si trovò solo però, come poco a poco il calore della fiamma gli ebbe ristorato il corpo assiderato…. anche le facoltà dello spirito si rialzarono con quello, e la sua mente cominciò a meditare con ordine. Considerando allora quanto la sua venuta a Milano per rivedere la madre era stata indarno, s'accorse del mal passo che avea fatto per non aver voluto ascoltare i prudenti consigli del Morone, s'accorse d'avere così tradita la causa del paese comune, pensò che a simile notizia tutti gli Italiani che v'erano interessati, ad una voce e con ragione lo avrebbero caricato di rimproveri. E fermandosi su di ciò ebbe tal rimorso, tanta vergogna di sè stesso, che la disperazione gli entrò nell'animo, e pregò Iddio perchè lo facesse morire in quel punto. Pure di considerazione in considerazione, le parole del Lautrec che macchinalmente aveva udite, e di cui non gli era stato chiaro il senso, a poco a poco gli si svolsero innanzi con evidenza. Quell'offerta che gli faceva il Lautrec di battersi seco, nel mentre poteva tosto consegnarlo al carnefice, gli parve una disposizione della provvidenza, che vegliava lui e il suo paese, e che ad espiare e riparare le proprie debolezze e i proprii mancamenti gli affidava il più difficile e pericoloso carico, nel mentre che forse gli apriva il campo per conseguire il supremo suo fine a un tratto. Così grado grado si venne accendendo all'entusiasmo, fino al punto, che tenne per certo ciò che non era che illusione. E sebbene sapesse quant'era poderoso il braccio del Lautrec, non si smarrì, provando allora una tale sicurezza nelle proprie forze, quale non avea forse mai avuto; sicurezza che gli derivò appunto dalla confidenza che avea posto nell'intervento espresso della provvidenza; e sentendo rinascere il rimorso di quanto aveva fatto, quantunque la pietà per sua madre gli paresse tuttavia cosa santissima e tale, che bastasse a giustificarlo in faccia agli uomini, pronunciò in que' momenti nel santuario dell'animo suo il giuramento di posporre sempre ogni privato affetto alle cure della patria, di far tacere ogni moto, anche generoso, del cuore, quando in qualche modo fosse per esser di danno ai più alti interessi d'Italia; e quel giuramento lo pronunciò con tal fervore, e nel pronunciarlo era esaltato da un così forte amore pel paese in cui ora nato, e per gl'innumerevoli suoi fratelli di sventura, che ogni ammirazione sarebbe stata minore, in quel punto, alla venerabile altezza de' suoi propositi.

Se il Morone aveva fatto capo sul Palavicino per tentare un colpo ardito al fine di cacciare i Francesi di Lombardia, era appunto per aver scorto nel suo giovine concittadino questa tendenza alle veementi accensioni dell'entusiasmo, che talora sono generatrici di grandissime cose; però lo aveva anteposto a talun altro forse più di lui fornito di equabile fermezza, ma di lui meno ardente. Ed era presumibil cosa, che se in tal momento il Palavicino si fosse trovato in campo a comandare una mano d'armati contro Francia, con quella avrebbe saputo tentare ciò che ai più sarebbe sembrato impossibile, tanto l'entusiasmo lo avrebbe fatto unico nel valore.

Ma intanto era ne' lacci del governatore e doveva chiamare sua gran ventura l'avere a tentar la sorte con lui; e ciò era tuttavia incertissimo, perchè egli versava nel pericolo, che da un istante all'altro il Lautrec cambiasse di proposito, e invece di combatter seco lo consegnasse al carnefice.

E a un tal pericolo, se nella nuova sua fiducia, il Palavicino non pensava gran fatto, ci ebbe a pensar poi seriamente un altro che aveva la mente più calma della sua.

Appena il conte Mandello, che nel lasciare il Lautrec aveva udite le sue parole ed erasi martellato il cervello per trovar loro una spiegazione, si fu ridotto al proprio palazzo e sentì dal maggiordomo che il Palavicino era giunto in Milano quella sera stessa, è troppo facile ad immaginarsi com'ei rimanesse a tale notizia, e come, dopo aver udito i dubbi e i timori del maggiordomo, che gli raccontò tutto quanto era successo, dovesse comprender tosto il significato delle parole del governatore, e chi era l'uomo caduto nelle sue mani. E fu per modo alterato da tal nuova, che non seppe trattenersi dal rimproverare violentemente il maggiordomo di non aver impedito al Palavicino di uscire, e pensando ch'ell'era una sventura, a cui non potea trovarsi il riparo, n'ebbe un rammarico estremo.

Ritiratosi nelle sue camere, non potè per tutta notte chiuder mai occhio, tanto la sua mente lavorò di continuo intorno a quella terribile avventura. Pensò se a lui fosse mai possibile di placare gli odii del governatore, e sospirò spuntasse l'alba per recarsi tosto al palazzo ducale. Ma una tale speranza gli parve poi la più pazza cosa del mondo, considerando l'inflessibile natura del Lautrec, e si volse ad altro, e di pensiero in pensiero mise in campo infiniti partiti per riuscire in qualche modo ad attenuare la sventura del Palavicino, e si sforzò con tutta l'acutezza della propria mente a cercare qualche mezzo a liberarlo dalle mani del Lautrec. Ma la difficoltà, per non dire l'impossibilità, di trovarne uno, gliene fece più d'una volta deporre il pensiero, e più d'una volta finì a conchiudere, che altro non gli rimaneva che di compiangere l'amico e di continuare nella sua regola di dissimulazione, per non mandare a vuoto anche il resto. Tuttavia il lavoro della mente non avendo avuto mai posa un'istante, gli fece finalmente balenare innanzi un partito. Lo considerò, vi si fermò sopra, gli parve possibile, quantunque d'esito incertissimo e assai pericoloso. E ciò gli mise tanta agitazione nel sangue, che dovette alzarsi ed attender l'alba passeggiando per la camera. Pure, quando spuntò, vide che non gli era conveniente il recarsi a quell'ora a palazzo, e che per colorire il disegno gli bisognava dissimulare e recarsi presso al Lautrec intorno alle ore consuete degli altri dì, e aspettare che colui parlasse il primo; far tutto ciò insomma che desse a divedere ch'egli non si prendeva gran pensiero del Palavicino. L'ansia che provò in tutto quel tempo che dovette aspettare fu certamente straordinaria, come straordinaria fu la fermezza, onde seppe dominarsi per non tradir l'amico e sè stesso. Venne il momento, alla fine, di recarsi a palazzo. Quando mise il piede sotto gli atrii del gran cortile il cuore gli battea sì forte che parea volesse scoppiargli, ed era questa la prima volta in sua vita che provava una tal cosa; ma di fuori vestì la massima impassibilità, e prima di andare dal governatore s'intrattenne con qualche soldato ad interpellarlo intorno a tutto quello ch'era avvenuto la notte prima. Che il Palavicino fosse stato catturato e condotto in palazzo era noto a tutti, noto era parimenti ch'esso trovavasi tuttavia prigioniero nelle stanze del Lautrec; ma non sapevasi ancor nulla della risoluzione presa dal governatore.

Il conte Galeazzo si recò dunque difilato da lui. cosa che da molto tempo solea fare per abitudine, Innanzi che gli fu, lo guardò del suo occhio scrutatore per vedere come stesse di dentro. Non vi era uomo che più del Lautrec mostrasse in volto le più interne agitazioni dell'animo: vi lesse dunque quel che vi dovea leggere: e sapendo ch'esso non avrebbe saputo trattenersi a lungo dal raccontargli ciò ch'era avvenuto, pensò di lasciar parlar lui per il primo.

E non passò infatti molto tempo, che il Lautrec guatando il Mandello con una espressione particolare:

—Non avete nessuna cosa a dirmi, conte?

—Non avrei nulla, eccellenza.

—Non sapete dunque quel ch'è avvenuto qui dalla notte passata in poi?

—Ah!…. lo so benissimo… Me ne disse ora appunto qualche cosa il De-Guigne.

—E così?

—E così peggio per colui. Non so che dire, la sua stolidezza mi fa più dispetto assai di quello che la sua disgrazia mi faccia compassione. S'egli medesimo ha messo il collo nel laccio e ha stretta la corda, tal sia di lui.

—Pure era anch'esso un vostro amico.

—Senza dubbio, era uno del gran numero anch'esso.

—E la madre di lui morì nelle vostre braccia.

—Davvero ch'io non so qual cosa non avrei fatto per quella donna infelice. Vi assicuro che nessuna pietà sarebbe stata mai troppo per le sue miserie. E s'ella è morta ne ringrazio Iddio, che così sfuggì allo strazio di veder suo figlio tratto al patibolo.

—Ho pensato di farne altro di lui, conte.

—Che?

—Il patibolo è fatto pe' miei nemici volgari, per quelli soltanto, ma pel marchese, per quest'uomo che abborro, ci sono io, io stesso.

—Non vi comprendo, eccellenza.

—Io non so quel che valga colui nel maneggio dell'armi; dunque io lo faccio degno di provarsi con me. Quel ch'è passato tra me e lui non può che decidersi in tal modo. Del resto la disfida sarà mortale…. sarà tale, che a voi tutti ne rimarrà orrenda la memoria per anni ed anni.

—Lodo una tale risoluzione, disse il Mandello nascondendo l'estremo suo stupore, essa è degna di voi, è degna del marchese.

—Lo credi?… Egli morirà dunque…. Così la sua morte potesse far provare, a quella che tu sai, le pene dell'inferno in questa vita… Pure la mia clemenza è soverchia…. Luigi XI ne avrebbe fatto altro di lui…. Quasi sarei tentato imitare quel re… quasi vorrei ripetere sul tuo concittadino il supplizio di Nemours… purchè quella donna fosse presente al supplizio, purchè essa potesse ricevere sopra di sè il sangue abborrito di lui.

Il Mandello stimò bene di non rispondere, e lasciare che tutto evaporasse il furore del Lautrec. Dopo si recò con lui nella sala d'armi, dove spesso soleva trattenersi co' baroni ed ufficiali francesi in esercizi cavallereschi, finchè venisse l'ora di accompagnare, insieme agli altri, il governatore in castello, dove ogni dì esso aveva per costume di comandare in persona qualche compagnia di fanti e di cavalli.

Mentre s'indugiò in quella sala, il Mandello pensò seriamente alle parole del Lautrec ed a quanto era a farsi; a tutta prima, quando sentì non trattarsi che di un duello, sembrandogli che fosse gran ventura che il Lautrec avesse preso quel partito, stette a un punto di non farne altro e di lasciare andar le cose a beneficio della sorte; ma come s'accorse, all'ultime parole del governatore, che per l'odio unico che lo sommoveva, facilmente poteva esser condotto a qualche risoluzione atroce prima di venire al duello, e che ad ogni modo la condizione del Palavicino era tale, che a sperare nella sua salvezza non poteva essere che un pazzo pensiero, fermò di mettere in effetto quel disegno che la mattina gli era balenato in mente. In quanto all'onore del Palavicino, pensò, che impedendogli di venire alle armi, non ne avrebbe per ciò scapitato d'un punto, perchè in fine il Lautrec lo aveva tratto a Milano a tradimento, ed ora lo teneva prigione, circostanze tutte che non si affacevano per nulla alla libera condizione delle armi, ed erano più che sufficienti perchè il Palavicino non potesse aver nessuna fede nel Lautrec e provvedesse a sè medesimo. Convinto di ciò, e considerato che non era altra via a tentare per salvare l'amico, e che lo stato di lui meritava la pena dell'altrui sacrificio, per quanto vedesse che il pericolo era gravissimo, pure vi si gettò col coraggio dell'uomo che tutto ha misurato, e che ha dimenticato ogni altra cosa nel mondo. Cercò dunque un pretesto, ed uscito dal palazzo recossi al proprio; sopratutto gli premeva di non perder tempo, e, se fosse stato possibile, di condurre ogni cosa a termine entro quel dì stesso. Ritiratosi nella propria camera, chiama il maggiordomo, e chiama tutta la servitù.

—Amici, loro disse, io sono costretto a licenziarvi tutti: entr'oggi questa casa deve rimanere deserta. Così, se mai qualche procella fosse per cadere su di lei, penso che le pietre non daranno sangue: qui vi è dell'oro, prendete; con questo provvederete ad uscir tosto dalla città ed al più presto possibile fate di riparare fuori del ducato di Milano.

Tutti si fecero attoniti.

—Ciò non vi dovrebbe fare gran maraviglia, che sapevate bene quanto questa nostra ragione di vita fosse precaria; oggi mi è indispensabile fare tal cosa, alla cui notizia il governatore, se il potesse, darebbe fuoco a tutta la città; spacciatevi dunque, e se vi sarà possibile, fate di raccogliervi tutti in sul Modenese. Non è improbabile che abbiate a ritornare ancora tutti al mio servigio: andate.

Tutti uscirono, due soltanto dei servi, ai quali il Mandello aveva fatto cenno, si fermarono.

—Voi due siete i più giovani e i più coraggiosi, e so che ad un bisogno sapreste spendere la vita per una buona cagione; perciò ho fatto conto su di voi, e vogliate ringraziarmi, perchè se la cosa riuscirà bene, voi non avrete mai più a servire in vita vostra. Rimarrete dunque con me, e spero che vorrete fare tutto quello che io sarò per dirvi. Si tratta di condurre con noi il figliuolo del governatore, senza che il padre, nè la Corte, nè altri se ne accorga, il condurlo fuori del ducato; vedete dunque quanto è grande il pericolo a cui andiamo incontro, e quanto è necessario ch'io mi abbia preso a compagni due uomini come siete voi: del resto, l'impresa è di tal natura, che può benissimo giovare agli interessi del nostro caro Milano. Tu dunque, per adesso non devi far altro che attaccare alla paravereda quella coppia di cavalli che ho guadagnato al Lautrec medesimo al giuoco; non vidi mai gambe di cervo più veloci delle loro, e poi voglio che il figliuolo sia tratto dai cavalli del padre; fatto questo, ti recherai presso porta Romana, e colla paravereda non devi far altro che aspettarci presso al pioppo di S. Giovanni; se lo vorrà Iddio noi ci verremo in poco tempo. Va dunque, e spacciati e fa ch'io abbia a dire poi che tu sei veramente quello che ti ho sempre stimato; tu poi, si volse all'altro servo, insella i due cavalli, e come hai fatto altre volte, verrai con me a Corte e accompagneremo il Lautrec in castello; quello che avremo a far dopo, lo vedrai.

Mezz'ora dopo, la paravereda tratta da due focosissmi cavalli, uscì della porta del palazzo Mandello, e il conte, dopo aver raccomandato, per la seconda volta, a' suoi servi, che gli si strinsero intorno nel cortile quando egli fu a cavallo, che badassero ad uscir subito, oppure a disperdersi in varie parti della città, qualora non fosse loro possibile di partire in quel dì stesso…. si recò alla Corte ducale.

Nel tempo che ne stette assente, il conte Galeazzo Mandello non potè mai escludere il timore che il Lautrec, in quell'intervallo, fosse mai per mandare a vuoto, con qualche atto estremo, tutti i suoi progetti, per cui appena entrò in palazzo, la prima cosa fu di assicurarsi ancora intorno allo stato delle cose; ma seppe che Odetto persisteva sempre nella prima sua volontà di venire al duello, seppe inoltre, che erasi stabilito di farlo succedere il dì dopo, in faccia a gran moltitudine, e a tutti gli ufficiali. Non fu dunque interrotto per nulla nel suo disegno, e accompagnò il governatore in castello; colà, dando belle parole a lui e a tutti, non si fermò che alcuni istanti, e quando vide che il Lautrec era tutto intento a disporre un quadrato di fanti, disse al servo:—Andiamo, e partì di corsa.

In pochissimo tempo furono al palazzo ducale; il Mandello, entrando a galoppo, ne fece risuonare gli androni così, che i famigli del Lautrec ne fossero avvisati; e senz'altro affacciatosi all'ingresso delle stalle ducali, chiamato il mastro scudiere:—Fate insellar tosto il cavallo pel figlio di sua eccellenza, gli gridò in tuono alto; e tu, voltosi ad un famiglio che gli passava presso in quella, presto, va negli appartamenti del figlio del governatore, di' al suo uomo lo conduca subito abbasso, che sua eccellenza lo vuole in castello; ma che si spacci, perchè sa bene come sua eccellenza ciò che vuole, lo vuol presto. Va dunque.

Dopo alcuni momenti s'affacciò in fatti ad uno dei finestroni rispondenti in sul cortile, l'uomo del fanciullo Armando per parlare al conte:

—Siete voi che avete dato l'ordine?

Il conte alzò la testa.

—Per dio, mi par bene d'aver parlato chiaro: dov'è dunque il fanciullo…. Presto, che sua eccellenza aspetta, e se passa più tempo che non occorre, vorrà dare in ismanie, lo conoscete pure.

La testa dell'uom di camera scomparve dalla finestra. Due scudieri intanto condussero fuori a mano il cavallo in gran bardatura.

Il conte Mandello e il servo di lui, si guardarono in volto: temevano che da un momento all'altro fosse per succedere un contrattempo, e irrequieti davan di volta col cavallo pel cortile.

Finalmente comparve il fanciullo Armando tutto avvolto in una pelliccia, e condotto a mano dal suo uomo.

Questi, rivolto al conte Mandello,

—Sua eccellenza, disse, ha de' strani capricci, e facendo un tal freddo, avrebbe fatto meglio a lasciare il fanciullo in palazzo, che egli sa bene come questo ragazzo si mette giù ammalato per poco.

—Che cosa volete, è fatto così; ma sbrigatevi.

Il fanciullo dai due scudieri fu messo a cavallo; il conte Mandello e il suo servo gli si misero ai lati.

Era avvenuto tante volte, che il governatore nel mezzo delle sue più serie occupazioni, preso repentinamente da quella sua pazza smania di vedersi accanto il figliuolo, mandasse a prenderlo in quel modo da taluno de' suoi ufficiali, o da altri, che nè all'uomo di camera, nè agli scudieri, nè a famiglio veruno, entrò pur ombra di sospetto in mente; e il conte Mandello s'era appunto attenuto a questo partito, perchè era il più semplice, sebbene il più aperto.

Usciti così dalla porta del palazzo, senza accidente di sorta, in sulle prime finsero di prendere per la via che metteva al castello, poi improvvisamente facendo dar di volta al cavallo, il conte accennando al servo che guardava lui continuamente cangiò direzione.

I tre cavalli presero allora la rincorsa a galoppo, intanto che il Mandello volgeva qualche dolce parola al fanciullo, che senza sospetto, con quella sua voce argentina, gli rispondeva di conformità, furono presto in Porta Romana. Le case lor fuggivano d'innanzi; finalmente apparve la cima del gran pioppo di S. Giovanni, co' suoi rami secchi e bianchissimi di neve raggelata, e il Mandello scòrse la sua paravereda. Qui temendo assai di un altro contrattempo, perchè il fanciullo poteva far qualche sospetto, pensò che bisognava giuocare di risolutezza, e che per poco non occorreva farsi caso dello spavento del fanciullo, e perciò accostatosi al servo:

—Quand'io, gli disse a voce sommessa, aprirò lo sportello della paravereda, tu getta il tuo mantello sulla testa del fanciullo, perchè non possa gridare, e afferralo alla cintura e mettilo dentro di forza, ch'io scenderò di volo da cavallo ed entrerò con lui. Con Carlotto siamo già d'accordo, e non sarà lento a cacciare a furia i cavalli; tu poi ne terrai dietro alla lontana, e in quanto a questo cavallo del governatore, farai bene a condurlo in uno di questi prati dove non ci capita mai anima viva, ed a legarlo a qualche albero; se il freddo della notte lo vorrà gelare, trattasi di cosa troppo grave, per aver pietà di una bestia. Attento dunque che siam presso.

Il trotto dei tre cavalli avvisò Carlotto, l'altro servo, il quale stava sulla cassa della paravereda, e che volse la testa, tendendo subito le redini e tenendo pronta la frusta per non mancare d'un punto.

Il Mandello s'accostò, aprì lo sportello, scendendo a mezzo di cavallo. Il giovanetto Armando lo guardò, non sapendo perchè facesse quell'atto; ma allora appunto il mantello del servo avvolse il fanciullo, che nel momento medesimo fu tratto di cavallo e messo dentro. Galeazzo salì anch'esso, e chiuse lo sportello, Carlotto spinse i cavalli, e via di tal carriera, che la paravereda, per quanto fosse pesante, strabalzava sul terreno. Trattavasi ancora di uscire dalle porte della città dov'eran guardie e gabellieri, e poteva dar il caso che quell'ultimo ostacolo fosse il più grave di tutti. Ma la paravereda, senz'accidente di sorta, passò attraverso i pilastri della porta, e innanzi ad una guardia e ad un gabelliere che non badarono a nulla. Il Mandello, che di ciò stava in gran timore, fatto spietato per necessità, tenne sempre il mantello avvolto intorno alla testa del fanciullo, e la sua mano compressa sulla bocca di lui, a non lasciarne uscire le grida, e con tal forza, che l'innocente Armando ne fu quasi soffocato. A un miglio dalle mura, pensò bene di liberarnelo, ma ebbe a sgomentarsi terribilmente, vedendo ch'esso era livido e non dava parole. A poco a poco però rinvenne con indicibile contentezza del conte Galeazzo, il quale aprì l'animo allora per la prima volta a tutte le sue speranze. Verso sera, a malgrado la difficoltà delle strade, furono a Lodi; qui gli bisognava sostare, perchè a prevenire terribili sventure, aveva a scrivere al Lautrec la lettera da cui dipendeva la salvezza del Palavicino; stette in forse se, prima di scriverla, gli convenisse aspettare d'esser fuori del ducato, ma l'indugio lo spaventava; però avendo in Lodi qualche suo conoscente, pensò bene di farne conto, e vi si recò infatti. Un miglio prima di giungere a Lodi, era stato raggiunto dall'altro servo; a lui dunque diede in custodia il fanciullo, cui non concesse d'uscire pur un istante dalla paravereda. Egli intanto, domandato alloggio per un momento al signore presso cui si recò, mettendo innanzi un gravissimo affare, lo interessò a trovare un corriere che partisse per Milano la notte stessa; promesso un compenso larghissimo, il corriere fu presto trovato. Allora il conte scrisse la seguente lettera:

"Eccellenza,

"Vostro figlio sta ora con me, voi lo sapete, e se, come il dolore può in voi parlare la ragione, vi sarà tosto corso alla mente la causa di quanto ho fatto. Voi amate la creatura vostra, io amo la mia terra e i miei fratelli, i miei carissimi fratelli; e se di me in tutto il tempo che vi fui presso, aveste a fare altro giudizio, rettificate oggi l'error vostro. Però, se fra tre dì il marchese Palavicino non sarà con me, potete esser certo, come di nessun'altra cosa, che avrete a rinunciare per sempre alla speranza di rivedere il vostro figlio. Io ho sempre amato ed amo la giustizia, e l'innocenza del fanciullo dovrebbe esser sacra per tutti e per me. Ma v'è tal cosa, che mi è più sacra ancora in questo momento; per esso sono costretto a protestarvi, che se voi foste mai per fare ingiuria al mio concittadino, pel quale darei la vita, la vita del figliuol vostro ne risponderà, e il suo sangue cadrà su di voi. Non fu mai promessa pronunciata con sì tenace proposito.

"Non crediate intanto trovar scusa in faccia agli uomini, protestando ch'era vostra intenzione di battervi col Palavicino; dopo che avete prezzolati sicari per farlo assassinare, dopo che con perfido mezzo l'avete tirato nell'insidia, non avete più nessun diritto all'altrui fiducia; se aveste sempre operato di lealtà, se aveste fatto sapere al marchese che volevate battervi seco, egli avrebbe con sollecitudine attraversata Italia per non mancare all'invito; egli che lo desiderava, egli che avrebbe fatto sagrifizi per cercar voi, ma così è tutt'altro. Ma il Palavicino deve ora provvedere a scansar l'armi dell'ingiustizia e del tradimento; ora veniamo a ciò che importa: vostro figlio vi sarà restituito il dì stesso che il Palavicino sarà restituito a me ed alla sua patria: fate dunque ch'ei sia condotto a Reggio; io sarò nel palazzo del governatore, là il figliuol vostro sarà consegnato a chi ne terrà il mandato da voi; vi do tempo tre dì, guai se questi trascorressero, vostro figlio non vivrebbe più. Afrettatevi dunque."

Conte Mandello.

La lettera fu subito consegnata al corriere il quale dopo aver ascoltati tutti gli ordini del conte, partì sull'istante per Milano. Il Mandello risalì anch'esso nella paravereda, e continuò il viaggio per Reggio, città che avea scelto di preferenza perchè conosceva Francesco Guicciardini, il quale n'era stato eletto governatore pel papa.

CAPITOLO XXII

Il corriere cavalcò tutta la notte, e non giunse a Milano che un'ora prima dell'alba; facevano ancora le più fitte tenebre, ma, come gli aveva raccomandato il conte, si trasferì tosto al palazzo ducale. Fermatosi innanzi alla maggior porta, parlò ad un soldato, disse avere con sè una lettera della più grave importanza, da consegnare a sua eccellenza il governatore; così fu tosto condotto dentro.

Nel palazzo, a quell'ora, che in ogni altro dì dell'anno tutto riposava, appariva in questa circostanza un gran disordine; si vedevano ufficiali, soldati, famigli, in volta per le scale, per gli atri, pe' cortili, che s'interrogavano alla sfuggita che si stringevano nelle spalle, che si fermavano a crocchi; si vedevan lumi comparire e scomparire di volo dietro le vetriere de' finestroni; tutto era in gran movimento come fosse di giorno.

Soltanto in una grande anticamera degli appartamenti superiori, tre servi se ne stavano in gran silenzio origliando ad un uscio.

—È da due ore che non si risente, diceva uno sotto voce, io non so cosa pensare.

—Stà, mi pare d'aver udito un respiro.

—Vorrà essere un avvenimento inaudito, ma quest'uomo morirà di rabbia e d'affanno….

—E d'amore… credilo a me.

—Darei la metà del mio sangue, perchè mi fosse dato di condurgli dinanzi il suo Armando, come Dio è vero, la darei.

—Ma il povero Dênis intanto dovette dar tutto il suo.

—Fu un'atrocità senza esempio.

—Zitto.

—Come poteva esso sospettare, che l'italiano lo avrebbe ingannato a quel modo?

—Questo lo penso anch'io; ma come non si può non scusare sua eccellenza, se la disperazione lo ha fatto uscire di senno?

—Non è la prima volta.

—Senti, Vautrin, se io avessi a vivere mill'anni, in mille anni non saprei mai dimenticare il furore onde fu trasportato sua eccellenza, quando domandato d'Armando, seppe che non era in palazzo e ch'era stato condotto via dal conte Galeazzo. L'aspetto di lui in quel momento fu tale che a pensarvi, sempre mi farà raccapricciare d'orrore.

—Taci, nè io pure ne sopporterei la memoria; ma in vero l'eccesso del suo dolore mi fa pietà, più che il furor suo mi faccia spavento…. Quest'uomo, che fa tremar tutti… e alla cui comparsa non v'è chi più ardisca di parlare… quest'uomo… io l'udii piangere e singhiozzare… Ciò mi ha fatto tal senso… che a me pure vennero le lagrime agli occhi… e mi sentii tutto intenerito, non so cosa dire…

Qui s'udì un rumore nella stanza vicina, poi il suono distinto di una pedata che si accostava all'uscio.

I servi sgomentati, si ritrassero in fretta in fondo all'anticamera; l'uscio si spalancò, comparve il Lautrec, che si fermò sulla soglia, immobile come un marmo. I suoi occhi eran fissi come quelli di chi abbia smarrita la ragione.

Guardando nella camera, non si vedeva, al fioco barlume di una lampada, presso a spegnersi, che un piccol letto… era quello del fanciullo Armando.

Il Lautrec versava certamente allora in una di quelle tremende crisi dell'uomo, in cui la fissazione assidua e spasmodica della mente in un oggetto unico, sta per degenerare in forsennatezza assoluta. L'assenza del figliuolo, assenza resa tanto terribile dell'incertezza delle cause, delle circostanze, del luogo, del tempo; l'assenza di quel figliuolo, senza di cui gli sarebbe sempre stata insopportabile la vita, avea tolta ogni susta alla sua forza morale. La sua condizione era simile a quella di un uomo al quale, mancando un elemento fisico, indispensabile all'esistenza, irresistibilmente sente fuggirsi gli spiriti.

Ed era tanto più presso a subire il dominio della pazzia, in quanto che, sentendo che la presenza del suo Armando gli era necessaria, procurava illudersi d'averlo a riabbracciare da un istante all'altro, e trovando poi come quella sua aspettazione ansiosa, e che aveva tenute sospese tutte le potenze della sua vita, era stato indarno, e vedendo fuggirsi innanzi ogni speranza, quella specie di voto lo desolava, lo spaventava sì, che prorompeva in eccessi inauditi.

Del resto, questa esaltazione furibonda che gli durava da tante ore, non era stata e non era senza i suoi lucidi intervalli. In questi aveva potuto pensare a tutte le cause possibili, del rapimento di Armando, e per sua e altrui fortuna, essendogli noto, che era stato il conte Mandello a condurselo seco, fu da ciò condotto a sospettare il perchè avesse colui operato di tal maniera; e un simile sospetto, dirò anzi una simile speranza così lo dominò, che negli istanti medesimi in cui, per versar fuori quella rabbia affannosa che lo tormentava, sentiva come un bisogno d'incrudelire su tutti e di far sangue, e di cominciare appunto a diguazzarsi nella vendetta del Palavicino, pure se ne astenne sempre, quasi una forza imperiosa lo trattenesse, e se ne astenne con un proposito così deciso che, a mettere un ostacolo agli assalti subitanei dell'ira propria, e temendo di non potersi dominare abbastanza, aveva fatto condurre il Palavicino nella torre del castello per averlo così più lontano; aveva intravveduto insomma, che quello era l'unico prezzo del riscatto del proprio figliuolo.

E quante volte aveva supplicato Iddio con un fervore strano alla sua indole irreligiosa, perchè tosto gli desse il motivo per liberare il suo mortale nemico!… Pure, più d'una volta insorsero con prepotenza anche gli odii vecchi, e non gli parea vero, che quell'uomo dovesse sfuggirgli così, e non sopportando tale idea, ad escluderne per sempre la possibilità, stette spesso per dar l'ordine di uccidere il Palavicino; se non che, appena egli volgevasi a guardare la coltrice del suo Armando, improvvisamente sbollivano le ire, tutto cedeva, tutto squagliavasi al fuoco ardentissimo dell'indefinito amor suo, e allorquando l'entusiasmo della vendetta stava per vincerlo, l'unica lagrima che gli sgorgava dall'occhio infuocato, mandava tutto in dileguo. Così avea passato tutte quelle ore, tutta la notte, in conseguenza di che, sopraffatto, domato dalla forza del male, e da tanto contrasto, la sua intelligenza era adesso in procinto di alienarsi.

In tale stato dell'animo, stava ei dunque ancora immobile sulla soglia della camera da letto del suo Armando, e i servi aggruppati in un canto dell'anticamera, mentre lo guardavano attenti, non ardivano nemmeno di respirare, quando s'udì dalle scale, dai corridioi, dalle camere, un gran rumore di passi e di voci che si avvicinavano, e finalmente si videro entrare con gran sollecitudine alcuni ufficiali in quell'anticamera stessa.

Erano essi saliti in fretta per domandare del governatore, ma quando lo scorsero immobile in quella posizione e in quell'atteggiamento, si tacquero un momento irresoluti.

Ma uno di quegli ufficiali fattosi animo:

—Eccellenza, disse, è qui una lettera di grande importanza, il corriere è dabbasso che aspetta.

La rapidità onde il Lautrec a quelle parole e alla vista della lettera si scosse, e dal punto ove trovavasi, balzato presso all'ufficiale che parlava, gli strappò con violenza la lettera dalle mani, è indescrivibile.

Avutala così, rotto il sigillo, spiegazzatala con gran tremito la lesse di un fiato. La faccia gli si trasmutò a un tratto, parve quasi che un fitto velo gli si fosse tolto dinnanzi.

Ebbe un altro soprassalto di gioia perfetta, pari a quello che provò quando gli fu annunziato che il Palavicino era nelle sue mani; chi gli avrebbe detto allora, che sarebbe costretto a rimandarlo libero ed illeso?

E si volse allora a quegli ufficiali stessi che avean recata la lettera, per dar loro l'ordine di far tosto liberare il Palavicino e di scortarlo fino a Reggio… ma nel punto stesso di profferire quella parola, gli parve sì duro l'esser costretto a tal passo, che si tacque, e si mise invece a passeggiar per la camera in preda ad un novello contrasto.

Cessato quello sgomento, generato dall'incertezza della sorte del proprio figlio, e assicurato dell'esser suo, e in qual luogo trovavasi, e come era sano e salvo; riposato da quell'oppressione orrenda, che avea chiuso l'adito ad ogni altra cosa, l'odio pel Palavicino insorse allora con più forza che mai, e rimase padrone del campo.

Alcuni momenti prima aveva atteso con ansia, che in prezzo del riscatto del proprio figliuolo gli fosse richiesto il Palavicino, ma ora che trovavasi al punto, una tale necessità le fu insopportabile, e pensò a ribellarsene. Fin dal dì prima, appena seppe che il Mandello seco aveva condotto Armando, sulle tracce di lui, con gran sollecitudine aveva spediti uomini per tutte le parti, de' quali veruno peranco era tornato; volle dunque aspettare qualcuno di costoro, e, sebbene la lettera stessa del Mandello desse indizio ch'esso non era ancor stato raggiunto, ed era in salvo, pure sperò che ciò potesse tuttavia succedere da un momento all'altro.

Ma il contrasto era terribile, era tale che l'animo suo già fiaccato da tante ore d'angoscia, non bastava più a sopportarlo. Diede un'altra occhiata alla lettera; quell'intimazione del termine perentorio di tre dì, cui a tutta prima non aveva posto mente, ora le sconvolse l'animo terribilmente, ora che, misurate le distanze gli parve essere difficile che in tre giorni, senza una gran sollecitudine, il Palavicino potesse arrivare a Reggio. Gli corse un gelo per tutte le membra… Si volse finalmente per dar l'ordine agli ufficiali che aspettavano… ma nel punto di parlare, non seppe vincere la vergogna di avere a cedere all'impero della necessità, di mostrare tanta debolezza, di mostrarla in faccia a que' suoi soggetti specialmente; però non volendo parlare, prese di forza pel braccio uno di quegli ufficiali, e seco il trasse a furia nelle proprie stanze… là, non volendo ancora parlare, scrisse l'ordine, glielo consegnò dicendogli—Va—e nel pronunciare questa parola respinse l'ufficiale con un urto violento del braccio quasi a cacciarlo fuori della camera, nella quale egli si chiuse poi disperatamente e si buttò sul letto nascondendo la faccia tra i cuscini… Aveva vergogna anche di sè stesso.

L'ufficiale di servizio, uscito che fu dal la camera del governatore, senza pensar molto al duro modo onde n'era stato respinto, essendovi avvezzo da gran tempo, letto l'ordine di volo, e interpretata la parte sottintesa, si recò presso a' colleghi cui lo comunicò.

Tutti gli ufficiali che sapevano benissimo il fatto del conte Mandello, e stando in aspettazione di qualche gran cosa, avevano fatte di molte interrogazioni al corriere, si strinsero in un gruppo con gran sollecitudine per sentire quel che aveva deliberato il Lautrec; però, quando udirono che non si trattava d'altro che di rimettere in libertà il marchese Palavicino, per quanto avessero già pensato che necessariamente doveasi riuscire a questo, pure ne rimasero tutti altamente maravigliati.

—Codesta è tutta opera del conte Galeazzo Mandello.

—A quel diavolo d'Italiano, io non so cosa non sia possibile; pure, quando ci penso, non mi par vero.

—Ce n'è dell'astuzia in codesta insidia a cui trasse sua eccellenza.

—C'è anche della perfidia in buon dato.

—E molta generosità assai, io lo confesso, quantunque non ami niente quell'Italiano, e non m'attenterei dirlo a sua eccellenza.

—Lo dico io pure, perchè in fine, mise all'azzardo la propria vita, e, in che arrischiato modo!!

—Bisogna dunque che questo marchese Palavicino valga qualche cosa, se un tal uomo si è offerto per lui.

—Valga, o non valga, bisogna intanto provvedere a farlo mettere in libertà, e ci siamo già troppo attesi qui.

—Dopo bisognerà pensare a farlo scortare sino a Reggio.

—E a chi se ne darà l'incarico?

—Il governatore non ce ne dà istruzione…

—Dunque…

—Dunque converrà interpellarlo…

—Non sarei mai per far questo, disse allora l'ufficiale che aveva ricevuto l'ordine dalle mani stesse del Lautrec. Questo non è il momento di dargli altre noje, e se non c'è altri che possa accompagnare il marchese, lo accompagnerà qualcuno di noi. Fra tre dì si ha ad essere a Reggio, dove il figlio di sua eccellenza ci sarà restituito; questa è la cosa per cui si avrà più che mai a tener aperti gli occhi. Andiamo dunque, che in verità non c'è tempo da perdere.

Così tre degli uffiziali di servigio si trasferirono al castello.

Per quanto quegli ufficiali francesi fossero alieni dal provare una pietà al mondo delle miserie lombarde, pure, questa volta, per la novità stessa del caso, e per l'ammirazione a cui non poterono sottrarsi verso il Mandello, che tanto aveva fatto a salvare un suo concittadino, e per l'interesse onde ebber sempre riguardato il giovane Palavicino, fatto assai grande agli occhi loro dalla tenacità stessa dell'odio onde il Lautrec lo aveva fatto segno, provarono una certa compiacenza nell'essere portatori di un ordine a favore di lui.

Mostratolo dunque al castellano, e fattagli presente l'urgenza straordinaria delle circostanze, lo sollecitarono a rimettere in libertà il marchese Palavicino. Intanto che il castellano recavasi per adempiere gli ordini, essi a non perder tempo, fecero tosto allestire le cavalcature pel viaggio.

Il marchese Palavicino, già da quindici ore, se ne stava in uno di que' tetri camerotti della torretta del castello; fin dal primo momento che v'era stato condotto, gli era caduta ogni speranza affatto, e si tenne irremissibilmente perduto. Quella prima fiducia ond'erasi tanto confortato, quando udì che il Lautrec avea fermo di battersi seco, quella fiducia illimitata, onde sperando per sè, sperò per tutta Italia, e per tutti i suoi fratelli, abbandonatolo improvvisamente, lo lasciò in tale stato di disperazione, in tale abbattimento, che le smanie istesse e i deliri, portati dai patimenti estremi dell'animo che avea subito il Lautrec nelle ore della notte trascorsa, li aveva subiti esso pure. E tanto più, in quanto non poteva vincere il rimorso di avere anteposto alla patria comune un affetto privato, d'avere egli medesimo affrettato la propria rovina, e d'essersi posto al punto che se l'espiazione gli era pur troppo inevitabile, ogni via gli era intercetta ad una riparazione generosa. Non poteva sopportare l'idea di avere a morire così giovine, senza avere operato cosa che fosse degna della gratitudine degli ottimi, e dopo aver fatte tante promesse, d'aver suscitate in altri tante speranze, e averle tradite tutte quante…

Verso il mattino, quando sentì ch'egli veniva meno sotto il peso di tali pensieri, e gli parve che tutte le facoltà dello spirito fossero per essere soppresse come da un deliquio, cadde in ginocchio, e nella sua desolazione, sentì il bisogno di rivolgersi a Dio. Le lagrime che gl'innondarono il volto in quell'ora angosciosa, ma d'una solennità senza pari, la preghiera che fece il suo labbro commosso e inspirato dalla sventura e da un amore ardentissimo, attestavano quanto v'era di puro, di soave e di sublime in quell'anima giovanile. Le sue debolezze, le sue cadute lo aveano altra volta pur troppo messo a paro degli uomini volgari. L'entusiasmo della carne aveva per qualche tempo assorbito ogni altra cosa, e avea vinto; ma non mai anima di mortale alzò poi tant'alto il suo volo, come quella di lui in questo punto; essa erasi gettata veramente nelle braccia d'Iddio, per esserne degna un istante. I colpi della sventura sono talvolta di una efficacia senza pari a redimer l'uomo dall'uomo, ed a comunicargli un ardore che va oltre la sfera delle sue abituali tendenze.

Egli era ancora assorto in tali pensieri, quando il castellano entrò a comunicargli l'ordine del governatore.

Come rimanesse a tale notizia, è facile pensarlo. Gli rinacquero tutte le speranze, e in quelle afflizioni medesime gli parve d'aver rinvenuto una forza novella, e così discese col castellano.

Ma quando dagl'istessi uffiziali che gli si mostrarono assai cortesi, seppe com'era andata ogni cosa, e come il conte Galeazzo Mandello s'era condotto seco a Reggio il figlio del Lautrec per salvar lui, e che adesso egli era atteso in quella città stessa, nel palazzo del governatore, dall'amico che per lui aveva messo a repentaglio la propria vita; per quanto fosse forte la gratitudine e la tenerezza che provò in quel momento, pure non seppe determinarsi ad accettare quella via di scampo. Gli parve di abbassarsi troppo in faccia al Lautrec, di avere così a sembrar troppo piccolo in faccia ai proprii concittadini ed all'Italia tutta; d'altra parte gli era entrata così forte la persuasione che per una determinazione espressa di chi è superiore alle fortuite combinazioni degli umani eventi, egli fosse venuto a Milano per trovarsi faccia faccia col Lautrec, per battersi seco, e forse per liberare il paese dell'atroce flagello di lui, che coll'accettare quel partito gli sembrò mancare al proprio ufficio. Però, dopo un forte contrasto, volto agli ufficiali:

—Prima di venire con voi bisogna ch'io dica qualche parole al governatore, egli si esibì di battersi con me. Non sarà mai ch'io voglia sfuggire ad una tale occasione; conducetemi dunque da lui.

I tre ufficiali gli rimostrarono come una tal cosa fosse impossibile, trattandosi che se passavano i tre giorni la vita del figliuolo del governatore ne andava di mezzo.

—Io provvederò anche a questo, rispose il Palavicino; conducetemi dunque tosto da sua eccellenza, se non volete che si perda il tempo inutilmente.

Gli ufficiali non seppero opporsi.

Quando al Lautrec fu annunziato chi era venuto in palazzo per parlargli, ne fa così maravigliato, che non sapeva cosa pensare. Uscì però di fretta delle sue camere, e venne in quella dov'era stato condotto il Palavicino.

Neppure questa volta seppe dominare quell'avversione invincibile che provava vedendo colui, e gli prestò orecchio rivolgendo altrove lo sguardo.

—Io non mi parto di Milano, disse allora il Palavicino in tuono alto, se prima non ho incrocicchiata la mia colla vostra spada. Voi me ne avete fatto l'invito per il primo; però vi esorto a mantener la parola.

Al Lautrec crebbe a più doppj la maraviglia…. ma il pensiero che ad ogni ora che passava sempre più cresceva il pericolo del proprio figliuolo gli chiuse il labbro ad una risposta e lo atterri.

Il Palavicino, che se ne accorse, continuava:

—Se temete per la vita del vostro figlio, fate ch'io possa scrivere una coppia di righe al conte Galeazzo Mandello… lo pregherò a protrarre il termine alla sua risoluzione. Un corriere potrà recargli di volo la mia lettera.

Il Lautrec si volse a tali parole…. guardò dal capo alle piante il Palavicino…. per un istante fuggevolissimo sentì per colui una sensazione quasi di simpatia, di gratitudine, di tenerezza…. Fu un lampo però… e l'odio tornò colla solita insistenza. Disse poi:

—Scrivete dunque!

Il Palavicino scrisse la seguente lettera:

"Caro conte!

"Dell'atto generosissimo onde hai dato prova della amicizia unica che hai per me, ed al quale ogni gratitudine sarà sempre minore, non posso valermi per ora. Prima di mettermi sulla via dello scampo che tu mi hai aperto, ho fermo di battermi col Lautrec. È questa una necessità… Mancherei a me, alla patria, a tutti se io evitassi un simile incontro. La mia fede non ha limite in questo punto, perciò non so cosa non affronterei. Intanto non fare offesa al fanciullo Armando… e solamente, quando sien passati sei dì senza ch'io te ne scriva appositamente, fa di lui quel che ti parrà meglio. Se non foss'altro, un tal pegno costringerà il Lautrec alla lealtà. Addio."

Il Lautrec lesse una tal lettera con fremito, si volse al Palavicino, e disse:—E se voi rimarreste sul terreno?

—Non mi potrà mancar tempo di scrivere un'altra coppia di righe al conte.

Il Lautrec tacque, e tosto fatto commettere il foglio ad un corriere perchè lo recasse alla sua destinazione, si ritirò.

Non mai egli s'era trovato in una così terribile condizione. Rifiutare di battersi col Palavicino non fu cosa che neppure gli passò per la mente a tutta prima. Ma che sarebbe avvenuto del fanciullo Armando, se il Palavicino fosse rimasto ucciso? Ma qual valore potevano avere le generose proposte del medesimo, sinchè il fanciullo trovavasi nelle mani del Mandello? Un tal pensiero lo gettò in tale imbarazzo, che per la prima volta si degnò richiedere di consiglio i propri ufficiali che tutti furono d'avviso ch'egli dovesse battersi.

Allora non pronunciò più parola, e lasciato che gli altri facessero i preparativi pel duello, licenziò tutti quanti, e rimase solo. La notte d'intervallo fu per colui una notte d'inferno.

Il dì dopo nella massima sala del palazzo ducale, all'ora terza, era raccolta una gran quantità di persone. Le logge aperte in giro su in alto, a due terzi dello spazio fra il pavimento ed il cornicione, eran tutte gremite di popolo. In mezzo ai soldati, agli ufficiali ed ai baroni francesi, che se ne stavano affollati in giro nella sala medesima, si vedevano mescolati alcuni gentiluomini lombardi. Il Palavicino aveva voluto che al duello non assistessero soltanto i soldati francesi, ma chiese ed ottenne che vi potessero intervenire anche i suoi Milanesi. Chiese ed ottenne che per tutta la città ne fosse propalata la notizia, perchè tutto si decidesse al cospetto delle due nazioni, e al governatore fu giocoforza acconciarvisi per quella ragione imperiosa alla quale, con suo rodimento e rossore, dovea sottostare.

Battè finalmente l'ora quarta all'orologio di San Gottardo, ora da tutti attesa con una trepidazione ed un'ansia tremenda. Un istante dopo entrarono nella sala il Lautrec e il Palavicino. Al loro comparire fu un insorgere strepitoso di voci, cui successe quasi nel medesimo tempo una perfetta calma. Come stessero di dentro tutti i Milanesi convenuti a quello spettacolo…. come si sentissero trasportati di tenerezza, d'entusiasmo verso il loro concittadino… come tremassero del grave suo pericolo, non ignorando nessuno quanto il Lautrec avesse fama d'invincibile, chi ha cuore lo può pensare.

Tutti quelli intanto che trovavansi nella sala, si ristrinsero in giro accosto alle pareti e lasciarono affatto libero il campo.

Ma qual era la condizione d'animo dei due che avevano a battersi? Certamente che più di ogni altra cosa deve tenersi conto di essa, perchè pare che principalmente abbia influito sull'esito di un simil fatto.

Il Lautrec era terribilmente abbattuto. Nel comparire al cospetto di tanti uomini assembrati in quel luogo, si sentì oppresso da una vergogna insolita, pensando che a tutti era noto aver lui dovuto piegarsi all'altrui volere…. una simile vergogna lo sbaldanzì. Non vi è chi ignori quanto la forza morale aiuti la fisica in simili circostanze, e fu per ciò che il Palavicino in questo giorno venne ad esser superiore a sè medesimo sul terreno in faccia al Lautrec. Ardente d'entusiasmo pel suo paese, in pro del quale pensava di offrire sè medesimo, confortato dalla fiducia insolita che aveva in sè, nella fortuna, nella buona causa, in quell'ora egli valeva certamente per due. E quella calma inalterabile della sicurezza gli traspariva dal nobile volto, circostanza che valse a calmare alquanto la trepidazione de' suoi concittadini. Sul volto del Lautrec per lo invece si vedeva a sì chiari segni il turbamento, l'angoscia, l'oppressione, che diede a pensar molto a' suoi.

Dopo qualche po' d'aspettazione le spade cominciarono a toccarsi.

Non è nostra intenzione di tener conto qui di tutti i colpi dati e ricevuti in quel memorabile giorno. Non volendo far altro che render conto di un fatto importantissimo e dell'ultimo suo risultato, diremo soltanto che il combattimento sospeso e ripreso a molti intervalli durò, cosa straordinaria a dirsi, dalle quattr'ore della mattina fino a vespro, quando cioè la luce già cominciava a mancare nella sala.

Più d'una volta, nella ultim'ora del combattimento, con applausi e con grida, a cui la novità del caso e l'ammirazione per tanta bravura aveva eccitato tutti gli spettatori, era stato manifestato il desiderio che i due combattenti ristessero e si finisse così ogni cosa.

Ma la luce mancando sempre più, cominciò ad agitarsi tra quegli ufficiali del Lautrec quello che fosse conveniente di fare. Ci fu un punto che i due combattenti, impediti dall'oscurità, abbassarono spontaneamente le spade. Allora tutti gli ufficiali si aggrupparono intorno al Lautrec onde persuadergli che bisognava portare al dì prossimo la decisione del duello. Egli non rispose e soltanto fece capire che bisognava domandarne al Palavicino, il quale non rifiutò.

Quando il Lautrec fu uscito, gli ufficiali, che rimasero nella sala, e i gentiluomini lombardi si affollarono intorno al Palavicino, che in quell'istante d'intervallo, s'era buttato a sedere, preso da un repentino capogiro per l'eccessiva stanchezza e pel dolor vivo che gli derivava da tutte le membra lussate. Intorno a lui s'indugiarono così quanti eran nella sala gran parte della notte.

Ma nella stanza del Lautrec fu il massimo disordine in quella notte medesima. Ripensando al pericolo del fanciullo, pericolo che gli pareva si facesse sempre più grave ad ogni ora, le smanie del governatore ricominciarono…. e grado grado giunsero a tal punto, che parve il suo cervello avesse dato di volta affatto. Gli ufficiali che stavan con lui, scossi da quegli affanamenti forsennati, e temendo ogni peggior cosa, pensarono se vi poteva essere qualche pronto rimedio a tanto disordine… e di nuovo strettisi intorno al Lautrec per tentar di calmare i deliri di quel terribil uomo… si permisero di dare un consiglio.

Nell'impeto dell'amor paterno al governatore scappò detto che si facesse. La lontananza del proprio figliuolo gli era divenuta insopportabile. A qualunque onta si sarebbe sottoposto per riavere il suo Armando. Gli ufficiali non aspettarono altro allora, e tosto recatisi presso il Palavicino, fattegli presente la volontà del governatore, lo esortarono a star contento d'essere uscito con pari onore dalla gara, e di lasciarsi condurre incontanente a Reggio per mandar subito a Milano il figlio del Lautrec. Il Palavicino stette in prima ostinato un pezzo…. finalmente, vinto dalle parole di taluni lombardi che gli si misero intorno a scongiurarlo perchè non volesse abusare così della favorevole fortuna, stimò bene di aderire.

Di tal guisa si venne sciogliendo un nodo, dal quale pareva dover nascere una conseguenza risolutiva e tremenda. Ma non è questo esempio nuovo nelle umane cose, che gravi principi abbiano spesso fini leggeri o nulli, e viceversa poche e impercettibili faville sian causa più spesso di disastrosi incendi.

L'alba del giorno successivo il Palavicino era in viaggio per Reggio, accompagnato da tre ufficiali francesi.

Il viaggio fu lungo e tedioso, e non arrivarono in Reggio che la sera del terzo dì. Senza por tempo in mezzo, si recaron dunque al palazzo del governatore.

Giunti che vi furono, poterono accorgersi che v'erano attesi, perchè subito fu domandato se fra essi era il Palavicino, e appena questi si diede a conoscere, immantinente fu condotto nelle stanze del governatore, col quale appunto trovavasi allora il conte Galeazzo Mandello che aveva ricevuta la lettera del Palavicino il giorno prima.

Tosto che la porta della camera fu aperta, e gli occhi s'incontrarono, fu un commovimento straordinario; il Palavicino si precipitò nella camera e cadde come spossato nelle braccia del conte, che gli si slanciò incontro con un movimento istantaneo. Non mai entusiasmo d'amore spinse l'uno incontro all'altro due esseri così, non mai due cuori palpitarono d'una amicizia così santa, così profonda, così forte; tanto forte, che il Mandello sentì negli occhi le lagrime per la prima volta, e al Palavicino mancarono gli spiriti. Il Guicciardini intanto, colla calma inalterabile dello storico, stette contemplando quel gruppo. Il silenzio fu lungo e solenne.

CAPITOLO XXIII

Dopo quel silenzio, che valeva per mille parole, il conte Galeazzo scioltosi dal Palavicino:

—Ma in qual modo sei tu qui? gli disse; ma il duello?… ma il Lautrec?

—Il duello è successo. Del resto io vivo e colui non è morto….

—Ma come avvenne ogni cosa?

—Io non te ne saprei dir nulla con precise parole, perchè a me stesso non par vero; ti posso però assicurare che coll'aiuto di Dio io valsi certamente per due, e lui non era più riconoscibile.

—Ma che fece?

—Si è battuto sei ore continue con me; infine ci convenne sostare ad ambedue…. Il disordine era in ogni sua facoltà, e la fortuna fece il resto.

—Tu se' caduto in piedi, Manfredo. Esso è tal fatto che sarebbe incredibile se non fosse vero.

—Egli è tale, Galeazzo, che mi aggiunse tanta sicurezza e fiducia, ch'io non so quale impresa non mi attenterei d'assumermi da quest'ora in poi. Sento che aveva bisogno di passare attraverso a così tremendo pericolo per rialzarmi al tutto.

Qui, fatto un po' di pausa e voltosi a Francesco Guicciardini che immobile e attento non aveva ancora pronunciata parola, gli disse:

—Ora, illustrissimo signore, se per mandare a termine que' progetti che insieme al Morone avevate concepito a pro della nostra cara Italia, vi occorre di un uomo per collocarlo al posto il più pericoloso, fate conto su di me. Vi supplico anzi, vi scongiuro a cercarmi un tal posto. Io di presente non ho altro desiderio al mondo che questo.

Il Guicciardini a tali parole stato per qualche poco in silenzio.

—Se non avete altri desiderj, rispose, vi conforto dunque a non attender altro che il momento opportuno.

A questo punto, uno dei tre ufficiali francesi che avevano accompagnato il Palavicino a Reggio, e che nel primo incontro dei due amici s'eran fermati sull'uscio della camera, si fece innanzi e voltosi al conte Galeazzo Mandello:

—Signore, gli disse in francese, credo inutile il parlarvi della vostra fede di cavaliere; ma vorrei sollecitarvi a consegnare a noi tre, che ne abbiamo espresso mandato dal governatore Lautrec, il fanciullo Armando, e a fare quello che avete promesso nella vostra lettera.

Il Guicciardini che prestò orecchio a queste parole senza mai allontanarsi dalla propria tavola, fe' allora un cenno al conte Galeazzo, se lo chiamò vicino.

—Che cosa avete promesso, gli disse sottovoce, in codesta vostra lettera?

—Per verità ciò appunto che costoro domandano.

—Va benissimo; ma una tale promessa l'avete fatta prima che succedesse il duello… e una condizione della promessa medesima era anzi che codesto vostro concittadino fosse incontanente fatto condurre qui. È ella così la cosa?

—È così infatto.

—Dunque se il duello è avvenuto, le circostanze si son mutate al tutto e il patto non terrebbe più….

—A che vorreste condurmi?

—A questo, che il fanciullo del Lautrec non si debba restituire. È un pegno troppo prezioso. Voi non sapete, caro mio, quante difficoltà, quante lungherie, quanti impacci, quanti pericoli si scanserebbero per codesto fanciullo.

—Capisco; ma qui il Palavicino credo siasi impegnato egli stesso. Io non sono già uomo che la guardi tanto pel sottile, quando il bisogno incalza… quando è estremo… ma in questo punto, illustrissimo, non dubiterei a restituire il fanciullo… Pure udiamo il Palavicino…

Il Guicciardini crollò la testa e non rispose…. Al Palavicino fu detto di che si trattava.

—Si stia alla promessa, si stia alla promessa! esclamò tosto che udì la cosa… Che non si abbia a dire, che noi Italiani ricorriamo sempre a questi astuti mezzi. Ne ho fatto promessa io pure, disse poi per escludere affatto il nuovo partito del Guicciardini.

—Quando ne avete fatto promessa, conviene attenerla, disse allora il Guicciardini dando subito di volta al discorso. Io credeva non vi foste strettamente impegnato,

Così il figlio del Lautrec fu rimandato.

…………………………………………………

Riassumiamo adesso gli effetti che sono scaturiti da quanto abbiamo raccontato. Il Palavicino, allontanatosi da Roma, dove in sè stesso aveva esibita la prova del quanto la condizione prospera di un paese che degenera in mollezza, influisca anche sulle anime forti così da non farle parer più riconoscibili, arrivato a Milano, nello spettacolo dell'altrui miseria, nella propria angoscia, nell'estremo pericolo in cui ebbe a trovarsi avvolto, trovò gli argomenti per rialzarsi affatto e per ricuperar tutta la sua virtù. Ma nelle di lui generose aspirazioni avea bisogno di qualche cosa che rendesse noto il suo nome a tutti gli Italiani, che altamente lo segnalasse, per trovar poi la fiducia necessaria a suo tempo e luogo; e il duello avuto col Lautrec, di cui venne a correr la voce per tutta Italia, gli conciliò appunto quella popolarità e quella stima di cui aveva d'uopo. Per verità che il Palavicino ebbe a lodarsi della sorte più che di se stesso; ma l'aver saputo tener conto della lezione della sua stessa sventura, e l'aver ricuperato la propria forza allora appunto che il più degli uomini l'avrebber forse perduta, basta per meritargli la lode dei buoni.

D'altra parte fu per lui, se il conte Galeazzo Mandello si trovò costretto a risolversi ed a spiegare a un tratto tutta la forza e la nobiltà della propria natura che per tanti anni, sdegnato della generale abbiezione, quasi apposta avea cercato di smarrire nelle intemperanze e negli stravizzi, per non avere ad esser testimonio di nulla; e uscito della propria città, dove non gli rimaneva a far altro, si accostasse al Guicciardini, (dal quale in pari tempo che dal Morone dovevano esser gettate le prime fila per iscacciar Francia dall'Italia), e fermasse poi la sua dimora in Reggio, piccola città destinata a veder l'origine, il lento svolgersi, il progresso, la maturanza estrema di un gran fatto che parrebbe invero altamente disposto, tanto difficile riesce a spiegarlo siccome un semplice accidente. A governare il Modenese in nome del papa era stato eletto il Guicciardini, la prima intelligenza italiana che si stabilisse in Reggio. Il Morone venuto qui espressamente, si era già messo d'accordo con lui; ora il Palavicino e il conte Mandello sono condotti da un corso di cose, ad avvicinarglisi essi pure, ed a costituire così quasi un centro d'intelligenza e di potenza, a cui, come raggi da una vasta periferia, avranno poi a convergere tanti elementi. Vedremo infatti come tutti i patrizi milanesi spontaneamente emigrati, e di cui il Palavicino, nella sua venuta a Milano, aveva potuto esplorar le tendenze, da Venezia, da Ferrara, da Parma, a poco a poco raccoglierannosi tutti qui a danno della Francia.

Del resto il Palavicino non potè per ora fermarsi molto in Reggio, e dopo essersi intrattenuto presso il governatore qualche giorno ancora, credette opportuno recarsi un momento a Venezia, prima d'andare a Roma. Fatto manifesto il suo pensiero al conte Galeazzo, lo pregò volesse accompagnarlo in quella gita da Reggio a Venezia, preghiera che fu esaudita senza ripeter parola, tanto più che al Galeazzo incresceva assai d'avere ad abbandonare così presto un tanto amico, per la cui vita aveva esposta la propria, e che poteva ancora essere minacciato da nuovi pericoli.

Il dì stesso che i due amici avevano a partire il Guicciardini ricevette una lettera dal Morone, dove insieme alle molte cose riguardanti l'Italia e il pontefice e la futura impresa, veniva parlato del Palavicino con molte notizie intorno al medesimo, e l'ultima della di lui andata a Milano, toccando della qual circostanza, il Morone supplicava il Guicciardini, a stare attento, come più vicino a Milano, se mai gli giungesse la nuova di qualche sciagura, e a scrivergliene tosto a Roma.

Non è a dire come il nostro Manfredo, il quale appena giunto a Reggio subito aveva scritto al Morone, dandogli ragguaglio minutissimo di quanto era accaduto, si sentisse intenerito per l'amorosa premura che di lui prendevasi l'illustre suo concittadino, e che compiacenza provasse pensando che fra pochi dì esso avrebbe ricevuto l'importante novella. In questo pensiero se ne uscì dunque di Reggio insieme al conte Mandello.

Ci siamo dimenticati di dire, che in fine della lettera del Morone si parlava di un fatto che stava per maturarsi, e che in poco tempo avrebbe dato a parlare a tutta Italia. Vedremo a suo luogo qual era codesto fatto di cui il Morone stava in aspettazione. Intanto ci recheremo a Venezia.

I due amici entrarono in questa città in uno degli ultimi giorni di gennajo del 1520. Il fine principale per cui Manfredo avea voluto passar di là prima di ritornare a Roma, era di conoscer di appresso e mettersi d'accordo finalmente con tutti que' gentiluomini milanesi che fuggiti dalla loro patria vi s'erano fermati.

Essendo il carnovale di Venezia cominciato da qualche tempo, i due amici vollero profittare dei costumi di quella città e di quella stagione, e però trovarono assai vantaggioso, nelle loro circostanze segnatamente, d'andar mascherati, e star celati altrui per qualche giorno.

—È mia intenzione, diceva il Palavicino al Mandello, di vedere come si comportano qui i nostri colleghi prima di darmi loro a conoscere. Nel venire a Milano ne ho incontrati più d'uno e mi parve che nelle loro teste molte idee siansi venute rettificando, e la sventura abbia lor dato il modo di ripescare la buona ragione che avevano smarrito. Non so poi come sì metteranno le cose qui!

Non credo già che si abbiano a metter bene gran fatto. È un tempo questo in cui anche il doge sessagenario si degna di alternar qui gli scambietti colle belle veneziane; e i senatori e i procuratori di San Marco, mettendo da parte ogni loro dignità, danzano anch'essi la gagliarda e la furlana. Io che m'ebbi a digerire più d'una dozzina di carnevali su queste lagune, so come vanno le cose: e se i nostri colleghi che son fuggiti da Milano, s'acconciano a una simile ragione di vita è indizio manifesto che le loro angoscie non sono ancor giunte a supurazione, e intanto si dilettano a tuffarle nella gioja che passa.

—Anch'io ho fatto un tal pensiero. Tuttavia è già molto che dopo tanti anni di errore abbian cominciato ad accorgersi di qualche cosa. È già molto che sentano il bisogno di stordirsi nei passatempi della vita per far tacere un affanno. Vada per tutti quegli anni che festeggiavano della veste che lor bruciava in dosso. Ora avvolgiamoci noi pure pei labirinti di queste pazze feste, e vediamo di accostarci a ciascuno de' nostri compatrioti per conoscere press'a poco come stiano di dentro. Dopo avremo a tentare qualcosa…. Ho qualche disegno in mente, che tu, Galeazzo, m'ajuterai a colorire…. ma intanto sarà bene cercare del conte Birago, col quale m'incontrai appunto quando m'incamminava a Milano, e che di tutti, anche allorquando stava contro di noi, mi parve sempre il più ragionevole.

Fermi in questo, non volendo darsi a conoscere a nessuno prima di incontrarsi in lui, dovettero durare qualche fatica per ritrovarlo. Cominciarono perciò a frequentare i luoghi pubblici, i ridotti, le sale, i banchetti che di notte si davano sulla piazza di S. Marco, sulla riva degli Schiavoni, alla Giudecca, al Canalazzo; poterono anche introdursi nelle sale del doge, che in quel tempo era Leonardo Loredano, e colà venne lor fatto alla fine di vedere il conte Birago in un momento che si levava la maschera per respirare, e s'accostava ad un finestrone del palazzo ducale. Il Palavicino, sempre mascherato, accostatosi a lui che s'era messo al davanzale, gli battè sulla spalla.

Quegli si rivolse.

—Qui, gli disse allora Manfredo, i sistri vanno sempre più animando le danze… là prorompono grida di ebbra allegrezza, e additava la gran piazza di S. Marco sulla quale, fra lo splendore di mille fuochi, ferveva e romoreggiava una densissima folla di popolo. Ora ti domando io, caro conte, come un uomo può aver tempo di pensare alla propria terra che trovasi oppressa da una calamità insolita.

Il conte Birago, a quelle inaspettate parole, aguzzò gli occhi e guardò attentamente il Palavicino come sforzandosi di osservare il volto che celavasi sotto la maschera.

Il Mandello gli si accostò allora anch'esso e:

—Ciò che ti ha detto questo mio amico carissimo, soggiunse, è vero pur troppo…. Tra la furlana e le nacchere domando io come si possano incastrare i pensieri di chi va agonizzando.

—Ma chi siete voi? domandò il Birago.

—Hai tu volontà di conoscerci?

—Levate la maschera.

—Qui no; vieni con noi.

—Prima ditemi chi siete…

—Se tu sei così dappoco, gli disse allora Manfredo, d'aver timore di chi ti ha parlato del paese tuo… penso che potresti anche rimanere…

—Così dappoco?… Chi lo dice?

—Io, se te ne stai ancora irresoluto.

—Vi seguo sul momento… Abbiate un riguardo al mio stupore.

—Adesso mi piaci.

Usciti così del palazzo, e venuti al molo, si diedero a percorrere la via degli Schiavoni.

Quando il Palavicino si manifestò al conte Birago, quegli ne rimase sbalordito e non sapeva credere a sè stesso.

—E per che straordinaria avventura sei tu ancor vivo? gli disse. Qui era corsa la voce, che tu eri caduto nelle mani del Lautrec, e noi tutti ti credevamo spacciato.

—Ringrazia dunque i tuoi cari compatriotti, disse allora il Mandello battendo leggermente sulla spalla del Palavicino, che con tanta allegria attendevano a farti le esequie. Il modo per altro è nuovo!

Il conte Birago tacque e chinò la testa.

—Per me penso che avrebber fatto benissimo, soggiunse Manfredo, qualora non si fosse trattato che di me solo, ma…

—Io non so davvero quel che ti debba rispondere, disse allora il Birago; ma ti confesso che per me e per tutti io provo adesso una vergogna estrema.

—Quand'è così bisogna adunque che ti congiunga a noi due, e provveda tu pure perchè i nostri abbiano a determinarsi finalmente e a mettersi su quella via che ci è forza percorrere.

—Tu parli bene, ma come si ha a fare?

—In che luogo sono soliti di radunarsi i nostri qui, a Venezia?

—In più luoghi. Stanotte, per esempio, li vedrete tutti quanti assisi ad un banchetto che si sta apprestando alla Giudecca. Ve ne saranno da cento a centocinquanta.

—È un bel numero.

—Ho caro di vederli tutti, disse il Palavicino, e di avvicinarli… così il mio Galeazzo ed io li verremo stuzzicando per vedere se sotto lo sfregamento avranno qualche scintilla da mandar fuori. Tu ti troverai con loro perchè non è conveniente che di punto in bianco diventi uom serio. Ma una cosa hai da prometterci.

—Di' pure, marchese.

—Che fino a nuovo avviso non ti uscirà mai di bocca che io son qui.

—Te le prometto.

Facendo tali discorsi si misero a passeggiare per la piazza di S. Marco, assistendo per forza ai sollazzi scomposti di una moltitudine di maschere, ai giuochi dei saltatori e dei mimi, ai banchetti che sotto tende posticce erano apparecchiati sulla piazza medesima.

Manfredo ebbe colà a vedere molti dei suoi compatrioti, chi a tener dietro ad una maschera collo zendado, chi, trattenuto per le vesti da qualche faziolo, a dilettarsi di voluttuose facezie, chi a fare altre simili cose, e quando fu l'ora, col conte Birago e col Mandello, messosi in una gondola piena di maschere e di donne leggiadre, si fece traghettare alla Giudecca.

All'immenso banchetto apparecchiato in quel luogo per centinaia di gentiluomini sotto a tende e padiglioni appositamente eretti e adobbate a spese d'un Barberigo, ricchissimo patrizio, con tanto sfarzo e tanta magnificenza da meritarsi una descrizione se ne avessimo il tempo, intervenne esso pure sempre colla mezza maschera al volto. Le imbandigioni diluviarono, il vino di Cipro riscaldò il cerebro a tutti quanti. I canti e i brindisi eccheggiarono a lungo. I Veneziani cantarono le guerre chiozzotte e la conquista di Costantinopoli e le glorie di Enrico Dandolo.

Quando, verso il fine del banchetto, un Veneziano rivolto a quei centinaio di Milanesi coi quali s'era messo in intrinsichezza:

—Noi ci abbiam messo il nostro, prese improvvisamente a gridare, or tocca a voi. Le nostre canzoni sono antiche come la patria nostra e le nostre glorie. Se voi ne avete di più belle e di più liete fate sentirle. E se il vostro dialetto ha più espressione e più grazia del nostro, noi stiam qui ad ascoltarvi.

Il vino di Cipro che aveva fatto assai bene l'ufficio suo, e aveva riscaldata la vena musicale di quanti patrizj milanesi eran là, fu causa che si accettasse l'invito, e quante canzoni popolari correvano allora pel territorio milanese furono così ripetute a più voci e in coro con infiniti applausi e risa che andarono alle stelle…

L'allegria di quei patrizj milanesi parea veramente eccessiva.

Il Palavicino, che osservava tutto e tutti, se ne addolorava in suo segreto, e osservando continuamente il conte Crivello e il Torriano e il Figino, que' medesimi che aveva incontrati venendo a Milano, e allora gli era sembrato fossero oppressi da un grave e solenne dolore, non sapeva farsi capace del come potevano adesso in quel così scandaloso modo tuffare nel vino e nell'intemperanza e nell'allegria baccante il pensiero della loro condizione e di quella del loro paese. Considerando poi che talvolta l'uom ricorre a tal mezzo per mitigare appunto un dolore che sia immenso, volle provare se ciò potea verificarsi anche sul conto loro.

Intanto che ferveva la gara di quelle gioconde canzoni, egli si fece dare un liuto da uno dei giocolieri ch'erano stati introdotti ai banchetto, e stette aspettando che venisse il momento anche per lui.

Avendo, quand'era giovinetto, frequentato a Milano il conservatorio di musica fondato da Lodovico il Moro (come voleva il costume e la voga in cui allora era salita quell'arte) e dallo Scandiano Monteverde avendo ricevuto lezioni di canto e di liuto, egli n'era uscito gran dilettante in quest'arte, che abbandonò poi affatto per le altre cure più gravi. E fu questa la prima volta che pensò di non aver gettato il suo tempo al tutto. Però, quando le ultime note di una giocondissima canzone vennero svenendo per l'aria, egli che non aveva mai aperto bocca in quella notte, si alzò allora gridando—Or tocca a me—e toccando della mano il liuto, con maestri e forti passaggi comandò l'attenzione.

Se non che quel tono grave e severo contrastò colla gioconda direzione dei pensieri di tutti, che in sulle prime ne ricevettero una sensazione quasi sgradevole. Ma la maestria vinse poi gli animi, ed egli allora con voce chiara e sonora, ma tremolante di una commozione che non seppe dominare, si mise a cantare in dialetto quella canzone che alcuni dì prima aveva udito in Milano dalla povera filatrice

I campann d'or e d'argent Hin in del pozz de sant Patrizi ….

col resto della strofa, e con tutte le altre di quel lugubre canto lombardo che la tradizione non seppe portare intiero fino a noi.

La nota musicale è di una efficacia senza pari, e più che l'eloquenza della parola, pulsando i sensi, soggioga per quel veicolo i cuori. Se poi la nota sia resa da una voce umana, la quale riceva le sue inflessioni da un forte affetto che profondamente sia radicato nell'animo, allora l'effetto è intero, è prepotente… Così quanti milanesi trovavansi a quel banchetto, tutti, a quel suono, a quella voce, a quel canto, a quelle parole, che tante volte nella loro città medesima erano ad essi suonate all'orecchio, si sentirono correre i brividi nel sangue… fu uno sconvolgimento repentino dei pensieri di tutti,… Alla mente di ciascuno si appresentò la squallida scena della patria lontana… l'allegria cessò di colpo.

Il Palavicino toltosi allora di là, restituito il liuto al giocoliere, si confuse tra la folla e scomparve.

—Chi è costui? domandarono allora ad una voce il Crivello, il Torriano, il Moriggia, il Ferreri, il Vimercati ed altri nobili milanesi rivolti al conte Birago. Chi è costui? Egli è venuto qui con te!

—E con me! gridò il conte Mandello che mai non s'era tolta la maschera dal volto, e che si tolse allora. Qui il conte Birago non lo conosce affatto, ma lo conosco io e rispondo per lui. Potete viver tranquilli.

Tutti, vedendo il conte Mandello fecero le più alte maraviglie, e non sapevano credere a' propri occhi.

—Sei qui anche tu?

—Diavolo! È carnovale, ed a Milano ormai non si trova più il modo di fare una risata di cuore…. La vita è breve, e pensai di rifuggirmi qui e di far passare ogni doglia. Alla patria poi ci pensi chi ci vuol pensare; il vostro esempio mi ha giovato moltissimo.

Nessuno dei Milanesi, rispose. Nessuno dei Milanesi in quella notte, per quanto si sforzasse, potè ricordarsi coll'allegria dei Veneziani, e in mezzo ai canti, alle danze, alle facezie dei zanni, non seppero mai più far venire sulle labbra un sorriso che fosse sincero.

Il Palavicino, ch'era ricomparso sott'altro mantello e sott'altra maschera, girando tra crocchio e crocchio, potè accorgersi di tale mutamento, e tornò a nutrire quelle speranze che alcuni momenti prima fu quasi per perdere.

Verso la mattina, traendo il Birago e il conte Mandello in disparte, e partendo con essi in gondola:

—Sentite, disse, qui bisogna che m'aiutate a trovare un mezzo per costringere i nostri ad abbandonare Venezia. È venuto il tempo che tutti noi abbiamo a pensar seriamente alle cose nostre; è un anno adesso che Massimiliano è morto; è da sei mesi che Carlo V è imperatore. Tanto per le cose di Lutero, come sapete, quanto per le minacce d'invasione di Selim, il santo padre e Carlo si son già messi d'accordo: è presto il tempo che costoro, col loro intervento abbiano a giovare anche le cose nostre, e si hanno tutte le ragioni di credere che Carlo V abbia a trovar ottime le ragioni di Leon X di scacciar Francia da Italia. Convien dunque risolversi, e sopratutto conviene evitare che i nostri patriotti che continuano ad uscire dal territorio milanese volgano il loro cammino a questa volta dove son certi di trovare buona parte de' loro concittadini. Quando costoro siensi stanziati altrove, tutti vorranno affluire a quell'unico punto. Il Mandello ed io veniamo adesso da Reggio come tu sai; è in questa piccola e spopolata città ch'io penso abbiano a raccogliersi i nostri. Bisogna dunque che anche tu, Birago, adoperi il tuo ingegno, per trovare qualche adatto modo di condurli per la non pensata.

—La cosa non dovrebb'essere difficile; tutto sta che quando sia il punto, ciascheduno voglia acconciarsi a lasciar Venezia per Reggio, e di questa stagione specialmente.

—Per molti segni ho potuto accorgermi stanotte che nelle menti di quanti patrizi milanesi son qui, il pensiero della loro patria è venuto oramai a galla degli altri, perciò io spero molto.

—Per me son qui, disse il Birago, così fosser tutti del medesimo mio sentire.

—Lo saranno.

E fermi in questa si lasciarono.

Trascorse qualche giorno senza nessun notevole accidente, continuando il Palavicino, il Mandello e Birago a stare in agguato in una buona occasione.

Una mattina entra il Birago nelle stanze dove alloggiavano il Palavicino e il Mandello.

—Stanotte, disse, ci vennero da Milano delle strane notizie, strane per tutti, ma non per me; è corsa la voce del tuo duello, Manfredo, e dell'esser tu uscito dalle mani del Lautrec come per miracolo d'Iddio. Intorno al modo però è ben controversa l'opinione; v'è poi taluno il quale afferma che anche tu, conte Galeazzo, hai avuto mano in questa faccenda; io ho dovuto ridere, e tacqui.

—Hai fatto benissimo; ma che effetto produsse su tutti quanti la notizia della salvezza, qui del nostro Manfredo?

—Non poteva essere che un solo effetto, quello di una generale esultanza, e mi fece grandissimo piacere.

—Quest'occasione sarebbe buona per cominciare a far qualche cosa, ed io sarei di avviso, Manfredo, che tu oggi stesso ti dessi a conoscere a tutti costoro.

—Starò a vedere; mi pare, per altro, che non sia ancora il momento opportuno.

—Sentite, disse allora il conte Birago; io spero che, fra pochi dì, potremo dar cominciamento al nostro disegno. Domani notte ci sarà una gran festa sul mare, alla quale tutti i nostri compagni vorranno intervenire; è una festa che dà il figlio del Contarini, in occasione che si marita alla Morosini. E da qui si andrà fino a Chioggia, nelle cui vicinanze, come sapete, è un luogo di delizie di questa ricchissima casa. Vorrà essere uno spettacolo straordinario questo continuo e lungo corso di barche e di gondole che traslocherà, a dir così, Venezia a quel luogo.

—Ma che relazione, domandò il Palavicino hanno le tue speranze con questo avvenimento?

—Volevo dire che dopo tal festa, che sarà la migliore di tutte, pei nostri non vi potranno essere più attrattive in Venezia. E allora tu, dandoti a conoscere, e parlando loro con forti parole, potrai benissimo indurli ad uscire di qui una volta per sempre.

—Che ne pensi, Galeazzo? disse il Palavicino allora.

—Penso che non ci sarebbe male, pure non basta.

—Come non basta?

—Converrebbe trovare il modo che tutti avessero a trovarsi già ben lungi di qui, e nessuno non fosse più agevole di tornare indietro.

—Non capisco, disse il Birago.

—Parlerò più chiaro. Per quanta buona opinione abbia de' nostri, tuttavia inclino a credere che nessuno spontaneamente vorrà partir da Venezia sì presto, e che sarà indispensabile qualche mezzo insolito per obbligarli.

—E come trovarlo?

—La festa di questa notte appunto me lo avrebbe fatto trovare.

—Forse ho indovinato, disse Manfredo allora.

—Davvero? e come ti pare?

—Da Chioggia a Reggio quante miglia ci sono?

—Per ora accontentiamoci di Modena, caro mio; eppoi il punto di partenza non dev'esser Chioggia; bisognerà che le nostre barche dirizzino il loro corso un po' più in su, così tra l'Adria e lo sbocco del Po, perchè da questo punto a Modena c'è poco più d'un sessanta miglia, e sono presto percorse. Del resto sono assai contento che tu mi abbia compreso a bella prima, sendochè quando in due teste nasce un medesimo pensiero, è indizio infallibile ch'egli è eccellente!

—Pare a me pure.

—Allora, disse il Palavicino al conte Birago, converrà che tu, oggi stesso, provveda a noleggiare le barche per noi milanesi, e faccia sapere a ciascheduno che tu hai pensato per tutti.

—E se fosse possibile avere in pronto in vece di più barche, una sola che fosse capace di un centinaio di persone, per verità che sarebbe il meglio, a toglier così il pericolo che qualcuna allontanandosi di troppo, mandasse a vuoto i nostri disegni.

—È verissimo, Birago, e converrà pensarci.

—È cosa subito fatta; conosco il capo degli arsenalotti, e colui mi saprà benissimo accontentare.

—Ma prima fa di darne avviso a tutti i nostri, perchè non abbiano per avventura a prendere altri impegni.

—È ciò che vado a far subito; vi saprò poi dire il resto.

Il conte Birago partì; il Palavicino e il Mandello si rimasero per dar perfezione al loro disegno.

CAPITOLO XXIV

Il giorno successivo tutta Venezia fu in movimento per le feste che la notte doveansi tenere a Chioggia, e verso il mezzodì, quasi potea dirsi che la popolazione dei palazzi e delle case si fosse traslocata intera nelle galere, nelle barche, nelle gondole, per trasferirsi colà. Il Mandello era partito fin dalla mattina per fare, nelle vicinanze di Chioggia, que' preparativi che richiedevano i disegni concertati col Palavicino e col conte Birago, i quali si misero poi nella barca insieme a' compatriotti, quando già tutte le altre vogavano da un'ora sul mare. Al Birago era riuscito di condurre le cose in modo che quanti patrizi milanesi erano allora a Venezia, tutti si raccogliessero insieme, ad eccezione di que' venti o trenta che seco avevano moglie e famiglia, pe' quali non si trovò nessun partito che paresse opportuno. Coloro però che s'erano uniti in convoglio passavano il centinaio, numero più che sufficiente pei fini del Palavicino, il quale, a non porvi inciampo, e a far nascere verun sospetto, coperto della maschera, erasi confuso coi giocolieri, i zanni, le maschere, alle quali ad arte fu concesso un posto nella barca comune.

Il lungo tratto di canale e di mare che è tra la città e i murazzi, presentò quel giorno uno spettacolo di una grandezza e varietà veramente straordinaria; e quando si abbassarono sul mare le prime ombre delle notte, i fuochi che improvvisamente comparvero ai mille punti di quella specie di città galleggiante, e che correva rapidamente, fu un colpo d'occhio da vincere qualunque immaginazione. Era in longitudine uno spazio di sei miglia buonamente, tutto coperto da una densissima fila di gondole e di barche che si succedevano senza interruzione. Le voci, le grida, gli evviva, i canti di più di centomila persone che si trovavano in esse, i suoni delle ribebe, dei cimbali, dei liuti, della pive, generavano un frastuono vasto, incessante. L'acqua del mare raddoppiava pel giuoco della riflessione le fiaccole, i lampioni, le torce a vento che ardevano su ciascheduna. I mille colori delle maschere, delle vesti, degli ori, delle gemme veduti a qualche distanza, confondendosi in un tutto screziato e vago, davano l'immagine di un immenso iride che a galla delle acque passasse di volo in linea retta. E a qualche distanza ciò che più faceva impressione era quella confusione appunto di tante voci che grado grado andavan perdendosi per l'aria ed era allora che sul vasto mormorio s'udivano distinti gli evviva più sonori e i canti dei gondolieri che languidamente andavano poi a spegnersi anch'essi in seno delle onde. Il Palavicino avvolto nel suo mantello, che tirava un vento piuttosto crudo del mese di gennaio, non desistendo pur un momento dal pensare a quanto più gli stava sul cuore, non poteva però a meno di prestare anch'esso la sua attenzione a quella scena per lui nuovissima; osservava quegli splendori, ascoltava quelle grida allegre, poi innalzava lo sguardo agli spazi superiori dell'aria dove tutto era calma e si fermava poi a considerare una gran nube che verso mezzodì terminava in una riga parallela all'orizzonte. La zona in cui stendevasi quella nube fece che i pensieri si fermassero in quel punto a Roma, alla duchessa Elena, al suo vicino matrimonio, cosa che gli mise uno strano turbamento nell'animo. Ma intanto ch'egli faceva simili pensieri, gli si mostrò Chioggia che riboccava di luce, e che di tanto in tanto dava avviso di sè con forti scoppi di mortaletti. Il convoglio, vogando affrettatamente toccò la riva, e quanti erano nella barca saltarono a terra.

Il primo con cui tutti s'incontrarono fu il conte Galeazzo Mandello, che stava appunto in aspettazione di loro e non ne faceva le viste.

—Sei qui anche tu? gli disse taluno di quei gentiluomini milanesi.

—Perchè non ci dovrei essere?

—Che cosa so io? Non t'ho veduto cogli altri, e ho detto: colui avrà avuto le sue ragioni per non venire.

—Tutt'altro, avevo desiderio di osservare a lume di sole questi bellissimi luoghi, e perciò vi ho preceduto; ecco tutto.

—Quand'è così va benissimo; e il gentiluomo abbandonato il Mandello, andò ad unirsi alla folla che ristagnando alla porta del palazzo Contarini, tumultuava per entrare.

Ma il Palavicino ed il conte Birago, come scorsero il Mandello che, vedutili, già moveva incontro di loro:

—E così gli domandarono ad una voce.

—E così tutto è pronto; del resto ella era cosa tanto agevole, che non se ne poteva avere alcun dubbio.

—Capisco; ma si sa mai quello che può succedere, e talora ciò che par nulla è il più difficile.

—Ora dovremo attendere anche noi a stare allegri, perchè non è detto che un gran pensiero debba occupare tutte le nostre facoltà, e quand'uno è forte veramente, deve saper far più cose in una volta. Entriamo dunque anche noi, e badiamo sovratutto che i nostri non abbiano a vederci preoccupati.

Il Palavicino, il Mandello, il Birago, passando allora a stento tra quella folla stivatissima, la quale ingombrava la riva e tutta la strada, che dilungandosi da Chioggia metteva al palazzo Contarini, vi entrarono anch'essi.

Ora il lettore non ci farebbe al certo buon viso se con tanta carne che abbiam messa a bollire attendessimo a descrivere parte per parte quelle feste a cui il magnifico Contarini aveva invitato tulli i gentiluomini di Venezia non solo, ma delle città vicine; se attendessimo a far qui il ritratto della illustrissima sposa di lui che ne fu la regina; se volessimo dar qui l'elenco di quante famiglie cospicue così di Venezia che di fuori intervennero colà in quella notte, e a dar la somma di tutte le danze e contraddanze intrecciate da quell'afflusso così straordinario di persone; però portiamo fiducia d'avere ad essere ringraziati se passiam sopra di volo a codeste cose che non fanno per noi. Il nostro Palavicino intanto dovette acconciarsi a passare molte ore di fila in quelle sale e mascherato com'era, e da qualcuno essendo stato notato com'egli se ne stesse sopra di sè, e non s'accomunasse con nessuno, dovette più d'una volta subire la noia d'avere a rispondere alle sfacciate interrogazioni degli zanni che, sobillati dagli altri, tanto più godevano a martellarlo, quanto più s'accorgevano che egli n'aveva dispetto. Spesse volte però il conte Galeazzo Mandello, assai pratico di tali cose, era venuto in soccorso di lui e per le sue rimbeccate, più d'un zanni, e ve n'era di prontissimi, avea dovuto partirsi scornato.

Verso le otto ore di notte, il Palavicino, uscito di palazzo, si recò sulla riva, e cercò del condottiere della barca col quale era venuto.

Trovatolo, s'intrattenne alcuni momenti con lui.

—Credo che tra le nove e le dieci avremo a partire.

—E noi partiremo senza un accidente di sorta.

—Attendi a comportarti con molta precauzione, caro mio, perchè se taluno s'avvede che la prora non volge a Venezia, e ad ogni colpo di remo ci allontaniamo invece da essa, tutto va a fascio.

—Comprendo assai bene, ma ciò non avverrà. E in prima, con tanta confusione, sfido io a capire se Venezia sia di qui o di là! Ci son barche venute dall'Adria, da Contarina, da Goro, da Ferrara, da Comacchio, che di ragione, tornando donde sono venute, avranno a volger la prora dove la volgeremo noi. E in quanto a' vostri, credo bene che il vino delle Isole e il Maraschino di Zara avrà loro tanto annebbiato il lume degli occhi, che non ci vedranno ben chiaro fra qualche ora; dunque non abbiate un timore al mondo.

—Se la cosa avverrà come tu di' più d'un ruspo veneto sopravanzerà la somma che ti abbiamo assegnata.

—Ed io ve ne sarò ben grato, illustrissimo.

Il Palavicino non rispose, e ritornò nelle sale ad aspettare per un'altr'ora, durante la quale cominciò a subire quell'inquietudine e quell'impazienza che di solito precede un fatto qualunque, di cui l'esito sia assai dubbio.

Quando furono le tre dopo mezzanotte, e le sale cominciarono a vuotarsi, Manfredo, recatosi presso il Mandello e il Birago:

—Qui bisogna spacciarsi, disse; le danze sono cessate, e ciascheduno pare che si disponga ad uscire; vedete dunque di sollecitare anche i nostri, e partiamo di fretta.

—A Venezia, disse allora il Mandello, abbiam dovuto deporre il pensiero di condurre con noi que' venti o trenta che han moglie, figli e famiglia. Qui m'accorgo che ci converrà fare il sagrificio di qualche altra decina. Vedi là il conte Ferranti che, a tutti i segni, pare abbia fermo di veder la faccia del sole prima d'uscire di qui; là ne veggo tre o quattro che a fatica tengono aperte le palpebre, e dopo essersi fiaccati lombi e garretti saltando a furia tutta notte, pare che per ora non sappiano trovare il modo di alzarsi da que' cuscini. Il figlio del marchese Gabaloita s'è tanto quanto invaghito della moglie del senatore Malipiero, e non può star discosto un dito da lei; però comprenderai bene che capitale s'ha a fare di costui. Tuttavia una decina in un centinajo non è poi gran perdita, e adesso io ed il Birago anderemo a dar la levata a tutti, e partiremo subito; lascia fare a me. Tu puoi discendere abbasso e rincantucciarti in qualche angolo della barca. Devo dirti intanto, seppure non lo sai, che un gentiluomo bresciano, con alte parole d'ammirazione e d'entusiamo, parlò stassera di te e del tuo duello col Lautrec, racconto che passando qualche poco i confini del vero, fece un grande effetto sul più dei nostri. Fu una combinazione assai favorevole; per cui spero che la tua apparizione improvvisa non fallirà allo scopo. Va dunque, che noi verremo a momenti.

Il Palavicino ridiscese, cercò tra la folla de' gondolieri e de' barcajuoli che ingombravano la via, il conduttore della barca; vedutolo, gli si accostò dicendo:

—Siamo a tempo; gli altri verranno a momenti.

—Quand'è così, vado a dar gli ordini.

Il conduttore fattosi largo tra la folla, dato un fischio a due suoi marinai che stavano a riva aspettando, disse loro:—Preparate le vele.

I due uomini salirono la barca, e con loro il Palavicino, che s'adagiò dietro un fascio di vele, e stette aspettando.

Dopo una mezz'ora buona, sentì la voce sonora del conte Mandello che gridava:

—È qui, affrettiamoci, che vogliam giungere a Venezia per tempo; e vide poi lui stesso innanzi alla schiera numerosa de' suoi milanesi, che avvolti nelle loro pellicce, ad uno ad uno sfilarono sull'asse che, a guisa di ponte, congiungeva la riva alla barca.

Il Palavicino ne contò novantacinque, e fu soddisfatto di quel numero: gli altri, disse poi fra sè, ci raggiungeranno a suo luogo e tempo; così, imbaccucatosi nel suo mantello, si distese sul fascio delle vele e finse di dormire; nessuno gli badò più che tanto.

Sulla riva, sul mare, entro i moli, cominciò in quel punto la rumorosa faccenda di tutte le barche e le gondole che già cariche di gente stavano per ritornare d'ond'erano venute. Era un gridare, un batter di remi, un darsi la voce da mille parti, un movimento, una confusione indicibile; chi spiccandosi dalla sponda prendeva il largo in mare, chi vogava terra terra, barche da una parte, barche dall'altra. Le direzioni erano molte; quella dei nostri con una rapidità straordinaria prese la sua, mettendosi in coda a coloro che ritornavano alle terre del littorale, a Sant'Anna, all'Adria, a Contarina, a Goro, ed altri luoghi.

La barca dov'erano i milanesi animata da un vento favorevole e piuttosto forte, potè in un'ora di tempo percorrere un tratto di mare, pel quale, senza aiuto di vela, ci sarebber volute più di due ore, e quanto più si dilungava, l'altre barche, con cui era partita di conserva, si andavan diradando sempre più. I nostri, coperti dalle pellicce, stanchi com'erano, s'assopirono in quella specie di sonno leggiero e particolarissimo che fa chiudere gli occhi del passaggero qualche ora prima dell'alba. Eran presso lo undici ore, ma essendo di gennajo, l'oscurità era ancora ben fitta; qualcheduno però, fosse per le scosse della barca o pe' gridi de' barcajuoli, o pel vento eccessivamente crudo, cominciò a risentirsi. Si alza così, sgranchisce le membra, gira lo sguardo irresoluto dapprima, poi qualche poco attonito, e non sa capire; credendo d'avvicinarsi a Venezia, pensa che di ragione dovrebbe vedersi intorno quella folla innumerevole di gondole, tra le quali era partito, di ragione dovrebb'essere assordato dai soliti gridi, dai soliti canti, dai soliti evviva. Ma invece non vede che cinque o sei barche vogare davanti a sè a molta distanza l'una dall'altra; scuote allora i tre o quattro che gli stanno d'intorno: tutti si risentono, aprono gli occhi ed esclamano ad una:—Cosa c'è?

—C'è ch'io non so trovar la ragione di questa solitudine; si direbbe che Venezia sia scomparsa sott'acqua. Ma dove se n'è dileguata la folla?

Gli altri guatano intorno, e:

—Perdio, è vero! esclamano.

—Ma come può esser mai?

—È uno sbaglio.

—Che sbaglio?

—Scommetto che siam volti altrove, fu un errore del barcajuolo…. non può essere diversamente.

Il Palavicino alzava la testa e ascoltava con attenzione. Il Mandello che aveva udito esso pure, s'alzò piano, s'avvicinò ai conduttore della barca, e sotto voce gli disse:

—Quanto ci può mancare a toccar terra dove io t'ho detto?

—Sto virando ora appunto… Vedete lì quella gran macchia bianca illuminata dalla luna? quello è Diedo. Ma noi approderemo a un quarto di miglio: tra gli abeti di Sant'Anna.

Intanto tutti gli altri, messi in sospetto da quel primo che s'era sveglio, alcun poco iracondi, accostatisi allo stesso conduttore:

—Barcajuolo, gli gridarono, dove ci conduci tu?

—Dove voglio io, risponde allora con voce sonora il conte Galeazzo Mandello. Ho voluto farvi un'improvvisata… Mi farete poi i vostri ringraziamenti quando sarà tempo.

Tutti si guardarono in faccia pieni di stupore; la barca intanto s'accostava alla riva, e la toccò in poco di tempo.

—Presto a terra, gridò il Mandello allora, che vi si appresta qualche cosa di nuovissimo!

Tutti discesero in qualche aspettazione.

—Chiudetevi nelle vostre pellicce, cari miei, continuava il Mandello, il vento di gennajo non la perdona a nessuno!… E voi due, e qui si volse a due uomini che, discesi dalla barca, gli venivan presso: voi due affrettatevi ad accendere le vostre torcie…. fra queste piante il chiaro di luna è troppo poco.

Le torcie furon presto accese.

—Voi altri tutti venite con me.

Così dicendo il Mandello si volse a guardare se non mancava nessuno, e sovratutto se veniva il Palavicino. Ma in quel punto uscì detto ad uno:

—Prima che noi abbiamo a venire con te, conte Mandello, fammi chiaro d'una cosa: sei tu pazzo o savio?

—Io non c'entro, cari miei, rispose a tali parole il conte, e colta l'occasione, volgendosi al Palavicino che veniva in coda agli altri senza far motto e non osservato: egli è quest'uomo, soggiunse, che ha da parlare con voi, non io.

Tutti si volsero a guardare il nuovo personaggio che il Mandello additò; l'aspettazione e l'impazienza era dipinta sui volti.

—Son'io di fatto, disse allora ad alta voce Manfredo; il conte dice il vero, e pronunciando tali parole, si diede finalmente a conoscere.

La sorpresa fu generale e forte, e tanto più che nessuno sapeva indovinar le intenzioni. Tutti si fermarono in gran silenzio intorno al Palavicino.

In quel momento stesso, la campanella della chiesuola di Diedo battè undici colpi, le cui oscillazioni decrescenti smarrirono in seno alla folta selva degli abeti e nel vasto fremito delle onde marine…. La luna risplendeva ancora in mezzo al firmamento tuttora stellato, quantunque, dalla parte d'oriente, i leni crepuscoli cominciassero a tinger qualche poco i cieli.

Nella calma solenne di quell'ora, in quella solitudine, dove l'occhio del sospetto non arrivava, il Palavicino fu per la prima volta ascoltato con attenzione e con raccoglimento da' suoi compatriotti, al cui orecchio suonarono le seguenti parole:

—Innanzi tutto, o amici, prese a dire il giovane Manfredo, io debbo domandarvi perdono se v'ho tratto lontano da Venezia senza riceverne prima il vostro assenso; ma il tempo incalzava, ed occorreva di far presto; d'altra parte io mi teneva sicuro, come mi tengo anche adesso, che non vi sareste mai sdegnati con me quando foste per sentire dalla stessa mia bocca i motivi che mi consigliarono…. Io vengo da Milano ch'è poco, voi tutti ne siete partiti che non è gran tempo. Nei motivi della vostra partenza, anzi della vostra fuga, troverete anche quelli per cui ed io e questo mio amico al quale debbo la vita, e questo conte Birago, col quale per molti anni io non ebbi mai accordo, e che fu così generoso da esibirmi per il primo la sua amicizia, abbiamo pensato di condurvi qui. La condizione della nostra carissima terra è a tale estremo di miseria e di ruina, che basta toccarne di volo, perchè tosto ne si apra dinanzi la miserabile scena. Nè che a voi, anche nel mezzo delle allegre feste, fuggisse dalla memoria, io ne ebbi un profondo indizio, cari miei, indizio che mi fece sperar tutto da voi, pel quale compresi che del vostro paese è in voi ardentissimo l'amore. Due notti sono, ritornatevele nella memoria, io ebbi la gioja, sì, la gioja, di vedervi tutti quanti conturbati e percossi in mezzo alla allegria che vi circondava. Pure, a lungo andare, continuando a dimorare in questa città, era a temere che nel vortice assiduo dei sollazzi voluttuosi, delle intemperanze, delle libidini, raggirati a perdizione, foste per dimenticare voi stessi e in voi la patria vostra. Io medesimo ebbi a provare quanto sia tremendo l'influsso dello spettacolo di una città gaudente. Io stesso ho sentito l'anima mia snervarsi e perdersi di giorno in giorno. Io stesso fui così debole da mettere per qualche tempo in fondo a tutto i pensieri del mio paese; e se non fosse stato una terribile sventura, terribile davvero, amici miei, che impensatamente venne ad assalirmi e che percuotendomi, mi rialzò, io non so bene a che sarei riuscito. Questo confesso a voi tutti con ischiettezza, perchè noi non dobbiamo pensare che a mettere insieme le nostre colpe per ripararle insieme. Ora quali speranze io abbia, a te Birago, a te, Crivello, e a voi, Figino e Torriano, io ebbi già a manifestarlo in un momento ben tristo; però ajutatemi a farne parte a tutti costoro… Nessuno di voi ignora perchè il Morone sia a Roma; nessuno di voi ignora che quando un paese è caduto nel massimo della miseria, convien bene che si rialzi, ma perchè sia con frutto e con vera gloria, per l'opera medesima di coloro che vi son nati. Se la Francia dunque s'ha da scacciare da Italia, lo dev'essere per noi, per noi soli, per noi stretti in un patto, magnanimi e forti e parati a tutto, e non per altri. Soltanto la saggia prudenza vuole che non ne rifiutiamo i soccorsi tempestivi…. Lasciate che il pontefice, cui il Morone va esortando di continuo, si disimpegni per poco delle cure che gli dà Lutero e Selim, e allora di conserva con Carlo, il quale sarà ben più risolutivo che Massimiliano, vorrà prestarci un aiuto…. Ma che aiuto avrebber voluto prestarci i forti quando fosse corsa per l'Italia la ragione scandalosa della vostra vita?…. Ma in che modo suscitare nel mondo una pietà di noi, quando nel mondo fosse corsa la voce che lontani dal nostro paese, e dimentichi affatto affatto di esso, non attendevamo che a darci buon tempo, indifferenti allo strazio che la Francia fa de' nostri concittadini, a cui la povertà e la debolezza non permette di scansare il flagello? Io lo domando a voi tutti!… E se poi un'occasione si fosse presentata, come far conto su di voi, raccolti a festa in una città che ha sempre voluto aderire a' Francesi, che avrebbe spiato, che avrebbe inceppato ogni vostro passo? io lo domando a voi tutti!…. Eccovi adesso il mio pensiero: voi dovete raccogliervi quanti siete qui in una città solitaria dell'Italia; questa città è Reggio, alla cui volta dovete viaggiare in questo giorno che sta per ispuntare…. È dunque per ciò che si è pensato di condurvi qui, perchè non avete più che un sessanta miglia ad entrare nel Modenese, ed è cosa subito fatta…. Ora io vi avviso che quella città è solitaria, è spopolata, non vi affluiscono stranieri, non ci son feste, non vi sono passatempi, non v'è nessuno di que' mezzi onde l'uomo ha cercato di alleggerirsi la noja del dì che corre; soltanto ha per governatore un grande italiano. È una città, dove l'uomo leggero e vano e voluttuoso e destituito di occupazioni e avvezzo al rumore del mondo troverebbe tutte le ragioni per desiderar di morire. Ma è appunto una tale città che si conviene a voi che avete da pensare a cose così importanti e così gravi; a voi che avete bisogno della solitudine per cercare in essa le aspirazioni della grandezza vera, per piangere liberamente la disgrazia onde siamo avvolti, per ascoltare di tratto il grido dell'allarme e che vi giungerà forse da lontano… Del resto, il quando è ancora incerto… Io vado a Roma per sentire il Morone; di là vi farò sapere ogni cosa; dopo andrò forse in Tirolo a cercarvi Francesco Sforza per sentire anche lui, il quale essendo stato protetto da Massimiliano d'Austria suo cugino, lo sarà anche dal suo successore, e per l'opera di tutti noi specialmente sarà rimesso nel suo ducato. I motivi dunque pei quali, senza il vostro assenso, si è creduto opportuno di staccarvi da Venezia, eccoveli manifesti…. Posso ora sperare di non aver provocalo la vostra indignazione?… Ma voi tutti tacete… Un tale silenzio mi conturba…

Qui ad uno ad uno cercò di spiare i volti di coloro che si erano schierati in circolo intorno a lui; ma ciascuno aveva abbassata la testa in gran pensiero. Egli si attese qualche poco in una convulsa perplessità, aspettando che qualcheduno sorgesse a parlare; ma attesosi invano:

—È dunque perduta ogni mia speranza? gridò con una commozione, con una esaltazione straordinaria. Le miserie dei vostri concittadini, le vostre, le più gravi che ci minacciano non fanno dunque veruna forza agli animi vostri? S'egli è così, ora più non mi rimane che gittarmi nelle acque di questo mare, ed affogare la mia vergogna per la viltà di voi tutti!… Io aveva mia madre, la più soave delle donne, e l'ho perduta!… pure sopportai l'immenso affanno, chè ne aveva un'altra a cui pensare, infelice come la prima; ma questa ancora io debbo veder perduta se nessuno vuol congiungersi a me!… La mia disperazione è al colmo!

Qui si fermò volgendosi al Mandello con un atto di molta significazione e gridandogli:

—Andiamo dunque, che qui non ci resta a fare più nulla….

Allora tutti alzarono la testa, e lo guardarono costernati e commossi.

Il conte Galeazzo Mandello colse quest'occasione per parlare anche'esso:

—E continuate a lasciar costui senza risposta?… Ma se nelle anime vostre non è del piombo, parlate, per la fede di Dio, e fate vedere che siete uomini. Io pure, che, lasciandomi addietro voi tutti, mi sprofondai nelle turpitudini e ne' vizi, impegolandomi di essi dai piedi alla testa in così sconcio modo da far credere che fossi perduto per sempre… tuttavia nell'estremo della sventura rinvenni la lucida ragione, e smisi ogni cattiva abitudine… Parlate dunque!

Il Palavicino nel mezzo del circolo, colle mani incrocicchiate in segno di gran cruccio, guardava il Mandello come a domandargli se quel silenzio sepolcrale de' suoi concittadini non era a rompersi mai più…

Ma uscì finalmente una voce in mezzo a tutte:

—Se abbiamo tacciuto fin qui, fu per l'affanno derivato dal pensiero della nostra misera condizione; ma nessuno, o marchese, credilo a me, nessuno di noi sarà così vile da rifiutare i generosi consigli del senno tuo…. Ditelo voi tutti a costui com'è vero quello ch'io dico.

—È vero, è vero! proruppero dieci o dodici voci allora.

—E vero, è vero! replicarono più altre.

—È vero! uscirono finalmente tutt'insieme in una volta, rompendo improvvisamente quel lungo silenzio di cui è troppo difficile indovinare la vera cagione.

Il Palavicino a quello scoppio inaspettato, si sentì commosso al punto di piangere…. e non potendo parlare, moveva in giro stringendo a ciascuno le mani con un affetto straordinario.

—Vi ringrazio tutti, disse poi; ora le mie speranze non hanno più confine. Vi ringrazio tutti, e sia lodato Iddio.

Scomparse eran le stelle, scomparsa la luna… sulla superficie del mare cominciavasi a vedere qualche barca spiccatasi allora allora dal littorale… gli arbôri eran cominciati! Dopo alcuni momenti quei cento milanesi, condotti dal Mandello e dalle due guide, si misero in via pel paesello vicino, dove ogni cosa era apprestata per la partenza…. Il Palavicino, dopo essersi colà fermato mezza giornata, si divise finalmente da tutti e dal Mandello con gran dolore, e si pose in viaggio per Roma.

CAPITOLO XXV

Staccandoci adesso dal Palavicino, ci bisogna risalire qualche mese addietro per dar conto di quel fatto accennato di volo nella lettera del Morone al Guicciardini.

Il lettore si ricorderà certamente del modo onde il figlio di Giampaolo Baglione fu accolto a Roma dal papa, e come declinando ogni domanda di lui gli si desse a divedere, che per troncare tutte le vertenze esistenti tra la Santa Sede e la città di Perugia fosse indispensabile la presenza di Giampaolo stesso.

E le cose in fatto s'eran lasciate a tal punto che il giovane Baglione, senza essersi innoltrato di un passo, era stato costretto ritornare presso il padre.

Se non che un'altra violenza commessa da Giampaolo contro la persona del fratello Gentile, (il quale volendo far valere alcuni suoi diritti sulla città di Perugia, ne era stato duramente cacciato) aveva costretto il pontefice a citar nuovamente il Baglione a Roma perchè desse conto di quanto aveva operato. E il signore di Perugia, dopo essersi scansato qualche poco, quando udì che il pontefice era irrevocabile nella volontà sua, e cominciando a vivere in qualche timore di lui che accennava di accostarsi a Carlo e di farsi con ciò più forte, gli scrisse che, sebbene si trovasse in pessima condizione di salute, tuttavia per aderire al suo desiderio, sarebbe venuto a Roma, purchè gli si mandasse un salvacondotto; senza del quale però (protestava nel fine della lettera) non avrebbe mai lasciato Perugia, e non potendo altro, avrebbe provveduto a fortificarsi in casa propria e mettersi in tal condizione da respingere qualunque assalto delle forze pontificie.

Quando giunse a Leone questa lettera del Baglione, siccome era unico suo fine di trarlo a Roma, per commetterlo alle mani della giustizia, punirlo di tutti i suoi delitti e liberare Perugia dall'atroce suo dominio, indispettito gettò il foglio sul tavolo, pensando che la proposta del salvacondotto, opponendosi al suo fine principale, lo costringeva anche ad abbandonare tutti i progetti che avea fatti su Perugia.

Tutto ciò era avvenuto un mese prima all'incirca che il Palavicino si partisse per Milano, e fin d'allora il Morone essendosi presentato ad una udienza del papa, per sollecitarlo a determinarsi in aiuto della Lombardia e dello Sforza, ebbe ad udire da lui le seguenti parole:

—Quello che vi abbiamo promesso sarà fatto; non aspettiamo che il momento opportuno, e lasciate in prima si riesca a qualche buon fine con questo Martin Lutero che non lascia riposare il mio pensiero in nessun'ora del di. Così avessimo potuto toccar l'intento nostro sul Baglione; ma quel vostro milanese non ebbe finora che stupende parole, e Giampaolo non pare destinato a subir la pena de' suoi delitti.

Il Morone non rispose, ma trovatosi poi coll'Elia Corvino, gli riferì le parole di Leone, parlandogli del salvacondotto domandato dal Baglione.

Siccome le nozze tra il Palavicino e la duchessa Elena avevano a succedere tra breve, così il Morone si confidò non poter esser causa di nessun contrattempo, se per avventura la Ginevra fosse rimasta libera di sè; perciò con quelle parole avea creduto di sollecitare l'Elia Corvino a mettere in movimento i suoi congegni, più che per altro, per gratificarsi il pontefice.

E di fatto non furono pronunciate inutilmente, perchè l'Elia da quella notizia tosto fu condotto a fare un disegno, e dal disegno passò subito all'opera.

Un giorno egli si recò a far visita ad un protonotario apostolico col quale era venuto in certa intimità, e trattenutosi a lungo con lui, infine gli domandò se avesse qualche bolla pontificia, o enciclica, o lettera qualunque scritta di proprio pugno del santo padre.

Il protonotario gli rispose che ne aveva infatti, e gliene mostrò alquante.

—Sentite, reverendo, gli disse allora il Corvino, a me bisognerebbe una di queste encicliche per sei o sette ore

—Purchè me la rendiate domani, non ho difficoltà nessuna a darvela.

Così il Corvino si partì coll'enciclica scritta di propria mano di Leone.

Ridottosi alla propria casa, presa una pergamena cominciò a ridurla press'a poco della grandezza della pergamena pontificia. Si mise quindi a studiare con grande attenzione il carattere di Leone e ad osservarne minutamente la struttura di ciascuna parola; poi prese alcune penne, gli fece il taglio con molta diligenza; finalmente, dopo averle provate e riprovate, stese su d'un piccolo foglietto di carta un abbozzo di scrittura che si provò a ridurre sui frastagli della pergamena che avea tagliata. Fece così qualche replicato esperimento… si alzò stropicciandosi le mani in atto di una certa soddisfazione, poi disse:—Se questo mezzo non vale, sfido il diavolo a trovarne uno migliore!

E sedutosi di nuovo, si mise a far la copia dell'abbozzo di scrittura che avea stesa un momento prima, guardando, mentre copiava, ad ogni parola dell'enciclica e facendo gli opportuni confronti. Com'ebbe finita una tale operazione per la quale gli vollero più di tre ore, tanta fu la lentezza onde pensò di condurla a perfezione, e si fu al punto di fare la firma, ossia di copiare precisamente quella che leggevasi sotto l'enciclica, lasciò cadere la penna e balzò in piedi.

Un forte turbamento lo aveva assalito. Si mise a passeggiare affrettatamente per la camera fermandosi ad ogni tratto in gran pensiero.

—Eppure, diceva, se guardiamo al fine chi può fare adesso un'operazione più meritoria, più benefica, più santa della mia?… Si tratta di trentamila e più persone alle quali per me, sarà concesso di trarre il respiro con più libertà di prima… Si tratta di dare un esempio terribile a tanti scellerati… Si tratta di tornare a vita quella sventuratissima Ginevra Bentivoglio, togliendole d'appresso un uomo così osceno, così atroce, e dal quale, da un momento all'altro, per un semplice sospetto, potrebbe esser fatta morire. Cose di una così grave, di una così vicina importanza dipendono or dunque da me, da uno sgorbio imitato con più o meno di precisione!

E tornava a passeggiare.

—Ma il mezzo è detestabile, esclamò poi, ma è tale che nelle vie della legge, per chi n'è l'autore, son preparate la corda e la galera… e in una tale circostanza, e in tali relazioni, e in tal luogo… la cosa diventa più seria che mai… Se dovessi obbedire a quel turbamento, a quel tremore insolito, da cui sono assalito in questo punto… non dovrei far altro che dare alle fiamme tutte queste carte, e non pensarci più e uscire di qui e prepararmi a sopportare la taccia di scimunito piuttosto che quella di ribaldo…. O uomini ricchi, e indipendenti dall'impero del bisogno, e che, standovi a dondolare non avete che bestemmie per chi si trova in condizioni pari alla mia, venite a vedere a che tormentose lotte ci troviamo costretti quando l'onnipotenza delle circostanze ci stringe alla gola!… Egli è vero bensì, che s'io dicessi al Morone di provvedere al mio mantenimento, giacchè egli stesso m'ha tirato in Roma… forse lo farebbe… Ma è una fatalità la mia che oramai mi pesi più la taccia di scimunito che quella di ribaldo!!

Dopo molto contrasto si decise finalmente, e copiò la firma ch'era sotto l'enciclica con molta precisione.

—Se per salvare trentamila uomini, esclamò poi com'ebbe finito, quasi sarebbe stato lecito sagrificar trenta innocenti, a che si riduce quanto ho io fatto adesso?… Non ci pensiamo dunque più.

Il dì dopo si recò ad una udienza di Leone, gli disse: Aver trovato finalmente il modo infallibile di tirare il Baglione a Roma, e perciò volesse concedergli un mandato presso di lui.

Così, non essendovi stato nessun ostacolo, in quel dì stesso egli partì per la città di Perugia dove arrivò due giorni dopo insieme a due messi apostolici, e di là trasferissi al castello situato sul lago Trasimeno, dove il Baglione soleva passare la maggior parte dell'anno.

Quando Giampaolo seppe esser giunti gli incaricati del pontefice, sperando bene ed essendo impaziente di sapere quel che recavano, se li fece condurre subito innanzi.

Il Corvino, esposto il motivo della sua venuta:

—Premendo assai, disse, a Sua Santità di abboccarsi direttamente con voi, ha creduto di contentarvi accordandovi il salvacondotto. Ora converrà che provvediate a partire di subito, perchè il santo padre non desidera si vada troppo per le lunghe.

Giampaolo, il quale se ne stava sprofondato in un'immensa sedia a bracciuoli, sforzatosi a sgranchire le membra con una lentezza quasi dogliosa, si fece consegnare il salvacondotto, che lesse attentamente parola per parola.

—Così va bene! disse come l'ebbe letto. Adesso trovo ragionevole ch'io pure abbia a far visita alla capitale di tutta cristianità. È cosa assai strana, caro mio, soggiunse poi volgendosi al Corvino, che trovandomi a così poca distanza io non abbia ancora messo il piede in Roma, mentre v'è chi vi accorre dagli ultimi confini della terra. Ma…. la colpa è tutta di S. Pietro che mi guardò sempre di mal occhio…. Domani dunque partiremo per Roma, ed oggi voi sarete miei ospiti. Spero che le cose vorranno raccomodarsi al tutto così, tanto più che il papa ne deve avere il massimo interesse, e non gli può uscir di mente che i Francesi sono miei amicissimi.

—Che l'accomodamento sarà per essere intero, io ne sono quasi certo, rispose il Corvino e dopo altre parole avute col Baglione si ritrasse coi colleghi nell'appartamento che gli fu assegnato.

In quel giorno, mentre s'indugiava in taluna delle anticamere del palazzo della signoria, ebbe per caso a vedere la Ginevra Bentivoglio che passava in mezzo ad alcune sue donne, e vide lui. Il turbamento e la commozione straordinaria onde in quel punto fu presa l'infelice donna, non poterono sfuggire agli occhi esperti del Corvino, il quale fu per volgerle il discorso, ma che si contenne vedendo che la Ginevra fu anch'essa per uscire in qualche parola e non osò.

Fin dalla prima volta in cui l'Elia erasi recato a Perugia, ella dalle parole di lui, che in faccia del Baglione medesimo seppe parlare senza far nascere pur ombra di sospetto, aveva potuto raccogliere alcune notizie risguardanti il Palavicino: troppo scarse notizie, ma tuttavia valide abbastanza per sommovere più che mai l'anima di lei, da tanti anni assiduamente avvolta in una tetra mestizia. Per quanto la virtù nella Ginevra costituisse, a dir così, come una seconda natura, per quanto ella si sforzasse con una fatica insistente della volontà a rintuzzare taluni pensieri, pure questi, assai più forti della sua medesima volontà, non le concessero mai la consolazione dell'oblio. Quante volte nel mezzo delle sue donne, fra il tumulto delle mense, trovandosi presso al marito, oppressa dal cumulo delle memorie, più non bastando a dominarsi, avea dovuto cercare un pretesto per togliersi agli occhi altrui e ritirarsi a sfogare in segreto il suo immenso affanno!

Ed ora, come rivide il Corvino, della cui venuta non era stata avvisata, ne fu tutta commossa. La presenza di lui che aveva tentato strapparla dalle mani del Baglione e di congiungerla al Palavicino, tanto la prima che questa volta fece nascere in lei delle vaghe speranze, Ella era così terribilmente oppressa, così insopportabile era la ragione di sua vita, che non le parea vero non volesse Iddio prepararle un conforto; però anche in questa, come in altre mille occasioni, dovette togliersi di mezzo dalle sue donne e chiudersi nelle sue stanze per gettarsi con libertà in que'pensieri appunto che sorgendo di tratto in tratto avevano potuto mantenerla in vita. E là, volgendo macchinalmente il suo sguardo sul Trasimeno, si lasciò andare a que' vaneggiamenti della speranza che al primo mettendo l'anima in un tumulto piacevole, l'abbandonano poi in quella desolazione che fa nascere il desiderio di morire. E schierandosi innanzi il passato, e fermandosi al punto in cui ella si trovò nella carrozza col Palavicino e fuggì seco dalle feste e da Milano per poi essere disgiunta da lui per sempre, e sovratutto non potendo vincere il rimorso d'averlo abbandonato in quel duro modo dopo tante promesse, si sentì tutta scombinata… ma qui, fidando nella costanza inalterabile dell'affetto di lui, pensò se, a confortarlo, le fosse stato lecito fargli avere qualche nuova di sè stessa. Ferma in questo pensiero, l'immagine di Manfredo le compariva innanzi come se fosse lui stesso…. Oh come una tale contemplazione la teneva assorta! come sospendeva ogni altro suo pensiero! Che intensità d'affetto! e insieme quanta innocenza in quella sventuratissima donna!

Ma la tentazione di far sapere qualche nuova a Manfredo Palavicino l'assalì più che mai, e sebbene l'intemerata virtù sua l'avvisasse che in ciò v'era una colpa, pure fu così prepotente l'impeto del suo affetto, che pensò di non tenerne conto.

In quel giorno stette sulle ali per vedere d'aver a trovarsi un momento coll'Elia Corvino e parlargli, e benchè s'accorgesse esservi il pericolo di destare qualche sospetto nel vecchio marito, se mai fosse stata da lui veduta, tuttavia non abbandonò il suo pensiero. Intorno all'ora di sera, potè accorgersi ch'egli erasi recato ne' giardini del castello, e sapendo che il Corvino era negli appartamenti assegnatigli, e ne poteva uscire da un momento all'altro, s'indugiò a lungo in quelle anticamere. Esso finalmente uscì. Quand'ella però fu al punto di dover parlargli, si perdette d'animo e quasi fu per fuggire. Se non che il Corvino, accortosi ch'ella desiderava qualche cosa, e penetrando nei pensieri di lei, credette bene di prevenirla.

I vostri desideri saranno appagati, le disse sottovoce guardandosi intorno.

La Ginevra non rispose a tutta prima e si recò agli usci per sentire se veniva qualcheduno, poi leggiera leggiera e come volando s'accostò all'Elia….

—Raccontategli quel che avete veduto, gli disse. Recategli i miei saluti: ch'ei li consideri, qual faccio io, come quelli d'una sorella ad un fratello, e che sopporti con rassegnazione questa misera vita.

Qui gli occhi le si empierono di lagrime; il Corvino ne fu intenerito oltremisura.

—Farò quello che mi dite, le rispose poi, e forse… Sperate insomma… voi mi state sul cuore…

La Ginevra gli strinse ambedue le mani con una gratitudine, con una compunzione, con un entusiasmo insolito… fu per pronunciare qualche altra parola, ma non potè… che la passione la rendeva muta.

Ma improvvisamente, udito un rumore, fu costretta a lasciarlo e fuggì e si ricondusse nella propria stanza. Un pianto dirotto le alleggerì l'animo esuberantemente oppresso.

L'Elia Corvino non potè mai più dimenticarsi di un simile momento. E non è a dire qual compiacenza egli avrebbe provato in sè stesso pensando, che il dì dopo Giampaolo Baglione avrebbe viaggiato a Roma per non tornare indietro mai più! se non ci fosse stato l'intrigo del matrimonio di Manfredo colla duchessa Elena, signora di Rimini!!

Nel giorno successivo, il magnifico signore di Perugia, accompagnato da un seguito non molto numeroso, dai due messi del papa, e dall'Elia Corvino, si mise in viaggio per Roma dove arrivò in sul finire di dicembre, in que' giorni medesimi che il Palavicino viaggiava per recarsi a Milano e per cadere nelle insidie del Lautrec. Combinazione singolare di avvenimenti, pe' quali pareva che una mano invisibile disponesse quelle lontane fila a farle poi convergere ad un punto!

Essendo stati spediti innanzi corrieri ad annunziare la venuta del Baglione, il papa pensò bene di trovarsi in castel Sant' Angelo intorno all'ora che colui sarebbe entrato in Roma.

Di fatto, quando v'entrò col seguito, essendosi diretto al Palazzo Vaticano, di là fu tosto dal capitano Annibale Rangone, condotto al castello, dove gli fu detto trovarsi il pontefice. Vi si trasferì tosto insieme al Corvino (il quale benissimo aveva compreso perchè Leone aveva pensato di ricevere in castello l'ospite da tanto tempo aspettato) e cercato del papa, ebbe da lui poche parole e tosto fu lasciato solo… solo per pochi momenti, perchè il castellano con una mano di soldati pontificii vennero a levarlo per condurlo nelle secrete.

Racconteremo a suo luogo quel che avvenne in quest'occasione; diremo intanto che il processo contro il signore di Perugia durava già da qualche tempo quando Manfredo Palavicino, staccatosi, al paesello di Diedo, da' suoi compatriotti e dal Mandello, s'era messo in viaggio.

La notizia dell'andata del Baglione a Roma e della sua cattura, e del processo, presto, come dovea succedere, si divulgò e per la prima volta giunse all'orecchio di Manfredo quando questi ebbe a passare per Faenza. Vi si diceva esser stata delegata una Commissione espressa per giudicarlo, aver quel tiranno confessato così orribili delitti da non parer vero che una creatura umana avesse potuto arrivare a tanta enormezza, che per conseguenza altro non era ad attendersi fuorchè la sua condanna. Vi si parlava inoltre della giovine moglie di lui, intorno alla quale la voce pubblica propalava fatti che mai non erano avvenuti, ma che si accordavano molto bene colle atroci storie delle altre mogli del tiranno di Perugia. Il Palavicino udiva ogni cosa, udiva, e tanto era forte il suo stupore, che quasi non volea prestar fede a tutte quelle voci; ma più s'innoltrava nel suo viaggio, più quelle voci crescevano, e passando presso Perugia potè assicurarsi di tutto.

Or come un avvenimento così inaspettato non lo doveva condurre a pensare alla Ginevra Bentivoglio, i di cui destini già egli avea creduti indissolubilmente legati ai propri? Il tempo e alcuni fatti pur troppo contrari avevano bensì potuto distruggere affatto quell'ingenua fiducia. Ma adesso come non dovea risorgere per una combinazione di cose tanto straordinaria!!

E il Palavicino difatto ne fu sbalordito; insieme all'antica fiducia risorse anche l'amore antico, e quando fu in veduta della città di Perugia, e si richiamò le sensazioni che un mese prima viaggiando di fretta a Milano avea provato, ripensando anche allora alla Ginevra, provò una forte tentazione di cogliere quell'occasione che il Baglione era in Roma, per mettere il piede in Perugia, per recarsi nel palazzo della signoria ed entrare nelle stanze della Ginevra, e vederla e parlarle… dopo tanti anni, dopo tanti patimenti… dopo l'assoluta disperazione d'averla ad abbracciare mai più. E già spingendo il cavallo alla volta di quella città, e considerando che tra poco la Ginevra sarebbe stata libera di sè, provò una gioia insolita… provò… ma come poteva essere intera?… come poteva durare più che un istante?… E così fu di fatto… e a quella gioia s'attraversarono sgarbatamente tutti gli altri suoi pensieri…. considerò da chi era aspettato in Roma… considerò con quante, con quali promesse s'era avvinto alla duchessa Elena!… Pensò non essergli oramai più possibile di dare un passo addietro, senza incontrare guai terribili per parte di lei, per parte del Morone che voleva quel matrimonio, e lo voleva per uno scopo così importante, per l'unico scopo anzi, al quale Manfredo ben si ricordava d'aver giurato in un terribile momento della sua vita, di voler sempre posporre ogni privato affetto!…

La faccia che ridente di tante speranze, egli teneva alta guardando le mura di quella città, l'abbassò allora istantaneamente insieme ad un piegar lento del collo e del busto, come se un peso insopportabile gli fosse stato messo in sul dosso… E il cavallo che a corsa sospingeva verso Perugia, con un tratto di freni repentino fece ripiegar sulle anche e dare di volta…. confuso, abbattuto sconsolato, si rimise sulla gran via che conduceva a Roma…

Vi giunse alcuni giorni dopo, e pensando esser debito suo, prima di scavalcare alla propria casa, di recarsi tosto al palazzo Aurelio, al palazzo della duchessa Elena, lo fece di fatto.

Era verso sera; il Palavicino soprapreso da quella specie d'agitazione che di solito veste chi sa d'avere fra poco ad esser causa di un forte commovimento, attraversò le vie di Roma che conducevano al palazzo Aurelio. Quando, svoltando il canto, vi gettò uno sguardo, sentì un brivido per tutta la persona, tanti e così diversi affetti gli tumultuavano nell'animo; attraversò così la piazza… entrò col cavallo, passò sotto l'androne della porta che rintronò allo scalpito, d'un salto discese lasciando le briglie del cavallo all'uomo che aveva seco, e di volo salì i gradini dello scalone. Era l'ora di pranzo, v'era molta gente dalla duchessa; come voleva la consuetudine; nelle anticamere era un ire e redire continuo di servi, di fanti, di camerieri e di donne. Ma quando il Palavicino entrò e fu riconosciuto, un grido sorse fra quella gente di servizio, e tosto fu un uscire di tutti per correre a darne avviso alla duchessa, di modo che Manfredo non potè nemmeno, come ne aveva il desiderio, raccomandar loro di parlare in segreto alla duchessa, senza che gli altri se ne avvedessero per non far troppo tumulto.

Ma subito un tumulto di voci, di passi, un rumore insolito lo avvisò che quanti erano nel palazzo s'affrettavano allora per venire in quell'anticamera, dov'egli stava di piè fermo.

La prima che, spalancando l'usciale, a corsa, in disordine, anfanata, gli venne incontro, gli si gettò fra le braccia, lo baciò, lo strinse a sè con una forza convulsa e prepotente, con un trasporto, con certe parole che più presto parevan gemiti, i gemiti della gioia, fu la duchessa Elena.

Le veniva presso il Morone, il quale da qualche tempo era sempre con lei, e che non potè abbracciare il Palavicino, impedito dalla signora che non l'abbandonò per un pezzo. Tutti gli altri commensali, i servi medesimi gli si affollarono, gli si chiusero intorno gridando, applaudendo delle mani, tanto il contento della duchessa era contento per tutti!! Fu uno spettacolo strano e commovente, e il Palavicino, vedendo di quanta forza era amato da quella donna, di cui osservando i trasporti, osservava anche la bellezza abbagliante, più abbagliante in quel disordine stesso, fu tolto un momento dai pensieri che lo avevano accompagnato in tutto il viaggio, e non potendo resistere al sentimento di una viva gratitudine, corrispose alle proteste d'amore con altrettante.

Oh fruisci di quest'ora, di quest'ora fuggente, donna infelice… che pur troppo quelle che verranno dopo, non avranno più nessun gaudio per te. Oh ti distempra nel soave ed innocente affetto di quest'ora, ch'è il tuo primo ed ultimo innocente affetto… gravissimi eventi stanno accumulandosi sulla tua giovane vita, che delle tue colpe passate non ti sarà concesso di scansare la pena!!

CAPITOLO XXVI.

Il Morone osservando quelle dimostrazioni d'affetto, tanto per parte della duchessa che di Manfredo, non ebbe più nessun timore e pensò di sollecitare il loro matrimonio. Ho detto non ebbe più nessun timore, perchè dal momento in cui Giampaolo Baglione venne a Roma e fu chiuso in castel Sant'Angelo per passare, come sapevasi da tutti, dalla prigione ai patibolo, tosto gli era venuto il sospetto che Manfredo, smarrito il primo entusiasmo d'amore per la duchessa, fosse per scansarsi di congiungersi in matrimonio con lei, appena sapesse che la Ginevra Bentivoglio era per rimaner libera di sè. La sera stessa del suo arrivo gli parlò dunque della necessità di far subito le nozze. Ma allora il Palavicino gli uscì a dire, che essendo troppo recente la morte della propria madre, gli pareva conveniente d'averle a protrarre per qualche tempo.

Queste parole fecero grandemente maravigliare il Morone, il quale tornò tosto ai primi sospetti; però, ad assicurarsi di tutto, entrò a parlare col Palavicino di Giampaolo Baglione. Intrattenutosi a lungo, e saputo dalla sua stessa bocca quali voci correvano, ne' vari paesi per dove era esso passato, sul conto del signore di Perugia, senza farne le viste pesando ogni parola di Manfredo e notando ogni moto del suo viso, potè accorgersi con quale ansietà egli attendesse la morte del vecchio tiranno. All'acutezza del Morone non poteva isfuggire nessun movimento dell'animo altrui; però come vide che i timori non erano stati indarno, e troppo presto si erano avverati, pensò al pericolo di qualche vicino intrigo e d'altri guai terribili. E tanto più si confermava in questo pensiero in quanto la mattina del giorno innanzi, essendosi recato al Vaticano, aveva saputo che la Commissione nominata a giudicare il Baglione, compiuto il processo, in conseguenza delle atroci confessioni del vecchio tiranno, aveva pronunciata la sentenza di morte, la quale tra poco sarebbesi eseguita. Aveva saputo inoltre, che Leone era venuto nella determinazione di fissare alla vedova del Baglione un'annua pensione, e d'invitarla a fermare la sua dimora in Roma, appena il dominio della città di Perugia fosse entrato a far parte del patrimonio di S. Pietro.

Era questa una combinazione e un intreccio di cose che il Morone non aveva potuto prevedere. Egli medesimo aveva tentato ogni mezzo presso la Corte, affinchè il Baglione fosse spodestato e la Ginevra Bentivoglio rimanesse libera; ma l'aveva tentato in tempo in cui pensava a trarre alcun partito della di lei libertà; e quando i nuovi amori del Palavicino colla duchessa Elena gli fecero fare un altro disegno che gli parve assai migliore, non era stato più in tempo a far desistere l'Elia Corvino dal primo. A Leone era questo troppo piaciuto perchè si potesse provargli ch'era pessimo quanto una volta gli era stato proposto per ottimo. D'altra parte la caduta del Baglione era un fatto di troppo grave, di troppo utile importanza perchè il Morone volesse poi impedirla per nessuna cosa del mondo! Tutti i guai erano dunque scaturiti dalla morte della madre di Manfredo, per la quale si dovettero interrompere le nozze di lui colla duchessa. Che rimaneva or dunque a fare? Quando a notte avanzata tutte le persone eransi partite dal palazzo Aurelio, ed egli si trovò solo colla duchessa e col Palavicino:

—Ora dunque, prese a dire, come se da Manfredo non avesse inteso parola, è venuto il tempo di far questo matrimonio; tutta Roma se ne sta in grande aspettazione, onde potrebbe esser causa di qualche diceria l'averlo a tirar troppo per le lunghe. In quanto poi alla morte recente della madre del nostro Manfredo, per la quale parrebbe si dovesse portarle ad altro tempo, considero che nelle attuali circostanze non conviene tenerne conto, e che infine un matrimonio, e un tal matrimonio, è cosa troppo solenne perchè possa offendere menomamente la gravita del lutto. Che ne pensate, duchessa?

—Quel che ne pensate voi.

—Non ci bisogna dunque altro, rispose allora il Morone, e sono sicuro essere Manfredo del medesimo nostro avviso.

Il Palavicino tacque… la duchessa non ci badò. Il Morone lo guardò di sott'occhio. Del resto egli aveva parlato ed erasi comportato in quel modo per non dare più campo al Palavicino di potersi ritrarre, obbligandolo in faccia alla duchessa medesima.

—Dunque, se credete, continuava il Morone, domani stesso vado a darne avviso ai camerari apostolici, perchè dai pergami di San Pietro tornino a promulgare i vostri sponsali, giacchè quanto si è fatto due mesi or fanno, non ha più nessun valore adesso.

Rimasti in questa, il Palavicino e il Morone si partirono insieme dal palazzo Aurelio. Ne' discorsi ch'essi tennero facendo la via, il Morone si comportò sempre di maniera, come se fosse intimamente persuaso non desiderasse Manfredo altra cosa fuorchè di maritarsi alla duchessa.

—Sposata che tu l'abbia, diceva, tu senza perder tempo vai a Rimini con lei. Colà bisognerà bene che provveda con tutto il tuo senno a mettere in ordine le cose di quella città, e sovratutto ad ordinare gli uomini d'arme e ad accrescerne il numero. Della qual cosa è grandissimo il bisogno. Ora le mie speranze, caro Manfredo, sono presso a mutarsi in sicurezza, che per la pura verità tutto quanto è avvenuto, e ciò stesso che ne pareva inciampo, pericolo e sventura, fu ordinato in modo che par proprio ci abbian voluto i cieli mettere la loro mano! Persino quella tua imprudente andata a Milano ti ha condotto ad ottimi risultati, e non ti saprò mai lodare abbastanza del modo onde hai saputo inviare a Reggio quel centinaio di Milanesi. Fu un colpo assai maestro, caro Manfredo, ch'io t'invidio, e pel quale ora mi convinco che tu sei atto a qualunque difficile impresa; ma il tuo matrimonio colla duchessa è quello che le deve coronar tutte. Senza di queste saremmo ancora in principio, perchè a dirti la verità, e il Guicciardini e il Bembo e l'ambasciatore di Carlo e Leone stesso erano fermi di affidare l'impresa ch'io voglio mettere nelle tue mani, ad uno, come ti dicevo già, il quale avesse Stato in Italia! Così invece tutti i desideri sono appagati. Del resto tu devi ringraziare i tuoi destini che ti han voluto giovare in un modo veramente straordinario. E se altri desiderasse ciò che tu hai ottenuto, gli si potrebbe dar taccia di pazzia. Ringraziane dunque Iddio e attendi a cavarne tutto il profitto possibile.

Dicendo quest'ultime parole, aveva accompagnato il suo giovane concittadino fino alla porta del di lui alloggio, dove, datagli la buona notte, lo lasciò.

Quando il Palavicino si fu raccolto nelle proprie stanze, riandando le parole del Morone ed ogni suo atto, e parendogli fosse nato in lui qualche sospetto, si pentì d'aver espresso il proprio desiderio, e tanto più in quanto temeva che il Morone, a lungo andare, avesse a togliergli ogni sua stima, vedendolo sempre a tentennare nei momenti più risolutivi della vita. Considerando inoltre che il voler rompere in quel punto le promesse fatte alla duchessa sarebbe stato uno scandalo da far parlare tutta Italia e i suoi compatriotti tanto più, a' quali doveva esser chiara l'importanza di quel matrimonio, venne nella risoluzione di non mettere innanzi più nessun pretesto, e di fare in tutto e per tutto la volontà del suo saggio concittadino. In quella sera poi la bellezza sempre abbagliante della signora di Rimini, e i suoi modi pieni di fascino avevano tanto quanto ravvivato il suo amore per lei, amore che, con uno sforzo dell'animo egli procurò d'accrescere, tentando dall'altra parte di escludere il pensiero della Ginevra, la cui immagine, dopo tanto tempo, aveva ricominciato a comparirgli innanzi con molta insistenza; ma nel punto stesso in cui si affannava ad escluderla, con maggiore apparenza di realtà, quella gli si fermava innanzi. Allora col pensiero correva al giorno in cui fosse giunto alla Bentivoglio la notizia della morte del vecchio marito; si figurava la viva gioja di lei all'udire che le si ridonava la libertà perduta, e il rinascere in lei dei primi pensieri i quali, dal punto ch'ella non aveva più marito, avrebbero a cessare d'essere colpevoli, e dopo que' pensieri, l'assidua sua aspettazione di vedersi comparire innanzi chi le dovea mantenere quelle promesse che da tanto tempo, e in circostanze tanto gravi erano state fatte. Ma a romperle quell'aspettazione ed a gettarla in una disperazione nuova, ecco giungerle la notizia del matrimonio della duchessa Elena, signora di Rimini, con chi?… A questa idea il Palavicino si alzava agitatissimo, e per quella donna infelice sentiva commozioni tali, che lo sforzavano alle lagrime…. Se non che a poco a poco, per mantenersi saldo, cercò di convincersi che la Ginevra oramai doveva essersi dimenticata di lui, e richiamandosi in mente il modo onde la Bentivoglio, nel castello d'Acquanera, s'era da lui disgiunta per ritornare con suo padre o col suo decrepito sposo, stimò esser pazzia il credere d'avere ancora tanta parte nelle affezioni di lei, e così con una soddisfazione particolarissima che non era contento, si staccò dalla Ginevra, e sperò se ne sarebbe, col tempo, dimenticato affatto. Non sapendo poi nulla delle intenzioni del pontefice riguardo alla vedova del Baglione, pensò che dopo la morte di lui, ella se ne sarebbe allontanata dalla Romagna, e forse dall'Italia, dove tante ingrate memorie le dovevano necessariamente rendere odioso il dimorarvi più a lungo. Nella persuasione adunque che non sarebbesi mai più incontrato con lei, e avrebbe il tempo generate le dimenticanze, si venne a poco a poco tranquillando.

Lasciamo adesso Manfredo nelle sue stanze, e rechiamoci a Perugia. La voce diffusasi per tutta Romagna sulla sorte di Giampaolo Baglione, prima che altrove, come naturalmente dovea succedere, era corsa nella città di quel terribile signore, dove i suoi figli medesimi avevan sollecitate le notizie. È impossibile dare un'idea della maraviglia onde furon tutti compresi quando si conobbe la gravissima avventura. In quanto ai cittadini di Perugia la maraviglia fu susseguita da una tumultuosa gioja, la quale non rimase senza i suoi effetti, ma i figli del Baglione ne furono spaventati. Conoscevano troppo bene qual uomo era il loro padre, la voce pubblica aveva loro più volte portato all'orecchio gli atroci delitti di lui, ed essi medesimi più volte ne erano stati spettatori; però quando seppero che una Commissione apposita era stata delegata per giudicarlo, compresero che non v'era più speranza, e che le prime notizie sarebbero state susseguite da un'altra più grave, quella della morte del vecchio padre! In un frangente così terribile misero in campo migliaja di partiti per tentare, se mai fosse stato possibile, di placare l'ira del pontefice. Ma chi di loro avrebbe avuto il coraggio di recarsi a Roma?… eppoi, che ascendente essi potevano mai avere sul pontefice, essi, figliuoli di un così tristo padre, e tutt'altro che netti di colpa?… Nella loro disperazione pensarono dunque non vi poter essere che un mezzo, debolissimo a dir vero, ma tuttavia tentabile. La Ginevra Bentivoglio, la giovine loro matrigna, parve ad essi fosse l'unica persona la quale impunemente potesse presentarsi al papa per ottenere la grazia del marito. La giovinezza, la bellezza di lei, le sue virtù di cui sapevano benissimo come altamente parlava la fama per ogni dove, parve ad essi fossero pregi sufficienti perchè potesse meritarsi i riguardi di Leone. Ma l'ostacolo era s'ella avesse voluto assumersi un tale incarico, perchè nessuno di loro era così cieco da non comprendere di qual occhio ella avesse sempre guardato il marito, da non comprendere che la morte del vecchio doveva toglierla da un lungo affanno, e che però doveva essere da lei assai desiderata. Tuttavia, pensando che l'altezza d'animo e la bontà in quella giovane donna eran fuori dell'ordine comune, dopo molto aspettare, si risolsero a fargliene parola.

Ma in quel tempo qual'era lo stato della Ginevra? Per quanto la nobiltà dell'animo suo fosse grande, per quanto la sua bontà fosse eccessiva, pure la verità ci costringe a dire che quella notizia, la quale aveva messo lo spavento nei figli del Baglione, a tutta prima aveva gettato nell'animo di lei una sensazione di gioja che le fu impossibile di vincere. I desiderj e le speranze che l'avean tenuta in vita in tutto quel tempo in cui avea dovuto star presso al truce vecchio, quali erano state? Che l'età facesse il debito suo, ed ella finalmente venisse a trovarsi sciolta da così insopportabili legami. Il fondo di tutte le sue speranze era sempre stato questo, e non potea essere diversamente. La sua virtù e la nobiltà dell'indole sua le avevano bensì imposto di rimaner fedele al marito, per quanto le fosse odioso, ma non poteva andare più oltre, o almeno ella non lo seppe. Era stato troppo vivo, troppo forte, troppo santo il primissimo affetto ch'ella avea sentito pel suo Manfredo Palavicino, perchè se ne potesse dimenticare pur un istante…. troppo solenni erano state le promesse ch'ella aveva fatto a quel suo giovane amico! Egli è certo che finchè fosse vissuto il Baglione, dato ch'ella avesse potuto trovarsi col Palavicino, non gli avrebbe mai data speranza di sorta, e sarebbesi con lui comportata di maniera, da escludere ogni pensiero di corrispondenza superstite. Fin qui la di lei virtù arrivava, perchè gli atti esterni dipendevano della sua volontà…. ma i moti dell'animo come dominarli, come dirigerli, come vincerli? Però, quando le giunse la nuova che la vita del Baglione versava nel massimo pericolo, non potè in sulle prime averne rammarico, e fu soltanto dopo alcun tempo che la sventura di lui venne a destare in lei qualche pietà; pietà, a dir vero, troppo debole per escludere i suoi desideri, e le sue speranze.

Quand'ella si avventurò a parlare all'Elia Corvino, questi dandogli notizia del Palavicino, le aveva fatto intendere sarebbesi tentata qualcosa a suo vantaggio. Ed ora si accorgeva che il Corvino non s'era fermato alle parole ed era stato lui che aveva tratto il Baglione a Roma. Comprendeva dunque, che molti avevano pensato e pensavano a lei continuamente, e vedendo poi come la volontà di Leone era entrata a giustificare quelle opere, la sua coscienza rimaneva tranquilla e le sue speranze prendevan forza sempre più.

La moglie di Giampaolo stava appunto pensando a tali cose, e facendo congetture, quando da una delle sue donne le fu annunziato che i figli del signore, Malatesta ed Orazio, desideravano parlarle. Ella quantunque non avesse mai ricevuto ingiuria da que' due figliuoli, e più d'una volta si fosse anzi accorta che le avevano grande rispetto, pure n'ebbe qualche sgomento, perchè sapeva del resto, come troppo somigliassero al padre; ad onta di ciò dovette acconciarsi a riceverli, e quando le entrarono in camera.

—C'è qualch'altra trista nuova? ella fu la prima a domandare, alzandosi e movendo loro incontro.

—Di più tristi non ne possiamo recare perchè le ultime furono confermate, e le speranze son tutte perdute.

La Ginevra non seppe trovar parole convenienti da pronunciare in quel punto, e tacque.

—Una speranza però ne rimarrebbe ancora, ma per questa farebbe bisogno del vostro intervento.

—Del mio intervento?

—Sì, è in voi sola che adesso noi riponiamo l'ultima nostra speranza.

Alla Ginevra non parea vero di udire quei truci figliuoli del Baglione a parlare di quella guisa.

—Ma in qual modo, disse poi, io posso giovare codesta speranza vostra?

—Noi sappiamo che Leone sa benissimo chi siete…. e che più d'una volta ebbe a pensare a voi.

Queste parole alla Ginevra fecero uno strano senso, e stette ascoltando con più attenzione.

—Come il papa abbia avuto notizia di voi, non lo sappiamo, ma la cosa non cessa per ciò d'esser verissima. Dunque sarebbe necessario che approfittando di questa benigna disposizione di Leone a vostro riguardo, vogliate presentarvi ad una sua udienza….

—Presentarmi a lui…. ma a far che?

—A impetrare la sua clemenza.

—La sua clemenza?

—Che Leone desideri la rovina del padre nostro, ciò è vero pur troppo; pure le vostre parole, le vostre preghiere potrebbero cambiare la volontà di Leone. Risolvetevi dunque, e senza por tempo in mezzo, vogliate oggi stesso mettervi in viaggio per Roma. Questo è ciò per cui siam venuti a supplicarvi.

La Ginevra maravigliava le fosse fatta una simile preghiera, e guardando ora l'uno ora l'altro dei due fratelli, senza rispondere, parea volesse leggere nei loro volti se veramente avean parlato da senno.

Ma i due figli del Baglione indispettiti del silenzio di lei, e riassumendo la nativa asprezza….

—Nessun'altra donna, uscirono a dire, che si avesse a trovare ne' panni vostri, mai non vorrebbe rifiutarsi a far questo; però ci è di grandissima maraviglia codesto vostro tacere.

Ma la Ginevra pensava intanto a ciò che le convenisse fare in quella circostanza. Da cinque anni se ne viveva, quasi prigioniera, in Perugia, o al castello del Trasimeno, senza vedere altre facce che quelle truci ond'era composta la famiglia del Baglione. Mille volte ella s'era augurato di potere uscire almeno a respirare altr'aria, a vivere in mezzo ad altri costumi, perchè troppa era l'oppressione che le derivava da quei soliti obbietti. Ed ora per una combinazione che mai ella avrebbe saputo immaginare, se ne vedeva aperta la via. Ed era la città di Roma dov'ella dovea andare.

Noi non sapremmo assicurare se la circostanza che il Palavicino dimorava in quella città abbia principalmente influito a farle prendere una determinazione; è probabile però v'abbia avuto la sua parte; fatto sta che dopo un lungo silenzio:

—Io ci andrò, disse alzando gli occhi in faccia ai due figli del Baglione. Io andrò a Roma; mi presenterò al papa; farò quanto volete voi.

I due fratelli, che non si aspettavano una simile risposta, e già quasi erano volti al male, rimasero altamente edificati a quelle parole risolutive della giovine lor madre; onde cambiando improvvisamente aspetto e modi:

—Noi eravam sicuri che mai non vi sareste rifiutata a ciò; ora, giacchè vi siete risoluta, converrà bene vi partiate oggi stesso, perchè se si arriva tardi, ogni opera se ne andrebbe perduta.

—Ed io partirò in questo giorno medesimo, anche in quest'ora, se lo volete, purchè provvediate a metter tosto in ordine ogni cosa per la mia partenza.

I due Baglioni soddisfatti, più che non avrebbero sperato, della loro giovane madre, attesero in quel giorno a disporre ogni cosa perch'ella potesse mettersi tosto in viaggio. Mandarono innanzi più corrieri a cercar cavalli onde non s'avesse a perder tempo lungo il viaggio, le allestirono un numeroso traino acciò che, entrando in Roma, potesse subitamente destar romore per tutta la città, la qual cosa ad essi parve dovesse avere il suo vantaggio. E come tutto fu in punto, entrarono dalla giovane signora ad avvisarla che non si attendeva che lei.

La Ginevra non avea mai provato tanta agitazione come in quel momento. Movevasi di là per far cosa di cui non poteva presagir l'esito; mettevasi in cammino alla volta di una città dov'era colui che da cinque anni non vedeva, e col quale però ella non era sicura d'avere ad incontrarsi, non sapendo come si sarebbero ordinate le cose. In una città dove trovavasi il Morone, che sempre l'avea protetta, e l'Elia Corvino a cui doveva tanto. Era dunque quello un momento assai risolutivo della sua vita, trattandosi che fra pochi giorni poteva cangiarsi la sua condizione al tutto; tuttavia quanto le si parava dinanzi era pieno di dubbj, di viluppi, d'incertezze, di pericoli. Ella sperava così e temeva ad un tempo; ora lasciavasi andare agli estremi della fiducia, ora si fermava atterrita e perplessa. Nella sua virtù pensando poi esser debito suo presentarsi a Leone e supplicarlo per ciò stesso da cui il suo cuore irresistibilmente abborriva, ne provava un tormentoso contrasto che la rendeva insofferente e inquietissima; pure un pensiero assiduo e sereno veniva sempre a galla degli altri, e li escludeva spesso. In questa condizione d'animo, uscì dalle sue stanze, uscì da palazzo dove avea passato tanti anni infelici, salì in lettiga, e ricevute le ultime preghiere dei due figli del Baglione, si pose finalmente in viaggio accompagnata da un numeroso equipaggio.

I corrieri stati spediti innanzi a cercar cavalli perchè non si perdesse tempo nel viaggio, avevano in un momento divulgata la notizia di quell'andata della moglie del vecchio signore di Perugia a Roma per impetrare la grazia del pontefice, per cui essendo ella nota alla maggior parte, e come figlia dello scaduto signore di Bologna, e per la fama che, nella circostanza del suo matrimonio col Baglione, aveva dovunque recate le lodi della bellezza, della sua giovinezza insieme al compianto delle sue molte sventure e del duro modo con cui era stata sagrificata dal padre, gli abitanti de' luoghi per dove ella passava traevano in folla a vederla. Il fatto medesimo della cattura del signore di Perugia, fatto che aveva sbalordita mezza Italia, ajutava ad accrescere nella folla il desiderio di considerare da vicino la moglie di lui, e tanto più in quanto, correndo la voce che per tanti anni ella stessa era stata la vittima di quell'atroce uomo, non sapevasi abbastanza ammirare la di lei generosità, per la quale s'affrettava presso il pontefice al fine di implorare la salvezza di colui appunto che era stato la cagione de' suoi continui patimenti.

Ma i corrieri precedendola di molte miglia entrarono in Roma un giorno prima di lei, al fine di prepararle un conveniente alloggio. Affluendo colà, di que' tempi, altissimi personaggi d'ogni paese, alcuni ricchi cittadini avean destinato espressamente de' sontuosi palazzi, all'uso di alberghi. Agostino Chigi era il proprietario d'uno di questi, il quale essendo il più magnifico e il più riccamente addobbato degli altri, i personaggi più distinti vi si recavano di preferenza, e questo appunto fu prescelto per dare alloggio alla signora di Perugia.

Fin dal dì prima, da taluni mercadanti che viaggiavan per Romagna, era stata recata la notizia che la moglie del Baglione era in viaggio per Roma, alla quale chi aveva prestato fede, chi no. Ma appena giunsero i corrieri, e furon visti fermarsi all'albergo in Piazza Farnese, e si sparse la nuova che il dì dopo sarebbe venuta la signora di Perugia, fu un mormorio di tutta la città. Già tutta l'attenzione de' Romani era vôlta allora al fine che avrebbe avuto il processo del Baglione. Nelle case, per le strade, ai passeggi, nelle botteghe, ai giuochi, non si parlava che di quell'avvenimento straordinario. Ora si può argomentare quale effetto facesse anche in Roma come altrove la notizia dell'arrivo della sua moglie.

Il giorno dopo, come suole avvenire in simili circostanze, verso l'ora in cui credevasi da tutti ch'ella dovesse arrivare, si cominciò a vedere la Piazza Farnese affollarsi di sfaccendati, i quali volevano esser i primi a veder discendere dalla lettiga la giovane signora, della quale avevano sentito a dir tante cose.

—Vorrei sapere, diceva uno, a che fine ella se ne venga in questa città.

—Io sospetto l'abbia fatta chiamare papa Leone per sentire anche lei. Delle molte atrocità ond'è colpevole il Baglione, credo che costei non sia stata l'ultima vittima, onde sarà venuta qui espressamente per far testimonianza a danno di lui.

—Io credo vi prendiate abbaglio, ed ho sentito dire invece ch'ella si affretti per genuflettersi al santo padre, e per impetrare la sua clemenza a pro del marito.

—Chi ve l'ha raccontata non dee di certo aver la testa sulle spalle. Da quando in qua s'è egli mai sentito dire che il paziente abbia supplicato pel boja?

—Da questo istante.

—Io non ci credo nulla però, e la vedremo.

—Ma se egli è vero ch'ella se ne viene per salvare il marito, credi tu che il santo padre si lascerà poi smuovere dalle preghiere di lei?

—Io starei pel no: tuttavia chi può mai coglier giusto in tali cose?

—Costui dice benissimo: in queste cose non si può mai essere indovini; del resto, quando avrò parlato a un certo tale, vi saprò dir io cosa ne sarà per succedere.

—Ma in che ora precisamente sarà per arrivare?

—Il fante dell'albergo dice che si sta appunto aspettandola da un momento all'altro.

—Sentite, rechiamoci un tratto fuor di porta Belisario, così movendole incontro non avremo a durare la noia dell'aspettare.

—Se ti par meglio, tu puoi andare; ma io non mi scosto di qui, chè vo' vederla dappresso quand'uscirà di lettiga.

Dietro il parere di questi due, chi stette fermo presso la porta dell'albergo, chi si mosse verso porta Belisario. Ma questi ultimi non ebbero a veder nulla, perchè i cavalcatori sospettando che a quella porta vi sarebbe stata una gran moltitudine, entrarono in città per un'altra, e attraversandola di corsa, furon presto in Piazza Farnese. Alle prime voci che annunziavano l'arrivo del numeroso traino della signora di Perugia, nella folla successe un gran commovimento. Molti s'addensarono allo sbocco della contrada che metteva sulla piazza, e per dove la signora aveva a passare; molti l'aspettarono di piè fermo innanzi alla porta del palazzo Chigi.

—È qui, ci giunge adesso, due, tre, quattro, sei lettighe.

—È un seguito numeroso.

—Or sta a vedere dove sarà la signora?

—Attenti, guarda, non è lei; queste son donne di servizio.

—Ma di ragione ella si troverà con taluna di costoro.

—Eccola… l'hai veduta?

—È poi dessa veramente?

—È seduta a dritta; è quella che parla, osserva.

—L'ho veduta adesso.

—È bella; or vo' vederla a discendere.

—Non l'avrei creduta così giovane.

—Presto, andiamo.

E in coda al seguito la folla che s'era divisa, tornando a congiungersi, si sforzò di ridursi presso alla porta del palazzo. Quando poi le lettighe si fermarono, il pigiamento della moltitudine fu straordinario, chi sforzavasi a soverchiar l'altro, chi si alzava sulla punta dei piedi, chi cercava di sporger la testa fra quelle che si addensavano innanzi.

Fu un momento di aspettazione; infine la svelta figura della Ginevra, avvolta in una stretta tunica di velluto nero, fu veduta discender lesta dalla lettiga e scomparir subito sotto il portone del palazzo. La curiosità generale fu delusa nel punto stesso di essere appagata, e la moltitudine cominciò a diradarsi; chi diceva una cosa, chi un'altra.

—Per quel ch'io vidi, avrei anche potuto starmene a bottega.

—Tuo danno, se ti sei ostinato a non voler starmi presso, lo invece mi trovai a due passi da lei quando discese… ed ebbi agio così di guardarla come adesso guardo te.

—E ti parve?

—Le voci stavolta non han propalato il falso; è molto giovane, è molto bella, ma bella davvero. Conosci tu la figlia del Savelli? Bene, questa le somiglia assai, se non che è più donna.

—Ma come va ch'ell'abbia sposato un uomo così vecchio e così laido?

—Non fu lei, caro mio; suo padre era in male acque assai quando l'offerse al Baglione, e sperava grandissime cose. Ora vedi che bel guadagno ha fatto.

Con questi ed altri tali parlari ciascheduno si ritraeva, di modo che la piazza in poco di tempo rimase vuota. A sera però e a notte si videro fermarsi molti gruppi di persone per gettar qualche occhiata alle finestre illuminate dell'appartamento dove la Ginevra alloggiava.

Appena arrivata, ella avea tosto mandato un suo uomo alla Corte pontificia per sapere quando avrebbe potuto avere un'udienza dal santo padre, e in pari tempo perchè cercasse di sapere in qual condizione si trovasse allora Giampaolo.

L'uomo s'era fatto presentare al cardinal Bembo, il quale, dopo aver fatte molte interrogazioni, gli disse tornasse la sera stessa che avrebbe lasciata una risposta. Ma nello stesso tempo non mancò di fargli intendere, che l'illustrissima Bentivoglio avrebbe supplicato indarno, perchè il processo era finito e il Baglione era stato condannato.

—Tuttavia dite all'illustrissima signora vostra, soggiunse per ultimo il Bembo, che se non ha a sperar nulla per suo marito, speri per sè medesima e nella bontà del santissimo padre.

L'uomo riferì queste parole alla Ginevra, la quale non seppe come aveva ad intenderle; tornò la notte a palazzo, e ne riportò che l'illustrissima Bentivoglio si recasse il dì dopo ad ora di terza alla Corte del santo padre, chè questo le accordava la desiderata udienza.

Il processo del Baglione era dunque finito, ed esso era stato condannato a morte…. La Ginevra pensò tutta la notte a questo avvenimento, ed era tanta la bontà sua, che provava quasi un rimorso nel non sentire un sincero dolore per tale notizia. Ed ogniqualvolta un altro pensiero, un pensiero di tutta speranza irresistibilmente le si affacciava, ogniqualvolta guardando per la finestra, e vedendo il chiaro di luna battere sui palazzi sontuosi che decoravano quella piazza, pensava ch'essa era in Roma…. in Roma dove tante volte nel massimo trasporto della passione, era corsa colla mente in cerca di colui che il Corvino gli aveva nominato… tentava ogni sforzo per respingere quelle idee e per comporsi alla pietà di cui, nell'estrema sventura, le parea fatto degno il Baglione. Ma ciò le riusciva affatto impossibile, ed insensibilmente era trascinata dai moti del cuore… e quando in sulle prime ore della notte, salivano fino alla sua camera i rumori dei passi, delle voci di quanti attraversavano la piazza, considerando che tra coloro vi poteva essere l'amico della sua giovinezza… l'esaltazione di spiriti che ne provava era di tal natura, ch'ella più non bastava a dominarsi, e recavasi alla finestra a gettare uno sguardo sulla piazza…. e il cuore gli voleva scoppiare di sotto al drappo di velluto.

Tali pensieri stava facendo la Ginevra nel punto stesso che altri pensavano a lei ed alla circostanza straordinaria ed inaspettata per la quale si tosto ella era venuta in Roma.

Cominciamo da Gerolamo Morone. Quando le prime voci annunziarono l'arrivo della moglie del signore di Perugia, egli non ci prestò nessuna fede sapendo che Leone non l'aveva ancor mandata a chiamare, e non potendo congetturare nessuna causa per la quale spontaneamente ella poteva esser partita di Perugia; perciò non è a dire quale stupore fosse il suo quando la sera prima, recandosi nelle solite sale di Agostino Chigi, seppe da lui come la signora di Perugia il dì dopo sarebbe venuta ad alloggiare nell'albergo in Piazza Farnese.

Quel concorso strano di più avvenimenti, che a vicenda venivano ad urtarsi nel medesimo tempo, gli diede molto a pensare. Per quanto fosse uomo superiore, pure la morte della madre del Palavicino avvenuta quand'esso stava per maritarsi alla duchessa Elena, poi la cattura di Giampaolo Baglione successa nell'intervallo della di lui assenza da Roma, la quale avrebbe in poco di tempo fatta libera la Ginevra, ed ora l'arrivo di costei in Roma pochi giorni dopo la venuta di Manfredo stesso, salvo per miracolo, arrivo che pareva affrettato espressamente per mandare a vuoto il matrimonio di lui colla duchessa, gli parvero cose disposte troppo fatalmente perch'egli ci si volesse opporre. E a tutta prima sotto l'influenza di quel dubbio passaggiero venne quasi nella determinazione di lasciar correre le cose come voleva la fortuna, la quale sino a quel punto era stata molto più forte di lui, e della quale, per dir vero, in ciò che toccava il Palavicino, non era a lamentarsi punto. Venne quasi nella determinazione di togliersi affatto da quell'intreccio di cose, di lasciar Roma per qualche tempo, e di recarsi a Reggio a trovare i suoi concittadini. Furono però dubbi, pensieri e determinazioni di breve durata; e infine pensò che se più d'una volta la fortuna avea inestricato i fatti in modo da far credere non li potesse rompere più nessuno; più d'una volta, colla prudenza e coll'astuzia, era stata vinta essa pure. Il matrimonio poi del Palavicino colla signora di Rimini era per lui di una importanza troppo forte, troppo immediata per le cose d'Italia, perchè potesse persuadersi a lasciare anche quello in balia della sorte. Si studiò allora di credere che nel concorso dei fatti maturatisi in quegli ultimi giorni non ci fosse nulla di straordinario. Pensò finalmente che della Ginevra, alla quale il pontefice era venuto nella determinazione di fissare una ricchissima pensione, poteasi pure cavare un gran partito… Così a poco a poco tranquillatosi del tutto, cominciò a meditare le cose che gli rimanevano a fare, e quali prima e quali dopo. E fra le prime, stabilì di recarsi a fare un lungo discorso al Bembo ed a Leone appena la Bentivoglio fosse venuta a Roma e, contro la prima intenzione del pontefice medesimo, condurre le cose in modo che quella avesse tostamente ad uscire di Roma, per ridursi a vivere a Trento, dove da cinque anni aveva fermato la sua stanza il duca Francesco Sforza. In questo ravvicinamento il Morone riponeva molte delle sue speranze. Fatte così le prime linee di tal disegno con quella prontezza di concepimento che gli era tanto propria, stette aspettando che alla solita conversazione del Chigi venissero la duchessa e il Palavicino; ma per quella sera, con sua grande maraviglia non disgiunta da taluni timori, non vennero nè l'uno nè l'altra, onde il giorno successivo, che fu quello appunto dell'arrivo della Ginevra, si recò al palazzo di Elena per vedere se mai vi fosse qualche novità, ma non v'era propriamente nulla. Soltanto la duchessa mentre aspettava il Palavicino, essendo presso l'ora di pranzo, uscì in queste parole col Morone:

—Io non so cosa pensare, amico mio, ma da che Manfredo è ritornato a Roma non mi par più quel di prima. A miei dì mai non lo vidi in tanto pensiero e così triste, nemmen quando, in gran travaglio di corpo e di fortuna, alloggiò per la prima volta nel mio castello a Rimini.

—È una cosa presto pensata e della quale non è a fare nessuna maraviglia, che anzi ve ne sarebbe a fare se fosse diversamente. La morte di sua madre non gli può uscire dal pensiero un momento ed era da aspettarsi, perchè non credo che nessun figlio abbia mai sentito per sua madre così profonda tenerezza, come il nostro Manfredo.

—Anche a me venne un tal pensiero per la mente, pure mi sembra ci sia qualche cosa che non sia affatto affatto la dolorosa memoria di sua madre,

—Ed io sono certissimo che non c'è altro, duchessa, come son certo che dopo qualche mese di tempo anche il suo dolore darà luogo ed egli ritornerà quel di prima.

—Faccia Iddio che ciò sia per essere, e non ne parliamo più.

Qualche momento dopo codesto breve discorso, quando già i commensali s'erano raccolti nella sala delle mense, venne il Palavicino.

Alle prime domande rivoltegli dalla duchessa egli rispose con molta alacrità, e durante il pranzo, e in tutta la sera parve ad Elena e a tutti di lietissimo umore, non al Morone però il quale s'accorse benissimo quanto v'era di ostentato e di artificiale in quella allegria sotto a cui, di tratto in tratto, trapelava una cupa preoccupazione. Che al Palavicino fosse noto l'arrivo della Ginevra in Roma, non era a farne il minimo dubbio. Ora cosa voleva significare quello sforzo insistente e faticoso onde procurava coprirsi in faccia agli altri? Voleva significar tanto che il Morone ne fu assai sconcertato. Del resto, quando in sullo sparecchiarsi delle mense ad uno dei commensali venne la tentazione di entrare a discorrere del Baglione, il Palavicino con un impeto ed un'asprezza che contrastavano troppo alla gentilezza de' suoi modi, gli tagliò la parola in bocca, mettendo in mezzo che non era conveniente il parlare di un così tristo fatto in mezzo alla comune giocondità; e quando, a notte già innoltrata, la duchessa accennò di muoversi per recarsi al palazzo Chigi, secondo il consueto, egli, dicendo che sarebbe rimasto, costrinse anch'essa a rimanere.

Ciò per altro non dispiacque al Morone, il quale naturalmente aveva a temere che nella numerosa conversazione del Chigi entrandosi a parlare, com'era inevitabile, e del Baglione e della venuta della Ginevra moglie di lui, alla duchessa Elena potesse mai balenare il sospetto di ciò che, con ogni premura, le si doveva tener nascosto. Così, a mettere un freno a tutti i discorsi del Palavicino e a mantener sempre vivo il discorso del matrimonio, per l'adempimento del quale egli aveva sollecitato l'ultima pubblicazione, si trattenne egli pure presso la duchessa fino al punto da partirne insieme al Palavicino. Ma in questa notte, lungo il cammino, tra i due compatriotti non corse alcuna parola, e fu una dissimulazione perfetta tanto per l'una che per l'altra parte. Soltanto il loro silenzio si ruppe quando si salutarono per lasciarsi.

CAPITOLO XXVII

La mattina del giorno dopo, verso le sedici ore, il Morone, uscito dalla sua casa, passo passo e in gran pensiero, se ne andò alla Corte pontificia. Passato il primo cortile di palazzo, gremito come di solito di guardie svizzere, attraversati gli atrj pe' quali era una folla corrente e ricorrente di preti e di prelati, salì la grande scala, mise il piede ne' corritoj dei piano superiore, non mai solitarj in nessuna ora del giorno e nemmeno nel più profondo della notte, ed entrò finalmente nell'anticamera della sala d'udienza del papa. Qui trovavasi il cardinal Bibiena, l'autore della Calandra, diversi altri cardinali o i preti camerari che in quel giorno erano di servizio e che attendevano a diverse faccende, Il Bibiena se ne stava discorrendo di letteratura con un poeta venuto per presentare non so qual manoscritto a Leone. Due cardinali stavano attenti ad esaminare alcuni grandi fogli che uno scolaro del Bramante lor veniva mostrando, ed erano diversi progetti architettonici d'un tempio. Presso ad un grande e ricchissimo vestibolo che si mostrava di faccia a chi entrava nell'anticamera, stava ritto il camarlingo, il cui ufficio era di aprire l'usciale a chi voleva presentarsi al papa. Quando il Morone entrò, chiese al cardinal Bibiena, dal quale gli fu stretta la mano, se si poteva entrare dal santo padre….

—Da qui un momento lo potrete benissimo: per ora no, che è entrata da lui adesso la moglie di Giampaolo, la quale è giunta a Roma da jeri come sapete.

Al Morone rincrebbe d'essere stato preceduto, e stette qualche momento sopra pensiero, poi disse al Bibiena:

—Ma che cosa è venuta a far qui costei?

—È presto pensato: per impetrare la grazia a favore del marito.

—Se è presto pensato, non sarà presto creduto, illustrissimo, giacchè se il santo padre aveva interesse per dieci alla morte del Baglione, costei ne deve aver avuto per cento, a dir poco.

—Credo bene che ciò sia; ma intanto ella è qui per il fine che v'ho detto.

Uno squillo di campanello venuto dal gabinetto del pontefice troncò questo dialogo e gli altri che si facevano da tante persone. I camerari di servigio entrarono allora nel gabinetto in fretta. Quando l'usciale fu aperto, facendosi un gran silenzio nell'anticamera, s'udì il suono della voce della Ginevra Bentivoglio, e alcune parole del santo padre. Per udirle meglio facciamo d'entrarvi anche noi.

Seduto accanto ad una tavola, nell'attitudine precisa in cui lo vediamo ritratto nella tela di Rafaello, papa Leone, appena vide spuntare dal vestibolo i due camerari, lor si volse dicendo:

Trasmetterete tosto quest'ordine al cardinale tesoriere.

Nel pronunciare le quali parole, sporse un foglio ad uno di loro due, che al suo cenno uscirono colla prestezza onde v'entrarono.

Il papa, rimasto così ancor solo colla Ginevra:

—Vedete dunque, figliuola mia, continuò, che in tutto quanto s'è fatto, abbiamo avuto di mira il ben vostro. Non state dunque a volerne supplicare per una cosa che, se mai fossimo venuti nella risoluzione d'esaudirvi, v'avrebbe poi gettata nella massima disperazione. Noi non possiamo che lodare, figliuola mia, codesta straordinaria virtù, onde, per adempire ciò che credevate debito vostro, ci avete supplicato a voler perpetuare le vostre miserie, e vi assicuriamo che Dio ve ne farà un gran merito. Ma non si vuole andare più in là. D'altra parte, figliuola, io mi avvedo benissimo che il cuor vostro non può mettersi d'accordo colla vostra bocca; per questa volta vediam dunque di seguire il consiglio del cuore che tal fiata ragiona meglio assai della mente, la quale s'imbroglia di cavilli e di pregiudizj. I giorni della vostra vita ci stanno innanzi tutti quanti come se fosser scritti in un libro; e per verità, non aveste mai a respirar liberamente, povera figliuola mia. Comincerete dunque oggi stesso una vita nuova, e fate cantare un triduo in ara coeli, che vi varrà un'indulgenza plenaria. Intanto i trentamila giulj che vi abbiamo assegnati ad ogni anno, spero vi potranno indennizzare assai bene e della vostra Bologna e di Perugia. In quanto poi al luogo della vostra futura dimora, io vorrei vi fermaste in Roma dove siete sicura da tutte le insidie che vi potessero mai tendere o i vostri fratelli o i figli di Giampaolo. Del resto, figliuola, verrete alla nostra udienza qualch'altra volta, e vi daremo talune altre istruzioni.

La Ginevra, a quest'ultime parole che significavano un commiato, si alzò senza ripetere quella preghiera che appena presentatasi a Leone, avea fatta non senza fervore. Ma era un fervore forzato e non spontaneo, e che necessariamente avea dovuto cessare innanzi alle prime negative. Vedremo in altro momento come il fervore della preghiera crescerà invece col crescere delle ripulse, e quale straziante efficacia di parole porrà sulle labbra di questa infelice una disperazione senza pari.

Si alzò dunque, e fatto qualche ringraziamento, si licenziò ed uscì dal gabinetto.

Coloro che stavano nell'anticamera e avevano udite le parole di commiato, si volsero tutti per guardarla appena l'uscio si spalancò ed ella comparve sulla soglia. Al sommesso bisbiglio che le faceva d'intorno, nel passare ella girò alla sfuggita uno sguardo, un timidissimo sguardo, fra que' personaggi, quando improvvisamente si fermò mandando come un piccol grido, mentre la faccia le si coprì tutta quanta di un vivissimo rossore che degenerò issofatto in un pallore estremo. Il volto del Morone che distinguevasi tra le molte teste ond'era circondato, e che fissando lei con molta attenzione, le si mostrò per il primo, fa causa di quell'estrema sua commozione; ed ella si fermò volgendogl un'occhiata. Il Morone potè accorgersi del tremito che s'era messo nella persona della Ginevra, e allora di volo, allontanatosi dagli altri, si accostò a lei dicendole:

—Oggi venivo da voi, e non avrei mai creduto d'avervi a trovar prima qui.

La Ginevra non potè rispondere in sul subito, poi, quando quell'agitazione le cessò:

—Oh come ho caro a vedervi, disse.

Le parole non furono che queste, ma il modo onde le pronunciò, ma l'accento pieno di fervore, di passione, d'ingenuità e di grazia onde furon rese, ma il rossore che le ritornò sul volto nello stringere la mano del Morone con ambedue le proprie che tremavano, fu di una forza così potente da comunicare quella commozione al Morone medesimo.

Rimasero così ambedue nel mezzo dell'anticamera senza parlare e immobili, mentre tutti gli altri in silenzio li stavano guardando con maraviglia.

—E così, disse finalmente il Morone, tanto per rompere quel silenzio, credo sarete ben contenta dell'accoglimento fattovi da Sua Santità, io sapevo già le sue intenzioni.

—Sì, disse la Ginevra, l'ebbi a trovare di una grande bontà…. e in quanto a me non avrei mai potuto sperare di più.

Il Morone fu per soggiungere:—Continuate dunque a sperare, che la vostra sorte pare siasi voluta mutare a un tratto; parole che intere gli si erano già ordinate nella mente, ma che non gli bastò il coraggio di pronunciare. Così tornò a tacere.

La Ginevra fece essa puro il medesimo, e intanto al modo onde guardava il Morone, pareva stesse in aspettazione di molte altre sue parole e lo invitasse anzi a metterle fuori.

Quante cose in fatto alla doveva aspettarsi d'udire in quel momento dal Morone…. e con un'ansia accresciuta dal contrasto delle più vive speranze stette attendendo di sentir profferire un nome dalla bocca del Morone. Ma questi avea troppe ragioni per non fargliene motto, e la condusse invece ad altri discorsi; finchè, nel punto di dividersi, le promise sarebbesi recato da lei o in quel giorno o presso.

Il Morone, nel salutarla, potè accorgersi che di improvviso l'umore di lei era divenuto assai cupo. Ne indovinò la cagione, ma non poteva ripararvi. L'aspettazione delusa, pur troppo avea lasciato nell'animo della Ginevra un vôto, una desolazione indicibile. Quando infatti si fu ridotta alle proprie stanze, e si trovò sola, un tal rammarico la percosse, una tetraggine così profonda le si mise nell'animo, che non potè trattenere le lagrime e pianse per molte ore in segreto.

Alcuni giorni ella dovette passare in questo stato doloroso, d'ansia, d'incertezza, di timori e di speranze, durante i quali non ebbe visita da nessuno, nemmeno dal Morone. Due dì dopo solamente un segretario pontificio le recò la bolla per la quale a lei venivano assegnati trentamila giuli annui, e con quella la notizia della condanna del Baglione, notizia che le mise nell'animo un turbamento nuovo, che la sorte del vecchio Baglione doveva necessariamente far nascere in lei de' gravissimi pensieri.

Vediamo adesso di recarci in castel Sant'Angelo, quantunque sia di notte e l'accesso sia a tutti precluso.

Correvan quasi due mesi che Giampaolo Baglione era chiuso in castello. Fin dal momento in cui fu lasciato solo in uno de' camerotti del castello, e udì chiudersi l'uscio di fuori, un orrendo sospetto avea fatti rizzare sull'adusta fronte di lui i pochi e bianchi capegli, e per la prima volta potè accorgersi che significhi lo spavento e il terrore, e nell'intenso suo raccapriccio potè misurare tutti i dolori onde egli era stato autore altrui in tanti anni di dominio, di violenza, di ferocia. Riavutosi per altro da quella prima percossa, non gli sembrò vero che gli si fosse voluto tendere una simile insidia, e sperò ancora. Ma fu per pochissimo, che in quel giorno stesso della sua cattura gli fu fatto intendere, sarebbe tosto condotto innanzi ad un consesso espressamente raccolto per udir lui, ed al quale avrebbe dovuto dar conto di tutta la sua vita passata. Quando udì simil cosa, rimase muto alcuni momenti, quasi non comprendesse o non potesse comprendere di essere caduto in un abisso tanto profondo…. poi con maraviglia e spavento di coloro che gli avean data così tremenda nuova, como se il furore lo avesse ritornato alla sana e potente robustezza della sua gioventù.

—Chi, gridò con voce tanto forte da far rimbombare la vôlta della camera dove si trovava, chi pretende di obbligarmi a tanta ignominia! Chi ha mai preteso in Italia di far stare Giampaolo?,. Voi forse?…

E ciò dicendo scagliandosi su cinque sacerdoti che gli stavano innanzi, con uno stiletto che si era cavato di sotto alla cappa, uno stese ferito a terra, due ne percosse, e l'atto fu così istantaneo che le guardie pontificie non avevan potuto prevenirlo, e soltanto furon sopra al Baglione quando, vinto dalla decrepitezza e dalle doglie del corpo, le quali non abbandonavanlo mai, e gli si fecero allora sentire con uno spasimo acuto, cadde come massa di piombo sul suolo, rendendo somiglianza di epiletico furibondo, che dopo aver fracassato quanto gli sta dintorno con una forza preternaturale, d'improvviso è reso immobile ed inerte.

Fu allora portato in una delle segrete, e messo in catene. Il vecchio si riebbe ancora, ma nel fondo della bassa carcere, immobile, cogli occhi fissi e vitrei, colle braccia intrecciate ai ginocchi, se ne stette squallido e muto e orribile agli uomini che gli facevan la guardia. Venne poi il giorno nel quale il processo si aprì, e a cominciare gl'interrogatorii, si dovette trascinarlo innanzi al consiglio straordinario. In quel giorno, e in molti altri successivi fu impossibile cavare dal suo labbro una parola sola. Si trovò però tosto il modo di farlo parlare, e quella tortura dal Baglione medesimo applicata altrui tante volte, e con tanta atrocità, fu fatta subire anche a lui. Dopo tanti giorni di silenzio, parlò per la prima volta, confessò cose da mettere il raccapriccio e lo spavento in coloro che l'ascoltavano; da quelle sue labbra livide e convulse uscì il racconto di tali enormezze, che la ragione trova un conforto nel rifiutarsi a crederle. E da quando quel silenzio fu interrotto da lui, il suo labbro non tacque mai più. Ricondotto nella segreta, cominciò ad uscire in grido, in imprecazioni, in bestemmie che assordavano le guardie facendole inorridire… e da quel momento non fu ora nè del giorno nè della notte in cui quella sua voce tacesse. Un feroce delirio, una forsennatezza spaventosa aveva sconvolta la mente di lui; ma venne l'ultima sua notte, ed è questa a cui ci troviamo.

Due guardie pontificie, all'estremo punto di un lunghissimo corritojo, stavano in piede guardandosi in faccia l'una l'altra. Sul fondo di quel corritojo una lanterna appesa all'alta vòlta spargeva qualche poco di lume intorno… ed era così scarso, che la luce lunare proiettata sulla parete e sul pavimento dentro i contorni de' sei finestroni aperti in alto, la vincevano quasi del tutto. Le guardie tendevano le orecchie.

—Egli tace, uscì detto ad una.

—Era tempo!… Io non ne potevo più…

—Abbi però pazienza che ei tornerà presto da capo.

—Ma quando sarà egli finito codesto processo?

—È finito.

—E la sentenza?

—È data e sottoscritta, e non c'è altro a fare.

—Dunque.

Il soldato non aveva finito di pronunciar questa parola, che dall'estremo fondo del corritojo, come se venisse di dietro a molte imposte rabbattute, tornò a farsi sentire una voce profonda e rantolosa, e gemebonda talvolta… In sul principio si udiva un suono senza parole, ma grado grado la voce si venne alzando sempre più, fino al punto che attraversando lo spessore delle imposte rivestite di ferro, ridestò gli echi delle vôlte, ed orribili parole risuonarono in quel luogo.

—Ah… ci sei… ti ho afferrato!… diceva quella voce. Calerai con me al fondo!… Guarda che negri fiotti!… No… non è acqua… è sangue… sangue… sangue! È il lago d'averno questo…. giù, giù… giù con me… traditore infame… giù boja! Vedi?… là… là è fuoco!… Senti?… qui… il sangue ribolle… arde!… Ahi, ahi, ahi!!! La carne abbrustolita mi si stacca dalle ossa!… Ahi!… tormento, tormento, tormento!!… E tu?… che fai tu?… ah, sta qui… non sfuggirmi traditore infame!… Questo è fiotto… è sangue… è fuoco!… Affoga, tristo… cala giù, giù, giù… ardi… ardi con me, boja infame! Ahi!… no… vedi tu?… no?… quello è sangue… è fuoco!… No, è il demonio… il demonio… Ahi, ahi!!… m'ha percosso coll'ali!… Vedi tu?… son l'ali che sommovono i fiotti… Oh guarda… son rosse… son sangue… son fuoco!… Ma e tu? tu traditore infame, tu boia… cala giù con me… giù, giù!… Ah! ora t'ho pel collo… Qui, demonio, stringi qui… percuotilo coll'ala di pipistrello… giù, giù, giù… percuotilo, o demonio, demonio… demonio!!!…

Alle guardie si rizzavano i capelli di sotto alla celata. L'ora tarda, il luogo tetro e remoto, la scarsa luce, e tali orrendi voci li empivano di sgomento e di stranissime ubbie…

Ma le voci continuavano…

—Cala giù con me boja… giù, giù! Qui, demonio, stringilo qui… demonio, demonio!… Ahi… le mie carni… ahi, ahi!…

Questi ululati continuavano da un'ora senz'interruzione… Le guardie non facevan passo, nè l'una osava staccarsi un momento dall'altra… quando, di mezzo ai gridi, odono rumori di voci e di passi che salivan le scale conducenti in quel luogo. Dopo qualche istante infatti vedono affacciarsi dal pianerottolo tre uomini… Il primo aveva il lampione nelle mani, il secondo portava un grosso involto sotto il braccio, il terzo era un frate della Misericordia… Salgono lenti e taciti… percorrono il lungo corritojo… l'uomo che aveva il lampione apre la porta di prospetto… che tosto si chiude… poi un'altra, poi un'altra… Le guardie sentirono confuso alle grida incessanti il rimbombo che le imposte ferrate facevano nel richiudersi,.. Scorse brevissimo tempo… poco di poi le grida s'alzarono più furibonde… ma fu l'istante di un secondo,… e di colpo cessarono. Vi fu un silenzio profondo di pochi minuti… ma subito le tre porte s'udirono riaprirsi e rimbombare rinchiudendosi… i tre uomini ricomparirono all'uscio di prospetto, che fu chiuso… silenziosi attraversarono il corritojo… silenziosi passarono innanzi alle guardie e ridiscesero. Tutto il rimanente della notte fu immerso nella più profonda quiete.

—Che pensi? disse finalmente una delle guardie all'altra, di cui udiva il respiro.

—Quello che pensi tu. Ci scommetto…

—Per costui non c'è altro dunque…

—No.

—Ora mi sovviene di una cosa. Sei notti fa io stavo di guardia a Porta Capena… sai che lì presso ci son le stalle dello Scaraventa beccajo…

—Ebbene.

—Era da qualche tempo che un bufalo selvaggio preso al laccio di fresco, faceva, di notte specialmente, rimbombare de' suoi muggiti tutti i luoghi dintorno, ed era una noia indicibile. Bisogna che lo Scaraventa se ne tediasse esso pure… e sei notti fa appunto, io che passeggiavo al fresco per non prender sonno, lo vidi attraversare la via, aprire la stalla, ed entrarvi. I muggiti cessarono… quando m'accorsi dei rumore che fece il bufalo stramazzando…

—E così?

—E così non c'è altro. Soltanto ti volevo dire che costui è morto così…. Va poi tu ad augurarti di nascere in alto stato.

Il giorno dopo corse per Roma la voce, essere stato il Baglione decapitato in castello, e la giustizia aver fatto il debito suo.

Lasciamo che questa segua il suo giro. Ora è di Manfredo che dobbiam prenderci pensiero.

CAPITOLO XXVIII

Dopo l'arrivo della Ginevra a Roma, l'abbiam veduto una volta nel palazzo della duchessa Elena, ma il suo esteriore era troppo calmo. I suoi modi erano simulati da una allegria troppo artificiosa perchè si potesse vedere quel che passava nell'anima di lui.

È terribile la condizione di chi vive nel contrasto di due passioni violenti, cui la ragione, negli istanti in cui l'anima travagliata si riposa, altamente condanni. Ma è forse più ardua assai quella di chi provi l'urto di due affezioni, che non possono venir condannate dalla ragione assoluta, ma che per una combinazione di cose, e per relazioni specialissime, non possono esistere simultanee, senza disordine e colpa. Tutta la gravezza e il pericolo di tal situazione potè sentire e misurare il Palavicino appena gli venne all'orecchio che la Ginevra era in Roma. Il tumulto messosi nell'animo suo a quella notizia fu de' più violenti; fu una sensazione complessa di più sensazioni; fu sgomento profondo e fu anche gioia susseguita da rimorso; furono speranze e fu disperazione. Esso non avea provveduto a spegnere le prime accensioni d'amore che provò per la duchessa Elena, quando la diuturna lontananza, e un ostacolo che pareva insormontabile, bastavano per iscusarlo d'essersi dimenticato della Ginevra. In conseguenza di ciò, e per un altro fine più alto, egli aveva di poi fatta la promessa di sposare la signora di Rimini…. E l'ora era presso in cui codeste sue promesse dovevano consumarsi; ma circostanze fatali l'avevan protratta sino al punto di diventar tormento; troppo tardi perchè si potesse dar un passo addietro, troppo presto perchè non potessero nascere delle tentazioni. La Ginevra era in Roma, la lontananza era tolta, l'ostacolo distrutto, e distrutto pochi momenti prima che il matrimonio colla duchessa Elena fosse effettuato. Pareva si fosse la sorte espressamente adoperata perchè le antiche promesse ch'egli aveva fatte alla Ginevra dovessero mantenersi; ma rifiutando la duchessa era sconvolgere un ordine di cose da troppo tempo preparate, e rese troppo importanti da circostanze indipendenti dai privati affetti, nel punto stesso che il non tener conto veruno della Ginevra presente, poteva meritare la taccia di una scortesia vituperosa e colpevole.

Era il dì successivo alla morte del signore di Perugia; una tormentosa perplessità non lasciava più dunque un'ora sola di riposo al Palavicino. Fin da quando seppe essere la Ginevra in Roma, e in qual palazzo alloggiava, eragli venuta la tentazione di recarsi tosto a vederla…. Vederla dopo tanti anni, dopo tante sventure, dopo aver creduto impossibile un simile incontro, gli pareva d'avere a toccare il cielo col dito…. L'esaltazione venutagli da così forte desiderio aveagli messo nel sangue un fuoco febbrile.

Il lettore si ricorderà del giorno in cui il Palavicino, dopo aver veduta in Roma la signora di Rimini per la prima volta, aveva messo in un perfetto oblio la Ginevra Bentivoglio…. Nessuno allora avrebbe potuto ragionevolmente predire, fosse per venir giorno in cui l'immagine di lei sarebbe ricomparsa più abbagliante che mai, e l'avrebbe vinto al punto da renderlo smemorato della duchessa Elena.

È una verità di cui bisogna persuadersi, che un primo affetto non si scancella mai al tutto dalla memoria dell'uomo; potrà, per mille circostanze, arrestarsi, intiepidirsi, parer anche del tutto dileguato, ma appena qualunque fatto impreveduto lo sommovi un momento, gli ardori si ridestano colla medesima forza di un tempo, e più ancora…. e il ritornare colla memoria a que' giorni, a quell'ora a quel primo istante in cui l'anima si scosse alla rivelazione di un affetto sconosciuto, riempie il cuore di una mestizia piena di dolcezza, e che ci fa desiderare e rimpiangere quel momento solenne e soavissimo che non si rinnoverà mai più nella vita. Per ciò stesso tutti gli affetti venuti dopo a quel primo, appena questo ricompaja, sono costretti a cedergli il posto…. tutto tace dintorno a lui, e l'oggetto pel quale esso fu dimenticato per qualche periodo di tempo, quasi ci promove il dispetto, quasi ne diventa odioso. E in quanto al nostro Manfredo, altre cause straordinarie dovevano generare affetti ancora più forti. L'irresistibile simpatia ch'egli aveva sentita per la Ginevra, la prima volta in cui l'ebbe veduta, apparteneva ad una sfera puramente morale, quantunque la bellezza fisica di lei fosse stato il primo motivo di quella passione; ella era nata inoltre nel momento in cui l'animo del Palavicino versava nell'esaltamento di tutte le più nobili aspirazioni. Un affetto nato in tali istanti assume una forza troppo tenace perchè possa mai spegnersi…. Ma in qual punto invece aveva avuto nascimento l'amor suo per la duchessa Elena? Noi ce ne dobbiamo ricordare, se quasi egli corse pericolo di perdere allora la nostra stima…. La sensualità, e non altro, aveva infiammata in un subito prima la sua carne, poi l'animo suo per colei…. La sensualità, cagione impura di torbidi e non durevoli affetti! Bensì, a poco a poco, taluni pregi della duchessa aveano aggiunta una tal forza costante all'amore di lui, ma era pur sempre la prima sensualità larvata sotto a più nobili apparenze. Guai se i ritorni delle ingenue ricordanze fosser venuti a gettare il pentimento nel cuor suo…. e pur troppo esse vennero; ma vennero quando non era più in tempo, quando anzi diventava colpa e cagione di scandalo inaudito il distruggere i secondi affetti per riassumere i primi.

In que' giorni dunque il Palavicino, non mostrando mai nulla al di fuori quando trovavasi in faccia alla duchessa Elena e a Girolamo Morone, tosto ch'ei fosse lontano da essi tentava ogni mezzo per dar sfogo all'immenso affanno e alleggerir l'animo del peso insopportabile. Dovendo simulare la calma per tante ore, versava poi su chi non temeva, tutta l'acredine dell'umor suo. I suoi conoscenti maravigliarono del cambiamento repentino avvenuto ne' suoi modi, e delle sue stranezze, e ne parlavano facendo mille commenti. E più di tutti i servi di lui, che l'adoravano pe' suoi modi affabili e dolci, con doloroso stupore non seppero come spiegare l'asprezza insolita onde li trattava. La notte il sentivano passeggiare per la camera, e quando pure dormiva, l'udivano risentirsi nel sonno. Per tre o quattro giorni continui duravano tali stranezze…. poi a un tratto si tranquillò come se avesse, presa una risoluzione. S'egli lo avesse voluto di forza, non gli sarebbe bastata più che una parola per rifiutare la duchessa…. E fu questa una tentazione che lo mise tante volte alle strette, e lo esaltava, lo scuoteva, lo fiaccava al punto da lasciarlo spossato per molte ore di spirito e di corpo…. Nelle stanze della signora, in faccia a lei, più d'una volta gli era venuta una parola sul labbro, la quale avrebbe cambiato tante cose in un punto; ma avea saputo cacciarla indietro. In fine, dopo lunga e dolorosa lotta, ebbe fermo il suo partito; e considerato il matrimonio della duchessa come un atto che più di lui risguardava il paese suo, e ricordandosi di quanto aveva giurato a sè medesimo, chinò la testa e disse:—Sia fatta l'altrui volontà.

Aveva però presa un'altra risoluzione, ed era di recarsi a veder la Ginevra e di confessare a lei con ingenuità lo stato suo e lo stato delle cose che lo costringevano a far ciò ch'era tanto contrario alla propria volontà. Sposare la duchessa mentre la Ginevra era in Roma, non gli parve mai cosa lecita…. Il pensare all'effetto che avrebbe fatto su di lei l'insultante oblio, gli metteva l'animo sossopra…. Stimò dunque miglior cosa il recarsi dalla Ginevra e aprirle l'animo proprio; d'altra parte, traendola all'argomento del paese comune, si confidò di poter così divertire l'affanno di lei e il proprio in più alte considerazioni. Sapeva la mente della Ginevra, e quanto l'Italia stesse sul cuore di lei; per ciò sperava.

La mattina del giorno stabilito per le sue nozze colla duchessa, si alzò fermo in questa risoluzione, e tranquillo.

I servi lo trovarono mite e affabile come sempre, e furono contentissimi. L'incertezza e il contrasto che gli aveano tenuto in sobbollimento il sangue, essendo cessati, cessarono anche gli effetti. Così l'apparenza di lui fu abbastanza calma…. l'apparenza soltanto, perchè dell'animo interno era tutt' altro. La malattia aveva cangiato aspetto, ma non era vinta; era anzi peggiorata…. I primi sintomi violenti avean dato luogo alla spossatezza e al languore!… Prima un'inquietezza ardente e furibonda gli portava le imprecazioni sulle labbra; ora era l'accoramento, la tenerezza che lo moveva al pianto. Del resto egli avea risoluto, e quando gli parve tempo uscì di fatto per recarsi al palazzo Chigi in Piazza Farnese…. per vedere, dopo tanto tempo, la Bentivoglio e parlarle!

Ma se la mattina gli era ciò sembrato assai facile, quando si trovò in piazza, e vide il portone del palazzo, e guardò le finestre dell'appartamento dove sapeva trovarsi la Ginevra, e fu per entrare, non potè. Il desiderio trovava l'ostacolo nel suo eccesso medesimo. Perciò, incontratosi in un suo conoscente, gli si accompagnò per allora e, allontanatosi dal palazzo Chigi, se ne andò con esso lui vagando per la città sempre martellandosi il cervello e senza mai potersi risolvere. Era una giornata nuvolosa del gennajo di Roma; l'aria riceveva gli umidi vapori dal Mediterraneo. La mancanza del sole, e questa disposizione particolare dell'atmosfera metteva una gravezza insolita nell'esistenza di Manfredo, gravezza che gli avrebbe diminuita anche la gioja quando pare le circostanze della vita fossero state favorevoli a questo sentimento. Giorni più funesti e più procellosi di questo egli ne avea passati assai; ma neppur uno più squallido, più tetro, più melanconico.

Stretto a braccio di quel suo amico, senza sapere quel che si facesse di lui, e in pari tempo senza potersi determinare a staccarsene, fece seco molto cammino. Non avendo mai potuto sfogarsi con nessuno, e oramai mancandogli la forza a dissimulare il suo affanno, mille volte fu per manifestar tutto all'amico. In una simile preoccupazione lasciava cadere in terra tutti i discorsi che colui gli faceva. Per verità che non vi poteva esser cosa più greve, più tediosa della compagnia del povero Manfredo in quel dì. L'amico lo sopportò per un pezzo, poi tentò di staccarsi da lui; se non che il Palavicino lo pregava a non lasciarlo, e per trattenerlo, gli diceva avergli a manifestare cosa di grave importanza; così passò qualche tempo ancora. Ma il Palavicino, già pentito d'essere uscito nell'imprudente parola, trasse l'amico nel centro della città, e come sentì batter l'ore a tutti gli orologi:

—Perdio, è tardi! esclamò. Bisogna che io ti lasci; ci rivedremo stassera dal Chigi,

—Ma e ciò che avevi a dirmi?

—Oh non è nulla, non è nulla!,.. Ci rivedremo stassera….

E lo lasciava senz'altro…. Quegli, in sulle prime, rimase attonito in mezzo alla via, poi disse tra sè:—Costui è ben pazzo, oggi. Ma fui ben più stolido io stesso a non accorgemene prima…. Così se ne andò pe' fatti suoi, intanto che il Manfredo a furia s'incamminava verso il palazzo dove stava la Ginevra.

Percorsa buona parte di Roma senza accorgersene, fu presto in Piazza Farnese, l'attraversò di volo, entrò nel palazzo, domandò della signora di Perugia, pregò di essere incontanente annunciato, e seguì l'uomo di camera supplicandolo di far presto. Temeva d'avere ancora a pentirsi, e sollecitava….

L'uomo salì in fretta lo scalone; quando fu sull'ultimo piano tornò a domandare il nome al Palavicino; questi glielo replicò, e fermatosi ad aspettare nell'anticamera, vide l'uomo aprire un uscio ed entrare nelle stanze.

Il cuore di Manfredo batteva frequentissimo e ineguale; i ginocchi gli tremavano a segno da non poterlo quasi sostenere; una pallidezza insolita gli copriva la fronte e le guancie. Se in quel momento gli si fosse voluto cavar sangue, forse non ne avrebbe data una goccia. La commozione era portata al punto che, accrescendola di qualche poco, poteva esser cagione di un funesto effetto.

Io porto persuasione che simili istanti debban lasciare indelebili impronte nella vita di un uomo.

Del resto, a molti potrà parere esagerata la condizion d'animo del Palavicino; ma se non sappiamo trovare il modo di persuadere costoro, vogliamo almeno congratularci con essi, perchè i loro dubbj ci provano che nessun vento procelloso non perturbò giammai il beatissimo stagno della loro vita.

Il Palavicino sentì il rumore di due o tre usci che si aprivano, poi ebbe ad udire alcune voci, poi i passi dell'uomo di camera. Ad agitare la massa del sangue e a scuotersi, egli erasi dato in quel momento a passeggiare per la stanza come un viaggiatore frettoloso. Non erasi ancora fermato, quando l'uomo dall'uscio gli disse ad alta voce, che poteva entrare. Allora si fermò, si volse, fece uno sforzo estremo onde ricomporsi del tutto, ed entrò. L'uomo di camera, che prima non gli aveva molto badato, ora, mentre gli passava innanzi, lo guardò con un'attenzione curiosissima e indagatrice. Quando fu solo e sentì i passi del Palavicino che s'innoltravano nelle stanze:

—Chi sarà mai quest'uomo, disse tra denti, se la signora quasi fu per cadere in terra all'udire il suo nome?

Manfredo, allorchè fu nella seconda stanza, vide tre donne uscire dalla porta di prospetto. Erano le ancelle che la signora aveva licenziato in fretta, le quali, nell'attraversare la stanza, lo esaminarono anch'esse dal capo a' piedi, con quell'interesse curioso e indagatore dell'uomo di camera. Una tra l'altre poi, accorgendosi ch'egli se ne stava irresoluto in mezzo alla Stanza:

—Entrate, illustrissimo, gli disse con molta cortesia; la signora è là.

Il Palavicino corse all'uscio di prospetto e vi mise la mano per aprirlo, ma quello gli si spalancò d'innanzi. Era la Ginevra stessa che teneva alzato il saliscendi…. Si trovarono così in quel punto faccia faccia a un dito di distanza…. I labbri stetter muti, le persone immobili. In apparenza non ci poteva essere calma più gelida; tutto il tumulto era interno.

In fine, ella si ritrasse e Manfredo la seguì.

—Sedete! fu la prima parola ch'essa, tutta tremante, pronunciò. Manfredo si assise di fatto, ma non parlò ancora. I suoi occhi erano fisi nella contemplazione della Ginevra; non ci poteva essere cosa più attraente della vaga e svelta figura di quella giovane donna, linee più care di quel volto impallidito dai lunghi affanni,… La bellezza della duchessa Elena era senza dubbio più perfetta; ma quella perfezione, essendo la sede stessa della voluttà, cessava di essere efficace quando, chi la contemplava, avea forti preoccupazioni morali. La Ginevra invece non poteva risvegliare che sensazioni di quest'ultimo genere… Erano più durature…. ed erano sempre efficaci!… Se dunque al solo sentire ch'ella era per rimaner vedova, Manfredo fu pentito di essersi legato alla duchessa; ora che, dopo tanti anni, la rivedeva, non gli parve più sopportabile il congiungersi in matrimonio colla duchessa: non sopportabile e non possibile, e nel senso più risoluto e più fatale di queste parole. Il Morone, le sue insistenze, il comune vantaggio, le dicerie, i vituperi, la duchessa, la sua disperazione, lo scandalo, in un fascio dileguarono innanzi a quell'amore immenso.

Gli passò per la mente la risoluzione di non sposare nessuna donna del mondo fuorchè la Ginevra. Questa allora vide cangiarsi di repente il colore del volto di lui; e la sua fronte, di pallidissima ch'ella era, coprirsi di un rosso carico….

E in questo punto egli si alzò, e per uno di quei movimenti rapidissimi ed inesplicabili onde l'anima passa da uno stato all'altro, assunse di tratto un fare disinvolto e disimpacciato.

—Cinque anni sono trascorsi, disse poi, cinque interi interminabili anni, o Ginevra! Fu davvero l'eternità che non si misura e che spaventa; parlo di me… di voi… non so.

Ella non rispose.

—Chi lo avrebbe detto a voi, continuava il Palavicino, chi lo avrebbe persuaso a me… la giustizia prevenne la vecchiaia… e fu più inesorabile del tempo.

—Il silenzio ricopra quel ch'è passato, rispose la Ginevra; troppo sventure s'accumularono sulle nostre teste, troppo insopportabili patimenti minacciarono da vicino le nostre esistenze…. Da quest'ora in poi, ogni mio sforzo sarà di scordare il passato; fate lo stesso anche voi.

Manfredo non aggiunse altro, e tornò a concentrarsi…. Nei modi della Ginevra, in mezzo alla stessa dignità onde gli avea data quella risposta, vide qualche cosa che lo spaventò. S'accorse che colle proprie parole aveva sollevate di troppo le speranze di lei, e ne fu atterrito.

Cercando allora un'occupazione qualunque per torsi al doloroso imbarazzo, si pose a sedere innanzi ad un gran camino, come per attizzarvi il fuoco che v'era spento…. Non s'accorgeva che con quell'atto di eccessiva dimestichezza, accresceva invece di scemar valore alle parole già pronunciate.

L'atto era semplicissimo, ma non è a dire quanti pensieri suscitasse nella mente e nel cuore della Ginevra. Fu una cara illusione, per la quale ella stimò già compiuto quanto avea desiderato, e si figurò fosse quello il suo perpetuo soggiorno di sposa. Senza far moto stava osservando la persona di Manfredo e si deliziava in contemplarlo…. Il cuore le s'espandeva di più in più… una gioja insolita l'innondava! Ma in proporzione che gli affetti di lei s'ergevano in un gaudio ineffabile, Manfredo sempre più si sprofondava nell'abbattimento.

—Oh quante sventure! esclamò poi con un sospiro gravissimo. Egli è vero, o Ginevra: patimenti insopportabili minacciarono ben da vicino le nostre esistenze.

Qui tornava ad alzarsi, ed accostandosi alla Ginevra:

—Se questo momento si potesse perpetuare! esclamava come parlando fra sè. Se questa stanza ne si chiudesse per sempre, se a noi mai più non fosse concesso di uscire nel tristo mondo… nè a nessuno di penetrar qui!

E fece una lunga pausa senza poter terminare il discorso, durante la quale non tolse mai gli occhi dalla persona della Ginevra. Che tenerezza, che accoramento era nell'anima sua in quell'istante!!

—Pur troppo, soggiunse poi, a me non è dato che di vagheggiare questo impossibile… perchè, o mi volga al passato, o guardi nell'avvenire, non trovo che memorie amarissime, e sgomenti nuovi.

—Sgomenti nuovi?

—Egli è così, Ginevra, Soltanto mi rincresce per voi.

—Per me?

Ogni gioconda esaltazione era in lei cessata; le parole di Manfredo la percossero terribilmente, quantunque non le potesse comprendere.

—Ma voi non sapete nulla, nulla della mia condizione presente? le domandò qualche momento dopo con vivezza il Palavicino, non potendo farsi capace del come la Ginevra ignorasse ancora il suo matrimonio colla duchessa.

—Ma che cosa io debbo sapere?

—Prima d'oggi, nessuno dunque v' ha parlato di me nè in Roma nè altrove?

—Per verità, nessuno.

—Ma il Corvino è pur venuto a Perugia.

—Egli fu il solo, disse la Ginevra allora arrossendo e chinando il capo, dal quale io abbia udito il vostro nome in questi cinque dolorosissimi anni.

—E che ti ha detto?

—Che voi eravate qui….

—Questo solo… e null'altro?

—Null'altro.

—Perdio, è inverosimile.

—Ma che avete, o Manfredo? per carità parlate….

Il Palavicino fece alcuni passi per la stanza agitatissimo. Era venuto nella risoluzione di svelar tutto alla Ginevra. E in fatto, quando tornò a fermarsi in faccia a lei, la prima parola della rivelazione fatale stava già per uscirgli di bocca.

Ma non seppe sostenere gli sguardi della infelice donna… ma atterrito, respinse la parola e diede rapidamente di volta al discorso.

—Non sai dunque nulla, disse, della patria mia?

—Che?

—Nulla delle sue estreme miserie, nè del flagello onde la Francia ci va percuotendo a sangue e di continuo?…. Mia madre è morta, non lo sai tu?

—Ahi… povera sventurata!… Nulla, nulla io so….

—Morta di crepacuore per cagion mia, d'affanno e di sgomento per le oppressioni di tutti!

La Ginevra che, spaventata, si aspettava di udire dalla bocca del Palavicino qualche grave pericolo che riguardasse lui particolarmente, fu sollevata un poco quando l'udì parlare di una comune sventura. Egli è naturale che le cose risguardanti un fatto generale ci colpiscano meno immediatamente di ciò che batte dappresso le nostre private affezioni; però la Ginevra, abbandonandosi ancora alle prime esaltazioni, si gettò a sedere accanto al Palavicino, godendo quasi nell'intrattenerlo a discorrere di quelle pubbliche calamità, mentre pur ne sentiva un vivo e pietoso interesse.

—Oh rendetemi istrutta di tutto, Manfredo. In questi cinque anni non mi giunse mai nuova di nessun pubblico avvenimento. Lo sapete pure; io era come sepolta viva colà. Raccontatemi dunque tutto da capo.

Il Palavicino, ch'era venuto lì per tutt'altro, s'intrattenne a lungo nel fare alla Ginevra un esteso e minuto racconto dello stato delle pubbliche cose. Essendosi in quel giorno e in quelle ore mille volte cangiati i di lui propositi, prolungando adesso il suo discorso, tentava pure di prolungare le illusioni di una felicità che non poteva sperare, che non gli era lecito desiderare. E la Ginevra medesima, quantunque la dignità e la compostezza delle sue maniere fossero irreprensibili, procurava pure con domande, riflessi e considerazioni di trarre in lungo più che poteva quel dialogo. Del resto, nella condizione in cui ella credeva di trovarsi, la sua innocenza continuava ad essere intera, per quanto si lasciasse andare ai teneri vaneggiamenti di un affetto che mai non erasi estinto in lei, ed ora giustificato e comandato anzi dall'improvviso cambiamento delle cose, era risorto con istraordinaria veemenza.

—Io non so, gli diceva con quei suoi modi soavi, perchè voi non troviate fuorchè sgomenti nuovi guardando nell'avvenire, mentr'io invece non posso che lasciarmi andare ad ogni speranza considerando quanto mi avete detto. Ben m'accorgo che c'è da piangere assai sulle nostre condizioni presenti, ma vedrete pure che Iddio, se ci ha messo alla prova, ci preparerà pure le consolazioni. Intanto, io mi congratulo di quanto avete fatto per richiamare i vostri compatriotti sulla via della ragione e della gloria, e dell'esser voi uscito, con tanto onor vostro, di tanti pericoli, e stiate in aspettazione di operare a pro di tutti e di redimerci da tante miserie. Oh sperate, Manfredo, confidate; è nella speranza, è nella fede che si rafforza il coraggio degli uomini. Ma a proposito di tutte queste cose, io vorrei pur sentire anche il vostro Morone, il quale mi promise di venire a vedermi e non venne mai.

—Il Morone? disse il Manfredo atterrito da quel nome. Ma quando v'ha egli parlato?

—Mi sono incontrata con lui nell'anticamera del pontefice…. Ma perchè tanta maraviglia in voi?

—E che cosa ti ha detto? soggiunse il Palavicino ricomponendosi.

—Oh nulla, furono congratulazioni e semplici parole, bensì mi ha promesso di venir qui, e per verità lo aspettavo anche oggi.—Manfredo tacque, e in quella girando gli occhi per la camera, e fermatili su di un orologio a campana, vide che le ventidue erano passate.

Egli non s'era ancora lasciato vedere dalla duchessa in quel dì, e la lunga assenza poteva dar luogo a sospetti. Gettò alla sfuggita uno sguardo di disperazione alla Ginevra e si alzò… pentito di non aver nulla manifestato, incertissimo di quel che gli rimarrebbe a fare, atterrito che l'ora del matrimonio colla duchessa era imminente, lacerato da mille punte acutissime. Con tutto ciò avea l'aspetto tranquillo… con tutto ciò accomiatossi dalla Ginevra con voce abbastanza ferma.

—Tornerò, le disse.

—Quando tornerete?

—Oh presto, debbo dirti grandi cose, e se ne andò.

Appena fu uscito, la Ginevra (Dio ne saprà la cagione) si gettò in ginocchio e pregò con gran fervore.

Quando Manfredo mise il piede sulla pubblica via, non potè accorgersi che ad una finestra del palazzo di rincontro stava osservandolo il Morone. Un'ora prima erasi recato anch'esso nel palazzo Chigi per parlare alla Bentivoglio, ma dall'uomo di camera avendo udito ch'era con lei il marchese Palavicino, senza metter fuori il proprio nome, pieno di maraviglia, avea dovuto partirsi.

Siccome esso tenevasi certo, per non aver mai perduto d'occhio il Palavicino, che in tutti quei giorni non erasi mai recato dalla Ginevra, lo dovea necessariamente mettere in gran pensiero e in un gravissimo timore il sentire che Manfredo, per la prima volta erasi presentato a lei il dì appunto delle nozze.

Senza però lasciarsi smarrire, aveva pensato di attenderlo quando ne uscisse, e di accompagnarsi con lui. Al qual fine, messo gli occhi sul marchese Rucellai, che abitava rimpetto all'albergo del Chigi, e ch'egli conosceva benissimo, salì da colui a fargli visita, e dalla finestra stette a guardare aspettando che Manfredo si mostrasse.

Vistolo, si licenziò dal Rucellai e discese di volo, e con que' suoi passi svelti lo raggiunse quando non aveva ancora svoltato il canto.

Il Palavicino, mentre andava pensando a ciò che avrebbe detto per iscusarsi colla duchessa dell'assenza insolita, udì la voce del Morone il quale, chiamandolo per nome, gli diede un tuffo nel sangue.

—Molti servi sono in volta per la città in cerca di te, Manfredo, gli disse; io non sapevo cosa pensare, e dovetti durare gran fatica per iscusarti in faccia alla duchessa. E per verità può ben far nascere di gran sospetti il non lasciarti mai vedere il dì appunto delle nozze…. Andiamo dunque, che la duchessa ti aspetta.

Egli espressamente aveva dissimulato quanto sapeva di lui e della Ginevra, perchè dando a divedere al Palavicino che non si dubitava punto di lui, gli si rendeva tanto più difficile il mettere innanzi ostacoli, quando mai gliene fosse venuta la tentazione.

—Il palazzo Aurelio è affollato di patrizi e di prelati, soggiunse poi; il cardinal Bibiena sarà fra un'ora in S. Giovanni Luterano, sendo lui che benedirà gli sponsali. Tutti i concerti son presi, tanta è la necessità di far presto, e domani o dopo tu e la duchessa vi porrete in viaggio per Rimini. Io me ne andrò a Reggio: così stanotte per accontentare codesti Romani, che sono impazienti di salutarvi marito e moglie, e ciò m'è di assai felice augurio, ci saranno grandi feste in palazzo. E anche a ciò si è pensato.

Il Palavicino non parlò mai lungo la strada; non sapeva in vero quel che gli fosse conveniente di dire; soltanto quando fu innanzi al palazzo Aurelio, come se le gambe gli si rifiutassero a portarlo, si fermò, e stringendo il braccio del Morone con forza convulsa:

—Aspettate, gli disse, avrei a dirvi qualche parola.

—Dobbiamo entrare prima dalia duchessa, gli rispose il Morone con insolita severità d'atto e d'accento.

—No, è necessario che vi parli prima.

—Non v'è nulla di più necessario che il farti vedere dalla duchessa in questo momento. Tutto il resto, crollasse anche il mondo, mi comprendi tu? crollasse anche il mondo, diventa un nulla in faccia agli obblighi da te assunti con lei. Persuasa dalle parole mie, iscusò la tua assenza… ma se questa si prolungasse di più, guai; non v'è dunque da por tempo in mezzo. Andiamo.

—Ebbene, uscì allora il Palavicino coll'impeto della disperazione, sappiate che ora io vengo dall'aver parlato alla Ginevra, e….

—Lo so, rispose il Morone.

—Lo sapete?

—Si, ma io non ci trovo nulla di straordinario. Tu la conoscevi, dunque hai fatto assai bene a farle una visita.

—Ma….

—E credo anzi che tu le avrai parlato di questo matrimonio, e del quanto, per esso, tu ti metta nella posizione di giovare al tuo paese…. Ed ella necessariamente deve essersi congratulata con te… Io la conosco assai bene… e se tu le hai parlalo da senno, come ne son sicuro, ella ti deve indubitatamente aver compreso…

Le parole del Morone erano queste; la freddezza onde le pronunciava era tale da mettere chicchessia alla disperazione, ma di dentro era anch'esso tutt'altro che tranquillo.

—Andiamo dunque, disse finalmente afferrando il braccio del Palavicino e traendoselo dietro a sè.

—Se ho da venire, ascoltatemi dunque.

—E dopo ci verrai?

—Ci verrò.

—E non farai nessun atto che ti faccia scorgere menomamente dalla duchessa?

—Saprò dissimulare.

—E fra un'ora sarai suo marito?

—Lo sarò.

—Non ti domando nessuna promessa; troppo alta è la stima che io ho di te; parla dunque.

—Quantunque lo abbiate detto, pure non sarete per credermi quando vi manifesti il fine per cui oggi mi son recato dalla Ginevra.

—Dovevo prevederlo, conoscendo la delicatezza estrema dell'animo tuo, e ricordandomi di quel che già è passato fra te e la Bentivoglio. L'ho creduto, lo credo, e ti lodo assai che ti sia recato da lei per questo.

—Per carità, per carità non mi lodate di nulla, e ascoltate prima ogni cosa. A me non bastò il coraggio di darle la terribile nuova. Quando mi venne il pensiero d'andare a vederla, ho sospettato ch'ella sapesse pur qualche cosa di codeste mie nozze. Ma nulla all'atto ne sapeva…. ed a me non bastò l'animo di dare la prima fitta a quella donna infelice, e forse, tanto le mie parola uscivano spontanee e veementi, io ho data qualche lusinga a quella sventurata.

—Qualche lusinga? e che le hai detto?

—Non lo so, non mi ricordo; del resto ella non avrebbe dovuto comprendermi. Ma…

—Che cosa!

—Se prima non era conveniente, adesso sarebbe orribile ch'io stringessi queste nozze senza ch'ella non ne sapesse nulla, senza ch'io stesso non le manifestassi il tutto con intrepidezza… ma questa ancora mi manca,

—Non mancherà a me, rispose subito il Morone; trovo ragionevole codesto tuo desiderio, però parlerò io medesimo alla Ginevra, e troverò il modo di mandarla consolata.

—Consolata?

—Se non consolata, rassegnata.

—Ma quando ci andrete?

—In questo istante medesimo.

—Oh Dio!!

—Prima, per altro, entreremo insieme dalla duchessa; ella ci aspetta, e non si vuole destare verun sospetto. Andiamo.

Il Morone mise allora piede in palazzo, e Manfredo lo seguì: salirono le scale ambidue tremanti per diverse affezioni. Quando furono nelle anticamere, il Morone tornò a raccomandare al Palavicino di non tradirsi e star calmo: così entrarono.

La duchessa Elena stava in mezzo alle sue donne, che attendevano ad abbigliarla. Si vedeva un velo bianco di filo d'argento spiegato su d'un tavoliere, una veste di raso bianchissimo ancora piegata e messa su di un cuscino. Ella aveva i capegli sparsi e pareva la Maddalena del Tiziano. Quando vide il Palavicino si alzò presta e gli corse incontro.

—Ci siamo disimpacciati di tutto, eccellenza, le disse il Morone. Qui il nostro Manfredo ha condotto a buonissimo fine quella faccenda di cui vi ho detto, e che lo costrinse a star lontano da voi tutt'oggi. Ora egli è qui, ed è tutto vostro; non lasciate dunque che i cibi si raffreddino, e ricomponete i vostri spiriti.

Per un uscio aperto si vedeva apparecchiata la mensa nella sala contigua, e le vivande imbandite; per ciò il Morone avea compreso che, per l'eccessiva agitazione, la duchessa non aveva potuto toccar cibo, e assumendo la leggerezza dello scherzo, la confortò a ristorarsi. Ella non rispose parola, soltanto volgendosi al Palavicino gli disse qualche gentilezza, a cui esso si sforzò di corrispondere. Di quando in quando però, anche sulla faccia della duchessa Elena, si vedevano passare dei lugubri pensieri. Le nozze imminenti le richiamavano le prime, poi le seconde che s'erano tanto terribilmente interrotte; gl'insistenti rimorsi, come da lontano, facevano sentire la loro voce; il timore del Lautrec tornava a spaventarla. Il Morone s'accorgeva di questi nuvoli tanto naturali del resto in un giorno di nozze, ed aveva sempre timore del Palavicino; e per ciò:

—Senti, Manfredo, gli disse; tu faresti ottimamente a recarti adesso a casa tua. Ci voglion piume di perle nel berretto, ci vuol farsetto di raso bianco e candide maglie. Dopo, potrai andare difilato a s. Giovanni Laterano. Tutte queste persone, di cui ora senti il mormorio nella gran sala, a momenti, facendo corteggio alla duchessa, si trasferiranno anch'esse colà. Non c'è dunque un minuto da perdere, e, se vuoi, t'accompagnerò io stesso.

Il Palavicino, non trovando d'opporsi:—Mi pare diciate bene, rispose. E si alzò per uscire, mentre la duchessa, con voce tremante lo salutò…. Com'eran vari e strani gli affetti di quelle tre persone!!

Quando il Morone e il Palavicino furono usciti:

—Io t'accompagnerò sino a casa tua, gli disse il primo; poi andrò subito dalla Ginevra, e tutto sarà finito.

Ciò fece di fatto, accompagnò Manfredo sin nel suo gabinetto, lo mise nelle mani de' servitori perchè l'abbigliassero a festa, nè si partì sino a quando non vide esser l'opera incominciata.

—Vado e torno, gli disse il Morone per ultimo; e ci recheremo assieme a s. Giovanni.

Manfredo tacque, ed egli uscì.

Dalla casa del Palavicino, a quella della Ginevra non essendovi gran tratto di cammino, il Morone con que' suoi passi svelti vi giunse prestissimo. Entrato in palazzo, siccome qualche ora prima erasene licenziato per aver sentito che la signora trovavasi col Palavicino, ora domandò all'uomo di camera s'ella era sola.

—È sola infatti, questi rispose; ma adesso è difficile che riceva alcuno.

—Quando le direte il mio nome, credo mi riceverà…. Io sono il Morone, ed ho da comunicarle cose di somma importanza.

L'uomo obbedì ed entrò dalla signora.

—C'è qui fuori un tale che mi disse essere il Morone, e vorrebbe parlarvi; però gli ho risposto non essere il miglior momento.

—Avete fatto malissimo; un tal uomo non lo si vuol far aspettare. Presto dunque, andate e fatelo entrare.

Così il Morone fu introdotto, e la Ginevra, tutta sollecita, gli corse incontro.

—Vi ho atteso tutti questi giorni, gli disse poi, e sebbene mi dovessi tener sicura delle vostre promesse, pure stavo quasi per perdere ogni speranza. Siate dunque il benvenuto adesso, e sedete.

—Sarei venuto anche prima se si fosse trattato di semplici complimenti; ma avevo cose importanti da confidarvi, e bisognava pure che prima io dessi fine a parecchie faccende. Ora son qui perchè tutto pare determinato.

—Sedete dunque; io sto ad ascoltarvi.

Il Morone si assise. La Ginevra gli sedette in faccia in grande aspettazione.

—Oggi, è venuto da voi il marchese Palavicino?

—È venuto in fatti, rispose la Ginevra arrossendo.

—Era più che naturale; ma ora vi farò una domanda: Sapete voi per qual cagione sia oggi venuto il marchese da voi?

—Se non è quella che, trovandosi in Roma, era ben ragionevole venisse a farmi una visita, come ci venite voi, io non ne saprei trovare verun'altra.

—Benissimo detto; pure questa non era nè la prima nè l'unica cagione.

La Ginevra facevasi attenta.

—Permettetemi ora che vi faccia un'altra domanda, continuava il Morone. Sapete voi chi si è maneggiato in tutto questo tempo, affinchè il Baglione fosse tratto a Roma, e a voi si desse finalmente il modo di respirare da tanta oppressione?

—Saperlo? non lo so; pure l'ho sospettato.

—Non era difficile; l'Elia Corvino vi deve aver detto qualche cosa.

—Nulla mi disse; bensì l'ho compreso,

—Capirete ch'io non vi richiamo tal circostanza per farmene un merito in faccia vostra. Il vostro bene ci stava fortemente sul cuore, e la condizione in cui eravate ci faceva pietà veramente; pure non era qui tutto. La morte del Baglione non salvava soltanto la vita vostra, ma doveva esser vantaggio di molti; però ci siamo adoperati.

—Vi ringrazio per me e vi ammiro pel resto. Pure non so comprendere a che mi vogliate condurre.

—Non ringraziateci perchè vi si è salvata, ringraziateci bensì perchè vi abbiam sempre considerata per un bel mezzo di ottenere un alto scopo, e facendo di voi la stima che meritate, non abbiam voluto mettervi a fascio col più delle donne.

—Io ve ne sono gratissima.

—Bene; ma oggi è il dì che voi avete a mostrarvi degna veramente della nostra stima.

—Mi confido di esserlo; parlate.

—Ho a farvi una terza domanda, e scusatemi s'ella vi parrà strana, e se il mio linguaggio non sarà forse abbastanza dilicato: Sentite voi ancora qualche affezione pel Palavicino?

La Ginevra non rispose in sulle prime, poi con sufficiente disinvoltura soggiunse:

—Confesserete che mi si dovrebbe tacciare di assai leggerezza se io mi fossi cangiata a suo riguardo. Egli è tuttora qual fu sempre, nobile, generoso, magnanimo, e di più molte sventure e molti affanni dovette sopportare per cagion mia in questi ultimi tempi; però, se l'ho amato sempre per naturale impulso, ora la gratitudine verrebbe a farmene un dovere.

—Ciò è verissimo! Ma io mi son fatto lecito di chiedervi tutto ciò perchè, se per avventura egli vi fosse uscito dal cuore, non avrei avuto a dirvi altro, e potrei adesso benissimo licenziarmi da voi; ma così non ho che incominciato. Debbo dunque farvi una calda preghiera.

—Dite pure.

—Procurate di tener pronta tutta la forza vostra contro all'urto delle mie parole… perchè il fine a cui si ha a riuscire, pur troppo dev'essere contrario a ciò che il mio esordio pareva promettere.

La Ginevra si scosse e impallidi.

—Prima di tutto però, soggiunse il Morone il quale, vedendo il pallore della Ginevra, fu tentato di porvi qualche rimedio, comincierò col dirvi, esser Manfredo, a vostro riguardo, inalterabilmente lo stesso, e ciò vi basti. Ora quanto voleva dire si è, che la necessità domanda un sacrificio.

La Ginevra mandò un sospiro.

—Sei anni fa, e voi non ne avevate più di quindici, io vi ho udito parlare del nostro paese con tali parole, che mi scossero di stupore e d'ammirazione, e ben mi ricordo d'aver detto tra me: peccato che costei sia donna, perchè diversamente grandissime cose potremmo aspettarci da lei. Ora, o Ginevra, giacchè l'età e la scuola della sventura anzichè scemare, debbono avere accresciuta la vostra virtù… Ascoltatemi con attenzione… Se per salvare codesto nostro paese, il quale, come sapete, è in gran pericolo, se per sanare così profonde piaghe, se per far cessare i pianti e i dolori di tanti milioni d'uomini, fosse necessario il dolore e il pianto d'uno o di due, cosa ne pensereste voi? rispondete.

—Oh Dio!! disse la Ginevra alzandosi in piedi. Oh ditemi, in una parola, di che si tratta! Io tremo di spavento… pure, parlate… ve lo prometto… sarò forte!

E tornava a fissare i suoi grand'occhi atterriti sul volto del Morone, quasi per leggervi in prevenzione quel che gli rimaneva a dire.

—Si tratta che il Palavicino fu costretto, da un'alta necessità, a rinunciare per sempre a quanto più desiderava nel mondo; si tratta che voi pure dobbiate assoggettarvi a una tale necessità. Ecco tutto.

—E Manfredo?

—È venuto egli stesso da voi oggi per manifestarvi questa medesima cosa; ma il coraggio non gli bastò… e momenti fa, io durai fatica a calmare la sua disperazione… Questa poi è un'ora assai terribile per lui!

—Per lui?

—È mestieri sappiate anche il resto: a voi è noto che nell'impresa che si avrà a tentare per iscacciare i Francesi da Italia, a lui, come al più caldo sostenitore degli Sforza, e italiano ardentissimo, si vuol dare il primo carico.

—Lo so.

—Ma bisogna che tutti gli Italiani interessati in questo s'accordino nel concedergli un tal primato. Ora taluni vorrebbero fosse qualche principe italiano; tal'altri fosse uomo almeno di gran potenza, e condottiero di soldati. Per ovviar dunque a tutto ciò, e per metter tutti d'accordo, il Palavicino in poco d'ora avrà in sè raccolto ciò appunto che si vuole.

—Ciò che si vuole?… Sarà dunque principe? sarà capitano?

—Sarà padrone di Rimini tra poco, e le ricchezze e gli uomini ne saranno a sua disposizione.

—Ma in qual modo?

—In quello che costituisce appunto il vostro e il suo sagrificio.

Alla Ginevra balenò qualche cosa, e la sua agitazione crebbe all'estremo.

—Or ditemi tutto di fretta, disse poi. Io sono percossa dallo stupore… pure avrò forza. Ditemi dunque in qual maniera egli è per esser padrone di Rimini.

Il Morone fece qualche pausa, poi disse:

—Sposandone la signora.

La Ginevra mandò un gemito e si mise le mani alle tempia; poi, non potendo reggersi in piedi, cadde sulla sedia.

Scorsero molti minuti, durante i quali il Morone non volle interrompere il silenzio di lei, troppa pietà e troppa venerazione avendo di quel suo immenso dolore. Ma quando ella si scosse, rimase spaventato della repentina alterazione successa ne' suoi lineamenti, e non osò rivolgerle ancora la parola.

Infine ella si alzò. Si vedeva chiaramente lo sforzo eccessivo onde tentava assumere una calma dignitosa e rassegnata.

—Sentite, Ginevra, disse finalmente il Morone dopo una lunga pausa, io ho preveduto il vostro affanno, e perciò avrei pensato al modo di alleggerirlo.

—Alleggerire il mio affanno?

—Sì, considerandovi più che donna, e affidandovi un incarico della più grave importanza.

—A me? e quale?

—Jeri si è parlato di voi a lungo.

—Con chi?

—Col santo padre, il quale voleva aveste a fermare la vostra dimora in Roma.

—È quanto dissi a me stessa.

—Io però non era del suo avviso, e a poco a poco lo condussi nel mio… È dunque a Trento dove io vorrei che vi recaste adesso.

—A Trento?

—Sì, dove di presente è il duca di Bari, Francesco Sforza. È bisogno che qualcuno a viva voce lo metta a parte di quanto noi stiamo facendo per lui. Nelle circostanze attuali, non sarebbe nè sicuro nè sufficiente l'istruirlo con lettere, e per quanto poi mi guardassi attorno, non saprei mai trovar l'uomo al quale affidare così grave e dilicato incarico. O potrebbe essere un traditore, o potrebbe destar sospetti. Il cielo mi vi ha dunque mandata. Voi conoscete il duca, egli voi, e non ci sarà luogo a diffidenza. D'altra parte, penso che avete bisogno di lasciare per qualche tempo codesto paese, dove tante infelici memorie debbono perseguitarvi.

—Ah è vero, è vero! esclamò la Ginevra. Io partirò; andrò a Trento; farò tutto quello che vorrete.

—Allora, giacchè siete a ciò disposta, converrà far presto. Domani tornerò qui; avrò con me molte carte da consegnarvi pel duca, e molte istruzioni da darvi; e doman l'altro partirete.

La Ginevra chinò la testa e non rispose.

—Intanto vi lascio, concluse il Morone, vi lascio pieno di fiducia nella vostra virtù e nella vostra grandezza d'animo, e promettendovi la gratitudine e l'ammirazione di tutti i buoni italiani.

Così dicendo uscì. La Ginevra rimase sola.

Ella se ne stette immobile e cogli occhi a terra per un pezzo. Il suo dolore era di quelli che tolgono persino la facoltà di dare un lamento. In tanta prostrazione pensava bensì che la sua vita da quell'ora in poi sarebbe stata più tranquilla che per l'addietro, ma si sentiva opprimere da quella tranquillità, considerando chiusa in tutto e per sempre l'unica speranza per la quale aveva sopportato di vivere in tanti anni di spasimo.

Ma che poteva ella mai antivedere? E chi lo avrebbe potuto?

Seguiamo adesso il Morone.

Giunto alla casa del Palavicino, e confortatosi vedendo nel cortile la lettiga e i cavalli, salì di volo, e domandò a' servi se il marchese era abbigliato.

—Lo lasciamo adesso, risposero i servi. Il marchese è nella sua camera.

Vi corse tosto, e trovando l'uscio aperto, entrò senza essere sentito da Manfredo. In tutto lo sfarzo voluto del costume de' tempi, della sua condizione e dal momento, esso se ne stava seduto innanzi ad una tavola colle testa fra le mani.

—Siamo a tempo? gli domandò il Morone prima ch'esso si accorgesse della di lui presenza.

Manfredo balzò in piedi, e accostatosi al Morone.

—Venite da lei? gli chiese.

—Vengo da lei, sta dunque di buon animo; ora sa tutto ed è rassegnata.

—Rassegnata?

—Sì.

Manfredo guardò fiso il Morone, poi soggiunse:

—E tal sia; ora possiamo andare.

Così discesero ambedue e si misero in lettiga.

Il Palavicino non pronunciò mai parola, nè il Morone pensò di rompere il silenzio prima d'arrivare al tempio. Ma quando la lettiga si fermò innanzi alla porta del chiostro contiguo.

—Ora è bisogno di tutta la tua fermezza, disse a Manfredo stringendogli il braccio; bada che un gesto, una parola, un sospiro, ti potrebbero tradire.

—State tranquillo, gli rispose Manfredo, posso essere infelice, non stolto. L'ho voluto io, e comprendo che la dev'essere così. Non state dunque in nessun timore per me…. Ma sarà giunta, la duchessa?

—Non vedi le lettighe e le cavalcature.

In questo momento si fecero loro incontro alcuni preti, i quali domandarono se fosse il marchese Palavicino.

—Sì, rispose il Morone; or dov'è la signora?

—Colle sue donne e il suo seguito. Venite dunque, che sua eccellenza aspetta da qualche tempo.

L'ora era già tarda. A Manfredo, attraversando il cortile del chiostro, venne in mente la notte in cui la duchessa Elena nel tempio di S. Francesco a Rimini stava attendendo il maresciallo Lautrec col quale avea ad unirsi in matrimonio. Ricordando quella notte, l'orrida scena di cui era stato spettatore, ed ora trovandosi egli medesimo quasi in pari circostanza, quasi a consumare gli effetti che quella notte ebbe generati, l'idea di una fatalità inesorabile lo invase, e non potè vincere una sensazione di terrore che gli gelò il sangue. Così entrò nella grand'aula dove la signora di Rimini e gli altri lo stavano aspettando.

La duchessa s'alzò, e tutti con lei. Ella volse uno sguardo al Palavicino, ma non parlò, nè prima aveva mai detto parola a nessuno del suo seguito. Era grave e concentrata. Le medesime ricordanze, com'è facile a credere, che avevano sgomentato Manfredo, vennero ad assalire essa pure; gli antichi pensieri, gli stessi rimorsi che da qualche tempo avevan cessato d'infestarla, ritornarono allora con una terribile efficacia. Eran quelle le sue terze nozze… tremò considerando quant'erano state funeste le altre. A motivo di questa preoccupazione non potè accorgersi della tristezza che Manfredo, per quanto si sforzasse, non sapeva nascondere, e che però diede da pensar molto agli altri.

L'arcidiacono ch'era uscito ad avvisare il cardinal Bibbiena esser giunto il marchese Palavicino, rientrò qualche tempo dopo per invitare quanti si trovavan nell'aula ad entrare nel tempio.

Manfredo, sospinto dalla mano del Morone, s'accostò alla duchessa, presso la quale stavano alcune gentildonne romane che, a dispetto della varia fama e delle gravi calunnie, avevano continuato ad esserle amiche. Passaron dunque nella chiesa, e attraversando il coro uscirono sull'altar maggiore. Erasi dato l'ordine di chiudere le porte al popolo, ma il forte e vasto mormorio avvisò che gli ordini non erano stati eseguiti. Quando i due sposi si mostrarono sulla predella, il mormorio crebbe oltre misura. Non potea darsi una coppia di sposi che più di questa potesse eccitare l'attenzione e l'entusiasmo nella moltitudine, tanto amica del grande e dello strano. Il grado, la misteriosa vita, la bellezza unica della signora, promoveva in tutti un immenso interesse. La condizione del Palavicino, l'esser forestiero ed esigliato, la storia di grande avventure, di orrende disgrazie, l'appartenere ad un paese che, per le sue calamità, dava da parlare a molti, e pel quale dicevasi ch'esso stava per tentare un gran colpo, erano cose assai forti per eccitare la simpatia e l'entusiasmo generale; la stessa distanza che interveniva tra un semplice gentiluomo qual'era Manfredo, e l'eccellentissima signora di Rimini, rendeva più notabile quelle nozze per essere insolite. A questo si aggiunga la molta giovinezza di Manfredo, per la quale facevasi ancora più straordinaria la storia di tante peripezie per lui subite.

Il bisbiglio continuò sinchè comparve il cardinal Bibbiena che doveva benedire gli sposi. Questi allora s'inginocchiarono com'è il costume, e tanto fu il silenzio fatto dal popolo in tal punto, che s'udì distintamente la formola pronunciata dal cardinale, e poco di poi la breve e fatale risposta data dagli sposi che, benedetti, si alzarono.

In questo istante lo stato dell'animo della duchessa fu ben opposto a quello del Palavicino. La prima, respinti i gravi pensieri, credette le si aprisse dinanzi una vita nuova e felice. A Manfredo sembrò invece gli si fosse precluso per sempre ogni orizzonte.

Un momento dopo le lettighe, i cocchi, le cavalcature, tutto il seguito della duchessa rientrò nel palazzo Aurelio, già illuminato a festa e già zeppo di popolo, il quale aspettava l'arrivo degli sposi.

Come questi discesero dalla lettiga, lor furono intorno persone a centinaia che gli accompagnarono negli appartamenti superiori. La signora, per altro, credette bene di ritirarsi nel suo gabinetto prima di mostrarsi nella gran sala, dove per l'ultima volta ella avea fatto invitare i Romani ad una festa di poesia e di musica quali allora erano in uso; moltissime altre ne aveva date in tutto quel tempo della sua dimora in Roma, e sapendo di quanto entusiasmo ella n'era stato oggetto, avea pensato d'accomiatarsi da' suoi romani, lasciando loro un simile ricordo.

In quanto al Palavicino, non potendo resistere a così vive manifestazioni di gioja, trovandosi impacciato nel dover rispondere a tante persone che facevano a gara per dargli auguri e felicitazioni, approfittando di quanto il Morone ebbe detto fin dalla mattina alla duchessa per tranquillarla sulla di lui assenza, col miglior garbo che gli fu possibile, mettendole innanzi quella storia medesima, le disse essergli necessario uscire per qualche ora, e però non stesse in pensiero, che tosto sarebbe ritornato. Ella non trovò da risponder nulla, e lo lasciò fare.

Messa una cappa oscura, se ne uscì dunque il Palavicino vagando pei luoghi solitarj di Roma. Chi gli avrebbe detto nei primi giorni in cui ebbe riveduta la duchessa, quando sentiva per lei un affetto sì forte, chi gli avrebbe detto che il supremo compimento de' suoi desiderj sarebbe stato il supremo de' suoi tormenti? Attraversando le contrade, non sentiva a parlare che della signora di Rimini e di lui. Chi diceva una cosa, chi l'altra, e tutte erano per lui acutissime fitte. Pensando poi che anche all'orecchio della Ginevra, in que' momenti poteva esser parlato delle feste della signora di Rimini, sentiva sulle proprie guancie salire il rossore della vergogna, quasi egli avesse commesso una colpa detestabile. Per questa vedeva non essergli più possibile di comparire innanzi alla Ginevra, di cui mai non avrebbe saputo sostenere lo sguardo…. Ma nel punto stesso, riandando le parole del Morone, il quale aveagli detto che la Ginevra sarebbe partita tra poco, il pensiero che alcune ore prima egli l'aveva veduta per l'ultima volta, e forse non l'avrebbe riveduta mai più, lo percuoteva con più duro flagello…. e però irresistibilmente portato come da una forza indipendente dalla volontà sua…. di contrada in contrada si trovò in Piazza Farnese.

Il palazzo dove stava la Ginevra gli era dirimpetto, le finestre del di lei appartamento erano illuminate. Egli si fermò cogli occhi fissi a quelle finestre, e stette molto tempo senza mai muoversi. Era tanto assorto, da non accorgersi neppure delle persone che gli passavano innanzi, e lo conobbero.

—È il marchese Palavicino colui, aveva detto infatti una voce.

—Che domine può avere con quel palazzo, dal quale non leva mai gli occhi?

—S'è fatto sposo stanotte.—S'io fossi ne' suoi panni, mi comporterei con molto maggior senno, e penso che la signora di Rimini merita le occhiate di un galantuomo ben più che le pietre di un palazzo.

—La signora di Rimini, hai detto tu, va benissimo…. ma lì ci starebbe la signora dì Perugia….

—Oh che cosa vorresti mai dire? sei pazzo?

—Meno di colui però.

—Se il tuo pensiero avesse còlto, non sarebbe poi tanto pazzo…. Meglio due che una, caro mio.

—E non si muove ancora, guarda.

—Poniamoci qui dietro all'atrio. Io vo' pur vedere com'ella vorrà finire, e che sia per fare costui.

Dopo qualche momento, per una semplice combinazione, sui vetri del finestrone di mezzo si proiettò un'ombra, i cui contorni segnavano una figura di donna.

—Guarda.

—Che cosa?

—Là c'è un'ombra.

—E ci stia.

—Osserva adesso, che questo lombardo s'accosta al palazzo.

Mentre però si profferivano tali parole, l'ombra era scomparsa, e dopo qualche momento s'allontanò anche Manfredo.

—Domani farò le mie confidenze a Marforio, disse uno del crocchio allora.

—E Pasquino non mancherà esso pure di far l'ufficio suo.

—Ma se tutto ciò non fosse che una nuova immaginazione?

—E sia pure, ho un gusto matto io a stuzzicare la curiosità de' Romani, e a promuovere delle dicerie. Lascia far dunque a me.

E scantonando dileguarono tutt'assieme. Che l'ombra apparsa fosse quella della Ginevra è cosa ben dubbia. Ma questi lo sospettarono, e il Palavicino lo tenne per certo. Il tumulto che gli si mise nell'animo a quella vista, lo gettò nella massima disperazione. Camminato un pezzo, e passato presso a Ripetta, si fermò in riva al Tevere…. il rumore delle acque gli fece passar pel capo una orrenda tentazione; gettarsi in quelle e sparire, e seppellirvi per sempre tutti i dolori ond'era oppresso, e gli altri da cui vedevasi minacciato. Ma il dovere? ma le promesse fatte in faccia a sè medesimo; ma i suoi concittadini, e il Morone, e gli obblighi assunti?

Spaventato allora si allontanò, e a passo lento ricalcò la via che prima aveva battuta; passato presso una chiesa, vi si fermò a lungo, poi tornò a mettersi in via. Il suono profondo del martello dell'orologio di S. Pietro si fece sentire in quella; egli contò otto ore…. e si ricondusse al palazzo Aurelio. V'era gran folla sulla piazza, gli atrj, i cortili, erano gremiti di persone, s'udiva gran rumore nelle sale superiori, e suoni di strumenti musicali, e voci e canti. Quando il Palavicino entrò, molti gli si fecero incontro, ma egli, contro il suo costume, e con istupore di tutti, sgarbatamente se ne distolse, e a furia salite le scale, corse, quasi a nascondersi, nel gabinetto dalla duchessa, il più lontano dalla gran sala e dal rumore, per lui tormentosissimo. Chiamato però un servo:

—Annuncierete alla duchessa, gli disse, ch'io sono in palazzo, e non posso venire fra tanta gente, perchè devo attendere a scrivere per affari della massima importanza.

Uscito il servo, si mise a sedere presso ad un tavolino, nascondendo la faccia fra le mani e, per un pezzo, stette in questa attitudine.

Nelle sale intanto era la più viva giocondità. Nessun computista estemporaneo avrebbe saputo tener conto in quella notte di quante centinaja di versi sgorgarono dalle bocche poetiche; e l'offerta fu così eccessiva, così intemperante, che molti, assai più che edificati, ne rimasero sazj. Ma la musica era accorsa a riparare i guasti della poesia; e la duchessa Elena, colla soave potenza della sua voce, scorrendo tutta la scala diutonica, aveva lasciate impressioni profonde e suscitati delirj non pochi. La viva e sincera gioja ond'era animata in quelle ore le aggiungeva una luminosa bellezza che rapiva e strascinava. Fin da quando s'accorse d'essere svisceratamente amata dal Palavicino, e tutte le apparenze la portavano a questa conclusione, e vide di poter toccare tra poco il fine supremo da lei vagheggiato con una smania rodente di sposarsi al giovane lombardo, ella aveva sentito dentro di sè come una calma gioconda non mai provata in prima e che bastò persino a vestire di un'altra forma i non morituri rimorsi. Si può dire che in tutto il tempo in cui ella erasi riposata nell'amore di Manfredo, non aveva provato che un'ora sola di cupo travaglio, quella che precedette le nozze; ma strette che furono, ogni nube dileguò. E in quella sera il sapere d'esser finalmente la moglie di Manfredo, aveva in lei generate tali affezioni da indurre nel suo aspetto quasi una trasmutazione, La sua bellezza aveva assunto una tinta ancora più seducente, nelle sue maniere ci fu qualche cosa di più libero, e sicura entro di sè che non sarebbe caduta mai più; senza ritegno, e senza pensare ai contingenti pericoli che l'altrui entusiasmo poteva far nascere, in quella notte dispiegò in faccia alla moltitudine tutto l'iridescente ventaglio delle sue doti.

Venne l'ora finalmente in cui le sale si vuotarono ed ella, appena le fu permesso di accomiatarsi da' suoi invitati, impaziente s'affrettò dove il servo aveale detto trovarsi il Palavicino. Piena d'un insolito esaltamento, ripetendo a mezza voce una soave cantilena, quella che più di tutte poco prima aveva eccitati gli applausi generali, passando a volo di sala in sala con una leggerezza quasi infantile se ne venne nel gabinetto. Ma vedendo il suo Manfredo seduto e colla testa china sul dossale della sedia, si fermò di tratto, e se ne stette in sulla punta de' piedi, al limitare; avea la posa elegante e svelta e lieve della gazzella. Al suo comparire, il soavissimo odore dell'acqua nanfa tramandato dalle sue vesti si sparse per tutto. Non potea darsi voluttà e incanto maggiore. Quali ricchezze non avrebber dato gli opulenti giovani romani, per trovarsi in quell'ora nella condizione del marchese Palavicino. Quanti infatti erano intervenuti alle feste, pensavano in quel punto alla signora, idolatrandola e struggendosi per lei, pensavano al fortunato giovane lombardo, invidiandolo!!

Ma la signora, vedendo che Manfredo continuava a starsi immobile, e però dubitando non si fosse ancora accorto della di lei presenza, con una grazia ineffabile gli si mise a sedere d'accanto e lo cinse delle braccia.

Vi sono dei momenti ne' quali anche gli uomini abitualmente ragionevoli e buoni prorompono in atti di una sragionevolezza e di un'ingiustizia tetra; atti funesti, che mentre tormentano con subito rimorso chi li ha commessi, abbattono con inaspettata percossa chi n'è l'oggetto. Manfredo ebbe a trovarsi in uno di questi momenti, e appena s'accorse d'aver presso la giovane sua sposa, e ne sentì il molle respiro, balzò in piedi come se una biscia schifosa gli fosse strisciata vicino, e saettò la duchessa con un'occhiata di tanto furore che pareva volesse annientarla. Ella rimase attonita in prima, poi si alzò, e a lenti passi si allontanò spaventata da lui.

Ma codesto movimento aveva già impietosito il buon Manfredo, che dalla collera passò ratto alla compunzione, e fece per accostarsi alla signora quasi per placarla. Se non che, accorgendosi d'esser andato troppo oltre, e vedendo non esser più possibile ripararvi, e mille altri pensieri stringendolo da tutte le parti, egli si sentì come infiacchito, un'angore indicibile successe al primo orgasmo, e gettandosi ancora a sedere e nascondendo la faccia, più non potendo frenarsi, diede in un pianto dirottissimo, che accrebbe lo sgomento e i sospetti della sventurata duchessa.

Qual trista notte nuziale fu quella!! Tutto il passato si schierò dinanzi all'infelice Elena con immagini spaventose.

Tre giorni nuziali l'uno più funesto dell'altro: il primo marito ucciso che voleva essere vendicato,… il Lautrec che viveva, e ch'era potente e sdegnato…. il Palavicino dal quale tutto aveva sperato, e pel quale improvvisamente era gettata nella disperazione.

Eppure tutta Roma credeva lei felicissima in tal momento…. tutta Roma invidiava il giovane lombardo, cagione e vittima a un tempo di sì profonda angoscia.

PERIODO TERZO

CAPITOLO XXIX.

Il timore d'uscir troppo de' nostri confini per invader quelli del minuzioso cronicista, e, ciò che forse più importa, di obbligare ad un'attenzione eccessivamente tediosa coloro che leggono per diletto, ci consiglia di saltare anche qui, come già prima abbiam fatto, quasi lo spazio di un intero anno. Assai cose, per verità, avvennero in codesto tempo di un grave interesse; ma più che per sè stesse, lo sono per quanto produssero. Lasciam dunque la via su cui la storia fa il suo lento cammino, e balziam tosto alle ultime uscite.

Parlando delle cause che mantennero in lungo svilimento il Milanese e accelerarono di poi la sua rovina; ne abbiam dato il più grave carico al ceto patrizio. E senza nessuna riserva abbiam messo in chiaro le non scusabili aberrazioni, la cecità ostinata, le bassezze medesime onde non seppe andare immune nell'ingannevole fiducia di servire all'utile proprio. Nè per alcun riguardo avremmo mai voluto o dissimulare o mitigare simil fatto quand'anche fosse stato perpetuo. Ma con tanto meno di ritrosia ne abbiam parlato, in quanto era per venir tempo in cui l'errore avrebbe dato luogo alla ragione, e per parte nostra il biasimo avrebbe dato luogo alla lode. È ingratissimo ufficio scriver la vita d'un uomo di cui tutti i giorni sieno un obbrobrio, ma è pieno d'alto interesse, il narrare quella di chi, con pentimento non aspettato, si purghi delle vecchie colpe. È pieno d'interesse ed è senza pericolo; d'altra parte il discorso può assumere una severità più franca, quando si sa che da lontano si preparano gli argomenti per piegare di tratto ad una giustizia cortese.

Se non era possibile reprimere lo sdegno allorquando vedemmo i milanesi patrizj accogliere con tanta festa i Francesi orgogliosi della vittoria di Marignano; se quando insieme al Palavicino ci siamo incontrati nei gentiluomini che spontaneamente esulavano da Milano, alla compassione non abbiam potuto accompagnare la stima; se di nuovo a Venezia abbiam dovuto dubitare di loro, adesso possiam bene dimenticare il passato per assistere ad uno spettacolo che ci deve riempire di maraviglia e di conforto.

La città di Reggio, piccola, tranquilla, e poco importante città, fatta improvvisamente luogo di comune ritrovo, nell'anno 1520 attrasse a sè gli sguardi non solo d'Italia, ma di tutta Europa. I pochi Lombardi venuti a fermarvi stanza fin dal gennajo, come sappiamo, ne tirarono a sè infiniti altri. Man mano che le intenzioni del papa e di Carlo si venivan spiegando, vi cresceva anche il numero delle persone. Confortava tutti quanti che Leone avesse aggiunto al proprio dominio Urbino, Pesaro, Perugia ed altre terre della Romagna, e che, togliendo di mezzo i loro tiranni, carpisse tanti alleati alla Francia; piaceva che la repubblica di Firenze, governandosi in tutto e per tutto secondo l'arbitrio del papa, niuna cosa facesse che non fosse la sua volontà; ma ciò che aumentava o rendeva più fondate le speranze era che il re di Francia, essendo stato autore di molte sollevazioni nelle Fiandre, aveva dato a Carlo V cagione di muovergli guerra; e sapevasi d'altra parte essersi accorto l'imperatore, già da qualche tempo, del quanto gli fosse poco onorevole si tenesse il re lo Stato di Milano, che per diritto antico apparteneva all'impero romano.

I Milanesi che da più anni trovavansi a Ferrara, a Parma, invitati da lettere, s'erano affrettati presso il Guicciardini. Quelli che continuavano ad uscire di Milano recavansi, com'era naturale, dove sapevano trovarsi i compatrioti. Molti da principio, anzi la maggior parte, vi s'erano trasferiti senza uno scopo spiegato, ma solo per trovare un rifugio in qualche modo; come però si videro uniti in buon numero, e senz'altre occupazioni che li distraessero, tutti quanti avendo sempre volto il pensiero alla causa per la quale trovavansi costretti a vivere in quella città, a vicenda narrandosi le ingiurie patite, si confortavano negli sdegni e nelle speranze, e a poco a poco i desiderj individui si fusero in un'intenzione comune. Tutti i giorni, tutte le notti si raccoglievano insieme; chi all'ingegno più acuto univa il dono della più faconda parola, metteva fuori esortazioni, consigli, disegni da cui si generavano discussioni, dibattimenti continui, vivi, generosi. Da un tal centro intanto gli sguardi di ciascheduno si volgevano ai punti estremi del campo d'azione, e intorno ad ogni cosa che succedeva in qualunque parte della penisola o fuori, si facevano lunghi comenti. Corse finalmente il racconto di un fatto, il quale volse l'attenzione di tutti a Francesco Sforza, duca di Bari.

Dopo molte offerte, sempre sdegnosamente rifiutate, il re di Francia aveva fatta un'ultima esibizione a Francesco Sforza perchè rinunciasse a qualunque diritto potesse avere sul ducato di Milano; ma sebbene le condizioni offerte questa volta dal re fossero grandi e tali da vincere l'ostinazione di chicchessia, pure il giovane duca le respinse con fiera risposta. Sapevasi da tutti trovarsi lo Sforza, a Trento, in pessimo stato, e per essergli mancati, dopo la morte di Massimiliano d'Austria, di molti soccorsi, aver vissuto qualche tempo in grandi strettezze; perciò il magnanimo rifiuto destò un insolito entusiasmo, e que' Milanesi istessi che avevano affrettato il crollo della dinastia sforzesca, ora facevano voti perchè lor fosse quandochesia dato il modo d'instaurarla. Così il giovane duca, dopo molti anni in cui visse fra la noncuranza e lo spregio universale, improvvisamente era diventato l'oggetto dell'attenzione, dei discorsi, dell'ardore di tutti.

In questo mezzo venne a Reggio Gerolamo Morone. Anch'esso erasi recato a Trento per aggiungere alla causa comune que' Milanesi che là si trovavano, e seguivano la parte ghibellina. Nel viaggio, a stento aveva potuto sfuggire alle insidie di Federico Gonzaga signor di Bozzoli, castello nel Mantovano, il quale ricevendo soldo dai Francesi, s'affrettò onde porgli le mani addosso sapendo ch'esso moveva gli animi di tutti contro la Francia. Era giunto portatore di notizie importanti, e accompagnato da molti di que' Milanesi che colà aveva trovati. Dopo di lui venne a Reggio anche Manfredo Palavicino.

Siccome il Lautrec era stato chiamato in Francia, e sinchè durava la di lui assenza dalla Lombardia, faceva le sue veci il fratello di lui monsignore di Lescuns, così il Palavicino, senza nessun sospetto, partitosi da Rimini, aveva lasciata la duchessa colà per trasferirsi a Reggio con una mano di scelti soldati ch'esso in quegli undici mesi era venuto mettendo insieme ed addestrando. L'Elia Corvino, il quale accompagnatosi a Trento col Morone, avea dovuto fermarsi colà qualche tempo ancora dopo di lui per dar termine a quante incumbenze questi aveagli date, tornò esso pure portando la notizia aver Francesco Sforza, cogli aiuti di Carlo e dei signori della bassa Fiandra, ed anche con quelli della Bentivoglio, la quale aveva offerta quasi tutta la pensione pontificia per soccorrere ai bisogni, messi insieme qualche migliaio di soldati; e insieme a tal notizia portò lettere della Ginevra al Morone e di Francesco Sforza al Palavicino. Queste lettere venivano mostrate a' Milanesi che trovavansi a Reggio. Le intenzioni, i disegni, i voti che faceva il duca di Bari contribuivano moltissimo ad accrescere la stima che da poco tempo i Milanesi avevan fatto di lui, e colla stima ad accrescere il desiderio di rimettere il giovane Sforza, che così altamente prometteva di sè, sul trono de' suoi padri. E il nome della Ginevra Bentivoglio corse questa volta accompagnato da molta ammirazione sulle labbra di tutti, che nella lunga lettera da lei scritta al Morone era tanta generosità di parole, tal dirittura di considerazioni da non parer vero una donna potesse averle dettate. Il Palavicino, testimonio dell'ammirazione di tanti uomini per colei, non è a dire come si sentisse dentro di sè, e come l'antico affetto non potesse dileguarsi anche in mezzo all'apparato della più grave impresa, della quale era stato messo alla testa. E non sapeva darsi pace, che la fortuna mentre aiutava a poco a poco realizzando il più delle sue vecchie speranze, in quanto appunto risguardava lui solo, avesse voluto avversarlo d'una maniera sì dura. Egli aveva sempre pensato che i mali d'Italia, e della Lombardia in ispecie, dopo la venuta de' Francesi erano scaturiti da tre fonti principali: dalla dinastia sforzesca, dal ceto patrizio, dai tiranni della media Italia. Ma egli avea anche trovato un conforto nel vedere che in mezzo a ciascuna di queste tre classi era sorto chi dovea assumersi l'incarico di espiare e di riparare le colpe di ciascheduna di essa, ed eran sorti contemporaneamente, e la fortuna aveva fatto che l'un l'altro si conoscessero in una città medesima.

In sè stesso vedeva il patrizio milanese destinato ad espiare le colpe del patriziato, e a ripararle. In Francesco Sforza vedeva il giovinetto ramingo che doveva portare la pena dei falli del padre per farli dimenticare poscia con qualche luminosa virtù. Nella Ginevra Bentivoglio, figlia dello spodestato signore di Bologna, vedova di un altro che aveva perduto il proprio dominio, vedeva quasi un'occasione per cui sarebber caduti coloro che avevano soccorso alla Francia a danno d'Italia. Ed ora dopo tanto tempo d'incertezza e timori accorgevasi che tali idee prendevano di giorno in giorno realità.

Il duca si mostrava al cospetto di tutti. La Ginevra, recatasi a Trento, l'ajutava dove poteva. In quanto a sè stesso considerava avrebbe fra poco avuto mezzi bastevoli per tentare l'estremo colpo. Adunque non gli pareva giusto avesse la sorte guidate tante e tali cose per quella via che da tempo egli aveva tracciata in sua mente, ed avesse provveduto, per dir così, al miglior esito della cosa pubblica, per far lui così misero in mezzo a tante cagioni di contento.

Ma se avesse saputo a qual costo e con quale strazio d'altrui sarebbe per ottener quello di cui disperava, avrebbe respinti tali pensieri, non avrebbe più sentito altro desiderio al mondo di quello in fuori che toccava la salute della propria patria. Ma lasciamo che i fatti vengano da sè e non ci lasciano prendere dalla smania di prenunciarli.

Sappiamo che il Lautrec, chiamato in Francia, aveva rimesso temporariamente nelle mani del fratello, monsignore di Lescuns, le redini del governo di Milano. Ora Federico Gonzaga signor di Bozzoli, che invano aveva tese insidie al Morone, se n'era corso a Milano per avvisare questo fratello del Lautrec, farsi sempre più chiari gl'indizj di una ribellione per parte de' Milanesi radunati in Reggio; e che il rapido viaggio del Morone da Trento a questa città dava segno indubitato ch'ella sarebbe per iscoppiare presto. Abbiam detto che se i patrizi milanesi per tanti anni avevano avuta la brutta colpa di favorire la Francia al danno della propria patria, ora avremmo dovuto a loro riguardo cambiar tosto il biasimo in lode. Parlando però di essi non abbiam già voluto dire siensi tutti tutti reintegrati al senno, soltanto di una buona parte abbiam voluto accennare, la quale può ben bastare a purgar le colpe e mantenere l'onore di una nazione. Del resto molti ancora aderivano alla Francia, e quelli specialmente i quali, dimorando a Parigi quando Lautrec incrudeliva nella capitale lombarda, non avevano veduto a lungo le miserie della patria.

Con molti di costoro adunque, e con taluno dei capi francesi, monsignore di Lescuns erasi di volo trasferito a Reggio, e qui fece chiamare a parlamento il Guicciardini, il quale a nome del papa governava la terra. In questa circostanza avvenne un fatto degno di essere raccontato. Mentre monsignore di Lescuns introdotto in certo antiporto fuori della città, presa la parola, molto dolevasi col Guicciardini che i ribelli e i nemici di re Francesco, non solamente fossero accolti nello Stato del papa, ma ricevessero anche fortissimi ajuti contro l'accordo fatto molti anni prima a Bologna tra Leone e Francesco: Alessandro Trivulzio con una compagnia di uomini d'arme, i quali facevan sembiante d'essere soldati d'un conte Guido Rangoni capitano del papa, tentò, se mai gli fosse stato possibile con tradimento, di entrare in Reggio per la porta a Modena, ch'era l'opposta a quella dove il Guicciardini e il Lescuns stavano trattando.

In questo punto è il conte Galeazzo Mandello che ci torna innanzi, e che in quel giorno fece tal cosa da meritarsi la nostra gratitudine. La mattina se ne andava cavalcando fuori di quella porta, recandosi a un certo luogo di delizie lontano qualche miglia da Reggio, dove aveva una sua tresca. Questa parola (sebbene non sia conveniente intrecciare a fatti di grave importanza cose troppo minute) ci costringe ad accennare in brevissimo al modo onde si comportò il Mandello nel tempo di sua dimora in Reggio. Esso non aveva dunque mai voluto far cosa che per nessuna guisa avesse a far parlare di sè svantaggiosamente. In faccia a tutti voleva essere un patrizio modello, tra i primi nel campo della discussione, tra i primi nel dare esortamenti e consigli, tra i primi nel far disegni e progetti. Ma dopo aver speso due terzi del giorno in così gravi cure gli rimaneva ancora molta vitalità da espandere, e in quanto alle tentazioni della concupiscenza e dell'intemperanza, non avevano potuto esser vinte in tutto e per tutto. Perciò di nascosto e di queto, s'era procurato taluni passatempi, e di tale precauzione usava in quei suoi contrabbandi, che nessuno erasi mai accorto di nulla. Avendo dunque passata tutta intera la notte in lunghi ragionari col governatore, col Morone, col Palavicino, i quali quasi sempre avevano ad ammirare l'aggiustatezza delle sue considerazioni, la mattina volle darsi un po' di sollievo, e però s'incamminava per dove egli sapeva. Ma lungo il cammino nacque tal circostanza da fargli cambiar di proposito. A qualche distanza dalla città si trovò impacciato in mezzo a gran numero d'uomini d'armi. Non sapendo cosa pensarne, domandò se fossero mai soldati del monsignore di Lescuns. I più che gli passan d'accosto non gli rispondono; ma un giovane, il quale pareva aver qualche grado:—Siam soldati del papa, illustrissimo, e siamo capitanati dal conte Guido Rangoni.

Il Mandello mentre stava ascoltando s'accorse di un tal lezio fatto da codesto giovane ad uno che gli veniva d'appresso, e quando si fu di poco allontanato li udì sghignazzare. Fra que' soldati sentì poi taluno che parlava il dialetto milanese, tal'altro il francese. Udì finalmente pronunciato il nome di Alessandro Trivulzio. Sapeva esser il governatore, per la venuta del Lescuns, fuori di Reggio, e l'attenzione di tutti esser vòlta a quanto sarebbe uscito da tal conferenza. Però il vedere tanti uomini d'armi, le parole ingannevoli del giovane che gli aveva parlato e il nome del Trivulzio, gli diede molto a pensare, e così, messi da parte i sollazzi che l'attendevano, diede di sprone, al cavallo, e fingendo di allontanarsi da Reggio sempre più, diede di volta a tempo, e a galoppo serrato se ne venne in città. Fatta chiudere la porta a Modena, chiamò tutti nel palazzo del governatore, e colà espose i propri sospetti.

—Vi esorto, disse, quanti siete qui a prender l'armi di subito, ed a montare a cavallo. Fuori di porta a Modena ci si prepara al certo qualche bel fatto. Codesto monsignore di Lescuns, non volendo esser molto dissimile da quel tristo di suo fratello, mentre se ne sta confabulando col Guicciardini, avrebbe presto il modo per coglierci tutti all'impensata. Fuori un miglio dalla città son cavalli e fanti condotti dall'Alessandro Trivulzio. Il caso volle che fiutassi qualcosa, ed è impossibile m'abbia preso abbaglio. Dunque altro non ci rimane che d'uscir tosto e gettarci su costoro e sgominarli. Questo Trivulzio appartiene ad una casa alla quale ho sempre desiderato ogni male possibile. Io sono una pasta di zucchero, ma se in me nasce un odio, state certi che è per qualche cosa. Se dunque quell'altro Gian Giacomo, che alcuni sciocchi chiamano il Magno, morì di crepacuore in Francia, e scontò la più imperdonabile delle colpe, quella di essersi adoperato con ogni sua possa per desolare quella patria ove fu indegnissimo di nascere, io vi scongiuro quanti siete qui a condurre oggi le cose in modo perchè anche codesto Trivulzio abbia a restar morto…. Non importa se sarà il crepacuore, o un colpo di spingarda, o una palla d'archibuso, basta che muoja, torno a dirvi; però ve lo raccomando quanto so e posso, che dopo canteremo insieme il più giocondo Te Deum che mai sia uscito da gola d'uomini. Che Gian Giacomo e questo Alessandro abbiano di grandi virtù militari e molto ingegno, io non sarò già quello che lo neghi, ma è ciò appunto per cui sento contro a costoro un'ira che mi divora, considerando quanto bene avrebber potuto fare al paese comune se non fossero stati così infami. Dunque, se l'uno è morto, costui lo segua di corto, e sia una mano milanese che faccia le vendette su questo Milanese indegnissimo, e dia una lezione memorabile ai traditori di tutti i paesi.

Il conte Galeazzo Mandello non aveva finito di pronunciare queste parole che alcuni Reggiani entrarono in folla nel palazzo del governatore, ad avvisare che alla porta a Modena una grossa mano di cavalieri e di fanti minacciava di voler entrare nella città. Il Palavicino corse ad ordinare i proprj soldati; quanti Milanesi orano in Reggio furon presto a cavallo; il Mandello si mise pedestre con taluni fanti, armato d'archibuso. Comandati dal Palavicino, presto comparvero alla porta della città, e di là usciti improvvisamente e con grand'impeto respinsero gli assedianti. Una sanguinosissima zuffa s'impegnò, che durò qualche ora. Alessandro Trivulzio combatteva anch'esso, e pareva che la più santa delle cause gli comunicasse il valore. Ma il Mandello, quando s'accorse di lui, mai non lo perdette di vista. Armatosi d'archibuso per poterlo cogliere anche da lontano, sempre gli aveva posto la mira, e finalmente una palla, squarciando l'aria, fischiò a compir la vendetta, e trapassato il petto del Trivulzio, lo rovesciò da cavallo. Il conte Galeazzo, soverchiando tutti i rumori, con una voce tonante fu udito da tutti allora a pronunciare le seguenti parole:—Questo colpo ti viene da un Milanese; va a raccontarlo a Gian Giacomo.—Colla morte di Alessandro Trivulzio cessò la zuffa, e i suoi più non fecero che darsi ad una rapida fuga.

I Milanesi condotti dal Palavicino e dal Mandello tornarono in città, e in quel giorno fu un insolito tripudio.

Saputa una tale insidia e un tal esito, il Guicciardini che ancora trovavasi con monsignore di Lescuns, e con belle e prudenti parole attendeva a declinare ogni sua pretesa, improvvisamente cangiò modi, e rinfacciando al Lescuns il vilissimo tradimento, lo investì con tal procella di parole, da sbaldanzirlo affatto e costringerlo a partirsi.

Scornato e vergognoso della rotta che i soldati del Trivulzio avevan patito, sgomentato del numero e del valore dei ribelli lombardi che trovavansi in Reggio, e maledicendo la propria fortuna la quale avealo messo al posto del Lautrec nel momento più pericoloso, si pose in quel dì stesso in viaggio per Milano.

Giunto a Piacenza, quando stava per mettersi co' suoi nelle barche onde passare il Po, due soldati colla buffa al viso che un momento prima erano balzati a terra, domandarono di lui. Un solo gli parlò senza scoprire la faccia.

—So la rotta che hai toccata, gli disse colui, so la morte del Trivulzio e la baldanza de' ribelli rifugiati a Reggio. Ma di costoro porto fede che, in poco di tempo, non rimarrà più nemmanco la pelle, e farò mettere a fuoco e fiamme la città che li ricetta; solo mi pesa ch'essa abbia così stretto circuito. Del resto tu hai fatto malissimo a tentar costoro senza apparato di sorta e senza aspettar me; te l'ho pur detto di non far nulla senza il voler mio, così ti giovi l'avviso.

—Ma perchè sei qui tu adesso?

—Perchè non devo essere altrove; prima di tornare in Lombardia ho a spacciarmi di tal faccenda che m'imbroglia la testa da anni, perciò son qui per andarmene più giù; e se mi vedi in tal arnese è indizio ch'io non voglio si sospetti da nessuno ch'io sia arrivato di Francia, capisci tu? nessuno…. e se costoro ti domandassero di me…. trova qualche storia da inventar loro, ma non nominarmi. È tal faccenda per cui mi vorrà, credo, poco tempo, se la fortuna e il diavolo mi aiuteranno. Va dunque, va a Milano ad aspettarmi.

Ciò dicendo senza più altro, salendo a cavallo mentre gli altri saltavano nelle barche, continuò il suo cammino.

Il lettore in costui ha già riconosciuto il Lautrec, ma prima di rifarci con lui, e di cercare per qual fine, venuto di Francia in tutta segretezza, ora attraversasse l'Italia incognito, bisogna che ci fermiamo in Reggio per qualche poco ancora.

La morte del Trivulzio e la partenza, per non dire la fuga, del Lescuns, quantunque non fossero fatti della più grave importanza, avevano di molto accresciuto il coraggio e le speranze di coloro che la Francia, e chi stava per Francia, chiamava ribelli. Si entrava già nel 1521 e il Morone riceveva da Roma un forte soccorso di danaro affine di giovare l'impresa, e con quello alcune lettere che lo assicuravano esser imminente l'ora che tra Leon X e Carlo V sarebbesi fatta la lega per cacciare i Francesi d'Italia. L'ambasciatore di Carlo, il quale trovavasi in Roma, assicurava intanto che il giovane duca Francesco Sforza, il quale nelle Fiandre s'era trovato coll'imperatore, da questo avea tenuto altri mezzi per accrescere il numero della gente con cui dovea tentarsi un primo colpo.

La sera che nella gran sala del palazzo del governatore, il Morone comunicò tali notizie alla numerosa folla dei Milanesi, i quali attentissimi lo stavano ascoltando, rivoltosi improvvisamente al Palavicino:

—Ora io penso, disse, che tu non debba aspettar altro, e tosto ti metta all'opera. Qui c'è qualche migliajo di soldati che dipendono da te. Francesco Sforza in Germania ha pure messo insieme della gente che bensì dipende da lui, ma alla quale per adesso non gli è concesso di comandare in persona. Io vi esorto dunque, quanti siete qui, a metter fuori il vostro parere sulla questione ch'io propongo, ed è questa: Se al Palavicino convenga recarsi in Germania, accostarsi a Francesco, farsi capo della sua gente, con quella calar giù di queto per impadronirsi di quella città del ducato di Milano che più dell'altre porga qualche facilità di riuscita; o piuttosto uscire adesso di Reggio colle forze che abbiamo e coll'altre che sì potranno in breve mettere insieme, e intanto che monsignore di Lescuns non è preparato, assalirlo. Comincierò dunque dal metter fuori il mio parere, ed è che il Palavicino s'attenga al primo partito. Dite ora voi, messer Francesco, s'esso vi paja il migliore.

—In Germania necessariamente vi debbon essere maggiori forze e meno ostacoli, rispose il Guicciardini; d'altra parte, per quella via, le prime mosse non potrebbero essere esplorate. Qui invece le notizie precederebbero l'azione. Non ci può dunque esser dubbio.

—La sentenza del nostro governatore, soggiunse allora il Morone, potrebbe bastare senza più altro. Pure se v'è taluno qui che abbia altro pensiero, si faccia sentire.

A queste parole successe nell'adunanza un lungo silenzio e nessuno si alzò per parlare.

—Un tal silenzio mi avvisa che voi tutti portate un'opinione medesima intorno al punto da cui il Palavicino ha da partire. Il disegno è dunque fatto, non ci resta a far altro che colorirlo. Ma anche qui ci potrebb'essere disparità di pareri, ed è necessario sentir tutti perchè il consiglio migliore sarà seguito. Parla dunque tu pel primo in proposito, marchese Palavicino, che n'hai il diritto.

Dopo lunga pausa, durante la quale tutti gli sguardi erano rivolti in lui:

—Se il punto di partenza è la Germania, disse Manfredo, la prima cosa a cui si devo pensare è la via per cui di là si ha a calare in Italia. Queste, per non parlare delle altre che essendo frequentate non sono favorevoli al nostro segreto, possono esser due, o pel Tirolo o per la Svizzera; ma ciò dipende troppo dalle momentanee circostanze perchè si abbia a stabilire adesso quali delle due esser debba. Bensì si può stabilire il cammino da farsi, varcate che sian l'Alpi, e la città lombarda, su cui, venendo da quella parte, si possono fare i primi tentativi, e qui mi pare tutto si disponga da sè. Sia che si venga dalla Svizzera o dal Tirolo, sarebbe dunque mio pensiero prendere pel Lago di Como e volgere le nostre mire a questa città. Ho detto.

—E benissimo avete detto, prese allora la parola un mercante lombardo, ma non so se sappiate quanto sia arduo il varco delle Alpi tanto a chi viene dalla Svizzera come dal Tirolo, e che in questi luoghi se non sì trovano ostacoli d'uomini, si trova quello della natura selvaggia e deserta. Tuttavia state di buon animo che più d'una volta ho fatte queste vie, e se mai non ho cavato grand'utile da que' disastrosi viaggi, credo d'averlo a cavare adesso, e sia lodato Iddio.

—Quand'è così tu sarai compagno a Manfredo, gli disse il Morone. Intanto se v'è qui chi abbia qualche buon pensiero lo invito a metterlo fuori.

—L'altro mio pensiero è questo, riprese allora la parola il Palavicino. Siccome io debbo recarmi solo per adesso in Tirolo e tutti gli uomini d'armi che ho messi insieme in Rimini ho a lasciarli qui, così penserei d'affidare costoro al conte Mandello, il quale, come gliene verrà avviso, dovrà (non faccio che metter fuori un pensiero) recarsi a chiudersi con essi nel castello di Marsiglio Figino, il quale so che sta con noi di buonissima voglia. La posizione del castello, non essendo lontano all'Adda e fuori d'occhio affatto, non può esser migliore. Chiuso in esso con questa brava gente che tengo al soldo, e che molto bene è addestrata, tu devi aspettar ch'io dalla Svizzera o dal Tirolo mi sia già messo sul lago… Allora esci dal castello, rimonti l'Adda, e su su pel ramo di Lecco vieni alla mia volta; qui ci congiungiamo. Il resto non v'è chi nol veda.

A tutti parve bellissima questa pensata di Manfredo, che sentì scoppiare gli applausi da tutte le parti della sala.

—Dunque, continuava Manfredo, io mi porrò tosto in viaggio e domani senza perder tempo tornerò per poco a Rimini a prender commiato dalla duchessa, alla quale io e quanti siam qui dobbiamo avere assai gratitudine, giacchè, per aiutare la nostra impresa, ne ha dato facoltà di giovarci delle sue ricchezze.

Il Morone si oppose a quest'andata di Manfredo, e trovando del resto assai ragionevole che alla duchessa Elena fosse dato avviso del viaggio di lui in Germania, consigliò fosse per questo spedito a Rimini il Corvino o talun altro. Ma il Palavicino stette ostinato nella volontà sua e si mise a cavallo il dì dopo.

Precediamolo a Rimini, dove un grave avvenimento sta preparandosi.

CAPITOLO XXX.

Era il 30 gennaio del 1521; alla porta del palazzo della signoria di Rimini la guardia della mezzanotte subentrava a fare il suo quarto; nell'interno era quel movimento che prepara la quiete. Soldati che, con lanterne, andavano a visitare alcuni posti; servi che con lumi accesi, si vedevano gironzare come per dar sesto all'ultime faccende. Di minuto in minuto il silenzio cresceva sempre più, fino al punto in cui s'udì distintamente il suono di una voce, la quale parea recitasse preghiere o piuttosto declamasse qualcosa.

Un'ala del palazzo appariva ancora illuminata, e stando nel cortile si potevano vedere alcune figure dipingersi come ombre sulle vetriere. La duchessa stava colà in mezzo alle sue donne, ed era da molte ore ch'ella passava d'occupazione in occupazione senza mai potersi riposare in alcuna, finchè si fece leggere ad alta voce da un giovane paggio alcuni squarci dell'Ariosto, il suo autore prediletto.

Dopo la partenza del Palavicino aveva cominciato a protrarre le veglie sino ad ora tardissima. Aveva sgomento delle tenebre, della solitudine, sentiva bisogno di qualche cosa che la difendesse da' suoi pensieri. Dal giorno in cui sperò di trovare la felicità, l'aveva invece perduta per sempre. Dopo che fu la moglie del marchese Palavicino, tutte le ore della sua vita furono una successione di dubbi, di ansie, di sospetti, e ciò che più forse le rodeva l'esistenza, di un amore senza limiti che quei dubbi e quei sospetti facevano sempre più ardente. Il modo onde s'era comportato Manfredo in Roma poche ore dopo le nozze le avevano infatti posta nell'animo una spina che non doveva sradicarsi che colla vita. In qual maniera spiegare quell'improvviso e furibondo dispetto di Manfredo, e poi quel suo pianto dirottissimo, disperato?! La soluzione di questo viluppo era quanto da undici mesi la tormentava, e per cui tante volte Manfredo era stato tormentato; pure prima di partirsi da Roma le venne all'orecchio qualche voce che di certo l'avrebbe condotta a scoprir tutto se la scaltrezza del Morone non le avesse rotto il filo delle congetture. Prima di questa partenza, l'attenzione di quella città fu rivolta ad un faceto dialogo ch'ebbero a far tra loro le statue di Pasquino e Marforio, dialogo che avea dato origine ad un numero infinito di comenti. I nomi del Palavicino, della signora di Rimini e della signora di Perugia vi erano intrecciati in un modo singolare, tanto singolare, che ne dovette arrossire la Ginevra quando gliene fu detto qualcosa, e fare impallidire la duchessa Elena allorchè gli giunse la notizia.

Questa parlando col Morone di Manfredo e dei sospetti ch'ella aveva di costui, gli mise innanzi un tal dialogo, dicendogli ne facesse la spiegazione; ma il Morone seppe così ben fare e così ben dire, che la vedova del Baglione uscì affatto dalla mente della duchessa Elena, alla quale rimase intera la sua curiosità tormentosa. Venuta poi a Rimini, e Manfredo comportandosi in modo da tranquillarla affatto sul proprio conto, mille volte avealo stretto con domande insistenti perchè confessasse il segreto, promettendo ch'ella sarebbesi dimenticata di tutto, quand'anche fosse per farle la più orribile manifestazione. Ma il Palavicino fu sempre fermo, e per nessuna promessa non volle mai confessare ciò ch'era veramente, nè metter mai fuori il nome della Ginevra Bentivoglio. Questa ostinazione però, facendo credere che il segreto fosse ben grave, tanto più cresceva il tormento della curiosità. Spesse volte avvenne in quell'anno che Manfredo stesse sopra di sè impensierito, e allora era una cosa strana a vedersi la duchessa, se mai più dell'usato fosse lieta, tosto si rannuvolasse al rannuvolarsi di Manfredo, il quale mentre più volte aveva provato una viva compassione ed anche una gratitudine sincera conoscendo d'essere tanto amato da questa donna che pure era il delirio di molti, mai non aveva potuto dimenticar la Ginevra, pensando alla quale non sapeva vincersi così, che il suo tetro umore non fosse manifesto.

Nella mente un po' superstiziosa della signora erasi messa la credenza che l'antica sua colpa dovesse espiarsi per queste pene assidue, e dal giorno in cui pensò tal cosa, i rimorsi tornarono ad assediarla, e strane ubbie l'infestavano al punto, che quasi la solitudine e le tenebre la spaventavano.

Però, come ad affrettare il tempo dell'espiazione, con grandi beneficenze, che a ciò la portava la sua naturale tendenza, cercava nell'amore e nella benedizione de' poveri cittadini e dei tanti infelici che l'assediavano continuamente, un sollievo ai propri affanni. E al Palavicino concesse quante ricchezze ella poteva avere a disposizione, quando sentì dover servire per sanare la più profonda piaga che i Francesi, colla lunga dimora, avevano aperto in seno all'Italia. Ed ella era tanto più degna di stima in quanto che, tormentandosi al pensiero che pei soccorsi medesimi ch'essa gli dava, il Palavicino si affrettasse sempre più incontro all'estremo pericolo, dovendo esporsi per la patria e per tutti; pure non disse mai parole atte a sconfortarlo un momento, e fu solo quando Manfredo mostrò l'avviso ricevuto di recarsi a Reggio colla gente da lui messa insieme, ch'ella non potè vincersi affatto, e il pianto tradì ogni suo pensiero. Dal giorno che si trovò ancor sola, sentì pesare sopra di sè tutti i mali della vita. Con tanta apparenza di prosperità, non sapeva in qual modo dare un sollievo all'anima affaticata; protraeva perciò le veglie sino alla più alta notte, cercava nella musica, nel canto, nella poesia, in cui tanto valeva, qualche gran difficoltà da vincere per dimenticare tutto il resto. Di giorno davasi anche ai più violenti esercizi di corpo, e in mezzo a' distinti della città, il popolo la vedeva per molte ore precorrere a cavallo la spiaggia del mare, darsi talora a così rapida e furiosa corsa da far credere cercasse espressamente i pericoli. Dicevasi tra il popolo che da queste strane occupazioni, ridottasi nelle sue stanze, e nella cappella di palazzo, passava poi a cose al tutto opposte, e come forse non aveva mai fatto, infervorava nella meditazione e nelle preghiere e negli atti religiosi da far sospettare stesse facendo la penitenza di qualche gran peccato. E allora di bocca in bocca tornava a passare il racconto della vecchia storia di lei; ma la maldicenza quando stava per prorompere era costretta a tacere innanzi ai tanti benefizi della duchessa, e allorchè, dalle corse affannate, ella tornava in città, e a cavallo l'attraversava, tutto il popolo erale intorno ad attestare con battimani e con evviva l'amore e la gratitudine che sentiva per lei.

Questo da qualche tempo era il tenore di vita della signora di Rimini.

Nella notte a cui siamo, ella, dopo esser passata d'occupazione in occupazione, prestava dunque attenzione alla lettura che un paggio le faceva dei migliori squarci dell'Ariosto. Si giunse al canto ventesimoterzo, alla pazzia di Orlando, a que' versi:

All'ultimo l'istoria si ridusse Che'l pastor fe' portar la gemma innante Ch'alla sua dipartenza per mercede Del buon albergo Angelica gli diede. ……………………… Questa conclusïon fu la secure Che il capo a Orlando gli levò dal collo. ……………………… ……………………… Non suppliron le lagrime al dolore, Finir che a mezzo era il dolore appena, ……………………… ……………………… Il quarto dì da gran furor commosso E maglie e piastre si stracciò di dosso. ……………………… ……………………… E cominciò la gran follía, sì orrenda Che de la più non sarà mai ch'intenda. ……………………… ……………………… E in tanta rabbia, in tanto furor venne Che rimase offuscato in ogni senso….

La duchessa si alzò, accennò al paggio di sospendere la lettura, e, pallida, si concentrò in sè medesima. La figura del Lautrec, per l'effetto di que' versi essendole comparsa innanzi come se fosse la vera, fu la causa di quel turbamento. Dileguatosi però, e pensando che non vi poteva essere più pericolo, e che Lautrec era in Francia, si ricompose e tornò a sedersi fra le donne. Era impossibile che di quel terribil uomo ella potesse dimenticarsi affatto, od ogni minimo accidente che per associazione le richiamasse qualche fatto antico, bastava a sconvolgerle tutta la massa del sangue. Eravi poi una creatura che sempre, a dispetto de' suoi terrori, le richiamava il Lautrec; una creatura per cui provava un effetto particolarissimo: il fanciullo Armando, la cui immagine infantile ella avea fatto ritrarre da uno scolaro di Raffaello, e che ogni tanto contemplava con una passione ineffabile, la quale tanto più facevasi forte, quanto più doveva star nascosta, che sarebbe caduta morta di vergogna, se al Palavicino fosse trapelato mai nulla di quanto era accaduto. Ma passiamo a ciò che più importa.

Avvicinavasi l'ora in cui di solito soleva licenziar le donne e recarsi nella camera da letto. Quando infatti non trovò più con che protrarre la veglia.

—L'ora è ben tarda, disse, e se tutto riposa adesso, bisogna bene che tronchiamo la veglia noi pure. Così dunque vi auguro la buona notte.

Ciò detto, si recò nella sua camera seguita da una fante. Tutto era tranquillo oramai, nè alla signora altro rimaneva che di farsi svestire dall'ancella…. Quando un furioso scampanare a martello, rimbombando nel silenzio della notte, venne improvvisamente a colpirla. Atterrita esce allora dalla camera, e con lei l'ancella. Chiamano le altre donne che, spaventate, per diverse parti ritornavano. A quel martellamento intanto che parea venire da una estrema parte della città, rispondono tutte le campane delle chiese. A questi suoni si mescono le voci stridenti delle sentinelle che gridano all'armi:—Chi è?—che fu?

La duchessa dagli appartamenti, entrando sugli atrj è colpita da un'insolita luce rossa infuocata, riflessa nelle vetriere dei fìnestroni del piano superiore. Era l'effetto medesimo che produce la faccia del sole quando dall'occidente manda fiumi di luce sui fastigi degli edifìzi, in cui pel giuoco de' vetri, sembra vada infuriando un vasto incendio.

E l'idea di un incendio colpì appunto la duchessa che, per accertarsi salì su di un ballatoio posto nella parte più alta del palazzo, e di là volgendo lo sguardo donde veniva lo spaventoso splendore, vide infatti dalla parte spettante al mare come un capellizio di fiamme e colonne di torbido e nero fumo, che s'innalzavano al cielo nubiloso. Da quasi tutto l'inverno imperversava un furioso vento di ponente, per cui anche l'Adriatico era sempre stato in una continua procella. La duchessa sospettò che il vento appunto portando faville ed incendiando qualche covone di paglia sparso alla campagna (chè le fiamme apparivano fuori della città), avesse dato fuoco alla gran selva d'abeti che da quella parte univa i villaggi a Rimini. Ma stando cogli occhi fissi al terribile spettacolo, e facendo tacer quanti le stavano intorno, si mise in ascolto. Da quella parte le veniva all'orecchio il cupo e vasto fragore del vento che alimentava ed era alimentato dalle fiamme. Dalle contrade della città un momento prima tranquille e deserte, salivano fino a lei le mille voci dei cittadini che, atterriti, avean lasciati i letti al suono della campana a martello per accorrere a dar soccorso. Stando a quell'altezza, alla gran luce dell'incendio che, quasi fiume di fuoco straripato, si avanzava con tremendo impeto verso la città, vedeva sulle piazze i densi gruppi delle persone affrettarsi tutti ad una meta, e sui tetti le facce di coloro che oziosi stavano osservando. Allora ella discese rapida; tutti i camerieri, i servi, i famigli erano in movimento di su, di giù per gli atri, pei corridoi, per le scale. La duchessa li fa chiamar tutti.

—Perchè siete ancor qui? loro dice, il comune pericolo vi chiama; l'incendio si avanza verso la città. Andate, e avrete da me tale compenso, che assai vi loderete di aver prestato soccorso altrui. Sopratutto fate in modo ch'io sappia uno per uno il nome di coloro che più degli altri fossero per rimanere danneggiati dalla gran disgrazia. Andate.

E finito di far questa esortazione ai servi, si recò tosto al verone che rispondeva sulla pubblica via per incuorare dalla voce la moltitudine che tuttavia continuava a passare.

Un'ora prima che la campana a martello svegliasse tutto il popolo di Rimini; fuori della città, in riva al mare, passeggiava affrettatamente un soldato. Tirando il vento di ponente, la notte, era delle più tempestose, quantunque non cadesse pioggia. La luna a quando a quando, sotto strisce biancastre, mostrandosi tra i neri nuvoloni, rivelava lo spettacolo del mare, d'una tinta affatto nera, chiazzata qui e qua, e alla cresta delle onde segnatamente di bianca spuma. Al fragore del vento che sommoveva le onde, rispondeva il vasto fremito della selva d'abeti, situata a molta distanza. La grande corporatura del soldato proiettavasi gigante sulla ghiaia del lido, se mai per qualche istante la luna uscisse abbastanza dalle nubi da gettare qualche raggio sulla terra; di tanto in tanto colui soffermavasi, e pareva che frammezzo al fragore del vento e del mare aspettasse di udire qualch'altro suono. Tosto però tornava a passeggiare percorrendo la ghiaja, talvolta calava giù giù fin quasi a toccar co' piedi l'ultimo lembo dell'onda, che alzandosi quasi muro e ripiegandosi poscia in sè stessa, si rovesciava a bolzonargli le gambe con suo pericolo.

Stava esso appunto così, colle braccia intrecciate al petto, guatando quell'immenso e torbido spettacolo, scongiurando quasi fosse il demonio della procella, e mare e venti; quando d'improvviso una larga e lunga striscia di luce vivissima comparendo in seno alle acque sommosse, lo fe' balzar tosto dal basso al sommo della spiaggia. Qui si fermò guardando alla parte opposta al mare, e apparendogli un gran fuoco, battè palma a palma, e pronunciò parole che furono portate dal vento. Allora tornò di nuovo a percorrere la spiaggia, finchè il suono di molti passi d'uomini lo fecero fermare. Si volse; quelli gli si raccolsero intorno dicendo in francese ciò che noi mettiam qui in italiano:

—Tutto secondo i vostri ordini, eccellenza, e secondo i vostri desideri. La selva arida, il vento a tempo, non un tizzo gettato in fallo.

—Se il ponente segue a soffiar con quest'impeto, il fuoco della selva s'appiccherà alle mura in meno d'un'ora.

—E il popolo s'è già desto, eccellenza, e quasi tutti sono usciti dalla città.

—E fra poco sarà deserta.

Dopo un lungo silenzio:

—Ora potete andare, disse colui al quale eran volte le parole di tutti, procedete tosto per di qui, e crolli anche il cielo stanotte, viaggiate di continuo senza mai fare un passo indietro per qualunque cosa aveste ad udire, e domani all'alba siate a Forlì. Andate.

Quelli senza far motto nè aggiunger parola, tosto si staccarono dal loro signore, e a gran passi lungo la riva si allontanarono da lui, finchè questi li perdette di vista e rimase solo.

Che costui fosse il Lautrec è inutile dirlo; rimase dunque solo, e ancora diedesi a passeggiare la spiaggia il più frettolosamente che mai, guardando come si venisse distendendo l'incendio. Un orrendo contrasto gli accrebbe quello scompiglio che da tanto tempo gli si era messo nell'animo. Un anno prima, quando a Milano gli giunse la notizia che la duchessa Elena avea sposato il marchese Palavicino, dopo un accesso di furore che quasi fu per divenirgli funesto, aveva risoluto di non lasciar correre tempo in mezzo, recarsi a Rimini e disperatamente vendicarsi. Ma volle il caso che il re gli desse tali incarichi da non lasciargli tempo di provvedere alle cose proprie, e lo chiamasse poi in Francia con gran sollecitudine, per cui dovette protrarre ad altro tempo quanto aveva in animo di fare, e così per molti mesi se ne rimase in Francia. Ma più tempo trascorreva, più la passione si condensava nell'anima di lui, così che quando gli fu concesso di ritornare in Italia, non ebbe altro pensiero che quello di correre alla vendetta.

Attraversare l'Italia senza che nessuno avesse sentore del suo arrivo, raccogliere di fretta quelle notizie che gli fossero per giovare, di volo correre a Rimini, e, attraversando ogni ostacolo, cercare della duchessa e del Palavicino per far scontar loro in un punto tutte quelle angoscie onde a lui erano stati cagione, ecco qual fu il suo primo divisamento; se non che il difficile stava appunto nel vincere quegli ostacoli che, sebbene fosse travolto dalla passione, vedeva pure essere fortissimi. Però gli venne in mente che un gran disastro pubblico, mettendo tutti nello scompiglio, a lui avrebbe dato facoltà di cogliere all'impensata, e soli forse, tanto la duchessa che Manfredo. Allora non vedendo la possibilità che questo potesse nascere da sè, pensò di suscitarlo egli stesso, e un incendio gli parve l'occasione più opportuna per ottenere il proprio fine. Da uomini fidati poteva farlo appiccare quando e come gli fosse piaciuto, e in quella parte della città di Rimini che gli convenisse meglio.

Fatto dunque un tal disegno, l'impazienza di vederlo effettuato, lo sollecitò nel viaggio. Seco aveva condotto dodici uomini con promessa di larghissimo compenso. Messili al fatto del proprio intento, a mezzo cammino, per non destar sospetti, erasi diviso da loro, e li aveva spediti innanzi per la via di Ferrara, dando loro la posta al piccol luogo di Cervia presso Forlì, dov'egli sarebbe arrivato dopo, prendendo per la strada del Modenese, e dove sarebbesi concertato il rimanente da farsi.

Dopo molti giorni di viaggio era in fatti giunto a Cervia, e qui trovò gli uomini che lo aspettavano. Colà saputo che il marchese Palavicino erasi recato a Reggio, da principio ciò gli parve un contrattempo, e fu quasi per aspettare ch'egli tornasse. Ma dopo fece altri pensieri, e si dispose a mandar tosto ad effetto il suo atroce disegno. Conoscendo benissimo la città di Rimini e i suoi dintorni per avervi dimorato tanto tempo, senza bisogno di far nessuna visita ai luoghi, ebbe subito stabilito il modo. Suo intento era, come si disse di produrre un immenso scompiglio in tutto il popolo, costringerlo ad uscire della città se voleva attenuare il disastro, e per tal via, mentre la città rimaneva deserta, o quasi, le soldatesche occupate altrove, e, se dava la sorte, anche il palazzo della signoria abbandonato dalle guardie, entrare in quello. Per questo stimò bene di appiccare l'incendio alla parte della città che fosse la più lontana dal palazzo, perchè nel mentre fosse abbandonato dalle guardie intente a portar soccorso altrove, non fosse poi abbandonato da chi egli aveva interesse di trovare. Pieno di questo pensiero e della smania di vederlo compiuto, aspettò la notte in cui il vento imperversasse più del solito e communicasse così impeto maggiore all'incendio. Tutto adunque gli era andato a seconda del desiderio. Udiva dal posto ove stava il furioso crepitar delle fiamme, sapeva che quasi tutto il popolo era uscito di Rimini, e che a lui non rimaneva perciò che di entrare in quella città di cui sapeva ogni angolo, e col favore delle tenebre, della solitudine e del generale disordine, senza ostacolo, mettere il piede nel palazzo della duchessa.

Ma quante volte fu per prender la via della città, altrettante retrocesse e si fermò perplesso:

—A che vado a far colà? diceva tra sè, per qual fine io la cerco colei?

Quando seppe le nozze di Elena con Manfredo, esso non aveva veduto che sangue allora, e nel sangue solamente aveva cercato di confortare i propri dolori; nè altro pensiero gli era venuto in mente fuori di questo, che fu il primo, e continuò ad esser l'unico per assai tempo. Da che dunque gli derivava adesso tanta perplessità? Da ciò solo che dall'odio medesimo ond'era divorato per colei, e lo sospingeva a cercarla per distruggerla, era risorto l'amore, prepotente amore che, confuso coll'odio stesso, talvolta lo soverchiava; però nel punto medesimo in cui quanto si chiama sete di sangue trucemente lo esaltava, il brivido che si metteva nelle sue ossa al pensiero che dopo tanti anni avrebbe riveduta la madre del suo Armando, era segno indubitato che l'amore gli comunicava l'irresistibile bisogno di trovarsi con lei, ma un bisogno nel cui soddisfacimento era pure riposto un supremo gaudio. Chi sapesse farsi idea dell'esistenza contemporanea di questi due affetti, potrebbe valutare appieno la condizione tormentosa in cui versava il Lautrec in quella notte, in quell'ora, la più procellosa di tutte le trascorse.

Ma l'immagine del Palavicino e tutte le ricordanze che si affollavano intorno all'abborrito Milanese lo determinarono finalmente, e percorrendo una via fuor di mano che metteva in Rimini, vi entrò una mezz'ora dopo. A gran furia avea fatto la strada, e tra per questa rapida corsa e per la passione che assiduamente lo batteva, si sentì come spossato. Giunto sulla gran piazza e incertissimo ancora di quel che dovesse fare, si appoggiò per poco a quel piedistallo di marmo su cui è fama che Cesare parlasse alle sue legioni prima di passare il Rubicone. La piazza era silenziosa, e soltanto portato dal vento, vi giungeva il frastuono delle mille voci del popolo uscito ad arrestar l'incendio. Quando in mezzo alla generale quiete sentì la voce di due cittadini che parlavano:

—La selva è in cenere oramai, ma tanto abbiam fatto, che le fiamme non hanno ancora investite le mura. Or vado a vedere se la povera mia madre s'è rimessa dallo spavento, e torno subito all'opera.

—Vado io pure a dire alla donna mia, che il pericolo è quasi cessato.

—E a ringraziar Dio d'aver mandato a vuoto l'atroce attentato di chi voleva arsa questa bella città.

—Che dici tu? se fu la furia, del vento che portò fiamme tra i rami degli abeti,

—Tu non sai nulla. V'è chi ha veduto uomini armati a mettere fuoco agli alberi.

—È ciò possibile?

—È vero….

E con queste parole dileguarono le voci e i due che parlavano, e il Lautrec si alzò considerando che se più tardava, poteva forse venir gente e affollarsi il palazzo di cittadini e d'uomini d'armi, ed impedire a chicchessia d'accostarsi alla duchessa.

Si alzò dunque, e difilato si affrettò al palazzo. Giuntovi presso, rallentò il passo e si pose in ascolto per sentire se ne uscisse qualche rumore; ma alla quiete che vi dominava, pareva fosse disabitato.

—Che colei se ne fosse mai uscita? disse tra se sconcertato da un tal dubbio.

Allora corse alla gran porta…. Le imposte erano spalancate…. Egli mise il piede nel cortile. Il piano superiore dell'ala destra era illuminato ma non ne usciva alcun suono; però quando si fermò gli venne udito un mormorare monotono che veniva da un luogo a terreno. Si studiò di poter comprendere cosa fosse, e allora conoscendo parte a parte tutti i luoghi di palazzo capì che quel rumore veniva dalla cappella dove tutte le mattine solevasi celebrare la messa per la signora e la sua famiglia. Avvicinatosi all'ingresso della cappella e messovi l'orecchio, sentì più voci di donne che recitavano delle preghiere, poi udì nettamente la voce di una sola, a cui l'altre rispondevano. Non era la voce della duchessa. Fu in dubbio di entrare, vedere e interrogare, ma temette d'avere a metter fra quelle donne troppo spavento, e pensò ad altro. Si allontanò di là, e recatosi alla parte opposta del palazzo dov'era il gran vestibolo che introduceva allo scalone, e là messosi di nuovo in ascolto prima di entrare gli parve d'udire il suono di due voci che venissero dall'alto dell'edificio. Rattenne il respiro per udir meglio. Fra quel silenzio, al quale di tanto in tanto s'interpolava il mormorio che veniva dalla cappella e il suono del popolo scemato dalla distanza, conobbe una delle due voci. Quel terribile uomo, che non sarebbesi scosso per nessuna cosa del mondo, all'udire quella voce, quella voce fatale, quasi fu per smarrire ogni spirito e cadere. Era la duchessa che dall'alto del palazzo, dove sul ballatoio stava osservando cosa avvenisse dell'incendio, dava alcuni ordini ad una donna, la quale, rispostole, si ritraeva. Di fatto il Lautrec non udì altro. Allora credette fosse venuto il momento d'entrare, ma quando fu per spalancare l'imposta che chiudeva il vestibolo, udì scender qualcheduno per la scala appunto; ond'egli ritrattosi, vide uscirne una donna la quale, attraversato il cortile, si recò nella cappella. Misurando il tempo, congetturò dover essere la donna che un momento prima aveva parlato colla duchessa; pensò dunque esser probabile che in quel punto ella si trovasse sola. Entrò nel vestibolo, salì la scala… fu tosto al piano superiore. Di qui per un'altra scala, e finalmente per una a chiocciola fu sul ballatoio. Vi corse con un'ansietà e insieme con un'agitazione che gli faceva vacillare i ginocchi; vi gettò uno sguardo… non v'era più nessuno.

—Dove può ella essere andata? disse tra sè; ma era pure la sua voce quella che ho udito… ma era qui dov'ella si trovava momenti fa!

E si pose ancora in ascolto… il solito silenzio gli rispondeva.

—Che fosse mai discesa a' suoi appartamenti? pensò poi.

Pensato questo, ridiscese tosto. Ripercorse gli atrj del primo piano, fu all'uscio che metteva agli appartamenti della duchessa; vi entrò subitamente, ma rallentando il passo e procurando di non far rumore col piede ferrato. Passò per più stanze; eran tutte vuote, ma v'era quel disordine nelle suppellettili che è indizio dell'abituale movimento di molte persone. Quando fu nella gran sala, che si chiamava la sala de' musaici, e pareva piuttosto un piccol tempio che altro, si fermò; udì nella prossima un suono di passi affrettati, e quel fruscio particolare che da una veste serica sbattuta. Il sangue gli corse alle tempia, si precipitò in quella camera; in un lampo fu dappresso ad Elena. Al rumore della porta che si spalancava, alla vista dell'uomo d'armi che moveva alla sua volta, la signora si fermò guardandolo attonita e in aspettazione di qualche gran cosa…. poi a un tratto proruppe in un grido…. Ella avevalo riconosciuto anche di sotto alla buffa. Il Lautrec corse all'uscio e lo chiuse a chiavistello, e senza dir mai parola si pose in ascolto…. gli parve d'udir qualche rumore…. Allora liberò ancora il chiavistello dell'uscio, e continuando sempre a tacere, uscì della camera.

La duchessa, cui lo spavento ognora crescente aveva soffocato il secondo grido, non seppe cosa pensare, e seguendolo coll'occhio non si mosse dal suo posto. Udì i passi ferrati del Lautrec che si allontanavano di sala in sala, poi lo strepito di una porta che si chiudeva, e quell'aspro cigolìo che fa la chiave quando gira nel chiavistello, poi lo stesso di un'altra porta, e della terza e della quarta, e i passi del Lautrec che ritornava…. Allora accortasi di quel che era, e cessata l'inerzia della prima attonitaggine, si mosse per uscire; ma fino a sei tutte si chiusero le porte a quel modo, e il Lautrec rientrò dov'ella era.

—Sei stanze mi serrai dietro a chiavistello, furono le prime parole del Lautrec, e questa non mette capo a nessun luogo; siam dunque soli, soli, affatto soli!

Pronunciando queste parole con quella sua voce nasale e tremenda, guardò fisso la duchessa pei fori della buffa che non alzò. Con tutti i modi avrebbe voluto atterrirla, fuorchè collo spettacolo della sua laida bruttezza. Questa doveva a lei rimaner coperta in perpetuo.

—Soli! macchinalmente ancora ripetè… ma in quel punto, facendo un passo verso Elena e prendendole un braccio… la vide lenta lenta piegar il collo e le ginocchia, e diventar bianca come se tutto il sangue le fosse uscito dalle vene. Certo sarebbe caduta come piombo sul pavimento, se non fosse rimasta così sospesa e sostenuta dalla mano ferrata di lui che l'aveva presa pel braccio. Egli subito si tacque, e continuò a sostenerla guardandola con un'attenzione particolare. Passò qualche minuto senza che d'un punto si cambiasse la posizione d'ambedue… ma i ginocchi di lei si ripiegavano sempre più, finchè con quelli venne a poco a poco toccando il suolo. Anche al Lautrec pareva che le forze si fossero scemate, e non bastando a sorreggerla la lasciò toccar terra, senza però lasciarla cadere. Colla testa cascante da un lato, colle braccia pendenti e la fronte pallida pallida, ma bellissima tuttavia di una bellezza senza pari, non dava Elena nessun segno di vita.

La dritta mano ancora avvolta intorno al sinistro braccio di lei, il capo basso, gli occhi fissi nello spettacolo di una vita che pareva dissolversi, il Lautrec non si moveva, non alitava. Pareva una statua di ferro inchinata sur una di marmo…. Se non che improvvisamente, dopo un profondo sospiro che rivelava un angore straziante, dai larghi fori della buffa del Lautrec, caddero grosse goccie di pianto sulla bianca fronte della signora.

Per quell'apparenza di gracilità subita dalle fattezze d'Elena a cagione del deliquio, erasi accresciuta la somiglianza ch'ell'aveva col fanciullo Armando, le di cui linee erano le medesime di lei, e soltanto ne differiva per l'esilità e la pallidezza, e accresciuta al punto che agli occhi del Lautrec l'un volto si confondeva coll'altro. Il fanciullo, nell'anno che stette in Francia, forse pel clima influentissimo sulle debili complessioni, avea perduto sempre più della salute, ed era stato, ed era tuttavia cagione di forti apprensioni al padre, che interrogava medici e si struggeva di dolore, e malediva la sorte che minacciava colpirlo nell'unico oggetto della sua affezione. Ora il volto d'Elena gli richiamava queste idee, e mentre da ciò stesso gli era accresciuta la pietà pel suo figlio, questa era di tal natura, che bisognava pure in qualche parte si stendesse anche sulla madre sciagurata di lui. Temeva l'immatura fine d'Armando, di cui a quando a quando sentiva un vago e angoscioso presentimento; però, mentre era venuto in cerca della madre per consumare su lei una vendetta covata da tanti anni, un orrore insolito lo prese, un superstizioso timore che spegnendo la vita di lei, venisse contemporaneamente a spegnersi anche quella del fanciullo; credeva che un'aura medesima animasse l'esistenza di quelle due creature tanto simili l'una all'altra, e che per conseguenza un soffio solo dovesse riuscire funesto ad ambedue. Ma pensando com'era stato tradito e offeso da quella che ora gli pendeva dal braccio, si tormentava fossegli venuto in quel punto un tal timore, e con una vicenda rapidissima passava così da un estremo all'altro della passione inestimabile che lo divorava.

Pianse finch'ella rimase più presso allo stato di morte che di vita, ma, cosa stranissima a dirsi, quando Elena diede segno di riaversi, parve gli s'inaridisse improvvisamente la fonte delle lagrime, e vergognandosi potesse ella mai accorgersi della condizione dell'animo suo, la mise a giacere, ed aspettando ricuperasse gli spiriti, si staccò da lei.

Taceva ancora tutto d'intorno, e il Lautrec colle braccia intrecciate al petto se ne stava immobile in mezzo alla stanza, le spalle rivolte alla duchessa, quando un secondo suo grido, ma assai più debole del primo, l'avvisò ch'era tornata in vita, e si volse.

La signora, quando si fu desta, alzossi, e movendo in giro lo sguardo, e vedendo il Lautrec immobile, si ritrasse nella camera vicina, ch'era quella da letto, per tentare di chiudervisi in fretta; ma il Lautrec, voltosi a quel movimento, la seguì, e fu davvero il peggio per la sciagurata Elena. Dalla parete in faccia all'alcova del letto pendeva il ritratto del Palavicino, fattogli a Roma da Giulio Romano. Gli occhi del Lautrec corsero a quell'immagine, e fu un funesto accidente che, inariditagli ogni pietà, non gli lasciò che furore nel sangue.

La sciagurata Elena se n'accorse, e vedendo che il Lautrec di colpo s'era fermato innanzi a quel ritratto:

—Ahi, disse con voce tremante e con un accento particolarissimo, io sono perduta! E si mise le mani alle tempia, indizio di gran disperazione.

—Sì, perduta, irremissibilmente perduta! rispose volgendosi il Lautrec alle parole di lei. E per qual altro fine credevate voi che io fossi venuto a far qui, e abbia fatto appiccar fuoco alla città, e gettato lo spavento in sì gran numero di uomini? Per uccidervi; pensate poi se in faccia a questo (e additava il ritratto), io possa mai desistere da tal proposito; preparatevi dunque a morire.

La duchessa, che stava per interrompere il Lautrec, si fermò a quest'ultima parola…. e se ne stette così immobile tendendo lo sguardo senza fissarlo in nessun luogo, e premendo con tremito convulso le mani intrecciate sul petto.

Il Lautrec la prese la seconda volta pel braccio.

Talora l'eccesso dello spavento in animo naturalmente altero genera il coraggio; però al tocco di quella mano ella gli alzò in volto que' suoi grand'occhi con un'espressione che non si potrebbe descrivere.

—Quando pure, come voi, tutta io fossi vestita di ferro, e avessi l'arme accanto, sareste tuttavia ben vile ad assalir me così sola.

Il Lautrec sorrise, ma di quelli amari sorrisi che gelano il sangue.

—Quel ch'io mi sia non lo so, disse poi; ma da così lungo tempo, e con sì tenace persistenza io mi struggo di consumare su te una vendetta pari all'offesa, che se tutto il mondo insorgesse poi a caricarmi d'obbrobrio e a chiamarmi il più vile degli uomini, mi riderei di lui, come adesso mi rido di te; però non isprecare il fiato.

Ciò dicendo, di tanta forza la veniva stringendo colla mano di ferro, ch'ella non potendo sopportare il dolor fisico, gridò. Un sudor freddo le grondava dalla fronte. Era veramente un istante orribile.

La sciagurata richiamandosi, in mezzo al disordine stesso della mente, le ingrate memorie, e vedendosi ricomparire innanzi la truce larva del primo marito per lei assassinato, tanto più si sgomentava, ma pure le parea fosse lo strazio presente di lunga mano superiore alla colpa. Ed era in vero un accidente degnissimo di tutto il compianto che tanta bellezza e insieme tante doti di mente e di cuore, e così abbaglianti prestigi, bastevoli a dar gloria e felicità non che ad una, a dieci vite, per lei siano state invece l'occasione prima di farla cadere in tanto abisso di peccato e di sciagura. Ma ebbe difetto di una virtù che le altre avrebbe equilibrate, ed eccesso di vitalità e d'ardore che mal suo grado la travolse.

Dopo l'ultimo grido della sventurata Elena, salì dal cortile del palazzo un rumore che fu udito tanto dal Lautrec che da lei.

Mille partiti passarono in mente all'infelice e insieme una speranza, ma fu una cosa istantanea, considerando che quel rumore e il sopraggiungere delle sue donne o d'altri avrebbe accelerato l'istante estremo. Parve infatti che il Lautrec si determinasse, ond'ella con tutta la forza che le potea dare lo spavento cercò strapparsi da lui, e uscita così dalla camera da letto, tornò nella vicina. Aveva compreso che il ritratto di Manfredo pendente dalla parete più che ogni altra cosa erale funesto…. Il Lautrec non l'abbandonò…. In quel punto, di dietro alle sei porte, s'udì distintissimo il suono di molti passi.

Il Lautrec si percosse la buffa col pugno… non gli rimaneva un istante di più, ed era tuttavia nel massimo della perplessità e del contrasto.

La sventurata Elena, più non sapendo allora a che appigliarsi, alzatasi quanto più poteva ed accostata la bocca all'orecchio del Lautrec, quasi paventasse d'essere udita da qualcheduno.

—Ah Odetto, disse con accento cupo e guturale, e il nostro figlio!?

Più volte prima ell'era stata in procinto di ricordargli, al fine di placarlo, quella creatura per la quale, insieme a sì vivo amore, provava tanta vergogna; ma il rossore glielo aveva impedito e non ci volle meno dell'ultimo pericolo per costringerla.

Ciò per altro non fu senz'effetto.

Nel tentare d'alzarsi per parlare all'orecchio di lui, avea dovuto abbracciare la sua armatura e lasciarsegli andare addosso. Ora un tal atto, che richiamò ad Odetto l'epoca più felice della sua vita e lo illuse al punto da trasportarlo a quel tempo, e l'accento straziante onde gli fu ricordato il figliuolo, fu di una efficacia strana.

—Oh Elena! proruppe Odetto allora e con impeto. La sua voce aveva il suono del gemito ferino, ma pure blandiente.

La duchessa fu scossa dal modo onde il Lautrec pronunciò il di lei nome, e s'egli non avesse avuto il volto coperto si sarebbe assai confortata vedendolo; ma continuava il Lautrec:

—Se ti spaventa di dover morire, parla.

Il rumore nelle anticamere intanto si faceva sempre più forte, parve anzi che da taluno fosse pronunciato il nome della duchessa.

—Se t'è di spavento, parla, che il tempo ci sfugge. Parla ed esci con me fra questa gente; esci per seguirmi fino all'ultima Francia. Là, nella mia terra, lontano dal mondo, dimenticherò…. Di ciò solo io mi contento…. Giunga a notizia di colui…. che tu sei venuta con me, che Odetto e il fanciullo Armando, il tuo, il mio fanciullo, ti stavano ben più sul cuore che lui colla sua giovanile ma fiacca bellezza. Esci e sia tutto dimenticato…. Nessuno di costoro, di cui udiamo il tumulto, vorrà impedire i tuoi passi, purchè tu il voglia….

Elena non rispondeva, ma, per estremo di sventura, sul volto di lei, senza ch'ella il volesse, apparvero i segni del rifiuto e dello spregio….

Tacque Odetto di colpo….

Dietro alle porte chiuse, più voci chiamarono altamente e con insistenza la signora. Questa gridò per rispondere, e fu un grido da metter tutti in allarme.

S'udirono allora de' gran colpi all'ultima porta.

CAPITOLO XXXI.

Le guardie di palazzo, gli uomini di camera, i famigli, tutti quelli insomma che erano in istato di portare un valido ajuto onde arrestare l'incendio, avevan dovuto, come sappiamo, per comando della duchessa trasferirsi subitamente fuori della città al luogo del maggior pericolo. La signora aveva lor dato ordine di mandar tosto, appena il pericolo fosse cessato, qualcheduno a dirlo. In quanto alle donne, a tutte aveva ingiunto di recarsi nella sacra cappella a pregare.

Per qualche tempo anch'essa aveva pregato con loro, ma poi, siccome abbiamo detto, ad osservare l'incendio, era ascesa all'alto dell'edificio. Le fiamme continuarono un pezzo la loro devastazione, ma vi fu un istante che presa una tinta, una tinta rosso-pallida, il più si distolsero in fumo, e il chiarore generale cessò quasi affatto. Allora la signora stette aspettando qualche buona novella. Dopo alcuni momenti infatti, nel silenzio profondo in cui era avvolta la città, dall'alto ella potè udire distintamente il suono di due passi, i quali parevano attraversar la contrada che metteva al palazzo. Avesse ella potuto indovinare chi era quegli che si avanzava! Ma quel rumore era cessato improvvisamente, ond'ella disse alla fante:

—È probabile sia qualcheduno che venga a darci qualche nuova; scendi dunque a vedere se ciò fosse di fatto, se no, va nella cappella e aspettami là; pregheremo ancora.

La fante, discesa e uscita dal vestibolo, e non avendo veduto nessuno per esser rimasto il Lautrec coperto dall'usciale da lei stessa aperto, si era fermata un istante in mezzo al cortile, poi non udendo altro, aveva messo il piede nella cappella.

Il resto lo sappiamo. Ma ciò che ci rimane a saper si è che, diminuito l'incendio al segno da esser troppe tante braccia al bisogno, la maggior parte degli uomini addetti al servizio della duchessa, visto non esser più necessaria l'opera loro, avevan pensato ridursi a palazzo. Erano desiderosi di dar conto alla signora di quanto avean fatto, e più che altro, di raccontarle quanto oramai correva per le bocche di tutti che cioè lo incendio era stato appiccato apposta da mani scellerate.

Fosse almeno cessato qualche momento prima, che essi sarebbero arrivati in tempo presso la duchessa, ma tutto volle in quella notte congiurare al danno di lei.

Le donne che trovavansi nella sacra cappella, a malgrado della grossa volta della chiesuola e del fervore della loro preghiera, avevano pure udito quel primo grido della duchessa, ma l'esser la camera dov'ella trovavasi nella parte del palazzo opposta alla cappella e rispondente al parco, il grido dileguatosi per di là sembrò ad esse fosse venuto da molto più lontano che non fu; onde, dopo essersi messe in ascolto, non udendo altro, continuarono nella loro preghiera senza un sospetto al mondo; l'altro era stato troppo debole perchè potesse udirsi.

Dopo qualche tempo entrò tumultuando in palazzo la gente della duchessa. Allora anche le donne avvisate dal rumore, si alzarono ed uscirono dalla cappella.

—L'incendio è pressochè spento, rispondeva ciascuno alle donne che domandavano; la selva degli abeti è però quasi tutta incenerita, due catapecchie di famiglie del contado rimasero distrutte. La città soltanto ne fu affatto affatto illesa; lodiamone dunque Iddio e rechiamoci a darne avviso alla signora.

—Ascendiamo all'ultimo terrazzo; io l'ho lasciata lassù.

—Sai tu i nomi delle famiglie che più furono danneggiate dall'incendio?

—Non so i nomi, ma ho degli indizi, e tu sta tranquillo, che alla duchessa non mancherà stavolta l'occasione di beneficare altrui.

Ciò dicendo, salirono in fretta per le scale e su fino all'ultimo ballatoio, ma non avendola trovata entrarono negli appartamenti.

Che le porte delle sale fossero chiuse, era una cosa insolita, però quando fecero per entrare e trovarono l'ostacolo del chiavistello, non seppero che si pensare, e messisi in qualche sospetto, chiamarono per nome la duchessa. Fu allora che udirono le sue grida le quali, a motivo delle porte tutte chiuse, parea venissero da lontano.

Tutti rimasero atterriti guardandosi l'un l'altro in faccia, e più uomini unendo allora i loro sforzi, a gran colpi sfondarono la porta. Chiamarono Elena di nuovo, poi non udendo più nulla si misero in gran silenzio. Tendendo intensamente l'orecchio, parve loro di sentire di dentro come uno stropicciare di piedi che si volgessero in giro con gran violenza.

—E che mai può esser questo? dicevano.

—Perdio, ella non è sola.

—Duchessa, signora, chiamarono altamente le donne.

Si udì un altro grido, il più acuto di tutti, e fu sfondata un'altra porta, poi un'altra e un'altra.

Avvicinandosi alla stanza della duchessa, fu più facile d'intendere quel che vi succedeva.

—Perdio, qui avviene qualche cosa di orrendo, uscì detto ad uno; spacciamoci dunque ed atterriamo le altre porte.

Un gemito profondo, cupo, soffocato, fe' tacer tutti ancora; poco dopo udirono aprire i vetri di una finestra.

L'ultima porta cadde finalmente, e una folla di persone tra soldati, tra servi, tra donne irruppero nelle stanze di Elena, passarono nella camera da letto. La finestra era spalancata ancora; le cortine dell'alcova erano stirate. Corsero ad alzarle e videro il corpo della sventurata adagiato sul letto, come se altri ve l'avesse messa, le accostarono i lumi alla faccia. Non v'era nessun'alterazione nelle linee, soltanto alla solita bianchezza era successa una tinta leggermente livida, e sulla fronte apparivano gonfie e rosse alcune vene. La veste di seta, senza nessun disordine apparente, seguiva ancora i bei contorni della persona; soltanto appariva spezzata la cintura di lamina d'oro onde, per dar grazia maggiore alla persona, ell'era solita avvolgersi i lombi, Pareva che taluno, stringendola alla vita e abbracciandola colla forza d'Ercole, le avesse fatto subire il supplizio d'Anteo.

Lo stupore degli astanti crebbe sempre più. Domandata a gran voce la duchessa, questa non rispondeva, sebbene al respiro desse indizio d'esser viva.

Passarono alcuni minuti di un profondo silenzio, nel quale non s'udivano che i singulti delle donne, e fuori il soffio impetuoso del vento che investiva le piante del parco.

—Eppure, uscì detto finalmente ad uno, nessuno mi potrà persuadere che la signora fosse qui sola.

—Nè io lo potrò mai credere. Stetti ben attento, e non posso essermi ingannato. Qualcuno era in questa stanza con lei.

—Ma e come mai?

—La finestra aperta n'è prova. Certo sono usciti per di qui.

—Venti braccia d'altezza…

Più d'uno allora guardò fuori della finestra.

—Ecco qui… nella vite e la brignonia attortigliata ai capitelli si trovò la scala, e son fuggiti pel parco.

Si tacque ancora. Le donne, circondato il letto della sventurata signora, stavano aspettando venisse il vescovo di Rimini e il medico che in tutta fretta eransi mandato a cercare. Di tanto in tanto chiamavano Elena per nome, e la coprivano di pianto e di baci. Parve che si venisse riavendo. Finalmente dischiuse qualche poco gli occhi, e fu un grido delle donne, un grido di gioia. Quanti erano nella stanza corsero al letto.

—Signora, parlate, che fu, chi è venuto qui?…

La duchessa non rispose, tornò a chiuder gli occhi con un mover lento del capo, e mandò un grave sospiro.

Si rimise il silenzio.

—Tu dicevi, parlavan sommesso soldati e servi; tu dicevi non poter essere che qualche assassino della campagna di Roma, o dell'Abruzzo, o della Marca d'Ancona. Ma guarda qui cinti e monili che soli basterebbero a far la ricchezza di molti, lasciati qui senza che nessuno ci abbia badato più che tanto…

—È vero.

—È vero.

—Quanto più cerchiamo di trovare una spiegazione al miserabile fatto, tanto più crescono i viluppi e i dubbi. Io non so più cosa dire.

In questa entrò il lettore di medicina, al quale tutti si misero intorno. Udita ogni cosa egli se ne venne al letto della signora.

Le donne, veduto che ella pativa difficoltà di respiro l'avevano rialzata qualche poco. Così quando il medico le si accostò pareva si fosse riavuta di molto. Aveva gli occhi aperti, sembrava anzi avessero ricuperato per intero la facoltà visiva, ed ella guardasse con attenzione intelligente, ma a tutte le domande che aveale fatte il medico mai non rispose o non volle rispondere. Ad esso peraltro dai sintomi esterni, risultò che il pericolo era estremo.

Venne finalmente il vescovo di Rimini, uomo, a quanto ne diceva la voce pubblica, d'insigne pietà, senno ed esperienza.

Quando questi si fu al letto della signora, e su lei abbassò il vecchio e venerando capo, fu notato ch'ella fece uno sforzo per avvicinarsi a lui, e farsi intendere con cenni. Il venerando uomo fece allora uscir tutti della stanza. E rimase solo così colla duchessa.

In questa medesima notte viaggiava affrettatamente verso Rimini il nostro Manfredo, insieme all'Elia Corvino e a due barbute. La molta neve caduta lungo la linea degli Apennini, lo avevano costretto il dì prima a fermarsi per molte ore presso Lojano. Senza questo contrattempo si può esser certi ch'egli sarebbe arrivato a Rimini intorno alle ore medesime in cui il Lautrec ci pose il piede. Una tale combinazione sarebbe invero parsa al più dei lettori la più strana, la più improbabile, la più incredibile, eppure tanto induce a credere ch'ella era inevitabile, se la neve non avesse impedito il passo a nostri viaggiatori. Un'ora prima dell'alba quando furono nel Cesenatico, lungo la via, da alcuni uomini del contado udirono a parlare dell'incendio della città di Rimini. Que' villeggiani che da altri avevano appreso questa notizia, la quale facevasi tanto più grave quanto più eran le bocche per cui passava, parlarono di quell'incendio come di una cosa spaventevole, e però interrogati da Manfredo e dall'Elia, risposero, che a quanto essi avevano udito, a quell'ora doveva essere distrutta una buona parte della città. Il Palavicino non volle altro, e dando di sprone al cavallo si rimise in via a gran corsa. Non giunse però presso Rimini che ad un'ora di giorno. In ragione che si venivano accostando alla città, le notizie dell'incendio si conformavano sempre più al vero, per cui, quando furono a poche miglia di distanza, i nostri viaggiatori si tranquillarono affatto, udendo che l'incendio era stato arrestato, e che Rimini non aveva patito gran danno. Rimessosi così da qualunque appressione, il Palavicino vi entrò pochi momenti dopo. Ma alla porta, il caporale delle guardie, avendolo riconosciuto e non sapendo farsi capace del modo lieto onde s'intratteneva col compagno, gli si accostò, e:

—Signore, gli disse, date di sprone al cavallo, che se mai non sapeste nulla, io vi avviso che la signora sta in termine di morte.

—Che? gli domandò Manfredo percosso da quelle parole e fermando il cavallo, d'onde il sai tu?

—Stanotte, eccellentissimo signore, fu davvero una notte d'inferno.

—So che fu appiccato fuoco.

—Nell'ora che tutta la città era in travaglio per stornare il pericolo, uomini scellerati entrarono negli appartamenti della signora…

Manfredo non aspettò che la guardia narrasse il resto. Si cacciò a furia nella via che attraversava la città. Tutti i cittadini uscivano al trotto serrato dei quattro cavalli. Riconoscevano il Palavicino e si ritraevano doppiamente addolorati. La sventura della duchessa aveva sparsa la desolazione in tutto il popolo, tanto ella era amata.

Il Palavicino, entrò in palazzo, smontato di sella, salì tosto agli appartamenti della signora. Non udì che pianti, non vide che disordine, il quale alla sua comparsa crebbe ancor più.

Ai primi tra' servi che gli vennero incontro fece quel cenno che equivale a molte interrogazioni. I servi si strinsero nelle spalle. In quella usciva il medico dalla stanza della sventurata Elena per dar non so che ordini, e colpito alla vista del marchese, il quale gli s'era incontanente rivolto:

—Dopo che il vescovo, gli disse, l'ha benedetta, ella non ha più parlato; nè a me nè ad altri è mai riuscito di saper nulla di preciso intorno a quanto avvenne in questa notte orribile.

—A ciò provvederemo dopo. Ditemi intanto se la duchessa potrà mai riaversi.

—Questo non potrebbe avvenire che per un miracolo d'Iddio; in quanto a me non ho più speranze.

Manfredo stette pensoso per qualche tempo poi disse:

—Io la vedrò… ma fatti alcuni passi per entrar nella stanza da letto, quando fu sulla soglia retrocesse esclamando: Non so s'io potrò mai sopportare l'orribil vista!

—Non v'è segno nessuno di violenza, disse allora il medico, comprendendo appieno le parole del marchese. Parrebbe che naturalmente ella sia stata assalita da repentino malore.

—Ma e che dunque mi fu raccontato per via?…

—Che qualche scellerato sia entrato da lei, è certissimo. Tutti costoro almeno lo attestano.

—Ma e cosa facevano costoro? proruppe allora Manfredo.

—D'ordine della signora, eran tutti usciti per recare qualche soccorso quando l'incendio minacciava d'investire la città.

—Oh è orribile!… orribile!… ripeteva Manfredo, poi chiamati intorno a sè quanti servi trovavansi negli appartamenti:

—Raccontatemi, disse loro con un accento calmo ma grave di angoscia, raccontatemi tutto ciò che sapete… tutto, e non omettete parola.

I servi con gran disordine, ma anche con molta efficacia di espressioni, dissero ciò che sapevano e che avevano udito. Quando si venne all'ultimo punto, egli non potè più trattenersi, e:

—Parlasse ella almeno! proruppe.

Così dicendo, accompagnato dal medico entrò nella stanza della sventurata Elena.

Ella non dava oramai più nessun segno di vita, l'agonia era incominciata. Il venerando prelato le stava d'accanto immobile.

Manfredo la guardò, la chiamò per nome, e veduto ch'era indarno, si concentrò in sè stesso e stette pensoso molto tempo.

Dopo, recatosi al finestrone ch'era stato chiuso, ne sferrò le vetriere, lo aprì e guardò fuori. Parve che anch'egli ne misurasse l'altezza.

—Per quanto lavori col pensiero, non so trovare nessun filo, esclamò poi a voce bassa rivolto al medico; però di là non può esser fuggito che un uomo solo. E non poteva essere un assassino volgare. Oh parlasse questa infelice!

Il medico gli disse allora che al vescovo ella aveva di certo parlato e che esso doveva saper qualche cosa: però si provasse a interrogarlo. Manfredo lo tentò.

—Le preghiere dei morti van rispettate! fu l'unica risposta che gli diede il vescovo facendo un nuovo segno di croce sul volto della duchessa.

L'agonia della infelice durò due giorni e due notti. Il sacerdote non l'abbandonò mai; il medico praticò tutti gli argomenti per vedere di conoscere la causa che sì repentinamente l'avea tratta a quel termine, senza che ci fossero indizi manifesti di una grave lesione, ma sempre dovette fermarsi alle congetture.

In quanto a Manfredo, continuò esso pure a tentare discoprir qualche filo, e venutogli il sospetto fosse mai stato il Lautrec medesimo l'uccisore della sua donna, non omise nessun mezzo che potesse condurlo a verificare un tal fatto…. Ma desiderando una cosa, un'altra ne scoprì…. Verso le ultime ore dell'ultima notte…. cercando non so che oggetti in uno stipo d'argento, gli venne veduto un piccol ritratto…. messovi lo sguardo…. la prima sensazione fu quella di un grave turbamento…. Gli parve d'aver già veduto quel volto infantile, ma non sapeva ridurselo a memoria…. pure insistendo, si ricordò del fanciullo Armando, il figlio del Lautrec, che a suo agio aveva potuto guardare a Reggio, e che anche allora avea fermata la sua attenzione. Egli non sapeva nulla del misterioso fatto…. ma fu colpito quando, osservando meglio, in quelle linee di fanciullo gli sembrò vedere il volto istesso di Elena. Si ricordò del passato…. comprese tutto…. gli cadde il ritratto di mano.

Tre giorni dopo partiva di Rimini. La duchessa Elena era già discesa nella fossa, e la notizia ne corse per tutta Italia…. Il mistero che aveva circondato la sua vita circondò pure la sua morte, e dovunque si continuò per gran tempo a domandare come fosse avvenuta. Il vescovo di Rimini fu però sollecito di far diffondere la voce che la duchessa Elena era morta naturalmente.

CAPITOLO XXXII.

A tener dietro a ciascun passo dei principali personaggi in cui c'incontrammo nel corso di questa storia, ad osservare più d'appresso che ci fosse possibile taluni fatti, abbiam dovuto percorrere gran parte d'Italia. Da Milano passammo a Roma, a Rimini, a Venezia, a Reggio correndone e ripercorrendone lo stradale. Ora ci conviene varcare le alpi e dilungarci da Italia per gran tratto.

L'uomo che i destini collocarono all'estremo di una dinastia famosa perchè dovesse chiuderla per sempre, che per anni molti fu occasione di controversie, di lotte, di errori, e insieme di virtù grandi e di sforzi magnanimi; l'uomo al quale un popolo, intero, abbattuto da patimenti assidui, volge, dopo un lungo oblio, lo sguardo e le speranze; che, mentre altri s'affaticavano per lui, stette fuori, mal suo grado, degli sguardi dell'universale, protagonista senza parole e senz'opere, coperto dalle dense ombre della sua sventura; quest'uomo, che fu nulla per sì gran tempo, mentre pure si rodeva del desiderio di esser tanto, deve esercitare su noi così gran forza da costringerne finalmente ad occuparci anche di lui.

Fuori una lega d'Augusta, l'antica città sui campi dove Ottone il Grande sconfisse gli Unni nei secolo decimo, quasi in ogni giorno dei primi mesi del 1521, alla prim'alba, i buoni borghesi alemanni che per commercio viaggiavano in quei dintorni, lungo il cammino, si fermavano ad osservare un giovane uomo il quale, su di un ardente cavallo, comandava drappelli di fanti e cavalli, che per esercizi simulavano battaglie sulla estesa campagna. Si domandavano l'un l'altro chi mai fosse quel giovine cavaliere, e tosto un senso di rispetto e di venerazione pietosa si metteva nei cuori di quegli uomini leali, quando sentivano esser colui il duca Sforza, l'ultimo della dinastia del grande Francesco, che sbalestrato giovinetto fuori dei suoi Stati da un'usurpazione crudele, ora anelava di ricuperarli, e finchè durava gli ozi ingrati, esercitavasi in ciò che più è necessario a chi deve metter corona.

Era da qualche tempo infatti che il duca Francesco Sforza, dopo avere accompagnato Carlo nelle Fiandre, aveva stabilita la sua stanza in Augusta, nella quale città era venuta a dimorare anche la Ginevra Bentivoglio.

Il Morone le avea consigliato di star presso al duca, come a costui aveva raccomandato di vegliare sulla di lei sicurezza. L'acuto lombardo, considerando di quanto aiuto esser potesse ai forti bisogni del duca l'ingente pensione pagata dal pontefice alla vedova del Baglione, per questo li volle ravvicinare. Siccome però dubitava fosse mai per sorgere da ciò qualche voce che offendesse la fama illibata della signora, così fra' que' leali Alemanni che circondavano lo Sforza diffuse il racconto dei lunghi patimenti subiti dalla Ginevra e come figlia del signore di Bologna e come consorte del tiranno di Perugia, narrò egli medesimo la simpatia profonda che prima di quel malaugurato matrimonio l'avea legata con Manfredo Palavicino, gentiluomo lombardo, e come in ultimo, per giovare alla patria e dar modo all'amico di collocarsi a tal posto dove gli fosse più agevole adoperarsi per essa, sebbene libera di sè per la morte del Baglione, pure avea fatto sacrifizio dell'immenso affetto che nutriva da si lungo tempo, concedendo ella medesima alle braccia d'altra consorte l'uomo che già chiamava suo sposo, ed era venuta intanto presso il duca Sforza per giovare coi proprii mezzi nella causa di costui quella della patria. Il fatto di una virtù così insolita non è a dire che venerazione fruttasse alla Ginevra, in quel paese dove un sentimentalismo profondo e sincerissimo è sorgente di adorazioni per ciò che altrove troverebbe indifferenza e spregio.

Lo Sforza, sebbene da tanto tempo desiderasse di metter gente insieme, pure da principio non volle accettare le offerte generose della Bentivoglio, ma finalmente, pieno di fiducia nella propria causa, e sicurissimo che, rimesso nei propri Stati, avrebbe potuto compensar la Ginevra ad usura, accettò, e così con que' mezzi e coi pochi lasciatigli da Massimiliano e con quelli che gli venner dopo da Carlo, potè in breve metter insieme quel migliajo tra fanti e cavalli.

Una mattina del febbraio di quest'anno, in mezzo a molti cavalieri tra lombardi ed alemanni, misurava esso la gran pianura d'Ottone facendo la solita rivista e comandando le consuete manovre. A vederlo mostrava un trent'anni di età, ma non ne contava che ventotto, ed era di un'avvenenza assai rubesta, con folta e prolissa barba. Al modo onde governava quella sua gente, pareva uomo nato fra l'armi, e che per tutta la vita ad altro non avesse atteso che all'arte della guerra.

Fin da quando, uscito dal ducato di Milano, seppe che il suo fratello Massimiliano aveva abdicato e che però le sorti, qualora avessero mai voluto ristampare la dinastia, si sarebbero rivolti a lui secondogenito, si propose di passare il tempo del suo esiglio negli studi d'ogni maniera. Passando dai più violenti esercizi di corpo, alle più alte e solitarie meditazioni della scienza, dalla sala d'Armi all'aula dell'Università, avea trascorsi cinque interi anni; perciò, sebbene fosse ancora assai giovane, tuttavia poteva annoverarsi non solo tra' più perfetti cavalieri, ma anche tra i più dotti giovani che allora facessero parlare di sè nelle Università della Germania.

Il Morone medesimo, quando dopo tanto tempo di lontananza, si trovò con lui e lo udì parlare, ne rimase altamente edificato e ne concepì le maggiori speranze. Valore, dottrina e mansuetudine sapiente nei rapporti della vita privata; c'era forse quanto poteva bastare perchè l'ultimo Sforza avesse a toccare la gloria del primo.

Venuta l'ora in cui, finiti gli esercizi del campo, ritto sul cavallo, si fermò ad osservare ad uno ad uno i fantaccini ed i cavalieri che gli sfilavano innanzi:

—Se il re di Francia, diceva parlando al nipote del cardinale di Sion che stava sempre seco, sapesse ch'io sto esercitando codesto pugno di soldati, davvero che riderebbe; pure io vivo sicuro che non riderà a lungo. Ma s'egli si credesse mai ch'io fossi per riporre tutta la mia fiducia in così poca gente, mostrerebbe di non avere attitudine nessuna a giudicare altrui. Del resto potrebbe esser causa di gran maraviglia in coloro che si fermano alle prime apparenze, il vedere ch'io vada tuttodì addestrando questi uomini, che tutti si sono trovati in più fatti d'arme, e non possono apprender molto da me che, dalla culla passato all'esiglio, non ho ancora fatto nulla al mondo; ma se lì trattengo per tante ore sotto le armi, è appunto per esercitar me così inesperto. Pure verrà tempo, caro mio, tempo verrà che faremo qualche cosa anche noi, e dal drappello passando all'esercito non ci darà noia la polvere del campo; però se Francesco I Sforza fu l'onore del suo tempo, noi condurremo le cose in modo che il secondo Francesco almeno non ne sia il disonore. Ma tornando a noi, questa brava gente non sarebbe già qui per dar spettacolo a me solo; varrà pur essa a qualche cosa, e presto. Vi farò leggere le ultime lettere venutemi da Italia. Tutti si son desti, e il più dei Milanesi stanno per me finalmente. Sentirete quanto dice il Morone, quanto promette il mio Palavicino.

—A proposito di questo amico vostro, credete voi ch'egli verrà qui prima di tentare un colpo in Italia?

—Fu un pensiero del Morone… del resto poi non so… pure se vuolsi operare con prudenza, il Palavicino dovrebbe venir qui a prendersi seco questa gente per unirla alle soldatesche che già si son messe insieme in Italia, e di buon grado la porrei sotto il suo comando. Non so s'io saprei indurmi a far questo con altri, ma se non avessi fiducia in quel mio generoso amico, dovrei negarla anche a me stesso. Faccia egli dunque quel che a me non è concesso per ora. Dopo toccherà a me, a me sempre… se Dio lo vorrà.

Ciò dicendo, come fu passato dinanzi a lui l'ultimo fantaccino de' suoi, dando anch'esso di sprone al cavallo, si mise a trotto per tornare in Augusta.

—Mi pare siasi fatto tardo, e ci bisogna affrettare il passo. Il lettore di diritto Martino Zimmerman comincierà oggi i commenti dei capitolari dì Carlomagno, e preluderà discorrendo tutta la storia del regno di questo sovrano gigante; capirete dunque che non bisogna mancare. La dotta facondia di questo lettore di giurisprudenza mi diletta assai, e in quanto a me vado struggendomi del desiderio d'approfondarmi sempre più in codesta scienza, ch'è la scienza dei re.

Così, passando d'uno in altro discorso, entrato in città e scavalcato al proprio alloggio, passo passo, a braccio del Sion e di un giovane lombardo, figlio di un mercante di pannilani, s'incamminò verso l'Università.

Gran parte della studiosa gioventù della Germania affluiva allora in Augusta, e quell'ardore persistente di studi che più tardi fu il caratteristico degl'ingegni di quella nazione, era abbastanza notevole anche allora. I biondi e perspicacissimi figli del Reno, della Mosa, dell'Elba, od osservavano abitualmente il silenzio dei trappisti, o se il rompevano, era per gettarsi a corpo perduto sul campo della discussione e delle argomentazioni sottili, e anche di quel tempo sì forte era l'entusiasmo della scienza, che quando pure la Cerevisia di Monaco metteva loro di gran fumi alla testa, gli ardenti vaniloqui versavan sempre intorno alle più astruse ed intricate quistioni. Se tutte le dispute fatte a voce, da che esistono Università in Germania, si potessero riprodurre e pubblicare, sarebbe causa di un forte stupore il vedere sino a che punto la ragione possa smarrirsi entro i suoi medesimi labirinti.

Con questi giovani ardenti, instancabili, acutissimi, passava dunque il giovane Sforza il suo tempo, quando tornava dall'avere armeggiato. Proponeva, domandava, rispondeva, argomentava, sottilizzava anche: se non che quel buon senso imperturbabile onde, se vuolsi, vanno assai distinte le intelligenze lombarde, gli serviva di bussola ogni volta che coi colleghi audaci gettavasi in qualche mare intentato; e spesso avveniva che con un bel tacere si fermasse a tempo, lasciando intero ai colleghi il privilegio d'invadere le regioni della pazzia.

Al tocco della campana entrò lo Sforza nell'aula dove leggevasi diritto, e senza distinzione di sorta s'affrettò a sedere nei banchi. I figliuoli dei buoni borghesi d'Augusta e delle altre città della Germania sedettero appresso all'ultimo rampollo dei duca Sforza di Milano. Vicino alla cattedra ove saliva il dottore Martino Zimmermann eravi però un posto di distinzione; una gran seggiola a bracciuoli con cuscini di corame incartocciato e chiodi d'ottone abbruniti dal tempo. Poco dopo che il dottor Zimmermann fu salito in cattedra, una donna vestita a lutto, accompagnata da un servo, entrò nell'aula e andò a sedere in quel posto distinto. Era dessa la Ginevra Bentivoglio. Quantunque ogni giorno assistesse alle lezioni di diritto, pure la sua comparsa era sempre seguita da un lungo mormorio, tanta ammirazione sentivano per colei que' giovani entusiasti.

A dimenticare i molesti pensieri che malgrado la sua virtù e la sua fermezza d'animo, venivan spesso ad opprimerla, la Ginevra giusta i consigli del Morene, uscendo della sfera di donna, s'era avvolta con molto ardore nelle pubbliche faccende. Delle sue rendite la massima parte erano impiegate a soddisfare alle paghe delle soldatesche del duca. Per le circostanze che sa il lettore, ella aveva in odio il nome francese e amava ardentemente l'Italia; nè la diversa direzione del padre e de' fratelli non avevano più che tanto influito su di lei, che il Palavicino l'avea prepotentemente indotta nelle proprie opinioni. Per questo operava con passione, e il sagrificio che faceva altrui delle proprie ricchezze era così volontario, così spontaneo, che gliene derivava una soddisfazione completa.

Per quanto però avesse interesse e prendesse parte alle cose della patria, più volentieri lo facea coi fatti che colle parole. Voleva essere perfettamente istrutta del movimento delle cose; parlarne a lungo le dispiaceva; anzi, lo si può dar per certissimo, le recava una pena insopportabile. Discorrendo col giovane Sforza la condizione presente e l'avvenire della patria lontana, ad ogni quattro parole era impossibile di non toccare del Palavicino. Il tumulto eccessivo che sempre le si metteva nell'animo a tal nome era ciò che le faceva scansare di parlarne. Però a tentare ogni modo per dimenticarlo, e svagarsi, tornò agli studi severi, in cui giovinetta aveva mostrato di valere assai, quando, sotto l'Urceo, aveva atteso allo studio dei Classici latini; udito poi dal duca Sforza, che nell'università d'Augusta eravi un assai distinto professore di diritto che parlando l'idioma del Lazio, trascinava tutti colla dottrina straordinaria e l'insolita eleganza della facondia, pensò d'intervenire anch'essa alle sue lezioni, e da più giorni le sole ore in cui potea dire di riposare veramente in un perfetto sollievo, eran quelle che passava nell'aula dell'Università, tenendo dietro con attenzione e spesso con entusiasmo al discorso del lettore di diritto.

Questi intanto aveva accennato d'incominciare la sua lezione, e già nell'aula erasi messo quel silenzio che è sempre indizio del quanto un professore promovi l'interesse nella massa degli uditori. La Ginevra si raccolse, e dimenticando al tutto ogni altra cura si mise in ascolto.

Il professore, prima di venire a trattare di quanto era rimasto della grand'opera di Carlomagno, degli avanzi della legge salica, della ripense, della borgognona ecc., e di risolvere se i capitolari fossero tolti dal diritto romano, ciò che formava l'oggetto principale della lezione di quel dì, facendo precedere una digressione storica, aveva cominciato ab ovo, vai dire dalla divisione del regno dei Franchi dopo la morte di Pipino; poi toccato, in passando, di Carlomanno e della sua morte, entrò finalmente a parlare di Carlomagno, della sua puerizia, del suo carattere in tutto germanico, della sua incoronazione, della prima guerra d'Aquitania, delle cagioni che prepararono le sue conquiste, della caduta del regno dei Longobardi. E a questo punto pose una questione, quella questione intorno alla quale l'Italia sta attendendo adesso che il suo più grande scrittore pronunci le definitive parole. Il professore Zimmermann avea però dato, per oggetto principale della disputa, ciò che oggidì fu toccato per incidenza, ed era:==Se all'Italia, dall'invasione dei Franchi e dalla caduta del regno longobardico sia venuto danno o vantaggio, e se colui che chiamò Carlo in propria difesa abbia saviamente e giustamente operato.==Il dottore Zimmermann, premesso il proprio giudizio, che era in tutto favore di Adriano, gettò la questione al dibattimento degli uditori.

Il duca Francesco Sforza, alzatosi dal suo banco e coprendo della propria la voce di molti altri che sorgevano per parlare, si mise con molto impeto contro all'opinione dello Zimmermann.

—Io, che sono italiano, cominciò a dire, che vedo il vantaggio della patria mia, e lo vedo con chiarezza perchè lo sento con ardore, dirò qualche parola su questo soggetto. Adriano, chiamando Carlo, non provvide che a se solo, senza avere un pensiero al mondo del resto d'Italia. I Longobardi conquistando il territorio romano, e distendendosi sulla parte massima d'Italia, l'avrebbero a lungo unificata; però Adriano intercettò la via all'opera del tempo, troncando in un colpo tutti i fili delle speranze avvenire. Tutti i mali onde oggidì è tormentata l'Italia, sono conseguenza dell'improvvida risoluzione d'Adriano. Su di me, sul popolo mio che mi fu tolto pesano da anni codesti mali gravissimi, e però più di tutti posso misurare l'abisso profondo dove un uomo, d'altronde santissimo, gettò pel corso di secoli un'intera nazione.

—I Longobardi, gli obbiettava lo Zimmermann, mantenevano in uno spavento continuo non solamente Adriano, ma quella parte di popolo affidata alla sua custodia. Egli era dunque in obbligo di provvedere alla felicità del suo popolo; in prima è necessità rimovere il danno presente, dopo si può anche pensare al vantaggio futuro. Che dalla maggior conquista de' Longobardi potesse scaturire un futuro bene, è una facile illusione, ma chi ne avrebbe mallevato Adriano? e doveva intanto permettere che il suo territorio fosse messo a ferro e fuoco?

—Che lo dovesse non lo penso; ma se non aveva altro mezzo per istornare la violenza, che di chiamare i Franchi in Italia, dico il vero, avrei voluto il suo danno, che di questo sarebbe venuto gran frutto alla maggior parte dei suoi contemporanei, immenso a tutti i suoi posteri e a noi. E s'io ne porto la convinzione, bisogna bene che la verità mi faccia forza, non il solo interesse; giacch'egli è chiaro che se Italia, per opera de Longobardi si fosse fusa in un gran tutto, io forse non sarei stato più che un individuo della gran massa della nazione; nè la famiglia Sforza mai avrebbe assunta la dignità della dinastia nè le alte virtù dell'avo mio mai sarebbero comparse al cospetto del mondo; nè io adesso mi affannerei per un diritto, dal cui riacquisto e dalle cui conseguenze forse mi verrà alcuna gloria. Ma prima di me, unità impercettibile, metto il vantaggio delle centinaja di migliaja, e sempre sosterrò che la calata di Carlo fu la prima, l'unica, la fatale causa della rovina d'Italia, e che se i Franchi non l'avessero toccata allora, i Francesi non farebbero adesso così atroce strazio del mio buon popolo.

Il dibattimento si protrasse per assai tempo; chi stette pel dottor Zimmermann, chi pel giovane duca, il quale questa volta più che di forza logica e di argomentare sicuro e conseguente, die' segno del grande e sincero amore onde amava la sua terra, e come in ogni occasione fosse sempre così preoccupato del pensiero di lei, che le questioni le vedeva sovente da un unico lato.

Così anche quel giorno la lezione del dottor Zimmermann si chiuse, e gli uditori uscirono dall'aula a patto di portare la volontà di discutere anche fuori dell'Università.

Di questa guisa tanto il duca Sforza che la Bentivoglio, l'uno tentando colle occupazioni d'ogni maniera di frenar l'impazienza che da anni lo rodeva, l'altra di smarrire l'antico affetto in un entusiasmo più vasto e più generoso, stavano attendendo venissero altre notizie d'Italia le quali, si lusingavano, avessero ad esser le risolutive. Ma passò il gennaio e quasi tutto il febbraio. Soltanto in sullo scorcio di questo mese, quando il duca Sforza, venendo dall'Università entrava nella sua casa, trovò il solito corriere d'Innspruck che aveva lettere d'Italia appunto. Erano presenti il nipote del Sion e alcuni Milanesi della parte ghibellina. Lo Sforza apre le lettere in faccia a loro stessi; una era del Morone, l'altra del Palavicino. Scorsole di volo per vedere ciò che contenevano, le rilesse poi ad alta voce pieno di esaltamento.

Dicevasi in quelle lettere, che i fatti eran maturi finalmente, che mentre Leone e Carlo stavan per mettersi d'accordo e per unire le loro forze contro Francia, tornava indispensabile coglier l'occasione che gli animi nel ducato di Milano fossero inaspriti contro il governo, e con un'impresa ardita prevenir l'opera stessa dei due alleati. Lo si assicurava che congiungendo le soldatesche del Palavicino alle sue, siccome tali forze unite venivano rinvalidate dall'entusiasmo dei molti Milanesi ch'entravano a farvi parte, presto sarebbesi messo il governatore di Milano a malissimo partito.

Aggiungevasi poi che una tale impresa, comunque fosse andata, sarebbe sempre stata di vantaggio, non mai di danno; giacchè se falliva il primo colpo, si sollecitavano con ciò i soccorsi dell'Imperatore e del papa, i quali parevano tardar troppo a risolversi; se poi la buona volontà avesse trovata la fortuna corrispondente, tutte le esitanze si sarebber tolte di mezzo, e il fine avrebbe quandochessia coronato il principio.

"Da quest'ora, così chiudevasi la lettera del Palavicino, non più colle parole ma coi fatti verrò a darti prova dell'amicizia che da tanti anni mi lega a te, duca Francesco. Io confido che in poco di tempo tu sarai restituito a Milano, dove tutto il popolo oramai ti desidera ardentemente. Quando considero che la fortuna, mentre non mi ha mai giovata in nessuna mia cosa, sempre in quest'ultimi anni mi si mostrò seconda ne' tentativi fatti in pro della patria e di te, con tutta ragione dobbiamo sperar tutto da quanto stiamo adesso per imprendere. Se tu udissi in questo momento le proteste, i voti, i giuramenti dei tanti Milanesi che mi stanno d'intorno, certo ti loderesti d'essere stato per sì gran tempo da essi dimenticato, se una tale dimenticanza doveva essere susseguita da così vivo fervore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stando dunque a quanto ti ha detto il Morone, i cui pensamenti sono sempre i più diritti, in breve io sarò presso di te per le necessarie disposizioni. Sul lago di Como, le mie genti condotte dal conte Mandello, che, vedendo il bisogno, s'è fatto il più perfetto gentiluomo e soldato d'Italia, si uniranno alle tue condotte da me, se ti par bene. Per verità che se avessi a guidarle tu stesso, l'impresa sarebbe forse più sicura; ma la tua vita non deve ancora esser messa a pericolo…. lo vuole la necessità…. del resto non mancherà tempo. Aspettami dunque."

Questa lettera fu mostrata anche alla Bentivoglio, la quale, sebbene più volte avesse udito dire che il Palavicino sarebbe anch'esso capitato in Germania, pure ne fu molto sorpresa quando sentì dovervi giungere infallibilmente e tra poco tempo. Tuttavia, in faccia allo Sforza non fece atto, nè disse parola che svelasse menomamente la sua commozione; bensì, alcuni giorni dopo, considerato che rimanendo in Augusta non le sarebbe mai stato possibile scansare di trovarsi col Palavicino, nè sentendosi forte abbastanza da sopportarne la presenza, disse allo Sforza che gli bisognava recarsi a Monaco per poco, e vi si recò infatti.

CAPITOLO XXXIII.

In questo mentre, Manfredo Palavicino tornato a Reggio, ad onta della prostrazion d'animo in cui necessariamente avealo gettato il caso funesto, colla maggior sollecitudine aveva atteso ai preparativi per l'impresa. Non gli era però stato possibile uscir subito da Reggio, giacchè, quando ogni cosa fu disposta, la città ebbe a difendersi ancora dagli assalti de' Francesi, a proposito dei quali, di buona voglia rimettiamo il lettore al Guicciardini che li raccontò a lungo e per minuto.

Con maggior interesse ci occupiamo invece di quegli avvenimenti che, sebbene di un'uguale ed anche di una maggiore importanza, pure sono appena accennati, e come di gran fretta, nella storia e nelle cronache, o taciuti spesso non appajono che sottintesi, e de' quali in ogni modo la netta cognizione non risulta che dalle lunghe letture e dai diligenti confronti di molti libri. Più che amplificare i racconti della storia può tornar vantaggioso il cercare d'empirne le lacune, e a questo abbiam volte le nostre intenzioni.

Appena dunque il Palavicino ebbe sgombro il passo, accompagnato dal Corvino e da pochi altri, si pose in cammino per la Germania, mandando prima al duca Sforza, per que' mezzi di comunicazioni praticati dal Morone dopo la sua andata in quel paese, la lettera che noi già conosciamo. Lungo il cammino si recò dal Figino più sopra nominato, signore del castello in sull'Adda. Gli parlò del gran conto che per voto comune erasi voluto fare di lui, gli espose per minuto il disegno da seguirsi ad ottenere il gran fine a cui tutti da poco tempo miravano con grande ardore, e prese con lui gli opportuni concerti per la gente da ricovrarsi temporariamente nel suo castello. Il Figino, il quale appena seppe tentarsi qualcosa contro Francia, aveva mandato dire al Palavicino, di cui era amicissimo, non voler per nessun conto far l'ultima parte nell'opera comune; ben grato dell'illimitata fiducia, rispose che da quell'ora egli, i suoi, le sue ricchezze erano a disposizione di lui e dello Sforza, però procedesse con coraggio, che non gli sarebbero mai mancati soccorsi.

—Io poi, gli disse in ultimo, terrò d'occhio il corso dell'Adda e del lago, e da qui a Chiavenna, in varj punti, porrò uomini fidatissimi, pei quali rapidamente ci possa giungere la prima notizia della tua comparsa, e così io, il Mandello e la gente ti moviamo incontro senza perder tempo. Mi pare che tutto sia disposto con ordine, onde si può sperar bene.

—Nel tempo che il Mandello starà qui, istrutto com'è d'ogni minima cosa, istruirà te pure e tutto riuscirà facile. Ho pochissimi timori e grandi speranze, conchiuse finalmente il Palavicino. Presto dunque ci rivedremo.

Così, rimessosi in viaggio, non si fermò più che oltr'alpi.

Una sera il duca Francesco Sforza, nell'ora che, lasciato da tutti i suoi, era solito ritirarsi a studiare per gran parte della notte, mentre appunto stava pensando al troppo lungo intervallo che passava tra la lettera ricevuta e l'arrivo del Palavicino, ode un insolito scalpito di cavalli nel cortile. Si alza da sedere per uscire a sentir chi fosse, quando i servi, entrano nella stanza:

—Eccellenza, gli dicono, è giunto il marchese Palavicino, e sale adesso le scale.

Il giovane Sforza, agitato da una vivissima commozione, muove allora incontro all'ospite, il quale gli si affaccia dal vestibolo.

Il rivedersi di due amici, dopo molti anni d'assenza, di due veri amici che sian cresciuti insieme, a cui tutti i rapporti della vita, dell'età, delle opinioni, delle sventure, dei timori, delle speranze abbia mantenuta inalterabile l'affezione, è un istante di ben forte interesse. Quantunque io abbia udito dire, non esservi cosa sotto il sole che mai possa raggiungere il gaudio di due amanti, i quali si riabbraccino dopo lungo intervallo, tuttavia porto opinione, che nell'incontro di due amici ci sia alcun che se non di più ardente, certo di più dignitoso, di più solenne, di più profondo. Due uomini che si conoscono, che si stimano, e che per un gran fine sospirato a lungo, dopo pericoli gravi, si trovano insieme finalmente e la mano dell'uno sta stretta in quella dell'altro…. è e sarà sempre uno spettacolo innanzi a cui non potrà rintuzzare la commozione neppure il più scettico uomo…. Nell'incontro di due amanti invece un tal uomo troverebbe quanto basta per fare un epigramma….

Stretti adunque per mano il Palavicino e lo Sforza, si ritrassero, dopo alcuni momenti, fuori degli altrui sguardi, e liberarono alfine la parola che in sulle prime non avea voluto uscire.

—Così io ti rivedo, o mio Manfredo, disse lo Sforza, ti rivedo abbattuto dalle tante sventure che hai subite per me, narrandomi le quali, il Morone mi fece tremare e fremere, sebbene te ne sapessi uscito oramai. Però m'accorgo che sul tuo volto i tempi calamitosi hanno lasciato la loro impronta. E per verità che mi sembri assai dimagrato, tanto che, a tutta prima, se non fossi stato avvisato, quasi non t'avrei riconosciuto.

—Se non v'è altro che il pallore e la magrezza, ti assicuro che ciò non mi dà nessun pensiero. Del resto da qui a qualche anno avrò tempo di metter l'adipe anch'io…. Sei mesi ancora di gran faccende e d'altri pericoli, se vuoi, poi tutto tornerà nell'ordine antico, e allora toccherà a te.

—Dio faccia che tu sia indovino infallibile, ed io possa davvero affaccendarmi dì e notte pel maggior vantaggio del mio buon popolo e della mia cara città. Pure in tutto questo tempo, se mi furono impossibili i fatti, col pensiero m'affannai sempre in cerca del modo di ristorare, e per sempre, i poveri Milanesi, da così lunghi patimenti, e di spargere dappertutto una felicità che debba esser duratura, e tanto più volontieri io vi attesi, in quanto era sicuro che il mio Manfredo me ne avrebbe aperta la via. La più importante, la più ardua, la più gloriosa opera fu rimessa dal destino nelle tue mani…. ma della gratitudine ond'io ti pagherò, spero che tutti ti pagheranno.

Manfredo non rispose, e strinse di nuovo la mano dello Sforza che si tacque.

Ben rare volte due uomini sentirono, come costoro l'uno per l'altro un attaccamento così vivo e così forte.

—Certo non più di sei mesi, tornò a replicare Manfredo, e di Francesi non rimarrà più traccia in Lombardia. Domani mi farai vedere la tua gente.

—Spero che ne rimarrai soddisfatto, e ti so dire che dal primo all'ultimo cavallo, dal primo all'ultimo fante son tutti uomini da valer dieci per ciascuno. Però se anche i tuoi son di tal razza possiam dire d'avere un esercito a' nostri ordini.

—Nella gente che ho raccozzata da varie parti d'Italia, ho messo un milanese per ogni dieci, e de' più ardenti patriotti, perchè possa col suo entusiasmo raddoppiar la forza a ciascuno. Così fosse possibile fare il medesimo anche co' tuoi, che tutti i colpi sarebbero infallibili allora.

—Lombardi ve ne sono in Augusta più di parecchi, ve ne sono in Fiandra, ve ne sono in più città lungo il Reno, e so benissimo che oramai stanno tutti per me.

—Allora sarebbe ottimo cercare di congiungerli tutti quanti.

—E il modo?

—A te non conviene chiamarli, ci penserò io por questo; una cinquantina ch'io ne possa raccogliere è più che sufficiente. Quei che dimorano in Augusta ci sono intanto. Bisognerà dunque andare in traccia degli altri, e sta tranquillo che saprem navigare il Reno e la Mosa. Io prenderò per una parte, l'amico che ho meco prenderà per l'altra… così in breve ci spacciamo…. e dopo…. Tutto il piano che ho abbozzato su quel che mi rimane a fare, te lo mostrerò punto per punto, e confido che i tuoi consigli lo faranno perfetto.

Qui fece un po' di pausa, poi disse:

—Ora che abbiam parlato di quello che più importami, dell'unica cosa che mi dovrebbe occupare, mi farò lecito parlarti di quanto riguarda me solo. So che la Ginevra è in Augusta.

—La sua casa è qui in fatto; ma da un venti dì se n'è andata a Monaco.

—A Monaco?

—E mi pare d'aver compreso benissimo perch'ella abbia voluto partirsi, come non comprendo affatto, che tu mi abbia a domandare di lei, tu, marito della signora di Rimini.

—L'avresti compreso, se una strana notizia avesse potuto giunger qui prima di me. Sappi dunque che son vedovo.

—Vedovo?

—Sì, la duchessa è morta; fu un grave avvenimento.

—Ma raccontami com'è il fatto in breve. Io son pieno di maraviglia.

Il Palavicino raccontò al duca tutto ciò che noi sappiamo. Lo stupore dello Sforza andava crescendo ad ogni parola di Manfredo, ma come questi ebbe finito:

—Convien dire, proruppe, che la fortuna t'ha voluto battere per ogni verso, e mai non t'ha lasciato tranquillo un'ora.

—Egli è così in fatto; e t'assicuro che mi è voluto del buono a riavermi anche da questa percossa… tanto più che…. io ebbi dei torti con quella sciaguratissima donna, ed ora sento il rimorso di averle amareggiato, benchè senza volerlo, i giorni che precedettero la sua misera fine. Ma le lagrime, ma la memoria di questa…. di questa cara Ginevra, fecero dileguare ogni amore che prima pur seppi portare alla duchessa, la quale si mise in sospetto, e da che visse con me non ebbe più pace.

—Ciò è chiaro… ma io non ne voglio udir altro, e tu non parlarmene più. A quel che avvenne non è rimedio, e i rimpianti e i rimorsi tornan sempre inutili se non dannosi. Se dunque i morti non si ponno risuscitare, pensiam piuttosto a consolare i vivi. Ti ho dunque a dire che la Bentivoglio è sconsolata.

Manfredo tacque.

—Benchè in tutto questo tempo ella siasi fatto forza, e la sua virtù abbia potuto assai, pure non potè abbastanza perch'io non le leggessi in cuore.

—E che diceva?

—Nulla diceva; operava in vantaggio e di me e d'Italia e dell'impresa comune, e nel suo segreto intanto gemeva continuamente. Sai tu poi, perchè da venti giorni siasi partita di qui?

—Non lo so.

—Le mostrai la lettera, dalla quale appariva che tu eri per venir qui tra brevissimo tempo; però ti ha voluto scansare: ecco tutto.

—Ciò era più che naturale a quella virtuosa donna; ella non poteva che comportarsi così. Ma ora io ti domando cosa si abbia a fare?

—Non c'è da almanaccar tanto, mi sembra, scriverò io stesso alla Ginevra. Le dirò…. le dirò quello che tu medesimo le diresti, se non che sarò più chiaro e meno impacciato; la porrò a parte, giacchè tutti gli ostacoli son caduti, d'una mia volontà che è pur la tua e quella di lei, se non mi inganno. Così, per il primo io avrò la consolazione di vedere, dopo sì lunghi affanni, contenti e te e lei finalmente. Questa disposizione di cose m'è d'un felicissimo augurio. Noi tre che ci conoscemmo tanto giovani, che fummo improvvisamente divisi da un colpo terribile, e immersi nei più tremendi guai, del corso medesimo delle cose ci troviamo adesso riuniti, e il prossimo avvenire ci si rischiara dinanzi confortandoci di mille promesse. Che te ne sembra a te?

—Lo stesso; ma tornando alla Bentivoglio, non mi parrebbe cosa benissimo fatta l'avvisarla per lettera; piuttosto troverei conveniente il fare una gita a Monaco.

—Tu?

—Non lo credi lecito?

—Tu solo, no; bensì verrò io stesso con te, se ti par meglio.

—Ti sei incontrato nel mio desiderio, questo è ciò ch'io volevo; tanto più che in codesta gita a Monaco non abbiamo a perdere il nostro tempo, e facendo due cose ad una, raccoglieremo quanti Milanesi per avventura si trovassero colà e li condurremo con noi.

—Benissimo pensato. Domani dunque, appena io t'abbia mostrato tutta la mia gente, alla quale, ti darò a conoscere, partiremo di qui e andremo a Monaco.

—In questo frattempo poi, giacchè non è un minuto a perdere, l'uomo che ho condotto con me, ed è un tale Elia Corvino, non so se l'abbia sentito nominare, il più acuto uomo che mai sia stato da che mondo è mondo, e che adesso vedrai, si recherà in alcuna città delle Fiandre a serrare nella nostra rete quanti Lombardi saranno in quelle parti. L'impresa tanto più si farà sicura, in ragione del numero dei Milanesi che potremo mettere nelle soldatesche, giacchè dei soli mercenarj non è mai a fare gran conto.

—Come ti dicevo, so che nelle Fiandre ve n'ha in buon numero, però confido che codesto tuo Corvino, qualora sappia fare, avrà buonissima messe; ma a proposito, dammelo a conoscere.

—Lo chiamo tosto.

Così dicendo, recatosi nell'anticamera, dov'era l'Elia Corvino ad aspettare:

—Il duca ti vuol vedere, Elia, gli disse, e vuol fare la tua conoscenza; vieni dunque.

Il Corvino volgendosi allora, e udendo l'invito:

—So che in Italia, disse, il Bandello attende a scriver novelle curiosissime e interessanti, però, se vuol far fortuna, dovrebbe prendere ad argomento la vita mia, quando per altro non tema di esser tacciato d'inverosimiglianza. Del resto i fatti son fatti; nato ricco, divenuto povero, virtuoso per istinto, ribaldo per convenienza, un tempo notaio dei vendarrosti e dei pubblicani quantunque fosse in una capitale; passato poi, per un gran calcio della fortuna in diplomazia, veduti e raggirati dei cappelli cardinalizi in gran numero, e corone quando non bastarono i cappelli, e trovatomi a quattrocchi col papa. Adesso finalmente viene sua eccellenza il duca Francesco Sforza, il duca della mia città medesima, che pareva calato in fondo, e veniamo a ripescare, il quale, di ragione e per amor vostro ora sarà per darmi grandissime lodi, che io accetterò con molta dignità. Vi assicuro, o marchese, che i posteri, dato che il mio nome possa mai rotolare ai posteri, dureranno gran fatica a percorrere con me codesto labirinto, nel quale il filo di Arianna mi giovò tanto bene; ma se il vero non è vero, non so più cosa dire.

Il Palavicino, il quale, ad onta di tante cure, era però abbastanza ben disposto per le nuove speranze, rise di cuore a queste celie dell'Elia, e lo condusse innanzi al duca.

Questi, dopo le prime parole, entrò col Corvino a discorrere di ciò che avrebbe dovuto fare viaggiando per le Fiandre, e rimase tanto maravigliato dei consigli e delle considerazioni di lui, che, alla fine, voltosi a Manfredo:

—Se di questa tempra d'uomini, disse, ci fosse meno scarsità nel mondo, certo le cose camminerebbero di miglior passo.

Del resto le prime ore che Manfredo e lo Sforza passarono insieme in quella notte dopo tanti anni, sia per le cagioni reali che li esaltava, sia pel conversar vivo e brioso del Corvino, furono al certo le più liete della loro vita, e per parte di Manfredo tanto più liete, in quanto pensava che gli era concesso finalmente di poter trasfondere quella giocondità medesima in chi per lui aveva tanto patito.

La Bentivoglio, ritrattasi in Monaco, aspettava intanto, prima di ricondursi ad Augusta, che il Palavicino venuto ad abboccarsi col duca Francesco Sforza e ricevuto il comando delle sue genti, tornasse in Italia. Come le costava però quel sagrificio ch'ella medesima s'era imposto, di non vedere mai più il marito della duchessa Elena! Come invece i movimenti spontanei del cuore la portavano a far tutt'altro! E quante volte anche in quell'anima virtuosa ed ingenua sorsero pensieri di gelosia furente e d'odio inesorabile contro la signora di Rimini; quante volte, nell'esasperazione di una passione, a cui non sapeva dare uscita in nessun modo, proruppe a maledirla, benchè con subito pentimento. Sorsero persine de' propositi di vendetta, fuggitivi bensì come il pensiero, ma sorsero; e la verità ci costringe a dire che in quegli ultimi giorni s'era messa nel suo sangue un'acredine, un'asprezza, una così procellosa disposizione, da renderla quasi intollerabile a chi l'avvicinava; e noi teniam per fermo, che se mai fosse durata codesta condizione di cose, la mite, la nobile sua indole avrebbe subita una tale modificazione, da farla parere pel resto della vita tutt'altra donna; tanto può un desiderio nutrito a lungo e con ardore continuo, e non appagato mai!

Ma un giorno le fu annunciato che il duca Francesco Sforza, venuto a Monaco espressamente per lei, chiedeva di vederla.

Com'è ben naturale, ella il fece entrar tosto.

Alla Bentivoglio, che in quel momento era tristissima, parve fosse il duca d'un umore, oltre il solito, giocondo; tanto giocondo, da generare in lei un certo dispetto che non bastò a dissimulare.

—In mille anni, cominciò a dirle il duca, mai non sapreste indovinare, o Ginevra, il motivo della mia venuta a Monaco, e perchè adesso stia qui.

—E di fatto, come lo potrei, eccellenza, se non ne ho il filo?

—Io non so se quanto vengo a proporvi potrà essere ben accetto; tuttavia parlerò, e quando la parola sarà uscita, dell'effetto risponderà la fortuna.

—Ma e che mai avete a propormi, eccellenza?

—Per dir vero mi sembrate sì mal disposta, che quasi sarei per prorogare ad altro giorno il mio mandato; che cosa dunque ho a fare? ditemelo con tutta la libertà; se volete, parlo, se non volete, taccio.

—Quantunque io sia ben trista, o duca, pure non saprei mai perdonare a me stessa se mi bastasse l'animo di rifiutarmi ad udire le cortesi vostre parole.

—Dunque parlo.

—Sto ad ascoltarvi.

Il giovane duca, che per verità era più del solito lieto, diede di volta per la camera ridendo, poi fermatosi in faccia a lei.

—È da un pezzo, Ginevra, che mi giungono all'orecchio dei lamenti intorno alla vostra vedovanza…

La Bentivoglio si accigliò.

—Bella, e chi nol vede, giovane, e chi non lo sa… credo infatti non abbiate più di ventitrè anni, è una gran bell'età, vedete!…

La Ginevra si faceva sempre più attonita ad ogni parola di lui, e si alzò molto sconcertata.

—Dunque, come vi dicevo, continuava il duca imperterrito, giovane, bella, ricchissima qual siete, sarebbe il gravissimo degli errori il rimaner così sola per tutto il resto della vita…

—Duca, io non vi comprendo.

—Mi comprenderete benissimo.

—Ma e dove volete voi condurmi con queste strane parole, le più strane che io abbia udite da che vivo?

—A un fine per avventura desiderabile… se non da voi, da altri; vengo insomma a proporvi un matrimonio; la mia missione sta qui.

—La vostra missione è straordinaria assai, gli rispose la Ginevra con una severità quasi iraconda.

Il duca non si scompose, e ghignò a quella specie di rabbuffo.

—Quand'è così darem di volta al discorso e parleremo di tutt'altro… parlerem dunque degli ultimi avvenimenti d'Italia.

—E allora vi ascolterò, come sempre, con molla attenzione e vivo interesse.

—Benissimo! Cominciam dunque dall'avvenimento che in questi ultimi mesi ha destato il maggior rumore, perchè del resto, in questo istante almeno, non è a fare nessun conto; sappiate dunque che la signora di Rimini è morta.

Esprimere con parole la trasmutazione istantanea che, a quella notizia, successe nella faccia, in tutta la persona della Ginevra, è assolutamente impossibile; al primo fe' un balzo quasi per abbracciare il duca, ma si frenò issofatto seria e grave, pungendola la vergogna d'essersi fatta troppo scorgere, e il rimordimento d'aver provato una viva gioja per l'annunzio di una sventura.

—Morta? ripetè poi; ma come, ma quando è avvenuta?

—In gennaio avvenne. Come poi sia avvenuta ne parleremo a suo tempo; per adesso è assai meglio tacerne.

—Chi vi ha detto tutto ciò?

—È inverosimile non l'abbiate già indovinato; lo stesso Palavicino lo disse, che venne in Augusta alcuni dì fa, ed ora è qui anche lui.

—Lui?

—Sì, lui, non è a farne alcuna maraviglia; ma, a proposito di lui appunto, io che, sotto al dolore onde necessariamente egli era compreso pel fatto della duchessa, ho letto altri affetti ed altri pensieri, lo esortai, giacchè il tempo incalzava, a lasciar da un lato talune convenienze, e prima che vengano altre procelle, che Dio tenga lontano, far quello che mai s'è potuto fare. Voi mi comprendete; però, sebbene la morte recente della sventurata Elena, parrebbe comandare di protrarre ad altro tempo quel che io, che voi, che Manfredo desidera, tuttavia, avuto riguardo alle circostanze straordinarie in cui noi tutti ci troviamo adesso, faccio presente che, quanto non è fatto oggi, talvolta non è fatto domani.

La Bentivoglio non rispondeva, chè il tumulto dell'animo le toglieva ogni forza. Ma il duca continuava:

—Se me lo permettete, esco dunque un istante, perchè l'amico mio sta attendendomi con quell'ansia che potete immaginarvi, onde sarebbe una vera crudeltà il protrarre più a lungo la sua aspettazione. Siate dunque forte, ed attendeteci ambidue.

Così la Ginevra rimase ancor sola finchè il duca ritornò col Palavicino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La Bentivoglio, durante il tempo che dimorò in Germania, aveva ricominciato un carteggio con una sua amica di Bologna, una Giulia Aldrovandi, carteggio interrotto fin da quando era partita da Milano.

Ultimamente avendo veduto in Roma il fratello dell'Aldrovandi, e sentito da lui come l'amica desiderasse ardentemente sue nuove, le scrisse di fatto prima di recarsi a Trento; la qual cosa continuò a far poi, che il mezzo di mantenere una tale corrispondenza e di far ricapitare le lettere erale agevolato dai molti che viaggiavano in Italia.

Siccome il tempo intercorso dall'arrivo del Palavicino in Germania al suo ritorno in Italia non fu gran fatto ricco d'avvenimenti, quando si eccettui l'affaccendarsi di Manfredo per raccogliere e condurre con sè quanti Lombardi trovavansi nelle Fiandre, ma invece, tanto per parte di lui, che della Ginevra, fu tempo di calma, di riposo, di soddisfazioni tutte intime: così a compire un tale intervallo riporteremo taluna delle lettere stesse della Bentivoglio, che meglio delle nostre parole può valere a riprodurre quello stato di vita.

Augusta.—21 marzo, 1521.

A GIULIA ALDROVANDI.

"Al tuo desiderio d'aver notizie di me e da me stessa, dopo tanto tempo, io ho adempiuto e con mia grandissima soddisfazione, ma più per amor tuo però, affettuosa Giulia, che per desiderio ch'io avessi di versare in altrui que' dolori onde, con tanta insistenza e crudeltà di fortuna, io fui tormentata. Quei dolori in parte tu li conoscevi, e dal fratel tuo seppi di quanta compassione tu mi fosti cortese, e quanti voti tu facessi per me continuamente; pure l'ultimo e il più terribil colpo a te non era noto. O amica mia, esso fu così acuto, così straziante, così insopportabile, che se taluno mi dicesse, che un altro simile mi attende, nell'avvenire, ben di gran voglia io rinuncerei a questa vita, sebbene adesso versi in quell'estrema gioia, onde troppo rare volte gli uomini possono confortarsi. Oh sì, tanto è immenso il gaudio mio presente, quanto fu immenso quell'affanno. Allora perduto per sempre quanto più desideravo nel mondo, e perduto quando appunto mi confidavo d'averlo acquistato alla fine; ed ora nell'assoluto possesso di lui, mentre un istante prima tutto mi convinceva d'averlo per sempre perduto. Ben ti accorgi ch'è di Manfredo ch'io ti parlo. A te sarà noto l'ultimo fatto pel quale è rimasto libero di sè; ora sappi, ch'egli è venuto in Augusta, ch'è venuto e cercar me, che tutti gli ostacoli furon tolti di mezzo, e che domani, nella cattedrale di Augusta, io sarò benedetta moglie di lui. Ultimamente, nel darti ragguaglio delle mie sventure lunghissime, de' miei dolori, della mia disperazione, quasi avea rimorso di venire con racconti lugubri a intorbidare la tranquilla tua vita; ma provo un'immensa soddisfazione adesso considerando che la mia possa alla fine perfettamente armonizzare colla tua. In questo istante medesimo in cui attendo a scrivere queste parole, nella camera dove io sto, odo la voce sonora del mio Manfredo che sta parlando dell'impresa che tu sai; e mentre provo certa sensazione da non potersi mai esprimere, rivolgendomi al passato, e considerando in che desolata condizione io mi trovavo un anno fa solamente, non so quasi persuadermi che quanto mi sta d'intorno e vedo e sento e tocco, sia vero e reale, e lo stesso Manfredo che mi è sì vicino, e in questo punto io mi volgo a contemplare, quasi sospetto non sia più che una fuggitiva immagine della mia fantasia ardente. O mia Giulia! a te son note le oscillazioni tutte quante dei mio cuore adolescente, quando fanciulla a te fanciulla comunicava i primi trasporti del cuor mio di subito infiammato. Che desiderj io facessi allora, di che speranze, di che illusioni andassi in cerca tu lo sai. Ebbene ora tutto è compito, e d'altro non mi affanno che di concentrarmi in quest'unico punto della vita, a cui vorrei perpetuamente fermarmi. Poche ore dunque, e il Palavicino sarà mio marito, e ciò ti ripeto perchè lo annunci in Bologna a quanti più puoi; che dell'esser fatta consorte a questo generoso lombardo, a quest'orgoglio dell'anima mia, io ne ho tale esaltamento, che vorrei fosse narrato dalla Fama a tutto il mondo. Per oggi basta; ti scriverò ancora tra breve in occasione che il legato danese verrà in Italia e passerà per Bologna. Addio."

Altre lettere avremmo qui da riprodurre ma basterà questa in data del 6 maggio, che è la più breve e come la riassuntiva delle gioje tranquille in cui, dopo tanta procella, si riposarono per poco Ginevra e Manfredo.

Aquisgrana.—6 maggio, 1521.

"Al legato danese che abbiamo atteso in Augusta un pezzo, ci siamo incontrati qui in Aquisgrana, però consegno a lui questo letterino per te. In questi due mesi io, Manfredo e il duca Francesco Sforza, che sempre si è degnato di stare con noi, abbiam percorsa la parte più bella della Germania. La stupenda vista di città, di castella, di fortezze, di cattedrali insigni; la primavera ridentissima lungo le sponde del Reno, i tortuosi giri della Mosa che secondammo in questi ultimi giorni, tutto concorse ad accrescere l'alacrità delle anime nostre. C'incontrammo in molti Italiani, dei quali per dir vero andavasi in cerca, e di cui la maggior parte stanno adesso con noi e si son messi sotto gli ordini di Manfredo. Confido che i voti che noi già facemmo, fanciulle ancora, quando ci costò tante lagrime la misera fine di Gliceria nostra così atrocemente offesa e tradita [1], si compiranno alla fine. Tutto volge ad un punto, e pare che gli ostacoli cadano l'un dopo l'altro quasi per volontà superiore. Stamattina fui nella cattedrale di Aquisgrana, ho veduto il teschio di Carlo Magno, ho toccato la sua pesante gioiosa, e mi par d'essere più che donna. Domani ci rimetteremo in viaggio per Augusta…. di là per l'Italia. Partiamo quasi soli, ora siamo in una truppa tra Lombardi ed altri d'Italia…. Addio; non ti scriverò più se non dopo l'esito dei primi tentativi. Addio di nuovo."

[1] Vedi, cap. IV.

CAPITOLO XXXIV.

Il passo della Spluga, oggidì percorso e ripercorso da infinito numero di viaggiatori, oggetto di visite frequenti a chi, per diletto, percorso il Lario sin dove l'Adda vi si mesce col suo torbido gorgo, voglia dilungarsi in cerca di spettacoli insoliti, ne' tempi andati non era noto più che di nome e da pochi, e non praticato da viandante alcuno, se non da contrabbandieri, da fuggiaschi in cerca di un varco qualunque, e da rari cacciatori. Però, se anche oggidì, a malgrado gli sforzi dell'arte tutta intenta a correggere la natura, e che di certo vi ha operato prodigi, è tuttavia così arduo e selvaggio, torna facile il figurarsi come dovesse presentarsi un tempo a chi per caso e per necessità e per sventura vi si fosse innoltrato. Non vie, non ricoveri, non traccia nessuna che potesse in qualche modo scemarne il terribile.

Le nevi che qui cessano in maggio per ricominciare in settembre, non si dileguano mai così che non ne appaja vestigio anche nell'estate; nella quale stagione, quando si giunga la vetta, i rigori del freddo superano talvolta i geli degl'inverni lombardi. Torbidi vapori agitati dalla continua tramontana, addensantisi spesso in negre nubi, avvolgono quasi sempre i passi del viandante che si spicchi fin là, e che soffermandosi, avvolto nel pesante mantello, assiste quasi ad operosa officina, dove la natura nel suo più squallido aspetto sta apprestando nubi per la prossima Lombardia. Qui silenzio vasto, profondo, perfetto, pur talvolta interrotto dal súbito gracchiare de' corvi volanti a torme di centinaia attraverso le nubi, o dal gemito prolungantesi della borea, o dalla frana che, staccatasi per repentina frattura, con fragor cupo si precipiti a valle, ridestando per poco i profondi echi.

L'uomo in questa regione trova pericoli altrove ignoti, e quando la neve comincia a cadere, può talvolta venir soffermato a mezzo del cammino dall'influenza letale della _bisa e della tormenta_, che dalle gole soffiando ad avvolgerlo nel suo gelo, gli fa d'improvviso piegare i ginocchi e cader seduto, e lentamente lo uccide, nel seno stesso del più profondo sopore, senza che vi sia apparenza di patimento. E nei tempi in cui non era qui traccia alcuna d'abitazione umana, il solengo veniva ad opprimere anche l'indigeno che da più dì non avesse udito alcuna voce, nè trovato orma d'esseri viventi.

Nel giugno dell'anno con cui cammina la nostra storia, un cacciatore armato di balestra che per alquanti giorni inutilmente era stato in cerca di corvi, tornando da Vhò alla Cima, per discendere nella Svizzera, sentivasi oppresso appunto da quella sensazione particolare che mette nell'uomo la solitudine prolungata. Passando a volo di roccia in roccia, pareva quasi fuggisse spaventato da sè medesimo, finchè giunto al colmo della montagna, si fermò un istante a contemplare rari sprazzi di raggi solari che attraversando globi di vapor denso vi producevan le tinte dell'iride; ma in quel punto, cessato il suono della sua pedata, da lontano, dal basso gli giunse all'orecchio un rumore insolito, continuo, che pareva avvicinarsi di minuto in minuto. Il cacciatore, avvezzo alla voce dei venti e all'altre delle alpi solitarie, non indovinò da che quella provenisse, e dalla vetta a salti affrettò la discesa. Più calava in giù, più il rumore cresceva, e veniva anzi a fondersi in più rumori diversi. Gli parve infine fosser voci di viventi, favelle d'uomini, nitriti di cavalli; affrettò il passo più ancora; gli si scoperse alla fine una numerosa schiera d'uomini, che, preceduti da più guide, s'affannavano a guadagnare il sommo della montagna.

Era la gente condotta dal marchese Palavicino.

Il cacciatore, ignaro di quanto avveniva oltre il circolo delle sue corse quotidiane, maravigliava a veder tanti armati spingersi per quelle erte dove, a sua memoria, mai non avea veduto torme d'uomini che non fossero di contrabbandieri. Porgeva attento l'orecchio, e misto al linguaggio della Svizzera tedesca, che era il suo, udiva parlarsi una lingua che gli giungeva più piana, ma ch'egli punto non conosceva. Passando presso le guide, e da queste interrogato in tedesco, lor rispondeva di conformità, ma non ottenne da lor risposta quando chiese qual gente fosse quella che conducevano; e però discese oltre curioso e impaziente di raccontare quanto aveva veduto. Infine il rumore che prima dal basso era salito a rompere il silenzio che lui circondava in alto, si dileguò lontan lontano, sinchè l'ultimo suono gli sembrò venire dal colmo della montagna. La gente del Palavicino erasi allora infatti, con prolungate grida di gioja, fermata alla cima della Spluga a riposarsi per poco della faticosissima salita.

Col nipote del Sion, coll'Elia Corvino, con forse un cento Lombardi, con altrettanti circa d'altri luoghi d'Italia, trovati in diverse parti della Germania o fuggiaschi volontari, o banditi forzati, desiderosi tutti d'un repentino mutamento di cose, con più d'un migliajo tra barbute svizzere e spadoni olandesi, e d'altri raccogliticci di Germania, Manfredo erasi partito poco tempo prima da Augusta dove il duca Francesco Sforza aveva ricevuto il giuramento di tutti. Partito con poco apparato, e facendo camminare gli uomini d'armi a sparsi e lontani drappelli, per non dar troppo a parlare altrui, di paese in paese venuto a Costanza, e pel lago entrato nella Svizzera, s'era di preferenza volto alla Spluga, come al passo noto a pochi, da nessuno praticato, e pel quale, scansando il pericolo che le voci assai prima del tempo annunciassero i tentativi, poteva d'improvviso, e quand'altri meno sel pensasse, toccar le sponde del Lario.

Tutto il viaggio da Augusta a Costanza, e da qui a Coira gli era riuscito ben comodo; ma tra gli orridi passi della Via-Mala penò molto a frenare le soldatesche insofferenti dell'eccessivo disagio, e dovette loro promettere doppia paga sintanto che non si fosse giunti al lago. Ciò per altro bastò perchè tutti si rimettessero in cammino di gran voglia, tentando dissimulare sotto le apparenze dell'allegria la fatica che in vero riuscì insopportabile nell'ardua salita dal paesello di Splügen alla vetta del monte. Per ciò furono costretti a riposarvisi, sebbene i gelati buffi del vento e gli umidi vapori lor facessero ingratissima quella fermata, tanto più incomoda in quanto giungeva inaspettata.

È un fenomeno strano, per chi valica la Spluga in estate, il passare in poche ore per tutte le temperature delle quattro stagioni dell'anno, e dopo avere alle falde ansato pel caldo, respirare a mezza costa, per rabbrividire di gelo pochi momenti dopo.

Con tutto ciò copertisi alla meglio gli uomini del Palavicino trovarono qualche sollievo nel riposo, durante il quale chi s'affaccendava intorno a cavalli mezzo ammaccati dalle frequenti cadute, chi a forbir l'armi, e ad avvolgere entro paglia quelle da fuoco onde non fosser guaste dall'umidità eccessiva, chi ad altre cose. Il Palavicino attendeva intanto a dar parole e lodi e incoraggiamenti e promesse a tutti, rivolgendosi ogni tanto alla Ginevra, che di forza, quantunque molti le avessero consigliato di fermarsi in Augusta fino ad opera compiuta, aveva voluto accompagnarsi seco, prontissima ad incontrare nuovi pericoli ed a sopportare nuovi dolori.

Fatto sosta una mezz'ora, si cominciò la discesa della montagna. Sino a Tegiate camminarono senza disagio, il quale si fece gravissimo alla precipitosa costa delle Acque Rosse, e continuò fin sotto a Pianazzo. Qui lo spettacolo della grande cascata li soffermò alquanto. La Ginevra volle discendere con Manfredo di greppo in greppo ad osservare dall'imo fondo l'effetto di quelle acque che, precipitando dalla sommità del monte, fanno tale illusione, che pare si gettino dal cielo. Ripreso il cammino, toccarono Campodolcino qualche ora dopo dov'ebbero assai facile la via, e verso sera si trovarono nella valle San Giacomo. Il Palavicino udendo dalle guide che poco mancava ad esser fuori di quegli ardui sentieri e a toccare il piano, e che poco lungi era il lago, cominciò a sentire gli effetti di una commozione vivissima, di cui trapelavano i segni nell'acceso calore che gli copriva la parte superiore della faccia. Camminando in disparte degli altri, e allontanatosi dalla Ginevra, fisso in un pensiero unico, guardava macchinalmente il fiume Liro che tra immense frane impedito discende e cupo romoreggia, e le cime altissime de' monti da cui le nevi disciolte nella state si versano in cascate e cascatelle innumerevoli, le quali danno alla valle una voce particolare, potente, nella sua grave monotonia, a vincer l'anima di mestizia profonda. Manfredo, benchè avesse l'animo a tutt'altro, pure, senza cercarlo, sentì quell'influsso. In una tale disposizione, il suo coraggio, che da tanto tempo gli confortava le speranze, dileguò, e fu improvvisamente assalito da timori insoliti, da una sfiducia che lo confuse.

Pure di quei timori neppur uno era per sè; eran tutti pe' concittadini, per la patria, per lo Sforza. Se fosse stato sicuro che la sua vita avrebbe comprato in un subito la felicità di tutti, egli ne sarebbe stato ben lieto quantunque l'esistenza dovesse pure essergli cara dopo che la Ginevra stava con lui. Ma temeva che fallendogli il primo tentativo potesse mai crescere il danno comune, e considerando d'avere sulle proprie spalle tanta responsabilità, e che il ben essere di tanti uomini stava per poco nelle sue mani, tremò. Come era nobile quel timore! come quella sfiducia era generosa!

E a tal punto non possiamo a meno di esternare la nostra maraviglia per le poche e sterili parole onde gli storici accennarono di questo giovane uomo, più che ne trattassero. Per ciò se il presente lavoro, che or volge al suo fine, ci lasciò pentimenti molti e ben scarsa soddisfazione, ci conforta almeno di aver tentato di evocar dal passato questa bella figura che soffrì, che operò, che senza mira nessuna di vantaggio per sè stesso, e vita e averi ed ogni sua cosa ed ogni suo bene consacrò alla causa che il suo convincimento gli mostrò essere la nobilissima di tutte.

Quando si considera che volumi innumerevoli furono gettati alla moltitudine ammirata per narrare la vita d'uomini che sconvolsero popoli e Stati e allagarono il mondo di sangue, non d'altro vigili che dell'utile proprio, e convinti di essersi compri il diritto di far servi gli uomini tutti a sè soli; e che poi, a sommare tutte le parole di molti storici, non esce un quarto di pagina per toccare di chi pur vivendo ed operando al pubblico cospetto, possedette la virtù vera, la virtù senza l'egoismo; ci assale un'amarezza invincibile, un'amarezza così sconfortante da travolger persino i nostri giudizi, da comandar quasi anche a noi medesimi la noncuranza comune. Se non che un pensiero più indipendente sorvola agli altri e li fa tacer tutti, e il desiderio di convivere a lungo cogli uomini rari e dimenticati, narrando di loro quel che gli altri tacquero, diventa un così forte bisogno, da costringerci a tentar l'opera, anche nella certezza che nessuno vorrà accostarvisi.

L'amicizia basta a sè medesima. Un uomo nella compagnia di un altro, di cui senta profonda la stima, trova una soddisfazione anche fuori degli sguardi e dell'attenzione altrui; però chi scrive si accompagnò e accompagnerà il Palavicino fino al termine prefisso, con questo pensiero, incurante di tutto il resto.

Giunto fin quasi all'ultime falde, dove la via si distende entro seni, il Palavicino pensò di fermarvi come a campo la sua gente, e affidatala temporariamente al governo di alcuni Lombardi sui quali potea fare appoggio, in compagnia della Ginevra, d'una Perugina che la seguì per servigio, dell'Elia Corvino e d'un fantaccino, se ne venne verso Chiavenna. In questa città, un amico di quel Figino a noi ben noto stava, secondo l'intesa, in aspettazione del primo arrivo del Palavicino, per mandar tosto a darne avviso al castello del Figino medesimo affinchè il conte Galeazzo Mandello, senza perder tempo, rimontasse l'Adda colle soldatesche di Manfredo, e pel ramo di Lecco si spingesse in su a congiungersi con lui. Il Palavicino trovò l'amico in fatto; questi spedì, senza l'indugio d'un minuto, un uomo fidato con ordini precisi, e per quella notte non si fece altro.

All'alba tornò Manfredo dove stavano accampati i suoi, disse loro poche ma efficaci parole, promise non sarebbe tornato che per condurli a tentare le sorti, ed esortatili a star pronti alla prima chiamata, li lasciò nuovamente per ricondursi a Chiavenna, d'onde colla Ginevra e l'Elia si trasferì alle sponde del lago quel dì stesso. Non aveva voluto si fermasse la Ginevra in quella città, per non dar troppo a parlare ai Chiavennaschi; e siccome lo stesso Figino avea possessi e un luogo di delizia a Cremia, dove espressamente era stato mandato un uomo perchè tenesse d'occhio tutto il corso del lago, così stimò assai conveniente il condurvi la Ginevra. Di tal modo tenendola fuor de' pericoli a cui ella non poteva per nessun conto intervenire, appagava tuttavia il desiderio di lei, che era quello di trovarsi in luogo dove per la prima avesse notizia della riuscita dell'impresa. Una tal gita gli occorreva poi, meglio che per altro, a prender cognizione esattissima di tutti i luoghi, prima di commettersi al lago colle soldatesche; ad assoldare barcajuoli, a recarsi presso Como, dove mandando l'Elia avrebbe saputo e che si pensasse colà, e quanto presidio vi fosse, e tutte quelle notizie insomma che gli potevano riuscir vantaggiose.

A Riva, noleggiarono una barca, e senz'apparato, per non dar sospetto nessuno, il Palavicino, la Ginevra, l'Elia colle due persone di servigio si affidarono all'acque. Ventando la breva, traghettarono a volo il mesto lago di Mazzola attraverso gli irsuti canneti. Il cielo appariva sgombro e lucentissimo; il sole gettando nelle onde i suoi raggi, vi generava giuochi di luce, che variavano senza posa. Per essi che venivano dalla squallida Spluga e dalla chiusa Chiavenna, i nudi scogli e i brulli ciglioni del monte, non bastavano a scemare la giocondità che in loro metteva l'aspetto abbastanza ridente de' paeselli di Verceja, di Campo, di Novate; giocondità che tanto più s'accrebbe, quando a due terzi della corsa cominciò ad udirsi un lento e sommesso oscillare di suoni, che spiegandosi man mano e dilatandosi nell'aria finì in un dirotto scampanare a festa. Questo non si diffuse in prima che da un sol luogo, poi sorse da un altro e da un altro ancora, finchè il maestoso concerto delle campane di Domaso e di Gravedona rispose all'umile e incessante, dirò, cinguettìo delle campanelle de' paesi minori.

—Che cosa significano, buon uomo, questi suoni festivi? chiese la Ginevra al barcajuolo.

—Siamo al quattro di giugno, cara signora, è la vigilia del Corpus Domini.

La Ginevra, che di ciò non si ricordava, volgendosi a Manfredo:

—Ciò mi è di buonissimo augurio, gli disse a voce sommessa.

Il Palavicino sorrise senza rispondere, e così progredirono per lungo tratto. Il vario prospetto de' luoghi, il giuoco delle acque, il sobbalzo della barca, le onde dell'aria, che pel suono festivo delle campane avvolgeva ogni cosa in un vasto concento, tutto ciò occupava i nostri viaggiatori in altro modo, togliendo ad essi il bisogno di parlare.

L'Elia Corvino intanto, seduto presso al barcajuolo, non poteva un momento distoglier gli occhi dal Palavicino e dalla Ginevra. Non parea vero che un uomo, al quale le circostanze della vita dovevano avere ottusa ogni sensibilità, provasse tuttavia tanta commozione nel contemplare quelle due giovani esistenze, dopo affanni sì lunghi, riunite alla fine, nel contemplare la Ginevra in ispecie, sul cui volto apparivano le insolite rose generate da una calma, da una serenità, da una compiacenza insolita; e sentiva una profonda soddisfazione, considerando ch'egli forse più che altri era stato l'autore di quella felicità… benchè, pensando che tra pochi giorni la vita di Manfredo sarebbe stata in arbitrio delle palle d'archibugio… si sforzò di volgere l'attenzione ad altre cose, non piacendogli sentirsi sopraffatto da un sentimento che gli riusciva molesto.

A Domaso, il barcajuolo affidò ad altro suo collega i nostri passaggeri, che seguirono oltre pel lago.

—Giunti che saremo a Cremia, prese finalmente a dir la Ginevra, che ti resta a fare per prima cosa, Manfredo?

—È ciò appunto a cui stavo pensando; ma innanzi tutto mi spingerò fino a Como anch'io per veder tutti i luoghi d'appresso. Il solo Elia però entrerà in città onde prender notizia di tutto.

—Quand'è così, posso dunque stare con te tutt'oggi ancora.

—Se non si avesse a far altro che visitar luoghi! ma non si sa mai quello che può succedere, e allora….

—S'ella è necessità il fare altrimenti, io non ripeto parola…. Mi fermerò dunque dove tu vuoi meglio.

—Non sarà che per brevissimo tempo, Ginevra; convien dunque esser sofferenti e fare quest'altro sacrificio. Del rimanente è il più lieve che far si possa.

—È il più lieve, lo so; tuttavia non è gran peccato, se ne provo qualche rincrescimento.

E gli occhi di lei s'inumidirono nel dire queste parole. Manfredo, che se ne accorse, troncò il discorso di subito, e alzandosi domandò al barcajuolo quanto distasse il paesello di Cremia.

Non era molto lontano, e in breve vi giunsero. L'uomo del Figino, che aspettava il Palavicino da qualche tempo, gli fece una grande accoglienza appena lo vide. Disse che aveva ordine di prestarsi ad ogni sua volontà, e perciò comandasse.

—Non mi occorre altro, rispose Manfredo, fuorchè mandiate subito due o tre barche sul ramo di Lecco ad esplorare, a guardare per accorrer tosto a dar l'avviso dell'arrivo di chi sapete. Dopo mi abbisogna che facciate un po' d'alloggio a questa mia moglie, che deve star qui fino a nuove cose; e per adesso non vi chiedo di più.

Qualche ora dopo, staccatosi della Ginevra, promettendogli sarebbe stato di ritorno fra un giorno o due, si partì in compagnia del Corvino, e solcando il lago per ogni verso, accostandosi ai paesi principali, facendo studio di tutte le posizioni e non perdendo nulla di vista, veleggiarono verso Como. A notte tardissima l'Elia entrò in città per essere pronto all'alba, e Manfredo se ne stette in un paesello tra i monti a qualche miglio di distanza. Il dì successivo quando il Corvino attendeva in Como a raccogliere le notizie necessarie, e sovratutto a prender nota del numero preciso dei soldati del presidio, egli, trovato un proprietario di barche, fece secolui l'accordo per averle a propria disposizione in tutto il giugno, e medesimamente seco trattò perchè gliene procurasse altre d'altri proprietarj. Aveva intenzione d'incettare quasi tutte le barche del lago di Como, ciò che non gli doveva riuscir difficile dal momento che i compensi da lui esibiti erano larghissimi. In tali occupazioni trascorsero due dì; ai vespri del terzo, l'Elia si ricongiunse col Palavicino, e ritornarono a Cremia.

—E così, che ti venne fatto di raccogliere? chiese Manfredo all'Elia, appena si misero in barca.

—-Non ho scansato di ficcarmi tra uomo e uomo, e spremerli ben bene per cavarne i pensieri; e di fatto non ho perduto il mio tempo.

—E con quali persone hai praticato?

—Mi sono introdotto fra i ricchi proprietarj, perchè son quelli che han sotto mano la povera gente e dirigono le opinioni di tutti. Non mi fu dunque difficile di comprendere che quello stesso, malcontento che serpeggia per Milano, si fa sentire anche qui. Vi dirò anzi che da questi uomini del lago, quantunque sieno, senza confronto, i meno maltrattati di tutti, pure si attende con impazienza che Milano accenni a qualche cosa ed alzi la cresta, e per quel resto di rancore che tanto quanto sussiste ancora tra chi sta al monte e chi vive al piano, si sostiene che se tutta la Lombardia è in gran travaglio da qualche anno, è appunto per la fiacchezza e la viltà dei Milanesi. Vedete dunque che in quanto agli animi sono abbastanza ben disposti; ma ciò non basta, come sapete meglio di me, e pur troppo ostacoli non mancano….

—E dove sono questi ostacoli?

—Stanno in ciò, che il numero dei soldati del presidio da jeri l'altro s è aumentato di più centinaja, senza che alcuno ne possa indovinare il perchè. Dapprincipio, siccome i drappelli giunsero in Como prima che facesse l'alba del giorno del Corpus Domini, così fu creduto fosse stato per l'occasione della solennità; ma tosto, considerato che ciò non poteva essere, si misero tutti quanti ad almanaccare sulle cagioni; ma non si giunse ancora a nessun costrutto.

—Che abbiano avuto sentore di qualche cosa? che ci sia qualche spia?

—Questo pensiero è venuto anche a me; tuttavia, se misuriamo il tempo, parrebbe cosa impossibile.

—E crediamola tale; soltanto ci giovi la notizia del numero accresciuto.

Verso sera arrivarono a Cremia. Entrati nelle stanze della Ginevra, vi trovarono il conte Galeazzo Mandello coll'uomo del Figino.

—Come, sei qui tu stesso, Galeazzo? disse Manfredo maravigliato e contento; ma e la tua gente?

—Ho voluto precederla ad ogni buon conto, e udito dagli uomini da te mandatimi incontro colla parola d'ordine, che tu eri venuto qui, ho pensato d'abboccarmi prima con te, per tutte quelle altre coserelle che, come sai, son nulla e son tutto. D'altronde volevo consigliarti a lasciar passare l'ottava del Corpus Domini. In queste terre, dove i peccati non han fatto ancora scorreria completa c'è molta divozione, e però potrebbe aver taccia d'eretico chi volesse coprire lo scampanar festivo colle scariche d'archibuso. Abbiam d'uopo che gli abitanti di questi luoghi abbiano a fare di noi una eccellente opinione, che altrimenti avremmo a rodere macigni. E dove la divozione piega qualche poco in superstizione non è mai arato dritto abbastanza. Lasciami dunque che le campane facciano il loro debito, che dopo faremo noi il nostro.

—Io non ho nessuna difficoltà ad attendere questi tre o quattro giorni, quantunque le paghe vadan su intanto senza un costrutto al mondo, e non sono poca cosa.

—Ciò che si vuole si vuole e non si può far altro, caro mio.

—Se l'avessi preveduto avrei aspettato a far l'accordo per avere a mia disposizione le barche, del lago, le quali coll'alba di domani comincieranno a non servire più nessun altro.

—Un tale provvedimento fu benissimo pensato…. ma giacchè abbiamo ad aspettare quattro giorni ancora…. converrà dar loro il permesso, in questo intervallo, di servire invece quanti vorranno…. prima di tutto perchè tra la gente del lago non corrano sospetti anzi tempo, e poi per non far malcontenti in questi giorni di festa, che guai a togliere ai laghisti il mezzo di correre sul loro elemento.

—Si penserà anche a questo; egli è assai ragionevole.

—Intanto noi attenderemo a darci qui un po' di buon tempo, perchè è da qualche mese, caro mio, che non stiamo tanto in sul vivere allegro. E penso che anche tu ne avrai bisogno, e questa moglie tua la quale ha patito così gravi affanni, ben più gravi dei miei senza dubbio, che per verità nella miserabile condizione di tutti, sino adesso rimasi abbastanza illeso; ma io credo se ne sia andato per sempre il maligno influsso, e che i giorni avvenire ci ristoreranno abbastanza dei passati. Intanto cominciamo a far migliore il presente. Attendete dunque, cara marchesa, a ricomporre gli spiriti e a confortarvi con quest'aria balsamica, e a discacciare tutte quelle oppressioni che la solitudine vi può aver messo nell'animo; perchè, se ho a dirti il vero, caro Manfredo, appena giunsi qui la trovai molto abbattuta, e la tua assenza le riusciva tormentosa. Lasciam dunque tutti i guai da un canto, che oramai non ci rimangono più che quattro colpi d'archibugio, e dopo porrem rimedio a tutto.

—Il signor conte parla come pochi sanno parlare, e mi piace moltissimo, disse allora l'Elia che se ne stava in un canto della camera.

Galeazzo si volse.

—Ah! sei tu Elia?

—Son io in persona…. e lodo V. S. illustrissima che raccomanda l'allegria con tanto ardore.

—Ho un gran piacere di vederti, sai tu? E ben mi ricordo di quando, a Milano, ci incontravamo in certi strani luoghi: tu mi guardavi di sotto in su e ti sforzavi a stare in sul grave: ma qualche volta ci siam stretta la mano da buoni amici, e mentre io metteva il labbro sul tuo recente, tu lodavi il mio oltrepò…. Se hai buona memoria te ne devi ricordare.

—E me ne ricordo infatti; se non che da quando, per bontà del marchese, vestii cappa di raso e misi le trine, il vino recente non venne mai più a suscitare gli estri della mia ilarità di contrabbando.

—E così fu di me amico mio carissimo…. e da lunghissimo tempo l'oltrepò ha cessato d'intorbidare la mia mente. La propizia sorte per vie diverse ci guidò ambedue ad un medesimo fine, ed ora, come gli eroi della tavola rotonda, godiamo nel rammentarci a vicenda le nostre passate imprese; però il marchese e questa cara signora ne sono tanto quanto edificati.

—S'egli è così veramente, io mi compiaccio con me stesso della mia conversione.

La Ginevra e Manfredo risero di cuore a queste celie, e in quei quattro giorni la presenza del conte Galeazzo e dei Corvino fece dileguare tutte le nuvole che di tanto in tanto pareva volessero oscurare anche quel fuggitivo sereno.

Ma l'ottava del Corpus Domini si chiuse, e il conte, che aveva espressamente sfoggiata la propria allegria onde comunicarne agli altri quanto bastasse perchè coll'eccessiva riservatezza non dessero a pensar troppo ai barcajuoli che li conducevano a diporto pel lago, a un tratto si fece grave anche lui, riepilogò col Palavicino tutto quello che già era stato stabilito; gli diede tutti quei consigli che gli parvero opportuni, e incuorando tutti con que' suoi modi pieni di sicurezza e di fiducia, si mise sul lago.

Il Palavicino partì alcuni momenti dopo fatte pochissime parole colla Ginevra, che si sforzò a non parere commossa. Il Corvino si rimase a Cremia, e per esser pronto agli avvisi che potessero arrivare o dall'estrema sponda del lago dov'era diretto il Palavicino, o dall'Adda, dove veleggiava il conte Galeazzo, e per raccogliere tutti i barcajuoli, coi quali s'era fatto l'accordo e mandarli dove li chiamava il bisogno.

Come aveva stabilito col Palavicino e col Galeazzo, li raccolse infatti in quel dì stesso, e a compagnie di tre o quattro barche divise per molto spazio, e in ore diverse, li mandò in su sin dove il Lario cessa e incomincia il laghetto di Mazzola.

Spacciatosi di ciò e tornato a Cremia, e presentatosi alla Ginevra, che ostentò tutto quel coraggio e quella calma ond'era capace:

—Ora ogni altra cosa è disposta, le disse; stanotte, se altro non succede, il marchese vostro marito e il conte si stringeranno la mano alla punta di Bellaggio, e senza perder tempo e in gran silenzio si volgeranno a Como. Un'ora prima dell'alba saranno in porto. Se il primo tentativo non falla, sul resto fate pure quelle speranze che più vi piacciono.

—Domani all'alba dunque o è tutto guadagnato, o è tutto perduto?

—Nè l'una cosa nè l'altra; bensì si potranno dare sicuri pronostici sull'avvenire.

La Ginevra tacque un momento, poi disse:

—Ora, siccome io non avrò più a vedere Manfredo prima che si rechi colle soldatesche a Como, che a tutt'altro ora son volti i suoi pensieri, e fa bene, così, caro Elia, vi ho a pregare di una cosa.

—Dite pure, io farò punto per punto quel che sarete per comandarmi.

—Giacchè l'incarico che vi fu dato gli è quello di aver occhio a tutto, senza propriamente aver parte alla mischia, vogliate prendervi l'incomodo, quando però non vi chiamino altrove cose di maggior importanza, di venire da me appena ci sia alcuna notizia che mi possa interessare in qualche modo. Nè vi trattenga di far questo nemmeno il più tristo annunzio, nè la totale disfatta della gente di Manfredo, ne la sua morte medesima….

A questa parola si fermò, e fu presa da un brivido convulso, che la fece tremare visibilmente.

Il Corvino abbassò la testa e finse di non accorgersi di nulla.

—Tutto induce a credere, soggiunse poi, che voglia essere ben difficile il caso di un tristo annunzio; e in quanto al marchese Manfredo troverà chi per amor vostro vorrà prendersi cura della sua vita. Sapete cosa mi disse ieri il conte Mandello prima di partire?

—Non so nulla.

—Mi ha detto che voi gli stavate molto in sul cuore, voi e la memoria della sventurata sua madre, alla quale promise di posporre la propria vita per salvar quella del figliuolo, per cui ella moriva di crepacuore. Mi assicurò dunque, che finchè fischieranno le palle delle colubrine e degli archibugi, egli si stringerà appresso a Manfredo e lo coprirà della propria persona, e l'amicizia gli farà far miracoli; e ciò egli mi ha detto perchè lo ripetessi a voi e vi facessi coraggio.

—Se tutto dipendesse da voi, caro Elia, e dal conte, io mi riposerei tranquilla come se domani fosse un giorno di tripudio; ma così, vedete bene… pure avrò coraggio, siatene certo, ne avrò tanto da sostenere, senza lasciarmi abbattere, qualunque più tristo annunzio, che a questo, più che a tutto, voglio prepararmi. Promettetemi ora voi di far quello di cui vi ho pregato.

—Ve lo prometto.

—Adesso potete andare. Io sono perfettamente tranquilla.

Dette queste parole e stretta la mano all'Elia con passione, si ritirò nella sua stanza.

Il Corvino, stato immobile e soprappensiero per qualche tempo, discese al molo, saltò in barca, e senza far nessuna parola col barcajuolo, attraversò il lago per recarsi a Bellaggio.

A metà del promontorio, dove oggidì siede la villa Serbelloni, era allora una rocca, o piuttosto un rudero di rocca, che Gian Giacomo Medici avea lasciato in abbandono dacchè s'era fortificato nel castello di Musso. I sentieri che conducevano colà essendo aperti al passo di chicchessia, l'Elia Corvino pensò di recarvisi, considerando che nel silenzio della notte i rumori anche i più lontani, trovando lo spazio sgombro, sarebbero saliti più facilmente a quell'altezza. Così, com'ebbe passato il lago, uscito dalla barca, tutto solo ascese la vetta ove si mise a sedere.

Era il dodici di giugno, e l'assidua vampa del dì aveva per tal modo acceso l'atmosfera, che la brezza notturna ne avea diminuita la forza per quel tanto che basta a produrre una mite temperatura. Il cielo, risplendendo la luna e le stelle, era nitidissimo, così la vista potea scorrere molto àmbito e godere lo spettacolo delle acque, le quali per la posizione stessa del promontorio a chi di lassù vi getta lo sguardo, sembran quasi dividersi in tre laghi diversi.

L'Elia Corvino, mentre pure per necessità aveva l'animo rivolto a tante e tanto gravi cose, irresistibilmente sentivasi attratto da quelle nuove delizie. Guardava il cielo, lo riguardava riflesso nelle acque; ascoltava lo stormire degli abeti e dei cipressi nelle ville vicine, e il rumore incessante del fiume Latte, che in quella stagione rigoglioso di acque, erompendo dal monte, va a gettarsi nel lago, e prestava attentissimo l'orecchio a quegli aliti d'aria, a quei suoni indistinti e senza nome che si interpolavano ai più vicini e ai più noti.

Quando la notte fu presso la sua metà, l'aria, che ventava da Lecco, gli portò all'orecchio quel rumore di cui egli stava in aspettazione, un rumor confuso di voci che ora appariva distinto or pareva dileguarsi e smorire nell'aria e nell'acque. Allora tendendo l'orecchio verso la parte opposta, d'onde arrivar dovevano le barche del Palavicino, non alitò per sentire se anche di là venisse il suono medesimo, ma l'aria stessa che gli portava le voci dal ramo di Lecco arrestava le onde sonore che si agitavano nella parte superiore del Lario.

Allora pel tortuoso sentiero l'Elia discese al lago, saltò nel battello e, girando a tondo intorno al promontorio, vogò per farsi incontro alla gente condotta dal conte Galeazzo Mandello. A mezza via, tra Bellaggio e Limonta, s'incontrò nelle prime barche, pronunciò la parola d'ordine, alla quale tosto, benchè a qualche distanza, rispose la voce sonora del conte Galeazzo Mandello==Viva Baradello per Baradello.==E allora da tutte le barche che passavano innanzi a quella del Corvino, che si fermò ad aspettare il conte, uscì la stessa parola==Viva Baradello per Baradello.==

—Non si poteva dare una notte più bella e più calma di questa, così prese a dire il Mandello quando dalla sua barca stese la mano al Corvino. Il lago tranquillo, nessun contrattempo, e il vento così propizio, che a pagarlo non poteva comportarsi meglio.

—Quello che fu vantaggio per voi non lo sarà stato pel marchese, rispose l'Elia; e di fatto, dalla parte di là, e accennava oltre Bellaggio, non ho udito ancora rumore nessuno.

—Sta queto, che si farà sentire. E noi, intanto, per non attenderci qui inutilmente, progrediremo, per qualche altro tratto e andremo a trovarli.

E così fecero. Toccarono la punta di Bellaggio passarono innanzi, giunsero sin quasi sotto Varenna…. Là, il conte Galeazzo, voltosi all'Elia:

—Non ti pare, disse, d'udire qualche cosa che non sentivasi prima?

—Badate che non v'inganni il fiume Latte colla sua voce disuguale.

—Non è la voce del fiume Latte altrimenti; son voci d'uomini queste.

Dopo alcuni istanti:

—Non vi siete ingannato, gridò il Corvino, è la gente di Manfredo senz'altro!

Il conte Mandello diede allora un segno, e tutti si fermarono. Chiamò poi per nome il conte Birago, il Ferreri, il Figino e qualch'altro, che gli si portaron presso.

—Intanto che si fa sosta qui per non stancar troppo le braccia dei barcajuoli, noi soli moveremo incontro al Palavicino. Anche tu, Elia, vieni con noi.

E raddoppiati i colpi de' remi, presto giunsero al punto da poter scorgere tutta la bruna linea delle barche che a stento progredivano. S'affrettarono più ancora…. sinchè arrivarono a portata della voce.

—Viva Baradello per Baradello! gridò il conte Galeazzo.

Ci fu un istante d'aspettativa… poi s'udì lo stesso Manfredo a rispondere:

—Viva Baradello per Baradello.

Lo schifo dov'era il Galeazzo cogli altri si fermò. Cominciò la sfilata delle barche che tutte passarono innanzi al Mandello, e da ciascuna fu replicata la parola==Viva Baradello per Baradello—Per Baradello, viva Baradello==finchè la punta della barca dove stava il Palavicino urtò in quella del conte Galeazzo.

—Viva Baradello per Baradello, tornò a gridare Manfredo.

Ciò che replicarono il colite, il Birago, il Ferreri, il Figino…. Le loro mani s'intrecciarono…. Fu un breve silenzio pieno di commozione, di voti, di promesse.

—Tutti gli altri dove sono? domandò poi il Palavicino a Galeazzo.

—A un tiro di balestra poco più.

—Affrettiamoci dunque, che non c'è tempo da perdere; può tardar pochissimo a mezzanotte, e sarebbe di gran vantaggio il trovarci a Como un'ora prima dell'alba quando tutto sia ancora in gran quiete.

—All'ora de' primi crepuscoli comincerà a cambiarsi il vento, non ci sarà dunque difficile il sorprendere per quando vuoi tu, colle scariche d'archibugio, il presidio di Como.

Mentre dicevano queste parole, le barche continuarono il loro corso finchè si congiunsero colle altre che stavano aspettando. Quando tutte furono sfilate, apparve coperto quasi per intero il tratto di lago che è tra Bellaggio e Menaggio.

Del resto, ad onta delle indagini, non abbiam potuto trovar tanto che basti per dir con certezza il numero preciso a cui sommava la gente del Palavicino. Sembra però che fosse sufficiente per tentare una così difficile impresa. Non ci è riuscito neppure di rassicurarci se Gian Giacomo Medici abbia, in questa occasione, avuto qualche accordo col Palavicino, e siasi offerto a prestargli alcun soccorso, cosa che più che altri avrebbe potuto fare; ma stando alle vaghe parole di taluni cronisti, pare che in qualche cosa abbia avuto parte anche lui, sebbene nel fatto non sia intervenuto personalmente.

Ora, tornando a quel che sappiamo, la fermata che si fece a questo punto del lago fu di pochi momenti, e appena bastarono per rinnovare gli ordini, per riepilogare le disposizioni, e per guardare se tutto era in pronto. Fatto questo, i Lombardi e i Milanesi che erano stati messi al comando delle barche grosse si raccolsero intorno al Palavicino, il quale disse loro queste brevi parole:

—Fra poche ore la salute della nostra patria dipenderà dal nostro valore. L'esser qui tutti raccolti voi, che pure avevate i mezzi di preservarvi dalla comune miseria, è indizio che l'amore del vostro paese è più forte dell'amore di voi stessi; perciò tutte le esortazioni ch'io fossi per farvi sarebber di troppo inferiori a quello che voi stessi sentite nell'animo: onde lascerò le inutili parole. Se domani, o dentro a pochi dì, la città di Como sarà nostra, la gratitudine di tutti coloro che da noi attenderanno il fine di questo glorioso principio varrà per tutti i compensi del mondo…. In quanto a me vi prometto che tenterò ogni sforzo per riuscire a far quello che voi farete. Sì, mi confido che a tutti potrete esser di esempio, e che nessuno lo dovrà essere a voi. Prima di toccar Como avrò a parlarvi ancora; per adesso affrettiamo la corsa.

Ciò detto, e data la voce per la partenza, si mise a sedere sulla sua barca, in una profonda concentrazione.

Alla punta della Cavagnola, cominciando i crepuscoli, il vento si cambiò d'improvviso. Allora tutte le vele essendo state spiegate, parvero torme d'augelli giganti che senza posa, agitando le grandi ali, s'affrettassero alla meta.

CAPITOLO XXXV.

L'impresa fatta sulla città di Como il dì 11 giugno 1521 è senza dubbio tra le più audaci che presenti la storia. Nè i provvedimenti a lungo ponderati, nè la molta gente raccolta intorno a pochi lombardi, nè l'appoggio d'estranei aiuti, nè la facile adesione della moltitudine irritata ed aspettante, in cui si poteva ragionevolmente confidare varrebbero a purgarla in tutto dalla taccia d'avventatezza, quando non si volesse aver riguardo a quella generosa impazienza per cui uomini innamoratissimi della propria terra, e pietosi della universale miseria, più che in altro cercarono consigli nell'entusiasmo e si affidarono alla sorte.

Allorchè le soldatesche del Palavicino giunsero presso Como, il sole era già sorto, per cui anzichè toccasser terra, potè correr la voce della loro comparsa. Parve allora, per l'effetto ch'essa fece sui soldati del presidio, che a Milano non si fosse avuto nessun sentore di un prossimo tentativo, come il Corvino aveva sospettato, nè che il numero dei soldati si fosse accresciuto allo scopo di opporre una valida difesa. Da principio dunque si mise in essi tanto disordine, che metà de' fantaccini di Manfredo poterono metter piede a riva prima che su loro si facesse fuoco. Però, siccome il Palavicino non aveva potuto giungere a tempo per sorprendere la città in ora di maggior quiete, così pensò cavar partito da questa medesima circostanza, tentando di eccitare a prender l'arme quella parte di popolo che era già desta, promettendo loro la prossima liberazione di tutta Lombardia.

Il Palavicino, il conte Mandello, il conte Birago, il Crivello, il Ferreri ed altri si sparpagliarono infatti tra 'l popolo offerendo e presentando armi ed incuorando tutti a gran voce e promettendo infiniti compensi. Ma il caso non atteso, ma la vista di tanti armati, ma il timore che la città fosse in breve per essere la scena di una strage orrenda e per ultimo il tamburo delle milizie francesi, che battendo a gran carica, ridestò tutti gli echi all'intorno, mise in loro così forte scompiglio e sgomento, che, volti a precipitosa fuga, scomparvero tutti quanti per la via dei monti, lasciando liberissimo il campo ai combattenti.

Una zuffa accanita, pertinace, continua durò quasi dieci ore tra i Francesi e la metà della gente di Manfredo, che l'altra metà aveva comandato se ne stesse aspettando fuori del porto, lontana dal combattimento, affinchè potesse giunger fresca e intatta quando mai il pericolo lo comandasse. Ma in ultimo ai soldati del presidio, stremati e malconci, convenne ritirarsi nel forte. La sera, tra grida di gioja, e canti ed evviva, le soldatesche di Manfredo rimasero padrone di Como, e i Comaschi ritornarono in città pieni di speranze e liberi d'ogni timore.

Non si affidava però Manfredo, chè conosceva d'aver fatto il meno, e sospettava non fossero per giungere nuove forze da Milano in poco di tempo e sconsigliava i suoi dall'abbandonarsi eccessivamente ai tripudj, e li esortava invece, per quanto poteva, in ciò ajutato dal Mandello e dagli altri, a star pronti ai nuovi pericoli.

Mandò poi con tutta sollecitudine un grosso drappello di soldati sulla strada a Milano, perchè precludessero, con tutti gli sforzi possibili, qualunque adito ai nuovi vegnenti.

Ordinate le quali cose, attese la notte a correre affannato tutte le vie di Como dove era popolo, tutte le case, tutte le fabbriche di lana, di seta, dove eran giovani per trarli a sè e indurli ad armarsi, e molti ne ebbe persuasi infatto.

Ma intorno alle cinque ore, da quelli che avea mandati fuori di Como, gli giunse sollecito avviso che a rapida corsa venivan da Milano soldatesche in gran numero e artiglierie ed altro.

Non stette molto a pensare, si raccolse col Mandello e gli altri, senza l'assenso de' quali non mandava nulla ad effetto, e tosto, unita la nuova gioventù di Como alle soldatesche che stavano in città, mandò a levare un altro terzo della metà gente che tuttavia intatta stava in aspettazione fuori del porto, e di tutti quanti fatta un'unica massa assai ben agguerrita e compatta, li condusse sulla strada a Milano, dove di piè fermo attese le nuove forze de' Francesi. Ebbe inoltre la precauzione di lasciare un grosso d'archibusieri in città onde impedir l'uscita a quei del presidio, dai quali per avventura poteva essere preso alle spalle e chiuso così tra due fuochi.

A mezzanotte le soldatesche venute da Milano si trovarono a fronte della gente di Manfredo; e tosto, ad onta dell'oscurità, si venne alle mani. Le scariche continue degli archibugieri, e il tuonare violento delle artiglierie francesi, rimbombarono tutta notte per immenso spazio all'intorno. Nè fecero di meno i soldati di Manfredo. Anzi questi, quantunque fossero in minor numero assai, combatterono con più impeto de' Francesi ne' quali solamente fu maggiore l'ordine. Il conte Galeazzo Mandello diresse l'opera di alcuni militi olandesi, i quali facendo lavorare la poca artiglieria de' Lombardi, poterono far fronte per molto tempo alla tempesta nemica. Il Palavicino, scorrendo tra soldato e soldato, continuò tutta notte a ripetere quest'unica frase:

—Non si ceda terreno! Se oggi si vince tutto è vinto!

Quando sorse il primo sole la zuffa ferveva più terribile che mai. Ma parve che l'alba fosse infausta ai Lombardi, i quali cominciarono a sentirsi soverchiati dai numero. Operarono sforzi prodigiosi, ma pei morti e i feriti che spesseggiavano sul terreno di minuto in minuto, la difesa dovette necessariamente affievolirsi.

A un tratto accorre il Mandello presso al Palavicino, e affannato:—Io ti consiglio, gli grida colla voce fatta rauca e cupa, di far battere a ritratta, e di prender la via dei monti.

Queste parole del conte Galeazzo fecero sull'animo di Manfredo più impressione che la sanguinosa scena e gli spessi cerchi dei morti ond'era circondato. Se un uomo come il conte Galeazzo, che s'era trovato in tanti fatti d'arme, diveniva d'improvviso così prudente, era ben indizio che la speranza di respingere i Francesi cominciava, per allora, a diventare irragionevole. Però sebbene gli pesasse molto di dover comandare la ritratta, considerando quanto sarebbe difficile poi il ricuperare quel posto, seguì il consiglio del conte Mandello…. e facendo dar ne' tamburi, rinculò co' suoi fin a un passo de' monti indicatogli dai giovani comaschi che avean preso l'armi e combattevano a' suoi fianchi e per dar agio alle proprie soldatesche di scomparire per le vie montane senz'essere inseguiti, raggranellò un grosso drappello di archibugieri a rattenere momentaneamente l'impeto de' militi francesi. Intento che gli riuscì, e sempre guidato dai giovani comaschi espertissimi de' luoghi, donde si poteva ferire senz'essere offesi, potè poi soccorrere agli stessi archibugieri rimasti sul campo, i quali ebbero anch'essi il modo di riparare tra monti benchè assottigliati della metà.

I Francesi fecero sosta a questo punto, e non sapendo in sul primo a che appigliarsi, si ridussero intanto entro città. Il comandante del presidio scrisse subitamente al governatore di Milano domandando nuove istruzioni, che vennero infatti e furono funestissime, come vedremo.

Il Palavicino, internatosi fra i monti, s'accampò come gli riuscì meglio. L'Elia Corvino, sebbene non ne avesse avuto il comando, avea fatto allontanare tutte le barche lombarde da Como, perchè i Francesi non avessero così il modo di recarsi a molestare quel resto delle forze di Manfredo, le quali essendo tuttavia intatte avrebbero potuto a suo tempo portar gran soccorso; provvedimento di cui tanto il Palavicino che il conte Mandello lo lodarono assai.

Ma erano a farsi altri provvedimenti, e bisognava pensare seriamente a quanto occorreva in simile frangente; perciò il Palavicino, il Mandello e gli altri Lombardi strettisi in consiglio, determinarono di spedire con tutta sollecitudine un avviso al Morone, confidando, avrebbe trovato il modo di mandar loro un súbito soccorso.

—Ad ogni modo, diceva il Palavicino, quanto abbiamo operato non rimarrà senza utili effetti; e siccome, come altre volte ho detto, a determinare la lega tra Carlo e Leone era forte bisogno di qualche grave avvenimento, così mi confido che questo varrà per tutti. Un'altra considerazione poi mi consola dell'utilità del nostro tentativo, ed è questa: che se da questi luoghi noi continueremo a molestare le milizie francesi, di cui penso non esservi gran numero nel Milanese, sarà per cagion nostra, se le forze del papa e di Carlo, accostandosi a Milano, non avranno a lottare con troppo duri ostacoli. Il più difficile delle imprese non sta sempre nel condurle a termine, ma nel dar loro principio: e ciò noi abbiamo fatto; spediscasi ora dunque, senza indugio, questo messo a Reggio, che qualche cosa nascerà.

Il Corvino si esibì di andar lui in persona; ma il Palavicino:—Per te, gli disse, ci sono ufficj di ben maggiore importanza. Manderò invece qualcuno dei nostri che già abbia atteso al commercio perchè avrà facili i mezzi più che altri e, riconosciuto, per la condizione sua non desterà sospetti. E ciò fu fatto.

In tutto questo giorno Manfredo mostrò un'alacrità quale di solito non era nell'indole sua; ma a poco a poco perdette di quella balda sicurezza che ne' momenti, a dir vero, i più importanti, gli aveva tanto giovato.

De' suoi colleghi eran rimasti morti, nella zuffa, il Crivello e il conte Birago. A tutta prima egli aveva ignorato una tale mancanza, ma non vedendoli, e avendone domandato, gli fu risposto che non erano più fra i vivi; della qual notizia rimase così sopraffatto, che si concentrò in sè medesimo e fu veduto a piangere.

A renderlo così mesto, influì poi la repentina trasmutazione del cielo, giacchè, come trovo notato in un cronista, dalla metà del giugno in poi "comparvero segni esiziali nell'aria, con tuoni e lampi continui e venti di tramontana, da far credere che il giugno fosse tornato al gennaio, poi venti sciroccali da togliere il respiro e da far credere che la Lombardia fosse una regione dell'Africa, e gragnuole mirande devastatrici delli agri e delle messi." Ma forse quella mestizia era un presentimento.

Due o tre giorni dopo, lasciata la compagnia del conte Mandello e degli altri, dai quali eransi agitati mille partiti per sferrarsi da quelle angustie della montagna, e tentare qualche altro colpo, il Palavicino, tutto chiuso ne' più gravi pensieri, se ne venne dove aveva dato ordine che si seppellissero i morti. Se ne venne per assistere alla sepoltura de' cadaveri del Birago e del Crivello trovati pochi momenti prima.

Fermatosi al luogo, vide che i zappatori ascendevano lentamente la montagna portando a stento le salme dei due milanesi. Quella vista, e la torbida apparenza del cielo che si rifletteva nel torbido lago, gl'influirono potentemente sull'animo, e guardò a lungo le cinque o sei fosse, che gli stavano all'intorno scavate, con un'aria così profondamente mesta, che avrebbe fatto senso a chicchessia.

Giunsero finalmente i zappatori, e riconoscendo il marchese Palavicino e mostrando i cadaveri:

—Penereste assai a ravvisarli, gli dissero, tanto sono sformati; pure questo è il marchese Crivello, questo il conte Birago.

Manfredo non rispose e guardò un pezzo i due colleghi morti, poi volse altrove la testa. Quando furon fatti cadere nella fossa, e i zappatori si misero a gettare le palate di terra per colmare e coprir la fossa, trovandovisi il Palavicino assai presso, sui piedi di lui venne a cadere qualche palata di terra mal gettata.

I zappatori ristavano allora per rispetto di lui, del che accortosi il buon Manfredo:

Cari amici, disse loro sforzandosi a sorridere, fate presto, fate presto a seppellirmi.

Tristi parole, che tanto più ci stringono di pietà, in quanto che, per uno strano ritorno di un fatto presso che uguale, furono ripetute in tempi a noi vicinissimi da un altro Italiano, illustre anche lui, anche lui distinto per ingegno e per coltura, e prode e sventurato, il bresciano Pietro Teullié, vogliam dire, di gloriosa e carissima memoria, che dopo aver pronunciato, per celia anch'esso, a due zappatori che gettavan terra sui suoi stivali: fate presto a seppellirmi, una palla da cannone venne a fracassargli una coscia, e morì. Le parole del buon Teullié furono davvero presaghe…. ma lo furono pur troppo anche quelle del buon Manfredo.

La mattina di questo medesimo giorno, in uno de' bassi camerotti del castello Baradello dove alloggiava il comandante del presidio, questi, passeggiando da un capo all'altro della camera, volgeva la parola ad un soldato che se ne stava in un canto immobile e attento.

—Quanti anni avete?

—Quaranta.

—Siete intervenuto ad altri fatti d'arme?

—A cinque; il penultimo fu la giornata di Marignano.

—E non avete mai imparato a ben morire?

—Sul campo sì; impiccato no.

—E per scansare il capestro siete pronto davvero a far quello che avete detto?

—Prontissimo; non solo però per sfuggire alla morte, ma per migliorare la vita.

—E pretendete?

—Quanto può bastare ad un uomo per vivere, in una città qualunque, colla moglie, sei figli viventi, e provvedere largamente a quelli che nasceranno.

—Largamente?

—Si, poichè ci deve pensare un re a pagare, e perchè se tiro al laccio l'uomo che sapete, il governatore, se fosse il re, mi darebbe una contea. So quel ch'è passato, e basta.

Il comandante, senza rispondere, riprese allora alcuni fasci di carte che stavano ammonticchiati su di una tavola…. e rilesse da capo una lettera del luogotenente del governatore.

—Ringraziate il diavolo, disse poi al soldato, che vi ha fatto tentar la sorte nel miglior punto.

—Quando starò contando i duemila fiorini d'oro, dirò che avete parlato bene.

Il comandante, che era un onesto e leale Francese, e mal suo grado doveva obbedire altrui, non potè a meno di volgere un'occhiata di sprezzo al soldato, mentre pure soggiungeva:

—Giacchè la vostra proposta fu accettata, li conterete ad opera compiuta.

—Ad opera compiuta?

—Si.

—Chi mi assicura?

—Chi ci assicura noi, ribaldo?

—Un buon giuramento aggiusta ogni cosa.

—E noi ti faremo promessa formale dì pagarti quando l'uomo sarà nelle nostre mani.

—Non mi fido delle promesse di chi ha duemila soldati ai propri ordini.

—E le tue saranno attendibili, furfante?

—Quand'uno mi paga bene, io gli son servo in corpo e in anima; è questa una regola alla quale non ho mai contravvenuto in vita mia.

—E ti basta la vista di sostenerlo?

—Mi basta.

—E perchè dunque vendi il marchese, se ti pagava?

—Ho io forse detto che mi pagasse bene? Malissimo mi pagava, e non conobbi al mondo capitano più pitocco di lui. Però mi chiamo fortunato d'esser caduto nelle mani dei suoi nemici.

—Dunque ti ostini a voler la paga prima dell'opera?

—Per finirla in due parole, fate così: metà prima e metà dopo…. è questa la più gran prova di fiducia ch'io possa darvi.

Il comandante, che desiderava spacciarsi in fretta e di un tal uomo e di un tale intrigo:

—Bene, disse, così sia fatto! Vieni dunque, che ti assegnerò i compagni…. e avrai l'oro.

Il soldato, che la storia dice essere stato un venturiero alemanno, uscì poco dopo di Como con tre archibusieri, prese pel borgo di Vico e s'internò tra i monti, volgendo a sicura meta.

Pervenuto in un certo passo dov'era un gruppo di pini:

—Fermatevi qui, disse agli archibusieri; io vado lassù. Pochi minuti, e condurrò l'uomo con me; se qualcuno ci seguisse da lontano, tirate su loro; noi scompariremo per questo sentiero.

Quando il Palavicino, finita l'opera dei zappatori, rimase solo nel funebre luogo, udì al di sopra di sè le voci di alcuni soldati che dicevano:—Se volete parlargli, il marchese è là, egli vi rivedrà assai volentieri.

Manfredo, guardando in su, vide allora appunto quel venturiero alemanno che, preso al soldo molti mesi prima, egli aveva preposto a certi archibugieri olandesi, e che sapeva essere stato fatto prigioniero alcuni giorni prima dai Francesi. Perciò molto maravigliato:

—Voi qui? gli disse.

—Sano e salvo son qui, marchese, e quel ch'è riuscito a nessuno è riuscito a me.

—Avete potuto fuggire?

—Sì, illustrissimo.

E ciò dicendo discendeva l'erta e si faceva presso a Manfredo.

—Se voi vi rallegrate, continuò, perch'io sia scampato dai Francesi ed abbia ricuperata la mia libertà, vi rallegrate di ben poca cosa. Ma vi darò tal nuova per cui avrete a rallegrarvi davvero.

—E qual è questa nuova?

—Che la prigione e la fuga mi fecero scoprire una via segreta, per la quale, senza che i Francesi se ne accorgano, potrete entrare in Como, in qualunque ora vogliate, e sorprenderli e batterli e ricuperar quello che avete perduto.

—Dite il vero?

—Se non volete credere a me, crederete agli occhi vostri; venite a vedere voi stesso.

—Dov'è la via?

—Per questo monte medesimo, un sentiero affatto affatto ignoto; venite dunque.

—Vengo; aspetta! e Manfredo diede una voce; alla chiamata comparvero due soldati: Dite al conte Mandello, loro gridò Manfredo, che lo aspetto qui.

—E che volete dal conte? gli domandava l'Alemanno.

—Che venga a vedere anche lui.

—Lasciate, lasciate; dovete veder voi prima di tutto, perchè se mai, come non credo, io avessi preso abbaglio, non vorrei sentire le beffe del conte, che è si corrivo a dar la berta altrui.

Manfredo sorrise a queste parole del caporale alemanno, chè in fatto il conte aveva per costume di dar la berta a quei buoni soldati, i quali, fuori dello schioppetto che sparavano a maraviglia avevano l'ingegno piuttosto grosso. Sorrise e seguì il caporale, che affrettò la discesa per allontanarlo dalla valle dove stavano a campo le sue genti. Quando furono a mezza costa, risuonò dall'alto la voce sonora del conte Galeazzo Mandello che chiamava a gran voce il Palavicino. Questi, a motivo dei tortuosi giri del sentiero montano, udì il conte senza vederlo, e si fermò.

—Son qui, Galeazzo, discendi, gli rispose poi dal basso.

Il caporale alemanno, non sapendo allora a che appigliarsi, finse di sdrucciolare in giù e trasse a sè il Palavicino. A un tiro di balestra dietro al gruppo di pini stavano gli archibugieri francesi, di cui Manfredo a tutta prima non s'accorse, ma che continuando a sdrucciolare in giù vide a un tratto, onde gli venne un orrendo sospetto.

—Galeazzo! Galeazzo! gridò allora, e fu un grido che fece rintronar la montagna.

—Manfredo! rispose dall'alto la voce del Mandello che poco dopo si mostrò e vide e fu visto.

—Galeazzo, sono tradito, accorri! così disse il Palavicino che, assalito in quel punto, si dibatteva tra le robuste braccia degli archibugieri che io pungevano colle armi.

Il conte fece allora un salto d'un trenta passi buonamente; ma in quella vide le canne di due archibugi appuntate contro di sè e la subita fiamma, e udì il fischio delle due palle e cadde…. cadde ferito gridando con voce di strazio acutissimo e di disperazione:—Ah! Manfredo, io non ti posso salvare! Manfredo, Manfredo!… Ma questi pur continuando a ripetere il nome di Galeazzo, venne tratto lontano, e dileguò anche la voce.

Fu il più sviscerato e il più orrido addio che mai siensi dati due amici da che mondo è mondo. Il conte Mandello, insensibile al dolor fisico che gli veniva dal braccio sinistro, passato parte a parte dalla palla di piombo quantunque ne fosse reso impotente, lasciava che il sangue scorresse senza porvi riparo, e premeva la destra sulla fronte con una tensione così disperata, che pareva volesse in quel modo togliersi la vita divenuta inutile.

—Ahi!!! disse finalmente con un gemito profondo e alzando la mano verso al cielo, tutto è dunque perduto! e svenne e cadde privo di sentimento.

La scarica degli archibugi avea desta l'attenzione di taluni soldati che accorsero per vedere che cosa fosse, e udite le grida e tenendo il sentiero per dove quelle eran venute, discesero, e, pieni di dolorosa maraviglia, trovarono il conte Mandello disteso sul nudo masso, bagnato del proprio sangue, e che non dava segno di vita. Veduta la ferita del braccio, presto la fasciarono e gli si misero intorno con ogni premura; ma mentre si adoperavano con tanta sollecitudine, almanaccavano per trovar le circostanze del fatto.

—Da chi mai può esser venuto il colpo?

—Non mi sono ingannato, e posso assicurarvi che furono più scariche.

—Dunque fu tentato di penetrare sino a noi!

—Aspettate che parli il conte…. Ma sapete che ha perduto tanto sangue quanto basterebbe per dar la vita a due uomini?

—È vero, ma perchè se ne venne solo fin qui?

—Ora che mi ricordo, non lo chiamò il marchese?

Questa domanda mise de' stranissimi sospetti in quel gruppo di soldati.

—Perdio! mi pare; il marchese era con lui!

—Dunque…:

—Ma sei ben certo che il marchese lo abbia chiamato e sia seco disceso?

—Non c'è dubbio…

Il conte diede in quella i primi segni di riaversi, e tutti tacquero.

—Tutto è perduto! egli replicò poi con voce profonda e come se parlasse tra il sonno, e poco dopo aprì gli occhi e si alzò. Il primo moto fu quello di afferrar pel braccio chi gli stava presso coll'ultima forza che gli rimaneva; ma riconoscendo i volti: Perdio, gridò ansioso e anfanato, accorrete, accorrete tutti, il marchese è tradito!… è perduto!…

Ciò dicendo tentò di alzarsi, e gli riuscì con grandissimo stento; e così sorretto dai pietosi compagni d'armi pressochè tutti lombardi, lentamente ascese la montagna per discender poscia nella valle, ov'era il grosso della gente.

Il conte, per la molta perdita del sangue, era oltremodo affievolito; tuttavia, riavutosi dalla prima angoscia, tanto più degna di maraviglia, in quanto aveva potuto vincere la sua natura medesima, narrò il fatto con tale efficacia di parole, che per tutto il campo fu una conflagrazione repentina, insolita, che giunse fino al furore tra i militi alemanni, percossi dalla vergogna che un loro compatriotta si fosso bruttato di un così infame tradimento.

Ma che valevano le pietose proteste, il dolore, lo stupore, lo sdegno, il desiderio di vendetta? Come si poteva salvare lo sventurato Manfredo? Come uscire con tutta la gente da quelle angustie, e penetrare in Como, e far strage di chi aveva comandato un così atroce tradimento? Come continuare le paghe! Come in tanto intreccio di cose, avviluppatesi più che mai quando pareva dovessero terminare, trovare un consiglio, un rifugio, un mezzo potente per riparare a tanta sciagura! Il conte osservò tutte queste cose di un lampo, misurò tutta la profondità dell'abisso, e, da che viveva, perdette per la prima volta affatto quella fiducia così piena di trovati e di risorse, disperò e si sentì prostrato e avvilito e incapace a pensare non che ad operare.

In questo stesso dì giunse l'Elia Corvino da Cremia, dove, per preghiera del Palavicino, erasi recato a confortare la Ginevra, e di mestissima ch'ella era, l'aveva lasciata tanto quanto lieta. Accortosi che nel campo era un gran pericolo, da principio non seppe che si pensare, poi quando udì la grave sciagura rimase come smemorato.—Povera Ginevra, esclamò, qual colpo sarà questo per lei!!—E si recò subito presso il conte Mandello il quale s'era messo a giacere sul suo letto di paglia, non consentendo maggiori comodi le angustie delle circostanze e dei luoghi.

L'Elia e il conte si guardarono a lungo senza parlare.

Non v'ha spettacolo che più colpisca dell'angoscia e della prostrazione di chi naturalmente è audace e giocondo e noncurante. E una tale commozione si fa ancora più grave quando, ritornando alla causa, si considera quanto ella dev'esser stata terribile se potè gettare la confusione anche colà dove era sempre stata sconosciuta.

E fu terribile davvero.

—Ma e non pensiamo a far nulla? disse finalmente l'Elia dopo avere aspettato invano che il conte parlasse il primo.

—-Tutto io avrei fatto, rispose allora quasi dando in furore il Mandello, se questa ferita non mi avesse fatto cadere; quantunque in due soli e quasi senz'armi contro quattro armati d'archibugio e coperti di ferro dalla testa ai piedi, pure li avremmo schiacciati, per la fede di Dio, ed io avrei fatto miracoli per salvare Manfredo! il buon Manfredo! così è perduto!…

E tacque…. e pianse…. pianse d'amore e d'affanno. L'Elia volse la testa altrove.

E dopo una lunga pausa:

—È da più ore, caro Elia, e gli sporgeva la mano per stringere la sua, che io sto affannandomi in cerca di un filo di salvezza; ma non so trovar nulla…. nulla, e mi pare d'avere smarrita l'intelligenza affatto. Sarebbe un gran che, vedi, se si potesse salvare un così prezioso amico, un italiano sì generoso, un così raro complesso di virtù egregie, in cui era tanto valore e tanto ingegno, e tanta soavità di natura…. Oh percorri Elia, percorri tutta Italia che un giovane come Manfredo non ti verrà mai fatto di trovarlo mai…. Ed ora è perduto…. e il cuore mi dice per sempre!…. perchè…. l'altra volta quando Manfredo corse quasi lo stesso pericolo…. io non mi lasciai così abbattere…. e il presentimento d'averlo a salvare mi metteva in cuore una gran fiducia…. ma oggi non vedo nulla! E s'io ho a morire impazzito ciò accadrà per questa disperazione che mi strazia, che mi divora! Ma tu, Elia tu uomo acuto e scaltro…. e provvedente…. non hai nulla a dirmi, nulla a consigliarmi, nulla da operare pel nostro povero, sventurato amico?

L'Elia non rispondeva….

Il Mandello si fece ancora immobile, e tenne gli occhi fissi senza mai parlare.

—E la Ginevra, disse poi scuotendosi tutt'a un tratto, come l'hai tu lasciata quella povera sventurata? Ma tu non rispondi? Io ho perduto il senno, tu anche la favella.

—Vorrei, per verità, aver perduto l'uno e l'altra, rispose finalmente l'Elia…. ma se si ha a tentare un partito ancora…. esso non può essere che il più disperato.

—Sia pur disperato quanto mai può essere, purchè ci sia; parla dunque. Che partito hai tu?

—Potrebbe riuscire se Dio lo volesse, e se dipendesse soltanto da noi, che siam pronti a sagrificar tutto!

—Sì, tutto, sino alla vita!

—Ma noi soli non bastiamo…. Converrebbe che la Ginevra potesse far ciò che forse non è lecito attendere dal suo immenso dolore quando saprà la sventura…. Pure la sua disperazione istessa, le sue grida strazianti potrebbero essere un gran mezzo, una potente scintilla da destare un incendio.

—Che?

—Sì, centomila uomini, che gemendo tacciono da anni, potrebbero, eccitati da uomini esperti prorompere improvvisamente innanzi allo spettacolo di una desolazione che non ha pari.

Il Mandello si alzava dal suo giaciglio a queste parole, e appuntando l'occhio in volto all'Elia in grande aspettazione:

—Parmi, diceva, parmi d'averti compreso…. Segui!

—Manfredo, quest'oggi istesso, forse sarà in Milano.

—Non può essere diversamente…. è il governatore che lo vuole.

—Ma prima che il governatore ci tolga tutte le speranze, Manfredo, trattandosi d'un fatto così pubblico, così straordinario, così politico, sarà giudicato dalla Cameretta; questo basta perchè, prima della sua condanna, passi qualche giorno d'intervallo…. Un tale intervallo può esser tutto per noi!

Il Mandello, a tali parole, rianimandosi di speranza:

—Dio ti benedica! proruppe; il resto lo so io.

—La Ginevra….

—La Ginevra s'affretta a Milano….

—E va a palazzo…. e domanda un'udienza dal governatore….

—E al suo rapido viaggio da qui a Milano si dà il più grande apparato possibile, tanto che accorra la folla, commiserando e sdegnosa, sulla via per dove passerà….

—E in città si mandano uomini esperti ad annunciare la sua venuta…. a preparare, ad eccitare, ad esaltare gli animi di pietà e di furore.

—Nè ella dovrà pregare il governatore per la vita di Manfredo: sarebbe domandar troppo; chiederà che a lei sia concessa la grazia di recarsi a supplicare il re, il solo che possa mutar la sentenza della Cameretta.

—Ma ciò non concederà il Lautrec…. e i pianti di lei ecciteranno il popolo…. e noi stessi muoveremo gli animi intanto che l'infelice pregherà invano! Se le nostre parole avranno efficacia; se in un solo istante una corrente di entusiasmo verace immenso, solca ed arde non già cento; ma ventimila uomini soltanto, non v'è più forza che li trattenga. E una donna che prega e versa torrenti di lagrime, e trova il rifiuto spietato, può far di gran cose, credetelo a me.

Il Mandello, attonito prestava attenzione all'insolito impeto onde esprimevasi l'Elia, e sentiva tutte sussultarsi le fibre, e a dispetto della ferita, non poteva star calmo.

—Mi pesa di essere così indebolito, disse poi, ma farò come se non fosse nulla. Intanto bisognerà che tu ti rechi subitamente a Cremia…. e parli alla moglie di Manfredo.

L'Elia sentì sbollirsi ogni coraggio a un tale pensiero.

—E questo, disse, questo è ciò che mi riesce insopportabile; e non so cosa farei perchè altri se ne incaricasse.

—Ti comprendo, Elia, ma conviene che ti faccia forza.

—E s'ella non sopportasse il dolore?

—Speriamo che lo sopporti. Ma intanto che tu vai a Cremia, io provvederò a ciò che rimane a farsi coi mercenarj di Manfredo; credo che per quindici giorni ancora vi siano i denari per le paghe, passati i quali, se non giunge un soccorso dal Morone o da altri, bisognerà licenziarli. Intanto io crederei bene di condurli, per la Valle d'Intelvi, sul territorio svizzero, il quale è a poche miglia di qui, che in tal modo, finchè si aspetta, si è in luogo più sicuro, e i Francesi del presidio, vivendo in continuo sospetto, non potranno recarsi a Milano per portar soccorso quando ci fosse il bisogno.

—Ciò è ben pensato, mi pare, e converrà dar gli ordini perchè si ritiri anche la gente che il Palavicino lasciò per ajuto sul lago.

—A questo ci ha già provveduto lui, e tutto è fatto.

La notte, quantunque il lago fosse procelloso e minacciasse fortuna, l'Elia si recò a Cremia.

CAPITOLO XXXVI.

La nuova di tali avvenimenti aveva messo intanto uno strano sobbollimento negli animi dei Milanesi. Già da molto tempo prima erano stati in aspettazione di qualche gran cosa, e la continua resistenza dei fuorusciti raccolti in Reggio contro le scorrerie francesi, non è a dire che fiducia e quante speranze avesse in loro suscitato. Avean saputo inoltre che stavasi concertando una lega tra Leone e Carlo, la quale, siccome tutto induceva a credere, avrebbe risolutivamente cacciato dalla Lombardia quelli che, da tanti anni, con tirannia sì atroce la governavano.

Coloro, ed erano i più, che durante tale dominazione mai non poterono uscire dalla città, da principio, percossi dall'insolita miseria, non avevan saputo che tremare e lamentarsi e piegare il collo—e in così deplorabile condizione continuarono per gran tempo. Ma nell'anno in cui il Lautrec stette in Francia, e il Lescuns meno atroce, lo rappresentò, alla prima notizia del complotto di Reggio cominciarono alquanto a risentirsi dal pauroso torpore, e più d'una volta avvenne che la folla prorompesse in qualche sfogo improvviso di furore contro le soldatesche; sfoghi, che sebbene in breve venissero repressi dalle forze soverchianti, pure erano indizio che, se continuavasi di tal guisa, la moltitudine, dalla disperazione medesima fatta accorta della propria forza, avrebbe potuto, a lungo andare, riuscire formidabile a quelli stessi che tanto l'avevano oppressa.

Ben è vero che, al ritorno del Lautrec, ella sentì ancora un resto di paura per le terribili misure da lui prese, ma anche quella, spinta all'eccesso, avrebbe potuto diventar poi la causa di una conflagrazione improvvisa e risolutiva.

Il dì 11 di giugno cominciò finalmente a correre sordamente per Milano una strana voce: che il marchese Palavicino, alla testa di molta gente era comparso sul lago di Como in attitudine minacciosa. Dapprincipio si cominciò a negar fede a quelli che, pieni di esaltamento, raccontavano un tal fatto, poi crescendo il cumulo delle prove, subentrò la maraviglia, l'aspettazione, l'ansia. V'era tuttavia chi non sapeva ancora indursi a credere quanto si raccontava, quando il corriere spedito in tutta fretta dal comandante del presidio di Como a Milano, e l'improvviso ordinarsi delle soldatesche che stavano in castello, e il battere dei tamburi che risuonò turbinoso nel rione di Porta Comasina, persuase e colpì tutti quanti. Il nome del marchese Palavicino corse allora in Milano sulle bocche di tutti. Chi raccontava la sua vita passata chi le sue sventure, chi le ultime vicende in cui si trovò avvolto. Sapevasi che egli aveva sposato la signora di Rimini, e si parlò di costei e della misteriosa sua morte; ma s'ignorava al tutto che egli si fosse unito in matrimonio colla Ginevra Bentivoglio, della quale si ricordò la fuga, onde tutta Milano s'era tanto scandolezzata. Quante cose avvennero in sì lungo corso di tempo, si riandarono tutte in quei cinque o sei giorni, e i personaggi che l'uno dopo l'altro comparvero in questo libro, dal più al meno furon tutti oggetto dei discorsi generali. Corse finalmente anche la voce che il marchese Palavicino aveva sposata la Ginevra Bentivoglio, la vedova del terribile Baglione, e che anzi ella trovavasi a Como con lui. Una tal nuova colmò le maraviglie, accrescendo l'interesse per ambedue, il quale era tanto maggiore in quanto si connetteva all'interesse comune. Non è poi a dire con quale impazienza e con che ardore si cercavano le notizie dell'impresa di Como. Fu un tripudio generale, sebbene compresso, quando vennero propizie; fu un'inquietudine quasi tumultuosa quando si vociferò che la gente del Palavicino aveva dovuto ritirarsi fra i monti, e che la condizion sua facevasi più difficile di giorno in giorno.

In questo mezzo, cominciando a imperversar la stagione fuori dell'ordine naturale, con venti procellosi e gragnuole violenti e lampi continui; il popolo, a quel tempo, superstizioso oltre ogni credere, credette vedervi qualche indizio di una terribile catastrofe. Uscendo dalle disertate officine, gli artieri si radunavano a crocchi, e chi faceva un pronostico, chi l'altro; e siccome in quegli ultimi dì, sulla Piazza Castello, eransi dati atrocissimi supplizj a sei patrizi lombardi caduti nelle mani del Lautrec, si pensò che il cielo, col procelloso aspetto, volesse dar segno della sua collera, e taluni si confortavano considerando che se pure un'inaudita sciagura avrebbe avuto a colpire qualche mortale, questo sarebbe stato un francese; e tutti i pensieri correvano allora al governatore di fresco tornato a Milano, e che avendo trovato il figliuolo in assai mal termine di salute, e quasi coi segni della morte in sul volto, era uscito in disperate imprecazioni e in minaccie contro a' medici, che non avevan saputo fermare i guasti del morbo.

Ma qual fu la maraviglia quando mentre, l'attenzione era rivolta al figliuolo del Lautrec, il marchese Palavicino, circondato da venti gendarmi a cavallo, entrò in Milano e fu condotto al castello di Porta Giovia!

La nuova di una così tremenda sventura percorse come un fulmine la città, e ciascuno rimase colpito da quello stupore e da quell'angoscia che toglie perfino la facoltà di esprimerla in qualche modo.

Fu un lutto generale sentito nel profondo dell'animo, e non comandato; se non che in quello scambio della sorte la moltitudine credette che il cielo, anzichè i Francesi, avesse voluto punire la città di antiche e gravi colpe, cogliendola nell'oggetto del suo amore, e là appunto dove aveva riposta ogni speranza.

Però, nel ricordare, questo fatto doloroso, non si può a meno di provare qualcosa che somiglia al conforto, pensando a quella corrispondenza di amore e di gratitudine sincera che fu tra un individuo ed un'intera moltitudine, d'amore disinteressato per una parte e che non si manifestò a parole, ma con fatti; e per l'altra di un'effusione spontanea di pietà che se non fu efficace, fu però generosa, e, quando non foss'altro, compensò anticipatamente il Palavicino della freddezza e noncuranza dei molti i quali, abbagliati dal grande, non ebbero riguardo al buono.

Erano così corsi tre giorni dalla cattura del Palavicino; alla torre della Piazza de' Mercanti batteva la campana del mezzogiorno, e in quell'ora destinata dagli artigiani al riposo, molti di questi, dalla contrada Marsia, da quella di Pescheria, da quella dei Fustagnari, degli Orefici, e dalle altre che ricevono il nome delle arti diverse, venivano ad unirsi sotto al Coperto dei Figini per raccogliere altre novità e per discorrere intorno a quelle di cui pur troppo erano istrutti. Si raccoglievano sotto il portico, perchè nel cielo era un annottar tempestoso che minacciava rovesci di pioggia, come dalla metà di giugno soleva succedere ogni dì.

Innanzi alla bottega del merciajo Burigozzo, il quale aveva perduto alquanto della sua parlatina e se mai sentiva bisogno di sfogo, non si attentava di parlare che tra visi ben noti e dopo avere esplorato d'ogn'intorno con gran precauzione stava un crocchio piuttosto denso d'uomini che all'apparenza indicavano robustezza fisica e gran risolutezza; fra costoro trovavasi l'Omobono, fratello del Corvino, e quel fallito beneficato da Manfredo. Ed era cosa curiosa come, in quel vasto susurro di voci che facevasi sotto al portico, fra tanta gente intese a discorrere col massimo interesse, questo crocchio soltanto osservasse il più grave silenzio, e quelli che lo costituivano guardassero d'ogn'intorno con attenzione, con sospetto, con aspettazione, e di tanto in tanto qualcheduno, spiccandosi dalla folla e attraversando la piazza, si allontanasse per qualche istante, e ritornando poi sempre in silenzio, si facesse ancora coi compagni.

Ma venne il momento in cui uno di essi portò finalmente la notizia che gli pareva stessero attendendo.

Il fratello dell'Elia si gettò allora fra la gente di cui era gremito il portico, ciò che fecero tutti i suoi colleghi.

—Amici, una notizia!

—Fra pochi momenti il governatore riceverà una strana visita, se pure vorrà accordarla.

—Che? Cosa dite? Di che si tratta?

—Grandi cose ne avranno ad uscire.

—Sì, è la moglie del marchese Palavicino.

—La sventurata sua moglie, che fu veduta entrare in Milano or ora.

—E in gran pianti, come dicono chi l'ha veduta.

—E assicurano ch'egli è uno spettacolo innanzi a cui non si può trattenere le lagrime.

—E a momenti sarà qui?

—A far che?

—Per impetrare un'udienza dal governatore.

Il Burigozzo, uscito allora dalla sua bottega, e non potendo più trattenersi:

—Ahimè, disse, ella è giunta in malissimo punto! Mi rincresce per lei, ma il governatore la ributterà.

—Perchè la ributterà? Vorremo vederla!

—Cominciamo dal dire, che non entrò mai donna in quel palazzo dal momento che il governatore ci venne a star lui.

—E v'entrerà oggi. Ed è questo un caso straordinario.

—È da due giorni e due notti ch'egli non abbandona mai il letto del figliuolo…. Pensate se vorrà farlo per costei, per la moglie del marchese!

—Ma ella morrà d'angoscia, se ciò le verrà negato!

—Com'è vero Iddio, disperata morirà!

—E questo io credo, ma non posso che sentirne pietà e non altro.

—Sentite tutti: muoviamole incontro. Ella riceva i nostri conforti almeno.

—Sì, muoviamole incontro. Io voglio vederla.

—Anch'io vo' confortarla in qualche modo.

—Tanto popolo commosso pel suo dolore, sarà per riuscirle d'un gran sollievo.

—Andiamo dunque.

—Andiamo.

—Vengo anch'io.

—Ed io pure.

E in breve la piazza del duomo rimase deserta affatto, spalancate le botteghe e vuote senza custodia. Soltanto vedevansi le sentinelle francesi a passeggiare innanzi al palazzo ducale, soltanto udivasi come da lontano il brontolar cupo e irresoluto del tuono, e il cielo oscurarsi sempre più talchè pareva imminente lo schianto della gragnuola.

La folla intanto, prendendo per Pescheria, e via di furia attraversando la Piazza de' Mercanti, di contrada in contrada fu al Cordusio, fu al Broletto, E ad ogni passo, quasi mucchio di neve che s'aumenti rotolando, si faceva sempre più densa, più compatta, più romoreggiante. Si udì un trotto serrato di cavalli, e fu un grido generale:—Ella viene! Ella viene!

E in tal punto l'Omobono s'incontrò nel fratello tutto chiuso nella cappa e coperto dal cappello a falde.

—Il principio fu buono, Elia, e la moltitudine ha viscere.

—Lo vedo e son contento; ma lo sospettavo.

—E il cielo par che ci ajuti colle sue tenebre.

—Pare.

—Ma il conte?

—È qui.

—Ed i soldati?

—Sono in Milano travestiti da contadini.

—Dunque s'ella è respinta e il governatore sta ostinato?…

—Come t'ho detto; il resto lo sai. Va dunque.

E si divisero.

Omobono seguì la sua via e raggiunse la moltitudine, la quale s'era affollata ristagnando intorno alla carrozza della moglie del Palavicino.

La Ginevra non sapeva che quel fermento popolare era mosso dal conte Mandello e dall'Elia Corvino, perchè questo, sebbene a malincuore, non aveva voluto per nessun conto scemarle il dolore, dandole argomenti di speranza. Come sappiamo, voleva che il popolo venisse infiammato dallo spettacolo di un dolore e di una disperazione senza limiti. E pur troppo il dolore della Ginevra fu tale e lo sarebbe stato, quando pure avesse avuta qualche promessa d'ajuto. Messasi dunque in viaggio, nell'ora stabilita dal Mandello e dal Corvino, percorse tutto lo stradale senza mai cessare dal pianto per un momento, e spesso dando in tali espansioni di angoscia, e in tal gemiti, che la donna che gli sedeva presso nella carrozza non trovava più modo nessuno per confortarla.

Lungo lo stradale non ebbe neppure la facoltà d'accorgersi della sparsa gente accorsa dalle ville per vederla e commiserarla, ma entrata in Milano, rimase a tutta prima attonita della moltitudine che le moveva incontro, e maravigliata domandò al'ancella, che fosse?! Ma le parole e le grida del popolo l'avvisarono d'ogni cosa. Se non che questa pubblica attestazione di pietà, queste voci di conforto che in tuon lugubre le giungevano da mille punti della folla stipata, questo lutto universale, essendo prova del quanto a tutti fosse cara la vita del suo Manfredo, con una fitta più profonda le vennero a colpir l'animo, e il pianto rattenuto dal primo stupore tornò a sgorgare con tanta passione, e sul suo volto, in cui tutti gli sguardi eran fissi, si mostrarono i segni di uno strazio morale così opprimente, che dalla folla si levò un sol grido che tutti esprimeva i varj affetti, onde ciascuno era agitato.

Le donne medesime prendevan parte a questo pubblico dolore, e qualche voce femminile, frammezzo al generale frastuono, giunse con un suono più gradito all'orecchio della misera Ginevra. E dalle finestre, e dai balconi e dai ballatoj si vedevan teste affacciarsi e cercare con pietosa curiosità lei, che la sventura aveva tanto colpito.

Ma tra le espressioni generali e vaghe della pubblica pietà s'udirono anche precise e calde proteste che per poco fermarono l'attenzione e le lagrime della Ginevra. E taluno, che rompendo l'onda del popolo, s'erale recato presso per vederla meglio, e più degli altri ne aveva sentito compassione, lasciò sfuggirsi qualche parola che spiegava il pubblico intento.

—Illustrissima signora, non piangete così.

—Signora, sperate; v'è chi pensa per voi.

—Per carità, marchesa, non vi lasciate perder d'animo in questo modo.

—Confortatevi! Sperate!

—Il governatore non vi respingerà.

—No, come è vero Iddio, non vi respingerà!

—O sconterà oggi tutte le sue scelleratezze passate!

—Sì, guai per lui se nega d'ascoltarvi!

—Guai per lui, marchesa.

—Guai! ripeterono più voci. Guai!

La Ginevra, a tali proteste, irresistibilmente in sulle prime si lasciò andare a qualche speranza. Lo stesso bisogno ch'ella avea di rilevarsi qualche poco dallo spasimo morale ond'era oppressa, era quello che la persuadeva a prestar fede a quelle voci, ma fu un brevissimo sollievo dal quale ricadde poi in un'angoscia più cupa della prima; che pensando all'indole inesorabile del Lautrec, e in parte sapendo quanto era avvenuto tra colui e il suo Manfredo, s'accorgeva dell'inefficacia di quei voti, onde d'ogn'intorno le venivano i gridi. E questa considerazione la conduceva poi a diffidare più che mai di sè medesima; e quando, dopo essersi anfanata a lungo e con tormento in cerca di un mezzo che potesse aver forza sull'animo del governatore, riusciva alla persuasione desolata, che a lei non soccorrevano che le sue preghiere e il suo pianto, un brivido d'orrore, prendendola istantaneamente, la faceva tremare e fremere quasi per violento assalto di febbre. Poco dopo, la sua carrozza, tra la folla che l'accompagnava, pervenne alla piazza del duomo, e qui il cocchiere, come ne era stato istrutto, spinse i cavalli a tutta carriera, per sormontare i primi ostacoli, ed entrò nel palazzo ducale.

Alcuni istanti prima grossi e radi goccioloni d'acqua, con brontolío continuo di tuoni e lampi che, rilucendo interpolatamente, rendevano ancora più tetro l'aspetto del cielo, aveano annunziato il pieno rovescio del turbine, che scoppiò quando la folla fu sulla piazza. Quanti poterono corsero allora a riparare sotto al Coperchio de' Figini, e fu un addensarsi, un pigiarsi, un tumultuare da non potersi descrivere. Essendo gli sguardi di tutti volti al palazzo, vi fu un momento che la saltante gragnuola cadde sì spessa da togliere del tutto anche quella vista. L'ansia, l'impazienza, l'aspettazion del popolo era indicibile, e il vasto suo fremito veniva solo coperto da quello della natura, la quale pareva avesse voluto espressamente sceglier quest'ora a prorompere così, perchè non sembrasse di soverchio monstruosa la violenza di quelle estreme passioni onde in quel punto avevano ad agitarsi umani petti.

Allorchè la carrozza della Ginevra passò sotto l'androne del palazzo ducale, da tutti quegli ufficiali, e caporali, e soldati che in gran numero si raccoglievano sotto agli atrj e nelle stanze a terreno, da principio si credette, quantunque paresse strano, ch'ella avesse voluto riparare colà per essere stata colta improvvisamente dal mal tempo. Per ciò avvezzi qual'erano i più a prendersi facilmente trastullo di tutto e di tutti, com'è costume di tal gente, si fecero intorno alla carrozza per trovare qualche argomento di risa e di beffe. Se non che al primo affacciarsi della Ginevra allo sportello, in tutti sorse un sentimento uguale che comandò il rispetto, o qualcosa di somigliante. Nell'entrare, ella aveva tentato ogni sforzo per ricomporsi alla meglio, ma non ci era riuscita in modo che altri non potesse accorgersi del disordine in cui trovavasi, e del molto pianto che avea versato; per la qual cosa, fra quella moltitudine d'uomini d'arme nacque gran curiosità di sapere chi fosse e cosa volesse.

Ma quando le si raccolsero intorno per parlarle ed ascoltarla, la confusione, onde la Ginevra venne assalita nel trovarsi in mezzo a tali uomini, di cui sospettava e temeva i liberi costumi, fu così forte, che, per un istante almeno, superò lo stesso suo dolore. Sentiva, i bisbigli, le sommesse domande che l'un l'altro si facevano, vedeva i sorrisi da cui trapelava qualche segno di procacità, e ciò che più l'atterriva, udiva le lodi fatte alla sua bellezza.

La donna che l'accompagnava temeva più che mai onde le andava dicendo:

—Per carità, usciamo di qui; fuggiamo da questa gente!

Ma in quella un francese, accostandosi allo sportello:

—Signora, disse alla Ginevra, possiamo noi sapere se voi siete venuta qui per riparare dal mal tempo, o per qual altra cagione siate venuta?

—Davvero signora, le diceva un altro men riservato del primo, se siete corsa fra noi per ricovrarvi avete scelto benissimo il luogo; e, per s. Dionigi, non sarà mai detto che un gendarme francese siasi rifiutato a prestare i suoi servigi a una bella donna! Voi poi siete bellissima, e avrete a lodarvi assai di me e di quanti siam qui.

La Ginevra, a tali parole, non seppe vincersi così che non trapelasse di fuori l'indignazione onde tutta si accese.

Ma il primo francese, mettendo il guanto sulla bocca del compagno.

—Taci tu gli disse, e prima di far promesse, ascolta. Questa donna ha ben altro a pensare che dar retta a te e alle tue ciance.

Tali parole furono susseguite da varii sghignazzi e da qualche frase in lingua francese, colla quale pareva si volesse mettere in celia la cortesia di chi primo aveva parlato alla Ginevra.

Ma un vecchio caporale, alzando la voce:

—Chi fa ingiuria altrui, disse, la fa a sè stesso; però usiamo a questa donna i dovuti riguardi.

L'insolito esempio di costume gentile esibitoci da questi soldati, non ci faccia però supporre che dall'ultima volta in cui fummo in questo palazzo sia scomparsa, tra le soldatese del Lautrec, quell'atroce durezza di cui siamo stati testimoni. I poveri Milanesi ebbero a patire, in quegli ultimi anni, violenze d'ogni genere; ma ciò non toglie che fra tanti uomini solleciti di secondare il governatore ve ne fosse taluno di natura più rimessa e più generosa, e che colle parole e coi fatti biasimasse fors'anco il duro esempio dato dal Lautrec. In quel modo istesso che la boriosa e feroce rozzezza onde si segnalavano i baroni che stavano con lui non è indizio ch'ella fosse il marchio caratteristico di tutti i Francesi a quei tempi, come parimenti (per toccare di un fatto che già fu descritto in questo libro), e la viltà di quel giovane gendarme vinto in duello e schiaffeggiato dal conte Galeazzo, non può implicar quella dell'intera nazione francese, la quale invece, così allora come prima e dopo, sempre si distinse per la contraria virtù. Molto meno poi che l'autore di questo libro abbia voluto espressamente introdurre quel personaggio quasi tipo di tutta una gente. Per far ciò avrebbe dovuto rinunziare alle proprie convinzioni e a quella stima in cui sempre ha tenuto la gloriosa nazione, alla quale i destini furono tanto propizj; ma parimenti avrebbe dovuto rinunciare alla verità, se della dominazione francese in Lombardia a que' tempi lontani, si fosse sforzato di esibire un ritratto diverso di quello che in parte ne ha dato.

Ciò sia detto nel supposto che possa per avventura tornar necessario e, più che altro, perchè la l'opportunità ce ne fece invito. Seguiamo ora quel che più importa.

La Ginevra, dopo aver taciuto a lungo per la confusione in cui l'avean messa tanti uomini d'armi di cui temeva la procacità, confortata dalle savie parole del vecchio caporale e del gendarme che le stava allo sportello:

—Signori, disse, io non venni già qui perchè il mal tempo mi abbia spinta. Ho ben più crudele, tempesta nell'animo, e percorsi molte miglia a furia, per giungere in tempo e avere un'udienza dal governatore.

—Un'udienza del governatore? disser molti ad una voce maravigliando e guardandosi l'un l'altro a vicenda.

—Me ne rincresce, cara signora, disse allora il vecchio caporale, ma ciò vi sarà impossibile. Il governatore non ha mai concessa udienza a donna del mondo. Oggi poi la negherebbe a chicchessia, quando pure lo avesse in costume.

—Non v'è cosa più grave di quella per cui sono venuta; per ciò scongiuro voi tutti onde facciate che il governatore mi accolga. Io sono la moglie del marchese Palavicino….

Questo nome fece che il cerchio de' soldati che stava intorno alla carrozza si stringesse istantaneamente, e che tutti gli occhi si fissassero nel volto della Ginevra con un'attenzione e con un interesse intenso. Cessò ogni bisbiglio ed ogni rumore tra i soldati, e non s'udiva che l'infuriare della gragnuola e della pioggia la quale cadeva a rovesci.

La Ginevra stette un momento irresoluta; poi spinto lo sportello della carrozza, discese tenendo per mano l'ancella.

—Ditemi soltanto dov'è la stanza del governatore; io ci andrò senz'essere annunziata, così le sue furie cadranno solo su me che sono parata a tutto.

—È da due giorni e due notti ch'egli non esce dalla stanza dove giace vicinissimo a morte il diletto, l'unico suo figlio; però se taluno osasse recarsegli presso non chiamato, quel che avverrebbe di colui non vorrei che capitasse a me.

—Voi avete ragione di temer tutto. Io non ho a temer nulla, perchè, se non ottengo di parlargli vedete bene, non esservi cosa che più mi possa percuotere!

Le parole non erano che queste, ma l'accento, ma l'espressione, erano tali da costringere la pietà di chicchessia.

Allora vi furono taluni che, rivolti al vecchio caporale tanto quanto commossi:

—Non avete voluto, dissero, essere acerbo in principio, così ci avete messi tutti quanti in un terribile intrigo; perchè vi domandiamo noi come si avrà a rimandare costei….

—Signora, le disse allora facendosele più dappresso il vecchio gendarme, se io ho promesso che vi sarebbero usati i dovuti riguardi, potete star certa che non avrete a lamentarvi di noi, ma torno a ripetervi che quello di cui ci avete pregati, è affatto impossibile. D'altra parte, mi pesa a dirvelo, ma tornerebbe anche inutile. Vostro marito, io lo compiango, perchè chiunque si trovi in una così terribile condizione merita bene che gli si abbia qualche commiserazione, ma salvarlo! credetelo a me, non lo potremo, nè io, nè voi, nè nessuno, nè il governatore medesimo, quando pure il volesse; perchè il marchese sarà condannato dalla Cameretta. E sono sessanta i decurioni che han voto, e il governatore non ha altro diritto che di segnarne due invece di uno; voi mi darete taccia d'uomo crudele, perchè vi tolgo d'un colpo tutte le vostre speranze; ma credete invece che ella è pietà, perchè bisogna bene che v'entri una volta l'ultima persuasione; e il passare di continuo dalle inutili speranze ai timori, e da questi a quelle, non fa che prolungare i tormenti.

La Ginevra non rispondeva parola, ma il tremito onde in quel punto fu assalita per tutta la persona fu ben più forte d'ogni risposta. La donna che le stava presso la supplicava di partire, ma ella, sempre tenendola per mano, dava segno di essere ostinata nel suo proposito di voler parlare al governatore.

Il conte Mandello e il Corvino non avean voluto darle a compagno nessun uomo che potesse prestarle qualche soccorso in tali momenti, pensando che la sua disperazione abbandonata a sè stessa avrebbe fatto più che altro. E si apposero in fatti.

Dopo alcuni istanti di silenzio:

—Potete crederlo, o signora, continuò il vecchio, che se ci fosse un filo, un sol filo di speranza, quantunque l'ira del governatore fosse tutta per prorompere su di noi, pure non temeremmo d'affrontarla.

—Signore, proruppe allora la Ginevra, s'egli è vero quello che mi dite, se non temete per voi, fate dunque ch'io mi trovi faccia a faccia col governatore; se questo mi si concede, s'io posso dire qualche parola a quest'uomo, per quanto sia terribile, pure io confido che cederà alle preghiere, perchè io non pretenderò già ch'egli abbia a rimetter tosto in libertà il marchese, mio marito: questo, forse, non sarebbe nella sua facoltà; solo io domando che protragga il giudizio, e che tutto rimetta al re. Allora io mi affretterò a Parigi ai piedi di Francesco; questo re è buono, e non permetterà ch'io abbia a morir disperata. So che la Cameretta si è già radunata, so che domani pronuncierà la sentenza; s'io non parlo oggi al governatore, s'egli non giunge in tempo a sospendere il giudizio prima che la sentenza sia data, vedete che tutto, tutto è perduto. Annunziatemi dunque, parlate a chi sta presso al governatore; quest'uomo avrà pure taluno che gli sarà più accetto degli altri. Raccomandatemi dunque a costui; per carità, fate quanto io vi dico!

Il vecchio caporale ascoltò tutto senza mai parlare, poi disse:

—Voi mi fate pietà…. ma quanto chiedete è troppo!… pure aspettate qui…. vado e torno. Non vi do nessuna speranza, anzi vi esorto a non attender nulla di buono; tuttavia qualche cosa dirò, non già a Sua Eccellenza, che vorrei piuttosto cadere in terra morto, ma a chi talvolta…. basta, aspettate qui.

E ciò dicendo si allontanò lungo i portici, e scomparve.

L'aspettazione che si mise nell'animo della Ginevra alle parole del vecchio caporale, si mise parimenti negli uomini d'armi che le stavano intorno, senza l'ansia però e quell'incertezza orribile che di minuto in minuto sempre più andava fiaccando le forze della sventurata moglie di Manfredo. Chiunque allora, senza sapere di che si trattasse, fosse entrato sotto ai portici del palazzo ducale sarebbe stato colpito dallo strano spettacolo.

Era un centinaio di soldati tra lancieri e archibusieri e spadoni e artiglieri, per la maggior parte de' più bassi gradi dell'esercito, e quasi tutti, per quanto indicava l'aspetto, tolti alle infime classi del popolo e con quella speciale durezza in aggiunta che suol dare il costume militare; e tutti costoro, ad onta di questo, bisbigliando sommessamente quasi per timore di farsi udire, stavan raccolti in largo cerchio intorno alla Ginevra, la quale subitamente colpiva e per la ricca semplicità delle vesti, e per l'aspetto in cui vedeasi la nobiltà trasparire dalla bellezza dignitosa e molle ad una, e pei segni dell'affanno e delle lagrime recenti; e con tutto quest'apparato di nobiltà, di bellezza, di mollezza, la si vedeva star là immobile, sebbene la pioggia, pel vento che imperversava, cadendo di traverso sin sotto ai portici, le avesse fatto ai piedi un lago d'acqua e l'avvolgesse di continua spruzzaglia.

Ma, per quanto fosse stata pregata di entrare in una di quelle stanze a terreno, non ascoltò mai parola, e sempre stringendo nella propria la mano della donna che stava seco, teneva intensamente rivolta la pupilla per dove era scomparso il vecchio caporale.

Questi intanto, recatosi all'ultimo piano del palazzo, bussò all'uscio di una camera; ne uscì un fante collo stemma francese ricamato sul giustacuore, il quale, vedendo il caporale:

—Se domandate di maestro Bonnivet, gli disse, è andato a vedere il figlio di Sua Eccellenza; ma tornerà presto per recarsi poi subito dopo a vederlo di bel nuovo, ciò che suol fare per cento volte in un dì, chè il governatore lo vuol sempre vicino e lo tempesta di continue domande e non gli lascia tempo di attendere a' suoi studj, per cui questi libri che vedete son quasi sempre aperti al medesimo foglio…. Se dunque volete aspettare aspettate, se no tornate presto. Ma s'udi in quella salire qualcheduno per la scaletta a chiocciola, la quale serviva di comunicazione tra la stanza del medico Bonnivet e l'appartamento di Sua Eccellenza.

—Forse è lui, disse allora il fante, e il medico Bonnivet comparve infatti. Un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni, calvo, pallido, di fisonomia aperta, e vestito con tanta semplicità che quasi toccava la pilaccheria.

—Voi qui? disse al caporale con molta scioltezza di modi. Son forse ricomparse ancora le doglie antiche?

—Maestro, non vengo da voi per medicina, chè mercè la virtù vostra, a settant'anni, che tanti ne ho, io mi sento così forte da non aver invidia ad un giovane; ma venivo per tutt'altro: per un caso strano e doloroso, doloroso davvero.

—Di che si tratta?

—Mi spaccio in poche parole. Abbasso v'ha una donna che piange e si dispera e scongiura tutti quanti perchè la vogliano introdurre da Sua Eccellenza!

—Caro mio, converrà persuaderla e rimandarla.

—Fu il mio primo pensiero; ma questa donna è la moglie del marchese Palavicino, la figlia del signore di Bologna, la vedova del signore di Perugia…. e fate conto che il suo dolore è a tale estremo, ch'ella non sa più ove si trovi, e senza aver riguardo nè al suo rango, nè ad altro, è venuta quasi a gettarsi ai piedi nostri, che siamo poveri soldati, e rassegnata sopportò la beffa di chi al primo non l'aveva conosciuta.

—E cosa volete dirmi con ciò? Se fosse un dolor fisico io m'affannerei di trovarle un farmaco; ma così vedete bene, caro mio, per un tal genere d'angoscie io non ho che la mia compassione. E poi…. se fosse la moglie di tutt'altro…. ma il marchese Palavicino…. voi sapete….

—So tutto, e chi nol sa!

—Dunque…. chi volete voi che s'attenti di pregare Sua Eccellenza per questo giovane lombardo?

—Anche a ciò ho pensato io pure; ma quella donna infelice non cessava dalle preghiere e dalle lagrime, e non cesserà sì presto; ond'io dissi fra me: se in palazzo v'è un uomo che sia amato da Sua Eccellenza, è il maestro Bonnivet. S'egli trovasse mai il modo d'indurre il governatore ad ascoltare questa donna…. sarebbero tanti guai riparati…. perchè costei non mi par disposta ad uscire così facilmente di palazzo, ed io m'aspetto di vederla a cader morta sul lastrico del cortile, anzichè partirsi senza aver parlato al governatore….

—È un grave intrigo…. ma pur troppo non è modo a ripararvi…. tutt'al più verrò io stesso a veder questa donna, e farò di persuaderla.

—Maestro, non ci riuscirete, credetelo a me.

E senza più discesero e s'affrettarono là dov'era la Ginevra che aspettava.

I colleghi del caporale credevano ch'egli avesse voluto presentarsi al fratello del Lautrec, monsignore di Lescuns, dal quale potevasi forse sperar qualche cosa; perciò quando lo videro comparire col medico Bonnivet non seppero congetturare qual intenzione fosse la sua; ma la Ginevra che non lo conosceva, e in questa comparsa d'un nuovo personaggio trovò subito una speranza, si mosse istantaneamente, e loro correndo incontro:

—Signore, disse rivolta a Bonnivet, se voi siete venuto per esaudire la mia domanda io vi benedico. Fate dunque ch'io possa parlar subito al governatore.

Queste parole, che indicavano una viva speranza rendevano necessariamente difficile qualunque risposta che mirasse a distruggerla. E il medico Bonnivet contemplando la Ginevra, e vedendo sul volto di lei i segni d'una passione struggente, sentì i primi consigli della pietà mentre svanivano quelli della prudenza.

Allora più per profferire qualche parola, che per altro, tentò distoglierla dal suo proposito; ma tornando a prorompere la disperazione della Ginevra:

—Ebbene, disse, io non ho che un consiglio da darvi. Codesta vostra ostinazione ci metterà tutti in un terribile imbarazzo, chè voi non sapete qual furore egli sia, quando scoppia, quello del governatore, e in tali circostanze, ed oggi specialmente. Pure, quando tutti quelli che son qui lo consentano e le guardie che stanno nelle anticamere di Sua Eccellenza non vogliano, per amor vostro, aver riguardo a sè stesse, passate oltre, salite, entrate nella sala d'armi…. e colà fermatevi ad aspettare che per avventura passi il Lautrec; quand'io gli do qualche speranza sulla salute del suo figliuolo, egli, riavendosi qualche poco, suol recarsi ancora là a tentare le sue armi predilette…. Se dunque nel malato fanciullo v'è qualche indizio di miglioramento, se una speranza ci fosse realmente, se l'umore del Lautrec fosse men tetro del solito, se passando dove voi lo starete attendendo, la vostra vista nol conturba e non gli promuove il solito furore…. se tutte le circostanze insomma, per la bontà di Dio, avessero a concorrere in vostro soccorso…. potete sperare; ma v'avverto che sarà difficile….

Allora domandò a tutti gli uomini d'armi che s'erano avvicinati, se non avevano difficoltà nessuna di lasciare passar oltre quella donna infelice.

—Passi! gridò più d'uno. Sua Eccellenza non vorrà già farci impiccar tutti quanti, e le guardie che stan nelle anticamere possono benissimo gettar la broda su di noi. Passi dunque, passi!

La Ginevra, sempre accompagnata dalla sua donna, s'innoltrò allora pei portici e salì lo scalone…. La metà degli uomini d'arme l'accompagnarono curiosi di ciò che ne sarebbe seguito.

In questi momenti stavasi il Lautrec nella stanza del fanciullo Armando. Il medico Bonnivet aveva raccomandato il maggior silenzio possibile affine di conciliare qualche sonno al malato, e perchè il fracasso esterno non gli provocasse un sussulto di convulsione, aveva fatto chiuder tutte le porte.

Il Lautrec, in un canto della camera, in piedi, appoggiato colla sinistra ai bracciuoli di una gran seggiola, colla destra cascante, e la testa china, aveva tutta l'apparenza di un uomo che fosse sprofondato in un pensiero unico; ma realmente, più che la fissazione in un'idea, era la confusione di tante che gli aveva fatto prendere quella posa.

Avendo fìn dalla nascita dato indizio di una complessione debolissima, da più d'un anno malaticcio, il giovanetto Armando, preso alcuni mesi prima da tosse violenta e da febbre continua, non aveva potuto più sorgere dal letto, nè per quanti argomenti siensi adoperati, nè per quante consulte siensi fatte tra i più reputati medici d'allora che furono invitati anche da lontanissimo, non si potè mai giungere ad un risultato che desse qualche speranza di guarigione, e tutti convennero col medico Bonnivet sulla natura del male del giovinetto.

Nè per ciò nessuno stia a credere che questa sia stata una di quelle punizioni, onde il fato dava una volta le sue lezioni morali.

Il fanciullo, fin dalla nascita, portò nel germe il malore che doveva consumarlo, e ciò pur troppo sarebbe avvenuto quando pure il Lautrec con benefica mano avesse migliorata la condizione dei Milanesi e avesse lasciato qualche monumento di straordinaria virtù, e gli eventi si fossero intrecciati in modo che la duchessa Elena fosse stata moglie di lui. Ciò che la natura avea determinato era irrevocabile, e se la vita del Lautrec fosse corsa sempre tranquilla, a questo punto avrebbe provato il primo dolore.

Ma il Lautrec non la pensava così, e sebbene, per la durezza medesima della sua natura, men che la maggior parte de' suoi contemporanei, subisse le influenze della superstizione, pure vi andava soggetto anche lui, e tanto più quando l'anima sua s'inteneriva per qualche affetto straordinario.

Dal giorno che, partito o fuggito da Rimini, dopo quell'ultima e tremenda ora della sciagurata Elena, venne a Milano e trovò il figliuolo più che mai peggiorato, e poco di poi assalito dalla massima violenza del male, gli sembrò vedere in quel fatto qualcosa di fatale che lo spaventò…. e sentiva orrore di sè stesso ogniqualvolta, ritornando all'istante in cui trovossi faccia a faccia colla duchessa, si ricordava d'esser stato perplesso prima di ucciderla, per paura di spegnere due vite ad una; ma d'aver poi dimenticato il suo unico figlio pel desiderio della vendetta.

E un tetro rimorso venne a tormentarlo assiduamente, e le ricordanze dei dì trascorsi si risolvevano tutte in un ultimo e desolato pentimento fatto più straziante dall'impossibilità della riparazione. E non sapeva trovar riposo quando pensava all'inclemenza della sorte, la quale volle guidar gli eventi in modo, che le vittime del suo furore avessero ad essere gli oggetti medesimi della sua tenerezza.

Immerso dunque nel confuso turbine di queste idee il Lautrec, stato per qualche minuto in quell'abbandonato atteggiamento, alzò e volse la testa verso il letto dove giaceva Armando. Per quanto il malore avesse fatto esile ed affilato il viso di lui, pure non eran per nulla scomparse le tracce della prima beltà, ed anzi la lucentezza straordinaria che gli s'era trasfusa negli occhi, come avviene di chi è travagliato dal mal sottile, le comunicava, direi quasi, un carattere di essenza sovranaturale. Il governatore lo guardò a lungo, e un certo movimento tremulo, che continuò per tutto il tempo in cui stette guardandolo, era testimonio dello strazio che gliene derivava. Guardava poi, alternativamente, ora il figliuolo, ora un paggio che, seduto al capezzale d'Armando, teneva nella propria la mano di lui che dolcemente gliela abbandonava. Il medico Bonnivet aveva scongiurato il Lautrec perchè il giovine paggio fosse fatto allontanare da quel luogo, nel timore non gli dovesse, a lungo, riuscire funesta l'assidua dimora in quella corrotta atmosfera. Ma i pianti d'Armando, ma il volontario sagrificio del giovinetto paggio che, come avviene tra' fanciulli, aveva preso immenso amore al figlio del Lautrec, il quale altrettanto gliene portava, ma il torbido adombrarsi del governatore a un tale consiglio, lo aveva mal suo grado fatto desistere da ulteriori preghiere. Però, intanto che il Lautrec osservava quei due fanciulli, fermandosi qualche poco sul paggio provava un senso molesto di una pietà irresistibile considerando che mentre una salute rigogliosa aveva destinato quel fanciullo a vivere una vita lunghissima, sarebbe forse morto immaturamente anche lui, costretto com'era ad un sì funesto servigio.

Ma la caldura insopportabile che s'era tutta concentrata nella camera, per esserne state chiuse le uscite, e che al Laulrec rendevasi ancora più molesta dopo essere stato tanto tempo in quell'atteggiamento, e quasi senza respirare, gli fece sentire il bisogno d'uscire a passeggiare per l'altre camere. Di fatto, entrando allora il medico Bonnivet, per tentare qualche parola atta a produrre dei buoni effetti sull'animo di lui:

—Io esco, gli disse il Lautrec, esco a prendere altr'aria, che qui mi parrebbe di avere a cader senza fiato da un momento all'altro; nè comprendo come ciò non possa nuocere anche ad Armando.

—Lo strepito del vento gli nuocerebbe assai più, Eccellenza. Del resto, mi pare che oggi egli stia molto meglio del solito, ad onta del mal tempo sempre grave agli infermi, per cui se mai continuasse di tal passo….

—Vi sarebbero delle speranze?

—Purchè continui di tal passo, potrebbero anche diventar ragionevoli le speranze.

Il Lautrec, cosa insolita, presa la mano di Bonnivet:

—Io non confido che in voi! gli disse, e gettando un'altr'occhiata sul letto d'Armando, uscì.

Il medico avrebbe voluto continuare il discorso per disporre il Lautrec al nuovo incontro in qualche modo, o per vedere qual effetto sarebbe mai per produrre su lui la presenza della moglie di Manfredo…. ma giacchè se ne usciva spontaneamente, non volle trattenerlo di più, desiderando si risolvesse presto ogni cosa.

Le anticamere dell'appartamento del Lautrec s'erano intanto affollate di ufficiali dell'esercito accorsi alla notizia che la moglie del Palavicino era entrata nella sala d'armi per tentar di parlare al governatore. Nè, vinto il primo ostacolo delle guardie che stavano alla porta del palazzo e nei cortili, a nessuno, per quanto fosse strana la comparsa di una donna in palazzo, venne in mente di respingerla. Bensì taluno dei baroni, i quali, pel loro grado, convivendo sempre col Lautrec, lo conoscevano meglio ancora degli altri, non mancarono di far qualche rimostranza; ma il medico Bonnivet aveva informato d'ogni cosa monsignore di Lescuns, il quale dopo essere stato ostinato un pezzo, permise infine che la moglie del Palavicino tentasse quel mezzo al fine di parlare a Sua Eccellenza. D'indole più paurosa del suo fratello, e avendo avuto alcun sentore d'un sobbollimento popolare, non vide mal volentieri che al governatore si presentasse un'occasione per mostrarsi men duro del consueto, perciò comparso a tempo fra i baroni, acquetò ogni loro timore, dicendo che avrebbe preso sopra di sè tutte le conseguenze dell'ira di suo fratello.

Ma questo, uscito dalla stanza del figliuolo, e passeggiando d'una in altra camera, udì quel ronzio incessante che si faceva nelle anticamere, e s'intorbidò pensando che quel rumore potesse giungere anche all'orecchio del figlio, però, indispettendosi che gli si avesse così poco riguardo, nè sapendo dissimulare il benchè minimo soprassalto di sdegno, attraversò di volo tutte le stanze, e portandosi improvvisamente dov'eran baroni, ufficiali e soldati, proruppe, quando meno era aspettato, in un violento rabbuffo che costrinse tutti quanti al più profondo silenzio.

L'appartamento del Lautrec era diviso dalla gran sala d'armi, da quelle anticamere appunto dove s'eran fermati tutti i soldati. La Ginevra Bentivoglio era già entrata nella sala ad aspettare che la provvidenza gli mandasse il governatore men torbido del solito, ed era stata lasciata colà con tre o quattro guardie soltanto. La condizione di quella infelicissima donna era tale che, non trovando mai requie, ora si sprofondava in un muto abbattimento, ora tentava di sfogare l'immenso affanno parlando colla donna che tenevasi presso, ora prorompeva in lagrime e gemeva dirottamente, disperatamente. Volle dunque il caso che quando il Lautrec fe' tacer tutti coll'improvvisa comparsa e col violento rabbuffo, la povera Ginevra, più non potendo reprimere la passione che la rodeva e l'angore convulso, e quasi non ricordandosi più del luogo ove trovavasi, desse in pianti e in querele.

Per descrivere esattamente come si commosse il volto del Lautrec all'udire quella voce gemebonda, quella voce di donna principalmente; per descrivere le sensazioni che si dipinsero sulle facce di tutti, quando, udendo quel suono, si volsero al governatore, in attenzione di quanto poteva succedere, converrebbe esser stato presente. Le parole iraconde in cui il Lautrec era uscito alcuni momenti prima, erano indizio ch'esso versava allora nella più turbolenta agitazione dell'animo. Perciò, sebbene la pietà non fosse la virtù degli uomini colà raccolti, pure, ad onore del vero, convien dire che, dimenticando sè stessi, tutti si atterrirono pensando alle ingiurie, e forse alle violenze che avrebbe dovuto patir la donna infelice alla quale tutte le speranze venivan distrutte, se il Lautrec non ascoltava le sue preghiere. E quand'esso, dopo aver gettate qui e là delle torve occhiate, per cercar forse una spiegazione a quanto aveva udito, si mosse di slancio ed entrò nella sala d'armi, ciascuno si sentì quasi forzato a seguirlo, ma con quell'ansia paurosa onde si andrebbe a contemplar lo spettacolo d'una belva che bramosa si gettasse su chi non ha difesa.

Il medico Bonnivet, il quale aveva allora lasciato il letto d'Armando, e a vedere come si mettesser le cose era corso dov'eran gli altri, giunse appunto quando la moltitudine dei soldati s'affollava sul limitare della sala d'armi. Giunse e domandò che fosse?!

—Ahimè, gli diss'uno, se noi avessimo respinta quella donna, ingiuriandola, avremmo fatto il suo meglio, maestro; Sua Eccellenza è peggio irato che mai, e Dio sa cosa vorrà succedere.

Il medico si conturbò tutto quanto, e fece per entrare anche lui in quella che sentì un grido della Ginevra, e la voce nasale e prorompente del governatore.

Bonnivet si strinse nelle spalle, ma udì quasi subito tacere tanto il governatore che la moglie del Palavicino, e allora avendo potuto entar nella sala, vide il Lautrec nel mezzo che, immobile, teneva abbassato lo sguardo sulla figura della Ginevra, la quale stavale aggruzzata ai piedi come cosa colpita dal fulmine.

—Ditelo voi tutti a costei, gridò poi il Lautrec riscuotendosi improvviso, ditelo voi s'io potrò mai concedere una grazia a suo marito. Guardatela tutti, questa è la moglie del Palavicino, guardatela questa pazza, che viene da me a cercar favore pel suo tristo marito!

E tacque e sorrise, di quei freddi ed amari sorrisi peggiori d'ogni minaccia.

La Ginevra, fatta coraggiosa dalla disperazione, osò di alzare ancora gli occhi e di ripetere la sua preghiera.

—Io non chiedo la sua salvezza, no, tanto non chiedo, concedetemi solo che sia sospeso il giudizio, e che il re, il re solo pronunci la sentenza, e ch'io possa recarmi in Francia e presentarmi al re, al vostro buon re.

—Quando questo fosse debito mio, le rispose allora il Lautrec con una calma tremenda; quand'anche, negandovi quel che chiedete fosse per cadere l'ira del re sulla mia testa, ve lo negherei cionnullameno. Pensate poi com'io debba esaudirvi, quando è il re stesso che mi vuole inesorabile coi ribelli; cessate dunque, andate, lasciatemi!…. Lasciatemi!! replicò poi, e ruggì con un'asprezza spaventosa, sentendo ch'ella continuava a stringerlo alle gambe.

E la Ginevra si staccò infatti e balzò in piedi tutta tremante, e si gittò disperata tra le braccia della sua donna che piangeva dirottamente.

Il Lautrec guardò per un istante quel gruppo; tutti gli animi erano commossi, e qualche lagrima fu veduta cadere anche sulle rudi guance di più d'un soldato.

Ma tra quella folla si mostrò allora il giovinetto paggio, l'assiduo compagno dell'infermo Armando, e fermatosi un momento a vedere, scomparve poi subito, senza che nessuno ci badasse.

A questo punto eran dunque le cose. Il Lautrec aveva tentato di uscire, ma la Ginevra, sentendo che si allontanava, si staccò dalla sua donna e gli si parò ancora d'innanzi, e di nuovo gli si gettò ai piedi ritentando la preghiera. Non rispose questa volta il Lautrec, ma si vedeva ch'egli solo non poteva essere smosso in mezzo alla profonda commozione di tutti, e che forse sarebbesi lasciato andare a qualche atto atroce.

A questo punto il paggio, scomparso poco prima, ricomparì ancora, e aprendosi la via tra i soldati, gli si accostò e gli disse che Armando domandava di lui.

Sentir questo e sciogliersi violentemente dalle braccia della Ginevra, e sospingendola quasi a cadere a terra, uscire precipitosamente di là fu pel Lautrec un punto solo.

La Ginevra diede in un grido disperato e chinò la testa, come chi sentendosi mancare ogni forza, si abbandona all'onda che lo deve affogare. Tutti poi perdettero ogni speranza.

Ma il governatore, quasi già dimentico di quanto era successo, s'affrettava, nella stanza d'Armando, il quale, momenti prima, mentre stava per abbandonarsi al sonno, aveva sentito la voce minacciosa di suo padre, che trasportato dall'ira, com'era il suo solito, non pensò che poteva essere udito dal figlio.

Questi dunque, pel turbamento, perduto il sonno si mise a far qualche parola col suo giovinetto amico, quando, ad onta della distanza, gli giunse all'orecchio anche il grido della Ginevra. Debole com'era, pur tentò di alzarsi in sui gomiti e si mise in ascolto, ma non avendo udito altro, pregò il suo compagno perchè si recasse a vedere cosa fosse. Il paggio obbedì e corso nelle sale, vide e udì e domandò e seppe chi era la donna che pregava, e osservandola a piangere in così disperato modo, ne fu tanto commosso, tanto impietosito, che colle lagrime agli occhi era corso a raccontare ogni cosa al suo diletto Armando.

Grandi cose dipendono spesso da tenuissimi fili, e il fanciullo Armando, udito il fatto e commosso anche lui, pel sentimento che forse gli rendeva più squisito la natura stessa della malattia, ebbe un gentil rammarico nell'udire che il padre si comportava tanto atrocemente con una donna che pregava, rammarico che gli fece nascere il desiderio di parlare al padre, e di scongiurarlo a concedere la grazia ond'era supplicato.

Essendosi accorto d'esercitare un invincibile ascendente sull'animo di suo padre, e per questo sperando di esser esaudito, disse al paggio la propria intenzione, e quegli s'affrettò tosto per dire al Lautrec che suo figlio lo chiamava.

Fu una semplice combinazione, ma egli è appunto per queste che avvengono di strane cose quaggiù.

Quando il Lautrec entrò, e vide il figliuolo che si sosteneva in sui gomiti e aveva sulle guancie affilate un vivo rossore forse per la fatica che faceva, fu pago di quell'apparenza, ed accostatosi al letto gli domandò cosa volesse.

—Voglio, disse allora subito Armando colla cara sua voce argentina, sebbene tanto quanto velata, voglio che tu esaudisca quella povera donna che di là piange con tanta passione e si dispera.

Il Lautrec si rannuvolò e:

—Chi ti ha detto?… e gettò una torva occhiata sul paggio che sgomentato si ritrasse….

Ma la paura si mostrò anche sui lineamenti di Armando, il quale non era uso a veder suo padre torbido così, onde rannicchiò il collo esile nelle scarne spallucce con quell'atto di chi si vuol schermire.

Odetto accortosene, sentì un súbito intenerimento, un rimorso e appianò la fronte e fu sollecito di confortare il fanciullo, il quale accortosi dal canto suo della commozione paterna:—Padre, continuò, se tu vuoi ch'io guarisca, fa che quella donna cessi di piangere. Io soffro, o padre, io soffro assai: fa dunque che quella donna cessi dalle pene…. e finiranno anche le mie. Il Signore mi ha fatto sentire una voce che mi consiglia una tale pietà: il Signore mi ha messo in cuore la persuasione che da un atto di pietà soltanto potrà nascere la mia guarigione e la tua contentezza.

Il Lautrec stupiva nell'udire il suo figliuolo ad esprimersi in modo ch'era fuori affatto dell'ordine di fanciullo. Stupiva e intenerivasi sempre più, e cominciando a sentire nell'animo un violento contrasto e un timore superstizioso, accorgevasi già di non poter negare ad Armando quanto domandava; ma, cosa stranissima a dirsi, mentre sentendo sull'anima il dominio di una forza invincibile, guardava al paggio ancora atterrito, provava per quel fanciullo che sempre gli era stato carissimo, qualcosa di somigliante all'odio, nella convinzione che fosse stato lui a promovere la preghiera d'Armando. E mentre poi cercava persuadersi che la loquacità intempestiva d'un fanciullo aveva promosso un infantile capriccio, non sapeva però svincolarsi dagli arcani auguri, e dai vaghi timori, e dalle superstiziose idee, così che non desse a quel capriccio l'autorità di una voce fatale da cui era costretto a far ciò che non voleva. Fu dunque nell'intimo del suo cuore una furiosa lotta di qualche momento, dalla quale si sciolse colla deliberazione di esaudire in tutto e senza por tempo in mezzo, e quasi con religiosa sollecitudine, la preghiera della moglie del Palavicino.

Trasse dunque al campanello. Il primo che comparve fu il medico Bonnivet che si avvanzò riguardoso e temente.

—Donde venite? gli chiese il Lautrec, con cupa severità.

—Dalla sala d'armi, Eccellenza.

—Quella donna…. è là?… non è ancora partita?

—No, Eccellenza, ed a nessuno è riuscito di persuaderla ad uscire.

—Ma chi, per l'inferno, lasciolla entrare? chiese allora prorompendo il Lautrec; ma fu una fiamma che subito si spense, e tornò alla sua cupa severità.

—Sentite, disse poi, e ciò dicendo gettava una occhiata sul letto del figliuolo; sentite…. andate là…. dite a quella donna…. ditelo a quanti son là…. già m'accorgo che eran tutti contro di me e che colei fu ajutata da altri (e diede in un nuovo impeto d'ira che di nuovo si spense), dite dunque a quella donna che le concedo la grazia, che vada in Francia, che parli al re. Questo fanciullo lo vuole. Andate, che ringrazi questo fanciullo.

Bonnivet uscì attonito dalla stanza. Il Lautrec si gettò a sedere accanto al letto del figlio, e guardandolo con una tenerezza ineffabile:

—Sei contento ora? gli disse, e tacque e si sprofondò ne' soliti pensieri.

Alcuni momenti dopo, udendo rumore di passi nelle camere vicine, si alzò per vedere che fosse, ed affacciandosi alla porta s'incontrò nella figura della Ginevra, la quale si precipitò nella stanza.

Il volto di lei aveva subito un trasmutamento indescrivibile, e l'occhio le scintillava di gioja che parea diffondersi in raggi. Confidando appieno nella clemenza del re, teneva salvo ormai il suo Manfredo; per ciò, come udì che tutto era dipenduto dal figlio del governatore, domandò di esser condotta a vedere, a ringraziare, a benedire il fanciullo.

E questo, appena vide la Ginevra, fece uno sforzo, tentò alzarsi e le sorrise. Ella le si gettò al capezzale e lo coprì di baci e di benedizioni, e volgendosi improvvisamente al Lautrec;

—Questo vostro figliuolo vivrà lunghissima vita! gli disse. Parole che furono pronunciate in modo, da far credere uscissero dal labbro di chi avesse il soffio della profezia.

—Io ne sono certa come se lo tenessi dal cielo, continuava poi, dal cielo che intensamente, continuamente pregherò, per la salute, per la felicità di questo caro angelo!

E ciò dicendo si disciogliea in lagrime, onde bagnava la faccia del fanciullo, che l'abbracciava piangendo. A queste tenerissime espansioni di pietà di gratitudine, di simpatia ineffabile, rispondevano intanto i singhiozzi del paggio, il tenero compagno d'Armando; ma, ciò che più colpiva, era il pianto che scorgevasi anche negli occhi gonfiati del Lautrec….

Durante il tempo in cui succedette nel palazzo quanto abbiam raccontato, il turbine continuò al di fuori quasi sempre colla stessa violenza, onde la moltitudine che impaziente stava accalcata sotto al Coperto dei Figini non potè mai spandersi per la piazza, nè accostarsi al palazzo. Non appena però la gragnuola cadde più rada, qualcheduno più degli altri ansioso attraversò la piazza a corsa, credendo, recandosi più presso alla Corte, di scoprir prima e più facilmente quanto succedeva di dentro. Così l'esempio fece imitatori, e in breve tutto lo spazio che sta innanzi al palazzo fu gremito di popolo, il quale pel molto tempo trascorso, messosi in forti sospetti, cominciò a dare in qualche grido minaccioso. Le sentinelle francesi avvezze a far violenze d'ogni maniera, e per nulla timorose, cominciarono dal canto loro a bravare la folla ed a rispondere alle sue minacce con altrettante, quando corse la voce che il governatore aveva esaudite le preghiere della moglie del Palavicino, la quale sarebbosi tosto trasferita a Parigi per parlare al re. Una tal nuova spense istantaneamente ogni ira, nel popolo per un senso di gratitudine che dominò sui lunghi rancori, nelle sentinelle per la naturale maraviglia.

In breve essa giunse anche all'orecchio del Corvino e del Mandello, i quali non seppero prestarle fede a tutta prima; ma nel súbito raffreddamento della moltitudine videro che i loro provvedimenti erano stati indarno. Fu vantaggio? fu danno? più probabilmente fu risparmio d'inutile sangue, chè quanto aveva a succedere era irrevocabile!

CONCLUSIONE

A questo punto, sebbene molti fili ancora sparsi parrebbero domandare altro cammino, pure abbiam fermo di prender commiato dal nostro lettore; che i capi di quelli non si potrebbero annodare altrimenti, che uscendo fuori del circolo assegnato dai destini all'opera del nostro protagonista. Così potessimo anche sul conto suo pretermettere le ultime notizie, tanto sono esse contrarie a ciò che poc'anzi ne pareva promesso!

Il conforto generato dallo spettacolo di un'angoscia estrema repentinemente mutata nell'estrema gioia, e d'una crudeltà mostruosa costretta, per la malìa di un amore forte come l'istinto, a conceder ciò che anche la naturale clemenza forse avrebbe dubitato d'accordare; tutte le emozioni, che, staccandoci poc'anzi dalla moglie di Manfredo e dal governatore Lautrec, si suscitarono in noi, al risolversi inatteso di tante ansie, non si vorrebbero più distruggere, e l'anima prova quasi un bisogno di soddisfare finalmente ai tanti desiderj nodriti, ai tanti voti fatti lungo il disastroso viaggio. Per ciò, lo ripetiamo, vorremmo aver finito, anzichè rompere a' lettori la loro aspettazione con un contrapposto estremamente crudo. Ma essendo costretti a non dissimulare il vero, faremo almeno come chi, recando infauste nuove, tenta un giro alle parole, il quale, senz'essere mendace, non riesca straziante, Per qual fine accenneremo a' fatti e nulla più, senza descriverli, senza pesarli, senza narrarli, quasi fuggendo.

Allorchè dunque la Ginevra s'affrettava verso la Francia, e il conte Mandello, uscito da Milano coi soldati che vi aveva condotti, riducevasi di bel nuovo a Reggio e pieno di speranza per la notizia del trattato conchiuso finalmente tra Leone e Carlo; negli ultimi giorni del giugno di quest'anno, morì il figlio del Lautrec. Le parole pronunciate dalla Ginevra nell'impeto della sua gratitudine non ebbero la virtù di arrestare i guasti di un malore invincibile, e il funesto avvenimento un altro ne trasse seco. Il giudizio della Cameretta stato sospeso si ricominciò, e il marchese Palavicino fu condannato.

Precedendo di molti anni la caparbia volontà di quel governatore spagnuolo che distrusse un decreto del suo sovrano, il Lautrec non tenne conto di quanto il suo re avrebbe per avventura concesso alle preghiere della moglie di Manfredo. Disperato e furente, non volle esser il solo colpito dalla sventura, e della sua disperazione fece sugli altri pesare i tremendi effetti,

L'antivigilia del giorno di s. Pietro, Manfredo Palavicino, al cospetto di pochi spettatori sbalorditi e muti e invano pietosi, dalla torre del castello fu condotto al patibolo, dove finì la vita generosa e infelice senz'aver potuto compire quanto aveva incominciato.

Forse per ciò la storia mostrò poi di non avergli gran riguardo, e mise il suo nome in fondo al numeroso elenco di tanti che men di lui avevano diritto alla gratitudine de' posteri.

Ma appunto per questo ci siam seco accompagnati negli anni più operosi e più calamitosi della sua vita; che delle ingiurie patite dai Milanesi e prima e dopo la giornata di Marignano fu desso che preparò le vendette consumate di poi alla battaglia della Bicocca, per la quale chi aveva per tanti anni conculcata la Lombardia fu costretto a cedere il luogo al suo duca naturale.

Nel far poi, in quanto potevasi, il ritratto de' tempi in cui visse il Palavicino, abbiamo avuto l'animo ad altri fini che non diremo qui; perchè delle cose sparse in tutto uno scritto è inutile anzi è ridicolo affannarsi di mostrar la ragione all'ultima pagina, se il lettore, anche tra il sonno e la veglia, non seppe coglierla da per sè, quando teneva il libro fra le mani.

FINE